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Title: O tutto o nulla
Author: Barrili, Anton Giulio
Language: Italian
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                            O TUTTO O NULLA


                                ROMANZO

                                   DI
                          ANTON GIULIO BARRILI


                            SECONDA EDIZIONE



                                 MILANO
                        FRATELLI TREVES, EDITORI
                                 1883.



                         PROPRIETÀ LETTERARIA.

                         Tip. Fratelli Treves.



I.


Senza fiori nascosti nella sottoveste, ma con un volumetto tra mani
e liberamente in mostra per ogni genìa di curiosi, Aldo De Rossi era
andato, verso le tre del pomeriggio, a far visita alla signora.

Non istate a credere che io voglia entrare così leggermente in materia,
defraudandovi del nome di lei. Non mi avviene sempre di sapere quel che
si deve a Cesare; ma ho sempre saputo quel che si deve ai lettori, e
sopra tutto alle lettrici. Vi dirò dunque che la signora si chiamava
Elena Vezzosi, e meritava così il suo nome di battesimo come quello
della famiglia in cui era entrata da otto a nove anni; di guisa che
si soleva dire, senza aver l’aria di farle un complimento, che l’uno
e l’altro dovevano essere stati inventati a bella posta per lei. La
signora Elena era bellissima dalla punta dei capegli a quella dei
piedi, ed io lascio pensare a voi che sorte d’elettricità dovesse
sprigionarsi da quelle due punte. A farvela breve, ella possedeva tutte
le attrattive, della bellezza e dello spirito. Eppure, non si conosceva
che avesse un amante; la qual cosa parrà strana, con la facilità che
hanno le donne di trovarsene sempre uno tra’ piedi, e con quell’altra,
anche maggiore, di vedersene imprestare una mezza dozzina. Ma, strano
o no, il fatto era questo, e si vedeva chiaro che la signora Elena
non amava nessuno. Di certo, non l’aveva detto, o lasciato sperare ad
anima viva; tanto che le male lingue avevano finito col dire che ella
amava solamente sè stessa. Già, tutte così, quando sono troppo belle,
e quando lo specchio è li per farne testimonianza, tanto più credibile
quanto meno interessata.

Comunque fosse, molti cavalieri si affollavano intorno a lei, per
dirle in prosa sdolcinata quello che le diceva in forma più recisa lo
specchio. Ed ella non respingeva nessuno; era cortese in egual modo
con tutti; faceva ad ognuno quelle accoglienze onestamente liete e
svogliate, in cui dobbiamo vedere il _non plus ultra_ della buona
compagnia. Perchè, si sa, la consegna è di godere la vita, con aria
di averla a noia. Il fare altrimenti non è di buon gusto. La gente,
uscendo dal salotto della bella svogliata, deve poter dire: «Quella
signora Iccase! Che donna! Con che garbo riceve!»

Del resto, non mormoriamo. Succede questo fenomeno quando si va per
consuetudine a teatro e si conosce da lunga mano l’opera, o il dramma.
Arie e scene non hanno allettamento di novità, e le commozioni non
vengono; si aspetta il gran duetto, o la scena capitale, che vi faccia
provare, magari un po’ diminuite, le sensazioni della prima volta;
intanto si sta esposte alle ammirazioni degli uomini e si fanno crepar
d’invidia le amiche. Ora la signora Elena Vezzosi sapeva da un pezzo
tutto ciò che avevano a dirle, con periodica regolarità, i suoi cento
divoti. Era la sua voluttà e in pari tempo la sua condanna, come il
«_toujours perdrix_» del gastronomo. E a quelle sedute di galanteria
ella dava allegramente il nome di lavori forzati. Lavori forzati a
tempo, pur troppo! Vien sempre il tristo giorno della liberazione, mie
belle signore, e qualche volta il sovrano della falce e della clessidra
vi fa precocemente la grazia.

Aldo De Rossi conosceva la signora Vezzosi da un anno. Le era stato
presentato in una fiera di beneficenza, dove ella non aveva sdegnato
di vender cravatte, e di mettergliene una al collo per la tenue moneta
di cinquecento lire. Il favore era stato disputato fieramente da
cinque o sei cavalieri. Dal prezzo di due lire si era saliti a venti,
a cinquanta, a cento, a centocinquanta. Aldo De Rossi, entrato allora
in lizza, aveva messo fuori un biglietto da cinquecento, e lo aveva
deposto sul banco, dicendo modestamente: «signori, non ne ho altri», e
in quel momento di trepidazione che segue tutti i grandi avvenimenti,
la bella venditrice aveva girata intorno al collo di Aldo De Rossi la
sua cravatta nera, da mezza lira, a prezzo di fabbrica. Il sorriso
della dama c’entrava per quattrocento novantanove lire e cinquanta
centesimi. Una presentazione era venuta lì per lì; Aldo De Rossi aveva
fatta la corsa di prammatica e lasciati nell’anticamera di casa Vezzosi
i due biglietti di visita che l’etichetta comanda; il commendatore
Vezzosi, uomo grave, che sapeva stare sulle cerimonie, aveva mandato
il suo in ricambio, e il giovinotto era stato formalmente ammesso a
fare le sue devozioni. Ma, cosa strana (badate, lettori, qui tutto è
strano, poichè la scena è del secolo presente), Aldo De Rossi non aveva
approfittato dell’occasione e non era più andato in casa Vezzosi. Il
nostro giovinotto non era uno di que’ frustini, i quali s’appiccicano
facilmente alle persone e si fanno avere in uggia da tutti. Faceva
riverenza alla dama, quando la incontrava per via, e ciò bastava a
dimostrare com’egli gradisse la sua conoscenza. Poi, venuto l’inverno,
e avendola trovata in una festa da ballo, le aveva chiesto l’onore
di un giro di _waltzer_ o di _polka_, che non rammento più bene. La
signora, quella notte, ballava mal volentieri, ma stette volentieri
a chiacchiera con lui, rimandando col suo solito garbo gli altri
cavalieri, che impetravano la medesima grazia. Del resto, padronissimi
tutti di restare accanto al divano della signora, come ci restava
Aldo De Rossi. Ma perchè in simili feste i signori uomini non istanno
mai fermi, anzi amano andare attorno _tamquam leo rugiens quaerens
quem devoret_, le fermate non furono lunghe e Aldo De Rossi rimase
più spesso solo che accompagnato, al fianco della signora Vezzosi.
S’era dato il caso che parlassero di poeti e di romanzieri. Aldo non
era un letterato, Dio guardi, ma aveva letto molto e parlava con un
certo calore de’ suoi autori prediletti. La signora non conosceva il
Pushkine, ed egli, di parola in parola, era stato tirato ad offrirle il
volume. In imprestito, si capisce. E il giorno seguente, a quell’ora
tarda che volevano le buone creanze, le aveva portate le opere del
poeta russo, tradotte nella lingua universale di Francia. Così era
entrato, senza avvedersene, in casa della signora Vezzosi, e diventato
a mano a mano il suo provveditore di libri.

Quando egli andava dalla signora per alcuna di quelle faccende
librarie, si poteva esser certi che la conversazione, dopo le solite
frasi di cerimonia, girava subito su questo tono: — Come le è piaciuto
il carattere di Enrico? E la scena del bosco? Le raccomando di leggere
attentamente il capitolo della pioggia. Che pittura! E quel raggio
di sole che viene d’improvviso a illuminare la fronte di Dorotea!
Che vivezza di tocco! Ecco un verismo che ha ottant’anni di data.
Gli scrittori moderni non se li sognano neanche, questi ardimenti
dell’arte. E l’incontro col barone dopo la caccia! Che movimento
d’affetti! Ha poi notata quella digressione sui toni musicali? Come si
trova a posto, e come prepara bene alla scena del concerto! —

Poi, la scena del concerto, od altra consimile, porgeva appiglio ad
una disputa sentimentale. Era sempre la signora che girava al tenero;
Aldo ci entrava, dirò meglio, ci faceva capolino, senza escire dal
grave, come un riguardoso carabiniere che si provi a sorridere, senza
dimenticare la maestà dell’uniforme. Ed erano dispute così delicate,
così aeree, che un marito avrebbe potuto sentirle, dietro una cortina,
senza che la mano gli corresse al pugnale.... Scusate, siamo nel secolo
decimonono, e bisognerà dire al bastone. È un’arma più prosaica, ma più
alla mano.

E tutto ciò durava da un anno? Mio Dio, sì, durava da un anno. Sono le
cose monotone che durano di più. Altrimenti, non sarebbero monotone.

La signora Elena discorreva volentieri, come tutte le persone che
discorrono bene. E per lui, e con lui, la sua svogliatezza consueta
assumeva un leggerissimo tono, come una sfumatura, di malinconia. Aldo
De Rossi si era avvezzo a quel gentile chiacchiericcio, e vedeva nella
signora Elena Vezzosi un’amica; anzi meglio, un amico, e della specie
migliore. Perchè, quando un tal legame può stringersi tra persone di
un sesso diverso, l’amicizia si rinfranca, direi quasi che si soppanna,
di tutte le grazie, di tutte le capestrerie, di tutte le eleganze, che
non è dato combinare tra uomini, uno dei quali è così facile a escire
di riga, e l’altro a seguitarne l’esempio. Questa amicizia tra uomo e
donna, quando il cuore non parli in nessuno dei due, è veramente una
delizia, poichè è una specie d’affetto, senza le ansie, i sopraccapi,
le gelosie, gli struggimenti feroci di quell’altra passione, da cui Dio
misericordioso dovrebbe scampare ogni fedel cristiano.

O come? Non la sentiva egli dunque, l’altra passione? Avremo qui un
personaggio tutto testa, come certe qualità di pesci, buoni a mala pena
per farne la zuppa? Lettori e lettrici, aspettate un pochino e vedrete.

Quel giorno, che v’ho accennato in principio, Aldo De Rossi era entrato
nel salotto, e aveva presentato alla signora Elena il suo volume;
credo le _Confessions d’un enfant du siècle_ del Musset. La signora
Elena aveva ringraziato il gentil provveditore e deposto il libro sul
tavolincino di lacca giapponese, che serviva d’aiuto ai gomiti e di
nesso alla conversazione. Il cielo, quel giorno, aveva messa la cappa
di piombo, e un caldo afoso pesava maledettamente sui nervi. La signora
Elena non era di buon umore. Per un altro visitatore sarebbe parsa più
svogliata del solito; per Aldo De Rossi non era che più malinconica.
Sapete pure, quel leggiadrissimo tocco, quella sfumatura di cui sopra!

Si ragionò, secondo l’uso, di libri e d’autori, ma più particolarmente
del Musset. Voi non lo ignorate, il Musset, che sofferse tanto per una
donna e ne fece soffrire tante altre (almeno, se si ha da riconoscerlo
in tutti i suoi personaggi, così fittamente impregnati del suo _io_), è
l’evangelista del sesso gentile e generalmente di tutti gl’innamorati
moderni. Egli ha la nota fondamentale del dolore elegante. I suoi
campioni portano i guanti perlati, la sottoveste bianca insaldata e
tutto l’altro come noi, perfino la gardenia, all’occhiello; ma celano
sotto quella gardenia, sotto quella sottoveste, un picciolo dramma,
una tempesta in ristretto, un vulcano in miniatura, come noi, proprio
come noi. Ci ravvisiamo nel Rolla, in Don Paez, nell’_Enfant du
siècle_, come tutte le donne si ravvisano nella marchesa di Amaeguì,
in Marianna, e ad ore rubate perfino in Mimì Pinson. Aggiungete che
non dice mai villania al bel sesso, come fanno certi genii screanzati.
Si sente bensì, attraverso l’asprezza di certi periodi, che egli
considera le donne come una varietà della razza felina; ma la donna
non isgradisce d’essere creduta una tigre, visto e considerato che
la tigre ha un bellissimo mantello ed atti e movimenti di leggiadria
insuperabile. Lasciategli supporre che la credete tale, senza dirglielo
troppo aperto, ed ella avrà qualche volta la bontà di farvi ammirare le
unghie. Adorabili unghie!

La signora Vezzosi si era fermata con una certa compiacenza a stillare
una sentenza del poeta di Marianna, e Aldo De Rossi, forse a cagione
dell’afa che gl’intorpidiva i nervi, durava fatica ad intenderla.
Già, quel benedetto ragazzo, con la sua serietà, aveva sempre l’aria
d’essere un po’ straniero al dialogo, in cui si trovava impegnato.
Quel giorno, poi, mentre la signora Elena, sempre per effetto dell’afa
che la rendeva più malinconica, era sdrucciolata più che mai, anzi
sprofondata nel tenero, egli stava più fermo, più impettito d’un
carabiniere dell’antica maniera. Diciamo le cose alla libera; la
signora Vezzosi accennava coppe ed egli rispondeva bastoni. Si poteva
dare peggior distrazione di quella?

Ad un certo punto, con aria d’impazienza e dispetto, la signora gli
disse:

— Signor Aldo, voi non capite dunque nulla? —

Il giovinotto rimase un po’ sconcertato. Non era orgoglioso; ma
sentirsi dire lì per lì che non capiva nulla, converrete con me che
non dovesse piacergli. Il sangue non è acqua, ed anche il dio Proteo,
quando fu messo tra l’uscio e il muro... Infine, Aldo rizzò la testa,
spalancò gli occhi e replicò:

— Perchè, signora?

— Perchè... perchè non capite. —

E così dicendo la signora Elena si lasciò sfuggire un mezzo sospiro.

Aldo De Rossi ebbe come un barlume di ciò che la signora pensava.

— E... — balbettò egli allora — se io capissi?...

— Oh, sarà difficile; — ribattè la signora Vezzosi.

Il giovanotto si trovò messo al punto; fece un mezzo inchino e ripigliò:

— Orbene, signora, mi proverò a dimostrarvi il contrario. Resta sempre
che, se io mi sarò ingannato, voi avrete buono in mano per ridere dei
fatti miei.

— Avete tanta paura?

— No, signora, poichè m’arrischio a parlare. E soggiungo che, se non mi
sarò ingannato, dovrò piangere a calde lagrime.

— Ah, questo è più grave; — esclamò la signora. — Sentiamo.

— Sì, o signora, è più grave; — riprese Aldo De Rossi, facendo una cera
da funerale. — Voi siete bella... bellissima.... —

La signora Elena diede in uno scoppio di risa.

— Avete dimenticato il comparativo; — soggiunse poscia. — In grammatica
si usa dire: bella, più bella, bellissima.

— Da molto tempo non vado più a scuola, perdonate; — rispose Aldo
De Rossi. — Del resto, che importa il comparativo, quando c’è il
superlativo?

— Sì, vi perdono, in grazia del superlativo; — disse la signora
Vezzosi. — Continuate. Sebbene, dopo questo, sia abbastanza facile
capire ciò che avete a dirmi. —

E prese, così dicendo, un atteggiamento di languore, che le andava a
meraviglia.

— Ecco; — rispose Aldo De Rossi; — non è facile veramente a capire, e
vi assicuro che non è facile a dire. Io ci provo uno stringimento alla
gola.

— Che? Bisognerà ancora aiutarvi? Badate, signor Aldo, ciò non istà
troppo bene ad una donna. Ma via, — soggiunse la signora, chinando gli
occhi con un’aria tra la vergogna e la rassegnazione, — ci conosciamo
da tanto tempo, e voi siete un così gentil cavaliere... un amico tanto
prezioso.... —

La frase, ad onta di ciò che prometteva, si fermò lì. Si capiva che la
signora Elena, dopo aver dato animo al suo interlocutore, voleva essere
interrotta.

Ma il suo interlocutore era più impacciato che mai.

— Signora... — balbettò egli, chinando la testa, — non ci siamo. Ve
l’ho detto poc’anzi, dovrò farvi una confessione, da piangerne a calde
lagrime. —

Tutte quelle reticenze e sospensioni promettevano poco di buono alla
signora Vezzosi. Aldo De Rossi aveva chinata la testa, ed ella alzò
mezzo sdegnata la sua.

— Sentiamo dunque una volta; — diss’ella. — Non avrete già speso il
vostro superlativo, per venirmi a dire, mettiamo il caso, che siete
innamorato... d’un’altra?

— Ah, signora! — esclamò Aldo, sospirando. — Proprio così, come voi
dite. Sono... perdonatemi!... Sono innamorato di un’altra. È una
fatalità; è tutto quel che vorrete.

— Non sarà niente, allora; — replicò la signora Vezzosi indispettita; —
perchè io non voglio niente, signor De Rossi. Debbo solamente avvisarvi
che queste cose si possono pensare, ma che non è punto necessario di
dirle.

— Oh, non andate in collera, ve ne prego. È forse un male esser
sinceri, con un angiolo come voi?

— Angiolo! — ripetè la signora Vezzosi, con un accento indescrivibile.
— Angiolo! Bella parola usata male! Anche questa non si usa, debbo
avvisarvene; non si usa che quando si ama e per chi si ama. Che cosa
dite voi dunque alla donna che amate? Ma già, perchè domandare queste
cose a voi, che siete un uomo così originale?

— Originale! Io? E perchè?

— Me lo chiedete? E dovrò io incaricarmi della vostra educazione? —
replicò la signora Elena, con un certo risolino stridente. — In verità,
il caso è bizzarro! Ma accettiamo l’ufficio, in pena dei peccati che
non abbiamo commessi. Sappiate dunque, signor De Rossi, che quando un
uomo trova bella una donna, e cara la sua compagnia....

— Carissima, lo sapete; — interruppe Aldo De Rossi, felice di poter
rimediare in qualche parte alle sue malefatte.

— Ottimamente; — ripigliò la signora. — Ne avevo da qualche tempo
le prove. E solo per questo... badate, signorino, solo per questo,
m’è avvenuto di escire da quel riserbo, in cui deve tenersi una
donna. Ma già, avevo anch’io qualche cosa da imparare; — osservò
ella, tormentando con le dita il suo ventaglio cinese. — Dopo questa
lezione, non mi avverrà più, ve lo giuro. Dunque, dicevamo.... Che cosa
dicevamo, signor De Rossi? Ah, dicevamo che quando un uomo trova bella
una donna, e glielo dice al superlativo, si deve intendere.... Non vi
pare, signor De Rossi, che si debba intendere....

— Sì; — rispose Aldo, disposto per una volta tanto ad interrompere in
tempo una frase difficile; — generalmente è così. L’uomo è uno zolfino
e s’accende. Ma io, signora, sono un pochino diverso.

— Ah, bene! — esclamò la signora. — Non ci sarà pericolo che
appicchiate il fuoco alle sedie. Ma che cosa siete voi, di grazia? Una
macchina da fabbricare il ghiaccio?

— Signora!... — balbettò Aldo De Rossi, con aria contrita e
supplichevole.

— Ah, è vero; — ripigliò la signora Vezzosi. — Dimenticavo che siete
innamorato; la qual cosa lascia supporre che il freddo, l’avversione,
sia solamente per me. Non me ne lagno, badate. Scherzavo, più o meno, e
continuo lo scherzo.

— Ma non su questo particolare, ve ne prego — disse Aldo De Rossi.
— Perchè parlate d’avversione, ad un uomo che ha sempre avuto tanto
piacere a conversare con voi? Ve l’ho già detto una volta, signora. Se
sono sincero anche a mio danno, perchè non mi crederete anche in ciò?
Voi siete bella come....

— Ah sì, sentiamo come.

— Come la Venere di Milo, — prosegui Aldo De Rossi, — cioè a dire come
la più bella statua del mondo. —

La signora Vezzosi rispose al complimento con un lieve moto del capo:
indi alzò gli occhi ad uno specchio che pendeva inclinato dalla parete,
di rincontro a lei; un magnifico specchio ovale, con una gran cornice
intagliata a fogliami, capriccioso impasto di classico e di barocco,
e con la luce mezzo coperta da una cascata di fiori, dipinti da mano
maestra a guisa di festoncino.

— E... — diss’ella poscia — quell’altra... com’è?

— Quell’altra! Chi?

— La donna che amate. Se io sono da paragonare alla più bella statua
del mondo, che cosa vi resterà da dire per quell’altra?

— Signora, — rispose Aldo De Rossi, — non vi sdegnate con me. Sono
un disgraziato, e veramente non avrei dovuto impigliarmi in questo
discorso.

— Quell’altra! — gridò stizzita la signora Vezzosi, battendo col suo
piedino il tappeto. — Voglio quell’altra!

— Orbene, — riprese il giovinotto, armandosi di coraggio, — quell’altra
è come la statua... che non è stata mai fatta. Fidia deve averla
sognata e dev’esser morto....

— Oh, per questo, statene certo; egli è morto davvero!

— Sì, ma volevo dire che egli dev’esser morto... senza trovarne il
modello. —

La signora Vezzosi era lì lì per rispondere: — «Dio mio, che
svenevolezze!» — ma si trattenne. Voleva mandare a spasso
quell’impertinente, dall’aria così dolce e contrita; ma non seppe
risolversi, e l’una e l’altra voglia sfogò in una seconda risata. Vi
avverto, per debito di coscienza, che non si trattava d’una risata
molto schietta, quantunque fosse abbastanza sonora.

— E voi — diss’ella, dopo quel piccolo sfogo, — siete riescito dove ha
inciampato Fidia?

— Si, — rispose Aldo De Rossi, — ma non ho fatta la statua.

— Questo lo capisco da me. Non siete uno scultore. Ma almeno avrete
avvicinato il modello, ed esso si sarà infiammato per voi. Un grande
amore vuol essere corrisposto; — notò sarcasticamente la signora Elena.
— Lo ha detto Dante in un verso che voi mi avete commentato così bene:
_Amor che a nullo amato amar perdona_. —

Aldo De Rossi crollò malinconicamente la testa e represse un sospiro di
desiderio.

— Ahimè, signora! Per la prima volta, forse, Dante ha avuto torto e la
sua massima è stata sbugiardata nel mio caso.

— Eccone un’altra! — esclamò la signora. — Signor De Rossi, poc’anzi
volevo mandarvi via, con la scusa di dover ricevere la sarta; ma ho
poi cangiato pensiero. Siete un uomo tanto strano! Raccontatemi tutto,
poichè siete avviato. Quali sono le vostre speranze?

— Non ho speranze, signora.

— Almeno, le avrete detto il vostro amore?

— Quasi.

— È già abbastanza; le donne leggono sempre il resto negli occhi. E
lei, che cosa vi ha risposto?

— Nulla, o qualche cosa che val come nulla.

— Oh povero signor De Rossi, come vi compatisco!

— Si, compatitemi; è il sentimento ch’io merito; — rispose Aldo De
Rossi, fingendo di non accorgersi del senso di sottile ironia che
trapelava dalle parole della signora Vezzosi. — Ora voi vedete la
mia grandezza, o signora. Almeno, se vi parrò ridicolo, con le mie
sofferenze, non vi parrò un insolente, con le mie confessioni. Rinunzio
alla Venere di Milo, e mi perdo....

— Per la Venere che non è stata fatta; — interruppe la signora. —
Ma badate, poc’anzi mi avete ferita. Sicuramente, signor Aldo, mi
avete ferita. Le vostre lodi, le vostre ammirazioni artistiche, non
compensano la lezione che ho ricevuta, e che, mi affretto a dirvelo,
ho anche meritata con un povero scherzo. Perchè era uno scherzo, il
mio, lo sapete? Ci avevo i miei nervi, quando siete capitato, e volevo
stordirmi con quattro chiacchiere.

— Oh, l’ho capito subito; — rispose Aldo De Rossi, inchinandosi
profondamente.

L’atto fu così comico nella sua umiltà, che la signora Elena si
vergognò del sotterfugio.

— Bene! — diss’ella, col suo risolino stridente. — Ecco una bugia a due
voci, la quale non salverà nulla, neanche le apparenze. Ma non importa.
Voi mi siete sempre debitore di una riparazione. La esigo, chiedendovi
la storia del vostro amore.

— Non c’è storia; — rispose Aldo De Rossi.

— Come? Non s’ha neanche da sapere come è nato? Ogni cosa ha un
principio. Voglio il principio della vostra passione.

— Signora... vi pare? — balbettò il giovinotto. — Raccontare ad una
donna bella....

— Più bella, bellissima! — interruppe la signora Vezzosi.

— Certamente; — ripigliò Aldo De Rossi; — raccontare ad una donna
bellissima in che modo si sia innamorati di un’altra, non vi pare un
tantino... scortese?

— Ah sì, dopo quello che avete fatto, ritiratevi ancora sul monte
Sacro! — gridò la signora Elena, con accento sardonico. — Questa volta,
signor De Rossi, sento proprio la tentazione di mandarvi via, anche
senza la scusa di ricevere la sarta. Siate conseguente, nella vostra
originalità. Non sono io strana la parte mia? Non merito una confidenza
intiera? E non vi pare che sia questo il miglior modo di farvi
perdonare la prima parte?

— Sì, sì; — disse Aldo De Rossi, prendendole la mano e stringendola
tra le sue. — Ma in tutta sincerità vi dico che non c’è storia. In due
parole è tutto narrato. L’ho veduta e l’ho amata.

— Così di schianto?

— No certo; — rispose Aldo De Rossi. — L’amavo già prima.

— Ah, c’è un prima? È dunque la storia del prima che voi dovete
raccontarmi.

— Signora, anche quella si racconta con le stesse parole. L’avevo
veduta ed amata. Era un fiore nato nel mio cuore. Sapete voi come
queste cose avvengono? In mezzo al turbine della vita si hanno di
queste apparizioni gentili, come in un viaggio triste e faticoso si
vede un tratto di campagna, di cui vi resta un’immagine poetica e
dolce. Si va innanzi, dove chiama il piacere, o l’ombra del piacere,
una follia, un destino; ma di tanto in tanto si ripensa a quell’oasi
benedetta, e un’aria d’idillio vi spira soavemente alle tempie. Viene
il giorno che vi fermate a cercare il perchè di quella sensazione, e vi
duole, e vi date del fanciullo, e scuotete la testa, come per cacciare
un’idea importuna. Ma quell’immagine è là, sempre là; gli stordimenti
del viaggio ve l’hanno offuscata nell’animo, per un anno, per due; poi
viene il giorno che essa ritorna, netta, spiccata, ai vostri occhi; e
vi prende allora un desiderio pazzo di rivedere quel luogo, e là, dove
avete sentito così profondamente le bellezze della natura, là, proprio
là, vorreste ridurvi a morire. Così di certi amori. Erano immagini del
passato, a cui l’anima credeva di resistere; sentimenti graziosi, a cui
il cuore si faceva forte di aver rinunziato. Ma ad un tratto l’immagine
offuscata s’illumina; il sentimento doloroso e caro si rinnova. Pensate
a quella donna intravveduta un giorno, e vi assale una gran tenerezza.
Come è avvenuto ciò? Per quali vie quell’amore è tornato, e vi s’è
fatto gigante nel cuore? Come mai è diventato un incendio, da così
breve favilla che vi era parso in principio?

— Misericordia! — gridò la signora Elena. — Sarà il caso di chiamare le
guardie del fuoco.

— Ah sì, davvero! — rispose Aldo De Rossi, ricondotto a terra da quella
bizzarra osservazione. — Ma è così dolce il bruciare!

— E perder la lite, non è vero?

— Ve l’ho detto, signora. Rinunzio da un lato e perdo dall’altro. Non
sono dunque da compiangere, come un matto o come uno sventurato? —

Il dilemma pareva saldo e non era. Infatti, vedete, la signora
Vezzosi pensò che Aldo De Rossi avrebbe servito meglio alla verità,
gabellandosi per sciocco. Ma, dopo averlo pensato, ne ebbe come
un rimorso, parendole quasi di essersi lasciata sfuggire la parola
di bocca, e rimase a lungo silenziosa, mentre il giovinotto stava
contemplando i fiori bizzarri, disegnati in sottili filettature
d’oro sul tavolincino di lacca giapponese che lo separava dalla bella
signora.

Anch’egli sentiva un po’ di rimorso d’aver parlato con tanta
schiettezza. La signora Elena aveva ragione; certe cose si possono
pensare, ma non è punto necessario di dirle. Ed egli, pentito d’averle
dette, vedeva già la conseguenza della sua sincerità; vedeva, ad
esempio, che, dopo quella conversazione, egli non aveva più nulla
a fare in casa Vezzosi e che il meglio sarebbe stato di ridurre a
trimestrali, magari anche a semestrali, le troppo frequenti sue visite.

Ma le donne hanno tesori inesauribili di bontà, oppure, se vi piace
meglio, raffinatezze di crudeltà, che sventano tutti i calcoli più
sapienti di un uomo. Dopo essere rimasta un tratto in silenzio, la
signora Elena levò la fronte e disse di schianto al De Rossi:

— Mi promettete una cosa?

— Non so di che si tratta, — rispose egli, felice d’interrompere i suoi
studi sulla flora giapponese, — ma vi prometto anticipatamente tutto
quel che vorrete.

— Voi mi prenderete per confidente delle vostre pene; — ripigliò la
signora. — Mi chiederete consiglio nei momenti difficili. —

Addio diradamento di visite, come al signor Aldo degnissimo pareva
necessario di fare. La Vezzosi cangiava di punto in bianco il suo
sistema di attacco, oppure in atto era da vedersi una trasformazione
di tenerezza? Aldo De Rossi non ci pensò più che tanto; rispose un
«grazie!» ardentissimo e baciò la mano della signora.

— Che fuoco! — esclamò ella, ridendo. — Siamo noi sempre in pericolo
d’incendio? Dite, signor Aldo; vi sareste per caso immaginato di
baciare un’altra mano, in cambio della mia? —

Aldo De Rossi non ebbe cuore di rispondere a quella domanda, appoggiata
da uno sguardo che pareva volergli leggere nell’anima. Pose in quella
vece un ginocchio a terra e ripigliò la mano della signora Vezzosi.

— Perdonate; — soggiunse. — Questa volta è proprio per voi che
m’inginocchio. —

E depose, ciò detto, un bacio rispettoso su quella bianca mano, che
sentì tremare al contatto delle sue labbra, quantunque non fossero per
allora di fuoco.



II.


Se Elena Vezzosi fosse stata un’antica romana, avrebbe notato quel
giorno tra i nefasti. Ma era una gentildonna moderna, e si restrinse a
dolersi d’aver fatto troppo per quel signorino, che, messo al punto di
parlar bene, aveva parlato così male, o almeno così diversamente da ciò
che ella era in diritto d’aspettarsi.

Fors’anche a voi, lettrici cortesi, parrà che la signora Elena si fosse
buttata, come suol dirsi, un po’ via. Ma di certo non pensereste in tal
guisa, se sapeste appuntino in che termini fosse la relazione di quei
due personaggi. Perchè io non v’ho detto nulla, accennandovi brevemente
che si conoscevano da oltre un anno e che si vedevano molto spesso.
Bisognerebbe tessere la storia di quell’anno, anzi farne a dirittura
il diario, e notarvi ad una ad una tutte le delicatezze, le graziette
e sarei quasi per dire le moinerie di quella amicizia, apparentemente
mantenuta da una specie di commercio librario. La signora Vezzosi
aveva, secondo me, il grave torto di credere che un uomo non possa
provare per una donna quel sentimento pacato e fine, che Lord Byron
chiamò giustamente un amore senz’ali. Ella conosceva poco gli uomini,
anche vedendosene molti d’attorno; o forse il conoscerne troppi e il
vederli quasi tutti uguali per lei, le aveva tolto di riconoscere le
eccezioni. Perchè era bellissima e perchè glielo dicevano a gara, la
signora Elena era giunta facilmente, quasi fatalmente, a non ammettere
che un uomo potesse resistere all’incantesimo delle sue grazie, e ci
avesse l’originalità non artificiale di star saldo sulla galanteria
cavalleresca, rinunziando all’amore; infine, non sospettava nemmeno
che vivessero uomini, i quali, stanchi dei falsi amici e sazii di
amori violenti, si riducessero a cogliere presso una leggiadra e
colta signora i fiori innocenti di una quieta amicizia. Venendo al
caso concreto, e notando quella corte assidua che le faceva Aldo De
Rossi, corte riguardosa nella forma, ma tutta impastata di dolcezze,
la signora Elena aveva creduto che quel giovinotto fosse invaghito
fieramente di lei, ma che appartenesse alla categoria degli innamorati
che non parlano. C’è tanta noia cogli innamorati che parlano, specie
quando parlano troppo presto, come generalmente avviene! Perciò la
signora Elena aveva gradita quella corte muta, l’aveva assaporata per
un anno, se n’era impietosita; e, senza promettere nulla a sè stessa,
quasi senza pensarci su, era venuta al punto di aiutarlo a parlare, di
aprirgli la bocca, come il papa usa coi nuovi cardinali.

In quella vece, come sapete oramai, Aldo De Rossi era tutt’altro, e la
sua bocca doveva aprirsi per dire alla signora Vezzosi ciò ch’ella non
avrebbe amato d’intendere. Tipo curioso d’ingannatore senza volerlo!
Pieno di delicatezza verso le dame, ne sentiva l’influsso benefico, ed
anche quando il suo cuore taceva, la sua immaginazione si riscaldava
per la più bella metà del genere umano. Figuratevi dunque se non
dovesse cercarla, essendo innamorato! In tutte le donne egli vedeva
quell’una che sapete già, quantunque non la conosciate ancora; e stando
vicino alla signora Elena Vezzosi, tanto gentile e buona, gli pareva
di sentire come un profumo di quell’altra, più rigorosa e più fredda,
che lo aveva conquistato. E non vi sembri inverosimile il fatto.
Generalmente, non si esce della compagnia di una orgogliosa bellezza,
che per andare a far pazzie, a dar del capo nei muri per tutte le
vie più deserte della città, o ad affogare il rammarico in una cena
chiassosa. È questa la moda, e lo Sciampagna ed il ponce sono indicati
da tutti i maestri del dolore elegante come ottimi condimenti ad una
passione infelice. Aldo De Rossi, per seguire l’andazzo, aveva fatto
anche questo; ma la sua indole si era presto ribellata a quel genere di
cura, e il nostro giovinotto aveva finito a ritornarsene tra le dame,
per far la cura omeopatica del _similia similibus_. Povera signora
Vezzosi! A lei doveva toccare di portarne la pena.

Dopo il colloquio che v’ho narrato, la bella signora Elena non ebbe
più pace. Non già che si disperasse. Oibò! Ad una donna come lei non
potevano mancare le consolazioni, e del resto il suo amor proprio era
salvo. Ma restava una curiosità da soddisfare, e questo sentimento
andava innanzi a tutti gli altri. Occorrendo, si sarebbe doluta poi
di ciò che le era toccato con Aldo De Rossi; per intanto le premeva di
sapere il nome della beltà preferita.

— Chi sarà questa Dea? questo portento di bellezza, che Fidia ha
sognato e che non ha saputo scolpire nel marmo? —

Fatta e ripetuta dentro di sè questa domanda, non senza giulebbarla
di tutte le ironie, di tutti i sarcasmi che le erano suggeriti dal
suo demone familiare, la signora Elena Vezzosi passò diligentemente
in rassegna tutte le dame di sua conoscenza. Certo, fra queste doveva
essere la donna amata con tanto calore dal signor Aldo De Rossi, poichè
egli frequentava la medesima società in cui ella viveva, e in cui fino
a quel giorno aveva creduto di regnare. Ma nessuna di quelle dame
rispondeva al tipo, di cui, a parer suo, avrebbe dovuto innamorarsi
il De Rossi. La signora Graziani, per esempio? Quanto agli occhi,
non c’era male; anzi potevano passare per belli; ma, Dio buono, per
invaghirsi della signora Graziani, sarebbe bisognato proprio avere
una predilezione spiccata per le acciughe. La marchesa Altobelli?
Peggio che mai; aveva i capegli rossigni, e il signor Aldo, mentendo
al suo proprio casato, non amava che le brune. La signora Milani,
forse? Ma era troppo in carne, quella là, e con le sue trentatrè
primavere incominciava a dare nel floscio. La contessa Albaresi? Dei
immortali, una sciocca, e non metteva conto parlarne. La Vernetti? Una
secca allampanata, che faceva pena a guardarla. O forse la Salieri?
Belloccia, in verità, ma d’un colore, anime sante del purgatorio,
d’un colore così vivo, che si era sempre sul punto di consigliarle
un salasso. E forse avrebbe fatto bene, ad alleggerirsi un poco, di
tanto in tanto. Aveva anche il collo così corto! La Rivanera, poi! Ma
era troppo piccola, e poteva contare al più al più su d’un madrigale
del Guadagnoli. Carina, la testa; ma il corpo, il corpo!... Niente più
lungo d’un raperonzolo.

Notate, lettrici garbate, la signora Elena ragionava in buona fede e
passava proprio in rassegna tutte le bellezze più famose della città.
Non era poi colpa sua, se le accomodava tutte in salsa piccante. Dov’è
la donna che, mettendosi a giudicare, non abbia trovato il neo nella
bellezza di un’altra? Io dunque prego le signore Salieri, Vernetti,
Albaresi, Milani, Altobelli, Graziani e via discorrendo, a non andare
in collera per simili inezie. A buon conto, possono ricattarsene,
pettinando a loro volta la signora Vezzosi. Non possono dire, per
esempio, che ella somigliava ad una serpe? Il collo lungo e flessuoso
lo aveva; la testa piccina e la fronte depressa, egualmente; il
paragone veniva dunque da sè. I poeti, a dir vero, la paragonavano ad
un cigno; ma i poeti, si sa, non dicono che bugie.

Torniamo alle indagini della signora Vezzosi. Secondo lei, nessuna
tra le più celebrate bellezze di sua conoscenza poteva esser quella
che aveva colpita la fantasia e piagato il cuore di Aldo De Rossi.
Ella non sapeva, o non voleva sapere, che gli uomini guardano le donne
con occhi ben diversi da quelli con cui le signore donne si guardano
tra loro, e che essi non sogliono badare a certe piccolezze di cui i
giudici femminini fanno invece un gran caso. Inoltre, ella non sapeva,
o non voleva sapere, che un diploma di bella non basta a comandar
l’affetto, e che, per invaghirsi della tale, o della tal altra, un uomo
non ha mestieri di sentirla celebrare sui tetti. Vi sono anzi certuni,
i quali si ristuccano di queste bellezze tanto strombazzate e non le
guardano neanche, parendo loro che debbano essere palloni gonfiati e
sempre lì lì per iscoppiare. L’uomo, veramente, è pronto ad accendersi,
come un fiammifero ad ogni strofinatura, e tanto più pronto quanto più
è raffinato. Ma, comunque egli sia, credete pure, lettrici garbate,
che egli s’innamora sempre di qualche cosa che le donne non avvertono
neanche; d’una cosa da nulla, come a dire d’un atto, d’un gesto, d’una
parola. Io ne conosco uno, il quale s’invaghì d’una donna, a cui non
aveva pensato mai, solo perchè ella gli disse un giorno: — Signor Zeta,
vi siete divertito iersera dagli Ipsilon? — La voce era soave, non lo
nego; ma non l’aveva egli sentita impunemente altre volte? Quanto alla
frase, converrete con me che non aveva nulla di singolare. A che cosa
dobbiamo noi dunque attribuire l’innamoramento del mio amico Zeta?
Forse al momento, al terribile quarto d’ora, in cui cadono gli uomini,
le donne e gli imperi.

Per fare il paio con questa brevissima istoria dell’amico Zeta, vi
dirò che una signora s’innamorò d’un uomo, a lei niente più simpatico
d’un altro, perchè egli, sedendo un giorno a tavola daccanto a lei, si
prese l’incomodo di mescerle il vino nel bicchiere, quantunque ci fosse
dietro la sedia il servitore gallonato, a cui, trattandosi di un pranzo
magno, era serbato quel nobile ufficio. Il vicino di tavola ebbe,
agli occhi della signora, il merito grande di non aver badato alle
convenienze, ma solamente al piacere di servirla. E quando, passato
il famoso quarto d’ora in cui cadono gl’imperi, gli uomini e le donne,
si sentì confessare in che modo l’amore fosse entrato nel cuore della
dama, il buon cavaliere pensò.... pensò, se permettete, che la felicità
umana pende da un filo, e che forse un’altra dama, a cui egli avesse
fatta più ardentemente la corte, trovandosi a giudicare del suo atto,
avrebbe detto in cuor suo: — Ma quest’uomo non ha proprio uso di mondo!

La signora Elena, intanto, cercava e non trovava. Evidentemente, non
era sulla buona via. Per sapere di qual donna sia innamorato un uomo,
non ce ne sono che due. Anzi tutto, osservarlo attentamente in tutte
le occupazioni della sua giornata. Ma questa è una via lunga, e ci
sono degli uomini così astuti, che, a tenergli dietro, ci si rimettono
le spese. Oppure, c’è lo spediente di domandarne a lui. È la via più
diritta, ed anche la più sicura, quando l’uomo ha voglia di rispondere
in tono.

Ora, come sapete, la signora Elena gentilissima gliene aveva domandato,
ma senza andare troppo a fondo, per la prima volta; ed egli le aveva
risposto con molta sincerità, ma anche con molto riserbo per ciò che
risguarda la persona, lasciandole capire che su quel particolare non
si sarebbe aperto di più. Restava di osservarlo. Ma come? La signora
Vezzosi non aveva occasione di vedere il De Rossi vicino ad altre
donne, fuorchè a balli e teatri: ma la stagione invernale era passata
da oltre due mesi e una nuova occasione bisognava aspettarla altri sei.

Quantunque, se pure ci fossero state le occasioni, non era mica facile
indovinare il segreto del signor Aldo alle prime. Non aveva egli
confessato candidamente che si trattava di un amore infelice? Un amore
di questa fatta è quasi sempre un amore a distanza, nutrito di occhiate
più o meno timide, che non è dato di cogliere a volo, con la certezza
di colpire nel segno.

Ed era un peccato che la signora Vezzosi non sapesse quel nome di
donna, che esercitava tanto la sua curiosità; era proprio un peccato,
perchè ella aveva promesso di aiutare il suo gentil provveditore. Lei?
Sicuramente lei; sebbene dopo il colloquio che vi ho riferito, una
lagrima di dispetto le avesse fatto pizzicare le palpebre.

Aldo De Rossi non era quel bellissimo giovane sul cui taglio si
fabbricano, da Lancillotto del Lago in qua, tutti gli eroi da romanzo.
Era un giovane serio, pallido, con una gran fronte bianca, la cui
severità appariva temperata da due ciocche di capegli, voltate in giù
ed appiastricciate a furia di cosmetico secondo l’ultima moda; gli
occhi grandi e pensosi, i baffi neri, le labbra tumide e abitualmente
contratte; suppergiù un misto di pensatore e di damerino, che non
mancava di attrattive e che certamente era fatto per destare una mezza
curiosità. A quell’aspetto rispondeva un carattere chiuso, non altiero,
ma inaccessibile. Pari a certe fortificazioni moderne, a cui bisogna
giunger sotto, per avvedersi della difficoltà somma d’entrarci, Aldo
De Rossi non aveva l’aria di tenere indietro la gente, e sapeva anche
stare alle chiacchiere, ma senza che ai suoi interlocutori venisse
fatto di leggergli nel cuore, più di quello che al giovinotto mettesse
conto di lasciar leggere altrui.

A farvela breve, egli apparteneva alla categoria dei tenebrosi; specie
di sètta sociale, che non ha simboli, nè riti particolari, ma che pure
è facile di distinguere. Sono uomini uguali a tutti gli altri nelle
esteriorità del vivere; ma ci hanno questo di singolare, che non è mai
dato di coglierli alla sprovveduta. Vi parlano e si lasciano parlare
d’ogni cosa, ma non c’è verso di intravedere un barlume di ciò che
pensano o fanno, poichè essi sono capaci di passare rasente al segreto
della loro vita, senza batter le palpebre, o dare un altro segno di
turbamento. In casa loro si penetra a stento, ed essi ci vanno sempre
da soli, per non aver aria di novità quando hanno mestieri di cansare
gl’importuni. Li vedete da per tutto, ma generalmente, dopo una breve
apparizione, scappano via. Dove? Non chiedete di accompagnarli, perchè
sarebbero capaci di accettare, per condurvi nel più noioso dei ritrovi,
e farvi assistere magari ad una discussione di politica. La politica
è l’unico argomento su cui non siano circospetti. Da troppo tempo è
cessato il pericolo di manifestare le proprie opinioni sulla miglior
forma di governo, e, non dubitate, su questo particolare i tenebrosi
vi aprono intieramente l’animo loro. Essi, poi, non amano troppo le
persone della loro medesima età; prediligono i vecchi, che non sono
noiosi, o lo sono altrimenti, e che non cercano mai di ficcare il
naso nelle faccende del prossimo. Con le donne sono molto cortesi;
vecchie e giovani, belle e brutte, sono trattate da essi con una forma
di galanteria quasi solenne, che merita loro il titolo di cavalieri
compiti. Del resto, i loro più spiccati esemplari hanno per massima:
«servirle tutte, non amarne che una.» Il servirle, s’intende, sta qui
per ossequiarle; chè in verità i tenebrosi servono poco, e, passata
l’ora dei soliti complimenti, se ne vanno pei fatti loro, si pèrdono
nel buio delle proprie abitudini.

Chi ha dato origine a questa efflorescenza, che parrà morbosa ai miei
candidi lettori? La società, con le sue indagini curiose e con le sue
ciarle assassine. I tenebrosi sono circospetti per ragione di difesa
ed anche un tantino per disprezzo della moltitudine. Non già che siano
certi di sottrarsi in tal modo alla curiosità, o alla maldicenza del
prossimo; ma almeno sanno di non averci dato appiglio con nessuna
indiscrezione. Sono giovani vecchi, ed esercitano per questa ragione un
fascino bizzarro sulle donne. Anche meno favoriti dalla natura, sono
amati più di tanti Adoni, che battono i marciapiedi delle strade, e
si sospettano di loro assai più trionfi che non ne abbiano veramente
ottenuti. Perchè, bisogna dir tutto, ci sono anche i falsi tenebrosi;
certi sciocchi scaltriti, i quali con un finto riserbo giungono a far
credere un visibilio di cose. Non parlano mai, ma si diportano in guisa
da lasciar dubitare. E questo, pei falsi tenebrosi, è il gran punto.

Aldo non apparteneva alla categoria dei falsi, lo avete capito. Perciò
il suo segreto era sfuggito anche all’attenzione della signora Vezzosi,
che potè ingannarsi fino al segno di credersi lei la prescelta. Se non
parlava lui, con quella schiettezza che sapete, di certo la signora
Elena non avrebbe saputo mai che nel cuore del giovinotto covasse un
incendio di quella fatta.

Dice un proverbio francese: _ce que femme veut Dieu le veut_. Il
proverbio è galante; ma è poi giusto del pari? Anche non essendo
francese, io credo di sì. La donna è stata l’ultima opera del Signore;
e aggiungerei, se mi fosse permesso di far confronti, la più accurata.
Ora, voi lo sapete tutti per quotidiana esperienza, ogni babbo ha
sempre una certa predilezione per l’ultimo nato. Aspettiamo dunque che
Domineddio si degni di appagare la curiositi della signora Vezzosi,
operando per lei uno de’ suoi miracoli abituali, poichè ella non ha
potuto giovarsi dei due spedienti che ho detti più sopra.

Due giorni dopo il dialogo col signor Aldo De Rossi, era un mercoledì,
giorno di visite per la signora Vezzosi. Giorno ufficiale, solenne, e
tutto ciò che vorrete, poichè era destinato a ricevere ogni sorta di
visitatori, anche i noiosi; anzi più specialmente questi, dell’uno e
dell’altro sesso. Nei rimanenti sei giorni della settimana la signora
Elena riceveva egualmente, ma senza obbligo di trovarsi in casa, se
i suoi intimi capitavano senza darne l’annunzio. Generalmente era
lei che invitava, dicendo al tale o al tal altro: — venite domani;
avrò l’emicrania. — Il che significava che non sarebbe escita di
casa e che si poteva esser sicuri di trovarla. Per contro, nel giorno
ufficiale, nel giorno solenne, destinato al maggior numero, andavano
a salutarla le amiche, i cavalieri che si contentavano di non esser
soli e quelli che amavano di trovar compagnia; cioè a dire tutti quegli
Alcibiadi ritinti e rimessi a nuovo, che, non avendo più la fortuna dei
giorni riservati, godono il benefizio dei giorni solenni, dei giorni
di parlatorio, col diritto annesso di veder sfilare tre o quattro
visitatrici, senza levarsi dalla poltrona, o dal _puff_, di cui si sono
impadroniti.

Poveri Alcibiadi rimessi a nuovo! Come sono felici di poter dire la
sera al _Club_: — Sono stato oggi dalla Bice; c’era la Ninì; poi venne
la Fanny, poi la Violante, poi la Dumont Cadigan. Si è stati allegri.
Un vero fuoco d’artifizio! Quella Dumont Cadigan è veramente una cara
donnina. —

La signora che si chiama così, per il suo casato e non per il suo nome
di battesimo, è una forastiera di alti natali, o creduti tali. Fa bene
all’anima di conoscerla, e ai polmoni di pronunziarne il nome, con
quello strascico di pronunzia che è la regola dei ben parlanti del
Jockey-Club. In questa guisa i miei Alcibiadi rimessi a nuovo hanno
la fortuna di conoscere l’Europa, senza muoversi dalla loro poltrona.
Poi vanno in giro, come i devoti della _Via Crucis_, a raccontare
al giovedì della Clarice, al venerdì della Cleonice, al sabato della
Berenice, quello che hanno udito dalla Alice in martedì, dalla Euridice
in lunedì, e da ogni generazione di sfaccendati in domenica.

Alcibiadi, Alcibiadi! Voi passate gloriosamente sulla scena del mondo,
senza aver neanche mestieri di tagliare la coda al vostro cane. È vero,
per contro, che nessun Plutarco e nessun Cornelio Nepote scriverà la
vostra vita. Consolatevi, per altro; sarà questo l’unico modo perchè
nessuno ve l’abbia a leggere dietro le spalle.

Quel mercoledì che v’ho detto, di Alcibiadi rimessi a nuovo ce n’erano
due, nel salotto della signora Vezzosi. E si alternavano frattanto
le visitatrici eleganti, baronesse, contesse, marchese, banchieresse,
cavalieresse, e via discorrendo; tutte dame che stavano bene insieme,
poichè si trovavano nella condizione sociale richiesta dal codice della
buona compagnia. Poichè non è più vero oggi, come una volta, che le
signore donne stiano in sussiego secondo i gradi dei rispettivi mariti
e secondo i quarti della loro nobiltà. Il mondo moderno poggia tutto
oramai sul parere. Ora, per parere, bisogna aver quattrini, o poterne
spendere. Vi sembrerà tutt’uno, e non è, vi assicuro, non è. Se fosse
questo il luogo vi farei notare la distinzione tra le due cose; mi
basti invece di osservare che tutte le varietà sociali concorrono,
quando possono brillare di luce propria o riflessa, allo splendore
d’un ballo, d’una conversazione, d’un ricevimento, e chi più n’ha ne
metta. Cionondimeno, quando la dama può metter fuori uno scampoletto
di corona... _C’est très-bien porté_, come dicono i francesi, che ho
citati poc’anzi. Laonde, se non passa sulla faccia della terra un altro
Novantatrè, ho paura, lettori umanissimi.... Ma perchè desiderarlo, e
per così piccola cosa? I miei francesi sullodati osserverebbero qui che
_le jeu ne vaut pas la chandelle._

Dunque, dicevamo, erano annunziati nel salotto della signora Elena
molti titoli e nomi pomposi, ma erano poche le belle. La signora
Vezzosi poteva consolarsi di non essere che commendatrice. So bene che
questo titolo non è ammesso ancora dal vocabolario; ma, non temete,
lo sarà. Al giorno d’oggi, le mogli dei ministri non fanno scrivere a
lettere da speziali sulle valigie, sui bauli, sulle cappelliere, e su
tutte l’altre carabattole di viaggio, «_S. E. la signora ecc., ecc._»?
Siamo in tempi di largo progresso; l’Edison manda fuori un’invenzione
al giorno; il Tanner insegna con l’esempio a vivere di fumo; dunque
avanti, e diciamo pure la commendatrice Vezzosi. Perchè neghereste ad
un collo così leggiadro uno straccio di collare? Per me, gli voterei
anche quello dell’Annunziata, a patto che il più fedele tra i miei
lettori (siete voi, non dubitate) fosse incaricato dell’annunzio, e
della relativa collazione. Dico bene?



III.


— Sì, mia cara, come ho l’onore di dirti, questa è la mia ultima
visita, per la stagione; — notò ad alta voce la signora Margherita
Corniani, perchè la sentissero bene tutte le persone che erano, quel
mercoledì, nel salotto della signora Vezzosi.

Margherita Corniani, moglie al banchiere di questo nome, era una
signora lunga come le mie speranze e smilza in ogni sua parte, più
che non comportasse l’euritmìa, tranne nel naso, che aveva l’onesta
persuasione di far compenso alla pochezza del resto. Era nata baronessa
e portava l’analogo cerchietto d’oro, attorcigliato di perle, sul suo
biglietto di visita. Così la baronia dei Martoli, dond’ella nasceva,
era tacitamente passata nei Corniani, e la servitù di casa, per non
isbagliare, chiamava barone anche il marito della signora. Alla qual
gentilezza il banchiere si prestava con molta compiacenza, salvandosi
dal ridicolo in faccia agli amici con questa dichiarazione modesta: —
Io vivo all’ombra di mia moglie. — E la cosa poteva passare, tanto nel
proprio quanto nel figurato, poichè la signora era lunga come l’indice
d’una meridiana, ed egli corto e tondo come una trottola.

Del resto, se la baronessa Corniani non era bella, poteva annoverarsi
tra le signore più eleganti della città. Metteva fuori una nuova
abbigliatura ad ogni settimana; il che torna a cinquantadue per anno.
Grande conforto per il mezzo barone, a cui tutti facevano complimenti
per il buon gusto della sua dolce ed allampanata compagna.

— Tu dunque ci lasci? — chiese la signora Vezzosi. — Così presto?

— Sì, che vuoi? Debbo andare a Parigi, per rinnovare il mio vestiario.
Anzi, ho già tardato fin troppo, e corro il rischio di prendere gli
avanzi. È vero che Wörth non mi tratta più come la prima venuta; —
si affrettò a soggiungere la signora Margherita, con un sorrisetto di
soddisfazione, a cui il naso rispose con espansione paterna. — Intanto,
passerò il solito mesetto a Parigi, e poi tornerò, ma per andar subito
alle acque.

— Ti dài bel tempo? — osservò gentilmente la signora Vezzosi.

— Mio Dio, sì. Non ti par giusto, dopo un inverno così noioso? È
vero che tu non te ne sei avveduta. Sei rimasta così in disparte! A
proposito, e perchè?

— Sai, Margherita, non si ha sempre voglia di divertirsi. Del resto,
dobbiamo fuggire il mondo prima che il mondo fugga noi.

— Lo dici perchè non ne credi un ette; — replicò la signora Margherita.
— Che ne dite voi, signori, di questa modestia della nostra bellissima
Elena? — soggiunse, volgendosi ai due Alcibiadi. — Mostrate alle dame
che l’antica galanteria non è spenta.

— Noi ascoltavamo in un religioso silenzio; — rispose Alcibiade primo.
— È così dolce e così nuovo vedere una grande modestia accoppiata ad
una grande bellezza!

— Ah, meno male! — esclamò la signora Margherita.

— E poi, — aggiunse Alcibiade secondo, — da lunga pezza la signora
Elena lo sa, che dipende solamente da lei di farci combattere un’altra
guerra per dieci anni.

— No, per carità! — gridò la signora Vezzosi. — Avrei troppa paura del
cavallo di legno.

— A buon conto, ti sei quasi ecclissata, quest’inverno; — entrò a dire
la signora Bertini, una brunetta bofficiona, ma non inelegante, che
fino allora era stata a sentire le chiacchiere della baronessa.

— Che vuoi? — ripigliò la Vezzosi. — Parliamo sul serio. Gerardo era
così cagionevole di salute! Si può dire che è stato più a letto, tra
gennaio e aprile, che non per le strade. I nostri signori uomini non
ci sposano forse perchè facciamo l’infermiera? — soggiunse la signora
Elena, con un placido riso. — Del resto, ho fatto volentieri il
sacrificio. Gerardo è così buono con me!

— Bugiarda! — pensò la Margherita. — Come se non si sapesse che ci ha
avuto qui tutti i giorni il De Rossi! — Hai fatto bene; — proseguì
poscia ad alta voce. — Ma speriamo che ti ricatterai della tua
reclusione in estate. Dove vai quest’anno? Io andrò a Recoaro. Ci va la
regina, e Recoaro sarà la _great attraction_ della stagione.

— Ma... — fece la signora Vezzosi, tentennando la testa — Gerardo
avrebbe desiderio di andare a Courmayeur. Egli soffre tanto del caldo!

— Io — disse la Bertini — andrò a Livorno. È il gran _chic_, e tutti mi
raccontano che l’anno scorso si sono divertiti un mondo.

— Ma, signore mie... — entrò a dire uno degli Alcibiadi. — Non si
direbbe, a sentirle....

— Che cosa? — domandò la signora Margherita.

— Che i medici non c’entrano più per nulla nell’ordinare le acque.
Una volta si andava in un luogo piuttosto che in un altro, secondo i
bisogni della salute... secondo le malattie....

— Bravo! — gridò la signora Margherita. — E voi credete alle malattie?

— Ahimè, da qualche anno! — rispose l’Alcibiade, contrito. — Io credo,
per esempio, ai reumi, e vado a Casciana.

— Vi raccomando le zanzare; — disse l’altro Alcibiade. — Io andrò a
Monsummano.

— A Monsummano! E perchè? Sareste sordo, per avventura? — domandò la
signora Margherita, che per quel giorno dava la battuta in orchestra.

— Non come voi, baronessa; — replicò l’Alcibiade secondo, torcendo
amabilmente il collo.

La signora Margherita aperse le labbra ad un sorriso e il naso ad una
delle solite espansioni concomitanti.

— Questo m’ha l’aria di un complimento: — diss’ella.

— Il cavaliere Sestavalle è sempre galante; — notò cortesemente la
padrona di casa.

— Vecchia scuola, signora mia, vecchia scuola! — disse l’Alcibiade,
ridendo.

— È la buona; — si degnò di soggiungere la baronessa.

In quel mentre fu annunziata la visita del contino Anselmi; un capo
scarico, un matto grazioso, che passava la sua vita in società come
una farfalla tra i fiori, aliando un po’ a destra, un po’ a manca,
seminando da per tutto il suo spirito facile e la sua filosofia
leggiera; l’unica che sia sopportabile in questo mondo, già così pieno
di sopraccapi, grattacapi ed altri simili rompicapi.

Ossequiata la padrona di casa, fatta riverenza alle visitatrici e
stretta la mano ai due Alcibiadi, il contino Anselmi piantò la fida
lente nell’occhiaia destra, il gomito sinistro sulla spalliera di un
seggiolone, e così prese a parlare:

— La seduta è aperta. Anzi, lo era già e non occorre più dichiararla
tale. Di che parlavano le signore? Ed è permesso ad un nuovo venuto di
dire la sua?

— Prima di tutto, Anselmi, ci direte tutte le notizie della città; —
rispose la signora Vezzosi.

— Volontieri, ed anche della campagna; — ripigliò l’Anselmi,
inchinandosi. — Ieri un terribile uragano, non preveduto dall’uffizio
meteorologico del _New York Herald_....

— Ma voi incominciate proprio dalla campagna; — notò ridendo la signora
Elena.

— È vero; rientro subito in città. La Camera di Commercio, nella
sua seduta dell’altro ieri... dovendo rispondere ad analoga domanda
del signor ministro d’agricoltura, industria e commercio.... Ma che,
signore mie? Non credono neanche conveniente d’interrompermi? Badino
bene, io non so davvero che cosa abbia deliberato la Camera, e in un
caso disperato come questo sono capace di tutto... anche d’inventare la
deliberazione.

— E la domanda del ministro; — soggiunse la signora Elena.

— Si capisce. Tanto, egli non protesterà. I ministri ne firmano tante,
di carte, senza pigliarsi il fastidio di leggerle!

— Insomma, voi non sapete nulla, Anselmi?

— Come voi dite, donna Elena. Sono nel caso di sant’Agostino. So
questo soltanto, che non so nulla di nulla. Prego adunque le signore di
riprendere la loro conversazione al punto in cui l’avevano lasciata.

— Si parlava di bagnature e d’acque termali; — disse la signora Vezzosi.

— Argomento di stagione; staremo freschi; — notò il contino Anselmi,
felice d’aver colto in aria un bisticcio.

— Sicuramente, e ci contiamo su; — rispose la signora Vezzosi.

— Ah! partite anche voi, donna Elena? Ecco una notizia.

— Che non avevate voi, Anselmi! Ma già, siete così a secco, quest’oggi,
che bisognerà darne a voi.

— Date sempre; i poveri vi benediranno. Io, del resto, non avendo
notizie, farò i commenti su quelle degli altri. E dove andrete, se è
lecito saperlo?

— Non è ancora deciso; ma credo a Courmayeur. Gerardo ne ha già parlato
tre volte, citando i nomi de’ suoi amici che andranno lassù.

— Viaggio disastroso, — osservò il contino Anselmi. — Cretini in Val
d’Aosta; valanghe più su; continuo pericolo di ribaltare.... Viaggio
disastroso! Viaggio terribile! sconsiglierò il mio amico Gerardo.

— Farete un’opera inutile; — rispose la signora Vezzosi. — Gerardo ha
cinque o sei amici che vanno a Courmayeur; tutti uomini politici....

— Ah! — esclamò Anselmi. — Non resteranno dunque tutti nella valle,
i....

— Via! — interruppe la signora Vezzosi, che vedeva già tornare in ballo
i cretini. — Un po’ di carità per gli uomini politici!

— Che vi seccheranno, donna Elena, ve lo prometto io, vi seccheranno.

— Ci vorrà pazienza; — replicò la signora Vezzosi, simulando un
sospiro. — Gli uomini hanno tutti il loro cavalluccio di legno, come
dicono gli inglesi. E chi è senza peccato scagli la prima pietra.

— Oh, la scaglio io, la scaglio io; — gridò l’Anselmi. — Degli otto
peccati capitali, proprio questo mi manca.

— È curiosa, per altro; — ripigliò la signora Elena, cercando di
ravviare la conversazione. — Si suol dire: tre italiani, tre opinioni
diverse. Ora eccoci qui tre italiane, tre amiche, e nessuna di noi
andrà dove va l’altra. Io forse a Courmayeur; Margherita a Recoaro e
l’Amalia a Livorno.

— _Variata placent_; — disse l’Alcibiade primo. — Del resto, io ne
conosco due che andranno insieme, l’Altobelli e la Salieri, a Venezia.

— Le due rosse! — esclamò la baronessa.

— Sicuro, bene osservato! — entrò a dire l’Alcibiade secondo. — Una
rossa di capegli e l’altra di carnagione.

— Si capisce allora perchè vadano ambedue a Venezia — notò gravemente
l’Anselmi.

— Sentiamo il perchè; — disse la signora Vezzosi. — Ma vi avverto,
Anselmi; non vogliamo bottate. Si tratta di due amiche. —

Il contino Anselmi chinò la testa, con aria di contrizione.

— Allora non parlo più; — diss’egli. — Se le mie oneste intenzioni sono
così neramente sospettate....

— Via, lascialo dire, povero Anselmi! — mormorò la baronessa, con
accento di preghiera. — Se no, è capace di morirne.

— Margherita intercede per voi; — riprese la signora Vezzosi. —
Parlate, Anselmi. Se sarà troppo forte, fingeremo di non avere udito
nulla.

— Di male in peggio! — gridò il contino Anselmi, con accento di comica
disperazione. — E voi credete proprio, Donna Elena, che io voglia dire
delle cose assai gravi? Venezia è stata famosa un tempo nell’arte per
una scuola di coloristi insigni; che ci sarebbe di male se le nostre
due dame più colorite andassero colà, a rinfrescare le tradizioni della
scuola? Eccovi tutto quello che io ci avevo da dire.

— Proprio tutto? Nient’altro che questo? — domandò la baronessa, con
aria d’incredulità, mista ad un pochino di disillusione.

— Nient’altro che questo; lo giuro ai Numi! — rispose il contino
Anselmi. — Ma già, capisco; questa è la sorte che tocca a tutti gli
oratori, che hanno lasciato sperar molto di sè.

— Sperare! È un po’ troppo. Noi temevamo; — osservò la signora Vezzosi.

— Risposta arguta, e m’inchino al vostro spirito, Donna Elena; —
replicò il contino. — Con voi non c’è modo di collocare una malignità.

— E che dite, signor conte, della Milani, che va invece a Tabiano? —
chiese a sua volta la signora Amalia Bertini.

— Che ne so io, signora? Ci andrà per dimagrare.

— E della Vernetti, che va in Engadina?

— Ma!.... Forse per ingrassare, con la cura del latte. Non credete voi
che ciò le farà bene?

— Se ne vanno tutte! — esclamò Alcibiade primo. — È dunque una
diserzione generale?

— È la moda, cavaliere, è la moda. Bisogna pure farsi ordinare qualche
cosa dal medico, per ordinare qualche cosa alla sarta. Si va alle acque
con una sola ricetta, che si dimentica magari alla prima stazione; ma
con una dozzina di bauli e di casse, da disgradarne una prima attrice.
Non è così, mie belle signore? Abbigliatura di mattina, abbigliatura di
pomeriggio, abbigliatura di sera; cangiare tutti i giorni, ripartire
quando si è veduto il fondo alle casse; ecco il modo di andare alle
acque e di ritrarne vantaggio. Perdonate, signora, io scherzo. La
cura si fa e riesce utilissima... a noi uomini, per cui queste cose si
fanno.

— Ah, se credete che si facciano proprio per voi! — esclamò la signora
Vezzosi, minacciando il contino Anselmi col suo ventaglio cinese.

— Sicuramente, dico per noi. Che volete, che sia per le amiche? Ma
questo non sarebbe il modo di curarle, bensì di farle morire d’invidia.
Non è vero, baronessa? Lo domando a voi, che siete annoverata
meritamente tra le stelle più brillanti del nostro firmamento. —

La baronessa rispose al complimento con un risolino delle sue labbra
sottili e con l’analoga espansione del vicino di sopra.

— Ma dite, e la Rivanera? — esclamò la signora Amalia. — Avevamo
dimenticata la Rivanera.

— La divina Rivanera! — disse l’Anselmi, con un accento che fece alzare
la testa alla signora Vezzosi.

— Parlate sul serio, Anselmi? Vi pare proprio divina?

— Signora sì, mi pare; e credo per giunta che lo sia.

— Infatti, è carina; — ripigliò la signora Vezzosi. — Una bella testa!

— Peccato che non sia un palmo più alta! — soggiunse la baronessa.

— Pazienza, Donna Margherita, pazienza! — replicò il contino Anselmi.
— Non tutte hanno la vostra bella ed elegante persona. Del resto,
la Rivanera non è piccola. Vi ricordate della fiera di beneficenza
dell’altro anno? C’era il bilico, come all’ufficio del dazio, e
il metro, come nei consigli di leva. Ci si è pesati tutti quanti
e misurati, a vantaggio dei poveri. La Rivanera pesa cinquantanove
chilogrammi e misura un metro e sessantadue, salvo errore, ma sempre
più di quel che ci vuole per assicurare un bersagliere alla patria.

— Del resto, tanto carina! — ripetè la signora Vezzosi.

— Sì, Donna Elena, è questa l’opinione di molti.

— Tutti innamorati, s’intende; — notò la baronessa, con accento
agrodolce. — Stiamo a vedere che glieli regalate tutti! Siete così
maliziosi, voi altri!

— Adagio, baronessa, vi prego. Non mi fate parlare prima che io abbia
aperto bocca. Volevo dire per l’appunto il contrario. La signora
Camilla è Rivanera di casato, ma si potrebbe chiamare più giustamente
Riva alta.

— Già, — disse la baronessa, — un metro e sessantadue, salvo errore!

— Certo, non è più alta di così; ma gli adoratori ci han fatto mala
prova ugualmente. Io, per esempio, ne conosco uno che ci ha fatto un
fiasco piramidale.

— Lo conoscete, Anselmi? Intimamente? — domandò la signora Vezzosi.

— Ve lo dica il sospiro che mi prorompe dall’imo petto! — rispose il
contino.

— Ah, povero Anselmi! Povero Anselmi! E voi certamente vi facevate
innanzi con le migliori intenzioni del mondo.

— Sfido io! Una vedova a ventitrè anni! Si va innanzi, pesciolini
fidenti, sperando sempre che la bella pescatrice abbia una rete in mano
e che voglia servirsene.

— L’avevate giudicata male; — replicò la signora Vezzosi. — Camilla è
molto fiera. Non vuol questo, perchè è troppo ricco; non vuol quello,
perchè lo è troppo meno di lei; non vuole quell’altro, perchè manca
d’idealità.... È la sua frase.

— Sarei curioso di sapere in che categoria ha messo me; — disse
l’Anselmi pensoso.

— Probabilmente nell’ultima; — rispose la signora Elena, dandogli
gentilmente la baia. — Non ve ne siete accorto, che mancate d’idealità?

— Voi mi direte quel che vorrete, Donna Elena; ma io non andrò in
collera; — disse di rimando l’Anselmi. — Vi proverò in questo modo che,
se manco d’idealità, son sempre l’ideale degli uomini di buona pasta.

— Intanto che voi distillate il vostro spirito, — entrò a dire la
Bertini, — noi non sappiamo dove andrà quest’anno la Rivanera. Un
innamorato come voi dovrebbe pure saperlo.

— Signora mia, sono un innamorato respinto, andato a male, vi prego di
rammentarlo. Che cosa volete che io sappia? Di sicuro, una dama così
piena d’idealità non può andare che in un luogo molto elevato.

— Al Monte Generoso; — suggerì Alcibiade secondo.

— O sul Davalagiri; — soggiunse l’Anselmi.

— Il Davalagiri! — esclamò la baronessa. — Che stazione di bagni è
questa mai?

— Non è una stazione di bagni, Donna Margherita. Non ci si fa altro
che la cura dell’aria rarefatta. Il luogo è in India, sulla catena
dell’Imalaia, ad ottomila metri sul livello del mare.

— Sempre lo stesso capo ameno! — disse la signora Bertini.

— Del resto, — ripigliò l’Anselmi, — la Rivanera andrà dov’è andata
l’anno scorso. _Qui a bu boira_, dice il proverbio francese. Ed essa
berrà le acque di Montecatini; o, per dire più esattamente, le berrà
lo zio, presidente e gran croce. Le acque del Tettuccio sono acque
eminentemente politiche, amministrative e giudiziarie, come il mal di
fegato che hanno la fama di guarire. A proposito, Donna Elena, perchè
non raccomanderemo le acque del Tettuccio al mio amico Gerardo?

— Per carità, non ne fate nulla. Volete mandarmi a morire dal caldo in
Val di Nievole. Meglio centomila volte Courmayeur, con le valanghe, le
ribaltature e i cretini, di cui mi parlavate poc’anzi. —

Il contino Anselmi stava per rispondere qualche altra spiritosità
delle solite; ma gli furono mozzate le parole in bocca da un atto della
baronessa, che accennava di volersene andare.

— Dunque addio, la mia bella e cara Elena; — diss’ella, abbracciando
l’amica e mettendole il naso sulla guancia. — O piuttosto, a rivederci
in novembre.

— E tu, bada a non dimenticarti di noi, a Parigi. Voglio sperare che,
se avrai un ritaglio di tempo...

— Non dubitare, avrai mie notizie. E anch’io spero di avere le
tue. —

Un nuovo bacio e sonoro chiuse il dialogo delle due svisceratissime
amiche.

Anselmi aspettava la baronessa al varco.

— Donna Margherita, — le bisbigliò, inchinandosi, con aria di
devozione, — e per me niente?

— No, — rispose la baronessa, — voi mancate.... d’idealità. —

L’Anselmi non si commosse punto di quella bottata.

— Diamine! — esclamò, stringendosi nelle spalle; — ve ne importa
proprio, della idealità? E per che farne? —

La baronessa gli rispose con un mezzo sorriso; segno che non gradiva
intieramente lo scherzo. Perciò al moto delle labbra non si accompagnò
quella volta l’espansione del vicino di sopra.

Il contino Anselmo ritornò alla conversazione, molto contento di sè.
Si contentava di poco, in verità. Ma la sua fama di bell’umore si
rassodava sempre più, e un uomo può credere di aver tutto, quando,
insieme con la gioventù, la bellezza e i quattrini, è sicuro di avere
anche la gloria.

Anch’egli era sul punto di prender commiato; ma la signora Elena,
nell’atto di rimettersi a sedere, e approfittando di un discorso
impegnato tra la signora Bertini e i due Alcibiadi, trovò il modo di
bisbigliargli, dietro la seta del suo ventaglio cinese:

— Restate, ve ne prego. —

Ad onore del contino Anselmi e della sua filosofia leggera, debbo dire
che egli non insuperbì punto punto di quell’invito confidenziale. Tra
lui e la signora Elena non erano mai corse parole infiammate, e nemmeno
galanti, oltre il limite d’uno scherzo. Ne avrebbe dette sicuramente,
se avesse potuto sperare di non dirle invano; ma, anche veduto di buon
occhio dalla signora Vezzosi, il contino aveva capito che quell’occhio
non toglieva ispirazione dal cuore. In genere, le dame non prendevano
il contino Anselmi sul serio. Egli era diventato lo schiavo del
proprio spirito, come un antico doge di Venezia della propria dignità.
Era condannato ad esser leggiero e ad esser trattato come tale. Per
compenso, gli erano lecite tutte le bizzarrìe possibili e tutte le
scappate immaginabili. Da principio, questa condizione gli aveva dato
un po’ noia, ed egli si era proposto di diventare un uomo serio e
noioso come tutti gli altri; ma andate a dirla con la natura! La lingua
era pronta e non sapeva stare alle mosse. Il contino Anselmi era andato
avanti per la sua strada, si era adattato alle miserie della propria
grandezza. Si rideva delle sue dichiarazioni, quando s’arrisicava a
farne; e allora lui le voltava prontamente in celia, si ricattava con
le arguzie, e aveva il gusto di sentirsi dire da tutte: che spirito,
quell’Anselmi! che spirito! Aggiungete che lo cercavano da per tutto,
lo volevano in ogni luogo, dame, cavalieri, ufficiali e commendatori. E
questo è come dirvi che era ben veduto anche dai signori mariti.

Or dunque, vi ho narrato come l’Anselmi non insuperbisse dell’invito.
Restava a lui di dare una pubblica ragione della sua persistenza a
restare, anche oltre i termini d’una visita, e sopra tutto di mandar
via gli altri visitatori, che, dopo l’invito della signora Elena, gli
dovevano parere altrettanti importuni.

— Mi permettete. Donna Elena, di farvi la guerra? — diss’egli, dopo
alcuni minuti di chiacchiere.

— La guerra a me? — esclamò la signora Vezzosi. — E in che modo?

— Ecco qua; persuaderò Gerardo a cangiare il suo itinerario. Appena
torna a casa, ve lo riduco io come va. Non più Courmayeur; Montecatini,
vuol essere.

— Sarebbe il caso di mandarvi via subito; — replicò la signora Vezzosi.
— Ma questo non sarebbe di buona guerra, ed io voglio darvi la prova
che non potete nulla su di lui.



IV.


Erano le cinque del pomeriggio, quando l’ultimo degli Alcibiadi si alzò
dalla poltrona e prese commiato dalla signora Elena. In casa Vezzosi
era costume di pranzare alle sei e il commendatore Gerardo soleva
capitare per l’appunto all’ora di tavola. I nostri due personaggi
avevano dunque un’ora di tempo, per chiacchierare a lor posta. Ma la
signora Elena non aveva neanche bisogno di tanto.

Rimasto solo con lei, il contino Anselmi prese posto su d’una
poltroncina accanto al sofà, si rizzò ossequiosamente sulla vita,
allungò il collo verso di lei e le disse:

— Donna Elena, eccomi qua. Che comandi avete da darmi?

— Nessun comando; — rispose la signora Vezzosi. — Mettete che io
v’abbia trattenuto per farvi far penitenza di tante chiacchiere e di
tante mormorazioni. —

L’Anselmi fece una mossa che voleva dire: non ne credo una maledetta.
Ma intanto rispondeva, con la solita galanteria:

— Dolce penitenza ad un grosso peccato. Vi avverto, Donna Elena, che
peccherò molto e spesso. —

Credete, lettori, che si sdrucciolasse finalmente nel tenero?
Disingannatevi; quella era galanteria dozzinale, semplice maniera di
discorrere. Del resto, la signora Elena non fece caso del complimento,
e rannicchiatasi contro la spalliera del sofà, mentre aveva l’aria di
guardare le figurine del suo ventaglio cinese, così disse brevemente
all’Anselmi:

— Conoscete Aldo De Rossi?

Il contino trasse indietro il collo, anzi il busto senz’altro, e guardò
trasognato la sua bella vicina.

— Donna Elena, — le disse, dopo un istante di pausa, — voi mi parlate
ora come parlò un giorno Domineddio al Diavolo, «Conosci tu il mio
servo Giobbe?» Sì, signora, vi risponderò io, lo conosco. E voi?

— Finiamola, con le vostre scioccherie! — replicò ella stizzita.

— Ma, signora... — ribattè l’implacabile Anselmi. — Non lo avete
indovinato? Gli è per buscarmi da voi un’altra penitenza.

— Voi sapete pure che non c’è nulla di nulla; — continuò la signora
Vezzosi, senza por mente alla risposta.

— Che fretta, Donna Elena, che fretta! Io non avevo ancora toccato il
tasto delicato.

— Perciò bisognava fermarvi al primo cenno, al primo sospetto di un
vostro giudizio temerario. Con voi è necessario difendersi prima di
essere attaccati, e mettere a dirittura i puntini sugli i. Di grazia,
Anselmi, se ci fosse qualche cosa, vi avrei io trattenuto qua, per
parlarvi di lui?

— Eh! — rispose il contino, crollando la testa. — Potrebbe anche essere
una finezza di seconda intenzione. Ci sono delle donne così astute! Del
resto, non negherete che Aldo vi fa la corte.

— A me?

— Sì, una corte spietata. È sempre qui, e mi meraviglio che non ci sia
stato anche oggi. Infine, non va a vedere le altre dame della città
così spesso come viene da voi.

— Apparenze! — rispose la signora Vezzosi. — Le apparenze
ingannano. —

E perchè il contino Anselmi seguitava a tentennare il capo, la signora
Elena aggiunse:

— Non mi credete? Vi dò la mia parola di onore.

— Quand’è così, — disse l’Anselmi, «lasciando l’atto di cotanto
uffizio,» — non oso più contraddirvi. La vostra parola d’onore mi rende
l’uomo più serio della cristianità. Parlate, signora.

— Desidero sapere una cosa da voi; — ripigliò essa.

— Intorno al De Rossi?

— Intorno a lui.

— L’ho poco in pratica, Donna Elena. Ma infine, se le mie poche
cognizioni possono servirvi in qualche modo, son qua.

— Si tratta d’una cosa da nulla; — proseguì la signora; — d’una cosa
che si nasconde male fra tanti uomini, tutti intenti a scoprire i
segreti dei loro amici e rivali. Insomma, desidero sapere da voi di che
donna è innamorato il signor De Rossi. —

Il contino Anselmi diede un sobbalzo sulla poltrona.

— Nientemeno! — esclamò. — E sono io che devo... siete voi che
volete....

— Badate, — osservò la signora Vezzosi, — ora siete sul punto di
passare per un povero di spirito.

— È vero, è vero! — gridò l’Anselmi, cercando di rimettersi in sella. —
Ma vedete, signora; la cosa, quando non ci sto attento, mi accade così
spesso! È la natura mia; ero nato imbecille. Ma facciamo di rialzarci
un pochino agli occhi vostri. Vi risponderò con tutta sincerità che
io non tengo dietro al signor Aldo De Rossi. Non mi è mai capitato
di osservarlo, tranne in casa vostra. E poichè credevo che fosse
innamorato di voi....

— Ab, già, dimenticavo quest’altra invenzione, — disse la signora
Elena. — Ma io vi ho detto, e voi lo crederete, spero, che egli non è
innamorato di me, e che io non sono innamorata di lui. Gli sono amica,
ecco tutto; e sono curiosa....

— Ecco il resto; — aggiunse il contino Anselmi, che non sapeva
rinunziare al gusto di collocare un’arguzia.

— Certamente, ecco il resto; — ripigliò la signora, ridendo a suo
malgrado. — E siccome ho gran timore che il signor Aldo De Rossi sia
invaghito di qualche sciocca....

— Che ve ne importa, Donna Elena? — interruppe l’Anselmi. — Per solito,
la donna che piace non è mai sciocca; anzi, sarei per dire che è un
Pico della Mirandola in gonnella, se non temessi di lasciar credere che
è sapiente e noiosa per giunta.

— Come voi, adesso, non è vero? — ribattè la signora Vezzosi. — State
a sentire. Anselmi, e vi spiegherò tutto, dall’a fino alla zeta. C’è
una bellissima fanciulla, che ama il signor De Rossi. Io conosco i
segreti di quel giovine cuore e i tesori della sua anima innocente. È
ben detto, così? Dunque, come intenderete, speravo un matrimonio, che
avrebbe fatto molto piacere ad una famiglia, che è in strettissima
relazione con Gerardo e con me. Non andate a indagare, ve ne prego;
non sono segreti da farne argomento di chiacchiere e di mormorazioni,
sul genere delle vostre. Vi ho data una prova di stima, accennandovi
semplicemente la cosa; siatene degno.

— Ne sarò degno; — rispose contrito l’Anselmi.

— Dunque, state a sentire. Sarebbe un matrimonio conveniente sotto
tutti gli aspetti. A Gerardo piace; io ne sarei contentissima. Il
signor De Rossi, sulle prime, pareva accostarsi alle nostre idee. Se ne
è parlato più volte, a questo medesimo posto, — soggiunse la signora
Vezzosi rincalzando la bugia con tutte le più audaci invenzioni, —
e speravo già d’essere riuscita a persuaderlo. Ma ecco che, sul più
bello, venuti al punto di conchiudere, il signor Aldo mi si raffredda,
cerca di guadagnar tempo, ha paura di fare il primo passo; insomma,
che vi dirò? vorrebbe rimandare il principio dei negoziati alle calende
greche.

— Oh diamine! — esclamò il contino Anselmi. — E voi dite, signora, che
sulle prime pareva disposto?

— Dispostissimo. Voleva sapere molte cose; ma infine, anche la
sua curiosità, troppo legittima in un caso come questo, faceva
testimonianza di una certa propensione.

— È grave; — ripigliò l’Anselmi. — Non potrebbe darsi il caso che,
pigliando lingua da altri, avesse scoperto qualche amoruccio della
ragazza? Ce n’hanno sempre qualcheduno, queste benedette fanciulle! Son
diventate tanto precoci, a questi soli di libertà!

— No, la ragazza esce a mala pena di collegio.

— O qualche difetto, qualche imperfezione fisica?

— È un portento di bellezza.

— Che Aldo cerchi una dote più vistosa? Gli uomini ne hanno,
qualche volta, di queste malinconie! E se la ragazza non fosse ricca
abbastanza, per determinare la sua scelta?

— È ricca come lui, e alla morte dei parenti lo sarà anche più di lui.
Si convengono per ogni verso.

— Allora, — disse il contino, assumendo un’aria grave, — non c’è più
che una supposizione da fare. Il signor De Rossi s’è innamorato di
un’altra.

— Ve lo avevo detto, io; — rispose la signora Elena. — Ma di chi? Come
saperlo? Questo è il difficile.

— Non tanto, signora, non tanto.

— Ah bene, aiutatemi dunque a trovare.

— È presto fatto. Il signor De Rossi s’è innamorato... di voi. —

La signora Vezzosi fu per andare in collera davvero.

— Calma! calma, Donna Elena, e statemi a sentire; — proseguì il
contino Anselmi. — Credete proprio possibile che si stia impunemente
a ragionare di un’altra donna, accanto ad una donna come voi? Gli
dipingevate le bellezze, gli snocciolavate le grazie e tutti gli altri
pregi fisici e morali di una assente; intanto, quei pregi, quelle
grazie, quelle bellezze, gli si mostravano presenti e irresistibili
nella divina oratrice. Ciò si è veduto altre volte nella storia.
Francesca da Polenta non amò Paolo Malatesta, che andava ad impalmarla
per conto di suo fratello Gian Ciotto? Non ho più in mente i romanzi
di Alessandro Dumas; ma mi pare che ci sia un caso somigliante anche
nella storia di Francia. Che meraviglia, adunque, se un uomo viene ad
intrattenersi così lungamente con voi, e, scambio d’intenerirsi per
una donna lontana di cui gli parlate con tanta eloquenza, si infiamma
lentamente ma profondamente di voi? —

La signora Elena era rimasta pensierosa. — Se fosse vero! — andava
dicendo tra sè. Intanto il contino Anselmi, pigliando ansa da quel
silenzio, proseguiva:

— Ecco il vostro errore, Donna Elena. Si assumono degli incarichi
superiori alle forze proprie e a quelle di chi ci ascolta. Si manda
la paglia ambasciatrice al fuoco, per dirgli: tu brucerai l’acqua. E
il fuoco trova che è più comodo, più pronto, e sopra tutto piacevole,
divorarsi la paglia. Scusate il paragone, non m’è venuto altro alle
mani. Ed anche voi, abbiate pazienza, perchè assumervi di questi uffici
pericolosi? Alla vostra età! Con quel viso!

— Tutte le età son buone, per fare un’opera buona; — ribattè la signora
Vezzosi.

— Giusto! — replicò l’Anselmi. — E vedete come la cosa vi riesce! Aldo
non vuol saperne della vostra protetta.

— E voi chiacchierate, Anselmi, senza venire a capo di nulla.

— Dio buono, se non so nulla! Ma vediamo. Donna Elena. Voi non siete la
fiamma del signor De Rossi. Ne siete ben certa?

— Certissima. Una donna indovina sempre queste cose, anche quando
l’uomo non le ha ancor dette a sè stesso.

— È verissimo. Cerchiamone dunque un’altra. Passiamo in rassegna le
dame di nostra conoscenza. Le rassegne son sempre di moda, dopo quella
delle navi, che si legge in Omero. Chi sospettate voi?

— Ma.... non saprei.... Varii nomi mi son passati per la fantasia; —
disse la signora Vezzosi. — Che direste voi di Margherita?

— Quale Margherita?

— La baronessa. Non è la Margherita per eccellenza? —

Il contino Anselmi si trasse indietro con aria di sommo stupore.

— Donna Elena! — esclamò. — Vorreste voi canzonare il vostro povero
servo?

— E perchè, di grazia? Non è Margherita l’elegantissima tra le nostre
signore?

— Sia pure; ma, a questi patti, Aldo De Rossi farebbe meglio a
innamorarsi a dirittura della sarta. Che vi pare? Un uomo di garbo
innamorarsi del contenente? Eh via!

— Ma il contenuto.... — si provò a dire la signora Vezzosi.

— Il contenuto! — ripetè l’Anselmi. — Il contenuto è così poca cosa! Io
non ci trovo di... come direste voi? Di consistente? di palpabile? Io
non ci trovo di palpabile che il naso.

— Esagerazioni! — rispose la signora Elena. — Esagerazioni di quelle
che fate sempre voi. Quando vi correggerete di questo brutto vizio?

— Avete ragione, Donna Elena, mi correggerò. Ma desidero che incominci
la baronessa. Voi gli siete amica; avete influenza sull’animo suo.
Ditegli, ve ne prego, di rinunziare a quel naso. —

Con quel capo scarico dell’Anselmi non c’era verso di vincerne una. La
signora Vezzosi si appigliò al partito di ridere.

— Dunque, la Corniani no; — diss’ella, abbandonando il naso di
Margherita alle celie del contino. — Vediamo l’Altobelli.

— Quella dei capelli rossi! — esclamò l’Anselmi. — In verità, non siete
amica al signor De Rossi, se gli attribuite un gusto così bizzarro.

— Lasciamo l’Altobelli. Che ve ne pare della Vernetti?

— È sul fare della Corniani.

— La Milani, dunque. Eccone una che non è sul fare della Corniani.

— Giustissimo; essa è sul fare delle corniòle. Perchè non piuttosto la
Rivanera?

A quel nome, buttato là d’improvviso, la signora Elena diede un
sobbalzo, come se avesse ricevuto una scossa elettrica. Perchè? ve lo
dico subito. Generalmente, le cose più strane comportano (per servirmi
di un verbo filosofico) una spiegazione semplicissima. Le altre
donne le aveva nominate lei; la Rivanera, invece, l’aveva ricordata
lui. Perciò la signora Vezzosi potè credere lì per lì che il contino
Anselmi ci avesse qualche particolare, ricordato in quel momento, per
giustificare la citazione di un nome anzi che di un altro. Infatti,
ella fu pronta a domandargli:

— Che cosa sapete? Ditemi tutto.

— Non so nulla, io; — rispose l’Anselmi. — Non le passavamo noi tutte
in rassegna? —

La signora Vezzosi non pose neppur mente a quella circostanza
attenuante.

— Ci va forse in casa? — ripigliò.

— Lo ignoro. Io non mi arrisico mai in quei paraggi. È così noiosa la
società del presidente gran croce!

— Anselmi! — disse la signora Vezzosi, rimettendosi un tratto dalla sua
commozione. — Lo sapete, il proverbio: non c’è rosa senza spina. E chi
vuole la rosa....

— Deve adattarsi alla spina, lo capisco; — rispose l’Anselmi. — Ma chi
non vuole a nessun costo la spina rinunzia volentieri alla rosa.

— È strano! — esclamò la signora, con un accento di sottile ironia. —
Vi piace tanto la Rivanera, e non sapete fare un piccolo sacrifizio ad
una così grande bellezza!

— Grande, sicuro; ma è una bellezza vedova; alla larga. —

La signora Vezzosi alzò il ventaglio in atto di minaccia.

— Signor Anselmi, — diss’ella, — sapete che non siete punto galante,
quest’oggi? Un bell’omaggio lo rendete, alle donne! Quando son libere,
le fuggite.

— Abbiate pazienza, Donna Elena, son fatto così. Del resto, sono così
poco pericoloso, che il mio omaggio alle dame.... non libere, non deve
far paura a nessuno. Si sa, ogni donna ha bisogno di un uomo, come la
vite di un sostegno. Quando la vite perde il palo, il savio agricoltore
si affretta a dargliene un altro. Io.... — soggiunse con tragico
accento il contino Anselmi, — io non sarò quel palo. E son certo che
anche il signor De Rossi la pensa così.

— Vi ha mai manifestate le sue opinioni in proposito?

— No, ma un uomo giunto alla sua età, cioè a dire con tanti anni di
navigazione, e per conseguenza passato per tante burrasche, o sarebbe
naufragato prima, o non ci casca più. Questa è la mia opinione. —

La signora Vezzosi stava per rispondere, quando si udì un rumore di
passi nell’anticamera.

— Ecco Gerardo; — diss’ella. — Son già le sei!

— Signora, ecco un’osservazione e un accento molto lusinghieri per me.

— Ma sì, ma sì! — rispose la signora Vezzosi, sorridendo amabilmente. —
Mi avete fatto volare il tempo, con le vostre follie. —

La bussola si aperse ed entrò nel salotto il commendatore Gerardo
Vezzosi. Non meritava il suo cognome, in verità, ma non poteva neanche
dirsi un uomo antipatico. Portava gli occhiali d’oro e la barba corta
intorno al mento, per somigliare al conte di Cavour, buon’anima sua;
ma non ne veniva a capo. Era ancora troppo smilzo, per essere tolto in
iscambio. Era stato deputato, tant’anni addietro, e si parlava sempre
di lui come di un senatore possibile. Egli, del resto, aspettando
la nomina, ne aveva già l’aria. In gioventù peccava di ruvidezza,
e l’ingratitudine degli elettori e qualche fiasco elettorale,
sopravvenuto a renderla più solenne, non avevano contribuito a farlo
più maneggevole. Ma da qualche anno, e per il solo fatto che i giornali
lo avevano preconizzato senatore in quelle loro liste fantastiche da
cui suol essere preceduta una infornata ministeriale, il commendatore
Gerardo era diventato uno zucchero, un marzapane, sorrideva a tutti,
dava volentieri del tu e versava anche più volentieri nel seno dei
conoscenti la piena delle sue idee sulla politica estera. Come vedete,
faceva il suo mestiere di candidato; cosa che non disdisse neppure a
Cesare, che era Cesare e aveva domate le Gallie.

— Gerardo, — gli disse il contino Anselmi, stendendogli la mano, — son
qui a fare una guerra atroce alla tua signora.

— Ah sì? — fece il commendatore sorridendo benevolmente. — Speriamo
almeno che avrà saputo difendersi.

— Non ne dubitare. È una cittadella. Ed io, poichè tanto le son giunti
i soccorsi, levo prudentemente l’assedio. —

Con quest’ultima arguzia il contino Anselmi prese commiato.

— Meriteresti che ti si facesse prigioniero e che ti si trattenesse a
pranzo; — replicava intanto il commendatore.

— Grazie, grazie di cuore; ho un impegno; — disse l’Anselmi.

E stretta gentilmente la mano alla signora Elena, e dato un crollo
con britannica vigoria alla destra del suo amico Gerardo, il contino
Anselmi si avviò verso l’uscio.

— Diamine! Diamine! — borbottava egli tra sè, nell’atto di scendere le
scale. — Una lo vuole e l’altra lo vorrebbe. Il De Rossi è nato sotto
buona luna. Con quell’aria da scimunito! Che cosa ci trovino le donne
in questi tipi, io non lo so. Ma già, — conchiuse filosoficamente,
mettendo il piede in istrada, — per piacere a loro, un uomo non ha da
essere solamente scimunito; deve anche parerlo. —



V.


Aldo De Rossi uno scimunito? Sissignori, così lo aveva giudicato
l’Anselmi, e tale doveva essere per molti, se non a dirittura per
tutti.

È difficile, molto difficile, che una donna sia bella agli occhi
di un’altra; ma è anche più difficile che un uomo vi ammetta senza
contrasto e senza restrizioni la superiorità d’un altr’uomo. In genere
non si bada a queste demolizioni scambievoli dei signori uomini, poichè
in società si bada molto alle donne; ma la cosa è proprio così, come
ho l’onore di raccontarvi. Il lievito dell’invidia s’impasta benissimo
con questa farina del diavolo che è la natura umana, e le anime
refrattarie son poche. Così avviene che un uomo non sia gabellato per
sapiente, che a patto di essere riconosciuto pedante e noioso, o che
non sia annoverato tra i belli, che a patto d’essere confinato tra gli
sciocchi. Si ammette questo, ma si aggiunge sempre la nota in margine;
ad una qualità, riconosciuta a denti stretti, risponde sempre un grosso
difetto, che deve guastarla senz’altro.

Le donne, per solito, non danno retta a questi giudizi mascolini, o li
accettano soltanto per dissimular meglio una loro propensione, che non
mette conto manifestare alle turbe. E nello stesso modo gli uomini non
accettano che _pro forma_ il giudizio della signora Ipsilonne sulla
signora Zeta, facendo dentro di sè tutte le possibili e immaginabili
restrizioni mentali. Donde la conseguenza naturalissima che uomini e
donne s’ingannino a vicenda, col miglior garbo del mondo.

O non sarebbe meglio dire alla libera quel che si sente? No, lettori
dell’anima mia; la società civile ha mestieri di questi giuochi
innocenti. Non è neanche vero, come certuni pretendono, che tutti
capiscano lo scherzo. I dolci di sale non mancano mai, e c’è sempre il
gusto di tirare qualcheduno dalla sua. Poi, il vivere in società gli è
come il destreggiarsi in diplomazia. Non si ha da dire mai la verità.
Capiscano pure gli avversari qual ragione vi fa parlare in un modo o
nell’altro, e sempre contrariamente alle opere vostre; negando oggi,
potrete in ogni occasione mantellarvi della vostra innocenza.

Aldo De Rossi, battezzato dal contino Anselmi con l’epiteto di
scimunito, non rendeva pan per focaccia a lui, nè ad altri della sua
risma. Apparteneva al numero di quei pochi che non si risciacquano mai
la bocca dei torti e dei difetti di nessuno, e che, quando possono,
o se ne ricordano, rendono giustizia a tutti. Egli faceva anche di
più, e questo era un difetto suo; si esagerava facilmente i meriti di
tutti. Avrete già capito di qui che Aldo De Rossi pigliava ombra d’ogni
più piccola cosa e in ogni rivale assiduo vedeva un rivale fortunato.
Innamorato, come possono esserlo soltanto certi caratteri malinconici
e chiusi, che ardono e si consumano da sè come la lampada dei
sepolcri (vecchia lampada, ti rimetto io, dopo tanti anni d’ingiusta
dimenticanza, all’onore del mondo), Aldo si struggeva di vedere tanti
farfalloni intorno alla donna amata, e s’immaginava d’esser l’ultimo,
anzi peggio che l’ultimo, nelle grazie di lei.

Nè senza un po’ di ragione, in verità. La dama era tanto cortese, tanto
umana, tanto facile dispensiera di vezzi alla moltitudine de’ suoi
adoratori, che Aldo De Rossi giunse fino a pensare d’essersi innamorato
d’una creatura vana, come ce ne son tante, e in forma d’angioli, sotto
la cappa del cielo. Immaginate come ne soffrisse. Ma non c’era rimedio,
poichè il male era fatto, e Aldo De Rossi era uno di quei caratteri
intieri e diritti, che, una volta avviati, non tornano più indietro.

Intanto egli si trovava a mal partito, e avrebbe potuto dire con Dante:
«Io sono tra color che son sospesi.» Non dava un passo indietro, ma non
ne faceva uno avanti; e quella incertezza dolorosa gli toglieva, non
solo la serenità dello spirito, ma anche l’uso della parola. Intendo
l’uso vero e proprio della parola, che è stata data all’uomo per
dissimulare il pensiero; chè, quanto a dire buon giorno, buona sera
e tutte l’altre frasi di prima necessità, Aldo De Rossi ci reggeva
ancora. A farvela breve, ci aveva l’amaro in corpo; qual meraviglia
se non poteva dar fuori il dolce? Ma il peggio era questo, che egli,
sempre così torbido e muto accanto alla donna amata, diventava libero,
sciolto, perfino arguto, con tutte le altre. Perchè non c’era solamente
la signora Vezzosi, che avesse i cavallereschi omaggi del signor Aldo
degnissimo. Le necessità del racconto mi obbligano a non presentarvene
che una; ma in verità ce n’erano parecchie. E tutte riconoscevano in
Aldo De Rossi un compito cavaliere; fors’anche qualcheduna, oltre la
signora Elena, avrebbe gradita una corte meno superficiale e generica.

Sempre così, non è vero? Si ha presso questa o quella delle proprie
conoscenze la giusta misura di quel che si vale; ma si va al
cospetto di una donna a cui si vorrebbe far atto di vassallaggio e di
sudditanza, a cui frattanto si scocca un inno in un’occhiata, un poema
in una stretta di mano; e si sente subito un gran freddo; l’inno si
gela a mezz’aria; il poema resta inedito _in pectore_; ci si ritrova
piccini piccini, ed anche passabilmente ridicoli. Là, proprio là,
dove si voleva essere qualche cosa, con l’onesto desiderio di offrire
qualche cosa in omaggio di leale servitù, non si è, non si vale, non si
conta più nulla.

Una sera, non reggendo più a quel trattamento, che si era forse anche
un po’ meritato col suo umore scontroso, prese di schianto il cappello.
Lo prese nel senso figurato e nel proprio, e se ne andò dalla casa
della donna amata; un’ora dopo che c’era entrato, e col proposito di
restarci per tutta la sera! Il poveretto aveva centomila diavoli in
corpo e andò girelloni per le vie della città, senza sapere che si
facesse, proprio alla guisa dei matti. In uno di quei lucidi intervalli
che occorrono nelle pazzie più acute, come le radure nei boschi più
folti, Aldo De Rossi riconobbe il palazzo in cui abitavano i Vezzosi;
vide lume dalle finestre del salotto della signora Elena, e si ricordò
che, dopo quella tale conversazione, in cui le aveva manifestato
l’animo suo, non era più stato a farle visita.

Era una scortesia, dopo la gentile profferta che la signora Elena gli
aveva fatta, di aiutarlo in ogni occasione. Aldo pensò allora che la
sua serata era andata a male. Abitudini di caffè, o d’altri ritrovi
mascolini, non ne aveva da un pezzo. Perciò, soccorrendo la ragione del
caso, che è spesso la ragione determinante delle azioni umane, infilò
il portone e salì dalla signora Elena.

Anche in casa Vezzosi c’era conversazione. Il commendatore Gerardo
faceva la sua partita con una mezza dozzina di uomini gravi. La
signora Elena, la commendatrice, stava a chiacchiera con gl’inevitabili
Alcibiadi, con qualche Socrate sperso e con due o tre dame della sua
corte. S’intende che erano tutte meno belle di lei; che altrimenti
Aspasia non le avrebbe sopportate.

Aldo De Rossi ha accolto come un Pericle.

— Ah, siete qui, voi? Che miracolo è questo?

— Donna Elena, non è un miracolo. Dite piuttosto il desiderio di
ossequiarvi.

— Lasciamo andare i complimenti. Vogliamo notizie del mondo. Siete
l’ultimo arrivato e dovete portarcene il fior fiore. Ecco qui il
cavaliere Sestavalle, il quale pretende che il matrimonio della
Morandini sia andato a monte.

— Il matrimonio si farà; — rispose Aldo De Rossi, con una sicumèra che
non era rincalzata dal menomo grado di certezza.

— Scusate, De Rossi, — entrò a dire Alcibiade primo, che era, come
sapete, il cavaliere Sestavalle, — io ripeto ciò che m’ha detto il
Cusani, che è lo zio materno della sposa.

— Non vuol dir nulla; — replicò Aldo De Rossi, con la medesima
asseveranza; — vedrete che il matrimonio si farà ugualmente. Lo sposo
è innamorato; la sposa è deliberata di entrare in convento, se non le
dànno il Revelli. O il Revelli, o la clausura. Che volete di più?

— Signor De Rossi, — rispose l’Alcibiade, inchinandosi, — voi siete
meglio informato di me.

— Non vorrei farvi dispiacere, — disse Aldo, inchinandosi a sua volta,
— ma questa è la verità. Un forte amore deve passare avanti a tutte
le quistioni di dare e avere, che inventano i signori babbi, per
tormentare i poveri cuori. In fin de’ conti, non sono mica i babbi che
hanno da sposarsi, ed io non capisco perchè s’impuntino a voler fissare
i termini di una felicità che essi non hanno a godere. Una sola cosa
è vera, una sola cosa trionfa di tutti i calcoli umani; l’amore. Il
quale, poi, — soggiunse Aldo De Rossi, mutando tono con una facilità
straordinaria, — ci conduce a fare tutte le più grandi sciocchezze del
mondo. Già, incominciamo a dire che spesso si crede di amare e non si
ama. Qualche volta avviene di cedere ad un movimento di stizza, e di
procacciarsi un inferno in questa vita, peggiore di quello che ci è
minacciato nell’altra. Auguro agli sposi di amarsi davvero e di non
dover finire che in purgatorio. —

Aldo De Rossi seguitò un bel tratto su questo tono, senza neanco sapere
che diavolo dicesse. Era maravigliato dentro di sè d’aver buttata là
con tanta sicurezza una bugìa di quella fatta, e voleva affogarla in
un mare di parole, come se ciò potesse farla dimenticare all’udienza. E
tirò avanti in quella forma, finchè lo lasciarono dire.

— Infine, — proseguiva, — che cos’è l’amore? Un inganno scambievole. Ci
si avvede poi che uno ci ha messo troppo del suo, e l’altro, o l’altra,
ci ha messo troppo poco. Ora, signore mie, il troppo, è come il troppo
poco; almeno, per ciò che risguarda gli effetti. Il troppo è un errore.
Dio vi salvi dagli uomini che amano troppo, perchè essi seguono un
falso indirizzo della loro fantasia, come chi sogna ad occhi aperti.
E quando finalmente essi vengono a pensarci su.... Perchè, io reputo
necessario avvertirlo, gli uomini lo hanno sempre, il momento in cui
tornano a ragionare; e quando essi vengono a pensarci su, si avvedono
di non essere nel vero. A certe altezze non si può stare; vi colgono le
vertigini e si casca giù. Ma perchè l’altezza non è qui che un sogno,
la cascata non è altro che un risveglio improvviso. Ed è un brutto
risveglio, signori miei, quando si riconosce d’aver voluto incarnare
il proprio sogno in una persona viva, la quale, poverina, non poteva
sopportare, con le sue spalle delicate e bianche, un peso così grave.

— Dio! Come cascate anche voi, signor De Rossi! — notò una delle
sue ascoltatrici. — Avevate cominciato con un poema e finite con una
satira.

— Signora mia, la farsa non viene, di solito, dopo la tragedia? Io
seguo l’uso. La vita è una varietà. E se permettete, poichè la parola
vi sembra amara, passerò alle note musicali, che non dicono nulla, o
soltanto ciò che si vuole. —

Il pianoforte era vicino, e, con quella volubilità nervosa che avete
già notata nel suo discorso, Aldo De Rossi andò a sedersi davanti
alla tastiera. Non era un Liszt, nè un Rubinstein, credo necessario di
avverticene; ma suonava abbastanza bene, per non lacerare a dirittura
gli orecchi e per rendersi utile alla società, attaccando per uso
altrui il _valtzer_ o la quadriglia che egli non voleva ballare.

Per quella volta, non essendo il caso di far ballare nessuno, Aldo De
Rossi attaccò un motivo del _Rigoletto_, e proprio quello che mette le
donne a raffronto con le piume.

La signora Elena capì (che cosa non capiscono le donne?) che spirava un
vento di scirocco, e che il De Rossi aveva perduta la tramontana. Ebbe
compassione di lui, e, appena le venne fatto di trovare un pretesto, si
mosse dal suo posto per andare verso il pianoforte.

— Orbene, — diss’ella, passando accanto al De Rossi, — voi non siete
contento, signor Aldo?

— Dite pure che sono triste; — rispose il De Rossi, continuando a
suonare.

— Vi va sempre male?

— Malissimo.

— Vi ho promesso di aiutarvi; — ripigliò la signora. Ditemi il
nome. —

Aldo guardò la signora Elena e stette zitto.

— Ho cercato di scoprir terreno, — proseguì ella, con grande sincerità,
— e non ci sono riescita. Non avete fiducia in me, signor Aldo?

— Ne ho molta; — rispose il giovine; — ma chiedere il soccorso di una
donna....

— Non si tratta di chiedere; — interruppe ella, — si tratta di
accettare.

— Orbene, anche l’accettare non va.

— Perchè? Una donna può saperne, in queste cose, più di voi. Chi sa poi
che non v’inganniate, disperandovi così!

— Non mi dispero, signora. So già quel che mi tocca.

— Ma infine, questo nome, non è possibile saperlo?

— Ve lo dirò.... più tardi. Perdonate!

— Sarà troppo tardi, allora; — replicò la signora Vezzosi.

Aldo De Rossi non rispose più nulla, e affogò un sospiro, che gli
esciva dal petto, in un diluvio di note.

Egli, come vi sarà facile intendere, si vergognava di dover mettere la
sua causa nelle mani di una donna. E di qual donna, poi! Per l’appunto
di quella che gli aveva lasciato capire tante cose, e a cui aveva
detto con brutale schiettezza: ne amo un’altra. Aggiungete che Aldo De
Rossi sentiva come un rimorso di quella sincerità, che non era neppur
necessaria, poichè egli avrebbe potuto benissimo cavarsi d’impiccio
con uno scherzo, fingendo, alla disperata, di essere canzonato dalla
signora Vezzosi. E come mai aveva potuto osar tanto, a rischio di
offendere il suo amor proprio? Ma già, egli era un ragazzo così fatto;
quando sentiva di amare una donna, non poteva simulare tenerezza
per un’altra, e gli mancava la prontezza di spirito per girare le
difficoltà di un dialogo condotto agli estremi del sì o del no.

La signora Elena non istette a domandargli più altro e si allontanò dal
pianoforte con aria abbastanza sostenuta. Aldo pensò di averla offesa,
e perdette il filo della suonata. Perciò, dopo aver annaspato per due
o tre minuti sulla tastiera, si tolse di là e andò a sedersi presso
le dame. Ci erano sulla tavola parecchi giornali illustrati; ne prese
uno e cominciò a meditare su d’una scena più o meno autentica della
spedizione inglese nell’Afganistan.

La conversazione si reggeva in quel mentre per merito degli Alcibiadi,
che in caso simile facevano uffizio di Telamoni. Lo sapete pure, si
chiamano Telamoni quelle atletiche figure di marmo che reggono le
travature e i cornicioni delle fabbriche. Se avessi detto Cariatidi,
mi sarei fatto capire anche meglio, perchè infatti, in società, certi
personaggi noiosi si chiamano per l’appunto Cariatidi. Ma le Cariatidi
son femmine, e i Telamoni son maschi. Diciamo dunque Telamoni, tanto
più che io sto per presentarvi il signor Silvestro Caramelli, Telamone
di primissima forza, entrato allora nel salotto della signora Vezzosi.

Il signor Silvestro Caramelli non va descritto con troppe parole. Vi
basti sapere che era vecchio, così vecchio da far venire la voglia
di domandargli notizie del patriarca Matusalemme. Per altro, sempre
diritto come un fuso, con tanto di solini insaldati, all’inglese;
sempre in cravatta bianca ed abito nero, e sempre a balli, a teatri, in
conversazioni e dovunque si radunasse la miglior compagnia. Aggiungo
che non istava mai fermo in un luogo. Aveva fatto il farfallone in
gioventù e seguitava a farlo in vecchiaia; ma non più per corteggiare
le dame, e sfrombolare a tutte il medesimo complimento, studiato di
prima sera; sibbene per raccontare in casa Ipsilonne il fatterello
udito poc’anzi in casa Zeta, e far girare in tal guisa prontamente,
per tutte le conversazioni della città, una notizia, che, senza di lui,
avrebbe stentato tre giorni, fors’anco una settimana, a penetrare nel
gran regno delle chiacchiere. Potete immaginare come una simile qualità
lo rendesse prezioso. Era il gazzettino dei salotti, e dove non lo si
vedeva ancora, lo si aspettava con una certa ansietà.

— Bravo Caramelli, avete fatto bene a venirmi a vedere; — disse la
signora Elena, stendendogli la mano. — Un po’ tardi, per altro!

— È vero, ma ho già fatto due visite, stasera; — rispose il Telamone. —
Sono stato dalla Vernetti, che ha la cognata a letto, con la sua solita
emicrania. Poi dal presidente Roberti che si dispone a partire per le
acque, insieme con la nipote. Oh, buona sera, De Rossi; — soggiunse,
vedendo Aldo seduto lì presso. — Quantunque non sarebbe guari
necessario, poichè ci siamo lasciati poc’anzi.

La signora Vezzosi diede una sbirciata al De Rossi, che si era turbato
e involontariamente alzava gli occhi verso di lei.

— Ma sapete, — diss’ella, volendo averne lo intiero, — che siete due
amici preziosi! Eravate ambedue dalla bellissima Camilla e siete venuti
a finire la serata da me! Ciò merita una lode particolare.

— Signora, — rispose il Caramelli, facendo la ruota; — per nessuna cosa
al mondo avrei voluto mancare al vostro tè, che è come dire alla dolce
abitudine di farvi la mia corte.

— Grazie! Il complimento è gentile come il vostro pensiero; — disse la
signora Vezzosi. — Vedete il vostro compagno di viaggio. Egli ha avuto
come voi il pensiero gentile, ma non mi ha detto il complimento. —

Aldo De Rossi, tirato in ballo a quel modo, alzò la testa e balbettò
alcune parole che non mette conto ripetere.

Di grazia, lettori miei, che cosa avrebbe potuto egli rispondere? Che
cosa avreste risposto voi, nel suo-caso? Forse a un dipresso così: —
Signora Elena, io non potevo schiccherarvi un complimento, sul fare di
quello del signor Caramelli, perchè dianzi, quando son capitato nel
vostro salotto, voi non mi avete dato occasione di raccontarvi dove
fossi stato e donde venissi. Al signor Caramelli è venuta la palla al
balzo, perciò egli ha potuto dirvi da che casa tornava, ed aggiungere
(che Dio glielo perdoni) d’avermi trovato in casa del presidente
Roberti. Voi gli avete detto allora.... quel che gli avete detto, ed
egli ha potuto rispondervi quello che v’ha risposto, non una parola di
più, non una di meno. —

Ma vedete un po’ che lungo discorso sarebbe riescito per una cosa da
nulla. Credete a me, lettori umanissimi; era meglio rispondere poche
parole senza sugo, come fece per l’appunto il signor Aldo De Rossi.

Le balbettò, come vi ho detto. Ma non balbettò, rispondendo per lui, il
signor Silvestro Caramelli che era in vena di cortesie.

— Il signor De Rossi ha fatto meglio; — osservò il Telamone. — Mi ha
preceduto da voi. Benedetta gioventù! Ma io, pur troppo, non ho le sue
gambe. A cinquantott’anni non si fanno più miracoli.

— Già cinquantotto? — esclamò, con la più candida delle ipocrisie, la
signora Vezzosi. — Per caso, signor Caramelli, non ve ne aggiungete
qualcheduno?

— A qual pro? — disse modestamente il Telamone. — Quando si hanno, si
hanno, e non c’è verso di mandarli via. —

Aldo De Rossi aveva ripreso lo studio del suo giornale illustrato. Ma,
nel voltare la pagina, gli avvenne di alzare la testa, e i suoi occhi
si scontrarono in quelli della signora Vezzosi, che avevano l’aria di
dirgli:

— Li vedete, signorino, i vostri gelosi segreti, come vanno a finire?
Custoditeli ancora, se vi riesce! —

Aldo, in quel punto, maledisse il signor Silvestro Caramelli fino alla
decimaquinta generazione. Siamo giusti, il signor Silvestro se l’era
meritata, perchè aveva commesso una indiscrezione. Statuisce il codice
della buona società (un libro, tra parentesi, di cui manca tuttavia
un’edizione completa) che non è bene raccontare in conversazione
d’avere veduto Tizio, o Cajo, nel tal luogo, perchè potrebbe darsi
il caso che Tizio e Cajo dicessero a lor volta di essere stati nel
tal altro, o di non essere stati in nessuno, e sarebbero colti in
flagranti di contraddizione. E poi in questa società, tutta segreti
d’Arlecchino, non si sa mai dove uno mette i piedi e le mani. Qua si
pesta, senza volerlo, una coda; là si ferisce, senza saperlo, un povero
cuore geloso. Eppure, a farlo apposta, queste indiscrezioni occorrono
frequenti, anche quando non c’entri l’animo deliberato di commetterle.
Si ha sempre bisogno di un soggetto di chiacchiera. Le discussioni
di politica, di economia, di amministrazione, riescono uggiose alle
dame, ed io in verità non saprei condannarle. Non si ha sempre la dote
dei teatri sotto la mano, nè un ballo, nè un’opera nuova da levare
al cielo, o da cacciare all’inferno. I discorsi galanti dispiacciono
ai mariti; e poi, che serve? ora è tornata di moda una certa rigidità
puntigliosa, che rimanda questi discorsi a migliore occasione. Di che
cosa si ha dunque a parlare, Dio buono? — Ho visto il tale; ero col
tale; andando insieme abbiamo veduta la tale, che entrava nella via
tale, accompagnata dal tale. — E in tale maniera s’imbastisce un cencio
di conversazione, senza badare al pericolo di dare, con tale minutezza
di particolari, un colpo mortale a qualcuno.

Aldo De Rossi, vedendosi scoperto per quel capriccio del caso, era
rimasto un po’ sconcertato. Ma infine, non aveva rimorsi, perchè non
aveva ingannato nessuno.

Si chiacchierò, senza il suo aiuto, di cento cose diverse. Poi giunsero
i pezzi grossi della sala da giuoco, e la signora Elena si alzò dal
suo trono, per prendersi cura del tè; cura gelosa, che è riservata alle
padrone di casa. Versato dalle mani di una bella signora, il tè diventa
migliore. Almeno, così dicono tutti coloro che lo trovano buono. Io,
che non l’ho per tale, mi restringo ad ammettere che diventa più bello.

— E così, commendatore, — diceva intanto il signor Silvestro Caramelli
al padrone di casa, — voi andrete quest’anno a Courmayeur?

— Ma, veramente la tentazione c’è; — rispose il signor Gerardo. — Per
altro, voi sapete che un marito per bene non deve aver volontà.

— Sentite com’è galante, Donna Elena? — disse allora il Telamone,
volgendosi alla signora Vezzosi.

— Gerardo lo è sempre, — rispose la signora continuando ad amministrare
il suo néttare; — ma questa volta egli ascolta anche i consigli della
prudenza.

— Ah sì! — disse il Vezzosi, ridendo. — Minerva che ha indossati i
panni del mio amico Anselmi! Figuratevi, egli ha detto a mia moglie
e ripetuto a me che la strada è disastrosa. Se avesse detto lunga,
pazienza; ma disastrosa, poi!

— Oh, per me, — replicò la signora, — lunga e disastrosa è tutt’uno.
Gerardo, io mi ribello al codice, e non vi seguo.

— Il codice ha proprio che la moglie debba seguire il marito? — notò il
Vezzosi, continuando a fare l’amabile, come soleva, quando era in mezzo
alla gente. — E non ha invece che il marito debba seguir la moglie?
Sentiamo dove vorreste andar voi, Elena.

— Io? — esclamò la signora. — Non ho preferenze. Ma siccome credo che
più di Courmayeur vi gioverebbe Recoaro, o Montecatini....

— Luoghi non tanto lontani! — soggiunse il signor Vezzosi, con un fil
d’ironia.

— Eh, anche questa ragione ha il suo pregio; — replicò la signora.

— Quest’anno ci vuol essere gran gente, a Montecatini; — entrò a dire
il Caramelli. — Ho letto ieri sul giornale che ci vanno due ministri;
nientemeno!

— Quali? — domandò il commendatore Vezzosi.

— Il ministro dei lavori pubblici e quello degli esteri. La politica
italiana si farà tutta al Tettuccio.

— E alla locanda della Pace; — aggiunse Alcibiade primo. — Come vedono,
questo è un buon segno.

— Certamente; — disse il signor Vezzosi, sorridendo all’arguzia del
Sestavalle. — E voi credete che a Montecatini non si morrà dal caldo?

— Esagerazioni di certi malinconici, che non sanno vivere in nessun
luogo; — rispose l’Alcibiade. — Io ci sono stato ancora l’anno scorso,
e fo conto di ritornarci.

— Vedete? — osservò la signora Elena, giubilando in cuor suo per tutti
quei soccorsi inattesi. — Ecco una buona occasione per farvi risolvere.

— Ditela pure preziosa; — rispose il commendatore, che pensava molto ai
ministri, e poco al Sestavalle.

— Inoltre, — soggiunse il Telamone Caramelli, — avrete il presidente
gran croce. Egli parte lunedì, con la sua bella nipote.

— Questa sarà una fortuna per me; — disse la signora Elena, volgendo
una rapida occhiata al De Rossi, il quale reputò conveniente di fare
l’astratto. — A voi, Gerardo, che amate tanto ragionar di politica,
lasceremo già uomini gravi, i presidenti, i ministri.

— Ah sì, due vecchi amici, i ministri; — rispose il commendatore
Gerardo; — li rivedrò volontieri.

— Siete dunque deciso? — domandò l’Alcibiade primo.

— Ma sì, caro Sestavalle; — replicò il signor Gerardo; — io son uomo di
pronte risoluzioni. E poi (voi non lo crederete, perchè non si usa...
o almeno non è costume di confessarlo in società) io amo mia moglie.
La via disastrosa di Courmayeur le mette i brividi; non si parli più
dunque di Courmayeur. —

La signora Elena ebbe l’aria di commuoversi a quella gentilezza, e
volle portare ella stessa a suo marito una chicchera di _tè_.

— Neppur questo si usa; — diss’ella, ridendo, mentre gli porgeva la
tazza; — ma ad una cortesia deve rispondere un’altra. —

L’atto e la frase ottennero il plauso di tutti gli astanti. In cuor
loro, certamente, parecchi avevano detto: frascherie, sciocchezze,
ridicolaggini! Ma quante cose non si pensano, in società, mentre si
dice tutto l’opposto!

— Vediamo, dunque; — disse il signor Gerardo. — Sestavalle sarà dei
nostri. Chi altri di voi verrà a curare il mal di fegato?

— Son capace io di venirci; — rispose una tra le dame, la signora
Sofonisba Torcelli. — Mi dicono che a Montecatini ci si diverte.

— Benissimo; — ripigliò il signor Gerardo; — ed anche questa è una cura
eccellente per il fegato.

— Come sei buona! — esclamò la signora Vezzosi, accarezzando la mano
della signora Sofonisba. — Noi faremo dunque una vera colonia? E voi,
signor De Rossi, non sarete dei nostri?

— Veramente.... volevo andare a Venezia; — balbettò il giovinotto. — Ma
non sarà mai che io dica di no, ad una occasione come questa.

— Ottimamente; qua la mano. De Rossi! — gridò il commendatore Vezzosi.

E strinse la mano al De Rossi, come se il giovinetto avesse fatto al
genio dell’amicizia il sacrifizio più grande.

Quella sera la signora Elena trovò ancora il destro di scambiare due
parole con Aldo De Rossi.

— Orbene, signor Aldo, — gli disse, — sono io un’amica sincera?

— Perchè mi dite questo? — chiese egli, turbato.

— Come? Vorreste ancora dissimulare con me?

— No, signora; — rispose il giovane, notando negli occhi di lei un
indizio di collera. — Ma tanta vostra bontà....

— Non tanta bontà; — ribattè la signora Elena; — ma piuttosto un
pochino di curiosità. Mi avete detto una certa cosa, l’altro giorno! Ve
ne ricordate?

— Signora, ne ho dette tante, l’una più sciocca dell’altra!

— Se lo saranno, credete pure che io vi dirò liberamente anche questo,
senza bisogno di averne la confessione da voi. Avete detto, tra
l’altre, che una certa signora somiglia ad una statua.... la quale non
è stata mai fatta, perchè a Fidia è mancato l’ardimento.

— Non ho detto precisamente questo.

— Lo avete detto a un dipresso, e non ci vedo gran differenza. Poi,
quel buttarmi la Venere di Milo in seconda linea! Son curiosa di
studiare un po’ da vicino quell’altra, per vedere se la Venere di Milo
meritava un così severo giudizio.

— Venere di Milo! — esclamò il commendatore Vezzosi, che si avvicinava
in quel mentre, per andare a riporre la chicchera sulla tavola da tè. —
Siete nelle belle arti, a quanto pare?

— Sì; — rispose la signora Elena, senza scomporsi punto. — Il signor
Aldo non trova bella la Venere di Milo, che abbiamo tanto ammirata al
Louvre, ti rammenti? Almeno volesse dirmi qual altra preferisce!

— Sicuro, — disse il commendatore, approvando, — bisogna avere il
coraggio di manifestare un’opinione. Preferite la Capitolina, o quella
dei Medici? —

Aldo De Rossi era sulle spine.

— E voi, commendatore, quale preferite?

— Io? In arte, come in tante altre cose, sono sempre del parere di mia
moglie. A lei piace la Venere di Milo? Evviva la Venere di Milo. —

Aldo De Rossi fece un inchino, che poteva parere un atto di
approvazione, ed anche una scappatoia.

— Ma, Gerardo, — diceva intanto la signora Elena, — stasera siete d’una
galanteria!...

— Elena mia, non lo ripetete, ve ne prego; — rispose il commendatore
Vezzosi. — I nostri amici potrebbero argomentare dalla vostra
meraviglia che io faccia una cosa insolita, quest’oggi. —

Aldo reputò conveniente di scostarsi alcuni passi, col pretesto di
osservare un piccolo stipo di antica fattura, che faceva bella mostra
di sè sopra una mensola addossata alla parete. Non lo vedeva già per
la prima volta; ma non voleva neanche restare come un terzo incomodo in
quella scena di tenerezze coniugali.

Il signor Gerardo aveva dato a bella posta quel giro al discorso per
allontanare un tratto il suo giovane amico? Il dialoghetto ch’egli
ebbe con la sua dolce metà mi darebbe quasi argomento di sospettarlo,
se il commendatore Vezzosi non fosse stato superiore ad ogni sospetto
di questa natura. Diciamo dunque che non ci pensò affatto, ma che gli
cascò l’olio... No, l’immagine è brutta. Gli cascò il cacio... Peggio
che mai. Infine, lasciamola lì, e il lettore discreto metta lui quel
che gli torna meglio.

— Vi ringrazio, sapete; — proseguiva il futuro senatore, abbassando la
voce d’un tono.

— Ringraziarmi! E di che? — disse la signora Vezzosi.

— Di aver tirata in ballo stasera la questione delle acque. Avevo
promesso agli amici di andare a Courmayeur, perchè, a dirvela in
confidenza, credevo che ci andasse il ministro degli esteri. Lo avevano
annunziato i giornali, quindici giorni fa. Soltanto ieri ho saputo che
andrà invece a Montecatini, e, come potete immaginarvi, ero già pentito
d’aver preso l’impegno.

— Che? — fece la signora Elena. — Non lo avete saputo dianzi dal signor
Silvestro?

— No, lo avevo letto iersera sui giornali; ma ho fatto mostra di non
saperne nulla.

— Andate lì, Gerardo, che siete un gran diplomatico! — esclamò la
signora Elena, ridendo.

— Eh! Che vi pare? — diss’egli pettoruto. — Voi, senza saperlo, siete
venuta a levarmi d’impiccio. Lo hanno sentito tutti, che il disegno di
andare a Montecatini non è venuto da me. E gli amici, che m’aspettavano
per andare a Courmayeur, non sapranno solamente da me che faccio,
abbandonandoli, un sacrifizio ad Imene.

— Benissimo; ed io passerò per una capricciosa.

— Via, vi rincresce tanto? Non lo siete un po’ tutte? E non avete il
diritto di esserlo? — aggiunse graziosamente il commendatore Vezzosi.

— Politica! — disse in cuor suo la signora Elena. — Come tu trasformi
il carattere degli uomini! —

L’ossequio coniugale non permise alla signora Vezzosi di dire:
ambizione, che forse era il vocabolo più acconcio.

— Vedete dunque — ripigliò il commendatore, — che ho ragione di essere
contento. Non vi pare che sia andato bene, il mio cambiamento di
fronte?

— Non poteva andar meglio; — rispose la signora Vezzosi.

E mentalmente soggiunse:

— Nè per voi, nè per me. —



VI.


Camilla Rivanera, che i miei lettori non hanno ancora veduta, nè
di prospetto, nè di profilo, ma soltanto udita nominare e criticare
leggermente in casa Vezzosi, era tutt’altro che l’innesto d’una bella
testa su d’un corpo niente più lungo d’un raperonzolo. E nemmeno si
poteva dire meritevole appena appena d’un elogio del Guadagnoli, che
dopo tutto non sarebbe da disprezzare; anzi io porto opinione che
avrebbe meritato un canto dell’Ariosto.

Perchè dell’Ariosto? Perchè il mio messer Ludovico è dei classici
nostri quello che ha dipinte con maggiore evidenza le donne. Dante
le accenna; il Petrarca le volatilizza; il Tasso le rinfronzolisce;
solo l’Ariosto le descrive, le raffigura, le rende. Vedete ad esempio
madonna Alessandra, nel piccolo canzoniere che le ha consacrato il
poeta; vedete Alcina, Ginevra, Olimpia, Fiordispina, nelle stanze così
vere del suo fantastico poema. Quanto a Bradamante l’ho lasciata in
disparte, perchè ella non ci si vede una volta sola, ma due; una in
sè e l’altra in suo fratello Ruggero, che le somigliava tanto, da far
cascare una bella principessa nel più grave degli errori.

Con questi principii che ho messi innanzi quasi a indugiarmi la
trattazione dell’argomento difficile, m’avvedo di essermi aguzzato il
palo sulle ginocchia, perchè il còmpito m’è diventato più malagevole
a gran pezza. Dio sa che cosa v’aspettate oramai! Ed io, povero
imbrattacarte, ardirò metter mano ai pennelli, dopo una invocazione
così pericolosa? Alla fin fine, e perchè no? Ognuno fa quel poco che
sa, e i lettori, pigliando ad imprestito da Domineddio il più bello de’
suoi attributi, usano misericordia alle buone intenzioni.

Veduta così nel complesso, la signora Camilla era un tipo di perfetta
eleganza. Le forme erano agili e flessuose come quelle d’una ninfa;
la testa finamente modellata; la mano di bambina; il piede di fata;
la vita snella, senza dare in quella sottigliezza, che fa temere ad
ogni tratto di vederla spezzata ad un soffio di vento per via, o alla
pressione d’un braccio virile nel vortice della danza. Per altro, la
facevano apparire più snella i pieni contorni del seno e del fianco.
Perchè non direi anche questo, se l’hanno detto tante volte i maestri?
Gli antichi dipingevano la bellezza, senza tanti scrupoli e senza
tante ipocrisie. E la pelle di grazia, come l’accarezzavano! Come ci
si fermavano su! Quella della signora Camilla, io non la paragonerò
ai ligustri e alle rose, di cui s’è fatto uno sciupìo maledetto; dirò,
quantunque non sia neppur nuovo, che era d’un bianco latteo perlato, a
cui davano risalto le sopracciglia nere e sottili, le ciglia lunghe e
morbide, gli occhi neri e lucenti come il bitume giudaico. Insomma, era
una bellezza strana, quantunque non escisse dal naturale. Piuttosto,
parevano escire dal naturale i capelli. Ne aveva una selva fitta fitta,
ed erano così lunghi, che avrebbe potuto, lasciandone ricadere il
volume, coprirsene fino oltre il ginocchio. Di questo si dubitava un
pochino, perchè non si era veduto; ma non si dubitava che fossero suoi,
cioè nati e saldamente piantati sulla sua testa, poichè ella usava
portarli acconciati con molta semplicità, e le sue caritatevoli amiche
potevano vedere che non c’erano inganni. Quei capegli, inoltre, avevano
la lucentezza e il riflesso turchino delle penne del corvo; donde una
tenue velatura d’azzurro a tutte le incavature (e stavo già per dire i
sottosquadri) del bellissimo volto.

E l’anima? Di questa mi chiederete, non bastandovi più l’antica
sentenza che ad un bel viso risponda sempre un’anima eletta. Ma prima
di entrare in questi segreti, vi parlerò dello stato civile della
signora Camilla. Giovanissima ancora, e appena escita di collegio,
aveva sposato un uomo maturo, un banchiere. Non vi aspettate qui il
solito contrapposto e le analoghe riflessioni. Il banchiere non era più
giovane, ma era tuttavia un bell’uomo, e molto simpatico, che spesso
vale assai più. Camilla lo aveva amato, di quell’amore candido e magari
un pochettino insipido, che non nasce da profondi contrasti, che non
s’è scaldato ancora al sole delle passioni, e che ha, per dirvi tutto
in una immagine sola, i difetti e le qualità delle frutta primaticce.
Perciò, secondo l’opinione dei buongustai, bisognerebbe poter
cominciare dal secondo; ma non così tardi, che già si fosse perduto
il profumo e la delicatezza del primo. Queste sono sottigliezze di
cervelli matti, che vanno alla caccia dello strano, dell’impossibile.
Io mi contento di osservare che il primo amore di una donna non è che
una pallida immagine, una timida promessa del secondo, e ahimè, qualche
volta del terzo. La fanciulla vi concede il suo cuore con tutti i riti
e con tutte le formalità, ma altresì con tutta la tranquillità d’un
atto notarile. La leggiadra colomba non sa ancora nulla delle tempeste
del mondo e i suoi voli son brevi. Ciò ch’ella sa, quando sa qualche
cosa, è meno che nulla, poichè si tratta di una scienza imparaticcia,
mentre la vera scienza, la scienza che resta e che forma lo spirito,
è quella che s’impara per propria esperienza. Non a torto la famosa
Accademia del Cimento volle nella sua impresa il motto: _Provando e
riprovando_.

Il banchiere non aveva fatto a sua moglie una lunga compagnia. Ricordo
del suo passaggio e segno di gratitudine per due anni di unione,
l’aveva lasciata tre volte più ricca di quando l’aveva sposata. La
giovane vedova, che era orfana per giunta, si era ritirata in casa
dello zio materno, il Roberti, presidente di Cassazione, che aveva
colta l’occasione opportuna per chiedere il suo ritiro. Personaggio
grave, il Roberti; _sanctissimus vir_, come lo avrebbe chiamato
Cicerone, se fosse vissuto ai suoi tempi; commendatore di più ordini,
gran croce dei due Santi che sapete, e credo anche della Corona
d’Italia; infine, doveva avere tutti i ciondoli dell’oreficeria
equestre italiana, salvo un certo collare, che, per ottenerlo, bisogna
essere stati molto in su, e aver avuto occasione di fare una politica
da cani. La cosa, trattandosi di un collare, s’intende alla prima, e il
ragionamento non fa neanche una grinza.

Con tanti onori, che avrebbero fatto girar la testa a più d’uno, il
presidente Roberti era un modestissimo uomo. Aveva servito utilmente e
con decoro il suo paese ed era escito di servizio con una fama illibata
di gentiluomo e di galantuomo. Anch’egli aveva il suo difetto; ma chi
non l’ha si faccia avanti. A dirvela schietta, pizzicava d’erudito,
specie in materia d’antichità romana; effetto naturalissimo di lunghi
ed amorosi studi sulle fonti del diritto. Il _Corpus Juris_ non
aveva difficoltà, nè segreti per lui, e tutti lo consultavano come un
oracolo, pendevano dalle sue labbra, come si dovette pendere un giorno
da quelle d’Irnerio, o di Bartolo. Nella casa del presidente Roberti
convenivano spesso magistrati d’ogni categoria ed avvocati vecchi e
giovani. Questi ultimi abbondarono, quando ci entrò la nipote. Si sa,
il fare un viaggio e due servizi è sempre stato il colmo dell’economia.

Quella bella bambina (perchè là dentro, in mezzo a tanta gravità
curiale, aveva proprio l’aspetto d’una bambina) faceva in casa del
presidente Roberti l’effetto di un raggio di sole che si disegni in
mezzo all’ombre fitte della boscaglia. Non è più uggioso quel fondo
di valle, quando il raggio allegro sforacchia audacemente la frappa
e viene a danzare sul verde tappeto che si distende sotto i gelosi
ombrelli degli abeti e dei faggi. E non parve più tanto noiosamente
erudita, nè tanto eruditamente noiosa, la società dei seguaci
d’Ulpiano. Le massime del diritto, sciorinate davanti a quella bella
creatura, assumevano aria di complimenti; gli articoli del Codice di
procedura civile prendevano (Dio mi perdoni) apparenza di madrigali.
Aveva torto marcio il contino Anselmi a dire che in casa del presidente
Roberti c’era da morire di noia, e bisognerà credere che parlasse
così, perchè la signora Camilla non aveva mostrato di gradire le sue
distillazioni. Basta così poco (una frase spensierata, un momento
di disattenzione, e che so io), per far andare in bestia un uomo di
spirito.

Ed era strano come ella si trovasse bene, come si adagiasse facilmente,
in quella società di parrucconi. Non già che prendesse parte alle
dispute, ai consulti, ai pareri. Dio buono, non ci sarebbe mancato
altro. Quantunque, il dipingervi una bella legale sarebbe una
fortissima tentazione per il vostro umilissimo servo; il quale non
avrebbe che a frugare nei suoi ricordi, per farvela fuori, la donna
elegante e galante, che aveva le Pandette e il Digesto sulla punta
delle dita. No, la signora Camilla non sputava sentenze, nè commentava
quelle dello zio, o degli altri insigni frequentatori di casa. Infine,
non dava neanche pareri ai giovani avvocati, che (sia detto ad onor
loro) li avrebbero ascoltati a bocca aperta. Ricordate il paragone
di poc’anzi; era il raggio di sole tra le ombre del bosco; l’allegria
che vive in mezzo all’uggia e la fa sparire, o dimenticare; una cara
visione; una amabile frivolità, che non poteva disdire tra tanti
aspetti severi di uomini e di cose.

Eppoi, non istate a credere che ella si contentasse di brillare in
casa, nella corte giudiziaria del presidente gran croce. La signora
Camilla andava spesso a feste, conversazioni e teatri, e il presidente
gran croce, che aveva una tenerezza paterna per la sua bella nipote,
lasciava per quelle sere in disparte i codici, le Pandette, il Digesto,
e tant’altre cose egualmente indigeste, per accompagnarla qua e là. Il
degno uomo avrebbe fatto qualunque sacrifizio per vederla contenta. E
tollerava, persino nel suo salotto, grave e severo come il tempio della
Giustizia, tollerava, dico, una dozzina di zerbinotti, che ad uno ad
uno si erano fatti presentare alla signora Rivanera.

Di tanto in tanto il presidente Roberti esciva in un giudizio breve e
riciso come una massima di diritto.

— Quel signor Zeta mi sa di sciocco. —

Oppure:

— Quanti seccatori ha da sopportare una bella donna come te! Le brutte
e le mediocri debbono essere più felici quel tanto! —

Nè queste cose diceva con mal animo, o col desiderio di mettere i
vagheggini alla porta. La signora Camilla gli manifestava qualche volta
la noia che provava, di sentire tanti madrigali, e sempre gli stessi,
ogni giorno. E allora la bella vedova aveva l’aria di andare molto più
oltre del presidente gran croce. Ma egli, con la sua calma, con la sua
serenità giuridica, la riconduceva due passi indietro.

— Adagio, Camilla; — diceva lui. — Bisogna vivere nel mondo, e il mondo
non è bello se non perchè è vario. Accetta gli uomini come sono. La
cosa non deve riescir difficile ad una donna che li accetta per modo
di dire, e può tenerli sempre ad una rispettosa distanza. Per quelli
che volessero farsi più avanti, ci sono i carabinieri; — soggiungeva
egli celiando; — e c’è ancora, la Dio grazia, un presidente di
Cassazione. —

La signora Camilla era costretta a riconoscere che suo zio aveva
ragione, e sopportava i noiosi. In fondo in fondo ella procedeva a
sbalzi, nelle sue antipatie. E la cosa si capiva facilmente; anche
senza mettere in conto per la signora Camilla una certa festività di
umore. Chiedete a cento donne se rinunzierebbero di buon grado alla
corte di undici cavalieri, quando già ne amassero un dodicesimo. Due
(proporzione forse esagerata; ma bisogna anche essere condiscendenti,
col sesso gentile) due vi risponderanno di sì. Le altre novantotto
vi risponderanno di no, anche concedendovi che tra quei dieci non
ce n’è uno il quale franchi la spesa di starlo a sentire. La donna
è cosiffatta: l’abbiamo avvezza a non considerarsi che per la sua
bellezza, ed è giusto che ella sia venuta ad amare queste parlanti
e palpitanti testimonianze del suo potere, anche quando palpitano
con troppa facilità per molte, od esprimono troppo volgarmente
la loro passione. A questo proposito, rammenterò ciò che diceva a
me, giovinetto, una vecchia dama: — Nessun omaggio d’amore, quando
sia caldo, è volgare. — La cosa mi spiacque allora, e soltanto la
perdonai alla dama, pensando che la poverina era stata giovane ai
tempi del primo Impero, quando non si usavano mica tante distinzioni
psicologiche. Ma, andando avanti negli anni, riconobbi che la vecchia
maestra poteva aver ragione, non solamente per il primo Impero, ma
anche in tutti i tempi dell’Era nostra. La quale, non senza un grande
perchè, si chiama Volgare.

Ho detto che la signora Camilla procedeva a sbalzi nelle sue antipatie,
e, per conseguenza, nelle sue simpatie. Aggiungerò che, per la stessa
ragione, per lo stesso amore dei contrasti, le piaceva moltissimo
quella sua vita, libera ad un tempo e rinchiusa. Era come una bella
prigioniera e per cui, nella stessa corte del castello, si facevano
tornei di galanteria, serenate e gualdane. Era sotto custodia, ma i
vagheggini le ronzavano intorno liberamente, come le solite api intorno
al solito fiore. L’austerità della casa era la sua salvaguardia; il
presidente gran croce era un carceriere molto vigilante, ma anche
abbastanza umano. Ella, in fondo, vedeva tutto, coglieva il meglio
delle galanterie universali, si lasciava amare, adorare, venerare, e
rideva.

Come non ridere, per esempio, quando lo zio presidente le diceva:

— Che cosa s’immagina di ottenere quel marchese Dello Stinco, con
quella figura allampanata? Ingegno non ne ha; danari nemmeno. Il suo
titolo mi pare, in verità, troppo poco. E Dio sa da quante s’è già
fatto rifiutare, prima di volgersi a te! —

Ne cito uno, ma potrei riferirvene cento, di questi giudizi che
andavano brevi e diritti alla meta, esercitando una certa, sebbene
inavvertita influenza sull’animo della sua bella nipote.

Che cosa aveva detto il presidente Roberti, del signor Aldo De Rossi?
Lo sapremo a suo tempo.

Aldo aveva conosciuta la Rivanera ad una festa da ballo. Era serio, il
signor Aldo, fin troppo serio per la sua età. Ciò l’aveva colpita, e
per un po’ di tempo l’aveva distratta dai suoi eterni vagheggini. Nel
corso d’una notte, il De Rossi aveva ballato due volte con lei, salvo
errore; che potrebbero essere state anche tre. Ma, oltre la compagnia
naturale del ballo, che fa, dicono, di due vite una sola, il signor
Aldo era rimasto a parlare con lei, più a lungo che non avesse fatto
con le altre dame di sua conoscenza. Il giorno dopo aveva portati due
biglietti di visita a casa Roberti; e il presidente gran croce aveva
corrisposto a quella tacita domanda col suo delle grandi occasioni.
Ne era seguita una prima visita del De Rossi in casa Roberti; poi,
a giuste distanze, una seconda e una terza. Inoltre, il signor Aldo
aveva modo di vedere la signora Camilla in questo o in quel ritrovo
della città; di guisa che, o in casa di lei, o d’altri, o per via,
o a teatro, la vedeva spessissimo. Ma era noto che egli ne vedeva
tante altre in quello stesso modo, e la signora Camilla aveva tutto il
diritto di non dar molto peso a quella frequenza d’incontri.

Ma un giorno, o una sera, che non ricordo bene, egli ebbe l’ardimento
di dirle:

— Siete bella! —

Come glielo disse? A proposito d’una veste che le andava a pennello,
o d’una acconciatura nuova? D’un quadro di Raffaello Sanzio, o
d’una fotografia dello Schemboche? D’un romanzo di Walter Scott, o
d’un articolo di giornale? Io non lo so. L’uomo che vuol dire una
cosa, trova sempre l’appiglio, e quando l’ha detta non rammenta più
donde abbia prese le mosse. Immaginate un filosofo innamorato, il
quale facesse questo sillogismo ad una donna: «L’uomo è un animale
ragionevole. Ma il quadrato dell’ipotenusa è eguale alla somma dei
quadrati dei due cateti. Dunque, signora, voi siete un occhio di sole.»
A voi quel filosofo parrebbe un matto. Ma alla signora parrebbe che
conseguenza più logica non fosse tratta mai, dacchè c’è logica al
mondo.

La signora Camilla sorrise, alla scappata di Aldo De Rossi.
Evidentemente, da un pezzo lo aspettava lì. Quella frase trema a lungo
sulle labbra di un uomo innamorato, prima di trasformarsi in suono,
come la stilla di rugiada trema sul lembo d’una foglia prima di cadere
a terra.

Sorrise, adunque, la bella, sentendosi salutare con quel vecchio
epiteto; indi, con aria di stupore, gli rispose brevemente:

— Davvero? —

Aldo De Rossi sentì il veleno dell’interrogazione e replicò:

— Signora, io so bene che non dico nulla di nuovo. Ma che ne posso io,
se tanti parlano la mia stessa lingua? Vorrete voi levare il pregio al
pane, perchè vivete nell’abbondanza?

— No, certamente, — rispose la signora Camilla; — abbondanza non nuoce.
Ma non posso tacervi la mia maraviglia, in udir sempre e da tutti la
medesima storia. Bisogna dire che voi altri, signori uomini, manchiate
anzi che no d’invenzione. Di grazia, non potreste una volta tanto girar
la frase altrimenti? —

Aldo si morse le labbra e ricacciò in corpo una sciocchezza, che già
stava per escirgli di bocca.

— Signora, — diss’egli invece, — fate conto che io non v’abbia detto
nulla.

— Ah, così va bene; — rispose ella.

Parve contenta, la signora; sopratutto parve non avvedersi dello sforzo
che Aldo De Rossi faceva per vincere il proprio dispetto.

Giunsero altri visitatori, Alcibiadi, Telamoni e Ganimedi; questi
ultimi in maggior numero. Aldo era sulle spine; la signora Camilla
rideva. Come rideva bene! Se aveste veduto, che denti! E il suono
argentino della sua voce! Io rinunzio a descrivervi l’una cosa e
l’altra, chè tanto non verrei a capo di nulla.

Del resto, i fatti incalzano, e le descrizioni non fanno procedere il
racconto. La signora Camilla si lasciò cadere il ventaglio e Tizio
lo raccolse e n’ebbe in ricompensa il permesso di tenerlo per tutta
la sera. Si parlò di parecchie signore, e Caio le disse audacemente
che essa era la più bella di tutte; nè ella volse il complimento in
burletta, come aveva fatto con Aldo De Rossi. Sempronio aveva una
gardenia: la signora Camilla ammirò la gardenia; Sempronio ebbe la
sfacciataggine di offrirgliela; essa la crudeltà di accettarla.

Il signor Aldo non ci reggeva. Parlò poco, quella sera, e male. Si
fece battere agli scacchi dal presidente gran croce, e battere in un
modo così indegno, che il suo avversario dichiarò di non voler neanche
vantarsi della vittoria. Insomma, il poveretto non ci vedeva più lume e
avrebbe, vi so dir io, data l’anima al diavolo.

Così presto? Ma sì, lettori garbati. In amore, un uomo non comincia
mai; cioè, mi spiego, l’amore dell’uomo non ha un vero cominciamento,
di cui si possa dire: ecco il principio. Quando ci s’accorge di amare
una donna, è finita, si è innamorati dalla testa ai piedi. Ha principio
un incendio? Quando incomincia a divampare, è già un incendio. Chi
si avvede di esso, quando è ancora latente? Il valore della parola vi
risponda per me.

Un’altra volta, nel salotto del presidente gran croce, e nell’angolo
dove si radunava la corte della signora Camilla, il discorso era
cascato sui grandi poeti, e, come potete immaginarvi, sui loro famosi
amori.

— Amo il Petrarca; — disse la signora Camilla. — Egli amò senza
speranza madonna Laura, fino a tanto che ella visse; la amò ancora
e la cantò dopo morta. Chi ai giorni nostri si sentirebbe di fare
altrettanto?

— Eh! — notò Aldo De Rossi. — Non certo coloro che per una donna morta,
o sperimentata crudele, fanno assai più d’una canzone, ma si tolgono
disperatamente la vita.

— Colpo di scena! — esclamò la signora Camilla, ridendo. — Ma neanche
questo si usa più.

— Lo credete, signora? Non sono del tempo nostro gli amori più ardenti
del Werther e di Jacopo Ortis?

— Due romanzi! — ribattè la signora Camilla. — E i loro autori....
Non me ne parlate, per carità. Uno morì tranquillamente ottuagenario,
dopo aver fatto soffrire, dicono, una mezza dozzina di donne. L’altro
fu sventurato, ma non per le donne che anzi furono in parecchie a
consolarlo; tanto che egli poteva scrivere a due o tre, con la medesima
penna e col medesimo inchiostro. Credete a me, signor De Rossi. Noi,
anche senza molta esperienza di mondo, leggiamo abbastanza chiaramente
nei cuori....

— Sfido io! — interruppe Aldo. — Li abbiamo sulle labbra.

— Bene, e noi ci vediamo attraverso; — replicò la signora Camilla. —
Ora, volete sapere che cosa ci vediamo di dedicato a noi? Un pochettino
di vanità, che si dilegua, se è soddisfatta, che si cangia in dispetto,
se è offesa. Fuoco di paglia; o fiammata improvvisa, e un pugno di
cenere, se la paglia è asciutta; o fumo negli occhi e soffocamento in
gola, se la paglia è umida. Non vi pare? E poi, — continuò la signora,
senza dargli tempo a rispondere, — c’è questo di peggio: che tutte le
belle cose che voi dite ad una donna, per intenerirla, le dite a tutte
le altre, e col medesimo fine.

— Oh, questo poi! Permettete....

— È la verità; — ripigliò la signora Camilla. — Di grazia, che cosa
ci andate a fare, voi altri, dalla tale o dalla tal altra, spesso da
dieci o dodici tutte belle, tutte eleganti, tutte amabili? Non certo
a tacere. E se parlate, come io credo, — soggiunse ella, ridendo
maliziosamente, — che cosa direte voi a quelle gentili signore?
Dei complimenti, che avranno aria di madrigali; dei madrigali, che
somiglieranno molto a dichiarazioni. Non dite di no; questa è la forza
delle cose.

— No, no; ad onta della vostra sicurezza, qui potreste ingannarvi;
— rispose Aldo De Rossi. — Io non credo di dire una cosa strana,
affermando che si possa conversare con una dama, anche bellissima,
parlando di cose da nulla, e facendo delle questioni accademiche; come
adesso, per l’appunto. —

La signora Camilla diede al suo contradittore un’occhiata
compassionevole.

— Per amor del cielo, non mi citate ad esempio la nostra conversazione.
Se io fossi un’altra donna, e sapessi di questo dialogo, o d’un altro
consimile, vi assicuro io, signor De Rossi gentilissimo, che non
mi piacerebbe niente, ma niente affatto che si disputasse di certi
argomenti, lontano da me. Del resto, — ripigliò la signora Camilla,
tornando al principio del discorso, — il Petrarca non faceva così, e
questo è l’essenziale. Egli ne amò una alla luce del sole, non vide,
non cantò, non esaltò che quell’una. Invece, eccovi qui, o signori, o
in abito di mattina, col fiore all’occhiello, o con l’abito nero, reso
ridicolo da quell’indegno pioppino, che sostituite qualche volta al
cappello _gibus_ dei vostri babbi; e in una foggia, o nell’altra sempre
in visite, in conversazioni, e in balli e teatri, sempre intorno alle
dame e pronti a ripetere la stessa musica con tutte.

— Le apparenze ingannano, — disse Aldo De Rossi, — e vi danno buon
giuoco contro di me. Ma pensate, vi prego, che non siamo più ai tempi
del Petrarca, quando le belle usanze della cavalleria e delle corti
d’amore permettevano di mettere in piazza una donna. Ci si costituiva
suo cavaliere, si facevano per lei giostre e canzoni, senza che nessun
geloso ci trovasse a ridire. Il Petrarca è ancora uno di quelli che
hanno fatto meno, forse perchè già propendeva al canonicato, e il
signor Ugo di Noves potè averne di catti. Ma adesso, signora mia,
adesso siamo in tempi sospettosi e difficili, secondo gli altri,
ma più riguardosi, secondo me e più delicati. L’amore si nasconde
volontieri, un po’ perchè è naturalmente vergognoso, ma molto perchè
ama il mistero, come la felicità sua sorella. Ora che c’è di meglio per
nasconderlo, che il moltiplicare le apparenze? Andando a fare una corte
generica a due dame, si nasconde la tenerezza che si ha per una terza.

— E chi vi dice che una donna voglia essere nascosta così, come si
nasconde un delitto? — gridò la signora Camilla. — Lo capisco anch’io;
generalmente una donna non si lagna di questi riguardi eccessivi, e
ve li ammette, perchè non le è dato di mutarvi il carattere. Anch’essa
ha la sua dignità e non s’ostina a tentare le opere inutili. Accade lo
stesso nella faccenda del fumare. Per avere in casa sua, a certe ore, i
civilissimi visitatori, una dama moderna è costretta a lasciar passare
le costumanze dei selvaggi. Ma ogni donna, signor mio, pensa dentro
di sè che l’uomo il quale non sa rinunziare a queste brutte usanze da
caffè, non merita che si rinunzi per lui alla pace dell’esistenza. E
ogni donna sa inoltre che l’uomo il quale non ardisce compromettersi
per lei, e comprometterla un poco, è un uomo che non l’ama davvero.

— E l’ascoltate, allora, un uomo simile? — chiese Aldo De Rossi.

— Lui, come tutti gli altri; — rispose la signora.

— Sì, come tutti gli altri; — ripigliò il De Rossi, con una certa
amarezza; — come tutti gli altri, la cui assiduità, rimeritata di
piccoli favori, può far disperare un poveretto, il quale vi amerà anche
senza sapervelo dire, come piacerebbe a voi ma vi amerà fortemente!

— Che farci? Si disperi; — disse la signora Camilla, stringendosi nelle
spalle.

— Ma scusate; — incalzò Aldo De Rossi; — che vi fanno tanti vagheggini,
che poi non stimate niente più di quell’uno?

— Mi dicono bella; — replicò la signora Camilla, con un leggiadro
movimento di testa; — e mi piace di sentirmelo a dire. Li tratto
come i fiori; ne aspiro il profumo, e poi.... li lascio finire come
possono. —

Aldo De Rossi rimase male, a quella risposta della signora Camilla. Nè
altro replicò per allora. Ma più tardi ebbe il torto di ritornarci su.

— Signora, mi permettete di dirvi che io sono quel tale.... di cui
parlavamo poc’anzi?

— Quel tale! Chi?

— L’uomo che.... vi ama. Sarò io proprio come un altro, per voi?

— No; — rispose la signora Camilla. — Potreste essere di più; potreste
esser meno.

Aldo si morse le labbra, ma non si diede per vinto.

— Come lo indovinerò io? — chiese egli, dopo un istante di pausa.

— Che cosa volete indovinare? — gridò la signora Camilla, rizzando la
testa e fissando i suoi begli occhi sdegnosi in volto al De Rossi. —
Qual diritto ci avete, a sapere queste cose?

— Nessuno, certamente; — rispose egli compunto; — ma infine, poichè
l’una cosa o l’altra ho da essere, mi sembra, con vostra licenza, che
si potrebbe anche lasciarmi intendere che sorte mi tocca.

— Ecco l’uomo! — esclamò la signora. — Ecco l’uomo che fa capolino.
Egli non ha tempo da perdere; vuole sapere alle prime se ha da restare,
o da andarsene; vuol essere il prescelto e sentirselo a dire, per
atteggiarsi immediatamente a padrone. Ora, sappiatelo, signor De Rossi,
io non voglio padroni. —

Camilla Rivanera parlava risoluto, se badiamo alla sostanza; ma,
come avviene tra le persone a modo, il risolino, l’accento soave, la
reticenza, la pausa, temperavano spesso la severità della frase.

Meno garbato, perchè meno padrone di sè, era il signor Aldo De Rossi.

— Sareste senza cuore! — diss’egli.

— Mettete che sia così, se vi piace.

— No, non mi piace. Anzi, stavo per aggiungere: che peccato! quando mi
avete interrotto.

— Allora, — ripigliò Camilla, scuotendo la testa, — immaginate pure che
io n’abbia. —

E la parola e il gesto accennavano chiaramente che la signora voleva
farla finita. Ma il giovinotto non se ne diede per inteso, e continuò:

— Ne avrete, dunque; ma non per me. Questo, volevate dire?

— Oh Dio! — mormorò la signora, spazientita. — Per caso, signor De
Rossi, apparterreste voi alla specie dei.... —

E si arrestò, temendo di dir troppo. Ma era fatta; ed anche un ingegno
più tardo di quello del signor Aldo De Rossi avrebbe inteso il pensiero
di Camilla e compiuta la frase.

— Oh, ditelo pure liberamente; — gridò egli, volendo averne l’intiero.
— Dei noiosi?

— Quasi; — fece ella, aggrottando le ciglia.

— No signora, neanche così! — ripigliò Aldo De Rossi. — E permettete
che io ve lo provi, facendovi riverenza. —

In queste parole si era alzato dalla scranna e salutava con molto
sussiego la signora Camilla.

— Buona sera; — rispose la signora, senza porgere la destra, che Aldo
non aveva mostrato di chiedere poichè non aveva stesa la sua.

E così freddamente lo rimandò con Dio. Ma in verità, io non saprei
dirvi se egli ci andasse, poichè aveva un diavolo per capello.

Che grilli passavano per la testa alla signora Camilla? Le donne
sono creature così diverse da noi, quantunque fatte della nostra
medesima carne, che un uomo non può arrischiarsi a giudicarle da
sè. Bisognerebbe studiarle, l’una per mezzo dell’altra, mettendole a
confronto, facendole parlare, e via di questo passo. Ma neppure per
tal via ci sarebbe da cavarne un costrutto. Una donna non somiglia ad
un’altra. Ci avete mai badato, a questo fatto psicologico? Son tutte
diverse; allegre e malinconiche, leggiere e gravi, matte e savie,
gentili e contegnose, prudenti e sbadate, buonine e scontrose, si
mostrano formate di tanti elementi, e così variamente combinati che
somigliano tra loro come una partita a scacchi somiglia ad un’altra.
Lo sapete pure; si comincia sempre ad un modo, cioè muovendo le stesse
pedine; ma dopo le prime mosse, non è più la medesima cosa, e dura
la bella varietà fino al penultimo colpo. L’ultimo, rammentatelo,
riconduce le partite ad una certa uniformità, poichè si foggia per
solito su d’un ristretto numero di combinazioni. E in amore e agli
scacchi, la regina finisce sempre ad un modo: scacco matto al re.

Ma la signora Camilla?... Voi non volete essere tenuti a bada con
le chiacchiere e tornate a domandarmi che diamine avesse in capo la
signora Camilla. Ecco, per quello che io ne so... (ma badate, so poco,
e potrei anche aver preso abbaglio) per quello che io ne so, la signora
Camilla non amava Aldo De Rossi. In fondo non amava nessuno. Li voleva
tutti devoti, e poi non sapeva che farsene della loro devozione, e
li accusava di essere sempre gli stessi piagnoni con tutte. Novità,
volevano essere, prove straordinarie, atti di valore e di sacrifizio,
come non se ne fanno più, e come non è più permesso di farne in questi
tempi volgari. Ma perchè, poi? Per premiarli con un sorriso, con una
stretta di mano, con una di quelle piccole grazie e cortesie di gran
dama, che ella usava largire al primo venuto, o all’ultimo, senza che
questi avesse compiuto nulla di grande per lei.

Dunque, per farvela breve, la signora Camilla Rivanera non amava Aldo
De Rossi, nè altri. Le adorazioni di tutti l’avevano avvezzata a non
amare che sè stessa. L’uomo di valore che si fosse invaghito di lei
poteva dirsi perduto, se una circostanza fortunata non venisse ad
aiutarlo. Ma convenite che è doloroso aspettare la propria salute dal
caso.

Aldo De Rossi incominciava a non aspettare più nulla. Aveva commesso
un altro errore gravissimo, incalzandola troppo con le sue furie
impazienti; aveva dimenticato quel primo tra gli elementi della
grammatica d’amore: che ogni donna vuol essere amata a suo modo. Ma,
d’altra parte, come indovinare il modo della signora Camilla? Notate
che egli non doveva indovinare una cosa sola, ma due; prima di tutto
se egli era quel tale che potesse toccarle il cuore, e poi in che
modo ci sarebbe riuscito. Ora, quando un uomo appartiene alla specie
dei noiosi, che vogliono spingere troppo oltre le indagini e andare
a fondo prima che la bella nemica (stile del Cinquecento) mostri il
petto indifeso, dite pure che succederà una catastrofe. E il signor
Aldo aveva avuta la sua. Quel giorno, se il mondo fosse stato un uovo
ed egli lo avesse avuto tra le dita, vi assicuro che si faceva una
frittata nello spazio.

Il giorno dopo quel dialogo, Aldo De Rossi andò dalla signora Vezzosi,
ed ebbe con lei quella strana conversazione che vi ho riferita in
principio. Un altr’uomo non sarebbe più tornato dalla Rivanera.
Ma egli ci tornò. Vi ho già detto che non era un uomo perfetto. La
trovò fredda, poi gentile, poi gaia, poi niente di particolare. Egli,
quasi sarebbe inutile il dirlo, si guardò bene di toccare l’argomento
delicato. Ed ella, per caso, non fu più umana con gli altri visitatori,
di quello che fosse con lui. Mal comune è mezzo gaudio, e insegna la
pazienza a tutti.



VII.


Era la prima domenica di luglio. L’anno si lascia in bianco, che
tanto non vi servirebbe a nulla il saperlo. Forse vi tornerà più utile
sapere che una calessina da quattro posti, con un sopraccielo di cuoio
e le cortine di tela torno torno, secondo la foggia comune in Val di
Nievole, si muoveva poco dopo le otto del mattino, dall’albergo della
Pace, in Montecatini, andando di buon trotto su lo stradone alberato
che mette allo stabilimento del Tettuccio.

La giornata era splendida; cosa naturalissima in luglio, che è il mese
dei solleoni e delle cicale. Ma a quell’ora non faceva ancora troppo
caldo, e le cicale cantavano con una certa moderazione. Perfino la
polvere della strada usava qualche riguardo ai viandanti, non levandosi
a nugoli intorno alle ruote delle carrozze.

Il veicolo che v’ho accennato, dopo otto o dieci minuti di corsa, andò
a fermarsi in fondo allo stradone, davanti ad un edifizio di mezzo
colore tra il bianco e il rossigno. Era quello il Tettuccio, il primo
e il più celebre tra i molti stabilimenti termali di Montecatini, che
dispensano le acque acidulo-saline atte a rimettere in istato normale,
o quasi, i visceri dell’umanità sofferente.

Fermato il veicolo, ne uscì fuori un cappello di paglia, indi un
tutto vestito grigio. Il cappello era largo, ma il tutto vestito era
strettino, segno che il signore che lo indossava era magro. La tesa
del cappello alquanto rilevata sul davanti, lasciava scorgere dal viso
che il signore magro era anche vecchio. Ma la prontezza con cui aveva
posto il piede sul montatoio e la sicurezza con cui era balzato dal
montatoio a terra, dimostravano chiaramente che il magro e vecchio
gentiluomo portava bene i suoi anni. Come ebbe posto piede a terra,
prese un atteggiamento nobile e franco, che, unito a certi particolari
del vestiario, come a dire i guanti di fil di Scozia, il taglio inglese
dell’abito e i solini insaldati e diritti che reggevano il mento, vi
faceva indovinare alla bella prima il pezzo grosso, il personaggio
ragguardevole. Che se voi, lettori discreti, non l’aveste indovinato,
vedendolo, ci sarei sempre io per mettervi sulla buona strada,
aggiungendovi che quel magro e vecchio gentiluomo era il Roberti, il
nostro degnissimo presidente gran croce.

Appena fu a terra ed ebbe preso l’atteggiamento che v’ho detto, il
presidente Roberti stese la mano ad una graziosa figura di donna, che
usciva alla sua volta di mezzo alle cortine di tela del carrozzino.
Non vi descriverò l’abbigliatura, perchè, con questa benedetta moda
che cangia tutti gli anni, rischierei di parervi un antiquario oggi, e
a dirittura un archeologo domani. Vi dirò soltanto che era una bella
nuvoletta bianca, picchiettata di lilla; nella quale immagine, che
non sembrerà più ardita dopo l’_aria tessuta_ di mastro Giovenale,
vi è lecito d’intendere che la signora indossava una veste di stoffa
bianca e leggiera, con certi cappiolini di nastro color lilla. Ed anche
lei portava in testa un cappello di paglia; ma era paglia di riso,
per stare in armonia con la bianchezza della veste; e i larghi nastri
ond’era adornato, le facevano un gran fiocco sotto la gola. Che candore
abbagliante di collo, tra quel gran fiocco lilla e la gorgiera della
veste! E che luccichio d’occhi neri, sotto la leggiadra curva di quel
cappellino bianco! E che grazia di sorriso tra quelle guance di rosa! E
che splendore di perle tra quelle labbra vermiglie! Insomma, lettori,
io non ve ne dico altro, poichè avete riconosciuta la signora Camilla
Rivanera, la bellissima vedova, che pareva sempre una fanciulla da
marito.

Infatti, chi non l’avrebbe creduta la figlia del presidente gran croce,
vedendola entrare, al suo fianco, sotto l’atrio del Tettuccio? Tutti,
io credo, salvo quei pochi maligni, a cui potesse passare per la mente
che ella fosse sua moglie. Bartolo non fu sul punto di sposare Rosina?
E Donna Sol non corse il rischio di andar moglie a Ruy Gomez de Silva?
Anche ai dì nostri son cose che si dànno, per consolazione dei vecchi e
per disperazione dei giovani.

Erano soli, come due sposi, in piena luna di miele, quando entrarono
sotto l’atrio del Tettuccio. Ma dovevano essere riconosciuti
e accompagnati ben presto. Il sopraintendente governativo del
Tettuccio (perchè le acque del Tettuccio scorrono col visto e sotto
la sorveglianza dello Stato) si era fatto incontro al presidente
gran croce. E il ragguardevole uomo, ascoltate con molta benevolenza
le parole di ossequio del giovane ufficiale, gli aveva stesa con
altrettanta degnazione la sua mano di giustizia in ritiro, accettandolo
ad introduttore negli orti saluberrimi.

Vi ho già detto che erano passate di poco le otto del mattino. Il
Tettuccio era pieno zeppo di eleganti ammalati. La cura di Montecatini
è tutta mattutina e si fa regolarmente prima dell’asciolvere; di guisa
che il fortunato bevitore delle acque acidulo-saline ci ha tutto il
tempo di seccarsi fino all’ora del pranzo, ed anche più in là. Si
lasciano le molli piume tra le sette e le otto; si sale in carrozza e
si va al Tettuccio; si siede colà, sotto i porticati, o lungo i viali,
o tra le aiuole; si barattano quattro ciarle con le proprie conoscenze,
quando se ne hanno, o si sta a guardare intorno, aspettando di farne;
intanto passano gli acquaiuoli coi bicchieri e le caraffe piene delle
linfe salutari; si stende la mano, si prende un bicchiere e lo si
beve a lenti sorsi. È di buon gusto il chiacchierare tra una sorsata e
l’altra, tenendo il bicchiere all’altezza del mento. I discorsi, poi,
hanno da essere ameni. Galanteria, se ci sono signore nel crocchio;
ma la politica deve far capolino di tanto in tanto; se no, correte il
rischio d’esser preso per un uomo da nulla.

Perchè ciò? Perchè Montecatini è il luogo di cura, la _statio bene
fida_ degli uomini politici, a cui danno molestia le bili accumulate
nei cinque o sei mesi d’una sessione parlamentare. Il fegato è un
viscere eminentemente politico. Guai all’oratore, stanco delle
infeconde battaglie della parola, che non si consegna una volta
all’anno alle terme Leopoldine, al Bagno Regio, al Tettuccio,
all’Olivo, alla Regina, al Cipollo, al Rinfresco, e via discorrendo a
qualcheduna delle preziosissime polle minerali di Valdinievole, per
ritemprarvi le forze! Lo stesso Antèo, il famoso gigante che ebbe a
lottare con Ercole, se vivesse ai dì nostri, non vorrebbe toccar terra
che a Montecatini.

Per queste ragioni, ogni anno, tra giugno e settembre, in mezzo a dame
clorotiche e anemiche, a banchieri pletorici, a generali reumatizzati,
a giovinetti rachitici, a tenori e baritoni infreddati, si vedono
molti infermi di una malattia particolare, riconoscibili alla medaglia
di San Venanzio che ciondola loro sul petto, sospesa alla catenella
dell’orologio. E si sentono qua e là, nel pigia pigia, dei discorsi
come questo:

— Oh, buon giorno! Come stai, mio caro? Quando sei giunto?

— Ieri; e tu?

— Io da sei giorni, ed ho già passato trenta bicchieri. E che nuove da
Roma?

— Niente di bello. Il Ministero si sosterrà.

— Sfido io! Siamo in vacanze. Ma lo voglio vedere alla riapertura.

— Hai già un’interpellanza in corpo?

— Una, per ora; ma fra due mesi ne avrò quattro. Così non può durare.

— Oh, per questo hai ragioni da vendere. Se ne parlava ancora l’altra
notte in strada ferrata con l’onorevole Bulinelli. Sai che gli
hanno rovinato il collegio, con quella concessione di nuove sezioni
elettorali separate? Il Bulinelli è fuori della grazia di Dio. Lo
sentiranno. Egli è uno dei cinque che capiscono qualche cosa nell’arabo
dei bilanci, e pretende che ci siano più errori che cifre.

— Cifre arabiche; errori arabici, mio caro!

— Ah sì, tu ci hai sempre la burletta. Si vede che le acque ti giovano.

— Di’ piuttosto che non mi mutano. Ho piacere che il Bulinelli sia
in collera. Quantunque io dubiti sempre, dopo il suo _sì_ dell’anno
scorso. —

Il _sì_ dell’on. Bulinelli è tanto grazioso, che non si può accennarlo,
senza raccontarne la storia. Era imminente a Montecitorio una votazione
importante, da cui doveva dipendere la sorte del Ministero, e questo
e l’opposizione battevano di continuo il telegrafo, per chiamare i
tiepidi a Roma. All’ultimo giorno della discussione, che era stata
tirata in lungo oltre il convenevole, per dar tempo alle ultime
categorie di giungere sul campo, non si poteva ancor prevedere di
chi sarebbe stata la vittoria. Quindici voti di assenti, che potevano
capitare coll’ultima corsa, erano dubbi, e la vittoria dipendeva dal
voltarsi che una metà di quei quindici avrebbe fatto o da una parte o
dall’altra.

— Come voterà il Bulinelli? — si chiedeva dai capi dell’opposizione,
raccolti in una sala di Montecitorio, in prossimità dell’ingresso.

L’accenno al Bulinelli era cagionato per l’appunto dalla apparizione di
quell’onorevole uomo nell’anticamera.

— Aspettate; — disse un amico; — vo a tastargli il polso. —

E andando incontro all’onorevole Bulinelli, e messagli amichevolmente
una mano sulla spalla, gli disse:

— Buon giorno! Sei giunto ora?

— Sì, non ho avuto neanche il tempo di smontare all’albergo, tanto mi
premeva di essere al mio posto. Sai che nelle grandi occasioni io non
manco mai al mio dovere.

— Soldato vero e fedele alla bandiera! — esclamò l’amico, premendo
forte con la palma della mano. — E che ti pare del Ministero? Hai
veduto che povertà di ragioni, nel discorso del guardasigilli?

— Non me ne parlare! Ho letto il rendiconto telegrafico e m’è bastato.
Ma sai che ci vuole un bel coraggio?

— Dunque, voterai contro?

— Si domanda? Contro, arcicontro, contrissimo.

— Ah, bene! — esclamò l’amico, noverando un voto di più per
l’opposizione.

Poco dopo si entrò nell’aula. Si svolgevano gli ultimi emendamenti
dei vari ordini del giorno; poi, come al solito, si ritirarono cinque
o sei ordini del giorno, e i rispettivi emendamenti, non restando al
contrasto che l’ordine del giorno accettato dal Ministero e quello
delle opposizioni collegate. Venne fuori la solita domanda di votare
per appello nominale, e i segretari della presidenza misero mano agli
elenchi. S’incominciò a leggere i nomi, dal banco della presidenza, e
a sentire i sì e i no, diversamente modulati, da questa e da quella
parte dell’aula. La prima lettera dell’alfabeto, povera anzi che no
di cognomi, si mantenne in un prudente equilibrio di sì e di no.
La seconda lettera, più ricca, ma ancora troppo lontana dal mezzo
dell’alfabeto, diede una certa prevalenza ai sì. Fortunatamente
l’opposizione contava su certi nomi sicuri, che avrebbero rimesse
le parti in bilico. Tra questi, come v’ho detto, era il nome
dell’onorevole Bulinelli.

Finalmente ci s’arriva; il segretario grida il nome del Bulinelli. E il
Bulinelli, con una voce che potrebbe dare l’intonazione alle trombe del
giudizio, risponde:

— Sì!

Gli oppositori si guardano scambievolmente, poi guardano l’amico che
aveva annunziato loro il no dell’onorevole Bulinelli. L’amico allunga
le labbra e si stringe nelle spalle. Intanto, l’appello nominale
continua, e un’ora dopo è finito. Il Ministero ha vinto per soli cinque
voti, ma ha vinto, e questo è l’essenziale. E insieme col Ministero
ha vinto anche l’onorevole Bulinelli, che si trova rassodato nel suo
collegio per un altro bimestre, cioè fino ad un altro appello nominale
e ad un altro pericolo di crisi ministeriale.

— Che vuoi? — diceva quella sera l’onorevole Bulinelli all’amico,
che gli domandava la ragione del suo voto. — Avevo promesso un no,
e sarebbe stato un no tanto fatto, perchè io, come sai, non guardo
in faccia a nessuno. Ma il presidente del Consiglio e il ministro
degl’interni mi han preso in mezzo, mentre andavo a fumare il mio
sigaro tra un emendamento e l’altro; mi han condotto nei corridoi; mi
hanno date spiegazioni sufficienti della loro politica. Infine, che ti
dirò? Mi hanno persuaso.... almeno per ora. E tu capirai....

— Capisco, capisco; — interruppe l’amico. — Sarà per un’altra volta.

— E col medesimo risultato; — soggiunse mentalmente un collega, che
aveva colto quel dialogo a volo.

Vi ho raccontato questo piccolo episodio della vita parlamentare
italiana, perchè m’è venuto a taglio, anzi per dire più esattamente,
m’è sgocciolato dalla penna; ma non istate a credere che io voglia
trattenermi con gli uomini politici raccolti al Tettuccio. Seguiterò
invece la signora Camilla Rivanera, che entrava nello stabilimento,
con quella dignità, con quella scioltezza di modi, e infine con quel
possesso di scena, che contraddistingue le dame, queste prime attrici
della commedia sociale. Oramai, signori belli, o prime attrici, o
nulla. Le ingenue non sono più di moda, e sto per dire neanche le
amorose. Almeno, l’apparenza della cosa non ci ha da essere, perchè
stonerebbe maledettamente in mezzo a questa cara finzione. Anche le
fanciulle contraggono nell’uso del mondo un’aria di padronanza che
farebbe trasecolare i nostri bisnonni, se tornassero mai, per loro
tormento ineffabile, a recitare nella sullodata commedia la loro parte
di caratteristi. Disinvoltura vuol essere, e magari anche audacia. Ogni
altra maniera di portamento, ogni altra espressione di volto, saprebbe
di provinciale e di goffo. La donna gentile, che Dante ha descritta
a passeggio in sonetto immortale, farebbe una brutta figura ai tempi
nostri e lungo i margini delle nostre vie. Ci si fermerebbe ancora a
guardarla, perchè la bellezza vuol sempre il suo omaggio consueto, ma
si borbotterebbe tra i denti: — Che peccato! Ha un’aria molto sciocca.

Il presidente Roberti, magro profilo d’uomo, perduto nello splendore
mattutino della sua bella nipote, come un povero satellite nella luce
di Giove, andava cercando con l’occhio un sedile vuoto. Tutto ad un
tratto, gli baluginò sugli occhi un cappello che descriveva la sua
parabola davanti a lui e gli venne all’orecchio una voce ossequiosa.

— Signor presidente, i miei rispetti! —

Il presidente si volse, riconobbe il personaggio e, fermandosi con atto
di lieta meraviglia, gli disse:

— Cavaliere Sestavalle! Anche Lei a Montecatini?

— È la mia stazione di tutti gli anni; — rispose l’Alcibiade,
inchinandosi. — E mi è permesso di ossequiare la signora, e di
chiederle notizie della sua salute? Quantunque, — soggiunse, piegando
il busto e rimpicciolendo le labbra, — non sarebbe il caso di
domandarne, vedendo quel florido aspetto. —

La signora Camilla sorrise benignamente e stese la sua leggiadra manina
al cavaliere Sestavalle.

— Troveranno qui parecchie conoscenze; — ripigliò l’Alcibiade,
prendendo posto a fianco della signora Camilla.

— Davvero? — esclamò la signora. — E chi?

— I Vezzosi, prima di tutti. Eccoli là, nella rèdola a sinistra. Li
hanno veduti per l’appunto, e il commendatore Gerardo si alza per
venirli ad incontrare. —

Infatti, il signor Gerardo si era levato allora dal suo sedile, accanto
ad una tavola di marmo, e muoveva frettolosamente verso il viale.
L’atto premuroso richiedeva una pronta voltata verso la rèdola, e la
signora Camilla fece ella stessa una parte di strada, tanto più che
dietro al signor Gerardo aveva veduta la signora Vezzosi, che era
seduta presso la tavola, e aveva al fianco parecchi cavalieri, tra i
quali il signor Aldo De Rossi.

Anche la signora Elena si alzò per muovere incontro all’amica, e
avvenne la solita scena commovente delle due dame che si combinano a
caso, dopo un certo periodo di separazione. L’incontro di due stelle
è sempre un cataclisma, nelle regioni celesti; ma in terra, la cosa
ha più modeste apparenze, quantunque non meno degne di osservazione.
Generalmente, le stelle terrestri (passatemi lo strano accoppiamento di
vocaboli) hanno qualche cosa da invidiarsi a vicenda, o la bellezza, o
la gioventù, o un bel paio di pendenti, o una abbigliatura di Worth, o
un cavalierino di garbo. E frattanto si ammirano, si baciano, si dicono
delle paroline inzuccherate, che farebbero correre l’acquolina alla
bocca, se non si pensasse che lo zucchero è di quello che riveste le
pillole; roba per solito amara, e qualche volta, velenosa.

— Sei qui, mia cara! Che fortuna! Ma sai che diventi ogni giorno più
bella?

— Che dici? Sei tu che risplendi come un sole. E avevi bisogno di
questa cura?

— Che! Non faccio cura. Seguo il mio signore e padrone. E neanche tu,
m’immagino, sarai venuta per bere.

— Oh no, sicuramente. Io seguo lo zio, come, vedi.

— Ad ogni modo, ringraziamo il sesso forte e le sue debolezze, poichè
ci si guadagna di vederci e di stare un po’ insieme. In città non è
possibile. Tu ci hai il tuo trono....

— E tu la tua corte.

— Carina! Qui invece potremo fare un regno solo, non è vero? Ti
presenterò i miei cavalieri e saranno i tuoi. —

Ad un discorso di questa fatta, si sa, i cavalieri s’inchinano, senza
muovere un lagno, per essere stati regalati così alla libera, come ai
tempi antichi una coppia di schiavi.

La signora Elena Vezzosi non aveva da presentare nominatamente il
signor Aldo De Rossi, che era per la signora Camilla una conoscenza
già fatta. Ma ella reputò necessario, indicandolo dopo gli altri, di
soggiungere, con l’aria più naturale del mondo:

— Vedi, abbiamo anche trovato a Montecatini il signor De Rossi, che
fa le sue gite, senza darne cenno a nessuno. Ma per questa volta lo
abbiamo sorpreso, e lo riterremo prigioniero di guerra. —



VIII.


Aldo aveva salutata la signora Camilla con un muto inchino, ma anche
con una confusione più eloquente di qualsivoglia discorso. La signora
Camilla, dal canto suo, fin dalle prime parole di Elena, aveva
mormorato quel certo «_ah sì?_» mezzo interrogativo e mezzo sbrigativo,
con cui se la cava chi non ha da dir nulla e vuole tuttavia aver l’aria
di dire qualche cosa.

Intanto il signor Gerardo e il Roberti avevano cominciato a
chiacchierare tra loro. Il commendatore Vezzosi era felice di aver
trovato un presidente gran croce, in mancanza dei due ministri, che non
si erano ancora lasciati vedere in Valdinievole. Cinque minuti dopo,
il presidente Roberti, seduto presso la tavola dei Vezzosi, aveva già
bevuto due bicchieri dell’acqua salutare e sorbito un discorso politico
del commendatore Gerardo.

La signora Camilla, ultima arrivata a Montecatini, accettava di buon
grado gli uffici del cavaliere Sestavalle. Il vecchio Alcibiade s’era
tramutato nel più compiacente dei Ciceroni, e le andava sciorinando
i nomi di tutte le signore che passavano a mano a mano lungo il viale
d’entrata. La rassegna del Sestavalle comprendeva contesse veneziane,
marchese fiorentine, duchesse napolitane, principesse greche,
moldovalacche e via discorrendo. Perchè c’era di tutto laggiù, e il
cavaliere Sestavalle era già informato di tutto.

Aldo De Rossi, presa di fianco alle dame una posizione modesta, ma
buona, come tutte le posizioni modeste, sorrideva col sommo delle
labbra alla signora Elena, ogni qual volta essa gli volgesse il
discorso; ma intanto era tutt’occhi per la signora Camilla. Felice
quando ne incontrava lo sguardo! Ma erano istanti brevissimi; lo
sguardo della signora Camilla passava, e la bellissima donna aveva
l’aria di non essersi neanche avveduta delle sue contemplazioni.

Poco stante, le signore si mossero, per fare un giro nello
stabilimento. Si sentivano dal fondo gli accordi d’un concertino di
pianoforte e di flauto, musica improvvisata da suonatori girovaghi,
che volevano parere artisti di passaggio, e la signora Elena propose di
andare nella sala del concerto. Intanto la signora Camilla, che veniva
per la prima volta a Montecatini, doveva conoscere in ogni sua parte lo
stabilimento del Tettuccio, vedere la fonte, il giardino e il _bazar_.
Mercè una sapientissima mossa strategica, Aldo De Rossi aveva ottenuto
di trovarsi al fianco della signora Camilla, cacciandone il Sestavalle,
che dovette appoggiare a sinistra, verso la signora Elena Vezzosi. E
perchè lungo il viale, in mezzo al viavai della gente, non si poteva
marciare per quattro, ne venne che la fronte si spezzò subito in due.
La signora Elena andò innanzi con l’Alcibiade; il presidente gran croce
e il commendatore Gerardo venivano indietro, con una gravità degna di
loro: Aldo e Camilla si trovavano soli nel mezzo.

— Che fortuna per me, signora! — disse Aldo in modo da non essere udito
dalla prima, nè dalla terza fila.

— Fortuna! Di che? — esclamò la signora Camilla.

— Ma.... di avervi incontrata; — rispose il De Rossi. —

La signora Camilla si volse a mezzo e lo guardò co’ suoi begli occhi
neri, in atto di curiosità, mentre le labbra vermiglie s’increspavano
ad un risolino sarcastico.

— O non lo sapevate, di dovermi incontrare? — gli chiese. —

Aldo rimase un po’ sconcertato da quella domanda e dall’espressione di
quel sorriso. Tuttavia volle provarsi a rispondere.

— Anche a saperlo prima, sarebbe sempre una fortuna; — diss’egli. — Non
potevate avere mutato opinione?

— Ah, bene! — esclamò la signora Camilla. — Voi mi fate molto volubile,
signor De Rossi! Ma badate, nel caso presente l’accusa non verrebbe a
me, sibbene a mio zio. Vi ha proprio l’aria di un uomo volubile? —

Aldo De Rossi era lì per rispondere qualche altra sciocchezza;
ma proprio in quel punto il fermarsi improvviso della prima fila
richiamava ad altro argomento l’attenzione della signora Camilla.
Un nuovo venuto salutava la signora Elena indi si volgeva con atto
ossequioso alla compagnia. Il nuovo venuto era il contino Anselmi,
sempre elegante, sempre gaio, sempre contento di sè, quantunque non
fosse poi tanto imbecille, come qualche volta gli piaceva di chiamarsi,
per antivenire il giudizio de’ suoi contemporanei.

Le tre file si erano tramutate in un crocchio. E il commendatore
Gerardo aveva presentato il contino Anselmi al presidente gran croce.

— Non è necessario: — disse il presidente. — Col signor conte ci
conosciamo da un pezzo. —

Così dicendo, stendeva la mano, che il contino Anselmi fu pronto
a stringere, non senza un atto del capo, che faceva fede della sua
reverenza e della sua gratitudine.

— Quantunque, — entrò a dire la signora Camilla, che aveva già ricevuti
gli omaggi del nuovo venuto, — sarebbe quasi necessario di rinnovare la
presentazione.

— Perchè mi si vede di rado? — chiese l’Anselmi ridendo e inchinandosi
di bel nuovo. — Ma la colpa non è mia.

— Stiamo a vedere che è nostra! — ribattè la signora Camilla.

— Per l’appunto, — replicò l’Anselmi, — e si vede che le vostre labbra,
o signora, hanno l’uso delle verità. Conosco due virtù che stanno ad
alloggio nella medesima casa; la grazia e la giustizia; — soggiunse
amabilmente il contino, accompagnando i due sostantivi con due guardate
consecutive alla signora Rivanera ed al presidente Roberti. — Con che
coraggio ci entrerebbe la mia dappocaggine?

— Ecco un pretesto che vuol parere un complimento; — notò la signora
Camilla. — Lo accetteremo per un complimento, zio?

— Oh, ve ne prego, signora; — gridò il contino Anselmi; — non
interrogate il magistrato. Egli mi condannerebbe. —

Il presidente gran croce, chiamato in causa a quel modo, reputò
necessario di fingere altrettanta gravità, quanta era stata nel contino
Anselmi la finzione dello spavento.

— Forse perchè vi sentite colpevole? — diss’egli. — Ma badate, signor
conte; io non fo più sentenze da molti anni. L’ultimo uffizio che ho
tenuto, è stato quello di cassare le sentenze degli altri, quando mi
accadeva di ritrovarci un vizio di forma. Se mia nipote vi condannasse,
vedrei....

— E cassereste la sua sentenza per vizio di forma? Meno male; — replicò
l’Anselmi. — Ma io, ringraziando Vostra Eccellenza, non approfitterò
della cortesia. Per una sentenza della signora Camilla io non ricorrerò
mai in cassazione; foss’anche una sentenza di morte. —

Così chiacchieravano allegramente, andando a lenti passi verso la sala
del concerto. Intanto, il signor Aldo De Rossi era sulle spine.

— Che sciocchezze! — disse egli tra sè. — Non capisco come il
presidente ci trovi gusto. —

Se la pigliava col presidente, ma in fondo in fondo l’aveva con la
signora Camilla. E si doleva che quel perondino vanaglorioso fosse
venuto in mezzo con le sue ciance, per prendersi il primo posto. Ma
già, l’occasione è di chi si caccia avanti e sa afferrarla per il
ciuffo.

A farlo a posta, la signora Camilla non aveva occhi nè orecchi che per
il contino Anselmi; e questi, molto naturalmente, senza che Aldo De
Rossi potesse lagnarsene, prese il suo posto a fianco della signora.
Non doveva egli continuare una conversazione che ella mostrava di
gradire?

Sì, questo andava benissimo; il ragionamento non faceva una grinza e al
signor Aldo gli toccava di rassegnarsi. Solo una cosa non poteva mandar
giù; che la signora Camilla potesse dilettarsi di quelle ciarle senza
sugo, di quei complimenti smaccati, di quelle amplificazioni noiose.
Ma dobbiamo noi pensare in tutto e per tutto come il signor Aldo De
Rossi? E la signora Camilla non meritava in questo caso le circostanze
attenuanti? In società siamo tutti un po’ facili a giudicare secondo
il nostro tornaconto, e il non vedere che poi ci rende ingiusti con
gli altri. Ma se il signor Aldo non ci pensa, a queste cose, dobbiamo
pensarci noi; ricordare ad esempio che si era in viaggio, lontani da
casa, da tutte le cure e da tutte le serie occupazioni della vita. In
simili casi l’incontro di un grazioso cavaliere, d’un capo ameno, è
sempre una fortuna; ed è naturale che si faccia festa all’uomo che può
e vuole tenere allegra la compagnia. Gli uomini che ci hanno una spina
nel cuore farebbero bene a starsene a casa, o a viaggiare da soli.
E chi sa? Forse, viaggiando da soli, s’imbatterebbero in una società
nuova per essi, nella quale non avrebbero sopraccapi, e per la quale
sarebbero aiuti preziosi. Tanto è vero che nel mondo c’è posto per
tutti. L’essenziale è di trovare quel posto.

Forse ne aveva già fitto l’esperienza, il signor Aldo De Rossi, che si
trovava libero di cuore e franco di lingua presso la signora Vezzosi,
mentre era così triste e ingrugnato (diciamo pure la brutta parola)
presso la signora Camilla? Ora, nella battaglia della vita, chi ha la
mente serena è sicuro del fatto suo.

Bel ragionamento, del resto! Andatelo a fare a chi soffre. Ogni nato
di donna ha da seguire il suo fato. E il fato moderno, più vero
dell’antico, è costituito da tante piccole cause inavvertite, che
vi fanno rete intorno alla persona e vi trascinano di concessione in
concessione, di debolezza in debolezza, agitandovi di qua e di là come
il vento la piuma. E guai a chi è leggiero com’essa; guai a chi non ha
un bricciolo di volontà, per resistere in qualche modo e sottrarre una
parte di sè medesimo all’azione combinata delle piccole cause!

Intanto, il nostro Aldo si foggiava i proprii mali. Già se li vedeva
compendiati in quel principio di sofferenze, come una commedia antica
nell’argomento di cui l’hanno provveduta i grammatici. Era, lui,
proprio lui, che col suo tirarsi in disparte, col suo metter broncio,
rendeva possibile il peggio.

E pensare che quella mattina egli era tanto felice! E i giorni
addietro, che ansietà fanciullesca, ma piacevole, ad aspettare l’arrivo
della signora! Confuso tra quella moltitudine elegante che si accalcava
ad ogni arrivo di treno sull’asfalto della stazione di Montecatini, per
veder giungere i nuovi compagni di cura, egli aveva finalmente veduto
scendere da una carrozza di prima classe il presidente Roberti e la
sua bella nipote. Non si era fatto avanti, volendo assaporare la sua
gioia, e procurarsi il piacere di dire più tardi alla signora Camilla:
— Sapete? Io ero là. Avevate un cappellino così e così, con un velo
del tal colore, una cappa, o una mantellina del tal altro. — E fuori
della stazione l’aveva pedinata fino all’albergo della Pace, dove egli
stesso era sceso due giorni prima ad alloggio in compagnia dei Vezzosi.
E quella sera, scambio di andare al Casino, che era il luogo di ritrovo
della buona compagnia, era stato a piuolo sotto le mura dell’«albergo
avventurato», che egli, con le parole del Giusti, aveva cantato a
mezza voce «soave asilo di gioia e piacer.» E più tardi, esciti i
Vezzosi dal Casino, aveva data la lieta notizia alla signora Elena,
prima di augurarle la buona notte. Lieta notizia per lui, si capisce;
e poco gl’importava che non fosse ugualmente lieta per lei. Anzi, a
dirvela schietta, non era stato neanche a pensarci su. Un uomo felice
crede che tutti debbano esser felici con lui, e per la stessa ragione.
Quella notte aveva dormito poco. Alla mattina, per tempissimo, era già
alzato, per far la ronda sotto certe finestre. Sapeva già, infatti, a
che numero alloggiava la signora Camilla. Poi, era andato al Tettuccio,
senza neanche aspettare i Vezzosi. In verità, dormivano troppo, i
suoi compagni di viaggio, e si sarebbe detto che fossero andati a
Montecatini, non già per far la cura delle acque, ma quella del sonno.

Eppure, quantunque non provassero le sue impazienze, i Vezzosi
erano giunti in tempo, cioè molto prima della signora Camilla, allo
stabilimento del Tettuccio. Segno evidente che aveva avuto torto lui
a non aspettarli, come nei giorni antecedenti. La signora Elena non
si era mica trattenuta dal dirglielo, con la sua aria maliziosa. — Che
fretta, stamane! — Ed egli, a quella osservazione, si era fatto rosso,
come un monelluccio colto in flagranti. Ma via, siamo giusti; poteva
egli operare diverso? Gl’innamorati son tutti così. Triste colui che
non li sente più, questi benedetti spasimi della passione! Egli potrà
benissimo vantarsi di aver girato il capo delle Tempeste; ma questa
cara filosofa non varrà a consolarlo dagli ardori svaniti.

Sebbene, un mio amico che la sa lunga.... Ma non facciamo digressioni.
È un amico che dice spesso le sue corbellerie, e qualche volta ne
scrive, che è peggio.

L’entrata della signora Rivanera nella _Kursaal_ (scusate il vocabolo
esotico, ma bisogna conformarsi all’uso e chiamare _Kursaal_ il
recinto delle acque salutari) aveva destato nella folla un movimento di
curiosità e di ammirazione; di curiosità nelle donne, di ammirazione
negli uomini. La bellezza non si mostra impunemente, neanche ad
un consesso di Areopagiti. Tutta quella gente seduta, o disposta
a capannelli lungo i viali, poteva contemplare a suo bell’agio la
nuova venuta, come mille spettatori contemplano una prima attrice
sul palcoscenico. L’effetto era stato grande, ed accompagnato da quel
bisbiglio, che vale per una bella signora come per la prima attrice
l’applauso. Ma in un paio d’occhi brillavano compendiate le ammirazioni
universali; in un cuore ardevano tutti gl’incensi che la moltitudine
degli ammiratori avrebbe potuto bruciare ai piedi di quella bellissima
sconosciuta. E come, in quel punto, la Valdinievole s’era illuminata
per esso! La _Kursaal_ del Tettuccio era da quel momento il centro
della terra, il nuovo meridiano, da cui Aldo De Rossi avrebbe misurate
le distanze. La signora Elena aveva veduta la Rivanera qualche momento
prima che la vedesse il Sestavalle; ma assai prima della signora Elena
l’aveva veduta Aldo De Rossi, e si può dire che la signora Elena
volgesse gli occhi all’ingresso dopo avere osservato un improvviso
scolorimento sul viso di lui. Non vi dirò (e se ve lo dicessi non
lo credereste) che la signora Elena fosse molto contenta di ciò. Una
bella donna non vede mai di buon occhio questi omaggi resi ad un’altra,
anche quando ella abbia conchiuso il patto che la signora Elena aveva
conchiuso, bontà sua, con Aldo De Rossi. Strano patto, del resto! E
la signora Vezzosi non ci aveva proprio un secondo fine, appiattato
negli abissi del cuore? Si sa, le donne si lasciano tentare dalle idee
bizzarre, e l’impossibile ha il privilegio di allettarle. Combattere,
rapire il cuore di un uomo al fascino che lo possiede, e poi.... E poi,
chi sa? Forse non sapere che farsene. Anche i bambini piangono e si
disperano per un giocattolo; quando son giunti ad averlo tra le mani,
lo spezzano.

Il cavaliere Sestavalle, Alcibiade primo, si era mosso per andare
incontro alla Rivanera e allo zio presidente gran croce. La signora
Camilla si era voltata, aveva visto Elena e si era affrettata ad
andare verso la tavola di marmo. Le due signore, che si salutavano
appena nella loro città natale, diventavano amiche alle acque. Ed era
naturale, perchè la comunanza del divertimento è più che bastante a
generare l’amicizia, o almeno almeno l’intimità. Aldo De Rossi era
a Montecatini insieme coi Vezzosi; poteva dunque ripromettersi di
vedere la signora Camilla ogni giorno ed ogni ora. E già il poveretto
assaporava le delizie di quel suo paradiso. Ma egli non aveva preveduto
ciò che avviene alle acque, dove l’intimità, facile per uno, è
ugualmente facile per molti. Per l’appunto, anche il contino Anselmi
si era fatto avanti; e non si era mica contentato di un saluto, di una
stretta di mano, e di quattro chiacchiere; no, si era ficcato in mezzo,
e di primo acchito aveva occupato il posto del signor Aldo presso la
signora Camilla. E lei, di schianto, gentilissima col contino Anselmi;
mentre con lui, col povero Aldo, si era tenuta in un riserbo direi quai
diplomatico.

Strana cosa! La Rivanera e l’Anselmi non si vedevano spesso. Il contino
aveva conosciuta la signora Camilla in una festa da ballo, come Aldo
De Rossi, ma, andato a farle visita, non c’era tornato che rarissime
volte, e poi non s’era più presentato affatto. E il De Rossi, che
vedeva tutto, non contava più l’Anselmi tra i rivali possibili. Ma
ecco, di punto in bianco, il presidente Roberti e la sua bella nipote
credevano necessario di rimproverare all’Anselmi la sua negligenza.
Che bisogno c’era di notare la cosa? Non era padrone il contino di
andare dove meglio voleva? E perchè dargli argomento d’insuperbirsi? di
sperare Dio sa che cosa? Perchè oramai, il contino Anselmi si sarebbe
fatto un dovere di piantarsi ai fianchi del presidente Roberti.

Queste cose non c’è mestieri di studiarle, si capiscono alla prima.
Un uomo vede una donna per un anno e per due, senza innamorarsene,
quantunque sia bellissima tra le belle. Ma dategli l’occasione, e
s’accenderà come un fiammifero.

O dove ci aveva la testa, il presidente gran croce? Ed era dunque
da credere che per piacere alle donne, per farsi ricercare da esse,
occorra di trattarle male? Aldo De Rossi ci pensò tutto il tempo che
rimase nella sala del concerto; e ci pensava ancora quando escirono
tutti dalla _Kursaal_, per ritornare all’albergo.

La strada non era breve; ma le due compagnie, liete di essersi
incontrate, non volevano separarsi. Perciò il commendatore Gerardo
propose, e gli altri accettarono, di fare la strada a piedi. In una
ventina di minuti si sarebbe giunti all’albergo. Lo stradone era
fiancheggiato da due filari d’alberi, e c’era ombra abbastanza. Del
resto, alle nove e mezzo del mattino i raggi del sole non iscottavano
ancora.

Capirete che il contino Anselmi era in vena di dirne e la signora
Rivanera di sentirne. Perciò andarono avanti, e Aldo stette indietro, a
udire il suono argentino delle risa di Camilla.

— Che avete? — gli disse la signora Elena, prendendo famigliarmente il
suo braccio.

— Io? Niente; — rispose egli, scuotendo la testa, come uno che si
svegli d’improvviso.

— Niente! — esclamò la signora Elena. — È troppo poco. —



IX.


Aldo rimase taciturno. Forse non udì neanche l’osservazione della
signora Vezzosi. Il nostro povero eroe non avea orecchi che per le
risa della signora Camilla, più vive in quel punto, e più argentine
che mai. Per tutti i settecentomila settecento settantasette diavoli,
che si sogliono invocare in simili occasioni, che cosa diceva di così
spiritoso, a otto passi da lui, il contino Anselmi, che la signora
Camilla dovesse riderne in quel modo?

La signora Elena, usando liberamente dei diritti dell’amicizia, diede
una strappatina al braccio del suo distratto cavaliere.

— Suvvia, rispondete; — gli disse; — che cosa vi affligge?

— Ve l’ho già detto, nulla; — rispose Aldo De Rossi.

— Ah, è vero; — ripigliò la signora Elena, con accento sarcastico. —
Voi dovete esser triste per eccesso d’allegrezza. La gioia fa paura; lo
ha detto anche la signora di Girardin. La splendida Camilla è venuta
a brillare sull’orizzonte del Tettuccio, e voi, povero pianeta, vi
oscurate nella sua luce. Non è così? Bisogna convenire, — soggiunse
la signora Vezzosi, — che è molto bella, e ciò giustifica le vostre
adorazioni. Vi parrà strano, mio bel cavaliere, che una donna si
rassegni a lodarne un’altra. Ma io l’ho guardata molto, poc’anzi; l’ho
guardata più in un’ora, che non abbia fatto in due anni. Sono una donna
sincera ed amo rendere omaggio alla verità. E poi, con vostra licenza,
non ho paura di confronti.

— È giusto; — rispose Aldo. — Siete bellissima.

— Già! — ribattè la signora Vezzosi. — Non sono forse la Venere di
Milo, io? Ma quell’altra statua, che non è stata fatta da Fidia....

— Ha già trovato un Pigmalione, che le dà l’anima; — proruppe Aldo, che
non poteva più contenersi. — Sentite che allegre risate! —

La signora Elena si volse a mezzo, per guardare negli occhi il suo
cavaliere.

— Ah, eccolo, il segreto di quest’anima nera! — diss’ella. — Siete
geloso! —

Aldo scosse la testa e battè le labbra, come un uomo che si vede
scoperto e non vuole ammettere di esserlo.

— Sì, siete geloso; — ripigliò la signora Vezzosi. — Già, un uomo
geloso si riconosce tra mille. È un brutto vizio, la gelosia; peggio
che un vizio, è un errore.

— Credete? — balbettò Aldo De Rossi.

— Certamente; son donna e posso parlarvene con sicurezza. Supponete,
ad esempio, che un uomo mi ami e che io l’ami ugualmente. Una donna,
abbiatelo per massima, ha sempre timore di essere abbandonata. Avvezza
al piedestallo, non ama discenderne, e se in un momento di passione e
d’oblio ne è pure discesa, vuol esserci ricollocata. Era adorata, che
è molto, e non può bastarle d’essere amata, che è meno. Perciò, voi
vedete la conseguenza, signor Aldo... ella ha mestieri di tener l’anima
di un uomo in sospeso. Ho detto l’anima, e bisognerebbe dire il cuore;
il cuore, che non è ben nostro, intieramente nostro, se non quando lo
vediamo soffrire. E perchè il cuore di un uomo non soffre tanto bene,
come quando egli teme di aver dei rivali, la donna sa quel che ha da
fare per custodirlo. E quando non ci sono rivali, la donna si affretta
a cercarli.

— O come? — esclamò Aldo De Rossi.

— È presto fatto; — rispose la signora Elena — Intorno ad una donna
(parlo di una donna bella e piacente) ci sono sempre uomini a dozzine.

— Sciocchi! — brontolò Aldo, a cui pareva di vederli.

— Generalmente sciocchi, ve lo concedo. Ma sono per l’appunto quei che
ci vogliono. Tutti questi sciocchi sono da lei adoperati a due usi;
fanno uffizio di specchio e di leva.

— Entra in scena Archimede; — scappò detto al De Rossi.

— Che c’entra Archimede? — domandò la signora.

— C’entra in questo modo, che egli è celebre nella storia, per avere
inventati gli specchi ustorii e per aver sognata la più gran leva
dell’universo, una leva con cui smuovere il cielo e la terra.

— Vedete che combinazione! — esclamò la signora Vezzosi. — Diciamo
dunque che la donna ha qualche cosa del vostro Archimede. Ella si
specchia ne’ suoi dieci o dodici sciocchi; i quali la salutano bella,
con le loro mute ammirazioni, e le fanno un piacere da non dirsi. State
pur certo che ella non rinunzierebbe agli specchi, per nessuna cosa al
mondo. Vi amasse pure come un Dio, sapesse pure che andate in collera
e che ella risicherà di perdervi, ella non vorrebbe privarsi di questa
consolazione. Del resto, se voi siete un uomo di spirito, non dovete
adombrarvi troppo degli specchi, quando sono al plurale.

— E la leva? — disse Aldo. — Come mai uno specchio può trasmutarsi in
leva?

— Ecco qua, signor Aldo. La donna si serve di tutti questi personaggi,
per tenerne un altro, uno solo, in bilico, tra speranza e timore. Si
ama sempre molto ciò che si teme di perdere. Non siete tutti così, voi
altri uomini? Una donna che si abbandona oggi intieramente, si prepara
un brutto domani. Ella è Didone, e voi siete pronti a seguire l’esempio
di Enea.

— Sarà così, come voi dite; — mormorò Aldo De Rossi. — Ma io mi sento
diverso dagli altri.

— Lo credete, e ciò vi fa onore. Ma anche molti altri dicono così; e
poi nel fondo.... Signori uomini, lasciatevelo dire, presi l’uno per
l’altro, valete pochino.

— Scusate, donna Elena; — balbettò Aldo. — Non vorrei aver l’aria di
offendere il vostro sesso; ma....

— Ma vorreste dire che le donne non valgono di più. Confessatelo; era
questo il vostro pensiero. Orbene — proseguì la signora Elena, vedendo
di essersi apposta, — con vostra buona pace, le donne valgono molto di
più... quando sacrificano molto di più. Perciò riconoscerete in esse il
diritto di prendere le loro precauzioni.

— Sicuro; — rispose Aldo De Rossi, — a danno.... degli specchi. Tutti
quei poveri di spirito, che s’immaginano di piacervi, voi li tirate in
ballo, vi prendete giuoco di loro. È forse ben fatto? Non ne uccidete
qualcheduno? —

La signora Elena rimase un tratto pensosa; ma subito dopo si riebbe.

— È vero, — diss’ella, — la cosa non è troppo caritatevole. Ma
considerate che noi non siamo perfette, e che io, mettendo le donne
tanto al disopra degli uomini, non ho voluto neanche alzarle troppo.
Ci vuol così poco, per essere superiori a voi! Del resto, se il giuoco
è crudele, credete pure, signor Aldo, che non è altrimenti fatale. Gli
uomini non muoiono di queste ferite, e la statistica ci assicura che
ne guariscono tutti. Quando l’uomo che ha fatto da specchio si accorge
di essere stato burlato, va in collera. Ma anche la collera sbollisce;
l’uomo nulla nulla educato si mette con una certa diligenza a passare
in rassegna tutte le piccole cortesie, e diciamo pure tutte le piccole
provocazioni femminili che lo hanno condotto a sperare. S’avvede
allora che non c’era nulla, o quasi nulla; si persuade d’aver torto;
dà una crollatina di spalle e va a ripigliare altrove il suo ufficio
di specchio. Ci sono degli uomini che non sanno, che non potrebbero
far altro. E ci hanno sempre la speranza di trovare un giorno qualche
povera donna, che, travolta dalla sua vanità, s’innamori dello
specchio.

— Ma qualcheduno, ammettetelo, — replicò Aldo, — qualcheduno ci
diventerà cattivo, a questo giuoco, e farà soffrire ad una ciò che
venti altre avranno fatto soffrire a lui.

— Ah, per questo, non me ne importa nulla; — rispose la signora Elena.
— Ci ha da pensare quell’una. Perchè dobbiamo noi darci pensiero di
lei? Ogni donna è centro del suo piccolo mondo, e nel nostro sesso non
troverete mai la più piccola traccia di quello spirito di corporazione,
che si riscontra fra uomini.

— E sia; — disse Aldo; — non disputerò su questo punto con voi. Ma
mettete il caso che l’uomo specchio s’impermalisca per davvero e si
vendichi della donna che s’è fatta zimbello di lui.

— Zimbello è troppo, signor Aldo. Quando una donna prende uno specchio,
lo fa con un certo garbo, che non lascia mai appiglio ad una simile
accusa. Del resto, l’uomo che si vendicasse del giuoco sarebbe un vile.
E di questi vili se ne trovano molti, in società, anche senza aver
fatto loro l’onore di adoperarli come specchi.

— Sì; ma quando sono stati adoperati, ci hanno una scusa alla loro
vendetta.

— Non c’è scusa, per una viltà. Ma infine, io non vi dico che tutto ciò
sia ben fatto; vi dico quello che generalmente avviene. Fatene vostro
pro, signor Aldo, e abbiate la bontà di restar tranquillo, davanti ad
un giuoco di specchi, che forse incomincia oggi, e che certamente non
ha nulla di grave. —

Aldo De Rossi sospirò profondamente, pensando alle gaie risate della
signora Camilla, e rispose:

— Signora, bisognerebbe che quel giuoco fosse incominciato davvero per
tener me in sospeso. Ma io, pur troppo, non sono neanche, «tra color
che son sospesi» perchè non sono stato ancora accettato.

— Ma... che dirvi? — rispose la signora Elena, stringendosi nelle
spalle. — Potrebbe essere vero e non essere. Camilla può benissimo aver
paura di voi, prima che a voi sembri di essere diventato pericoloso.
Ma ad ogni modo, fatevi avanti. Perchè vi lasciate rubare il posto?
Siete un uomo curioso, signor Aldo, con la vostra irresolutezza e la
vostra malinconia. Credete a me, vostra amica sincera; le donne non
amano i cavalieri malinconici. Questi eroi non fanno fortuna che nelle
pagine dei romanzi. In società bisogna essere allegri, quantunque senza
esagerazione, e sopra tutto padroni di sè, pronti a mutar registro
secondo l’umore della dama, e desiderosi soltanto di non riescirle
noiosi. Vedete? — soggiunse ella ridendo. — Non c’è spirito di
corporazione, tra le donne, ed io tradisco per voi i segreti delle mie
sorelle in Eva.

— Sarà come voi dite, signora. Ma che fatica ha da essere questa!
E come è poco degna di omaggio una donna per cui sia necessaria
quest’eterna finzione! Io ho intravveduta nei miei sogni una donna più
alta; una donna profondamente buona....

— Con voi, non è vero? E molto cattiva con gli altri, non è vero anche
questo?

— No, semplicemente austera con tutti; — rispose Aldo, punto nel vivo
da quella osservazione maliziosa, che scopriva il lato debole del
suo argomento. — Se si ha da vivere per l’amore, perchè non volerlo a
dirittura profondo, immenso, esclusivo?

— E tragico per giunta; — notò la signora Vezzosi.

— No, piuttosto epico, — ribattè Aldo De Rossi, — con qualche cosa di
sacro, come in tutti i grandi poemi. La Dea s’innamora d’un mortale, ma
è sempre Dea e non esce mai dalla nuvola. Infine, si può amare un uomo,
senza lasciarsi amare da cento. Che gusto ci provano le donne a tanta
varietà, e, diciamolo pure, a tanta volgarità d’incensi?

— La ragione l’avete detta voi; — rispose la signora Vezzosi. — Non
si tratta d’una Dea? Le Dee antiche gradivano ogni sorta d’incensi,
badando poco al valore dell’aroma e molto alla divozione con cui era
offerto. Del resto, signor Aldo, voi siete poeta e andate facilmente
alle esagerazioni, sognate ad occhi aperti, come accade a tutti i
poeti. Ora, io, per debito d’amicizia, vi avverto d’una cosa. La donna
che avete sognata.... non esiste.

— Ah! lo credete? — esclamò il De Rossi.

— O se pure esiste, — proseguì la signora Elena, — voi le siete passato
accanto e non vi siete accorto di nulla. —

Il colpo era forte e andava forse più oltre che la signora Vezzosi non
avesse voluto. Anche lei, senza avvedersene, lavorava contro Camilla.
Eppure, lo ricordate, la signora Elena era andata a Montecatini col
nobile proposito di aiutare il De Rossi. Ma già, abbiate pure un pan di
zucchero al posto del cuore, il fegato, suo vicino, ci rovescerà sempre
addosso qualche cosa d’amaro. È sempre spiacevole di dover lavorare ai
propri danni, quando si sperava di poter fare tutt’altro.

Aldo De Rossi non era uno sciocco, vi prego di crederlo, e lo era
solamente per quella parte in cui lo sono tanti uomini di valore;
cioè a dire quando amano e con la persona che amano. Perciò intese
facilmente il senso riposto delle parole che la signora Elena aveva
buttate là in un impeto di cattivo umore, e, come potete immaginarvi,
rimase un pochino sconcertato. Lì per lì, quasi per debito di cortesia,
avrebbe voluto dirle: — «avete ragione.» — Ma non sarebbe stato un far
torto alla signora Camilla? Ed egli, così raffinato nel suo modo di
pensare, tanto raffinato da dar dei punti ad un teologo della scuola
bisantina, si tenne in corpo la sua cortesia, ottenendo così il bel
risultato di parer sciocco due volte.

— Ma via, — ripigliò la signora Elena, dopo un istante di pausa, —
noi forse giudichiamo male Camilla. Cioè.... — soggiunse, — diciamo le
cose come stanno; siete voi che la giudicate, mentre io non fo altro
che ragionare sui vostri giudizi. Camilla sarà benissimo capace di
amare sul serio, e sotto quell’apparenza di leggerezza ci sarà, c’è di
sicuro, una forza di sentimento che voi ora non sospettate neppure. Ma
bisognerà toccare il suo cuore con qualche impresa maravigliosa, escire
senz’altro dal comune. Quell’aria di malinconia che voi avete presa per
livrea d’amore, non vi basterà, ve lo dico io, non vi basterà. Dio sa
quanti altri avranno tentato di piacerle con quelle forme romantiche!
Se sapeste come fanno ridere, quegli atteggiamenti da poeta moribondo!
La donna vuol esser padrona, ma non vuole passare per tiranna, nè
essere obbligata ogni giorno a scolparsi, o a dare una costituzione. E
quell’uomo che mostra di soffrire per ogni cosa da nulla....

— Vi prego, — interruppe Aldo, — dite quell’uomo che soffre davvero.

— Peggio che mai! — ribattè la signora Vezzosi. — Quell’uomo che soffre
davvero per ogni cosa da nulla, che cosa non soffrirà e che cosa non
farà soffrire tutti i giorni, ad una donna che sarà tanto debole per
concedergli il suo cuore? A questo pensa una donna, ed ha ragione
a pensarci in tempo, perchè il pensarci poi non le gioverebbe più
a nulla. Sappiate, signor Aldo, che le donne non amano le tragedie;
qualche volta ne fanno, ma senza avvedersene, come quel personaggio
di Molière, che faceva della prosa robusta senza saperlo. Dunque,
mi raccomando, non siate malinconico. È un vizio pericoloso, perchè
correrete il rischio di non parerle originale, ma una copia, fors’anche
una brutta copia, di cento e cento altri.

— Sarà benissimo così! — rispose il De Rossi, chinando la testa. —
Proverò ad essere allegro. Ma sarò anche qui poco originale.

— Perchè?

— Perchè sarò una copia di lei. Non sentite com’è gaia? Ci ha sulle
labbra il riso stereotipato, quest’oggi. —

La signora Elena non potè trattenersi dal ridere, a quella osservazione
bizzarra.

— Sì, è vero; — diss’ella. — Ma sarà meglio imitar lei che altri.
Camilla non si accorgerà del plagio, e accoglierà volentieri
quell’umore che sarà più conforme al suo. Vi torna?

— La riflessione è giustissima; — rispose il De Rossi. — Purchè mi
venga fatto di seguire il vostro consiglio!

— Lo potrete, se vorrete. E poi, badate, ci avete obbligo, anche per
un’altra ragione. Stando sempre così imbronciato, fareste torto a me,
che non lo merito.

— A voi? E come?

— Ma sicuro! Si dirà che noi abbiamo portato a Montecatini un orso,
e un orso male addomesticato. Suvvia, state allegro, siate forte, e
combattete da uomo leale.

— Grazie! — esclamò Aldo, allungando la mano per stringer quella della
signora Elena, che posava ancora sul suo braccio.

Erano giunti allora davanti alla succursale dell’albergo della Pace.
La signora Camilla e il contino Anselmi avevano già fatto alto, per
aspettare il resto della comitiva, e frattanto l’Anselmi prendeva
commiato dalla signora, poichè egli doveva tornare indietro, essendo ad
alloggio all’albergo della Torretta. Si avvide la signora Camilla della
stretta di mano che Aldo aveva data alla signora Vezzosi? Forse sì,
forse no; il che significa che non potrei starvene mallevadore.



X.


Ogni tempesta ha i suoi riposi, come i raggi solari hanno i loro
intervalli opachi. Ed io metto avanti questi dotti paragoni, per dirvi
una cosa molto comune, cioè che, dopo tanti spasimi di gelosia, Aldo De
Rossi ebbe qualche ora di tregua. Il contino Anselmi alloggiava lontano
dalla Pace, e si aveva la bella prospettiva di non rivederlo così
presto. Prima di tutto, non c’era da vederlo a colazione, anche perchè
le signore usavano farla nelle loro camere. Seguivano le ore calde
della giornata, che erano caldissime a Montecatini, e che si solevano
passare riposando, e mettendosi poi in fronzoli per la solenne comparsa
nella sala da pranzo. Aldo De Rossi respirò a larghi polmoni pensando
per la seconda volta che l’Anselmi pranzava alla pensione Birindelli,
ed attese con bastante tranquillità l’ora di rivedere la signora
Camilla.

Per altro, qualche minuto prima della chiamata, scese nella sala
da pranzo, per riscontrare sugli anelli di bosso che cerchiavano i
tovaglioli il numero delle camere occupate dal presidente Roberti e
dalla signora Rivanera. I posti dei nuovi venuti erano un po’ troppo
distanti da quelli che occupavano i Vezzosi; ed era naturale, poichè
erano giunti due giorni dopo di loro all’albergo. Ma il nostro eroe,
che aveva spirito abbastanza, quando non si trovava a discorrere con
la signora Camilla, si raccomandò in tempo al direttore, perchè il
presidente Roberti e sua nipote fossero avvicinati ai loro concittadini
ed amici. Inutile il dire che questa ragione persuase il direttore e
che il desiderio di Aldo fu prontamente appagato.

Così avvenne che, mentre egli era già seduto a tavola, al fianco della
signora Elena, potesse vedere il presidente gran croce e la signora
Camilla entrare nella sala da pranzo, venire innanzi cercando con gli
occhi i loro numeri a tutti i posti liberi, e finalmente sedersi di
rimpetto ai signori Vezzosi.

— Ah bene! — esclamò il presidente Roberti, volgendosi alla signora
Elena e al commendatore Gerardo. — Siamo vicini di tavola.

— Presidente, ecco una buona parola per noi; — rispose il Vezzosi. —
Noi ringrazieremo due volte la sorte. —

La signora Camilla, elegantissimamente vestita, come l’uso voleva, era
molto tranquilla, e direi quasi un tantino contegnosa. Non si sentiva
più il riso argentino che aveva tanto dato sui nervi al signor De Rossi
sette ore prima, e la sua parola era sobria come lo sguardo. Meglio
così! Cioè, niente affatto. L’uomo innamorato è così facile a trovare
argomenti di pena, che il signor Aldo rimpianse le schiette risate del
mattino. O perchè doveva averne il privilegio l’Anselmi? E non era
il caso di sorridere anche un pochino a lui, che pure s’industriava
a trovare sempre nuove gentilezze da dire alla signora Camilla e al
presidente gran croce?

Veramente, quelle sue gentilezze non erano tali da destare il buon
umore della dama. Aldo De Rossi aveva quel giorno il complimento con
lo strascico, cioè niente spigliato e niente gaio. Se ne avvide egli
stesso, e se ne avvide con lui la signora Vezzosi, che si fece a
punzecchiarlo leggermente, per obbligarlo a rispondere e a trovare nel
suo cervello qualche cosa di meglio. Aldo De Rossi non riuscì ad essere
arguto, ma volle almeno essere gaio, e lo fu con ostentazione, che è
come dire senza grazia. In verità, la signora Vezzosi aveva portato a
Montecatini un orso male addimesticato.

Finito il pranzo, si andò in giardino a prendere il caffè. Era
tempo. Il commendatore Gerardo abbrancò il suo presidente gran croce
ed attaccò senza misericordia una delle sue predilette questioni
politiche. La signora Vezzosi e la signora Rivanera sedettero l’una
accanto all’altra. Aldo si piantò al fianco della signora Camilla ed
ebbe la fortuna di poterle offrire lo zucchero. Ma c’era presente la
signora Elena e il povero Aldo non trovava modo di fare un discorso
tenero, che lo compensasse della impossibilità in cui era, di fare un
discorso arguto. Come Dio volle, capitò in giardino Alcibiade primo, o,
per dire più esattamente, il cavaliere Sestavalle, che occupò subito
il posto vuoto accanto alla signora Vezzosi. E questa non lo lasciò
troppo lungamente in ozio. A mala pena ebbe trangugiato il caffè,
sotto pretesto di veder da vicino una pianta, che egli sosteneva fosse
un _Hibiscus siriacus_ ed ella _Hibiscus liliiflorus_, si mosse per
andarla a vedere da vicino. M’è occorso di dirlo un pretesto, e forse
lo era; certamente parve tale al De Rossi, che diede una rifiatata di
contentezza e mandò una benedizione al ricapito della signora Vezzosi.
Povera signora, come ne avrebbe fatto volontieri di meno!

Aldo meditava già un madrigale in prosa, quando la signora Camilla
entrò a parlargli del Tettuccio e della gran folla che ci aveva
trovata.

— Troppa gente, è vero, troppa gente! — diss’egli, sospirando. — Io non
vedevo il momento di tornar via.

— Ah! — esclamò la signora. — Ho dunque toccato una corda sensibile?
Dimenticavo che siete un filosofo, e che amate anche molto le dispute.

— Io? Da che l’argomentate?

— Ma! Se non altro, dall’ardore con cui avete sostenuta la
conversazione, dal Tettuccio fino all’albergo.

— Non si parlava di filosofia; — rispose Aldo, turbato da quell’accenno
inatteso e non sapendo lì per lì che cosa dovesse pensarne. — La
signora Vezzosi non ama questi discorsi. E in verità, — soggiunse egli,
sforzandosi di dare un giro più allegro al discorso, — nessuna signora
li gradirebbe. Si è parlato invece di tante cose; ma, prima di tutto, e
più di tutto, s’è parlato di voi.

— Di me? Pure, non mi sono sentita fischiare gli orecchi; — notò la
signora Camilla ridendo.

— Almeno il sinistro avrebbe dovuto fischiarvi, — replicò Aldo De Rossi.

— Perchè il sinistro?

— Perchè, secondo il proverbio toscano, quando fischia l’orecchio
diritto, il cuore è afflitto, ma quando fischia l’orecchio manco il
cuore è franco.

— Eh, a questi patti, non dico di no; — fece la signora Camilla,
appoggiando la frase con un leggero movimento del capo. — Ma forse
non ho potuto sentirlo, perchè il suono si confondeva col ronzìo delle
vostre parole.

— Signora mia, — rispose Aldo, sospirando, — perchè non ho io il suono
argentino del vostro sorriso, che mi giungeva stamane all’orecchio,
più dolce d’una musica celeste? Voi siete lieta ed io triste, ecco
il guaio. Ma mi correggerò, non dubitate, mi correggerò. Amo meglio
parervi uno sciocco, come ce ne sono tanti nel mondo, anzi che un
filosofo. Che cosa non farei, per meritare la vostra stima? —

Aldo De Rossi tirò giù tutta quella roba in fretta e in furia, per una
ragione che i miei lettori avranno già indovinata. Egli voleva dire
e non aver l’aria di dire ciò che pensava delle moinerie di madonna
col contino Anselmi; perciò, a mala pena gli era sfuggita l’allusione,
andava via affastellando chiacchiere, affinchè ella non si fermasse a
pensarci su.

Ma la signora Camilla non mostrò neanche di aver notata la cosa.

— La mia stima! — diss’ella, guardando il signor Aldo con aria di
stupore. — E per che farne?

— Ma.... — rispose egli. — Per averla.

— Ah sì, — replicò la signora Camilla, increspando le labbra ad un
risolino sarcastico, — dimenticavo che amate le collezioni.

— Io, signora?

— Oh, non c’è niente di male, e non occorre che mi guardiate con quegli
occhi stralunati. Siete come l’ape, che raccoglie da tutti i fiori il
suo miele. —

Aldo si sentì ferito nella sua dignità.

— Questo paragone, poi.... — esclamò egli, rizzando la testa.

— Per caso, — ripigliò la signora Camilla, — vorreste essere paragonato
piuttosto ad un raccoglitore di francobolli?

— Non è più di moda; — rispose Aldo, mordendosi le labbra. —
Quantunque, anche un francobollo, per metterlo sopra una lettera....
nella quale io vi dicessi....

— Ho capito, — interruppe la signora, — ho capito. Quello che gli
uomini dicono a tutte le donne che hanno la bontà di lasciarselo dire.
No, no, signor De Rossi, smettete; non mi fate prendere in uggia i
francobolli.

— A Dio non piaccia; — rispose Aldo, stizzito. — Son tanto carini, i
francobolli! —

Dopo questo dialoghetto agrodolce, ci fu, come potete immaginarvi,
una pausa. Aldo rotava gli occhi come un cane rabbioso. Non si
muoveva dalla sedia, ma il suo spirito faceva le volte, come il leone
in gabbia, o, se vi piace meglio, rodeva il morso, come un cavallo
frustato. Quanti animali tirati in ballo, per descriverne uno solo, che
in quel punto non era neanche «grazioso e benigno!»

La signora Camilla fu la prima a rompere quell’uggioso silenzio.

— Siete in collera? — gli disse. — Vi avverto che diventereste brutto.

— Meno male che non lo sono ancora, ai vostri occhi! — rispose Aldo,
aggrappandosi prontamente a quel filo che essa gli porgeva in buon
punto. — Ma in verità, signora mia, siete molto crudele, coi vostri
paragoni.

— Sono schietta, signor De Rossi, e dovete adattarvi a prendermi come
sono, o a lasciarmi. Alla mia età non si cangia più tanto facilmente.

— Dio buono! Si direbbe, a sentirvi, che avete quarant’anni.

— Eh, se vi pare che io li abbia, siano pure quaranta. A voi; quanti me
ne ne date?

— Non saprei. Ventuno.

— Ecco un’esagerazione! Dite almeno venticinque.

— Diciamo venticinque, sebbene io non lo creda. Una rosa non sarebbe
più fresca di voi. —

La signora Camilla diede in un’allegra risata, che ricordò al De Rossi
i suoni argentini di ott’ore prima.

— Bel paragone! — esclamò poscia. — Lo metterò insieme coi miei.

— Signora, che cosa ho detto di male?

— Niente, niente. Una rosa a ventun anno! Ha da essere proprio fresca!

— È vero, — rispose Aldo, con aria contrita. — Vedete da questo esempio
che i paragoni non tornano mai ad esprimere giustamente il pensiero.
Mutiamo discorso, signora; — soggiunse egli, vedendo la signora Elena,
che ritornava dal fondo. — Verrete stasera al Casino? È il ritrovo
universale.

— Credo che ci andremo. Ne hanno parlato a mio zio ed egli non ha detto
di no.

— Ah, bene! — esclamò Aldo. — Come risplenderà il Casino, questa sera!

— Altra esagerazione! — disse la signora Camilla. — Quando vi
correggerete, signor De Rossi? Una donna non può mica crederle, queste
cose!

— Ma un uomo può pensarle, — rispose Aldo, — e quando le pensa, può
dirle. —

L’arrivo della signora Elena pose fine a quella conversazione senza
sugo. Mentre le signore ne ripigliavano un’altra, anche più vana di
quella, Aldo andava ruminando tra sè chi mai potesse aver invitato al
Casino il presidente Roberti. E gli passò per la mente quell’antipatica
figura del contino Anselmi. Ma come poteva l’Anselmi essere stato alla
Pace, tra la colazione ed il pranzo? Una visita cosiffatta, due ore
dopo l’incontro del Tettuccio, non sarebbe stata di buon gusto. Ma già,
è proprio necessario che gli uomini seguano tutti, e sempre, le norme
della buona compagnia? Il contino Anselmi era poi così sciocco!

Per fortuna del signor De Rossi, ed anche del contino Anselmi, la
cui fama ne scapitava un poco, nell’animo del nostro innamorato, il
commendatore Gerardo, nell’atto che la compagnia esciva dal giardino
per ritornare in casa, disse alla signora Camilla:

— Speriamo di rivedervi tra poco. Il presidente ha promesso di venire
al Casino, e _promissio boni viri est obligatio_, anche per la sua
bella nipote. —

Aldo De Rossi respirò. L’invito era stato fatto dal commendatore
Gerardo. E, per quel momento almeno, il contino Anselmi ricuperò la sua
fama.

Mi chiederete perchè Aldo De Rossi, geloso com’era, fosse il primo a
pregare la signora Camilla di andare quella sera al Casino. Lettori
umanissimi, se voi siete gelosi della buona specie....

Ma qui bisogna interrompere il discorso e fare una parentesi. C’è, in
materia di gelosia, la buona specie e la cattiva. La cattiva è quella
gelosia feroce, bestiale, che, oltre all’essere irragionevole, riesce
anche offensiva per la donna a cui è particolarmente dedicata. La
buona è quella gelosia che, senza essere niente più ragionevole, non
va tuttavia agli eccessi, alle sfuriate dell’altra, ma si chiude nel
cuore dell’uomo innamorato, facendogli vedere un rivale in ogni uomo
che s’avvicini alla donna amata, un pericolo in ogni oggetto, animato
o inanimato, fosse pure un palo di telegrafo. Questa forma di gelosia
è stata poeticamente tratteggiata in un’arietta della _Sonnambula_:
«Son geloso del zefiro amante» a cui ho l’onore di rimandarvi, per
maggiori cognizioni. Vi avverto frattanto che, buona o cattiva specie,
fanno soffrire tutte e due ad un modo, e v’auguro di non essere mai
gelosi, nè d’una specie, nè dell’altra. Ma se, per vostra disgrazia,
siete gelosi, e gelosi della buona specie, vi sarà certamente avvenuto
di rizzar muso, di consacrare qualcheduno agli Dei infernali, di
voler morire, o almeno di non saper più come vivere, di meditare i
più tristi disegni, come quello di andare in Cina, di chiudervi alla
Trappa, e di fare tante altre belle cose di questo genere. Ma poi, una
parola improvvisamente più umana della donna amata, o una guardatina,
un sorrisetto ironico da cui trapelasse un’ombra di affetto, mandava
subito in aria i tremendi propositi. E allora, quasi in atto di
pentimento, ed anche un pochino per dimostrare a voi medesimi la
vostra bella sicurezza di spirito, offrivate alla dama un compenso
delle offese che non le avevate pur fatte, delle malinconie che non
v’erano escite dall’anima, e la pregavate o la esortavate a prendere un
passatempo, il cui solo pensiero vi avrebbe fatto maledire, poche ore
prima, l’esistenza e l’amore.

In questa condizione di spirito era il signor Aldo De Rossi. Del
resto, non era ammissibile che la signora Camilla potesse rimanere a
Montecatini senza andare al Casino, ed anche un bel numero di volte.
Quello era l’unico luogo di ritrovo per il forastiero che non volesse
morire di noia. Le dame ci avevano la sala dei concerti e del ballo;
i giovinotti ci avevano il biliardo; gli uomini stagionati la sala da
giuoco; tutti poi la sala di lettura, per dare un’occhiata ai giornali,
che Iddio misericordioso prosperi chi li legge, e perdoni a chi li
scrive.



XI.


Erano le nove di sera, quando la signora Camilla escì dalla sua
camera e scese nell’atrio, in compagnia della signora Vezzosi. Aldo
passeggiava da un’ora sul marciapiede, avendo l’aria di godersi
il fresco, che scendeva da Montecatini alto, lungo lo stradone dei
bagni. Appena ebbe vedute le dame, affrettò il passo, fece un saluto
e un complimento premeditato, indi si accompagnò a loro, per andare
dall’altra parte della strada, dov’era la Locanda maggiore, con
l’attiguo stabilimento del Casino.

La signora Camilla aveva accettato il braccio del commendatore Gerardo;
la signora Elena quello del presidente Roberti. Aldo trovò che era una
disposizione eccellente di coppie; ma non pensò a fare la terza col
cavaliere Sestavalle, e marciò da fiancheggiatore, un po’ indietro alla
signora Camilla, un po’ avanti alla signora Elena, dicendo a tutt’e
due le cose più garbate del mondo. Era allegro, per una volta tanto, e
aveva trovata la nota giusta.

Si entrò al Casino. Il commendatore Gerardo, che era già socio da
due giorni, presentò e fece iscrivere sull’albo S. E. il presidente
Roberti. Indi la comitiva penetrò nelle sale.

Il luogo non risplendeva già per un lusso asiatico, e neanche europeo;
ma era pulito, e questo era l’essenziale. La sala da ballo appariva un
po’ nuda, ma ciò accresceva l’effetto dei lumi e non c’era niente da
ridire. Tutto intorno correva un ampio, ma non troppo soffice divano;
ed anche questo era fatto con previdente consiglio. Se fosse stato
soffice, le dame si sarebbero troppo abbandonate con gli omeri alla
spalliera, che brillava per la sua assenza, e si sarebbero tinte le
spalle alla parete, imbiancata di fresco. Non dimentichiamo per altro
che c’erano qua e là dei guanciali imbottiti di crino e che poteva
esser cura di un attento cavaliere di trovarne uno, per metterlo a
posto, tra la parete e la dama.

La gran sala era già abbastanza popolata, quando vi giunse la comitiva
che abbiamo l’onore di seguire. Lungo i divani stavano sedute quindici
o venti signore, tutte col loro crocchio di amici e conoscenti, che le
tenevano a chiacchiera. Una signorina sedeva al pianoforte, accennando
timidamente un motivo d’opera, per dar motivo (scusate il bisticcio)
a tre o quattro cavalieri, di dirle in coscienza che ella suonava come
un angelo. Voi lo sapete pure, o lettori umanissimi, ci sono anche gli
angeli che suonano il pianoforte.

Si fece capannello intorno alla signora Elena, che era una vecchia
conoscenza per i frequentatori del Casino. In una società che si muta
e si rimuta ogni settimana, si è già vecchi amici nello spazio di
due giorni. E la signora Camilla, nuovo astro apparso quel giorno nel
firmamento della Valdinievole e già ammirato la mattina nella _kursaal_
del Tettuccio, ebbe omaggio di fedeltà da tutti i sudditi della signora
Vezzosi.

Aldo De Rossi, fresco ancora della sua allegrezza, si adattò con buona
grazia a tutte le premure di cui il nuovo astro era fatto argomento. Il
contino Anselmi non c’era, ed anche questo era tanto di guadagnato. Si
sopporta con pazienza una dozzina di nuovi cavalieri ossequiosi intorno
alla donna dei vostri pensieri, quando non c’è quel tale, quell’unico,
che v’ha dato sui nervi.

Cionondimeno, perchè le galanterie più innocenti tornano uggiose ad
un povero innamorato, Aldo si mosse di là, per dare una capatina nella
sala del biliardo. La sala era piena di spettatori; anche i giuocatori
dovevano essere molti, e tra essi il contino Anselmi, che si vedeva
con la stecca in mano. O là, od altrove, bisognava aspettarselo; meglio
dunque trovarlo là, ed impegnato in una partita alla corda.

Sapete che cos’è il giuoco della corda? Parecchi giuocatori, che
possono esser molti o pochi, lavorano a mettersi in bilia l’un l’altro,
ognuno di loro essendo l’avversario naturale di quello che ha tirato
prima di lui. Ogni giuocatore ha sul principio del giuoco tre punti, i
quali, per essere segnati dall’apertura di tre numeri su d’una tabella
addossata al muro, si chiamano occhi. Il giuocatore, che tira dopo di
voi, mette la vostra palla in bilia? Il segnatore vi chiude un occhio,
facendo scorrere una listerella di legno sopra uno dei tre numeri
progressivi che si leggono l’uno di costa all’altro, presso il numero
d’ordine che voi avete nel giuoco; e così di seguito fino al tre, se
avete la disgrazia di essere messo in bilia tre volte; nel qual caso
escite di giuoco, restando in combattimento i più fortunati. È la
_poule_ dei francesi, e si dice corda in Italia, per il nome di quella
linea che s’immagina tirata da mattonella a mattonella ai due quarti
di cima e di fondo del biliardo. Di qua dalla linea deve stare chi
s’acchita, come chi s’imposta, per battere la palla dell’avversario.
Donde il modo: _stare in corda_, che significa non collocare la propria
palla, prima di batterla, oltre il limite assegnato.

Aldo stette un minuto nel vano dell’uscio, a vedere l’andamento del
giuoco. In questo breve spazio di tempo salutò l’Anselmi, che gli rese
distrattamente il saluto. Ogni giuocatore essendo chiamato per numero
d’ordine, Aldo potè riscontrare sulla tabella il numero dell’Anselmi e
vedere per giunta com’egli avesse ancora i suoi tre occhi liberi; dalla
quale osservazione era facile cavare la conseguenza che l’Anselmi fosse
impegnato per molto tempo, essendo i combattenti in numero di quindici.

Fatta questa rassegna, senza aver aria di nulla, Aldo De Rossi diede
una giravolta sui tacchi e ritornò nella sala da ballo.

Un maestrino di buona voglia era andato a sedersi al pianoforte e
s’improvvisavano i quattro salti d’obbligo. Aldo si sentì battere il
cuore, pensando che avrebbe fatto il primo _valzer_ con la signora
Camilla. Questo era per l’appunto il suo disegno; ed egli, descritto
per la sala il giro maestro che il falcone descrive nell’aria prima di
piombare addosso alla preda, si avanzò difilato verso la dama.

— Giungo in tempo, — le disse, col tono più dolce che gli venisse
fatto di dare alla sua voce, — per chiedervi l’onore d’un giro di
_valzer_? —

Quello del giungere in tempo era un modo di dire. Egli, in fatti,
era sicuro di essere il primo, poichè il maestro non aveva ancora
attaccato.

E tuttavia il povero Aldo si sentì rispondere:

— Ahimè, no, signor De Rossi; sono impegnata. —

Egli non potè reprimere un gesto di meraviglia.

— Così presto? — esclamò. — Incominciano appena adesso a suonare.

— Giustissimo; — replicò la signora Camilla. — Ma sono impegnata da
stamane.

— Ecco ciò che si chiama non perder tempo; — notò Aldo, sforzandosi di
sorridere. — E chi è il felice mortale?

— Oh, se sia felice, non so, e dovrà pensarci lui. Vedetelo là che
viene. Le prime battute del _valzer_ lo hanno fatto escir fuori. —

Aldo aveva già indovinato, fin dalle prime parole della signora
Camilla. Alzò gli occhi macchinalmente, per guardare dov’ella
accennava, e vide il contino Anselmi, che entrava nella sala da ballo,
mettendosi i guanti alla svelta.

Il contino attraversò la sala col passo misurato e sicuro d’un
trionfatore romano, che pensa esser gli occhi della folla rivolti su
lui e vuol farci una buona figura. Giunto davanti alla signora Camilla,
si piegò in due, con un amabile scorcio di vita, mentre finiva di
mettersi i guanti; le chiese anzi tutto notizie della sua salute, indi
le rammentò la promessa del mattino.

— Signora — le disse, tra l’altre cose, — stamane pretendevate che,
ad invitarvi così presto per un giro di _valzer_, non mi sarei più
rammentato dell’invito. Eccomi qua, puntuale come Don Ruy Gomez de
Silva, a ricordarvi la vostra promessa. —

La signora Camilla sorrise e si alzò. Il contino Anselmi la prese
per mano; indi, fatti con lei due passi verso il mezzo del salone,
le rigirò un braccio intorno alla vita, e via, con la più graziosa
scivolata del mondo.

Aldo era rimasto a vedere. Ma il poverino ci aveva un diavolo per
occhio.

La signora Vezzosi lo trasse in buon punto dalle sue dolorose
meditazioni.

— Orbene, signor Aldo, — diss’ella, — è così che m’invitate a ballare?

— Signora... — balbettò egli, confuso, — non siete voi impegnata?

— Da voi, signor De Rossi; — rispose la signora Vezzosi. — Non ve ne
rammentate?

— L’avevo preveduto, che la signora, era impegnata; — soggiunse un
cavaliere lì presso. — E infatti, stavo a vedere....

— Chi sta a vedere vuol far poca strada; — mormorò la signora Elena,
mentre prendeva il braccio di Aldo. — Del resto, — soggiunse, — se voi
non ballate, De Rossi...

— Come? come? — interruppe Aldo, richiamato da quelle parole al
sentimento del suo dovere. — Non ballo, io? Ballo come... aiutatemi a
dire.

— Come un povero pazzo che siete; — gli sussurrò essa all’orecchio,
nell’atto di mettergli la mano sull’òmero. — Se non c’ero io a
salvarvi, facevate una bella figura. —

Aldo non ebbe mestieri di chiedere in che consistesse la brutta figura
che aveva corso il rischio di fare, e ringraziò in cuor suo la signora
Elena di averlo levato da un atteggiamento, che era d’uomo imbronciato,
ma poteva diventare d’uomo ridicolo.

Si diede allora per disperato all’ebbrezza del _valzer_, e descrisse
tante volte il giro della sala, che nessun altro cavaliere potè
durarla al suo paragone. Egli, per altro, non guardava che la signora
Camilla, e si sarebbe detto che la inseguisse, quando era lontana,
e la precedesse, per tornarla ad inseguire. Dopo cinque minuti di
quella corsa pazza, vide la signora Camilla arrestarsi; poco dopo
ella era tornata al suo posto. Evidentemente era stanca, e l’essersi
rimessa a sedere dimostrava che non avrebbe più ripigliato il ballo.
Aldo continuava a girare, dandosi pensiero della sua dama, come io e
voi del Gran Turco. Egli pensava invece a quel maledetto Anselmi, che
aveva trovato modo d’impegnare la signora Camilla fin dalle dieci del
mattino. Lo vedeva nella sala del biliardo, intento al giuoco della
corda; poi lo vedeva comparire nel salone, coi guanti mezzo infilati,
alla prima battuta del _valzer_. Come diamine aveva potuto spiccarsi
dal giuoco? Non ci voleva una grande perspicacia ad indovinarlo. Il
giuoco della corda è proprio quello che si può abbandonare quando si
voglia, e con molto gusto dei compagni, poichè, lasciandolo a mezzo, si
perde il posto e la posta.

Maledetto Anselmi! Aldo De Rossi voleva conciarlo per il dì delle
feste. Ma come? L’occasione, ci voleva, o almeno almeno il pretesto.

Credete, lettori, che un pretesto di litigio sia sempre facile a
trovare? Anche un mio amico era di questa opinione. Sentiva una
profonda antipatia per un tale, che non gli offriva mai occasione
d’attaccarla, anzi, quante volte lo incontrava (e s’incontravano
spesso, nel salotto di una bella signora), gli faceva un mondo di
cortesie. E non già per paura che avesse di lui; che anzi era celebrato
come un cavaliere assai forte nel punto d’onore ed espertissimo
tiratore di pistola. Al mio povero amico questa celebrità non metteva
mica i brividi in corpo. Voleva leticare con lui, voleva trovare
un appiglio, che non lasciasse campo a sospettare la vera cagione
dell’alterco. Lo appostò un giorno in una sala di trattoria, trovò il
modo di sedersi ad una tavola vicina alla sua, e lì, a bruciapelo, tra
il lesso e l’arrosto, gli scaraventò la sua frase:

— Signor tale, è vero quel che si dice da certi sciocchi imprudenti,
che voi preferite la mostarda francese alla inglese? —

Quell’altro lo guardò sì placidamente, come egli lo aveva guardato
ferocemente, e gli rispose con la sua gentilezza consueta:

— Mio signore, io non ho ancora su questo punto un’opinione formata;
e su questo, come su tanti e tanti altri, mi atterrò volontieri alla
vostra. —

Dopo otto minuti di giri e rigiri, la signora Elena si dichiarò vinta
e manifestò il desiderio di riposarsi. Aldo, continuando a girare, la
condusse più presso al divano, e là si fermò sui due piedi, come un
ballerino di cartello, ma non per ricevere gli applausi.

Camilla era là, e accolse l’amica con un leggiadro sorriso.

— Che ferocissimo valzer, mia cara! — le disse. — Sarai stanca?

— Non tanto, ma mi girava un pochino la testa e da qualche minuto mi
facevo quasi portare dal mio fortissimo cavaliere.

— Il signor De Rossi è un fiero ballerino al cospetto di Dio; — disse
una voce, presso alla signora Camilla.

Aldo alzò gli occhi a guardare. Il contino Anselmi non era più là,
ed egli vide in sua vece Alcibiade primo, il cavaliere Sestavalle.
Aveva già aggrottate le ciglia, il signor Aldo degnissimo; ma vedendo
il posto vuoto, e riconoscendo che il complimento gli era fatto dal
Sestavalle, spianò le rughe e sorrise.

Il caso era strano; almeno, gli pareva tale. Perchè era partito il
contino Anselmi dal fianco della signora Camilla? Di certo, essa gli
aveva detto di non voler più ricominciare; ma era questa una ragione
per andarsene via?

— Ecco un uomo che non vuol perder nulla; — pensò Aldo tra sè. — È
ritornato al biliardo, per ripigliare la partita. —

Qui il signor Aldo De Rossi avrebbe potuto, e fors’anche dovuto,
impegnare la signora Camilla per un altro ballo, poichè aveva perduta
l’occasione di avere il primo. Ma, che volete? insensibilmente gli si
era formato e cresciuto intorno al cuore un lago di amarezza. So bene
che la cosa non è scientificamente vera; ma io vi descrivo l’effetto,
o, per dire più esattamente, la sensazione. Quando si è in collera,
quando si sente di non poter neanche guardare in viso la persona amata,
allora, signori miei, si ha l’amaro al cuore, e tanto amaro, tanto
amaro, che sembra di affogarci dentro.

— Giuoca, giuoca! — borbottò egli tra i denti, volgendo gli occhi verso
la sala del biliardo. — E la fortuna ti conceda di guadagnare anche
laggiù la tua posta. —

Parecchi cavalieri si erano avvicinati a complimentare le due dame.
Aldo si scostò lentamente e finì col trovarsi davanti all’uscio della
sala di lettura. Avete già capito che si avviò a quella volta; ma non
vorrei lasciarvi nella falsa opinione che andasse là dentro per leggere
un giornale. Aldo De Rossi non fece che passare; attraversò la sala
d’ingresso e riuscì sul loggiato.

La notte limpida e stellata parve recare un po’ di lume nella
confusione delle sue povere idee. Ma sentite in che modo, e giudicate
voi. Andando su e giù, e dopo aver dato due o tre stupide occhiate alla
luna, che appariva allora allora tra i pioppi di Pieve a Nievole, e
dopo aver mandato, non so bene se a lei o ad altra luce del firmamento,
mezza dozzina di giaculatorie, il nostro eroe venne in questa opinione,
che, non avendo potuto fare con la signora Camilla il primo ballo di
quella sera, non poteva dicevolmente fare con lei il secondo, nè il
terzo. Oramai, la poesia del fatto era sfumata. Anche lei, la signora
Camilla, non doveva intenderlo e pensare come lui?

Fortificato in questa idea, che gli parve luminosa, Aldo De Rossi diede
una crollata di spalle, simile a quella che dovette dare Giulio Cesare
quando fu per passare il Rubicone, e, senza aspettare un bicchiere
di birra, che aveva domandato al cameriere in un breve intervallo di
calma, infilò la scaletta scoperta che metteva nel cortile, e di lì,
passando rapidamente per l’anticamera del Casino, giunse all’uscio di
strada.

Dove andava? In verità, non lo sapeva neanche lui. Voleva escire, non
tornar più quella sera al Casino. Posto il piede all’aperto, aveva
voltato a sinistra, come se volesse andare verso l’abitato; ma si pentì
subito, e diede una giravolta a destra, per andare verso il Tettuccio.
Al Tettuccio, alle dieci di sera! Signori miei, con quella stizza che
ci aveva in corpo il nostro eroe, non è da badare a queste piccolezze.
Del resto, la notte era splendida, e a fargli cansare una capata in
quel tronco d’albero, o una stincata in qualche piuolo, c’era il lume
della luna, che cominciava ad imbiancare la strada.

E poi, quella era la _via crucis_ del suo povero amore. In un giorno
solo, quanti ricordi dolorosi! Qui rideva — pensò egli, notando un
pezzo di marciapiede, poco discosto dall’Acqua della Speranza, —
rideva, forse per l’invito al ballo, che il contino Anselmi le andava
facendo, in anticipazione di dodici ore. Ci sono degli uomini così
pronti a cavar profitto da ogni circostanza! Ah, sì, perchè ci hanno il
cuor libero. E le donne ci credono, a questi scettici gaudenti! E le
donne ci s’ingannano, a questa padronanza di spirito, che sa mentire
ogni affetto, significandolo con parole tanto più vive, quanto più è
dato di studiarle liberamente! Commedia! Retorica! Non c’è infiltri
espressione più calda di quella del commediante, che sa distribuire
con arte i suoi chiaroscuri intorno alle frasi mandate a memoria, o
mendicate dal monotono brontolìo del suggeritore appiattato nella buca.
Non c’è eloquenza più ornata e più splendida di quella dei rètori,
fatta a musaico e per mero esercizio letterario. A lui, poveretto, non
soccorreva l’arte di Roscio, nè quella di Ermogene; la frase gli esciva
rotta dal labbro, scaldata da un amore violento, tinta, direi quasi,
del suo sangue; ed era negletta, derisa, o presa in mala parte da lei.

Proseguendo il cammino, trovò un altro punto critico. Era davanti
all’Acqua della Fortuna, alquanto sotto alle Terme Leopoldine. In quel
punto alla signora Camilla era caduto dagli òmeri il suo sciallettino
di pizzi di Fiandra; non del tutto, ma solamente si era allentato e
sfuggiva da uno dei capi. Voleva rimetterlo a posto e non le veniva
fatto. Ora, sapete che cosa aveva osato di fare il contino Anselmi?
Ve la darei da indovinare alle mille, e voi, furbe lettrici, la
indovinereste alla prima. Aveva osato aiutarla, prendere con le sue
mani il capo dello scialle e ravviarlo sull’òmero della signora,
forse sfiorandole il collo col sommo delle dita. Perchè gli uomini dal
cuore libero ce le hanno, queste audacie fortunate; anzi, sono proprio
loro che ne hanno il segreto. Lui, poveretto, al posto dell’Anselmi,
sarebbe stato mal destro, non avrebbe ardito di toccare quel collo. A
lui sarebbe occorso quello che accadde a Vittor Hugo, giovane, quando
una bellissima compagna di passeggiata gli aveva detto di guardare che
cosa la ci avesse sotto il mento, che le dava molestia. Il poeta aveva
veduto un collo di neve, e su quel collo di neve un insetto color di
rosa, picchiettato di nero. Meglio che l’insetto sul collo, avrebbe
dovuto vedere il bacio che a lei tremolava sulla bocca; ma era giovane,
aveva sedici anni, o giù di lì; si appressò tremante, colse l’insetto
e lasciò sfuggire il bacio, della quale sciocchezza lo riprese
l’animaletto arguto.

    «_Fils, apprends comme on me nomme_,»
      _Dit l’insecte du ciel bleu;_
      «_Les bêtes sont au bon Dieu,_
      «_Mais la bêtise est à l’homme_».

Sì, il povero Aldo si sarebbe dimostrato in quella occasione uno
sciocco, e il contino Anselmi si era dimostrato un uomo di spirito. Ma
poteva la signora Camilla vedere in lui un innamorato? Ella ci aveva
proprio allora un fatto da cui giudicarlo, se era una donna nulla
nulla più accorta di tante sue sorelle in Eva. Il contino Anselmi
aveva meditato il gran colpo di fare il primo ballo con lei; ma aveva
aspettata l’occasione giuocando prosaicamente alla corda, e, finito il
suo giro di valzer, e ricondotta la signora al suo posto, non aveva
trovato a far altro di meglio, che tornare difilato nella sala del
biliardo.

Mentre pensava a ciò, prendendosi il magro conforto di un paragone tra
lui e quell’altro, il nostro filosofo peripatetico (molto peripatetico,
invero, e poco filosofo) s’imbattè in un altro personaggio, che veniva
incontro a lui, sullo stesso viale. Si tirò da un lato, prendendo la
sua diritta, e l’altro fece istintivamente lo stesso. Ma, come furono a
pari, si riconobbero e si fermarono di botto ambedue.



XII.


— Oh, De Rossi, sei tu?

— Io; — rispose Aldo, confuso, poichè aveva riconosciuto il contino
Anselmi.

— E come va? — ripigliò questi con la sua bella tranquillità di
spirito. — Hai già lasciato il Casino?

— Sì; — disse Aldo, più confuso che mai; — avevo bisogno d’una boccata
d’aria.

— Anch’io, vedi, anch’io. Del resto, m’era anche venuta una curiosità.
Volevo vedere se una certa coppia di tortorelle innamorate si fosse
data la posta lungo i viali dello stradone, e ho colta l’occasione per
dare una sbirciatina qua sotto. —

S’ingannavano a vicenda, e, quel ch’è peggio, se ne accorgevano
ambedue. Ma i costumi della società son questi per l’appunto: lasciar
credere quel che si vuole, purchè non si dica mai il vero e non si
abbia mai l’aria di convenirne.

— Ed io che ti credevo ritornato al biliardo! — esclamò, con accento
ingenuo, il De Rossi.

— Che! — rispose l’Anselmi. — Giuocavo per far ora. Il giuoco della
corda è tanto noioso! Fortuna che lo si lascia quando si vuole.

— Ed anche il ballo; — soggiunse Aldo, con un risolino che voleva
parere sarcastico.

— Sicuro, anche il ballo; — replicò l’Anselmi, con imperturbabile
sicumèra. — Avevo promesso alla Rivanera di fare il primo ballo con
lei. Del resto, anche il ballo mi annoia.

— Ah, — disse Aldo, — le avevi promesso!...

— Già, promesso stamane, ritornando dal Tettuccio. Ma sai, Aldo mio,
che è una donnina adorabile? Intendiamoci, per altro; io non nego i
meriti grandi della signora Vezzosi. Non vorrei, per nessuna cosa al
mondo, avere una quistione con te.

— Con me? E per qual motivo?

— Dio buono, per un motivo semplicissimo; — rispose l’Anselmi,
continuando la celia. — Parliamoci col cuore in mano, da buoni amici
come siamo. Tu ami la Vezzosi; la Vezzosi ama te.

— Baie! — disse Aldo, crollando la testa.

— Me lo ha confessato; — replicò l’Anselmi.

— Confessato! A te?

— Parola d’onore, a me.

— Allora, — disse Aldo, rassegnato, — bisogna dire che la signora
Elena non abbia presa la via più speditiva. Io, vedi, non ne sono
stato avvertito. Ma sia pure come tu dici; — proseguì il De Rossi, per
ravviare il discorso; — non intendo ancora come potesse nascere una
quistione tra me e te.

— Ma sicuramente, bello mio, sicuramente, per naturale dissenso intorno
al grado di bellezza delle due dame. Sai quel che accadeva nel Medio
Evo? Un cavaliere si piantava al capo d’un ponte e gridava: Giuro
per Dio che la castellana di Rocca Scura è la più bella donna della
cristianità. Tu passavi da quelle parti; l’affermazione ti dava noia;
ti avanzavi all’altro capo del ponte e rispondevi: Tu menti per la
gola, cavalier disleale; la più bella e la più degna d’ossequio è la
castellana di Rocca Stellata. Allora, mettevate le lancie in resta;
si prendeva campo, e giù botte da orbi. Non vorrei, dunque.... siamo
intesi? Quando io ti dico che la Rivanera è la bellissima tra le belle,
tu devi vedere in questo giudizio il mio gusto particolare, che può
essere ed è certamente diverso dal tuo.

— Vigliacco! — pensò Aldo De Rossi. — Anche in amore, ci ha le
restrizioni mentali. —

Indi, ad alta voce, proseguì:

— Ti faccio i miei complimenti. La signora Cam... la signora Rivanera è
a mala pena arrivata, e tu ottieni di farti pregare da lei....

— Ecco, non esageriamo; — interruppe modestamente l’Anselmi. — Ella non
mi ha pregato di nulla.

— Dicevi che t’ha fatto promettere....

— È stato un modo di dire. Sta in fatto che io le ho promesso di
trovarmi al Casino per il primo ballo; ma in fondo in fondo son io che
l’ho impegnata. —

Aldo respirò un tratto più liberamente; ma continuò a dissimulare, per
averne l’intiero.

— Fa lo stesso; — replicò. — La signora ha accettato l’invito,
mostrando di credere che tu ti saresti dimenticato. Era un impegnarti a
ricordartene; — notò Aldo, non senza un pochino d’amarezza. — Ma perchè
non rimanere al Casino, per continuare?

— Che! — gridò l’Anselmi. — Dio me ne scampi. In confidenza, Aldo mio,
sappi che su questo proposito io ci ho un’usanza particolare, effetto
di una certa teorica....

— Ah sì? Sentiamo la teorica.

— Eccola qua. Non bisogna star troppo ai fianchi di una donna a cui si
fa la corte.

— Questa è nuova di zecca. Tu credi che giovi l’assenza?

— Qualche volta sì. Ma in generale torna più utile il tenersi preziosi.
Ti pianti alle costole d’una dama? Le dài noia. Oppure, ella si scalda
a quella vicinanza; perciò non ha tempo a vedere, a confrontare. E
questo non sarebbe male, lo capisco; anzi ti metterebbe conto. Ma bada;
mentre tu ti sei impegnato al giuoco, ella, che non ha confrontato
prima, confronta più tardi; donde troppo spesso la conseguenza che tu
vada innanzi ed ella torni indietro. Ti volti per dirle una parola più
tenera? Addio, bella; è già lontana un miglio e non c’è verso di farla
tornare. So questo per vecchia esperienza; ed anche ripetuta. Non me
la fanno più. Dunque, ti ripeto, assenze, nel vero significato della
parola, non ne consiglierei a nessuno; possono andarti bene, ed anche
riuscirti pericolose. Ma una piccola scappata, una sparizione sotto le
armi, come si dice in sala di scherma, è spesso la man di Dio.

— Benedetta la tua scienza! — esclamò Aldo De Rossi. — Anzi, dirò
meglio, la tua diplomazia.

— Diciamo pure diplomazia; — rispose l’Anselmi, con aria di
condiscendenza. — Eccone intanto un bel saggio. Ho fatto con la
Rivanera il primo ballo; nota, il primo ballo della serata, il suo
primo ballo a Montecatini. Questo, in linguaggio d’ingegneria, si
chiama piantare la prima biffa, che servirà di traguardo per tracciare
la strada. È molto probabile che la Rivanera si dimentichi con chi avrà
fatto il secondo ballo, od il terzo; ma ella sicuramente ricorderà
con chi avrà fatto il primo. Aggiungi che questa sera mi cercherà ad
ogni tanto con gli occhi, per la naturalissima curiosità femminile,
di sapere qual dama io abbia invitata dopo di lei. Infatti, c’è qui la
diplomazia sopraffina, la diplomazia di seconda intenzione. Tu insegni
a me, caro De Rossi, che quando si corteggia una donna, si finge
spesso di non preferirla, e si incomincia da un’altra, per giungere
a lei nel punto meno osservato. Le vere preferenze scattano fuori al
secondo valzer, o alla seconda quadriglia; ma allora nessuno ci abbada,
e il tuo giuoco rimane coperto, se hai la fortuna di non commettere
una imprudenza troppo grave nel cotillon. Tu capisci già dove vado
a parare. La Rivanera domanda tra sè quale sia la signora preferita
dall’Anselmi, tuo umilissimo servo. Ma il tuo umilissimo servo non si
vede più, è escito dalla sala; non ha saputo resistere alla tentazione
di ballar subito con lei, e, dopo aver ballato con lei, non ha saputo
rassegnarsi a ballare con un’altra. Se avesse potuto ballare due
volte con lei, magari Dio! Ma questo non si poteva fare decentemente,
senza dare nell’occhio ai curiosi, senza correre il rischio di
comprometterla, e fors’anche di seccarla. Perciò è sparito; ma, non
dubitare, egli brilla per la sua medesima assenza, ed apparisce ai
suoi occhi come un uomo innamorato, come un uomo delicato, come un uomo
sincero. Innamorato, perchè è corso subito a lei; delicato, perchè non
è tornato all’assalto, chiedendole un secondo favore; sincero, perchè
non ha saputo infingersi, cercando di ballare con un’altra. E così, con
poca fatica, il colpo è fatto. Ti capacita? —

Aldo De Rossi, era stato a sentire quella lunga dimostrazione, rotando
gli occhi e mordendosi le labbra; due cose che poteva fare senza
pericolo d’esser veduto, poichè volgeva le spalle alla luna. Ma quando
il contino Anselmi ebbe finito, egli fece forza al suo cattivo umore,
sibilò un mezzo sorriso e rispose al compagno:

— Non sei solamente un gran diplomatico, sei anche il più furbo dei
logici. —

Intanto il povero Aldo pensava con dolore che un ragionamento simile
avrebbe potuto farlo, anche rispetto a lui, la signora Camilla. Non
aveva egli fatto il primo ballo con la signora Vezzosi? E non era
subito andato via dal Casino, come se gli tornasse ostico di dover
ballare con un’altra? Veramente, egli non aveva ballato con la signora
Elena, se non dopo il mal esito della sua domanda alla signora Camilla.
Ma egli, turbato com’era, non pensò a questa circostanza attenuante. Ci
avesse anche pensato, la dimostrazione dell’Anselmi gli avrebbe offerto
anche l’argomento contro di lui. Infatti, non poteva la signora Camilla
vedere nel suo atto quella stessa diplomazia sopraffina, di seconda
intenzione, che vi fa fare il primo passo verso una donna che vi preme
meno, per coprire il secondo, verso quella che vi preme di più?

— Un furbo, che parla! — replicava l’Anselmi, non sospettando neppure
di parlare così giusto.

— Tu invece, De Rossi mio, sei un furbo che tace.

— Taccio, — rispose Aldo, — perchè non ho nulla da raccontare.

— Ah via! Amato come sei? Col tuo nido bell’e fatto? Col tuo trono
stabilito?

— Eh sì! — mormorò Aldo, crollando il capo. — Tu ti sei incocciato a
supporre....

— Non suppongo, credo, son certo; — interruppe l’Anselmi. — Ti ho già
detto che me lo ha confessato la signora Elena. Cioè, intendiamoci,
confessato no; ma non saputo negare. Del resto la sua medesima
curiosità intorno ai fatti tuoi....

— Che storia è questa? — fece il De Rossi, non lasciandogli tempo a
finire la frase.

— Ma sì; — ripigliò il contino Anselmi. — Figurati che la signora...
sta bene, non la nominiamo, — soggiunse, notando un atto esortativo del
compagno. — Diremo invece la figlia di Leda, che poi torna lo stesso.
Ma, prima di tutto, una dichiarazione necessaria. Si è amici, o non
si è; ne convieni? Siamo dunque amici, siamo giovani, e dobbiamo esser
collegati, per aiutarci a vicenda. —

Aldo De Rossi, quantunque non ne avesse gran voglia, rispose a quelle
premesse con un cenno affermativo del capo.

— Dunque io dico — ripigliò l’Anselmi, — due alleati hanno obbligo
di conoscere scambievolmente lo stato delle loro finanze e dei
loro armamenti. Che cosa sarebbe l’alleanza, se non ci fosse questa
cognizione, questa fede piena ed intera? Tu non devi aver segreti per
me; ma io debbo dirti tutto quello che so. Senti dunque, un bel giorno
la signora... la figlia di Leda, mi trattenne nel suo salotto, mentre
ero sul punto di andarmene. E sai di che diavolo mi parlò, quando si
rimase soli? Di te, sempre di te, solamente di te; fino al punto che io
ne fui mortalmente seccato.

— Grazie! — fece Aldo De Rossi.

— Non è il caso; — rispose prontamente l’Anselmi. — Rendimi la
pariglia, alla prima occasione: La figlia di Leda voleva sapere da me
di quale altra donna tu fossi innamorato. Era gelosa, capisci? E mi
fece passare in rassegna tutte le signore del nostro piccolo mondo. Tra
l’altre, ricordo che si nominò anche la Rivanera. Io, naturalmente,
negai per questa, come per tutte le altre. Infatti, non ti avevo mai
veduto accennare a questa, nè ad altre. Se c’era una dama a cui tu
dedicassi visibilmente i tuoi omaggi, quella era la signora... la
figlia di Leda, in persona. E naturalmente, dicendole io queste cose,
ebbi il piacere di vederla arrossire. S’intende che non volle convenire
di nulla, e che cercò di colorire la sua curiosità con la storiella di
un matrimonio che ella disegnava di farti fare, con una bella e ricca
fanciulla, che tu, ne son certo, non conosci e della quale non hai mai
udito parlare. Ti dico che sei nato vestito, De Rossi mio. Una bellezza
come quella! E uno spirito poi, uno spirito!... Nei tempi andati, m’ero
fatto avanti ancor io; ma che vuoi? la signora m’ha riso in faccia e
addio speranze. Già dev’essere una di quelle donne che s’innamorano
soltanto degli uomini seri. Io, vedi, perchè rido, perchè chiacchiero,
perchè non straluno gli occhi, non sono un uomo serio.

— La signora Rivanera, — disse Aldo, con voce sepolcrale, — ti vede di
buon occhio. Forse non li ama serî, lei?

— Che vuoi che ti dica? Non ne so nulla. Incomincio appena. Sai che
prima d’ora la vedevo poco. Quel presidente gran croce mi dava una
noia!... Prevedo che d’ora innanzi dovrò ragionare di codici e giuocare
anche a scacchi. Pazienza! Ma lei.... che grazia! che umore! che
spirito! Pare una stranezza, una contraddizione, aver tanto spirito una
donna così bella!

— Dove trovi la contraddizione? — esclamò Aldo de Rossi.

— Nel fatto costante; — rispose l’Anselmi. — Non hai sempre veduto che
le più belle sono anche le più sciocche? Infatuate della loro grande
bellezza, disposte a credere che la bellezza, in una donna, sia tutto,
ti pigliano un atteggiamento da statue greche, qualche volta anche da
idoli indiani, e stimano che il farsi ammirare le dispensi dal farsi
sentire. Meglio così, del resto, meglio così, perchè non ci sarebbe
gusto a sentirle. Vederle ridere è già molto, perchè infatti si degnano
di sorridere, trovandoci un’ottima occasione per mettere in mostra le
trentadue perle, incassate nel corallo, di cui cantano da duemila anni
tutti i poeti del mondo.

— Ma anche la Vez... la figlia di Leda è bella ed ha molto spirito; —
osservò Aldo De Rossi.

— Sicuro, ed è un’eccezione; — replicò l’Anselmi. — Siamo cascati su
due eccezioni. Felici noi! Cioè, mi correggo, felice te, fino ad ora!
Io incomincio appena, te l’ho già detto, e non posso ancora mettere in
conto che la conversazione allegra di stamane.

— Infatti, ridevate di cuore; — disse Aldo. — E di che, se è lecito?

— Lo sai tu? Io no; forse di nulla. Essa incominciò a darmi la baia
sulle mie avventure di Montecatini; avventure di cui non aveva notizia,
ma che s’immaginava facilmente. Le risposi che ero un disgraziato,
in veste d’uomo felice. Ella non lo volle credere, ed io gliene fui
grato, perchè, come capirai, ci si umilia sempre per essere esaltati;
ma trovai il modo di dirle che tutte le più celebrate bellezze di
Montecatini sarebbero ecclissate da lei, e che la mia fortuna sarebbe
stata al colmo, anzi meglio, che avrei fatto morire di rabbia un
centinaio di cavalieri, o giù di lì, se ella mi avesse concesso di
fare questa sera al Casino, il primo ballo con lei. — Per vedere
questa morte generale, — mi rispose ella, — ve lo concedo. — Poi si
parlò d’altre cose. Le ho fatta la cronaca di Montecatini, come mi era
permesso di conoscerla in una settimana di soggiorno, incominciando
dalle mie commensali della Torretta. Ella mi canzonò, perchè ero andato
ad alloggiare così lontano dall’orbe conosciuto; ma io, come puoi
immaginarti, mi sono ben guardato dal dirle il perchè.

— Ah, c’era un perchè?

— Non lo sai? La cantante.

— La cantante? Io non so nulla di nulla; — rispose Aldo, che cascava
dalle nuvole.

— Oh vedi! Ed io credevo che la signora.... la figlia di Leda ti
avesse informato di questo particolare. Mi accorgo che è una dama molto
prudente, anche co’ suoi più intimi amici. Ma forse non ha ancora avuto
il tempo di parlartene. Deve aver risaputo soltanto ieri le mie alte
gesta della Torretta, poichè me ne ha parlato iersera soltanto. Dunque,
tu lo sai ora da me, scambio di saperlo da lei. Ci ho una cantante, una
diva sulle braccia.

— I miei complimenti; — disse Aldo De Rossi. — Tu hai dunque un occhio
al cane e l’altro alla macchia. —

Il contino Anselmi diede in uno scoppio di risa, che faceva
testimonianza della più invidiabile contentezza.

— Dio buono, — esclamò egli, — s’ha egli da star sempre col filosofo
Platone?

— Perciò, — ribattè Aldo De Rossi, — segui anche Aristotile.

— Ah bella, questa, bellissima! Me la cedi?

— Che cosa?

— La tua arguzia. Ma sai, De Rossi, che per un uomo serio, sei molto
spiritoso? Se tu dunque mi cedi l’invenzione, d’ora in poi dividerò gli
amori in platonici ed aristotelici.

— Sei molto gaio; — notò Aldo De Rossi. — E s’ha a credere che tu sia
innamorato davvero?

— Ah, questo poi no; ti permetto, anzi ti prego di credere che non
lo sono. Ho ancora e conserverò per un pezzo l’intiera padronanza
del mio cuore, del mio povero cuore. Le donne, non lo nego, sono cari
animaletti; e le paragonerei volontieri a certi canini tanto graziosi e
tanto preziosi, che formano l’ammirazione dei salotti. Carezze molte,
ed anche qualche bacio su quelle bianche testine; ma badar sempre
ai denti, per non buscarsi una morsicatura. La scienza non ha ancora
trovato il rimedio contro la rabbia. —

Aldo era stomacato da tanto cinismo. Mettete pure che non lo sarebbe
stato tanto, se avesse avuto il cuor libero. Quando non si ama, certi
discorsi tra uomini non fanno cattivo senso, e tutti i frizzi contro
il sesso debole son buoni, anche se paiano un tantino volgari. Ma era
innamorato, era geloso dell’Anselmi, e gli saltava la voglia di dirgli
chiaro e tondo:

— Sei un vile, contino Anselmi. Non si parla così delle donne in
genere, quando si tenta e si spera di convincerne una. E non si tenta
nemmeno, quando non si ama sul serio. È vergognoso per un uomo di
garbo, per un cavaliere, turbar la pace di queste povere creature
indifese, quando non si mette il proprio cuore nel giuoco, quando si
è come te, che ti consoli dei rigori di Platone con le condiscendenze
di Aristotele. Sei un vile, te lo ripeto, e ti proibisco da questo
momento di far la corte alla signora Rivanera. Se la cosa non ti garba,
provvedi ai casi tuoi; ci taglieremo la gola domani, a quell’ora che ti
piacerà meglio. —

Vi ho detto che ne aveva la voglia, e aggiungo una voglia spasimata,
una voglia matta. Ma poteva egli spifferargli tutto ciò? Non era
un costituirsi custode e tiranno della signora Camilla? Non poteva
essa dirgli: amo essere corteggiata da chi mi piace, e voi, come non
avete ancora il diritto di compromettermi, così non avete il diritto
di liberarmi da una corte che io ho mostrato di gradire, per quanto
insidiosa e villana vi sembri?

Tutti questi pensieri passarono per la mente di Aldo De Rossi e lo
persuasero a star zitto. Omero, in un caso simile, avrebbe detto che
Minerva, amica e protettrice di Achille, gli aveva posto una mano sulla
bocca. Certamente, l’immagine sarebbe più efficace e più bella. Ma io
non sono Omero; questa ch’io narro non è la guerra di Troia, e Aldo
De Rossi, vulnerabile in tante parti oltre il calcagno, non potrebbe
essere paragonato in nessun modo ad Achille.

Il nostro povero eroe vinse la ripugnanza che gl’inspiravano i discorsi
del suo rivale inconsapevole, e dopo un istante di pausa gli disse:

— Non sei innamorato; dunque, perchè turbi la sua pace? Essa è libera,
inoltre, e tu potresti aver obbligo di cavalleria....

— Che! che! — interruppe l’Anselmi. — In queste cose la cavalleria
non c’entra. C’è posto a mala pena per la galanteria, sua cugina in
terzo grado. Del resto, — soggiunse, — sono ragionamenti da farsi poi.
Oggi non sono innamorato, e per conseguenza non sono cieco; ma potrei
diventarlo, potrei perdere il lume degli occhi, e allora, ci sarà tempo
a pensarci. Quantunque, ricordo che Napoleone I diceva: «la palla che
ha da colpirmi non è stata ancor fusa.» Ed io dico, imitandolo: la
donna che ha da accalappiarmi non è ancor nata. Napoleone vedeva più
giusto di quello che non credesse, poichè non è morto di palla; vedrai
che il tuo umilissimo servo non morirà ammogliato. Segui tu pure il
mio esempio, De Rossi; non prender moglie. È un brutto guaio; specie
quando si ha un umor triste come il tuo. È vero che io predico ad
un convertito, poichè tu non mi sembri aver presa la via che conduce
all’ara municipale.

— Che ne sai tu? — fece Aldo.

— Come? Torneresti ancora a negare?

— Sì, torno a negare; — rispose Aldo, fermandosi sui due piedi e
assumendo un’aria solenne. — Ti giuro, e tu devi credermi, che non
faccio la corte alla signora Vezzosi.

— Gliela farai più tardi, poichè essa ti ama.

— Non gliela farò. Che essa mi ami, è una tua supposizione, non
giustificata da alcuna prova agli occhi miei. Ma fosse anche vero....
ammesso per pura ipotesi che potesse esser vero.... io non amerò la
signora Elena. Sappi che io la rispetto...

— E la venero; — soggiunse quell’altro, col suo fare canzonatorio.

— Anselmi!

— E via, non andare in collera! Il rispetto non chiama la venerazione?
Ma non ischerzo più, se la cosa ti dispiace tanto, ed ammetto ciò che
mi affermi con tanta sicurezza. Ma bada, De Rossi mio, ti annoierai,
senza un amoruccio pur che sia; ti annoierai maledettamente. Non c’è
annoiato più compassionevole al mondo, di quello che non ha il suo
piccolo ripesco amoroso. Solo per lui il giorno ha ventiquattr’ore.
Animo! Se non è la figlia di Leda, sia un’altra, che occupi un pochino
del tuo tempo. Vuoi che ti presenti alla cantante? È, nel suo genere,
una donna divina.

— No, grazie; — rispose Aldo, seccato. — La donna io non la intendo
così. Queste dee che si lasciano adorare da tutti, che si spezzettano
di qua e di là, concedendo sorrisi a destra e a mancina, non sono il
fatto mio. In amore ho sempre avuto una massima: o tutto o nulla.

— Massima pericolosa! — esclamò l’Anselmi.

— Pericolosa! Perchè?

— Perchè la donna potrebbe volere il ricambio. Sarai tu disposto a
concederlo?

— Sì; — rispose Aldo, con accento risoluto.

— Bada, tu dici di sì e l’esperienza risponde di no. Andar contro a
questa esperienza è il torto massimo degli innamorati, e di quelli che
hanno il temperamento amoroso. L’amore è come il piacere; lo si crede
eterno, fino a tanto non lo si è esaurito. —

Aldo De Rossi rispose a quel ragionamento con una alzata di spalle.

— Sia pure destinato a perire, come tu vuoi e come io non credo; —
diss’egli. — Resta sempre che l’amore è un sentimento esclusivo. Finchè
dura, non patisce divisioni.

— Ma se l’ho detto! Temperamento amoroso; — replicò l’Anselmi. —
Temperamento amoroso, composto di bilioso e di sanguigno. Mi darai
del materialista; ma che farci, se la cosa è in questi termini? Tu,
per altro, sei un bel matto, De Rossi mio. Lasciatelo dire, sei un bel
matto. Non ami nessuna donna, e parli come se ci avessi un Mongibello
nel cuore.

— Son molto calmo, invece; — rispose Aldo. — Ti dico ciò che penso, e
abito all’insegna della Pace.

— Davanti a cui siamo tornati, di chiacchiera in chiacchiera; — disse
l’Anselmi. — Ma tu vorrai tornare al Casino.

— No, vado a letto.

— Ecco un predestinato del matrimonio; — esclamò l’Anselmi, ridendo.
— Spero almeno che non metterai il berretto di cotone. Ma che c’è?
Abbiamo fatto tardi, con la nostra filosofia, e la gente incomincia ad
escire; — soggiunse, vedendo una brigatella di persone, uomini e donne,
che escivano dal Casino, sull’opposto viale. — Mi pare di riconoscere
la voce dell’amico Gerardo. Sono certamente le nostre ballerine, che
vengono a questa volta.

— Ritiriamoci in disparte; — disse Aldo.

— Come personaggi di tragedia? Io non la intendo così. Già, a
questo lume di luna ci avranno riconosciuto. La donna, come sai,
appartiene alla specie felina ed ha la vista acuta, di notte come di
giorno. —

Non c’era verso di persuadere l’Anselmi a proseguire la strada. Aldo
non seppe risolversi ad andar solo, poichè restava il compagno, il
rivale.

Il contino Anselmi non si era ingannato. Erano proprio le loro
ballerine del primo valzer che escivano dal Casino, accompagnate dal
commendatore Gerardo, dal presidente gran croce e dall’Alcibiade primo,
cavaliere Sestavalle.

La signora Elena fu la prima a ravvisare i due fuggitivi.

— Ah, venite qua, voi! — diss’ella, con accento di minaccia. — Abbiamo
da aggiustare i conti.

— Signora, aggiustiamo pure; — rispose l’Anselmi, affrettandosi a
muoverle incontro.

— Avete ancora l’aria di ridere? Sappiate, signor conte, che
non ammetteremo mai ciò, alla nostra presenza. E prima di tutto,
giustificatevi. Perchè questa fuga?

— Signore, io volevo far loro un’eguale domanda. Perchè lasciare
il Casino, mentre noi, schiavi fuggiaschi, ma pentiti, venivamo ad
impegnarle per il _cotillon!_

— Si trattava proprio di _cotillon!_ — esclamò la signora Vezzosi.
— Non si trova più un ballerino, a pagarlo un occhio. Non c’è più
cavalieri, a questo mondo. Chiedetene al nostro fedele Sestavalle....

— Che lo è dei Santi Maurizio e Lazzaro; — notò, salutando, l’Anselmi.

Alcibiade primo rese il saluto e ripigliò tosto il suo atteggiamento
dignitoso, riveduto e corretto per quella occasione.

— Egli vi dirà, — proseguì la signora Vezzosi, — che a’ suoi
tempi.... —

Ma era detto che la signora Elena non potesse finire il suo discorsetto.

— Sì, — interruppe il Sestavalle, seccato di quell’accento ad un
passato troppo remoto, — dieci anni fa, non era mica così. I giovanotti
del mio tempo lasciavano ai vecchi il giuoco e le discussioni
politiche, ed essi tenevano compagnia alle dame.

— Vi faccio notare, amico Sestavalle, — rispose gravemente l’Anselmi,
— che a quei tempi la compagnia di cui parlate si chiamava a dirittura
servitù. Diciamo dunque servitù, e senza rincrescimento, perchè in
verità non fu mai servitù così dolce, nè così pregiata da noi. Ma,
venendo al caso nostro, noi non potevamo già credere che in un’ora
di assenza dal campo si dovessero contare tante diserzioni. Avevamo
lasciate le dame in mezzo ad un circolo, ad una folla di gentiluomini.
E non è da credere, — soggiunse il contino, volgendo un’occhiata
eloquente alla signora Camilla, — che noi ci ritirassimo per cedere
la piazza. Ci siamo ritirati per un sentimento di delicatezza. Non
si voleva e non si poteva mica aver l’aria di maghi carcerieri, di
cerberi, di tiranni; ufficio che va lasciato agli _aventi diritto_,
come ad esempio il nostro buon amico Gerardo.

— Un tiranno che ha data la costituzione; — notò il commendatore
Gerardo, ridendo della sua arguzia, così facilmente trovata.

— Noi, per altro, — ripigliò l’Anselmi, — dobbiamo dire la verità tutta
intiera. Eravamo scesi a prendere una boccata d’aria, desiderosi di
tornar subito. Ma l’uomo propone e la politica dispone. Figuratevi che
abbiamo attaccato una discussione politica.

— Ci avete anche voi questo peccato sulla coscienza? — domandò la
signora Camilla.

— Oh, in forma molto veniale, una volta all’anno; — rispose il contino,
inchinandosi e saettando un’altra occhiata assassina.

— Credevamo — notò la signora Vezzosi, — che foste andati nella sala
del bigliardo, come tanti altri. Sestavalle voleva venirvi a cercare;
ma noi non lo abbiamo permesso.

— E Sestavalle, da buon cavaliere, ha obbedito; — replicò l’Anselmi. —
Se fosse venuto non ci avrebbe trovati. Noi non avremmo osato mai di
piantarci ad una mattonella di bigliardo, in vicinanza di così belle
signore. Se almeno anche le signore prendessero la stecca!

— Che idea! — esclamò la signora Camilla.

— Eh, se vi degnaste di provare, signore mie, sareste belle di una
nuova bellezza. Minerva non impugnò la lancia? E Venere non s’è
compiaciuta di rubarla a Marte?

— Come lo sapete?

— Ho veduta la cosa in molti Musei d’arte antica, disperando sempre di
averne un esempio nella realtà. Volete incominciare, signore? C’è un
bigliardo discreto, dal Birindelli, all’Acqua della Speranza. Ho veduto
ieri mattina giuocare la principessa Solikoff, e vi assicuro che non ci
scapitava punto. Se volete, la prima lezione domani, dopo colazione.

— Accettiamo la sfida? — chiese la signora Camilla alla Vezzosi.

— Si riderà; — rispose la signora Elena; — accettiamo dunque. Voi,
signor Aldo, che ne dite?

— Aldo farà il quarto; — gridò l’Anselmi, non lasciando all’amico il
tempo di rispondere. — Vi avverto che è un terribile giuocatore.

— Ho già capito, — disse il commendatore Gerardo, volgendosi al
presidente gran croce, — che noi faremo la parte di giudici.

— L’ufficio mi conviene; — rispose il Roberti, col suo grave sorriso.

Aldo si era frattanto avvicinato alla signora Camilla, e le diceva:

— Poichè si tratta d’una partita in quattro, vorrete voi stare insieme
con me?

— Vi farò perdere; — rispose la signora Camilla. — Non lo
domandate. —

Aldo aggrottò le ciglia e fu per mordersi le labbra, secondo l’uso.

— Per caso, — ripigliò abbassando la voce d’un tono, — sareste già
impegnata al bigliardo, come lo eravate al ballo?

— Dio, che cipiglio! — esclamò ella, con un gesto di terrore. — È
l’ombra della notte che vi rende così cupo? —

Egli chinò la testa, senza rispondere alla celia. Che cosa poteva dire,
con tutta quella gente lì presso?

— Via, per non farvi andare in collera, accetterò; — riprese la signora
Camilla. — Perderete, e sarà la vostra punizione.

— Perderò! — ripetè egli tristemente, scandendo la parola, quasi
volesse farne fuori un senso recondito. — Che importa? Oramai, sono
avvezzo. —

La signora Camilla gli diede un’occhiata tra curiosa e beffarda; ma lo
lasciò senza risposta, poichè s’avvicinava l’Anselmi.

— A domani dunque, e buona notte; — disse il contino, stringendo la
mano alla signora Camilla. — Prego voi, come la signora Elena, di non
sognare che ci avete puniti con una giornata di rigore.

— Che avreste meritato; — rispose la signora Vezzosi, per sè e per la
Rivanera. — Ma voi, conte, non sognate di farci la seconda di cambio.

— Per gl’inferni numi, lo giuro; — replicò, nell’atto di levarsi il
cappello, quel caro ed amato Anselmi, che Aldo De Rossi avrebbe mandato
tanto volontieri a trovare gli augusti testimoni del suo giuramento.



XIII.


La mia felicità sarebbe al colmo, se il candido lettore e la vermiglia
lettrice si contentassero del poco che io dò e non mi chiedessero di
approfondire, anzi meglio, di sviscerare il caso psicologico che ho
preso a descrivere. Si tratta di una malattia, per cui, qual più,
qual meno, siamo tutti passati, e le troppo minute descrizioni non
chiarirebbero niente di nuovo.

Aldo De Rossi era in una di quelle condizioni indefinite e
indefinibili, che non permettono di risolver nulla e fanno avere in
uggia ogni cosa. Si vorrebbe morire, dormire, sognare, e tutto il resto
del monologo d’Amleto; farsi certosino, o prendere una sbornia di due
settimane; mettersi a capo di uno squadrone di cavalleria e caricare un
esercito in ordine di battaglia; affondarsi in una nuvola e andare dove
il vento la spinge, in Africa, in Lapponia, a casa del diavolo; tutte
cose che in altre parole mi è già occorso di dire e che vi coloriscono
sempre imperfettamente lo stato d’incertezza di un’anima, che il
passato opprime, il presente annoia e il futuro sgomenta.

Ci sono dei malinconici, i quali, da ogni libro che leggono, vorrebbero
che escisse un insegnamento morale. Se questo insegnamento lo chiedono
al mio, eccolo qua: Fuggite le passioni, perchè esse guastano il sonno
e l’appetito, questi due grandi riparatori della macchina umana.

Ma sì, darla ad intendere! Si ama, ed è questo il più forte bisogno
della macchina sullodata, o, se vi piace meglio, dello spirito,
troppo raffinato, che presiede ai movimenti della macchina. Predicare
allo spirito la necessità di dominarsi, di mortificarsi, di ottenere
la pace, è lo stesso che dire all’uomo: — «Tu vivrai, alzandoti da
letto alle dieci, ora un po’ tarda, ma indicatissima, per rubare un
ritaglio di tempo alle noie della vita. Prenderai, ogni mattina, un
bagno freddo, e, se hai passati i trent’anni, anche uno spruzzolo di
doccia; indi farai una passeggiata, per riscaldare la pelle e disporre
l’esofago alla colazione. La quale non dovrà essere troppo abbondante,
per aggravarti lo stomaco, nè troppo succulenta, per riscaldarti la
testa. Leggerai un giornale, per tenerti al fatto di ciò che accade nel
mondo e non prendere scosse troppo forti, quando un amico ti combina
per via e ti spara a bruciapelo le più brutte notizie. Anche quando
le notizie non siano dolorose, per te, nè per altri, quell’improvviso:
«sai la gran novità?» è sempre fatto per rimescolarti il sangue nelle
vene. Stropicciati le mani di tanto in tanto; è un costume sanissimo
e chiama una dose discreta di calore alle estremità. Dai frattanto una
seconda passeggiatina per le vie, e trova il modo di spicciare in pari
tempo qualche affaruccio. Quindi ti ridurrai a casa, o al banco, o allo
studio, secondo i casi, per accudire con misura ai tuoi interessi;
ripasserai i conti del tuo ragioniere, per saper sempre in che acque
navighi; darai qualche ordine, tanto per non perdere l’abitudine;
mediterai sull’allevamento del bestiame o sul modo di far rendere
trentaquattro sementi al tuo grano. Poi, quando ritorni l’appetito, a
pranzo. Ma non in famiglia, poichè non devi aver famiglia. Essa non
è indicata come elemento di calma; nasce dall’amore e reca un mondo
di sopraccapi. L’uomo savio non ha da aver passioni e deve cansare
il pericolo dei sopraccapi in discorso. Indi un’altra passeggiata,
anzi una scarrozzata, se si può. Veder tutto, passando a volo, non
ammirare, non infiammarsi di nulla, è cosa veramente salubre. La sera,
una capatina al teatro, o una visitina di complimento, sfiorando la
galanteria, per tenere lo spirito in esercizio, ma non mettendo il
cuore nel giuoco, che sarebbe pericoloso in sommo grado. Da ultimo una
seduta a caffè, evitando le bibite spiritose, e le compagnie _idem_;
finalmente a letto, con un giornale non troppo divertente, e aspetterai
i conforti del sonno.» —

Lettori, questa è la vita dell’uomo giusto, che non s’appassiona di
nulla. Vi piacerebbe! Se avete nell’anima qualche cagione di tristezza,
risponderete di sì. Se avete l’anima in pace, risponderete di no. E
perchè, di grazia? Perchè volete soffrire; perchè volete provarle,
quelle benedette febbri, che i filosofi vi consigliano di sfuggire;
perchè volete infiammarvi del bello, del vero, del buono, incarnati,
se si può, in una creatura diletta; perchè la quiete è la morte dello
spirito, e la febbre una necessità dell’umana natura.

Dunque, addio insegnamento morale. Amate, ragazzi, e soffrite. E se
vi capita di guastarvi il sangue come Aldo De Rossi, imprecate pure al
vostro male e alle sue belle cagioni. Sarete appena guariti, che farete
la vostra brava ricaduta.

Povero Aldo! Andò a letto, perchè non c’era da far altro; ma non gli
venne fatto di prender sonno. Rimuginava dentro di sè tutto quello che
avrebbe voluto dire alla donna crudele. Senza di lei non poteva più
vivere. Non pensava mica ad averla; pensava ad essere amato da lei,
anche a patto di non ottenerla mai più. Ad ogni tratto, per naturale
riscontro, gli tornava davanti agli occhi l’immagine dell’Anselmi. Che
vilissimo personaggio, sotto l’apparenza di un gentiluomo! E simili
figuri, pensava egli, possono piacere alle donne! Par di sognare,
vedendole sempre così sciocche. Ma già, questa è la storia. La
migliore di tutte è sempre donna e ci ha sempre in fondo al cuore un
pochino di vanità. Che importa a lei, se non è sincero l’omaggio? Le
fa testimonianza della sua bellezza, le dimostra il fascino che ella
esercita su tutti, e questo è l’essenziale. Essere amata sul serio, o
semplicemente corteggiata per capriccio, è lo stesso; tutti gli uomini
sono eguali, per lei, se le dicono tutti che è bella. Anzi, no, non
sono tutti eguali, ed hanno qualche privilegio a’ suoi occhi coloro che
glielo dicono in forma meno drammatica. Certi caratteri gelosi, certi
innamorati che girano al tragico, riescono mortalmente noiosi; dànno, è
vero, un omaggio profondo, ma vorrebbero impedirne cento, più leggeri e
più gradevoli. Leggieri, poi! Chi l’ha detto, che siano tanto leggieri?
Gli uomini galanti sono troppo spesso calunniati dai cosidetti uomini
seri. Ogni donna intorno a cui si affollano molti vagheggini, crede di
poter fermare quello che le piacerà meglio e incatenarlo al suo carro.
Che cosa pretende di essere, e di valere più di un altro, l’innamorato
geloso e scontroso, che vorrebbe condannarla a rizzar muso come lui, a
vivere nel mondo come si vive in un chiostro?

Sì, sta bene, tutto bene; ma la donna, dal canto suo, ignora una cosa.
Ignora che ella pure, senza avvedersene, si abbatte ad essere gelosa,
e lo è in modo feroce, che fa pena a vederla. Perchè ella tratta da
padrona l’amato (non l’ha egli avvezzata al comando?), le accade di
dimenticare perfino quei mezzi riguardi, quelle forme di rispetto
benevolo, a cui si costringe per lei un innamorato geloso.

Povera umanità, egualmente ammalata nei due sessi, e, quel che è
peggio, senza speranza di guarigione! Eccola qui, lettori malinconici,
eccola qui, la eterna morale della favola eterna. Siamo un grande
ospedale di matti. Fortuna che qualche volta l’eccesso del dolore
ci prostra i nervi e una mezza congestione del sangue ci procura i
benefizii del sonno.

Ciò avvenne anche al signor Aldo De Rossi. Almanaccò a tutto spiano,
torturò lungamente il suo povero cervello, quindi si addormentò.
Per altro, il suo sonno fu inquieto, e quando egli si destò e scese
dal letto, si vide piuttosto brutto, allo specchio. Quella mattina
il parrucchiere non venne a capo di dargli un aspetto piacevole.
Immaginate come Aldo ne fosse scontento. Non era vano, vi prego di
crederlo; ma gli sarebbe piaciuto di giungere al cospetto delle signore
con la sua faccia degli altri giorni.

Comunque fosse, e poichè bisognava mostrarsi, Aldo si recò verso
la solita ora al Tettuccio. Le dame non c’erano ancora, ma le vide
giungere quindici minuti dopo, tutt’e due nella medesima carrozza. Il
primo suo moto fu quello di sfuggirle; ma pensò che doveva essere un
uomo e non un ragazzo; perciò, vinta la timidezza, andò loro incontro
ed ebbe la fortuna di trovarsi solo al montatoio della carrozza, per
dar loro la mano. Fatto quel primo passo, andò avanti abbastanza bene;
mortificò il suo onore con una voluttà da anacoreta e trovò il modo di
esser umile, riguardoso, gentile. Ma il contino Anselmi, caduto lì per
lì, come un fulmine a ciel sereno, nel crocchio, fu gentile ed allegro,
sopra tutto allegro. Aldo non lo poteva essere, per quanti sforzi
facesse. Quistione di temperamento!

Basta, il mostrarsi gentile era già qualche cosa. La signora Vezzosi
fece i suoi complimenti al De Rossi per la calma che gli traspariva dal
volto.

— L’aria d’iersera vi ha fatto bene; — gli disse.

— Credete? — fece egli, con accento impresso di mestizia.

La signora Elena gli diede una rapida occhiata, che parve passarlo fuor
fuori.

— Non ne credo nulla; — rispose ella, abbassando la voce. — Ma siate
forte; se no, perderete la causa. —

Quella buona signora Elena si mostrò in quel giorno due volte buona con
lui. Si vedeva la cura che ella metteva a scuoterlo, a farlo figurare
nella conversazione. Gli rivolgeva spesso il discorso, per dargli
occasione di parlare; qualche volta lo interrogava di schianto, per
rompere il silenzio in cui egli accennava sempre a rinchiudersi.

I tre personaggi gravi della compagnia, cioè a dire il presidente gran
croce, il commendatore Gerardo e il cavaliere Sestavalle, bevevano
coscienziosamente l’acqua salutare del Tettuccio. Le signore, sedute
davanti alla tavola di marmo che v’ho descritta, tenevano corte di
giustizia, o, per dire più veramente, di grazia. Aldo le vedeva tutte
e due, fresche e sorridenti come due belle rose sul medesimo cespo. E
andava pensando tra sè che una di quelle donne gli aveva confessato di
amarlo, e che egli le aveva confessato di essere invaghito di un’altra.
Pure, quella donna era là, gaia, sorridente, serena, proprio accanto
a quell’altra. E Aldo ne faceva in cuor suo le grandi meraviglie, non
sapendo che in una donna si trovano sempre due donne, una delle quali
sta sulla scena e recita la sua parte con grande disinvoltura, anche
quando l’altra si cruccia nella propria amarezza. Figurarsi poi se non
doveva apparir serena la signora Vezzosi, col semplice carico di una
simpatia soffocata sul nascere.

Per uno di quei ragionamenti subitanei, irriflessivi, involontarii,
che sono così frequenti in noi, e che la casuistica più arcigna non
saprebbe imputare alla coscienza del peccatore, Aldo diceva a sè
stesso:

— Se io amassi questa e non l’altra! Qui regnerei senza contrasto;
mentre là, — e frattanto lo sguardo correva alla signora Camilla, —
anche regnando, il mio regno sarebbe sempre turbato da tentativi di
ribellione. —

Sì, ma avrebbe regnato sempre, dove credeva di poter regnare senza
contrasto? Chi sa? Non c’entrava nella simpatia dichiarata della
signora Elena un pochettino di picca? Vinto il puntiglio, cioè quando
si fosse impadronita del cuore di Aldo De Rossi, sarebbe sempre stata
la stessa? E lui, per avventura, non ci metteva del puntiglio, a voler
essere amato dalla signora Camilla? Aldo fece il suo esame di coscienza
e gli parve di no. Non l’amava mica perchè era superba con lui; l’amava
perchè era bella; l’amava perchè... Oh insomma, l’amava perchè l’amava,
e non sapeva, non voleva e non poteva far altro.

Quel giorno, finita la stazione al Tettuccio, i nostri personaggi
decisero di far colazione insieme, nel giardino dell’albergo, per andar
poi tutti insieme allo stabilimento della Speranza. Il contino Anselmi
si scusò di non poter seguire la compagnia; aveva qualche cosa da fare
alla Torretta e si sarebbe sbrigato appena in tempo per trovarsi dal
Birindelli a ricever le dame. Curioso uomo, che rinunziava a due ore
di conversazione con la signora Rivanera! Aldo pensò alla cantante, che
forse aspettava quel leggerissimo tra tutti i vagheggini.

A proposito della cantante, se egli ne avesse dato un cenno alla
signora Camilla, che colpo! Il modo di entrare in discorso senza aver
l’aria di commettere una indiscrezione a caso pensato, non poteva
certamente mancargli. Ma se il pensiero gli venne, sappiate che gli
parve anche un’infamia. Da tutt’altri avrebbe potuto sapere la signora
Camilla di quel ripesco amoroso; da tutt’altri, ma non da lui. Si
poteva, è vero, parlarne alla signora Vezzosi. Ma non ci sarebbe
stato il secondo fine, la speranza che la signora Elena ne parlasse
a sua volta con la signora Camilla? E questa sarebbe stata un’infamia
confettata di vigliaccheria.

— Come son grande! — pensò egli, dandosi ironicamente la baia. — Mi
rassegno a non dir nulla e a non raccogliere il frutto di un’utile
bricconata! Ma che sciocchezza, esser grandi! Ecco un atto degno degli
eroi di Plutarco, che si perde nei segreti della vita borghese. Basta,
mi decreterò una medaglia da me. —

Questo pensiero lo fece ridere, ma d’un riso amaro, che non lo dispose
punto a gustare la colazione. Mangiò poco, o nulla; ma si sforzò di
essere gentile, come al solito, con qualche lampo di gaiezza. Il riso
sulle labbra, lo aveva; per quanto fosse sardonico, era sempre riso.
E quando le signore si alzarono da tavola, anch’egli si alzò, per
accompagnarle fuori; si alzò come un condannato, che ha bevuto il suo
ultimo bicchierino, e mormorò tra i denti: — animo, via, imbecille;
andiamo a morire. —

Morire! Che esagerazione! Ma sì, lettori; la sofferenza non ha gradi.
Si soffre, o non si soffre, ecco il punto. E quando si soffre, non c’è
nulla che superi quella sofferenza; è il finimondo, è l’ira di Dio.

La lieta brigata, con cui Aldo De Rossi portava a passeggio i suoi
crucci, escì dall’albergo della Pace verso le dodici. Il sole scottava,
e il presidente Roberti pensava dentro di sè che non era la più bella
cosa del mondo andare attorno a quell’ora. Ma un presidente, che ha la
fortuna di portare una gran croce, può far buon viso ed anche buone
spalle alle piccole. Inoltre, il vecchio Roberti ci aveva una gran
tenerezza per la sua bella nipote, senza contare che gli era rimasto
nell’anima un pochettino di quella cortesia imperturbabile, direi
quasi stereotipa, che è sempre stata una dote dei magistrati, fin
dai tempi di Marco Tullio. Cavalleria pesante, direbbe un amico mio,
che ha ridotta la vita ad un eterno bisticcio. Con quella sua grave
bontà, il presidente gran croce si espose coraggiosamente alla vampa
del sole e al riverbero della strada. Il commendatore Gerardo, pur
d’essere in compagnia d’un presidente (i ministri, lo sapete, non erano
ancora arrivati) si adattò anche lui. Era una specie di Cireneo, il
commendatore Gerardo, e aiutava il presidente Roberti a portare la sua
gran croce. Di Alcibiade primo non si parla neanche; era un cavaliere
della provianda e seguiva fedelmente l’esercito.

Le signore apersero l’ombrellino; i loro compagni le imitarono, poichè
questo arnese è entrato anch’esso nelle consuetudini del sesso forte;
e tutti si avviarono pei non floridi ma polverosi sentieri della
Speranza. Questa per fortuna loro non era troppo lontana.

Prima che giungessero alla mêta del loro viaggio, videro il contino
Anselmi, che veniva incontro alle dame, con franco passo e viso
allegro, come un paggio del Medio Evo. Le parole, per altro, non furono
da paggio, bensì da cavaliere del secolo decimottavo.

— Mi duole, signore mie, — diss’egli, salutando, — di non aver potuto
mandar via il sole; colpa di Giosuè, che lo ha avvezzato a star fermo.
Abbiate pazienza, del resto. In cielo non esistono le invidie che
guastano il sangue agli abitanti della terra, ed è giusto che il sole
si faccia avanti, per onorare le sue belle rivali.

— Che galanteria! — esclamò la signora Camilla.

— Un po’ vecchia! — borbottò Aldo tra i denti.

— Signora, — rispondeva intanto il contino, — è ufficio del sole di far
sbocciare i fiori. E alla vostra vista....

— Ho capito; — interruppe la signora Camilla, ridendo come sapeva rider
lei; — il vostro cuore è un giardino.

— Proprio così; — replicò l’Anselmi; — ed invoca le cure di una bella
Giardiniera.

— Magazzino di mode! — esclamò la signora Camilla.

— No, capolavoro di Raffaello; — ribattè prontamente l’Anselmi, che non
si trovava mai all’asciutto.

Aldo De Rossi che aveva udito il dialoghetto, quantunque proseguito
a mezza voce davanti a lui, mandò cordialmente al diavolo il suo
spiritoso rivale. Questi, frattanto, dando il braccio alla signora
Camilla, introduceva la comitiva nello stabilimento della Speranza.

Credo inutile di fare una descrizione del luogo. Chi è stato a
Montecatini ha veduto certamente quel villino gaiamente soleggiato,
ad un quarto dello stradone che mette al Tettuccio, e situato tra
il medesimo stradone e il torrente, o fossatello, che porta il nome
caratteristico di Salsero. Non c’è pensione, laggiù, perchè il suo
proprietario la tiene altrove, sulla via Nazionale, e laggiù, come per
adescarvi alle sue acque saline clorurate, mette a vostra disposizione
una bella sala terrena, con biliardo, tavolini da giuoco e divani
di conversazione. Non si vive a Montecatini senza andare ogni sera
al Casino; nè ci si vive senza andare qualche volta di giorno alla
Speranza, come sul tramonto al Rinfresco, altro luogo che dovrete
conoscere, poichè avvenne laggiù la triste scena... Ma, acqua in bocca,
per ora, e non precorriamo gli eventi.

La sala era vuota, o come vuota, poichè solamente nell’angolo più
lontano dell’ingresso si vedeva seduta una coppia di felici, che
stavano giuocando a picchetto. Dico di felici, perchè erano uomo e
donna, giovani ambedue; la signora assai bella, ma di una bellezza
parigina, in cui aveva gran parte la moda, con tutti i suoi cenci
preziosi, e la pittura, con tutti i sapienti chiaroscuri della sua
tavolozza; il giovinotto secco, allampanato, pallido, elegantissimo
fusto d’uomo, che già lasciava intravvedere e presentire lo scheletro.

I due giuocatori non mossero neanche la testa per guardare i nuovi
venuti. E non furono neanche disturbati dalla curiosità di questi
ultimi. L’Anselmi, per far degnamente il suo ufficio di cicerone,
bisbigliò all’orecchio della signora Camilla:

— Due innamorati che vengono qui tutti i giorni dalla Torretta, e ci
stanno quattr’ore di seguito, giuocando a picchetto. Non sanno come
ammazzare il tempo; compiangiamoli!

— O che? — rispose la signora. — Vorreste che avessero sempre a
ripetersi le stesse parole: io ti amo, tu mi ami?

— Non già, bella signora, ma giuocare a picchetto!

— Gran che! Non giuochiamo noi al biliardo? —

A quella scappata della signora Camilla, il contino Anselmi sgranò
tanto d’occhi.

— Signora, — balbettò egli, — che avete detto? Noi.... questo riscontro
che fate tra essi e noi.... Se fosse vero!

— Non sarà vero niente, poichè il riscontro non esiste; — rispose la
signora Camilla, a cui forse non piaceva che si cogliessero le sue
parole a volo, come le rondini. — Infatti essi sono in due, e noi siamo
in sette.

— Cinque di troppo; — mormorò l’Anselmi, chinando la testa e reprimendo
con arte sopraffina un mezzo sospiro.



XIV.


Le regole della buona compagnia permettono questi duettini sottovoce,
nel bel mezzo della conversazione generale, a patto che siano
brevi. L’obbligo, per gli astanti, è di non sentir nulla; ma c’è
sempre il diritto di coglierne tutto quello che si può. Colpa dei
due interlocutori, se non parlano abbastanza sommesso e non sanno
confondere gli ascoltatori con abili reticenze. Del resto, anche quando
si colga a volo una frase, come si potrebbe arguire da essa tutto
intiero il discorso? Aldo De Rossi, per esempio, non udì altro che una
frase dalla signora Camilla: — «essi sono in due e noi siamo in sette.»
— Ma come ricostruire un dialogo galante, su quel semplice rapporto
aritmetico?

Perciò il nostro eroe non capì nulla di nulla. Se avesse capito ciò
che voleva dire l’Anselmi, certo avrebbe dato di fuori. Ma Iddio
misericordioso, che misura il freddo all’agnello tosato, misura anche
le sofferenze agli innamorati gelosi.

— Cinque di troppo; — aveva risposto l’Anselmi. E la signora Camilla si
era custodita da quell’attacco troppo vivo con una guardata tra curiosa
e severa. Non ci voleva di meno, per rimettere a posto l’audace,
che esciva per la prima volta dalle solite frasi di complimento,
accennando ad una vera dichiarazione. Alle donne i troppo repentini
smascheramenti di batterie dispiacciono sempre; non già per sè stessi,
ma perchè dimostrano troppo baldanza, troppo sicurezza di sè, nei
signori assedianti, mentre questa sicurezza e questa baldanza son esse
che vogliono consentirle, per poterle dominare e moderare a lor posta.
Ora noi conosciamo la signora Camilla per una certa testolina, che le
sue ragioni non le mandava a dire, e potremmo anche aspettarci qualche
frase recisa, a conforto di quell’occhiata tra curiosa e severa che
abbiamo veduta poc’anzi. Ma il contino Anselmi non le diè tempo di
proferirla; appena ebbe buttato là il suo malinconico epifonema, diede
una voltata sui tacchi e andò verso la rastrelliera, a prendere due
stecche, una per sè e l’altra per la signora Camilla.

— A che giuoco giuochiamo? — diss’egli, tornando verso le signore. — A
birilli, non è vero?

— A birilli! — rispose Aldo, assentendo del capo.

— Birilli! — esclamò la signora Elena. — Vogliate dirci prima di tutto
che cosa sono i birilli.

— Eccoli, signora; — disse l’Anselmi. — Son questi cinque pioletti
d’avorio, che io metto qua in croce nel mezzo del biliardo. L’abilità
del giuocatore consiste nel farli cascare.

— Non ci riesciremo mai; — osservò la signora Camilla, vedendo il
contino impostarsi sul biliardo e battere con la punta della stecca una
palla contro l’altra, per modo che questa venisse a dare nel mezzo del
biliardo.

— Che dite, signora? — esclamò il contino. — Vi riescirà anzi
facilissimo. Fate conto che siano uomini.

— Il paragone non corre; — rispose la signora Camilla. — Qui ci vuole
l’aiuto della stecca; e gli uomini cascano da sè.

— Ottimamente! Questa me l’ho comprata coi miei danari; — disse
l’Anselmi, ridendo.

E avvicinatosi alla signora Camilla, aggiunse sottovoce:

— Come si sta? Volete essere con me?

— Sono impegnata; — rispose la signora Camilla, col medesimo tono di
voce.

Il contino Anselmi inarcò le ciglia e si volse a guardare il De Rossi.
Ma questi faceva lo gnorri e ingessava la stecca.

— Avrebbe avuto ragione la signora Elena? — pensò il contino Anselmi. —
Sarei proprio cascato bene! —

Indi, ad alta voce, proseguì:

— Si va all’acchito. Signora Elena, volete farmi l’onore di stare con
me?

— Volentieri; — rispose la signora Vezzosi, non senza dare un’occhiata
a Camilla, che stava rispondendo allora ad un complimento del
commendatore Gerardo, e un’altra al De Rossi, che continuava
tranquillamente ad ingessare la stecca.

Ma anche questa operazione ebbe un termine, ed anche il commendatore
Gerardo lasciò libera la signora Camilla. Aldo le si accostò e le
disse:

— Signora, siamo adunque insieme?

— Gran novità! — rispose Camilla, con quell’aria canzonatoria che
sapete.

Aldo De Rossi non capì troppo bene che cosa significasse quell’accento
ironico.

— Vi dispiace, forse? — ripigliò.

— A me, no; — ribattè la signora Camilla. — E a voi?

— Io... — balbettò Aldo — sono al settimo cielo. —

La signora Camilla sorrise; ma fu un lampo, e la sua faccia tornò
subito a farsi oscura.

— Complimenti! — diss’ella. — Come a dire bugìe.

— Ma il mio non è un complimento; — rispose Aldo De Rossi.

Intanto il contino Anselmi lo chiamava a giuocarsi l’acchito. Aldo
si mosse dal fianco della signora Camilla, fece la prova, la perdè
e diede l’acchito all’avversario. Questi s’impostò, colpì la palla
dell’avversario e fece un doppietto, mandandola nei birilli ad
abbattere il filone, ossia la fila di mezzo.

— Bene! — gridò la signora Elena. — Avete già indovinato che io non
v’aiuterò molto, e incominciate a fare da per voi.

— Oh, ci sarà lavoro per tutti; — rispose l’Anselmi. — Aldo è un
terribile giuocatore. —

A farlo a posta, Aldo De Rossi non si mostrò degno della lode; fece
steccaccia e andò nei birilli con la sua. Gli avversarii ebbero
quattordici punti dei ventiquattro.

— Si mette male! — disse Aldo, volgendosi con aria contrita alla
signora Camilla.

— Avete paura? — fece ella, col suo solito accento canzonatorio.

— Non ne ho mai avuta; — rispose egli. — Mi rincresce soltanto che
abbiate a formarvi un così gramo concetto di me. —

La signora Camilla fece un gesto che pareva volesse dirgli: è già
formato da un pezzo. Indi, temperando quella espressione beffarda in un
consiglio di benevola autorità, soggiunse:

— Bisogna essere più calmi.

— Potere! — mormorò Aldo De Rossi.

Intanto il contino Anselmi si disponeva a fare il suo colpo. Egli
poteva, mettendoci un po’ di buona volontà, guadagnare la partita,
poichè la posizione in cui Aldo aveva lasciata la sua palla era brutta
parecchio. Ma il contino, da buon cavaliere, non volle approfittare
dell’occasione; fece anzi di più, giuocò male e restò peggio, lasciando
un bel colpo alla signora Camilla, che doveva entrare in giuoco, per lo
sbaglio di Aldo.

La signora Camilla, nuova al giuoco, non s’era avveduta di quel piccolo
artifizio galante.

— E adesso come si fa? — diss’ella, prendendo posto davanti al biliardo.

Il contino Anselmi non aspettava altro. Lesto come uno scoiattolo,
si piantò a fianco della signora, rubando il posto e l’ufficio al De
Rossi, che, essendole compagno, aveva il diritto di consigliarla e di
guidarle la mano.

— Si fa così; — disse il contino, prendendole la punta della stecca e
mettendola in quella direzione che gli parve più conveniente. — Sono
rimasto male e voi dovete approfittare del mio errore. Lasciate andare
il colpo; son punti fatti. —

Vedendosi vogar sul remo a quel modo, Aldo De Rossi aveva fatto un
gesto d’impazienza. La signora Elena se ne accorse e disse prontamente
al contino Anselmi:

— Ma bravo, signorino! È così che stiamo insieme? Voi fate il giuoco
degli avversari.

— Donna Elena, non l’ho fatto apposta. Non tutti i colpi riescono.

— Non parlo del colpo; parlo del consiglio che date.

— Ah, è vero; — rispose l’Anselmi. — Ma, per una volta tanto...

— Per una volta tanto, — replicò la signora Elena, con aria mezzo
stizzita, — lasciate che il consiglio lo dia il signor Aldo. —

Il contino Anselmi capì di aver fatto un passo falso e si tirò indietro
con tutta quella buona grazia che gli era consentita da un così molesto
rimprovero. Intanto la signora Camilla era rimasta con la stecca sul
biliardo, nella medesima posizione in cui l’aveva messa il troppo
volonteroso consigliere. Aldo De Rossi, tirato in ballo dalla signora
Elena, ripigliò tosto i suoi diritti. Diede un’occhiata alla direzione
della stecca, e vide che si trattava appunto di spingere, per mandare
nei birilli la palla avversaria. Ma questo, che era evidentemente
un regalo del contino Anselmi, non gli poteva convenire per nessun
modo. Perciò, sviata leggermente la stecca della sua bella compagna, e
raccomandatole di battere la palla un po’ sotto il centro, perchè non
avesse a correr troppo, le accennò sommessamente di colpire. Camilla,
a dir vero, non sapeva che si facesse; ma il compagno consigliava ed
ella obbedì, spingendo la stecca in quella direzione che egli aveva
indicata. La palla avversaria, scambio di andare nei birilli di primo
tratto, li rasentò, andando a battere verso il mezzo la mattonella
corta, donde ritornata, entrò nella croce dei birilli, abbattendone
quattro.

Aldo, la signora Vezzosi, il cavalier Sestavalle e i due personaggi
politici della compagnia, applaudirono alla franchezza del colpo. La
signora Camilla si fece rossa dalla gioia.

— Ma bene, egregiamente! — disse il contino Anselmi, parlando a denti
stretti, come potete immaginarvi. — Ed io che credevo...

— Già! — interruppe la signora Camilla. — E perciò mi avevate preparato
un colpo facile, non è vero? Ma io, per vostra norma, amo il difficile.

— E riescite egualmente; riescite in tutto; — rispose il contino
Anselmi, per farla finita senza troppa vergogna. — Ora a voi, Donna
Elena; poichè entrate in giuoco, salvatemi. Abbiamo quattordici
punti; gli avversari ne hanno dieci; bisognerà stare attenti. Del
resto, — soggiunse, — non occorre dirvi altro; la guerra è tra le
Amazzoni. —

La signora Elena giuocava per mera compiacenza. Non fece nulla di
buono, e si contentò di non guastare. A poco a poco fu vinta dal buon
umore di Camilla, che metteva colpo su colpo, senza chieder parere al
compagno, ed ambedue fecero gazzarra per parecchi minuti, senza dar mai
nei birilli, quantunque più volte ci passassero molto vicino, e, quel
che era peggio, con la palla propria, anzi che con la palla avversaria.
Finalmente, avvenne che la signora Elena mandasse la propria in bilia.
Erano due punti perduti e doveva tornare in giuoco l’Anselmi.

— Venite a consigliarmi; — disse allora la signora Camilla al De Rossi.
— La guerra non è più tra Amazzoni. —

Aldo non se lo fece dire due volte e si piantò subito daccanto a lei,
consigliandola e mettendole in posizione la stecca. Ma la signora
Camilla fece come qualche volta Orazio, che vedeva il meglio e si
appigliava al peggio. I consigli e gl’insegnamenti di Aldo non ci
potevano più nulla; essa giuocava sempre alla rovescia. Ma rideva,
mostrava le perle della sua bocca al compagno, e questi si sentiva
correre al cuore una vena d’allegrezza, fino allora ignorata.
L’Anselmi, frattanto, vedendo che l’aria spirava da un’altra banda,
si mise in guardia contro le infreddature. Giuocava con prudente
abbandono, e celiava con la signora Elena, che non aveva ragione per
stare sostenuta con lui, o per ridere dei fatti suoi, come faceva
quell’altra. Il contino Anselmi adoperava in quella occasione come
il buon marinaio in tempo di burrasca; imbrogliava le vele, perchè
il vento non avesse a lacerargliele e, Dio guardi, a spezzargli anche
l’albero.

Tutto ad un tratto la signora Camilla fece steccaccia e andò nei
birilli con la sua.

— Perduti? — chiese ella al De Rossi.

— Perduti; — rispose Aldo, sorridendo.

— Benissimo! — ripigliò Camilla. — Siamo dunque della medesima
forza. —

E lo guardava, così dicendo, con una espressione tanto strana, che egli
ne fu tutto rimescolato.

Che cosa voleva dire quello sguardo? Probabilmente questo: Siamo
due capi ameni, voi con la vostra gelosia scontrosa, io con le mie
leggerezze infantili. Oppure quest’altro: Ci combiniamo in ogni cosa,
perchè in fondo in fondo ci amiamo più che non paia. Infine, poteva
significare anche questo: Siete così scemo, che ho compassione di voi.
Comunque fosse, l’intensità dello sguardo di Camilla aveva un perchè.
Ma fors’anche non ne aveva nessuno, ed era un suo modo di guardare la
gente, per il quale tornava inutile di beccarsi il cervello.

Vi ho detto che si sentì tutto rimescolato. Non si sostiene impunemente
lo sguardo di una donna che si ama, specie quando non si sa ancora se
quella donna vi ami, e perchè vi guardi in tal modo. Ma il turbamento
non è una risposta, e Aldo De Rossi doveva darne una.

— No, — diss’egli tanto per aver l’aria di rispondere qualche cosa,
— mi riconosco più debole di voi. Anch’io, è vero, sono andato nei
birilli con la mia; ma voi, almeno, avete fatti una volta dieci punti
buoni, mentre io non ne ho imbroccato mai una.

— Ed è giusto che si vada così; — ribattè la signora Camilla, col suo
solito accento sarcastico. — Tirate a troppo, signor mio! —

Aldo inarcò le ciglia, come un uomo che non ha capito e sta per
domandare una spiegazione. Ma il contino Anselmi capitò in buon punto a
troncare il duetto.

— Volete la rivincita, signora? — chies’egli a Camilla.

— No, — rispose ella, — salvo che Elena non voglia continuare...

— Come vuoi tu, mia bella; — disse la signora Vezzosi. — Sai pure che
si ama poco ciò che non si sa fare abbastanza bene.

— Quand’è così, — ripigliò Camilla, — diciamo le cose come stanno.
Signor conte, il vostro giuoco è assai brutto. —

Il contino Anselmi s’inchinò, senza rispondere. Era furbo, il
giovinotto. Rispondere non si poteva che in due modi; o piccato, od
umile. Ora il contino Anselmi non voleva fare nè una cosa nè l’altra.

La signora Camilla proseguì:

— Giuocate voi altri, noi staremo a vedere.

— Non sarebbe bello; — rispose l’Anselmi.

— Perchè? Quando i cavalieri vostri antenati combattevano in giostra,
credevano forse di dare un brutto spettacolo alle dame? Giuocate,
signori, giuocate; noi ammireremo i bei colpi.

— Se si prende una partita a biliardo per una giostra, eccomi a
rompere una lancia; — entrò a dire il commendatore Gerardo. — È l’unica
forma di combattimento che sia permessa ad un cavaliere che tocca i
cinquanta. A voi, conte Anselmi, lancia in resa e prendete campo, io vi
sfido.

— Ed io vi armo il braccio; — disse la signora Camilla, porgendo la sua
stecca al Vezzosi. — Vi sia cara quest’arma; essa ha già fatto dieci
punti. —

Il commendatore Gerardo ringraziò. L’Anselmi, preso tra due fuochi,
dovette rassegnarsi a giuocare senza dame.

Il presidente gran croce, abbandonato dal suo interlocutore assiduo,
andò a sedersi sul divano, presso la signora Elena, a cui si era già
accostato il cavaliere Sestavalle. Aldo De Rossi rimase libero di
sedersi presso la signora Camilla.

— Come siete buona! — le disse, a mezza voce, mentre aveva l’aria di
guardare il ventaglio che essa teneva tra le mani.

— Vi pare? — fece ella. — E perchè?

— Perchè avete posto un termine a questo giuoco, che è tanto noioso.

— Grazie, — rispose Camilla. — Noioso, anche stando con me?

— Oh, che dite mai? Noioso in sè stesso; — replicò il De Rossi. — Del
resto con voi ci si sta meglio a discorrere.

— Ecco un altro complimento; — osservò la signora.

— Ah, è vero; — disse Aldo; — ricordo la vostra definizione;
complimento, bugìa. Ma parliamoci schiettamente, signora: credete
proprio che uno il quale vi dichiari di amare la vostra conversazione
vi snoccioli una bugia?

— No, davvero; — rispose Camilla, ridendo, — non sono così modesta per
crederlo, nè così ipocrita per dirlo.

— Ah, meno male! — esclamò il De Rossi.

La bontà di Camilla era contagiosa; scusate il brutto epiteto,
adoperato a colorire una bella cosa. Voglio dire che Aldo, incuorato
dalla cortesia della dama, fu di ottimo umore e chiacchierò
allegramente, come non aveva fatto mai. Intanto i due combattenti si
riscaldavano al giuoco, e uno di essi, il commendatore Gerardo, non
faceva troppo onore all’arma della signora Camilla.

— Chi guadagna? — chiese ella, ad un certo punto, interrompendo il suo
dialogo con Aldo.

— Guadagna Anselmi, signora; — rispose il Vezzosi. — Ha vent’anni meno
di me, e venti punti di più.

— Coraggio, e rimettetevi in pari! — disse Camilla.

— Signora, — fece l’Anselmi, con finta umiltà, — se debbo perdere...

— Potreste averlo già fatto; — rispose Camilla, che, come sapete, le
sue ragioni non le mandava a dire; — potreste averlo già fatto, poichè
il signor Gerardo è il mio cavaliere, armato da me. Ma non lo fate ora,
ve ne prego; chè non ne avreste più merito. —

La mattinata da Brindelli finì maluccio per il contino Anselmi, che
l’aveva concertata. Nell’uscir di là, Aldo ebbe il coraggio di offrire
il braccio a Camilla, e Camilla ebbe il coraggio di accettarlo. A quei
solleoni!



XV.


Il contino Anselmi andava chiedendo a sè stesso da che cosa avesse
potuto prendere origine un cangiamento così repentino.

— Avrei io inciampato in un amore nascente, — pensava egli, — come,
attraversando un campo di grano, si mette il piede su d’un nido di
quaglie? —

Preso in questa forma l’aire, il contino almanaccò un bel tratto;
almanaccò, verbigrazia, che aveva fatto male a impegnarsi con una
leziosa come la Rivanera, così invanita della sua bellezza e de’ suoi
quattrini. Ma si era egli impegnato davvero? Le aveva detto un mondo
di galanterie ed ella aveva mostrato di gradirle. Che fosse innamorata
di Aldo, o corrispondesse in qualche modo all’amore di lui, non pareva
possibile; non era, sopra tutto, conciliabile con la libertà di cui
aveva fatto prova per due giorni alla fila. Se pure non era da credere
che tutto quell’esercizio di moinerie mirasse proprio ad ingelosire
il De Rossi!... Le signore donne le hanno familiari, queste alzate
d’ingegno; per far disperare uno, fanno nascere le speranze di un
altro, dal quale non vogliono poi essere prese in parola. Ora, in
certo qual modo, le speranze erano nate nel cuore del contino Anselmi,
ed egli, nei primi bollori, aveva commesso un piccolo sbaglio. Si
era sbilanciato, se ben ricordate; aveva detto alla signora Camilla,
parlando della compagnia con cui andavano da Birindelli: «cinque
di troppo!»; e aveva anche appoggiata la frase con un sospiro molto
significativo. Da quel momento l’umore della dama si era cangiato.
Diamine, per così poco? Ma sì, per poco o per molto che fosse, si era
cangiato di schianto.

Ora, quando una donna comincia a prendere ombra e a mettersi in
contegno, le spiegazioni non possono essere che due. O ella si annoia
dei fatti vostri, riconoscendo in voi un pretendente; o gradisce
l’omaggio, ma, per ottenerlo intiero, per mettervi il collare, ed
anche la musoliera, incomincia a trattarvi un po’ male, come se volesse
stuzzicarvi nell’amor proprio, infiammarvi all’impresa.

Ma quale delle due spiegazioni era la buona, in quel caso? Come
occorre di tutte le cose che un uomo domanda a sè stesso, mentre la
ragione sufficiente di esse è tutta fuori di lui, il contino Anselmi,
poveretto, non seppe darsi una risposta, e vide la necessità di
fermarsi ad osservare con diligenza i più piccoli indizii. Una cosa
sola gli appariva evidente, certissima; che egli aveva commesso un
errore di grammatica amatoria, buttandosi troppo avanti, e quasi
spiccando il salto, senza sicurezza di cascare in piedi. Grosso errore,
errore massiccio, e bisognava prontamente ripararlo.

La cosa non gli tornava difficile. Ripigliare le proprie posizioni,
rimettersi in osservazione, è sempre agevolissimo agli spiriti
superficiali, agli amatori leggieri, che vi danno la galanteria in
iscambio dell’affetto. E sono proprio essi che hanno ragione con la
maggior parte delle donne, a cui bastano le apparenze della passione,
forse perchè non possono o non vogliono approfondir nulla, in una
società come l’odierna, che è tutta una fiera di vanità.

Il termine di tanti studi e di tante meditazioni fu questo, che
il contino Anselmi lasciò libera la signora Camilla. Il caso aveva
posto sulla sua strada un’altra donna, forse a guisa di riscontro,
fors’anche come pietra di paragone. Si accompagnò dunque a quell’altra,
e incominciò la sua serie di arguzie galanti. Dico la serie, perchè gli
amici suoi lo avevano paragonato, per questo rispetto, ad un giuocatore
di carambola, che, riescito a bene il primo colpo, ne manda altri cento
di costa a quel primo. Infatti, il contino Anselmi faceva tutto da sè:
preparava il giuoco, e poi via, adagino, con garbo, vi faceva la sua
infilzata di sciocchezze, che attingevano tutto il loro pregio dal modo
facile e gaio con cui erano snocciolate.

Per sua disgrazia, la signora Elena era molto distratta; non poneva
mente alle sue arguzie, e, per conseguenza, non ne rideva. Un
giuocatore di carambola a cui manchi la galleria (intendete un certo
numero d’ammiratori) perde subito il filo. Ora, lo spirito del contino
Anselmi, per risplendere della sua luce, aveva mestieri di ascoltatori
compiacenti. Non ne ebbe, e a poco a poco languì; quando giunsero
davanti all’albergo della Pace, era spento del tutto.

— Anselmi, — gli disse il commendatore Gerardo, — volete venire in
giardino, a bere una gramolata?

— No, grazie, Gerardo; — rispose il contino, — debbo tornare
all’albergo.

— Un appuntamento? Gatta ci cova.

— Sì, — disse l’Anselmi, con un sorriso di uomo stanco in
anticipazione, — la gatta è rappresentata da una risma di carta. Ho un
monte di lettere da scrivere. —

Le signore non credettero necessario d’intromettersi, e il contino
Anselmi, fatta la sua riverenza, si allontanò. Per fare più presto la
strada della Torretta, chiamò una carrozza. Credete pure che ciò fosse
per amore dell’epistolario; quanto a me, penso che faceva caldo e che
il contino Anselmi non amava scottarsi da solo.

— Errore di grammatica! — andava dicendo tra sè. — Errore di
grammatica! Il diavolo mi porti, se ci casco una seconda volta. E la
Vezzosi, che mi faceva la distratta! Quella, poi, è innamorata cotta.
Ma come non si accorge di quello che avviene? Oppure la Rivanera
le serve di copertoio? In fede mia, ecco un copertoio mal scelto!
La Rivanera è due volte più bella, a dir poco. È vero che io mi
contenterei; — soggiunse egli, sorridendo a sè stesso. — È un fior di
donna, la Vezzosi. Ed ecco qua un uomo, — conchiuse ironicamente, — che
non farebbe troppo il difficile. Ma appunto per questo, lo lasciano
da banda tutt’e due. Basta, sia come vogliono loro, e andiamo dalla
cantante. —

Beato carattere, che non si commoveva di nulla! Auguro a voi, amico
lettore, di possederne uno compagno.

La cantante ci aveva i nervi. Quella mattina, attaccando i soliti
solfeggi, si era accorta di non aver più il suo _re_ sopracuto, per
cui amava essere paragonata alla Frezzolini. L’Anselmi, sempre in
vena di sciocchezze, le promise di fargliene venire uno da Parigi, e
quella spiritosità senza sugo lo fece mettere alla porta. La giornata
voleva esser lunga. Il contino si ritirò nella sua camera e si buttò
sul letto, a fumare una spagnoletta. Ciò lo condusse a pensare che la
sua provvista di tabacco del Levante aveva mestieri di essere rifatta.
Stese la mano all’orario delle strade ferrate, che era sul comodino,
accanto ad un _Figaro_ di due giorni addietro, e meditò un tratto sulle
coincidenze dei treni. Lo studio dovette tornargli facile, poichè,
balzato tosto dal letto ed infilzato da capo il soprabito, prese il
cappello ed uscì.

Quella sera il contino Anselmi mancò alla conversazione e al ballo
del Casino. Le signore non seppero che era andato a passar la notte
a Firenze. Probabilmente notarono l’assenza del grazioso perondino;
ma non ne fecero argomento di discorso. E nemmeno Aldo De Rossi, vi
prego di crederlo. Il nostro eroe si contentò di respirare un po’ più
liberamente. Trionfava, direte. Ma ohimè, v’ingannate, non trionfava
affatto. La signora Camilla, non essendo più là il contino per fare il
riscontro al De Rossi, apparve meno confidente, meno tenera con Aldo;
tornò ad essere quella capricciosetta incomprensibile, quella cara
sfinge che avete la fortuna di conoscere. Ballò due volte con Aldo, ma
senza dirgli nessuna di quelle parole che potevano farlo contento; e
ballò anche molto con altri, lasciandosi fare quel che suol dirsi una
corte spietata, da mezza dozzina di cavalieri.

La signora Elena, dal canto suo, non mutò di umore, nè di contegno; era
distratta il mattino, continuò ad essere distratta la sera.

Che cosa aveva la signora Elena? Ve lo dirò in confidenza; aveva fatto
una cosa superiore alle proprie forze e sentiva tutto il fastidio
dell’impresa.

Vi è egli mai avvenuto di dire: io non berrò più vino? Oppure: io
non fumerò più per un anno e un giorno? Conosco degli uomini che si
son resi padroni dei propri difetti, e diciamo pure dei propri vizi.
Ma la più parte di questi sperimentatori in persona propria, dopo
aver fatto il fermo proponimento, si seccano. La durano dieci, venti
giorni, magari anche un mese; poi incominciano a languire, a struggersi
dalla voglia, e finiscono come potete immaginarvi, dando ascolto alla
tentazione e ritornando al peccato. Gran mercè se il peccato è veniale,
come nei due casi citati di privazione volontaria.

Il paragone vi sembrerà volgare. Lo vedo anch’io. Ma, appunto perchè
volgare, vi darà una misura proporzionale dello stato d’animo in cui
era la signora Vezzosi. Ella si era proposta un sacrifizio assai più
grave di quello che si proporrebbe un uomo, di non fumar più, o di non
bere più vino per un anno.

A mezza sera, dopo aver fatto un giro di valzer con Aldo De Rossi, la
signora Elena si lagnò del caldo soffocante che faceva nella sala.

— Volete prender aria? — le disse il giovanotto.

— Sì, credo che mi farà bene. Ve ne prego, andate nella sala da giuoco
e dite a Gerardo che venga a prendermi.

— Che? vorreste già ritirarvi?

— No, solamente andare sul terrazzo.

— Se è così, non basto io?

— Siete molto gentile; — disse la signora. — Ma io non vorrei
sacrificarvi, facendovi abbandonare il ballo, con gl’impegni che
avrete.

— Non ho impegni; — rispose Aldo. — E, poi, vedetemi in faccia. Vi ho
l’aria di un uomo che si diverte?

— No, davvero. Ma che cosa avete? Le vostre cose vanno dunque così male?

— Non potrebbero andar peggio. La duro fin che posso, e poi ne faccio
una delle mie.

— Calma! Calma! — disse la signora Vezzosi, nell’atto di prendere il
suo braccio per escir dalla sala. — Infine, che ragioni avete, per
essere in collera? Siete geloso! Bella novità! Ma almeno, non lo sarete
più del contino Anselmi.

— Sì, di lui per l’appunto.

— Ma se non è neanche presente!

— Proprio perchè è lontano; — disse Aldo. — Vedete, Donna Elena, con
voi posso parlare. Siete la mia Egeria...

— Ma voi non siete savio come Numa Pompilio; — ribattè la signora
Vezzosi. — Basta, parlate egualmente e confidatemi le vostre pene. Che
cosa significa questo esser geloso di un assente, appunto perchè egli è
assente?

— Signora, — fece Aldo, — avete notato come oggi, da Birindelli, e poi
nel ritorno, ella fosse gentile con me, quantunque ci fosse lui?

— Sì, l’ho notato, e, se volete riconoscerlo, vi ho anche un pochino
aiutato.

— È vero, e vi ringrazio. Ma avete veduto stassera? L’Anselmi non c’è,
fa l’imbronciato, ed ella ha rizzato muso.

— Non mi pare, signor Aldo, non mi pare. Ella non fa che ballare.

— Già, con tutti, e senza lasciare un ballo. Vedete che furia! E non
trova neanche il tempo per rivolgere un’occhiata a questo sciocco che è
il vostro umilissimo servo.

— Dio buono! Ma voi siete incontentabile. La donna che amate non ha da
vedere che voi!

— È la mia opinione; o tutto o nulla.

— Perciò, — disse la signora Vezzosi, fermandosi a mezzo il terrazzo,
e guardando in viso il suo cavaliere, — al poco che vi è toccato...
preferireste il nulla.

— Sicuramente, il nulla; — rispose egli, risoluto.

La signora Elena rimase alquanto sovra pensiero; indi riprese:

— Che strano innamorato! Siete un uomo di altri tempi.

— Perchè? Non è di tutti i tempi, l’amore?

— Lo sarà stato, signor Aldo, lo sarà stato; ma sicuramente non è più
del nostro.

— E da che lo argomentate, se è lecito?

— Da un po’ d’esperienza. Oh, non istate a credere che io ci abbia
provato; — soggiunse ella, ridendo. — Ho semplicemente veduto.
Ammetterete, io spero, che una donna mia pari possa averne veduti
spasimare parecchi.

— Ne ammetto volontieri un centinaio — disse Aldo De Rossi.

— E che, anco non dandogli retta.... — proseguì la signora Elena.

— Sempre un centinaio; — ripigliò il giovinotto inchinandosi.

— Sopratutto non dandogli retta, — soggiunse la signora Elena,
appoggiando sulla frase, — possa averli studiati, essersi convinta e
persuasa del modo con cui amano gli uomini del nostro tempo. Orbene,
signor Aldo, nell’amore degli uomini della vostra generazione c’è una
parte di desiderio e una parte di vanità. Questa, poi, è molto più del
desiderio. Figuratevi come possa entrarci l’amore, l’amor vero, che è
un bisogno del cuore, l’aspirazione ad un sentimento di tenerezza, che
abbellisca la vita, o la renda sopportabile.

— Come dite bene! — esclamò Aldo De Rossi, traendo un sospiro. —
È proprio questo, l’amore che sento. Rinunzierei al possesso della
persona amata, rinunzierei alle consolazioni della pubblica invidia,
pur di sapere dentro di me che quella donna mi ama e che io posso
riporre intieramente la mia fede nella sua.

— Ve l’ho detto; — replicò la signora Vezzosi: — siete un uomo strano,
un uomo d’altri tempi. Su che libri vi siete formato? Dico su libri, e
non sopra esempi viventi; perchè questi, o mancano, o vivono nascosti.
Certi sentimenti, come i colori troppo delicati, non amano la luce viva
del sole. —

In quel punto una luce più mite, ma diffusa, coglieva in pieno la
persona di Aldo De Rossi, che stava ritto accanto al davanzale del
terrazzo, con la faccia rivolta verso l’entrata del Casino. E in quel
punto apparve sul limitare dell’anticamera la signora Camilla. Il
commendatore Gerardo la teneva a braccetto.

Aldo se la vide baluginare davanti agli occhi e rizzò prontamente la
testa. La signora Elena indovinò dal gesto di Aldo che c’era qualche
cosa di nuovo, e lentamente, come persona stanca, o svogliata, si girò
da un lato a guardare. Non vi dirò che la vista dell’amica le facesse
in quel punto un gran piacere. Se ve lo dicessi, non credereste. Siamo
dunque intesi, non ve l’ho detto.

— Ah, sei qui, mia cara? — esclamò la signora Camilla, mettendo il
piede sul terrazzino. — Ti avevo veduta andar via dal salone con una
cert’aria abbattuta!.... Non ti ho vista tornare, e credevo già che ti
sentissi male.

— Infatti, — rispose la signora Vezzosi, — il caldo mi aveva oppressa.
Non ho neanche potuto finire il valzer, perchè mi era venuto un
capogiro.

— Perchè non farmi chiamare? — disse il commendatore Gerardo, prendendo
affettuosamente per mano la sua dolce metà.

— Oh, non mi parve necessario d’incomodarvi per così poco. Ho dato
invece il disturbo al signor Aldo, che è stato tanto gentile da
sacrificarsi per me. Del resto, credevo che voi foste impegnato a
giuocare.

— Che! Mi seccavo a veder giuocare gli altri, aspettando che il
presidente si fosse liberato da un noiosissimo giudice di mandamento
che gli s’è attaccato ai panni e non lo ha ancora lasciato. Per
fortuna, — soggiunse il commendatore Gerardo, volgendosi alla sua bella
vicina, — la signora Camilla è apparsa sull’uscio....

— Cercavo appunto mio zio, — interruppe la signora Camilla, a cui non
metteva conto di far sapere quelle piccolezze alla gente.

— Ed io, — ripigliò il commendatore che non voleva rinunziare al gusto
di finire la frase, — son corso incontro alla bella visione.

— Come siete galante! — esclamò la signora Camilla, risoluta per quella
volta di mozzargli le parole in bocca, se per caso ne aveva altre da
aggiungere. — E adesso vorreste compir l’opera? Ma no; — riprese ella,
come pentita; — dividiamo la fatica tra due. Signor Aldo, sareste voi
così buono....

— Dite, signora; — gridò Aldo, scattando come una molla.

— Da andare nella sala ove si trova mio zio; — continuò la signora
Camilla.

— Sarete servita immediatamente. E gli dirò?....

— Che vado all’albergo; con lui, se crede di accompagnarmi; con Elena e
col signor Gerardo, se egli ha ancora desiderio di restare. —

Aldo si affrettò a fare l’imbasciata. Ma dentro di sè andava cercando
che diamine potesse aver cagionato quella pronta risoluzione di
Camilla. Anche il tono con cui ella aveva parlato era di persona
oltremodo nervosa. E questo non era neanche sfuggito all’attenzione
della signora Elena, la quale rimase sovra pensiero, lasciando a suo
marito tutto il carico della conversazione. Gerardo, come sapete,
faceva per due, e all’occorrenza per quattro. Del resto, egli ebbe
poco da dire, perchè due minuti dopo tornava Aldo, accompagnando il
presidente gran croce.

— Vi sarete seccato, col giudice? — chiese il commendatore al
presidente gran croce.

— No, — rispose questi, — mi parlava d’una causa abbastanza importante,
che si è discussa ultimamente a Perugia. Sapete, Vezzosi, il proverbio
dice: chi l’ha nell’ossa lo porta alla fossa. Si è stati giudici e le
cause....

— Producono i loro effetti, capisco. —

In queste chiacchiere si escì dal Casino, per ritornare all’albergo. Il
presidente gran croce non pensò neanche a domandare perchè si escisse
così presto. In simili casi, sono le signore che comandano, e nelle
risoluzioni delle signore non si cerca mai il perchè.

Le dame andavano innanzi, accompagnate da Aldo, che era passato dalla
banda di Camilla e procedeva mogio mogio, come un cane bastonato. Nel
vestibolo dell’albergo, il giovinotto augurò la buona notte alle dame e
si accomiatò dai due accompagnatori legali. Intanto le dame ponevano il
piede sui primi gradini della scala.

— Carina, — disse Elena a mezza voce, — vorrei parlarti.

— Ora? — dimandò Camilla col suo accento nervoso.

— Anche ora; — rispose quell’altra.

La signora Camilla si volse allora ai due accompagnatori che erano già
per seguirle, e disse:

— Signori, non è necessario che salgano, per adesso. Elena ed io
vogliamo stare un’oretta insieme.

— Grandi segreti? — disse il commendatore Gerardo.

— Segreti di Stato; — rispose Camilla.

E fatto un cenno di commiato, si avviò per le scale, seguendo la
signora Vezzosi.



XVI.


Giunte sul primo pianerottolo, le due signore entrarono nel corridoio.
La cameriera, andata avanti col lume, si fermò davanti al quartierino
occupato dai Vezzosi, che era il più vicino alle scale. Ma la signora
Camilla le accennò di proseguire, volendo condurre l’amica nel suo.
Entrate nel salottino che divideva la camera della signora Rivanera da
quella del presidente Roberti, la signora Vezzosi si lasciò cadere sul
canapè, come persona sfinita.

— Hai più coraggio di me; — diss’ella, dopo aver ricolto il fiato, e
con un accento da cui trapelava un leggero sarcasmo.

— Perchè? — domandò la signora Camilla.

— Perchè li hai mandati via, così alla svelta, come si farebbe con due
estranei. Si poteva pur rimandare il nostro colloquio a domani.

— Non hai detto: anche ora? — ripigliò Camilla.

— È vero, ma come si dice una cosa senza importanza.

— E senza importanza discorriamo stasera, scambio di discorrere domani.
Del resto, che conti ho da rendere? Son libera, nota, son libera; —
soggiunse Camilla, premendo sull’aggettivo, come se volesse rimandare
il sarcasmo alla sua bella interlocutrice.

Tra due donne questo po’ di malumore c’è sempre. La tensione è lo stato
abituale di queste due pile elettriche, anteriori di tante migliaia
d’anni alla scoperta di Alessandro Volta. Ora è quistione di un amore
che si contendono, ora di una vanità che debbono soddisfare, ma sempre
di una preminenza che vogliono mantenere. Noi uomini, più spesso che
non si creda, ci buttiamo via, ci rassegniamo alle seconde parti. Le
donne mai, viva la faccia loro! Ditela pure una debolezza; ma di che
cosa s’ha egli ad esser teneri, anzi gelosi, se non della propria
dignità? Sta bene che ci vuol diplomazia, per vivere in questo mondo;
ma forse che la diplomazia non ha diritto di mostrarsi permalosa,
per la maestà dello Stato che rappresenta? E se mi chiedeste che cosa
rappresenta la donna, vi risponderei che rappresenta sè stessa; come a
dire un Impero, e un Impero... celeste.

— Volevi parlarmi, — soggiunse la signora Camilla dopo alcuni istanti
di pausa. — Domani avrebbero potuto mancare le occasioni. Un momento
così propizio come questo non si presenterà più. Siamo qui sole, e i
nostri compagni di viaggio, se non li facciamo chiamare, si periteranno
di venire quassù. Aggiungo che sei da me, e non c’è neanche il pericolo
che tuo marito entri qua, senza farsi annunziare. Parla! —

Elena ammirò la risolutezza di quella personcina, in apparenza così
leggera, fatta piuttosto per lasciarsi trasportare dai casi che per
dominarli. In apparenza, ho detto, ed anche per la signora Vezzosi,
che veramente l’aveva giudicata assai meglio di così. Certi errori non
sono possibili tra donne, e l’una conosce l’altra di primo acchito,
come noi ci conosciamo a malo stento un giorno prima di morire. Or
dunque, la signora Elena aveva da un pezzo conosciuto il carattere
di Camilla Rivanera; in quell’impasto di grazia aveva intravveduta la
forza; sotto quell’aria di leggerezza aveva indovinato un carattere.
Ma certo, non l’aveva immaginata mai così pronta nelle sue risoluzioni,
così disposta ad affrontare il pericolo, come essa gli appariva in quel
momento, andando incontro agli agguati, alle insidie, ai tranelli d’una
conversazione, che non prometteva niente di buono.

Una lotta s’impegnava. Ma quale? Voi, lettori, l’avete già presentita
e potreste già in parte descriverne le fasi. Ma le cose non potevano
essere già così chiare tra le due dame, ed una di esse, la Rivanera,
doveva anzi fingere di non capirne nulla in anticipazione, e mostrar di
credere che il discorso annunziato dalla sua amica fosse il più liscio
e il più naturale del mondo.

— Camilla, — incominciò la signora Vezzosi, — sai che ti amo. Sebbene
queste cose ce le siamo dette finora assai poco....

— Non importa; — interruppe Camilla, con un gesto che dissimulava male
l’impazienza, se pur non è da dire che la metteva in mostra; — poche
parole bastano ad affermare l’amicizia. L’amore, poi, non ha neanche
mestieri di quelle poche parole. —

Elena si scosse e diede alla sua interlocutrice un’occhiata di
meraviglia. In quelle parole di Camilla non era a vedersi una sfida?
Almeno almeno un invito a tagliar corto? Fosse l’una cosa o l’altra,
la signora Vezzosi doveva cogliere l’occasione che gli era offerta di
entrare in argomento.

— Tu, dunque, — diss’ella, — saprai che Aldo De Rossi è innamorato di
te. —

Ecco, lettori, una donna può sapere molte cose; ma non può sempre
sapere qual ragione faccia parlare in un dato senso un’altra donna;
specie quando quest’altra incomincia il suo discorso ex abrupto. Non
vi parrà dunque strano che la signora Camilla, comunque preparata
all’attacco, balenasse al primo urto un tantino. Forse anche questo era
un atto meditato, e la perplessità di Camilla serviva di appoggio ad un
gesto di stupore, che voleva dire: — che cos’è questa alzata d’ingegno?

— Non ti offendere, sai! — ripigliò la signora Vezzosi, ingannata da
quel gesto. — Dirti che il signor De Rossi è innamorato di te, non è
già un farti torto.

— No; — rispose Camilla, con un tono tra scherzoso ed ironico. —
Rendiamo giustizia ai meriti del signor Aldo De Rossi. È un po’ strano,
il signore, e via, diciamo anche un po’ stupido, perchè ogni cosa abbia
il suo nome appropriato; ma certo egli non offende una donna, facendole
la corte. Infatti, mia bella, ne sei offesa, tu? —

Un attacco rispondeva ad un altro. La signora Elena, che non si
aspettava di essere assalita, mentre ella stessa si era fatta
assalitrice, ne fu grandemente turbata.

— Io! — esclamò. — E di che dovrei essere offesa? Egli non mi fa la
corte.

— Davvero?

— Non me l’ha fatta mai.

— Ah! questa è anche più strana.

— Te lo giuro; — disse Elena, con accento solenne.

Camilla stette un momento in forse; poi chinò la testa, con aria di
persona che vuol dimostrarsi persuasa, anche non essendo convinta.

— E sia; — diss’ella. — Non saprei che cosa opporre ad una affermazione
come questa. Ma non perdiamo il filo del discorso. Esso avrà pure una
conclusione; andiamo alla conclusione. —

La signora Vezzosi aggrottò le ciglia, vedendo che Camilla si metteva
a quel modo in sussiego con lei, e si pentì di aver voluta quella
conversazione. Ma non c’era rimedio e bisognava andare fino in fondo.

— È male che tu la prenda su questo tono; — diss’ella. — Io vengo a
te senza secondi fini, col cuore in mano, e ti dico: Aldo De Rossi
è innamorato di te. È un uomo serio, un gentil cavaliere; amalo. O
meglio, — soggiunse, — poichè queste cose non si comandano, se è vero
che tu l’ami, o sei disposta ad amarlo, te ne prego, non fare che egli
si disperi per la tua apparente insensibilità. —

Camilla ascoltò con molta attenzione il predicozzo, non togliendo gli
occhi dal volto dell’amica. Indi, col suo solito sussiego, le disse:

— Parli per conto suo?

— Se fosse, — replicò la signora Elena, ferita da quell’aria altezzosa,
— che cosa ci vedresti di male?

— Anzi, — ribattè la signora Camilla, — ci vedrò una prova del suo
buon gusto a saper scegliere.... gli ambasciatori. Peccato che col
buon gusto non si trovi d’accordo lo spirito! Sicuramente, mia bella;
non s’incomoda una dama come tu sei, più fatta per udire di questi
discorsi, che per farli ad un’altra. E non è bello, inoltre, che in
queste faccende s’aiuti con gl’intercessori, chi ha voce e ginocchia
per pregare da sè.

— È giusto; — osservò la signora Vezzosi. — O, per dire più veramente,
sarebbe giusto, se il signor De Rossi mi avesse dato l’incarico di
farti un simile discorso. Il vero è che non mi ha incaricato di nulla.
Conosco il suo segreto.... Da un pezzo glielo leggevo negli occhi. Mi
duole di vederlo così triste, così avvilito, e ti parlo per conto mio,
in favore di quel povero giovanotto.

— Ah, volevo ben dire! — esclamò la signora Camilla. — È dunque tutta
bontà tua. Veramente singolare! Non ti offenderai, spero, di questa
osservazione. È tutto ciò che io ti dirò su questo particolare, usando
dei diritti che accorda l’amicizia. E per questa medesima amicizia
ti dico: càlmati, bella mia.... E frattanto, non mi chiedere di fare
questa cosa, o quell’altra, perchè io non posso far nulla. Non amo il
signor De Rossi.

— Ah! — gridò la signora Elena. — E perchè?

— Ti potrei rispondere molto semplicemente: perchè non l’amo. Tu
stessa lo hai detto poc’anzi, queste cose non si comandano; o sono,
o non sono, e la ragione del non essere è così oscura, come quella
dell’essere. Vedi, mi fai parlare come un filosofo; — soggiunse
Camilla, ridendo. — Ma voglio essere schietta, quantunque la cosa abbia
i suoi rischi. Solo chi custodisce il proprio segreto è forte; e la
donna, già tanto debole in questa società così male costituita, ha
doppia ragione di custodirlo. Pure, lo ripeto, sarò schietta con te.
E tu, spero, ci vedrai un’altra prova della mia amicizia. Mi stai a
sentire?

— Son qua, tutt’orecchi; — rispose la signora Vezzosi, atteggiando le
labbra ad un sorriso, che non le venne altrimenti.

Camilla, che era stata fino allora in piedi, davanti alla Vezzosi, andò
a sedersele accanto, sul canapè; indi, presa la mano dell’amica tra le
sue, come a trastullo infantile, così incominciò la sua confessione.

— Sono una donna leggiera, vana, capricciosa, tutto quello che vorranno
dire di me tante caritatevoli persone. Oh, non me la prendo, io!
Riconosco, anzi, che c’è molta apparenza di vero in questi giudizi. Ci
sono dei modi di essere, che fanno l’uffizio della maschera, con cui
andiamo al veglione, per non essere conosciute e per far disperare la
gente. C’è chi riconosce il viso, sotto la forma di raso nero: ma non
importa, la maschera c’è, e ti dà il diritto di parlare liberamente,
come se tu non fossi riconosciuta. Dunque, diciamo, leggiera, vana,
capricciosa, volubile, e chi più n’ha ne metta. Io, dentro di me, so
d’essere tutt’altra. Odio i caratteri falsi, sono assetata di verità;
perciò, capirai che non posso amar gli uomini, e che, sopratutto, non
posso stimarli. Questi per la bellezza, quegli per la ricchezza, o
per la condizione sociale, uno perchè sei libera, l’altro perchè non
lo sei più, ci hanno tutti una ragione eccellente per mettersi sul
tenero, qualche volta ingannando sè stessi, sempre cercando d’ingannare
anche te. Ma parliamo di me, che sono libera. Ho la bellezza, dicono;
ho la ricchezza, dice il mio ragioniere, che guarda al sodo e non si
confonde con certe lustre. Ora, io te lo confesso sinceramente; sarò
matta da legare, ma quando m’accorgo che un uomo non ama in me che
una superficie di bellezza, vorrei esser brutta da far paura, per
vedere dove va tanto amore disperato; quando m’accorgo che si tratta
anche e sopratutto del mio milioncino (sono afflitta da questo guaio,
che farci?) vorrei essere povera come Giobbe, per vedere se la mia
bellezza, ridotta a figurare tra i cenci, farebbe fare tante pazzie a
quell’uomo.

— Aldo De Rossi non bada alla ricchezza; — osservò la signora Vezzosi.

— Lo credo, e gli rendo giustizia in questo particolare; — rispose
Camilla. — Ma io parlo in genere, e dico che l’amore è una cosa
delicatissima, imponderabile, indefinibile. O c’è tutto, o non vale un
bel nulla. L’uomo che ami solamente per amare, e per amare quella donna
più d’un’altra, e per amare solamente quella, è possibile trovarlo?
Io credo di no. Vado ad altezze vertiginose, lo capisco; ma sono fatta
così ed oramai non c’è verso di mutarmi. Ho potuto non chiedere queste
cose, quando ero fanciulla ed abbastanza inesperta; ma oggi ho veduto,
ho paragonato, ho studiato, cerco quell’amore e quell’amore non c’è. O
ci sarà, ed io non l’ho trovato. Sarò come quel tale, che voleva andare
ad alloggio nell’albergo della Felicità; ma era tanto distratto a furia
di pensarci, che passò rasente e non vide l’insegna. E può anche darsi
che il tuo De Rossi sia l’uomo ch’io cerco; e può anche darsi che non
lo sia. Non l’ho studiato, e gli è come se non lo fosse.

— Già, — notò ironicamente la signora Vezzosi, — tu l’hai per uno
stupido!

— Oh, questo non vorrebbe dir nulla; — rispose con molta tranquillità
la signora Camilla. — Ci s’innamora male, degli uomini di spirito.
Sono come le donne letterate, che abbagliano annoiando, o come i
cani sapienti, che fanno tante belle cose egregiamente, salvo quella
per cui i cani sono ammessi agli onori della domesticità. Un povero
canino da pagliaio, che non sa dar la zampa, nè saltare il cerchio, nè
andar ritto da un capo all’altro della sala, ama il padrone, lo segue
fedelmente e ne custodisce la casa. Non fo torto al signor De Rossi;
dico soltanto che un uomo simile non farebbe per me. Ci avesse almeno
il buon gusto di dedicarsi ad una donna, di non vedere e di non servire
che a quella! Ma no; lo vedi girandolare da questa a quell’altra,
con una facilità che dimostra tutta la sua leggerezza, di cuore e di
spirito.

— Eh via! — disse la signora Vezzosi. — Tu gli fai torto, adesso. Egli
va in società, come ci vanno tutti i suoi pari. Perchè accusi lui solo?

— Lui solo, certamente, perchè nessun altro va in società come lui, con
quell’aria di voler parere una eccezione ambulante. Gli altri, a buon
conto, non si piccano di apparirti diversi da quelli che sono, mentre
egli, il tuo De Rossi, — (la signora Camilla appoggiò maliziosamente
sul pronome possessivo) — fa il filosofo meditabondo, l’uomo dei grandi
concetti e dei profondi dolori. L’ho veduto in molti luoghi, a balli,
a conversazioni, a teatri, sempre inguantato, incravattato, insaldato,
i capegli ravviati con una diligenza miracolosa, la divisa condotta
a pennello fino alla nuca, le ciocche lucenti sulla fronte; e da per
tutto con quel suo cipiglio imbronciato e scontroso, come un uomo che
mediti un suicidio.

— Non è certo come l’Anselmi; — osservò la signora Vezzosi.

— Oh no, — riprese Camilla, — e viva l’Anselmi, con la sua faccia
serena e il cuor contento. È uno sciocco, te lo concedo, ma uno
sciocco che non fa male. L’insegna non ti tradisce. Ride, distilla
continuamente il suo spirito; qualche volta ci riesce e qualche volta
no; ma in fine, non ha l’aria di volerti dare una lezione ad ogni
batter di ciglia, e, sopra tutto, non si atteggia a rubacuori.

— Lo credi?

— Almeno, mi sembra tale, ed è tutt’uno. A me, che non ho mestieri di
legger nell’anima di questi signori, basta quel po’ di vernice.

— Hai torto; — disse placidamente la signora Vezzosi. — Conosci sempre
più addentro che puoi le persone che ti avvicinano più spesso. Non
sai che cosa pensano? Avrai anche il rammarico di non sapere che cosa
diranno alle tue spalle.

— Che cosa diranno? — Quello che potranno dire. E se io non darò loro
argomento...

— Brava! Come se non bastasse una cortesia, uno scherzo, una frase
detta senza metterci importanza, per mandare in solluchero questi
signori e destare le più ardite speranze! Ma sia pure come tu credi;
avranno poco da dire. Rimarrà sempre quella che potranno lasciar
supporre. C’è un modo di lasciar supporre, che vale il raccontare... ed
anche il dare ad intendere. —

La signora Camilla stette un istante sovra pensiero, indi si strinse
nelle spalle.

— Bella mia, — replicò, — tu chiedi più attenzione e più vigilanza, che
non sia possibile ad una donna di usare. Io permetterò anche questo,
purchè non si pensi ad alta voce con me e non mi si annoi con certe
dichiarazioni.

— Oggi, infatti... — notò la signora Elena.

— Ah, oggi! Che cos’hai veduto, quest’oggi?

— Non dovrei dirlo, perchè sarebbe un pensare ad alta voce... e
potrebbe annoiarti.

— No, parla, te ne prego. Non crederai già che la mia insofferenza per
certi discorsi si estenda anche a te!

— Dirò, dunque, — ripigliò la signora Elena, ringraziando Camilla con
un lieve cenno del capo, — che stamane tu avevi l’aria di trattare
molto bene il contino Anselmi, e che subito, entrando da Birindelli,
hai incominciato a trattarlo assai male. Almeno se si deve giudicare
dal suo contegno, che era proprio d’uomo avvilito, a cui non basta più
l’allegria sforzata, nè la filosofia naturale, per apparire tranquillo.

— Ah, l’ho trattato male? — ripetè la signora Camilla. — Non me ne sono
avveduta. Prendo e lascio con tanta facilità! E questo ti provi che non
dò nessuna importanza ai nostri bei cavalieri; peggio per loro, se, da
qualche frase buttata là per chiasso, traggono argomento a sperare Dio
sa che cosa! Può anche darsi, — soggiunse Camilla, tornando al fatto, —
che il contino mi abbia seccata. Anzi, mi pare di ricordarmi... Sì, mi
ha detto qualche cosa che m’ha dato noia. Ma quello è un uomo che non
ci ritorna più. Non avrà avuto filosofia quest’oggi, perchè sarà escito
senza la sua provvista quotidiana; ma vedrai che ne avrà una provvista
doppia, domani. È, dopo tutto, un uomo gentile ed un compagno prezioso.
Ne convieni?

— Eh, sì; — fece la signora Elena, dividendo la sua frase in due tempi.
— Aldo De Rossi ne è molto geloso; — soggiunse poscia, per richiamare
all’argomento la sua interlocutrice.

— Geloso! E con quale diritto? — gridò la signora Camilla. — Mi ha egli
comprata? Gli ho detto io: sarò la vostra schiava? Io te lo ripeto,
Elena; non amo, non amerò mai un uomo che le corteggia tutte ad un
modo.

— Tutte! Tutte! — esclamò la signora Vezzosi. — Bisognerebbe che tu
incominciassi a citarne qualcheduna.

— Te, per esempio. Ma tu dici di no...

— Lo dico. Con tutte le forze dell’anima mia, te lo dico.

— E non si potrà più insistere; — ripigliò Camilla. — Ma qui
dentro, capirai, non si comanda, e qui dentro si potrà anche pensare
diversamente. —

La signora Vezzosi stette muta un istante, offesa com’era da quel
dubbio e combattuta da due opposti sentimenti, di tristezza e di
sdegno. Ma infine si padroneggiò e così mestamente rispose:

— Farai quello che ti parrà, e mi dimostrerai di non avere amicizia per
me. Io, credi, ne ho sempre molta per te; ne ho più che non pensi.

— Ed è per questo che vuoi... — incominciò Camilla.

Ma si trattenne subito; e la signora Vezzosi, volgendo gli occhi alla
sua interlocutrice, vide l’aria di vivacità, quasi di collera, che
stava per accompagnare la frase; ma non uscì altrimenti la frase.

— Parla! — disse la signora Elena. — Che cosa sono queste tue
reticenze? Tu pensi il male e non hai cuore di dirlo. Bada, Camilla;
hai incominciato, devi finire.

— E sia, finirò: — rispose Camilla. — Se è un cattivo pensiero, tu lo
combatterai ed io ne avrò liberato il mio cuore. Elena, io dubito che
questo tuo colloquio... che questa tua raccomandazione a favore di Aldo
De Rossi... o miri a scoprir terreno... o a coprire una tua passione,
che può essere stata osservata. Dimmi che non è vero! —

Ma nell’atto di finire la sua invettiva, Camilla ebbe argomento di
pentirsene. Elena si era abbandonata contro la spalliera del sofà,
coprendosi gli occhi con le palme, come per frenare le lagrime.

— È orribile, ciò che supponi; — diss’ella, singhiozzando. — È
orribile, ed io non meritavo questi crudeli sospetti. —

Turbata, confusa da quello scoppio improvviso, ma più ancora commossa
da quell’accento di verità, Camilla gittò le braccia al collo di Elena.

— Via! via! Non ho detto nulla, sai? Dimentica, te ne prego. È effetto
del mio umore selvaggio. Ci sono certi momenti, che m’accorgo di
essere cattiva. Ma vedi, mi ha resa tale il mondo, che è tutto una
guerra d’imboscate e di tradimenti. Non piangere, te ne supplico, non
piangere! Fa conto ch’io non t’abbia detto nulla. Io non mi alzo di
qua, se tu non mi perdoni.

— Ti ho perdonato; — rispose la signora Elena, traendo faticosamente
il respiro, che le era mozzato dai singhiozzi. — Ti ho perdonato. Ma
tu, ascolta un consiglio. Ama; è il rimedio ai cattivi pensieri. Ama;
è anche il nostro destino, a cui non possiamo sottrarci senza pericolo.
E ama senza dar cagione di gelosia all’uomo che hai scelto per signore
dell’anima tua.

— Mi domandi una cosa grave, quasi impossibile; — rispose Camilla,
abbracciando la signora Elena e tergendo le sue ultime lagrime. — Ma
sai che, per dispormi a tanto, bisognerebbe trovare un uomo perfetto? E
forse, trovandolo, mi annoierei della sua stessa perfezione. Perdonami,
è ancora un resto della mia cattiveria naturale. E senza dargli
cagione di gelosia, dovrei dunque rinchiudermi in casa come una schiava
nell’_harem_. Perchè l’uomo sospetta di nulla, perfino d’un volger di
ciglia, lo sai. Inoltre, c’è questo da osservare, mia bella; l’uomo
si riposa troppo facilmente nella vittoria; più si sente amato, e meno
riama.

— L’uomo, forse; — replicò la signora Elena; — ma quell’uomo,
quell’uomo che hai scelto, quell’uomo che ami, non è più della specie
degli altri, come tu non sei più simile alle altre per lui. E poi,
— soggiunse la signora Vezzosi, animandosi, — che importa pensare a
ciò che avverrà? L’amore è una fiamma che consuma e purifica; non ti
curar di cercare se dovrà rimanerne un pugno di cenere. E non temere
di essere, o di apparire una schiava. Benedetta schiavitù! Per un uomo
che io sentissi di amare, Dio mi perdoni, accetterei di essere ridotta
in eterna miseria, e di non veder più la luce del sole. Senti, bambina
mia, è il gran fine della vita, l’amore. E sia grande, profondo,
immenso; giustifica tutto, redime tutto, santifica tutto. A che ti
servono questi vagheggini, che han preso l’amore per un trastullo delle
ore d’ozio? Ti dicono che sei bella. Gran che! Non te lo dice il tuo
specchio, e senza chiederti nulla in compenso? Poi, vedi, lo dicono
a te, come lo dicono a tante, secondo l’umore della giornata, e per
vedere se mai la lode non t’inducesse in tentazione. Esser tentata da
vanitosi siffatti! — esclamò Elena, con atto di ribrezzo. — E sapere
che, mentre parlano, stanno formando un disegno su me e applaudendosi
delle loro trovate! Ci sarebbe ragione di fuggire mille miglia lontano,
se non si fosse certe di poterli confondere con una allegra risata.
Ma bada, bambina mia, bisogna saperla buttar là, quella risata, ed in
tempo, chè non abbiano campo a sperare, nè agio a vantarsi. Il timido
silenzio, lo sguardo soave, il verecondo sorriso, serbali per l’uomo
che potrai ascoltare, quando ti avvedrai che parla dalle sue labbra
la verità, non orpellata da vani complimenti, non raffidata da troppa
sicurezza di sè.

Così parlava la signora Elena, resa eloquente dalla profondità del
sentire. Camilla era stata ad udirla con molta attenzione, e quasi
sospesa al suo labbro. Com’ella ebbe finito, le si accostò per
bisbigliarle all’orecchio:

— Tu ami, Elena. Chi ami? Ed hai avuto fortuna dall’amore?

— Io? — disse la signora Elena, scuotendosi. — No; sono una povera
donna ferita.

— Tu? così bella?

— Eh, la bellezza non ci ha nulla a vedere, pur troppo! E poi, dove è
la donna così bella, che non sia vinta da un’altra, più bella di lei, o
che sembri tale agli occhi di un uomo? Senti, bambina mia, — soggiunse
amorevolmente la signora Vezzosi, che quella risoluzione pacifica del
dialogo aveva messa in vena di tenerezza; — l’uomo che ho amato....
Non dovrei parlarti così, io; ma infine, è un peccato, e i peccati si
confessano. L’uomo che ho amato mi paragonava un giorno ad una statua
di Fidia, ma per pospormi nel medesimo tempo ad un’altra donna.

— Che sarà stata, m’immagino, una statua di Prassitele; — osservò la
signora Camilla.

— No, — rispose la signora Elena, — egli fu più galante e più crudele
di così. Paragonò quell’altra al capolavoro che non era stato mai
fatto da un artefice mortale, alla figura di donna che Fidia aveva
intravveduta nei sogni della fantasia, ma che non aveva saputo
effigiare nel marmo.

— Al giro della frase lo si direbbe un complimento del contino Anselmi;
— notò Camilla, sorridendo.

— No, non è suo; — rispose Elena. — L’Anselmi non direbbe tanto bene
di una donna assente, a scapito della donna presente. Quell’altro è
più schietto, anche a risico di far soffrire un povero cuore di donna.
È forse per questo, — disse la signora Vezzosi, come parlando a sè
stessa, — che anch’egli è condannato a soffrire?

— Che dici tu, ora? — esclamò Camilla, a cui parve d’indovinare. — Chi
era quest’uomo? E chi era quella donna?

— Chi era? — ripetè la signora Vezzosi. — Lo chiesi a lui e non potei
strappargli il suo segreto. Non ne avevo il diritto, poichè egli non mi
aveva ingannata, non mi aveva detto mai una parola d’amore. Ma volevo
conoscere ad ogni costo quella donna, che era agli occhi suoi tanto
più bella di me. Feci patto di rassegnarmi all’ultimo posto, se ella
era degna del primo. E l’ho conosciuta, e ho dovuto dargli ragione; la
donna che egli amava era più bella di me, più bella di molte a cui non
oserei paragonarmi; — soggiunse modestamente la signora Vezzosi. — Ed
io mi sono rassegnata; vedi, Camilla? mi sono rassegnata, e, fedele al
mio patto, ho lavorato per lui, cercando di ravvicinarlo a quella donna
e di intercedere per lui.

— Tu hai fatto ciò? — disse Camilla, stupita. — Hai potuto far ciò? Ma
non è cosa di donna; è superiore alle forze d’una donna.

— Non lo è stato alle mie, come vedi; — rispose la signora Vezzosi.

E nascose, ciò detto, la fronte nel seno di Camilla.

— Che vuoi che ti dica? — riprese quest’ultima. — Sei migliore di me;
e non meriti di piangere, come fai, per cagion mia, ma, te lo assicuro,
senza mia colpa.

— Oh, non badare alle mie lagrime; — rispose Elena. — È il ricordo che
mi fa piangere. Ma sono forte, sai? Ti avrei io detto ogni cosa, con
tanta sincerità di cuore, con tanta libertà di spirito, se non fossi
forte?

E sollevò la fronte, parlando così, e si provò a sorridere, coi
lucciconi alle ciglia. Vi risparmio qui la bella immagine del cielo che
si rasserena attraverso le ultime stille di pioggia, perchè veramente
se n’è troppo abusato.

— Andiamo; — disse Camilla, cingendo tra le sue braccia la vita di
Elena, come se volesse sollevarla di peso dal canapè. — È tardi e i
nostri signori si annoieranno di aspettarci.

— Ah sì, li avevo dimenticati; — rispose Elena. — Ma tu mi ascolterai,
non è vero?

— Ne parleremo.

— No, tu devi ascoltarmi; devi dirmi di sì.

— Te lo dirò poi; — replicò Camilla. — Non sono cose da prendersi così
alla leggera. Bisogna pensarci su. Te lo dirò poi; — ripetè; — anzi
meglio, te lo scriverò. La parola scritta ha questo vantaggio, che essa
permette di legger meglio nell’animo, mentre si esprime il proprio
pensiero. Capisco che è male lo scrivere. Una donna non dovrebbe mai
darsi a questa occupazione pericolosa. Almeno, — soggiunse Camilla, —
fino a tanto che essa è la serva umilissima degli uomini e la nemica
naturale delle donne. E padroni e nemici sono cattivi depositari dei
nostri segreti, ne convieni? Ma io farò questo per te, e tu ci vedrai
una prova d’amicizia confidente, che è l’amicizia del presente e del
futuro. Dammi un bacio, bella mia; ti sembra sincero, questo? —

La signora Vezzosi baciò l’amica con effusione, su ambe le guancie. Ma
la povera bella aveva ancora i luccioloni sulle ciglia.

— Via, rasciughiamo le lagrime; — disse Camilla. — Se fossi un uomo,
in fede mia, ti direi di seguitare, perchè sei bella così, e perchè le
lagrime di una bella donna si bevono volentieri. È scritto in tutti i
romanzi, e a me qualche volta verrebbe voglia di piangere, per vedere
se gli uomini usano ancora di dirlo. Ridi? Va bene, ed io mi lodo delle
sciocchezze che dico così spesso e così volentieri, se esse hanno la
virtù di rasserenarti. Ecco intanto due donne che hanno avuto colloquio
per un uomo, senza farsi giuramento di inimicizia eterna. Non è vero
che siamo calunniate dagli uomini? Ma già, — conchiuse filosoficamente
Camilla, — fino a tanto che comanderanno loro, e i libri li scriveranno
loro, sarà così e ci vorrà pazienza. Non ti pare? —

La signora Vezzosi, scambio di rispondere, abbracciò nuovamente
Camilla. E rasciugate le lagrime, escì insieme con lei dal salottino.



XVII.


Ci hanno insegnato alla scuola, in que’ beati tempi che s’aveva
ancora bisogno di andare alla scuola, come qualmente, per comando di
Domineddio, l’uomo debba guadagnarsi il pane col sudore della propria
fronte. Il che torna a dire che l’uomo, condannato ad un continuo
stento per la battaglia della vita, sarà perennemente infelice. Questa
dev’essere la regola, e, come tutte le regole di questo mondo, ha da
averci le sue brave eccezioni. Nel fatto, vi sono degli uomini, i quali
non sudano, neanche a scottar loro i piedi con acqua bollente; e ce ne
sono degli altri, i quali non mangiano pane, o tutt’al più ne prendono
qualche sottilissima fetta, per ispalmarla di burro. Similmente, ci
sono degli uomini continuamente allegri, che non si rompono la testa
coi malanni, che vedono tutto color di rosa, che sono felici, insomma,
felici ad ogni costo, e contro il precetto delle Sacre Scritture.
Laonde io sono indotto a pensare che ogni uomo, nascendo, porti il
suo destino con sè. All’uno, messer Domineddio deve aver detto: «tu
sarai lieto»; all’altro: «tu sarai imbecille»; all’altro: «tu sarai
dotto»; e così via discorrendo, ad ognuno dei nuovi nati, secondo
certi motivi suoi, che non ci è dato conoscere, ma dal cui svolgimento
dipende senza alcun dubbio la storia delle nazioni. Lo stato sociale
e l’educazione non ci hanno a veder nulla, o assai poco, in questa
varietà d’indirizzi, poichè si trovano dotti, imbecilli e felici in
tutte le classi sociali. Per contro, è facile di osservare una specie
di compensazione, come a dire un saggio di giustizia distributiva,
che dimostra la saviezza infinita del sommo legislatore. Il felice è
sbadato, miope, quasi cieco, e non vede le cantonate, se non quando
ci ha dato contro del naso; l’imbecille può salire ai più alti uffici
dello Stato; il dotto riesce facilmente noioso. Non è sempre così,
lo capisco, ed anch’io lo riconoscevo implicitamente, accennando alle
solite eccezioni ond’è circondata e quasi circoscritta ogni regola; ma
in fondo in fondo si può dire che la giustizia distributiva governi e
che la compensazione sia il fatto costante.

Perchè questo squarcio di filosofia? Per dirvi, o lettori, che il
contino Anselmi era un uomo felice, o alcun che di somigliante. Almeno
almeno, egli era molto contento di sè, nell’atto di ritornare da
Firenze per Montecatini. E che cosa ci aveva, per essere contento?
Nulla, in verità; ma per essere contenti non è sempre necessario di
avere, bastando qualche volta di sperare. I cavalli di Plutone, ad
esempio, non ci sono stati descritti dal poeta Claudiano allegri a quel
Dio, per il semplice fatto che essi pregustavano le biade del ritorno?

Che cosa s’aspettava l’Anselmi? Un mutamento naturale in tutto ciò
che aveva lasciato il giorno addietro tanto mal disposto per lui. La
signora Camilla, che si era mostrata così capricciosamente severa da
un momento all’altro, doveva tornargli benigna. La cantante, che ci
aveva i nervi e che lo aveva mandato così liberamente a farsi benedire,
doveva essere guarita. E queste due fortune gli sarebbero toccate in
premio di una sapiente scappata.

Il contino Anselmi si era accorto di avere, come dicono i francesi,
l’_absence heureuse_. Dopo qualche giorno di lontananza, lo vedevano
più volentieri le donne e gli amici. Egli non andava a cercare se
ciò dipendesse per avventura da quel periodo di tregua, che ci fa
sopportare con maggior filosofia il ritorno dei vecchi dolori. Sentiva
il benefizio e non ne indagava le cause. Non vi ho detto ch’egli
apparteneva alla schiera dei felici, di coloro che vedono tutto color
di rosa e che sono molto contenti di sè?

Il nostro viaggiatore ebbe alla stazione di Montecatini i sorrisi e i
saluti amichevoli di cento conoscenze; saluti e sorrisi che non avrebbe
avuti, se, scambio di giunger lui, fosse andato con quella medesima
folla a veder giungere un altro. Era già una consolazione, come vedete.
Non si fermò a chiacchiera con nessuno, perchè un uomo che arriva non
ha mai tempo da perdere, o non deve mostrare di averne. Del resto, il
contino Anselmi sentiva gli stimoli dell’appetito e il bisogno di darsi
una risciacquata. Prese una vettura di piazza e corse all’albergo della
Torretta, per attendere ai due uffici importanti; si restaurò dentro
e fuori, e quindi andò a far visita alla cantante. Era la più vicina;
doveva anche esser la prima, nelle sue attenzioni galanti.

La diva lo ricevette benissimo. I nervi non la molestavano più; segno
evidente che aveva ritrovato il suo _re_ sopracuto. Il contino Anselmi
che le aveva proposto di andare a Parigi, per portargliene uno nuovo
fiammante, le portava in quella vece una graziosa novità dalle rive
dell’Arno, cioè a dire un elegantissimo braccialetto, comperato in via
Tornabuoni, dal Marchesini, che era, e spero lo sia tuttora, il Dio
dei gioiellieri di Firenze. Ad una dama non si sarebbe potuto portare
un presente d’oro e pietre preziose; ad una diva sì, perchè i Numi
gradiscono, da tempi immemorabili, ogni specie di offerte.

La diva accolse il dono con gioia, ed ammirò da esperta conoscitrice
una fila di piccoli smeraldi e rubini, frammezzati da brillanti,
che luccicavano sulle spire elastiche del braccialetto, foggiato a
serpente. S’intende che, per ammirarlo meglio, se lo rigirò subito al
braccio.

— Siete un compito cavaliere; — diss’ella; — ed anche un uomo di buon
gusto. Guardate come sta bene. —

E gli stese un braccio ben tornito, candidissimo senza mestieri di
biacca, che meritava anch’esso la sua parte d’ammirazione. Il contino
Anselmi lo prese delicatamente e gli rese l’omaggio a cui essa sembrava
invitarlo.

— Porterò il vostro braccialetto questa sera al Casino; — disse allora
la diva.

— Ah! — esclamò il contino, inarcando le ciglia. — Questa sera
finalmente vi risolvete di andarci?

— Sì; volete accompagnarmi? Mando a spasso il Torricelli. —

La proposta non garbava troppo al contino Anselmi.

— Lo vorrei; — diss’egli, sospirando. — Ma temo di compromettervi.

— Compromettermi! — ripetè la diva, rizzando la testa e fissando gli
occhi curiosi in volto all’Anselmi. — Non sarebbe per caso il timore...
di comprometter voi? —

Il contino fece la bocca da ridere.

— Che dite mai? — gridò egli. — Ad accompagnare una bella donna, un
cavaliere ci guadagna sempre nella stima dei popoli. Fate conto che io
non v’abbia detto nulla. Avevo parlato solamente per voi.

— Sentiamo questa, che ha da essere nuova di zecca; — rispose la diva
con accento sarcastico.

— Eh, nuova o vecchia, eccola qua. Voi dovete far colpo, stassera,
essere ammirata, adorata, applaudita da tutti. Ora, voi lo saprete per
esperienza, i gelosi applaudono di mala voglia. Ed io, entrando con voi
al Casino, farò chiacchierare, ingelosire moltissimi. Il Torricelli è
vecchio e la sua galanteria sessagenaria non dà ombra a nessuno; mentre
la mia, che non è ancora sui trenta, mi capite?....

— Capisco che ve la cavate abbastanza bene; — disse la diva, con un
risolino sardonico.

— Non me la cavo, anzi voglio restarci; — replicò l’Anselmi, già
mezzo stizzito. — Son pronto ad accompagnarvi e felicissimo di lasciar
pensare tutto ciò che cento sciocchi invidiosi vorranno pensare di noi.

— No, così non fa comodo a me; — rispose la diva. — Credo che in fondo
in fondo non diciate male. Restate nell’ombra e non intorbidate il mio
trionfo, se trionfo ha da essere. Andrò col Torricelli. Il poveretto ne
sarà felicissimo.

— Eh, purchè sappia contentarsi! — fece l’Anselmi, con aria di burlesca
minaccia.

— Sciocco! — disse la cantante, appoggiando l’epiteto con quel grazioso
torcimento di labbra che ha nella nostra lingua il brutto nome di
boccaccia.

— Adorabile! — rispose il contino Anselmi, facendo in quella vece il
bocchino.

In quella guisa l’Anselmi vinceva il punto di non accompagnare la diva
al Casino. Veramente, non si sarebbe tirato indietro a quel modo, tre
giorni prima. L’uomo, quando non ha altri ripeschi in mira, si presta
sempre volentieri a queste comparse, che fanno prendere il moscherino a
mezzo mondo e che dànno alle donne un alto concetto della sua persona.
Perchè, infatti, le figlie d’Eva sono meno insensibili che non si pensi
a questi spettacoli di felicità mascolina, e l’uomo che credesse di
guastare i fatti suoi per il futuro con simili mostre, si gabellerebbe
da sè per un vero collegiale. S’intende che le mostre in discorso
riescono utili, quando l’uomo non abbia altri amori imbastiti lì per
lì. Se ce li ha, deve astenersi con ogni cura da questi riscontri
pericolosi. Una donna può e deve ammirare il signor Tizio, che ha
fortuna con le altre, fino a tanto che ella non sia ricercata da lui;
ma a nessuna donna può altrimenti piacere che il signor Tizio le si
presenti con una rivale a braccetto.

Quella sera, finito il pranzo, e senza indugiarsi a prendere il
caffè in giardino, il nostro Cupido escì dall’albergo della Torretta,
avviandosi per lo stradone. Non sapeva nulla delle signore che aveva
così bruscamente piantate il giorno innanzi. Non lo avevano veduto
al Casino; lo avevano probabilmente aspettato al Tettuccio; dovevano
essere impensierite della sua sparizione improvvisa. Ora il contino
Anselmi giustamente pensava che un po’ d’assenza fa bene, ma che non
deve mica esser troppa.

Così egli andava ruminando il suo capitolo _de arte amandi_, quando
(vedete fortuna!) riconobbe da lunge le dame, che, accompagnate dai
soliti cavalieri, venivano incontro a lui verso il Tettuccio. Il
commendatore Gerardo e il cavaliere Sestavalle andavano innanzi con
la signora Camilla; seguivano Aldo e il presidente gran croce con la
signora Elena.

A farlo a posta, il numero era giusto e non c’era più luogo per lui.
Ma beati gli ultimi, dice il proverbio, se i primi han discrezione. Il
commendatore Gerardo fu tanto discreto da cedergli il suo posto.

— Ah, sei qui, briccone? — gridò il Vezzosi appena lo ebbe veduto. —
Dove diamine ti sei nascosto, Anselmi? —

Il contino biascicò alcune frasi sconnesse.

— Nascosto, no.... veramente.... Del resto, tu mi vedi....

— Ora, si capisce. Ma iersera? e stamane? Ti abbiamo aspettato al
Tettuccio, e non ti sei lasciato vedere. Di grazia, si potrebbe sapere
che cura fai?

— Dio buono! La cura degli affari, quando ti vengono addosso; — rispose
l’Anselmi, con un’aria di candore, che non pareva lui. — Ho dovuto
andar fuori.

— A Collodi, m’immagino; — replicò il commendatore Gerardo. — Oppure a
Monsummano.

— Che! Più lontano; in capo al mondo; — disse l’Anselmi. — Ieri, quando
vi ho lasciati, ho trovato all’albergo un telegramma, ed ho dovuto
correre a Firenze, per incontrare un amico, che doveva giungere da
Roma. E con lui sono venuto stamane, dandogli il passaporto per Pisa.
Una noia, come capirai; ed io ne sono stato dolentissimo; — soggiunse
il contino, dando un’occhiata malinconica alla signora Camilla.

— E deggio e posso crederlo? — chiese con enfasi melodrammatica il
commendatore Gerardo.

La signora Camilla venne allora in soccorso dell’Anselmi.

— Come non volete crederlo? — diss’ella. — Il conte Anselmi non è
certamente uomo da dire una cosa per un’altra. Ha avuto da fare e
ci ha lasciati; ha sbrigate le sue faccende e ci ritorna. Questo è
l’essenziale. —

Un inchino e uno sguardo eloquente ringraziarono la signora Camilla del
suo gentile intervento.

Ma perchè le due file dei nostri passeggiatori erano molto vicine
l’una all’altra, Aldo De Rossi udì le parole di Camilla. Il poveretto
ci diventò verde dalla stizza e si morse le labbra fino a far sangue.
La signora Elena, che le aveva udite anch’essa, volse un’occhiata di
sbieco al compagno e notò come avesse la cera contraffatta.

— Calma! — gli bisbigliò allora, facendo un rapido movimento da quella
parte. — Vi dirò tutto. —

Frattanto il contino Anselmi diceva al Vezzosi:

— E dove andate ora, se è lecito saperlo?

— Al Rinfresco, per far ora. La signora Camilla non conosce ancora il
luogo.

— E mi dicono che sia molto bello; — soggiunse Camilla.

— Bellissimo; — rispose il contino. — Sta sotto la mia giurisdizione,
perchè è proprio accanto alla Torretta. Di modo che, — proseguì
l’Anselmi, — se io fossi rimasto all’albergo, avrei avuta la fortuna di
vedervi egualmente?

— Ma non avreste meritato di accompagnarci, — replicò la signora.

Aldo De Rossi andava al Rinfresco come la biscia all’incanto. Si
pentiva di non essersi posto lui al fianco della signora Camilla, per
impedire all’Anselmi di appiccicarsi in quel modo. Ma come avrebbe
potuto fare diversamente? Quel giorno gli era andata così male ogni
cosa! La mattina, al Tettuccio, aveva notato una grande freddezza, o,
per dire più veramente, un’aria di grande inquietudine, che metteva
le signore a disagio con lui. Esse, del resto, non si lasciavano
mai, e come non gli era riescito di parlare da solo a solo con la
signora Camilla, così non aveva potuto dire neanche una parola alla
signora Elena. Infastidito da quelle difficoltà, che erano durate fino
all’ora di colazione, Aldo De Rossi aveva infilato l’uscio e preso il
portante verso Monsummano, sperando di chetare le sue furie con una
lunga passeggiata. Ma si era stancato, senza punto calmarsi. Tornato
all’albergo sull’ora di pranzo, aveva trovata la signora Elena più
turbata, più confusa che mai. Non ebbe modo di chiederle nulla, perchè
il Vezzosi l’accompagnava nel corridoio, e del resto era già ora
di scendere nella sala da pranzo. Solamente nell’anticamera, mentre
Gerardo appiccava il cappello al gancio del cappellinaio, essa ebbe il
tempo di dirgli: — Proporrò una gita al Rinfresco; veniteci: troverò il
modo di parlarvi. —

Concertata la gita mentre erano a tavola, gli convenne di restare al
fianco della signora Elena quando si escì dall’albergo. La signora
Camilla era venuta a pranzo in una abbigliatura elegantissima, che
faceva risaltare vieppiù i segni di una freddezza senza esempio.
Aldo non ci capiva più nulla e si rodeva di non sapere che diavolo
fosse. Avviandosi con la brigata al Rinfresco, e non vedendo comparire
l’Anselmi, si era arrischiato a sperare che la giornata dovesse finir
meglio che non era cominciata. Ma tutto ad un tratto era apparso
l’Anselmi; egli stesso era stato il primo a vederlo e il cuore gli
aveva dato una scossa violenta.

E pensare che quello zerbinotto, quel Ganimede, quell’Adone da
strapazzo (già, i nomi da appioppare ad un rivale non mancano mai)
veniva a guastargli le sue faccende con un tradimento in corpo, e
probabilmente ancora caldo delle tenerezze dette ad un’altra donna!
Perchè infatti il contino Anselmi ce lo aveva, il suo ripesco amoroso,
all’albergo della Torretta. Non si era confessato egli stesso con Aldo,
nelle espansioni di una passeggiata a lume di luna! E la delicatezza,
la lealtà e tante altre belle cose egualmente moleste, non permettevano
ad Aldo di metter carte in tavola, di propalare senza tanti complimenti
ogni cosa?

Si giunse al Rinfresco, una specie di giardino all’antica, con mura
alte e severe, ornato con una gravità architettonica abbastanza
pretensiosa, ma ricco di verde, d’ombra e di silenzi romantici, da
piacer molto ai cuori innamorati, ed anche ai filosofi misantropi.
Questo riscontro non ha niente di strano e si spiega facilmente, poichè
l’amore è una misantropia masticata in due.

Una fontana, decorata di marmi, sorgeva nel mezzo del piazzale,
accanto all’entrata; ma l’acqua non aveva allegrezza di zampilli. Acqua
termale, tu eri triste a vedere, come la faccia del mio Aldo De Rossi.
Più lieta appariva tutto intorno la frappa, in mezzo a cui s’aprivano
alcuni viali, ma per chiudersi tosto, nel fitto dei rami sporgenti.
Cari viali, amiche rèdole, liberali di ombre discrete ai fidati
colloquii, come si sarebbe inoltrato volentieri pe’ vostri meandri il
mio Aldo De Rossi, tenendo a braccetto la signora Camilla! Ma a farlo
a posta, la signora Camilla non si spiccava dal fianco dei signori
Anselmi e Vezzosi, o, per dir meglio, i signori Vezzosi ed Anselmi non
si spiccavano dal suo.

E bisognava sentirlo, il contino Anselmi, che fuoco d’artifizio
faceva! Ed anche la signora Camilla, come rideva, alle arguzie,
alle galanterie, alle svenevolezze del signorino! Rideva anche più
degli altri giorni, d’un riso acuto, quasi stridente, che urtava
maledettamente i nervi al De Rossi. Ci fu un momento che gli parve di
odiarla. Lettori, che avete sofferto di questo male, non riconoscete
qui l’amore innalzato alla quarta potenza?

Come Dio volle, i passeggiatori si sentirono stanchi e si arresero al
tacito invito dei sedili di pietra che correvano intorno alla fontana.
Aldo non si posò come gli altri, ma stette in sull’ali; da prima per
andare a veder l’acqua da presso e far le mostre di assaggiarla; quindi
per girandolare qua e là ed osservare le piante. In certi momenti della
vita ogni uomo è un naturalista.

Egli, per altro, non era escito dalla vista della comitiva. E dopo
alcuni istanti di dotte osservazioni, vide con la coda degli occhi la
signora Elena spiccarsi dalla brigata, per venire verso di lui. Si
volse allora con aria grave e tranquilla e le accennò una pianta di
bossolo, per modo che gli altri, se avessero guardato da quella parte,
credessero ad una vera e propria conversazione botanica.

— Sapete che è un affar serio? — gli diceva intanto la signora Vezzosi.
— Non si può neanche trovare il momento propizio.... per darvi un
dispiacere.

Aldo De Rossi diede un sobbalzo e si fece pallido in viso.

— Calma! — ripigliò la signora. — Ho avuto iersera un colloquio con
lei. Ve ne darò i particolari... quando potrò. Intanto, ne capirete
abbastanza, dalla lettera che ella mi ha scritto questa mane.

— Una lettera! — mormorò Aldo turbato.

— È qui; — disse la signora Elena, traendo un foglio di tasca, mentre
si avvicinava al De Rossi e chinava la testa verso la pianta di
bossolo. — Voi la leggerete... e me la restituirete.

— Sì; — disse Aldo, imitando la mimica della signora e stendendo le
dita per prendere il foglio.

Ma la signora Elena non se lo lasciò fuggir di mano così presto.

— Badate, — riprese, — è necessario che mi sia restituito. Mi confido
ad un uomo, non è vero?

— E ad un gentiluomo; — replicò il De Rossi.

— Qualunque cosa avvenga, mi restituirete questa lettera, oggi stesso?

— Avete la mia parola d’onore; — disse Aldo.

— Bene; — soggiunse la signora. — Mettetela in tasca. La leggerete più
tardi.

— Mentre voi starete conversando alla fontan, — mormorò Aldo, — io
andrò a passeggio qui presso.

— Troppa fretta! Se almeno aveste la forza di dominarvi....

— L’avrò, signora, l’avrò. Da ciò che mi dite, capisco già che c’è una
sentenza di morte... per il mio povero amore; — rispose tristamente il
De Rossi. — Ma voi lo vedete, son forte.

— Sarete anche sereno? In apparenza, se non altro?

— Riderò; — disse Aldo. — Va bene così? —

La signora Elena non rispose parola, e, accompagnata dal De Rossi,
tornò a passi lenti verso la fontana.

— Che cosa guardavate con tanta attenzione? — domandò il commendatore
Gerardo.

— Una pianta che non conoscevo; — rispose Aldo con aria sbadata.

— Gran che! Figuratevi che era una pianta di bossolo; — soggiunse la
signora Vezzosi.

— Ma di un verde così tenero, che in verità non mi pareva bossolo; —
ribattè Aldo De Rossi, per dar colore alla storia.

— Effetto del terreno, che non è molto confacente alla sua specie; —
replicò la signora Vezzosi.

— Donna Elena ha grandi cognizioni in botanica; — disse il cavaliere
Sestavalle. — Rammento ancora la distinzione tra l’_Hibiscus siriacus_
e l’_Hibiscus_... Di grazia, come si chiama l’ibisco dell’albergo della
Pace?

— Vedo che la rammentate poco, la distinzione; — notò argutamente la
signora Vezzosi. — È un _Hibicus liliflorus_.

— E li ha sulla punta delle dita, i nomi latini! — gridò ammirato
l’Alcibiade.

— Il latino è brutto parecchio; — disse il contino Anselmi, — ma la
giardiniera è bella. Propongo di chiamarla la bella Giardiniera.

— Magazzino di mode? — domandò la signora Vezzosi.

— No, capolavoro di Raffaello; — rispose l’Anselmi, inchinandosi.

— Conosco questo complimento; — disse la signora. — Ce lo avete detto
l’altro dì, sull’uscio della Speranza.

Il contino Anselmi si morse le labbra, rammentando che infatti aveva
già speso un’altra volta quel motto arguto, e pensando che ciò poteva
nuocergli presso le dame. Ma non si diede per vinto.

— Mi rimandate all’uscio? — diss’egli. — Vedo già i campi della
disperazione.

— Eh! — fece il commendatore Gerardo. — L’ha rimbrodolata abbastanza
bene.

Aldo De Rossi approffittò di quelle ciarle senza sugo, per dare
un’altra voltata sui tacchi. La lettera che gli aveva consegnata la
signora Elena gli scottava la mano. Dovete sapere, infatti, che teneva
sempre la mano in tasca, stringendo convulsivamente quel foglio in cui
stava scritta la sua condanna.

Camilla non fu tratta in inganno da quella invenzione botanica. Ella
si era avveduta che Elena e il De Rossi avevano colto il primo pretesto
per iscambiarsi alcune parole e argomentò facilmente che quelle parole
la risguardavano lei, vedendo che Aldo De Rossi, tornato presso la
compagnia, aveva evitato di guardarla.

Giunto fuori dalla vista de’ suoi compagni di passeggiata, Aldo
De Rossi cavò di tasca la lettera misteriosa. Aveva la febbre; gli
tremavano le mani, e gli occhi ci vedevano poco. Raccolse tutte le sue
forze con un atto supremo di volontà, spiegò il foglio e decifrò alla
meglio i sottili uncinetti della signora Camilla.



XVIII.


Quali sentimenti dovessero agitarlo durante la lettura non vi dirò,
perchè le angosce del cuore, quando sian giunte ad un certo grado di
violenza, non si descrivono più. Del resto, immaginate voi; ecco la
lettera:

      «_Elena mia_,

  «Ho pensato lungamente al tuo discorso di iersera, e ti rispondo
  ora in iscritto quello che avevo già incominciato a risponderti a
  voce; non accetto la tua generosa proposta.

  «Non è capriccio, non è caparbietà; è maturato consiglio. Ho
  ragionato tutta la notte il pro e il contro, ma sopratutto ho
  pensato a te e alla nobiltà del tuo carattere. Tu sei buona e
  sincera, mia Elena, e meriti di esser felice.

  «Una cosa mi è apparsa evidente. Tu stessa t’inganni, intorno
  allo stato del tuo cuore e alla forza della tua volontà. Tu ami il
  signor De Rossi; ed egli... Egli, una delle due, o ama te, oppure è
  uno sciocco. Ad ogni modo, se non ti ama oggi, ti amerà domani. Ciò
  che m’hai narrato de’ suoi furori per me, è molto vago, nè credo
  ci si possa far fondamento per l’edifizio della mia felicità. Tu
  stessa, ne sei ben certa? Non ti pare che c’entri un pochino di
  vanità (vanità offesa, o vanità stuzzicata, non importa cercare)
  nella passione di cui tu m’hai fatto una pittura così viva? Sai,
  gli uomini ce l’hanno tutti, la loro parte di puntiglio; anche
  quando giuocano per celia, vorrebbero vincere. Il signorino va
  attorno come le farfalle; e quasi direi senza scegliere i fiori.
  S’è imbattuto in me; m’ha trovata più sorda di qualcun’altra alle
  sue attenzioni, alle sue gentilezze. Come io sia stata con lui, non
  so veramente, perchè io non mi osservo. Vo innanzi alla libera,
  come una selvaggia; quando una cosa mi piace, non la nascondo;
  quando mi dispiace, non ne faccio mistero. Può darsi che io l’abbia
  ferito; può anche darsi che egli abbia sognato di esserlo. Comunque
  sia, non credo che si tratti d’una ferita profonda. E vorresti che
  per una cosa da nulla io mi mettessi a fare la suora di carità?
  Io non amerò, forse; ma quando amerò, bada bene, sarà per tutta la
  vita. I mezzi amori mi fanno rabbia; non voglio scomodarmi per così
  poco; non voglio perdere la mia pace per una di queste passioncelle
  da dozzina, in cui ha tanta parte la vanità, e la galanteria tutto
  il resto. Quando amerò... Ma questo te l’ho già detto. Soggiungerò
  invece che l’uomo destinato a impadronirsi di me, ha da fare
  qualche cosa di grande, o di pazzo, che in questi casi è tutt’uno.
  Gli uomini del nostro tempo non fanno più pazzie per le donne, ed
  è male. Può anche esser bene; chi lo sa? Forse noi non meritiamo
  che se ne facciano più; siamo diventate anche noi troppo frivole.
  Or bene, sia pure, io non amerò, e sarà tanto di guadagnato per
  la tranquillità de’ miei nervi. Qualche volta, vedi, mi prende la
  malinconia di farmi monaca. Ma non ti spaventare, bella mia, sono
  accessi che non durano. E negli intervalli mi lascio cogliere dalla
  manìa dei giuochi innocenti; gradisco la corte degli sciocchi, e
  son felice quando mi accade di farli disperare a quattro per volta.

  «Ma lasciamo stare queste fanciullaggini. Come vedi, sono una
  ragazza viziata. Lo zio, che mi vuol bene mi chiama spesso la
  sua _testa falsa_. S’intende che parla per celia, e senza sapere
  di cogliere così netto nel segno. Veniamo a te. Se ti riesce di
  rinfrancare il dolente personaggio e di far parlare il suo cuore,
  fallo per te, Elena mia. Forse c’è stoffa per un uomo di garbo; e
  tu, del resto, sei donna da far miracoli. Dirai che ti consiglio
  male. Io stessa, rileggendo la frase, me ne accorgo. Ma è scritta,
  e non voglio far cancellature, che avrebbero aria di pentimenti.
  Del resto, noi donne viviamo solamente per il cuore e non badiamo
  troppo a certe piccole tirannie d’una legge che non abbiamo fatta
  noi. Alla fin fine, brucia la lettera; è il meglio che tu possa
  fare. Il conservarla potrebbe dire due cose alla gente di poco
  spirito, a cui capitassero sott’occhio i miei scarabocchi: che il
  consigliere è cattivo e che l’alunno meritava un tal consigliere.
  Queste cose non debbono dirsi, nè di te, nè di me. E poi, ti
  sentiresti di fare un’altra cosa, che ti raccomando tanto? Ridi,
  e non pensare ad altro. Io sarò veramente felice quest’oggi, se,
  entrando nella sala da pranzo, e sedendo di rimpetto a te, vedrò
  un bel sorriso sulle tue labbra. Labbra di corallo tenero, come
  t’avran detto già molti; labbra che invitano, ecc., ecc., come
  avranno pensato moltissimi. Ridi, ora? Orbene, va avanti così. — La
  tua CAMILLA.»

Aldo De Rossi era rimasto attonito, a quella lettura, e ci volle il
suo tempo perchè riprendesse il dominio di quella poca ragione che
possedeva. Così a occhio e croce capì che la signora Elena aveva
parlato eloquentemente, quantunque senza frutto, per lui. Capì inoltre
che non era stato compreso. Due cose spiacevano alla signora Camilla,
siccome appariva dal contesto della sua lettera; che egli usasse andar
troppo attorno, quasi a corteggiarle tutte, e che il suo amore per una,
se lo sentiva davvero, non lo dimostrasse con qualche gloriosa follia.
Ma non erano due pretesti, messi fuori dalla dama, per dissimulare
la freddezza del suo cuore? Una donna non s’inganna mai su certi usi
di mondo e sa fare le sue distinzioni a favore di un uomo, che, anco
facendo riverenza a cento, non ne vede e non ne preferisce che una.
Quanto alle imprese meravigliose, Dio buono, anche la signora Camilla
lo capiva, che i tempi e i costumi non erano da ciò.

Una ragione doveva esserci, e più forte di tutte le altre, a
giustificare la freddezza della signora Camilla. Elena amava Aldo,
e non aveva potuto negarlo. Ora, come non sospettare che Aldo avesse
dato argomento, appiglio, esca, e tutto il peggio che vorrete, a quella
simpatia della signora Vezzosi?

Un pensiero di quella fatta doveva venire a lui, come ad ognuno de’
miei lettori. Ma i lettori afferrano le cose con animo pacato; Aldo De
Rossi, in quella vece, non ci vedeva più lume. Perciò, se il pensiero
gli venne, come vi ho detto, egli non si fermò altrimenti a misurarne
l’importanza. Quando si soffre, si studia poco sulle cause del dolore;
l’ermeneutica non è fatta per gli spiriti turbati dalla passione.
Al nostro povero eroe parve più sbrigativo e più comodo accusare la
signora Camilla di freddezza, d’orgoglio, di leggerezza, e di vedere
nella sua lettera un ammasso di pretesti, messi fuori per liberarsi da
un uomo antipatico. Ma a benefizio di chi? Una donna, per solito, non
disprezza un uomo, se non perchè ne stima troppo un altro.

Giunto a’ piedi dell’ultima pagina, Aldo De Rossi voltò il foglio per
tornare da capo. Era un moto naturale, come d’uomo che non ha bene
inteso e che vuol sincerarsi. Ma in verità non c’era bisogno di tanto;
la lettera parlava chiaro e Aldo non poteva dare ai propri occhi
una così audace mentita. La mano aveva girato il foglio; la stessa
mano lo strinse e lo spiegazzò, come se volesse lacerarlo. Le labbra
borbottarono qualche cosa, che sapeva d’imprecazione, e la lettera andò
a finire nella tasca del soprabito, dove fu cacciata con un atto poco
rispettoso. A qual pro l’avrebbe egli riletta? Si torna mal valentieri
sulle notizie spiacevoli. E quelle che gli erano date nella lettera
di Camilla dovevano imprimersi nel suo cervello a caratteri di fuoco,
come.... (scusate il paragone che è vecchio, ma calzante) come le tre
parole misteriose sulla parete, nel famoso convito di Baldassarre.

— Egregiamente! — mormorò Aldo, con un accento che faceva a pugni
con l’ottimismo dell’avverbio. — Non si potrebbe mandarmi al diavolo
con parole più chiare. Ma una cosa non è chiara... o lo è troppo. La
signora parla di me; ne parla molto, ne parla oltre il bisogno. Ma
tace di un altro, come se non esistesse neanche. E quello di cui tace
è appunto quello che ama. Son tutte così; l’uomo di cui non gliene
importa nulla, lo mettono in piazza; l’altro, poi, lo nascondono, come
si nasconde un tesoro. Provatevi a farle parlare! Ve ne citano dodici,
se occorre; si accuserebbero magari di amarne ventiquattro; ma il nome
di quel tale, non c’è caso che se lo lascino sfuggire di bocca. —

Vi fo grazia di tutto l’altro che disse, o che borbottò tra i denti,
perchè gli vo’ bene e non mi piace di mostrarvelo troppo violento nei
pensieri e nelle espansioni. Ad ognuno di voi sarà avvenuto di dirle
grosse, in un momento di rabbia. E certamente vi sarebbe dispiaciuto
che le vostre parole fossero raccattate da un imprudente uditore
e ripetute ai quattro punti cardinali, come monumento della vostra
pazzia.

Lo stesso Aldo si avvide di essere uscito dai gangheri. Se ne avvide
ad una imprecazione troppo forte che gli era sfuggita e che gli aveva
percosso l’orecchio.

— Che cos’è questo? — esclamò. — Sono io dunque un ragazzo, e non saprò
far altro che chiacchiere? —

Si scosse, così dicendo; digrignò i denti, con atto di profondo
disgusto; si asciugò gli occhi, e si avviò verso la fontana con passo
risoluto.

Egli era triste ma laggiù si rideva. E il contino Anselmi, come al
solito, dava la battuta.

— Che buffone! — disse Aldo tra sè, mentre compariva nel piazzale
alla vista di tutti. — Se bisogna essere così, per piacere alle donne,
rinunzio, in fede mia, a questa fortuna; se fortuna può dirsi. —

Già, conchiuse proprio con questo epifonema. Quando vi dico che Aldo De
Rossi aveva perduta la bussola!

— Non lo credete? — chiedeva frattanto l’Anselmi, proseguendo un
discorso incominciato. — Io ne sono persuaso.

— Ed io, con vostra buona pace, niente affatto; — rispose la signora
Camilla.

— Signora, la vostra opinione ha un gran peso per me; ma voi non dovete
abusare della vostra autorità. È l’obbligo di tutti i re, e di tutte le
regine; — replicò l’Anselmi.

— Che c’entra l’autorità? — disse la signora Camilla. — Vi hanno
sentito tutti, e credo che vi diano torto.

— Tutti, poi!

— Facciamo giudice il nostro De Rossi; — entrò a dire il commendatore
Gerardo. — Egli viene dal verde; colore che concilia lo spirito alla
calma. Ed egli potrà darci una sentenza scevra da ogni passione, da
ogni parzialità. —

La signora Elena chinò gli occhi a terra, pensando alla calma che
doveva avere il povero De Rossi, per dare una sentenza tra il contino
Anselmi e Camilla, egli che tornava appunto da leggerne una, niente
piacevole per lui.

— Ma non c’è bisogno di giudici; — rispose Camilla al signor Vezzosi. —
Son cose troppo evidenti. Direi quasi che saltano agli occhi. —

Aldo si sarebbe astenuto volentieri da ogni giudizio intorno alle
arguzie dell’Anselmi, e forse era già sul punto di pregare Gerardo che
volesse dispensarnelo. Ma le parole della signora Camilla gli suonarono
male all’orecchio.

— Bella signora, — diss’egli, — non mi volete dunque per giudice? —

La voce era tranquilla, in apparenza, ma più sottile del solito, quasi
sibilante.

— Non ho detto ciò; — rispose asciuttamente la signora Camilla, a
cui dava noia l’asprezza dell’osservazione, male dissimulata dalla
galanteria della forma. — Se il signor Gerardo lo vuole, esponga egli
la cosa. Ma veda di essere esatto; — soggiunse ella, con accento più
umano, poichè si rivolgeva al Vezzosi.

— Non dubitate; — rispose il commendatore: — sono stato relatore di
leggi, in Parlamento, e conosco il debito mio. Tu siedi, giudice, e
prendi un atteggiamento conforme alla gravità dell’ufficio.

— Dio buono! — esclamò Aldo De Rossi, sforzandosi di sorridere. — Si
tratta dunque di una cosa grave?

— Eh, grave... secondo i casi e le età. Per voi altri giovani è
gravissima. Si ragionava d’amore.

— Argomento importante, non c’è che dire.

— Sicuramente, e il nostro Anselmi ne parlava come di una malattia, e
lo paragonava alla tosse. Ma la signora Camilla, dal canto suo, negando
la malattia, trovò che il paragone era volgare.

— Ecco... — interruppe la signora Camilla. — Io non ho detto
propriamente così.

— Mia bella signora, perdonate; avete esclamato: che paragone!

— Sì, perchè mi pareva che se ne potesse trovare uno più adatto. Per
esempio la febbre.

— Ma io, — entrò a dire l’Anselmi, — non avevo fatto che ispirarmi
al proverbio: amore e tosse, con quel che segue. Ma vada pure per la
febbre. Che cosa sentenzia il giudice eletto? —

Aldo De Rossi non aveva gradito niente affatto che tra la signora
Camilla e l’Anselmi si fosse appiccato un discorso di tal genere. Egli
stava per l’appunto almanaccando da che potesse aver avuto occasione
quella tuffatina nel tenero, quando venne a rompergli il filo la
domanda dell’Anselmi.

— L’amore — rispose egli sentenziosamente, — è una malattia, o non
lo è. Se è una malattia, non può essere paragonato alla tosse, che è
indizio di malattia, non malattia per sè stessa. Se non è una malattia,
ma semplicemente indizio di malattia, e tosse, e febbre, e quel che
vorrete, possono entrare in paragone con esso, secondo l’umore e il
buon gusto di chi ne parla.

— Dotta sentenza! — esclamò l’Anselmi, non senza un pochino d’ironia.
— Ma se tu credi che l’amore sia un indizio, a qual malattia vorrai tu
regalarlo?

— Gl’indizi sono qualche volta fallaci; — rispose sul medesimo tono il
De Rossi. — L’occhio medico deve badare a molte cose, prima di giungere
alla conclusione. Anzi tutto bisogna osservare il temperamento del
malato. Per esempio, io conosco certi uomini, presso i quali l’amore
sarebbe indizio... di stupidità.

— Ah, buona questa! — gridò il Vezzosi che non ci vedeva il baco.

— Buona per cui tocca; — notò l’Anselmi, a cui sembrava pessima,
appunto perchè gli toccava a lui. — Tu non sei un giudice, Aldo; sei un
Minosse, un Radamanto. E noi che si faceva per celia!

— Non si fanno queste cose per celia; — replicò Aldo De Rossi. —
L’amore è una cosa grave, e non è permessa agli uomini leggeri, che
vedono un sollazzo passeggiero in ciò che dev’essere il negozio di
tutta la vita. —

Il contino Anselmi si seccò per davvero; si seccò doppiamente, pensando
che la signora Camilla udiva e che poteva indovinare a cui fossero
dirette le bottate del giudice.

— M’inchino alla tua sapienza; — diss’egli.

E fece l’inchino, proprio come aveva detto, mettendoci un’ostentazione
che diede maledettamente sui nervi al De Rossi. Questi non aveva
mestieri di tanto, per dar di fuori; che, anzi, come vi sarà parso
evidente, staccava i bollori da un pezzo.

— Accetto il complimento per quel che significa, — diss’egli; — cioè
per un’ironia; e lo accetto anche per quel che vale, — soggiunse, —
cioè per un’ironia... in bocca tua.

— Ehi, giovinotti! — gridò il commendatore Gerardo, che incominciava a
capire. — Che cosa è questo? Il giudice mi pare...

— Il giudice ha data la sentenza; — disse Aldo, con un risolino
sardonico.

— Egli vorrà almeno riconoscere l’autorità della Cassazione; — entrò a
dire il presidente gran croce.

— Con tutto il piacere, e chiedendovi perdono, se è necessario; —
rispose Aldo, inchinandosi. — Per altro, mi consentirete d’insistere
nella mia opinione. Il tono ironico non mi va, da qualunque parte
proceda; e i patti chiari....

— Fanno i buoni amici, manco male; — interruppe il commendatore
Gerardo, sperando di ravviare la conversazione.

— No, — ribattè Aldo De Rossi, — il proverbio non è giusto. Tra amici
non occorre far patti di nessuna specie. Diciamo invece che i patti
chiari fanno i buoni nemici. Infatti, — soggiunse, guardando l’Anselmi,
— ci sono i buoni nemici; cioè quelli che si conoscono tali e non
giuocano più ad ingannarsi. —

Il contino Anselmi rispose al discorso di Aldo De Rossi con un cenno
del capo, che aveva del saluto, del ringraziamento e dell’altro ancora.

La conversazione, come potete immaginarvi, non andò più oltre. Camilla
aveva alzati gli occhi e non le era sfuggito il gesto sarcastico
dell’Anselmi, nè lo sguardo di minacciosa promessa con cui gli
rispondeva il De Rossi.

— Vogliamo tornare all’albergo? — diss’ella, rivolgendo il discorso ai
Vezzosi.

Elena, più morta che viva, fece uno sforzo supremo per alzarsi dal
sedile. Gerardo e il cavaliere Sestavalle furono subito in piedi; il
presidente gran croce si stimò fortunato di poterli imitare. Quella
scena agrodolce aveva seccato il nostro gravissimo personaggio, che
in quel momento malediceva di sicuro la compagnia dei ragazzi e le
ragazzate di cui lo facevano spettatore. Ma già, colpa sua, signor
presidente. Dove c’è paglia, c’è sempre pericolo d’incendio. E lei,
perchè portare la paglia con sè?

Basta, lasciamo le considerazioni da banda. I nostri personaggi
escirono dal Rinfresco; Gerardo tenendo a braccetto la signora Camilla,
il presidente Roberti la signora Elena. Il Sestavalle si accompagnò
alla seconda coppia, ma senza preferenze e disposto a correre verso la
prima quando fosse chiamato. Uomo inarrivabile, e veramente Alcibiade,
che sapeva trovarsi bene con tutti e in ogni circostanza della vita!
Egli sarebbe anche rimasto coi due giovanotti, quantunque le loro facce
scure non promettessero una conversazione troppo piacevole; ma uno
sguardo benigno della signora Elena lo aveva tirato daccanto a lei;
così il De Rossi e l’Anselmi erano rimasti liberi di dirsi quel che
volevano, e magari anche di accapigliarsi.

La signora Camilla certamente sospettò qualche cosa di questo genere,
poichè trattenuto con un pretesto il suo cavaliere, lasciò passare
avanti Elena col presidente gran croce. Rimasta così abbastanza vicina
ai due rivali inviperiti, le venne fatto di cogliere a volo alcune
frasi del dialogo che essi avevano insieme:

— Mi dirai ora che cosa è questa scenata? — chiedeva l’Anselmi al De
Rossi.

— Signor conte, — rispondeva il De Rossi, — vi credevo più
intelligente. È proprio un peccato che, con tanto spirito, siate così
tardo a capire.

— È dunque una _querelle d’Allemand?_ — riprese l’Anselmi.

— Chiamatela anche così; purchè abbia un seguito; — disse Aldo De Rossi.

— Ed una conclusione; — rispose quell’altro stizzito.

— Tanto meglio; — ribattè il De Rossi.

Il commendatore Gerardo udì anch’egli, sebbene confusamente, qualche
cosa del diverbio tra i due.

— Orbene, — diss’egli, volgendosi a mezzo, con un piglio tra
l’amichevole e il paterno, — che cosa borbottate, voi altri? Spero bene
che l’avrete finita.

— Per l’appunto, finita; — disse Aldo.

— Ci siamo spiegati; — soggiunse il contino. — È stato un malinteso;
non è vero, De Rossi?

— Certo, — rispose questi, — e il maggior torto è stato il mio.

— Questo poi no; diciamo il torto d’ambedue, — replicò il contino, — e
non se ne parli più.

— Ah, bene! — gridò il commendatore Gerardo, e così forte, che potesse
udirlo anche il presidente gran croce. — Quando lo dicevo io, che non
c’era una ragione al mondo perchè aveste a leticare! Si crede qualche
volta di avere udito una parola, ed è invece un’altra. Oppure, è
quistione di significato, e ci si guasta il sangue per nulla. —

Frattanto il presidente diceva alla signora Vezzosi:

— Non so che diamine sia saltato in capo a quei due giovinotti. Ci
avete capito nulla, voi, Donna Elena?

— Io no; e voi, cavaliere? — diss’ella, volgendosi al Sestavalle.

— Neppur io; — rispose l’Alcibiade. — Qualche piccola ruggine, forse.
Ma sentite, parlano insieme e Gerardo li mette in pace. Dev’essere
tutto appianato, oramai.

— Meno male; — conchiuse il presidente. — Perchè, a dirvela schietta,
noi vecchi ci troviamo male, in questi litigi della gioventù. Sarebbe
stata veramente una noia per me, se fossero andati più oltre delle
parole, e questa sera medesima avrei fatte le valigie. —

Il presidente Roberti capiva benissimo che la cagione di quell’alterco
era la sua bella nipote. E si disponeva a fare una solenne ramanzina,
anche a rischio di vederla accolta come tante altre. Non vi formate
da ciò una cattiva idea della signora Camilla. È degli zii lo sgridare
per cose da nulla, e specialmente a torto, quantunque con le migliori
intenzioni del mondo; è delle nipoti il ridere, specie quando si
sa di non aver nulla da rimproverarsi. Del resto, se una risatina
è testimonianza di poco ossequio, un abbraccio è prova d’amore, e i
vecchi zii, da tempo immemorabile, amano più questo che l’altro.

Intanto che si preparava a ridere con lo zio, la signora Camilla rideva
col suo cavaliere. Veramente non ne aveva una gran voglia; ma bisognava
fingere, non dare a divedere il proprio turbamento. Come sarebbe
andata volentieri innanzi con Elena, lasciando tutti i signori uomini
insieme! Elena doveva sapere la cagione di quella improvvisa sfuriata
di Aldo De Rossi. Certamente, egli era escito fuori dei gangheri per
qualche discorso della signora Vezzosi. E questo bisognava sapere, per
regolarsi con tutti. Ma non si poteva neanche strappare l’amica dal
braccio dello zio, senza aver l’aria di una capricciosa, la quale non
sapesse far altro che pazzie. Perciò si trattenne, e ragionò col signor
Gerardo di cose inconcludenti, che parvero divertirla un mondo, tanto
ne rise.

— Signora, — le disse il contino Anselmi, avvicinandosi a lei, mentre
erano poco lungi dall’albergo della Pace, — verrete questa sera al
Casino?

— Credo di no; — rispose ella. — Mio zio deve essere stanco.

— Se non si tratta che di ciò, — entrò a dire Gerardo, — potremo
accompagnarvi noi altri.

— Grazie; anch’io amo riposare. Starò a fare quattro ciarle con Elena.
Siamo state così poco insieme, quest’oggi! —

Mentre l’Anselmi si era accostato alla signora Camilla, Aldo De Rossi
veniva innanzi da solo, e sdegnando di seguire il viale. Forse, poichè
era venuto ai ferri corti col suo nemico, non sentiva più la dolorosa
curiosità di udire i discorsi che si facevano tra lui e la signora
Camilla. Perciò, quasi ad ostentare la propria noncuranza, era andato a
spaziare nel mezzo dello stradone.

La signora Elena lo vide con la coda dell’occhio, e avrebbe voluto
mandare il Sestavalle a tenergli compagnia; ma erano oramai al termine
della loro passeggiata e non occorreva più usargli quest’atto di
misericordia.

— Vuol dire, — fece l’Anselmi, quando si fu davanti all’uscio
dell’albergo, — che questa sera le signore...

— Riposeranno; — interruppe la signora Elena, che aveva indovinato il
resto della frase, e che aveva sentito dianzi il discorso di Camilla. —
Perciò i cavalieri son liberi; meno il Sestavalle, che avrà la bontà di
portarmi in camera il libro che m’ha promesso stamane. —

L’Alcidiade fece il gesto dell’uomo che non si raccapezza. Ma uno
sguardo della signora Elena lo richiamò all’intelligenza della scena.



XIX.


Aldo De Rossi e il contino Anselmi, salutate con gran cerimonia
le dame, si allontanarono dall’uscio, e la signora Elena li vide
traversare lo stradone per recarsi al Casino.

Il cavaliere Sestavalle salì le scale in compagnia delle signore. Come
furono sul terrazzino scoperto che metteva dal primo pianerottolo al
corridoio dell’albergo, la signora Elena disse al vecchio Alcibiade:

— Ora scenderete nella vostra camera, e prenderete il primo libro che
vi verrà tra le mani.

— Ahimè, donna Elena! — esclamò il Sestavalle. — Se non vi porto
l’orario delle strade ferrate!...

— Anche l’orario, purchè me lo portiate tra dieci minuti nel salottino
di Camilla.

— Ora che ci penso, — ripigliò l’Alcibiade, — ci ho anche una Guida di
Firenze.

— Benissimo; andate e portate la Guida. —

Si entrò nel corridoio. Il Sestavalle scese per una scaletta interna,
che metteva alla sua camera; le signore proseguirono verso il
quartierino di Camilla, dove Elena voleva far sosta. Gerardo, indettato
da sua moglie, propose al presidente gran croce una discesa nella sala
di lettura.

— È ancora così presto! — diss’egli. — Come si fa a prender
sonno? —

Le signore entrarono nel salottino e andarono a sedersi su quel canapè,
di cui già conoscete l’esistenza. Erano ambedue sovra pensieri, e per
quella volta non ci fu continuazione di dialogo. Poco stante bussarono
all’uscio. Era il Sestavalle che giungeva col libro.

— Ecco il pretesto; — diss’egli, sorridendo, — che cosa mi comandate,
donna Elena?

— Non comando; vi prego....

— Tornerebbe lo stesso: ma io amo i vostri comandi.

— Sia; vi comanderò dunque di andare al Casino, dove passerete un’ora,
due ore, quanto sarà necessario.

— Necessario! A che cosa?

— A sapere quel che fanno, o quel che contano di fare i due signorini.

— Ah! — disse l’Alcibiade. — Quei due che si sono riscaldati al
Rinfresco?

— Per l’appunto. Ma badate, Sestavalle; voi non avrete l’aria di esser
mandato da noi.

— Che, vi pare? Sono un uomo di giudizio.

— E neppure dovete parere troppo curioso. All’occorrenza dovete lasciar
credere di non esservi neanche accorto del loro diverbio.

— Benissimo. E poi?

— E poi dovrete correre qua per informarci di tutto; — entrò a dire
Camilla. — Non avete capito di che cosa si tratta?

— Ho capito, ho capito, bella signora; — rispose l’Alcibiade. — O
piuttosto avevo creduto di capire, laggiù al Rinfresco; ma poi, dopo
che si son dati spiegazioni....

— Ah, e voi credete alla commedia delle spiegazioni? Dite piuttosto,
cavaliere, che volete calmare i nostri timori.... Ma noi, come vedete,
non ci lasciamo abbattere dalla paura, nè ingannare dalle pietose
bugie.

— Siete una bella Amazzone; — disse il Sestavalle, infiammandosi.
— Andrò, dunque, osserverò, scoprirò ogni cosa, e verrò a darvene
ragguaglio. —

Camilla, per quanto poca voglia ne avesse, non potè far a meno
di ridere di quell’entusiasmo senile. E porse la sua bella mano
all’Alcibiade, che vi stampò un bacio, ma di quelli che s’usavano
ancora sotto i cessati governi.

Quasi sarebbe inutile il dirvi di che prendessero a ragionare le due
dame, a mala pena rimasero sole. Dovrei io raccontare a voi, lettori
di pronto ingegno, che si parlò della lettera di Camilla e che Elena
confessò di averla fatta leggere al De Rossi? E che Camilla, dal canto
suo, aveva già indovinata la cosa, prima che la confessione di Elena
venisse a confermargliela? E che non ne fu niente scontenta? E che la
signora Elena si rifece da capo alle sue esortazioni, sacrificandosi
nobilmente all’amicizia, con quella intensità di desiderio, con quella
profondità di soddisfazione, che tutti abbiamo provata in un giorno
della nostra vita, quando ci parve di aver messo d’accordo la voce
della nostra coscienza con la felicità del nostro simile? E che la
signora Camilla, finalmente.... Ma basta; se no, con l’aria di non
volervi dir nulla, vi spiffero ingenuamente ogni cosa.

Sarebbe meglio per me di seguitare l’Alcibiade nelle sale del Casino.
Ma tant’è, mi dispiace di abbandonar le signore, e preferisco di
cogliere il mio uomo, nel punto in cui egli ritorna dal Casino
all’albergo della Pace.

Erano le nove di sera, quando il cavaliere Sestavalle entrò per la
seconda volta nel salottino della signora Camilla. Le due dame erano
sole e dovevano restar sole ancora un bel pezzo, poichè il presidente
gran croce aveva trovato un avversario degno di lui al giuoco degli
scacchi, e proprio allora incominciava a dargli la rivincita, assistito
dal commendatore Gerardo, che ne capiva poco, ma si dava l’aria di
saperne moltissimo e di trovarci un gusto matto. Che fare, del resto?
Bisognava pure ammazzare il tempo, aspettando l’ora del sonno.

Il cavaliere Sestavalle giungeva carico di notizie, e della più alta
importanza. Le signore avevano indovinato; era guerra dichiarata,
guerra ad oltranza fra i due giovanotti. L’Anselmi cercava padrini
da una parte; il De Rossi cercava padrini dall’altra; o, per dire
più veramente, ne cercavano tutt’e due nel medesimo luogo, mentre in
una sala si cantava e nell’altra si giuocava a biliardo. Il povero
Sestavalle era appena capitato nella sala del pianoforte, che già
doveva sostenere un fierissimo assalto. Il contino Anselmi era stato il
primo a vederlo, e lo aveva afferrato, condotto in una camera attigua,
messo tra l’uscio e il muro, chiedendogli per somma grazia che volesse
fargli da padrino.

Padrino, lui? In un duello? Sicuramente, lui, il cavaliere Sestavalle.
Già, dice il proverbio che in mancanza di cavalli si fanno trottare....
altri quadrupedi. L’Alcibiade, così pregato e scongiurato dal contino
Anselmi, era stato un po’ in forse, ma due considerazioni vinsero le
sue esitanze. Il Sestavalle non era nuovo del tutto alle armi, poichè
aveva prestato lunghi e onorati servizi nella guardia nazionale,
buon’anima sua; ed anzi, appunto a dieci anni di spalline, nobilmente
portate in pro’ del palladio, andava debitore della sua croce di
cavaliere. Lo vedete anche voi, lettori umanissimi, _noblesse oblige_.
Inoltre, come non accogliere la domanda dell’Anselmi, se quello era il
miglior modo di saper tutto? Senza averlo chiesto senza aver mostrato
di desiderarlo, egli entrava di botto nella questione, e avrebbe potuto
riferirne i più minuti particolari alle dame.

Egli aveva dunque accettato, premettendo tuttavia di non avere una gran
pratica di quelle faccende. Ma di ciò non si dava pensiero l’Anselmi.
A lui era necessario anzi tutto di avere un padrino serio e discreto,
che conoscesse le cagioni dello scontro e la impossibilità di evitarlo.
Quanto ai particolari, alle piccole cure dell’ufficio, bastava l’altro
padrino, un giovinotto forastiero, che l’Anselmi aveva conosciuto
all’albergo della Torretta. E qui, senza por tempo in mezzo, il contino
presentò al Sestavalle il suo compagno di seccatura. I due padrini si
ricambiarono i saluti d’obbligo; e il nuovo venuto ricordò amabilmente
al Sestavalle di averlo veduto qualche giorno prima alla Speranza,
insieme con due belle signore che avevano fatta una partita al
biliardo. L’Alcibiade rammentò a sua volta il giovine forastiero, che
giuocava a picchetto con la sua elegantissima compagna. Essersi veduti
una volta, era già una mezza conoscenza; da far da padrini insieme era
un’amicizia senz’altro. E come amici si strinsero la mano; dopo di che,
andarono ad abboccarsi coi padrini del signor Aldo De Rossi.

Aldo, infatti, aveva già trovati i suoi; un maggiore di fanteria ed un
professore di storia naturale. Le due professioni non erano troppo bene
assortite; ma il De Rossi non aveva avuto mica il tempo di scegliere.
Quei due gentiluomini erano dei pochissimi con cui egli avesse
barattato parole al Casino. Del resto, se uno era guerriero, e, per
conseguenza, pratico d’armi, l’altro era medico, e, per conseguenza,
pratico di ferite. E dato l’ufficio a cui essi dovevano prestarsi,
l’assortimento c’era.

Quattro persone educate non durano fatica a trovarsi d’accordo.
Aggiungete che, per desiderio espresso dei loro primi, dovevano
metterci anche una certa dose di buona volontà. La quistione era
delicatissima, ma senza difficoltà; o, per dire più veramente, le
difficoltà c’erano, ma i due primi non volendo dir chiaro e tondo come
fosse nata e volendo invece far presto, non lasciavano appigli, nè
gretole, a quei curiosi cavillatori che sono per solito i padrini. La
scelta delle armi poteva essere un guaio, non sapendosi bene chi fosse
lo sfidatore e chi lo sfidato, o chi il provocatore e chi il provocato;
ma anche questa difficoltà era appianata dal fatto che ai bagni di
Montecatini non si sarebbero trovate due spade, nè due sciabole, dato
il caso che si volesse fare un duello all’arma bianca, mentre uno dei
padrini aveva per l’appunto nelle sue valigie un bel paio di pistole,
che pareva proprio il fatto loro. I due primi ne avevano pochi degli
spiccioli, e meno da spicciolare; il mezzo più sbrigativo era dunque
di farli battere alla pistola. Si andava di buon mattino a Monsummano
alto. Il pretesto era pronto: una passeggiatina igienica. Lassù, tra
le rovine del vecchio castello, all’aria aperta, due colpi per uno
erano presto sparati. Se poi i due combattenti ne avessero voluti di
più, andassero a cercarsi un’altra coppia di padrini per ciascheduno;
essi, i facili ordinatori della giostra, non volevano prestarsi alla
continuazione del giuoco, nè aver aria di tentare il diavolo oltre i
limiti della discrezione.

Il nostro povero Sestavalle era rimasto un po’ sbalordito da quel modo
spicciativo di concertare le cose. Ma già, egli non aveva pratica e
doveva lasciare il mestolo a chi sapeva maneggiarlo. E perciò s’era
contentato di dir sempre: _et cum spiritu tuo._

Frattanto, poichè la ricerca affannosa dei padrini, il loro
abboccamento, e infine i negoziati erano stati fatti nel corso di
un’ora, nelle sale del Casino, la gente radunata colà non aveva tardato
a insospettirsi. I quattro padrini si separavano appena, per recarsi
ad informare d’ogni cosa i loro primi, che già la voce del duello
imminente si era sparsa nella sala da giuoco, e di là nella sala da
ballo.

Il nostro Sestavalle, fatto il debito suo con l’Anselmi e promessogli
di ritornare più tardi per gli opportuni concerti, stava già per
infilar l’uscio dell’anticamera, quando si vide impedire il passo
da una bella signora. La cosa gli sarebbe tornata piacevole in ogni
altra occasione, ma non allora, poichè egli era impaziente di giungere
all’albergo della Pace, dove lo aspettavano le sue belle curiose. Ma
bisognava fare di necessità virtù, e l’Alcibiade si era rassegnato,
riconoscendo la signora Augusta Maravigli, soprano assoluto, che
appunto quella sera, mentre egli ragionava d’armi e d’armati,
s’era fatta applaudire dalla società del Casino, cantando con molto
sentimento il _Vorrei morire_ del mio amico Tosti.

Non so se la signora Augusta Maravigli volesse morir lei davvero;
ma certamente non voleva lasciar morire gli altri, e meno di tutti
l’Anselmi.

— Signor.... signor.... — aveva incominciato la diva, mostrando,
insieme con la perplessità della parola, il rammarico di non sapere il
nome dell’uomo a cui voleva contendere il passo.

— Emilio Sestavalle, a’ suoi comandi; — aveva risposto lui, ma col
gesto di uno che non amava di restarci troppo.

— Signor Sestavalle, perdoni; il conte Anselmi ha un duello.... —

Così l’alunna d’Euterpe entrava risolutamente in materia. E perchè il
cavaliere Sestavalle si stringeva nelle spalle e allungava il muso, col
desiderio evidente di non risponder altro, la signora Augusta proseguì:

— Non mi dica di no. Lei è uno dei suoi padrini. So tutto.

— Signora, poichè Ella sa tutto.... —

E così dicendo, l’Alcibiade si tirava rispettosamente da un lato, come
in atto di riverirla, per proseguire la sua strada. Ma una scappata di
quella fatta non comodava punto alla signora Augusta Meravigli.

— Perchè questo duello? — diss’ella, mettendogli audacemente la mano
sopra un bottone del soprabito. — E per chi? Per una donna, non è
vero? —

E fremeva di sdegno, parlando in tal guisa, e schizzava fuoco dagli
occhi. Un poeta della vecchia scuola avrebbe pensato al corruccio di
Giunone, quando la Dea ebbe fumo delle prime scappatelle di Giove. Ma
il nostro Sestavalle non era un poeta, e quello, del resto, non era un
momento da paragoni classici.

— La prego; — diss’egli; — lasciamo stare le donne. Il bel sesso si
cita mal volentieri, in queste faccende.

— Perchè? Se fossi un uomo, intenderei la sua riserbatezza e l’avrei
anche per una lezione meritata; — rispose la signora Augusta. — Ma
sono donna anch’io... Ed ho il diritto di sapere... L’avverto, signor
Sestavalle, ho il diritto di sapere!...

— Eh, non dico il contrario; — replicò il Sestavalle. — Ma in questo
caso, mi voglia perdonare l’osservazione indiscreta.... o perchè non
chiederne direttamente a lui? —

Ad una domanda così ragionevole, la signora Augusta rispose con un
gesto d’impazienza.

— Signor Sestavalle, — soggiunse poscia, con aria tra lusinghiera e
solenne; — Lei è un uomo?

— Signora.... — balbettò l’Alcibiade, chinando la testa e stendendo le
braccia, in atto di umiltà. — Un pover uomo, se vuole.... ma un uomo.

— Ella dunque sarà cortese con le donne. È uomo e ne ha l’obbligo.

— Sicuramente.... sicuramente!

— Dunque, la prego, venga con me. —

Anche a voler fare diverso, l’Alcibiade non avrebbe potuto liberarsi,
poichè la signora Augusta teneva sempre quel benedetto bottone. E il
bottone e il suo proprietario si lasciarono trascinare fino ad uno dei
sedili che erano sul terrazzino.

— Mi stia a sentire; — ripigliò la cantante, com’ebbe preso posto sul
sedile e obbligato il Sestavalle a fare altrettanto. — Vuol meritare la
mia amicizia?

— Che dice, signora? È il mio voto più ardente; — rispose l’Alcibiade,
tirato dalla consuetudine alle fioriture del linguaggio galante. — Mi
dica che cosa debbo fare per ottenerla.

— Questo duello è impossibile; — riprese la signora Augusta. — Non mi
conviene; non deve farsi.

— Ma, signora....

— Capisco; ciò che non conviene a me, potrebbe convenire invece a
Lei ed ai suoi degni colleghi. Già, lor signori, quando possono veder
spargere il sangue del loro simile!...

— Oh, non me ne parli, per carità! — interruppe il calunniato
Alcibiade. — Io amare gli spargimenti di sangue? E del mio simile,
per giunta? Ma neanche d’un bue; neanche d’un agnello; che non sono
nè l’uno nè l’altro miei simili, se non forse per qualche qualità
morale, come potrebbero insinuare i maligni. Io, veda, sono in questo
pasticcio, perchè.... In fede mia, è il caso di domandarlo; perchè ci
sono? Lo ignoro. Mi ci sono trovato contro la mia volontà, quasi senza
avvedermene. Ma ora che ci sono, capirà, ci ho da stare e non è in
poter mio di disfare ciò che è stato fatto, di sconcertare ciò che è
stato concertato.

— Per quando? — chiese la diva, cogliendo la frase al volo.

— Oh, questo non lo so.

— Come, non lo sa? Un padrino?

— Signora, è proprio così come ho l’onore di dirle. Non lo so,
perchè di questo non si è ancora parlato. Ma certo, — soggiunse il
Sestavalle, facendosi forte dietro il riparo della propria ignoranza,
— quand’anche lo sapessi.... cioè, quand’anche fosse stato combinato
il giorno e l’ora, io non potrei in coscienza dir nulla. Ci sono certe
norme di delicatezza cavalleresca, che, non si possono violare per
nessuna ragione, e neanche per far piacere alla più bella donna del
mondo. —

Briccone d’un Alcibiade! Come ripigliava il possesso di scena, che
l’improvviso attacco gli aveva fatto smarrire!

Ma neanche il complimento del vecchio cortigiano poteva ammansire la
diva sdegnata.

— Badi! — gridò ella. — Farò uno scandalo. Questo duello per un’altra
donna non mi va, e non lo voglio. Ha capito? Non lo voglio. Per
un’altra donna! — ripetè, con accento d’amarezza. — Per un’altra donna!
Dio sa poi che roba! —

Alcibiade era buono, due volte buono; ma non tre, badate, non tre.
Quella bottata all’albergo della Pace gli fece salire la mosca al naso.

— Signora, — diss’egli con un certo sussiego, — Io non so proprio
che farci. I miei obblighi sono pochi e determinati. Mi rincresce
che abbiano a cozzare co’ suoi desideri, ma che vuole? io non ci ho
colpa e mi resta il dispiacere di non poterla contentare. Veda Lei,
se le riesce di persuadere il conte Anselmi.... Io le auguro magari un
trionfo. Buona notte! —

E approfittando della circostanza che la signora Augusta aveva lasciato
poc’anzi il bottone del suo soprabito, l’Alcibiade si sottrasse con una
riverenza frettolosa alle noia di quella inutile conversazione.

Cinque minuti dopo, era giunto all’albergo e vuotava il sacco delle
notizie ai piedi delle dame.

Com’egli fu a raccontare l’entrata in scena della cantante, personaggio
nuovo di cui esse non avevano mai udito parlare, la signora Elena
atteggiò le labbra ad un sorrisetto malinconico, che voleva dir molto.
Voleva dire, per esempio, che il destino serviva assai bene il signor
Aldo De Rossi, e assai male la signora Vezzosi. Ma questa aveva buon
cuore, e non era solamente rassegnata alla sua sconfitta, ma anche
desiderosa di affrettarla. Perciò al sorrisetto malinconico tenne
dietro una osservazione come questa:

— Ah! il signor conte ci aveva l’amica a Montecatini? Vo’ fargli i miei
complimenti.

— Questa amica è forse una provvidenza per noi; — esclamò la signora
Camilla.

— Una provvidenza! E in che modo?

— Or ora lo vedrai. Sestavalle, a noi! Il riserbo cavalleresco non vi
permette di dire alla più bella donna del mondo l’ora e il luogo dello
scontro; ma a noi che non siamo la signora Augusta Meravigli.... —

L’Alcibiade, che aveva capito dove la signora Camilla volesse andare a
battere, fu pronto ad interrompere la frase.

— A voi, che siete due meraviglie, — diss’egli, — racconterò tutto,
dall’a fino alla zeta. I nostri due primi si batteranno domattina.
Salvo qualche piccolo cambiamento, che potrebbe essere stabilito più
tardi, il barone Marcovic, che è l’altro padrino e mio collega, verrà
dalla Torretta all’Albergo della Pace, insieme col contino Anselmi,
verso le cinque. E alle cinque in punto si partirà tutti, in due
carrozze, per Monsummano, donde, col pretesto di una gita igienica,
come mi pare d’avervi già detto, si salirà fino alla vetta del monte.
Ahimè! — soggiunse l’Alcibiade sospirando. — Penso già con dolore a
quella ripida ascesa.

— Benissimo; — esclamò la signora Camilla; senza darsi un pensiero al
mondo dei dolori dell’amico Sestavalle. — Queste cose dovrà saperle
anche la signora Meravigli.

— Anche lei! — gridò l’Alcibiade, stupito. — E perchè? E chi si
prenderà la cura di andargliele a dire?

— Il perchè lo so io; — rispose Camilla. — Quanto all’ambasciatore,
sarete voi. Sicuramente le siete debitore di questo piccolo uffizio,
dopo averla piantata là al Casino, come Olimpia sullo scoglio.

— Ma io, signora mia.... Pensate....

— Ho pensato a tutto. Col pretesto di vedere l’Anselmi per qualche
nonnulla, dimenticato nella fretta, dovete andare all’albergo, dove
essa è alloggiata.

— La cantante sarà ancora al Casino; — disse l’Alcibiade.

— Meglio così; la vedrete al Casino, e troverete il modo di farle avere
una lettera.

— Una lettera! E di chi, se è lecito?

— Una lettera che scriverò io. Infatti, guardate, incomincio. —

E mandando i fatti compagni alle parole, la signora Camilla si pose
allo scrittoio, per buttare su d’un foglietto di carta pochi versi
della sua calligrafia aristocraticamente sottile. Indi, piegato il
foglio e ficcatolo nella sua sopraccarta, scrisse il ricapito: _Alla
signora Augusta Meravigli_.

— Eccovi qua; — diss’ella, consegnando la lettera al cavaliere; —
andate.

— Signora.... — balbettò egli. — È presto detto: andate! Sono il
padrino dell’Anselmi.... onore che non ho cercato io! Come volete che
lavori ad impedire il duello che ho aiutato a concertare? Perchè questa
è la vostra idea, non è vero?

— Orbene, e se lo fosse?

— Se lo fosse, — ripigliò l’Alcibiade, — non toccherebbe a me
di prestarvi mano. Figuratevi! Se lo risapessero mai i padrini
avversari!... Infine, considerate che non sono in questo pasticcio per
colpa mia....

— Ci siete per colpa nostra; — rispose Camilla. — Ci siete in qualità
di nostro schiavo, e dovete obbedire; altrimenti, badate, mi metto la
mantellina sulle spalle, prendo il vostro braccio, vado io al Casino, e
faccio una scena che vi piacerà poco.

— Signora, voi siete feroce! Andrò, come volete, andrò; ma vi avverto
che mi metto in un brutto impiccio. Entrerò nella fossa dei leoni, e
senza essere Daniele.

— Non temete, penso io a salvarvi dalle loro unghie. Ma andate, in
nome di Dio! Sento nel corridoio i passi di mio zio e del signor
Gerardo. Quando avrete fatta l’ambasciata, tornate a darmene avviso; vi
aspetto. —

L’Alcibiade chinò la testa ed uscì dal salottino.

— Che cosa hai scritto alla cantante? — domandò la signora Vezzosi
all’amica.

— Lo saprai più tardi; ora non avrei tempo a dirtelo. L’essenziale è
d’impedire questo duello.

— E credi che si potrà? — chiese Elena, scuotendo il capo in atto
d’incredulità. — Queste ire, una volta scoppiate, non si arrestano
più. —

L’arrivo di Gerardo e del presidente Roberti interruppe il dialogo
delle due dame.

— Orbene, — disse il commendatore Vezzosi, — è finita la conversazione?

— No; — rispose Camilla. — Sestavalle ha dovuto andar fuori per una
sua faccenda, ma tornerà ancora ad augurarci la buona notte. E voi
prenderete il tè, m’immagino.

— Tutto quello che voi immaginate, — rispose galantemente il Vezzosi, —
è quello che mi deve accadere. Prenderò il _tè_. —

Non era mica una cosa facile, tenere a chiacchiera due uomini come il
presidente Roberti e il commendatore Gerardo, che erano legati alle
signore da vincoli di famiglia e di consuetudine, che avevano passata
una lunga giornata senza far nulla, che si erano seccati parecchio,
assistendo ad un alterco d’amici, sul quale non volevano aprir bocca,
sebbene ci ritornassero spesso col pensiero, e che finalmente avrebbero
gradito assaissimo di poter seppellire tra le pietose lenzuola i
fastidi della giornata e il brutto ricordo della contesa avvenuta.
Eppure, la signora Camilla ne venne a capo. Quando la bella birichina
voleva qualche cosa, non c’era verso di volerne un’altra; sto per
dire che il cielo si metteva dalla sua e si divertiva a vedergli fare
un miracolo. Non avete mai veduto dei babbi e dei nonni che da certi
angioletti si lasciano tirare i baffi e levar la parrucca? Anche messer
Domineddio, a certe sue belle creature.... Ma non diciamo eresie;
contentiamoci di raccontare che la signora Camilla, aiutata da Elena,
tenne a bada un bel pezzo i due gentiluomini, e che ella si disponeva
appena ad ammannire il _tè_, quando fu di ritorno il messaggero
Alcibiade.

— Ah, bene! — esclamò ella, dandogli un’occhiata d’intelligenza. —
Capitate a tempo per farmi da aiutante.

— Son qua, donna Camilla, son qua; — disse l’Alcibiade, avvicinandosi
al deschetto su cui stava il vassoio con tutto il bisognevole per
«cotanto uffizio.»

— Avete fatto? — gli chiese ella sottovoce.

— Ogni cosa; — rispose egli nel medesimo tono.

— Ha letto?

— Sì, ed è rimasta un po’ meravigliata. Ma poi ha lodato il vostro
passo. Vi servirà, come desiderate; quantunque tema di non riuscire. È
un uomo leggiero, mi disse, e gli uomini leggieri vi sfuggono proprio
da quel lato per cui vi argomentate di tenerli.

— È una sciocchezza; — rispose Camilla. — Non ci sono uomini leggieri.
Del resto, — soggiunse, — aspettiamo. —

E alzò gli occhi al cielo, col gesto dell’Arabo che commette la sua
salute al destino. Ma balenava da’ suoi occhi la sicurezza di chi
rimettendosi all’aiuto del destino, si promette anche di dargli una
mano.

— A Elena; — disse poi, versando il _tè_ e porgendo la prima chicchera
al suo bravo aiutante.



XX.


Quella sera Aldo De Rossi rientrò molto tardi all’albergo. Da principio
la ricerca dei padrini, quindi gli accordi e i preparativi del
duello, avevano occupato tutto il suo tempo. Alla perfine, tutto era
concertato, e in guisa di non lasciar nulla ai capricci del caso. Le
carrozze erano state fissate per l’alba, e alle cinque in punto i suoi
padrini dovevano andarlo a svegliare.

Per la prima volta, dacchè era a Montecatini, Aldo De Rossi andava
a letto contento. La rabbia, tanto tempo chiusa nel petto, l’aveva
finalmente sfogata. La condizione uggiosa e ridicola, in cui era da
parecchi giorni, di amante negletto, di osservatore geloso, di rivale
infelice, che doveva stare alle mosse, parlar dolce con l’amaro sulla
lingua, sorridere con la voglia di ruggire e graffiare, l’aveva chiusa
con una brava sfuriata. Al giorno seguente la cura di farla finita; per
intanto, Aldo De Rossi avrebbe dormito sei ore senza pensare a nulla. A
nulla, mi capite? a nulla!

Perchè, non so se l’abbiate osservato mai, occorre in questi casi
uno strano fenomeno. L’uomo ha un gran sopraccapo, o un grande
struggicuore, e per l’uno o per l’altro gli accade di venire ai ferri
corti con Tizio, o con Caio. Si combina lo scontro in piena regola; gli
sdegni feroci avranno uno sfogo, i dolori acerbi un sollievo. Ed ecco,
come per incanto, alla vigilia della carneficina, il combattente non
pensa più alle sue malinconie; si direbbe quasi che non ne abbia avuto
pur l’ombra. Come può succedere una tranquillità così grande ad un così
fiero scompiglio? Vorrei dirlo, ma temo che non sia qui il luogo, nè
l’ora. Comunque, si può riscontrare questo periodo di calma con quella
pace improvvisa degli elementi, che precede lo scoppio del temporale.
L’uomo sembra dire a sè stesso: «Sarà per domani; ho dunque tempo a
pensarci, poichè senza di me non si fa nulla, di sicuro.» E quasi quasi
non sente più ira contro il nemico, la cui immagine abborrita, già così
spesso presente a’ suoi occhi, è lontana mille miglia da lui. Le furie
torneranno domani, nel momento critico dell’assalto dato o respinto;
per ora si sta in dormiveglia. La soddisfazione di aver trovata la
via ad uno sfogo onorevole (se onesto, poi, non so dirvi) è quella che
domina, ed è già per sè stessa una maniera di sfogo.

Non argomentate da ciò che il nostro eroe andasse subito a letto. Un
pensiero, anche breve, all’impresa futura, bisognava pur darglielo;
non foss’altro, per provvedere a qualche caso delicato. Perciò entrato
nella sua camera, Aldo De Rossi pensò di scrivere due versi in fretta
ad un amico fidato.

«Avrò domattina (così diceva la lettera) una piccola seccatura, intorno
alla quale, se ne porto via la pelle, ti manderò un cenno telegrafico,
per togliere ogni importanza a questo foglio, quando ti verrà tra le
mani. Dato poi il caso peggiore, e quando tu abbia avuto l’annunzio
dalle trombe della fama, tu hai a rendermi un servizio da amico provato
e da cavaliere del buon tempo antico. Andrai a casa mia e farai ardere
sotto i tuoi occhi, con tutta delicatezza, le carte che sono entro lo
stipo, nella mia camera da letto. Sono dolente di non aver fatto io,
e da lunga mano, questo _auto da fe_. Certi ricordi del passato non
dovrebbero sopravvivere ai pensieri e ai sentimenti che li rendevano
preziosi. Grazie anticipate e addio.... se ha da essere addio.»

Finito di scrivere, Aldo rilesse quel che gli era escito dalla penna, e
sorrise.

— In fede mia, — esclamò, — ecco una prosa molto fredda, e per il
momento in cui è scritta, e per l’uomo a cui va. Ma infine che ci ho da
far io, se non mi si scioglie la vena? —

Infatti, egli non sentiva nulla, nè ardore, nè tenerezza. Il cuore di
Faraone era indurito, o giù di lì.

Fece alcuni passi per la camera, sorridendo a sè stesso, come un
uomo che, per la prima volta dopo un lungo periodo di sciocchezze,
si persuade di aver bene spesa la propria giornata. Quindi, poichè la
giornata era finita ed occorreva dargli una chiusa, pensò che il meglio
era di andarsene a letto.

Mentre egli stava prendendo quella risoluzione, bussarono all’uscio
della camera. Forse era il cameriere. Aldo ricordava benissimo di non
aver chiesto nulla; ma non poteva essere frullato in testa al cameriere
di venire appunto per ciò a domandargli se per caso non avesse bisogno
di qualche cosa? verbigrazia, a che ora del mattino volesse essere
svegliato? I camerieri d’albergo li hanno, qualche volta, questi
rimorsi di coscienza, che li farebbero creder capaci dei sacrifizi più
grandi!

— Avanti! — disse Aldo, senza voltarsi e senza rallentare i suoi passi.

L’uscio si aperse lentamente e qualcheduno si affacciò nel vano.

— Che cosa volete? — chiese Aldo De Rossi, nell’atto che compiva la sua
passeggiata fino all’angolo più lontano della camera.

Ma la sua dimanda non ebbe risposta. Si volse allora, insospettito da
un leggiero scalpiccio che non accennava punto a ciò ch’egli aveva
immaginato da principio; si volse, vide che cos’era, e diede un
sobbalzo; poi restò lì, tra contuso e sbalordito.

— Signora!... — diss’egli; e più non disse, tanta era la sua commozione.

Avrete già indovinato chi fosse la signora, il cui improvviso apparire
turbava così profondamente Aldo De Rossi. Era la signora Camilla,
che stava ritta ed immobile davanti a lui, a due passi dall’uscio; la
signora Camilla Rivanera, bella come una visione celeste, di quelle
che in altri tempi usavano visitare i monaci e i pensatori, nelle loro
celle solitarie. E dico in altri tempi, per accennare a quelli della
poesia; che i nostri sono tempi di prosa e certe visioni sdegnano di
offrirsi ai mortali.

La signora Camilla rimase un istante a guardare il De Rossi; indi
si volse indietro a mezzo per richiuder l’uscio, e finalmente venne
incontro a lui, che non s’era mosso dal suo primo atteggiamento di
confusione e stupore.

Ella s’inoltrava, e il giovane la vedeva venire incontro a lui, muta e
severa come un fantasma.

Grazioso fantasma, in verità, e in ogni altra occasione Aldo De Rossi
l’avrebbe accolto a braccia aperte. Ma in quell’ora notturna, mentre
egli era lunge dall’aspettarsi una simile apparizione, ed anzi,
diciamo tutto, mentre egli non avrebbe mai osato sperarla o immaginarla
possibile, Aldo De Rossi n’ebbe come un capogiro, vacillò e cadde su
d’una scranna, che, per fortuna sua, era ai piedi del letto. Ed ella,
come fu presso a lui, si fermò, stette un momento a guardarlo, con una
aria grave, in cui la curiosità si mescolava alla tristezza.

— Non mi aspettavate? — diss’ella, come fu giunta presso al De Rossi.

— No; — rispose Aldo, senza sviar gli occhi da lei.

— Che uomo! — esclamò allora Camilla. — Voi non capirete dunque mai
nulla!

— Io.... — balbettò il giovane. — Che cosa intendete di dirmi?... —

E rimase attonito, pensando a quella frase di Camilla. Che cosa doveva
egli capire? Per esempio, cercando molto tra sè, incominciò a capir
questo: che ella volesse da lui una viltà. Ma con quale intento? Forse
per liberarsi da una malleveria troppo grave, perchè su lei, solamente
su lei, sarebbe caduta la colpa del duello.. Forse anche per tutelare
la vita dell’Anselmi? Questo sospetto lo fece fremere di rabbia. E
pensò di stare in guardia, aspettando che ella scoprisse il suo giuoco.

— Signora, — riprese egli, tanto per dire qualche cosa e ravviare il
discorso, — vogliate sedervi. —

Camilla non rispose parola e non fece neppur caso dell’invito di Aldo.
In quella vece andò risolutamente verso lo scrittoio e prese la lettera
che il signor De Rossi vi aveva lasciata; guardò il ricapito e aperse
la busta, senza chieder licenza, senza esitare un istante, come se
facesse la cosa più naturale del mondo. E neppur egli, confuso com’era
dall’improvvisa apparizione di lei, trovò strano che quella donna,
entrata là dentro come in casa sua, aprisse la lettera che egli aveva
finito poc’anzi di scrivere.

La signora Camilla diede una rapida occhiata al foglio, e come fu
giunta agli ultimi versi, atteggiò le labbra ad un sorriso sardonico.

— Lettere d’altre donne! — esclamò. — Ritratti! Fiori appassiti! Non è
vero?

— Signora!...

— Oh, non importa, dovevo aspettarmelo. Ma nella lettera che avete
scritta è anche la vostra condanna. In verità, dite benissimo; questi
ricordi non dovrebbero mai sopravvivere ai lieti casi, ai dolci
episodii di cui fanno testimonianza. —

Aldo rimase muto, parendogli indegno di sè e di lei un tentativo di
giustificazione, che non si sarebbe potuto fare, senza aver l’aria di
rinnegare il passato. Ma quand’anche egli lo avesse voluto, Camilla non
gliene avrebbe lasciato il tempo.

— Chi amate voi ora? — ripigliò essa. — Ma no, non occorre saperne il
nome. È una donna da compiangere. Infatti, essa non potrebbe essere
lieta, sapendo che in un angolo riposto del vostro scrigno c’è tanta
roba da gettare alle fiamme. —

L’accenno doveva riescirle doloroso, poichè ella dopo aver dette quelle
parole, si lasciò cadere sul sofà, che era accanto allo scrittoio,
nascondendosi il viso tra le palme.

Aldo non seppe più contenersi. Balzò dalla scranna, e avvicinatosi a
lei, le prese una mano, che strinse amorevolmente tra le sue.

— Signora.... — diss’egli, con accento supplichevole. — Camilla, ve ne
prego.... Che significa ciò? Di che m’accusate voi? Mia dolce signora,
è dunque possibile?... E siete voi qui, veramente voi? O non sono io
piuttosto io che vi vedo e vi parlo in sogno? —

Così dicendo, non senza interruzioni, tra sospiri e singhiozzi, baciava
quella bianca mano, che Camilla non gli aveva concessa, ma che non
aveva pensato neanche a ritrarre. La baciava, dico, e finì col bagnarla
delle sue lagrime; dolce tributo che l’amore dà così spesso e così
volentieri ad una cara bellezza. E Camilla sentì quelle lagrime, e
levata la fronte a guardare il piangente, con un moto rapidissimo della
persona venne a nascondere il viso sul petto di lui.

Qui veramente Aldo De Rossi credette di essere innalzato al settimo
cielo, se è vero, come hanno scritto gli antichi, che i cieli sieno
sette e non più. Era lui, proprio lui, che stringeva al petto quella
divina creatura? Era lui, proprio lui che aveva sofferto tanto per la
freddezza di quella donna, e letta poche ore innanzi una sua lettera
acerba, che pareva fatta per levarlo d’ogni speranza? E quella donna
che egli credeva di aver perduta per sempre, quella donna, proprio
allora che egli pensava di esserne più lontano che mai, era là,
commossa, palpitante, nelle sue braccia, come una colomba nel nido?

Quanto durasse la scena non saprei dirvi, nè, sapendolo, vorrei.
L’uggioso misuratore delle allegrezze umane non dimentica nessuno;
ma è permesso ai felici di dimenticarlo, in uno di quei rapimenti
sublimi che nello spazio di un’ora concentrano le gioie di un’intiera
esistenza. Non mi chiedete neanche quali pensieri prendessero forma
nella mente di lui, o di lei; poichè vi sono istanti in cui non si
pensa affatto, se non per avere una vaga coscienza dell’annientamento
di questa superba facoltà, per cui l’uomo è il più infelice degli
esseri.

— Dimmi, — bisbigliò finalmente Aldo all’orecchio di lei, — perchè mi
odiavi?

— Perchè?... — rispose ella, destandosi da quel dolce torpore
dell’anima. — Non amavi tu un’altra?

— No; — disse Aldo, con accento vibrato che prorompeva dal cuore. — Te
sola.

— Giuralo! — rispose Camilla, levando la testa e fissando i suoi begli
occhi nel viso di Aldo. — Giura che non amavi Elena, e che il tuo
cuore non ha mai palpitato per essa. Bada, — soggiunse, con un gesto
di minaccia. — Avresti avuto torto a non amarla, perchè essa è bella
tra tutte le donne; avresti avuto torto, perchè essa ti ama. Se l’hai
amata, sii leale ed onesto nel rispondermi. Puoi tradirla nel futuro;
non devi rinnegarla nel passato.

— Non sarei così vile; — rispose Aldo gravemente. — Per tutto ciò
che ho di più sacro; per la memoria di mia madre, te lo giuro; non
ho amata mai quella donna. Il mio cuore è pieno di te, dal primo
giorno che ti ho veduta; ed ho veduta te prima di conoscere lei. Il
passato.... — soggiunse Aldo sospirando; — il passato non è più mio.
Come lo distruggerei? È la nostra gioventù che ha sparsi i fiori
della sua ghirlanda lungo il cammino: possiamo noi tornare indietro
a raccoglierli? Una cosa sola possiamo far noi: dolerci amaramente di
non averli serbati, per incoronarne la fronte di colei che ameremo per
tutta la vita. Credimi, dolce signora; io non ho amato Elena, non le ho
detto mai parola che potesse lasciarle sospettare un’ombra di tenerezza
per lei. Eppure, io gliene ho dette molte! — notò il giovane, crollando
mestamente il capo. — Ma tutte, sai, tutte per intrattenerla del mio
amore per te!

— Male! — sclamò Camilla. — Si fanno forse di queste confidenze ad una
donna?

— Elena è buona; — disse Aldo.

— Sì, troppo buona; e appunto ciò mi ha dato noia; — rispose Camilla,
battendo sdegnosamente le labbra. — Stimare un uomo per quel che
vale.... almeno, immaginarsi che egli val molto; desiderare che le sue
labbra vi dicano ciò che i suoi occhi v’hanno lasciato sospettare;
attendere che egli cessi di andare attorno, per non vedere, per non
seguire, per non servire che voi; e invece.... non veder nulla, non
udir nulla di ciò che speravate vedere ed udire; e frattanto, sentirvi
offrire quell’uomo da un’altra donna, bellissima, non c’è che dire, e
che ha l’aria di volervi fare un regalo, quasi una cessione.... Signor
De Rossi, ecco ciò che è toccato a me, per colpa vostra. Ditemi ora,
non eravate un bambino, a diportarvi così? E non sentite là dentro un
po’ di rimorso? —

Aldo De Rossi vide in quel momento ciò che non aveva veduto mai.
Delicatissimo nelle cose del cuore e punto disposto alle confidenze
tra uomini, si era lasciato andare a far partecipe del suo segreto
una donna. Perchè quella debolezza sua con la signora Vezzosi?
Certo, bisognava farle intendere in qual modo, come e perchè egli non
rispondesse al nascente affetto di lei; certo, non era tutta colpa
della signora Elena se quell’affetto aveva fatto capolino, e il signor
Aldo degnissimo, con le sue spensierate assiduità in casa Vezzosi,
doveva riconoscersi per il primo e per il maggiore colpevole. Ma dal
trovare il modo di persuadere gentilmente una donna dell’errore in
cui essa era caduta, allo spiattellarle intiera e nuda la verità, ci
correva un bel tratto. Ed era poi lui, l’uomo degli amori esclusivi, il
fautore della massima «o tutto o nulla,» che doveva lasciar supporre
tante cose alla signora Vezzosi e mettersi nella condizione in cui si
trovava finalmente, davanti alla signora Camilla?

I criminalisti, in ciò d’accordo coi moralisti, richiedono nel delitto,
perchè possa chiamarsi tale la coscienza e l’intenzione di commetterlo.
Dove non è intenzione, dove non è coscienza, il delitto sparisce e
resta semplicemente l’errore. Ma nelle cose del cuore, è, scusatemi
l’espressione, un altro paio di maniche. Dove lo spirito ha obbligo
d’esser sempre desto e vigilante, non ci sono errori perdonabili; ogni
errore è delitto. Aldo, anche innocente nell’anima sua, aveva errato,
doveva riconoscersi in colpa.

— Mi faccio orrore; — diss’egli chinando umilmente il capo. — Ma anche
voi, Camilla.... non siete stata troppo lungamente crudele con me?
Quell’Anselmi, poi!... —

Non avrebbe voluto nominarlo; anzi, aveva fatto proponimento di non
tirare il discorso da quella parte. Ma al povero Aldo De Rossi accadde
ciò che accade a tutti gl’innamorati, che non sanno destreggiarsi,
perchè non sanno aspettare, e cascano essi primi nei discorsi che
vorrebbero ad ogni costo cansare.

— Ah sì, l’Anselmi! — rispose Camilla. — Gran che! Ditemi voi, ve ne
prego, che cosa ha ottenuto l’Anselmi da me.

— Non so; — balbettò Aldo, chinando gli occhi e stringendosi nelle
spalle.

— Ah, non mi dite che non lo sapete; — ribattè essa con accento severo.
— Escirei da questa camera, per non vedervi mai più. Siate pure geloso;
la cosa piace qualche volta alle donne, specie quando amano anch’esse
davvero. Ma non siate mai permaloso, nè ingiusto. —

Aldo si fermò a meditare sopra una frase di Camilla, che lo aveva
colpito.

— E.... — diss’egli allora con una mezza sospensione, che dimostrava la
sua paurosa curiosità, — vi piace che io sia geloso?

— No; — rispose Camilla, preparandosi a ridere della sua cera
scontenta, ed anche, se egli non era a dirittura un grande zuccone, a
lasciargli intendere il contrario.

Ma, proprio a dirvi le cose come stanno, il mio signor Aldo, con
tutte le sue belle qualità, era un po’ zucca. Non zucca al vento, chè
sarebbe stato sciocco e vanitoso; ma zucca coricata, zucca supina.
Poveretto, non so scusarlo, ma non so neanche condannarlo, poichè
conosco della gente che gli somiglia e a cui voglio un gran bene. Del
resto, lo sapete, Aldo ci aveva quel tal sospetto in corpo; il sospetto
che Camilla non avesse fatto quel passo imprudente, audacissimo, di
andare da lui, a quell’ora di notte, se non per chiedergli una viltà,
a vantaggio dell’altro. E il dubbio, anche vano, e, peggio che vano,
indegno di entrambi, gli risorgeva nell’animo.

— No, — gli aveva risposto Camilla, ridendo. — E poi, — aveva
soggiunto, vedendo che egli non afferrava la celia, — perchè sareste
geloso? E di che?

— Di che! — esclamò egli, aggrottando le ciglia. — E me lo domandate?
Non ho io vedute tutte le cortesie che egli vi faceva e l’aria di bontà
particolare, direi quasi di gratitudine, con cui avete sempre mostrato
di accoglierle?

— Dio mio! Dite pure che gli ho data l’erba trastulla. E in fede mia,
— soggiunse Camilla, — ci sarebbe qualche cosa di vero; ma nessuno
potrebbe dolersene, salvo l’Anselmi. Non mi era dunque lecito di
stare a vedere che effetto vi facevano certe cose, di studiarvi, di
scandagliarvi un pochino? Alla fine, che mezzo abbiamo noi, povere
donne, per conoscere se un uomo ci ami davvero? Usiamo una pietra di
paragone, ecco tutto. E poi, ditemi ancora, potevo figurarmi io, con
tutte le vostre visite di qua e di là, che voi mi amaste davvero, come
io ho il diritto e la pretesa di essere amata?

— Ed ora, — disse Aldo, — lo sapete, non è vero?

— Sì, perchè un uomo non perde il lume degli occhi per una donna, come
avete fatto voi, quando è presente un’altra che egli ha amata prima, o
che ha tuttavia mestieri d’ingannare. E come eravate splendido ieri al
Rinfresco! Vi ho veduto rotar gli occhi come una bestia feroce. E senza
una ragione al mondo; questa è proprio una delle vostre!

— Già! — esclamò Aldo. — Senza ragione. Dopo quella lettera che avete
scritta alla vostra amica!...

— Che s’è affrettata a metterla sotto i vostri occhi! — rispose
Camilla. — Dovevo immaginarmelo. La bontà di cuore è sempre così;
non ha altra smania che di servirvi; tutto per voi e niente per sè!
Generoso spirito di rinunzia, magnanimo sentimento di sacrifizio, chi
non vi rende giustizia! Io vi ammiro e m’auguro.... di non avervi tra
i piedi. Ma basti di ciò; — soggiunse Camilla, che temeva di andare
troppo in là coi sarcasmi; — ringraziamo anzi l’amica di avervi fatto
leggere quel foglio. Se ciò non fosse stato, sarei io qui a domandarvi
perdono? Perchè, infatti, la cosa è proprio così. Strana sorte è la
nostra! Da padrone a schiave, da superbe a supplichevoli; e senza
gradazioni, senza neanche un po’ di vergogna! Che cosa faccio io qui?
come ho avuto il coraggio di venirci? Che si direbbe di me, quando si
risapesse la cosa? —

Aldo scosse la testa, come uomo che sente il peso degli argomenti
altrui, e battè due o tre volte le labbra.

— Avete ragione; — mormorò egli. — E per quanto io sia felice di
vedervi qui, debbo pensare che c’è un pericolo per voi. Se aprissero
quell’uscio.... —

E il signor Aldo, turbato com’era, non ardì compire la frase.

— Se lo aprissero!... — rispose Camilla. — Chiudetelo a chiave e non ci
sarà questo pericolo. —

Al signor Aldo balenò davanti agli occhi come un’immagine delle
beatitudini celesti. Guardò Camilla, che reclinava lo sguardo a terra;
poi corse all’uscio, afferrò la chiave e diede tutt’e due le mandate.
Ciò fatto, ritornò, veloce come un lampo, e cadde alle ginocchia di
Camilla.

— Voi siete un angelo! — le disse.

Camilla sorrise malinconicamente.

— Un angelo che perde le ali; — rispose. — Ho fatto male e desidero che
la cosa non passi in esempio. Ma sono così, io; — soggiunse tosto con
accento più franco. — Avevo bisogno di sapere come amate voi, mio bel
cavaliere. Quanto a me, eccovi come amo; o tutto o nulla.

— Mia dolce signora, lo sapete; — replicò Aldo giubilando. — È questo
il mio motto.

— Tanto meglio; — disse allegramente Camilla. — E non voglio donne
sulla mia strada.

— Nè io uomini; — ribattè Aldo, sul medesimo tono.

— Gelosia feroce, dunque?

— Gelosia diabolica. L’amore non ne conosce altra. Approvato?

— E firmato in doppio originale. —

Così chiacchieravano, seduti l’uno a fianco dell’altro, le mani nelle
mani e gli occhi negli occhi. Camilla non accennò punto all’alterco
di Aldo con l’Anselmi, e Aldo dimenticò facilmente i primi sospetti.
La conversazione si aggirava mollemente a mezz’aria, tessuta di
quei graziosi nonnulla che piacciono tanto agli innamorati e fanno
scorrere il tempo così veloce. Che cosa si è detto? Da che parte si
era incominciato e dove si era rimasti? Impossibile il ricordarsene.
Donde qualche volta il rimprovero di lei, o di lui. Perchè mai la
tal cosa, o la tal altra, che aveva pure una certa importanza, non
era stata rammentata da lui, o da lei? Ma, Dio buono, come si fa,
a ritenere una sinfonia, che passa per tutti i toni, e sfiora e
confonde tutte le melodie dello spartito? E poi, perchè ritenere
solamente certi particolari? Non erano tutti importanti ad un modo?
E il pregio vero del dialogo non era forse tutto in quella medesima
varietà di soggetti, collegati da tenui fila, armonizzati da gradazioni
insensibili? Inoltre, ci sono delle cose che, udite una volta, paiono
sublimi; ripetute, sviscerate, son nulla, e si possono paragonare
a quelle nuvolette leggiere, che stanno librate in alto, prendendo
forma dall’aria che le spinge, e colore dalla luce che le investe.
La vaghezza è tutta nelle apparenze mutevoli; a che si cercherebbe la
sostanza? Ora, nel dialogo di due innamorati la soavità ineffabile è
quel susurro di due voci che si confondono, è quel bacio che si accenna
e non si scocca. Un gran pittore ne ha foggiato uno nel sasso, ed è
parsa idea luminosa, come poteva offrirsi all’arte figurativa; ma c’è
altresì il bacio che nessun pennello può rendere, il bacio che si sente
nell’aria, il bacio che vi sfiora la guancia e vi penetra nel sangue.
Esso è nella voce cara che vi suona timidamente all’orecchio, nello
sguardo acceso che v’illumina e vi riscalda, nell’alito delicato che
vi accarezza il volto, in quel misto di fragranze nuove, inesprimibili,
per cui sentite l’amata così diversa da tutte le altre donne del mondo.
Insomma, lettori dell’anima mia, che cosa vi dirò? Che qui si perde la
bussola. E fo punto, per ritornare alla prosa.

Il povero torcetto stearico, piantato nel modesto candeliere d’albergo,
era al verde. Vo’ dire che s’era consumato bel bello, e che l’ultimo
avanzo di stearina si spandeva liquefatto sulla padellina del
cristallo. Poco dopo, il lucignolo, non più nutrito, nè sorretto, diede
l’ultimo guizzo e cadde stridendo nel suo minuscolo laghetto di untume.
Una piccola tragedia in un bocciuolo di candeliere! E i due felici
non si erano avveduti di nulla. Risero, quando si trovarono al buio; e
Aldo, cercando Camilla, sfiorò col sommo delle labbra i capegli di lei.

— Mia? — mormorò egli, così sommessamente, che l’aria non avrebbe
potuto sentirlo. — Indovini, che cosa?

— Sì; — rispose ella; — tua.... fidanzata.

— E lo diremo allo zio; — riprese Aldo.

— Che sarà felice di liberarsi di me.

— Lo credi?

— No, povero zio! Mi ama tanto! Ma infine, alla sua età si hanno altre
cure, e si custodisce male una nipotina come son io; — disse Camilla,
ridendo. — Vedi, infatti!...

— Non vedo nulla; — rispose Aldo. — C’è così buio!

— Ma io ti vedo ancora; — replicò ella. — Cioè torno a vederti un
pochino. È quasi l’alba.

— Ahimè, l’alba! — mormorò Aldo. — Che noia! —

Un pensiero molesto si affacciò alla mente di Camilla, e un brivido le
corse per le vene.

— Che hai? — diss’egli, sentendola tremare.

— Nulla, nulla. —

E cercò di vincersi, di sviare i pensieri dolorosi, ritornando a
parlare di cento cose; dei giorni in cui si erano conosciuti; delle
prime parole che egli le aveva dette in una festa da ballo; di un
fiore che egli portava sempre all’occhiello; di una storia che aveva
incominciata per compiacere a lei, ma che non aveva saputa finire,
per certe risa di lei, e via discorrendo. Ma le tenebre si andavano
diradando nella camera, e la conversazione languiva. Aldo rispondeva
a sorrisi interrotti, a monosillabi, e tratto tratto si mordeva le
labbra, come persona che stenti a dominare la propria inquietudine.

Ad un certo punto non seppe più contenersi.

— Sono dolente.... — incominciò.

— Di che? — fece Camilla.

— Sono dolente di dirlo io; ma tu.... dovrai ritornare nelle tue camere.

— Perchè?

— Perchè tra mezz’ora sarà giorno. E se ti vedessero.... se ti
trovassero qui....

— È vero; — disse Camilla. — Che cosa si penserebbe.... del signor Aldo?

— Cattiva! — esclamò egli. — Penso a te, non a me. Quando apparirà la
luce....

— Ah, la luce! — interruppe Camilla. — Sarà la mia nemica, perchè mi
farà comparire assai brutta.

— Se non si trattasse d’altro, — disse Aldo, — ti pregherei di restare.
Ma infine....

— Ma infine, — ripigliò Camilla, — è meglio che io me ne vada; non è
vero?

— Sì; — rispose Aldo sospirando.

— Andiamo dunque; — replicò Camilla.

E si alzò lentamente e si mosse di mala voglia. Aldo, rigiratole un
braccio intorno alla vita e tenendosela stretta al seno, l’aiutò a
fare i dieci o dodici passi che correvano dal canapè all’uscio. Dieci o
dodici a farli corti, s’intende; ed anche questo breve tragitto volle
parecchi minuti di tempo. Coppia gentile che s’inoltrava nella mezza
oscurità della camera, io credo che così, e non altrimenti, dovrebbero
andare nel regno delle ombre coloro che si sono amati sulla faccia
della terra.

Mentre i miei due personaggi andavano verso l’uscio, ma col metro del
fanciullo ritroso di cui è detto nella Bassvilliana del Monti (ricordi
dell’adolescenza, che cosa volete da me?), un improvviso rumore si udì
dalla strada. Qualcheduno di fuori batteva a ripetuti colpi sul portone
d’ingresso.

— Vieni; — disse Aldo, traendo Camilla, che si era molto volentieri
arrestata a mezza strada; — abbiamo appena il tempo di giungere alle
tue stanze.

— No, — diss’ella, — è tardi, per escire. Se passa un servo nel
corridoio?...

— Che? Spero bene non ci sarà questo bisogno; — rispose Aldo. — Aprirà
il portiere. —

Ma proprio per far torto alle previsioni di Aldo, il portiere aveva
il sonno duro, o l’orecchio. Di fuori continuavano a bussare, e poco
stante si udì nel corridoio un passo grave, ma spedito, come di persona
destata in soprassalto, che si affrettasse verso le scale, per metter
fine a quel diavolìo.

— Ahi! — mormorò Aldo. — Son essi.

— Essi! — ripetè Camilla. — E chi?

— Amici miei.... — balbettò Aldo; — amici miei, che vengono a cercarmi,
per una scampagnata. Ho promesso iersera, al Casino, di andare fino
a Collodi. Vieni; ora non ci sarà pericolo ad escire sul corridoio,
poichè il servitore è passato. Ma che hai? — soggiunse egli, sentendola
tremar tutta nelle sue braccia.

— Ho freddo; — rispose Camilla. — E avrò anche più freddo di
fuori. —

Per la stagione in cui s’era, la cosa doveva parere assai strana.
Ma al nostro eroe il freddo che sentiva Camilla sembrò strettissimo
parente della poca voglia che essa aveva di escire dalla camera.
Rammentò che per tutta la notte Camilla non aveva accennato, neanche
lontanamente, ad un pericolo di duello; silenzio notevole, che da
principio lo aveva fatto insospettire, ma che egli si era poi spiegato
nel miglior modo possibile, ricordando le parole con cui l’Anselmi,
nell’escire dal Rinfresco, aveva cercato di rassicurare le donne. La
spiegazione gli era servita lì per lì; ma allora, quella ritrosia di
Camilla a separarsi da lui, il tremito subitaneo che l’aveva presa
all’avvicinarsi dell’alba, e infine quella ostinazione a restare,
anche a rischio di farsi cogliere nella camera di lui, dovevano dirgli
abbastanza chiaramente che Camilla aveva indovinato ogni cosa e che
la sua presenza colà mirava ad un fine. Ma quale? E con che mezzi
contava ella di raggiungerlo? Aldo non ci vedeva molto chiaro; anzi,
diciamo schiettamente che non ci vedeva affatto. E mentre stava lì
almanaccando, si udivano i passi di parecchie persone, entrate allora
nel corridoio; indi a poco i passeggiatori mattinieri fecero sosta e
bussarono all’uscio della sua camera.

— Apri; — gli disse Camilla all’orecchio. — Io mi nascondo là dietro.
Escirò dopo di te; non temere. —

Così dicendo si spiccò dal suo braccio e andò a celarsi nella stretta
del letto.

Aldo aperse l’uscio e diede il passo a due gentiluomini, che erano per
l’appunto i suoi padrini.

— Già alzato! — esclamarono, nell’atto di stringergli la mano.

— Sì; non è forse l’alba?

— Verissimo; ma credevamo che proprio in questa occasione avreste fatto
il sonno più lungo. Si narra del principe di Condè....

— _Promessi Sposi_, capitolo tale! — interruppe Aldo, sorridendo. — Ma
io, anche a risico di non somigliar punto al principe di Condè, non
ho attaccato sonno, essendo rientrato troppo tardi e avendo avuto da
scrivere qualche lettera.

— Infatti, — notò uno dei padrini, dando una occhiata al letto, di cui
si vedeva la rimboccatura intatta, — ecco la prova più chiara della
vostra veglia d’armi. La chiameremo così, in omaggio alla memoria
degli antichi cavalieri. Ma permettetemi di osservare che, non avendo
dormito, punterete male, stamane. —

Aldo rispose con una leggiera alzata di spalle. Ma dentro di sè mandò
a quel paese il troppo loquace padrino; tanto più che dalla stretta del
letto era giunto a lui come un gemito soffocato.

— Basta, — ripigliò il padrino, — poichè siete già alzato, avremo il
tempo di prendere il caffè.

— Lo vogliono qui? — domandò il cameriere.

— No, — rispose prontamente Aldo, — lo prenderemo giù in sala. Vi
prego, amici, — soggiunse, volgendosi ai due visitatori, — concedetemi
due minuti e sono da voi. —

Esciti finalmente i padrini, Aldo ritornò verso Camilla, che si
abbandonava bocconi contro la sponda del letto, in preda ad una
agitazione violenta.

— Animo, via, Camilla; siate forte! — diss’egli.

— Ah! — gridò ella. — E per mia colpa! Ma non sarà.... non sarà! Mio
Dio, abbiate compassione di me!

— Sì, egli mi assisterà; — disse Aldo. — Vieni, ora, te ne prego; non è
più tempo di restar qui. —

Camilla si lasciò condurre, come un bambino. Da sola, non avrebbe
avuta la forza di muovere un passo. La sua energia femminile, d’indole
essenzialmente nervosa, era venuta meno davanti all’idea del pericolo
che Aldo correva per lei.

Ma forse, direte, non lo sapeva prima? Sì, buon Dio, lo sapeva;
ma bisogna anche osservare che ella faceva assegnamento su certe
circostanze, molto ben prevedute, perchè attentamente studiate, le
quali all’ultimo momento non le parevano più così certe, come le aveva
immaginate da principio. Non vi è egli mai avvenuto di contare su
certe combinazioni, sapientemente architettate, che a tutta prima vi
sembravano irresistibili, e poi, giunti all’ora della prova finale,
di perder la fede, di dubitare, di sospettare un errore di calcolo,
infiltrarsi nelle vostre deduzioni, col pericolo di mandare a rotoli
il vostro faticoso edifizio? Alla signora Camilla, già tanto sicura
durante la notte, tornavano in cuore i sospetti, coll’avvicinarsi
dell’alba. L’arrivo dei due padrini di Aldo le aveva dato il tracollo;
i sospetti si erano tramutati in paura.

Oramai non si poteva più indugiare, nè mendicar pretesti, nè far capo
ad alcune di quelle debolezze che in momenti meno solenni fanno buon
giuoco alle donne. Camilla si lasciò condurre fuor della camera di
Aldo. C’era appena appena il tempo necessario, perchè ella potesse
raggiungere la sua.

Ma nell’atto di escire sul corridoio, alla incerta luce del mattino,
i nostri due innamorati fecero un incontro che non s’aspettavano di
certo. I padrini erano scesi al pianterreno e il servitore con essi;
ma dal fondo del corridoio apparivano due altri personaggi, quasi due
ombre; la signora Elena e il commendatore Gerardo.

Il primo e istintivo moto di Aldo fu di mettersi avanti, come per
nascondere Camilla agli occhi dei nuovi venuti. Ma era tardi; Elena
e suo marito avevano veduta la signora Rivanera, e ambedue, fatto
un gesto di meraviglia, accennavano a ritirarsi, per non riescire
importuni. Camilla se ne avvide. La poveretta si sentiva morire; ma la
gravità del momento rianimò le sue forze. Non toccava a lei di salvare
ogni cosa, se era possibile, o di confessare audacemente la propria
sconfitta?

Perciò, respinto leggermente Aldo, che non si era anche persuaso della
impossibiliti di nasconderla, Camilla si fece incontro ai Vezzosi, e
incominciò in questa forma:

— Amici, anche voi siete venuti a salutare il signor De Rossi e ad
augurargli fortuna?

— Non potevamo farne di meno, — rispose Gerardo, — avendo indovinato
iersera quel che doveva accadere.

— Bravo! — disse Camilla. — E lo confessate ancora? Indovinare una cosa
simile e non darmene un cenno, in verità, non è bello da parte vostra.
Buon per me che l’avevo indovinata anch’io.

— E più fortunata di noi, — entrò a dire la signora Vezzosi, — sei
giunta anche prima. Noi, appena abbiamo sentito battere all’uscio di
strada, siamo saltati dal letto.

— Ed anche voi, — aggiunse Gerardo, — avrete fatto lo stesso.

— Sì, ma molto prima; — rispose arditamente Camilla. — Non ero io la
colpa di tutto?

— Che dite, Camilla? — gridò Aldo, commosso. — Ed ora, perchè
queste lagrime? Vorrei aver mille vite ed incontrar mille morti per
voi. —

L’impeto con cui Aldo profferì le sue calde parole non doveva piacer
troppo alla signora Elena. L’ascoltatrice negletta ne ebbe una scossa
violenta, e sentì il bisogno di appoggiarsi alla parete.

Camilla vide quell’atto, e forse lo indovinò, e corse ad abbracciare
l’amica.

— Animo! — le bisbigliò all’orecchio, — Perdonami!

— Sì, ti ho perdonato; — mormorò la signora Elena. — Poveretta, tu non
ci hai colpa.... salvo quella di averlo fatto soffrire.

— Ah, ne avrò un rimorso eterno; — rispose Camilla, trascinando Elena
in disparte. — Ed ora, che cosa avverrà? La signora Meravigli avrà
fatta la sua parte?

— Lo spero; — disse Elena. — Il Sestavalle ha dormito alla Torretta,
per esser vicino all’Anselmi. Bisognerà aspettarlo.

— E Gerardo lo sa? — chiese Camilla.

— Sì; non ho creduto di dovergli nascondere i nostri tentativi. Povero
Gerardo! egli è tanto buono! Sento di amarlo doppiamente, oggi. —

Così parlava la signora Elena. Ed ecco, lettori discreti, ecco un uomo
che non saprà mai a che fortunata combinazione egli sia debitore di una
ripresa d’affetti coniugali. Uomini felici, che passano sulla scena del
mondo, vedendo sempre la superficie delle cose, e nient’altro che la
superficie! A buon conto, non è forse meglio così?

Essendo presenti i Vezzosi, non era più necessario che la signora
Camilla ritornasse nelle sue camere. Perciò scesero tutti al
pianterreno, per accompagnare il De Rossi.

La carrozza di Aldo stava in attesa, davanti al portone. Aspettando il
caffè, ed essendo lì vicino il portiere, non si reputò conveniente di
alludere al grave caso che raccoglieva tutta quella gente sull’ingresso
dell’albergo, e si ebbe l’aria di parlare d’una scampagnata a Collodi.
Sì, proprio a Collodi! Orazio avrebbe collocato qui una ripetizione del
suo famoso: «_Credite posteri._»

Poco stante, si udì dallo stradone un rumore di ruote. Una carrozza
veniva a furia dalla parte del Tettuccio.

— Son essi, e veramente puntuali; — disse uno dei padrini, il maggiore
di fanteria, dando una guardata all’orologio.

La carrozza venne a fermarsi davanti al portone. I due padrini di Aldo
escirono tosto, per andare al montatoio, a ricevere i colleghi della
parte avversaria. Erano essi per l’appunto, ma soli. Il contino Anselmi
non c’era.

Aldo, affacciato all’ingresso, non potè trattenere un gesto di
meraviglia. Quanto ai suoi padrini, lo avevano già fatto, e stavano
appunto chiedendo perchè mancasse l’Anselmi.

— Ah, ah! Il conte Anselmi? — dice l’Alcibiade, con aria che voleva
parere disinvolta. — Il conte Anselmi verrà; sicuramente, verrà.
Egli è trattenuto ancora pochi minuti all’albergo. Frattanto, egli
mi ha incaricato di consegnare una lettera.... alla signora Camilla
Rivanera. —

Alle parole dell’Alcibiade rispose un gesto di meraviglia, anzi di
stupore da parte di tutti gli astanti. E non fu questo il solo effetto
di quello squarcio d’eloquenza, poichè la signora Camilla, udendo
proferire il proprio nome, fu sollecita ad apparire sulla soglia.

— Certamente.... — ripigliò l’Alcibiade, — non parrebbe questa una
commissione da darsi ad un padrino, ad un araldo d’armi. Nè io l’avrei
accettata, se il conte Anselmi non m’avesse raccomandato di eseguirla
solennemente, alla presenza di tutti. L’indole stessa della quistione
(son parole del conte Anselmi) l’indole stessa della quistione che
ho avuta col De Rossi, è tale da richiedere questo preliminare. Ad
un linguaggio simile io non ho saputo negare più nulla, e il barone
Marcovich, qui presente, mi ha incuorato egli stesso ad incaricarmi di
questa trasmissione, che lor signori non troveranno essere fatta da me
con solennità minore del bisogno. A lei, dunque, signora Camilla mia
riverita — conchiuse l’Alcibiade, facendosi innanzi col suo messaggio,
— eccolo il preliminare in discorso. —

V’immaginate come rimanessero tutti, a quel secondo squarcio
d’eloquenza del cavaliere Sestavalle. Camilla, intanto, aveva presa la
lettera, lacerata la busta, e leggeva. I suoi occhi tutto ad un tratto
si animarono; un bel colore incarnatino le tornò in viso, a mano a
mano che procedeva nella lettura; finalmente sorrise. Aldo, secondo il
solito, ci aveva un diavolo per occhio. Benedetto geloso!

Dopo aver letto, Camilla porse la lettera al commendatore Gerardo.

— È di un uomo di spirito, ed anche di un uomo di cuore; — disse ella.
— Leggete. —

Gerardo obbedì. Com’ebbe letto a sua volta, rispose:

— Avete ragione. È in fondo in fondo, un buon ragazzo. Maggiore, vuol
leggere?

— Se è cosa che debba entrare nel mio ufficio di padrino.... — disse il
maggiore. — E se la signora permette...

— Sicuramente; — rispose Camilla.

Il Maggiore prese la lettera dalle mani del Vezzosi e lesse anch’egli,
tenendo il foglio alquanto da un lato, affinchè potesse leggere con
lui il professore di storia naturale. Ambidue convennero che la signora
Camilla aveva ragione. Sfido io! Una donna bella ha sempre ragione, e
la sua bocca è una fonte di verità.

Aldo De Rossi, vedendo che tutti leggevano prima di lui si era
allontanato di alcuni passi e andava su e giù, facendo le volte del
leone sul marciapiede dell’albergo. Per desiderio della signora Camilla
il foglio fu trasmesso anche a lui. Aldo lo prese con aria svogliata,
ma nel fatto con una grande impazienza di leggerlo.

Vediamolo anche noi, poichè lo legge il De Rossi. Il conte Anselmi
scriveva in questa forma alla signora Camilla:

      «_Signora_,

  «Ho fatto parecchie cose a malincuore, e posso dire anzi con
  rammarico. E adesso ne fo una con piacere, quantunque la penna mi
  serva male. Infatti, c’è sempre un po’ di ritegno a parlare di
  certe faccende con una signora; peggio poi con quella stessa...
  Ma non caschiamo a filosofare, che è il peccato del secolo, e
  raccontiamo le cose come stanno. La morale verrà dopo.

  «Il signor De Rossi mi ha provocato ieri, al Rinfresco. Le parole
  erano misurate, ma il senso era chiaro, così chiaro che ho dovuto
  provvedere alla tutela del mio onore, mettendo la cosa in mano
  a due padrini. Voi sapete già tutto questo, e sapete anche una
  parte di ciò che debbo raccontarvi ora. Veramente, il venirvi
  a spiattellare un secreto del mio cuore, o della mia testa,
  foss’anco il segreto d’Arlecchino, non sarebbe da uomo di garbo,
  e i cavalieri antichi non ci sarebbero incappati. Ma qui, signora
  mia, tutto è nuovo e passabilmente strano. E con tutta la poca
  voglia che ne avrei, debbo pure parlarvi del duello ed anche di una
  certa persona, che voi avete scoperta, e da cui mi trovo stretto
  d’assedio. Eccolo qua, l’uomo che si aspetta, occupato nelle
  più audaci scorribande; eccolo qua, chiuso tra quattro pareti,
  nell’albergo della Torretta, ubbidiente ad una voce, che, con una
  leggiera variante nella parola, potrebbe dirsi di sovrano assoluto.

  «Il sovrano, o l’assediante, non avrebbe già potuto vantarsi di
  tenermi sotto chiave. Egli era così poco sicuro della sua forza
  materiale, così timoroso d’una mia sortita dalla piazza, che
  ha dovuto far capo ad un mezzo speditivo, facendomi saltare il
  deposito delle polveri. Son qua, signora mia, disarmato dalla
  lettura di una nota lettera, che dice a un dipresso così: «Impedite
  questo duello, che io non capisco, e che è cagionato sicuramente da
  un equivoco. Non ci può essere quistione tra il signor De Rossi,
  l’uomo che io amo, e il signor conte Anselmi, amico nostro leale,
  ma nient’altro che amico.»

  «Signora, questa lettera è vostra ed io l’ho letta con
  quell’attenzione e con quella reverenza che meritano i vostri
  caratteri. Questa lettera mi ha persuaso che non ci farei la più
  bella figura a muovermi di qui, senza chiederne il permesso a Voi.
  Per andare ad oste contro il signor Aldo De Rossi, debbo passare
  nei vostri dominii. Bella dama, consentirete voi che io lo faccia?
  E se mi volete disposto a restare, in qual modo mi salverete dalla
  taccia di pauroso?

  «Vedete voi, bella dama, giudicate voi; sono ai vostri ordini.
  Posso essere leggiero, come è opinione di molti; ma sono onesto
  e non voglio fu piangere nessuno per deliberato proposito. È
  veramente un caso strano, che, tra due uomini disposti ad entrare
  in lizza, si mettano arbitre le donne. Ma non sarà mai detto che
  il caso strano mi trovi puntiglioso e caparbio. Signora, accetto
  l’arbitrato. Dite voi ai miei padrini se debbo andare o restare.
  Per me è quistione di pochi minuti, e i padrini dell’altra
  parte non vorranno chiamarmi in colpa per pochi minuti, messi a
  disposizione della dama, a cui bacio riverente le mani.»

Non mi fermerò a commentarvi la lettera del contino Anselmi, e neanche
a riferirvi la scena intima dopo cui era stata scritta. Già avrete
capito l’essenziale, cioè che il sovrano assoluto si era diportato
veramente da sovrano assoluto, e che, non potendo vincere con le buone
la caparbietà dell’Anselmi, lo aveva umiliato senz’altro, mostrandogli
la lettera della signora Camilla Rivanera. Il povero contino ne era
rimasto ferito, crudelmente ferito nelle sua vanità; aveva veduto il
ridicolo di cui si sarebbe coperto, andando a battersi per una donna
che gli dichiarava chiaro e tondo di amare il suo avversario, e si era
facilmente persuaso della necessità di comparire un uomo di spirito.
Come sapete, ci guadagnò anche la riputazione d’uomo di cuore.

Ma se in questa forma gli rese giustizia la signora Camilla, non fu
altrimenti disposto a seguirne l’esempio il signor Aldo De Rossi. Un
punto buono soltanto egli aveva veduto nella lettera dell’Anselmi, ed
era la citazione delle parole di Camilla. Quell’accenno di lei all’uomo
che amava, fece alzare gli occhi di Aldo, in segno di gratitudine,
verso la signora Rivanera, in quel mentre più bella e più fresca che
mai, ad onta della notte vegliata. Ma il contesto della lettera non
finì di contentarlo, specie per il tono allegro e per l’ostentazione
cavalleresca dell’Anselmi.

— Egli, in fondo, non si disdice di nulla; — osservò egli, restituendo
la lettera.

Ci fu, dopo quelle parole, un istante di pausa. La signora Camilla
rizzò la testa e guardò Aldo, come per domandargli donde avesse cavata
un’idea così peregrina; indi si volse al Maggiore. Questi, che leggeva
a prima vista, senza essere maestro di musica, rispose per tutti
all’obbiezione di Aldo.

— Scusi, — incominciò egli, — di che cosa s’avrebbe a disdire
l’Anselmi? Se mi è stata riferita esattamente la conversazione che
hanno avuta insieme al Rinfresco, non c’è nessuna frase che richieda
attenuazioni, almeno da parte sua. Noi altri, piuttosto.... Ma non
insisterò su questo tasto, — soggiunse il Maggiore, — poichè il
conte Anselmi, con molto garbo, ha rimessa la quistione all’arbitrato
delle dame. Gli stessi padrini suoi, da quei gentiluomini che sono,
intendono esser qui una quistione delicatissima, nella quale essi e
noi si avrebbe poca grazia ad entrare. Accetta lei l’arbitrato, come
lo accetta il conte Anselmi? Questo è il punto essenziale; non sembra
anche a loro? —

I padrini dell’Anselmi, a cui era rivolta l’ultima frase, risposero con
un cenno affermativo del capo.

Aldo De Rossi non trovò più nulla a ridire.

— Accetto l’arbitrato; — rispose.

— Oh, manco male! — esclamò la signora Camilla. — Signori, non si parli
più di duello; i due contendenti si stringeranno la mano a Tettuccio. È
la mia volontà. —

La decisione fu accolta con giubilo da tutti gli astanti. Aldo, come i
padrini furono partiti, si avvicinò alla signora Camilla e le disse:

— Siete una bella prepotente.

— Ricordate il vostro motto; — rispose Camilla. — O tutto o nulla. È
anche il mio, lo sapete.

— Angelo! — mormorò egli.

— Che ha perdute le ali; sapete anche questo.

— Tanto meglio, non volerete più via.

— Ah, questo poi! Vedete per esempio, incomincio a volare fin d’ora.
Mio zio sarà alzato, oramai. Ci vedremo più tardi, al Tettuccio.

— Grazie! — rispose Aldo, stringendo la mano che essa gli stendeva. —
Dite allo zio, ve ne prego, che un povero innamorato di sua conoscenza
ha bisogno di parlargli, per chiedergli una grazia. Indovinate?

— No, — disse ella ridendo.

— Volete saperlo?

— Neanche; non sono curiosa. Lo saprò da mio zio. —

Così scherzavano, a mala pena scongiurato il pericolo d’uno scontro
che poteva riescire sanguinoso, non senza scandalo per la tranquilla
società di Montecatini. Il mondo è così fatto; ed anche il mare, dopo
gli sconvolgimenti della burrasca.... Ma qui si casca a filosofare, che
è il peccato del secolo, come scriveva l’Anselmi.

Il quale Anselmi capitò la stessa mattina al Tettuccio, per ossequiar
le signore. Aldo ragionava in disparte col presidente Roberti,
chiedendogli una grazia, che doveva essergli facilmente concessa. Il
nostro eroe vide con la coda dell’occhio l’Anselmi, e osservò l’onesto
riserbo con cui egli aveva dato il buon dì alla signora Rivanera.
Il contino era sereno, ilare come al solito. Quando vide Aldo, fece
un atto di pronta risoluzione e si mosse per andargli incontro. Ma
Aldo non gli diede il tempo di fare la strada e corse egli stesso a
stringergli la mano. Uno sguardo amorevole di Camilla lo ricompensò
di quella onesta sollecitudine. L’Anselmi, dal canto suo, gli diede il
resto del carlino.

— Sai, è una stretta d’addio. Parto oggi per Firenze, e domani per
Roma. Sicuro, c’è un soprano assoluto che s’annoia qui, e mi bisogna
far le valigie.

— Ti dai corpo ed anima ad Euterpe! — osservò Aldo, tanto per dire
qualche cosa.

— No, per amor del cielo! — replicò l’Anselmi. — Accompagno la diva, e
prendo il largo alla prima occasione.... che avrò cura di far nascere.
Aldo mio, ti sembrerò forse leggiero: — soggiunse il contino. — Ma
trovami tu il modo di essere diverso. C’è della gente a cui tocca
tutto, e della gente a cui non tocca nulla. Capi scarichi, cuori vuoti
d’affetti, gran mercè se non prendiamo in uggia la vita!

— Tu caschi a filosofare! — disse Aldo, che rammentava la lettera
dell’Anselmi.

— Hai ragione; — rispose il contino, ridendo. — Fo punto e tiro
via. Già, a che servono le chiacchiere? Il fatto è fatto e non ci si
rimedia. —

Aurea sentenza, che consolava l’Anselmi. Così avesse potuto
consolarsene la signora Vezzosi! Ma questa non aveva il carattere del
contino, e certa filosofia pratica, di cui molti vanno mantellando la
propria leggerezza, non era il fatto suo, lo sapete.

Del resto, se la signora Elena doveva soffrire un pochino per colpa
di Aldo De Rossi, non ci aveva altrimenti ragione di odiarlo, e molto
meno disprezzarlo. Aldo avrebbe potuto diportarsi in questa occasione
come tanti e tanti; avrebbe potuto amar l’una e mentire con l’altra. Ma
se egli aveva molti difetti, era tuttavia immune da questo. Non sapeva
fingere. Però a qualcheduno de’ miei lettori sarà parso un po’ sciocco.
Siamo tanto avvezzi ai furbi trincati!


  FINE.



DELLO STESSO AUTORE

(_Edizioni in-16_).


  Capitan Dodero (1865). _Settima edizione_                   L. 2 —
  Santa Cecilia (1866). _Quinta edizione_                     »  2 —
  L’olmo e l’edera (1867)._ Settima edizione_                 »  2 50
  I Rossi e i Neri (1870). _Seconda edizione_                 »  6 —
  Il libro nero (1871). _Quarta edizione_                     »  2 —
  Le confessioni di Fra Gualberto (1873). _Seconda edizione_  »  3 —
  Val d’Olivi (1873). _Seconda edizione_                      »  2 —
  Semiramide, racconto babilonese. (1873). _Seconda ediz_.    »  3 —
  La legge Oppia, commedia (1874)                             »  1 —
  La notte del commendatore (1875). _Seconda edizione_        »  4 —
  Castel Gavone (1875). _Seconda edizione_                    »  2 50
  Come un sogno (1875). _Quinta edizione_                     »  2 —
  Tizio Caio Sempronio (1877). _Seconda edizione_             »  3 —
  Cuor di ferro e cuor d’oro (1877). _Seconda edizione_       »  5 —
  Lutezia (1878). _Seconda edizione_                          »  2 —
  Diana degli Embriaci (1877). _Seconda edizione_             »  3 —
  La conquista d’Alessandro (1879). _Seconda edizione_        »  4 —
  Il tesoro di Golconda (1879). _Seconda edizione_            »  3 50
  La donna di picche (1880). _Seconda edizione_               »  4 —
  L’undecimo Comandamento (1881). _Seconda edizione_          »  3 —
  Il ritratto del diavolo (1882). _Seconda edizione_          »  3 —
  Il biancospino (1882)                                       »  4 —

  SOTTO I TORCHI
  L’anello di Salomone.



Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici.



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