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Title: Cronica di Matteo Villani, vol. IV: A miglior lezione ridotta coll'aiuto de' testi a penna
Author: Villani, Matteo
Language: Italian
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*** Start of this LibraryBlog Digital Book "Cronica di Matteo Villani, vol. IV: A miglior lezione ridotta coll'aiuto de' testi a penna" ***
VOL. IV ***


                                CRONICA

                                   DI

                                 MATTEO
                                VILLANI


                       A MIGLIOR LEZIONE RIDOTTA
                               COLL’AIUTO
                           DE’ TESTI A PENNA

                                TOMO IV.



                                FIRENZE
                             PER IL MAGHERI
                                  1825



LIBRO OTTAVO


CAPITOLO PRIMO.

_Il Prologo._

Avvegnachè antica questione sia stata tra’ savi, nondimeno la mente
nostra s’è affaticata in ricercare gli esempi degli autori d’ogni tempo
per avere più chiarezza, quale sia al mondo di maggiore operazione,
o la potenza dell’armi nelle mani de’ potentissimi duchi e signori
senza la virtù dell’eloquenza, o la nobile eloquenza diffusa per
la bocca de’ principi con assai minore potenza; e parne trovare,
avvegnachè il mio sia lieve e non fermo giudicio, che l’eloquenza abbi
soperchiata la potenza, e fatte al mondo maggiori cose; e l’eloquenza
di Nembrot, ammaestrato da Gioniton suo maestro, raunò d’oriente
tutta la generazione umana in un campo a edificare la torre di Babel;
la confusione della lingua mise la loro forza e la loro opera in
distruzione. Serse volendo occupare la Grecia coprì il mare di navi,
e il piano e le montagne d’innumerabili popoli; la leggiere forza
di Leonida, con cinquecento compagni inanimati dall’ammaestramento
dell’eloquenza di quello uomo, fece sì incredibile resistenza a quello
sformato esercito, che a’ Greci diede speranza di vincerlo, e al
re volontà con pochi de’ suoi di ritornare indietro. Alessandro di
Macedonia con piccolo numero di cavalieri infiammati dall’informazione
della compiacevole lingua di colui, vinse le infinite forze di Dario
e’ suoi tesori. I nobili principi romani più per savio ammaestramento
della disciplina militare, che per arme o per forza di loro cavalieri
domarono l’universo. E cominciando a Tullio Ostilio re de’ Romani,
condotto in campo per combattere co’ Toscani, vedendosi in su gli
estremi abbandonato e tradito da’ compagni, e preda de’ nemici, tanta
virtù ebbe la sua provveduta ed efficace eloquenza nel confortare i
suoi con fitte suasioni, ch’e’ li fece vincitori. E che fece il nobile
Scipione affricano? Non rimoss’egli con la virtù della sua lingua
il malvagio consiglio de’ senatori, che per paura voleano ardere e
abbandonare la città di Roma, e per questo vinse e soggiogò Affrica
al romano imperio? Il magnifico Cesare con poca compagnia, a rispetto
della moltitudine de’ suoi nemici, potendosi arbitrare in Francia,
in Borgogna, in Sassonia e in Inghilterra molte volte preda de’ suoi
avversari, per l’ammaestramento e conforto della sua voce tante volte
vinse i nemici forti e potenti, che li ridusse sotto la sua libera
signoria. Che si può dire di questo, quando con un pugno di piccolo
fiotto di cavalieri, per lo suo conforto domò e sottomise tutte le
nazioni del mondo in un campo a Tessaglia? Ma tornando alle minori
cose, Zenone filosofo vecchio, posto in croce miserabilmente a gran
tormento, usando la forza della sua magnifica eloquenza, fece abbattere
la sfrenata e gran potenza del tiranno siracusano. Dunque chi commuove
i popoli chi apparecchia le grandi schiere, se non la eloquenza
risonante negli orecchi degli uditori? E però senza comparazione pare,
che l’eloquenza ordinata al bene più giovi che l’armi, e indotta al
male più nuoce che altra cosa. E perocchè il nostro trattato per debito
ci apparecchia di fare comincia mento all’ottavo libro, uno lieve e
piccolo esempio per lo fatto, ma assai strano e maraviglioso per lo
modo, prima ci s’offera a raccontare.


CAP. II.

_Chi fu frate Iacopo del Bossolaro, e come procedette il suo nome, e le
sue prediche in Pavia._

Era in questi tempi nato in Pavia un giovane figliuolo d’un picciolo
artefice che facea i bossoli, il quale nella sua giovinezza entrò nella
via della penitenza, e abbandonato il secolo, traeva vita solitaria
in alcuno romitorio nel deserto. È vero, che per essere a ubbidienza
prese l’abito de’ frati romitani, e chiamavasi frate Iacopo Bossolaro.
E avendo costui gran fama di santità e di scienza, fu costretto dal
suo ministro di ritornare in Pavia, e di stare nella religione, e ivi
tenea vita più solitaria e di maggiore astinenza che gli altri del
convento. Avvenne, che venendo il tempo della quaresima, ed essendo
consuetudine di fare il primo mercoledì della quaresima nella sala del
vescovo uno sermone al popolo, fu commesso a questo frate Iacopo, il
quale il fece in tanto piacere del popolo, che fu costretto a predicare
tutta la quaresima. E come fu piacere di Dio, questo religioso facea le
sue prediche tanto piacere a ogni maniera di gente, che la fama e la
devozione cresceva maravigliosamente per modo, che molti circustanti
delle terre e delle castella traevano a udire le prediche di frate
Iacopo. Ed egli vedendo il concorso della gente, e la fede che gli era
data, cominciò a detestare i vizi, e massimamente l’usura, e l’endiche,
e le disoneste portature delle donne, e appresso cominciò a dire molto
contro la disordinata signoria de’ tiranni; e in poco tempo ridusse le
donne in genero a onesto abito e portamento, e gli uomini a rimanersi
dell’usure e dell’endiche. E continovando le sue prediche contro alla
sfrenata tirannia, e avendo, come addietro è detto, per lo suo conforto
fatto pigliare l’arme al popolo a sconfiggere quelli delle bastite,
per la qual cosa le sue parole aveano tanta efficacia, che i signori da
Beccheria, ch’erano allora signori di Pavia, cominciarono a ingrossire
delle parole ch’egli usava in genero contro a tutti i tiranni. E allora
erano signori messer Castellano e messer Milano. Costoro cercarono
segretamente di farlo morire per più riprese, tanto che la cosa gli
venne palese, e’ cittadini ne cominciarono ad avere guardia, e dovunque
andava l’accompagnavano, per modo che i signori nol poteano offendere,
ed egli per questo più apertamente contro alle crudeltà già fatte per
costoro predicava, e incitava il popolo alla loro franchigia.


CAP. III.

_Come frate Iacopo fece tribuni di popolo nelle sue prediche in Pavia._

Il valente frate, sentendo il popolo disposto a seguire il suo
consiglio, avendo alcuno consentimento dal marchese di Monferrato
vicario dell’imperadore in Pavia, raunato un dì il popolo alla sua
predica, avendo molto detto contro alle scellerate cose, e’ vizi
che regnano nelle tirannie, e aperto l’aguato che alla sua persona
più volte era fatto per li tiranni da Beccheria per torgli la vita,
disse, che la salute di quel popolo era che si reggessono a comune,
e sopra ciò ordinò molto bene le sue parole. E stando in sul pergamo,
nominò venti buoni uomini di diverse contrade della città, e a catuno
disse, che volea ch’avesse cento uomini al suo seguito; e de’ detti
venti fece quattro capitani di tutti. E com’egli gli ebbe pronunziati
nella predica, così il popolo li confermò con viva boce, ed eglino
accettarono l’uficio. Sentendo questo i signori, furono sopra modo
turbati, e cercarono con forza d’arme d’uccidere il frate, ma il popolo
gli ordinò sessanta cittadini armati alla guardia; e per tanto que’ da
Beccheria, temendo più la commozione del popolo che degli armati, non
si vollono mettere a berzaglio. In questi dì messer Castellano era col
marchese, e volendo per questa novità tornare a Pavia, non potè avere
la licenza da lui. E questo manifesta assai, che ’l marchese fosse
consenziente a quello ch’era fatto per lo Bossolaro.


CAP. IV.

_Come frate Iacopo cacciò i signori da Beccheria di Pavia._

Dopo questi centurioni fatti in Pavia, del mese di settembre anno
detto, messer Milano, ch’era in Pavia, con assentimento del fratello,
vedendosi tolta la signoria, cercava segretamente di dare la città
a’ signori di Milano. Frate Iacopo, che stava attento, sentì il
fatto, e di presente raunò il popolo alla sua predica, e in quella
disse molto contro il malvagio peccato del tradimento. Ed essendo
già di ciò sospetti al popolo i signori, e chiariti per la predica
del Bossolaro, il detto frate comandò d’in sul pergamo a uno de’
centurioni, ch’andasse a messer Milano, e comandassegli, che di
presente si partisse della città e del contado di Pavia. Il signore
temendo il furore del popolo ubbidì, e spacciò la città della sua
persona e di tutta sua famiglia in quel giorno, e andossene a loro
castella. Avvenne poco appresso, che essendo morta la moglie del
marchese, ed egli imbrigato nell’esequio, messer Castellano prese suo
tempo, e partissi senza licenza, e vennesene al fratello; e come furono
insieme, diedono le castella a’ signori di Milano, e ricevettono quella
gente d’arme ch’e’ vollono, e rifeciono trattato co’ loro amici della
città, pensando colla forza de’ signori di Milano rientrare in Pavia;
il trattato si scoperse, e tutto il rimanente di que’ da Beccheria
furono cacciati della città, e furono presi cento cittadini degli
amici de’ signori, e di loro quelli che più furono trovati colpevoli ne
furono dodici decapitati, tra’ quali furono cinque giudici e avvocati
servidori de’ signori, gli altri furono liberi a volontà del popolo e
di frate Iacopo, e la terra riformata a popolo, e ribanditi tutti gli
usciti guelfi, e nominatamente il conte Giovanni e ’l conte Filippo,
e’ loro figliuoli e discendenti, che quarantasei anni erano stati di
fuori cacciati da’ tiranni da Beccheria. E come che ’l reggimento
fosse a popolo assai bene ordinato, niente si facea che montasse
senza il consiglio di frate Iacopo; e nondimeno il frate osservava
onestamente la sua religione, e infino allora l’avea trenta anni usata
con laudevole vita. Chi può stimare il fine delle cose, e la varietà
delle vie della volubile fortuna? La signoria da Beccheria non potuta
sottomettere dalla gran potenza de’ signori di Milano, nè da molte
guerre sostenute, prese fine per le parole d’un piccolo fraticello: ma
che più? quella città credendosi essere sciolta dalla servitù de’ suoi
cittadini e tornata in libertà, poco appresso fu sottoposta a più aspro
giogo di tirannia, come leggendo innanzi si potrà trovare.


CAP. V.

_Della materia medesima._

Erano in questo tempo i signori di Milano intenti con tutto loro sforzo
e studio sopra l’assedio della città di Mantova, e però il marchese di
Monferrato andò a Pavia con milledugento barbute e quattromila fanti, i
quali improvviso a’ signori di Milano cavalcarono il Milanese; e posono
loro campo presso alle porte di Milano; e questo feciono avvisatamente,
sapendo che gente d’arme non era nella città, e acciocchè quelli
di Pavia ch’aveano perduto il vino, per l’assedio e per le bastite
ch’aveano avuto addosso, il ricoverassono sopra il contado di Milano,
e così fu fatto; che stando quella gente a campo come detto è, frate
Iacopo Bossolaro in persona uscì di Pavia con tutta la moltitudine del
popolo, uomini, e femmine, e fanciulli con tutto il carreggio della
città e del contado, e con tutti i somieri e vasella da vendemmiare, e
misonsi nelle vigne de’ Milanesi, e in un dì vendemmiarono e misono in
Pavia diecimila vegge di vino senza alcuno contasto, e catuno n’andò
carico d’uve; e questo avvenne, ch’e’ tiranni sentendosi poche genti
temettono di loro persone, e però non vollono uscire della città.
Il marchese con la sua gente veduta fatta la vendemmia, e ’l popolo
raccolto a salvamento, saviamente levò il campo, e messosi innanzi il
popolo e la salmeria, del mese d’ottobre del detto anno, sano e salvo
si tornò in Pavia, con grande vergogna de’ superbi tiranni.


CAP. VI.

_Come per più riprese in diversi tempi fu messo fuoco nelle case della
Badia di Firenze._

Avvegnachè vergogna sia mettere in nota quello che seguita, tuttavia
può essere utile per l’esempio il male che seguita della discordia
de’ religiosi. La Badia di Firenze avea undici monaci in questo tempo
senza abate, perocchè l’insaziabile avarizia de’ prelati avea questo
monistero conferito alla mensa del cardinale che fu vescovo di Firenze,
messer Andrea da Todi; costui traeva il frutto, e’ monaci rimanevano
senza pastore; e presono a fitto dal cardinale la rendita, che ne
fece loro buono mercato, per fiorini mille d’oro l’anno, acciocchè il
monastero si mantenesse a onore. I monaci erano uomini senza scienza
e di lievi nazioni, e intendea catuno alla propria utilità, e del
monistero non si curavano, e ’l nimico co’ suoi beveraggi gl’inebriava
per modo, che tra loro era tanta invidia e tanta discordia, che nè
dì nè notte vi si potea posare. E come che s’andasse, cominciando di
questo mese d’ottobre, in sei mesi appresso quattro volte fu messo
fuoco nelle case della Badia, e non si potè sapere certamente per cui,
ma da’ monaci della casa per la loro dissensione si tenne per tutti
che fatto fosse. Il primo dì d’ottobre arse la sagrestia e le case del
dormentorio infino alla volta della via del Garbo; e un altro ve ne fu
messo poco appresso, che avvedendosene tosto fu spento senza troppo
danno, e così un altro dopo quello. E la notte di nostra Donna di
marzo ne fu messo uno nella casa di costa al palagio, il quale l’arse
tutta, e avrebbe arse quelle di san Martino, che l’erano congiunte, se
non fosse il gran soccorso, ma molto danneggiò le case e’ mercatanti
lanaiuoli ch’ebbono a sgombrare. Questa malizia benchè movesse da
singulare persona, tutta si può dire che procedesse dalla sopraddetta
avarizia de’ maggiori prelati, che per empiere le loro disordinate
mense levano i pastori alle chiese cattedrali, e per questo le gregge
si dispergono, e diventano pasto de’ rapaci lupi.


CAP. VII.

_Come la terra di Romena si comperò per lo comune di Firenze._

Era lungo tempo stata questione tra ’l conte Bandino di monte Granelli
e Pietro conte di Romena della terra e della rocca di Romena, e in
questi dì era per compromesso la questione in mano del conte Ruberto
da Battifolle, il quale si dicea ch’avea aggiudicata, o ch’era per
aggiudicare Romena al conte Bandino contro alla volontà del conte
Piero; per la qual cosa Piero ricorse al comune di Firenze, e con
molta sollecitudine e grandi preghiere indusse i collegi, che ’l comune
comperasse la sua parte di Romena per fiorini tremilacinquecento d’oro;
e diliberato questo per li collegi, si mise al consiglio del popolo, e
per due volte si combattè la detta proposta nel consiglio, e perocchè
ai popolo non piacea l’impresa furono in discordia; in fine i priori
e’ collegi aoperarono tanto che la proposta si vinse, e fu diliberato
pe’ consigli ch’a Piero conte fossono dati tremilacinquecento fiorini
d’oro delle ragioni ch’avea in Romena. Ed essendo la terra e la rocca
nelle mani del conte Bandino, ed egli allora in bando del comune di
Firenze, il qual bando falsamente gli diede un suo nemico da Calvoli
quand’era podestà di Firenze, ed egli per isdegno, o per altro, non
s’era procacciato a farlo rivocare, e per questo il comune diliberò,
o per amore o per forza di volere avere la tenuta delle sue ragioni.
Sentendo Bandino conte l’impresa determinata per lo comune di Firenze
de’ fatti di Romena, mandò per sicurtà di potere venire a’ signori,
e avutala, fece co’ signori raunare i collegi, e in loro presenza
disse, come Romena era sua per chiara sentenza, e quella tenea e
possedea; e sentendo che ’l comune avea l’animo di volerla, niuno
la potea meglio dare di lui, e in grande grazia si tenea di donarla
al comune di Firenze, di cui si riputava figliuolo e servidore; e
non tanto Romena, ma tutte l’altre sue terre volea dare liberamente
al comune di Firenze, e per lo comune l’avea tenute, e intendea di
tenere sempre. Le profferte furono tanto libere e graziose, che di
presente impetrò grazia d’essere ribandito, e messo in protezione del
comune, e d’essere fatto suo cittadino. E non volendo il comune le sue
ragioni in dono, non potè essere recato a porvi alcuno pregio. Infine i
signori con discreto consiglio ordinarono, che al detto Bandino fossono
dati contanti cinquemila fiorini d’oro, de’ quali e’ si tenne molto
contento, e di presente fece liberamente la carta della vendita della
terra di Romena, e de’ fedeli e di tutta la giurisdizione ch’avea in
quella, come pochi dì innanzi avea fatto Piero conte della sua parte, e
a dì 23 d’ottobre anno detto, per li consigli del comune fu ribandito,
e fatto cittadino di Firenze, e a dì 28 del detto mese ebbe contanti
fiorini cinquemila d’oro, avendo il dì dinanzi fatta dare la tenuta
della terra e della rocca al comune di Firenze. E le carte della detta
compera di Romena si feciono per ser Piero di ser Grifo da Pratovecchio
notaio. Da’ detti conti il comune liberò i fedeli e feceli contadini,
e diè loro l’estimo e le gabelle come agli altri e la cittadinanza, e
feceli popolari; onde molto furono allegri e contenti, e ripararono i
difetti del castello.


CAP. VIII.

_Come la compagnia di Provenza si sparse per vernare._

La compagnia dell’arciprete di Pelagorga, stata lungamente in Provenza,
era cresciuta in più di quattromila barbute. Il papa e’ cardinali
aveano cerco con preghiere di farli partire del paese; e non avea
avuto luogo. Ma sapendo come la maggiore parte di quella gente era del
reame di Francia, impetrarono lettere e comandamento da parte del re di
Francia, come si dovessono partire delle terre di Provenza ch’erano del
re Luigi, il qual’era di suo lignaggio, e congiunto parente. Le lettere
e ’l comandamento furono ubbidite come da prigione, e di presente si
ridussono in più parti di Provenza per vernare; e così tribolarono
il verno come la state tutta la provincia. E per questo i Provenzali
mandarono al re loro signore, che li venisse a soccorrere con forte
braccio, altrimenti e’ non potrebbono sostenere.


CAP. IX.

_Come la compagnia del conte di Lando fu condotta per i collegati di
Lombardia._

L’altra compagnia in Italia dimorando in sul terreno di Bologna,
ricettati da messer Giovanni da Oleggio ch’allora era signore, e
per sicurtà di sè s’era fatto amico del conte di Lando e degli altri
caporali di quella; e com’è narrato poco addietro, i signori di Milano
aveano presa la Serraia di Mantova, e fortemente stretta la città
d’assedio, e quivi faceano ogni punga per vincerla. Gli allegati
lombardi contro a loro cercavano la difesa, la quale non si potea fare
senza gran forza, che lungamente si potesse mantenere: e però diedono
ordine alla moneta che catuno dovesse pagare ogni mese, e fu stribuita
per questo modo: che Bologna pagasse come detto è fiorini dodicimila, e
’l marchese di Ferrara fiorini ottomila, e’ signori di Mantova fiorini
tremila, il comune di Pavia fiorini duemila, quelli di Novara duemila,
i Genovesi coll’aiuto segreto ch’avea il doge loro da’ Pisani fiorini
quattromila; il signore di Verona allora si stava di mezzo e quello
di Padova; il marchese di Monferrato non ebbe a conferire moneta,
perocch’era capitano in Piemonte, e là facea guerra colla sua gente;
e trovata la moneta, di presente soldarono la compagnia del conte di
Lando, e del mese d’ottobre sopraddetto la feciono partire d’in sul
Bolognese con più di tremila barbute e con tutta l’altra ciurma, e
parte ne misono sul Mantovano, e parte ne mandarono in Vercellese,
accozzati coll’altra loro masnada. Quello che di ciò seguì appresso al
suo tempo racconteremo.


CAP. X.

_Come il re Luigi richiese i comuni di Toscana d’aiuto._

Il re Luigi, vedendo a mal partito il contado di Provenza, diliberò
col suo consiglio d’andare in persona al primo tempo in Provenza con
tutto suo sforzo e degli amici, per liberarla dalla compagnia, e però
richiese tutti i suoi baroni del debito servigio, e ordinò d’avere
moneta e di fare alcuna armata; e del mese di novembre anno detto mandò
per suoi ambasciadori a richiedere i Fiorentini d’aiuto, e tutti gli
altri comuni di Toscana. Il nostro comune diliberò di darli l’insegna
del comune con trecento buoni cavalieri in fino ch’avesse cacciata la
compagnia di Provenza, gli altri comuni feciono la loro profferta più
lieve, e chi se ne diliberò con altra scusa.


CAP. XI.

_Come i Pisani feciono armata per rompere il porto di Talamone._

Avvedendosi i Pisani ch’e’ Fiorentini per preghiere, nè per promesse
larghe, nè per minacce, nè per armata ch’avessono fatta in lega col
doge di Genova per impedire la mercatanzia che non andasse a Talamone,
non si moveano, e che pertinacemente ne portavano ogni sconcio e ogni
gravezza, pensarono di volere vincere Talamone per forza, e ardere
la terra e guastare il porto, e mandaronvi subitamente e per terra e
per mare a fare quel servigio, avendo armate otto galee e uno legno
alla guardia che mercatanzia non andasse a Talamone; ed essendo
apparecchiati in mare, s’apparecchiarono di cavalieri e di masnadieri
e d’argomenti per combattere la terra, e di vittuaglia. I Fiorentini
sentendo questo, avvisarono i Sanesi, e di presente mandarono per terra
assai gente da cavallo e da piè e di molti balestrieri a Talamone,
per potere difendere la terra per mare e dall’oste per terra; i
Sanesi anche vi mandarono loro sforzo. I Pisani vi mandarono l’otto
galee e un legno per mare, e mosso la cavalleria e ’l popolo pisano
per terra, sentirono come il loro aguato era scoperto, e come gente
d’arme da Firenze e da Siena erano andati a Talamone per azzuffarsi
con loro, sicchè per lo migliore si tornarono addietro; e le galee
vedendo fornito il porto di cavalieri e di balestrieri, non ardirono
d’accostarsi alla terra, e stati alquanti dì sopra il porto, del mese
di novembre anno detto lasciarono a Gilio due galee, che ogni navilio
che venisse a Talamone fosse menato a scaricare a Porto pisano. Per
questa cagione i Fiorentini più accesi contro a’ Pisani per li loro
oltraggi, ordinarono di fare armata in mare, per fare ricredenti i
Pisani della loro arroganza; onde seguitarono assai gran cose, come
appresso nel suo tempo racconteremo.


CAP. XII.

_Come essendo l’oste de’ Visconti a Mantova, parte della compagnia si
mise in Castro._

Essendo l’oste de’ signori di Milano stretta a Mantova, e non movendosi
per la venuta della compagnia, nè per la guerra del Piemonte, i
collegati mandarono mille barbute e cinquecento masnadieri in sul
contado di Milano a un grosso casale che si chiama Castro, sedici
miglia di piano presso a Milano, ed entrativi dentro, lo trovarono bene
fornito da vivere, e di là cavalcarono il paese sino presso a Milano,
facendo a’ contadini gran danno, e a’ signori maggior vergogna. L’altra
parte della compagnia s’accostò in Vercellese colla gente del marchese,
e tolsono a’ signori di Milano parecchi castella: e per questo modo,
non potendo levare l’oste da Mantova, guereggiavano i tiranni dove
potevano. I signori di Milano aontati da’ cavalieri di Castro, ch’erano
pochi, e in su gli occhi loro, di subito gli feciono assediare con
intenzione che niuno ne campasse, ma d’avergli a man salva, e di
fargli tutti impendere per la gola, e però non li lasciavano partire.
Ma la cosa ebbe tutto altro fine, come nel suo tempo innanzi si potrà
trovare.


CAP. XIII.

_Come la Chiesa di Roma fe’ gravezza a’ cortigiani._

Avvegnachè lieve cosa sia per lo fatto, la disusata e strana materia
ci strigne a fare memoria, come il papa e’ cardinali contro all’usata
franchigia della corte di Roma, rompendo quella, per volere riparare
le città d’Avignone, e fare guardare la terra per tema della compagnia
di Provenza, non volendo toccare i danari di camera, feciono imposta
a’ mercatanti e agli artefici ben grave, e di presente l’esazione.
E misono la gabella al vino, e un’altra più grave di fiorini uno per
testa d’uomo, e ordinarono gli esattori, e riscossonne parte, ma era
sì incomportabile alla minuta gente, che poco andò innanzi. L’avarizia
de’ prelati, e la franchigia rotta a’ cortigiani, fece di questo molto
maravigliare ovunque se ne seppe le novelle, e maggiormente, perchè la
città è della Chiesa. La gabella del vino e altre gravezze rimasono in
piè, in poco onore de’ guidatori della città di Roma


CAP. XIV.

_Cominciamento di guerra tra certi comuni in Toscana._

Era stata, dopo la partita dell’imperadore da Pisa, tutta Toscana in
tranquillo stato, e alcuna volta in lega tutti e quattro i maggiori
comuni, e non si dimostrava alcuna apparenza di cagione di guerra.
E’ Fiorentini erano fermi di mantenere il porto a Talamone senza
cominciare guerra, o mostrare che rotta fosse loro da’ Pisani. I
Perugini trovandosi in prosperità, e forti di gente d’armi, non
ostante ch’avessono doppia pace col comune e col signore di Cortona,
la prima fatta per proprio movimento del loro comune, innanzi a
quella generale che si fece coll’arcivescovo di Milano, e co’ suoi
collegati e aderenti, alla quale prima richiesono il comune di Firenze,
che entrasse loro mallevadore al comune e al signore di Cortona di
diecimila marche d’oro, che manterrebbono la pace lealmente, e ’l
comune fece un sindaco a potere fare il sodamento e la promessa, e
così fece; e’ Perugini, istigati da Leggiere d’Andreotto loro grande
cittadino, il quale promettea di dare loro la terra per trattato
ch’egli avea dentro, di subito del mese di dicembre anno detto,
con quattrocento cavalieri e con gran popolo vennero a Cortona, e
guastaronla intorno, e poi si posono all’Orsaia, e non si trovò che
trattato vi fosse dentro. L’impresa fu rea, e mossa da gran malizia
per animo di setta, e non ebbe il fine che s’aspettava per i Perugini,
ma fu cagione di gravi cose in Toscana, come seguendo nostro trattato
diviseremo.


CAP. XV.

_Di certe novità apparenti contro il soldano d’Egitto._

Aspettandoci alquanto le novità de’ cristiani, ci occorrono di quelle
de’ saracini; e per meglio intendere le presenti, ci conviene alquanto
trarre addietro la nostra materia. Quando morì il Saladino, uomo
valoroso di virtù e di prodezza, e molto temuto e ridottato signore,
e accrebbe la sua signoria, quando venne a morte lasciò quattordici
figliuoli maschi, e ’l maggiore fu fatto soldano; ma i suoi ammiragli
avendo provato la signoria del padre dura e ridottabile, volendosi
maliziosamente provvedere, s’intesono insieme; e come il soldano non
faceva a loro senno, l’avvilivano di parole nel cospetto del secondo
fratello, e prometteano di farlo soldano se consentisse la morte sua;
e tanto procedettono nella loro malizia, con inducere la vaghezza
della signoria ora all’uno fratello e ora all’altro, che in spazio
di venti anni già otto soldani di quelli fratelli avean fatti morire
l’uno appresso l’altro; e per questo gli ammiragli aveano accresciuto
loro stato e loro baronie, e abbassato quello del soldano, per modo che
poco era ubbidito; e nel 1357 de’ quattordici figliuoli del Saladino
ve n’erano rimasi due, l’uno soldano male ubbidito. E per questo
abbassamento della signoria in questi dì s’era sommosso un signore de’
Tartari, il quale si disse che s’era convertito alla fede di Cristo per
certi frati minori, il quale s’apparecchiò con grande esercito di sua
gente, e con molti cristiani giorgiani, per volere venire a racquistare
la terra santa; e innanzi mandò lettere al soldano comandandoli, che
dovesse a’ suo saracini fare sgombrare la terra santa. Il soldano
e’ suoi ammiragli di queste lettere si feciono beffe, e ordinarsi
dov’e’ venisse di mettersi alla difesa. L’impresa dilatò la fama, ma
il signore, o ch’e’ non fosse in perfetta fede, o in tanta potenza,
raffreddato dell’impresa non seguì suo viaggio.


CAP. XVI.

_Come il re di Navarra fu tratto di prigione._

Essendo i trattati della pace e le triegue dal re d’Inghilterra a’
Franceschi, non ostante ciò, messer Filippo di Navarra, mostrando
d’avere accolta gente da sè, e avea molti Inghilesi in sua compagnia,
era entrato in Normandia, e facea là e in altre parti del reame più
aspra guerra che mai non aveano fatto gl’Inghilesi, e molto tormentava
i Franceschi, dicendo, ch’a torto teneano il re suo fratello in
prigione. E per questa tribolazione del paese, e perchè il re avea
amici tra i tre stati che governavano il reame, i prelati, i baroni,
e’ borgesi ch’erano al governo, feciono sopra ciò loro consiglio, e
mostrarono al popolo come messer Filippo si movea a ragione, perchè
il re di Navarra riceveva torto: e in parlamento di gran concordia,
a dì 28 di novembre anno detto, il trassono di prigione: e in quello
parlamento e’ si scusò, e mostrossi innocente, e mostrò, come ciò
che gli era stato fatto era stata operazione del cancelliere, ch’oggi
era cardinale; e ringraziò il popolo e i tre stati, e seguì d’essere
fedele, e fu fatto capitano di guerra.


CAP. XVII.

_Come i Perugini dall’una parte e i Cortonesi dall’altra mandarono per
aiuto a Firenze._

Incontanente ch’e’ Perugini s’avvidono che ’l trattato d’avere Cortona
era stato bugiardo, e pur l’impresa era fatta, mandarono ambasciadori
a’ Fiorentini significando, ch’aveano trovati i Cortonesi in trattato
di furare certe loro terre contro a’ patti della pace, e però erano
venuti sopra Cortona, e intendeano non partirsene d’assedio, ch’eglino
avrebbono la città ai loro comandamenti. E molto sfacciatamente, e
con grande arroganza, sapendo che ’l nostro comune avea promessa e
sicurata la pace per loro, e’ domandarono aiuto di gente d’arme a
quello assedio. Dall’altra parte in que’ medesimi dì, con più giustizia
e ragione, erano a’ signori gli ambasciadori de’ Cortonesi e del loro
signore, i quali si lamentavano forte de’ Perugini, che senza alcuna
cagione di subito aveano loro rotta la pace, della quale il comune
di Firenze era mallevadore, e domandavano al comune che desse loro
solamente l’insegna con cento cavalieri alla guardia della città,
facendo chiaro il comune ch’e’ Perugini non aveano ragione, e che
trattato per i Cortonesi contro a’ Perugini, o contro alle loro terre,
non era pensato non che fatto; e di questo s’offeriano a fare ogni
chiarezza. Il comune di Firenze, che di natura e d’antica consuetudine
è tardo alle cose, per avere a diliberare con molti consigli, in fine
ordinò e mandò suoi ambasciadori a Perugia, riprendendo il comune di
quella impresa non giusta, e pregandoli per l’onore loro medesimo, e
appresso del comune di Firenze ch’era obbligato, a loro stanza che se
ne dovessono partire; e di ciò furono male ubbiditi.


CAP. XVIII.

_Come la gente de’ signori di Milano furono sconfitti in Bresciana._

Essendo tra’ signori di Milano e’ collegati di Lombardia contro a
loro stretto trattato di concordia, avvenne che duemila barbute della
compagnia valicavano per lo Milanese. Messer Bernabò Visconti sentendo
questo, e temendo d’alcuna sua terra, di presente fece cavalcare messer
Giovanni da Biseggio suo capitano con millecinquecento cavalieri, e
appresso lo seguivano mille barbute per soccorso. Messer Giovanni,
franco e coraggioso capitano, si mise innanzi senza attendere gli
altri mille cavalieri, e colla sua brigata s’aggiunse co’ nemici
in sul Bresciano, e ivi si fedì tra loro aspramente. Quivi avea di
buoni cavalieri, che li riceverono allegramente, ove fu aspra e fiera
battaglia. In fine i cavalieri di messer Bernabò furono sconfitti,
e preso il capitano con venti conestabili, e bene quattrocento altri
cavalieri, e lasciati alla fede, all’usanza tedesca. Trovaronsi morti
in sul campo tra dell’una parte e dell’altra trecento uomini, i più de’
vinti; e questo fu del mese di dicembre anno detto.


CAP. XIX.

_Come l’oste del re d’Ungheria prese la città di Giadra._

Nel settimo libro addietro è narrato l’assedio del re d’Ungheria posto
a Giadra, il quale stato lungamente, del mese di dicembre anno detto,
coll’aiuto d’alcuno trattato d’entro, si menò una cava di fuori in
certa parte ov’era l’aiuto d’entro, e in pochi dì furono fatte cadere
quaranta braccia di muro; e atati da coloro con cui s’intendeano
dentro, ebbono l’entrata della città, ed entrati gli Ungheri dentro,
senza gran contasto vinsono la terra, e tutta la gente de’ Veneziani
ch’erano alla guardia si raccolsono nel castello, ch’era alla marina
alquanto scostato dalla terra, fortissimo e ben fornito a ogni gran
difesa, e da potere avere soccorso di mare. Questa è quella città che
tanta guerra ha fatto fare tra ’l re d’Ungheria e’ Veneziani, e alla
quale il re d’Ungheria in persona alcuna volta con centomila cavalieri
è stato all’assedio, e partito se n’è con vergogna, e ora così vilmente
è stata vinta. Credo che l’ambiziosa superbia de’ Veneziani per gravi
discipline sia umiliata nel cospetto di Dio, per la qual cosa si può
comprendere che Iddio per grazia gli traesse con lieve danno di gran
pericolo e di gravi spese; e bench’elli avessono grande appetito di
pace, tenendo Giadra non la sapeano lasciare, ma ogni omaggio, ogni
gran quantità di pecunia offeriano per quella; ma il magnanimo re volea
innanzi il suo onore, che la pecunia e l’amistà de’ Veneziani. Come i
Veneziani sentirono che la città di Giadra era tolta loro sbigottirono
forte, non ostante che tenessono il castello, ch’era di gran fortezza,
e da poterlo tenere e fornire per mare; ma consideravansi consumati
dalle spese, e la potenza del re essere sopra le forze loro, e però
subitamente gli mandarono ambasciadori per volere trattare della
pace con lui. Il re essendo cresciuto in vittoria sopra loro, per
farli più accendere nell’appetito della pace, a questa non li volle
udire, mostrando animo grave contro al comune di Vinegia per le grandi
ingiurie ricevute da quello, e scrisse in Puglia all’imperadore per
volere fare armare galee, e in Lombardia a’ signori suoi amici perchè
s’apparecchiassono al suo servigio, ch’egli intendea di venire ad
assediare Trevigi, e far guerra per terra e per mare a’ suoi nemici
veneziani. Per questa risposta i Veneziani temettono più forte, e
conobbonsi disfatti dentro alle incomportabili gravezze, e di fuori
dalla gran potenza del re. E per questo diliberarono tra loro ch’ogni
altra posa era accrescimento a’ loro guai, salvo che la pace, e questa
procacciarono, come innanzi a loro tempo racconteremo.


CAP. XX.

_Come messer Bernabò fece combattere Castro._

Come poco innanzi narrammo, messer Bernabò signore di Milano avea
lungamente tenuti assediati nel castello di Castro in sul Milanese
mille cavalieri, e cinquecento masnadieri di quelli della compagnia,
con speranza d’averli per forza e di farli impiccare. E avendo fatto
ordinare sua gente alla battaglia, non essendo il castello forte, da
ogni parte il fece assalire con aspra e stretta battaglia; e avvegnachè
’l luogo fosse debole alla loro difesa, la necessità di difendere
catuno la vita, diede loro smisurata sollecitudine e forza alla difesa,
e combatterono sì aspramente contro alla moltitudine de’ loro nemici,
che per forza gli ributtarono addietro della battaglia, e con danno
di molti morti e d’assai magagnati si ritornarono addietro al campo
loro, ch’era intorno al casale. Avendo l’altra parte della compagnia
ch’era in Vercelli sentito il pericolo de’ loro compagni, mandarono ad
avvisarli della giornata, che verrebbeno col loro sforzo per levarli
di là, acciocch’elli stessono apparecchiati. E incontanente, improvviso
alla gente de’ signori di Milano, del mese di dicembre anno detto, con
duemila barbute bene in concio se ne vennero in sul contado di Milano
dall’una delle parti del casale: e trovando in concio i loro compagni
ch’erano in Castro, con bella schiera fatta s’uscirono del casale, e
aggiunsonsi co’ loro compagni, per modo che la gente del tiranno non
ebbe ardire di muoversi contro a loro. E in questo modo senza niuno
assalto si ridussono, con vergogna de’ signori di Milano, sani e salvi
in Vercellese.


CAP. XXI.

_Come si cominciò a trattare pace da’ collegati a’ Visconti._

Dibattuta lungamente la guerra tra’ signori di Milano e gli altri
Lombardi collegati, e le cose molto imbarrate da ogni parte, non
ostante che in molte cose la fortuna avesse prosperato gli allegati,
e vergognata l’altra parte, tant’era la forza de’ signori di Milano di
danari e di gente d’arme, che solo sostenendo consumava gli allegati,
e della perdita delle genti e delle terre piccole non si curavano,
e continovo ogni mese aveano fornite e ricresciute le loro masnade,
mostrando maggiore forza l’un dì che l’altro, tenendo l’oste sopra
Mantova, e facendo cavalcare sopra i Lombardi, tormentandoli dopo le
sconfitte ricevute più che prima. Il signore di Mantova, toccandogli la
guerra più nel vivo, mandò messer Feltrino da Gonzaga a’ collegati per
riprendere il trattato della pace co’ signori di Milano, e fece dare
speranza a’ signori di Milano di dar loro la città di Reggio, e per
questo diedono udienza al trattato del mese di gennaio del detto anno.
Ma innanzi che ’l trattato avesse effetto, altre cose avvennono tra
loro, le quali prima ci verranno a raccontare.


CAP. XXII.

_Come i Perugini puosono cinque battifolli a Cortona._

Tornando a’ fatti di Cortona, trovando coloro ch’allora reggevano
il comune di Perugia, che l’impresa non era stata ben fatta, e ch’e’
Fiorentini glie ne riprendeano, e molti altri loro buoni cittadini, per
non avere vergogna dell’impresa, poichè fatta l’aveano, e il popolo
minuto, che allora reggea la città, se ne mostrò tanto infocato, che
incontanente crebbono gente d’arme da piè e da cavallo, per fornire
il contradio di quello che erano pregati da’ Fiorentini. E già però i
Fiorentini per troppo amore che portavano a quel comune, e per vergogna
che ricevessono di loro promessa non vollono tramettersi contro a’
Perugini per difesa de’ Cortonesi, com’e’ poteano a loro vantaggio,
altro che con parole, onde da’ savi uomini furono assai biasimati.
E’ Perugini vedendo che ’l comune di Firenze non volea prendere la
guardia di Cortona, come e’ dovea e potea fare, presono più baldanza,
e rinforzarono l’oste di molta gente, e chiusono la città d’assedio
con cinque battifolli, per modo che non vi si poteva entrare nè uscire
senza grande pericolo; e questo fu all’entrata del mese di gennaio del
detto anno. Gli assediati erano male forniti di gente forestiera alla
difesa, e a’ cittadini convenia fare la guardia grande di dì e di notte
che gli affliggea molto, e questo dava grande speranza a’ Perugini
di venire a’ loro intendimenti; e ’l signore ne stava in grande
gelosia, temendo de’ suoi cittadini, ma i cittadini per singolare odio
che portavano a’ Perugini, temendo di venire alla loro suggezione,
rassicurarono il signore, e strinsonsi con lui, e ordinarono la guardia
volontaria e buona alla difesa della città, e cominciarono a trattare
de’ loro rimedi.


CAP. XXIII.

_Come i Trevigiani furono rotti dagli Ungheri._

Lavorandosi il terreno de’ Trevigiani per gli Ungheri, come già è
detto, trovandosi in Trevigi una franca masnada di cavalieri e di
masnadieri, avendo pensato di fare una grande e utile preda, ed essendo
i lavoratori pe’ campi sotto la guardia degli Ungheri operando la
terra senza paura, non temendo de’ Trevigiani, i cavalieri ch’erano
in Trevigi, con certi Veneziani e Trevigiani a cavallo, e con tutti
i masnadieri a piè, una mattina innanzi al dì uscirono della terra
cinquecento cavalieri, e altrettanti masnadieri e gran popolo, e
cavalcarono il paese, e raccolsono grandissima preda di bestiame grosso
e minuto, e d’uomini. Gli Ungheri sentirono il romore, e come gente
apparecchiata di loro cavalli e che non s’hanno a vestire arme, di
tutte le castella d’attorno trassono a pochi e ad assai insieme, e
cominciarono da ogni parte a impedire colle loro saette i nemici, e
non gli lasciavano cavalcare innanzi alla loro ritratta. E tenendoli
per questo modo, l’altra moltitudine degli Ungheri traeva e cresceva
loro addosso sempre saettando, uccidendo e fedendo de’ cavalli e
degli uomini; e perchè contro a loro si movessono i cavalieri, e’ si
voltavano, e fuggivano, e ritornavano prestamente. E non valendo a’
Trevigiani il combattere e ’l lanciare, che a mano a mano n’aveano più
addosso, convenne loro per forza abbandonare la preda, e intendere a
campare le persone; ma non lo poterono fare sì interamente, che de’
loro non rimanessono trecento tra morti e presi, a cavallo e a piè. E
d’allora innanzi di Trevigi non uscì più gente per vantaggio che fosse
loro mostrato di fuori, e’ Veneziani con più appetito procacciavano
l’accordo della pace col re d’Ungheria.


CAP. XXIV.

_Cominciamenti di nuovi scandali nella città di Firenze._

Era la città di Firenze in questi tempi in grande tranquillità e pace
dentro, e di fuori non avea nemici, e con tutti i comuni e signori
d’Italia era in amicizia, non avendo contro ad alcuno voluto pigliare
parte, e con tutti quelli ch’aveano guerra travagliatosi della pace,
e la novità del porto di Talamone non inducea guerra. La città dentro
per l’ordine de’ divieti delle famiglie de’ popolani, quando alcuno era
tratto agli ufici de’ collegi, aveva fatto venire il reggimento del
comune in molte genti d’ogni ragione, e ’l più in artefici minuti, e
in singulari e nuovi cittadini, e a costoro quasi non toccava divieto
perchè non erano di consorteria, sicchè frequentemente ritornavano agli
ufici, e’ grandi e potenti cittadini delle gran famiglie vi tornavano
di rado. Ancora poca distinzione si faceva per uno comune buono stato
degli uomini: e chi era senza vergogna, a’ tempi che s’insaccavano per
squittino generale gli uomini all’uficio del priorato, si provvedea
dinanzi con gli amici, e colle preghiere, e con doni, e con spessi
conviti; e per questo modo più indegni e illiciti uomini si ritrovavano
agli ufici, che virtuosi e degni. Nondimeno la cittadinanza era più
unita al comune bene, e le sette aveano meno luogo, e i nuovi e piccoli
cittadini negli ufici non aveano ardire di far male nella infanzia
de’ loro magistrati. Nondimeno in grande fallo e pericoloso correa
la repubblica di non riparare a’ manifesti falli che si commettevano
negli squittini, come detto è. Ma certi uomini grandi e popolari
avvedendosi dell’errore del comune, con grave e sagace malizia, e a
fine reo di divenire tirannelli, s’avvisarono insieme, e quello che
si dovea, e potea racconciare con ordine di buona legge e onesta al
fare degli squittini, convertirono sotto il titolo della parte guelfa,
dicendo, ch’e’ ghibellini occupavano gli ufici, e che se i guelfi non
riparassono a questo, poteano pensare di perdere tosto loro stato
e la franchigia del comune, la cui franchigia mantenea la libertà
in Italia. E di vero la parte guelfa è fondamento e rocca ferma e
stabile della libertà d’Italia, e contraria a tutte le tirannie, per
modo che se alcuno guelfo divien tiranno, convien per forza ch’e’
diventi ghibellino, e di ciò spesso s’è veduta la sperienza; sicchè
grande beneficio del nostro comune è a mantenere e accrescere la parte
guelfa. Costoro, avendo conceputa la malizia, e conferita con certi
delle grandi famiglie, dicendo, che quello che intendeano fare sarebbe
materia al comune d’abbreviare i divieti, presono conforto e favore
di venire alla loro intenzione. E succedendo all’uficio del capitanato
della parte de’ caporali che la coperta iniquità aveano conceputa, per
potere con loro seguito avere a tutti i cittadini guelfi e ghibellini
il bastone sopra capo, e potere le loro spezialità sotto il detto
bastone in comune e in diviso adempiere; ed essendo allora per consueto
ordine due cavalieri de’ grandi e due popolani capitani, raccozzò
la fortuna certi cittadini grandi e popolari di pessima e iniqua
condizione, messer Guelfo Gherardini, messer Geri de’ Pazzi, Tommaso
di Serontino Brancacci, Simone di ser Giovanni Siminetti, cittadini
grandi e popolari di pessima e iniqua condizione. I grandi astuti e
cupidi d’uficio, e d’avere poveri, dispetti e detratti degli onori
del comune per non sapere usare la virtù col senno; gli altri popolari
erano conferenti a’ grandi nelle predette cose, fuori che negli ufici
usurpati più per procaccio che per virtù. Costoro tutti in concordia
traendo non al bisogno, o al beneficio del comune o della parte, ma a
quel fine che già è detto, ordinarono una petizione, che in sustanza
contenne, che quale cittadino o contadino di Firenze, ghibellino o non
vero guelfo, avesse avuto per addietro, o avesse per innanzi alcuno
uficio del comune di Firenze, potesse essere accusato palesemente e
occultamente, non nominando eziandio l’accusatore; e che approvandosi
l’accusa per sei testimoni di pubblica fama, che l’accusato fesse
ghibellino o non vero guelfo, essendo i testimoni approvati per uomini
degni da potere portare testimonianza, per li capitani della parte,
e per li consoli delle loro arti, dovesse l’accusato e provato, com’è
detto, essere condannato ad arbitrio della signoria ch’avesse l’accusa
innanzi, nella testa o in quantità di moneta, ch’almeno fosse libbre
cinquecento di fiorini piccioli, e rimosso da ogni uficio e onore del
comune; e ch’e’ testimoni non potessono essere riprovati di falso.
E portata l’iniqua petizione per li detti capitani a’ signori e a’
collegi, ed esaminata, parendo loro ch’ella fosse iniqua e ingiusta,
non la vollono ammettere nè diliberare tra loro. Per la qual cosa i
capitani gli abominavano contro alla parte, e di loro seguaci raunarono
più di dugento cittadini scelti a loro modo, e con essi sotto il titolo
della difensione di parte guelfa, a cui niuno s’opponeva, andarono
con grande baldanza a’ priori e al consiglio, e dissono, ch’e’ non
si partirebbono di là, che la petizione sarebbe diliberata, e così
convenne che si facesse; e vinta fu a dì 15 di gennaio anno detto.
E avuta la petizione alla loro malvagia intenzione, di presente si
racchiusono insieme nel palagio della parte, e per loro squittini
feciono capitani, e priori, e consiglieri di parte di loro seguito
per molti anni, con assai pubblica, sfacciata, e disonesta spezialtà,
e sotto falso nome di parte guelfa trovando modo di distruggere e
d’abbassare il giusto e santo nome di quella, ebbono podere di fare
ogni cosa secondo il loro disordinato appetito. Della qual cosa seguitò
subitamente grande inquietazione del tranquillo e buono stato del
comune, e tutti i cittadini disposti a volere fare i fatti loro, e
non concorrenti alla sconcia setta, stavano sospesi di loro stato e di
loro onore: e comune turbazione ne cadde tra’ cittadini, e appresso ne
seguitarono sconce ingiurie e gravi pericoli alla nostra città, come
leggendo innanzi pe’ tempi si potrà comprendere.


CAP. XXV.

_D’un singolare accidente ch’avvenne in questi paesi._

Essendo dal cominciamento del verno continovato fino al gennaio un’aria
sottilissima, chiara e serena, e mantenuta senza ravvolgimento di
nuvoli o di venti, oltre all’usato natural modo, per sperienza del
fatto si conobbe, che da questa aria venne un’influenza, che poco
meno che tutti i corpi umani della città, e del contado e distretto
di Firenze, e delle circustanti vicinanze fece infreddare, e durare
il freddo avvelenato ne’ corpi assai più lungamente che l’usato modo.
E per dieta o per altri argomenti ch’e’ medici facessono o sapessono
trovare, non poteano avacciare la liberagione, nè da quello liberare le
loro persone, e molti dopo la lunga malattia ne morivano; e vegnendo
appresso la primavera, molti morirono di subitana morte. Dissesi per
gli astrolaghi, che fu per influenza di costellazioni, altri per troppa
sottigliezza d’aria nel tempo della vernata.


CAP. XXVI.

_Come in Firenze nacque una fanciulla mostruosa._

A dì 4 di febbraio anno detto nacque in Firenze al Poggio de’ Magnoli
una fanciulla portata sette mesi nel ventre della madre, la quale avea
sei dita in ciascuna mano e in catuno piede, e i piedi rivolti in su
verso le gambe, senza naso, e senza il labbro di sopra, e con quattro
denti canini lunghi da ogni parte della bocca due, uno di sopra e uno
di sotto; il viso avea tutto piano, e gli occhi senza ciglia: e vivette
dalla domenica a vespro al lunedì vegnente alla detta ora, e più
sarebbe vivuta se avesse potuto prendere il latte.


CAP. XXVII.

_Come i Sanesi si scopersono nemici de’ Perugini._

Il comune di Siena aspettando, e vedendo ch’e’ Fiorentini non
rimoveano i Perugini della impresa di Cortona, avendo il signore di
Cortona singulare amistà co’ Sanesi, gli avea richiesti d’aiuto; e
i Sanesi gravandosi de’ Perugini ch’atavano contro a loro quelli di
Montepulciano, furono contenti d’avere cagione di atare i Cortonesi. E
in prima cercarono per più riprese di mettere masnadieri di furto nella
città, e per la sollecita e buona guardia de’ Perugini non venne fatto,
anzi ne furon presi e morti, ch’aggiunse a’ Sanesi maggiore sdegno. E
trovandosi già scoperti da’ Perugini per queste cavalcate, conobbono
che in palese conveniva fare l’impresa incominciata, se non ne volevano
rimanere vituperati. Cercarono in prima avanzare, se fare il potessono,
e tennero in prima due trattati, l’uno in Chiusi, e l’altro in
Sarteano; e accolta gente a cavallo e a piè cavalcarono prima a Chiusi,
credendovisi entrare, ma la guardia v’era buona, sicchè i loro amici
non ebbono ardire di muoversi, e con vergogna si tornarono addietro.
Appresso cavalcarono a Sarteano, e anche con disonore, scoperti al
tutto nemici de’ Perugini, si tornarono in Siena.


CAP. XXVIII.

_Come i Sanesi misono cavalieri in Cortona alla guardia._

Fatto questo cominciamento per li Sanesi senza alcuno acquisto,
intendendosi con gli assediati, sentirono da loro, come tra la bastita
della Pieve a quella dall’Orsaia avea gran campo voto in mezzo, per lo
quale avvisatamente si potea fare passare della gente; incontanente i
Sanesi elessono cento cavalieri ben montati, e cinquanta Ungheri con
alquanti masnadieri scorti e destri, e con buona condotta li feciono
cavalcare una notte per modo, che giunti la mattina per tempo al luogo
tra le due bastite, senz’essere scoperti, stretti insieme si misono a
passare, e senza ricevere impedimento entrarono in Cortona, ricevuti
dal signore e da tutti i cittadini a gran festa, come gente ch’aveano
gran bisogno d’aiuto e di soccorso; e immantinente misono l’insegna del
comune di Siena nel cospetto de’ Perugini in sulla torre della porta
maestra, e appresso cominciarono a uscire fuori a loro posta, e dare
noia e danno a quelli del campo, e a ricevere e a mettere roba nella
città, di che eglino aveano bisogno, e massimamente strame e legne,
che di vittuaglia erano assai bene abbondanti. Per questa novità i
Perugini si vidono al tutto entrati in guerra co’ Sanesi, e’ Sanesi co’
Perugini, e però catuno si mise in provvisione; e’ Sanesi con maggiore
sollecitudine feciono provvisione d’avere danari in comune; ed essendo
uno Anichino di Bongardo Tedesco fatto capo d’una nuova compagnia che
si levava, ed erano già accolti insieme più di milledugento barbute,
mandaronlo a conducere con tutta sua cavalleria. Lasceremo alquanto al
presente le novità di Toscana per dare parte a quelle di Francia, che
prima ci offrono con non minore ammirazione di lieve materia sformato
avvenimento.


CAP. XXIX.

_La cagione che mosse i borgesi di Parigi a nuovo stato._

Essendo in alcuna cospirazione segreta di trattato il proposto de’
mercatanti di Parigi col re di Navarra, favoreggiato occultamente dal
re d’Inghilterra, prese ardire, e ’l caso gli apparecchiò la materia
acconcia al suo proponimento. Uno borgese di Parigi vendè al Delfino
di Vienna, primogenito del re di Francia, due suoi destrieri, e ’l
Delfino comandò a un suo tesoriere che ’l pagasse: il borgese andò
molte volte al tesoriere per farsi pagare; il tesoriere il menava per
parole; e parendo essere al borgese disperato de’ suoi danari, si turbò
col tesoriere, e dissegli, che s’e’ non pagasse, che ’l comperrebbe di
suo corpo: il tesoriere altiero e presuntuoso non si curò del pagamento
nè delle minacce del borgese. Avvenne, che valicando del mese di
febbraio anno detto il tesoriere per una ruga di Parigi, si scontrò nel
borgese, il quale gli attenne la promessa; e ucciselo; e fuggissi in
franchigia. La novella corse al Delfino e al suo consiglio; i quali di
presente a forza il feciono trarre di franchigia; e impenderlo per la
gola. Per questo il proposto di Parigi montato in furore per lo male
reggimento del consiglio del Delfino, prese compagnia di certi borgesi
di suo seguito, e crebbegli ardimento del favore si sentiva in segreto
del re di Navarra, e che comunemente il Delfino e ’l suo consiglio
erano odiati da tutta maniera di gente; e con meno di ottanta borgesi
armati copertamente, in quel furore se n’andò al palagio reale ov’era
il Delfino e’ suoi consiglieri; e innanzi vi giugnessono, trovarono
nella via un avvocato ch’era del consiglio del Delfino, e di presente
l’uccisono; e seguendo loro viaggio, giunsono al palagio; il portiere
non volea lasciare entrare altro che ’l proposto con pochi, ma entrato
dentro il proposto con alcuni compagni, costrinsono i portieri, e
misono dentro gli altri compagni, e di brigata se n’andarono dov’era
il Delfino con due de’ suoi consiglieri, per cui più si reggea e
governava, e l’uno era il conestabile di Chiaramonte, e l’altro il
conestabile di Campagna; il proposto nella presenza del Delfino li
fece uccidere a ghiado. Il Delfino impaurito si gittò ginocchione
innanzi al proposto, pregandolo che nol facesse morire; il proposto non
sostenne che egli stesse a basso, ma levollo su facendoli reverenza,
e dicendo, come l’aveano per loro signore, ma aveano in odio coloro
che per loro malizia gli davano consigli; e acciocchè non fosse offeso
nel furore della gente già commossa, li misono in capo un cappuccio di
loro assisa, e menaronlo con loro in una parte di Parigi che si chiama
Grieve, e ivi lo feciono giurare che di questo fatto non renderebbe
loro per alcuno tempo mal merito, e che si reggerebbe per consiglio de’
borgesi; e fatta la promessa, e fermata col suo saramento, il rimisono
nel suo primo stato. Divolgata questa cosa per tutta la città di
Parigi, i borgesi lieti s’allegrarono insieme in gran parte, sommovendo
l’uno l’altro, e prestavano il saramento come s’ordinò per lo rettore,
a mantenere il loro novello stato e la loro usurpata franchigia.


CAP. XXX.

_Della pace del re d’Ungheria a’ Veneziani._

Avendo i Veneziani consumato il tempo della matta follía, la quale
a torto aveano sostenuta per molti anni contro al re d’Ungheria con
molto loro danno, si disposono di comune consentimento che dal re si
procacciasse buona e fedele pace; e per poterla avere, liberamente il
comune si rimesse in lui, acconci di fare tutti i suoi comandamenti
delle terre d’Istria, e di Schiavonia e di Dalmazia, che per loro
si possedeano, e che oltre a questo gli fosse offerto ogni ammenda
di danari e d’altre cose ch’alla sua signoria piacesse di volere da’
Veneziani; e fatti de’ maggiori della loro città solenni ambasciadori,
con pieno mandato alle predette cose li mandarono al re; il quale
sentendo la liberalità di quel comune, graziosamente li ricevette; e
udita l’ambasciata, come magnanimo signore, disse, ch’era contento
di riavere tutte le terre del suo reame, e che quelle si levassono
al tutto del titolo del loro doge, sicchè mai per innanzi nè ’l doge
nè ’l comune se ne titolasse; e quando questo fosse fatto, intendea
co’ Veneziani avere buona pace. Ammenda di danari, disse, che non
volea, perocch’e’ non era cupido nè bisognoso di pecunia, ma volea per
ammenda e per titolo d’amicizia, che quando e’ richiedesse il comune
di Vinegia, fosse tenuto di darli armate a sua volontà ogni volta
che le domandasse infino in ventiquattro galee alle spese del re. E
come egli divisò, di buona volontà tutto fu accettato, e promesso di
fare fedelmente per autorità degli ambasciadori, e ferma la pace;
e incontanente feciono rendere il castello di Giadra, e tutte le
terre che teneano in Schiavonia, e in Dalmazia e in Istria che al
re s’apparteneano, e dentro vi misono la gente del re d’Ungheria, e
del titolo del doge le levarono tutte; e il re, del mese di febbraio
anno detto, mandò suoi ambasciadori, i quali restituirono al comune
di Vinegia Colligrano, e tutte le castella che gli Ungheri teneano
in Trevigiana, e con grande allegrezza e festa de’ Veneziani feciono
pubblicare e bandire la pace; e fu in patto, che tutti i gentili
uomini di Trevigiana rimanessono in pace col comune di Vinegia, e
liberi possessori delle loro tenute e castella. E fatto solenne onore
agli ambasciadori del re, feciono per loro decreto in consiglio che
di niuna materia di guerra si dovesse ragionare, e che catuno si
dirizzasse al navicare e a fare mercatanzia. Costoro straccati della
guerra conobbono il beneficio della pace; il nostro comune infastidito
di troppo tranquillo stato, cercò materia di grande turbamento della
cittadinanza, come appresso racconteremo.


CAP. XXXI.

_Come da prima in città di Firenze furono accusati certi cittadini per
ghibellini._

Essendo entrati nuovi capitani di parte guelfa, messer Simone
de’ Bardi, e messer Uguccione Buondelmonti, Migliore Guadagni, e
Massaiozzo Raffacani, e de’ quali non v’era ma’ ma’ uno ch’avesse
stato in comune, e tutti erano animosi ad accendere e suscitare lo
scandalo incominciato pe’ loro precessori; e però furono in concordia
di cominciare l’esecuzione dell’iniqua legge, e accolsono al palagio
della parte certi eletti d’industria, uomini affocati nella volontà
d’abbattere i cittadini de’ loro ufici, e de’ loro stati e onori per
invidia, sotto titolo di dichiararli ghibellini o non veri guelfi. E
per adempire la sfrenata volontà, misono e nominarono per ghibellini
catuno cui e’ voleano a’ loro segreti squittini, e ivi furono nominati
grandi e popolari di molte case e famiglie delle maggiori, e migliori
e più stanti della città di Firenze, antichi cittadini e amatori del
loro comune e di parte guelfa: e recati al partito tra così discreto
collegio, chiunque aveva più boci di essere ghibellino, o non vero
guelfo, insaccavano in cedole, per trarli fuori a parte a parte, e
accusarli e farli condannare, eziandio che di nazione e d’operazione
si trovassono nella verità essere veri e diritti guelfi; e nel primo
squittino insaccarono da settanta cittadini di nome e di stato,
come detto è. Dopo questi levato il saggio dell’accuse, dovevano
insaccare degli altri, perocchè lungamente vi si penava a farli; e
bollendo già tutta la città di questa perversa operazione, e parendo
a catuno buono cittadino male stare, si cominciarono a destare, e a
richiedere gli amici, e a pregare i capitani; e i capitani vedendo
la commozione, cominciarono a tentare, e a reprimersi della loro
opinione contro a’ potenti, cui già avevano insaccati per accusare.
Ma per dare cominciamento al fatto, elessono cinque cittadini, de’
quali pensarono avere minore resistenza; nondimeno accolsono prima
alla parte d’auzzetti di loro seguito più di dugento uomini: e formata
loro accusa di quattro, di cui si poteva alcuna cosa sospicciare
ne’ libri della parte, benchè certo non fosse, acciocchè ’l loro
cominciamento con alcuno verisimile atasse la corrotta intenzione, a
dì otto di marzo andarono i capitani in persona colla compagnia de’
sopraddetti richiesti al potestà, e disonestamente, e fuori d’ogni
consuetudine, accusarono per ghibellino Neri di Giuntino Alamanni, e
Mannetto Mazzetti, Giovanni di Lapaccio Girolami di porta santa Maria,
e Giovanni Bianciardi cambiatore: catuno aveva avuti lievi ufici per lo
tempo passato; ex abrutto gli feciono condannare, e certi altri feciono
rinunziare all’uficio, in che erano de’ cinque della mercatanzia.
A niuno potè valere alcuna scusa. E avendo i capitani cominciata in
parte la loro esecuzione, cominciarono a essere temuti e ridottati
da tutti i cittadini, e chi non si sentiva ben forte, dava opera con
preghiere e con servigi, con doni e con danari di riparare alla sua
fortuna, ch’era nelle mani de’ capitani della parte guelfa. E per
seguire i detti capitani il loro prospero cominciamento, e sventurato
e reo alla comunanza, a dì 5 d’aprile anni 1358, avendo animo di fare
più e maggiore fascio, ma ristretti dal mormorio del popolo, e della
infamia che già correa di loro, si ristrinsono, e fedirono nel molle,
lasciando degli squittinati, e facendo ad arbitrio, n’accusarono
altri otto; ciò furono, Domenico di Lapo Bandini, Mazza Ramaglianti,
Cambio Nucci speziale, Giovanni Rizza, Piero di Lippo Bonagrazia,
Iacopo del Vigna, Christofano di Francesco Cosi, e Michele Lapi; e
tutti gli feciono condannare, senz’essere uditi a ragione, in libbre
cinquecento per uno. E a dì 21 del detto mese, avendo fatto nuovo
squittino, e avvolti ne’ loro sacelli grandissima quantità di buoni e
di cari cittadini, e di quelli delle maggiori case popolari di Firenze
di catuno quartiere, ch’a nominarle non sarebbe onesto, ed essendo per
rivelazione del loro segreto squittino già noto a tutti, la città tutta
si doleva, e grave infamia si spandea diversamente, non senza scandalo,
che l’uno biasimava, e l’altro lodava la mala operazione, ma in genero
tutti i buoni uomini guelfi biasimavano la legge sopra ciò fatta, e
la esecuzione che ne seguitava; e per questo abbassarono ancora la
loro furia i capitani. Ma volendo pur fare male, anche rifedirono
nel molle: e lasciandoli squittinati, ciascuno accusò il suo cui e’
volle: ed essendo senza colpa d’aver preso uficio, e da potersi con
giustizia difendere, feciono condannare Niccolò di Bartolo del Buono,
Simone Bertini, Sandro de’ Portinari, e Giovanni Mattei. Lasceremo
ora addietro alcune altre cose che prima occorsono che quello ch’al
presente seguita, per congiugnere a questa materia alcuna temperanza
di rimedio fatto per bene, che poi s’usò in male, com’è usanza, non del
comune, ma degl’iniqui cittadini.


CAP. XXXII.

_Come a’ capitani della parte furono aggiunti due compagnia_

Al presente occorre a scrivere cosa incredibile e vera. Questa
nuova seduzione dell’iniqua legge fatta sotto il titolo della parte,
generalmente spiacea a tutti i buoni e cari cittadini, veri e diritti
guelfi, e più la sconcia esecuzione che se ne facea, e tutti diceano,
che a ciò si mettesse consiglio e rimedio, ch’e’ cittadini non
vivessono in tanta sospiccione di loro stato. Molti consigli se ne
teneano, e niuno modo vi sapeano trovare, per non dirogare al nome
della parte; e coloro che entravano agli ufici de’ collegi, e agli
altri maggiori, ch’erano più sospetti, coloro erano quelli che più
parlavano, e che più si mostravano zelanti a mantenere la legge e la
sua esecuzione insino che la pietra cadeva sopra loro. Ma vedendo il
genero de’ cittadini essere caduti sprovvedutamente sotto il giogo
della malvagia legge, e non potendovi per via diretta riparare, e
vedendo così i guelfi come i ghibellini, ma troppo più i guelfi, che
l’onore e lo stato potea essere tolto a catuno, quando a tre uomini
capitani di parte paresse, e conoscendo che tutti i più malivoli uomini
di Firenze erano poco dinanzi stati insaccati per capitani, priori e
consiglieri di parte senza alcuno divieto, per riparare in parte, ove
non si potea riparare in tutto, a tanto male, i priori ch’erano allora,
di subito e segretamente ordinarono co’ loro collegi una petizione,
e fu di presente vinta in consiglio, che a’ capitani di parte guelfa
s’aggiugnessono due popolani, e che niuna cosa si potesse diliberare
per li capitani, se tre popolari non fossono in concordia; e dove i
grandi doveano essere cavalieri, s’allargò ad ogni grande, acciocchè
l’uficio non continovasse in pochi grandi; e misono a tutti divieto un
anno, e che gli squittini della parte si dovessono rifare di nuovo, e
annullare tutti i fatti; e questa riformagione fu ferma per li consigli
a dì 24 d’aprile 1358. E avvegnachè questo non fosse opportuno rimedio,
fu alcuno freno all’ordinato male, e molti per questo intervallo ebbono
tempo da potere rimediare a’ fatti loro; nondimeno coloro ch’aveano
l’animo e la mente sollicita a rimanere col bastone della parte, per
potere premere gli altri cittadini, argomentarono a nuovi squittinì,
e in questo e in altre cose feciono tanto, ch’ogni uficio accresceva
nuovo scandalo nella cittadinanza, come leggendo per li tempi si potrà
trovare.


CAP. XXXIII.

_Come i Sanesi uscirono fuori per soccorrere Cortona._

Tornando a’ fatti di Cortona, i Sanesi ch’aveano presa la difesa, e
soldata la compagnia d’Anichino in Lombardia, e fattala valicare a
Siena, e con alquanti loro soldati, a dì 18 del mese di marzo 1357,
uscirono fuori con milleottocento barbute, e con gran popolo di soldo
e del loro contado per andare a soccorrere Cortona, ch’era al tutto
circondata e stretta da’ battifolli de’ Perugini; e andaronsene in
su quello di Montepulciano, e ivi stettono quattro dì. E in questo
tempo i Perugini per recarsi più al sicuro, sentendosi presso l’oste
de’ Sanesi, arsono il battifolle da Camuccia; e quelli di Cortona,
sentendosi presso il soccorso, e ch’e’ Perugini per tema aveano
arsa la bastita da Camuccia, presono ardire, e subitamente popolo e
cavalieri uscirono di Cortona, e assalirono il battifolle ch’era ad
Alti sopra la città, e quello combatterono sì aspramente, che per forza
il vinsono, e molti de’ difenditori uccisono e presono, gli altri
si salvarono fuggendo al battifolle di Mezzacosta, e all’Orsaia. In
questi medesimi dì messer Andrea Salimbeni, che guardava la rocca di
Castiglioncello oltre al Noro, avea promesso di darla a’ Perugini per
fiorini tredicimila d’oro, i Perugini vi cavalcarono, e per lo trattato
entrarono nel castello; il traditore per paura de’ consorti, o per
altra provvisione de’ Sanesi, non volle dare la rocca a’ Perugini,
onde poco appresso se ne partirono, e’ Sanesi ne presono la guardia, e
trassonla di mano a messer Andrea.


CAP. XXXIV.

_Come si levò l’oste da Cortona._

I capitani dell’oste de’ Sanesi avendo fatto vista di valicare a
Cortona contro all’oste de’ Perugini per la via dall’Olmo d’Arezzo,
avendo innanzi segretamente provveduto loro cammino, subitamente si
misono per lo contado d’Orvieto, e cavalcando sollecitamente, prima
furono al ponte Cavaliere in sulle Chiane di là dal Castello della
Pieve ed ebbonlo passato, ch’e’ Perugini se n’avvedessono; ed entrati
in su quello di Perugia, entrarono senza contasto in uno castelletto
de’ Perugini chiamato Piegaia; e nel borgo arsono alquante case, e
valicarono innanzi alle taverne di Bertuccio, e di là se ne vennono
a Panicale sopra il lago; e benchè potessono fare assai danno per lo
paese, se ne temperarono, per non accrescere materia di maggiore odio
co’ Perugini. Essendo l’oste de’ Sanesi appressata, senza mezzo delle
Chiane o di fiumari, e bene in concio per combattere, e’ Perugini mal
provveduti da riceverli alla battaglia e alla loro difensione, presono
partito di partirsi dall’assedio di Cortona per lo meno reo; e in
quella notte fortificarono il battifolle da Mezzacosta, e arrosonvi
gente alla guardia, e tutti gli altri battifolli abbandonarono,
e partironsi da campo popolo e cavalieri assai vergognosamente, e
ridussonsi in certe loro castella più vicine. La gente de’ Sanesi
scesono la mattina in sul piano del lago, e colle schiere fatte se ne
vennono all’Orsaia, e non trovandovi i nemici, si posarono quivi il
sabato santo a dì 30 di marzo 1358, e in Cortona misono quella gente
a cavallo e a piè che vollono con ogni altro fornimento compiutamente;
e appresso il dì della Pasqua si tornarono all’Olmo, e appresso se ne
vennero a Torrita in su il loro terreno, sani e salvi senza alcuno
contasto. E per questo modo fu libera Cortona dall’arroganza de’
Perugini per le mani de’ Sanesi.


CAP. XXXV.

_Di novità di Perugia per detta cagione._

Venuta la novella a Perugia come la loro oste con vergogna s’era
levata, e Cortona s’era fornita, il popolo si levò a romore e presono
l’arme, e averebbono morto Leggiere d’Andreotto loro cittadino,
e motore di questa guerra e capitano dell’oste, perch’egli avea
abbandonato a’ Sanesi il campo dall’Orsaia, se non ch’e’ si partì,
e cessò il furore; e racquetato il bollore, egli, come molto pratico
e astuto, fece mostrare a’ rettori del comune, come per lo migliore
s’erano ridotti in più salvo luogo; e andando di notte ad alcuni suoi
confidenti de’ rettori, tanto adornò sue parole, che le sapea ben dire,
e tanta suasione fece di larghe promesse da sè e da’ conestabili de’
cavalieri di far tosto la vendetta, e di recare onore al comune de’
loro nemici, che fu rimandato nell’oste da capo con più cavalieri,
e con maggiore forza di masnadieri e d’altro popolo. E per fornire
questo, atandoli lo sdegno già conceputo de’ Perugini contro a’ Sanesi,
catuno si sforzò a servire il comune di danari, e accolta gente d’arme,
chiamarono per capitano di guerra Smeduccio da Sanseverino, con grande
animo di volersi vendicare de’ Sanesi. Lasceremo alquanto questa
materia de’ due comuni, che catuno si provvede, e diremo dell’altre
cose che prima ci occorrono a raccontare.


CAP. XXXVI.

_Di una gran festa fe’ bandire il re d’Inghilterra._

Il re Adoardo d’Inghilterra avendo fatta concordia, e lasciato di
prigione il re David di Scozia suo cognato, si pensò di volere fare
pace col re di Francia, la quale avesse principale movimento dalla
sua persona. E per fare questo, fece bandire in Francia, in Fiandra,
in Brabante, in Irlanda, nella Magna, in Iscozia e altri reami, una
solenne festa di cavalieri della Tavola rotonda alla Sangiorgio
d’aprile del detto anno; facendo ogni maniera di gente sicura in
suo reame, e offerendo arme, cavalli, e arnesi a ogni cavaliere che
alla festa venisse, e appresso le spese a chi fare non le potesse; e
ancora a tutta gente d’arme per loro, e chi per loro servigi venisse,
ogni cosa che loro bisognasse per loro vita, e per far prove di loro
cavallerie. Perchè molta gente, udito il bando, si mise in assetto per
esservi al tempo, chi per mostrare di sua virtù, chi per vedere.


CAP. XXXVII.

_Come l’armata del comune di Firenze venne a Porto pisano._

Addietro narrato avemo il malvagio movimento de’ Pisani per levare
la franchigia a’ Fiorentini di loro mercatanzie, e come per la
detta cagione i Fiorentini del tutto partirono da Pisa, e gli altri
mercatanti forestieri che con loro trafficavano, aveano fatto porto
e Talamone; e come i Pisani per levare il detto porto, con favore
di messer Simone Boccanegra doge di Genova amico de’ Pisani, perchè
l’aveano ricevuto e favoreggiato quando fu sposto doge, con otto galee
impedivano il mare, il perchè mercatanzie nè uscire nè entrare poteano
in Talamone. I Fiorentini di ciò aontati pativano disagio e dannaggio,
piuttosto che riconciliarsi co’ Pisani, essendo di ciò richiesti
e per li Pisani e per lo detto doge di Genova a loro richiesta,
offerendo ogni franchigia e ogni vantaggio ch’e’ Fiorentini volessono
domandare. Onde seguitò, che i Fiorentini pertinacemente seguitando, e
perseverando nel loro proponimento, non avendo al gran costo rispetto
ma all’onore del comune, segretamente feciono armare in Provenza dieci
galee, e quattro nel Regno, le quali dieci galee, a dì 18 del mese
di marzo detto anno, si mossono di Provenza cariche, e se ne vennono
levate l’insegne del comune di Firenze in Porto pisano, e ivi stettono
per alquanti giorni, facendo fare la grida sotto piccolo nolo, che chi
volesse mandare mercatanzie a Talamone in sulle galee del comune di
Firenze le potesse sicuramente caricare, e ’l simile feciono in Foce;
e d’indi si partirono, e scaricarono a Talamone; onde molte barche
e legni v’apportarono con roba d’ogni parte, vedendo il mare sicuro.
Le quattro galee del Regno in questi medesimi dì vennono da Napoli, e
incontrarono una galea e uno legno di Pisani cariche di mercatanzia
ch’andavano a Corneto, e presonle, e fecionle scaricare a Talamone
senza fare loro altro danno; d’indi se n’andarono a Porto pisano per
lo modo dell’altre, e appresso in Provenza a caricare. Appresso di
questo i Fiorentini lungamente ritennero cinque galee provenzali, che
stettono a guardia del mare il più sopra Porto pisano, sicchè ogni
legno e ogni barca liberamente caricava a Talamone. I Pisani avendo
fatta la loro pruova, e rimasi beffati di loro pensiero, con loro usata
astuzia mandarono il bando, che ogni uomo potesse liberamente navicare
a Talamone colle sue mercatanzie; nè già per questo i Fiorentini non
lasciarono le loro galee della guardia. Avemo questa materia forse
più stesa che non richieda al fatto del nostro trattato, ma la novità
del fatto ci scusi; sì perchè è la prima armata che mai nostro comune
facesse in mare, e sì per mostrare il fermo proponimento del nostro
comune; il quale nè la disordinata spesa, che in poco tempo passò i
sessantamila fiorini, nè danno, nè sconcio di mercatanti, nè le grandi
profferte de’ Pisani e d’altri per loro, muovere di sua perseveranza
poterono. L’animo del nostro comune si vide netto e intero per fare de’
loro errori ricredenti i Pisani, dimostrando, che senza loro e il loro
porto i Fiorentini potevano fare; e appresso conobbono, che niuna altra
guerra tanto danno e abbassamento poteva loro fare, quanto quella che
si cominciava a praticare: ancora perchè sottilmente cercando, quanto
allo stato de’ detti due comuni, la materia ha più dentro che non
mostra di fuori, e però pensiamo d’essere scusati se di ciò avessimo
soperchio parlato.


CAP. XXXVIII.

_Come il popolo di Parigi cominciò scandalo._

Il governamento del reame di Francia, come è detto addietro, era
ridotto a tre stati, cioè prelati, baroni, e borgesi, i quali tenevano
il consiglio, e diliberavano quello voleano che nel reame si facesse,
e il Delfino vi consentiva. Durando il detto ordine, del mese di
marzo detto anno, avendo il proposto di Parigi con suoi confidenti
presa baldanza dell’abbacinato popolo per lo tagliamento fatto de’
consiglieri del Delfino, avendo nel suo segreto il trattato col re di
Navarra, si sforzava con astuzia mostrare a’ borgesi di Parigi, che per
questi fatti s’intendea più a singulare profitto che a comune bene, e
che la pace e l’accordo del re d’Inghilterra se ne dilungava, e che il
re loro signore n’era tradito. E sotto questo dimostramento col favore
del popolo ruppe quell’ordine, e recò il governamento di Parigi alle
mani de’ borgesi, schiudendone prima i baroni, e poscia i prelati.
E per esempio di costoro così feciono l’altre ville di Piccardia, ed
altre provincie del reame. E qui cominciò l’odio da’ gentili uomini al
popolo, che poi fece grande novità nel reame, come appresso si potrà
trovare. Il Delfino di ciò mal contento, e non potendo riparare, si
partì da Parigi, e andossene ad Orliense.


CAP. XXXIX.

_Come i Perugini tornarono a oste a Cortona._

Tornando alla nuova guerra de’ Perugini e’ Sanesi, ed essendo molto
faticato il comune di Firenze per suoi ambasciadori a Perugia per
mettere accordo e pace tra loro, disponendosi i Sanesi liberamente
alla volontà del comune di Firenze, i Perugini per loro alterigia mai
si vollono dichinare ad alcuno accordo, parendo loro ch’e’ Sanesi gli
avessono troppo oltraggiati; non volendosi ricordare dell’ingiuria
loro fatta di Montepulciano, e d’altre cose ond’eglino aveano assai
villaneggiati i Sanesi, e però ne’ loro consigli usarono atti e
parole non belle contro gli ambasciadori del comune di Firenze, non
lasciandogli dire, sufolando, e picchiando le panche quando faceano
loro diceria; e nella città i loro famigli udivano ontose e vituperose
parole sovente dall’indiscreto popolo minuto. Ma per l’affezione
ch’aveva il nostro comune a quello, e al mettere pace tra’ suoi
vicini, ogni cosa faceva dolcemente comportare. E stando ne’ detti
ragionamenti male intesi, i Perugini accolsono gente d’arme e tornarono
a Cortona, e fortificato ch’ebbono e rinfrescato l’assedio, a dì 8
d’aprile valicarono in su quello di Montepulciano con milleottocento
barbute e grande popolo, e posono loro campo a Greggiano. I Sanesi
con loro cavalleria si stavano in Torrita con milleseicento barbute,
e masnadieri e popolo assai, e nella terra e nelle circustanze assai
erano sicuri, se poca provvedenza e matta baldanza non li avesse
sconci, come appresso diviseremo.


CAP. XL.

_Come i Perugini richiesono i Sanesi di battaglia._

Parendo, come detto è, a’ Perugini avere ricevuto vergogna e oltraggio
da’ Sanesi, per vendicare loro onta li mandarono a richiedere di
battaglia: e per avventura Anichino di Bongardo capitano de’ Tedeschi
fu il primo richiesto, il quale allora era nel borgo di Torrita. Esso
vanaglorioso prosuntuosamente fe’ tantosto sonare li stromenti, e con
gran festa prese il guanto della battaglia di suo proprio, facendo doni
al messaggio. Ma dopo il fatto s’avvide che troppo avea fallato di non
avere di sì gran fatto preso consiglio co’ cittadini di Siena, ch’erano
conducitori dell’oste e suoi consiglieri, e però ritenne il messo,
ed entrò nella terra dov’erano i suoi compagni, e loro disse quello
ch’avea fatto. Ai Sanesi molto dispiacque, conoscendo il pericolo;
e per ricoprire il fallo del loro capitano, feciono aggiugnere alla
risposta, che il giorno fosse fra gli otto dì che seguivano. I Perugini
avendo questa risposta, e sapendo il modo che per lo capitano prima
era stato tenuto, e appresso per lo consiglio, compresono chiaramente
ch’elli non erano acconci a torre battaglia, onde diliberarono di
trarsi innanzi, e richiederli colle schiere fatte in vergogna di
loro avversari: e ciò facendo, senza prendere battaglia, pensavano
avere purgata loro vergogna, e tornarsene addietro; stimando, che con
loro onore poi, mediante il comune di Firenze, si potesse venire a
concordia e a pace. Ma forse la superbia dell’uno popolo, e l’arroganza
dell’altro e presunzione, non avea merito d’avere riposo; uscì
l’impresa ad altra fine che per loro non si stimava.


CAP. XLI.

_Come furono sconfitti i Sanesi da’ Perugini._

Come detto è, il seguente dì a di 10 del mese d’aprile detto anno, i
Perugini, come saviamente aveano diliberato e provveduto, si partirono
da Greggiano, dirizzandosi con tre schiere fatte di loro verso Turrita,
e strinsonsi infino a piè della terra nel piano, e cominciarono a
trombare e richiedere i nemici di battaglia. I Sanesi vedendo i loro
nemici venire baldanzosi colle schiere fatte n’ebbono sospetto, e per
non avere quella vergogna, presono consiglio d’armarsi, e d’uscire
fuori del castello a loro vantaggio in luogo ch’e’ non potessono essere
sforzati, e ivi starsi, e rendere suono per suono, e per parole parole
senza combattere, non pensando potere essere tratti a battaglia per la
fortezza del luogo, e per le spalle della terra. Ma non sono nell’uomo
le vie sue, ma nella provvidenza di Dio, la quale sovente dispone
oltre agl’ingegni e consigli degli uomini; e così avvenne a questi
due popoli, e a ciascuno fuori di sua opinione o pensiero. Perocch’e’
Sanesi fidandosi, come è detto, della fortezza del luogo e delle spalle
della terra, uscirono fuori all’inviluppata, e con poco ordine, e senza
il loro capitano Anichino di Bongardo, il quale, o per sdegno preso
della folle accettagione da’ Sanesi non esaudita, o per altra pazzia,
o malizia, co’ suoi Tedeschi non prendea arme. Intanto da quaranta
cavalieri scorridori di quelli de’ Sanesi si misono di costa in su
un collicello, ch’era in mezzo tra l’una e l’altra oste, per vedere
con loro sicurtà il reggimento de’ nemici loro; e ciò veduto per li
Perugini, si mossono di loro schiera circa a cento cavalieri, e per
traverso giunsono sopra i detti scorridori de’ Sanesi, e loro quasi
improvviso assalirono; perchè non potendo sostenere il soperchio, si
ritrassono alla schiera. Gli Ungheri arditi e vogliosi gli seguitarono,
e tanto avanti trascorsono, che a salvamento ritrarre non si poterono;
e’ Perugini non vedendo senza grande pericolo poterli soccorere, gli
avevano posti per abbandonati, ma il loro capitano disse: Facciamci
innanzi colle schiere, sicchè s’e’ si vogliono raccogliere noi li
possiamo più da presso ricevere; e così seguette. I Sanesi vedendo
muovere le schiere verso loro, non avendo pensiere di combattere, e
temendo di non esservi recati per forza, non essendo con loro Anichino
colla sua gente, volsono le insegne, e tornaronsi in Torrita. I
Perugini veggendo che sconciamente e per viltà si partivano, montarono
in ardire, e misonsi innanzi; e non trovando contasto, in fino alle
barre del borgo di Torrita giunsono baldanzosi, e cominciarono con
grande romore ad assalire il borgo. Veggendo ciò Anichino, colla sua
gente disordinatamente si mise di fuori tra’ nemici, e di presente fu
preso col maliscalco dell’oste e con cinquanta altri cavalieri, perchè
di tradimento mala boce li corse. Preso il capitano e la sua gente
fuori del borgo, e rotta, i Perugini assalirono il borgo; e scesi molti
cavalieri de’ loro a piede, e trovando al riparo lieve contasto, per
forza lo presono; e più avanti passando messer Cagnuolo da Coreggio
soldato de’ Perugini con sessanta cavalieri per entrare nel castello,
i Sanesi uscirono per costa, e tutti a man salva li presono. Allora
si ritrassono i Perugini e rubarono e arsono il borgo, e tornaronsi
co’ prigioni, e colla preda e colla non pensata vittoria a Greggiano,
portandone bandiere assai de’ conestabili ch’aveano trovate negli
alberghi. Nella detta battaglia non ebbe oltre a cento uomini morti tra
dall’una parte e dall’altra, ma assai cavalli morti e fediti, e più di
quelli de’ Perugini. I Sanesi rotti vilissimamente, venendo la notte,
distribuirono i cavalieri alla guardia delle loro terre, e scrissono al
comune loro, che se di subito non s’avesse gente nuova al riparo, che
il loro contado sarebbe arso e guasto da’ Perugini.


CAP. XLII.

_Come si dispuosono i Sanesi dopo la sconfitta._

I Sanesi udita la mala novella gran dolore ne presono, sì per la
vergogna, e sì perchè credendosi avere pace co’ novelli nemici loro,
per l’arroto oltraggiati, si vedevano nella guerra rifermi, e sentivano
ch’e’ Perugini per loro crescere vergogna erano per venire infino alle
loro porte, e non vedeano ciò potere vietare; che perchè il comune di
Firenze avesse d’ogni parte suoi ambasciadori, misurato mezzo trovare
non vi poteano, per la disordinata superbia e dell’uno e dell’altro
comune, onde si disposono di fare danari per diversi modi, quanti più
ne potessono ragunare, e feciono ambasciadori a’ signori di Milano, e
mandarono alla compagnia ch’era in Lombardia per conducerla contro a’
Perugini, e aspettando questo, si ritennono alla guardia delle loro
terre murate, e sgombrarono il contado. I Fiorentini non poterono
ritenere i Perugini, ch’e’ non volessono per loro arroganza, sentendosi
il favore della fortuna, ed essendo nel caldo della vittoria, andare
infino alle porte di Siena, come appresso racconteremo.


CAP. XLIII.

_Come i conti da Montedoglio presono e perderono il Borgo._

Sentendo i conti di Montedoglio, che la maggior parte degli uomini
del Borgo a Sansepolcro erano andati in aiuto de’ Perugini, e che
per tanto, la terra era rimasa sfornita di gente da guardia, avvisato
loro tempo, nel quale si credettono agevolmente prendere la terra e
recarla alla loro signoria, a dì 5 del mese d’aprile detto anno, dato
ordine d’avere gente di soccorso alla loro impresa, cominciarono con
numero di seicento fanti, co’ quali si misono nella terra, e la corsono
senza contasto, e in parte rubarono. I terrazzani spauriti per lo
subito assalto si ridussono nel cassero, e prestamente a’ loro amici
e vicini il fatto feciono assapere, domandando soccorso, e nell’oste
de’ Perugini loro stato feciono sentire; onde i castellani v’andarono
di presente per comune con tutta loro possa, ed ebbono l’entrata per
lo cassero. I conti conoscendosi impotenti a potere tenere la terra
contro a tanti e tali nemici già venuti al soccorso, e a quello che
speravano che tosto dovesse potere venire, senza indugio di tempo, non
s’affidarono di fare lunga dimoranza nella terra, ma l’abbandonarono
il secondo dì che presa l’aveano, portandosene quelle cose sottili che
poterono, e ciò non senza danno della codazza di loro gente, che ne fu
morta e presa.


CAP. XLIV.

_Come il re d’Inghilterra andò a vicitare il re di Francia, e
annunziarli la pace._

A dì 14 d’aprile, essendo bandita la gran festa che il re d’Inghilterra
dovea fare alla Sangiorgio, il re mandò innanzi a Guindifora, ov’era
prigione il re di Francia, e ’l figliuolo, e altri baroni di Francia,
messer Lionello suo figliuolo a dirli, che il re suo padre volea
venire a fare con lui colezione. Il re di Francia il ricevette a gran
festa, e tennelo la mattina con seco a desinare; appresso mangiare
il re d’Inghilterra fu là, e il re di Francia gli si fece incontro,
e ricevettonsi insieme con molta reverenza, e dopo molta contesa di
mettere innanzi, e onorare l’uno l’altro, il re di Francia lo prese di
pari, e andarono a bere insieme con gran festa e allegrezza; di che
uno ministriere festeggiando disse: Mala morte possa fare chi di voi
sturba la pace: il re d’Inghilterra rispose al motto, che già per lui
non rimarrebbe, e che coll’aiuto di Dio tra loro sarebbe buona pace; e
invitò il re di Francia alla festa ch’avea ordinata alla Sangiorgio,
e il re di Francia accettò, e fece suo sforzo per potervi comparire
magnificamente come a lui s’appartenea; dopo ciò il re d’Inghilterra
preso il congio si tornò al suo ostiere.


CAP. XLV.

_Come i Tarlati si feciono accomandati de’ Perugini._

Montata la pompa de’ Perugini per la nuova vittoria, segretamente
teneano trattato co’ Tarlati d’Arezzo, e ricevutigli in loro protezione
e accomandigia con mala intenzione, pensando coll’aiuto de’ segreti
amici, e per furto e per ingegno rimetterli in Arezzo per averne la
signoria, senza scoprirsi contro a’ Fiorentini, cadendo il bisogno
del borgo come è detto, e richiesti furono i Tarlati da’ Perugini,
ed elli s’apparecchiarono prestamente con tutta loro forza d’andare
a soccorrere la terra: non fu bisogno; perocchè i castellani, come di
sopra dicemmo, aveano fatto il servigio, e liberata la terra. Allora
si scoperse, e fu palese che i Perugini senza richiesta de’ guelfi
di Toscana, o consiglio, s’erano collegati co’ Tarlati, e gli aveano
ricevuti loro accomandati, e promesso di rimetterli in Arezzo, onde
i Fiorentini e gli Aretini forte se ne turbarono, e cominciossi a
fare in Arezzo di dì e di notte buona e sollecita guardia coll’aiuto
e consiglio de’ Fiorentini, sicchè cortesemente fu rotta la speranza
a’ Perugini e a’ Tarlati di rivolgere lo stato d’Arezzo. Nel quale
trattato non si trovò messer Luzzi figliuolo naturale di messer Piero
Saccone, il quale per sdegno ch’avea co’ suoi consorti s’accostò a’
Sanesi, e non volle essere co’ Perugini, e apertamente si mescolò nella
guerra contro a loro.


CAP. XLVI.

_D’una folgore percosse il campanile de’ frati predicatori di Firenze._

Nel detto anno, a dì 20 d’aprile, nell’ora quasi di mezza notte, il
tempo ch’era sereno si turbò con disordinata e subita pioggia, e una
folgore percosse nella punta del campanile de’ frati predicatori,
dov’era un agnolo di marmo di statura in altezza di quattro braccia
con grandi alie di ferro, il quale volgea sopra una grossa stanga
di ferro, mostrando col braccio steso il segno de’ venti, la quale
figura in molte parti spezzò, e la stanga volta in arco volse con
una gran corteccia del campanile, e assai di lontano gittò le pietre,
spargendole: e discesa nella maggiore cappella in più parti la incese,
e abbronzò le figure, e il simile fè nel dormentorio senza far danno a
persona, vituperando le cose pompose. Stimossi per molti che ciò non
fosse senza singolare dimostramento d’occulto giudicio, considerato
che i frati del detto luogo disordinatamente passando l’umiltà della
regola loro data da san Domenico, i loro chiostri e’ dormentori sono
pomposi, vezzosamente intendendo alle delicatezze e piaceri temporali.
E di ciò accorgendosi il venerabile maestro Piero degli Strozzi del
detto ordine, uomo di santa vita, considerando che ne’ suoi giorni tre
volte il detto caso era avvenuto, non volle che figura niuna più si
ponesse nel detto luogo, ma armò la vetta del campanile contro la forza
delle folgori con reliquie sante. Continovando alla predetta materia,
le simili cose ne’ detti giorni occorsero infino al mese di luglio, che
spesso cadde grandine sformata nel nostro contado, e nell’altre parti
della Toscana e della Romagna con grandissimi danni di frutti, e di
bestiame e d’alquante persone: nel nostro contado cadde in grandezza di
due tanti d’un uovo di gallina: altrove udimmo che cadde vie maggiore.


CAP. XLVII.

_Della pomposa festa che si fè in Inghilterra in Londra._

Avendo il valoroso Adoardo re d’Inghilterra promessa pace al re di
Francia, come di sopra dicemmo, e ordinato alla Sangiorgio d’aprile
la solenne e vana festa de’ cavalieri erranti alla città di Londra,
grandissima quantità di baroni, e di cavalieri, e di nobili uomini
d’arme del reame s’accolsono per essere alla festa. I baroni come
meglio poterono, ciascuno bene montato, e con nobili armadure e
sopravveste, e insegne vaghe e maravigliose, e le donne vestite di
ricchi drappi, e ornate di ghirlande, fermagli e cinture di perle
e d’altre pietre preziose di gran valuta, ciascuna come meglio
potè. Nella città di Londra era per tutto apparecchiato a ricevere
i forestieri onoratamente, ciascuno secondo il grado suo. Quivi
rinnovellandosi l’antiche favole della Tavola rotonda, furono fatti
ventiquattro cavalieri erranti, i quali seguendo i fallaci romanzi
che della vecchia parlano, richiedeano, ed erano richiesti di giostra
e battaglia per amore di donna. E intorno alla piazza erano levati
incastellamenti di legname con panche da sedere, coperti di ricchi
drappi a oro, e forniti di dietro di ricche spalliere, dove il re e le
reine e altre nobili dame stavano a vedere; e davanti al re veniano
dame e cavalieri con finti e composti richiami di gravi oltraggi,
e differenti l’uno dall’altro, domandando l’ammenda del misfatto, o
battaglia, e il re discernea la giostra, e quale era vinto perdeva
sua dama: le quali facevano alle loro giostre cavalcare, quasi come
presente premio di colui che vincesse: le conquistate erano di presente
menate a corte, e assegnate alla reina come gaggio del vincitore: e
altre molte cose simili a queste vane e pompose, e piene di tante
inveccerie, che forse a Dio ne dispiacque. Le mense furono poste
ornatissime, vezzose e dilicate, con molte e varie vivande. Alle prime
mense fu posto sopra tutte quella della reina vecchia d’Inghilterra,
appresso quella del re di Francia, alla quale cinque figliuoli del re
d’Inghilterra servirono in su grandi destrieri; e il re d’Inghilterra
medesimo, ch’era all’altra tavola con quello di Scozia, alcuna volta
si levò dalla mensa, e andò a vicitare quella del re di Francia.
Questa solennità di festa si coprì sotto il titolo della pace, e per
tanto alcuna scusa ricevette della disordinata burbanza e vanità.
E nota lettore, che le parole del savio che dicono, gli estremi
dell’allegrezza sono occupati dal pianto, si verificarono nel re
d’Inghilterra, a cui la moria, che poco appresso seguette, tolse i
figliuoli con molto dolore e tristizia.


CAP. XLVIII.

_Come i Perugini cavalcarono i Sanesi fino alle porti di Siena._

Smeduccio da Sanseverino della Marca, nuovo capitano di guerra de’
Perugini, come giunse nell’oste, di presente con duemila cavalieri
e con gran numero di gente da piè si dirizzò verso Chianciano, e lo
combatterono, e arsone i borghi. Appresso entrarono in Valdorcia, e
arsono Bonconvento, e corsono infino al Bagno a Vignoni, facendo danni
assai maggiori in vista che in fatto, ardendo di rado allora capanne
e altre vili e disutili cose, e a dì 29 di aprile cavalcarono verso
Siena, e passate le forche assai di presso a Siena fermarono il campo;
e coll’usate burbanze toscane alquanti cittadini di Perugia ivi si
feciono cavalieri, e’ loro scorridori passarono infino a porta nuova:
nella quale per matta baldanza entrarono due di loro, de’ quali l’uno
vi fu morto, e l’altro rimase prigione. Sopraggiugnendo la sera, co’
prigioni che presi aveano in numero di centocinquanta si ritrassono a
Isola, e il seguente dì ripigliarono la via d’Asciano, e si ritornarono
a Perugia: per la qual cavalcata lo sdegno oltre a modo a’ Sanesi
crebbe, di che ne seguì quanto appresso diviseremo. È vero, che come
uso di guerra sovente dimostra, i Perugini non ebbono netta del tutto
l’avventurosa vittoria, perocchè sentendo il signore di Cortona che
tutto lo sforzo da cavallo e da piè era cavalcato a oltraggiare i
Sanesi, veggendosi libero il tempo da potere danneggiare i nemici, nol
volle perdere, e con dugento cavalieri mandò il popolo di Cortona,
e assai danno feciono intorno a Castiglionaretino e a Montecchio, e
arsono presso al lago la Valdecchio; e correndo infino all’Orsaia,
presono due de’ cavalieri novelli de’ Perugini, che per quella via poco
accortamente si tornavano a casa, e a salvamento si tornarono a Cortona
con molta preda, e circa a dugento prigioni. La preda e il danno
fu grande, perchè avendo a vile i Cortonesi, con baldanzosa sicurtà
sprovveduti furono sopraggiunti.


CAP. XLIX.

_Come il legato del papa ripuose l’assedio a Forlì._

L’ultimo dì del detto mese d’aprile, l’abate di Clugnì legato del
papa, avendo accolta molta gente d’arme, fece bandire, che qualunque
cittadino o forestiere volesse uscire di Forlì, sarebbe ricevuto
benignamente da lui e dalla sua gente, e perdonatogli l’offesa di
santa Chiesa, e ricomunicato. Per la qual cosa molti per più riprese
se ne fuggirono al legato, e assai volte quelli che v’erano messi alle
guardie delle mura se ne collavano a terra, e fuggivansi la notte a’
nemici. Il legato vi si ripuose ad assedio con grandissimo popolo, e
con mille cavalieri al cominciamento. Il capitano e’ suoi cittadini
pazzi di lui disperatamente, senza volere prendere accordo, attaccarsi
alla pertinacia e alla durezza, disponendo di tenersi alle difese con
grandissimo loro affanno e disagio.


CAP. L.

_Come i Provenzali feciono compagnia per vendicarsi di quelli dal
Balzo._

Essendo molto assottigliata la compagnia di Provenza, i gentili
uomini, ch’aveano lungamente ricevuto danno ne’ loro paesi, avendo
preso sdegno sopra la casa del Balzo, e sopra quelli del Delfinato che
l’aveano mantenuta loro addosso, si raunarono insieme più di ottocento
cavalieri, e corsono sopra le terre di quelli del Balzo, e guastarono
di fuori, e nel Delfinato feciono alcuno danno. E se il re Luigi avesse
valicato di là, com’avea promesso loro, avrebbono fatte assai maggiori
cose.


CAP. LI.

_Come si pubblicò la pace de’ due re._

Finita la pomposa e vana festa del re d’Inghilterra fatta a Londra,
della quale di sopra abbiamo fatta menzione, poco appresso, a dì 8 del
mese di maggio, il re di Francia e quello d’Inghilterra in pubblico
parlamento feciono pace insieme, e abbracciaronsi e baciarono in
bocca: e dissesi, che per buona concordia e buona pace il re di Francia
lasciava al re d’Inghilterra la contea di Aghemme, e la Normandia, e la
contea di Guinisi, con Galese e le terre che ’l re d’Inghilterra avea
acquistate, e che il re di Francia, in fra la festa di tutti i Santi
milletrecentosessantotto, dovea avere dati al re d’Inghilterra seicento
migliaia di scudi vecchi, e il re Adoardo dovea con tutto suo sforzo
riporre il re di Francia in signoria di suo reame. Onde ciò seguendo
per fornire l’impresa, il re di Francia mandò messer Giovanni conte
di Pittieri suo minore figliuolo, il quale era stato preso con lui in
Linguadoca, a procacciare la moneta, con patto ch’alla festa di santo
Dionigi dovesse tornare, e rimanere per stadico a Bologna sul mare,
tanto che l’altre promessioni e convegne fossono fornite.


CAP. LII.

_Come il legato del papa pose due bastite a Forlì._

Di questo mese di maggio, vedendo il legato la durezza del capitano
di Forlì e del popolo di quella città, che per niuno modo si disviava
dal volere del capitano di Forlì, acciocch’e’ s’avvedessono, che senza
abbandonare l’assedio la state e ’l verno, il legato era fermo di
vincerli per forza, pose tra Faenza e Forlì una grande e forte bastita,
ove mise quella gente a cavallo e a piè che bisognava, per tenere da
quella parte stretta e assediata la città di Forlì; e appresso ne pose
un’altra tra Forlì e Cesena al ponte a Ronco; e nondimeno il campo
suo con l’altra oste pose presso alla città, e continovamente cercava
d’assalire la terra il dì e la notte. E di tutto questo non parea che
’l capitano e’ Forlivesi si curassono niente, ma spesso il capitano
colla giovanaglia di Forlì usciva della terra, e assaliva il campo, e
ritornavasi contamente a salvamento.


CAP. LIII.

_Pace fatta dal re Luigi al duca di Durazzo._

Lungamente era durato lo sdegno che il duca di Durazzo avea portato
contro al re Luigi, parendoli male essere trattato da lui; e per questo
modo guerra si nutricò nel Regno per la compagnia, e poi per lo conte
Paladino, e per gli altri baroni che teneano la parte del duca, di
che il Regno era per tutto mal disposto, e’ ladroni multiplicavano,
e non v’era paese nè strada che sicura fosse. Avvenne, che morto il
conte Paladino e ’l fratello, i baroni cercarono di fare la pace tra’
reali, e il gran siniscalco sopra tutti v’adoperò tanto, che gli recò
a buona pace. E del mese di maggio 1358 con gran festa, con tutti i
baroni e gentili uomini di Napoli, desinarono insieme al vescovado,
e cavalcarono per tutta la terra insieme. E incontanente s’ordinò e
bandì, che tutti i forestieri uomini d’arme si dovessono partire del
reame, e cominciossi a venire rassicurando il paese.


CAP. LIV.

_Come si partì la compagnia di Provenza._

Abbiamo innanzi narrato, come il re Luigi era costretto d’andare
in Provenza per difenderla dalla compagnia che lungamente l’avea
tribolata, e avea richiesti i baroni d’aiuto e i comuni di Toscana, e
catuno s’apparecchiava di servirlo ove andasse la sua persona. Avvenne,
che per le ribellioni che le comuni di Francia avevano fatte contro al
Delfino duca di Normandia, primogenito del re di Francia, e contro agli
altri baroni e gentili uomini del paese, i baroni col Delfino furono
costretti di fare gente d’arme per la loro difesa, e per offendere le
comunanze. E perocchè la compagnia era nutricata e creata al suo caldo
e degli altri baroni, per averli presti al bisogno, e mantenerli alle
spese de’ Provenzali di qua dal Rodano; a questo bisogno chi mandò per
l’una parte e chi per l’altra: e così si partì di Provenza una parte
della detta compagnia. E il re Luigi per questa cagione, e perchè mal
volentieri si partiva del Regno, sostenne l’andata di Provenza.


CAP. LV.

_Come i signori di Milano posono l’assedio a Pavia._

I signori di Milano, per la grande entrata ch’aveano di loro terre in
que’ tempi erano di gran podere, sicchè perchè alcuna volta perdessono
loro gente d’arme, di presente per la forza del danaro erano riforniti
di nuovo, e possenti a tornare in campo meglio che prima. E però non
ostante ch’avessono l’oste grande sopra Mantova, e fornissono contro al
marchese di Monferrato la guerra di Novara e di Vercelli, essendo la
compagnia del conte di Lando, come detto avemo, in aiuto a’ Lombardi
collegati, feciono di nuovo grande oste, e andarono a porre l’assedio
alla città di Pavia del mese di maggio, ove aveano più di duemila
cavalieri e pedoni, e popolo assai per questi assedi. E per mantenere
le grandi spese consumavano le forze de’ collegati, non ostante che
spesso negli assalti la loro gente ricevessono danno e vergogna;
e ciò addiveniva, perchè i loro soldati tedeschi aveano ricetto,
e parte di loro cavalcatori nella compagnia, sicchè contro a loro
non si combatteano lealmente, per non disfare la detta compagnia; e
avvedutisi i signori di Milano per più volte di questo, e trovatisi con
diecimila cavalieri a loro soldo, e mille di quelli della compagnia gli
cavalcavano presso a Milano, non ostante ch’avessono vantaggio contro
a’ loro avversari, per questa cagione cominciarono a dare gli orecchi
al trattato della pace, la quale poi si fornì, come al suo tempo
racconteremo.


CAP. LVI.

_Come i Perugini afforzarono l’Orsaia._

Di questo mese d’agosto, i Perugini per potere con meno gente d’arme
e con minore spesa mantenere l’assedio a Cortona, cominciarono ad
afforzare di mura e di fossi l’Orsaia per farvi una terra nuova, sicchè
il verno come la state potessono tenere assediati i Cortonesi dal
lato del piano. I Cortonesi per questo poco si curavano, perocchè la
montagna era in loro balía, e aveano gente a cavallo e a piè che spesso
faceano risentire i loro nemici.


CAP. LVII.

_Come si fece la pace da’ signori di Milano a’ collegati._

Quasi per spazio di tre anni era continovata la guerra da’ signori di
Milano a’ collegati Lombardi, nella quale erano i signori di Mantova,
di Ferrara, e di Bologna, e il marchese di Monferrato, Genova, e Pavia;
nelle quali battaglie, ribellioni e presure d’assai città e castella
erano fatte, com’addietro abbiamo narrato, con vari avvenimenti di
guerra e di fortuna e d’una e d’altra parte; e come che la possanza de’
signori di Milano fosse grandissima, pure aveano perdute la maggior
parte delle terre che tenere soleano nel Piemonte, e Novara, Como,
Pavia, e Genova, e Savona, e con la Riviera e di levante e di ponente,
e molte altre castella in quelli paesi; ma tutto che queste terre
fossono loro tolte, per loro entrata e potenza conduceano gente d’arme,
e nuove osti faceano, avendo più forza l’un dì che l’altro, almeno
in apparenza. Per le quali cose i collegati straccati dalle gravezze
delle spese incomportabili a loro, con gran pericolo e pena sosteneano
la guerra, avendo nel segreto grande appetito di pace; dall’altra
parte i signori di Milano s’erano trovati più volte ingannati dalla
gente d’arme di lingua tedesca, che avendo essi forza di novemila in
diecimila cavalieri, mille o duemila barbute della compagnia per più
riprese, come mostrato abbiamo, correano infino alle porte di Milano,
e stavano a oste nel loro contado, e non trovavano Tedeschi che contro
a loro facessono resistenza, che tutti teneano parte nella compagnia,
e i cassi da’ soldi entravano in quella, e per questa cagione
s’aveano vedute rubellare molte terre; per la qual cosa anche eglino
desideravano concordia. Onde essendo mezzano e sollicitatore della pace
messer Feltrino da Gonzaga de’ signori di Mantova, la pace si fornì,
e palesossi per tutto all’uscita del mese di maggio, gli anni 1358,
con certi patti e convegne che poco vennono a dire, come appresso si
dimostrò per lo fine.


CAP. LVIII.

_Come s’abbattè i palazzi di quelli di Beccheria._

Essendo cacciati da Pavia quelli della casa di Beccheria, come a
verno addietro narrato, frate Iacopo Bossolaro fece sua predicazione,
alla quale s’adunò tutto il popolo di Pavia uomini e donne; e con
belle e ornate parole mostrò, che non era bastevole avere cacciati di
Pavia i tiranni, se a loro non si togliesse la speranza del tornare,
la quale loro durerebbe mentre che le loro case e’ palagi fossono
in piè; e che per tanto a lui necessario parea d’abbatterli, e fare
piazza del sito dov’erano. Fornita la predica, tutto il popolo si
mosse, e volonterosamente corse ad abbattere le dette case e palagi:
e in picciolo tempo non vi lasciarono pietra sopra pietra, che non
portassono via; e il luogo recarono a piazza, secondo che il frate
predicando avea consigliato. E fu ciò cosa mirabile, che tutti, maschi
e femmine, piccoli e grandi vi furono per maestri e manovali, e a modo
delle formiche ciascuno ne portò via la parte sua.


CAP. LIX.

_Di molte paci e altre cose notevoli fatte._

Gli antichi Romani al tempo del popolo gentile aveano un tempio nella
città consacrato a Giano, il quale nel loro errore faceano Iddio
dell’anno. E per tanto il primo mese dell’anno a questo loro Iddio
era consacrato, e da lui era denominato Gianuaro, che noi volgarmente
appelliamo Gennaio. Questo tempio di Giano, quando stava aperto era
segno di guerra, e quando stava chiuso era segno di pace. Di che
tornando alle favole antiche, e all’usanze antiche della magnificenza
romana, questo nostro anno dire si potrebbe quello della pace: perchè
in esso fu fatta e fermata la pace dal re d’Inghilterra al re di
Scozia, e lasciato fu di prigione il re David, che carcerato il tenea
quello d’Inghilterra. Ancora si fè la concordia dal re di Spagna al
re d’Araona, e quella dal re d’Inghilterra al re di Francia, il quale
era suo prigione, benchè per li patti rimanesse sospesa. E fecesi la
pace dal comune di Vinegia al re d’Ungheria; e quella de’ signori e
tiranni di Lombardia, che di sopra avemo raccontata; e quella dal re
Luigi al duca di Durazzo; e quella da’ Perugini a’ Sanesi. E più ad
aumento di pace in questo anno fu abbondanza di tutti i frutti della
terra. È vero, che furono nel verno malattie di freddo, e nella state
molte febbri terzane, e semplici e doppie, sicchè se gli uomini fer
pace delle loro guerre, non dimanco gli elementi per li peccati sconci
degli uomini loro fecero guerra. Nella quale fu da notare, che come
l’anno passato la Valdelsa, e il Chianti, e il Valdarno furono di molte
infermitadi gravate e morie, che così nel presente, che fu mirabile
cosa. E perchè per queste paci fossono liete molte provincie, il reame
di Francia in questi giorni ebbe grandi e gravi commozioni di popoli
contro a’ gentili uomini, che molto guastarono il paese, e tre gran
compagnie di gente d’arme settentrionali conturbarono forte Italia
e la Provenza. Il perchè appare, che universale pace non può essere
nel mondo, come fu al tempo che ’l figliuolo di Dio umana carne della
Vergine prese.


CAP. LX.

_Come la compagnia del conte di Lando venne in Romagna._

Incontanente che la pace de’ Lombardi fu fatta, la compagnia del conte
di Lando, ch’era stata contro a’ signori di Milano per condotta de’
collegati, com’addietro abbiamo narrato, si partì di quei paesi; e
all’uscita del mese di giugno, avendo per tutto il passo aperto, e
la vittuaglia da’ paesani, con licenza del signore di Bologna se ne
vennono a Budrio in sul Bolognese; e ivi stettono alquanto di tempo
prendendo loro rinfrescamento, dando di loro usati aguati e improvvisi
assalti assai di tema a tutti i Toscani, e al legato del papa in
Romagna, e così al Regno, aspettando in quel luogo civanza di condotta,
e danari da chi con loro si volesse patteggiare e comporre.


CAP. LXI.

_Come il re Luigi riebbe il castello di Parma._

Narreremo in questo capitolo cosa che non pare degna di memoria, nè
certo è, se non in, tanto per quanto per essa si può dimostrare la
debolezza in que’ giorni del famoso reame di Puglia. Certi ladroni e
rubatori di strade nel detto regno in questi giorni faceano compagnia,
e aveano preso per loro ridotto un castelletto tra Serni e Castello
da mare che si chiama Parma: e ivi s’erano adunati, e rubavano le
strade e’ paesi che da loro non si volieno rimedire. E aveano già
tanto fatto, che circa a centoventi di loro erano montati a cavallo,
e armati a guisa di cavalieri, e spesso correano fino a Napoli, e per
Terra di Lavoro; e maggiore guerra e danno faceano a’ paesani, che
quelli della gran compagnia quand’erano nel Regno, perocch’e’ sapeano
i passi e le vie del paese, e conoscevano i massari e’ paesani da cui
si poteva trarre il danaro. E così teneano in mala ventura e angoscia
tutto il paese, che niuno osava andare per cammini senza buona scorta.
E per questa cagione il re fece gente d’arme, e ristrinseli nel detto
castello, e assediolli: e in fine vedendo i detti ladroni che non
poteano tenere il castello, l’abbandonarono, e fuggirsi del paese, e
il re riprese la terra, e la fornì di sua gente; perchè alquanto ne
migliorò la sicurtà delle strade e de’ cammini.


CAP. LXII.

_De’ fatti di Siena della loro guerra._

Li Sanesi avendo veduto non rotte le loro forze, nè con ordine di
battaglia, essere così sventuratamente sconfitti e cavalcati da’
Perugini infino alle porti, essendo di natura sdegnosa e altiera e di
voglioso consiglio, di comune assentimento deliberarono di fare ogni
loro sforzo e podere per qualunque modo potessono, per vendicare loro
vergogna; non ostante che per lo comune di Firenze oltre all’usato
amore consueto di faticarsi a pacificare loro vicini, ingelosito che
per loro riotte non surgesse allettamento di signore forestiere, di
continovo sollecitamente cercasse modo comportevole a sgravare il
soperchio dell’onta fatta a’ Sanesi, e a questo per forza d’amistà
de’ reggenti e maggiori di Perugia avessono condotto ad assentire i
Perugini, nè modo nè verso co’ Sanesi trovare non potè, i quali nel
furore di loro lieve animo, non guardando a stato di parte guelfa,
nè a’ pericoli che seguire ne potesse alla libertà de’ comuni di
Toscana, malcontenti di ciò che per l’uno comune e per l’altro si
facea, cercando sempre concordia tra loro senza favorare in segreto o
in palese eziandio in parole nessuno di loro contro all’altro, solenni
ambasciadori con pieno mandato e larghe promesse mandarono a’ signori
di Milano per impetrare loro aiuto e favore; ma poco loro valse,
tutto che in niente montasse per loro mal volere e pravo concetto,
perocchè per la pace tra detti signori e comuni di Toscana fatta, per
non romperla non se ne vollono travagliare. Il perchè veggendosi i
Sanesi mancare la detta speranza, in sulla quale stavano ventosamente
a cavallo, cercarono convegna colla compagnia che di Lombardia era
venuta a Budrio, e si patteggiarono ch’andasse al loro soldo per certa
quantità di moneta: e nel patto inchiusono, che la compagnia un mese e
più con altra loro gente dovesse stare in sul contado di Perugia; e per
lo detto servigio diedono caparra e la ferma, all’entrata del mese di
giugno 1358. Semoci un poco allargati in parlanza sopra questa materia,
per fare ricordanza a coloro che per li tempi verranno al reggimento
del nostro comune, che stieno avvisati a’ rimedi della straboccata e
ventosa volontà de’ Sanesi, i quali sovente per levità d’animo hanno
tentata la loro sovversione e degli altri comuni di Toscana, che
vogliono e amano di vivere in libertà.


CAP. LXIII.

_Come i Pisani abbandonarono la gara di Talamone._

I Pisani avendo provato e riprovato per molte riprese, che nè per
loro armate, nè per impedimenti di mare, nè per lega che tacitamente
avessono col doge di Genova, nè per qualunque altri loro argomenti o
sagacità, usando larghe promesse di nuove franchigie e più utile a’
Fiorentini, non aveano potuto rimuovere il comune di Firenze dal suo
fermo proponimento del non tornare a fare porto a Pisa, ma piuttosto
coll’aizzamento gli aveano fatti indurare; e veggendo ch’esso comune
di Firenze s’era messo in armare galee, e cercare ventura di mare
contro a loro; colla usata astuzia, del mese di giugno detto anno, con
segreta deliberazione fatta tra loro mandarono la grida, che i Pisani
e’ loro distrettuali, e ogni altra maniera di gente liberamente potesse
andare a Talamone co’ suoi legni e mercatanzie, e di là recare e
portare mercatanzia salvi e sicuri da tutta loro gente. E incontanente
cominciarono a mandarvi della roba loro con fare porto a Talamone; e
nondimeno i Fiorentini continovo le loro galee teneano alla guardia del
mare.


CAP. LXIV.

_Come i Sanesi chiamarono capitano, e uscirono a oste._

Avendo i Sanesi l’animo infiammato contro al comune di Perugia,
elessono per loro capitano di guerra il prefetto da Vico con gran
balìa nella città e di fuori sopra la gente d’arme, il quale accettò:
ma non venendo presto come il furore de’ Sanesi cercava; a dì 21 di
giugno uscirono fuori a oste sopra il Monte a Sansavino colla loro
gente d’arme, e con settecento barbute che avea Anichino di Bongardo
capitano della nuova compagnia, e ivi sforzandosi di vincere la terra,
senza frutto stettono aspettando il loro capitano e l’altra gran
compagnia che aveano condotta in Lombardia. I Perugini temeano forte
l’avvenimento della compagnia, e acconciavansi bene a lasciare trovare
modo a’ Fiorentini d’avere la pace; nondimeno afforzavano l’Orsaia per
potersi tenere più forti e provveduti alla loro difesa.


CAP. LXV.

_Come si fece certa arrota al palio di san Giovanni._

Di questo mese i Fiorentini arrosono al palio di san Giovanni, ch’era
di due finissimi velluti chermesi, con uno nastro d’oro largo quattro
dita coll’arme del popolo e del comune, riccamente ricamate di seta
d’otto braccia di lunghezza, quanto le dette due pezze erano larghe, di
vaio sgrigiato; cosa molto orrevole e bella alla nostra festa.


CAP. LXVI.

_Come il Delfino mandò per lo proposto di Parigi._

Tornando a’ fatti di Francia che occorsono in que’ tempi, il Delfino
di Vienna, e ’l duca d’Orleans, come addietro avemo fatta menzione,
per disdegno, o forse per paura piuttosto, che più verisimile parve,
s’era partito di Parigi, e l’amministrazione e governo del tutto avea
lasciato al proposto de’ mercatanti e a’ borgesi di Parigi; perchè
essendo ripreso di codardia, si mosse, e appressossi alla città,
stimando che il proposto li portasse reverenza, e come reale lo
ridottasse, e a lui mandò a dire, che con trenta compagni li venisse
a parlare. Il proposto rispose di farlo; e di presente tutto il popolo
commosse, il quale in numero di trentamila o più il seguirono per ire
seco infino al luogo dove stava il Delfino. Il quale udendo in che
forma venia, non lo attese, ma si partì in fretta, per non attendere la
piena del popolo ignorante e mal consigliato, e tornossene ad Orliens.
E ciò fu all’entrata di giugno.


CAP. LXVII.

_Di novità fatte per lo popolo di Parigi._

I borgesi e ’l popolo minuto di Parigi vedendosi armati, che n’erano
poco usi, e che ’l Delfino non attendendo loro furia s’era partito,
montarono in baldanza; e come suole avvenire, e per sperienza si vede,
che i vili, che prendono ardire contro a chi fugge, vantandosi di loro
cuore e ardire, col fumo della vittoria senza contasto si fermarono,
aspettando se loro fosse mosso niente. Il proposto con quelli che lui
seguivano nel malvagio proponimento e consiglio, veggendo lo stolto
popolo armato, e per levità d’animo nimicato contro la casa reale,
pensarono con esso, avanti che giù ponessono l’arme, a maggiori
fatti procedere. E per tanto confortato il popolo, e inanimatolo a
speranza di migliore fortuna, quasi come gente furiosa e irata la
condussono spartamente come vedeano che richiedesse la faccenda, e ogni
parte d’essa sotto guida a’ palagi e a’ manieri de’ gentili uomini
ch’erano vicini a Parigi, i quali non prendendo guardia di loro, e
non avendo alcuno avviso di loro iniquo e reo proponimento, nè del
movimento di chi li guidava, molti ne furono sorpresi. Il furioso
popolo incrudelito, quanti ne giugnea tanti ne mettea al taglio delle
spade, non perdonando a fanciulli o a donne; e a’ micidi aggiugneano
l’arsioni, diroccando fortezze e manieri a costuma di fiere selvagge.
E intra gli altri nobili e ricchi dificii guastarono il bello castello
di Montmorensì, e altre molte castella notabili. E con questa rabbiosa
vittoria, con spargimento di cittadinesco sangue, si tornarono in
Parigi, avendosi fatti nemici i gentili uomini e i baroni del reame.


CAP. LXVIII.

_Come l’altre ville seguirono di fare come Parigi._

Sentendosi per lo paese quanto inumanamente, e con quanta bestiale
fierezza il popolo di Parigi s’era portato contro a’ baroni e a’
gentili uomini circustanti e vicini a Parigi, l’altre buone ville
di Piccardia e di Francia, prendendo esempio dal popolo di Parigi,
tantosto s’adunarono in arme, e uscirono delle ville come se andassono
contro a’ nemici, e ricercarono i gentili uomini e le famiglie loro
per li manieri, e per le castella, e per le tenute dove si riduceano,
e quanti ne poterono giugnere senza misericordia n’uccisono, e i loro
manieri e castella dove poterono entrare disfeciono. E fu sì subita
e improvvisa questa tempesta, che molti tra le loro mani ne perirono,
dando boce e cagione, ch’e’ gentili uomini e i baroni erano traditori
del re loro signore; ma certo chi fu primo motore di tanto scellerato
male fu il reo e il traditore di suo signore e di tutto il reame, come
appresso leggendo si potrà trovare.


CAP. LXIX.

_Di novità di Forlì._

Bene che paia assai disonesto e fuori di ragione, che li prelati che
dovrebbono essere correggitori de’ difetti e peccati de’ secolari
s’inviluppino e rivolgano in quelli, e massimamente in quelli errori
mondani che più paiono orribili e abominevoli, come sono tradimenti,
o se volemo più onesto parlare, trattati, nondimeno per la corrotta
usanza del malvagio tempo che corre, non pare si disdica a coloro che
sono posti da santa Chiesa alla cura de’ suoi beni temporali, tutto
che cherici sieno, usare arte di tradigione. Per questa larga e non
dannata licenza, l’abate di Clugnì legato di papa in Romagna, avendo
fatto tenere certo trattato con le guardie d’alquante bertesche della
città di Forlì, le quali gli doveano essere date, mandò della sua gente
una notte intorno di seicento tra a piè e a cavallo, e presonle, ed
entrarono nella terra; e se avessono avuto con loro più forte braccio
n’erano signori. I cittadini, per l’improvviso e subito assalto non
sbigottiti, insieme col capitano francamente si fedirono tra loro
ch’erano entrati, e per forza gli ripinsono di fuori, avendone morti
e presi una parte di quelli che più s’erano messi innanzi; intra gli
altri rimase preso il figliuolo del conte Bandino di Montegranelli; e
gli altri si fuggirono senza avere caccia fuori della terra, e tornarsi
al legato beffati.


CAP. LXX.

_Come il legato ebbe Meldola._

Uno de’ terrazzani di Meldola capo di setta, essendo per più tempo
stato con certi suoi congiunti sostenuto dal capitano di Forlì per
sua sicurtà di quella terra, si collò dalle mura con suoi compagni di
furto, e fuggissi nel campo al legato, e ivi segretamente stando più
giorni s’intese con altri suoi terrazzani. E a dì 2 di luglio detto
anno, il legato ordinata sua gente sott’ombra di combattere Meldola,
si strinse alla terra. Lo Meldolese di cui avemo parlato, senza arme
uscì della schiera, e innanzi si mise verso la terra, e fè certo segno
a quelli delle mura, sicchè fu conosciuto; e sperando nell’ordine e nel
favore di coloro che dentro avea temperati con belle e savie parole,
ed efficaci alla materia, disse a’ suoi terrazzani, che non volessono
essere morti e disfatti in contumacia di santa Chiesa, che domandava
con gran ragione la sua terra, e con beneficio, per servire al tiranno
scomunicato, che contro a Dio e contro a ragione si tenea in ribellione
del legato e di santa Chiesa, il quale era stretto per modo, che
tosto dovea e potea essere disfatto; loro assicurando che dalla gente
della Chiesa non riceverebbono offesa nè danno alcuno. I Meldolesi
alla Romagnuola voltanti, e affannati dalla lunga guerra, udendo
così parlare il loro terrazzano, ed essendo sospinti da’ consigli e
conforti di quelli dentro che col detto loro terrazzano s’intendeano,
di presente apersono le porte, e ricevettono liberamente con allegrezza
e festa la gente del legato pacificamente. Li forestieri che v’erano
ciò vedendo, bellamente si ricolsono al cassero, e quelli del legato di
presente s’afforzarono nel castello, e assediarono la rocca dentro e di
fuori, avendo dottanza che la compagnia ch’allora era di presso non li
venisse a impedire; e strignendo forte con assedio, e ricercando spesso
con trabocchi e con altre battaglie quelli della rocca, a dì 25 del
detto mese s’arrenderono salve le persone.


CAP. LXXI.

_Come i Fiorentini ordinarono il monte nuovo per avere danari._

Per l’armata del mare essendo consumata molta moneta dell’usate
rendite del comune, sopravvenendo le compagnie del conte di Lando
e d’Anichino di Bongardo, e apparecchiandosi molte altre novità in
Italia, alle quali per conservare suo stato necessità era al nostro
comune di provvedere; e non potendosi ciò fare senza danari, ed
essendo l’entrate del comune indebitate, e porre di nuovo gravezze
senza manifesta guerra incomportabile e pericoloso parea, massimamente
per la nuova dissensione e sospetto nato tra’ cittadini per le accuse
e persecuzioni, che sotto il titolo della parte guelfa si facea de’
buoni, e a’ buoni antichi cittadini che si voleano vivere in pace,
sotto il segno della detta pace onorando il comune, e non poteano.
Quelli che reggevano il comune cercavano nuovo modo, provvedendo per
legge che chi spontaneamente prestasse al comune fosse scritto a suo
creditore nuovamente nell’uno tre, cioè in fiorini trecento prestandone
cento di quello che veramente prestavano, dando al detto monte nuovo e
a’ suoi creditori tutti i privilegi e immunità del monte vecchio. Per
questa via il comune senza altra gravezza ebbe al suo bisogno soccorso;
e se bene si misura, non per carità o affezione ch’avessono i cittadini
alla sua repubblica, ma per la cupidigia del largo profitto; il quale
fuori del buono e antico costume de’ nostri maggiori molti n’ha tirati
dalla mercatanzia in su l’usura, e sì ha ingrossate le coscienze, che
le vedovelle poco si curano dell’anime, pur che il monte risponda bene
loro.


CAP. LXXII.

_Della gran compagnia._

La gran compagnia essendo nella Romagna a’ confini del Bolognese, sotto
la condotta del conte Broccardo e di messer Amerigo del Cavalletto, in
numero di tremilacinquecento cavalieri e grande quantità di pedoni,
baldanzosamente del mese di luglio mandarono a domandare il passo in
Toscana al nostro comune; il quale sorpreso dalla subita domanda,
non avvedendosi de’ patti ch’aveano con loro, intra’ quali che non
dovessono offendere nè passare per lo nostro terreno fra certo tempo,
il quale ancora durava, e temendo della ricolta, che la maggiore parte
era in su l’aia, di presente vi mandarono ambasciadore, concedendo
che potessono passare a dieci bandiere insieme, togliendo derrata per
danaio. Li conducitori e caporali di quella insuperbiti per la temenza
che parea mostrasse il comune, tacendo i patti, risposono, che non
voleano passare spartiti, nè per lo luogo loro assegnato, ma per quello
più loro piacesse. Non volendosi per lo comune a ciò consentire, nel
consigliare che se ne fè furono ricordate e ritrovate le convenienze
il comune avea con loro, e furono creati ambasciadori ch’andassono a
loro, i quali furono; messer Manno Donati, messer Giovanni de’ Medici,
Amerigo di messer Giannozzo Cavalcanti, e Simone di Rinieri Peruzzi; i
quali ebbono i punti di loro ambasciata, e portarono i patti giurati,
soscritti, e suggellati per li caporali e conducitori d’essa compagnia;
i quali mostrati loro, come è usanza di gente d’arme di sì fatta
maniera quando si sente podere, niente li pregiarono; e perseverando in
loro sconce e disoneste domande, accennavano di passare a loro posta, e
donde loro bene paresse, a mal grado di chi il volesse vietare. Perchè
ciò sentendo il comune, sollicitamente s’apparecchiava alla difesa;
e per chiudere loro i passi dell’alpe a suo podere richiesto avea gli
Ubaldini, i conti Guidi e gli altri amici del comune ch’aveano podere
ne’ luoghi onde si temea che potessono passare, e con poco ordine
per la fretta, e senza capitanare, mandò la gente sua da cavallo e
assai balestrieri nel Mugello e alla guardia de’ passi. Essendo i
detti ambasciadori nel campo della compagnia, e segretamente rivocati
dalla loro ambasciata, vi fu mandato di nuovo ambasciadore Filippo
Machiavelli, a cui fu commesso in segreto, ch’aoperasse co’ caporali
ch’e’ non venissono per lo nostro contado, e che in ciò spendesse da
cinquemila in seimila fiorini: e avendosi da lui in risposta che ciò
non si potea fare, il comune raddoppiando la sollicitudine a sua difesa
intendea.


CAP. LXXIII.

_Come il conte di Lando tornò d’Alamagna alla compagnia._

Il famoso capo di ladroni conte di Lando era nella Magna passato,
e portato n’avea il tesoro ch’avea guadagnato, ovvero rubato delle
prede degl’Italiani, e di là comperatone terre e castella, e riscosse
di quelle ch’avea impegnate. Appresso era stato con l’imperadore,
e mostratogli come e’ non era ubbidito da’ comuni di Toscana, e che
dove egli avesse titolo da lui, per forza di sua compagnia per tutto
il farebbe senza suo costo ubbidire: mostrandoli come la Toscana
era piena di soldati di lingua tedesca, che tutti, dove che fossono
a soldo, s’intenderebbono con lui. E per tanto non temea trovare in
campo contasto; e dove con suo titolo entrasse in alcuna buona città
di Toscana, l’altre domerebbe per modo, che di tutte il farebbe libero
signore. L’imperadore, ch’era cupido di natura, e astuto, conobbe il
partito, e per volere a ciò provvedere per modo indiretto e coperto,
sicchè se avesse luogo il consiglio del conte l’esecuzione fosse
pronta, e se non, almeno colorata; essendo consueto di tenere suo
vicario in Pisa, ne intitolò suo vicario il predetto conte in palese,
ma in occulto si disse li diè maggiore legazione. Costui giunto a
Bologna, sentì la condotta fatta della sua compagnia da’ Sanesi contro
a’ Perugini, la qual cosa molto andava a sua intenzione; e vedendo
la discordia del passo col comune di Firenze, di presente cavalcò
alla compagnia, e trovò che gli ambasciadori del nostro comune erano
rivocati; e volendosi ritornare a Firenze, egli li ritenne, e disse,
ch’a niuno partito volea che la compagnia valicasse contro a volontà
del comune nè per lo suo contado; e con gli ambasciadori insieme
trovarono questa via; che essendo la compagnia in Valdilamone dovesse
passare da Marradi, e dappoi passare tra Castiglione e Biforco, e
ricidere da Belforte e Dicomano, e da indi a Vicorata, e poi a Isola,
e da Isola a san Leolino, e quindi a Bibbiena; e i detti ambasciadori
promisono, che ’l comune di Firenze per cinque di loro apparecchierebbe
panatica, prendendo derrata per danaio, e in quelli luoghi donde
dovea essere loro trapasso. Questa concordia fatta senza mandato a’
Fiorentini non dispiacque, perchè parea in parte conforme a’ patti che
i Fiorentini aveano con loro. E per tanto con sollicitudine procedea il
comune, che la vittuaglia fosse apparecchiata ne’ luoghi ragionati per
li quali doveano passare, e già n’era cominciata a mandare a Dicomano.
Gli ambasciadori erano rimasi nella compagnia come il conte avea voluto
per più sicurtà di sua condotta, ma non per mandato ch’avessono dal
loro comune.


CAP. LXXIV.

_Come la compagnia fu rotta nell’alpe._

Fermata per lo nostro comune la concordia colla compagnia, come è di
sopra narrato, la compagnia di presente si mosse con bello ordine
de’ suoi capitani, e a dì 24 del mese di luglio 1358 prese albergo
nell’alpe tra Castiglione e Biforco: e come è d’uso di gente di
sì fatta maniera che male si può temperare, che come il ferro alla
calamita non corra alla preda, passando i patti e convegne si toglieano
la vittuaglia loro apparecchiata senza pagare, e se trovavano cose
non bene riposte nè in luogo sicuro ne faceano danno, oltraggiando
i paesani e di parole e di fatti. Perchè dolendosi gli offesi di
ciò, ed essendo male uditi e peggio intesi, ne presono cruccio; e
raccogliendosi insieme, nel mormorio alquanti di loro cominciarono
ragionamento e di vendetta e di ristoro di loro dannaggio, e senza
perdere tempo, s’intesono insieme quelli di Biforco fedeli de’ conti da
Battifolle, e quelli di Castiglione fedeli di quello d’Alberghettino,
e con loro s’aggiunsono alquanti di quelli della Valdilamone, e
disposonsi a loro vantaggio a luogo e tempo nel trapasso d’assalire la
compagnia, o parte d’essa, e cercare loro ventura per rifarsi di loro
danni, e vendicarsi degli oltraggi che aveano ricevuti. Quella sera
medesima che questo per li villani si cercava ciò fu detto al conte di
Lando, e avvisato che la seguente mattina gli s’apparecchiava novità:
poco mostrò averlo a calere, sapendo che poco numero essere potea, e di
gente alpigiana, e male in arnese quella che il cercasse d’offendere;
nondimanco avanti al fare del giorno avacciò sua cavalcata, e mise sua
gente in cammino, e ne fece più parti, nella prima fè cavalcare messer
Amerigo del Cavalletto, e con lui gli ambasciadori fiorentini, fuori
d’uno che ne tenne con seco, colla maggior parte di sua gente armata e
disarmata con tutta la salmeria.

I conestabili con gente d’arme avvantaggiata con loro arnese sottile
e di valuta, in numero d’ottocento a cavallo e cinquecento pedoni,
col conte Broccardo lasciò alla retroguardia e riscossa. Il cammino
ch’eglino aveano a fare, tutto che non fosse lungo, era aspro e
malagevole, perocchè venendo da Biforco a Belforte presso alle due
miglia della valle, quinci e quindi fasciata dalle ripe e stretta nel
fondo, do v’era la via, la quale si leva dopo alquanto di piano repente
ed erta a maraviglia, inviluppata di pietre e di torcimenti, e tale
passo è detto alle Scalelle, che bene concorda il nome col fatto. Il
detto luogo passò liberamente messer Amerigo con tutta sua brigata,
perchè ancora non erano giunti i villani, i quali poco appresso vi
vennono in numero d’ottanta, o in quel torno, disponendosi partitamente
ne’ luoghi dove pensarono a vantaggio e loro sicurtà potere meglio
offendere i loro nemici: e volendo uno de’ maliscalchi della compagnia
con sua brigata il detto luogo passare, fu da’ villani assalito, e con
le pietre indietro ripinto. Il conte di Lando s’avea tratto la barbuta
di testa, e mangiava a cavallo, e sentendo ciò ch’era cominciato,
subito si rimise la barbuta, e fece gridare arme; onde i villani,
che come detto è, s’erano riposti per le creste de’ colli, e nelle
ripe e balzi che soprastavano le vie, sentendo il passo impedito, si
cominciarono a mostrare per le ripe dintorno, e a voltare gran sassi,
e a gittare con mano sopra la gente del conte ch’erano nel basso del
fossato, quasi come in prigione chiusi da altissime ripe. Il conte non
spaventato nè invilito per lo subito assalto, come uomo d’alto cuore
e maestro di guerre, di subito fece smontare da cavallo circa a cento
Ungheri, e li fece montare per le ripe per cacciare i villani dalle
ripe ov’erano posti colle frecce e colle grida: ma poco li valse,
perocchè i villani ch’erano ne’ luoghi avvantaggiati e sicuri, e
soprastanti assai a quelli dove gli Ungheri in uosa, e gravi di loro
armi e giubboni non poteano salire, colle pietre n’uccisono alquanti,
e gli altri cacciarono a valle. E stando il conte e’ suoi nel romore
e travaglio, colle difese che le sue genti poteano fare nel luogo
stretto e malagevole, dove poco poteano mostrare loro virtù, una gran
pietra mossa nella sommità del monte da parecchi villani, scendendo
rovinosamente percosse il conte Broccardo, e lui e ’l cavallo ne portò
nel fossato, e uccise; e per simile modo molti e morti e magagnati
ne furono. Veggendo i villani che già erano scesi alle spalle de’
cavalieri in luogo che li poteano fedire colle lance manesche, che
i cavalieri per la morte di molti di loro erano inviliti, e per la
strettezza di loro da non si potere ordinare a difesa, nè per niuno
modo abile atare, scesono con loro alle mani; e uno fedele del conte
Guido con dodici compagni arditamente si dirizzò al conte di Lando,
e valentemente l’assalì. Il conte colla spada fè bella difesa: alla
fine non potendo alle forze resistere, s’arrendè prigione, porgendo la
spada per la punta; ed essendo ricevuto, come s’ebbe tratta la barbuta,
uno villano d’una lancia il fedì nella testa, della quale ferita lungo
tempo dopo stette in pericolo di morte. Arrenduto il conte di Lando,
tutti i cavalieri smontarono da cavallo, e come il più presto poterono,
spogliate l’armi per essere leggieri, si diedono alla fuga, e come
ciascuno meglio potea saliano per le ripe, e per li boschi e burrati
fuggendo. Allora non solo gli uomini, ma le femmine ch’erano corse al
romore, e atare i loro mariti almeno con voltare delle pietre, gli
spogliavano, e loro toglieano le cinture d’argento, e’ danari e gli
altri arnesi: e avvegnachè assai ne fuggissono per questo modo, molti
morti ne furono, e pure de’ migliori, e assai presi, e così de’ fanti
a piè. In questo baratto si trovarono morti più di trecento cavalieri
e assai presi, e più di mille cavalli e bene trecento ronzini, e molto
arnese sottile, e robe e danari vi perderono; e benchè fossono usciti
del passo, errando molti presi ne furono nelle circostanze dagli altri
paesani che non s’erano trovati alla zuffa.


CAP. LXXV.

_Come il conte di Lando scampò di prigione._

Come volle fortuna, che per li peccati de’ popoli sovente favoreggia
coloro che a loro sono flagello di Dio, essendo il conte di Lando
preso da uno fedele e uficiale del conte Guido, il detto valente uomo
per acquistare maggior preda, essendo il conte fedito, come dicemmo,
l’accomandò a due suoi compagni: il conte vedendosi nelle mani di due
villani, temendo forte che non lo menassono a Biforco, per l’offese
di sua coscienza fatte la sera dinanzi a quelli della villa, disse a
coloro che ’l guardavano, di dare loro fiorini duemila d’oro, ed elli
lo menassono altrove ovunque a loro piacesse, e che se in questo il
servissono, li farebbe ricchi uomini. I villani conoscendo che se il
conte venisse alle mani del loro signore, che della preda e riscatto
del conte avrebbono piccola parte, si disposono a servire il conte; e
’l menarono alla donna di messer Giovanni d’Alberghettino. La donna,
non essendo ivi il marito, il fece menare a Giovacchino di Maghinardo
degli Ubaldini suo fratello a Castelpagano. Ciò sentendo il signore di
Bologna, ch’era suo intimo amico e compare, di presente vi mandò medici
e guernimenti, e lo fè medicare, e per sua operazione tanto fece, che
liberamente li fu mandato a Bologna: il quale essendo bene provveduto
e curato alla Tedesca, poco regolando sua vita, e massimamente non
prendendo guardia del vino, come fu da Bologna partito cadde in grave
infermità, nella quale più volte fu a pericolo di morte, e liberato del
male rimase in assai povero stato.


CAP. LXXVI.

_Come l’altra parte della compagnia si ridusse in Dicomano._

Essendo rotta e sbarattata la retroguardia della compagnia, come
detto avemo, messer Amerigo del Cavalletto che guidava la parte
dinanzi avendo ciò inteso, ed essendo ne’ prati verso Belforte, e
sentendosi dintorno alcuno romore sì di coloro che fuggivano come di
coloro che li seguitavano, di subito prese grande sbigottimento: e
certo e’ li bisognava, perocchè ’l conte Guido e gli altri paesani
conosceano che venuto era il tempo di potersi vendicare della
compagnia, e d’arricchire della preda loro. Ma il peccato volle che
gli ambasciadori del comune di Firenze si trovarono con loro, a’
quali, temendo di tradimento, si ristrinsono e messer Amerigo e’ suoi
caporali con minacce di tor loro la vita, se a loro fosse faltata
la promessa. Gli ambasciadori che si sentivano in lealtà, e sapeano
che ciò ch’era fatto non era stato operazione del loro comune, gli
assicurarono colle parole: e per non mostrarsi ne’ fatti dissonanti
alle parole, cominciarono a usare autorità che non era loro commessa,
e ferono comandamento a’ fedeli del conte Guido, e a molti altri
ch’erano tratti a’ passi, per parte del loro comune ch’e’ non dovessono
offendere nè danneggiare coloro cui aveano fidati il comune di Firenze,
a cui salvocondotto elli erano diputati, e ch’e’ si dovessono de’
passi levare: i quali tutti, contro a loro intenzione e volere, per
reverenza del nostro comune si levarono dall’impresa. Perchè quelli
della compagnia ch’erano vogliosamente avanti passati affrettarono di
tornare alla schiera, e tutti insieme stretti avacciarono il cammino,
e per le strette vie delle piagge in quel dì si ridussono in Dicomano,
e ivi con botti e altro legname senza perdere tempo s’abbarrarono il
meglio poterono: e conoscendo il pericolo dove erano ridotti, stavano
tutti muti e smarriti alla speranza degli ambasciadori. E nel vero elli
aveano da temere per l’avviso che loro subitamente fu fatto, che ’l
nostro comune avea in quelli stretti passi più di dodicimila pedoni,
de’ quali i quattromila erano balestrieri scelti tra gli altri, e circa
a quattrocento cavalieri, che tutto che temessono il nostro comune, più
ridottavano i villani dell’alpe che li aveano assaggiati.


CAP. LXXVII.

_Come il comune di Firenze procedette ne’ fatti della compagnia._

I rettori del nostro comune avuta la novella della detta rotta, e
di coloro ch’erano rinchiusi in Dicomano, e inteso come contro a’
patti i loro dinanzi aveano scorso infino a Vicchio, e le some del
pane ch’erano a Dicomano aveano rubate, e tolti i muli, e fediti
de’ vetturali; avendo mescolatamente queste novelle senza altro
avviso de’ loro ambasciadori, conoscendo che la materia richiedea
tostano consiglio e partito, di presente feciono consigli di numero
di richiesti in gran quantità, nel quale furono molti notabili e
savi cittadini, e consigliato sopra la materia, di grande concordia
diliberarono, che i passi si tenessono per modo ch’e’ non entrassono
sul nostro contado, e che non si desse loro niuno fornimento, nè si
vietasse ad alcuno la loro offesa: e di presente si mandò per tutto il
contado, che là si traesse d’ogni parte per non lasciarli passare. Il
comandamento fu per li contadini subito adempiuto, perocchè gran voglia
avea il popolo di levare di terra quella maladetta compagnia; ma benchè
traesse il contado di gran volontà, mancaronli per mala provvisione
capitani e conducitori, e nondimeno presono i passi, e stavano con
grande appetito di cominciare la zuffa. E se fatto si fosse, come fare
si potea e dovea, in Dicomano senza rimedio si spegnea il nome della
compagnia per lungo tempo in Italia.


CAP. LXXVIII.

_Il fine ch’ebbe l’impresa de’ Fiorentini._

Se necessità non fosse imposta, poichè preso abbiamo la cura di
scrivere, volentieri taceremmo per onore del nostro comune quello
ch’al presente n’occorre a narrare; ma considerato che per li
simili accidenti che nel futuro possono occorrere, quelli che per
li tempi saranno a provvedere allo stato e onore del nostro comune
possano prendere avviso, e riparare alle disordinate baldanze de’
suoi cittadini, che passano talora e gli ordini e quello ch’è loro
imposto per lo nostro comune, ci conduciamo a scrivere. Noi dicemmo
poco appresso di sopra l’utile e savia diliberazione che prese il
nostro comune contro al resto della compagnia ch’era in Dicomano, la
quale ebbe vere e giuste cagioni, della quale erano uscite lettere
a’ conti Guidi e agli altri circustanti a que’ luoghi amici del
nostro comune, e per lo contado molte n’erano andate, e più per segno
di nostro comune. Il podestà era in que’ paesi stato mandato uomo
bolognese, e di sì poca virtù, che non pensiamo che meriti d’essere
qui nominato. Gli ambasciadori ch’erano con messer Amerigo, di subito
mandarono in Firenze l’uno di loro per volere liberare la compagnia
di coscienza del nostro comune; il perchè di nuovo e di maggiore
numero si fece consiglio di cittadini, nel quale l’ambasciadore con
belle dimostrazioni s’ingegnò di ottenere che la compagnia fosse
posta in luogo sicuro, non facendo ricordo che per gli ambasciadori
fosse preso partito di così fare; nel detto consiglio si prese e fermò
quello ch’era stato ne’ primi. L’ambasciadore era di tanta autorità
e podere, che a richiesta sua i priori ebbono tre altri consigli,
cercando in essi il consentimento di quello ch’egli e’ compagni suoi
presontuosamente aveano diliberato; in effetto in tutti si prese di
concordia quello che dinanzi negli altri era stato fermato; e ciò
fatto, si cominciò a dare ordine all’offesa di coloro cui il comune
avea diliberato che fossono nimici, e ciò fu pubblicato per tutto.
La compagnia era stretta in Dicomano in forma e per modo che tre dì
vivere non vi poteano, e circondata era intorno in maniera, che se non
volassono, partire non si poteano. I colli sopra la Sieve erano presi
pe’ balestrieri fiorentini, e fatte erano grandi tagliate a’ passi dove
l’uscite erano più larghe, ed erano bene guardate; e oltre al grande
numero de’ pedoni ch’erano nel paese mandati per lo comune, e che per
volontà v’erano tratti, v’avea quattrocento cavalieri, de’ quali era
capitano uno broccardo Tedesco antico conestabile del nostro comune,
il quale conoscendo il pericolo dov’era la compagnia, non servando
suo giuramento, con alcuno caporale andò in Dicomano, e ristrettosi
con messer Amerigo e’ suoi caporali presero insieme consiglio, il
quale fu segreto, ma per effetti s’intese, al quale si credette che
participassono gli ambasciadori, per avere di loro concetto e promessa
la scusa, di presente gravi minacce fur fatte agli ambasciadori, e
intra l’altre di torre loro vita se si trovassono di loro promessa
gabbati; appresso delle quali fu detto, e offerto di largo, che voleano
fare ciò che volesse il comune, e per osservanza voleano dare stadichi;
fu riputato malizioso e sagace consiglio. Gli ambasciadori udito questo
si strinsono insieme con fare vista d’avere gran paura, e diliberarono
quello, che come è detto, altra volta aveano diliberato, ciò fu di
trarli di Dicomano a salvamento, e di metterli a Vicchio in quello di
Firenze, ch’era proibito loro, e farli signori del piano di Mugello con
abbondanza di vittuaglia. In questo comprendere si può quanta baldanza
era in que’ tempi ne’ cittadini dello stato, e quanta poca reverenza si
portava per loro alla maestà del comune; e meritevolmente, perocchè nè
premio delle virtù, nè pena de’ falli per lo comune si rendea in que’
giorni, ma le spezialità e le sette de’ cittadini faceano comportare
ogni grande ingiuria del comune con grande pazienza, la quale talora è
vicina di crudeltà per la remissione delle debite pene. Avendo preso
questo partito, come detto è, non degnarono di manifestarlo per lo
loro compagno al comune, e il comune avea provveduto alla gente sua
di capitani, i quali sapendo l’intenzione del comune, più credettono
agli ambasciadori ch’al comune, e consentirono a’ comandamenti che gli
ambasciadori feciono a’ balestrieri e agli altri soldati del comune;
ebbono gli ambasciadori in sul vespero Broccardo Tedesco con tutti i
soldati a cavallo che volentieri feciono quel servigio, e ordinarli
alla retroguardia, per tema de’ fedeli de’ conti che non si poteano
raffrenare, e il passo ch’era preso per li pedoni e balestrieri
fiorentini feciono allargare, e rappianare le tagliate e le fosse, e
abbattere tutte l’altre insegne con una d’un trombadore da Firenze
posta in su un’asta; e avendo fasciata dall’una parte e dall’altra
quella compagnia de’ balestrieri del comune di Firenze li condussono a
Vicchio, e feciono loro dare del pane che mandato era là per l’oste de’
Fiorentini. E avvenne, che non potendosi raffrenare i fedeli de’ conti
dalla mischia, che i balestrieri del comune di Firenze furono costretti
dagli ambasciadori di saettarli. I cittadini, e i contadini di Firenze,
e i balestrieri, che di grande animo erano tratti per combattere la
compagnia, udendo ch’elli erano condotti in signoria del Mugello,
perderono il vigore, e grande dolore n’ebbono, più che se fossono
stati sconfitti, e ben conobbono che ’l comune era stato beffato, e
pubblicamente, e dentro e di fuori, appellavano gli ambasciadori per
poco fedeli e diritti al loro comune.


CAP. LXXIX.

_Come la compagnia andò in Romagna._

Sentito a Firenze che contro alla diliberazione del comune la compagnia
sotto la condotta de’ suoi cittadini s’era partita da Dicomano e
ridottasi a Vicchio, e che era nella signoria del piano di Mugello,
la città per comune se ne dolse, e li rettori d’essa non sapeano che
fatto s’avessono, nè che fare s’avessono; e la grande moltitudine
di gente a piè ch’era sparta per li poggi del Mugello non essendo
capitanata, e non sapendo cui ubbidire nè offendere, non si partia
dalle poste. Quelli della compagnia, che sentivano quello ch’era
diliberato a Firenze, avendo preso riposo per un giorno e una notte
in Vicchio, veggendo i poggi intorno a loro carichi di fanti, e
massimamente di balestrieri, i quali per li vantaggi de’ luoghi onde
aveano a passare più ridottavano, temendo che crescendo la forza del
comune eziandio il piano loro non fosse impedito, la mattina raccolti
insieme da Vicchio scesono nel piano, avendo per loro conducitore
ritenuto messer Manno Donati, e come uomini usi nell’arme, vedendo che
la gente del comune, che loro era vicina, era volonterosa senza ordine
o capitano, lasciato nel piano addietro uno aguato di cento Ungheri,
s’arrestarono nel piano; e ciò feciono non per guadagno che sperassono
di fare, ma perchè vidono che i balestrieri aveano passata la Sieve, o
per vedere, come folli, o per guadagnare, stimando, che se agramente
ne gastigassono alquanti, gli altri intimidirebbono e darebbono loro
meno affanno; e così venne loro fatto. Perocchè caduti nell’aguato,
gli Ungheri gli assalirono da due parti, e non avendo i balestrieri
soccorso, di presente furono rotti e sbarattati; e come dicemmo non
attendendo a’ prigioni, ne uccisono più di sessanta; e ciò fatto,
gli Ungheri si ritrassono alla massa de’ loro, e senza niuno arresto
tutti si diviarono al cammino per lo passo dello Stale sotto la guida
di Ghisello degli Ubaldini, e quel dì cavalcarono quarantadue miglia,
fino ch’e’ giunsono in su quello d’Imola dove erano sicuri, malcontenti
e palesi nemici del nostro comune. La cagione di così lunga giornata
fu perchè Ghisello non volea s’arrestassono nell’alpe, per tema non
facessono danno a’ suoi fedeli, mostrando, se s’arrestassono, ch’e’
sarebbono in gravi pericoli. E per tanto senza niuno indugio feciono
il detto cammino; nel quale i masnadieri, per non rimanere addietro,
lasciarono loro arme per l’alpe per essere più leggieri al cammino. Gli
ambasciadori, fornito il servigio, tornarono a Firenze, e di loro falli
presono scusa a’ governatori del comune con quelle belle ragioni che
seppono meglio divisare; e conoscendo di quanta autorità erano coloro
ch’erano a quel tempo all’uficio de’ signori, detto fu per alcuno de’
detti ambasciadori: Non cercate più questi fatti, ma dite che noi siamo
i ben tornati.


CAP. LXXX.

_Come i signori di Francia vennono sopra Parigi in arme._

Tornando alle travaglie del reame di Francia, nell’addietro narrammo il
subito e sfrenato movimento del popolo minuto, e de’ borgesi di Parigi
e d’altre ville di Francia contro a’ baroni e gentili uomini del paese,
sotto il mal consiglio e condotta del proposto de’ mercatanti e suoi
seguaci; per la qual cosa il Delfino di Vienna mosso e sospinto da’
gentili uomini ch’erano stati dall’indiscreto popolo agramente offesi
e malmenati, per repremere la sua trascotata e furiosa baldanza d’ogni
parte si raccolsono insieme, e all’entrare del mese di luglio del detto
anno vennono sopra Parigi in numero di cinquemila cavalieri, o in quel
torno, avendo per loro capo il sopraddetto Delfino, e accamparonsi a
sant’Antonio, presso a Parigi a due leghe; e ivi si dimoravano senza
fare asprezza di guerra, perocchè ben sapeano che la comune di Parigi
era sommossa, e ingannata dal proposto e da’ suoi seguaci per malvagio
ingegno. Ed essendo nel paese il re di Navarra, che celatamente
s’intendea col proposto e con certi suoi confidenti che guidavano il
popolo, per mostrare di volere atare il popolo e’ borgesi dalla forza
de’ baroni e gentili uomini ch’erano venuti sopra loro, s’accampò a san
Dionigi con millecinquecento cavalieri ch’avea accolti di suo seguito,
e che segretamente avea dal re d’Inghilterra, e con assai sergenti e
arcieri inghilesi e guasconi; e stando quivi, dava ardire a coloro
che con lui s’intendeano in Parigi, dicendo di volere combattere a
petizione del popolo di Parigi col Delfino, e per tutto corse la boce
che la battaglia era ingaggiata, e datole il giorno.


CAP. LXXXI.

_Come il re di Spagna uccise molti de’ suoi baroni._

Secondo che vogliono i savi, il parlare e lo scrivere debbe essere
conveniente alla materia di che si tratta, e da questo principio
procede l’arte del dire ch’è chiamata rettorica, la quale giunta
al nobile ingegno, meglio mostra e fa più piacere quello di che
si ragiona; di questa scienza niente sapemo, come nostra scrittura
dimostra; e per tanto del nostro scrivere rozzo, ma vero, non diletto,
ma frutto potranno prendere i belli parlatori. Questo per tanto n’è
piaciuto di dire, perchè le bestiali crudeltà remote da ogni umanità
le quali appresso scrivere dovemo, a bene dimostrarle meriterieno
l’eloquenza di Tullio, ma noi le metteremo in nota col nostro usato
volgare, fuggendo i vocaboli i quali per la prossimità della grammatica
dalli volgari a cui scrivemo sono poco intesi. Il crudelissimo e
bestiale re di Spagna, avendo contro al volere e consiglio de’ suoi
baroni palesemente ritolta la sua concubina, o più volgarmente dicendo,
bagascia, e quella sopra modo disonestamente magnificando nel suo
reame, trascorse in tanto disordinata e sconcia vita, che tutto l’animo
reale cambiò in crudele tirannia. Il forsennato re, per torsi dinanzi i
riprensori de’ suoi modi sozzi e sfrenati, e coloro di cui potea temere
che a tempo i suoi errori dovessono potere correggere, maliziatamente
trasse fuori boce ch’e’ si cercava contro a lui ribellione, e di Burgos
in Ispagna e d’altre sue terre, e sotto questo colore, come fiera
crucciato, di sua mano uccise due suoi fratelli bastardi e il zio
del re d’Araona, a cui per certa convegna s’appartenea la successione
del reame di Spagna; appresso intra lo spazio di due mesi, o in quel
torno, ancora di sua propria mano uccise venticinque de’ suoi baroni,
con trovando cagioni, e prendendo ora dell’uno ora dell’altro infinte
e simulate infamazioni. Mirabile certo e abominevole cosa, che un re
cristiano di suoi baroni innocenti e fedeli senza giudicio di corte,
almeno colorato, facesse morire, e che di sua malvagia e rabbiosa
sentenza egli fosse il manigoldo e vile esecutore. Queste iniquitadi
occorsono del mese d’agosto e di settembre detto anno.


CAP. LXXXII.

_Della detta materia di Spagna._

Il movimento del perverso tiranno di Spagna, non degno d’essere
nominato re, ma bestia selvaggia, venne in questi dì in tanta furiosa
pazzia, che costrignea i baroni che gli erano rimasi e campati di
sua crudeltà, e i comuni, a giurare fedeltà e omaggio alla bagascia
sua, essendo in addietro per tutti prestato il saramento alla reina
vecchia madre del detto re; e facendo a ciò richiedere quelli di
Sibilla, i cittadini, fatto sopra ciò loro consiglio, elessono
dodici uomini de’ più savi e discreti, i quali per parte del comune
andassono al re, e con savie parole gli mostrassono, com’elli erano
per saramento d’omaggio obbligati alla reina vecchia, e che non
poteano il nuovo saramento fare se prima non fossono assoluti del
vecchio; e che cercassono dal suo disonesto proponimento levare il re,
cortesemente mostrandoli che quello volea nè suo bene era nè suo onore.
I valenti uomini seguendo il mandato del loro comune furono al re, e
reverentissimamente li sposono quello ch’era loro imposto dal consiglio
del comune di Sibilia. Il re chetamente, e senza mostrare atto niuno
di turbazione, gli udì, e quando ebbono detto modestissimamente quello
che vollono, credendo per loro dolce e savio parlare avere ritratto il
re dalla folle e sconcia dimanda, il re loro non fece altra risposta,
se non che si toccò la barba, e disse: Per questa barba, che male così
avete parlato; e con tale breve e sospettosa risposta gli ambasciadori
impauriti si tornarono a Sibilia. Il re infellonito poco appresso
n’andò a Sibilia, e in una notte andando alle case loro tutti i detti
ambasciadori senza niuna misericordia fece tagliare; nè contento a
tanto male, in pochi giorni circa a quaranta buoni cittadini fece
uccidere nelle loro case. Io non mi posso tenere ch’io non morda
con dente di perpetua infamia la memoria di quello iniquo tiranno, e
ch’io non passi a vituperarlo la semplicità del mio usato stile dello
scrivere. Io ho letto e riletto nelle antiche scritture quello che
in esse si pone degli iniqui e scellerati pagani, massimamente de’
barbari, e di simili cose ho trovate, ma che tanta ingiustizia, tanta
empietà e crudeltà fosse in alcuno re cristiano, non mi ricordo d’avere
letto giammai.


CAP. LXXXIII.

_Come la compagnia cavalcò a Cervia._

Come di sopra dicemmo, il resto della gran compagnia del conte di Lando
sotto la condotta di messer Amerigo del Cavalletto s’era ridotta in
Romagna, e ad essa tutti quelli ch’erano campati della rotta dell’alpe
s’erano ricolti con assai gente sviata e atta a mal fare, che fuggendo
l’oneste fatiche cercavano di vivere di preda, e a richiesta del
capitano di Forlì cavalcarono su quello di Ravenna, e ’l sale che
trovarono alle saline di Cervia insaccato, come fosse per caricarsi,
e non piccola quantità, e simile di grano e bestiame, senza alcuno
contasto levarono e portarono in Forlì: perchè si credette che fosse
baratto del signore di Ravenna per fornire la città di Forlì, e non
tanto per amore del capitano, quanto per tema di sè, stimando, che se
il legato avesse Forlì la guerra si volgerebbe addosso a lui.


CAP. LXXXIV.

_Come il capitano di Forlì mise la compagnia in Forlì._

Il capitano, come uomo disperato, e con poca fede e legge, non avendo
riguardo a’ suoi cittadini ch’erano stati a ogni martiro per sostenere
lo stato suo, segretamente si convenne co’ caporali della compagnia
di dar loro venticinquemila fiorini e il ricetto in Forlì, ed elli
impromisono a lui di levare le bastite che gli erano intorno, e che per
alcuno tempo starebbono in Romagna al servigio suo; di che seguitò,
che all’entrante d’agosto e’ li mise in Forlì senza assentimento de’
suoi cittadini: i quali essendo stati rotti, come dicemmo, avendo
patiti molti disagi, e per tanto essendo in gran bisogno di ricetto,
per prendere riposo cominciarono a torre le case de’ cittadini,
e loro masserizie e arnesi, e accomunare e abitare familiarmente
con loro, e torsi delle cose da vivere oltre a bastanza, pigliando
dimestichezze disoneste e spiacevoli colle famiglie de’ cittadini,
che per non uscire di loro case e masserizie dimoravano con loro. Il
perchè assai cittadini, a cui era più caro l’onore che la roba, si
partirono di loro abituri, e ristrignensi in piccoli luoghi, lasciando
in abbandono, per non contendere con gente bestiale, tutte loro cose.
Nel quale avviluppamento manifesto si vide gli errori degli erranti e
servili popoli, che per matta stoltizia disordinato amore portano a’
loro signori e tiranni. Di ciò il popolo molto si dolse, e nel segreto
ricordava con mormorio la gran fede male meritata che portata aveano
al loro capitano, sofferendo il lungo assedio in contumacia di santa
Chiesa col perdimento di tutti i loro beni, con grandi disagi e affanni
di loro e di loro famiglie. Onde meritevolmente in loro fu verificato
quel proverbio che dice, chi contro a Dio getta pietra, in capo li
ritorna.


CAP. LXXXV.

_D’una nuova compagnia di Tedeschi._

I Tedeschi di soldo che in que’ tempi erano in Italia, vedendo e
conoscendo che altra gente d’arme che venisse a dire nulla, fuori di
loro lingua, ne’ paesi di qua da’ monti non era, follemente pensarono
di farsene signori: e vedendo che la compagnia del conte di Lando
era in parte mancata per la rotta da Biforco, di presente s’intesono
insieme i Tedeschi ch’erano al servigio de’ Sanesi, e quelli ch’erano
al servigio de’ Perugini, con quelli ch’erano nella provincia della
Romagna; perchè compiuta la ferma che Anichino di Bongardo avea
co’ Sanesi, si ritrasse con sua gente in forma di compagnia, alla
quale il conte Luffo con settecento barbute ch’erano al soldo de’
Perugini, e più altri conestabili tedeschi ch’erano in loro vicinanza,
s’aggiunsono, sicchè furono circa a duemila barbute; e assai gente da
piè atta a rubare trassono a loro, e andarsene su quello di Perugia,
e co’ Perugini si patteggiarono in atto di ricompera per fiorini
quattromila, e con avere il passo da Fossato per andare nella Marca: e
d’indi passarono verso Fabriano, dove trovarono che i passi erano presi
e guardati, onde si rivolsono per la Ravignana verso Fano, e in pochi
dì, all’uscita d’agosto detto anno, s’aggiunsono a Forlì coll’altra
compagnia, e posonsi di fuori della terra, entrando e uscendo a loro
posta della città, e avendo vittuaglia dal signore. E per non disfare
il gentile uomo ch’era assediato, mangiando quello di che vivere dovea
insieme colla compagnia ch’era in Forlì, feciono cavalcate e da lunga
e da presso, e ciò che poteano predare metteano in Forlì, facendo
vendemmiare innanzi tempo le vigne vicine a’ loro saccomanni colle
sacca, il perchè assai vino e altra roba da vivere assai misono nella
città.


CAP. LXXXVI.

_Come si levò l’oste da molte terre._

Per la partita della gente d’arme di Toscana i Sanesi ch’erano a oste
al Montesansavino se ne levarono e tornaronsi a Siena, e i Perugini
che manteneano oste a Cortona anche se ne partirono; per la qual cosa
in poco tempo quelli di Cortona con meno di cento cavalieri, e con
alquanta gente da piè, feciono più cavalcate sul contado di Perugia,
dilungandosi da Cortona le dieci e le dodici miglia, e trovando i
contadini per li campi alle loro faccende, e il bestiame non ridotto in
luogo sicuro, feciono prede assai e di uomini e di bestiame grosso e
minuto. Ed era a tanto condotto il comune di Perugia per straccamento
della guerra, che così pochi nemici cavalcavano ne’ loro più cari
luoghi, e si tornavano colle prede a salvamento, quasi senza trovare
alcuno contasto in niuna parte. Il dì che avvenne ultimamente, che
cinquanta cavalieri e pochi pedoni corsono e girarono il lago dintorno,
e colla preda senza niuno impedimento si tornarono a Cortona, che pare
cosa incredibile a dire. Quinci si può notare quanto sono da fuggire,
e quanto sono pericolose le imprese de’ comuni con soperchia voglia
baldanzosamente cominciate, perocchè le più volte hanno altri fini che
gli orgogliosi popoli, e pronti alle imprese maggiori che non possono
portare, non istimano. Però non si può avere troppa temperanza per li
savi governatori de’ comuni, nè troppa cura a raffrenare gli appetiti
de’ popoli, a cui sovente dire si può: Signore, perdona loro, che
non sanno che si fanno. È vero che al nostro comune spesso avviene
il contrario, che o voglia il popolo o no, egli è tirato, e per forza
sospinto nelle grandi e pericolose imprese da coloro che le dovrebbono
vietare. Corsa la piena della gente dell’arme nella Romagna, il
legato fece fortificare e fornire le bastite ch’avea intorno a Forlì
di vittuaglia e di gente, e partissi da campo, e tornossi coll’oste
a Faenza, e a Cesena, e per le castella dintorno, per stare a vedere
quello che la compagnia facesse: e tutte queste cose fur fatte del
mese d’agosto detto anno. E rinnovato fu il processo, e pubblicata
la sentenza di santa Chiesa contro alla detta compagnia, come eretici
e favoreggiatori dello scismatico capitano di Forlì, e che ogni uomo
li potesse offendere, e contro a loro prendere la croce; ma tal fu la
riuscita dell’altro legato quando li ricomunicò, e loro fè tributaria
la Chiesa di Roma e’ comuni di Toscana, come addietro dicemmo, che a
vile s’ebbe la sentenza e il processo, e sua esecuzione, eziandio da
tutti gli amici e fedeli di santa Chiesa.


CAP. LXXXVII.

_Come si fè accordo dal Delfino a quelli di Parigi._

Come addietro facemmo menzione, il duca d’Orliens, e il Delfino di
Vienna, e i gentili uomini aveano posto campo a Parigi, di che poco
appresso seguente, che parendo a quelli d’entro e a quelli di fuori
stare in molti disagi e pericoli assai, avendo ciascuno desiderio
di concio, che per mezzani assai di lieve vi si trovò accordo; ma
per tanto non vollono i borgesi che il Delfino o sua gente d’arme
entrasse in Parigi, ma pacificamente e quelli d’entro e quelli di fuori
praticavano insieme: nel quale accordo per operazione del proposto e
de’ seguaci suoi s’inchiuse il re di Navarra con tutta sua gente; sotto
la quale fidanza, o per vedere la terra, o per loro rinfrescamento,
certi Inghilesi entrarono in Parigi, i quali come veduti furono da
certi borgesi, loro levato fu il grido addosso in vendetta di loro
signore ch’era in Londra in prigione, e tanto procedette avanti la
cosa, che in quel furore in diversi luoghi in Parigi, come furono per
avventura trovati, furono morti circa a cento Inghilesi. Ciò sentito
nel campo del re di Navarra, tutto si mosse verso Parigi con animo di
prendere del misfatto vendetta; il perchè il re a consiglio de’ suoi
caporali mise un aguato, e con corridori fatti sottrarre i Parigini, e
addirizzarli per tirarli nell’aguato, i folli borgesi inbaldanziti per
quelli disarmati che aveano uccisi dentro uscirono fuori, e correndo
alla scapestrata e senza ordine niuno caddono nell’aguato, ove ne fu
morti oltre a trecento. La cosa fu rappaciata dentro e di fuori per
operazione del proposto, che avea l’animo dirizzato a maggiori fatti,
come appresso diremo.


CAP. LXXXVIII.

_Di detta materia, e come fu morto il proposto._

Seguendo suo iniquo e malvagio proponimento il proposto con certi suoi
segretari con cui s’intendea, e che con lui teneano mano a tradire
la corona, volendo trarre a fine il tradimento che lungo tempo avea
menato e fermo col re di Navarra, vedendo che ’l popolo di Parigi si
venia riconoscendo del fallo suo contro al Delfino e’ baroni, e temendo
che l’indugio al suo maligno concetto non fosse dannoso, affrettò
l’esecuzione del trattato e la morte sua; perocchè con certi borgesi
del seguito suo, senza diliberazione o consiglio degli altri borgesi,
bene apparecchiati in arme uscì di Parigi, e andonne a una delle
bastite la quale aveano bene guernita e d’arme e di vittuaglia, e di
gente per sicurtà della terra, e quella in gran parte sfornì d’armadura
atta a difesa, e tolse le chiavi a colui a cui era stata accomandata
di volere e consiglio di tutti i borgesi, e le diede a uno borgese di
Parigi sospetto assai, perchè era stato tesoriere del re di Navarra;
e come fece a questa bastita, così fece a tutte l’altre. Veggendo
gli altri borgesi questa affrettata novità che si faceva senza niuno
loro consiglio, nè cagione vedeano perchè ciò fare si dovesse, nè che
pensiere a ciò fare avesse il proposto, cominciarono ad ammirare e a
insospettire, ed in piccola ora col mormorio del popolo tanto crebbe il
sospetto, che mandarono prestamente al Delfino, con cui novellamente
aveano preso l’accordo, a sapere se ciò fosse di suo assentimento e
volere; e avendo risposta del nò, tutto il popolo si levò a romore,
gridando: Viva il Delfino, e muoiano i traditori; e in quella furia
giunsono il proposto, e tagliarono a pezzi con certi suoi confidenti
ch’erano con lui, e nel detto furore corsono alle porte, e uccisono
tutti coloro che ’l proposto v’avea a guardare diputati, e alle bastite
rinnovellarono e guardie e serrami.


CAP. LXXXIX.

_Come furono impesi que’ borgesi a cui erano state accomandate le
chiavi delle bastite._

Il giorno dopo la morte del proposto, i borgesi di Parigi, riconosciuti
del fallo loro, di comune consiglio mandarono nel campo al Delfino,
che li piacesse, poichè morto era il traditore della corona co’ seguaci
suoi, di volere dimenticare l’offesa che ignorantemente era fatta loro,
come persone ingannate da coloro che falsamente li conducevano, e che
in Parigi dovesse venire, e reggere e governare la città e il popolo
come loro signore naturale, che presti e apparecchiati erano tutti a
ubbidire e fare i suoi comandamenti. Il Delfino avuto suo consiglio
rispose molto benignamenente agli ambasciadori, dicendo, che bene
conoscea onde era mosso l’inganno del popolo, e che molto era contento
che la comune di Parigi avea scoperti i loro traditori e della corona,
e che per loro se n’era presa vendetta, ma ancora non a pieno: e però,
innanzi ch’e’ volesse entrare nella città, volea che del tesoriere del
re di Navarra e del compagno, a cui erano state date le chiavi delle
bastite, fosse fatta giustizia, e poi lietamente e con pieno amore de’
suoi borgesi v’entrerebbe. Tornati gli ambasciadori nella terra, furono
presi il tesoriere e ’l compagno, e tranati per la terra, e impesi al
castelletto; e fatto ciò, il Delfino con tutta sua gente con grande
festa entrarono in Parigi, ricevuti da tutti i cittadini con singolare
allegrezza.


CAP. XC.

_Come si scoperse il trattato tenea il re di Navarra._

Il Delfino ordinato in Parigi generale parlamento, nel quale fece
con savie e ornate parole mostrare al popolo la buona voglia ch’egli
e’ baroni e’ gentili uomini aveano a’ borgesi di Parigi, e in quello
fece nuovo proposto di mercatanti come a lui piacque, uomo di cui bene
si potea fidare: e oltre a ciò, rendendo onore al popolo, fece dire,
che quando volontà de’ borgesi fosse, e’ sarebbe contento che sei
borgesi, i quali e’ fece nominare, fossono nella guardia e giudicio
del popolo, perocch’e’ sentiva ch’erano stati segretari del proposto
cui eglino aveano giudicato per traditore della corona. Come questo
fu detto, senza arresto i detti sei borgesi furono presi, e venuti in
giudicio, senza alcuna molestia o tormento confessarono, che la notte
che il giorno dinanzi era stato morto il proposto, il re di Navarra
dovea prendere le bastite, ed entrare in Parigi con tutta sua forza,
e coll’aiuto del proposto e di suo seguito dovea correre Parigi; e che
venendo prestamente fatto e al re e al proposto loro intenzione, il re
si dovea fare coronare del reame di Francia per mano del vescovo di....
il quale allora era in Parigi, e si partì di presente come vide morto
il proposto; e che il detto re di Navarra dovea riconoscere il reame
di Francia da quello d’Inghilterra e fargliene omaggio, e restituirgli
la contea d’Alighiero e altre terre, ed egli lo dovea atare a
racquistare il reame con tutta sua forza; e che se ciò venisse fatto,
com’era ordinato, il re d’Inghilterra dovea fare tagliare la testa al
re Giovanni di Francia, cui egli avea in prigione, e che i Lombardi
e’ Giudei ch’erano in Parigi doveano essere preda degli Inghilesi.
Fatta la detta confessione, senza arresto i detti sei borgesi furono
giustiziati; per li savi scoprire il processo fu poco senno tenuto,
essendo il re di Francia e ’l figliuolo in prigione, perchè essendone
il re d’Inghilterra infamato, si dovea potere muovere a cruccio, e mal
trattare il re e ’l figliuolo.


CAP. XCI.

_Come il re di Navarra guastò intorno a Parigi._

Avendo avuto il re di Navarra dal proposto come avea cambiate le
guardie, e dato ordine presto alla esecuzione del trattato, non sapendo
ciò ch’era occorso al proposto, venne per prendere la prima bastita,
la quale trovando fornita di gente nuova e bene in punto alla difesa,
comprese che ’l trattato fosse scoperto: perchè mettendosi più innanzi
in sentore, intese come il proposto co’ suoi consiglieri erano stati
morti dal popolo; perchè vedendo in tutto suo pensiero annullato, d’ira
e di mal talento incrudelito nell’animo suo, non ostante concordia
nè pace ch’avesse co’ borgesi, tentò se per forza potesse vincere la
bastita: e lavorando invano, partito da quella, scorse intorno a Parigi
ardendo, e guastando, e predando ciò che potè. E poichè così ebbe
fatto alquanti giorni, non trovando in campo contasto, se ne tornò a
Monleone grosso castello, posto presso a Parigi a... leghe, e ivi si
pose ad assedio. E come che ’l fatto s’andasse, al detto re cresceva
gente d’arme da cavallo e da piè, la quale si movea d’Inghilterra non
per manifesta operazione del re, ch’era nel trattato della pace, ma i
cavalieri si mostravano muovere da loro e per loro volontà, come andare
in compagnia. Ed essendo per li cardinali mezzani della pace detto al
re che questo non era ben fatto, e che li piacesse mettervi rimedio,
scusossi, dicendo, che ciò molto gli dispiaceva, ma che quella era
gente disperata e di mala condizione, cui egli per suoi comandamenti
non potea nè correggere nè arrestare. E con questa gente il re di
Navarra cavalcava per tutto, e ardeva, e predava, e conduceva male
il reame di Francia, non ostante l’ordine della pace preso; nel quale
s’adattò il proverbio che dice, tra la pace e la triegua, guai a chi la
lieva.


CAP. XCII.

_Come il marchese non volle dare Asti a’ Visconti._

Essendo per l’imperadore, per li patti della pace tra’ collegati e
i signori di Milano, dichiarato che Pavia rimanesse a popolo e in
libertà, e che Asti fosse renduto a’ signori di Milano, i signori di
Milano della dichiarazione non contenti pertinacemente domandavano
Pavia, e non che loro fosse ciò conceduto pe’ collegati, ma il marchese
di Monferrato, che tenea Asti, nol volea rendere loro. Così ciascuna
delle parti della pace fatta rimanevano malcontenti; e cominciarsi i
collegati a temersi de’ signori di Milano, e quelli di Milano feciono
loro sforzo, e mandarono a oste nel Piemonte contro ad Asti e all’altre
terre che ’l marchese tenea in Piemonte, e ordinarono di riporre le
bastite a Pavia, e ciò in piccolo tempo fornirono. Il marchese rimasto
povero e di danari e d’aiuto per li Lombardi, che non si ardivano a
scoprire per la pace fatta contro a’ signori di Milano, francamente
s’apparecchiava alla difesa e alla guerra come meglio potea.


CAP. XCIII.

_Come la compagnia assalì Faenza._

Lasciando i fatti di Francia e di Lombardia e tornando ai più vicini,
la compagnia, ch’era in Romagna tra Forlì e Faenza, sentendo male
fornita di gente d’arme la città di Faenza, la quale si tenea per
la Chiesa, dove non era che uno capitano con meno di cento uomini
da cavallo, si strinsono alla terra, ed entrarono in uno dei borghi.
Il detto capitano allora era di fuori, e volendo tornare dentro, fu
abbattuto e ferito, e de’ suoi compagni assai magagnati. Per ventura
erano in quel punto in Faenza trecento cavalieri del comune di Firenze
all’ubbidienza d’uno cavaliere fiorentino, il quale vedendo il subito
e improvviso assalto prestamente si mise alla difesa colla brigata
sua, e riscosse il capitano, e i nemici fuori del borgo sospinse con
loro assai danno, e ricoverato il capitano e l’onore della Chiesa si
tornò in Faenza. Per lo detto assalimento baldanzoso e non provveduto
si temette che non fosse nella terra trattato, ma se v’era, non si
trovò. E ciò fu del mese d’agosto del detto anno. Appresso a pochi
dì la compagnia de’ Tedeschi della bassa Magna sotto il capitanato
d’Anichino di Bongardo s’accostò con quella ch’era in Romagna, e molti
altri Tedeschi che spontaneamente si partivano da’ soldi degli Italiani
s’aggiunsono con loro, e come ebbono fatta una massa, vedendosi
forti cominciarono a gridare a Firenze, tenendosi per fermo e per
lo consiglio e da tutti che da’ Fiorentini fossono stati traditi, e
nell’alpe sconfitti. Di questa adunata e di sua mala parlanza gran
sospetto si prese a Firenze, perchè si prese argomento di guardare i
passi, come appresso diremo.


CAP. XCIV.

_Come i Fiorentini mandarono a Bologna per la quistione dello Stale._

Temendosi per lo nostro comune che la compagnia per lo passo dello
Stale, che assai era largo e aperto, non li venisse addosso, in certa
parte di quello luogo avea fatto fare e tagliare i palizzati, i quali
erano abbandonati, perocchè per li patti fatti colla compagnia doveano
passare da Biforco, come addietro dicemmo. E vedendo il comune che
la compagnia partita da Vicchio di quindi era passata in Romagna,
e considerando che quello era il più agevole passo che potesse fare
gente d’arme che da quella parte venisse in offesa di nostro paese,
prese ragionamento di farvi fortezza. Sentendo ciò gli Ubaldini e i
conti da Mangona, a cui a tempo la fortezza potea essere nociva, di
presente furono al signore di Bologna, e gli diedono a intendere che
quello luogo era del comune di Bologna; perchè per la mala informazione
turbato scrisse al nostro comune assai altieramente. Di che il nostro
comune fè ritrovare l’antiche ragioni che ’l monistero di Settimo ha
nello Stale e ne’ luoghi circostanti, colle quali per ambasciadori
e difendere delle dette ragioni mandò a Bologna messer Francesco
di messer Bico degli Albergotti d’Arezzo cittadino di Firenze,
eccellentissimo e famoso dottore in ragione civile, il quale allora
leggeva in Firenze. Questi circa lo spazio d’un mese stette a disputare
co’ dottori bolognesi sopra la materia, e in fine in presenza del detto
signore di Bologna fu determinato, che ’l nostro comune aveva ragione,
tutto che gran punga fosse fatta per li detti Ubaldini e’ conti in
contrario. E a fede di ciò, il signore scrisse appieno al nostro
comune, e le lettere e cautela furono registrate del mese di settembre
1358.


CAP. XCV.

_Qui si fa menzione delle ragioni che ’l monistero di Settimo ha nello
Stale._

E’ n’è di piacere, poichè nel precedente capitolo detto avemo dei modi
tenuti per gli Ubaldini e’ conti di Mangona intorno alla quistione
dello Stale, di fare in sostanza alcuna memoria delle ragioni che la
badia di Settimo ha nel detto Stale, più per reverenza della buona e
fedele antichità che per vaghezza di scrivere. Trovato fu nel monistero
di Settimo una carta rogata negli anni dell’incarnazione del nostro
Signore 1040 a dì 13 di dicembre, nel quale si celebra la festa della
graziosa santa Lucia, e nell’anno secondo dell’imperio d’Arrigo, del
cui tenore in parte togliemo questo. Guglielmo conte, figliuolo di
messer Lottieri conte e di madonna Adalagia contessa, diede per rimedio
dell’anima sua e de’ suoi genitori, alla Chiesa e al monistero di san
Salvadore, nel luogo che si dice Gallano, ove si dice lo Spedale, con
ogni ragione, e aggiacenza, e pertinenza sua, e qualunque e quanto a
quel luogo s’appartiene, in perpetuo a noi Ugo, e agli Abati che per li
tempi saranno; e appresso quello che concede confina così. Da oriente,
dal Nespolo infino al Pero lupo, e infino alla Stradicciuola, e siccome
corre la detta Stradicciuola infino alla collina; da mezzogiorno
dalla detta collina infino a Ferimibaldi, e da Ferimibaldi infino a
Feumicarboni, e da Feumicarboni infino a Collina de’ monti propio....
e infino a Fontegrosna, e siccome trae il vado d’Astronico. Dalla
parte d’occidente, dal guado Astronico infino a Montetoroni, e infino
a Ronco di Palestra, ritorna fino al Nespolo di Briga. E sono tutte le
predette terre e cose, e tutti i piani, e alpi, e le loro pertinenze,
secondo che si dice nella detta carta, infra ’l contado di Bologna e
di Firenze. Nel 1292, a dì 19 di dicembre, il popolo di santo Iacopo a
Montale e di san Martino di Castro per sentenza di lodo poterono usare
i detti beni quattordici anni, dando la decima di tutto il frutto e
certo censo al detto monistero. E perchè semo entrati in ragionamenti
di confini, diremo de’ confini tra il nostro comune e quello di
Bologna, per bene e pace dell’uno e dell’altro comune, i quali furono
terminati per messer Alderighi da Siena arbitro in tra i detti comuni,
e furono questi. Il Mulinello a piè di Pietramala è del nostro comune,
e Baragazzo, e il Poggio del fuoco, e delle valli, e mezzo Montebene, e
Sassocorvaro, e il prato di Baragazzo.


CAP. XCVI.

_Come la compagnia della Rosa di Provenza si spartì e disfecesi._

In questi dì, sentendosi le novità di Francia che narrate sono, e
come il paese s’apparecchiava a nuova guerra per l’operazioni del
re di Navarra, la compagnia, che lungamente era stata in Provenza, e
avevanvi assai terre acquistate, vedendo che poco avanzavano stando
quivi, ed essendo parte di loro richiesti dal Delfino, sperandosi più
avanzare nelle guerre di Francia che nella povertà di Provenza, premono
per partito di partirsi, e trattarono co’ paesani d’andare, e di
rendere le terre e le castella che aveano prese; e venuti a concordia,
ebbono ventimila fiorini d’oro, e catuno se n’andò dove li piacque, e
lasciarono il paese di Provenza, ove erano stati predando i paesani e
affliggendo più di diciassette mesi continui in guastamento del paese.


CAP. XCVII.

_Come s’afforzò e guardò i passi dell’alpe perchè la compagnia non
passasse._

Poichè fu terminata la quistione dello Stale, sentendo il nostro
comune che la compagnia s’apparecchiava a quello luogo, avendo posto
campo tra Bologna e Imola, e temendo non prendesse indi suo vantaggio
in Toscana, senza perdere tempo vi mandò provveditori e maestri per
afforzare sì quel passo, che togliesse speranza alla compagnia, e a
qualunque altra gente volesse offendere il comune, di quindi passare.
E perchè a sicurtà i maestri e’ paesani potessono intorno a ciò
lavorare, vi mandò il comune balestrieri assai e altra gente d’arme
quale pensò alla difesa essere bastevole, con fare comandamento a
tutti i paesani e vicini a quello luogo che vi dovessono essere e
colle persone e colle bestie loro ad atare, tanto che ’l luogo fosse
abbastanza afforzato, i quali vi mandarono volentieri per tema di non
essere sorpresi incautamente dalla compagnia, che da quelli dell’alpe
si tenea offesa, e avea appetito di vendicarsi. L’opera fu di volontà
affrettata perchè il pericolo era vicino, e in piccolo tempo fu tutto
fornito, cominciando dalla vetta de’ colli e passando per lo tramezzo
delle valli, li fossi e li steccati, colle torri di legname e bertesche
spesse a guisa di mura di terra, con tre belle e forti bastite in su i
poggi per dare favore a quelli che difendessono i palizzati, e perchè,
se caso di rotta avvenisse, si potessono ricogliere a salvamento.
La chiusa per lungo fu intorno di passi ottomila, stendendosi insino
presso a Montevivagni. Quelli della compagnia, che s’erano alloggiati
in su quello d’Imola, più volte tentarono e per diverse parti passare
in sul nostro contado, ma sentendo ch’e’ passi dell’alpe erano bene
guardati (che più di dodicimila pedoni, la maggiore parte balestrieri,
talora fu che si trovarono allo Stale, senza quelli ch’erano all’altre
poste) mutarono proponimento, e rivolsonsi indietro nella Romagna,
e massimamente sentendo venuto in Firenze messer Pandolfo di messer
Malatesta da Rimini per capitano di guerra, non lasciando però le
minacce contro al nostro comune.


CAP. XCVIII.

_Come l’imperatore fece il duca d’Osteric re de’ Lombardi._

Carlo imperadore de’ Romani, essendo nel detto anno 1358 del mese di
settembre morto il duca vecchio d’Osteric, il giovane duca ch’era
rimaso signore si fece a parente, e gli diè una sua figliuola per
moglie; e lui volendo aggrandire, vedendo che la forza del genero
giunta alla sua era grandissima, e per l’avviso del conte di Lando
e degli altri caporali di lingua tedesca avea sentito, come le parti
d’Italia, massimamente Romagna e Toscana, erano male disposte, e atte
a potere venire sotto signore, si pensò ciò potere di lieve seguire
con titolo di signore naturale, perocchè il nome del tiranno a’ liberi
popoli, massimamente di Toscana, era terribile, e non potea essere
accetto, e per tanto il detto duca fece e pronunziò re de’ Lombardi. Il
duca, come giovane, e vago di crescere suo nome e signoria, accettò il
titolo del reame: ciò sentito in Italia, non fu senza gran temenza; il
perchè tantosto i signori e’ comuni s’intesono insieme, dando ordine
a leghe e a tutto ciò che pensarono essere necessario e bastevole a
impugnare l’impresa del nuovo signore.


CAP. XCIX.

_De’ processi della compagnia in questi giorni._

Noi dicemmo addietro come il capitano di Forlì per patto promise
quindicimila fiorini alla compagnia, e la cagione perchè, onde venendo
il tempo che pagare li dovea, e non avendo il di che, eziandio
affannando di presta i suoi cittadini, diede a’ caporali contanti
fiorini duemila: ed essendo suoi prigioni il figliuolo del conte
Bandino da Montegranelli, e due figliuoli del conte Lamberto della
casa de’ Malatesti detto il conticino da Ghiaggiuolo, i quali erano
stati presi nella guerra del cardinale di Spagna, loro assegnò alla
detta compagnia in parte di pagamento per fiorini diecimila. Currado
conte di Lando, sentendo l’impotenza del gentiluomo, coll’animo suo
diritto e libero dove avesse avuto di che sadisfare, cortesemente li
fece accettare, attendendosi dell’avanzo alla fede e promessa del
capitano; e per non stare in bargagno, avendo il conte bisogno di
danari, assentì il riscatto de’ detti prigioni per quattromila fiorini:
e ciò fatto, con tutta sua brigata prese cammino, e si strinse verso
quello d’Imola e di Faenza, cercando preda per vivere. E nei detti
paesi ha una valle grassa e abbondante d’ogni cosa da vivere che detta
è Limodiccio, la quale è circondata di poggi altissimi e aspri, e con
assai stretti cammini all’entrare e all’uscire per grandi montate e
scese: i villani di quel paese s’erano ridotti alle guardie de’ poggi
ov’erano l’entrate, non sperando che per lo grande disavvantaggio
di chi venisse di sotto gente d’arme gli andasse ad assalire, poco
avendo considerazione, che la fame fa cercare per lo cibo ogni
luogo segreto, e assalire eziandio le impossibili cose. Quelli della
compagnia assalirono le montagne con franchezza d’animo, facendo in
fatti d’arme maraviglie; il perchè i villani impauriti e inviliti
lasciarono i passi, e diersi alla fuga, onde la valle tutta venne in
potestà de’ nemici, dove trovarono assai roba da vivere. E a loro fu
bene bisogno di così trovare, per ristorare i disagi e la fame patita
a Forlì: ed ivi adagiato e loro e loro bestie, vi dimorarono fino a dì
16 del mese di ottobre. E mentre che stavano a Limodiccio; più volte
cercarono di passare in sul Fiorentino, ma ciò fu in vano; perocchè
trovavano onde speravano passare sì forniti e ordinati al riparo, che
non s’assicurarono di mettersi a partito. E andarono a Modigliana, e
assaggiarono il castello con battaglia, e niente poterono acquistare.
All’uscita del mese cavalcarono a Massa, che è del vescovo d’Imola,
e come suole avvenire de’ beni de’ cherici, che non contendono se
non a pelare, essendo il luogo male provveduto di guardia la presono,
dove trovarono assai roba da vivere e arnese da preda. Alla rocca non
feciono assalto, perocchè essendo nella guardia del signore d’Imola
era bene guarnita e apparecchiata a difesa. I mascalzoni per la troppa
roba vi trovarono vennono tra loro a discordia nel pigliare della roba,
e per non venire a peggio tra loro misono fuoco nella terra, e arse
tutta colla maggiore parte di ciò che v’era dentro, perchè convenne che
la brigata si partisse e accampasse di fuori; e quivi soggiornarono
alquanto verso i confini di Bologna: e non avendo la vittuaglia che
a loro bisognava, il signore di Bologna ne dava loro, e sostenneli
quivi tutto il mese di novembre. Ciò disse che fece, perchè il legato
Cardinale di Spagna era in cammino per passare in Romagna a ripigliare
la guerra, e non sapea l’intenzione sua, sicchè per gelosia di suo
stato era contento d’avere la compagnia di presso.


CAP. C.

_Come il re del Garbo fu morto._

Buevem re del Garbo, il quale volgarmente è detto il reame della
Bellamarina e di Tremusi, avendo lungo tempo con ardire e con senno
sostenuto l’onore di sua corona, e avendosi sottoposto, come nel primo
libro narrammo, gli altri re de’ barbari che gli erano vicini, cioè
quello di Costantina e quello di Buggea i quali tenea in prigione,
cadde in malattia da tosto guarire; ma la rabbia e la cupidigia del
signoreggiare accese gli animi de’ figliuoli, che per nobiltà doveano a
lui a tempo succedere, e sì lo strangolarono. E morto lui, il maggiore
di loro d’età di sedici anni nominato Bugale prese la signoria, e
fessi coronare, ma non con volontà e amore di tutti i baroni. Per la
qual cosa alquanti di loro, e non de’ minori, s’accostarono all’altro
fratello ch’era di meno giorni, cioè d’età di dieci anni, il quale era
oltre a quello che tale età richiedea e intendente e astuto; e il suo
nome era Bestiezti, e a lui dissono: Quando il padre tuo fu fatto re,
per potere regnare senza sospetto de’ suoi fratelli, a venticinque fece
tagliare la testa, e così pensa che tuo fratello farà a te: e però, se
vogli seguire nostro consiglio, noi ti faremo re colla nostra potenza,
se tu ci prometti di fare morire lui. La cagione di questo fu, ch’e’
dicea che i baroni non guidavano bene i fatti del reame. Il giovane per
venire alla corona con tutto il suo consiglio a ciò s’accordò. Perchè
essendo ancora il re giovane debole nella signoria nuova, e poco da
sè accorto e meno avvisato, fu da’ baroni preso per comandamento del
fratello, e come patricida saettato, sicchè in piccolo tempo spacciò
il regno acquistato col micidio del padre, e sè di vita. Gli altri
fratelli vedendo questo crudele principio fuggirono in Sibilia, e ’l
minore fatto re, colla sua forza rimase nelle mani de’ baroni, perocchè
non era in tempo da potere nè da sapere governare il reame. Con questa
malizia fu il maggiore fratello abbattuto, onde molti de’ baroni avendo
il re fanciullo a vile, occuparono assai delle giurisdizioni del reame.
Di questo seguette, che uno antico barone e di grande seguito di fuori
di Fessa si fece fare re alla setta sua, e cominciò a guerreggiare
il giovane re. Sentendo Suscialim fratello del re Buevem morto, come
dicemmo di sopra, il quale era fuggito in Sibilia, questa divisione
de’ baroni, richiese il re Pietro di Sibilia d’aiuto, il quale li
fece armare due galee e valicò a Setta, e là fu ricevuto come re; e
avendo aiuto da’ paesani se n’andò a Fessa, ove il giovane re era con
poco aiuto e consiglio; e però giunto a Fessa fu ricevuto come re; e
disposto il fratello, e messo in prigione, e accolte maggiori forze
andò contro al barone che s’era fatto re, il quale brevemente fece
morire, ed egli rimase libero signore del reame della Bellamarina: e
questo avvenne nel detto anno 1358. È vero che quando morì il gran re
Buevem, che i re che avea in prigione furono lasciati, e ripresonsi i
loro reami di Buggea e di Costantina: e il reame di Tremusi si rubellò,
e tornossi allo stocco de’ re usati.


CAP. CI.

_Come i cardinali ch’erano in Inghilterra si tornarono a corte._

Essendo il cardinale di Pelagorga e quello di Roma messer Iacopo
Capocci in Inghilterra, per seguire l’accordo de’ due re della pace
ordinata con titolo di santa Chiesa, e ’l cardinale il quale fu
cancelliere del re di Francia, il quale stava di là in proprio servigio
del detto re, avvedendosi l’uno dì dopo l’altro che l’operazioni del re
d’Inghilterra erano a impedire, che la moneta che si dovea pagare per
lo re di Francia, e li stadichi che si doveano dare non si fornissono;
e vedendo che il detto re mantenea in arme e in preda, e in grave
intrigamento de’ paesi di Francia, il re di Navarra, e che di continovo
li aggiugnea forza de’ suoi Inghilesi, per modo che i baroni colle
comunanze di Francia non aveano destro d’accogliere la moneta nè di
mandare li stadichi; e avendo di ciò per più riprese richiesto il re
d’Inghilterra che vi mettesse ammenda, ed egli risposto loro, che nol
potea fare; temendo che sotto l’ombra del dimoro non s’apparecchiasse
loro più vergogna che onore, se ne partirono: e per la loro partita
senza frutto feciono manifesto, che piuttosto guerra che pace dovesse
seguitare; come poi n’addivenne, secondo che a suo tempo racconteremo.
E questo fu del mese d’ottobre del detto anno.


CAP. CII.

_Della pace da Sanesi a’ Perugini._

Essendo dibattuti i Perugini e’ Sanesi nella loro guerra novella,
come per noi addietro è fatta memoria, essendo continovo il comune
di Firenze in sollicitudine di mettere tra loro pace co’ suoi
ambasciadori, e inframettendosi anche il legato di Romagna di questa
materia, all’ultimo l’uno comune e l’altro, avendo ciascuno voglia
d’uscire di guerra e di spesa più onestamente che potesse, si rimisono
negli ambasciadori del legato e de’ Fiorentini, i quali diligentemente
praticarono con catuna parte, per vedere se modo convenevole si potesse
trovare; e trovando che ’l dibattito era di potersi con alcuno mezzo
terminare; vollono che da catuno comune venissono sindacati, e la
fermezza de’ Perugini di quello, che per loro s’avesse a ordinare
di Montepulciano, e da’ Sanesi di Cortona: e avuti i sindacati e le
cautele che domandarono, diedono la sentenza, e tennonla segreta, e
feciono a catuno comune pubblicare la pace, e sicurare le strade e’
cammini, e feciono pubblicazione in catuna città, e in Firenze fu
celebrata solennemente dì ultimo del mese d’ottobre del detto anno:
dappoi si manifestò la sentenza, e fu in questo modo. Che tra i detti
comuni dovesse essere ferma, e buona e perpetua pace, e che i Perugini
dovessono lasciare libera la terra di Montepulciano a’ suoi terrazzani,
e dovessono patere mettere in Cortona da indi a quattro anni di tempo
in tempo podestà, e dove i Cortonesi non lo volessono, dovessono
dare il salario al detto podestà, il quale era di lire quattrocento
l’anno, e dovessono i detti Cortonesi ogni anno de’ detti quattro anni
dare a’ Perugini un palio di seta e che i Sanesi infra cinque anni
non potessono mettere podestà in Montepulciano, ma lasciare la terra
libera, e da cinque anni in là vi dovessono mettere podestà, ed avere
il censo usato. Quando dopo la pace predetta ne fu fatta pubblicazione,
e l’uno e l’altro comune se ne mostrò in grande turbazione, e ciascuno
mandò solenne ambasciata a Firenze per fare rivocare la detta sentenza.
Il comune di Firenze sentendo, che nel praticare della cosa gli
ambasciadori de’ detti comuni erano stati quasi in concordia di questo,
e che di nuovo non vi s’era fatto fuori che ’l termine e ’l modo delle
signorie, riprendendo onestamente i detti comuni in persona de’ loro
ambasciadori, rispose, che intendea che si osservasse la pace; ma però
non rimasono in vista contenti i detti comuni, benchè novità di guerra
non movessono insieme.


CAP. CIII.

_Come il cardinale tornò in Italia._

Io non posso fare ch’io non ripeta talora in alcuna parte le cose
già dette, non per crescere scrittura (perocchè le cose notabili che
occorrono continovamente tanto abbondano, che assai di spazio prendono
nel libro) ma per giugnere insieme e le vecchie e le nuove cagioni, che
ne’ principii non conosciute, o conosciute e non debitamente curate,
o che peggio diremo, per grazia o potenza de’ cittadini con infiniti
colori trapassate, hanno danni incredibili e pericoli gravissimi più
volte giattato, e ridotta nostra città in temenza di non perdere
sua libertà. E tutto che lo scrivere aperto in sì fatte materie,
massimamente per lo pugnere cui tocca, dalli pochi intendenti paia
ch’abbia in sè materia di cruccio e malevolenza, che nel vero appo li
savi no; ma pure così fare si dee da qualunque per beneficio di sua
città, e forse dell’altre prende la cura di scrivere; perocchè tacere
il male, e solo il bene mettere in nota, toglie fede alla scrittura,
e fa l’opera di meno piacere e profitto, e se sottilmente si guarda,
forse è dannoso, perocchè li rei sentendo occultare le loro opere più
baldanzosamente procedono al male, e di sè fanno specchio a coloro
che devono venire a invitarli per l’impunità del segreto peccato
alle pessime cose, d’onde tema d’infama li suole talora ritrarre, e
il comune, per non essere avvisato delle malizie passate, con meno
cautela e meno consiglio procede in quelle che li sono apparecchiate
dinuovo. Questo parlare a molti forse parrà di soperchio in questo
luogo, ma se si recheranno alla mente, per li ricordi che sono fatti e
nelle vecchie e nelle nuove scritture, i modi per li nostri cittadini
per l’addietro alcuna volta tenuti, troveranno, che chi per ottenere
beneficii ecclesiastici, chi per essere tesoriere e capitano nelle
terre della Chiesa di Roma, non solo hanno consigliato che sia dato
aiuto e favore non dico alla Chiesa di Dio, che si dee sempre fare, ma
ai forestieri, che sotto nome di duchi, conti, e capitani, o legati di
papa, o altri titoli onesti nel nome ma tiranneschi nel fatto, della
povertà di Provenza sono passati a signoreggiare i nobili e famosi
paesi d’Italia, ma hanno sforzato o in uno o in altro modo e sospinto
il nostro comune disonestissimamente a ciò fare. Il di che è più
volte seguito, che essendo il mondano e temporale stato della Chiesa
di Roma colla forza del nostro comune in Italia ingrandito e montato
in sommo grado di signoria, i governatori d’essa insuperbiti, posto
giù ogni religione e ogni vergogna, come ingrati e sconoscenti de’
beneficii ricevuti, a leggi e costumi di malvagi tiranni, hanno cerco
con trattati e tradimenti per occulte e coperte vie, infino a venire in
palese a volerci sottomettere a loro signoria, e torre nostra libertà;
il perchè è stato di necessità al nostro comune, per difendere suo
stato e giustizia, spendere milioni di fiorini, e che è stato peggio,
operarsi contro alla Chiesa di Roma, che ne diè il segno di parte,
sicchè si può dire quasi contro a sè stesso; e quanto che così suoni
il grido, il vero è stato, che non contro a Chiesa, ma contro a malvagi
pastori e mondani; e certo questo non è stato in pensiere a quelli che
hanno fatto procaccio delle prefende e d’altre cose, che dicemmo di
sopra. Or seguendo nostro trattato, conoscendosi per lo papa e per lo
collegio de’ suoi cardinali, i quali aveano rivocato da sua legazione
il legato di Spagna e posto in suo luogo l’abate di Clugnì, che esso
abate era uomo molle, e poco pratico e sperto, e sì nell’arme e sì
nelle baratte che richeggiono gli stati e le signorie temporali, e
che per tanto era poco ridottato e meno ubbidito, parendo loro che suo
semplice governo poco atto fosse ad acquisto, e pericoloso a sostenere
le terre che la Chiesa avea racquistate nella Marca e nella Romagna,
diliberarono di rimandare il cardinale di Spagna in Italia con più
pieno e largo mandato che per lo addietro, e così seguette; il quale,
tutto che fosse sagacissimo e astuto signore, non senza consiglio de’
nostri cittadini, di quella natura della quale avemo di sopra parlato,
fè la via per Firenze, dove fu a costuma di papa pomposamente ricevuto
con processione, e palio di drappo ad oro sopra capo, addestrato da’
cavalieri, e con altre ceremonie usate in simili casi per lo nostro
comune, che piuttosto in atto d’arme che d’uficio chericile era
mandato; li donarono due grandi destrieri, l’uno tutto di ricca e reale
armadura coverto, e tanti altri doni, che passarono i milledugento
fiorini d’oro. Giunto a Firenze, scavalcò a casa gli Alberti; e
sentendosi in Firenze che ’l paese ov’era destinato avea gran bisogno
di lui, per tutto si credette che giunto prendesse viaggio, ma
coll’usato consiglio de’ nostri cittadini rimase a Firenze per spazio
d’un mese, segretamente cercando l’accordo della compagnia, e lega col
nostro comune, nella quale offerea il signore di Bologna, e tutto facea
a suo vantaggio, e a mal fine e dannaggio di nostro comune; la qual
cosa conosciuta ruppe il ragionamento, e il legato ciò molto ebbe a
male, e si mostrò di partire malcontento dal nostro comune, avendo al
servigio di santa Chiesa del continovo dai cinquecento a’ settecento
cavalieri di quelli del comune di Firenze.


CAP. CIV.

_Come messer Gilio di Spagna parlamentò col signore di Bologna._

Partito il legato di Firenze, a dì 26 di dicembre detto anno, cavalcò
dalla Scarperia, e poi traversò per l’alpe, per non appressarsi a
Bologna, acciocchè ’l signore di Bologna non prendesse gelosia, e
andò a Castelsanpiero; e ivi il signore di Bologna messer Giovanni
da Oleggio gli si fece incontro bene accompagnato di gente d’arme, e
ricevettelo onorevolmente in Castelsanpiero. E ivi essendo amendue,
pochi giorni appresso feciono parlamento, ove furono ambasciadori
del marchese di Ferrara, e della gran compagnia, e d’altri signori e
comuni, nella quale in effetto nè de’ fatti della compagnia, nè del
signore di Forlì niuna concordia pigliare si potè. Il conte di Lando
venuto in Forlì per trovarsi di presso al legato s’arrestò ivi, e così
niente fatto si partirono; il legato si tornò a Imola, e gli altri alle
luogora loro.


CAP. CV.

_Come la compagnia si condusse per la Romagna._

Del mese di novembre sopraddetto la compagnia si partì dalla Massa
e andonne a Savignano, dove per difetto di vittuaglia stette poco,
e passò in quello d’Arimini, ove consumato in breve tempo quello che
accogliere poterono, per forza di fame più giorni strettamente patita,
come arrabbiati combatterono il castello di Sogliano, nel quale era
assai roba da vivere, e quello vinsono, e uccisono senza misericordia
niuna centoventitrè abitanti. E per la vittoria di quello sormontati
in orgoglio combatterono il Poggio de’ Borghi, e vinsonlo, e uccisono
centocinquantacinque uomini. Veggendo vinto le fortezze maggiori e più
atte a difesa, per paura le castellette vicine tutte s’abbandonarono,
nelle quali senza contrasto entrarono i nemici, ciò furono Raggiano,
Strigaro, Montecongiuzzo, Compiano, e Montemeleto, e più altre
terre poste in fortissimi luoghi in sulla stinca della montagna, ove
trovarono grande abbondanza di tutta la roba da vivere. E però quivi
s’arrestarono lungamente, tenendo in continovo sospetto il comune di
Firenze, che temeano non scendessono l’alpe dalla Faggiuola al Borgo a
Sansepolcro, e per quella di Bagno, e per questa temenza il comune di
Firenze vi pose quello riparo che si potè e di gente e d’amici.


CAP. CVI.

_Dello stato della Cicilia._

Se bene si cercheranno le nostre scritture, e metterassi incontro tra
le ree e buone fortune, troppo avanzeranno le sinistre le felici e
avventurose, che appena si troverà non dirò uno mese dall’anno, ma uno
dì solo, che tra’ cristiani, in qualche parte della terra che per loro
si possiede, qualche pessima cosa e degna di nota surta non sia. Noi
avemo per più riprese poco addietro parlato delle travaglie de’ nostri
paesi e parte di quelle de’ Franceschi, e se intra esse fosse stato
punto di tempo quieto o tranquillo; quello medesimo è stato negli altri
paesi pericoloso e turbato, perocchè ne’ detti tempi sono mescolate
le volture della Cicilia, la quale quasi del tutto divisa, e piena di
scandali e di riotte, in continove guerre sboglientate, l’una parte
e l’altra perseguitata con quello poco di gente che loro era rimasa,
con guerra sanguinente e mortale, quelli di Messina si sono fatti
capo di parte, e così hanno fatto quelli di Catania, senza redenzione
offendendo l’uno l’altro, perchè n’è seguito gran danno di persone con
piccolo vantaggio, e senza notabile acquisto o d’una o d’altra parte.


CAP. CVII.

_Del male stato del reame di Francia._

Il paese di Francia dopo la morte del proposto de’ mercatanti, e de’
suoi compagni e seguaci, non prese alcuna fermezza di buono stato,
ma per contrario si ritrovò in grande confusione, che il Delfino
non era amato nè ubbidito come signore nè dal popolo nè da’ baroni,
e non ostante che lo tenessono per loro capo, poco era grazioso nel
cospetto de’ grandi e de’ piccoli; e oltre a ciò per li trattati già
scoperti stava in sospetto e paura, e per questa cagione poco potea
provvedere, e meno atare il paese da’ suoi nemici. D’altra parte il re
di Navarra si mantenea di fuori correndo e predando intorno a Parigi e
altre ville circustanti senza trovare contasto fuori che delle mura, e
continovamente sua gente cresceva d’Inghilesi, e sì di gente paesana
pronta e disposta a mal fare; e per questo si scorse il paese, che
fuori di Parigi e d’altre città e fortezze di Francia non si potea
andare, che gli uomini non fossono presi. Il Delfino, come detto è di
sopra, non potendo a tanto male porre rimedio, e temendo di tradimento,
il quale poco appresso si scoperse, stava a riguardo, e aspettava si
mutasse fortuna.


CAP. CVIII.

_Di mortalità d’Alamagna e Brabante._

Essendo ancora il braccio di Dio disteso sopra i peccatori non corretti
nè ammendati per li suoi terribili giudicii a tutto il mondo palesi,
e per gastigarli e riducerli a migliore vita, nel detto anno nel
tempo dell’autunno ricominciò coll’usata pestilenza dell’anguinaia
a flagellare il ponente, e molto gravò in Borsella, che del mese
d’ottobre e di novembre vi morirono più di millecinquecento borgesi,
senza le femmine e’ fanciulli, che furono assai. Ad Anversa, e a
Lovano, e nell’altre ville di Brabante il simile fè. Non toccò la
Fiandra, poichè altra volta non era molto stata gravata, e però
Brabante più ne sentì; e per simile modo avvenne nella Magna a Basola,
e in altre città e castella infino a Boemia e Praga, le quali dalla
prima mortalità non erano state gravate. In questi tempi fu ne’ nostri
paesi in Valdelsa, e in Valdarno, di sotto, e nel Chianti, quasi come
l’anno dinanzi passato, generali infermità di terzane, e di quartane,
e altre febbri di lunga malattia, delle quali pochi morivano. Di ciò
si maravigliarono le genti di Valdelsa e di Chianti, perchè sono in
buone arie e purificate, perchè due anni l’uno appresso l’altro fossono
maculati di simili infermitadi, non conoscendo alcuna singulare cagione
di quello accidente.


CAP. CIX.

_Di giustizia fatta in Parigi._

E’ non è da maravigliare della crudeltà de’ tiranni, a cui li savi
e valorosi cittadini sempre furono paurosi e sospetti, s’e’ si
dilettano nello spargimento del sangue innocente, per mantenere colla
spaventevole rigidezza della infinta giustizia in sicurtà la gelosia
del loro stato violento, e per tanto sospetti, e poco accetti a’
sudditi, e sottoposti a molti aguati e ruine. Ma di certo è da prendere
singulare ammirazione, quando questo iniquo animo cade nel sangue
reale per lo titolo della naturale signoria, la quale suole essere
mansueta e benigna, e con umanità, eziandio offesa, trattare i sudditi
suoi. Questo diciamo, perchè del mese di novembre detto anno, essendo
il Delfino di Vienna nella città di Parigi, per sospetto d’alcuno
trattato, del quale chiara verità non si potea sapere, fece pigliare
il conte di Stampo parente del re di Navarra, e ’l conte di Rossì,
e ventisette borgesi di Parigi, dicendo, che trattavano contro a lui
col re di Navarra. Per questi borgesi l’università di Parigi turbata e
commossa, mandarono il proposto de’ mercatanti con altri de’ maggiori
borgesi al Delfino per riaverli, con dire che non erano in colpa. Il
Delfino rispose, che dove non fossono in colpa, non bisognava loro di
temere, e che sopra ciò procederebbe temperatamente infino ch’avesse la
verità del fatto. E per questo savio modo racquetato il primo bollore
del popolo, poco appresso, dicendo che li trovava colpevoli, tutti i
detti borgesi fè decapitare; i conti riserbò in prigione. Di ciò la
comunanza fu mal contenta, e mormorava, ma per paura catuno, non avendo
capo a loro modo, soffersono il nuovo gastigamento del vecchio peccato,
comportandolo senza altra novità, più per servile pazienza che per
onorare o piacere al loro signore.


CAP. CX.

_De’ dificii fatti a sant’Antonio di Firenze._

Io non so s’egli è da lodare o da biasimare il prelato che spende negli
edificii magnifichi il danaio che trae del beneficio a lui conceduto,
perocchè, secondo che dicono gli antichi decreti de’ santi padri,
il prelato dee fare delle rendite sue tre parti; l’una dee spendere
nelle sue bisogne, l’altra dee distribuire a’ poveri, e dell’altra
dee racconciare la Chiesa, quanto si richiede a onestà di religione
fuori di pompa mondana: ma considerato che tutti coloro che prendono
frutti de’ beni della Chiesa delicatamente ne vivono, e quello che
loro avanza ai loro congiunti dispensano, e poco si curano perchè
rovinino le Chiese, o perchè i poveri di Dio si muoiano di fame, assai
è da considerare intorno a quello che qui è nel principio proposto. E
certo, se vento di fama mondano non levasse in alto alquanti che hanno
ne’ beneficii loro rilevatamente edificato, più sono da lodare che da
biasimare, secondo il corso della Chiesa terrena lussuriosa e avara,
al cui esempio assai disonesto e dannoso i secolari, che sono ghiotti
de’ beni terreni, vivendo trascorrono in grandi e disordinati peccati.
Questo tanto sia detto non per correzione, che non la vogliono udire, e
nostro uficio non è predicare, ma per argomento alla materia che segue.
Messer frate Giovanni Guidotti comandatore nella nostra provincia
nell’ordine di sant’Antonio, nato nella città di Pistoia non di
legnaggio gentile ma di meno che comune, uomo secondo suo stato d’animo
grande e liberale, avendo de’ suoi beneficii accolta moneta assai, la
quale secondo l’uso corrotto, del quale avemo parlato di sopra, poteane
ne’ suoi prossimani convertire, la spese negli edificii magnifichi
e nobili, i quali in questo anno fè cominciare al luogo dell’ordine
suo posto presso alla porta a Faenza, ne’ quali convertì gran danaio.
Avemone fatta memoria in rimprovero dell’avarizia di molti prelati, i
quali spogliano le Chiese che ne’ paesi loro e ne’ forestieri a loro
sono concedute, non curando nè l’ira di Dio nè l’infamia del mondo.



LIBRO NONO


CAPITOLO PRIMO.

_Il Prologo._

Volendo seguire il costume dello scrivere per noi cominciato, dovemo
alcuno prologo fare al nono libro di nostra opera; e perchè di cose
occorse in questi tempi niente degno di notabile fama ci si apparecchia
d’onde torre principio atto a proemio, ci trarremo alquanto addietro a
materia che assai maravigliosa ci pare: e per meglio dare a intendere
quello che ci va per la mente, mescoleremo delle strane vecchie con le
nuove. Trovasi nell’antiche ricordanze, e massimamente nelle romane,
che per cupidigia di temporale signoria, sott’ombra d’acquisto d’onore
mondano e di fama, i re, li principi, li tiranni, e, che meno pare
credibile, i popoli liberi, sotto il governo de’ consoli, senatori, e
tribuni, e altri rettori al tempo delli falsi iddei e mendaci, senza
niuna giusta cagione, con grandi apparecchiamenti di legioni armate
assalivano li reami, le provincie, e le cittadi che si voleano posare e
vivere in libertà sotto loro leggi e costumi, prendendo e distruggendo
con ferro e con fuoco chi loro s’opponea, e per forza recavano tutti
in servaggio. Ancora si trova che molte salvatiche e barbare nazioni,
o per essere di soperchio ne’ luoghi di loro origine multiplicati, o
per fuggire i loro luoghi poveri e bretti paesi, o per essere di quelli
violentemente cacciati (come occorse al buono Enea Troiano, e a molti
altri nobili e potenti signori) con loro donne e famiglie passarono in
paesi forestieri, per acquistare sito dove si potessono alloggiare; e
per ciò potere conseguire, cose grandi e pericolose in fatti d’arme,
alte e rilevate feciono, come ne manifestano l’antiche scritture, e
massimamente quelle de’ Gotti e de’ Longobardi. Queste cose inique e
scellerate, tuttochè n’avessono alquante scusa di presa di necessità,
la quale a niuna legge pare sottoposta, hanno alquanto di colorata
giustizia; nondimeno da’ savi gentili assai è biasimata e ripresa: e
certo a noi cristiani pare, che la giustizia di Dio debitamente per
l’abominevole peccato della idolatria..... Ma chi difenderà il tempo
della grazia? cioè il tempo cristiano; sozzamente maculato dalle
orribili persecuzioni da’ micidii di.... predatori, e distruggitori,
che già anni quarantasei, o in quel torno, sotto piacevoli nomi di
compagnie in diverse parti della cristianità, sotto loro capitani e
conducitori raunati, hanno tribolato e afflitto, ed usurpato e guasto
i reami, le provincie, città e ville, rubando, ardendo, e uccidendo
senza niuna misericordia ogni maniera di gente. Chi crederà che tanti
signori nobili e gentili uomini, tanta buona gente d’arme si sia
accozzata co’ ribaldi, e ladroni, e vile gente, pronta e disposta
allo spargimento del sangue umano, e a fare ogni male che pensare
si possa per scellerata persona? Certo egli è cosa inenarrabile,
e incredibile a pensare, che questa malvagia gente rinnovandosi di
tempo in tempo sotto nuovo governo, e sotto diversi e varii titoli di
compagnie, senza trovare contrasto o resistenza abbia corsi i paesi
cristiani, e fatto ricomperare i signori e’ comuni, avendo ognuno per
di grato a nemico, sostenendo e per fame e per freddo e per altre
cagioni tormenti, martirii e affanni da loro fede a chi ne facesse
memoria di questa pistolenza. Alquanti savi uomini vogliono dire, che
il movimento del cielo, e la congiunzione di certe pianete ne sieno
state cagione. Altri, a cui noi assentiamo come a più veritieri,
affermano ciò avvenire per giusto giudicio di Dio, il quale dice: Io
farò la vendetta de’ nemici miei co’ nemici miei; e l’empio regnerà
per li peccati de’ popoli. Le cagioni dell’ira di Dio, come pubbliche e
manifeste le tacemo, e se pure ne volessimo dire, basti sotto il fascio
di poche parole di dire cotanto, che secondo il pensiere di molti
discreti mai non fu il mondo peggiore, ne più contaminato d’ogni vizio,
e maggiormente di quelli che più sono odiosi e dispiacevoli a Dio.
Potrebbesi dire il mondo crudele, senza niuna carità o amore; e chi
volesse questo testo chiosare, a suo modo e piacere lo si chiosi, che
dire non potrà tanto male che assai peggio non sia.


CAP. II.

_Come la compagnia si partì da Sogliano e ricevettene danno._

Tornando a’ processi della compagnia e a’ suoi andamenti, avendo vinto
per battaglia il castello di Sogliano, e alquante altre castellette
della montagna, come addietro dicemmo, essendosi in quello alloggiati,
per vernare o per sentore di nuova civanza, o perchè loro paresse
stare oziosi non facendo qualche male, o per rigoglio, com’erano
usati, tutta la roba che per lo paese poterono raccogliere raunarono,
e arsono l’altre castella delle quali dubitavano che non offendessono
Sogliano; e volendo mostrare una singulare confidanza de’ terrazzani
di Sogliano, loro raccomandarono tutta la detta roba, e più di cento
di loro compagni ch’erano malati, e de’ buoni e valenti che fossono
nella brigata, facendo buone e larghe promesse a quelli di Sogliano,
come se fare volessono quello luogo loro camera o ridotto, e fare
certo chi dentro vi fosse; e ciò fatto presono viaggio, e si passarono
sopra Rimini assai presso alla terra, e’ paesani d’intorno, ch’erano
dalla compagnia stati rubati, e arsi e distrutti, e i loro congiunti
e amici o morti o guasti delle persone, e però, come sentirono che la
compagnia s’era allungata, prestamente e per forza si ritornarono in
Sogliano tutti, e quanti vi trovarono di quelli della compagnia, sì
de’ malati come di quelli che li servivano, senza niuna misericordia
gli tagliarono e uccisono, e ciò che trovarono nel castello rubarono
e portarono via, lasciando in abbandono le mura; e questo occorse del
mese di gennaio del detto anno. La compagnia essendo stata alquanti
giorni sopra Forlì in molti disagi, sì per le nevi ch’erano grandi, e
sì perchè trovarono nel paese poca roba a tanta brigata, si partirono
di quindi, e appressaronsi a Forlì, e in Forlì dal popolo per
comandamento del capitano ebbono ricetto, e rinfrescamento di pane e di
quello, che dentro v’era riposto. Questo facea il capitano, perchè ogni
altra speranza di difesa dal legato, fuori che di questa compagnia,
del tutto gli era mancata; di che più curando di suo stato, che sè
o ch’e’ suoi sottoposti e servidori, con loro mescolò molte fiate la
scellerata compagnia, con danno e con vergogna e disagio grande de’
suoi cittadini.


CAP. III.

_Come il comune di Firenze diede balía a’ cittadini contro alla
compagnia._

Vedendo il comune di Firenze che la mala brigata della compagnia
sempre crescea, e che il verno passava, e appressavasi il principio
della primavera, sicchè il tempo s’adattava alla guerra; e sentendo
che il conte di Lando, come persona offesa, forte si dolea del nostro
comune, e che esso e la compagnia per assentimento comune forte ne
minacciavano, e che mai campo non si mutava che tutti non gridassono a
Firenze, a Firenze; e volendosi provvedere sicchè al tempo si trovasse
sufficiente e in punto di potere rispondere alla potenza e al mal
volere della detta compagnia, ed essendo perciò necessario di trovar
modo come abbondanza di pecunia venisse in comune senza gravezza e
offesa de’ cittadini, a dì 12 di gennaio gli anni 1358, provvidono
per gli opportuni consigli che si facesse il quarto monte, ciò fu una
prestanza generale di fiorini settantamila d’oro alle borse possenti,
e chi prestasse per sè o per altrui, fosse scritto nel detto monte a
creditore del comune nell’uno tre, e avesse di provvisione il danaio
per lira il mese, che venia a ragione di cinque per cento degli
scritti, e de’ prestati a ragione di quindici per centinaio, con le
immunitadi e privilegi degli altri monti; e perchè la cosa avesse
esecuzione prestamente, feciono sedici uficiali, quattro per quartiere,
con larga e piena balía a potere accattare quanta moneta paresse loro;
i quali uficiali senza perdere tempo di subito composono settantamila
fiorini d’oro, e poco appresso ne posono cinquantamila fiorini d’oro,
i quali tutti si ricolsono in piccolo tempo e interamente, e i risidui
per tutto il mese di dicembre 1359, con tanta pace e buono volere, che
a niuna persona non fu nè guastagli casa, nè eziandio mandatoli messo,
l’uno per l’altro pagava prendendo vantaggio, e il comune rispondea del
dono e interesso fedelmente a’ tempi ordinati.


CAP. IV.

_Come procedette la compagnia in Romagna._

Poichè preso ebbe la compagnia per alquanti giorni rinfrescamento in
Forlì, per non consumare il gentile uomo, che era a stretti bisogni, e
loro dava ricetto, non ostante il tempo fosse per le nevi e freddure a
gente d’arme malagevole, si partì, e misesi sulla marina sopra Pesero
e Fano, stendendosi fino alle coste di Montefeltro; e loro convenia
così fare, perchè la gente era molta, e per lo disagio delle nevi
non poteano stare insieme, e sufficiente vittuaglia per loro e per
la brigata loro non poteano avere, e per lo piccolo luogo non poteano
trovare bene loro agio ancora da quelli di Montefeltro pagando derrata
per danaio, e il freddo pugnente e nevi sopra nevi loro facea portare
grande penitenza de’ loro misfatti. Molti uomini d’arme, mai più
de’ saccardi, per lo brusco tempo, e per lo disagio e mala vita, non
provveduti si morirono; e grande parte de’ loro cavalli si guastarono
per difetto di strame, e per lo mangiare del grano, ch’altra biada non
aveano che dare loro; e perchè a loro li convenia tenere al sereno, e
al ghiaccio e alla neve senza coverta; ben s’atavano quanto poteano con
gran fuochi d’ogni legname, sicchè si poteano dire mezzi sconfitti dal
tempo. Questo loro pessimo stato li fece fallire, che non ostante che
da Montefeltro fossono di vittuaglia per li loro danari sovvenuti, per
inganno entrarono in Montedifabri, ove alquanto di roba trovarono che
un poco rendè li spiriti loro, ma non potendo più nel luogo durare, si
traslatarono intra Iesi e Sinigaglia, e in quel luogo ebbono trattato
d’acconciarsi al soldo col duca d’Osteric, che, come addietro dicemmo,
era stato titolato dall’imperadore re de’ Lombardi, ma non ebbe luogo,
perchè domandavano soldo impossibile alla borsa del duca. Ma per dare
a intendere se fu la verità se ’l verno fu freddissimo e aspro, in
Bologna tanto alzò la neve, che comunemente giunse all’altezza di
braccia dieci, onde per ricordanza in piazza si fece una grande volta
sotto la neve, nella quale si fece convito e festa per certi giovani
ricchi, per ricordanza della grande neve. Passando di luogo in luogo la
detta compagnia con angoscia e con fatica, in su l’uscita di febbraio,
tirando verso Fabriano, s’arrestò alla Roccacontratta, facendo
secondo il loro uso, ma non trovando quivi vittuaglia che a loro fosse
bastevole, eziandio per piccolo tempo, presono il passo della terra a
Santagnolo, il quale avvisatamente fu loro conceduto, perchè avessono
cagione di più tosto uscire del paese. E stando la compagnia in queste
travaglie, il cardinale di Spagna legato del papa senza assento del
nostro comune, continovo con la detta compagnia cercava convegna, e
’l nostro comune si provvedea e ordinava alla difesa, poco curando
minacce, e con balestrieri e fanti intendeano alla guardia de’ passi,
guardando i valichi e i luoghi che di Romagna poteano dar loro via a
venire sul nostro terreno.


CAP. V.

_Di novità state tra’ signori di Cortona._

La signoria di Cortona, la quale lungo tempo è durata nella famiglia
di quelli da Casale, per successione era venuta in due fratelli
carnali, de’ quali l’uno avea nome Bartolommeo, e per senno e per età
era il maggiore, in lui cantava il titolo della signoria, tutto che
le rendite rispondessono egualmente a lui e al fratello che avea nome
Iacopo, il quale avea per moglie la figliuola di messer Francesco
Castracani di Lucca; la quale essendo di questa vita passata, Iacopo,
come uomo di vita dileggiata e disonesta, si tolse per moglie una
femmina mondana, la quale s’avea tenuta due anni innanzi la morte
della donna sua fuori de’ loro casamenti, e ciò fatto procedette più
oltre, e volea la femmina vituperosamente ne’ palagi abitare con la
donna di Bartolommeo, ch’era di gentile legnaggio, e d’animo grande e
di vita onesta e signorile, la quale in niuno modo il volle patire;
onde intra’ fratelli nacque riotta, e della riotta col favore e
consiglio de’ loro amici fu concordia, nella quale di comune assento
dierono in guardia la rocca a uno che tutto era famiglio di Iacopo, e
a Bartolommeo era confidente amico, con patto che per loro la dovesse
tenere comunemente, e guardarla, e non darla all’uno senza l’altro.
Segue, che a dì 8 di febbraio 1358, che vedendosi Iacopo per difetto
di gotte impotente della persona, e per tanto dal fratello trattato
non bene, e poco avutolo a capitale, tolse il figliuolo piccolo di
Bartolommeo, e lui menò alla rocca con due suoi figliuoli e trenta
cittadini di suo intendimento colla signoria. Giunto alla porta, con
ingannevoli e composte industrie condusse il castellano a farlo aprire,
ed entrò dentro colla brigata, e pinse fuori il castellano, e come
fece follemente l’impresa, così con poca provvedenza male la condusse,
non avendo di fuori ordinato donde li venisse il soccorso. Sentendo il
signore quello che ’l fratello avea fatto, come savio e coraggioso,
col favore de’ suoi cittadini subito fece prendere il torrione che
dava entrata alla rocca, e di fuori a campo si mise, fortificando di
fossi e palancati il luogo che non poteano essere forzati; onde Iacopo,
che s’era rinchiuso in prigione, mancandoli per la mala provvedenza
la roba da vivere, all’uscita di febbraio cercò patti col fratello,
il quale glie le fece volentieri, per levarsi da dosso i sospetti di
fuori e dai pericoli che in simili casi possono occorrere; li patti
furono, ch’e’ potesse abitare ne’ palagi che allora erano comuni, e
avere certe provvisioni, e che i suoi seguaci e compagni fossono salvi
delle persone, e in grazia di Bartolommeo; e in effetto gli fu ogni
cosa promesso, ed egli rendè la rocca, e fu messo ne’ palagi, ma bene
guardato, e tutta sua famiglia li fu levata; ma poi appresso a due dì,
quelli che con lui erano entrati nel cassero furono morti dal figliuolo
del signore, onde gli altri per lo migliore si cessarono; sicchè
Bartolommeo si rimase libero del tutto signore. Iacopo vedendosi mal
trattare, furtivamente si partì e andossene a Siena, dove non avendo
dal fratello alcuna provvisione, traeva sua vita assai miseramente.


CAP. VI.

_Dello inganno fatto per lo legato al comune di Firenze della
compagnia._

Noi avemo per molte riprese fatta memoria nelle nostre scritture de’
notabili vizii de’ nostri cittadini, i quali vizii da avarizia per
cupidigia di loro private ricchezze, e l’utile e l’onore del comune
niente hanno in calere, non sotto speranza che per loro riconoscenza
ammenda ne segua, tanto è l’usanza corrotta trascorsa e cresciuta
per la baldanza de’ passati cittadini, che sempre straboccatamente
è cresciuta per non essere de’ suoi falli corretta, ma perchè li
diritti e fedeli cittadini che si ritrovano agli ufici li tengano
a freno, se non colle parole almeno colle fave, non seguendo loro
dissoluti consigli, vogliosi e non liberi, e alla repubblica dannosi.
E certo la materia di che dovemo al presente fare nota è evidente,
e buono esempio sopra quelli che verranno poi, se fia con buono zelo
fedelmente ricolta. Il legato di Spagna, benchè di grande animo fosse,
e uomo baldanzoso e di grandi imprese, era savio e discreto, come nel
precedente libro dicemmo; ed essendo venuto a Firenze, coll’industria
e consiglio de’ nostri cittadini ch’erano a sua provvisione, più
volte tentò con sagaci e be’ modi, che ’l nostro comune prendesse
accordo con la compagnia, non tanto per affezione ch’avesse all’onore
e bene del nostro comune, quanto per levarsi da dosso la forza loro
co’ danari del nostro comune. E cerco e ricerco, trovato il nostro
comune fermo e costante in volere piuttosto spendere in sua difesa
ogni gran quantità di danari, che ricomperarsi qualunque piccola cosa
dalla compagnia, per levare via il preso costume di sì fatta gente,
che le città libere di Toscana e i possenti tiranni aveano recati
sotto palese tributo, vituperio e vergogna de’ signori naturali,
e della antica fama degl’Italiani, e massimamente del nome romano;
seguendo il consiglio di cui avemo ragionato, all’uscita del mese di
febbraio del detto anno, e per sè e per lo nostro comune, come avemmo
mandato, fermò concordia colla compagnia, la quale in effetto fu in
questa forma: che a loro darebbe fiorini quarantacinquemila d’oro
per la Chiesa di Roma, il comune di Firenze fiorini ottantamila, ed
eglino infra quattro anni seguenti non dovessono offendere la Chiesa
nè sue terre, nè ’l detto comune di Firenze, nè suo distretto e
contado; e soggiunse nel patto, che se infra cinque dì il comune di
Firenze, ricevuta la lettera da lui, non accettasse liberamente la
detta concordia, che ’l detto legato fosse tenuto loro dare fiorini
diecimila. E questo mercato procedette da sagace consiglio; perchè
li fu dato a intendere, che per la tema che ’l comune avea della
compagnia, veggendosi dell’impresa abbandonare dal legato, e avendo
poco rispetto e a consigliare e a provvedere per lo favore de’ grandi
cittadini, che per diversi rispetti, come detto avemo, accostavano
il legato, che farebbono sua intenzione, aggiugnendo, che il nostro
comune per reverenza di santa Chiesa, e di lui, di cosa fatta non gli
farebbe vergogna, ma tutto avvenne altrimenti. Il legato per due fatti
propri significò la detta concordia; la quale intesa in molti consigli
de’ cittadini, quanto che fosse per alquanti confortata e lodata, in
generale comunemente dispiacque, e fu in singolare abominazione, e
coralmente, per quelli ch’amavano lo stato e l’onore del comune, perchè
parea che ’l legato volesse guidare il nostro comune e prendere sua
tutela, e più sottilmente pensando, ombra di tacita signoria; onde il
popolo apertamente parlava in vergogna del legato, e di comune volere
si prese, che la detta convegna non si accettasse; e risposto fu al
legato, che questa, nè altra concordia con la compagnia il nostro
comune non volea, mostrando l’animo grande in poco prezzare il nimico:
e per non mostrare cruccio nè sdegno, e per rimuovere il legato dal
proprio nemico (non buono e male consiglio) di presente crearono
solenne ambasciata, e la mandarono al legato, e condussonlo a tanto,
ch’e’ promise di non fare accordo, e di nimicare a suo podere la
compagnia, avendo il braccio del nostro comune. Ciò nonostante operava
o per malizia o per senno; e a dì 21 del mese di marzo si convenne con
la compagnia per fiorini cinquantamila, i quali promise di pagare anzi
che si partissono delle terre della Chiesa. E aspettando la compagnia
prima la concordia, e appresso la detta prebenda, quasi come se avesse
a fare la sua vendemmia, sì s’allargava per lo paese studiosamente
predando e facendo ogni male, e per quattro riprese combatterono un
castello in su quello di Fermo, e non lo poterono avere; il perchè il
legato s’affrettò di pagare. La compagnia vedendosi fuori del verno, e
rincalzata de’ danari ricevuti dal cardinale, e nella speranza d’avere
da’ comuni di Toscana, stava baldanzosa, e a giornate fortemente
cresceva sì di gente a cavallo e di gente tedesca che cassare si
faceva, e sì di gente a piè, che per rubare di volontà si mettea in
brigata; e come per gli effetti di questa compagnia si vide, gente
di sì fatta ragione poco si cura di fare vendetta di sua brigata, e
molto meno di purgare sua vergogna pure ch’abbi danari, e chi è morto
s’abbi il danno, e poi è la sua morte vendetta; il perchè seguendo loro
costume, credendo con le grida spaventare il comune di Firenze e farlo
ricomperare, a ogni piè sospinto con istrida e romore minacciavano il
nostro comune.


CAP. VII.

_Il male seguì per l’accordo fatto dal legato con la compagnia._

Sentendo il comune di Firenze per la relazione de’ suoi ambasciadori
che il legato avea fermo per sè l’accordo con la compagnia, e
abbandonato nell’impresa grande e pericolosa il nostro comune, forte
si dolse, recandosi dinanzi dagli occhi gli onori fatti a’ prelati
ch’erano passati di qua, e massimamente a costui, e i danari ch’avea
speso per difendere la Chiesa di Roma in aggrandire suo stato in
Italia, nel cui servigio avea per più anni quasi del continovo tenuti
da quattrocento in cinquecento cavalieri, e da settecento in ottocento
balestrieri, senza il grande aiuto de’ suoi singulari cittadini, e
distrettuali, e contadini, i quali in meno di sei settimane di perdono,
come s’elli combattessono con gl’infedeli, e in commessa del papa avea
tratti altrui di borsa fiorini centomila. E quanto che questi servigi
perduti conturbassono assai il nostro comune, quello che non si potea
smaltire era, che ’l comune avea offerta tutta sua possa al legato
a disfare la compagnia e cacciarla de’ terreni della Chiesa, ed egli
l’avea accettata, e battendo la compagnia sotto questa profferta, avea
fatto mercato, e venduto loro la parte del nostro comune. Aggiugnesi
a questa novella non buona, ch’e’ Pisani, e’ Sanesi e’ Perugini per
loro segreti ambasciadori cercavano accordo con la compagnia, e per
ciò sturbare tenea il comune suoi cittadini a confortare i detti comuni
all’unità e alla difesa, mostrando che la resistenza era la salute de’
comuni di Toscana che voleano vivere in libertà e in pace; perocchè
levata la speranza del riscatto, quella gente perversa, che solo per
ingordigia di ciò si ragunava a mal fare, non sarebbono sì pronti a
farsi cassare per fare compagnia; le risposte erano fratellevoli e
buone, e gli effetti in occulto del tutto contrari, come si manifestò
per lo fine.


CAP. VIII.

_Di molte fosse feciono i signori di Lombardia per difesa de’ loro
terreni._

Veggendo i signori di Milano li scorrimenti delle compagnie, e che ’l
paese d’Italia spesso affannato di guerre era, e non era per quotare,
per più sicurtà e fortezza de’ paesi che teneano sotto loro signoria,
con studio e diligenza feciono fare fossi ampi e profondi, uno in sul
Bresciano, il quale si stendea infino al lago di Garda, e un altro
nel Cremonese, e uno ne ferono fare in altro paese, i quali, tutto
che l’opera fosse grande e maravigliosa, per lo terreno dolce furono
in breve tempo forniti. E quanto che dalle cagioni di sopra fossono
indotti, più gl’indusse il sospetto che aveano preso del duca d’Osteric
novellamente titolato re de’ Lombardi, dubitando che se scendesse con
la forza degli Alamanni, trovando i piani liberi e spediti e senza
riparo, loro offesa non fosse più presta e maggiore; e di ciò loro
aveano fatta l’esperienza la compagnia, che più volte per quelli luoghi
aperti gli aveano assaliti improvviso, e assai danneggiati. E il simile
fece il signore di Bologna in questi giorni, facendo fare una spaziosa
e profonda fossa per simigliante temenza. E i Sanesi feciono fare una
via e un ponte sopra le Chiane per avere libero il cammino d’andare
a loro posta a Cortona. E...... per li signori di Milano, essendo
contrario al signore di Bologna, per avere al bisogno il passo e ’l
foraggio di Lombardia, feciono fare via alzata in sulle valli con fossi
d’ogni parte, del cui cavo era levata la via; e dove furono trovate le
valli profonde vi si fè ponticelli, la quale stese per lungo cammino
tanto che la congiunse col Po, la qual via per lo sito del luogo non
potea essere impedita.


CAP. IX.

_Come il re d’Inghilterra dissimulando la pace cercava la guerra co’
Franceschi._

Poichè detto avemo, secondo che ’l corso del tempo richiede, delle
fortune e travaglie de’ nostri paesi, diremo alquanto delle straniere;
e cominciando a quelle di Francia, all’entrata di febbraio 1358, il re
d’Inghilterra, quasi come tocco di cuore si mosse, e andò dov’era il
re di Francia, e a lui disse onestissimamente s’egli attendea la pace;
il re di Francia onestissimamente rispose di sì, e che la desiderava.
Il re d’Inghilterra procedendo più oltre disse al re di Francia,
ch’egli era in sua potestà, quando facesse quelle cose che dovea fare.
Il re rispose, ch’era pronto e disposto, ma il che non sapea. Allora
il re d’Inghilterra per convegna di buona pace chiese in sua domanda
la contea di Bologna sul mare; e che il re pacificamente li lasciasse
possedere la Guascogna, e certa parte della contea d’Anghiem, e la
Normandia, senza farne omaggio niuno; e che il conte di Monforte delle
terre che tiene in Brettagna ne facesse omaggio al re d’Inghilterra,
e togliesse la figliuola per moglie; e di quello che tiene nel detto
paese messer Carlo di Brois duca di Brettagna ne facesse omaggio al re
Giovanni di Francia, com’era usato, e che per ammenda desse fra certi
termini cinquecento migliaia di marchi di sterlini, che montavano
due milioni e mezzo di fiorini. Il re di Francia, ch’era prigione,
consentiva a ogni cosa per sua diliberanza, ma troppo era di lungi il
potere dal volere, e ciò bene conosceva il re d’Inghilterra, ma con
usata astuzia inghilese, essendo certo nell’animo suo che quello ch’e’
domandava fare non si potea, per potere calunniare il re di Francia di
rottura di pace e di fede, e per potere la sua non diritta intenzione
antipensata adempiere, dovendo secondo i ragionamenti avuti tra loro
passare in Francia, sotto colore di più presta e spedita esecuzione
della pace, fece fare gride per tutte sue terre, che sotto la pena
del cuore niuno Inghilese con arme passasse nel reame di Francia,
promettendo di fare tornare tutta sua gente d’arme che fosse nel reame
di Francia. E per mostrare della detta pace singulare allegrezza, i
figliuoli del re feciono bandire in Londra una giostra, dove molti
signori e gentili uomini dell’isola a loro richiesta s’appresentarono,
con molta allegrezza e festa di tutto il reame, seguendo per questa
cagione il contrario nel reame di Francia, come più innanzi del nostro
trattato faremo menzione.


CAP. X.

_ Come il re di Navarra tribolava Francia._

Gli effetti della infinta e non vera pace tra i sopraddetti due re
si cominciarono a scoprire del mese di marzo seguente, perocchè il
re di Navarra, ch’era creatura del re d’Inghilterra, colla forza
degl’Inghilesi entrò una notte di furto in Alsurro, e non potendo
vincere la rocca, ch’era forte e bene guarnita alla difesa, fè la
terra rubare, e mettere al taglio delle spade grandissimo numero di
cittadini e paesani che quivi erano ridotti, e secondo che troviamo per
vero, oltre a seimila vi furono morti. Fu riputata crudelissima cosa e
disusata, perocchè simile cosa più occorsa non era nella lunga triegua
e pertinacia della detta guerra. Partito il detto re di Navarra con
sua gente d’Alsurro, se n’andarono al Tu, e stesonsi infino in Torì,
e ivi combatterono e presono uno forte castello ove trovarono molta
roba; e predato le cose sottili, fornirono il castello, e lasciaronvi
sofficiente difesa, cercando dove potessono fare danno. E oltre a
queste inique operazioni del re d’Inghilterra, e’ si copria sotto lo
scudo del re di Navarra, la cui forza tutta era d’Inghilesi: e pertanto
si potea dire pessima cosa, che era radice di tradimento, perocchè i
paesani allegrandosi per lo grido della pace novella non attendeano
alla guardia come erano usati, e pertanto ricevettono danno in molti
luoghi grandissimo; onde essendo improvvisi fidati, così malmenati,
e senza capo o consiglio, si diruppono quasi tutti a mal fare;
verificando l’antico proverbio che dice, tra pace e tregua guai a chi
la lieva.


CAP. XI.

_Del male stato di Cicilia in questi tempi._

Le discordie continovate per lungo tempo tra’ Ciciliani aveano l’isola
ridotta in somma impotenza e miseria, e in stato sì fievole, che poco
degno pare di memoria per le sue opere inferme e di poco valore, pur
seguendo quelle, tali quali furono racconteremo. In questo anno 1358
del mese di febbraio, uno bastardo della casa di Chiaramonte, detto
per nome Manfredi, uomo assai valoroso e ardito, se n’andò a Messina,
e sagacemente cercò se avesse potuto riducere i Messinesi al volere
del duca, figliuolo che fu del re di Cicilia, a cui erano avversi e
contrari tutti quelli di Chiaramonte, e per sua parlanza avea tanto
operato, che i principali parziali de’ Messinesi inchinavano e davano
orecchie. Ma messer Niccolò di Cesare, il quale per lo re Luigi avea la
maggioranza e lo stato, sì s’oppose, e non volle assentire, mostrando,
che se quella città perdesse l’aiuto e lo foraggio della vittuaglia
che traeva di Calabria era in pericolo di fame, e di venire per tanto
in desolazione e in miseria. Quelli di Chiaramonte veggendo i crolli
che aveano per sostenere la parte del re Luigi, e che da lui non era
favore bastevole a mantenere loro stato, ripresono e ridussono a loro
lega la Stella di Palermo, e molte altre fortezze e tenute, le quali
aveano lasciate nella guardia del re Luigi, il quale per non potere
resistere alla spesa non le potea guardare; e forte temeano che non
le riprendessono i Catalani. E nondimeno mandarono il detto Manfredi a
Napoli al re Luigi significando lo stato loro e del paese, e pregandolo
che mandasse loro gente d’arme sofficiente a resistere alla potenza
del duca e dei Catalani, la quale tutto che piccola fosse, pure era
maggiore che la loro, e da sormontare in breve tempo se non trovasse
contasto, che continovamente crescea, sì perchè li paesani volentieri
tornavano alla grazia del signore naturale, e sì perchè d’Araona
li venia soccorso. Sentendo ciò il re Luigi, e non potendosi come
desiderava, per l’impossibilità fare prestamente quello che domandavano
i suoi parziali, s’aiutò colle grandi e larghe impromesse, promettendo
d’andarvi in persona senza lungo indugio di tempo. E di presente fè
sua ambasciata, e mandò a richiedere d’aiuto il comune di Firenze, e
gli altri comuni di Toscana per la sua andata in Cicilia. E per dare a’
suoi amici e servidori speranza, mandò innanzi da sè il conte da Riano
con trecento cavalieri e con pedoni nell’isola, e operò sì che messer
Niccolò di Cesaro per la detta cagione venne per suo ambasciadore in
Toscana; e come ne seguì di questa materia a suo tempo racconteremo.


CAP. XII.

_Del male stato di Puglia per ladroni._

Come detto avemo nel capitolo di sopra, il re Luigi promise di passare
alla difesa e acquisto della Cicilia, e non era sufficiente, come
appresso diremo, a purgare e a difendere suo reame delle continove
ingiurie e ruberie de’ ladroni che correvano il Regno con disordinata
baldanza. E ciò addivenne, perchè in questi dì i baroni non erano
in pace e in concordia col re, e massimamente i reali, e il re aveva
piccola entrata, e però tenea poca gente d’arme a gastigare col ferro
e col capestro il gran numero de’ ladroni sparti quasi per tutto
il reame, e caldeggiati da’ detti reali e baroni per odio del re. E
pertanto in più parti del Regno si cominciarono a fare raunanze di
gente malandrina disposta a rubare, e feceano loro capitano, e rompeano
le strade, e correano per lo paese ora in una ora in un’altra parte,
forte conturbando i forestieri e’ paesani con rapine, e violenze, e
omicidii, fra i quali uno friere dello Spedale per trattato rubellò
Alfi, e fecelo spilonca e ricetto di questi ladroni: e altri ladroni
in Nieboli feciono il simigliante: e alcuna altra brigata di questa
pessima gente ferono capo in Valle beneventana, e altri di loro ginea
altrove in diverse contrade, tenendo i paesi affannati, perchè andare
non si potea sicuro in niuna parte del Regno, se non con sicurtà de’
baroni del paese, i quali nel vero a loro davano ricetto per essere
temuti da’ paesani. Di tanti mali giustizia fare non si potea; ma i
ladroni mancando la preda, e crescendo l’ira de’ paesani, e la paura
de’ loro malificii, partendosi molti da compagnia, i caporali rimaneano
con minore seguito, e meno poteano fare nocimento.


CAP. XIII.

_Della morte di messer Bernardino da Polenta signore di Ravenna._

Essendo stato lungo tempo malato messer Bernardino da Polenta tiranno
e signore di Ravenna e di Cervia, a dì 13 di marzo 1358 lasciò
insieme la signoria e la vita. Costui fu dissoluto e mondano, e di
sfrenata lussuria; crudele e aspro signore, e nimico di tutti coloro
che montassono in virtù e in ricchezza, e tutti gli antichi legnaggi
dell’antica città e nobile di Ravenna spense e distrusse, non meno
per cupidigia d’usurpare i loro beni, che per tema che per alcuno
tempo non li fossono avversi; il perchè in Ravenna al suo tempo altro
che artefici minuti e villani non si vedeano. Costui talora come
censuario rispondea alla Chiesa di Roma, mostrandosi divoto e amico,
ma copertamente l’era contrario, favoreggiando i rubelli della Chiesa
in Romagna e nella Marca. E avendo ne’ dì suoi la fortuna benigna,
di masserizia, di grano, e di bestiame, e di sale, e delle colte de’
cittadini e de’ contadini disordinatamente gravati fè grande tesoro; e
quanto ch’all’anima poco fruttasse, pure nell’estremo fè testamento,
nel quale istituì sua reda messer Guido suo figliuolo, e sì della
signoria come dell’avere; il quale, morto il padre, con la forza degli
amici e della gente dell’arme al popolo si fè confermare per quella
poca di giurisdizione che la Chiesa dice d’avere in Ravenna, e con
provvedere al legato anche fortificò la detta confermazione. Costui
mosso da benignità d’animo, e da buono e savio consiglio, tutti gli
antichi e buoni cittadini che dispersi per lo mondo aveano fuggita
la crudeltà e l’ira del padre richiamò e ridusse in Ravenna, e cacciò
via tutti i malvagi e iniqui sergenti del padre; che fu cosa notabile
assai, e atto non di tiranno, ma di giusto signore naturale.


CAP. XIV.

_Operazioni della moría._

In quest’anno l’usata moría dell’anguinaia, la quale nell’autunno
passato avea nel Brabante e nelle circustanti parti del Reno fatti
gran danni, nel verno si dilatò, e comprese e passò nel Friuli facendo
l’uficio suo per infino al marzo, e parte della Schiavonia, ma non
troppo agramente; perocchè enfiando sotto il ditello e l’anguinaia, chi
passava il settimo giorno era sicuro; vero è che in sette dì assai ne
morivano. Ancora non pigliava le città e le ville comunemente, ma al
modo della gragnuola l’una lasciava stare e l’altra prendea; e durando
dove cominciava dalle venti alle ventidue settimane, molta gente d’ogni
generazione trasse a fine.


CAP. XV.

_Di certa novità ch’ebbe in Perugia in questi tempi._

Chi vorrà con animo riposato recare alla mente quello che scritto si
trova degli stati mondani dal tempo di Nembrotte primo tiranno infino
ne’ giorni presenti, vedrà manifesto, che mai niuno tempo fu tanto
pacifico nè tanto durato tranquillo che ne’ reami, e nelle città, e
(che è più da maravigliare) nelle piccole e povere ville, non sieno
stati di quelli che hanno cerco e a tutti i sentimenti del corpo e
dell’animo di soprastare agli altri, e di farsi maggiori e governatori,
usurpando le pubbliche e le private ricchezze; e senza recare esempi
a prova di ciò, che sono infiniti, e notori e manifesti, cercate le
note volgarmente hanno fatto quelli di nostra famiglia intorno alle
cose che sono occorse ne’ tempi da farne memoria, troverà che non
di Roma città in Italia, ma in tutto il mondo mai non fu in tanto
riposo che per tutto non sentisse affanno di questa materia; onde li
savi, che ricordano delle cose antiche, veggendo questi casi tutto
giorno addivenire, non si dogliono nè si maravigliano, ma i semplici
e idioti, che solo tengono gli occhi alle cose che sono loro davanti,
si turbano e rammaricano, e mormorando stoltamente favellano, e non
sapendo vedere nè dare riparo potendo si contristano. Essendo dunque
questa vita comune, molte più e così ne sono state maculate l’altre
città di Toscana, come la nostra. E in questi tempi ne fece sperienza
la città di Perugia, che essendo il popolo suo villanamente barattato
per Leggieri d’Andreotto e per gli altri grandi cittadini appellati
Raspanti, che con lui s’intendeano ne’ fatti dell’impresa della
città di Cortona e della guerra de’ Sanesi ch’era seguita, quelli
che voleano vivere mezzano e popolare senza fare danno o vergogna
al suo comune ebbono tanto di podere, che feciono in Perugia venire
per sindaco di comune messer Geri della casa de’ Pazzi di Firenze,
cavaliere sagace e di grande cuore, voglioso e vago di novità come più
volte mostrò per l’opere sue. L’uficio fu con gran podestà e balía,
in ritrovare chi avesse male preso della pecunia del comune e’ beni,
e punire agramente cui trovasse colpevole; il valente cavaliere,
come giunse informato appieno per solenne investigagione di quelli
che ne’ detti casi aveano errato, non prese gli uccellini, ma formò
francamente suo processo contro al detto Leggieri, e altri maggiorenti
di quelli dello stato, ad animo di farne giustizia, senza tenere in
collo il processo. Gl’inquisiti non s’osavano rappresentare veggendo
l’uficiale coraggioso e disposto a punire, per tema di non essere
posti al tormento, e condannati personalmente e vituperosamente per
barattieri e rubatori del loro comune: e colla forza de’ Raspanti, che
li favoreggiavano, procuravano il dì e la notte come potessono impedire
l’uficiale in forma ch’e’ non potesse procedere. I gentili uomini
con tutto il seguito loro riscaldavano e francheggiavano il sindaco
perchè condannasse, stimando che se ciò fosse avvenuto rimaneano senza
dubbio i maggiori, e volgeano lo stato. Onde avveggendosi di ciò i
popolari, eziandio quelli ch’aveano cominciato la mena, si dierono
a cercare de’ rimedi, e trovarono uno statuto, che essendo eletto
per ambasciadore di comune, qualunque fosse e qualunque uficiale
inquisito, mentre che durasse il tempo dell’ambasciata si sospendea il
processo; onde operarono co’ signori, che gl’inquisiti fossono eletti
per ambasciadori, e così seguette; perchè convenne che i processi
cominciati fossono sospesi. Il perchè il valente cavaliere, veggendo
che gli erano presi i dadi, e ch’e’ non potea fare niente di suo
intendimento, lasciò l’uficio, e tornossi a Firenze. Il suo successore
trovati i processi pendenti assolse i detti grandi cittadini, e per
mostrare di fare uficio condannò i minori e gl’impotenti, onde a
furore di popolo anzi ch’e’ finisse l’uficio fu messo in prigione e
vituperosamente condannato fornì i giorni suoi in prigione.


CAP. XVI.

_Di sconfitta ebbono i Turchi da’ frieri._

Avendo i Turchi presa sopra i Greci disordinata e troppa baldanza,
ne’ detti tempi armarono ventinove legni, e valicarono nella Romania
bassa, e non trovando in pelago chi rispondesse loro si misono per
la fiumara molto fra terra predando il paese, e pigliando a costuma
di pecore, e avendo accolti più di milledugento prigioni e altra roba
assai, e ridotta tutta alla riva del fiume per caricare i navili; il
maestro dello spedale che per sue spie avea della detta armata sentito,
e fatto armare quattro galee e uno legno, e messovi quanti e’ potè de’
migliori e più franchi de’ suoi frieri, e altra buona gente d’arme, e
nobilmente fornita e apparecchiata a battaglia, le fè senza perdere
tempo dirizzare in Romania; li quali trovando come i Turchi avendo
i Greci a vile s’erano messi per la fiumana, presono subitamente la
bocca del fiume, e a lento passo tennono loro dietro; e non avendo
rispetto perchè i Turchi molti più fossono a numero, li soprappresono
quando intendeano a caricarei navili, e fidandosi nel nome di Cristo
e nell’aiuto suo scesono in terra, e arditamente presono la battaglia
con loro, la quale durò lungamente; e non ostante che i Turchi fossono
male ordinati, erano tanti, e vedeansi in luogo che non poteano fuggire
se non si facessono fare la via colle spade, però grande resistenza
feciono e aspra zuffa: alla fine furono rotti e sbarattati, e la
maggiore parte di loro morti e magagnati. Quelli che rimasono nella
sconfitta furono tutti presi, e i loro legni e navili, che niuno non
ne campò. I frieri liberata la preda e’ prigioni che i Turchi aveano
presi, e con piena vittoria, si ritornarono salvi a Rodi.


CAP. XVII.

_Di novità state in Provenza contro a quelli del Balzo._

I gentili uomini della Provenza che si chiamavano villanamente
oltraggiati da’ signori e dalla casa del Balzo, i quali aveano
tenuto e condotto gran tempo sopra loro la compagnia, desiderosi
di vendicare gli oltraggi e’ danni loro fatti, del mese di marzo
s’adunarono insieme con quella gente d’arme che più presto poterono
accogliere senza fare segno di cui volessono offendere, e di furto
presono l’Aguglia, nobilissima e bella fortezza di quelli del Balzo,
e presa, senza arresto la gittarono in terra infino ne’ fondamenti. E
ciò fatto, intendeano a tutto loro potere di seguire alla distruzione
della casa del Balzo, se non che il papa e’ cardinali, veggendo che
quella guerra tuttochè fosse tra private persone e non generale,
nè con offesa altrui che di loro, per lo sturbo che di ciò seguiva
alla corte di Roma vi s’interpose perchè non procedesse più oltre, e
feciono racquetare i Provenzali, e por giù l’arme. In questi giorni
i Borgognoni e’ Provenzali che erano nel reame di Francia stavano in
pessima disposizione, perocchè chi volea mal fare non era punito, e di
tali si trovavano assai, e aveano grande seguito; onde per la detta
cagione i cammini d’ogni parte erano rotti, e’ mercatanti e l’altra
gente rubati, ed erano sì stretti i cammini da questa mala gente,
che appena i corrieri, che andavano e venivano a Avignone, dalle loro
mani poteano scampare; il perchè la corte stava in molto disagio, e ad
altro non s’intendea che a trarre a fine le nuove mura d’Avignone: e
per ciò fornire, il papa e’ cardinali aveano fatta l’imposta a tutti
i cittadini e cortigiani, la quale era certa tassa in nome di capo
censo, e per casa, e per famiglie e botteghe, le quali si ricoglievano
ogni mese una volta, o più o meno, tre dì come il bisogno occorreva.
E per seguire i fatti de’ corrieri, giugnendo insieme il caso che
viene, il cardinale di Pelagorga e quello di Bologna, i quali erano
stati in Francia e in Inghilterra a trattare la pace intra’ due re,
come addietro facemmo menzione, tornando a corte, sentendosi, furono
assaliti da gente d’arme, e nell’assalto furono morti dodici de’
famigli loro, intra’ quali v’ebbe sei cavalieri, e però fuggirono senza
arrestarsi per spazio di quattro miglia, e’ buoni cavalli e gli sproni
li camparono che non furono presi, e ridussonsi in Celano, non sapendo
chi li cacciava. Bene si sparse la voce che i Franceschi si teneano
mal contenti di loro per li trattati menati per loro in poco favore
del loro re e signore; ma ciò non fu vero, ma piuttosto operazione di
rubatori, che stimarono essere ricchi se gli avessono potuti pigliare,
che atto di vendetta per sdegno ch’avessono preso i Franceschi.


CAP. XVIII.

_Il consiglio si tenne in Francia sopra le domande degl’Inghilesi._

Essendo divulgata la non vera pace tra li due re d’Inghilterra e di
Francia per vera, il duca d’Orliens, e il Delfino di Vienna figliuolo
del re di Francia andò a Mompelieri dove si fè grande ragunanza de’
baroni di Francia, e con loro furono i due cardinali ch’erano stati
altra volta al trattare della pace; quivi si fece parlamento per tutti,
nel quale chiaramente per tutti si tenne e conobbe, che quello che
domandava il re d’Inghilterra non era possibile, perchè non vedeano
che si potesse per modo alcuno inducere i Franceschi al consentimento,
tant’era la domanda ontosa e altiera, e a grande animo de’ Franceschi,
per la vituperosa e sdegnosa cosa, onde senza prendere accordo si partì
il parlamento. Il Delfino cavalcò ad Orliens con intenzione, che se
’l padre passasse in Francia col re d’Inghilterra, com’era ordinato,
li prestasse il consentimento della corona per difesa del reame, e
per tenere ciò che si potea; giunto in Orliens, mandò due baroni al
re d’Inghilterra a cercare accordo con lui, e fatto per sue lettere ed
ambasciate, a tutte le città e buone ville di Francia manifestò quello
che chiedea il re d’Inghilterra in vergogna e abbassamento della corona
e nome de’ Franceschi, e confortò li comuni che stessono attenti e
provveduti, e che si studiassono a fare buona guardia.


CAP. XIX.

_Come il re di Spagna e quello d’Araona s’affrontarono e non
combatterono._

Seguendo le discordie e tribolazioni de’ cristiani, che a giornate
per li loro peccati rovesciano i due re, quello d’Araona e quello
di Spagna intra gli altri di nome cristiano, e grandi e famosi,
s’erano ingaggiati di battaglia, e all’entrata del mese d’aprile 1359
ciascheduno di loro provveduto e avveduto, fatto tutto suo sforzo per
essere alla battaglia, comparirono alla fine de’ loro reami assai di
presso ciascheduno; quello di Spagna, che si noma quello di Castella,
venne con settemila cavalieri tra di sua raunata e di gente barbara,
i quali si chiamavano Mori, e con popolo assai; quello d’Araona venne
con cinquemila cavalieri catalani e con grande quantità di popolo
a piè, armati di lance e di dardi maneschi, i quali sono da loro
chiamati mugaveri, e l’una e l’altra gente con le persone de’ loro re
s’avvicinarono insieme per ordinarsi a battaglia: e non pertanto che
il re d’Araona fosse con meno cavalieri che quello di Castella, molta
sicurtà e baldanza prendea nella fede de’ suoi baroni, ma più in Dio,
perchè avea seco giusta cagione, e ciò li dava speranza di vincere;
ma quello di Spagna, tutto che si sentisse la forza maggiore, non si
fidava della fortuna della battaglia, per la coscienza di sua vita
scellerata e crudele, perocchè tornandoli a memoria che l’anno dinanzi
avea di sua mano morti venticinque de’ suoi baroni, come addietro
contammo, invilì, temendo ch’e’ baroni che gli erano rimasi non li
tenessero fede, e stornava con modi sagaci la zuffa; il perchè seguì,
che stati più giorni affrontati senza muovere assalto, o aizzare l’uno
l’altro, quasi come se avessono fatta convegna, si partirono del campo,
e tornaronsi indietro ciascuno alla sua frontiera. Di ciò fu lodato
il re d’Araona, che tutto che conoscesse che per la discordia de’
suoi nemici la vittoria fosse nelle sue mani, non volle mettere tanti
cristiani a farli uccidere insieme.


CAP. XX.

_Come il comune di Firenze si provvide contro alla compagnia._

Bene che ’l nostro comune di Firenze sollicitamente e con molta
provvedenza infra ’l tempo che la compagnia badava in Romagna
aspettando il tributo dal cardinale si fosse messo in assetto e alla
difesa, a all’offesa de’ suoi nemici, sentendo che ’l sabato santo a dì
20 d’aprile la pecunia promessa alla compagnia era pagata, raddoppiò la
sollecitudine, facendo gente quanta ne trovava assoldare, e affrettando
l’aiuto dell’amistadi, e rifermò per capitano di guerra messer Pandolfo
de’ Malatesti, e a dì 29 d’aprile 1359 fece la mostra della gente
sua, la quale fu da duemila barbute, e da cinquecento Ungheri, e da
duemilacinquecento balestrieri eletti tra gli altri e armati tutti a
corazzine; e avendo in punto questa brigata, messer Bernabò signore di
Milano, il quale da questa Compagnia più volte era stato oltraggiato e
l’avea in odio, offerse aiuto di mille barbute e di mille masnadieri
al nostro comune, e il comune l’accettò perocchè in quel tempo vivea
in fede e in buona pace col detto signore; fatto l’accetto, il detto
signore senza niuno intervallo di tempo ne cominciò a fare soldare in
Toscana. E mentre si facea queste cose, messer Francesco da Carrara
signore di Padova mandò in aiuto a’ Fiorentini dugento cavalieri, e
i marchesi da Este signori di Ferrara mandarono trecento cavalieri; e
fu cosa mirabile, che i tiranni che per natura sogliono essere nemici
e oppressatori de’ popoli che vogliono vivere in libertà, il perchè
le ragioni sono manifeste, si mettessono ad atare il nostro comune
fedelmente, che sopra tutti gli altri d’Italia sempre s’è opposto
a’ tiranni e disfattine molti, e i popoli di Toscana che sono vivuti
lungamente a libertà cercassono il contrario quasi di assenso comune,
bene che non apertamente, come appresso diremo. E cominciandoci a’
più antichi e intimi amici del nostro comune, e che mai da lui non
furono offesi, ma sempre atati e difesi e esaltati ne’ loro onori,
cioè da’ Perugini, contro al volere del comune di Firenze, e per suo
abbassamento e desolazione, secondo loro credenza e speranza, presono
accordo colla compagnia per cinque anni, dando loro di censo ogni anno
fiorini quattromila d’oro, e a tutta l’oste in dono tre dì vittuaglia,
e da indi innanzi derrata per danaio, e il passo libero per lo loro
contado e distretto a ogni tempo ch’e’ volessono passare, promettendo
che non darebbono contro a loro aiuto a’ Fiorentini; la quale
coralmente punse il nostro comune, e molto l’ebbe a grave. Vedendo
i Sanesi e’ Pisani ch’e’ Perugini, che sempre erano stati un animo e
un corpo co’ Fiorentini, aveano preso l’accordo nella forma ch’avemo
detto di sopra, feciono il simigliante, e più i Pisani, come antichi e
perfidi nemici del nostro comune, foraggio, e passo, e segreta promessa
di dare loro aiuto della gente dell’arme loro; la qual cosa sagacemente
feciono poi, come leggendo nostra opera al suo tempo si potrà trovare.


CAP. XXI.

_D’una folgore che cadde in sulla chiesa maggiore di Siena._

Tutto che i miracoli che noi veggiamo di poco ci muovano a lasciare i
peccati e tornare a penitenza, pure li dovemo scrivere a terrore de’
mortali. In questi dì della Pasqua della resurrezione di Cristo, a dì
21 d’aprile in sull’ora della terza, essendo il tempo turbato e largo
della piova, una folgore percosse l’agnolo ch’era nel colmo della
chiesa del vescovado di Siena, e portollo via, e non lo fracassò, e
scese nella cappella, e arse i paramenti e il tavolato dell’altare
maggiore; e avendo il prete consegrato il corpo di Cristo, non essendo
ancora comunicato, cadde in terra tramortito, e cinque preti ch’erano
d’intorno al servigio dell’altare percosse e ricise, e l’ostia e la
croce dell’altare non si potè mai ritrovare.


CAP. XXII.

_Di una battaglia tra due baroni del re di Rascia._

Il re di Rascia il quale era sotto il tributo del re d’Ungheria
cessava di fare l’omaggio, e ribellavasi al re; il perchè venuto
in indegnazione della corona, e avendo il re d’Ungheria contro a
lui conceputo e proposto nell’animo suo di farlo conoscente, duro
e malagevole li parea di passare la Danoia, per mantenere la gente
nel reame di Rascia, non avendo nel paese terra alcuna che li desse
ricetto. E stando in questi pensieri, come suole apparecchiare la
fortuna talora i non pensati acconci e’ rimedi, due baroni del reame di
Rascia per loro gare e male venture riottavano insieme; il re s’era più
volte travagliato di recarli a concordia, e nella fine in questi giorni
avuto l’uno e l’altro, e cercando di porli in pace, e non li potendo
recare, crucciato, come poco discreto, disse: Andate nella mal’ora, e
l’uno faccia all’altro il peggio che può; la parola detta sopr’ira fu
ricevuta per espressa licenza; onde partendosi amendue pieni d’odio e
di mal volere infiammati, quello di loro con alquanto meno podere avea
le sue terre in sulla riviera della Danoia, l’altro ch’era di maggiore
possanza accolta gente d’arme lo cavalcò, ardendo e guastando il suo
paese, e infine al suo abboccamento lo sconfisse; nè a ciò contento,
cercava sollicitamente di distruggerlo e trarlo a fine, e per ciò
fare lo cavalcava spesso, facendo ogni male. Vedendo il detto barone
ch’e’ non potea resistere, e nel suo re non avea speranza che levasse
dall’impresa l’avversario suo, lasciò il meglio che potè le sue terre
fornite a difesa, e segretamente valicò la Danoia, e ridussesi a uno
de’ baroni d’Ungheria che l’aiutasse, promettendoli di farsi cristiano;
il barone del re d’Ungheria li diè quella quantità d’Ungheri che li
chiese, e ’l barone a parte a parte occultamente li mise nelle sue
terre, e fece mettere la fama di volere fare di sua gente tutto suo
sforzo per vendicare sua onta e dannaggio. Il suo nemico che poco il
pregiava, per la vittoria avuta di lui era molto montato in baldanza,
venne da capo con tutto suo sforzo in sulle terre del detto barone,
e non avendo l’avviso degli Ungheri ch’erano venuti in aiuto de’ suoi
nemici, e mescolato tra loro, con animosa battaglia durissima, per la
virtù degli Ungheri fu sconfitto, e rimase morto in sul campo. E bene
cadde nella sentenza dell’antico proverbio che dice, chi è povero di
spie è ricco di vituperio, e fece fede che non si vuole avere tanto a
vile il nemico che non creda che offendere lo possa. Di questa tenzone
non curata ne’ principii, come si dovea, e lasciata passare in malattia
da non rimediare, nacque, che avuto il passo da questo barone il re
d’Ungheria con grande esercito passò la Danoia, come a suo luogo e
tempo diviseremo.


CAP. XXIII.

_Come sotto nome di falsa pace il re di Navarra tribolò Francia._

In questo medesimo tempo il sollecito re di Navarra, avendo in
apparenza ridotti gl’Inghilesi in forma di compagnia, per non mostrare
di volere fare contro alla volontà del re d’Inghilterra, e contro alla
falsa pace che per lui era bandita, cominciò a cavalcare in Berrì, e
tribolare quel paese con aspra e mortale guerra, stendendosi infino
in Campagna, rubando le ville e’ cammini, e ardendo chi non si voleva
rimedire. I legati del papa, ch’aveano preso cura della concordia
tra’ due re, vedendo quello che il re di Navarra aveva fatto col
braccio degl’Inghilesi, ne scrissono al re d’Inghilterra, pregandolo
che per bene della pace senza più aizzare i Franceschi li piacesse
porvi rimedio; e massimamente perchè il fatto pareva contro al suo
comandamento, e non atto di pace com’era ita la grida. Il re rispose,
che di ciò li pesava, e che non vedea come a quella mala gente, e del
tutto disposta a mal fare, potesse rimediare nè mettervi riparo, che
volentieri per suo onore il farebbe. Stando le cose di Francia mal
disposte in questi baratti, nel mese d’aprile 1359, nella città di
Digiono in Borgogna, una parte del popolo minuto vago di preda si levò
a romore, e corsono a furore alle case de’ maggiori e de’ più ricchi
cittadini della terra, e rubaronli, e chi non fuggì loro dinanzi in
quella tempesta fu morto. Il duca di Borgogna sentendo questa novità, e
temendo di ribellione, mandò là di sua gente d’arme, e de’ malfattori
ne fece assai bandeggiare, e presine nel numero di centoventi, per
vendetta del misfatto gli fece appendere per la gola.


CAP. XXIV.

_Novità state a Montepulciano._

Tornando alle italiane tempeste, messer Niccolò della casa di quelli
del Pecora di Montepulciano, il quale era stato egli e’ suoi altra
volta signori di quella terra, essendo stato lungo tempo di fuori, e
assai onorato dal comune di Perugia, il quale avendolo fatto cavaliere
gli aveano donato una tenuta del comune, la quale era in sulle
Chiane presso assai a Montepulciano, la quale si chiamava Valliano,
luogo forte, e ubertuoso d’ogni cosa, e traevanne loro vita assai
onorevolmente. Sentendo il cavaliere l’animo de’ suoi terrazzani mal
contenti, e atti a fare novità per sdegno di male reggimento, e che
mala volontà era in tra ’l comune di Siena e quello di Perugia, il
perchè lo stato de’ Montepulcianesi vagillava, ed era senza riposo, si
mise segretamente a cercare per mezzo degli amici co’ suoi terrazzani
di volere tornare in Montepulciano. E trovando la materia disposta
all’intendimento suo, accolse segretamente brigata, e di maggio 1359,
senza fare novità alcuna, s’entrò nella terra, e da’ terrazzani fu
ricevuto lietamente, dicendo esso, che non temesse nessuno, perocchè
liberamente e di buon cuore aveano perdonato a qualunque offeso gli
avesse, e ch’elli intendeano tutti tenere e trattare per fratelli.
E avendo ricordo che la riotta ch’era stata tra lui e messer Iacopo
suo consorto era stata la cagione principale perchè avea perduta
la signoria della terra, avendo provato che è il perdere lo stato
con andare all’altrui mercede, mandò prestamente per lui, e feglisi
incontro assai di spazio fuori della terra, e lo domandò, s’egli
intendea a perdonare liberamente a qualunque offeso l’avesse, e con lui
essere unito al beneficio e stato comune della terra loro, che quando
l’animo suo intendesse al contrario, che amendue prendessono altro
viaggio, e lasciassono in pace la terra al governo de’ suoi terrazzani;
e avendo detto, messer Iacopo disse, che ’l suo animo era buono, e che
liberamente a tutti avea perdonato, e promesso che mai non ne farebbe
vendetta, si presono per mano, e con festa grande e buona volontà di
quelli della terra entrarono nel castello, e furono fatti signori, e
con molta concordia si dirizzarono a ben fare, e a mantenere amistà co’
Perugini, e a onorare i Sanesi.


CAP. XXV.

_Di fanciulli mostruosi che nacquero in Firenze e nel contado._

Del mese d’aprile in questo anno, in Firenze e nel contado nacquero
parecchi fanciulli contraffatti, mostruosi, e spaventevoli in vista,
alcuno in figura di becco, e le braccia e il petto come membra
femminili, e libere, e compiute; altri nacquero in altre forme
mirabili, e assai differenti dall’umana natura. E appresso nell’autunno
seguente seguì, che molte donne libere del partorire dopo più giorni
morirono. E questo accidente si pensò per li savi che procedesse dal
cielo, in breve tempo non avesse fornito suo grande sfogamento: e
prendevano le donne tanta gran paura venendo all’atto del parto, che
molte se ne morivano; e se ’l cielo di questo e de’ parti strani fè
segno, ristorò ne’ leoni, che tre maschi ne nascerono la vigilia di
santo Zanobi.


CAP. XXVI.

_Come la compagnia passò in Toscana, e cercò concordia con i
Fiorentini._

Poichè la gran compagnia del conte di Lando, afflitta e consumata la
Romagna e la Marca, aveano dal legato ricevuta la paga e la promessa
che detta avemo da’ comuni di Toscana, superba e baldanzosa si mosse, e
sotto la guida de’ cittadini che dati l’erano a condotta dal comune di
Perugia passò per lo distretto di Perugia, cioè per quello della Città
di Castello e del Borgo a Sansepolcro, che allora erano a’ comandamenti
e al seguo del comune di Perugia, e tutto che ne’ patti avessono
promesso non fare danno, le rapaci mani non si poteano contenere che
non predassono, e offendessono chi le facesse contesa; e ciò non passò
senza querele de’ paesani, poco intese da’ loro signori Perugini.
Loro passata ne’ detti luoghi fu nel detto anno 1359 entrando il mese
di maggio; e nel detto stallo e trapasso, credendo ogni gente d’arme
arricchire in sul nostro contado della preda e ricetto, e di quello
che insieme pensavano fare rimedire il comune di Firenze, abbandonato
nell’impresa, come detto avemo, dal legato e da’ comuni di Toscana,
che per invidia e mal talento prendevano speranza che molto abbassasse
nostro comune, tanto crebbe e multiplicò la detta compagnia sì di gente
cassa dal legato, e da’ Perugini, e da’ Sanesi, e da altri comuni, che
passava il numero di cinquemila cavalieri, e di mille Ungheri, e di
più di duemila masnadieri di gente senza arme fornite, ch’erano assai
più di dodicimila bocche senza le bestie. Il perchè avveniva, che
dovunque s’alloggiavano, eziandio per pochi dì, secondo i loro patti
e convegne tutto consumavano e guastavano in forma, che a’ paesani
toglieano la fatica di fare la ricolta. Quando i conducitori della
compagnia e i loro capitani si vidono in luogo che poteano per aperto
cammino, venire in sul contado di Firenze, con sottile modo e con molta
sagacità e astuzia feciono da molte parti muovere amici del comune
di Firenze, e alcuno scrivere, e alcuni venire infino a Firenze a
cercare convegna, offerendo ogni concordia, lega e patto che sapessono
o volessono domandare il comune. Stando in queste mene, e di continovo
fortificandosi il comune, in processo di tempo arrivarono a Firenze
ambasciadori del marchese di Monferrato, i quali erano stati nella
compagnia per conducerla al soldo suo e de’ suoi collegati, i quali
domandavano cortesemente al nostro comune per parte di loro signore
solo il titolo della concordia senza pagare danari, e il passo sicuro
per lo distretto del comune di Firenze, più offerendo per ammenda
dare al comune nostro fiorini dodicimila d’oro: e oltre a costoro per
simigliante cagione vennono segretamente certi cittadini di Perugia.
Il comune che per suo onore avea presa la tira, nel proposito suo
stette fermo e costante, e non intralasciava per ragionamenti che non
intendesse continovamente alla difesa, cercando di mettersi a prova
di spegnere la compagnia in Italia. E certo fu mirabile cosa, che
’l nostro comune si volesse mettere a partito e a fortuna con gente
con cui non potea guadagnare altro che fama e onore; ma così era per
quella volta disposto, e tanto pertinace al servigio, che minacce, nè
offerta di larga e onorata concordia, nè altro qual’altro vantaggio
lo potè ritrarre della pertinacia del suo proponimento; essendo tutto
di combattuto da molti grandi e potenti suoi cittadini, i quali o che
conoscessono il pericolo, o che temessono di loro possessioni, o perchè
fossono d’animo vile, apertamente ne’ pubblichi e aperti consigli
aoperavano e consigliavano che si prendesse l’accordo; ma il desiderio
di vivere in libertà vinse l’appetito de’ cittadini, che consigliavano
e voleano per maggioranza che ’l comune facesse a loro modo, e la paura
della compagnia, e ogni stimolo degli amici che si provarono di ciò.
Questo addivenne per l’unità de’ cittadini mercatanti, e artefici, e di
mezzano stato, che tutti concorsono in uno volere all’onore e bene del
comune.


CAP. XXVII.

_Come la compagnia s’appressò a Firenze._

Mentre che questi ragionamenti si bargagnavano e menavano per lunga, la
forza del comune di Firenze continovo cresceva sì per gente di soldo
e sì per amistà, perocchè in questo venne del Regno mandato dal re
Luigi il conte di Nola della casa degli Orsini con trecento cavalieri;
e sentendo il conte di Lando sua venuta essendo a Bettona, con mille
barbute a loro cavalcò incontro, credendolisi avere a man salva; ma
ciò sentendo per sue spie il conte di Nola, il quale era molto loro
presso, come gente del re per lo capitano furono ricevuti in Spoleto:
la qual cosa a’ Perugini fu tanto grave, che al capitano predetto di
Spoleto, che era loro cittadino, cercarono di fargli tagliare la testa;
e per mandare ciò ad esecuzione, mandarono il loro conservadore che
cercasse di farlo; ma li Spoletani, che si contentavano d’avere fatto
servigio al re nella persona della gente sua, nol vollono patire, e
non lasciarono entrare il conservadore in Spoleto; per questa cagione
furono vicini a ribellarsi al comune di Perugia. Il conte di Lando
stando alla bada più dì di prendere questa gente, vedendo tornare in
fummo il suo proponimento, per non perdere più tempo si ritornò alla
sua compagnia, e il conte di Nola preso il suo tempo a salvamento se ne
venne a Firenze. Anche avvenne, che fu bella cosa, che dodici cavalieri
napoletani tra di Capovana e di Nido, facendo loro caporale un messer
Francesco Galeotto, sì per servire nostro comune, e sì per fare prova
di loro persone sentendo che con la compagnia si deliberava di prendere
battaglia, con altrettanti scudieri a loro compagnia in numero in
tutto di cinquanta barbute, nobilmente montati, e con ricche e reali
transegne e armadure, alle loro spese vennono a Firenze, e tornarono
in casa de’ cittadini, veduti lietamente e onorati da tutti, standosi
dimesticamente co’ cittadini per la terra in pace e in sollazzo,
aspettando che si facesse battaglia, e stettono tanto che si partì la
compagnia: il comune veggendo la cortesia e l’amore ch’aveano mostrato,
gli onorò di doni cavallereschi, cera e confetti. La compagnia essendo
stata oltre al tempo promesso in sul contado di Perugia, e loro fatto
gran danno e disagio, si dirizzarono a Todi, dove stettono sei dì,
danneggiando e vivendo di preda, e’ Todini ricomperarono il guasto
quelli danari che poterono fare; onde per patto di loro terreno si
partì la compagnia, e a dì 25 di giugno fu a Bonconvento e al Bagno a
Vignoni, ricevuta con apparecchio di vittuaglia da’ Sanesi, e a guida
di loro cittadini.


CAP. XXVIII.

_Come il comune di Firenze diè l’insegne, e mandò a campo la sua gente._

I Fiorentini essendo pieni di buona speranza sì per lo loro capitano,
che a que’ tempi era riputato grande maestro di guerra e uomo di grande
cuore, e sì per li molti gentili uomini pratichi in arme ch’erano
mandati per capitani della gente ch’era venuta nell’aiuto del comune,
e sì per gli altri paesani e forestieri ch’erano sentiti, e atti non
che a seguitare ma a conducere e a governare ogni grand’oste, i quali
erano tutti di buono volere, e desiderosi di prendere battaglia e per
loro fama e onore, e per servire e accattare la grazia del comune di
Firenze, e per spegnere quella mala brigata, e l’usanza del criare
spesso compagnia per ingordigia di fare ricomperare signori e comuni;
appresso si vedea il comune fornito di bella gente e bene armata
e non di ribaldaglia; il perchè sabato a dì 29 di giugno, il dì di
san Piero, coll’usato modo e stile di nostro comune, con allegrezza
e festa si dierono l’insegne, e ’l capitano ricevuta la reale di
mano del gonfaloniere di giustizia, l’accomandò a messer Niccolò de’
Tolomei da Siena, il quale era allora al soldo del comune di Firenze,
uomo fedele e di grande animo; e ciò fu fatto cautamente, prima per
levare invidia tra’ cittadini, appresso perchè fu pensato che tale
uomo dovesse essere più ubbidiente e riverente al capitano che se
fosse stato cittadino, ancora per onorare la casa de’ Tolomei, che
sempre era stata in fede e in divozione del comune di Firenze più
ch’altra casa di città di Toscana; la qual cosa per quella volta fu
poco a grado a’ Sanesi. L’insegna de’ feditori fu data a messer Orlando
Tedesco antico soldato del nostro comune, fedele e provato in tutte
maniere; e così si fè, per mostrare la fede che’ l nostro comune avea
ne’ Tedeschi, e animarli a ben fare, che non ostante che la zuffa
si dovesse principalmente pigliare co’ Tedeschi, volle fare palese
il comune, che quelli di quella lingua erano leali, e che ciascuno
di loro si dovea e potea fidare. Data l’insegna e piena libertà al
capitano di combattere e di non combattere per l’esaltazione e onore
del comune di Firenze, senza darli consiglieri o tutori cittadini che
’l potessono variare o impedire, cosa rade volte usata per lo comune,
ma utilmente fatta, e nella detta impresa lodata, si partì di Firenze
con l’esercito che allora avea apparecchiato nostro comune, che fu in
questo numero: duemila barbute eletti e duemila masnadieri contadini
di bello apparecchio, cinquecento Ungheri di soldo, milledugento
barbute eletti e quattrocento cavalieri già venuti di quelli di messer
Bernabò, dugento di quelli del Marchese di Ferrara, dugento di quelli
del signore di Padova, trecento di quelli del re Luigi, trecento
che n’avea mandati il legato non volontariamente, ma per virtù de’
patti della pace, i quali era tenuto a osservare al nostro comune,
cinquanta barbute di cavalieri napoletani, messer Lupo da Parma con
trenta barbute, ottanta barbute degli Aretini e con fanti da piè
gente eletta e pulita, dugento fanti del conte Ruberto, e da Pistoia
messer Ricciardo Cancellieri con dodici a cavallo per sè proprio e
trecento fanti del suo comune, d’altra amistà e vicinanza oltre a
fanti trecento, sicchè questa prima mossa furono circa a quattromila
cavalieri e altrettanti pedoni, e il dì se n’andarono e posonsi a campo
in sulla Pesa e nelle contrade d’intorno, per ordinarsi e accogliere
l’altra gente che si attendea de’ soldati di messer Bernabò.


CAP. XXIX.

_Come la compagnia girò il nostro contado, e la nostra a petto._

Essendo la compagnia stata più giorni al Bagno e a Bonconvento andonne
a Isola, e avuto quivi da’ Sanesi la vittuaglia in abbondanza per
portarne con seco, a dì 20 di giugno mossono campo a piccoli passi
girando per non venire su quello di Firenze, e lasciandosi Siena
alle reni feciono la via da Pratolino, e ivi dimorarono due dì di
luglio, avendo la condotta e la panatica da’ Pisani sì se n’andarono
a Ripamaraccia, e l’oste de’ Fiorentini si levò di Pesa e valicò
Castelfiorentino, e a dì 5 di luglio mutò campo, e fermossi alla
torre a Sanromano, comprendendo infino alle Celle sotto Montetopoli,
per attendere quivi la compagnia sotto verace e bello ordine e buona
guardia, stando sempre avvisati; la compagnia da Rimamortoia se
ne venne a Ponte di Sacco; e’ Pisani popolo e cavalieri con numero
d’ottocento barbute o in quel torno, sotto colore di guardia, ma nel
vero per dare alla compagnia caldo e favore, e in caso di zuffa aiuto
e soccorso, si misono al Fosso arnonico, e venuta che fu la compagnia,
la condussono al Pontadera, e come la vidono accampata, si ritornarono
ad altre frontiere vicine a quel luogo; e se ’l fatto fosse seguito
alle minacce della compagnia si trovò vicina all’oste de’ Fiorentini
a due miglia, sicchè se voluto avessono fare d’arme l’aveano in balía;
ma veggendo il conte di Lando e gli altri caporali ch’erano con lui che
l’oste de’ Fiorentini si conduceva saviamente, e con ordine e maestria
d’arme, e che di buona voglia arditamente contro a loro si metteano,
non conoscendo nel luogo vantaggio, ma piuttosto il contrario, per
migliore consiglio dopo a cinque dì che a fronte a fronte erano stati
co’ nostri senza fare niuna mostra o atto di guerra, a dì 10 di luglio
si partì bene la metà la mattina per tempo, e in sul mezzogiorno giunse
a Sanpiero in Campo nel Lucchese, e accampossi quivi; il capitano
de’ Fiorentini loro mandò alle coste messer Ricciardo Cancellieri con
cinquecento uomini da cavallo per tenerli corti e stretti in cammino,
e lasciato al passo di Sanromano bastevole guardia, a dì 21 di luglio
mosse l’oste, e s’accampò alla Pieve a Nievole molto presso a’ nemici,
in luogo, che tra l’uno oste e l’altro era il campo piano e aperto per
fare d’arme chi avesse voluto.


CAP. XXX.

_Come la compagnia mandò il guanto della battaglia al nostro capitano,
e la risposta fatta._

Currado conte di Lando capitano e guida della compagnia, con gli altri
caporali e conducitori, avendo da’ Pisani ferma promessa e dalla gente
loro, ch’erano in numero di ottocento barbute e di duemila pedoni, la
quale teneano in punto a Montechiaro sotto colore e nome di guardia,
mischiandosi continovo con quella della compagnia, della quale cosa
i Fiorentini n’erano crucciosi e male contenti, tutto che in vista
accettassono le scuse de’ Pisani, e que’ della compagnia ne prendessono
caldo e baldanza credendo spaventare col detto appoggio, a dì 12 del
mese di luglio in persona loro trombetti mandarono con grande gazzarra
trombando nel campo de’ Fiorentini con una frasca spinosa, sopra
la quale era un guanto sanguinoso e in più parti tagliato con una
lettera che chiedea battaglia, dicendo, che se accettassono l’invito
togliessono il guanto sanguinoso di su la frasca pugnente; il capitano
con molta festa e letizia di tutta l’oste prese il guanto ridendo; e
ricordandosi che in Lombardia nel luogo detto la frasca era stata a
sconfiggere il conte di Lando, con volto temperato e savio consiglio
rispose in questa forma: Il campo è piano, libero e aperto in tra loro
e noi, e pronti siamo e apparecchiati a nostro podere a difendere ed
esaltare il campo in nome e onore del comune di Firenze e la giustizia
sua, e per niuna altra cagione qui siamo venuti, se non per mostrare
con la spada in mano che i nemici del comune di Firenze hanno il torto,
e muovonsi male senza niuna cagione di giustizia o ragione di guerra;
e per tanto speriamo in Dio, e prendiamo fidanza e certezza d’avere
vittoria di loro: e a chi manda il guanto direte, che tosto vedrà
se l’intenzione sua risponderà alla fiera e aspra domanda: e fatta
questa risposta, e onorati i trombetti di bere e di doni, il capitano
fece sonare li stromenti per vedere il cambio de’ suoi; e tutto che
dubbioso sia l’avvenimento della battaglia, e che vittoria stia nelle
mani di Dio, e diela a cui e’ vuole, grande sicurtà e fidanza prendeva
nostra gente, che in que’ giorni era fortificata di trecento soldati
di cavallo nuovamente fatti per lo nostro comune, e della venuta di
messer Ambrogiuolo figliuolo naturale di messer Bernabò che in que’
pochi dì venne con cinquecento cavalieri e con mille masnadieri, il
quale giunto, a grande onore ricevuto da’ Fiorentini, e donatoli uno
nobile destriere, di presente cavalcò nell’oste e con molti cittadini,
i quali stimando che si facesse battaglia si misono in arme e andarono
all’oste. E infra l’altre cose che occorsono in questa faccenda fu,
che messer Biordo e ’l Farinata della casa degli Ubertini essendo in
bando per ribelli del comune di Firenze, s’offersono in suo aiuto e
onore, ed essendo graziosamente accettati, vennono con trenta a cavallo
nobilmente montati e bene in arnese, e veduti volentieri e lodati da
tutti cavalcarono al campo, d’onde per tornare in grazia del nostro
comune tanto si faticò messer Biordo, ch’era grande maestro di guerra,
che ne prese infermità, e tornato a Firenze ne morì, e per lo nostro
comune fu di sepoltura maravigliosamente onorato come a suo tempo
diremo. E stando dopo la detta richiesta a petto l’un oste all’altro
senza fare in arme atto nessuno, una notte di furto si partirono della
compagnia trecento cavalieri con alquanti masnadieri, e cavalcarono
verso Castelfranco, e ritraendosi senza, preda, si riscontrarono con
tre cittadini di Firenze e altri Empolesi i quali alla mercatantesca
tornavano da Fisa, i quali presono, e feciono ricomperare, e da indi
innanzi più non s’attentarono di cavalcare in sul nostro contado e
distretto. Stando le due osti vicine, parendo al conte di Lando, e
agli altri caporali e a tutta la compagnia avere poco onore della
invitata di giostra, a dì 16 del mese di luglio con le schiere fatte
si misono innanzi verso l’oste de’ Fiorentini: il capitano saviamente
consigliato, fatto della gente del nostro comune una massa, con
maestria e bell’ordine di gente d’arme in tutte sue parti bene divisa
e capitanata com’era mestiere, si dirizzarono verso i nemici, i quali
veggendoli venire, si fermarono in un luogo che si chiama il Campo alle
Mosche, il quale era cinto di burrati e aspre ripe, dove senza grande
disavvantaggio di chi volesse offendere non poteano essere assaliti; i
nostri gli aspettarono al piano, allettandoli alla battaglia il luogo
il quale era comune; ma i grandi minacciatori, e di poco cuore, se
non contro a chi fugge, non s’attentarono di scendere al piano, e co’
palaiuoli e marraiuoli che assai n’aveano da’ Pisani non intesono a
spianare il campo, ma ad afforzarsi con barre e steccati in quel luogo,
e ivi alloggiatisi, e arso il campo ond’erano partiti, il capitano de’
Fiorentini si fermò coll’oste dov’era arso il Campo, a meno d’un miglio
di piano presso a’ nemici, e quivi afforzossi per non essere improvviso
assalito, e spesse fiate con gli Ungheri insino alle barre facea
assalire i nemici, ma nulla era, che tutti o parte di loro si volessono
mettere a zuffa; il perchè faceano pensare che ciò facessono per
maestria di guerra per cogliere i nostri a partito preso e a vantaggio
loro; ma il savio capitano col buono consiglio sempre stava a riguardo
e provveduto in forma, che con inganno non li facessono vergogna. I
Sanesi veggendo che contro la loro opinione e pensiero i Fiorentini
prosperavano, per ricoprire il fallo loro ne feciono un’altro maggiore,
perocchè per loro ambasciadori si mandarono a scusare al nostro comune,
e offerendo aiuto trecento barbute; la scusa fu benignamente ricevuta,
e accettata la promessa, la quale feciono, che si convertì in fumo,
perchè non si facea nè procedea di diritto e buon cuore.


CAP. XXXI.

_Come la compagnia vituperosamente si partì del Campo delle Mosche, e
fuggissi._

Vedendo i conducitori della compagnia che l’oste de’ Fiorentini era
loro appressata con molta allegrezza sotto il savio governo del buono
capitano, e di molti altri valenti uomini d’arme famosi, e sofficienti
ad essere ciascuno per sè capitano, e di tali v’erano ch’erano stati,
e che la gente del comune di Firenze era fresca e bene armata, e la
loro stanca, e la maggiore parte fiebole e male in arnese; e veggendo
che al continovo a’ nemici forza cresceva, e temendo di non essere
soppresi nel luogo dov’erano, e che i passi non fossono loro impediti;
e sentendo, ch’e’ Fiorentini di ciò procacciavano, e presa esecuzione
aveano mandati balestrieri e pedoni nelle montagne verso Lucca; e
conoscendo che a loro convenia vivere di ratto spargendosi, e cercando
da lunga la preda, o che essendo tenuti stretti a loro convenia o
arrendersi o morire di fame; ed essendo stati a gravare i Pisani venti
dì più che non era in patto con loro, soprastando quivi senza venire a
battaglia temeano di soffratta di vittuaglia, aspettando il soperchio
di non rincrescere ad altrui, e diffidandosi di vincere i Fiorentini
per istracca, e tutto ch’avessono domandata battaglia la schifavano, e
per tema di non esservi recati per forza s’erano afforzati con fossi
e steccati, la vilia di santo Iacopo a dì 23 di luglio, di notte,
innanzi l’apparita del giorno, misono nel loro campo fuoco, e in
fretta sconciamente si partirono, quasi come in fuga, non aspettando
l’uno l’altro, valicando il colle delle Donne in su quello di Lucca,
ch’era loro presso; sicchè prima furono in su quello di Lucca infra sei
miglia, che l’oste de’ Fiorentini li potessono impedire. E ciò avvenne,
perchè il nostro comune avea imposto al capitano che si guardasse
di non rompere la pace a’ Pisani cavalcando in su quello di Pisa o
di Lucca, che la teneano allora, e per la detta cagione il capitano
non si mise a seguirli. E certo e’ si portò valentemente in tenere a
ordine e bene in punto così grande oste, e farsi temere e ubbidire alla
gente che gli era commessa, e alla forestiera che serviva per amore,
procedendo con savia condotta, e buona e sollecita guardia, per modo
che in pochi giorni ricise il pensiero dell’offesa de’ nemici, e a loro
tolse ogni speranza che ’l conte di Lando avea e gli altri caporali di
fare quel male che aveano promesso di fare al nostro comune. Questa
utile impresa e degna di fama fece assai manifesto, e fece conoscere
pienamente a tutti i comuni di Toscana e d’Italia, e a’ signori, che
gente di compagnia, quantunque fosse in numero grande, e terribile
per sua operazione scellerata e crudele, si potea vincere e annullare,
perocchè la sperienza occorse, che tale gente somigliante furono per
natura vile e codarda cacciare dietro a chi fugge, e dinanzi si dilegua
a chi mostra i denti. Noi vedemo, che il ladro sorpreso nel fallo
invilisce, e lasciasi prendere a qualunque persona; e così addivenne
di questa mala brigata, che solo per rubare si riducea in compagnia. E
per non dimenticare il resto, quello di che giudichiamo degno di nota
intorno a questa materia, pensiamo che fosse operazione di Dio, che
in quel dì ch’elli erano stati sconfitti a piè delle Scalee nell’alpe,
in quel medesimo dì rivolto l’anno e finito, essendo nel piano largo e
aperto, si fuggirono del campo alle Mosche. Basti d’avere tanto detto,
e faremo punto qui alle nostre fortune, per seguire delle straniere
quante n’avvenne ne’ tramezzamenti di questi tempi, secondo che siamo
usati di fare.


CAP. XXXII.

_Come il re d’Ungheria passò nel reame di Rascia._

Poco addietro di sopra scrivemmo i casi occorsi nel reame di Rascia,
e come il re di Rascia s’era partito dall’omaggio del re d’Ungheria,
ed erasi fatto rubello; e seguendo la detta materia, tenendo il re di
Rascia parte della Schiavonia appartenere a dominio al re d’Ungheria,
cessava fare il debito servigio, onde il re d’Ungheria n’era forte
indegnato. Il perchè trovato che il passo della Danoia gli era sicuro,
e ricetto di sua gente apparecchiato per lo barone del re di Rascia,
che colla forza e aiuto degli Ungheri avea vinto e sconfitto il suo
avversario, e fattosi uomo del re d’Ungheria, del mese di maggio 1359,
il re d’Ungheria con più de’ suoi baroni passarono la Rascia con grande
quantità d’arcieri a cavallo e d’altra gente d’arme, colla quale si
partirono dalla riva della Danoia, e passando per piani corsono infino
alle grandi montagne di Rascia, e quivi trovarono nel piano molto di
lungi dalle coste de’ monti gran gente del re di Rascia, quivi ragunata
per difesa del regno. Gli Ungheri vogliosamente s’abboccarono con
loro, e dopo lunga battaglia li ruppono, onde in fuga abbandonarono il
piano, e ridussonsi alla montagna. E avendo la gente del re d’Ungheria
fatto questo principio, il re in persona valicò la Danoia con grande
esercito, e accozzato con l’altra sua oste, e seguendo la fortuna, si
mise contra quella gente vile, e combattendo vinse gli aspri passi per
forza, sicchè in breve tempo tutta la grande montagna fu tutta in sua
balìa. Veggendosi il re prosperare, diliberò di valicare in persona la
montagna, ma i baroni suoi non glie l’assentirono, perchè non parve
loro che per questo la persona del re si mettesse a questa ventura,
ma molti de’ baroni e molta di sua gente valicò per combattersi
col re de’ Servi, che così è titolato il re di Rascia; il quale in
campo non osò comparire, ma con tutta sua gente si ridusse, secondo
loro costume, alle fortezze delle boscaglie, ove non poteano essere
impediti, senza smisurato disavvantaggio di chi ne fosse messo alla
punga. Gli Ungheri senza trovare contradizione o resistenza alcuna
piccola o grande cavalcarono infra ’l reame più d’otto giornate per
li piani aperti, non trovando niente che potessono predare, perchè
tutto era ridotto alle selve; alquanti cavalieri ungheri si misono
il campo in una boscaglia, ed essendo assaliti d’alquanti villani,
credendo avere trovato il grosso de’ nemici, assai di loro si ferono
cavalieri, stimando di venire a battaglia, i quali appellati furono poi
per diligione e scherno i cavalieri della Ciriegia, perocchè essendo
abbattuti nel bosco a’ ciriegi, ne mangiavano quando da’ detti villani
furono assaliti. Il re d’Ungheria, veggendo sua stanza senza profitto,
non avendo trovato contasto, con tutta sua oste si ritornò in Ungheria.


CAP. XXXIII.

_Come messer Feltrino da Gonzaga tolse Reggio a’ fratelli._

Messer Guido da Gonzaga signore di Mantova, quando fermò la pace tra’
signori di Milano e la lega di Lombardia, segretamente promise a messer
Bernabò, che per li suoi danari gli darebbe la città di Reggio. Questo
segreto venne agli orecchi di messer Feltrino suo fratello innanzi che
la detta promessa avesse effetto. Messer Feltrino prese suo tempo, e
senza saputa di messer Guido entrò in Reggio, e con aiuto di gente e
d’amici rubellò la città. Messer Guido credendo ricoverare la città per
forza, del mese di maggio del detto anno ricolse grande gente d’arme,
e impetrò ed ebbe aiuto da’ signori di Milano: e stando in Mantova, e
ordinandosi per porre l’assedio, sentì che ’l signore di Bologna e ’l
marchese di Ferrara aveano alla difesa fornita la terra, onde si rimase
dell’impresa, la quale faceva malvolentieri, per non appressarsi troppo
la forza de’ signori di Milano.


CAP. XXXIV.

_Come il vescovo di Trievi sconfisse gl’Inghilesi._

Il vescovo di Trievi veggendo il reame di Francia in tanta rivoluzione
e traverse, e che necessario era a’ cherici per difesa di loro
franchigia prendere l’arme, come uomo valoroso, ricolse gente d’arme e
d’amistà e di soldo, e abboccossi per avventura in un assalto con certi
Inghilesi, ch’erano guidati per gente del re di Navarra, e combattè
con loro e sconfisseli, i quali erano intorno di millecinquecento, de’
quali assai ne furono morti. In questo medesimo giorno il Delfino di
Vienna si mise ad assedio a Monlione, il quale era venuto alle mani
degl’Inghilesi, per racquistarlo, e forte lo strinse, perchè essendo il
castello presso a dieci leghe a Parigi, gli parea gran vergogna fosse
della corona e grande abbassamento che fosse in podestà de’ nemici, e
’l luogo era molto presso a Parigi, e forte offendea. Durante l’assedio
avea il Delfino a suo soldo certi baroni alamanni, e non avendo di che
pagarli, loro diede in gaggio due buoni castelli del reame. Puossi
considerare in quanta soffratta e debolezza era in questi giorni il
reame di Francia, che si stimò per li savi se non fosse stato, com’era,
antico e corale l’odio per lunghe riotte aveano avute i Franceschi e
gl’Inghilesi, in dispetto innaturale convertito, il quale facea a’
Franceschi sostenere ogni affanno e ogni tormento, per certo il re
d’Inghilterra era sovrano della guerra.


CAP. XXXV.

_Come fu soccorsa Pavia, e levatone l’oste de’ Visconti._

L’oste di messer Galeazzo signore di Milano lungamente era stato sopra
Pavia con certe bastite, forte tenendo stretta la terra; il marchese
di Monferrato preso suo tempo, con la più gente potè ragunare s’entrò
cautamente in Pavia, e avuto per sue spie del reggimento dell’oste,
e del poco ordine e guardie di quelli delle bastie, subitamente e
aspramente li assalì improvviso, e li ruppe e sbarattò, e liberò
dall’assedio, e menò in Pavia più di dugentocinquanta cavalieri e molti
prigioni, e fornimento e arnese; e ciò fatto, si tornò alle terre sue.
Messer Galeazzo per la sua gran potenza poco pregiando quella rottura
rifornì subitamente le frontiere di Pavia di gente d’arme assai più
che di prima, facendo tutto dì cavalcare in sulle porti di Pavia di
gente d’arme assai più che di prima, sicchè senza tenervi bastia forte
gli affliggea, e tenevagli sì stretti, che non s’ardivano d’uscir
fuori persona, e di loro frutti non poteano avere bene. E del seguente
mese di luglio il detto messer Galeazzo fece un’altra grande oste, e
mandolla nel Monferrato addosso al marchese.


CAP. XXXVI.

_Come il capitano di Forlì s’arrendè al legato._

Avendo perduto il capitano di Forlì il caldo della compagnia, ed
essendo per la lunga guerra molto battuto, e vedendo che più non potea
sostenere, e che poco era in grazia e in amore de’ suoi cittadini
per la messa che fatta avea della compagnia in Forlì, essendo tra il
legato e lui per mezzani lungo trattato d’accordo, prese partito di
arrendersi liberamente alla discrezione e misericordia del legato,
con alcuna promessa d’essere bene trattato e del modo, che a dì 4 di
luglio 1359, il legato in persona, avendo prima messa la gente sua e
prese le fortezze, entrò in Forlì con grande festa e solennità e di
sua gente e de’ cittadini di Forlì. Nella quale entrata Albertaccio
da’ Ricasoli cittadino di Firenze, il quale al continovo era stato
al consiglio segreto del cardinale, e delle sue guerre in gran parte
conducitore e maestro, in sull’entrare del palagio fatto fu cavaliere.
E ciò fatto, il legato ordinato la guardia della città e lasciatovi
suo vicario se n’andò a Faenza, e ivi in piuvico parlamento, essendo
dinanzi da lui messer Francesco degli Ordelaffi per addietro capitano
di Forlì, riconobbe e confessò tutti i suoi falli ed errori che
commessi avea contro la Chiesa di Roma e suoi pastori, i quali letti
li furono nella faccia in presenza del popolo, domandando umilmente
perdono e misericordia dalla Chiesa di Roma. Il legato fatto ciò, e in
lungo e bello sermone gravando in parole l’ingiurie e la pertinacia
della resia, e le pene nelle quali era incorso il capitano, privollo
d’ogni dignità e onore, e per penitenza gl’impose, ch’elli vicitasse
certe chiese di Faenza in certa forma; e ciò fatto, il legato cavalcò
a Imola, ove venne il signore di Bologna sotto la cui confidanza il
capitano s’era arrenduto; e stati a parlamento insieme più giorni,
a dì 17 di luglio, il cardinale ricomunicò nella mensa messer
Francesco degli Ordelaffi, e nominatamente tutti i suoi aderenti
e quelli che l’aveano favoreggiato, e ristituillo nell’onore della
cavalleria, e perdonogli tutte l’offese per lui fatte alla Chiesa di
Roma, e annullò ogni processo per lui fatto di resia contro a lui, e
ridusselo nella grazia sua, e dichiarò che dieci anni fosse signore
di Forlimpopoli e di Castrocaro, potendo stare in ciascuno de’ detti
luoghi famigliarmente, e rimanendo le rocche in guardia d’amici comuni,
e liberamente li ristituì la moglie, e’ figliuoli, e tutti quelli
che tenea in prigione degli amici e seguaci del capitano; e così
ebbe fine la lunga e pertinace guerra e ribellione del capitano di
Forlì; e per la detta cagione la Romagna rimase in pace, e liberamente
all’ubbidienza della Chiesa di Roma.


CAP. XXXVII.

_Di una compagnia creata d’Inghilesi in Francia._

Volendo il re d’Inghilterra mostrare osservazione di pace secondo
l’ordine, infintamente in suo titolo o nome niuna guerra fatta nel
reame di Francia, ma i molti Inghilesi ch’erano nel reame seguendo
il segreto ordine dato per lui ora con uno ora con altro caporale
s’accostavano che li guidasse a guerreggiare e sconciare il reame di
Francia; in questi tempi della state uno sartore inghilese il quale
avea nome Gianni della Guglia, essendo nella guerra dimostrato prode
uomo con gran cuore in fatti d’arme cominciò a fare brigata di saccardi
e assai Inghilesi che si dilettavano di mal fare, e che attendeano a
vivere di rapine, e cercando e rubando ora una villa ora un’altra nel
paese crebbe in tanto sua brigata, che da tutti i paesani era ridottato
forte; e per questo senza i casali non murati cominciarono tutti a
patteggiarsi con lui, e li davano pannaggio e danari, ed egli li faceva
sicuri; e per questo modo montò tanto sua nomea che catuno si facea suo
accomandato, onde in pochi mesi fece gran tesoro. Essendo moltiplicato
di gente e d’avere, cominciò a passare di paese in paese, e sì andando
venne insino al Pau, e ivi prese laici, e’ cherici rubò, e’ laici
lasciò andare; onde la corte di Roma ne mostrò gran paura, e pensava
a farsi forte per resistere a quella brigata. Costui nell’avvenimento
del Pau de’ signori d’Inghilterra lasciò il capitanato e la gente, e
ridussesi all’ubbidienza del re, e de’ danari ch’avea accolti ne fè
buona parte a’ reali; e così andavano in que’ tempi i fatti di Francia.


CAP. XXXVIII.

_D’una zuffa che fu tra gli artefici di Bruggia._

Noi avemo detto più volte, che ’l mondo per lo suo peccato non sa
nè può stare in riposo, e le sue travaglie, le quali scrivemo, ne
fanno la fede, che si può dire veramente l’opera nostra il libro
della tribolazione, e nuove. In questi dì a dì 17 di luglio, avendo
il conte di Fiandra ragunata la comune di Bruggia per alcuna sentenza
che dare dovea per danno d’alcuno sopra certo misfatto, uno calzolaio
prosuntuosamente si levò a dire nella ragunanza contro alla volontà
del conte, il perchè due degli altri minuti mestieri parlando lo
ributtarono, e dissono contro a lui. Il calzolaio trasse fuori la
spada, e disse, che chi ’l volesse seguire con sua arme n’andasse
alla piazza di Bruggia, il perchè molti de’ mestieri il seguirono; e
ragunati in sul mercato con loro arme e transegne stavano in punto,
e attenti per rispondere a chi gli volesse di quel luogo cacciare.
Altri mestieri, che non erano contenti che costoro pigliassono nella
villa maggioranza, de’ quali si feciono capo folloni e tesserandoli,
s’andarono ad armare, e in breve spazio di tempo in gran numero
si ragunarono in sul mercato, e di subito senz’altro consiglio in
fiotto si dirizzarono a coloro ch’erano schierati in sulla piazza, e
percossonli, e rupponli, e nell’assalto n’uccisono cinquantasette,
e molti ne magagnarono di fedite. E ciò fatto, co’ loro avversari
di presente feciono la concordia, e di loro feciono tre capi, uno
tesserandolo, e uno carpentiere, e uno calzolaio, e in questi tre fu
riposto e commesso il fascio e tutto il pondo di loro governamento
e reggimento; e al conte non feciono violenza alcuna, nè niuno mal
sembiante. E racchetò la furia e il bollore del popolo in un batter
d’occhio, questi tre mandarono la grida, che catuno andasse a fare
suo mestiero, e ponesse giù l’arme, e così fu fatto. Che a pensare,
ed è incredibile cosa e maravigliosa, che il tumulto di tanto popolo
con cotante offensioni e tempeste s’acquetasse così lievemente, senza
ricordo delle ingiurie sanguinose mescolate della pace, ciò si può
dire, che in un punto fu la pace, e l’aspra e crudele guerra.


CAP. XXXIX.

_Come l’imperadore de’ Tartari fu morto._

In questo tempo il figliuolo di Giannisbec imperadore de’ Tartari,
ch’abitava intorno alla marina del Mare oceano detto volgarmente il
Mare maggiore, avendo pochi anni tenuto l’imperio, e in quello piccolo
tempo fatto morire per diversi modi quasi tutti quelli ch’erano di suo
lignaggio, o per paura che non li togliessono la signoria, o per altro
animo imperversato e tirannesco, ultimamente caduto in lieve malattia,
affrettato fu di morire d’aprile 1359. E quanto che sua vita fosse
con molta guardia e cautela, difendere non si seppe da morte violente,
tanto era per sua iniquità mal voluto: e pur venne l’imperio dove con
sollecitudine s’era sforzato che non pervenisse, a uno di sua gesta.


CAP. XL.

_Di novità de’ Turchi in Romania._

Nel medesimo tempo di sopra Ottoman Megi, il maggiore signore de’
Turchi, avendo riavuto il figliuolo il quale, come dicemmo, era stato
preso da’ Greci, col detto suo figliuolo insieme con esercito grande
di Turchi avea lungo tempo assediata Dommettica, nobile e bella città
posta in Romania, la quale non essendo soccorsa dall’imperadore di
Costantinopoli nè dagli altri, e non potendosi più tenere, s’arrendè, e
venne in potestà de’ Turchi. E avendola Ottoman di sua gente di guardia
fornita, con grandissima gente di Turchi si dirizzò a Costantinopoli,
con speranza di prendere la terra, o per assedio, o per battaglia; e
giunti, fermarono loro campo presso alla città, correndo spesso per
tutti i paesi dintorno, e facendo a’ Greci grandissimo danno. E ivi
stati lungamente senza fare acquisto di cosa che venisse a dire niente,
veggendo che poco potea adoprare, se ne tornò in Turchia.


CAP. XLI.

_Come il Delfino di Vienna fece pace col re di Navarra._

Quanto che la pace fatta tra’ due re d’Inghilterra e di Francia in
sostanza fosse nonnulla, nondimanco per non potere per onestà offendere
palesemente forte era allentata la guerra, e molti Inghilesi s’erano
tornati nell’isola con quello ch’aveano potuto avanzare del nò e del
sì. Al re di Navarra pochi Inghilesi erano rimasi, onde non potendo
tanto male fare quanto per l’addietro era usato, questa tiepidezza
di tempo diede materia a quei baroni di cercare pace tra ’l re e ’l
Delfino, la quale per le dette cagioni assai tosto seguì. E accozzati
il re e ’l Delfino, per buona e ferma pace si baciarono in bocca, e
il re promise di stare in fede della corona di Francia, e d’atare il
Delfino a suo potere contro all’oppressione degl’Inghilesi. Questa pace
molto fu cara, e di gran contentamento a’ Franceschi, perocchè la loro
divisione era stata materia del guasto di Francia. Ma come che ’l fatto
si fosse, la pace i più pensarono che fosse con inganno e a mal fine
per la viziata fede del re di Navarra, e corrotta per l’usanza delle
scellerate cose in che egli era trascorso, immaginando che non meno
potesse nuocere sotto fidanza di pace, che fatto s’avesse nella guerra
palese. E così ne seguette, come apparve poco appresso per segni aperti
e manifesti.


CAP. XLII.

_Come l’oste de’ Fiorentini tornò a Firenze e la compagnia ne andò
nella Riviera._

Fuggita la compagnia del campo delle Mosche dov’erano stati appetto
dell’oste de’ Fiorentini per speranza venti giorni, com’è addietro
narrato, ed essendo al ponte a San Quirico in sul fiume del Serchio,
molti se ne partirono, e chi prese suo viaggio, e chi in uno e chi in
altro paese; e la maggiore fortezza di loro, ch’era col conte di Lando,
e con Anichino di Bongardo, quasi tutta di lingua tedesca, prese il
soldo dal marchese di Monferrato: e ricevuto per loro condotta in parte
di paga ventottomila fiorini d’oro, tutto loro arnese grosso con gran
parte di loro gente misono in arme. E conducendoli sempre i Pisani, e
avuto licenza dal doge e da’ Genovesi, e dato loro stadichi di non far
danno per la Riviera, donde loro convenia passare, e di torre derrata
per danaio, se n’andarono in sulla Magra; e s’affilarono uomo innanzi
a uomo, e misonsi in cammino per li stretti e malagevoli passi, che
alla via loro non era altra rimasa. Nè per ricordo si trova, che dal
tempo d’Annibale in qua gente d’arme numero grande per que’ luoghi
passasse, perchè sono vie malagevoli alle capre. E bene verifica la
sentenza di Valerio Massimo, il quale dice, che la nicistà dell’umana
fiebolezza è sodo legame, la quale in questa forma è rivolta in verbo
francesco. Necessità fa vecchia trottare. In questo cammino senza niuna
offesa, solo che di male vivere, misono tempo assai. La compagnia,
come detto avemo, preso suo viaggio, l’oste del comune di Firenze
stette ferma in sul campo infino al giovedì a dì primo d’agosto 1359;
a quel dì con grande festa levarono il campo molto ordinatamente, e
passarono da Serravalle, e alloggiaronsi la sera alla Bertesca tra i
confini di Firenze e di Pistoia, stendendosi fino a Prato; il venerdì
mattina a dì 2 d’agosto di quindi si tornarono a Firenze. I Fiorentini
per onorare il capitano li mandarono incontro alla porta due grandi
destrieri coverti di scarlatto, e un ricco palio d’oro levato in asti
con grandi drappelloni pendenti alla reale, sotto il quale vollono
ch’egli entrasse nella terra a guida di cavalieri, e gentili uomini e
popolari, ma il valente capitano prese e accettò cortesemente con savie
parole i cavalli, ch’erano doni cavallereschi, e ricusò di venire sotto
il palio; e fulli a maggiore onore riputato. E per rendere al comune
l’insegne, con la gente ordinata come l’avea a campo tenuta, nella
prima frontiera mise i balestrieri e gente a piè, e appresso la camera
del comune, poi gli Ungheri, appresso i cavalieri, e in fine mise il
palio innanzi per onore del comune alla sua persona, e senza niuna
pompa in mezzo del conte di Nola e del figliuolo di messer Bernabò,
e’ venne per la città al palagio de’ signori priori, e ivi con grande
allegrezza rassegnò il bastone e l’insegne a’ signori priori, le quali
accomandate gli aveano, e da indi a pochi giorni fatto a grande numero
di cittadini un nobile e solenne convito se ne tornò in Romagna.


CAP. XLIII.

_Della morte e sepoltura di messer Biordo degli Ubertini._

Messer Biordo degli Ubertini fu cavaliere gentilesco e di bella
maniera, costumato e d’onesta vita, savio e pro’ della persona, e
ornato d’ogni virtù, e per tanto in singolare grazia dell’imperadore,
e molto amato dal legato di Spagna e da molti altri signori. Costui e’
suoi consorti in questi tempi forte s’inimicavano co’ Tarlati d’Arezzo,
e molto erano da loro soperchiati; onde egli avendo provato che ’l
caldo e il favore de’ detti signori era troppo di lontano di passaggio
e di poco profitto, sopra tutto desiderava d’essere confidente e
servidore del comune di Firenze, la cui amicizia vedea ch’era stabile e
diritta, e che gratificava il servigio; perchè, come addietro dicemmo,
per essere egli e’ suoi in bando e ribelli del comune di Firenze,
offerse il servigio di sè e de’ suoi contro la compagnia, e accettato
venne nell’oste, dove per mostrare quello ch’egli era s’affaticò sopra
modo, che da tutti fu ricevuto da grande sentimento in opera d’arme,
tornato col capitano a Firenze, subito cadde in malattia. Il comune
avendo prima avuto a grado sua liberalità, e appresso l’opere sue, di
presente lo ribandirono co’ consorti suoi, e per mostrare verso lui
tenerezza, con molti medici alle spese del comune lo feciono medicare;
ma come a Dio piacque, potendo più l’infermità che le medicine, la
mattina a dì 16 d’agosto divotamente rendè l’anima a Dio. Il corpo
si serbò sino nel dì seguente, per attendere il vescovo d’Arezzo suo
consorto e gli altri di casa sua; ed essendo venuti, per lo comune
furono fatte l’esequie della sua sepoltura riccamente, e alla chiesa
de’ frati minori ove si ripose, che tutte le cappelle, e ’l coro, e
sopra una gran capanna fu fornita di cera e con molti doppieri, e sopra
la bara un drappo a oro con drappelloni pendenti coll’arme del popolo e
del comune, e di parte guelfa e degli Ubertini, e con vaio di sopra con
sei cavalli a bandiere di sue armi, e uno pennone di quello del popolo
e uno di parte guelfa, con molti fanti e donzelli vestiti a nero. Fu
cosa notabile e bella in segno di gratitudine del nostro comune, il
quale volentieri onora chi onora lui, dimettendo le vecchie ingiurie
per lo nuovo bene, e non avendo a parte rispetto, ma alle operazioni
fedeli e devote. Alle dette esequie fu il detto vescovo, e ’l Farinata
e tutti gli altri consorti vestiti a nero, e’ signori priori, e’
collegi, e’ capitani della parte, e gli altri rettori e uficiali del
comune, e tutti i cherici e buoni cittadini, e ’l chericato tutto e’
religiosi di Firenze. Morì in casa i Portinari; e la bara si pose in
sul crocicchio di Porta san Piero dalla loggia de’ Pazzi, dove posta
la mattina, tanto vi stette, che ’l vescovo venne: e intorno alla
bara erano fanti vestiti di nero, e cavalli e bandiere, l’uno appresso
l’altro, parte per la via, che viene al palagio della podestà, e parte
per quella che va a santa Reparata; fu cosa ricca e piatosa, e tutto
il popolo piccoli e grandi trassono a vedere. Abbianne fatta più lunga
scrittura che non si richiede, perchè ne parea fallire, se onorandolo
tanto il nostro comune noi non l’avessimo con la penna onorato, e
perchè pensiamo, che sia esempio a molti a tramettersi a ben fare,
veggendo essere il bene operare premiato a coloro che ’l meritano.


CAP. XLIV.

_Come i Perugini mandarono ambasciata a Siena, e abominando i
Fiorentini._

L’arbitrata sentenza data sopra la pace tra il comune di Perugia
e quello di Siena, tutto che fosse comune utile e buona, all’uno e
all’altro comune forte dispiacea, come addietro abbiamo narrato, e
ciascheduno con sua ambasciata che piacesse al nostro comune per suo
onore e grazia loro annullare; e ciò fare non volse, perchè quasi
niente derivava da’ ragionamenti fatti con gli ambasciadori de’ detti
comuni, se non ch’alquanto nel tempo e nel modo, onde la pace si
rimase con le strade bandite, ma con gli animi pregni e pieni d’odio
e di stizza, e vollonsi dirompere se l’impossibilità non gli avesse
tenuti, perocchè tanto aveano speso, che premendo loro borse niente
vi si potea trovare se non vento e rezzo. I Perugini pregni d’animo,
alterosi e superbi, senza avere di loro possa riguardo, per mostrare
sdegno d’animo contro a’ Fiorentini, crearono otto ambasciadori di
loro cittadini più nominati e più cari, e vestironli di scarlatto, e
accompagnaronli di giovanaglia vestiti d’assisa dimezzata di scarlatto
e di nero, e con molta pompa li mandarono a Siena, dove furono ricevuti
con festa rilevatamente all’usanza sanese, recandosi in grande gloria
questa mandata; e qui ritta in parlamento, cortesemente infamando il
comune di Firenze, nella proposta dissono; l’uomo nimico nel campo del
grano soprassemina la zizzania, cioè il loglio; e recando il processo
del parlare a questa sentenza, copertamente la ridussono e rivolsono
contro al nostro comune, conchiudendo ch’e’ s’erano ravveduti, e a loro
veniano come a cari fratelli, per fermare e mantenere con gli animi
buoni, e magni e liberali, perpetua e liberale e buona pace, posta
giù ogni onta e dispetto, e ogni cruccio nel quale a stigazione altrui
fidandosi poco avvedutamente erano incorsi; e infine uditi volentieri,
presono co’ Sanesi di nuovo fermezza di pace. I Fiorentini molto si
rallegrarono della pace per sospicione che li tenea sospesi di rottura
per lo poco contentamento che l’uno comune e l’altro dimostrava in
parole di quella ch’era fatta, come fu detto di sopra; vero è che molto
punsono le villane e disoneste parole de’ Perugini, e molto furono
notate e scritte ne’ cuori de’ cittadini. Tutto poi che i Perugini
s’ingegnassono di scusare loro baldanzosa e poco consigliata diceria
e proposta, per la detta cagione poco appresso seguette, che avendo i
Perugini fatta ragunata di gente, per fama si sparse che tentavano in
Arezzo coll’appoggio degli amici di messer Gino da Castiglione. Onde
per questo sospetto, a dì 12 d’agosto, il comune di Firenze vi mandò
quattrocento cavalieri, e assai de’ suoi balestrieri: poi si trovò
che nel vero i Perugini intendeano altrove, ma pure per l’odio che
novellamente aveano in parole dimostrato, crebbe eziandio per questa
non vera novella.


CAP. XLV.

_Come il comune di Firenze mandò aiuto di mille barbute a messer
Bernabò contro alla compagnia._

Avendo la compagnia preso viaggio per la Riviera di Genova sotto titolo
di soldo contro a’ signori di Milano, i Fiorentini il cui animo era a
perseguitarla, e perseguire a loro podere il pericoloso nimico nome di
compagnia in Italia, e avendo rispetto a questo volere, ma molto più al
servigio ricevuto da messer Bernabò contro a essa compagnia; di tutta
sua gente sceltane il fiore, e in numero di mille barbute, prestamente
e senza resta, a dì 18 d’agosto la fece cavalcare verso Milano sotto
la insegna del comune di Firenze, a guida di loro cavalieri popolari,
i quali ricevuti graziosamente in Milano, cavalcarono nell’oste. Elli
furono vincitori, come al suo tempo diviseremo, non tanto per lo numero
loro, nè per la forza loro, quanto per la fama del favore del nostro
comune, che grande era a quell’ora, per la viltà presa per la compagnia
della gente del comune e de’ Fiorentini per lo ributtamento che fatto
n’aveano.


CAP. XLVI.

_Come il castello di Troco fu incorporato per la corona di Puglia._

Carlo Artù, com’è scritto addietro, fu incolpato della morte del re
Andreasso, e per la detta cagione condannato per traditore della
corona, e i suoi beni pubblicati, e incorporati alla camera della
reina, tra’ quali era il castello di Troco; il quale dappoi era stato
privilegiato al prenze di Taranto, e lui l’avea conceduto a messer
Lionardo di Troco di Capovana: e avendolo lungo tempo tenuto, in
questo il conte di Santagata figliuolo del detto Carlo lo fè furare
a’ masnadieri, i quali nel segreto il teneano per lui; onde aontato di
ciò il prenze accolse circa a mille uomini a cavallo, e misesi a oste
a Santagata, e gran tempo vi stette, e non potendo avere la terra del
detto conte contro alla volontà del re Luigi, infine se ne partì con
poco frutto; e bene ch’avesse animo ad altri processi, e li cominciasse
a seguire, e’ ci giova, di lasciarli, come cose lievi, e tornare alle
cose più notabili de’ nostri paesi.


CAP. XLVII.

_Come il comune di Firenze assediò Bibbiena._

I Tarlati d’Arezzo, per che cagione il facessono, mai non aveano
voluto ratificare, come aderenti de’ signori di Milano, alla pace
fatta a Serezzana intra’ detti signori e comuni di Toscana, e stavansi
maliziosamente intra due, attenendosi alle fortezze loro, che n’aveano
molte in que’ tempi, e guerreggiando agli Ubertini, senza mostrarsi
in atto veruno contro al nostro comune; e intra l’altre terre, Marco
di messer Piero Saccone possedea liberamente la terra di Bibbiena,
la quale di ragione era del vescovo d’Arezzo, colla quale ne’ tempi
passati molta guerra avea fatta a’ Fiorentini. Ora tornando a nostro
trattato, come avanti dicemmo, gli Ubertini, nemici di quelli da
Pietramala, col senno e buono aoperare erano tornati nella grazia e
amore del nostro comune, ed essendo messer Buoso degli Ubertini vescovo
d’Arezzo venuto a Firenze per la cagione che di sopra dicemmo, si
ristrinse co’ governatori del nostro comune segretamente animandoli
all’impresa di Bibbiena, conferendo di dare le sue ragioni al comune
di Firenze. Il suo ragionamento fu accettato; e aggiunta l’intenzione
buona del vescovo all’operazione di messer Biordo, il comune per
gareggiare la famiglia degli Ubertini, e mostrare che veramente
gli avesse in amore, a dì 23 d’agosto per riformagione ribandì gli
Ubertini; e per confermare la memoria delle fedeli operazioni di messer
Biordo, domenica mattina a dì 25 d’agosto fè cavaliere di popolo Azzo
suo fratello, con onorarlo di corredi e di doni cavallereschi; e di
presente lo feciono cavalcare a Bibbiena con gente d’arme a cavallo
e a piè, e a dì 26 del detto mese con la detta gente prese il poggio
al Monistero a lato a Bibbiena, e il borgo che si chiama Lotrina, e
ivi s’afforzarono vicini alla terra al trarre del balestro. Era nella
terra Marco e messer Leale fratello naturale di messer Piero Sacconi,
attempato e savio, i quali per alcuno sentore di trattato aveano
mandati di fuori della terra tutti coloro di cui sospettavano, e nel
subito e non pensato caso si fornirono prestamente di loro confidenti e
di molti masnadieri, il perchè convenia, ch’avendo la rocca e la forza
i terrazzani stessono a posa e ubbidienti loro, e pensando che la cosa
averebbe lungo trattato, s’ordinarono e afforzarono a fare resistenza
e franca difesa, sperando nella lunghezza del tempo avere soccorso.
Il comune di Firenze multiplicava a giornate l’assedio, e in servigio
del comune v’andò il conte Ruberto con molti suoi fedeli in persona,
e di presente pose suo campo, e simile feciono gli altri. E così in
pochi dì la terra fu cerchiata d’assedio, e gli Ubertini in tutte loro
rocche e castella vicine a Bibbiena misono gente del comune di Firenze,
e per più fortezza e sicurtà di quelli ch’erano al campo. La guerra
si cominciò aspra e ontosa secondo il grado suo, e que’ d’entro per
mostrare franchezza aveano poco a pregio il comune di Firenze, uscivano
spesso fuori a badaluccare, e a dì 30 d’agosto in una zuffa stretta fu
morto il conte Deo da Porciano, che v’era in servigio de’ Fiorentini.


CAP. XLVIII.

_Come il comune comperò Soci._

Marco di Galeotto, come vide assediata Bibbiena, e avendovi presso Soci
a due miglia, con sano consiglio abbandonò la speranza de’ Perugini che
l’aveano per loro accomandato, e avuto licenza, perchè era in bando,
se ne venne a Firenze a’ signori; e ragunati i collegi, e richiestili,
liberamente si rimise nelle mani del comune con dire, che de’ fatti
del castello Sanniccolò e di Soci, e di ciò ch’egli avea nel mondo,
ed eziandio della persona ne facessono loro volontà: il comune per
questa sua liberalità e profferta spontaneamente e di buono volere,
e non ostante ch’e’ terrazzani di Soci si volessono dare al comune,
e ciò era fattevole senza contasto per forza che appresso al castello
avea il comune, tanto legò l’animo de’ cittadini, per natura benigni
a perdonare, che ’l comune si dispose a sopra comperare, per mostrare
amore e giustizia; e perchè il valente uomo si mostrasse contento,
e sopra ciò provveduto discretamente, adì 26 d’ottobre 1359 per li
consigli ribandirono Marco, e dierongli contanti fiorini seimila
d’oro; e fè carta di vendita di Soci e di tutte le terre che in que’
luoghi avea, e le ragioni ch’avea in castello Sanniccolò concedette al
nostro comune, e delle carte ne fu rogatore ser Piero di ser Grifo da
Pratovecchio notaio delle riformagioni e altri notai, e così pervenne
Soci a contado del comune di Firenze. Come per tema non giusta Marco di
Galeotto si mise a venire a Firenze, e fece quello ch’avemo detto di
sopra, e così vennono i conti da Montedoglio volendosi accomandare al
comune, i quali non li vollono ricevere se prima non facessono guerra
a’ Tarlati, e non volendo ciò fare, si partirono con poca grazia del
nostro comune.


CAP. XLIX.

_Come il vescovo d’Arezzo diede le sue ragioni che avea in Bibbiena al
comune di Firenze._

Messer Buoso degli Ubertini vescovo d’Arezzo, non potendo sotto
altro titolo che d’allogagione a fitto, a dì 7 di settembre 1359
allogò al comune di Firenze per certo fitto annuale, facendo le carte
dell’allogagione di sette anni in sette anni, e facendone molte, le
quali insieme sono gran novero d’anni, e confessò il fitto per tutto
il detto tempo, e largì al comune ogni ragione e giurisdizione e
signoria che ’l vescovado d’Arezzo avea nella terra e distretto di
Bibbiena, e le carte ne fece il detto ser Piero di ser Grifo; e con
questa cautela fu giustificata l’impresa del nostro comune. Questa
concessione fatta per lo vescovo fu approvata e confermata per lo
comune d’Arezzo, il quale per fortificare le ragioni del nostro comune
ogni ragione ch’appartenea per qualunque ragione avea in Bibbiena gli
diede liberamente. A queste giuste ragioni s’aggiugnea l’animo e buono
volere de’ terrazzani di Bibbiena, che volentieri fuggivano la tirannia
di quelli da Pietramala: ciò cominciarono a mostrare quelli ch’erano
cacciati di fuori, ch’erano nel campo de’ Fiorentini guerreggiando i
Tarlati, e di poi lo mostrarono quelli ch’erano dentro quando si vidono
il tempo di poterlo fare, come seguendo nostro trattato racconteremo.


CAP. L.

_Seguita la sequela della compagnia._

Seguendo i principii fatti per lo comune in mandare gente a messer
Bernabò contro alla compagnia, il signore di Bologna, ch’allora era
in pace con lui, li mandò cinquecento cavalieri, e quello di Padova, e
quello di Mantova, e quello di Ferrara ancora li mandarono della gente
loro; essendo il marchese di Monferrato fatto forte con la compagnia,
uscì fuori a campo con molta baldanza, ma di subito i signori di Milano
con loro oste li furono appetto, sicchè li convenia stare a riguardo, e
per tenerlo a freno i detti signori posono l’oste a Pavia, e strinsonla
forte. Il marchese avendo alla fronte il bello e grande esercito de’
detti signori, non si potea volgere indietro a dare soccorso a Pavia
per non avere i nemici alla coda, e stando le due osti affrontati, non
ebbono tra loro cosa notevole, se non d’uno abboccamento di cinquecento
cavalieri di que’ della compagnia, che per avventura s’abboccarono con
altrettanti di quelli del comune di Firenze, intra’ quali per onta
e per gara e per grande spazio fu dura e aspra battaglia, e infine
i cavalieri de’ Fiorentini sconfissono quelli della compagnia. Nella
quale rotta furono presi tre caporali de’ maggiorenti della compagnia
con più di dugento cavalieri, e assai ve ne furono morti e magagnati;
e ciò avvenne d’ottobre del detto anno. Nell’assedio della città di
Pavia occorse un altro caso più spiacevole per lo fine suo; che essendo
preso da quelli da Pavia uno Milanese d’assai orrevole luogo, fuori
d’ordine di buona guerra fu impiccato; e venuta la novella a messer
Bernabò, e infocato d’ira, comandò a messer Picchino nobile cavaliere,
e di grande stato e autorità in Milano, che quattordici prigioni di
Pavia ch’erano nell’oste li facesse impiccare, infra’ quali ve n’era
uno di buona fama, e di gentile luogo, e d’assai pregio, non degno di
quella morte, per lo quale molti Milanesi ch’erano nell’oste pregarono
messer Picchino che cercasse suo scampo. Il quale mosso da pietà e
dalle giuste preghiere di tali cittadini mandò a messer Bernabò di
tali cittadini, e della sua umilità ferventemente pregò il signore
che per loro grazia e amore dovesse perdonare la vita a quello nobile
uomo; il signore per queste preghiere invelenito e aspramente turbato
comandò a messer Picchino che colle sue mani il dovesse impiccare;
il gentile uomo stepidito, e impaurito di tale comandamento, e
non meno di lui tutti i suoi amici e parenti, e molti buoni e cari
cittadini, cercarono stantemente con sommessione e preghiera, che ’l
nobile e gentile cavaliere, cui il signore avea fatto tanto d’onore,
di sì vile e vituperoso servigio non fosse contaminato; il signore
indurato alle preghiere, perseverando nella pertinacie sua, aggiunse
al vecchio comandamento, che se nol facesse, primieramente farebbe
impiccare lui. Il gentile cavaliere vedendo l’animo feroce del tiranno,
che se non facesse quello che gli era comandato che li convenia
vituperosamente morire, stretto da necessità, confuso e attristito,
si spogliò i vestimenti e di tutti i segni di cavalleria, e rimaso
in camicia, vestito di sacco con vile cappelluccio, e a maraviglia di
dispetto, andò a mettere a esecuzione il comandamento del tiranno, con
proponimento di non usare più onore di cavalleria, poichè era sforzato
d’essere manigoldo; che assai diede per l’atto a intendere quanto fosse
da prezzare il beneficio della libertà, da’ Lombardi non conosciuta.


CAP. LI.

_De’ fatti di Sicilia e del seguire l’ammonire in Firenze._

Per sperienza di natura vedemo, che l’uomo appetisce di vari cibi, e
che di tale varietà lo stomaco piglia conforto, e fa digestione; e così
quando l’orecchie con fatica pure d’un medesimo modo udire desidera
intramesse d’altro parlare. Noi seguendo quello che natura per suo
ricriamento acchiede in quello luogo, accozzeremo molte novelle occorse
in molti luoghi e in uno tempo diversi, nè del tutto degni di nota, nè
da essere posti a oblio, e farenne una nuova vivanda in queste parti.
Per lo poco polso, e per la poca forza e vigore ch’aveano le parti che
governavano l’isola di Cicilia, loro guerre erano inferme e tediose;
il duca e’ Catalani col seguito loro aveano assai poca potenza, e
la parte del re Luigi molto minore; e le lievi guerre e continove
straccavano e consumavano l’isola, e nè l’una parte nè l’altra poteano
sue imprese fornire, e pure si guastavano insieme con fame e confusione
de’ paesani, che a giornate correano in miseria. Il duca avea alquanto
più seguito, e que’ di Chiaramonte speranza nell’aiuto del re Luigi,
che promettea loro assai, e poco facea; onde i gentili uomini non
tanto per amore del re, quanto per sostenere sè medesimi, e loro fama
e grandigia, intendeano alla guardia di Palermo, e d’alcuno castello
che il duca tenea debolmente assediato col braccio de’ Catalani, tra
che gli assediatori erano fieboli e di poca possanza, e gli assediati
poveri d’aiuto, niuna notevole cosa era stata a oste di quelle terre; e
lieve era agli assediati a schernire i nemici, e fargli da oste levare,
perchè oggi si poneano, e ’l dì seguente se ne levavano, e parea la
cosa quasi nel fine suo, per impotenza dell’una parte e dell’altra.
Ma quello che segue, tutto paia da’ principii suoi da poco curare e di
piccola stificanza, più nel segreto del petto che non mostra in fronte,
se Dio per sua pietà non provvede, chi sottilmente mira, può generare
divisione e scandalo nella nostra città. In questi giorni, colle febbri
lente continove dell’isola di Cicilia, le nostre, civili mali, ne’ loro
principii non curate, si perseguia l’ammonire chi prendesse o volesse
prendere uficio, e non fosse vero guelfo, o alla casa della parte
confidente. E certo in sè la legge era buona, come addietro dicemmo,
ma era male praticata, e recata a fare vendetta, e altre poco oneste
mercatanzie, perchè forte la cosa spiacea agli antichi e veri guelfi,
e agli amatori di quella parte, e della pace e tranquillità del nostro
comune. E scorto era per tutto, che ’l mal uso della riformagione
tenea sospesi, e in tremore e in paura più i guelfi ch’e’ ghibellini,
e sospettando di non ricevere senza colpa vergogna. A queste due
travaglie aggiugneremo una novità d’altre maniere. I Romani, che già
furono del mondo signori, e che diedono le leggi e’ costumi a tutti,
erano stati gran tempo senza ordine o forza di stato popolare, onde
loro contado e distretto si potea dire una spelonca di ladroni, e gente
disposta a mal fare. Il perchè volendosi regolare, e recarsi a migliore
disposizione, avendo rispetto al reggimento de’ Fiorentini, feciono
de’ loro cittadini popolari alquanti rettori con certa podestà e balía
assomiglianti a’ nostri priori, tutto che molto minore, e feciono capo
di rioni sotto il titolo di banderesi: ivi rispondeano a ogni loro
volontà duemilacinquecento cittadini giovani eletti e bene armati,
i quali al bisogno uscivano fuori della città bene armati a fare
l’esecuzione della giustizia contro a’ malfattori. Avvenne in questi
giorni, che conturbando con ruberie il paese uno Gaetano fratello
del conte di Fondi, fu preso, e senza niuna redenzione fu impiccato,
con molti suoi compagni che furono presi con lui di nome e di lieva.
Il perchè da queste e da altre esecuzioni fatte contro a’ paesani e’
cittadini che ricettavano i malfattori, oggi il paese di Roma è assai
libero e sicuro a ogni maniera di gente.


CAP. LII.

_Come Bibbiena per nuovo capitano fu molto stretta._

La punga che ’l comune faceva per avere Bibbiena era grande, e la
resistenza de’ Tarlati molto maggiore, e faceano forte maravigliare
i governatori del nostro comune, veggendo la durezza e la pertinacie
loro, non aspettando soccorso di luogo che venisse a dire nulla; e come
che la cosa s’andasse, non fu senza infamia del capitano del popolo
ch’era de’ marchesi da Ferrara, il quale era stato mandato per capitano
di tutta l’oste, il quale vilmente e lentamente in tutte cose si
portava, e d’alcuni cittadini che gli erano stati dati per consiglio.
Onde il comune prese oneste cagioni e’ rivocarono il capitano e ’l suo
consiglio, e in suo luogo mandarono il potestà con altri cittadini,
il quale fu messer Ciappo da Narni, uomo d’arme valoroso, e sentito
assai. Il quale avendo da Firenze molti maestri di legname e di
cave, prestamente fece cignere la terra di fossi e di steccati, e
imbertescando i luoghi dov’era bisogno, e in più parti, e alla rocca
e alla terra fè dirizzare cave, e simile faceano que’ d’entro per
riscontrare. Appresso vi dirizzarono due dificii che gittavano gran
pietre, e di dì e di notte secondo uso di guerra li molestavano,
senza dare loro riposo. Que’ d’entro per rompere e impedire i mangani
dirizzarono manganelle, colle quali assai danno facevano. Nè contento
il capitano alla detta sollicitudine, cominciò a cavare l’altre torri
de’ Tarlati per tenerle strette, e in esse cercava trattati, ne’
quali fu preso Corone, e Giunchereto, e Frassineto per battaglia, e
all’uscita di settembre presono Faeto castelletto ch’era di messer
Leale, nel quale trovarono assai roba, e predato il paese, si tornarono
al campo. E perchè le castella prese erano del contado d’Arezzo, il
comune liberamente le rendè agli Aretini, i quali molto le ebbono a
grado, e tutto che nostro comune perseguitasse quelli da Pietramala a
suo potere, gli Aretini seguendo il grido non stavano oziosi, facendo
dal lato loro, quanto poteano e sapeano di guerra. E nel detto tempo
in sul giogo ripresono un loro castello che ’l conte Riccardo dal Bagno
lungo tempo avea loro occupato; e perseguendo l’assedio, nell’entrante
d’ottobre furono tratti a fine e forniti tre battifolli intra’ campi
erano posti, onde la terra fu per modo circondata d’assedio ch’entrare
nè uscire non potea persona. Lasceremo assediata Bibbiena, e a suo
tempo diremo come fu presa, e diremo alquanto delle cose straniere, che
in questi tempi avvennono da fare menzione.


CAP. LIII.

_Come il re d’Inghilterra passò in Francia con smisurata forza._

Poichè al re d’Inghilterra fu manifesto, che la pace che fatta avea col
re di Francia da’ Franceschi non era accettata, e che il re di Navarra
avea fatta pace col Delfino di Vienna, la quale si stimava per li
discreti essere proceduta d’assento e ordine di esso re d’Inghilterra,
sotto speranza, che essendo il re di Navarra ne’ consigli de’
Franceschi e creduto da loro, più dentro potesse a tempo preso di
male operare in sovversione della casa di Francia, che di fuori
colla guerra, perocchè come il savio dice, che niuna pestilenza è al
nocimento più efficace che il domestico e famigliare nemico, aggravando
alle cagioni della guerra, con dare il carico di non volere la pace a’
suoi avversari, fece suo sforzo di suoi Inghilesi e di gente soldata
maggiore che mai per l’addietro, e mandò in prima il duca di Lancastro
con centoventitrè navi, nelle quali furono millecinquecento cavalieri
e ventimila arcieri, all’entrata d’ottobre 1359, e posto in terra la
gente, si mise infra il reame di Francia verso Parigi, e col navilio
predetto tornato nell’isola, aggiunte molte altre navi, all’uscita del
mese il re Adoardo col prenze di Gaules e con gli altri suoi figliuoli,
con esercito innumerabile di suoi Inghilesi a piè, quasi tutti arcieri,
anche passò a Calese. E secondo ch’avemmo per vero, il numero di sua
gente passò centomila. La detta mossa contro al tempo di guerra fa
manifesto, che molto empito e smisurato volere movea il re Adoardo, e
fermezza nell’animo suo ch’era grande e smisurato d’ottenere quello che
lungo tempo avea desiderato, perchè principiò nell’entrata del verno,
che suole dare triegua e riposo alle guerre. E perchè il tempo allora
era dirotto alle piove, e il paese di Francia è pieno di riviere, molti
stimarono che ciò facesse, per dimostrare a’ nemici quello che della
guerra potesse seguire nella primavera e nella state, cominciando in
sul brusco per spiacevole tempo, e per infiebolire gli animi loro sì
con la possa smisurata, e sì con dare speranza di molta e tediosa
lunghezza di guerra. Come procedette questa trionfale e terribile
impresa, seguendo a suo tempo diremo.


CAP. LIV.

_La poca fede del conte di Lando._

Non è da lasciare in silenzio, oltre all’altre infamie, quello che
della corrotta fede che in que’ giorni mosse il conte di Lando al
marchese di Monferrato, il quale con molto spendio e fatica gli avea
tratti di Toscana lui e sua compagnia, ove si potea dire veramente
perduta, e fatti conducere a salvamento per la Riviera di Genova, e
poi pel Piemonte nel piano di Lombardia, con patti giurati di tenerli
fede infino a guerra finita contro a’ signori di Milano, con certo
soldo limitato da potersi passare con avanzo, il traditore, rotta
ogni leanza e promessa al marchese predetto, del mese d’ottobre con
millecinquecento barbute prese segretamente il soldo di messer Bernabò,
e uscì dell’oste del marchese, e se n’andò in quello de’ nemici con
l’insegne levate, rimanendo Anichino e gli altri caporali col resto
della compagnia al marchese; i quali molto biasimarono il fallo
enorme del conte, pubblicamente appellandolo traditore; ma poco tempo
appresso, tirati dal suono della moneta de’ signori di Milano, feciono
il simigliante, e tutti abbandonarono il marchese, verificando il
verso del poeta: Nulla fides, pietas que viris qui castra sequntur; che
recato in volgare viene a dire: Niuna fede nè niuna pietà è in quelli
uomini che seguitano gli eserciti d’arme, cioè a dire in gualdana a
predare, e a fare male. I signori di Milano dopo la venuta del conte
fortissimamente strinsono la città di Pavia, togliendo a que’ d’entro
ogni speranza di soccorso, perocchè vedendo il marchese i modi tenuti
per lo conte di Lando, ed origliando i cercamenti che i Tedeschi
che gli erano rimasi faceano, non osava e non si confidava mettere a
bersaglio per soccorrere la terra.


CAP. LV.

_Come Pavia s’arrendè a messer Galeazzo._

Gli affannati e tribolati cittadini di Pavia e disperati d’ogni
soccorso, e spezialmente di quello del marchese, cui vedeano da’
Tedeschi gabbato e tradito, e altro capo non aveano che frate Iacopo
del Bossolaro, col suo consiglio cercarono d’arrendersi a patti a
messer Galeazzo il quale liberamente gli accettò con tutti que’ patti
e convenienze che ’l detto frate Iacopo seppe divisare: e fermo tutto
e’ ricevettono dentro messer Galeazzo con la sua gente del mese di
novembre del detto anno; il quale entrato dentro con buona cera,
si contenne senza fare novità, mostrandosi benigno e piacevole a’
cittadini e a frate Iacopo, e fecelo di suo consiglio, mostrandoli
fede e amore, e avendolo quasi come santo e in grande reverenza; e con
questa pratica e infinta sagacità ordinò con lui assai di quello che
volle senza turbare i cittadini; e avendo recato in sua balía tutte le
fortezze della terra e di fuori si tornò a Milano, mostrando a frate
Iacopo affezione singulare, e lo menò seco, e come l’ebbe in Milano il
fece prendere, e mettere in perpetua carcere, e condannato il mandò a
Vercelli al luogo de’ frati dell’ordine suo, e ordinatoli quivi una
forte e bella prigione, con poco lume e assai disagio, ponendo fine
alle tempeste secolari che con la lingua sua ornata di ben parlare
avea commesse. E ciò fatto, tenea all’opera più di seimila persone, e
fece cominciare in Pavia una fortezza sotto nome di Cittadella, nella
quale si ricogliesse tutta sua gente d’arme senza niuno cittadino;
e ciò non fu senza lagrime e singhiozzi de’ cittadini, siccome di
prima cominciarono a vedere il principio dello spiacevole giogo della
tirannia, e sì per lo guasto delle case loro che si conteneano nel
luogo, ove s’edificava lo specchio della miseria loro, dove portavano
gran danno e disagio; e per nominare quello che suole addivenire a
chi cade in mala fortuna, frate Iacopo era infamato degli omicidi,
che non furono pochi, i quali erano proceduti delle prediche sue,
e de’ cacciamenti di molti cari e antichi cittadini di Pavia sotto
maestrevole colore di battere e affrenare i tiranni; ma quello che
più parea suo nome d’orrore nel cospetto di tutti erano le rovine de’
nobili edifici di que’ da Beccheria e d’altri notabili cittadini che
li seguivano, mostrando che l’abbattere il nido agli uomini rei era
meritorio, quasi come se peccassono le case, che è stolta cosa, tutto
che per mala osservanza tutto giorno s’insegna queste cose, parea che
l’accusassono di crudeltà; e quello costringono d’avarizia, perocchè
sotto titolo di cattolica ubbidienza aveano fatto statuti, che chi non
fosse la mattina alla messa e la sera al vespero pagasse certa quantità
di danari; e avendo sopra ciò fatte le spie, cui trovassono in fallo il
minacciavano d’accusare, e sotto questa tema li facevano ricomperare.
E certo chi volesse stare nel servigio di Dio e nelle battaglie di
vita riligiosa, e mescolandosi nelle cose del secolo e ne’ viluppi
è spesso ingannato da colui che si trasfigura in vasello di luce per
ingannare quelli col principio della santa operazione, favoreggiando
col grido del popolo il santo l’indusse a vanagloria e in crudeltà, e,
come dovemo stimare, Iddio con le pene della croce lo ridusse alla vita
d’onde s’era per lusinghe del mondo partito.


CAP. LVI.

_Come i signori di Milano sfidarono il signore di Bologna._

Come la sete dell’avaro per acquisto d’oro non si può saziare, così la
rabbia del tiranno non si può ammorzare per acquisto di signoria; per
divorare tiene la gola aperta, e quanto più ha cui possa distruggere
e consumare, più ne desidera. Questo per tanto dicemo, perchè in
questi dì, avendo i signori di Milano con la forza della moneta e
col tradimento del conte di Lando e d’Anichino vinto e vergognato il
marchese di Monferrato, e aggiunta per forza alla loro signoria la
nobile e antica città di Pavia, ringraziando con lettere il comune
di Firenze del bello e buono servigio della sua gente ricevuto, di
presente la rimandò; e cresciuto loro l’animo per lo felice riuscimento
della città di Pavia, entrarono in pensiero e in sollicitudine di
rivolere o per amore o per forza la città di Bologna, non ostante
che da messer Giovanni da Oleggio loro consorto che allora la tenea
avessono avuto aiuto alla loro guerra seicento barbute, le quali
ritennono ad arte e con ingegno al soldo loro, pensando d’avere
mercato nel subito loro movimento del signore di Bologna, trovandosi
ignudo e sfornito di gente d’arme a difesa; e con trovare rottura
di pace, scrissono al comune di Firenze che non si maravigliasse,
perchè sì subito assalissono con la forza loro il signore di Bologna,
da cui erano stati traditi, e che a loro avea rotta la pace senza
niuna giusta cagione; e nella lettera scritta di questa materia al
comune era intramessa la copia di quella che mandarono al signore di
Bologna, sfidandolo e appellandolo per traditore, la quale lettera fu
appresentata al signore di Bologna come l’oste de’ signori di Milano
giunse nel terreno di Bologna.


CAP. LVII.

_Come messer Bernabò mandò l’oste sua sopra Bologna._

Seguendo la materia del precedente capitolo, all’entrata di dicembre
del detto anno, messer Bernabò fece capitano della gente che mandò
nel Bolognese il marchese Francesco da Esti, il quale essendo cacciato
di Ferrara era ridotto a messer Bernabò, ed era suo provvisionato, e
senza niuno arresto con tremila cavalieri, e millecinquecento Ungheri,
e quattromila pedoni e mille balestrieri lo fece cavalcare in su
quello di Bologna, avendo il passo dal signore di Ferrara, allora in
amicizia e compare di messer Bernabò, e oltre al passo, vittuaglia e
aiuto; e come uscì del Modenese si pose a campo intorno al castello di
Crevalcuore, e ciò fu infra dieci dì infra ’l mese di dicembre, e ivi
stette più giorni; sollecitato con parecchie battaglie il castello,
non avendo soccorso dal signore di Bologna, a dì 20 del detto mese
s’arrendè a promissione di messer Giovanni de’ Peppoli, il quale era
nell’oste al servigio di messer Bernabò; e ricevuto il castello e le
guardie del capitano dell’oste, essendo il castello abbondevole di
vittuaglia, assai n’allargò l’oste. Avuto Crevalcuore, le villate
ch’erano d’intorno da lunga e da presso per non essere predati
ubbidirono il capitano, facendo il mercato sotto il caldo e baldanza
di questo ricetto. Bene che la vernata fosse spiacevole e aspra per
le molte piove, quelli dell’oste ogni dì cavalcavano insino presso a
Bologna, levando prede e prigioni, e tribolando il paese; il signore
di Bologna, ch’era savio e d’animo grande, non faltò di cuore per
la non pensata e subita guerra, e veggendosi per l’astuzia di messer
Bernabò che gli avea levati i soldati, come dicemmo di sopra, povero di
gente d’arme e d’aiuto, senza indugio trasse delle terre di fuori que’
terrazzani che si sentì ch’erano sospetti, e le rifornì di soldati,
perchè i terrazzani non avessono podere d’arrendersi sì prestamente
come fatto aveano quelli di Crevalcuore; e attendea con sollicitudine
allo sgombro, e ad apparecchiare la città a difesa, e a fare buona
guardia. Il cardinale di Spagna li mandò di soccorso quattrocento
barbute che li vennono a gran bisogno. Lo detto signore conoscendo
la sua impotenza, e non essere sufficiente a potere rispondere a
quella de’ signori di Milano, nondimeno cercò sottilmente con segreto
trattato, offerendo di fare alto e basso quanto fosse piacere del
comune di Firenze, di torlo in suo aiuto, ma la fede promessa per la
pace vinse ogni vantaggio che potessono avere.


CAP. LVIII.

_Come fu maestrato da prima in Firenze in teologia._

Poco è da pregiare per onestà di fama che uno sia con le usate
solennitadi, ne’ luoghi dove sono li studi generali delle scienze
privilegiate dalla autorità del santo padre e dell’imperio di Roma,
pubblicamente scolaio maestrato; ma essendo questo atto primo e nuovo,
e più non veduto nelle città che hanno di nuovo privilegi di ciò potere
fare, bello pare e scusabile d’alcuni farne memoria, non per nome
dell’uomo, che per avventura non merita d’essere posto in ricordo di
coloro che verranno, ma per accrescimento di tali cittadi, ove tale
atto da prima è celebrato. In questi giorni per virtù de’ privilegi
alla nostra città conceduti per lo nostro papa Clemente sesto, infra
l’altre cose contenne di potere maestrare in teologia, a dì 9 di
dicembre nella chiesa di santa Reparata pubblicamente e solennemente
fu maestrato in divinità, e prese i segni di maestro in teologia frate
Francesco di Biancozzo de’ Nerli dell’ordine de’ frati romitani; e
il comune mostrandosi grato del beneficio ricevuto di potere questo
fare, per lungo spazio di tempo fece sonare a parlamento sotto titolo
di Dio lodiamo tutte le campane del comune, e’ signori priori co’ loro
collegi, e con tutti gli uficiali del comune, con numero grandissimo
di cittadini furono presenti al detto atto di maestramento, che fu cosa
notabile e bella.


CAP. LIX.

_Come fu morto il signore di Verona dal fratello._

Messer Cane della gesta di quelli della Scala signori di Verona,
per morbidezze di nuova fortuna era divenuto dissoluto e crudele,
e per tanto in odio de’ suoi cittadini grande, senza amore de’ suoi
cortigiani, eziandio de’ suoi consorti e parenti; essendo per andare
in questi tempi nella Magna a’ marchesi di Brandimborgo, ch’erano
suoi cognati, e avendo i suoi fratelli carnali, messer Cane Signore
e Polo Albuino, secondo il testamento di messer Mastino erano con lui
consorti nella signoria, e non prendendo di niuno di loro confidanza,
ma piuttosto sospetto, segretamente fè giurare i soldati nelle mani
d’un suo figliuolo bastardo. Come questo sentirono i fratelli forte
l’ebbono a male, e presonne sdegno: messer Cane Signore ne fece parlare
dicendo al gran Cane, che tanta sconfidanza non dovea mostrare ne’
fratelli: le parole, quanto che assai fossono amorevoli, furono gravi
e sospettose al tiranno, e con parole di minacce spaventò e impaurì il
fratello, tutto che per avventura non fosse nell’animo suo quanto le
minacce dicevano. Il giovane pensò che assai era lieve al fratello a
fare quanto dicea in parole, perchè conoscea che molta crudeltà regnava
nell’animo suo, e che per tanto poco al signore arebbe riguardato;
onde un sabato, a dì 14 di dicembre detto anno, essendo cavalcato Gran
Cane per la terra con piccola compagnia, e Cane Signore accompagnato
di due scudieri di cui tutto si confidava se n’andò alla stalla del
signore, e tolse tre corsieri i più eletti e i migliori vi trovò, e
montativi tutti e tre a cavallo, con l’armi celate si mosse per la
terra a piccoli passi cercando del gran Cane, e come lo scontrarono, il
gran Cane disse al fratello, ch’e’ non facea bene a cavalcare i suoi
corsieri, e Cane Signore rispose; Voi fate bene sì che voi non volete
ch’io cavalchi niuno buono cavallo: e tratto fuori uno stocco ch’avea
a lato accortamente gli si ficcò addosso, e con esso il passò dall’un
lato all’altro, e menatoli un altro colpo in sul capo l’abbattè del
cavallo, e per tema di non essere sorpreso prese la fuga, avacciando
in forma il cammino che in Padova giunse la sera; ed essendo come
da parte del signore ricevuto, li manifestò quello ch’avea fatto al
fratello, e le ragioni che mosso l’aveano: il signore mostrò per la
spiacevolezza del caso ne’ sembianti doglienza, senza assolvere il
fatto o condannare, confortato il giovane che a lui era fuggito, con
speranza che la cosa che proceduta era da sdegno arebbe buono fine. In
questa miserabile fortuna di tanto signore non si trovò chi traesse
ferro fuori, nè chi perseguitasse il fratello, e quelli ch’erano con
lui, tremando di sè ciascuno, per immaginazione che sì alta cosa essere
non potesse senza ordine, si fuggirono di presente, e lasciarono in
terra il loro signore a morte fedito.


CAP. LX.

_Come Cane Signore fu fatto signore di Verona._

Sentito che fu per Verona il caso sinistro di loro signore, non si
trovò nella terra persona che si levasse di cuore, tanto era odiato e
mal voluto; e dopo alquanto spazio di tempo fu ricolto di terra senza
avere conoscimento niuno, e spiritò poco, sicchè appena levato del
luogo passò, e lasciò la tirannia e la vita. L’esequie per l’onore
del titolo che tenea, e della casa, li furono fatte magnifiche, e più
liete in vista che dolorose; perocchè riso e pianto, e l’altre forti
passioni dell’animo coll’altro contrario male si possono coprire.
Il popolo vile, e costumato in servaggio, trovandosi in sua libertà,
perocchè non v’era capo di signoria, se non per Polo Albuino ch’era
un piccolo garzone senza consiglio e senza gente d’arme, perocch’erano
tutti in servigio di messer Bernabò nell’oste a Bologna, nè altro caldo
o favore, non seppono usare la libertà e la franchigia che loro avea
non pensatamente renduto fortuna. Radunati insieme i fratelli di Gran
Cane, nel parlamento in segno di signoria diedono la bacchetta a Polo
Albuino ricevendo per sè e per lo fratello, e di presente crearono
ambasciadori, e mandaronli a Padova a Cane Signore, invitandolo
che venisse a prendere la cura della sua città di Verona; il quale
accompagnato da dugento cavalieri del signore di Padova si partì, e
giunto in Verona, con grande letizia e onore fu ricevuto, facendolisi
incontro alla porta il fratello, e ivi li diede la bacchetta, e
lo rinvestì della signoria che avea ricevuta per lui; e così per
dimostranza di fede rimasono amendue nella signoria ch’avea ricevuta
per lui, e la città si posò senza novità niuna in buona pace.


CAP. LXI.

_Come fu presa Bibbiena pe’ Fiorentini._

Essendo stato l’assedio a Bibbiena per spazio di due mesi e dodici
dì, nel quale messer Leale e Marco, essendo senza triegue colle
battaglie continue e con trabocchi che mai non ristavano in aperto e
di fuori combattuti, e in occulto colle cave, e coll’animo grande e
colla sollecitudine sofferivano tutto senza riposo, e con consiglio
poneano a ogni cosa riparo; e indurati negli affanni e ne’ pericoli
non si dichinavano a nulla, ma con fronte dura e pertinacia più si
mostravano fieri che mai. I terrazzani per la disordinata fatica, e
perchè vedeano guastare i beni loro dentro e di fuori, desideravano
l’accordo, e vedendo che la cosa a lungo andare convenia che venisse a
quello che volea il comune di Firenze, e pareva a loro che quanto più
si stentava venire in maggiore indegnazione de’ Fiorentini, e maggiore
distruggimento e consumazione di loro e di loro cose; e pertanto alcuna
volta pregarono i Tarlati che prendessono partito a buon’ora, ed ebbono
da loro spiacevole e mala risposta. Onde seguì, che diciotto di loro
segretamente si giurarono insieme, de’ quali si fece capo uno maestro
Acciaio, uomo secondo suo grado intendente e coraggioso, i quali senza
indugio o perdimento di tempo s’intesono con alcuni de’ terrazzani di
Bibbiena, cui i Tarlati aveano per sospetto cacciati fuori e riduciensi
nell’oste de’ Fiorentini, con offerire loro, che dove potessono
avere sicurtà e fermezza che la terra non fosse rubata, che a loro
dava il cuore di farla venire assai prestamente alle mani del comune
di Firenze. E ciò avendo gli usciti sentito, se ne ristrinsono con
Farinata degli Ubertini, il quale con loro entrò in ragionamento con
due cittadini di quello uficio della guerra i quali erano nel campo, e
li domandarono che fede, che sicurtà, e che patti voleano; e fu loro
detto da’ cittadini. E ciò udito, lo conferirono a bocca a’ signori
e a’ collegi, e da loro ebbono piena balía di potere prendere piena
concordia, di promettere e sicurare come a loro paresse a beneficio e
contentamento de’ terrazzani, salvando l’onore del comune; e tornati
nel campo, feciono a quelli d’entro sentire che aveano mandato di
convenirsi con loro. I congiurati per alquanti giorni attesono il tempo
che a loro toccava la guardia in certa parte delle mura, e venuto,
con una fune collarono un fante, e mandaronlo al Farinata, il quale fu
co’ detti cittadini con cui conduceva il detto trattato, e di presente
furono al capitano, e li manifestarono il fatto com’era. Il capitano,
per coprire col senno suo segreto, diede a intendere che avea sentito
che la notte certa gente dovea entrare in Bibbiena, e che volea porre
aguato a quel luogo, per lo quale avea sentore che doveano entrare,
ed elesse sotto il detto nome quattrocento fanti de’ migliori e de’
più gagliardi ch’erano nell’oste, e ottanta uomini di cavallo a piè
armati di tutte loro armi, e seco volle il Farinata con tutti gli
usciti di Bibbiena, i quali con altri loro confidenti furono ottanta
fanti; e avendo il capitano fatto provvedere delle scale, e ricevuto da
quelli d’entro l’avviso dove le dovesse accostare, il dì della pasqua
dell’Epifania, a dì 6 di gennaio 1359, in sulla mezza notte quetamente
s’accostarono alle mura, e avendo avuto avviso di fuori da maestro
Acciaio e da’ suoi congiurati ch’erano in sulle mura alla guardia di
quel luogo, ve ne rizzarono cinque, e Farinata di prima co’ suoi, e
appresso il capitano montarono in sulle mura, e discesono nella terra
alla condotta de’ congiurati, non trovando chi gli impedisse. Mentre
si faceano queste cose, uno masnadiere nominato, assai confidente di
Marco, che andava cercando le mura, quando giunse in quella parte,
ricevuto il nome da’ terrazzani e datoli la via, come fu in mezzo di
loro fedito il traboccarono delle mura dentro; e ciò fatto, il romore
si levò nella terra, al quale si destò tutta l’oste, che non sapeano
che si fosse, e accostati alla terra quelli ch’erano entrati, levate
l’insegne del comune di Firenze s’avvisarono insieme, attendendo che
gli eletti per lo capitano di quelli che dicemmo di sopra fossono tutti
dentro. Marco, ch’era nella rocca con la sua brigata più fiorita, uscì
fuori francamente, e percosse a quelli ch’erano entrati, ma da loro
ricevuto senza paura con le spade villanamente fu ributtato; nel quale
assalto il Farinata, ch’era di quelli dinanzi, fu fedito d’una lancia
nell’arcale del petto sì gravemente, che gli fu necessità ritirarsi
indietro, della quale fedita assai ne stette in pericolo di morte.
Il capitano scendendo nell’entrata delle scale cadde, e sconciossi
il piede in forma che non potè stare in su’ piedi, sicchè amendue i
capitani in sull’entrata in quella notte furono impediti. I terrazzani
che da’ nostri cittadini aveano ricevuta la fede, che non riceverebbono
nè danno nè ingiuria, sfatavano nelle loro case senza offendere i
Fiorentini, e alquanti di loro intimi amici di Marco e suoi servidori
per tema si fuggirono nella rocca; e stando la terra in questi termini,
da quelli d’entro a quelli di fuori fu l’una delle porti tagliata,
sicchè la gente in fiotto entrò dentro, e furono signori della terra. I
due Fiorentini, che in nome del comune aveano promesso che nè violenza
nè ruberia non si farebbe, in quella notte s’adoperarono sollecitamente
in forma e in modo che niuna ingiuria, o ruberia o danno nella terra
si fece eziandio in parole. I terrazzani uomini e donne assicurati
offeriano pane e vino, e altre cose abbondantemente, così a quelli
ch’erano entrati come a quelli ch’entravano. Come a Dio piacque, e
fu mirabile cosa, la terra si vinse senza spargimento di sangue, e
senza ruberia o ingiuria o violenza niuna o piccola o grande, che a
raccontare è cosa incredibile e vera.


CAP. LXII.

_Come la rocca di Bibbiena s’arrendè al comune di Firenze._

Vedendo Marco che la terra era presa, e ch’egli era con gente assai
nella rocca e con poca vittuaglia, perocchè per tema delle cave l’avea
sfornita, cercò di potersi patteggiare salvando le persone, ma non
ebbe luogo, e dibattutosi sopra ciò per molte riprese, infine impetrò,
che la sua donna ch’era figliuola del prefetto da Vico, la quale era
gravida, con un suo piccolo fanciullo con tutti gli arnesi di lei se
ne potesse andare, e che i terrazzani e alcuni sbanditi del comune di
Firenze fossono salvi; e quanto s’appartenne agli sbanditi, non fu
senza ombra d’infamia a’ nostri cittadini che si trovarono a questo
servigio. Marco e Lodovico suo fratello, e messer Leale loro zio,
Francesco della Faggiuola e altri masnadieri in numero di quaranta
rimasono prigioni, tutto che poi appresso il detto Francesco ch’era
garzone e infermo fosse lasciato, e a dì 7 di gennaio del detto anno
renderono la rocca, e a dì 12 del detto mese vennono presi a Firenze
i detti Tarlati, e furono messi spartitamente l’uno dall’altro nelle
prigioni del comune di Firenze.


CAP. LXIII.

_Di novità state in Spagna._

Carlo fratello naturale dello scellerato re di Spagna, e da lui
cacciato, si riducea col re d’Araona, conoscendo che la forza e
bestiale vita del fratello nel reame per paura lo facea temere e
odiare; e per tanto stimando che li fosse assai leggiere a fare
movimento nel reame eziandio con piccola gente, avuto dal re ottocento
cavalieri si mise in certa parte della Spagna, e correndo il paese
ricolse gran preda. Il re com’ebbe del fatto sentore, sapendo il
luogo dov’erano, e che loro era necessario volendo tornare in loro
paese passare per un certo luogo malagevole e stretto, subito mandò
duemila cavalieri ad occupare quel passo. Sentendo Carlo e’ Catalani
che ’l passo ond’era la loro ritornata era preso, e la gente che
v’era, volgendo la tema in disperazione, si deliberarono di mettersi
alla fortuna della battaglia, che altro rimedio non v’era. Il valente
giovane Carlo col volto fiero, come fosse certo della vittoria
confortando i Catalani, e inanimandoli a ben fare, mostrava che tra
la gente che gli attendea de’ nemici erano pochi buoni uomini, e che
gli altri erano gente vile e dispettosa, e male armata e novizza, e
dell’onore del re per sua crudeltà poco desiderosa, aggiugnendo, che
se voleano a loro donne e famiglie tornare, necessità era loro fare la
via con le spade in mano, e che certo si rendea, conoscendo la virtù
loro, che arebbono la via onoratamente. I Catalani vedendo l’animo
ardito e sicuro dei giovane presono speranza di vittoria, e si misono
alla battaglia, la quale fu fiera, e aspra e dura lungo tempo, ma i
Catalani, come la necessità strignea, raddoppiate le forze e l’ardire,
diportandosi valentemente, ruppono e sbarattarono gli Spagnuoli,
e oltre a’ morti e a’ magagnati ne furono presi più di trecento
cavalieri, e con la preda e con la vittuaglia non pensata si tornarono
in Araona.


CAP. LXIV.

_Come i Pistoiesi ripresono il castello della Sambuca._

Durando la guerra dal signore di Milano a quello di Bologna, e tenendo
quello di Bologna il castello della Sambuca, ch’era del contado di
Pistoia, ed era la chiave di dare l’entrata e l’uscita per li paesi
così all’offesa come alla difesa, veggendo i Pistoiesi che il signore
di Bologna era forte impedito della detta guerra, e che messer Bernabò
sormontava, presono tempo, e consiglio e favore, e il vescovo loro,
il quale era Fiorentino, nella Sambuca trattò, e seppe tanto trattare
e ordinare, che l’una delle guardie che guardava la torre della
rocca uccise il capitano; e fermato l’uscio per modo che di sotto
non poteano essere offesi, salì nella vetta, e colle pietre cominciò
a combattere col castellano dal lato d’entro, e’ terrazzani, com’era
ordinato, cominciarono a combattere di fuori; sicchè non potendo stare
alla difesa, che non lasciava, quei della torre vi cavalcarono. Il
castellano, ch’era Lombardo, stordito per lo tradimento e per lo subito
assalto, s’arrendè, salve le persone e l’avere, e all’uscita di gennaio
del detto anno, e la terra rimase liberamente nelle mani de’ Pistolesi.
Di questa cosa i Fiorentini furono molto contenti, sperando al bisogno
potere avere la guardia di quello luogo a sua difesa.


CAP. LXV.

_Come messer Bernabò strignea Bologna._

L’oste di messer Bernabò in questi tempi continovamente cresceva, la
quale avea fermato suo campo a Casalecchio, e il capitano del luogo
faceva cavalcare le brigate or qua or là, rompendo le strade, e facendo
assai danno a’ paesani. Gli Ubaldini ad arte si mostravano divisi,
e parte ne teneano con messer Bernabò, e parte con messer Giovanni,
il perchè le strade e l’alpi non si poteano usare. Il legato, che
come il nibbio aspettava la preda, per trarre a sè l’animo di messer
Giovanni, cui vedea dovere poco durare, l’aiutava con tutta la sua
forza, mettendo al continovo in Bologna gente e vittuaglia. Messer
Bernabò di ciò forte turbato, gli scrisse, che non faceva bene a
impedirlo che non tornasse in casa sua, minacciandolo, che se non
se ne rimanesse li farebbe novità nella Romagna e nella Marca. Per
queste minacce il legato più si sforzava ad atare messer Giovanni, il
quale vedendosi male parato e poco atto alla difesa, durando la guerra
guari di tempo, per più riprese mandava a Milano suoi ambasciadori per
levare messer Bernabò dall’impresa, e nondimeno ricercava se potesse
muovere i Fiorentini in suo aiuto; e non trovandovi modo, cominciò a
trattare collegato il ragionamento: il quale dava gli orecchi a volere
fare l’impresa, la quale nella fine venne fornita, come a suo tempo
diremo. Ma in questi dì, la cosa tanto dubbiosa e avviluppata, che
non si vedea dove la cosa ragionevolemente potesse passare, la guerra
rinforzava a giornate. Il capitano di messer Bernabò per più strignere
la terra e da lungi e da presso ponea bastie, e all’uscita di febbraio
ebbe Castiglione per trattato, ch’è un forte castello posto tra Modena
e Bologna. Il signore di Bologna, ch’era uomo al suo tempo riputato,
astuto e di buona testa, e per molti anni pratico delle battaglie del
mondo, bene conosceva che impossibile era sua difesa contro la forza
di messer Bernabò, non avendo altro aiuto, e però sagacissimamente
si sostenea, traendo delle castella quelli terrazzani che gli erano
sospetti, e bene li conoscea, e in Bologna sotto solenne guardia tenea
molti cittadini di cui non prendea confidanza; e del continovo pensava,
come con suo vantaggio e onore potesse dare ad altrui i pensieri della
guerra, e uscire di tante persecuzioni in luogo dove potesse il resto
de’ suoi giorni in pace vivere.


CAP. LXVI.

_Come gli Aretini riebbono il castello della Pieve a santo Stefano._

Il castello della Pieve a santo Stefano lungo tempo era stato nelle
mani de’ Tarlati; e’ terrazzani sentendo che Bibbiena era presa pe’
Fiorentini, temendo de’ mali che verisimilemente potevan loro avvenire,
cercarono di volersi acconciare con li Aretini con volontà di quelli
da Pietramala. Nella terra era uno figliuolo di messer Piero Sacconi
male in concio a potere resistere al loro volere, e però venendo
eglino a lui, loro consentì ciò che seppono divisare; e di presente
fece il fatto a’ suoi consorti sentire, e ad altri amici caporali
di loro stato, i quali senza indugio copertamente mandarono fanti al
castello, e uno di loro con pochi compagni disarmati, come se andassono
a sollazzo, entrò dentro con loro, e come si sentirono forti dentro
mutarono sermone, e coloro che si voleano accordare, e tutti quelli che
si faceano a ciò capo mandarono per stadichi ad altre loro tenute, e di
gente forestiera fornirono la guardia della terra, il perchè la cosa,
per allora si rimase. Ma i villani della terra loro intenzione, senza
mostrare segno di fuori, serbarono nel petto, e a dì 8 di febbraio
detto anno, non prendendone guardia i Tarlati che aveano la cosa per
cheta, i terrazzani preso loro tempo tutti si levarono a romore, e
presi i caporali de’ loro signori e de’ soldati, tenendoli tanto che
riebbono li stadichi loro, e liberaronsi della tirannia, racconciandosi
col comune d’Arezzo, e tornando allo stato e costume antico di loro
contadini, con certe immanità che domandarono, e loro furono concedute.
Questo fu alla casa de’ Tarlati, dopo la perdita di Bibbiena, grande
abbassamento di loro stato e signoria.


CAP. LXVII.

_Come il re d’Inghilterra si pose a oste alla città di Rems._

Il gennaio 1359 il re d’Inghilterra pose campo vicino alla città di
Rems, usando cautela di non fare loro guasto di fuori, e per più fiate
con belli modi cercò con impromesse di magnificare e d’esaltare quella
villa sopra tutte quelle di Francia, che gli fosse prestato l’assento
che in quella città potesse prendere la corona di Francia, promettendo
a tutti di trattarli benignamente; ma poichè vide che non era udito,
stimando che facessono ciò per vergogna d’arrendersi senza dominaggio,
li cominciò a minacciare di lungo assedio e disolazione della terra se
non facessono quello che domandava; ma lusinghe nè minacce approdarono
niente, perocchè fu di comune assentimento risposto loro, che aveano
loro diritto re, a cui intendeano mentre che durasse loro spirito in
corpo stare leali, diritti e fedeli, e che facesse suo podere contro
a loro che alla difesa intenderebbono a loro podere. Avendo il re
d’Inghilterra dalla comune di Rems questa finale risposta, diede boce,
che forniti quaranta dì d’assedio, di fuori in campo prenderebbe la
corona; ma non succedendo le cose a suo proponimento, convenne che
prendesse per lo migliore altro consiglio. E ciò avvenne, perchè la
stagione era forte contraria a tenere suo esercito insieme o a sicurtà,
e dividere non lo potea; onde per fare maggiori danni per lo reame,
e per stendersi con meno gravezza nel verno, prese e ordinò la sua
cavalleria come appresso racconteremo.


CAP. LXVIII.

_Discordia del conte di Focì a quello d’Armignacca._

Vedendo il re, come poco davanti dicemmo, che il suo stallo a Rems
era pericoloso e con poco profitto, all’entrare di febbraio divise suo
oste, e una parte ne fece cavalcare per lo paese, la quale non trovando
contrario s’arrestò a san Dionigi ch’è presso a Parigi a due leghe: e
questa mandata secondo l’opinione di molti fu di consiglio del re di
Navarra e con suo favore, sotto la scusa dello sdegno preso per lui per
lo Delfino di sospetto de’ mali ch’e’ facea. Il Delfino, col consiglio
di certi baroni fidati e fedeli alla corona, intendea a fornire le
rocche e le terre, e a fare sollecita e buona guardia in ogni luogo,
e lasciava correre e cavalcare il paese alla volontà degl’Inghilesi. E
stando in queste tenebre il reame di Francia, e non senza pericolo, era
per invidia grave discordia cresciuta intra il conte di Focì e quello
d’Armignacca, il quale solea essere assai di minore possa che quello di
Focì, molto era cresciuto in tanto ch’avanzava assai quello di Focì; e
la cagione di ciò era stato, perocchè per spazio di cinque anni quello
d’Armignacca avea tenuto il vicariato del paese per lo Delfino, onde
avea tratto grande tesoro; e per questo vizio d’invidia, il quale nelle
corti de’ signori signoreggia, il conte di Focì, veggendo il reame
in tanto pericolo, con segreto favore del re d’Inghilterra, secondo
che per fama si disse, raunò gente d’arme a cavallo e cavalcò per lo
paese, ed entrando nelle ville e nelle castella come barone fidato alla
corona, e con questo modo mandò fino a Tolosa, dicea che volea altri
cinque anni la vicheria del paese come avea avuto quello d’Armignacca,
che domandando colta per guardare il paese, non senza tema di
ribellione e per molto arbitrio s’appropriò senza l’assentimento dei
Delfino; i paesani si portavano saviamente per non dare loro in parte
a’ loro avversari, onde s’acquetò la nuova e paurosa fortuna, non che
guerra non rimanesse tra’ due conti.


CAP. LXIX.

_Quello feciono gli osti del re d’Inghilterra in Francia._

Un’altra parte dell’oste del re d’Inghilterra, essendo il verno nel
suo più grave tempo e ridotto alle piove, sotto la condotta del duca
di Guales, ch’era il primogenito del re d’Inghilterra, e del duca di
Lancastro, che al detto re era cugino, si mise a passare in Brettagna
per luoghi stretti e guazzosi, e per li freddi spiacevoli e rei; a
quel tempo alla gloria degl’Inghilesi non era malagevole nulla, i
quali faceano a loro senno e a loro voglia del reame di Francia quale
aveano in piega, e così stimavano fare di Borgogna, dove solea essere
il pregio e l’onore di gente d’arme, e così ferono, perocchè passarono
per luoghi stretti e malagevoli senza contasto; e giunti nel paese,
lo trovarono pieno di molto bene, onde molto s’adagiarono al vernare.
Il duca di Borgogna era un giovinetto, ed egli e’ suoi baroni erano
malcontenti del re di Francia, perchè avea la duchessa madre del
detto duca tolta per moglie, e per la sua dote assai avea preso tutte
giurisdizioni del paese; la quale cosa fu cagione di non prendere
quella franca difesa contro agl’Inghilesi che si potea pigliare.
Gl’Inghilesi per questo rispetto temperatamente si portarono co’
paesani, non prendendo più che a loro fosse mestiero; e perchè il paese
era dovizioso, e i passi nella forza degl’Inghilesi, poco appresso
del mese di marzo seguente, il re lasciate fornite in Normandia e in
Pittieri e in Berrì certe castella afforzate che aveano acquistate,
cavalcando liberamente il paese, col rimanente di sua oste se n’andò
a Celona in Borgogna, e di là mandò al papa suoi messaggi domandando
suo ricetto a Avignone; della qual cosa il papa e’ cardinali, e
tutta la corte ne fu in gelosia e in paura. Il papa gli mandò per la
detta cagione due vescovi, li quali il pregarono e comandarono che
non volesse per sua venuta turbare la Chiesa di Roma, e il re di ciò
l’ubbidì; nondimeno con ogni studio facea il papa afforzare la città
d’Avignone.


CAP. LXX.

_Come più castella si rubellarono a’ Tarlati._

Come per esperienza vedemo, e gli uomini e gli animali senza ragione
per natura sono vaghi di libertà, e l’appetiscono come loro proprio
bene; gli uccelletti in gabbia vezzosamente nudriti si rallegrano
vedendo le selve, e se possono fuggire de’ luoghi dove sono incarcerati
ritornano a’ boschi; gli uomini che sono stati in lungo servaggio
avvezzi al giogo della tirannia, se sono continovi, e veggiono il
tempo di ricoverare loro libertà, con tutti i sentimenti del corpo si
studiano a ciò pervenire. E di ciò in questi dì ne vedemmo la prova
ne’ suggetti de’ Tarlati, perocchè a dì 13 di febbraio 1359 la Serra
si diede al comune di Firenze; la quale fortezza il nome concordia
al fatto, perocchè serra il passo della montagna che è dal comune di
Bibbiena in Romagna: e il detto dì Montecchio s’arrendè agli Aretini.
Quelli della valle di Chiusi avendo mandato per gente al podestà di
Bibbiena, e non potendola avere, se prima non ne facesse coscienza al
comune di Firenze, e a loro troppo tardava, l’ebbono dagli Aretini, e
rubellaronsi da’ Tarlati. Guido fratello di Marco si tenne alla rocca,
ch’era fortissima, e da non potersi mai vincere per forza, onde per gli
Aretini fu cinta d’assedio in forma che poco potea sperare in soccorso
di fuori. E per questa simigliante fortuna aveano considerato che i
tiranni murano a secco, che bene che loro mura per altezza passino
il cielo, come n’è tratta una pietra di sotto di quelle in su che
è carica, l’altre senza niuno ritegno rovinano; il perchè se cotali
che usurpano il dominio avessono buon sentimento, non piglierebbono
fidanza delle maravigliose fortezze, ma de’ cuori de’ suggetti loro,
trattandoli bene.


CAP. LXXI.

_Di un trattato di Bologna scoperto._

Non meno ne’ trattati che nella forza dell’arme si riposa e rivolge
l’intenzione de’ tiranni; non meno acquistano con tradimento, e con
corrompitori di baratteria che colle battaglie. E considerato le
grandi, e le lunghe, e disordinate spese delle guerre, per meno spesa
sono larghissimi ne’ trattati. Questa regola si scoperse in questi di
ne’ caporali di messer Bernabò, i quali teneano trattati con certi
soldati ch’erano in Bologna, i quali promisono, che approssimandosi
l’oste a Bologna darebbono una porta. Per la detta cagione all’uscita
di gennaio del detto anno il campo si mosse, e approssimossi alla
terra; ma scoperto il trattato, e presi i traditori, e fattone degna
giustizia, l’oste si ritrasse indietro, perchè stando dov’erano venuti
stavano in disagio è in pericolo, e tornaronsi a casa al luogo dov’era
la loro bastita maggiore.


CAP. LXXII.

_Come le sette di Cicilia si divoravano insieme._

La parte del re Luigi in Cicilia, sì de’ Messinesi, come de’
Palermitani, in questo tempo era dal giovane duca di Cicilia e da’ suoi
Catalani sopra modo tribolata e astretta, che ’l re Luigi altro che con
parole non aiutava i suoi partigiani, il quale era cresciuto al duca
il seguito suo, e di continovo cavalcavano sulle porte di Palermo e di
Messina, e loro tenute e fortezze e con assedio e trattati toglieano;
onde non potendo resistere alle continove e gravi oppressioni, da
capo con grande istanza richiesono il re d’aiuto, significando loro
stato e bisogno. Il re mandò a’ Fiorentini per trecento cavalieri che
gli erano stati per tre mesi promessi. Il comune per fare più presto
il servigio li mandò settemila fiorini d’oro, avendo sopra questo
risposto, che avendo altra volta mandata gente, era stata soprattenuta
i detti danari, perchè tanto montava il soldo di trecento cavalieri per
tre mesi, acciocchè ’l re li conducesse a suo modo, e quando n’avesse
bisogno. I danari presono luogo in altri servigi, e il soccorso de’
Ciciliani per quella volta furono lettere confortatorie, dando loro
speranza per animarli alla sofferenza, aspettando se si cambiasse
fortuna. Il di che di questo seguette, che i Catalani presono maggiore
cuore, e condussono gli amici del re a grande stretta, e con grandi
pericoli e partiti, come si potrà al suo tempo provare.


CAP. LXXIII.

_Come la Chiesa deliberò l’impresa di Bologna._

Egli è vero, che come già detto avemo, messer Giovanni da Oleggio
non veggendo sufficiente sua possa a resistere a messer Bernabò, nè
speranza di soccorso bastevole, cercato e ricercato avea se con lui
potesse avere convegna o pace fidata, e non di manco, come sagace
e astuto, cercava col legato di rendere Bologna alla Chiesa con suo
vantaggio e profitto. Il legato, ch’era d’animo grande, e desideroso di
torre quell’impresa per crescere suo onore e nome, non si attentava,
perchè non si vedea sufficiente a sostenere tanto fatto, e cominciare
non volea senza l’assento del papa e de’ cardinali, per non avere
riprensione nè vergogna. E avendo per questa cagione e con lettere e
ambasciadori sollicitato il papa, mostrandogli quelle buone ragioni
ch’erano a sua intenzione conformi, del mese di febbraio del detto
anno, ebbe per diliberazione del santo padre e de’ suoi cardinali, che
nel nome di Dio facesse l’impresa, tutto che in questo tempo messer
Bernabò con grande spendìo cercasse con danari con suoi protettori in
corte che ci ò non si facesse; e tanta fu la forza de’ danari e de’
doni, che ora sì ora no si dicea, con poco onore della Chiesa di Roma.
Nè a questo contento il tiranno, sua oste cresceva premendo d’imposte e
di colte tutti i cherici ch’erano di terre a lui sottoposte; e credendo
con parole altiere spaventare il legato ch’era uomo senza paura, forte
lo minacciava. E così la città di Bologna era di fuori tribolata,
e dentro stava in gelosia, e prima non sapendo a cui fosse venduta,
e sapendo che di lei si facea tenere mercato, e non osava parlare;
queste miserie si giugneano in loro gravi danni e le fatiche corporali.
Queste pene, se da’ cittadini erano pazientemente portate, meritavano
sollevamento, ma non era ancora il tempo che Iddio avea diliberato per
fine delle fatiche loro.


CAP. LXXIV.

_Come messer Giovanni da Oleggio fermò suo accordo con il legato di
Bologna._

Il legato poich’ebbe a suo proponimento l’assento di corte di Roma,
d’onde a tempo sperava favore, ritenendo singulare amicizia con messer
Giovanni da Oleggio, e gareggiandolo molto per avere da lui quello
che cercava, riprese con lui ragionamento e trattato con animo di
contentarlo, purchè Bologna venisse alle sue mani, e perchè non dava
del suo era largo per promesse. La cosa era venuta in termine, che
poco dibattito di lievi cose fra loro aveano. Messer Giovanni stava
sospeso, perchè non li parea ben fare rimanendo nemico di messer
Bernabò e della casa de’ Visconti, della quale era per gesta. E stando
in questo intra due, sentendo messer Bernabò che la convegna era per
prendere tosto conclusione, e temendo forte che ciò non venisse fatto,
mandò a messer Giovanni certi de’ Bonzoni da Crema, che gli erano
cognati, e a loro commise che con ogn’istanza cercassono che Bologna
non tornasse nelle mani della Chiesa, e che offerissono al loro cognato
ogni patto e sicurtà ch’e’ volesse. Costoro col detto mandato di
presente furono a Bologna, e trovarono come la concordia era in alto
da potersi e doversi fornire con messer Giovanni; onde si strinsono
con lui, e dissonli quanto aveano da loro signore, e lo confortarono
con belle e indottive ragioni ch’e’ non volesse rimanere nimico del
signore suo e in contumacia de’ suoi consorti, e di tanta possanza e
grandezza, che potea con suo onore e vantaggio rimanere in buona pace
con loro. Messer Giovanni rispose, ch’e’ volea fare certo e sicuro
messer Bernabò che dopo sua morte Bologna gli verrebbe alle mani,
mentre ch’e’ vivea la volea tenere per lui, e titolarsene suo vicario,
e che volea fidanza che ciò li fosse osservato; e dove a questo messer
Bernabò venisse realmente e facesse, disse d’abbandonare ogni altro
trattato, affermando che sopra tutte le cose desiderava d’essere in
grazia de’ suoi maggiori, e a loro ubbidiente e fedele. I cognati
vollono la fede da lui, ed egli la diede loro, dicendo, ch’e’ non potea
guari aspettare, e che la risposta prestamente volea; e con questo
voltarsi indietro, e tornarsi a messer Bernabò, il quale avea sentito
che l’accordo era fatto, e che il prendere stava a messer Giovanni;
di che avendo da costoro chiara certezza in consiglio disse, ch’era
contento di fare quanto messer Giovanni avea domandato, e che così per
sua parte fermassono con lui. I giovani poco sperti e poco accorti,
non considerando il pondo del fatto, e quanto il caso portava o potea
portare, rendendo la cosa per fatta, con matta baldanza, quasi se non
dovesse nè potesse fallare nè uscire di loro mani, lieti e allegri,
perchè pareva loro fare gran fatti, presono alquanto soggiorno,
aspettando il tempo carissimo e pericoloso in vani diletti, nelle quali
cose spesono tre giorni oltre all’aspetto che messer Giovanni attendea;
il perchè ne seguì, che essendo in prima messer Giovanni in sospetto
della fede di messer Bernabò, il sospetto gli crebbe, e la tema di non
essere tenuto a parole a mal fine, e senza più attendere prese partito,
e fermò l’accordo col legato, come nel seguente capitolo diviseremo.
Fornito il fatto, i giovani che gli erano cognati li vennono il giorno
seguente, e trovarono la pietra posta in calcina, sicchè il pieno
mandato ch’aveano da messer Bernabò tornò in fumo. Per questo fallo
seguette, che i giovani a furore e tutte le loro famiglie furono
disperse, e i loro beni guasti e incorporati alla camera del signore
come di suoi traditori, e ne rimasono in bando delle persone.


CAP. LXXV.

_Patti da messer Giovanni da Oleggio alla Chiesa, e la tenuta di
Bologna._

Per lo sospetto cresciuto a messer Giovanni di messer Bernabò, come
poco avanti dicemmo, prese l’accordo, e concedette alla Chiesa Bologna
con queste convegne: che il legato pagasse interamente i provvisionati
e’ soldati di ciò che dovessono avere infino al dì ch’e’ rassegnasse
Bologna, e che in cambio di Bologna avesse a sua vita liberamente
la signoria della città di Fermo, e di suo contado e distretto, e
che fosse titolato per lo detto marchese della Marca, e in sustanza
succedette l’accordo: e per sicurtà di fermezza dell’una parte e
dell’altra, il signore di Bologna mise nella città di Fermo messer
Azzo degli Alidogi da Imola con gente d’arme come amico comune, e al
capitano della gente che il legato avea messo in Bologna, ricevente
per lo legato e per la Chiesa di Roma, in presenza del popolo diede la
bacchetta della signoria, onde il popolo ne fece gran festa, perchè ciò
desiderava e temeva di peggio, gridandosi per tutta la terra: Viva la
santa Chiesa. Nondimeno il signore com’era ordinato nei patti, nelle
sue mani fece giurare tutta gente d’arme da piè e da cavallo infino che
li fosse attenuta l’impromessa; e così stette la città sotto titolo
e forza di messer Giovanni, come della Chiesa di Roma, da mezzo il
mese di marzo al primo dì d’aprile 1360. E in questo mezzo il legato
intendea a fare pagare i soldati, e’ cittadini avendo presa baldanza, e
in fatti e in parole villaneggiavano messer Giovanni e la famiglia sua,
ricordandosi dell’ingiurie ch’aveano ricevute da loro; e per questo
avvenne, che un dì messer Giovanni mandò per prendere di sua gente
uno de’ Bentivogli, il quale essendo bene accompagnato si contese, e
non se ne lasciò menare, gridando, all’arme all’arme; onde la terra
si levò tutta a romore, infiammata contro al vecchio tiranno: il quale
per tema si ricolse in cittadella, e tutta la notte stette armato con
la sua gente e della Chiesa sotto buona guardia. Il dì seguente giunse
messer Gomise in Bologna nipote del cardinale, il quale era marchese
della Marca, e racchetò il romore del popolo, e prese la guardia delle
porti e della città, e accomandatola a’ cittadini, corse la terra
col popolo insieme con grande allegrezza, e aperse a’ prigioni. Il
perchè i cittadini si certificarono che la signoria non potea tornare
nelle mani del tiranno, nonostante che ancora fosse in sua podestà
la cittadella, e il giuramento de’ soldati in sua mano. E stando le
cose in tale maniera, messer Giovanni fu certificato dalla moglie
come liberamente avea in sua podestà il Girfalco e l’altre fortezze di
Fermo, e come presa era per lui la signoria della terra; onde avendo
ciò, secondo i patti li convenia partire di Bologna, ma forte temea
l’ira del popolo che non l’offendesse in sulla partita, e per tanto si
stava in cittadella, e come, savio e avveduto ordinò ora una boce ora
un’altra, tenendo suo consiglio segreto nel petto; e per meglio coprire
l’animo suo pubblicamente facea cercare con gli Ubaldini che li dessono
sicura la via, e a’ Fiorentini domandò il passo per loro terreno; i
Bolognesi stavano a orecchi levati, e non faceano motto, aspettando di
predarlo, e di fare strazio di lui gran voglia n’aveano. Il savio con
maestria tranquillando i Bolognesi colse tempo, il martedì santo, a dì
31 di marzo nella mezza notte, dormendo i cittadini, chetamente e senza
fare zitto con mille barbute, tra di suoi provvisionati e soldati di
quelli della Chiesa, senza averne il dì fatta mostra uscì di Bologna,
e andossene a Imola senza impedimento nessuno, e di là si partì, e
andonne a Cesena a visitare il legato.


CAP. LXXVI.

_Come la città di Bologna fu libera dal tiranno in mano del legato e
della Chiesa essendo assediata._

Il primo dì d’aprile, gli anni domini 1360, Bologna rimase libera
dalla dura tirannia di messer Giovanni da Oleggio della casa de’
Visconti di Milano, il quale a dì 20 d’aprile 1355 l’avea rubata a’
suoi consorti per cui la tenea, come addietro facemmo menzione, e
nello spazio di questi cinque anni avea decapitati oltre a cinquanta
de’ maggiori e de’ migliori cittadini della terra, con trovando loro
diverse cagioni, e dell’altro popolo n’avea morti e cacciati tanti, che
pochi n’avea lasciati che avessono polso o forma d’uomo, e con averli
munti e premuti infino alle sangui; e avendo fatte tante crudeltadi,
e tante storsioni e ruberie, come volpe vecchia seppe sì fare, che
con grandissimo mobile di moneta e gioielli liberamente se n’andò, e
ridussesi in Fermo; e levato s’era del giuoco, e ridotto in luogo di
pace e di riposo, lasciando i Bolognesi e il legato nella guerra; e per
certo, s’egli era tenuto savio, questa volta lo dimostrò.


CAP. LXXVII.

_Come la Chiesa riformò Bologna._

Messer Gomise da Albonatio Spagnuolo nipote del legato, il quale
era stato marchese della Marca, e Niccola da Farnese capitano della
gente del legato rimasi nella libera signoria di Bologna, e fatta
grande allegrezza e festa co’ cittadini della partita di messer
Giovanni da Oleggio, e mostrando di loro grande confidanza, ma per
accattare loro benivolenza e favore, si cominciarono a ordinare alla
guardia, e alleggiarono il popolo di molte gravezze, e massimamente
delle soperchie, nelle quali li tenea il tiranno; e il popolo con
loro coscienza prese consiglio co’ più cari e sentiti cittadini, ed
elessono di comune concordia d’ogni stato e condizione, mescolando i
gentili uomini e’ popolari, e’ dottori e artefici eziandio dell’arti
minute, pure che ognuno fosse contento, certo numero di cittadini che
intendessono con gli uficiali della Chiesa alla guardia e alla difesa
della città; e ciò fatto, il capitano della gente della Chiesa mandò
comandando alla gente di messer Bernabò che si dovesse partire del
terreno della Chiesa, significando loro come Bologna era tornata alle
mani della Chiesa di Roma, com’essere dovea per ragione; la risposta
fu questa, che innanzi si partissono voleano vedere per cui, e che
s’e’ volessono se ne partissono glie n’andassono a cacciare. E preso
sdegno del baldanzoso comandamento, ed essendo loro di nuovo giunto
mille barbute, cavalcarono infino presso a Faenza, levando gran preda
di bestiame e di gente, la quale condussono al luogo senza impedimento
niuno; e com’aveano cominciato seguirono, facendo gran danno e
spaventamento de’ paesani, e rompendo le strade, minacciando di peggio
i Bolognesi e’ Romagnuoli; per le quali cose la letizia mostravano per
parere loro essere fuori delle mani del tiranno, e posto giù il caldo
voglioso si cominciò a raffreddare, e convertissi in paura di peggio, e
ciò venne loro, come si potrà leggendo innanzi trovare.


CAP. LXXVIII.

_Di una congiura si scoperse in Pisa._

Gli artefici della città di Pisa, e massimamente quelli dell’arte
minuta, vedendo loro mancare i guadagni per la partita de’ Fiorentini
i quali il loro porto teneano in divieto, se ne doleano, e mormoravano
e parlavano male; e perseverando nelle querele, una quantità di loro
si giurarono insieme molto occultamente, e presono ordine tra loro, il
quale il venerdì santo a dì 3 d’aprile doveano uccidere gran parte de’
loro maggiorenti ch’erano al governo della città, dove e come trovar
gli potessono insieme, o divisi; e ciò fatto, doveano mandare per li
Gambacorti, che allora si riduceano a Firenze, e con loro riformare
la terra, e pacificare co’ Fiorentini per riavere il porto. Infra’
congiurati erano religiosi alquanti, e preti e altri cherici assai,
intra’ quali fu un prete il quale fu veduto parlare con certi de’
secolari della congiura assai sconciamente, e per disusata maniera,
o che parola di suo ragionamento fosse intesa, o che per lo modo del
parlare si facesse sospetto, fu mandato per lui, e stretto, e’ confessò
tutto l’ordigno; onde subitamente furono presi quattro preti e sette
frati, e nel torno di cento artefici d’arte minute. I governatori della
terra procedendo nel fatto trovarono ch’erano tanti gli avviluppati in
questa congiura che per lo migliore si fermarono, e non si stesono più
oltre, e del numero ch’aveano presi dodici ne furono impiccati, i quali
trovarono più colpevoli e caporali, e gli altri furono condannati a
condizione in danari, i quali per ricomperare le persone tosto furono
pagati. Questa novità molto conturbò e impoverì la città con guasto
dello stato della setta che allora reggea, la quale ne rimase in grande
gelosia, e il popolo minuto malcontento e peggio disposto.


CAP. LXXIX.

_Di un trattato menato in Forlì contro alla Chiesa._

Messer Bernabò per l’impresa ch’avea fatto il legato della città
di Bologna era molto stizzito o infocato, e come signore animoso e
vendicativo non posava, e senza riguardo di spesa del continovo suo
oste cresceva, e sollecitava i suoi capitani a fare buona guerra a’
Bolognesi, e dovunque potessono ne’ terreni della Chiesa. Occorse in
questi giorni, che la gente ch’era alla guardia di Forlì gran parte
n’erano ad accompagnare infino a Fermo messer Giovanni da Oleggio;
questo caso diede materia a un messer Stefano giudice, e a un nipote
di messer Francesco degli Ordelaffi per addietro capitano di Forlì,
nato d’una sua figliuola bastarda, di cercare trattato in Forlì; questi
due matti baldanzosi, piuttosto per presuntuoso animo che per savio
consiglio, tenuto trattato col capitano della gente di messer Bernabò,
vedendo la terra sfornita di gente di soldo, sotto ombra di cavalcata
gran parte della migliore gente da cavallo e da piè dell’oste del
tiranno feciono appressare a Forlì, in luogo che per sua vicinanza
non gittasse tanto sospetto che al popolo fosse necessità prendere
l’arme, e d’onde partendosi la notte potessono entrare nella terra;
e tanto aveano predetta la cosa, che avendo i detti di sopra con
alquanti loro amici rotte in due parti le mura della città, ed essendo
condotti millenovecento barbute e fanti assai al tempo che loro era
dato alle dette rotture, poco accorti i traditori abbagliati della
voglia disordinata, tra gli steccati e le mura che fatti aveano ne
condussono tra gli ortali dentro e a piè delle mura oltre a trecento
cavalieri e dugento pedoni, anzi che dentro se ne sentisse niente, e
non presono avviso che i detti ortali erano tutti affossati, e senza
vie spedite che mettessono nelle strade mastre, il perchè ne seguì,
che nel ravvilupparsi disordinatamente e poco chetamente in quel
luogo, furono sentiti e scoperti; onde il popolo si levò a romore, e
francamente corsono ove si sentivano i nemici, e gli assalirono col
vantaggio del sito dov’erano, e non potendosi stendere nè campeggiare,
e inviliti, tutto che facessono per loro onore mostra d’arme, in fine
furono cacciati di fuori, ed essendone assai magagnati e fediti: e
mentre ch’era attizzata la zuffa, poco anzi il fare del giorno la gente
ch’avea accompagnato messer Giovanni da Oleggio tornò, onde quelli di
fuori perduta la speranza si ritrassono indietro, e’ traditori furono
presi e condannati alle forche. Parendo al capitano di messer Bernabò
avere avuto dell’impresa vergogna, quasi come se la preda gli fosse
uscita di mano, la seguente mattina con duemila barbute tentò di fare
in aperto quello che non avea potuto fare in occulto, e venuto infino
alle mura della città, la trovò sì bene ordinata e guernita a difesa,
che intendimento che dato gli fosse dentro riputò a niente; onde diè
la volta, e trovando il paese male fornito di roba da vivere, lasciò a
Luco quattrocento cavalieri, e tornossi nell’oste a Bologna.


CAP. LXXX.

_Come fu combattuta Cento dall’oste del tiranno._

Avendo i capitani di messer Bernabò perduta la speranza della città di
Forlì, come di sopra dicemmo, la sollecitudine loro rivolsono altrove,
e lasciando fornite le bastite d’intorno a Bologna, cavalcarono a
Cento grossa terra de’ Bolognesi, posta in quella parte che guata
Ferrara, e là si fermarono quasi in forma d’assedio, stimando che se
potessono o per paura o per forza vincere la terra, per la bontà del
sito attissimo loro per sicurare le strade verso Ferrara, e per fare al
campo e alle bestie dovizia per la grande quantità di biada che dentro
v’era raccolta, d’essere vincitori della guerra; e per tanto con molto
ordine e apparecchio per più e più riprese in diversi giorni assalirono
la terra con fiere battaglie di lunga bastanza, nelle quali e dall’una
parte e dall’altra assai di buona gente vi fu morta e fedita, ma più
assai di quelli di fuori; in fine trovando i capitani che la terra era
bene guernita a difesa, e vedendo che il loro stallo poco approdava,
con avere senza acquisto fatte prodezze si levarono quindi, e andarono
a Budrio, dove trovarono più larghezza di vittuaglia, ove s’arrestarono
per lunghezza di tempo.


CAP. LXXXI.

_Come gli Ubaldini si mostrarono tra loro divisi._

In questi tempi, maliziosamente per sagace consiglio la casa degli
Ubaldini si divise, e quelli di Tano da Castello col seguito loro
s’accostarono a messer Bernabò, e quelli di Maghinardo e d’Albizzo
da Gagliano con loro amici tennono col legato in palese, tutto che
in segreto, come ghibellini e antichi nemici della Chiesa di Roma,
s’intendessono, e che con l’animo fossono quello ch’e’ consorti loro;
litigavano per dare materia di rottura alle strade dell’alpe, sicchè
per quelle vie niuno osasse andare a Bologna. Per questa divisa, o
vera o infinta che fosse, l’una parte guerreggiava l’altra, e insieme
si danneggiavano assai; per modo che l’alpe era tutta rotta, e i passi
e le strade serrate in forma, che roba nè persona per que’ luoghi
non poteva ire a Bologna senza gravi pericoli; il perchè grave danno
e disagio ne tornava a’ Bolognesi assediati, che per quelli luoghi
soleano andare e foraggio e aiuto. E parne che sia da notare in questa
guerra lunga e pertinace, la maggiore parte di quello che bisognava per
vita dell’oste sparta, e grande opera quasi venia per Lombardia per lo
passo del Po, il quale il marchese da Ferrara compare di messer Bernabò
gli avea conceduto, pagando la roba il dazio usato, di che gran danaio
ne fece il marchese: e secondo ch’avemmo da persona degna di fede, che
di ciò ebbe degna notizia, tra soldo e vittuaglia e altri fornimenti
l’oste costava al tiranno ogni mese oltre a’ fiorini settantamila
d’oro, e tanto era la sua entrata che niente parea che ne curasse: è
vero che grande tesoro trasse da’ cherici delle terre che gli erano
suggetti, i quali con molti dispetti disordinatamente gravava.


CAP. LXXXII.

_Di portamenti degl’Inghilesi in Borgogna._

Per sperienza vedemo, che lo stomaco pure d’una vivanda prende
fastidio, e delle variazioni d’esse ricreazione e piacere, e così gli
orecchi d’uno suono continovo rincrescimento, e della mutazione di
molti vaghezza. Da questa mostrazione naturale preso esempio, lasceremo
stare alquanto i fatti d’Italia, le cui volture e travaglie continove
senza in tramessa delle forestiere possono ingenerare tedio, e
passeremo a quelle de’ Franceschi e degl’Inghilesi che in questi giorni
apparirono. Essendo, come nel passato dicemmo, il re d’Inghilterra,
e’ figliuoli e il duca di Lancastro in Borgogna, senza arrestare con
attizzamento di guerra il paese i Borgognoni, che allora in occulto
erano poco amici della casa di Francia, s’accordarono con loro, dando
loro derrata per danaio abbondevolmente di ciò che loro fosse mestiero;
e stando in tale maniera si cercava come il re per l’avvenire dovesse
rimanere col duca, il perchè gl’Inghilesi li riguardavano forte, senza
fare ingiuria o danno niuno; e ciò avvedutamente, perchè sapeano lo
sdegno nato tra’ Borgognoni e’ Franceschi, estimando d’attrarli a
loro con piacevolezza e amore. Il duca era giovane e di grande animo,
e di possanza il maggiore barone del reame di Francia, e de’ dodici
peri, a cui stava la coronazione del reame di Francia, alla quale con
tutti i sentimenti si dirizzava l’intenzione del re d’Inghilterra, la
quale era freno che non lasciava trasandare gl’Inghilesi. Nondimeno
i paesani delle castella, e sì delle ville, per essere più sicuri
donavano al re argento secondo loro possibilità, e di buona voglia
li prendea, e gli fidanzava. E per simile modo avea fatto negli altri
paesi di Francia; prendea da cui gli s’era raccomandato ciò che dare
gli voleano senza bargagnare, e avevali fatti sicuri di preda e di
guasto; onde per questa via avea accolta tanta moneta, che di largo
forniva i soldi ch’avea a pagare, e tutte altre spese occorrenti senza
avere a trarre d’Inghilterra danaio. E per questo modo la sperienza fa
manifesto quello che in fatto e’ parea quasi impossibile, ed era: e per
certo all’acquisto del reame di Francia la fortuna e ’l senno furono
del tutto dalla parte del re d’Inghilterra e solo gli fu in contrade
l’odio e lo sdegno de’ Franceschi, i quali non poteano patire d’udire
ricordare gl’Inghilesi, che sempre come vili genti aveano avuto in
dispetto.


CAP. LXXXIII.

_Come i Normandi con loro armata passarono in Inghilterra._

I Normandi, che più volte aveano in loro terre dagl’Inghilesi ricevuto
oltraggi e vergogna, vedendo che ’l re d’Inghilterra, e’ figliuoli
è ’l duca di Lancastro, di cui ridottavano molto, erano occupati
nell’impresa di Francia, e per ciò passati in Borgogna, pensarono che
’l tempo loro dava spazio di fare loro vendetta. E pertanto di loro
movimento raunarono in piccolo tempo centocinque navili, e di loro
gente gli armarono, e gli feciono passare nell’isola, e si posono a
Sventona e in altri porti, dove arsono legni assai, e feciono quello
danno che poterono il maggiore. Per, questo gl’Inghilesi sommossono
tutti i porti dell’isola, e furiosamente armarono per andare a trovare
i Normandi, i quali temendo i subiti movimenti e avvisi degl’Inghilesi,
avanti che loro armata fosse fornita si partirono, e tornaronsi a
salvamento in Normandia.


CAP. LXXXIV.

_Come il duca di Borgogna s’accordò con gl’Inghilesi._

Del mese di maggio 1360, il giovane duca di Borgogna, seguendo il
consiglio de’ suoi baroni, prese accordo col re d’Inghilterra in
questa forma. Che il re si dovesse partire del paese, e il duca a lui
dovesse dare in tre anni centoventi migliaia di montoni d’oro, come ne
toccasse per anno; e oltre a ciò, ch’avendo il re d’Inghilterra a sua
coronazione del reame di Francia per boce d’imperio, che la sua sarebbe
la seconda. Sotto questa concordia assai grande al re d’Inghilterra,
più per l’onore della promessa e della boce del duca che per altra
cagione il re d’Inghilterra con tutta sua oste si partì di Borgogna,
e dirizzò suo viaggio verso Parigi, non trovando, fuori delle terre
murate, chi lo contastasse niente, e tutti i paesani e le villate che
non si sentivano da poterli fare resistenza gli si feciono incontro,
e per riscatto di loro dammaggi li portavano danari, ed egli per sua
bonarità, ciò che gli era dato prendea, e della sicurtà era a tutti
cortese.


CAP. LXXXV.

_Come il re d’Inghilterra assediò Parigi._

Poichè ’l re d’Inghilterra vide che la fortuna per la maggiore parte
avea favoreggiati tutti i suoi consigli e ordigni, e che tutte le
cose, secondo il suo proponimento necessario a fornire anzi prendere
l’assedio di Parigi gli erano procedute prosperamente, eccetto che
presure di ville o di fortezze notabili, le quali vedea avere riguardo
a Parigi, e che quando la città ch’era capo del reame fosse a sua
podestà l’altre agevolmente gli verrebbono alle mani; e pensò come
ultimo fine d’ogni sua intenzione certo che la ventura gli concedesse
Parigi; e per tanto come trasse il piè di Borgogna, continovate sue
giornate con tutta sua oste se ne venne a Parigi, e giunto e riposato
alcuno dì, il sabato santo a dì 4 d’aprile 1360, la sua oste in tre
parti divise, l’una a Corboglio, l’altra accomandò al duca di Guales,
e lo fè porre in costa dall’altro lato della città, la terza diede al
conte di Lancastro, il quale si fermò dall’altra banda, sicchè quasi
in terzo a sesta fermarono l’assedio, e che questo fosse il deretano
pensiero manifestarono. Il re di Navarra e il fratello, il quale avea
formata pace col Delfino, come addietro dicemmo, a questo punto si
scopersono amici e servidori del re d’Inghilterra, che la pace che
fatta avea era stata infinta e a mal fine. Questa voltura del re di
Navarra e del fratello assai diedono che pensare a’ Franceschi. Il
Delfino avendo alcuno sentore della venuta del re d’Inghilterra e di
suo intendimento, con molti baroni del reame e con grande cavalleria
s’era ridotto in Parigi, e la città avea d’ogni cosa necessaria alla
vita per grande tempo abbondevolmente fornita, e con provvedenza e
sollicitudine attendeano alla guardia della città e di dì e di notte,
e di fuori lasciava fare a’ nemici il loro volere, non lasciando
uscire nè forestieri nè cittadini a fare d’arme, e tutto ciò per buono
e savio consiglio: nè tanto poteano gl’Inghilesi con sollecitudine e
scorrimenti strignere la città, che gente con vittuaglia non v’entrasse
e uscisse, tutto che con pericolo assai. Il paese fuori di Parigi,
eccetto città e terre di guardia, ubbidiano gl’Inghilesi e loro davano
vittuaglia e danari, come addietro dicemmo, sicchè l’oste ne stava
doviziosa e ad agio, e senza fatica d’avere a predare per vivere, e
senza riotta aveano la vita e i soldi loro, e i beni de’ Franceschi.
Or qui mi piace d’un poco gridare: O superbi e altieri cristiani,
dirizzate gli occhi del cuore, volgete un poco questi pensieri a
considerare gli straboccamenti della potenza mondana, e vedrete la
viltà e la miseria essere al fine delle pompe e miserie de’ mortali;
ponetevi avanti gli occhi la nobile e famosa città di Parigi assediata
dagli Scirei d’Inghilterra; ponetevi il glorioso sangue della reale
casa di Francia in quanto abbassamento era in questi giorni venuto;
ponetevi la magnanimità e il coraggio, la gentilezza e’ costumi
della cavalleria de’ Franceschi, a tanto disprezzamento in questi
tempi ridotta, che abbi lasciato in preda il reame a poca gente, e
loro dispettosa e di poca nomea, tenendo chiusa nelle terre murate,
e non ardite con le teste levate, e prendendo fidanza della violente
fortuna: più è maraviglioso a pensare che gl’Inghilesi abbiano fatto
in Francia a loro senno, che se Capalle vincesse Firenze. Il fine
dunque dell’arrogante superbia, come per esperienza sovente si vede,
è cadimento in luogo umile e pieno di miseria: e certo chi con animo
temperato vorrà giudicare, altro non potrà dire, se non che manifesto
giudicio di Dio abbi corrotto questo flagello il popolo sdegnoso, e
animo rilevato e altiero de’ Franceschi, che tutto l’altro mondo aveano
per niente. Or dunque posate mortali, e non siate troppo osi, e sievi
freno il magnifico reame di Francia, il quale è stato tra’ cristiani il
maggiore già molte centinaia d’anni, e quando vi ritrovate nel più alto
grado delle dignità temporali volgete gli occhi alla terra, e vedrete,
che quanto il luogo è più alto e più rilevato, tanto è la ruina e la
caduta maggiore, e forse poserete gli animi vostri alla sorte che v’ha
conceduta la divina provvidenza, senza più oltre cercare che vi sia di
mestiere.


CAP. LXXXVI.

_Come il re d’Inghilterra si strinse a Parigi, e combattè Corboglio._

Essendo l’oste del re d’Inghilterra alquanti dì soggiornata a
Corboglio, e divisa, come di sopra dicemmo, in modo da potersi in
piccolo tempo raccogliere insieme quando fosse bisogno, all’ottava
della Pasqua di Resurrezione, il re con gran parte di sua oste si mosse
e avvicinossi a Parigi con le schiere fatte, e tanto che gli scorridori
si misono in sulle porti della città, facendo con parole e con atti
assai oltraggio a’ Franceschi, ma però di Parigi non usciva persona:
e ciò fu riputato gran senno, perchè uscendo, come suole il popolo
voglioso e male ordinato, e in fatti d’arme poco uso, il pericolo
era grandissimo, e il re con i suoi Inghilesi altro non desiderava,
facendo sagacemente tutto ciò che poteano per attrarli di fuori.
Veggendo il re dopo lungo stallo, che per aizzamento che fatto fosse
a’ Franceschi nè gente usciva della terra nè porta s’apriva, fatto
danno d’arsione per più sdegnare i nemici e animare a vendetta, si
trasse indietro: il prenze di Guales tornato al re senza frutto di suo
pensiero, per non lasciare niente che secondo il sottile provvedimento
del re per ottenere suo proponimento fare si dovesse, esso in persona
colla gente fresca ch’era rimasa nel campo con bell’ordine si mise a
combattere il castello di Corboglio. La battaglia fu aspra e animosa,
perocchè gli Inghilesi che erano montati nell’onore e pregio dell’arme
alla disperata senza curare la vita si metteano a ogni pericolo; i
Franceschi che conosceano che essendo vinti vituperavano il nome loro,
ed erano carne di beccheria, si difendeano francamente ributtando
i nemici; molti e dall’una parte e dall’altra ne furono morti e
fediti; in fine gl’Inghilesi non potendo niente approdare si levarono
dall’impresa. Come il duca avea fatto a Corboglio, così il conte di
Lancastro e poi la persona del re cercarono di più altre castella e
fortezze, e nulla poterono ottenere, sì bene erano in apparecchio a
difesa; e queste cose furono gran cagione di recare gl’Inghilesi a
concordia, come a suo luogo e tempo diremo.


CAP. LXXXVII.

_Conta del reggimento de’ Romani, e d’alcuna giustizia fatta._

L’antico popolo e reggimento romano a tutto il mondo era specchio di
costanza, e incredibile fermezza d’onesto e regolato vivere, e d’ogni
morale virtù, e quello ch’al presente possiede le ruine di quella
famosa città è tutto per lo contrario mobile e incostante, e senza
alcuna ombra di morali virtù. Loro stato sovente si muove con vogliosa
e straboccata leggerezza, e cercando libertà l’hanno trovata, ma non
l’hanno saputa ordinare nè tenere, com’addietro nell’opera nostra
si può trovare. All’ultimo, dalla forma e costumi de’ reggimenti
de’ popoli della Toscana che vivono in libertà, e massimamente de’
Fiorentini cui essi appellano figliuoli, hanno preso il modo, e fatti
hanno loro cittadini in similitudine di priori e con simigliante balía,
e riduconsi presso al Campidoglio, e per loro consiglio hanno i capi
de’ Rioni, e a similitudine de’ gonfalonieri delle compagnie di Firenze
fatti hanno banderesi con grande potestà e balía, li quali hanno altri
sotto sè a cui danno i pennoni, e ciascuno de’ banderesi ha il seguito
di millecinquecento popolari bene armati e in punto a seguirli a ogni
loro posta; e così sono circa a tremila gli ubbidienti a’ banderesi.
Questi hanno a fare l’esecuzione della giustizia di fuori contro i
possenti e grandi cittadini che male facessono, o fossono inobbedienti
al reggimento di Roma, o dessono alcuno ricetto ai mali fattori in
loro fortezze o tenute; e contro a coloro che hanno trovato mal fare
cominciato hanno così aspra giustizia, che passano i segni per troppa
rigidezza, il perchè nè principe nè barone è nella giurisdizione del
popolo di Roma che non stia spaventato, e che forte non gli ridotti, e
che per paura non ubbidisca a’ governatori di Roma e’ loro rettori. E
in questo anno occorse, che il Bello Gaietani zio del conte di Fondi,
e Matteo dalla Torre, famosi capi e ritenitori de’ ladroni del paese,
furono presi da’ detti banderesi con più loro seguaci malandrini e
rubatori di strade, e di fatto e senza alcuno soggiorno tutti furono
impiccati, e le loro tenute disfatte e ragguagliate con la terra. Ed
essendo la Campagna in ribellione de’ Romani, e spilonca di ladroni,
e questo popolo infiammato a ben fare, ridottola all’ubbidienza de’
Romani.


CAP. LXXXVIII.

_Come parte degli Ubaldini presono Montebene._

I figliuoli di Tano da Castello della casa degli Ubaldini seguaci
de’ signori di Milano, e pertanto ai loro consorti nimici, nel detto
anno e mese d’aprile, di ciò non prendendo guardia que’ della casa
loro, con numero di fanti a ciò bastevoli, una mattina innanzi il fare
del giorno presono Montebene, e lo steccarono di steccati e fossi, e
dentro vi feciono capanne, e lo fornirono di vittuaglia e guernimenti
da difesa, aspettando secondo l’ordine dato gente d’arme da piè e
da cavallo da’ signori di Milano per fare da quella parte guerra a’
Bolognesi rompendo le strade. E a dì 15 d’aprile con dugento Ungheri
e con trecento barbute, e con loro fedeli cavalcarono infino presso a
Bologna, e levarono gran preda di prigioni e bestiame, e altri danni
feciono assai. Poi a dì 23 del mese i Bolognesi con loro forza, e con
loro i figliuoli di Maghinardo degli Ubaldini e loro fedeli, essendo
partita la maggior parte della detta gente de’ signori di Milano, che
male poteano nell’Alpe dimorare, cavalcarono alle valli, e quelli vi
trovarono della detta gente misono al taglio delle spade, e in quelli
paesi presono e uccisono e danneggiarono i fedeli dell’Alpe, e con
quella preda maggiore che fare poteano si ridussono a salvamento: a
quelli di Montebene non poterono noiare per la fortezza del luogo.
Montebene per metà è del comune di Firenze, il perchè i Fiorentini
mandarono ambasciadori agli Ubaldini, e gli ripresono dell’impresa,
considerato che aveano occupato del contado di Firenze; da loro ebbono
tanta umile e cortese risposta, a non volere far cosa dispiacesse
al comune, che per non fare nuova impresa per allora loro risposta
fu accettata, non che l’ingiuria con l’altre non fosse riposta, e
riserbata a loro maggiore ruina.


CAP. LXXXIX.

_Di novità e morte del re di Granata, e loro esilio._

Nel mese d’aprile 1360 essendo Maometto re di Granata senza sospetto di
suo stato uscito a cacciare, Raisalem suo barone, uomo di grande animo
e seguito, postoli aguato lo volle uccidere, ma esso fuggì. Costui col
seguito e forza sua coronò re un fratello di Maometto di piccola età,
e perseguitava il detto Maometto, il quale per paura fuggì a Malica,
e poi a Fessa, e quivi si ridusse al servigio del re di Fessa e a sua
provvisione, e ivi dimorando aspettava tempo di ricoverare sua corona.
Guardando Raisalem il giovane re, volle che facesse morire certi de’
suoi baroni, e non volendo il giovane re consentire perchè non erano
in colpa, Raisalem l’uccise, e col suo seguito e forza si fè coronare
re, non essendo della schiatta e casa reale, e da tutti i regnicoli
di Granata quasi spontaneamente fu ubbidito, e fecesi chiamare il re
vermiglio, e con tutta sua forza e consiglio nimicava il re Maometto,
cui egli avea del regno cacciato, e oltre nimicava il re di Castella.


CAP. XC.

_Come il legato richiese d’aiuto il re d’Ungheria alla difesa di
Bologna._

Già era quasi certa e indubitata speranza a’ pastori della Chiesa di
Dio, e a’ governatori d’essa, sì di là come di qua da’ monti, della
difesa della città di Bologna, e il legato d’ogni parte in qualunque
modo potea cercava aiuto sollecitamente: com’a Firenze avea mandato,
così all’imperadore e al re d’Ungheria sommovendoli al soccorso
dell’onore di santa Chiesa intorno a’ fatti di Bologna; per questo lo
re d’Ungheria richiesto, e non volendo, se prima non sapeva il come
e perchè, con più certo e diliberato consiglio fare l’impresa, come
gonfaloniere e difensore di santa Chiesa, al cui bisogno dicea non
potere senza soccorso passare, lettere fece e sua ambasciata mandò
a’ signori di Milano, loro pregando si partissero dall’offesa di
santa Chiesa, e gli ammoniva sotto protesto d’aiuto che si partissono
dall’impresa. I signori di Milano sentendo che suo movimento era pigro,
e con lunga tratta di tempo, a’ suoi ambasciadori mostrarono, e a lui
scrissono con assai apparenti ragioni che loro impresa era giusta e
ragionevole, e che in corte di Roma palesemente se ne disputava, e che
la ragione per loro parte rispondea, e così la sentenza attendeano; e
però lo pregavano che contro a loro non prendesse il torto, che giusto
il podere loro ne prenderebbono difesa, e gli ambasciadori di grande
riverenza onorarono, e di molti e ricchi doni.


CAP. XCI.

_Come in corte si diè sentenza contro a quelli di Milano per i fatti di
Bologna._

Dappoichè Bologna fu nelle mani del legato di Spagna, nonostante che
i signori di Milano circondata l’avessono d’assedio, continovo in
corte per loro ambasciadori avvocati protettori e procuratori il papa
e’ cardinali intempellavano, mostrando in grido che la Chiesa loro
faceva torto, perocchè l’aveano ancora per quattro anni a censo della
Chiesa di Roma, e loro promesso era per bolle papali di consentimento
del collegio de’ cardinali, ch’anzi il tempo loro non sarebbe tolta,
e con l’usato modo di spendere e largamente donare alla disordinata
cupidigia de’ cherici, assai de’ cardinali prelati e cortigiani aveano
che in occulto e in palese gli favoreggiavano, il perchè la questione
venne in giudicio, e convenne che per sentenza si determinasse, la
quale si credette che per lo grande aiuto e favore che in corte aveano
i signori di Milano che venisse per loro, ma tanto non si potè nè seppe
argomentare che la sentenza non venisse di ragione per la Chiesa di
Roma, perocchè i signori di Milano per difetto loro n’aveano perduta la
possessione, e non l’aveano potuta ricoverare, ed essendo la proprietà
di santa Chiesa, giustamente avea potuto racquistare la possessione.
Data la sentenza, il papa con i cardinali in concistoro deliberarono
di prenderne per tutte vie la difesa; ma come per antica usanza e de’
prelati al sussidio della moneta la mano era pigra e remissa, e per
questo mandarono e per lettere e per ambasceria a’ signori di Milano
gravandoli si togliessono dall’impresa, contro a loro cominciando
processo, e all’imperadore, a’ principi d’Alamagna, e al re d’Ungheria,
e appresso a tutti i signori di Lombardia e a’ comuni di Toscana
scrissono per sussidio per non toccare il tesoro della Chiesa di Roma,
e in tre volte a grande stento per questo servigio di camera trassono
centoventi migliaia di fiorini, li quali vennono a sì pochi insieme
e sì tardi, che in fatti di guerra poco profitto fare se ne potè, pur
fece speranza d’alcuno leggiere sostentamento.


CAP. XCII.

_Come messer Galeazzo Visconti si mandò scusando in corte di Roma
dell’impresa di Bologna._

Seguendo messer Bernabò sollecitamente l’impresa di Bologna nonostante
la deliberazione fatta in corte, e il processo contro a lui formato,
lo quale l’avea più d’ira infiammato e stimolato alla guerra, messer
Galeazzo, o che ’l facesse per cagione del parentado nuovamente fatto
col re di Francia, per lo quale dava la figliuola del re al figliuolo,
e temea che ’l processo di santa Chiesa contro a lui fatto non
l’impedisse, o vero che fosse di consentimento di messer Bernabò, o per
suo proprio movimento, mandò a corte suoi ambasciadori a scusarsi al
papa e a’ cardinali con dire, non intendea nè in segreto, nè in palese
aiutar o favoreggiare il fratello nell’impresa di Bologna, perocchè
egli avea il torto, e che per lui gli era stato contradetto e vietato,
e per tanto domandava d’essere levato de’ processi i quali contro a
lui e messer Bernabò eran formati; affermando non essere colpevole, e
che intendea essere all’ubbidienza di santa Chiesa, e operare quanto
onestamente contro il fratello potesse. La sua scusa fu ammessa,
ove non desse favore a messer Bernabò, e il processo contro a lui fu
sospeso.


CAP. XCIII.

_Come papa Innocenzio levò le riservagioni._

Per lungo spazio di molti anni, cominciando al tempo di papa Giovanni
ventiduesimo, in corte di Roma erano fatte le riserbazioni di tutti i
beneficii cattedrali e collegiali i quali secondo la ragione canonica
riformare si doveano e soleano per i capitoli e collegi delle dette
chiese, e ciò diede ad intendere di fare il detto papa Giovanni per
accogliere moneta e fare il passaggio all’acquisto della Terra santa;
e come uomo sagacissimo e astuto in tutte sue cose, e massime in fare
il danaio, usava questa cautela, che vacando un beneficio di grande
entrata togliea un prelato di più basso beneficio e lo promovea al
maggiore, e un altro di minore beneficio a quello di colui cui avea
promosso al maggiore, e così d’un beneficio vacato in corte cinque o
sei ne facea vacare, avendo i frutti dell’anno, e con grande spendio
di quelli ch’erano promossi; e fece il detto papa tesoro di diciotto
milioni di fiorini in moneta coniata, e più di sei milioni in gioielli.
Il quale ben seppe secondo il mondo Clemente sesto colla contessa di
Torenna, la quale tra le poppe portava le supplicazioni, e aprendo
il seno le porgea al santo padre; il quale in cacciare, e uccellare,
e altri diletti mondani la maggior parte de’ suoi giorni spese. Ed
era la corte tanto corrotta di simonia, che il più per simonia o
per grazia de’ signori temporali e cardinali gl’indegni e scellerati
cherici erano promossi, e i buoni e onesti ributtati, non senza loro
vituperio e vergogna. Per le quali inconvenienze Innocenzio papa mosso
da spirito diritto e buono zelo, in quest’anno 1360, per suo decreto
fatto consiglio, e con volontà del collegio de’ cardinali, levò le
riserbazioni, rilasciando le elezioni e postulazioni delle chiese
cattedrali e collegiate alla grazia dello Spirito santo.


CAP. XCIV.

_Come il re Luigi fece guerra al duca di Durazzo, e ultimamente
s’accordaro._

I processi del regno di Puglia in questi tempi di poca memoria son
degni per i loro lievi movimenti. Il duca di Durazzo sentendosi nemico
del re Luigi, per tema di suo stato accogliea in Puglia gente d’arme
nelle terre sue, e molti gentili uomini napoletani, e di Nido e di
Capovana s’erano ridotti con lui il maggior fratello del re titolato
imperadore di Costantinopoli si tramettea di fare concordia tra loro,
e lo re non volea consentire; e per mostrare quanto la cosa gli era
grave, del mese d’aprile del detto anno con molta gente d’arme in
persona cavalcò in Puglia per guerreggiare messer Luigi di Durazzo,
il quale, com’è detto, apparecchiato s’era alla difesa a suo podere;
il re, per levarli l’aiuto e favore de’ Napoletani, fece comandare a
tutti, i cavalieri di Nido e di Capovana che con lui erano che partire
se ne dovessono altrimenti per ribelli gli avrebbe e traditori della
corona; nè per tanto i gentili uomini non vollono abbandonare il duca,
onde il re gli fece sbandire, e mando a Napoli a fare l’esecuzione
con abbattere loro case; nè il re avrebbe questo potuto fornire, se
non che la reina e pregò e comandò a quelli di Capovana e di Nido che
lasciassono fare la volontà del re, e così fatto fu senza contasto per
reverenza della reina; allora abbattuti furono molti palagi e case di
gentili uomini in Capovana e in Nido, cosa di rado udita e avvenuta in
quella città. Lo re passato il furore si lasciò consigliare, temendo
che tale riotta non fosse cagione d’attrarre gente d’arme nel Regno,
e per mano dell’imperadore fermò la pace col duca; nè pertanto il duca
fidò sua persona nella forza del re, ma il figliuolo d’età di meno di
sette anni mandò a fare l’omaggio al re, a tutto che per li capitoli
della pace ordinato era alla città di Napoli.


CAP. XCV.

_Come messer Niccola gran siniscalco del Regno andò in corte di Roma
per accordare il re con la Chiesa, e fattogli dal papa ciò gli domandò,
e grand’onore, se ne tornò in Lombardia._

Essendo intorno al re Luigi il grande siniscalco il maggiore e il più
ridottato barone, come operare suole l’invidia, comune morte e vizio
delle corti, con false informazioni mosse il re a disdegno contro
messer Niccola. Esso ch’era alla corona fedele, con animo grande
mostrava di non se n’avvedere, e prese cagioni oneste alle sue terre si
riparava, massimamente a Nocea, e provvedeva i fatti suoi. Lo re povero
di savio consiglio per le cose gli occorrevano sovente mandava per lui;
esso preso scusabili cagioni per farlo conoscente ritardava l’andare:
e certo essendo messer Niccola appresso del re niuno de’ baroni osava
alzare il ciglio. E in que’ giorni occorso era che per lo censo debito
alla Chiesa, e non pagato, il Regno era interdetto; il gran siniscalco
avendo voglia d’essere a corte per levarsi dinanzi agl’invidiosi
assalti de’ baroni, e per cercare maggiori cose, alle quali l’animo suo
si dirizzava, e per fare prova di sè, con volontà del re andò a corte
di Roma, ove e dal papa e da’ cardinali fu sopra modo onorato; e in
prima la domenica della rosa il papa commendato di virtù, di nobiltà,
e di valore messer Niccola li diede la Rosa, la quale osava dare al
più nobile uomo che allora si trovasse in corte di Roma, appresso
con lui s’accordò del censo del reame, e levò l’interdetto. Da indi a
pochi giorni il papa di proprio movimento li diede per messer Giovanni
figliuolo di Iacopo di Donato Acciaiuoli suo consorto l’arcivescovado
di Patrasso, essendo i cardinali di più altri solliciti promotori, di
costui nullo intendimento v’era: il papa mostrò come essendo uopo di
braccio secolare al sostenimento di quello beneficio, costui più idoneo
era che un altro per lo consiglio e favore del gran siniscalco, e senza
attendere altra deliberazione, come domandavano i cardinali. d’isso
fatto lo elesse. Di poi di proprio moto del santo padre, l’uficio e
dignità del senato di Roma e tutto esso uficio accomandato fu al detto
messer Niccola a sua vita, e più la rettoria del Patrimonio, e la
contea di Campagna; i quali ufici e rettorie esso messer Niccola per
riverenza del suo signore messer lo re Luigi senza licenza non volle
accettare. E oltre alle predette grazie spontaneamente fatte, molte
petizioni di beneficii il papa liberamente gli segnò, mostrando a tutti
la grande confidenza che nel nobile uomo avea. E avendo messer Niccola
preso licenza del partire dal papa, il papa gli commise ch’andasse
a’ signori di Milano, e con loro cercasse accordo sopra i fatti di
Bologna. Il savio cavaliere per questa sua partita sostenne oneste
cagioni simulando, e intanto ebbe da messer Bernabò perchè altrimenti
nel secreto fare noi volea, pensando non doverne potere avere onore:
partì adunque di corte, e dirizzossi a Milano; quello ne seguì a suo
luogo diremo.


CAP. XCVI.

_Come gli Aretini per baratta ebbono Chiusi e la Rocca._

Essendo Marco di messer Piero Saccone de’ Tarlati in certo trattato col
comune di Firenze di dare delle sue terre al comune per liberare di
prigione e se e’ suoi, la moglie la madre e gli altri suoi fratelli,
con sagacità di chi l’ebbe a conducere, furono messi in altro
trattato, nel quale mostrato fu loro, che se in concordia fossono con
gli Aretini, ove stava il tutto, che i Fiorentini rimarrebbono per
contenti; onde pensando la donna ben fare mossa da questo consiglio, e
per conforto di certi frati minori i quali erano in questo ragionamento
mezzani, non potendo di Chiusi fare a suo senno, che v’era dentro il
figliuolo, si diliberò vogliosamente, come usanza è delle femmine,
di dare Pietramala agli Aretini, con patto che come avessono Chiusi
restituissono Pietramala; e dato Pietramala la donna fè dire al
figliuolo, che se non desse la rocca di Chiusi, come data avea la rocca
di Pietramala così darebbe quella del Caprese, e di tutte altre loro
terre. Il giovane veggendo il male principio, e conoscendo la madre
animosa e costante, diede la rocca di Chiusi agli Aretini, la quale
con sicurtà di stadichi di renderla, se non facessono Marco e gli
altri suoi trarre di prigione, e incontanente alla donna restituirono
Pietramala. Di questa baratta il comune di Firenze concepette non
piccolo sdegno contro agli Aretini, ma non lo dimostrò, aspettando che
essi di loro errore ammendassero, e rendessero al comune di Firenze suo
debito onore; la qual cosa nè vollono nè seppono fare, come col tempo
seguendo nostra scrittura si potrà trovare.


CAP. XCVII.

_Come il conticino da Ghiaggiuolo fu da’ figliuoli propri preso e
vituperevolmente tenuto._

Seguita cosa per sua natura non degna di memoria, ma piuttosto di
perpetuo silenzio: l’esempio crudele, disonesto e abominevole ci
forza a porlo intra gli altri nostri ricordi. Ramberto della casa de’
Malatesti da Rimini detto volgarmente il conticino da Ghìaggiuolo, uomo
assai famoso, essendo nell’età di sessantacinque anni e oltre, avea
della figliuola di Francesco della Faggiuola sua donna due figliuoli,
l’uno per nome Francesco, l’altro Niccolò, giovani costumati e di
gentile aspetto, e che in vista mostravano di più alto animo che non
mostrarono per opera. Costoro essendo col padre in arme al servigio
di santa Chiesa, eziandio contro i consorti loro allora nimici di
santa Chiesa, e contro il capitano di Forlì, presono Santarcangiolo e
altre terre, e le ridussono all’ubbidienza di santa Chiesa, e presono
la guerra contro al capitano di Forlì. In un assalto amendue questi
giovani furono presi; e avendo il conte di Lando con sua gente servito
il capitano, e dovendo da lui avere danari assai, intra gli altri
pagamenti questi due giovani gli furono assegnati in parte di pagamento
per fiorini seimila, ed egli li si prese, seguendo il proverbio, dal
male pagatore o aceto o cercone. Il padre sentendo ch’erano nelle
mani del conte di Lando, e fuori delle mani dell’antico e crudele
nemico capitano di Forlì, con molta sollecitudine e arte cercò di
riscuoterli, e infine pagati fiorini mille cinquecento gli riebbe.
È vero che essendo la madre de’ detti Francesco e Niccolò attempata
e datasi allo spirito, il detto conticino pubblicamente si tenea
in casa un’amica, e di lei avea cinque figliuoli d’assai vezzoso e
gentilesco aspetto, il maggiore d’età di dodici anni. Il conte, ch’era
nell’età che detto avemo, grande affezione mostrava a questi bastardi,
il perchè la loro madre prendea di baldanza più non si convenia; e
pertanto era in uggia e crepore a’ detti Francesco e Niccolò, non di
manco il conte i madornali e loro madre onorava quanto si convenia
teneramente, lasciando a loro madre in dominio la rocca di Ghiaggiuolo
e ’l castello, stimando in suo concetto lasciare di sua masserizia
alcuna cosa a’ bastardi, e il retaggio a’ madornali. Lo giorno di
Pasqua rosata, a dì 23 di maggio, avendo il conte e’ figliuoli desinato
insieme di buona voglia, e stando gran pezza a sollazzare insieme,
e ito il conte a dormire, e poi ritornato a festeggiare con loro, e
stando a vedere loro giuochi, un fedele del conte, fante assai pregiato
e fidatissimo a lui, lo prese di dietro; il conte pensando cianciasse,
com’era usato, niuno riparo prese, e un altro intanto sopraggiunse che
gli levò il coltello dal lato, e alandolo all’altro tenere lo gittarono
in terra; i figliuoli con le funi nelle mani, ne’ piedi con tutta
l’altra persona strettamente il legarono, come si suole di ladroni, e
così legato lo feciono portare, e nella sua propria camera in un fondo
che v’era l’incarcerarono, e sotto buona e fidata guardia il teneano,
e tanto per più giorni lo tennono legato facendolo imboccare e fare gli
altri servigi, che feciono fare una stanga di ferro, e buove, le quali
pesanti fuori d’ordine gli misono in gamba, mettendoli i piedi la notte
ne’ ceppi. La sua femmina detta Rosina nel fiumicello di Chiusercole
con un sasso al collo feciono annegare; i bastardi cacciarono tutti,
i quali con vergogna de’ madornali in piccolo tempo presono cattivo
viaggio. Lo padre facendo sovente di parole schernire, e rimprocciarli
la Rosina e’ suoi bastardi; costui pazientemente tutto portando, e
umilmente spesso domandando misericordia, con volere far ciò che i
figliuoli sapessono divisare, i lor cuori più indurando a giornate,
lungo tempo lo tennono in sì orribile vita. Io ho letto e riletto,
mai tanta crudeltà non trovai ne’ cuori de’ salvatichi barbari, e
non so a quali fiere selvaggie gli potessi assomigliare. I figliuoli
sogliono essere teneri del padre, e di sua gloria e onore; fede ne fa
Valerio Massimo per l’esempio di Manlio, il quale essendo dal padre
villanamente trattato, sentendo che il padre volea essere accusato,
andò alla casa dell’accusatore, il quale graziosamente lo ricevette
pensando che volesse favorare l’accusa contro il padre, il giovane
riduttolo in luogo segreto gli strinse il coltello sopra il capo, e
si fece promettere e giurare si leverebbe dall’accusare: costoro bene
trattati dal padre, senza cagione, che eziandio qualunque leve pena
meritase, lo crucifissono; e pertanto in perpetua infamia di sì fatti
figliuoli scritto l’avemo.


CAP. XCVIII.

_Come si fermò pace dal re d’Inghilterra a’ Franceschi, e’ patti e le
convegne ebbono insieme._

Avendo come nell’addietro narrato avemo lo re d’Inghilterra il verno
tutto e parte della primavera co’ figliuoli e col cugino cavalcato
tutto il reame di Francia senza contasto alcuno, nè però potuto
acquistare alcuna buona terra, ed essendo stati sopra Parigi ad assedio
con niente profittare, standosi a Ciartres, il detto re come savio
e pratico prencipe, pensando e conoscendo i difetti e i pericoli che
sogliono e possono occorrere nelle continuanze delle guerre, vedendosi
il sovrano in arme e nell’onore del reame di Francia, e in caso di
poter prendere suo vantaggio nella pace, si dispose al tutto non volere
più sua fortuna tentare: onde essendo presso a Ciartres a due leghe il
cardinale di Pelagorga e l’abate di Clugnì legati del papa a cercare
la pace tra’ detti due re, lo re d’Inghilterra loro fece sentire,
ch’attenderebbe al trattato della pace cercato per loro dove per lo
governamento e’ reggenti di Francia si dovesse mandare trattatori: li
detti legati ciò inteso di presente mandarono al reggente significando,
che s’attendere volea alla pace cercata per loro per avventura la
potrebbe avere. In questo i detti legati col re d’Inghilterra elessono
per luogo comune una villa detta Beeragnì, la quale è presso a
Ciartres a una lega: lo reggente di Francia per la sua parte mandò il
vescovo di Brevagio, il conte di Trinciavilla, il quale era prigione
degl’Inghilesi, il maliscalco di Francia e più altri signori e prelati,
i quali partirono di Parigi a dì 17 d’aprile, e a dì primo di maggio
quivi co’ detti legati e con loro per la parte del re d’Inghilterra
s’accozzarono, il duca di biancastro, il conte di Norentona, il conte
di Vervich, e ’l conte di Cosmoforte, e altri signori e cavalieri in
numero di ventidue, e a dì 8 di maggio per la grazia di Dio furono
d’accordo, fermando la pace in sostanza nell’infrascritto modo. In
prima che ’l re d’Inghilterra con quello che tenea in Guascogna abbi
per quel modo le tenea il re di Francia l’infrascritte città, contee
e paesi, oltre a quelle che tenea in Ghienna e Guascogna, la città
e castella di Poittiers, e tutta la terra e ’l paese di Poittu, e ’l
fio di Tomers, e la terra di Bellavilla, la città e castello di san
Reose di Santes, e tutte le terre e paesi d’Essa; la città e castella
di Pelagorga con sue terre e paese, la città, castella, terre e paesi
di Limogia, la città, e castella, terre, e paese di Caorsa, la città
e castella, terre e paese di Tarbes; la terra e il paese e la contea
di Bigorece, la città, terre, e paese di Gaure; la città terra e
paesi di Goulogm la città terra e paesi di Rodes, la contrada e paese
di Rovergne: e se v’è alcuno signore come il conte di Foci, il conte
d’Armignacca, il conte dell’Isole, il conte di Pelagorga, il visconte
di Limoggia, o altri che tenghino alcuna cosa de’ detti luoghi e paesi,
fare debbino omaggio al re d’Inghilterra, e tutti altri servigi e
doveri per cagione di loro terre alla maniera che l’hanno fatto nel
tempo passato, e più tutto ciò che il re d’Inghilterra o alcuno di loro
tennono nella villa di Monstreul in sul mare, e più tutta la contea di
Ponthieu, salvo lo alienato per lo re d’Inghilterra ad altri che nel re
di Francia, e salvo se il re di Francia l’avesse in cambio per altre
terre, nel quale caso lo re d’Inghilterra gli dee liberare la terra
data in cambio: e se terre alienate per lo re d’Inghilterra ad altrui,
le quali poi fossono venute nelle mani del re di Francia, lo re di
Francia dare le dee a persone che ne facciano omaggio, e che rispondano
a quello d’Inghilterra. E più deve avere il detto re d’Inghilterra la
villa e castello di Galese, la villa castello e signoria della Marca,
la villa castello e signoria di Sangato, Golognegi, Amegoie con tutte
terre, vie, maresi, riviere, rendite, signorie, case, e chiese, e tutte
appartenenze e luoghi intrachiusi con tutti i loro confini, e più la
villa e tutta intera la contea di Ginis, con tutte le ville terre
e fortezze e diritture di quelle come tenea il conte diretanamente
morto, e come tenea il re di Francia, e di tutte le sopraddette città,
castella e luoghi dee il re d’Inghilterra, e sue rede e successori
liberamente avere tutti gli omaggi, obbedienze, sovranitadi, fii,
diritti, saramenti, riconoscenze, fedeli, servigi, e mero e misto
imperio, e tutte giurisdizioni e alte e basse, e padronaggi di
chiese, e ogni signoria e ogni diritto che per qualunque cagione il
re, la corona di Francia o i reali potessono per alcuna ragione o
colore domandare, tutto s’intenda essere trasferito nel re, corona
d’Inghilterra, e sue rede e successori pienamente e perpetuamente:
e tutti quelli che giurato avessono per dette cagioni nelle mani del
re, o d’alcuno de’ reali, da’ detti saramenti s’intendessono essere
liberi e quitati, rimanendo al re d’Inghilterra come e’ sono appresso
del re di Francia. E tutte dette città, terre castella e luoghi, il
re e la corona d’Inghilterra perpetualmente deve in loro franchigia
tenere, e perpetuale libertà, come signore diritto e sovrano, e come
buono vicino al re di Francia e reame, e senza fare riconoscenza
alcuna alla corona di Francia. E deve il re di Francia dare e pagare
al re d’Inghilterra tre milioni di scudi d’oro, di Filippo gli due, i
quali vagliono un obole d’Inghilterra, de’ quali al re d’Inghilterra,
o a’ suoi commessarii, secentomigliaia quattro mesi appresso che
’l re di Francia sarà in Calese, dove il pagamento far dee; e infra
l’anno prossimo avvenire quattrocento migliaia nella città di Londra,
e ciascuno anno appresso quattrocento migliaia, tanto che compiuti
sieno di pagare i detti tre milioni di scudi. E per osservanza del
detto trattato e predette e infrascritte cose, de’ prigioni presi alla
battaglia di Poittiers devono rimanere per stadichi al re d’Inghilterra
gl’infrascritti, e più ancora degli altri, ciò sono: messer Luigi conte
d’Angiò, messer Gianni conte di Poittiers figliuoli del re di Francia,
il duca d’Orliens fratello del re; e del numero de’ quaranta che ’l
re di Francia dee dare, sedici de’ presi alla battaglia di Poittiers,
i compagni del re di Francia de’ nuovi staggiai nomi sono: il duca di
Borgogna, il conte di Broig o il fratello, il conte d’Alanson o messer
Piero suo fratello, il conte di san Polo, il conte di Ricorti, il
conte di Pomeu, il conte di Valentinese, il conte di Brame, il conte
di Baluldemonte, il visconte di Belmonte, il conte di Foreste, il
sire da Iara, il sire di Fiene, il sire de’ Pratelli, il sire di san
Venante, il signore de’ Culetiers, il Delfino di Daluyernia, il sire
di Angestiem, il sire di Montener, e messer Guglielmo di Raon, messer
Luigi di Ricorti, messer Gianni de’ Lagni. I nomi de’ sedici presi
sono questi: messer Filippo di Francia, il conte d’Eia, il conte di
Largavilla, il conte di Ponthieu, il conte di Trinciavilla, il conte
di Logamb, il conte della Serra, il conte di don Martino, il conte
di Ventado, il conte di Salisbruc, il conte di Vedasme, il signore di
Truoy, il signore di.... il signore de Vali, il maliscalco di Donam,
il sire d’Ambrignì. Dati li detti staggi, e venuto il re di Francia
a Calese, e liberato di sua prigione, infra li tre mesi seguenti lo
re d’Inghilterra dee lasciare libere al re di Francia la villa e la
fortezza della Roccella, le castella e ville della contea d’Agenes e
loro appartenenze, e il re di Francia tre mesi appresso che partito
sarà da Calese dee rendere in Calese quattro persone della villa di
Parigi, e due persone di ciascuna villa, ciò sono; Santo Omer, Aranzon,
Amiens, Belvaggio, Lilla, Tornai, Doaggio, Long, Rems, Celona, Tors,
Ciartres, Tolosa, Lione, Campigno, Roano, Camo, Trasiborgo de’ più
sufficienti di dette ville per compimento del trattato. E dee il detto
re di Francia e suo primogenito rinunziare ogni diritto e sovranità,
e ogni ragione che sopra e nelle città, castella e luoghi potessono
usare come vicini, senza appello o quistione per sovranità per lo detto
re e reame di Francia, o avere potesse, sopra le dette contee, città,
castella, terre, e luoghi, o loro appartenenze, le cede e doni al re
d’Inghilterra perpetualmente. E lo re d’Inghilterra e suo primogenito
debbono rinunziare al nome e diritto della corona di Francia, e
all’omaggio, sovranità e dominio della duchea di Normandia, della
duchea di Torenna, della contea d’Arom, e al dominio, sovranità, e
omaggio del ducato di Retognac, e alla sovranità e omaggio della contea
di Fiandra, e di tutte altre cose appartenenti alla corona di Francia,
salvo delle dette contee, città, castella, ville, e luoghi suddetti,
che pervenire debbono al re e corona d’Inghilterra; e dee lo detto
re d’Inghilterra cedere e trasportare nella corona di Francia ogni
ragione somma ove potesse avere. E sì tosto il re d’Inghilterra e suo
primogenito ciò debbono fare, come il re di Francia le città, ville,
castella, e luoghi che il re di Francia tiene delle sue nominate sopra
quelle tiene il re d’Inghilterra avrà date, e consegnate liberamente
al detto re d’Inghilterra, o suoi commessarii, le quali son queste;
la città di Poittiers, e tutta la terra e paese di Poittu, con essa
il fio di Toraci, e la terra di Bellavilla, la città di Gem, la terra
e’ paesi d’Agenes, la città di Pelagorga, la città di Caorsa, la città
di Limoggia, tutta la contea di Gavera con tutte loro castella, terre
e paese. E ciò far dee il re di Francia per infino alla festa di san
Giovanni Batista; e ciò fatto, subitamente appresso, davanti a quelli
che per lo re di Francia a ciò saranno diputati, lo re d’Inghilterra e
suo primogenito debbono rinunziare al reame di Francia, come detto è di
sopra, e farne trasporto, cedizione e lasciamento per fede e saramento
solennemente, e con lettere patenti aperte e suggellate del suggello
reale, le quali lo detto re mandare dee nella natività di nostra
Donna prossima avvenire nella chiesa degli agostini di Bruggia, le
quali devono essere date a quelli i quali il re di Francia vi mandasse
per riceverle. E se nel termine di san Giovanni Batista il detto re
di Francia non potesse dare o consegnare al detto re d’Inghilterra,
o suoi commessarii a ciò deputati, le sopraddette città, castella,
ville i terre, e luoghi, le possa e debba dare e consegnare infra il
termine di tutti i Santi prossimi avvenire a un anno, e fatto ciò,
dee lo re d’Inghilterra infra il termine di sant’Andrea prossimo
seguente fare le dette renunzie, mandare e presentare a Bruggia, come
è detto di sopra. E per simile modo è tenuto e dee lo re di Francia
e suo primogenito renunziare, trasportare e cedere ogni loro ragione
della corona di Francia quali avessono sopra delle città, castella,
ville, e terre, e luoghi, che per vigore del presente trattato aver
dee lo re d’Inghilterra, e quelle mandare al suddetto termine al
luogo degli agostini, dove dare si debbono al re d’Inghilterra, o a’
suoi commessarii a ciò deputati. Nè si dee il re di Francia nè sua
gente armare contro al re d’Inghilterra infino a tanto che fornito
sia, e mandato pienamente ad esecuzione ciò che nel trattato della
pace si contiene e specificato è: e più che durante il detto tempo e
termine nel quale lo re di Francia dee dare e consegnare le suddette
città, castella, ville, terre, e luoghi, il detto re di Francia e suo
primogenito non possano nè debbano in essi usare sovranità o servigio,
nè domandare alcuna soggezione, nè querele, nè appellagioni in loro
corpi ricevere, nè lo re d’Inghilterra si dee nè procedere nè per
altro modo in esse intromettere, nè niente travagliare. Si terminò, e
tal fine ebbe la lunga guerra per spazio di ventiquattro anni o circa
menata tra gli detti due re, con inestimabile e incredibile danno
di persone e di avere degli detti due re e reami, e loro aderenti e
seguaci, e sì de’ mercatanti che praticavano i detti due reami. So che
mi potea con meno scrittura passare, ma fatto son lungo per mostrare
alle genti a quanta viltà venne per allora la corona di Francia. E qui
faremo piccolo tramezzamento d’alcune cose occorse fuori della presente
materia, acciocchè l’animo e l’intelletto faticato sopra una materia,
e quindi avendo preso fastidio, abbi per nuovo cibo ricreazione, e
torneremo alle italiane fortune.


CAP. XCIX.

_D’un trattato si scoperse in Bologna, e quello ne seguì._

Essendo alcuni cittadini bolognesi con alquanti forestieri in trattato
co’ capitani dell’oste del Biscione, con impromessa di dare loro
una porta se si appressassero alla città, l’oste subito si mosse, e
venne a Panicale presso a Bologna a due miglia, il perchè i Bolognesi
spaventati ebbono gran paura, onde dì e notte stando in sollecita
guardia sagacemente de’ sospetti cercavano, i quali nel mormorio del
popolo brogliavano. I traditori veggendo che loro malvagia intenzione
ad esecuzione non poteano mandare, e che loro malizia si venia a
scoprire, la notte i più presono consiglio, e si collarono a terra
delle mura, massimamente i caporali; degli altri alquanti presi
ne furono, e messi al macello. Vedendo caporali dell’oste che loro
pensiere venia fallato, e che dov’erano gran soffratta di vittuaglia
sentivano, del mese di giugno si ritrassono addietro, e tornarsi a
Castelfranco; onde dilungati da Bologna miglia ventuno, essendo il
tempo del mietere, tutti i Bolognesi, eziandio quelli che usi non erano
di sì fatto servigio, sollecitamente puosono mano alla falce, e quello
segavano, o grano o biada che fosse, con la paglia con sollecitudine a
guisa delle formiche riponeano nella città. Gl’inimici in questi giorni
soprastettono assai senza fare loro cavalcate, o per disagio che patito
avessono, o perchè attendessono loro paghe, o perchè fossono contenti
che i Bolognesi facessono la state perchè più si mantenesse la guerra,
o perchè per pecunia fossono corrotti, che più credibile fu; e certo i
Bolognesi non furono lenti, ma in pochi dì misono dentro roba da vivere
per un anno, che gran conforto fu a’ poveri lavoratori, e a tutta la
città.


CAP. C.

_Come il papa confortò gli ambasciadori bolognesi, e richiese d’aiuto i
Fiorentini all’impresa di Bologna._

Il papa avea a grande onore e con paternale accoglienza ricevuti
gli ambasciadori bolognesi, e inteso quello che esposto aveano, con
amorevoli e persuasive parole riconfortò, con affermare che sarebbono
dal tiranno di Milano difesi. È vero che mandato avea un piccolo
sussidio di camera al legato, il quale fu prima logoro e stribuito che
al legato giugnesse. A principi d’Alamagna, al re d’Ungheria, ai comuni
di Toscana mandato avea per aiuto la Chiesa di Roma, e per lo generale
de’ romitani, il quale il papa avea per ambasciadore mandato a Firenze,
forte strinse esso comune che in servigio di santa Chiesa facesse
l’impresa della difesa di Bologna, mostrando con colorate ragioni che
atare santa Chiesa, quando seco ha la ragione e la giustizia, contro
al tiranno usurpatore, occupatore della libertà di santa Chiesa e
degli altri popoli che a libertà vogliono vivere, non era fare contro
la pace, e che più utile e fidata vicino era al comune di Firenze la
Chiesa di Dio che messer Bernabò, e più altre ragioni rettoricamente
dicendo, per le quali dimostrava che ’l comune potea e dovea servire
santa Chiesa, e massimamente per conservare in libertà i loro fratelli
Bolognesi, ma poco gli valse a questa volta sonare la campanella, che
’l comune di Firenze, usato di mantenere sua fede e lealtà, a questa
volta chiuse gli orecchi. Così avesse fatto per l’addietro, e per
l’innanzi facesse, perocchè quando per lo passato ha fatte l’alte e
grandi imprese, per i governatori della Chiesa di Roma addosso gli sono
rimase a strigare; e quando il comune ha avuto bisogno, la Chiesa l’ha
al tutto abbandonato, in grave pericolo di suo stato; ora il comune
a questa volta stette fermo e costante a non imprendere cose nè per
diretto nè per indiretto, che la pace potessono maculare. I principi
d’Alamagna e il re d’Ungheria non furono alla richiesta correnti,
vogliendo con capo di ragione gravemente procedere sicchè la riuscita
vergognosa non fosse, considerata la potenza del signore di Milano.
Dipoi del mese di giugno passarono per Firenze gli ambasciadori del re
d’Ungheria, i quali andavano al santo padre, e da loro s’ebbe che ’l
re avea desti suoi baroni e gente, per averla in punto se bisognasse.
Il legato per sodisfare alla guardia di Bologna ha premuto e preme
di sussidio di pecunia la Marca, il Ducato e la Romagna, sicchè nè
hanno potuto nè possono dormire; e in que’ giorni il legato mandò in
Bologna messer Galeotto de’ Malatesti capitano della gente dell’arme,
aspettando il gran siniscalco il quale in que’ dì tornare dovea dal
signore di Milano con trattato d’accordo; e così i Bolognesi mal
guidati e peggio trattati stavano in forse ora d’accordo ora di guerra:
la gente del legato guardavano la terra, e i nimici di fuori aveano il
campo in balía.


CAP. CI.

_Come i Chiaravallesi vennero contro a Todi, e come furono rotti e
presi._

I Chiaravallesi di Todi aveano menato trattato con certi loro amici
d’entro per rientrare in casa loro, ed era il trattato, ch’e’ doveano
avere il castello che si chiama la Pietra; e venuto il tempo, a dì
10 di giugno mandaro per lo castello, e loro dato fu. Fatto questo
principio con quaranta uomini da cavallo e con gran popolo si
dirizzarono a Todi, con speranza che i cittadini fossono intrigati e
disordinati per la subita ribellione del castello, e che i loro amici
d’entro avessono più baldanza a metterli dentro; avvenne, che desto
il popolo per la perdita della Pietra di presente fu sotto l’arme,
e quelli del cardinale, i quali allora governavano quella città,
de’ quali era il sovrano messer Catalano, sentendo l’avvenimento
de’ Chiaravallesi lasciarono le porti con buone guardie, e con loro
seguaci a piè e a cavallo francamente si misono fuori a petto ai loro
avversari, i quali veggendo la moltitudine del popolo venire con furia
contro a loro, impauriti si misono alla fuga, e il popolo a seguitarli,
uccidendo cui giugnere poteano; e rotti e straccati i Chiaravallesi,
che mattamente s’erano messi innanzi, il popolo con quell’empito
furioso se n’andò al castello e riebbelo, con gran danno di quelli che
v’erano entrati; e tornati in Todi si riposavo, non trovando di loro
cittadini d’entro alcuno sospetto.


CAP. CII.

_Come l’oste di messer Bernabò si strinse a Bologna, e fermaronvi
bastite._

Essendo soggiornata la gente di messer Bernabò a Castelfranco, e preso
suo rinfrescamento a utilità de’ Bolognesi come dinanzi è detto,
inverso l’uscita di giugno cavalcaro verso Bologna facendo danno
d’arsione più che non erano usati, e puosonsi presso a un miglio fuori
della porta di santo Stefano, e feciono nuove bastite, e altrove per
tenere più stretta la terra e d’intorno la cavalcarono, sicchè la gente
si ritenne dell’andare fuori più che non solea, e quando uscivano
da lunga dell’oste, ciò faceano con scorta de’ cavalieri d’entro, e
recavano della roba, ma non al modo usato, nè senza grande pericolo
delle persone.


CAP. CIII.

_Come la casa reale di Francia feciono parentado co’ Visconti per
danari, con vituperio della corona._

La fortuna, maestra e donna delle mondane delizie, senza torre più
lontano esempio de’ suoi straboccamenti, ce n’adduce nel presente
a narrare uno, lo quale senza stupore di mente chi diritto vorrà
giudicare nè porre si può in scrittura nè leggere. Chi arebbe per lo
passato, considerato la grandezza della corona di Francia, potuto
immaginare, che per gli assalti del piccolo re d’Inghilterra in
comparazione del re di Francia fosse a tanto ridotta, che quasi
com’all’incanto la propria carne vendesse, la qual cosa è nel cospetto
de’ cristiani ammirabile specchio e certissimo dell’infelicità degli
stati mondani. E per più mostrare la grandezza di questa misera
fortuna, torneremo un poco addietro all’origine del presente stocco
regale della casa di Francia. Giovanni lo Sventurato re di Francia
ebbe per moglie la figlia del re di Boemia nata d’Ottachero, e
sorella carnale di Carlo imperadore de’ Romani, della quale avea tre
figliuoli maschi e tre femmine, delle quali l’una era consegrata a
Dio nel nobile e ricco monistero di Puscì, l’altra era donna del re di
Navarra, la terza nome Elisabetta era la donna del re di Francia: ora
esso Giovanni, per soddisfare ai secento migliaia di scudi promessi
di pagare in Calese al re d’Inghilterra per i patti della pace, si
condusse a vendere al tiranno di Milano messer Galeazzo Visconti per
secento migliaia di fiorini la figliuola per giugnerla in matrimonio
con messer Giovanni figliuolo di messer Galeazzo, allora d’età d’undici
anni, lo quale per lo titolo della dote titolato fu conte di Virtù. Il
modo fu questo, che essendo il re di Francia prigione in Inghilterra
del mese di giugno detto anno, e occorrendoli spese molte, e più
avere a pagare i detti secento migliaia di scudi, e trovandosi male
in apparecchio a ciò potere fare, la detta sua figliuola consentì
mogliera del detto messer Giovanni, avendo in dono da messer Galeazzo
trecento migliaia di fiorini d’oro, e comperando nel reame di Francia
dal re baronaggi in nome di dota della detta fanciulla di valuta di
trecento migliaia di fiorini: e ciò fu accecamento, che il re ricevuti
i danari gli diè la piccolissima contea di Vergiù, tutto che di
Virtù volgarmente si titolasse, per coprire la miseria della povera
contea. Lo re di Francia per la detta convegna promise, che avuti
i trecento migliaia di fiorini al mezzo di settembre di detto anno
farebbe la figliuola conducere in Savoia, e ivi la farebbe assegnare
al piacimento di messer Galeazzo. Fermate e stipulate solennemente
le dette convegne tra il re e messer Galeazzo, parendo a’ signori di
Milano avere fatto, quello ch’aveano fatto magnificandosi, mandarono
per tutta Italia ambasciadori a significare il fatto, e a invitare
baroni, signori e comuni che venissono e mandassono alla loro corte e
festa; e cominciarono a ricogliere gioielli, pietre preziose, sciamiti,
drappi, quanti in Italia avere ne poterono, facendo di tutto pomposo
apparecchiamento. Giunta la fanciulla in Savoia, messer Galeazzo con
l’ordine si convenia mandò per lei, e giunta in Milano a dì 8 del mese
d’ottobre, la fanciulla in abito e atto regale si contenne, ricevendo
riverenza e da’ signori e da loro donne, ma il drappo sopra capo non
sofferse, e così stette infino che fu sposata; e da quel punto innanzi
posto in oblio la reale dignità e nobiltà di sangue, reverenza fece e
a messer Galeazzo, e a messer Bernabò, e alle donne loro. Il corredo
cominciò la domenica a dì 11 d’ottobre. con apparecchiamento di molte
vivande alla lombarda, di per sè ordinate le donne in numero di secento
riccamente ornate, e magnificamente servite, e gli uomini dall’altra
parte, essendo gli ambasciadori de’ signori, de’ tiranni, e de’ comuni
in numero di più di mille alle prime tavole servite di tre vivande
copiosamente. La festa durò per tre giorni, facendo nel cortile di
messer Galeazzo del continovo giostre a tre arringhi, e le donne ne’
casamenti d’intorno erano ordinate e alloggiate a vedere; le burbanze
furono grandi di sopravveste e cimieri, tale venne in figura del re
di Francia, tale del re d’Inghilterra, e così degli altri re, duchi
e signori, perchè la festa più onorevole fosse, tutto che valentria
d’arme poco o niente vi si facesse da doverlo pregiare; altre notabili
cose non vi furono; nell’ultimo messer Bernabò fece il convito suo, e
fu fornita la festa. È vero che lungamente dinanzi essendovi giunti gli
ambasciadori italiani tutti onorati furono, e fatte loro larghe spese
da’ signori con sollecita provvedenza. Messer Giovanni era d’età di
dieci anni, il perchè il matrimonio non si potè consumare in questo.
Alquanto avemo il tempo passato per ricogliere insieme la storia di
questo matrimonio, ora torneremo addietro a più spaventevol volto delle
miserie mondane in nostra materia.


CAP. CIV.

_Come messer Niccolò di Cesaro conte di ... e signore di Messina fu
morto con quaranta compagni._

Nel mese di luglio detto anno, essendo messer Niccolò di Cesaro conte
di .... tornato in Messina, e senza avere avuto dal re Luigi aiuto col
quale potesse con la parte avversa campeggiare, perocchè i Catalani
liberamente scorreano il piano tra Messina e Melazzo, e aveano prese
parecchie castella, temendo messer Niccolò non prendessono il buono
e forte castello di santa Lucia, vi cavalcò con quaranta compagni a
cavallo per ordinare la guardia e la difesa che avessono a fare quelli
del castello, e per confortarli del soccorso se bisogno loro fosse. Gli
uomini del castello che vedeano l’altra parte poderosa e in campo, e
che essendo ito messer Niccolò al re Luigi per aiuto non avea menato
forza da poterli difendere, cominciarono a turbarsi contra lui, e
tanto montò il bestial furore de’ villani, ch’egli co’ suoi compagni
si rinchiuse nella rocca; i villani perseverando il loro mal talento
mandarono per i Catalani che vi erano presso, e dieronsi a loro; e in
esso stante i Catalani mandarono seicento cavalieri e popolo assai con
quelli del castello, e assediarono la rocca, la quale per lo subito
e sprovveduto caso male era fornita, in tanto che messer Niccolò fu
costretto da cercare patti d’arrendersi, e così fè salve le persone:
e avendo renduta la rocca fu menato con i suoi compagni a Melazzo,
e loro detto fu, che se voleano campare facessono sì, che quelli di
Melazzo s’arrendessero loro. Messer Niccolò vedendo nelle mani di cui
era, e il partito duro, giudicossi morto, non di manco come valente
si mise a tentare se potesse la morte fuggire, e con umili e dolci
parole quanto potè pregò quelli di Melazzo, che per lo scampo suo e de’
compagni volessero assentire alla volontà de’ Catalani, ma essi se ne
feciono beffe, e la risposta feciono colle balestra; onde i Catalani
intralasciata, loro promessa fè, senza alcuna pietà o misericordia
davanti a Melazzo e messer Niccolò e tutti i suoi compagni tagliarono a
pezzi. Tale fu il fine della breve tirannia di messer Niccola di Cesaro
signore di Messina. I Messinesi per la morte di messer Niccolò e de’
compagni scorta la bestiale crudeltà de’ Catalani, e visto che non si
poteano confidare, come meglio seppono e poterono s’ordinarono alla
difesa, aspettando a tempo dal re Luigi qualche soccorso.


CAP. CV.

_Come fornito il trattato della pace tra i due re si fè triegua, e
giurossi l’una e l’altra, e lo re d’Inghilterra si tornò nell’isola per
mandare a esecuzione le cose ordinate._

Fermato a Briagnì il trattato della pace tra i due re di Francia
e d’Inghilterra, perchè parea che l’esecuzione d’essa avesse lungo
tratto di tempo, feciono ivi medesimo una triegua, perchè ogni radice
e materia di guerra cessasse. E ciò fatto, il re d’Inghilterra mandò
a Parigi messer Rinaldo di Cubano, messer Bartolommeo Durvasso, messer
Francesco Dalla, e messer Ricciardo della Vacca suoi baroni, nella cui
presenza il Delfino di Vienna e duca di Normandia, primogenito del re
di Francia e governatore del reame, in sul corpo di Cristo sagrato, e
in su li santi Evangeli giurò d’attendere e osservare la detta triegua
e la pace, e che la farebbe attendere e osservare; appresso lui simile
fecero tutti i baroni di Francia che si trovarono in Parigi; e ciò
fatto, i detti baroni del re d’Inghilterra si tornarono a Ciartres
al re d’Inghilterra. I figliuoli del re d’Inghilterra e lo conte di
Lancastro feciono simile giuramento a quello del Delfino di Vienna, e
appresso i baroni del re d’Inghilterra che col re si trovarono giuraro
come fatto aveano quelli di Francia: e ciò fatto fu a dì 11 del mese
di maggio 1360. Le promesse fatte ne’ detti giuramenti furono, che li
due re infra tre settimane dopo il prossimo san Giovanni giurerebbono
la detta pace in Calese. La detta triegua bandita fu a dì 12 di maggio
in Parigi, e appresso per tutto il reame. Fatto il saramento, agli
11 dì il re d’Inghilterra con tutto suo oste pacificamente si partì
da Ciartres passando per Normandia, e prendendo derrata per danaio, e
col prence suo figliuolo, e con gli altri suoi baroni entrò in mare a
......, e passò in Inghilterra, e tutta sua’ gente d’arme pacificamente
si ridusse a Calese. Giunto il re d’Inghilterra, quello di Francia gli
diè desinare nella torre di Londra, e quivi per loro fede giurarono
di tenere e osservare il trattato di pace; appresso a dì 8 di luglio
il re di Francia venne a Calese, e a dì 9 detto il re d’Inghilterra
il re di Francia lui e ’l figliuolo convitò a mangiare, e in quella
mattina lo re di Francia fermò l’accordo tra il re d’Inghilterra e
’l conte di Fiandra, e il detto conte andò a Calese, e da ciascuno re
lietamente fu ricevuto. Poi a dì 14 di luglio, Carlo primogenito del
re di Francia, duca di Normandia, e Delfino di Vienna, e governatore
di Francia, da Bologna sul mare andò a Calese a vedere il padre, e
desinò col re d’Inghilterra, l’altra mattina si partì. È vero che
perchè non dubitasse lo re d’Inghilterra mandò a Bologna due figliuoli
come staggi; poi sabato mattina a dì 24 di luglio, l’abate di Clugnì
nella Chiesa di san Niccolò in Calese, nella presenza de’ detti
due re e di due figliuoli di ciascuno, e di più di sessanta baroni
tra dell’uno e dell’altro re, disse messa, e consegrato il corpo di
Cristo, quando venne al terzo Agnus Dei che dice, dona nobis pacem,
li detti due re si inginocchiarono con molta reverenza; l’abate si
rivolse a loro col corpo di Cristo sagrato in mano, sopra il quale i
due re giurarono d’attendere e osservare il trattato della pace, poi
di quella detta ostia si comunicarono insieme. Appresso l’abate loro
porse li santi Evangeli, e ancora sopra essi giurarono; giurato che
ebbono i due re, similemente giurarono i loro figliuoli, e tutti i
loro baroni che erano quivi nel numero detto di sopra. Detta la messa,
messer Filippo di Navarra con tre baroni per parte del re di Navarra,
e il duca d’Orliens fratello del re di Francia con tre altri baroni
feciono e giurarono pace in vece e nome del re loro. Appresso il re
d’Inghilterra fece pace col conte di Fiandra, e il duca di Lancastro
cugino del re d’Inghilterra fece omaggio al re di Francia per le terre
che da lui tenea in Campagna per retaggio della madre; e in questo
stante la contea di Monforte fu renduta a messer Gianni di Brettagna.
Lo re di Francia per mostrare sua magnificenza, sopra i patti della
pace di grato donò al re d’Inghilterra la Roccella. Fu la detta pace
gridata ne’ due reami a dì 24 d’ottobre 1360. Lo re d’Inghilterra
dove in suo titolo dicea, re di Francia e d’Inghilterra, signore
d’Irlanda e d’Aquitania, del detto titolo levò re di Francia, ma non
rinunziò perciò alla signoria di Francia, perchè lo re di Francia
non avea rinunziato alla sovranità e risorto delle città e castella,
terre e cose le quali per l’osservanza della pace avea concedute al re
d’Inghilterra, ma bene l’avea tratte della sorte della città, castella
e luoghi al suo reame debiti e sottoposti; e certo per li patti
rinunziare dovea, ricevute certe terre dal re d’Inghilterra: e ciò
consentendo li due re, parvono per grandezza d’animo in tacito accordo.
Lo re di Francia, lo quale era stato prigione d’Inghilterra anni
quattro e dì venticinque, pagati li secento migliaia di scudi, e con la
buona volontà del re d’Inghilterra se n’andò a Bologna sul mare, e di
là poi a santo Dionigi. Lo re d’Inghilterra di poi a dì 31 di gennaio
partì da Calese, e seco ne menò il duca d’Angiò e quello di Berrì
figliuoli del re di Francia, e il duca d’Orliens, e quello di Borbona,
messer Piero di Lanzone, e ’l fratello del conte di Stapè, tutti de’
reali di Francia, con tutti gli altri baroni e quelli che scrivemo di
sopra che dovea staggi tenere. Lo re di Francia essendo a san Dionigi,
avanti ch’entrasse in Parigi, a dì 2 di dicembre mandò al re di Navarra
che venisse a lui, e perchè sicuramente venisse, gli mandò sofficienti
stadichi. Lo re di Navarra non gli parendo avere misfatto alla corona
liberamente insieme con gli staggi che ’l re gli avea mandati venne
a lui, e giuntò gli fè la debita riverenza, e dipoi appresso giurò in
sul corpo di Cristo sagrato nella presenza del re, che da quel giorno
innanzi gli sarebbe buono e leale figliuolo, e fedele suggetto. Lo
re di Francia appresso giurò che a lui sarebbe buon padre e signore:
seguendo appresso il duca di Normandia e messer Filippo di Navarra
giurarono fedelmente diritta amistà e fratellanza; e più il detto re di
Navarra promise e giurò di fare a suo podere che ’l re d’Inghilterra
la pace conchiusa a Briagnì osserverebbe. Il seguente dì, che fu il
tredecimo dì di dicembre, lo re di Francia entrò in Parigi, dove a
grande onore fu ricevuto, e donato dalla comune vasellamento d’argento
appresso di mille marchi. Lo re riposato, ordine diede a dirizzare e
sè e il reame regolandosi a minori spese, e fè battere moneta a soldi
sedici il franco.


CAP. CVI.

_Come tre castella si rubellarono nella Marca al legato._

Scritto avemo il fine della lunga guerra delli due re di Francia e
d’Inghilterra, tornando alle italiane tempeste ne occorre, che essendo
l’oste di messer Bernabò a Bologna, continovo facea tenere trattati in
Romagna e nella Marca, e li paesani per le disordinate gravezze che
il legato faceva loro si rammaricavano forte, onde a coloro ch’erano
disposti a mal fare ne cresceva baldanza; e però a petizione di
quelli da Boschereto, aspettando forza da messer Bernabò secondo la
promessa, ribellarono in un dì all’uscita di luglio il loro castello di
Boschereto, e Corinalto e Montenuovo, in loro vicinanza, terre forti e
ubertuose d’ogni bene da vivere. Il legato sentendo questa ribellione,
incontanente vi fece cavalcare messer Galeotto de’ Malatesti con
gente assai a piè e a cavallo, e innanzi che quelli di Corinalto si
potessono provvedere alla difesa furono soprappresi in pochi dì per
modo s’arrenderono, e salvate le persone, il castello fu rubato e
arso. L’altre due ch’erano più forti e meglio ordinate alla difesa
ricevettono l’assedio, aspettando soccorso dall’oste di messer Bernabò.


CAP. CVII.

_Come mortalità dell’anguinaia ricominciò in diverse parti del mondo._

Non è da lasciare in obliazione la moría mirabile dell’anguinaia in
quest’anno ricominciata, simile a quella che principio ebbe nel 1348
infino nel 1350, come narrammo nel cominciamento del primo libro di
questo nostro trattato. Questa pestilenza ricominciò del mese di maggio
in Fiandra, che di largo il terzo de’ cittadini e oltra morirono,
offendendo più il minuto popolo e povera gente che a’ mezzani, maggiori
e forestieri, che pochi ne perirono, e durovvi infino all’uscita
d’ottobre del detto anno, e così seguitò per l’altra Fiandra. In
Brabante toccò poco, e così in Piccardia, ma nel vescovado di Lieges
fè spaventevole dammaggio, perocchè la metà de’ viventi periro. Di
poi si venne stendendo nella bassa Alamagna toccando non generalmente
ogni terra, ma quasi quelle dove prima non avea gravate, e valicò nel
Frioli e nella Schiavonia; e fu di quella medesima infertà d’enfiatura
d’anguinaia e sotto il ditello come la prima generale, e sì era passato
dal tempo di quella e suo cominciamento a quello di questa per spazio
di quattordici anni, e anni dieci della fine di quella a questa,
essendo alcuna volta tra questo tempo ritocca ora in uno ora in altro
luogo, ma non grande come questo anno, certificando gli uomini correnti
nel male che la mano di Dio non è stanca nè limitata da costellazioni
nè da fisiche ragioni. Addivenne nel Frioli e in Ungheria, che la moría
cominciata in enfiatura tornò in uscimento di sangue, e poi si convertì
in febbre, e molti febbricosi farnetici, ballando e cantando morivano.
E in questi tempi occorse cosa assai degna di nota, che in Pollonia,
nelle parti confinanti con le terre dell’imperio, essendo in esse
grandissima quantità di Giudei, i paesani cominciarono a mormorare,
dicendo, che questa pestilenza loro venia per i Giudei; onde i Giudei
temendo mandarono al re de’ loro anziani a chiederli misericordia, e
fecionli gran doni di moneta, e d’una corona di smisurata valuta; lo re
conservare gli volea, ma i popoli furiosi non si poterono quietare, ma
correndo straboccatamente tra’ Giudei, e quasi a ultima consumazione,
con ferro e fuoco oltre a diecimila Giudei spensono, e alla camera del
re tutti i loro beni furono incorporati.


CAP. CVIII.

_Come il comune di Firenze prese Montecarelli e Montevivagni, e in essi
preso il conte Tano, venuto a Firenze fu decapitato._

Essendo il conte Tano de’ conti Alberti per i suoi difetti e prave
operazioni nemico al comune di Firenze, massimamente per l’accostarsi
che fè con l’arcivescovo di Milano, in cui favore, (quando la gente
del detto arcivescovo, essendone capitano messer Giovanni da Oleggio,
passò in Mugello, e assediò la Scarperia) ribellò il castello di
Montecarelli, caldeggiando l’oste ch’era alla Scarperia, di questa
impresa ne piace dire alcuna piacevole e notabile ricordanza; che
essendo appresso del detto conte un matto giocolaro, un giorno si mise
in un fossato che dividea il contado del conte da quello del comune
di Firenze, e quivi come assalito ad alta boce cominciò a gridare per
molte riprese, accorri uomo, alle cui grida trassono in breve tempo
oltre a cinquecento fanti del contado del comune di Firenze, i quali
per le malizie del conte stavano sempre ad orecchi levati, e simile vi
trasse il conte, e riprese il matto, ed esso riprese lui, dicendoli:
Conte, guarda che a un mio piccolo grido subito sono corsi cinquecento
uomini di quello del comune di Firenze, e niuno tratto ce n’è di quelli
dell’arcivescovo di Milano: in buona fè, conte, tu sonerai il corno
d’Orlando, e in tuo aiuto e favore non trarranno cinque di quelli di
Milano in un anno. Lo detto conte bestiale, o per paura ch’avesse
del comune di Firenze, o per averlo a vile, gli sbanditi del detto
comune ritenea, e coloro ch’erano più rei e famosi di mal fare; per
questo avvenne, che a loro posta entravano nel Mugello, e gli uomini
uccideano e rubavano, e rifuggeano in Montecarelli, e ciò feciono
sconciamente più volte; il perchè il comune ciò fè noto all’arcivescovo
di Milano, il quale rispuose ch’era contro a sua coscienza, e ch’esso
non era favoreggiatore di ladroni, e che il comune di Firenze facesse
quello volesse giustizia e pace del paese; il perchè il comune con
ordinato processo fè sbandire e condannare il detto conte e più altri
nell’avere e nella persona, nonostante che per la pace dal comune
di Firenze all’arcivescovo costui da’ Fiorentini non dovesse essere
gravato. Quivi procedette, che a dì 12 d’agosto detto anno, il comune
di Firenze mandò dugento uomini di cavallo e molti fanti del Mugello
a Montecarelli, avendo trattato con fedeli del conte che il castello
sarebbe dato. Il conte Tano veggendo gli atti de’ fedeli, e di quelli
prendendo sospetto, s’era rifuggito co’ masnadieri che seco avea, e con
gli sbanditi del comune di Firenze in Montevivagni. Come il castello
di Montecarelli fu attorniato dalla gente del comune di Firenze, i
fedeli del conte che l’aveano in guardia seguendo il trattato di subito
s’arrenderono salvi, ricevuti furono nella protezione del comune.
Il castello per diliberazione del comune infino alle fondamenta fu
abbattuto, e il capitano di Firenze fatto capitano dell’oste si dirizzò
all’assedio di Montevivagni; ed essendosi il conte provveduto alla
difesa, per gli suoi sconci peccati perdè il senno a non prendere
accordo col comune di Firenze, che ’l potè avere a vantaggio, solo
dando le ragioni del detto Montevivagni al comune di Firenze, e
prendendo danari, anzi si mise mattamente alla difesa; il capitano
dell’oste gli tolse per forza un poggetto nomato l’Arcivescovo, e ciò
avuto, d’intorno intorno l’assediò infino a dì 8 di settembre. Questo
dì vi cominciò a dare la battaglia, e combattendosi forte, quelli
ch’aveano la guardia della torre domandarono d’essere salvi come
gli altri fedeli del conte, e fatto loro la promessa, cominciarono a
dare delle pietre a’ masnadieri e sbanditi ch’erano alla difesa delle
mura col conte, e per forza gliene levarono; onde il conte con suoi
malfattori fu costretto arrendersi alla misericordia del comune di
Firenze. Fuvvi preso il conte con uno degli Ubaldini, e con quattordici
caporali sbanditi del comune di Firenze, e lasciati liberi i fedeli. Il
conte con i predetti vennono legati dinanzi al potestà e capitano, che
con gran festa fu ricevuto, assai maggiore non si convenia a sì piccolo
fatto. Poi a dì 14 di settembre, il dì di santa Croce, il detto conte
Tano per lo bando che avea fu dicapitato, e seppellito in santa Croce
dirimpetto alla cappella di santo Lodovico a piè delle scalee, quasi
nel mezzo; quello degli Ubaldini a richiesta de’ suoi consorti fu loro
renduto. Gli sbanditi furono tranati e appesi vilmente. Tale fu il fine
della spelonca di Montecarelli, e del suo conte Tano e sua corrotta
fede, in non lieve esempio degli altri vicini del comune di Firenze.


CAP. CIX.

_Come in Francia si cominciò compagnia denominata bianca._

Nella concordia presa degli due re di Francia e d’Inghilterra, della
quale s’attendea certa fine di buona pace, essendo il re d’Inghilterra
co’ figliuoli e con l’oste sua tornato nell’isola, molti cavalieri e
arcieri inghilesi usati alle prede e ruberie si rimasono nel paese: e
avendo messer Beltramo di Crechì e l’arciprete di Pelagorga ordinato
di fare compagnia, raccolsono ogni maniera di gente la quale trovarono
disposta a mal fare, ed ebbono Franceschi, Tedeschi, Inghilesi,
Guasconi, e Borgognoni, Normandi, e Provenzali, e crebbono in poco di
tempo in grande numero, e nomarsi la compagnia bianca, e cominciarono
a conturbare i paesi, e a trarre danari e roba d’ogni parte, e così
stettono infino che la pace fu ferma, e il re di Francia lasciato di
prigione; allora per comandamento de’ detti due re sotto pena di cuore
e d’avere, e d’essere perseguitati da’ loro signori, s’uscirono del
reame di Francia, e ridussonsi a Lingrè nell’impero, e ivi s’accolsono
in numero di seimila barbute, essendo in paese grasso e ubertuoso da
vivere: cercarono di valicare a Lione, i paesani s’adunarono a’ passi,
e impedivanli per modo, che dove erano si ritennono lungamente con far
danno assai con loro poco frutto.


CAP. CX.

_Della gravezza fatta per messer Bernabò ai cherici e laici, rotto il
trattato della pace._

Vedendo messer Bernabò che la Chiesa si sforzava alla difesa di
Bologna, e che l’intenzione sua non si empieva tosto come pensava,
e che la spesa cresceva, fece stimare tutte le rendite e’ beni de’
prelati e cherici che erano sotto sua tirannia, e fatta la tassazione
ebbe per nome e sopra nome tutti i secolari poderosi vicini alle
prelature, benefiche chiese, e comandamento fece, che qualunque
vicinanza infra certo tempo avessono pagato alla camera sua quelli
danari che il beneficio era tassato, e il beneficio rispondea alla
tassazione, che pagassono, e così convenne che fatto fosse, per modo
che in tre mesi, luglio, agosto e settembre, ebbe nella camera sua
de’ beni de’ cherici per questa via oltre a trecento trenta migliaia
di fiorini d’oro, e di secolari sudditi suoi oltre alle sue rendite
ordinate in sussidio di trecentosettanta migliaia di fiorini d’oro,
e ciò per sostenere e fornire l’impresa fatta, e che fare intendea
dell’oste sua sopra la città di Bologna: e convenne che così fatto
fosse perchè il volle, e nel tempo, stimandosi il superbo tiranno di
vincere per stracca la città di Bologna, e la Chiesa che presa l’avea.
Essendo messer Niccola Acciaiuoli grande siniscalco del regno di Puglia
con messer Bernabò per trattare accordo da lui alla Chiesa de’ fatti di
Bologna, e venuto al legato, e trovatolo con più animo fermo contro al
tiranno che non si stimava, avendo il legato ordinato certe convegne
da trattarsi nella pace, e per uno famigliare del gran siniscalco le
fece mandare a messer Bernabò, il quale volle che a capitolo a capitolo
gli fossero lette, e leggendosi, a catuno capitolo rispondea, e io
voglio Bologna, e così al tutto rimase il trattato rotto, con arrota
di più villane novelle di parole dal tiranno al legato. Ed era in
questi giorni la città di Bologna molto stretta, e pativa disagi e
gravezze assai, ma di fuori si procacciava il soccorso per il legato
con molta sollicitudine, e messer Bernabò continovo tenea un trattato
d’impacciare il legato nella Marca e nella Romagna.


CAP. CXI.

_Come il capitano dell’oste di messer Bernabò mandò a soccorrere le
castella ribellate al legato nella Marca._

Sentendo il capitano dell’oste da Bologna come delle tre castella
rebellate al legato le due si teneano aspettando soccorso, mandò
Anichino di Bongardo Tedesco con millecinquecento barbute e con
mille masnadieri per soccorrerli, e per prendere luogo nella Marca,
e impacciare il legato sì di là che non potesse soccorrere Bologna, e
chiaramente gli venia fatto, se Anichino fosse stato leale, perocchè
senza contasto entrò in Romagna, e fu a Rimini, e messer Pandolfo e
l’oste del legato per paura si partì dall’assedio del castello: ma
come che la cosa s’andasse, e’ non volle andare più oltre, e d’allora
innanzi fece delle cose che tornarono a gran beneficio dell’impresa
del legato, e a onta e vergogna di messer Bernabò, come seguendo nostra
materia nel principio del decimo libro racconteremo. Tornossi addietro
Anichino, e le castella s’arrenderono al legato e furono disfatte,
all’uscita d’agosto detto anno.


CAP. CXII.

_Ancora dello stato del tempo e della moria dell’anguinaia._

Questo anno fu singolare di continovo sereno tutta la state e di
notabile caldo, ed ebbe secondo il lungo tempo secco e caldo comunale
ricolta di grano e di vino, e degli altri frutti della terra, ma la
moría fu grandissima in molte parti occidentali, come narrato di sopra
avemo, e l’Italia ebbe molti infermi di lunghe malattie, ed assai
morti; e generale infermità di vaiuolo fu nella state di fanciulli
e ne’ garzoni, ed eziandio negli uomini e femmine di maggiori etadi,
ch’era cosa di stupore e fastidiosa a vedere.


CAP. CXIII.

_Come i Pisani arsono un castello de’ Pistoiesi._

In questi dì i Pisani con dugento barbute e mille fanti cavalcarono
sopra i Pistoiesi, e presono e arsono un loro castello nella montagna,
nel quale nella veritade si riparava gente di mala condizione, e che
faceano danno ai loro distrettuali. Male ne parve ai Fiorentini, ma fu
sì piccola cosa, che per lo meno male s’infinsono di non lo vedere.



TAVOLA DEI CAPITOLI


  _Qui comincia l’ottavo libro della Cronica di Matteo
    Villani; e prima il Prologo_                             Pag. 5
  _CAP. II. Chi fu frate Iacopo del Bossolaro, e come
    procedette il suo nome e le sue prediche in Pavia_            7
  _CAP. III. Come frate Iacopo fece tribuni di popolo
    nelle sue prediche in Pavia_                                  9
  _CAP. IV. Come frate Iacopo cacciò i signori da Beccheria
    di Pavia_                                                    10
  _CAP. V. Della materia medesima_                               12
  _CAP. VI. Come per più riprese in diversi tempi fu
    messo fuoco nelle case della Badia di Firenze_               13
  _CAP. VII. Come la terra di Romena si comperò per
    lo comune di Firenze_                                        14
  _CAP. VIII. Come la compagnia di Provenza si sparse
    per vernare_                                                 16
  _CAP. IX. Come la compagnia del conte di Lando fu
    condotta per i collegati di Lombardia_                       17
  _CAP. X. Come il re Luigi richiese i comuni di Toscana
    d’aiuto_                                                     18
  _CAP. XI. Come i Pisani feciono armata per rompere
    il porto di Talamone_                                        19
  _CAP. XII. Come essendo l’oste de’ Visconti a Mantova,
    parte della compagnia si mise in Castro_                     20
  _CAP. XIII. Come la Chiesa di Roma fe’ gravezza
    a’ cortigiani_                                               21
  _CAP. XIV. Cominciamento di guerra tra certi comuni
    in Toscana_                                                  22
  _CAP. XV. Di certe novità apparenti contro il soldano
    d’Egitto_                                                    23
  _CAP. XVI. Come il re di Navarra fu tratto di prigione_        24
  _CAP. XVII. Come i Perugini dall’una parte i Cortonesi
    dall’altra mandarono per aiuto a Firenze_                    25
  _CAP. XVIII. Come la gente de’ signori di Milano furono
    sconfitti in Bresciana_                                      26
  _CAP. XIX. Come l’oste del re d’Ungheria prese la
    città di Giadra_                                             27
  _CAP. XX. Come messer Bernabò fece combattere
    Castro_                                                      29
  _CAP. XXI. Come si cominciò a trattare pace da’ collegati
    a’ Visconti_                                                 30
  _CAP. XXII. Come i Perugini puosono cinque battifolli
    a Cortona_                                                   31
  _CAP. XXIII. Come i Trevigiani furono rotti dagli
    Ungheri_                                                     32
  _CAP. XXIV. Cominciamenti di nuovi scandali nella
    città di Firenze_                                            33
  _CAP. XXV. D’un singolare accidente ch’avvenne in
    questi paesi_                                                37
  _CAP. XXVI. Come in Firenze nacque una fanciulla
    mostruosa_                                                   38
  _CAP. XXVII. Come i Sanesi si scopersono nemici
    de’ Perugini_                                                39
  _CAP. XXVIII. Come i Sanesi misono cavalieri in
    Cortona alla guardia_                                        40
  _CAP. XXIX. La cagione che mosse i borgesi di Parigi
    a nuovo stato_                                               41
  _CAP. XXX. Della pace dal re d’Ungheria a’ Veneziani_          43
  _CAP. XXXI. Come da prima in città di Firenze furono
    accusati certi cittadini per ghibellini_                     45
  _CAP. XXXII. Come a’ capitani della parte furono
    aggiunti due compagni_                                       48
  _CAP. XXXIII. Come i Sanesi uscirono fuori per soccorrere
    Cortona_                                                     50
  _CAP. XXXIV. Come si levò l’oste da Cortona_                   51
  _CAP. XXXV. Di novità di Perugia per detta cagione_            52
  _CAP. XXXVI. Di una gran festa fe’ bandire il re
    d’Inghilterra_                                               53
  _CAP. XXXVII. Come l’armata del comune di Firenze
    venne a Porto pisano_                                        54
  _CAP. XXXVIII. Come il popolo di Parigi cominciò
    scandalo_                                                    56
  _CAP. XXXIX. Come i Perugini tornarono a oste a Cortona_       57
  _CAP. XL. Come i Perugini richiesono i Sanesi di battaglia_    56
  _CAP. XLI. Come furono sconfitti Sanesi da’ Perugini_          60
  _CAP. XLII. Come si dispuosono i Sanesi dopo la sconfitta_     62
  _CAP. XLIII. Come i conti da Montedoglio presono e
    perderono il Borgo_                                          63
  _CAP. XLIV. Come il re d’Inghilterra andò a vicitare
    il re di Francia, e annunziarli la pace_                     64
  _CAP. XLV. Come i Tarlati si feciono accomandati
    de’ Perugini_                                                65
  _CAP. XLVI. D’una folgore percosse il campanile
    de’ frati predicatori di Firenze_                            66
  _CAP. XLVII. Della pomposa festa che si fè in Inghilterra
    in Londra_                                                   67
  _CAP. XLVIII. Come i Perugini cavalcarono i Sanesi
    fino alle porti di Siena_                                    69
  _CAP. XLIX. Come il legato del papa ripuose l’assedio
     a Forlì_                                                    70
  _CAP. L. Come i Provenzali feciono compagnia per
    vendicarsi di quelli dal Balzo_                              71
  _CAP. LI. Come si pubblicò la pace de’ due re_                 72
  _CAP. LII. Come il legato del papa pose due bastite
    a Forlì_                                                     73
  _CAP. LIII. Pace fatta dal re Luigi al duca di Durazzo_        73
  _CAP. LIV. Come si partì la compagnia di Provenza_             74
  _CAP. LV. Come i signori di Milano posono l’assedio
    a Pavia_                                                     75
  _CAP. LVI. Come i Perugini afforzarono l’Orsaia_               76
  _CAP. LVII. Come si fece la pace da’ signori di Milano
    a’ collegati_                                                76
  _CAP. LVIII. Come s’abbattè i palazzi di quelli da
    Beccheria_                                                   78
  _CAP. LIX. Di molte paci e altre cose notevoli fatte_          79
  _CAP. LX. Come la compagnia del conte di Lando
    venne in Romagna_                                            80
  _CAP. LXI. Come il re Luigi riebbe il castello di Parma_       81
  _CAP. LXII. De’ fatti di Siena della loro guerra_              82
  _CAP. LXIII. Come i Pisani abbandonarono la gara
    di Talamone_                                                 83
  _CAP. LXIV. Come i Sanesi chiamarono capitano, e
    uscirono a oste_                                             84
  _CAP. LXV. Come si fece certa arrota al palio di san
    Giovanni_                                                    85
  _CAP. LXVI. Come il Delfino mandò per lo proposto
    di Parigi_                                                   85
  _CAP. LXVII. Di novità fatte per lo popolo di Parigi_          86
  _CAP. LXVIII. Come l’altre ville seguirono di fare
    come Parigi_                                                 87
  _CAP. LXIX. Di novità di Forlì_                                88
  _CAP. LXX. Come il legato ebbe Meldola_                        89
  _CAP. LXXI. Come i Fiorentini ordinarono il monte
    nuovo per avere danari_                                      90
  _CAP. LXXII. Della gran compagnia_                             92
  _CAP. LXXIII. Come il conte di Lando tornò d’Alamagna
    alla compagnia_                                              93
  _CAP. LXXIV. Come la compagnia fu rotta nell’alpe_             95
  _CAP. LXXV. Come il conte di Lando scampò di prigione_         99
  _CAP. LXXVI. Come l’altra parte della compagnia
    si ridusse in Dicomano_                                     100
  _CAP. LXXVII. Come il comune di Firenze procedette
    ne’ fatti della compagnia_                                  102
  _CAP. LXXVIII. Il fine ch’ebbe l’impresa de’ Fiorentini_      103
  _CAP. LXXIX. Come la compagnia andò in Romagna_               107
  _CAP. LXXX. Come i signori di Francia vennono sopra
    Parigi in arme_                                             109
  _CAP. LXXXI. Come il re di Spagna uccise molti
    de’ suoi baroni_                                            110
  _CAP. LXXXII. Della detta materia di Spagna_                  111
  _CAP. LXXXIII. Come la compagnia cavalcò a Cervia_            113
  _CAP. LXXXIV. Come il capitano di Forlì mise la
    compagnia in Forlì_                                         114
  _CAP. LXXXV. D’una nuova compagnia di Tedeschi_               115
  _CAP. LXXXVI. Come si levò l’oste da molte terre_             116
  _CAP. LXXXVII. Come si fè accordo dal Delfino a
    quelli di Parigi_                                           118
  _CAP. LXXXVIII. Di detta materia, e come fu morto
    il proposto_                                                119
  _CAP. LXXXIX. Come furono impesi que’ borgesi a
    cui erano state accomandate le chiavi delle bastite_        121
  _CAP. XC. Come si scoperse il trattato tenea il re di
    Navarra_                                                    122
  _CAP. XCI. Come il re di Navarra guastò intorno a Parigi_     123
  _CAP. XCII. Come il marchese non volle dare Asti
    a’ Visconti_                                                124
  _CAP. XCIII. Come la compagnia assalì Faenza_                 125
  _CAP. XCIV. Come i Fiorentini mandarono a Bologna
    per la questione dello Stale_                               126
  _CAP. XCV. Qui si fa menzione delle ragioni che
    ’l monistero di Settimo ha nello Stale_                     128
  _CAP. XCVI. Come la compagnia della Rosa di Provenza
    si spartì e disfecesi_                                      129
  _CAP. XCVII. Come s’afforzò e guardò i passi dell’alpe
    perchè la compagnia non passasse_                           130
  _CAP. XCVIII. Come l’imperadore fece il duca d’Osteric
    re de’ Lombardi_                                            132
  _CAP. XCIX. De’ processi della compagnia in questi giorni_    133
  _CAP. C. Come il re del Garbo fu morto_                       135
  _CAP. CI. Come i cardinali ch’erano in Inghilterra si
    tornarono a corte_                                          137
  _CAP. CII. Della pace da’ Sanesi a’ Perugini_                 138
  _CAP. CIII. Come il cardinale tornò in Italia_                140
  _CAP. CIV. Come messer Gilio di Spagna parlamentò
    col signore di Bologna_                                     143
  _CAP. CV. Come la compagnia si condusse per la Romagna_       144
  _CAP. CVI. Dello stato della Cicilia_                         145
  _CAP. CVII. Del male stato del reame di Francia_              146
  _CAP. CVIII. Di mortalità d’Alamagna e Brabante_              147
  _CAP. CIX. Di giustizia fatta in Parigi_                      148
  _CAP. CX. De’ dificii fatti a sant’Antonio di Firenze_        149

  LIBRO NONO

  _Qui comincia il quinto libro; e prima il prologo_            151
  _CAP. II. Come la compagnia si partì da Sogliano e
    ricevettene danno_                                          154
  _CAP. III. Come il comune di Firenze diede balia
    a’ cittadini contro alla compagnia_                         155
  _CAP. IV. Come precedette la compagnia in Romagna_            157
  _CAP. V. Di novità state tra signori di Cortona_              159
  _CAP. VI. Dello inganno fatto per lo legato al comune
    di Firenze della compagnia_                                 161
  _CAP. VII. Il male seguì per l’accordo fatto dal legato
    con la compagnia_                                           164
  _CAP. VIII. Di molte fosse feciono i signori di Lombardia
    per difesa de’ loro terreni_                                166
  _CAP. IX. Come il re d’Inghilterra dissimulando la
    pace cercava la guerra co’ Franceschi_                      167
  _CAP. X. Come il re di Navarra tribolava Francia_             169
  _CAP. XI. Del male stato di Cicilia in questi tempi_          170
  _CAP. XII. Del male stato di Puglia per ladroni_              172
  _CAP. XIII. Della morte di messer Bernardino da
    Polenta signore di Ravenna_                                 173
  _CAP. XIV. Operazioni della moría_                            174
  _CAP. XV. Di certa novità ch’ebbe in Perugia in questi
    tempi_                                                      173
  _CAP. XVI. Di sconfitta ebbono i Turchi da’ frieri_           177
  _CAP. XVII. Di novità state in Provenza contro a quelli
    del Balzo_                                                  179
  _CAP. XVIII. Il consiglio si tenne in Francia sopra
    le domande degl’Inghilesi_                                  181
  _CAP. XIX. Come il re di Spagna e quello d’Araona
    s’affrontarono e non combatterono_                          182
  _CAP. XX. Come il comune di Firenze si provvide contro
    alla compagnia_                                             183
  _CAP. XXI. D’una folgore che cadde in sulla chiesa
    maggiore di Siena_                                          185
  _CAP. XXII. D’una battaglia tra due baroni del re
    di Rascia_                                                  186
  _CAP. XXIII. Come sotto nome di falsa pace il re di
    Navarra tribolò Francia_                                    188
  _CAP. XXIV. Novità state a Montepulciano_                     189
  _CAP. XXV. Di fanciulli mostruosi che nacquero in
    Firenze e nel contado_                                      191
  _CAP. XXVI. Come la compagnia passò in Toscana, e
    cercò concordia con i Fiorentini_                           191
  _CAP. XXVII. Come la compagnia s’appressò a Firenze_          194
  _CAP. XXVIII. Come il comune di Firenze diè l’insegne,
    e mandò a campo la sua gente_                               196
  _CAP. XXIX. Come la compagnia girò il nostro contado,
    e la nostra a petto_                                        198
  _CAP. XXX. Come la compagnia mandò il guanto della
    battaglia al nostro capitano, e la risposta fatta_          200
  _CAP. XXXI. Come la compagnia vituperosamente si
    partì del campo delle Mosche, e fuggissi_                   204
  _CAP. XXXII. Come il re d’Ungheria passò nel reame
    di Rascia_                                                  206
  _CAP. XXXIII. Come messer Feltrino da Gonzaga
    tolse Reggio a’ fratelli_                                   208
  _CAP. XXXIV. Come il vescovo di Trievi sconfisse
    gl’Inghilesi_                                               209
  _CAP. XXXV. Come fu soccorsa Pavia, e levatone
    l’oste de’ Visconti_                                        210
  _CAP. XXXVI. Come il capitano di Forlì s’arrendè al
    legato_                                                     211
  _CAP. XXXVII. Di una compagnia creata d’Inghilesi
    in Francia_                                                 213
  _CAP. XXXVIII. D’una zuffa che fu tra gli artefici di
    Bruggia_                                                    214
  _CAP. XXXIX. Come l’imperadore de’ Tartari fu morto_          215
  _CAP. XL. Di novità de’ Turchi in Romania_                    216
  _CAP. XLI. Come il Delfino di Vienna fece pace col
    re di Navarra_                                              217
  _CAP. XLII. Come l’oste de’ Fiorentini tornò a Firenze
    e la compagnia ne andò nella Riviera_                       218
  _CAP. XLIII. Della morte e sepoltura di messer Biordo
    degli Ubertini_                                             220
  _CAP. XLIV. Come i Perugini mandarono ambasciata
    a Siena, e abominando i Fiorentini_                         222
  _CAP. XLV. Come il comune di Firenze mandò aiuto
    di mille barbute a messer Bernabò contro alla
    compagnia_                                                  224
  _CAP. XLVI. Come il castello di Troco fu incorporato
    per la corona di Puglia_                                    225
  _CAP. XLVII. Come il comune di Firenze assediò
    Bibbiena_                                                   226
  _CAP. XLVIII. Come il comune comperò Soci_                    228
  _CAP. XLIX. Come il vescovo d’Arezzo diede le sue
    ragioni che avea in Bibbiena al comune di Firenze_          229
  _CAP. L. Seguita la sequela della compagnia_                  230
  _CAP. LI. De’ fatti di Sicilia, e del seguire l’ammonire
    in Firenze_                                                 232
  _CAP. LII. Come Bibbiena per nuovo capitano fu molto
    stretta_                                                    235
  _CAP. LIII. Come il re d’Inghilterra passò in Francia
    con smisurata forza_                                        237
  _CAP. LIV. La poca fede del conte di Lando_                   238
  _CAP. LV. Come Pavia s’arrendè a messer Galeazzo_             239
  _CAP. LVI. Come i signori di Milano sfidarono il signore
    di Bologna_                                                 242
  _CAP. LVII. Come messer Bernabò mandò l’oste sua
    sopra Bologna_                                              243
  _CAP. LVIII. Come fu maestrato da prima in Firenze
    in teologia_                                                245
  _CAP. LIX. Come fu morto il signore di Verona dal
    fratello_                                                   246
  _CAP. LX. Come Cane Signore fu fatto signore di Verona_       248
  _CAP. LXI. Come fu presa Bibbiena pe’ Fiorentini_             249
  _CAP. LXII. Come la rocca di Bibbiena s’arrendè al
    comune di Firenze_                                          253
  _CAP. LXIII. Di novità state in Spagna_                       254
  _CAP. LXIV. Come i Pistoiesi ripresono il castello della
    Sambuca_                                                    255
  _CAP. LXV. Come messer Bernabò strignea Bologna_              256
  _CAP. LXVI. Come gli Aretini riebbono il castello della
    Pieve a santo Stefano_                                      258
  _CAP. LXVII. Come il re d’Inghilterra si pose a oste
    alla città di Rems_                                         259
  _CAP. LXVIII. Discordia del conte di Foci a quello
    d’Armignacca_                                               260
  _CAP. LXIX. Quello feciono gli osti del re d’Inghilterra
    in Francia_                                                 261
  _CAP. LXX. Come più castella si rubellarono a’ Tarlati_       263
  _CAP. LXXI. Di un trattato di Bologna scoperto_               264
  _CAP. LXXII. Come le sette di Cicilia si divorarono
    insieme_                                                    265
  _CAP. LXXIII. Come la Chiesa deliberò l’impresa
    di Bologna_                                                 266
  _CAP. LXXIV. Come messer Giovanni da Oleggio fermò
    suo accordo con il legato di Bologna_                       267
  _CAP. LXXV. Patti da messer Giovanni da Oleggio
    alla Chiesa, e la tenuta di Bologna_                        270
  _CAP. LXXVI. Come la città di Bologna fu libera dal
    tiranno in mano del legato e della Chiesa essendo
    assediata_                                                  272
  _CAP. LXXVII. Come la Chiesa riformò Bologna_                 273
  _CAP. LXXVIII. Di una congiura si scoperse in Pisa_           274
  _CAP. LXXIX. Di un trattato menato in Forlì contro
    alla Chiesa_                                                276
  _CAP. LXXX. Come fu combattuta Cento dall’oste
    del tiranno_                                                278
  _CAP. LXXXI. Come gli Ubaldini si mostrarono tra
    loro divisi_                                                279
  _CAP. LXXXII. Di portamenti degl’Inghilesi in Borgogna_       280
  _CAP. LXXXIII. Come i Normandi con loro armata
    passarono in Inghilterra_                                   282
  _CAP. LXXXIV. Come il duca di Borgogna, s’accordò
    con gl’Inghilesi_                                           282
  _CAP. LXXXV. Come il re d’Inghilterra assediò Parigi_         283
  _CAP. LXXXVI. Come il re d’Inghilterra si strinse a
    Parigi, e combattè Corboglio_                               286
  _CAP. LXXXVII. Conta del reggimento de’ Romani,
    e d’alcuna giustizia fatta_                                 287
  _CAP. LXXXVIII. Come parte degli Ubaldini presono
    Montebene_                                                  289
  _CAP. LXXXIX. Di novità e morte del re di Granata,
    e loro esilio_                                              290
  _CAP. XC. Come il legato richiese d’aiuto il re d’Ungheria
    alla difesa di Bologna_                                     291
  _CAP. XCI. Come in corte si diè sentenza contro a quelli
    di Milano per i fatti di Bologna_                           292
  _CAP. XCII. Come messer Galeazzo Visconti si mandò
    scusando in corte di Roma dell’impresa di Bologna_          294
  _CAP. XCIII. Come papa Innocenzio levò la riservagioni_       295
  _CAP. XCIV. Come il re Luigi fece guerra al duca di
    Durazzo, e ultimamente s’accordaro_                         296
  _CAP. XCV. Come messer Niccola gran siniscalco del
    Regno andò in corte di Roma per accordare il
    re con la Chiesa, e fattogli dal papa ciò gli domandò,
    e grand’onore, se ne tornò in Lombardia_                    297
  _CAP. XCVI. Come gli Aretini per baratta ebbono
    Chiusi e la Rocca_                                          299
  _CAP. XCVII. Come il conticino da Ghiaggiuolo fu
    da’ figliuoli propri preso e vituperosamente tenuto_        301
  _CAP. XCVIII. Come si fermò pace dal re d’Inghilterra
    a’ Franceschi, e’ patti e le convegne ebbono insieme_       304
  _CAP. XCIX. D’un trattato si scoperse in Bologna,
    e quello ne seguì_                                          311
  _CAP. C. Come il papa confortò gli ambasciadori bolognesi,
    e richiese d’aiuto i Fiorentini all’impresa di Bologna_     313
  _CAP. CI. Come i Chiaravallesi vennero contro a Todi,
    e come furono rotti e presi_                                315
  _CAP. CII. Come l’oste di messer Bernabò si strinse a
    Bologna, e fermaronvi bastite_                              316
  _CAP. CIII. Come la casa reale di Francia feciono
    parentado co’ Visconti per danari, con vituperio
    della corona_                                               316
  _CAP. CIV. Come messer Niccolò di Cesaro conte di.....
    e signore di Messina fu morto con quaranta compagni_        320
  _CAP. CV. Come fornito il trattato della pace tra i due
    re si fè triegua, e giurossi l’una e l’altra, e lo re
    d’Inghilterra si tornò nell’isola per mandare a
    esecuzione le cose ordinate_                                321
  _CAP. CVI. Come tre castella si rubellarono nella
    Marca al legato_                                            326
  _CAP. CVII. Come mortalità dell’anguinaia ricominciò
    in diverse parti del mondo_                                 327
  _CAP. CVIII. Come il comune di Firenze prese Montecarelli
    e Montevivagni, e in essi preso il conte
    Tano, venuto a Firenze fu decapitato_                       328
  _CAP. CIX. Come in Francia si cominciò compagnia
    denominata bianca_                                          331
  _CAP. CX. Della gravezza fatta per messer Bernabò
    ai cherici e laici, rotto il trattato della pace_           332
  _CAP. CXI. Come il capitano dell’oste di messer Bernabò
    mandò a soccorrere le castella ribellate al
    legato nella Marca_                                         334
  _CAP. CXII. Ancora dello stato del tempo e della
    moria dell’anguinaia_                                       335
  _CAP. CXIII. Come i Pisani arsono un castello de’
    Pistolesi_                                                  335



                 ERRORI                 CORREZIONI

  TOMO IV.

  —  141  —  30  e ogni ogni vergogna   e ogni vergogna
  —  154  —   8  per venire             per vernare
  —  252  —   4  fu ribattuto           fu ributtato
  —  290  —  25  cacciare               cacciare,
  —  325  —  23  osservebbe             osserverebbe



Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici. Le correzioni indicate in
fine libro sono state riportate nel testo.



*** End of this LibraryBlog Digital Book "Cronica di Matteo Villani, vol. IV: A miglior lezione ridotta coll'aiuto de' testi a penna" ***


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