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Title: Cronica di Matteo Villani, vol. V: A miglior lezione ridotta coll'aiuto de' testi a penna
Author: Villani, Matteo
Language: Italian
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VOL. V ***


                                CRONICA

                                   DI

                                 MATTEO
                                VILLANI


                       A MIGLIOR LEZIONE RIDOTTA
                               COLL’AIUTO
                           DE’ TESTI A PENNA

                                TOMO V.



                                FIRENZE
                             PER IL MAGHERI
                                 1826.



LIBRO DECIMO


CAPITOLO PRIMO.

_Il Prologo._

La superbia, la quale prima nel cielo mostrò la sua malizia, se nelle
menti terrene si trova non è da maravigliare, considerato che l’umana
natura indebilita per lo peccato del primo uomo è ne’ vizii inchinevole
e pronta. Questo peccato quanto sia grave, e quanto sia in ira di
Dio, per lo suo fine l’ha sovente mostrato; porne alcuno esempio in
nostri ricordi forse non fia da biasimare, se non da coloro che per
morbidezza d’animo sono amatori delle brevi leggende, o da coloro che
per tema di spesa veggendo la moltitudine de’ fogli non osano fare
scrivere. Serse re d’Asia, avendo avuto più tempo nelle guerre prospera
e felice fortuna, insuperbito, lo mare coperse di navi, e intra Sesto
e Abido, due isolette di mare, per pomposa memoria di suo innumerabile
esercito sopra le navi fè ponte, e a riceverlo tutta la Grecia non
parea sofficiente, nè a ricevere nè a pascere la sua brigata; e infine
da poca gente vituperato e sconfitto, e in uno piccolo legno tornò in
suo paese morta tutta sua gente. Sennacherib maravigliosamente esaltato
per beneficio della ridente fortuna, con l’animo altero montò sopra
le stelle spregiando gli Dii, e massimamente quello degli Ebrei, come
se fossono minori e meno possenti di lui; costui veggendo l’esercito
suo tagliato, vilmente fuggì, e nel tempio degl’Idoli suoi da’ suoi
proprii figliuoli vilmente fu tolto di vita. Dario re potentissimo, più
volte sconfitto dalla poca gente d’Alessandro re di Macedonia, infine
da’ suoi propri congiurenti vilmente fu morto. Ciro re di Persia e di
Media, eccellentissimo di potenza....

_Il codice Ricci è mancante in questo luogo di una pagina, che dovrebbe
contenere il rimanente del Proemio, il capitolo secondo, e il principio
del terzo, e con mio sommo rincrescimento non son riescito a riempire
questa laguna col soccorso di un altro codice, poichè non m’è stato
possibile trovarne copia. La Biblioteca Riccardiana possiede tre
codici di Matteo Villani, e uno la Laurenziana, ma non oltrepassano
il nono libro. Per supplire in qualche modo a questa laguna mi
son servito d’un’Epitome fatta da Domenico Boninsegni delle storie
fiorentine di Giovanni, Matteo e Filippo Villani, che si conserva nella
Biblioteca Laurenziana, e che un giorno faceva parte della Biblioteca
Mediceo-Palatina, segnato di num. 160._


CAP. II.

_Dell’atto e rilevato stato della casa de’ Visconti di Milano._

«Più era infocato che mai messer Bernabò nell’impresa di Bologna,
e impuose e trasse da’ cherici del suo tenitorio in tre mesi più di
trecento migliaia di fiorini d’oro, e da’ secolari per nuova imposta
circa trecentosessanta migliaia di fiorini d’oro; e venne in tanta
superbia, forse per lo parentado fatto in Francia, che nessuno accordo
si potè trovare tra lui e ’l legato, nè per il gran siniscalco nè
altri, usando di dire, che non temeva potenza di signore terreno
che gli potesse trarre Bologna di mano, e molto sparlando contra il
legato. Ma per lo contrario il legato ricorse all’aiuto di Dio, e per
comandamento del papa a ogni prete d’Italia fece fare in ogni messa
dietro al _Pater noster_ speziale orazione de’ fatti di Bologna, e
mandò al re d’Ungheria per gente, ed ebbe da lui duemila Ungari bene
capitanati, e poi tremila di loro volontà, e subito furono in Lombardia
e in Romagna al servigio del legato.»


CAP. III.

_Del pauroso e vile partimento dell’oste di messer Bernabò da Bologna._

«Per la venuta di questi Ungari, e per l’operazione d’Anichino di
Bongardo, entrò paura alle genti di messer Bernabò per modo che non
ubbidivano al capitano, e tutto dì si fuggivano; per la qual cosa al
capitano» montata la paura, vedendo partire l’un l’altro, e non sapendo
il perchè, chè per la forza e autorità che ’l capitano avesse non gli
potea ritenere; onde vedendosi il capitano a questo pericolo richiese
Anichino che lo accompagnasse infino valicato Bologna verso Modena, e
avuta la compagnia, volendo da sè fare buona condotta, fu costretto da’
vili d’andarsene di notte sconciamente abbandonato il campo con assai
fornimento e arnesi, e campati per lo beneficio della notte valicarono
Castelfranco, ove s’arrestarono per non parere rotti, e ivi la mattina
fermarono il campo; e stativi pochi dì, il primo d’ottobre valicarono
a Modena, e tornarsi con gli orecchi bassi al loro signore, il quale
quasi arrabbiato più dì stette rodendo in sè medesimo il suo orgoglioso
furore, acciocchè riposatamente ai forestieri dimostrasse, ch’alla
festa si ragunavano, per magnanimità questa cosa avere per niente,
ed essere intervenuto per lo peggiore del legato, come di sua bocca a
molti pronunziò.


CAP. IV.

_Come i Bolognesi assalirono e presono tre bastite._

Sentito in Bologna la vile partita dell’oste di messer Bernabò, tutto
che ancora del tutto non fosse del Bolognese partito, il popolo prese
cuore, e per lo essere tenuto affamato, furioso, giusta la sentenza
di Lucano che dice, che il popolo digiuno non sa che sia il temere,
straboccatamente e senza aspettare condotta o regola uscì di Bologna,
e con grand’ardire assalì la bastita che guardava verso Romagna, e
quella aspramente combattendo e con grida ch’andavano al cielo ebbono
per forza, e tagliati e fediti molti di quelli ch’erano alla difesa
la rubarono e arsono, e con quell’empito e gloria corsono ad altre
due, e per simile modo l’ebbono, rubarono e arsono. Quando giunsono
a quella di Casalecchio in sul Reno trovarono il becco più duro a
mugnere, perocchè era ben guernita di gente da piè e da cavallo, e dato
di cozzo in essa con loro dammaggio si ritornarono a Bologna, nullo
assedio lasciato alla bastita: onde que’ d’entro scorreano fino alle
porti di Bologna facendo danni, nondimanco aperti i cammini di Romagna
cominciarono a venire della roba a Bologna; e dagli Ungheri i quali
alloggiati erano fuori della città tenuti erano a freno quelli della
bastita da Casalecchio, e in Romagna s’apparecchiava grande carreggio e
salmeria di vittuaglia per conducere in Bologna alla venuta del legato.


CAP. V.

_Certo trattato fatto a corte tra il papa e gli ambasciadori del re
d’Ungheria._

In questo mese di settembre furono in Firenze tornati di corte di
Roma gli ambasciadori del re d’Ungheria, e andaronne al re, avendo
impromesso al papa, in quanto il bisogno occorresse, che la persona del
re d’Ungheria verrebbe incontro al signore di Milano con patto, che
ciò che egli acquistasse delle terre de’ detti signori, fossero sue
ed egli avea fatto dire al papa che con meno di diecimila cavalieri
non potrebbe venire, ed era in accordo d’avere ogni mese fiorini
quarantamila d’oro, de’ quali dovea avere dalla lega de’ Lombardi sotto
il titolo di Genovesi fiorini sedicimila, e fiorini quattordicimila
dovea pagare il legato traendoli della Marca e del Ducato, del
Patrimonio e di Romagna, e diecimila ne dovea mettere la camera del
papa. La cosa fu divolgata per tutto, ma i signori di Milano poco se ne
curavano, s’altra fortuna non avesse barattata loro intenzione.


CAP. VI.

_Dell’avvenimento del legato a Bologna._

Partita l’oste di messer Bernabò dall’assedio di Bologna, il legato
fatto conducere di Romagna in Bologna molta vittuaglia, e fatta
la condotta degli Ungheri, col grande siniscalco del Regno, e con
messer Malatesta e altri valenti uomini della Romagna e della Marca,
all’entrata d’ottobre del detto anno entrò in Bologna, dove da’
Bolognesi fu ricevuto a gran festa e onore, e prestamente intese a
ordinare e riformare e la guardia e il reggimento della città, e i
fatti della guerra contro a’ nemici suoi, non come prelato, ma come
esperto e ammaestrato capitano di guerra cominciò a trattare, come
conseguendo l’opere sue ne dimostreranno.


CAP. VII.

_Cominciamento della nuova compagnia d’Anichino di Bongardo Tedesco._

Levatasi la gente di messer Bernabò del distretto di Bologna, Anichino
di Bongardo Tedesco, non senza infamia d’avere maculata sua fede,
all’entrata d’ottobre s’accolse a Salaruolo presso di Faenza a tre
miglia con ottocento barbute e trecento Ungheri, ricettato dal legato,
e datoli vittuaglia; e sì avea il legato circa a milledugento barbute
e quattromila Ungheri da poterlo prendere o cacciarlo di suo paese,
per la qual cosa assai fu manifesto che il legato per nuovo servigio
gli fosse obbligato: e avvegnachè assai fosse segreto, egli stette
tanto a Salaruolo, che pagati gli furono quattordicimila fiorini,
ovvero genovini d’oro; il perchè egli tantosto crebbe sua compagnia
e di Tedeschi e masnadieri, e di volontà del legato a mezzo ottobre
cavalcò il contado de’ conti d’Urbino; appresso entrò nella Ravignana,
e di là valicò ad Ascoli del Tronto in servigio della Chiesa per certa
rivoltura fatta in quella città contro al legato, e stettono alquanti
dì nel paese, e poi di novembre valicarono il Tronto, e arrestaronsi
nel paese verso Lanciano, ove soffersono lungamente gran disagio,
come al suo tempo diremo. Stando in questa compagnia nel numero di
duemila cinquecento tra Ungheri e Tedeschi, e molti fanti a piè nella
Ravignana, e dando boce di valicare da Firenze, i Fiorentini ne tennono
consiglio, e infine deliberaro di provvedersi alle difese, e imposono
per legge personale a chi consigliasse, trattasse o parlasse occulto
o palese del prender accordo alcuno con la detta compagnia: e ciò fu
assai utile cagione e materia a tutti i Toscani, perocchè le compagnie
vanno cercando chi fugga e fannone preda, e fuggono le resistenze,
perocchè dove e’ le trovano non possono durare, nè trarne furtivo
guadagno.


CAP. VIII.

_La rivoltura d’Ascoli della Marca_

Ascoli della Marca era all’ubbidienza del legato, e Leggieri
d’Andreotto di Perugia v’era alla guardia per la Chiesa, e di fuori
n’erano ribelli l’arcidiacono e messer Filippo.... con altri molti di
loro animo e volere; costoro del mese di settembre detto anno accolta
gente in loro aiuto rientrarono nella città, e trovando il seguito
d’assai cittadini corsono alle case de’ loro nemici, e uccisonne
ventidue; gli altri che poterono campare s’uscirono della terra, e
Leggieri d’Andreotto fu preso, e tanto ritenuto, che quivi fece dare
la fortezza che v’era per la Chiesa, dicendo che teneano la città
all’ubbidienza di santa Chiesa, ma che voleano potere stare sicuri
in casa loro. La novella forte dispiacque al legato, e pensossi con
la compagnia d’Anichino farla tornare al suo volere, ma i tornati in
Ascoli di quella poca cura pigliavano; il legato come savio e astuto
s’infinse di non se n’avvedere, perchè mostrando cruccio non si
mettessono a più grave ribellione.


CAP. IX.

_Come a petizione del legato fu preso messer Ridolfo da Camerino._

All’uscita d’ottobre detto anno, messer Ridolfo da Camerino essendo
stato principio col suo consiglio e con le savie e sollecite operazioni
di sua persona di vincere e riducere i Malatesti all’ubbidienza del
legato, ed appresso continovato intorno a’ fatti di santa Chiesa
operazioni leali e degne di merito, tanto seppe operare messer
Malatesta, ch’era divenuto il più segreto consiglio ch’avesse il
legato, che ritornandosi messer Ridolfo da Bologna a Camerino, e
capitato nella città di Fermo, invitato da messer Giovanni da Oleggio
marchese della Marca, e fattali allegra accoglienza, come ebbe
mangiato, prendendo da lui messer Ridolfo congio, fugli detto ch’era
prigione, dicendoli messer Giovanni, che ciò gli convenia fare contra
suo grado per mandato del legato, e mostrò le lettere che mandate gli
avea. Il valoroso cavaliere messer Ridolfo niente per tale presura
sbigottito, il fece di presente sapere a’ suoi, dicendo, ciò essere
senza niuna sua colpa, e confortando che di lui nessuna minima cura
prendessono, e che nè per minacce nè per tormenti, nè per morte che
a lui data fosse, nè di loro terre nè di loro giurisdizione dovessono
dare per ricomperare la vita sua, e ciò, come cara avessono la grazia
sua. I fratelli teneri di tanto uomo, e ubbidienti a lui, con i sudditi
loro feciono consiglio, i quali loro offersono quarantamila fiorini
i quali di presente impuosono tra loro, e fornirsi di gente d’arme, e
intesono a buona guardia, e al legato mandarono ambasciadori per sapere
che ciò volea dire. Di tale presura il legato forte fu biasimato da
tutta maniera di gente, e quale che si fosse il suo movimento, altro
non se ne manifestò che detto sia, ma valicato il mese di sua presura
il legato il fè diliberare: messer Ridolfo senza tornare al legato
sdegnoso e pieno d’ira e di mal talento si tornò a Camerino.


CAP. X.

_Del maestrevole processo del legato co’ suoi Ungari in questo tempo._

Era, come addietro è detto, capitano degli Ungari il maestro Simone
conte, e il legato avea condotto con tremila Ungari, e gli altri
Ungari con alcuna provvisione nutricava: il maestro Simone in segreto
con gli Ungari ch’erano di fuori s’intendea e con quelli ch’erano
seco, e come era con loro fuori di Bologna gli mantenea quasi in
discordia col legato rubando i Bolognesi come nemici, e facea alla sua
gente usare parole, nelle quali lodavano messer Bernabò, e dicevano
sè essere al servigio suo, biasimando il legato: per tale astuzia
si divolgò per tuttochè gli Ungari erano rivolti dal servigio della
Chiesa. E continovando la cosa in questa contumacia, e messer Bernabò
veggendosi avere fatte disordinate spese nella guerra, e vedendosi al
cominciamento del verno, cominciò a cassare de’ suoi cavalieri, i quali
nel suo paese s’accoglieano col grido di fare compagnia; e maestro
Simone con i suoi Ungari scorreano in preda in guisa di compagnia,
senza gravare i paesani come nemici: e nondimeno il legato mantenea
l’oste alla bastita di Casalecchio, e mostrava di volere rivocare gli
Ungheri a sè per la fede avea avuta dal re d’Ungheria, e mostrava
di mandare lettere perchè il re rinfrenasse gli Ungheri, che non
trasandassono contro a santa Chiesa.


CAP. XI.

_Come s’ebbe per i Bolognesi la bastita di Casalecchio sopra il Reno. _

Essendo la bastita fatta per l’oste di messer Bernabò sopra il Reno
luogo detto Casalecchio lungamente tenuta in grande confusione de’
Bolognesi, avendo per quella tolta l’acqua delle mulina di Bologna, ed
essendo presso alla terra luogo forte e ben fornito, facea continua
e tediosa guerra infino alle porti. Partita l’oste del Biscione,
non potendola i Bolognesi avere per battaglia, l’assediarono, e
sopravvenendo i difetti dentro, e non essendo soccorsi da messer
Bernabò, furono costretti d’arrendersi, e fatto il patto salvo le
persone, a dì 11 di novembre detto anno s’arrendè, e gli Ungari pronti
e con più forza la presono, e mostrarono di volerla tenere per loro
contro la volontà del legato; e mostrandosi la riotta grande tra il
legato e gli Ungari per la bastita, il legato fece venire lettere dal
re a maestro Simone comandandoli che rendesse la bastita al legato,
e che non si partisse dal suo volere. E fatto questo comandamento la
bastita fu renduta a’ Bolognesi, e maestro Simone di nuovo condotto
con mille Ungari, e gli altri furono licenziati; e partitisi di là per
fare compagnia, arrestandosi tra Bologna e Imola, avendo la vittuaglia
dal legato: e fatta questa dissensione, messer Bernabò prese fidanza,
e cassò più di sua gente, sicchè al bisogno non potè riparare agli
Ungari, come seguendo nostro trattato diviseremo.


CAP. XII.

_ La venuta a Giadra del re d’Ungheria e della moglie._

In questi tempi lo re d’Ungheria non potendo avere figliuoli della
reina sua moglie, alla quale portava grande amore, avvegnachè figliuola
fosse d’un suo suddito barone, a lui e a tutto il regno ne parea male,
che trascorresse il tempo senza speranza d’avere successore e di lui
erede nel regno. E la moglie medesima per l’amore che portava al re
n’era in afflizione, e ben disposta di fare ciò che piacesse di sè e
ch’ella potesse perchè al suo signore non mancasse rede, sentendosi in
istato da non potere portare figliuoli, e per questa cagione si disse
palese che il re e la reina erano venuti a Giadra, e là dimorarono
parecchi mesi facendo edificare un grande e nobile munistero a onore
di santo..... nel quale si dicea che dovea con la dispensazione di
santa Chiesa entrare la reina in abito e stato monachile, e lo re dovea
potere torre altra donna. Se ciò fu vero, l’amore della donna lo vinse,
e solo la fama della volontà rimase.


CAP. XIII.

_La presa di Gello fatta per quelli di Bibbiena, e la compera ne fece
poi il comune._

Gello è un bello castelletto presso a Bibbiena a due miglia, e possiede
buoni terreni. Messer Luzzi figliuolo bastardo di messer Piero Tarlati
l’avea lungo tempo occupato all’abate di Magalona, e rispondevali
certa cosa per anno. I fedeli occupati vedendo loro tempo per uscire
di servaggio, diedono il castello a coloro ch’erano in Bibbiena per
i Fiorentini all’entrata del mese di novembre, e accomandaronsi al
comune. Messer Luzzi in questo dì era accomandato de’ Sanesi, i quali
mandarono ambasciadori a Firenze, e tanto operarono, che ’l comune
a dì 15 di gennaio detto anno per riformagione di consigli diedono a
messer Luzzi per compera del castello di Gello fiorini milledugento, ed
egli fece consentire all’abate; e le carte fece ser Piero di ser Grifo
notaio delle riformagioni del comune di Firenze.


CAP. XIV.

_Come il comune di Firenze mandò ambasciadori al legato e a messer
Bernabò per trattare accordo._

Essendo l’impresa di Bologna barattata nelle mani di messer Bernabò
per altro modo che non istimava, e ripiena d’Ungheri la Lombardia,
il comune di Firenze avvisando che tempo fosse atto a trovare via
d’accordo, mandò di novembre di detto anno a smuovere il legato a
lasciare trovare modo alla concordia, lo quale trovarono in vista e
nelle parole bene disposto, e però andarono a Milano a messer Bernabò,
e cercato più volte di poterli parlare, non poterono da lui in Milano
avere udienza, perocchè la notte innanzi mattutino messer Bernabò era
a cavallo e andava alla caccia, e la sera tornava tardi, e non dava
udienza, perchè convenne che la notte il seguitassono sponendo loro
ambasciata, e cavalcando forte il signore senza arrestarsi, e non
di meno parea desse speranza al trovare de’ modi; e così seguì più
dì senza avere udienza altro che cavalcando, sopravenne quello, che
il legato trattò co’ suoi Ungheri, come appresso diviseremo; per la
qual cosa sdegnato messer Bernabò non volle più udire da quella volta
innanzi gli ambasciadori di Firenze, e senza onore si ritornarono al
loro comune.


CAP. XV.

_Come il legato mandò gli Ungari sopra la città di Parma._

Il valente legato conoscendo l’animo di messer Bernabò niuna fede
prendea di lui, e avendo lungamente dimostrato discordia con gli
Ungheri come narrato avemo, e sentendo inverso Reggio mille barbute
casse da messer Bernabò, con l’aiuto di messer Feltrino da Gonzaga
per certa provvisione le condusse, e improvviso a tutti in una notte
fece pagare per certo tempo gli Ungari ch’avea cassi e quelli ch’avea
condotti, e mostrando d’andarsene gli Ungari di verso Ferrara, avendo
avuta la licenza del passo, si rivolsono, e valicarono Modena e Reggio,
e furono prima in sul Parmigiano, ch’alcuna novella n’avessono avuta
i paesani, e per questo improvviso corso feciono di bestiame grosso e
minuto preda senza misura. E appresso agli Ungari vi mandò il legato
messer Galeotto con mille barbute, e a lui feciono capo l’altre mille
condotte a Reggio per modo di compagnia, valicarono la Fossata, e poi
il fiume della Parma, e stettono in larga preda più di venticinque dì,
perocchè per comandamenti di messer Bernabò il paese non era lasciato
sgombrare. La stanza e la ritornata fu senza contasto, e a Bologna
si ritornarono a dì 11 di dicembre, con fama d’avere avuti danari da
messer Bernabò; per la qual cosa il capitano degli Ungari tornato poi
in Ungheria dal suo signore fu messo in prigione.


CAP. XVI.

_Della presura del conte da Riano._

Il re Luigi avendo sentito come Anichino di Bongardo con la sua
compagnia s’avviava nel Regno, o che ’l conte da Riano gli fosse di
ciò infamato, o ch’egli avesse sospetto di lui, lo fece mettere in
prigione, con minacce di farli torre la persona. Il conte si sentia
senza colpa, e non temea, confidandosi nella verità, e nel grande
parentado che avea con i maggiori baroni del Regno, i quali riprendeano
il re di quella presura, per la quale non piccola dissensione era nel
reame, e per l’aspetto della compagnia, e ancora perchè il duca di
Durazzo non si fidava del re; e il gran siniscalco si stava a Bologna,
e mostrava non curarsi di ritornare nel Regno, accortosi che ’l re
avea troppa fede data ai baroni ch’erano a lui in contradio. Lo re non
era sano, e il prenze perduto per le donne e per lo vino dalla cintura
in su, e per queste cagioni il re sollecitava con lettere il gran
siniscalco che tornasse a lui, ed egli sostenea per soccorrere al tempo
del gran bisogno, e per fare ricredenti gli avversari suoi, come poscia
addivenne.


CAP. XVII.

_Come la compagnia d’Anichino sostenne fame all’entrata del Regno._

Anichino di Bongardo con la sua compagnia essendo valicato nel
Regno, tentato l’andare all’Aquila, e trovato i passi forniti alla
difesa, fu costretto arrestarsi del mese di novembre, essendo i passi
stretti e male agiati di vittuaglia, verso Lanciano, per la qual cosa
soffersono gran fame e assalto a’ passi da’ paesani, onde in quel
luogo perderono circa a ottocento tra cavalieri ungari e masnadieri;
e non potendo in quel paese acquistare se non fame, presono la via di
verso la Puglia, e all’entrata di dicembre furono in Giulianese: le
terre trovarono afforzate e sgombro il paese, sicchè poco di preda vi
poterono avanzare, nondimeno gli Ungari e i soldati cassi nel paese di
là seguivano la compagnia sentendosi entrare nel Regno, e accrescevanle
forza.


CAP. XVIII.

_Come messer Cane Signore rimandò la moglie che fu di messer Cane
Grande al marchese di Brandisborgo._

Morto messer Gran Cane dal fratello, e tornato messer Cane Signore
in Verona, presa la signoria dopo il lamento fatto della morte del
marito, la donna che fu di messer Gran Cane sirocchia del marchese
di Brandisborgo con disonesta fama di messer Cane Signore lungamente
contro suo volere fu ritenuta in Verona. E in quei giorni addivenne,
ch’a un parlamento fatto dai principi d’Alamagna con l’imperadore, il
marchese di Brandisborgo si dolse dell’oltraggio fatto alla sirocchia
per messer Cane Signore; onde dall’imperadore e dagli altri principi
d’Alamagna fu confortato ch’attendesse a vendicare sua ingiuria,
promessogli fu in ciò loro aiuto. Come ciò pervenne agli orecchi
di messer Cane Signore cagione gli fu di rendere la donna, la quale
rimandò del mese di novembre detto anno con quello onore e con quella
compagnia ch’a lui piacque infino fuori de’ suoi confini, e quivi
trovato di sua gente che gli si faceano incontro la lasciarono, udendo
minacce grandi contro al signore loro. Il detto duca fece partire di
suo paese tutti i sudditi del signore di Verona, e a tutti vietare le
fiumane e’ passi come a suoi nimici.


CAP. XIX.

_Come la compagnia d’Anichino di Bongardo prese Castello san Martino._

Essendo di Giulianese entrata la compagnia nel distretto del duca
di Durazzo, avendo difetto di pane, e mostrandolo maggiore, quelli
di Castello san Martino essendo molto forniti di vittuaglia, per
ingordigia del prezzo i villani di quello cominciarono a vendere
il pane un gigliato. La gente d’arme maliziosa e cauta, veggendo i
villani allargarsi all’esca del danaio, mandavano a uno e a due nel
castello insieme con le mani piene di gigliati a comperare del pane, ed
eglino si stanziavano di fuori senza fare alcuna guerra al paese; onde
avvenne, che dimesticata la gente matta e avara, per potere vendere più
del pane lasciarono entrare nel castello degli uomini della compagnia,
i quali dato segno a quelli di fuori furono di subito alla porta, e
con quelli d’entro cominciarono la mischia, e cacciarono le guardie
dalla porta, e misono dentro la compagnia, facendo per ciò sussidio
grande al loro stremo bisogno, ch’erano nel dicembre, e per loro non
trovavano pane nè strame per i cavalli, e nel castello abbondantemente
ne trovarono, e pertanto gran parte del verno vi dimorarono sovente
cavalcando il paese, e riducendosi all’ostellagione senza costo loro
con le prede faceano nel paese.


CAP. XX.

_Come il re d’Araona diè per moglie la figliuola a don Federigo di
Cicilia._

Del mese di novembre detto anno, lo re d’Araona diliberò di dare per
moglie a don Federigo figliuolo di don Piero di Cicilia la figliuola,
e a dì 27 di dicembre seguente giunse nell’isola di Cicilia con
quattordici galee ben armate, e fatto porto a Cattania, dove il giovane
re facea suo dimoro, ricevuta la donna con quella festa che far le potè
secondo il suo povero stato la disposò; e pensandosi che le galee de’
Catalani facessono guerra a Messina e all’altre terre del re Luigi,
senza arresto alcuno fornita la festa delle nozze se ne ritornarono in
Catalogna.


CAP. XXI.

_Come messer Bernabò si provvedde per avere gente, nuova per
guerreggiare Bologna._

Messer Bernabò mostrò di non curarsi dell’avvenimento degli Ungheri
e de’ Tedeschi che alquanto del verno stettono sopra le terre sue,
anzi scrisse al legato parole di scherno, volendo mostrare, che quello
che fatto avea tornerebbe tosto in sua confusione. E a certi suoi
confidenti mostrò un grandissimo tesoro accolto di nuovo senza toccare
quello della camera sua, il quale passava il numero di secento migliaia
di fiorini, i quali affermava sè avere diputati per vincere la gara di
Bologna. E per ciò cominciare e con danari e con doni mandò il conte
di Lando in Alamagna a sommuovere baroni e cavalieri a sua provvisione
per averli al primo tempo; il quale trovando che per l’imperadore e per
lo doge d’Osteric, e per lo marchese di Brandisborgo, e per gli altri
principi d’Alamagna fatto era comandamento, che niuno arme prendesse
contro a santa Chiesa, del mese d’aprile seguente tornò con dieci
bandiere di ribaldi, i quali per non avere che perdere non curarono i
comandamenti de’ loro signori, golando il soldo di messer Bernabò. Ora
nel processo nostro per lo verno dando sosta all’altre fortune ci si
apparecchia a narrare cosa spiacevole alla nostra città di Firenze, e
all’altre città a lei vicine.


CAP. XXII.

_Come messer Niccola Acciaiuoli gran siniscalco del Regno venne in
Firenze, e della novità che per sua venuta ne seguio._

Messer Niccola Acciaiuoli fatto per lo legato conte di Romagna e del
suo segreto consiglio, sollicitato dal re Luigi co’ comandamenti, e da’
Fiorentini e dagli altri comuni di Toscana procacciava aiuto contro
alla compagnia d’Anichino; onde egli fatto vececonte in Romagna, e
provveduto d’uficiali alle terre commesse al suo governo per santa
Chiesa, a dì 9 di dicembre venne a Firenze, dove da’ parenti e dagli
amici, e dagli altri cittadini discreti e da bene a grande onore
fu ricevuto. Lo suo dimoro e portamento nella città era onesto e di
bella maniera, mettendo ogni dì tavola cortesemente, e senza alcuna
burbanza, chiamando i cittadini, e i grandi, e i popolari alla mensa,
onorandoli successivamente: e così stando in Firenze, con ogni onesta
sollecitudine che potea procacciava di fornire il comandamento del
suo signore, e richiedeva sovente con riverenza i suoi signori priori
e collegi d’aiuto, e simile in spezialità gli altri cittadini che
in ciò gli prestassono favore. E in questo stante novità occorsono
nella nostra città, che tutta la terra puosono in confusione, come nel
seguente capitolo diremo.


CAP. XXIII.

_Come per sospetto nato nella città di Firenze di messer Niccola
indegnamente egli ne ricevette vergogna._

Anichino di Bongardo, com’è di sopra scritto, e con sua compagnia
era passato nel regno di Puglia, con animo d’offendere il re Luigi a
suo podere, il quale sollecitamente si dava a’ ripari, il perchè il
gran siniscalco n’era venuto a Firenze per avere aiuto, e promessa
avea avuta d’avere trecento cavalieri; or come piacque alla fortuna
occorse, ch’al nuovo priorato, che trar si dovea per legge di comune,
far si dovea lo squittino nuovo de’ priori e collegi, e fallare non
potea che stando messer Niccola a Firenze o vicino non fosse priore,
perocchè nelle borse vecchie niuno v’era rimaso se non egli, e delle
nuove trarre non si potea se non si votasse le vecchie, ed egli a
ogni nuovo priorato era tratto, e rimesso per assenza: il caso che
parea appensato, e l’uomo per la grandezza sua nella città per tema di
tirannia verisimilmente sospetto, con assai colorata credenza facendo
i governatori della città fortemente sospettare, e mormorio n’era tra
loro, il quale per lo procaccio si stendea nel volgo, e se ne parlava
e in piazza e a’ ridotti, ma per quello che veramente sentimmo l’animo
del nobile cavaliere della detta intenzione era tutto rimoto, e per
tanto per quetare il mormorio sollecitava d’avere la gente dell’arme
che il comune gli avea promessa, e proposto s’era al tutto nell’animo
che se necessario caso l’avesse ritenuto di renunziare l’uficio.
Occorse in quei giorni, che licenziandosi i nostri ambasciadori dal
legato di Spagna, il quale come di sopra è scritto presa avea la
signoria di Bologna, ed egli avendo l’uno di loro conosciuto per uomo
grave e intendente e d’autorità, e a cui molta fede era data nel suo
comune, avanti che a loro desse il congio, quel tale segretamente
chiamò nella camera sua, e datali la credenza, prima gli rivelò come
certamente sentia che in Firenze era trattato e congiura per sovvertere
lo stato loro. Il discreto e accorto ambasciadore gli rispuose,
che tale credenza tenendola a lui era pericoloso, e simile al suo
comune, e che per tanto a lui piacesse che a’ suoi signori il potesse
manifestare, non domandando come savio più oltre, per non avere materia
d’abominare i suoi cittadini, senza i quali non pensava ragionevolmente
potere essere trattato. Lo cardinale non glie n’aperse più, ma
gli concedette licenza che di quello che detto gli avea ne facesse
fede a’ signori suoi come gli avea domandato. Per la rivelazione di
costui generale e oscura il sospetto preso di messer Niccola crebbe a
maraviglia, e in tanto, che senza niuno intervallo di tempo provvisione
si fè, la quale in effetto contenne, che niuno ch’avesse giurisdizione
di sangue, o sotto sè città o castella non potesse essere all’uficio
del priorato: ma per non fare più vergogna al valente cavaliere
trovandosi egli alla tratta de’ nuovi priori, affrettarono di dare
la gente promessa perchè avesse onesta cagione di partirsi, il quale
avendo ricevuto la gente, al modo del buono Scipione Affricano per
liberare dal sospetto la patria e sè da vergogna, con la gente datagli
di presente prese viaggio, e giunto a Siena, e appresso a Perugia,
loro in nome del re Luigi richiese d’aiuto, e altro che belle parole
non ne potè riportare. In questo fortunoso ravviluppamento assai per
li savi non odiosi si comprese della magnanimità del gran siniscalco,
perocchè nè in atto nè in parole in lui veruno turbamento si vide o
sentì, ma piuttosto tranquillità d’animo, quasi come se ciò s’avesse
recato a onore che in tanta città fosse preso che tanto animo avesse: e
tutto che per lo trattato che poco appresso si scoperse si manifestasse
l’innocenza sua e purità d’animo, non di meno la legge rimase, e fu
riputata utile e buona, perchè si dirizzava a conservamento di libertà,
la quale in questo mondo certano è riputata la più cara cosa che sia.


CAP. XXIV.

_Come si scoperse congiura di certi cittadini di Firenze, e trattato
per sovvertere lo stato che reggea._

Vedendosi manifesto per ogni qualunque intendente, che la legge fatta
in favore della parte, tutto ch’ad altro fine fosse principiata, era
in sè utile e buona ma male praticata, e che coloro che ne doveano
secondo il proponimento di coloro che l’aveano creata essere disfatti
n’erano sormontati e aggranditi, e che la città n’era in molte parti
stracciata e divisa, e di male talento piena ne stava in tremore e
sospesa, e’ rimedi sufficienti al male non si vedeano, e se si vedeano
erano posti a silenzio, il perchè quasi per una boce comune forte si
dubitava di cittadinesca commozione. Ed era per certo da dubitare,
come l’esperienza poco appresso ne fè manifesto, perocchè tale mala
disposizione conosciuta da certi cittadini mal sofferenti e d’animo
grande, e che mal contenti viveano, massimamente veggendo alzare
troppo i loro avversari, e da certi che per ammunizione erano a loro
parere contra ragione offesi, ed eranne poco pazienti, loro diede
audacia e materia di cercare novità, e gli mosse a congiura, e in una a
cercare de’ modi e delle vie da levare dello stato coloro i quali per
loro nemici teneano. Costoro loro capo feciono Bartolommeo di messer
Alamanno de’ Medici, uomo animoso troppo, e che si sarebbe messo a
ogni gran pericolo per abbattere gli avversari suoi; al quale parendo
che il tempo abile a ciò fare fosse venuto, riscaldato e sollecitato
da Niccolò di Bartolo del Buono, e da Domenico di Donato Bandini, i
quali erano stati ammuniti e levati dagli ufici e onori del comune come
sospetti della parte, non perchè fossono, ma per operazione di chi gli
avea con quel bastone voluti fare ricomperare, ristrettosi con loro,
cominciarono segretamente a cercare de’ modi e delle vie da pervenire
all’intento loro: e così cercando, trovarono che Uberto d’Ubaldino
di messer Uguccione Infangati, uomo cupido e vago di novitadi, e atto
assai a dovere e potere cercare, e avendo rispetto al male disposto e
intrigato stato della città, come per quella scritta avemo di sopra
comprendere si può, per suo proprio movimento, e senza averne con
alcuno conferito, sotto la speranza d’avere il seguito de’ malcontenti,
de’ quali allora il numero era grandissimo ogni ora che gli avesse
richiesti, avea tenuto trattato con uno Bernarduolo Rozzo Milanese,
il quale era cameriero di messer Giovanni da Oleggio de’ Visconti per
allora signore di Bologna, e stato era suo tesoriere, uomo sagace,
astuto e d’animo grande, il quale entrato n’era in ragionamento col
detto messer Giovanni, mostrandoli per assai belle e apparenti ragioni
come se volea il potea fare signore di Firenze. Il tiranno giusta
il costume de’ tiranni vi prestò l’orecchie, ma infra il tempo per
necessario caso occorse ch’esso tiranno per lo migliore suo s’accordò
con la Chiesa, e rendè Bologna a messer Egidio d’Albonazio di Spagna
cardinale e legato di santa Chiesa nelle parti d’Italia, il perchè il
trattato cominciato per messer Bernarduolo Rozzo si rimase. I predetti
Bartolommeo, Niccolò, e Domenico avendo segretamente odorato che per
Uberto si cercava rivoltura di stato, e che per tanto verificando
il titolo e nome della famiglia sua s’era Infangato, tutto che il
modo e le persone con cui trattava non sapessono, conoscendolo uomo
sufficiente e atto a fornire delle intenzioni loro, e di quello che
loro andava per l’animo, e stimando che per l’errore già commesso per
lui loro dovesse essere fedele, lo tirarono ne’ loro segreti consigli,
e intorno a loro impresa gli dierono faccenda e pensiero, con dirli
cercasse consiglio e aiuto pronto col quale loro intenzione potessono
fornire. Parendo a Uberto che i suoi vecchi pensieri fossono di nuovo
appoggiati e di consiglio e di forza, senza ai suddetti niuna coscienza
farne col detto Bernarduolo Rozzo ricominciò il vecchio trattato,
parendoli avere migliorato condizione, offerendoli al servigio
sufficiente seguito a fornire il cominciato trattato con lui, e diedeli
certe scritture di sua testa compilate, dove soscritto apparea non
piccolo numero di cittadini e grandi e popolani, e de’ maggiori e de’
mezzani e de’ minori, tutti persone e da nome e da fatti. Il detto
Bernarduolo, parendoli avere in mano la detta cosa per fornita, di
tanta audacia e presunzione fu, che avendo cercato questa faccenda
con messer Giovanni da Oleggio, e veggendo che sua intenzione gli era
faltata per lo dare che fatto avea di Bologna a santa Chiesa, fu di
tanta audacia e presunzione, che sentendo il cardinale di Spagna uomo
d’alto animo, fattivo e cupido di fama mondana, e desideroso oltre a
modo di temporali signorie, e per tanto quasi senza considerazione,
e per tanto di grandi imprese lo richiese, mostrandoli, che senza
niuno dubbio con poca spesa e fatica potea essere signore di Firenze.
Il legato, tutto fosse cupido e animoso, era savio e temperato, e
conoscea che fallandoli l’impresa potea essere il suo disfacimento,
e promessa credenza di tutto, il trasse fuori di pensiero de’ fatti
suoi; poi come detto è di sopra a uno degli ambasciadori fiorentini il
detto cardinale in genere revelò che trattato era in Firenze. Nè però
ristette Bernarduolo di cercare, e seguendo la via cominciata, portò il
trattato a messer Bernabò, il quale mostrò d’averlo caro e accetto, ma
come signore di grande sentimento e pratico delle baratte del mondo,
non parendoli che la cosa dovesse avere effetto, secondo l’offerte
che gli erano fatte dava e toglieva parole e tenea in tranquillo,
mettendo per lunga via la mena, e per simile il detto Uberto dicea
ai detti Bartolommeo e i compagni che cercava cose ch’anderebbono
a loro intenzione, ma che per ancora non avea tanto che loro niente
effettualmente ne potesse dire.


CAP. XXV.

_Come si scoperse il trattato che era in Firenze, e certi ne furono
puniti._

Mentre le dette cose si cercavano per Bernarduolo, parendo ai detti
tre Bartolommeo, Niccolò e Domenico, che ogni piccolo indugio loro
fosse pericoloso, poichè incominciato aveano, e temendo che lunghezza
di tempo non impedisse, e scoprisse quello che intendeano di fare,
sollecitavano continovamente, e un’ora non si lasciavano fuggire di
mano, pensando dì e notte de’ modi come loro proponimento potessono
fornire, intra i quali uno loro ne cadde nell’animo, il quale poi si
conobbe sufficiente a muovere scandalo grande e pericoloso, ma non
a terminare secondo il concetto dell’animo loro; e per mandarlo ad
esecuzione. I detti caporali con inventivi modi e argomenti sottili
e sagaci trassono in loro congiura e trattato messer Pino di messer
Giovanni de’ Rossi, Niccolò di Guido da Sanmontana de’ Frescobaldi,
Pelliccia di Bindo Sassi de’ Gherardini, Beltramo di Bartolommeo
de’ Pazzi, Pazzino di messer Apardo Donati, Andrea di Pacchio degli
Adimari, Luca Fei, Andrea di Tello dell’Ischia (questi ultimi due
per molti si tenne che senza colpa fossono messi nel ballo) e frate
Cristofano di Nuccio de’ monaci di Settimo, il quale era stato
lungo tempo alla guardia della camera dell’arme, e quindi per alcuno
procaccio d’altrui era stato rimosso: di molti altri si disse, ma non
si trovò esser vero, e se fu, si tacque, e ammorzò per lo migliore, e
per fuggire disordinato fascio, ma agl’intendenti parve, non essendo
matti i detti nominati di sopra, sì grande tentamento dovesse avere
maggiore appoggio e sequela e nel numero. La motiva loro fu più per
odio e nimistà speziale che vogliosamente portavano a certa famiglia
di popolari grandi e in comune, e per levarli di stato e cacciarli,
che per zelo che avessono alla repubblica o ad altri loro cittadini.
L’ordine per i detti dato a fornire loro impresa fu di questa maniera,
che l’ultimo dì di dicembre frate Cristofano, che per le reliquie
del vecchio uficio che gli era stato levato ancora liberamente usava
l’entrata e l’uscita del palagio de’ priori, ed era signore delle
chiavi, dovea segretamente mettere quattro fanti in sulla torre del
palagio de’ signori, e rinchiuderli in una camera che v’è, e non
s’usava, e poi di notte dovea aprire lo sportello della porta del
palagio di verso tramontana, che non s’usava, e mettere quetamente
per quella ottanta fanti, e riporli ivi di presso nella camera dove si
riducono gli uficiali delle castella, ch’allora non vi stava persona,
e la seguente mattina, quando escono i signori vecchi ed entrano i
nuovi, rimanendo dentro un fante solo che serra la porta, mentre che
le dicerie e solennità a tali atti usati si fanno, i detti ottanta
fanti doveano uscire della detta camera, e uccidere o prendere il detto
portiere, e serrare la porta, e salire sul corridoio del palagio, e
con le pietre percuotere chiunque fosse sulla ringhiera, e i fanti
della torre doveano sonare le campane a stormo, e in quell’ora si
doveano muovere i detti congiurati col seguito loro, stimando che molti
cittadini offesi e malcontenti, e quelli che stavano indubbio dello
stato loro traessono a loro, e gli dovessono seguire; con volere che
per altro ordine si governasse la terra, della quale s’immaginavano
essere principali e maestri, com’erano principali della matta impresa,
con mostrare di volere che a neuno fosse fatto oltraggio o torto. Il
pensiere loro fu riputato da molti folle, perchè non avendo altro
braccio, rimaneano in podestà del furore del popolo, se non avesse
consentito al loro movimento. Altri stimavano, che essendo il popolo
confastidiato come detto avemo, e per natura mobile e vago di novità,
e che scorrere si lascia quando è scommosso là dove non possono i savi
stimare, che loro pensiero potesse avere effetto: ma Dio che è guardia
de’ semplici e innocenti, e che talora per rispetto loro tempera
l’ira sua contra i rei, perchè il caso parea come suole fare, o per
fortuna o per privati odii contra loro straboccare, volle si scoprisse
il trattato, e fu in questo modo. Detto avemo come il legato sotto
parole generali avea fatto sentire come nella città era trattato, ma
d’esso non avea dato indizio veruno; e stando per questo i governatori
e i cittadini di Firenze nel tenebroso sospetto, Bernarduolo Rozzo,
che vedea suo ragionamento tornato in fummo, pensò di fare civanza,
e trarre vantaggio delle fatiche che avea ordinato in male operare,
e venuto a Santa Gonda, mandò per uno suo amico della casa degli
Antellesi, e a lui disse, che quando il comune di Firenze gli volesse
dare venticinque migliaia di fiorini, ch’egli manifesterebbe il
trattato, e chi lo conducea. Ciò sentito per i signori, e tenuto
segreto consiglio, per trarre il popolo di periglio, e di sospezione
e paura, diliberarono gli fosse dati danari, e alla promessa d’essi
s’obbligarono i signori, e’ collegi, e’ richiesti, e se ne fè scrittura
obbligatoria con saramento, e il pagamento se ne dovea fare in Siena,
manifestato ch’avesse in forma bastevole la verità del fatto. Anzi che
fosse il detto ragionamento fornito, o fattone esecuzione, fu noto
a Bartolommeo che ’l fatto si venia a scoprire, non perchè il detto
Bernarduolo il sopraddetto processo e ordine sapesse, ma che per quello
che tenuto avea con Uberto Infangati sapea i nomi di coloro che sapea
che teneano al suo, si manifestò e aprì a Salvestro suo fratello, e
quello che occultato avea, e a lui e a’ suoi consorti palesò. Salvestro
udito il voglioso e poco savio movimento del fratello, per ricoverare
l’onore suo e della casa sua, che per la detta impresa potea cadere
in sospicione, e per trarre il fratello di pericolo e d’abominio, con
certi dello stato discreti e fidati, e alla famiglia sua, di presente
ne fu a’ signori, e da loro prese sicurtà per Bartolommeo, dicendo,
che da lui avrebbono tanto, che potrebbono trarre di sospetto e di
paura il comune, il quale quasi per lusinghe tirato nel trattato, con
infingere di non sapere se non la corteccia, dissono a’ signori, che
se avessono Niccolò e Domenico di Donato Bandini che ne saprebbono
il tutto, come da’ caporali e guide del trattato; di che i signori di
subito mandarono per loro in forma e in modo, che se si fossono voluti
cessare non aveano il podere, e quelli per loro prima esaminati li
dierono al podestà. Gli altri congiurati sentito questo si cessarono
subitamente; e i detti presi confessato il loro eccesso furono
dicapitati: gli altri nomati, eccetto il detto Bartolommeo, furono
per lo potestà senza vituperevole titolo condannati nella persona. Il
detto Bernarduolo Rozzo, avendo per la detta sua operazione certificato
il comune che ’l suo palesare il trattato era per vendere la vita di
molti cittadini, e non per palesare il suddetto trattato, del quale
niente sapea, fu di tanta presunzione e ardire, che sotto la promessa
di dare al comune scritta di mano propria de’ congiurati, alla quale
erano sottoscritti molti cittadini di loro propria mano, e suggellato
di loro proprio suggello, domandò ed ebbe fidanza di venire a Firenze,
e a’ signori la detta scritta diede, la quale si trovò essere di mano
d’Uberto Infangati, fittamente e coloratamente composta, secondo che
fuori n’uscì la boce, se vera fu, o no. Ragunato il consiglio, _coram
omnibus_ la scritta fu arsa senza altrimenti farne dimostrazione. A
Bernarduolo Rozzo furono donati cinquecento fiorini d’oro, e tratto
del nostro contado dato gli fu il congio. La legge, ch’era stata in
gran parte cagione e materia di tanto male, e peggio per l’avvenire
promettea, per tutto ciò ammendata non fu, nè regolata nè aggiustata in
niuna sua parte.


CAP. XXVI.

_Come si comperò Montecolloreto, e la giurisdizione di Montegemmoli
dell’Alpe per lo comune di Firenze._

Ottaviano e Giovacchino figliuoli di Maghinardo e Albizzo degli
Ubaldini, essendo male in accordo co’ figliuoli di Vanni di Susinana,
e con gli altri Ubaldini teneano Montecolloreto, e possedeano l’Alpi
con millecinquecento fedeli e’ fitti perpetui, e costoro cercavano
di volere vendere Montecolloreto e l’Alpe, e le ragioni ch’aveano in
Montegemmoli, e in Cornacchiaia e nell’altre villette dell’Alpe al
comune di Firenze per loro vantaggio, e dispetto de’ loro consorti.
Il comune intendea alla compera. Gli altri Ubaldini che si teneano
avere ragione nell’edificio di Montecolloreto mandarono a Firenze a
contradire la vendita. La cosa stette lungamente in dibattito, infine
il comune comperò la proprietà da coloro che teneano Montecolloreto, e
tutta l’Alpe, e la giurisdizione ch’aveano i figliuoli di Maghinardo,
e comperò tutti i fitti perpetui ch’aveano nell’Alpe, sicchè il paese e
gli uomini rimasono liberi del comune di Firenze, e i detti Ottaviano,
Giovacchino, e Albizzo, e tutti i loro congiunti e loro famiglie furono
fatti per riformagione del comune, a dì 30 di dicembre del detto anno,
cittadini e popolari di Firenze, e fatte le carte della detta vendita
per ser Piero di ser Grifo delle riformagioni, ed ebbono contanti
fiorini seimila d’oro, com’elli furono in concordia e in patto d’avere
dal comune di Firenze. L’Alpe fu recata a contado, e gli uomini liberi
da’ fitti perpetui.


CAP. XXVII.

_Come una compagnia creata novellamente prese Santo Spirito._

Finite le guerre, e fatta la pace fra i due re d’Inghilterra e di
Francia, tornato il re Giovanni in Francia, e intendendo dolcemente a
rassettare il reame, fece gridare per tutto suo reame che tutta mala
gente si dovesse partire, e sgombrare il suo reame sotto gravi pene;
e per tale cagione diverse compagnie s’adunarono, le quali l’una dopo
l’altra poi trassono ad Avignone. Sicchè dove speranza era che il
re liberasse la Chiesa seguitò il contrario, e più si credette per
tutti che i paesi si posassono, e s’intendesse a’ mestieri e alle
mercatanzie, ma incontanente seguitò in Parigi e nel paese di Francia
grandissima carestia e mortalità, e coloro ch’erano usi in guerra,
e più atti alle prede e alle rapine ch’alle mercatanzie e mestiere,
udito il grido e il comandamento del re in diverse parti s’accolsono
insieme per modo di compagnia, e feciono diversi capitani, e chi vernò
in un paese e chi in un altro alle spese de’ paesani, conturbando le
provincie; e un’accolta si fece verso Lione sopra Rodano, in grasso e
abbondante paese, e ivi stettono senza contasto, e dimorati alquanto
nel paese, si misono verso Lione per valicare in Provenza: il vicario
di Lione coll’aiuto de paesani occuparono i passi, che sono stretti e
forti, e non gli lasciarono passare; e vedendosi la compagnia impedire,
un’altra volta maliziosamente si strinsono sopra Lione, ove tutta la
forza della città e delle vicinanze trassono alle difese, e i capitani
della compagnia aveano fatto eletta di mille barbute, e ordinato quando
la gente traesse a loro che prendessono un altro cammino per l’alpe
della Ricodana, e così fatto fu senza trovare chi loro contradicesse,
e tra il giorno e la notte appresso l’alpe passarono, che di mala via
furono oltre a miglia quaranta, e alla dimane si trovarono nel piano
presso a Santo Spirito in sul Rodano, e quivi per lo freddo sostenuto
la notte con fuochi si ristorarono, e a’ loro cavalli provvidono e a
loro di vivanda per riprendere forza della gran fatica che la notte
per lo gran cammino aveano sostenuta; e ciò fatto, montati a cavallo
si dirizzarono a Santo Spirito, dove trovarono la gente sprovveduta,
e nullo resistente s’entrarono nel borgo. La rocca si tenea per uno
castellano lucchese, e quella col castellano presono: e perchè il fatto
fu incredibile per la fortezza del luogo, molti pensarono che fatto
fosse per ordinamento del Delfino, e perchè il castellano fu lasciato
e poi ripreso ad Avignone, stimossi che il papa il sentisse, e per
lo meno male lo si tacesse. I terrazzani da bene uomini e donne si
ridussono nella chiesa ch’è forte, e aspettando il soccorso de’ vicari
circostanti e dal re di Francia per spazio di sei dì, si patteggiarono
di dare fiorini seimila d’oro, salvo l’avere e le persone: i danari
furono pagati, ma i patti non furono attesi, che tutti furono rubati,
e molte femmine giovani ritenute al servigio della compagnia. Santo
Spirito è vicino ad Avignone a otto leghe di piano. E il nobile ponte
sopra il Rodano di presente occupato fu per quelli della compagnia,
d’onde aveano libera l’entrata nel Venisì, e poteano a loro piacere
cavalcare fino ad Avignone: per tale cagione il papa e i cardinali
ebbono gran paura, e la città tutta prese l’arme serrate le botteghe,
e solo s’intendea a fare steccati e bertesche sì alla città e sì al
gran palagio del papa, e a provvedersi di vittuaglia, e con soldati
s’attendea a buona guardia, e di dì e di notte. E oltre a questa
provvisione il papa bandì la croce sopra la compagnia, credendo subito
avere gran concorso di gente d’arme e da piè e da cavallo, e nullo
si trovò che la prendesse, onde lentamente cominciò a fare gente di
soldo, e fè capitani il cardinale d’Ostia con certi altri prelati, e li
mandò nel Venisì a fornire le castella della frontiera contro i nemici
perchè non potessono stendere nè verso Avignone nè verso la Provenza,
massimamente perchè sentiva che la compagnia era per avere maggior
forza in corto tempo da quelli che rimasi erano di là da Lione. Al
modo delle guerre de’ prelati la boce fu grande, e la difesa fu piccola
quando alla compagnia parve il tempo da valicare, ma per allora essendo
pochi, ed avendo roba assai, gran tempo stettono senza fare cavalcate,
e il ponte afforzarono in forma, che le navi che veniano di Borgogna
ad Avignone con vittuaglia non poteano passare, onde la corte sostenne
grave carestia. Lasceremo per ora questa materia la quale ebbe lungo
processo, e seguiteremo le cose d’Italia, che nel tempo richieggiono il
luogo debito loro.


CAP. XXVIII.

_Come tornati gli Ungari e messer Galeotto da Parma si misono a Lugo._

Tornati gli Ungari del Parmigiano, il legato, perchè non gravassono
dentro i Bolognesi, gli mandò sopra Lugo, dando boce di volere
rivolgere un fiumicello che corre verso Castello san Piero sopra
Lugo; e per fare la mostra apparente ragunò maestri paesani a ciò
fare, e niuno effetto ne seguì. Stando gli Ungari a campo a Lugo
messer Galeotto cavalcò sopra Castelfranco, e mancandogli i soldi
pagati per lo legato agli Ungari e ai soldati, si partirono del detto
mese di gennaio e da Lugo e da Castelfranco, e di loro una parte
dal Biscione prese soldo, ed entrò in Lugo a fare guerra contro al
legato, e alquanti il legato se ne ritenne. Mille o più a piano passo
si dirizzarono in Romagna, e quindi nella Marca vivendo a legge di
compagnia, e parte di loro s’aggiunse alla compagnia del Regno. Poco
appresso il legato s’accordò con quelli ch’erano passati nella Marca, e
di febbraio gli fece tornare sopra Lugo, per rattenere quelli ch’erano
in Lugo dal conturbare la Romagna, ma poco tempo là durarono per la
povertà del legato, ch’avea l’animo grande e la fonda vota.


CAP. XXIX.

_D’alquanti trattati tenuti in diverse parti che tutti si scopersono._

In questi giorni, certi d’una casa di Forlì che si nomava di Capo
di Ferro, i quali il legato avea rimessi in Forlì, con altri loro
amici e congiurati cercarono di mettere una notte in Forlì la gente
di messer Bernabò ch’era in Lugo. Il trattato si scoperse, e furono
presi venticinque cittadini, e trovati colpevoli, due di quelli di
Capo di Ferro ed altri due del mese di gennaio furono decapitati, e
dodici di loro seguito mandati a’ confini. La terra si rassicurò con
sollecita guardia. Seguendo simili cose e’ pare, che quando il verno
non lascia campeggiare la sfrenata rabbia degl’Italiani, non resti
di procurare scandali e commuzioni. I Perugini in questi dì trovarono
certi loro grandi che voleano rompere il popolo, e mutare il reggimento
di quella città, e furono tanto e sì potenti, che scoperto il fatto non
s’ardì a fare punizione. In Siena fu sospetto di mutamento di stato,
e lungamente se ne stette in gelosia e in guardia. In Volterra fu il
simigliante, e con gli ambasciadori del comune di Firenze si quetò la
materia dello scandalo. In Bologna in questo verno si scoperse un altro
trattato, che alcuni cercavano con messer Bernabò, de’ quali erano
due de’ Bianchi caporali, non sapendo l’uno dell’altro. Ed avendo il
podestà condannati Giovanni e Federigo de’ Bianchi nella persona per
questo tradimento, e mandandoli alla giustizia con due altri, il legato
fece liberare Giovanni ch’era meno colpevole, e Federigo e’ compagni
furono decapitati. I Perugini, con trattato ch’aveano con certi loro
sbanditi ch’erano al soldo del signore di Cortona, il doveano fare
uccidere: il fatto scoperto, i traditori furono presi, e fattone quello
che meritavano.


CAP. XXX.

_Come il grande siniscalco fu ricevuto nel Regno, e quello ne seguì._

Per inzigamento di messer Giannotto dello Stendardo, e di messer
Ramondo dal Balzo e de’ seguaci loro, allora governatore del re, messer
Niccola Acciaiuoli gran siniscalco al giudicio de’ cortigiani parea in
poca grazia del re, e giunto in Napoli, e scavalcato al castello del
re, convenne che quel giorno col seguente solo a solo col re dimorasse,
e con lui a quelle cose che nel Regno erano a fare diede il modo, e lo
re lo fè suo luogotenente, e per suo decreto e a’ baroni e a’ popolani
comandamento fece, che ubbidito fosse come la persona sua. Quindi a
pochi dì fatto suo apparecchiamento, colla gente del comune di Firenze
e quella potè avere del paese cavalcò in Puglia verso la compagnia, e
misesi nelle terre vicine alla frontiera loro, e li comimciò forte a
ristrignere di loro gualdane.


CAP. XXXI.

_D’un segno nuovo ch’apparse in cielo sopra la città di Firenze._

A dì 9 di febbraio detto anno, alle quattro ore di notte, in aire
apparve sopra la città di Firenze un vapore grosso infocato di tale
aspetto, che a molti parve che fosse fuoco appresso nella città vicino
a loro vista, e per tanto cominciarono a gridare al fuoco, e le campane
della chiesa di santo Romeo sonarono a stormo, e lungamente, come è
usanza di sonare per lo fuoco; per lo quale romore molti cittadini si
levaro da dormire, e vedendo ch’erano vapori incesi nell’arie uscirono
delle case, e andarono a’ luoghi aperti, e vidono il tempo sereno, e il
lume della luna, e di qua e di là dal vapore sua larghezza rosseggiante
a guisa di fuoco per spazio di miglio, e sua lunghezza di quattro, e
il suo montare alto del basso tanto era, che le stelle si mostravano
in esso come faville di fuoco; e levatosi in distanza alcuna di sopra
a Firenze valicò Fiesole, tenendo forma di ponte da Montemorello a
Fiesole, e poi con assai lento andamento trapassò nel Mugello, e in
un’ora e mezzo consumato si mostrò a coloro che di Firenze n’aveano
aspetto. Di tal segno niuna altra influenza si vide da farne menzione,
se altra per più lunghezza di giorni non dimostrasse, se non alcuno
secco, che danno fè assai alle terre sottili di nostre montagne per
tutto nostro paese.


CAP. XXXII.

_Dimostramento di smisurato amore di padre a figliuolo._

E’ ne parrebbe degno di riprensione lasciando in dimenticanza un caso
occorso in questo tempo, perchè ci pare esempio di mirabile carità
intra padre e figliuolo, ed e’ converso, tutto che apparito sia in
uomini di bassa condizione. Nel contado di Firenze e comune della
Scarperia, villa di santa Agata, uno garzoncello nome Iacopo di Piero,
sprovvedutamente uccise un suo compagno, e ciò fatto, lo manifestò
al padre, il qual turbato gli disse, che subito si partisse, e si
riducesse in luogo salvo, e così fece. Il malifizio fu portato alla
signoria, e incolpato e preso ne fu il padre del garzone, il quale
tormentato, per non accusare il figliuolo confessò sè avere commesso il
peccato all’uficiale della Scarperia, e mandato a Firenze al podestà,
confessando questo medesimo e raffermando, fu condannato nel capo. Il
figliuolo, che segretamente era venuto a Firenze per vedere che fine
avesse, vedendo il padre innocente andare a morire per lo difetto suo,
mosso da smisurato amore da figliuolo a padre, diliberato di morire
perchè il padre campasse, il quale liberamente vedea andare alla
morte per campare lui, con molte lagrime si rappresentò alla signoria,
dicendo: Io sono veramente colui che commessi il peccato; io sono colui
che ne debbo portare la pena, e non per me questo mio padre innocente,
che è tanto acceso di carità verso di me perchè io campi, che soffera
di morire per me. L’uficiale udito il garzone, quasi stupefatto ritenne
e sostenne l’esecuzione che si facea del padre, e trovato la verità
del fatto, il padre fu liberato, e il figliuolo, per la necessità
della corte, a dì 6 di marzo con pietose lagrime a chiunque l’udirono
o vidono fu decapitato. E certo se stato fosse commesso il malificio
senza malizia e casualmente, tanto atto di pietà a un benigno signore
credere si dee ch’arebbe meritato perdono almeno della vita.


CAP. XXXIII.

_Contrario esempio d’incredibile crudeltà di madre._

Avvegnachè quello che segue appresso alla narrata pietà di padre e
figliuolo dopo i sei mesi occorresse, per collazione del bene col male,
volendo operare la sfrenata lussuria operatrice d’incredibile crudeltà
di madre contra figliuolo, contra la forma di nostro ordine giugneremo
i tempi lontani. All’entrata d’agosto detto anno, nella città di
Perugia, una donna di legnaggio non basso avendo avuto d’un onorevole
popolano suo marito un figliuolo di buono aspetto, morto il padre, dopo
certo tempo la donna giovane si rimaritò a un altro cittadino dabbene,
il quale amava il figliastro quanto che figliuolo, sì per l’ubbidienza,
sì per l’industria, sì per li buoni costumi vedea in lui, il quale era
d’età di dieci anni. La madre per disordinata concupiscenza fu presa
dell’amore d’un altro giovane perugino assai accorto e dabbene, e lui
pensò d’avere per marito, e godersi con lui e sua dote, ch’era grande,
e l’eredità del figliuolo, ch’era maggiore, e altro successore non
avea che lei. E con l’adultero tenuto trattato diedono certo ordine
alla morte del figliuolo, che lo dovea la notte strangolare, ed ella
dovea avvelenare il marito; e dato l’ordine, la madre empia mandò il
figliuolo a casa l’amico con certe cose, e gli comandò non si partisse
da lui se non lo spacciasse; giunto il fanciullo al buono uomo, e
datogli quello che gli mandava la madre, con molta purità con istanza
gli domandava d’essere spacciato: vedendo l’uomo la semplicità del
fanciullo, glie ne venne pietà e cordoglio, e gli disse: Vattene a tua
madre, che tempo non è a quello ch’ella vuole. Vedendo la madre tornato
il fanciullo si turbò forte, e lo domandò perchè non l’avea spacciato,
e il fanciullo le fè la risposta. La sfacciata meretrice rimandò il
figliuolo, e gli comandò, che non tornasse a lei, ma tanto stesse,
ch’egli fosse spacciato di ciò che ragionato avea con lui.

Il fanciullo ubbidiente alla madre tornò all’amico di lei, e con
molte preghiere lo richiedea, che fare dovesse quello che la madre
gli avea imposto; ed egli molto più intenerito, quasi lacrimando gli
disse: Di’ a tua madre, che non istia a mia fidanza, ch’io nol voglio
fare: e il figliuolo tornato alla crudelissima madre le disse quello
che gli era stato detto. La bestiale scellerata ciò udito, in esso
stante comandò al figliuolo ch’andasse nella cella, ed ella gli tenne
dietro, dicendo: Quello che non ha voluto fare egli farò io; e con le
diaboliche mani segò la gola al figliuolo, e quivi lo lasciò morto.
Poco il marito tornò in casa, e domandò la madre del figliuolo: la
donna presa l’astuzia del serpente con fronte audace gli rispose:
Ben lo sai tu, va’ nella cella e vedrailo. Il marito ignorante e puro
scese al luogo, e trovò il fanciullo morto, il perchè e’ venne meno, e
forte sbaì, e perdè la favella: la moglie lo serrò dentro, e levato il
pianto, traendo guai incominciò a gridare, e dire, che il traditore del
marito le avea morto il figliuolo per godere la sua eredità; e tratta
la vicinanza a romore, ella squarciandosi il viso e’ capelli mai non
lasciò aprire l’uscio della cella infino che la famiglia della signoria
non venne, la quale apersono l’uscio, e trovarono il malificio, e a
furore ne menarono il marito, il quale tormentato confessò sè aver
fatto il malificio, e la cagione per godere l’eredità del figliastro. E
apparecchiandosi la signoria a farne aspra giustizia, all’amico della
pessima donna venne compassione di tanto male, e del sangue innocente
sparto e che spargere si dovea, e del fallo suo presa sicurtà da’
signori manifestò la verità del fatto, e la donna venuta in giudicio,
senza alcuno tormento confessò la sua iniquitade, e condannata alla
tanaglia, e più a esserle levate le carni a pezzo con i rasoi, fece
terribile esempio all’altre. Questo peccato tanto enorme forse meritava
silenzio di penna, per l’orrore d’udire tra’ cristiani sì alto e sì
sfacciato male, conchiudendolo con un verso di Giovenale poeta, che
dice: Fortem animum praestant rebus quas turpiter audent, parlando
delle femmine che da sè hanno scacciata la pudicizia e la vergogna, il
quale in volgare suona: Forte animo prestano alle cose che sozzamente
ardiscono di fare.


CAP. XXXIV.

_Delle compagnie ch’entrarono in Provenza per conturbare i paesani e la
corte di Roma._

Avvegnachè grave cosa fosse alla corte di Roma la presura che una
compagnia avea fatto di Santo Spirito sul Rodano di sopra a Avignone
otto leghe, nondimeno altre compagnie sommosse di Guascogna del reame
di Francia del mese di gennaio, febbraio e marzo, fuggendo la pace,
la carestia e la mortalità, in poco tempo l’una appresso l’altra
vennono in Provenza; e l’una che si nomava la Compagnia bianca, venne
appresso a Avignone a trenta miglia, e teneva mercato d’avere danari
dal papa, e di levare quella di Santo Spirito, che per cagione ch’avea
il Rodano di sopra in sua signoria gravava la corte, non lasciando
uscire la vittuaglia di Borgogna; e appresso un’altra di Guascogna e
di Spagna partita dalla guerra di quello di Focì e d’Armignacca, che
lungamente aveano accolta gente per guerreggiare insieme. Per questa
tempesta che conturbava i paesi d’intorno e il papa e i cardinali
erano in grave travaglio, e la corte il dì e la notte sotto l’arme,
e con molte gravezze di fortificare la città di muri, di fossi, e di
steccati, e di cittadinesca guardia, e lo re di Francia non avea podere
di liberare le sue terre dalle loro mani non che d’aiutare la Chiesa:
e in queste tribolazioni stette Avignone come assediata lungamente, e
non vi si potea entrare nè uscire con sicurtà, e l’arti, e’ mestieri,
e le mercatanzie tutte v’erano perdute, e la carestia d’ogni bene vi
montò in sommo grado. Il papa richiese Franceschi, Provenzali, Guasconi
e Catalani che lo atassono dalle compagnie; catuno chiedeva danari
per fare l’impresa, e la Chiesa non si fidava d’accogliervi più gente
d’arme che v’avesse: e così in tribolazione grande stette lungamente,
infino che per operazione del marchese di Monferrato col danaio della
Chiesa, come al tempo innanzi diviseremo, vi si mise rimedio. Daremo
ora sosta a queste compagnie e a’ fatti della corte, per ritornare
all’altre novità che in questo tempo occorsono alla nostra città di
Firenze.


CAP. XXXV.

_Come per comperare gli onori del comune alquanti che li venderono ne
furono condannati_

Rade volte occorse che i cittadini sieno condannati per baratteria,
non perchè sovente non caggino in tale errore, ma per la negligenza
de’ rettori, che passano il vizio a chiusi occhi: e perchè l’eccesso
che scrivemo fu tanto palese a tutti i cittadini, il rettore a cui la
cognizione s’appartenea di ciò non potè senza sua evidente vergogna
passare non ne conoscesse. Dalla morte di Carlo duca di Calavria in
qua, per ordinazione e costume di nostro comune osservata, e che è
di tre anni in tre anni, del mese di gennaio e di febbraio si fa lo
squittino solenne de’ cittadini degni dell’onore del comune, sì del
priorato come de’ dodici, e gonfalonieri ed altri ufici. Avvenne nel
1360, che certi de’ collegi per danari trassono a essere del numero
degli squittinatori certi pochi degni per loro antichità o virtù, il
perchè finito lo squittino, e scoperta la cattività, tali de’ collegi
trovarono colpevoli dall’esecutore degli ordinamenti della giustizia
furono condannati per baratteria, chi in libbre duemila, e chi in
mille, e pur tale pena puose freno al disonesto peccato.


CAP. XXXVI.

_Come i fatti di Francia verso il primo tempo procedeano._

Tornato il re di Francia, trovò il reame assai rotto e mal disposto, e
poco era ubbidito, e da sè nullo vigore avea di potere riducere le cose
al consueto e primo loro corso, e gastigare non potea chi fallasse,
e per questo gli uomini d’arme s’accostarono insieme a contristare le
provincie del reame: e intra l’altre tribolazioni, nel pieno del verno,
la contessa la quale fu moglie del sire di Ricorti, a cui lo re di
Francia avea fatto tagliare la testa quando tornò per ricomperarsi dal
re d’Inghilterra, ch’era suo prigione, preso cuore e animo virile fece
raccolta di Spagnuoli, di Guasconi, e di Normandi, e dicea di volere
dal re ammenda; e certo assai di male e dammaggio avrebbono fatto al
reame, se la fame che strignea il paese non l’avesse vietato: questa
poi con grossa compagnia trascorse in Proenza, la quale compagnia poi
passò in Lombardia. Il conte d’Armignacca e quello di Focì manteneano
guerra in Tolosana e nelle loro terre, l’uno contro all’altro, il
perchè troppo ne conturbavano il reame; il re reprimere non potea i
falli de’ suoi baroni, nè porre ordine in suo reame.


CAP. XXXVII.

_Come fu guasta la bastita che ’l cardinale di Spagna facea fare in sul
canale della Pegola._

Nell’entrata di marzo del detto anno, il legato per tenere sicuro il
cammino e ’l canale dalla Pegola a Bologna facea fare con grande studio
una bastita in sul canale, ed era quasi che compiuta. I cavalieri di
messer Bernabò ch’erano in Lugo, intorno di ottocento barbute, una
notte si mossono, e vennono alla bastita, e sì improvviso a coloro
che la guardavano che vi entrarono dentro, e mortine assai il resto
presono, e rubato quella parte stimarono di portarne il resto arsono
con la bastita, e senza contasto alcuno della preda, e’ prigioni ne
menarono a Lugo. Della qual cosa a’ Bolognesi parve rimanere in male
stato, per tema che quel cammino non fosse loro tolto, e per tal tema
costretti rimisono mano a rifare la detta bastita, e a custodirla
con più cauta e sollecita guardia, e poco appresso l’ebbono fatta e
afforzata per modo non ne temeano. Lasceremo alquanto le tempeste de’
cristiani, per dar luogo un poco a quelle degl’infedeli che apparirono
in questi tempi.


CAP. XXXVIII.

_Della grande pestilenza che percosse i saracini._

In questo anno pestilenza di febbri fu in Damasco e al Cairo tanto
fuori di modo, che senza niuno riparo quasi generalmente ogni gente
uccidea; il perchè si credette, che le provincie di là rimanessono
disolate e senza abitatore, e se guari tempo fosse durata avvenia.
I morti furono tanti, che stimare numero certo o vicino non si potè.
La cagione onde mosse, a Dio solo, o cui lo rivela, è manifesta. La
naturale necessità, la quale surge dall’influenza de’ cieli e delle
stelle, dà luogo alla necessità soluta, che procede dalla sua volontà.


CAP. XXXIX.

_Come fu morto il soldano di Babilonia, e rifattone un altro, il quale
uccise molti de’ suoi baroni._

Avvenne innanzi poco a questa mortalità, ch’essendo il soldano di
Babilonia uscito a campo contro a quelli che rubellati gli s’erano, i
baroni che con lui erano, qual cosa si fosse la cagione, s’intesono
insieme alla morte sua, ed egli non prendendosi guardia di loro nel
campo l’uccisono, e tornarsene al Cairo, e quivi un suo fratello
feciono soldano; il quale presa la signoria, e confermato nel regno,
non seguendo la volontà de’ suoi ammiragli, sentì che contro a lui
s’erano congiurati per farlo morire, onde esso si provvedea di buona
guardia, e niente mostrava di sentire contro a loro, ma l’un dì trovava
cagione contra l’uno, e facealo morire, e l’altro dì contra l’altro
facea il simile, e per questa via in pochi mesi la maggior parte fece
morire, e nella fine la volta toccò a lui, e morto fu per le mani de’
suoi ammiragli del mese di febbraio detto anno, e feciono soldano un
suo fratello piccolo, e rimaso di dodici l’ultimo, perchè non si potea
traslatare il regno in altri senza gran confusione di tutti i sudditi
suoi.


CAP. XL.

_Come un signore de’ Turchi trattò di fare uccidere l’imperadore di
Costantinopoli._

Lo signore di Boccadave possente tra i Turchi, ed ai Greci vicino,
avendo molte volte tentato con palese guerra di vincere Costantinopoli,
e non ne possendo avere suo intendimento, cercò con doni larghi e
con impromesse grandi fatte a certi Greci costantinopoletani, i quali
erano della setta di Mega Domestico cacciati dall’imperadore, a modo
tirannesco di farlo uccidere, pensando che morto lui per la inimicizia
ch’avea nella provincia, e per molte terre ch’avea acquistate sopra
l’imperio, d’essere del tutto signore; ma come piacque a Dio si
scoperse il trattato, e quale de’ traditori fuggì, e quale rimase o
preso o morto, ma non di manco la città ne rimase in mala disposizione.
Il Turco nondimeno tenendo Gallipoli e altre terre vicine, con suoi
legni in mare e con i suoi Turchi per terra tribolava e consumava
il paese, senza trovarsi per i Greci alcun riparo fuori che delle
mura. E in questi medesimi giorni il signore d’Altoluogo in Turchia
si guerreggiava con un suo zio, e l’altro signore della Palata si
guerreggiava col fratello; e portante guerre e divisioni de’ Turchi i
paesi loro erano rotti e in grande tribolazione, e per questa cagione i
Greci aveano minore persecuzione da loro; e più ciò fu materia al re di
Cipro di fare l’impresa sopra loro con onore e vittoria grande, come a
suo tempo racconteremo.


CAP. XLI.

_Come il legato si partì di Bologna per andare al re d’Ungheria._

Tornando alle italiane fortune, il legato di Spagna, uomo savissimo
e pratico delle mondane volture, vedendosi per allora e a tempo senza
potenza da resistere a messer Bernabò, e povero di danari, e veggendo
la poca gente d’arme ch’avea alla difesa, conoscendo che il tiranno
suo avversario era di sue entrate abbondante, e di quello che gravava
i sudditi suoi, il perchè non si curava di mantenere la guerra, e per
continovare la guerra gli parea essere certo di vincere Bologna, e
perciò mantenea a Castelfranco e a Priemilcuore, a Pimaccio, e a Lugo
tanta gente a cavallo e a piè, che con le loro cavalcate teneano sì
assediata Bologna di verso la Lombardia e la Romagna, che poca roba vi
potea dentro entrare, e di verso l’Alpe facea agli Ubaldini rompere le
strade, perchè al legato ne parea essere a mal partito, e a’ cittadini
a peggiore: e vedendo ch’a petizione di santa Chiesa niuno tiranno,
comune o signore italiano si volea scoprire ad atare Bologna contro a
messer Bernabò, avendo la Chiesa lungamente trattato col re d’Ungheria,
il quale s’affermava che farebbe l’impresa con la persona, al primo
tempo parve al legato d’uscire di Bologna sotto scusa d’andare a lui,
e nel vero e’ non si fidava potervi stare con suo onore, nè senza grave
pericolo. E però contro la volontà de’ cittadini prese d’andare al re,
promettendo di tornarvi del mese di maggio prossimo, e a dì 17 di marzo
se ne partì facendo la via d’Ancona, e là soggiornato alquanto mandò
al re d’Ungheria, come seguendo nostro trattato diviseremo. In Bologna
lasciò messer Malatesta e messer Galeotto suo figliuolo capitani de’
soldati e de’ cittadini alla guardia.


CAP. XLII.

_Della ribellione fatta per messer Giovanni di messer Riccardo Manfredi
al legato._

Isidoro nelle sue etimologie afferma, che per la differenza e natura
varia de’ climati i Greci per natura sono lievi, i Romani gravi, gli
Affricani astuti e maliziosi, e gl’Italiani feroci e d’agro consiglio.
Questo vedemo nella piccola provincia di Toscana, dove sono i Sanesi
reputati lievi per natura, i Pisani astuti e maliziosi, i Perugini
feroci e d’agro consiglio, i Fiorentini gravi, tardi, e concitati,
e così per natura i Romagnuoli hanno corta la fede: e pertanto per
antico proverbio si dice, che il Romagnuolo porta la fede in grembo:
e però non è da maravigliare quando i tiranni di Romagna mancano di
fede, conciosiachè sieno tiranni e Romagnuoli: i tiranni per paura
di loro stato, e cupidi ancora di più signoria, usano e fanno arte di
tradimenti. Messer Giovanni figliuolo naturale di messer Manfredi di
Faenza avendo pace col legato, vide suo vantaggio per le promesse di
messer Bernabò, e rubellossi alla Chiesa, e cominciò a fare guerra
e da Bagnacavallo, e da Salervolo, e da altre sue tenute a Faenza e
ad altre terre della Chiesa di Romagna, e avuta cavalieri da messer
Bernabò ch’erano a Lugo, cavalcò a Porto Cesenatico, dove trovò molta
mercatanzia, le case arse e ’l porto, e la mercatanzia e grossa e
sottile e’ prigioni ne menarono in preda, e in quel porto peggiorò
i cittadini di Firenze oltre a dodicimila fiorini d’oro di loro
mercatanzie, e senza impedimento alcuno si tornò a Bagnacavallo. Per
questa rebellione i suoi palagi di Faenza furono disfatti.


CAP. XLIII.

_Come il marchese di Monferrato trasse delle compagnie da Avignone per
conducere in Piemonte._

Essendo lungamente la Provenza di là dal Rodano, e ’l Venisì, e la
Provenza di qua dal Rodano, e la corte di Roma stata in grandissime
persecuzioni delle compagnie addietro narrate, e tenuto il papa con
loro per le mani di più baroni trattati di trarli del paese senza avere
effetto, in fine il valente marchese di Monferrato, per la guerra
ch’avea co’ signori di Milano, essendo molto amato dai buoni uomini
d’arme, e favoreggiato co’ danari della Chiesa, in prima s’accordò con
la compagnia ch’era a’ Mongiulieri, Inghilesi, Guasconi e Normandi,
con la donna del siri di Ricorti: ed avendo fatto questo accordo del
mese di marzo, non tennono il patto, ma sotto la sicurtà del trattato
passarono il Rodano, e mutarono pastura; e un’altra maggiore compagnia
valicò nel Venisì, e consumando il paese infino al maggio. Cominciata
la fame e la mortalità in quelle provincie, la compagnia di Santo
Spirito, avuto dal papa trentamila fiorini con patto di seguire il
marchese lasciata la terra, e l’altra che ’l marchese con danari
della Chiesa avea prima patteggiata s’accozzarono a volere passare
in Piemonte, e non meno per fuggire la pestilenza e ’l paese, che per
servire la Chiesa e il marchese, con tutto che più di centomila fiorini
costasse al papa la spesa di levarlisi d’intorno. E spandendosi di
ciò la boce per la Provenza, una gran parte se n’avviò a Marsilia,
e credendosi entrare nella terra e non potendo, e non avendo da’
Marsiliesi il mercato, arsono i borghi della città, e feciono assai
danno nel paese, e poi s’addirizzarono verso Nizza, e a parte a parte
valicarono seguendo il marchese nel Piemonte, non senza grave danno de’
Provenzali. E nondimeno essendo di Provenza partiti da seimila cavalli,
ne rimasono due altre compagnie, una di quà una di là dal Rodano,
lungamente a vivere di preda e di rapina sopra i paesani, e teneano la
corte in paura e in travaglio. Lasceremo delle compagnie, e torneremo
ad altre più degne cose di nostra memoria.


CAP. XLIV.

_Della morte del duca di Lancastro cugino del re d’Inghilterra._

Egli è strano al nostro trattato fare memoria della naturale morte
d’uomo, ma considerando l’altezza della superbia umana con la fragilità
di quella recata alla mente degli uomini, non può passare senza alcuno
frutto. Il conte d’Aui duca di Lancastro, cugino carnale del valente
re Adoardo d’Inghilterra, avendo lungo tempo fatte grandi e notevoli
cose d’arme, essendo sopra i Franceschi stato venticinque anni grave
flagello, e riposata la guerra in pace con grande sua fama e onore, a
dì 22 del mese di marzo gli anni Domini 1360 lasciò l’arroganze delle
guerre, e le fallaci fatiche del mondo con la sua morte, lasciando
senza ereda maschio due figliuole femmine ne’ suoi baronaggi.


CAP. XLV.

_Come riuscì l’impresa del re d’Ungheria, dove la speranza del legato
di Spagna si riposava._

La Chiesa avea richiesto il re d’Ungheria al soccorso di Bologna,
ed il re avea dato speranza alla Chiesa di fare l’impresa con la sua
persona, e mandati però suoi ambasciadori a corte per fermare i patti,
de’ quali per diversi modi si sparse la fama in Italia, in prima che
dovea avere titolo dalla Chiesa e dall’imperio, e danari assai dal
papa, che le terre ch’acquistasse fossono sue: l’altra boce era, che
’l papa il dovesse assolvere del saramento si dicea ch’avea fatto di
fare il passaggio d’oltremare, e che dovea dispensare che la moglie, la
quale apparve per infino a qui sterile, si rinchiudesse in un munistero
di sua volontà, ch’egli potesse avere anche un’altra moglie, acciocchè
’l reame non rimanesse senza successione di sua generazione, e che di
questo il legato avea dal papa piena legazione: verisimile e non senza
grande cagione il legato andò a lui in Sagravia del mese di maggio del
detto anno. Il re in quei giorni avea fatto bandire generale oste per
tutto suo reame, per titolo di porre confini al suo regno, per lo quale
tutti i baroni e popoli lo debbono servire, e credettesi che ciò fosse
per intendere al servigio della Chiesa; ma come che la cosa s’andasse
gli ambasciadori di messer Bernabò erano a lui, e ricevuti avea doni
da parte di messer Bernabò. E però, o perchè non avesse dalla Chiesa
quello che volesse, o avesse promesso al tiranno di non venire contro a
lui, la vista fu ch’egli intendea d’andare con la sua gente per l’oste
già bandita in altra parte; e quello che rispondesse al legato non si
potè per parole comprendere, ma l’effetto si dimostrò per opere, che
senza alcuno aiuto il legato del detto mese di maggio si ritornò ad
Ancona, perduta la speranza del soccorso di Bologna, in grave pericolo
di quella città, cresciuta la baldanza e l’oste dei suoi avversari.


CAP. XLVI.

_Della pestilenza dell’anguinaia ricominciata in diversi paesi del
mondo, e di sua operazione._

In Inghilterra d’aprile e di maggio si cominciò, e seguitò di giugno e
più innanzi, la pestilenza dell’anguinaia usata, e fuvvi tale e tanta,
che nella città di Londra il dì di san Giovanni e il seguente morirono
più di milledugento cristiani, e in prima e poi per tutta l’isola.
Gran fracasso fece per simile nel reame di Francia; nella Provenza
trafisse ogni maniera di gente. Avignone corruppe in forma che non vi
campava persona: morironvi nove cardinali, e più di settanta prelati
e gran cherici, e popolo innumerabile. E di maggio e giugno si stese e
percosse la Lombardia, e prima Como e Pavia, con tanta roina, che quasi
le recò in desolazione. In Milano mise il capo, dove altra volta non
era stata, e tirò a terra il popolo quasi affatto, con grande orrore e
spavento di chi rimanea. Vinegia toccò in più riprese, e tolsele oltre
a ventimila viventi. La Romagna oppressò forte e assai quasi per tutte
sue terre, ma più l’una che l’altra, e nell’entrata del verno cominciò
a restare in Lombardia, e a gravare la Marca, e la città d’Agobbio
forte premette. L’isola della Maiolica perdè oltre alle tre parti
degli abitanti. Nè lasciò l’Alpi degli Ubaldini senza macolo per molti
de’ luoghi suoi. E molti paesi del mondo in uno tempo erano di questa
pestilenza corrotti, nè già quelli a cui parea che Dio perdonasse
non ritornavano a lui per contrizione, partendosi dalle iniquitadi
e dalle prave operazioni ostinate, e come le bestie del macello,
veggendo l’altre nelle mani del beccaio col coltello svenare, saltavano
liete nella pastura, quasi come a loro non dovesse toccare, ma più
dimenticando gli uomini il giudicio divino si davano sfacciatamente
alle rapine, alle guerre, e al mantenere compagnie contra ogni uomo,
alle ingiurie de’ prossimi, e alla dissoluta vita, e a’ mali guadagni
assai più che negli altri tempi, corrompendo la speranza della
misericordia di Dio per lo male ingegno delle perverse menti; e ciò per
manifesta sperienza si vide in tutte le parti del mondo dove la detta
pestilenza mostrò il giudicio di Dio.


CAP. XLVII.

_Come per la fama delle compagnie che scendevano in Piemonte i signori
di Milano si provvidono alla difesa._

Messer Galeazzo Visconti sentendo che il marchese di Monferrato venia
in Piemonte con le compagnie tratte di Provenza del mese d’aprile
del detto anno, e sapendo ch’ell’erano per poco tempo provvedute di
soldi, e che già la mortalità era tra loro, e cominciata nel Piemonte,
provvide di gente d’arme tutte le sue terre e le loro frontiere per
fare buona guardia, e sostenere l’impeto de’ nemici, senza mettersi
a partito di battaglia; e però messer Bernabò ritrasse della gente
ch’avea a Lugo e a Castelfranco sopra Bologna la maggiore parte per
dare favore al fratello, pensando straccare quella gente, come in parte
venne loro fatto, con piccolo danno di loro distretto, come appresso si
potrà nel suo tempo vedere. Nondimeno tra per lo riparo del Piemonte,
e del fare la guerra a Bologna, continovo si fornivano di gente d’arme,
non curandosi della grande spesa, perocchè bene la poteano comportare a
quella stagione.


CAP. XLVIII.

_Come messer Bernabò venne sopra Bologna, e assediò e prese Pimaccio._

All’uscita del mese d’aprile del detto anno, messer Bernabò accolse
gente, li più cittadini di sue terre, e con duemila cavalieri in
persona venne da Milano a Castelfranco dov’era il forte di sua gente,
e di nuovo fece combattere il castello di Pimaccio per due riprese,
e appresso il fece assediare intorno, e a dì 9 di maggio per patto
ebbe la terra, e la rocca si tenne. Di là poi si partì lasciando
fornita la terra, e la rocca assediata, e con la gente sua cavalcò a
Panicale presso di Bologna facendo danno assai; e del detto mese di
maggio ebbe la rocca di Pimaccio, e andossene a Lugo, e l’accomandò
a messer Francesco degli Ordelaffi, e diegli gente d’arme, con che
egli guerreggiasse Bologna da quella parte e la Romagna; e fornite
l’altre terre, e confortati gli amici suoi a fare guerra, e lasciato
il marchese Francesco al ponte del Reno a campo, con milledugento
cavalieri si tornò a Milano, e la sua gente ebbe fatta forte e ben
guernita di tutto all’entrata di giugno la bastita dal ponte del Reno.


CAP. XLIX.

_Come il legato procurava aiuto contro messer Bernabò._

Il legato del papa, tornato senza niuna speranza d’aiuto dal re
d’Ungheria, pur tanto s’aoperò, che ’l detto re scrisse e fece
comandamento agli Ungheri ch’erano al servigio di messer Bernabò, che
se ne partissono, e assai furono quelli che l’ubbidirono. Anche tanto
operò con l’imperadore, che egli mandò comandando a messer Bernabò
che si dovesse rimanere di fare guerra contro la Chiesa a Bologna,
e quegli che fè il detto comandamento fu messer Giovanni da.... ed
assegnogli termine infra i venti dì seguenti, com’era determinato per
l’imperadore, e se questo non facesse fra il termine gli significò,
com’egli il privava d’ogni onore, e dignità e privilegio che avesse
dall’imperio; ma per tutto questo messer Bernabò non si rimanea
dell’impresa, ma a suo potere continuo fortificava la guerra, dicendo:
Io voglio Bologna mi. E questo fu del mese di maggio a’ 12 dì del detto
anno. E in questo medesimo tempo per apostolica sentenza messer Bernabò
fu condannato per eretico e contumace a santa Chiesa, e per tutta
Italia in dì solenni fu da’ prelati scomunicato in presenza de’ popoli,
ma di questo poco si curò, sollecitando per ogni modo pure di volere
Bologna.


CAP. L.

_Come la compagnia d’Anichino di Bongardo ch’era nel Regno si
rassottigliò e venne al niente._

Del mese d’aprile erano nella compagnia d’Anichino di Bongardo in
Puglia gli Ungari tanto moltiplicati, che passavano il numero di
tremila. Il re loro avendo di questo sentore loro mandò comandando, che
non fossono contro i suoi consorti, per la qual cosa s’accordarono col
re Luigi una gran parte, e partironsi dalla compagnia de’ Tedeschi, e
promisono di dare vinta o cacciata la compagnia del Regno per trentasei
migliaia di fiorini d’oro, de’ quali si convennono col re: e seguitando
il gran siniscalco ridussono Anichino co’ suoi Tedeschi in Basilicata,
e ridussonli in Atella terra tolta per loro al duca di Durazzo, e ivi
li assediarono, stando d’intorno alle frontiere; e durando il giuoco
lungamente, molti se ne tornarono nella Marca e nella Romagna, e
gli altri rimasono al servigio del re, e senza cacciare o vincere la
compagnia catuno consumava i paesani.


CAP. LI.

_Come i Sanesi ebbono Santafiore._

In questi dì, del mese di maggio del detto anno, i Sanesi avendo molto
assottigliati e annullati i conti di Santafiore, in fine di questo mese
medesimo ebbono Santafiore a patti.


CAP. LII.

_Come i Fiorentini comperarono il castello di Cerbaia._

Il comune di Firenze avea dato bando a Niccolò d’Aghinolfo de’ conti
Alberti conte di Cerbaia perchè avea morto un popolare di Firenze;
e vedendo che la Cerbaia era una chiave forte alla guardia del suo
contado da quella parte, gli venne voglia d’avere quel castello, e
fece trattato di comperarlo; il conte per uscire di bando, ed essere
cittadino popolano di Firenze, e considerando che a tenere quella
fortezza gli era non meno di spesa che d’entrata, e sempre ne vivea in
gelosia, ne domandò per prezzo fiorini settemila d’oro, e ’l comune si
fermò a sei, e ’l conte non vi si volle arrecare, e però si mise alla
difesa, ed il comune, come contro a suo sbandito, a dì 21 di maggio
vi pose l’assedio. Il conte vedendosi ribellato il fratello carnale,
e collegato co’ Fiorentini e fattosi loro accomandato, vedendosi
mal parato, l’ultimo dì di maggio diede il castello liberamente
a’ Fiorentini, e rimisesi alla misericordia del comune: il comune
lo ribandì, e fecelo suo popolare, e per via di diritta compera
solennemente fattone le carte per ser Piero di ser Grifo notaio delle
riformagioni, glie ne diè contanti fiorini seimiladugento d’oro, e fu
descritto il castello di Cerbaia in possessione e contado del comune
di Firenze, e tutti i fedeli dalla fedeltà furono liberati, e fatti
contadini di Firenze.


CAP. LIII.

_Come il capitano già di Forlì, e messer Giovanni Manfredi si puosono
tra Imola e Faenza._

Come messer Francesco Ordelaffi fu fatto capitano di messer Bernabò,
e messer Giovanni di messer Ricciardo Manfredi collegato con lui
s’intesono insieme, e puosonsi a campo tra Imola e Faenza per attendere
l’avvenimento di quello ch’aveano trattato con uno più stretto e
confidente famiglio ch’avesse messer Ramberto signore d’Imola, il quale
per grandi promesse ricevute avea promesso d’uccidere il suo signore,
ma come a Dio piacque il trattato si scoperse, e il famiglio fu preso,
e negli occhi de’ nemici impiccato a’ merli delle mura della città; e
incontanente l’oste ch’attendea l’omicidio si partì e tornò a Lugo:
e poco appresso del detto mese di maggio cavalcarono sopra Forlì, e
guastarono e predarono intorno e nel paese quello che poterono senza
trovare contasto.


CAP. LIV.

_D’un gran fuoco che s’apprese nella città di Bruggia._

In questo mese di maggio del detto anno, nella città di Bruggia in
Fiandra s’apprese il fuoco in alcuna casa, il quale cominciò ad ardere
quelle ch’erano vicine, e a forte a montare con l’aiuto del vento, e
delle case di legname ch’erano atte e disposte a riceverlo, e avvalorò
per sì fatto modo, che niuno rimedio mettere vi si potea per operazione
o ingegno d’uomini, che nella città non consumasse oltre a quattromila
case, con grandissimo danno de’ cittadini: e in questi giorni medesimi
il fuoco gran danno fece nella villa di Ganto e di Melina in Brabante.


CAP. LV.

_Delle compagnie d’oltramonti._

Appare che la penna non si possa passare senza fare memoria delle
compagnie, che maravigliosa cosa è il vederne e udirne tante creare
l’una appresso dell’altra in flagello de’ cristiani, poco osservatori
di loro legge o fede. La moglie che fu del siri di Ricorti accolse
da millecinquecento cavalieri di diverse lingue per volere fare
guerra in suo paese, poi fu tirata dalla compagnia, e in persona
con la sua gente venne in servigio della Chiesa e del marchese di
Monferrato in Piemonte, e quivi lasciò con gli altri la sua compagnia
a guerreggiare. E appresso a questa scese in Provenza un’altra gran
compagnia d’Inghilesi, Guasconi e Normandi, e un’altra se n’adunò in
questi tempi medesimi presso Avignone di Spagnuoli, Navarresi e altra
gente, e questa venne sopra la città d’Arli, e corse voce che venia
a petizione del Delfino, che si dicea che volea essere re d’Arli, ma
non fu vero, per loro procaccio venne la compagnia, e una seguiva il
Petetto Meschino Alvernazzo, che poi crebbe, e fece grave danno al re
di Francia. Il paese di Provenza di là da Rodano e di qua, e ’l Venisì
e la corte di Roma ne stava in continova tribolazione.


CAP. LVI.

_Come Francesco Ordelaffi si levò da Forlì, e andonne a oste a Rimini._

Essendo Francesco Ordelaffi stato d’intorno a Forlì, e fatto il guasto
come a lui piacque, del mese di giugno del detto anno si levò da Forlì,
e con duemila barbute e cinquecento Ungari si puose presso alle porti
di Rimini, e fermò il campo a Santa Giustina, ardendo e guastando le
ville d’intorno, e facendo gran preda, e poi si rivolse dall’altra
parte e valicò il fiume, e cavalcò infino agli antiporti di Rimini,
e tutto menò a fiamma il paese, facendo oltraggio e onta a’ Malatesti
volontariamente, senza trovare chi gli facesse resistenza alcuna.


CAP. LVII.

_Come i Fiorentini manteneano Bologna per la strada dell’Alpe._

I Fiorentini erano stati molto sollecitati dal legato, poichè perdè la
speranza del re d’Ungheria, che prendessono la difesa di Bologna, e
non pure il legato, ma i signori di Lombardia, e i guelfi di Romagna
e della Marca continovamente per loro segreti ambasciadori glie ne
sollecitavano, mostrando che Bologna non potea più durare, che convenia
che venisse alle mani di messer Bernabò, perocchè ’l suo contado era
tutto consumato, e in podere de’ nemici infino alle porte d’ogni lato.
E mostravano, come che venuta ella fosse a messer Bernabò, che Firenze
sarebbe in pericolo, e male da potersi difendere da lui, allegando
il verso di Orazio, il quale dice: Nam tua res agitur, paries cum
proximus ardet: in volgare suona: Quando il pariete prossimo a te
arde il fatto tuo si fa: soggiugnendo, che la pace e la guerra stanno
nella volontà del potente tiranno, che ben sa a tempo con trovare le
cagioni; per la qual cosa molte volte ne fu grande controversia intra
i nostri cittadini ne’ segreti consigli, ma al tutto si sostenne che
si mantenesse la pace promessa fedelmente, non ostante il pericolo che
se ne stimava, e ancora l’autorità di santa Chiesa, che d’ogni cosa
liberava con giustizia il nostro comune. È vero che per i discreti
cittadini si stimava, che fatta l’impresa tutto il carico sarebbe
lasciato a’ Fiorentini, e non potendola i Fiorentini liberare, cadevano
in maggiore pericolo, consumato l’avere alla loro difesa: non dimeno
per savio e diritto consiglio, non facendo contro a’ capitoli e ordine
della pace, il comune intese con sollecitudine a sostenere la vita
a’ cittadini di Bologna aprendo la strada dell’Alpe, e levando ogni
divieto, per la qual cosa tanto grano, biada, olio e carne andavano
di continovo in Bologna, ch’ella se ne reggea, e mantenea assai
convenevolemente senza grande carestia. E gli Ubaldini non aveano
ardire d’impedire i Fiorentini, e i Bolognesi per loro distretto
facevano campo a Caburaccio; e per questo modo avendo Bologna perdute
tutte le strade e canali, per questa strada si nutricò lungamente.
E tanto era l’abbondanza a quel tempo ch’avea il contado di Firenze
che poco rincarò ogni cosa, e se questo spaccio non fosse occorso, a
niente sarebbe stato il grano e ’l biado e l’olio in quell’anno. Se
non fossono nati quattro leoni, due maschi e due femmine, il dì di san
Barnaba, passato mi sarei del non iscriverlo.


CAP. LVIII.

_Come l’oste di messer Bernabò volle rompere la strada da Firenze, e
ricevette danno._

Messer Giovanni da Bileggio, valoroso e savio cavaliere milanese, e
molto amato da messer Bernabò, era in quel tempo capitano generale
della gente del Biscione sopra Bologna e di quella di Romagna, il quale
avendo alla città tolte tutte le strade, e vedendo che rimaso non gli
era altro sostegno che la strada dell’Alpe che venia a Firenze, si
pensò di romperla, e ordinò una cavalcata a Pianoro. Il capitano di
Bologna, che era Malatesta Ungaro, sentì il fatto, e mise la notte
gente fuori, i quali si misono in aguato, e venendo i nemici uscirono
loro addosso, ed ebbono vittoria di quella gente, ch’erano dugento
barbute, che pochi ne camparono che non fossono o morti o presi, per la
qual cosa il capitano dell’oste prese sdegno, e ordinò di strignersi
più alla terra, e di fare correre fino alle porte d’ogni parte, e
a mezzo il mese di giugno lasciate fornite l’altre bastite si mise
innanzi con l’oste, e puosesi al Ponte maiore in sulla strada tra
Bologna e Imola, e ivi fermò il campo presso alla città un miglio.


CAP. LIX.

_Come fu sconfitto l’oste di messer Bernabò al Ponte a san Ruffello._

Vedendo il capitano messer Giovanni da Bileggio avere recata la città
di Bologna a grandi stremi, che rimasa non l’era via d’aiuto altro
che la strada da Firenze, avendo animo di trarre quella guerra al suo
desiderato fine, sentendo che nella città non avea oltre a trecento
uomini d’arme a cavallo, e che ’l capitano che fu di Forlì era sopra
d’Arimini, e correa senza contasto con millecinquecento cavalieri
tutto il paese, pensò di porre una grossa e forte bastita al Ponte a
San Ruffello presso a Bologna in sulla strada da Pianoro, acciocchè
al tutto si levasse alla città ogni soccorso, e questo mise in opera,
e mossesi con tutta la sua oste, ch’erano più di millecinquecento
cavalieri, e duemila masnadieri, e molti altri fedeli degli Ubaldini,
e con lui nel vero era tutto il fiore della gente di messer Bernabò,
avendo mandati trecento altri cavalieri per scorta alla vittuaglia
che venia di verso Ferrara, con grande apparecchio di vittuaglia e
d’altro arnese, e a dì 16 di luglio del detto anno si misono per lo
fiume della Savena, e senza trovare contasto furono al Ponte a san
Ruffello, e quivi fermarono il campo per edificare la bastita, e con
grande sollecitudine attendeano a fare i fossi, e conducere il legname
d’ogni parte. In questo stante, come fu volontà di Dio, messer Galeotto
de’ Malatesti da Rimini, cavaliere di grande ardire e maestro di
guerra, avea ricolti in Faenza cinquecento barbute e trecento Ungari
per danneggiare la gente di messer Francesco degli Ordelaffi, ch’era
sopra Arimini, come detto è, il quale sentendo l’oste da Bologna messa
in mal passo, di presente cavalcò a Imola, e da Imola la sera a dì 19
di luglio improvviso a’ nemici cavalcò per modo, ch’alle cinque ore
di notte fu a Bologna, non sapendo i Bolognesi alcuna cosa. Messer
Malatesta Unghero suo nipote capitano in Bologna il ricevette la notte
sì contamente, che i nemici non lo sentirono, nè eziandio i Bolognesi
che erano a dormire, pensando fossono gente di guardia, e in quel resto
della notte agiarono le persone e’ cavalli come poterono il meglio:
la mattina per tempo serrate le porte della città fece assentire a’
cittadini, come volea assalire i nemici, i quali inanimati e confortati
dalla grazia la quale Dio mandava loro, tutti di volontà, con piena
speranza di vittoria presono l’arme, e gran parte i falcioni in mano,
e dato il segno d’uscire fuori al suono della campana della giustizia,
la domenica mattina a dì 20 di luglio, ordinate le battaglie, e dato
il nome, messer Galeotto col potestà di Bologna, ch’era pro’ e valente
cavaliere, e messer Malatesta Ungaro con settecento barbute, e con
trecento Ungari, e con quattromila Bolognesi i più bene armati, feciono
aprire le porti, e uscirono della terra, e non tennono per la diritta
strada, anzi si misono maestrevolmente per lo piano del fiume della
Savena onde erano entrati i nemici, acciocchè quindi non potessono
tornare, e alcuna parte del popolo misono per le ripe a traverso sopra
dove erano i nemici. Il cammino fu corto, sicchè si veddono prima
quelli del campo la gente addosso da due parti, che sapessono che gente
d’arme fosse venuta in Bologna, nondimeno come uomini esperti in arme
e di gran cuore, benché ’l subito caso gli smarrisse, presono ardire
e feciono testa, ordinandosi alla battaglia in fretta come poterono
il meglio, e di presente misono gente in su un colle sopra il ponte
per riparare a quelli che scendevano per la valle; ma vedendo venire
quelli della città baldanzosi e con gran cuore, abbandonarono il colle,
e tornarsi all’altra oste. Messer Galeotto e i suoi gli assalirono
molto arditamente innanzi alla venuta del popolo co’ falcioni, e i
nemici francamente gli ricevettono, combattendo con loro aspramente;
ma sopraggiugnendo il popolo, e cominciandosi a mescolare tra’ nemici
con loro falcioni, dopo lunga difesa gl’invilirono e ruppono, e molti
n’uccisono, e perchè erano in parte da non potere fuggire, quasi
tutti s’arrenderono a prigioni, che pochi ne camparono. Il podestà
di Bologna fu fedito a morte in quella battaglia, e poco appresso
morì in Bologna. Trovarsi morti in picciolo spazio di campo dove
porre si dovea la bastita quattrocentocinquantasei uomini, i quali
tutti furono sotterrati nel fosso che fatto aveano, e per l’altro
campo qua e là più d’altrettanti; in tutto numerati furono i morti
novecentosettanta, e quattrocento cavalli. I presi furono oltre a
milletrecento: a’ forestieri tolte furono l’armi e’ cavalli e lasciati
alla fede, che furono più d’ottocento; gl’Italiani furono ritenuti, sì
per lo scambiare, sì per porre loro la taglia. De’ caporali fu preso
messer Giovanni da Bileggio capitano generale dell’oste, e Guasparre
e Giovanni di Nanni da Susinana, e Andrea delle Piaggiuole tutti
degli Ubaldini, e più altri; costoro furono rassegnati al legato, e
imprigionati in Ancona. La vittuaglia che nell’oste trovarono fu grande
quantità, e gli arnesi che presono furono di gran valuta, perocchè
molto adorna era la cavalleria e i masnadieri d’arnesi d’argento,
d’armadure e robe, e aveano danari assai, e venticinque migliaia di
fiorini d’oro ch’erano giunti nel campo per fare la paga a’ soldati.
La vittoria fu grande e singolare, che essendo Bologna abbandonata
dall’aiuto della Chiesa, dall’imperadore, da’ signori di Lombardia
e da’ comuni di Toscana, e posta negli estremi, per occulta via fu
liberata, perocchè molti affermarono, e per intendimenti si tenne
essere il vero, che veggendo il legato di Spagna, il quale era in
Ancona tornato dal re d’Ungheria senza aiuto e senza consiglio, che
Bologna era in termine che senza riparo dovea venire nelle mani di
messer Bernabò, e per tanto temendo, e non osando di tornare a Bologna
per non venire nel cruccio del popolo, o nelle mani del tiranno,
che per le sue virtù e grande animo forte l’odiava, stando in forti
pensieri, mandò per il vecchio messer Malatesta da Rimini, col quale
più giorni stato in segreto sopra i fatti di Bologna, e per loro
tirato in considerazione, che la forza del tiranno era tale, alla
quale unita resistenza non era, e che messer Giovanni da Bileggio era
voglioso al terminare dell’impresa per riportarne l’onore, e gli parea
che il suo desiderio ritardasse la strada ch’era aperta a’ Bolognesi
di verso Firenze; da questi luoghi il savio messer Malatesta prese il
sottile avviso, che fatto gli venne, e con coscienza del legato mandò
suo segreto ambasciadore nel campo a messer Giovanni da Bileggio con
verisimili argomenti avvisandolo, che nel segreto amico non era del
legato per le terre che tolte gli avea, e che di lui fidare non si
potea, che venendo nel colmo di quello che appetia non gli togliesse
il resto, e che però volentieri attenderebbe ad abbassare il legato e
il suo orgoglio; ma perchè il legato gli avea sopra capo il castello
di sant’Arcangiolo, non osava levare il dito, nel quale fermava avere
trattato per torlo al legato se avesse spalle e forza di gente d’arme,
la quale dicea non potere essere meno di millecinquecento barbute:
giugnendo al fatto, che come messer Galeotto, ch’era in Bologna con
messer Malatesta vicario, fosse da lui avvisato, sotto colore di
soccorrere a Rimini, come verso là sentisse cavalcato la gente del
signore di Milano, trarrebbe di Bologna tutta la buona gente d’arme,
lasciando la trista sott’ombra di guardia della terra, e il simile
farebbe dell’altre terre della Chiesa, e che venendo il pensiere ad
effetto, come ragionevolmente dovea, esso messer Giovanni liberamente
e senza contasto veruno potea porre bastite e rompere la strada
fiorentina. A messer Giovanni piacque il trattato, e diede piena fede
all’ambasciadore, lettera, suggelli, e carte a lui presentate da parte
di messer Malatesta, e di presente elesse capitano di millecinquecento
barbute, come detto è di sopra, messer Francesco degli Ordelaffi, e
lo fè cavalcare sopra Rimini, come avvisò del tutto messer Galeotto
avvisato della baratta di messer Malatesta, onde fè gli atti e le
mostre dette di sopra, il perchè ne seguì la sconfitta al ponte a
san Ruffello. Non so se più sagace e malizioso trattato s’avesse
saputo ordinare Ulisse o il conte Guido da Montefeltro. Cesare non
lasciava ragunare la gente di Pompeo, temendo il numero e la bontà de’
cavalieri; costui con astuzia la raunata divise, e indusse il savio
capitano in folle impresa, della quale seguì la più notabile sconfitta
di morte d’uomini pregiati d’arme che fosse in Italia di nostro ricordo
di cento anni addietro.


CAP. LX.

_Come seguì appresso alla sconfitta di san Ruffello._

I trecento cavalieri che conduceano per loro scorta la vittuaglia nel
campo, essendo in sul Bolognese, sentendo la novella della sconfitta
abbandonaro la roba, e camparono le persone. Quelli delle bastite
le lasciarono prima fossono assaliti, e salvaronsi in Pimaccio, e’
Bolognesi l’arsono, e la roba recarono alla città. Per questa vittoria
i Bolognesi alquanto ne stettono in festa e in riposamento: il legato
ne prese cuore di potere la città aiutare e sostenere: mostra ne fè,
ma poca operazione ne fè in que’ tempi, perocchè sopra modo era la
possanza del suo avversario e la volontà pertinace. Messer Bernabò
quando questa novella sentì ne mostrò dolore singolare rodendosi dentro
a guisa di cane arrabbiato, e vestissene a nero, e molti giorni stette
che niuno gli potè parlare. Sentissi che di ciò contro a’ Fiorentini
prese grave sdegno, affermando ch’erano cagione del suo danno e
vergogna per lo mantenere della strada, ma non se ne scoperse, perocchè
tutto che irato fosse ben conosceva che a’ Fiorentini era lecito di
così fare senza corruzione di pace. Messer Francesco Ordelaffi come
seppe la novella scorse la Marca, e di notte con sua brigata prese
il congio per la via della marina, e in ventiquattro ore cavalcò
cinquantasei miglia, e con la gente a lui accomandata si ricolse in
Lugo.


CAP. LXI.

_Come messer Bernabò si credette prendere Correggio per trattato, e sua
gente vi rimase presa._

L’animo che è insaziabile del tiranno, che sempre è con desiderio
di sottomettere i popoli liberi, e gli altri tirannelli che sono
minori, tenea messer Bernabò oltre alla presa di Bologna trattato di
torre Correggio, nè la gastigatura di san Ruffello l’avea rimosso dal
seguirlo; onde all’uscita di giugno detto anno, credendosi avere il
castello di Correggio, messer Ghiberto che n’era signore, e da esso
aveano il titolo di loro casa e famiglia, sentito il fatto, senza farne
mostra procurò aiuto da’ signori di Mantova, i quali segretamente gli
mandarono quindici bandiere di cavalieri, i quali di notte entrarono
in Correggio: venuta la cavalleria di messer Bernabò nel fare del
giorno, come era dato l’ordine, che furono diciassette bandiere, furono
lasciati entrare nelle barre che erano davanti al castello, e fatto
vista di volerli mettere nella terra, secondo l’ordine dato apersono
le porti della terra, e calarono i ponti, e la gente da cavallo
ch’era nel castello con molta fanteria si strinsono loro addosso con
grandi grida, e rinchiusi tra le barre, e storditi per lo subito e
non pensato assalto perderono il cuore alla difesa, e però gli ebbono
tutti a prigioni, e guadagnate l’arme e’ cavalli liberaro il castello
dall’aguato del tiranno.


CAP. LXII.

_Dell’armata del re di Cipro, e il conquisto di Setalia e del
Candeloro._

Dando alcuna parte agli avvenimenti d’oltremare, lo re di Cipro avendo
fatta sua armata, e non sapendo dove si dovesse andare, a dì 24 di
luglio 1361 con ventiquattro galee armate, con l’aiuto di tre galee
dello Spedale armate di franchi e valorosi frieri, e con altri legni
e armati e di carico in numero di cento vele si partì di Cipro, e del
mese seguente d’agosto percosse sopra la città di Setalia, la quale
era d’un signore di Turchi di gran possanza, e avendo sua gente posta
in terra, e combattendo la terra, che avea tre procinti di mura, de’
quali nel primo stavano mercatanti e Giudei, nel secondo i saracini, e
nel terzo i Turchi ch’erano signori della terra, ed essendo tutta gente
sprovveduta e poco atta alla difesa, il perchè i cristiani entrarono
dentro per forza, onde il signore che v’era con poca gente se n’uscì,
e la terra fu presa. Ma poco stante il Turco tornò con più di tremila
Turchi tra a cavallo e a piè, e senza dubbio arebbe ripresa la terra,
se non fosse la provveduta guardia che feciono li frieri, i quali
sapendo loro costumi del continovo stavano apparecchiati: e ciò venne a
gran bisogno, perocchè ritennono l’empito e subito assalto de’ Turchi,
tanto che l’altra gente s’armò, e venne alla difesa. I Turchi veggendo
che loro impresa venia stolta, con loro vergogna e dannaggio si
partirono. Lo re di Cipro avuta questa vittoria montò in galea, e con
sua armata se n’andò al Candeloro, il quale era al governo e signoria
d’un altro Turco, il quale senza volere fare difesa s’acconciò con il
re, e riconobbe la terra da lui, e li promise certo censo e tributo
d’anno in anno: e il re lasciata fornita Setalia si tornò nell’isola di
Cipro.


CAP. LXIII.

_Come i Turchi di Sinopoli assalirono Caffa, e furono vinti da’
Genovesi._

In questa state i Turchi di Sinopoli armarono quattordici galee nel
Mare maggiore, e assalirono il Caffa terra e porto di Genovesi, e
fecionvi danno assai e per mare e per terra, perchè i Genovesi di ciò
non si guardavano; ma tantosto in Caffa e in Pera armarono quattordici
galee come in fretta il meglio poterono per seguitare i Turchi nel
ritorno che fare doveano a Sinopoli, e trovatili, li seguirono,
fuggendo i Turchi, tanto che per forza li feciono dare a terra colle
balestra loro, avendone molti e morti e fediti, onde i Turchi per
forza costretti furono a disarmare, e disarmati i Turchi, i Genovesi
lasciarono in que’ mari due galee armate, e l’altre disarmarono. I
Turchi veggendo queste due galee rimase tra loro, di subito cinque
n’armarono, e vennono contro quelle de’ Genovesi, le quali cominciarono
a fuggire, e’ Turchi a seguitare, tanto che essi si trovarono insieme
in alto mare. Come i Genovesi si vidono dilungati da terra, girarono
le loro galee contro le cinque de’ Turchi, e misonsi tra loro, essendo
bene ordinati, e colle loro balestra non gettavano verrettone in vano,
ma fedivano soprassaglienti e galeotti senza rimedio, onde i Turchi si
misono alla fuga, e i Genovesi li seguitarono tanto che si diedono a
terra, e salvarono i corpi delle loro galee, mortine assai di loro, e
fediti e magagnati.


CAP. LXIV.

_Come le compagnie condotte in Piemonte cominciarono a guerreggiare._

Le compagnie tratte per lo marchese e per la Chiesa di Provenza,
condotte in Piemonte in questi tempi della moria cominciata in
Milano del mese d’agosto, cominciarono a guerreggiare nel Piemonte,
dove acquistarono al marchese sette castella le più loro arrendute.
Messer Galeazzo si ridusse a Moncia fuggendo di Milano la morìa che
asprissimamente li perseguitava, avendo le sue terre fornite di buona
guardia, e in campo non mise persona: ben tentò di trarne al suo soldo
di quelli della compagnia, e d’alcuna parte li venne fatto per la forza
del fiorino d’oro, non dimanco il resto rimase sì grande, che corse
insino al Tesino senza contasto. Messer Bernabò veggendo la pestilenza
sformata in Milano, che per giorno fu che levò ottocento, e mille e
milledugento, e tal fu dì de’ millequattrocento, e ben parea volesse
ristorare i Milanesi, cui per l’altre moríe non avea assaggiati,
si partì di Milano con tutta sua famiglia, e andonne al suo nobile
castello di Marignano, il quale è verso Lodi, il luogo foresto e di
sana aria, facendo gran guardia che nessuno non gli andasse a parlare,
avendo ordinato col campanaro della torre, che per ogni uomo che
venisse a cavallo desse un tocco. Occorse che certi gentili e ricchi
uomini di Milano andarono a Marignano, ed entrarono dentro; il signore
li ricevette bene, ma turbato contro il campanaro mandò su la torre
suoi sergenti, e comandò lo gettassono della torre; i quali andati su,
trovarono il campanaio morto appiè della campana: per la qual cagione
messer Bernabò terribilmente spaventato di presente senza arresto
abbandonò il castello, e si mise nel più salvatico e foresto luogo, ove
più di due miglia da lunga fece rizzare pilastri con forche ne’ quali
era scritto, che chi li passasse su vi sarebbe appeso. Per allora in
avanti sua vita fu tanto remota e solitaria, che voce corse, e durò
lungamente, ch’egli era morto, ed egli n’era contento per farne a tempo
suo vantaggio. Giugneremo a questo, per non fare nuovo capitolo, che in
questi tempi della moria, che anche requistava in Vinegia, morì il doge
loro, e funne fatto un giovane di quarantasei anni, il quale non era di
gran famiglia, nomato Lorenzo Celso: costui per la maturità de’ suoi
costumi e virtù montò a questo onore, e innanzi ai più antichi e più
nobili cittadini oltre a loro consuetudine: e pertanto notato l’avemo,
e per la sequela del fatto.


CAP. LXV.

_Di grandi terremoti che furono in Puglia, e assai guastarono della
città d’Ascoli._

A dì 27 di luglio del detto anno, in su l’ora del vespero, furono in
Puglia grandissimi terremuoti, e apersono la città d’Ascoli di Puglia,
e quasi tutta la subissarono con morte d’oltre a quattromila cristiani.
A Canossa caddono parte delle mura della terra, e molti dificii puose
in ruina; in altre parti fece poco danno. Furono ancora in questo anno
grandine molte e sfoggiate, le quali ai grani e agli ulivi feciono
danno assai più che nell’altre stati.


CAP. LXVI.

_Delle rivolture del paese di Fiandra in questa state._

Del mese di luglio del detto anno, nella città di Bruggia fu grande
battaglia tra’ tesserandoli e folloni dall’una parte, e da’ borgesi
dall’altra per assai lieve e subita cagione, e non senza molti morti
e magagnati da catuna delle parti: e poco appresso seguitò ch’e’
tesserandoli e folloni della città depuosono il balio del conte senza
colpa apponendoli tradigione. E in que’ giorni il conte Audinarda facea
la festa della figliuola, la quale avea data per moglie al duca di
Borgogna, il quale ciò sentendo mandò pregando li Schiavini e gli altri
ch’elli attendessono tanto che egli avesse sua festa fornita, dicendo,
che poi terrebbe giudizio del balio suo, e che se lo trovasse colpevole
si rendessono certi che ne farebbe a loro sodisfazione rilevata
giustizia e vendetta. I bestiali e arroganti di quei mestieri recando
a vile la preghiera del conte, in vergogna e dispetto suo appendere
lo feciono alle finestre del suo palagio: onde il conte con tutto suo
seguito forte ne furono turbati, ma assisesi al mostrare di non calere,
nè mostrare di sua onta.


CAP. LXVII.

_Come fu decapitato messer Bocchino de’ Belfredotti signore di
Volterra, e come la città venne alla guardia de’ Fiorentini._

E’ ne pare di necessità per più brevità della nostra opera, e per
meglio dare ad intendere il fatto di che dire intendiamo, raccogliere
alquante cose, le quali in piccolo trapassamento di tempo hanno fine
straboccato. Messer Francesco de’ Belfredotti da Volterra sopra il
ciglio di Volterra tenea la forte rocca di Montefeltrano, e messer
Bocchino di messer Ottaviano suo consorto era signore della terra, il
quale cupido d’aumentare sua tirannia, con solleciti aguati cercava
di torre a messer Francesco detta fortezza, e dopo la morte di
messer Francesco, messer Bocchino non lasciava stare i figliuoli in
Volterra. Il perchè il comune di Firenze sentendo la detta dissensione,
perchè non terminasse a peggio, s’interpose tra loro, e li ridusse
a concordia, e obbligaronsi insieme a pena, la quale per l’uno e per
l’altro promise il comune di Firenze per osservanza di pace; per la
quale i figliuoli di messer Francesco tornarono in Volterra sotto
l’ubbidienza di messer Bocchino. E stando senza alcuno sospetto,
all’uscita d’agosto del detto anno, il tiranno a un Volterrano,
a cui nella guerra era stato morto un suo congiunto da un altro
Volterrano amico e servidore de’ figliuoli di messer Francesco, con
segreta licenza di messer Bocchino, trovando il suo nemico a dormire
lo fece uccidere, e colui che morto l’avea con suoi parenti e amici
fece testa, perchè la terra si commosse a cittadinesca battaglia,
e alquanti degli amici de’ figliuoli di messer Francesco vi furono
morti traendo al romore, e i detti figliuoli di messer Francesco, come
era per lo tiranno ordinato, furono presi contro le convenenze per
le quali il comune di Firenze era mallevadore; il perchè il comune
per suoi ambasciadori mandò ricordando al tiranno li dovesse piacere
non farli questa vergogna, dicendo, come a richiesta e preghiera di
lui avea promessa sua fede. Il tiranno con simulate parole tenea gli
ambasciadori a parole, e dal malvagio proponimento non si toglieva.
I Fiorentini veggendo che le parole non ammollavano le parole finte
e mal disposte del tiranno, e sentendo che ciò che fatto avea era
contro alla comune volontà de’ Volterrani, e temendo che la cosa
non avesse mal fine e pericoloso per lo comune, non furono lenti, ma
prestamente mandarono gente d’arme, e fornirono la rocca de’ figliuoli
di messer Francesco, minacciando di guerra se non si facesse ammenda.
Il tiranno veggendo l’animo de’ Fiorentini contro a lui giustamente
irato si forniva di gente di sua amistà, e spezialmente de’ Pisani,
per riparare alla forza e mantenere sua fellonia, perseverando nel
detto malvagio proponimento. Certi cittadini di Firenze per trattato
che dentro aveano d’avere il torrione del monte, che è fuori delle
mura, domenica mattina a dì 24 d’agosto vi cavalcarono, e dalla gente
de’ Pisani vi furono scoperti, e ributtati con vergogna senza altro
danno, il perchè il comune v’ingrossò gente, e pose oste a Volterra.
La quale essendo in sul Volterrano, messer Bocchino per dispetto de’
Fiorentini trattò di dare la signoria a’ Pisani per trentadue migliaia
di fiorini d’oro. Il popolo di Volterra sentendo ch’e’ si trattava
di venderlo, e farli schiavi de’ Pisani, tutti d’uno volere presono
l’arme, e corsono all’ostiere dove erano i cavalieri de’ Pisani, a’
quali incauti e sprovveduti tolsono le selle e’ freni de’ cavalli,
e ciò fatto, senza far loro altra villania li misono fuori della
terra, e loro renderono freni, selle, cavalli e armadure, e i fanti
forestieri accomiatarono, e si partirono. Ciò fatto, appresso furono
al palagio del tiranno, il quale con lunga e composta diceria volendo
tiranneggiare li animava a mantenere loro libertà e franchigia, e
quinci li credette dal loro proponimento levare, ma i terrazzani
trafitti dalle sue crudeli operazioni a suo dire non prestarono
orecchie, ma sdegnosamente rispuosono, che bene saprebbono usare loro
libertà, e che per ciò fare voleano in guardia lui, e sua famiglia, e
certi suoi congiunti, e a Firenze mandarono per capitano di guardia, e
a Siena per podestà. Il capitano prestamente vi fu mandato un popolano,
e dietro ad esso mandati furono quattro ambasciadori, e simile feciono
i Sanesi. I Fiorentini temendo i movimenti de’ popoli vari, e vani e
instabili, al continovo vi facevano cavalcare gente d’arme, e a cavallo
e a piè, ancora perchè a loro parea che i Volterrani volessono col
braccio de’ Sanesi raffrenare il nostro comune: il perchè alla gente
de’ Fiorentini segretamente fu comandato, che procacciassono delle
castella de’ Volterrani, i quali cavalcarono a Montegemmoli, ed ebbonlo
per forza, ed a il loro Montecatino, e anche l’ebbono, e così più altre
castellette. I Volterrani mandarono a Firenze loro ambasciadori per i
quali domandavano libertà con l’ammenda de’ loro dannaggi, eleggendo
capitano di guardia di Firenze: la cosa per più giorni stette in
controversia e in dibattimento. I Fiorentini che in Volterra aveano i
loro ambasciadori, e il capitano, e gran parte de’ nove, e di buoni
popolani la maggior parte a loro segno feciono strignere la gente
dell’arme vicino alle mura di Volterra, avendo presentito che la setta
che voleva i Sanesi la notte vi doveano mettere gente d’arme, e così
di vero seguiva, che la notte cinquanta cavalieri e centocinquanta
fanti alla condotta d’alcuno de’ Malavolti, giugnendo con la gente alla
fonte presso alla terra, cadde nell’aguato de’ Fiorentini, e fu preso
con tutta la gente, e facendo vista di non conoscerli, loro fu tolta
l’arme e’ cavalli, ma poichè per lingua e nome si furono palesati,
ripresi da’ capitani dell’impresa facevano contro al comune di Firenze,
assai cortesemente fu loro renduta l’arme e’ cavalli, e rivolti per
la via ond’erano venuti, con assai vergogna di loro matta arroganza e
presunzione. Il popolo di Volterra di suo errore ravveduto la guardia
del cassero della città diedono a’ Fiorentini. I Sanesi ch’erano in
Volterra senza aspettare comiato si partirono, e’ Fiorentini del tutto
rimasono signori, con certe convegne, che i Volterrani promisono in
perpetuo d’avere gli amici del comune di Firenze per amici, e i nemici
per nemici, e che la rocca dieci anni si guardasse per i Fiorentini,
e del continovo debbino prendere capitano di popolo di Firenze; e per
loro ordine hanno fatto, che da Pisa, nè nella città nè nel contado
loro non possa venire uficiali nè alcuno altro d’alcuna città o terra
presso a Volterra a trenta miglia; e passato il tempo di quelli nove
uficiali ne furono altri. E il popolo di Volterra al tutto volle che
’l capitano di Firenze che v’era facesse tagliare la testa a messer
Bocchino, e così fece una domenica mattina a dì 10 d’ottobre del detto
anno, messo prima nella terra la cavalleria de’ Fiorentini con volontà
del popolo, il quale la ricevette a grande onore.


CAP. LXVIII.

_Come il patriarca d’Aquilea fu a tradimento preso dal doge d’Osteric._

Fama era per tutta Italia per lungo tempo, la quale si trovò in
fine non vera, che ’l doge d’Osteric era dall’imperadore fatto re di
Lombardia, ma quale la cagione si fosse, mosse di suo paese con grande
compagnia di gente d’arme, e passò nel patriarcato d’Aquilea del mese
detto, dove confidentemente fu ricevuto. Il patriarca avea ripresi
di sue ragioni certi paesi d’entrata di fiorini cinquemila per anno o
più al patriarcato, i quali dal duca vecchio erano stati occupati al
tempo della vacazione del patriarcato. Questo duca movendo questione
al patriarca di queste terre, vennono a concordia di stare di ciò alla
sentenza dell’imperadore suocero del detto duca: e per trarre la cosa
a pacifico fine di concordia si mossono di là, e in compagnia andavano
all’imperadore, ed entrati nelle terre del duca nella città di Vienna,
sotto colore di fare onore al patriarca il duca li fece apparecchiare
un grande ostiere, e credendo il patriarca l’altro dì con lui seguire
il suo viaggio, vi si trovò arrestato e preso; e domandandoli delle
terre del patriarcato, il valente patriarca, messo sua persona a
non calere, fece per suo segreto e fidato messo, e con sua lettera e
suggello comandamento a tutti i sudditi suoi, che per niuno caso che
gli avvenisse niuna glie ne dessono. Il patriarca era messer.... della
Torre di Milano, prelato antico e di buona fama. Questa fu la riuscita
della grande fama del detto duca per lo reame d’Arli, la quale per
più riprese fece ristrignere a parlamento i signori di Lombardia per
provvedere a loro difesa.


CAP. LXIX.

_Di fuoco che senza rimedio arse in Roma san Giovanni Laterano._

Egli è da dolere a tutti i cristiani quello che ora sono per narrare
della nobile e venerabile chiesa di san Giovanni Laterano di Roma, e
ciò pare piuttosto ammirabile che degno di fede. Uno maestro ricopriva
il tetto della nave maggiore della detta chiesa, la quale essendo
coperta di piombo conveniva che con ferri roventi le congiunture delle
piastre si congiugnessero per ammendare i difetti, ed avendo il maestro
il fuoco acceso di carboni sopra il tetto, per sinistro avvenimento
un poco di carbone cadde, e come che si entrasse, senza avvedersene il
maestro si posò sopra una trave, e quella incese, e appresso con quella
tutto l’altro edifizio senza potere essere atato a spegnere, non che
grande popolo non vi traesse con ogni argomento, ma quasi come fosse
volontà di Dio tutta la nave della chiesa, e tutte l’altre parti di
quella, e tutte le cappelle con quella di Sancta Sanctorum arse, che
nulla vi restò fuori che le mura, con danno inestimabile del costo di
tale e tanto edificio: è vero che le reliquie di Sancta Sanctorum si
camparono; e ciò avvenne del mese d’agosto del detto anno. Giugnendo
fuoco a fuoco, in questo medesimo tempo nelle contrade di Bossina fuoco
cadde da cielo, e arse gran paese senza riparo nessuno.


CAP. LXX.

_Del maritaggio del duca di Guales primogenito del re d’Inghilterra._

Contato avemo addietro le prodezze e grandi valentrie del duca di
Guales primogenito del famoso re Adoardo d’Inghilterra, a cui vivendo
la corona succedè. Costui in questi giorni si tolse per moglie una sua
consobrina contessa di Chienne, la quale era di tempo, e vedova di due
mariti di piccoli baronaggi, e aveva fatti più figliuoli. La maraviglia
che di ciò prese chiunque sapea suo alto stato, vita e condizione, ce
n’ha fatto qui fare nota, forse con iscusa alcuna.


CAP. LXXI.

_Come papa Innocenzio riformò santa Chiesa de’ cardinali morti per la
morìa._

Erano morti in pochi dì nella corte di Roma il vicecancelliere di
Preneste, il cardinale Bianco, quello d’Ostia e di Velletri, quello
di Calamagna, messer Andrea da Todi detto il cardinale di Firenze,
il cardinale della Torre, e quello che fu generale de’ frati minori,
e un altro. Il papa volendo riformare santa Chiesa di cardinali, nel
tempo delle digiune del mese di settembre dello anno ne fece altri
otto: il cancelliere di Francia, l’arcivescovo di Ravenna assente, che
poi morì in cammino, ed era Caorsino, l’abate di Clugnì Borgognone,
il vescovo di Nemorsi Francesco, l’arcivescovo di Carcassone nipote
del papa, messer Guglielmo suo referendario ch’era di Limosi, il
figliuolo di messer Pietro da san Marcello, e l’arcivescovo d’Aques in
Guascogna, tutti oltramontani, e niuno ne fece Italiano, dimostrando
che di visitare la cattedra di san Piero a Roma era strano al tutto del
desiderio e appetito degl’Italiani.


CAP. LXXII.

_Come il re Buscialim della Bellamarina fu morto, e delle rivolture di
Granata._

Regnando Buscialim in Fessa, ed essendo tornato al regno con l’aiuto
del re di Castella, certi caporali cristiani e mori del detto re si
levarono senza cagione debita contro al re, e uccisonlo, dicendo,
che loro non dava loro soldi, ma il vero fu, che morire lo feciono
perchè egli era troppo amico del re di Castella, e la cagione si
prese, perocchè avendo il re di Castella guerra col re di Granata,
mosse Maomet cacciato dal detto re di Granata, che dovea essere re
egli, a ritornare nel paese, e il re Buscialim a petizione di quello
di Castella avea scritto a tutti i rettori delle sue terre ch’avea in
Ispagna, che ubbidissono il detto Maomet come la sua persona, della
qual cosa turbati i Mori uccisono il loro re Buscialim; e morto costui,
feciono re un Busciente, ch’era in prigione fratello del detto re,
ma non era di sana mente, e però altri governava il reame, e costoro
incontanente contramandarono a’ balii delle terre di Spagna, che non
lasciassono entrare Maomet in loro terre. E poco appresso, del mese
di novembre del detto anno, quelli di Fessa, vedendosi avere il re
smemoriato, mandarono ambasciadori a Sibilia a un giovane della casa
reale di Bellamarina, il quale si stava a Sibilia con un altro suo
fratello minore assai poveramente: gli ambasciadori lo addomandarono,
il re di Castella li fece armare una galea e menarlo a Setta, e di là
per terra il condussono a Fessa, e in ogni parte fu ricevuto per loro
re, e l’altro ch’era mentecatto fu rimesso in prigione: e allora il re
di Castella fece pace co’ Mori, e con il loro novello re ritenne grande
amistà, e da lui ricevette ricchi doni.


CAP. LXXIII.

_Come la compagnia spagnuola ch’era nel vescovado d’Arli prese Vascona,
e poi ne furono cacciati._

In questi dì la compagnia degli Spagnuoli ch’era in Provenza per una
notte feciono una lunga cavalcata ed entrarono in Venisì, e improvviso
a quelli di Vascona entrarono nella città, e uomini e femmine con
arnesi con grandissimo danno e di cittadini e di forestieri recarono in
preda; e intendendo così fornito a volersi partire, ma i paesani d’ogni
parte sopravvennono prestamente loro addosso, e furono tanti, che per
forza vinsono la compagnia, e con gran danno d’essa racquistarono la
preda, e cacciaronli del paese.


CAP. LXXIV.

_Come si scoperse che messer Bernabò era vivo, e ’l trattato tenea del
castello di Bologna._

Essendo tanto stata la fama di non sapere novelle di messer Bernabò,
che li più affermavano che morto fosse per molti indizi e congetture
che ciò parevano mostrare, esso in questi giorni lavorava alla coperta
colla lima sorda, nulla dimostranza dando di sè, ma piuttosto ampiando
la fama della morte sua, e cercava trattato, lo quale ordinato avea
con uno Spagnuolo e due suoi famigli, a’ quali in grande confidanza
il legato di Spagna avea accomandato la guardia del castello della
porta che va verso Modena di Bologna: costui per ingordo boccone di
danari per tornarsi ricco a casa l’avea promesso a messer Bernabò, e di
ciò era stato il motore a messer Bernabò messer Giovanni da Bileggio
mentre che là era in prigione, anzi che mandato fosse ad Ancona, e
dovea averlo la notte di san Bartolommeo d’agosto: e scopersesi questo
trattato per un ragazzino che venne al castellano di notte, e fu preso.
Per questa cagione messer Bernabò venne in persona a Parma con duemila
barbute non sapendosi la cagione nè il perchè, se non che scoperto il
tradimento si tornò alla caccia, e il castellano con gli altri che gli
erano consenzienti in Bologna furono attanagliati e impiccati.


CAP. LXXV.

_Come si scoperse in Perugia una gran congiura di notabili cittadini
per mutare stato e reggimento._

Erano nella città di Perugia in questi tempi molti e molti cittadini,
e gentili uomini e popolari di buone e antiche famiglie d’animo
guelfo, le quali quasi del tutto erano schiusi dagli ufici e governo
della città, reggendosi la terra per popolani mezzani e minuti, sotto
la guida e consiglio della famiglia de’ Michelotti e di Leggieri
d’Andreotto, il quale a quel tempo era il da più, e il maggiore
cittadino di Perugia, e il più creduto dal popolo, e molte altre
famiglie di buoni popolari e uomini singolari da molto che teneano con
loro sotto il nome e titolo di Raspanti. Quelli ch’allora s’appellavano
i mali contenti, e mossi e sollecitati con ammirabile astuzia da uno
Tribaldino di Manfredino spirito malizioso, sagacissimo e inquieto, le
cui operazioni dipoi scoperte li feciono dai suoi cittadini meritare il
nome del secondo Catilina; e forse non indegnamente, perocchè facendo
comparazione da città a città, non era minore quella di Tribaldino
verso di sè, che quella di Catilina verso di sè. La congiura fu per
lui lungamente guidata tanto copertamente e cautamente, che niuno
segno se ne potè vedere nè scorgere per i reggenti, e infra l’altre
sagaci cautele, che ne usò molte, fu questa, che per li parenti e
amici ch’avea intra i reggenti sovente facea falsamente muovere che
trattato v’era nella terra, il quale criato era, e trovato non vero,
il perchè spesseggiando ai priori e a’ camarlinghi di Perugia in cui
stava il tutto del reggimento, era venuto a rincrescimento e a niente
che si ragionasse di trattato, nè prestavano orecchi nè davano fede: e
ciò fece il malvagio traditore, perchè quando il vero trattato venisse
in campo senza prendere avviso il governo della città, più certamente
e più liberamente avesse l’effetto suo. Quelli cui ’l malvagio
uomo trasse in congiura furono questi: messer Averardo di...... da
Montesperello, messer Guido dalla Cornia, messer Alessandro.......
messer Giovanni di....... da Montemellino, messer Niccolò di......
delle Mecche, messer Tivieri di...... da Montemellino, tutti cavalieri,
Colaccio di Cucco de’ Baglioni, Francesco di messer Rinuccio da......
detto il Zeppa, Francesco di messer Andrea e Iacopo di messer Guido da
Montemellino, Piero di Neri delle Mecche, Erculano di........ Mattiolo
di....... e....... detto lo Squatrano, con altri simili in numero di
più di quarantacinque gentili uomini e popolani, con seguito d’altri
novantaquattro che ne furono condannati, ed oltre a quattrocento altri
cittadini, i quali per non fare troppo gran fascio furono lasciati
addietro. Costoro aveano fatto loro capitani Colaccio di Cucco de’
Baglioni, il Zeppa di messer Rinuccio e Mattiolo di...... e nelle loro
mani aveano giurato. Costoro a un giorno preso doveano correre la
piazza, e pigliare il palagio de’ priori e delle signorie, perocchè
come detto è pensavano per le beffe de’ trattati non veri trovare i
priori addormentati: per la città a’ loro seguaci dispersi in vari
luoghi deveano fare infocare case per tenere alla bada de’ fuochi
i cittadini, doveano uccidere i priori e’ camarlinghi, e qualunque
innanzi loro si parasse senza riguardo d’amico o di parente. Messer
Averardo dovea stare di fuori a sollecitare i loro lavoratori, e amici
del contado e le loro amistà, e a ribellare delle castella. E per
certo il sollecito reo uomo seguendo lo stile di Catilina avea dato
ordine, che se Dio non avesse posto il rimedio a tanto pericolo, per
certo la città ne venia in desolazione e tirannia. Esso Signore che
tutto vede puose nel cuore a messer Tivieri da Montemellino, uno de’
principali congiurati, che lo revelasse, acciocchè tanto pericolo e
male non fosse; il quale essendo quasi vicino a Leggieri d’Andreotto,
sotto sicurtà della sua persona senza domandare altro merito gli
rivelò il fatto, il quale di presente n’andò in palagio de’ signori,
e quivi con loro, e co’ camarlinghi, e con gli altri dello stato si
mise a’ ripari. Fu preso messer Niccolò delle Mecche, e Ceccherello
de’ Boccoli con quattro loro masnadieri di nome, e con sette altri
mascalzoni, gli altri congiurati tutti si dierono alla fuga. Seguette,
che il dì di santo Michel Agnolo si fece l’adunanza generale, che noi
diciamo parlamento, nella quale si determinò, che i detti cavalieri,
gentili uomini e popolani, insino nel numero di quarantacinque,
fossono condannati per traditori e rubelli del comune di Perugia
infino...... e che altri novanta secondo loro gravezze di loro colpe
fossono condannati di danari, e alcuni a stare a’ confini; gli altri
per meno male passati furono sotto silenzio. Più vi si provvide, che
Tribaldino guidatore e ordinatore del male, con messer Averardo, e con
alquanti degli altri più focosi principali fossono dipinti _ad eternam
rei memoriam_ colle mitere in capo in piè della piazza nella faccia
del casamento del maggior sindaco: e così seguitò, che messer Niccola
delle Mecche, e Ceccherello de’ Boccoli con i quattro masnadieri furono
decapitati, e i sette mascalzoni furono appesi; gli altri tutti ebbono
bando come nell’adunanza era ordinato, e così furono dipinti quelli che
doveano esser dipinti. Bollendo e ribollendo ragionevolmente la città
in questo stato dubbioso e sospetto, come il male venne agli orecchi
del nostro comune tantosto vi mandò ambasciadori con cento uomini di
cavallo. I Pisani domandato licenza di mandarvi cento cavalieri per
lo nostro contado, e liberamente ottenuto, anche vi mandarono loro
ambasciadori con la detta gente, i quali co’ nostri insieme assai
temperarono l’animo voglioso e crucciato debitamente de’ Perugini.


CAP. LXXVI.

_Come in questi giorni in Pisa ebbe gelosia di loro stato, e della
difensione che saviamente ne presono._

In questi medesimi dì all’entrata d’ottobre, essendo Piero Gambacorti
in Firenze, rotti i confini i quali avea a Vinegia, alquanti artefici
e certi mercatanti pisani, che per lo partimento che i Fiorentini
aveano fatto di Pisa e per loro cagioni, anzi quasi tutti i mercatanti
forestieri che trafficavano co’ Fiorentini, e i reggenti che n’erano
stati cagione udivano e sentivano costoro e molti altri di ciò
rammaricare, dicendo, come al tempo de’ Gambacorti godeano la pace co’
Fiorentini, e’ guadagni del porto, e delle mercatanzie e dell’arti,
e che loro era faltato e il procaccio e ’l guadagno; o che questa
fosse la cagione, o che di loro sentissono alcuno trattato con Piero
Gambacorti, ventidue ne presono, e a quattro de’ mercatanti feciono
tagliare la testa; li altri si riserbarono in prigione, e a molti
diedono i confini.


CAP. LXXVII.

_Come i Sanesi sotto la rotta fede ebbono la signoria di Montalcino._

In questo mese d’ottobre del detto anno, Giovanni d’Agnolino Bottoni
con centocinquanta cavalieri e ottocento pedoni cavalcò improvviso
sopra Montalcino per rimettervi gli usciti ch’erano suoi amici, e
questo fece con ordine d’alcuno trattato ch’avea nella terra, ma i
terrazzani presti alla difesa tolsono ardire di muoversi dentro a chi
n’avea sentimento. Vedendo Giovanni che ’l trattato ordinato non gli
venia fatto, per ricoprire sua intenzione si stava loro intorno. I
terrazzani, che erano ubbidienti e in pace co’ Sanesi, maravigliandosi
di questa novità mandarono a Giovanni di fuori a sapere perchè facea
questo, e quello volea da loro: il savio e accorto disse, che volea
che fossono in accordo col comune di Siena: i semplici terrazzani,
sentendosi amici e ubbidienti al comune di Siena, elessono ventiquattro
della loro terra i maggiori e più potenti che v’erano, e mandaronli
per ambasciadori a Siena. Giovanni avvisò l’uficio de’ signori, come
era tempo d’avere libera la signoria di quella terra, avendo appo
loro li ventiquattro ambasciadori ch’erano il tutto della terra, ed
egli essendo là con forza d’arme, la quale si fè accrescere, diceva
di strignerli e tenerli in paura. Gli ambasciadori giunti a Siena, e
fatta la riverenza, e sposta la loro ambasciata, ebbono per risposta,
che non si partirebbono da Siena, che Montalcino sarebbe libero alla
guardia de’ Sanesi; la cosa non potè avere contradizione, e però
convenne ch’avessono libero Montalcino, e avuto, rimandarono indietro
i ventiquattro ambasciadori sani e salvi, e smisurata festa in Siena se
ne fece.


CAP. LXXVIII.

_Come i Turchi presono la città di Dometico ch’era dell’imperadore di
Costantinopoli._

Del mese di novembre del detto anno, un grande signore de’ Turchi
di Boccadave, sentendo l’imperadore di Costantinopoli giovane, e in
discordia co’ suoi per la ragione già detta di Mega Domestico cui egli
perseguitava, e altre volte essendo suo balio avea occupato l’imperio,
accolse di suoi Turchi grande esercito, e vennesene ad assedio alla
nobile e antica città oggi chiamata Dometico, la quale siede tra
Costantinopoli e Salonicco, presso a quattro giornate a Costantinopoli,
la quale appresso Costantinopoli solea essere sedia imperiale. I
cittadini sentendo che Orcam con grande quantità di Turchi venia loro
addosso, e non vedendo onde potesse a loro venire soccorso, inviliti
(come è la volontà di Dio per la loro contumacia contro a santa
Chiesa) abbandonarono la città forte e difendevole per lungo tempo, e
abbondevole a sostenere sua vita. Orcam trovandola abbandonata v’entrò
dentro co’ suoi Turchi, e misevi gente ad abitare e alla guardia con
vittoria senza fatica, e si ritornò in suo paese con gran vergogna e
vitupero e abbassamento dell’imperio di Romania.


CAP. LXXIX.

_Come il re di Castella mosse guerra a’ Mori di Granata, e al loro re
Vermiglio._

Fermata la pace dal re di Castella a quello d’Araona del mese di
settembre del detto anno, e tornato il re di Spagna in Sibilia con
sua cavalleria, Maometto già stato re di Granata e cacciato dal re
Vermiglio, come di sopra dicemmo, esso re di Spagna col detto Maometto
cavalcò in Granata, e nel paese fece danno assai e d’arsione e di
preda, e lasciato Maometto alle frontiere con sue genti e co’ cavalieri
castellani a sufficienza a poter far guerra, del mese d’ottobre si
tornò a Sibilia. Di poi a tempo ritornò a oste sopra il re di Granata,
e stato sopra lui lungamente, in fine non avendo soccorso da’ suoi
saracini del Garbo e di Bellamarina, perchè erano collegati col re di
Spagna, disperato s’arrendè a quello di Spagna, il quale avuto e lui
e suo reame ne fè che al re Vermiglio fece tagliare la testa, e fece
re uno de’ reali della Bellamarina suo confidente, il quale da lui
riconobbe il reame, e gli promesse suo aiuto e di suoi saracini in
tutte sue guerre, e appresso li promesse ogni anno certo tributo.


CAP. LXXX.

_Come gli usciti Perugini presono per furto Civitella de’ Benazzoni, e
poi l’abbandonarono._

I nuovi usciti di Perugia avendo per viltà abbandonate le loro
forti tenute al comune di Perugia, in una cavalcata di due bandiere
di cavalieri per furto entrarono poco appresso in Civitella de’
Benazzoni, assai forte castello e ben guernito. I Perugini di presente
vi mandarono quaranta bandiere di cavalieri e con popolo grande, e
puosonvisi ad oste. Gli usciti veggendosi male ordinati da potere
attendere soccorso, per lo mene reo, come per furto l’aveano preso,
così per furto se n’uscirono, avendo il nome la notte di quelli del
campo, e ridussonsi a un castello ivi presso ch’era degli Spuletini,
e quindi se ne vennono ad abitare ad Arezzo, cercando rimedii a loro
fortuna.


CAP. LXXXI.

_Come i Bolognesi cominciarono a cavalcare sopra gli Ubaldini._

Essendo in Bologna speranza della pace, la quale parea ferma dal
legato a messer Bernabò, e per tanto avendo alcuna speranza di potere
sollevare le fatiche, sentendo che gli Ubaldini per tutta la boce della
pace non si rimaneano di far danno e noia alla strada, cavalcarono
sopra di loro, e raccolsono preda, e feciono danno nel paese. Gli
Ubaldini gli lasciarono cavalcare, e ridussonsi a’ passi, e alla
ritratta assalirono i Bolognesi, e rupponli, e racquistarono la preda,
e vendicarono loro ingiuria. I Bolognesi all’uscita di novembre detto
anno ricavalcarono con più ordine e forza sopra loro, e arsono e
guastarono più e più villate, e senza contasto si tornarono a casa.


CAP. LXXXII.

_Del trattato delle compagnie che doveano entrare in Avignone._

La compagnia spagnuola accozzata con un’altra in Provenza aveano
trattato con certi forestieri di più lingue ch’erano in Avignone come
di furto potessono entrare nella città, dove speravano fare il sacco,
ma non fuori di misura, con l’aiuto di quelli d’entro, che prometteano
dare l’entrata, e per questa cagione di subito cavalcarono, e vennono
infino presso alla città. La cosa si scoperse perchè era vogliosa,
e con poco ordine e meno forza: dentro furono presi circa a trenta;
alcuni ne furono decapitati, e alcuni impiccati, e la compagnia si
tornò addietro senza fare altro danno, e per l’innanzi in Avignone si
fè più sollecita guardia, e ciò fu all’uscita del mese di novembre del
detto anno.


CAP. LXXXIII.

_Come i Pisani perderono Pietrabuona e vi puosono l’assedio, dove
stando vollono torre Sommacolonna per incitare i Fiorentini a guerra._

Fu di sopra a suo luogo narrato, come i Pisani per soperchio d’astuzia
aveano costretto i Fiorentini levare il porto da Pisa e recarlo
a Talamone, e tutto ch’a’ Fiorentini sconcio e spesa fosse, tutto
lietamente si comportava, mostrando a’ Pisani che poteano fare senza
loro. E del fatto a littera ne seguiva quello che Piero Gambacorti
detto n’avea a quelli mercatanti che al detto tempo si trovarono su il
Rialto in Vinegia, dove il detto Piero era confinato quando la novella
vi venne, che fu in questa maniera: Fiorentini, Fiorentini, se state
fermi in vostro proponimento, Pisa in piccolo tempo diventerà un bosco:
e veramente così ne seguia, perocchè essendo partiti i Fiorentini da
Pisa, tutti coloro che con loro mercatavano e trafficavano, con quelli
ch’a’ loro servigi rispondeano aveano fatto il simigliante, il perchè
le case, i fondachi, e la terra tutti rimaneano oltre a mezza vota, e
i mestieri degli artefici in gran dannaggio, onde il soprassenno de’
Pisani raccortosi di suo errore cercò per molte vie oneste e piacevoli,
e a’ Fiorentini vantaggiose e onorate, di ritornarli a Pisa, e ciò non
potendo ottenere, e seguendo del fatto, che quelli che teneano lo stato
e governo della città n’erano caduti nell’odio e mal volere del popolo
e de’ mercatanti, e stavano in paura del perderlo, avendo del continovo
alla coda gli aderenti, seguaci e amici de’ Gambacorti, i quali erano
di fuori e li sollecitavano; onde essi sottilmente pensarono di fare
disfare due chiovi a uno caldo col fuoco della guerra, l’uno, di
unire il popolo consueto nemico de’ Fiorentini e sopra modo parziale
con la guerra, l’altro, che seguendo pace della guerra, come suole,
patteggiare nella pace la tornata del porto: e per dette cagioni con le
loro vie coperte e sagaci, per non parere d’essere i motori al rompere
della pace, presono questa cautela, che una volta e più fittizziamente
e simulatamente bandeggiarono di loro cittadini, contadini e
distrettuali, uomini atti a cercare mutazioni e riotte, nominati e di
seguito, disposti a fare piuttosto il male che ’l bene, e questi in
diversi luoghi e tempi tolsono certe tenutelle del distretto del comune
di Firenze di poca importanza; onde il comune secondo i tempi più volte
ne mandò ambasciadori a’ Pisani, e quello ne rapportavano era: E’ ce
ne pesa, sono nostri forbannuti, e loro appresso di voi semo acconci a
perseguitare infino a morte e desolazione. Il comune di Firenze per non
essere abominato di corrompere la pace se la portava pazientemente, e
con infignere di non se n’avvedere; nè pertanto si rimaneano i Pisani
di seguire la mala regola presa, cercando al continovo per questa via
di torre delle terre a’ Fiorentini, e non delle peggiori, il perchè
a’ Fiorentini fu forza a prendere loro costume, e con un Giovanni da
Sasso famoso caporale e atto all’arme feciono tentare segreto trattato,
che togliesse a’ Pisani il castello di Pietrabuona, il quale è vicino
a Pescia, e così seguì, avendo prima per colorati misfatti ricevuto
bando a Firenze della persona. A’ Pisani parendo loro avere ottenuto
loro talento subitamente con grande ordine e sforzo assediarono il
castello per forma, che niuna forza d’arme glie ne arebbe potuti
levare, nè tor loro non lo racquistassono. Stando al detto assedio,
veggendo non bastavano l’occulte a incitare e muovere i Fiorentini alla
guerra, vennero alle aperte, e del mese di gennaio preso loro tempo si
credettono furare Sommacolonna, e cavalcaronvi sforzatamente, ma non
venne loro fatto. E per arrogere all’ingiuria, avendo i Fiorentini loro
gente alla guardia di Pescia e dell’altre terre della Valdinievole,
certi conestabili de’ loro a loro diletto usavano d’andare il dì
sul poggio della Romita sopra a Pietrabuona, il quale era terreno
de’ Fiorentini, e ivi si stavano a vedere badaluccare e gittare i
trabocchi; i Pisani posto loro aguati li assalirono e uccisonne sette,
e gli altri ne menarono a prigioni, e diedono palese e aperto principio
della guerra.


CAP. LXXXIV.

_Come fu sorpreso il conte di Savoia dalla compagnia bianca co’ suoi
baroni, e ricomperaronsi con gran quantità di moneta._

In questo medesimo tempo, essendo venuto il conte di Savoia di qua
da’ monti a una sua terra che si chiama...... con molti baroni e
cavalieri di sua contea, non prendendosi guardia, la compagnia bianca,
la quale era vicina a quelli paesi, si mosse una notte facendo molto
lungo e disordinato cammino, e sorprese il conte e’ baroni alla terra
senza alcuna resistenza, salvo che ’l conte con pochi si rifuggì nel
castello, gli altri tutti furono prigioni: e il conte assediato e
sprovveduto, veggendosi a mal partito, trasse accordo, e tra di sè e di
suoi baroni, e de’ cittadini della terra e delle cose loro, che tutto
era in preda, venne a composizione di dare alla compagnia in diversi
termini fiorini centottantamila d’oro, parte allora, e del resto
fermezza, sicchè tutto lasciarono, e tornarsi in Piemonte.


CAP. LXXXV.

_La cavalcata che Piero Gambacorti fè sopra i Pisani._

Essendo Piero Gambacorti in Firenze, e avendo da’ suoi amici di Pisa
sollecito conforto, che procacciasse d’appressarsi alla terra con
alcuna forza, dicendo, che dove i cittadini il sentissono farebbono
novità contro i reggenti, ch’erano comunemente mal voluti. Avvenendoli
per caso che all’uscita di gennaio a Firenze erano col conte Niccola
Unghero settecento Ungari usciti del Regno, i quali doveano andare in
Piemonte in servigio del re Luigi, ma non avendo loro paga ordinata
per lo re cercavano condotta, e i Fiorentini non li voleano, perchè non
n’aveano bisogno, e non voleano un capo con tanta gente d’una lingua;
in questo a Piero Gambacorti crebbe l’animo per lo conforto de’ suoi
amici, e condusse questo conte co’ suoi Ungari, ed ebbe alcuno aiuto
da certi usciti di Lucca, e seguito di più di dodici centinaia di
fanti, niente essendoli contradetto dal comune di Firenze, e a dì 27
di gennaio uscirono di Firenze, e a dì 28 furono in Valdera, e certe
terricciuole l’ubbidirono, e non volea far guasto nè lasciare fare
preda, di che gli Ungari e i briganti n’erano assai malcontenti. I
Pisani di presente mandarono a Firenze per sapere se il comune movea
questo, e fu risposto di no; e per abbondante mandarono bando l’avere
e la persona che niuno Fiorentino contadino o distrettuale non dovesse
andare contra i Pisani, e chi andato vi fosse, sotto la detta pena se
ne dovesse partire. I briganti non potendo guadagnare se ne partirono
per lo disagio più che per lo bando, e rimase Piero con gli Ungari e
con gli altri forestieri. Gli astuti e maliziosi Pisani vedendo che
altri che Piero non era a guidare questa gente, costrinsono per forza i
più intimi amici ch’avesse in Pisa, e fecionli scrivere da più parti a
un modo, che si dovesse guardare la persona, perocchè gli Ungari aveano
trattato di darlo preso a’ Pisani, e d’averne fiorini ventimila d’oro.
Egli era a Peccioli quando le lettere di più parti li vennono, cominciò
a dubitare, e a stare a riguardo, e vedendo l’adunanze degli Ungari
parlare insieme, e non intendendoli, pensò che eglino il dovessono
pigliare, e vedendosi presso a Volterra, senza congio con sua gente diè
degli sproni al cavallo, e partissi dagli Ungari. Fu detto che alcuni
il seguitarono, ma il vero fu poi certo che tutto fu fatto a mano per
l’astuzia de’ Pisani. Gli Ungari il primo dì di febbraio senza far
danno in alcuna parte si ritornarono a santa Gonda, e poi a Firenze.


CAP. LXXXVI.

_Come il re Luigi prese le terre di messer Luigi di Durazzo e lui mise
in prigione, e trasse del Regno la compagnia._

Era Anichino di Bongardo stato lungamente stretto dagli Ungari in certe
terre che teneano di messer Luigi di Durazzo, e non avendo potuto
guadagnare erano in male stato, e cominciando a perdere delle terre
vennono a patti d’avere sicurtà dal re, e uscirsi del Regno sotto la
sua guardia e sotto la sua bandiera, e così fu promesso, e fatto a
ciò fine. A messer Luigi dopo questo si rubellò sant’Angiolo, ed egli
vedendosi povero e mal parato si rendè al re Luigi suo cugino, e venuto
a Napoli, rendute tutte sue terre, fu messo in prigione nel castello
dell’Uovo, sperandosi per molti che il re li dovesse perdonare, ma
la sua fortuna dopo la morte del detto lo fece morire in prigione.
Anichino con la sua compagnia assai male in arnese, alla condotta di
certi baroni del re, com’era promesso, del mese di gennaio del detto
anno uscì del Regno.


CAP. LXXXVII.

_Come le compagnie si partirono di Provenza._

In questo medesimo mese di gennaio, le due compagnie ch’erano in
Provenza presono accordo co’ paesani per certa quantità di danari, e
l’una se n’andò verso la Francia, e l’altra tenne in Borgogna, chiamata
da certi baroni di Borgogna, perocchè era morto il loro duca, e temeano
del re di Francia.


CAP. LXXXVIII.

_Come fu sconfitta la gente del re di Castella dal re di Granata._

Avendo lasciato il re di Castella in Granata lo re Maometto che n’era
stato cacciato, e con lui il maestro di Ialatrenu, il detto maestro
avendo quattromila cavalieri spagnuoli e gran popolo seco, badaluccando
con la gente del re Vermiglio di Granata, con mala provvisione
ringrossò il badalucco: il re mise loro addosso subitamente molta
gente a cavallo e a piè, e combattendo insieme lungamente, in fine i
Mori sconfissono quelli di Castella, e presono il capitano e più altri
caporali, e de’ Castellani vi rimasono morti in sul campo tra cavalieri
e pedoni più di tremila, li milleottocento cavalieri; e avuto il re
Vermiglio questa vittoria, del mese di gennaio 1361, prese baldanza,
e corse colle sue genti in sulle terre del reame di Castella, facendo
spesso danno e vergogna al re di Spagna.


CAP. LXXXIX.

_Come per vendicare sua onta il re di Spagna andò sopra il re di
Granata._

Del mese di febbraio del detto anno, il re di Castella sdegnato e
infellonito contro al re Vermiglio, e contro ai suoi Mori, in furore
dell’animo suo uscì di Sibilia a dì 20 del mese, avendo prima fatto
comandamento di cuore e d’avere che catuno che potesse portare arme
il dovesse seguire in sul terreno di Granata, e subito vi si trovò
con diecimila cavalieri e trentamila pedoni in arme da combattere, e
oltre a duemila carrette con vittuaglia e dificii da combattere le
terre: e combattendo le castella, per infino a dì 22 d’aprile 1362
prese dieci forti castella piene e ubertuose, e molte altre ville di
minore fortezza, e gli uomini tutti fece servi e schiavi, e quelli
si difendevano erano morti, e quelli si rendevano salvi: per questo
avvedendosi i Mori di Malica e di Saletta che lo re di Castella era
per divenire loro signore, per non essere sottoposti a’ cristiani
deliberarono di rimettere Maometto, ch’era con il re di Castella, in
re di Granata, e incontanente lo misono in Malica, e poco appresso in
Granata, e lo re di Spagna contento di questo, avendo fornite le terre
prese, e ritenendole in sua guardia, si partì di Granata, e tornossi in
Sibilia.


CAP. XC.

_Come messer Bernabò si credette avere Reggio per trattato._

Messer Bernabò mostrandosi poco contento della pace promessa a santa
Chiesa, e usando parole contro il fratello messer Galeazzo, dicendo,
che egli avea fatto più che da lui non avea avuto in mandato intorno
alla pace, dando intendimento di volere fare maggior guerra a Bologna,
accolse molta cavalleria di sua gente, e in persona con essa ne venne
a Parma del mese di febbraio del detto anno, avvisandosi per tutto che
dovesse andare sopra Bologna, ed egli avea trattato d’avere Reggio,
ed entrarono dentro nella città circa a cinquemila masnadieri. Messer
Feltrino avvedendosi della baratta, avendo grande ardire e gente poca,
si fedì francamente fra loro; i masnadieri inviliti per tema di maggior
forza vedendo l’ardire pensarono a campare, e molti ve ne furono morti
e presi: sentitosi la novella, messer Bernabò si ritornò addietro.
Appreso messer Bernabò che ’l verno era già passato, e che il tempo
atto alla guerra ne venia, e che la mortalità era a lui riuscita con
grande acquisto per quelli che morti erano senza eredi, i beni de’
quali erano incorporati alla camera del comune la quale era sua, e
sentendo che la Chiesa era in poco podere di gente d’arme, e Bologna
mal fornita, cominciò a domandare cose che mai non erano state, non
che addomandate, ma nè pensate, e perciò mandò a corte di Roma suoi
ambasciadori per terminare le dette domande; e infra l’altre arroganti
domande fece chiedere che voleva il figliuolo arcivescovo di Milano, e
volea che per decreto e rescritto papale l’elezione dell’arcivescovo
fosse di elezione della casa de’ Visconti di Milano, e voleva il
vicariato dell’imperadore, ed essere da lui restituito in tutte le
sue dignitadi, e che lecito li fosse potere guerreggiare ogni terra
e signore, fuori le terre della Chiesa, con patto che la Chiesa non
se ne travagliasse, e non desse a quelle le quali egli guerreggiasse
nè favore nè aiuto in alcuno modo, mettendo per sospetti i signori e
comuni nominati per la guardia di Bologna, tanto ch’egli fosse pagato,
e volea che la città di Bologna si guardasse per i Pisani; e domandando
queste, e altre cose sconce e villane, al continovo non cessava
di crescere la gente dell’arme sopra la città, e di guerreggiarla
scorrendo tutto giorno fino alle porte. La Chiesa i patti che domandava
con suo onore accettare non potea, e non si potea difendere dalla forza
del tiranno nè dalla superbia sua, ricorse a Dio con singolare orazione
comandata per tutta la cristianità, e la misericordia sua tosto vi
provvedè di salutevole consiglio, come seguendo nostra leggenda trovare
si potrà.


CAP. XCI.

_Come i Pisani feciono cosa da incitare i Fiorentini._

All’entrata del mese di marzo 1361, i Pisani feciono cavalcare lor
gente a piè e a cavallo nella Cerbaia distretto de’ Fiorentini, e
levarono preda di bestiame minuto, e condussonlo al Cerruglio. I
Fiorentini di ciò sdegnati feciono della lor gente di Valdinievole
cavalcare infino alle porti di Montecarlo, e la notte misono gente in
aguato in Pietrabuona, ma i Pisani se n’accorsono, e ritennonsi dentro
al battifolle, onde la gente de’ Fiorentini si ritornò in Pescia.
Queste furono assai picciole cose, e poco degne di memoria, ma per
quello che per questi inzigamenti dipoi ne seguì, che furono grandi
cose, l’animo nostro ha patito di porre questi lievi principii.


CAP. XCII.

_Dell’operazioni delle compagnie in questi tempi._

Tornando a’ tormenti delle compagnie, in questi giorni del verno
avanti alla primavera, la Compagnia bianca col marchese di Monferrato
acquistate più castella le quali si teneano per messer Galeazzo
nel Piemonte, e più feciono loro cavalcate infino a Pavia passando
il Tesino, e quivi stati più giorni si ritornarono in Piemonte. La
compagnia la quale era in Borgogna capitanata dal Pitetto Meschino,
uomo alvernazzo e di niente, e per sua prodezza e maestria di guerra
montato in grande stato e pregio d’arme, prese in Borgogna più terre,
dove s’adagiò con la sua brigata, conturbando forte tutta la parte
del re di Francia, riguardando sempre tutti quelli che al re erano
contrari, il perchè il re condusse la compagnia delli Spagnuoli per
cacciare il Pitetto Meschino di Borgogna, i quali Spagnuoli ne’ detti
giorni erano in Berrì, e condotti, così faceano di male ad amici come
a nemici, dove stendere potessono le mani senza guastare il paese
o uccidere. La compagnia d’Anichino di Bongardo uscita del Regno, e
condotta da messer Bernabò, in questi giorni se ne venne in Toscana per
andare sopra Bologna. Così e molto più era intrigata e avviluppata la
cristianità dalle maladette compagnie in questi tempi.


CAP. XCIII.

_D’una cometa ch’apparve di marzo nel segno del Pesce._

Del mese di marzo del detto anno, apparve tra ’l levante e ’l mezzodì
sul mattutino una cometa nel segno del Pesce Con la coda lunga di
colore cenerognolo, la quale alcuni astrolaghi dissono ch’era chiamata
Ascone. Quello che di sua influenza si vidde fu, che il verno, fu
bellissimo e asciutto, e non troppo freddo, atto molto alla sementa e
coltivamento della terra; la primavera fu fresca e umida, e la state
temperata d’acque, onde ne seguì grande abbondanza. E a dì 8 d’aprile
l’anno 1362, alle due ore del dì, essendo l’aria serena e chiara uno
grande tuono si sentì in aire, lo quale molto fece maravigliare la
gente, e innanzi li venne un baleno con vapori incesi, che caddono
in Firenze sopra il fiume d’Arno e da santa Maria in Campo senza fare
alcuno danno, e l’aria rimase serena e chiara che era.


CAP. XCIV.

_Come la Compagnia bianca prese Castelnuovo Tortonese._

Del mese di marzo la Compagnia bianca essendo di lungi al contado
di Tortona per tanto di spazio, che i paesani non aveano riguardo,
partendosi di giorno, e cavalcando verso la notte, feciono a gente
d’arme smisurato viaggio, e in sul dì seppono sì fare, che la mattina
entrarono anzi dì di furto in Castelnuovo Tortonese, e come furono
dentro, chi si volle difendere uccisono, il perchè i morti si trovarono
sopra a trecento: il castello era bene di milledugento uomini.
Sentito ciò messer Galeazzo v’andò con più di tremila cavalieri e bene
quindicimila pedoni, e tutto che li paresse essere bene in apparecchio
da combattere co’ nemici non s’attentò di mettersi a partito, ma fornì
le castella d’attorno, e tornossi a Milano.


CAP. XCV.

_Come la compagnia del Pitetto Meschino sconfisse l’oste del re di
Francia a Brignai._

Lo re di Francia infiammato d’onta contro la compagnia del Pitetto
Meschino d’Alvernia suo picciolo servo fuggito, nonostante che avesse
condotta la Compagnia spagnuola contro a loro, la quale ancora non era
giunta in Borgogna, radunò prestamente del mese di marzo un’oste di
bene seimila cavalieri franceschi, e tedeschi e di altre lingue che
erano in Francia, e fattone capitano messer Giacche di Borbona della
casa di Francia con quattromila sergenti gli mandò in Borgogna. E in
que’ giorni la compagnia del Pitetto Meschino avea preso un castello
del re che si chiama Brignai, e lasciatovi alla guardia trecento
di sua compagnia, ed egli con tremila barbute e duemila masnadieri
i più Italiani ch’erano in sua compagnia era cavalcato nel contado
di Forese, facendo loro procaccio: in questo il duca di Borbona con
l’oste sua giunse e puosesi a campo a Brignai, credendolosi in pochi
giorni racquistare: e così standosi all’assedio baldanzosamente, e
senza debita provvisione e con poco ordine, avendo con l’animo grande
a vile il loro avversario, il Pitetto Meschino maestro e pratico di
arme con la brigata sua vogliosa di zuffa, e ardita e bene in punto,
essendo lontano da Brignai giornata e mezzo, avendo lingua come i
Franceschi con molto disordine si reggevano a campo, confortata sua
brigata, e animata della gran preda, con sollecito studio di cavalcare
raccorciando i cammini, avanti al giorno di più ore giunse al campo
sopra gli sprovveduti Franceschi, e senza alcuno arresto gli assalì
con grande tempesta e romore; onde tra per le terribili grida, e per
lo subito e sprovveduto assalto i Franceschi bairono, e mancarono di
cuore, e non di manco ciascuno come meglio poteo ricorreva all’armi
per difendersi, ma quelli della compagnia gli percoteano, e gli
sollecitavano sì con l’arme, che non gli lasciavano far testa; e così
quell’oste ove avea tanti baroni e valenti cavalieri sventuratamente
fu rotta e sbarattata, con molti di loro morti e magagnati: quelli
che camparono con loro cavalli e arnesi quasi tutti vennono in preda
del vassallo del re di Francia Pitetto Meschino. Messer Giacche duca
di Borbona fu a morte fedito di più fedite, ed essendo preso, vedendo
che era per morire fu lasciato alla fede, e portato a Lione sopra a
Rodano in pochi giorni passò di questa vita. Preso rimase il conte di
Trinciaville, il conte di Forese, il maliscalco di Dunan, l’arciprete
di Guascogna altra volta stato capo di compagnia, messer Broccardo
di Finistagion Tedesco capitano di millequattrocento barbute, messer
Amelio del Balzo, e il conte di Clugnì, tutti signori e gran baroni,
e assai d’altri signori e cavalieri banderesi de’ quali uscì grande
tesoro a riscatto. I soldati furono lasciati alla fede, e quelli che
in sul campo furono morti o fediti lasciarono portar via. La valuta
della preda fu tanta, che la compagnia se ne fè ricca: e per questa
vittoria presono tanto d’audacia e d’ardire, che in grande tremore
stette la corte di Roma, usa di essere pettinata dalle compagnie, che
non corressono sopra Avignone, ma tanto dimorò la compagnia in Borgogna
ch’ebbono i danari che si riscattarono i baroni e’ cavalieri. Lo re
di Francia sentita questa novella sopra modo si turbò di cuore, e osò
dire, che mai non ristarebbe, ed eziandio con porre la sua persona al
pari d’un soldato, che dell’onta ricevuta si vendicherebbe. E per non
avere più a tornare sopra la presente materia per infino che altra
gran cosa non seguisse, il Pitetto Meschino e quelli di sua compagnia
udite le minacce del re, per accrescere il dispetto e l’onta, mostrando
d’avere il re e le sue parole a vile, del mese di giugno appresso
se n’andarono vicini a Parigi, facendo gran preda e danni a’ paesani
d’intorno alla città. Io non mi posso tenere, che io non dica qui per
gl’intendenti ragionatori si misuri la gloria vana e fallace degli
stati mondani; ma nella presente materia quelli massimamente che hanno
avuto notizia della eccellenza del reale sangue di Francia, per cui al
presente è tanto vilmente calcata: e certo il Pitetto Meschino è di sì
oscuro luogo nato, che fuori del sapere che egli è Alvernazzo, non si
sa chi fosse nè madre nè padre: e questo basti.


CAP. XCVI.

_Come fu fermo lega dalla Chiesa e i signori di Lombardia contro a
messer Bernabò._

Veggendo gli altri signori della Lombardia la pertinacia di messer
Bernabò intorno al racquisto di Bologna, e che per averla di sua fede e
promessa mancava a santa Chiesa, nelle loro menti presono concetto, che
se vincesse Bologna a loro non perdonerebbe, stimando che con cagioni
controvate contro a loro volgesse la guerra con assai più vicino e
possente braccio. Il perchè entrati in sospetto e paura, con loro
segreti ambasciadori cercarono di far lega e tra loro insieme con la
Chiesa di Roma; e nel trattato occorse che il signore di Verona diede
la sorella per moglie al marchese di Ferrara; e fornito il parentado
per modo che non potea tornare addietro, il signore di Verona come a
stretto parente il fè con festa a sentire a messer Bernabò, il quale
udito il fatto a maraviglia se ne turbò, dicendo: Io son fatto cognato
di uno sterpone. Il marchese con tutto che di ciò avesse obria era
d’animo nobile e valente uomo, magnanimo e di grande cuore, e compare
di messer Bernabò, e molto l’avea servito contro alla Chiesa nella
guerra di Bologna, dando libero il passo a sua gente d’arme, el a suo
piacere vittuaglia e per acqua e per terra. Fermato il parentado intra
i detti due signori, del seguente mese d’aprile lega e compagnia si
fermò tra il legato di Spagna in nome di santa Chiesa e il signore
della Scala, e il signore di Padova, e il marchese di Ferrara; e la
taglia della gente della lega fu in nome di tremila cavalieri, de’
quali la Chiesa dovea pagare i millecinquecento cavalieri, e ciascuno
degli altri cinquecento per uno: e oltre a ciò ne’ patti della lega
promesse ciascuno a loro difesa, e della città di Bologna, e all’offesa
di messer Bernabò, e d’ogni qualunque che contro alla lega facesse.
E stando le cose in questi termini, messer Bernabò mandò al Finale
navilio grande con molta vittuaglia per fornire le castella ch’avea sul
Bolognese, e il marchese la fece volgere indietro. E appresso i detti
signori di concordia per loro ambasciadori mandarono a dire a messer
Bernabò, ch’a lui piacesse non volere fare più guerra alle terre di
santa Chiesa, con ciò fosse cosa che d’allora innanzi con tutto loro
sforzo si porrebbono alla difesa di questa lega: il superbo tiranno
ebbe singolare e altero sdegno, e nelle sue rilevate parole molto gli
avvilì, usando queste parole: Essi sono matti fantisini: e seguendo col
fatto l’altero parlare, a catuno di loro per derisione mandò dono di
vasellamento d’argento, de’ quali nello smalto di quelli da Verona era
una scala appesa a un paio di forche, in quelli del signore di Padova
erano colombi volanti, in quelli del signore di Ferrara una ferza,
giusta la considerazione della sua vana e superbia fantasia; ma in
picciolo tempo le cose seguirono in forma, che per opera vedere si potè
che non avea a fare con fantisini, ma con valenti e savi signori, come
seguendo nostro trattato racconteremo.


CAP. XCVII.

_Come fu morto il re Vermiglio di Granata._

E’ ne pare venire a scrivere cosa assai disusata e sconvenevole non
che a re cristiano, ma a qualunque barbaro, ma quale è scriver la ci
conviene. Sentendo il re Vermiglio di Granata come i Mori aveano sopra
sè per loro re esaltato Maometto, cui egli avea altra volta del reame
cacciato, conobbe che non potea resistere a Maometto avendo seco il re
di Castella, e però mandò al re di Castella in Sibilia, e gli domandò
sua sicurtà e fidanza, con dire di volere venire a sua ubbidienza.
La sicurtà data gli fu libera e piena; ma chi il re volle scusare del
gran tradimento disse, non seppe che per parte del re domandato fosse
il salvocondotto, nè che per lui dato non gli fu. Costui, quanto che
fosse Saracino, lasciato il reame a Maometto, con quattrocento tra di
suo sangue, e amici e di suo seguito, con molta ricchezza, sotto la
fidanza del salvocondotto, se ne venne a Sibilia là dove era Pietro di
Castella re, e a dì 20 del mese d’aprile, gli anni Domini 1362, venne
davanti al re, e gli si gittò a’ piedi con grande reverenza e umiltà.
Il re con buono viso il vide e ricevette, e nella Giudecca, che è luogo
di grandi abituri e d’intorno murato, lo mise, e quello luogo assegnò
a lui e sua compagnia, e in quel giorno gli mandò e doni e presenti
amichevolmente: dipoi venuta la notte lo detto re Pietro fece prendere
lo re Vermiglio e sua compagnia, e rubare tutto loro tesoro, e arme,
e cavalli e arnese, e loro tutti mettere in buone prigioni con buone
catene: loro tesoro recò tutto a sè, che passò la stima di ottocento
migliaia di fiorini d’oro. E il sabato appresso a dì 24 d’aprile, il
re Pietro fece menare davanti da sè il detto re Vermiglio in Tavolata,
che è un campo fuori della città di Sibilla forse una balestrata, in su
un asino, e con lui appresso tre de’ suoi maggiori baroni, gli altri,
ch’erano quarantuno, tutti grandi Saracini, tutti legati a una fune;
lo re Pietro a cavallo con molti suoi baroni e cavalieri con lance in
mano, e colle spade a lato, avendo i Saracini al campo legati, lo re in
prima lanciò e fedì in prima lo re Vermiglio, e gli altri appresso gli
altri, e in poco d’ora tutti furono tagliati a pezzi in sul campo, e
le teste loro fece a Maometto presentare; tutti gli altri ch’erano con
lui fè servi. Questo re Vermiglio fu colui che cacciò e volle uccidere
il re Maometto, e fatto re un giovane fratello del detto re Maometto il
fè morire. È fama che tutti quelli che morti furono in Tavolata erano
stati al re Vermiglio aiutatori, consigliatori e favoreggiatori.


CAP. XCVIII.

_Come il re Maometto di Granata si fece uomo del re di Castella._

Avendo il re Maometto ricevuto il ricco e famoso presente della testa
del re Vermiglio suo nemico, e de’ quarantaquattro suoi seguaci i quali
aveano morto il fratello, riconoscendo come per operazione del re Piero
di Spagna egli era ritornato nel suo reame di Granata, di presente
mandò suoi ambasciadori con pieno mandato al re Piero, i quali li
sommisono il reame di Granata, e da lui in vece e nome del re Maometto
come da superiore lo riconobbono, e lo re Maometto ne feciono suo uomo,
e omaggio glie ne fece, e in segno della sommissione del reame a loro
usanza li mandò pennoni di tutte le sue buone città e terre; e oltre a
questo li presentò ricchi doni, e con essi tutti i cristiani ch’erano
in suo reame fu donato loro libertà per amore del detto re.


CAP. XCIX.

_Principio di guerra dai collegati a messer Bernabò._

Fermata la lega tra santa Chiesa e’ signori di Lombardia, come scritto
è di sopra, anzi che altro movimento per i collegati si facesse, messer
Bernabò mandò sue genti sopra il signore di Verona verso il Lago di
Garda, il perchè i collegati in questo tempo del mese di maggio con
duemila cinquecento cavalieri della lega, e con assai gente da piè,
mossono da Modena per occupare il passo a messer Bernabò, sicchè non
potesse mandare a fornire le castella che tenea sul Bolognese; e stando
questa gente a campo, quella di messer Bernabò venne sul terreno di
Modena, e puosesi dove già fu un castello che si chiamò Solaro, il
quale era sopra il canale di Modena, e perchè era nelle valli in luogo
infermo era abbandonato, e in su quello castellare fè porre una forte
bastita, e quindi avea balía da potere ire alle castella del Bolognese.
La cavalleria della lega si pinse innanzi verso Reggio, e puosonsi a
un altro castello abbandonato similmente detto la Massa, che anche
è sul passo, essendovi ancora gli antichi fossi pieni d’acqua gli
afforzarono; onde Anichino di Bongardo, ch’era a Solaro con l’oste
di messer Bernabò, avendo vittuaglia per fornire Castelfranco, e
l’altre castella del Bolognese, la si ritenne per l’oste sua, non
sperando poterne avere stando ferma la bastita della lega. Vedendo
messer Bernabò che la lega era contro a lui ben fornita, e potente
di gente e di danari, si pentè d’avere sconcia la pace colla Chiesa,
e di presente mandò lettere a’ suoi amici e protettori in corte, e
appresso ambasciata con cercare si fermasse la pace, levando via tutti
gli articoli ed eccezioni che posti avea, e l’altre disoneste dimande,
rimettendo Bologna nelle mani de’ Fiorentini, o di cui il papa volesse.
Il papa era contento, non avendo ancora che fosse ferma la lega, ma in
quello stante le lettere del legato vennero al papa, come la lega era
ferma e possente a resistere al tiranno, e avute queste novelle, il
papa e’ cardinali al tutto rinunziarono di fare la volontà di messer
Bernabò, e seguirono loro processo, e feciono lui e chi gli desse aiuto
o favore scomunicato, e nominatamente gli Ubaldini, i quali tennono
con lui contro alla città di Bologna. Avendo messer Bernabò mandato a
corte, anche scrisse al comune di Firenze scusandosi, che per lui non
rimanea il seguire della pace, e che la guerra non venia da lui.


CAP. C.

_Come e quando morì Luigi re di Cicilia e di Gerusalemme._

Luigi re di Cicilia e di Gerusalemme, signore d’assai sconcia e
dissoluta vita secondo che richiede la reale maestà, tocco da divina
spirazione, quasi consapevole di sua morte vicina, lasciando l’usate
vanitadi, punto dal giudicio di sua coscienza, per penitenza e ammenda
de’ suoi misfatti e difetti si mise umilmente in pellegrinaggio, e andò
a visitare i corpi de’ gloriosi apostoli, di messer san Bartolommeo il
quale è a Benevento, quello di san Matteo lo quale giace a Salerno,
e quello di sant’Andrea il quale sta ad Amalfi, secondo che nel
paese certamente si tiene per antica e indubitata credenza: e di tale
viaggio tornato a Napoli cadde in malattia, e come piacque a Dio, senza
disporre altrimenti de’ suoi fatti, dicendo che niente avea di suo da
testare, ma che tutto era della reina Giovanna, anzi il principio del
dì a dì 26 di maggio, il giorno della santa Ascensione, rendè l’anima
a Dio, e in quel dì fu sepolto con reali esequi a....... avendo tenuto
il regno dieci anni forniti dal giorno di sua coronazione. Signore
fu di poca gravezza e meno d’autorità, e in aspetto e fatto senza
scienza alcuna, e in fatti d’arme poi fu re poco si travagliò. Poco
amore portò al suo sangue; il fratello aggrandì più per paura che
per carità, i cugini trattò male, e per forza li si fece rubelli. Fu
di sue promesse mendace e di ciò come di virtù si vantava sovente.
Coloro ch’erano più scellerati peccatori de’ suoi baroni appresso di
lui erano del più segreto consiglio e di maggior potenza, e con loro
non avea onorevole conversazione di vita. Mobile fu, timido e pauroso
ne’ casi dell’avversa fortuna, perocchè appresso di sè non volea
uomini virtudiosi nè d’autorità. Molto era cupido di fare moneta, e la
giustizia mollemente mantenea, e poco si facea temere a’ suoi baroni.
Con il suo balio messer Niccola Acciaiuoli gran siniscalco, e da cui
a’ suoi bisogni avea aiuto e consiglio alle grandi cose, molte volte
per punzellamenti e malvagi conforti de’ suddetti suoi baroni venne in
sospetto, e quando la virtù di colui s’allungava dalla corte i fatti
del re andavano male. Alla reina facea poco onore, e o per suo difetto,
ch’assai n’avea, o per fallo della reina, molte volte come una vil
femmina in grande vituperio della corona la battea, e di quello ch’era
suo non le lasciava fare nè a sè nè ad altrui il debito onore. Delle
magnifiche cose che a lui parea aver fatto a tempo di guerra e di pace
tanto si lodava e vantava, che ogni uomo che l’udia tediando facea
maravigliare; e di tali frasche fece comporre scritture d’alto dittato,
compiacendosi nelle proprie lusinghe.


CAP. CI.

_Come i Fiorentini vollono difendere Pietrabuona, e non poterono._

Nel 1362 a dì 18 di maggio, i priori di Firenze raccolsono un
parlamento d’oltre a seicento cittadini, nel quale spuosono i termini
in che stava Pietrabuona, e come quelli che la teneano data l’aveano al
comune di Firenze, e come i signori l’aveano presa a parole, pensando
se si difendesse dalla forza de’ Pisani per quella riavere o Sovrana
o Coriglia, terre da’ Pisani nel vero copertamente e maliziosamente
tolte al comune di Firenze; non ostante che poco dinanzi per i detti
signori fosse stato risposto agli ambasciadori pisani, che ’l comune
non se ne travagliava, e più come ne’ prossimi giorni i Pisani aveano
cavalcato sopra il terreno di Barga terra accomandata al comune di
Firenze, e dandovi il guasto arando i seminati con più di cento paia di
buoi, e tagliando loro gli alberi dimestichi, e le vigne e’ castagni,
e come a undici soldati del comune di Firenze in sul distretto del
comune di Firenze, i più conestabili, stando senza arme a vedere
gittare i trabocchi in Pietrabuona, rabbiosamente ai più aveano tolta
la vita e gli altri fatti prigioni; e recando alla mente le altre più
gravi ingiurie per lo comune pazientemente passate con infignersi
di non vederle, nonostante che poco dinanzi al detto parlamento
per i signori di Firenze risposto fosse agli ambasciadori di Pisa,
che de’ fatti di Pietrabuona il comune di Firenze non s’intendea di
travagliare, si diliberò di concordia di tutto il detto consiglio che
Pietrabuona e sua difesa si prendesse. In questi giorni avvedendosi i
Pisani che i masnadieri di Pietrabuona erano caldeggiati dalla gente
de’ Fiorentini, con molta più sollecitudine e studio procurarono di
racquistarla, e combattendo con dodici trabocchi per dì e per notte
tutta la macinavano. Dopo il partito preso della difesa, secondo il
giudicio di molti intendenti, la difesa era presta dove il comune
avesse fatto afforzare il poggio della Remita, che soprastava i
battifolli de’ Pisani, ed era del distretto del comune di Firenze, ma
nel tardare preso fu e guardato per i Pisani; e i Fiorentini in sul
loro terreno dirimpetto a Pietrabuona, la Pescia in mezzo, puosono
un battifolle che dava l’entrata e l’uscita libera agli assediati, il
perchè molto se ne renderono sicuri quelli d’entro, ma dalli dificii
i quali continovo il dì e la notte gettavano non poteano essere atati,
e all’uscita di maggio vi cominciarono a gittare fuoco temperato, che
eziandio offendeva alle pietre, e tanto spesso l’una pietra su l’altra
venia disfacendo il castello, e offendeano alle persone, che ai pochi
difenditori che stare vi poteano toglieva il vigore alla difesa. Oltre
a queste continove battaglie i Pisani levarono un castello di legname
sotto la guardia di loro battifolli, un’arcata vicino alla torre della
rocca, contro al quale i Fiorentini feciono dirizzare un trabocco che
l’avrebbe spezzato, se ’l maestro che ’l conducea fosse ito con fede
a’ Fiorentini, ma era Aretino, e d’animo ghibellino, e però non adoperò
quello ch’avrebbe potuto; i maestri dal lato pisano avendo alli quattro
dificii giuntone uno più grosso, quello de’ Fiorentini sconciarono. In
questi dì messer Bonifazio Lupo da Parma, chiamato da’ Fiorentini per
tenere luogo di capitano, giunse a Firenze, e di presente andò a vedere
il sito di Pietrabuona, e il modo e forma di suo assedio, e veduto
ed esaminato tutto, scrisse a’ signori di Firenze che impossibile gli
parea la difesa, e ciò fu a dì 4 di giugno; e a dì 5 del mese, il dì
della Pentecoste, i Pisani, ch’erano presso al trarre delle balestra,
con loro battifolli, con tutta loro forza di gente d’arme, e d’assai
buoni balestrieri, movendo loro castello il condussono fino alla rocca.
Quivi secondo il suo essere fu l’aspra battaglia a petto a petto, e non
di manco li dificii de’ Pisani traevano sì temperati che loro genti non
offendeano, e quelli del castello non lasciavano scoprire alla difesa;
vollono gittare il ponte del castello del legname in su la torre di
là, ch’era più bassa che il castello, e il ponte fu corto, e la difesa
grande per l’operazione de’ buoni balestrieri d’entro, e durata questa
pugna per spazio di parecchie ore, i Pisani si ritrassono addietro col
castello del legname; quelli di Pietrabuona affannatisi ritrassono
a rinfrescare, e non pensando per quello rimanente del giorno avere
più battaglia, non di meno al soccorso loro erano tratti i cavalieri
e’ masnadieri, quelli che stare vi poteano coperti da’ trabocchi.
I Pisani in questo riposamento rallungarono il ponte al castello, e
con più asprezza ritornarono alla battaglia, e condotto il castello
lungo la rocca, gettarono il ponte in su la torre, ma per questo non
si curavano quelli d’entro, che ben poteano tre a tre combattere;
ma quale che si fosse la cagione quelli d’entro invilirono, e quelli
ch’erano venuti al soccorso incominciarono a abbandonare il castello, e
quelli ch’erano di que’ d’entro i caporali pensarono a volere salvare
danari e altre cose sottili ch’aveano nella rocca, e però affocarono
la torre e abbandonarono la difesa, onde i Pisani francamente presono
la terra, e cui giugnere vi poterono misono al taglio delle spade,
intra i quali fu Nieri da Montegarulli antico e pregiato masnadiere,
il quale essendo arrenduto alla fede vi fu morto, e altri presi e
feriti: coloro che l’altro dì v’andarono pe’ morti, e per ricogliere i
prigioni, sopra i corpi de’ morti prendendoli furono morti, e simile
i ricomperatori. La gente de’ Fiorentini abbandonato il battifolle e
arso con non poca vergogna si tornarono a Pescia. Di questa vittoria
la gloria e la burbanza de’ Pisani troppo fu sopra modo, e la befferia
smisurata, e la festa tanto grande, che dove avessono acquistato
una provincia non l’avrebbono potuta fare maggiore, dispettando e
avvilendo i Fiorentini, e per loro lettere, e oltre a ciò aprendo
quelle de’ mercatanti fiorentini di loro mano v’aggiugneano villane e
ontose parole del nostro comune. I loro anziani e governatori posto il
senno dall’uno lato osarono dire, che se i Fiorentini avessono cuore
a muovere guerra, che i loro soldati ne legherebbe tre uno di loro, e
se v’andassono i cittadini, li vincerebbono e legherebbono le femmine
loro, e molte altre altere e brutte parole con la testa levata usarono
contro il comune di Firenze per muoverli a cruccio e impresa di guerra,
ignoranti delle rivoluzioni della fortuna, la quale per guerra assai
loro apparecchiò di male.


CAP. CII.

_Come quelli della valle di Caprese furono traditi dagli Aretini._

Del mese di maggio, quelli della valle di Caprese con l’aiuto di
loro vicini e amici tanto seppeno adoperare, che presono la Rocca
cinghiata la quale era de’ Tarlati, e teneano questa e la rocca del
Caprese, e con gli Aretini s’erano accordati di torre da loro potestà,
e di dare loro ogn’anno certo censo riconoscendoli per maggiori,
e doveano i nemici degli Aretini avere per nemici, e gli amici per
amici, e li Aretini li doveano in loro stato conservare e difendere.
Stando così gli Aretini infintamente feciono l’oste bandire sopra un
castello di quelli da Pietramala, e richiesono quelli della valle
di Caprese d’aiuto, i quali liberamente di buona voglia elessono
di loro fanti dugento più eletti e pregiati, e uscito il podestà
d’Arezzo coll’oste quelli della valle Caprese s’aggiunsono con lui,
ed egli vedendosi costoro tra le mani ne presono centoventi, gli
altri fuggendo camparono. Presi gli amici gli amici per questa via,
e mandati ad Arezzo, la gente degli Aretini col podestà entrò nella
valle di Caprese, e menarono a tondo guastando e consumando ciò ch’era
in quella; rifuggiti i paesani alla rocca, la quale era da guatarla e
lasciarla stare. Gli Aretini avendo i prigioni domandavano la rocca;
i Caprigiani con franchi animi si dispuosono di volere innanzi morire,
e di vedere i loro prigioni morire, che volessono le rocche dare agli
Aretini, e di presente mandarono sindaco con pieno mandato per darsi
al comune di Firenze, il quale stette sopra quindici dì in Firenze per
ciò fare: gli Aretini con loro ambasciadori storpiarono che il comune
non fece l’impresa, dicendo che le rocche erano in punto che contra
loro non si poteano tenere, e che il loro comune era amico e fedele del
comune di Firenze, e che avendo essi le rocche l’aveano i Fiorentini, e
in breve tanto seppono dire e operare con gli amici loro, che ’l comune
non li tolse, il perchè di poi si dierono a’ Perugini, e da loro si
trovarono ingannati, come appresso a suo tempo diviseremo.


CAP. CIII.

_Della mortalità dell’anguinaia._

In questi tempi, del mese di giugno e luglio, l’usata pestilenza
dell’anguinaia con danno grandissimo percosse la città di Bologna, e
tutto il Casentino occupò, salvo che certe ville alle quali perdonò,
procedendo quasi in similitudine di grandine, la quale e questo e quel
campo pericola, e quello del mezzo quasi perdonando trapassa; e se
similitudine di suo effetto dare si può, se ciò procede dal cielo per
mezzo dell’aria corrotta, simile pare alle nuvole rade e spesse, per
le quali passa il raggio del sole, e dove fa splendore e dove no. Or
come che il fatto si vada, nel Casentino infino a Dicomano nelle terre
del conte Ruberto fè grande dannaggio d’ogni maniera di gente: toccò
Modona e Verona assai, e la città di Pisa e di Lucca, e in certe parti
del contado di Firenze vicine all’Alpi, e nell’Alpi degli Ubaldini:
a’ Pisani tolse molti cittadini, ma più soldati. Nell’Isola di Rodi in
questi tempi ha fatti danni incredibili: e nel 1362 del mese di luglio
e d’agosto assalì l’oste de’ collegati di Lombardia sopra la città di
Brescia per modo convenne se ne partisse, e nella città fece danno
assai. Nella città di Napoli e in molte terre dei Regno, ove assai,
e dove poco facea, ove niente. Nelle case vicine a Figghine cominciò
d’ottobre in una ruga, e l’altre vie non toccò. In Firenze ove in una
casa ove in un’altra di rado e poco per infino a calen di dicembre.



LIBRO UNDECIMO


CAPITOLO PRIMO.

_Il Prologo._

Sogliono naturalmente le cose opposte e contrarie insieme avvicinate
più le loro contrarietà dimostrare. Questo pertanto al presente
diciamo, perocchè la pace rotta al nostro comune per i Pisani, e la
guerra per loro e mossa e cercata con molta astuzia sollecitamente
per riavere il porto, ne presta materia di proemio all’undecimo libro
di nostro trattato, prendendo principio dalla natura e condizione
della pace fedelmente osservata, la quale è certo fermo e indubitato
fondamento e grado delle mondane ricchezze, e della mondana felicità
secondo il mondo. Ella è madre di unità e cittadinesca concordia;
ella non solo alle piccole, ma eziandio alle menome cose partorisce
accrescimento e esaltazione. I re del mondo loro reami in pace
mansuetamente governano; i popoli liberi intenti a loro arti e
mercatanzie moltiplicano in ricchezze, magnificando la faccia di
loro cittadi con ricchi e nobili edificii, e per li sicuri matrimoni
cresce e moltiplica il numero de’ cittadini con aspetto lieto e pieno
di festa. E non solo i popoli che vivono in libertà, ma quelli che
sottoposti sono al crudelissimo giogo della tirannia, la quale per sua
malvagia natura e corrotta d’usanza a’ buoni e valorosi cittadini è del
tutto e sempre nemica, e in palese e in occulto avversa, per la paura
fitta nelle menti loro di perdere loro stato, maculati dalla coscienza
delle loro crudeli e sanguinose operazioni; d’onde surge, che senza
niuna pietà o discrezione ti disfanno e scacciano senza misericordia
alcuna, affermando meglio essere terra guasta che terra perduta. Nè
contenta loro perversa iniquità alle occupazioni delle loro cittadi,
per cupidigia d’ampliare signoria le nazioni vicine tormentano, e
massimamente i popoli che vivono in libertà, con continove guerre
gradimenti e trattati. E per potere fornire loro empio proponimento,
e mandare a esecuzione loro volontadi, i sudditi loro disfanno,
moltiplicando gabelle e collette, ma con gravi imposte. Costoro spento
il seme de’ buoni danno alquanto di respitto e triegua alle servili
fatiche, un poco in pace patiscono ai loro sudditi respirare. Male
dunque conosce e molto poco pregia la dolcezza della libertà chi per
cupidigia di mortale vita la perde, se vita dirittamente ponderando
appellare si può il servaggio. È dunque la pace bene considerata
madre di letizia e d’ubertà, corona e nobiltà di potentissimi re e
signori, protezione e scudo de’ liberi popoli, del tutto e per tutto
avversa e nimica alla spaventosa, sterile e sanguinosa guerra, per la
quale l’altissime cose caggiono e vengono meno. Quanti famosissimi
re e signori nelle passate etadi ha ella straboccato in estrema
miseria, con vilissimo e vituperabile uscimento di vita! Quante
nobili famose e gloriose cittadi ha ella dai fondamenti sovverse,
lo cui specchio è ai mortali manifestissimo argomento d’incredibili
mali! Quante provincie ha ella lasciate disolate e povere d’abitatori
in pauroso e spaventevole aspetto! Quanti e innumerabili popoli ha
tagliati con ferro, e sommersi nel domestico e nel pellegrino sangue,
i quali hanno lasciato di loro calamità, miseria, e avversa fortuna
agl’ignobili luoghi famosi titoli! Chi potrebbe in piccolo numero di
carte comprendere le incredibili e maravigliose cose che ne’ passati
secoli il furore e la rabbia della guerra ha prodotte? Essa è occulto
e malvagio seme, e ricettacolo della tirannia, la quale nel letume
suo a guisa del fungo s’ingenera e surge, e nella sua pertinacia si
nutrica e allieva. Dunque bene è d’abominare, e da recare dai buoni in
persecuzione colui lo quale per ambizione, ovvero per propria malizia
o disdegno, o per utilità privata, o per vendetta o per vanagloria la
sua patria sospigne in guerra; e se noi amiamo il vero, io non conosco
qual grazia trovare si possa nel cospetto di Dio per suo pentere, tutto
che quasi stimi che impossibile sia il pentere tale uomo. Come può egli
restituire le morti degl’innocenti e semplici? come gli omicidi? come
gl’incendii? come le prede? come le violenze fatte alle oneste donne
e alle pure vergini? come gli scacciamenti? come le povertadi? come le
necessarie peregrinazioni? come il perdimento della libertà che tutte
cose sormonta? Di quello che poco dire non si può è meglio il tacere: e
qui far fine si dee, e dar luogo a chi molto può, e poco sa, e a molti
offende. Anime tribolate, se potete, datevi in viaggio pace e buon
piacere.


CAP. II.

_Degli apparecchi fatti da’ Fiorentini per la guerra contro a’ Pisani._

Il comune di Firenze per natura nell’imprese grave è e tardo, ma
nel seguirle avveduto e sollecito, poichè deliberato avea di seguire
l’inviluppata impresa incominciata contro a’ Pisani per Pietrabuona,
e venia in aperta e palese guerra per vendicare sua onta, essendo i
suoi governatori svegliati come da grave sonno, e infiammati per la
vergogna prossimamente ricevuta, animosamente seguendo il consiglio
di messer Bonifazio Lupo da Parma loro capitano, uomo quasi solitario
e di poche parole, ma di gran cuore, e di buono e savio consiglio, e
maestro di guerra, all’entrare del mese di giugno 1362 cominciarono
a provvedersi intorno alle bisogne della guerra. E per coprire la
tostana e sperata vendetta cominciarono a fabbricare a un’otta sedici
trabocchi, nel lavorio de’ quali pigramente si procedea, per mostrare
che l’assalimento avesse lungo tratto, e continovo sollecitamente si
provvedeano di gente d’arme, e da cavallo e da piè. E per non mandare
in arme la viltà delle vicherie, le quali senza lunghezza di tempo e
lunga dimoranza, la quale è sempre nemica e nociva alla guerra, non si
possono raccogliere, e perchè l’amistà e grazia de’ possenti sottrae
dal comune servigio i buoni e’ valenti, e lascia i cattivi, mandarono
i signori per tutti quelli gentili uomini e popolari di città e del
contado, i quali sentirono abili e sofficienti a fare prestamente
brigate di fanti e gente sperta in arme, e loro imposono e comandarono
quanto più tosto potessono facessono il più gente potessono, i quali
il comandamento senza dilazione mandarono ad esecuzione; sicchè il
dì 15 di giugno il comune, che di gente di soldo e che di gente col
detto ordine ricolta, si trovò millecinquecento uomini di cavallo,
e quattromila pedoni, fra’ quali furono millecinquecento e più
balestrieri. Ancora infra i detti giorni richiesono loro amistà, e
infra gli altri richiesti furono i Perugini e’ Sanesi: i Perugini
risposono, che per le novità aveano di loro usciti non aveano destro di
potere sovvenire, e che bene sapeano che ’l comune di Firenze era tale
e tanto, e di tanta forza e podere, che non che si potesse atare dal
comune di Pisa, ma che agevolmente il dovea potere sormontare: i Sanesi
senza altra scusa risposono, che non aveano gente da poterne loro
servire: le quali risposte non sono da porre in oblio dalla liberalità
del nostro comune, lo quale ne’ loro bisogni richiesto, di ciò che
potuto ha non ha detto di no. Pistoiesi, Aretini, il conte Ruberto, e
altri vicini vennono a servire il comune con quella gente da cavallo e
da piè che fare poterono, onde il comune infra li 20 di giugno si trovò
d’avere tra di soldo e d’amistà milleseicento cavalieri e cinquemila
pedoni. I Pisani sentendo il fabbricare degl’ingegni, e la raunata di
gente d’arme che si facea in Firenze, tutto ch’avessono certa la guerra
per le cagioni dette di sopra, non di manco cominciarono a dubitare e
temere, e cominciarono a fare sgombrare loro contado, e specialmente
la Valdera, e afforzare e guarnire loro tenute verso le frontiere il
meglio e il più pronto poterono, conducendo gente di soldo e da cavallo
e da piè quanto poterono il più, con dare ordine a’ loro contadini e
alle difese e a guardie di loro tenute.


CAP. III.

_Come seguendo gli antichi Romani gentili i Fiorentini nel dare
dell’insegne al capitano presono punto per astrologia._

I nostri padri Romani prima che venissono al segno dell’imperio,
in loro imprese di nuove guerre niente mai avrebbono incominciato,
che prima felici augurii non avessono cerchi e veduti: pertanto ne’
sacrificii che facevano agl’idoli loro nelle interiora degli animali
vittimati cercavano la sorte e l’avvenimento della fortuna; questo
accecamento diabolico ed è ed esser dee in abominazione come avverso
alla fede cristiana. Vicino e quasi consorte alla stoltezza degli
augurii è quella parte dell’astrologia la quale predice i futuri
avvenimenti delle cose nominate e singolari, e’ loro propri casi,
e massimamente di riuscimenti di guerre, i quali sono nelle mani
del signore Dio Sabaoth, che interpretato è Dio degli eserciti. I
Fiorentini stratti del sangue romano, per vizio ereditario seguono i
giudicii delle stelle, e altre ombre d’augurii sovente, e al presente
avendo accolto l’esercito, di che avemo detto nel precedente capitolo,
e volendo dare l’insegne, vollono il punto felice dall’astrologo, il
quale fu lunedì mattina a dì 20 di giugno sonato terza, alla duodecima
ora del dì; e ricevute l’insegne, avacciando il viaggio come cacciati,
giunsono errore ad errore, perocchè sempre che insegne si dierono per
guerra contro a’ Pisani, date volgeano al canto di Porta santa Maria, e
poi per Borgo santo Apostolo; i governatori del fatto avendo sospetta
la via di Borgo santo Apostolo, come al nostro comune male augurata
contro a’ Pisani, le feciono volgere per Mercato nuovo, e per Porta
rossa, e come poco avvisati non feciono prima levare i castagnuoli
delle tende de’ fondachi, onde convenne s’abbassassono l’insegne.
Il corso fu ratto, perchè non passasse l’ora data per l’astrologo al
posarle fuori della terra a santa Maria a Verzaia, secondo l’antica
usanza del nostro comune. Avemo arato il foglio con lungo sermone
di lieve materia, ma fatto l’avemo per ricordo di quelli che dietro
verranno, che non voglino sapere le cose future, nè porre speranza
negl’indovinatori, perocchè solo Iddio è il giudicatore delle giuste
e inique battaglie. Per alloggiare ne’ tempi loro le forestiere
cose, lasceremo il processo della guerra di Pisa, e a suo tempo lo
ripiglieremo.


CAP. IV.

_Della prospera fortuna de’ collegati lombardi._

E’ ne piace di fare un fascio di molte avvolture di santa Chiesa co’
suoi collegati lombardi, mescolando i tempi passati con quei di dietro,
per non occupare troppi fogli con cose che non sieno rilevate. Del
passato mese di maggio quelli della lega dopo la presura di Castelnuovo
hanno tolto a’ nemici la terra di Salaro sita sopra il Po di Pavia,
e la terra di Ligaria di qua dal Po, la quale è posta a otto miglia
presso a Tortona, e più altre castella e ville del tenitorio di Pavia,
e di giugno il castello d’Erbitra, il quale era del Saliratuo de’
Buiardi d’Elbiera, il quale per piacere a messer Bernabò, ritenendo il
cassero a sè, gli avea prestata la terra per i bisogni di sua guerra:
e il tiranno non osservata sua fede v’avea per sè fatta fare altra
fortezza. Elbiera è vicina a Modena a otto miglia, ond’era camera a
messer Bernabò d’onde forniva tutte le sue bisogne nella guerra co’
Bolognesi; il Saliratuo come fidato al tiranno praticava nel cassero
ch’egli avea fatto, onde preso suo tempo, morte le guardie prese il
cassero, e di presente con modi diede la terra al marchese di Ferrara.
Appresso quelli della lega puosono l’oste a Brescia, e messer Bernabò
che dentro v’era se ne fuggì. Qui lecito mi sia gridare e dire, che Dio
confonde e avvilisce le arroganti parole che detto avea il tiranno che
gastigherebbe i Lombardi venuti in lega come putti, ed eglino hanno
gastigato lui. Giugnamo alle predette fortune, che essendo grande
quantità d’Inghilesi infino a Basignano avvenne, che la gente di messer
Galeazzo ch’era alla guardia del castello volendo fare del gagliardo si
fè loro incontro, e di presente fu rotta, e alquanti ne furono morti,
tutti gli altri rimasono prigioni. Sopra le dette baratte di guerra i
collegati presono Gheda in sul Bresciano a dì 20 di luglio, terra che
fa oltre a ottomila uomini: e quelli che teneano Basignano in sul Po
per messer Bernabò, e per guardarla aveano spesi molti danari, e da lui
altro che minacce non poteano ritrarre, la ribellarono, e la dierono
a’ collegati, ricevuti da loro circa a diecimila fiorini d’oro, che
aveano spesi in guardarla. Oltre alle predette cose i collegati hanno
corso il Novarese e assediata Novara. Volgendo un poco il mantello a
uso di guerra, avendo i collegati preso il castello del ponte a Vico
in su l’Oglio, quelli della rocca si patteggiarono d’arrendersi se
fra certi giorni non fossono soccorsi; i collegati aveano nel castello
messe ventotto bandiere di cavalieri e soldati a piè assai, i quali non
pensando che soccorso potesse venire stavano sciolti e con poco ordine;
il castellano intendente compreso loro cattivo reggimento lo significò
a messer Bernabò, il quale di notte con gran quantità di gente, e la
mattina davanti il fare del giorno messo in ordine, per gli alberghi
e per le case tutta la detta gente prese; e così va di guerra. Più
la pestilenza dell’anguinaia avendo aspramente assalito la città di
Brescia, e l’oste de’ collegati ch’era di fuori, li strinse a partire,
e si tornarono a Verona, e quindi ciascuno alla terra sua.


CAP. V.

_Della morte di Leggieri d’Andreotto di Perugia._

Leggieri di Andreotto popolare di Perugia fu uomo di grande animo, e
al suo tempo Tullio, perocchè fu il più bello dicitore si trovasse,
e senza appello il maggiore cittadino ch’avesse città d’Italia che
si reggesse a popolo e libertà, e il più amato e il più careggiato e
dal popolo e da’ Raspanti, ma a’ gentili uomini li cui trattati avea
scoperti forte era in crepore e malavoglienza. Avvenne che una domenica
a dì 19 di giugno, essendo egli quasi all’incontro delle case sue
nella via, e leggea una lettera, un figliuolo bastardo di Ceccherello
de’ Boccoli, cui il detto Leggieri avea per lo trattato di Tribaldino
di Manfredino fatto decapitare, il quale il tenea in continovo aguato
cautamente per offenderlo, si trovò in una casa del Monte di Porta
soli, la cui finestra a piombo venia sopra il capo di Leggieri; costui
non trovando altro più presto prese una macinetta da savori la quale
trovò vicina alla finestra, e presola a due mani l’assestò sopra il
capo di Leggieri, e l’abbattè in terra morto, che mai non fè parola.
Della sua morte non fu piccolo danno a’ Perugini, e per così lo
riputarono, perocchè fare lo feciono cavaliere, e li feciono l’esequie
regali e pompose col danaio del comune, per allettare gli altri che
venissono poi a bene operare per la repubblica sua.


CAP. VI.

_Come i Fiorentini cavalcarono in Valdera e presono Ghiazzano._

Tornando alle fatiche nostre, manifestato ha sovente l’esperienza, che
la disordinata e sfacciata baldanza de’ presuntuosi e alteri cittadini
i quali sono suti per loro procacci dati, non dirò consiglieri, ma
piuttosto balii e tutori a’ capitani nelle guerre del nostro comune, e
a’ capitani e al comune hanno fatti vituperii assai, e notabili e gravi
danni, e inrimediabili vergogne, talvolta per non conoscere e volere
mostrare di sapere, talora con malizioso procaccio di loro private
utilitadi e onori. Così essendo dati al capitano messer Bonifazio
consiglieri assai vie più presuntuosi che savi, e coloro ritrovandosi
in Pescia con l’oste de’ Fiorentini, avendo a cavalcare i nemici, non
solo lo consigliavano, ma eziandio con parole e arroganti segni lo
sforzavano, sotto la baldanza dello stato cittadinesco che usurpato
aveano, che cavalcassono in quello di Lucca, dove fortuna quasi sempre
al nostro comune era stata avversa; ma il valente capitano certificato
già de’ vecchi errori in simili atti commessi, poco pregiando nel
segreto suo e loro voglie e consigli, e non avendo loro autorità nè
grandigia in dottanza, di fuori mostrava volere seguire loro talento, e
nel petto tenea raccolto il suo; e contro all’opinione d’ogni qualunque
il giovedì mattina a dì 23 di giugno partì da Pescia con tutta l’oste,
e tenne verso Fucecchio e Castelfranco, e il seguente dì, il giorno
di san Giovanni, si mise per lo stretto di Valdera a piè di Marti,
certo dell’impotenza de’ nemici, e corse infino a Peccioli, e la sera
combattè il castello di Ghiazzano, e per la moltitudine delle buone
balestra tanto impaurirono quelli d’entro, che a dì 26 del mese dierono
il castello salve le persone, il quale fu per camera del nostro comune
infino alla presa di Peccioli, che poco appresso seguì.


CAP. VII.

_Come i Fiorentini soldarono galee contra i Pisani._

Non contenti i Fiorentini co’ Pisani alla guerra di terra con loro,
vollono tentare la fortuna del mare, e del mese di giugno condussono
a soldo Perino Grimaldi con due galee e un legno, e uno Bartolommeo
di...... con altre due galee, i quali promisono con detti legni bene
armati essere per tutto il mese d’agosto nella riviera di Pisa, e fare
guerra a’ Pisani a loro possanza.


CAP. VIII.

_Come i Perugini presono la Rocca cinghiata e quella del Caprese._

Essendo gli ambasciadori e’ sindachi degli uomini e comunità di Val
di Caprese stati a Firenze a sollecitare il comune che per suoi li
prendesse, e con loro quelli della Rocca cinghiata, per la molta forza
d’amici che si trovarono gli Aretini tra le fave, si sostenne che
accettati non fossono, in danno e disonore del nostro comune: ond’essi
dileggiati presa disperazione s’avventarono e dieronsi a’ Perugini, i
quali li ricevettono graziosamente; e di presente del mese di luglio
vi mandarono quattrocento fanti e centocinquanta uomini da cavallo, e
presonsi le tenute di quelle due notabili rocche.


CAP. IX.

_Come novecento cavalieri di quelli di messer Bernabò furono sconfitti
da seicento di quelli di messer Cane Signore._

Era la gente di messer Cane Signore e di Polo Albuino in numero di
seicento cavalieri del mese di luglio 1362, essendo messer Bernabò
in Brescia con gente molta più assai di cavallo, la detta gente di
messer Cane in passaggio albergò dinanzi delle porte della città,
e una domenica mattina partendosi di quindi per ridursi a Pescara
e coll’altra gente della lega, lasciato fornite Ganardo e Pandegoli
castella di nuovo per loro acquistate in sul Bresciano, ed essendo
già intra ’l detto Pandegoli e Smaccano, la gente di messer Bernabò
in numero di novecento barbute e oltra, che in que’ giorni s’era
ricolta nel castello di Lenado, parendo loro avere mercato della gente
di messer Cane, s’apparecchiarono ad assalirla. La gente di messer
Cane sapendo che i nemici avanzavano il terzo e più, e che nel luogo
dov’erano aveano il disavvantaggio del terreno, e che si metteano in
punto per assalirli, non aspettarono, e il detto giorno nell’ora del
vespro nella disperazione presono cuore, e assalirono francamente i
nemici in su l’ordinarsi, e col favore di Dio li misono in rotta, e
assai ne furono morti e magagnati e assai presi, intra’ quali di nome
furono messer Mascetto Rasa da Como loro capitano, con venticinque
conestabili assai pregiati in arme, e altri assai che non si nominano;
e quindi a non molti giorni trecento barbute della gente di messer
Bernabò in sul Bresciano dalla gente della lega furono sconfitti.


CAP. X.

_Disordine nato tra’ Genovesi per la guerra de’ Fiorentini e’ Pisani._

Messer Simone Boccanera primo doge di Genova, quando privato fu di
sua dignità e cacciato di Genova si ridusse a Pisa, e da’ Pisani
cortesemente fu ricevuto, e secondo il suo grado assai onorato; onde
per la detta cagione essendo ritornato in Genova, e nello stato suo
con la forza di suoi amici e seguaci, a tutto suo podere cercò che il
comune di Genova desse il suo favore a’ Pisani, e già essendo entrati
in lega con loro, quando il traffico de’ Fiorentini fu levato da Pisa,
contro a qualunque navilio con mercatanzia ch’entrasse o uscisse dal
porto di Talamone, e da quella a istanza de’ Fiorentini per lo suo
consiglio e comune levato, quando vidde il fuoco della guerra appreso,
con ogni sua forza e sottigliezza cercava che i Genovesi dessono loro
favore a’ Pisani, ma i mercatanti ed altri cittadini a tutti suoi
avvisi e sforzamenti s’oppuosono, pure tanto fè, che per deliberazione
del comune s’ottenne e statuì che il comune di Genova si stesse di
mezzo, e nullo aiuto o favore si desse nè all’uno nè all’altro. Occorse
in istanza di tempo, che i signori priori di Firenze e gli otto della
guerra scrissono a Francesco di Buonaccorso Alderotti mercatante stato
lungamente in Genova, pratico con tutti i cittadini e da loro ben
veduto, che conducesse quattrocento de’ migliori balestrieri i più
pratichi in guerra che avere potesse a soldo, con un buono capitano
o due. Ciò venne agli orecchi del doge, e sotto il protesto della
deliberazione fatta per lo comune, che a’ Fiorentini nè a’ Pisani si
desse favore, come è detto di sopra, prestamente fè fare personale
bando, che niuno potesse conducere nè in Genova nè nella Riviera alcuno
balestriere, e simile pena puose al balestriere se si conducesse. Il
valente mercatante alle sue spese, sponendosi ad ogni pericolo per
zelo di suo comune, se n’andò a Nizza ch’è della contea di Provenza,
e qui s’accozzò con messer Riccieri Grimaldi, uomo valoroso e stato
in più battaglie campali, e lui solo condusse capitano di quattrocento
balestrieri a fiorini sette per balestro il mese, i quali furono tutti
uomini scelti e usi in guerra. E per mostrare messer Riccieri che con
amore e affezione venia a servire il comune di Firenze, volle che intra
il numero de’ balestrieri fossono due suoi figliuoli, e due di Perino
Grimaldi, i quali venuti a Firenze, e non trovando verrettoni a loro
modo, anche fu scritto per gli otto al detto Francesco, che da Genova
ne mandasse dugento casse. Ed essendo per lo detto doge posto grave
pena a chi ne traesse del Genovese, il detto Francesco compostosi co’
doganieri, ne mandò subito centosettanta, le quali legate a quattro
casse per balla con paglia, e invogliate a guisa di zucchero, e per
zucchero si spacciarono alla dogana. Emmi giovato di così scrivere,
perchè se onorato fosse chi bene fa per lo suo comune, gli animi degli
altri s’accenderebbono a fare il simigliante.


CAP. XI.

_Come il re di Castella con quello di Navarra ruppono pace a quello
d’Aragona, e lo cavalcaro._

Essendo legati insieme, come addietro è detto, lo re di Spagna, con
quello di Navarra, con quello di Portogallo, e con quello di Granata, e
col conte di Foscì, e con quello d’Armignacca contro il re d’Aragona,
del mese di giugno il re di Castella con quello di Navarra, amendue
in persona, con cinquemila cavalieri si misono sopra le terre di
quello d’Aragona, la quale è lontana a Sibilia per otto giornate,
e con sedici galee l’assalirono per mare, avendosi la pace lasciata
dopo spalle, facendo grandi e disonesti danni. E avendo il re Piero di
Spagna lungo tempo tenuta assediata la città di Calatau, e quelli della
città difendendosi coraggiosamente, e non volendosi arrendere loro,
lo re con giuramento promise, che se non si arrendessono, ed egli li
prendesse per forza, che tutti li farebbe morire: quelli poco pregiando
le sue minacce sollecitamente attendeano a loro difesa; infine del mese
d’agosto il re per battaglia prese la città e non ricordandosi che
i vinti fossono cristiani, incrudelito contro loro a guisa di fiera
salvaggia, oltre a seimila cittadini disarmati e vinti fè mettere al
taglio delle spade senza misericordia alcuna.


CAP. XII.

_Come per sospetto in Siena a due dell’ordine de’ nove fu tagliata la
testa._

In questo tempo e mese di giugno, Giovanni d’Angiolino Bottoni della
casa de’ Salimbeni con altri gentili uomini di Siena, e con certi
dell’ordine de’ nove, il quale era posto a sedere, tennono trattato
di dovere rimettere l’ordine de’ nove nello stato. Il popolo avendo di
ciò odore, e pertanto in sospetto, corse all’arme, e nel furore furono
presi un Tavernozzo d’Ugo de’ Cirighi, e uno Niccolò di Mignanello,
ch’erano stati dell’ordine de’ nove, e furono decapitati. Il capitano
della guardia, ch’era de’ Pigli di Modena, fece tagliare il capo a un
frate e a certi altri: e furono posti in bando per traditori Giovanni
d’Agnolino Bottoni, e messer Giovanni di messer Francesco Malavolti,
e Andrea di Pietro di messer Spinello Piccoluomini, e Cinque di messer
Arrigo Saracini, e Francesco di messer Branca Accherigi dell’ordine de’
nove. Poi a dì 3 di novembre il detto Giovanni co’ sopraddetti furono
ribanditi, e riposti nel primo stato e onore.


CAP. XIII.

_Cavalcate fatte per messer Bonifazio Lupo in su quello di Pisa._

Avendo messer Bonifazio Lupo preso Ghiazzano, e predata e arsa la
Valdera tutta fuori delle fortezze, volendo più in avanti cavalcare
per suo onore e del comune di Firenze, vietato gli fu da’ consiglieri
che dati gli erano per lo comune senza mostrarli il perchè. Il valente
capitano pregiando più suo onore che la grazia e amore de’ privati
cittadini, e non curando i volti turbati, si mise in viaggio con l’oste
ordinata per fornire sua intenzione. L’uno de’ consiglieri ito più là
nello stato che non portava il dovere scrisse al fratello, ch’era degli
otto della guerra, come il capitano nullo loro consiglio volea seguire,
e che era uomo di sua volontà, e di mettere il comune in pericolosi
luoghi, con dire procurasse fosse onorato com’egli onorava loro.
Il che ne seguì, che per operazione del detto degli otto fu eletto
per capitano messer Ridolfo da Camerino, e mandato per lui, e che
prestamente venisse, mostrando che per le stranezze di messer Bonifazio
il comune n’avesse gran bisogno: e tutto che di ciò ne sdegnasse messer
Bonifazio nol dimostrò, ma come magnanimo ne fece di meglio. Tornando
a nostro processo, messer Bonifazio spregiato il voglioso e poco savio
consiglio, e forse malizioso e venduto de’ suoi consiglieri, lasciato
Ghiazzano ben fornito e guarnito alla difesa, l’ultimo dì di giugno,
arsa e predata la Valdera, con molto ordine cavalcò a Padule, villa
ricca e fornita di belli abituri, e predata e arsa la villa prese
Castello san Piero, e il mercato a Forcole, e per tre dì soggiornò in
quei paesi correndo vicino a Pisa: e in quel tempo presono, arsono e
guastarono trentadue tra castella, e fortezze e villate, nelle quali
arsono oltre a seicento case, che fu danno quasi inestimabile; e intra
l’altre fortezze presono Contro, e dieronlo in guardia a’ Volterrani.
Ed essendo la gente grossa de’ Pisani a Castello del Fosso, i nostri
vi mandarono e richiesonli a battaglia, ed eglino non s’attentarono
d’uscirli a vedere: fu in animo del capitano di combatterlo, ma
fallandoli gli ingegni di combattere castella, e vittuaglia, si partì
quindi, e puosesi nel borgo di Petriolo, quivi aspettando il nuovo
capitano; dove stando, per non tenere la sua gente oziosa, e per
non dare respitto a’ nemici, quattrocento tra barbute e Ungari con
cinquecento masnadieri, sotto la guardia e condotta di Leoncino de’
Pannocchieschi de’ conti da Trivalle di Maremma soldato del comune
di Firenze, fece cavalcare nella Maremma, lunga dal luogo dov’era
cinquanta miglia, verso Montescudaio e per que’ paesi, dove trovarono
gran preda di bestiame e grosso e minuto, che per l’asprezza del luogo
ivi s’era ridotto. I nostri non trovando contasto, fatto gran danno e
arsione nel paese, a dì 9 di luglio menarono al campo dodici centinaia
di bufole e novecento vacche, vitelle assai, e oltre a mille porci,
e altro bestiame minuto assai, il quale sortito tra i predatori, solo
messer Bonifazio per sua cortesia fu senza parte di preda, lasciandola
a chi l’avea faticata.


CAP. XIV.

_Del processo della guerra da’ collegati a messer Bernabò._

Di questo mese di giugno, quelli della lega ripuosono il castello di
Massa presso alla Mirandola, e lasciatolo ben fornito di vittuaglia
e di gente alla guardia contendeano a guerreggiare sollecitamente.
Dall’altra parte Anichino di Bongardo con la gente di messer Bernabò
ha riposto il castello di Solaro in sul canaletto, che esce del canale
di Modena, e fornitolo s’è accampato ivi presso nel bosco facendovisi
forte. Il conte di Lando con messer Ambrogiuolo figliuolo naturale di
messer Bernabò corsono infino alla Mirandola ingaggiati di battaglia
con la gente della lega, ma in que’ tempi che combattere doveano grave
malattia prese messer Galeazzo, e, o che così fosse, o che fosse
simulata per non si mettere alla fortuna della battaglia, il conte
di Lando e messer Ambrogiuolo si tornarono addietro. Il marchese di
Ferrara di questo mese tolse Voghera, terra d’oltre a dugento uomini,
e Guarlasco e più altre terre. Cane Signore tolse la valle di Sale
in sul lago di Garda, e più altre terre e fortezze. Alquanti vollono
dire questa essere la cagione perchè il conte di Lando e Ambrogiuolo
si tornarono addietro. In queste baratte e volture per operazione del
conte di Lando certi conestabili tedeschi ch’erano al soldo della
lega, loro caporale messer..... del Pellegrino, in numero tutti di
undici, fatta congiura doveano tradire la lega, i quali furono presi, e
trovando che ciò era vero furono decapitati.


CAP. XV.

_Come messer Ridolfo prese il bastone da messer Bonifazio._

Giunse a dì 6 di luglio messer Ridolfo al campo, che era fra Peccioli
e Ghiazzano, dove dalla gente dell’arme ch’aveano posto amore alla
cortesia e valore di messer Bonifazio con niuno rallegramento fu
ricevuto; e dal vecchio capitano prese l’insegne, onorandolo in questa
forma di parole, che la bacchetta e il reggimento dell’oste bene stava
nelle sue mani, ma per ubbidire il comune di Firenze di chi era soldato
la prendea: e presa, di presente lo fè maliscalco, ed egli ogni sdegno
deposto in servigio del comune di Firenze l’accettò come era ordinato.


CAP. XVI.

_Della crudeltà che i Pisani usarono contra i Lucchesi per gelosia._

Mentre che l’oste del comune di Firenze pigra e malcontenta sotto
il nuovo capitano dimorava tra Peccioli, e Ghiazzano in Valdera,
aspettando il gran fornimento che ’l capitano avea domandato, i
Pisani per non dimenticare la loro usata crudeltà, tutti i forestieri
che al loro soldo erano in Lucca feciono ritrarre nell’Agosta, e
segretamente avvisarono da cento cittadini ghibellini e loro confidati
che per grida che elli udissono andare non si partissono, ma facessono
vista di volere partire, acciocchè gli altri veggendo apparecchiare
loro prendessono viaggio; e ciò fatto, feciono bandire che sotto
pena dell’avere e della persona, che uomini e femmine, cittadini e
forestieri, dovessono sgombrare la città e ’l contado presso alla
città a mille canne, afin che compiesse d’ardere una candela che
posta era alle porte. Fu miserabile e cordoglioso riguardo e aspetto
di gran crudeltà vedere i vecchi pieni d’anni, le donne, le fanciulle
lagrimose con sospiri e guai, e i piccoli fanciulli con strida lasciare
loro case, loro masserizie e loro città, e ire e non sapere dove: i
gentili e antichi cittadini, e nobili mercatanti e artefici in fretta
e sprovveduti fuggire, come avessono spietati nemici alle spalle loro,
e la terra loro lasciassono in preda. L’orribile bando fu al tempo dato
ubbidito, e la terra lasciata fu vuota, e in sommo silenzio: di questo
prestamente seguì, che i Pisani ch’erano alla guardia di Lucca co’ loro
soldati e a piè e a cavallo furiosamente uscirono dell’Agosta colle
spade nude in mano, e corsono l’abbandonata terra senza essere veduti
da’ Lucchesi, gridando; Muoiano i guelfi; a Firenze, a Firenze: e non
aveano potestà di cacciare la gente de’ Fiorentini ch’erano loro in su
le ciglia.


CAP. XVII.

_Delle cavalcate fatte per messer Ridolfo sopra i Pisani, e del gran
danno che ricevettono._

Continovando nostro trattato della guerra tra i Fiorentini e’ Pisani,
con poca intramessa di cose di forestieri, perchè delle occorse in
questi giorni, se occorse ne sono degne di memoria, poche ne avemo, e
raccresciuta la forza del comune di Firenze, perchè il conte Niccola
degli Orsini prima offertosi, e accettato, era venuto con cento uomini
di cavallo, e così più altri gentili uomini, il perchè il capitano
si trovò con duemila barbute e con cinquemila pedoni nel campo tra
Peccioli e Ghiazzano, dove pigramente con molta sua infamia dimorava;
il perchè messer Bonifazio Lupo infignendosi poco sano se ne venne a
Firenze. Alla fine empiuto il gran fornimento che domandava, sotto il
cui adempimento si scusava di sua pigrizia, più non potendo fuggire
sue scuse, a dì 16 del mese di luglio con l’oste si partì da Peccioli,
e la notte albergò a Ponte di Sacco, e ’l dì seguente passarono il
fosso a malgrado della forza de’ Pisani che v’era alla guardia, con
loro danno e vergogna, ed entrarono nel borgo di Cascina, dove preda e
vittuaglia trovarono assai. La cagione fu, ch’essendo alla guardia del
fosso un quartiere di Pisa con soldati e contadini assai, non pensarono
che i Fiorentini vi potessono passare, e per tanto poco o niente v’era
sgombrato. Gli Ungari de’ Fiorentini, come per natura sono desiderosi
di guadagnare, e atti a scorrere, passarono insino alla Badia a
Sansavino, e presono intorno di cinquanta prigioni. Il capitano tutto
il giorno e ’l seguente stette col campo fermo a Cascina, dove intorno
correndo le gualdane per spazio di più miglia, e di prede e d’arsioni
danni inestimabili furono fatti. Il martedì mattina a dì 19 di luglio
partiti da Cascina s’accamparono a Sansavino, e ’l fiore della gente da
cavallo e da piè cavalcarono infino alla volta dell’Arno presso a Pisa
a cinquecento passi, ed ivi alla Bessa con l’usate muccerie, ad eterna
rinoma del comune di Firenze, e infamia de’ Pisani, feciono correre un
ricco palio di veluto in grana foderato di vaio, il quale ebbe il conte
Niccola degli Orsini, e lo mandò a Roma per onore della sua cavalleria.
I corridori con assai di buona gente sotto il bastone di messer Niccola
Orsini passarono Pisa facendo assai di male e vergogna a’ nemici. Fatte
le dette cose si tornarono al campo: e quel giorno medesimo passata
nona, ritornati al detto luogo, con assai meno gente per dirisione
feciono correre palii l’uno ad asini, l’altro a barattieri, e ’l terzo
alle puttane; onde i Pisani di tanta ingiuria aontati, seicento a piè
con dugento cavalieri con molti balestrieri, con la imperiale levata,
uscirono di Pisa per vendicare o in tutto o in parte loro oltraggio.
La gente de’ Fiorentini, ch’era a fare correre detti palii, ed era in
punto e vogliosa aspettando il detto caso, francamente s’addirizzò
a loro, e li ruppono e li rimisono infino nelle porte con tanto
ardire, che alquanti con loro mescolati entrarono in Pisa, e alquanti
balestrieri saettarono nella terra, e ciò fatto si tornarono al campo:
e quivi stando, il mercoledì arsono tutto ciò che poterono intorno a
Pisa infino al borgo di san Marco a san Casciano, e Valdicaprona e
molte altre ville, con molte belle e ricche possessioni nobilmente
accasate. Il danno come incredibile piuttosto è da tacere che da
scrivere: e per giunta a’ detti mali, i villani de’ piani ch’erano
rifugiati in Pisa, e stavansi sotto loro carra lungo le mura, furono
assaliti dalla pestilenza dell’anguinaia, e assai ne perirono. E ciò
somigliava agl’intendenti giudicio di Dio, che dentro e di fuori così
gastigasse i corrompitori della pace e della fede data per soperchio
d’astuta malizia.


CAP. XVIII.

_Come messer Ridolfo assediò Peccioli, e prese stadichi se non fosse
soccorso._

Poichè a messer Ridolfo parve avere fornito il dovere di suo onore,
potendo molto più fare, mercoledì a dì 20 di luglio ripassò il fosso,
e ritornossi a Ponte di Sacco; dove stando, casualmente fu preso un
fante che portava una lettera per parte del castellano di Peccioli
al capitano del fosso, la quale in sostanza diceva, che i soldati da
cavallo e da piè con molti terrazzani, sentendo che ’l capitano de’
Fiorentini era a Sansavino occupato in molte faccende, erano usciti di
Peccioli, e cavalcati in su quello di Volterra per guadagnare, e che
tornati non erano, e la cagione non sapea, e che la terra non era in
stato di potersi difendere se fossono combattuti o stretti per assedio,
e che a ciò riparasse, e gli mandasse presto soccorso; ed era vero, che
essendo la detta gente de’ Pisani cavalcata in su quello di Volterra,
certa gente da piè e da cavallo del comune di Firenze, la quale era
in Volterra, avendo boce della detta gente de’ Pisani loro si feciono
incontro, e colla forza de’ contadini volterrani gli incalciarono e
strinsono in forma, che non possendo fuggire nè ritornare per la via
ond’erano venuti, lasciata la preda che fatta aveano, in sul fare della
sera per loro scampo si ridussono in su un colle, e la notte si misono
per la Maremma. Il capitano vista la detta lettera mandò prestamente
gli Ungari e’ cavalieri innanzi per impedire la tornata della detta
gente in Peccioli, e senza dimoro con tutto l’oste seguì, e quella
medesima sera con l’oste attorneò tutta la terra, e il seguente dì la
cominciò a cignere di steccato facendo sollecita guardia, e la sera
in sul tramontare del sole, per conoscere se la lettera che egli avea
trovata gli dicea vero, fece dare alla terra una battaglia per scorgere
la gente che v’era alla difesa, e per quello comprendere si potè forse
sessanta uomini con femmine assai si vidono, che diedono a intendere
che vi mancava difesa; il procinto della terra era grande, ma forte
e di muro e di ripe. Il capitano scorto il fatto pigramente procedea
nell’assedio, dormendo la mattina insino a terza col letto fornito di
disonesta compagnia, e menando vita di corte quieta; il perchè messer
Bonifazio, uomo d’onesta vita e di vergogna pauroso, veggendo la
sciolta vita del capitano e suo mal reggimento, infignendosi d’essere
malato se ne venne a Firenze, e mostrando a’ signori che poco era loro
onore e necessario, chiese licenza di tornarsi in Lombardia; i signori
con loro consiglio considerando quanto era di bisogno al comune,
lo pregarono e lo gravarono, che a tanto bisogno non abbandonasse
il servigio per lui fedelmente cominciato, e che tornasse al campo
a perseguire le buone opere sue, le quali bene erano conosciute e
gradite da’ savi e buoni cittadini, e così conosciute quelle del suo
successore; il perchè vinto per servire il comune tornò al campo. Il
capitano corse in voce di poco leale per i suoi molti falli, e per non
volere seguire la volontà del comune, e di ciò mostrò segni, perocchè
la cavalcata che fatta avea sopra i Pisani non era stata volontaria
ma sforzata, riprendendo sua tardezza, e potendo con suo onore stare
dodici dì col fornimento che menò in su le porte di Pisa, e guastare
gran parte di loro contado, il terzo dì se ne partì, e potendo per
battaglia avere Peccioli, tanto soprastette, che le femmine armate
le mura presono cuore alla difesa veggendo la viltà del capitano:
ma infamato dalla partita di messer Bonifazio Lupo e da’ Fiorentini
ch’erano nel campo, tutto che i suoi protettori lo difendessono, ed
esso sè medesimo mostrando a molti le lettere ch’avea da Firenze, che
si portasse cortesemente, pur mosso dal grido strinse la terra prima
con battaglia tiepida e con poco ordine, e tanto debilmente si portò
in detto e in fatto, che con vergogna da pochi di quelli d’entro, che
pochi ve n’erano, vituperosamente fu ributtato, i quali intendendo loro
fortuna aveano smisurata paura, e mostravano gran cuore per invilire
quelli di fuori. Ritratto il capitano dalla poca favorata battaglia,
ne’ fossi rimasono scale e grilli che infino alle mura erano condotti,
di gran dispiacimento dei nostri cittadini che erano a vedere. Tra i
rettori del comune, tutto ch’e’ conoscano il difetto, per la forza di
medici radissime volte vi pongono rimedio obliando l’onore del comune.
La fama della viltà e disonesta vita del capitano, o calunniosa o
vera che fosse o falsa, pure lo stimolò alquanto; onde veggendo egli
che i Pecciolesi erano spigottiti, cominciò a cignere la terra di
steccato senza contasto, perocchè stracchi erano sotto le battaglie
e sotto la continova guardia quelli che rimasi erano nella terra per
più vili, perocchè tutti i gagliardi s’erano messi nella cavalcata
sopra Volterra. Alla fine quelli d’entro veggendosi stretti, e senza
speranza di soccorso, a dì 30 di luglio il vicario di Peccioli con
più compagni senza niuna arme a sicurtà dal capitano vennono a lui,
e patteggiarsi, che se per infino a dì 10 d’agosto non avessono da
Pisa soccorso li renderebbe la terra salve le persone e l’avere, e per
la fermezza di ciò dierono otto stadichi de’ più sufficienti uomini
della terra, e due Pisani, i quali il capitano ricevette, e li mandò
a Firenze. I Fiorentini ricevuti li stadichi, quasi certi d’avere
la terra, perchè loro speranza non cadesse in fallo rafforzarono
l’assedio, e mandaronvi mille balestrieri e dugento uomini da cavallo,
e fornimento assai necessario alla bisogna; e come l’intento de’
Pisani tutto si dirizzò ad avere Pietrabuona, così lasciando stare
ogni altra cosa, tutto quello de’ Fiorentini s’addirizzò ad avere
Peccioli. Come per gli ambasciadori del comune di Peccioli si sentì il
fatto in Pisa, subitamente nel Duomo radunarono il parlamento, dove per
molti apertamente fu detto, che per loro governatori erano traditi, i
quali affermavano che tanta gente avrebbono di Lombardia, che non che
fossono cavalcati, ma che si cavalcherebbono i Fiorentini, di che gran
borboglio si sparse per lo parlamento, e tale, che fè concitamento a
civile romore. Essendo in Pisa questo tremore e sospetto, e dovendo
succedere l’altro quartiere di Pisa a quello ch’era alla guardia
del fosso, non vi volle andare, onde quelli che v’erano lo arsono e
abbandonarono.


CAP. XIX.

_Come non essendo il castellano contento del patto messer Ridolfo fè
gittare una delle torri di Peccioli in terra._

Perseverando a Peccioli l’assedio, il castellano che tenea le due
forti torri che Castruccio v’avea fatte fare quando era signore di
Pisa, non contento al patto che fatto era co’ terrazzani, combattea i
nostri, e li villaneggiava di parole, stimando perduta la terra potere
tenere la fortezza lungamente. Il capitano veggendo suo proponimento
fece dirizzare alle torri, intra le quali era un ponte, una cava, e
l’una d’esse fè mettere in puntelli, e il decimo dì d’agosto, il dì
di san Lorenzo, ch’era l’ultimo del termine dato a’ Pecciolesi, il
capitano fè dire al castellano il suo pericolo pregandolo s’arrendesse,
e non volesse perire per soverchia baldanza. Il castellano e i fanti
che con lui erano se ne feciono beffe, moltiplicandole villanie, e
rimproverando al comune di Firenze la Ghiaia, il perchè il capitano fè
affocare i puntelli, onde il fumo e il crepare della torre fè segno al
castellano e a’ compagni che per lo ponte si rifuggissono nell’altra, e
così feciono, e appena aveano tratti i piè del ponte, che la torre e ’l
ponte cadde, onde cominciò a frenare la lingua: la torre cadde in sulle
mura della terra, e di quelle abbattè bene quaranta braccia. I briganti
dell’oste cupidi e vogliosi di preda ciò veduto s’apparecchiarono
quindi a entrare nella terra per rubare; i terrazzani uomini e
femmine senza arme corsono alla rottura, e gridarono, viva il comune
di Firenze, ricordando la fede loro data, e la promessa fatta per lo
comune; e il leale e buono cavaliere messer Bonifazio Lupo sotto la sua
insegna con la sua gente si mise alla guardia del luogo, e non lasciò
nè il dì nè la notte, che tutta era del termine, alcuno entrare dentro,
affermando che ’l comune di Firenze era e sempre era stato leale
osservatore di sue promesse. Il seguente dì, giovedì mattina a dì 11
d’agosto 1362, in su l’ora della terza, secondo i patti e le convenenze
che fatte erano, il conte Aldobrandino degli Orsini con la brigata sua,
appresso tre cittadini di Firenze con parte di gente fidata, presono
la tenuta della terra pacificamente senza offesa niuna o di fatti o di
parole, e nella terra con li stadichi insieme, che gli avea rimandati
il comune, furono ricevuti allegramente e a grande onore. Dell’acquisto
del detto castello e di giorno e di notte si fece gran festa, perocchè
tenendolo pensavano essere i sovrani della guerra, perocchè dal detto
castello ha sedici miglia di piano, rimiriglio alla città di Pisa. Il
castellano vedendo che la terra era venuta nelle mani de’ Fiorentini,
e considerando che la torre che gli era rimasa agevolmente si potea
mettere in puntelli, si rendè, ma per i suoi dispetti non fu ricevuto
se non alla misericordia del comune di Firenze, dove mandato fu per
lo capitano con i suoi compagni. Venuto, fu tenuto consiglio di farli
morire, che fu disonesta e abominevole cosa, e di malo esempio di
volere fare morire coloro che per lo comune francamente e fedelmente
s’erano portati: il parlarne, non che tenerne consiglio per i savi
e buoni cittadini, fu ripreso; assai loro fu la prigione. In questi
medesimi giorni i gentili uomini e signori del castello di Pava, il
quale è situato e posto in sul passo da ire di Valdera in Maremma, ed
è forte e bella tenuta, la dierono al comune di Firenze in prestanza
mentre la guerra durasse, e il comune di Firenze con la grazia de’
detti gentili uomini lo faceva guardare.


CAP. XX.

_Come il capitano de’ Fiorentini prese Montecchio, Laiatico e Toiano._

Tolta la terra di Peccioli, come di sopra è detto, il seguente dì 12
d’agosto il capitano pose assedio al castello di Montecchio, dove
erano ridotti dugento masnadieri per tenere a freno e guerreggiare
la gente del comune di Firenze, i quali assai danno aveano fatto
loro nell’assedio di Peccioli, e il detto castello di Montecchio
circondarono intorno intorno strettamente, dove stati più giorni,
alquante volte con battaglie gli tentarono; il perchè quelli d’entro
inviliti intorno di sessanta di loro di notte si gittarono per uno
dirupato d’altezza paurosa a vedere, e di loro ne morirono alquanti, e’
loro compagni al campare ebbono affanni assai. Quelli ch’aveano avuto
paura di rovinare per quelle coste renderono il castello e le persone
alla misericordia del comune di Firenze, e di loro centoquarantaquattro
ne vennono a Firenze, i quali messi in prigione, dagli uomini e
pietose donne fiorentine e di vivanda e di ciò che a loro bisognava
abbondantemente furono provveduti. Il seguente dì, tornando al processo
del capitano, cavalcò a Laiatico, e quello ebbe per battaglia; e il
dì medesimo si posono a Toiano, e da’ terrazzani ebbono il castello,
e pochi dì appresso la rocca, d’onde venne a Firenze la campana che è
posta in sul ballatoio del palagio de’ priori, la quale ai mercatanti
dà l’ora del mangiare. Dipoi il capitano cavalcò a Montefoscoli e
a Marti per porvi assedio: ciò vietò il non trovarvi acqua, onde si
tornò a Fabbrica; dove stando, il capitano cupido del guadagno mandò
quattrocento cavalieri e masnadieri assai nella Maremma dove sentì
esser fuggito molto bestiame. I mandati in pochi giorni, tornarono con
gran preda di bestiame, preso il vicario di Piombino, grande popolare
di Pisa il quale novellamente andava all’uficio, e per sua mala ventura
si scontrò co’ suddetti, e con tutta sua famiglia rimase preso. La
preda messer Ridolfo divise, non come fatto avea messer Bonifazio, ma
capo soldo, e più che parte ne volle, di che forte ne fu biasimato, e
dell’amore cadde di tutta gente d’arme ch’erano a sua ubbidienza.


CAP. XXI.

_Dell’aiuto che i Perugini in questi dì mandarono a’ Fiorentini._

Sentendo i Perugini che i Fiorentini aveano avuto la terra di Peccioli,
e che loro fortuna sormontava, volendo ammendare il vecchio errore,
commisono il nuovo maggiore, e mandarono a’ Fiorentini sessanta barbute
e venticinque stambecchini, i quali come meritavano con torto viso e
rimbrotti del popolo furono ricevuti.


CAP. XXII.

_Come il conte Aldobrandino degli Orsini si partì onorato da Firenze._

Il conte Aldobrandino degli Orsini, il quale era venuto al servigio
del comune di Firenze, preso Peccioli si tornò a Firenze per tornarsi
in suo paese. Il comune di Firenze avendo a grato il servigio per lui
liberamente fatto, e ciò riputandosi a onore, lo provvidde largamente,
e a dì 29 del mese d’agosto con rilevato onore lo feciono fare
cavaliere del popolo di Firenze, e messer Bonifazio Lupo procuratore a
ciò del comune: ed esso conte Aldobrandino fece il suo fratello minore
cavaliere. E amendue d’arme e cavalli e d’altri doni cavallereschi
riccamente furono provveduti e onorati; e per loro fece il comune
un nobile e ricco corredo: e fornita la festa si partì di Firenze,
accompagnato da tutti i cittadini ch’aveano cavalcature.


CAP. XXIII.

_Come e perchè si creò la compagnia del Cappelletto._

La Presura di Peccioli fu materia di scandolo tra ’l comune di Firenze
e’ soldati, perocchè certi di loro, ciò fu il conte Niccolò da Urbino,
Ugolino de’ Sabatini di Bologna, e Marcolfo de’ Rossi da Rimini,
uomini di grande animo e seguito, con la maggior parte de’ conestabili
tedeschi, a instigamento de’ procuratori di loro paghe, a dì 30
d’agosto detto anno 1362 mossono lite al comune, dicendo, che per la
presura di Peccioli doveano avere paga doppia e mese compiuto, e che
avendola in mano contro a loro volere il capitano prese li stadichi,
dicendo, che se non avessono il debito loro non cavalcherebbono; e
sopra ciò stando pertinaci mandarono loro ambasciadore a Firenze, e ciò
feciono noto a’ priori il perchè avuto per i priori sopra ciò consiglio
da chi di ciò s’intendea, determinarono che loro domanda non era
ragionevole; onde tornato al campo l’ambasciadore con questa risposta,
furiosamente il detto conte Niccolò, Ugolino, e Marcolfo puosono un
cappello in su una lancia, dicendo, che chi voleva paga doppia e mese
compiuto si mettesse sotto il detto segno fatto, i quali in poca d’ora
si ricolsono il detto conte Niccolò, Ugolino, e Marcolfo con loro
brigate, e molti caporali tedeschi e borgognoni, tanto che passarono
il numero di mille uomini da cavallo, di che il capitano dubitò di
tradimento, non possendoli con parole rattemperare, richieggendoli
per loro saramento, e per la fede promessa al comune di Firenze, che
loro indebito proponimento dovessono lasciare, e tutto era niente,
che quanto più li pregava e richiedea più levavano il capo, e più
li trovava duri e pertinaci. Onde per più sano consiglio essendo con
tutta l’oste intra Marti e Castello del Bosco all’entrata del mese di
settembre, levò il campo, e tornossi a san Miniato lasciando le tenute
che prese avea fornite e di vittuaglia e di gente. Come ciò fu noto a
Firenze, il detto conte Niccolò, Ugolino, e Marcolfo, e’ conistabili
tedeschi di presente furono cassi, ed essi si radunarono all’Orsaia in
quello d’Arezzo, e crearono compagnia, la quale per lo caso detto di
sopra del cappello posto in sulla lancia titolarono la compagnia del
Cappelletto, e quivi fatto il capo a’ ladroni, in piccolo tempo molto
ingrossarono. I Pisani sentendo la dissensione della gente del comune
di Firenze, rassicurati non poco, con l’arte loro ritolsono Laiatico,
dove senza volere alcuno a prigione, uccisono venticinque fanti che
v’erano dentro alla guardia, intra i quali furono cinque di nome;
per la qual cagione i Fiorentini sdegnati trassono di Peccioli quasi
tutti i migliori terrazzani, de’ quali parte ne vennero a Firenze,
e per loro vita dal comune ebbono provvisione: gli altri terrazzani
veggendo la gelosia presa per i Fiorentini, tutti quelli ch’avessono
forma d’uomo se n’uscirono, onde la terra rimase a’ soldati. Il simile
feciono quelli di Ghiazzano, e di Toiano, e dell’altre tenute prese pe’
Fiorentini. Nei detti dì essendo il capitano venuto a Firenze, i Pisani
con seicento cavalieri e molti pedoni corsono in su quello di Volterra,
e levarono preda di trecento bestie grosse, e uccisono alquanti uomini,
e alquanti ne presono. La gente del comune ch’era in Peccioli non stava
oziosa, ma sovente cavalcavano, sino sulle porte di Pisa, mettendo
aguati, e prendendo prigioni, e facendo aspra e sollecita guerra, tanto
feciono che ’l contado di Pisa verso le parti dove poteano cavalcare
non s’abitava, nè si poneva a seme.


CAP. XXIV.

_Comincia la guerra che i Fiorentini feciono in mare a’ Pisani._

Del mese d’agosto le galee di Perino e quelle di Bartolommeo condotte
al soldo dal comune di Firenze furono nella riviera di Pisa verso
Piombino, facendo in quelle riviere gran danni, e in quelli giorni
messer Niccola Acciaiuoli gran siniscalco del regno di Puglia, alle
sue spese mandò due galee a servire il nostro comune per tempo di due
mesi, le quali detto tempo assai affannarono i Pisani, non lasciando
nel porto di Pisa legno che non pigliassono, rubassono e ardessono: e
all’isola della Capraia scesono in terra, e levarono preda di mille
capi di bestie, e il simile feciono al Giglio e a Vada per tutta
quella marina dove danni di preda o d’arsioni poterono fare, a grande
onore del comune di Firenze. Perino Grimaldi all’entrata di settembre
per simile modo correva la detta marina facendo gran guerra, e per
battaglia prese la Rocchetta, la quale è posta in su la marina intra
Castiglione della Pescaia e Piombino in forte luogo; li terrazzani
rifuggirono nella rocca, e’ Genovesi presono la terra, e forniti di
vittuaglia la rubarono e arsono. Fu riputato per Italia in grande
onore al nostro comune, e non senza ammirazione di chi l’intese, che
i Fiorentini potessono in mare più che i Pisani, e che per acqua li
tenessono assediati.


CAP. XXV.

_Come e perchè i Romani si dierono al papa._

In quel tempo lo stato di Roma e reggimento era tornato nelle mani
del popolo minuto, del quale si facea capo, ed era il maggiore e
quasi signore un Lello Pocadota, ovvero Bonadota calzolaio, il quale
col favore del detto popolo avea cacciati di Roma i principi, e’
gentili uomini, e’ cavallerotti, ed essi di fuori accoglieano gente,
e misono in grida che aveano al loro soldo condotta la compagnia del
Cappelletto, la quale allora era in Campagna, di che per questa tema
i governatori di Roma feciono seicento uomini a cavallo di soldo tra
Tedeschi e Ungheri, e altrettanti de’ loro cittadini, e numerato il
popolo romano a piè si trovarono essere ventidue migliaia d’uomini
armati, e per temenza la notte faceano guardare le porte. Occorse
in questi giorni, o per sagacità che fosse, o per errore de’ gentili
uomini, che avendo i Romani mandato loro potestà a Velletri, fama uscì
fuori che quelli di Velletri l’aveano morto, onde i rettori di Roma
diffidati di loro stato accolsono consiglio, e coll’autorità d’esso
dierono al papa il governo della città liberamente come a signore: ben
vollono per patto che messer Guido cardinale di Spagna non vi potesse
avere alcuno ufizio o giurisdizione. Tu che leggi ed hai letto le alte
maravigliose cose che feciono i buoni Romani antichi, e tocchi queste
in comparazione, non ti fia senza stupore d’animo.


CAP. XXVI.

_Come Dio chiamò a sè papa Innocenzio, e fu fatto papa Urbano quinto._

Fu papa Innocenzio sesto uomo di semplice ed onesta vita, e di buona
fama, colla quale passò di questa vita a migliore a dì 11 di settembre
1362, e a’ tredici dì fu seppellito alla chiesa di nostra Dama
d’Avignone. Sedette papa anni nove, mesi otto e dì sedici: vacò la
Chiesa di Roma dì quarantotto. I cardinali essendo chiusi in conclavi
in numero ventuno a dì 28 di settembre, si trovò che dato aveano
quindici voci al cardinale...... che fu vescovo di...... monaco nero,
e di nazione Limogino, uomo per età antico, e per vita di penitenza,
e del tutto dato allo spirito, a cui essendo revelato lo squittino,
avanti che pubblicato fosse papa con molto fervore d’amore e umiltà
rinunziò. I cardinali, perchè per avventura non era chi arebbono
voluto, accettarono la rifiutagione. Appresso il cardinale di Tolosa
nipote del cardinale d’Aubruno ebbe undici voci delle ventuno, un
altro dieci, un altro nove, onde a’ trenta di settembre gara entrò tra’
cardinali, ed erano in grande discordia, ch’una parte d’essi il volea
Limogino, e l’altra no. In fine come piacque a Dio, da cui viene ogni
bene e ogni grazia, il dì ultimo d’ottobre elessono in papa messer
Guglielmo Grimonardi, nato della Siniscalchia di Belcari, il quale
era abate di san Vittore di Marsilia, dell’ordine di san Benedetto,
uomo d’età di sessanta anni, onesto e di religiosa vita, pratico e
intendente assai. Costui di settembre era venuto con danari che la
Chiesa mandò al legato ambasciadore alla reina Giovanna, passò per
Firenze, e di convito de’ signori fu riccamente onorato; sentita per
lui la morte d’Innocenzio si partì di Firenze, ed osò dire, che se per
grazia di Dio vedesse papa che avesse in cura di venire in Italia, e
alla vera sedia papale, e abbattesse i tiranni, e l’altro dì morisse,
sarebbe contento. I cardinali perchè non era in Avignone, come scritto
avemo, quando fu eletto, lo tennono celato, e mandarono per lui
fingendo per certe cagioni averne prestamente bisogno, e segretamente
a dì 30 d’ottobre entrò in Avignone, e a dì 31 fu pubblicato papa, e
nomato Urbano quinto: prese il manto e la corona a dì 6 di novembre.


CAP. XXVII.

_Come al re Pietro di Castella morì un figliuolo che avea._

La novità del fatto ne dà materia di mettere in nota quello che passare
con silenzio, essendo stato il caso in altrui, non era da ripigliare.
Del mese d’aprile passato, Pietro re di Castella avendo un figliuolo
di dama Maria sua femmina d’età di tre anni e mezzo, volle dare a
intendere, e fare credere al suo reame, che fosse legittimo e naturale,
e pubblicamente osò dire, che la detta dama Maria era sua legittima
sposa; e per affermare a’ sudditi suoi quello dicea, volle e ordinò
che tutti quelli che aveano a fare omaggio alla corona a certo giorno
dato giurassono fedeltà nelle mani del fanciullo, e così feciono tutti
i suoi baroni, chi per amore e chi per paura, e per reverenza d’omaggio
tutti li baciarono la mano, e il simile feciono i sindachi di tutte le
comunanze del suo reame. Nel detto anno del mese d’ottobre il fanciullo
morì, di che il re duolo ne prese a dismisura, e vestissene a nero con
tutti i suoi baroni. Dimostrò che a Dio sovente non piace quello che
piace all’uomo, massimamente le burbanze.


CAP. XXVIII.

_Come Perino Grimaldi prese l’isoletta e castello del Giglio._

All’entrante del detto mese d’ottobre, Perino Grimaldi da Genova al
soldo del comune di Firenze con due galee e un legno, giunte a lui
l’altre due galee condotte per lo comune, si dirizzò all’isola del
Giglio, e scesi in terra con molto ordine assalirono la terra con aspra
battaglia. I terrazzani tutto che sprovveduti francamente si difesono,
e per lo giorno la battaglia durò dalla terza al vespero, nella quale
di quelli d’entro molti ne furono morti, molti magagnati dalle buone
balestra de’ Genovesi. Partita la battaglia i Genovesi si tornarono a
loro galee, e medicarono i loro fediti, e presono la notte riposo. Il
seguente dì la mattina tornarono alla battaglia con molto più cuore
e ordine, avendo scorta la paura e il male reggimento di quelli della
terra: così disposti andando, si feciono loro incontro tre di quelli
della terra senza arme gridando, pace pace, e giunti al capitano,
lui ricevente per lo comune di Firenze dierono la terra salvo loro
avere e le persone, e così per Perino furono graziosamente ricevuti, e
nella terra i Genovesi entrarono, non come nemici, ma come terrazzani
pacificamente, e’ terrazzani si trassono con loro a combattere la
rocca, con minacciare il castellano, il quale, cominciata la battaglia,
vile e impaurito, temendo non tagliassono la rocca da piè con le scuri,
disse si volea arrendere salvo l’avere e le persone, e avendo dal
comune di Firenze le paghe ch’avea servite, e così fu ricevuto. Perino
avendo fatto tanto nobile acquisto al nostro comune, fornita la rocca
di vittuaglia e di sufficienti guardie, e seguendo la felice fortuna
prese viaggio verso l’Elba. Il comune di Firenze mandò castellano al
Giglio; e perchè avea soperchiati i Pisani in mare fè disordinata festa
e letizia e di dì e di notte. Questa ventura fu tenuta mirabile, e
operazione di Dio piuttosto che umana, considerato che la terra e la
rocca sono da guardarle e lasciarle stare, e nè la forza del comune di
Genova, che più volte avea tentato la ventura dell’acquisto del Giglio,
nè quella de’ Catalani, nè quella de’ Pugliesi, che più e più volte
aveano cercato il simile, e con aspre e continove battaglie aveano
combattuta la terra, e non potuto acquistarvi una pietra, facevano la
cosa più ammirabile. Come a Pisa fu la novella sentita duri lamenti
vi furono, parendo loro vilia di mala festa, poichè i Fiorentini li
sormontavano in mare: e di certo loro intervenne il detto del savio,
il quale dice: Extrema gaudii luctus occupat; che suona in volgare:
Gli estremi della letizia sono occupati dal pianto; così occorse a’
Pisani, per la disonesta e pomposa festa e allegrezza che feciono per
Pietrabuona, avvilendo in parole e in fatti a dismisura i Fiorentini,
la quale in sì breve tempo fu soppresa da tante avversitadi. E ciò è
chiaro esempio al nostro comune d’usare la vittoria onestamente, e non
straboccare nelle vane e pompose feste per loro vittorie.


CAP. XXIX.

_Come messer Piero Gambacorti per trattato si credette tornare in Pisa._

Piero Gambacorti uscito di Pisa, il quale molto tempo innanzi che la
guerra si cominciasse, avendo rotto i confini che per lo suo comune
gli erano stati assegnati a Vinegia, si conducea in Firenze per essere
più vicino di Pisa, se la fortuna gli avesse apparecchiato via da
ricoverare suo stato. E stando in Firenze, del mese d’ottobre tenne
segreto trattato co’ suoi fidati amici, che molti ancora n’avea, di
ritornare in Pisa con la forza de’ Fiorentini, che di qui gli era
promessa e doveali essere data la porta di san Marco; proseguendo suo
trattato, ed essendo dato il giorno, a dì 10 d’ottobre, col capitano
de’ Fiorentini, e con settecento cavalieri e trecento Ungari si partì
di Peccioli, e giunsono a Pisa nella mezza notte, ed entrarono nel
borgo di san Marco; ed essendo all’antiporto della terra, e non essendo
loro risposto, cominciarono a volere rompere quella: dentro desto
il fatto di subito furono all’arme, e la terra tutta impaurita e in
tremore: due conestabili de’ nostri, ch’erano già in su l’antiporto
vi furono morti: e non sapendo quelli d’entro se quelli di fuori erano
assai o pochi, mandarono fuori tre bandiere d’uomini a cavallo, i quali
per i nostri furono tutti tra presi e morti; onde i Pisani veggendo
che il fatto era maggiore che non si stimavano, giugnendo paura a
paura per la notte, si dierono a guardia delle mura sollecitamente.
Veggendo il capitano e Piero che ’l fatto era scoperto, e la sollecita
guardia, e non sentendo dentro dissensione di romore cittadinesco,
arsono il borgo, e co’ prigioni e preda si tornarono a Peccioli. La
cagione perchè non ebbe effetto il trattato fu, che la sera innanzi
che i nostri cavalcassono presentendo i Pisani che trattato era nella
terra, tutto non sapessono che, in caccia feciono tornare tutti i
loro soldati a cavallo e a piè in Pisa; veggendo gli amici di Piero
ciò non s’ardirono a scoprire per paura: se ciò non fosse stato, Pisa
per quella volta venia alle mani del comune di Firenze. Credo nol
volle Iddio per meno male, che tanto erano infiammati i Fiorentini,
che rischio era della desolazione di quella città. Tornati i nostri a
Peccioli, il seguente giorno cavalcarono al Bagno ad Acqua e arsonlo, e
molte altre ville d’attorno.


CAP. XXX.

_Come Perino Grimaldi soldato del comune di Firenze prese Portopisano,
e le catene del detto porto mandò a Firenze._

Nel detto anno del mese d’ottobre, Perino Grimaldi a soldo del comune
di Firenze, con quattro galee e un legno bene armati e di buona
gente, avendo fatto dannaggio assai per la riviera di Pisa, si mise
in Portopisano, e giunti alle piagge, e con barche misono a terra
una parte de’ loro balestrieri, i quali colle balestra francamente
assalirono cinquanta cavalieri e molti fanti che per i Pisani erano
posti alla guardia del porto, temendo che l’armata de’ Fiorentini
non li danneggiasse nel seno del porto loro. La gente de’ Pisani
non potendo sostenere l’oppressione della balestra abbandonarono il
porto, onde i Genovesi presono il molo, e senza arresto giunti al
palagio del ponte v’incominciarono colle balestra aspra battaglia: nel
palagio erano venti masnadieri, i quali ben guerniti alla difesa non
lasciavano i Genovesi appressare alla porta. Durando la detta battaglia
per lungo spazio, il capitano delle galee saputo guerriere fece a due
galee levare alto gli alberi, e miservi l’antenne, e nella vetta di
ciascuna antenna mise una gabbia, e allogò due de’ migliori balestrieri
ch’egli avesse nell’armata, e le galee condussono vicine al palagio,
e l’antenne levavano alte a bassavano come domandavano i balestrieri
ch’erano nelle gabbie, e talora erano al pari del palagio, e talora
più alti, e ferendo i fanti ch’erano alla guardia sopra la porta non
li lasciavano scoprire alla difesa, onde quelli ch’erano a piè del
palagio sentendo allentata la difesa spezzarono le porte, e presono
il palagio con quelli che dentro v’erano; poi si dirizzarono all’una
delle mastre torri, e quella per simile modo ebbono e abbatterono, e
nel cadere che fece uccise alcuni Genovesi che la tagliarono, l’altra
torre ebbono a patti; e ciò fatto, prestamente rifeciono il ponte in su
l’Arno, ch’era tagliato, e addirizzaronsi al palagio della mercatanzia
e al borgo, e quelli per lungo spazio combatterono, ma per i cavalieri
e masnadieri che quivi erano rifuggiti niente vi poterono acquistare,
tutto che gran danno colle balestra facessono. Tornati al porto
baldanzosi per la vittoria arsonvi una cocca che v’era carica di sale,
e più altri legni che vi trovarono; e per dispetto de’ Pisani, e per
rispetto della nuova vittoria de’ Fiorentini, velsono le grosse catene
che serravano il porto, e quelle, carichi d’esse due carri, mandarono
a Firenze, strascinandole per tutto per derisione, delle quali furono
fatte più parti, e in tra l’altre quattro pezzi ne furono appesi sopra
le colonne del profferito dinanzi alla porta di san Giovanni. E fu per
chi il fè avuto rispetto alla perfidia de’ Pisani, i quali per i nobili
servigi ricevuti loro donarono quelle colonne abbacinate, e coperte di
scarlatto, e perchè l’uno esempio chiamasse l’altro.


CAP. XXXI.

_Come messer Bernabò mandò a papa Urbano a proseguire la pace._

Come messer Bernabò sentì la coronazione di papa Urbano quinto creò
solenne e onorevole ambasciata, e mandogliele, i quali fatto la
debita reverenza, e rallegratisi in persona di loro signore di sua
coronazione, appresso gli esposono come messer Bernabò con reverenza
domandava di volere seguire l’accordo già cercato tra la santa Chiesa
e lui; il papa con grave aspetto avendo ricevuti gli ambasciadori, con
quello medesimo rispose, che quando il signore loro avesse renduto
a santa Chiesa le terre sue, le quali contra ogni giustizia tiene
occupate, e volesse delle sue perverse operazioni tornare a penitenza
e a obbedienza della Chiesa di Dio, come fedele cristiano che lo
riceverebbe. Allora gli ambasciadori ricorsono al re di Francia che del
detto mese di novembre era in Avignone, perchè si facesse trattatore
e mezzano, il quale dal papa ebbe simigliante risposta, e di corte si
partì mal contento; e per questo e per altre cagioni gli ambasciadori
di messer Bernabò lo seguirono, pregandolo ritornasse in corte, e
niente ne volle fare. Partito il re, indi a picciolo tempo il santo
padre fermò gravissimi processi contro a messer Bernabò d’eresia e
scisma, i quali si pubblicarono in Firenze domenica a dì 29 di gennaio
1362, ne’ quali erano molti articoli d’eresia, e intra gli altri, che
egli tenea d’essere Iddio in terra, massimamente nel distretto suo,
e assegnolli termine a irsi ad escusare per tutto il mese di febbraio
1362.


CAP. XXXII.

_Domande fatte per lo re di Francia al papa._

Quattro cose dopo la visitazione e rallegramento di sua coronazione
domandò il re di Francia al santo padre; in prima, quattro cardinali
de’ primi facesse: appresso sei anni le rendite di santa Chiesa in
suo reame domandando di poterle in tre anni ricoglierle per aiuto a
pagare il re d’Inghilterra, di quello che per i patti della pace fare
li dovea: la terza domanda fu, che gli piacesse per mezzanità sua
seguire il trattato della pace con messer Bernabò, promettendoli di
fare stare contento messer Bernabò a quattrocento migliaia di fiorini,
i quali dovesse pagare la Chiesa al re in otto anni, cinquantamila per
anno, mostrando che ciò gli era in grande acconcio alle faccende che a
fare avea con il re d’Inghilterra, affermando che messer Bernabò glie
ne facea sovvenenza quel tempo che a lui piacesse: la quarta domanda
fu, che piacesse a sua santità dare opera che la reina Giovanna fosse
sposa del figliuolo. A questa ultima il papa prima rispose, che quanto
per sè esso n’era molto contento, e gli piacea, quando il figliuolo
dimorasse nel Regno, e prestasse il saramento e il debito censo a
santa Chiesa, e dove fosse in piacere della reina cui ne conforterebbe.
All’altre domande disse al re che n’arebbe suo consiglio, e che perciò
non bisognava ch’egli stesse, che a tempo li risponderebbe; e per non
avere materia di fare in dispiacenza del re, che avea chiesti quattro
cardinali, per le digiune nullo ne volle fare. Il re passò il Rodano
visitando le terre della Provenza, mal contento alle risposte del papa.


CAP. XXXIII.

_Di grande acquazzone che in Italia fè danno._

All’entrata di novembre per tutta Italia furono grandissime e continove
piove; in Lombardia ruppono gli argini del Po in più luoghi, e tutto il
paese allagarono con danno grandissimo de’ paesani; in Firenze ruppono
la pescaia della Porta alla giustizia, e il muro fatto per lo comune
per riparo della Piagentina, e stesonsi l’acque in essa profondandosi
forte, e vennono insin presso alle mura sopra la Porta alla giustizia,
a quelle tosto arebbono con la porta e colla torre del canto gittate in
terra, se non fosse stato il presto argomento di buoni maestri, i quali
con pali a castello e con altri ripari sollecitamente e di dì e di
notte puosono riparo.


CAP. XXXIV.

_Come il re di Cipro andò ad Avignone con tre galee._

Il dì tre di dicembre 1362, lo re di Cipro con tre galee apportato
andò ad Avignone al santo padre, per ordinare e dar modo con lui al
passaggio oltremare non ancora maturo; il perchè i saracini sentendo
suo cercamento, in Egitto, e in Damasco e in Soria presono molti
cristiani, e forte gli afflissono: e per tanto questi accennamenti sono
ai cristiani che di là praticano forte dannosi.


CAP. XXXV.

_Come morì Giovacchino degli Ubaldini e lasciò reda il comune di
Firenze._

Del mese di dicembre di detto anno, per uno fedele di Giovacchino di
Maghinardo degli Ubaldini rivelato gli fu, che Ottaviano suo fratello
l’avea richiesto, e tenea trattato di torli Castelpagano; Giovacchino
volle che il fedele seguisse il trattato, e procedendo a tanto venne
al fatto, che Giovacchino essendosi dentro fornito in modo che non
potea essere forzato, ordinò che il fedele al giorno dato mise i fedeli
e’ fanti di Ottaviano; Giovacchino fece serrare le porte, e mettere
al taglio delle spade quelli che dentro v’erano racchiusi. Occorse
ch’uno fedele di Ottaviano veggendosi in luogo da non potere campare,
disperando, come un verro accanato si dirizzò a Giovacchino, e lo
fedì nella gamba, della quale fedita di spasimo indi a pochi giorni
morì. Conoscendo Giovacchino il poco amore del fratello verso lui, e
ch’era cagione di sua morte, fè testamento, e lasciò erede il comune di
Firenze; il quale poi del mese di febbraio per suo sindaco, come giusto
e legittimo erede prese la tenuta di Castelpagano, e d’altre terre e
beni che s’apparteneano al detto Giovacchino.


CAP. XXXVI.

_Come il conte di Focì sconfisse e prese quello d’Armignacca._

Erano gare e questioni spiacevoli e gravi intra il conte di Focì e il
conte d’Armignacca, il perchè in fine ciascuno fece suo sforzo sì di
sua gente e sì d’amistà, e a dì 5 di dicembre ingaggiati di battaglia
si trovarono in sul campo all’Isola presso di Tolosa, e commisono
insieme aspra battaglia, la quale per la pertinacia della buona gente
che temeva vergogna sì dall’una parte come dall’altra durò per lungo
spazio di tempo, dove si trovò morti in sul campo tra dall’una e
dall’altra parte oltre a tremila uomini da cavallo, che ve n’ebbe mille
cavalieri e gentili uomini di rinomea, e a quello di Focì rimase il
campo, e quello d’Armignacca fedito rimase prigione, e con lui il conte
di Giagne, e il conte di Montelesori, e ’l signore di Libret con due
suoi fratelli, e il conte di Cominga, e più altri signori e gentili
uomini di nomea.


CAP. XXXVII.

_Come i Pisani vollono torre il campanile d’Altopascio._

I Pisani, come uso di guerra richiede, solleciti ad offendere loro
avversari, tutto che ’l verno soglia prestare triegua alle guerre
campali, a dì 8 di gennaio di detto anno con seicento cavalli e
duemila buoni pedoni si strinsono al campanile d’Altopascio, che
l’altro per loro era stato arso, come di sopra narrammo, e quello
assediarono, ma assediati dalla durezza del verno finiti i cinque
giorni lasciarono l’impresa, il perchè i Fiorentini a’ 17 dì del
mese, il dì di santo Antonio, veggendo che i Pisani s’erano partiti
dall’assedio, considerando che la fortezza era stecco nell’occhio al
Pisano, vi mandarono il conte Francesco da Palagio con venticinque
uomini a cavallo e dugento fanti, e con molti maestri per riporre
il castello sotto la sicurtà del campanile: i Pisani, che vicini
erano al luogo, sentendo il fatto, con seicento cavalieri e duemila
masnadieri assalirono i nostri, i quali trovarono sospesi e attenti al
lavorio, i quali per lungo spazio di tempo francamente si difesono come
prod’uomini, ma il proverbio è pur vero che i più vincono, i Pisani
per le rotture del muro si misono dentro, onde i nostri non potendo
sofferire pensarono a ritrarsi a salvamento, de’ quali cento e più si
fuggirono nel campanile, gli altri alle terre del comune di Firenze
vicine ad Altopascio; e in tanta zuffa non vi furono morti che sei,
uno dalla parte fiorentina e cinque dalla parte de’ Pisani, magagnati
e fediti d’ogni parte ne furono assai. La nostra gente da cavallo che
già sentito avea il romore traeva al soccorso, e traendo caddono ne’
guati che per i Pisani erano messi, e rimasonne otto presi, i quali
agli altri scopersono i guati. I Pisani ciò fatto a dì 27 del mese si
partirono e arsono quello che rimaso era da ardere fuori del campanile,
e partiti di là si puosono a oste a Castelvecchio, e i Fiorentini
armati, e ciascuno in distanza di piccolo tempo se ne partì senza fare
frutto niuno.


CAP. XXXVIII.

_Come in Firenze s’ordinò tavola per lo comune per servire i soldati._

Gl’ingordi e disonesti usurieri, che sotto colore di prestanza
sovvenieno i soldati di loro comune, portavansene i loro soldi, l’arme
e’ cavalli, il perchè il comune ai suoi bisogni non li potea avere
cavalcati; mosse il comune a fare banco, il quale con danari del
comune potesse sovvenire a’ soldati, e del mese di febbraio 1362 fu
ordinato co’ suoi ufiziali, i quali, nel detto anno in calen di marzo
cominciarono l’ufizio, ed ebbono al cominciamento del banco dal comune
quindicimila fiorini.


CAP. XXXIX.

_Come i Pisani vollono torre santa Maria a Monte._

A dì 26 del mese di gennaio, il capitano de’ Pisani Rinieri del Bussa
da Baschi con ottocento cavalieri e tremila pedoni cavalcò a santa
Maria a Monte, e considerando che per due ponti ch’erano sulla Gusciana
i Fiorentini poteano soccorrere il castello, quelli prestamente
tagliarono, e nel pieno della notte assalirono il castello da due
parti, e con aspra battaglia e gran romore per molto spazio di tempo
il combatterono, e per i soldati del comune e per i terrazzani furono
villanamente ributtati, avendo già poste le scale alle mura del borgo,
e assai ne furono morti e magagnati colle pietre e co’ balestri; e
sopravvegnendo il giorno, veggendosi perduta la speranza della terra,
cominciarono ad ardere e fare preda per lo paese: avendo di ciò boce
messer Ridolfo da Camerino allora capitano de’ Fiorentini trasse al
soccorso; i Pisani non lo attesono.


CAP. XL.

_Come i Pisani vollono torre Pescia per trattato._

La sagacità de’ Pisani non trovava posa, ma con solleciti modi e
occulti trattati per torre delle terre de’ Fiorentini, e avendo del
mese di febbraio 1362 per danari corrotte certe guardie diputate a
certa parte delle mura di Pescia, nella mezza notte con scale assai,
e con cinquecento uomini di cavallo e con duemila fanti eletti, con
molto ordine s’accostarono alle mura della terra che guardavano i
traditori tacitamente, che quelli d’entro niente ne sentirono. I
traditori come li sentirono, che stavano a orecchi levati, uccisono le
guardie ch’erano con loro alle poste ignoranti del tradimento; onde i
Pisani avendo poste le scale sicuramente salivano, e già assai n’erano
in sulle mura. Occorse per fortuna, che quegli che andava rassegnando
le guardie in quello stante vi sopraggiunse, e scoperta la baratta in
istante levò il romore, e svegliata la terra, quelli ch’aveano prese
le mura impauriti se ne fuggirono, e le guardie del trattato con loro
insieme, e la gente de’ Pisani si ridusse a salvamento alle terre loro.


CAP. XLI.

_Come papa Urbano pubblicò in Avignone i processi fatti contro a messer
Bernabò._

All’entrata del mese di marzo 1362, papa Urbano quinto in Avignone
pubblicò il processo che fatto avea contro a messer Bernabò, e avanti
che pronunziasse, gli ambasciadori di messer Bernabò e i suoi avvocati
comparirono e dierono boce che v’era messer Bernabò, onde il papa
prolungò il termine per infino a di 4 di marzo, e di nuovo lo fece
citare, facendo cercare per suoi mazzieri tutta la corte, e il venerdì
4 di marzo mandò due cardinali in persona a fare cercare il palagio e
l’udienza, e tutto per lo detto messer Bernabò; in fine fatto armare
tutta sua famiglia e i Lombardi cortigiani a guardia della corte,
fece consistoro e sermone sopra i fatti di messer Bernabò con alto e
nobile parlare, dolendosi delle sue eresie e delle sue infedeltà, e
appresso fè pubblicare il processo suo, nel quale il condannò come
eretico e infedele in molti articoli, e lo pronunziò scismatico e
maladetto di santa Chiesa, privandolo di tutti onori, dignitadi,
titoli, e privilegi, e giurisdizioni, e assolvendo dal giuramento tutti
i sudditi suoi, annullando tutti i privilegi imperiali che avesse
per successione, e che gli fossono conceduti in persona, e ogni e
qualunque avesse per altro modo, e privollo del matrimonio liberando la
moglie come cristiana dal marito eretico e infedele: e nella sentenza
involse chiunque li desse consiglio, aiuto e favore, e i sudditi se
l’ubbidissono, e chi lo servisse in arme per soldo o in niuno altro
modo, o contro alla Chiesa di Dio s’operasse; e concedette indulgenza
di colpa e di pena a quelli che fossono confessi e pentuti a chi contra
lui prendesse la croce quando fosse predicata, e in essa sentenza
orribile involse i descendenti, come nati di sangue eretico e infedele.
Pronunziata la sentenza il santo padre si levò ritto, e misesi in
ginocchione colle mani giunte e levate al cielo, e come vicario di
Gesù Cristo invocò l’aiuto suo, e di M. S. Piero e di M. S. Paolo, e di
tutta la celestiale corte, pregando che come avea il tiranno infedele
e crudele legato in terra con sua sentenza come vicario di Cristo e
successore di san Pietro, così essi lo legassono in cielo. Lo re di
Francia, ch’era in corte a procurare per lo tiranno, e ’l procurò in
sua utilità si tornava, forte se ne scandalizzò, e molti cardinali
i quali erano suoi protettori in corte e provvisionati nel segreto
assai malcontenti ne furono, avendo più caro loro occulta prefenda che
l’onore di santa Chiesa.


CAP. XLII.

_Come morì messer Simone Boccanera primo doge di Genova._

A dì 13 di marzo di detto anno, essendo gravemente malato messer Simone
Boccanera doge di Genova, e correndo la boce ch’egli stava male, il
popolo prese l’arme, e chiamò venti popolani, i quali domandarono in
guardia il palagio del doge, e a dì 14 del mese v’entrarono e trassonne
circa a trecento tra parenti, e famigli e amici del doge, e nel palagio
lasciarono lui, e la moglie e’ figliuoli, e questi venti che teneano il
palagio elessono altri sessanta popolani al consiglio loro, e con loro
consiglio e favore crearono nuovo doge, lo quale fu messer Gabbriello
Adorno mercatante di buona condizione e fama, il quale vollono, che
campasse o morisse messer Simone Boccanera, fosse doge; e ciò fatto
riposò il popolo, e puose giù l’arme, e i gentili uomini e gran case
di tutto niente si travagliarono. Durando nella infermità il Boccanera,
furono creati sei sindachi ch’avessono a ricercare le ragioni de’ suoi
ufici, e infine tra per l’oppressione de’ sindachi, e chi disse, e
forse non mentì, aiutato, assai miseramente passò di questa vita, e il
corpo suo con due bastagi e un famiglio fu portato alla chiesa. E tale
fu il fine del valente e famoso uomo della primizia de’ dogi di Genova.


CAP. XLIII.

_Come fu morto il conte di Lando._

Avendo del mese di marzo la Compagnia bianca tolto un castello a
messer Galeazzo, ed egli vi mandò in soccorso il conte di Lando con
quattrocento barbute; per scontrazzo s’abboccò con gl’Inghilesi e fu
sconfitto, e morto d’una lancia di posto nel petto. E tale fine trovò
colui che capo di compagnia famoso, più volte avea liberamente corsa
gran parte dell’Italia con fare ogni uomo ricomperare.


CAP. XLIV.

_Come Bernabò Visconti fu dalla gente della lega sconfitto alla bastita
a Modena, e come la perdè._

A dì 16 d’aprile 1363, Bernabò eretico per sentenza del santo padre,
con duemilacinquecento cavalieri di sua gente eletta venne per
fornire la bastita che tenea sul Modanese, la quale era assediata
e forte stretta dalla gente della lega de’ Lombardi, e giugnendo la
mattina, preso in prima agio, rinfrescamento e ordine, colle schiere
fatte, anzi si strignesse alla bastita, ne fece subitamente rizzare
un’altra non molto di lungi dalla Negra; la bastita era dificata in
forma che non s’avea se non a conficcare: la gente de’ collegati bene
capitanata e in punto, con due forti campi intorno alla bastita con
due lati e profondi fossi, l’uno lungo il campo, e l’altro di fuori
alla tratta del balestro, sicchè bene si potea la gente della lega
tra’ due fossi schierare. Il tiranno colla forza di sue schiere passò
il primo fosso, onde convenne a quelli ch’erano tra le barre per
paura rifuggire ne’ due campi, e lasciarono fornire la bastita, dove
mise il tiranno trentasei carra di fornimento; e ciò fatto Bernabò
se n’andò a Crevalcuore per sollecitare il resto del fornimento,
e a’ suoi impose che attendessono la notte prima si partissono, ma
Anichino di Bongardo partito Bernabò disse, che poichè fatto avea il
servigio per che era venuto quivi non intendea albergare, e si mosse
con ottocento barbute. I capitani della lega imbaldanziti, veggendo i
modi che teneano i nemici in sconcio e male ordinati, essendo in punto
colle schiere fatte e bene capitanati, le brigate coraggiosamente
percossono a loro. La battaglia per la eletta gente di Bernabò fu
aspra, la quale durò infino all’ora di vespero, e allora, come fu il
piacere di Dio, la gente de’ collegati vinse; assai furono i morti, e
non de’ minori. Presivi furono messer Ambrogiuolo figliuolo naturale di
Bernabò, messer Lodovico dall’Occa da Pisa, messer Guglielmo de’ Pigli
da Modena, messer Sinibaldo degli Ordelaffi da Forlì, messer Guglielmo
Cavalcabò, messer Giovanni Penzoni da Cremona, messer Guido Savina,
messer Ghiberto da Correggio, Antonio da Santovito figliuolo di messer
Ghiberto da Fogliano, Beltramo de’ Rossi da Parma, Guglielmo Aldighieri
da Parma, messer Andrea de’ Peppoli, messer Niccolò Pallavicini,
messer Giovanni dalla Mirandola, messer Giovanni Bolzoni di Milano
ricco di quattrocentomila fiorini, Antonio d’Ungheria, Luchino de
Asalis da Milano, Piero da Correggio, Guido da Foiano, Mocolo dalli
Pelagri, Alessandro da Verona, Giovanni Scipioni, Paolo Zuppa da Parma,
Maffiuolo da Labro di Milano, Damulo Dusmago di Milano, Baroncio del
maestro Manno, e altri nomati infino nel numero di trentotto: a bottino
mille cavalli e molti prigioni. Quinci seguì, che quelli della bastita
non essendo forniti, Bernabò non avendo possanza di soccorrerli,
s’arrenderono salve le persone.


CAP. XLV.

_Come i Pisani vollono torre Barga._

Partito all’entrante di marzo 1362 messer Ridolfo da Camerino, venne
in Firenze per capitano di guerra in suo luogo messer Piero da Farnese
senza pompa, se non quanto a uso militare si richiede, e veduto e
ricevuto fu con buono volto. I Pisani con sollecitudine seguendo
giusta loro possa ogni atto di guerra, sentendo che messer Ridolfo
avea fornito per tutto il mese di febbraio suo capitanato, e tutto che
avesse francamente e come valente uomo lealmente esercitato suo uficio,
con poco onore s’era partito, e mal contento, e con fama di poco leale
cavaliere, e che messer Piero da Farnese uomo coraggioso e per lunga
esperienza grande maestro di guerra era giunto in Firenze, immaginando
che innanzi che messer Piero fosse informato della intenzione del
comune, e innanzi che fosse in atto da poterli offendere che poteano
usare il tempo della guerra a loro vantaggio. E pertanto domenica
d’ulivo, dì 27 di marzo 1363, fatto tutto il loro sforzo con mille
cavalieri e quattromila pedoni nel pieno della notte con molto ordine,
con scale e altri ingegni s’accostarono a Barga senza niuno sentore de’
terrazzani, tanto fu netto e presto l’assalto, e presono gran parte
delle mura, e lo spedale che è accostato ad esse, e già aveano rotte
parte delle mura allato allo spedale per mettere dentro i cavalieri. I
terrazzani svegliati al rompere del muro, non inviliti per l’improvviso
assalto, presono l’arme, e per lo naturale odio tra loro e’ Pisani, per
non venire alle loro mani, e gli uomini e le femmine raddoppiarono le
forze, e francamente cominciarono la battaglia; ma tanti erano i nemici
ch’erano montati sullo spedale e in sulle mura vicine allo spedale,
che cacciare non li ne poteano, ma come uomini per lunga esperienza di
guerra dotti, con presto e buono avviso affocarono di sotto lo spedale,
onde fu necessità a’ nemici, tra per lo gran fumo, e per la vampa della
paglia de’ letti dello spedale la quale subito aspettavano, abbandonare
il muro, per il quale aveano la salita dello spedale, e lo spedale
ancora. Di loro alquanti ne rimasono morti, molti ne furono fediti. I
Pisani levati dal pensiero d’avere la terra per quella via si misono a
porvi l’assedio, e puosonvi tre battifolli forti e bene apparecchiati
a offesa e a difesa, pensando d’averla per lunghezza d’assedio, perchè
molto era lontana dal soccorso de’ Fiorentini, il quale convenia che
passasse per lo distretto loro. Sentissi che con tanta sollecitudine
presa aveano questa per cambiarla con Peccioli, la quale teneano i
Fiorentini in sulle ciglia di Pisa.


CAP. XLVI.

_Come messer Piero da Farnese credette torre Lucca a’ Pisani._

Poichè messer Piero da Farnese capitano de’ Fiorentini ebbe
l’informazione dell’intenzione del comune, e dello stato della guerra,
si partì di Firenze, e andò in Valdinievole dov’era il forte della
gente dell’arme de’ Fiorentini, e da essa ricevuto fu a grande onore
per le sue virtù conforme a gente d’arme, e di presente si dispose
all’asercizio dell’arme: e avendo rispetto alla natura de’ Pisani
sottratta e vaghi di trattati, per contrappesare a’ loro ingegni,
e tenerli in paura, cercò trattato in Lucca, e quello menando
sollecitamente, e con sollecitudine avendo la ferma la notte de’
12 d’aprile, con duemila barbute e con cinquemila fanti si mosse da
Fucecchio, e cavalcò sotto il Ceruglio dal Colle delle donne, e all’ora
data giunse alle porte di Lucca. I Pisani, o che avessono presentito
il fatto, o che per la buona guardia sentissono il romore della gente
e de’ cavalli, erano pronti alla difesa, e aveano corsa la terra, e
presi quarantadue cittadini e certi forestieri. Messer Piero sentendo
scoperto il trattato, e la terra ben guarnita alla difesa, senza fare
arsione o preda in sul Lucchese, che liberamente far lo potea, il
giorno medesimo per la diritta via si tornò a Pescia. I Pisani assai
de’ presi decapitarono, e assai degli altri mandarono a’ confini,
stando con più sollecitudine alla guardia di quella, e dell’altre loro
terre, e non di manco aveano l’assedio a Barga, alla terra di Gello, e
a Castelvecchio, dove il capitano cavalcò, e fornillo per quattro mesi.


CAP. XLVII.

_Come i Pisani presono per forza il castello di Gello sul Volterrano._

Rinieri d’Ugolinuccio, detto Rinieri del Bussa da Baschi capitano
de’ Pisani, uomo d’alto cuore e sollecito guerriere, a dì 12 del mese
d’aprile si mosse da Pisa con cinquecento cavalieri e duemila pedoni
eletti, intra i quali furono molti balestrieri di Gera, e si mosse
per la Maremma, e con molto ordine assalì il castello di Gello non
provveduto, e dibattuto assai per lo assedio. Il castello è di cento
famiglie assai forte, e per luogo ben situato a difesa, e quello per
lungo spazio di tempo combatterono, e quello per forza vinsono con
assai morti e magagnati, e di quelli d’entro e di quelli di fuori.
Vinta la terra si dirizzarono alla rocca, che era forte e ben guernita
alla difesa, e la combatterono per lungo spazio, tanto che quasi non
era fante nella rocca che dalle buone balestra non fosse fedito, i
quali disperati di soccorso, il quale colla sollecitudine di messer
Piero giugnea, s’arrenderono salve le persone. Rinieri fornito il
castello di gente atti a tenerlo se ne tornò a Pisa.


CAP. XLVIII.

_Come i Pisani condussono la Compagnia bianca degl’Inghilesi._

Come narrato avemo nell’addietro, la Compagnia bianca degl’Inghilesi
sotto il capitanato di messer Alberto Tedesco, in numero di
tremilacinquecento uomini da cavallo e duemila a piè, erano al servigio
del marchese di Monferrato contro a messer Galeazzo Visconti, il quale
più tenere non li potea, e messer Galeazzo volentieri la si levava da
dosso, e i Pisani che si vedeano nel fondo, e venire al disotto della
guerra, loro ambasciadore aveano a messer Galeazzo, come a singolare
amico e protettore, e per aiuto e soccorso contro alla forza de’
Fiorentini, e risposto avea che fare non potea servando sua fede contro
i Fiorentini, ma che se voleano conducere la compagnia degl’Inghilesi,
la quale di corto finia sua ferma, ed era per prendere viaggio, che
loro ne sarebbe buono, e li dicea il cuore di poterlo fare: a questo
gli ambasciadori ch’aveano il mandato larghissimo assentirono. I
Fiorentini essendo di ciò avvisati, lentamente cercarono per uno
Giovanni Buglietti Fiorentino, lungo tempo stato in Inghilterra, e
guida della detta compagnia in Italia, la condotta di detti Inghilesi,
e per l’amistà e usanza de’ Fiorentini che stavano e praticavano
nell’isola d’Inghilterra, gl’Inghilesi si vollono alloggiare co’
Fiorentini per diecimila fiorini meno che non feciono co’ Pisani, e più
tempo tennono sospesa la condotta de’ Pisani, aspettando conducersi co’
Fiorentini; nella quale sospensione, essendo messer Piero da Farnese in
Firenze, per i governatori de nostro comune li fu sopra questa materia
chiesto consiglio, il quale rispose: Io non credo che per altrettanta
di gente Cesare la vedesse migliore, nata e allevata in guerra,
argomentosa in maestria di guerra, e senza niuna paura; affermando
senza dubbio, che chi li avesse e li potesse sostenere non lungo tempo
senza fallo sarebbe il superiore della guerra. Ciò udito nel processo
della condotta, quanto l’animo de’ collegi e degli altri governatori
della città inclinassono a prenderli, il gonfaloniere della giustizia
s’oppose, con dire, e chi pagherà? e fu l’autorità sua tanta, e di chi
lo seguì dell’ordine suo, che sturbò la condotta. I Pisani savi e non
lenti di presente la condussono in forma di compagnia per quattro mesi,
a ragione di fiorini diecimila il mese di soldo.


CAP. XLIX.

_Come Rinieri da Baschi ruppe gente che messer Piero da Farnese avea
mandati in Garfagnana._

Parendo a messer Piero da Farnese ragionevolmente non potere avere
battaglia di campo co’ Pisani, la quale sommamente desiderava per
mostrare sua virtù e provare sua ventura, avanti che la Compagnia
bianca condotta per i Pisani giugnesse, contra i quali non sperava
potere tenere campo, tenne trattato con certi di Garfagnana e fece loro
rubellare Castiglione e certe altre castella, e avendo di ciò il certo,
per fornirle di gente e di vittuaglia vi fece cavalcare Spinelloccio
de’ Tolomei da Siena per capitano, e Currado di messer Stefano da
Iesi, con certi altri conestabili, e con trecento uomini di cavallo,
e dugento masnadieri di soldo. I Pisani sentendo della ribellione
delle castella, e immaginando che per i Fiorentini si dovessono
soccorrere per lo loro capitano, prestamente e con tutta loro forza
misono uno aguato, dove vedeano che i nostri accampare si doveano.
Passò in Garfagnana Spinelloccio con la detta gente senza contasto, e
accamparonsi dove doveano, e come Rinieri s’era pensato per fornire le
dette castella; Rinieri come li vidde infaccendati e occupati intorno
all’accamparsi, e in atto di poterne avere il migliore, coll’aguato
grosso e ordinato uscì loro addosso, e dopo lunga e fiera battaglia gli
ruppe. La gente era buona, e veggendosi per lo soperchio de’ nemici in
rotta, si ridussono in su un poggio vicino dove era stata la zuffa,
e d’onde potea loro essere il passo sicuro per tornarsi a’ suoi: i
Pisani francamente seguendoli si sforzavano a tor loro il passo, e
fatto lo arebbono, ma i detti Spinelloccio e Currado seguitando l’orme
degli antichi e buoni Romani, come franchi, leali e buoni uomini di
subito si gittarono a piè, e si misono alla difesa del passo, e facendo
maraviglie di loro persone, e tanto lo tennono, che per lo stretto la
gente de’ Fiorentini si ricolse, in modo che pochi impediti ne furono.
Spinelloccio e Currado, poi che vidono la brigata a loro commessa in
luogo che non poteano ricevere offensione, s’arrenderono a prigioni.


CAP. L.

_Come Rinieri da Baschi colla gente de’ Pisani fu sconfitto e preso da
messer Piero da Farnese._

Parendo a messer Piero da Farnese avere doppia vergogna, sì per le
castella perdute, sì per la gente sbaragliata in Garfagnana, in forte
pensiere, e come potesse sua onta vendicare, onde domenica mattina a
dì 7 di maggio 1363, essendo cavalcati in verso il Bagno a Vena con
ottocento tra Ungari e altra buona gente di cavallo, e con ottocento
fanti eletti, il capitano de’ Pisani sentendo la cavalcata, non meno
coraggioso e voglioso che messer Piero, i quali amendue si studiavano
di fare innanzi la venuta degl’Inghilesi, raunò della gente da cavallo
de’ Pisani circa a seicento, e pedoni assai, e continovamente da Pisa
li cresceva forza, per torre alla detta gente de’ Fiorentini il passo
a san Piero, e colle schiere fatte si pararono innanzi a messer Piero,
perchè non potesse tornare, e di dietro e da lato da Pisa traeva
gente senza numero alle spalle a messer Piero per combatterlo dinanzi
e di dietro. Vedendo messer Piero davanti da sè i nemici schierati
in sul campo, veggendo che quello che desiderato avea gli venia
fornito, di presente ordinò le schiere sue, e perchè il luogo dove
combattere doveano era pieno di solchi, impedì il ferire delle lance,
onde confortati i suoi a ben fare colle spade in mano fieramente si
percosse sopra i nemici, i quali non con meno cuore gli ricevettono.
La battaglia fu dura e aspra, e la prima schiera de’ Fiorentini fu
ributtata per difetto degli Ungari due volte, ma rannodati ruppono
la prima schiera de’ Pisani, ma i rotti si ridussono alle spalle
dell’altre loro schiere, e con la forza di molti pedoni tratti loro in
aiuto percossono francamente sopra i Fiorentini. Messer Piero sgridati
e confortati i suoi a ben fare con la sua schiera si mise sopra i
nemici, lasciando l’insegne nel mezzo, ed egli dinanzi con i più eletti
cavalieri. Indurando la battaglia, messer Piero fè a dugento cavalieri
fedire i nemici per costa, i quali non avendo resistenza, ne vennono
alle insegne de’ Pisani, e le presono e abbatterono; e ciò veggendo
messer Piero urtò forte sopra i nemici, e li strinse a fuggire.
Rinieri come ardito e pro’, fu preso colla spada in mano, e molti altri
valenti uomini. E per certo e messer Piero e Rinieri si portarono come
valenti capitani, e come arditi e pro’ cavalieri, perocchè per spazio
di due ore e mezzo si combatterono pertinacemente sotto l’incerto
della vittoria. Rotte le schiere de’ Pisani, gli Ungari con degli
altri contesono a prendere de’ prigioni, massimamente di quelli che a
piè v’erano venuti da Pisa. Molta gente da piè e da cavallo vi morì,
tanto odio lor menti occupava, e molti cavalli vi furono guasti per
i pedoni fiorentini che con le lance in mano fedirono di costa: il
capitano messer Piero co’ prigioni si tornò alla gente sua, e in quel
dì medesimo ne fu novelle in Firenze, di che si fè grande allegrezza e
festa.


CAP. LI.

_Come messer Piero da Farnese entrò in Firenze, e il capitano de’
Pisani colle insegne e’ prigioni rassegnarono a’ priori._

A dì 11 di maggio, messer Piero da Farnese col capitano, bandiere e
prigioni de’ nemici entrò in Firenze, dove ricevuto con grande letizia
e allegrezza di popolo, e consegnati furono per lui a’ priori col
capitano e bandiere de’ Pisani centocinquanta prigioni, essendoli
per lo comune offerto una ghirlanda d’alloro umilemente la ricusò,
e non la volle prendere, dicendo, che tale ghirlanda si convenia
con altro trionfo e maggiore vittoria, siccome per il senato di
Roma era diputato; furonli donati quattro destrieri nobili coverti
dell’arme sua. Con lui venne messer Simone da Camerino fatto cavaliere
nella battaglia, il quale fu lietamente veduto, e onorato di doni
cavallereschi; e di poi a dì quattordici di maggio colle solennità
usate furono al capitano date per messer Niccolaio degli Alberti
gonfaloniere di giustizia l’insegne, e per lo capitano accomandate
furono a’ Tedeschi a guardia, dando la reale a un messer Amerigone
soldato del nostro comune, il quale la ricevette in nome di messer
Giovanni di..... Tedesco, il quale era al campo. Non vi mancò augurio,
perocchè subitamente come messer Piero l’ebbe in mano surse una lieve
aura che le dirizzò verso Pisa, di che il capitano prese baldanza.


CAP. LII.

_Come i Pisani tolsono a’ Fiorentini Altopascio._

Sabato a dì 20 di maggio, Guelfo di messer Dante degli Scali, il quale
era castellano d’Altopascio, diede il detto castello a’ Pisani per
fiorini tremila d’oro che ne ricevette, il perchè domenica mattina il
dì di Pasqua rugiada i priori mossono l’esecutore colla famiglia sua
per andare a guastare le case sue; il popolo il quale era raunato in
sulla piazza de’ priori seguì l’esecutore, ed entrò nelle case degli
Scali e rubolle, e appresso vi mise il fuoco e arsonle, non potendo a
ciò riparare quelli che mosso l’aveano: dopo nona detto dì mandarono il
cavaliere dell’eseguitore a guastare i beni di contado.


CAP. LIII.

_Come i Pisani elessono per loro capitano Ghisello degli Ubaldini._

I Pisani elessono loro capitano di guerra Ghisello degli Ubaldini in
lungo di Rinieri d’Ugolinuccio da Baschi, il quale era preso nelle
carcere del comune di Firenze. Il detto Ghisello era coraggioso e di
grande animo, dotto di guerra, e corale nemico del comune di Firenze,
il quale di presente fu in Pisa, e prese la bacchetta del capitanato; e
ciò fu del detto mese di maggio.


CAP. LIV.

_Come messer Piero cavalcò sino sulle porte di Pisa battendovi moneta
d’oro e d’argento._

A dì 17 del mese di maggio, messer Piero da Farnese capitano de’
Fiorentini con duemilacinquecento cavalieri, e molti balestrieri e
altra fanteria si partì dal castello d’Empoli, e dirizzossi verso
Pisa, e il detto dì s’alloggiò sopra la Cecina intra Marti e Castel
del Bosco, il seguente passarono il fosso, a malgrado di trecento
uomini da cavallo che erano nel detto Castello del Bosco, e per la sera
s’accamparono a Ponte di Sacco, e valicarono di loro in Valdicalci e a
Caprone, facendo gran danni d’arsioni di ville e manieri. Proseguendo
il capitano sue giornate verso Pisa arse il resto del borgo di Cascina,
e tutto insin presso a Rignone e Borgo delle Campane ardendo tutto,
e quivi fermato mandò a’ Pisani il guanto della battaglia, di poi
lo giorno di Pasqua novella il capitano colle schiere fatte si mosse
verso le porte di Pisa. Messer Amerigone Tedesco con sessanta barbute
si mise innanzi a tutti gli altri, e cavalcò verso le porte di Pisa,
e trovò cento barbute de’ nemici con assai gente da piè, e loro fedì
addosso arditamente e li ruppe, in soccorso de’ quali uscirono di Pisa
dugento uomini da cavallo, i quali volsono indietro messer Amerigone,
al cui soccorso si mise messer Otto Tedesco con cento barbute e
rivolse messer Amerigone, e fatta aspra zuffa i Pisani furono rotti;
allora uscì di Pisa il potestà con seicento barbute e molto popolo,
e ruppono i nostri, e presono i detti due conestabili con alquanta
loro brigata. Messer Piero ciò veggendo come di soperchio ardito,
con trecento barbute di gente eletta, lasciandosi al soccorso la sua
gente grossa presso colle bandiere, con tanto animo si mise sopra i
Pisani che li ruppe e fè volgere, i quali per la gran calca non potendo
entrare per la porta molti se ne misono per l’Arno, de’ quali assai
n’annegarono. Molti presi ne furono, e tanti e tali che i soldati più
tosto vollono i prigioni, che paga doppia e mese compiuto, e assai ve
ne furono morti di quelli del baldanzoso e scondito popolo. Ciò fatto
il capitano a Rignone e allo Spedaluzzo fè battere moneta dell’oro,
e d’argento, e di quattrini: in quella d’argento sotto i piè di san
Giovanni sta una volpe a rovescio. E in quell’ora per i Pisani alla
richiesta della battaglia fatta per messer Piero risposto fu, che alla
battaglia verrebbono a tempo e a luogo; onde fatti per lo capitano
due cavalieri, messer Guglielmo di Bolsi, e messer Giovanni di......
sonate le trombe si fè dipartenza; e mentre che la gente che rimasa
era alla retroguardia, mandati dinanzi a sè gl’impedimenti da Rignone
e dal Borgo delle Campane si partia, gente da piè e da cavallo de’
Pisani vi sopraggiunse, e perchè quivi erano cavalieri novellamente
fatti non vollono fuggire. Nello strettissimo luogo della via, il quale
quivi la natura del luogo leva in alto, quindi l’Arno colle sue ripe
fortifica, furono i nemici da’ nostri aspettati, e subito con gran
grida s’abboccarono insieme con fiera e ontosa battaglia. I nostri
nel principio dubitarono, e crollaronsi: messer Guglielmo cavaliere
novello con la lancia uno levò da cavallo, onde premendo lui co’ nostri
sopra i nemici, quelli che in qua e in là scorreano ripresi furono, e
da capo facendo resistenza lungo tempo si combatterono con dubbiosa
vittoria. Alla fine la virtù de’ nostri crebbe, e soprastette, de’
quali l’Arno molti ne prese, e inghiottì molti pedoni nello stretto
da piè, di cavalli guasti e magagnati: molti ne furono presi, molti
morti, nè prima fu fine alla fuga, che giunsono sulla porta di Pisa.
Quivi fu il grande scalpitamento, ed ivi li scorridori mescolati con i
nemici quasi si metteano nella porta, intra i quali era un trombettino
del nostro comune, il quale sonando, fu di saetta che venne dalle
mura ferito, e cadde da cavallo, allora i nostri per studio d’avere
il giglio del trombettino, perchè il segno non venisse alle mani de’
Pisani, agrissimamente si combatterono, ove oltre a venti dei nemici
furono morti e molti fediti, e la tromba col segno del trombettino
fu ricoverato: de’ nostri ne furono morti..... e otto presi, intra i
quali furono i detti due cavalieri novelli. Alla fine divisa la zuffa i
nostri a salvamento si ritornarono al campo, il quale era fermo a san
Sevino dalla parte sinistra sopra la riva dell’Arno, che san Sevino
era bene guardato; ed essendo molto del dì nelle dette cose consumato,
levate le schiere i nostri s’alloggiarono la sera nella villa di
Peccioli, e per la fatica del giorno stettono senza guardia, solo che
delle spie: il dì seguente il capitano rimandò della gente a cavallo e
a piè verso Pisa a fare quel danno poterono.


CAP. LV.

_Sagacità usata per i Pisani per non perdere Montecalvoli._

I Pisani ch’aspettavano la Compagnia bianca degl’Inghilesi, temendo
di Montecalvoli, il quale pochi giorni si potea tenere, usarono questa
malizia, che di notte segretamente facevano uscire di Pisa loro gente
d’arme, e la mattina polverosi li faceano ritornare, e li riceveano
a gran festa, sotto nome di gente della Compagnia bianca, stimando ne
seguisse quello ne seguì: e loro venne fatto, che i priori di Firenze
avendo la falsa novella per vera, subito con poco onore e del comune e
del capitano li feciono partire dall’assedio di Montecalvoli, il perchè
i Pisani il poterono liberamente fornire e rinfrescare: e ciò fu del
mese di giugno.


CAP. LVI.

_Come il re di Francia per paura della compagnia non osò per terra
tornare nel reame, ma tornò per acqua._

In questi giorni i pessimi uomini detti latronculi, noi in volgare
diciamo ladroncelli, nel reame di Francia tanto erano multiplicati
all’appoggio delle compagnie dell’arciprete di Pelagorga e del
Pitetto Meschino, che il re di Francia essendo ad Avignone non si
assicurò tornare per terra a Parigi, per loro danno si mise ad entrare
in Borgogna. Puossi assai aperto comprendere i vestigi del santo
Evangelio, ove dice: Saranno pestilenzie e fame per luoghi, e leverassi
gente contro a gente: e soggiugne: E gli uomini saranno amatori di sè
medesimi: e certo ogni radice di carità pare dispenta.


CAP. LVII.

_Della mortalità dell’anguinaia._

Nel presente mese di giugno, per vere lettere de’ mercatanti fu in
Firenze come in Egitto, e in Soria, e nell’altre parti di Levante la
pestilenza dell’anguinaia; gravissimamente offendea e in Vinegia, e in
Padova, e nell’Istria, e in Ischiavonia, non ostante che i detti luoghi
altra volta toccasse. Anche gravemente ritoccò nelle terre di Toscana,
e quasi tutte comprese, e in Firenze, già stata generale tre mesi per
tutto giugno con fracasso d’ogni maniera di gente.


CAP. LVIII.

_Come i Barghigiani colla forza de’ Fiorentini presono i battifolli._

Nel detto mese di giugno, essendo stata assediata Barga da’ Pisani
lungamente con tre battifolli, e Sommacolonna con due, e assai strette,
il capitano de’ Fiorentini essendo a oste a Montecalvoli trasse
dal campo cinquecento barbute con alquanti masnadieri, e diè boce
ch’andassono in Maremma per preda, e feceli conducere a Volterra, onde
i Pisani mandarono la loro gente in Maremma alla difesa, e costoro
furono condotti a Barga improvviso a’ Pisani; e sentendolisi presso
quelli di Barga, che n’aveano l’avviso, uscirono fuori a combattere
l’uno de’ battifolli. Avvenne che quelli degli altri due battifolli,
lasciando pochi di loro alla guardia de’ battifolli, trassono al
soccorso di quello ch’era combattuto. Aspra battaglia era tra loro
quando sopraggiunse la gente de’ Fiorentini; e trovò i due battifolli
sforniti, e presonlisi, e appresso percossono alle reni de’ nemici,
e con loro entrati nell’altro battifolle lo presono, e perseguitando
i nemici, pochi ne camparono, che non fossono morti o presi. Quello
che trovarono ne’ battifolli sì di vittuaglia come d’armadura misono
in Barga, e arsono le bastite, e il simile feciono di quelli di
Sommacolonna, e ciò fatto, la gente de’ Fiorentini si tornarono al
campo senza niuno impaccio.


CAP. LIX.

_Come morì messer Piero da Farnese._

Essendo entratala furia della pestilenza dell’anguinaia nell’oste de’
Fiorentini, molti n’uccise, molti ne indebolì, molti ne avvilì. Il
perchè essendo levato l’assedio da Montecalvoli, per comandamento de’
signori di Firenze, il capitano era in Castello Fiorentino, e quivi lo
prese il male dell’anguinaia a dì 19 di giugno, e il detto dì n’andò a
san Miniato del Tedesco, e quivi in sulla mezza notte passò di questa
vita, e il corpo suo in una cassa alle spese del comune fu recato in
Firenze, e posato a Verzaia, aspettando Ranuccio suo fratello per cui
era mandato; poi a dì venticinque del mese il corpo suo fu recato in
Firenze alle spese del comune con mirabile pompe d’esequie, le quali
furono di questa maniera

  _Qui manca._

Poi seppellito fu nella chiesa di santa Reparata con intenzione di
farli ricca sepoltura di marmo. Valente uomo fu in arme, e saputo
e accorto con grande ardire, e leale cavaliere, e in fatti d’arme
avventuroso, e per certo ogni onore che fatto li fosse e per lo innanzi
gli si facesse lo merita.


CAP. LX.

_Dell’ammirabile passaggio de’ grilli._

Il dì primo di luglio, un vento schiavo temperato per dieci ore
continove del dì nelle parti di Pesaro, Fano e Ancona condusse
incredibile moltitudine di grilli, quasi come in passaggio per l’aire,
tanto stretti che ’l sole non rendea la luce se non come per una nuvola
non troppo serrata, e trovossi per quelli che la notte sopraggiunse che
molti l’uno portava l’altro. Dove presono albergo, cavoli, lattughe,
bietole, lappoloni, e ogni erba da camangiare la mattina si trovarono
tutte colle costole e’ nerbolini tutti bianchi, che a vedere era
cosa nuova. Perchè per lo freddo della notte non si poteano levare,
i fanciulli ne portavano le cannuccie coperte dal capo a piè, tanto
stretto l’uno sotto l’altro che non vi si sarebbe messo la punta
dell’ago. I grilli erano di lunghezza d’un dito colle gambe lunghe e
rosse, e l’alie grandi, col dosso ombreggiava in verde chiaro. Molti o
la maggior parte annegarono in mare, che ’l fiotto gittò alla marina,
i quali ammassati gittarono orribile puzzo, e trovossi che i pesci non
presono cibo di loro, e gli uccelli e gli altri animali insino alle
galline se ne guardarono.



PROEMIO DELLA CRONICA di FILIPPO VILLANI

_Nel quale racconta la morte di Matteo suo padre, e la cagione che lo
mosse a seguitare di scrivere._


In questi giorni la pestilenza dell’anguinaia prese il componitore di
quest’opera Matteo, e trovandolo di sobria e temperata natura e vita
il dibattè cinque giorni, in fine il duodecimo dì del mese di luglio
divotamente rendè l’anima a Dio. Il quale in tanto possiamo dire
meritevolmente essere da laudare, in quanto esso con lo stile che a lui
fu possibile non sofferse, che perissono le cose occorse nel mondo per
lo tempo che scrive degne di memoria, quindi apparecchiando materia a’
più delicati e alti ingegni di riducere sue ricordanze in più felice e
rilevato stile, qui a me Filippo suo figliuolo lasciando il pensiere di
seguitare su per infino alla pace fatta con i Pisani, per non lasciare
la materia intracisa, e così m’ingegnerò di fare la storia di tempo in
tempo, con l’altre cose occorse nell’altre parti del mondo le quali a
mia notizia perverranno.


CAP. LXI.

_Come i Fiorentini feciono Ranuccio da Farnese loro capitano di guerra._

Seguendo quanto mi sarà possibile lo scrivere di Matteo Villani mio
padre, per principio di mia perseguitazione ne tocca a scrivere, che
per lo grande amore che ’l comune di Firenze ebbe a messer Piero da
Farnese, senza rispetto de’ grandi pericoli che vedeano sopraggiugnere,
senza lunghezza di tempo puosono Ranuccio suo fratello, non perchè
’l conoscessono sufficiente e atto a tanto peso, ma per donarli quel
titolo per grazia dell’anima di messer Piero. Uomo era pro’ della
persona, e ardito e leale, ma poco sperto in guidare gente d’arme, e
nelli pronti avvisi che la guerra richiede.


CAP. LXII.

_Come gl’Inghilesi giunsono in Pisa._

Gl’Inghilesi ch’erano in Monferrato al soldo del marchese, col
procaccio di messer Galeazzo Visconti ebbono il passo per lo Genovese,
e col loro capitano messer Alberto Tedesco giunsono in Pisa il dì 18
di luglio. Honne fatta menzione, perchè dal non averli condotti come
messer Piero da Farnese consigliava molto di danno e di vergogna si
ricevette per lo nostro comune, come per l’innanzi leggendo apparirà.


CAP. LXIII.

_Come i Pisani cavalcarono i Fiorentini in sulle porte._

Nel detto anno a dì 25 di luglio, Ghisello degli Ubaldini capitano di
guerra de’ Pisani, con ottocento cavalieri di soldo, e con quattromila
pedoni tra di soldo e di volontà, e con molti gentili uomini e popolani
a cavallo che vogliosamente il seguirono, e messer Alberto Tedesco
capitano degl’Inghilesi, con duemila cinquecento uomini a cavallo e
duemila a piè si partirono di Pisa, e andarono a Lucca, e a dì 26 di
detto mese passarono per le montagne di Montaquilano, e scesono nel
piano di Pistoia nel dì di santo Iacopo; e a’ Pistoiesi non lasciarono
correre loro palio. Ben furono di tanto animo i Pistoiesi, che dissono,
in modo fu inteso dal capitano de’ Pisani, che mai il detto palio non
si correrebbe se non si corresse sulle porte di Pisa, e così addivenne,
come si troverà nella scrittura che per i tempi segue. Temettesi forte
non si strignessono alla terra, che senza dubbio a gran pericolo era,
sì per lo subito assalto, al quale niuna provvisione o riparo era
fatto, sì per la pestilenza dell’anguinaia, che assai cittadini tolti
avea, molti ne tenea in sul letto, e quelli ch’avea tocchi in vita
erano fieboli: la troppa voglia ch’ebbono d’impiccare gli asinini, e
fare le beffe muccerie, loro tolse il consiglio. Il seguente dì senza
prendere arresto se ne vennono a Campi e a Peretola, e quivi fermarono
il campo, poi colle schiere ordinate vennono insino al ponte a Rifredi;
e sentendo sonare le campane dal comune a stormo, gl’Inghilesi,
che secondo l’uso di loro paese pensarono che ’l popolo uscisse a
battaglia, temettono un poco, e rincularono, il perchè i Pisani feciono
correre il palio per traverso a Rifredi e tra le schiere. Più feciono
battere moneta, e al ponte a Rifredi impiccarono tre asini, e per
derisione loro puosono al collo il nome di tre cittadini, a ciascuno il
suo. Ecco in che i savi comuni di Firenze e di Pisa spendono i milioni
di fiorini, rinnovellando spesso queste villanie. Adunque impiccati
gli asini volsono le schiere, e tornaronsi a Campi e a Peretola. Ben
fece innanzi messer Alberto cavaliere Ghisello degli Ubaldini, messer
Giovanni de’ Guazzoni da Pescia con più altri, con grande gavazza di
gridare di stromenti, in parole altamente villaneggiando e dispettando
il comune di Firenze. Arsioni i Pisani che v’erano feciono assai,
ma non fuori di strada, lasciando le possessioni d’alcuno notabile
uomo popolare per far dire male di lui. Il seguente giorno, arso ciò
ch’aveano potuto fuori di Firenze e di Prato, passarono Arno, e arsono
il borgo alla Lastra, e per i monti di verso Valdipesa di notte si
partirono, e arrivarono nel piano d’Empoli, scorrendolo tutto con fare
quel male poterono, quindi per lo Valdarno con grande preda e copia di
prigioni senza essere loro a niente risposto si tornarono a Pisa. Da
indi a pochi giorni messer Ghisello passò di questa vita, e onorato fu
di sepoltura assai per i Pisani.


CAP. LXIV.

_Come si fermò pace dalla Chiesa a messer Bernabò._

Del detto anno del mese d’aprile si fermò la pace tra papa Urbano
quinto (che tanto vogliosamente, e tanto aspramente e vituperosamente
avea fulminate le sentenze contro a messer Bernabò) e il detto
messer Bernabò, per la Chiesa di Roma assai vituperevole, e onesta:
vituperevole, perchè si ricomperò dal tiranno ancora scomunicato, e
perchè a petizione del tiranno divise la legazione, dando Bologna e
Romagna in sua legazione all’abate di Clugnì, e togliendo a colui che
con tanto onore di santa Chiesa l’avea acquistata: onesta, perchè egli
come padre spirituale dee amare la pace e riconciliazione, e aprire
le braccia a chi vuole tornare alla misericordia, verificando in buona
parte il detto del poeta che dice: O tu che sol per cancellare scrivi:
nè per essa pace si ruppe a’ collegati promessa, e in loro potestà
rimase l’accettare. Poi appresso messer Bernabò rendè a santa Chiesa
Castelfranco, Pimaccio e Crevalcuore che tenea in sul Bolognese, e
ciò fatto i collegati con santa Chiesa accettarono la pace. L’abate
passò per Milano, e più giorni vi stette, dove fu alla reale in tutto
onorato, quindi ne venne a Bologna, ove col caroccio con molto onore e
festa fu ricevuto.


CAP. LXV.

_Dello stato della città di Firenze in que’ giorni._

E’ ne pare necessario dire in questo luogo, per quello che seguirà di
messer Pandolfo de’ Malatesti, il reggimento e governo della città di
Firenze in que’ tempi, il quale era venuto in parte e non piccola in
uomini novellamente venuti del contado e distretto di Firenze, poco
pratichi delle bisogne civili, e di gente venuta assai più da lunga, i
quali nella città s’erano alloggiati, e colle ricchezze fatte d’arti,
e di mercatanzie e usure in dilazione di tempo trovandosi grassi di
danari, ogni parentado faceano che a loro fosse di piacere, e con
doni, mangiari e preghiere occulte e palesi tanto si metteano innanzi,
ch’erano tirati agli ufici e messi allo squittino. Le grandi case
de’ popolari aveano i divieti; molti antichi e cari cittadini saggi
e intendenti erano schiusi dagli ufici, e quello che ne risultava
di peggio di loro governo era, che temendo di non essere ingannati e
consigliati per lo contradio da’ savi e pratichi cittadini che con loro
si trovavano agli ufici, essendo bene e utilmente consigliati, e con
amore e fede alla repubblica, sovente prendeano il contrario in danno
e vituperio del comune. Molti gioventù che non passava l’adolescenza,
si trovarono negli ufici per procuro de’ padri loro ch’erano nel
reggimento; e occorse, che facendosi lo squittino in que’ tempi si
trovò che de’ quattro i tre non passavano i venti anni, e per tali
furono portati allo squittino che giaceano nelle fascie. Le ammonizioni
sboglientavano, e gli odii pertanto e occulti e pregni teneano l’animo
de’ cittadini. Più, l’avarizia tanto tenea occupato l’animo di molti,
che con novi modi e ufici non necessari, e per altre coperte vie,
faceano al comune spendere i suoi danari. Le sette non quietavano, e
l’una all’altra per paura tenea l’occhio addosso: e così la repubblica
si trovava nelle mani del giovanile consiglio, negli occulti odii,
e ne’ desiderii delle private ricchezze. Se queste controversie e
confusioni non avessono allettato e sollevato l’animo del tiranno a
speranza di signoria assai sarebbe più da maravigliare, che tenendolo
in ciò occupato. Quelli che conduceano la guerra cassarono i soldati,
pensando a primo tempo riconducere a sofficienza, e cercavano d’avere
la Compagnia della stella, che di numero si ragionava passasse le
seimila barbute. Della Magna speravano trarre duemila barbute, delle
quali non n’ebbono che cinquecento, sotto il capitanato del conte
Arrigo di Monforte, e del conte Giovanni, e del conte Ridolfo suo
fratello, il quale era sfoggiato di grandezza, e menno, e però era
chiamato il conte Menno, e questi due si diceano stratti della casa
di Soavia. Non pensando trarre dalla Magna più gente, nè avere la
Compagnia della stella, e correndovi giorni, condussono messer Ugo
Tedesco valente uomo con mille uomini di cavallo, i quali, erano
giovani e prod’uomini, ma male armati e peggio a cavallo; fu a ciascuno
quando entrarono per lo comune donato una lancia nuova, perchè non
entrassono così brulli. Appresso condussono il conte Artimanno con
mille ragazzi, verificando il proverbio, a tempo di guerra ogni cavallo
ha soldo: vennono a mezzo il mese di febbraio in Firenze a rifarsi.


CAP. LXVI.

_Come i Perugini, per tema che la compagnia degl’Inghilesi non
soccorressono i loro rubelli assediati in Montecontigiano, condussono
la Compagnia del cappelletto._

Nel detto anno del mese di novembre, i Perugini, i quali aveano
condotta la Compagnia del cappelletto per venti dì, temendo che
gl’Inghilesi non soccorressono i loro usciti i quali erano assediati
in Montecontigiano, rafforzarono l’assedio, e in pochi giorni appresso
ebbono il castello. Il modo fu nuovo, che i detti usciti con i fanti
masnadieri che aveano seco feciono vista d’essere fuggiti, e tutti si
nascosono per le case, di che quelli dell’oste maravigliandosi, non
veggendo alle poste le guardie, mandarono alquanti infino alle porti,
e guatando per gli spiragli non viddono per la terra persona, di che
tornati al campo e detto il fatto, il campo a romore si mosse colle
scale a ire a prendere la terra: li usciti ch’erano pro’ come leoni,
insieme co’ loro fanti masnadieri lasciarono salire i loro nemici
in sulle mura, e quando li vidono in sulle mura uscirono delle case
francamente, e con raffi a ciò ordinati tirarono delle mura a terra
assai conestabili e valenti uomini che v’erano montati, e montarono in
sulle mura essi, e per forza ne levarono coloro che su v’erano saliti
con aspra e fiera battaglia, di che i Perugini si tornarono al campo.
Infra quelli che rimasono presi fu un cavaliere tedesco, che lungo
tempo era stato al soldo de’ Perugini, e fatto gli era grande onore;
costui andando un dì a sollazzo per lo castello con certi caporali
masnadieri, e’ fu da loro dimandato, che aveano di loro diliberato
i Perugini; il sagace cavaliere rispose, di mai non partirsi finchè
arebbono il castello, e d’impiccarli tutti; ma che s’elli voleano
campare, che poteano, dando loro gli usciti a’ Perugini, di che i fanti
per paura a ciò s’accordarono; e il seguente dì cominciarono questioni
con gli usciti, domandandoli se di niuno luogo aspettavano soccorso,
i quali risposono di niuno, onde i masnadieri loro dissono che
piglierebbono partito per sè, ed ebbono tra loro oltraggiose parole;
veggendo ciò messer Alessandro de’ Vocioli con sette de’ migliori
ch’erano con lui deliberarono di ricorrere alla misericordia, e con li
capestri in gola uscirono del castello e andarono al campo gridando
misericordia, e’ furono ricevuti: i signori di Perugia per fuggire
le preghiere mandarono quattro camarlinghi a Montecontigiano, i quali
il detto messer Alessandro con altri sedici cittadini di Perugia suoi
compagni e di buone famiglie quivi feciono decapitare.


CAP. LXVII.

_Come messer Pandolfo Malatesti venne con cento uomini di cavallo e con
cento fanti a servire il comune di Firenze per due mesi._

Conoscendosi per i Fiorentini che nell’impresa della guerra il comune
era senza capo e senza consiglio, e con gente d’arme di poco valore,
forte si cominciò a dubitare, e massimamente per coloro a cui potea
meritamente la perdita tornare nella testa; costoro co’ loro seguaci
furono a’ signori, pregandoli che provvedessono di capitano di guerra,
e loro puosono innanzi messer Pandolfo de’ Malatesti, il quale per
le sue savie e franche operazioni, contra il conte di Lando e sua
compagnia, come Matteo mio padre scrive di sopra, in Firenze avea
buona fama, e la grazia di tutti i cittadini, il quale di presente fu
eletto senza sospezione alcuna, e fatti gli ambasciadori ch’andassono a
portare l’elezione, e patteggiarsi con lui, e scritto gli fu in segreto
dagl’intimi suoi che venisse, che ciò che domandasse al comune arebbe,
ed esso ben sapeva la condizione della città, e l’infermità di essa
gli era negli occhi; onde ricevuti gli ambasciadori colla elezione li
lasciò a Pesero, ed egli n’andò dove era messer Malatesta, vecchio
e messer Malatesta giovane, e con loro più giorni stette in segreto
consiglio. Quali fossero i ragionamenti, l’opere di messer Pandolfo il
manifestarono. Tornato agli ambasciadori a Pesero, per meglio coprire
suo segreto mostrava per molte vie poca voglia di volere venire, e con
cautela disse non potea senza la licenza di messer di Spagna legato
di papa, ed esso medesimo per suo segreto messo infra pochi giorni
l’ottenne; e ciò fatto, venne alla pratica con gli ambasciadori di
quello volea, e le sue domande erano in gran parte sì spiacevoli e
disoneste, che gli ambasciadori del tutto si partirono da lui; ed
essendo per mettere i piè nella staffa, parendo a messer Pandolfo
avere mal fatto, li fè richiamare, e loro disse non intendea di venire
come capitano, ma come amico del comune volea venire a servirlo due
mesi, e così per gli ambasciadori fu accettato, e così venne ed entrò
in Firenze a dì 15 del mese d’agosto con cento uomini di cavallo e
cento fanti a piè, e con grande allegrezza fu da tutti universalmente
ricevuto, parendo a ciascuno essere in viaggio d’onorato fine alla
guerra. Il seguente dì furono creati otto cittadini, due per quartiere,
e per termine d’un anno e con balìa assai, in uficiali del comune
sopra la guerra, i quali di presente preso l’uficio incominciarono
ad intendersi con messer Pandolfo sopra i modi che intorno a’ fatti
della guerra s’avessono a tenere; nelle lunghezze delle parlanze messer
Pandolfo non mostrò cruccio di perdere tempo.


CAP. LXVIII.

_Come i Pisani co’ loro Inghilesi presono Figghine._

Messer Manetto di messer Lomodaiesi capitano generale della gente
d’arme de’ Pisani, e messer Alberto Tedesco capitano degl’Inghilesi,
con tutte loro brigate continuando loro viaggio senza contradizione
per li stretti passi del Chianti valicarono nel Valdarno di sopra,
e nella loro prima giunta presono il borgo di Figghine a dì 16 di
settembre di detto anno, dove trovarono molta roba e prigioni assai
d’ogni maniera: è vero che la maggior parte degli uomini e donne da
bene si fuggirono nel castello, ch’era assai forte: e perchè quelli
del castello non prendessono consiglio, il seguente dì gl’Inghilesi
si strinsono ad esso, onde quelli d’entro spaventati si rendeano; e
mentre che i patti si compilavano, la cattività di quelli d’entro fu
tanta che si lasciarono torre la fortezza agl’Inghilesi; il perchè
ebbono assai prigioni da bene uomini e donne, i quali Dio sa come
furono ricevuti nelle mani degl’Inghilesi uomini crudeli e bestiali,
i quali con la miseria de’ nostri arricchirono. Preso il castello il
guastarono e afforzaronsi ne’ borghi, dove stettono per alquanto di
tempo. La presura di Figghine assai diè di pensiero e di maninconia
a’ governatori del nostro comune, tutto che i cittadini ch’aveano
i palagi e abituro d’intorno e appresso la città paressono contenti
che la guerra si facesse da lungo, ma poco loro valse, come appresso
diviseremo.


CAP. LXIX.

_Come messer Pandolfo puose il campo all’Ancisa, e come il detto campo
fu preso dagl’Inghilesi con messer Rinuccio capitano, e appresso il
borgo all’Ancisa, e come messer Pandolfo fu fatto capitano di guerra._

Preso Figghine per i Pisani, col consiglio di messer Pandolfo tutta
la gente dell’arme de’ Fiorenti con molti pedoni che ’l comune avea
n’andò all’Ancisa, e di presente messer Pandolfo andò dietro loro, e
come giunse all’Ancisa ordinò di porre campo dirimpetto all’Ancisa, il
quale ad arte il prese di sfoggiata grandezza, prendendo dal poggio
infino all’Arno, contra il volere e consiglio di messer Rinuccio
capitano, e di messer Amerigone Tedesco e di tutti gli altri buoni
uomini d’arme che v’erano, eccetto il conte Artimanno, il quale si
scoperse traditore, i quali tutti diceano essere abbastanza e più
utile fare una bastita intorno alla torre Bandinelli, la quale diceano
potersi difendere insieme col borgo dell’Ancisa, e che tanta larghezza
di campo, traendo lui cinquecento cavalieri della migliore gente, nè
eziandio se vi fossono alla difesa, non era possibile da difendere
dalla forza de’ nemici, e che stolta cosa era commettersi a quella
fortuna. Messer Pandolfo fè orecchie di mercatante a lasciare dire chi
volle, e fè pure a suo senno, avendo dato a intendere prima a quelli
della guerra e al comune che la Compagnia del cappelletto la quale
era in Maremma condotta per i Fiorentini, e con cinquecento barbute
di quelli erano all’Ancisa cavalcherebbono i Pisani, i quali arebbono
necessità rivocare loro gente al soccorso, e sotto questo colore trasse
del campo messer Amerigone e altri caporali con cinquecento uomini di
cavallo della miglior gente fosse nel campo, lasciando al capitano il
forte ragazzaglia e vile gente, eccetto alquanti Italiani, e ciò fatto
se ne venne a Firenze. Gl’Inghilesi sentendolo partito, e che messer
Rinuccio era semplice, feciono ingaggiare di battaglia uno di loro
con uno di quelli d’entro, e molti saggi Inghilesi vennono nel campo
senza arme, dove si combatterono, e considerando il campo e chi v’era
alla difesa, il seguente dì 3 d’ottobre colle schiere fatte assalirono
il campo da molte parti, acciocchè la poca gente che v’era e debole
si spargesse in più parti alla difesa. Il capitano confortando i suoi
a ben fare, e della sua persona, con quelli pochi uomini che v’erano
buoni fè maraviglie, e per lungo spazio di tempo sostenne l’assalto con
danno assai de’ nemici; in fine non potendo resistere a tanta gente, nè
a tanti luoghi quant’erano combattuti, il capitano insieme col campo
fu preso, con assai degli altri che mostrarono il volto. Il conte
Artimanno traditore, possendo atare e soccorrere il campo, lasciando
parte della sua gente a guardia del borgo dell’Ancisa co’ terrazzani,
si stette a vedere. Molti de’ nostri ch’erano usciti di fuori, tale
per badaluccare tale per vedere, furono presi, più di disarmati
vogliosi troppo ch’erano corsi a vedere. Quelli valenti uomini che
erano usciti fuori virilmente a battaglia furono presi colle spade in
mano, intra’ quali fu messer Giovanni degli Obizzi e messer Giovanni
Mangiadori, alquanti se ne gittarono per l’Arno che vi annegarono,
intra i quali fu messer Bartolommeo de’ Portigiani da san Miniato.
La preda de’ cavalli, fornimenti da campo e armadura fu grande. Avuta
la vittoria gl’Inghilesi, con la preda e co’ prigioni si tornarono a
Figghine. Ricerchi i nostri, tra presi e morti si trovarono passati
i quattrocento. Conosciuto per gl’Inghilesi il male e viziato ordine
dato per messer Pandolfo, e la viltà di nostra gente, e il corrotto
animo del conte Artimanno, il dì seguente dì 4 d’ottobre ne vennono
all’Ancisa colle schiere fatte per combattere il borgo; il traditore
del conte Artimanno come li vidde venire, colla sua brigata se n’uscì
per la porta che viene verso Firenze e misesi a cammino, che se avesse
avute altrettante femmine come avea uomini d’arme arebbe difeso quel
luogo; i nemici senza contesa entrarono nel borgo e presonlo, rubaronlo
e arsonlo, per avere la via spedita volendo venire verso Firenze.
Messer Pandolfo sentendo la rotta del campo, con cinquecento uomini
ch’avea scelti e altra gente d’arme, in vista mostrava gran fretta
d’andare a soccorrere l’Ancisa, e già avea passato san Donato in
Collina, veggendo venire il conte Artimanno in fuga, possendosi allo
stretto di san Donato sostenere per non mostrare tanta viltà, subito si
volse e diessi alla fuga come uomo rotto. I nostri veggendo fuggire il
capitano seguitarono, il quale come spaventato, come giunse in Firenze
fè segno come fosse di necessità provvedere alla guardia della città
trista e lagrimosa, e che mal volentieri lo vedea, ma la necessità la
quale fa vecchia trottare strinse il nostro comune ad eleggerlo per
capitano di guerra in luogo di messer Rinuccio preso colla spada in
mano. Il quale essendo eletto nella forma che sogliono capitani di
guerra, volle ai governatori del nostro comune con belle e artificiose
parole e con sottili argomenti mostrare, che a perfezione del capitano,
pace e bene della città, necessario era che nella città e di fuori
avesse giurisdizione di sangue con pieno arbitrio, e fu sì sfacciato,
che la domandò agli uficiali della guerra, quasi dando intesa altamente
non accettare il capitanato, e più domandò, che i soldati da cavallo
e da piè giurassono nelle sue mani. Udendo i governatori della città
le sconce e le mal colorate domande vollono un grande consiglio di
richiesti, dove si proposono le domande di messer Pandolfo, e tanto
era il bisogno che aveano di lui, che niuno osava contradire, e il
concedere parea pericoloso, il perchè stavano sospesi e muti. Simone
di Rinieri Peruzzi si levò in consiglio, e disse francamente che
nulla di ciò gli si concedesse, che questo era un domandare d’essere
fatto signore, e che ciascuno si recasse alla mente il tempo del
duca d’Atene, e come da lui erano stati trattati, e che conoscessono
la dolcezza della libertà, e che volessono vivere e morire in essa.
Piacque a tutti il consiglio, e così s’ottenne; e i signori priori
mandarono di presente per tutti i soldati, e in loro mani feciono
giurare, e un Baldo dalla Città di Castello elessono per difensore del
popolo con larga e piena balía nella città. Messer Pandolfo veggendo
ciò s’infinse di non lo intendere, e accettò il capitanato al modo
usato a capitano di guerra, senza lasciare il pensiere di venire per
altra via al suo intento, come per effetto si vide. Presa la bacchetta
del capitanato fè cassare il conte Artimanno con ottocento uomini di
cavallo, perchè non rimase il comune se non con altri ottocento, e ciò
fatto, mostrando smisurata paura, fece sopra certa parte delle mura
della città levare bertesche e merlate armate di ventiere, armando la
nostra città d’eterna vergogna, più, che per le vie mastre non molto di
lungo alle porte fè fare serragli e antiserragli infino a Ricorboli.


CAP. LXX.

_Come certa parte degl’Inghilesi da Figghine cavalcarono a Ricorboli._

Gl’Inghilesi e gente de’ Pisani imbaldanzita sopra modo della rotta
del campo e della presa del borgo all’Ancisa, posati alcuni dì a
Figghine, avendo le spie dello spavento ch’era in Firenze, e de’ modi
del capitano, feciono sentire al comune con minaccevole superbia e
altre parlanze, come a dì 22 d’ottobre verrebbono in sulle porte,
e arderebbono il borgo di san Niccolò, e che a questo il comune
mettesse ogni suo sforzo a riparo, il perchè i governatori della
città perduto il cuore e il senno, e poco di concordia e rimprocciosi
gettando il carico l’uno all’altro con mormorio, parendo a loro
essere certi che quello che gl’Inghilesi prometteano l’atterrebbono,
feciono afforzare san Miniato a monte, e misonvi quattrocento fanti
pistoiesi e gli sbanditi, a’ quali promisono di ribandirli, poichè
certo tempo ivi e altrove avessono servito il comune, de’ quali fu
capitano messer Niccolò Buondelmonti, e Sinibaldo di messer Amerigo
Donati, i quali allora erano in bando della persona: il numero loro
passava i cinquecento. La città stava e quelli che di fuori erano
alle poste in tanta sollecitudine e tremore, che alcuna volta sentendo
pur un uomo dall’Apparita sonavano le campane del comune a martello,
e invano la guardia si faceva la notte co’ pennoni. Essendo per più
giorni stati grandi acquazzoni, a dì 22 del mese d’ottobre la detta
brigata degl’Inghilesi in numero di millecinquecento a cavallo e
cinquecento pedoni prima fu nel Piano di Ripoli, che per lo capitano
o per i governatori del comune niente se ne sentisse, e se niente
se ne sentì per lo capitano, che verisimile parea del sì, fece vista
di non saperne: molti cittadini in sulle letta furono presi, perchè
vennono di notte, e ucciso fu chi si contese. La preda che feciono fu
di quattrocento prigioni, e di più di mille tra asini e buoi: molti
fuggendo annegarono in Arno. La notte si stettono nel Piano di Ripoli
e nelle coste d’intorno: il loro segno levarono alla pieve a Ripoli
facendo gran trombata; la mattina, ardendo molti palagi, alberghi, e
case da lavoratori vicino alla strada circa d’un miglio, si partirono
senza trovare chi li andasse a vedere, e con la preda e’ prigioni
si tornarono a Figghine. Messer Pandolfo sapendo che erano partiti,
per vedere la tratta de’ Fiorentini, ch’era vogliosa e senza ordine
niuno, con ottocento uomini a cavallo ch’erano rimasi al comune
e con gran popolo si stette alle sbarre a Ricorboli; esso vedea i
nemici sparti, e girsene per le coste, e ne’ suoi occhi ardere molti
palagi di cittadini, e senza dubbio avendo le spalle del popolo e de’
contadini, ch’erano oltre a diecimila bene armati, e che volentieri
l’arebbono seguitato, per lo danno e vergogna che fare si vedeano, li
potea offendere, e nol volle fare, ma si ritenne al primo serraglio
lasciandosene tre innanzi, a’ quali era il popolo e la gente da piè.
Dissesi, e vero fu, che non sapendo l’aspro cammino gl’Inghilesi si
mossono, e non giunsono in Pian di Ripoli che a pochi loro cavalli non
crocchiassono i ferri, e se fossono stati assaggiati erano perduti,
come essi poi confessarono aperto, ma la viltà affettata del nostro
capitano, che traeva al fine che è detto di sopra, e de’ nostri
cittadini e contadini, che gl’Inghilesi fossono leoni fu la salvezza
loro. Speranza fu di messer Pandolfo, che rimaso messer Lomodaiesi
co’ soldati de’ Pisani alla guardia di Figghine, gl’Inghilesi fossono
tutti, e che s’alloggiassono nelle belle e ricche possessioni presso
alla terra, le quali erano piene d’ogni bene, e che ’l comune per
allora vario d’animo e povero di consiglio inclinasse a volerlo per suo
governatore e maestro; questa speranza li faltò per la subita partita
degl’Inghilesi, e fecelo entrare in altro pensiere.


CAP. LXXI.

_Come i Sanesi sconfissono la Compagnia del cappelletto, la quale era
condotta al soldo de’ Fiorentini._

Non ci pare da lasciare in silenzio, che essendo la gente de’ Pisani
con gl’Inghilesi afforzati in Figghine, ed essendo condotta per i
Fiorentini la Compagnia del cappelletto, la quale era in Maremma, e
co’ Sanesi avea presa convegna, e veniano al servigio del comune di
Firenze, e senza riguardo d’offesa e come fidati da’ Sanesi, per la
via da Torrita furono da loro assaliti con ottocento uomini da cavallo,
fra i quali ve ne furono quattrocento e più de’ Pisani, e loro ordine
e trattato fu per rompere le provvisioni di messer Pandolfo, le quali
aveano sentite. La zuffa dopo l’assalto de’ Sanesi non ebbe molto
contasto, perchè quelli della compagnia venendo senza sospetto come
per terre d’amici veniano in filo e sparti, il perchè di leggiere
furono sconfitti e preda de’ nemici. Presi vi furono oltre a trecento
uomini di cavallo e più di mille pedoni, e intra i presi fu il conte
Niccolò da Urbino, che era il capitano, il conte da Sarteano, Marcolfo
da’ Rimini; con altri assai buoni uomini d’arme, e morti ne furono
assai più di cento. Della quale vittoria, ovvero tradimento fatto in
dispetto, danno e vergogna del comune di Firenze, i Sanesi ne feciono
beffa festa, dicendo sè a un’ora avere sconfitto il comune di Firenze
e la compagnia la quale tanto affannati gli avea; e prosontuosamente
oltre a modo alzando il capo, per derisione e scherno mandarono due
messi a Firenze con lettere, l’uno al comune l’altro a’ capitani
della parte guelfa, contenenti con alte e ornate parole la detta
vittoria. Il comune dissimulando l’oltraggio, il fante che a lui venne
vestì di scarlatto fino foderato d’indisia, la parte vestì il suo di
cardinalesco.


CAP. LXXII.

_Di cavalcate e combattimenti di terre feciono gl’Inghilesi mentre
stettono a Figghine._

Soggiornando gl’Inghilesi a Figghine, come guerrieri senza riposo
tentarono per più riprese assai delle castella e tenute del nostro
comune che d’intorno loro erano vicine, e al castello di Tre Vigne in
due diversi giorni dierono ordinata battaglia, dove rimasono morti
alquanti di loro, e assai ne furono e dalle balestra e dalle pietre
magagnati senza acquisto niuno, lasciando le fosse piene di scale
e la terra di saettamento, e per simile modo combatterono più altre
tenute indarno. Il castelluccio de’ Benzi e la Foresta si tennono.
Vero fu che uno Andrea di Belmonte Inghilese, gentile uomo e grande
caporale nella compagnia, udita la fama della bellezza e gentilezza
di costumi di Monna Tancia donna di Guido della Foresta, di buono e
cavalleresco amore fu preso di lei, e la volle vedere, e da Guido come
da uomo d’animo gentile cortesemente fu ricevuto e onorato; seguinne,
che per l’amore di costui per tutto il tempo che stettono a Figghine
niuna novità fu fatta alla Foresta. Combatterono per tutto un giorno il
castello di Cintoia, e nol poterono avere. La notte quelli di Cintoia
per la bussa del dì tormentati, e perchè assai di loro n’erano fediti,
mandarono a Firenze a’ signori pregando per Dio li sovvenissono d’aiuto
almeno di venti fanti, perocchè attendeano d’essere il seguente dì
combattuti, e temeano della perdita; la provvisione all’usato modo fu
fredda, il perchè gl’Inghilesi il seguente dì tornarono alla battaglia.
Quelli del castello facendo loro possanza lungamente si tennono
danneggiando forte i nemici, in fine gl’Inghilesi presono il castello,
e ’l misono a sacco e l’arsono, e con la preda e’ prigioni si tornarono
a Figghine. Nel detto tempo tremila uomini di cavallo con pedoni assai
cavalcarono verso Arezzo, e poi volsono nel Casentino, dove levarono
gran preda sì di persone sì di bestiame, e senza impedimento con essa
si tornarono a Figghine.


CAP. LXXIII.

_Esempio e ammaestramento de’ popoli che vivono a libertà i quali
si conducono nella fortuna della guerra di non torre capitano uso a
tirannia._

Tornando al processo di nostra materia, gl’Inghilesi da Ricorboli
venuti a Figghine essendo ad abbondanza grassi e di prigioni e di
preda, nel consiglio de’ loro maggiori cominciarono ad entrare in
pensiero, come l’uno e l’altro potessono conducere in Pisa per li
stretti passi di Valdipesa: e per ciò potere fare, parendo loro come a
gente dotti di guerra del Chianti sentire l’intenza di messer Pandolfo,
e che pertanto era occupato intorno a’ fatti della città, poichè
alquanti giorni furono riposati feciono sentire al comune di Firenze,
che a dì undici del mese di novembre intendeano di fare consegrare un
prete novello nella badia di san Salvi, e che i signori di Firenze e
gli altri gentiluomini dovessono venire a fare onore al detto prete, e
a loro in persona di lui. Ciò indubitatamente credette messer Pandolfo,
e per le sue spie l’ebbe di certo, perocchè vidono il campo armare il
detto dì 11 la mattina per tempo, e per lo campo sentirono divolgare
come si dirizzavano verso Firenze; e certo a ciò avvisati cautamente
presono il viaggio verso Firenze, il perchè le spie non attendendo più
oltre vennono a Firenze ad informare messer Pandolfo. Stando la terra
sotto l’arme in gran tremore, scendendo all’Apparita pur un fante a piè
credeano fossono della brigata degl’Inghilesi, le campane sonavano a
stormo, il popolo sbalordito correa in qua e in là senza ordine e senza
capo, lasciando quasi ciascuno il suo gonfalone per ire a vedere, e di
largo avanti che messer Pandolfo giugnesse alla Porta alla croce usciti
erano della città ottomila uomini bene armati; quelli ch’erano più
gagliardi erano nel piano di san Salvi, e ordinatisi il meglio aveano
saputo, aspettando a ricevere i nemici, gli altri erano per le coste
sopra san Salvi. Il falso grido sonava per la terra che già parte di
loro n’era a Rovezzano: la gente da cavallo tutta era nella piazza de’
signori, e aspettava il capitano, il quale per la malizia soprastette
al mangiare tanto, ch’era quando se ne levò più vicino alla nona che
alla terza, e ciò fè perchè il popolo satollo uscisse fuori, e pensando
che a quell’ora ragionevolmente i nemici dovessono esser giunti a san
Salvi, e alle mani col popolo voglioso e con poco senno. Uscito il
capitano fuori coll’insegna di sua arme levata, seguendolo i soldati e
molti cittadini da bene a cavallo, come giunse alla Porta alla croce la
fece serrare, e così quella della giustizia, ed esso si stava dentro
a guardarla, lasciando il popolo di Firenze senza rifugio al taglio
delle spade e in preda de’ nemici, che bene conoscea chi era il popolo,
e chi gl’Inghilesi. Di fuori della porta era il tumulto grande delle
strida delle femmine che fuggivano co’ figliuoli in collo e a mano,
e voleano entrare dentro e non poteano, e quelle grida confermavano
nella testa a messer Pandolfo che i nemici fossono giunti, e a zuffa,
e ripreso da molti buoni cittadini che non lasciava entrare le femmine
e’ fanciulli, fatto per alquanto di tempo orecchie di mercatante, quasi
come temesse che per lo sportello entrassono i nemici e corressono la
terra, alla fine udendo il mormorio del popolo e de’ buoni uomini fece
aprire lo sportello: e io scrittore che era in quel luogo vidi molti
cittadini grandi e da bene, e a cui era cara la libertà della città,
piagnere e lagrimare vedendo il caso pericoloso, e ricordando il tempo
del duca d’Atene, e come si fece signore, e alquanti di loro n’andarono
a’ signori, e li consigliarono che provvedessono di vittuaglia il
palagio, e facessono mettere le balestra grosse e le bombarde in punto
sicchè il palagio avesse difesa, e tale, che di fatto, come al tempo
del duca d’Atene, occupato non fosse. E stando nel tumulto del fornire
e armare il palagio alla difesa, un messo giunse loro da Figghine,
e disse come i nemici aveano arso il campo e il borgo di Figghine, e
come s’erano partiti co’ prigioni e colla preda, e fatta la via per
lo Chianti; onde i signori mandarono a dire a messer Pandolfo che
facesse aprire le porte, e tornassesi allo stallo suo, il quale ciò
udito, caduto della speranza, con gli occhi bassi e mal volto di tutti
si tornò a casa sua. Quetato il popolo, e lasciata l’arme, i signori
ebbono gran consiglio di richiesti, e veduto il pessimo animo di messer
Pandolfo, e come pure intendea a volere essere signore di Firenze a
dispetto del popolo, determinarono li fosse tenuto mente alle mani
sicchè non li venisse fatto, e da quell’ora innanzi cominciò a essere
in dispetto di tutti: e perchè il popolo non traesse più mattamente,
feciono che ciascuno dovesse trarre al suo gonfalone alla pena di
lire sei, la quale pensando si dovesse risquotere ciascuno sarebbe
sollecito a seguire il suo gonfalone. Per messer Pandolfo mandarono, e
lo ripresono forte de’ modi tenuti per lui, e dicendoli che stesse dove
li paresse alle frontiere a guerreggiare i nemici, che il popolo di
Firenze ben saprebbe guardare la città. Se non fosse stato della casa
de’ Malatesti, per lo nome e titolo di parte guelfa amata e onorata dal
comune di Firenze, per certo si tenne n’arebbono preso altra via. Avemo
tritamente narrato questo caso per esempio, se potesse profittare,
a quelli che verranno, di non tor mai a capitano di guerra tiranno
di terra notabile, perocchè l’avvenimento della guerra è vario, e la
fortuna or quinci or quindi presta il favore suo, e sovente il tiranno
la fa essere ria per usurpare la sua libertà. E nullo ammiri perchè
io dissi se potesse profittare, perocché ’l governo allora del nostro
comune, avendo novellamente sì aspra ed evidente battitura ricevuta
da messer Pandolfo, e lui partito con disonore e vergogna, sotto
titolo e colore di ricoverare l’onore della casa de’ Malatesti, con la
forza degli amici loro fu chiamato capitano di guerra messer Galeotto
Malatesti; quello ne seguì nel seguente trattato a suo luogo e tempo si
potrà trovare.


CAP. LXXIV.

_I modi teneano gl’Inghilesi tornati in Pisa._

Con grande festa e trionfo gl’Inghilesi tornati da Figghine per i
Pisani furono ricevuti, e loro quasi come a cittadini fu consegnata
certa parte della terra, e dell’altre furono abbarrate le vie perchè
non noiassono a’ cittadini; ciò veggendo gl’Inghilesi lor parve che i
Pisani li avessono accettati per loro cittadini participando la terra
con loro, e modi teneano che pareano che intendessono così; i Pisani
veggendo per segni e parole l’intento loro più volte cercarono per
ingegno e astuzia di trarlisi di casa, infignendo d’essere cavalcati
da’ nemici, e facendo venire molte lettere di diverse parti che loro
annunziavano soprastare a gran pericoli, ma per allora fu nulla, che
gl’Inghilesi che s’erano molto affannati, e bisogno aveano di riposo,
ed erano caldi di danari di prigioni e di preda, se ne feciono beffe,
il perchè i Pisani vernano in gran gelosia.


CAP. LXXV.

_Come i Pisani furono sconfitti a Barga._

Avendo i Pisani la lor gente dell’arme e gl’Inghilesi nella città,
non potendo, come detto è di sopra, nè in parte nè in tutto trarre
gl’Inghilesi di Pisa, per non perdere il tempo gran parte di loro
soldati con grande ordine e apparecchio mandarono a Barga all’entrare
di dicembre, per porre sopra gli altri battifolli che vi aveano un
altro battifolle dalla parte del monte. In Barga era capitano per i
Fiorentini Benghi del Tegghia Bondelmonti, a cui i Fiorentini, poichè
gl’lnghilesi aveano abbandonato Figghine, aveano mandati centocinquanta
degli sbanditi ch’erano stati in san Miniato a monte, i quali doveane
certo tempo servire il comune nella guerra alle loro spese, e poi
essere ribanditi; la gente de’ Pisani portando fornimenti assai, sì
per porre detto battifolle, e sì per fornire e quello e gli altri
ad abbondanza, non parea che desse cuore di fare quello ch’era stato
loro commesso senza altro aiuto, forte temendo la brigata di Barga,
il perchè quelli ch’erano negli altri battifolli lasciandoli male a
difesa forniti si dirizzarono con loro in viaggio. Benghi, sentendo
che i battifolli erano sforniti e quasi come abbandonati, con i
Barghigiani, che v’andarono uomini e femmine vogliosamente, e co’ detti
centocinquanta sbanditi assalì i detti battifolli, e tantosto li vinse.
Quelli de’ battifolli ch’erano iti coll’altra gente a porre la bastita
sentendo le grida e lo stormire di quelli che combatteano le bastite,
subito colla detta gente de’ Pisani si volsono indietro per soccorrere
a’ battifolli. Benghi capitano co’ Barghigiani e sbanditi suddetti li
ricevettono francamente, e dopo lunga battaglia e aspra li sconfissono,
dove de’ nemici furono morti oltre a centocinquanta, e assai fediti
e magagnati, e molti ne furono presi; lo stendardo del comune di Pisa
con altre tredici bandiere rimasono prese, le quali i Barghigiani ne
mandarono a Firenze, e’ battifolli furono arsi, e quello che dentro
v’era con quello che recato v’aveano per porre l’altro sì di vittuaglia
come d’arnesi fu messo in Barga, e loro a gran bisogno sovvenne. Benghi
perchè s’era fedelmente e francamente portato fu fatto di popolo, e
rifermo in capitano di Barga per diciotto mesi.


CAP. LXXVI.

_Come il re Giovanni di Francia passò in Inghilterra e là morì._

Uscendo un poco del bosco delle nostre speziali riotte, facendo
intramessa di cose forestiere, torneremo alquanto addietro a quello
che scritto fu per Matteo nostro padre della pace intra i due re di
Francia e d’Inghilterra, dove il re di Francia s’obbligò a pagare al
re d’Inghilterra gran quantità di moneta per la sua diliveranza; e per
osservare sua promessa lasciò per stadico il fratello duca d’Orliens, e
messer Giovanni duca di Berrì suo figliuolo, e più altri duchi, conti e
banderesi; onde in quest’anno 1363 a dì 3 di gennaio, il detto messer
Giovanni figliuolo del re che stadico era a Calese, villanamente,
essendo largheggiato d’andare a cacciare e uccellare a sua volontà, si
fuggì da Calese senza tornarvi con gran sua vergogna, e fè rubellare
agl’Inghilesi più terre teneano in Normandia per gaggi della pace. Onde
il re Giovanni, come franco e nobile signore, per lo detto misfatto
del figliuolo e rompimento della pace, e per trattare patto e grazia di
sua redenzione, di sua volontà a dì 3 di gennaio 1363 entrò in mare a
Bologna sul mare per ire e si rassegnare prigione in Inghilterra, e il
giovedì appresso giunse a Dovero, e dipoi a dì 24 di gennaio giunse a
Londra, e incontro gli andarono oltre a mille a cavallo gente nobile,
e tutti vestiti di variate assise, e dismontò a una casa detta Saona
per lui riccamente e alla reale apparecchiata. Della quale andata il
detto re da tutti i cristiani fu molto lodato, ed eziandio gl’Inghilesi
l’ebbono molto a bene e feciongliene ogni grazia. Nel raccozzamento de’
due re, e nella pratica, il perchè v’era ito, il detto re di Francia
era passato nell’isola. Potrei far fine qui e riserbare al mese suo la
morte del re di Francia, ma per non interrompere la materia la porremo
qui. Seguì, che poco appresso poi all’entrata di marzo prese al re di
Francia una malattia, e dipoi a dì 8 del mese d’aprile 1364 la notte
passò di questa vita. Onorato fu di sepoltura largamente alla reale,
riservando in una cassa il corpo suo per recarlo a tempo a Parigi. Il
reame succedette a Carlo primogenito del detto re Giovanni, duca di
Normandia e delfino di Vienna.


CAP. LXXVII.

_Come messer Niccolò del Pecora fu cacciato di Montepulciano._

In questi giorni per trattato fatto per i Sanesi colla forza de’ fanti
d’Agnolino Bottoni, contra i patti della pace fatta tra’ Perugini
e’ Sanesi, messer Niccolò del Pecora per i conforti suoi fu cacciato
di Montepulciano, e ridussesi a Perugia in assai debole stato, e da’
Perugini mal provveduto, i quali per non ricominciare guerra passarono
la vergogna a chiusi occhi.


CAP. LXXVIII.

_Della morte del giovane marchese di Brandisborgo, conte di Tirolo, e
quello ch’appresso ne seguì._

Ancora ne piace un poco passare per le pellegrine storie; e per
fondarne una che in questi tempi occorse assai abominevole, alquanto
ne conviene addietro tirare per dare meglio a intendere il gran male:
e venendo al proposito, la contea di Tirolo situata è negli estremi
di terra tedesca sopra il Lago di Garda, e nel paese di Trento, e
possente, nobile e famosa, la quale, morta tutta la progenia masculina,
per successione era caduta in una fanciulla nome contessa......., la
quale per la nobiltà della dota da tutti i signori e baroni della
Magna era in matrimonio sollecitata, per avere in dota il gioiello
della detta contea di Tirolo; in fine la contessa prese in isposo....
figliuolo del re Giovanni di Boemia, e fratello di Carlo che poi fu
imperadore de’ Romani; e chiamatolo al matrimonio, e alla contea di
Tirolo, dopo alquanto tempo la contessa cortesemente lo ne rimandò
in suo paese, affermando che all’uso del matrimonio era impotente,
e che la contea desiderava erede. Carlo fratello del detto.....
recandosi in dispetto i modi della contessa, prestamente fè grande
esercito, ed entrò nel contado di Tirolo, il quale è aspro e per sito
fortissimo, e fece gran danni d’arsioni e di preda, e infra d’altre
terre arse Buzzano, e ciò fatto si tornò in suo paese minacciando
di fare peggio a tempo. Il perchè la contessa impaurita e spaventata
cercò sollecitamente possente in Alamagna a cui si potesse appoggiare,
e in quei tempi v’era grande Lodovico duca di Baviera della progenia
del duca Namo, l’uno de’ dodici conti Paladini che seguitarono Carlo
Magno a cacciare i saracini della Spagna, e pertanto poi quelli di
sua schiatta hanno una boce de’ dodici peri alla boce dell’imperio;
il quale Lodovico essendo creato imperadore de’ Romani contro volontà
di santa Chiesa passò in Italia, e gran cose fece, come scrive
Giovanni Villani nostro zio, e senza acquistare si tornò in Alamagna
col titolo del Bavaro. Costui in questi dì avea quattro figliuoli,
Lodovico, Stefano, Otto, e Romeo: Lodovico primogenito era marchese di
Brandisborgo. Costui la contessa al padre segretamente fè domandare in
marito, e il Bavaro vi diè l’orecchie, e volendo che ’l figliuolo la
prendesse, egli con orrore d’animo la ricusava, dicendo al padre che
ella avea altro marito, come noto era a tutta la Magna, e che secondo
i decreti di santa Chiesa ella non potea avere altro marito: il padre
lo sgridò, e gli osò dire ch’egli era un ribaldo, e che ’l contado di
Tirolo non era boccone da rifiutare, il perchè per riverenza del padre
Lodovico la prese per donna, velando il matrimonio con colore che
il primo era impotente a generare. Della detta contessa assai tosto
Lodovico ebbe un figliuolo maschio; ma perseverando il matrimonio,
la contessa per soverchia lussuria trascorse in errore di disonesta
vita, e in singolarità con un messer...... di Fraunberghe, che in
latino suona, dal Colle delle donne, ed era sì venuto il giuoco in
palese, che ogni uomo si maravigliava come il marchese la comportasse,
stimando molti che per forza di malia lo facesse. Occorse, che partendo
il marchese con lei e con tutta sua corte da Monaco di Baviera per
andare a Tirolo, esso marchese sotto boce osò dire: Se noi torniamo a
Monaco mai, noi ci vendicheremo di chi ne fa vergogna; ciò venne agli
orrecchi alla contessa, e al cavaliere che usava con lei, il quale era
de’ maggiori della corte, e conoscendo amendue che il marchese era di
grande animo e vendicativo, e che già fatto aveva aspre e rilevate
vendette a chi l’avesse fallato, strettosi al consiglio la donna e
’l cavaliere, temendo che il marchese non attenesse loro la promessa,
nel cammino l’avvelenarono in una terra che si dice Rotimberga. Morto
il marchese, rimase al figliuolo il paese ch’a lui s’appartenea in
grande confusione, perchè molti voleano il governo del fanciullo,
e così stette il paese rotto per spazio di mesi diciotto. Alla fine
Stefano e Otto zii del garzone si recarono il governo alle mani, e
dirizzati i paesi, e passati cinque anni, il giovane era cresciuto
di bello aspetto, e facevasi valente, e per sua dibonarità e dolcezza
avea la grazia di tutti i sudditi suoi, ed essendo a Tirolo si volea
reggere e governare a suo piacere; e dispiacendoli assai i pochi onesti
costumi della madre, e un giorno venendo con lei in contesa, per sua
sciagura nell’irate parole uscì al giovane di bocca: Noi sapemo bene
quello che voi faceste a nostro padre. La crudel donna crudelmente
raccolse le semplici parlanze del giovane, e cominciò a pensare della
morte sua: il perchè un giorno il giovane avendo con gentili giovani
di sua età molto danzato, e per sè e per i compagni domandò da bere,
e fugliene dato, ma con veleno, del quale con quattro valenti giovani
suoi compagni si morì; gli altri che meno aveano bevuto si pelarono
tutti, e rimasono infermi. Il giovane marchese poco avventurato di
madre fu seppellito in Tirolo nel 1363 del mese di febbraio. Ciò si
dice che fè la dispietata madre per potere più liberamente lussuriare e
perseguire sua scellerata vita. Stefano e Otto figliuoli di Lodovico,
e zii del giovinetto morto, udito l’orribile malificio, e compreso
l’imperversato e fiero animo della femmina, la quale per uccidere il
figliuolo non guardò all’innocenza de’ giovinetti che ballavano con
lui (il quale recato con lei in comparazione a Medea, che fu gentile,
e questa cristiana, non è da porre in dubbio che questa non fosse assai
più spietata e crudele, verificandosi in lei il verso di Giovenale, il
quale delle femmine dice: Fortem animum praestant rebus quas turpiter
audent, che in volgare suona; Forte animo danno alle cose le quali
sozzamente ardiscono, cioè presumono di fare) richiesono tutti i loro
vassalli e feudatari, e accolsono d’amistà quanta gente poterono fare,
e grande oste apparecchiarono contro alla contessa per vendicare la
morte del fratello e del nipote, la quale spaventata e impaurita,
perseguitandola la coscienza degli orribili peccati, stava in gran
tremore, e non sapeva che si fare. In questa confusione Ridolfo duca
d’Osterich, uomo sagace e astuto, e cupido di nuovo acquisto, inteso
della morte del giovane, e dell’apparecchio che facevano Stefano e
Otto di Baviera, sconosciuto di presente se n’andò a Tirolo, e fu
colla contessa, e le disse dell’apparecchio di quelli di Baviera,
e li mostrò ch’erano atti e sofficienti a disfarla, e s’ella avea
concetta paura nell’animo la raddoppiò. Appresso le disse, ch’avea
ritrovate scritture antiche che conteneano, come gli antichi duchi
d’Osterich s’erano patteggiati e convenzionati con gli antichi conti di
Tirolo, che quale casa o famiglia di loro faltasse d’ereda legittimo
l’altra dovesse succedere, con offerirsi alla difesa della donna; e
da lei posta in tanta confusione, e credula, ottenne ch’ella il fè
capitano del contado di Tirolo, e nelle sue mani fè giurare tutto il
paese. Proseguendo il proposito loro quelli di Baviera cominciarono
la guerra, e corsono il contado di Tirolo, e presono e rubarono una
terra che si chiama Sterburgh, e più in avanti non poterono passare
per l’asprezza de’ luoghi e de’ forti passi provveduti alla difesa.
Ciò non ostante il duca d’Osterich cominciò a mettere nel capo alla
femmina che nel paese non stava sicura, e ch’era il suo migliore se
n’andasse in Osterich, tanto che le cose pigliassono assetto, e tanto
le seppe dire ch’ella v’andò. Dopo non molto tempo il duca la mise in
un munistero, dove miseramente morì. Alcuni dissono fu fatta morire,
e questo comunemente s’accettò per vero. Morta la contessa, il duca
Ridolfo con gran quantità di gente d’arme corse per lo contado di
Tirolo, e prese quattro nobili e gentili uomini, i quali come baroni
aveano giurisdizione di per sè, i quali non erano stati pronti ad
ubbidire, perch’aveano giurato alla casa di Baviera, e come tiranno,
e contro alla natura e la costuma degli Alamanni, di presente li fè
decapitare, onde in infamia e odio ne venne di tutta lingua tedesca.
Per tema di questa impresa del duca d’Osterich non lasciò la casa di
Baviera di non volere riscattare sua giurisdizione, e di loro forza
e amistà ragunarono oltre a quattromila barbute di gente eletta, e
con molto ordine si mossono contro il duca d’Osterich, come contro
usurpatore delle loro ragioni. Il duca d’Osterich d’altra parte fè
adunata non di meno gente nè valorosa meno che quella degli avversari,
e amendue i detti eserciti assai vicini s’assembrarono insieme: e
per caso un giorno avvenne, che sopra il numero di duemila barbute
di quelle del duca d’Osterich dilungandosi dal campo casualmente si
scontrarono in altrettante o circa della gente del duca di Baviera, e
vennono alla battaglia, la quale fu fiera e pertinace, la quale durò
per spazio di più di sei ore, e nella fine quelli d’Osterich furono
sconfitti. I morti dall’una parte e d’altra in sul campo s’annumerarono
si trovarono più di cinquecento, e i feriti e magagnati furono assai,
e molti di quelli d’Osterich rimasono prigioni, e ciò avvenne nel 1364
d’ottobre, e qui l’ho posto per non rompere la storia. Il verno in
quelle parti duro e incorportabile a campeggiere l’una parte e l’altra
costrinse a tornarsi a sua magione, ma tutto che quietassono l’armi
non quitarono gli animi, perocchè l’una parte e l’altra eziandio con
spendio faceva sollecitamente ogni sforzo suo, e scritto e comandato
aveano a tutti i sudditi loro ch’erano in Italia al soldo che a loro
aiuto dovessono tornare, e tutti s’apparecchiarono a ubbidire, e così
grande apparecchio faceano per trovarsi in campo come prima potessero.
Carlo imperadore e Lodovico re d’Ungheria veggendo che ciò era di
grandissimo pericolo e guasto di tutta Alamagna s’intesono insieme, e
interposonsi per mezzani, e colla persona del savio e venerabile messer
Piero Corsini vescovo di Firenze, il quale per gravi faccende di santa
Chiesa allora era legato in Alamagna, il quale ricevendo sopra di sè il
peso di tanta faccenda, come ambasciadore di detti imperadore e re, e
mezzano e trattatore tra i detti signori cercò la concordia loro; e sì
saviamente seppe la cosa guidare, che di detto anno e mese di gennaio
pace si concluse tra loro, e per patto al duca d’Osterich rimase libera
la contea di Tirolo, e in compensarne di ciò il duca di Baviera ebbe
un’altra contea del duca d’Osterich, tutto che non a valore eguale
assai a quella di Tirolo. E così ebbe fine la diabolica vita e processo
dell’empia e spietata contessa di Tirolo, e la guerra che per le sue
prave operazioni era suta tra la nobiltà de’ baroni e signori della
Magna.


CAP. LXXIX.

_Come i Pisani ricondussono gl’Inghilesi._

Lasciando le forestiere storie, e tornando alle scaramucce e badalucchi
della tediosa guerra intra i Fiorentini e’ Pisani ci occorre, che
essendo gl’Inghilesi per fornire loro condotta, per due rispetti, l’una
perchè i Fiorentini non li conducessono, l’altra per trarlisi di casa,
e per li tempi che richiedesse la guerra, i Pisani del mese di gennaio
li ricondussono per sei mesi con soldo di centocinquanta migliaia di
fiorini, con patti che potessono fare cavalcate dove a loro piacesse,
salvo che alle terre loro sottoposte, raccomandate e collegate, tutti
gli altri loro soldati cassarono, e feciono loro capitano di guerra
Vanni Aguto Inghilese gran maestro di guerra, di natura a loro modo
volpigna e astuta, il suo soprannome in lingua inghilese era Hawkwood,
che in latino dice, Falcone di bosco, ovvero in bosco, perocchè essendo
la madre a un suo maniere per partorire, e non possendo, si fè portare
in uno suo boschetto, e quivi lui di presente partorì, e tutto che
non fosse di schiatta di nobili con dignità, il padre era gentiluomo
mercatante e antico borgese, e così i suoi antenati, e come Giovanni
venne in età di potere arme, essendo d’aspetto e di stificanza di farsi
in essa valente uomo, fu dato a un suo zio gran maestro di guerra,
il quale nelle guerre di Francia e d’Inghilterra avea fatto in arme e
pratiche di guerra belle e rilevate cose. I detti Inghilesi vernarono
in Pisa con gran danno e disagio de’ cittadini i quali a loro faceano
oltraggio, e intra gli altri delle donne loro, il perchè molti di loro
le ne mandarono a Genova e altrove in luoghi dove potessono onestamente
dormire.


CAP. LXXX.

_D’una saetta che cadde sul campanile di santa Maria Novella._

Nel detto anno a dì primo di febbraio, essendo il tempo sereno e bello,
e senza avere o da lunga o da presso alcuno segno di nuvole, tonò
smisurato più volte, e caddono in Firenze più saette, fra le quali una
ne percosse nel campanile de’ frati predicatori, e quello in più parti
sdrucì, e più segni fè per la cappella maggiore d’inarsicciati. Di ciò
è fatta menzione per la disgrazia del detto campanile spesso tocco
dalle saette, appresso per la novità del tonare sì spossatamente al
sereno nel pieno del verno.


CAP. LXXXI.

_Cavalcate fatte per gl’Inghilesi nel pieno del verno._

Poichè gl’Inghilesi si viddono ricondotti, come uomini vaghi di preda e
vogliosi di zuffa, a dì 2 di febbraio in numero di mille lance, i quali
si facevano tre per lancia di gente a cavallo (ed eglino furono i primi
che recarono in Italia il conducere la gente di cavallo sotto nome di
lance, che in prima si conduceano sotto nome di barbute e a bandiere) e
in numero di duemila a piè, essendo il freddo fuori di misura, e venute
più nevi sopra nevi, si partirono dalle frontiere dove pochi dì dinanzi
s’erano ridotti, e passando la notte per Valdinievole se ne vennono
a Vinci e Lampolecchio, luoghi fertili e abbondevoli di vittuaglia
per gli uomini e per i cavalli, e trovarono il paese non sgombro per
la pertinacia de’ nostri contadini, che non vogliono per bando o per
minacce a’ loro signori ubbidire. Giugnendo nel pieno della notte molti
paesani presono nelle letta, e posono il campo fermo nelle villate di
Vinci stendendosi in più di mille case, e il seguente dì cavalcarono
infino a Signa e Carmignano. Il tempo disusato e sconcio a cavalcare
gente d’arme, e massimamente di notte, ne presta materia di scrivere
de’ modi e reggimenti de’ detti Inghilesi nel presente capitolo senza
farne altra distinzione: e in prima, essi aveano in consuetudine di
guerreggiare così il verno come di state, che a’ Romani, di cui è
scritto, Fortia agere, et pati, Romanum, che in volgare suona, forti
cose fare, e patire, romana cosa è, non fu in uso, e sempre il verno
faceano feria dando alla guerra riposo, se per forza non fussono
tratti a battaglia. E come si trova ne’ veraci storiografi, Annibale
uomo di ferro nel mezzo del verno passò gli altissimi gioghi delle
montagne che surgono per lo mezzo d’Italia, e passano da monte Veso
infino sopra il faro di Messina, le quali alpi poi per la detta cagione
sempre nominate furono le Alpi pennine, perocchè gli Affricani sono
chiamati Penni, e sceso il verno si combattè a Pavia con Scipione e
lo vinse, poi dirizzandosi verso Roma con un solo elefante che rimaso
gli era, per lo freddo perdè un occhio, e procedendo sopra il Lago di
Perugia tra Montegeti e Passignano si combattè con Flaminio consolo
e lo vinse, usando astuzia, perocchè essendo per lo gran freddo le
membra de’ cavalieri arrudate e spossate, avanti che venisse alla
battaglia Annibale fè fare gran fuochi, e scaldare i suoi cavalieri,
e ugnere con olio. Tornando a nostra materia, per antico ricordo non
era che fosse stato il freddo sì aspro e pungente, che quasi per tutto
dicembre fino al marzo non erano cessate le nevi, e il ghiaccio per i
venti freddi fu grosso, e a passare per i cavalli quasi impossibile,
e massimamente in certi pendenti di vie che non si poteano schifare.
Costoro tutti giovani, e per la maggior parte nati e accresciuti
nelle lunghe guerre tra’ Franceschi e Inghilesi, caldi e vogliosi,
usi agli omicidii e alle rapine, erano correnti al ferro, poco avendo
loro persone in calere, ma nell’ordine della guerra erano presti, e
ubbidienti ai loro maestri, tutto che nell’alloggiarsi a campo per
la disordinata baldanza e ardire poco cauti si ponessono sparti e
male ordinati, e in forma da lievemente ricevere da gente coraggiosa
dannaggio e vergogna. Loro armadura quasi di tutti erano panzeroni,
e davanti al petto un’anima d’acciaio, bracciali di ferro, cosciali
e gamberuoli, daghe e spade sode, tutti con lance da posta, le quali
scesi a piè volentieri usavano, e ciascuno di loro avea uno o due
paggetti, e tali più secondo ch’era possente, e come s’aveano cavate
l’armi di dosso i detti paggetti di presente intendeano a tenerle
pulite, sicchè quando compariano a zuffe loro armi pareano specchi, e
per tanto erano più spaventevoli. Altri di loro erano arcieri, e loro
archi erano di nasso, e lunghi, e con essi erano presti e ubbidienti, e
faceano buona prova. Il modo del loro combattere in campo quasi sempre
era a piede, assegnando i cavalli a’ paggi loro, legandosi in schiera
quasi tonda, e i due prendeano una lancia, a quello modo che con li
spiedi s’aspetta il cinghiaro, e così legati e stretti, colle lance
basse a lenti passi si faceano contro a’ nemici con terribili strida: a
duro era il poterli snodare, e per quello se ne vidde per la sperienza,
gente più atta a cavalcare di notte e furare terre ch’a tenere campo
felici, più per la codardia della nostra gente che per loro virtù.
Scale aveano artificiose, che il maggiore pezzo era di tre scaglioni,
e l’uno pezzo prendea l’altro a modo della tromba, e con esse sarebbono
montati in su ogni alta torre. I detti Inghilesi, tornando alla nostra
materia, combatterono il castello di Vinci, fidandosi ne’ tardi e lenti
provvedimenti di quelli ch’allora guardavano la nostra repubblica,
e pensando che fossono poco atti alla difesa, ma furono con franco
animo e fronte senza paura ricevuti, e assai di loro di soperchio
baldanzosi furono morti e assai fediti, senza altro acquistare che onta
e vergogna; e per simile modo per due volte tornarono a Carmignano,
dove con più sicuro volto e loro dannaggio furono veduti, il perchè
si partirono di quindi, e andarsene al Montale sopra Montemurlo, con
intenzione di passare per lo stretto di Valdimarina nel Mugello, ma
sentendo che per quella volta da mille cinquecento pedoni de’ paesani e
del Mugello s’erano a passi recati, e loro con allegrezza aspettavano,
pensando con loro più tosto guadagnare che perdere, perchè tutto era
sgombro e ridotto alle fortezze si tornarono per lo passo di Seravalle
verso Pistoia nel contado di Pisa con loro gran danno, perocchè di
loro tra morti e presi nella detta cavalcata si trovarono assai più di
trecento, che da’ nostri contadini che da soldati che li tramezzarono
a Seravalle, e sì da’ Pistoiesi che vi trassono al grido. I prigioni
ch’aveano avuti a Vinci su le letta non passarono i quindici, nè i
morti i cinque: la preda che feciono a pena gli potè nutricare: ne’
giorni che stettono non arsono case, molti de’ loro cavalli perderono
per lo gran disagio e freddo soffersono, nevicando loro addosso il dì e
la notte; il perchè tornati a loro stallo molti uomini se ne morirono;
e così a poco a poco si logoravano gl’Inghilesi.


CAP. LXXXII.

_Come Anichino di Bongardo con tremila barbute venne al servigio de’
Pisani, e come sagacemente cercarono avvantaggiosa pace._

Nel detto anno 1363, a dì 15 del mese di marzo, Anichino di Bongardo
Tedesco, il quale era stato in Lombardia al soldo di messer Galeazzo
Visconti nella guerra del marchese di Monferrato, con tremila barbute
venne in favore de’ Pisani mandato per lo detto messer Galeazzo sotto
colore e titolo di soldo, sicchè in quel tempo i Pisani si trovarono
avere più di seimilacinquecento buoni uomini di cavallo, il perchè loro
parendo, e così era il vero, loro avere il migliore, ed essere di loro
onta vendicati, con segreto e cauto modo cercarono d’avere pace onorata
e vantaggiosa per le mani di santa Chiesa, e ordinarono che papa Urbano
quinto mandò per suo legato in Toscana per cercare detta pace un frate
Marco da Viterbo generale de’ frati minori, il quale essendo stato in
Pisa venne a Firenze, e onoratamente fu ricevuto, e in fine dicendo,
che al santo padre era in calere che della guerra da’ Fiorentini
a’ Pisani la quale era il guasto di Toscana si venisse alla pace, e
che tanto era fatto quinci e quindi che bene vi cadea, ebbe questa
risposta: che i Fiorentini erano stati tirati a loro malgrado nella
guerra dalla soperchia astuzia de’ Pisani, e che avanti li facessono
risposta di pace e volessono udire domande de’ Pisani, considerato che
il fatto non era pur loro, ma dell’università, sopra ciò ne voleano
tenere consiglio; e licenziato il generale, il seguente dì feciono
un consiglio di richiesti dove furono oltre a mille cittadini; e ciò
fu fatto per richiudere la bocca a’ mormoratori della pace, e per
schifare la pace che parea vituperosa, presentendosi segretamente
le disoneste e sconce cose domandavano i Pisani. Adunque si tenne
quest’ordine, che anzi che volessono i signori e’ collegi udire le
domande, vollono che ’l detto generale le sponesse nel detto consiglio;
e prima che mandassono per lui, uno de’ signori si levò nel consiglio
e assai oscuramente disse, che ciò che nel consiglio venia non era
loro movimento, ma che i priori passati n’aveano di corte avuto alcuno
odore, e che gli otto della guerra di ciò niente sapeano, e che gli
otto gli avviserebbono degli ordini presi per loro nella prosecuzione
della guerra e di loro possanza, e appresso Spinello della Camera, il
quale era pienamente informato dell’entrata e uscita del comune e del
debito suo, loro farebbe chiaro di quanto il comune fosse possente a
danari. Posato quello de’ signori si levò uno di quelli della guerra,
e distesamente e apertamente disse, che l’ordine dato per loro era
questo, cioè, che per settantamila fiorini aveano condotto per sei mesi
quattromila barbute di quelli della Compagnia della stella, la quale
era in Provenza, intra i quali erano più di cinquecento gentili uomini,
e più nella Magna duemila barbute intra i quali era il conte Giovanni,
il conte Guido, il conte Ridolfo stratti della casa di Soavia, e che
al presente n’aveano scritte al soldo tremila, e che le dette brigate
si doveano rassegnare in Firenze innanzi l’uscita del mese, e altre
molte cose disse le quali poteano sollevare gli animi degli uditori
alla guerra, soggiugnendo, che tale spesa per la pace schifare non si
potea. Appresso si levò Spinello della Camera mostrando l’entrata e
l’uscita del comune, e che pagate le dette brigate per tutto il mese
d’ottobre il comune rimanea in debito di centossessantasei migliaia
di fiorini, di che udite le sopraddette cose gli animi degli uditori
accesi e sollevati inclinarono alla guerra; e ciò fatto, i signori
feciono chiamare il generale, e sporre le domande de’ Pisani, le quali
erano superbe troppo e fastidiose, e tali, che se avessono avuto il
comune di Firenze in prigione sarebbono state sconvenevoli, sconce e
disoneste, sopra le quali levati molti dicitori in fine di concordia
di tutti si prese, che dove pace avere si potesse ragionevole, e quale
comportare si potesse, col nome di Dio si prendesse, quanto che no, che
francamente si seguitasse la guerra, e avvenisse ciò che avvenire ne
potesse; vero che non si facesse pace s’avessono fatto lega con messer
Galeazzo, per la quale si dicea essere ito per ambasciadore de’ Pisani
in Lombardia Giovanni dell’Agnello.


CAP. LXXXIII.

_Come messer Beltramo Craiche tolse Nantes per lo re di Francia a
quello di Navarra._

Nel detto anno 1364 a dì 8 d’aprile, messer Beltramo di Craiche
cavaliere Brettone Galese, il quale era nelle parti di Normandia,
capitano per parte del duca di Normandia prese la villa di Nantes
che si tenea per lo re di Navarra, e poco appresso prese la villa di
Mellavit, e tutte le fortezze per la gente del detto duca, e furono
prese più gente di Pag, e tali che teneano la parte del re di Navarra
contro al re di Francia, e fu d’alcuni fatta giustizia.


CAP. LXXXIV.

_Come rotto il trattato della pace i Pisani cavalcarono i Fiorentini._

Mentre che il venerabile frate Marco per commissione di papa Urbano
quinto cercava la pace tra’ Fiorentini e’ Pisani, i Genovesi, Perugini
e Sanesi mandarono loro ambasciadori per cercare la detta pace insieme
col detto frate Marco, il quale ricevuta la risposta dal comune di
Firenze, che voleva pace dove fosse sopportabile e onesta, si tornò
a Pisa, e trovando i Pisani per lo caldo della molta buona gente
d’arme ch’aveano montati in più altere domande con minacce, tutto
che la speranza della pace avessono gittata indietro alle spalle, non
di manco i detti ambasciadori seguiano la cerca innanzi che le cose
inzotichissino più, minacciando i Pisani che se la pace prestamente
non si prendesse nella forma che l’aveano domandata, che farebbono
la lor gente cavalcare a desolazione e distruzione del contado di
Firenze. A’ Fiorentini parea al di dietro avere ricevuto soperchio
oltraggio, e aspettavano in corti giorni l’avvenimento della Compagnia
della stella, la quale per sagacità e sollecitudine di messer Galeazzo
corrotta per danari ritardava sua venuta, dipoi levata ne fu, e le
duemila barbute soldate nella Magna, fidandosi in questa speranza, e
ne’ valenti uomini ch’aveano a provvisione, ch’erano messer Bonifazio
Lupo da Parma, messer Tommaso da Spuleto, messer Manno Donati, messer
Ricciardo Cancellieri, e Giovanni Malatacca da Reggio, i quali erano
pregiati maestri di guerra, e stato ciascuno di per sè capitano di
grande esercito e avutone onore, e già in Firenze era venuto il conte
Arrigo di Monforte, e in sua compagnia il conte Giovanni e il conte
Ridolfo stratti della casa di Soavia con cinquecento uomini di cavallo
tutti giovani, e per la maggior parte gentili uomini, grandi e belli
del corpo, e quanto per un fiotto di tanta gente a giudizio di tutti
non era ricordo che entrasse in Firenze più bella nè meglio in punto
d’arme e di cavalli, ed esso conte era di bello e gentile aspetto.
Per le dette cagioni i Fiorentini con più cuore rifiutarono la pace,
e le minacce misono a non calere; onde i Pisani posta giù la speranza
della pace, avendo seimilacinquecento uomini di cavallo tra Tedeschi
e Inghilesi capitanati da Anichino di Bongardo e Giovanni Aguto in
forma di compagnie, e giunti loro oltre a mille cittadini e contadini
i più guastatori, licenziarono che intendessono a fare aspra guerra,
il perchè a dì 13 del mese d’aprile si mossono e passarono per la
Valdinievole, e posarsi nel piano di Pistoia, e in due luoghi puosono
campo, e il seguente dì gl’Inghilesi a schiere fatte si dirizzarono
a Prato, e in su la porta di Prato combatterono i Pratesi, e con mano
presono il ponte levatoio con maravigliosa sicurtà vietando che non si
levasse, la quale audacia a’ nostri fu in grande terrore, e a dì 15
d’aprile circa a mille uomini a cavallo della brigata degl’Inghilesi
nel mezzo della notte si partirono del campo, e vennono infino alla
Porta al prato, onde la terra si scommosse tutta ad arme, e di loro
quattro gagliardi toccarono la porta, de’ quali l’uno ne rimase, e
senza arrestare si partirono con parecchi che trovarono nelle letta, e
con alquanti buoi, e tornarono al campo. E il seguente dì gl’Inghilesi
per lo stretto di Valdimarina passarono nel Mugello, non senza vergogna
de’ provveditori del nostro comune, a cui parea che per le civili
dissensioni Iddio avesse tolto il cuore e ’l senno; l’intenzione
degl’Inghilesi fu di passare per lo Mugello, e venirsene nel piano di
san Salvi, e ivi porre campo, e attenere a’ Fiorentini la promessa di
fare il prete novello: Anichino dovea tenere campo a Peretola. Passati
adunque la notte gl’Inghilesi la Valdimarina in sul fare del giorno
giunsono a Latera e a Barberino, e trovarono i villani non avvisati e
male provveduti, onde ebbono da cento prigioni, e da cento paia di buoi
e assai bestiame minuto, e trovarono pieno di biada e di vino e d’altra
roba da vivere, e la cagione fu per allora, che dove i governatori
della città doveano levare le gabelle acciocchè la roba venisse alla
terra, le raddoppiarono, il perchè niuno volea recare, volendo innanzi
stare a rischio del perderla: e ciò fu riputato a’ signori in singulare
fallo, levando l’abbondanza alla città e lasciando a’ nemici pastura.


CAP. LXXXV.

_Come messer Pandolfo passò nel Mugello colla gente da cavallo per
tenere stretti gl’Inghilesi._

Essendo gl’Inghilesi passati nel Mugello per mala provvedenza di
chi potea riparare, messer Pandolfo fu fermo nell’usato pensiero di
farsi signore, e disse di volere cavalcare nel Mugello con la gente
dell’arme che era nella città, ch’era nel torno di dodici centinaia
di barbute; gli otto della guerra gliele interdiceano facendogliene
espressa proibizione, e non senza cagione, avendo rispetto a’ modi per
lui altra volta tenuti, e veggendo la città in grave pericolo: egli per
pertinacia seguendo sua intenzione disse, o che cavalcherebbe, o che
rifiuterebbe l’uficio del capitanato. Gli otto stando pur fermi, per
la città ne surse mormorio e sollevamento di scandalo; onde stando il
popolo insollito sotto ombra di cittadinesca riotta, gli otto temendo
gli concedettono l’andata, e cavalcò con circa a mille barbute, e
in compagnia del conte Arrigo di Monforte, a cui imposto fu per gli
otto che cura all’operazioni di messer Pandolfo poco fidato al comune
avesse; giunti nel Mugello, il conte s’alloggiò nella Scarperia, e
messer Pandolfo nel borgo a san Lorenzo. Occorse in quei giorni, che
circa a trenta della brigata del conte per avventura si scontrarono in
cento o più Inghilesi, e per spazio di due ore insieme si combatterono:
un gentiluomo della brigata del conte nome Arrigo veggendo il soperchio
degl’Inghilesi discese a piede, e con una lancia in mano di sua persona
fè maraviglie, perocchè, secondo che avemmo da persona degna di fede
che si trovò al fatto, con la detta lancia spuose da cavallo da dieci
Inghilesi de’ quali due morirono, e per lo detto atto e per li compagni
che francamente lo seguirono gl’Inghilesi inviliti dierono le reni, e
di loro, massimamente di quelli ch’erano rimasi a piede, alquanti ne
furono presi, alquanti ne rimasono morti nella battaglia. Avemo con
piacere per tanto di ciò fatto ricordo, perchè ne’ nostri dì tanta
prodezza di rado è stata veduta, e per mostrare quanto di valore e di
cuore a un esercito presta non solo il valente capitano, ma eziandio
il valente cavaliere, e così il vile viltà. L’opere d’arme per tenere
gl’Inghilesi stretti erano del conte Arrigo e del conte Ridolfo, ch’era
chiamato il conte Menno, e di loro brigate, ch’altri poco se ne dava
travaglio.


CAP. LXXXVI.

_Come gl’Inghilesi si partirono del Mugello e tornarsi nel piano di
Pistoia._

Gl’Inghilesi essendosi assaggiati co’ Tedeschi e co’ paesani che aveano
cominciato a mostrare loro il volto e a volere de’ loro cavalli,
sentendo che il passare per lo Mugello a san Salvi per i molti
stretti passi era loro pericoloso, e quasi impossibile, e veggendo
il luogo dove s’erano condotti, incominciarono forte a dubitare, ed
era loro di mestiere, se avessono avuto chi avesse voluto attendere
a provvedere contro a loro, come dovea e potea, e tale ne portò mala
fama, massimamente perchè loro faltava la vita e per le bestie e per
le persone, onde loro convenne fuggire alle usate malizie, onde con
sollecitudine mostrarono di volersi alloggiare a san Michele del bosco,
afforzandosi di sbarre e palancati, con mettere pure in loro boce
che riposati alquanto farebbono il cammino di che aveano minacciato a
malgrado di chi non volesse, e ciò faceano per levare le poste alle vie
ond’erano venuti quelli che v’erano tratti a guardare, mostrando d’ire
innanzi non di tornare addietro, e così avvenne, che essendo quelle vie
non guardate, la notte di san Giorgio presono loro via per la valle di
Bisenzio e tornarsi nel piano di Pistoia.


CAP. LXXXVII.

_Come messer Pandolfo Malatesti si partì dal servigio del comune di
Firenze._

Stando messer Pandolfo al Borgo involto in su gli usati pensieri
favorati dal male stato de’ Fiorentini, li cadde nell’animo, ch’essendo
Firenze nel dubbioso e forte partito dove per allora parea che fosse
lo dovesse gareggiare e tenerlo per idolo; onde volendo tentare se il
suo pensiere rispondea col fatto, e per sua parte fè dire a’ signori
di Firenze e agli otto della guerra, che casi gravissimi e poderosi gli
erano occorsi nel suo paese pericolosi allo stato suo, e che a riparare
necessario era che sua persona vi fosse, e li fece pregare che loro
piacesse in tanto bisogno non doverli mancare per dodici o quindici dì
licenziarlo: i signori con gli otto ne tennono consiglio di richiesti,
nel quale muto di dicitori, Bindo di Bonaccio Guasconi disse, che
pensava che ’l gentiluomo, amico egli e sua casa del nostro comune,
dicesse il vero, e che essendo le cose gravi come ponea, non gli andava
per animo che in così breve spazio di tempo come domandava le potesse
spacciare, e che non solo per dodici o quindici dì si licenziasse, ma
per tutto il tempo che sua condotta durava, e che in suo luogo fosse
posto il conte Arrigo di Monforte, e così nel consiglio s’ottenne, e fu
eletto il detto Bindo a ire a messer Pandolfo con piacevole commiato.
Bindo v’andò, e da sè a lui aperto li mostrò tutti i suoi errori, i
quali dal popolo erano stati bene conosciuti, e che agevolmente potea
avvenire, che perseverando in cotali pensieri con opera, forse che un
giorno il popolo li farebbe un sozzo scherzo, al quale non potrebbono
porre riparo nè i signori nè gli otto. Veggendo messer Pandolfo che
questo avviso come gli altri gli era venuto fallito, e tornato in
vergogna, se ne venne a Firenze, e fu a’ signori, e loro disse, che non
ostante che ’l suo bisogno fosse grande, per lo presente vedea quello
del comune di Firenze era maggiore e pertanto e sè e la sua brigata
alle sue spese offeria al comune: di ciò fu ringraziato, e dettoli, che
’l comune non avea nè di lui nè di sua brigata bisogno, onde si partì a
sua posta senza onore di comune, o di privati cittadini.


CAP. LXXXVIII.

_Come gl’Inghilesi e’ Tedeschi co’ guastatori de’ Pisani s’accamparono
a Sesto, e Colonnata, e santo Stefano in pane._

Gl’Inghilesi usciti del Mugello a salvamento insieme co’ Tedeschi
e guastatori s’accamparono a Sesto e Colonnata, e per le coste di
Montemorello, prendendo santo Stefano in pane, e tutte le pianure
d’intorno, dove soprastettono per alquanti giorni, sicchè i guastatori
de’ Pisani ebbono destro a fare male, e arsono palagi e ricchi abituri
e altri casamenti per lo piano, e per le coste di Montemorello per
lo spazio di tre miglia o circa intorno al campo, e riservando a
levare del campo i luoghi che per loro necessità aveano riserbati, e
stando quivi gualdane di loro passarono l’Uccellatoio e Starniano, ed
entrarono in Pescia luogo aspro e riposto, ove trovarono molta roba
rifuggita, oltre n’andarono infino a Calicarza, Montile, e Curliano,
paesi malagevoli assai a cavalcare, senza trovare alcuna contesa.
Ancora infra questo tempo combatterono la Petraia, ch’era loro sopra
capo, e aveanla armata e fornita alla difesa i figliuoli di Boccaccio
Brunelleschi: e nel vero fortemente sdegnavano che sopra tante migliaia
di gente d’arme pregiata e famosa signoreggiasse quella piccola
fortezza in dispregio loro, il perchè si deliberarono di vincerla,
e la prima battaglia colle schiere ordinate fu degl’Inghilesi, dove
con acquisto di vergogna alquanti ne furono morti e molti magagnati,
la seconda de’ Tedeschi in simile acquisto; ultimamente essendo
cresciuta l’onta e ’l dispetto, anzi il levare del campo Tedeschi e
Inghilesi insieme con aspro assalto la combatterono, e niente poterono
acquistare, se non al modo usato danno e vergogna. Di questo avemo
fatta memoria per mostrare, che i privati cittadini in que’ tempi più
erano accorti e valorosi a difendere loro fortezze, che i governatori
del comune quelle della città, e massimamente perchè confortati, che
nel rispetto ch’aveano da’ nemici, e poteanlo fare assai leggermente
nol vollono fare, onde ne risultò gran vergogna al comune. L’invidia e
’l mal talento col poco senno che allora occupava il governamento ogni
virtuoso operare impedia. In sul levare del campo i guastatori pisani
arsono tutti i casamenti che per loro ostellaggi aveano riserbati.


CAP. LXXXIX.

_Come gl’Inghilesi e’ Tedeschi coi guastatori pisani presono il colle
di Montughi e di Fiesole, e combatterono i Fiorentini alla porta a san
Gallo, e fessi Anichino di Bongardo cavaliere._

L’ultimo dì d’aprile i nemici mutando campo presono il colle di
Montughi e di Fiesole, spargendosi per tutte le circostanze infino
a Rovezzano, e il primo dì di maggio per giorno nomato colle schiere
fatte se ne vennono sopra la costa della via di san Gallo di sotto al
podere d’Altopascio, dove erano fatti tre serragli, il primo sopra la
via che va a santo Antonio, l’altro sopra la via che va a san Gallo,
il terzo sopra le case poste sopra via che ne va lungo le mura, e
questo era di carri, dove era il conte Arrigo di Monforte con tutta
la gente da cavallo; a’ primi due serragli erano molti Fiorentini
usciti di volontà, i quali impedivano la buona gente dell’arme ch’erano
alla difesa, e ammoniti da messer Manno Donati, e da messer Bonifazio
Lupo, e da messer Giovanni Malatacca, e dagli altri valenti uomini,
che si tirassono addietro, e lasciassono fare la gente dell’arme, nol
vollono fare, il perchè furono cagione della perdita de’ serragli con
morte e presura di molti di loro. Nello scendere delle schiere un poco
davanti due notabili uomini e pregiati in arme, Averardo Tedesco e
Cocco Inghilese, a lento passo l’uno dall’un lato della via l’altro
dall’altra si calarono giù a’ serragli facendo rilevate prodezze;
seguendo appresso le schiere vinsono e gettarono in terra i detti
due serragli, con danni assai e di morti e di prigioni de’ vogliosi e
disordinati Fiorentini, che s’erano voluti mettere alla difesa contro
a’ buoni uomini d’arme, e contra loro volontà. Averardo passò in sulla
piazza di san Gallo, e con molti che appresso il seguivano infino al
piè delle case a fronte si fè al conte di Monforte, il quale stando
come una massa di ferro mai da’ nemici non fu tentato, tutto che le
frecce degli arcieri inghilesi che scendeano sopra l’altra brigata
sembrassono gragnuola. Dalla porta e antiporta e mura scoccavano le
balestra, e a tornio e a staffa, che il tuono del romore piuttosto
cresceano che facessono danno. Scese le schiere, fuoco fu messo in
sant’Antonio del vescovo, e per simile in molti altri casamenti. In
quel fuoco, in quel tumulto, in quelle grida Anichino di Bongardo
si fè cavaliere in sulla costa della via che vede la porta, con
tanti suoni, con tante grida, che parea che ’l cielo tonasse, ed
egli fè cavaliere messer Averardo e più altri, come se fatti fossero
in battaglia campale: e ciò fatto, fu sonato a ricolta, e tutti,
accortamente senza impaccio si ritrassono addietro chi a Montughi e
chi a Fiesole, e la notte con l’ordine dato tra loro feciono la festa
de’ cavalieri novelli, la quale fu in questa forma: che le brigate
a cento i più a venticinque i meno con fiaccole in mano si vedeano
danzare, e l’una brigata si scontrava con l’altra gittando talora le
fiaccole, e ricevendole in mano, e talora mettendole a giro, e a modo
d’armeggiatori seguendo l’un l’altro ordinatamente, e queste fiaccole
passavano le duemila, con gran gavazze di grida e stromenti; e per
quello che s’intese dalle brigate ch’erano nel piano vicino alle mura
dispettose parole usavano contra il comune di Firenze, e intra l’altre,
Guardia studia i collegi, manda pe’ richiesti, e simili parole usate
nel palagio de’ priori, le quali erano intese e da quelli che erano
in sulle mura e da quelli ch’erano da piè. E per dileggiare il popolo
di Firenze in sulle tre ore di notte quetamente mandarono un loro
trombettino e un tamburino in sul fosso delle mura della Porta alla
croce, i quali sonando come a stormo, il popolo di Firenze tutto si
commosse a romore, correndo boci per la terra che i nemici aveano prese
le mura dove le bertesche erano fatte, e che parte di loro n’erano
dentro discesi. La paura fu sopra modo, e i cittadini come smemoriati
correvano qua e là per la terra, e le femmine poneano le lucerne alle
finestre, e con lamenti l’armavano di pietre. La cosa nel suo aspetto
a vedere orribile era, ma saputo il vero, subitamente si racchetò il
bollore fatto in danno e vergogna come detto è. Il seguente dì 2 di
maggio schierati tutti passarono Arno di sotto alla Sardigna assai
presso alla città, e puosono campo a Verzaia stendendosi infino a
Giogoli e Pozzolatico e per Arcetri, ardendo tutto infino presso alle
mura; e sopra questo con le schiere fatte, e con le loro barbare strida
e suoni di stromenti da battaglia vennono verso la porta di san Friano
per combattere nella forma che fatto aveano a quella di san Gallo. I
nostri che ne’ giorni passati s’erano assaggiati con loro, e trovato
aveano ch’erano uomini e non leoni, aveano armato il casamento delle
monache da Verzaia, e quivi fatte le sbarre ricevettono francamente
il baldanzoso assalto, rispondendo loro co’ ferri in mano in modo e
forma che li ributtarono indietro con molti fediti e alcuni morti, il
perchè niente avanzando se non danno e vergogna si ritrassono al campo:
bene arsono allora sopra il ciglio della città Bellosguardo e molte
altre belle e ricche possessioni e palagi, e soprastati per alquanti
giorni, per dare agio ai fediti loro i quali passavano il numero di
duemila, veggendo che i Fiorentini s’ausavano all’arme, e andavano
a riguardo, sicchè poco con loro poteano avanzare, e che le brigate
che uscivano di notte sì de’ cittadini come de’ contadini, che erano
trafitti e aveano bisogno di ristorarsi, stando essi sparti baldanzosi,
e per dispetto quasi senza guardia veruna, e di prigioni e di cavalli
e d’uccisioni li danneggiavano forte, si partirono. Il lor viaggio fu
sopra san Miniato a monte, e sopra l’Ancisa passando per lo Valdarno,
e loro albergheria fu al Tartagliese, e il seguente dì feciono vista
di combattere la Terranuova, dove trovato la risposta, con alquanti
di loro morti e magagnati si partirono, e così mollemente tentarono
dell’altre terre del Valdarno, il perchè aperto s’intese che per
quella via gli avea volti il danaio: che usciti del contado di Firenze
in su quello d’Arezzo, e trovandolo sgombro, passarono su quello di
Cortona, e quindi in su quello di Siena facendo danno assai d’arsioni
prigioni e prede, infine voltisi per la Valdelsa e per la Valdinievole
si fermarono in su quello di Pisa a san Piero in campo. Quivi vollono
vedere la rassegna delle loro brigate, dal tempo ch’entrati erano in
sul Fiorentino, e trovarono che più di seicento buoni uomini d’arme
aveano perduti, e oltre a duemila n’erano fediti, de’ quali assai
poscia perirono.


CAP. XC.

_Come il conte Arrigo di Monforte capitano de’ Fiorentini prese e arse
Livorno._

Nel paesare e nel raggiramento che messer Anichino di Bongardo faceano
in su quello d’Arezzo insieme con gl’Inghilesi, come abbiamo detto,
il conte Arrigo di Monforte capitano de’ Fiorentini, e con lui il
conte Giovanni e il conte Ridolfo colle brigate loro de’ Tedeschi,
ch’erano con quelli del conte Arrigo millecinquecento barbute, e
con l’altra gente di cavallo de’ Fiorentini ch’erano per le castella
alle frontiere, la quale fè adunare in san Miniato del Tedesco, e con
cinquecento balestrieri scelti, e più con assai Fiorentini a cavallo
e a piè che di volontà l’aveano voluto seguire, e col consiglio di
messer Manno Donati, e di certi degli altri provvisionati, de’ quali
di sopra facemmo menzione, fatto fornimento da vivere per quindici
giorni, venerdì mattina a dì 21 di Maggio 1364 si partì di san Miniato
del Tedesco, e la sera prese albergo su l’Era vicino al castello di
Gello, e il sabato mattina passando vicino di Pisa, e facendo quel
danno che fare si potea s’accampò a san Piero in Grado. E in quel
giorno vennono a Pisa di Lombardia millequattrocento uomini di cavallo
sotto nome di compagnia, i quali veniano per pigliare inviamento di
loro mestiere in Toscana. I Pisani vedendosi improvviso giugnere questa
ventura loro donarono duemila fiorini d’oro, ed elli coll’altra gente
loro che rimasa era in Pisa, come soperchio a’ Tedeschi e Inghilesi che
cavalcati erano in sul Fiorentino, e con parte del popolo andassono
a combattere co’ Fiorentini ch’erano accampati a san Piero in Grado,
e così promisono di fare, e preso rinfrescamento, con la gente e col
popolo uscirono di Pisa schierati, e a pian passo contro i nemici. Il
conte di Monforte sollecitato era molto da messer Manno che passasse
il ponte allo Stagno contro Livorno, ed egli dubitando forte stava
sospeso, e per conforto che fatto gli fosse non si attentava a passare
quello lagume, e non sapere dove, se non quando vidde il gran polverio
della gente ch’usciva di Pisa, quindi mosse passo, e di presente
messer Manno chiamò Filippone di Giachinotto Tanaglia, che quivi
appresso di lui era, e prese due scuri in mano tagliarono due pali in
su che si posava il ponte, e lo feciono nello stagno cadere, e a pena
aveano fornito il servigio che i Pisani sopraggiunsono e per acqua e
per terra. Messer Manno conoscea tutti i soldati che praticavano in
Lombardia, e pertanto domandò di volere parlare con alcuno di loro
caporali, e tantosto vennono parecchi, e con lieta accoglienza lo
viddono, rallegrandosi ch’aveano cessato materia di zuffa, e a lui
dissono, che aveano ricevuto duemila fiorini d’oro perchè commettessono
battaglia con loro, e che credeano che i Pisani attenderebbono a loro
persecuzione, ma che essi per suo amore lentamente procederebbono, e
da lui preso congio, a passi scarsi si tornarono verso Pisa. E in ciò
cadde perdimento di tempo a’ Pisani, utile e necessario alla gente de’
Fiorentini, come può qualunque intendente udendo il fatto comprendere,
perocchè deliberarono i Pisani che la detta gente cavalcasse a
Montescudaio, e togliesse il passo a’ Fiorentini, e se ciò fosse per
mala fortuna avvenuto, senza dubbio tutta la gente ch’era in quella
cavalcata era perduta. La detta gente la sera soprastette in Pisa,
e la mattina seguente persono tempo tra nell’armarsi e mettersi in
ordine. I Fiorentini in quel giorno che passarono il ponte allo Stagno
presono Porto pisano e Livorno, e trovaronlo sgombro, perocchè quelli
che dentro v’erano diffidandosi di poterlo tenere da tanto sforzo,
prestamente si diedono allo sgombrare fuggendo loro famiglie e cose,
e così le mercatanzie in mare in su le navi, che solo una balla di
panni e una ricca cortina nel fondaco trovato non fu, or non di manco
messo in preda quello che trovato vi fu, il conte fece ardere la terra.
Messer Manno udito il generale avviso della gente dell’arme che s’era
data a servire a’ Pisani, come uomo avvisato e pratico de’ casi che
sogliono ne’ fatti dell’arme avvenire, subito gli corse in pensiero,
che i Pisani non rivolgessono quella gente in Maremma a tor loro il
passo di Montescudaio, e cominciò forte a dubitare, e avvisonne il
capitano, e vennono presto a’ rimedi, perocchè messasi innanzi la gente
da piè, perchè del camminare avessono più agio, e rinfrescato alquanto
i loro cavalli, alle tre ore di notte presono viaggio, e dirizzaronsi
verso Montescudaio per vie montuose e aspre e malagevoli, e tutta
quella notte senza arresto cavalcarono, e il seguente dì con dare poco
d’agio alle bestie e a loro misono in cavalcare come fossono in fuga, e
alle tre ore di notte uscirono del passo di Montescudaio, e ridussonsi
in su quello di Volterra in luogo sicuro, trovandosi avere camminato in
ventiquattro ore miglia trentotto di pessima via. E in quella medesima
notte circa alle sette ore la gente de’ Pisani giunse a Montescudaio
per torre il passo, e trovando che i Fiorentini erano passati, dello
scorno che loro parea avere ricevuto presono cordoglio. Emmi stato
piacere particolarmente narrare questa particella di storia per
dimostrare quello che può e fa la fortuna nelle maledette confusioni
delle guerre. Ben furono di quelli che vollono dire, che la cavalcata
era stata di coscienza de’ Pisani, perchè pace si potesse cercare, e
se vero fu, alla Pisanesca bel tratto faceano, avendo il caso fortuito
loro prestato la gente dell’arme, colla quale stimarono poterlo fare, e
assai presso vi furono.


CAP. XCI.

_Come il corpo del re Giovanni di Francia fu trasportato di Londra a
Parigi, e come onorato._

Per tramezzare alquanto la continuanza delle scritture nella guerra
tra’ Fiorentini e’ Pisani ne occorre di scrivere, che ’l dì primo di
maggio il corpo del re Giovanni di Francia di Londra ne fu portato a
santo Antonio presso a Parigi la sera, e quivi per onorarlo e farne
l’esequie reale stette quattro giorni, e a dì 5 detto mese ne fu
portato a nostra Donna di Parigi accompagnato da tutte le processioni
delle chiese e regole di Parigi, e da tre suoi figliuoli, ciò furono,
Carlo primogenito delfino di Vienna e duca di Normandia, Luigi duca
d’Angiò, Filippo duca di Torenna lo più giovane di tutti, e fuvvi lo
re di Cipri, Giovanni duca di Berrì era in Inghilterra: e portarono il
corpo del detto re quelli di parlamento secondo loro uso; e ciò è di
ragione, perchè elli rappresentano la giustizia in luogo del re: e a dì
6 si disse la messa, e subito il corpo ne fu portato a santo Dionigi,
seguendo appresso d’esso i suoi tre figliuoli Carlo Luigi e Filippo, e
il re di Cipro, e sopra i franchi della villa, poi montati a cavallo
infino a santo Dionigi, e a dì 7 si fè l’esequio a santo Dionigi. E
seppellito il detto corpo con grande onore, tantosto appresso Carlo suo
primogenito se n’andò in un pratello, e appoggiato ad un fico ricevette
più omaggi da’ peri di Francia e da’ grandi baroni, e a dì 9 si partì
per andare a Rems a prendere la corona.


CAP. XCII.

_Come messer Beltramo de Cloachin sconfisse il luogotenente del re di
Navarra in Normandia._

Nel detto anno a dì 16 dì Maggio, messer Beltramo de Cloachin si
combattè davanti Choncel presso alla Croce di san Leffon contra al
Captal del Comuff luogotenente del re di Navarra in Normandia, e fu il
detto Captal sconfitto e preso, e la maggior parte di sua gente morta
e presa; e per avere il detto Captal lo re di Francia diede al detto
messer Beltramo tutta la Longavilla e la Giusfort ch’erano state del re
di Navarra. E lo re di Francia ec.

_Qui manca il fine di questo capitolo con tre altri capitoli delle
rubriche che erano così intitolati._


CAP. XCIII.

_Come Carlo primogenito del re di Francia fu consegrato a Rems a re di
Francia._


CAP. XCIV.

_Come si combatterono messer Carlo di Bos duca di Brettagna, e messer
Gianni di Monforte._


CAP. XCV.

_Come i Fiorentini con la forza del danaio ruppono la compagnia de’
Tedeschi e Inghilesi, e levaronla da provvisione de’ Pisani._

_Per supplire in parte a ciò che manca in questo luogo nel codice
Ricci, ecco ciò che ne fornisce l’Epitome dell’Istorie dei tre Villani
di Domenico Boninsegni, che poco addietro ho citato._

«Essendo le genti de’ Pisani a san Piero in campo, e i Fiorentini
vedendosi mancare la speranza della Compagnia della Stella, per
operazione di messer Galeazzo, e della gente della Magna, cercarono
accordo con gl’Inghilesi e’ Tedeschi ch’erano presso alla fine di loro
condotta, e i Pisani cercavano di riconducerli, pure vinsero l’opere
de’ Fiorentini, che già segretamente avevano dato ad Anichino novemila
fiorini quando erano in sul contado di Firenze, e alla sua brigata
ne donarono trentacinque migliaia, e agl’Inghilesi settantamila, e
tutti si partirono dal servigio de’ Pisani, eccetto Giovanni Aguto con
milledugento Inghilesi: e anche in segreto feciono patto con messer Ugo
della Zucca e altri Inghilesi. I patti con queste compagnie in sostanza
furono, che per cinque mesi non sarebbono contro il nostro comune, o
suoi sudditi o accomandati in alcun modo; anzi tutti n’andarono in su
quello di Siena a predare e ardere, per merito di quello feciono alla
Compagnia del cappelletto soldati nostri.»


CAP. XCVI.

_Come i Fiorentini presono in capitano di guerra messer Galeotto
Malatesti._

«Fatto l’accordo che di sopra è detto, parve a’ governatori di Firenze
necessario d’avere un capitano italiano, e procacciando messer Galeotto
Malatesti, secondo si disse, per cancellare la disgrazia con la quale
s’era partito il suo nipote, infine l’ottenne, e fu eletto nostro
capitano, con assai ammirazione di molti agli scherni ricevuti dal
nipote, e venne in Firenze a dì 17 di luglio a ore ventuna per i
consigli d’astrolagi. E innanzi che scendesse da cavallo appiè della
porta del palagio de’ priori con le usate solennità prese il bastone e
l’insegne, e lui diè quella de’ feditori al conte Arrigo di Monforte,
e fecelo vece capitano; la reale diè a messer Andrea de’ Bardi, e
altre ad altri cittadini, e senza arresto uscì di Firenze, e posate
l’insegne in Verzaia tornò in Firenze, e per intendersi co’ signori
e altri uficiali dell’informazione della guerra, e soprastette alcuni
dì, perchè voleva piena balìa di potere dare a sua volontà a’ soldati
paga doppia e mese compiuto.» Alla fine essendo fuori le insegne, ed
egli stando pertinace, per lo meno male e meno vergogna di comune
la sua domanda fu messa a esecuzione, la quale i sottili venditori
non ebbono per meno che domandare giurisdizione di sangue. Avuto suo
intendimento, mosse a dì 23 del mese di giugno, accompagnato infra gli
altri da trecento cittadini ben montati e riccamente armati, i quali
spontaneamente vi cavalcavano per vendicare l’ingiurie de’ Pisani
novellamente fatte al loro comune.


CAP. XCVII.

_Battaglia tra’ Fiorentini e’ Pisani fatta nel borgo di Cascina, nella
quale i Fiorentini furono vincitori._

Domenica, a dì 29 di luglio anni 1364, rivolto l’anno che nel
medesimo giorno i Pisani aveano corso il palio al ponte a Rifredi,
fatti cavalieri, battuta moneta, impiccati asini, e fatte molte altre
derisioni e scherne a’ Fiorentini, messer Galeotto Malatesti capitano
de’ Fiorentini, movendo la notte dinanzi campo da Peccioli, la mattina
s’accampò ne’ borghi di Cascina presso di Pisa a sei grosse miglia,
ma di via piana e spedita, e infra il giorno per lo smisurato caldo
le tre parti e più dell’oste, che erano oltre di quattromila uomini
di cavallo che di soldo, che d’amistà, e che de’ Fiorentini, che per
onorare loro patria di volontà erano cavalcati, e di undicimila pedoni,
s’era disarmata, e quale si bagnava in Arno, quale si sciorinava al
meriggio, e chi disarmandosi in altro modo prendea rinfrescamento.
E il capitano, sì perchè molto era attempato, sì perchè del tutto
ancora libero non era della terzana, se n’era ito nel letto a riposare
senza avere considerazione quanto fosse vicino all’astuta volpe, e
al volpone vecchio Giovanni dell’Aguto, e tutto che al campo fossono
fatti serragli, deboli erano, e cura sufficiente non era data a chi
li guardasse; il perchè avvenne, che il valente cavaliere messer
Manno Donati, come colui a cui toccava la faccenda nell’onore, andando
provveggendo il campo e i modi che la gente dell’arme tenea, conosciuto
il gran pericolo in che il campo stava, e temendo che nel fatto non
giocasse malizia, e dove no, quello che ragionevolmente secondo uso
e costume di guerra ne dovea e potea avvenire, e tantosto n’avvenne,
mosso da fervente zelo incominciò a destare il campo, e dire, noi
siamo perduti, e con queste parole se n’andò al capitano, e lo mosse
a commettere in messer Bonifazio Lupo e in altri tre e in lui la cura
del campo; ciò fatto messer Manno di subito corse al più pericoloso
luogo, e donde l’offesa più grave e più pronta potea venire, cioè alla
bocca della strada che si dirizzava a san Savino e quindi a Pisa, e
il serraglio il quale era debole fece fortificare, e alloggiovvi alla
guardia i fanti aretini con alquanti pregiati Fiorentini, e con loro i
fanti de’ Conti di Casentino; e perchè nel capo li bolliva per diversi
e ragionevoli rispetti quello che di presente ne seguì, aggiunse
alla guardia messer Riccieri Grimaldi con quattrocento balestrieri
genovesi. I Pisani avendo per loro spie e dai luoghi vicini al campo,
e massimamente da san Savino, dello sciolto e traccurato reggimento
del campo, ma non della provvisione fatta per messer Manno, perchè al
fatto fu troppo vicino, conferito con Giovanni dell’Aguto sopra la
materia, infine in lui commisono il tutto dell’impresa, e il popolo
animoso e voglioso a furore presa l’arme nelle braccia sue si pose
con lieta speranza di vittoria, quasi siccome non dovesse potere
perdere. Giovanni Aguto preso il carico senza perdere punto di tempo
diede ordine a quanto fu di mestiere, e uscì col popolo di Pisa, e fè
capo a san Savino, e come mastro di guerra fè il campo de’ Fiorentini
per tre riprese assalire da gente che prima era fuggita che giunta,
affinchè i nemici attediati non conoscessono il vero assalto quando
venisse, e venneli fatto, che ’l campo fu tre volte mosso ad arme dal
campanaro indarno, e il capitano turbato di suo riposo fè comandare
al campanaro alla pena del piè, che che che si vedesse non sonasse
senza licenza sua. Appresso il detto Giovanni aspettò la volta del
sole, perchè i raggi fedissono nel volto de’ nemici, e a’ suoi nelle
spalle. Ancora per la pratica ch’avea del paese conobbe, che a tale
ora surgea un’aura che la polvere venia a portare negli occhi de’
nemici. Solo in uno per gl’intendenti giudicato fu che egli errasse,
che non misurando le miglia da san Savino a Cascina, che sono quattro
di polveroso e rincrescevole piano, nè avendo rispetto alla fiamma del
sole che divampava il mondo, nè al grave peso dell’arme, fidandosi
nella gioventù e prodezza de’ suoi Inghilesi nati e cresciuti nelle
guerre di Francia, a’ quali per animarli e soperchiare ogni fatica
e ogni paura avea messo che nel campo erano quattrocento Fiorentini,
tal buono prigione per mille, tale per duemila fiorini, e del tutto
ignoranti dell’arme, esso fè tutta gente scendere a piè, il perchè
lassi e mezzi stanchi giunsono al campo. Mosselo a ciò fare due
ragioni, l’una perchè la gente a piè più chetamente cavalca, l’altra
perchè leva meno polverio, immaginando, come avvenne, che prima fossono
al campo che sentiti, e così prendere il campo di furto prima che
si potesse ordinare: e tutte le dette cose fatte furono per Giovanni
Aguto, che niente ne sentì messer Galeotto, o per difetto di spie, o
perchè poco curasse ciò che potessono fare i nemici, e questo è più da
credere. Adunque messi nella prima fronte delle schiere quelli aspri
e duri Inghilesi cui tirava la voglia della preda, tutto l’esercito
fè muovere quando gli parve, e prima i suoi Inghilesi furono vicini
alle sbarre che da’ nostri fossono sentiti. Il romore e le strida del
subito assalto a’ nostri furono le spie. I fanti che posti erano alla
guardia del luogo, i quali per lo giorno furono assai più che uomini,
francamente presono l’arme non curando le spaventevoli strida, ma
ordinati di subito alla resistenza non si lasciarono torre una spanna
di terra. E il valente messer Riccieri Grimaldi compartiti i suoi
balestrieri dove necessario gli parve, e allogatine gran parte nelle
ruine delle case, le quali erano di mattoni, e pertugiate e di costa a’
nemici, confortandoli a ben fare, e sollecitandoli dolcemente e qui e
quivi a rinterzare colla forza de’ verrettoni rintuzzò la fiera rabbia
de’ baldanzosi nemici. Mentre che la battaglia era e quinci e quindi
animosamente attizzata alle sbarre, il vero grido del fatto come era
senza suono di campana o altro sollecitamento di capitano corse per lo
campo e lo strinse ad armare, e il primo che giunse al soccorso alle
sbarre, come quelli che temendo sempre stava in punto, fu messer Manno
Donati, il quale veggendo quivi soprabbondare gente da cavallo, per
non stare indarno uscì con tutta sua brigata del campo, e percosse i
nemici ne’ fianchi, conturbando gli ordini loro, e facendo loro danno
assai; e in poca d’ora vennono alle sbarre il conte Arrigo di Monforte
colla insegna de’ feditori, e con lui il conte Giovanni e il conte
Ridolfo chiamato dal volgo il conte Menno, e costui come giunse alle
sbarre le fè gettare in terra, e si avventò sopra i nemici facendo
colla spada cose da tacerle, perchè hanno faccia di menzogna. Per
simile il conte Arrigo co’ suoi Tedeschi sollecitando i cavalli colli
sproni senza averne riguardo contro a’ nemici gli ruppono, passando
tutte loro schiere infino alle carra che da Pisa recavano e veniano
con vino per rinfrescare loro brigata. Il sagace messer Giovanni
dell’Aguto, il quale era nell’ultima schiera co’ suoi caporali e altri
pregiati Inghilesi, avendo compreso che la testa delle sue schiere non
era di fatto entrata nel campo come si credette, e che la resistenza
era dura, si giudicò vinto, e senza aspettare colpo di spada di buon
passo co’ detti caporali si ricolse a san Savino, dove aveano lasciati
i loro cavalli, lasciando nelle peste il popolo de’ Pisani faticato, e
poco uso e accorto negli atti dell’arme. I Genovesi Aretini e’ fanti
dell’Alpe come vidono rotte le schiere de’ Pisani, e mettersi in
fuga, seguitando la caccia ne presono assai. Essendo adunque per gli
Aretini Fiorentini e’ fanti del Casentino alle sbarre ben sostenuta
la puntaglia de’ nemici, e mezza vinta loro pugna, per i balestrieri
genovesi e per i Tedeschi in poco tempo recati a fine, il capitano fè
muovere l’insegna reale, la quale per spazio d’un miglio o poco più si
dilungò dal campo, sotto il cui riguardo assai d’ogni maniera si misono
a perseguitare i nemici, e trovandoli sparti in qua e in là, lassi e
spaventati, ne presono assai. Stando la cosa in estrema confusione
per i Pisani, per alcuni valenti e pratichi d’arme, parendo loro
conoscere il vantaggio, consigliato fu messer Galeotto che seguitasse
la buona fortuna, la quale li promettea la città di Pisa: rispose,
che non intendea il giuoco vinto mettere a partito, e più fè, che
tantosto fè sonare alla ricolta, sotto il dire che temea degli aguati
de’ sottrattori e sagaci nemici; onde molti che sarebbono stati presi
ebbono la via libera a fuggirsi, e massimamente gl’Inghilesi ch’erano
fediti e rifuggiti in san Savino, nè osavano sferrarsi de’ verrettoni
che giunti in Pisa, dov’ebbono solenni medici, e in pochi giorni gran
numero ne perì. Tornato il capitano al campo, e cercato il luogo dove
fu la battaglia, assai vi si trovarono morti, ma molti più il seguente
dì per le fosse e per le vigne, quale per stracco, quale di ferite, e
molti colla sete in Arno mettendovisi dentro vi annegarono. Stimossi
che i morti per detta cagione passassono i mille: i presi furono
vicini a duemila, de’ quali tutti i forestieri furono lasciati, e i
Pisani presi da quelli ch’erano venuti al servigio del comune si furono
loro. Tutta gente di soldo fu per messer Galeotto in segreto istigata
e sollecitata a domandare a lui paga doppia e mese compiuto, ed egli
per la balìa presa dal comune la promesse loro, che montò a dannaggio
del comune circa a centosettantamila fiorini e più, perchè presa la
speranza della detta promessa gran quantità di ricchi e buoni prigioni
i soldati trabaldarono, e feciono con poca di cortesia riscuotere.
Forte e molto diè che pensare a quelli savi e valenti cittadini, che in
que’ giorni si trovarono nel numero de’ reggenti, messer Galeotto, il
più famoso uomo allora d’Italia in cose militari e in podere d’arme,
meritasse d’essere in tal forma assalito nel campo da uomo non meno
famoso nè meno saggio in simili atti di lui, e che esso fosse l’autore,
che i soldati per difendere il campo contro buono uso di gente d’arme
pertinacemente volessono eziandio e con minacce e atti disonesti paga
doppia e mese compiuto, le quali cose diligentemente ponderate furono
cagione d’affrettare il trattato della pace, dando di ciò pensiere ad
alquanti discreti e intendenti cittadini. Ma noi tornando al processo
della guerra, il dì seguente, che fu l’ultimo di luglio, messer
Galeotto, con tutto l’esercito e con i prigioni, girandosi pure vicino
a Pisa per tornarsene a san Miniato del Tedesco assai bene in ordine e
colle schiere fatte, in quello cavalcare fè cavaliere Lotto di Vanni da
Castello Altafronte, giovane di gentile aspetto, e degli accomandati al
comune di Firenze, Piero de’ Ciaccioni di san Miniato, e Bostolino de’
Bostoli d’Arezzo.


CAP. XCVIII.

_Come furono assegnati i prigioni al comune da’ soldati, ed entrarono
in Firenze in sulle carra._

Essendo condotti i prigioni pisani in Monticelli fuori della porta
a san Frediano di Firenze, alquanta di resistenza in parole feciono
i soldati di non darli se certi non fossono di paga doppia e mese
compiuto, e conobbesi essere moto altrui e a mal fine; il perchè
ricevuta speranza d’averla da quelli savi cittadini che con loro
ne parlarono, diedono liberamente i prigioni, i quali ricevuti con
dispettoso e vile spettacolo, col capitano, con l’insegne, e con la
gente dell’arme furono messi in città, perocchè i popolani di basso
stato con alquanti d’un poco meno che mezzano furono allogati in sulle
carra, e furono quarantaquattro carrate; a’ nobili e gente da bene fu
conceduto il venire a cavallo. E innanzi che questa pompa entrasse
nella città, tutte le campane del comune cominciarono a sonare alla
distesa acciocchè tutto il popolo traesse a vedere, e dinanzi alle
carra tutti gli stromenti e suoni del comune, e così quelli della
parte guelfa, vista certamente esemplare di diversa e varia fortuna,
verificante quello disse David, che disse: Vario è l’avvenimento della
guerra, e quinci e quindi consuma il coltello. I prigioni furono
allogati nelle prigioni del comune il più abilmente che si potè, e
dalle buone e pietose donne fiorentine a gara furono abbondantemente
provveduti di tutto ciò che loro bisognava.


CAP. XCIX.

_Come la parte guelfa di Firenze prese a far festa di san Vittore, e
perchè._

In questa vittoria universale che s’ebbe del popolo di Pisa, la quale
non pensata nè cercata fu, ma piuttosto recata, perchè singulare, e fu
nel giorno che la santa Chiesa fa festa di san Vittore papa e martire
glorioso, la parte guelfa di Firenze ad eterna memoria di tanto fatto
prese di fare festa in Firenze ogni anno di san Vittore divotamente,
come a patrone de’ guelfi, a similitudine come san Barnaba: e feciono
in santa Reparata fare una cappella in reverenza del detto santo, con
intenzione di migliorarla, perchè venendo la chiesa a sua perfezione
stare non può quivi dov’è, e ogni anno vi fanno solennemente celebrare
la sua festa con bella offerta della parte, e poi nel giorno fanno
correre un ricco palio di drappo a figure foderato di drappo vergato:
e vollono e tennono che l’arti guardassono il giorno, e così l’altro
popolo.


CAP. C.

_Come la gente dell’arme del comune di Firenze prese tira di non
cavalcare, e quello ne seguì._

Fatta la festa de’ prigioni, per contentamento del popolo, che non
si potea vedere sazio di vendetta dell’ingiuria in ultimo fatta per i
Pisani con la forza d’Anichino di Bongardo e degl’Inghilesi, tutta la
gente del comune col capitano uscì fuori per cavalcare in su quello
di Lucca, ma imbizzarrita sopra volere paga doppia e mese compiuto,
come da altrui erano nel segreto inzigati, si fermò fra Montetopoli
e Marti, e quivi stettono infino a dì 18 d’agosto assai in atti e
in parole turbata contro al nostro comune: in fine vinta la gara e
conseguito loro intento per meno male, cavalcarono i nemici afflitti
e tribolati oltre a modo, e a dì 28 del mese messer Galeotto fermò
l’oste a san Piero in campo. Bene avvenne infra il tempo, che essendo
condotti gl’Inghilesi dal comune di Firenze, andarono per ubbidire il
capitano, e puosono di per sè campo, e, o che i Tedeschi sollevati da
sagace ingegno per vedere peggio, o pur perchè la gloria dell’arme
non potessono patire di vedere gl’Inghilesi, il seguente dì vennono
a riotta con loro, e ordinati e provveduti gli assalirono al campo
di ciò niente pensati. La zuffa fu aspra e pericolosa assai, e quinci
e quindi ne morirono, e molti ne furono magagnati. Gl’Inghilesi loro
campo francamente difesono, tutto che predati e soperchiati fossono
da’ Tedeschi, come sprovveduti: e quel giorno il capitano con gli altri
caporali del campo loro feciono fare triegua per tre dì, e il seguente
dì poi per quindici. E in quello inviluppamento il capitano con tutta
la gente dell’arme, eccetto gl’Inghilesi che si rimasono al campo
loro, cavalcarono in su quello di Lucca, e feciono campo nel borgo
di Moriano, facendo danni e prede assai. I Fiorentini per dilungare
gl’Inghilesi da’ Tedeschi glie ne mandarono nel Valdarno di sopra. In
queste tenebre e confusioni i governatori del comune di Firenze per
fuggire la grande e incomportabile spesa dell’arme, e’ loro dangieri
e pericoli, come fu tocco in parte di sopra, e ne’ segreti e pubblici
consigli determinarono che a pace si venisse, e cura ne dierono a dieci
buoni e discreti cittadini; e infra il tempo l’ambasciadore del santo
padre col favore degli ambasciadori de’ comuni di Toscana duplicando
essa sollecitudine, perchè vedeano le cose de’ Pisani per ire in
fascio, e in mala parte e tosto, tanto sollecitarono, che i Pisani
mandarono loro solenni ambasciadori alla terra di Pescia con mandato
pieno a conchiudere la pace. Il comune di Firenze appresso vi mandò
messer Amerigo Cavalcanti, messer Pazzino degli Strozzi, messer Filippo
Corsini, messer Luigi Gianfigliazzi, e Gucciozzo de’ Ricci per simil
modo col mandato larghissimo, nè però tanto, che li quinci e li quindi
disposti alla pace tanto seppono e poterono onestamente avacciare, che
Giovanni dell’Agnello, tutto sollevato e disposto dal consiglio e caldo
di messer Bernabò a farsi signore di Pisa, più non avacciasse a farsi
signore, prevenendo la pace la quale gli tagliava ogni suo pensiero e
rendevalo vano.


CAP. CI.

_Come Giovanni dell’Agnello si fece signore di Pisa sotto titolo di
doge._

Giovanni dell’Agnello cittadino di Pisa di gesta popolare, per
antichità di sangue non chiaro e per ordine mercatante, piuttosto
scaltrito e astuto che saggio, presuntuoso a maraviglia e vago di cose
nuove, e sopra tutto sollecito, questi era in questi giorni tornato
da messer Bernabò dove ito era per ambasciadore del suo comune, e col
tiranno avea tenuto trattato che i Pisani fossono suoi accomandati,
ed egli gli atasse con darli delle terre loro, e per detta cagione da
lui ebbe in prestanza trentamila fiorini. Di questo trattato nacque il
baldanzoso parlare e pensiero di Giovanni dell’Agnello di farsi signore
di Pisa, immaginando che venendo Pisa e le membra sue a tiranno, i
Fiorentini fossono più contenti di lui che di messer Bernabò. Essendo
adunque Pisa sospesa, in tremore e spavento, e più volte abbandonati
dalla speranza della pace, feciono un gran consiglio di più gravi e
notabili cittadini della terra, nel quale fu messer Piero di messer
Albizzo da Vico, avanti che andasse per ambasciadore di Pisa alla terra
di Pescia per conchiudere la pace, e il consiglio fu di provvedere a
loro stato: e intra gli altri vi fu il detto Giovanni dell’Agnello, il
quale era reputato buono mercatante e fedele cittadino; costui levato
in consiglio osò dire, che necessario li parea che si venisse a signore
per un anno, dirizzando il suo parere che quel fosse messer Piero di
messer Albizzo da Vico dottore di legge, il quale con ogni istanza che
seppe quel carico rifiutò, e fulli cagione di affrettare sua gita a
Pescia ad accozzarsi con gli ambasciadori fiorentini. Veggendo Giovanni
contradire a messer Piero, come stimò, si rimise a consigliare che
pure convenia a uno degli altri pigliare quella sollecitudine, cura
e gravezza: e allora ser Vanni Botticella, anticamente per genia di
beccaio, s’offerse di prendere quel carico. Giovanni dell’Agnello
disse, che buono e sufficiente era, ma che gli bisognava d’avere
trentamila fiorini al presente per pagare la gente dell’arme: a
questo rispose ser Vanni non si sentire sofficiente, e per quel giorno
rimasono, che ogni uno si pensasse d’uno che a ciò fosse sofficiente,
e altra volta tornasse il consiglio. Di questo strano ragionamento
e spaventevole consiglio surse, che uno de’ seguenti dì in sul fare
della sera molti buoni e cari cittadini, avendo presa sospezione e
gelosia del dire del detto Giovanni così affettatamente in consiglio e
con fronte pertinace, e perchè nel mormorio del popolo voce correa che
esso facea ragunata di fanti, s’andarono ad armare, e armati insieme se
n’andarono al palagio degli anziani, e questo tantosto venne a notizia
di Giovanni dell’Agnello, che continovo stava in sentore, ed egli
pensando che farebbono quello che feciono, sagacemente e prestamente si
mise a’ ripari, e i fanti che egli avea stribuì per le case di certi
suoi fidati e singolarissimi amici, e alla moglie e alla famiglia
di casa ordinò tutto ciò che dovessono fare, ed egli con l’arme
celata ond’era vestito con una fonda cappellina in capo se n’andò nel
letto, e la moglie fece ire allato appresso di lui. Come fu venuta
la notte, i cittadini con la volontà degli anziani e con la famiglia
loro se n’andarono a casa Giovanni dell’Agnello, e come ordinato era
per lui, di presente fu aperta la porta, ed essi di subito presono
viaggio alla camera d’esso Giovanni, e l’udirono russare e sembrare
veramente dormire, come uomo che gran bisogno n’avesse. La donna,
come ammaestrata era, con tutto il petto nudo si levò in sul letto a
sedere, dicendo a’ cittadini che bisogno avea di posare, ma se voleano
lo svegliasse che lo farebbe; i cittadini preso vergogna della veduta
della donna, e fede della libera dimostrazione della camera e della
casa, togliendo il parlare della donna, per semplice, si partirono
della camera e della casa, e si tornarono agli anziani, e riferirono
loro tutto ciò che aveano trovato, onde posto giù il sospetto, ciascuno
si tornò a casa sua, e posta giù l’arme diede suo pensiere a dormire.
Giovanni dell’Agnello, che con Giovanni dell’Aguto avea temperato la
cetera, temendo che la dilazione del tempo nel quale il fatto si potea
palesare non li fosse nociva, pieno di sollecitudine, quella notte
medesima la quale avea assicurati e gli anziani e’ cittadini, con
Giovanni dell’Aguto e con gli amici e’ fanti che avea ragunati se ne
venne in piazza, e senza niuno romore ebbe l’entrata del palagio degli
anziani con quella brigata che a lui era abbastanza, l’altra lasciò a
guardia della piazza, ed entrato nel luogo dove sedeano gli anziani si
mise a sedere nel seggio del proposto, e ad uno ad uno fece destare gli
anziani, e venire dinanzi da sè, e per dire a che fine, così dicesse
in forma come disse egli, che è semplice detto, se non fosse congiunto
alla forza di Giovanni dell’Aguto, che la Vergine Maria gli avea
revelato, che per bene e riposo della città di Pisa dovesse prendere
sotto titolo e nome di doge la signoria e ’l governo della città di
Pisa per un anno, e così avea preso, e avea de’ trentamila fiorini
contenta la gente dell’arme che seco erano in palagio e in piazza, e
così si fè confermare agli anziani, e sotto lo splendore delle spade li
fece in sua mano giurare; e senza intervallo di tempo e per parte degli
anziani mandò per quelli cittadini pensò li potessono essere avversi,
e come ciascuno giugnea li significava come e perchè avea presa la
signoria, e accomandati cortesemente in forma non si sarebbono potuti
partire all’uno promettea il vicariato di Lucca, all’altro di Piombino,
e così agli altri secondo i gradi loro, o per amore o per paura tutti
l’indusse a giurare nelle sue mani, e in questo servigio consumò tutta
la notte. Alla dimane con gli anziani, con costoro e con la gente
dell’arme titolatosi doge, cavalcò per la terra, e a grido di popolo
fu fatto signore, nè vi fu chi ricevesse un buffetto, prese il palagio
in possessione, e tutta la gente dell’arme fè giurare nelle sue mani. E
per mostrare che mansuetamente veniva al governo, e preso avea il nome
e quello che il nome importava non come tiranno, quel medesimo giorno
elesse sedici famiglie di popolari di comune stato, e gli si fece a
consorti, e prese con tutti arme novella d’un leopardo d’oro rampante
nel campo rosso, con dare a intendere che d’anno in anno uno di loro,
qual più boce avesse, fosse fatto doge: e in fine, seguitando il
consiglio del conte Guido da Montefeltro a papa Bonifazio, le promesse
fur larghe e lunghe, ma lo attendere stretto e corto, che di cosa che
promettesse niente osservò, ma pigliando la signoria a giornate come
tiranno, lasciato il titolo del doge, si facea chiamare signore. E se
mai fu signoria fastidiosa piena di burbanza quella fu dessa, e negli
ornamenti e nel cavalcare con verga d’oro in mano; e quando tornato era
al palagio si mettea alle finestre a mostrarsi al popolo come fanno le
reliquie, con drappo a oro pendente tenendo le gomita sopra guanciali
di drappo ad oro, e patìa e volea che come al papa o all’imperadore
le cose che gli s’avessono a esporre innanzi gli si esponessono
ginocchione, e altre simili cose molto più vane.


CAP. CII.

_Come si fece pace tra’ Fiorentini e’ Pisani._

Parendo a messer Piero di messer Albizzo ambasciadore de’ Pisani,
in cui giacea il tutto della pace per la parte loro, che lo stato
di Pisa intorno alle condizioni di sua libertà vacillasse, forte
sollecitava la conclusione della pace, e per Carlo degli Strozzi, uno
dell’uficio de’ signori priori di Firenze, a cui per lo volgo ignorante
del segreto posto era carico di volere che la pace si facesse al
tempo dell’uficio suo, e per i suoi compagni, sentendosi il segreto
del trattato che Giovanni dell’Agnello tenea con messer Bernabò
Visconti, il quale in effetto era che i Pisani fossono accomandati del
tiranno, e ch’egli avesse di loro terre, e ch’egli li difendesse, e
prendesse la guerra contro a’ Fiorentini, ed era già tanto innanzi,
che avendo messer Bernabò addomandato Lucca e Pietrasanta, i Pisani
già gli aveano consentito Pietrasanta, e per loro disperazione si
temea non passassono più oltre; per la libertà di Toscana in segreto
consiglio fu preso, che si venisse alla pace per lo migliore modo
e più onorevole che si potesse, e scritto fu agli ambasciadori del
comune ch’erano a Pescia, che il più tosto che potessono onestamente
ne venissono al fine. Onde seguì, che a dì 28 del mese d’agosto, non
sapendo l’una parte dell’altra che ciascuna voglia n’avesse, si fermò
la pace con pubblichi e solenni stromenti, la quale in Firenze si
pubblicò e bandì il primo dì di settembre, nell’ora ch’entrarono i
nuovi priori, la quale dall’ignorante popolo de’ segreti del comune mal
conosciuta forte fu biasimata, pensando che Carlo per troppa baldanza
e della famiglia e dello stato fosse stato l’autore. Onde il popolo
vittorioso, a cui parea essere al di sopra della guerra, incominciò in
piazza non solamente a mormorare, ma con altere parole e atti forte a
sparlare contro a Carlo. Onde i priori e i vecchi e i novi temettono
di commozione, e che Carlo nel tornare a casa o alla casa in su quel
furore non ricevesse villania, e pertanto dai loro mazzieri e da’
fanti lo feciono accompagnare, e tanto stare loro famiglia con lui
che l’ira fosse passata. La pace fu onorevole, e da’ savi e buoni
cittadini assai commendata, e nelle parlanze per la città sostenuta
per le sue condizioni e circostanze laudabili, che furono di questa
maniera: la prima, perchè fatta fu essendo messer Galeotto capitano de’
Fiorentini con loro gente sopra il terreno de’ nemici: la seconda, che
tanto si dichinarono i nemici che la vennono a conchiudere nelle terre
del comune di Firenze: la terza, perchè Pietrabuona, la quale era del
contado di Pisa, origine in grido e cagione della guerra, in premio
di vittoria per patto rimase al comune di Firenze, confessando per
questo essere ricreduti e vinti: la quarta, perchè Castel del Bosco,
e certe altre loro tenute e fortezze per patto si vennono a disfare:
la quinta, perchè confermarono tutte le franchigie che il comune di
Firenze o suoi mercatanti mai avessono avuto in Pisa: la sesta, perchè
per dieci anni si feciono tributari del comune di Firenze, dando ogni
anno nella vigilia di san Giovanni Battista pubblicamente diecimila
fiorini d’oro. Gli stromenti della pace in sustanza contennono prima la
remissione delle offese, e promettere di non offendere per l’avvenire,
come è di costume in somiglianti atti e contratti; appresso confermate
e di nuovo per patto concesse furono tutte le franchigie che avesse
per l’addietro avute il comune di Firenze o suoi mercatanti in Pisa o
nelle terre loro. Obbligossi il comune di Pisa per ammenda di danni
a dare ai comune di Firenze centomila fiorini d’oro in dieci anni
seguenti, diecimila ogni anno in Firenze nella vigilia della natività
di san Giovanni Battista: e più a dare al comune Pietrabuona, che era
stata cagione della guerra, e tutte altre terre del comune di Firenze,
o a esso comune accomandate, che ’l comune di Pisa o nella guerra o
innanzi la guerra per eccitarla, o direttamente o per indiretto avesse
prese, ed e converso facesse così il comune di Firenze, e così si fè.
Spianare Castel del Bosco, e certe altre tenute de’ Pisani, che per i
patti si disfeciono. La detta pace fu confermata in nome di papa Urbano
quinto, colle solennità della Chiesa e colle pene ecclesiastiche,
per messer Piero Cini arcivescovo di Ravenna, e per frate Marco di
Viterbo generale de’ frati minori, il quale poco appresso fu fatto
cardinale. Il popolo di Firenze a giornate conoscendo il frutto e il
bene della pace riconobbe suo errore, e rimase per contento, e il
comune dolcemente si levò da dosso la spesa di messer Anichino di
Bongardo e degl’Inghilesi. Messer Anichino co’ suoi Tedeschi e con
molti mascalzoni che non sapeano nè poteano vivere se non di rapina,
nel mese di novembre in forma di compagnia cavalcò in terra di Roma,
e presono prima Sabina e poi Sutri, e quivi vernarono. La compagnia
degl’Inghilesi arso e predato in parte il contado di Siena se n’andò
all’Aquila, e quindi passò in Puglia a vernare. E per non avere più a
capitolare giugnerò a questa gente famosa la morte di messer Malatesta
il vecchio, il quale lungo tempo fece gran segno in Italia di savio
guerriere, di uomo e d’alto consiglio e pratico in tutte cose, il quale
passò di questa vita del mese d’agosto 1364. E gli Aretini presono e
disfeciono la Serra.


  FINE DELLA CRONICA DI MATTEO
  E FILIPPO VILLANI.



TAVOLA DEI CAPITOLI


  LIBRO DECIMO

  _Qui comincia il decimo libro della Cronica di Matteo
    Villani; e prima il Prologo_                             Pag. 5
  _CAP. II. Dell’alto e rilevato stato della casa de’
    Visconti di Milano_                                           7
  _CAP. III. Del pauroso e vile partimento dell’oste di
    messer Bernabò da Bologna_                                    8
  _CAP. IV. Come i Bolognesi assalirono e presono tre bastite_    9
  _CAP. V. Certo trattato fatto a corte tra il papa e gli
    ambasciadori del re d’Ungheria_                              10
  _CAP. VI. Dell’avvenimento del legato a Bologna_               10
  _CAP. VII. Cominciamento della nuova compagnia d’Anichino
    di Bongardo Tedesco_                                         11
  _CAP. VIII. La rivoltura d’Ascoli della Marca_                 12
  _CAP. IX. Come a petizione del legato fu preso messer
    Ridolfo da Camerino_                                         13
  _CAP. X. Del maestrevole processo del legato co’ suoi
    Ungari in questo tempo_                                      14
  _CAP. XI. Come s’ebbe per i Bolognesi la bastita di
    Casalecchio sopra il Reno_                                   15
  _CAP. XII. La venuta a Giadra del re d’Ungheria e della
    moglie_                                                      16
  _CAP. XIII. La presa di Gello fatta per quelli di
    Bibbiena, e la compera ne fece poi il comune_                17
  _CAP. XIV. Come il comune di Firenze mandò ambasciadori
    al legato e a messer Bernabò per trattare accordo_           18
  _CAP. XV. Come il legato mandò gli Ungari sopra la
    città di Parma_                                              19
  _CAP. XVI. Della presura del conte da Riano_                   20
  _CAP. XVII. Come la compagnia d’Anichino sostenne fame
    all’entrata del Regno_                                       21
  _CAP. XVIII. Come messer Cane Signore rimandò la moglie
    che fu di messer Cane Grande al marchese di Brandisborgo_    21
  _CAP. XIX. Come la compagnia d’Anichino di Bongardo
    prese Castello san Martino_                                  22
  _CAP. XX. Come il re d’Araona diè per moglie la figliuola
    a don Federigo di Cicilia_                                   23
  _CAP. XXI. Come messer Bernabò si provvedde per avere
    gente nuova per guerreggiare Bologna_                        24
  _CAP. XXII. Come messer Niccola Acciaiuoli gran siniscalco
    del Regno venne in Firenze, e della novità che per sua
    venuta ne seguio_                                            25
  _CAP. XXIII. Come per sospetto nato nella città di Firenze
    di messer Niccola indegnamente egli ne ricevette
    vergogna_                                                    26
  _CAP. XXIV. Come si scoperse congiura di certi cittadini
    di Firenze e trattato per sovvertere lo stato che reggea_    28
  _CAP. XXV. Come si scoperse il trattato che era in Firenze,
    e certi ne furono puniti_                                    32
  _CAP. XXVI. Come si comperò Montecolloreto, e la
    giurisdizione di Montegemmoli dell’Alpe per lo comune
    di Firenze_                                                  37
  _CAP. XXVII. Come una compagnia creata novellamente prese
    Santo Spirito_                                               38
  _CAP. XXVIII. Come tornati gli Ungari e messer Galeotto
    da Parma si misono a Lugo_                                   41
  _CAP. XXIX. D’alquanti trattati tenuti in diverse parti
    che tutti si scopersono_                                     42
  _CAP. XXX. Come il grande siniscalco fu ricevuto nel Regno,
    e quello ne seguì_                                           43
  _CAP. XXXI. D’un segno nuovo ch’apparse in cielo sopra la
    città di Firenze_                                            44
  _CAP. XXXII. Dimostramento di smisurato amore di padre a
    figliuolo_                                                   45
  _CAP. XXXIII. Contrario esempio d’incredibile crudeltà
    di madre_                                                    46
  _CAP. XXXIV. Delle compagnie ch’entrarono in Provenza per
    conturbare i paesani e la corte di Roma_                     49
  _CAP. XXXV. Come per comperare gli onori del comune
    alquanti che li venderono ne furono condannati_              51
  _CAP. XXXVI. Come i fatti di Francia verso il primo tempo
    procedeano_                                                  52
  _CAP. XXXVII. Come fu guasta la bastita che il cardinale
    di Spagna facea fare in sul canale della Pegola_             53
  _CAP. XXXVIII. Della grande pestilenza che percosse
    i saracini_                                                  54
  _CAP. XXXIX. Come fu morto il soldano di Babilonia, e
    rifattone un altro, il quale uccise molti de’ suoi
    baroni_                                                      54
  _CAP. XL. Come un signore de’ Turchi trattò di fare
    uccidere l’imperadore di Costantinopoli_                     55
  _CAP. XLI. Come il legato si partì di Bologna per andare
    al re d’Ungheria_                                            56
  _CAP. XLII. Della ribellione fatta per messer Giovanni
    di messer Riccardo Manfredi al legato_                       57
  _CAP. XLIII. Come il marchese di Monferrato trasse delle
    compagnie da Avignone per conducere in Piemonte_             59
  _CAP. XLIV. Della morte del duca di Lancastro cugino del
    re d’Inghilterra_                                            60
  _CAP. XLV. Come riuscì l’impresa del re d’Ungheria dove
    la speranza del legato di Spagna si riposava_                61
  _CAP. XLVI. Della pestilenza dell’anguinaia ricominciata
    in diversi paesi del mondo, e di sua operazione_             62
  _CAP. XLVII. Come per la fama delle compagnie che
    scendevano in Piemonte i signori di Milano si provvidono
    alla difesa_                                                 64
  _CAP. XLVIII. Come messer Bernabò venne sopra Bologna, e
    assediò e prese Pimaccio_                                    65
  _CAP. XLIX. Come il legato procurava aiuto contro
    messer Bernabò_                                              66
  _CAP. L. Come la compagnia d’Anichino di Bongardo ch’era
    nel Regno si rassottigliò e venne al niente_                 67
  _CAP. LI. Come i Sanesi ebbono Santafiore_                     67
  _CAP. LII. Come i Fiorentini comperarono il castello di
    Cerbaia_                                                     68
  _CAP. LIII. Come il capitano già di Forlì e messer
    Giovanni Manfredi si puosono tra Imola e Faenza_             69
  _CAP. LIV. D’un gran fuoco che s’apprese nella città
    di Bruggia_                                                  70
  _CAP. LV. Delle compagnie d’oltramonti_                        70
  _CAP. LVI. Come Francesco Ordelaffi si levò da Forlì, e
    andonne a oste a Rimini_                                     71
  _CAP. LVII. Come i Fiorentini manteneano Bologna per la
    strada dell’Alpe_                                            72
  _CAP. LVIII. Come l’oste di messer Bernabò volle rompere
    la strada da Firenze, e ricevette danno_                     73
  _CAP. LIX. Come fu sconfitto l’oste di messer Bernabò al
    Ponte a san Ruffello_                                        74
  _CAP. LX. Come seguì appresso alla sconfitta di
    san Ruffello_                                                80
  _CAP. LXI. Come messer Bernabò si credette prendere
    Correggio per trattato, e sua gente vi rimase presa_         81
  _CAP. LXII. Dell’armata del re di Cipro, e il conquisto
    di Setalia e del Candeloro_                                  82
  _CAP. LXIII. Come i Turchi di Sinopoli assalirono Coffa, e
    furono vinti da’ Genovesi_                                   83
  _CAP. LXIV. Come le compagnie condotte in Piemonte
    cominciarono a guerreggiare_                                 84
  _CAP. LXV. Di grandi terremuoti che furono in Puglia, e
    assai guastarono della città d’Ascoli_                       86
  _CAP. LXVI. Delle rivolture del paese di Fiandra in
    questa state_                                                86
  _CAP. LXVII. Come fu decapitato messer Bocchino de’
    Belfredotti signore di Volterra, e come la città venne
    alla guardia de’ Fiorentini_                                 87
  _CAP. LXVIII. Come il patriarca d’Aquilea fu a tradimento
    preso dal doge d’Osteric_                                    92
  _CAP. LXIX. Di fuoco che senza rimedio arse in Roma san
    Giovanni Laterano_                                           93
  _CAP. LXX. Del maritaggio del duca di Guales primogenito
    del re d’Inghilterra_                                        94
  _CAP. LXXI. Come papa Innocenzio riformò santa Chiesa de’
    cardinali morti per la morìa_                                94
  _CAP. LXXII. Come il re Buscialim della Bellamarina fu
    morto, e delle rivolture di Granata_                         95
  _CAP. LXXIII. Come la compagnia spagnuola ch’era nel
    vescovado d’Arli prese Vascona, e poi ne furono cacciati_    96
  _CAP. LXXIV. Come si scoperse che messer Bernabò era vivo,
    e ’l trattato tenea del castello di Bologna_                 97
  _CAP. LXXV. Come si scoperse in Perugia una gran congiura
    di notabili cittadini per mutare stato e reggimento_         98
  _CAP. LXXVI. Come in questi giorni in Pisa ebbe gelosia di
    loro stato, e della difensione che saviamente ne presono_   102
  _CAP. LXXVII. Come i Sanesi sotto la rotta fede ebbono
    la signoria di Montalcino_                                  102
  _CAP. LXXVIII. Come i Turchi presono la città di Dometico
    ch’era dell’imperadore di Costantinopoli_                   104
  _CAP. LXXIX. Come il re di Castella mosse guerra a’ Mori
    di Granata, e al loro re Vermiglio_                         105
  _CAP. LXXX. Come gli usciti Perugini presono per furto
    Civitella de’ Benazzoni, e poi l’abbandonarono_             106
  _CAP. LXXXI. Come i Bolognesi cominciarono a cavalcare
    sopra gli Ubaldini_                                         106
  _CAP. LXXXII. Del trattato delle compagnie che doveano
    entrare in Avignone_                                        107
  _CAP. LXXXIII. Come i Pisani perderono Pietrabuona e vi
    puosono l’assedio dove stando vollono torre Sommacolonna
    per incitare i Fiorentini a guerra_                         108
  _CAP. LXXXIV. Come fu sorpreso il conte di Savoia dalla
    compagnia bianca co’ suoi baroni, e ricomperaronsi con
    gran quantità di moneta_                                    111
  _CAP. LXXXV. La cavalcata che Piero Gambacorti fè sopra
    i Pisani_                                                   111
  _CAP. LXXXVI. Come il re Luigi prese le terre di messer
    Luigi di Durazzo e lui mise in prigione, e trasse del
    Regno la compagnia_                                         113
  _CAP. LXXXVII. Come le compagnie si partirono di Provenza_    114
  _CAP. LXXXVIII. Come fu sconfitta la gente del re di
    Castella dal re di Granata_                                 114
  _CAP. LXXXIX. Come per vendicare sua onta il re di Spagna
    andò sopra il re di Granata_                                115
  _CAP. XC. Come messer Bernabò si credette avere Reggio
    per trattato_                                               116
  _CAP. XCI. Come i Pisani feciono cosa da incitare
    i Fiorentini_                                               118
  _CAP. XCII. Dell’operazioni delle compagnie in questi
    tempi_                                                      118
  _CAP. XCIII. D’una cometa ch’apparve di marzo nel segno
    del Pesce_                                                  119
  _CAP. XCIV. Come la Compagnia bianca prese Castelnuovo
    Tortonese_                                                  120
  _CAP. XCV. Come la compagnia del Pitetto Meschino sconfisse
    l’oste del re di Francia a Brignai_                         121
  _CAP. XCVI. Come fu fermo lega dalla Chiesa e i signori
    di Lombardia contro a messer Bernabò_                       124
  _CAP. XCVII. Come fu morto il re Vermiglio di Granata_        126
  _CAP. XCVIII. Come il re Maometto di Granata si fece uomo
    del re di Castella_                                         127
  _CAP. XCIX. Principio di guerra dai collegati a messer
    Bernabò_                                                    128
  _CAP. C. Come e quando morì Luigi re di Cicilia e di
    Gerusalemme_                                                130
  _CAP. CI. Come i Fiorentini vollono difendere Pietrabuona,
    e non poterono_                                             132
  _CAP. CII. Come quelli della valle di Caprese furono
    traditi dagli Aretini_                                      136
  _CAP. CIII. Della mortalità dell’anguinaia_                   137

  LIBRO UNDECIMO

  _CAP. I. Il Prologo_                                          139
  _CAP. II. Degli apparecchi fatti da’ Fiorentini per la
    guerra contro a’ Pisani_                                    142
  _CAP. III. Come seguendo gli antichi Romani gentili i
    Fiorentini nel dare dell’insegne al capitano presono
    punto per astrologia_                                       144
  _CAP. IV. Della prospera fortuna de’ collegati lombardi_      146
  _CAP. V. Della morte di Leggieri d’Andreotto di Perugia_      148
  _CAP. VI. Come i Fiorentini cavalcarono in Valdera e
    presono Ghiazzano_                                          149
  _CAP. VII. Come i Fiorentini soldarono galee contra
    i Pisani_                                                   150
  _CAP. VIII. Come i Perugini presono la Rocca Cinghiata
    e quella del Caprese_                                       151
  _CAP. IX. Come novecento cavalieri di quelli di messer
    Bernabò furono sconfitti da seicento di quelli di messer
    Cane Signore_                                               151
  _CAP. X. Disordine nato tra’ Genovesi per la guerra de’
    Fiorentini e’ Pisani_                                       152
  _CAP. XI. Come il re di Castella con quello di Navarra
    ruppono pace a quello d’Aragona, e lo cavalcaro_            155
  _CAP. XII. Come per sospetto in Siena a due dell’ordine
    de’ nove fu tagliata la testa_                              156
  _CAP. XIII. Cavalcate fatte per messer Bonifazio Lupo
    in su quello di Pisa_                                       157
  _CAP. XIV. Del processo della guerra da’ collegati a
    messer Bernabò_                                             159
  _CAP. XV. Come messer Ridolfo prese il bastone da messer
    Bonifazio_                                                  160
  _CAP. XVI. Della crudeltà che i Pisani usarono contra i
    Lucchesi per gelosia_                                       160
  _CAP. XVII. Delle cavalcate fatte per messer Ridolfo sopra
    i Pisani, e del gran danno che ricevettono_                 162
  _CAP. XVIII. Come messer Ridolfo assediò Peccioli, e prese
    stadichi se non fosse soccorso_                             164
  _CAP. XIX. Come non essendo il castellano contento del
    patto messer Ridolfo fè gittare una delle torri di
    Peccioli in terra_                                          168
  _CAP. XX. Come il capitano de’ Fiorentini prese
    Montecchio, Laiatico e Toiano_                              171
  _CAP. XXI. Dell’aiuto che i Perugini in questi dì
    mandarono a’ Fiorentini_                                    172
  _CAP. XXII. Come il conte Aldobrandino degli Orsini si
    partì onorato da Firenze_                                   173
  _CAP. XXIII. Come e perché si creò la compagnia del
    Cappelletto_                                                173
  _CAP. XXIV. Comincia la guerra che i Fiorentini feciono
    in mare a’ Pisani_                                          176
  _CAP. XXV. Come e perchè i Romani si dierono al papa_         177
  _CAP. XXVI. Come Dio chiamò a sè papa Innocenzio, e fu
    fatto papa Urbano quinto_                                   178
  _CAP. XXVII. Come al re Pietro di Castella morì un
    figliuolo che avea_                                         179
  _CAP. XXVIII. Come Perino Grimaldi prese l’isoletta e
    castello del Giglio_                                        180
  _CAP. XXIX. Come messer Piero Gambacorti per trattato si
    credette tornare in Pisa_                                   182
  _CAP. XXX. Come Perino Grimaldi soldato del comune di
    Firenze prese Porto pisano, e le catene del detto porto
    mandò a Firenze_                                            184
  _CAP. XXXI. Come messer Bernabò mandò a papa Urbano a
    proseguire la pace_                                         186
  _CAP. XXXII. Domande fatte per lo re di Francia al papa_      187
  _CAP. XXXIII. Di grande acquazzone che in Italia fè danno_    188
  _CAP. XXXIV. Come il re di Cipro andò ad Avignone con
    tre galee_                                                  189
  _CAP. XXXV. Come morì Giovacchino degli Ubaldini e lasciò
    reda il comune di Firenze_                                  189
  _CAP. XXXVI. Come il conte di Focì sconfisse e prese
    quello d’Armignacca_                                        190
  _CAP. XXXVII. Come i Pisani vollono torre il campanile
    d’Altopascio_                                               191
  _CAP. XXXVIII. Come in Firenze s’ordinò tavola per lo
    comune per servire i soldati_                               192
  _CAP. XXXIX. Come i Pisani vollono torre santa Maria
    a Monte_                                                    193
  _CAP. XL. Come i Pisani vollono torre Pescia per trattato_    193
  _CAP. XLI. Come papa Urbano pubblicò in Avignone i
    processi fatti contro a messer Bernabò_                     194
  _CAP. XLII. Come morì messer Simone Boccanera primo doge
    di Genova_                                                  196
  _CAP. XLIII. Come fu morto il conte di Lando_                 197
  _CAP. XLIV. Come Bernabò Visconti fu dalla gente della
    lega sconfitto alla bastita di Modena, e come la perdè_     197
  _CAP. XLV. Come i Pisani vollono torre Barga_                 199
  _CAP. XLVI. Come messer Piero da Farnese credette torre
    Lucca a’ Pisani_                                            201
  _CAP. XLVII. Come i Pisani presono per forza il castello
    di Gello sul Volterrano_                                    202
  _CAP. XLVIII. Come i Pisani condussono la Compagnia bianca
    degl’Inghilesi_                                             203
  _CAP. XLIX. Come Rinieri da Baschi ruppe gente che messer
    Piero da Farnese avea mandati in Garfagnana_                205
  _CAP. L. Come Rinieri da Baschi colla gente de’ Pisani
    fu sconfitto e preso da messer Piero da Farnese_            206
  _CAP. LI. Come messer Piero da Farnese entrò in Firenze, e
    il capitano de’ Pisani colle insegne e’ prigioni
    rassegnarono a’ priori_                                     208
  _CAP. LII. Come i Pisani tolsono a’ Fiorentini Altopascio_    209
  _CAP. LIII. Come i Pisani elessono per loro capitano
    Ghisello degli Ubaldini_                                    210
  _CAP. LIV. Come messer Piero cavalcò sino sulle porte
    di Pisa battendovi moneta d’oro e d’argento_                210
  _CAP. LV. Sagacità usata per i Pisani per non perdere
    Montecalvoli_                                               213
  _CAP. LVI. Come il re di Francia per paura della
    compagnia non osò per terra tornare nel reame, ma
    tornò per acqua_                                            214
  _CAP. LVII. Della mortalità dell’anguinaia_                   215
  _CAP. LVIII. Come i Barghigiani colla forza de’
    Fiorentini presono i battifolli_                            215
  _CAP. LIX. Come morì messer Piero da Farnese_                 216
  _CAP. LX. Dell’ammirabile passaggio de’ grilli_               217
    _Proemio della Cronica di Filippo Villani_                  219
  _CAP. LXI. Come i Fiorentini feciono Ranuccio da Farnese
    loro capitano di guerra_                                    220
  _CAP. LXII. Come gl’Inghilesi giunsono in Pisa_               220
  _CAP. LXIII. Come i Pisani cavalcarono i Fiorentini in
    sulle porte_                                                221
  _CAP. LXIV. Come si fermò pace dalla Chiesa a messer
    Bernabò_                                                    223
  _CAP. LXV. Dello stato della città di Firenze in que’
    giorni_                                                     224
  _CAP. LXVI. Come i Perugini, per tema che la compagnia
    degl’Inghilesi non soccorressono i loro rubelli
    assediati in Montecontigiano, condussono la Compagnia
    del cappelletto_                                            226
  _CAP. LXVII. Come messer Pandolfo Malatesti venne con
    cento uomini di cavallo e con cento fanti a servire
    il comune di Firenze per due mesi_                          228
  _CAP. LXVIII. Come i Pisani co’ loro Inghilesi presono
    Figghine_                                                   230
  _CAP. LXIX. Come messer Pandolfo puose il campo all’Ancisa,
    e come il detto campo fu preso dagl’Inghilesi con messer
    Rinuccio capitano, e appresso il borgo all’Ancisa, e
    come messer Pandolfo fu fatto capitano di guerra_           231
  _CAP. LXX. Come certa parte degl’Inghilesi da Figghine
    cavalcarono a Ricorboli_                                    235
  _CAP. LXXI. Come i Sanesi sconfissono la Compagnia del
    cappelletto, la quale era condotta al soldo de’
    Fiorentini_                                                 238
  _CAP. LXXII. Di cavalcate e combattimenti di terre
    feciono gl’Inghilesi mentre stettono a Figghine_            239
  _CAP. LXXIII. Esempio e ammaestramento de’ popoli che
    vivono a libertà i quali si conducono nella fortuna
    della guerra di non torre capitano uso a tirannia_          241
  _CAP. LXXIV. I modi teneano gl’Inghilesi tornati in Pisa_     245
  _CAP. LXXV. Come i Pisani furono sconfiti a Barga_            245
  _CAP. LXXVI. Come il re Giovanni di Francia passò in
    Inghilterra e là morì_                                      247
  _CAP. LXXVII. Come messer Niccolò del Pecora fu cacciato
    di Montepulciano_                                           249
  _CAP. LXXVIII. Della morte del giovane marchese di
    Brandisborgo, conte di Tirolo, e quello ch’appresso
    ne seguì_                                                   249
  _CAP. LXXIX. Come i Pisani ricondussono gl’Inghilesi_         256
  _CAP. LXXX. D’una saetta che cadde sul campanile di santa
    Maria Novella_                                              257
  _CAP. LXXXI. Cavalcate fatte per gl’Inghilesi nel pieno
    verno_                                                      258
  _CAP. LXXXII. Come Anichino di Bongardo con tremila
    barbute venne al servigio de’ Pisani, e come sagacemente
    cercarono avvantaggiosa pace_                               262
  _CAP. LXXXIII. Come messer Beltramo Craiche tolse Nantes
    per lo re di Francia a quello di Navarra_                   265
  _CAP. LXXXIV. Come rotto il trattato della pace i Pisani
    cavalcarono i Fiorentini_                                   265
  _CAP. LXXXV. Come messer Pandolfo passò nel Mugello colla
    gente da cavallo per tenere stretti gl’Inghilesi_           268
  _CAP. LXXXVI. Come gl’Inghilesi si partirono del Mugello
    e tornarsi nel piano di Pistoia_                            270
  _CAP. LXXXVII. Come messer Pandolfo Malatesti si partì dal
    servigio del comune di Firenze_                             271
  _CAP. LXXXVIII. Come gl’Inghilesi e’ Tedeschi co’
    guastatori de’ Pisani s’accamparono a Sesto, e
    Colonnata, e santo Stefano in pane_                         272
  _CAP. LXXXIX. Come gl’Inghilesi e’ Tedeschi coi guastatori
    pisani presono il colle di Montughi e di Fiesole, e
    combatterono i Fiorentini alla porta a san Gallo, e
    fessi Anichino di Bongardo cavaliere_                       274
  _CAP. XC. Come il conte Arrigo di Monforte capitano de’
    Fiorentini prese e arse Livorno_                            278
  _CAP. XCI. Come il corpo del re Giovanni di Francia fu
    trasportato di Londra a Parigi, e come onorato_             282
  _CAP. XCII. Come messer Beltramo di Cloachin sconfisse il
    luogotenente del re di Navarra in Normandia_                283
  _CAP. XCIII. Come Carlo primogenito del re di Francia fu
    consegrato a Rems a re di Francia_                          283
  _CAP. XCIV. Come si combatterono messer Carlo di Bos
    duca di Brettagna, e messer Gianni di Monforte_             283
  _CAP. XCV. Come i Fiorentini con la forza del danaio
    ruppono la compagnia de’ Tedeschi e Inghilesi, e
    levaronla da provvisione de’ Pisani_                        284
  _CAP. XCVI. Come i Fiorentini presono in capitano di
    guerra messer Galeotto Malatesti_                           285
  _CAP. XCVII. Battaglia tra’ Fiorentini e’ Pisani fatta
    nel borgo di Cascina, nella quale i Fiorentini furono
    vincitori_                                                  286
  _CAP. XCVIII. Come furono assegnati i prigioni al comune
    da’ soldati, ed entrarono in Firenze in sulle carra._       293
  _CAP. XCIX. Come la parte guelfa di Firenze prese a far
    festa di san Vittore, e perchè_                             294
  _CAP. C. Come la gente dell’arme del comune di Firenze
    prese tira di non cavalcare, e quello ne seguì_             295
  _CAP. CI. Come Giovanni dell’Agnello si fece signore di
    Pisa sotto titolo di doge_                                  297
  _CAP. CII. Come si fece pace tra’ Fiorentini e’ Pisani_       301



                  ERRORI         CORREZIONI

  TOMO V.

  —  19  —   1    tratto         trattò
  —  34  —  14    Sumiera        ringhiera



Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici. Le correzioni indicate in
fine libro sono state riportate nel testo.



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