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Title: Storia degli Italiani, vol. 8 (di 15) Author: Cantù, Cesare Language: Italian As this book started as an ASCII text book there are no pictures available. *** Start of this LibraryBlog Digital Book "Storia degli Italiani, vol. 8 (di 15)" *** (DI 15) *** STORIA DEGLI ITALIANI PER CESARE CANTÙ EDIZIONE POPOLARE RIVEDUTA DALL’AUTORE E PORTATA FINO AGLI ULTIMI EVENTI TOMO VIII. TORINO UNIONE TIPOGRAFICO-EDITRICE 1876 CAPITOLO CXII. Gian Galeazzo Visconti, e sue brighe colla Toscana. Il Milanese eretto in ducato. FAMIGLIA DEI CARRARESI Giacomo I, principe del popolo 1318-1324 Nicolò suo fratello 1324-1326 Marsiglio loro nipote 1324-1338 Ubertino nipote di questo 1338-1345 Marsiglietto Pappafava 1345 Giacomo II figlio di Nicolò 1345-1350 Giacomino suo fratello 1350-1372 Francesco I loro nipote 1350-1388 m. 1393 Francesco II Novello, strozzato a Venezia coi figli Francesco e Giacomo 1390-1406 FAMIGLIA DEGLI SCALIGERI Mastino I, signore di Verona 1259-1277 Alberto suo fratello 1277-1301 Bartolomeo } { 1301-1304 Alboino } figli di Alberto { 1304-1311 Can Grande } { 1312-1329 Alberto II } 1352 } figli di Alboino 1329- Mastino II } 1351 Cane II } 1359 Cane III Signorio } figli di Mastino II 1351-1375 Paolo Alboino } 1374 Bartolomeo II } 1381 } figli natur. di Can Signorio 1375- Antonio } 1387 m. 1388 Guglielmo 1404 Antonio e Brunoro suoi figli proscritti. Sei capi ambiziosi e capaci aveano, fra le traversie, condotta in grande stato la famiglia Visconti. Morto (1354) l’arcivescovo Giovanni, perfido e astuto ma valoroso e liberale quanto serve a palliare l’ingiustizia, il consiglio generale di Milano e delle altre città fecero omaggio ai nipoti di lui Bernabò e Galeazzo (tom. VII, p. 561), che spartironsi il dominio, serbando indivisa Milano, ove fabbricarono uno la rôcca di porta Zobia, l’altro quella a porta Romana e alla Casa dei Cani. Già vedemmo come Bernabò resistesse all’Albornoz e alla lega guelfa. Le bande soldate da questa e massime le inglesi, spintesi (1362) fino a Magenta, Corbetta, Nerviano, Vituone, dilapidarono ogni cosa, e rapirono seicento nobili che soleano abitarvi, nè li rilasciarono che a grossi riscatti; ma in fine a Casorate rimasero sanguinosamente sconfitte. Poco poi, Bernabò venne ancora in rotta con papa Urbano V, il quale bandì contro di lui la crociata, a cui concorsero l’imperatore Carlo IV, il re d’Ungheria, la regina di Napoli, il marchese di Monferrato, i principi d’Este, i Gonzaga, i Carrara, i Malatesti, e Perugini e Sanesi, confederati nella lega di Viterbo (1367). Ma Bernabò sapea che coteste crociate, unite solo dal sentimento, basta tirare in lungo, e si scomporranno da sè. In fatto a denari comprò l’inazione di Carlo IV (1368), allora calato nuovamente in Italia con cinquantamila uomini; a contanti fece passare dai nemici a sè la Compagnia Bianca, sommosse le città papaline (1369 febb.), e potè conchiudere buona pace, avendo però nella guerra consumato tre milioni di zecchini. L’accorta politica e gli estesi concetti di Bernabò erano deturpati dall’ignobilità del suo carattere, da quel brutale egoismo, su cui nè amicizia nè fedeltà nè riconoscenza valevano, e che nè tampoco degnavasi palliare le beffarde violenze. Cominciò, come devono i tiranni, dall’assicurarsi contro i proprj sudditi con fortalizj, e sempre generoso mostrossi ai soldati. Mal arrivato chi nella trascorsa guerra fosse apparso propenso ai nemici! i processi finivano con supplizj atrocissimi. Proibì d’uscir la notte, qual che ne fosse la cagione, sotto pena di perdere un piede; tagliata la lingua a chi proferisse le parole di guelfo o ghibellino; uno nega pagar due capponi comprati da una trecca, ed egli lo fa impiccare. Passionato della caccia, fin cinquemila cani manteneva, ed allogavali presso i cittadini da nutrire: ogni quindici giorni appositi uffiziali visitavanli, e se li trovassero dimagrati imponeano una multa, una multa se pingui, la confisca dei beni se morti. Chi poi ne tenesse uno, o uccidesse lepre o cinghiale, era mutilato, appiccato, talora costretto a mangiarsi il selvatico bell’e crudo. Bernabò si sognava che un tale gli facesse male? imbattevasi in alcuno ne’ solitarj suoi passeggi? bastava per torgli la vita o un occhio o la mano, od almeno confiscarne gli averi. Due suoi segretarj fece chiudere in gabbia con un cinghiale. Un giovane che avea tirato la barba a un sergente, fu condannato di lieve multa; ma Bernabò gli fece tagliar la destra: e perchè il podestà indugiò finchè i parenti venissero a implorar grazia, Bernabò volle fosser mozze ambe le mani al giovane ed una al podestà. Obbligò un altro podestà a strappar la lingua a un condannato, poi bere il veleno; talora costringeva il primo venuto a far da boja; e pretesto gli era sempre la lesa maestà, suggello d’ogni accusa nelle tirannie. Agli atti di prepotenza v’ha sempre una ciurma che applaudisce, giudicandoli segno di forza, e alla forza si suol fare di cappello. Alcuni ambasciadori di principi rimandò vestiti di bianco a guisa di mentecatti, coll’obbligo di presentarsi in quell’arnese ai loro padroni, tra le risate de’ paesi che attraversavano. Quando vennero a lui in Melegnano i nunzj pontifizj a recargli la scomunica, Bernabò li condusse sopra il ponte del Lambro, e quivi intimò mangiassero le bolle della scomunica, se non volessero bever quell’acqua; e vi si dovettero rassegnare. Inviperendo viepiù contro gli ecclesiastici, fa accecare, mutilare chi non l’ubbidisce: udito che un piovano esigeva di troppo per le esequie d’un morto, lo fa sotterrare col morto stesso: un altro bandisce la crociata del pontefice contro il capitano di Forlì, e Bernabò il fa mettere in un tamburo di ferro ed arrostire al fuoco. Due frati gli si presentano per rimproverarlo di tali inumanità, ed esso li fa bruciar vivi: anche monache fece ardere, e con esse il vicario generale che ricusò degradarle. Chiamato a sè l’arcivescovo che ricusava ordinare un monaco, se lo fece inginocchiare davanti, e gli abbajò: — Non sai, poltrone, che io sono papa, imperatore e signore in tutte le mie terre? e che Dio stesso non potrebbe farvi cosa ch’io non volessi?» Eppure mostravasi devoto, digiunava, istituì chiese, monasteri, benefizj. Rifabbricò il castello di Trezzo con ardito ponte sull’Adda a tre anditi a diversa altezza, una rôcca in Brescia, altre a Desio, a Pandino, a Cusago; una villa a Melegnano, a Milano il palazzo a San Giovanni in Conca, mentre Galeazzo rifaceva quello in piazza del duomo, con una spazzata per le giostre. Beatrice Regina della Scala, moglie di Bernabò, affettava una burbanza principesca; i decreti che essa mandava alle valli bresciane e camoniche fan credere che quei paesi fossero a lei assegnati per dote; in Brescia aveva un fondaco di ferrareccia; munì Salò di mura turrite; aprì un canale per irrigare la Calciana allora spopolata, e che erale stata data dal marito per sicurezza dei cencinquantamila fiorini d’oro portatigli in dote, come le diede poi Urago d’Oglio, Gazzólo, Roccafranca, Floriano e altri paesi[1]. A lei principi e signori dirigevano i reclami e le petizioni: ed essa, non che mitigare il marito, com’è uffizio di donna, lo esacerbava: ma non potè reprimerne la lubricità. Trentadue figliuoli ebb’egli tra legittimi e no; e il marchese d’Este, levandone uno al battesimo, gli regalò un vaso d’argento, entrovi una coppa d’oro piena di perle, anelli, pietre preziose, del valore di diecimila zecchini[2]. Le sue figliuole collocò nelle case regnanti di Norimberga, d’Ingolstadt, d’Austria, di Baviera, di Würtemberg, di Turingia, di Sassonia, di Kent, di Mantova, una al re di Cipro con centomila fiorini, un’altra a Giovanni Acuto ed una a Lucio Lando: a ciascuno de’ cinque maschi legittimi aveva già assegnato il governo del distretto di cui gli destinava la sovranità; ma l’uomo tesse, e Dio ordisce. Altrettanto e peggio operava Galeazzo II a Pavia. Più freddamente spietato, inventò la _quaresima_, per cui a’ suoi nemici faceva levare oggi un occhio, domani riposo; poi l’altr’occhio, indi riposo; poi una mano e l’altra, un e l’altro piede, e via per quaranta giorni alternando i tormenti col riposo, che preparasse a meglio sentirli. Fabbricava molto, talvolta insignemente, come furono il ponte sul Ticino e il castello di Pavia con una torre a ciascun angolo, e nell’interno un ampio cortile a portici, e un oriuolo che, oltre battere le ore, segnava il moto de’ pianeti. Nè meno suntuoso riuscì il castello di Milano. Poi disfaceva a capriccio: e i fondi, il legname, la calce prendeva dove fossero senza pagare; per ampliare un parco di venticinque miglia di giro usurpò fondi privati, tra cui quelli d’un Bertolino da Sisti, il quale affrontandolo gli chiese: — Di che darò a mangiare a’ miei figliuoli?» e il brutale rispose: — Che? non ti basta il gusto del farli?» Onde quello gli tirò una coltellata, e fallito il colpo, fu preso e fatto strappare da cavalli. Non pagava le cariche, poi guaj se erano male esercitate: sessanta impiegati a un tratto condannò alla forca, poi supplicato li graziò, ma chiuse in prigione il suo cancelliere ch’erasi mostrato sollecito nello spedir quella grazia. Insieme digiunava una terza parte dell’anno, distribuiva duemila cinquecentotrentun zecchini all’anno in limosine, ducentodieci moggia di grano, dodici carra di vino[3], e tenea dieci cappelle. Poi favorì i letterati, fondò l’Università di Pavia chiamandovi professori rinomati; blandì il Petrarca; e gli encomj di questo, ripetuti per classica ammirazione, impedivano ai lontani di udire i gemiti dei popoli[4]. Tanto si osava mentre ancora sussistevano i nomi e le forme repubblicane; anzi direi per queste, giacchè il tiranno trovandosi violatore di esse, operava senza ritegno; l’appoggio che dalla costituzione eragli negato, chiedea dalla forza; forza non di cittadini, ma mercenaria, ed alleandosi con altri principi e coll’imperatore. I papi contrastavano sempre, tratto tratto qualche città si sollevava, un nuovo nemico sorgeva ogni dì: ma i Visconti dal pingue paese smungeano denaro, denaro traevano dagl’immensi possessi confiscati, col denaro compravano bande, e colle bande vincevano e tiranneggiavano. Gian Galeazzo figliuolo di Galeazzo, altrettanto ambizioso e più dissimulatore, comprò dall’imperatore Venceslao il titolo di vicario imperiale di Lombardia. Pagando a Giovanni II re di Francia trecentomila zecchini, di cui avea bisogno per riscattarsi dal re d’Inghilterra, n’ottenne la mano della figlia Isabella e la contea di Virtù in Sciampagna. In seconde nozze sposò Caterina figlia di Bernabò, il quale così credeva esserselo indissolubilmente legato, e lo canzonava di quel non curarsi di grandezze umane e della sua santocchieria. Fedele a questa, una volta Gian Galeazzo s’avviò in pellegrinaggio solenne al sacro monte di Varese, menando seco la Corte; e poichè passava rasente a Milano, pregò lo zio volesse venire a salutarlo fuor della porta. Lo zio v’andò (1385); ma appena l’ebbe abbracciato, il nipote diè il segno a’ suoi seguaci, che, tirate l’armi di sotto le pie tuniche, presero Bernabò col suo seguito, e buttatolo in castello, e fattogli un ridicolo processo, non per le atrocità sue, ma per stregherie e per avere con incantesimi reso sterile il matrimonio del nipote, lo sepellirono nel castello di Trezzo a morire di rabbia se non fu di veleno. Milano rise della volpe presa al laccio, ed acclamò Gian Galeazzo, che riunì tutto il dominio visconteo, e trovò nel tesoro settecentomila fiorini d’oro contanti e sette carri d’argento in verghe e vasellame. Gian Galeazzo non avventurava mai nè la persona propria nè l’esercito a battaglia decisiva, ma lo chiudeva entro fortezze, lasciando la campagna esposta; sapeva poi destreggiare di politica, annodare e scompor leghe, essere perfido e bugiardo opportunamente, e scegliere i migliori stromenti alle sue ambizioni. Le finanze, per buona amministrazione fiorenti, davangli mezzo di comperarsi partigiani nelle altre repubbliche, e bande mercenarie, e grosse parentele, e così far dei paesi come gli talentasse; nè dopo Federico II v’era stato principe più temuto dagl’Italiani, e più minaccevole all’altrui indipendenza. Stanco dell’obbrobrio delle bande di ventura, strinse lega coi Gonzaga, i Carraresi e gli Estensi per isbrattarne il paese, e Bartolomeo di Sanseverino fu spedito contro di loro con una bandiera inscritta Pax; lega di effimera durata, che presto fece luogo a rivalità ed ambizioni tra questi signorotti. Quei della Scala disonorarono la propria decadenza coi delitti. Cansignorio, e Paolo Alboino, figli di Mastino II, aveano assassinato il fratello maggiore, indi azzuffatisi tra sè, il più debole fu cacciato prigione in Peschiera, finchè Cansignorio, sentendosi morire, mandò ammazzarlo (1375) acciocchè non attraversasse la successione a’ suoi figli naturali Bartolomeo e Antonio. Rinnovando simili misfatti, Antonio uccide Bartolomeo (1381), poi ne accagiona un’amica, e costei e tutta la famiglia manda alle forche. Quest’Antonio fu dai Veneziani aizzato contro Francesco Carrara signore di Padova, loro implacabile nemico, il quale si pose a schermo di Gian Galeazzo. Costui, adontato che lo Scaligero per gelosia avesse rinnegato la sua alleanza, s’intese col Carrara; vantandosi erede degli Scaligeri in grazia di Caterina sua moglie, nata da Regina della Scala, fece attaccar Verona (1387 8bre) dalle bande di Ugolotto Biancardo; ed essendo Antonio fuggito a Venezia dopo consegnata la fortezza al legato imperiale, Galeazzo la comprò a contanti. Ma, infido al proprio alleato, non che cedergli Vicenza come avevano pattuito, si offerse amico a Venezia contro di esso, ricevendone centomila ducati il primo anno, poi ottomila al mese se la guerra si prolungasse. Il Carrara trovavasi addosso nemici troppo poderosi, scontenti i popoli, non denaro per comprar bande o trarre qui stranieri; sicchè per disperato rinunziò la signoria al figlio Francesco II Novello, il quale sentendosi inetto a resistere, ricoverò a Pavia (1388 9bre) fra l’esultanza de’ Padovani. Malgrado il salvocondotto, furono chiusi il padre a Verona, il figlio a Milano: Galeazzo prese Padova, poi Treviso, e si trovò sul margine delle lagune, alla tardi e mal pentita Venezia minacciando, se Dio gli concedesse sol cinque anni di vita, ridurla umile quanto Padova. Tolte di mezzo quelle due antiche famiglie, assorbite le case dei Correggio, dei Cavalcabò, dei Benzoni, dei Beccaria, dei Langoschi, dei Rusca, dei Brusati, restava padrone di ventuna città, che gli fruttavano ducentomila fiorini, cioè metà quanto la Francia e l’Inghilterra, avendo in corte quasi prigioniero Teodoro II marchese di Monferrato, ricevendo docilissimi omaggi da Francesco Gonzaga signore di Mantova, proteggendo il marchese Alberto d’Este contro l’odio meritato con delitti; aveva una zia maritata in Lionello d’Inghilterra con ducentomila sterline; la figlia sua Valentina sposò a Luigi duca d’Orléans, assegnandole in dote la città e il territorio d’Asti, quattrocentomila fiorini, e un corredo e gemme quali nessun regnante. Fidava recuperar Genova coll’attizzarne le intestine malevolenze; chiedendo sposa Maria, erede presuntiva della Sicilia, aspirò ad acquistare quell’isola sbranata fra due fazioni: se non che il re d’Aragona, subodorato l’accordo, appostò la flotta lombarda e mandolla sgominata. Sempre più ampliando i suoi divisamenti, Gian Galeazzo ambiva la corona d’Italia; ma prima conveniva abbattere la tutrice della costei libertà, Firenze. Questa continuava ad essere il centro de’ Guelfi, sottometteva i castellani del contorno, e nelle interne riotte migliorava la sua costituzione. A misura del crescer di essa scapitava la ghibellina Pisa, la quale invischiatasi nelle vicende di terra, più non dava i migliori negozianti a Costantinopoli e all’Arcipelago, e vedeva spopolarsi i suoi banchi in Siria. La battaglia della Meloria, altro frutto del suo parteggiare cogl’imperatori, l’avea fatta soccombere a Genova; e per alcun tempo proibita di tenere armi, perdè l’abitudine della guerra, onde la gioventù si drizzò ad altre vie, ad altra ambizione i consigli; i pescatori delle maremme, di Lerici, della Spezia passarono a servizio de’ Genovesi. Alla Corsica avea rinunziato, sicchè fu data agli Aragonesi in cambio della Sicilia: ma poichè v’era sempre chi favoriva a’ Pisani o a’ Genovesi, tutta andava in partiti e scaramuccie, che impedivano agli Aragonesi di profondarvi radici. Molti tirannelli vi sorsero, finchè il popolo stanco (1359) trucidò i baroni o li fugò, e stabilì una costituzione repubblicana, mettendosi in tutela de’ Genovesi, patto di non essere aggravezzati che di venti soldi per fuoco l’anno. Nè per questo le fazioni quetarono; e non potendo la repubblica di Genova tenerla, cinque cittadini ne presero a proprio conto la protezione, e se la divisero. Poco durò, e alle indigene si aggiunsero le scissure di Adorni e Fregosi. Ai Pisani restava accora la Sardegna, opportuna al commercio coll’Africa che ormai sola le era dischiusa: ma nel 1323 quanti erano in quell’isola furono trucidati per trama di Ugone de’ Visconti giudice d’Arborea, il quale consegnolla a Giacomo II re di Aragona. L’infante don Alfonso, sbarcatovi con poderosa armata, consumò quindicimila uomini nel vincere l’intrepida resistenza di Cagliari e de’ Pisani condotti da Manfredi della Gherardesca (1326), i quali alfine dovettero abbandonargli l’isola, ultimo resto di loro marittima grandezza. Gli Aragonesi v’introdussero le cortes, con tre stamenti o bracci, ecclesiastico, militare, regio, cioè popolano, i quali aveano parte nel far le leggi e nel fissare l’imposta, e rendeano ragione alle querele d’individui e di corpi. Alcuni signori conservaronsi indipendenti, come i marchesi d’Arborea, tra cui fu famosa Eleonora che fece raccor le leggi dell’isola (_carta de logu_) (1403), fin testè conservate in vigore. Pisa si trovò intercetta la via dell’Africa, in Sicilia non potè sostenere la concorrenza de’ Catalani, onde si restrinse all’agricoltura, alle manifatture, alle imprese di terra. Sempre avversa alla guelfa bandiera, continuava a rivaleggiare con Firenze. Secondo il trattato del 1342, avea fatto esenti i Fiorentini da ogni gabella in Pisa; ma col pretesto di armare contro i corsari, impose ad essi pure due denari ogni lira di valore. Risoluti di non rassegnarsi ad un esempio che potrebbe condurre a peggio (1357), i Fiorentini chiusero le loro partite e trasportarono gli scanni al porto di Telamone nella maremma senese. I mercanti forestieri dovettero seguirli, sicchè fu colpo mortale a Pisa, la quale, vuote le case, i magazzini, gli alberghi, le strade di vetturali, il porto di navi, riducevasi una solitaria città castellana. Dentro la squarciavano le sêtte de’ Bergolini, popolani guidati dai Gambacorta, e de’ Raspanti, in mala fama per aver _raspato_ ne’ loro governi, e sempre avversi ai Fiorentini. Gli odj portarono ad alternate tirannie; e i Visconti di Milano, che mai non torceano gli avidi occhi dalla Toscana, per demolirla colle lotte interne favorivano ai Raspanti, i quali incessantemente aizzavano alla guerra contro Firenze, non foss’altro per rincalorire i rancori, che troppo s’erano calmati dacchè si vedeva a che avesse portato l’esclusione de’ Fiorentini, dai Raspanti cagionata. Volterra mal potea conservarsi indipendente fra le tre repubbliche vicine che v’aspiravano; e però avendola i Fiorentini sciolta dalla tirannide di Bocchino Belforti, si diede a loro protettorato (1360). N’andò al colmo il dispetto de’ Pisani, che ruppero all’armi con varia fortuna; ma l’antica regina dei mari si trovò sull’onde guerreggiata dalla mediterranea rivale. Pisa sentendosi non bastar sola, chiese ajuti a Bernabò Visconti, e questi vi spedì l’Acuto (1362) colla banda inglese di duemila cinquecento cavalli e duemila fanti. Vero è che costoro devastarono la campagna, poterono anche fare una punta sopra Firenze, correre il palio fin sotto le mura di essa, ed appiccarvi alla forca tre asini col nome di tre magistrati fiorentini; ma la voracità di questa masnada, la peste che ripullulò, e la rotta di San Savino (1364) (che ancora si festeggia a Firenze col palio di San Vittorio) ridussero i Pisani a strettissime condizioni[5]. Non potendo poi pagare l’ultima rata alle compagnie di ventura, Giovanni Agnello loro concittadino, la cui ambizione era sollecitata da Bernabò, promise soddisfarli de’ soldi dovuti, e col loro appoggio si fece proclamar doge: premiò, punì, relegò, com’è il solito di cotesti ambiziosi, e giustificava l’usurpazione col titolarsi luogotenente del Visconti. La pace giovava al dittatore; onde fu conchiusa (17 agosto) tra Pisani e Fiorentini, restituendo a questi ultimi le franchigie che godevano a Pisa, i castelli e i prigionieri, oltre centomila scudi d’oro per le spese della guerra. Firenze era sempre stata braccio destro della Chiesa: pure onesta franchezza mostrava nelle materie ecclesiastiche, sacerdoti e abati puniva dei delitti come gli altri cittadini, e li sottopose alle gravezze comuni. L’inquisitore frà Pietro dell’Aquila, superbo e avido di denaro, avea avuto procura dal cardinale di Barros spagnuolo, per riscuotere dodicimila fiorini dovutigli dalla fallita compagnia degli Acciajuoli; e benchè col consenso della Signoria n’avesse preso adequata cauzione, fece dai birri del Sant’Uffizio (1375) sostenere uno degl’interessati d’essa compagnia. Se ne leva rumore: il prigioniero è tolto ai birri, che con tronche le mani sono banditi dalla Signoria. L’inquisitore sbuffante si ritira a Siena, e lancia l’interdetto sui priori e sul capitano di Firenze: questi appellano al papa, accusando d’altri abusi l’inquisitore, e che settemila fiorini in due anni avesse smunto dai cittadini, coll’appuntare come eresia ogni paroluzza, ogni sentenza men castigata; e il papa, informato del vero, levò le censure. Allora il Comune ordinò, come già erasi fatto a Perugia, che nessun inquisitore prendesse brighe estranee al suo uffizio, nè potesse condannare in denaro, nè tenere carcere distinta; divieto ai magistrati di dargli sgherri, nè di lasciar arrestare chi che fosse senz’assenso dei priori: e poichè Pietro dell’Aquila a più di dugencinquanta cittadini avea dato la licenza delle armi, col titolo di famigli del Sant’Uffizio, ritraendone meglio di mille fiorini l’anno, si ordinò che l’inquisitore non avesse più di sei famigli con arme, nè più di sei altri licenziasse a portarle; quelli del vescovo di Firenze fossero ridotti a dodici, e a metà quelli del fiesolano; l’ecclesiastico che offendeva un laico in fatto criminale, cadesse sotto al magistrato ordinario, senza eccezione di dignità, nè riguardo a privilegi papali. Tutto ciò indispose il papa contro Firenze: e Guglielmo di Noellet, legato pontifizio a Bologna, parve ne insidiasse la libertà, la carestia peggiorando col proibirvi l’invio del grano, poi scagliando contro della Toscana la Compagnia Bianca dell’Acuto, dacchè la tregua con Bernabò la rendeva inutile: passo sconsigliato e disastrosissimo all’Italia ed alla causa pontifizia. Firenze, indignata di vedersi tolta di mira da quella Corte, cui con lealtà religiosa avea sempre favorito, comprò l’inazione di costui mediante centrentamila fiorini, e tosto gittò l’incendio nella Romagna, promettendo mano a chiunque si rivoltasse alle sante chiavi. Siena, Lucca, Pisa tennero con essa, e così il Visconti, cui Gregorio XI aveva rinnovato le ostilità: gli Otto della guerra, a’ quali erasi affidato il governo di Firenze, ed erano detti gli otto santi patroni, raccolsero l’esercito sotto una bandiera iscritta a oro _Libertà_, la quale spedirono a Roma e agli altri paesi con lettere mirabilmente dettate dal segretario Coluccio Salutati. Ed ecco in non dieci giorni ottanta città o borgate di Romagna e delle marche d’Ancona e Spoleto, e Bologna stessa si sottrassero ai vicarj pontifizj, e costituendosi libere, o richiamando le antiche famiglie spossessate dall’Albornoz. Giovanni Acuto, a servizio del legato papale, intitolò la sua _compagnia santa_, e malmenò la Romagna. Il vescovo d’Ostia conte di questa dimorava in Faenza, e scoperto che Astorre Manfredi praticava per farla ribellare, chiamò l’Acuto. Il quale volò, e subito chiese denari (1376); e non avendone il vescovo, cacciò prigione trecento primani, undicimila spinse fuor di città, solo ritenendo alquante donne a oltraggio; poi l’abbandonò al sacco, nè tampoco risparmiando le vite di fanciulli. La città così malmenata vendè per quarantamila fiorini al marchese d’Este, poi gliela ritolse per darla al Manfredi. Questo chiamava egli servire al pontefice: eppure in compenso pretese le terre di Bagnacavallo e Castrocaro. La sollevazione intanto estendevasi; ben ottanta città aveano tolto l’obbedienza al pontefice, che viepiù indignato contro i Fiorentini, li citò al suo tribunale. Essi, che non voleano esser religiosi a scapito della libertà[6], mandano tre ambasciadori ad Avignone, che sostengono la causa loro con insolita franchezza, e — In quattrocento anni dacchè godiamo della libertà, la ci si è per modo connaturata, che ognun di noi è disposto a sagrificare la vita per conservar quella». Il buon papa era troppo male ispirato, com’è più facile ai lontani; e senza dare ascolto proferì contro di loro la scomunica, eccitando ognuno ad occuparne gli averi e le persone; onde Donato Barbadori, uno dell’ambasciata, si volge a un Cristo, appellandosi a lui dell’ingiusta sentenza, e dicendo col salmista: — Ajutor mio, non mi lasciare; se anche mio padre e mia madre m’abbandonarono». Quanti erano per traffico in Avignone e altrove sono obbligati partirsene; il re d’Inghilterra coglie l’occasione per occupare gli averi e far serve le persone di quanti ne trovò nel suo regno; sicchè arrivò a Firenze tanta gente, da poter formare un’altra città. I Fiorentini decretano non si badi all’interdetto (1377), e si continuino gli uffizi divini: ma l’Acuto mette a macello le città sollevate; Roberto di Ginevra nuovo legato, cattiva scelta d’ottimo pontefice, trae una banda delle più ribalde che devastassero la Francia, guidata da Giovanni di Malestroit bretone, il quale, avendogli il papa domandato — Ti basta l’animo di penetrare in Firenze?» rispose — Sì perdio, se vi penetra il sole». A’ Bolognesi il legato minacciava voler lavarsi piedi e mani nel sangue loro; e di fatto Monteveglio, Crespellano ed altre terre furono spietatamente invase. Cesena, assalita per una rissa fra’ Bretoni e i cittadini, fu mandata a sacco, e Roberto gridava — Sangue, voglio sangue; scannate tutti, affatto affatto»; orribile grido, più orribile in bocca di legato papale, se pur non è una delle solite invenzioni con cui si vendicano gli oppressi. Tre giorni abbandonata a quel furore, cinquemila cadaveri furono rinvenuti quando si rifabbricò, oltre quelli periti nel fuoco e mangiati dai cani: gli altri errarono mendicando. I soldati cambiavano a some le spoglie dei morti con altrettanto fieno e paglia da stramare i cavalli; le donne, vedove, contaminate, nude, digiune, metteano pietà fin al disumano Acuto. I Fiorentini riuscirono a staccare costui dal papa col pagargli duecencinquantamila fiorini l’anno; vale a dire redimevano i ricolti del proprio territorio dando una metà della pubblica rendita. Solo allorchè lo scisma cominciato nella Chiesa facealo bisognoso di pace, il papa ricomunicò Firenze (1378), accettandone ducentrentamila fiorini. Firenze vedeva con gelosia gl’incrementi di Gian Galeazzo; e questo, soffiando ne’ rancori degli emuli di essa, riuscì ad allearsi con Siena, Perugia, Urbino, Faenza, Rimini, Forlì e molti principotti, oltrechè si provvedeva dei migliori capitani nostrali, Jacopo del Verme, Giovanni d’Azzo degli Ubaldini, Paolo Savelli, Ugolotto Biancardo, Galeazzo Porro, Facino Cane, ed accampava fin quindicimila cavalli e seimila fanti. Firenze sentendosi minacciata, doppiò di zelo e sagrifizj, e oltre l’Acuto, assoldò il tedesco duca di Baviera, il francese duca di Armagnac, che menava duemila lance e tremila _pilardi_ o saccomanni, diluvj d’ogni nazione, stipendiati per danno della nostra. Associavasi pure colla potenza di Bologna e coll’ira del tradito Francesco Novello de’ Carrara. Costretto, come narrammo, dal Visconti a far cessione del principato degli avi suoi, e relegato a Cortazzone nell’Astigiano, costui fugge per Francia, dando voce d’andar pellegrino a Sant’Antonio di Vienne, e seguito dall’intrepida moglie Taddea d’Este e dai figliuoli, varca i geli alpini, si prostra all’antipapa Clemente VII in Avignone, a Marsiglia abbraccia Raimondo già vescovo di Padova, poi temendo essere arrestato da quel governatore, s’imbarca per Genova. La procella lo butta su spiaggia nemica, ma ne campa mediante il denaro e le lettere del re di Francia; e giunto a una terra de’ Fieschi, si rimette al mare. Nuova tempesta lo spinge al lido, ove uno Spínola non crede sia mercante nè uom d’arme come diceva, e l’obbliga a manifestargli l’esser suo. Questo, caldo ghibellino, corre a Genova a riferirlo al doge Adorno, creatura dei Visconti; ma il Carrarese, avutone sentore, passa la notte in una chiesa, donde all’alba fugge lungo la riviera. Ivi l’imbatte un mercante, che al nobile portamento di Taddeo insospettito, corre a denunziarlo a Ventimiglia come rapitore di gentildonna. Le milizie il sopragiungono, ma egli, palesatosi, riceve onore; ed è trovato da un messaggiero di Paganino Doria, che gli presenta la metà d’un dado, segnale concertato, onde seco prosegue il viaggio s’un palischermo. Spinto da traversia a Savona, ove dominavano i Del Carretto amici al Visconti, se ne sottrae con pronta fuga, e in abito da pellegrino passa per Genova, si sottrae ai condottieri del duca spediti sulla sua traccia, ed eccolo a Firenze. Nojato dai gabellieri alle porte, ricevuto freddamente e consigliato a cercarsi altro asilo, egli mette banco per guadagnare il vitto alla famiglia, e si fa stimare dai Fiorentini, viepiù dacchè lo vedono temuto dal Visconti: i Veneziani stessi, cessato di averne paura, lo guardano amicamente; dalla prigione suo padre lo esorta a sostenere le fortune e l’onore della casa. Allora Francesco ripiglia personaggio politico, gira le corti di Germania e n’ottiene soccorsi ed incoraggiamenti, coi quali traversato il Friuli, e raccolti amici e partigiani, di sorpresa recupera Padova (1390 19 giugno). Subito l’incendio si diffonde; Verona acclama il fanciullo Can Francesco, figlio del defunto Antonio della Scala; e i Veneziani dan mano ai nemici di Gian Galeazzo. Però le bande oltramontane non aveano ancora imparato la strategia maestrevole delle italiane; e l’Armagnac, che, giovane di ventott’anni e usato a vincere, con baldanza francese sbraveggiava gl’Italiani, essendosi con pochi avanzato fin sotto Alessandria, da Jacopo del Verme fu battuto e ferito a morte (1391 25 luglio); i suoi, presi e spogliati, dovettero senz’armi tornare in Francia. Ne restava in gravissimo frangente l’altro esercito al soldo de’ Fiorentini, ma Giovanni Acuto con ferma maestria potè ritirarlo attraverso l’Oglio, il Mincio, l’Adige. Rotte le dighe di questo, allagata la valle veronese, l’Acuto si trovò una volta ristretto sopra un argine, e tutto intorno acqua, onde il Del Verme gli mandò per beffa una volpe in gabbia; ma l’inglese rispose: — La volpe troverà modo da sgattajolare»: e in fatto, traversando di sotto di Legnago per entro le acque e la melma un’intera giornata, ridusse l’esercito in salvo. All’Acuto Firenze dava fin duemila fiorini l’anno di paga, e lui e suo figlio faceva esenti da ogni gravezza; pingui doti alle tre figlie, assegno vedovile alla moglie Donnina Visconti; e quando morì (1394) gli rese esequie da principe, e mausoleo in Santa Maria del Fiore, e le sue ceneri furono ridomandate dal re d’Inghilterra: tant’è pertinace la frenesia degli uomini nell’onorare chi gli uccide. Stanchi di quelle interminabili evoluzioni senza mai una battaglia campale, i belligeranti trattarono d’accordo (1392 genn.), rimettendosi all’arbitrio di Antoniotto Adorno doge di Genova, e Riccardo Caracciolo gran maestro dell’ordine di Rodi. Il costoro arbitramento a Francesco Novello manteneva Padova, proibito a Gian Galeazzo d’intrigarsi nelle cose toscane, e ai Fiorentini nelle lombarde. Ma il Visconti, le cui ambizioni rimanevano insoddisfatte, non atteneva i patti; le bande mercenarie congedate, eppur tenute sempre a mezzo soldo, spingeva contro i Fiorentini (8bre); fermava alleanza con Jacopo d’Appiano, che svertando Pietro Gambacorta, s’era insignorito di Pisa. Francesco Gonzaga in un finto pellegrinaggio combinò una lega guelfa tra Bologna, i signori di Padova, Ferrara, Mantova, Ravenna, Faenza, Imola, e principalmente Firenze, la quale regolata allora dagli Albizzi, destri politici, coi maneggi non men che colle bande mercenarie tenne testa ad Alberico di Barbiano. Non potè però impedire che Gerardo figlio e successore dell’Appiano vendesse Pisa a Gian Galeazzo (1399 febb.), conservando per sè Piombino coll’isola d’Elba, la quale d’allora formò un principato distinto. Anche Siena, agitata dalle fazioni e dalle rivalità con Firenze, si diede al Visconti (1400 genn.); e Perugia l’imitò. Pure l’opposizione di Firenze scompigliò (fu bene o male?) i disegni di Gian Galeazzo, il quale, caduto dalla speranza d’unire tutta Italia, pensò consolidarsi in Milano. Per quanto la lunghezza e successione delle signorie avesse abituato a considerarli per principi ereditarj, i Visconti, come gli altri tiranni, non dominavano se non perchè il potere politico era affidato loro dall’assemblea del popolo, nella quale risedeva ancora di diritto la sovranità. Vero è che i Visconti la dispensavano dallo incomodo di adunarsi, facendo far tutto dai dodici di provvisione, presieduti da un vicario nominato dal principe, o al più convocavanla per dire di sì. Dal principe emanavano gli statuti, diretti spesso a consolidare la sua autorità col proibire di portare armi, di fare società segrete, o mantenere corrispondenza col papa o coll’imperatore, od a volere severa e compendiosa giustizia dei ladri e dei ribelli, «e per ribelli s’intendono tutti quelli che fanno contro al pacifico stato del signore e del Comune di Milano». Il vicario, mentre era luogotenente del duca, era pur capo della cittadinanza, e intermedio fra questa e quello; doveva essere forestiero, o almeno non possedere beni fondi nel Milanese; veniva assistito da dodici consiglieri bimestrali, tolti in parte dal collegio dei dottori, in parte dai mercanti e dai cittadini. Di questo magistrato erano competenza la polizia interiore, il commercio, la sanità, l’abbondanza, le contestazioni fra i mestieri e per servitù locali e mercedi; amministrava le rendite del Comune, i dazj, le regalie d’acque e strade; nominava agl’impieghi municipali, sceglieva i podestà, i capitani ed altri capi della giustizia nel contado. Esso pure convocava il consiglio generale di cencinquanta cittadini per ciascuna delle sei porte principali, eletti in prima da deputati del popolo, poi dal tribunale stesso di provvisione assistito da alquanti savj, infine dal duca. Ogni porta aveva stemma e bandiera propria e capitani; ogni parrocchia i suoi sindaci, e assemblee elettorali e deliberative: ai cittadini spettava la difesa delle mura e delle porte. Il potere giudiziale civile spettava al podestà; il criminale a un capitano di giustizia: ma costretto com’era ad appoggiarsi ad uno dei partiti per valere sopra l’altro, restava servo del preponderante, cioè del principe. Queste consuetudini antiche de’ Comuni, e i privilegi feudali, le fazioni, il clero, le maestranze erano limiti alla potenza del principe, e sembra che principalmente ponessero ritegno al soverchiare delle imposte, giacchè questo adopera parole lusinghiere e fin vili allorchè domanda qualche nuova tassa. Al che per lo più davagli titolo il dover levare truppe, e con queste potea soprusare: se poi fosse creato vicario imperiale, esercitava i diritti regj: in caso di guerra non avea più limiti, come generale dell’esercito: se diveniva capo di molte città, non tenendosi queste l’una coll’altra, egli si trovava indipendente da tutte, e le une adoprava a frenare le altre; le quali conquistate non aveano alcun diritto da opporre agli arbitrj di esso. Per dare a conoscere il governo d’alcuna delle città dipendenti, togliamo ad esempio Como. Vi durava il consiglio generale di cento, fra i quali sortivasi un consiglio di dodici savj od uffizio di provvisione, per amministrare gli affari ordinarj: ne’ casi più rilevanti, come per fare statuti, dare la cittadinanza, vendere o impegnare i beni pubblici, raccoglievasi il consiglio generale. Ma Gian Galeazzo Visconti cercò sempre assottigliare la giurisdizione che questo aveva in materia d’ordinanze, pesi, misure, imposte, statuti, i quali vi erano stati rinnovati da Azzone. Innanzi a detto consiglio appaltavansi le gabelle, e un giudice dei dazj con sei ragionieri risolveva le quistioni ad essi relative. Un referendario, per l’interesse del principe, sovrintendeva ai dazj, alle gabelle, ai pedaggi, ed interveniva al consiglio generale; e il primo che si trovi, fu del 1387. Quattromila seicento fiorini al mese era la quota che Como pagava a Gian Galeazzo. Privilegio del fisco era il sale, e l’appaltatore nel 1380 dovea comprarne quindicimila cinquecento staja dalla gabella del principe, il quale poi era suddiviso per Comuni e per famiglie, restandone esenti quelli che possedessero meno d’una lira di estimo. Il sale allora valeva quattro lire di terzoli; ed ogni frode era severamente punita. Il podestà non era più eletto dalla città, ma spedito da Milano[7], con cento fiorini d’oro al mese, coi quali doveva stipendiare un collaterale per la polizia, e il vicario e il giudice de’ malefizj, che sosteneano le veci sue, questo nelle criminali, quello nelle cause civili, nelle quali aveano pari autorità quattro consoli di giustizia e due giudici di palazzo, scelti fra i dottori di collegio. Ogni sei mesi venivano da Milano censori, i quali pure sindacavano i magistrati quando al fine dell’anno scadeano. Il governatore era un mero rappresentante, nè scemava al Comune l’autorità sopra gli uffiziali inferiori e sopra le entrate proprie. Bisognava dare un numero di soldati proporzionato alla popolazione, e sotto connestabili e con paga; oltre carri e guastatori ed altri servigi da guerra. La cittadella era guardata da un comandante: da un capitano del lago, sedente a Bellagio, dipendevano i soldati e due navi da venti e più remi dette _scorrobiesse_, per inseguire i contrabbandieri e i pirati. Un capo del bollo rilasciava i passaporti agli stranieri, sui quali e sulle porte, sulle quarantene, sui confini aveva giurisdizione. Dal principe pure venivano il giudice delle vettovaglie che badava alla bontà dei viveri e delle medicine, e i giudici delle strade. Quel che parrà strano, nemmeno la perdita della indipendenza toglieva le nimistà interne e le divisioni per famiglie. A Como nel 1335 furono eletti cinquanta uomini della fazione Vitana, cinquanta della Ruscona, cinquanta della Lambertenga; e posti i nomi in tre urne separate, se ne estraeva uno per ciascuna, formando il tribunale dei _tre buoni uomini_, giudice inappellabile delle cause introdotte avanti a qualsifosse magistrato. E fin ai tempi di Francesco Sforza si continuò a cernire il consiglio metà dalla squadra Vitana, metà dalla Ruscona. Galeazzo e Bernabò Visconti aveano creduto abbreviare e semplificare le liti coll’ordinare che quelle introdotte presso qualunque giudice si dovessero, a petizione anche d’una sola parte, compromettere in tre persone di fiducia, che proferissero senza strepito di fôro e inappellabilmente. Ciò dovette cadere in disuso, giacchè Gian Galeazzo lo richiamò nel 1382: ma presto apparve che questo surrogare l’arbitrio e il buon senso della legge peggiorava la giustizia; onde dapprima si volle che fra i tre fosse un giurisperito, poi la sentenza fosse appellabile, infine si rimisero i giudizj ai magistrati ordinarj. A questi si andava estendendo la facoltà di procedere d’uffizio contro i delinquenti, e non solo per istanza dell’offeso, come già si praticava: il quale accentramento della giustizia fu un gran passo verso la centralità[8]. E Gian Galeazzo vi servì collo stabilire a Milano un consiglio di giustizia, tribunale supremo, cui portavasi l’appello dagli altri inferiori; e un consiglio segreto che sovrintendeva all’amministrazione, avendo dipendenti i magistrati delle entrate ordinarie e delle straordinarie, i referendarj della curia ducale, i _collaterali del banco degli stipendiarj_ per l’esercito, i _capitani del divieto dei grani_ sopra l’annona. Anche la nomina ai benefizj ecclesiastici fu tratta al principe, salvo al papa il ratificarla: infine esso si arrogò quella del gran consiglio e dei dodici di provvisione. L’estendersi dello studio del diritto romano cresceva al principe l’autorità giuridica, oltre che egli reprimea arbitrariamente i frequenti delitti. Questo potere dispotico, come nella Roma antica, derivava dalla potenza del capitano; e non distruggeva le forme repubblicane, ma le privava d’ogni efficacia. Al popolo rimaneva ancora il diritto di scegliere il principe; e disgustato dell’uno, protestava che, morto lui, mai più non ne vorrebbe altro; poi, appena morto questo, correva ad eleggerne un altro, anzi il figlio o il fratello di quello, per la ragione che suo padre o fratello era stato cattivo. Il ragionamento sa di strano, ma si fa tutti i dì. Per tal modo i Milanesi si erano in cent’anni avvezzati a credere necessario il principato, e supporvi quasi un titolo ereditario alla casa Visconti. Se non che poteano sempre dir di no; e questo pericolo, per quanto remoto, turbava i sonni a Gian Galeazzo, il quale, per non tenersi conoscente del titolo all’elezione popolare, preferì riceverlo dall’imperatore. Federico Barbarossa a Costanza riconosceva liberi i Lombardi: in conseguenza gl’imperatori non aveano potere diretto su di essi, nè mai pretesero considerarli come un feudo, di cui potessero disporre. Quando dunque Galeazzo offrì all’imperatore Venceslao centomila zecchini se lo eleggesse duca di Milano, questo (1395 maggio) non esitò un istante ad esaudirlo[9]. Galeazzo, scaltrito che più dei forni usati da’ suoi predecessori, incatenerebbero il popolo le feste, ne preparò di suntuosissime. Sulla piazza di Sant’Ambrogio ove si coronavano i re d’Italia, il nuovo duca fu messo in trono, poi a ginocchi dal messo imperiale ricevette il manto e una corona che valea ducentomila fiorini; e canti, e messe solenni, cavalcate, giostre, corte bandita, regali da non dire, e «allo spettacolo de tanta solennitate vi concorse quasi de tutte le nazioni de Cristiani ed anche gl’Infedeli, in modo che ciascuno diceva non più potere maggiore cosa vedere»[10]. Questa Lombardia che vedemmo sminuzzata in tante repubblichette quanti erano i Comuni che si governavano e amministravano alla domestica, veniva dunque a fondersi in un ducato, che, oltre la capitale, comprendeva Lodi, Crema, Cremona, Bergamo, Brescia, Como, col lago suo e quel di Lugano e con Bellinzona, Bormio e la Valtellina, Novara, Alessandria, Tortona, Vercelli, Pontremoli, Bobbio, Sarzana, Verona, Vicenza, Feliciano, Feltre, Belluno, Bassano colla riviera di Trento, Parma, Piacenza, Reggio, Arezzo; inoltre una contea in cui Pavia, Valenza, e Casale; e la contea d’Angera, titolare dell’erede. Gian Galeazzo possedeva altresì Perugia, Nocera, Spoleto, Assisi; oltre Asti ed Alba, che diede in dote alle due figlie. E tutto questo paese, divenuto retaggio d’una famiglia, passò dappoi a chi avesse più forza per occuparlo, o più astuzia e fierezza per tenerlo oppresso. Forte spiacque ai Tedeschi l’alienazione di questo ducato, che essi amavano considerare per feudo imperiale; e fu uno degli aggravj di cui più caricassero Venceslao quando lo scoronarono (1401). Roberto conte palatino sostituitogli dovè promettere di venire in Italia e annichilare la sovranità de’ Visconti; sicchè alleatosi col signore di Padova, e accomodato di ducentomila fiorini da Firenze, spedì ambasciatori a far l’intimata a Galeazzo. Questo per tutta risposta si cinse de’ migliori capitani di ventura; e Roberto entrato sul territorio di Brescia (8bre) che era sorto a rumore, ed assalito da Facino Cane e Jacopo Del Verme, provò come la cavalleria italiana fosse superiore alla tedesca, la quale sarebbe ita in piena rotta se Francesco Novello non la sosteneva con uno squadrone italiano. Roberto, perduti mille cavalli e molti prigionieri, e abbandonato dai vassalli, se ne partì con ignominia (1402). Così e l’assalto e la difesa dipendeano da capitani di ventura, de’ quali i migliori tenevasi intorno Galeazzo, e per opera loro ricuperò la sempre ribramata Bologna. Questa era tuttora divisa fra gli Scacchesi capitanati da Gozzadini e Zambeccari, e i Maltraversi che coi nobili aveano a capo Giovanni Bentivoglio, il quale (1401) riuscì a farsene dichiarar signore. Con ciò Firenze perdeva la sua più costante alleata: ma Galeazzo mandò contro al Bentivoglio il Del Verme e il Barbiano, e per quanto egli si difendesse valorosamente, fu fatto prigione ed ucciso (1402 giugno); e Galeazzo, gridato signore, fece al solito costruirvi una fortezza. Insomma costui finiva di sotterrare le repubbliche nostre. Pisa gli era stata venduta da Gerardo Appiano; Siena e Perugia lo chiamarono signore, mentre Genova si metteva sotto al re di Francia; Roma era peggiorata dallo scisma papale; a Napoli la servitù non restituiva la pace; Venezia non s’accorgeva della necessità di farsi propugnatrice della libertà italiana; sola conservava l’alito repubblicano Firenze, ma sentendosi ricingere dalle insidie del Visconti, tremava: quando la peste, più volte ridestatasi in quel secolo, troncò a Gian Galeazzo le ambizioni e la vita di soli quarantanove anni (3 7bre). Fu dei più splendidi signori d’Italia, ricco di politici accorgimenti quanto povero di valore personale e di lealtà, alla libidine del possedere sagrificando giustizia, fede, utile de’ popoli, e adoprando mirabilmente gli uomini di pace e di guerra. Abile a mascherare la servitù, migliorò l’amministrazione coll’arte de’ registri e de’ protocolli serviti da interminabili scrivani, computisti, notaj: alleviò dai dazj più odiosi, molti scarcerò, fece riformare gli statuti, si tenne attorno dotti e letterati, quali Baldo giurista, il Fulgoso, Signorolo Amadio, Ugo da Siena e Biagio Pelacane matematici, i medici Marsiglio da Santa Sofia, Sillano Negro, Antonio Vacca, il filologo Emanuele Crisolara, il teologo Pietro Filargo; ridestò l’Università di Piacenza, a quella di Pavia unì una biblioteca, fondò un’accademia di belle arti, e raccomandò il suo nome a due dei più insigni monumenti dell’Alta Italia, il duomo di Milano e la Certosa di Pavia, dedicati a Maria nascente e a Maria delle Grazie. Nè avrebbe fallito d’insignorirsi di tutta Italia, se non avesse trovato sulla sua strada i Fiorentini e Francesco de’ Carrara, o quella fatalità che attraversò sempre chi vi si accinse. A’ suoi funerali, dal palazzo in castello s’avviò una processione verso il duomo così lunga, che appena si terminò in quattordici ore. Innanzi alla croce venivano connestabili, scudieri e cavalieri; e quaranta personaggi della famiglia Visconti, ognuno accompagnato da due ambasciatori di estere potenze; indi gran numero d’altri ambasciadori e nobili forestieri, e dieci deputati da ciascuna delle quarantasei città soggette[11], oltre una folla di primati e nobili di queste; poi tutti gli ordini religiosi (e non erano pochi), canonici regolari, clero secolare, gli abati dei monasteri ed i vescovi di tutte le diocesi suddite. Seguivano le insegne della città, portate da ducenquaranta uomini a cavallo, cui tenevano appresso otto altri pure a cavallo, colle insegne ducali, poi due mila persone in gramaglie, con sul petto e sulle spalle le armi della vipera, del ducato di Milano e del contado di Pavia, ciascuno con grosse torchie alla mano. Dietro al clero ed ai canonici della metropolitana appariva l’arcivescovo fra’ suoi suffraganei. La bara portavano principali signori forestieri, sotto a un baldacchino di broccato d’oro foderato d’ermellini, e tutt’intorno cortigiani a bruno, i quali, dodici alla volta, sostenevano gli scudi delle insegne e delle imprese adottate dal duca. Duemila altre persone in corrotto chiudevano la processione. Giunti al tempio e fatta l’oblazione di tutti i ceri, delle insegne ducali, delle armi e dei cavalli che le portavano, si celebrarono gli uffizj di suffragio attorno ad un mausoleo ornato di vessilli e bandiere, sovra il quale posava il feretro: nè mancava una pomposa iscrizione, attestante le virtù che il duca ebbe o doveva avere, e il pianto de’ sudditi orbati del padre; frasi per tutti. Finito ogni cosa, il corteo fece tragitto al palazzo ducale, ove fu recitata una non men pomposa e altrettanto veridica orazione, che faceva risalire la dinastia Visconti fino ad Ettore ed Enea. Avea disposto si recassero le sue viscere a San Jacopo di Galizia, le ossa alla Certosa di Pavia, alla quale lasciò estesissimi possessi per finirne la fabbrica, e poi farne le limosine, che seguitarono finchè l’istituto durò. In quel tempio, gli fu dunque eretto un mausoleo di marmo bianco, coll’effigie sedente, la storia delle sue imprese, e bassorilievi, e gli stemmi di tutte le città obbedienti al suo comando: uno de’ più insigni monumenti dell’arte italiana. Commines, arguto politico e storico francese, colà vide quelle ossa poste più alte che l’altare, e udì da un frate intitolarlo santo. «Ed io (racconta) gli chiesi all’orecchio perchè mo lo chiamasse santo, mentre potea vedere all’intorno le armi di molte città da lui usurpate senza diritto; ed egli mi rispose sotto voce: _Noi in questo paese chiamiamo santi tutti quelli che ci fanno del bene_»[12]. Gian Galeazzo lasciava due figliuoli in piccola età: a Gian Maria legò il ducato dal Ticino al Mincio, oltre Bologna, Siena, Perugia; a Filippo Maria il contado pavese, col resto del territorio; Pisa e Crema staccò pel bastardo Gabriele Maria: ma potea dire come Pirro, — Lego il mio scettro a chi ha miglior fendente di spada». La tutela affidò a Caterina Visconti sua vedova e a diciassette personaggi, fra cui i celebri condottieri Del Verme, Barbiano, Pandolfo Malatesta, Antonio d’Urbino, Francesco Gonzaga, Paolo Savelli, sperando sarebbero puntelli alla debolezza de’ bambini, e quasi dovessero stare obbedienti a un fanciullo come erano stati a lui. Valorosi in opere di battaglia quanto inetti al governo e scarsi di fede, i condottieri non più s’accontentavano di paghe, e volevano qualche città o territorio dove svernare: Giovanni da Pietramala occupò Narni; Rinaldo Orsini, Aquila e Spoleto; Boldrino da Panicale, molte terre della Marca; Biordo dominò Perugia, Todi, Orvieto, Nocera; il Broglia Assisi; altri altre terre, che poi non potendo tenere, vendevano ai Comuni o ai principotti vicini. Questi talora se ne sbarazzavano coll’assassinio, come fece il marchese di Macerata uccidendo Boldrino. I suoi mossero a vendicarlo con ferocia, sinchè Firenze s’interpose, facendoli soddisfare con dodicimila fiorini, e col restituire il cadavere del loro condottiero, che in una cassa essi portarono lungamente a capo dello stuolo. I contutori di Gian Maria sdegnavano sottostare a una donna e a Francesco Barbavara di lei favorito, presidente della reggenza; e la discordia impacciava i consigli, mentre i nemici repressi rialzavano il capo; Guelfi e Ghibellini, di cui fin il nome erasi proscritto, rinvelenivano, e non più per le antiche cause della Chiesa e dell’Impero, ma per isfogo d’odj e di stillate vendette. Il Carrarese aguzza le armi non mai deposte; papa Bonifazio IX e i Fiorentini s’intendono per sottrarre ai Visconti Siena, Perugia, Pisa, Bologna; il Barbiano, accettato il comando dell’esercito fiorentino, ricupera al papa Assisi e Perugia; gli altri condottieri s’avacciano di spartire fra sè un dominio ch’essi medesimi aveano procacciato a quella casa. Era una riazione federale contro l’unità milanese. Arte e fermezza adoprò Caterina al riparo, e con sanguinose esecuzioni sgomentò i Milanesi, che istigati da altri Visconti, dai Porri, dagli Aliprandi, eransi mossi a tumulto per imporle nuovi consiglieri. Ma tutte ormai le città aveano scossa la dipendenza, e qualche tiranno vi prevaleva sulle famiglie e sulle fazioni. I Guelfi, secondati dai Valcamuni, mandano Brescia a tale strazio, da vendersi fin carne di Ghibellini; ma Pietro Gambara, di cui s’erano macellati due figlioletti, raccolse armi e consorti a Salò, ed entrato in città prese così sanguinose vendette, che la puzza dei cadaveri contaminò lungamente l’agro bresciano e il cremonese. I Guelfi pigliano il sopravvento a Lodi con Giovanni de’ Vignati, a Piacenza e a Bobbio cogli Scotti e coi Landi; i Ghibellini trionfano a Como con Franchino Rusca, a Bergamo coi Suardi, a Cremona con Giovan Ponzone, poi con Ugolino Cavalcabò; infine Gabrino Fondulo convita i Cavalcabò e i principali del paese e li fa scannare, e guadagna così un posto fra i principi. Intanto i baroni di Sax nella Mesolcina occupano Bellinzona; Vicenza si dà ai Veneziani. Caterina riesce a far pace col papa, che venne a recuperare Bologna e Perugia: i Fiorentini, querelandolo d’averli abbandonati, continuano la guerra e liberano Siena; ma Gabriele Maria Visconti conserva Pisa alleandosi al maresciallo Boucicault, allora vicario di Francia a Genova; poi la vende per ducentoseimila fiorini (1405 giugno), che gli sono frodati da quell’avaro francese, il quale accusatolo a Genova di tradimento, lo manda al patibolo. A Caterina fu grande appoggio Facino Cane. Costui, dell’antica stirpe dei Cani di Monferrato, avea servito gli Scaligeri di Verona, e rimasto prigione alla battaglia di Castagnaro, accettò stipendio dai Carraresi, pei quali menò inesorabile guerra nel Friuli; assistè al marchese di Monferrato contro i signori di Savoja con tal fortuna, che quello l’infeudò di Borgo San Martino. Devastando il Piemonte fino ad Ivrea, crebbe nella stima di Gian Galeazzo, che gli diede a governo Bologna appena l’ebbe riacquistata. Col feroce diritto di un comandante militare egli vi si mantenne; e quando, morto il duca, ebbe ordine di cederla all’esercito pontifizio, per togliere la voglia d’inseguirlo pose il fuoco a trecento case. Dritte allora le bande sue contro dei rivoltosi, devastò quant’è da Parma a Cremona; Alessandria abbandonò ad orribile saccheggio, poi se ne fece signore, tenendo anche il contado di Biandrate. Pandolfo Malatesta, cognato della reggente, reclamava i soldi maturati; ond’essa l’inviò a depredare Como, dov’egli si pose governatore, come si sottomise Bergamo e Brescia, fondandovi un’altra signoria guelfa. Ma questa fazione perdeva allora un gran capo. Francesco Novello de’ Carrara sodatosi in Padova, e conciliatosi con Guglielmo bastardo di casa della Scala, gli avea dato mano nel recuperare Verona; poi come questo morì (1404 7 aprile) (dissero di veleno), Francesco Novello se la prese (maggio), a scapito de’ figli di esso, Antonio e Brunoro, e della Visconti. Ma già i Veneziani, istigati dalla duchessa, aveano rotta guerra al Carrarese assoldando il Malatesta, il Savelli ed altri condottieri; e per quanto egli raddoppiasse d’attività, il numero superiore de’ nemici e la peste lo costrinsero a cedere (1406). Recatosi a Venezia, ivi fu sostenuto, e dai Dieci condannato al patibolo coi suoi figliuoli, e bandita una taglia sul capo dei due che eransi salvati in Firenze, e Carlo Zeno, il più grande uomo di Venezia, accusato d’aver ricevuto quattrocento ducati dal Carrarese, benchè adducesse non esser quelli che la restituzione d’un prestito, nè stesse altra prova contro della sua illibatezza, fu escluso d’ogni impiego e condannato a due anni di prigionia. I figli di Guglielmo della Scala, sottrattisi dal carcere in cui gli avea chiusi il Carrarese, chiesero venir restituiti nel possesso di Verona; e la Signoria veneta rispose col mettere a prezzo la loro testa. San Marco trovossi possedere Treviso, Feltre, Belluno, Padova, Vicenza, Verona: funesti acquisti, che lo mescolarono alle vicende italiane; e subito fu costretto difenderli contro dell’imperatore Sigismondo, che avea mandato a invadere il Friuli Filippo Scolari fiorentino, da lui creato span e perciò detto Pippo Span. Fra tanti nemici esterni ed interni la duchessa di Milano non credea poter sostenersi che collo sgomento; e un giorno fece trovare davanti a Sant’Ambrogio (1404 8bre) cinque cadaveri, vestiti di nero e senza testa. Il popolo, invece d’atterrirsi, s’indigna, caccia lei col Barbavara suo favorito: Gian Maria dichiarato maggiore, la fa imprigionare, e forse uccidere; poi, per iscagionarsi del parricidio, ne imputa Giovanni Pusterla castellano di Monza, lo fa sbranare con tutta la famiglia da’ suoi cani, e perchè questi parvero intenerirsi all’aspetto d’un costui figlio dodicenne, ordinò di scannarlo. Imperocchè Gian Maria non pareva aspirare all’autorità che per ordinare supplizj; e resisi amici i soldati e i cortigiani col tollerarne le trascendenze, la diede per mezzo a tutte le sevizie e lubricità; teneva cani addestrati a saltare alla vita di chi esso accennava, e collo Squarciagiramo suo canattiere andava la notte per città aizzandoli or su questo or su quello. Feroce coi sottomessi, codardo coi forti, dalla tirannia de’ condottieri non sapeva schermirsi col congiurare. Per soldare le costoro bande voleansi denari, ed egli ne estorceva senza badare a qual modo, sino a proibire di rendere giustizia a chi non avesse pagato le taglie; appaltò non solo le regalie, ma i beni suoi allodiali alla città, patto che questa gli desse sedicimila fiorini il mese, di cui duemila per sè e la corte, il resto ai soldati: eppure que’ mercenarj derubavano le case signorili, i mercanti, le barche sul Po. Si volle darne colpa ai consiglieri, e per costringere il duca a mutarli, Facino Cane e Pandolfo Malatesta batterono le sue guardie e lui assediarono in città, dal castello scaricandogli bombe e cannoni, invenzione nuova e perciò meno micidiale, ma più spaventosa. Se n’indignò il Del Verme, capitano di morali sentimenti, e risoluto di risarcire l’autorità del duca, sconfisse Facino (1407); ma avea dovuto valersi delle bande del feroce Ottobon Terzo signore di Parma e Reggio, il quale in compenso della vittoria domandò di saccheggiare Milano; e perchè il Del Verme si oppose, uscì ad osteggiare Guelfi e Ghibellini. A Milano tutto era sgomento, disordine, sangue. Una affollata di poveri gridando _Pace pace_ si strinse attorno al duca che cavalcava, ed esso li fece assalire da’ suoi seguaci, talchè duecento ne perirono; e proibì di proferir la parola pace, nemmanco nella messa. Eppure fu costretto cercarla, rimovere i suoi istigatori, perdonare a’ Ghibellini, e ricevere un governatore di questi e uno de’ Guelfi. Il Del Verme, disperando del paese natìo, passò al soldo de’ Veneziani, e perì combattendo i Turchi. Facino Cane, conte di Biandrate, signore di Tortona, Novara, Vercelli, Alessandria e delle rive del lago Maggiore, rapì a Filippo Maria la reggenza di Pavia dopo che l’ebbe mandata a sacco, costrinse Gian Maria a cedergli anche quella di Milano, e teneva entrambi non solo in soggezione ma in istrettezza fin del necessario. Accingevasi a togliere Bergamo e Brescia al Malatesta, quando si malò a morte. A quest’avviso i Milanesi ghibellini, come Mantegazza, del Majno, Pusterla, Trivulzj, Baggio, Concorezzo, Aliprandi, si sbigottirono di dover trovarsi nuovamente in arbitrio del tiranno, che a tutti aveva ucciso o il padre o i fratelli, sicchè strettisi insieme a congiura, nella chiesa di San Gotardo (1412 16 maggio), trucidarono Gian Maria. Avea ventiquattr’anni; e solo una meretrice gittò qualche fiore sul colui cadavere; lo Squarciagiramo fu trascinato a strapazzo, poi alla forca. Quel giorno stesso Facino spirava[13]; e tosto i costui soldati occupano Pavia per sicurtà delle loro paghe; Astorre Visconti, bastardo di Bernabò, detto il soldato senza paura, si rende padrone di Milano; signori d’ogni parte si riaffacciano per recuperare gli antichi dominj; ma Filippo, che sin allora era parso neghittoso e dappoco, allora con meravigliosa operosità s’accinge a recuperare le avite appartenenze. Dove consisteva il punto capitale? nell’assicurarsi i venturieri. Beatrice Tenda, vedova di Facino, aveva ereditati dal marito estesissimi possessi, il dominio di Tortona, Novara, Vercelli, Alessandria; toccava i quarant’anni, Filippo venti: che importa? e’ la chiede sposa, e con essa acquista quattrocentomila zecchini e gli antichi partigiani del marito. Con questi ritoglie di viva forza Pavia e Milano agli usurpatori, manda al supplizio gli uccisori del fratello, combatte Astorre Visconti che rimane ucciso in Monza, e riceve il giuramento di fedeltà. Francesco Bussone, illustre sotto il patrio nome di Carmagnola, con null’altro che colla spada salito, da contadino che era, fino ai primi onori, fu principale stromento di vittorie a Gian Maria prima, poi a Filippo, al quale sottopose in breve Lodi (1416), i cui signori Vignati, chiamati a Milano a titolo di conferenza, furono messi al supplizio; Pavia, dove uccise in carcere Castellino Beccaria e fece appiccare suo fratello Lancillotto; Como, che il Rusca cedeva riservandosi la contea di Lugano; indusse il Malatesta a vendere al duca Brescia e Bergamo; così Cremona il Fondulo per quarantamila ducati, e il fondo di Castelleone; Crema, Giorgio Benzone; Rinaldo Pallavicini, San Donnino. Ottobon Terzo, che brutalmente tiranneggiando Parma e Reggio, erasi fatto terribile dovunque menasse le assassine sue bande, fu chiesto a parlamento dal marchese d’Este, e quivi trucidato dallo Sforza; e il suo cadavere andò a brani, e v’ebbe persino chi ne mangiò. Nicolò d’Este, per tener Reggio, cedette Parma al duca (1418). Piacenza fu sostenuta da Filippo Arcelli, gentiluomo di valor eccellente, che raccolti quanti Filippo avea spossessati acciò facessero causa comune, recò accannita guerra al Carmagnola. Questi, col supplizio della moglie e del figlio dell’Arcelli prigionieri, prese Piacenza; ma vedendo non poterla conservare, obbligò gli abitanti a uscir tutti colle robe, sicchè il nemico non trovò che deserto, e per un anno tre soli abitanti s’annidarono in quella solitudine, finchè il duca di Milano l’ebbe e la ripopolò. Per tal modo Filippo, non provveduto di valore, ma di destrezza molta e di eccellenti capitani, reintegra non solo ma amplia il ducato, e domina dai confini del Piemonte a quelli del papa, dal San Gotardo al mar Ligure, dove presto allargò la sua signoria. CAPITOLO CXIII. Venezia e Genova. Guerra di Chioggia. Venezia ricresce, Genova si perde. In Venezia il tempo aveva consolidato il potere della nobiltà, che affatto dedita alla politica, v’acquistò tanta attitudine, quanta i feudatarj nell’esercizio delle armi, e seppe cattivarsi l’opinione in modo, che questa più non si mise a contrapposto del potere, ma vi andò in coda. Alla classe media rimasero per ristoro i traffici, che guidava dall’India ai Paesi Bassi, dalla Barberia al Baltico. La metropoli conteneva cennovantamila persone: le case furono estimate sette milioni di ducati, che oggi rispondono a trenta milioni di lire; e le pigioni ducati cinquecentomila. La zecca coniava l’anno un milione di zecchini, dugentomila monete d’argento e ottocentomila soldi, gettando in corso ogni anno diciotto milioni effettivi di lire nostre. In meno d’un decennio fu spento un debito di quaranta milioni di zecchini, oltre prestarne settantamila al marchese di Ferrara. Passavano il migliajo i nobili che possedevano di rendita da quattro a settantamila zecchini; eppure con tremila aveasi un bel palazzo[14]. Mastin della Scala, perduta Padova, chiese d’essere ascritto al libro della nobiltà veneta; poco poi vi furono i Carraresi; e sempre un tale onore venne ambito dai principi. Alle vicende d’Italia ormai prendea briga Venezia non più come straniera, ma come potentato italiano; e poichè i principati costituitisi nell’alta Italia poteano divenirle minacciosi, dovette anch’essa acquistarvi stato per equilibrarli, e per mantenersi libera la navigazione del Po. Se la assicurò di fatto nella guerra che narrammo contro gli Scaligeri; e dopo impossessata di Treviso in terraferma, via via prosperò di dominj e di traffici. Ne’ possessi marittimi invece andava in calo, sì per l’avanzarsi de’ Turchi, sì per le guerre con Genova, la quale, vinti i Tartari, aveva ottenuto che nessuna nave d’Occidente potesse far porto in altro luogo del mar Nero che a Caffa sua; imprese che noi riserviamo a narrare nel libro seguente. Se n’adontarono i Veneziani, e allestirono nuove battaglie, in procinto delle quali Francesco Petrarca scriveva (1351) al doge Andrea Dandolo: — L’antica amistà nostra e l’amore della patria comune mi confortano a ragionare apertamente con voi. Corre voce che due libere città s’accingano a farsi guerra a morte. E quali città! i due lumi d’Italia, collocati dalla natura agli opposti estremi dell’Alpi per signoreggiare i mari che la circondano, e perchè dopo l’abbassamento del romano imperio la miglior parte del mondo ne sia ancor la regina. Nazioni altere osano disputarle in terra il primo luogo; ma chi oserebbe in mare? Se Venezia e Genova ritorcono in se stesse l’armi, fremo in pensarlo, tutto è perduto, e imperio marittimo e gloria nazionale; chiunque sia il vinto, è forza che l’uno de’ nostri lumi si estingua e l’altro s’indebolisca. Non serve illudersi; non sarà mai facile vincere un nemico d’indole bollente e, ciò che più vale, italiano. Uomini valorosi, popoli potenti entrambi, quale è lo scopo, quale sarà il frutto delle vostre discordie? Il sangue onde siete assetati, non è di Arabi o d’Africani; ma sangue di un popolo a voi congiunto, di un popolo che farebbe scudo alla patria comune ove nuovi Barbari l’assalissero, di un popolo nato a vivere, a combattere, a trionfare, o morire con voi. Il piacer di vendicare un’offesa leggera potrebb’egli più che il pubblico bene, più che la salute di voi stessi? E pure, se mi si dice il vero, per meglio saziare il vostro furore, voi vi siete collegati col re di Aragona, i Genovesi col greco usurpatore; cioè Italiani implorano l’ajuto de’ Barbari per offendere altri Italiani. Madre infelice! che fia di te, se i tuoi proprj figliuoli stipendiano mani straniere per lacerarti il seno? Noi insensati, che aspettiamo da anime venali ciò che potremmo ricevere da’ nostri fratelli. Ben provvide natura al nostro schermo steccandoci coll’Alpi e col mare: ma avarizia, invidia, superbia hanno rotto quelle barriere; e Cimbri, Unni, Tedeschi, Francesi, Spagnuoli inondarono i nostri dolci campi. Che fia di noi, che dell’Italia, se Venezia e Genova non fanno argine al nemico torrente? Prosternato, pieno gli occhi di lagrime e d’amarezza il cuore, io vo gridando, Deponete l’armi civili, ricambiatevi il bacio della pace, unite gli animi vostri e le bandiere. Così l’Oceano e l’Egeo vi siano favorevoli, e le vostre navi giungano prosperamente a Taprobana, alle isole Fortunate, a Tule incognita, e fino a’ due poli! I re e i popoli più lontani vi verranno incontro, i Barbari dell’Europa e dell’Asia vi paventeranno, e la nostra Italia si chiamerà a voi debitrice dell’antica sua gloria». Per tutta risposta ebbe lodi della sua eloquenza; nè miglior esito conseguì l’anno seguente scrivendo ai Genovesi, con altrettanto di gonfiezza ma insieme d’amore per l’Italia: — Illustre doge, magnifici anziani, permettete che esorti voi, come dianzi esortavo i Veneziani, alla concordia e alla pace: uffizj naturali e quasi necessarj al mio cuore. Non esiste popolo più formidabile in guerra, più mansueto in pace di voi; tutte le terre ove combatteste, tutti i mari da voi veleggiati testimoniano i vostri trionfi. Il Mediterraneo venera le vostre bandiere, l’Oceano le paventa, e il Bosforo è ancor tinto del sangue dei vostri nimici. Chi può senza raccapriccio leggere od ascoltare i successi di quell’ultima battaglia, nella quale a un sol tempo vinceste tre potenti nazioni?... Quantunque discreduto da loro quando era ancor tempo di consigliarli, io sento al vivo i disastri de’ Veneziani. Sentiteli pur voi, o Genovesi, e riflettete che gli uni e gli altri siete italiani, nè gravezza d’ingiuria vi disunì. Riconciliatevi dunque con essi, e se vi piace combattere, rivolgetevi contro i perfidi consiglieri delle vostre discordie; quindi passate a liberar Terrasanta, benemeritando del mondo e della posterità. Sebbene io dalle cose passate pronosticando le future, son d’avviso che a voi convenga, dopo vinti i nimici esteriori, provvedere al pericolo degl’interni. Roma non potè esser vinta se non da Roma: e ciò avverrà pure a voi, se non vi applicate a conciliare gli animi de’ vostri cittadini, massimamente quando sollevati dall’aura della fortuna. Mille sono gli esempj di città per odj civili distrutte; nessuno più sensibile del vostro. Ricordivi quando eravate il popolo più felice della terra; il vostro paese somigliava a un paradiso. Dal mare vedeansi torri che parevano minacciare il firmamento, poggi vestiti di ulivi e di melaranci, magioni marmoree sulle pendici, deliziosi recessi fra gli scogli, ove l’arte vincea la natura, e alla cui vista i naviganti sospendevano i remi per riguardare. Chi venisse per terra, meravigliando vedeva uomini e donne regalmente vestiti, e fino tra boschi e monti delizie incognite nelle reggie. Entrando nella vostra città pareva di mettere piede nel tempio della Felicità, e si proferiva come già di Roma: _Questa è una città di re_. Testè vinte avevate Venezia e Pisa: e i vostri vecchi vi diranno qual impressione ne venisse, qual timore ne’ porti, qual venerazione ne’ popoli, quali acclamazioni nelle riviere al comparire delle vostre armate. Signori del mare, appena che alcuno veleggiasse senza vostra licenza. Scendete poi colla memoria a quei tempi infausti, che l’orgoglio, l’ozio, la discordia, l’invidia, compagni inseparabili della prosperità, allignarono fra voi, e, ciò ch’era stato impossibile a umana forza, vi resero schiavi. Qual mutamento subitaneo! i palazzi divennero ricoveri d’assassini; le belle riviere e la città superba si fecero incolte, deserte, sformate, rovinose; la patria vostra fu assediata da’ suoi stessi fuorusciti; si combattè intorno alle sue mura per terra e per mare non solo, ma fin sotto terra; nè la guerra più crudele ha flagelli, che non piovessero tutti su lei. Finalmente vi piacque di riordinare lo Stato, dando alla repubblica un capo; e allora fu che le discordie si estinsero, la guerra cessò, e sicurezza e abbondanza e giuste leggi tornarono fra voi. Valga la trista esperienza a tenervi uniti, e per assicurarvi da nuove calamità siate equi, moderati, clementi». Queste generose parole purtroppo in nessun tempo è superfluo ripetere in Italia, sebbene troppo spesso infruttuose[15]. Nè allora giovarono, e i mari nostri e d’Oriente si tinsero di sangue, e fino al 1355 la guerra vegghiò, molto più deplorevole che non quella fra paesi di terra, sì perchè di natura sua micidiale, sì perchè menata con cittadini, non con bande mercenarie. Nè durar pace lasciavano le rivalità delle due repubbliche in Oriente; donde vennero nuovi e più funesti conflitti. Dopo la rivoluzione (1328), che sul trono di Costantinopoli ad Andronico Paleologo II surrogò il ribelle nipote Andronico III, i Genovesi eransi fatto cedere da quest’imperatore l’isola di Ténedo; ma i Veneti diedero appoggio agli abitanti che ricusavano sottomettersi al baratto. Di qui mali umori, sfogati (come vedremo) in battaglie oltremarine, e che rinvelenivano ad ogni pretesto. Essendo stato ucciso Pietro di Lusignano (1372) re di Cipro, nella coronazione di Pierino suo successore pretesero la precedenza Veneziani e Genovesi; e venuti alle armi, molti Genovesi rimasero scannati. Genova spedì a vendetta Damiano Catani, che trucidati i Veneziani, e preso il re e il paese, l’obbligò d’un tributo di quarantamila fiorini annui. Il Lusignano buttossi allora coi Veneziani (1379), e ne cominciò la guerra di Cipro, secondata da leghe delle potenze terrestri. Bernabò Visconti, suocero del re di Cipro, soldava contro Genova la compagnia della Stella, che danneggiò fin i giardini e i palazzi di Albáro e di San Pier d’Arena, finchè i Bisagnini la presero in mezzo, e costrinsero a rendersi a discrezione. Instancabile nemico ai Veneziani era Francesco Carrara signor di Padova: una volta egli arrivò a far rapire dalle loro case i senatori a sè avversi, e condurli a Padova, dove rimbrottatili aspramente, e fatto intendere che, se gli avea rapiti, più facilmente potea farli ammazzare, li dimise incolumi, ma giurati di tacere. Contro Venezia non aveva esitato a chiamare il re d’Ungheria e i duchi d’Austria, ai quali cedette Feltre e Cividal di Belluno; e adoprare a vicenda le masnade e i tradimenti: però essendo caduto prigione dei Veneziani il vaivoda di Transilvania, gli uomini di questo ricusarono di combatter più sinchè non fosse redento, onde il Carrara dovette colla corda al collo implorare la pace. Ora, profittando delle strette di Venezia, rinnovò le ostilità, appoggiato agli Austriaci, agli Ungheresi e al patriarca d’Aquileja, che flagellarono il paese colle masnade. L’ammiraglio veneto Vittor Pisani menò lungamente sui mari alla vittoria il leone; al promontorio d’Anzio, a Trau di Dalmazia vinse; e non giungendo (1378) le paghe ai soldati, impedì se ne rifacessero col rubare, ma distribuì giorno per giorno ogni suo denaro, poi gli argenti da tavola, infine una fibbia che gli restava alla cintura. Ma una volta il Carrara potè sorridere (1379 9 maggio) nel ricevere questo spaccio: — Magnifico e potente signore. Addì 3 del corrente maggio uscimmo di Zara con ventidue galee, veleggiammo verso il golfo secondo un avviso che i nimici venivano di Puglia con grano; e trovandoci sopra il porto di Pola il dì 5, due galee dell’antiguardia li scopersero quivi in agguato, numerosi di ventidue galee e tre grosse navi da dugencinquanta uomini ciascuna, oltre le solite ciurme, e molti uomini d’arme e venturieri assoldati per guardia della città. Avendo fra noi disegnato di non venir tosto a battaglia, acciò che in tanta vicinanza di terra non si salvassero a nuoto, fingemmo timore, e vogammo al largo; ond’eglino si misero a seguitarci. Scostati appena tre miglia dal lido, ci voltammo contro loro sì virilmente, che in un’ora e mezzo la vittoria era già nostra; in nostro potere quindici galee con tre navi cariche di seimila mine di grano; prigioni duemila quattrocento, morti da sette in ottocento; ma il signor Vettore Pisani ci sguizzò dalle mani con sette galee assai malarrivate. Dopo il combattimento spiccammo sei galee contro i legni da carico ancorati nel porto di Pola; ma avendoli trovati in secco sotto le torri della città, non presero che una fusta di munizioni. Siam giunti a Zara il dì 8 vittoriosi e senza perdita notabile, salvo la morte dell’egregio nostro capitano Lucian Doria (1379), trafitto in bocca da una lancia nel caldo della battaglia. Per gratitudine al suo parentado gli surrogammo il signor Ambrogio Doria, secondo il parere di tutti i capi dell’armata. Ai venturieri pagati da’ Veneziani mozzammo il capo; i cadaveri si gittarono a mare»[16]. Il consiglio di guerra tacciava Vittor Pisani di vile perchè non accettasse la battaglia; quando combattè e fu vinto, lo dissero traditore; e quantunque avesse intrepidamente disputato la vittoria, fu richiamato in patria e messo prigione, nel mentre i Genovesi al nuovo ammiraglio Pietro Doria nello scioglier delle vele gridavano — A Venezia, a Venezia». Di fatto Genova, ricuperate le piazze di Dalmazia tolte dai Veneziani, e attaccatone le colonie di Rovigno, Umago, Grado, Caorle, mentre avea destra la fortuna pensò con un colpo estremo ridurre l’emula alle paludi natìe. Le isole su cui torreggia Venezia sorgono dalla laguna che si stende dalle bocche del Piave a quelle dell’Adige, separata dal mare per un banco di arena, che appena in pochi luoghi dà a navi grosse il passo, intrattenuto dall’arte e dall’arte munito. Il più settentrionale è quel de’ Treporti a tramontana dell’isola di Sant’Erasmo, atto solo a piccole imbarcazioni. Fra Sant’Erasmo e Lido apresi quello di San Nicolò, ed era il principale, munito di torri, fra le quali talvolta tendeasi una catena. Il passo di Malamocco fra quest’isola e Palestrina è il più profondo: poi tra Palestrina e Bróndolo è quello di Chioggia, denominato dalla città ivi posta al vertice di un’isola che s’attacca alla terraferma sol per un ponte: gl’interri dell’Adige e del Brenta rendono difficile l’altro passaggio fra Brondolo e il continente. Un canale a gran fatica mantenuto attraversava la laguna fra Venezia e Chioggia. E appunto a Chioggia gettò l’àncora (1379 agosto) una flotta genovese numerosissima e co’ migliori marinaj; espugnatala coll’uccidere seimila Veneziani e catturarne quattromila, pose il quartier generale s’un’estremità dell’isola di Malamocco; e comunicando per terra coll’alleato padovano, circondava la città nemica. Questa, senza alleati, penuriava di vettovaglie; il tesoro era esausto; benchè fossero munite le poche aperture fra il mare e le lagune, galee genovesi si erano vedute giungere fino a Lido, sicchè il doge Andrea Contarini avea sin proibito di convocare il consiglio col tocco del campanone di San Marco, acciocchè il nemico non udisse quel segno, e fu posto in discussione se convenisse abbandonare Venezia, e trasportare a Creta la sede della repubblica. Il Carrara esultava dell’umiliazione dei nobiluomini. L’ammiraglio Doria ai veneti ambasciadori mandati per pace rispondeva: — Perdio che non ascolterò patti finchè non abbia messo il freno ai cavalli di San Marco»; e quando gli si propose di riscattare alcuni prigionieri: — Fra pochi giorni li redimerò senza denaro». Non si trattava dunque d’ambizioni di nobili, ma di interesse del popolo: e il popolo non si scoraggia, solo ha bisogno d’uno che lo diriga, e in cui abbia confidenza; laonde ridomanda l’antico Pisani, sotto cui era stato avvezzo a vincere, e a cui la sventura avea cresciuto popolarità. Ed egli dai sotterranei del palazzo udendo migliaja di voci gridare, — Se volete che combattiamo, rendeteci il nostro ammiraglio, Viva Vittor Pisani»; si sporge alla ferrata, e — Zitti là; non dovete gridar altro se non Viva San Marco». L’invidia tace quando l’ambizione è pericolosa: e il Pisani, tratto di carcere a braccia di popolo, respingendo i consigli di chi lo stimolava a insignorirsi dell’ingrata patria, ricevendo l’eucaristia giura che non terrà conto a’ suoi emuli della fattagli persecuzione; munisce l’argine di Malamocco ed ogni varco; invita tutti a concorrere alla salvezza della patria; i frati prendono le armi; e se un Morosini speculò sulle angustie cittadine per comprare case a vil prezzo, altri nobili attrezzarono trentaquattro galee a proprie spese; un Paruta cuojajo pagò mille soldati; uno speziale Cicogna diede una nave; semplici artigiani metteano insieme cento, ducento uomini; il doge settagenario monta sulla flotta coi principali pregadi: si promette ascrivere al libro d’oro i trenta plebei che più denaro offriranno, e molti infatti porgono il più e il meglio delle loro sostanze[17], talchè Venezia trova modo a’ suoi bisogni. Oh, Venezia conosce come si resiste al nemico. Il Pisani seppe frenare il primo impeto finchè avesse esercitato la ciurma inesperta, e non fosse tornata di Grecia la flotta di Carlo Zeno; unitosi colla quale, non solo allarga Venezia, ma sbaraglia e blocca nel porto di Chioggia (1380 gennaio) l’armata genovese, con barche affondate chiudendo le tre uscite: le bombe, allora forse adoprate la prima volta in mare, e che spingeano palle di pietra di cencinquanta in ducento libbre, giocavano radamente ma terribilmente contro ripari fabbricati per tutt’altri projetti; lo stesso Doria rimase sfracellato sotto il crollo d’un muro; e la flotta dopo sei mesi d’assedio è obbligata rendersi a discrezione (21 giugno). La guerra per altro si prolungò, e Carlo Zeno, sostituito al morto Pisani, menava le navi più a guasto che a vittoria; mentre l’implacabile Francesco Carrara dirizzava gli Ungheresi sopra Treviso, che i Veneziani non salvarono se non cedendolo al duca d’Austria. Alfine a Torino (1381 8 agosto), sotto gli auspizj di Amedeo VI di Savoja, fu conchiusa la pace, per cui la repubblica si obbligava a pagare annualmente al re d’Ungheria settemila ducati; ma Ungheresi non farebbero sale sulle coste, nè navigherebbero più nessuno de’ fiumi che sboccano nell’Adriatico fra capo Palmenterio e Rimini; e i mercanti di Dalmazia non asporterebbero mercanzie da Venezia per più di trentacinquemila ducati; con Padova si restituivano reciprocamente le conquiste e le prese; col patriarca d’Aquileja stipulavasi la piena emancipazione di Trieste, obbligata solo a contribuire al doge le regalie convenute ne’ trattati precedenti, e lasciare ogni sicurezza e libertà di commercio ai Veneziani. Tenedo, cagione prima della rottura, doveva essere consegnata al conte di Savoja, che ne trasporterebbe gli abitanti a Negroponte e a Candia, abbandonandola deserta; ma Giannacci Mulazzo balio di quell’isola procurò distorne i Genovesi, sicchè fu duopo coll’arme domarlo. Venezia perdea dunque ogni possedimento in terraferma, e Tenedo e la Dalmazia, oltre immense ricchezze logorate. Di settemila ducento prigioni che avea fatti, non sopraviveano che tremila trecensessantaquattro, che restituì in cambio de’ suoi, quasi tutti vivi. I Garzoni, i Condulmer, i Zusto, i Nani poterono gloriarsi della nobiltà acquistata col soccorrere alla patria; e così i Trevisan, i Cicogna, i Vendramin, che giunsero poi fino al berretto ducale. Il duca d’Austria, cui restava Treviso, continuò nimicizie al Carrara; in fine gli vendette tutti i possedimenti che tenea di qua dell’Alpi. Pertanto il signore di Padova occupava il lembo della laguna, e recideva le comunicazioni col continente. Il senato veneto eccitò contro di lui Antonio della Scala e Giovanni Acuto, che portò la desolazione fin sulle porte di Verona e Vicenza. Poi Venezia ricevette in dedizione spontanea Corfù, che era stata riunita alla corona di Napoli, e ribellata durante la guerra civile: s’impadronì di Durazzo sulle coste d’Albania, che da Carlo d’Angiò era stata tolta ai Greci; ebbe la cessione di Argo e Napoli di Romania, anch’esse possedute dagli Angioini; ricuperò Treviso; poi sotto Michele Steno acquistò Vicenza, Verona, per ultimo anche Padova, mandando i Carraresi al fine che dicemmo. Genova nella guerra di Chioggia avea spiegato portentosa attività non solo nel combattere, ma nel dirigere il re d’Ungheria, il Carrara, il patriarca d’Aquileja, il signor di Milano a’ danni della nemica Venezia: colla pace di Torino, oltre che esausta di moneta e navi, si trovò nell’interno tutta divisa e nemica; i nobili in urta coi popolani, i mercanti ed operaj grossi in urta coi piccoli e colla plebe, e quelli e questi suddivisi in Bianchi e Neri, che noi diremmo moderati ed eccessivi. Non erano più i vassalli che stessero a fianco de’ signori feudali, ma clienti e dipendenti, marinari, operaj, che talvolta a centinaja servivano una casa sola. I capi poi erano versati negli affari, destri come mercanti, coraggiosi come marinaj, generosi come ricchi, istruiti da tanti avvicendamenti di trionfi e d’esigli. Dopo il Boccanegra, la preminenza era sempre toccata a uomini del popolo, nuova aristocrazia sottentrata a quella de’ gentiluomini, e che escluse questi dal dogato e fin da ogni impiego. Le antiche famiglie, come i marchesi del Carretto, vedendosi mozza l’autorità e invidiata la condizione, si riducevano ne’ loro castelli, professandosi ligi all’Impero; se rimaneano in città, tramavano contro un ordine di cose che gli escludeva: ma neppur essi riuscivano a nulla perchè non uniti. Fra que’ trambusti erano venute su alcune famiglie di cappelluzzi, cioè popolani, i Montaldo, i Guarco, principalmente i Fregosi, notaj e fautori del popolo, e gli Adorni, conciapelli e sostenitori della plebe (1378); nessuna bastava a sommettere le altre, ma l’una l’altra contrariava, e tutte insieme ogni efficace provvedimento. Se il doge Nicolò Guarco vuol reprimere le fazioni e rinforzare il governo, dicono che aspira a tirannide, ricusangli il denaro e le collette, si sollevano e mutano stato. Dieci dogi si successero rapidamente con dieci rivoluzioni, e ciascuna lasciava una nuova partita di malcontenti. Gian Galeazzo Visconti versava olio su que’ tizzoni, sperando che per istanchezza Genova se gli butterebbe in braccio. Di tutto ciò le finanze andavano a sobbisso: il territorio, se crebbe col comprare Novi e Serravalle dai Milanesi, trovavasi occupato da varj signorotti, Monaco dai Grimaldi, Gavi dai Montaldo, Levanto dai Bertolotti: i partiti incessantemente in lotta, cacciandosi e nocendosi a vicenda, insidiati dai nobili delle due Riviere, per trionfare ricorrevano pur essi alle bande mercenarie, funeste del pari a tutti, o alla protezione di stranieri. Queste lotte, che in venti anni la ridussero a potenza secondaria, sarebbe nojoso il divisarle. Antoniotto Adorno, che, dopo lungo aspirarvi, aveva ottenuto il dogato nella peste del 1384 mediante una insurrezione di macellaj, presto ne fu espulso, vi tornò, lo riperdette, ripigliollo, e vedendo non potere conservarsi in posto, propose di mettere la repubblica sotto la protezione di Carlo VI di Francia (1396): quarta volta che in quel secolo Genova sottoponeva volontaria il collo a giogo forestiero[18], sì era soffocato l’alito repubblicano. Il re accettò, e promise mettervi per doge un vicario francese, non alterare le leggi, non rincarire le imposte. La libertà non ne pativa di troppo: ma que’ vicarj nè contentavano nè atterrivano, nè la quiete si ripristinava; oltre quello versato per sottomettere le Riviere, molto sangue corse in Genova stessa; coi nomi di Guelfi e Ghibellini mascherando fiere animosità, ogni tratto si era a baruffe, invasioni, cacciate, incendj; cinque volte si combattè per le vie l’agosto del 1398, trenta palazzi in fiamme, molti edifizj diroccati. L’anno seguente vi furono sistemati i corpi di mestieri, che scelsero quattro priori, ai quali aggiunsero dodici senatori, da rinnovarsi ogni mese, per vegliare che il governatore e il suo consiglio procacciassero il bene pubblico; e se alcun magistrato violasse la giustizia in parole o in fatti, poteano, armati gli artigiani, corrergli addosso. Anzichè sedare le turbolenze, ciò vi porse nuovi incentivi, sinchè venne vicario di Francia Giovanni Lemeingre, maresciallo di Boucicaut, uomo di coraggio alla prova, che entrato con mille cavalieri e fanti, volle le fortezze, fece imprigionare i capi faziosi e uccidere, tolse le armi a tutti, abolì i nomi delle fazioni e le magistrature popolari, snidò dai loro feudi i Fiesco e i Del Carretto, esigliò popolani, e tale spavento incusse, che i consoli delle arti non osavano più congregarsi, nè tampoco le confraternite de’ Battuti, per tema si procedesse contro di loro[19]. Tristo il popolo che è costretto a lodare tali freni eccezionali, e il rintegramento della legalità per mezzo della violenza! Rinvigorita la marina, Boucicaut veleggiò contro il re di Cipro ch’era in rotta co’ Genovesi, e poichè questo comprò la pace, egli bottinò sulle coste di Siria e d’Egitto, ed ottenne al re di Francia la signoria di Pisa, uccidendo Gabriele Maria Visconti (pag. 30). Nella minorità di Gian Maria volle essere messo nella reggenza, e venne a Milano con molto denaro e grossa truppa: ma Facino Cane, d’intesa con Teodoro marchese di Monferrato e coi malcontenti, si spinse a Genova (1409) chiamandola a libertà; sicchè cacciati e uccisi i Francesi, malgrado de’ Guelfi fu ripristinato il governo a popolo, abolendo gli statuti anteriori, e assumendone uno nuovo, di cui tale è la somma: Lo Stato è ghibellino e popolare, ma i Guelfi potranno farsi Ghibellini, e i nobili parteciperanno di tutti gli uffizj, salvo il supremo. Questi uffizj sono il podestà, dodici anziani, il consiglio de’ quaranta savj, il consiglio generale di trecentoventi, i sindicatori, i provvisori, i magistrati della moneta, della Romania, della mercanzia, della guerra e pace, e i consoli della ragione. Il doge a vita reggerà e governerà la repubblica, presiederà ai consigli con due voti, e potrà intervenire alle adunanze di tutti gli uffizj o magistrati non giudiziarj; ma il proporre partiti compete solo ai rispettivi priori: non moltiplicherà gli uffizj, o ne scemerà la giurisdizione, nè s’intrometterà per qualsia pretesto nella cognizione e raccomandazione delle liti: avrà annue ottomila genovine, da spendere nel mantenimento e decoro della sua corte, compresivi due vicedogi e due vicarj. Il podestà, pagato lire cinquemila, dovrà essere forestiero, dottor di leggi, di casa almeno patrizia; presenterà all’approvazione del doge e suo consiglio tre giurisperiti in qualità di vicarj, che lo assisteranno due nelle civili, il terzo nelle cause criminali, per delitti commessi a cinquanta miglia dalla residenza; de’ commessi in minor distanza conoscerà egli solo. Il doge dovrà consultare gli anziani in ogni occorrenza, salvo per arrestare banditi, cospiratori o sediziosi. I quaranta interverranno in tutte le trattazioni gravi, e così per atterrare fortezze, concedere immunità, conferire l’ammiragliato. I sindicatori invigileranno sui portamenti di tutti i magistrati, multandoli se falliscono, impedendoli d’abusare dell’autorità. I provvisori frequenteranno piazza de’ Banchi e altre accolte di popolo per raccorre l’opinione pubblica su quel che giovi o nuocia, stabiliranno il bilancio delle spese, che per quell’anno fu di 72,524 genovine. L’uffizio della moneta amministra anche le entrate, paga le spese, e custodisce la cassa pubblica. All’uffizio di Romania, unito a quello di Gazaria, spetta il provvedere per le colonie orientali. Quello di mercanzia risolve le liti sopra il commercio e la navigazione, che non procedano da pubblici istromenti; e i consoli della ragione quelle non eccedenti il valore di lire cento: da entrambe escludendo i giurisperiti. Nessuno potrà desinare nè contrarre famigliarità col podestà e sua corte; nessuno accettare nello Stato ambasceria o altro servizio di principe forestiero. Il deliberare della guerra, della pace, delle pubbliche convenzioni spetta al consiglio maggiore: il doge e il magistrato della guerra vi danno esecuzione. Si rinnoveranno gli esercizj de’ balestrieri sotto due capi di guerra. I cittadini popolari saranno descritti secondo le strade di loro abitazione, sotto capistrada, gonfalonieri e contestabili, bandiere e armi distinte; e con questi ordini difenderanno lo Stato dai nemici esterni ed interni. Qualunque volta al doge o agli anziani paresse conveniente una riforma, i nuovi capitoli e le ragioni faranno leggere ai quaranta, e ove siano approvati, nomineranno otto riformatori con balìa limitata ad essi capitoli. A Facino fu data una grossa somma, al marchese Teodoro il titolo di capitano per cinque anni; ma i costui comporti meritarono fosse cacciato (1413), rimettendo il doge, che fu Giorgio Adorno. Con questo rinfervorarono i parteggiamenti; e intanto andavano perdute la colonia di Pera a Costantinopoli e ogni influenza sull’Italia. Unico bel fatto di questi tempi è la spedizione contro i Barbareschi per frenarne le piraterie, capitanata dal duca di Borbone zio di Carlo VI, e assistita da molti signori francesi. Trecento galeoni e più di cento navi da carico afferrarono all’Africa; ma i Barbareschi li stancheggiarono senza mai venire a giornata, tanto che i nostri partirono senza effetto. Nell’interno, niente bastava a calmare gli animi; e l’angustia delle vie e l’altezza de’ fabbricati dava modo di resistere e combattere mortalmente nelle ricorrenti avvisaglie. Ne rimanevano desolate le campagne, esinanito il commercio, sino a dover vendere a’ Fiorentini il porto di Livorno, che il Boucicaut avea comprato: intanto i marchesi di Monferrato e Del Carretto aprivano il Genovesato alle truppe di Filippo Maria Visconti; sicchè, per amor di pace e per desiderio di vendicarsi degli Aragonesi che aveano cercato torle la Corsica, il podestà Tommaso Campofregoso (1421) rese Genova a Filippo, riservando per sè trentamila fiorini d’oro e il dominio di Sarzana. Filippo mandò il conte di Carmagnola a governar Genova, talchè al ducato di Milano aggiungevasi anche il mare; nè Venezia, nè Firenze pareano accorgersi del pericolo di lasciar tanto ingrandire questo vicino. CAPITOLO CXIV. Giovanna I di Napoli e Luigi d’Ungheria. Ladislao. Giovanna II. Gli Aragonesi in Sicilia. CASE D’ANGIÒ E DI DURAZZO. CARLO di Francia 1266-85 | | CARLO II _lo Zoppo_ 1285-1309 | | Carlo Martello re d’Ungheria | | | | Caroberto re d’Ungheria | | | | Luigi re d’Ungheria | | | | Andrea 1º marito di Giovanna I | | ROBERTO il Savio 1309-43 | | | | Carlo duca di Calabria | | | | GIOVANNA I 1343-81 | | | | | | nel 1380 adotta Luigi d’Angiò | | | figlio di Giovanni II re di Francia | | | | | | Luigi II | | | | | | Luigi III nel 1423 adottato | | | da Giovanna II | | | | | | RENATO 1435-42 | | | | Maria | | Filippo principe di Taranto | | | | Luigi 2º marito di Giovanna I | | | | Roberto conte di Acerra 2º marito di Maria | | | | Margherita moglie di Carlo III | | Giovanni duca di Durazzo | | Carlo duca di Durazzo 1º marito di Maria | | | | tre figlie | | Luigi conte di Gravina | | CARLO III _della Pace_ 1381-86 | | LADISLAO 1386-1414 | | GIOVANNA II 1414-35 | | Nel 1420 adotta ALFONSO re di | Aragona e di Sicilia 1442-58 Allo spettacolo di tante irrequietudini, è facile esclamare contro il governo repubblicano; e il Denina, «per far comprendere quanto sia meglio del popolare il governo monarchico ereditario ed assoluto per la quiete e felicità pubblica», oppone a que’ trambusti «il regno di Napoli, ove, da che i principi angioini si furono stabiliti, si godè internamente pace tranquilla»[20]. Vediamo se il fatto sia così. Roberto, che tutta la lunga vita stette a capo della parte guelfa in Italia, ampiamente estendendo l’autorità e nulla i dominj, fu poco lodato in tempo che l’ammirazione si dirigeva al valor militare, e si appropriò a lui il motto di Dante, essersi fatto re chi era piuttosto da sermone[21]. Amò cordialmente la pace; eppure vedemmo quante guerre cagionasse o sostenesse. Tentò anche ricuperar la Sicilia, e soccorso da suoi alleati e da truppe di Provenza e di Piemonte, la assalì con quarantaduemila uomini, settantacinque galee, tre galeoni, trenta vascelli da trasporto, trenta sagittarj e censessanta barche coperte; ma prima la tempesta, poi il clima mandarono in dileguo tanto apparato; i ripetuti suoi assalti non fecero che sperperare il paese, e re Federico tenne testa. Per lasciare in quiete i suoi, Roberto si valse delle truppe mercenarie, cercando denari in ogni guisa, fin col permettere ai giudici di commutare varie pene in multe: così disavvezzava i sudditi dalle armi. Pio al modello di san Luigi di Francia suo zio, assegnò ogni mese tremila ducati a eriger chiese e conventi, e comprare beni per frati e monache; ottenne dal sultano d’Egitto che dodici Francescani fossero addetti al santo sepolcro, come sempre si è continuato; fabbricò superbamente Santa Chiara, sua cappella regia, dove poi fu sepolto con immenso mausoleo e compendioso epitafio[22]. Dotto, e dei dotti protettore, «o fosse (dice il Petrarca) occupato negli affari di guerra o di pace, o si ristorasse dalle sofferte fatiche, giorno e notte, passeggiando e sedendo, volle sempre aver libri. Prendeva argomenti sublimi al suo ragionare; e benchè scarsa e quasi niuna occasione ne avesse, protesse con regia munificenza gl’ingegni del suo secolo. Non solo udiva con singolare pazienza coloro che gli recitavano lor composizioni, ma gli applaudiva ed onorava del suo favore. Così continuò fino all’estremo: già vecchio, filosofo e re, qual egli era, non vergognossi mai d’imparare, nè mai gl’increbbe di far parte agli altri di ciò che avesse imparato, ripetendo che coll’apprendere e coll’insegnare l’uomo si fa saggio. Que’ medesimi che, o per odio o per prurito di maldicenza, cercano sminuirne le lodi, non gli contrastano quella della dottrina. Egli peritissimo nelle sacre scritture, egli spertissimo ne’ filosofici studj, egli oratore egregio, egli dottissimo nella medicina, solo la poesia coltivò poco; di che, come gli ho udito dire, si pentì in vecchiezza»[23]. Collocò nell’Università i migliori maestri, fece voltar in latino Aristotele e Galeno; insigni giureconsulti illustrarono il suo regno, quali Bartolomeo da Capua suo protonotaro e consigliere, Nicola d’Alife segretario della regia cancelleria, Andrea d’Isernia detto il principe, l’auriga, l’evangelista de’ feudisti, Luca da Penna ed altri, noti tra la folla de’ commentatori. Di regolari magistrati e di opportune leggi confortò il Reame. Il clero, depresso dagli Svevi, poi rialzato sotto gli Angioini fino a sottrarsi d’ogni giurisdizione regia, fu da lui sottomesso ai magistrati in casi d’ingiurie e violenze. Ma o perchè Roberto si trovasse occupato altrove, o perchè rifuggisse dal disgustarli, atteso la vicinanza dell’emula Sicilia, i baroni crescevano di potere e d’arroganza; circondatisi di clienti e vassalli, nei loro castelli ricoveravano malfattori; non essendovi chi osasse più chiamarli in giudizio, trascorrevano ad ogni eccesso; tornavano sulle guerre private, eludendo e le commissioni cioè lettere arbitrarie del re, e le minaccie della Corte di Roma, e il rigore de’ giustizieri. Anche i banditi crebbero tanto, che bisognò contro di essi inviare regolari eserciti, ma con poco profitto, essendo protetti dai baroni. A ben peggio si cascò allorchè Roberto, dopo trentaquattro anni di regno, morì (1343). Del perduto figliuolo eragli rimasta Giovanna, alla quale volendo togliere un competitore e procurare un appoggio domestico, destinò sposo Andrea, nato da Caroberto re d’Ungheria, figlia del suo fratello maggiore Carlo Martello (t. VII, p. 384); e lo fece educare a Napoli perchè acquistasse i modi e l’amore de’ futuri sudditi. Cure al vento. Quando successero nel regno e ne’ tesori, Giovanna era sul toccare de’ sedici anni, e di qualche mese minore il marito; e la splendidezza di loro reggia non avea pari in Europa, eccetto quella d’Avignone. Ivi Sancia da Majorca vedova di Roberto, Caterina imperatrice titolare di Costantinopoli, Margherita di Táranto regina vedova di Scozia, teneano altrettante corti; Maria, sorella di Giovanna, segretamente maritata a Carlo duca di Durazzo, sfavillava di bellezza e ingegno; Agnese di Périgord, madre di questo, compiva il regio circolo; e tutti lusso a gara, e feste, comparse, raffinatezza, amori rinterzati, intrighi inverecondi; inciampi alla fragile Giovanna. Andrea, candido uomo e dolce, non avea dismesse le grossolane usanze magiàre, tratto inelegante, strani gusti, umore indolente; e pretendendo gli competesse il regno non per la moglie, ma per diritto ereditario, non rassegnavasi alla superiorità pretesa da questa. Adunque due fazioni divisero la Corte e tutto il regno; e la ungherese crebbe pel favore del papa e più per la sventataggine di Giovanna, che non soffriva gli affari la distraessero dagli spassi, ne’ quali accoppiava la ricercatezza della letterata pulizia italiana colle pompe di Germania e Provenza; e la recita dei sonetti del Petrarca e delle novelle del Boccaccio alternavansi coi giuochi floreali, co’ tornei, colle corti d’amore. Frà Roberto, zoccolante ungherese, maestro d’Andrea e potente sopra la regina, a cavalcione dei due partiti, diveniva arbitro del regno. Petrarca, che allora vide quella Corte, prega il Cielo che campi l’Italia da simili disastri; esser Napoli una Mecca, una Babele ove Cristo s’insulta, fede non v’è, nè giustizia o pietà; i dominatori sono Falaridi, Dionigi, Agatocli; ma singolarmente inveisce contro il frate, sporco, stracciato, brigante, superbo. — Retorica. Andrea, impacciato fra le cortigianerie, indispettito degli amori di Giovanna col cugino Luigi duca di Táranto, volle essere consacrato prima dei ventidue anni prefissigli da Roberto, e alla coronazione fece drappellare ceppo e mannaja, come ad esprimere ne userebbe contro gli offensori. Chi vuol fare non minacci. Quei che avevano motivo a temerne, congiurarono, capo il conte d’Artusio figlio secreto di re Roberto, e Filippina la Catanese, lavandaja, venuta balia di Luigi, e diventata confidente della regina; Giovanna, se non consentì, almeno non ostò che Andrea fosse strangolato e gittato da un terrazzo (1345 20 agosto). Nessuno tolse da senno a farne processo e giustizia; solo il papa, come alto signore del Regno, commise a Bertrando Del Balzo, gran giustiziere, di cercare i colpevoli: e costui, sciorinando uno stendardo ov’era effigiato l’assassinio, si trasse dietro il vulgo fin al palazzo; nè la regina valse a impedire che la Catanese e i complici, dopo orribili torture, fossero appiccati ed arsi. Giovanna intanto sfacciatamente sposava (1347) il duca di Táranto; poi presentendo la guerra civile, facea levata di vassalli e partigiani; e a Luigi il Grande re d’Ungheria, maggior fratello di Andrea, scriveva scusandosi innocente. Il quale le rispose: — Il disonesto tuo vivere, il ritenere la podestà regia, la negligenza in punire il misfatto, le non chieste scuse, ti palesano partecipe e rea dell’assassinio; nessuno sfuggirà alla vendetta divina e all’umana». Esso Luigi tiene posto segnalato fra i re dell’Ungheria, la quale, di fresco sbarbarita nè ancora spossata dalla viziosa costituzione, al tempo di lui si collocò fra le primarie potenze d’Europa. Egli era al tempo stesso re di Polonia, sovrano della Bosnia, della Servia, della Bulgaria, della Moldavia, della Valachia, onde estendeva i dominj sulle genti slave dall’Adriatico al mar Nero e alla foce della Vistola; rispettato dai Tedeschi, temuto dagli Italiani. Chiese al papa dichiarasse Giovanna immeritevole del regno, e ne investisse lui stesso, che s’accingeva con un esercito a far giustizia. E benchè il papa, che avea levato al sacro fonte un figlio postumo d’Andrea, tentasse indurlo a rimettere la cosa al suo tribunale, egli pose in pegno fin le gioje di sua moglie[24], e mosse a questa volta. I Napoletani si erano divezzi dalla guerra: la gente di villa non conosceva arme, nè portava in mano che una mazza di legno per difendersi dai cani; invece di giacere alla serena, piacevansi di letti soffici e di piumacci, e sempre erano a pettinarsi e lavare il viso a mo’ di donne[25]. Non si potea dunque far conto che sui venturieri; ed era a temere che i Siciliani, per isfavorire Napoli, dessero mano agli Ungheresi. Pertanto Giovanna pattuì con quelli pace intera e assoluta indipendenza; poi diffidando de’ pochi partigiani, all’avvicinarsi del vindice fuggì in Provenza (1348). Luigi, vincitore senza aver combattuto, volle vedere il terrazzo donde era stato precipitato Andrea, e quivi, rinfacciando il misfatto a Carlo di Durazzo che invano se ne giura incolpevole, lo fa stender morto e trabalzare anch’esso nel giardino; molti creduti complici manda al supplizio; gli altri reali spedisce in Ungheria. Entrato in Napoli da conquistatore, attende a far processi, colloca a governo Ungheresi e a reggente Stefano Laszk, principe transilvano; ma poichè la peste cominciava, congeda le truppe e torna in Ungheria. Paese facile a conquistare, difficile a conservare. Il papa negò a Luigi l’investitura nè di Napoli nè della Sicilia finchè Giovanna non fosse regolarmente convinta rea. I Napoletani, ben presto disgustati dei forestieri e rimpiangendo le allegrie dell’antica Corte, invitavano la regina, la quale dalle indagini fatte risultava innocente del sangue d’Andrea. Assolta dunque dal papa che ne convalidò il nuovo matrimonio, ella s’accinse a ricuperare il regno; vendette al papa la città d’Avignone per ottantamila fiorini, e impegnò le gioje onde far denaro; e assoldate truppe, coll’assistenza di Nicolò Acciajuoli illustre fiorentino ricuperò il paese (1350), salvo alcuni castelli. Intrepidamente frivola fra tanti pericoli, colle allegrie stordiva sè e i sudditi; intanto che re Luigi sopragiungeva con trenta o quarantamila Ungheresi. Costoro, naturati coi loro cavalli, su cui fin da fanciulli viveano, usavano unica difesa un giubbone di cordovano rinterzato, unica offesa l’arco e lunga spada; selle e gualdrappe la notte scusavano di letto e di copertura al cavaliero, il quale portava allato carne secca polverizzata, che con poca acqua calda riduceva a bibita sostanziosa. In tal modo aveano guerreggiato con Bulgari, Russi, Tartari, Serbi, in pianure patenti ove il pascolo abbonda; ma gl’Italiani distruggevano le proviande, e chiudevansi in terre castellate, di modo che gli Ungheresi consumavansi per difetto di foraggi; e sebbene i nostri potessero a pena sellare tre o quattromila cavalli, le ordinanze massiccie e le solide armadure nostrali presentavano intoppo inaspettato. Gli stranieri malmenarono il Reame, e lo presero tutto, eccetto Gaeta ove s’erano ridotti Giovanna e il suo sposo: ma poichè fame e peste li decimavano e il tempo del servizio militare scadeva, Luigi (1351) dovette accettare una tregua, patto che il papa facesse riassumere a processo la regina; e se fosse chiarita colpevole, il regno cadesse al re d’Ungheria; se innocente, questi cederebbe a lei le piazze per trecentomila fiorini. Giovanna a prova di testimonj giurati dimostrò che un filtro l’aveva distolta dall’amare Andrea, e fu dichiarata inconscia dell’assassinio di questo; laonde Luigi cedette le piazze, e neppur volle il pattuito compenso, dicendo: — Guerreggio per giustizia, non per guadagno». Giovanna tornò regina (1352), e Luigi di Táranto fu coronato. Fra ciò la Sicilia compiva le sue sorti separatamente dalle italiche. I baroni, che erano stati repressi dagli Svevi, nella guerra succeduta ai Vespri sentirono d’esser necessarj; e straordinariamente compensati degli straordinarj servigi, talmente inorgoglirono, che appena soffrivano d’essere inferiori al re; e sotto al debole Pietro II (1337), figlio e successore di Federico I d’Aragona, pretendevano rendere ereditarie le cariche più alte. Colle estese parentele e colla clientela de’ popolani, ogni casa faceasi centro di partiti, che ruppero a guerre sotto il nome e la capitananza degli Alagona e dei Chiaramonti di Modica, dei Palici e dei Ventimiglia di Geràci; tanto che tutta quella costruttura di Federico I 1342 andò a fascio, nè quasi ombra rimaneva di governo centrale. Sotto Lodovico, succeduto quinquenne (1355) al padre in tutela del giustiziere Blasco d’Alagona, e sotto Federico II suo fratello sottentratogli di tredici, e indicato col titolo di Semplice, raffittirono le guerre da casa a casa; e «tanto mortalmente crebbe il furore delle loro parti, che senza alcuna misericordia, come salvatiche fiere, ovunque s’abboccavano s’uccidevano per agguati, per tradimenti; e per furti di loro tenute continovo adoperavano il fuoco e il ferro,..... e tanto si disusarono i campi della coltura, tanto si consumarono i frutti raccolti, che l’isola, per addietro fontana d’ogni vittuaglia, per inopia e per fame faceva le famiglie de’ suoi popoli in grande numero pellegrinare negli altri paesi»[26]. Ai re di Napoli il momento parve buono per far valere le ragioni che avevano dissimulate, non deposte; e Giovanna occupò Messina (1353), promettendo alzarla capo della Sicilia; ma Chiaramonti e Ventimiglia s’accordarono per ricuperarla. A Giovanna, padrona della Provenza e di Napoli, sarebbe stata necessaria una bella marina; ma le guerre non le permisero mai d’allestirla, anzi lasciò disfarsi ogni resto dell’antica potenza marittima di que’ paesi. Bisognosa di navi, ne chiese quindici in dono da Lodovico d’Aragona, a tal prezzo rinunziando i diritti sull’isola, nè riservandosi che l’annuo tributo di tremila once. Ai Siciliani parve baratto codardo questo riconoscere il regno come dono della signora nemica; eppure ciò poneva fine alla lunghissima guerra di Sicilia, costata tanto denaro e sangue: la soggezione non fu che nominale, nè mai pagato il tributo. Giovanna e Luigi di Taranto sedevano sul trono napoletano; ma che poteano essi in regno sbranato dalle parzialità, e dove i baroni non voleano deporre le armi, impugnate ne’ passati trambusti? Alcuni scontenti v’invitarono la banda del conte Lando, che si rese terribile ad amici e nemici: e per rimandarla si dovettero imporre straordinarj accatti, e sospendere il consueto tributo al papa, che perciò ebbe a mettere il regno all’interdetto. Luigi di Táranto, vagheggino da nulla, morì di quarantadue anni (1362); e Giovanna, ad istanza de’ baroni, sposò Giacomo III d’Aragona, re titolare di Majorca; ma il tenne appartato da ogni autorità, e per lo più in Ispagna, finchè morì (1374) senza farla madre. Essa contava quarantasei anni; tutti i suoi figli erano morti; la sorella Maria non avea che tre figliuole, una delle quali, Margherita, fu da Giovanna designata a succederle, sposandola al cugino Carlo, figlio dell’ucciso duca di Durazzo, e che fu poi conosciuto col nome di Carlo della Pace; uom bello, attraente, ma profondamente simulato, e pronto sempre a rinegare la propria parola. Ma l’intrinsichezza di questo con Luigi il Grande, sotto del quale campeggiava in Ungheria e nel Friuli, ingelosì Giovanna, che repente concesse la mano (1376), non il titolo regio ad Ottone di Brunswick, che allora dimorava in Piemonte qual tutore del marchese di Monferrato. Era il momento che contendeasi pel successore di papa Gregorio XI; e Giovanna, favorendo Clemente VII, antipapa, diede impulso al grande scisma d’Occidente; lo perchè Urbano VI la proferì scomunicata e decaduta dal regno e da tutti i feudi, ed eccitò contro di lei Carlo della Pace, di cui essa aveva deluso le aspettative. Il popolo napoletano bolliva contro la regina perchè fomentasse lo scisma, e acclamava il papa vero, e saccheggiava i palazzi; i baroni si combattevano fra sè con grandi eccidj, e la regina non potea che perdonarli e farli giurar paci che al domani erano violate. A tanti pericoli sentendo non bastar sola, essa cercò un appoggio coll’adottarsi erede Luigi d’Angiò (1380), secondogenito di Giovanni II re di Francia; seme che dovea fruttare due secoli di guaj al Reame. Esso Luigi per far denari s’appropria il tesoro regio di Francia, smunge province, sacrifica gli Ebrei, sottrae le paghe ai soldati, impone a Parigi una tassa su tutti i comestibili; e perchè il popolo ne tumultuava, fa buttar nel fiume i capi delle arti. Come Urbano VI a Carlo, così Clemente VII favorì all’Angioino, assentendogli le decime sulle entrate ecclesiastiche in Lingua d’oc e in Lingua di sì, e persino a favore di lui ergendo in regno d’Adria lo Stato ecclesiastico, salvi il Patrimonio di San Pietro e la campagna di Roma: così sagrificando l’indipendenza dello Stato ecclesiastico. La morte del genitore trattenne Luigi d’Angiò in Francia; e intanto Carlo, sollecitato dalle solite speranze dei profughi, colle bande venturiere del Barbiano e dell’Acuto mosse ver Roma, dove, incoronato da Urbano VI, e fornito di ottantamila fiorini col togliere gli ori e fin i vasi sacri dalle chiese, dopo ronzato due anni coll’esercito a ruina degl’italiani, penetrava nel Reame (1381). Dal popolo, inusato alle armi, non soffrì resistenza; i baroni volevano male a Giovanna dell’essersi eletto successore uno straniero; la Città dividevasi tra Angioini e Carlisti, tra Urbanisti e Clementini; talchè impossibile era la difesa, e Carlo, fra i mirallegro entrò in Napoli. La regina, chiusasi nel Castel Nuovo, non ricevendo i soccorsi aspettati, si arrese. Carlo le fece onore: ma spargendo ch’ella il guardasse come un ladrone, e contro di lui sollecitasse continuamente Luigi d’Angiò, la fece strozzare (1382). Comunque d’indole generosa, ingenua, amorevole[27], colla inescusabile giovinezza e più col variare dei mariti e degli eredi ella sovvertì allora e poi il Reame. Sua sorella Maria di Durazzo non tardò a seguirla, e nel costei sepolcro spegnevasi la discendenza di re Roberto. Luigi avrebbe voluto rimanere in Provenza a raccorre la porzione più solida dell’eredità di Giovanna; ma l’antipapa Clemente, per contrariare al favorito di Urbano VI, lo spingeva a vendicare la sua benefattrice, e conquistarsi così ricca corona. Egli dunque coronato in Avignone re di Sicilia, di Napoli, di Gerusalemme, con bello e forte esercito, con Amedeo VI conte di Savoja, e col favore di Bernabò Visconti che sposò una figlia a un figlio di lui, e assistito dai malcontenti, calò per Italia, e due anni continuò guerra a Carlo della Pace. Questi, non sostenuto dai baroni, sì bruciato di denaro che derubò alla dogana i panni de’ Fiorentini, Pisani e Genovesi onde distribuirli a’ suoi fedeli, conobbe l’opportunità d’evitare gli scontri, e secondo i consigli di Alberico da Barbiano, da lui fatto connestabile del regno, aspettò che le malattie logorassero gli uomini, i cavalli, il tesoro del nemico. Di fatto quel floridissimo esercito fu ben presto a tal miseria, che i migliori cavalieri montavano asini; il duca avea venduto vasi, gioje, fin la corona, nè copriva la corazza se non d’un cencio dipinto; alfine morì di febbre a Bari; gli altri o perirono (fra questi Amedeo di Savoja, a Santo Stefano in Puglia, 1384 12 marzo), o tornarono accattando e rubando. Più colla politica che col valore avea trionfato Carlo, nè però ebbe calma; e la fazione angioina, fedele al fanciullo Luigi II, erede della Provenza e delle pretensioni dei defunto duca, lungamente sconvolse il Regno. Inoltre egli si guastò affatto con papa Urbano, che essendosi piantato a Napoli, pretendeva esercitarvi padronanza, e voleva investisse a un tristo suo nipote il principato di Capua e d’Amalfi, e altri possedimenti promessi quando fu coronato: onde tempestò fra guerre e scomuniche scandalose, peggiorate dalla peste che in quegli anni rinnovò i guasti per tutta Italia. Carlo, inorgoglito dalla vittoria, era meno che mai disposto ad ascoltare le rimostranze del pontefice che pretendeva moderasse le molteplici imposte sul Regno: onde Urbano si chiuse in Nocera, pose alla tortura alcuni cardinali imputati di congiura, e scomunicò Carlo, il quale a vicenda tormentava i prelati napoletani che obbedissero all’interdetto, e mandò l’esercito ad assediare l’ostinato pontefice. Questi s’affacciava ogni tratto al balcone col campanello e colla torcia accesa scomunicando l’esercito del re, finchè dopo sei mesi vennero in soccorso truppe mercenarie, che lo trafugarono verso Salerno, d’onde s’imbarcò anelando vendetta (Cap. CXVII). Alla sorte del Reame venne a recare nuovi viluppi la morte di Luigi il Grande d’Ungheria. Aveva egli menato frequenti guerre con Venezia, la quale conservava sempre il titolo di signora di Dalmazia, di Croazia e d’un quarto e mezzo dell’impero d’Oriente; mentre esso re, dacchè pretese al Napoletano, avrebbe trovato opportunissimo possedere Zara, anello fra i suoi paesi e la Puglia. Tentò dunque essa città, ma i Veneziani gliela disputarono, e dopo diciotto mesi d’assedio la presero. Ne serbò rancore Luigi, e favorì lo scontento degli Schiavoni, i quali dalla signoria veneta aborrivano perchè sagrificati al vantaggio della capitale, mentre sarebbero potuti fiorire di commercio diventando lo sbocco dell’Ungheria. Quando si sentì bastante vigore, Luigi intimò al veneto senato restituisse le città di Dalmazia, antiche pertinenze della corona ungherese. Il senato ricusò e fece navi; ed avendo l’emula Genova prestato a quel re sessanta galee comandate da Antonio Grimaldi, i Veneti uniti ai Catalani, e capitanati da Nicolò Pisani, a Lojera diedero una terribile rotta ai nemici (1353), prendendone trenta galee con tremilacinquecento prigionieri, che lasciarono consumar nelle carceri, oltre duemila che perirono combattendo. Non per questo re Luigi desistette dal molestare i Veneziani in Dalmazia; e risolse attaccare Zara, Spalatro, Trau, Nona e al tempo stesso Treviso, unica città che Venezia tenesse in terraferma. Occupate Conegliano, Asolo, Céneda, que’ temuti cavalleggeri arrivarono sotto Treviso, ma prenderla non poteasi con scorridori; i quali, impazienti di lunghe fazioni, costrinsero il re a battere in ritirata, benchè forte di trentamila uomini. Meglio ordinatosi, ricomparve egli, e per tradimento ebbe la città (1354); e chiesto di pace, generosamente dichiarò bastargli il ricupero delle città spettanti alla sua corona, e che il doge rinunziasse al titolo che si arrogava su quelle, e gli provvedesse ventiquattro galee, di cui egli pagherebbe le spese. Morto Luigi (1382), la nobiltà consentì che Maria sua figlia, da essi gridata regina, ne portasse i diritti a Sigismondo di Luxemburg, figlio dell’impotente Carlo IV. Altri nobili però gridarono Carlo III di Durazzo, che adottato da re Luigi, era cresciuto in quel reame e formatosi a quelle armi; e di fatto egli, per ambizione del nuovo non curando i disordini cui abbandonava il regno suo prisco, v’andò, ed ottenne la corona angelica; ma la regina lo fece assassinare. Giovanna era vendicata (1386). Allora va in estremo scompiglio l’Ungheria, dove i Croati accorreano a punire il delitto con altri delitti e brutalità. Côlta Maria, la mandavano a Margherita vedova di Carlo, se non si fossero opposti i Veneziani: intanto le ribellioni fiaccarono affatto l’Ungheria, e un nuovo re della Servia orientale ebbe Zara, Trau, Sebenico, Spalatro e le altre città per lo innanzi possedute dai Veneziani. Maria fu liberata da Sigismondo di Luxemburg suo marito, il quale alla morte di lei (1395) restò re del paese, che trasmise poi a Casa d’Austria. Tra questo fare, il regno di Napoli, salito a tanta grandezza sotto i Normanni, gli Svevi e Roberto il Buono, sfasciavasi sotto i costui discendenti, e poco pesava sulla bilancia politica, mentre internamente era campo di sciagurate battaglie fra bande di ventura e stranieri semibarbari: le contribuzioni erano riscosse e consumate da costoro; non esercito nè flotta v’avea che obbedisse al re, non fortezze ben munite; esausto l’erario, effeminata suntuosità alla corte, la nazione disabituata dalla guerra, sicchè nè i padroni confidavano in essa, nè i nemici la temevano; e in conseguenza nè essa aveva a se medesima quel rispetto che salva da vergogna, nè dagli altri l’otteneva. L’intempestiva morte di Carlo III aggiunse mali a mali; e mentre Ladislao, figliuolo di lui decenne, era proclamato re sotto la tutela di Margherita, la fazione francese dei Sanseverino salutava l’altro fanciullo Luigi, figlio di quel d’Angiò, due fanciulli in tutela di due donne meno abili che intriganti. Maria di Blois tolse a Ladislao quasi tutta la Provenza; i Napoletani, scontentati dall’avarizia di Margherita e dall’avidità de’ suoi favoriti, si sollevarono anch’essi a favore d’Ottone di Brunswick, vedovo di Giovanna e creato di Clemente VII, che a nome dell’Angioino prese Napoli. Così due papi, due re, due reggenti, fra le cui dispute i più negano obbedienza ad entrambi, entrambi li scomunica papa Urbano VI, e tutto va sossopra. Luigi II coronato in Avignone (1391), è in Napoli accolto fra gli applausi, ma presto ridotto a rassegnare ogni potere a Ladislao (1399), che riconosce il regno come benefizio della Sede apostolica[28]. Fra pericoli e congiure e guerre intestine costui s’addestrò agl’intrighi, coll’età crescendo di coraggio; perfido politico quanto Gian Galeazzo, e più valoroso, formò buone truppe, ebbe di molti partigiani, tolse tutte le fortezze ai Francesi, punì i baroni che gli avevano favoriti. La nobiltà ungherese, disgustata di re Sigismondo, offrì la corona angelica a Ladislao, che v’accorse; ma poi trovandosela contesa, vendette ai Veneziani Zara e le altre piazze di Dalmazia, nè più dandosi un pensiero dell’Ungheria, pensò ingrandire in Italia, prefiggendosi rinnovare la gloria di Federico II imperatore, e solendo dire: — O Cesare o nulla». Per assodare la monarchia deprimeva i baroni, che odiava tutti o parteggiassero pei Durazzo o per gli Angioini; impedì tenessero più di venticinque lancie ciascuno, come faceano col pretesto di pubblico servizio, ed anche queste fossero stipendiate e alloggiate dallo Stato: intanto ammise chi che fosse ad ottenere feudi, uffizj, sin la cavalleria. Era allora la cristianità straziata dal grande scisma, e l’Italia n’andava tutta in parti e in armi, sicchè non parea far guerra al papa chi assalisse lo Stato papale. Ladislao colse il buon punto; e quando (1404), dopo morto Bonifazio IX e ne’ primi tempi d’Innocenzo VII, Roma sbranavasi fra il popolo e i grandi, egli cercò entrarvi, favorito dai Colonna e dai Savelli. Il popolo s’impadronisce di Ponte Molle e respinge il re; ma dodici cittadini ch’erano andati per trattare un accordo con papa Innocenzo, vengono côlti dal nipote di questo e trucidati. Il popolo si leva allo stormo della campana di Campidoglio, caccia il papa, saccheggia. Ladislao teneva occhio a quella preda, e mentre mena a ciancie il pontefice e i Fiorentini, occupa trionfalmente Roma: Gregorio XII, bisognoso d’appoggio contro il papa emulo, dà a Ladislao l’investitura di Roma, del Patrimonio, della marca d’Ancona, di Bologna, Faenza, Forlì, Perugia e del ducato di Spoleto per venticinquemila fiorini l’anno (1408 25 aprile); e fu il primo che se ne intitolasse re, diventando padrone dello Stato di cui erano vassalli i suoi predecessori. Allora parvegli toccare il cielo col dito, sprezzò ogni ostacolo, e in verità perchè non potea sperare di divenir re di tutta Italia? Morto Gian Galeazzo, i Visconti erano ristretti nella Lombardia: Venezia sentivasi ancora fiaccata dal duello con Genova: questa dalle fazioni era costretta ad appoggiarsi alla protezione di Francia. Solo i Fiorentini ostavano, e poichè nol vollero riconoscere, attenti che nessun potentato preponderasse in Italia, Ladislao staggì le robe di tutti i loro mercadanti in Roma (1409), e accumulato denaro, ne corse guastando il territorio, onde il popolo lo chiamava il re guastagrano, e i Fiorentini si videro nuovamente in procinto di perdere lo Stato. Contro di lui essi presero al soldo Braccio di Montone, e favorirono Luigi II, che venne cogli ajuti di papa Alessandro V e del suo successore Giovanni XXIII, e colle scomuniche da questo avventate a Ladislao. I gigli sventolavano a capo dell’esercito, e i Fiorentini uniti a’ Senesi dissipano una spedizione mossa a conquistare tutta Italia (1410); anzi prendono Roma, dove si stabilisce papa Giovanni. Luigi, ben fornito di Provenzali e di fuorusciti, e de’ capitani Paolo Orsini, Attendolo Sforza, Braccio di Montone, vince a Roccasecca Ladislao (1411 19 maggio), facendo prigionieri quasi tutti i baroni e lo stendardo reale; ma i soldati sperdonsi a saccheggiare, poi rivendono le armi e i prigionieri per otto o dieci ducati l’uno, e Ladislao li compra, compra i soldati stessi del suo nemico, il quale deve colla vergogna ricoverare di là dai monti, ove presto finisce la vita. Ladislao invade Roma e lo Stato, rapinando malgrado de’ Fiorentini: costringe Giovanni a disdire Luigi d’Angiò, e riconoscere Ladislao ne’ regni di Napoli e Sicilia; obbligarsi a ricondurre alla obbedienza di lui quest’isola, allora in mano degli Aragonesi; nominarlo gonfaloniere della Chiesa con quattrocentomila ducati, e perdonargli un arretrato di ducati quarantamila dell’annuo tributo, tuttociò a patto che Ladislao riconoscesse lui papa. E papa e re violarono ben presto gli accordi: il primo raccoglieva bande, flagello de’ popoli, che non impedirono a Ladislao di assalir Roma (1413) ed entrarvi saccheggiando, mentre il papa fuggiva tra pericoli e patimenti infiniti, e chiunque del suo seguito fosse preso, veniva spogliato nudo, spesso ucciso. Giustamente si dolse Giovanni a tutto il mondo di tanta perfidia, e — Chi avrebbe potuto credere alcuno audace e perverso a segno, di venirci a giurar fedeltà, domandarci l’investitura in solenne adunanza, e all’ombra di tali dimostrazioni ottener quello che non avrebbe pur eseguito in guerra aperta? Ci rifugge l’animo dal dipingere il furore con cui trattò Roma, i sacri tempj, le venerabili reliquie de’ santi»[29]. Ladislao non vi badò, e si spingea contro Bologna, sola rimasta al pontefice, ma una terribile malattia, attribuita a veleni o a filtri, e più credibilmente a lussuria, lo gettava tratto tratto in accessi di rabbia, durante i quali trascorreva alle peggiori crudeltà; sinchè frenetico morì a trentasei anni (1414 6 agosto). Maltrattò le proprie mogli, e la repudiata Costanza obbligò a sposare un altro; provvedeasi di concubine d’ogni stato; matto di superbia, non curante che de’ soldati, prodigò i beni della corona a guerrieri, vendendo uffizj e cavalierati, assodò l’aristocrazia che prima voleva deprimere; e lasciò la solita eredità di questi re soldateschi, confusione e indisciplina. In mancanza di figliuoli, Giovanna II sua sorella gli successe, rinnovando gli scandali e i disordini della prima Giovanna; deforme e voluttuosa, perduta in licenziose feste a voglia d’indegni favoriti. Vedova di Guglielmo d’Austria, e sperando ne’ reali di Francia appoggio contro le pretensioni degli Angioini, sposò Giacomo di Borbone conte della Marcia. Ben ella s’era riservato tutto il potere; ma Giacomo volendo esser re anche di fatto, mise in prigione lei, al tormento poi a morte ignominiosa Pandolfello Alopo, che essa avea fatto gran siniscalco, conte, camerlingo, tutto. Indignò baroni e popolo quel vedere Francesi collocati in tutti gl’impieghi, e trattata da schiava la loro regina. Giulio di Capua dei conti d’Altavilla, condottiero napoletano che aveva infellonito re Giacomo contro i favoriti, allora congiurò d’ucciderlo, e ne informò Giovanna, che credette acquistar grazia col darne spia al re. I congiurati furon messi a morte; essa ebbe qualche larghezza, della quale profittando, i sudditi la liberarono e rimisero al potere; e Giacomo ridotto ad umile condizione, e fin prigioniero, poi sottrattosi, andò a morir frate. Qui, cacciati i Francesi, vennero attribuite le dignità ad Italiani; Giovanna riconobbe Martino V, gli fece omaggio, e gli restituì Roma e tutte le conquiste di Ladislao; così suggerendole i suoi amanti, e principalmente quel che era sotterrato all’Alopo nella confidenza e nell’amore di lei, ser Gianni Caracciolo. Uomo d’intelletto e di preveggenza rara, ed amato dal popolo, al cui sostentamento aveva provveduto, avrebbe costui dominato dispoticamente se non l’avesse contrariato Attendolo Sforza. I caporali, che andavano in volta per la Romagna col piffero e il tamburino ad ingaggiare venturieri, esibirono il soldo a un terriero da Cotignola, di nome Muzio Attendolo, che stava zappando un suo podere. Egli tentenna fra il sì e il no, e non sapendosi risolvere, lancia sopra una pianta la zappa, risoluto di restarsene al suo mestiero se ricaschi a terra. Rimase implicata fra i rami, ed egli accettò le armi, tolse un cavallo dalla paterna stalla, e colla bravura e l’arrischiatezza acquistò nome; e Alberico da Barbiano vedendoselo in un diverbio saltar contro con violenza, gli disse: — Che? vorrai tu far forza anche a me come agli altri? Ti chiameremo lo Sforza. Questo soprannome gli restò, ed egli come capo di bande eccitò ammirazione, invidie, nimicizie. Nel campo voleva severa disciplina; un uom d’arme toglie il vestone pavonazzo d’un medico, e Attendolo, messoglielo in dosso, lo manda in giro pel campo, sicchè quegli dalla vergogna s’ammazza: uno scozzone di cavalli che sottraeva biada per venderla, fa legare alla coda di cavalli e strascinare a furia: un ferrarese che teneva seco una donna in figura di ragazzo, fece vestire da femmina e girar così negli accampamenti. Corpo abituato ad ogni fatica e stento, piacevasi solo a giuochi di forza; tutt’armato, poteva montare a cavallo senza ajuto che delle staffe, e per molte miglia viaggiare sotto quello scoglio ferrato; pronto a deliberare, prontissimo ad eseguire, ardito ne’ pericoli, franco in gioventù, simulatore dopo provati i tradimenti, spregiator delle ricchezze, valoroso ma senza veruno de’ nobili concetti che fregiano il valore, soldato sempre di causa altrui. Col famoso condottiero Tartaglia avendo contribuito alla presa di Pisa, fu da Firenze provvisto di cinquecento fiorini annui. Riuscito ad uccidere per tradimento il traditore Ottobon Terzo, dal marchese d’Este, cui rendeva Parma e Reggio, ottenne la terra di Montecchio. Roberto imperatore gli concesse per arma un leon d’oro rampante che tiene nella zampa destra un pomo cotogno. Luigi II d’Angiò e il papa lo assoldarono nell’impresa contro Napoli; ma Ladislao riuscì a tirarlo a sè, donandogli quattro castelli nell’Abruzzo; onde il papa, che pur l’aveva investito della natìa terra di Cotignola, e creato gonfaloniere della Chiesa, lo fece dipingere in più luoghi appiccato pel piede destro con un cartello che cominciava _Io son Sforza villan di Cotignola_, e ne enumerava dodici tradimenti. Che contavano i tradimenti ove unica lode era il valore? Ladislao, avutone utile servizio, lo eleva gran connestabile del Regno, e gli assegna sette castelli del Patrimonio di san Pietro; altri ne acquista egli come vassallo della repubblica di Siena; e chiamasi attorno i parenti suoi, affidando loro i comandi nell’esercito, gente tutta allevata in faticosa sobrietà, avvezza al ferire in paesane contese, e interessata a sostener lui, unico appoggio di tutti. Alla morte di Ladislao, l’Alopo, ingelosito del favore mostratogli da Giovanna, lo sorprende e lo caccia in un fondo di torre; ma ben tosto riconosciutolo necessario, gli offre in moglie una sorella e nuovi dominj se metta a favor suo e della minacciata regina la sua banda. Re Giacomo, riuscito superiore, insusurrato da Giulio di Capua suddetto, alla sua volta lo chiude prigione, e così il gran venturiero alterna fra le catene e il comando, fra gli amori della regina e l’odio dei rivali. Amico, poi emulo suo fu Braccio dei conti di Montone, perugino. Da una fazione espulso di patria ferito e nudo, si pose sotto al Barbiano, e ne meritò la stima, poi l’invidia, tanto che si cercò torgli la vita. Scampato, e sofferti tutti i disagi della povertà non ladra, accettò soldo di qua di là, e alfine dai Fiorentini contro Ladislao. Rôcca Contratta fu la prima terra che a lui si sottomise, donde altre soggiogò nel Piceno. Giovanni XXIII andando al concilio di Costanza, lo lasciò incaricato di tenergli in fede Bologna e la Romagna, ed esso in fatti costrinse all’obbedienza i signori e le città che se ne voleano sottrarre. Ma quando Giovanni fu deposto di papa, Bologna diede su, e Braccio patteggiò, vendendole per ottantaduemila fiorini i castelli regalatigli dal pontefice. Trovandosi un buon esercito, impinguato dalle prede di Romagna, Braccio voltò sopra Perugia sua che l’aveva esigliato, e che era difesa dal Tartaglia; trasse a sè costui con promettere d’investirlo di tutti i feudi che si torrebbero allo Sforza, comune avversario; ma i cittadini lo respingeano intrepidamente, e quantunque i magistrati avessero fin murato le porte acciocchè nessuno uscisse a scaramucciare, saltavano o calavansi dalle mura per provarsi con que’ nemici. Venivano intanto altri capitani, chi per soccorrere, chi per combattere Braccio; e sulla via d’Assisi fu mischiata una battaglia (1416), rinomata ne’ fasti di quelle bande, ove comandavano da una parte Braccio con Tartaglia, con Niccolò Piccinino e con altri; dall’opposta Carlo Malatesta con Agnolo della Pergola, Ceccolino de’ Michelotti, Paolo Orsini. Sette ore durò la mischia sotto il sole di luglio, finchè Braccio vinse; onde Perugia schiuse le porte e diede la sovranità al suo esule, cui si sottomisero Rieti, Narni e tutta l’Umbria. Egli stabilì un governo robusto, abbellì la città, dedusse acque dal lago ad irrigare la campagna. Soleva a Perugia farsi ogni domenica di primavera un’abbaruffata tra gli abitanti della città alta e quei della piana, lanciando sassi e parandoli con un largo mantello avvolto al braccio sinistro; poi succedeano persone armate in tutto punto, ma con cuscinetti che ammortissero i colpi; infine anche i fanciulli venivano alle mani: giuoco che non passava mai senza la morte e il guasto di più d’uno. Braccio vi diede grande splendidezza, e volle che ciascuna delle città a lui sottoposte vi mandasse una bandiera. Il duca di Camerino gli sposò una sorella; i Fiorentini lo tennero sempre amico ed alleato, ed egli prometteva ad ogni loro appello andare a comandarne l’esercito; e qualora capitasse a Firenze, eravi accolto con tutto l’entusiasmo che il corrotto giudizio umano tributa alla forza soldatesca, e più quand’essa è rara. Mentre lo Sforza stava in ceppi, Braccio procurò torgli i feudi, secondo avea pattuito col Tartaglia; di che nacque odio implacabile fra i due campioni. L’uno più arrischiato, l’altro di valore più educato ed accorto, furono capi di due scuole, emule non solo allora, ma sotto que’ grandi guerrieri che ne uscirono (dicevasi allora) come dal cavallo di Troja. Gli Sforzeschi valeano di più nella milizia, i Bracceschi nelle subitanee fazioni; questi nella disciplina e nelle particolarità, quelli nel concetto, negli appresti generali e nell’artifizio di tenersi delle riserve: nè gli uni nè gli altri utili alla patria e all’umanità, la quale non del valore ha bisogno, ma d’un valore adoprato a buona causa. Braccio era entrato in Roma (1417), egli capitano di ventura nella capitale del mondo cattolico, intitolandosene difensore finchè un nuovo papa giungesse. Lo Sforza mosse, per ordine di Giovanna, a snidarnelo; e quegli, molestato dalle febbri, si ritirò, covando vendetta, mentre lo Sforza rodevasi di non avere sfogato la sua. Questo fu incaricato da Martino V di togliere a Braccio il principato che s’era costituito, ma nulla profittò contro quel valore esercitatissimo. Invano egli e il papa sollecitavano da Giovanna altri ajuti per fortunare l’impresa; a ser Gianni Caracciolo piaceva che fallisse, acciocchè se n’eclissasse la gloria dello Sforza: il quale vedendosi soccombere alla costui rivalità, non esitò a risuscitare le antiche parzialità dei Durazzo e degli Angioini, le quali doveano portare al paese tanti strazj e lunghissima servitù forestiera. Respinto il bastone di gran connestabile e disdetto il giuramento, quasi con ciò disobbligasse la propria fede, lo Sforza mandò a Luigi III, succeduto al II d’Angiò, invitandolo a rivendicare i suoi diritti, fondati sull’adozione di Giovanna I; e nominato vicerè, raccolse un esercito ed investì Napoli (1420). Luigi medesimo comparve colla flotta: ma gli si opposero per mare Alfonso re d’Aragona e Sicilia, che era stato chiesto da Giovanna II e adottato; e per terra Braccio, che riconciliato col papa, n’avea avuto in feudo Perugia e le vicinanze, e l’aveva soccorso a sottomettere Bologna, e che creato conte di Foggia, principe di Capua, gran connestabile, adoprò il valore e più gl’intrighi e la seduzione contro l’esercito oppostogli. Luigi, a cui il destro nemico avea sottratto l’amicizia del pontefice e il venale coraggio dello Sforza, se ne andò in rotta; ma questa non era che la prima scena del lungo conflitto tra Francesi e Spagnuoli. Intanto in Sicilia Federico II moriva (1377) di trentacinque anni, sempre inetto, lasciando una sola figlia Maria: e sebbene Federico di Svevia avesse determinata la successione per agnati, escludendo le femmine, il papa autorizzò Maria a succedere. S’oppose Pietro d’Aragona, finchè s’accordò di maritarla con don Martino suo nipote (1392). Ai baroni ne rincresceva, temendo non il signore forestiero li mettesse al freno: ma egli comparve con buone forze, e accolto volonterissimo dalle città, domò gli Alagona e i Chiaramonti che gli si opponevano. Ma morì improle, onde gli succedette il padre suo (1409), Martino il Vecchio, già re d’Aragona; lo perchè la Sicilia cadde nella deplorabile condizione di provincia, e vi durò tre secoli. Per giunta, il papa e i re napoletani fomentavano le discordie, già inevitabili in quella costruttura di regno, e che continuavano l’agitazione anche dopo perita la libertà. Primeggiavano fra i baroni le famiglie de’ Chiaramonti e degli Alagona; la prima, tanto sublimata che diede una figlia in isposa a re Ladislao, propendeva agli Italiani ed era meglio popolare; l’altra agli Spagnuoli: ma e la _parzialità latina_ e la _catalana_ tiranneggiavano, strappando a sè le rendite, l’amministrazione, la guerra, la giustizia: le città, invece di maturare l’ordinamento municipale, erano predominate dai nobili, i quali eleggevano i magistrati, e cacciandone il capitano regio, vi mettevano qualche barone di loro parte, e infine le convertirono in rettorie di loro proprietà. Quando Martino II tentò dar polso alla podestà monarchica, essi baroni, sopendo le nimicizie, si collegarono a Castronovo per sorreggersi a vicenda, sorretti anch’essi dal papa; e Martino, obbligato a calare a patti, s’ingegnò di rimettere l’assetto antico, revocare alla camera le rendite alienate, munire il paese con un esercito stabile di trecento bacinetti o barbute, che cento erano di Siciliani, gli altri di forestieri. Egli armò per ricuperare la Sardegna ribellatasi, e le vittorie sue ridestarono il valor siciliano; ma non appena avviati i miglioramenti, nuove turbolenze suscitò la morte di lui. Non si vuole più re straniero: Palermo propone al trono un Peralta (1410); Catania e Siracusa negano dipendere da quella città; Messina, ancor memore degli antichi sforzi, e sempre aspirando ad essere la prima città del regno, scuote il giogo straniero, e promette fede a papa Giovanni XXIII, che dichiara scaduti gli Aragonesi perchè più non aveano pagato il tributo feudale. Ma ai baroni conveniva quel che al popolo rincresceva, onde ajutarono la guerra, che durò finchè Ferdinando di Castiglia, nipote di Martino II, fu da tutti riconosciuto re legittimo (1412). Non badò alle domande ripetutegli di fare della Sicilia un regno distinto, anzi costituì non dovesse mai separarsi dall’Aragona, ch’egli aveva acquistato. Egli non approdò mai nell’isola; bensì Alfonso d’Aragona (1416) succedutogli vi pose dimora, fosse per desiderio di sottrarsi agl’impacci che nel suo regno gli davano le cortes e la gelosia de’ signori, fosse per colorire i suoi disegni sopra la Corsica. Cupido d’imprese, dal suo regno di Sardegna aveva invaso quest’isola; ma trovato gagliarda resistenza per parte de’ Genovesi, era stato costretto a recedere (1420). Fu allora che gli venne dalla regina Giovanna l’invito d’assisterla e la promessa d’adottarlo; intanto nominandolo duca di Calabria, e dandogli per sicurtà Castel Nuovo e Castel dell’Uovo. Quest’adozione avviava a ricongiungere le due parti separate dell’antico regno: ma Alfonso alla Corte di Napoli si accorge d’essere circuito da intrighi e tradimenti; e non sapendo tollerare la burbanza del Caracciolo e le costui trame per soppiantarlo, il fa arrestare. Giovanna spaventata appena ha tempo di chiudersi in Castel Capuano, disereda Alfonso per Luigi III d’Angiò (1425), invita a soccorso lo Sforza, il quale a rincalzo di combattimenti la salva. Lo Sforza, dopo avere avuto molti figli d’amore, sposò due mogli di sempre più elevata fortuna, e ultimamente una duchessa di Sessa, vedova di Luigi II d’Angiò: fu dichiarato ancora gran connestabile, e allorchè Giovanna gliene conferiva il bastone, e disputavasi sulla formola migliore per impegnare la fede di lui, ella proferì: — Chiedetela a lui stesso, il quale tanti ne diede a me ed ai nemici, che nessuno meglio sa in che modo si obblighi e disobblighi». Menò egli robustamente la guerra contro del papa buttatosi cogli Aragonesi, e professava volergli far dire cento messe per un quattrino; fu soddisfatto del lungo odio col cogliere a forza, e far processare e mandare al patibolo il Tartaglia; ma poco dopo (1424 4 genn.) egli pure, nel guadare il Pescara, annegavasi al cospetto del figlio Francesco e dell’emulo Braccio. Mentre Alfonso era dovuto recarsi a chetare il suo regno d’Aragona, Giovanna co’ sussidj di Genova recupera Napoli; e Braccio, combattendo le bande sforzesche e Giacomo Caldòra sotto Aquila, rimane sconfitto (2 giugno), e ferito si lascia morir di fame e di rabbia, perendo quasi contemporanei i due caporioni delle bande italiane. Il pontefice, di cui Braccio circuiva quasi d’ogni parte gli Stati, ne festeggiò per tre giorni la morte, e lasciò il cadavere di lui insepolto: il suo dominio fu reso allo Stato pontifizio e al napoletano. Giovanna, per capricci amorosi che l’età rendeva ridicoli, venne in broncio col Caracciolo; e i nemici di lui, strappatole l’ordine d’arrestarlo, affrettaronsi ad ucciderlo (1432) prima che ella pentisse. La regina non potè che tributargli splendide esequie, e lasciare che il popolaccio saccheggiasse le case degli uccisori di lui; poi si abbandonò alla duchessa di Sessa, incapace com’era di volere o di risolvere da se medesima. Perito anche Luigi III senza figli (1434), Giovanna privilegiò erede in testamento Renato fratello di questo; poi a sessantaquattro anni, logora di corpo e di spirito moriva (1435), e con essa la prima casa d’Angiò, da censessantott’anni regnante. Le volubili adozioni di lei costarono infinite guerre a Francia e Aragona, che per disputarsi quella bella corona toglievano appiglio da donnesche velleità. Per allora la Calabria fu congiunta alla Sicilia: ma Renato si fece innanzi allegando il testamento di Giovanna; il papa pretendeva che il regno vacante ricadesse come feudo alla Chiesa, ma essendo così debole da non potere sostenersi, prese la parte di Renato; e i regnicoli si divisero tra i due, che s’accinsero a meritare il Reame col farne quel peggiore strazio che sapessero. Alfonso che stava parato agli eventi, volle prevenire l’arrivo de’ Francesi, e assediò Gaeta difesa dai Genovesi, che l’avevano fatta emporio delle loro merci nelle passate turbolenze, e l’aveano per volontà de’ cittadini ricevuta in deposito. Egli la ridusse all’estremità; ma essendone mandati fuori fanciulli, donne, vecchi, a chi lo consigliava respingerli per affamare la città rispose: — Piuttosto non prendere Gaeta che rinnegare l’umanità», e gli accolse e nutrì. L’avere Alfonso cercato di conquistare la Corsica e farsene investire dal papa, aveagli nimicato Genova, la quale, giuratasi a guerra, non esitò a spendere ducentomila genovine per armare contro di lui. Biagio Assareto ammiraglio, affrontata la flotta del re all’isola di Ponza, la sconfisse (1435), e agli anziani di Genova ne dava ragguaglio nel patrio dialetto in questi sensi: — Magnifici e reverendi signori; innanzi tutto vi supplichiamo a riconoscere questa singolare vittoria dal nostro Signore Iddio, dal beato san Giorgio e da san Domenico, nella cui festa in venerdì fu data la sanguinosissima battaglia, della quale siamo rimasti vincitori non per le nostre forze, ma per la virtù di Dio, avendo la giustizia dalla nostra parte. Il quarto dì di questo mese, di mattino per tempo, trovammo sul mare di Terracina l’armata del re d’Aragona di navi quattordici scelte fra venti, sei delle quali erano grosse e le altre comuni, e con uomini seimila, talchè la nave più piccola ne aveva da tre in quattrocento, le mezzane cinque in secento, e la reale ottocento, sulla quale erano il re d’Aragona, l’infante don Pietro, il duca di Sessa, il principe di Taranto con altri cenventi cavalieri. Avevano inoltre undici galee e sei barbotte. Il vento spirava dal Garigliano, sicchè era in loro potere quel giorno d’assalirci. Noi avendo a mente gli ordini vostri di non prender battaglia s’era possibile, ma soccorrere Gaeta, ci sforzammo tirare al vento, e navigammo verso l’isola di Ponza sempre seguitati dagli Aragonesi, che in poco d’ora ci ebbero raggiunti. La nave del re c’investì la prima nello scarmo di prua, e si concatenò amorosamente con noi. Avevamo dal lato opposto un’altra nave, una da poppa, una a prua. Non pensate già che i nostri marinari e patroni fuggissero, che anzi si spinsero addosso, e così rimanemmo essi e noi tutti legati insieme. Le galee aragonesi davano gente fresca alle navi loro; e le navi ci traevano bombarde e balestre ove più loro piaceva, perchè la calma era grandissima. Non pertanto, dopo combattuto dalle dodici sino alle ventidue senza riposo, in grazia della giustizia della causa nostra l’Altissimo ne diè vittoria. Primamente pigliammo la nave del re, e le altre nostre ne presero undici; una galea loro fu abbruciata, una sommersa e abbandonata, due si sono levate dalla battaglia e fuggitesi per portarne le nuove. Sono rimasti prigioni il re d’Aragona, il re di Navarra, il gran maestro di San Jacopo, il duca di Sessa, il principe di Taranto, il vicerè di Sicilia, e molti altri baroni, cavalieri e gentiluomini, oltre a Meneguccio dell’Aquila, capitano di cinquecento lance; gli altri prigioni sono a migliaja. Non so donde cominciare per degnamente riferire le lodi e le prodezze di tutti i miei compagni e marinari, insieme con l’ubbidienza e riverenza grande che mi hanno sempre usata, e massimamente il dì della battaglia; che se avessero combattuto alla presenza delle signorie vostre, non avrebbero potuto fare di più. Cristo ne presti grazia che possiamo andare di bene in meglio»[30]. Il re prigioniero, con due fratelli e un centinajo di baroni spagnuoli e siciliani, fu spedito a Milano a Filippo Maria Visconti allora signore di Genova; al quale il re colle cortesi e colte sue maniere seppe ispirare fiducia, e gli persuase come la grandezza dei duchi di Milano fosse derivata dalla debolezza dei reali di Napoli, sicchè ne sarebbe guasta, e con essa l’indipendenza italiana, se una casa francese si stabilisse laggiù, la quale certo intaccherebbe anche la Lombardia. Il freddo Filippo restò capace di quelle ragioni, e non solo il rese in libertà senza riscatto, ma il fornì di mezzi per ricuperare quel regno. Anche l’altro re di Napoli Renato, valorosamente combattendo nelle guerre di Francia, era caduto prigione del duca di Borgogna; ma avendo con grossi sacrifizj ricuperato la libertà, si cominciò una guerra, dove i competitori fecero gara di valore e di generosità. Renato, signore di piccolo paese, esausto dalle taglie pagate per riscattarlo, nè sostenuto che da un papa esule, non avrebbe potuto pettoreggiare Alfonso, se non fossero state le bande di Giacomo Caldóra duca di Bari, che avea raggomitolato le truppe lasciate da re Ladislao, e dopo la morte di Braccio e di Sforza restava in nome di primo capitano d’Italia; ma come, lui morto, Antonio suo figlio degenere si guastò cogli Angioini, questi precipitarono; e Alfonso, scoperto un condotto sotterraneo, penetrò in Napoli; Renato, che colla bontà e col dividere pericoli e patimenti erasi fatto amare dai Napoletani, ritirossi in Francia (1442); il papa, che non gli aveva dato sin allora che promesse, lo riconobbe, e coronò re d’un paese che aveva perduto. Alfonso, entrato trionfalmente con una corona in capo e sei al piede per dinotare gli altri suoi regni di Aragona, Sicilia, Valenza, Corsica, Sardegna, Majorca, dotò i nobili spagnuoli e napoletani suoi fautori a spese degli avversarj; al Regno aggiunse lo Stato di Piombino e l’isola del Giglio, ch’erangli come porte verso la Toscana; brigò in tutte le vicende italiane, intanto che in una corte voluttuosissima abbandonavasi alle delizie ed agli studj; manieroso e scaltrito, generosissimo nel donare, suntuoso negli spettacoli, nelle caccie, nei concerti, negli edifizj, faceasi leggere continuamente qualche classico, frapponendo erudite interrogazioni, e neppure fra l’armi lasciava Giulio Cesare e Quinto Curzio: ma Tito Livio era il suo manuale, sino a far tacere la musica per udirlo; gli parve un gran che l’ottenere dai Veneziani un osso del braccio di lui, che con solennità fece trasportare a Napoli; e Cosmo de’ Medici lo calmò, dopo un torto fattogli, col donargli un bell’esemplare delle _Deche_. Pedestre si recava a udire i professori dell’Università; e quando morì Giulian da Majano, ne fece accompagnare il mortorio da cinquanta suoi vassalli in corrotto. La più frequente sua conversazione era cogl’illustri eruditi d’allora, Giorgio da Trebisonda, il Valla, il Filelfo, il Panormita, il Manetti, il Decembrio, il Bruno, l’Aretino, Giovanni Aurispa, Giovian Pontano, Teodoro Gaza, il Crisolara. Aveva anche letto quattordici volte la Bibbia coi commenti di Nicolò da Lira, e l’allegava ogni tratto; recitava tutti i giorni il rosario, sentiva due messe piane e una cantata, nè per qualsiasi caso se ne sarebbe dispensato; alle solennità assisteva ginocchioni, scoperto, cogli occhi immoti sul libriccino; il giovedì santo lavava e baciava i piedi ai poveri, ogni notte sorgeva a dir l’uffizio, digiunava tutte le vigilie e i venerdì in solo pane, accompagnava il viatico agl’infermi[31]. Passeggiava in mezzo al popolo, e a chi gli insinuava qualche sospetto, — Di che può temere un padre tra’ suoi figliuoli?» Sedeva egli più spesso a Napoli, dove istituì la Sacra Corte reale di santa Chiara, ossia Capuana, giustizia suprema, estesa su tutti i suoi Stati. Ai baroni napoletani concedeva nelle investiture la giurisdizione col mero e misto imperio che mai non aveano avuta, di sì preziosa prerogativa della corona facendo prodigalità perchè non s’opponessero alla successione di Ferdinando suo figlio legittimato. Questo credeasi nato da Margherita di Hijar; e la moglie d’Alfonso fece strangolare questa damigella, che dicono coll’onor suo salvasse quello di dama più alta. Alfonso mandò la moglie in Ispagna giurando non più andarvi esso; poi, d’intesa col pontefice, in testamento nominò esso Ferdinando re di Napoli, cioè del paese da lui conquistato, mentre a suo fratello Giovanni re di Navarra lasciava gli aviti di Sicilia, Sardegna ed Aragona. In morte raccomandò al figlio: — Se volete vivere quieto, non imitate me in tre cose: primo, sbrattatevi di tutti gli Aragonesi e Catalani da me esaltati; e Italiani, massime regnicoli, elevate agli impieghi, mentr’io gli ho guardati d’occhio sinistro: secondo, i nuovi aggravj da me posti ritornate alla misura antica: terzo, conservate la pace fatta colla Chiesa, e tenetevela amica se sapete»[32]. CAPITOLO CXV. L’ultimo Visconti. Gli Svizzeri. Il Carmagnola. Il Piccinino. Lo Sforza. Filippo Maria Visconti duca di Milano, non sanguinario come il fratello, ma cupo e diffidente, abile a celare i sentimenti proprj e succhiellare gli altrui, fatta pace oggi, la rompeva domani per rannodare bentosto nuovi accordi; abbatteva chi dianzi aveva sollevato; diffidava di tutti, di tutti ingelosiva, nè mai sapea perdonare i ricevuti benefizj. Non solo pospose a una druda la moglie Beatrice, ma volle svergognare lei e sbarazzar sè coll’imputarla d’adulterio con un paggio Orombello, e affrontando il proprio disonore mandolla al patibolo: la posterità esita sulla colpa di lei, non perdona al rigore e alla procedura di lui. Verso i migliori condottieri alternò lusinghe e minaccie, carezze e insidie; in trentacinque anni di regno, tre sole volte convocò il consiglio generale, intanto che fidavasi a malvagi consiglieri, ad aguzzetti di sue ingenerose passioni, ad Agnese del Maino sua amica, a Zannino Riccio suo astrologo; perocchè all’astrologia sottoponeva egli spesso le sue risoluzioni. Negletto del vestire, pigro, corpulento, sul fin della vita anche cieco, e della pinguedine e della cecità vergognando, chiudevasi con pochissimi a ravviluppare una tortuosa e meschina politica, e passionato per l’intrigo, non credea ben riuscire ove a questo non ricorresse. Vero è che molti ebbe a disgustare nel ricuperare i possessi aviti; ed essi lo avversarono a segno, che molto bisogna dedurre dal male che ne dissero, e che gli storici hanno ripetuto. Filippo Maria, estendendo il dominio, diè di cozzo in tre repubbliche, la svizzera, la fiorentina, la veneta. Talmente la storia italiana fu intrecciata colla svizzera, che ci corre obbligo d’arrestarci alquanto su questa. Gli Elvezj, collocati nel gruppo centrale delle Alpi donde scendono i fiumi alla Germania e all’Italia, aveano opposto alla conquista romana il coraggio di montanari; poi sottomessi, parte restarono coll’Italia, parte colla Gallia e la Germania. I Barbari diretti all’Italia attraversarono quel paese, alcuni vi presero stanza, e di mezzo alla conquista e alla feudalità vi si compirono le vicende stesse della Germania e dell’Italia. San Gallo, Appenzell (_Abbatis Cella_), San Maurizio, Zurigo, Glaris, Lucerna erette intorno a conventi, le insigni badie di Einsiedlen e Dissentis, attesteranno in perpetuo che l’incivilimento vi fu recato da que’ monaci, ai quali testè parve liberalismo il negare fin un ricovero. Molti signori si erano, al modo feudale, spartito il paese in dominj militari ed ecclesiastici, che riconoscevano la supremazia dell’Impero: vi si contavano cinquanta contee, cencinquanta baronie, mille famiglie nobili; varie città possedeano franchigie e privilegi comunali alla germanica; e attorno al lago de’ Quattro Cantoni, Schwitz (che poi diede nome a tutto il paese) godeva una tranquilla libertà all’ombra del monastero di Einsiedlen, e davasi mano con Uri e Unterwald per respingere chi a quella attentasse. E v’attentavano di fatto i signorotti vicini, e massime i conti d’Habsburg castello dell’Argovia, e viepiù da che Rodolfo salì imperatore di Germania. Egli rispettò quelle comunali franchigie: ma Alberto d’Austria suo figlio e successore cercò ridurre que’ cantoni patriarcali in sua immediata dipendenza; e lasciava che i balii suoi soprusassero. Quei poveri ma robusti mandriani pertanto si confederarono (1307) onde resistere alla tirannia austriaca, e «in nome di Dio che ha fatto l’imperatore e il villano, e dal quale derivano i diritti degli uomini», giurarono non far torto ai signori Absburghesi, ma non soffrire veruna diminuzione de’ proprj diritti. Alberto considerò siffatto accordo di difesa come una cospirazione ad offesa, e veniva coll’armi per punirla, allorchè tra via fu assassinato da un nipote, di cui aveva usurpato l’eredità. Leopoldo suo figlio mosse l’esercito feudale contro i confederati (1315), ma a Morgarten la sua esercitata cavalleria fu messa in piena rotta dalle subitarie bande paesane. Le vittorie assodano quella libertà, cioè l’esercizio dei diritti naturali e civili di ciascun paese: ai tre cantoni s’aggiungono Lucerna, Zurigo, Glaris, Zug, Berna, poi Aarau, Friburgo, Soletta, Basilea, Sciaffusa e Appenzell. Sempre invocando la Madonna, san Fridolino, sant’Ilario, alla battaglia di Sempach (1386) distruggono un nuovo esercito degli Austriaci, i quali, dopo altre sconfitte, sono costretti a lasciare i cantoni in pace, benchè trecento anni ancora tardassero a riconoscerne formalmente l’indipendenza. Poco mancò che gli Svizzeri traessero nella lega anche il Tirolo, lo che avrebbe anche da quel lato riparata l’Italia dalle ambizioni dell’Austria. Nella Rezia s’erano forse ridotti in antichissimo gli avanzi degli Etruschi; poi, allo sfasciarsi dell’Impero, buon numero di Romani, come lo attesta la lingua ladina e romancia che vi si parla finora, di fondo latino mescolato al tedesco. Ivi pure acquistarono preponderanza varj tirannelli e i vescovi di Coira, per gran tempo suffraganti al metropolita di Milano: ma i popolani, alleandosi fra loro e istituendo i Comuni, ne frenarono le prepotenze. Come i nostri nel convento di Pontida, così alcuni Reti presso a quello di Dissentis radunaronsi per giurare di difendersi a vicenda; e così costituirono la lega Caddea (_ca de Dio_) (1401). Altri ne presero coraggio a domandare ai loro signori giustizia e sicurezza; e i signori adunatisi a Truns (1424), giurarono d’essere buoni e fedeli confederati nella lega Grigia, che diede agli altri il nome di Grigioni. Morto poi l’ultimo conte di Tockenburg (1436), i suoi vassalli strinsero la lega delle Dieci Dritture; e le tre a Vazerol combinarono la repubblica de’ Grigioni (1471), la quale alleatasi poco stante colla Confederazione svizzera (1497), represse gli Austriaci, ed assicurò l’intera libertà. Libertà di fatti positivi, semplici, intesi da tutti, non stillati da accademici e da avvocati; benedetta dalla religione, assicurata col proprio sangue, e che poterono conservare fin ad oggi, mentre l’ha perduta il paese nostro che ad essi serviva d’esempio. Sventuratamente però anch’essi l’abusarono in interne riotte; poi li prese il mal vezzo di vendere il proprio valore a chi li richiedesse, e l’ambizione di voler fare conquiste. Buon’ora essi volsero gli occhi di qua dell’Alpi Lepontine e delle Retiche per agognare il bel paese, dal quale ricevevano il bestiame loro, le pelli e i formaggi. Dalla cresta del San Gotardo piove a settentrione la Reuss nel lago dei Quattro Cantoni, per una valle inaccessibile se l’arte non v’avesse praticato il ponte del Diavolo e la buca di Uri. Salendo dalla quale verso meriggio, traversata la pascolosa valle Orsera a millecinquecento metri sovra il mare, alla vetta del Gotardo il pellegrino trovava ricovero nell’Ospizio, mantenuto con cento scudi l’anno dagli arcivescovi di Milano e dalla carità de’ fedeli. Colà incominciava il Milanese; e scendendo pel pendìo meridionale a seconda del Ticino, dopo la scoscesa val Trémola, si veniva alla Leventina, già munita di torri longobarde, indi a Giorníco e Poleggio, poi a Bellinzona, cittadina che con buon castello ed estesa mura chiudeva quel passo, non guari distante dal lago Maggiore. Qui pure confluisce la Mesolcina, valle della Moesa, donde s’ha un altro passaggio all’alta Rezia pel San Bernardino. Varcando poi il monte Cenere, si cala al lago di Lugano, che fa già parte della pianura milanese, e che, coi laghi di Como a levante, di Varese a mezzogiorno, e Maggiore a ponente, forma la contrada più pittoresca della Lombardia. Tra le alture alpine rimanevano ancora alquante piccole signorie, come i Sax nella Mesolcina e a Bellinzona, i Rusca a Lugano, gli Orelli a Locarno; delle valli Leventina, di Blenio e Riviera il capitolo della metropolitana di Milano fin dal X secolo tenea la dominazione spirituale e temporale. Gli abitanti della Leventina aveano avuto qualche rissa coi valligiani della valle Orsera, a vendicare i quali gli Svizzeri valicarono il San Gotardo e scesero fin a Giorníco (1331); ma il signor Franchino Rusca colle buone gli arrestò. Essi Rusca poi e i signori di Milano aveano invitato ora ad ora gli Svizzeri a sostenerli colle armi; modo di invogliarli d’un paese che potea porgere e vitto ed agi alla soverchiante popolazione delle montagne. Avendo poi i gabellieri di Gian Galeazzo Visconti (1405) tolto ai coloro paesani bovi e cavalli che conducevano al mercato di Varese, i tre Cantoni montani s’appellano agli altri, e non soddisfatti dal duca, varcano le Alpi; favoriti dalle dissensioni di Guelfi e Ghibellini, occupano la Leventina, e costrettala a giurar loro fedeltà, tornano in patria. Ma essendo dai Sax assalita quella valle, gli Svizzeri di fitto verno ricompajono, e a Faído dettano la pace (1406), per duemila quattrocento fiorini acquistando quant’è fra la Leventina e il monte Cenere, compresa Bellinzona medesima, il che assicurava loro il valico alla Mesolcina e al Milanese. Gravava a Filippo Maria il lasciare in man loro quella chiave d’Italia; onde, côlto un bel destro, sorprese Bellinzona, e tornò la Leventina a sua obbedienza (1422). Tosto le vallate del Ticino e della Moesa echeggiano del corno di Unterwald e del toro di Uri, che guidano gli alpigiani alla riscossa; ma Angelo della Pergola e il Carmagnola con seimila cavalli e quindicimila fanti gli affrontano nel piano d’Arbedo (30 giugno). Erano ben altre pugne che quelle consuete in Italia. Gli Svizzeri, maneggiando a due mani i lunghi spadoni, senza rispetti cavallereschi cacciavanli nelle pancie dei destrieri, e non davano quartiere; onde fu necessario l’estremo del valore contro gente usata a morire sul posto assegnato, e in fitta ordinanza sostenere l’urto de’ nemici, come le roccie dei loro monti rompono la piena dei torrenti. L’intera giornata si pugnò, finchè il Pergola impose a’ suoi di scavalcare: allora l’arte prevalendo, duemila Svizzeri perirono, altri infissero a terra le punte delle labarde in segno d’arrendersi, e pochi e disordinati ripassarono le valli, che aveano dianzi fatto risonare coi canti di loro avida speranza. Era quella la prima grave sconfitta che gli Svizzeri toccassero, onde per allora si tennero quieti: ma non tardarono occasioni di capiglie: e quelli di Uri ripresero la Leventina, per più non lasciarla fin alle rivoluzioni dei nostri giorni. Trovandosi aperto quel varco all’Italia, vennero a scialacquarvi tante vite, che meglio avrebbero serbate a prosperare la loro libertà. Firenze, sempre rôcca dell’italica indipendenza, spiava gelosa i progressi di Filippo Maria, e con lui stipulò (1419) che il fiume Magra tra il Genovesato e la Lunigiana, e il Panàro tra il Bolognese e il Modenese fossero i limiti, di qua e di là dei quali nessun di loro acquisterebbe nè mesterebbe. Ma Filippo, ottenuto Genova (1421), al doge Tommaso Campofregoso diede in compenso Sarzana, posta di là della Magra; poi trasse a sè la tutela del principe di Forlì, e mandò truppe sul Bolognese contro gli eredi della casa Bentivoglio; sicchè esclamando ai patti violati, i Fiorentini gli scoprirono guerra. Allora la solita gara di procacciarsi ciascuno alleanze e fautori, e massimamente di trarre a sè Venezia. Questa avea tocco l’apogeo di sua grandezza, e non mancava chi la consigliasse ad estendere le sue conquiste sopra tutta Italia, al modo dell’antica Roma: ma altri mostravano quanto pericoli la libertà dove preponderano le armi, e come dai possessi in terraferma resterebbe danneggiata una repubblica che, sorta in mezzo alle acque, dalle acque doveva aspettarsi salute e gloria. La politica conservatrice era rappresentata dal doge Tommaso Mocenigo; e quando nel 1421 si dibatteva nel maggior consiglio se mettersi in lega co’ Fiorentini contro il duca di Milano, egli stette sempre al no; e perchè Francesco Fóscari procurator giovane infervorava alla guerra, ne ribatteva con lunga parabola le insinuazioni. — Il nostro procurator giovane ha detto ch’egli è buono soccorrere i Fiorentini, perchè il loro bene è il nostro, e per conseguenza il nostro è il loro male. Noi vi confortiamo siate in pace. Se mai il duca vi facesse guerra ingiusta, Iddio, il quale vede tutto, ci darà vittoria. Viviamo in pace, perchè Iddio è la pace; e chi vuol guerra, vada all’inferno». Qui il Mocenigo scorre la storia sacra, mostrando come Dio premiasse i pacifici, e i superbi e guerreschi disajutasse, e prosegue: — Così intraverrà de’ Fiorentini per voler fare i loro desiderj; Dio disferà la lor terra e il loro avere, e verranno ad abitar qui pel modo che sono venute altre loro famiglie colle donne e putti. Altramente, se verremo a far il volere del nostro procurator giovane, i nostri si partiranno e anderanno ad abitare in terre aliene. Discese Attila per tutto rovinando, e cacciando gli uomini occidentali, e saccomannandoli; e Iddio ispirò alcuni potenti, i quali vennero per sicurezza ad abitare in queste lagune, per modo che si trovarono salvi, come da Dio eletti. Se noi facessimo a modo che propone il nostro procurator giovane, Dio non ci avrebbe più per eletti, e aspetteremmo quello che hanno aspettato tutte le altre terre, rovinate e poste a sacco, e uccise le genti, e avuti mali assai. Se i Fiorentini vanno cercando il male, lasciateli: ma noi che siamo della città eletta su tutte l’altre, restiamo in pace. «Procurator giovane; Cristo pe’ suoi vangeli disse _Io vi do la pace_. Se noi facessimo a modo vostro, e preterissimo i comandamenti di Cristo, cosa potrebbesi aspettare se non male e distruzione? Procurator giovane: andiamo commemorando il Testamento vecchio e il nuovo. Quante città grandi sono diventate vili per le guerre? e per la pace si sono fatte grandi con moltiplicare la generazione, palagi, oro, argento, gioje, mestieri, signori, baroni e cavalieri. Come entrarono a guerreggiare, ch’è il mestiere del diavolo, Iddio le abbandonò e restarono divise; distruggevansi nelle battaglie gli uomini; l’oro e l’argento mancava; infine furono distrutte così com’eglino distrussero l’altre terre, e andarono schiave d’altri. Dove questa terra ha regnato mille e otto anni, Iddio la distruggerà». Qui ripiglia la storia profana insino a Roma. — Per le lunghe guerre, imposte alle terre angarie grandi, i cittadini desiderando nuovo stato, Cesare se ne fece signore, e di male in male si stettero. Questo medesimo occorre a’ Fiorentini; gli uomini d’arme tolgono loro denari e sono i signori; ed essi obbediscono a que’ che sono loro servi, villani, genti maledette, uomini d’arme. Così intraverrà a noi se faremo a modo del procurator giovane. Pisa si fece grande, ricca ed abitabile per la pace e pel buon governo; come desiderò quel d’altri, in far guerra s’impoverì de’ cittadini, uno cacciava l’altro, tanto che la più vile comunità d’Italia li sottomise, che fu Firenze. Così interverrà a’ Fiorentini; e già si vede che sono impoveriti e stanno divisi. Così intraverrà di noi se faremo a modo del nostro procurator giovane. Come ho detto di questa, si dica di tutte l’altre città. «Adunque voi, ser Francesco Foscari nostro procurator giovane, non parlate mai più nel modo che avete fatto, se prima non avete buona intelligenza e buona pratica; perocchè Firenze non è il porto di Venezia nè da mare nè da terra, il suo mare essendo lontano dai nostri confini cinque giornate. I nostri passi sono il Veronese; il duca di Milano è quello che confina con noi, ed egli dev’essere tenuto in amicizia, perchè in manco d’un giorno si va a una sua città grossa ch’è Brescia, la quale confina con Verona e Cremona. Genova potrebbe nuocere, ch’è potente per mare sotto il duca, e con essa si vuole star bene: ma quando i Genovesi volessero novità, abbiamo la giustizia con noi; noi ci difenderemo valentemente e contro i Genovesi e contro il duca, colla ragione. La montagna del Veronese è la nostra difesa contro al duca, la quale per se medesima s’è già difesa: oltre a ciò, difendono tutto il nostro paese il paludo e l’Adige e tremila cavalli con tremila fanti e con duemila balestrieri; e se abbisognasse più gente fare, faremmo resistenza a tutta la potenza del duca con altre tremila persone. Però godete la pace. Se il duca avrà Firenze, i Fiorentini, che sono usi a vivere a comune, si partiranno da Firenze, e verranno ad abitare a Venezia, e condurranno il mestiere de’ panni di seta e di lana, per modo che quella terra rimarrà senz’industria, e Venezia moltiplicherà, come intravenne di Lucca quando un cittadino se ne fece signore, che la ricchezza sua venne a Venezia, e Lucca diventò povera. Però state in pace. «Ser Francesco Foscari, se voi vi trovaste un giardino in Venezia, che vi desse ogni anno tanto frumento da viverne cinquecento persone, e oltre a questo ne aveste molte staja da vendere; che il detto giardino vi desse tanto vino per cinquecento persone, e oltre ne aveste da vendere molte carra; che vi desse ogni sorta biade e legumi per assai denari, e ancora ogni sorta di frutta da viverne cinquecento persone ogni anno, e che ve ne fosse da vendere; e il detto giardino vi desse ogni anno tra buoi, agnelli, capretti e uccelli di ogni sorta per bastare a cinquecento persone, e ne avanzassero da vendere; e similmente tanto formaggio ed uva e pesce, e non avesse spesa alcuna d’essere guardato, converrebbe dire che questo giardino fosse nobilissimo, dando tante cose. Se poi una mattina vi fosse detto: _Ser Francesco, i vostri nemici sono andati in piazza a togliere trecento marinaj, e hannoli pagati per entrare in questo vostro giardino, e questi portano cinquecento ronconi per guastare gli alberi e le vigne; e cento villani con cento buoi e con cento erpici per guastare tutte le piante, e far danno a tutti animali grossi e minuti;_ e se voi foste savio nol soffrireste, ma sodereste alla casa, e terreste tanto denaro per assoldare mille uomini incontro a quei che vogliono menar guasto. Ma se voi pagaste, ser Francesco, quei cinquecento uomini co’ ronconi e que’ cento villani a guastare il giardino cogli erpici? verrebbe detto che siete diventato pazzo. «Per provare se siamo in proposito, abbiamo deliberato di esporre il commercio che fa Venezia al presente e con chi. Ogni settimana vengono da Milano ducati diciassette in diciottomila, che farebbono in un anno la somma di ducati novecentomila, che entrano in questa città: alla settimana all’anno da Monza 1000 52,000 — Como 2000 104,000 — Alessandria della Paglia 1000 52,000 — Tortona e Novara 2000 104,000 — Cremona 2000 104,000 — Bergamo 1500 78,000 — Parma 2000 104,000 — Piacenza 1000 52,000 «S’introducono nel paese del duca di Milano merci per un milione seicentododicimila ducati d’oro all’anno. Vi pare che questo a Venezia sia un bel giardino e nobilissimo senza spesa? «Alessandria, Tortona e Novara vi mettono per pezze di panno che valgono all’anno 6,000 ducati 90,000 Pavia » 3,000 » 45,000 Milano » 4,000 » 120,000 Como » 12,000 » 180,000 Monza » 6,000 » 90,000 Brescia » 5,000 » 75,000 Bergamo » 10,000 » 70,000 Cremona » 40,000 fustagni » 170,000 Parma » 4,000 panni » 60,000 —————— ——————— in tutto pezze 90,000 ducati 900,000 «Oltre a questo abbiamo per l’entrata, magazzino ed uscita de’ Lombardi, a ducati uno per pezza, ducati ducentomila, che monta con le merci a ventotto milioni ottocentomila ducati. Vi pare che questo sia un bellissimo giardino a Venezia? «Ancora vengono canepacci per la somma di ducati centomila all’anno. Delle seguenti cose i Lombardi traggono da voi ogni anno: Cotoni, migliaja 5,000 per ducati 250,000 Filati » 20,000 da 15 fino a 20 ducati il centinajo 30,000 Lane catalane a ducati 60, il migliajo 4,000 240,000 Lane francesche » 30 4,000 120,000 Panni d’oro e di seta all’anno 250,000 Pepe, carichi 3,000 a ducati 100 300,000 Canelle, fardi 400 » 160 64,000 Zenzero, migliaja 200 » 400 80,000 Zuccari d’una, due, o tre cotte, sossopra ducati 15 il cento 95,000 Zenzeri verdi, per assai migliaja di ducati. — Cose d’ogni sorta per ricamare o per cucire 30,000 Verzino, migliaja 4,000 a ducati 30 120,000 Endaghi e grane 50,000 Saponi per ducati 250,000 Uomini schiavi 30,000 «Per modo che, fatta la stima del tutto, verrebbe ad essere due milioni ottocentomila ducati. È questo un bel giardino a Venezia senza spesa? «Ancora assai si vantaggia co’ sali che si vendono ogni anno. Il quale trarre che fa la Lombardia da questa terra, è cagione di fare navigare tante navi in Sorìa, tante galere in Romanìa, tante in Catalogna, tante in Fiandra, in Cipro, in Sicilia e in altre parti del mondo; per modo che riceve Venezia, tra provvigioni e noli, due e mezzo e tre per cento; sensali, tintori, noli di navi e di galere, pesatori, imballatori, barche, marinaj, galeotti e messetterie coll’utile dei mercatanti tra il mettere, eccovi un’altra somma di seicentomila ducati ai nostri di Venezia senz’alcuna spesa. Dal qual utile vivono molte migliaja di persone grassamente. È questo un giardino da doversi disfare? mai no; bensì da essere difeso da chi lo volesse disfare. Ci converrebbe togliere uomini d’arme che andassero sopra il detto paese guastando alberi e ville, abbruciando case e villaggi, depredando animali, e buttando giù mura di città e castelli, uccidendo uomini con desolazione, mettendo angarie alle nostre terre, sì ai cittadini come ai villani, e in questa città mettendo angarie alle case, prestiti alle mercatanzie, alle navi e alle galere? Dio sa quello che volessimo fare sul paese del duca: ma potrebbe occorrere che il duca salvasse il suo, e rimediasse ad ogni modo al male, e noi intanto saremmo stati cagione di disfare i luoghi nostri. Che varrebbero allora tante spezierie, e panni d’oro e di seta? niuno li torrebbe più, perchè non avrebbene il potere. E affinchè voi, signori, n’abbiate qualche notizia, sappiate che Verona toglie ogni anno broccato d’oro, d’argento e di seta, pezze ducento, Vicenza centoventi, Padova ducento, Treviso centoventi, il Friuli cinquanta, Feltre e Cividal di Belluno dodici; pepe, carichi quattrocento; cannelle, fardi centoventi; zenzeri di tutte sorta, migliaja e altre spezierie assai; zuccari, migliaja cento; pani di cera, ducento. «Come noi devastassimo il loro ricolto, eglino non avrebbono di che spendere, e se ne danneggerebbero tutte le mercatanzie di Venezia. Però non si vuol credere al nostro procuratore giovane. Al duca di Milano converrebbe, per difendersi, assoldare gente d’arme, mettere angarie ai villani, cittadini e gentiluomini, per modo ch’e’ non avrebbe danaro da comperare le sopradette cose, in discapito e rovina della nostra città e cittadini. «Però, signori, siate contenti che rispondiamo agli ambasciatori dei Fiorentini, ch’essi chiedano alla comunità loro licenza di praticare di pace. Se starete in pace, raunerete tant’oro che tutto il mondo vi temerà, e avrete Iddio sopratutto che sarà per voi. Iddio, signore di tutto, colla Nostra Donna e con messere san Marco vi lasci prendere la pace ch’è ben nostro»[33]. L’anno seguente rinnovando i Fiorentini le istanze, e dicendo, se Venezia non li soccorresse, dovrebbero fare come Sansone, che uccise se stesso con tutti i nemici suoi; e se restassero vinti, il loro servaggio produrrebbe quello di tutta Italia, esso doge in consiglio parlò: — Signori; voi vedete che per le novità d’Italia ogni anno vengono nella città di Venezia assai famiglie colle donne e’ figliuoli e coll’avere, e vanno empiendo la terra nostra; e pel simile da Vicenza, Verona, Padova, Treviso, con utilità grande della nostra città; e da ogni parte contadini e famiglie buone vengono ad abitare nelle nostre terre per vivere pacificamente coi loro mestieri, essi e i figliuoli. Vorrete guerra? questi si partiranno, struggendo la vostra città, e tutte l’altre; e de’ nostri partiranno. Però amate la pace. Se i Fiorentini si daranno al duca, loro danno; che ne darà impaccio? la giustizia è con noi. Essi hanno speso, consumato, e si sono indebitati: noi siamo freschi, e abbiamo in giro un capitale di dieci milioni di ducati. Vogliate vivere in pace, e non temere alcuna cosa, e non fidarvi ne’ Fiorentini, i quali pel passato ci hanno messo in guerra coi signori della Scala, e ci domandarono in prestito mezzo milione di ducati; quando volemmo darli loro, si accordarono con que’ della Scala contra di noi: questo fu del 1333. Del 1412 fecero scendere contro di noi Pippo fiorentino, capitano degli Ungheri, il quale ci fece grandi danni.... «Signori, non ve lo diciamo per gloriarci, ma solo per dire la verità e il bene della pace. I nostri capitani d’Acquamorta, di Fiandra, per le nostre ambasciate che vanno attorno, pe’ nostri consoli e pe’ nostri mercatanti, sapete che si dice ad una voce: _Signori Veneziani, voi avete un principe di virtù e di bontà, che vi ha tenuto in pace, e vi tiene per modo vivendo in pace, che siete i soli signori che navigate il mare e andate per terra, per modo che siete la fonte di tutte le mercatanzie, e fornite tutto il mondo, e tutto il mondo vi ama e sì vi vede volentieri. Tutto l’oro del mondo viene nella vostra terra. Beati voi finchè vivrà questo principe, e ch’egli sarà con simile proposito. Tutta l’Italia è in guerra, in fuoco e in tribolazione, e pel simile tutta la Francia e tutta la Spagna, tutta la Catalogna, Inghilterra, Borgogna, Persia, Russia ed Ungheria. Voi avete solo guerra cogl’infedeli che sono i Turchi, con vostra grande laude e onore._ Però, signori, finchè vivremo, seguiremo simil modo; e vi confortiamo che dobbiate vivere in pace, e dar risposta a’ Fiorentini, come facemmo già un anno, presa da tutto il consiglio». L’autorità del doge ottagenario elise gli sforzi dei partigiani della guerra; però sentendosi approssimarsi al suo fine, egli chiamò alquanti senatori, e così prese a dire: — Signori, abbiam mandato per voi dacchè Iddio ci ha voluto dare questa infermità come fine del nostro peregrinare. A Dio Padre, Figliuolo e Spirito Santo, trino ed uno, siamo obbligati per molte ragioni. Esso insegna ai Quarantun elettori di difendere la religione cristiana, d’amare i prossimi, di fare giustizia, di pigliar pace e conservarla. Nel tempo nostro abbiamo diffalcato di quattro milioni d’imprestiti, fatti per la guerra di Padova, di Vicenza e di Verona; il nostro monte si trova in sei milioni di ducati; e ci siamo sforzati che ogni sei mesi si abbiano pagate due paghe degl’imprestiti, e tutti gli offizj e reggimenti, e tutte le spese dell’arsenale, e ogni altro modo. «Per la pace nostra la nostra città manda dieci milioni di capitale ogni anno per tutto il mondo con navi e galere, per modo che guadagnano, tra mettere e trarre, quattro milioni. Al navigare sono navigli tremila, d’anfore dieci fino a ducento, con marinaj diciannovemila; navi trecento, che portano uomini ottomila; fra galere grosse e sottili ogni anno quarantacinque, con marinai undicimila; abbiamo sedicimila marangoni. La stima delle case somma a sette milioni, gli affitti delle case cinquecentomila; sono mille gentiluomini, che hanno di rendita annua ducati settantamila fino a quattromila. Voi conoscete il modo con cui vivono i nostri gentiluomini, cittadini e contadini. Ben però vi confortiamo che dobbiate pregare l’onnipotenza di Dio, la quale ci ha inspirato di fare nel modo che abbiasi fatto, e di proseguire così. Se questo voi farete, vedrete che sarete signori dell’oro de’ Cristiani, e tutto il mondo vi temerà. Guardatevi, quanto dal fuoco, dal togliere le cose d’altri e dal fare guerra ingiusta, che Dio vi distruggerà. Perchè possiam sapere chi toglierete per doge dopo la nostra morte, segretamente lo direte a me nell’orecchio, per potervi confortare a quello sia meglio alla nostra città». Udito i nomi, li collaudò, ma — Quei che dicono di volere ser Francesco Foscari, dicono bugie e cose senza fondamento. Se voi lo farete doge, in breve sarete in guerra; chi avea diecimila ducati non ne avrà che mille, chi avea dieci case non si troverà che su di una, e così d’ogni altra cosa; per modo che vi disfarete del vostr’oro e argento, dell’onore e della riputazione dove voi siete, e di signori che siete, sarete servi e vassalli d’uomini d’arme, di fanti, di saccomanni e di ragazzi. Però ho voluto mandare per voi, e Dio vi lasci reggere e conservar bene. Per la guerra de’ Turchi, di valentissimi uomini in mare porrete ad ogni intromessione sì nel governo che nell’utilità. Voi avete otto capitani da governare sessanta galere e più, e così di navi: avete tra’ balestrieri, gentiluomini che sarebbono sufficienti padroni di galere e di navi, e saprebbonle guidare: avete cento uomini usi a governare armate, pratichi per togliere un’impresa; e compagni assai per cento galere, periti e savj galeotti assai per galere cento; per modo che ognun dice che i Veneziani sono signori dei capitani, dei padroni e dei compagni. Similmente avete dieci uomini, provati a grandi faccende in più volte a consigliare la terra, mostrando le ragioni sugli arringhi a tutti; molti dottori savj in scienza, e assai savj al governo del palazzo. Seguite secondo che vi trovate, e beati voi e i vostri figliuoli. «La nostra zecca batte ogni anno ducati d’oro un milione, e d’argento ducentomila tra grossetti e mezzanini, e soldi ottocentomila all’anno. Ducati cinquecentomila di grossetti vanno all’anno tra la Soria e l’Egitto; e ne’ vostri luoghi e ne’ luoghi di terraferma vanno, tra mezzanini e soldi, ducati centomila; altrettanti ne’ nostri luoghi da mare, altrettanti in Inghilterra, il resto rimane in Venezia. I Fiorentini mettono ogni anno panni sedicimila finissimi, fini e mezzani in questa terra; e noi li mettiamo nell’Apulia, pel reame di Sicilia, per la Barberia, in Soria, in Cipro, in Rodi, per l’Egitto, per la Romania, in Candia, per la Morea, per l’Istria. E ogni settimana i detti Fiorentini conducono qui ducati di tutte le sorta settemila, cioè trecennovantaduemila all’anno, comperando lane francesi, catalane, cremisi e grane, sete, ori, argenti, filati, cere, zuccheri e gioje, con benefizio della nostra terra: così tutte le nazioni fanno. Però vogliate conservarvi nel modo in cui vi trovate, che sarete superiori di tutti. Il Signor Iddio vi lasci conservare, reggere e governare in bene». Francesco Foscari era conosciuto come abilissimo in intrighi, animoso all’intraprendere, e felice nel riuscire. In Venezia tenendo tante fila, cercava scostarsene il men possibile, non accettando che ambascerie di prima importanza; erasi amicati i Barnabotti col fare stabilir dotazioni pei figli di nobili poveri; e quattro figliuoli e molti amici gli erano d’appoggio a molto sperare. Vacando il dogato, scaltreggiò per modo, da prevalere a quei che il temevano perchè giovane e perchè attivo; e di fatto egli esercitò sui consigli della Signoria maggiore efficacia che non solessero i predecessori suoi. Favoriva quelli che lusingavano la vanità patriotica coll’idea di prepotere in Italia, e mettersi a capo d’una lega che equilibrasse i Visconti: sicchè la guerra, così temuta dal Mocenigo, allora proruppe. Già i Fiorentini seguitavano le ostilità con poca fortuna. Oddo figlio di Braccio di Montone, Carlo Malatesta e Nicolò Piccinino, stipendiati dai Fiorentini, furono in due anni (dal 6 7bre 1423 al 17 8bre 1425) sei volte sconfitti, ne’ romani e ne’ liguri campi, da Angelo della Pergola. Oddo perì: e Malatesta, caduto prigioniero del Visconti, fu da questo guadagnato colla cortesia: altrettanto avvenne del Piccinino. Un settimo esercito allestirono i Fiorentini, e cercavano amicizie; aveano (come ebbe a dire Lorenzo Ridolfi nel senato veneto) sparsi per tutt’Italia i giojelli delle spose e delle figlie loro, venduto quanto possedeano di prezioso, speso più di due milioni di fiorini, che tanti non se n’avrebbero vendendo tutta Firenze[34]. E di peggio potea temersi se Filippo Maria, per quel suo andazzo di odiare cui dovea gratitudine, non avesse scontentato il Carmagnola. Avea questi ottenuto il titolo di conte e il cognome della famiglia regnante colla mano di Antonia, figlia naturale di Gian Galeazzo, e tra feudi e stipendj un’entrata di quarantamila fiorini; e si fabbricò a Milano il vasto palazzo che poi si disse Broletto. Il duca forse agognava ritorgli tanti doni, largiti non per cuore ma per bisogno; forse il Carmagnola credevasi inadeguatamente compensato con denari, quando vedea Sforza e Braccio essersi acquistato signorie indipendenti: fatto sta che ne cominciò malumore. Il Carmagnola vedendosi maltrattato e fin cerco a morte, si parte dal duca; e benchè questi ne trattenesse la moglie e le figlie, reca a servizio di Firenze un grosso esercito e la conoscenza dei divisamenti dell’ingrato padrone; e a danno di questo (1426 3 8bre) pratica un’alleanza con Venezia, col marchese di Ferrara, col signore di Mantova, i Sanesi, i duchi di Savoja e di Monferrato, gli Svizzeri e il re d’Aragona. Dichiarata guerra a Filippo (1426), il Carmagnola, fatto capitano generale, con buona sentita di guerra e colle intelligenze occupa Brescia: ma il duca seppe cavarsi dalle male peste, sia comprando il valore di Francesco Sforza, Guido Torello, Nicolò Piccinino e Angelo della Pergola che formavano quindicimila corazzieri, sia spargendo zizzania fra i collegati, sposando Maria figlia del duca Amedeo VIII di Savoja, al quale cedette Vercelli; e con altri sagrifizj e coll’interposizione di papa Martino V, in Ferrara conchiuse pace (1426 30 xbre), a Venezia cedendo Brescia ed otto castelli sull’Oglio. Venezia, che così estendeva i dominj fino all’Adda, onorò e retribuì splendidamente il Carmagnola, e lo investì delle contee di Chiari e Roccafranca e d’altre terre fino a dodicimila ducati di rendita, con piena giurisdizione civile e criminale. Queste abjette condizioni lasciavano a sbaraglio Milano; onde i suoi nobili, che, secondo i vulgari raziocinj, consideravano proprio scorno il recedere il loro padrone da un’ingiusta guerra, mandarono supplicarlo a rescinder la pace, offerendo somministrargli diecimila cavalieri ed altrettanti pedoni, purchè lasciasse loro le gabelle e i tributi della città. Filippo non gradì che i cittadini rimetterser mano nelle pubbliche cose come ai tempi repubblicani; pur a rinnovare le ostilità si preparò col soldare le bande congedate dai Veneziani; e da settantamila uomini fra le due parti si trovarono a fronte nella valle padana[35]. Ben dovevano essere ancora di piccola importanza le artiglierie, se le navi venete osarono penetrare nel Po fino a Casalmaggiore, dove sconfissero la flotta milanese (1427 11 8bre); poi fra gli acquitrini di Macledio nelle vicinanze di Brescia l’esercito di Filippo fu sbaragliato dal Carmagnola. Allora si rannoda la pace; ma ecco tosto nuove rotture e nuovi accordi e nuove violazioni, secondo la versatilità di Filippo e la natura degli eserciti d’allora. A tali termini era l’Italia, che nè per la guerra acquistavasi gloria, nè per la pace quiete. Città prese e riprese, terre sfasciate, assassinj e tradigioni alternate colle battaglie, patimenti di plebe innominata, che importano alla storia? essa parla dei capi, e de’ felici colpi di quel prezzolato combattere. Non erano più guerre per la difesa della patria, non per utile o gloria o grandi intenti, ma effetto d’intrighi, di perfidiosa politica, del bisogno di battaglie che aveano i capitani come del proprio mestiere e guadagno. Sole truppe mercenarie campeggiavano, non ispirate da amor di patria, di gloria, di libertà; le battaglie finivano con poco sangue, atteso che, al primo piegar della fortuna, i soccombenti rendevano le armi, persuasi di trovare ben tosto un nuovo impresario, ed essendo convenuto fra condottieri di danneggiarsi il meno possibile. I vinti erano rilasciati in farsetto; i vincitori si sbandavano a godere le prede; i capitani se trionfanti dettavano legge a chi li pagava, se sconfitti esigevano compensi e ristori. Alla battaglia di Sagonara, ove Angelo della Pergola sconfisse ed ebbe prigioniero il Malatesta, se credessimo al Machiavelli, sole tre persone perirono, affogandosi nella mota. Così alla Molinella si combattè «mezzo un giorno... nondimeno non vi morì alcuno; solo vi furono alcuni cavalli feriti, e certi prigioni da ogni parte presi». Nella battaglia di Caravaggio, ove lo Sforza sbarattò affatto i Veneziani facendo diecimila cinquecento prigioni, diconsi morti soli sette soldati[36], due dei quali dalla stretta e dallo scalpitare de’ cavalli. Per tal modo un capitano, vinto oggi, al domani ricompariva in campagna con esercito non men numeroso; le guerre s’eternavano esaurendo l’erario, impoverendo lo Stato, e non assicurandolo dai nemici; paci fatte per necessità, rompevansi per capriccio; e tra i guerreggiati e i traditi, gl’Italiani doveano sentire quanto soffrano i paesi dove non sono tutt’uno la milizia e la nazione. A Maclodio sul Bresciano ottomila corazzieri di Filippo con Carlo Malatesta suo generale, e gli equipaggi e le ricchezze erano caduti prigionieri de’ soldati del Carmagnola, i quali trattandoli da commilitoni, subito li prosciolsero, onde tornarono al duca senz’altro avere perduto che le armadure. Due soli artefici di Milano offersero al duca quante armi bastassero per quattromila cavalieri e duemila pedoni; tanto vi fioriva questa manifattura: e Venezia vincitrice si trovò a fronte quegli stessi che dianzi avea vinti. Che il Carmagnola avesse disposto dei prigionieri a suo talento, spiacque all’ombroso Governo, e sospettollo d’intelligenze coll’antico suo signore; e tanto più dacchè sul Po la flotta milanese, guidata da Pacino Eustachio e da Giovanni Grimaldi genovesi, sconquassò la veneziana (1431 22 maggio), ch’era costata seicentomila fiorini. Imputando il Carmagnola di quel disastro, stabilirono torlo di mezzo: e perchè arrestare un capitano fra un esercito a lui devoto non era agevol cosa, l’invitano a Venezia (1432) sotto finta d’interrogarne l’esperienza, l’onorano in ogni modo, poi i Dieci l’arrestano, il processano; «non volendo confessare, fu posto alla corda; e non potendo trarlo su per un braccio ch’egli aveva guasto, gli fu dato fuoco a’ piedi, per modo che subito confessò ogni cosa». Fu mandato al supplizio (5 maggio) col bavaglio in bocca; trattane al fisco la sostanza, che valutavasi a trecentomila ducati; provvisto alla moglie ed alle figliuole. Il popolo tremò ed applaudi: la posterità, anche dopo conosciuti gli atti di quel processo, rimane dubbia sulla reità di lui, e lo colloca fra quelle vittime delle procedure segrete, che dalla pubblica coscienza attirano compassione per sè, esecramento su chi le fa[37]. Genova sappiamo che erasi sottoposta a Filippo Visconti, sicchè quando essa nella battaglia di Ponza (pag. 84) fece prigioniero Alfonso re d’Aragona e di Sicilia, a lui lo mandò. Il re seppe cattivarsi Filippo in modo che ne fu lasciato andar libero. Tante iniquità, tanto egoismo non nocquero mai al Visconti, come questa insolita generosità; perocchè i Genovesi, indispettiti che egli disponesse a sua voglia del frutto di così insigne vittoria, si sottrassero all’obbedienza del duca (1453 27 xbre), scannarono a furor di popolo il suo governatore, rivollero la repubblica, e con essa lo strazio delle fazioni. Nel calcolato favore di Filippo, al Carmagnola era sottentrato un altro prode. Quando Sforza Attendolo perì, l’esercito suo, unica assicurazione de’ privilegi e dei possessi che i principi gli aveano accordati per paura, sarebbesi sfasciato, se Francesco, uno de’ tanti figliuoli che esso aveva d’amore o di nozze, non avesse tenuto congiunte quelle masnade, obbedienti quegli uffiziali, dando già indizio di quella destra politica, che dovea poi alzarlo al più bel dominio italiano. Reso famoso in tutti i fatti d’arme d’Italia, e sentendo quanto valesse una buona spada, non s’accontentava ai dominj paterni; e battendo più alto la mira, e sempre crescendo d’importanza, giunse a ottenere che Filippo gli promettesse la mano di Bianca, unica sua figlia naturale. Appena uscito per lui di pericolo, il duca se ne pentì e ricusò; onde lo Sforza andossene, e nell’Anconitano si formò colla spada un marchesato sotto la supremazia del pontefice; poi non bastando a mantenere le proprie masnade, si acconciò a servizio de’ Fiorentini. Questi aveano condotto con varia fortuna e mirabile costanza la guerra; ma poi Nicolò Piccinino, il quale aveva assunto l’esercito di Braccio di Montone, si pose col Visconti e in riva al Cerchio sconfisse i Fiorentini, togliendone l’artiglieria, le munizioni e quattromila cavalli. Essi vidersi allora costretti a cedere Lucca ed accettar la pace; nella quale però anche Filippo rinunziava ai fatti acquisti e alle alleanze in Romagna e in Toscana, per non avere più titolo di brigarsi nelle vicende di questa. L’astuto finse allora congedare il Piccinino, ma gli diede segreta istruzione di devastare la Toscana, la quale, vistasi ingannata, e costretta a far nuove armi, si chiamò felice di trarre sotto ai gigli suoi Francesco Sforza. Ecco a fronte i due maggiori capitani del tempo, rappresentanti le due antiche scuole di Braccio e d’Attendolo. Il Piccinino, sebbene disavvenente di corpo e infelice parlatore, spingeva al sommo il merito di Braccio, vale a dire la celerità de’ movimenti, audace fin alla temerità, indomito dall’avversa fortuna. Francesco dalle diverse scuole sceglieva il meglio, e sapeva col genio avvivarlo; maschio di corpo e d’animo, il male non proponevasi, ma non ne rifuggiva se utile; entrambi caldi di odj, ma ricchi di quella bontà che non di rado si palesa pe’ soldati, ed è riparo o compenso alla facilità che hanno di far male. Lo Sforza erasi mostrato propenso alle repubbliche, massime a Firenze, non perchè sentisse in quel senso, ma per tenere in ombra Filippo, o per far contrario al Piccinino che a questo conservava fede. Non volendo però scontentare in tutto il duca, nè sfasciare uno Stato sul quale spingeva i desiderj, lasciò alquanto in tentenno la guerra: ma quando si vide zimbello alla peritanza e finteria di Filippo, calò la buffa, e parve decidere delle sorti d’Italia coll’accettare dai federati il bastone, con novemila zecchini al mese dai Veneti, ottomila quattrocento da’ Fiorentini. I due emuli capitani fecero gara di valore e d’abilità, sul Veneto, in Toscana, nella marca d’Ancona portando a vicenda la devastazione. Novamente famoso venne per durata e fierezza l’assedio di Brescia, invano sostenuto dal Gattamelata, e dove Brigida Avogadro menò le donne a respingere il Piccinino. «Tutto il popolo notte e giorno lavorava a far riparo di dentro a’ muri; vi lavoravano femmine, putti, donne, preti, frati, giudici, tali e quali. Il Piccinino solariò il fondo della fossa di graticci, e fece la via per venire in cima del terraglio. Dirai, _Che facevi voi che nol vietavate?_ dico che come noi ci facevamo sul terraglio, egli tirava con quelle bombarde. Oh quanti ve ne furono morti di noi cittadini!» E quando salirono all’attacco «si cominciò una riotta con noi di dentro, per modo che, colla grazia di Dio, furono urtati giù. Avreste veduto quelli uomini d’armi traboccar giù per quel terraglio con que’ suoi pennacci a volta voltone che era una consolazione. Di bombarde, di schioppetti, di verrettoni, di sassi che si tiravano, parea che l’aria si oscurasse: parea che tutto il mondo si aprisse di tamburi, di trombette, di gridori, di campane a martello..... Avreste veduto il popolo, femmine, zerlotti, piccoli e grandi, che correvano giù ai luoghi dove si davano le battaglie, chi con pane, chi con formaggio, chi con vino, chi con confetto per reficiare que’ cittadini combattenti, e que’ soldati ch’erano con noi. Voi avreste veduto la gente d’arme de’ nemici in belle battaglie che tenevano dal brolo del vescovo fino a San Pietro Oliviero, tutti quanti a cavallo: e quando si davano le battaglie, si scambiavano sotto di squadra in squadra, smontavano da cavallo, e venivano alla battaglia: ma tosto loro veniva talento di ritornare a dietro»[38]. Brescia sempre eguale a se stessa! I Veneziani, per la nimicizia del marchese di Mantova non potendo mandar navi pel Po nel Mincio, e da questo nel lago di Garda, divisarono un fatto arditissimo, suggerito da un Sorbolo candioto. Avviarono su per l’Adige due galere grandi, tre mezzane e venticinque barche, poi strascinandole a forza di cavalli e di bovi traverso al frapposto Monte Baldo spianando e sgombrando, le gettarono in esso lago a Tórbole: meraviglia e terrore, che il Piccinino dissipò bruciandole. Ma alfine Brescia fu salvata, sebbene da fame e peste ridotta a metà abitanti. Francesco Barbaro provveditore e famoso grecista, fu chiamato a Venezia coi cento gentiluomini che più aveano contribuito a quella difesa, accolti dalla Signoria, abbracciati dal doge che li proponeva quali modelli ai sudditi della Repubblica, ed essi e la loro posterità esimeva da ogni imposta; al Comune poi rilasciaronsi ventimila ducati, che il fisco ritraeva annualmente dai mulini[39]. Il Piccinino, smaniato d’acquistare il dominio che era stato di Braccio, si fa mandare dal Visconti nell’Umbria, guasta la Toscana, e ad Anghiari (1440 29 giugno) a’ piè de’ monti che separano la val del Tevere da quella di Chiana assale le truppe pontificie di tremila corazzieri e cinquecento pedoni, e le fiorentine di otto in nove mila cavalli, comandate da Gian Paolo Orsini, e rimane sconfitto e prigioniero: se non che i vincitori sbandatisi non proseguirono la vittoria e la resero inutile, perchè il Piccinino ebbe raggomitolati ben tosto tutti quelli che avea perduti, e tornò in Lombardia a rifarsi col saccheggiare terre di amici. Tuttochè guelfo, disprezza le scomuniche paragonandole al solletico, che lo sente chi lo teme; s’insignorisce di Pontremoli e di Bologna; ed è adottato nelle case dei Visconti di Milano e d’Aragona di Napoli. Anche gli altri capitani a stipendio di Filippo Maria chiedevano sovranità: Alberico da Barbiano voleva Belgiojoso; Lodovico Sanseverino, Novara; Lodovico del Verme, Tortona; Talian Friulano, Bosco e Frugarolo; altri altro. Il duca, che aveva rimosso lo Sforza onde non farlo sovrano, credette allora minor male il richiamarlo, e gli concesse la mano di Bianca (1441), e in pegno della dote il contado di Pontremoli e Cremona. La pace di Cavriana, fatta sotto la mediazione dello Sforza e a malgrado del Piccinino cui essa strappava un’immancabile vittoria, rintegrò nei primieri confini il duca, le repubbliche di Venezia, Genova e Firenze, il papa e il marchese di Mantova. Che valevano le paci generali, quando duravano le particolari animadversioni de’ capitani? Francesco mosse per vendicarsi d’Alfonso il Magnanimo, che gli aveva occupati i feudi paterni nel Reame: ma Filippo Maria tornatone geloso, s’accordò con Eugenio IV per torgli la marca d’Ancona, ridiede il suo favore al Piccinino, che dichiarato gonfaloniere della Chiesa, noceva il più possibile all’irreconciliabile suo emulo, e d’ordine di Filippo assediò Pontremoli e Cremona. Il gran capitano, a cui la generosità non impediva di levarsi d’attorno coi supplizj e col ferro gli emuli, vedeasi tolta pezzi a pezzi la sovranità militare ch’egli erasi formata nel cuore dell’Italia, e soccombeva alle tergiversazioni del suocero e alle infedeltà di papa Eugenio; quando i Veneziani, guardando come lesa la pace di Cavriana, si allearono coi Fiorentini, presero al soldo varj condottieri, e sotto Michele Attendolo mandarono l’esercito a’ danni del duca, e dopo la vittoria di Mezzano sopra Casalmaggiore si spinsero fino a Monza e Milano. Il Visconti, sbigottito dal vedere Venezia ostinarsi al conquisto della Lombardia, si rappattumò col genero, il quale comprendeva che se la Lombardia toccasse ai Veneziani, più nulla avrebb’egli a sperarne, mentre invece la disputabile successione di Filippo aprivagli ambiziose eventualità. Accettò dunque il comando supremo sulle armi e le fortezze; dugentomila fiorini d’oro l’anno per mantenere l’esercito suo e quello lasciato dal Piccinino, il quale, dopo essere stato uno degli arbitri di questa sbranata Italia, era morto (1444 15 8bre) col dispiacere di non avere nè ingrandito se stesso, nè ottenuto gratitudine da quelli cui aveva servito. Poco poi Filippo Maria, sempre passionato per l’intrigo, si lasciò di nuovo menare dai Bracceschi e dagli altri che invidiavano l’incremento dello Sforza; e rompea seco di nuovo, allorchè morte lo colse (1447 15 agosto), e con lui terminava la stirpe de’ Visconti. La quale fu con lode ripagata della protezione che concesse ai dotti d’allora, e il Filelfo, il Barziza, il Panormita, l’Offredi, il Decembrio ne tesserono la storia e la falsarono. Del resto già vedemmo come la Lombardia fosse una monarchia militare, non temperata se non dalle arti che ad un governo intelligente sono insegnate dal desiderio di conservarsi; i Milanesi la sopportavano anzi rassegnati che contenti; e il desiderio della libertà erasi illanguidito a segno, che al più si aspirava a cambiare tiranni: la pace e la guerra, la ricchezza e la felicità del paese, la tolleranza o punizione dei delitti dipendevano dal principe. Sovratutto mancava quel che ai popoli più è necessario, pace, e pronta ed eguale giustizia; anzi le prepotenze pareano favorite dai dominanti. Giovanni Gámbara, signorotto del Bresciano, faceva cogliere da due bravi una tal Bartolomea che avea detto male di sua moglie Subrana, e mozzarle la lingua; il podestà condannò al taglione il Gámbara e la moglie, ma essi interposero un fratello della mutilata, che li riconciliò con questa; e Gian Galeazzo Visconti concedette perdono. È scritto che Giovanni Palazzo ottenesse da Gian Maria che Guelfi e Ghibellini del Bresciano potessero combattersi sei mesi, salva la fedeltà al principe, e commettere qualsivoglia misfatto tra loro. Esso Gian Maria nel 1401 mandava podestà ad Asola Giovanni Visconti e capitano Giorgio Carcano, i quali spinsero tant’oltre l’audacia, che niuna fanciulla poteva andare a marito senza avere passato tre giorni nel loro palazzo: gli Asolani stancati li trucidarono, e i Bresciani in punizione distrussero Asola[40]. Quando manchi la giustizia, più non rimane garanzia di sorta, nè altro si può che abbattere il dominante per mettersi al posto di lui e divenire oppressori. Pure costoro erano principi nostrali, e i Lombardi compiacevansi della loro grandezza, giacchè nol poteano della propria felicità; compiacevansi alla splendidezza della Corte, alle regie parentele, alle frequenti comparse, ai clamorosi pranzi, ai clamorosissimi funerali, a quel lusso di sfarzo e spesa più che di gusto, alle feste che frequenti si rinnovavano per nozze, per paci, per venuta di principi. Fu volta in cui Filippo Maria ebbe ospiti papa Martino V e l’imperatore Sigismondo, e prigionieri il re di Napoli e quel di Navarra; in un mazzo di carte (giuoco allora nuovo) dipinto da Marzian di Tortona spese millecinquecento monete d’oro. Le sevizie di que’ principi possono paragonarsi al morso di un cane rabbioso, che nuoce solo a chi lo avvicina; mentre una pacata signoria può indurre gli effetti della malaria, generale spossamento e tabe irremediabile. Perocchè del resto essi cercavano il prosperamento del paese, sia per trarne di più, sia per non iscapitare al confronto de’ vicini. L’agricoltura procedea di meglio in meglio, sull’esempio de’ monaci, principalmente de’ Cistercensi, che verso il Lodigiano e il Pavese aveano introdotto i prati stabili e le cascine; si miglioravano le razze de’ bovi; de’ cavalli, celebri per grossezza e forza, molto spaccio faceasi in Francia. I lavori di seta crebbero principalmente dacchè nel 1314 molti fabbricanti di Lucca, fuggendo la tirannia di Castruccio, ricoverarono a Milano. I Lombardi andavano in Francia, in Fiandra, in Inghilterra a raccattar lana, che poi tinta e tessuta mandavano colà donde ora ci vengono i panni fini; e per tutta Europa correvano le monete d’oro colla biscia. I nobili non prendeano vergogna del mercatare, e sulle matricole figurano i Litta, i Dadda, i Bossi, i Crivelli, i Gusani, i Dugnani, i Medici, i Melzi, i Porro, i Bescapè, i Castiglioni, i Pozzobonelli. I Borromei da San Miniato si trasferirono qui vendendo panni grossolani, e stabilendone una fabbrica; e subito Filippo Maria prese un Borromeo per direttore della finanza, e poco dopo Luigi XII di Francia levava al battesimo un figliuolo di quella casa[41]. Le arti, divise in venticinque _paratici_ o consorzj, con bandiera, statuti, assemblee distinte, esercitavano ogni sorta mestieri, e all’uopo prendeano le armi. Singolarmente i Lombardi guadagnavano in operazioni di banco, avendone stabiliti in tutte le città d’Europa. Milano era sì ricca, che diceasi in proverbio bisognerebbe distrugger lei chi volesse rifare l’Italia; e udimmo i nobili esibire a Filippo di mantenergli stabilmente diecimila cavalieri ed altrettanti pedoni se lasciasse loro le entrate della città. L’estimo del 1406 dà ai beni mobili e stabili della città e dei corpi santi il capitale valore di tredici milioni dugencinquantamila zecchini. La popolazione cresceva, benchè guasta da pesti ricorrenti; e i primi provvedimenti di polizia sanitaria menzionati sono i milanesi. Il servaggio principesco alterava la semplicità de’ costumi, e senza credere alle declamazioni, è a supporre s’imparasse a chinar la fronte a quello in cui mano erano il denaro, la forza, la legge, ed a quella serie di bassi che comandano agli altri; catena di soggezione, che cominciata non finisce più. Nondimeno durava un vivere patriarcale, nè la Corte era distinta dalla città quanto nei tempi posteriori; e benchè i nobili godessero molti privilegi, pure le condizioni si trovavano spesso mescolate nei pubblici convegni ed alle feste ecclesiastiche o civili. Se si pensi che non v’avea truppe stanziali, primario rinfianco della tirannia; che il duca vivea tra gente nostra, con nostri consiglieri, fra tante corporazioni organizzate e armate, fra privilegi di arti, di corpo, di stato, si vedrà che il despotismo non poteva sbizzarrire senza contrasto; le memorie della prisca libertà non erano perite, non poteasi a voglia gravar le imposte, gli statuti frenavano anche il principe, le fazioni di Guelfi e Ghibellini opponeano potente contrasto, sicchè la tirannia non era sistematica ma di eccezione. Que’ principi pesavano più volentieri sui nobili per torsene l’ostacolo e rapirne le ricchezze; non per questo si rendeano popolari, comunque talora grossolani: e la plebe anch’essa sapeva resistere, e piegando non dimenticava d’avere dei diritti. Tutti questi avvenimenti potemmo divisare senza tampoco far motto d’un altro imperatore calato in Italia. La Casa di Luxemburg, così meschina sotto il cavalleresco Enrico VII, era giunta a possedere tanti dominj, quanti mai quella di Hohenstaufen; in un secolo avea dato quattro imperatori, Enrico VII, Carlo IV, il vituperevole Venceslao che fu deposto, e suo fratello Sigismondo, che al tempo stesso era elettore di Brandeburgo, re di Boemia e d’Ungheria. Bello d’aspetto (tal ce lo descrive Leonardo Aretino che lo conobbe), alto della persona, nobile, vigoroso, magnanimo in pace e in guerra, eloquente, amante le lettere, liberale oltre le sue scarsissime entrate, trovavasi sempre bisognoso di denaro, e perciò costretto a vendere la propria alleanza e protezione, interrompere le imprese, mancare ai propositi; e più che all’impero badava a crescere i suoi Stati ereditarj, dai quali derivò poi la grandezza di Casa d’Austria. Talmente Venezia spingeva la gelosia per l’eguaglianza delle sue famiglie patrizie, che, avendo il re di Ungheria chiesto per moglie una Morosini, la Signoria obbligò il padre a rinunziare ogni diritto paterno, e l’adottò come figlia della Repubblica. Quando, durante lo scisma, fu eletto papa Angelo Corrér (1406) col nome di Gregorio XII, benchè egli cercasse cattivarsi i Barbarigo, i Morosini, i Condulmer con cappelli cardinalizj, fu sempre guardato di mal occhio, giudicandosi pericoloso un pontefice legato coi senatori; e appena il concilio di Pisa lo dichiarò scaduto (1409), la Signoria non solo s’affrettò a riconoscere il surrogatogli Alessandro V, ma a lui profugo negò stanza ne’ suoi dominj[42]. Ito nel Friuli, papa Gregorio venne a rissa con quel patriarca che era tedesco, e lo cassò surrogandogli Anton da Ponte nobile veneto. L’imperatore Sigismondo, dichiaratosi protettore dell’espulso, menò le cose di modo, che venne a rottura con Venezia. Questa repubblica da Ladislao, competitore di Sigismondo al trono d’Ungheria, aveva comprato per centomila fiorini la città di Zara; ridomandando la quale e le antiche città imperiali, Sigismondo entrò sul Veneziano (1413) guastandolo e ribellando: ma Venezia strinse lega difensiva con Nicolò III d’Este, i conti Porcia e Collalto, i Malatesti, i Polenta, i signori d’Arco e Castelnuovo, Castelbarco, Caldonazzo, Savorgnano; e questi, e la rigidezza dei vicarj di Sigismondo, la poca costanza degli Ungheri ch’egli versava di qua dell’Alpi, il valore del condottiere Filippo d’Arcoli, fecero trionfare il leone veneto per tutto il Friuli. Dalla Marca Trevisana Sigismondo pensò fare una corsa in Lombardia senz’armi. Liete accoglienze gli profusero i tirannelli: a Cremona col papa vagheggiò dal torrazzo la pianura lombarda; a Cantù ricevette omaggio da Filippo, il quale però nol volle accogliere in Milano; istituì de’ vicarj imperiali, cui faceano capo i Ghibellini per onestare la loro tirannide: ma nessuna efficienza ebbe sulle vicende italiane. Dopo vent’anni di regno, nojato dalle lunghe brighe in Germania e in Boemia, e dal dirigere una macchina pesante e rugginosa, com’egli chiamava l’impero, pensò tornare di qua dall’Alpi (1431) a farvi una comparsa quale solevano i suoi predecessori. I tempi erano ben cambiati; quanto erasi perduto in parziale libertà, tanto erasi acquistato in generale indipendenza; nè la nominale superiorità sarebbe bastata perchè convocasse a Roncaglia tutti gli Stati d’Italia a rendere l’omaggio e ricevere giustizia. Con duemila Ungheri e Tedeschi a cavallo, più per corteggio che per difesa, capitò a Milano; e Filippo, che pur gli avea sempre mostrato piena soggezione, e l’avea sollecitato a discendere sperando danneggiarne i Veneziani, insospettito si chiuse nel castello di Abbiategrasso, senza tampoco lasciarsi vedere all’imperatore, che in Sant’Ambrogio fecesi coronare (1431 25 9bre). Qui dunque temuto e timoroso, eppure in Toscana malvisto come amico del duca, sempre povero di denaro e di forze, obbligato ad ogni passo a patteggiare o difendersi, a un punto di rimanere preso in Lucca dal capitano dei Fiorentini, trattenuto in Siena per debiti, Sigismondo traversò l’Italia meschinamente (1432), dirigendosi a Roma onde persuadere il papa ad accettare il concilio di Basilea: nè tampoco a questo riuscito, cintasi la corona d’oro (1433), ricoverò a’ suoi paesi, lasciando l’Italia alle ambizioni e agli agitamenti di prima. CAPITOLO CXVI. Repubblica Ambrosiana. Venezia conquistatrice. Francesco Sforza. I Foscari. I VISCONTI E GLI SFORZA Uberto Visconti | | Obizzo | | | | Teobaldo | | | | MATTEO Magno 1295-1322 | | | | | | Galeazzo I 1322-28 | | | | | | | | AZZONE 1328-39 | | | | | | LUCHINO 1339-49 | | | | | | Marco | | | | | | GIOVANNI arcivesc. 1339-54 | | | | | | Stefano | | | | | | MATTEO II 1354-55 | | | | | | BERNABÒ 1354-85 | | | | | | GALEAZZO II 1354-78 | | | | | | GIAN GALEAZZO 1378-1402 | | | primo duca nel 1395 | | | | | | Valentina in Luigi d’Orléans, | | | ava di Luigi XII | | | | | | GIAN MARIA 1402-12 | | | | | | FILIPPO MARIA 1412-47 | | | | | | | | Bianca Maria in | | | | FRANCESCO SFORZA | | | | 1447-66 | | | | | | | | Ascanio cardinale | | | | | | | | GALEAZZO MARIA | | | | 1466-76 | | | | | | | | | | GIAN GALEAZZO MARIA | | | | | 1476-94 | | | | | | | | | | | | Bona regina di Polonia | | | | | | | | | | Caterina in Giovanni | | | | | de’ Medici avo di | | | | | Cosimo granduca | | | | | | | | LODOVICO il Moro | | | | 1494-1500 | | | | | | | | MASSIMILIANO | | | | 1512-15 | | | | | | | | FRANCESCO MARIA | | | | 1522-26 e 1529-35 | | | | | | Gabriele Maria | | | figlio naturale | | | | Uberto stipite di case ancora sussistenti | | Gaspare | | | | Lodrisio | | OTTONE arcivesc. 1277-95 Filippo Maria Visconti non lasciava figliuoli, onde molti si sporsero al fiuto di sì pingue eredità. Fin allora nel Milanese non era stato regolato il modo di succedere al dominio; e come negli altri principati italiani, ora lo teneano i fratelli in comune, ora se lo spartivano, o l’uno succedeva all’altro senza riguardo alla discendenza dell’estinto: persino i figli naturali ne toccavano qualche porzione. Ora la casa francese d’Orléans vi pretendeva a cagione di Valentina Visconti, cui Gian Galeazzo, maritandola a Luigi d’Orléans, n’avea dato l’aspettativa pel caso che i suoi figli morissero improli. Ma il titolo non valeva, giacchè questo non era un feudo femminino; tanto minor diritto v’avea lo Sforza, marito della figlia naturale, quantunque legittimata, di Filippo Maria. Questo aveva un tempo pensato a nuocere ai Veneziani col lasciare il suo paese ad Alfonso re di Napoli; il che avrebbe di tanto avanzata l’unità italiana: e Alfonso in fatti produsse un testamento a favor suo; ma foss’anche autentico, si trattava egli d’una proprietà che si potesse lasciare a talento? Il Milanese era uno Stato libero, riconosciuto nella pace di Costanza; il che importava, secondo il diritto d’allora, che non potesse venir ristretto a sudditanza di verun particolare. Venceslao l’avea ridotto tale investendone Gian Galeazzo; ma sovrano dell’Impero non era già il re di Germania, bensì gli elettori, rappresentanti l’antico senato e popolo romano: e in fatto essi ne fecero rimprovero a Venceslao, e fu uno degli aggravj per cui lo spodestarono[43]. Sigismondo ne diede regolare investitura a Filippo Maria, riservandosi gli antichi diritti imperiali[44]; ma realmente il Milanese, operando come Stato libero, aveva affidato il governo politico ai Visconti, e allo spegnersi di questi tornava di propria balìa. Sentirono questo diritto i Milanesi, e mentre i Bracceschi inalberavano sul castello lo stendardo di Alfonso di Napoli, ed altri suggerivano di darsi al duca di Savoja fratello della duchessa vedova, Antonio Trivulzio, Teodoro Bossi, Giorgio Lampugnani e Innocenzo Cotta eccitano alla libertà i Milanesi, che a furia smantellano il castello, nido della tirannia contro il popolo; e disingannati del dominio d’un solo come _pessima pestilenzia_, proclamano l’_aurea repubblica ambrosiana_ (1447 14 agosto), tornando in istato di popolo al modo antico. Il vicario coi dodici di provvisione eleggono ventiquattro capitani e difensori della libertà del Comune, che furono confermati dal consiglio generale, e che affollarono ordini buoni o meschini, come sempre avviene nei primordj; rimettono i banditi; proibiscono il bestemmiare, i giuochi zarosi, il portar armi; allestiscono ricoveri per poveri, e massime per contadini che la guerra avea sturbati dai campi; si ravviano le scuole, invitando i maestri _con condizioni che meritamente potranno accontentarsi_; e da spontanee largizioni raccolgono ottocentomila zecchini _ad tuendam patriæ libertatem_[45]. È uno dei temi più soliti e più facili agli epigrammi da caffè la debolezza de’ governi usciti da una rivoluzione, come il vacillamento delle rivoluzioni che non riuscirono: nè per verità da una reggenza che durò meno di due mesi potevano pretendersi stabili intenti, concordi progetti, efficace azione. Pure sarebbersi allora potute costituire in Italia tre robuste repubbliche, di Firenze, Venezia e Milano, mettendo in comune il senno educato dell’una, la potenza marittima dell’altra, le colte lautezze dell’ultima; e associandosi alla forza degli Svizzeri, opporre una federazione di liberi all’aumento delle monarchie confinanti. Chi pensi che in quel tempo, essendo morto Carlo il Temerario duca di Borgogna nel combattere gli Svizzeri[46], restavano libere le Fiandre e i Paesi Bassi, comunità fiorentissime di commercio e costituite al modo delle nostre, non può a meno di riflettere qual diverso andamento avrebbe preso l’Europa se, invece di consolidarsi le monarchie collo spartire la Borgogna tra Francia e Austria, fosse prevalso il sistema repubblicano. Se i Milanesi vedessero allora questa preziosa eventualità, è difficile il dirlo; ma trovo codardo l’insultarli dell’aver preferito una forma di governo che allora presentava tanto avvenire. Sgraziatamente però Firenze cominciava con Cosmo de’ Medici a piegare a principato: Venezia dal doge Francesco Foscari era intalentata a conquiste, a segno di posporvi la giustizia e la pubblica libertà; e sperando quell’unione che più tardi effettuarono gli Austriaci, spasimava di tutto il Milanese, e profittò del momento per ciuffare Brescia e Bergamo. Allora Venezia trovavasi all’apogeo della sua grandezza. Trieste, i cui pirati avevano rapito le spose della ancor novella repubblica, indi era stata sottoposta da Enrico Dandolo a capo de’ Crociati, non si rassegnò mai al giogo, più volte rinnovò guerra, e nel 1367 si diede al duca d’Austria; ma i Veneziani l’assalirono e presero per fame, poi nella pace, chetato l’Austriaco a denaro, le imposero di giurar fedeltà a San Marco; alla nomina di ciascun doge, lo stendardo del leone sventolerebbe un giorno sul mercato di Trieste, e tutti gli anni a Pasqua sul palazzo; i Triestini osserverebbero i trattati conchiusi da Enrico Dandolo in appresso, e la Serenissima vi eserciterebbe la giurisdizione penale. Nella guerra di Chioggia i Genovesi presero Trieste, e la consegnarono al patriarca d’Aquileja: avendola Venezia ripigliata (1382), i Triestini inalberarono di nuovo la bandiera dei duchi d’Austria, i quali poi la tennero sempre: ma doveano correre più di quattro secoli prima che acquistasse tale importanza sul mare, da prevalere all’antica dominatrice. Vedemmo come si fosse ampliata la signoria de’ patriarchi d’Aquileja sopra tutto il Friuli, l’Istria, gran parte della Carintia e Carniola, e la Stiria, con tanti poderi da estrarne ducentomila zecchini. Però i papi aveano tratto a sè il diritto di nominare il patriarca, sicchè ne cessò l’indipendenza; e avendo essi dato quella sede in commenda a Filippo d’Alençon, i signori paesani ricusarono obbedienza a questo, eleggendo un altro, donde baruffa civile, nè più fu possibile sottometterli interamente. Il patriarca fu dunque costretto ricorrere al popolò, agli stranieri, a bande mercenarie; e intanto i signori si rendevano viemeno dipendenti, per quanto il patriarca cercasse avvincerseli col moltiplicare i feudi e suddividerli e concedere franchigie. E si alleò a Francesco Carrara (1388), che colle armi occupò tutti i paesi: ma i Veneziani, temendo che questo operosissimo loro nemico tenesse il Friuli per sè e intercettasse i loro commerci colla Germania, presero parte con Udine «con altre città, riottose al patriarca, e annichilarono nel modo che dicemmo la potenza dei Carrara. Venuto poi il patriarcato al tedesco Lodovico Theck (1414), e questo avendo favorito l’imperator Sigismondo, Venezia ne colse occasione di tor via que’ vicini, ostinatamente avversi. Pertanto occupò il loro paese finchè non fosse compensata delle spese di guerra; ma queste ammontavano a tanto, che il patriarca non potè più pagarle; onde a quel prelato, fin allora il più ricco d’Italia dopo il pontefice, altro non rimasero che i castelli di San Vito e San Daniele, e lo stipendio di cinquemila ducati che ricevea dalla Repubblica. Adunque il dominio veneto si estendeva in Italia dall’Isonzo al Mincio; oltre il litorale dell’Adriatico sin alle foci del Po, aveva ad obbedienza fra terra le province di Bergamo, Brescia, Verona, Crema, Vicenza, Padova, la Marca Trevisana con Feltre, Belluno, il Cadore, il Polesine di Rovigo, Ravenna, il Friuli, l’Istria eccetto Trieste città imperiale; supremazia sulla contea di Gorizia, che prima faceva omaggio al patriarca d’Aquileja; sulla costa orientale dell’Adriatico teneva Zara, Spalatro e le isole che fronteggiano la Dalmazia e l’Albania; avea tolto Veglia ai Frangipani, Zante a un Catalano; in Grecia occupava Corfù, Lepanto e Patrasso; nella Morea Modone, Corone, Napoli di Romania, Argo, Corinto, avute a prezzo dai possessori che non poteano difenderle dai Turchi; altre isolette dell’Arcipelago, e qualche parte del litorale; finalmente Candia e Cipro. Mentre in Italia si era limitata ad opporsi a chi vi predominasse, tenendo per lo più coi pontefici, allora aspirò a dominarvi, donde vennero le guerre che abbiam veduto con Filippo Maria, nelle quali, se cresceva di credito nella penisola, sviavasi dal commercio, e rimaneva esposta agli arbitrj de’ venturieri, coi quali usava or rigore, ora carezze; or mandava al supplizio il Carmagnola, or se ne redimeva coll’ascrivere fra i nobili il Gattamelata e Michele Attendolo. E d’acquistare il Milanese le dava lusinga lo sfasciarsi di questo alla morte di Filippo. Per quell’assurdo concetto che repubblica significhi obbedire a nessuno, le singole città ridestando le municipali gelosie, colsero pretesto dalla rivoluzione di Milano per sottrarsi a questa, riformandosi a reggimento municipale indipendente, ed elessero signori e governi distinti, preferendo l’indipendenza dei singoli alla libertà di tutti. Como, Alessandria, Novara seppero accordarsi colla Repubblica ambrosiana, ma a patti che tendeano principalmente a ricuperare la giurisdizione ed aggravare i popoli soggetti: tal era il senso dei sessantasette capitoli stipulati dai Comaschi, diretti a ristabilire il dominio della città sopra il contado e sopra la Valtellina e il Chiavennasco. Pavia, Parma, Tortona vollero reggersi da sè; Lodi e Piacenza introdussero guarnigione veneta; Asti si chiarì pel duca d’Orléans; gli esuli signorotti tornavano, e riprendevano gli aviti possessi e la baldanza di tiranneggiare perchè aveano sofferto; se non altro, saccheggiavano; dappertutto rinasceano le antiche cupidigie; ma s’erano talmente abituati all’obbedienza, che, appena uno primeggiasse, lo chiedevano signore. L’attività scompigliata produceva debolezza universale; mentre erasi perduto l’uso delle armi, d’ogni parte sonavano minaccie; la Repubblica era in grande setta e divisione nell’interno, fra le pretensioni dei capitani di ventura, che nè poteansi licenziare nè tenere in obbedienza; lo schiamazzo popolare diventava potenza, sempre micidiale, ed or faceva ardere i libri del censo, ora demolire il castello, soliti carnevali dei neoliberati; i cittadini medesimi si divideano in partiti, quale pendendo all’Impero, quale ai reali di Francia, al duca di Ferrara, a Venezia. Luigi di Savoja credette opportuna l’occasione di fermar piede in Lombardia, e si collegò col re francese, a patto che Genova e Lucca si conquistassero per questo, Alessandria si desse al Monferrato, le terre fra il Ticino, l’Adda e il Po, coi castelli di Trezzo e Pizzighettone, ad esso, duca di Savoja[47]. Venezia aveva già rotta guerra a Filippo, e adesso la continuava contro la Repubblica, ed accostavasi minacciosa all’Adda. In que’ frangenti che tolgono il senno anche ai più savj, i capitani della Repubblica parvero dimenticare le pretensioni di Francesco Sforza; ed aggirati o spinti dai Ghibellini, affidarono ad esso le armi, perchè li difendesse da’ nemici. Egli mostrò obbedire a coloro cui sperava comandare; dal carcere, ove l’avea cacciato Filippo Maria, trasse Bartolomeo Coleone, condottiero bergamasco, e se lo fece compagno alle imprese; colle artiglierie abbatteva mura che prima arrestavano gli eserciti, e prosperò nella guerra _marchesca_. Assediata Piacenza, la piazza più forte dopo Milano, riuscì a prenderla ed entrar per la breccia (1447 16 9bre): fatto portentoso e quasi nuovo nell’arte guerresca d’allora, ove la difesa era ancor superiore all’offesa. La città venne abbandonata al peggiore saccheggio e a tutti gli obbrobrj de’ soldati, che violentavano a scoprire i tesori; diecimila cittadini furono venduti; i ferramenti, i legnami portati a vendere nelle vicine città; nè Piacenza più risorse. Ma lo Sforza non operava a pro di Milano; anzi, dopo ch’ebbe con insigni vittorie, e massime con quella di Caravaggio (1448), fiaccato i Veneziani che erano stati a un punto d’acquistare il Milanese, e fattone prigioniero l’esercito, arsa la flotta, patteggiò di lasciar loro non soltanto Bergamo e Brescia, ma e il Cremasco e la Geradadda, cioè fino all’Adda, purchè l’ajutassero a succedere a Filippo Maria. L’accordo fu accettato (18 8bre). Francesco aveva un buon esercito, i Milanesi nessuno; prima Pavia, poi Piacenza, poi altre città lo chiedeano signore; perfidie non lo sgomentavano, e Cosmo de’ Medici amico suo gli aveva insegnato a badare alle convenienze proprie, non alle altrui, e che il mondo non si governa coi paternostri. In Milano rincalorivano le parti di Guelfi e Ghibellini; e i primi, guidati dal Trivulzio, avrebbero voluto una pace che assicurasse la Repubblica e dai nemici e dal difensore: il Lampugnani, il Bossi ed altri Ghibellini ricusavano la pace con Venezia, che sottraeva tanto territorio, e che preparerebbe forse la dominazione di quella città: il vulgo tumultuava ora per questi, ora per quelli, secondo l’opinione o le ciancie o il denaro. Carlo Gonzaga di Mantova, fatto comandante della città, batteva la mira a rendersene signore appoggiandosi ai Guelfi, sicchè i Ghibellini entrarono in trattati collo Sforza per garantire o qualche franchigia alla patria o qualche vantaggio a sè; ma scoperti, furono mandati al supplizio Lampugnani ed altri, molti in fuga, confiscati i loro beni. Allora prevale quella seconda schiera che sottentra sempre ai moderati; e nuova gente senza credito, traforatasi nel governo e impinguatasi delle confische, impresse l’impeto rivoluzionario, eccitò i Milanesi a resistere al traditore, al disertore, giurando piuttosto darsi al granturco e al demonio; spedirono per tutto bandi che il diffamavano; promisero diecimila zecchini di mancia e altrettanti in fondi a chi l’uccidesse; chiesero soccorsi dal duca di Savoja, i cui soldati non dando quartiere, facevano quel peggio che sapessero. I Milanesi stessi aveano scritto milizie paesane con fucili, arma nuova che, per quanto imperfetta, incuteva terrore ai dapprima invulnerabili corazzieri; e le battaglie divennero sanguinose, e costarono la vita a molti prodi condottieri. Ma lo Sforza era di lunga mano superiore per sentita di guerra, e sostenuto dai Veneziani, che tradivano cittadini liberi per procacciarsi un pericoloso vicino. Tardi s’accorsero dell’ambizione dello Sforza, e fecero pace colla Repubblica Ambrosiana; e avendo lo Sforza ricusato riconoscerla, spedirono truppe a soccorso di Milano (1449 27 7bre): ma l’incerta fede de’ capitani di ventura, disertati dalla Repubblica per mettersi dove la fortuna piegava, e il valore d’esso Sforza ne elisero l’effetto. Milano, disperata di miglior consiglio, proponeva di sottomettersi alla Serenissima; ma lo Sforza, domate Monza, Melegnano, Vigevano e le altre città provinciali, cinse la capitale. Il popolo, visti uscir vani tutti i suoi partiti, si levò a rumore, mosso dall’oro nemico, secondo la frase antica e moderna; cassò i magistrati popolari, ostinantisi alle armi, per surrogarvene di ghibellini: i quali però neppur essi aveano un disegno premeditato, nè sapeano finire la guerra, a terminar la quale erano stati eletti. Carlo Gonzaga, che avea mostrato l’ambizione del comando, non l’abilità, come vide i nuovi capitani della libertà non favorire alle aspirazioni sue, ma voler lui stesso obbediente, patteggiò collo Sforza, facendosi dare Tortona in compenso del tradimento. Gaspare Vimercato in parlamento dipinse la trista situazione: — I soccorsi piemontesi sono fiacchi, lontani quei di Napoli, pericolosi quelli dei Veneti; ecco crescere ogni giorno orrida e irreparabile la fame; più che un disperato resistere, non val meglio cercare pane e riposo allo Sforza? alla fine egli vanta de’ diritti, sicchè avrà minor bisogno d’infierire, e piuttosto desiderio di conservare». La proposizione fu accolta al solito da fischi ed urli, tra i quali però il senso comune si fe strada; la fame operò il resto, e il popolo assalì a tumulto il palazzo del governo; onde s’inviò a fare la sommessione, e lo Sforza spedì tosto gran ristoro di viveri, che il fece benedire. Ondate di Milanesi andavano a visitarlo ognidì al suo quartier generale, e gli sciorinavano elogi in versi, elogi in prosa, sonori quanto le imprecazioni che in suo vitupero eransi fatte testè, da ciascuno a chi peggio. Poi, il giorno della sua entrata (1450 26 genn.), «avevano preparato un carro trionfale con un baldacchino di panno d’oro, e così con gran moltitudine aspettavano il principe avanti alla porta Ticinese. Ma Francesco per la sua modestia ricusò il carro e il baldacchino, dicendo tali cose essere superstizioni da re; il perchè, entrando, andò al sagro e massimo tempio di Maria Vergine, e fermo innanzi alla porta, si vestì di drappo bianco sino a’ piedi, la qual veste era di consuetudine che si vestivano i duchi quando pigliavano la signoria» (CORIO); ebbe la corona ducale, e il Milanese si racconciò nella monarchia militare. Francesco addormentò il popolo colle feste; coi belligeranti strinse buoni accordi; l’una dietro l’altra tornò in obbedienza le città, che preponevano ad una libertà procellosa una tranquilla servitù, ed ultime anche Como e Bellinzona; e incominciava una nuova politica e una nuova dinastia, preconizzata ai destini più insigni, e che pure dovea, fra micidj e tragedie, giungere a stento alla sesta generazione. Egli seppe mettere nel fodero la spada, colla quale aveva acquistato un sì bel dominio, e attese a far dimenticare la violenta origine e riconciliarsi i popoli col modo migliore, il beneficarli; non diè carico a’ suoi avversi; non lasciò campo a quelle riazioni, che irritano ed inimicano; resse con saviezza, restituendo al governo il vigore senza la crudeltà de’ Visconti; e riuscì uno dei principi più grandi e, secondo il tempo, de’ più buoni. Nella capitolazione erasi stipulato non si darebbe impiego a verun forestiero, i tribunali starebbero sempre in Milano, non rincarite le gabelle, garantiti i creditori dello Stato, messi fuor di città i soldati. Vedendo che «la plebe, riavvezzata alle armi, si ricordava della libertà», lo Sforza pensò ricostruire l’abbattuta fortezza; ma non volendo con ciò mostrare diffidenza, sparse tra il popolo suoi creati, che persuadessero ciò come ornamento e sicurezza della città; e per quanto i meglio avvisati si opponessero, gli altri prevalsero, e le parrocchie pregarono il duca di fabbricare il castello, che riuscì il meglio forte d’Italia in piano. Monumento più insigne della Sua munifica pietà rimane l’Ospedal grande, sontuosa fabbrica nella quale raccolse i varj ospedali della città; compì il naviglio che mena l’Adda a Milano. Sul trono serbò i modi franchi acquistati negli accampamenti; liberale dell’oro, asserendo non esser nato per fare il mercante; onorò le arti, favorì i letterati; davasi premura di smentire le dicerie sul conto suo, e di spiegare i motivi delle sue azioni. Tutto che militare, associò la sua politica a quella del negoziante Cosmo de’ Medici, che gli continuò sempre una grossa pensione; dissipò una lega che Venezia aveva giurata a danno di lui col re di Napoli, il duca di Savoja, il marchese di Monferrato, i Senesi, i Correggeschi: e seppe mostrarsi necessario ai varj potentati. Doppio matrimonio il collegò coi reali di Napoli, altri col marchese di Mantova, colla Savoja e con Francesco Piccinino, capitano non degenere dal padre, pel qual modo si furono riconciliati Sforzeschi e Bracceschi: e se ai Veneziani fu costretto lasciare Bergamo, Brescia, Crema, col loro circondario, di rimpatto acquistò Savona e Genova. Questa città non parve sottrarsi al duca di Milano che per avventarsi più dissennata nelle discordie tra Fregosi e Adorni, i quali strappavansi a vicenda l’effimero dogato. Ne conseguì tal debolezza, che la Repubblica, atterrita anche dall’avanzarsi de’ Turchi i quali avevano occupato Costantinopoli, non credette poter difendere la Corsica e la Gazarìa altrimenti che col cederle al Banco di San Giorgio. In questo soltanto si conservava la virtù repubblicana; non fazioni, non corruttela, non turbolenze, ma quieta e savia amministrazione, attenta previdenza da mercanti; esempio che sciaguratamente non sapessi imitare dai cittadini. I quali di nuovo ricorsero allo sciagurato partito di darsi a’ forestieri; e Carlo VII di Francia, avutane la signoria, spedì Giovanni d’Angiò a governar Genova (1458), e la fece sua piazza d’armi per guerreggiare il Napoletano. Ma d’una tal guerra stanchi i Genovesi, si sollevarono contro Francia (1461), e Carlo tentò invano coll’armi ridomarli. In quei fatti cominciò a segnalarsi il cardinale arcivescovo Paolo Fregoso, che poi, valendosi della costernazione in cui era Genova per le crescenti conquiste de’ Turchi e per le interminabili nimicizie co’ reali di Napoli, ottenne per intrighi di far salire al dogato un suo cugino Spinetta. Costui in breve fu cacciato di posto, non però di speranza; e in tre Fregosi fu mutata quell’anno la dignità di doge, che per costituzione era in vita (1463). Alfine riuscì ad aversela l’arcivescovo, e ne informò il papa, che rispose: Non dissimuleremo la meraviglia al sentirti accettare il governo temporale d’una città che a lungo non tollera governanti. Tu ’l sai per prova, ed a noi stessi giunsero a un tempo le nuove della tua prima elezione e dell’infelice cacciata. Non è certo impossibile esser principe e vescovo insieme; ma corre obbligo tanto maggiore di operare virtuosamente. Molte cose si condonano in un secolare, che sono intollerabili in un ecclesiastico. Ad una norma non procedono l’Impero e la Chiesa. Il sacerdote vuol essere tutto clemenza, tutto carità e amor paterno, astenersi dal male vero, schifare pur l’apparente. Se tali sono le tue intenzioni, se vuoi giusto e piamente imperare, non solamente sopra il tuo popolo, ma su te stesso; se non l’ingiuria del prossimo ma ti proponi la difesa del nome cristiano contro gl’Infedeli, confidando che cotesto principato sia stato a te conferito secondo le leggi della tua patria, e che ne userai a benefizio del popolo, in nome della santa Trinità noi lo benediciamo». Già prevedete che neppure l’arcivescovo doge vi si assodava; e si tornò ad esibirsi a Luigi XI di Francia, re positivo, che non amava gl’incrementi non fruttiferi, e sopra ogni merito stimava l’obbedire e star quieti, si fosse popolo o baroni. Quando dunque i Genovesi offersero di darsi a lui, rispose: — Ed io li do al diavolo». Quell’astutissimo facea gran conto de’ consigli e’ dell’amicizia di Francesco Sforza, il quale nella guerra di Borgogna lo sussidiò anche di quattromila cavalli e duemila fanti, capitanati dal proprio figlio Galeazzo Maria, che mostrarono anehe oltremonti non esser bugiarda la reputazione del valore sforzesco: in compenso Francesco si fe cedere Savona, aspirando a Genova. Frattanto Monaco, Finale, Ventimiglia erano sollevate, Cipro si staccava, e l’arcivescovo doge non curava o non sapeva rimediarvi; vilipesi i magistrati, rispettato chi avesse baldanza; i luoghi di San Giorgio caduti a ventitre lire; i Fregosi stessi a guerra fra loro. Molti malcontenti fuggivano a Milano, e Francesco gli accoglieva; alfine mandò bande sopra Genova (1464), e bastò perchè l’arcivescovo se ne andasse; il Castelletto non tardò a cedere, e ambasciadori vennero (13 aprile) ad offrire la superba capitale della Liguria, e seco la Corsica, al signor di Milano. Questi poteva aspettarsi qualche ostacolo alla sua potenza per parte dell’Imperatore. Sigismondo avea sposato la figlia Elisabetta ad Alberto d’Austria, e sudato perchè a questo passassero le corone d’Ungheria e Boemia: in fatto l’ottenne (1439), come anche quella di Germania. Morendo prestissimo, Alberto lasciò la moglie gravida d’un figliuolo, che fu detto Ladislao Postumo; e suo cugino Federico III d’Austria assunto all’Impero, ebbe regno più lungo che qualunque altro suo predecessore, e concentrò in sè le eredità de’ tre rami austriaci. Pigro e pusillanime, le lodi dategli da Enea Silvio Piccolomini, che prima fu suo segretario, poi papa Pio II, non l’assolvono dell’avere per negligenza e avarizia lasciato che l’Impero andasse sossopra fra guerre ripullulanti, mentre portava al colmo la propria famiglia, a’ cui membri attribuì il titolo d’arciduchi, e adottò per divisa AEIOU, volendo esprimere _Austriæ Est Imperare Orbi Universo._ Anch’esso volle scendere in Italia (1452), non per rinnovare la maestà dell’Impero, ma per farsi incontro ad Eleonora di Portogallo sua fidanzata; il giornale di questa comparsa attesta quanto i nostri, malgrado tante sciagure, precedessero in civiltà i forestieri. Nicolò Lanckman suo cappellano, per giungere in Portogallo, dovette col suo seguito travestirsi da pellegrino: eppure o bande di masnadieri, o prepotenti comandanti delle città li spogliavano tratto tratto[48]; felici allorchè trovassero qualche banchiere fiorentino che li rifornisse di denaro. Federico a Siena ebbe incontro ben quattrocento dame di quella terra: dovette cercare un salvocondotto dal Coleone, che allora guerreggiava in Romagna[49]: entrando in Firenze, Carlo Marsuppini segretario della Repubblica gli recitò un’orazione latina gonfia di stile e vuota di cose, quale usavano gli eruditi; il Piccolomini rispose frasi positive e dirigendo alcune domande, alle quali il Marsuppini non seppe rispondere perchè non preparato. Federico traeva seco il nipote Ladislao Postumo, si può dir prigioniero; e avendo gli Ungheresi tramato di rapirglielo, i Fiorentini l’impedirono, ma invano s’interposero presso l’imperatore a favor di quello. A Roma fu sposato e coronato (18 marzo); a Napoli visitò lo splendido Alfonso: del resto faceva mercato e cortesia delle antiche pretensioni imperiali; per denari conferì a Borso d’Este il titolo di duca di Modena e Reggio, e conte di Rovigo e Comacchio; per denari creò nobili e notaj e conti palatini quanti vollero. Allorchè visitò Venezia, gli fu, tra altri donativi, presentato dalla Signoria un magnifico servizio de’ cristalli di Murano; e sua maestà fe cenno al buffone, il quale dando una spinta al tavolino su cui era deposto, mandò ogni cosa a pezzi; e i nostri mostrandone dispiacere, l’imperatore sclamò: — Fossero stati d’oro, non si sarebbero infranti». Francesco Sforza sapea dunque da qual lato pigliare costui, che esitava a riconoscerlo duca; e bastò si mostrasse risoluto a pagar con denari o a difendere colle armi il titolo concessogli dal suo predecessore. Sedici anni dopo, Federico tornò in Italia, e tutti almanaccavano reconditi fini al suo viaggio; ma scopo unico n’era lo sciogliere un voto alla madonna di Loreto: a Roma baciò le mani e i piedi del papa, gli tenne la staffa, assistette da diacono alla sua messa. Non volle riconoscere il successore di Francesco Sforza, dicendo che duca di Milano era lui stesso; ma nulla fece per sostenere tale pretensione. Meglio fortunato degli altri condottieri, lo Sforza potè dirsi anche l’ultimo. E noi non vogliamo staccarci da costoro prima di salutare Bartolomeo Coleone bergamasco. Nel suo castello di Malpaga erasi dato alla quiete, al bere, al novellare e sentir notizie de’ suoi commilitoni, fossero le prosperità dello Sforza o i supplizj del Piccinino, del Caldora, del Brandolini, d’altri, contro cui ritorceasi il ferro de’ principotti dacchè più non ne bisognavano. Dichiarato capitano generale dei Veneziani, vi fu onorato come principe dalla Signorìa e dal popolo: ma egli struggeasi di qualche impresa; finchè Venezia finse congedarlo (1467) acciocchè passasse ai fuorusciti fiorentini, cospiranti a ricuperare la patria. A molti condottieri che gli si unirono, si opposero altri pagati dal papa, dal re di Napoli, dal duca di Milano, da Firenze, capitanati da Federico d’Urbino; ed esso gli affrontò alla Molinella, giornata famosa ne’ fasti delle guerre d’avventurieri. Le lunghe manovre finirono con una pace, ove promettevasi mandar tutte le forze contro i Turchi, sotto al Coleone; ma l’impresa non ebbe effetto. Egli tornò al suo ritiro, dove gli giungevano ripetuti inviti dal re di Francia, dal duca di Borgogna, spesse ambasciate, e domande di consigli, e visite di principi (1475). Ricchissimo e senza figli, pensò tramandare il proprio nome con opere di beneficenza: lasciò alla Basella una chiesa, due monasteri a Martinengo; a Bergamo donò i bagni di Trescore, il canale de’ mulini, tremila ducati d’entrata per costituire doti, e vi eresse la ricchissima cappella di San Giovanni. Dell’ingente sostanza, dotò per due terzi tre sue figlie maritate nei Martjnenghi, quattromila ducati a due altre, cenquarantunmila a luoghi pii, altra liberalità ai poveri, ai servi, ai coloni, ai buffoni di sua casa. De’ rimanenti ducentosedicimila ducati costituì erede la repubblica di Venezia, oltre un credito di settantamila; o diecimila in contanti perchè gli elevasse una statua, e dotasse povere zitelle. Ma da questo tempo i capitani di ventura pérdono importanza, e i principi hanno dominj estesi quanto basti per levar truppe su quelli e finanze per mantenerle[50]. Fra le battaglie interminate che da due secoli si combattevano, i politici aveano immaginato che unico modo di conservare Italia fosse il mantenervi la bilancia fra gli Stati. A ciò contribuivano le alternate alleanze; a ciò viepiù i condottieri col passare dall’uno all’altro, in guisa che lo Stato più poderoso poteva al domani trovarsi sguarnito, e il debole essere rinforzato con sussidio di denari. Specialmente Firenze, posta di mezzo fra Venezia e Milano a settentrione, Napoli e il Patrimonio della Chiesa a mezzodì, accostavasi agli uni o agli altri secondo vedeva necessario di correggere la prevalenza di questi o di quelli. È quel famoso sistema d’equilibrio, che l’ammodernata Europa si vanta d’avere inventato, dopo che la sua politica cessò d’essere costituita sopra idee morali. Le città dell’antica Lega Lombarda stavano tutte a dominio d’un solo, eccetto Bologna che alternava fra tirannia e franco stato. La Sesia segnava i confini del Milanese col Piemonte, ove i duchi di Savoja per molto tempo nessun altro acquisto fecero che della contea d’Asti. La Toscana obbediva ai Fiorentini, tranne Siena e Lucca indipendenti; Ferrara e Modena agli Estensi, pacifici e colti come educati dal Guarino veronese; Mantova ai Gonzaga, prodi guerrieri, e insieme istrutti nelle lettere da Vittorino da Feltre; Urbino passava dai Montefeltro a casa della Rovere; Romagna era sminuzzata in cento signorie, divise fra l’alto dominio papale e l’imperiale. A Venezia, più che rimestare le cose d’Italia, sarebbe stato opportuno curar quelle d’oltremare, dar fiore alle colonie di Levante, e farle partecipi della cittadinanza: eppure, mentre diciottomila cavalli ed altrettanta fanteria pose in campo contro il duca di Milano, in Morea non mantenne mai meglio di duemila uomini di truppe regolari. A voler prolungare la’ sua grandezza, minacciata dalle conquiste ottomane e dalla nuova direzione presa dal commercio, le sarebbe giovato farsi potenza illirica, o almeno trasferire in qualche isola di Dalmazia il porto troppo infelice in città, e dove a questa avrebbe servito d’antemurale; e raccogliendoci i Greci che fuggivano dalle spade turche, e soccorrendo agli Albanesi che vi resistevano, alzare una potenza a contrasto dell’ottomana[51]. Ma i nobili stavano attaccati alla città, da cui traevano il titolo di loro preminenza; il popolo credeva patriotismo il concentrare nelle isole tutta la vita; i mercanti voleano aver terre da spogliare; e intanto chi ne profittava era il nemico comune. Che che però ne fosse della convenienza d’aver surrogato una politica guerresca alla pacifica che Tommaso Mocenigo raccomandava, Francesco Foscari avea per trentaquattr’anni coperto Venezia di gloria militare, e campatala dalla minaccia dei Turchi. Ma come si tornò in pace con questi e coll’Italia, rivisse dentro la parzialità dei Loredano, implacabilmente ostile al doge. Non paga di contrariarlo in ogni proposta, in ogni interesse, volle essa trafiggerlo nella parte più sensitiva, cioè in Jacopo, unico figlio sopravissutogli. Poco innanzi, le costui nozze eransi celebrate con pompa principesca: trentamila persone per dieci giorni s’affollarono sulla piazza San Marco a vedere le giostre che vi avea bandite Francesco Sforza, e dove il marchese d’Este e il Gattamelata fecero prova di sè (1445), tra gli applausi delle patrizie vestite di broccato d’oro. Ora a questo figlio fu data accusa d’aver ricevuto regali da principi forastieri, e nominatamente da Filippo Visconti; e interrogatone avanti al padre e al consiglio de’ Dieci, fra gli spasimi della tortura confessò. Relegato in Romania, per fievole salute ottiene di restare a Treviso. Ma dopo cinque anni essendo ucciso Ermolao Donati uno de’ suoi giudici, n’è imputato Jacopo (1450), e messo di nuovo alla tortura, benchè negasse[52], fu bandito alla Cánea, nè gli si consenti il ritorno, sebbene un Erizzo morendo si confessasse reo di quel sangue. Jacopo allora, struggendosi pel desiderio della nativa laguna, dei cadenti genitori, della moglie e de’ figli; nè trovando chi in Venezia parlasse a suo pro, si volge al duca di Milano perchè gl’impetri di recare in patria le ossa infrante. Era severamente vietato interporre stranieri in cose di Stato: perciò, essendo la lettera intercetta (1454), ed egli chiamato, «dopo trenta squassi di corda» confessa averla scritta apposta ond’essere ricondotto in patria almeno pel processo. Un nuovo giudizio lo confina a Candia, concedendogli d’abbracciare i parenti, ma senza poter confondere le lacrime che sotto l’occhio dell’autorità. «Il doge era vecchio in decrepita età, e camminava con una mazzetta. E quando egli andò, parlogli molto costantemente, che parea non fosse suo figliuolo, _licet_ fosse figliuolo unico. E Jacopo disse: _Messer padre, vi prego che procuriate per me acciocchè io torni a casa mia_. Il doge disse: _Jacopo, va e obbedisci a quello che vuole la terra, e non cercar più oltre_. Ma si disse che il doge, tornato a palazzo, tramortì» (SANUTO). Il figlio morì di crepacuore; il padre continuò a subire la nimicizia de’ Loredani; ed essendo morti due di essi quasi subitaneamente; ne fu imputato egli stesso; Jacopo Loredano finse di crederlo, e s’impegnò a vendicarsene (1457). Fatto dei tre inquisitori, imputò il Foscari d’avere per la perdita del figlio mostrato un dolore che sapea di rimprovero, e come vecchio e acciaccoso propose di deporlo. Due volte il Foscari aveva esibito di abdicare, e, non che consentirglielo, era stato indotto a giurare di non ripetere la domanda finchè la guerra il rendeva necessario: ma allora, benchè fosse caso senz’esempio, fu obbligato a rassegnar la sua carica fra ventiquattr’ore, e uscì dal palazzo, dov’era abitato per trentacinque anni, senza figliuolo nè amici nè forze, tra un popolo che l’amava, ma che più temeva l’inquisizione allora appunto istituita (1457), tra i varj corpi dello Stato, nessun de’ quali osava protestare contro questa violazione della popolare sovranità. Quando la squilla di San Marco annunziò sortito il suo successore (23 8bre), il vecchio Foscari spirò; e sulla sfarzosa tomba erettagli ne’ Frari fu scritto: «Eccovi, o cittadini, l’effigie del vostro doge Francesco Foscari, per ingegno, memoria, eloquenza, inoltre giustizia, forza d’animo, consiglio, per lo meno degno di pareggiar la gloria de’ più gran principi: non mai troppo mi parve l’amore verso la mia patria; gravissime guerre in terra e in mare per la salute e dignità vostra per più di trent’anni con somma fortuna sostenni; sorressi la pericolante libertà d’Italia; i perturbatori della quiete repressi colle armi; Brescia, Bergamo, Ravenna, Crema aggiunsi allo Stato vostro; d’ogni ornamento crebbi la patria; data a voi la pace, stretta Italia in tranquilla lega, esauste tante fatiche, dopo ottantaquattr’anni di vita e ventiquattro di dogato all’eterna pace passai. Voi la giustizia e la concordia conservate, acciocchè sempiterno sia questo impero». Il Loredano, alla partita di debito che aveva aperta ne’ suoi registri a carico de’ Foscari per la morte dei suoi parenti, contrapponeva _Pagata._ Bel tema di romanzi e tragedie, e opportuno contrapposto all’ambizione fortunata dello Sforza: nè noi siamo disposti a scagionare ingiustizie e tirannie, vengano da repubbliche o da despoti, da forestieri o da nostrali. Ma l’amor delle arti, della quiete, delle lettere invadeva principi e popoli, non più la sola guerra; l’interesse, che un tempo si fermava unicamente sul capitano, dirizzavasi anche al letterato e al pittore; e d’altra materia empiremo noi il libro che succede a questo di perpetue battaglie. Repente l’attenzione e i ragionamenti si volsero sulle conquiste de’ Turchi; e la presa di Costantinopoli (1453) fu guardata da tutti come domestica sciagura, come un pericolo universale, del quale si doleano d’essersi accorti troppo tardi. Allora Francesco Sforza concepì il divisamento di stringere tutta Italia in federazione, all’intento d’escluderne gli stranieri qualunque si fossero, e conservare la pace interna; e mediante frà Simonetto da Camerino (1454), fu stipulata in Lodi tra esso Sforza e i Veneziani, come padroni disponendo anche degli altri Stati d’Italia: Cosmo de’ Medici, i signori di Savoja, di Monferrato, di Modena, di Mantova, le repubbliche di Siena, Lucca, Bologna e il papa vi aderirono; e da ultimo anche Alfonso di Napoli: onde per un momento Italia respirò dalle battaglie, e potè sperare che una confederazione le salvasse l’indipendenza e la libertà. Fu un sogno anche questa volta. LIBRO UNDECIMO CAPITOLO CXVII. I papi in Avignone. Il grande scisma. La Chiesa e i Concilj. PAPI DURANTE LO SCISMA URBANO VI (Bartolomeo Prignano) eletto il 9 aprile 1378 da sedici cardinali, quindici de’ quali poco poi eleggono | CLEMENTE VII | (Roberto di Ginevra) | 21 settembre 1378 | | BONIFAZIO IX BENEDETTO XIII (Pietro Tomacelli) (Pietro di Luna) 2 novembre 1389 28 settembre 1394, | deposto dal concilio | di Pisa, 5 giugno INNOCENZO VII 1409, poi da quello (Cosma Meliorati) di Costanza, 26 17 ottobre 1404 lugl. 1417 | | GREGORIO XII ALESSANDRO V | (Angelo Correr) (Pietro Filargo) | 30 novembre 1406, 26 giugno 1409 | deposto dal | | concilio di Pisa, | | 5 giugno 1409; GIOVANNI XXIII | abdica, 4 luglio (Baldassarre Cossa) CLEMENTE VIII 1415 17 maggio 1410 (Gilles Muñoz) | deposto dal concilio in giugno 1424 MARTINO V di Costanza, 29 mag. eletto da due (Ottone Colonna) 1415; abdica, 13 mag. cardinali; 11 nov. 1417 resta 1419 abdica, 26 luglio papa, finendo lo scisma 1429 La prolungata dimora dei papi in Avignone d’estremo disgusto era motivo agl’Italiani, avvezzi a bersagliarli finchè li possedono, ribramarli appena gli abbiano perduti. E tanto più che, cessando i vantaggi, non cessavano le noje; e di là arruffavano essi la patria nostra vie peggio, perchè dei mali che le procacciavano non erano partecipi. Dal 1317 sino al chiudersi del secolo li vedemmo in guerra guerreggiata contro i Visconti di Milano, e per sottomettere popoli rivoltosi, o signorotti ripullulanti nelle terre papali; e non ostante le vittorie di Bertrando del Poggetto e dell’Albornoz, altro effetto non ne trassero che di rovinarle di popolo e di frutti. Innocenzo VI (Stefano d’Aubert) (1352), che si diè tanto moto per rintegrare il potere pontifizio in Italia, moderò il lusso di sua Corte e de’ prelati, cacciò i parasiti e le male donne che in Avignone trafficavano famosamente, e impinguò i nipoti, obbrobrio omai comune. Al suo tempo il re di Francia, fiaccato dalle lotte coll’Inghilterra, trovavasi impotente a salvaguardare il papa, ricovratosi sotto la sua ala; il popolo stesso francese, tumultuante per quelle idee che oggi si chiamano comunismo, facea macello di possidenti e di ricchi (_la Jacquerie_); e le bande di ventura rimaste senza soldo fiutavano ove fosse a saccheggiare. Mossero elle (1361) sopra Avignone, sicchè i papi dovettero provvedere a difendersi e gridare al soccorso: ma non n’ebbero se non dai nobili del contorno, i quali vi vedeano l’interesse proprio, ed erano pagati dai cardinali; poi il marchese di Monferrato, avuti centomila fiorini del tesoro papale, soldò quelle bande e le menò in Italia per adoprarle nelle proprie nimicizie. Se non che la peste era stata recata in Avignone da quelle ciurme, e nove cardinali, settanta prelati e gran moltitudine perirono. Le quali sventure faceano ribramare l’Italia, e Urbano V (Guglielmo di Grimoard) (1362), buon principe e buon cristiano, divisava restituirvi la sede, anche per tôrre agli altri vescovi il pretesto di lasciar vedove le chiese, a sè la necessità di annuire alle crescenti domande del re di Francia, e sottrarsi alle masnade che tratto tratto ritornavano a taglieggiarlo, tra cui quella del famoso Bertrando Di Guesclin pretese centomila lire e l’assoluzione plenaria. Ma i cardinali preferivano Avignone, dove non si trovavano a fronte nè la petulanza d’una plebe riottosa come la romana, nè la prepotenza de’ baroni; sicchè vi si erano adagiati come in domicilio stabile, aveano fabbricato suntuosamente, e quindi persuadevano il papa dover egli preferire la Francia: questa, sua patria; questa, centro dell’Europa; questa, meglio governata e quieta che l’Italia; questa, più santa di Roma perchè religiosissima già la chiamava Cesare, e i Druidi vi esistevano prima del cristianesimo; questa infine, più cara a Gesù Cristo perchè vi si conservavano le reliquie più insigni[53]. I Turchi sempre più guadagnavano verso l’Europa; e Pietro Lusignano re di Cipro girava le corti esortando a sostenere gli ultimi possessi de’ Crociati, se non voleano vedere la mezza luna drappellarsi rimpetto all’Italia. Urbano sembrò compunto di questo pericolo; Carlo IV imperatore fece grandi preparativi per una crociata, la quale però non riuscì se non ad uno sbarco scarso ed infruttuoso sopra Alessandria d’Egitto. Però e il papa e l’imperatore presero accordo di ripristinare la santa Sede a Roma. Questa città avea sempre altalenato fra insania demagogica e oligarchica arroganza, or ribelle al pontefice per bizzarria, or sottomessagli per paura. Si pensò ottenere maggior quiete col nominare un podestà forestiero: ma i Romani sel recarono ad oltraggio, e abolito il senatore, istituirono sette riformatori della Repubblica; poi fra poco diedero poteri dittatorj a Lello Pocadote calzolajo, poi ripristinarono i riformatori. Quale allettamento aveva dunque un papa a ritornarvi? Pure sentiva esser fuori di posto in una terra dove vestiva aspetto d’un esule ricoverato, piuttosto che d’un sovrano dei re; e dove prelati quasi tutti francesi davano alla Corte un’aria nazionale, ben diversa da quella cosmopolita che soleva in Roma; l’assenza sua porgeva pretesto ai Romani di rivoltarsi, agli altri vescovi di abbandonare le proprie sedi. Adunque, da che le conquiste dell’Albornoz assicurarono il principato civile (1367), Urbano deliberò restituirsi di qua dall’Alpi. Appena se ne motivò, Roma e Italia tutta fecero gran sembianti d’allegrezza; Napoli offrì cinque galee, Pisa tre, Genova quattro, Venezia dieci, due Lucca. Ricevuto dappertutto con vive feste, e fra un cantare al popolo d’Israele che usciva d’Egitto, alla casa di Giacobbe dal popolo barbaro, non avea però troppi motivi a fidarsi de’ Romani. In Viterbo, ove a lungo s’indugiò, una sommossa popolare tenne tre giorni in pericolo il sacro collegio; e repressa dai cittadini, furono arrestati cinquecento colpevoli, di cui cinquanta ebbero il bando, sette la forca. L’arrivo di Nicolò II d’Este con settecento uomini d’arme rassicurò il papa ad entrare a Roma, e celebrò sull’altare papale, ove nessuno più da Bonifazio VIII in poi; e in Laterano benedisse il popolo colle teste dei santi Pietro e Paolo, per le quali fece fare due reliquiarj, che valsero trenta e più mila fiorini d’oro. Abolì i riformatori, rimettendo un senatore semestrale con tre conservatori; e tolse i tredici banderesi, capi de’ rioni fin con diritto di sangue, e che traendo a sè tutti gli affari, rimanevano i veri padroni della città. Vi giunse poi, come avea promesso, Carlo IV con gran seguito di duchi e marchesi, volendo procacciare alla quarta sua moglie lo spettacolo della coronazione colla maggior maestà che fosse possibile. Anche Giovanni Paleologo imperatore di Costantinopoli venne a fare omaggio a Urbano, e riconoscere la Chiesa latina; spettacolo non più visto da Teodosio in poi, gl’imperatori d’Oriente e d’Occidente inginocchiati davanti al papa. Ma Carlo partì fretta fretta, e Urbano, che proponeasi di rassettare la dignità della Chiesa coll’assistenza di cinquantamila uomini da lui promessigli, si trovò in asso: che se finchè stette in Avignone facea qualche mostra di vigoria adoprando l’oro racimolato da tutta cristianità a domare questi signorotti lontani, allora si trovò in loro balia e colla borsa vuota; mentre Bernabò Visconti, ridendosi delle scomuniche, gli ammutinava tutte le città di Romagna. Vedendo dunque non approdare a verun bene, malgrado le esortazioni de’ più e del Petrarca, tornossi ad Avignone (1370), anzi vi consolidò l’esiglio coll’eleggere altri cardinali francesi; e l’Italia continuò le minute baruffe, ispirate da gelosie, esercitate dalle bande. Caterina, nata in Siena (1347) da Benincasa ricco tintore, datasi alla solitudine, alle austerità, all’orazione, fatto voto di verginità e difesala contro la insistenza domestica, cominciò ad avere torrenti di grazie dal Signore, il quale «le avea insegnato a fabbricarsi un ritiro dentro dell’anima sua per richiudervisi di continuo, e le aveva anche promesso di farvi trovare tal pace e riposo, che niuna tribolazione potrebbe turbare»[54]. Si vestì terziaria di san Domenico, e superando gli spasimi d’incurabili malattie e le impure tentazioni, ristorando l’anima colle dolcezze della preghiera e colla carità verso gl’infermi e i peccatori, ebbe rivelazioni e comunicazioni celestiali; Cristo in visione le esibì a scegliere fra una corona d’oro e una di spine, e poichè ella prese questa e la si calcò sul capo per somigliare a lui, egli le diede a succhiare il proprio costato; un altro giorno cambiò il cuore di lei col suo; la sposò anche solennemente, porgendole un anello che sempre le rimase in dito, e ch’ella sola vedeva, come le stigmate della passione. Tali e ben altre meraviglie ci sono narrate dal suo confessore Raimondo di Capua, il quale dubitò lungamente fossero allucinazioni di devota fantasia, fin quando non vide la giovane faccia di Caterina trasformarsi in quella proprio del Redentore. Fu privilegiata del dono di convertir peccatori, come fece di tutta la famiglia Tolomei, e di due assassini dannati al patibolo; tantochè il papa deputò tre Domenicani che in Siena ricevessero le confessioni di quelli ch’essa avea tratti a penitenza. Del potere che la virtù davale sugli animi, avea fatto uso a minorare i patimenti della sua patria; cercò distogliere il feroce avventuriero Giovanni Acuto dal più guerreggiare i Cristiani. Alla santa ebber ricorso i Fiorentini quando il pontefice stava irato con essi; ed ella, schermitasi invano, fu ricevuta a Firenze come in trionfo, ottenne pieni arbitrj, e al papa scriveva: — Pregovi che vi mandiate proferendo come padre, in quel modo che Dio vi ammaestrerà, a Lucca ed a Pisa, sovvenendoli in ciò che si può, ed invitandoli a star fermi, perseveranti. Essi stanno in gran pensiero, perocchè da voi non hanno conforto, e dalla contraria parte sono stimolati e minacciati che facciano la pace; ma per infino a qui al tutto non hanno acconsentito. Seguitate la mansuetudine e pazienza dell’agnello immacolato Gesù Cristo, la cui vece tenete. Confidomi in lui, che di questo e d’altre cose adoprerà tanto in voi, che n’adempirò il desiderio vostro e mio; chè altro desiderio in questa vita io non ho, se non di vedere l’onore di Dio, la pace vostra, e la riformazione della santa Chiesa, e di vedere la vita della grazia in ogni creatura che ha in sè ragione. Confortatevi, che la disposizione di qua, secondo che mi è dato a sentire, è pure di volervi per padre, e specialmente questa città tapinella, la quale è sempre stata figliuola della santità vostra, e che costretta dalla necessità fece di quelle cose che le sono spiaciute: voi medesimo gli scusate alla vostra santità, sicchè coll’amo dell’amore voi gli pigliate. Potreste dire, _Per coscienza io sono tenuto di conservare e racquistar quello della santa Chiesa_. Ohimè! io confesso bene che egli è la verità, ma parmi che quella cosa che è più cara si debba meglio guardare. Il tesoro della Chiesa è il sangue di Cristo, dato in prezzo per l’anima, perocchè il tesoro del sangue non è pagato per la sostanza temporale, ma per salute dell’umana generazione. Sicchè poniamo che siate tenuto di racquistare e conservar il tesoro e la signoria della città, che la Chiesa ha perduto; molto maggiormente siete tenuto di racquistare tante pecorelle che sono un tesoro nella Chiesa, e troppo ne impoverisce quand’ella le perde. Pace, pace, santissimo padre; piaccia alla santità vostra di ricevere i vostri figliuoli, che hanno offeso voi padre; la benignità vostra vinca la loro malizia e superbia; non vi sarà vergogna d’inchinarvi per placare il cattivo figliuolo, ma saravvi grandissimo onore ed utilità nel cospetto di Dio e degli uomini del mondo. Ohimè, babbo, non più guerra per qualunque modo; conservando la vostra coscienza si può aver la pace; la guerra si mandi sopra gl’infedeli, dove ella debba andare». Fu poi in persona ad Avignone, e Urbano anch’egli rimise in lei ogni differenza; ma altri ambasciadori fiorentini sturbarono la conclusione. Caterina non cessò di esortare il papa ad armarsi alla crociata, ed a restituirsi a Roma[55], come seppe indovinargli n’avea fatto voto segreto. Al quale uopo avea con lei contribuito santa Brigida, nobile svedese, che, perduto il marito mentre andavano pellegrini a San Jacopo di Galizia, prese un vivere sempre più austero, e istituito l’ordine di San Salvatore, venne in Montefiascone a cercarne la conferma ad Urbano, cui annunziò averle la beata Vergine rivelato come pessimamente gli avverrebbe se uscisse d’Italia. Non le diede egli ascolto, ma tornato in Avignone, presto (1370) fu colpito dalla morte[56]. Pio a segno, che si credettero operati miracoli al suo sepolcro, generoso colle chiese e cogli studiosi, di cui manteneva un migliajo sulle Università, avea regnato pei popoli non per sè: ma è un’insipida lode quella attribuitagli dal Petrarca, di non aver fatto nessun malcontento. Dopo una sola notte di conclave gli fu dato successore Pietro Roger, modesto, virtuoso e insieme dottissimo, che già cardinale frequentava a Perugia le lezioni di Baldo, e ne fu il più sapiente scolaro. Volle il nome di Gregorio XI, e badando ai gravi mali d’Italia e alle esortazioni di quelle sante[57], meglio che alle opposizioni del re di Francia, piantossi in Vaticano (1377), e vide il gonfalone della Repubblica e dei dodici rioni deposti ai suoi piedi: ma i magistrati li ripigliarono ben presto, continuando a governare da sè; di che il papa soffrì e si scontentò, e forse solo morte gl’inpedì di restituirsi di là dall’Alpi. Pure egli fu l’ultimo papa francese; e dopo settantun anno e tre mesi la santa Sede era stata riportata di Francia in Italia. Le miserie di questa che fautori e avversari deplorano come schiavitù di Babilonia, invigorirono la scossa che allora d’ogni parte veniva alla maestosa unità cattolica, preponderante nel medioevo. Le nazioni eransi formate attorno ai vescovi, donde l’assoluto potere ecclesiastico, come d’un padre sopra i figli che generò e crebbe. Costituitesi, riuniti molti territorj, nato il potere pubblico, vollero svilupparsi dalle fasce della Chiesa per vivere di vita propria, e compresero che il temporale potea sussistere disgiunto dallo spirituale: onde alla società senza limite di spazio sottentravano società particolari e distinte, all’andamento generale le parziali destinazioni. I tentativi di Bonifazio VIII per rintegrare la supremazia pontifizia destarono ne’ principi quella gelosia, che proviene mentosto da reali violenze che da paura. Alle immunità attribuite ai beni ed alle persone degli ecclesiastici, i Comuni non esitavano por la mano, dovessero anche affrontare gli anatemi del pontefice. Pistoja statuì che, chi entrava chierico, perdesse diritto al patrimonio, nè dai parenti potesse ripetere alcuna cosa, se non a titolo di largizione o per infermità o per andare a studio. I Fiorentini sottoposero alle gravezze e ai tribunali comuni gli ecclesiastici, perciò vietato di far voltura in loro testa sul libro dell’estimo de’ beni a loro pervenuti, talchè la ditta fosse sempre obbligata alle gravezze, e i beni medesimi ipotecati a favore del Comune. Venezia, nella guerra del 1379 coi Genovesi, decretò tutti i monasteri si armassero, e cacciò i monaci che lo ricusarono come contrario al loro istituto. A Genova bastava esser chierico per rimanere escluso da qualfosse pubblico impiego, per la ragione che l’immunità gli avrebbe sottratti al castigo in caso di trasgressione. Il comune di Perugia nel 1319 destinava un uffiziale a sopravvegliare gli ecclesiastici; e propose che nessuna lettera si mandasse al papa, foss’anche dal vescovo, se non suggellata dal Comune (GRAZIANI). Torino faceva uno statuto _super iniquitate, superbia et immoderata avaritia cleri et presbyterorum_, e li obbligava, oltre il resto, a concorrere a mantenere il ponte sul Po. Padova voleva aggravezzare i beni degli ecclesiastici, questi ricusavano, e tant’oltre si andò che il Comune nel 1282 stabilì, chi ammazzava un chierico pagasse un grosso e fosse assolto (GENNARI), e vi ebbe chi ne profittò a sfogo di vendette. Meglio i Reggiani, scomunicati dal vescovo nel 1280, si può dire scomunicarono lui, vietando ogni relazione coi cherici, non pagar loro le decime, non dar consiglio nè ajuto nè prestito, non pasti, non contratti con essi, non entrare in casa loro, non macinarne il grano o fare il pane o radere la barba; il che lo portò a pronta composizione. D’altra parte il papa volendo rimeritare i Fiorentini d’avergli spediti ajuti in Lombardia, nel 1323 concedette che il clero contribuisse alla spesa di fortificare la città. Di rimpatto il legato pontifizio voleva essere investito della pingue abazia dell’Impruneta; e perchè i Buondelmonti si opposero considerandola come loro patrimonio, egli mise l’interdetto sulla città. Quando l’edifizio sociale era impiantato sulla fede, ogni opposizione si risolveva in eresia: le scomuniche, contro cui eransi fiaccati l’orgoglio e la potenza degl’imperatori sassoni e svevi, perdeano efficacia dacchè prodigate in effetti mondani; i Siciliani durarono ottant’anni in rotta colla Chiesa; i Visconti degli interdetti si vendicavano col pesare viepeggio sugli ecclesiastici; e gli avvocati ergeano la fronte contro i papi, ai quali erasi incurvata quella dei re. Ormai dalla fede assoluta passavasi alle religioni comparate. Maestro Urbano da Bologna nel 1334 scrisse un commento di Averroe, che invogliò a conoscere il testo; e quelle opere entrarono di moda, e con esse i dubbj sulla vita futura e la pendenza al panteismo; e il Petrarca si piange che la filosofia aristotelica inducesse al materialismo, tanto che non otteneva nome di dotto e filosofo chi non aguzzasse la lingua e la penna contro la religione. Un di costoro «i quali pensano non aver fatto nulla se non abbajano contro di Cristo e della sovrumana sua dottrina», andò a trovare il poeta a Venezia, e lo cuculiava perchè avesse citato un detto dell’apostolo delle genti, e — Tienti la tua religione, io non ne credo acca; il tuo Paolo, il tuo Agostino e cotest’altri furono chiaccheroni; e deh potessi tu soffrire la lettura di Averroe, che ben vedresti quanto e’ sorvola a cotesti tuoi buffoni». Petrarca se ne stomacò, e tutto dolce ch’egli era, prese pel mantello e mise fuor di casa il temerario. Nè per tanto si rinnegava la Chiesa. Quei Patarini che l’aveano conturbata due secoli prima, erano scomparsi d’Italia o nascosti; il popolo amava le splendidezze del culto, se anche non ne venerava l’austerità, e compiaceasi del papa e della corte pontifizia: gli studiosi ostentavano questa incredulità accademica, ma non le si conformavano nelle pratiche; e d’altra parte, non poteano essi declamare contro la Corte romana colla libertà che avea usata Dante, senza incorrere negli anatemi? Ma dacchè erasi trasportata in Avignone, e Guelfi e Ghibellini del pari la bersagliavano, quasi cessasse d’essere cattolica cessando d’essere romana. Il Sacchetti mercante, il Petrarca canonico, il Pecorone frate, e persone di grande scienza e di celebrata santità avventavansi contro quella Babilonia, che tal nome meritava non meno pel lusso che per la corruzione, dove parea costume ciò che altrove vizio, dove la disonestà accoppiavasi colla perfidia e colle bassezze. Ciò che altre volte sarebbe valso poco più che per esercizio di retorica o sfogo di bile, diventava pericoloso allorchè, perdendosi il senso de’ simboli, la società riducevasi affatto pratica; laonde i politici guatavano con disgusto questa Corte che, vivendo nel mondo, n’avea presa la licenza, le passioni, gl’intrighi, e reso la Chiesa un mezzo di governo e di speculazione. Di tal passo venivasi a vilipendere quel che prima erasi venerato, e declinava nei popoli lo spirito d’obbedienza quando appunto i pontefici lasciavano quello di dominazione. Allora parve insopportabile la giurisdizione ecclesiastica, che colla pubblicazione del VI e VII libro delle _Decretali_, poi delle _Estravaganti_ erasi estesa per modo, che qualsivoglia lite poteva anche in prima istanza recarsi al pontefice. Agostino Trionfe d’Ancona, agostiniano, che dettò a Parigi poi a Napoli, carissimo ai re Carlo e Roberto, dedicò a Giovanni XXII una _Somma della podestà ecclesiastica_, apologia dell’onnipotenza dei papi: da Dio immediatamente derivare la loro giurisdizione, superiore ad ogni altra perchè tutte giudica, da nessuna è giudicata; come spirituale, così è temporale, perchè chi può il più può anche il meno: non può il papa essere deposto dal concilio generale, nè giudicato dopo morte: è assurdo appellarsi al concilio, giacchè questo non trae autorità che dal pontefice, il quale unico può proferire sui punti di fede, nè altri informare dell’eresia senz’ordine di esso. Come sposo della Chiesa universale, tiene immediata giurisdizione sopra ogni diocesi, e per sè o per mandati suoi vi può fare quel che vescovi e parrochi. Al papa devono obbedienza Cristiani, Ebrei e Gentili; egli può punire i tiranni e gli eretici anche con pene temporali; egli, non i vescovi, scomunicare; fin di là della tomba estende il potere per via delle indulgenze: potrebbe scegliere di qualsiasi paese l’imperatore senza ministero degli elettori, o renderlo ereditario: l’eletto dev’essere da lui confermato e giurarsegli ligio, e può da lui essere deposto: tutti i re sono tenuti obbedire al pontefice, dal quale traggono la potenza temporale: a lui può appellarsi chiunque si sente gravato dal principe: e i principi e’ può correggere per peccati pubblici, deporli anche, e istituire un re di qualsiasi regno. L’esagerazione è sintomo di autorità minacciata; e sempre maggiore ardimento pigliava l’opposizione. Guglielmo Occam, scolastico nominatissimo, per favorire Lodovico Bavaro contendeva l’infallibilità non solo al papa, ma anche al concilio universale e al clero; i laici in corpo poter decidere risolutamente; contro il papa potersi all’uopo adoprare anche la forza, o stabilirne diversi un dall’altro indipendenti. Marsiglio di Mainardino da Padova, eloquente professore all’Università di Parigi, poi rifuggito ad esso Lodovico, gli insinuò che a lui competesse riformare gli abusi della Chiesa, perchè questa è sottomessa all’Impero; e con Ubertino da Casale pubblicò il _Defensor pacis_, ove già s’incontrano le negazioni di Calvino rispetto all’autorità e costituzione della Chiesa; la potestà legislativa ed esecutiva di questa fondarsi sul popolo che la trasmise al clero; i gradi della gerarchia essere invenzione posteriore; il primato, consistente solo nel convocare concilj ecumenici e dirigerli, non fu dato al vescovo di Roma se non con autorizzazione d’uno di tali concilj e del legislatore supremo, cioè di tutti i fedeli o dell’imperatore che li rappresenta; Gesù non lasciò a capo della sua Chiesa verun capo visibile, nè Pietro avea preminenza che per l’età; al sovrano, purchè fedele, spetta l’istituire prelati, eleggere il papa, giudicare i vescovi come Pilato giudicò Cristo, e deporli, convocare concilj e regolarne le deliberazioni; eguali essendo i vescovi, l’imperatore solo può elevarne uno sopra gli altri, e a grado suo abbassarlo[58]. Sì poco sono moderne le dottrine che subordinano la Chiesa ai governi! Le teoriche negative si traducevano in fatti: la bolla d’oro di Carlo IV sottraeva il sacro romano impero dai papi; il re di Francia, non che emanciparsi dalla supremazia di questi, li minacciava come sudditi proprj; i lontani seguitavano a venerarli solo in quanto ne traessero vantaggio. Di mescolarsi nelle cose ecclesiastiche prendea pretesto l’autorità secolare dagli scandali del tempio, quando la santa Sede, fatta ligia dei re, non valeva a frenare la irruente corruzione, fosse la grossolana del clero inferiore o la fastosa de’ prelati. Grave torto faceva alla Chiesa il patriziato delle maggiori dignità: poichè essa, che ripudiò sempre ogni distinzione di natali, attenendosi unicamente ai meriti, vedeva il cardinalato e le nunziature affidarsi a taluni, il cui unico titolo era l’essere degli Orsini o dei Colonna o dei Savelli; e le costoro case, potenti in città per armi e per clientele, trescavano a voglia anche nel santuario, prepotevano nelle elezioni dei pontefici e ne’ loro consigli, con tirannide peggiore di quella degli imperatori del secolo precedente, perchè più immediata. Le emulazioni di queste famiglie, prorompenti spesso in guerra civile e in criminosi attentati, s’insinuavano nel concistoro e nel conclave, e toglieano al pontificato e al sacerdozio quella dignità che traggono dall’essere superiori alle mondane rivolture. I prelati sotto la stola mantenevano le abitudini dell’educazione secolaresca e lusso sfrenato; ned altro testimonio ne voglio che il concilio Lateranese III, il quale, avvisando i prelati quanto disdica il camminare con treno sì numeroso e il consumare in un pranzo l’intera annata della chiesa che visitano, vuole i cardinali s’accontentino di quaranta o cinquanta vetture, gli arcivescovi di trenta o quaranta, i vescovi di venticinque, gli arcidiaconi di cinque o sette, di due cavalli i decani; tutti poi vadano senza cani da caccia nè uccelli. Accumulavansi fin quaranta o cinquanta benefizj in una sola mano; e vuolsi che Benedetto XII proponesse ai cardinali, se rinunziassero ad averne più d’uno, assegnar loro centomila fiorini d’oro di rendita e metà delle entrate dello Stato pontifizio; e ad essi non parvero abbastanza. Pastori negligenti, sicchè nè tampoco veduta aveano la loro greggia, esercitavano insolente giurisdizione tirannica; nel clero minore ignoranza, venalità de’ sacramenti, comune l’ubriachezza, sfacciata la libidine; nelle chiese e ne’ conventi si stabilivano bettole e giuochi; le monache uscivano dai monasteri; trafficavasi di grazie, dispense, perdoni. Degli antichi Ordini religiosi rilassata la disciplina: perfino in quel Montecassino, che fin allora avea dato ventiquattro papi, ducento cardinali, milleseicento arcivescovi, ottomila vescovi, molti canonizzati santi, i monaci vestivano bene, abitavano comodi, riservavansi peculj particolari, anzi riceveano dal convento una prebenda colla quale vivere in case secolari. Presa vergogna dall’operosità e astinenza de’ Mendicanti, anch’essi dovettero riformarsi, applicando agli studj; ma perchè a questi non pareva potersi attendere degnamente che nelle Università, i monaci che v’erano mandati vi trovavano incentivi e dissipamenti e peggio. Però anche gli Ordini nuovi presto diminuirono l’esemplare fervore primitivo, gli uni facendo divorzio dalla povertà, sposata dal loro patriarca, gli altri per zelo dimenticando la carità. A tacere le diatribe dei loro nemici, quali Mattia Paris e Pier delle Vigne, san Bonaventura, generale de’ Francescani, nel 1257 dirigeva una querela ai provinciali e guardiani; perchè a titolo di carità i fratelli s’impacciassero d’affari pubblici e privati, di testamenti, di secreti domestici. Sprezzando il lavoro, caddero nell’infingardaggine, e mentre pregano ginocchione o meditano in cella, possono darsi a studj vani o sbadigliare o dormire, e forse dai libri composti trarre una vanità che non prenderebbero certo dal tessere fiscelle o stuoje, come i primi romiti. Andando girelloni, riescono d’aggravio agli ospiti e di scandalo; per rimettersi dalla stanchezza mangiano e dormono di là del prefisso; scompigliano la regola del vivere; domandano con tale importunità, da farli schifare quanto i ladri. La vastità delle fabbriche turba la pace de’ conventi, incomoda gli amici, espone a giudizj sinistri. Ai parrochi poi dispiaciono per la premura che si danno intorno a funerali e a testamenti. Inoltre le città chiamavano i frati a compor paci, gli abati ad eseguire commissioni, come gente non pericolosa e di niuna spesa ne’ viaggi; l’Inquisizione li riduceva a specie di magistrati criminali, con bidelli, famigli armati, carceri, braccio secolare a loro disposizione, essi istituiti a profonda umiltà e povertà esatta. La regola di san Francesco imponeva tali austerità, che alcuni la sentenziarono d’impossibile o di micidiale; sicchè papa Nicola III credette doverla spiegare[59] nel senso che i frati Minori erano tenuti osservare il vangelo, vivendo in obbedienza, in castità, in povertà tale da non possedere cosa veruna; lo spossessamento totale per Dio essere meritorio; averlo Cristo insegnato colla parola, confermato coll’esempio, e gli apostoli ridotto in pratica; i Francescani vivendo così, non faceansi suicidi nè tentavano Dio, giacchè confidandosi nella Provvidenza, non però repudiavano gli espedienti suggeriti dalla prudenza umana. Vi si chetarono gli avversarj, ma tra i Minoriti alcuni ne trassero motivi d’un fanatico misticismo, da una parte asserendo che la regola di san Francesco fosse il vero vangelo, dall’altra che la spropriazione dovea portarli ad avere nulla più che il mero uso delle cose necessarie alla vita. Pier Giovanni d’Oliva di Linguadoca predicò siffatta dottrina, e bersagliando la Chiesa ricca e mondana, annunziava i Minori, come destinati a rigenerarla. Fece molti proseliti, e sotto papa Celestino V, incline al vivere cenobita, ottennero di costituirsi in nuova congregazione (1234), detta degli Eremiti Celestini. Perseguitati, presero abito e capi particolari, e massime per la diocesi di Pisa e tra i monti di Vecchiano e di Calci seguivano tenor di vita più rigoroso, alla Chiesa visibile ricca, carnale, peccaminosa affacciandone una frugale, povera, virtuosa. Tennero a quelle dottrine Corrado da Offida, Pietro da Monticolo, Tommaso da Treviso, Corrado da Spoleto, Jacopone da Todi, e col nome di Fraticelli o Frati spirituali, ebbero capi frà Pietro da Macerata e Pietro da Fossombrone. Bonifazio VIII li combattè vigorosamente, e proferitili eretici, li fece processare e perseguire da frà Matteo di Chieti, sicchè essi ricoverarono in un’isola dell’Arcipelago e in Sicilia, aggregando a sè chiunque disertava dai Francescani per seguire una vita più austera; cari al vulgo per l’aspetto di maggior perfezione, e avendo per generale il mistico Ubertino da Casale. Angelo, plebeo senza lettere, della vallata di Spoleto, n’avea radunati molti; e così l’ordine del padre serafico restava scisso, nè Clemente V riuscì a riconciliarli nel concilio di Vienne. Il resistere, e la superbia che facilmente nasce dal rigore esagerato, li portarono a farsi accanniti detrattori della santa Sede, negando ch’ella potesse permettere ai Francescani di tener granajo e cantina, e asserendo una vicina riforma. Ne seguirono perfino sommosse a Narbona, in Sicilia, in Toscana; onde Giovanni XXII provvide a comandare la soggezione, dicendo che «gran cosa è la povertà, più grande la castità, ma superiore l’obbedienza»[60]. Eppure essi durarono contumaci, appellando al futuro concilio, onde ebbero condanna; e quei che non vi si sottomisero, fuggirono in Sicilia, ove Federico re di Trinacria, sempre malvolto alla santa Sede, li protesse, e dove presero capo Enrico di Ceva, professando sempre che la Chiesa era divenuta una sinagoga, lupo il suo pastore. Chi bestemmia Giovanni del rigore usato con essi, chi di essi fa beffa come apostoli d’una ineffettibile povertà, non venga poi a declamare o a sbigottirsi al cospetto del comunismo, forma moderna della medesima dottrina. Ma tra i dibattimenti avendo alcuno asserito che Gesù Cristo nè i suoi apostoli non aveano nulla posseduto, la proposizione, rejetta dai Domenicani e da altri, venne sostenuta dai Francescani; e poichè la regola di san Francesco diceasi esprimere il vangelo, tornava sott’altra apparenza il medesimo concetto dell’assoluta spropriazione. Giovanni condannò anche questa dottrina; Michele di Cesena generale dell’Ordine, Guglielmo Occam e Buonagrazia da Bergamo protestarono, e rifuggiti a Pisa presso Lodovico Bavaro, lo sostennero e accannirono nella lotta contro quel papa. Tale quistione insinuò ne’ Minoriti uno spirito di sottigliezza, troppo contrario all’intento tutto pratico del loro fondatore; e ne pullulavano altre quistioni, a dir poco, oziose: se la regola astringesse sotto pena di peccato mortale o soltanto veniale; se obbligasse ai consigli del vangelo quanto ai precetti; se alle ammonizioni quanto ai comandi: dal che, facile tragitto, si passò a sofisticare sul decalogo e sul vangelo; ed oltre la disputa sempre accesa sull’immacolata concezione di Maria, un’altra ne ebbero coi Domenicani, se il sangue di Cristo, uscito nella passione, restasse non pertanto ipostaticamente unito al Verbo. È difficile sincerare quanto abbiano di vero le oscene imputazioni che accompagnano i processi di costoro, massime de’ Fraticelli, avvegnachè l’opinione era straniata alla peggio, e la manìa de’ processi recò a prestar fede ad assurdità, ribadite nel vulgo dai supplizj inflitti e dalle declamazioni di chi avrebbe dovuto dissiparle. Anzi mi si fa credibile che le procedure allora ordinate dagli statuti civili ed ecclesiastici moltiplicassero le stregherie, dapprima quasi ignote. Giovanni XXII nel 1322 notificava che «alcuni figli di perdizione, allievi d’iniquità, dandosi alle ree operazioni di loro detestabili malefizj, fabbricarono immagini di piombo o di pietra, sotto la figura del re, per esercitare sovr’essa arti magiche, orribili e vietate». E avendo gl’imputati declinato la giurisdizione ordinaria, il papa incaricò tre cardinali d’esaminarli, e rimetterli ai giudici secolari. Poi l’anno stesso meravigliasi de’ progressi delle scienze occulte, commosso nelle viscere che molti, cristiani soltanto di nome, lascino la luce della verità, e talmente siano involti nelle nebbie dell’orrore, da fare alleanza colla morte e patto coll’inferno, immolando ai demonj, adorandoli, fabbricando immagini, anelli, specchi, fiale ed altri oggetti in cui legare i diavoli; e a questi domandano risposte e ne ricevono, gl’implorano a soccorso dei depravati loro desiderj, e in ricambio della vergognosa assistenza offrono vergognosa servitù. O dolore! questa peste si diffonde oltremodo nel mondo, infettando tutto il gregge di Cristo». Con tali persuasioni, si estesero i supplizj per malìe. Il 1292 Pasqueta di Villafranca in Piemonte fu multata in quaranta soldi perchè _faciebat sortilegia in visione stellarum_: nel 1363 Antonio Cariavano, accusato di aver fatto grandinare in Pinerolo con libri necromantici, fu multato in quaranta fiorini: nell’86 due della valle di San Saturnino pagarono cenventi franchi d’oro per avere prestato fede a un incanto gittato onde smorbare le loro mandre: nell’81 la nuora di Francesca Troterj avendo smarrito una collana di perle, per trovarla ricorse a maestro Antonio di Tresto da Moncalieri, il quale, pigliato il secchiello dell’acquasanta, lo coprì con un altro, vi accese attorno dodici candele, descrisse varie figure colla verga, e fece segni di croce: poi mise per terra due candele in croce, e su quelle fece posare il piede dritto della donna che avea smarrito il collare. Non so se si trovasse: ma il maestro fu accusato al vicario del vescovo; e quegli confessò nulla intendersi di magìe, ma far quelle frasche per ciuffare qualche soldo ai credenzoni[61]. A questi mali è fortuna quando si trova da opporre caldo zelo, soda pietà, scienza matura. Anime fervorose e gran santi neppur allora mancarono: verso il 1319 nacquero gli Olivetani alla badia di Montoliveto nella val dell’Ombrone senese, per opera del beato Bernardo Tolomei; e lo sterile paese fu coltivato, adorna di pitture la chiesa. Il beato Giovanni Dominici fiorentino, oratore famosissimo, studiando al miglioramento de’ secolari e più de’ claustrali, fu vero restauratore della vita regolare in Italia e in Sicilia, e infine arcivescovo di Ragusi e cardinale: senza maestro s’approfondì nelle scienze, mentre colle prediche traeva a monacarsi donzelle e giovani. Nel riformare i Domenicani, cominciando a Firenze e Pisa, fu accompagnato dal beato Lorenzo da Ripafratta, che fu maestro ed amico a sant’Antonino, dal venerabile Tommaso Ajutamicristo, e da altri di quell’Ordine, infervorati a pietà dalla beata Chiara de’ Gambacurti, la quale avea riformato le Domenicane in Firenze, donde si diffusero a Genova, a Parma, a Venezia. Anche il beato Raimondo da Capua operò a ristabilire la regolarità ne’ conventi domenicani, insieme col beato Marconino di Forlì, entrambi d’affettuosa pietà. Ai conforti del pio Marco, parroco di San Michele in Padova, che gemea di veder depravato l’ordine Benedettino, e Santa Giustina abbandonata ai disordini, Luigi Barbo tolse a riformarlo con regole più severe, e che presto si estesero a Genova, a Pavia, Milano e più lungi. I Camaldolesi ridussero florido il Casentino, ed esemplarmente conservavasi il bel bosco di abeti e di faggi. Il beato Giovanni Colombino, di nobile gente senese ed elevato alle prime dignità, dalla pazienza della moglie e dal leggendario dei santi fu chiamato a vita pia ed austera, e ad assistere malati e pellegrini: poi ridottosi povero, andava predicando penitenza, e raccolti alquanti seguaci, istituì l’ordine dei poveri Gesuati, approvato da Urbano V il 1367; «e i forti cavalieri di Cristo, fatti novelli sposi dell’altissima povertà, incominciarono allegramente a mendicare,... e posti in un’altezza di mente, calcando il mondo sotto i loro piedi, tutte le cose terrene stimavano come fango, e tuttodì crescevano in desiderio di patire e sostenere pene per amore di Cristo»[62]. Suor Agata stette murata gran tempo in s’una pila del ponte Rubaconte a Firenze, poi nel 1434 fondò il monastero famoso delle Murate. Al tempo stesso diedero odore di gran santità in Siena Gioachino Pelacani, che la sua devozione per Maria espandeva in carità pei poveri (-1305), e Antonio Patrizj; Andrea de’ Dotti di San Sepolcro, scolaro di Filippo Benizzi; Bonaventura Bonacorsi di Pistoja, caldo ghibellino, che dal Benizzi stesso convertito, riparò i danni recati, e edificò colle virtù più austere (-1315). Simone Ballachi, figlio del conte di Sant’Arcangelo presso Rimini, dalla dissipazione raccoltosi a Dio, esercitavasi ne’ più umili uffizj e nell’istruire bambini e convertir peccatori (-1319). Agnese di Montepulciano domenicana, Emilia Bicchieri di Vercelli (-1314), Benvenuta Fojano del Friuli vennero illustrate per doni celesti; e così Margherita di Metela presso Urbino, cieca nata; Chiara di Montefalco presso Spoleto, eremitana (-1308); e quell’Oringa di Santa Croce presso Firenze, che divenne il modello delle fantesche, dal santo Spirito illustrata alla conoscenza di sublimi veri, sebben nè leggere sapesse, onde empì Lucca e Roma della fama di sua virtù e carità, e presto de’ suoi miracoli. Gli Orsini ci portano il loro sant’Andrea carmelitano, che, malgrado l’illustre nascita, accattava pe’ poveri, e, malgrado la sua umiltà, fu messo vescovo di Fiesole, ove continuò le austerità, e riconciliò più volte la sua colle città vicine. Dai Falconieri uscivano Alessio, Carissima e Giuliana, tutti venerati sugli altari; dai Soderini la beata Giovanna (-1367) e un altro Giovanni (-1343); dai Vespignano di Firenze il beato Giovanni; dagli Adimari il beato Ubaldo; dai Della Rena di Certaldo la beata Giulia. Pellegrino de’ Latiozi di Forlì fu stupendo per pazienza nel soffrire sia le percosse di quelli di cui voleva acquietare i litigi, sia gli spasimi d’una cancrena (-1345). Pietro Geremi di Palermo, già professore di diritto, diedesi a Bologna a tali austerità, che si circondò il corpo di sette cerchi di ferro, scena che molti convertì. Giovanni da Capistrano, dopo adoperato in magistrature e negoziati, resosi francescano, si diè tutto all’amor di Dio e del prossimo, e continuò a riconciliar nimicizie e risse nel nome di Dio, e possedendo lo spirito di compunzione e il dono delle lacrime, moltissimi convertiva, e spesso le donne dopo le sue prediche davano in limosina tutti i loro ornamenti. Fra l’alto clero sono a mentovare il beato Bertrando patriarca d’Aquileja che tanto operò alla riforma di questa chiesa, e fu assassinato da masnadieri del conte di Gorizia nel 1350; il beato Lorenzo Giustiniani, patriarca di Venezia; Matteo da Cimarra vescovo di Girgenti; Nicola Alberga vescovo di Bologna, adoperato, spesso a metter pace fra le città d’Italia e fra Inglesi e Francesi[63]. Bernardino (1380-1444), dell’illustre famiglia degli Albizeschi di Massa marittima, fu educato nella pietà e nella carità; nella peste del Quattrocento si profuse a cura de’ malati di Siena, ove poi professossi francescano della stretta osservanza. «Fu in concetto d’uomo grande e meraviglioso nel predicare: ovunque andasse traeva con sè tutto il popolo, eloquente e forte nel ragionare, d’incredibile memoria; di tal grazia nella pronunzia, che non mai recava sazietà agli uditori; di voce sì robusta e durevole, che mai non venivagli meno, e ciò ch’è più mirabile, in grandissima folla era udito colla stessa facilità dal più lontano come dal più vicino»[64]. Vincenzo Ferreri, che allora empiva Italia delle virtù e de’ miracoli suoi, predicando ad Alessandria esclamò: — Fra voi si trova un vaso d’elezione, un figlio di san Francesco, che ben presto diffonderà immensa luce in tutta Italia, e di sue virtù e dottrina usciranno i più insigni esempj». Pure oggi non troviamo ne’ suoi sermoni che un fare stringato e scolastico. E per verità sul pulpito, trionfo degli Ordini nuovi, non recavano studj profondi e dogmatica precisione, ma zelo e modi popoleschi e importuna applicazione alle circostanze giornaliere. Chi affronti la noja di leggere le prediche rimasteci, non trova che aridi tessuti di scolastica e di morale, rinzeppati di brani e brandelli d’autori sacri e profani alla rinfusa, con dipinture ridicole o misticismo trasmodato, talchè i grandi effetti non se ne saprebbero attribuire che al gesto, alla voce, allo spettacolo, e in alcuni alla persuasione della santità. Tali dobbiamo credere il beato Michele da Carcano, frate Alberto da Sarzana, frate Ambrogio Spiera trevisano, ed altri, famosi per conversioni ed efficacia morale. Alcuni non mancavano di merito letterario, e noi lodammo altrove il Cavalca, il Passavanti, frà Giordano di Rivalta. Quest’ultimo distingueva le devozioni dagli abusi, in un modo da far meraviglia a chi in que’ tempi e in que’ frati non sa vedere che superstizione. — Viene (diceva egli) viene l’uomo, e andrà a Santo Jacopo in pellegrinaggio: ed anzi ch’egli sia là, cadrà in uno peccato mortale talotta, e forse in due, e talotta in tre peccati mortali, e talotta forse più. Or che pellegrinaggio è questo, o stolti? che rileva questa andata? Dovete questo sapere, che, chi vuole ricevere le indulgenze, conviene che ci vada puro, come s’egli andasse a ricevere il corpo di Cristo. Or chi le riceve così puramente? e però le genti ne sono ingannate. Di queste andate e di questi pellegrinaggi io non ne consiglio persona, perch’io ci trovo più danno che pro. Vanno le genti qua e là, e credonsi pigliare Iddio per li piedi: siete ingannati, non è questa la via; meglio è raccoglierti un poco in te medesimo, e pensare del Creatore, o piagnere i peccati tuoi o la miseria del prossimo, che tutte le andate che tu fai». Parole altrettanto libere avea proferite l’anno innanzi in Santa Maria Novella: — E’ sono molti che si credono fare grandi opere a Dio; intra noi, noi ce ne facciamo grandi beffe. Verrà una femmina, e porrà sull’altare una gugliata di refe e tre fave, e parralle avere fatto un grande fatto: or ecco opera! Simigliantemente de’ pellegrinaggi; che pare così grande fatto di quelli che vanno in Galizia a Santo Jacopo. Oh come pare grande opera questa, e di gran fatica cotal viaggio grande! E vanterassi, e dirà, _Tre volte sono ito a Roma, due volte ita a Santo Jacopo, e cotanti viaggi ho fatti_. E se vedesse in Roma le femmine a girar cinque volte e sei all’altare, e’ par loro avesse fatto un grande deposito, e rimproveranlo a Dio, come quello Fariseo che dicea, _Io digiuno due dì della settimana_: or ecco grande fatto! e manuchi, il dì che tu digiuni, una volta, e quella manduchi bene e bello. Questo andare ne’ viaggi io l’ho per niente, e poche persone ne consiglierei, e radissime volte; chè l’uomo cade molte volte in peccato, ed hacci molti pericoli. Trovano molti scandoli nella via, e non hanno pazienza; e tra loro molte volte si tenzonano e adirano, e con l’oste e co’ compagni; e talotta fanno micidio ed inganni e fornicazioni; e di questo si fa assai, e caggiono in peccato mortale»[65]. I così fatti saranno stati non pochi, vogliamo crederlo: ma altri cercava cattivar l’attenzione col mescere ai discorsi allusioni alla politica; e chi predicava pei Guelfi, chi pei Ghibellini, pei Medici, per lo Sforza; talora sorgeano in aperto attacco contro ai principi o ai papi. È bizzarro in taluni l’associare una pietà sincera, un’ingenuità profonda, col ridicolo e col teatrale, in modo d’uscirne composizioni grottesche e senza gusto, che non hanno di serio se non l’intenzione. Di Roberto Caracciolo da Lecce, dai contemporanei supremato nell’eloquenza, sciaguratamente ci restano alcuni sermoni, più materia di riso che di compunzione[66]: sale in pergamo a predicar la crociata, e, cavata la tonaca, rivelasi in abito da generale, come pronto a guidar egli stesso l’impresa. Paolo Attavanti ad ogni tratto cita Dante e Petrarca, e se ne gloria nella prefazione. Mariano da Genazzano, levato a cielo dal Poliziano e da Pico della Mirandola, «predicava attraendo con l’eloquenza sua molto popolo, perciocchè a sua posta aveva le lagrime, le quali cadendogli dagli occhi per il viso, le raccoglieva talvolta et gittavale al popolo»[67]. I discorsi di Gabriele Barletta, sì reputato che dicevasi _Nescit prædicare qui nescit barlettare_, darebbero sollazzo a qualche festevole brigata. Per Pasqua racconta che molte persone offrironsi a Cristo onde annunziare la sua risurrezione alla madre: egli non volle Adamo, perchè, piacendogli i fichi, non si badasse per istrada; non Abele, perchè andando non fosse ucciso da Caino; non Noè, perchè correvole al vino; non il Battista, pel suo vestire troppo conosciuto; non il buon ladrone, perchè aveva rotte le gambe; ma donne, per la popolosa loquacità. Blandiva un sentimento troppo comune quando predicava: — O voi donne di questi signori e usuraj, se si mettessero le vostre vestimenta sotto il pressojo, ne scolerebbe il sangue de’ poveri». L’erudito Bracciolini fa dire da Cincio in un suo dialogo: — Parmi che tanto frà Bernardino da Siena, come altri troppi vadano errati per istudio di brillare più che di giovare; non volti a curar le infermità dell’animo delle quali si annunziano medici, quanto a ottenere gli applausi del vulgo, trattano qualche volta recondite e ardue materie, riprendono i vizj in modo che pare gl’insegnino, e per desiderio di piacere trascurano il vero scopo di loro missione, quello di render migliori gli uomini». Contro i siffatti avea tonato l’Alighieri, dicendo: Ora si va con motti e con iscede A predicare; e pur che ben si rida, Gonfia il cappuccio, e più non si richiede. I quali versi commentando, Benvenuto da Imola adduce alquante scempiaggini di un Andrea vescovo di Firenze che mostrava in pulpito un granello di seme di rapa, poi se ne traeva di sotto la tunica una grossissima, e diceva: — Ecco quanto è mirabile la potenza di Dio, che da sì piccol seme trae sì gran frutto». Poi: _O domini et dominæ, sit vobis raccomandata monna Tessa cognata mea, quæ vadit Romam; nam in veritate, si fuit per tempus ullum satis vaga et placibilis, nunc est bene emendata: ideo vadit ad indulgentiam_[68]. Que’ modi erano certo men dignitosi, però più efficaci che non le esanimi generalità, le perifrasi schizzinose, e i consigli senza coraggio dei tempi d’oro. Ma se a persone semplici e credenti servivano d’edificazione, tornavano a scandalo dacchè vi si applicassero la critica e la negazione; e i predicatori usandone esageratamente, davano appiglio ad accuse, alla lor volta esagerate. Il fervore, non sempre disinteressato per certe devozioni nuove, come il rosario de’ Domenicani e lo scapolare de’ Carmeliti, faceva proclamarle quale rimedio sufficiente a tutti i peccati, i quali perdevano l’orrore quando annunziavasi così facile il redimerli, e ne veniva presunzione a chi le osservasse, e confidenza d’una buona morte dopo vita ribalda. Giacomo, arcivescovo di Téramo poi di Firenze, scrisse varie opere, tra cui è rinomata una specie di romanzo col titolo _Consolatio peccatorum_ o _Belial_: suppone che i demonj, indispettiti del trionfo di Cristo sopra Lucifero, eleggano procuratore Belial per chiedere giustizia a Dio contro le usurpazioni di Cristo; Dio commette la decisione a Salomone; e Cristo citato, manda per rappresentante Mosè, il quale adduce a testimonj giurati Abramo, Isacco, Giacobbe, Davide, Virgilio, Ippocrate, Aristotele, il Battista. Belial li scarta tutti, eccetto l’ultimo, sostiene la sua causa con finezza diabolica; pure ha decisione contraria. Si appella, e Dio demanda la causa a Giuseppe, se non che Belial preferisce scegliere degli arbitri; e sono Aristotele ed Isaia per Mosè, per Belial Augusto e Geremia. I passi più venerabili sono stiracchiati beffardamente; e dopo tutti i garbugli della giurisprudenza, ove Belial imbarazza sovente Mosè men versato ne’ cavilli, gli arbitri danno di quelle vaghe decisioni, che lasciano ad ambe le parti captare trionfo. Così la credulità univasi alla miscredenza per dare fomite alla corruttela, tanto più pericolosa, in quanto che «il maggior padre ad altra opera intendeva» (PETRARCA). Gregorio XI aveva autorizzati i cardinali ad eleggergli il successore a semplice pluralità di voci, senza aspettare i fratelli assenti, per abbreviare al possibile la vacanza: e poichè di sedici radunati quattro soli erano italiani, il popolo di Roma, timoroso che l’eletto non tornasse ad Avignone, circondò il conclave d’armi schiamazzando — Lo volemo romano», toccando le campane a martello, e minacciando entrarvi di forza. Dopo tempestosissima discussione, questi, per ripiego e con riserve tacite o espresse d’una più libera elezione, diedero i voti (1378 9 aprile) a Bartolomeo Prignano di Napoli, arcivescovo di Bari; ma temendo che il popolo lo disgradisse perchè non romano, fu gridato dal terrazzo andassero a San Pietro e saprebbero chi era l’eletto. Il popolo intese che l’eletto fosse il cardinale di San Pietro, vecchione di casa Tebaldeschi; onde si cominciò a gridargli Viva e saccheggiarne il palazzo secondo l’usanza, e adorar lui, che invano ingegnavasi a far comprendere il vero. Di questo scompiglio s’avvantaggiarono gli altri cardinali per fuggire nelle varie fortezze e ne’ feudi; l’arcivescovo di Firenze presentò il Prignano ai pochi rimasti, con un sermone sul testo _Talis debebat esse, ut esset nobis pontifex impollutus;_ e questi sul testo _Timor et tremor venerunt super me, et contexerunt me tenebræ_, cominciò a dissertare sulla dignità del posto e l’indegnità propria, finchè l’arcivescovo gli fece intendere si trattava ora solo di dichiarare se accettasse o no; ed egli disse di sì, e prese il nome di Urbano VI. Uomo di dottrina e coscienza, ma severo, melanconico, colleroso, immoderato, avventatosi a riformare di colpo, vietò ai prelati d’usare a tavola più d’una pietanza, com’egli stesso ne dava l’esempio; minacciò non solo ai simoniaci, ma a chiunque di essi accettasse doni; proponeasi, con creare cardinali nuovi, togliere la prevalenza che da un secolo avevano i francesi; e ne’ concistori secreti li rabbuffava indiscretamente, ad uno dava sin dello sciocco, a un altro ch’era bugiardo come un calabrese. Queste sconvenienze, e il vedere ch’ei voleva fermamente tenerli a Roma, indisposero i cardinali; e la più parte separatisi da lui, protestarono l’elezione non essersi fatta liberamente, ma sotto la costrizione di un popolo tumultuante; e raccomandando la loro vita alla tutela di Bernardo di Sala, capo degli avventurieri guaschi e bretoni che aveano fatto sì rovinoso governo di Cesena, dichiarano non avere operato che per paura della morte; Urbano essere intruso, apostato e anticristo; e a Fondi eleggono papa (21 7bre) quel Roberto di Ginevra che come legato pontifizio avea data a ruba e strazio la Romagna, e che si chiamò Clemente VII. Urbano fu accettato in Italia, Germania, Inghilterra, Danimarca, Svezia, Polonia e nel settentrione de’ Paesi Bassi; Clemente dalla regina di Napoli, da Francia, Scozia, Savoja, Portogallo, Lorena, Castiglia; gli altri paesi esitavano. Urbano bandì contro del competitore una crociata colle indulgenze concesse a quelle contro gl’infedeli: ma la compagnia de’ Bretoni, soldata da Clemente, si difilò sopra Roma, e fece macello de’ cittadini che sortirono per respingerla, ma non osò penetrare in città. Allora i Romani diedero addosso a quanti Francesi cherici o laici colsero in città; mentre gli Orsini e Francesco di Vico devoti a Clemente devastavano i contorni, e Pietro Rostaing dal Castel Sant’Angelo bombardava gli edifizj: una volta (1379) Silvestro di Buda, capitano de’ Bretoni, sorprende i nobili adunati in Campidoglio e trucida sette banderesi, ducento ricchi, innumerevole popolo, poi di nuovo lascia la città. Urbano solda Giovanni Acuto e Alberico da Barbiano, che secondato dai cittadini, sorte addosso ai nemici, e sconfittili e fatti prigioni i due capi, mena trionfo[69]; Castel Sant’Angelo si rende, e il papa a piè scalzi, seguito da tutta la popolazione, torna in Vaticano. Clemente allora ricovera a Napoli, ben accolto dai re; ma il popolo a tumulto lo respinge, sicchè fugge in Provenza, e postosi ad Avignone, moltiplica i cardinali, largheggia di aspettative, e sì poco contava sullo Stato pontifizio, che volle almeno punire i Romani e deprimere i feudatarj col costituirlo in _regno d’Adria_ a favore di Luigi I d’Angiò, al quale, per averlo partigiano, prodiga esorbitanti concessioni: tutta la decima in Francia, nel regno di Napoli, in Austria, in Portogallo, in Iscozia; metà delle entrate di Castiglia e d’Aragona, le spoglie de’ prelati che muojono, ogni censo biennale, ogni emolumento della camera apostolica; il papa obbligherà a prestiti gli ecclesiastici, darà in ipoteca Avignone, il contado Venesino ed altre terre della Chiesa; inoltre gli assegna per feudi Ancona e Benevento, e tutto giura sulla croce. Tale spreco facea dei beni di San Pietro nella fiducia d’esser liberato dall’antagonista; mentre Urbano, pien di sospetti, reggevasi con rigiri e sangue e torture, senza riguardo a dignità o danni de’ prelati e cardinali. Accannito alla regina Giovanna I, contro di lei come signore sovrano del Reame e come scismatica sollecitò Luigi d’Ungheria, che affidò a Carlo di Durazzo l’incarico di punirla. Urbano spogliò chiese e altari per raccogliere ottantamila fiorini, che diede a Carlo, il quale in ricambio promise riconoscere il regno dal papa, e appena coronatone cedere il ducato di Durazzo a Francesco Batillo nipote di esso, e i principati di Capua e d’Amalfi. Vedemmo come la spedizione riuscisse: ma Carlo non pensava mantenere la parola, onde venne in piena rotta col papa, il quale assediato in Nocera, sparnazzava scomuniche scandalose e scandalosi decreti. I prelati sue creature s’erano concertati sul modo di terminare le stravaganze d’un pontefice che prolungava una guerra senza ragione, e farlo il mal arrivato; ma scopertili, Urbano non gliela soffrì impunita (1386), e messi in ceppi l’arcivescovo d’Aquila e sei cardinali, li trasse seco quando potè fuggire da Nocera; perchè il primo non potea cavalcare a paro cogli altri, il fece uccidere e abbandonare insepolto; giunto a Genova, e dicendosi circonvenuto da cospirazioni, malgrado le istanze del doge, fece buttar nel mare i cardinali, salvo un inglese reclamato dal suo re. Qui comincia doppia serie di papi paralleli; ma qual era il vero? Personaggi di senno e santità grande parteggiarono per l’uno e per l’altro; prove in favore addussero questi e quelli, per modo che può mettersi fuor di quistione la buona fede d’entrambi i partiti. La Chiesa finora non ha proferito, benchè i nostri abbiano generalmente considerato per antipapi quei che sedettero oltremonte, e il nome d’alcuno di questi sia stato assunto da qualche papa successivo[70]. Per mezzo secolo fu partita la cristianità in due campi ostili, e tra pontefici che rimbalzavansi calunnie e taccia d’intruso e d’eretico. Come le nazioni, così erano divisi i cittadini, gli scolari d’un’Università, i monaci d’un convento; ogni giorno dispute, collisioni fin al sangue; due vescovi eletti dall’uno o dall’altro pontefice si contendevano la medesima sede, aborrivansi le messe degli uni o degli altri. I papi, per conservarsi partigiani, erano costretti a rassegnarsi a minaccia, a importunità, a dissimulare e simulare, intrigare, congiurare, promettere, concedere, guadagnar tempo, fingendo di desiderare una riconciliazione, di cui aveano in mano il mezzo. Le piaghe del papato, come il cadavere di Cesare, furono esposte agli occhi di tutti, invelenite dalla collera de’ nemici non meno che dai ripicchi dei pontefici rivali. La santa Sede, scapitando nella venerazione, lasciava baldanza a’ principi di sminuirne l’autorità, ai dotti di chiamarla a severo e passionato esame: le satire contro di essa, che prima erano esercizio letterario, inteso, applaudito e dimenticato, acquistavano peso quando uscivano dalla bocca de’ pontefici stessi, e portavano ad immediata applicazione; indubbio entrava ne’ cuori più sinceri, l’indifferenza ne’ più generosi, la disperazione ne’ più robusti: la beffa trovava di che esercitarsi sulle cose sacre. Urbano VI non depose mai il desiderio di restare arbitro del regno di Napoli, escludendo e Ladislao e Luigi d’Angiò per mettere in istato quel suo nipote che passava dal carcere alla reggia; intanto scomunicava di qua di là, e mandava bande a devastare. Fra sì deplorabili imprese, minacciato fin della vita dai Romani, miseramente morì (1389 18 8bre), e i quattordici cardinali della sua obbedienza elessero Pietro Tomacelli col nome di Bonifazio IX (5 9bre). Buon parlatore, buon grammatico, non sapea scrivere, nè cantare, nè i costumi della corte romana: onde non capiva di che si trattasse, sentenziava senza conoscenza, e palesava avidità. Sospendendo la folle guerra del suo predecessore, ricevette in grazia Ladislao, e avventò scomuniche ai fautori di Luigi d’Angiò, che scendeva favorito dall’altro papa. A viva forza dovette occupar Roma e gli altri possedimenti ecclesiastici, straziati dalle fazioni e dalle bande, e colla violenza e i supplizj vi si sostenne. Urbano, accorciando l’intervallo del giubileo, lo bandì pel 1390, ma non v’accorsero che i popoli ubbidienti a Bonifazio, il quale mandò ne’ varj paesi a concedere l’indulgenza a chi pagasse tanto, quanto gli sarebbe costato il viaggio a Roma[71]. I collettori trassero insieme ingenti somme, ma Bonifazio sospettò alcuni d’averne distratte e li punì, altri furono trucidati dal popolo, altri s’uccisero da sè. Sotto quel manto vi fu chi andò trafficando di assoluzioni e dispense, non badando a pentimento o a riparazione o ad abjura; gli abusi fecero fremere i pii, e la prodigalità del papa stesso in fatto d’indulgenze recò non lieve scredito a quel tesoro di grazie, di cui faceasi mercimonio; mentre la concessione di giubilei a chiese parziali scemava l’aurifero concorso de’ pellegrini a Roma, svogliati anche dalle bande di Bernardo di Sala, che professavasi fedele a papa Clemente per ispogliare i dissenzienti. I Colonna tramarono per togliere al papa la signoria temporale di Roma, invasero la città, ma non furono secondati: trentuno de’ loro masnadieri finirono sul patibolo; Bonifazio avventò contro i Colonna una lunga bolla, dove ne enumera i delitti fin dal tempo di Bonifazio VIII. Anche i Gaetani di Fondi circondavano con bande la città, spogliando i pellegrini che andavano al nuovo giubileo del 1400. E il papa facea denaro con concedere grazie, aspettative, cumuli di benefizj; poi ad un tratto le abolì tutte, ma per aver pretesto a nuove concessioni con guadagno nuovo. A vicenda i cardinali di Clemente VII a questo diedero successore Pier di Luna aragonese (1394 28 7bre), detto Benedetto XIII, uomo d’astuta ambizione, ed egli, come l’altro, per procacciarsi partigiani scialacquava privilegi, conniveva a traviamenti e usurpazioni, spogliava il basso clero, sicchè i curati erano fin ridotti a mendicare, mentre l’alto riservavasi le migliori grazie e le commende e i benefizj, dandoli in appalto a persone dappoco. La Chiesa talmente scaduta, sentivasi impotente a ricomporsi da se stessa; e principi, università, giureconsulti, teologi disputavano sui mezzi di ripristinarne l’unità. Il più ovvio sarebbe stato un concilio generale: ma poichè il convocarlo riguardavasi da secoli come attribuzione del papa, a qual dei due spettava? Si dovette ripiegare con sinodi particolari; il re di Francia ne raccolse due, per cui decisione egli mandò a tenere assediato più di quattro anni nel palazzo d’Avignone Benedetto XII, sinchè non fosse ripristinata l’unione: ma questi trovò modo a fuggire (1403), e per la persecuzione crebbe di partigiani, ed ebbe dalla sua non solo il pio Vincenzo Ferreri, ma i due lumi dell’Università parigina, l’eloquente Clemengis ed il cancelliere Pietro d’Ailly. Morto Bonifazio IX (1404 1 8bre), il popolo di Roma, diretto dai Colonna e dai Savelli, gridò _Viva la libertà;_ e il conclave di non più che nove cardinali elesse Innocenzo VII, già Cosma Meliorati, valente canonista, abile agli affari, intemerato di costumi. Dovette conquistare la propria residenza ajutato da re Ladislao, ma con una capitolazione per cui lasciava a custodia del popolo tutti i ponti e le porte; il senatore sarebbe eletto dal papa ma sovra una tripla offerta dal popolo; i dieci della Camera amministrerebbero le rendite, eccettuato il quartiere del Vaticano. Però ogni giorno nuove pretensioni metteva innanzi il popolo, subillato dai Colonna e dai reggenti Ghibellini, tanto che Innocenzo proruppe: — V’ho concesso tutto; volete che vi dia anche la mia cappa?» E in fatto i tumulti raffittirono, i cardinali dovettero mettersi sotto la protezione d’un capitano di ventura Muscardo, fu trucidato un messo del papa, si combatteva accannito; ed essendo il papa fuggito a Viterbo, Ladislao ne profitta per impadronirsi di Roma. Il papa fra breve morì (1406 6 9bre), e il veneziano Angelo Correr, detto Gregorio XII, anch’esso giurò prima (30 9bre), professò poi essere disposto ad abdicare tosto che il facesse anche Benedetto XIII: ma com’ebbe assaggiato il comando, se ne inebbriò; alla conferenza stabilita in Savona non comparve; e Benedetto, che era venuto fin a Genova, parve star dal canto della ragione. Tredici cardinali si raccolsero a Livorno per industriarsi all’unione, protestando non riconoscere nessuno dei due competitori; e assumendo a dirigere gl’interessi temporali e spirituali della Chiesa, convocarono un concilio a Pisa (1409 25 marzo), intimando a ciascun papa venisse ad abdicare, se no procederebbero contro di esso. Ma se consentivasi al concilio l’autorità di deporre il pontefice, non era mutata in repubblicana la costituzione della Chiesa, da secoli monarchica? e a tale cambiamento erano acconci tempi di tanto scompiglio? Ladislao di Napoli temeva un papa che potesse abolire l’indegna cessione dello Stato, a lui fatta da Gregorio XII, onde s’oppose al concilio di Pisa; i due papi non vi ascoltarono; Gregorio dichiarò apostati e blasfemi que’ cardinali, e intimò il sinodo a Udine; Benedetto l’aprì in Perpignano sua stanza; e così, oltre i due papi, v’ebbe tre concilj. Pensate quanto ne restasse dal fondo sovvertita la società! Morendo un vescovo, ciascun papa vuol dargli un successore, onde scismi diocesani; pretendono potere stronizzare i re, onde un nuovo fomite alla guerra intestina; e Napoli resta disputata fra Luigi d’Angiò e Carlo d’Ungheria, la Castiglia fra il duca di Leon e quello di Lancaster, l’Ungheria fra Carlo della Pace e Maria; il debole imperatore Venceslao lasciava cascarsi di mano le redini della Germania; l’Inghilterra straziava le proprie viscere fra le inimicizie delle case di Lancaster e di York; la Francia durava nella guerra centenne contro l’Inghilterra; nè voce risonava valevole ad imporre la pace. Intanto che nel mondo cristiano cessava l’unità che n’è l’essenza, Bajazet II granturco non solo stringeva Costantinopoli, ma aveva invaso l’Ungheria e la Polonia; e nuovi barbari, i Tartari sotto il terribile Tamerlano minacciavano all’Europa le devastazioni che aveano recate all’Asia. Gli animi, sgomentati fin alla disperazione, si volgeano a Dio, da lui solo aspettando il termine a tanti guaj. Già nel 1260 vedemmo i Flagellanti diffondersi per Italia. Nel 1334 frà Venturino da Bergamo, «uomo di trentacinque anni, di piccola nazione e di non profonda scienza, ma tanto efficace e ardente ne’ suoi ragionamenti, che traendosi dietro più di diecimila Lombardi, la miglior parte nobili, non era luogo ove arrivasse che non fosse ricevuto a guisa d’uomo divino, e con tanto concorso di limosine, che per quindici dì che si fermò a Firenze, non fu quasi momento di tempo che in sulla piazza di Santa Maria Novella non si vedessono grandissime tavole apparecchiate ove mangiavano quattrocento o cinquecento uomini per volta» (AMMIRATO), andò ai perdoni di Roma co’ suoi, che portavano gonnella bianca fin a mezza gamba, di sopra un tabarrello perso fin al ginocchio, calze bianche, e stivali di corame fin a mezza gamba, in petto una palomba bianca coll’ulivo in bocca, nella man ritta il bordone, nella manca il rosario[72], e con non mai stanchevoli voci gridando pace e misericordia. Cresciuto forse a trentamila seguaci, e come profeta parlando de’ mali futuri, passò anche alla corte d’Avignone sperando grandi indulgenze; ma al papa sembrò scorgervi ambizione o leggerezza, e frà Venturino fu messo al tormento e in carcere: donde poi mosse colla crociata, e morì a Smirne. Quella devozione andarina rinfervorò nel 1399, avendola la Madonna indicata in Irlanda ad un villano, come il miglior preservativo da pesti e guerre: onde in veste bianca, coperti di cappucci in modo che non distinguevansi donne da uomini se non per una croce rossa, si posero in via tre a tre, ognuno confessato, chiesto perdono agli offesi, perdonato agli offensori, restituito il maltolto. Così giravano per nove giorni almen tre chiese al giorno, e venendo in un paese, intonavano orazioni e lo _Stabat mater_, poi tre _Miserere_ entrando in chiesa. Per quella novena faceano vita quaresimale, non dormendo in letto, non isvestendosi, molti andavano scalzi; finivano col mandare alle prossime città, invitandole per parte di Maria Vergine ad assumere la stessa devozione. D’Irlanda varcarono in Inghilterra, in Francia, poi in Piemonte, e da una parte piegarono alla Lombardia, dall’altra in numero di cinquemila a Genova. I cittadini di questa s’avvolsero in lenzuoli, e il vecchio loro arcivescovo Del Fiesco a cavallo li condusse processionalmente, con dietro a coppia tutti gli abitanti, a visitar le chiese, i cimiteri, le reliquie della città e del contorno, e per nove giorni stettero chiuse le botteghe, sospesi gli affari, tutto émpito di timor di Dio. I più robusti o devoti scesero per la riviera di Levante, eccitando a fare altrettanto: da Lucca tremila cittadini, malgrado i divieti, uscirono ver Pescia, indi a Pistoja, donde quattromila li seguirono, e così i Pratesi e i Pisani, finchè giunsero a Firenze. Quivi quarantamila cittadini visitavano le chiese, preceduti dall’arcivescovo; toglievano di quello ch’era lor dato, e il soverchio distribuivano ai poveri; non cercavano essere adagiati in case o spedali, ma giacevano alla nuda aria; molti imprigionati per debiti furono prosciolti. Il vescovo di Fiesole sin ventimila se ne trasse dietro, per tutto facendo paci e concordie, restituzioni, prediche, miracoli[73]. A Milano «venne grandissimo numero d’uomini, donne, donzelle, garzoni, piccoli e grandi e d’ogni qualità, tutti scalzi, da capo a piedi coperti di lenzuoli bianchi, che a fatica mostravano la fronte; poi dietro a questi vi si adunarono tutti i popoli delle città e ville, dalle quali uscendo, per otto giorni continui visitavano tre chiese di villa, e spesse volte ad una di quelle faceano celebrare una messa in canto; per tutte le vie in croce che trovavano, si gettavano a terra gridando misericordia tre volte, e poi cantavano _Pater_ e _Ave_, e altri cantici composti da san Bernardo, o litanie o altre orazioni. Il popolo di ciascuna città o altro luogo, come veniva a quelle si separava, ed entrando dentro denunziava agli altri rimanenti che volessero pigliare il medesimo abito; di sorta che alcuna volta erano mille, alcuna millecinquecento. Si celebrarono infinite concordie e limosine, e molti si condussero a vera penitenza» (CORIO). In Padova per quei giorni non fu commessa disonestà nè rissa; e le processioni duravano dall’aurora fino alle due dopo nona, e se ne contarono tremilaseicento; poi radunati nel prato della Valle, diedero di sè meraviglioso spettacolo[74]. Da Bobbio altri si difilarono su Piacenza, e con loro tutti i valligiani della Trebbia, sicchè vi giunsero in più di settemila; poi a Firenzuola, a Borgo Sandonnino, a Parma, dove arrivarono con quaranta carri di donne, bambini, malati; di qui settemila partirono dietro al vescovo e ai gonfaloni delle confraternite. I Veneziani li respinsero, ma il duca d’Este gli ebbe accetti, e da Ferrara li menò a Belfiore. Il pontefice vi conobbe scandali e sozzure, dubitò fino che il loro capo pensasse farsi papa, onde li mandò a processo e al rogo. Allora si moltiplicarono pertutto le confraternite, che con le foggie visitavano le chiese e accompagnavano il viatico; e furono principalmente diffuse dai santi Bernardino da Siena e Vincenzo Ferreri, il quale anche andava predicando il finimondo. Molti, presso al morire, faceansi porre le divise d’esse società, donde la devozione venne estesa fra i secolari. Tale incondita pietà diffuse anche la peste, che strage menò per Italia, e che funestò il giubileo. Tutti inadeguati ripari agli scandali che sbranavano la Chiesa; poichè le riforme non venivano di là donde solo avrebbero potuto efficacemente. Null’ostante l’opposizione di re Ladislao, al concilio di Pisa comparvero ventiquattro cardinali, quattro patriarchi, ventisei arcivescovi, ottanta vescovi in persona, centodue per rappresentanti, ottantasei abati in persona, ducentodue per procuratori, quarantun priori, gli ambasciatori dei re, i deputati di oltre cento metropoli e cattedrali, delle Università di Parigi, Tolosa, Orléans, Angers, Montpellier, Bologna, Firenze, Vienna, Praga, Colonia, Oxford, Cambridge, Cracovia, trecento dottori di teologia e diritto canonico. Non essendosi presentati i due papi Gregorio e Benedetto, il concilio si dichiarò ecumenico, e perciò giudice supremo di essi, e dopo parecchi tentativi di conciliazione, levata loro l’obbedienza come contumaci, li proferì scaduti e vacante il papato (1409 5 giugno); e radunato il conclave sotto la guardia del granmaestro de’ Giovanniti, sostituì Pietro Filargo (1409 26 giugno). Nato non si sa dove nè da chi, mendicava a Candia quando fu raccolto da un frate Minore, e per sapere ed abilità salì nel favore di Gian Galeazzo, che l’ebbe tra’ suoi consiglieri, poi vescovo di Vicenza, di Novara, indi arcivescovo di Milano e cardinale, infine papa (7 agosto) col nome d’Alessandro V, e chiuse il concilio. Teologo e predicatore, ma non leggista e canonista, male intendeva gli affari e cercava scaricarsene; per bontà cieca largheggiava benefizj e grazie abusive e stemperanti, non sapendo misurare la liberalità ai mezzi; e quando più nulla gli rimaneva, dava promesse: onde diceva: — Come vescovo fui ricco, povero come cardinale, pitocco come papa». Lasciavasi raggirare a senno da Baldassarre Cossa napoletano, che in gioventù corse il mare come armatore; anche nel chericato conservò abitudini secolaresche, abilissimo negli affari, vigoroso di carattere, risoluto di sentenze. Ornato della porpora, fu spedito legato a Bologna, la quale ricuperò alla santa Sede, e anche Faenza e Forlì, che egli si tenne come signoria indipendente; e morto Alessandro dopo soli dieci mesi di regno (1410 17 maggio), gli succedette col nome di Giovanni XXIII. Costui, come avviene in tempi di partiti, fu accusato delle colpe non solo più gravi, ma più brutali; a cui basterebbe opporre il favore datogli dai Fiorentini, da Luigi d’Angiò, dal conclave stesso, che troppo aveva interesse a fare una scelta prudente; comunque siasi detto che egli ne acquistò i voti coll’artifizio e colla forza militare che spiegò in Bologna. Essendo allora stata ritolta Roma a Ladislao, il papa vi fece l’entrata solennemente sotto la protezione dell’Angioino: ma bentosto Ladislao torna vincitore; Bologna caccia i rappresentanti del pontefice, e si dà al marchese di Ferrara. Ladislao però riconobbe il nuovo papa ordinando a Gregorio di uscire da’ suoi Stati, e finse rassegnarsi ai patti ch’egli stesso aveva imposti a Giovanni. Il concilio che erasi promesso, fu raccolto (1415) a Roma; ma se vi s’introduceano le questioni più urgenti, il cardinale Zabarella levavasi, con eloquenti ambagi sviando dal proposito: poi fu prorogato col pretesto della rinnovata nimistà di Ladislao, a cui il papa a fatica sfuggì, ricoverando in Firenze, che di malavoglia lo accolse. L’impero vacillava tra l’inetto Venceslao deposto e il mal eletto Roberto palatino, morto il quale, gli furono dati due successori; tanto pareva che ogni cosa dovesse scompigliarsi collo scompiglio del papato. Alfine prevalse Sigismondo (1411), che, come re d’Ungheria, s’era mostrato crudele e perfido, ma insieme valoroso, oprante, indomito. Glorioso di allori côlti sopra i Turchi, si fisse in animo di ricondurre ad unità la Chiesa; corse Francia, Polonia, Spagna, Italia; e mentre il papa gli chiedeva soccorsi, esso lo stimolò a designare il luogo d’un nuovo concilio. Per quanto Giovanni lo disgradisse, dovette spedire legati a ciò, i quali indicarono Costanza, città imperiale sulla riva occidentale del bel lago che divide la Svevia dalla Svizzera, poco lungi dal luogo donde n’esce il Reno, e dove già i Lombardi aveano patteggiato la loro libertà. Giovanni non sapea darsi pace che l’adunanza di tutta cristianità si tenesse in luogo dove gli oltramontani sarebbero più numerosi e indipendenti, ed ostili alla sua autorità: si mosse in persona onde dissuadere Sigismondo; a Lodi durarono lungamente in congresso, circondati da prelati l’uno, da consiglieri l’altro; ma Sigismondo stette fermo, e il concilio fu aperto (1414 5 9bre). Le ingiurie ricambiatesi dai papi e dai cardinali aveano scossa un’autorità che si fonda sulla virtù e sull’opinione. Se gl’Italiani favorivano alla santa Sede pel vantaggio che ne traeva il loro paese, eransene raffreddati dacchè quella vagava in esiglio; e gli stranieri cominciavano a trovare oneroso questo migrare di tanto loro denaro ad un’altra gente. La contesa coi frati Minori aveva mal volta alla santa Sede la milizia sua più devota; e al vedere condannate persone pie, cui sola colpa dicevasi la povertà, si richiamavano le dottrine d’Arnaldo da Brescia contro i possessi ecclesiastici e la corruttela derivatane. Nell’intento di riuscir superiore, ciascun partito era ricorso a spedienti troppo dissonanti da quelli dell’apostolato: Bonifazio IX aveva lasciato trafficare delle indulgenze e del suffragio ai morti, pretendeva le annate dei vescovi eletti, a denaro dispensava la pluralità di benefizj; Giovanni XXIII ebbe accusa di aver cavato oro dalle medesime miniere, e moltiplicatolo colle usure. Dal disordine esterno passatasi a criticare l’intima verità della Chiesa: si spargeano libri e sermoni critici, anche in lingua vulgare[75]; i roghi non bastavano a reprimere gli eretici in Francia. I Valdesi faceansi più arditi, e Gregorio XI movea lamento perchè dalle valli subalpine si propagassero, e discesi in Piemonte avessero trucidato un inquisitore a Bricherasio, uno a Susa[76]. Bartolino da Piacenza verso il 1385 pubblicò alquante tesi legali sul modo di trattare il papa qualora apparisse negligente, inetto a governare, o capriccioso a ricusare il consiglio dei cardinali (com’era il caso di Urbano VI); e conchiudeva potere questi mettergli de’ curatori, al cui parere fosse obbligato attenersi negli affari della Chiesa. I Francesi colla prammatica sanzione di Bourges restrinsero i diritti papali. In Inghilterra Giovanni Wiclef aveva impugnato le indulgenze, la transustanziazione, la confessione auricolare, domandato la secolarizzazione degli Ordini regolari e la povertà del clero. Girolamo di Praga dall’Università di Oxford ne portò i libri in Boemia, dove ebbero effetti più gravi, perocchè Giovanni Huss, che qui già aveva alzato la voce contro la depravazione del clero, vi attinse argomenti teologici e ardire a palesarsi. Essendo venuti alcuni monaci a spacciare indulgenze, e avendo l’imperatore proibito il sacrilego traffico, pigliò baldanza a declamare, in prima contro l’abuso, poi contro le indulgenze medesime. Il popolo ascoltava volentieri; gli studenti boemi se ne infervoravano; le quistioni religiose prendevano colore politico d’aborrimento ai Tedeschi e d’aspirazioni repubblicane. Dappertutto lo sparlare dei papi era considerato segno d’educazione non vulgare, di ragione più elevata, di dispetto contro i governi, di scontento generico; declamazioni di piazza, frizzi di scuola fra la gioventù inesperta seminavano un vago desiderio di sottrarsi all’autorità; sebbene, per quanto e le accuse si esagerassero e gli errori si estendessero, non si pensasse ancora che la Chiesa si dovesse distruggere anzichè riformare. Quanto erano più ulcerate le piaghe, tanto più speravasi nel concilio, che inoltre rannoderebbe in pace i principi cristiani per respingere la sempre crescente minaccia degli Ottomani. L’imperatore, assai principi, signori e conti assistettero all’assemblea, ed è scritto vi si numerassero fin cencinquantamila forestieri con trentamila cavalli; fra quelli, diciottomila ecclesiastici e ducento dottori dell’Università di Parigi. Coi fastosissimi cardinali faceano gara di lusso i tanti avveniticci, giunti dagli estremi d’Europa, distinguendosi per abiti varj, armadure, corteo pomposo. Vi accorrevano a spettacolo, a sollazzo, trovandovisi trecenquarantasei commedianti e giullari, settecento cortigiane, e tornei e sfide[77]; sicchè i gaudenti andavano in delizie, mentre i pii pregavano, i dotti accingeansi a duelli dialettici, dai quali apparirebbe l’odierno loro elevarsi allato ai grandi. Ma un’assemblea di tanto momento, sin dal principio reluttò ai modi sagaci, con cui gl’Italiani e il papa tentavano dominarla. La Chiesa nella sua universalità non distingue popoli, e valuta ciascun uomo pel proprio valore; sicchè all’indole sua ripugnava il votare per nazioni, come si pretese, dividendo il concilio in camera tedesca, italiana, francese, inglese, spagnuola, le quali deliberassero distintamente affine di elidere la superiorità degl’Italiani. Giovanni XXIII, come presente, provveduto di gran denaro, e assistito dalle compre armi di Federico d’Austria, sperava far considerare il concilio come una continuazione di quello di Pisa, che avendo riconosciuto Alessandro V, considerava lui come solo papa legittimo: inoltre voleva si cominciasse dagli articoli di fede, poichè richiederebbero lunghe dispute, e i prelati nella piccola città s’annojerebbero. Ma questi pretesero che abdicassero e lui e Benedetto XIII che sostenevasi in Ispagna, e Gregorio XII che aveva favore in Germania. Giovanni nella seconda tornata protestò di farlo volontariamente se lo imitassero gli altri due, anzi rinunziare ad ogni modo se con ciò potesse terminarsi lo scisma; sicchè il giubilo e gli applausi andarono al colmo, e l’imperatore gli si buttò ai piedi baciandoli. Ma poi pentito e sbigottito fuggì; e allora i mirallegro si risolvono in costernazione, Gregorio viene sospeso, e proclamato (1415) che il concilio trae immediatamente da Cristo i suoi poteri, e ognuno, compreso il papa, è tenuto obbedirgli in quanto concerne la fede, lo scisma, e la riformazione generale della Chiesa nel capo e nelle membra. Gl’Italiani protestarono invano. Giovanni, citato a giustificarsi delle più enormi e scandalose imputazioni[78], dichiarossene colpevole, sottomettersi a discrezione al concilio, pur beato se con ciò potesse render pace alla Chiesa: e quello il destituì (29 maggio) come avesse disonorato il popolo cristiano, ne spezzò il suggello e gli stemmi, gli tolse le insegne pontifizie e la croce, e lo tenne in cortese prigionia[79]. Anche Gregorio, per mezzo di Carlo Malatesta signore di Rimini, a cui protezione si era posto, mandò la rinunzia (4 luglio), riducendosi cardinale di Porto. Solo Benedetto ostinavasi, scomunicando chi non era con lui, e dichiarava «nel diluvio universale la sola arca della Chiesa essere Paniscola dov’egli sedeva»: alfine, abbandonato anche dalla Chiesa spagnuola per opera principalmente di Vincenzo Ferreri, fu destituito (1417 26 luglio), terminando uno scisma che fu la maggior prova a cui la Chiesa si trovasse esposta. Tante passioni, tanti errori, eppure fu ancora alla Chiesa una che la cristianità si ricoverò, e sotto il manto del ponteficato, di cui non erasi mai impugnata l’autorità e l’unità, comunque restasse incerto chi ne era il depositario, disputandosi del possesso e dell’esercizio dell’autorità, non dell’autorità stessa. Sbalzatine gl’indegni occupatori, bisognava surrogare un degno sul trono di san Pietro. Sigismondo voleva che prima si riformasse la Chiesa; gl’italiani incalzarono per la pronta nomina del papa Ottone Colonna (11 9bre), il quale si volle chiamato Martino V. Sigismondo aveva preveduto giusto; poichè Martino trovò modo di rinviare d’oggi in domani le chieste riforme, logorando il tempo in divisamenti o in concessioni secondarie, protestando contro gli appelli del papa al concilio, riconfermando molti abusi; finchè dichiarò sciolto il concilio (1418 22 aprile), e andossene a Roma. I padri, vedendosi dal popolo sprezzati per le contese e i baccani a cui prorompeano[80], e presi in sospetto come staccatisi dal papa, vollero ostentare zelo della fede col perseguitare l’eresia, e condannarono Giovanni Huss e Girolamo da Praga, i quali, malgrado il salvacondotto imperiale[81], furono dati al braccio secolare e mandati al rogo. Tristo rimedio la violenza; e ne pagò le pene Sigismondo, o piuttosto i popoli espianti le colpe dei re: giacchè la Boemia divampò d’un incendio, a spegnere il quale vi vollero torrenti di sangue. Per compiere le riforme. Martino V indicò un nuovo concilio prima a Pavia, poi a Siena, infine a Basilea; ma apertolo appena, morì (1431). Nell’elezione di Eugenio IV (Gabriele Condulmier veneziano) i conclavisti prefissero una specie di costituzione, che in alcuni punti concerneva anche il governo civile. L’omaggio che il papa ricevea dai feudatarj e dagl’impiegati, non riflettesse su lui solo, ma anche sul collegio de’ cardinali, talchè a questo rimanessero obbligati in sede vacante; metà dei proventi della Chiesa fosse riservata ai cardinali; di conseguenza nessun atto politico importante poteva il papa permettersi se non consenziente il sacro collegio, non pace o guerra, non tasse nuove, non mutar la sede; inoltre il papa doveva riformare la Corte, e tenere concilj periodici. Eugenio vi si obbligò; e se quel costituto reggeva, il principato romano trovavasi ridotto ad aristocrazia, ma forse era tolto il pretesto alla Riforma del secolo seguente. Eugenio, per giudizio d’un suo successore[82], fu pontefice d’animo elevato, ma senza misura in nessuna cosa, intraprese sempre ciò che voleva, non ciò che poteva. Fece egli aprire il concilio di Basilea onde estirpare l’eresia, metter pace perpetua fra le nazioni cristiane, togliere il lungo scisma de’ Greci, e riformare la Chiesa. Ma i padri vi s’accinsero senza precise idee di quel che volevano operare, nè de’ limiti dell’autorità propria e di quella che pensavano restringere; attaccavano un dopo l’altro gli abusi parziali, non proponevano un rimedio radicale: onde vedendoli condursi con quella precipitazione che sgomenta le autorità desiderose di dirigere, Eugenio sospese il concilio. I padri non gli badando, citano lui pontefice, accusandolo disobbediente; poi, spiegate le vele, dichiaransi ad esso superiori; nè poter lui scioglierli o traslocarli. Fittisi alla riforma della Chiesa, mozzano assai diritti curiali; determinano la forma dell’elezione del papa, e il giuramento che deva prestare; limitano le concessioni ch’e’ può fare ai parenti; restringono i cardinali a ventiquattro, e ne escludono i nipoti. L’imperatore di Costantinopoli, cercando appoggiare il cadente trono sull’unione della sua Chiesa colla latina, domandò di venire in persona col patriarca onde effettuare la riconciliazione. Perchè non poteva sostener le spese del viaggio, si promise di mandar navi a prenderlo; e la città d’Avignone anticipò settantamila fiorini, da rimborsarle mediante i proventi delle indulgenze. Papa Eugenio indusse Giovanni III Paleologo a chiedere che l’abboccamento si facesse in Italia; e in fatto nella sezione 21ª del concilio di Basilea si proposero Ferrara e Udine, e il papa confermò la proposta, e indusse i Veneziani a spedir galere per trasportare l’imperatore. Allora Eugenio, rimproverando al concilio i decreti incompetenti e smoderati, lo trasferiva a Ferrara (1438). Ma i padri non si mossero, eccetto due ed il legato; e mentre i prelati italiani maledicevano al conciliabolo di Basilea, ed invitavano a spogliare i mercanti che vi portassero roba, quello (nel quale primeggiava Nicola arcivescovo di Palermo, ambasciadore d’Aragona e Sicilia, e tenuto pel maggior canonista del suo tempo) continuava a cincischiare la giurisdizione pontificia; anzi dichiarò sospeso il papa, e scismatico il consesso di Ferrara; e per quanto i potentati s’intromettessero onde prevenire un nuovo scisma, condannarono Eugenio (1439) come eretico, e surrogarongli Amedeo VIII duca di Savoja, il quale dagli affari s’era ritirato a Ripaglia a vita piuttosto voluttuosa che penitente[83], e che sciaguratamente accettò l’uffizio d’antipapa col nome di Felice V. Il concilio di Ferrara erasi aperto il 13 gennajo 1438 dal cardinale Albergati, e gran pena si durò per regolarne il cerimoniale: ma la peste scoppiata lo fece trasferire a Firenze[84] (1439). Ivi furono messi in disputa i quattro punti dello scisma greco, cioè il procedere dello Spirito Santo dal Padre e dal Figliuolo, l’uso degli azimi nella comunione, la natura del purgatorio, la supremazia universale del papa. Quell’unione fu famosa per insigni personaggi: il cardinale Giuliano Cesarini, che di sua franchezza avea dato prova nell’appoggiare i rimproveri che al papa faceva il concilio, ed allora sosteneva il vero con incalzante ragionamento; Giovanni di Montenero provinciale de’ Domenicani di Lombardia, versatissimo in divinità; Ambrogio Traversari generale de’ Camaldolesi, che per ordine di Eugenio IV era andato riformando molti conventi, e questi suoi giri descrisse nell’_Odœporicon_; fra i Greci, Gemistio Platone insigne accademico, Giorgio da Trebisonda, Giorgio Scolario ancora laico, e fra breve patriarca di Costantinopoli, Marco Eugenio vescovo d’Efeso saldissimo alle dottrine scismatiche, Dionigi vescovo di Sardi, e, a tacer altri, il Bessarione arcivescovo di Nicea, sottile platonico, che sparse anche il gusto d’una filosofia men cavillosa e arida, e che vinto dalla verità venne alla Chiesa nostra, molti traendovi col proprio esempio. Cosmo de’ Medici ricevette splendidamente il papa, i cardinali, l’imperatore; il trasporto dei corpi de’ santi Zenobio, Eugenio, Crescenzio, i funerali del patriarca di Costantinopoli, diedero occasione a solennità; e la Signoria di Firenze regalò al papa quattordici inquisiti di pena capitale (Cambi). Eugenio scomunicò i prelati di Basilea; ma le lunghe dispute col patriarca di Costantinopoli e co’ suoi dottori, agitate nella sala accanto a Santa Maria Novella, non poteano condursi a conchiusione; laonde si venne a una specie di transazione (6 luglio) per istabilire l’unione della Chiesa orientale colla occidentale, stendendola s’una pergamena in greco e in latino, e dopo che l’ebbero letta in latino il cardinale Cesarini, in greco l’arcivescovo Bessarione, la soscrissero molti prelati delle due Chiese per ordine di dignità; oltre il papa stesso e l’imperatore Paleologo che vi fecero apporre le proprie bolle[85]. Federico III, nuovo imperatore, che avea procurato versar acqua su questi incendj, spedì ad Eugenio il proprio segretario Enea Silvio Piccolómini senese, per indurlo ad un concordato colla Germania, e il papa sul letto di morte vi assentì, purchè non menomasse i diritti della santa Sede. Nicola V succedutogli (1447), mostrossi tutto davvero disposto ad accordi, talchè il sinodo di Basilea più non si resse; Felice V abdicò, riservandosi tanti benefizj, che lo rendeano più ricco del papa, ma presto morì. La pace fu dunque restituita alla Chiesa; e il giubileo celebrato l’anno appresso, parve solennizzare il trionfo di Roma. Se il concilio di Basilea avesse con prudenza e carità provveduto alla riforma della Chiesa, poteva prevenire i guaj che scoppiarono nel secolo seguente. Sulle prime, non che intaccare la sovranità papale, sanzionò il Decreto di Graziano, i cinque libri delle Decretali di Gregorio IX, pare anche il sesto di Bonifazio; solo tolse ai papi le riserve, il diritto di provvisione, e quello di mettere imposte sulle chiese. Ma poi guidato a passione, pensò non solamente limitare la potenza papale come quel di Costanza, ma sostituirvi la propria, e preparò la rivolta protestante, al tempo stesso che l’apparenza di ottenuta vittoria svogliava la Chiesa romana dalle riforme necessarie, e assopiva in una sicurezza che dovea riuscire funestissima. CAPITOLO CXVIII. L’impero d’Oriente, e sue relazioni coll’Italia. I Turchi a Costantinopoli. Perdita delle colonie italiane. Venezia guerreggia i Turchi. Da mille anni era disfatto l’impero romano in Occidente, e ancora sussisteva in Oriente, soprattutto mercè della incomparabile postura di Costantinopoli. Sussisteva, ma agonizzante fra le deboli mani d’imperatori, i quali, vanitosi d’una scienza ciarliera, superbi d’un passato troppo diverso, assorti in un lusso corruttore, deliri dietro a futili importanze, ignoravano o vilipendevano i costumi stranieri e quelle idee che s’insignorivano del mondo. Un altro morbo erasi ostinato addosso a quella pomposa società, le eresie; quasi le fosse fatale il dover perire novamente pei sofismi, come già ai tempi della miglior grandezza d’Atene. Lo Spirito Santo procede egli anche dal Figlio come dal Padre? tale quistione, inestricabile ad argomenti, pose a subuglio le scuole, le chiese, le piazze, le famiglie; avversò Roma a Costantinopoli, i patriarchi ai papi, sinchè Fozio (862) separò affatto la Chiesa greca dalla latina, e quell’impero si trovò nimicati coloro a cui lo legava il comune interesse di resistere alle avvicinantisi orde musulmane. Le crociate avevano pôrto ai Greci l’occasione di rigenerarsi, innestando sul vecchio loro ceppo la civiltà moderna, e vantaggiandosi reciprocamente coll’accomunare le qualità migliori: ma essi non vi adoprarono che dispregio e mala fede; tergiversarono imprese, di cui aveano il maggior bisogno e i primi vantaggi; e si attirarono l’abbominazione de’ Latini. La conquista di Costantinopoli per opera di questi avrebbe potuto risarcire l’Impero, se accettata e sostenuta: odiosa invece e contrastata, non fece che crescerne la debolezza, e ben tosto le dinastie antiche ebbero espulsi i Baldovini, che andarono sparnazzando per Europa la loro miseria e titoli senza valore. Però coll’impero latino non erano caduti gli stabilimenti degli Italiani in Levante. Pisa era oggimai ridotta a troppo piccolo conto; ma Genova e Venezia avrebbero potuto assicurarsi il Mediterraneo, l’Jonio e il mar Nero se si fossero tenute d’accordo; invece, perseguendosi d’implacabili nimicizie, dagli insulti e dagli assalti reciproci furono entrambe rovinate. I Genovesi, badando al proprio interesse più che alla causa europea, aveano ajutato l’imperatore Michele Paleologo a togliere ai Latini Costantinopoli (1261), dove conservarono il sobborgo di Gàlata; e stipularono di rimanervi sotto un podestà proprio, il quale presterebbe giuramento all’imperatore prima di assumere la giurisdizione, e andrebbe ogni domenica a fargli omaggio; l’imperatore non punirebbe alcuno di quella colonia se non quando esso podestà ricusasse farlo; stretto divieto di asportare oro o argento dalle terre imperiali, bensì vettovaglie, ma che dovessero recarsi al Comune di Genova, non mai ai nemici dell’Impero; qualvolta l’imperatore allestisse un’armata, potrebbe trattenere per servizio di quella i navigli genovesi quand’anche fossero noleggiati da altri e già in carico, e spedirli dovunque gli talentasse. I Genovesi di rimpatto non si staccherebbero dall’Impero per qual si fosse comando di persona coronata o no, nè per ecclesiastica scomunica[86]; cautela opportuna quando era opinione non doversi fede agl’Infedeli, e per tali si consideravano pure i Greci. Dalla debolezza de’ quali i Genovesi traevano baldanza: un marinajo vantò che fra breve i suoi sarebbero signori della capitale, e uccise il Greco che nel ripigliava; un altro ricusò il saluto delle armi nel passare davanti alla reggia. Il trovarsi però in sobborgo smurato esponeva i Genovesi ed alla legale repressione degl’imperiali ed alla violenza de’ Veneziani, che di fatto una volta gli assalsero, e costrettili a rifuggire in Costantinopoli, ne incendiarono le abitazioni. Pertanto i Genovesi chiesero di poter circonvallare Gàlata, e con triplice muro che girava per quattromila quattrocento passi chiusero i vasti magazzini e i nobili abituri prospettanti il mare; e quel sobborgo avrebbe presto emulato Costantinopoli se questa non fosse caduta. Di là scorrendo il mar Nero, dove possedeano Caffa, i Genovesi portavano ai Greci il frumento dell’Ucrania, il caviale e pesce salato della Meotide; spingeansi a ricevere nei porti della Crimea le droghe e le gemme che dall’India vi affluivano colle carovane; e le fortezze, sorte in tutte le fattorie, diventavano formidabili non meno agli Europei che ai Tartari. Già ne fu accennata la banda di venturieri catalani, che Ruggero di Brindisi condusse a Costantinopoli, e che per un pezzo salvò l’impero greco dai Turchi; ma insieme lo malmenavano a talento, come e peggio che le compagnie di ventura in Italia. Andronico imperatore in palese lo accarezzò, fino a sposarne una sorella; in secreto affilando l’arma de’ vili, a tradimento lo uccise. Non per questo si dispersero i suoi, e molte fiate posero il partito di conquistare l’Impero per conto proprio o del re di Sicilia, il quale mandò anche l’infante don Ferdinando a capitanarli. Se non che i Genovesi, da antico gelosi dei Catalani, i loro più potenti competitori nel commercio del mare occidentale, s’inasprirono pei favori che que’ venturieri guadagnavano o rapivano in Oriente. Ne vennero risse aperte; e come i Catalani offrivano all’imperatore di sfasciare gli stabilimenti genovesi e liberarlo dalla costoro insolenza, così i Genovesi lo ajutarono a mandare a sbaratto quella banda. Nel mezzo di ciò, i Latini non cessavano d’osteggiare il greco impero, considerandola quasi come un’impresa santa e un seguito delle crociate. Carlo di Valois, figlio di Filippo il Bello, la cui moglie Caterina di Courtenai avea portato in dote nominali diritti sopra quel trono, volea questi ridurre in atto recuperandolo ai Latini; il che a molti pareva l’unico modo di ritardarne la caduta. E tentò l’impresa: ma non avendo meglio di cinquecento cavalieri, la fatica gli rispose scarsamente. Quando Caterina di Valois sposò Filippo duca di Taranto, ne’ patti nuziali si stipularono gli ajuti che il marito le darebbe per ricuperare l’impero latino, e le provincie di Grecia di cui essa a lui farebbe cessione. Il re di Francia suo parente, Venezia e il papa ne secondavano le aspirazioni; e l’imperatore Andronico, non potendo far conto su Genova straziata da discordie intestine, prese la disperata risoluzione di ricorrere ai Turchi per difendersi dai Cristiani. Al tempo stesso favoriva i Ghibellini contro Roberto re di Napoli, affinchè questo rimanesse impedito dall’ajutare Filippo, e mandò a Federico di Sicilia seicencinquantamila pesi d’oro coniato[87]. L’impresa infatto non ebbe seguito, e sopraggiunte nuove burrasche nel regno di Napoli, ai principi di Taranto rimaneva appena forza di galleggiare tra queste, non che potessero far valere sull’impero la presunta eredità. Ma crescendo sempre più le conquiste de’ Musulmani, quegli imperatori sentivano che loro salvezza sarebbe stato il riconciliarsi colla Chiesa latina. Già sotto Andronico il giovane avea molto adoperato a tal fine il monaco basiliano Bernardo Barlaam di Seminara in Calabria, ingegno vivo e Colto, che si fece ammirare dal Boccaccio a Napoli, dal Petrarca ad Avignone; ma non ne venne a capo, pretendendo gli Orientali si convocasse un concilio, che i nostri trovavano superfluo in quistioni già decise. Barlaam ritornato a Costantinopoli, ebbe a disputare con Palamas arcivescovo di Tessalonica sulla luce increata. Palamas sosteneva che fosse non la sostanza divina, ma emanazione di questa; e che gli angeli e santi potessero questa contemplare, non l’essenza divina. L’altro, al contrario, voleva non fosse nè l’essenza divina nè effetto di questa, e che nessuna potenza valesse a rendere gli occhi umani capaci di contemplare la divinità. È la quistione, su cui si fanno tanti epigrammi: ma per la concatenazione degli errori e delle verità portava, nell’opinione di Palamas; niente meno che la dualità della sostanza eterna; in quella di Barlaam toglieva la visione beatifica ai santi. Barlaam fu riprovato da un sinodo di Costantinopoli, onde abbandonò la Grecia, scrisse contro lo scisma, e fatto vescovo di Geraci, contribuì assai a restaurare gli studj in Italia. Morto quel debole imperatore (1341), ogni cosa andò capopiede, finchè a Giovanni Paleologo usurpò la corona il grandomestico Giovanni Cantacuzeno (1347): ed egli pure per sostenersi non esitò a chiamare in Europa i Turchi, che già all’Impero aveano tolto le provincie d’Asia. Ma più che l’imperatore, signori di Costantinopoli in quel tempo erano i Genovesi; e se sorreggeano con prestiti la miseria di lui, impedivangli di crescere in potenza marittima per non trovarselo concorrente: ed insultandone la maestà, ad onta sua occuparono e bastionarono anche l’alto della collina, sul cui pendio aveano ottenuto di piantare la loro colonia, comandando così allo stretto per cui si passa al mar Nero; batterono la flotta dello imperatore, bloccarono fin Constantinopoli (1351), nè egli potè chetarli che con forzate concessioni. In quel tempo, per respingere i Tartari che minacciavano gli stabilimenti del mar Nero, erasi allestita una specie di crociata, principalmente di navi venete, condotta da Umberto delfino di Vienne. I Genovesi, appena le interne discordie il permisero, vi mandarono la propria flotta, guidata da Simone Vignoso: ma questi, invece di drizzare contro i Tartari, assalì e prese Scio, isola opportunissima, a otto miglia dal continente, che signoreggia le vicine di Samo, Metelino, Ténedo e lo stretto di Gallipoli, e che già altre volle era stata posseduta da Genovesi. Cantacuzeno recosselo ad onta, ed arrestò alquanti legni genovesi; ma i coloni di Galata si levano a stormo, e minacciano di nuovo la capitale; l’imperatore reclama a Genova, ma inutilmente, giacchè il Comune non esercitava alcuna autorità sopra i lontani coloni; ond’egli non conobbe altro scampo che di ricorrere alla gelosia di Venezia. Questa era stata rattizzata dalla concorrenza nelle colonie della Tana. Un Genovese, percosso da un Tartaro, lo uccise; e i Tartari per vendetta malmenarono le persone e i beni di quanti Cristiani mercatavano da quelle parti: i Genovesi tennero testa in Caffa, abbastanza munita contro scorridori indisciplinati; e di là chiudeano il passo del bosforo Cimmerio e perciò i traffici coi Tartari, i quali vedeano andare a male le merci raccolte, e fallire le sperate ricchezze. Non vollero rispettare quel blocco i Veneziani, di che originarono nuovi conflitti. Venezia spedì trentatre galee fra di merci e di soldati, che sotto Marco Ruzzini passassero alla Tana; ed egli, incontrate nell’altura di Negroponte undici galee genovesi (1349 29 agosto), le circondò e prese allo arrembaggio. I Genovesi per riscossa sorpresero Candia, donde liberarono le merci e le navi catturate. Alla sua volta il Ruzzini sorprese Galata, gettò il fuoco in molti vascelli, e propose all’imperatore di sottrarlo dalla prepotenza genovese; ma quegli, temendo forse i liberatori quanto gli avversarj, renuì. Lungamente le flotte delle due repubbliche insanguinarono i mari; l’espertissimo ammiraglio Nicolò Pisani avea unito alle galee venete l’armata de’ Greci, de’ Pisani e degli Aragonesi, sempre in discordia con Genova ma all’isola dei Porti (1352 febbr.) fra Costantinopoli e Calcedonia, nel fitto della notte e nello infuriar delle tempeste non bastanti a spegnere l’ira degli uomini, fu sconfitto da Paganino Doria; il mare e i lidi rimasero orridi de’ frantumi di sì trista vittoria; e se i Veneti perdettero quattordici navi, dieci gli Aragonesi, due i Greci, anche i Genovesi ne lasciarono tredici al nemico o alla procella, e vuolsi che settecento nobili vi perissero, onde quasi ogni famiglia dovette vestire il bruno, nè si permisero le solite feste del trionfo. Il Doria insuperbito, invitò il kan de’ Tartari a seco giurarsi contro i Bisantini; e con Orcano, figlio, di quell’Osman che aveva fondato l’impero turco, assalì l’imperatore Cantacuzeno, lo insultò nella sua reggia, ed obbligollo a staccarsi dai Veneziani, e segnare un trattato ove ai Genovesi concedeva tutti i privilegi tolti ai Veneti. Questi dovettero promettere non approdare più per tre anni alla Tana, contentandosi d’un banco a Caffa; i Greci, di non mescolarsi a litigi che potessero nascere tra Genovesi, Veneti e Catalani; non mandare navi di traffico alla Tana; restituire quanto avessero tolto ai Genovesi, cui fosse libero comprare terre senza licenza dell’imperatore. Neppure a tanto sarebbesi arrestata Genova, se una battaglia nelle alture di Cagliari non avesse vendicato i Veneziani, i quali all’arrembaggio tolsero ai Genovesi ben trentuna galee e quattromila prigionieri, che buttarono al mare. Grave lutto alla città, che straziata sempre nell’interno, bramò il riposo della servitù sottoponendosi all’arcivescovo di Milano. Francesco Gattilussio genovese, armate due navi per far sorte, secondò Giovanni Paleologo a spodestare (1355) lo usurpatore Cantacuzeno; e in premio chiese la sorella per moglie e l’isola di Metelino, che restò di fatto nella sua discendenza. Già prima i Zaccaria, avendo ajutato potentemente l’impero a recuperare l’isola di Negroponte, n’aveano ottenuto le ricche cave d’allume in Focea. Per sostenersi nel riacquistato dominio e contro gli Ottomani che già eransi impadroniti di Gallipoli e d’Adrianopoli, il Paleologo era ricorso ad Innocenzo VI, promettendo sottomettere la sua Chiesa alla romana; e il papa esibì per sei mesi venti vascelli da guerra con cinquecento cavalieri e mille fanti: ma Genovesi, Pisani, cavalieri di Rodi, il re di Cipro non diedero retta alle sue esortazioni; Amedeo VI di Savoja, coadjuvato dai Genovesi di Galata, mosse una spedizione (1366), ove ritolse ai Turchi Gallipoli. In quel bujo l’imperatore, non pago di sollecitare Urbano V per ambasciadori, venne in persona a Roma quando si coronava Carlo IV, e riconobbe la doppia processione dello Spirito Santo e la primazia della Chiesa latina: ma la viziosa inettitudine di lui non ispirò nè interesse nè pietà; poi la morte del papa (1369) interruppe ogni effetto; e il Paleologo, passato a sollecitare i Veneziani, vi si trovò in tali strettezze, che i creditori lo tennero agli arresti, e la Signoria dichiarò non partirebbe finchè non si fosse sdebitato. Andronico suo figlio, lasciato reggente, non s’affrettò a mandargli il denaro; Manuele fratei minore lo riscattò, vendendo se nulla ancor gli restava: di che il Paleologo concepi avversione per quello, predilezione per questo, e per isfogarla si fece persin vassallo di Amurat I granturco. E quando Andronico cercò stronizzare il padre, Amurat ne prese occasione di tragittarsi in Europa con grosso esercito per domare questi litigiosi che s’abbaruffavano sull’orlo del sepolcro. Andronico, che dal padre era stato imperfettamente accecato, col favore dei Genovesi potè uscire dalla prigione e cacciarvi il padre: ma questi fu ajutato alla fuga per lunga arte di Carlo Zeno veneziano, il quale per mercede volle che dell’isola di Ténedo fosse investita la propria nazione. Di qui vedemmo nascere terribile guerra fra Venezia e Genova, e la vittoria de’ Veneziani a capo d’Anzio, vendicata poi a Pola sopra Vittor Pisani da Pietro Doria, che menò la flotta genovese fino a Chioggia. Venezia s’accorse che si rovinava in paese minacciato dà si gagliardi avversarj, e neglesse il mar Nero; laonde i Genovesi restarono arbitri dell’Impero, e a loro posta metteano pace e attizzavano guerra fra que’ principi fratricidi, e neppur esitarono a patteggiare coi Turchi di mai non guerreggiarli. Quasi soli esercitavano essi il commercio della costa di Trebisonda, ove col titolo d’imperatore dominava un principotto Comneno. Alla costui corte Megallo Lercári mercante genovese, nel fare agli scacchi, rissossi con un mal paggetto dell’imperatore, e avutone uno schiaffo, e invano chiesta soddisfazione, armò due galee, depredò la costa, e a quanti Greci cogliesse mozzava le orecchie e il naso. Un padre il supplicò si caldamente a risparmiare questo supplizio ai figli suoi, che il Lercari li perdonò, patto che recassero a Trebisonda all’imperatore un barile di nasi e d’orecchie, e annunziassero non desisterebbe finchè non avesse in mano il suo oltraggiatore. Tal era la forza de’ Genovesi o la debolezza di que’ Greci, che l’imperatore in persona venne a consegnare il paggio al Lercari, il quale s’accontentò di porgli un piede sulla faccia dicendo: — Via costà, sciagurato; e ringrazia la civiltà de’ Genovesi, che non bistrattano donne»[88]. I Turchi si avvicinavano alla capitale, non più da scorridori e con subitarie devastazioni, ma passo passo conquistando; già Bajazet la stringea d’appresso. Unica tavola nel naufragio, gl’imperatori ricorsero all’Occidente; e Manuele Paleologo venne supplichevole a Roma (1399). Se non che i Mongoli, condotti da Tamerlano imperatore di Samarcanda, dopo rapide quanto estese vittorie nel cuor dell’Asia, piombarono sopra i Turchi, vinsero Bajazet e lo fecero prigioniero. Obbligati i Turchi a provvedere alla proprio difesa, venne ritardala la caduta di Costantinopoli; poi i figli di Bajazet si osteggiarono fra loro: eppure delle discordie e delle sconfitte di costoro non seppero giovarsi i Greci per rivalere, e il successore d’Amurat II potea dire al greco imperatore: — Chiudi le porte della tua città, e regna nel recinto di essa; quant’è di fuori appartiene a me». Di fatto l’Impero trovavasi ristretto ormai alla capitale e ad un lembo della Tracia lungo cinquanta e largo trenta miglia, con poche centinaja di soldati, stranieri i più. I Musulmani potevano chiamarsi barbari soltanto al paragone di gente più colta: che se il sensuale orgoglio, su cui è fondata la loro religione, gli arrestò sulla via della civiltà, aveano però mietuto i frutti dell’araba e della persiana: potenti per commercio, potentissimi per armi di mare e di terra, nelle quali aveano introdotta una perfezione ignota ai Cristiani; presto impararono l’uso della polvere; dicesi ottenessero dai Genovesi i primi cannoni, e perfezionatone il maneggio, li volsero contro le mura, forti soltanto per resistere alle catapulte. Primi introdussero un esercito stanziale colla formidabile milizia de’ gianizzeri, reclutata di fanciulli rapiti do ogni paese, e perciò staccati da ogni affetto, ed usi fin da bambini alle ormi; milizia di gran lunga superiore alle truppe vendereccie dei Cristiani. Senza i riguardi della gente civile, coll’entusiasmo dello apostolato guerriero, credendo fatalmente segnata l’ora della morte, e premio il paradiso a chi cada in battaglia, piombavano su popoli che vagheggiavano le dolcezze della pace; la Russia mal potea fronteggiarli, serva com’era dei Tartari; alla generosa Ungheria erano tagliati i nervi dagli Austriaci, che ambivano farla patrimonio della loro casa; l’Italia rimanea sbocconcellata. Pertanto i Turchi, possedendo le coste del Mediterraneo e dell’Arcipelago, poteano ridurre a pascialati la Polonia, l’Ungheria, la Germania, l’Italia, sbiadare i loro cavalli sull’altare del Vaticano, e restringere in angustissimi confini la civiltà cristiana. Più incalzante si sentì il pericolo quando (1421) la bifida spada fu posta nelle mani di Amurat II, uno de’ maggiori eroi dell’islam. Manuele Paleologo pensò mettere una barriera all’avanzare de’ Turchi col vendere ai Veneziani Salonicchio, forte di quaranta torri e quarantamila abitanti, in eccellente golfo, e opportunissima al commercio e a tutelare Negroponte. La Serenissima, allora invogliata dal Foscari alle conquiste, se la prese, e mandò a giustificarsene con Amurat, il quale per tutta risposta arrestò il messo, ed assediò Salonicchio. La flotta veneta lo respinse, ed Amurat assalì la Morea, e qualunque volta la Signoria mandava per fare accordi, egli rispondeva: — Rendetemi Salonicchio»; infine la sorprese e pigliò (1429), dopo che la Repubblica avea sciupato settecentomila ducati a difenderla. Allora Amurat mette assedio a Costantinopoli (1431) con ducentomila Turchi. Eugenio IV levò il grido d’allarme per annunziare il pericolo che all’Europa e a tutta la cristianità sovrastava se Bisanzio perisse; ma non era più entusiasmo di popoli che determinasse alle imprese, bensì calcolo di principi, e questi erano occupati ciascuno in casa propria a consolidare la prerogativa regia, ad estendere i dominj, a fiancheggiarsi di parentele. Genova e Venezia dal pericolo ravvicinate, si unirono bensì (1440) sotto lo stendardo delle sante chiavi; il cardinale Giuliano Cesarini riuscì ad eccitare Polonia e Ungheria, più da vicino minacciate; e l’esercito, composto d’avventurieri d’ogni paese, condotto dal grande Giovanni Uniade, transilvano addestrato nelle guerre d’Italia, assalì Amurat. Ma la battaglia di Varna (1444) sparpagliò l’esercito crociato, e l’imperatore Giovanni III Paleologo dovette comprare la pace. Pace effimera; e già prima quell’imperatore non vedea modo al suo bisogno che nei soccorsi d’Occidente; ma come riprometterseli se non riconciliando la sua Chiesa alla latina? Stava allora adunato il concilio di Ferrara (pag. 196), e il Paleologo sopra navi veneziane fu trasportato in Italia, menando seco Giuseppe patriarca di Costantinopoli, e i rappresentanti degli altri patriarchi, molti prelati, cantori, monaci, filosofi, spiegando un fasto che cozzava colla miseria, giacchè il papa avea dovuto anticipargli le spese. Fu ricevuto orrevolmente, estreme riverenze rendute al moribondo rappresentante dell’antica maestà cesarea; Venezia gli prestò venerazioni, di cui la libertà non era gelosa perchè non esprimevano un omaggio, e perchè le spoglie di Costantinopoli che la abbellivano diceano qual fosse più potente fra l’augusto troneggiante sulla poppa della nave capitana, e il doge e i senatori che gli baciavano il piede; a Ferrara ottenne le cerimonie di posto e di grado consuete agl’imperatori antichi: ma i contrasti fra il concilio di Basilea ed Eugenio IV impedirono ogni conchiusione. Convocatosi poi il concilio a Firenze (1438), e ridottisi d’accordo sulle incomprensibili e sulle pratiche quistioni, Eugenio si obbligò a pagare ai Greci il ritorno, mantenere sempre due galee e trecento soldati per difesa di Costantinopoli, e dieci galee per un anno ogniqualvolta venisse richiesto; eccitare i principi europei a sovvenire quell’impero, e far approdare a Costantinopoli tutte le navi che trasportavano pellegrini in Terrasanta. Ma gli amplessi e la riconciliazione, forse subdoli, certo interessati per parte dei grandi che ne trattavano, doveano riuscire inapplicabili al popolo e al basso clero greco, ignoranti e fanatici a segno, che avrebbero preferito Maometto al papa. I monaci venerati dai loro eremi maledivano a chi si fosse comunicato coi Latini; i popi chiudevano le basiliche in faccia a chi s’era messo in relazione col legato in Santa Sofia; il popolaccio nelle bettole cuculiava il pontefice e gli azimati; i prelati medesimi, sentendo rinascere la coscienza o l’orgoglio, si ritrattarono, e quel misero avanzo dell’impero romano andò sovvertito fra nuovi e antichi credenti che a vicenda intitolavano sè cattolici, eterodossi gli avversarj. Al vederli odiarsi perchè gli uni nutrono la barba, gli altri la radono, questi consacrano pane fermentato e quelli no, non si direbbero persone fradicie nella pace? e invece roteava sul capo di tutti la scimitarra ottomana. Amurat perdonò al Paleologo d’avere sollecitato la crociata, ma assalse i fratelli di lui, tra’ quali era diviso il restante impero; ridusse a sommissione Neri Acciajuoli signore dell’Acaja, di Atene, della Focide, della Beozia; per l’istmo, invano fortificato, entrò nel Peloponneso che devastò, incendiata Corinto, presa Patrasso, e menati sessantamila schiavi. Maometto II, succedutogli (1451) con maggior impeto guerresco, s’accingeva ad annichilare quel fantasma dell’impero romano, e assediò Costantinopoli con dugencinquantottomila armati e trecento navi. Costantino Paleologo su quel trono tarlato sosteneasi con virtù degne di miglior fortuna. Vedovo di una de’ Gattilussi di Genova, principi di Metelino, cercò una Foscari di Venezia; ma avendo i consiglieri suoi trovato non abbastanza decorose tali nozze, e preferitovi una principessa di Georgia, si rese avversi i Veneziani di modo che non abbastanza cooperarono alla difesa. I Genovesi di Galata ebber ricorso alla madrepatria, e n’ottennero una grossa nave e macchine e cinquecento uomini d’arme; ma sentendosi insufficienti, ebbero per più savio consiglio il prendere accordo col Turco, promettendo essi di restar neutrali, egli di rispettarli; doppia slealtà, perocchè Maometto diceva che lasciava dormire il serpente finchè non avesse soffocato il drago, e i Genovesi non lasciavano di soccorrere sottomano gli assediati. La colonia genovese di Caffa inviò tre legni, che traverso gravissimi pericoli, e menando strage nella flotta turca, provvide di viveri la città. Nella quale trovavansi chiusi quasi cinquecentomila Greci, e duemila Genovesi e Veneziani: ma non passavano i settemila gli armati, con ventotto navi; oltrechè i Greci aborrivano i Latini sebbene esponessero per loro la vita; fremettero quando il legato pontifizio, venuto a parte del pericolo, cantò messa col pane azimo e l’acqua diaccia; e gridavano: «Il cadere sotto Roma val quanto il cadere sotto i Turchi». All’indifferenza degli estrani e dei cittadini mal supplivano il senno e il valore di Costantino. Affidò egli il comando della piazza a Giustiniano Longo genovese, già podestà di Caffa e or principe di Lemno, il quale lo secondava mirabilmente; meglio di chicchessia sapeva squadronare, assalire, trovar ripieghi, reggere a fatiche, oppor mine alle mine, coll’ajuto d’altri Genovesi, fidi a quella seconda patria[89]. Però le munizioni venivano meno (1453); le artiglierie turche fulminavano le decrepite mura con una furia mai più veduta di projetti, e aveano fra altri un pezzo che tirava palle di milleducento libbre, sicchè un colpo bastava a colar a fondo una nave. Maometto, non potendo forzare la grossa catena del porto, fece trascinar le sue navi attraverso alla lingua di terra che ne lo separava, forse secondato dai Veneziani; talchè un mattino gli assediati svegliandosi le videro entro il porto. Questo prodigio gittò lo scoraggiamento ne’ cittadini: il Giustiniani tentò avventare il fuoco nella mirabile flotta, ma il cannone del granturco mandò a fondo il brulotto con cencinquanta nostri prodi. Il Giustiniani ferito si ritirò dal combattere, per quanto Costantino il supplicasse fin chiamandolo fratello; e di fatto al suo partire, che gli altri gli ascrivono a infamia colla facilità onde gli inoperosi sputacchiano gli eroi, la costanza degli Italiani vacillò. Al 24 maggio erano aperte breccia per tutto, e Maometto annunziò l’assalto generale pel venerdì 29, al che rispose d’ogni parte il grido d’Allah, mentre gli assediati raffittivano in penitenze e comunioni, e supplicar Madonne, e intuonare lugubri Kyrie eleison. Alfine dopo quarantotto giorni d’assedio Costantinopoli, che avea resistito a sette assedj di Arabi e cinque di Turchi, fu presa; dappertutto si gridò: — Dio solo è Dio, e Maometto è il suo profeta»; e il gran-signore entrato in Santa Sofia, ordinò al muezzin d’intimare la preghiera, salì all’altare e pregò. Costantino perì da eroe, e le poche navi italiane poterono salvare alcuni degl’infelici che a calca vi ricoverarono, e massime i Genovesi di Galata colle loro ricchezze. Eppure Maometto, che gridava a’ suoi soldati — A voi i prigionieri, le ricchezze, le donne, ma riservate a me la città e i fabbricati», confortava i Genovesi a rimanere sicuri; ai pochi che gli diedero ascolto concedette di praticare il proprio culto, sottoponendosi al testatico. I negozianti di Pera capitolarono, e Maometto fece decapitare il balio di Venezia, ed arrestare quanti Veneziani vi colse. Venezia non potea pensare alla vendetta, e Bartolomeo Marcello dopo un anno di trattative conchiuse la pace (1454). Nessuna parte recherà danno all’altra, o ricetterà i rei di Stato o di furto, anzi li consegnerà: libero commercio, pagandosi reciprocamene il due per cento delle merci esitate nello Stato amico, e reciproca restituzione delle robe de’ naufraghi e de’ morti: i Veneziani tributeranno ducentrentasei ducati per le terre che tengono nell’impero turco: gli schiavi veneziani saranno restituiti; ma se si fossero professati musulmani si pagheranno mille aspri, cioè cinquanta ducati per ciascuno. Le navi andando e tornando dal mar Nero rinfrescheranno nel porto di Costantinopoli; possano portare qualunque merce di Cristiani, ma non di Turchi; mantenute al patriarca costantinopolitano le entrate che avesse in terra di Veneti; la Signoria possa mandare a quella città un balio, che regga nel civile e renda giustizia fra’ Veneziani d’ogni condizione. Il gransignore si obbliga a risarcire i danni ben provati, che nella persona o nella roba avessero patito i Veneziani nella presa di Costantinopoli. Essi possano introdurre nell’impero ogni sorta moneta coniata o in verga; ma le verghe dovranno farsi bollare dalla zecca. Caduta la metropoli, sussistevano ancora l’impero d’Iberia e quello di Trebisonda sul mar Nero, dove i Genovesi conservavano Caffa in Crimea; fra il Nero e l’Adriatico, i regni di Dalmazia, Bosnia, Servia, Rascia, Bulgaria, Croazia, Transilvania, posti sotto l’alto dominio dell’Ungheria; e là intorno i Valachi, razza romana; l’Epiro; in Grecia il ducato di Atene; nel Peloponneso i despoti, fratelli dell’ultimo Costantino. Creta, Negroponte, altre isole e parte della Morea e dell’Albania appartenevano a’ Veneziani; Cipro a’ re Latini, Metelino e Lesbo ai Gattilussi, Cefalonia e Zante a casa Tocco, Rodi ai cavalieri di San Giovanni. Tutti questi, che aveano fin allora fissato gli occhi a Costantinopoli, adesso volgeanli all’Italia, e massime al papa e a Venezia; riboccava la patria nostra di Greci ed Orientali, che esageravano le crudeltà de’ Turchi, e, stile de’ fuorusciti, la facilità del ritoglier loro «la grande ingiusta preda». D’altra parte i Turchi, occupata Costantinopoli e fattala lor sede, pretendevansi succeduti agl’imperatori romani, e come tali divenire padroni di quanto essi aveano posseduto, considerando usurpatori quelli che ne tenevano alcun ritaglio. In tale pretensione avvolgeano segnatamente l’Italia; e per lungo tempo, quando al granturco si cingeva la sciabola, bevuto ch’egli avesse nella coppa de’ gianizzeri, la rendea loro piena d’oro, proferendo: — A rivederci a Roma». Maometto in fatti s’accinse a sterpare le piccole signorie fondatesi nell’impero, e improvvisamente tolse a Genova Amastri, colonia si opportuna ai commerci colla sponda meridionale del mar Nero, gli abitanti trasferendo a Costantinopoli. Genova, vedendo non poter mantenere la colonia di Galata sotto il cannone turco, con tutte le altre di Levante le cedette ai protettori del banco di San Giorgio, che col denaro le salvassero; e San Giorgio fece prova di suprema abilità nel conservare tredici anni le colonie di Crimea; non potendo farvi giungere soccorsi pel Bosforo chiuso dal granturco, soldò de’ Polacchi; poi bande italiane che per lunghissimo viaggio arrivarono fin alla Tana; sollecitava la cristianità ad ajutarla, ma non era nulla; sicchè anche Caffa fu presa, quarantamila suoi abitanti spediti a Costantinopoli, millecinquecento fanciulli genovesi arrolati fra i gianizzeri; Tana, Azoff e le altre città caddero senza ostacolo, e fino alla pace di Adrianopoli del 1829 il mar Nero restò chiuso a’ Cristiani, che appena schiuso doveano farlo teatro di terribili martirj. Gli Acciajuoli di Firenze erano succeduti ai Catalani di Sicilia nel dominio d’Atene: e alla morte di Neri, la moglie di lui pose il suo fanciullo sotto la protezione di Maometto II; poi innamoratasi di Pietro Priuli veneziano, gli offrì farlo signore d’Atene se, disfacendosi della prima moglie, lei sposasse. Come detto così fatto; ma gli Ateniesi indignati ricorsero a Maometto, che fece scannare la rea, e sterminò gli Acciajuoli. Le discordie fra i despoti del Peloponneso offrirongli pretesto d’intervenirvi, e Tommaso Paleologo fuggendone portò i suoi lamenti e la testa di sant’Andrea al papa, al duca di Milano, ad altri, per eccitarli a redimere la Grecia; ma morì di crepacuore, malattia degli esuli. Davide Comneno, ultimo imperatore di Trebisonda, andò a finire in esigilo. Nell’Epiro rimpetto all’Italia si era con gloriosa imprudenza ribellato Giorgio Castrioto, detto Scanderbeg; e incorati i marziali Albanesi a resistere alla luna ottomana, vide fuggire innanzi a sè il vittorioso Amurat. Maometto II propose soggiogarlo, e Scanderbeg nel nuovo pericolo scrisse ad Alfonso re di Napoli chiedendogli soccorsi; e n’ebbe viveri ed ausiliarj, condotti da Raimondo d’Orlaffa. Per rimeritarlo de’ quali Scanderbeg venne poi in Italia a soccorrere re Ferdinando figlio di lui, e n’ebbe in compenso San Pietro a Galatina, piccola città della provincia d’Otranto, ove si fondò la prima colonia albanese, cui ne tennero dietro altre a Siponto, a Trani, e là intorno del promontorio Gargáno, e ne’ monti che separano la Daunia dall’antico Sannio. Perocchè, al morire di Scanderbeg (1467), l’Epiro ricadde in servitù; ma i suoi nella lunga guerra aveano acquistato molta perizia, e su cavalli leggerissimi, con sopravvesta corta senza maniche e imbottita per rintuzzare i colpi, bacinetto di ferro in testa, in mano una zagaglia ferrata talvolta fin di dodici piedi, lunga spada, piccolo scudo, mazza agli arcioni, si esercitavano al corso e al rapido volteggiare, opportunissimi ad inseguire, ardere, spiare il nemico, predare. Dal doge Pietro Mocenigo furono assoldati quando volle tentare l’impresa di Delo e Mitilene; poi presero servizio in Italia, ove divennero terribili col nome di Stradiotti (στρατιώται). e fin agli ultimi tempi v’ebbe sempre negli eserciti napoletani uno squadrone reale macedone. Altri Cristiani, che non vollero piegarsi al giogo turco, passarono a noi, chiedendo pane e sicurezza di culto, ottennero terre nel Regno, le domesticarono, e ancora conservano la lingua nativa e il rito greco e il vestire e i costumi, ancora gemono il loro sangue disperso (_giaca in sprirus!_), ancora _danzano_ le miserie dell’antica lor patria, ed essi, _sangue purissimo di Scanderbeg_, dispregiano il sangue nero, sangue di volpi o di nottole degl’Italiani, dai quali insegnano in proverbio dover guardarsi come il _falegname dall’ascia_[90]. Alquanti Mainotti o Spartani giunsero a Genova, che li collocò nell’isola di Corsica, ed obbligandoli alla decima de’ frutti e cinque lire per fuoco, gl’investì delle terre incolte di Paoncia, Recida e Piassologna, che a breve andare si videro colte e popolate. Costoro si mantennero fedeli a Genova quando i Corsi le si rivoltarono, e dalla forza superiore degl’insorgenti costretti ad imbarcarsi per Ajaccio, lasciarono chiusi nella fortezza d’Uncivia ventisette dei loro, i quali per cinque giorni respinsero duemila cinquecento Corsi, e alfine si ritirarono in Ajaccio anch’essi. Le reliquie di tale colonia incontransi oggi a Cargese ed Ajaccio, coi costumi, le usanze, i canti patrj[91]. Ragusi si rassegnò a tributare mille ducati l’anno alla Porta per conservare il proprio governo; diede ricovero a molti fuggiaschi da Costantinopoli, poi alla stampa la prima tragedia regolare, e il primo libro di commercio[92]; e fu come l’Atene del paese serbo, arricchendo le lingue latina, italiana e slava. Maometto, risoluto di far riconoscere un solo Dio in cielo, un solo signore in terra, proseguiva le vittorie, e conquistata la Bosnia e la Servia, minacciava di correre a Vienna e a Roma. In que’ frangenti non tacque la voce dei papi contro i Turchi. Già Clemente VI avea bandita la crociata che conquistò Smirne; un’altra Urbano V per guerreggiare fra i Serviani; una terza Bonifazio IX, che fu scompigliata a Nicopoli; una quarta sotto Eugenio IV, andata a ruina nella giornata di Varna. L’infelice successo non iscoraggiava Nicola V, che di nuovo bandì la croce, ma senza effetto. Calisto III ordinò per tutta cristianità si sonasse a mezzogiorno la campana dei Turchi; e sollecitava la Germania, che nelle diete decretava denari ed uomini, ma non si vedevano mai. Giovanni da Capistrano, nativo della provincia d’Aquila, dedicatosi al fôro, da re Ladislao fu assunto giudice della grancorte della Vicaria. Essendo condannato nel capo un poderoso barone, il re non solo approvò la sentenza, ma la estese al primogenito di esso. I giudici si piegavano alla reale volontà, ma Giovanni gli animò ad opporsi; e avendo il re, non ostante, comandato l’esecuzione, Giovanni chiese congedo da un impiego che non poteva esercitarsi senza ingiustizia e andò francescano. Accompagnatosi a san Bernardino da Siena, missionava, finchè, visto il pericolo sovrastante alla cristianità, corse esortando alla guerra santa. A Vienna mostrasi ancora sul sagrato di Santo Stefano il pulpito da cui egli predicò: il popolo veneravalo qual taumaturgo, portava a lui carte e dadi da bruciare e riducevasi a penitenza. Gli venne fatto di mettere insieme una quinta crociata contro gli Ottomani, composta non di nobili e cavalieri, ma di vulgo, studenti, frati, contadini armati di mazze e fronde. Frà Giovanni, solo confidente quando tutta Europa dispera, procede adottando per grido di guerra Gesù, e ridesta Giovanni Uniade, il quale, memore delle vittorie e delle sconfitte antiche, assume il comando di quell’esercito, che incomposto avanzasi contro i Turchi (1456), ed obbliga Maometto ad allargare Belgrado, che assediava con trecento cannoni, lasciando ventiquattromila uomini sul campo. In memoria, il papa istituì la festa della Trasfigurazione al 6 agosto. Quasi fosse compiuta la loro missione, l’Uniade muore dopo due settimane, e dopo tre mesi il Capistrano[93]. Maometto occupa il resto della Serbia, menandone via ducentomila prigionieri; nè più altri che la flotta pontifizia soccorre le isole assalite. Pio II volle assumersi la parte di Pietro Eremita (1458), esortando tutta cristianità ad armarsi di conserva contro il Turco; e logica e dialettica e retorica usava, troppo meno potenti che non quell’eloquenza impreparata, la quale sgorgando dal cuore, strascina irresistibilmente. Istituì l’ordine della madonna di Betlem, che presto cadde colla presa di Lemno ove tenea sede. Raccolta poi in Mantova la cristianità a concilio, proclamò la crociata (1458); v’assisteano quasi tutti i principi d’Europa, e gli ambasciadori degli altri, e di Rodi, Cipro, Lesbo, dell’Epiro, dell’Illiria, minacciati così da vicino. Il papa vi sfoggiò eloquenza; altrettanto Francesco Filelfo, portando la parola a nome del duca di Milano: i deputati della Morea dipinsero gli orrori commessi dai Turchi e a schiavitù dei Greci. Chi non ricorda con quanto fervore ai dì nostri le donne favorissero la causa dei Greci insorti? non altrimenti fu allora, e a quell’assemblea perorarono Ippolita Sforza e Isotta Nogarola. La prima, figlia di Francesco Sforza e moglie di re Alfonso II, avea trascritto di suo pugno quasi tutti i classici latini: l’altra, filosofessa, teologante, letterata, lasciò moltissimi discorsi e lettere, e un singolare dialogo per difendere Eva contro Adamo. Le parole furon molte, e in conseguenza pochi i fatti. L’imperatore Federico III era troppo inetto sicchè volesse affidarsegli il comando; il re di Francia doveva badare alle cose domestiche: onde l’onore di comandare la cristianità fu attribuito al duca di Borgogna; l’esercito si leverebbe in Germania, verrebbe stipendiato da Francia, Spagna, Italia a proporzione della ricchezza; Borso d’Este esibiva ben trecentomila fiorini, forse sì generoso perchè prevedeva non verrebbe l’occasione di sborsarli. Di fatto la pace tanto necessaria fu guasta, e le armi raccolte si ritorsero dall’un contro l’altro. Il papa se ne lagnava, e scriveva; — Dove ci possiamo voltare? a chi ricorrere? Gridiamo soccorso ai principi cristiani, e non ci s’ascolta: imponiamo decime al clero, e non le paga: pubblichiamo indulgenze, e ci accusano di farne traffico». Ogni dissiparsi di tali imprese aggiungeva orgoglio a Maometto, che le conquiste sue accompagnava colla ferocia e l’oscenità. A’ Veneziani vedemmo garantiti per patto alcuni privilegi in Costantinopoli e i possessi: ma questi coll’estendersi dei Musulmani restavano quasi isole in vasta inondazione, vicine ad essere assorte. Lievissima cagione destò in fatto le ostilità. Uno schiavo ruba al bascià d’Atene centomila aspri (1463), e fugge a Corone, terra veneta; i Turchi lo ridomandano, e i Veneziani ricusano consegnarlo perchè fattosi cristiano, nè tampoco restituiscono il denaro. Ostinatisi gli uni e gli altri, ne venne guerra, ove il procuratore Loredano assicurava che ventimila Greci non vedevano l’ora d’impugnar l’armi per San Marco, sicchè facilmente si conquisterebbe tutta Morea: solite e facili confidenze di chi crede che, per un popolo oppresso, l’esecrare il giogo equivalga a saperselo scuotere dal collo. Ivi in fatto si portò un esercito sotto Bertoldo d’Este, che vi morì gloriosamente: lo capitanò poi Sigismondo Malatesta, ma le fazioni non riuscirono mai decisive, e si sfoggiava più atrocità che strategia. I Veneziani chiesero ajuti al papa; il quale, all’annunzio delle prime loro vittorie, in concistoro esclamò: — Vedete come Dio suscitò il fedele suo popolo, i figli nostri diletti, il senato e la nazione veneta. Vedete come quelli che tutti tacciavano d’indifferenza e pigrizia, prima degli altri abbiano prese le armi in onore di Dio. Si sparlava de’ Veneziani; additavansi i soli che, in tanta pressura de’ Cristiani, negassero ajuto: ma ecco che soli essi vigilano, soli si affaticano, soccorrono i Cristiani, si accingono a far vendetta sul nemico di Cristo». Vedendo che la parola _Andate_ facea poco effetto, il papa volle dire _Venite_, e risolse crociarsi egli stesso, non già per combattere, ma per orare come Mosè sull’Oreb, coll’Eucaristia sugli occhi, affinchè Dio concedesse vittoria: — Forse quando vedranno il padre loro, il romano pontefice, il vicario di Cristo, vecchio e infermo partire per la guerra sacra, arrossiranno di rimanersi a casa, e abbracceranno con coraggio la difesa della santa nostra religione»[94]. Generale parve l’impeto degl’Italiani alla santa impresa; due navi esibiva il duca di Modena, una Bologna, una Lucca, cinque i cardinali, oltre quelle del papa; Venezia darebbe la ciurma e i sopracomiti; poi per le spese il pontefice si tassò in centomila fiorini, ripromettendoseli dalle limosine di tutta cristianità; in altrettanti Venezia, il re di Napoli ottantamila, settanta Milano, cinquanta Firenze, venti il duca di Modena, metà tanti il marchese di Mantova, quindicimila Siena, un terzo il marchese di Monferrato, ottomila Lucca. Queste cifre possono designare l’importanza relativa de’ potentati italiani; ma ad Ancona, dove il papa avea dato la posta ai Crociati, poc’altri comparvero (1463) che Ungheresi e Veneziani, oltre una turba senza viveri nè denaro nè robustezza. Quando gli astrologi assicurarono benefica la guardatura de’ pianeti, si salparono le ancore; ma la morte del papa[95] e le sconcordie degli Italiani mandarono in fumo la spedizione, del resto troppo sproporzionata all’intento. Al nuovo pontefice Paolo II (1464) fu imposto dal conclave proseguisse l’impresa, consacrandovi il prodotto delle cave dell’allume. Paolo adunò a tal uopo un congresso di ambasciadori, e fu assegnata la quota di ciascuno; ma non venne pagata, e la lega svanì. Ben egli aveva accolto onorevolmente Scanderbeg, e regalatolo del cappello e dello stocco benedetti e di qualche denaro; ma non potè che raccomandarlo ai principi d’Europa. Del resto Venezia, considerando le colonie per nulla meglio che un campo da mietere, non aveva provveduto a incivilire e nazionalizzare la costa d’Istria e Dalmazia; non vedeva come salute pubblica la conservazione di esse, mostrando maggior ressa nell’acquisto d’una provincia sul continente italiano; e mentre accampava diciottomila cavalli pesanti contro il duca di Milano, non n’avea duemila nella Morea, a vicenda presa e devastata dai nostri e dai Turchi. Coriolano Cippico, che militava come sopracomito d’una galera veneta, e ci lasciò il racconto di que’ fatti con curiose particolarità, ci mostra come i Veneziani per antica consuetudine spartissero il bottino in modo, che al generale toccava il decimo, al provveditore e agli uffiziali una quota proporzionale al grado, il resto ai soldati, lo che doveva incoraggiare al saccheggio: ai soldati retribuivansi tre ducati per ogni prigioniero che menassero al campo, e ogni tratto si vedeva vendere uomini e donne turchi all’incanto. Maometto, stanco di veder guastate terre che riguardava come sue, giurò di «mandar Venezia a consumare il suo sposalizio in fondo al mare» e bandita la guerra sacra, diceva: — Giuro a Dio, unico, creatore d’ogni cosa, non accorderò sonno ai miei occhi, non mangerò leccornie, non cercherò cosa gradevole, non toccherò cosa bella, non volgerò la fronte da occidente a oriente, se non rovescio e non fo calpestare da’ miei cavalli gli Dei di legno, di rame, d’argento, d’oro o di pittura, che i discepoli di Cristo sonosi fatti colle loro mani; giuro che sterminerò la loro iniquità dalla faccia della terra, da levante a ponente, per la gloria del Dio Sabaoth e del gran profeta Maometto. Fo dunque sapere a tutti i circoncisi miei sudditi, credenti in Maometto, ai loro capi ed ausiliari, s’essi hanno timor di Dio creatore del cielo e della terra, e timore dell’invincibile mia potenza, che tutti devano recarsi presso di me». Con quattrocento navi e trecentomila guerrieri, se il terrore non esagerò il numero, si difilò sovra Negroponte: sbarcatovi, cinque volte assalì la città (1470 giugno), e Nicolò Canale ammiraglio veneto non seppe abbastanza coraggiosamente adoperare le sue artiglierie, che furono guardate come un prodigio perchè tiravano cinquantacinque colpi il giorno; e fu presa sotto i suoi occhi la città, benchè ostinatissima si difendesse via per via. Maometto aveva intimato la morte a chi risparmiasse un solo prigioniero maggiore di vent’anni; e Paolo Erizzo, che tenea la cittadella, essendosi reso a patto d’aver _salva la testa_, Maometto gliela salvò, ma lo fece segare in due per espiazione dei settantasettemila Turchi che si dissero periti sotto l’eroica città. La flotta veneta, la migliore del mondo, aveva a fare colla turca, inesperta, e composta di legni mercantili e di trasporto; onde fu attribuito all’indecisione del Canale se non si trionfò, ed egli fu mandato in catene a Venezia, surrogandogli Piero Mocenigo. Quale spavento per l’Europa al conoscere che i Turchi erano formidabili anche per mare, e che potevano portar le loro minaccie a tutti i porti! Paolo II, secondato dal cardinale Bessarione e da altri greci profughi, eccitava gl’italiani a sospendere le guerricciuole e rinnovare la lega italiana del 1454, che di fatto si combinò (1470) tra Ferdinando di Napoli più da vicino minacciato, re Giovanni di Aragona e di Sicilia, le repubbliche di Venezia e Firenze, i duchi di Milano, di Modena, di Ferrara, i marchesi di Mantova e Monferrato, il duca di Savoja, e le repubbliche di Siena e Lucca: si spedì ad eccitare la Germania, e Paolo Morosini ambasciator veneto a quella dieta diceva: — Van più di due secoli che la nostra repubblica cominciò guerra coi Turchi; e sola, massimamente in questi ultimi anni, ne sostenne gli attacchi continui, nella Tracia e nell’Illiria. Comune è il pericolo della cristianità, eppure i Veneziani sono lasciati soli a difenderla: il sonno dell’Europa aggiunge baldanza ai nemici, che già si avanzano per l’Illiria, per la Pannonia e per l’Adriatico, togliendo sicurezza per terra e per mare. La speranza non è ancora perduta se i Tedeschi spieghino quel valore, con cui si vuol difendere la casa e la libertà. Venezia ha numerosa flotta, guarnigioni sulle coste, e venticinquemila combattenti; re Ferdinando aggiungerà ventitre galee alle sessanta nostre; colle altre d’Italia si sommerà alle cento; sicchè, dove i Tedeschi ci assecondino per terra, non tarderà ad essere assicurata tutta la cristianità»[96]. Altrettanto insistevano gli Ungheresi, sentinella morta sull’altro adito de’ Turchi; ma l’imperatore era inerte, la Germania pigra, l’Ungheria stessa e la Boemia straziavansi nella guerra eccitata per le eresie degli Ussiti. Piero Mocenigo manda a ferro e fuoco le isole e le coste, quantunque abitate le più da Cristiani, promettendo un ducato ogni testa di Musulmano portatagli; barbaro contro barbari. Con lui presero poi conserva navi napoletane e papaline, e seguitarono i guasti senza alcun onore di vittoria; mentre in ricambio i Turchi desolavano i possedimenti veneziani. Hassan Bey rinnegato, bascià della Bosnia, chiamato in Croazia (1469) con ventimila cavalli, dopo menato stragi, passò per la Carniola, scese le Alpi che ivi si dibassano, e spinse i suoi cavalli fino a tre miglia da Udine. Fortunatamente vi si arrestò dopo uccisi diciottomila Cristiani, menatine quindicimila in ischiavitù, distrutte le messi e gli armenti. Un giovane siciliano, di nome Antonio, rimasto prigione a Costantinopoli, riuscì a fuggire, e presentatosi al Mocenigo, gli chiese una barca, promettendo incendiare la flotta turca. L’ebbe con coraggiosi compagni, e fingendo vender frutte, si pose fra i Turchi, e riuscì a mettere il fuoco ai bastimenti; ma s’apprese anche alla sua barca, e nel fuggire fu côlto. Il gransignore volle vederlo, e lo interrogò se avesse ricevuto qualche ingiuria di cui vendicarsi. — Nessuna; ma voi siete nemici implacabili della cristianità, e me fortunato se avessi potuto bruciar te come bruciai la tua flotta». Il granturco lo fece segare co’ suoi compagni, e Venezia beneficò la famiglia di esso[97]. Sisto IV riuscì ancora a raccozzare alcune forze (1471), e cercando l’amicizia de’ nemici de’ Turchi, ad Ussum Cassan scià di Persia inviò frà Luigi di Bologna e Catarino Zeno, poi Giosafat Barbaro con vasi d’oro e stoffe di Verona, il quale però non giunse alla sua destinazione, per quanto pressato dal senato veneto. Cassan, stretta alleanza coi nostri, aveva di fatto (1473) invasa l’Asia Minore; ma sfornito d’artiglierie e di coraggio, presto si ritirò, lasciando quasi soli al tremendo ballo i Veneziani, che non mancarono alla riputazione di valore. All’assedio di Scutari, Antonio Loredano si ostina alla difesa, e perchè popolo e soldati chiedeano di rendersi per mancanza di cibo, si presenta collo stendardo di san Marco, e snudando il petto, — Ecco le mie carni; saziatevene, ma continuate a resistere». Emulava così Paolo Erizzo e sua figlia Anna, Alvise, Calbo, Giovanni Bondumier, caduti martiri della religione e della patria a Negroponte. Pure i Turchi prevalgono, e recano fra l’Isonzo e il Tagliamento la schiavitù e la peste, diffusasi anche in Venezia, ove mieteva da cencinquanta persone al giorno, e il maggior consiglio si trovò ridotto a non più di ottanta persone. Consunta da quindici anni di fierissima guerra, Venezia chiede pace (1479), cedendo Scutari, Stalimene e quanto aveva in quella campagna acquistato, conservando giurisdizione propria in Costantinopoli, ed esenzione dalle dogane pel compenso di annui diecimila ducati. La cristianità, accidiosa a soccorrere i Veneziani, sentendo crescere la minaccia, gli accusa di viltà; il papa protesta che non aveano diritto di terminar la guerra senza assenso di lui, e li pronunzia disertori; i principotti italiani s’ingelosiscono che la Signoria, la quale fin là gli aveva carezzati, potesse voltare contro di loro le armi. Posto avanzato contro i Turchi stavano ancora i cavalieri di San Giovanni, che, dopo perduta Acri, s’erano assisi a Cipro, dominata dai Lusignano, continuando da Limisco ad osteggiare gl’infedeli: poi turbati da continue risse coi Lusignano, si prefissero (1310) conquistare l’isola di Rodi. Sorpresala colle isole adjacenti, vi si fortificarono, di là bersagliando i Turchi, e dando mano a chiunque gli osteggiasse. Indarno Orcano l’aveva assediata nel 1315; anzi i cavalieri presero Smirne, e la tennero dal 1343 al 1401, quando gliela strappò Tamerlano. Sentì Maometto l’importanza di Rodi, e appena ebbe disimpacciata la flotta, la drizzò contro quell’isola. Giambattista Orsini, che n’era il trentesimottavo granmaestro, appellò i cavalieri d’ogni lingua, e si fece conferire assoluto arbitrio sopra i beni e le forze quanto la guerra durasse. Mescid bascià approdò (1480) con censessanta vascelli, e sbarcati centomila uomini, assediò la capitale; ma i cavalieri si valsero dell’opportunità e della forza dei posti con sì prodigioso valore, che i Turchi dovettero levarsene d’attorno dopo ottantanove giorni, lasciando novemila morti, e recando tredicimila feriti. Diremo altrove come l’infame politica de’ tempi nuovi inducesse lo Sforza, il re di Napoli, Firenze e il papa a istigare il granturco contro Venezia. Nella guerra derivatane, Anton Grimani che comandava restò vinto, e Venezia lo punì col mandarlo a confine: suo figlio volle ostentare amor di patria collo stringergli egli stesso i ceppi ai piedi. Allora fu che tutte le città a mare della Morea furono sottratte a Venezia, la quale aveva cessato di ricuperar nella pace quel che avesse perduto nelle battaglie. Essa a vicenda, insidiata dal re di Napoli (agosto), istigò contro di lui Maometto: sicchè dalla Vallona i Turchi sbarcati in Italia, assalsero Otranto, che magnanimamente si difese; e prevalsi mercè dell’artiglieria, vi uccisero l’arcivescovo Stefano Pendinello, i canonici, i frati, violarono le monache, scannarono diecimila abitanti, altrettanti ne mandarono schiavi, e vi posero forte guarnigione. La nequizia de’ principi può sin diminuire l’orrore pel nome turco, e Maometto faceva proclamare terrebbe esenti per dieci anni da ogni imposta i paesi italiani che gli si dessero, dappoi non li taglierebbe che d’una piastra per testa, e libertà di seguir le leggi e la religione propria come facevasi a Costantinopoli. In fatto millecinquecento soldati di re Ferdinando disertarono al granturco, e si temè che Terra d’Otranto si desse tutta a lui; onde l’Italia fu invasa da sgomento, e il papa si preparava a fuggire oltremonte. Se non che il nembo parve dissipato allorchè Maometto a cinquantun anno morì (1481), ripetendo: — Io voleva conquistar Rodi e l’Italia». Quanto egli fosse temuto l’attestò il tripudio de’ Cristiani; papa Sisto IV ordinò di far festa come in domenica, e solennizzare tre giorni fra continui spari d’artiglieria, e processioni generali. Buono per l’Italia che l’impeto de’ Turchi non tardò a rallentarsi, e il despotismo non meno che il clima svigorì una potenza, che nuova barbarie minacciava, e che mescolatasi all’Europa con trattati e ambascerie, intepidiva quel suo fiero e micidiale fanatismo. Venezia di tante perdite si rifece coll’acquisto di Cipro. Questa grande isola era stata, in compenso del regno di Gerusalemme, attribuita da Riccardo Cuor di Leone a Guido di Lusignano, nella cui stirpe rimase fino alla morte dell’effeminato Giano III (1458). Jacopo Lusignano, suo figlio naturale, pretendeva ereditarla a scapito della sorella Carlotta, maritata in Luigi di Savoja. Occupatala, n’ebbe investitura (1464) dal soldano d’Egitto, di cui l’isola riconosceasi vassalla; e prese anche Famagosta, da novant’anni possesso de’ Genovesi. Carlotta fu costretta fuggire, ed intraprendente quant’era dappoco il marito, impegnò a favor suo il papa, i cavalieri di Rodi, i Genovesi: ma i Veneziani si chiarirono pel bastardo, e poichè questo mancava di denari onde mantenervisi, Marco Cornaro veneziano suo banchiere gli esibì centomila zecchini se volesse sposare la bella sua nipote Caterina. Acciocchè non fosse disuguale al regio parentado, questa fu adottata dalla repubblica di San Marco; e il titolo di vana onorificenza divenne occasione d’importantissimo acquisto. Perocchè, ucciso Jacopo (1475) e tempestando l’isola fra i pretendenti, la Repubblica si dichiarò erede eventuale di Caterina, come la madre della figlia; e col pretesto delle minaccie dei Turchi la indusse o costrinse a rinunziare Cipro (1489). Caterina ricevette in cambio il castello di Asolo nel Trevisano, dove conservando il titolo, e circondandosi di lusso, di piaceri e di lettere, poco ebbe a ribramare il regno perduto. Venezia ottenne così quell’isola, ubertosissima di vini, di biade, d’olj, di rame; e a chi parlasse male di questo fatto, intimò sarebbe annegato. I duchi di Savoja, a cui Carlotta avea rinunziato i suoi diritti, protestarono, ma non poterono che aggiungere ai loro titoli quello di re di Cipro, che poi divisero innocentemente cogli eredi di Venezia. CAPITOLO CXIX. Toscana. Tumulto de’ Ciompi. I Medici sormontano. Torniamo ora gli sguardi verso l’Italia, dove la prisca infinità di Stati è ormai riunita attorno a quattro principali, Lombardia, Toscana, Stato Pontifizio, Napoli; e diciamo di ciascuno in particolare, dopo esaminatene le vicende comuni. Di Firenze l’età poetica può ritenersi chiusa colla morìa del 1348, che vi uccise centomila uomini, alterò i costumi per le fortune accumulate, e rincarì i salarj degli operaj. Nel 1352 una banda di ladri, fingendo dar serenate a questa o a quella signora, pregava i viandanti non passassero da quella via per non disturbare i suoni e gli amori, e intanto svaligiava le case. Scoperto l’artifizio, ed esserne capo Bordone Bordoni di famiglia primaria, il Filicaja confaloniere di giustizia volea prenderne severa punizione; ma i parenti interposero uffizj e denaro, tanto che i priori cassarono i collegi del gonfaloniere. Questo, risoluto a voler eseguita la legge, abdicossi della dignità e partì per Siena; ma il popolo cominciò ad esclamare che non rendeasi più giustizia, e tumultuò a segno che fu forza richiamare il Filicaja, il quale fece troncar la testa al Bordoni, esigliò i complici, e al fine del magistero n’ebbe un premio di duemila fiorini. Firenze procurò riparare a que’ danni istituendo l’Università, e poco poi, ad istanza del Boccaccio, una cattedra di greco, la prima in Occidente; potè assodare il suo dominio su Prato; occupò Volterra, sottraendola alla tirannia di Bocchino Belforti. La sua sommissione a Carlo IV non ha altro valore, se non dei centomila fiorini con cui ne comprò la conferma de’ suoi privilegi; e nelle altre città non valse che a rinfocare le dissensioni interne, le quali al partire di Carlo proruppero, peggiorate dalle bande mercenarie, delle quali vedemmo come trionfasse. Tardi era sorta a libertà, e solo al chinare degli Svevi e col favore dei papi; onde non soffrì i primi trambusti di quella gran rivoluzione nè la lotta col Barbarossa, e potè far senno dell’altrui esperienza; per forza o per trattati ridusse alle leggi comuni i signori vicini, e si spiegò francamente papale; e con tanti magistrati, tutti elettivi e di brevissima durata, otteneva che molti s’interessassero alle fortune patrie, e negli uffizj acquistassero pratica, franchezza, largo e generoso vedere. Le proposizioni erano dalla Signoria presentate al consiglio del _popolo grasso_ di cento persone; indi passavano all’assemblea, composta del consiglio delle capitudini delle arti maggiori, e di quello di credenza d’ottanta cittadini; in terza istanza venivasi al consiglio del podestà, di ottanta membri, fra nobili e plebei: dopo di che l’assemblea generale di tutti questi consigli votava, e attribuiva forza di legge all’ordinanza. Tale forma variò nelle particolarità, ma durò nel proposito di togliere la decisione suprema al potere esecutivo, per affidarla a consigli popolari, ne’ quali erano rappresentate tutte le forze vive della nazione, impedendo la preponderanza d’un consiglio col riservare la definitiva risoluzione all’assemblea generale. Dappertutto le prime risoluzioni comunali furono piuttosto dovute ai nobili, vale a dire della stirpe degli antichi conquistatori e possidenti, che formatisi in comune, si volevano assicurare e governare. Ma ben presto le società degli artigiani e i piccoli possidenti fecero dare alla rivoluzione un secondo passo, eguagliandosi alle antiche famiglie nella giustizia, negli uffizi, nei pesi. In qualche luogo anzi vi si sovrapposero, e questo fu il caso di Firenze, dove i nobili rimanevano esclusi da ogni impiego, le sole arti partecipandovi; sicchè le famiglie che vi aspirassero, dovevano farsi scrivere sulla matricola di qualche maestranza. Dante apparteneva a quella degli speziali, e non rifina di declamare contro i villani d’Aguglione, di Campi, di Certaldo, che erano venuti a Firenze a imbastardire la semenza santa degli originarj, discendenti dai Romani. Però nelle genti nuove non tardò a formarsi un’aristocrazia, le arti maggiori e le minori erano gerarchicamente disposte, e tutt’occhi ad escludere chi non fosse del loro numero. Giano Della Bella represse viepiù i nobili col sancire non fosse eleggibile se non chi realmente esercitava un arte: poi la potenza collettiva de’ priori fu personificata nel gonfaloniere di giustizia, che doveva presedere alla esecuzione di questa, eletto a due gradi dal popolo, e con una guardia di mille, poi fin quattromila uomini, talchè ben presto divenne il primo magistrato, e dirigeva a suo senno gli affari pubblici. A tutti i cittadini non nobili erano aperte le cariche; ma era _divieto_ che due dello stesso casato sedessero contemporaneamente nelle primarie. Le antiche famiglie essendo allargate in più rami, e gelose di conservare i nomi tradizionali, cadevano spesso in questa esclusione; quasi mai le nuove, le quali non conosceano tampoco due generazioni di loro parenti: sicchè il governo veniva a persone sempre meno esperte degli affari, e ai Guelfi di vecchio ceppo surrogavansi Ghibellini. Come contro gli antichi il _divieto_, così contro i nuovi militava un altro statuto. Fin dal 1266 erasi cominciata l’amministrazione della massa guelfa, con capitani di parte, due plebei e due cavalieri, rinnovati ogni bimestre, e in continuo aumento di potenza e d’arroganza. Nel 1358 Uguccione de’ Ricci, di famiglia emula degli Albizzi, fece stanziare che, se un Ghibellino o non vero Guelfo occupasse un impiego pubblico, incorresse una pena, che poteva essere dalle cinquecento lire fin alla vita, in arbitrio del podestà, e sovra deposizione di sei testimonj, approvati dai capitani di parte e dai consoli delle arti. Questa legge, nuovo testimonio dell’esorbitare delle fazioni, tendeva ad escludere chi possedesse meno di cinquecento lire, e chiunque sgradisse ai capitani della massa guelfa. I priori se ne avvidero e la tagliarono, pure modificata passò; ai capitani ne furono aggiunti due artigiani, e portati a ventiquattro i testimonj richiesti; ai due posti de’ cavalieri potevano aspirare anche i nobili; e qualora uno, eletto ad un seggio della Signoria, fosse sospetto di pensare ghibellino, verrebbe ammonito acciocchè non si esponesse al pericolo della multa. Era un sindacato terribile pei magistrati, e riduceva le elezioni in mano de’ capitani di parte. Questa specie di terroristi esercitavano con prepotenza l’infausto diritto di molestare i concittadini; cercavano si votasse a palla scoperta per influire più efficacemente; e una volta non riuscendo bastanti i voti, Bettino Ricasoli fece serrare il palagio, e nessuno n’uscirebbe sinchè, al dispetto di Dio e degli uomini, due non fossero dichiarati ghibellini; e da ventidue volte uscito vano il partito, finalmente per istracchezza fu votata l’ammonizione. Non era più l’antico fervore per la Chiesa e per l’Impero, ma libidine di occupare gl’impieghi, di escluderne i concorrenti, di far vendette[98]; e di tal passo viepiù restringevasi l’oligarchia. Questa, comunque ella fosse salita al potere, vi mostrava abilità e vigore; reprimeva i tentativi fatti per abbatterla, snidava gl’incomodi castellani, e cercava il prosperamento della patria. Ma potea sperarsi di dar consistenza a un governo, dove ogni impiego era attribuito dalla sorte, e rinnovato a brevi termini? Fuor di esso formavasi un partito che realmente dirigeva la repubblica, e che divenuto robusto, ricorreva al suffragio universale onde farsi attribuire la _balìa_, cioè potere dittatorio, affidato a parecchi membri, i quali rinnovavano le borse ponendovi nomi della loro parzialità, esigliavano quei della contraria, estorcevano denari con mezzi arbitrarj, e cessando lasciavano la repubblica nella stessa altalena fra l’anarchia e l’arbitrio. Pertanto nella città, o a dir meglio ne’ varj Comuni che la componeano, distinti per fazione, per quartiere, per arte[99], forma stabile di reggimento non aveasi; e, al contrario di Venezia, tutto parea costituito per fare che gl’individui campeggiassero, mentre illanguidivano i corpi dello Stato. Quindi il cadere dell’uno e succedere dell’altro cangiava i partiti e partoriva violazioni di diritti, ma non ne derivava mutamento alla costituzione, non alla politica esterna. Le case antiche mettevano ogni opera a mantenere la purezza guelfa coll’applicare severamente l’_ammonizione_, e così eliminare gli uomini nuovi, inclinando perciò all’aristocratico. Le nuove pretendeano si levasse la nominale distinzione di Guelfi e Ghibellini, spalleggiando l’opinione democratica. Gli antichi plebei guelfi, che allora cominciavano a chiamarsi la nobiltà popolana, si schieravano cogli Albizzi; coi Ricci, intitolati ghibellini, parteggiavano gli Strozzi, gli Alberti e i Medici, famiglia salita in molta ricchezza col commercio, e disertata dai nobili popolani. Gli otto della guerra contro il papa addicevansi tutti a questa fazione come amici di Bernabò, e parvero farla sormontare col resistere a forza spiegata contro ai pontifizj. Gli Albizzi, forti dell’appoggio de’ vecchi nobili e di chiunque era geloso degli otto della guerra, si schermivano ammonendo, e rivalsero quando il popolo disse risolutamente: — Sono stanco dei sacrifizj e della scomunica». Gran colpo l’interdetto a città così fedele alla Chiesa: ma non che si esacerbassero, gli animi si compunsero; «in ogni chiesa si cantavano alla sera le laude, assistendovi uomini e femmine innumerevoli, e spendendovi senza misura in cera e libri e simili occorrenze; ogni giorno processione con reliquie e canti musici, e sin fanciulli di dieci anni entravano nelle compagnie di Battuti; e più di cinquemila n’andavano talora alle processioni, e fin ventimila nelle processioni generali; e quei che assistevano alle prediche, orazioni, digiuni, erano il cento per uno di quando si dicea la messa; molti giovani nobili si ritirarono in gran penitenze a Fiesole, e convertivano peccatrici, e benchè ricchi andavano ad accattare pei convertiti» (MARCHIONNE). Poi insultavano ai fautori della guerra, e quando scendevane alcuno dal palazzo «e’ gli dicevano: _Or va, fa guerra colla Chiesa_, picchiavangli le panche dietro, facevangli le corregge colla bocca, e così infino a casa lo rimetteano». A questo universale desiderio e alle parole di santa Caterina bisognò piegarsi, presentare le scuse al papa, e conchiudere pace. Allora i Ricci si trovano a terra, ed esclusi dalla Signoria per la legge appunto che essi aveano provocata; onde diguazzarono fazioni, sinchè una balìa dei dieci della libertà per cinque anni vietò da ogni magistratura tre membri d’ambedue le famiglie. Così la tirannide degli oligarchi montava sempre più, blanditi da tutti quelli che li temeano; finchè si trovarono alcuni buoni, che opposero coraggiosa resistenza (1378). Silvestro di Alamanno de’ Medici, rettissimo cittadino, intraprendente, e caldo avversario de’ Ricci, essendo tratto gonfaloniere, fece istituire una balìa, la quale ammaccò l’autorità dei capitani di parte, e lenì la severità contro gli ammoniti e sospetti ed esuli ghibellini, lasciando loro speranza della patria e degl’impieghi. Il popolo, che affollato sulla piazza de’ Signori, avea fatto passare queste leggi contro la stabilita oligarchia, e saccomannato le case degli Albizzi, degli Strozzi, dei Buondelmonti e d’altri guelfi[100], temette che allo sbollire cominciassero i castighi; onde, sollecitato dagli ammoniti, combinò leghe di tanta forza, che la Signoria non osò punire i capi faziosi, sebbene li conoscesse. Ma nella democrazia la classe inferiore tramesta sempre per collocarsi a fianco alla sovrastante, per vedersi poi ella stessa invidiata e battuta da una più bassa. Quando la città si divise in arti, giudicata ciascuna da proprj capi nelle controversie civili, alcuni esercizj inferiori non formarono corpo, ma vennero considerati subalterni ad altri (1378); e per esempio, tintori, tessitori, cardatori di lana furono aggiunti ai drappieri. Ne nasceva che costoro, o quei che andavano a giornata, se si querelavano in giudizio, trovassero talvolta per giudici i proprj padroni od i consorti de’ loro avversarj. Perciò pieni di corruccio, e temendo d’essere puniti de’ passati subugli, i plebei o Ciompi cominciarono a brulicare, poi levandosi in armi (20 luglio), tolsero al bargello quelli che la Signoria avea fatti arrestare, incendiarono le case del gonfaloniere e de’ sospetti, piantarono forche sulle piazze per chi rubasse, conferirono la cavalleria a Silvestro de’ Medici e sessantaquattro altri loro prediletti, i quali per non essere uccisi accettarono l’onore pericoloso, sebbene d’alcuni fosse stata il giorno stesso bruciata la casa. Preso il gonfalone (luglio), e assediata la Signoria in palazzo, i Ciompi domandarono che i mestieri dipendenti dai fabbricanti di panno formassero corporazione distinta, con consoli proprj, e così i tintori, barbieri, farsettaj, cimatori, cappellaj, fabbricatori di pettini; si sprigionassero tutti i rei, salvo i traditori e i ribelli; nessuno del popolo minuto potesse per due anni chiamarsi in giudizio per debito al dissotto di cinquanta fiorini. Queste ed altre minori domande furono accettate, ma crescevano a misura che soddisfatte, tanto più che i priori non seppero altro partito che abdicare. I ciompi occupano le porte della città; Michele di Lando cardatore, che trovasi fra quella folla scalzo ed in farsetto[101], vien tolto per capo, e affidatogli il gonfalone di giustizia, col quale esso li precede al palazzo pubblico, ed ivi dice alla ciurma: — Questo palazzo è vostro, vostra questa città; esprimete la vostra volontà sovrana»; e la ciurma a piena gorgia — Sii tu gonfaloniere, riforma tu il governo». Onest’uomo, animoso al primo avventarsi e, ch’è più raro, temperante ed, assennato al regolare, il Lando pose termine alle prepotenze degli otto della guerra, e insieme colla fermezza attutì le sêtte, prevenne i saccheggi, rintegrò gli ammoniti, e bruciate le borse da cui doveano sortirsi le magistrature, nominò una nuova Signoria di tre dell’arti maggiori, tre delle minori, tre del popolo minuto, rinforzati con milleducento balestrieri. La plebe, come succede, si gridò tradita, corse al palazzo tumultuando, e stava tutto il dì in piazza armata e schiamazzante, chiedendo ora proscrizioni, ora divieti, ora concessioni, sollecitata da’ suoi piaggiatori che la chiamavano popolo di Dio: e il Lando spiegò una risolutezza che mancò spesso ad altri demagoghi, quella di negar soddisfazione a domande fatte a quel modo; e allorchè s’accinsero a far violenza, spiegò il gonfalone della giustizia, trasse la spada, ferì o disperse i ciompi, cacciò un migliajo de’ più pertinaci, di modo che la moltitudine trovossi imbrigliata dal proprio creato. Finito il suo tempo, egli depose la dignità, e fu per onoranza ricondotto a casa dai donzelli della Signoria con l’arme del popolo, targa, lancia e palafreno magnificamente bardato. La taglia guelfa si trovò allora soccombente (1379); e i Ghibellini fattisi capipopolo, continuavano i sospetti e le provvigioni contro i ricchi e potenti, e moltissimi giudicarono ad esiglio o a morte. Giovanni Aouto mandò esibire rivelerebbe una trama ordita con Carlo di Durazzo contro la Repubblica, se questa gli desse cinquantamila fiorini e di poter salvare sei persone da morte, o ventimila fiorini se le bastasse saper il trattato, non gli uomini. Di fatto si venne in chiaro della cosa, e il popolo a furia voleva giustizia, o se la farebbe col ferro e col fuoco; e per quanto gli uffiziali ripetessero non trovare titoli bastanti contro gli accusati, fu forza uccidere Piero degli Albizzi, lungamente capo della repubblica, e i primarj suoi fautori; molti popolani furono degradati fra i nobili; e preso al soldo l’Acuto, gli esagerati dominarono, facendo insulse e impertinenti provvigioni, non solo contro i magnati, ma fin contro gli artieri meno infimi; profondeansi adulazioni al popolo di Dio, e v’avea cavalieri che faceansi tagliare gli sproni per ricevere di nuovo il cavalierato dal basso popolo. Intanto altri ciompi fuorusciti rinterzavano congiure, crescevano assassinj; e la plebe insospettita attribuiva poteri smisurati agli uffiziali, chiedea nuovi rigori fin contro tutti i parenti e consorti degli sbanditi, sempre dubitando perdere ciò che male aveva acquistato. Alle maestranze venne lezzo di tale disonesta tirannia (1382) e degli _scorridori_ o spioni di cui si circondavano i triumviri de’ ciompi; e in occasione che voleano di nuovo violentar la giustizia, i moderati presero il sopravvento, il vulgo applaudì alla morte di quelli, dei quali aveva applaudito le uccisioni, e con bestialità li straziò, gridando _Vivano i Guelfi e le arti_; e non senza sanguinose baruffe si formò la Signoria (1382 21 genn.), componendola di quattro delle arti maggiori, cinque delle minori, esclusi nuovamente i ciompi, e abolite le tribù del popolo[102]. Maso degli Albizzi, tirata a sè la podestà, ruppe le leggi originate da quel tumulto, confinò i capipopolo, e, ciò che parve indegnissimo, fin il savio Lando, di cui era merito se tutti non erano stati uccisi; e fermò in istato i grandi, che vi durarono per trentacinque anni. I migliori uomini di Stato erano morti od esuli; gli altri, come avviene dopo le paure d’una rivoluzione, si stringeano attorno a Maso, vegliando gli umori opposti che contrariavano senza tregua e non senza tempesta. Il tumulto de’ ciompi aveva disgustato della demagogia, e fatto luogo alla riazione secondo il solito, ove la nobiltà tornava a soperchiare, giovandosi pure del sentito bisogno di riposo. Firenze, posta nel centro d’Italia e perciò tirata in tutte le vicende di essa, si prefiggeva di tenere la bilancia fra i varj Stati, sempre nell’intento di consolidarne la libertà, e d’impedire una monarchia universale, che temeasi allora per l’Italia quanto di poi per tutta l’Europa. Sopratutto stava in occhi contro l’ingrandire di Gian Galeazzo a settentrione, e di Ladislao di Napoli, a mezzodì, perfido quanto i Visconti, e valoroso come essi non erano: e in realtà la padronanza dell’Italia non rimaneva in mano de’ forti, com’essi presumeano, ma de’ Fiorentini, che coll’accorgimento sopravvegliavano gli andamenti generali, e alla prepotenza d’un robusto opponeano la lega dei deboli. Ebbe essa modo d’insignorirsi d’Arezzo (1398) per compra; ma a cagione di Montepulciano venuta in dissidio con Siena, questa cercò l’amicizia di Gian Galeazzo, che subillato dai fuorusciti onde la Lombardia formicolava, si obbligò a mantenere in Toscana settecento lancie per servigio de’ Senesi. Firenze ebbe dunque lungamente a temere che Gian Galeazzo s’impadronisse di Pisa e Siena e la togliesse in mezzo, nè dall’insidie or aperte or celate di lui la liberò che la costui morte. Firenze ne mena tripudio cantando col salmista, _Il laccio è rotto, e noi siam fatti liberi_; e più non temendo per la propria libertà, e gloriosa di essere sfuggita alle insidie del cardinale Albornoz, punisce i feudatarj dell’Appennino che a questo aveano dato favore. Costoro, da capitani dei marchesi antichi, s’erano mutati in signori indipendenti, avanzo delle istituzioni germaniche; e fin allora si erano sostenuti col dare ricovero ed ajuto a’ fuorusciti: ma più nol poteano dacchè gl’imperatori trascuravano l’Italia, e l’elemento popolare e cittadino prevaleva. Principale tra essi era Pier Saccone de’ Tarlati, signore della rôcca di Pietramala, poggiata nell’Appennino che separa la Toscana dalla Romagna nel val d’Arno aretino, a cavaliere dell’antica strada mulattiera fra Arezzo ed Anghiari. Caldo ghibellino, sottopose i vicini signori, gli Ubertini, i conti di Montedoglio e Montefeltro, e i figli di Uguccione della Faggiuola spossessati di Massa Trabaria (t. VII, p. 428). Suo fratello Guido era stato fatto signore d’Arezzo, di cui era vescovo[103], e nel dominio gli successe Piero, che teneva pure Bibbiena, Castello, Borgo Sansepolcro e tutta la val Tiberina. Dappoi fu costretto cedere per dieci anni Arezzo ai Fiorentini con tutto il contado: ma quando le città si rivoltarono a Firenze dopo la cacciata del duca d’Atene, i Tarlati ne presero occasione di ripigliare i loro castelli. Piero nella guerra de’ Visconti sempre parteggiò contro Firenze, sinchè la pace di Sarzana (1353) lo ridusse in quiete. Stando Carlo IV a Pisa, egli di novantacinque anni andò a riverirlo col vescovo d’Arezzo, Neri della Faggiuola, i Pazzi di Valdarno, e chiedeva esser ripristinato nell’antica signoria; ma non l’ottenne. Sino ai novantasei però stette capo de’ Ghibellini e formidabile a Firenze; poi venuto all’agonia, e persuaso che i suoi nemici non prenderebbero guardia contro di un moribondo, mandò per sorprendere il castello degli Ubertini; ma i suoi furono respinti, e con tal dispiacere egli morì (1356), e colla certezza che nessuno sosterrebbe la grandigia del suo casato. In fatti suo figlio fu ben presto assediato nella paterna rôcca, e costretto rassegnarla ai Fiorentini, che la demolirono. Anche i conti della Gherardesca si sommisero a Firenze, che li costituì vicarj di Bibbona e di quattordici castelli della Maremma: i Gambacorti le soggettarono Bièntina, Cerbaja i conti Alberti di Mangona, gli Spinetta Fivizzano: i Ricàsoli raccomandarono il castello di Brolio; i conti di Battifolle vendettero quei di Belforte e di Gattaja; altrettanto fecero i conti di Dovadola; il conte Jano degli Alberti dovè cedere i suoi in Mugello. Gli Ubaldini erano poderosi di terre e rôcche nella val del Senio e nel vicariato di Firenzuola, talchè questo chiamavasi l’alpe degli Ubaldini, donde più volte erano discesi a danno di Firenze. Nel 1362 Giovachino, signore di castel Pagano in val del Senio, morendo per ferita avuta dal fratello Ottaviano, a costui danno chiamava erede il comune di Firenze, il quale di quei dominj, contenenti dodici castelli, costituì il _podere_ fiorentino (1372), estendendolo nelle vicinanze, sinchè la schiatta degli Ubaldini, tante volte rivoltatasi contro il comune di Firenze, restò annichilita. Sopra undici di loro fu messa la taglia di mille fiorini d’oro, chi li desse vivi o morti; e nominati alcuni _uffiziali delle alpi_ di Firenze, che munissero da quel lato i luoghi della Repubblica: sicchè gli Ubaldini rinunziarono per mille fiorini quattordici castelli che tuttora occupavano; Tommaso da Treviso capitano del popolo ne menò trionfo, e gli Ubaldini furono sciolti dal bando, restituiti in possesso de’ beni allodiali nel Mugello, e dichiarati cittadini popolani[104]. I Santafiora furono sottomessi da Siena, il castel della Sambuca dai Pistojesi, concentrandosi così più sempre i poteri nelle città, mentre sopra queste vigoreggiava Firenze, che ebbe sottoposto (1390) anche Montepulciano. Vero è che la tributò la peste rinnovatasi nel 1400[105]; ma rifattasene, comprò Cortona per sessantamila fiorini, e tolse i possessi ai conti Guido di Dovadola e al conte di Poppi. I Genovesi, dolenti che Venezia acquistando Padova si fosse tanto rinforzata in terraferma, pensavano ad elevarle qualche avversario, e non videro miglior modo che ingrandire Firenze col farle acquistar Pisa, a patto che guerreggiasse i Veneziani. Indussero dunque Gabriele Maria Visconti a vendere loro quella città e Ripafratta per ducentoseimila fiorini: ma i Pisani, indignati di vedersi mercatare come armento, si ricordano dell’antica nobiltà, afferrano le armi (1405) e resistono, diretti da Giovanni Gambacorti. I Fiorentini «scandolezzati dell’alterigia pisana» non vogliono sentire nè messi nè patti; e risoluti ad ogni estremo per domarli, destinano dieci sopra quella guerra fratricida. I Pisani li respinsero intrepidi; ricomposero le inestinguibili nimicizie de’ Raspanti e Bergolini, prendendo insieme l’eucaristia e stringendo parentadi; e benchè, dispersa da una burrasca la flotta che recava grani di Sicilia, fossero ridotti i priori a mangiare pan di linseme, e il popolo fin la gramigna delle strade, pur resistono allo Sforza, a Tartaglia, a’ soldati, cui i Fiorentini prometteano, se scalassero le mura, paga doppia, mese compito, il saccheggio della città, centomila fiorini di mancia, ed armi e vesti a piacere. E quando, dopo lungo assedio e consumate innumere vite, il Gambacorti capitolò ricevendo denari, essi dovettero accettare la servitù, ma molti abbandonarono la patria per sempre. Gino Capponi, integerrimo petto, che in quella guerra si era segnalato come commissario de’ Fiorentini, e a gran fatica salvò Pisa dal saccheggio promesso ai venturieri, nominatone governatore, cercò mitigare gli ordini del Comune vincitore e i fremiti del vinto; ma non potè risparmiare il rigore. Quanto dovettero indispettirsi i Pisani vedendo togliersi fin la testa di san Rossore, «come quella città, priva della libertà e degli antichi onori, fosse ancora da’ suoi santi abbandonata, e all’incontro Firenze di pompa, di gloria, di ricchezze e di benedizione si riempisse»[106]. Alla prima occasione, tentarono darsi ai nemici di Firenze, la quale allora meditò repressioni atroci, chiamare a sè i nobili e megliostanti, cacciare tutti i cittadini dai quindici ai sessant’anni, e altri spietati ordini, i quali abbiamo ragione a credere non fossero messi ad effetto. Anzi troviamo che la vincitrice mandò viveri in copia, poi si industriò, per ravvivar quella che tanto avea faticato a spegnere; scrisse lettere, istruì ambasciadori, trattò con principi, affinchè i tanti fuorusciti ripatriassero; per venti anni francò d’ogni gravezza i forestieri che andassero abitarvi famigliarmente; privilegiò di esenzioni e consoli proprj i negozianti tedeschi di quattordici città perchè con quella mercanteggiassero[107]; vi stabilì l’Università con lauta provvisione e risedio magnifico. V’è però un bene che nessuna concessione pareggia nè supplisce; ed è pena d’ogni conquistatore il vedersi obbligato a spendere nel ribadire le catene e nel fare cittadelle e fortini, il denaro che sarebbe richiesto al pubblico vantaggio. Il Capponi fu lieto di vedere assicurato quell’acquisto col comprare per centomila fiorini dai Genovesi il porto di Livorno, destinato all’importanza che Pisa perdeva, e ad aprire ai Fiorentini traffici lontani senza dipendere da Genova o da Venezia, e così colle private crescere la fortuna pubblica. Subito fu provvisto alla sicurezza di quel porto; vi si creò il magistrato de’ consoli di mare, che erano sei cittadini fiorentini, di cui quattro estraevansi dalle cinque arti maggiori, esclusa quella de’ giudici e notari, e due dalle minori, principalmente occupati a prosperare la mercatura e la marina, risolvere le cause marittime, e fabbricare una galea ogni sei mesi, col legname delle foreste delle Cerbaje, facendo franche d’ogni rappresaglia, anche in caso di guerra, le merci trasportate su quelle galee. Ad esempio di Venezia, si stabilì edificare due galee grosse e cinque sottili, da spedire ad Alessandria per spezierie ed altre merci, e per esercitare la gioventù in cotali esercizj: vi s’imbarcarono dodici giovani di buone famiglie, e dal soldano d’Egitto s’ottenne d’avervi console, chiesa, fondaco, bagno, statera, bastagi, scrivano proprio, per sicurezza dei mercanti e onorevolezza della nazione. Furono posti consoli in tutte le parti di fedeli ed infedeli; e ben tosto Firenze possedette navi per affrontar Genova e sconfiggerla. Internamente essa prosperava con ordinamenti buoni, cooperando ciascuno per l’accrescimento della città. Chiunque era ammesso cittadino, dovea fabbricare in Firenze una casa di almeno cento fiorini; le scritture pubbliche si ridussero ne’ libri delle Riformagioni; si convertì in legge la compilazione degli statuti; si migliorò la moneta; si creò un nuovo Monte o vogliam dire debito pubblico; si formò il catasto col nome di ciascun cittadino, l’età, la professione, l’importare della sua fortuna in beni immobili e mobili d’ogni specie, tassando di mezzo fiorino ogni cento di capitale. Valutavasi che nelle vie attorno al Mercato nuovo fossero settantadue banchi, e girassero in contante due milioni di fiorini d’oro. Allora si cominciò l’artifizio dell’oro filato, si moltiplicò quello de’ drappi di seta, fu permesso a ciascuno d’introdurre foglia di gelsi e allevare filugelli senza gabella. Copiosissime ricchezze aveano accumulalo que’ magistrati mercanti, e l’eguaglianza repubblicana non lasciava sfoggiarle in inutile suntuosità, non grandi comitive di servi, non insultante sfarzo di carrozze; a piedi andavano anche le mogli de’ primaj; leggi suntuarie reprimevano il lusso, permettendo la magnificenza, sicchè spendeasi in palazzi, chiese, quadri e statue, o in trarre rarità e libri dal Levante. Si abbellì la città coll’opera dei primi artisti: fu provvisto che ciascun’arte collocasse lo stemma proprio e la statua del santo patrono in una delle nicchie esterne di Or San Michele, ove lavoravano di marmo e di bronzo Donatello, Andrea del Verrocchio, Baccio da Montelupo, Nanni del Bianco, Simone da Fiesole, Lorenzo Ghiberti: a questo l’arte di Calimala allogò le porte di bronzo di San Giovanni, dove riuscì sì famosamente, che fu dichiarato gonfaloniere, e infisso il gonfalone alla sua porta in Borgallegri; mentre chiamavasi Filippo Brunelleschi a voltare la cupola di Santa Reparata. Per rimovere il pericolo di correre strabocchevolmente a guerre, si prese che ad un consiglio di ducento, da rinnovarsi ogni sei mesi, fossero fatte le proposte della Signoria, poi passate al consiglio dei centrentuno, nel quale entravano la Signoria, i collegi, i capitani guelfi, i dieci della libertà, i sei consiglieri della mercatanzia, i 21 consoli delle arti, e quarantotto altri cittadini; e se passassero, doveano ancora sottoporsi al consiglio del popolo, indi a quello del Comune; nè senza l’approvazione di questi quattro consigli veruna provvisione avea forza. Speravasi che il dover consultare tanti consigli indurrebbe alcuno a opporre il suo no; ma è sintomo di debolezza il non saper rimediare che col moltiplicare i conflitti. Insomma il governo rimaneva democratico, ingerendosi il popolo direttamente dell’amministrazione; gran numero di cittadini v’erano a vicenda chiamati, e i numerosi consigli pubblici erano scuola di scienza civile: che se talvolta le passioni popolari e le fazioni spingevano ad eccessi, in fondo la politica n’era generosa e insieme arguta a scorgere i sottofini de’ papi e degl’imperatori, savio ed abile il governo, civile la nazione, fida alla libertà anche a gravissimo costo, devota alla santa Sede, non però ciecamente. Poco valeva nelle armi, pure seppe opporre meglio che denaro alle bande di ventura, e le avrebbe distrutte se i principotti non avessero avuto troppo interesse a conservarle. Ella medesima se ne valse per fiaccare i Visconti, e qualvolta cadde sotto la tirannia d’un soldato o della plebaglia, non tardò a riscattarsene. Molti signori s’accomandavano a Firenze, come i nobili di Guggio pe’ loro castelli nell’Imolese, i marchesi di Lusuolo in Lunigiana, i Grimaldi di Monaco obbligandosi a servire in persona con una galea, Gian Luigi dal Fiesco conte di Lavagna promettendo condurre trenta lancie e ducento fanti, e ricevendo stipendj. Invece dei bassi o atroci delitti che insozzano le storie de’ principotti, Firenze ci tramandò i capolavori dell’arte e della parola, i quali ne eternano la lode; le abbondarono cronisti e storici, quali, dopo Dino e i Villani, furono Matteo Palmieri, Paolo e Giovanni Morelli, Jacopo Salviati, Giannozzo Manetti, Amaretto Manelli, Domenico Buoninsegna, Buonaccorso Pitti, Gino e Neri Capponi, Simone della Tosa, Bernardo Rucellaj, Giovanni Cavalcanti, Lorenzo Buondelmonte, Filippo Rinuccini; e la superiorità di costoro, che non soltanto raccontano più colti e limpidi, ma giudicano ancora con grave assennatezza e spesso con elevazione, è argomento del quanto la nazione fosse superiore alle altre italiane nell’esaminare la politica, regolarla, sceverarla da passioni; e come allo spirito di parte sovrastasse sempre l’amore della patria. Nei trentacinque anni ch’e’ presedette allo Stato, Maso degli Albizzi mostrò abilità e coraggio; istrutto dall’avversa fortuna, non imbaldanzito dalla benigna, strettamente alleato coi Veneziani, tenne testa a Gian Galeazzo e a Ladislao, eppure non uscì mai dalla condizione di privato: ma poichè la parte trionfante non seppe astenersi nè dall’insolenza verso altrui, nè dalla sconcordia tra sè, al morir suo le case degli Alberti, Medici, Ricci, Strozzi, Cavicciuli, spesse volte d’uomini e di roba spogliate dai nobili popolani, e rimosse dai pubblici uffizj, rifecero testa, e colle ricchezze e coll’educazione mostravansi degne di amministrare lo Stato. Giovanni di Bicci de’ Medici avea guadagnato largamente in traffici di banco, massime durante il concilio di Costanza servendone al papa, talchè avea credito illimitato e affari per tutto il mondo; pure sembrò tanto benigno e scarco d’ambizioni, che si cessò d’escluderlo dagl’impieghi. Coll’accomodare di denaro chi n’avesse bisogno, col blandire al popolo, col mostrarsi moderato fra le esuberanze de’ parteggianti, si procacciò stima nell’universale, e più quando, tumultuando il popolo per soverchie gravezze imposte a cagione della guerra con Filippo Visconti, e volendo i nobili popolani fiaccarlo collo sminuire il numero delle arti minori, egli si oppose alla proposta, e sostenne l’alleggiamento e che si istituisse il catasto, benchè su lui più che su altri, come maggior possidente, dovesse gravare. Ricchi dunque e popolani studiavano trarlo dalla loro; e malgrado l’opposizione di Nicolò da Uzzano, amico di Maso e suo successore nel primato civile, il portarono (1421) al posto di gonfaloniere, che con gran decoro sostenne fino a morte. Cosmo suo primogenito ne ereditò (1429) il credito e l’importanza, e a capo della fazione recò l’abilità e le virtù paterne, e maggior animo nelle cose pubbliche; grave e cortese ne’ modi, liberale a proporzione delle ingenti ricchezze; entrante, conoscitore profondo degli uomini, longanime nello aspettar l’esito de’ disegni fermamente concetti; franco nel manifestare i suoi pareri, eppur tenuto come prudentissimo: inclinato alle vie dolci, ma sapendo all’uopo dar passi robusti; francheggiato da molti amici e clienti, ai quali era sempre disposto a fare servigio dell’aver suo. Di squisito gusto nelle arti, di molta erudizione, di retto giudizio, favorendo le lettere e le arti apriva nuove strade alla crescente operosità: il giro de’ banchi, per cui non trovavansi più ridotti a miseria, legava gli sbanditi per interesse e per gratitudine alla famiglia che più lavorava di cambio; i condottieri deponevano presso di quella i loro avanzi, o le domandavano anticipazioni. Più dovizioso riusciva Cosmo perchè non abbandonò mai il vivere privato; senza sfarzo di casa che abbagliasse i cittadini, senza comprare stranieri ministri, o scialacquare in pranzi e comparse, o assoldar truppe, mai non dispose per sè più di quarantasei in cinquantamila fiorini l’anno, mentre lo Sforza ne spendea trecentomila prima di salire duca. E appunto le virtù private, i temperati consigli, il sentimento popolare, la calma fra le burrasche fazioniere, la lauta beneficenza furono stromenti alla potenza de’ Medici. Lucca era stata lungamente alleata di Firenze, poi al 1314 disertò da’ Guelfi; e dopo lo sfavillante dominio di Castruccio e d’Uguccione, andò soggetta a vicenda a Gherardino Spinola, a Giovanni di Luxemburg, a Mastino della Scala, a’ Fiorentini, a’ Pisani, a Carlo IV[108], dal quale poi nel 1369 riebbe la libertà, cioè di non esser sottomessa a verun’altra città, ma soltanto all’impero. E quel fatto di cui fecero tanta festa i contemporanei, e tanto scalpore gli storici posteriori; concordi nel proclamare come liberatore quel Carlo, che realmente sottoponeva, almeno in carta, quella repubblica al dominio imperiale. Immune da dipendenza di vicini, Lucca esercitò alla cheta le interne emulazioni fra i discendenti di Castruccio, i Fortiguerra, gli Spinetta e i Guinigi. Quest’ultima famiglia vi primeggiava; ma essendo perita quasi tutta nella peste del 1400, il giovinetto Paolo sopravissuto fu da ser Giovanni Cambi (il cronista) indotto a farsi _signore a bacchetta_, e perciò, scostandosi da Firenze, unirsi a Galeazzo Visconti, col cui appoggio si assicurò il dominio. Senza tampoco rispettare le forme, come faceano i precedenti, e togliendo ogni autorità al Comune, trent’anni egli serbò quieta la repubblica, ma dappoco e sempre in paura di cadere, nè seppe introdur buone istituzioni, nè farsi amici, benchè circondato di favoriti, di parentele, d’alleanze co’ principi, e fidente nella _cittadella_ che fabbricò; mancava di quel valore che le plebi stimano più che le qualità utili, e alle bande mercenarie, massime di Braccio, non oppugnava che con grossissimi donativi. Firenze, da cui improvvidamente egli avea alienato la repubblica (1429), trovò pretesto a romper seco, e vi spedì i venturieri Nicolò Fortebraccio e Bernardino della Carda, che squarciarono il paese. Il celebre architetto Brunelleschi suggerì di sommerger Lucca, chiudendo l’alveo del Serchio, sicchè l’acqua scalzasse le mura e le abbattesse. A grande spesa si alzò di fatto l’acqua attorno alle mura, che per tre giorni furono inondate, ma poi i contadini riuscirono a sdrucire l’argine, sicchè la piena si rovesciò addosso al campo fiorentino (1430) con immensa jattura. Poi Francesco Sforza, spedito dal duca di Milano, mise in isbaratto i Fiorentini, e ne invase il territorio. Il Guinigi col senno, e i suoi figli col braccio, aveano difeso Lucca; eppure caddero in sospetto di volerla tradire ai Fiorentini, e furono mandati prigioni a Milano, ripristinando il governo all’antica con un gonfaloniere e col consiglio degli anziani. I Fiorentini, che aveano mostrato assumer la guerra soltanto per assicurarsi dal Guinigi, la proseguirono per sottoporre Lucca come le altre città toscane; ma Nicolò Piccinino, stipendiato da Genova, ligio al Visconti, li sconfisse del tutto sul Serchio, invase lo Stato, avvicinossi a Pisa, che facea sonare le sue catene, bramosa di romperle. Tale impresa era stata da Cosmo francamente disapprovata, sicchè l’infelice riuscita crebbe ad esso tanta reputazione quanta ne toglieva agli Albizzi e a Nicolò da Uzzano. Questo però repugnava dai partiti violenti, conoscendo che una rottura aperta darebbe trionfo ai Medici. Ma morto lui e conchiusa pace con Lucca[109], inciprignirono i malvagi umori, e Rinaldo, figlio di Maso degli Albizzi, capoparte più avventato, entrò in grandi pratiche di abbassare e anche cacciar Cosmo, e ripigliarsi lo Stato. Disposte sue fila, sonò a balìa, e convocò una di quelle assemblee in piazza, dove tutti accorrevano a onde e deliberavano a schiamazzo, per l’urgenza del caso trascendendo le barriere costituzionali, e pochi arruffapopolo trascinavano a decidere secondo la fazione. Quivi si diede la balìa a ducento cittadini indicati da Rinaldo; e Cosmo, per accusa di denaro disperso nella guerra di Lucca, fu condannato a morte: se non che egli, comprando alla sua volta Bernardo Guadagni gonfaloniere e gli altri che a Rinaldo già s’erano venduti, ottenne d’essere soltanto sbandito (1433), e la famiglia sua relegata tra le nobili. Andossene a Padova; e allora comparve quanto egli fosse grande, caro dov’era, desiderato ove non era. La Signoria veneta mandò onorandolo, e il richiedeva di pareri; chiunque avesse alcun bisogno, ricorreva ad esso, e una sua raccomandazione bastava: a lui facevano capo i negozianti, sicchè l’avresti detto un piccolo sovrano; mentre a Firenze artisti, poveri, trafficanti lamentavano mancato il loro sostegno. Rinaldo, incapace a lottare coll’avversario lontano che vicino aveva oppresso, cercava inutilmente afforzarsi col riabilitare i nobili alle cariche, da cui già da gran tempo erano esclusi, e fin colle armi tentò far prevalere la sua parte: non girò intero un anno, che interponendosi papa Eugenio IV, allora quivi dimorante pel concilio, fu senza scandali tratta una Signoria (1434 7bre) propensa a Cosmo, questi rintegrato in patria con accoglienze meravigliose, e sbanditi o confinati da settanta de’ suoi avversarj. Rinaldo, non essendosi lasciato persuadere dal papa, e ignaro della virtù dell’aspettare e far a queto, andò a sollecitare Filippo Visconti contro Firenze; e mandò dire a Cosmo — La gallina cova»; al che questo rispose: — Mal cova la gallina fuori del nido». Rinaldo colle bande del Piccinino (1440) penetrò fin alla montagna di Fiesole e nel Casentino: i Fiorentini gli opposero Francesco Sforza, rotto dal quale intieramente ad Anghiari, e invano travagliatosi da capo per ricuperare la patria, andò a finire in Terrasanta. Cosmo, tornato in trionfo, salutato benefattore del popolo e _padre della patria_, pigliò vendetta proscrivendo molti avversarj, molti condannando al supplizio e fin senza confessione, altri assassinati, come Balduccio, condottiere valente di fanteria toscana, che il gonfaloniere di giustizia fece pugnalare e buttar giù dal palazzo senza processi. Con tali colpi otteneasi docilità e svogliava dall’opposizione, e a chi l’avvertiva come la città per tanti banditi venisse in calo, rispondeva: — Meglio città guasta che perduta; del resto, non vi affannate, che con due canne di panno rasato posso fare un uom dabbene», cioè riparare con gente nuova. Non si alterò il modo del governo e de’ magistrati di Firenze, ma tutto dipendeva da Cosmo. Vedendo omai in ciascuna città italica dominare una famiglia, pensò innalzar la sua in Firenze, non per armi, sibbene coll’offrire agli ingegni attrattive e distrazioni nuove nelle arti e nel sapere, avvivare il commercio, estendere la tela politica, aumentare la propria importanza col darne alla patria su tutt’Italia, e quiete a questa coll’equilibrarne gli Stati; a tal fine associò al suo denaro la spada di Francesco Sforza, le due potenze di quell’età, il banchiere e il condottiere. Potendo avere a disposizione tutti i capitani di ventura, mantenne in bilancia le potenze d’Italia: alla sua repubblica aggiunse Borgo Sansepolcro, Montedoglio, il Casentino e val di Bagno. Senza dunque sovvertire la costituzione e le leggi, fondava a cheto la signoria delle ricchezze, le quali, mercè del commercio, aveano indotto immensa disparità fra i cittadini, e procacciando ammiratori e clienti, in pochi restringevano l’autorità, benchè durasse stato di popolo; anzi in cinque soli fece Cosmo (1452) ridurre il diritto d’eleggere la Signoria. A fianco di lui figurava Neri Capponi, in consigli più sottile di Cosmo e, ciò che questi non era, valente in armi e creduto dai soldati; il quale, non cessando d’essergli amico, si tenne indipendente, e menò gli affari più scabrosi. Loro mercè fu riordinata la tranquillità in Firenze, ma insieme tolta la libertà, giacchè dal popolo, quante volte volessero, faceano decretare una balìa dispotica, e riformare le borse, e confinare chi li contrariava; mentre teneansi buoni gli amici col secondarne le passioni, collocarli negli uffizj e ai governi, chiuder gli occhi sulle arti onde s’ajutano i bassi, ligi ai potenti. Alla morte di Neri (1455) parea dovesse ingrandire Cosmo, sciolto da quest’ultimo contrappeso; ma il contrario gli accadde per averne perduto l’appoggio. Gli avversarj pensano umiliarlo coll’abolire le balìe, e tornare alla sorte l’elezione del gonfaloniere e della Signoria; e il popolo va in gavazze, come di ricuperata libertà. Cosmo però non discende pur d’un grado dalla ottenuta grandezza, perchè temperatamente usata, e perchè gli uomini nuovi imborsati erano avvinti a lui per interesse e mercatura, o ligi per gratitudine e speranze; laddove non essendo più gl’impieghi concentrati in mano di pochi, gl’inimici suoi si sottigliavano; i quali, avvedutisi dello sbaglio, cercavano si ripristinasse la balìa. Cosmo, prima d’assentirvi, lasciò che gustassero i frutti della loro inesperienza; ma quando (1458) sortì gonfaloniere Luca Pitti, e’ lasciò tastassero la riforma. Il Pitti, animoso e temerario, teneva col terrore un governo pigliato colla forza: chiunque avesse bisogni o reclami, a lui ricorreva, alla sua casa tutti i malviventi; e coi regali ricevuti, che vorrebbonsi far ammontare a ventimila fiorini, e col dare sicurezza ai malfattori che vi lavorassero, fabbricò il palazzo a Rusciano, e un altro in città che maestoso grandeggiava sul _poggio_, mentre al piano i Medici conservavano la ricca e pur semplice magione in via Larga. Ritirato in questa, Cosmo appariva più grande dacchè non ritraeva lustro che dal merito personale. Gliela abbellivano con dipinti frate Angelico, Pippo, Masaccio; Donatello il consigliò a radunarvi capi d’arte antichi; nelle corrispondenze sue non chiedeva solo merci e denaro, ma codici, e mandava a trascriverne; accoglieva letterati, massime quelli fuggiti di Costantinopoli; la biblioteca Laurenziana ebbe origine dai libri di esso; un’altra ne collocò nella badia da lui finita a piè del monte di Fiesole; una ne lasciò al convento di San Giorgio in Venezia, dov’era stato ricoverato; comprò quella ove Nicolò Niccoli avea radunato ottocento manoscritti, e la fece pubblica in San Marco de’ Domenicani, fondazione sua non meno che San Girolamo a Fiesole, San Francesco del Bosco in Mugello, e San Lorenzo in città, ove pure cappelle a Santa Croce, all’Annunziata, a San Miniato, negli Angeli, architettate dal Brunelleschi, da Michelozzo e da altri eccellenti. Pie istituzioni avea lasciato a Venezia, un ospedale a Gerusalemme, un acquedotto ad Assisi; onde non è meraviglia se fuori veniva considerato come un gran principe, in patria vivendo tuttavia da privato. Di sue ricchezze chi potrebbe levare il conto? I suoi poderi di Careggi e Caffagiuolo poteano servire di modelli; aveva in proprio o a fitto tutte le cave d’allume d’Italia, e per una sola in Romagna pagava centomila fiorini annui; per Alessandria mercatava coll’India, nè era città ove non tenesse banchi; prestò somme al re d’Inghilterra, ne anticipò al duca di Borgogna. In questo riposo le gelosie della libertà cadevano; i Fiorentini, come gli altri Italiani, si abituavano a vedere grandezza altrove che nella politica; e l’artista, il letterato, il grosso negoziante onoravansi d’andar esenti dalle cariche, quanto un tempo d’esservi assunti. Ma di due figliuoli rimastigli, il prediletto Giovanni morì a quarantadue anni (1403); Pietro era rattratto di corpo e debole di spirito; fanciulli i due costui figli, onde Cosmo cadente faceasi portare pel vasto palazzo esclamando: — Troppo grande per sì piccola famiglia». Di settantacinque anni morì (1464 1 agosto) nella sua villa di Careggi, dopo stato trent’anni capo della repubblica e non tiranno. E diceva a’ figliuoli: — Vi lascio infinite ricchezze che la mia fortuna mi ha concedute, e vostra madre mi ajutò a conservare; mantenetevi la grazia di ogni buon cittadino e della moltitudine; e se non isviate dai costumi de’ maggiori, sempre il popolo vi sarà larghissimo donatore di dignità. Perchè ciò avvenga, siate misericordiosi ai poveri, graziosi e benigni agli abbienti, e solleciti ad ajutarli nelle avversità: non consigliate mai contro la volontà del popolo: non parlate a modo di dar parere, ma di amorevole ragionamento: del palazzo non fate bottega, anzi aspettate d’esservi chiamati: procurate di tener in pace il popolo e doviziosa la piazza: schivate d’andare ai tribunali, per non impacciar la giustizia. Vi lascio netti di macchie, eredi di gloria, e me ne parto lieto, e più lieto partirei se vi vedessi in sajo anzichè in seta. Fatevi segno al popolo il men che potete. Siavi raccomandata la Nanina madre vostra, e fate, dopo la mia morte, di non mutarle stanza e trattamento. Pregate Dio per me, e abbiatevi la mia benedizione»[110]. Fu compianto dagli amici pel bene ricevuto, dai nemici pei mali che prevedevano quand’egli cessasse di tenere in rispetto i potenti. Di fatto Luca Pitti, d’ambizione e di talenti superiore, che già nella vecchiezza di Cosmo avea fatta rivalere l’oligarchia, tiranneggiò allora a baldanza, disponendo dell’erario e degli uffizj, mal contrastato da Pietro Medici. Le famiglie di Firenze erano state interessate a sostenere Cosmo, in grazia dei prestiti coi quali egli soccorreva ai loro bisogni, persin talora prevedendone la domanda: ma Pietro, volendo rimediare alle scosse date a’ suoi negozj dalle ingenti spese e da fallimenti, e accorgendosi che andavano sempre in peggio da che non v’attendeva in persona, ridomandò improvvisamente i capitali per investirli in terreni: Pensate quanti dissesti! i fallimenti susseguiti furono imputati a sua colpa, e tristo paragone faceasi colla liberalità paterna. Si tramò dunque di togliergli la riputazione e lo stato, e rintegrare la libertà; e pei maneggi del Pitti cassata la balìa, si rimisero alla sorte le elezioni, e fu salutato gonfaloniere Nicolò Soderini, a gran gioja del popolo. Lealissimo repubblicano ma debole, domandava d’essere condotto, invece di saper condurre; quando mise mano a riformare lo Stato per vie legali, si trovò attraversato dalla fazione dei Pitti, speranti nello scompiglio; ond’egli uscì di carica senz’essere a nulla approdato. Moriva in quello stante (1466 8 marzo) il migliore amico de’ Medici, Francesco Sforza; e Galeazzo Maria, figlio di quello, mandò chiedendo fosse a lui continuato il soldo che retribuivasi a suo padre come a condottiero della Repubblica. Quelli del Poggio, cioè i Pitti, fissaronsi al no, e ordinarono cogli Acciajuoli, i Neroni, i Soderini, facendo sottoscrivere tutti coloro che volessero salvar lo Stato e ricuperare la libertà, e chiedendo ajuti a Buoso duca di Modena; e pensavano forse assassinare Pietro e i suoi figliuoli Lorenzo e Giuliano. Pietro, informatone a tempo, li prevenne colle armi e coi trattati, e rimasto superiore, mandò in bando gli avversarj, di che si rincalorirono le nimicizie. Luca Pitti, lasciatosi lusingare da Pietro colla speranza d’un parentado, gli diede la lista de’ congiurati, onde ne fu obbrobriato, e i suoi palazzi rimasti incompiuti attestarono l’altezza della sua ambizione e i danni della sua imprudenza. Gli espulsi, sotto Angelo Acciajuoli attestatisi cogli esuli del 1434, e preso a capo Gian Francesco Strozzi, preparavano guerra aperta; e Venezia, non volendo favorirli alla scoperta, lasciò entrasse al loro soldo Bartolomeo Coleone suo capitano (1467), al quale s’accollarono molti signorotti di Romagna, i Pio, i Pico, gli Ordelaffi, Ercole d’Este, Astorre Manfredi di Faenza, Alessandro Sforza di Pesaro. I Fiorentini si opposero, collegati con Galeazzo Maria e col re di Napoli; e comandati dal prode Federico di Montefeltro signore d’Urbino, alunno di Francesco Sforza, affrontaronsi (25 luglio) alla Molinella nel territorio d’Imola, dove primamente il Coleone adoperò artiglierie volanti, e dove, mancato il giorno, a lume di fiaccole si continuò la mischia. La giornata fu sanguinosa oltre l’usato, ma non risolutiva; la Repubblica fiorentina ebbe a logorare fin un milione trecentomila fiorini d’oro; i fuorusciti, per diffalta di denaro, dovettero desistere e compromettersi in Paolo II, il quale non riuscendo ad accordarli, pubblicò articoli di pace, intimando scomunicato chi non gli accettasse; e dove la conclusione era di restituire ciascuno ne’ pristini possessi; il Coleone con centomila ducati d’oro l’anno sarebbe capo dell’esercito che dai signori tutti d’Italia volevasi mandare contro i Turchi. Nulla stipulò a favore degli sbanditi, dei quali anzi furono staggiti i beni; poi colla ragione o col pretesto di congiure e attentati furono respinte le famiglie de’ Capponi, Strozzi, Pitti, Alessandri, Soderini, ed alcuni mandati al supplizio[111]. Restarono dunque peggiorati dell’avere e della persona, mentre Pietro, gottoso e impotente di tutti i suoi membri, ignorava le sevizie de’ suoi, e predicava moderazione e civiltà; e veramente trattava di ripatriare i fuorusciti, quando morì (1469 2 xbre), soli cinque anni dopo il padre. Tommaso Soderini seppe persuadere a conservar _principi dello Stato_ i giovani figli di lui Lorenzo e Giuliano: i quali a cinque _accoppiatori_ diedero diritto di nominare il consiglio de’ duecento; balìa non più a tempo per casi urgenti, ma permanente e che poteva ogni cosa, punire, esigliare, levar denaro. I Medici trovavansi dunque in mano lo Stato, e potevano convertire a comodo proprio le somme pubbliche, oltre quelle che per avventura riceveano da chi volesse conservarsi in grado o soprusare impunemente; e la tirannia palliavano con feste, colle largizioni, col proteggere artisti e letterati. Lorenzo particolarmente è una delle fisonomie più simpatiche della nostra storia, e ci restano alcuni suoi ricordi giovanili, di cara semplicità: — Il secondo dì dopo la morte del padre mio, quantunque io Lorenzo fossi molto giovane, cioè di anni ventuno, vennono a noi a casa i principali della città e dello Stato a dolersi del caso, e confortarne che pigliassi la cura della città e dello Stato, come avevano fatto l’avolo e il padre mio; le quali cose, per essere contro alla mia età e di gran carico e pericolo, malvolentieri accettai, e solo per conservazione degli amici e sostanze nostre, perchè a Firenze si può mal vivere senza lo Stato, delle quali insino a qui siamo riusciti con onore e grazia, reputando tutto non da prudenza, ma per grazia di Dio e per i buoni portamenti de’ miei passati. Di settembre 1471 fui eletto ambasciatore a Roma per l’incoronazione di papa Sisto IV, dove fui molto onorato; e di quindi portai le due teste di marmo antiche dell’immagine d’Augusto e di Agrippa, le quali mi donò detto papa; e più portai la scodella nostra di calcidonio intagliata, con molti altri cammei e medaglie, che si comprarono allora fra le altre in calcidonio». Morta una Simonetta gentildonna, fior di bellezza e di virtù, era universalmente compianta; e quando col viso scoperto era portata a sepellire, tutta Firenze fu in cordoglio. Lorenzo giovinetto deplorò in versi quella morte, e per ispirarli di maggior verità, cercò persuadersi d’essere invaghito dell’estinta; dal che passò a voler ricercare se altra donna raggiungesse quel modello. E parvegli tale una che egli celò, ma i biografi rivelarono essere Lucrezia Donati, ch’e’ vide in una solennità, così bella che esclamò: — Deh fosse pari alla Simonetta anche in virtù!» E chiestone, poi conosciutala, la trovò migliore ancora della speranza, e d’ingegno meraviglioso senza la presunzione che fa ridicole le saccenti. Questo amore lo fece schivo dei diletti vulgari e delle affollate radunanze, dilettandosi piuttosto nella solitudine, dove tutto rammemoravagli colei, da cui invece lo distraevano i pensieri del mondo[112]. Quest’è il mostro della tragedia d’Alfieri, in cui è verseggiato un nuovo tentativo che i nemici dei Medici fecero per abbattere i due giovinetti. CAPITOLO CXX. Papi reduci in Roma. Congiura de’ Pazzi. Ferdinando di Napoli. Lorenzo Medici. Al concilio di Costanza erasi messo in disputa se più casta non tornerebbe la Chiesa quando si spelagasse dal dominio temporale; ma un oratore ragionò: — Tempo fu che io pensava convenientissimo il separare la potenza terrena dalla spirituale; ma ora son chiaro che la virtù senza forza è ridicola, e che il pontefice romano senza il patrimonio della Chiesa non sarebbe che un servitore dei re e dei principi»[113]. E davvero la schiavitù d’Avignone avea persuaso e papi e signori che importava assicurare alla santa Sede un’esistenza indipendente, acciocchè non divenisse stromento ai regj arbitrj; e si diede opera a consolidarne la potenza politica quando debilitavasi la spirituale. Martino V, tornando a Roma, avea trovato il patrimonio della Chiesa in isconquasso, ma fermo eppur pacifico con dignità lo ristabilì; indusse Giovanna II di Napoli a restituirgli Roma occupata da Ladislao; tolse Perugia a Braccio di Montone[114] e le altre terre ai tiranni che n’avevano preso il dominio. I Malatesta, segnalati capitani, eransi costituiti un bel principato a Rimini, sottomettendo Fano, Pesaro, Camerino, Macerata, San Severino, Montesanto, Cingoli, Jesi, Fermo, Gubbio; ma, morto Carlo, condottiero de’ più prodi e generosi, perdettero ogni cosa, salvo Rimini, Fano e Cesena, lasciate a tre nipoti di quello. Anche Borgo Sandonnino, la Pergola, Brettinoro, Osimo, Cervia, Sinigaglia, furono riuniti al dominio papale. Bologna non sapeva dimenticare la sua libertà; ma quando tentò ripristinarla nel 1428, fu subito oppressa dalle bande venturiere. Le tante città avvezze ad avere un principe e corte e lusso ed arti, piangeano il sottentrato spopolamento. Il cardinale Albergati, santo di costumi quanto accorto negli affari, seppe alla Sede pontificia ricuperare importanza politica in Italia, coi maneggi ottenendo meglio che colle guerre, e molte paci conciliando. Roma era sottoposta al pontefice, ma conservava una rappresentanza civica: e il senatore nell’entrare in Campidoglio giurava nelle mani del conservatore di esercitare l’officio lealmente e in buona fede; dare appoggio agli inquisitori dell’eresia e vantaggiar la fede; tener Roma e il contado in pace e tranquillità, e purgati da malandrini; conservare e difendere le ragioni, i beni, le giurisdizioni e dignità della città e della camera, e ricuperare ciò che se ne fosse perduto; mantenere e difendere gli spedali, i luoghi pii e religiosi; procedere sommariamente nelle cause di questi, delle vedove, de’ pupilli e de’ poveri; far osservare da’ suoi uffiziali e giudici gli statuti fatti e da fare, e il diritto civile, ed in mancanza loro il diritto canonico; non far estorsione o sopruso, non chiedere grazie nei consigli, nè cercare d’essere raffermo in carica, o assolto dal sindacato; far sì che i marescialli, cioè esecutori degli ordini della curia di Campidoglio, e loro famigli girassero giorno e notte armati; nulla operare di contrario agli ordini de’ conservatori, anzi prestar soccorso ad essi e alla loro camera. Sia per le imposte, che a risarcire il paese (1431) doveva moltiplicare, o sia pei soliti postumi d’ogni restaurazione, Martino ottenne scarsa benevolenza, ed era appuntato di prodigare onori e tesori a’ suoi nipoti. Lui morto, i cardinali trovavansi dissenzienti sul chi nominargli successore; onde, per guadagnar tempo, diedero i voti a quel che meno temeano, il veneziano Condulmier, che per questo giuoco si trovò papa col nome di Eugenio IV. Severissimo ne’ digiuni e in tutte le austerità, gran persecutore degli Ussiti di Boemia, repugnante da’ consigli altrui per ostinarsi ne’ proprj, scarso di lealtà e di politica, vedemmo quanta parte avesse nei maneggi civili e religiosi del suo tempo, per effetto delle circostanze più che per sua abilità. Dal bel principio si trovò in urta coi sudditi, coi signori, coi prelati. S’inimicò i Colonna col ridomandare i tesori che ad essi aveva confidato il predecessore, e le città del Patrimonio, dove rigalleggiavano i partiti e le antiche famiglie. E perchè i Colonna con que’ denari raccolsero truppe e guerreggiarono gli Orsini, Eugenio mise in prigione e ai tormenti i loro amici, e da ducento ne mandò al patibolo, distrusse la casa e i monumenti di papa Martino, finchè i Colonna restituirono settantacinquemila fiorini. Destinò a governare la marca d’Ancona Giovanni Vitelleschi vescovo di Recanati, suo indegno favorito, e uno de’ più disumani condottieri, che nella guerra di Napoli giunse a promettere indulgenze a qualunque soldato tagliasse un ulivo de’ nemici, poi tramò col Piccinino per assalire la Toscana alleata, e fors’anche toglier di mezzo il papa e surrogarsegli. Questo n’ebbe sentore, e a tradimento lo colse in castel Sant’Angelo, ove presto s’intese ch’era morto. Intanto la Chiesa era pericolata dal concilio di Basilea; tutta Romagna sossopra; Francesco Sforza e Nicolò Fortebraccio vi entrarono dicendosi autorizzati dal concilio a togliere que’ paesi al papa, cui restrinsero quasi alla sola capitale. Egli guadagnossi lo Sforza, creandolo marchese d’Ancona; ma gli altri capitani pretendeano altrettanto; il popolo s’avventò alle armi proclamando la repubblica, e il papa a stento si salvò a Firenze. Alfine il Piccinino, vincendo Fortebraccio, rese a san Pietro le antiche appartenenze. Tommaso, figlio del medico pisano Bartolomeo Parentucelli, per povertà lasciò gli studj onde mettersi in Firenze educatore de’ figliuoli di Rinaldo degli Albizzi, poi s’attaccò al cardinale Albergati come segretario, medico, intendente, e in quei venti anni ebbe molto a conoscere molti paesi e gli eruditi d’allora; copiò manoscritti e v’aggiungeva note assennate, lo perchè Cosmo de’ Medici l’incaricò di disporre i codici della biblioteca di San Marco, il che servì di norma ad altre: da Eugenio papa adoprato in affari, e posto vescovo di Bologna e cardinale, gli fu dato successore col nome di Nicola V (1447). Egli ricompose la Chiesa ad unità coll’ottenere l’abdicazione dell’antipapa Felice. Al Vespasiano, valente librajo ed erudito, autore di molte biografie, diceva: — I nostri Fiorentini avrebber mai creduto che un preticciuolo, fatto per sonar le campane, diverrebbe pontefice?» e avendo quello risposto che ne esultavano e perchè il conosceano e ne speravano pace, — Se Dio m’ajuta (soggiunse) altr’arma non adoprerò mai a difesa mia che la croce di Gesù Cristo»[115]. Veramente fu de’ papi più degni, e guardata la differenza dei tempi, meritò meglio che Leone X per avvenuta protezione alla crescente coltura. Fondò la biblioteca Vaticana con cinquemila volumi, ed accolse quanti erano dotti; scriveano le sue lettere il Poggio, Giorgio da Trebisonda, Cristoforo Garatone, Flavio Biondo, Leonardo Bruno, famosi eruditi; teneva alla corte Antonio Loschi, Bartolomeo da Montepulciano, Cincio romano, Lorenzo Valla, Pier Candido Decembrio, Teodoro Gaza, Giovanni Aurispa, allora nominatissimi quanto oggi ignorati. A gara gli erano dedicate opere, e di parecchie favorì la traduzione dal greco: al Poggio per la versione del Diodoro donò liberamente; al Valla cinquecento scudi d’oro pel Tucidide; millecinquecento al Guarini per lo Strabone; cinquecento al Perotti pel Polibio; annui seicento a Giannozzo Manetti, oltre il soldo di secretario, perchè s’occupasse attorno ad opere sacre, e gli fece cominciare una versione della Bibbia sopra il testo ebraico; al Filelfo, se traducesse Omero, gli prometteva una bella casa in Roma, un podere e diecimila scudi; Giorgio da Trebisonda ricusava come eccessiva una somma da esso regalatagli, ma egli — Tieni, tieni; non avrai sempre un Nicola». Udendo lodare come valenti poeti alcuni dimoranti in Roma, negò il merito loro, dicendo per celia: — Se fossero buoni, perchè non verrebbero a me che accolgo anche i mediocri?» Fabbriche raddrizzò o intraprese da tutte parti, a Spoleto ed Orvieto insigni palazzi, a Viterbo bagni per infermi, a Roma la mura, oltre riparare le chiese rovinate nella lunga vedovanza, e principalmente il Panteon d’Agrippa; fece eseguire «il più bel tappeto che sia tra’ Cristiani colle opere di Dio padre quando creò il mondo» (Corio); e accingevasi a riedificare San Pietro, come simbolo della riedificata Chiesa spirituale, al che gli diede i mezzi il giubileo, traendo folla indicibile alle soglie degli apostoli. Non altrettanto prendeva a cuore il bene de’ sudditi, o piuttosto volea governarli con quel dispotismo, cui facilmente propendono coloro che sentonsi superiori agli altri, e volenterosi del bene. Non pochi erano disgustati pei rigori che accompagnano le improvvide restaurazioni, le quali all’anarchia non credono poter riparare che col despotismo; i vizj del clero e gli abusi della curia più risaltavano dacchè eransi censurati alla libera nelle burrasche precedenti. La festa dunque, con che era stata ricevuta la corte pontifizia al suo ritorno, fece prestamente luogo a scontenti e alle solite gozzaje. Perchè ha da stare il governo in man di preti, la più parte forestieri, tutti per educazione inetti agli affari? Così diceva Stefano Porcari nobile romano, e tentò instaurare la repubblica. Infervorandosi alla canzone del Petrarca _Spirto gentil_, e parendogli esser egli stesso quel cavaliero a cui «Roma, con gli occhi molli di pietà, chiedea mercè da tutti i sette colli», macchinò per impadronirsene a forza; arrolò masnade, e insinuatosi di soppiatto (1453) nella città dond’era stato bandito, concertò di occupare il Campidoglio, e nella festa dell’Epifania prendere il papa, i prelati e castel Sant’Angelo. Ma avutone spia, il senatore ad una cena fece arrestare i congiurati (gennajo), e il Porcari con nove altri impiccare ai merli del castello[116]. Al pontefice l’aveano dipinta come una trama d’assassinio, onde, da confidentissimo e ingenuo che era, cadde in preda al sospetto, perseguitò i fuggiaschi, quanti colse fece mal arrivati, e il breve resto di sua vita passò fra terrori e supplizj. Presso al finire, ebbe a sè due pii monaci, e diceva loro: — Mai persona non entra qua, che mi parli il vero. Sono talmente confuso delle finzioni di quanti mi circondano, che, se non temessi lo scandalo, rinunzierei al papato per tornare Tommaso da Sarzana. Alfonso Borgia spagnuolo, ch’erasi mostrato tutto zelo contro i Turchi, gli fu dato successore col nome di Calisto III (1455), e alla elezione sua rincrudirono le fazioni dei Colonna e degli Orsini, e più quando egli, gettati a spalle i rispetti umani, ingrandì i suoi nipoti con feudi della Chiesa, creando Pietro duca di Spoleto, e fin meditando porlo sul vacante trono di Napoli. La vita non gli bastò; e il successivo conclave pensò antivenire tali abusi decretando che il papa non potesse senza l’assenso dei cardinali tramutare da Roma la sede, conferire cappelli o vescovadi, fare pace o guerra, alienare terre ecclesiastiche. Enea Silvio Piccolòmini, dottissimo in lettere e in ragion canonica, scrittore di poesie e storie, ebbe primaria figura ne’ maneggi d’allora. La sua gioventù avea tribolato fra le turbolenze della patria; al concilio di Basilea assistette in servizio del cardinale Domenico di Capranica; più volte mutò padrone, spesso fu ambasciadore, indi segretario di Felice V, poi di Federico III imperatore. Descrisse la storia di Boemia, lo stato di Europa sotto esso Federico, un ragguaglio della Germania e del concilio di Basilea, dove votò coll’opposizione; opere di gran conto perchè di testimonio oculare ed oculato, oltre una raccolta di lettere d’amicizia e di affari[117]. Fatto papa col nome di Pio II (1458), sostenne con vigore quell’autorità che come diplomatico avea bersagliata; e perchè gli si rinfacciavano le prische opinioni, emanò una _bulla retractationum_, ridicendosi di molte proposizioni lanciate contro la potestà pontifizia, e massime contro Eugenio IV, dicendo essere cosa umana il fallare, non averle sostenute per ostinazione ma per isbaglio, importargli il ritrattarle affinchè non si attribuisse a Pio quelle che erano opinioni di Enea[118]: nella qual occasione si fa ad esporre parte della sua vita. Nel sinodo di Mantova proibì (_Execrabilis_), pena la scomunica, di appellarsi dal papa al futuro concilio, tribunale che non esiste: ma le sanzioni introdottesi fra le passate tempeste, e il proposito de’ principi di voler eleggere i proprj vescovi, gli cagionarono gravi disgusti. All’imperatore fece veduta la necessità di stringersi alla sede pontifizia per resistere ai principi sovrani di Germania, e che le domande di riforme ecclesiastiche andavano indivisibili da quelle di politiche: lo perchè nelle diete germaniche il legato aveva autorità quanto l’imperatore, e molto maggiori rendite. Mentre poi, lottando di tutta la sua persuasione contro l’indifferenza del secolo egoisto, disponeva la crociata contro i Turchi, spirò ad Ancona. Il Pinturicchio storiò la vita di lui nella libreria vecchia di Siena, secondo i cartoni di Rafaello. Pietro Barbo veneziano, bell’uomo, destro ad ingrazianirsi gli animi con piccoli servigi e col compatire agli altrui patimenti, sicchè il chiamavano la Madonna della pietà, fu eletto (1464) col nome di Paolo II con tal consenso, che prometteva uno de’ pontefici più grandi. A tre cose mirò continuo: l’ingrandimento dei nipoti, pel quale fece dichiarar nulla la capitolazione impostagli dal conclave; la crociata contro gl’Infedeli; e la revoca della prammatica sanzione di Bourges, ove dal clero gallicano pareangli intaccate le prerogative papali: e in tutte fallì. Piovevano d’ogni parte lamenti che i sessanta abbreviatori (collegio istituito da Pio II per estendere i brevi pontifizj in istile purgato) facessero guadagno delle spedizioni, sia ricevendo regali, sia colle simonie. Risoluto di svellere l’abuso, e parendogli degno di Roma il dare ogni cosa gratuitamente, il papa gli abolì. Que’ sessanta letterati, messi sulla via, furono altrettante voci accordatesi a denigrarlo; e chi non sa quanto facilmente un branco di scriventi raggiri l’opinione? Bartolomeo Sacchi di Piadena (il Platina), un d’essi, tanto gli mancò di rispetto, che fu condannato alle carceri; poi involto o sospettato d’una cospirazione, fu messo alla corda; del che tolse vendetta col virulento sparlarne nelle sue _Vite dei papi_. Non pensiamo a scusare i modi; ma la persecuzione tanto rinfacciata a Paolo contro i restauratori della classica letteratura veniva da ragionevole sgomento del vedere il paganesimo ripullulare nelle arti belle non solo, ma nelle dottrine e nella vita; e cotesti eruditi, vergognandosi del nome de’ santi ricevuto al battesimo, mutare Pietro in Pierio o Petrejo, Giovanni in Giano o Gioviano, Vittore in Vittorio o Nicio, Luca in Lucio o Lucillo, Marino in Glauco, Marco in Callimaco[119]; celebrare feste all’antica, sacrificando un becco; e col pretesto di rimettere in onore Platone, gittarsi a dottrine empie od a pratiche teurgiche: cose lievi per avventura, ma che menano a serie. È moda il lodare uno perchè disapprovato dai papi, e al tempo stesso mostrar che questi non aveano ragione di perseguitarli. Dalla stessa lettera ove il Platina dal carcere racconta al cardinale Bessarione il suo processo, appare come l’accademia di Pomponio Leto tendesse a trasformare il paganizzamento letterario in religioso. Foss’anche stato soltanto letterario, non v’è retto pensatore che non veda quanto danno ne derivasse alla logica, alla morale, all’estetica, dacchè Cristo e la redenzione doveano far luogo novamente alla voluttà pagana e alla lepida guerra contro la famiglia e la società. Dalla storia dei Papi che il Platina scrisse coll’avversione solita ai perseguitati, i Protestanti raccolsero assai cose contro la corte romana. Noi qui non abbiamo che a riflettere alla pochissima critica di questo abborracciatore passionato. Paolo spese profusamente in dissotterrare e raccogliere statue e altre anticaglie, amò le arti belle, libri comprava e imprestava liberalmente[120], e fece fare una tiara di cinquantamila marchi d’argento (L. 275,000). Amava gli spassi, e frequenti feste dava al popolo di Roma, e per goderne egli stesso volle che le corse non si facessero per la strada Florida o Giulia, ma dall’arco di Domiziano al palazzo di Venezia, dov’egli abitava. Negli statuti di Roma allora pubblicati, si divisano i divertimenti, e specialmente quelli di Agone e Testaccio coi pallj e gli anelli e i carri, e l’altre solennità, che poi continuarono in occasione del carnevale. Per la pace del 1468, festeggiata in tutta Italia, il papa ordinò giuochi e baldorie al modo antico, dove principal parte aveano i banchetti: ed egli godeva veder quando i giovani, quando i vecchi, o gli ebrei o i fanciulli, pinzi di cibo, fare alla corsa, per guadagnare qualche carlino. Spesso gittava denaro al popolo; una volta gli regalò 400 scudi, e di mascherate splendidissime molto il rallegrava. Ammassò ricchezze, ma non pei nipoti; dissero per mera avarizia, e poteva essere per provvedere ai tanti bisogni di cui si gravava la Chiesa. Concedette il titolo di duca di Ferrara a Borso d’Este, l’armò cavaliere di san Pietro, e lo fece sedere non più tra gli arcivescovi come quando era soltanto vicario pontifizio, ma tra’ cardinali, e gli donò la rosa d’oro che per pasqua suol darsi a qualche gran principe; con tali atti confermando l’alto dominio della santa Sede sopra Ferrara. Menò lunga e turpe guerra con Roberto Malatesta, disputandogli la signoria di Rimini, al qual uopo s’alleò coi Veneziani e con varj signori; e perchè Napoli e Firenze stavano col Malatesta, fu per divamparne tutta Italia, ma alfine Paolo gli riconobbe i feudi paterni. Meglio meritò collo stringere tutti i potentati d’Italia in una lega, onde mantenere l’indipendenza di ciascuno. Delle riforme divisate nella curia però più non si parlava; rimoveasi sempre più l’idea di adunare un concilio; e intanto profondeansi in commende e aspettative, e negli altri lucrosi abusi. In peggior fama rimase Sisto IV (1471), già Francesco Albescola della Rovere. I ragazzi di cui circondavasi, fecero sparlare de’ suoi costumi; del suo rigore le guerre rinnovatesi tra i Colonna e gli Orsini, per cui a sangue e fuoco egli mandò la città. Vescovadi, principati, dignità, uffizj prodigò a due figli di suo fratello e due di sua sorella Riario, i quali la maldicenza bucinava figli di lui, e peggio. Leonardo della Rovere pose governator di Roma e sposò a una bastarda di re Ferdinando, per ciò cedendo a questo il ducato di Sora ed altri acquisti fatti penosamente da Pio II, i censi arretrati del regno, ed esenzione dai futuri sinchè vivesse. Giuliano fece cardinale, che poi divenne papa, e che intanto menava guerre contro Todi e Spoleto. L’inetto Pietro Riario, di ventisei anni creato cardinale, patriarca di Costantinopoli, arcivescovo di Firenze, legato di tutta Italia, aveva una corte d’oltre cinquecento persone, e un fasto senz’esempio, col quale e colle lascivie si logorò la vita. Allora Sisto innalzò Giovanni della Rovere, facendolo principe di Sinigaglia e Mondavio, staccate dalla Chiesa. Pel nipote Girolamo Riario, cui ottenne la mano di Caterina di Galeazzo Sforza colla contea di Bosco, comprò con quarantamila ducati la signoria d’Imola, ed una maggiore gliene destinava nella Romagna colle spoglie de’ signorotti: ma perchè trovò ostacolo nei Medici di Firenze, si unì ai tanti nemici di quella casa, alla malevolenza de’ quali parea cader molto in acconcio la giovinezza di Lorenzo e Giuliano figli di Pietro. Delle famiglie storiche di Firenze le più erano state esigliate, i Ricci, gli Albizzi, i Barbadori, i Peruzzi, gli Strozzi, i Machiavelli, gli Acciajuoli, i Neroni, i Soderini; spogli d’ogni credito i Pitti e i Capponi; e i due fratelli Medici teneano occhio perchè non si rialzassero. Fra le antiche feudali, era di tutte splendidissima quella dei Pazzi di val d’Arno, consorte già degli Ubaldini, degli Uberti, dei Tarlati e d’altri Ghibellini; dopo lunghe lotte colla Repubblica, era scesa in città e aveva giurato il comune; come le altre illustri era stata esclusa dal governo: ma a Cosmo era bastato l’accorgimento di non cozzarla, anzi la privilegiò di passare dai magnati fra’ plebei e quindi venir abile alle cariche, e sua nipote Nanina Bianca sorella di Lorenzo sposò a Guglielmo de’ Pazzi. Le dovizie acquistate col banco ch’era de’ più accreditati del mondo, e le clientele di quella casa, massime da che si fu imparentata co’ Borromei di San Miniato, davano sempre maggior ombra ai Medici; onde Lorenzo fece dalla balìa stanziare un regolamento che alterava l’ordine di successione in modo, che i Pazzi non potessero ereditare da essi Borromei. Se ne corrucciarono i Pazzi, e Francesco, uscito di patria, si pose a travagliare il suo banco a Roma, dove Sisto IV lo ricevette in grazia, lo costituì banchiere della santa Sede, e ne fomentò i rancori a danno dei Medici. Pertanto i Pazzi tramarono (1478) con Girolamo Riario e con Francesco Salviati, che dai Medici non erasi voluto ricevere arcivescovo di Pisa; e in Santa Maria del Fiore durante la messa di pasqua (26 aprile), al momento dell’elevazione assalsero i due principi. Giuliano resta ucciso, Lorenzo ferito si difende; Jacopo de’ Pazzi corre la città per ammutinare il popolo, ma questo, gridando _Palle, Palle_, dà addosso agli assassini e li trucida a furore, e i laceri brani porta infissi sulle picche per la città. Francesco de’ Pazzi, che nell’abbattere Giuliano erasi ferito da sè, fu tratto di letto, e in mezzo agl’insulti plebei appiccato: più di settanta cittadini furono o con egual violenza trucidati e sbranati, o coi successivi processi: l’arcivescovo di Pisa fu impeso alla finestra del palazzo, ove erasi condotto come sicuro d’insignorirsene: le istanze di Lorenzo camparono il Riario che cantava messa. Dubitandosi che il pugnale onde fu percosso Lorenzo fosse avvelenato, un Ridolfi si offrì a succhiarne la ferita. Poi corse voce tra la plebe che le pioggie, le quali non sapeano cessare, fossero un segno del cielo perchè Jacopo era stato sepolto in terra sacra, benchè sul morire si fosse dato al diavolo: onde per ordine della Signoria fu tratto la notte da Santa Croce, e sotterrato lungo la mura. Ma i fanciulli saputolo, andarono a dissepellirlo, e col capestro che aveva alla gola lo trascinarono per le vie, e bussavano alla porta di lui, dicendo aprissero al padrone; e continuarono lo strapazzo finchè la Signoria non mandò i famigli che lo buttarono in Arno, ove pure lungo tempo galleggiò. Bernardo Bandini, l’assassino di Giuliano, era fuggito a Costantinopoli; eppure ivi stesso fu côlto e tradotto a Firenze, ove l’aspettava la forca. Per quanto i Fiorentini implorassero perdono dello avere messo le mani su persone sacre, e si sottomettessero alle comminate censure, il papa li colpì di una terribile bolla; e volendo per guerra aperta ciò ch’eragli fallito per tradimento, s’accordò a’ danni de’ Medici col re di Napoli. Il magnanimo Alfonso erasi destinato successore al trono di Napoli Ferdinando suo figlio naturale, e i Napoletani lo preferivano agli Aragonesi, eredi della Sicilia, perchè, non avendo altri dominj, non li renderebbe provincia di stranieri; d’altra parte, tenendo Alfonso quel trono per elezione, chi altro potea vantarvi diritti? Dal parlamento fu dunque riconosciuto (1458), e così dal papa; confidava negli Orsini, baroni potentissimi, di cui aveva sposato una figlia; pure il dominio gli fu controverso da molti competitori; la fazione degli Angioini rivisse, ed appoggiata dai Caldora, dai Sanseverino, dai principi di Rossano e di Taranto, chiamò di Francia (1461) Giovanni figlio di Renato, che al Sarno riportò insigne vittoria sopra Ferdinando. Grand’ajuto avea prestato agli Angioini il braccio di Jacopo Piccinino, figlio di Nicolò, che veduto Francesco Sforza divenire signore di Milano, erasi ostinato a volere anch’esso un dominio; e quando la pace di frà Simonetto pose quiete dappertutto, egli rizzò bandiera di ventura, e accolse quanti voleano ancora esercitare il valore senza badare al motivo. Tentò impadronirsi di Perugia e Bologna; respintone, si gettò sul Senese menando guasto, finchè il duca di Milano e il papa inviarono Roberto Sanseverino a reprimerlo; ma l’ottennero meglio col pagargli ventimila fiorini. Quando poi Sigismondo Malatesta, figlio di quel Pandolfo che dominò Bergamo e Brescia, voleva insignorirsi di Pesaro, e insidiava Federico di Montefeltro duca d’Urbino, contro di lui fu voltato il Piccinino, il quale sperperò la Romagna, fin centoquindici castella predando in pochi giorni, e in una sola cavalcata bottinando mille paja di buoi e cento uomini di taglia[121]. Le costui imprese sarebbero da eroe se non fossero state da masnadiero. Come si ruppe guerra nel Napoletano, esitò con chi buttarsi, finchè accettò il soldo di Giovanni d’Angiò, e spinse i guasti fin sotto Roma. Ferdinando gli oppose Giorgio Castrioto, che con ottocento cavalli venne dall’Epiro a ripagare Ferdinando de’ soccorsi prestatigli da Alfonso (pag. 218), ma che comparve minore dell’aspettazione: — forse qui combatteva per la patria e per la fede? Meglio profittò Ferdinando col trarre di nuovo a sè i Sanseverino e gli Orsini, già ingelositi degli incrementi di Giovanni, e speranzosi di nuove ricompense; poi a liberarsi dal Piccinino, riverito come il miglior capitano superstite, lo soldò assegnandogli novantamila ducati l’anno e la condotta di tremila cavalli e cinquecento fanti e molti possessi. Avendolo Francesco Sforza, antico emulo suo, invitato a Milano a sposare sua figlia Drusiana, Ferdinando ne sollecitò il ritorno, l’accolse con grandi manifestazioni d’onore, ma pochi giorni dopo coltolo a tradimento, lo fece strangolare (1465 21 giugno). Con lui finiva la scuola braccesca[122]. Giovanni d’Angiò più non potè che fuggire da un regno sempre infausto a casa sua; molti regnicoli passarono seco a guerreggiare in Francia e in Borgogna; e riprese le briglie, il re adoprò supplizj, confische, tradimenti, per umiliare i baroni[123]. Giannantonio Orsini principe di Taranto fra poco si trovò strangolato, dissero per opera di Ferdinando, il quale addusse un testamento che lo faceva erede di Bari, Otranto, Taranto, Altamura, d’un milione di fiorini in merci, cavalli, greggie, altri mobili, e quattromila uomini di buone truppe: colpo mortale alla fazione angioina. All’altro potentissimo Maria Marzano principe di Rossano, duca di Sessa e d’altre terre, Ferdinando promise sposa una figlia: poi quando, sotto l’ombra della pace conceduta, andò a caccia da quelle parti, chiese abbracciarlo, e avutolo a sè, l’inviò prigione a Napoli, e ne prese i figliuoli e gli Stati. Superbo, doppio, avaro, Ferdinando malignò a guastare la pace che in Italia durava dopo il 1454; col papa venne in urto per isminuire il censo dovuto dal Regno; poi con esso e colla repubblica di Siena cospirò per isvellere il dominio mediceo. Siena, antica emula di Firenze come ghibellina, si era poi mutata alla bandiera guelfa: ma se patria non sia, vien tedio a seguire le capiglie interne e le replicate minaccie ch’ebbe a soffrire da poderosi vicini o dai condottieri; fuori non esercitò mai grande efficacia, attesochè dentro era trassinata fra una plebe invida e inetta, ed un’oligarchia gelosa d’escludere le altre classi. I Monti, o vogliam dire gli ordini de’ gentiluomini, dei nove, dei dodici, dei riformatori, del popolo, la sbranavano, e l’uno prevalendo o l’altro, con alterne persecuzioni logoravano le forze, e scapitavano di potenza e d’onore. I gentiluomini, antichi proprietarj di tutto il terreno, prevalsi dal 1240 al 77, furono esclusi dalle magistrature, restando fin al 1355 superiore il Monte dei nove, in cui entrava una nobiltà popolana, d’antiche ricchezze: poi fino al 68 primeggiò il Monte dei dodici, cioè i ricchi mercanti; e fino all’84, quello dei riformatori: poi ora questo, ora il popolo, eleggendo tre priori ciascuno, ed escludendo i due primi, che restavano naturali nemici e sommovitori. Si appoggiò a loro il duca di Calabria figlio di re Ferdinando, cupido d’acquistarvi signoria; e indusse a cernire dai varj Monti un nuovo, detto degli aggregati, che solo ottenesse gli uffizj, gli altri tutti eliminando. Costoro non poteano cautelarsi che colla forza, e perciò stavano ligi al duca, e col padre suo presero parte a ruina di Lorenzo Medici. Dico di Lorenzo, perchè il papa, esclamando al sacrilegio d’avere appiccato un unto del Signore, mosse le truppe che già aveva allestite per secondare la congiura de’ Pazzi, e dichiarò guerra non alla repubblica, bensì a Lorenzo, _figlio di iniquità, alunno di perdizione_. Però i Fiorentini fecero comune la causa di lui; mandarono pel mondo un ragguaglio della congiura e le prove della complicità del papa, il quale non se ne scolpò; e protestarono contro la scomunica, appellando al futuro concilio. Trovarono ascolto, e molti principi minacciarono Sisto IV di disdirgli obbedienza se turbasse la Chiesa con una guerra senza giustizia: il re di Francia non solo sospese di inviare le annate, dacchè le vedeva destinate contro Cristiani non contro gl’Infedeli, ma minacciò aprire un concilio. Ecco dunque il papa al funesto bivio di revocare una sentenza appena proferita, spezzando da sè il bastone apostolico datogli per rompere i vasi inutili, e piegandosi alle minaccie secolari; ovvero ostinarsi in una guerra ingiusta. A questa si gittò Sisto, avendo accaparrati i migliori condottieri, intrigato a suscitare contro di Venezia e di Milano guerre, sollevazioni, perfino i Turchi, acciocchè quelle non potessero soccorrere Firenze. La quale, côlta dall’armi fra’ suoi studj pacifici, non vide miglior partito che soldare un capitano, e fu Ercole duca di Ferrara: ma poichè costui era genero di Ferdinando, se non la tradiva, menava fiaccamente le fazioni. Lorenzo, vedendo la città disanimarsi e ai timorati fare offesa l’interdetto, mentre i collegati avanzavano a gran passi, parve colla sua generosità voler dare risalto alla vigliaccheria di questi, e propose di avventurare sè solo, giacchè contra lui solo dicevansi armati. Parte dunque di Firenze (1479 7 xbre), lasciando una siffatta lettera alla Signoria: — Eccelsi signori, se io non v’ho altrimenti fatto noto la cagione di mia partita, non è stato per presunzione, ma perchè mi pare, negli affanni ne’ quali si trova la città nostra, si richiegga più il fare che ’l dire. Parendomi che cotesta città abbia desiderio e bisogno grandissimo di pace, e vedendo tutti gli altri partiti scarsi, m’è paruto meglio mettere me in qualche pericolo, che tenervi tutta la città. E però ho deliberato trasferirmi liberamente a Napoli; perchè, essendo io principalmente perseguitato da’ nemici nostri, potrei forse ancora essere cagione, andando nelle loro mani, di far rendere pace alla vostra città. Una delle due: o veramente la maestà del re ama cotesta città, come ha predicato, e non c’è miglior via a farne sperienza, che andar liberamente nelle sue mani. Se ha animo di occupare la nostra libertà, a me pare che sia bene intenderlo presto; e più tosto con danno d’uno, che di tutto il resto. Ed io son molto contento essere quello per due cagioni: la prima, perchè potrebb’essere che i nemici nostri non cerchino altro che ’l male solamente mio; l’altra che, avendo io nella città avuto più onore e condizione che alcun altro cittadino a’ dì nostri, giudico essere più obbligato che tutti gli altri ad operare per la patria mia, fino a mettere la vita. Forse Iddio vuole che, come questa guerra cominciò col sangue di mio fratello e mio, così ancora finisca per le mie mani; ed io desidero solo che la vita e la morte, e ’l male e ’l bene mio sia benefizio della città. Che se gli avversarj non vogliono altro che me, mi avranno liberamente nelle mani: se vogliono altro, s’intenderà, ed a me pare essere certo che tutti i nostri cittadini si disporranno alla difesa della libertà come sempre hanno fatto i padri nostri. Vommene con questa buona disposizione, e senza alcun altro rispetto che del bene della città; e prego Iddio mi dia grazia di fare quello ch’è obbligato ciascun cittadino per la sua patria». Si presentò di fatto a Ferdinando (1480), il quale lo ricevette con solenni dimostrazioni; e tocco da tale fiducia, o forse persuaso da quanto esso gli espose intorno alle vendette che i Fiorentini potrebbero fare chiamando in Italia il re di Francia, erede delle ragioni di casa d’Angiò sul trono di Napoli, patteggiò la pace, restituendo a Firenze tutti i luoghi presi. I Veneziani che s’erano chiariti per Lorenzo, si trovarono allora soli esposti alle armi nemiche; sicchè esclamandosi traditi, non aborrirono dall’eccitare i Turchi a ricuperare le terre italiane, dipendenti in antico dall’Impero orientale. Il gran visir Acmet Breche-Dente dalla Vallona sbarcò (agosto) presso Otranto (pag. 231), e mandatala a sacco e sangue, e lasciatavi forte guarnigione, andò a raccogliere altre forze. Tutta Italia ne sbigottì: il papa accingevasi a fuggir oltremonte, mentre consentiva alla pace coi Fiorentini ed eccitava gl’italiani all’arme, abbandonando l’ambìta Siena. In fatto Alfonso di Calabria assalì vigorosamente Otranto, la cui guarnigione, perduta la fiducia di nuovi soccorsi alla morte di Maometto II, capitolò (1481). La qual morte restituì baldanza ai principi cristiani, quasi con lui cessasse ogni pericolo; e invece di unirsi cogli altri potentati d’Italia per assicurarla dai Turchi, ed assalirli intanto che li snervava la discordia tra’ figliuoli di Maometto, e che tutti i nostri soldati, incaloriti dalla vittoria, gridavano A _Costantinopoli_, re Ferdinando prende per sè tutte le armi e l’artiglieria, e si vendica de’ Veneziani eccitando Ercole d’Este duca di Ferrara suo genero ad impacciare il commercio di quelli sul Po. Così passioni malevole e basse conciliano alleanze o infocano nimicizie. I dominj del duca di Ferrara faceano gola al papa non meno che a Venezia, attesa la loro situazione. Venezia si doleva che Ercole tirasse il sale da Comacchio, e impedisse il Po a quello de’ Veneziani, i quali ne tolsero motivo di dichiarargli guerra, prendendo capitani (1484) Roberto Sanseverino, Roberto Malatesta, il marchese Gonzaga, i conti Rossi di Parma e Torelli di Guastalla, altri de’ Fieschi e de’ Frangipani. Il papa fa causa con loro; e perchè Ferdinando non spedisca soccorsi a suo genero, arma nelle Marche. Tutta Italia fu arruffata da questo miserabile piato. Col duca stavano Federico di Montefeltro e i Milanesi, e sedici savj di guerra dirigevano le mosse; fazioni si mescolarono ad assedj e saccheggi; le truppe di Ferdinando disputaronsi i Polesini del Po, ed ebbero a soccombere al clima: ma in quel bollimento generale neppure una giusta battaglia fu combattuta. Il papa aveva blandito Venezia soltanto per farla stromento alle nepotesche ambizioni; e quando vide poter meglio soddisfare coll’abbandonarla, fermò il piede col re di Napoli e col duca di Ferrara, e pose Venezia all’interdetto, come turbatrice della quiete d’Italia, e insidiatrice di Ferrara, dovuta alla santa Sede. Venezia, non badando alla condanna, ordina si continuino i riti, ed appella al futuro concilio; e la guerra è proseguita con ingenti sacrifizj e reciproci disastri[124]. Finalmente si arrivò alla pace di Bagnólo (1484 7 agosto), nella quale Venezia cedeva il conquistato e ricuperava il perduto e i diritti di navigazione sul Po, il Polesine di Rovigo, la privativa del sale: il duca di Ferrara dovea rinunziare ai primitivi possessi della famiglia d’Este: i Rossi, conti di San Secondo, perdeano tutti i dominj: nulla aveva potuto il papa guadagnare pe’ nipoti suoi. Il trattato stesso costituiva una lega italiana a comune difesa, de’ cui eserciti sarebbe capitano Roberto Sanseverino, con diecimila ducati annui dal papa, altrettanti dal re di Napoli, cinquantamila da Venezia e così dal duca di Milano, diecimila da Firenze, e dai duchi di Ferrara, Modena e Reggio. Questo trattato segna un’êra nuova nella storia patria. Quando nel 1453 Nicolò V pacificava la penisola onde opporla ai Musulmani, si fece il primo atto di concordia fra i potentati italiani. Poi nel 1470 Milano, Napoli, Firenze, Roma s’alleavano contro il soverchiare di Venezia, la quale unendosi poi a loro, costituiva una lega generale. Ora ecco di nuovo l’Italia alleata contro Venezia, e finirsi con una generale federazione. L’atto mostrasi come opera di pacificazione e di progresso nazionale, come il termine d’infinite rivoluzioni. È necessità di natura (vi è detto) cominciar dal male, dai disordini, dallo scandalo; ma è legge di ragione arrivare alla concordia che nutrisce la tranquillità, genera il ben essere, moltiplica i popoli, crea l’abbondanza, propaga l’umanità. A tal uopo le potenze si perdonano i danni e le guerre, _in qual sia modo fatte_, le rapine, gl’incendj, le uccisioni, e senza frode o reticenza o cavillo giurano perpetua pace, confederazione, unione e lega. Ogni memoria di Guelfi o Ghibellini è abolita, dacchè si uniscono senza badare a origine o a storia; promettendo al papa non dar mano ai baroni del suo paese, riconoscono l’indipendenza degli Stati; assoldando un capitano comune vengono a stabilire la base di tutte le federazioni, cioè che tutti i confederati formano uno Stato solo contro il nemico, pur rimanendo distinti e sovrani ciascuno; ma senza aspirare ad una matematica eguaglianza fra loro, giacchè la somma da contribuire proporzionavano all’estensione geografica. Il fatto irregolare ma storico della loro vicinanza vien dunque dagli Stati italiani sottomesso a idee chiare; e se non tutta Italia v’era compresa, se riservavasi _protocollo aperto_ al re di Castiglia, è notevole però che dell’imperatore non si far pur cenno, e il papa v’è considerato come un semplice signore; sepellendo così sotto la concordia federale i due eterni fomiti delle disunioni. Fosse stato per sempre! La pacificazione d’Italia forse accelerò la morte (13 agosto) di quel che sempre l’avea turbata, Sisto IV; «e fu (dice Machiavelli) il primo che cominciasse a mostrare quanto un pontefice poteva, e come molte cose chiamate per l’addietro errori, si potevano sotto la pontificale autorità nascondere. Questo modo di procedere ambizioso lo fece più dai principi d’Italia _stimare_, e ciascuno cercò di farselo amico». Mai non si era così indegnamente trafficato nella curia: ne dichiarò venali le cariche pubblicandone la tariffa; cercò guadagno dal distribuire i benefizj e la porpora; mercatò di perdonanze; da’ sudditi smunse quanto potè, e massime col fare incetta, poi procurare carestie artefatte fissando egli stesso il prezzo, o mandandone fuori quando il potesse a vantaggio, e traendone del cattivo pe’ suoi. Qualche volta piacevasi vedere i soldati duellar fino a morte, e le scalee di San Pietro ebbero a contaminarsi di sangue. Appena Sisto spira, amareggiato dai falliti disegni, il palazzo de’ suoi nepoti è demolito, saccheggiati i pieni granaj; i Colonna, da lui perseguitati, rientrano, e si mantengono coll’armi alla mano. I cardinali si sforzarono di ovviare nuovi disordini collo stabilire per capitolazione, il papa non potesse nominare più che un cardinale della propria famiglia, governasse di concerto col sacro collegio, e massime per alienare feudi della Chiesa dovesse ottenere due terzi dei voti: ma meglio di questi sempre elusi ripieghi avrebbe giovato il determinarsi ad una buona scelta. Fu detto che promettendo a ciascun cardinale pingui posti e l’entrata di quattromila fiorini, ne ottenesse i voti Giambattista Cybo genovese, che assunse il nome d’Innocenzo VIII, e che le pasquinate dissero, a ragione chiamarsi padre, poichè aveva sette figli naturali. Per questi legami e per debolezza lasciavasi menare da indegni favoriti, che s’abbandonavano a sfrontata venalità: Franceschetto Cybo s’impinguava col concedere impunità fino ai masnadieri, di cui Roma era divenuta tana; di che il suo cameriere con indegna celia lo scagionava dicendo che Dio non vuol la morte del peccatore, ma che paghi e viva. Costui, che fu lo stipite dei duchi di Massa e Carrara, consigliò il papa a creare una quantità d’impieghi, per venderli caro a persone, le quali poi si rintegravano col far mercato delle grazie apostoliche. Alcuni scrivani falsarono anche bolle ed assoluzioni preventive per ogni sorta disordini: scoperti, furono condannati a morte: si esibì pel loro riscatto cinquemila ducati, ma pretendendosene sei, e non potendo trovarli, salirono al patibolo[125]. Non si dimentichi che questi aneddoti ci vengono da impurissima fonte, come sono le ciancie d’anticamera, e le impudenze d’una cronaca scandalosa; dalla quale si raccorrebbe perfino che colla trasfusione del sangue di tre fanciulli tentasse Innocenzo prolungare la vita, che i predecessori suoi versavano con santa generosità. Questo deterioramento de’ pontefici doveva giustificare il flagello che già fischiava in aria. Le _prammatiche_ di re Ferdinando aveano principale scopo il reprimere i baroni, proibendo esigessero dai vassalli oltre quello che permettevano le costituzioni, nè gl’impedissero di vendere i possessi a piacere; sottoposti tutti i beni all’estimo; ai magistrati regj concesso di procedere d’uffizio in ogni misfatto, anche senza querela della parte offesa; perseguitare i masnadieri e gli usurai in qualsifosse luogo. Tale robustezza s’addiceva a tempi, in cui per tutta Europa i re accentravano l’autorità pubblica, sparpagliata da prima; ma rendeva Ferdinando esoso ai baroni, mentre a tutti spiacevano le sue crudeltà nel punire, e l’avarizia esercitata con sozzi monopolj, coll’accaparrare l’olio e il grano per rivenderli cari, col dare ai villani de’ majali da ingrassare. Peggio esacerbavano i fieri portamenti di suo figlio Alfonso di Calabria. Costui (1485) fa proditoriamente arrestare Pietro Lallo conte di Montorio, la cui famiglia da un secolo tenea il primato in Aquila, ed occupa questa città. Essa lo caccia a furia, e si esibisce ad Innocenzo VIII, col quale si collegano i principali baroni come a signore sovrano del regno, ed a Ferdinando espongono i loro richiami, e chiedono di non dover comparire in persona ai parlamenti, temendo esservi presi e morti come i loro compagni; potere armar gente a difesa dei proprj distretti, e mettersi al soldo di qualunque potenza non fosse in guerra col re; questo non gravasse di straordinarie imposte i loro vassalli, nè vi ponesse a quartiere le sue truppe. Ferdinando finse darvi ascolto per guadagnar tempo e sconnetterli; ma essi, accortisi del tranello, e risoluti di non cadere sotto all’aborrito Alfonso, alzan bandiera papale in aperta rivolta: i Sanseverino, i Del Balzo, gli Acquaviva, molti conti e principi e cavalieri, tra cui il grand’ammiraglio, il gran siniscalco, il gran connestabile, li secondano; il conte di Sarno, nobile antichissimo eppur dato ai traffici con tanto utile che il re medesimo volle entrar seco in società; Antonello Petrucci, che pe’ suoi talenti divenuto secretario regio, accumulò onori e ricchezze e collocò altamente tutti i figliuoli. Ma i potentati vicini in cui fidavano, rimangono indifferenti od ostili; il duca di Lorena, erede delle pretensioni angioine, che avea promesso venire a soccorrerli, non giunge; Roberto Sanseverino valoroso condottiero, messosi con loro, è sconfitto; Innocenzo VIII, che forse gli aveva sobillati, si riconcilia con Ferdinando. Costretti a impetrar pace, ottengono piena perdonanza dal re, il quale (1487) lascia al papa Aquila ed i baroni che gli avevano fatto omaggio. Il trattato ebbe la garanzia del papa, del re di Spagna, del re di Sicilia; eppure era un lacciuolo. Appena i baroni ebbero deposte le armi, Ferdinando sollecitò le nozze del figliuolo del conte di Sarno con una sua nipote, e tra le feste e i balli fece arrestare lo sposo, il padre, il Petrucci e molti baroni; poi, volendo quelle apparenze di giustizia che colà si sanno troppo simulare, nominò una giunta e quattro pari, che li condannarono a morte. E fu eseguita inesorabilmente; al fisco i loro beni, perseguitati gli aderenti e uccisi chi in segreto, chi in pubblico, nemmanco perdonando i fanciulli; appena la Bandella Gaetana potè fra romanzeschi pericoli salvare i suoi figli, principi di Bisignano. In secolo di tante perfidie questa rimase più famosamente esecrata; e benchè Ferdinando mandasse a stampa il processo de’ baroni, non risonava che un concerto di maledizioni. Innocenzo, cui egli ritolse Aquila e ricusò il tributo promesso, lo proferì decaduto, e invitò a quel trono Carlo VIII di Francia; principio di nuovi disastri all’Italia. A Firenze la congiura de’ Pazzi, come avviene dei tentativi falliti, crebbe potere a Lorenzo, e più quando riuscì ad una pace, indarno a lungo, maneggiata da consiglieri e ambasciatori. Cosmo avea provato tutti i guaj e pochi frutti della dominazione, perchè nuova, e perchè capo d’una fazione irrequieta, il diriger la quale gli costò più che non il vincere l’avversa. Anche a suo figlio riuscivano impaccio quei che pareano sostegni. Ma il pericolo di Lorenzo eccitò quella devozione, ch’è singolare avviamento alle signorie smisurate; e gli fu conferita autorità principesca, ch’egli adoprò a consolidare la sua famiglia, non più col violare la costituzione, ma col fortificarla. Diciassette riformatori ridussero a metà il tre per cento che pagavasi pel debito pubblico, espediente che campò lo Stato dal fallire. Lorenzo stesso, imputato di riparare col pubblico denaro le perdite al suo privato cagionate dal lusso e dalla dissipazione de’ suoi agenti, non trovò più decoroso il continuare i traffici, e ritirati i capitali, gli investì in terreni: col quale espediente separò i proprj negozj da quelli dei cittadini, che quasi interesse proprio aveano sostenuto i suoi padri. Creò l’ultima balìa per istituire una magistratura legislativa, di cui sin allora aveasi mancanza, e che dovea formarsi di settanta membri e de’ gonfalonieri che man mano uscivano di carica, ed essere consultata sopra tutti gli affari pubblici prima che gli altri collegi deliberassero, nominare agli impieghi, amministrare il tesoro. Così lasciava sussistere le forme repubblicane, ma se le facea stromento al dominare. I settanta condussero il governo con quiete e gloria, ma dipendente all’intuito dal principe, il quale avendo a spendere ben poco ne’ magistrati, volgeva il denaro ai vantaggi suoi domestici, e a sedurre, comprare o ammollire gli antichi repubblicani, predisponendoli alla servitù de’ suoi successori. Sebbene però il governo allora introdotto fosse tutto materiale e di speculazione, Firenze n’ebbe la pace di cui tanto avea mestieri, e considerò quello come il tempo suo più lieto: solita ventura de’ governi che succedono a lunghi turbamenti, e a cui i popoli fanno merito del male che non commettono. Ormai tutta Toscana obbediva a Firenze, a patti o a forza essendosi, da Siena in fuori, assoggettate le città e le signorie (pag. 244). Pietrasanta, posseduta dal banco genovese di San Giorgio, fu ripigliata dai Fiorentini nel 1484. Antonio Pucci, commissario di quella guerra, insisteva presso il capitano perchè desse la battaglia; e questo «dimostrava molte difficoltà’, e che vi si farebbe una beccheria d’uomini. Il Pucci, veduta la sua pusillanimità o malizia, fece un colpo da savio, e disse: _Orsù, capitano, datemi la vostra corazza, ed io andrò a dare battaglia, e voi rimarrete con questi altri commissarj a provvedere il bisogno_. Tali parole furono dette con tanta efficacia, che il governatore si vergognò e, _Io v’ho detto il parer mio; niente di meno farò il vostro_; e così dettono una grandissima battaglia, in modo vi morì di molta brigata, e feriti da ogni banda. Di che il Pucci usò un altro colpo di savio, accompagnato colla carità: che andò, e fece rassettare tutti i feriti, e andogli a visitare e seco il medico, e raccomandarli loro, e baciavali e commendavali, e seco anche il cancelliere con denari, e diceva: _Orsù, fratelli, chi ha bisogno di denari lo dica_; e davane loro e confortavali che non temessino di niente. Quelle parole e fatti furono di tal efficacia appresso a’ feriti come a’ sani, che si sariano buttati per marzocco nel fuoco; e parea loro mill’anni si desse l’altra battaglia. E come si dette, aveano dimenticato i pericoli, e mai si spiccarono che presero Pietrasanta: e se passava quindici giorni, bisognava levarsi da campo con vergogna e danno» (CAMBI). Nell’87 si ricuperò Sarzana, stata tolta dai Fregosi. Volterra, sollevatasi nel 49, fu punita; poi essendosi nel 72 scoperta una ricca allumiera a Castelnuovo, i cittadini ne pretendeano la proprietà, e negata, si ribellarono. I Fiorentini mandarono Federico d’Urbino, che, assediata la città, la ridusse a capitolare: ma mentre se ne trattava, un Veneziano nascostamente introdusse i soldati, che si buttarono al sacco, invano trattenuti dal conte d’Urbino, che fece anche impiccare il Veneziano. Così Volterra tornò ai Fiorentini, non più come alleata ma suddita, senza privilegi, e tenuta in senno dalla torre del Maschio, una delle peggiori prigioni di Stato. Lorenzo frametteasi alle quistioni politiche d’Italia, e spesso opportunamente; per esso gli Estensi ottennero la pace di Bagnolo che li salvò; per esso gli Aragonesi la quiete dopo la congiura de’ baroni; per esso Innocenzo VIII la sommessione di Bocolino de’ Gozoni, che, sollevata Osimo, invitava i Turchi a sostenerlo; per esso fu all’Italia ritardata l’invasione dei Francesi, inuzzoliti dalla chiamata di Sisto IV. Era egli stato educato squisitamente da Cristoforo Landino, dal greco Giovanni Argiropulo, da Marsilio Ficino, e dalla propria madre Lucrezia Tornabuoni, protettrice e intelligente delle lettere. Vi unì abilità in tutti gli esercizj del corpo; e il torneo, dove giovinetti armeggiarono esso e il fratello, eccitò il Poliziano a comporre le più belle ottave che ancor si fossero udite. Educava egli stesso domesticamente i suoi figliuoli[126], e come d’erudizione, così era pieno d’arguzie; e motti e burle di lui abbondano nelle raccolte di quel tempo. Venuto poi a capo dello Stato, meritò il titolo di Magnifico per lo splendore onde tenne corte; chè corte veramente potea dirsi dacchè era trattato alla pari dai principi, sebbene non portasse titolo. Faceasi talora incaricare dai Fiorentini della esecuzione di qualche opera utile, che egli stesso avea suggerita, e dove metteva del proprio. Le case antiche, un tempo pari alla medicea, per quanto ricche e numerose, più non comparivano che da suddite. Ridotti uniformi i voleri, segreti i consigli, arbitraria la erogazione del pubblico denaro, accomodata la città di nuove vie, e fortificatala contro i nemici, potè volgersi alla politica esteriore, e tener le bilancie d’Italia in modo, che gli stranieri non vi prevalessero. So che, quanto fu stile l’esaltarlo durante la dominazione de’ Medici, così il denigrarlo sotto gli Austriaci, e più dai moderni come autore della susseguita servitù. Chi negherà ch’e’ vi trovasse preparato il paese? e che libertà era quella, dove i cittadini migliori erano stati proscritti? La nuova generazione avea perduto quel sentimento del vivere franco e del concorrere al governo e al ben della patria, ch’era parso felicità ai loro maggiori. Tra siffatti è agevole a pochi sommovitori il turbare la quiete col pretesto della libertà; e il reprimerli è dovere d’un capo restauratore. Un Frescobaldi tramò d’uccidere Lorenzo, e fu mandato alla forca; Baldinotto Baldinotti il tentò pure, e fu col figlio trascinato per le vie di Pistoja; e il popolo, non che irritarsene, applaudì. Siccome Augusto, adoperò a restituire i Fiorentini dalla vita pubblica alla domestica, ma non trascese le condizioni di primo cittadino di paese libero. L’ambizione di lui dovea pur restare lusingata allorchè, dall’alto della sua villa, osservava questa città, bellissima di antiche e nuove grandezze, dove Arnolfo, l’Orcagna, Masaccio aveano insignemente attestato il risorgere delle arti, e Brunelleschi fabbricato Santo Spirito, la più bella delle chiese, preparato nel palazzo Pitti una futura reggia, e lanciata la meravigliosa cupola della cattedrale, a cui la cedeva appena Santa Croce; Santa Maria Novella appariva ornata e vaga come una sposa; San Lorenzo era stato finito da Cosmo con quarantamila fiorini; con trentaseimila quel convento di San Marco, nel quale già predicava una voce potente, che fra poco dovea diventare formidabile. Contemplarla, e poter dire, — Questa città è mia!» Vero è bene che Lorenzo udiva ancora fremiti e minaccie repubblicane; ma li soffogava sotto i canti delle muse ammansate e lo splendore delle arti belle e delle utili. Allora «i giovani, più sciolti dell’usitato, in vestiri, in conviti, in altre simili lascivie oltremodo spendeano; ed essendo oziosi, in giuochi ed in femmine il tempo e le sostanze consumavano; e gli studj loro erano apparire col vestire splendidi e col parlare sagaci e astuti, e quello che più destramente mordeva gli altri, era più savio e da più stimato» (MACHIAVELLI). Esso Lorenzo con pompose mascherate offriva esercizio a pittori, a poeti, a musici, ad artieri, e distrazione al vulgo; imitava il parlare contadinesco nelle graziosissime stanze della _Nencia da Barberino_; nei _Beoni_, contraffacendo Dante, mordeva i compagnoni del suo tempo, e dava il modello delle satire in terza rima; nel teatro rinnovato chiamava ad applaudire all’_Orfeo_ del Poliziano, reminiscenza classica, ed a _misteri_ da lui stesso composti, prolungazione del medioevo. L’Ombrone porta via l’isola Ambra, ch’egli aveva ornata d’ogni piacevolezza? Lorenzo ne canta l’innamoramento d’un Dio e la metamorfosi, colla facilità di Ovidio. Dai suoi scritti trapelano l’amore dell’indagine filosofica, la vaghezza della vita casalinga e campestre, lontana dalle brighe e dalle noje del comando. Nuovi fiori avea trapiantati dall’Oriente alla sua villa di Careggi, bufali d’India vi ruminavano erbe insolite[127]; e benchè l’esservi già per tutto mecenati, scuole, biblioteche, non rendesse più così necessario ed insigne il favorire le lettere come sotto Cosmo, pure Lorenzo cercava libri dappertutto[128], fin a dire — Vorrei me n’offrissero tanti, che dovessi impegnare i miei mobili per comprarli»; e avrebbe bramato che a Pico, che al Poliziano, che agli altri amici nulla mancasse nella sua biblioteca di quanto occorreva all’erudizione loro o alla curiosità. Ebbe un orologio astronomico ingegnosissimo: fece porre in Santa Maria del Fiore un busto di Giotto, e un mausoleo a Filippo Lippi, giacchè gli Spoletini non gliene vollero cedere le ossa. La raccolta di sculture antiche, cominciata dal Donatello, e che alla morte di Cosmo fu stimata ventottomila fiorini, egli crebbe e dispose ne’ giardini perchè servisse di scuola a giovani, che stipendiava o donava acciocchè coltivassero le arti, uno de’ quali fu Michelangelo Buonarroti, di cui indovinò e coltivò il genio volendoselo compagno e commensale. Quella corona di dotti fiorì lo studio di Pisa da lui aperto il 1472, e a gara esaltò Lorenzo ai contemporanei ed agli avvenire, sin a farlo credere un grand’uomo[129]. Addolorato del corpo, lasciava gli affari ai figli Giuliano e Pietro; mentre vedeva straccarico di benefizj ecclesiastici, e a soli quattordici anni vestito cardinale l’altro, che poi doveva essere Leone X. Alla campagna o ai bagni di Siena e della Porretta alleviava la noja e gli spasimi colle erudite adunanze, dove il Ficino gli parlava di Platone; il Landino, il Merula, il Leoniceno, il Calderino, d’Orazio, di Virgilio, d’Ovidio; il Pulci lo spassava col recitargli le lepide avventure degli eroi. Subì la comune sorte a soli quarantaquattro anni (1492); «nè morì mai alcuno, non solamente in Firenze, ma in Italia con tanta fama di prudenza, nè che tanto alla sua patria dolesse» (MACHIAVELLI). Il gonfaloniere della repubblica si vestì di bruno; il papa e i principi mandarono ambasciadori a condolersene colla patria, come di pubblico lutto. CAPITOLO CXXI. Gli eruditi. Non potremmo meglio che dal nome dei Medici principiar a discorrere dei dotti di quel tempo. I quali da taluni sono vantati come dirozzatori dell’Italia e dell’Europa, da altri accusati d’aver traviato la coltura originale, e precorso a que’ pedanti, che sempre dappoi imbrattarono il nostro paese, surrogando allo studio delle cose lo studio delle parole. Chi non conosce progresso se non nel tornare indietro, nè bellezza se non nell’imitazione dell’antico, dovette professare che, come i Greci l’aveano anticamente dirozzata, così l’Italia dovesse a loro anche il risorgimento moderno. I nostri lettori si rassegneranno essi a credere che la patria di Dante deve la sua coltura ai lotolenti grammatici fuggiti da Costantinopoli? Per quanto il sangue e la civiltà slava si fossero trasfusi nell’ellenica, i cittadini di Costantinopoli parlavano ancora la lingua in cui Pindaro e Anacreonte aveano cantato, arringato Demostene e san Giovanni Crisostomo. Con quanto profitto non avrebbero dunque potuto applicarla alla intelligenza de’ classici, che tutti possedevano? tanto più che il clero, non cacciato ai governi e alle guerre come il feudale d’Europa, poteva requiare nelle lettere e nell’istruzione; e che la sottigliezza della discussione filosofica e teologica portava a scrupoleggiare sulla parola. Ma la parola e null’altro essi curarono; dagli autori profani li sviavano le dispute di scuola; e in generale custodivano la letteratura classica come scienza morta; unico merito valutavano l’erudizione, unica sapienza il ricordare. La fredda analisi loro, la critica ciarliera, impertinente, sterile, non produssero verun’opera che meritasse la posterità; sempre terra terra, limitandosi a raccogliere, commentare, postillare, compilare, strepitare, prendendo la pazienza per talento, la memoria per giudizio. Nella nuova efflorescenza che ebbero in Italia, qual fu mai che trovasse, anzi neppur cercasse i mezzi per cui tante bellezze erano state prodotte? o i capolavori presentasse col confronto di fatti e d’uomini, coll’influenza dei tempi, col mutuo coadjuvarsi dell’azione e del pensiero? In modo ben più franco aveva esordito la letteratura italiana; e la vedemmo lanciarsi gigante, bisognosa di originalità, s’una via propria, non segregata, pure distinta dall’antica. Ma poco vi durò; e invaghitasi degli antichi autori, non solo credette migliore ciò che a quelli maggiormente s’accostasse, ma barbaro ciò che ne differisse; la spontaneità bizzarra e scorretta rinnegò per un gusto severo e canonico; l’entusiasmo dell’erudizione soffogò quell’originalità, che non può rinvenirsi se non in verità nuove vivamente sentite e naturalmente espresse nella lingua di tutti. Il vago sentimento di ammirazione pei grandi nomi dell’antichità classica mai non era venuto meno in Italia, e Dante l’avea consacrato col farsi guidare da Virgilio a vedere il regno delle ombre, e col professare di aver dedotto da lui lo bello stile. Esso Dante però quasi solo di nome conobbe i classici; ma Petrarca e Boccaccio aveano sudato a resuscitare la letteratura antica; e se il loro gusto certamente ne restò raffinato, è a deplorare il Petrarca s’aspettasse immortalità dai versi latini, e il Boccaccio introducesse un periodare esotico; donde si ebbe un’altra fonte del linguaggio, l’imitazione de’ classici. Il latino del Petrarca, comunque scorrevole, tien troppo del medioevo; più disavvenente è quello del Boccaccio, che nelle etimologie greche vagella, sino a formare un nuovo dio Demogorgone. Albertino Mussato, Giovan da Cermenate notajo milanese, il Ferreto storico degli Scaligeri, diedero opera a sfangare la lingua latina. Felice Osio postillò passo passo la storia del Mussato, rivelando quel che imitò da Simmaco, da Macrobio, da Sidonio, da Lattanzio, tanto che a sedici linee d’originale sottopose ottantasei di note, singolare documento della cura che cominciavasi a mettere allo stile: ma chi sostenne l’improba fatica del leggerle, ne arguì che gli autori della bassa latinità erano studiati più che non Livio e Cicerone. Qui non era mancato mai chi conoscesse il greco, se non altro come lingua liturgica ne’ pontificali di Roma e nell’ordinaria uffiziatura de’ monaci di San Basilio; e a tacer l’uso che dovettero farne le città commerciali, il vescovo Liutprando da Cremona affetta di lardellarne la sua legazione; Gunzo cherico da Novara, in una disputa grammaticale coi monaci di San Gallo nel X secolo, cita perfino il testo dell’Iliade; poi di proposito fu tolto a studiare il greco quando si trattò del riconciliare la Chiesa orientale colla nostra. Dal monaco calabrese Barlaam, venuto da Costantinopoli ambasciatore, ricevette lezioni il Petrarca senza grande profitto. Leonzio Filato, patrioto e scolaro di quello, ebbe in Firenze tavola e quartiere dal Boccaccio, che l’impegnò a tradurre Omero, tirandone di Levante un esemplare a grande spesa; poi fece per lui dai Fiorentini istituire la prima cattedra di quella lingua. Con maggior fortuna dettò colà e altrove Manuele Crisolara, venuto nunzio dell’imperatore Manuele. Ambrogio camaldolese, al principio del 1400, trovava in Mantova fanciulli e fanciulle istruiti nel greco, tra cui la figliuola del marchese, di otto anni. Giovanni Aurispa siciliano portò di Grecia ducentrentotto manoscritti, e ne insegnò la lingua in molte città, servì di secretario ad Eugenio IV, e finì la vita a Ferrara sotto la protezione degli Estensi. Gregorio da Tiferno napoletano nel 1458 domandò e ottenne la prima cattedra di greco all’Università di Parigi, con cento scudi d’assegno. Una folata di Greci qui trasse, man mano che le loro patrie cadevano a’ Musulmani, quali Teodoro Gaza di Tessalónica, Giorgio da Trebisonda, Giovanni Argiropulo, Demetrio Calcóndila, Giovanni Láscari prosapia reale. Altro viatico non portando che la cognizione dei classici, ne esageravano l’importanza, dichiarando barbaro ciò che a quelli non somigliasse; onde il secolo delle creazioni fece luogo a quello de’ retori e grammatici, e, come al fine dell’Impero romano, non s’immaginava possibile il fare alcuna cosa bella diversamente dai classici. Gente di maggior conto era venuta al concilio di Firenze; e il Bessarione, abbandonato lo scisma e nominato cardinale, qui accolse Greci avveniticci, e ravvivò l’amore per Platone. Questo filosofo fu letto in Firenze da Giorgio Gemistio Pletone (1400) peloponnesiaco, che dedito affatto alla scuola alessandrina, eclettica tra il vangelo e i filosofi antichi, proclama la morale dell’Accademia, la politica di Sparta, fin la personificazione simbolica degli attributi di Dio nelle divinità dell’Olimpo. Nel libro _De platonicæ atque aristotelicæ philosophiæ differentia_ versando beffe sopra Aristotele, accannì gli ammiratori di questo, e principalmente Teodoro Gaza e Genadio, il quale considerava i Platonici d’allora come anticristiani. Il Bessarione assunto arbitro, mostrò che Pletone eccedeva: ma Giorgio da Trebisonda, abborracciatore di traduzioni, gli avventò uno sconcio libercolo, flagellando Platone fin a posporlo a Maometto come legislatore, ed imputare ad esso tutti i vizj, alla sua scuola tutte le sciagure. E di qua e di là s’infervoravano, liti strepitose fra tant’altro strepito: ma gl’Italiani, l’avesser letto o no, propendevano per Platone. Marsiglio Ficino, figlio d’un medico di Firenze, l’avea tradotto in latino chiaro, con fedeltà mirabile pel tempo, e tanta da ajutare a supplir qualche lacuna dove l’originale andò perduto. Più oscuro riesce nel tradur Plotino perchè tale è il testo, e perchè il Ficino aveva acquistato con quel misticismo una famigliarità ch’è di ben pochi. Sopra quei modelli dettò poi una teologia dell’immortalità, asserendo l’affinità della scienza colla religione. Perocchè la gara di scuola erasi portata sui punti cardinali della filosofia e teologia, quale l’immortalità dell’anima e la destinazione umana; e i Peripatetici s’erano divisi tra Alessandro d’Afrodisia che credeva l’anima inseparabile dal corpo e perire con esso, ed Averroe che la faceva tornare a Dio ed esserne assorta. Il Ficino confutandoli sostiene l’anima essere emanata dalla Divinità, e a questa poter ella ricongiungersi mediante la vita ascetica; immortale, perchè altrimenti l’uomo sarebbe l’essere più infelice; ripudia l’opinione dell’anima universale: ma immaginoso più che ragionatore, eclettico senza originalità nè vero spirito filosofico, nel suo entusiasmo confondeva il sapere coll’arte e colla virtù. Una sua lettera, scoperta testè, ad una cugina che avea perduto la sorella, e tutta consolazioni platoniche d’ordine universale, di prigione del corpo, e simili idee; nessuna di Cristo o di fede; anzi dal pulpito raccomandava la lettura del divino Platone, e tentò perfino introdurne dei brani nell’uffiziatura ecclesiastica. Per ordine di Cosmo de’ Medici, cui dovea l’educazione, aprì un’accademia platonica, composta di mecenati, ascoltatori ed allievi, che festeggiavano i natalizj di Platone e Cicerone. Io non so che dire di Paolo II se si sgomentava di questo tornar pagana la scienza, e staccarla dalla tradizione cristiana[130]. All’accusa rispondeano che, quanto al seguir Platone, non faceano che imitar sant’Agostino; che teologi e filosofi tutti allora disputavano di tali quistioni, e le metteano in dubbio per giungere alla verità; che eresia è l’ostinarsi nell’errore; mentre essi non disobbedivano la Chiesa, e seguitavano le pratiche volute. Col platonismo alessandrino ne rinacquero gli errori, le fantastiche opinioni, la cabala. Giovanni Pico (1494) dei signori della Mirandola, persuasosi che Aristotele e Platone in fondo concordino, tentò ravvicinarne le dottrine, e pensando che il secondo avesse dedotto la sapienza dagli Orientali, si volse a questi, massime ai cabalistici, e di là trasse le più delle novecento tesi che in Roma propose sulla logica, etica, fisica, metafisica, teologia, magia, offrendosi a sostenerle. Egli avea fatto riserva dell’autorità della Chiesa; pure alcune repugnavano all’ortodossia in modo, che ne sorse rumore, e dalla persecuzione a fatica lo salvarono il grado suo e la protesta di adottarle nel senso che il papa decreterebbe. Qui un dilagar di scritture pro e contro, finchè Alessandro VI lo dichiarò irreprovevole, e in fatto a quell’ora avea modificato le opinioni sue, come lasciati gli amori e le facili voluttà. Scrisse il libro più gagliardo contro l’astrologia; eppure pretendeva colla cabala dar ragione della cosmogonia di Mosè e dell’incarnazione del Verbo, e spiegava la Genesi in modo simbolico, secondo i quattro mondi fisico, celeste, intellettuale e dell’uomo. Ideava un’esposizione allegorica del Nuovo Testamento, una difesa della Vulgata e dei Settanta contro gli Ebrei, un’apologia del cristianesimo contro tutti gl’infedeli ed eretici, un’armonia della filosofia: ma a trentun anno morì. Da giovinetto avea fatto stupire l’Italia con una memoria sfasciata. Tale l’ebbe pure Pietro Tommaj di Ravenna, il quale, udita una lezione, la ripeteva cominciando dall’ultima parola; sapeva il Codice e le infinite glosse; replicò centottanta testi, coi quali un frate milanese avea provato l’immortalità dell’anima; e giocando a scacchi mentre un altro faceva a’ dadi, ed egli stesso dettava due lettere, alla fine seppe ridire tutte le mosse degli scacchi, tutte le combinazioni dei dadi, tutte le parole delle due lettere cominciando dal fine. Qual meraviglia se pareagli facilissimo un suo trattato di memoria artifiziale, che gli altri trovano oscuro e scabroso?[131]. Della memoria locale trattò eziandio Tommaso Golferani cremonese attorno al 1340, primo che di filosofia scrivesse in vulgare. Dietro ai forestieri germogliò una fungaja d’umanisti e grammatici nostri, di alcuno dei quali non parrà superfluo divisare a minuto i casi. Giovanni Malpaghino di Ravenna, allievo prediletto del Petrarca, aperse scuola di latino a Firenze, sceverando i modi degli autori bassi dai classici, con tal frutto che il gusto della correttezza divenne passione e moda. Da costui imparò il latino il Poggio[132], figlio d’un povero Guccio Bracciolini aretino; ma al greco non si pose che di quarant’anni. A Roma fu applicato a scrivere le lettere pontifizie, e seguitò cinquant’anni, senz’obbligo di residenza, ma con sottile assegno che nol sottraeva alla necessità. Con mostrargli le lettere direttegli da Leonardo Bruno, suo condiscepolo a Firenze, indusse Innocenzo VII a procacciarsi anche questa buona penna, e il Poggio gustò le consolazioni d’un’amicizia che può beneficare. Succeduto Gregorio XII, Bruno rimase in uffizio, Poggio andò a riposarsi a Firenze, poi seguì Giovanni XXIII al concilio di Costanza. Il gusto raffinato volsero di buon’ora i nostri a rintracciare autori perduti, e in Italia o da Italiani si può dire fossero scoperti tutti i classici. Petrarca ad Arezzo trovò alcun che delle _Istituzioni_ di Quintiliano, e delle orazioni di Cicerone, le tre prime _Deche_ di Livio, e cercava le altre, temendo non andassero smarrite con Virgilio per ignavia degli uomini; fanciullo ricordavasi aver veduto i libri _Delle cose umane e divine_ di Varrone, e lettere ed epigrammi di Augusto, ora a noi sconosciuti. Ne’ suoi viaggi, appena vedesse qualche monastero antico, — Chi sa non vi si celi qualche preziosità?» e v’accorreva con desiderio[133]. Agli amici nulla chiedeva più istantemente che qualche opera di Cicerone, e mandava perciò preghiere e denari in Italia, in Francia, in Germania, in Grecia e fin nella Spagna e nella Bretagna. Qual tripudio allorchè, a Liegi, città tutta traffici, rinvenne due arringhe di quello, e in Verona le epistole famigliari! Poi il Crotto gli spedì da Bergamo le _Tusculane_, Raimondo Soranzo il trattato _De gloria_, ch’egli prestò al Convenevole, e nol riebbe nè egli nè la posterità. Il Boccaccio arrampicavasi pe’ solaj de’ conventi a stanar libri, e gli esemplava di proprio pugno; e narrava a Benvenuto da Imola, che andato a Montecassino, «e avido di veder la libreria, che aveva inteso essere nobilissima, domandò ad un monaco graziosamente gli aprisse la biblioteca. Quegli rispose secco, mostrandogli un’alta scala, _Salite che è aperto._ Lieto v’ascese e trovò il ripostiglio di tanto tesoro senza porta nè chiave: entrato, vide l’erba nata per le finestre, e libri e scaffali coperti di polvere. Meravigliato, cominciò ad aprire ora questo libro ora quello, e vi trovò molti volumi d’antichi e rari, dei quali ad alcuno erano strappati quaderni, ad altri recisi i margini, e in molte guise sformati. Compassionando che le fatiche e gli studj d’incliti ingegni fossero venuti a mano di gente ignorantissima, se ne partì colle lacrime agli occhi. E imbattutosi in un monaco nel chiostro, gli domandò perchè volumi così preziosi fossero tanto indegnamente mutilati. Il quale rispose, che alcuni monaci, per guadagnare due o cinque soldi, radevano un quaterno, e ne formavano uffiziuoli da vendere ai bambini; e coi ritagli de’ margini facevano brevi da vendere alle donne. Or va, uomo studioso, e ti rompi il capo per far libri»[134]. Il Poggio della sua dimora al concilio di Costanza profittò per cercare manoscritti nei conventi d’oltralpe, affrontando asprezza di cielo, scomodo di strade, scortesia di rifiuti. Principalmente ne rinvenne nella badia di Sangallo «entro una specie di carbonaja oscura ed umida, ove non si sarebbe pur voluto gettare un condannato a morte»; e tra quelli, otto orazioni di Cicerone, le _Istituzioni_ di Quintiliano, tre libri dell’_Argonautica_ di Valerio Fiacco, qualche cosa di Lattanzio, l’Architettura di Vitruvio, i commenti d’Asconio Pediano a Cicerone, la _Grammatica_ di Prisciano, ed altri non più veduti. Esortato dal Bruno, dal Niccoli, dal Barbaro, dal Traversari, proseguì ricerche in Germania e in Francia, e trovò altre arringhe di Cicerone, i poemi di Silio Italico, di Manilio, di Lucrezio, parte di Petronio, Ammiano Marcellino, Vegezio, Giulio Frontino, le matematiche di Giulio Firmico, Nonio Marcello, dodici commedie di Plauto Columella, il quale era talmente dimenticato, che non lo conobbero nè Vincenzo di Beauvais, autore di un’enciclopedia, nè il nostro Pier Crescenzi, attento raccoglitore di cose rustiche. Col nuovo papa Martino V il Poggio passò a Mantova, poi lusingato con larghe promesse dal ricco vescovo di Winchester, tragittossi in Inghilterra; ma deluso e disgustato dell’ignoranza che vi trovava e della poca stima in cui v’era la bella letteratura, rivenne in Italia. Quivi apprese come Gasparino Barziza avesse rinvenuto l’_Oratore_ di Cicerone; non si sa chi le epistole ad Attico; Gherardo Landriano a Lodi i libri dell’_Invenzione_ e _Ad Erennio_; Tommaso Inghirami di Volterra a Bobbio trovava il _Viaggio_ di Rutilio Numaziano; Alessandro d’Alessandro in un celliere a Napoli il Properzio: da Parigi si ebbero le epistole di Plinio minore, da Germania le egloge di Calpurnio e di Nemesiano. Qual piacere doveva recare il leggere questi autori man mano che si scoprivano, senza il disgusto che ora ce ne lasciano le scuole, senza l’ottusione prodotta dall’abitudine! «La repubblica letteraria (scriveva Lorenzo Medici al Poggio) ha di che rallegrarsi non solo per le opere che trovaste, ma per quelle che avete a trovare ancora. Qual gloria per voi che sieno resi alla luce gli scritti di sommi autori! I secoli venturi rammenteranno che codici, di cui irreparabile piangeasi la perdita, vostra mercè vennero ricuperati; e come Camillo fu intitolato secondo fondatore di Roma, così voi potrete esser detto secondo autore delle opere per voi ricomparse. Vostra mercè possediamo intero Quintiliano, che dianzi avevamo solo per metà, e questa pure mutila e difettosa. O acquisto prezioso! o inaspettato contento! ed è pur vero ch’io potrò leggere tutto quel Quintiliano, che tanto dilettami comechè mutolo e sformato? Vi scongiuro, mandatemelo al più presto, ch’io possa almeno vederlo prima di morire ». E subito i dotti buttavansi a commentarli, ridurli a buone lezioni, agevolarne l’intelligenza, trarne ajuti allo scrivere corretto; e moltissimi greci tradussero. Gl’impiegati della cancelleria romana soleano raccorsi in una sala, dove a gara ne sballavano delle grosse, tanto che, da bugia, era chiamata il bugiale; e leggeano sulla cronaca di ciascuno, prete o secolare, mozzo o cardinale, privato o governo. Da questo mondezzajo il Poggio razzolò i suoi motti e racconti (_Facetiæ_), putidi d’oscenità, le cose e le persone sacre trattando con tale audacia, che i Protestanti vollero poi contarlo tra i loro precursori. Conversazioni più sensate ritrae nella _Historia disceptativa convivialis_, principalmente su punti filologici. Scrisse pure sulla nobiltà, sulla sfortuna de’ principi, sulla varietà della fortuna. Al suo trattato delle _Eleganze latine_ proemiò professando non conterrebbe nulla che fosse già scritto da chichessia: invece è suo merito l’avere utilizzato tutti i vecchi grammatici, per dare riflessioni sullo scrivere, e buone regole intorno alla sintassi, alle inflessioni, principalmente ai sinonimi; e fu ristampato, tradotto, ristretto, compendiato, fin messo in versi. Ma se egli conoscevasi di parole meglio di qualunque contemporaneo, non sapeva collocarle in buono stile, e per iscrupolo di purezza rigettò anche frasi di conio irreprovevole. Ripristinato Cosmo, e spirando destra l’aura ai Medici, il Poggio ne gustò i favori, e bramava terminare sua vita a Firenze; ebbe una villetta nel Valdarno, modesta, ma abbellita di libri, di statue, di pietre incise, di medaglie e di amici che lo visitavano; man mano che la morte gli portasse via un amico, un protettore, esso gli tributava lodi e lacrime. La Signoria volle gratificarlo dichiarando esente da ogni tassa lui e sua casa; lo invitò poi secretario, ed egli tessè la storia di quella città in otto libri latini dal 1350 al 1455, che non finì e che rimase inedita fino al 1715, sol conoscendosi la traduzione italiana fatta da un suo figliuolo. E ben quattordici figli aveva egli da un’amica: pure a cinquantacinque anni scrisse un dialogo se convenga o no il matrimonio, sposò una de’ Buondelmonti che avea diciott’anni e seicento fiorini di dote, e visse con lei felice padre. Ebbe sepoltura (1459) in Santa Croce; ritratto di mano del Pollajuolo nel palazzo pubblico, e una statua sulla facciata di Santa Maria del Fiore. Lorenzo Valla romano, con minor talento del Poggio suo emulo, maggior erudizione filologica e storica qual dimostrò nelle _Eleganze latine_, aveva elevato dubbj rarissimi a quel tempo; dichiarò spurie la donazione di Costantino e la lettera di Cristo ad Abgaro re, nè avere gli Apostoli composto ciascuno un articolo del simbolo; al Nuovo Testamento appose annotazioni abbastanza severe colla vulgata, egli primo fondando le spiegazioni sulla lingua originale. Distici e sarcasmi scaraventava costui a moscacieca contro cardinali e grandi che gli tardassero un favore; e contro l’ambizione della corte romana invettive tali[135], che reputò prudenza ricovrarsi a Napoli, ove aprì scuola d’eloquenza. Ma Nicola V, non che richiamarlo, gli regalò di sua mano cinquecento scudi d’oro per avere tradotto Tucidide, e il titolò canonico e scrittore apostolico. Eppure egli conservò libertà di pensare e di scrivere; nel dialogo sull’avarizia e la lussuria flagella i cattivi predicatori, ma specialmente i frati dell’Osservanza, rimessiticcio de’ Francescani; poi in quello sull’ipocrisia tempesta tutti i frati e il clero in generale. Quattro libri d’invettive scagliò contro Bartolomeo Fazio, che altrettanti gliene rimbalzò con pettoruta gonfiezza. Già contro Giorgio da Trebisonda, grand’ammiratore di Cicerone, avea sostenuto la prevalenza di Quintiliano con tanto furore, con quanto battagliò col Guarino per anteporre Scipione a Giulio Cesare, e con un giureconsulto bolognese sul punto se Lucio e Arunzio fossero figli o nipoti di Tarquinio Prisco. Era dunque ben addestrato alle lotte quando si accapigliò col Poggio, alle cui _Invettive_ oppose _Antidoti_ e _Dialoghi_, con un diavolo per pelo. Accusato da costui d’aver rubato denaro e falsato una ricevuta a Pavia, e in conseguenza essere stato messo alla gogna, gli butta in faccia imputazioni che l’onestà neppur consente d’accennare: e Nicola V, non che sopir la lite fra i due suoi dipendenti, accettò la dedica degli _Antidoti_. Francesco Filelfo, se volessimo credere al Poggio, fu generato da un prete in una lavandaja; ma gli storici il fanno da buona famiglia di Tolentino: studiò a Padova con tal frutto, che a diciotto anni professava eloquenza colà, poi a Venezia, ove fu dichiarato cittadino, e spedito secretario del balio a Costantinopoli per assecondare il suo desiderio di famigliarizzarsi col greco. Questa lingua v’apprese da Giovanni Crisolara, fratello del famoso Manuele, e l’imperatore Giovanni Paleologo lo volle secretario e consigliere, e lo mandò ministro all’imperatore Sigismondo: in tal qualità assistette in Cracovia alle nozze di Ladislao re di Polonia, e vi recitò un’orazione al cospetto de’ più grandi signori d’Europa. Reduce a Costantinopoli, sposò la figlia del suo maestro, e con lei tornava in Italia; ma trovò Venezia desolata dalla peste, gli amici fuggiti, i suoi libri in contumacia. S’avviò dunque a Bologna dolente e bisognoso: ma quivi trovossi accolto magnificamente, e offerti quattrocento cinquanta zecchini l’anno per una cattedra di filosofia morale e d’eloquenza. Essendosi Bologna ribellata al papa, il Filelfo ricoverò a Firenze, dove instancabilmente propagava l’amore de’ classici. Di gran mattino spiegava le Tusculane o l’Arte oratoria di Cicerone, Tito Livio od Omero; riposatosi alcune ore, ricompariva a leggere Terenzio, le epistole o qualche orazione di Cicerone, Tucidide o Senofonte; poi le feste in Santa Maria del Fiore, _senza alcun pubblico o privato premio_, commentava Dante. Quattrocento uditori seguivano le sue lezioni, ed era applaudito, careggiato da uomini e donne e da quanto di meglio aveva la città[136]. Il racconto di queste sue compiacenze ci rivela il maggior suo difetto, una stima di sè, non commensurabile se non al disprezzo di ciò che non fosse lui. Doveva in conseguenza moltiplicarsi nemici, che pubblicamente lo insultavano, sin a ridurlo a far le lezioni in casa[137]. Avendogli un bravaccio tirato un colpo al viso, il Filelfo mostrò crederlo mandato dai Medici, contro i quali parteggiava; e forse con ciò volle scusarsi delle codarde invettive con cui aggravò l’esiglio di Cosmo. Perciò allorchè questi tornò trionfante, egli rifuggì a Siena, donde continuò a bersagliarlo, tanto che la Signoria il proferì esigliato. Ed ecco quel tal bravaccio gli si avventa di nuovo a Siena, ed egli il fa mettere alla tortura sinchè confessi l’attentato. Fu multato in cinquecento lire, ma al Filelfo parvero poche, e ne ottenne la condanna a morte, ch’egli stesso intercedette fosse commutata nel taglio della mano, «preferendo (dic’egli) vivesse mutilo ed infame, anzichè una pronta morte lo liberasse dai rimorsi e dalla vergogna». Intanto egli medesimo con altri fuorusciti macchinava contro i Medici, e soldò un Greco per assassinare Cosmo. Il sicario fu scoperto, ed ebbe tronche le mani; e sopra la costui confessione il Filelfo fu condannato in contumacia al taglio della lingua e al bando perpetuo. Se al Filelfo non restava che l’ira dell’impotente, Cosmo, sicuro dell’autorità, aveva i mezzi e perciò il dovere d’essere generoso. E il volle, e gli fece proporre la riconciliazione: ma il pedante ostentò generosità col rifiutare e insultare; finse anzi di credersi mal sicuro a Siena, e poichè era cerco dal papa, dal senato veneto, dal duca di Milano, dalla repubblica di Bologna, dall’imperatore di Costantinopoli, accettò di passare sei mesi a Bologna, ottenendovi l’inusato stipendio di quattrocencinquanta ducati, poi si trasferì a Milano. Quivi passò i sette anni meno tempestosi di sua vita, caro alla Corte, dichiarato cittadino, e sempre più incocciandosi di que’ suoi meriti incomparabili. Nelle commozioni succedute alla morte di Filippo Maria, scrisse proclami e lettere ai principi perchè sostenessero l’aurea repubblica; poi orazioni ed encomj all’oppressore di questa Francesco Sforza, da cui accettò nuovi favori, finchè il magnanimo Alfonso di Napoli mostrò desiderio di vederlo. Mosse a quella volta, e «giunto a Roma (scrive Vespasiano) nel tempo di papa Nicola, fece pensiere alla sua tornata di visitare la sua santità. Inteso papa Nicola che era in Roma, subito mandò a dire che l’andasse a visitare. Intesolo messer Francesco, andò alla sua santità, e le prime parole che gli disse, furono: _Messer Francesco, noi ci maravigliamo di voi, che passando di qui non ci abbiate visitato_. Messer Francesco rispose come egli faceva pensiero visitare il re Alfonso, e poi venire alla santità sua. Papa Nicola, che sempre era stato amatore degli uomini letterati, volle che messer Francesco conoscesse la sua gratitudine, e pigliò un legato di ducati cinquecento, e sì gli disse: _Messer Francesco, questi denari vi voglio io dare, perchè vi possiate fare le spese per la strada_. Messer Francesco, veduta tanta liberalità usatagli, ringraziò la sua santità infinite volte di tanta gratitudine usatagli». Il re di Napoli gli uscì incontro fino a Capua, lo ornò cavaliere, e gli concesse di portare l’arma d’Aragona; infine il coronò poeta. Queste e ben altre particolarità raccolgonsi da trentasette libri di sue lettere che sono alle stampe, e dalle altre opere dove spessissimo parla di sè; e spessissimo ne parlano i pochi amici e molti nemici suoi contemporanei. Egli componeva, traduceva, compilava; or traboccava la bile contro gli avversarj; or filosofava nelle _Meditazioni fiorentine_ o nei _Banchetti milanesi_ o nella _Morale disciplina_; or commentava il canzoniere del Petrarca, con indecenti allusioni agli amori del poeta, ai papi, ai Medici; or in ventiquattro canti latini celebrava gli Sforza, o in quarantotto italiani san Giovanni Battista; or tesseva arringhe, da recitarsi dai podestà fiorentini quando uscivano di carica, ovvero in proprio nome, e orazioni funebri, e consolatorie, e liriche latine. Forza e calore non gli mancano, ma per purezza latina è lontano troppo, non che dal Poliziano, dal Poggio, e move lo stomaco colle sguajate scurrilità. Circondato da tanti scolari, tra cui potea contare Pio II, Pietro de’ Medici, Agostino Dati e Bernardo Giustiniani storici di Siena e di Venezia, Alessandro di Alessandro autore dei _Genialium dierum,_ avrebbe potuto godere le compiacenze d’una vecchiaja onorata se il portamento suo bisbetico non l’avesse tratto a sempre nuove contese. Poi alle lusinghe della gloria voleva aggiungere la realtà di ricca casa, codazzo di famigli, cavalli, tavola: col che non solo corrompeva il proprio avvenire, ma si obbligava a chiedere vilmente e vilmente accettare, sin col fingere le nozze di una sua figlia onde avere pretesto a domandare regali; profondeva elogi, e poi querelava d’ingrato chi i doni non proporzionasse all’avidità sua, e svillaneggiava chi tardasse. Eppure quando Anton Marcello, patrizio veneto, d’una consolatoria per la morte d’un figlio il gratificò con un bacino d’argento del valore di cento zecchini, esso lo portò alla Corte, e davanti al consiglio ne fece dono al duca di Milano. Forse che ne sperasse un maggiore ricambio? S’accapigliò esso pure col Poggio, il quale asserisce che il Filelfo da giovane visse in ribalda amicizia con un prete cui era stato affidato; che a Fano preso a calci e pugni, a stento rifuggì in una bettola, e s’appiattò sotto un letto; che a Padova fu bastonato pubblicamente ed espulso di città per opera d’uno cui avea corrotto il figlio, nè potè sottrarsegli che fuggendo in Grecia; colà avere contaminato la figlia del suo ospite, che poi dovette sposare; e altrettali lepidezze. Nuovi appicci ebbe con Giorgio Mérula già suo discepolo, che avea scritto _turcos_ invece di _turcas_, voce sulla quale non poteasi appellare all’infallibilità de’ classici; altri per l’interpretazione d’un verso greco, pel quale e il Traversari e il Marsuppini disputarono quanto i teologi sopra un senso scritturale[138]. Galeazzo Maria Sforza non continuò i favori al Filelfo, che, da diciassette anni addetto a quella famiglia, allora si trovò abbandonato e povero, costretto a lottare colle necessità mediante una salute di ferro e un’inconcussa pertinacia al lavoro. Que’ bei tempi ove a gara vedeasi cercato, erano tramontati, ed egli non potea che sfoggiare eloquenza sopra un nuovo tono, lamentandosi dell’abbandono e dell’ingratitudine degli uomini. Da Pio II nulla ottenne, nulla da Paolo II che pur l’aveva altre volte lodato e donato; sicchè egli bestemmia papa e papato, lasciando fin trapelare l’intenzione d’andarsene a Maometto II. Ma Sisto IV il chiamò a Roma ad una cattedra di filosofia con buoni assegni e migliori promesse. V’ebbe accoglienze, da soddisfare qualunque amor proprio; ma tornato a Milano a prendere la sua famiglia, perdette la moglie di trentott’anni mentr’esso toccava gli ottanta; di ventiquattro figli non gli restavano che quattro fanciulle e un maschio, filologo come lui, e come lui presuntuoso, difficile, accattabrighe; ed ebbe l’amarezza di veder morire anche questo, sicchè si trovava isolato alla sera di sua vita. Milano era allora sossopra per l’assassinio di Galeazzo Maria e la minorità di suo figlio; la peste facea pericoloso il ritornare a Roma: onde il Filelfo, che si era rappattumato coi Medici, e tenea da tempo corrispondenza col magnifico Lorenzo, ottenne che la Signoria cancellasse le sentenze contro di lui, e il ponesse su una cattedra di lingua e letteratura greca; ma le fatiche del viaggio lo logorarono, e quindici giorni dopo rimesso nella cara Firenze, morì (1481) di ottantatre anni. Una tale longevità basterebbe a spiegare la sua morte, eppure si volle dire gliel’accelerassero le virulente satire del Merula. Così gli erano ricambiate le contumelie; ma non le aveva aspettate per confessare d’essere trasceso negli sfoghi di sua bile[139]. In cotesti, ve n’accorgete, la letteratura non era una distrazione, ma vita; non istromento, ma fine. Il bisogno e l’abitudine dell’autorità erano dalla teologia e dalla filosofia passati nella letteratura, e tutti miravano alla conoscenza degli antichi, sicchè diventava merito primo l’erudizione, principale opera il compilare e commentare gli antichi o i loro commentatori, alcuni con lucida intelligenza, alcuni senza gusto nè critica, tutti al medesimo intento; ciascuno scegliendo un autore, cui idolatrava, e predicavalo col calore d’un apostolato. L’entusiasmo invadeva persino la critica, e beato chi avesse raddrizzato un passo scorretto, o indovinato un errore in un testo o nell’emulo! poi litigi sull’interpretare qualche passo; la lesa eleganza facea più vergogna che la lesa verità e convenienza; e codeste stizze dei pedanti passionavano e dividevano città e provincie. Marco Barbo veneziano, nipote di Paolo II, vescovo di Treviso poi di Vicenza, infine cardinale e patriarca d’Aquileja, fu dottissimo in greco, latino, astronomia, geometria, teologia, assai destro negli affari, e perciò adoprato in molte legazioni, e principalmente nel conciliare concordie. E una concordia egli fu chiamato a comporre fra due potentati d’altro genere, Bartolomeo Platina e Rodrigo vescovo di Calagóra, de’ quali il primo avea scritto in favor della pace, l’altro della guerra. Ma se queste miserabili capiglie sono spesso imitate dalla petulanza odierna, non taciamo almeno di Leonardo Bruno d’Arezzo, che già vecchio famosissimo e cancelliere della Repubblica fiorentina, in non so qual disputa filosofica si trovò contraddetto dal giovane Giannozzo Manetti. Gli applausi prodigati a questo irritarono il Bruno a segno che uscì in parole ingiuriose: ma la calma con cui il Manetti rispose, lo fece ravvedere. La mattina buon’ora fu alla casa del Manetti, domandò che il seguisse, avendo a dirgli qualcosa; e mentre questi aspettava una scena, ad alta voce e in mezzo alla gente gli narrò non aver potuto dormire la notte pel torto fattogli, e volergliene chiedere scusa[140]. Francesco Barbaro senatore veneziano, erudito, eloquente, gran fautore de’ letterati, sostenne molte magistrature e ambasciate, celebre per l’abilità di mettere pace. Singolarmente come capitano di Brescia rappattumò i cittadini dissenzienti, e li sostenne nel duro assedio postovi dal Piccinino: del quale assedio egli scrisse la storia, pubblicata sotto il nome del suo confidente Evangelista Manelino. Brescia riconoscente gli regalò in duomo una bandiera e uno scudo messi a oro, con un panegirico; e lo fece accompagnare splendidamente a Venezia, e quivi di nuovo lodare davanti al doge. L’opera sua _De re uxoria_ è forse il solo trattato morale di quel secolo che non calchi servilmente le orme antiche. Ermolao Barbaro procurò un’edizione di Plinio, correggendovi cinquemila errori: ma quante migliaja ve ne lasciò! Gasparino Barziza bergamasco col buttarsi tutto a Cicerone ne trasse un quasi istintivo sentimento della proprietà ed eleganza, e fa sentire il buon modello nel giro della frase, nella rotondità de’ periodi, nell’acconcio collocamento delle parole. Trapassiamo Pier Paolo Vergerio di Capodistria, storico dei Carraresi e maestro di Lionello d’Este; Carlo Marsuppini di Arezzo, segretario della Repubblica fiorentina; Antonio Panormita, che fu laureato poeta da Sigismondo imperatore, e dedicò a Cosmo Medici l’_Hermaphroditus_, osceni epigrammi, vituperati dai monaci e appetiti dai curiosi. Il Perotti vescovo di Siponto (_Cornucopia, sive linguæ latinæ commentarii_) spiegò molte voci latine, lavorando su Marziale. Cristoforo Landino, segretario della Signoria di Firenze, scrisse poesie e trattati filosofici, volgarizzò Plinio e la _Sforziade_ di Giovan Simonetta, e a Virgilio, Orazio, Dante appose lunghi commenti, dedotti forse dalle lezioni che pubblicamente ne faceva, dove, ampliando a tutto il poema l’intenzione che l’Alighieri professò in qualche parte, sotto al letterale cercava un senso recondito e morale. Ad imitazione di Platone e di Tullio, nelle _Disquisizioni camaldolesi_ dialoga con illustri personaggi, facendo amare la virtù senza troppo sottilizzare sulle teoriche, pure non evitando le fantasticherie platoniche. E il dialogo era adottato dal Valla per difendere l’epicureismo, dal Platina, dal Palmieri, dall’Alberti, dal Pontano, da Matteo Bosso; e Paolo Cortese, imitando quello _De claris oratoribus_, ben caratterizzò i dotti del suo tempo. Non v’avendo dizionarj nè grammatiche, uno dovea da se stesso nel barbaro latino usuale riscontrare quello che si trovasse o no nei classici; insomma indovinare le lingue, interpretare un autore mediante l’altro, mettersi in traccia dell’oro a costo di perire nella miniera. Noi, ricchi delle faticose lor veglie, li trattiamo con ingrato disprezzo; noi tronfj di possedere quel che non vogliamo fare ad essi gloria d’avere acquistato. E l’erudizione è come il bagaglio ad un esercito, imbarazzante alla marcia, eppure indispensabile. Storia, mitologia, antichità ridestaronsi per facilitare l’intelligenza dei testi; ma que’ commenti riboccano di frivolezze e insulsaggini; spesso s’appongono al falso, non bene conoscendo il senso, e tanto meno la forza delle parole. La rarità dei testi e la riverenza per l’autorità facea rispettare anche le lezioni più infelici; e non osando correggerle, gli eruditi si limitavano a mostrare d’averle capite col raffrontarle ad altri testi. I nostri non compresero abbastanza quanto potessero trar profitto dal greco, modello e sorgente della letteratura latina, lasciando tal lode principalmente alla scuola olandese. Vennero più tardi e non nostri gli eruditi, che allo studio della forma anteposero quel delle idee, ammirandole nella persuasione che ciò che era pensato dagli antichi dev’essere il più perfetto, ma ancora osservando l’autore come un essere sporadico, separato dai tempi e dai casi. Solo adesso si cerca collocare l’autore nella storia, co’ suoi contemporanei: la bellezza letteraria non è più il fine della critica, ma uno de’ moventi e dei risultati della storia. Quelle accannite controversie valsero ad accertare la filologia, obbligando gli scrittori a rendere conto d’ogni frase e parola. A grand’ajuto poi vennero i dizionarj, che sono i veri libri iniziatori della filologia. Uno, ad imitazione di Papia, fu compilato da Uguccione vescovo di Ferrara; Buoncompagno diede la disposizione artifiziosa e naturale d’un dizionario; Giovanni da Genova, autore del _Catholicon_, grosso volume stampato dal Guttenberg nel 1460, che comprende grammatica e dizionario, è poco citato, eppure sa più di quanto potrebbe aspettarsi: avea letto quantità di libri, cita moltissimi classici latini, non ignora il greco[141], e come Papia e gli altri lessicografi, non esclude i santi Padri, la cui intelligenza entrava per sì gran parte negli studj d’allora. Il primo dizionario greco sembra quello del monaco piacentino Giovanni Crestone; seguì il Grande Etimologico (’Ετυμολογικὸν μέγα) di Marco Musuro, anteriori a quelli di Roberto Costantino, di Scapula, di Enrico Stefano. Andrea Guarna palermitano (_Grammaticæ opus novum, mira quadam arie et compendiosa, seu bellum grammaticum_) pretendeva insegnar la grammatica colle regole della guerra, esponendo le nimicizie fra il nome e il verbo, re del regno di grammatica, le battaglie che si movono, cercando rinforzarsi mediante l’ajuto del participio; infine si rappacificano. L’opera ebbe da cento edizioni, fu ridotta in ottave, fu tradotta in francese. Lo studio delle antiche lingue affinò il gusto, ma coll’imitazione spense l’originalità; si pensò a conoscere la civiltà vetusta, più che a perfezionare la moderna; e fra quegli studiosi, immagini, pensieri, leggi poetiche erano d’altri tempi; non un lampo di genio, non un impeto d’eloquenza per compiangere le sventure d’allora, o magnificare la nuova civiltà. Sconcio peggior che letterario, s’insegnò a separare il sentimento dalla parola, la letteratura dall’azione, la forma dal pensiero, e giudicare degli uomini come degli autori non dalla sostanza ma dallo stile. Anche servilità di modi introducevano onde valersi delle frasi di Orazio e di Plinio; e adulazioni, che avrebbero arrossito ad esprimere nella lingua con cui parlavano ai loro amici. Chiamati alle magistrature, e massime in uffizio di segretarj, non valevano (salvo alcuni, come il Salutati e il Piccolomini) se non a recitare orazioni di parata; nelle quali non stringevano sulle positive importanze, ma badavano a ciò che meglio potesse esprimersi in latino. Il Petrarca, incaricato di rispondere ai Genovesi quando vennero offrirsi al signor di Milano, nol seppe perchè non preparato. A un discorso che il Marsuppini a nome della Signoria fiorentina recitò a Federico III, Enea Silvio fe risposta senza retorica ma con domande positive, e quegli non seppe replicare. Insomma erano buoni solo per l’apparato, e perciò amavano le corti, e non poco contribuirono a soffocare le antiche abitudini popolane: perocchè alle repubbliche di magistrati attenti alla domestica sul pubblico bene preferivano le corti ove ottenner protezione e sfoggiare eloquenza; e con belle frasi palliavano la tirannide e scagionavano l’iniquità. Studj di tal natura non potevano alimentarsi che dalla protezione, e l’ebbero. L’Università di Bologna conservò la sua altezza, ed Innocenzo VI le concesse la facoltà teologica (t. VI, p. 385): Gregorio XI vi fondò il lauto collegio detto dal suo nome, con ricchissimi doni, fra i quali son notevoli cennovantatre libri. I Trevisani apersero un’Università (1314) procacciandosi nove famosi dottori, fra cui Pietro d’Abano. Pisa nel 1339 ne pose una, mantenendola colla decima sui beni degli ecclesiastici; tutti i libri occorrenti fece immuni da gabelle; ebbe privilegi da papi e imperatori, ma poi ne’ disastri successivi la vide eclissata. I Fiorentini fondarono uno studio (1348), e per illustrarlo invitavano il Petrarca a leggere qual libro gli piacesse. Il senese, aperto nel 1320, poi sciolto, fu riordinato sotto gli auspizj di Carlo IV (1357) (t. VI, p. 392), che ne autorò uno anche a Lucca (1369). L’Università di Piacenza, sorta per opera di Innocenzo IV (1246), poi scaduta, fu ridesta da Gian Galeazzo (1397). In Milano tenevansi pubbliche lezioni di giurisprudenza, venticinque maestri di grammatica e logica, quaranta scrivani, più di sessanta maestri elementari, più di centottanta professori di medicina, e filosofi, e chimici, molti de’ quali salariati per assistere i poveri. L’Università di Pavia, aperta (1362) e prosperata dai Visconti (al dire dell’Azario) perchè v’avea sovrabbondanza di case, e a buon patto il vino, il frumento, la legna, non annichilò le scuole di Milano, giacchè gli statuti concedeano che natii o avveniticci vi potessero studiare leggi, decretali, fisica, chirurgia, tabellionato, arti liberali[142]. Clemente fondò quella di Perugia nel 1307: Bonifazio VIII quella di Fermo nel 1303 ed una a Roma, dove ormai non restavano che scuole d’elementi; ma l’esiglio avignonese la lasciò ricadere: Giovanni XXII ne istituì una in Corsica il 1331; Benedetto XII in Verona il 1339. Il concilio ecumenico di Vienne ordinò che nelle università di Roma, Parigi, Oxford, Bologna, Salamanca v’avesse due maestri di lingua ebraica, araba e caldea. Anche Torino, come che dedita di preferenza alle armi, nel 1353 tenea per otto anni esentati dal militare gli artisti che andassero ad abitarvi; nel 66 chiamò e fece cittadino un maestro di umane lettere; a un altro assegnò dieci fiorini perchè insegnasse medicina; e nel 75 fondò scuole[143]; e la sua Università ebbe ampio privilegio da Lodovico di Savoja nel 1436. Ai letterati aumentavansi stipendj a gara, concedevansi onori, s’affidavano ambasciate; il loro passaggio per le città era un trionfo, alle esequie loro assistevano i principi: Carlo IV concesse a Bartolo d’inquartare al suo stemma l’arme di Boemia; e questo insigne giureconsulto sostenne che un dottore, dopo insegnato dieci anni diritto civile, è cavaliere _ipso facto_. Tutti i principi faceano il mecenate, da Roberto di Napoli che diceva — Rimarrei più volentieri senza diadema che senza lettere», fin a Luchino Visconti che scrivea versi lodati dal facile Petrarca, a Giovanni che facea leggere in cattedra Dante, al cupo Filippo Maria, al quale Lucca attestò la riconoscenza col regalargli due codici[144], e al cui segretario Cicco Simonetta moltissime opere si trovano dedicate con elogi pomposissimi. Francesco Sforza accolse l’architetto Francesco Filarete, Bonino Mombrizio professore d’eloquenza, il Filelfo, il Simonetta e il Decembrio storici, Lodrisio Crivelli poeta, Franchino Gaffurio primo che aprisse scuola di musica, Costantino Lascaris che a Milano stampò la prima grammatica greca; e mandava in Toscana chi comprasse per lui tutti i libri degni, e raccogliesse quanti scrittori si potessero avere. Gian Galeazzo cercò trarre a Milano la Cristina di Pizzano che vivea poveramente in Francia, e molti versi compose. A non ripetere d’Alfonso d’Aragona, di Nicola V e d’Eugenio IV, Jacopo di Carrara spedì dodici giovani alle scuole di Parigi, e Francesco il vecchio visitava spesso ad Arquà il Petrarca. L’imperatore Sigismondo coronò poeta a Parma un Tommaso Cambiatore e Antonio Beccatelli panormita; il quale dal Visconti ottenne lo stipendio di ottocento scudi d’oro, da re Alfonso la nobiltà e missioni importanti e doni fin di mille scudi in una volta. Più prodigo Federico III laureò poeti Nicolò Perotti, il Piccolomini, il Cimbriaco, il Bologni, due Amasei, un Rolandello, un Lazarelli. Firenze coronò Ciriaco d’Ancona e Leonardo Bruno; Verona Giovanni Panteo; Roma l’Aurelini e il Pinzonio; Milano Bernardo Bellincioni: glorie d’un giorno. E ognuno prendea parte a quelle glorie, a quelle dispute; la scoperta d’un codice era un avvenimento clamoroso; le più delle epistole versano sopra la ricerca di manoscritti; il duca di Glocester ringrazia fervorosamente Pier Candido Decembrio d’avergli mandato una traduzione della _Repubblica_ di Platone; Mattia Corvino re d’Ungheria, dalla moglie Beatrice di Napoli invogliato al lusso e ai raffinamenti di corte, si circondò di letterati, procurando dell’Ungheria fare un’altra Italia[145]. Col cercar libri e farne trar copie raccolse una biblioteca di cinquantacinquemila volumi, quanti niun’altra al mondo ne possedeva; e principalmente caro tenne Antonio Bonfini d’Ascoli, che dettò la storia di quel paese. Le miscellanee del Poliziano erano aspettate come il messia, e divorate appena uscissero. L’invidia o le fazioni snidano un letterato? egli è sicuro di trovare onorificenze e stipendj dovunque appaja, col solo patrimonio del proprio merito; quando muore il giureconsulto Giovanni da Legnano, chiudonsi le botteghe; quando l’unico Accolti recita versi, si feria per tutta la città, si fa luminara, e dotti e prelati interrompono cogli applausi la sua declamazione. Signori illustri faceano versi, e ne conserviamo di Luchino Visconti e di Bruzio suo figlio, di Guido Novello da Polenta, di Bosone da Gubbio, di Francesco Novello Carrarese, di Cangrande, di Castruccio, d’Astorre Manfredi di Faenza, di Lodovico degli Alidosi di Imola, tutti gran signori. Aggiungete Lionello d’Este, le cui lettere sono delle migliori del suo tempo; il Malatesta di Rimini, Gian Galeazzo e Lodovico Sforza duchi, e il cardinale Ascanio costui fratello, e molte dame, quali Isabella d’Aragona duchessa di Milano, Bianca d’Este, Domitilla Trivulzi. All’imperatore Sigismondo, a Martino V pontefice recita orazioni latine la Batista di Montefeltro, moglie di Galeazzo Malatesta da Pesaro, la quale legge filosofia, e disputandone vince alcuni professori. Costanza di Varano, nipote di lei, di quattordici anni pronunzia un discorso latino a Bianca Maria Sforza, e per tutt’Italia è ammirata ed encomiata tanto, che ottiene a’ suoi d’essere rintegrati nella signoria di Camerino, ed è sposata da Alessandro Sforza signore di Pesaro, poeta anch’esso. Un’altra Batista sua figlia e duchessa di Camerino facea stupire principi e prelati coi discorsi latini che improvvisava. Ippolita figlia di Francesco Sforza in Mantova davanti al congresso raccolto perorò onde eccitare alla crociata, e ci rimane esemplato di sua mano il trattato _De senectute_ di Cicerone. Cosmo padre della patria stipendiò quarantacinque scrivani onde provvedere la sua biblioteca. Lorenzo magnifico scriveva: — Quando l’anima mia è stanca d’affari, e gli orecchi assordati dal cittadin clamore, non mi vi saprei rassegnare se non cercassi refrigerio nelle lettere, pace nella filosofia». Federico duca d’Urbino teneva a Firenze e altrove da trenta a quaranta amanuensi, e spese in copie meglio di trentamila ducati; e oltre la Bibbia che ancor si ammira nella Vaticana, «ebbe altri libri assai (dice il Vespasiano), belli in superlativo grado, coperti di chermisi, forniti d’ariento, miniati elegantissimamente, e tutti iscritti in carta di cavretto; nè tra quelli n’era niuno a stampa, che se ne sarebbe vergognato». Tutti i signori raccolgono i profughi di Grecia, gli incorano a cercare e tradur libri, assistono alle lezioni loro. Nicolò Acciajuoli, ito da Firenze a Napoli mercatando, trovò grazia presso la principessa di Taranto, che gli diede stato e cavalleria e ad educare il suo figlio Luigi; presso il quale conservossi in grazia, fu fatto siniscalco, e al mutar degli eventi tornato ricchissimo in patria, vi sfoggiò in modo che i Fiorentini se ne adombrarono quasi volesse farsene dominatore, e stanziarono ch’e’ non potesse ottenervi alcuna magistratura. Egli allora sfogò la sua ambizione col mettersi protettore di dotti, quali Zanobio Strada, Francesco Nelli, il Boccaccio. Il qual ultimo volle poi seco a Napoli quando tornò, ma lo teneva a miseria, sebbene l’esortasse continuo a scrivere le sue gesta. Alla magnifica Certosa da lui eretta presso Firenze aggiunse un palazzo a foggia di castello, ove cinquanta giovani doveano esser educati, con biblioteca d’opere rare; disposizione rimasta priva d’effetto. Palla Strozzi, cittadino ricchissimo e potentissimo in Firenze, dove ristabilì l’Università, ebbe in casa Tommaso da Sarzana dappoi papa, chiamò Manuele Crisolara, «mandò in Grecia per infiniti volumi, tutti alle sue spese; la Cosmografia di Tolomeo colla pittura fece venire infino da Costantinopoli; le Vite di Plutarco, le opere di Platone, e infiniti libri degli altri. La _Politica_ di Aristotele non era in Italia, se messer Palla non l’avesse fatta venir lui da Costantinopoli; e quando messer Lionardo la tradusse, ebbe la copia di messer Palla»[146]. Esigliato il 1434, ebbe a sè «con bonissimo salario Giovanni Argiropulo, a fine che gli leggesse più libri greci, di che lui aveva desiderio di udire. Da un altro greco prendea lezioni straordinarie, e traduceva san Giovanni Crisostomo». Nicolò Niccoli vendette alcune possessioni per aver libri, che poi mise a comodo del pubblico, e fece fabbricare la libreria di Santo Spirito con banche per tenervi quei che erano appartenuti al Boccaccio; ottocento codici lasciò, stimati seimila fiorini. Bartolomeo Valori gli studj d’umanità «non tralasciò mai del tutto, ancorchè occupato nelle cure domestiche e mercantili, ed implicato negli affari pubblici; se non quando in età matura pervenuto, quel tempo che potè tutto nella sacra Scrittura andò consumando, con partecipare i suoi studj con i teologi di quell’età suoi domestici»[147]. Bernardo Rucellaj, che nelle nozze colla figlia di Pietro de’ Medici spese trentasettemila fiorini, sorresse l’accademia Platonica dopo mancato il magnifico Lorenzo; e fattasi una splendida abitazione con giardini ornati di monumenti antichi, vi tenea adunanze di dotti, che resero rinominati gli _Orti oricellarj_. Branda Castiglione milanese, gran canonista, e uno de’ migliori ornamenti de’ concilij di Firenze e di Costanza, fatto cardinale, patrocinò munificamente le lettere, pose un collegio a Castiglione con ricca biblioteca aperta a chiunque amasse le lettere, ai quali facea far opere e distribuiva benefizj. Nè più solo da lizze e da armeggiamenti si prendeva diletto e festa. Quando il dottissimo patrizio veneto Lodovico Foscarini nel 1451 andò podestà a Venezia, Isotta Nogarola sostenne una disputa se dovesse attribuirsi la prima colpa a Adamo o ad Eva. Durante il concilio di Ferrara, Ugo de’ Benzi senese, «tenuto ne’ suoi tempi principe de’ medici, invitò seco a desinare tutti que’ filosofi greci che erano venuti a Ferrara; e dopo il splendido apparato venuto al fine a poco a poco, pian piano cominciò a tirargli piacevolmente in disputa, sendo già presente il marchese Nicolò, e tutti i filosofi che si trovavano in quel concilio. Addusse in mezzo tutti i luoghi de la filosofia, sopra quali par che fieramente contendino e sieno tra loro discordanti Platone ed Aristotele, e disse ch’egli voleva difendere quella parte che oppugnerebbero i Greci, seguissero Platone o vero Aristotele. Non ricusando la contesa i Greci, durò molte ore la disputa; al fine avendo Ugo padrone del convito fatto tacere i Greci ad un ad uno con l’argomentazione e con la copia del dire, fu manifesto a tutti che i Latini, come già avevano superato i Greci con la gloria de l’armi, così nell’età nostra e di lettere e d’ogni specie di dottrina andavano a tutti innanzi»[148]. A Firenze il 1441 fu annunziata, per cura di Lorenzo De’ Medici e di Leon Battista Alberti, una gara pubblica di letterati, dove ciascuno leggerebbe qualche suo componimento intorno alla vera amicizia, e il migliore otterrebbe una corona d’argento in forma d’alloro. In Santa Maria del Fiore, magnificamente parata e coll’intervento delle autorità e di gran popolo, lessero lor composizioni Francesco Alberti, Antonio Alli, Mariotto Davanzati, Francesco Malecarni, Benedetto Aretino, Michele da Gigante, Leonardo Dati, applauditi come si suol essere in tali circostanze: ma i segretarj di papa Eugenio, ai quali per onoranza erasi rimesso il decidere, dichiararono che erano tutte belle quasi del pari, e si trassero d’impaccio col decretare la corona alla Chiesa[149]. Poi esso Lorenzo volle rinnovare dopo dodici secoli la festa di Platone, che si celebrava ai tempi di Plotino e Porfirio; e Firenze e Careggi seguitarono per più anni a festeggiare lo scolaro di Socrate. Anche fuori venivano cercati i nostri; e Gregorio di Tiferno, allievo del Crisolara, nel 1458 ridestava gli studj classici nell’Università di Parigi; nella quale professarono Tranquillo Andronico, Fausto Andreini, Beroaldo, Balbi, Cornelio Vitelli, forse altri. Conseguenza della stima allora profusa ai letterati fu l’affidare ad essi l’educazione de’ principi, lasciata in prima a guerrieri e a dame. Il Guarino allevò Lionello d’Este; tre figliuoli e una figlia di Francesco Gonzaga di Mantova Vittorino da Feltre, collocato perciò in un’abitazione da principe, con giardini, appartamenti sontuosi, pitture, giuochi, sicchè a ragione chiamavasi la Giojosa. Vittorino però non la pensava come certi odierni pedagoghi, che deva esser gaja ed agevole l’educazione, mentre avvia ad una vita di triboli; sicchè poco a poco fece sparire le delizie, e l’effeminata magnificenza ridusse a parca severità. Eppure mostravasi padre affettuoso ancor più che abile maestro; a lui accorreasi di Francia, di Germania, di Grecia, e vi si trovava ogni mezzo di istruirsi nelle scienze e nelle arti belle, avendo intorno a sè raccolto maestri d’ogni bel sapere. Da’ suoi scolari pretendeva esatta esposizione; col che avviò alla lettura corretta. Nulla pubblicò, e, mirabil cosa tra que’ dotti iracondi, non si trova chi di lui sparlasse. Francesco Prendilacqua suo discepolo ne scrisse un’elegante vita, conseguendo il più bell’effetto, quello di far amare il suo eroe. Maffeo Vegio, che ebbe la baldanza di fare seicento versi di supplemento all’Eneide, nel trattato dell’educazione[150] diede buoni consigli ai maestri, deducendoli non solo dagli etnici, ma anche dai santi Padri; bene espose le virtù e i vizj de’ giovani; e all’educazione delle fanciulle applicò molti esempj, tratti da santa Monica madre di sant’Agostino. È strano che principi, futuri reggitori di popoli, s’affidassero a gente ignara di governo, e sol capace per avventura di formare il prete o l’avvocato. Ma il vezzo si perpetuò: e mentre gli antichi insegnavano nelle scuole la storia e le idee della propria nazione, e lo studiar le straniere fu curiosità o erudizione di pochi; nelle moderne, al contrario, i figli si addestrarono in lingua diversa dalla materna, e leggi e società estranee alla loro propria, onde i sentimenti attinti dalla scuola discordarono da quelli che doveano avere nel mondo. Molti poetarono latino, fra cui Zanobio Strada fiorentino, che n’ebbe corona dall’imperatore, e del quale non ci rimangono che cinque poveri versi. Il Petrarca loda moltissimi come degni d’alloro; anzi del lor soverchio numero si lagna, «contagio che penetrò fin entro la corte romana, ove giureconsulti e medici non badano ad Esculapio e a Giustiniano, non a litiganti e infermi, ma a Virgilio ed Omero; agricoltori, falegnami, muratori gettano gli stromenti delle arti loro per trattenersi con Apollo e colle Muse. Temo d’avere col mio esempio contribuito a tale farnetico». Battista Mantovano, onorato di statua accanto a Virgilio, al quale Erasmo nol credeva inferiore, oggi chi lo ricorda? Migliore è Giovian Pontano, preside dell’accademia di Napoli, rimasta la più illustre al cadere della romana e della fiorentina: e di fama più estesa Angelo da Montepulciano, col nome di Poliziano. Raccolto giovinetto (1491) da Lorenzo Medici che ne indovinò l’ingegno, a ventinove anni professò greca e latina eloquenza, sapeva d’ebraico, ed ebbe ogni sorta di onori e d’insulti dagli emuli. Le sue _Miscellanee_, raccolta di cento osservazioni di grammatica, d’allusioni, di costumi sopra autori latini, erano reputate capolavoro, e gloria l’esservi menzionato, come ingiuria il restarne dimentico. Tratta egli que’ soggetti con solida e variata amenità, ben rara agli eruditi, e con purezza superiore ai precedenti, sentendo al vivo le bellezze romane, ben descrivendo, a gran proposito adoperando i classici, comunque ridondi nelle descrizioni, abusi dei diminutivi e degli arcaismi, e inciampi in improprietà[151]. Meglio meritò col trasfondere i modi de’ classici nella poesia italiana, siccome il Boccaccio avea fatto nella prosa, richiamandola all’eleganza. Anche gl’ingegni migliori, a forza di pensar latino, si erano domati alla servitù dell’imitazione; e come in quello si ricalcavano Virgilio e Cicerone, così nell’italiano il Petrarca e il Boccaccio (Dante fu dimenticato), e si cominciarono dispute eterne intorno alla lingua, derivandone l’autorità da questo autore, anzichè ricorrere alla parlata. Ma tristo effetto di quella idolatria per gli antichi era stato il disprezzo per la lingua italiana, abbandonata col titolo di vulgare. «Mi ricordo io (dice Benedetto Varchi) quando ero giovinetto, che il primo e più severo comandamento che facevano generalmente i padri a’ figliuoli, e i maestri a’ discepoli, era che eglino, nè per bene nè per male, non leggesseno cose vulgare (per dirlo barbaramente come loro): e maestro Guasparri Mariscotti da Marradi, che fu nella grammatica mio precettore, uomo di duri e rozzi ma santissimi e buoni costumi, avendo una volta inteso, in non so che modo, che Schiatta di Bernardo Bagnesi ed io leggevamo il Petrarca di nascoso, ce ne diede una buona grida, e poco mancò che non ci cacciasse dalla scuola». Ne venne di conseguenza un gergo affettato insieme e rozzo, di barbarismi vulgari mescolati a latinismi eruditi, senza sapore di legamenti, senza scelta di frasi, senza nerbo di sintassi, ma contorto e rabberciato, tutto toppe e rappezzi, simile a quello che poi s’imitò per ischerzo, e si chiamò maccheronico e fidenziano. Chiunque abbia letto qualche libro d’allora, potette averne un saggio; e se non basti qualche passo da noi citato, e singolarmente la lettera del Poliziano (pag. 300), soggiungeremo che il vescovo di Vercelli, il presidente del consiglio, il capitano di Sant’Agata, ambasciadori del duca di Savoja, scrivevano al duca di Milano nel 1484: — La Excellenza del nostro signor duca a recevuto una lettera vostra, della quale el tenore et contenu est che Lojis et Passin de Vimercà hano tractà et conspirà de privare el signor Lodovico vostro degnissimo barba dello governo ecc.»[152]. Frà Jacopo Filippo da Bergamo, autore d’una storia generale col titolo di _Supplementum Chronicorum_, stampato quattro volte in quel secolo e più altre dappoi, e lodato per rare notizie, scriveva al cardinale Ippolito d’Este nel 1498: — Questi itaque anni passati, havendo me tua Excellenzia mandato a donare una bella mulla per mio usare, la acceptay cum gratiarum actione, et poy statim cognosce me ancora gagliardo di posser caminare a’ piedi, gela remanday. Ma di presente siendo molto invecchiato, et appresso a li settanta anni di etade, non possendo quasi più caminare, cum una indubitata fede me voglio ricorrere a la plentissima vostra signoria, come quella a suo devotissimo oratore gli piaqua donarli una qualche honesta chavalchatura; et questo prima per amore di Dio, et per riconoscimento di tante mie fatiche, che hoe pigliato in ornare tutta la illustrissima casa vostra etc....». E frà Francesco Colonna, autore d’un eruditissimo e lascivo romanzo, _Hipnerotomachia Poliphili, ubi humana omnia nonnisi somnium esse docet_, finge d’essersi in sogno ritrovato «in una quieta e silente piaggia, di culto diserta, d’indi poscia disaveduto con grande timore intrò in una invia et opaca silva»; e così descrive l’aurora: «Phoebo in quel hora manando, che la fronte di Matula Leucothea candidava, fora già dell’oceane onde, le volubili rote sospese non dimostrava, ma sedulo cum gli sui volucri caballi Pyroo primo et Eoo alquanto apparendo, ad dipingere le lycophe quadrige morava». E di questo tenore prosegue tutto il dottissimo volume. Se però decadeva l’italiano letterario, il popolare acquistava dovizia e destrezza, e felicemente l’adoprarono alcuni Fiorentini, come Matteo Palmieri nel dignitoso e sobrio trattato della _Vita civile_; Feo Belcari, che con cara semplicità stese la _Vita di Giovanni Colombini_ e varie poesie divote[153] e rappresentazioni sceniche; e Agnolo Pandolfini, nel _Governo della famiglia_[154], dialogo di persone reali intorno a reali soggetti e ai bisogni quotidiani, con precetti d’economia e di morale alla mano di tutti, ed esposti con purissima proprietà, vero modello di simil genere di comporre. Alla stessa fonte attinsero Luigi Pulci, il Poliziano, Lorenzo Medici, che saluteremo quali precursori dell’aureo Cinquecento. Esso Lorenzo a diciassette anni s’incontrò con Federico d’Aragona, figlio del re di Napoli, e domandato da questo sui migliori poeti italiani, di propria mano gliene trascrisse molti, insieme con alcune proprie composizioni. Di poi si facea capo delle mascherate che uscivano il carnevale, con sempre nuove invenzioni e addobbi; induceva i poeti a compor canzoni per quelle, e ne componeva egli stesso; e scendeva sulla piazza a menar la danza, a intonar l’aria, ad accordare gli strumenti, facendo arte di governo la letizia d’un popolo ch’era alla vigilia di troppe sventure. CAPITOLO CXXII. Scienziati. I libri. La stampa. Carlo IV mandò al Petrarca un diploma, ove Giulio Cesare e Nerone assolvevano l’Austria dalla dipendenza imperiale; ed esso il dichiarò impostura. Scoperta di minimo merito, se allora non fosse stato straordinario il dubitare di cosa scritta; e al Petrarca va lode d’avere usato la critica, quantunque spesso in fallo, sovra di opere attribuite ad autori falsi, o di cui scambiavansi il tempo e il nome. Egli avea fatto una raccolta di medaglie, e si lagna che i Romani ignorino le cose proprie, e per vile guadagno distruggano i preziosi avanzi campati dai Barbari; e dell’averli restaurati encomia Cola Rienzi, il quale dallo studio di questi aveva attinto l’ammirazione pel buono stato antico[155]. Anche Guglielmo Pastrengo, grand’amico del Petrarca, ustolava ad anticaglie ed iscrizioni; e il suo _Lessico storico_, biblioteca generale degli scrittori sacri e profani, per quanto imperfettissimo, attesta molta lettura. Nicolò Niccoli possedeva una serie di medaglie, di cui si valse per accertare l’ortografia di alcune voci. Che le iscrizioni potessero venire in appoggio alla storia, l’aveano già scorto gli antichi. Il Pizzicolli, detto Ciriaco Anconitano, per incarico di papa Nicola V andò a farne una raccolta per Italia, Grecia, Ungheria, e pei paesi di Levante ancora intatti dai Turchi; nè noi col Poggio e col Decembrio teniamo ch’e’ fosse impostore, bensì che spessissimo s’ingannasse nel giudicare il tempo, l’origine, la destinazione de’ monumenti. Anche l’architetto frà Giocondo da Verona ne raccolse di molte; a Reggio serbasi manoscritta la raccolta di Michele Ferravino con disegni; una ne fece Nicolò Perotto, vescovo di Manfredonia; altri altre di particolari provincie. Girolamo Bologni pel primo v’aggiunse spiegazioni e commenti, talchè la storia presentavasi appoggiata all’erudizione. Con testimonj di questa Bernardo Rucellaj, splendido amico dei letterati, trattò della città di Roma; e Biondo Flavio (-1463), segretario di Eugenio IV, ne illustrò gli edifizj, il governo, le leggi, le cerimonie, la disciplina militare (_Romæ instauratæ libri III — Romæ triumphantis libri IX_); poi nell’Italia illustrata descrisse le quattordici regioni della penisola: ma era possibile non incappasse in molti errori? Nega che esistesse un vulgare parlato, contemporaneo allo scritto dei classici. Preparava anche una storia d’Italia dalla caduta dell’Impero fino a’ suoi giorni. De’ magistrati romani discorse Domenico Fiocchi (1497) fiorentino Pomponio Leto calabrese, bastardo dei Sanseverino, cercò monumenti _fin in riva al Tanai_, e pensava vedere le Indie; ma nel distolse la compagnia de’ valentuomini, dei quali era capo nell’accademia romana. Dilapidata la sua casa in una sollevazione ai tempi di Sisto IV, «lui in giuppetto coi borzacchini e con la canna in mano se n’andò a lamentare co’ superiori» (Infessura), e gli amici a gara il rifornirono d’ogni occorrente. Sino alle lacrime il commoveano i monumenti, e per ammirazione all’antichità pareangli selvaggi i costumi e le credenze presenti, a tal segno che fu creduto empio. Di rimpatto Bonino Mombrizio milanese in due eleganti volumi raccolse vite di santi, tolte da biblioteche e archivj, copiando fin gli errori, e non discernendo le apocrife. Annio da Viterbo domenicano, per gran virtù e franchezza (1502) fu elevato maestro del sacro palazzo, e odiato da Cesare Borgia che forse il fece avvelenare. Nei trattati _Dell’impero de’ Turchi_ e _De’ futuri trionfi de’ Cristiani_ deduceva dall’Apocalissi speranze per la prossima caduta del nemico della cristianità. Era il tempo che comparivano ad ogni ora nuovi documenti dell’antichità, onde furono accolti con entusiasmo i suoi _Antiquitatum variarum volumina XVII_. Erano autori antichissimi, atti a chiarire l’origine de’ popoli, quali Beroso caldeo, Fabio Pittore, Mirsilo da Lesbo, Sempronio, Archiloco, Catone, Metastene, Marceto, altri ed altri. Ne tripudiarono gli eruditi, levando a cielo il fortunato Annio; a gara ingemmarono le loro scritture coi bei trovati di esso; e tutte le storie uscite in quel torno ne furono infette. Perocchè que’ frammenti non erano che una finzione, e poco tardarono ad olezzare di falso. Ma era egli ingannatore o ingannato? ancora se ne disputa, nè manca chi li crede di fondo vero, comunque alterato; e il moderato quanto erudito Zeno, esaminando la questione riprodottasi fra il domenicano Mazza che pubblicò l’_Apologia_ di Annio, e il Macedo che la sostenne contro il veronese Sparavieri, trova eccesso da un canto e dall’altro, giudicandolo illuso da quelli che allora speculavano sopra la smania delle scoperte antiche. Intanto non è a dire quanta confusione ne venisse a tutti gli storici nostri, massimamente municipali, che con intrepidezza risalivano a Noè o almeno alla guerra di Troja, e cercavano tra Fenici e Caldei quel che avevano in casa: i Milanesi seppero che Anglo figlio di Ettore fondò Angleria, e fu stipite de’ Visconti, i quali perciò s’intitolavano conti d’Angéra; i Comaschi ebbero in pronto un Comer figlio di Giafet fondatore della loro città; Cremona un Cremone trojano (vedi Cap. II); Gian Grisostomo Zanchi deduceva il nome così tedesco di Bergamo dalle voci ebraiche _Beradin gom mon_, cioè _inundatorum clypeata civitas_, che interpreta _Dei Galli regia città_. Nè va di miglior passo il Platina nella storia di Mantova; ma in quella dei papi ripudia, congettura, e se non sempre imbrocca, già era assai questo dubitare di asserzioni d’antichi. Abbiamo detto a quali ardimenti si spingesse la critica col Valla (pag. 314). Conosciuti i modelli classici, migliorato il gusto, si volle che la storia fosse anche bella; e tale fu scritta spesso in latino, talvolta in vulgare. Dei vulgari già parlammo (tom. VII, pag. 332): fra i latini è dei migliori Andrea Silvio Piccolomini, che in quella d’Austria raccontò i fatti della Boemia e di Federico III, nella _Cosmografia_ descrisse l’Europa e l’Asia Minore, ed espose gli avvenimenti dell’Italia dall’anno di sua nascita fino all’ultimo del suo pontificato con vigorosa dicitura e studio dei caratteri e dei costumi. Stamparonsi centoventi anni dopo, sotto il nome di Giovanni Gobellino suo segretario, continuati fino al 1469 da Jacopo degli Ammanati fiorentino, cui esso papa diede il cognome della propria famiglia e il vescovado di Pavia e il cappel rosso. Antonio Bonfini d’Ascoli, vissuto in Ungheria alla corte di Mattia Corvino e di Vladislao II fino al 1502, lasciò tre decadi della storia di quel paese al modo di Tito Livio, cioè elegante e falsa, pure preziosa dove ogn’altra ne manca. Filippo Bonaccorsi o Callimaco Esperiente toscano, fuggito da Roma al disperdersi dell’accademia, dopo lungo errare fu in Polonia accolto da re Casimiro, che collo storico Giovanni Dlugos l’adoprò per educatore di suo figlio, segretario proprio, e spesso ambasciadore. Scrisse i fasti di re Ladislao V e la battaglia di Varna ove questi era perito; e un opuscolo sulle mosse de’ Veneziani per eccitare Tartari e Persi contro i Turchi. Aurelio Brandolini, detto Lippo perchè cieco, poeta latino di Firenze, in Ungheria caro a Mattia Corvino, morì a Parma il 1497, lasciando moltissime opere. Da Tommaso da Pizzano, astrologo bolognese a’ servigi di Carlo V di Francia, nacque Cristina, che bella ed educata alla corte e alle lettere, vide applaudite le prime sue poesie; poi per provvedere alla sua povera vedovanza scrisse d’arte militare, la _Mutazione di fortuna_, e la vita o piuttosto panegirico di quel re. A fatica oggi può leggersi quel che allora tanto ammirossi: pure associa vivacità poetica con fina ragionevolezza, delicato sentimento con forza. Le scienze dunque erano uscite affatto dal santuario, e secolarizzate; se la teologia rimaneva sempre la prima, non era più l’unica; e sebbene in essa, fra tanti dissensi ecclesiastici, si moltiplicassero dissertazioni e commenti, nessuno s’accostò alla potenza di Tommaso d’Aquino e di Bonaventura. Quanti ragionamenti e sofisterie nella quistione de’ Minoriti! In più serie e vitali quistioni ai concilj di Basilea, di Costanza, di Firenze figurarono e nostrali e stranieri, e principali Enea Silvio e il cancelliere Gerson. A quest’ultimo i Francesi, a Tommaso da Kempis i Tedeschi, i nostri a Giovanni Gersen abate di Vercelli[156], attribuiscono l’_Imitazione di Cristo_, il libro più famoso del medioevo, e il più letto dopo la Bibbia, e che si disse sarebbe il primo del mondo se questa non esistesse: riprodotto in almeno mille ottocento edizioni, tradotto in ogni lingua, senza che alcuna raggiunga la concisa energia di quel latino, comunque scorretto, e simile alle figure di santi che allora posavansi sui sepolcri, non mosse, eppur belle, e sopratutto soavi. Non prende esso per intermediarj i profeti, i dottori, la Chiesa, ma è un colloquio dell’anima col suo Creatore. Quest’intimità ne forma l’attrattiva; e poichè non v’ha dispute, non sistemi e speculazione, non decisioni particolari, ma impeti dell’anima, nulla d’intrinseco ajuta a riconoscerne l’autore. Tale incertezza non mal gli si addice, scomparendo affatto la personalità perchè rimangano soli il cuore e il sentimento. In tempo di tanto litigare, ivi nessun alito di polemica; al più qualche gemito sull’infelicità de’ tempi, e il consiglio di ripararsene col formarsi una solitudine profonda, dove ascoltare Iddio che parla. E sull’anime invelenite dall’amor della contesa come dovea piovere ristorante quella parola: — Nella croce è salute, è vita, è schermo dai nemici, è infondimento di superna dolcezza; nella croce è vigore alla mente, gaudio allo spirito. Nella croce sta tutto, tutto è riposto nel morire; nè alla vita e all’interna pace v’è altra via che della croce e della cotidiana mortificazione. Cammina per dove vuoi, cerca checchè tu vuoi; non troverai più alta strada di sopra, nè più sicura di sotto, che quella della croce. Disponi le cose come ti pare e piace, non però troverai altro che da patir qualche cosa. La croce è sempre apparecchiata, e in ogni luogo ti aspetta: non la puoi cansare dovunque tu corra. Se la porti di buon grado, ella porterà te, e ti scorgerà al termine desiderato, dove sia fine al patire: se forzatamente la porti, ti fai un peso, e viepiù gravi te stesso, e nondimeno ti sarà forza portarla. Se una croce tu getti via, un’altra ne troverai, forse più grave. Non è secondo l’uomo portar la croce ed amarla, castigare il suo corpo e costringerlo in servitù, fuggire gli onori, sostenere di buon grado gli scherni, disprezzare se medesimo e bramare d’essere disprezzato, patire qualsivoglia danno, e nessuna prosperità desiderare. Ma se ti fidi nel Signore, dal cielo ti verrà fortezza, e alla tua signoria saranno soggettati il mondo e la carne»[157]. E l’imitar Cristo è una iniziazione progressiva, per mezzo dell’astinenza, poi dell’ascetismo, della comunicazione, infine dell’unione. Questi successivi passaggi espose l’innominato al popolo, colla lingua del chiostro; e divenne libro popolare quel ch’era ascetico lavoro di monaco. Nelle scuole aveano per tutto il medioevo contrastato i Realisti, che propendendo all’unità di sostanza, giudicavano mere astrazioni i nomi di genere, specie, individui; contro i Nominalisti, che proclamavano la pluralità della sostanza, ripristinando l’individuazione, il genere, la specie, all’universale non attribuendo altro valore che d’un segno. Dappoi la battaglia erasi ingaggiata e continuava sotto le antiche bandiere d’Aristotele e Platone, del ragionamento e dell’entusiasmo, del sillogismo e dell’ispirazione. Dal 1313 al 16 un frà Paolino minorita diresse a Marin Badoaro duca di Candia un trattato italiano col titolo _De recto regimine_, dove analizza con semplicità e chiarezza i doveri d’un magistrato; tiene pel governo d’un solo, ma che si circondi di una consulta di savj. Parteggia invece per la repubblica, almeno nei piccoli Stati, Egidio da Roma, educatore di Filippo il Bello e arcivescovo di Bourges; di cui i due primi libri _De regimine principum_ sono una direzione di coscienza pei re, il terzo un trattato di diritto politico, esaminando le varie forme di governo e le leggi civili che vi si riferiscono: nemicissimo della servitù personale, non riconosce regno se non si conformi agli eterni canoni della giustizia. Accursio rimase tipo de’ glossatori, talchè sopra di lui si concentrarono i biasimi e le lodi. Ma la sua grande compilazione avea posto termine alle spiegazioni orali de’ professori, fin allora usitate; le interpretazioni furono ristrette; i glossatori divennero autorità unica, fino a dirsi che una glossa val più di cento testi. In conseguenza la scienza decadde, e sottentrarono i giuristi scolastici, che alla giurisprudenza applicarono i metodi dialettici; nel che vedemmo illustri Baldo e Bártolo, il quale colla gran pratica del fôro suppliva alla mancanza di storia e di filologia. Tutti i loro seguaci sono prolissi e barbari; onde dagli umanisti erano tenuti per dappoco, perchè conservavano ancora lo stile ispido, l’argomentare scolastico, le affollate citazioni al par de’ teologi: pure alcuni cominciarono a disselvatichire quegli studj, meditar Giustiniano con filologia e storia, e Andrea Alciato fu de’ primi, poi i francesi Budeo e Mulineo, e superiore a tutti il Cujaccio. Molti ottennero celebrità per consulti legali e per opere o per magistrature sostenute; ma col rinnovarsi della scienza i loro libri non serbarono alcuna importanza, neppur d’erudizione. Chi non lodava allora Paris de Puteo, alessandrino o napoletano, Giovan Antonio Carafa, principe de’ giureconsulti, Matteo degli Afflitti, il più dotto leggista di quanti furono prima o poi, i cui _Commenti sopra i feudi_ non hanno pari, e che raccogliendo le decisioni della curia napoletana, diede origine alla nuova genìa dei _Decisionanti?_ Giovanni d’Andrea bolognese o fiorentino fu in voce del maggior canonista; e le sue figlie Novella e Bettina dettarono anch’esse. Paolo da Liazari, costui scolaro, allevò Giovanni da Legnano, così celebre che alla sua morte si chiusero le botteghe. Andrea d’Isernia fu nominato l’evangelista del diritto feudale, e re Roberto il menò seco onde perorare alla corte d’Avignone i diritti che vantava al trono di Napoli[158]. Gran lume al diritto civile recò pure Francesco Accolti d’Arezzo. Guadagnò moltissimo di sua professione, e sperava anche il cappello cardinalizio, ma Sisto IV gliel ricusò dicendo temeva di sottrarre alle scienze un troppo illustre cultore. Volendo dimostrare ai suoi scolari in Ferrara quanto importi conservare il buon nome, rubò della carne da un macello: subito ne vennero imputati gli studenti, e due in cattiva reputazione furono arrestati e correvano pericolo, quando l’Accolti andò ad accusare se stesso: non si volle credergli, finchè non addusse i testimonj e il motivo. I canali, le macchine da guerra, i molini ad acqua e a vento, una filatura in Bologna nel 1341 mossa per forza d’acqua ed equivalente all’opera di quattromila filatrici, e i grandi lavori architettonici e idraulici attestano coltivate la geometria e la meccanica. Nel 1455 Gaspare Nadi e Aristotele di Feravante trasportarono la torre della Magione di Bologna colle sue fondamenta, alte ottanta piedi, colla spesa di sole cencinquanta lire; e raddrizzarono il campanile di Cento, che strapiombava più di cinque piedi[159]. Per servizio ora della magia, ora del commercio, le matematiche venivano coltivate dai nostri. Paolo Dagomari, detto Dall’Abaco, pel primo usò la virgola a distinguere in gruppi di tre cifre i numeri troppo lunghi, e introdusse i taccuini. Molti trattati d’algebra o, come dicevano, almacabala, si trovano nelle biblioteche; e il primo messo a stampa fu l’italiano di Luca Pacioli da Borgo Sansepolcro francescano, professore a Milano, che servì di base a tutti i matematici del secolo seguente. «In quest’arte maggiore, detta dal vulgo regola della cosa», arriva all’equazione di secondo grado, non più in là del Fibonacci; se non che la sua osservazione che le regole relative alle radici sorde possono riferirsi alle grandezze incommensurabili pressente l’applicazione dell’algebra alla geometria. Aveva visitato le città commerciali d’Italia, e porge le diverse pratiche dei negozianti, esempj numerosissimi di conti, cambj, arbitramenti, società, e principalmente la tenuta de’ libri in scrittura doppia all’italiana, che tanto tardò ad essere adottata[160]. Giorgio Valla piacentino (-1500) scrisse una specie di enciclopedia _de expetendis et fugiendis rebus_, desumendola da Greci e Latini, a preferenza degli Arabi, e nel III cap. dà un trattato delle sezioni coniche, forse primo dopo il risorgimento. Non abbiamo però matematici nostri che equivalgano ai tedeschi Purbach e Regiomontano. Questo pel primo costruì un almanacco colla posizione degli astri, gli eclissi, e calcoli della situazione del sole e della luna per trent’anni; chiamato a Roma per l’emendazione del calendario, vi morì in fresca età. Gli astronomi erano tutti ubbie astrologiche, e ne formicola il famoso _Libro del perchè_ del Manfredi: pure la scienza avanzò. Nelle tavole di Giovanni Bianchini bolognese sono combinati tutti i moti dei pianeti. Domenico Maria Novaro ferrarese determinò la posizione delle stelle indicate nell’_Almagesto_, sospettò si fosse cambiato l’asse di rotazione della terra, ed ebbe scolaro Copernico, cui suggerì il concetto del sistema pitagorico. Paolo Toscanelli da Firenze confortò le speranze di Cristoforo Colombo sulla possibilità di giungere alle Indie dalla parte d’Occidente. Le scienze naturali proseguivano in caccia di testi più che di fatti, e solo nel secolo seguente appoggiaronsi alla sperienza e alle matematiche, surrogando la realtà alle chimere, l’evidenza alle ipotesi e all’autorità. Nè in medicina si paragonava lo stato sano col morboso; e il libro del Ficino _Della vita umana_ è tutto formole per conservare la salute e prolungare la vita con astrologiche osservanze; dalle stelle deduce le malattie e l’efficacia dei rimedj; insegna ai vecchi a ringiovanire bevendo sangue di giovani: delirj, comuni ad Arnaldo Bacone, ad Arnaldo di Villanova ed ai migliori, ma combattuti da Pico e dal Guainero pavese. Dino del Garbo, gloria dell’età sua, aggiunse altre sottigliezze alle arabiche. Marsilio da Santa Sofia, Gentile da Fuligno, Pietro da Tossignana, Guglielmo da Varignana, Cristoforo Barziza, Giovanni da Concorezzo ed altri esercitarono con lode e scrissero di medicina. Michele Savonarola padovano, buon osservatore, francamente si emancipa da Averroe; eppure crede che Niccolò Piccinino generasse di cento anni, che dopo la peste del 1348 invece di trentadue denti se n’avessero ventidue o ventiquattro, e che col feto possa uscire talvolta un animale. I medici non rifuggivano dalla chirurgia, mentre questa fuor d’Italia era abbandonata a barbieri ignoranti. Il salasso tenevasi operazione d’importanza; contendevasi seriamente sul dove e quando praticarlo; allorchè ne facesse bisogno, nelle case principesche adunavansi parenti e amici, e se riescisse bene, ringraziavasi il Signore festeggiando. Vincenzo Vianeo di Maida, Branca e Bojani di Tropea introdussero l’innesto animale, rifacendo nasi. Il Governo veneto, come in molti provvedimenti, così prevenne gli altri coll’ordinare, ai 7 maggio 1308, che ogni anno si sezionasse qualche cadavere. Nel 1315 Mondini de’ Luzzi, professore a Bologna, ne dissecò pubblicamente, e diede una descrizione del corpo umano fatta sul vero, e tavole anatomiche: e sebbene non sappia francarsi dalla venerazione agli antichi, e alle asserzioni di Galeno sagrifichi perfino l’evidenza, pure rimosse molte asserzioni fantastiche, disse ciò che propriamente avea veduto, e spiegò semplice e preciso; onde il suo libro per tre secoli rimase testo; aggiungendovi le scoperte che man mano si facevano. Dopo lui s’introdusse d’aprire ogni anno uno o due cadaveri nelle università: Bartolomeo da Montagnana, professore a Padova, si vanta d’aver fatto quattordici autopsie[161]. I farmacisti per lo più erano anche droghieri, laonde speziale significò farmacista e confetturiere; e le città, nell’accordare le licenze, v’aggiungevano l’obbligo di mandare alcuni dolci alla camera del Comune. Saladino d’Ascoli diede un _Compendium aromatariorum_ per norma dei farmacisti, dai quali pretende tante qualità, che pur beato se la metà ne possedessero. Santo-Arduino fece altrettanto per Venezia, Ciriaco degli Agosti di Tortona per l’Italia occidentale, Paolo Suardo pel Milanese. Ermolao Barbaro e Nicolò Leoniceno, commentando Plinio, giovarono assai alla botanica officinale. Nel 1415 Benedetto Rinio medico e filosofo veneto, con lunga diligenza e peregrinazioni faceva il _Liber de simplicibus_ in quattrocentrentadue faccie benissimo dipinte da Andrea Amadio, e coi nomi latini, greci, arabi, slavi, tedeschi. È la maggior raccolta che ancor si fosse fatta di piante e fiori, col tempo opportuno a raccoglierli e l’applicazione medicinale; e sta nella Marciana, coll’_Erbario o storia generale delle piante_, lavorato nel secolo seguente da Pier Antonio Michiel. Papa Benedetto XIII riprovò la magia come ereticale; e poichè moltiplicavansi le guarigioni presunte miracolose alle tombe di san Rocco, di santa Caterina da Siena, di sant’Andrea Corsini ed altri, la Chiesa provvide non avesse a gridarsi al miracolo se non quando il morbo fosse incurabile, e istantaneo il risanamento. La ricorrenza delle pesti[162] crebbe la devozione per san Sebastiano, pel santo Giobbe, per san Rocco principalmente, che di quell’età appunto dal patrio Montpellier era pellegrinato in Italia onde assistere a’ contagiosi. Spesso ancora sulle facciate delle chiese e su tabernacoli lungo le vie si dipingevano gigantesche figure di san Cristoforo, la cui vista diceasi preservare dai cattivi incontri e dalle morti improvvise, le quali sembra divenissero allora più frequenti; onde spesseggiarono pure le invocazioni a sant’Andrea Avellino ed altre devozioni preservative. A richiamare dalla erudizione all’osservazione, dai testi ai fatti, valsero alcune malattie nuove, come la morte nera; la tosse ferina, comparsa nel 1414 sotto forma epidemica; la tarantola, epidemia psichica che s’attribuiva al morso d’un ragno, e portava a ballare e far attucci stravaganti. La lebbra vuolsi venuta in Italia co’ soldati di Pompeo reduci dall’Egitto, ma presto si spense. Ricomparve al tempo de’ Longobardi, poi di nuovo alle crociate: e forse non era cessata mai del tutto, poichè ne cade menzione in miracolose guarigioni, e negli ospedali istituiti; certamente Costantino, medico della scuola salernitana, la decriveva precisa nel 1087, cioè avanti le crociate che la diffusero. Al tempo che discorriamo pare scomparsa, giacchè il Cardano non la conosceva, il Fracastoro la dice morbo raro[163], e gli spedali de’ Lazzari diminuivano, per far luogo a quelli destinati a un altro morbo, conseguenza e castigo della dissolutezza, che diffuso poi al tempo della calata di Carlo VIII, fra noi ebbe il nome di francese, di campano tra i Francesi. Dopo molto ragionarne resta dubbio se venisse dall’America o fosse già conosciuto. In complesso questa è un’età di reminiscenza, più che di fantasia e di ragione; si fa tesoro delle cognizioni prische, anzichè conquistarne di nuove; nè si mettono al vaglio dell’esperienza. Mancando la stampa, i giornali, la posta, noi ci figuriamo che le opere di letteratura o di scienza dovessero rimanere in angusto circolo, nè conoscersi lontano le scoperte d’un paese. Però nelle università concorreva gente da regioni remotissime, vi si comunicavano le cognizioni, i professori vi portavano le opere proprie, i giovani voleano tornare in patria arricchiti di qualche manoscritto, sicchè diffondeansi più prontamente che non si possa credere. Gli autori stessi più volte, dopo pubblicato un lavoro, lo correggevano, e ne facevano una seconda edizione, come si pratica dopo la stampa: così Leonardo Fibonacci nel 1202 pubblicò il suo _Abacus_, primo trattato d’algebra fra’ Cristiani; poi nel 28 ne diede una nuova edizione con aggiunte. Però i libri erano più venerati perchè rari; la quale venerazione faceva che una notizia si tenesse per vera sol perchè scritta, si ripetesse dai successivi perchè detta dai precedenti; che se la sperienza la contraddicesse, non si smentiva l’autore, ma cercavasi conciliarla, come si fa colla Bibbia, a costo di storpiare la verità. Spesso s’ignoravano le scoperte e le lucubrazioni anteriori; e mentre oggi non si perdona d’accingersi a un lavoro senza conoscere tutti i precedenti, allora si trovano o accettati errori o ignorate verità, su cui già da un pezzo altri aveva esercitato il giudizio. Ad accelerare ed assicurare i progressi dello spirito umano valse un’invenzione suprema di questo tempo, la stampa. Gli antichi scrivevano sopra cuojo o foglie di palma, o sul libro, cioè sulla seconda corteccia delle piante: dipoi si preparò carta o colle fibre del papiro, canna propria dell’Egitto, ovvero con pelle di pecora, la quale chiamossi _pergamena_ perchè a Pergamo inventata o perfezionata. Tracciavano i caratteri con bocciuoli di canna, aguzzati e intinti nell’inchiostro: le scritture di maggior conto incidevansi su pietra, legno, metalli: per gli usi giornalieri sovra tavolette cerate notavasi con uno stilo acuto, e si cancellava colla sua estremità ottusa. Que’ papiri e quelle pergamene coprivansi da un lato solo, appiccicando un foglio a piè dell’altro sinchè fosse compiuto un libro, poi rololavansi (_volume_), e si fissavano con un bottone. Giulio Cesare fu il primo che scrivesse sulle due faccie della pergamena le lettere al senato, e divulgò l’uso di piegarla al modo de’ nostri libri. Lisciare i fogli coll’avorio, profumarli coll’olio di cedro, miniare e dorare le iniziali, le costole, il taglio, gli attaccagnoli, era servigio degli schiavi libraj e grammatici, de’ quali ogni ricco teneva uno o più: altri il facevano liberamente per venderli. Tutto ciò operavasi a mano; e poichè alle mende inevitabili s’univano quelle varietà capricciose e quasi istintive che ognuno insinua trascrivendo, differenti e scorrettissimi riuscivano i codici: chi volesse qualche testo emendato, l’esemplava di proprio pugno, come fecero pochi diligentissimi grammatici, o qualche dottore della Chiesa, rendendo famose certe edizioni d’Omero e della Bibbia. Col cristianesimo l’arte dello scrivere passò dagli schiavi ai monaci, per la necessità di diffondere dottrine, polemiche, orazioni; san Benedetto pose obbligo a’ suoi il copiarne; monache vi si esercitavano pure. Quanto dell’antichità possediamo, ci arrivò quasi solo per man di essi; onde è ingratitudine e illiberalità il querelarli se, meglio degli autori classici, si piacquero trascrivere i santi Padri ed opere di teologia. Intanto è vero che degli autori lodatici dagli antichi per sommi, nessuno forse ci manca, e di questi possediamo il meglio; com’è vero che, già prima della caduta dell’Impero occidentale, rarissimi erano fatti alcuni, a cagion d’esempio Aristotele, di cui a’ migliori giorni di Roma non era avanzato che un solo esemplare; talchè gran merito reputavasi il farne estratti o compendj, come usarono Floro, Giustino, Plinio, Costantino ed altri. L’agevolezza procacciata da questi compilatori recava a prendere minor cura delle opere originali dopo che se n’era stillato il buono e il meglio, laonde lasciaronsi andar perdute. Il guasto degli autori classici cominciò dunque assai prima de’ Barbari; le guerre e gl’incendj di questi ne mandarono a male altri assai; zelo de’ buoni costumi, che lascio ad altri il condannare, fece da ecclesiastici distruggere alcuni scandalosi ed immorali. Era difficile il trarre d’Egitto il papiro; poi divenne impossibile dacchè gli Arabi l’ebbero occupato. La pergamena, già costosa, crebbe allora smodatamente di prezzo; onde si ricorse ad uno spediente già noto agli antichi: ciò fu di raschiare le scritture antecedenti, onde sovrapporvene di nuove[164]. Buon frate, per te aveano suprema importanza un antifonario, una raccolta di preghiere, un trattato della confessione; e quando per essi coprivi o la _Repubblica_ di Cicerone o il codice Teodosiano, vi avevi tanto diritto quanto oggi n’abbiamo noi d’usare l’opposto. Gli antichi valeansi di lettere majuscole e senza interpunzione; più tardi per espeditezza si raccorciarono, in modo da venirne il carattere minuscolo. Per la ragione medesima s’introdussero certe abbreviature o note, le quali furono portate fino a cinquemila, e col loro mezzo poteano i _notari_ tener dietro a qualunque discorso per accelerato[165]. Raccoglievano questi dapprima le decisioni del senato e delle pubbliche adunanze, o le ultime volontà; onde passò il titolo di notaro a indicare chi è rogato a mettere in iscritto un atto spettante a fede pubblica. I veri caratteri tachigrafi caddero in dimenticanza tale nei secoli venturi, che un salterio trovato a Strasburgo dal Tritemio era registrato nel catalogo come di lingua armena. Le iscrizioni già al tempo dell’Impero aveano preso caratteri d’inelegante magrezza, com’è a vedere su pei muri di Pompei e d’altrove, e peggio nelle catacombe cristiane e ne’ tempi oscuri; pure continuarono le lettere tonde. Ma nel XII secolo, mentre s’introduceva il gusto gotico nell’architettura, anche i caratteri si fecero angolosi, poi s’ingombrarono di ghirigori; usanza durata fin nel secolo XV, quando ripigliò la buona calligrafia con gran varietà di caratteri[166]. Jacopo fiorentino, frate camaldolese, dopo il 1300 è ricordato come il migliore scrittore di lettere romane che fosse prima o poi, sicchè la sua mano fu conservata in un tabernacolo. Angelo Pezzana negli _Scrittori parmensi_ noverò sedici calligrafi valenti, ai quali poi ne aggiunse altri otto nella _Storia di Parma_, tutti del secolo XV o circa. Vi si associò il lusso delle pitture, quasi ogni pagina portando profili, cornici, figure, stemmi, lettere bizzarre (Cap. XCIX), talchè un libro divenne il complesso di tutte le arti belle; poesia e retorica nel comporlo, calligrafia nel trascriverlo, miniatura nell’ornarlo in oro, carmino, oltremare, pellicceria nel prepararne la coperta, cesellatura nell’abbellirlo di borchie, oreficeria ad incastonarvi gemme, doratura a lisciarne i margini. Qual meraviglia se i libri salirono a prezzi ingenti? Da’ cataloghi che i libraj esponevano, e dalle tasse determinate dalle università siamo informati d’alcuni di questi; ma non vuolsi dimenticare che spesso li rincarivano le miniature. Nel 1279 a Bologna si diedero ottanta lire (L. 435) per copiare una Bibbia; ventidue per l’Inforziato[167]. Melchiorre, librajo di Milano, chiedeva dieci ducati d’oro per una copia delle epistole famigliari di Cicerone. Alfonso d’Aragona scrisse da Firenze al Panormita, che il Poggio aveva a vendere un Tito Livio per cenventi scudi d’oro; il Panormita alienò una masseria per acquistarlo; e il Poggio ne comperò una col prezzo ritrattone. Borso d’Este nel 1464 pagava otto ducati d’oro a Gherardo Ghislieri di Bologna per avere alluminato un libro intitolato _Lancellotto_; nel 69, quaranta ducati per un Giuseppe Ebreo e un Quinto Curzio; la famosa sua Bibbia, due grandi volumi in pergamena, dove ogni pagina porta miniature diverse, per opera di Franco de’ Rossi e Taddeo Crivelli, gli costò milletrecento settantacinque zecchini[168]. Piccola cosa doveano dunque essere le biblioteche d’allora, e re e papi erano scarsi di libri quant’oggi un cherichetto[169]. Nondimeno certuni aveano potuto raccorne di molti, in Italia specialmente, e di qui li cercavano gli studiosi, massime da Roma e da’ conventi rinomati della Novalesa, della Cava, di Montecassino. La biblioteca del cardinale Giordano Orsini nel 1438, composta di ducencinquantaquattro codici, stimavasi duemila cinquecento ducati d’oro[170]. Tommaso da Sarzana ne comperava a credenza, ed accattava per pagare copisti e miniatori. Il Petrarca lagnavasi che in tutto Avignone non si trovasse un Plinio; ma una scelta biblioteca erasi egli formata, che poi cedette per tenue compenso alla Repubblica veneta: fra quei libri sono un Omero, donatogli da Sigeros ambasciatore dell’Impero d’Oriente; un Sofocle, avuto da Leonzio Pilato, colla traduzione dell’Iliade e dell’Odissea fatta da questo, ed esemplata dal Boccaccio; un Quintiliano; tutte le opere di Cicerone, ricopiate dal Petrarca stesso: forse è di suo pugno il Virgilio che si conserva alla biblioteca Ambrosiana. Alla Marciana di Venezia servirono di fondo i libri che il cardinale Bessarione avea compri per trentamila zecchini, e che lasciò a quella «città retta dalla giustizia, dove le leggi regnano, la saviezza e la probità governano, abitano la virtù, la gravità, la buona fede». Cosmo de’ Medici, esulando colà, donò la sua al convento di San Giorgio; poi in Firenze colla libreria privata diede origine alla Laurenziana. Nicolò Niccoli gareggiava, secondo sua fortuna, con esso nell’adunar libri, e ottocento volumi possedeva fra greci, latini e orientali, esemplandoli egli stesso, riordinando e correggendo testi malmenati dagli amanuensi, onde il chiamarono padre dell’arte critica: lasciò quei libri ad uso pubblico, e furono messi ne’ Domenicani di San Marco con una disposizione che servì di modello alle future. Coluccio Salutato, lagnandosi del guasto de’ codici, proponeva biblioteche pubbliche, dirette da dotti che discernessero le lezioni migliori; e fece acquistarne una a Roberto di Napoli. Altri signori l’imitarono; e rammentano un Andreolo de Ochis bresciano, che venduto avrebbe beni, casa, donna, se stesso per aggiungere libri ai molti che possedeva. I lamenti per le scorrezioni delle copie cresceano quanto più cresceva il desiderio di leggere; e Petrarca esclamava: — Chi recherà efficace rimedio all’ignoranza e viltà dei copisti, che tutto guasta e sconvolge?.... Nè fo querela dell’ortografia, già da lungo tempo smarrita.... Costoro confondendo insieme originali e copie, dopo aver promesso una, scrivono un’altra cosa affatto diversa, sì che tu stesso più non riconosci quanto hai dettato. Se Cicerone, Livio, altri egregi antichi, singolarmente Plinio Secondo, risuscitassero, credi tu che intenderebbero i proprj libri? o che non piuttosto ad ogni piè sospinto esitando, or opera altrui, or dettatura dei Barbari li crederebbero?.... Non v’ha freno nè legge alcuna per tali copisti, senza esame, senza prova alcuna trascelti: pari libertà non si dà pei fabbri, per gli agricoltori, pei tesserandoli, per gli altri artigiani». Se la scorrezione sgarbava ne’ libri di letteratura, diveniva importantissima in quelli che concernono la coscienza e la fede. Pertanto fra gli Ebrei ogni esemplare della Bibbia doveva esser riveduto dai rabbini; i quali dalla _Massora_ sapevano quanti versetti, quante parole, quante lettere contenesse il sacro libro, e quante volte ciascuna fosse ripetuta; e se trovassero qualche lettera di meno, o scritta con inchiostro impuro, o su membrana preparata da incirconcisi, bastava per dichiarar guasto quel testo e distruggerlo. Rinfervorato l’amore degli studj, più vivo fu sentito il bisogno di qualche succedaneo alla carta di membrana e di papiro, e dai Cinesi i Tartari e gli Arabi, da questi gli Spagnuoli impararono a farla di cotone, cui dopo il Mille si surrogarono i cenci di lino. Se fosse vero che quella non si discerna da questa, come pretende il Tiraboschi, n’avremmo una prova della sua perfezione, e poco monterebbe il disputarne. Ad ogni modo erra il Cortusio differendo al 1340 l’invenzione della carta di lino, la quale chiamossi papiro, a differenza della bambagina[171]; e Pace da Fabriano, cui egli ne ascrive il merito, forse non fece che trapiantare nel Trevisano questa manifattura, già fiorente a Fabriano nella marca d’Ancona. Nè ha fondamento l’asserire che la Repubblica fiorentina invitasse con larghissimi privilegi quei di Fabriano a stabilire cartiere a Colle di val d’Elsa, poichè in una carta del 6 marzo 1377 trovasi allogata per venti anni una caduta d’acqua a favore di Michele di Colo da Colle, con gora, casalino _et gualcheriam ad faciendas cartas,_ la quale già prima era affidata a Bartolomeo di Angelo della Villa[172]. Dapprima adoperata solo per lettere ed istromenti, alla diffusione delle dottrine non contribuì che nel secolo XIV, quando vi si trascrissero libri. Dovettero questi allora rendersi men rari, e qualche mercante ne troviamo alle Università di Germania e di Parigi; a Firenze il Vespasiano nel 1446, un Melchior a Milano, Giovanni Aurispa a Venezia poco dopo negoziavano di libri. Pare condizione vitale della società che le scoperte vengano appunto quand’essa ne ha bisogno per ispingersi con nuovo slancio. Allora dunque che l’amore per la letteratura classica volgeva a cercar con passione e riprodurre gli esemplari, e che le grandi controversie dei re e della Chiesa faceano moltiplicare scritture, comparve l’arte più mirabile fra le moderne, la stampa. Dello scopritore si disputa. Pare i Cinesi la conoscessero da antichissimo; stampe stereotipe faceansi in Europa, non per uso letterario, bensì per figure di santi e carte da giuoco[173]; e Venezia nel 1441 dava un privilegio, atteso che _l’arte di far le carte da zugar e figure dipinte stampade era venuda a total defection_, in grazia della gran quantità che n’entrava di forestiere. A quel modo Lorenzo Coster di Harlem impresse facciate intere. Le prime stampe furono dunque xilografiche, e la maggior parte veniva occupata da figure; del che l’esempio più conosciuto è la _Bibbia de’ poveri_, di quaranta fogli stampati da un lato solo: tutti poi son poco voluminosi, eccetto i _Mirabilia Romæ_, specie d’itinerario a comodo degli oltramontani che pellegrinavano alla gran città, e che consta di centottanta facciate. Presto si avvisò potersi alle tavolette sostituire caratteri mobili: e così se ne intagliarono di legno, poi di piombo per arte di Giovanni Guttenberg da Magonza[174], cui l’orefice Giovanni Faust somministrò capitali. Pietro Schöffer di Gernsheim al piombo sostituì un metallo duro, e trovò l’inchiostro untuoso da ciò: ancor più fece inventando i punzoni, sicchè, invece d’intagliarli uno ad uno, si fusero i caratteri per mezzo di matrici. Il primo libro stampato con caratteri mobili pare la Bibbia detta Mazarina, dalla biblioteca in cui fu trovata, ed è del 1450 o 52 o più veramente 55: alcuni esemplari sono sovra pergamena; bell’inchiostro, bei caratteri, sebbene non sempre uniformi. Del 1454 si ha un opuscoletto di quattro carte per esortare i Turchi con indulti di Nicola V; poi un almanacco del 57. Presto quell’arte giunse in Italia[175], e del 1465 abbiamo l’edizione di Lattanzio e del _Cicero de oratore_ a Subiaco per Corrado Schweinheim e Arnoldo Pannartz, coll’assistenza di Giovanni Andrea Bussi di Vigevano, poi vescovo di Aleria; ma dicesi preceduta da un _Donatus pro puerulis_. In Roma al 70 erano uscite almeno ventitre edizioni di antichi. Giovanni da Spira, collocatosi a Venezia nel 69, vi lavora quanto a Roma; e così Vindelino suo fratello, poi il francese Nicolò Jenson. Fino al 1500 s’erano stampate a Parigi settecencinquantun’opere; in Italia quattromila novecentottantasette, di cui a Firenze trecento, a Bologna ducennovantotto, a Milano seicenventinove, a Roma novecenventicinque, a Venezia duemila ottocentrentacinque; altre cinquanta città aveano stamperie. Anche borgate vollero averne, come Sant’Orso presso Schio, Polliano nel Veronese, Pieve di Sacco nel Padovano, Nonantola e Scandiano nel Modenese, Ripoli presso Firenze. Le opere di Cicerone furono delle prime; edite dallo Schweinheim a Roma e dal Jenson a Venezia; ma in un corpo non comparvero che nel 98 a Milano pel Minuciano. Un Livio imperfetto era appartenuto al Petrarca, poi l’ebbe Cristoforo Landino, e su quella forma andò la prima stampa fattane a Roma forse fin dal 69, poi nel 72; indi a Milano nel 78 dal Lavagna, e nell’80 dallo Zarotto; e già a Venezia da Vindelino nel 70, a Roma ancora nel 71 e 72 da Udalrico Gallo, a Treviso nell’80 e 83 da Michele Mazolino co’ tipi di Giovan Vercelli, a Milano di nuovo nel 95: ma completo, almeno quale ci resta, si vide solo a Magonza nel 1518. Di Vitruvio un esemplare si aveva a Montecassino, e fu stampato a Roma nell’86, e commentato nel 95 da Silvano Morosini veneziano. I copisti a mano erano di molta valentia e credito in Genova; e temendo lo scapito che all’arte loro verrebbe dai torchi, ottennero che quella Signoria li proibisse. Pertanto Mattia il Moravo, che vi si era stabilito, passò a Napoli; e Giovan Bono tedesco, che a Savona avea stampato Boezio, si trasferì a Milano. In conseguenza maestro Filippo da Lavagna, ricco mercante innamorato di quest’arte, non potè fondarla in patria, e la pose a Milano, primo stampatore nostrale che si ricordi[176]. Gli disputa tale primato Antonio Zarotto di Parma, che a Milano nel 1471 pubblicava Festo _De verborum significatione_, e la _Cosmografia_ di Mela; l’anno dopo formava società con prete Gabriele degli Orsoni, Pier Antonio da Borgo di Castiglione, Cola Montano e Gabriele Paveri Fontana professori d’eloquenza, obbligandosi egli a fondere caratteri, tenere in ordine i torchj, far l’inchiostro, dirigere la tipografia. Fu il primo che stampasse libri liturgici col celebre messale del 1475, e intagliasse punzoni di greco per la grammatica del Lascari[177], mentre prima s’inscrivevano a mano. Vi tennero dietro la _Batracomiomachia_ nell’85, l’Omero di Firenze nell’88 a spese di Lorenzo Medici, l’Esiodo e Teocrito nel 93, l’_Antologia_ nell’84, Luciano, Apollonio, il _Lessico_ di Suida: ma al 1495 non passavano la dozzina i libri greci stampati in Italia. Il primo stampato italiano fu l’opera del Cennino orafo. A Reggio di Calabria stamparonsi in ebraico i commenti di Jarchi sul Pentateuco nel 75; a Soncino nel Cremonese, per cura di Nathan Ismaele, il Pentateuco nell’82; nell’86 i commenti del famoso Kimcki sui Profeti; nell’88 l’intera Bibbia con bellissimi caratteri, della quale non più che cinque o sei esemplari si conoscono. A Cremona poi nel 1556 Vincenzo Conti stampava i _Toledot_ e il salterio ebraico commentato dal Kimcki; e in quella città, d’ordine dell’Inquisizione romana, si dice siano stati abbruciati dodicimila esemplari di libri talmudici. Tipografie ebraiche v’ebbe pure a Casalmaggiore e Sabbioneta. I primi caratteri arabici si adoperarono a Fano da Gregorio Giorgi nel 1514 nelle sette ore canoniche, poi da Pier Paolo Porro milanese. A ristorare la deteriorata calligrafia sorse Aldo Manuzio di Sermoneta. Dopo il _Museo_, prima opera da lui edita in Venezia nel 1495, il dotto tipografo continuò venti anni attorno a classici latini e greci[178]; e si stupisce pensando che stampò per la prima volta Aristotele, Aristofane, Tucidide, Sofocle, Erodoto, Senofonte, Erodiano, Demostene, i Retori, gli Oratori, Platone, Ateneo, Dioscoride..... Adoprò il carattere corsivo, detto _italico_ dai Francesi, ed inciso da Francesco di Bologna, che tolse a modello la scrittura del Petrarca. Aldo stesso le più comode e men dispendiose forme del dodicesimo, ossia piccolo ottavo, sostituì alle solite in-folio: forse soltanto in Italia usavasi l’in-quarto. Via via s’introdussero i registri dei fogli, prima che si numerassero le pagine o le facciate; s’imparò a compartire gli spazj in modo che le linee riuscissero eguali, senza code alla lettera finale; poi vennero le virgole, poi le chiamate, e passo a passo la perfezione presente. La carta doveva emulare la pecora e il vitello (_vélin_), onde si facea con cenci scelti di lino e di canapa, non imbianchita col liscivio che oggi snerva la fibra vegetale: la pasta trituravasi lentamente colle pile: ed il foglio, fatto a mano colla trecciuola, veniva incollato fortemente colla gelatina, la quale lo induriva in modo che fin ad oggi ne troviamo inalterate le qualità. La carezza della carta e dell’inchiostro (il migliore traevasi da Parigi), la tiratura diligentissima, i lavoranti ancora scarsi, e il piccolo spaccio rendeano rischiose le imprese. Schweinheim e Pannartz nel 1472 esposero a papa Sisto IV di trovarsi ridotti a povertà per avere impresse tante opere senza esitarle; e dalla loro querela appare che di consueto si tiravano copie ducensessantacinque, il doppio per Virgilio, pe’ filosofici di Cicerone, e pei libri di teologia; in tutto essi aveano prodotto dodicimila quattrocensettantacinque esemplari. Anzichè arrischiare copiose edizioni, rinnovavansi; e quasi ogni anno furono da Paolo Manuzio riprodotte le epistole famigliari di Marco Tullio. Presto ai libri si aggiunsero figure[179]; e già nel 1467 a Roma uscivano le _Meditazioni_ del cardinale de Turrecremata con intagli in legno, dipoi coloriti; nel 72 il _Roberti Valturii opus de re militari_ con macchine, fortificazioni, assalti. Il _Monte santo di Dio_ e la _Divina Commedia_ di Firenze nel 1481 portano disegni di Sandro Botticelli, incisi in rame da Baccio Baldini: un Tolomeo a Roma per lo Schweinheim, ha le carte in acciajo di Arnoldo Buchink, così uno a Bologna, e uno pel Berlinghieri a Firenze. Gli stampatori in principio furono tenuti da molto, e Sisto IV conferì a Jenson il titolo di conte palatino. Facevano anche da libraj, e primamente in un libro stampato a Ferrara il 1474 si trova il nome di _bibliopola_. I Giunti, che stamparono a Firenze e Venezia, fin dal 1514 aveano estese relazioni colla Germania[180]. Proteggeasi l’interesse degli stampatori con privilegi; e il senato veneto ne concedeva uno di cinque anni a Giovan da Spira nel 1469 per le epistole di Cicerone, uno ad Ermanno di Lichtenstein nel 94 per lo _Speculum historiale_ di Vincenzo di Beauvais: l’anno seguente Lodovico Sforza lo conferiva per le opere del Campano a Michele Ferner ed Eustachio Silber: Aldo il vecchio l’ottenne pel carattere corsivo[181]. Avendo Angelo Arcimboldo trovato a Corbia cinque libri degli _Annali_ di Tacito, Leone X ne privilegiò il Beroaldo, che gl’impresse a Roma nel 1515; nè per dieci anni nessuno potea riprodurli, pena la confisca dell’edizione, ducento ducati e la scomunica. Decreto di deporre alla pubblica biblioteca una copia d’ogni stampato non conosco prima di quello del senato veneto nel 1603. In quello Stato soprantendevano alla stampa i riformatori dello studio di Padova; e gli editori, facendo registrare le opere che metteano ai torchi, ne ottenevano privilegio per un decennio, purchè l’edizione uscisse al tempo prefisso, e commendevole. I libraj di Bologna e così quelli di Parigi e d’altri luoghi ove fosse università, dipendevano da questa, che li nominava, e che ne esigeva giuramento e cauzione, e determinava i prezzi. I molti scrivani, rimasti scioperi, strillarono contro un’arte che li riduceva alla mendicità, e che surrogava operaj meccanici agli eruditi che dapprima collazionavano i codici onde sminuire gli errori de’ sonnacchiosi copisti; i miniatori si trovarono tolte le occasioni[182]; i possessori di biblioteche comprate a tesori, ne vedeano di colpo decimato il valore; i dotti gelosi prevedevano reso comune il sapere, che prima, costando denari e fatiche, assicurava onori e privilegi: erano altrettanti nemici della nuova invenzione, e spargeano sinistre voci, sino a tacciarla di magia, pericolosa essere cotesta divulgazione del sapere, agevolare la corruzione degl’ingegni. Anche persone di rette intenzioni se ne sgomentavano; ed Ermolao Barbaro suggeriva che, attesa la frivolezza di molti, non si lasciasse pubblicare veruno scritto se non approvato da giudici competenti. I Governi videro altri pericoli che della frivolezza, e massime in Germania, ove si parlava alto contro la Chiesa: onde ad alcuni libri troviamo apposta l’approvazione superiore, forse per istanza dell’autore o dell’editore; poi una bolla di Leone X, del 4 maggio 1515, portò che nessun libro si stampasse senza previa autorizzazione. Frattanto i manoscritti cessarono d’aver pregio altro che di curiosità, e le opere divennero ricchezza comune. Ma per quanto si mettesse cura a cercarne, molte dovettero sfuggire all’attenzione, per colpa de’ manoscritti stessi. In questi talvolta si trovavano cucite insieme opere disparatissime, sicchè l’erudito, ingannato dal titolo del primo, i minori lasciava inosservati. Altri erano copiati colle abbreviature e note che dicemmo, talchè riusciva difficile il dicifrarle: e davvero al vederle si direbbero caratteri cinesi, a tratti verticali più o meno inclinati, connessi, traversati con altri di forma e posizione varia. Benchè Giulio II, a insinuazione del Bembo, avesse proposto un premio a chi vi riuscisse, i Benedettini nella _Scienza diplomatica_ lamentavano che sì poco si adoperasse a ottenere la chiave delle note tironiane. Quando Tritemio scoprì un Lexicon di queste e un salterio stenografato, si sperava rivelato l’arcano; ma l’effetto non rispose all’aspettazione; finchè nel 1817 Knopp pubblicò la storia della stenografia antica, l’analisi e la sintesi delle note, e un dizionario di circa dodicimila segni, disposti per alfabeto[183]. Son dunque appena cominciati i lavori sui manoscritti di tal natura, e può sperarsene frutto: ma qui non consistono tutte le difficoltà presentate dagli originali. Apprendiamo da Dioscoride che l’inchiostro degli antichi faceasi con gomma e nerofumo stemprati nell’acqua, sicchè bagnando la pergamena, facilmente si cancellava. Al tempo di Plinio, per mordente vi si aggiungeva aceto, indi vitriolo; ma nessuno di questi neri resiste al tempo, sicchè le scritture ci arrivarono sbiadite e illeggibili. Un’infusione di noce di galla ripristina il colore, e meglio nella scrittura di tempi più remoti, quando l’inchiostro teneasi denso di gomma, e grossi erano i tratti, scritti con una canna. Difficoltà maggiori presentano i palimsesti, dove, per tornare ad altro uso il foglio, venne raschiata la scrittura anteriore. Molteplici sperimenti si fecero per ristaurare i caratteri di prima, e alfine la chimica ne trionfò. Ma qui nuovo incidente. Scomponendo i fogli del manoscritto antico onde prepararli a un nuovo, talvolta si erano allontanati due brani contigui, talaltra un foglio si adoprò ad un lavoro, e il seguente ad un tutt’altro; poi si tagliarono in due o più pezzi, o si tosarono per adattarli al sesto del nuovo libro. Dopo dunque che l’esercitato occhio con buona lente rilevò l’antico sotto al nuovo carattere, comincia la fatica del riordinare il lavoro, ravvicinare le parti scostate, supplire alle lacune, far che le sparse ossa rivivano. Son queste le pazienze intelligenti, alle quali andiamo obbligati delle recenti scoperte di molti classici[184]. Un altro meraviglioso congegno fu quello di svolgere e leggere i rotoli di papiro sepolti in Ercolano. Quando quella città venne scoperta, trovaronsi in una stanza molti cilindri, che si gettarono come carbone, finchè si avvertì essere papiri avvoltolati. Arrise dunque la speranza di recuperare altre parti della eredità intellettuale degli antichi; ma la lava gli avea carbonizzati, e solo i perseveranti studj del padre scolopio Antonio Piaggio insegnarono a svolgerli e copiarli, e con lunghissima attenzione cavarne nuove ricchezze letterarie e archeologiche. E quante ne rimangono ancora sepolte, cura e compiacenza de’ nostri nepoti! CAPITOLO CXXIII. Costumi cittadini, signorili e mercantili. Lusso crescente. Cultura estesa. Origini del teatro. Tutto ci fa sentire che tocca al fine l’età sinora descritta: onde vogliamo fermarci a salutare ancora un tratto questa generazione che passa; generazione di istinto più che d’intelletto, che non avea la conoscenza compiuta della morale verità, nè seppe le passioni trasformare in principj morali. Le città erano impresse d’un carattere monumentale, che manca alle moderne. Tutte cinte di mura, difesa pubblica; e benchè così frequenti fossero e sieno nel nostro paese, fra l’una e l’altra incontravansi spesso borgate e villaggi, la più parte fortificati, talchè intercettavano o difendevano le comunicazioni. Davanti alle città o nel cuore v’avea quasi dappertutto almeno un ponte, che offriva altri ostacoli al nemico. In ognuna vedeansi i resti delle torri, da cui aveano dominato le prische famiglie signorili, e che la libertà aveva svettate o ridotte a mero ornamento. Dove poi erasi elevato un principe, a difesa propria e offesa altrui aveva elevato una rôcca, la quale doveva incutere tanto sgomento, quanta confidenza ispiravano le chiese. Queste non pareano mai troppe quando la religione era anima della società; e grandeggiava la cattedrale, che dall’esterno o dai luoghi di primitiva devozione era stata trasferita nel centro degli abitari. Isolarla non sarebbesi pensato, benchè davanti solesse avere una piazza, e in giro un sagrato erboso, talvolta cinto di muro e acconcio alle adunanze. Finchè durò la dominazione de’ vescovi, il palazzo di questi era distinto dalla città, munito, e spesso comprendeva vastissimi tratti; ma dappertutto dovette cedere ai Comuni, salvo Udine e poc’altri: però que’ recinti e gli amplissimi chiostri rimasero sempre luogo d’asilo. Ed ecclesiastici e monasteri possedevano la maggiore e miglior parte della campagna; e aspetto e intenzione religiosa conservavano tutti gl’istituti di pietà e di educazione, fondati e diretti dalla Chiesa o sotto i suoi auspizj. Le case eransi congegnate malamente di legno, fango, paglia, quali ne mostra ancora tante la pulitissima Francia: non frenato da regolamenti, ognuno invadeva quel più che potesse dello spazzo pubblico, sporgeva i piani superiori e le scale e gli agiamenti sopra le vie, che ne rimanevano anguste e soffogate (Capitolo XCVIII princ.) Di buon’ora però si volle abitare meglio; e la pietra, i mattoni, i tegoli provvidero alla solidità e alla sicurezza. La regolare disposizione delle strade di Torino ne palesa l’origine principesca. I nomi alle vie applicavansi popolarmente secondo i luoghi cui mettevano e principalmente le chiese vicine: spesso secondo l’industria che vi si esercitava, o la famiglia che v’avea casa: il che pure ci rivela una stabilità di famiglie e di botteghe, oggi svanita. Degli odierni numeri teneano vece o un motto, o uno stemma, o una insegna fabbrile, una pittura, una terra cotta, uno smalto. Illuminazione notturna non si conosceva; solo in parte supplivano le lampade accese ai frequenti tabernacoli. Fortunate le città che avessero acque correnti per lavarsi, o spesse pioggie! altrimenti la poca cura nel gettare le immondizie, massime nelle intercapedini, i branchi di majali che razzolavano liberamente tra queste, l’abbondanza di stalle donde ogni mattina menavansi fuori le giovenche a pascere, come tuttora accade di vedere in parecchie città di Romagna, impedivano la pulitezza. Fra le case plebee discernevansi i palazzi signorili, che talvolta abbracciavano vasti quartieri; come in Milano quel de’ Visconti, che giungeva da San Giovanni in Conca fino all’arcivescovado, e quel dei Pusterla da Sant’Alessandro fin alla Vedra. Spesso v’erano annessi portici, o prolungati tutt’al lungo delle strade, come in Bologna, in Mantova e altrove, od isolati, come il coperto de’ Figini e la loggia degli Osj a Milano, la loggia de’ Bardi e le altre di Firenze, ove convenivano i dipendenti d’una famiglia, od un’intera fazione a confabulare, spassarsi, trattare di affari. Una più grande faceva l’uffizio delle borse odierne, e spesso erano sotto alla sala del parlamento, come vedesi ancora nella piazza de’ Mercanti a Milano, nel broletto a Monza, e così a Padova, a Vicenza, altrove. Il palazzo del Comune, oltre servire alle adunanze, era e una testimonianza della ricchezza del paese, e un deposito de’ suoi ricordi, ornandosi con cimelj antichi e con lapide e monumenti nuovi, massime cogli stemmi o cogli encomj de’ magistrati. Come la chiesa aveva campana, così volle averla il Comune succedutole; ed era vanto il farne elevata o ricca la torre. Sulla piazza stava spesso eretta la forca, feroce simbolo della podestà di sangue. Oltre l’armeria, non dovevano mancare vasti magazzini, ove un’esagerata precauzione riponea gran quantità di grano, di fieno, di vino, spesso imponendo a tutti i possessori della campagna di portarvi la metà o un terzo del ricolto. Non che le città, ogni borgo aveva istituzioni caritatevoli, massime per infermi e pellegrini, fondate da qualche pio o da una confraternita o da un’arte. Nel secolo che descriviamo si cominciò a concentrare anche la beneficenza, che lo spirito domestico del medioevo aveva sparpagliata, e ne vennero i grandiosi ospedali nelle città, meglio amministrati per certo; se più conducenti al servizio de’ poveri, lo dica altri. Nel 1431, per opera del vescovo, gli ospedali di Palermo furono riuniti in quello di Santo Spirito; a Milano Francesco Sforza dei varj formò l’ospedal Grande, reggia dei poveri; a Como persuase altrettanto il beato Michele da Carcano nel 64; ad Asti nel 55 il vescovo Filippo Roero per quello di Santa Maria; così a Cremona nel 50, e alquanto più tardi a Messina per l’ospedale di Santa Maria della Pietà. Nella lor cerchia ogni città conservava vita propria, propria politica; mercanti dotati del senso pratico della vita; legulej sottili fino alla malizia; nobili ancora spadaccini, ma già togati; clero basso e mestierante colla sollecitudine del guadagno, ma colla drittura ingenua e l’amor della giustizia; corporazioni laiche, oculatissime a conservare i privilegi; tutti attenti a bilanciarsi fra la brutalità de’ tiranni e la brutalità della canaglia. Spesso ancora, quantunque crescessero gli eserciti, erano chiamati a difendersi dai soldati. Avvicinavasi una banda? Contadini e pastori ravviano alla città i bovi, le pecore, i bufali, vi conducono le scorte, i grani, gl’istromenti rurali. Si chiudono le porte, si ritirano i ponti, si calano le saracinesche, si tendono le catene; gli uni corrono di casa in casa a cercare graticci, materasse, botti da serragliare le vie ed ammortire i colpi; altri vanno ad allogare i poveri e gli avveniticci per le taverne, i conventi, i portici; altri si stringono a consiglio col comandante della piazza sopra i mezzi di difesa; mentre in palazzo si divisano i modi di tenere d’occhio il comandante stesso, e impedire che tradisca, egli mercenario. Quel misto d’eroismo e di paura, d’esaltamento e di codardia, di gonfie minaccie e di accasciata aspettazione, di litanie ed esposizioni in chiesa e di esercizj sul campo che accompagnano l’avvicinarsi del pericolo, suscitano cento aspetti e discorsi differenti, che si mescolano al rintocco della campana, allo squillo delle trombe, ai falsi allarme che poi risolvonsi in risate. Fra ciò arrivano feriti, infermi, spogliati, paurosi; e i loro racconti, avidamente ascoltati, ripetuti, ingranditi, crescono l’ansietà: qualche spavaldo giura vendicarli; qualche sofferente crede e compatisce il coloro soffrire; altri è spedito a patteggiare col nemico, a riscattarsi a denaro dal saccheggio; e ottenutolo, versansi dalla città, abbracciandosi con quei che dianzi erano nemici, bevendo, cantando con loro. Così protraevasi quell’attività febbrile e quell’ansietà giornaliera che costituivano la educazione dell’uomo, e produceano a vicenda esaltamento e prostrazione, slancio irriflessivo o concentrazione devota, ma sempre la coscienza d’essere qualche cosa, di qualche cosa potere; lontano dalla vulgarità in cui cade (noi lo vediamo) una società governata da scettici, o da un despotismo che dà le apparenze di ordine all’anarchia morale. E noi da queste trasportiamoci in quelle città per adocchiarne a minuto le costumanze ed i caratteri. Ai Francesi, nelle diverse loro calate in Italia, appongono i cronisti l’avere insegnato ai nostri a surrogare alle avite usanze novità sempre varie, cercar di parere belli anzichè buoni, e ambire non tanto la lode delle opere e dell’ingegno, quanto la vana e folle gloriola delle frastaglie e del vestire acconcio, e variare portature, e quel lusso che preferisce gli oggetti dilettevoli ai necessarj. Le carrozze furono sostituite ai giumenti ed alle cavalcature, fin dagli uomini: sciali nel vitto, nel vestire, nelle spese nuziali, nelle donazioni; perfino artefici plebei, dice l’aulico pavese, usavano alle mense maggior varietà e raffinata delicatura che non i nobili d’una volta; nè le donne vulgari la cedevano alle ricche e gentili. E l’autore della vita di Cola Rienzi, in suo favellar romanesco: — Di questo tempo cominciò la gente ismisuratamente a mutare abiti, sì de vestimenta, sì de la persona. Cominciò a far li pizzi de li cappucci lunghi; cominciò a portare panni stretti alla catalana e collari, portare scarselle a le correggie, e in capo portare cappelletti sopra lo cappuccio. Po’ portavano barbe grandi e folte, come bene gianetti spagnuoli vogliano seguitare. Dinanzi a questo tempo queste cose non erano anco; se radeano le persone la barba, e portavano vestimenta larghe e oneste; e se ciascuna persona avessi portata barba, fora stato avuto in sospetto d’esser uomo de pessima ragione, salvo non fosse spagnuolo ovvero uomo de penitenzia. Ora è mutata condizione, idea, deletto: portano cappelletto in capo per grande autoritate, folta barba a modo di eremitano, scarsella a modo di pellegrino. Vedi nuova divisanza! e che più è, chi non portassi cappelletto in capo, barba folta, scarsella in cinta, non è tenuto covelle, ovvero poco, ovvero cosa nulla. Grande capitana è la barba: chi porta barba è tenuto». Del 1388 Giovanni Musso dipingeva i Piacentini sontuosissimi in tutto, specialmente negli abiti. Le donne portano vesti lunghe e larghe di velluto di seta di grana, o di panno di seta dorato, o di panno d’oro o di lana scarlatto o pavonazzo, con ampie maniche fin a mezza la mano, ed altre che pendono fin in terra, aguzze a maniera di scudi. E sopra vi si pone talvolta da tre in cinque once di perle, che costano dieci fiorini l’oncia; o nastri o cerchi d’oro al collo, a guisa dei colletti dei cani; e in vita belle cinture d’argento dorato e di perle, da valere venticinque fiorini ciascuna; e con tanta varietà di anelli e pietre preziose pel costo di trenta in cinquanta fiorini: a tacer quelle che portano le cipriane, vesti larghissime al piede e strette indecentemente dal mezzo in su, e tutte impomellate dalla gola fin ai piedi con bottoni dorati o perle. Ricchissimi poi sono i vezzi del capo. Alcune usano mantellette che coprono appena le mani, foderate di vajo e di zendado, e belle filze di coralli o d’ambra: le matrone e le vecchie un mantello ampio, rotondo e crespo, sparato davanti, se non che una spanna verso la gola ha bottoni d’argento dorato: e ognuna ha tre mantelli, un cilestro, un pavonazzo, uno di camelloto ondato. Le vedove istesso, ma tutto bruno senz’oro o perle. I giovani hanno gabbani lunghi e larghi fin a terra con belle fodere di pelli domestiche e selvatiche, di panno i più, altri di seta e velluto: e sotto han vestiti corti e assettati, e dappertutto galloni di seta o d’oro, e talvolta con cinture. Gli uomini maturi usano cappucci doppj di panno e sovr’essi berrette di grana fatte a ferri; i giovani non portano cappuccio che d’inverno, con becco lungo fin a terra; bianche le scarpe, e talvolta con punta lunga fin tre once, imbottita di borra; rasa la barba da mezzo l’orecchio in giù, e gran zazzera di capelli rotonda. E tengono cavalli fin a cinque, e servi, a ciascun de’ quali si dà fiorini dodici l’anno e il vitto. Giovan Villani non volle «lasciare di far memoria di una sfoggiata mutazione d’abito, che recarono di nuovo i Francesi che vennero in Firenze il 1342. Chè colà dove anticamente il vestire ed abito era il più bello, nobile ed onesto che niun’altra nazione, al modo dei togati Romani, sì si vestivano i giovani una cotta, ovvero gonnella corta e stretta, che non si potea vestire senza ajuto d’altri, e una coreggia come cinghia di cavallo, con isfoggiata fibbia e puntale, e con isfoggiata scarsella alla tedesca sopra il pettignone, e il cappuccio a modo di sconcobrini (_giocolieri_) col battolo infino alla cintola e più, ch’era cappuccio e mantello con molti fregi e intagli. Il becchetto del cappuccio lungo sino a terra per avvolgere al capo per lo freddo, e colle barbe lunghe per mostrarsi più fieri in arme. I cavalieri vestivano con sorcotto ovvero guarnacca stretta, ivi suso cinti, e le punte de’ manicottoli lunghe infino in terra, foderate di vajo ed ermellini. Questa istranianza d’abito, non bello nè onesto, fu di presente preso per li giovani di Firenze; e per le donne giovani disordinati manicottoli». Anche Galvano Fiamma, sotto il 1340, deplora che i giovani milanesi sviarono dalle orme dei padri, e si trasformarono in straniere figure; presero ad usare strette vesti alla spagnuola, e chiome tonde alla francese, lunga barba alla barbarica, cavalcare con furiosi sproni alla tedesca, parlare con varie lingue alla tartara. Le donne pure vagano scollacciate, con vesti di seta e talvolta d’oro; acconcio il capo con ricci alla forestiera; succinte in zone d’oro come amazzoni; camminano coi calzari ritorti in su; giocano a tavole e dadi: cavalli da guerra, splendenti armadure, e ch’è peggio, virili cuori, libertà degli animi, sono ornamento delle donne e cure di tutta la gioventù, sprecando le sostanze sudate dai genitori frugali. Troviamo da altri deriso il farnetico delle donne, ora di ringrandire la persona rizzando sul cucuzzolo i capelli, ora imberrettate, ora colla chioma disciolta sulle spalle, con diverse maniere di bestie appiccate al petto: l’alchimia faceva sua arte coprendone le magagne, e con varj avvisi medicando la pelle. Ora, aperto il collaretto, sfacciatamente mostravano; poi di tratto l’alzavano su fino agli occhi: talora, stretta la cintura, gonfiavano di sotto come pregnanti; tal altra con piombini tenevano intirizzite le guarnacche, a coprire il calcagnino che le rialzava dal suolo; qualche altra poneano mantello a somiglianza degli uomini Veneti, Genovesi, Catalani, che prima serbavano mode proprie, si meschiavano poi talmente, da non distinguerli. I milordini non chiamavansi contenti se l’uno non superava l’altro in novità; sicchè ora s’adattavano la berretta notturna, ora strozzati alla gola e allacciati di corde come fossero balle, tantochè non potevano sedere che non ne schiantassero alcuna: sempre anelanti dietro foggie straniere l’uno di Sorìa, quello di Arabia, un terzo pareva d’Armenia, un altro portava il farsettino all’ungherese; e chi larghi manicottoli, e gabbani di più versi, con maniche giù dal dosso pendenti come fossero monchi, e larghe punte di scarpe[185]. Queste lagnanze, oltre il solito andazzo di imbellire il passato a rimprovero del presente, a noi sono indizio del crescere della democrazia, per cui non rimanevano le condizioni separate fin nell’abito e nelle guise. Che che poi ne dicano i declamatori, il cangiare foggie non era consueto; e oltre che ciascun paese ne conservava di proprie, per le quali si diceva «Questo è napoletano, questo lombardo, questo genovese», anzi discerneasi il fiorentino dal pisano e dal lucchese, gli abiti bastavano l’intera vita e tramandavansi da una all’altra generazione. L’addobbo dei Fiorentini ci è bello ed elegantemente descritto da Benedetto Varchi: — Passato il diciottesimo anno, vestivano in città una veste o di saja o di rascia nera, lunga quasi fino a’ talloni, e a dottori ed altre persone più gravi soppannata di taffetà e alcuna volta d’ermesino o di tabì, quasi sempre nero, sparata dinanzi e dai lati, ove si cavano fuori le braccia, ed increspata da capo, dove s’affibbia alla forcella della gola con uno o due gangheri di dentro, e talvolta con nastri e passamani di fuora, la qual veste si chiama lucco. I nobili e i ricchi lo portano anche il verno, ma o foderato di pelli, o soppannato di velluto, e talvolta di damasco. Di sotto poi chi porta un sajo, chi una gabbanella, od altra vesticciuola di panno soppannata, che chiamano casacche, e dove la state si porta sopra il farsetto o giubbone solamente, e qualche volta sopra un sajo o altra vesticciuola scempia di seta, con una berretta in capo di panno nero scempia, o di rascia leggerissimamente soppannata con una piega dietro, che si lascia cader giù in guisa che cuopre la collottola, e si chiama una berretta alla civile. Nè ora si portano più sajoni con pettini e colle maniche larghe che davano giù a mezza gamba, nè berrette che erano per tre delle presenti, colle pieghe rimboccate all’insù, nè scarpette goffamente fatte con calcagni di dietro. «Il mantello è una veste lunga per lo più insino al collo del piede, ordinariamente nero, ancorchè i ricchi, massimamente i medici, lo portino pagonazzo o rosato, e aperto solo dinanzi e increspato da capo, e s’affibbia con gangheri come i lucchi, nè si porta da chi ha il modo a farsi il lucco, se non di verno sopra un sajo di velluto o di panno e foderato. Il cappuccio ha tre parti; il mazzocchio, che è un cerchio di borra coperto di panno, che gira e fascia dattorno alla testa e di sopra, e soppannato dentro di rovescio, copre tutto il capo; la foggia, o quella che pendendo in sulle spalle, difende la guancia sinistra; il becchetto è una striscia doppia del medesimo panno, che va fino a terra: si piega in sulla spalla, e bene spesso s’avvolge al collo, e da coloro che vogliono essere più destri e più spediti, intorno alla testa. Il pappafico era un altro modo di cappuccio che copriva le gote. «La notte, nella quale si costuma in Firenze andar fuori assai, s’usano in capo tôcchi, e in dosso cappe chiamate alla spagnuola, cioè colla capperuccia dietro. In casa usa mettersi indosso un palandrano o un catalano, con un berrettone in capo. La state alcune zimarre di guarnello, o gavardine di sajo con un berrettino. Chi cavalca, porta o cappa o gabbano, o di panno o di rasia; e chi va in vaggio, feltri. Le calze tagliate al ginocchio, e con cosciali soppannati di taffetà, e da molti frappate di velluto e bigherate. Mutan ogni domenica la camicia, increspata da capo e alle mani, e tutti gli altri panni fino al cintolo, ai guanti ed alla scarsella. Il cappuccio nel far riverenza non si cava mai, se non al supremo magistrato, a un vescovo o cardinale: e solo a cavalieri o magistrati, o dottori o canonici, chinandosi il capo in segno d’umiltà, s’alza alquanto con due dita dinanzi»[186]. Agli eccessi del lusso continuavano ad opporsi leggi suntuarie (t. VII, p. 125), ma la ripetizione ne rivela l’inutilità: predicatori e moralisti declamavano, e intanto le pompe crescevano di più in più. S’aprivano talvolta corti bandite, ove i signori accorreano come a rare occasioni di riunirsi e sfoggiare; i cavalieri a romper lancie, ed a meritare in premio del valore l’applauso e i sospiri delle belle; i popolani alle mense apprestate a tutti, ai vini che talora perfino zampillavano da artifiziose fontane: abiti si regalavano a profusione, e mille persone furono vestite dalla moglie di Matteo Visconti nelle nozze di Galeazzo suo figlio, con Beatrice d’Este. La quale usanza di regalar cose utili, anzichè un anello o una tabacchiera, a lungo fu conservata. Buonamente Aliprando, il quale stese la cronaca di Mantova nelle più rozze terzine che uom possa leggere, descrive la corte bandita dai Gonzaga menando tre spose in una volta. Assai baronia venne da tutte parti, ognuno portando un dono di vesti di velluto, o di mischio di lana, o di vajo e scarlatto, foderate quale d’agnello, quale di volpe o coniglio, quale di vajo, con bottoni d’argento: ed erano non meno di trecentrentotto, le quali furono compartite a buffoni e a magistrati. D’argenteria chi donava coppe, chi cucchiaj, chi bacini, in tutto pel peso di ducencinquanta marchi. Altri presentò taglieri e ciotole di legno, quante bastassero a tutta la corte; la comunità de’ mercanti regalò mille ducati; chi recò carne e pollame, chi superbi destrieri. Essi Gonzaga poi regalarono ventotto cavalli, del valore di duemila ducento ducati: le altre spese del fieno, dell’avena, del mangiare, sommarono a cinquantaduemila lire. Venticinque cavalieri di nobiltà furono vestiti: ed otto giorni si durò fra tornei, giostre e bagordi, e sonare, ballare, cantare numerandosi fino a quattrocento sonatori, con buffoni che se ne tornarono contenti di robe e di denaro. Fu spettacolo nuovo, alla pace celebrata in Vicenza nel 1379 fra Bernabò Visconti e gli Scaligeri, il vedere fuochi d’artifizio, pei quali tutti stavano cogli occhi verso il cielo[187]. Nel 1397 Biordo de’ Michelotti, signore di Perugia e delle circostanti città, ordinò feste per menar moglie Giovanna Orsini. — E primieramente (leggesi ne’ _Diarj_ del Graziani) fu ordinato che ogni famiglia del contado facesse un presente, e poi che ogni comunità, villa e castello facesse il suo presente, che furono paglia, biada, legne, grano, vino, polli, vitelli, castrati, ova, cacio. Biordo fece bandire per tutte le terre, che ciascuna persona che non fosse ribelle o condannata del Comune di Perugia, potesse venire alle dette feste sicuramente; ed invitò tutti i signori circonvicini, ordinando corte bandita per otto giorni; e inoltre fece venir per guardia della sua vita moltissime genti delle sue terre. Tutte le terre d’intorno gli mandarono ambasciatori con onorevolissimi doni, e anche Venezia e Fiorenza; e quel di Fiorenza menò dodici uomini d’arme per giostrare. Madonna contessa entrò con un vestimento d’oro tirato, con molte gioje in testa; davanti andavano tre paja di cofani, e sei donzelle con loro vestimenti di drappo. Ella portava in capo una ghirlanda di sparagi; venivano con essa lei a cavallo messer Chiavello signor di Fabriano, gl’imbasciatori di Venezia e di Fiorenza. Tutte le gentildonne onorate le si fecero incontro ballando, vestite a porta per porta secondo la sua divisa; e quelle che non erano atte a ballare, andavano lor dietro. «La comunità di Perugia donò ad ogni compagnia dieci fiorini d’oro. Innanti ci era una gran moltitudine di trombe, le quali sonavano di maniera che invitavano ciascuno a festa: fu fatto un bando che, durante detta festa, non si aprisse bottega alcuna; che fu per lo spazio di otto giorni. Fu fatta la mensa nella sala papale, e intorno ci erano collocate assaissime tavole, ed eravi il luogo apposta per le torcie. La tavola di Biordo era in capo, più eminente; alle altre furono per ciascheduna fiata posti trecento taglieri; e fu allora raccontato che in Toscana non si trovò mai la più bella corte. Le donne tutte s’erano radunate in casa di Biordo, ed erano una compagnia reale. «Il giorno seguente tutte le città, terre e luoghi le ferono presenti e doni singolarissimi: e prima l’imbasciator di Venezia l’appresentò un dono che valeva ducento fiorini d’oro; quel di Fiorenza le dette un palio di scarlatto ed un cavallo covertato; quel di Città di Castello un altro palio ed un cavallo; Castel della Pieve un altro cavallo; Orvieto un finimento intero da tavola tutto d’argento; Todi il medesimo, e di più due pezze intere di velluto; gli altri tre imbasciatori fecero il simile. Oltre questo, ci furono moltissime donne che si vestirono alla divisa di Biordo, e tutte quasi fecero tre vesti per ciascuna, e andavano ballando per la piazza. Il mercoledì si giostrò una barbuta con l’armi del Comune dietro; e si continuò fino a notte, onde fu d’uopo adoperarvi le torcie». Nelle feste delle città commercianti la principale toccava alle arti, distribuite in maestranze; e la cronaca del Canale ci divisa quelle del 1268 per l’assunzione del Tiepolo in doge di Venezia. La prima festa (dic’egli molto più prolissamente in francese) fu fatta in mare davanti il palazzo del doge, e Piero Michele capitano fece apparecchiar le galee, e navigare tutto davanti il palazzo anzi ch’egli se ne andasse, e alzare l’applauso al doge in tale maniera: — Cristo vince, Cristo regna, Cristo impera: a nostro signore Lorenzo Tiepolo, la Dio grazia inclito doge di Vinegia, Dalmazia e Croazia, e dominatore della quarta parte e mezzo dell’imperio di Romania, salvamento, onore, vita e vittoria: san Marco, tu lo ajuta». Simil lode levarono e cantarono quei delle altre galee; e poi le fece il capitano navigare per mezzo Venezia; e se ne andarono a vedere la dogaressa, che li ricevette a lieta ciera. Di poi tutti i mestieri un dopo l’altro, riccamente apparecchiati, andarono a vedere il lor signore e la donna di lui. Primieramente quei di Torcello e delle altre contrade armarono il naviglio proprio e vennero al doge e alla dogaressa. Quei di Murano aveano in nave galli vivi[188], perchè si conoscesse donde fossero, e le loro bandiere erano issate per mezzo il naviglio. I maestri fabbri e tutti i loro serventi andarono insieme sotto un gonfalone, ciascuno una ghirlanda in capo, e trombe ed altri strumenti con loro: montarono di sopra il palazzo, e salutarono il doge augurandogli ciascuno vita e vittoria; ed egli rendette loro salute e buone avventure. Discesi come erano andati, se ne vennero fino a Sant’Agostino, ove la dogaressa era, e la salutarono, ed ella rese loro salute siccome donna. I maestri pellicciaj d’opera selvaggia addobbaronsi di ricchi mantelli di ermino e vajo ed altre ricche pelli selvatiche, e i loro garzoni e fattorini guernirono molto riccamente; misersi innanzi una bella bandiera, e dietro quella vennero due a due. I maestri pellicciaj d’opera vecchia misero lor gonfalone avanti, e le trombe, gli stromenti, le coppe d’argento e le fiale piene di vino: e guernirono loro corpi molto riccamente di drappi di sciamito e di zendado, di scarlatto e di molte altre ricche robbe soppannate di vajo e di grigio e d’altre ricche pelli; ed i loro serventi piccoli e grandi guernirono anche molto bellamente. Poi i pellaj di pelli agnelline si misero il lor gonfalone avanti, le trombe e gli stromenti e le coppe d’argento e le fiale caricate di vino, ed i maestri e tutti i loro fattorini. I tesserandoli di nappe e tovaglie misero davanti il gonfalone, e addobbarono i corpi loro e quelli de’ calcolajuoli e serventi molto bellamente, e fecersi precedere da cembali e trombe e coppe d’argento e fiale di vino, e sotto di buoni conducitori se ne andarono cantando canzonette e cobbole pel doge; e venuti che furono al palazzo, montarono i gradini, e lo salutarono cortesemente, ed egli rese loro la salute molto bellamente; poi andarono a far lo stesso colla dogaressa. Allora comincia ad inforzare la gioja e la festa; chè primieramente si vestirono di novello dieci de’ maestri sartori tutto di bianco a stelle vermiglie, cotta e mantello foderati di pelliccerie: i maestri lanajuoli col solito gonfalone e le trombe e le coppe d’argento e le fiale di vino, e ciascuno un ramo d’ulivo nella mano, ed in capo ghirlande pur d’ulivo: i maestri cotonieri che fanno i frustagni di cotone, addobbaronsi tutto di nuovo, di cotte e di mantelli de’ frustagni che fanno, pellicciati riccamente: e così i maestri che fanno le coltri e le giubbe: e fece ciascuno una nuova cappa di color bianco sparsa di fiordalisi, e le cappe aveano ciascuna un capperone, ed essi aveano ghirlande di perle operate ad oro sulle teste. I maestri di drappi a oro se ne posero di ricchi, e i loro fattorini pur di drappo a oro o di porpora e zendado, e in testa i capperoni indorati e ghirlande di perle e di fregetti d’oro: misero il lor gonfalone e bandiere avanti, e trombe e cembali. I calzolaj e loro serventi ebber sulle teste delle ghirlande di perle e di fregetti a oro. I merciaj andarono a vedere il lor signore con ricchi drappi, e le teste e le robbe di fregetti a oro e di sete e di tutte beltà che l’uomo potrebbe divisare. Quei che vendono i camangiari di carni salate e formaggi, fecero lor gonfalone, avendo molto ricchi drappi tinti in scarlatto ad oricello o in risanguine od altri colori, pellicciati di vajo e di grigio, e sulla testa ricche ghirlande di perle e di fregetti a oro. Succedono quelli che vendono uccelli di riviera e pesci del mare e dei fiumi. Poi i maestri barbieri ebbero con loro due uomini a cavallo, armati di tutto punto, come i cavalieri erranti, e seco traevano quattro damigelle, addobbate molto stranamente. Venuti al palazzo, ascesero, salutarono il doge, ed egli rendette loro la salute; e immantinente discese uno di quelli che a cavallo erano armati di tutte armi, e disse al doge: — Messere, noi siamo due cavalieri erranti, che abbiam cavalcato per trovare avventure; e tanto ci siamo penati e travagliati, che abbiamo conquiso queste quattro damigelle: or siamo a vostra corte venuti, e se ci ha nessun cavaliere che di quinc’entro venisse avanti per provare suo corpo e per conquistare le strane damigelle da noi, noi siamo apparecchiati per difenderle». Immantinente rispose il doge, fossero i ben venuti, e che Domeneddio li lasci gioire di loro conquiste; e — Ben voglio che voi siate onorati a mia corte, ma punto non voglio che nullo di qui entro vi contraddica, e sì ve ne quieto del tutto». Montò allora il cavaliere errante, e gridaron tutti: — Viva nostro signore Lorenzo Tiepolo, nobile doge di Venezia»; poi se ne ritornarono a dietro, grande gioja dimostrando, e se ne andaron tutti in tale maniera a vedere la dogaressa, che molto bene li ricevè. I maestri vetraj ornaronsi di ricchi scarlatti, foderati di vajo e d’altri ricchi drappi, gli uomini carichi di loro lavorii, cioè guastade ed oricanni ed altrettali vetrami gentili, e le coppe d’argento e le fiale piene di vino. Si misero alla via cantando novelle canzoni, nelle quali si diceva di Lorenzo Tiepolo e di suo padre, di cui abbia l’anima Dio, che doge era stato. A tale gioja ed a tale festa se ne andarono due a due molto bene arringati sotto il lor gonfalone cantando e diportando sino al palagio. I maestri orafi addobbaronsi di perle e d’oro e d’argento e di ricche e preziose pietre, cioè di zaffiri, smeraldi, diamanti, topazj, giacinti, ametiste, rubini, diaspri, carbonchj e d’altre pietre di gran valuta; e loro sergenti anch’essi molto riccamente, e di cosa in cosa fecero come gli altri. I maestri pettinajuoli v’andarono pure, menando gran gioja: quando furono al doge, Ughetto, savio maestro, si mise avanti e disse: — Sire, io prego Gesù Cristo e sua dolce madre e san Marco vi donino la sanità, vita e vittoria, ed a governare lo onorato popolo veneziano in vittoria e ad onore per tutta la vostra età». E il doge risposegli molto saviamente, e quelli gridarono tutti insieme: — Viva nostro signore, il valente messere Lorenzo Tiepolo, il nobile doge di Venezia». Que’ maestri pettinajuoli aveano con loro una lanterna piena d’uccelli di diverse maniere; e per allietare il doge, ne aprirono la portina per dove gli uccelli uscirono fuora tutti, volando qua e là a loro talento[189]. Mi apporrete che questi particolari nulla ingeriscono alla storia d’Italia? Ma scopo nostro è conoscere gl’Italiani, nè credo che una persona si mostri qual è ove s’ignorino i suoi abiti e i costumi suoi: altri poi ha detto non conoscere un popolo chi non lo osservò nelle sue feste. In quella che or descrivemmo, dovette parere vi passasse davanti il medioevo, con quella libertà non individuale ma collettiva, dove, piuttosto che uno Stato, erano a vedersi molti gruppi di famiglie, di corporazioni, di Comuni, di chiesa, di nobiltà, ciascuno con leggi e norme e divise sue proprie. E delle feste di Venezia potrebbe farsi un libro, anzi fu fatto, ogni avvenimento pubblico essendovi commemorato con solennità di devozione e di patriotismo (Cap. XCVIII). Poichè il santo patrono usavasi sovente pel nome del Comune stesso, dicendo San Marco, Sant’Ambrogio, San Pietro, per Venezia, Milano, Roma, la festa di quello era altrettanto civile quanto religiosa. Lo Statuto di Modena prescriveva che il giorno di san Geminiano d’ogni famiglia dello Stato venisse uno alla città con un cero in mano, e vi restasse fino a terza del domani; e così da ogni Comune forense vi si portasse il vessillo, seguìto dagli uomini della villa o del castello. A Ferrara, chiunque possedesse da cento lire in su doveva, la vigilia di san Giorgio, portare un cero a mattutino. A Milano per la natività di Maria doveano convenire tutti i Comuni dipendenti, col proprio gonfalone: alla festa poi di sant’Ambrogio, secondo il Decembrio, presentavasi all’altare di lui una gran mole di fiori ed erbe, di uva matura con pampani verdi, tutto fatto di cera. Di tali convegni non manca nessuna città dominatrice, e principalmente solenne era il san Giovanni a Firenze. A Montecatino, quando per le litanie di san Marco il clero scende alla pieve di Niévole, le donne continuano il giorno intero, come in recuperata libertà, a sonar quelle campane, sensibili per tutta la valle: la mattina di Risurrezione il celebrante benedice molti corbelli di pane e di carne d’agnello, che poi sono generosamente distribuiti a ciascheduno quasi in ristoro del digiuno quaresimale[190]. Le feste religiose spesso avevano del beffardo, come le sculture delle chiese. Tal era la cornomania che si celebrò a Roma fin verso il Mille, avanzo di qualche solennità pagana. Il sabato dopo pasqua, quando si aveano a cantare le litanie al papa, gli arcipreti delle diciotto chiese diaconali colle campane convocavano il popolo; il sacristano metteasi la cotta e una ghirlanda di fiori con corna, e in mano un finobolo, canna di bronzo grossa quanto un braccio, e per metà ornata di campanelli. Così andavasi processionalmente a San Giovanni Laterano, e ciascun arciprete formando circolo colla sua plebe, si cantava al pontefice: — Su, preghiere; Iddio per la tua prosperità; Maria madre di Dio; su, preghiere. Buon giorno, o padrone; apriteci le porte; noi veniamo a vedere il papa, vogliam salutarlo e fargli onore, e cantargli le litanie, come si usava ai Cesari. Bravo, uom benigno, papa che governi tutte cose al posto di Pietro; il cielo risplendette, le nubi si dissiparono». Frattanto il sacristano pirovettava in mezzo a ciascun circolo, scotendo le corna e il finobolo. Finite le litanie, un arciprete s’avanzava traendosi dietro un asino, allestito dai famigli della corte; un cameriere reggeva sopra la testa della bestia un bacino con venti denari d’argento; e quell’arciprete, rovesciandosi tre volte indietro, colla mano abbrancava più soldi che potesse da quel piatto, e quanti ne pigliava erano suoi. Gli altri arcipreti seguivano col clero deponendo ghirlande a’ piedi del papa; quello di Via Lata deponeva insieme una volpe, che non essendo legata fuggiva; e il papa davagli un bisante e mezzo: quel di Santa Maria in Aquiro, un gallo colla corona, e riceveva un bisante e un quarto: l’arciprete di Sant’Eustachio un cerbiatto, e toccava egual compenso: un solo bisante gli altri, e la benedizione del pontefice. Reduci alla propria chiesa, il sacristano nell’arnese stesso, con un prete e due compagni, portando l’acquasantino e rami d’alloro e chicche, iva di porta in porta col finobolo, benedicendo le case, mettendo foglie d’alloro sul fuoco, e distribuendo le chicche ai fanciulli, cantando una cantilena in lingua barbara, che cominciava: _Jaritan, jaritan, jajariasti. Raphayn, jercoyn, jajariasti_; e il padrone della casa dava qualche mancia[191]. I banchetti erano solennità popolari e aristocratiche. Uno magnifico fu imbandito, quando Gian Galeazzo Visconti fu investito duca di Milano, nel cortile dell’Arengo, dove ora sta il palazzo reale; e, secondo il Corio, da prima si presentò a ciascuno de’ convitati acqua alle mani, stillata con preziosi odori; poi seguitarono le imbandigioni, tutte accompagnate con trombe ed altri diversi suoni. La prima delle quali fu marzapani e pignocate dorate con l’arme del serenissimo imperatore e del nuovo duca, in tazze d’oro con vino bianco; indi pollastrelli con sapore pavonazzo, uno per scodella e pane dorato; poi porci due grandi dorati, e due vitelli parimenti dorati. Indi vi furono portati grandissimi piattelli d’argento; e per cadauno pezzi due di vitelli, pezzi quattro di castrato, pezzi due di cignali, capretti due interi, pollastri quattro, capponi quattro, prosciutto uno, somata uno, salsiccie due, e savore bianco per minestra, e vino greco. Dopo furono portati altri piattelli di simile grandezza con pezzi quattro di vitello arrosto, capretti due interi, lepri due intere, piccioni grossi sei, uccelli quattro; poi pavoni quattro, cotti e vestiti; orsi due dorati, con sapore citrino e vino leggiero. Vennero quindi altri grandissimi piattelli d’argento con quattro fagiani per cadauno, vestiti; a quelli seguitavano conche grandi d’argento, con un cervo indorato, un daino similmente indorato, e capriuoli due con gelatine. Poi piattelli come di sopra, con non poco numero di quaglie e pernici con sapore verde; poi torte di carne indorate con pere cotte. Data alle mani acqua, fatta con delicati odori, seguitavano pignocate in forma di pesci inargentate; poi pane inargentato e malvasia, limoni siroppati inargentati in tazze, pesce vestito con sapore rosso in scodelle d’argento, pastelli d’anguille inargentati; poi piattelli grandi di argento con lamprede e gelatina inargentata, trote grandi con savore nero, e storioni due inargentati; indi torte grandi, verdi, inargentate, mandorle fresche, persiche, e diversi confetti a varie foggie. Compiuto il desinare, furono portati in su la mensa vasi d’oro e d’argento, con fermagli, collane, anelli, e molte pezze di panno d’oro, di seta, di porpora; il che tutto, secondo il grado, fu presentato ai signori. Dal Corio stesso ci sono divisati i regali che, vent’anni di poi, corsero a quella Corte per le nozze della figliuola di Galeazzo Visconti in Lionello d’Inghilterra. Cento taglieri furono disposti nella sala maggiore pei primati, nelle altre i restanti; e tanto era il sonare, che altro non s’udiva. Le imbandigioni venivano recate a cavallo; e la prima messa furono porcellini dorati, con due leopardi riccamente forniti e dodici coppie di segugi. Alla seconda lepri e lucci dorati, cui seguivano sei coppie di levrieri, ornati di argento, e sei astori. Alla terza vitello e trote, col presente di sei stivieri con collari di velluto e fibbie dorate e cordoni di seta nera. Alla quarta venivano pernici, quaglie, temoli dorati e dodici sparvieri con sonagli d’argento, e dodici paja di bracchi. Per quinta diedero anitre, cisoni e carpani, e dodici falchi, col cappelletto messo a perle. Venne alla sesta carne di bove e capponi, con savore d’agliata e storioni. Era la settima di vitelli e capponi con limonea e tinche, e dodici arnesi da giostra, dodici lancie, altrettante selle dorate. All’ottava portarono carne di bue, pesta e impastata con formaggio e zucchero, ed anguille; poi dodici ricchi fornimenti da guerra, compiti in tutto punto. Comparvero poscia carni e polli, e pesci in gelatina; e dodici pezze di tôcca d’oro, altrettante di seta colorata. Indi corni di gelatina saporita e grosse lamprede, col dono di due doglie di vino, sei bacili ed altrettanti mortaj d’argento dorato. Consistette l’undecima portata in capretti e paperi e agoni, col donativo di sei corsieri bardati, ed altrettante lancie, targhe, cappelline d’acciajo, una delle quali guarnita di bellissime perle. La duodecima fu lepri e capriuoli in savore, con pesce zuccherato, accompagnati da sei destrieri, altrettante lancie, e cappelli. Seguitarono carni di bue e cervo con savore di zucchero e limone, tinche ed altri pesci, e sei palafreni riccamente bardati: poi tinche, polli e sei destrieri da giostra: indi piccioni, cavoli, fagiuoli, lingue salate, carpione, ed un cappuccio e giubbone lavorati a compasso e soppannati d’ermellino. La sedicesima fu di conigli, pavoni, cisoni, anguille con savor di cedro, e un vasto bacile d’argento, un chiavacuore di rubino e diamante, con una perla d’ingente prezzo, e quattro cinti d’argento dorati. La decimasettima furono giuncate e formaggi, e il dono di dodici bovi. La frutta venne allo sparecchio coi vini, e poi cencinquanta cavalli per donare a baroni e signori, ed altre varie robe e gioje. Ai buffoni toccarono cencinquanta vesti; e dopo molto torneare e bagordare, lieto ognuno si partì. Lungo sarebbe dire le stravaganze, di cui volevasi far pompa in tali pasti. Qualche volta, al primo pungere del coltello dello scalco, il tacchino creduto arrostito saltava bell’e vivo, scompigliando i trionfi: qualch’altra di sotto un pasticcio sbucava un nano, facendo le meraviglie della bella adunata. Questi tripudj rinnovavansi non infrequenti; ed i cronisti si compiaciono talmente a descriverli, che a noi non sarebbe parso di bene interpretarli se non gli avessimo in ciò secondati; e tu rimani stupito quando nella pagina medesima essi ti fanno il racconto d’un incendio, d’una sconfitta, d’una morìa, e insieme di una solennità sfarzosa, alla quale mezzo mondo prese parte. Dante si lagnava che il tempo e la dote fossero all’età sua usciti di misura[192]; al qual passo Benvenuto da Imola spiega come per lo innanzi un ricchissimo padre dava in dote alla figlia due o trecento fiorini, mentre allora duemila o millecinquecento; le pulzelle maritavansi ai venti o venticinque, ora a dodici o quindici. A Milano, dove Landolfo il vecchio asseriva che sull’entrare del secolo X non si contraevano matrimonj prima dei trent’anni, le Consuetudini più tardi abolivano quelli conchiusi prima dei sette[193]. Pel 1348 abbiamo «le spese di Bartolomeo di Caroccio degli Alberti: per lo costo delle nozze e un desinare che si fece innanzi alle nozze a’ servitori, e denari che ebbero i trombadori e altri buffoni, e denari dati a’ portatori, e confetti, e tramutare masserizie, e per altre spese che a nozze si richiede, lire cennovantasei; per la lettiera, cassa, cassone e tettuccio, lire diciotto; per due para pianelle e due para scarpette, lire una e soldi sedici». Ma le doti e i corredi delle signore e principesse sorpassavano ogni credenza, e ne toccammo poco sopra. Si hanno in sei volumi i _Monumenti della casa Del Verme_, ove, tra molte altre curiosità, trovansi due corredi di spose, che vogliamo qui riprodurre per esempio: — Nel 1474 Francesco degli Stampa di porta Ticinese, della parrocchia di Santa Maria Valle a Milano, come corredo della Bartolomea de’ Guaschi, riceve ducento sessantaquattro perle, stimate ottanta ducati d’oro in oro; quattr’oncie di perle formate a rete, per ventiquattro ducati; otto pezze di tela di lino fino per far camicie, una di tela di stoppa (_revi_) per far tovagliuoli pel capo; quattro pezze di fazzoletti (_panetorum_) che sono cinquantotto; diciotto camicie da donna; trenta monete de tenere in testa; libbre nove e mezzo di refe di lino bianco; uno specchio grande e uno più piccolo; tre pettini d’avorio; un uffizietto della beata Vergine co’ suoi guarnimenti; un cofanetto, dorato di sopra; un _corriginus_ di broccato d’oro cremisino co’ suoi fornimenti, e uno di broccato d’oro cilestro col suo fornimento e con perle; un chiavacuore d’argento dorato col suo agorajo d’argento dorato; due fodere lavorate in oro; sei cuscini verdi di tappezzeria; dodici fodere di tela di lino fina co’ suoi lavori intorno; una veste di damasco bianco coi fornimenti dorati e col collare a perle; un’altra di drappo morello di grana colle maniche strette, e con fornimenti dorati e con perle; un’altra di drappo scarlatto di Londra colle sue balzane di velluto nero al collare, alle maniche e ai piedi; una gamurra o socca di velluto cilestro, e un’altra di drappo di lana rosso; un par di maniche di broccato d’argento cilestro; un vestito di zetonino cilestro colle maniche strette, e ricamato al bavaro e alle maniche; un vestito di scarlatto colle maniche strette e ricamate, e col bavaro fatto di punticelli; un vestito turchino colle maniche strette, ricamato alle maniche e al bavaro; un vestito di velluto morello con maniche serrate e guarnizioni fatte a telajo alle maniche; un vestito rosa secca con maniche al modo stesso; uno di drappo verde scuro; una giubba di velluto cremisino; una socca scarlatta, e una di drappo turchino; un par di maniche di drappo d’oro riccio, un cremisino, e uno d’argento cremisino, e uno di cilestro; un par di maniche di zetonino cremisino, e uno di morello; uno di velluto cremisino, e uno di verde; un corrigino d’argento dorato fatto a raggi (_a raziis_); un chiavacuore d’argento dorato coi coltellini; una coreggia con tessuto d’oro e guarnizioni d’argento dorato, ecc. Di tali doni rogò Francesco di Besozzo, notajo di porta Comasina. Molto più ricco è il corredo di Chiara Sforza, rimaritatasi il 1488 a un Campofregoso. Nel solo ricamo sopra una manica vi sono da trentasei in quarant’oncie di perle, stimate ducati quattrocento; sessantasette perle da un ducato l’una; diciannove da tre carati il pezzo, a ducati otto l’una; quattro da carati dodici in quattordici, a ducati cento il pezzo; una di carati venticinque a ducati trecento; due rosette di rubino, da sessanta ducati il pezzo; un rubino da tavola con quattro perle, ducati settanta; quattro smeraldi in tavola, a ducati quindici il pezzo; uno smeraldo quadro a faccette, ducati venti; oltre un filo di trecento diciassette perle, da un ducato al pezzo. C’è una perla a pero, di carati ventuno, stimata mille ducati; un mazzo di cinquantaquattro giri di catena d’oro, pesante quarant’oncie; un pendente con un balascio in tavola in mezzo, una punta di diamante e una perla a pera, valutati ducati duemila; un altro fermaglio con un balascio in tavola, ducati mille e seicento[194].[195] Anche a Genova, per testimonio di Franco Sacchetti, «le nozze durano quattro dì, e sempre si balla e canta, e mai non vi si proffera nè vino, nè confetti, perocchè dicono che profferendo il vino e’ confetti è uno accomiatare altrui; e l’ultimo dì la sposa giace col marito e non prima». E poichè dalle donne ben s’argomenta ai costumi d’un tempo, già ricordammo (t. VII, p. 563) la Cia degli Ubaldini, che lasciata dal marito Francesco Ordelaffi a difendere Cesena, perseverò governatrice e capitana, finchè, ormai tutta ruine, la rese a patti onorevoli pe’ suoi soldati; per sè le bastò la protezione che la generosità ritrova anche presso i nemici. È pure nota per le tradizioni Bianca de Rossi moglie di Giovan della Porta governatore di Bassano, la quale, morto il consorte, difese la città contro Ezelino tiranno: presa colle armi in pugno, Ezelino cercò farle onta, ed essa precipitatasi da una finestra si ruppe una spalla: guaritane e per forza vituperata, appena libera di sè corse all’avello del marito, e messo il capo sotto il coperchio, se lo schiacciò. Margherita da Ravenna, divenuta cieca a tre anni, acquistò tanto estese cognizioni, che era consultata su punti di teologia e di morale, e morì il 1505. Morata, figlia di Danese Orsini e di una Beccaria, a Stradella levata al battesimo da Filippo Visconti, sposata in Jacopo de’ Saracini di Siena, invece di danzare, la festa divertivasi a leggere, e venne un portento di sapere come di virtù. A Siena, nel pomposo incontro fatto a Federico III e sua moglie, ella parve vestita troppo modestamente; ma a chi glie ne faceva appunto rispose: — Le matrone senesi non devono far pompa che di modestia». E interrogata quale fra tanti cavalieri che faceano corteo agli sposi, le paresse il più leggiadro, — Io non guardo che mio marito». I Senesi l’ebbero in concetto di santità, e quando il conte Jacopo Piccinino li minacciava di sterminio, essa li rassicurò del pronto soccorso di Maria Vergine, e che il conte non tarderebbe a scontar la pena, come avvenne. Di virtuose potremmo gran numero schierare ricorrendo al leggendario. Voltiamo il quadro. La padovana Speronella, figliuola di Delesmanno, a quattordici anni era già maritata in Jacopino da Carrara, quando il conte Pagano, lasciato dal Barbarossa a governare Padova, se ne invaghì, e presto l’ebbe rapita e sposata. I suoi, irritati, levarono popolo contro lo straniero, che dovette cedere le fortezze e la libertà. Allora la Speronella fu maritata ad uno de’ Traversari, col quale rimasta alquanto, passò a Pietro Zausanno: e dopo tre anni ne fuggì per isposare Ezelino da Romano. Questi, accolto a Monselice con ogni guisa di miglior cortesia da Olderico di Fontana, come tornò a casa, non sapeva finire di lodare alla moglie le gentilezze dell’ospite e le maschie bellezze di esso: di che tanto desiderio si accese nella malonesta donna, che per messaggi fu presto d’accordo col Fontana, e da Ezelino se ne fuggì ad esso. Così passava di marito in marito, mentre il precedente vivea ancora; poi lasciò un lungo testamento, il quale non è che un catalogo di chiese e spedali, fra cui distribuiva ogni aver suo; venti soldi a questa, quaranta a quella, stramazzi, coltri, lenzuoli, coperte di pelle; a un ospizio i piumacci su cui ella dormiva, e tovaglie e salviette ai pellegrini d’oltremare; campi e denari a vescovi per riparare se mai avesse ad alcuno recato nocumento[196]. Donnina amica di Bernabò, e Nisotta di Gian Galeazzo Visconti, aveano al loro servizio cortigiani, musici, minestrelli; ai principi vicini e nominatamente ai duchi di Savoja mandavano a regalare cani, cavalli, cappelline, e ne riceveano il ricambio[197]. Agnese, figlia di Bernabò e maritata in Francesco Gonzaga signore di Mantova, al marito non voleva bene, e vie meno dacchè il vedeva amico ed alleato di Gian Galeazzo uccisore del padre di lei. Presto s’intese con Antonio di Scandiano, cameriere fidatissimo del Gonzaga; ma questo, saputa la tresca, dissimulò lungamente il torto, poi ne volle un regolare processo, da cui essendo apparsa la costoro reità, lui fe impiccare; lei decapitare il 1391, benchè moglie d’un principe, cognata di due re. Per delitto d’infedeltà poteano il duca Filippo Visconti e il Gonzaga di Mantova mandare al patibolo la moglie, Nicola marchese di Ferrara la sua Parisina Malatesti col figlio Ugo, Ercole Bentivoglio processare Barbara Torelli: forse tutte innocenti, ma è un gran caso il vedere i mariti dimostrarle ree pubblicamente, essi, cui non erano vergogna le concubine e gli sterponi. Galeotto Manfredi principe di Faenza sposò Francesca di Giovanni Bentivoglio, la quale ben presto sospettò il marito d’altri amori, e per accertarsene origliò quand’esso conferiva secretamente con un astrologo. Intese invece come si macchinasse contro di suo padre; e non sapendo frenarsi, entrò nel gabinetto inveendo. Galeotto rispose, e la battè; ed essa ne informò il padre, che nottetempo avvicinatosi in armi a Faenza, la tolse seco: preparavasi anche a far guerra al genero, quando Lorenzo de’ Medici, mediatore di tutte le paci, li riconciliò, e ricondusse la donna al marito. Essa però, stimolata a vendetta da nuove gelosie, ordì d’ammazzarlo: si finse malata, e com’egli entrò a visitarla, il fece scannare da sicarj appostati. Un atto singolare ci resta, dove Galeazzo Maria Sforza, attesi «gl’ingenui costumi, la vita pudica, la somma bellezza» di Lucia de Mariano, e l’immenso ardore con che esso duca la ama, in parte fa, in parte conferma amplissime donazioni a lei ad a’ figliuoli che essa gli generò o genererà; e saldato il dono coi più sacri giuramenti, le pone patto che «viva in divozione nostra, e non abbia mai da che fare, non che con altro uomo, neppure col marito se non abbia da noi speciale licenza in iscritto»[198]; gravi minaccie aggiunge a sua moglie Bona, se mai rechi a costei il minimo disturbo. E quest’atto è rogato da notari, sottoscritto dal consorte e da una schiera di gran nobili e cavalieri milanesi. Siffatta puzza non viene dalle case plebee, ma dai palazzi principeschi. E ben diverso dal borghese era il vivere de’ signori, molti de’ quali tenevansi ancora ne’ castelletti, rubando e scialando come nel cuore della feudalità. Sino dal 1272 i Bolognesi aveano battuto i conti di Mangona che svaligiavano i viandanti nelle foreste di Ripaverde: ma ancora al 1391, nelle vicinanze della loro città, molti castellani viveano del rubare ai contadini e ai buoni campagnuoli. Il conte Garreto da Panìco con altri suoi compagni faceva tal vita, or a spalle dell’uno, or dell’altro gavazzando: côlto poi un Mengoccio del Borgo, ricco agricoltore, costoro lo trassero in prigione per tormentarlo finchè ne smungessero un grosso riscatto: fortunatamente una vecchia se n’accorse e ne avvertì i parenti, che, prese l’armi, corsero a liberarlo. Il senato bolognese ordinò che tutti i conti, capitani e altri nobili abitanti in villa, e che non attendevano di propria mano alle faccende agresti, dovessero fra quindici giorni venir abitare in città con tutti i parenti, pena la confisca dei beni: ordine esagerato che attesta la gravezza del male, e che fu poi ristretto alle famiglie pericolose. Altro famoso malfattore, Alberto Gallucci, tutto il Bolognese empiva di scelleraggini, nè per pubblici bandi o per ammonizioni del padre, di amici, di religiosi volle mettersi al dovere. Si promisero dunque mille fiorini d’oro a chi lo facesse prigioniero; chi l’uccidesse, se era bandito avesse remissione; se alcuna comunità il pigliava, restasse immune da collette per venti anni: si destinarono quattro persone apposta con ducento cavalli per catturarlo, e ordine ai Comuni che, qualora egli apparisse, toccassero a stormo. Alberto si pose a cavalcione dei confini, donde ogni giorno peggio faceva ai Bolognesi. Azzo, padre di lui, fu obbligato dar duemila lire per sicurtà che il figlio non farebbe alcun danno; poi assoltone per la sua gran bontà, egli medesimo risolse liberarne il paese, e coltolo il diede al magistrato perchè eseguisse la legge. Il consiglio, mosso dall’insolito caso, prendea pietà della canizie del padre e della sventataggine del giovane, e volea commutar la pena in carcere perpetuo; ma Azzo insistette caldamente perchè la giustizia avesse corso, e lui presente fu decapitato[199]. Nicolò III d’Este signor di Ferrara nel 1414 volendo passare in Francia, fu arrestato dal marchese Del Carretto, finchè pagasse grosso riscatto. Galeazzo Maria Sforza, ch’era in Francia quando morì suo padre, seppe che il duca di Savoja l’appostava per prenderlo ed obbligarlo a cedergli qualche pezzo di Lombardia; e parte travestito, parte difendendosi in una chiesa, parte ajutato da qualche fedele, a grave rischio riuscì a traforarsi nel suo dominio. Gli Ubaldini contano tra i loro fasti molti spogliamenti fatti tra val di Sieve e val del Santerno. Uberto di Campagnatico assaliva tutti gli amici della repubblica di Siena, finchè alcuni Senesi in veste di frate s’introdussero nel cassero di lui e l’uccisero. Ghino di Tacco da Torrita dal castello di Radicofani molestava i passeggeri, celebre per la novella del Boccaccio. Il Piccinino porta rancore ad Eusebio Caimo milanese, ch’era stato mezzano del matrimonio di Bianca con Francesco Sforza, e lo fa pugnalare nel duomo di Milano. L’ingordigia de’ principi apriva poi modo ai signori di scontare i delitti a denaro; e Lazzarone della Rovere, signore di Vinovo, nel 1377 avendo ucciso Florio suo cugino, ne pagò al conte di Savoja tremila fiorini, oltre perdonargliene mille che gli doveva. Milano nel 1288 contava quarantamila nobili, cioè uno ogni venticinque abitanti; Firenze, nel 1336, settemila cinquecento, cioè uno ogni venti; Venezia, dopo il 1500, seimila cencinquantadue, cioè uno ogni ventidue: ma il nome di nobile significava cosa ben diversa in ciascuno di questi paesi. Generalmente la democrazia aveva abraso le distinzioni originarie e i privilegi legali: in tanto rimescolamento di fazioni, di conquiste, d’esigli, di tirannidi, molte famiglie antiche o perirono o si confusero colle borghesi, dalle quali poi sorsero alcune più ricche, e costituirono una nobiltà nuova. Ogni famiglia era ormai contraddistinta da un cognome; ma se non fosse divenuto celebre per qualche titolo o per credito commerciale, facilmente lo cambiava per capriccio, per un’eredità, per far grado a un protettore, a un padrino. La nobiltà nuova non poteva opporre alla tirannia quegli argini, che solo dal tempo acquistano solidità: quella poi creata dai tiranni non valea nulla più che i diplomi, eccitava gelosia, mancava di efficacia. I signori di Romagna, maggiormente dediti alle armi, e scarsi di possessi, esercitavano i loro vassalli sia per sostenersi, sia per farne mercato a servigio altrui. A Napoli re Luigi di Taranto istituì la compagnia del Nodo, altri cavalieri, per desiderio di gloria, ne formarono altre, e con insegne diverse andavano come cavalieri erranti mostrando il lor valore dove guerra fosse, legati tra sè di fratellanza; e dal segno che portavano, diceansi della Stella, della Argata (per la nave d’Argo), della Leonza[200]. Però fra noi predominarono sempre le città, e in conseguenza non troviamo quegli alti fatti cavallereschi, di cui si tesse la storia delle famiglie insigni forestiere; que’ nostri signorotti tengono del plebeo, o almeno del soldatesco, nè si gloriano di finezze cavalleresche, nè si peritano a mancar di fede. Sulla politica delle Corti non fa mestieri ripeterci; ma quelle frequenti taccie d’avvelenamenti, veri sieno o supposti, ci rammentano gl’imperatori di Roma, e palesano un ritorno verso la corruzione gentilesca. Le continue rivoluzioni, per cui mezzo gli ambiziosi volevano surrogare il privato dominio alla comune libertà, lasciavano interessi lesi; calde memorie d’un franco stato, del quale non si ricordavano più i guaj; molti i pretendenti, ove unica sanzione era la riuscita; molti gl’intolleranti e dell’ingiustizia e della giustizia, e pochi gl’interessati a difendere l’ordine pubblico. Il grosso del popolo non penò a chetarsi a dominj che gli lasciavano quiete onde applicarsi alle sue arti e gli crescevano sicurezza; ma le famiglie aristocratiche ribramavano la fraudata autorità, e mal soffrivano un altro esercitasse la tirannia ch’essi avrebbero per sè voluta. Le armi portate a servizio di qualche signore, davano la soldatesca fiducia nella spada: del sangue come aver ribrezzo quando la legge e i tiranni stessi ne versavano tanto? Quindi gli attentati, frequenti quanto mal secondati, e usciti con danno e con vergogna. La sollevazione di Cola Rienzi fra breve fu imitata dal Porcari in Roma. Due congiure a Milano uccisero i principi, senza produrre effetto durevole; altrettanto quella de’ Pazzi; peggio quella de’ baroni nel Reame. In Bologna i Caledoli, beneficati ed emuli di Annibale Bentivoglio, non meno poderoso in Romagna che Lorenzo Medici in Toscana, tramano, e scoperti sono appiccati o banditi. Bernardo Nardi fiorentino occupa Prato per farne piazza de’ repubblicani; ma non sostenuto, è preso e giustiziato con molti. Nicolò d’Este invade Ferrara per ricuperare il dominio paterno; ma il popolo nol favorisce, ed Ercole d’Este lo appicca con venticinque complici. Girolamo Gentile vuol ribellare Genova e Milano, e ne perde la testa. Girolamo Riario, signore di Forlì ed Imola, è pugnalato nel proprio palazzo. Biordo de’ Michelotti è ucciso a Perugia, e i Perugini assalgono gli uccisori e bruciano la badia di San Pietro ove erasi fatto il tradimento, e i traditori fanno dipingere alle porte e al postribolo. Questi frequenti attentati tenevano in sospetto i tiranni, e rendeanli peggiori; e i feroci supplizj che infliggevano a personali nemici, sembravano giustificati dalla necessità dell’assicurarsi. La costoro vita è un tessuto di fatti ancor più vergognosi che orribili, sfacciata la mancanza di fede, applaudito il tradimento se riusciva. Vedemmo quello a cui restò preso Bernabò Visconti. Paolo Fregoso, cardinale arcivescovo di Genova, invita il doge suo nipote colla moglie e i figliuoli a pranzo, e quivi li fa cogliere, mettere ai tormenti, sinchè il doge non ordina che le fortezze si rendano all’ambizioso zio. L’Oldrado, amicissimo di Gabrino Fondulo, passando fuor di Castiglione, finge si sieno sferrati i cavalli, e manda per un maniscalco. Gabrino, informatone, spedisce a invitarlo che entri e si riposi; ed egli no, aver troppa fretta, rincrescergli di non poter dare un bacio al suo Gabrino. Questo non vuol lasciarsi vincere in cortesia; esce a salutarlo, ed è subitamente circondato dagli uomini dell’Oldrado, il quale entra nel castello, prende la famiglia di Gabrino e i molti tesori, e lui consegna a Filippo Visconti che lo manda al supplizio. Nelle ore estreme confessò, l’unica cosa di cui si pentisse era che, quando l’imperatore Sigismondo e il papa salirono seco sul torrazzo di Cremona, non gli avesse trabalzati entrambi da quell’altezza[201]. Il marchese Alberto d’Este, morendo nel 1393, avea dichiarato successore Nicolò suo figlio naturale; ma Azzo pretendea avervi migliori diritti, e li sostenne collo stipendiare Giovanni da Barbiano. I tutori del fanciullo Nicolò tentarono costui perchè assassinasse Azzo, ed egli il promise, purchè gli si dessero due castelli vicini a Barbiano. Vennero i messi, davanti ai quali fu trucidato Azzo, ed in conseguenza resi i castelli. Ma l’ucciso non era che un servo, e Azzo piombò addosso alle squadre ferraresi e ne fe macello. Poco poi Giovanni macchina d’impadronirsi di Bologna, e scoperto è mandato al supplizio. Mille altri casi simili ci offrirebbe la storia de’ capitani di ventura. I popoli ne soffrono, e conoscono i vantaggi della libertà, tanto da creder lieve ogni sacrifizio per ottenere che alfine alla egualità innanzi ad un padrone si sostituisse l’egualità innanzi alla legge. Vero è che le sventure d’allora sembrano maggiori perchè tutte si registrano, nè erasi per anco ingenerata quella cascaggine che fa credere ineluttabile necessità il patimento, e virtù il non lamentarsene, e pace una tirannia che degrada senza tormentare. Massime nelle repubbliche riscontriamo elevatezza di caratteri, potenza di sacrifizj fatti al bene generale, maggior fedeltà alla parola: benchè le passioni vi apparissero maggiormente, perchè in numerose masse e meno frenate. E la stessa corruzione e la ribalda politica dei principi non avviliva ancora i popoli, se anche li straziava. Fra quel movimento frequentavano occasioni di esercitare le forze della volontà e dell’intelletto, il che è sì gran parte della felicità; riceveasi l’educazione dagli avvenimenti, e maestro era il subuglio della città; anche nelle baruffe civili logoravansi alcune vite, ma conosciamo tempi più puliti ove si uccide colla parola, s’induce negli animi il dispetto, vi si formano quelle ulceri, la cui tabe e il puzzo appestano la società. Furono i nostri che crearono la scienza delle ricchezze e della loro distribuzione, misurarono la potenza del proprio paese e i mezzi con cui farlo agli emuli prevalere, e tolsero a considerare tutt’Europa come un sistema unico, ponderando perciò le forze delle singole parti; e alcuni conti dei loro dogi o podestà potrebbero andar di paro coi messaggi meglio compiuti dei presidenti americani[202]. I Fiorentini volevano dai loro commessi un ragguaglio de’ paesi ove andavano; i Veneziani ricevevano dai loro diplomatici informazioni continue, e da queste possiamo ancora librare la civiltà e la potenza de’ varj Stati. Quanta ricchezza non indicano nel paese le medesime guerre! Taciamo Venezia, taciamo Genova, di cui non di rado qualche privato diveniva principe, e i Lercari o i Giustiniani tenevano testa alla potenza ottomana; ma Federico I di Sicilia ebbe cinquantotto galee in punto d’arme, con centotredici l’affrontò Roberto di Napoli, e distrutte si rinnovarono quasi per incanto. I nobili milanesi proposero a Filippo Maria di mantenergli diecimila cavalli e altrettanti pedoni, purchè lasciasse loro amministrare le pubbliche entrate, escludendone cortigiani e favoriti. Dal 1377 al 1406 Firenze spese in sole guerre undici milioni e mezzo di fiorini d’oro, da cento ogni libbra[203], tributo di cittadini privati: settantasette case, dal 1430 al 53, pagarono di straordinarj quattro milioni ottocentosettantacinquemila fiorini; e lo stato popolare, dal 1527 al 30, cavò di straordinarj un milione quattrocentodiciannovemila cinquecento fiorini. I tiranni pure e gli oligarchi facevano gara di prosperare il proprio paese, sì pel vantaggio che a loro medesimi ne ridondava, sì per emulare i vicini, sì per palliare la servitù. Francesco Sforza scavava il canale della Martesana ed ergeva l’ospedal grande a Milano; Gian Galeazzo ardiva cominciarvi il duomo e la certosa di Pavia; i Medici, i Pitti, gli Strozzi si eternarono per elegante magnificenza. Ma in fatto di costumi e d’opinioni men che in niun’altra cosa si può considerare l’Italia come una sola nazione; e se anche oggi, con sì poche caratteristiche e con tante comunicazioni, immenso divario corre dal Torinese, per esempio, al Siciliano, quanto più allora? In Romagna poca attenzione si dà all’agricoltura e all’industria, le ricchezze traendosi d’altronde che dalla terra; i suoi fiumi non sono navigabili, ed essiccando lasciano esalazioni pestilenziali; talchè l’uomo si scosta da quei paesi, che così peggiorano col cessare della vegetazione artifiziale, e disordine e abbandono invadono le valli inselvatichite e i piani deserti, per la cui ampiezza pochi casali s’incontrano, perciò opportuna alle masnade; e il popolano, sentendosi necessario al padrone che ne trae guadagno di stipendj militari, acquista orgoglio e fierezza, quasi con ciò attesti discendere dai conquistatori del mondo. Il Veneziano invece è indocilito dal sentimento della dipendenza, che mal si confonderebbe con quella pulizia che cerca sedurre ma senza bassezze; egli venera il denaro, ambisce i godimenti, e gli aspetta da chi può procacciarli a lui, il quale nulla può ripromettersi dagli onorevoli sudori versati sulla terra. All’incontro il Genovese le falde delle Alpi e dell’Appennino a forza d’arte vestì d’ulivi, aranci, vigneti, e non bastandogli lo scarso territorio, s’avventura al mare, e dice, _Io vengo da Caffa_, così come se fosse tornato dal porto. A Napoli il Governo svigorito lascia crescere la colà prepotente inclinazione di isolarsi; e da un lato si trincerano i baroni, dall’altra i popolani, non partecipandosi i frutti del convivere sociale; la scarsa industria, l’indolenza, il non curare del domani sono conseguenza del clima, de’ pochi bisogni e de’ facili soddisfacimenti; come i vulcani del paese, dalle esaltazioni si passa rapidamente all’inerzia, con poca costanza e vacillante condotta; l’immaginazione fa ricorrere alle superstizioni, l’inosservanza delle leggi lusinga a vendette private. La Toscana, divisa in piccoli territorj, sembra fatta per la vita individuale delle città, che in fatto ebbero ciascuna una storia particolare: nella parte montagnosa si ricoverarono i signorotti, e trovarono buoni soldati; il resto è coltivato con indefessa cura: e perchè a gran fatica basta alla popolazione, questa si dedica anche all’industria, e così si sviluppa quel vigore intellettuale, quella coscienza di se stessi, per cui i Toscani si presentano come in una virilità matura, ma tutta robusta. Dappertutto poi restavano distinti i costumi de’ principati da quei delle repubbliche, in quelli i signori, in queste apparendo i cittadini. Udiamo accagionare quei borghesi, che idolo si facessero del denaro. È vera l’accusa? è ragionevole? Nell’età barbara e nella feudale la ricchezza era mal distribuita in Italia, ma il clero colla limosina, la feudalità col suo sminuzzamento prevennero quella piaga, che oggi infistolisce col nome di pauperismo. Crebbe poi e si diffuse la ricchezza; ma se questa è cattiva allorchè (come avvenne nell’età romana) provenuta da mezzi immorali, e, sparsa con disuguaglianza, apre un abisso fra le varie classi, e perciò aguzza le passioni sovversive, essa torna giovevole all’individuo e alla società quando sia frutto di lavoro onesto e di liberi contratti, e si spanda in tutte le classi. Sta bene ai nostri tempi battaglieri e rivoluzionarj lo sbertare i mercanti, e ripetere le ingiurie che Buonaparte scaraventava all’Inghilterra: sta bene il rammentare che, quando Marsiglio Carrara esulava a Firenze, la Signoria lo dichiarò esente da ogni molestia per debito, salvo che fosse verso Fiorentini. Ma il mercante acquista prudenza, attività, energia per mettersi in grado di accumulare il capitale; col creare questo si ottiene l’agiatezza, la quale lascia campo alla coltura dell’intelletto e dei costumi, ed elevando i salarj fa progredire verso l’uguaglianza. Ricordiamoci che erano mercanti Marco Polo, che primo ci descrisse l’Asia centrale e il Giappone; il Fibonacci, che introduceva le cifre arabiche; Giovan Villani, il migliore cronista del nostro e forse d’ogni altro paese, il quale, se non il fare ingenuo e pittoresco di Joinville e Froissart, mostra però la scienza positiva e il fermo tocco di chi maneggiò gli affari prima di raccontarli. Non sono i mercanti fiorentini che vollero combattere i venturieri quando i principi non sapeano che mercatarli? Quegli operosi commerci rivelano abbastanza un vivere ben differente dalla convulsiva inazione de’ giorni nostri, quando si cerca tutto fuorchè il modo di essere contento del proprio stato; non si oziava tanto sui caffè; non si camuffava d’amor di patria la poltroneria del non mutar cielo; non si logoravano la salute e la ragione a fare e a leggere giornali e romanzi. Lungi dal tenere disonorante il commercio, vi accudivano in persona cittadini primarj. Archinti, D’Adda, Castiglioni, Crivelli, Lampugnani, Melzi, Visconti, Vimercato erano matricolati fra i mercanti di Milano; «il padre di Antonio Giacomini (dice Machiavelli) fu mandato a Pisa, a faccende di mercatare, nella quale tutta la nobiltà di Firenze si esercita, come nella cosa più utile e più reputata nella patria loro»; Cosmo, già capo della Repubblica fiorentina, non interruppe gli affari di banco, ne’ quali si esercitavano e Strozzi e Pazzi e Guicciardini e Borromei e Rinuccini e Salviati. Ne contraevano quelle abitudini casalinghe insieme e forbite, che contrastavano colle fastose e rozze dell’aristocrazia forestiera; e quest’agevolezza personale, questa energica risoluzione, quest’operare sicuro, questa grazia nativa davano all’Italiano grande superiorità sugli stranieri, e in conseguenza lo facevano più ammirato che amato, anzi temuto, la finezza parendo astuzia, la galanteria corruzione, la franchezza dispregio. Lo spirito d’economia, lo sforzo delle classi industri per migliorare la propria condizione, la frugalità nei godimenti, bastavano a bilanciare le nobili profusioni nelle arti e le folli nella guerra; e Smith le paragonava a quella che i medici chiamano forza medicatrice della natura, che spesso restaura l’infermo a malgrado del male e delle medicine. Avrebbe Firenze potuto repulsare tante nimicizie, e tanto abbellirsi, quando non l’avessero soccorsa i cittadini che teneano fondi nei magazzini di Venezia, di Parigi, d’Anversa, di Londra, e sulle navi del Mediterraneo, dell’Eusino, dell’Oceano? Nè mai ne erano avari per la libertà e pel decoro della patria. Reciprocamente il tesoro pubblico era una specie di serbatojo per vantaggio di tutti: nel 1466 gli argenti della Signoria di Firenze erano dati a prestanza a Luigi di Piero Guicciardini e a Piero Capponi perchè con maggior pompa potessero celebrare nozze[204]. E in Firenze, fors’anche perchè maggiormente e meglio ci è descritta, appajono consuetudini affatto borghesi. La ristrettezza del territorio obbliga ad usufruttarlo con ogni attenzione, e al lavoro de’ campi unire l’industria; obbliga il proprietario a risparmiare e a speculare. Quando altrove i nobili firmavano le carte colla croce _non sapendo scrivere perchè baroni_, i Fiorentini stendeano i processi verbali anche delle adunanze delle arti e mestieri; mercanti e manufattori rendeano i proprj pareri per iscritto. Dino Compagni racconta che sulla venuta di Carlo di Valois fu richiesto il parere dei settantadue mestieri, imponendo loro «che ciascuno consigliasse per iscrittura se alla sua arte piaceva che si lasciasse entrare a Firenze». Lo statuto dei tesserandoli di seta a Lucca ordina che ogni tessitore o tessitrice abbia un libro dove notare le tele che avrà dai mercanti, per poterlo scontrare col libro di questi. Lo statuto dell’arte di Calimala del 1332 parla ogni tratto di scrivani, di registri, di rendiconto, di bullettini. Chi può contenersi dalla maraviglia nel vedere i Fiorentini, occupati in bottega a pesar lana e misurar drappi, fare poi nel consiglio esperimento di tutte le possibili forme di costituzione, porgere magistrati insigni dentro, accortissimi ambasciadori fuori; insieme colle balle di mercanzie richiedere manoscritti, spacciare lettere al merciajuolo e ai maggiori dotti; sul libro mastro, insieme coi crediti registrare la storia della patria o del mondo, introdurre la scrittura doppia, le cifre arabiche, l’algebra, fondare la prima cattedra di greco, la prima di latino, la prima di leggere Dante? Segretarj della repubblica erano un Bartolomeo Scala, un Carlo Marsuppini, un Coluccio Salutati, un Bonaventura Munaci, ben presto un Nicolò Machiavelli. Qual prova maggiore di civiltà che i tanti scrittori? Leggete il _Governo della famiglia_, e sentirete continuo quell’alito dell’economia casalinga, che si briga delle particolarità senza negligere le cose importanti, e risparmia un soldo, ma non si arretra dallo spendere le migliaja di fiorini. L’autore diceva a’ suoi figliuoli: — Tutto l’anno accadono spese, cresce la gioventù, apparecchiansi le doti; e volendo colla possessione soddisfare, non basterebbe. E però è da intraprendere qualche esercizio civile, utile, comodo a voi, atto ai vostri, col quale guadagnando possiate supplire al bisogno. Potrebb’essere la mercatura; ma per mio riposo eleggerei cosa più certa, e mi darei più volentieri a quegli esercizj, ne’ quali si adoprano molte mani, e nei quali il denaro in molte persone si sparge, e a molti bisognosi ne viene utilità. È officio del mercante avere sempre la penna in mano; imperocchè indugiando lo scrivere, le cose si dimenticano e invecchiano, e il fattore ne prende ardire e licenza d’essere cattivo, vedendo il superiore negligente. Niuna cosa tanto giova, niuna fa tanto buoni fattori, quanto la provvidenza e sollecitudine del principale: stolto è veramente colui il quale non saprà favellare de’ fatti suoi se non per bocca d’altri, e cieco colui il quale non vedrà se non pegli occhi altrui... Le spese io le considero necessarie o no. Chiamo volontarie quelle senza le quali si può onestamente vivere, com’è avere bei libri, nobili corsieri, argenterie, arazzi. Ora quel ch’è necessario, mi piace subito averlo fatto, non fosse altro che per avermi scarico quel pensiere: epperò fo le spese necessarie presto, e le volontarie con modo buono ed utile, ch’è d’indugiare quando posso, per vedere se quella voglia cessasse in quel mezzo, e non cessando, ho spazio di meglio pensare in che modo spenda meno, e meglio mi soddisfaccia». E con che senno virile, con che bontà senza sdulcinature, con che superiorità senz’arroganza non tratta egli la donna! — Il marito e la moglie devono fare come quelli che fanno la guardia sulle mura per la patria loro; se alcuno si addormenta, colui non ha a male se il compagno lo desta. Così l’uomo deve avere molto per bene se la donna, vedendo in lui mancamento, ne lo avvisa. Quando io menai moglie, le dissi: _Donna mia, sopratutto a me sarà a grado che tu faccia tre cose: la prima, che qui in questo letto tu non desideri altr’uomo che me solo;_ ella arrossì ed abbassò gli occhi: _la seconda, che abbi buona cura della famiglia, e la tenga con onestà e pace; la terza, che provveda che le cose famigliari non si trasferiscano male_. E fui avvertente nel persuaderla di mostrarsi ne’ suoi portamenti onesta, nè d’altra qualità o colore che naturalmente ella si fosse: _La onestà della madre, le dissi, sempre fa parte di dote alle figliuole; piace una bella persona, ma un disonesto cenno subito la rende vile e brutta. Donna mia, tu non hai da piacere se non a me: pensa non poter piacermi volendomi ingannare, mostrandomiti quella che tu non fossi_. Tutte le mogli sono a’ mariti obbedienti quando eglino sanno essere mariti. A me non piacque mai sottomettermi alla donna mia; nè mi sarebbe paruto potermi far da lei obbedire avendole dimostrato d’esserle servo». V’era persone di buona casa che scriveano d’agricoltura come il Vettori, o d’arti come il Neri, o del vivere civile come il Palmieri; e chi sfogliasse i _Ricordi di cose famigliari, i Quaderni de’ conti_, i _Prioristi_, come chiamavano una specie di mastro sul quale annotavano i priori di quell’anno e insieme i principali accadimenti, stupirebbe d’incontrare tanto estesa la maturità del buon senso e l’acume del vedere. L’educazione pubblica era compita dalla domestica, poichè il babbo o la nonna insegnavano al figliuolo a leggere, e il latino allora necessario, e gli affari e la storia del paese; la servente vi aggiungeva i racconti di fate e di ladri; tutto mescolato di proverbj, non senza grossolanità e offese al costume. Faceasi musica a orecchia, col flauto, il clarinetto, la mandòla accompagnando le canzoni per istrada, o i rispetti e le ballate; spesso novellavasi, e si ridiceano i proprj viaggi e quelli di Marco Polo. Fin gente digiuna di lettere poetava, e nella barberia di un tal Burchiello in Calimala convenivano fior di cittadini a discorrere, celiare, improvvisare: ed egli fra loro sempre in buon tempo e sulle burle, facea versi, tutti riboboli popoleschi e idee or da trivio or da bordello, ma che si rileggono per quella naturalezza, che tanto scarsa incontrasi fra i nostri. Gli accoppieremo Dino di Tura, anch’egli poeta alla carlona; e Antonio Pucci campanaro, contemporaneo del Sacchetti, che nel _Centiloquio_ ridusse in terzine la storia del Villani, ogni canto facendo di cento terzine, e acrostica la prima lettera di ciascun canto. Alquanto più tardi il Lazzero barbiere, bel capo e bizzarro, stendea componimenti di scelto e pulito parlare. E questo è particolare ai Toscani, che, mentre tutt’altrove non accade quasi menzione se non della vita signorile, fra essi il notajo, il mercante hanno storia in siffatti libri, a tacere anche qualche vita, estesa per famigliare onoranza. Moltissime di quelle carte giacquero dimentiche, molte furono edite, e ci porgono la più schietta dipintura del vivere domestico d’allora. Ed erano talvolta opera di gente minuta, che si gloriava del proprio mestiere, come altri farebbe del blasone. Uno scrive: — Io ebbi un avolo, e fu maniscalco, e fu tenuto il sommo della città sua; ebbe tre figliuoli. Cristofano appresso il padre tenne il pregio della mascalcìa, e avanzollo; mio padre avanzò Cristofano dell’arte in sua vita; onde, volendo il padre che appresso sè uno de’ figliuoli rimanesse all’arte, convenne a me lasciare lo studio della grammatica, come piacque a lui, e venire all’arte. Onde dinanzi a me furono di mia gente sei l’un presso all’altro, ciascuno maniscalco; ed io fui il settimo»[205]. Guido dell’Antella, cominciando dal 1298, scriveva i casalinghi suoi ricordi, e come principiò a lavorare sotto negozianti, e per essi stette in Provenza, in Francia, a Napoli, in Acri, poi divenne loro socio, e tiene nota delle varie scritte relative a’ negozj e ai possessi suoi, o a’ matrimonj. I figliuoli continuano quelle note: or che si mena moglie con fiorini settecentotrenta d’oro, fra dote e doni; or che si compra una casa per fiorini ducentodieci; or che si prende una fante per fiorini sei l’anno, ovvero _una schiava_ per lire trenta; or una balia per fiorini sedici d’oro che stia in casa; ovvero, se va fuori, le si dà cinquanta soldi il mese, e per corredo una zana, un mantellino con sedici bottoni a scodelline d’argento, un mantellino cilestro, una cioppolina mischia, cinque pezze lane, cinque fascie, quattordici pezze line, una coltricina, un guanciale con due foderuzze. Se s’appigiona una bottega, s’aggiunge al fitto un’oca grassa per l’ognissanti o per pasqua di Natale. Nei poderi si trova già introdotta quella società fra padroni e contadini che dicesi mezzeria, e che assicura al colono una protezione, e lo mette col padrone in comunanza d’interessi, d’affetti, quasi di famiglia: il padrone, oltre dare il fondo, si obbliga anticipare al villano il denaro per comprare buoi. Galgano Guidini a ventotto mesi restò privo del padre, il quale non gli lasciò che debiti; ma sua madre per allevarlo non si rimaritò più. Il nonno lo tolse in casa, e gl’insegnò a leggere e fin al Donato, poi lo mandò imparar grammatica a Siena: egli ben presto potè mettersi ripetitore, e infine passò notaro. Morto il nonno che aveva fatto un poco d’usura, sua madre fece restituzione. Galgano andò in qualità di notaro coi varj uffizj, e cominciò a guadagnare, far masserizia e comprare. Introdotto presso la beata Caterina, s’infervorò di lei e di Dio, sicchè voleva abbandonare il mondo, se sua madre non si fosse adoperata per fargli invece menar moglie. A Caterina viva e morta conservò sempre devozione, la richiedeva di consigli, tradusse in latino le opere che ella scriveva in italiano, perchè «chi sa grammatica o ha scienza, non legge tanto volentieri le cose che sono per vulgare». Ebbe molti figli, e «al primo (dice) posi nome Francesco, a riverenza di san Francesco mio devoto; e posimi in cuore che, a onore di san Francesco, io il farei frate dell’Ordine suo. E così voglio che sia». De’ figliuoli, i più dette a balia, alcuni la moglie _tenne a suo petto_[206]. Di bizzarre avventure ci è narratore Bonaccorso Pitti, destro quanto un cavaliere di ventura del secolo passato. Ito in Prussia il 1376 a vendere zafferano, passò a Buda, ove s’infermò in un’osteria. Ed ecco una brigata di beoni che straviziavano e ballonzavano in un salotto vicino, ne odono il piagnucolìo, e lo tolgono dalla coltrice, e l’obbligano a ballare con loro; di che egli suda in modo che guarisce. Due giorni dopo giocando guadagna mille fiorini a un Fiorentino direttore della regia zecca, e procacciatisi sei cavalli, quattro servi, un paggetto, rivolgesi alla patria coll’avanzo di cento fiorini. Ivi prende capriccio per madonna Gemma, che stava a porta Pinti, e tanto fa che può entrarle in casa, e dirle l’amor suo; al che ella risponde, — Or bene, va difilato a Roma». Credendo darle prova d’amore coll’obbedienza, e’ va di fatto, traverso ai soldati papalini allora in guerra con Firenze, e dopo un mese ritorna sperando guiderdone. Ma la donna ridendo, — Non sai (gli dice) che a porta Pinti, quando vuolsi mandare uno colla malora, gli diciamo, _Va difilato a Roma?_» Militò col re di Francia alle battaglie d’Ypres e di Mons: arricchitosi in Inghilterra, riede a Parigi, e v’impiega diecimila fiorini in lana; ne guadagna al giuoco cinquemila al conte di Savoja, che non glieli pagò mai; e sposata una Albizzi nel 91, spedisce le sue lane da Parigi in due bastimenti, un per Genova pagando il nove per cento d’assicurazione, l’altro per Pisa pagandone il quattordici. Tornò a Parigi come mastro delle stalle del duca d’Orléans, e seppe ripicchiare le valenterie de’ baroni francesi. Fu de’ priori in Firenze nel 99, quando vagavano le processioni de’ Flagellanti. L’anno seguente fu spedito ambasciadore del Comune fiorentino all’imperatore Roberto, cui mise in guardia contro Galeazzo Visconti, e contro i pugnali e veleni che questo sapeva adoperare; di che Galeazzo gli volle tanto male, che bandì una taglia sul capo di esso. Era de’ consoli sopra la fabbrica di Santa Maria del Fiore, quando fu affidato a Brunelleschi il voltarne la cupola. Nel 1422 fece pubblica perdonanza d’ogni ingiuria ai nemici, e specialmente ai Ruscoli, promettendo essi e lor discendenti trattarsi da amici. Nel 23, stando capitano a Castellaro in Romagna, scopre una congiura, e fa decapitare sette complici. Così prosegue il racconto, intarsiando i fatti pubblici co’ suoi personali, avvenimenti europei coi computi mercantili. Girolamo da Empoli scriveva la vita di Giovanni suo zio, mercante come lui e figlio di mercanti. A sette anni già leggeva il salterio, a tredici sapeva il latino e un po’ di greco, e suo padre gli facea ripetere le lezioni, e gli avea formato un libriccino dov’erano ritratte molte cose della sacra scrittura, e «su quello lo faceva studiare acciò ch’egli avesse notizia e che s’innamorasse delle cose di Dio». Il dì delle feste andava sempre ad una delle compagnie devote che aveva istituite frà Savonarola. Tirato al banco di suo padre, cambiò monete, delle quali assai forestiere conobbe in occasione che mezzo mondo andava al giubileo del 1500: uscì poi per mettersi ne’ negozj di Fiorentini a Lione, a Bruges a Lisbona, e fu inviato da essi a Calicut pel passaggio di mare frescamente scoperto. Quel viaggio ripetè egli tre volte, e ne mandava ragguagli a suo padre; e quando rivedea la patria, si divertiva con quei che sapevano di mappamondo ad indicarne i luoghi, e applicare i nomi de’ paesi veduti. Più volte tornò a Malacca e fin nella Cina, e morì a Canton il 1518. Sebbene finto per commedia, pure vedo il tipo dei massaj fiorentini nel Nicomaco atteggiato nella _Clizia_ dal Machiavelli. — Soleva essere un uomo grave, risoluto, rispettivo; dispensava il tempo suo onorevolmente. E’ si levava la mattina di buon’ora, udiva la sua messa, provvedeva al vitto del giorno. Dipoi, se egli aveva faccenda in piazza, in mercato, a’ magistrati, e’ la faceva; quando che no, o e’ si riduceva con qualche cittadino tra ragionamenti onorevoli, o e’ si ritirava in casa nello scrittojo, dove egli ragguagliava sue scritture, riordinava suoi conti. Dipoi piacevolmente colla sua brigata desinava, e desinato, ragionava con il figliuolo, ammonivalo, davagli a conoscere gli uomini, e con qualche esempio antico e moderno gl’insegnava a vivere. Andava dipoi fuora, consumava tutto il giorno o in faccende o in diporti gravi ed onesti. Venuta la sera, sempre l’avemaria lo trovava in casa; stavasi un poco con esso noi al fuoco, s’egli era d’inverno; di poi se n’entrava nello scrittojo a rivedere le faccende sue: alle tre ore si cenava allegramente. Questo ordine della sua vita era un esempio a tutti gli altri di casa, e ciascuno si vergognava non lo imitare». Nella portata dei beni che presentava il 1378, messer Francesco Rinuccini fa una lunghissima enumerazione di possessi e case: inoltre doveva avere dal Comune fiorini d’oro quattordicimila cinquecensettantaquattro, che sarebbero oggi più di trentottomila scudi; da varj privati duemila cinquecento; e morendo egli testò per cencinquantamila fiorini d’oro in contanti. Una famiglia così doviziosa componeasi del padre, sei figli maschi, una femmina, tre nuore, quattro figli de’ figli, quattro famigli, due fanti per conciare i cavalli, due fantesche, una balia, una cameriera, un ortolano colla moglie e un figliuolo, e otto cavalli. Nel 1460 Cino di Filippo Rinuccini sposava Ginevra d’Ugolino di Nicolò Martelli, d’anni sedici, ricevendo in dote mille quattrocento fiorini d’oro, mille dei quali stavano sul Monte delle fanciulle, con altri ducento d’interesse, oltre le donora di fiorini ducento. Esso le regalò un vezzo di centotto perle, sei nel pendente, un rubino in tavola, un frenello di dugensessantuna perla, che si chiamava vespajo, da mettere in capo, il tutto in un astuccio di cuojo di Fiandra. Un’altra volta le portò venti perle da fare fruscoli per il capo, che eran once tre, e costarono fiorini dieci l’oncia; e in più volte gliene portò altre assai. Prese egli poi ad uso per sei mesi una collana d’oro con perle e rubini, per cui diede sicurtà di fiorini duecento. Regalò pure alla sposa un fermaglio da testa, un pajo di coltellini col manico d’argento dorato e smaltato alla parigina, un dirizzatojo d’argento colla guaina pur fornita d’argento. Al desinare di nozze furono trenta convitati, e la sposa ebbe in dono otto anelli con gioje che in tutto poteano valere cinquanta fiorini d’oro. Non manca neppur la nota delle donora recate dalla Ginevra[207]. Con tali reggimenti, e col tenersi unite, le famiglie aumentavano di ricchezze, e di queste faceano comodità alla patria, o fabbricavano palazzi che poi divennero residenze di principi. Largheggiavasi pure assai nelle beneficenze, e alla distribuzione d’una limosina a Firenze nel 1330 si presentarono diciottomila mendichi «senza i poveri vergognosi e quelli degli spedali e religiosi mendicanti, che in disparte ebbero la loro parte di limosina, che furono più di quattromila»[208]. Sarà incredibile tanta quantità a chi non rammenti certe distribuzioni che oggi ancora si fanno tra noi per antico istituto, dove non il pitocco soltanto si presenta, ma tutti. D’altra parte in Firenze stessa troviamo una gioventù scapestrata, sciupona, disonesta, che logora la vita a bere e stripare, e mena a burle e strapazzo chi più ama la quiete. Alcuni s’erano messi insieme per molestare le persone tranquille; andarono da un medico fingendo che Cosmo de’ Medici lo chiedesse, e come fu a un ponte, lo snudarono e gli fecero sconcezze. A un prete collo stesso titolo fecero portare il viatico, accompagnandolo colle torce, poi spentele, il lasciarono al bujo. Il cavaliere del podestà fu preso da costoro, e tuffato in Arno, e legato nudo a una colonna, ove la mattina fu trovato[209]. Chi troppe più volesse sudicerie e frodi, non ha che a scorrere la seconda storia di Giovan Cavalcanti, che prologa dall’inveire contro «la perversa condizione, la insaziabile avarizia e la fastidiosa audacia de’ malvagi cittadini». Vero è che ciò avveniva quando la repubblica soffogava sotto l’incubo principesco; ma conviene conchiudere che in ogni tempo fu nugolo e sereno. Nè sobrj e pudichi erano i costumi di altre repubbliche; e Venezia, se non osiamo dire che fomentasse, tollerava la corruttela, tanto appiccaticcia in paese di estesi traffici e di accorrenti forestieri: per allettare questi si moltiplicavano le feste, e la maschera porgeva incentivo agli intrighi. Gli storici di Genova deplorano il lusso delle case, tutte a vasi d’argento e d’oro, e delle suntuose villeggiature nelle valli di Polcévera e di Bisagno. Un poeta astigiano, capitatovi verso il 1415, entrando di domenica rimase stupito del pubblico passeggio, le persone di qualità gli somigliarono tanti senatori romani in porpora, le donne tante Veneri col cinto dei vezzi: si scandolezzò d’alcune zitelle che stavano galantemente ai balconi delle case, motteggiando chi passava, presenti le madri. D’inverno e di primavera balli continui, e sin le fornaje vi portavano scarpe di seta guarnite a perle. L’estate uscivano tutti alla campagna, non ritenuti nè da impieghi nè da negozj; ma al fresco orezzo, alla serenità marina davansi all’ozio e alla gola. Anche i poveri volevano scialare i dì festivi; accattavan dal rigattiere un abito vecchio di seta, e per le colline dell’intorno sbevazzavano le limosine raccolte e le mercedi[210]. Il Comune di Torino nel 1436 appigionava una casa a un Ginevrino per tenervi postribolo, esente da alloggi e servizio militare e dalla tassa pel vino che vendeva: le donne non uscissero senza licenza di lui, e non fosse aperto che a sportello: esse doveano portare per distintivo un’aguglietta sulla spalla sinistra, e tutti i giorni andare a messa in San Dalmazzo[211]. Di rozzi sentimenti, vale a dire senza rispetto alla dignità dell’uomo, ci sono prova i feroci supplizj, consueti siccome sa chi appena scorse una storia o cronaca qualunque. Nei registri della Camera dei conti di Torino è notato che Giovanni Gujoto falsomonetiere fu tenuto in cattura per ventun giorno, poi bollito e morto: e pel nolo della caldaja, il ferro posto attraverso di essa per legarlo, le corde, l’olio, la legna, il carbone, gli si dà debito. Filippo di Vigneulles, che dimorò a Napoli nel 1487, vi vide bruciare uno per delitto contro natura; mozzar le mani a un altro che avea battuto un sergente; impiccato uno per aver tagliato monete; tre impiccati e arsi per moneta falsa, i quali sarebbero stati cotti nell’olio se non fossero intervenute preghiere istantissime[212]. Se pigliamo una delle cronache più modernamente pubblicate, quella del Graziani, in solo poche carte troviamo che nel 1441 a Perugia ad un tal Luca per istromento falso venne ficcato nella lingua un uncinetto di ferro, legato a uno spago in modo che dovesse tenerla sporgente; e così sopra una carretta colla mitera in capo fu condotto al luogo dell’esecuzione: la lingua che già gli si era stracciata, ivi gli fu mozza, e così le mani, e i moncherini gli vennero stretti fra due carrucole; una mano fu affissa sulla porta del palazzo, l’altra e la lingua sotto una gran pietra del chiostro di San Lorenzo. L’anno seguente, uno che aveva morto un suo compagno con un’accetta, poi gettatolo nel Tevere con una pietra al collo, fu menato al supplizio con al collo la pietra stessa; poi tre manigoldi col cappuccio in capo, uno gli diè tre colpi in fronte coll’accetta, l’altro gli segò le vene della gola, il terzo lo sparò e cavogli le interiora; poi squartato fu sospeso in quattro luoghi. E poichè siamo con Perugia, aggiungeremo come il suo statuto del 1342 punisce il fatucchiere col fuoco, se non paga quattrocento lire fra dieci giorni: di fatto nel 1445 una Santuccia, _indovina e faturaja_, vi fu arsa, menandola al supplizio sopra un asino colla faccia volta alla groppa, e con due demonj a lato che le tenevano una mitera in capo[213]. A Firenze nel 1436 Angiola da Runci fu mandata a morte perchè maliarda, con cappelli di morti in capo, e borsa e moneta e molti brevi (CAMBI). Credevasi che gli eretici usassero arti diaboliche: essi allevare e creare serpenti, essi eccitar procelle, essi a cavalcione della scopa recarsi ai sabati, ove godeano banchetti e abbracciamenti col diavolo chiamato Martino. Eugenio IV, in una bolla data da Firenze il 10 aprile 1439 contro i padri del concilio di Basilea, scagliasi pure contro i Valdesi e gli stregoni che infestavano le provincie di Amedeo VIII di Savoja: e sappiamo che molti processi furono seguiti da sanguinose condanne ne’ paesi montani, della Svizzera principalmente, e in Francia. Avea dunque riacquistato fede, e non solo vulgare, ma legale questa pagana follia del gettare incanti, la quale giganteggiò poi miserabilmente nel secolo xvi. Gli alchimisti continuavano i loro sperimenti di tramutazione, e nel 1330 Pietro il Buono ferrarese compose a Pola la _Margarita pretiosa_, combattendo l’alchimia non con fatti ma con argomentazioni, siccome allora si usava. «Nessuna sostanza (dic’egli) può essere tramutata in altra specie se non sia prima ridotta ne’ suoi elementi: ma l’alchimia è scienza positiva. Berigardo da Pisa racconta che la tramutazione non credeva possibile, fintantochè un valentuomo non gli diede un grosso di polvere simile a quella del papavero selvatico, e dell’odore di sal marino calcinato. «Comprai io stesso il crogiuolo, il carbone, il mercurio in botteghe diverse, per impedire che in alcuno si fosse messo dell’oro, come si pratica da’ ciarlatani. Sopra dieci grossi di mercurio aggiunsi una presa di polvere; esposi tutto a fuoco assai vivo; e in breve la massa si trovò convertita in quasi dieci grossi d’oro, riconosciuto purissimo da diversi orefici. Se ciò non mi fosse accaduto fuor della presenza di qualunque estrano, dubiterei di frode: ma posso attestare con asseveranza che la cosa è così»[214]. Più estesa credenza otteneva l’astrologia, poichè la smania di conoscere l’occulto è più vigorosa quanto è men suscettivo di precisione l’oggetto cui si dirige, e il campo del meraviglioso è più largo quanto più angusto quel della scienza. Troppi esempj ne vedemmo, e da essa faceano dipendere i loro consigli Filippo Maria non meno che la colta Firenze o la savia Venezia; le Università ne teneano cattedre. Cecco Stabili d’Ascoli ancora giovane professò astrologia in Bologna, e in un commento sopra la sfera di Giovanni di Sacrobosco pose che nelle sfere superiori v’ha generazioni di spiriti maligni, i quali per incantesimi si possono costringere a opere meravigliose: queste ed altre follie lo fecero sospetto all’Inquisizione, che lo mandò al rogo[215]. Il Petrarca recitava nel duomo di Milano l’orazione inaugurale dei nipoti di Giovanni Visconti, quando l’astrologo gliela interruppe, perchè avea scoperto essere quello il punto della più benigna congiunzione dei pianeti. Per osservazione di astri fondaronsi nel 1470 il castello di Pesaro, nel 92 i bastioni di Ferrara, nel 99 la rôcca della Mirandola: nel 94 i Fiorentini conferirono il bastone di capitano generale a Paolo Vitelli nell’ora designata propizia dalle stelle. Giovan Villani, mercadante positivo e di buon senso, a cui il maneggiare il braccio e le bilance non toglieva d’adoprarsi ne’ primarj uffizj della patria, vedendo la grandezza di Castruccio signor di Lucca minacciare di servitù l’intera Toscana, ne scrisse a frà Dionisio da San Sepolcro, maestro a Parigi _in divinitade e filosofia_, per sapere cosa gliene preconizzassero gli astri. E quello gli rispose: — Io vedo Castruccio morto». Arrivò la risposta quando Castruccio era nel più vivo della vittoria, onde il Villani la tenne celata, e ne rescrisse al frate; il quale rispose: — Io raffermerò ciò che io scrissi per l’altra lettera. Se Dio non ha mutato il suo giudizio e il corso del cielo, io veggo Castruccio morto e sotterrato». E quando la seconda lettera capitò a Firenze, Castruccio appunto era cadavere; e il Villani la mostrò a’ priori suoi compagni, i quali «convennero che di tutte le sue parti il giudicio di maestro Dionisio fu profezia». Questo frate fu in molta grazia a Roberto re di Napoli, che lo pose vescovo di Monopoli; e in molta stima al Petrarca, che morto lo pianse in versi, lodandogli sovratutto la sapienza del leggere negli astri[216]: il Petrarca, che pur berteggiava i medici e la medecina. Del suo tempo, un incessante piovale ingrossò le acque dell’Arno per modo, che coprì tutto il Casentino, il pian d’Arezzo, il Valdarno superiore e le campagne attorno a Firenze, e la città stessa credette arrivato l’ultimo suo giorno. Cessato il flagello, i savj posero in disputa se fosse venuto per giudizio di Dio o colpa degli uomini; e il Villani prendendo l’opinione media, che è sempre la più cauta e non di rado la vera, crede «che il corso del sole s’accordasse in ciò a punire i peccati dei Fiorentini». E soggiunge: — La notte che cominciò il detto diluvio, uno santo romito nel suo solitario romitorio di sopra alla badia di Vallombrosa istando in orazione, sentì e visibilmente udì uno fracasso di demonj e di sembianza di schiere di cavalieri armati, che cavalcassero a furore. E ciò sentendo il detto romito, si fece il segno della santa croce, e fecesi al suo sportello, e vide la moltitudine de’ detti cavalieri terribili e neri; e scongiurando alcuno dalla parte di Dio che gli dicesse che ciò significava, e’ gli disse: _Noi andiamo a sommergere la città di Firenze per li loro peccati, se Iddio il concederà_. E questo io autore ebbi dall’abate di Vallombrosa, uomo religioso e degno di fede, che disaminando l’ebbe dal detto romito»[217]. I Fiorentini riconoscendo il giudizio di Dio, pensarono a migliorarsi, lasciando i mali guadagni, l’avarizia, la vanità, i soprusi fatti ai vicini: e conseguenza buona veniva da una cattiva premessa. Forse per ciò gli ecclesiastici parvero talora consentire a simili ubbìe, ma le più volte li troviamo rappresentare il buon senso; e il famoso frà Giovanni da Schio disapprovava gli strologamenti, e frà Giordano da Rivalta sulla piazza di Santa Maria Novella a Firenze predicò contro chi prestava fede agli influssi delle stelle[218]. Famoso in questi errori fu Pietro d’Abano, il quale dalla congiunzione de’ pianeti deduceva il cambiar di regni, di leggi, di religioni, e le venute di Nabucco, Mosè, Alessandro Magno, del Nazareno, di Maometto[219]. Il Landino commentando Dante scriveva: — È certo che nel 1483 a’ 25 novembre avrà luogo la congiunzione di saturno con giove in scorpione, lo che annunzia cambiamento di religione; e poichè giove prevale a saturno, il cambiamento sarà in meglio». Per istrana coincidenza, Lutero nacque il 22 di quel novembre. Quando Pico della Mirandola combattè l’astrologia, ne venne scandalo, e Luca Bellanti famoso astronomo tolse a confutarlo, deplorando che un nome sì illustre fosse deturpato col pubblicare quell’opera; e allorchè questi morì giovane come gli aveano predetto, si volle vedervi un castigo alla sua incredulità. Nuovo malanno fu nel 1322 l’arrivo degli Zingari, gente indiana, che diceva provenir dall’Egitto, e sotto un duca passava di terra in terra mendicando, rubando, dicendo la ventura, e professando volersi recare ai piedi del papa, al quale del resto non credeva meglio che a chicchessia altro, intendendo solo a guadagni, comunque turpi ne fossero i modi. «A dì 18 di luglio venne in Bologna un duca d’Egitto, il quale avea nome il duca Andrea; e venne con donne e putti e uomini del suo paese; e poteano essere ben cento persone... Aveano un decreto del re d’Ungheria ch’era imperadore, per vigor di cui essi poteano rubare per tutti quei sette anni per tutto dove andassero, e che non potesse esser fatta loro giustizia. Sicchè quando arrivarono a Bologna, alloggiarono alla porta di Galliera dentro e di fuori; e dormivano sotto i portici, salvo che il duca alloggiava nell’albergo del re. Stettero in Bologna quindici giorni. In quel tempo molta gente andava a vederli per rispetto della moglie del duca, che sapeva indovinare e dir quello che una persona dovea avere in sua vita, ed anche quello che avea al presente, e quanti figliuoli, e se una femina era cattiva o buona, o altre cose. Di cose assai diceva il vero... Pochi vi andavano che loro non rubassero la borsa, o non tagliassero il tessuto alle femine. Anche andavano le femine loro per la città a sei e a otto insieme; entravano nelle case de’ cittadini, e davano loro ciancie; alcune di quelle si ficcava sotto quello che poteva avere. Anche andavano nelle botteghe, mostrando di voler comperare alcuna cosa, e una di loro rubava...»[220]. Più si ampliavano i principati e più il lusso; e la calata di Federico III, non accompagnato da armi, diede occasione a grandiose feste, volendo i signorotti far dimenticare le recenti usurpazioni collo sfoggiare suntuosità e regali. Re Alfonso di Sicilia spese in onorarlo cencinquantamila fiorini, diede una caccia numerosissima, un desinare che mai il simile, dove vivande più costose che delicate mangiavansi in piatti d’argento, confetti d’ogni specie si gettavano, le fontane zampillavano di greco e moscatello, e ognuno potea berne in tazze d’argento[221]. Federico ricambiava col profondere titoli, de’ quali d’allora in poi si fece bottega; e più dacchè egli concesse ad altri il diritto di conferirne. Altrettanto fece Renato a Napoli; e questi nuovi titolati amarono lo sfarzo, e credettero dignità il sottrarsi agli uffizj, vivere nell’ozio decorato, far frasche, e stare sul punto del convenevole. Galeazzo Maria Sforza, appena succeduto duca, di sue ricchezze volle dare spettacolo recandosi a Firenze con Bona di Savoja sua moglie. «Seco avea i principali suoi feudatarj e consiglieri, tutti dal liberalissimo duca presentati di panno d’oro e d’argento; i famigli loro oltramodo a nuove foggie erano in ordine. I cortigiani, provvigionati dal principe, erano vestiti di velluto ed altri finissimi drappi di seta, e similmente i suoi camerieri con risplendenti ricami; e tra questi glie n’era quaranta, ai quali avea donato una collana d’oro, e quella di manco prezzo era di valore di cento ducati. Cinquanta staffieri avea, tutti vestiti con due foggie, l’una di panno d’argento, e l’altra di seta; e infino ai servitori di cucina erano vestiti a diversi velluti e rasi. Cinquanta corsieri faceva condurre seco con le selle di panno d’oro, staffili tessuti di seta e le staffe dorate; e sopra i possenti cavalli erano puliti ragazzi; tutti vestiti con giuppon di panno d’argento, ed una giornea di seta alla sforzesca. Per la guardia di sua eccellenza avea cento uomini d’arme scelti, tutti a modo di capitani in ordine, e cinquecento fanti eletti; ed ognuno dal principe era stato presentato. Per la duchessa avea deputato cinquanta chinee, e tutte con le sue selle e fornimenti d’oro e d’argento, sopra i suoi paggi riccamente vestiti; dodici carrette avea, e tutte con le coperte di panno d’oro e d’argento recamate alle ducali insegne. I materassi dentro e piumacci erano di panno d’oro liccio sopra liccio, alcuni d’argento, ed altri di raso cremisino, e fino a’ fornimenti di cavalli erano coperti di seta. Fu questa comitiva di duemila cavalli e ducento muli da carriaggio, tutti ad una foggia, di coperta ch’era di damasco bianco e morello, ed il ducale in mezzo recamato di fino oro ed argento, ed i mulattieri vestiti di nuovo alla sforzesca. Dietro ancora si faceva condurre il duca cinquecento coppie di cani di diverse maniere, e grandissimo numero di falconi e sparvieri. I trombetti e i pifferi furono quaranta, molti buffoni avea, ed altri con diversi strumenti a sonare. Si trova questo apparato solo essere costato ducentomila ducati» (Corio). Giunti a Pontremoli, presero alloggio nella fortezza per onorare l’immagine di Maria Annunziata, che poco avanti era stata posta in venerazione[222]. A Firenze i Medici non vollero restare di sotto, e poterono aggiungervi finezza di belle arti; la città mantenne del pubblico quel corteggio, e offrì tre rappresentazioni sacre, l’Annunziazione in San Felice, l’Ascensione ne’ Carmelitani, la discesa del Paracleto in Santo Spirito, che infelicemente prese fuoco. Ai buoni dolse che quella comparsa introducesse un lusso fra loro inusato; e certo la splendidezza dovette trascendere ogni misura quando vi mettean gara lo Sforza, il magnifico Lorenzo, Sisto IV e i suoi nipoti Pietro e Gerolamo Riario. Borso d’Este pregiavasi di possedere i migliori falconi, i più bravi cani, i più pregiati destrieri; da settecento cavalli avea nelle scuderie, da cento falconieri; e andando a caccia, tutta la presa lasciava a chi l’accompagnasse. Tenea molti buffoni, tra cui uno Scopola ebreo ricreduto, e fors’anche il Gonnella glorioso matto, rimasto in popolare nominanza come il Meliolo, e più tardi frà Mariano e frà Serafino alla corte d’Urbino. Gran lusso sfoggiavasi pure nelle ambascerie; e quando Luigi XI succedette re di Francia, e tutta Italia mandò a congratularlo, per Firenze v’andò Pietro dei Pazzi, con una suntuosità che mai la maggiore di vesti, gioje, famigli, ragazzi, cavalli, tanto che si volle girasse per la città affinchè il popolo godesse di quella pompa senza eguale. Alla corte «mutava ogni dì una vesta o due, e tutte ricchissime, e il simile la famiglia sua ed i giovani ch’eran con lui... Donò sì per la comunità, come di sua proprietà, a tutti quelli della corte del re in modo, che non vi fu niuno ambasciadore che facesse quello che fece Piero». Nel ritorno «gli vennero incontro tutti gli uomini di condizione; tutte le strade e finestre erano piene. Entrò colla famiglia sua, tutta vestita di nuovo ornatissimamente, in cioppe di seta, e con perle alle maniche ed al cappello di grandissima valuta»[223]. Costui andava da Firenze alla sua villa a piedi, tra via mettendosi a mente la Eneide, i Trionfi del Petrarca, e molte orazioni di Livio. Allorchè Gian Galeazzo menò moglie Isabella d’Aragona, un Bergonzo Botta ricevette gli sposi a Tortona in magnifici appartamenti, e li servì d’un pasto in luogo ameno, fra dolce armonia, durante il quale comparvero atteggiando e figurando Giasone col vello d’oro, Apollo pastore, Diana cacciatrice, Orfeo cantante, Atalanta col cinghiale caledonio, Iride, Teseo, Vertunno, quante ha insomma divinità la mitologia, ognuno offrendo doni da par suo. Ebe versava nettare e ambrosia; Apicio distribuiva salse sulle vivande; il Po, l’Adda, il Ticino acque mellificate; il Verbano e il Lario abbondanza di cibi. Levate poi le tavole, rappresentossi uno spettacolo di personaggi storici ed allegorici: Semiramide, Elena, Medea, Cleopatra cantavano i loro vanti vergognosi; ed erano messe in isbaratto dalla Fede conjugale, che introduceva Lucrezia, Penelope, Giuditta, Porzia, Sulpicia a celebrare la modestia e il pudore. Infine Sileno ubriaco divertì col suo barcollare e cogli stramazzi[224]. In Milano poi Leonardo da Vinci diresse le feste e formò una macchina figurante il cielo con tutti i pianeti, rappresentati da numi che aggiravansi secondo le leggi loro; e in ciascuno risedeva un musico, il quale cantava le lodi degli sposi. Nel 1473, passando Eleonora d’Aragona per Roma col concorso di più di quarantamila cavalli, il cardinale Riario diede feste solennissime, coperta d’arazzi la piazza de’ Santi Apostoli, con tre sale d’indicibile splendidezza, e quattordici camere tappezzate una più riccamente dell’altra, con letti di raso, di damasco, di panno d’oro, e lenzuoli di tela rensa d’un solo pezzo, e pelliccie. «A volere scrivere della magnificenza di questo inclito monsignor San Sisto (esclama il Corio) troppo sarebbe lungo, e non frate, ma parea figliuolo di Cesare primo imperatore: qui tutto mi perdo, nè sapria, non che dire, ma, pur anche memorare una minima parte». Le tavole erano servite tutte in argento, nè verun piatto mai si portò via dalla credenza; le vivande figuravano bestie e storie. Vi fece da’ Fiorentini rappresentare la Susanna «coi più veri atti e più attentamente che si potesse stimare»; poi ne’ giorni seguenti san Giovanbattista, san Giacomo, Cristo che vuota il limbo; e più spettacoloso il tributo che tutto il mondo portava a Roma, ove difilaronsi settanta muli carichi, copertati di panno con l’arma[225]. Di molti di siffatti spettacoli (Cap. XCVIII) abbiamo lo scritto, o vogliam dire una tessera, come quella a un bel circa che si costumava testè nelle commedie a soggetto. Nell’adorazione de’ Magi avevano personaggio il bambino Gesù, un angelo, i tre re, Erode, suo figlio, uno scudiere, un coro d’angeli, e pastori, oratori o interpreti, scribi, donne, levatrici, popolo e un cantore col suo coro. Nel mistero della Risurrezione figuravano Cristo, or sotto apparenza di giardiniere, or nella sua propria, due angeli, tre Marie, Pietro, Giovanni, apostoli e popoli: e prima atteggiavano tre monache vestite da Marie, dicendo piano e mestamente certe strofe alternative, che sono imprecazioni contro gli Ebrei[226]; entrate nel coro, dirigevansi alla tomba; un angelo sustante innanzi al sepolcro, in veste dorata, con mitra in capo, nella mano sinistra una palma, nella destra un candeliere col clero, dicea versi rimati. Facilmente riconoscete in ciò le origini del teatro. Benchè questo fosse ito a fondo colla coltura romana, pure non si cessò affatto di scrivere a modo di rappresentazioni; e l’erudita pazienza trasse fuori alcune composizioni di forma e talora anche di soggetto antico[227], e massime dialoghi a modo delle Bucoliche di Virgilio, da leggersi e forse atteggiarsi alle mense singolarmente de’ vescovi, e drammi per eccitare la devozione o alleviare la noja de’ chiostri. Ma se la musa tragica latina ne’ suoi splendidi giorni nulla avea prodotto di duraturo, poteva sperarsene allora? In effetto sono rozze vesti all’antica, raffazzonate a concetti nuovi, e che basta l’avere accennato. Comparvero poi i trovadori, che nelle sale dei grandi rappresentavano anche commediole. Gli statuti di Bologna vietano ai cantatori francesi di trattenersi su per le piazze a recitare. Una cronaca milanese rammenta il teatro, ove «gli istrioni cantavano, come or si canta di Rolando e Oliviero, e finito il canto, buffoni e mimi toccavano la ghitarra, e con decente moto del corpo aggiravansi»[228]; ed Albertino Mussato cita come vetusto costume di cantare in palco e in teatro imprese di re e di capitani. Anselmo de Faydit provenzale vendeva commedie e tragedie, e per Bonifazio marchese di Monferrato scrisse l’_Heresia dels Preyres_, che fu rappresentata[229]. Spesso i concilj ne mandarono divieti, come incentivo di profanità; Tommaso d’Aquino disputava se uno, privo d’altro mezzo, potesse esercitare l’istrionato: tant’era lungi che quest’arte fosse perita. Se rozzi esser dovessero di forme quei teatri e nulla l’arte dello sceneggiare, non domandate; strani anacronismi vi si mescolavano a sconvenienze, ma ogni cosa era sostenuta da un apparato di macchine e di spettacolo che lusingava il vulgo. Scelto un fatto, metteasi in azione un accidente dopo l’altro, senza darsi briga di unità o d’interesse: non bastava un giorno? seguitavasi per due o più. Non erano dunque tragedie o commedie, drammi o farse o di qualsiasi altra classificazione da precettore, ma spettacoli, ed ogni cosa vi serviva, la natura e l’arte, la musica e la pittura, il cantastorie e il banderajo. Drizzatisi gl’ingegni allo studio degli antichi, si tentò calzare il socco e il coturno di essi. Il monumento più antico che resti in Italia è l’_Eccerinis_ di Albertino Mussato, sul gusto di Seneca, ma misto di racconto e dialogo. Nel primo atto, la madre narra ad Ezelino ed Alberico da Romano averli essa concepiti dal demonio: nel secondo, un messaggere espone i mali della patria e le fortune del tiranno: nel terzo, Ezelino in Verona divisa col fratello altre malvagità da aggiungere alle antiche, poi udita la presa di Padova, accorrono alla riscossa, e il coro espone la spedizione e la vittoria d’Ezelino, il suo ritorno a Verona e il macello de’ prigionieri: nel quarto, un messaggero riferisce la guerra di Lombardia, la crociata e la morte del tiranno: il quinto presenta la morte d’Alberico. Le passioni vi sono espresse non senza forza, ben divisate la storia e il costume, continua l’ispirazione nazionale, e non infelice la latinità. La prevalenza del racconto sopra il dialogo eragli comune colle altre rappresentazioni d’allora, e ci ajuta a comprendere il titolo di commedia applicato da Dante al suo poema: lo scegliere poi argomenti contemporanei e trattarli senza catene d’unità drammatiche, era un altro passo degli originali cominciamenti della nostra letteratura. Esso Mussato dettò sei altri drammi; di cui ci resta la _Morte d’Achille_. Citansi di quel torno una commedia sull’espugnazione di Cesena ed una sopra Medea, che a torto vollero attribuirsi al Petrarca. Pier Paolo Vergerio ancora giovane scrisse una commedia _ad juvenum mores corrigendos_; Leon Battista Alberti la _Philodoxeos_, la _Philogenia_; Ugolino Pisani da Parma; e Gregorio Cornaro veneto una tragedia, la _Progne_. Sempre più gl’istinti della letteratura del medioevo soccombeano all’arte erudita; e col solito vezzo di credere barbarie qualunque passo arrischiato fuori del sentiero classico, si volle dire che Pomponio Leto fosse il primo a instaurare il teatro, perchè ne’ cortili dei prelati facea rappresentare commedie di Terenzio e di Plauto. Altre Corti vollero quel lusso, massime i principi di Ferrara, il cui teatro vinse gli altri in magnificenza, e primamente vi si rappresentarono commedie in rima. A Mantova si vide poi una produzione che tolse il grido a tutte le precedenti, l’_Orfeo_ del Poliziano, azione regolare e poesia elettissima, che conserva ancora tutta la ricchezza de’ primitivi componimenti scenici, complesso delle arti tutte. Dopo il prologo, nel quale è esposto il soggetto in ottave, viene un atto pastorale, tutto idillio; ne segue uno ninfale, ove le Driadi lamentano la morte d’Euridice; poi un eroico coi pianti d’Orfeo, e sempre varietà di metri, e fin versi latini, acciocchè niun lacchezzo mancasse allo spirito: il quarto atto necromantico presenta la calata d’Orfeo all’inferno, ove da Plutone e Proserpina ottiene di ricondurre Euridice, ma poi la riperde per aver violato la legge dell’abisso: si chiude con un atto baccanale, pieno dell’esultanza brindante delle Menadi ucciditrici d’Orfeo. Pure le rappresentazioni teatrali s’atteneano di preferenza ai soggetti sacri, chiamale storie, esempj, spettacoli, misteri, vita, martirio, secondo il contenuto. Le più stendeansi in ottave, non divise in atti e scene ma in giornate, e si recitavano con una specie di cantilena, oltre gl’intermezzi propriamente in canto, e con ricchissimo corredo di macchine, prospettive, comparse, balli, giostre, a studio de’ migliori artisti. Atteggiavano giovinetti ascritti alle confraternite, nelle quali s’affratellavano i gran signori coi più poveri. A Roma si diede la _Passione di Cristo_, opera di Giuliano Dati, Bernardo di mastro Antonio Romano, e Mariano Particappa; a Firenze la _Rappresentazione e festa d’Abramo e Isacco suo figliuolo,_ di Feo Belcari; a Modena i _Miracoli di san Geminiano_; Bernardo Pulci fece _Barlaam e Giosafat_, Antonio Alamanni la _Conversione della Maddalena_, Roselli il _Sansone_, Lorenzo Medici la _Rappresentazione di San Giovanni e Paolo_, dove sono ritratte le lotte del cristianesimo contro l’ipocrisia di Giuliano. Ben sessantasette di siffatti drammi a stampa enumera il Cionelli nelle note alle poesie di esso Lorenzo, e la collezione più copiosa sta nella libreria palatina di Firenze. Il popolo andava matto di burlette e scede, e man mano che svolgevansi i dialetti nuovi, s’introduceva una caricatura che parlasse in quelli, e personificasse il carattere delle varie genti italiche. Bologna la dotta contribuiva il suo Dottor Ballanzoni, Venezia il Pantalone Onesto negoziante, Bergamo il lepido Arlecchino, Napoli l’arguto Pulcinella e il Coviello e il Pulcariello ed altri[230], che tinta la faccia di fuligine e villescamente calzati, davano sollazzo al popolo, e faceano ridere le une città a spalle delle altre nemiche o rivali. E le maschere piacquero a lungo perchè usavano il parlare spigliato e spontaneo de’ vulgari, anzichè l’artifiziato de’ letterati, al primo de’ quali sono affisse cento care memorie, nessuna all’altro. Nè ai nostri avi erano insoliti i giuochi di sorte, passione violenta de’ Germani fin prima che uscissero dalle selve natìe. Indarno la Chiesa vi pose argine, indarno le repubbliche; ma alcune di queste vollero specularvi sopra, dando in appalto il diritto di tener case di giuoco o biscazze; e Venezia ne concedette il privilegio a quel Barattiere che si dice alzasse le colonne sulla Piazzetta. Del lotto è menzione in un editto del 9 gennajo 1448, quando (invenzione di Cristoforo Taverna banchiere di Milano) si proposero alla fortuna sette borse, la prima con cento ducati, con settantacinque la seconda, e via digradando. Ogni posta costava un ducato; e nell’invito si moveva calda esortazione a profittare di quell’insigne benefizio di Dio, nè lasciarsi scappare il destro d’arricchire con sì poco; — tant’è vecchia l’arte di ciurmare il povero popolo. Siffatta maniera corse per Italia col nome di borse della ventura: poi al 1550 si stabilì regolarmente in Genova, con tanto profitto agli imprenditori, che la repubblica ne volle una tassa di sessantamila lire delle sue, cresciuta poi passo passo, tanto che nel 1730 ne traeva trecensessantamila. Gli altri governi affrettaronsi ad imitarla, acciocchè il denaro non uscisse di paese[231]. Clemente XI escluse con bolla severissima il lotto da’ suoi Stati, dannando alle galere i contravventori, e dicendo voler liberare i popoli da quella maligna sanguisuga; ma sotto Innocenzo XIII s’aggiunse nel lotto di Roma l’aumento del venti per cento sugli ambi, e dell’ottanta per cento sui terni. E l’immorale gabella si propagò, senza che si pensi abolirla, ad un sordido lucro posponendo la depravazione popolana. Gli scacchi, invenzione orientale, sono spesso mentovati, e forse ce ne fu portato l’uso dalle crociate[232]. Delle carte, non mai mentovate dall’antichità classica, l’uso e le sottilissime combinazioni, che faceano dire a Leibniz in nulla aver gli uomini adoprato tanto ingegno quanto ne’ giuochi, ci arrivarono dall’Oriente per la Spagna. Di buon’ora entrò il lusso in quella vanità, sicchè Filippo Maria Visconti nel 1430 pagava millecinquecento monete d’oro un mazzo di carte dipinto da Marziano da Tortona. Per combinare poi la crescente richiesta col tenue prezzo, si inventò di stamparle con tavolette, le quali furono avviamento alla più importante delle scoperte moderne, la stampa. Questo nome ci fa dire d’un nuovo genere di occupazioni o passatempi, a cui si volsero gl’Italiani d’allora. Il leggere avea potuto esser diletto di ben pochi, in quella grande scarsità di libri; pure molto desiderati erano i romanzi, i più de’ quali venivano di Francia, e talvolta erano tradotti in nostro vulgare, più spesso imitati. Le persone oneste rifuggivano da quella lettura; Guglielmo Venturi d’Asti in testamento raccomandava a’ suoi figli d’odiarli, come sempre avea fatto lui[233]; Boccaccio appone ad ipocrisia della vedova del Corbaccio l’astenersi da tali racconti; dei quali Dante accennava i pericoli in Francesca e Paolo, tratti a peccare dal leggere per diletto gli amori di Isotta e Lancilotto. Al contrario, se ne dilettava il bel mondo; e Michelangelo Trombetti, in un poema sulle gesta di Ugo conte d’Alvernia nel 1488, manoscritto nella Laurenziana, annovera i romanzi di cavalleria, cui consiglia a leggere, perchè _chi non se ne diletta, è uomo senza ragione e bestiale_. Crebbe la lettura colla stampa, la quale non si occupò soltanto di libri sacri e di classici: nè è inutile sapere che dal 1473 al 98 uscirono dieci edizioni del Guerin Meschino; e il _Milione_ di Marco Polo si stampò nel 1496, e già prima e più in appresso corsero racconti di viaggi. Come la letteratura, invaghita de’ capolavori antichi che si trovavano, o dalla maggior facilità di possederli, si era gettata interamente sull’imitare, tanto che ogni originalità minacciava scomparire fra gli addobbi del convenzionale classicismo; così non sapevasi ammirare che la società anteriore al cristianesimo, rilassavansi i costumi per imitazione classica, e Gianantonio Campano vescovo di Téramo empie le sue poesie di Silvie e Diane e Suriane, di cui spesso si lagna, talvolta si loda; Ambrogio degli Angeli Traversari, generale dei Camaldolesi, amico di Eugenio IV e suo legato a Basilea, in fama di grand’erudizione non meno che d’onestissimi costumi, non iscrive mai a Nicolò Niccoli senza salutare la sua Benvenuta, _donna fedelissima_, eppur era una mantenuta, di avventure chiassose[234]; Cosmo de’ Medici accettò la dedica dell’_Hermaphroditus_ del Panormita, che parea soverchiamente cinico persino al Poggio, sguajato narratore egli stesso, benchè segretario apostolico; Enea Silvio Piccolomini, gravissimo uomo e futuro papa, emulava in una novella la licenza del Boccaccio. Il senso morale veniva perturbato dal cominciare a vilipendere il passato innanzi d’essersi premuniti per l’avvenire; laonde le coscienze più elevate tentennavano e variavano, l’orgoglio insorgeva contro Dio, la voluttà contro il dovere. Il sentimento religioso permaneva nelle moltitudini, sebbene divenisse meno chiesastico; e istillato col latte, potea sugli animi anche fra le passioni: ma i letterati lo vilipendeano e conturbavano, non già per liberi ragionamenti, ma per l’autorità di altri testi, fossero gli antichi classici od i loro commentatori, nel cui nome mettevano bocca perfino nel dogma, professando di farlo per esercizio di logica o d’erudizione. Ser Cambi al 1453 scrive che il medico Giovanni Decani, il quale non credeva la resurrezione de’ morti, fu condannato alla forca a Firenze; e in quell’anno morì Carlo d’Arezzo cancelliere della Signoria, ed ebbe grandissimi doni: «Dio l’abbia onorato in cielo, se l’ha meritato, il che non si stima, perchè morì senza confessione e comunione, e non come cristiano». Dove ci risovviene di Lodovico Cortusio giureconsulto, che a Padova morendo il 17 luglio 1418, lasciò per testamento che amici nè parenti nol piangessero, se no rimanessero diseredati, mentre suo legatario universale sarebbe quel che ridesse di miglior cuore: non si parino a bruno la casa e la chiesa, ma fiori e fronde; musica invece delle campane funebri; e cinquanta sonatori e cantanti procedano insieme col clero, cantando _alleluja_ fra viole, trombe, liuti, tamburi, ricevendo ciascuno un mezzo scudo. Il suo cadavere, entro una bara a panni di varj colori gai e sfoggiati, sia portato da dodici donzelle vestite di verde, che cantino arie allegre, e ricevano una dote. Non rechino candele, ma ulivi e palme, e ghirlande di fiori; non lo seguano monaci che han la tonaca nera. Così piuttosto in guisa di nozze che di funerale fu sepolto in Santa Sofia. Questo parlare di libri e letterati è già uno stacco dalle precorse età; e l’amor della dottrina crebbe fin a passione. Ne vantaggiavano il ben pensare e il retto operare? dubitiamo. Quei dotti (troppo il notammo) non erano nulla meno che tipo di civili costumi: nelle loro lettere o si abjettiscono per domandare, o strisciano ringraziamenti per avere avuto, talora con una sguajata insistenza, quale vediam nel Filelfo, una delle più famose penne; e piuttosto bravazzoni che franchi, aggiogati all’autorità de’ loro classici, eppure intolleranti d’ogni dissenso, anfanavano in tresche, volevansi alle mani un coll’altro, e in sozze baruffe, non ultimo divertimento di quel secolo, s’intaccavano non solo sulla dottrina, ma rinfacciandosi ogni mal mendo[235]. Noi siamo a gran pezza da coloro che ammirano quello stuolo chiassoso e intrigante di pedanti, quasi fossero stati i restauratori del buon gusto in Italia. Già ne’ secoli precedenti i nostri ci si mostrarono insigni in que’ punti ove l’intelligenza loro naturale non era subordinata agli eventi o a tirannie, cioè nelle arti della parola e del disegno. Anzi queste non erano soltanto un ornamento, ma fuse nella vita, e non concepivasi il governo senza eloquenza, non le solennità senza canti, non la religione senza immagini e tempj. Chè a far prosperare le arti non basta nascano genj capaci di creare, ma vuolsi tutto un popolo capace di gustarle; l’artista ha bisogno di chi lo comprenda, delle simpatie del popolo; e il popolo fra noi vi era portato dai meno urgenti bisogni, dall’attitudine al godere, dalla naturale inclinazione al bello. O Firenze, non i Medici ti han fatta così vaga, ma la repubblica; e la libertà dell’arte è anch’essa libertà del pensiero. CAPITOLO CXXIV. Industria e commercio. Tante ricchezze, quella coltura borghese, l’ampliamento della nazionale civiltà, il lettore dovette accorgersi come fossero in gran parte dovute al commercio, del quale è tempo che raccogliamo e svolgiamo ciò che sparsamente abbiamo indicato; poichè, dopo la religione, nulla accresce e diffonde la civiltà più che il commercio. Che esso non fosse perito tampoco nel peggior fondo della barbarie, ce ne caddero prove qua e là: migliorò poi coll’agricoltura, giacchè questa e l’industria vanno di pari passo dovunque sono possibili; tutto ciò che promove e deprime le arti e le fatiche d’una classe, opera sull’altra; e i terreni inselvatichiscono ove langue il commercio, come questo risente dell’abbandono di quelli. Noi indicammo come l’agricoltura rinascesse, lenta sì ma ognor progressiva, col piantarsi di nuova gente sopra gl’immensurabili latifondi degli antichi Romani, suddivisi allora, e dal dominio del fisco tornati all’industria particolare. Questa gente erano i Barbari da un lato, dall’altro i monaci, che mescolandosi fra un popolo di servi e di coloni, resero l’onore a quella prima fonte delle ricchezze. Ben presto le crociate equivalsero a quel che oggi le grandi esposizioni; poichè nelle città e nei bazar orientali i nostri videro gli scialli di Cascemir, i diamanti di Golconda, le perle di Ormus, le seterie di Persia, le mussoline dell’India, le arme di Damasco; e ne rapirono, ne comprarono, concepirono desiderio di averne, di imitarle. Però la mancanza di sicurezza, di regolari aspettative, di libertà nel disporre de’ frutti della propria industria, immiserivano il commercio, siccome oggi avviene in Turchia. Il diritto di lavorare consideravasi prerogativa sovrana, e potere i principi venderla, dovere i sudditi comprarla. Il popolo era impedito di associarsi per dati intenti, e di trasferire la sua proprietà da un’applicazione ad altra che credesse più vantaggiosa; intanto che certe persone ottenevano di esercitare come privilegio quel che ai più restava inibito. Tali angustie cessarono in Italia assai prima che altrove: ma oltre rimanere i capitali in mano di soli nobili e del clero, causava impacci lo sminuzzamento del paese, quando ad ogni varco di fiume, ad ogni gola di monti vegliavano gli armigeri d’un castellano ad esigere un pedaggio, che equivaleva ad una transazione per non essere svaligiati. A modo d’esempio, chi si partisse da Torino aveva a pagarne uno quivi stesso, poi a Rivoli, ad Avigliana, a Bussolino, a Susa: cinque volte in trenta miglia. Lombardi e Veneziani andavano pel Sempione, donde a Sion, a Losanna, a Ginevra, a Lione, ovvero per Clees nella Franca Contea. I Genovesi per Asti e Poirino giungevano a Testona, e qui varcato il Po sul ponte de’ Templari a Sant’Egidio, difilavano per Rivoli a Susa e al Moncenisio: disvantaggiandone Torino, che perciò insisteva alla gagliarda affinchè i Testonesi non lasciassero ai mercanti traversare il ponte, ma li dirigessero sopra la loro città. Le dogane si misuravano all’avidità del signore, non all’utile del paese, e le tasse moltiplicavansi sotto variissimi nomi[236]. Passando per certe città, le merci si doveano sballare e scassare, e gli abitanti aveano prelazione per la compera; altrove ai soli natìi concedevasi di vendere, talchè sottentravano allo speculatore forestiere. Il pericolo delle anime induceva i papi a interdire il commercio coi Musulmani, e a gran fatica i Veneziani ne ottennero dispensa, come l’ebbero poi anche i Francesi, escluso sempre il portarvi armi e munizioni[237]. Per tema dei masnadieri in terra, dei pirati in mare, doveasi procedere in carovane o con flottiglie, anzichè isolati: alcuni, per ammansare i castellani, menavansi dietro ciarlatani, sonatori, bestie rare: tutti i quali impacci costringevano il traffico ad assumere aspetto di frode, e i pericoli e le vicende sue faceanlo spesso abbandonare a quelli cui era negato ogni altro modo d’arricchire, come gli Ebrei. Il commercio dell’antichità e del medioevo conducevasi tult’altrimenti dal moderno. Mancando la postalettere, poteansi tenere corrispondenze concatenate? Quando pochissimi sapeano scrivere, e la carta era un lusso, e le cifre arabiche appena si introducevano, e inestricabile la varietà di monete e misure, quanto incomodi doveano tornare i conteggi e la corrispondenza! Oggi la forma più consueta è la commissione, cioè il fabbricatore affida a negozianti le merci da vendere per conto; opportuna suddivisione di uffizj: allora invece egli medesimo o suoi commessi andavano con navi o carovane a vendere e caricare, e riconducevano gli avanzi e i baratti. Le antiche strade romane erano state guaste per impedire le correrie dei Barbari, ovvero da questi nelle guerre, o dal tempo; e agli sminuzzati dominj che successero, qual interesse suggeriva di agevolare le comunicazioni? I torrenti si sfrenavano, cadevano i ponti; onde difficilissimi i trasporti: ed anche assai più tardi non viaggiavasi che a cavallo. Caterina di Amedeo V di Savoja, andando sposa a Leopoldo d’Austria nel 1315, cavalcò fino a Basilea, dove il palafreno fu regalato ai minestrelli che cantavano le sue lodi. Maria di Brabante seguì fino a Genova in lettiga il marito Amedeo V, quando nel 1310 accompagnava a Roma l’imperatore Enrico VII. Giovan Villani dà come un gran fatto che uno spaccio del conclave di Perugia arrivasse in undici giorni a Parigi per corrieri di mercanti[238]. Erano perciò in gran conto i corrieri veloci, come Jaquet messaggere del conte di Savoja, che in quattro giorni andò e tornò da Ginevra a Pavia nel 1399: nel 1380 Amedeo VI di Savoja donava due fiorini d’oro a Guglielmo frate cluniacese, che faceva cinquantacinque e più leghe il giorno[239]. Altri importuni aggravj s’erano introdotti, quali l’albinaggio, per cui cadeva al signore l’eredità dello straniero che morisse sulle sue terre[240]; e il diritto di naufragio, per cui la nave che frangesse diveniva preda dell’occupante, o del signore della costa, come tutti i ributti del mare. Fin il goto Teodorico avea riprovato quest’inumanità; il concilio Lateranese del 1079 pronunziò anatema chi spogliasse i naufraghi; e Federico I, poi Federico II di Svevia avvalorarono questa _libertà_ _della Chiesa_[241]: ma gl’interessati sapeano eluderla. Sodare il debito sopra i possessi non usava durante il feudalismo, nè era possibile allorchè quasi nessuno era padrone assoluto del proprio podere: ma nelle repubbliche conoscevasi l’ipoteca coi modi e le cautele che sembrano de’ moderni[242]. Più consueto era il dare in pegno oggetti preziosi, e spesso i tesori delle chiese: o porgeano malleveria altre persone disposte a subir fino il carcere se al dato giorno non venisse soddisfatto il creditore[243]. Il forestiere (ed era forestiere chi abitava a poche miglia) non restava protetto da leggi comuni o dalla generale giustizia, onde si ricorse a strani compensi, come sono le rappresaglie. Se uno restasse leso nella roba o nella persona, e non ottenesse soddisfazione, egli stesso o i suoi accomunati potevano far danno a qualunque compaesano dell’offensore. La rappresaglia derivava dall’antico sistema dell’associazione, per cui tutti stavano garanti dell’accomunato. Oberto Pelavicino signor di Cremona, pretendendosi creditore di Filippo Torriano, allora capo del popolo milanese, sostenne nella sua città tutti i negozianti di Milano colle loro mercanzie. La compagnia de’ Buonsignori di Siena dovendo ottantamila fiorini alla Chiesa romana, il papa pronunziò interdetta tutta la città sinchè fossero pagati. Qualche volta la rappresaglia si applicò a casi criminali; ed essendo ucciso un Inglese da un Italiano della compagnia degli Spini, gli uffiziali della giustizia appresero tutti i compatrioti di esso. Le leggi posero regola a questo costume, e via via si cercò prevenire il danno degl’innocenti. Lo statuto romano non concedeva la rappresaglia se non quando fosse giuridicamente provato il danno[244]. Quello di Padova del 1258 permetteva di rifarsi sopra i beni di chi avesse nociuto o de’ suoi concittadini; ma nel 69 si eccettuarono gli ambasciadori o le persone venute a Padova per affari del proprio Comune, e così i romei e pellegrini; nel 71 si prescriveva, quando un cittadino si presentasse a domandar la rappresaglia contro un individuo o un Comune, questo dovess’esserne avvertito dal podestà, affinchè potesse giustificarsi o accordarsi; che se il consiglio de’ savj decretasse aver luogo la rappresaglia, il podestà presenterà l’istanza e il voto al gran consiglio, che deciderà a due terzi di voti. Nel 1266 a maestro Giovanni Manzio padovano, medico condotto a Ravenna, erano stati per via rubati i danari, le robe e i libri, che erano un Avicenna, un Serapione, un Almansor e qualcheduno d’astrologia: e avendo il podestà scritto ripetutamente al Comune di Ravenna, mandatovi ambasciadori, interposto anche il podestà di Bologna, nè ricevendo soddisfazione, si autorizzò il medico alla rappresaglia. Anche nel 1302 quel Comune la concedette ai signori Carraresi contro i Torriani di Milano per la dote di Elena della Torre. Una singolare rappresaglia è portata dal cap. LVII dello statuto dell’arte di Calimala a Firenze del 1332: — Qualunque de’ mercatanti nostri si richiamerà per iscrittura d’alcuno albergatore d’altra cittade o luogo, manderemo lettere a quello albergatore a spese di quello mercante, che a certo termine le debba aver pagate: la qual cosa se non farà, comanderemo a tutti i nostri tenuti che non alberghino più con lui; e chi farà contra, sia punito in lire venticinque per ciascuna volta». La Chiesa provvide alla sicurezza coll’aprire mercati settimanali o fiere annue alle solennità principali sopra terreno immune, quali erano il sagrato delle chiese o i chiostri. La fiera di Bergamo vuolsi concessa dall’imperatore Berengario ai canonici di San Vincenzo, poi da Ottone alla chiesa di Sant’Alessandro[245]. Quella di Verona fu istituita nell’807 dal vescovo Ratoldo sulla piazza di San Zeno maggiore; nel 1049 le botteghe bruciarono; fu poi ristabilita nel 1187. Un marmo fuori della porta maggiore dell’atrio di Sant’Ambrogio a Milano legge che Anselmo arcivescovo stabilì, per tre giorni avanti e tre dopo la festa dei santi Gervaso e Protaso, nessuno molestasse per debiti chi veniva a quella solennità. Anche a Bologna per la festa di san Petronio i mercanti erano immuni di dazio e gabella otto giorni, e nessuno poteva essere citato a pagare il dovuto (GHIRARDACCI). Negli ordini del 1353 per la fiera di Sant’Andrea di Nizza a mare è assegnato luogo distinto ai venditori di carni salate e formaggi, di spezierie, di pelliccie, di ferro, rame, chiodi, d’argento, d’oro, di spade e armi, di vetri, vasi di terra, corde, pentole, basti, e così pei sartori, pei cambisti, per gli spacciatori di polli e altri volatili, d’erbe e frutti e legumi, di tela, di ronzini ed altri animali di piede rotondo, di porci e bovi, di merci varie; con prescrizioni per ciascuno[246]. Molte strade erano affidate alla custodia dei monaci, come quella del monte San Bernardo, ove il pio Bernardo da Mentone istituì l’ospizio; come quella dell’Alpe fra Lucca e Modena, concessa ai frati di San Pellegrino del Serchio; come il passo di Percussina in val di Greve, con uno spedale assistito dalla compagnia del Bigallo di Firenze. La strada mulattiera traverso al Sangotardo, forando la buca di Uri e gettando il ponte detto del Diavolo, tanto parve meraviglioso, è dovuta agli arcivescovi di Milano, che signoreggiavano la val Leventina. Fin ai tempi di Carlo Magno le gole più elevate delle Alpi erano provvedute di ospizj[247]; le varie nazioni che pellegrinavano in Italia se ne procuravano di proprj ciascuna, sicchè, a tacer Roma, a Vercelli trovammo ospedali di Franchi e d’Inglesi (tom. VII, pag. 107). Man mano che città e borgate si redimevano in libertà, curavano agevolezze al commercio. Nelle prime carte comunali è sempre pattuita la sicurezza delle vie, l’esenzione da certi pedaggi, la moderazione di tutti: e non v’ha statuto che non provveda al mantenimento delle strade, anche con magistrati appositi. Dai castellani del contorno si otteneva a denaro non molestassero le spedizioni, e dessero scorte; alcuni perfino si costituivano garanti dei danni che altri soffrisse sulle loro terre: tanto temevano che i mercadanti si mettessero per altra traccia, togliendo il lucro portato dal passaggio e dagli alloggi. Dimenticavansi le animosità pel comune interesse dei traffici; s’istituivano tregue mercantili, luoghi di franchigia e neutralità. Nel 1182 i consoli di Modena promettono sicurezza nel loro territorio e pronta giustizia ai mercanti e alle persone di Lucca[248]. Nel 1183 Cremonesi e Bresciani giuravano una concordia, convenendo che le due città si concedano a vicenda il transito; le persone fossero rispettate sulle strade, eccetto i mercanti di paesi nimici all’una o all’altra città; la moneta delle due collegate avesse corso nelle contrattazioni reciproche, promettendo non se ne deteriorerà il valore intrinseco, se non col voto del podestà e del consiglio[249]. Nel 1215 Milanesi e Vercellesi faceano accordo che mai dai Milanesi per le persone o le robe loro fosse esatto alcun pedaggio sul ponte che faceasi a Casale sul Po. Nel 1217 il Comune d’Alessandria francava i Vercellesi da quel che pagavano a Beale[250]. Il marchese Pelavicino, Buoso di Dovara, il Comune di Cremona da una parte, e dall’altra Azzo d’Este, Lodovico conte di Verona e le città di Mantova, Ferrara, Padova, alleandosi per fiaccare Ezelino, convennero che, malgrado la guerra, _mercatores de Tuscia semper secure possint ire, redire, stare, conversari cum personis et mercibus per civitates et territoria Mantuæ, Ferrariæ, Paduæ_. Nel 1262, Vicenza, Padova, Treviso, Verona giuraronsi reciproca quiete, e di assicurar le strade a viaggiatori e trafficanti. Giovanni Liprando ed Enrico da Arcore, sindaci dei mercanti di Milano, il 1276 portavano lamento a Filippo conte di Savoja per una sovrimposta (_surrepsio_) da lui messa sulle merci che transitavano pe’ suoi Stati, e stipularono quanto dovesse prendere per ogni balla di lana di Milanesi che passasse di là, e pel pedaggio d’uomini e cavalli a Villanova, al Ciablese e altrove, nulla pagando la bestia che ciascun mercante cavalcava: i mercanti a vicenda giuravano non far le balle più grosse del consueto, e ciascuna di otto panni di Chalons, di dieci panni vergati di Provins, o del peso equivalente; e procurare che i mercanti d’Italia diretti alle fiere di Champagne e di Francia passino e tornino per le terre d’esso conte, il quale li riceve, pel suo distretto, sotto il proprio salvocondotto[251]. I Comuni limitrofi mettevansi d’accordo per migliorare le strade, come fecero Torino, Chieri, Testona nel 1204; Pistoja e Bologna nel 1298 per aprire quella della Porretta. Nel 1219 Bergamo e Brescia pattuivano di restaurare la strada di Palazzuolo, e reciprocamente compensare quelli che dai masnadieri vi fossero danneggiati. Nel 1232 Bonifazio marchese di Monferrato si obbligò verso il Comune di Genova di tenere in buon ordine quella da Asti a Torino, nè esigere altro pedaggio che di soldi sei e mezzo per carico, e nulla per le bestie scariche; i castellani e nobili fra cui attraversa, obbligherà a mantenerla e custodirla, nè introdurre veruna mala usanza[252]. Nella pace del 1279 Verona, Mantova e Brescia convenivano che una strada correrebbe fra esse città per Peschiera, Godio, Guidizzolo, Montechiaro, mantenuta da essi Comuni, e sotto la vigilanza di dieci cavalcatori ogni Comune con tre capitani, scelti fra mercanti e uomini di buona fama. Nel 1333 Franchino Rusca, signore del Comune e del popolo di Como, conchiuse cogli uomini di Blegno che tenessero in essere e in buona guardia le strade per la val Leventina, e ajutassero i Comaschi contro chi le infestasse. Frequentissime convenzioni appellano a tal uopo; e prendendo solo Firenze e in breve periodo, nel 1201 con Fortebraccio di Greccio ed altri conti Ubaldini del Mugello convenne difenderebbero i Fiorentini e le robe loro con guide e scorte in tutto il distretto e dominio; se riportassero danno, li compenserebbero del proprio[253]; nel 1203 coi Bolognesi di cessar reciprocamente le rappresaglie; nel 1250 franchigia con Pisa, cui rinnovava ogni tratto; nell’81 co’ Genovesi libero transito anche per terra, immunità da gabelle al paese di Fabriano, e che garantissero tutte le merci caricate su loro navi; nell’82 con Lucca, Siena, Pistoja, Prato, Volterra, reciproca francazione da gabelle o dazj, a somiglianza dell’odierna lega doganale; nel 90 libero transito con Ravenna e Faenza; nel 95 con Lucca, Prato, San Geminiano, Colle, sicurezza per dieci anni, essi e loro alleati, da ogni rappresaglia, malatolta, telone, pedaggio. Dacchè Mentone con Roccabruna si separò da Monaco nel 1748, questa cara cittadina non può comunicare con altre se non pel mare o per una via che passa sul territorio di Roccabruna, e quel principe non può uscire dal suo Stato in carrozza senz’attraversare paese nemico; i Mentonesi non vogliono più mantenere quella strada; e i litigi che ne nascono, e le conseguenze che ne verrebbero, possono spiegare l’importanza dei trattati de’ Comuni del medioevo per le comunicazioni. Pure il viaggiare fu sempre disagiato non solo, ma pericoloso. Dante funesta celebrità diede a Rinieri da Corneto, che faceva guerra alle strade. L’abate Pietro di Cluny venendo a visitare Eugenio III, fu svaligiato dal marchese Obizzo Malaspina, se non che i Piacentini costrinsero questo alla restituzione. Giovanni d’Andrea, celebre canonista, mandato ambasciadore dal cardinale Bertrando del Poggetto al Papa nel 1328, presso Pavia fu assalito e spogliato de’ libri e della roba; e grossa somma ebbe a dare pel proprio riscatto. Il Petrarca, la prima volta che fu a Roma, dovette rifuggire nel castello dei Caprànica, sinchè il vescovo di Lombez nel venne a convogliare con cento cavalieri; partendone dopo coronato, diede nei malandrini, sicchè tornò indietro, e il popolo pensò a farlo scortare; ma altri lo assalsero all’uscire di Parma. Giovanni Barile, mandato da re Roberto di Napoli ad assistere a quella coronazione, fu svaligiato per viaggio, e dovette dar volta. Le maggiori apprensioni popolari, e in conseguenza i più estesi provvedimenti sogliono dirigersi sull’annona; e se la scienza non arrivò neppur adesso a persuadere che l’unico preservativo o il palliativo migliore alle carestie è il lasciarla libera, si perdoni a un tempo dove governava direttamente il popolo, soggetto a tutte le paure, e che cogli infiniti impacci sovente produceva il male cui volea farsi incontro. L’obbligo d’introdurre il ricolto nella città era una cautela contro i signori castellani, che avrebbero potuto affamarla. Ma spesso il proprietario dovea sagrificare le proprie convenienze alle paure dei nulla aventi; l’autorità tassava i prezzi de’ comestibili e degli altri oggetti di prima necessità, stabiliva magazzini, fissava le ore e i modi del mercatarli. Così era delle vivande azotate; niuno comprasse di là d’una data quantità di pesce, chè non ne rimanessero privi gli altri; comparendo sul mercato qualche selvaggina grossa, fosse fatta a pezzi, acciocchè potessero fruirne anche i men denarosi. I rigori cresceano all’apprensione di carestia: mettevasi fin pena la vita all’asportar grani; chi ne possedesse dovea notificarli, e venderli al prezzo decretato. In Toscana tutto il grano era compro dal Comune, che facea canova e lo dava per bullettini. D’altri inciampi era causa la nimicizia fra i Comuni; e Lodi vietò di portar biade a Milano, nè di tirarne vino, pena la testa. Altri venivano da’ signori che voleano aggravezzare il transito delle merci fin da una all’altra delle terre di loro dominio. E poichè alcuni principi, come il re di Sicilia, riceveano gran parte del tributo in derrate, restavano principali negozianti del loro paese, e ne facevano monopolio. Federico II esigeva un conto esatto de’ cereali, de’ foraggi e del vino che entrassero ne’ suoi magazzini; e dopo provvigionatone i suoi palazzi e le fortezze, il resto si vendeva, principalmente a mercadanti romani, o anche asportavasi direttamente per conto del re, il quale, ove l’opportunità arridesse, ne spediva in Ispagna, in Barberia su navi proprie o di Veneziani o Genovesi. Nel 1239 incaricava il grand’ammiraglio di condurre a Tunisi, dove forse il ricolto era fallito, cinquantamila salme di frumento, parte avuto dagli intendenti regj, parte procurato al miglior costo; al qual fine se ne proibiva ogni altra asportazione; e in Africa fu venduta la salma ventiquattro tarì, locchè produsse quarantamila oncie d’oro, o due milioni e mezzo di lire[254]. Questo andar e venire dei grani e delle altre derrate produceva gran movimento mercantile; e i Veneziani specialmente cavavano dalla Barberia, dalla Sicilia, dall’Egitto granaglie da provvigionare anche altri paesi; dalla Barberia stessa e dal mar Nero, il sale, del cui monopolio erano gelosissimi. Per quante volte i Padovani tentassero mettere saline sul loro territorio, sempre i Veneziani gl’impedirono; e sotto alla statua del doge Gradenigo, fra altri vanti, è scritto: _A faciendo sale Paduanos marte coegi._ Fra le spezie, il pepe era indispensabile, quanto da due secoli in qua lo zuccaro; cittaduole ne tenevano magazzini; in alcune il dazio impostovi suppliva ad ogni altro; i signori di Basilea nel 1299 al diritto di vender pane condizionavano la retribuzione di una libbra di pepe l’anno. La cannella, il garofano, la curcuma o zafferano d’India, pianta tintoria che prosperava anche nelle valli cretacee dell’Ombrone; il zenzevero, il cubebe, l’anesi, le foglie di lauro, il cardamomo, la noce moscada erano grato solletico ai sensi, oltre gli spighi di lavanda côlti in Italia. Aggiungete la paglia della Mecca (_andropogon schœnanthus_), la scamonea, il gàlbano, il laserpizio, la sarmentaria, l’aloe, la mirra, la canfora del Giappone, lo zafferano[255], il rabarbaro della Siberia meridionale, la sena, la cassia, il badeguar, la galla del biancospino, il cisto di Creta da cui cavasi il làdano, l’olio di sesamo, la gomma d’astragalo, la gomma gutta, la gomma arabica, la sandracca d’Africa, il sangue di drago delle Canarie. I frutti d’Italia, di Spagna, di Grecia, l’olio, il riso[256] erano spacciati dagli speziali, come chiamavansi i venditori delle merci suddette: il caffè non era conosciuto; poco lo zuccaro. Ai riti della Chiesa occorrevano pure cera ed ambra; e a Venezia lavoravasi quella, di questa si faceano crocifissi e paternostri, traendola dal Baltico. Le ricerche sul prezzo dei generi di prima necessità e della mano d’opera provano che non differiva molto dall’odierno, giacchè un operajo ordinario fu e sarà sempre pagato quel tanto che si richiede al suo vivere. Il prezzo delle altre materie troppo è difficile a determinarsi in tanta varietà delle monete e incertezza dei patti secondarj. Troverete della legna, ma non sapete se fu tagliata dai boschi stessi del compratore; del vino, ma intendevasi condotto e daziato? e in anno d’abbondanza, o di scarsezza? un mobile, ma forse era un capo d’arte o di preziosa materia; un libro, ma forse traea valore dalla legatura e dalle miniature[257]. Le ricchezze minerali non si neglessero. Le vene del Bergamasco e delle valli Camonica e Trompia fin da antichissimo diedero molto ferro, al quale eccellente tempra sapea darsi nel Comasco. Armi si fabbricavano a Gardone, Lumezzane, Brescia; e Giovanni da Uzzano ricorda i pregiati acciaj bresciani, e i badili, le lamiere, i fondi di padelle che si tiravano di là. Il ricco minerale dell’Elba, di Pietrasanta, d’altre parti della Toscana trasportavasi greggio o lavorato anche in Levante. Venezia trasse partito dal ferro e dal rame del Friuli, della Carintia, del Cadore; e pare lungo tempo le fabbriche sue conservassero il secreto d’agevolare col borace la fusione. Rame s’avea pure da Massa marittima, e in val Tiberina e in val di Cécina, dove anche solfato di ferro. Argento si cavava a Perosa e nella valle di Lanzo in Piemonte, nelle valli Seriana, Brembilla, di Scalve e in altre del Bergamasco. Le argentiere di Montieri, mestissimo villaggio in Val di Merse, sono donate nell’896 da Adalberto marchese di Toscana ad Alboino vescovo di Volterra, confermate più volte, e segnatamente da Enrico IV, nel 1186, purchè _episcopus et sui successores nobis nostrisque successoribus, pro ipsis argenti fodinis, triginta marcas argenti examinati ad pondus cameræ nostræ persolvant_. Federico II, in rotta col vescovo di Volterra, affittava _argentariam nostram Monterii_ a Bentivegna Davanzati fiorentino. Il diploma di Carlo IV del 1355 dice che _jamdiu defuerint, et quasi steriles sint effectæ_; e la cava d’oro e d’argento attivata nel Pistojese nel secolo xiii pare un sogno dei cronisti. Bensì attorno al Mille già si hanno memorie d’argentiere presso Massa marittima e nell’alpe Apuana di Pietrasanta, con profondi cunicoli, scavati probabilmente da una consorteria di Lombardi che signoreggiava la Versilia. Oro traevasi dalle arene del Ticino, dell’Adda, d’altri fiumi; e al 1º novembre del 1000 Ottone III concede al vescovo di Vercelli _totum aurum, quod invenitur et elaboratur infra vercellensem episcopatum et comitatum Sanctæ Agatæ_[258]. Dalle moje di Volterra si avea sale, ma era ignota la produzione dell’acido borico, oggi ricchezza di quei lagoni: ben se ne cavava solfo; e un Genovese vi trovò l’allume, emancipandosi così dal trarne da Tunisi, dalla Germania, da Focea, paesi occupati dai Turchi, assai prima che si adoperassero le allumiere del Napoletano e della Tolfa nella maremma romana. Lipari, donde in antico s’avea tutto l’allume, per testimonio di Diodoro Siculo, talchè il prezzo rimaneva ad arbitrio degli abitanti, da gran tempo cessò di somministrarne. Anche sotto al feudalismo le arti si erano conservate al modo antico, disposte in corpi o scuole o maestranze sotto proprj capi; organizzazione dell’industria conforme a tempi, dove, non ancora riconosciuta l’eguaglianza degli individui, venivano emancipati in masse, e non intendendosi il lavoro libero, si facea che l’operajo travagliasse pel maestro, come il villano pel signore[259]. Tutto vi era regolato con una minuzia puerile: il filatore non poteva accoppiare fil di canapa a quello di lino; il coltellinajo non fare manichi a cucchiaj; non i ciotolaj e orciolari tornire un cucchiajo di legno; non fondere sego di bue con quel di montone, non cera nuova con vecchia; determinati gl’ingredienti delle tinture e de’ varj composti. Dovettero nascerne impacci, conflitto, tirannie; i principi se ne fecero una fiscalità; il monopolio si saldò a favore di pochi; ammende e multe per ogni minima violazione, e giudici erano gli emuli, interessati a cogliere in colpa. Pure in que’ primordj i sindachi, i consigli, i probiviri, le frequenti adunanze, le camere di disciplina, ove «mercantilmente si procede, e i piati si scrivono vulgarmente senza giudici o procuratori o notari, più di buona equità che di stretta ragione procedendo»[260], riuscivano d’ammaestramento al vulgo, come le falde sorreggono i bambini: compagni, fattori, discepoli, maestri formavano una gerarchia di opportuna dipendenza: gli artigiani riuniti nei medesimi quartieri, si vigilavano a vicenda ed emulavansi, così togliendo o rimovendo le frodi, facili in popolo inavvezzo all’industria; si soccorreano ne’ bisogni; il garzonato dava una garanzia di futura abilità; nella suddivisione dei lavori dovea ciascuno raffinare il suo speciale; lo spirito di corpo dava aria di gravità, e fece conoscere e ponderare diritti; gli stendardi de’ santi patroni furono stendardi d’indipendenza, e protessero l’individuo dalle vessazioni, talchè divennero potenze sociali le classi laboriose, e formaronsi, vorrei dire, dei feudatarj borghesi e nulla possidenti[261]. Nè però si creda non ne fossero conosciuti gl’inconvenienti; e al 1287 il Comune di Ferrara aboliva tutti i collegi d’arte, di qual si fossero maniera e nome, talchè nessuno potesse fare adunanze o collette. Eccettua il collegio de’ giudici, le confraternite devote, le università delle contrade e ville, i fabbri, a cui si concede di avere un commesso che compri il carbone e lo distribuisca ai singoli; quelli poi che avessero beni comuni, possano deputare chi gli amministri. Ai banditori pure sia lecito unirsi una o due volte l’anno per eleggere due che li presiedano onde disporli e mandarli per utile del Comune. I beccaj esercitino lor arte ne’ luoghi e modi stabiliti. Ogni artefice od operajo richiesto per l’arte sua, deve subito andare, sebbene l’opera cui è chiamato fosse da altro incominciata, e non cessare neppur se altro fosse chiamato a lavorare in sua compagnia. Ma non osino fare intelligenze e congiure tacite od espresse sui prezzi o sul lavoro; e viepiù si tengano d’occhio i navalestri, pessima razza, che molte frodi macchina contro l’utile de’ viandanti. L’arte della lana, allora principalissima, dovette l’incremento agli Umiliati, ordine istituito a Milano, al quale si fa pur merito dell’invenzione de’ drappi d’oro e d’argento per chiese. A Firenze, dove fondò Santa Caterina d’Ognissanti, era tenuto esente da ogni dazio, e proibizione d’insudiciar le acque che andavano alle sue gualchiere[262]. E là principalmente prosperò quell’arte, e nel 1338 vi si finivano ogn’anno ottantamila pezze di panno, del valore di un milione e ducentomila zecchini[263], tirando le migliori lane d’Inghilterra, Spagna, Francia, Portogallo, Barberia. L’arte di Calimala traeva a buon conto panni grossolani di Fiandra, Picardia, Linguadoca, e vi dava assetto e finimento tale da doppiarne il prezzo. In venti magazzini entravano diecimila pezze l’anno, del costo di più che trecentomila fiorini: ciascuna si _taccava_ con un bollettino, ove notare la spesa di primo costo, del denajo di Dio, del recarlo a casa, del tingerlo e ritingerlo, del cardarlo, cimarlo, spianarlo, piegarlo, della bandinella, della maletolta, del teloneo, dell’uscita alle porte, del legaggio, caricaggio, ostellaggio, e d’ogni altra spesa. Le due fiere di san Simone e san Martino traevano a Firenze i più denarosi mercanti di tutta Italia, sicchè vi correano quindici a sedici milioni di fiorini. In Siena, la gabella di quattro lire ogni pezza del panno asportato, la più parte verso Levante, fu appaltata seicento zecchini. Gareggiavano colle francesi e colle fiamminghe le fabbriche di Venezia e sua terraferma, di Pisa, del Bolognese, del Ferrarese, animate dalla proibizione dei drappi forestieri. In Verona al 1300 s’impannavano l’anno ventimila pezze, oltre calze e berrette; e la Signoria veneta ne comprava colà di sopraffini, da presentarne al gransignore (ZAGATA). A Mantova le folle della lana erano privilegio del Comune, distruggendosi quelle che alcun privato mettesse; e lo statuto prescrivea la qualità, e il numero de’ fili, la dimensione del panno, il modo e la forma de’ telaj: non poteano lavorarne se non gli ascritti all’arte, i quali prestavano giuramento avanti al podestà: ogni pezza finita presentavasi al magistrato, che collaudata la bollava, o trovandola disforme dalle prescrizioni, la buttava al fuoco, multando il lanajuolo. Ricchi e monaci vi si dedicavano; nel 1500 vi si contavano quarantaquattro fabbriche; e quando il re di Danimarca visitò i Gonzaga, se ne posero in mostra cinquemila pezze: bellissimo parato per una città! Milano e il suo territorio spediva alla sola Venezia per trecentomila ducati l’anno in panni, e per centomila in canovaccio, cambiandoli con cotone in fiocco e filato, lane francesi e catalane, tessuti d’oro e di seta, pepe, cannella, zenzero, zuccaro, verzino e altre materie coloranti, saponi e _schiavi_ per due milioni. Giovanni da Uzzano, che nel 1440 compilò quanto era necessario sapersi da un mercante intorno ai paesi, alle mercanzie, al cambio, al denaro, alle dogane, e descrisse di porto in porto il viaggio che si faceva lungo le coste del Mediterraneo, poi all’Jonio e al mar Maggiore, scriveva che «a Milano càpitano quasi tutte le robe di Lombardia per mettere in Genova: si trae da Milano mercerie infinite d’ogni ragione, armadure di maglia e di piastre e d’ogni ragione, acciaj, ferri lavorati, fustani, tele e panni assai fini; di Como panni assai e fini; di Monza panni grossi e fini; e mettonsi a Venezia per navigare in Levante; di Verona e Mantova panni; di Padova zafferano e lino; d’Alessandria lino, tele di guado assai, e molto guado; di Monferrato zafferano, canovaccio, canape; di Brescia acciaj, ferro, lino, zafferano, carte»[264]. Più tardo sorse l’artifizio della seta. Questa nel Codice rodio era agguagliata in prezzo all’oro, e al tempo di Procopio quella di colori ordinarj valea sei monete d’oro l’oncia, e il quadruplo la purpurea: traevasi dai Seri, popolo dolce ma rozzo nel Tibet, o piuttosto dall’Indo-Cina, come oggi par dimostrato. Due missionarj, colà portati da zelo religioso, vi conobbero l’industrioso insetto, e come produca quel filo prezioso; e recatene alcune uova in Europa, riuscirono a educarli. Il Peloponneso, tosto piantato a gelsi, da questi dedusse l’appellazione di Morea; e fabbriche istituite per l’impero orientale scemarono se non tolsero il bisogno di ricorrere agli stranieri. I Veneziani, assoggettata l’isola d’Arbo sulle coste di Dalmazia nel 1018, le imposero di contribuire ogni anno alquante libbre di seta; se no, altrettanto peso d’oro puro. Alla presa di Costantinopoli estesero le seterie, assicurandosene il monopolio mediante trattati coi principi dell’Acaja. In principio non conosceasi che il gelso nero, e il Crescenzio (cap. 14) si lamentava che le donne ne cogliessero le somme foglie per nutrire certi bachi, il che impedisce ai frutti di maturare: forse solo nel XIII secolo si portò il gelso bianco. I privati tardavano a intenderne il vantaggio, talchè si dovea per legge ordinarne la coltura: lo statuto di Modena del 1327 impone, chiunque abbia orto chiuso vi pianti per pubblico vantaggio tre gelsi, tre fichi, tre melogranati, tre mandorli; quel di Pescia del 1340 obbligava a coltivarne; e un secolo dopo, per Toscana era imposto ad ogni contadino di piantarne cinque ogni anno[265]; poi si proibì d’asportarne la foglia, e nel 1423 si concedea franchigia a chi ne importasse. Pretendono che Lodovico Sforza gl’introducesse nel suo parco di Vigevano, donde si diffusero per Lombardia, di che a lui venne il cognome di Moro. Una grida di Milano del 1470 impone si piantino almeno cinque gelsi ogni cento pertiche; un’altra, di notificare quanti ne esistevano, e la foglia loro si cedesse al maestro da seta a prezzo equo, chi non volesse da sè nutrirne i bachi[266]. Ma già nel 1507 il Murlato, in una cronaca comasca manoscritta, nota che le campagne attorno a Milano e a Como davano immagine d’una foresta di gelsi. Vorrebbero che Ruggero di Sicilia dalla sua spedizione in Grecia portasse telaj ed operaj di seta; ma noi vedemmo come anteriormente ne tessessero i Saracini. Soggiungono che quell’arte fiorisse in Lucca, e che quando Castruccio la prese, novecento famiglie di tessitori si diffondessero per la restante Italia, trentuna delle quali nella sola Venezia: pure fin dal 1225 l’arte della seta a Firenze formava corporazione distinta, noverata fra le maggiori, e coll’insegna d’una porta rossa in campo bianco; e nel 1248 i Veneziani proibirono il commerciar di seta agli esattori delle tasse imposte ai fabbricatori di essa. Frà Buonvicino da Riva in quel giro di tempo scrive che a Milano si facevano panni _de lana nobili et de sirico, bombace, lino_: vero è che traevasi da di fuori. Borghesano da Bologna inventò i torcitoj nel 1272, tenuti in gelosissimo segreto, finchè, entrando il secolo xiv, gl’insegnò ai Modenesi un tal Ugolino, che per questo fu in patria appiccato in effigie[267]. Il setificio si estese a Pisa, Genova, Padova, Como, Verona, Vicenza, Bassano, Bergamo, Ferrara, Bologna e nella Lombardia, a segno che la seta indigena non bastando alle fabbriche, era d’uopo cercarne nella Marca, nella Calabria, nelle isole greche. Non si tardò a lavorare stoffe e broccati, intessendovi l’oro e l’argento, e ad applicarvi fregi metallici col ricamo e coll’impressione; e nell’industria de’ broccati gareggiarono Venezia, Genova, Lucca, superate da Firenze. Marino da Cataponte veneziano nel 1456 riceveva dal re di Napoli mille scudi a prestito perchè in quel regno attivasse fabbriche di drappi di seta e oro; immune d’ogni gabella la seta, l’oro filato, la grana e tutto che servisse a tale lavorìo; gli operaj venissero trattati come napoletani; nelle loro cause civili e criminali non fossero riconosciuti da altro tribunale che dai loro consoli, i quali in numero di tre venivano eletti ogni anno da tutti quelli iscritti sulla matricola dell’arte, e ogni sabato doveano tener ragione. Altri diritti furono concessi e sussidj a Francesco di Nerone e Girolamo di Goriante fiorentini, a Pietro de’ Conversi genovese: anzi in appresso fu eretto in Napoli un distinto tribunale _della nobil arte della seta_, da’ cui decreti non davasi appello che al supremo consiglio, dove il giudice facea la relazione stando in piedi a capo scoperto[268]. Diritti quasi eguali v’ebbe l’arte della lana. Altri tessitori genovesi e fiorentini, invitati da Carlo VIII, poneano a Tours le prime manifatture di seta in Francia. Quest’arte essendo molto scaduta in Lucca, ove prima tanto fioriva, si cercò ravvivarla con regolamenti, che la dovettero anzi intristire. Lo statuto del 1482 prescrive che nessuno possa tesser drappi di seta se non sia arrolato nella scuola: per esservi scritto come capo maestro vuolsi abbia lavorato quattro anni chi è nato in l’arte, e cinque chi fuori. Chi lavora di tesser seta, non possa esercitare altr’arte ove di quella si maneggi. Chi comincia a tessere una pezza, deva farla marchiare, notandone il colore e la lunghezza. Non si tengano in casa più telaj dei descritti. Per farsi immatricolare si paga un ducato d’oro. La donna che si mariti fuor dell’arte, non possa insegnarla ad altri. Non si piglino garzoni forestieri. I mercanti giurino di non tingere zendadi con robbia nè sangue di becco, e i panni scarlatti colorire con grana[269]. Potremmo in ciascun paese riscontrare questi medesimi errori economici. La tintoria era un accessorio quasi indispensabile per tutte queste fabbricazioni. Da gran tempo l’allume era il mordente più consueto: avevamo appreso dalla Francia e perfezionato l’uso del chermes e della robbia: fu consacrato dalla pubblica riconoscenza il nome del Fiorentino che nel secolo xiv introdusse dal Levante in patria il tingere a oricello, cioè in violetto coll’uliva[270], derivandone il cognome degli Oricellaj, alterato poi in Rucellaj. A Bologna prosperavano le tintorie di seta e di panno in grana e scarlatto; ed essendo nel 1220 per servizio di esse tirata in città l’acqua del Savena, fu conosciuta tanto opportuna, che i tintori fecero solenne festa con processione e fuochi per tre giorni (Ghirardacci). Venezia, Genova e la Lombardia fabbricavano eziandio tele di cotone, ma non da reggere il confronto di quelle di Mussul, mentre quelle di lino e di canape, tessute principalmente in Lombardia, Padova, Bologna e nel Piemonte, oltre soddisfare al consumo ogni dì crescente, servivano anche a baratti coll’Asia. A pari colla seta erano prezzate le pelliccie, distintivo de’ cavalieri e di alcune dignità civili ed ecclesiastiche: di grossolane arrivavano da Svezia e Norvegia; da Russia le preziose, massime dopo scoperta la Livonia; preparavansi a Venezia, Bologna, Firenze, e in quantità erano spedite al Levante. Il nome di Firenze richiama i cappelli di paglia intrecciata, arte ben antica se in casa Ricci ancor si conserva quello che fu di santa Caterina de’ Ricci. A Brozzi dapprima, poi si estese alla Lastra, a San Piero, a Ponte, a San Donnino, e se ne mandava per tutto il mondo[271]. Le armi davano lavoro a molti opifizj, dovendo ogni feudatario fornirne i suoi uomini, ogni libero se stesso, ogni armatore il proprio legno. Corazzaj e spadaj formavano una delle arti in Firenze; in Milano dura il nome alle contrade degli Spadaj e Speronaj: e le armi della lupa quivi fabbricate erano cerche persino fuori di cristianità. L’arte del vetro, della quale fino dal xiii secolo aveva esposto i metodi il patrizio Manni, e che era concentrata in Murano, andò sempre in meglio; e Venezia lavorava come semplici ornamenti conosciuti col nome di _conterie_, così imitazioni di gemme, vasi comuni e costosi cristalli, vetri di finestre e specchi suntuosi. Una fontana di cristallo in argento fabbricata a Murano, fu comprata tremila e cinquecento zecchini da un duca di Milano. Una legge del 1255 provvide per gelosamente conservare quest’industria al paese; e chi la esercitasse, godeva privilegi tali, che il matrimonio d’un patrizio colla figlia d’un vetrajo non derogava la nobiltà, e la moglie del nobile muranese sedeva pari a quelle della dominante; l’operajo che ne migrasse, era reo di morte. Vi si lavorava pure attivamente di conciar pelli, e dorare cuoj per le tappezzerie e marocchini. Moltissimi orefici con eleganza pari all’abilità legavano gemme e facevano d’ogni maniera ornamenti fin dal secolo XII, gareggiando con Genova, Bologna, Parma, Cremona, Mantova, Perugia, Milano che n’era mercato ed emporio per l’Italia media. Fin dal 1123 appare indizio della catenella, che ogni Veneziana poi volle avere a più giri attorno al collo e ai polsi. I camini in forma di campana, i terrazzi di pietruzze e calcistruzzo battuti v’erano comodità antiche, e da Venezia si propagarono al resto d’Italia. Disputarono agli Orientali la fabbrica de’ camelotti e delle rascie; la canapa convertivano in cordami, il filo in trine, migliaja di povere addestrandosi al rinomato punto in aria. Il borace, che traevano dall’Egitto e dalla Cina, soli i Veneziani sapeano preparare, come il cremor di tartaro, la biacca, la lacca, il cinabro, il sublimato, probabilmente imparati dagli Arabi. Molto si lavorava di cera, la cui imbiancatura non v’era pregiudicata dalla polvere; di zuccari prima della scoperta d’America, di liquori, di sapone. A Perasco faceansi le corde armoniche, nel Vicentino i panni, a Salò il refe. La zecca, oltre la moneta nazionale, ne lavorava pei paesi con cui trafficavano, ed anche coll’impronta dei re barbari. Le cartiere del Friuli e di Brescia diedero un altro capo di asportazione ai Veneziani, che presto la nuova arte de’ libri stampati aggiunsero alle antiche: una nave catalana nel 1380 aveva caricato a Genova per la Fiandra ventidue balle _paperi scrivabilis_[272]. Le varie arti v’erano unite in fraglie, regolate da matricole scritte (_mariegole_), dove pure si deponevano i secreti dell’arte, e la poteva esercitare solo chi vi fosse registrato o chi avesse educato un trovatello. Aveano particolare magistratura di conciliazione: con tenui contribuzioni si preparavano mutui soccorsi, ed ergevano chiese e scuole, la cui magnificenza desta ancora la meraviglia. Il magistrato dei sensali giudicava in prima istanza la propria corporazione, potendo condannare fino a tre anni di galera; i giudici della seta e la camera del purgo giudicavano de’ setajuoli e lanajuoli. Di gran mistero avvolgevansi le manifatture, gli olj e sali medicinali; la teriaca, famoso polifarmaco, tenuto qual panacea universale, e di cui fin seicentomila libbre l’anno si asportavano; le tinture, massime lo scarlatto e il chermisi, non doveansi fare che al tempo determinato dalla legge, e con apparato d’incantesimo, e con baje di giganti col cappellone, di uccellacci o d’altro che portassero gl’ingredienti: meschini spedienti ma comuni, che, invece di cercare la superiorità nel migliorare, assonnavano nella fiducia della proibita concorrenza. Il fiorentino Dei, che vergò violenti diatribe contro i Veneziani, e si vantava d’aver fatto gran male ad essi in tutti i paesi, e massimamente aizzando i Turchi a loro danno, li rimprovera perchè sui mercati, dove i Fiorentini comparivano con broccati e drappi di gran valuta, essi non portassero che aghi, seta da cucire e far frange, sonagli, arme, vetrame e bazzecole. Prova che i Veneziani eransi accorti come i piccoli guadagni moltiplicati equivalgono ai grossi, e quanto giovi lo speculare sovra oggetti minuti ma di gran consumo. Con tutti quei regolamenti e con infinite minuzie e precauzioni, consonanti all’economia politica d’allora, il Governo voleva attirare ai Veneziani tutti i vantaggi del commercio europeo, nutrire l’industria per mezzo dell’industria, assicurare alle fabbriche del paese un’occupazione costante, non lasciando mai venir meno le materie prime. Siffatto sistema a lungo andare poteva cessar di produrre i vantaggi che si speravano nello stabilirlo; ma l’incertezza del futuro e la poca probabilità di cambiamenti possono giustificare la condotta del senato, mentre il paese vi va debitore di grandi lucri e ricchezze. Del resto noi, tuttora impigliati fra tante pastoje, potremmo apporre a que’ vecchi se non aveano ancora imparato che in ogni materia, ma più nel commercio, il meglio che possa farsi è il non governar troppo? Essi invece per favorire il commercio moltiplicarono leggi, alcune delle quali non poteano che pregiudicargli, come avviene delle vincolanti. Conviene però confessare che conoscevano il principale scopo del commercio, qual è di conguagliare la ricerca coll’offerta, la produzione col consumo, nè mai c’incontra di vedere quegl’ingombri di manifatture non ismaltite, che sono il disastro dell’odierna industria, comunque giganteggiata pel sussidio delle scienze, delle belle arti, dello spirito d’associazione, della suddivisione de’ lavori. Procuravasi la buona fede coll’infamare chi fallisse al debito: e a Milano, a Firenze, altrove doveva acculacciare una pietra: la _pietra del vitupero_ stava nella sala della Ragione a Padova; a Monza, chi rassegnava i beni dovea presentarsi alla pubblica assemblea, e scalzo, nudo, in sole brache ascendere sopra la pietra, e starvi dal principio al fine dell’adunanza; a Lucca, siccome nell’antica Roma, l’oberato portava un berretto giallo, e se un creditore l’incontrasse senza questo, avea diritto di farlo arrestare. Con un rigore, di cui l’Inghilterra pur offre esempio, nel 1398 i Fiorentini stanziarono che i falliti potessero forzarsi a far da boja, quando altro non ce ne fosse[273]. Nel 1253 i Cremonesi stipularono coi Genovesi che, se qualche Genovese abbia fatto credito a un Cremonese nel distretto di Genova, il creditore deva richiedere per mezzo del Comune di Genova il Comune di Cremona, il quale sarà obbligato ottenergliene la soddisfazione. Se il debitore confessi il debito e nol paghi subito, venga arrestato e consegnato al creditore esso e i figli, per essere sostenuto nel carcere de’ malfattori, o condotto fuori del distretto di Cremona cinque miglia, dove il creditore vorrà. Se il debitore fuggisse di carcere, il Comune di Cremona pagherà. Se pagasse il debito, non si rilascerà finchè non dia una sicurezza di stare al giudizio. Del debitore confesso poi si avrà soddisfazione prima col mobile poi coll’immobile, a stima di arbitri giurati, in modo che il Comune lo riceva e paghi secondo tale stima. Se poi non abbia nè mobile nè immobile, sarà consegnato co’ suoi figli maschi al creditore e condotto come sopra. Se fuggissero, siano dichiarati forestieri (_forestetur_) al Comune di Cremona; e se mai vi tornino, tengansi obbligati a soddisfare al creditore[274]. Di buon’ora si cominciò a mettere in iscritto le convenzioni commerciali, e pur testè fu pubblicato il repertorio di Giovanni Scriba notajo di Genova, il quale pel solo anno 1161 contiene cenquarantacinque atti privati, di società, di proteste, di divisioni[275]. Pel più antico istrumento mercantile vi è dato un atto del 1155, ove un Aucello giura portare a trafficar in Sicilia e a Salerno lire sessantadue, ricevute da Oberto Usodimare. Una carta dell’anno stesso dice: «Io Ugero Lugaro confesso aver quattrocentosessantasette lire di roba tua, o Guglielmo Filardo, che devo portare ad Alessandria per trafficare a tuo conto: al ritorno deve esser tuo il capitale e il profitto, eccetto sette bisanti che mi vengono per la condotta. Di quelle lire devo far le spese del mio vitto e per quanto occorre. Del mio, porto lire venti». Ai 19 settembre Ribaldo da Sarafia e Ferro di Campo mettono in società quello lire cinquanta, questo trentacinque e il suo personale, e gli utili si divideranno a metà. Al 6 luglio 1156 Lanfranco Pepe commette il capitale di lire cinquanta a Bernardo Porcello che lo traffichi in Genova, e dei profitti si farà a metà. In quel curioso repertorio molte altre si hanno di queste associazioni del capitale coll’industria. Opportunissima al commercio venne l’istituzione dei consolati, cioè d’una speciale e compendiosa giurisdizione per le cause mercantili sia nell’interno, sia fuori[276]. Ne’ paesi lontani più frequentati si tenevano consoli, che e vigilassero sugli atti del commercio nazionale, e giudicassero i negozianti loro compatrioti secondo leggi scritte o le usanze o il buon senso. Tali sentenze costituirono un diritto consuetudinario; poi un Catalano o più probabilmente un Italiano, entrante il secolo xiii, pensò raccogliere le costumanze de’ porti del Mediterraneo, e ne nacque il _Consolato de’ fatti marittimi_, base anch’oggi di tale legislazione, e diritto comune ove manchino disposizioni particolari. Doveano essere avanzi delle leggi antiche, durate in pratica anche dopo periti i documenti; e vi si tratta, in ducento capitoli, dei doveri e diritti dei patroni di nave e socj, de’ marinaj, mercanti, passeggeri; delle merci occultate, bagnate, guaste, prese, gittate; degli attrezzi, delle armi, delle condizioni di nolo, de’ cambj, delle assicurazioni[277]. A questo esempio furono compilati il _Giudicato di Oleron_ per l’Oceano, e le _Ordinanze di Wisby_ pel Settentrione. Se pure le assicurazioni erano conosciute ai Romani, sì poco erano consuete, che legislatori e giureconsulti non le credettero meritevoli di speciale attenzione. Nei nuovi tempi si estesero, e i primi esperimenti si restrinsero ad accomunare i rischi fra i padroni del vascello e quelli che caricavano. Tanto ne parve bene, che la compilazione Rodia, certo anteriore all’xi secolo, la legge di Trani che vorrebbesi del 1060, quella di Venezia del 1253, le imposero come obbligo. Però, non legando che persone cointeressate nella spedizione, stavano a troppo gran pezza da quelle zarose e insieme precise speculazioni, dove, calcolando i venti, le avarie, le stagioni, e insieme le politiche eventualità, la guerra, la pirateria, si offre l’intero rifacimento delle lor perdite, mediante una tenue anticipazione. Non ha appoggio chi le asserisce conosciute a Bruges nel 1310; e poichè niuna legge marittima settentrionale ne parla, nè tampoco la grande _Ordinanza anseatica_ del 1364, ci si fa credibile cominciassero fra noi, dove gli statuti di Pisa del 1161 le ricordano[278]: nel 1300 il Pegolotti espone come ordinaria questa assicurazione di denari e mercanzie «a salvi in terra, a rischio di genti e di mare, a tutto periglio di mare, di gente, di fuoco, di corsali», con premio dal sei al quindici per cento: il breve poi del porto di Cagliari prevede i casi del _naulegar_ e del _sigurare_. Ma grand’ala non poteva aprire il commercio quando sì scarso il contante; non avendosi oro che dalle miniere di Spagna e Ungheria, poca polvere dall’Africa, qualche paglia dai nostri fiumi; dell’argento non ancora lavorandosi le cave dell’Harz; e il commercio coll’India e la Cina dovendo saldarsi in moneta effettiva, perchè non avevano esse bisogno delle derrate o manifatture europee; finchè l’Inghilterra ai nostri giorni non riuscì a surrogarvi l’oppio e le cotonerie. I Romani sentirono, ma non ripararono tale deficienza; la quale, cresciuta collo sperpero della migrazione, poi per le crociate, impacciava le transazioni. Gli è ben vero che queste nell’interno erano assai rade, quando la proprietà restava legata da feudi, livelli, diritti comunali, manimorte, e dall’attenzione di conservare l’avito possesso: pel consumo usuale poi molto adoperavasi il baratto. Però l’Italia ebbe sempre maggior correntezza di contante, sì perchè la sua industria ve ne chiamava, in tempo che le altre nazioni limitavansi a comprare e consumare, e tutto doveano procacciarsi a denaro, non avendo di che far baratti; sì per lo speso dai tanti che qui erano condotti dalla devozione o dall’ambizione o dagli affari; sì perchè la curia romana da tutto il mondo riceveva o tributi, o tasse per dispense, indulgenze, aspettative, brevetti, investiture e simili, o frutti di benefizj lontani, investiti a prelati qui dimoranti. Se ne valsero i nostri per applicarsi alla banca o al prestito, e svilupparono le varie forme del credito. Quando ogni paese, ogni feudo aveva zecca propria, e spediente di finanza consideravasi il falsare o alterar le monete, nasceva un’inestricabile diversità di titolo, d’impronte, di valore. Per sottrarsi alla quale non di rado si stipulavano i pagamenti a peso, cioè a marco, diviso in otto once di ventiquattro carati[279]; onde i negozianti, prima di rimpatriare, col denaro avuto compravano oro e argento non coniato. Tanto più che molti paesi, considerando il denaro come vera ricchezza, non come solo stromento di cambio e misura del valore, impedivano gelosamente l’asportarlo. A questo disagio e alle frodi, troppo facili sopra monete non conosciute, ripararono Lombardi, Fiorentini, Senesi, nelle primarie città aprendo scanni, col nome di banchieri o _campsores_; e ricevute in deposito le somme, sborsavanle man mano che il depositante traesse su loro, o facevanle a questo pagare dai proprj corrispondenti ove egli si recasse. Tutte le operazioni che oggi si lodano come arte bancaria o si vituperano come aggiotaggio, le troviamo già in uso; e Firenze nel 1371 moderava i giuochi di borsa coll’imporre una tassa sopra la vendita de’ fondi pubblici[280]. Una scolastica distinzione fra le ricchezze fruttifere e le infruttifere, che poneva cioè il valore nelle cose medesime, non nel servizio che rendono all’uomo, fece a molti, fino a’ dì nostri, dichiarare illecito il guadagnar sul denaro; e fatto un precetto del consiglio evangelico _Date a mutuo senza nulla sperarne_, si giudicò peccato il lucrare un interesse. Ma poichè è troppo naturale e vantaggioso che il capitalista accomodi al lavoratore, bisognava illudere la coscienza co’ varj sotterfugi di cui gli usurieri sono maestri. I governi poi pensarono a porre un limite agl’interessi affinchè non se ne abusasse; quasi non dovessero, come in tutte le altre mercanzie, proporzionarsi al rischio, alla ricerca, al lucro del mutuante. Come avviene dei provvedimenti arbitrarj, anche questo dovette altalenare; e poichè probabilmente le variazioni si saranno legalizzate sol dopo che l’abuso era comune, non possiamo dal variare degli interessi argomentare la maggior o minore ricchezza pubblica, cioè il migliore impiego del denaro. Perocchè a volere che in paese industre gl’interessi si proporzionino al vantaggio che ne trae l’accattante, bisognerebbe che i divieti non perturbassero l’equivalenza de’ servigi; e molte volte gl’interessi sono alti in grazia non della prosperità, ma del rischio a cui il capitale si espone. Così oggi in Levante, perchè il Corano vieta il ricevere frutto, il prestatore non protetto dalla legge deve premunirsi dai rischi della contravvenzione. Il codice romano stabiliva il merito del quattro per le persone illustri, dell’otto pei mercanti, del dodici per quelli di grado inferiore che prestassero grano o derrate, del sei per gli altri; tanto era mal compreso l’uffizio del denaro. Nel medio evo, il commercio trasse il denaro nelle città, sicchè i signori castellani e principi ne pativano disagio, e bisognava ne cercassero a usure trasmodate. Guido conte di Biandrate nel 1161 pattuiva quattro denari al mese, cioè il venti per cento. Nel 1201 Arduino vescovo torinese conveniva con Giacomo e Bartolomeo Sylo, se non restituisse fra due anni le dovute 152 lire susine, v’aggiungerebbe lire 13; se fra tre, lire 25; se fra quattro, lire 58; se fra cinque, lire 90; se fra sei, lire 113: il che era un modo di mascherare l’usura, maggiore del dodici per cento (Cibrario). Nei conti di Giuliano di Nannino de’ Bardi con Pietro di Francesco Piccioli nel 1427 al prestito di lire 2928 in un anno è computato l’interesse di lire 878: lo che scontra il trenta per cento (Pagnini). Il doge Mocenigo assegna il quaranta all’anno pei capitali messi nel commercio. Federico II in Sicilia lasciò solo agli Ebrei il prestare, e proibì di passare il dieci[281]; errore massiccio, emendato dalle violazioni. Uno statuto veronese nel 1228 prefiggeva il dodici e mezzo; uno di Modena del 70, il venti; uno di Cremona del 78 interdisse agli Ebrei di esigere sui pegni più di sei denari per lira al mese. Nel XIV secolo v’ha esempj del trentacinque. A Firenze erano ottanta banchi, e il monte pagava il merito del dodici o quindici e non mai più del venti: per moderare le usure, nel 1430 vi si chiamarono Ebrei, i quali obbligavansi a non riscuotere di là dal venti; e quando nel 95 furono espulsi, si trovò, o almeno si disse che in cinquant’anni aveano guadagnato 49,792,556 fiorini. In Piemonte, morendo uno in fama d’avere guadagnato di usura, ogni aver suo ricadeva nel fisco: al qual uopo con rigore si suggellava la casa, s’imprigionavano la vedova e i figli acciocchè dichiarassero se nulla tenessero nascosto: istituivasi l’indagine, dalla quale raramente l’accusato usciva netto quando importava al fisco di trovarlo in colpa; anche purgandosi, non veniva reintegrato della roba e dell’onore: lo perchè tutti procuravano accordarsi col fisco, colpevoli o no (Cibrario). Il pregiudizio contro gli Ebrei impedì acquistassero proprietà sode; onde si gettarono sulle arti e sul commercio, e non legati da restrizioni clericali, e nell’obbrobrio loro poco adombrandosi di nuova infamia, davano a prestito. Quei che doveano accattar denari da loro, gli accusavano di esorbitanti usure; i rovinati, gl’infingardi riversavano sopra di loro ogni colpa, pretesto a fraudarli del dovuto: e così odiati e necessarj, menavano quella esistenza eccezionale, che è una singolarità in mezzo alle singolarità del medioevo. Ma quel continuo cacciarli per continuo restituirli attesta la cresciuta importanza delle ricchezze commerciali, per cui l’opifizio ormai equivaleva al castello. Che se in Francia e in Inghilterra gli Ebrei erano esposti alle brutalità della plebe, alle persecuzioni de’ preti, all’insaziabiltà dei re, che li chiamavano per ottenerne denari a prestito, poi li sbandivano per farsi pagare la tolleranza, da noi poteano trafficare, se non senza odio, almeno senza pericolo; e se per l’opinione dello scannar figliuoli alla pasqua, la quale vedemmo ridesta perfino ai giorni nostri, erano avversati non meno dalla fanatica Napoli che dalla colta Firenze, spesso gli statuti li riconoscevano, se non altro, per moderarli. Venezia nel 1400 a due Ebrei concesse di fondare una banca di prestito; e quando s’impadronì di Ravenna, prese obbligo di spedirvi banchieri ebrei; i quali aveano case a Roma, a Firenze, a Pavia, a Parma, a Mantova, anzi in tutte le principali città. A Roma l’università degli Ebrei doveva pagare 1130 fiorini d’oro (come da istromento inserito nella bolla di Bonifazio IX del 1399) che servissero alle feste carnovalesche di piazza Navona e a Testacio. Inoltre, al principio del carnovale, alcuni loro deputati doveano presentarsi ai conservatori di Roma, implorando continuasse a loro la protezione del popolo romano, e offrendo un mazzo di fiori e una cedola di 20 scudi, da spendere in addobbare i palchi della magistratura romana. Il primo conservatore rispondeva, che, se rimanessero quieti e fedeli, non verrebbe lor meno la protezione del popolo e del papa. Eguale omaggio faceano al senatore, che rispondeva in simili sensi. A Martino V gli Ebrei d’Italia portarono lagnanze pei mali trattamenti che soffrivano; ed egli, inerendo all’operato da’ suoi predecessori, promulgò privilegi, e proibì agl’inquisitori e ad ogni altra persona laica od ecclesiastica di predicar contro di loro e inviperire la plebe, nè recare ad essi molestie, salvo se fossero fautori dell’eresia, non obbligarli ai divini uffizj, non battezzarne alcuno prima dei dodici anni. Nondimeno alcuni predicatori, massime de’ Mendicanti, persuadevano i Cristiani ad evitare ogni contatto cogli Ebrei, non cuocer loro il pane, non prestar fuoco o servizj, non riceverne prestanze, minacciandoli di ecclesiastiche censure; a tacer quelli che, eccitati da ciò, ne sturbavano i possessi, li battevano, ingiuriavano, uccidevano; col che «li rendeano più ostinati nella loro perfidia, mentre colla carità potrebbero cattivarli». Laonde Pio II, nella bolla 27 luglio 1459, toglie in protezione gli Ebrei; abbiano sinagoghe e sepolture senza impaccio; nè vogliasi costringerli a vivere a modo nostro, o lavorare il sabato; nè siano esclusi dal conversare coi nostri, nè dal comprare o appigionar case e beni da Cristiani, e far contratti, mercatare, tenere scuole delle scienze giudaiche[282]. Cogli Ebrei presto vennero a concorrenza Lombardi, Astigiani, Toscani, Caorsini, aprendo banche in ogni canto d’Europa, e accomodando di denaro non solo i privati, ma anche il pubblico, e massime in Inghilterra, cautelandosi sopra i dazj. Gli statuti di Susa fin dal xii secolo parlano di _casane_ stabilite in varie città d’Italia, cioè banchi di prestanza e di cambio. Nel 1277 Filippo III re di Francia catturò tutti i prestatori italiani sotto imputazione d’usuraj, ma in fatto per ismungerli; e si lasciò calmare solo da sessantamila libbre di parisj, che varrebbero oggi ventiquattro milioni[283]; poi nel 94 stipulava col capitano e col corpo de’ cambisti italiani, che gli dovessero un tanto per gli affari di cambio. Metz ne avea fin dal 1260, e nel 1370 restaurò le sue mura colla taglia percetta su questi Lombardi; nel 1404 appaltava per dodici anni la sua banca a Giovanni Frassinale di Vercelli per duemila e quattrocentotto fiorini di Firenze. Al pari degli Ebrei erano favoriti e odiati i Lombardi; tassate al doppio delle altre le _lettere lombarde_, con cui la cancelleria francese gli autorizzava al commercio; relegati in quartieri distinti e chiusi, simili ai ghetti; e a volta a volta spogliati violentemente od espulsi. Un’ordinanza del 6 gennajo 1477 invitava gli abitanti di Amsterdam a ritirare i loro pegni dai Lombardi avanti il martedì grasso, assolvendoli dagli interessi. I Fiorentini principalmente applicarono a quest’industria; e Frescobaldi, Bardi e Peruzzi, Capponi, Acciajuoli, Corsini, Ammannati erano le più famose banche cantanti in Inghilterra e ne’ Paesi Bassi. La casa dei figli di Caroccio degli Alberti dal 1348 al 57 aveva filiali ad Avignone, Bruges, Napoli, Barletta, Venezia e altrove, le quali pagavano o riscotevano le somme da rimettersi in Avignone alla corte pontifizia o ad altre piazze di Francia, Fiandra, Germania, Italia: contemporaneamente negoziava in grosso di panni, che da Brusselles, Gand e altre terre di Fiandra, Francia, Inghilterra, per la lor casa di Bruges erano spediti al fondaco di panni in Firenze, per la via di Parigi, Marsiglia, Nizza, Pisa[284]. Destri com’erano, qual meraviglia se i nostri venivano adoprati per consiglieri e ministri di finanza da principi? tanto più che non poteano questi assumere veruna impresa se dal banchiere non ne avessero assicurati i mezzi. Molti _siniscalcati_ della Francia meridionale erano appaltati a compagnie di Lombardi, che si assumevano queste imprese finanziarie[285]: a Lione case fiorentine, lucchesi, genovesi faceano in grande il commercio d’asportazione e importazione de’ tessuti di lana e seta[286], e vi serba nome la via de’ Guadagni ove questi teneano banca: ne’ libri mastri di Genova, di Pisa, di Messina, in mancanza di altri documenti, vengono a cercar prove di nobiltà le famiglie francesi che ambiscono di poter inserire la croce nel loro stemma. Quelle banche riceveano in deposito capitali di signori e principi. I figli d’Obizzo d’Este nel 1293 fecero intimare alle compagnie de’ Baccherelli, della Cella, dei Cerchi Bianchi e Neri, de’ Frescobaldi, de’ Nerli, de’ Bardi, degli Acciajuoli, ed altre di Firenze, nulla rendessero al marchese Aldobrandino di quel che il loro padre aveva ad essi affidato[287]. Giovanni Bodino disapprovava una banca a Lione, su cui metteano fondi non solo principi cristiani ma fino i bascià, e che a Francesco I fece patti onerosissimi, e ad Enrico II prestò a nome de’ Capponi e degli Albizzi, al dieci e dodici e fin sedici per cento. Borromeo de’ Borromei, di quel Samminiato donde uscirono fra poco i Buonaparte e gli Sforza, nel 1379 accomodava di ottantamila fiorini d’oro Gian Galeazzo Visconti. Nel 1321 i Peruzzi doveano avere cennovantunmila fiorini d’oro, e centrentatremila i Bardi dai cavalieri di San Giovanni. Fu considerato come pubblico disastro quando gli Scali nel 1339 fallirono di quattrocentomila fiorini; e i Peruzzi e Bardi di mille trecento settantatremila, che equivarrebbero a quaranta milioni di lira d’oggi. Agli Ebrei attribuisce Giovan Villani le lettere di cambio, i quali, sbanditi di Francia sotto Dagoberto I nel 630, Filippo Augusto nel 1181, e Filippo il Lungo nel 1316, si ritirarono in Lombardia, e per trarre il denaro lasciato colà, a mercanti e viaggiatori davano lettere concise. Qual conto fare di un’indicazione di tempo così indeterminato? e quanto poco è probabile, allorchè il bando vietava ogni comunicazione ed assistenza agli Ebrei espulsi. Sa più ragionevole il lodarne i Guelfi di Firenze, che sbanditi dai Ghibellini, trassero somme, principalmente in Lione. I Ghibellini, cacciati alla lor volta, ricoverarono ad Amsterdam, ed usarono altrettanto[288]. Alcune cambiali non aveano particolare direzione, il che si praticava specialmente in Levante, e sembra indicarle il Fibonacci sin dal 1202: altre ordinavano di pagare a persona nominata; e il primo esempio sicuro è di papa Innocenzo IV, che nel 1246 trasmetteva venticinquemila marchi d’argento ad Enrico Raspon anticesare, facendoli pagare a Francoforte da una casa di Venezia. Nel 1253 Enrico III d’Inghilterra autorizzò alcuni italiani suoi creditori a rimborsarsi mediante tratte sopra vescovi del suo regno, il valor delle quali ammontava a 150,540 marchi; e il legato pontifizio ebbe cura di farle pagare puntualmente. I negozianti trovarono comodo il pareggiar le partite senza intervenzione dei banchieri per via di tratte; e la più antica che ci resti è d’una casa di Milano, che nel 1326 tirava sopra una di Lucca a cinque mesi dalla data[289]. Baldo giureconsulto adduce due cambiali, una del 1381 sotto nomi supposti, l’altra del 95 di Borromeo de’ Borromei da Milano sopra Alessandro Borromeo. Un regolamento del 1394 ingiunge ai negozianti di Barcellona di pagar le cambiali entro ventiquattr’ore dalla presentazione, e di attergarne l’accettazione; e pare si conoscessero anche i protesti. Più tardi s’introdussero le girate, che ne formarono la vera comodità. Se dunque gli Ebrei inventarono le cambiali, la vera teorica loro è dovuta agl’Italiani, che le estesero per incassare i fondi, da ogni parte del mondo affluenti alla corte di Roma. Alle fiere di Champagne, molto frequentate perchè medie fra l’Italia, la Francia meridionale e i Paesi Bassi, breve tempo s’indugiavano i negozianti; laonde i re di Francia statuirono che, contro chi lasciasse scadere una cambiale firmata nella fiera precedente, si procedesse in via sommaria. Di qui il diritto cambiario; e spesso obbligavansi i debitori ad enunziare ne’ recapiti che il debito era stato contratto in tempo di fiera per goderne il privilegio. Spedientissime trovate furono le banche pubbliche, le quali nelle transazioni di commercio surrogano al denaro sonante i viglietti, cioè raddoppiano i titoli legali del concambio. Fin dal 1171 pare Venezia possedesse un banco di credito; altre città ne istituirono, ma nessuna con tanta ampiezza e fortuna quanto Genova, del cui banco di San Giorgio abbiamo già parlato a disteso (tom. VII, pag. 111). Affine poi che anche i privati trovassero comodità di prestiti senza cascare negli usurieri, si stabilirono i Monti di pietà. Il primo si vide a Perugia nel 1467[290], per opera di Bernabò medico di Terni, frate francescano, che non esigeva se non quanto bastasse alle spese d’amministrazione. San Bernardino da Feltre e frà Michele da Carcano diffusero quest’istituzione a Mantova[291], a Como e nella restante Lombardia; Sisto IV approvò quello eretto a Viterbo il 1479, e ne pose uno in Savona sua patria; tosto Cesena, Firenze, Bologna, Napoli, Milano, Roma seguirono l’esempio, imitato dalle città industri di Fiandra, e più tardi dai Francesi. A qualche rigoroso moralista odoravano di usura, e accanita disputa si allungò fra teologi e giureconsulti; ma l’utilità che ne derivava indusse a mettervi piuttosto ordine e misura. Da quanto esponemmo siete chiari come le forze e i capitali si sapessero aumentare col formar compagnie di commercio. Fin dal 1188 è ricordata la società pisana degli Umilj, stabilita a Tiro, e che fra il negoziare non lasciava di soccorrere i Crociati[292]. I Bardi di Firenze aveano quasi il monopolio di tutto il regno di Napoli. Parrebbe anzi che le varie compagnie si abbracciassero in una generale, che costituiva una potenza mercantile, e che per ambasciadori trattava coi re e coi baroni, al modo dell’Ansa tedesca. Certamente un _capitano dell’università de’ mercadanti lombardi e toscani_ risedeva a Montpellier, donde il 1276 re Filippo l’Ardito consentì si trasportasse a Nîmes[293], nella carta stessa concedendo che nessun membro d’essa università potesse citarsi ad altro tribunale che al regio; morendo, i loro beni passino agli eredi; non soffrano del diritto di naufragio; vadano esenti dalle guardie, dalle taglie, dai servizj militari. Nel 1293 al Bourget in Savoja stipulavasi una salvaguardia tra Lodovico di Savoja signore di Vaud, e l’università dei mercanti di Lombardia, Toscana, Provenza, rappresentata da procuratori de’ mercanti di Milano, Firenze, Roma, Lucca, Siena, Pistoja, Bologna, Orvieto, Venezia, Genova, Alba, Asti, Provenza (Cibrario). Nè ignota era la società d’accomandita, per cui uno dà a trafficare una somma, partecipando agli utili interi, ma alle perdite soltanto fin all’ammontare del prestato[294]; e con decreto del 1315 Luigi X di Francia dichiarava non trovare usura in società siffatte, da Italiani istituite. Le società stipulavano comunemente che le gabelle non fossero d’improvviso aumentate ne’ luoghi di passaggio; se qualche nazionale o i conduttori facessero ingiuria ai natìi, si punirebbe l’offensore senza concedere rappresaglie sopra i mercanti; si terrebbero netti i cammini da masnadieri; che se essi od altri danneggiassero, i mercanti ne verrebbero rifatti; non si sballerebbero le merci; le quistioni che insorgessero, sarebbero definite il giorno medesimo. Inoltre aveano chiesa, bagno, piazza, forno, macello, casa, giurisdizione propria, talvolta anche criminale. Nel 1189 Pietro re d’Arborea agli uomini di Genova assegna in Oristano _tantam terram, qua fabricari possunt centum botegas_; poi nel 92 privilegi amplissimi, fra cui promette, se alcun legno rompe, farà restituire quanto venisse tolto; se alcun uomo muoja, non ne terrà cosa alcuna benchè intestato. Nel 1169 Boemondo III principe d’Antiochia dona ai Genovesi tutto ciò ch’essi tengono in Antiochia e Laodicea e nel porto di Seleucia: cioè in Antiochia una ruga colla chiesa di San Giovanni; in Laodicea il fondaco e la strada che lo cinge, e terza parte delle rendite del porto; come anche in Seleucia. E se farà altri acquisti, concederà quello stesso che hanno in Laodicea; se qualche ingiuria ricevano, e’ ne vorrà accomodamento e giustizia fra quaranta giorni; sieno licenziati a negoziare in qualunque terra egli acquisti col loro soccorso: il che tutto fa per consiglio de’ baroni suoi, perchè molto ama i Genovesi, e desidera frequentino al possibile la terra di lui e vi dimorino. Pel qual privilegio Lanfranco Alberico, uomo nobilissimo, e legato del senato e de’ consoli, per sè e pel Comune della famosissima città di Genova gli promettono ajutarlo, crescere le sue possessioni e difenderle[295]. In qualche luogo, come a Tiro, i Genovesi partecipavano del diritto di catena che pagavasi da ogni nave entrando o uscendo. Secondo lo spirito d’esclusione d’allora, ciascuna compagnia affaticavasi non meno a vantaggiare se stessa che a deprimere le altre, e col monopolio assicurarsi ingenti guadagni[296]. Di simili trattati una gran quantità troviamo sia delle città fra loro, sia de’ principi, che vi s’affrettavano perchè assicuravano ai loro paesi un lucroso passaggio: ma spesso più che le grida e i tribunali valeva l’opera del papa, che con interdetti e scomuniche puniva i violatori. La quantità de’ pirati, massimamente barbareschi, cagionava che il commercio non procedesse senz’armi, anzi ogni nave era obbligata uscire ben munita. A Genova per legge del 1291 era multato in dieci lire il mercante che navigasse oltre Portovenere senza buone armi per sè e pei servi, e cinquanta verrettoni nel turcasso. A Venezia ogni marinajo dovea recarsi elmo di cuojo e di ferro, scudo, giaco, coltello, spada e tre lancie; se ricevesse più di quaranta lire di stipendio, vi doveva aggiungere la panciera; ed anche balestra e cento saette il nocchiero[297]. Pertanto vedemmo i nostri negozianti prendere tanta parte alle crociate e far conquiste, od esercitare in mari lontani le ire fratricide della patria. Anche le compagnie di commercio terrestre provvedeano colle armi alla propria sicurezza, e talora le adopravano in guerra. Alberto Scotto, famoso tiranno di Piacenza, era alla testa di una grossa _compagnia degli Scotti_, che nel 1299 ottenne di negoziare cogli agenti del re di Francia sulle fiere della Brie e della Sciampagna; la qual compagnia, composta di quattrocento cavalli e millecinquecento pedoni, poco poi guerreggiava a’ servizj d’esso re[298]. La maggiore importanza consistette sempre nel commercio di mare. Lo scadimento di Roma crebbe vita a Costantinopoli, la quale stendendo la destra verso l’Arcipelago, la sinistra al Ponto Eusino e alla palude Meotide, coll’Asia Minore in faccia e l’Europa alle spalle, pare destinata centro ai negozj di tutto il nostro emisfero. Le merci d’Oriente vi erano condotte dall’Egitto, o i Bisantini medesimi andavano cercarle nell’India, nella Persia, fors’anche nella Cina. Il primo irrompere degli Arabi divenuti maomettani non potea che rovinare il commercio: ma poi essi medesimi vi si applicarono dovunque estesero la conquista; fondarono Bàssora, che tolse il vanto ad Alessandria; coll’occupare l’Egitto, interclusero ai Bisantini il mar Rosso, obbligandoli a provvedere da loro le ormai indispensabili derrate dell’India, o a questa rivolgersi per una traccia lunghissima, salendo fino a Kiof in Russia. Le crociate, cominciando a far guardare l’Europa come una sola nazione, unirono gli uomini a concordi imprese, gli avvicinarono ai paesi delle derrate preziose, guadagni e privilegi e occasioni accrebbero alle città marittime, che collo stendardo della croce protessero le speculazioni. Poi le frazioni feudali agglomeravansi in nazioni; e i Comuni sorgevano a quella libertà, che dà coraggio a cercare i miglioramenti; e Amalfitani e Pisani in prima, poi Genovesi e Veneziani si resero i principali, se non gli unici fattori del traffico europeo[299]. Dal settentrione per la Piccola Tartaria vettureggiavano canapa, legname, gòmene, pece, sego, cera, pelli, molti trattati conchiudendo coi Mongoli successori di Gengis-kan e di Oktai, che aveano conquistato la Russia, la Polonia, l’Ungheria e la Moldavia, e da cui compravano il bottino e schiavi. Impediti d’andare nell’India per l’Egitto, vi si spingeano pel mar Maggiore, come chiamavano il Nero, nel quale il Tanai, il Boristene, il Dniester, il Danubio portano le variatissime produzioni di estesissime contrade, mal accessibili per terra. Ivi principale posatojo era la Tana, cioè Azof, all’imboccatura del Don, ove da un lato si aveva la Moscovia, dall’altro l’Armenia, l’Arabia, la Persia, per cui poteasi arrivare al Mogol e alla Cina; e vi teneano cànove Genova, Venezia, Firenze e altre città. I Veneziani per giungere dalla Tana a Catai doveano lasciarsi crescere le barbe, e avere un buon interprete e servigiali che sapessero di tartaro; ordinariamente un mercante portava seco in denari e merci per venticinquemila ducati d’oro; e trecento a trecencinquanta bastavano al viaggio fino a Peking, compresi i salarj degl’inservienti (Pegolotti). Costantinopoli, oziosa e corrotta capitale d’uno Stato senza industria, considerava il commercio men tosto come elemento di pubblica prosperità, che come rendita fiscale; onde le speculazioni di quell’immenso mercato rimanevano a stranieri. Perciò Veneziani e Genovesi, dapprima tollerati, presto furono trovati utili, infine necessarj; e i deboli imperatori, per mantenersene la vacillante amicizia, non conoscevano altro spediente che rinnovare e spesso estendere i loro privilegi. Ne rampollarono calde rivalità fra Genova e Venezia, che vedemmo combattute nei mari nostri e negli orientali. La conquista di Costantinopoli pei Crociati dava la prevalenza ai Veneziani? i Genovesi favorivano Michele Paleologo a distruggere l’impero latino; ed esso in compenso privilegiò la loro colonia di Galata, che spesso giovò, spesso incusse timore all’impero greco. Genova, posta quasi nel mezzo della costa che archeggia dalla Sicilia allo stretto Gaditano, avendosi dinanzi il Mediterraneo, da un lato la Provenza e la Francia, dall’altro l’Italia meridionale, a spalle la pingue Lombardia, a fronte Corsica e Sardegna, Spagna ed Africa, con poco ed ingrato terreno, con mare scarso di pesci, mostrasi predisposta al commercio, che di fatto vi è antico quanto lei. Le emulazioni con Pisa, con Venezia, coi Catalani ne svilupparono la marittima abilità ed il caratteristico coraggio: marinaj più intraprendenti de’ suoi dove trovare? molti per proprio conto assumevano spedizioni e conquiste, talora approvati dal Governo, talaltra abbandonati alle forze particolari, secondo portava il pubblico interesse o la fazione dominante. I dossi erano ancora vestiti di pini e d’abeti, e nel 1822 dal solo bosco di Bajardo presso Triora bastò legname per trentotto galee; da quello di mont’Ursale a Pareto per dieci ogni anno (Serra). E preti e nobili negoziavano; molteplici le società, ove i ricchi mettevano denari, i poveri l’opera: se non che l’infellonire delle fazioni tolse a quella repubblica di cogliere tutti i vantaggi che le avrebbero procurato tanta abilità degli ammiragli, tanta intrepidezza delle ciurme, tanto spirito intraprendente, tanti capitali. L’acquisto più famoso di Genova in Levante fu la Gazarìa. Sulla penisola della Tauride, bagnata dal Ponto Eusino e dalla palude Meotide o mare delle Zabacche, nel giro di ben settecencinquanta miglia, e per l’istmo di Perekop, largo un miglio, unita ai paesi del Boristene e del Bog e alle steppe della Tartaria Nogaja, già per l’opportunità gli antichi Greci aveano piantato colonie, vinte da Mitradate, poi dai Romani. Fu occupata da successive genti barbare, e massime dagli Slavi Cazari, dai quali il nome di Gazarìa. Soggiogata dai Tartari nel 1237, un loro principe la vendette ai Genovesi nel 61, che vi assisero colonie per tutto, e principalmente a Caffa. Questa, situata sul lembo orientale della penisola, a piè de’ monti che fanno cintura alla medesima, già era colonia greca, poi illustre col nome di Teodosia, finchè non cadde in ruine, fu ristorata e munita dai nuovi padroni, i quali con titolo di magazzini fecero case basse, poi le fortificarono senza far mostra, siccome gl’Inglesi a Bengala. Ivi preso buon avvio, le alture vicine roncarono a viti, insegnarono a depurare la soda dalle ceneri dell’atrepice laciniato, ivi abbondantissimo, ed estesero i vantaggi del commercio. Il vecchio Crim, che sedeva sull’opposto pendìo, e dove i Tartari recavano le loro prede, salì per questi vicini in tale aumento, che a tutta la penisola venne il nome di Crimea, e da trecentomila abitanti arrivò ad un milione. A Caffa i Genovesi trovavansi in casa propria, esenti dai capricciosi dazj de’ Barbari cui erano esposti alla Tana, e a milletrecencinquanta miglia dalla patria aveano un porto nazionale ove deporre le merci e raddobbarsi, mentre desse luogo la stagione malvagia. Coi soliti vantaggi de’ popoli colti fra i Barbari, annodarono relazioni di commercio e di politica, ai cittadini diedero magistrati proprj e statuti e moneta, e piantarono una missione. Il console Donadeo Giusti la fe cingere di mura; nel 1383 Leonardo Montaldo doge vi faceva una seconda cinta; e tanto ingrandì, che i Turchi la denominavano Costantinopoli di Crimea (_Krim Stamboul_); vent’anni appena dopo fondata, spediva tre galee a soccorrere Tripoli di Soria; nel 1318 vi era insediato un vescovo, con giurisdizione dalla Bulgaria al Volga, dalla Russia al mar Nero. A mezzodì e a settentrione del seno di Caffa due altri se n’addentrano. Nel primo è Sodagh o Soldaja, con poggi a viti preziose, e terebinto, e pietre da macine. I Genovesi vi fabbricarono una torre di difficilissimo accesso, e attorno a quella le proprie case e mura. Avanzando ancora a meriggio si volta il capo d’Ariete (_Kriu-metopon_), oggi Ajù; poi piegando a ponente è il Portus Symbolorum, detto Cimbalo dai nostri, ed oggi Balaklava, dove i Genovesi posero colonia, opportuno ricovero alle navi del ponente. Dietro a Cimbalo, tra Lusen e la Lombarda, la Gozia ricordava col nome i Goti, e quivi, dove le strade vengono a incrociarsi, i Genovesi eressero l’inespugnabile Mankup. A settentrione si scende in un piano irrigato dall’Alma, ove i kan della Crimea fabbricarono Bakciserai; e tutt’intorno vi rimangono vestigia di case e villaggi genovesi. Da Caffa volgendo a settentrione, si trova Cerco alle falde del monte ove stava Panticapea, camera dei re del Bosforo, sporgendosi fra l’Europa e l’Asia; e i Genovesi non trascurarono di fortificarlo, chiudendo quel varco tra il mar Nero e quello delle Zabacche. Di colà si spinsero entro le foci del Danubio, presso Chiliavecchia posero un castello, e profittavano della pesca dello storione; alle foci del Dniester aveano in Ackerman stabilimenti pel sale e la pesca, e per ricevere grani dalla Polonia; sul lido opposto, a Sinope pescavano il palamide, che seccato fa vece di baccalare. Giunsero poi anche a farsi padroni della Tana, in fondo alla palude Meotide[300]; ma nessuno storico accenna il quando e il come di sì importante acquisto. Forse quella città posseduta dai Tartari fu, nelle sconfitte di questi, distrutta da Tamerlano, e i coloni genovesi da Caffa vi accorsero e la rialzarono verso il 1400. Chi vide testè (1855) tutta Europa combattersi pel possesso di quel mare e per voler aperto il passo dei Dardanelli, comprenderà l’importanza che allora v’annetteano i Genovesi; tanto più che allora ignoravasi la via più diretta alle Indie. La repubblica genovese, fiaccata dal continuo traspeggio, cedette la Gazarìa al banco di San Giorgio, del cui senno restano bel monumento gli _statuti_ che le diede. Ordinata a sembianza della metropoli, presedeva all’amministrazione un console annuo con un cancelliere, nominati a Genova, e che prestavano cauzione. Rappresentava la colonia un consiglio di ventiquattro, rinnovato ogni anno dai membri uscenti, e che sceglieva un piccolo consiglio di sei, fuori del suo grembo; non più di quattro borghesi di Caffa potevano aver parte nel primo, due nel secondo; alcuni posti pei nobili, altri per i plebei. Il console arrivando dava ai ventiquattro il giuramento, e tosto facea procedere alla loro rinnovazione; governava col piccolo consiglio, senza cui non poteva imporre taglie nè fare spese straordinarie; non avere traffici per proprio conto, nè ricever doni. Il cancelliere, scelto dal Governo fra i notari di Genova, rogava gli atti e apponeva il suggello. L’uffizio della campagna rendeva giustizia ne’ contratti de’ coloni coi liberi confinanti. Così da Costantinopoli, da Caffa, dalla Tana, Genova esercitava il commercio col Levante mediante una sequela di scali, che giungevano fino alla Cina da una parte, dall’altra all’India lungo il golfo Arabico, sul quale sembra le fosse interdetto veleggiare. Altri n’aveva in tutta la Romania, la Macedonia e l’Arcipelago; e nominatamente a Scio, una delle isole Sporadi, che perduta, fu recuperata da Simon Vignoso con galee fornite da nove famiglie, unitesi poi nella _maona_ o ditta de’ Giustiniani, dal nome della famiglia ch’era creditrice di trecentomila scudi d’oro; la repubblica ne lasciò loro il dominio, che conservarono fino al 1556. Scio avea ben centomila abitanti; e il mastice che geme dai lentischi, e che si masticava per tener belli i denti e grato l’alito, dava esercizio a ventidue villaggi, se ne vendeva un milione e mezzo di libbre l’anno, e il decimo che toccava all’erario era valutato dall’imperatore Cantacuzeno ventimila bisanti, o vogliam dire zecchini. Da esso e dalle gabelle provenivano annui cenventimila scudi d’oro (sei milioni d’oggi), che si ripartivano fra le famiglie compadrone a misura del capitale impiegato; al quale si proporzionavano pure i voti nel governo. In un trattato del 1431 i Genovesi assentirono al soldano di trarre da Caffa schiavi; e La Brouquière ne’ suoi viaggi in Asia incontrò un Genovese che trafficava di quest’esecrabile merce. Nell’Anatolia possedevano Smirne, produttrice di sete, cotoni, ciambellotti, olj, scamonea; e Focea nuova e la vecchia, donde veniva l’allume. Da Cipro traevano legname, canape, ferro, grano, zuccaro, cotone, olj, oltre le derivazioni dall’Oriente. In Italia due magazzini a Mutrone erano stati donati a Genova dai Lucchesi, per deporvi il sale e le lane; cave d’allume attivò presso a Portercole; dall’alta Italia richiedeva produzioni e manifatture da barattare; dominava anche in Corsica, Sardegna, Malta, Sicilia; e la prima le dava eccellente legname, cacio, vini, pescagione, soldati; l’altra grani, sardoniche, tonni, sardine, oro e argento; Malta frumento, agrumi, cotoni; la Sicilia sale, seta, cotone, oro, e ogni ben di Dio[301]: dalle Baleari toglieva sale; e di due borse che avea Majorca, l’una era comune a tutte le nazioni, l’altra speciale de’ Genovesi. Savona, Oneglia, Albenga, Monaco, Ventimiglia, altre città della Riviera formavano Stati indipendenti: pure Genova esercitava fino a Nizza un protettorato, che le procurava relazioni abituali con Marsiglia per mare e per terra, e coi porti della Linguadoca, principalmente con Aiguesmortes, che posta fra la Provenza e la Linguadoca, col Rodano, colle saline, colle vicinanze di Ales e di Sant’Egidio, rinomati per la coltivazione del chermisi, prosperava più che Marsiglia finchè le alluvioni non la separarono dal mare. Raimondo di Tolosa che n’era signore, donò ai Genovesi casa e fondaco in Sant’Egidio, una strada di Arles, il castello di Torbìa, la metà di Nizza, parte di Marsiglia, metà delle dogane, e il commercio esclusivo ne’ suoi porti. Sulle popolose fiere di Sciampagna, Genova spacciava le droghe e raccoglieva lane[302]. Case avea pure sulle coste dell’Oceano, del Belgio, dell’Inghilterra; e documenti del 1316 e 35 attestano che portava mercanzie, e specialmente allume, in quell’isola: così colla Spagna, a malgrado de’ Catalani, i soli che in mare reggessero a concorrenza co’ nostri; e dall’Andalusia traeva frutti, da Siviglia biade, olio, liquori, dalla Castiglia piombo, lane, allume, dalla Catalogna vino, frumento, sparto da tessere stuoje. Fin dal 1236 facea trattati coi Barbareschi della costa africana per garantire i naufraghi e proteggere il proprio commercio; teneva una cancelleria di lingua arabica per agevolare le corrispondenze con quel litorale, e nel 1274 fu assoldato Asmeto di Tunisi perchè insegnasse il parlar arabo[303]. Tunisi era il suo scalo primario, come per l’Europa occidentale Nîmes, Aiguesmortes, Majorca. Ne’ porti di Marocco e dell’Andalusìa rinfrescavano le navi prima di uscire nell’Oceano per calarsi fino al capo Non, o salire alle rade belgiche o britanne[304]. Dal Baltico le nostre bandiere erano escluse dalla lega Anseatica, gelosa di conservare il monopolio delle derrate di Russia: le tele, i merletti, l’acciajo, il salnitro, i fornimenti di cavalli, le mercerie di Germania andavano a caricare sul Reno, per deporle ne’ magazzini di Bruges e d’Anversa. Al tempo della guerra di Chioggia un ammiraglio veneto nelle acque di Rodi diede la caccia ad un naviglio genovese carico di mussoline, drappi di seta, d’oro e d’argento, del valsente di quindicimila ducati; un altro prese due navi catalane, cariche per conto di Genovesi, delle quali l’una portava per ventimila ducati veneti, l’altra per quarantamila. Genova dunque teneva le tre grandi vie del commercio dell’Asia centrale e dell’India; di cui la prima sboccava al mar Nero pel Caspio e il Volga; la seconda a Lajazzo, l’antica Isso, pel golfo Persico, Aleppo e l’Armenia; la terza ad Alessandria pel mar Rosso e l’Egitto; e per quelle cambiava le seterie della Cina, le spezie, i legni tintorj, il cotone, le gemme dell’India, i profumi dell’Arabia, i tessuti di Damasco, i panni di Tarso, lo zuccaro, il rame, le tinture di Levante, l’oro e le piume dell’Africa interna, le pelli, il canape, il catrame, il caviale, il pelo di castoro, le antenne, i legni di costruzione dell’Europa settentrionale, i grani di Tunisi, della Sicilia, della Lombardia, cogli olj, i vini, i frutti secchi delle Riviere, con armi di lusso, coi coralli lavorati a Genova, colle tele di Sciampagna, con lacca, piombo, stagno d’Inghilterra, coi prodotti insomma di tutta Europa. Aveano (dice press’a poco il Serra) traffico e dominio in tutta la Liguria marittima da Corvo a Monaco, e nell’isola di Corsica: provvedevano di sale i Lucchesi; la parte occidentale della Sardegna riceveva le loro leggi o quelle de’ principi loro amici; visitavano Civitavecchia e Corneto, emporj di vettovaglie nello Stato ecclesiastico; nel Regno, lor principale abitazione dopo Napoli era Gaeta; e se non vennero a capo de’ loro disegni sopra la Sicilia, furono sempre in gran numero a Messina, Palermo, Alciata. Nel mare orientale d’Italia frequentarono Manfredonia, Ancona, e negli intervalli di pace anco Venezia. In Ispagna, i conti Berengarj di Catalogna divisero seco la città di Tortosa; i re di Castiglia, quella d’Almeria, e poichè ebbero perdute od alienate ambedue, onorevoli convenzioni tanto co’ regni cristiani della Spagna, quanto co’ Mori aprirono loro tutti i porti marittimi e i mercati mediterranei della ricca penisola. Ne’ Paesi Bassi, Bruges poi Anversa accolsero onorevolmente le loro compagnie, le quali non solo v’accumulavano roba, ma l’avviavano ancora in Danimarca, Svezia, Inghilterra, Russia, Germania: i loro navigli entravano nel Reno carichi di merci orientali. L’Egitto era più frequentato dai Veneziani; tuttavolta i Genovesi non lasciavano di far mercato in Alessandria, in Rosetta, in Damiata, di stabilirsi anche al Gran Cairo, e di stringere paci favorevoli con que’ soldani. Nel Levante la colonia di Pera soprantendeva mediante i suoi magistrati alle parti meno distanti, quella di Caffa alle più lontane. Sotto la prima erano la marca de’ Zaccaria, la Focide de’ Gattilussi, l’Acaja de’ Centeri, un tempo la Canea in Candia, poi molte isole e porti nell’Arcipelago, Famagosta e Limisso con altri luoghi in Cipro, Cassandria, Ainos, Salonichi, la Cavalla nella Macedonia, Sofia, Nicopoli e altre in Bulgaria, Suczava in Moldavia, Smirne e Fochia vecchia e nuova nell’Asia Minore, Altoluogo e Setalia ne’ Turchi, Kars, Sisi, Tarso, Lajazzo nelle due Armenie, e finalmente Eraclea, Sinope, Castrice ed Ackerman nel mar Nero. Dipendeano dal governo di Caffa i possessi di Gazarìa, Taman colla sua penisola, Copa in Circassia, Totatis in Mingrelia, Kubatscka nel Daghestan, il castello vicino a Trebisonda, il fondaco in Sebastopoli, il gran mercato della Tana, e tutte le carovane indirizzate verso il settentrione ed il centro dell’Asia. Il consolato di Tauris in Persia, forse indipendente dagli altri, dovea promovere e reggere il traffico dell’Asia meridionale; ove il provvedimento più notabile era, che i mercatanti genovesi non facessero società con forestieri. Principalmente l’Inghilterra tenevasi legata co’ Genovesi, e i più bellicosi suoi re Edoardo III ed Enrico V ne mostrarono speciale benevolenza, adoprandoli in luminosi impieghi, rifacendoli delle offese dei corsari. Enrico VI avea proibito d’asportare le lane d’Inghilterra e Irlanda se non per Calais, città francese allora acquistata all’Inghilterra, e ch’egli voleva ingrazianire con tal privilegio; ma ne tenne eccettuati i mercanti genovesi, veneti e fiorentini. Quando si sottopose ai re di Francia, Genova si trovò chiusa quell’isola, nemica a questi; pure vi mandò ambasciadore Giovanni Serra, il quale vide le contese fra gli York e i Lancaster, e ammesso all’udienza, sì bene esaltò la pace e i vantaggi del commercio fra le nazioni colte, e la benevolenza dell’Inghilterra verso Genova, che i grandi proruppero in applausi, e il re volle fosse scritto quel discorso, e messo come proemio della nuova pace, dove ai Genovesi concedeva d’approdare con fattori e servigiali, purchè francesi non fossero, e d’introdurre ed estrarre mercanzie colle antiche norme, purchè nè di forze nè di consigli sovvenissero ai nemici d’Inghilterra, come questa farebbe coi nemici di Genova. Presto quel regno, secondo i meschini concetti d’allora, credendo prosperare il proprio col restringere il commercio altrui, vietò di asportar lane o d’importare seterie; eppure le cinture di Genova rimasero eccettuate, e pei panni fu mestieri cercare il guado dai Genovesi. Accuratissima politica si voleva per reggere in pace con nazioni di così varia civiltà eppur farsi rispettare; e vedemmo come i Genovesi destreggiassero in faccia ai Musulmani. Sulle coste di Barberia le frequenti mutazioni di dinastie o di tribù dominanti sospendeano le buone relazioni, ma tutti s’affrettavano a rannodarle. Si parve sul punto d’aprir guerra con essi allorchè Filippo Doria ammiraglio prese e saccheggiò Tripoli, portandone via settemila schiavi e un milione ottocentomila fiorini d’oro, poi la vendette a un Saracino; ma il Governo genovese dichiarossi estraneo a quel fatto, e lo disapprovò. Fortunata Genova se di tanta prosperità avesse saputo vantaggiare! Ma incessanti accozzaglie interne toglievano di provvedere con saviezza al commercio; non per pubblica utilità, ma per emulazione di parti si cresceva il debito pubblico, e l’uffizio di San Giorgio, che dovea porvi rimedio, diveniva anzi una comodità a crescerlo: siccome incontra nelle gravi malattie che i medicamenti riescano pregiudicevoli. Pure quel banco attestava che la parte più sana dell’irrequietissima repubblica furono sempre i negozianti, rimanendo esso una delle più notevoli istituzioni finanziarie del medioevo; oltre rendere servigi eminenti allo Stato, potè accomodare nazionali e stranieri, privati e principi; da papi e imperatori ne erano confermati i privilegi, che ogni senatore entrando in carica giurava mantenere; gli otto protettori delle compere erano sempre dei cittadini migliori, troppo importando godessero ottima reputazione coloro a cui e nazionali e stranieri affidavano le proprie fortune; davano parere in tutte le disposizioni di governo e di utilità comune, allestivano navi per conto del banco, conquistavano e governavano, quanto fino ai dì nostri la compagnia delle Indie, e ad essi furono cedute le colonie di Levante e la Corsica. Il sinistrare degli stabilimenti di Levante nocque tanto più a Genova, perchè le sue riviere non bastavano a provvederla di marinaj. Altre nazioni entrarono seco in gara di mercati, e fu tutto a scapito di essa l’incremento di Firenze. Pure molti profitti facevano ancora i Genovesi: Bartolomeo Pellegrini coll’allume e col mastice divenne il mercante più poderoso in Levante, e Bajazet I l’accettò mallevadore per riscatto del conte di Nevers e di ventiquattro altri signori francesi, rimasti prigioni nella battaglia di Nicopoli[305]; Antonio Sauli sull’appalto del sale in Genova e in Lucca talmente lucrò, che potè a Carlo VIII prestare novantacinquemila scudi d’oro; i suoi discendenti fabbricarono la magnifica chiesa e il ponte di Carignano. Venezia, dopo l’infausta guerra coi Genovesi, avea dovuto umiliarsi a un trattato, che per tredici anni le proibiva di penetrare con navi armate nello stretto dei Dardanelli, per modo che vedevasi quasi intercise le vie del commercio per l’Alta Asia e i paesi del Caucaso: ma presto si tolse di sotto il rasojo, e l’ammiraglio Giustiniani, assalita Costantinopoli, ottenne nuovi privilegi. Ai Genovesi fu apposto di essere rimasti indifferenti spettatori di quella lotta, sebbene l’imperatore avessero lusingato di soccorsi: in realtà essi pensarono trar partito dal terrore di questo, e gli fecero veduto che, per metterli in grado d’ajutarlo efficacemente in nuovi frangenti, era d’uopo conceder loro maggiore estensione di territorio. Un atto di delimitazione del 1303 ed un trattato del 1304 ampliarono di fatto i privilegi della colonia di Gàlata, situata così da comandare il passaggio al mar Nero; e la dogana de’ Dardanelli fruttava all’impero greco trentamila pezzi d’oro, ducento settantamila ai Genovesi. Questi diedero mano all’imperatore contro gli avventurieri Catalani, i quali osarono fin assalire la capitale e piantarsi a Gallipoli, dond’essi riuscirono a snidarli: lo sorressero pure contro i Turchi, che si faceano sempre più vicini. L’incessante squarciarsi di Genova pregiudicava anche allo stabilimento di Gàlata, le guerre impedivano d’approvvigionarla, e fu volta che i Ghibellini fecero intesa coi Turchi per sinistrare quei loro compatrioti. Sempre aveano Veneziani e Genovesi gareggiato a chi ottenesse maggiori privilegi dall’imperatore di Costantinopoli, perciò palpeggiando e favorendo ora un competitore or l’altro. Venezia non faceva che rinnovare i trattati precedenti, che col nome di tregue duravano cinque o dieci anni[306]: ma i Genovesi, padroni di Gàlata a fianco di Costantinopoli, aveano mezzo di farsi rispettare; onde ogni nuovo trattato fruttava una concessione nuova. In quello del 1382 stipularono non essere tenuti a servire in armi l’impero greco, nè tampoco per recuperare fortezze prese o assediate dai Turchi; volendo con questa neutralità sfuggire l’inimicizia di que’ nuovi potenti. Ad Enrico Dandolo doge e storico di Venezia fanno gloria di aver riaperto l’Egitto con un’ambasciata spedita a quel soldano, offrendosi mediatore di una discordia suscitatasi coi Tartari. I Veneziani s’impancarono principalmente ad Alessandria, ove le merci dell’India giungeano sui camelli traversando il dosso che divide il golfo Arabico dal Nilo, un cui canale agevolava le comunicazioni col mar Rosso e col Cairo. A questo annue carovane dall’Africa interna portavano gomme, denti d’elefante, tamarindi, papagalli, penne di struzzo, polvere d’oro, Negri: di là partiva quella per le città sante d’Arabia, e l’altra pel monte Sinai, occasioni di utili permute: colle carovane molti Europei attraversavano l’Egitto; ma i negozianti che afferrassero ad Alessandria, erano tenuti ben d’occhio, levate le vele e il timone delle navi, registrati i nomi. I Mamelucchi, unica entrata avendo le gabelle, favorivano i Veneti; e di rimpatto ne riceveano ogni riguardo: ma venivano urti? ecco i nostri apparir sulle coste in minaccioso apparato, come oggi costuma l’Inghilterra. Dispensati dalla scomunica contro chi portasse ai nemici della fede legname da costruzione, grani ed armi, i Veneziani continuarono sempre regolari comunicazioni coi Musulmani, tenendo console ad Alessandria, banchi nella Siria, trattati coi Barbareschi[307]. Dai quali anche altri de’ nostri ottennero privilegi e franchigie; i Pisani dal bey di Tunisi ebbero l’isola di Tabarca, dove pescare il corallo, e altri mandritti dall’imperatore di Marocco. Anche in Armenia soli i Veneziani introducevano i camelotti ed estraevano il pelo delle capre d’Angora, con esenzione da gabelle, magistrati proprj, assoluta franchigia per le merci che, tratte da Tauris e dalla Persia, traversavano il paese. Di questo tragitto profittava Trebisonda per popolarsi di numerose colonie, trafficanti di spezierie. I Veneziani v’ebbero un quartiere con propria giurisdizione, donde spingeansi alla Persia e alla Mesopotamia, privilegiati di libero passo, e di banchi per giro di cambj e traffico di vino. Crebbero poi di stabilimenti sulle coste della Grecia, nella Propontide, a Adrianopoli, in buona parte del Peloponneso, e in molte isole e porti della Morea sin in fondo all’Adriatico; a loro cittadini investivano come feudo le isole di Lenno, Scopelo, quasi tutte le Cicladi; acquistarono Negroponte; s’interposero con vantaggio nelle discordie domestiche degl’imperatori bisantini, e di questi coi Genovesi di Gàlata. Ma l’antica preponderanza nel mar Nero più non recuperarono, e per avervi accesso patteggiavano cogli Stati in riva al Danubio il dritto di traversarli, talchè il commercio colla Germania, coll’Ungheria, colla Polonia, colla Russia, le alleanze coi Bulgari e coi Danubiani fino alla Tauride, gli scali in tutta Italia, in Francia, in Spagna, in Fiandra, in Inghilterra, insomma da Astrakan fino all’Africa interiore, offrivano rilevantissimi guadagni, a ristoro del popolo, al quale, dopo la metà del secolo XIV, restava privilegio il commercio, escludendone i nobili, di cui invece era privilegio il governo. Dappertutto mantenevansi consoli o balii che assicurassero rispetto alla patria, e protezione e pronta giustizia ai concittadini. Quel di Costantinopoli, che era insieme internunzio della repubblica, giudice de’ Veneziani e ispettore del commercio, portava i calzari scarlatti come l’imperatore, usciva colle guardie, esercitava piena giurisdizione sulla colonia, e dopo presa quella città dai Turchi tenne in protezione altre genti, massime Armeni ed Ebrei. Il doge Renieri Zen fece da Nicolò Quirini, Piero Badoer e Marco Dandolo compilare un codice di navigazione e commercio (_Statuta et ordinamenta super navibus et lignis aliis_) con egregi provvedimenti, semplicità, esattezza e brevità imitabili; prescrivendo il modo degli armamenti, il giuramento de’ marinaj, i doveri de’ patroni o de’ consoli, il carico, le provvigioni, il prezzo del tragitto, e le armi e bandiere; tipo di tutta la legislazione marittima. Era prefinito il numero delle navi e delle persone, quando prendere il mare, dove sbarcare, quali e quante merci trasportare nell’andata e nel ritorno. Gli oggetti da cambiare con merci asiatiche, non doveano tasse, o moderatissime. Della prosperità di Venezia buon testimonio ci furono i discorsi del doge Mocenigo (Cap. CXV); donde ci apparve come, uscente il XIII secolo, su trecento vascelli mercantili da ducento tonnellate, e su trecento navi grosse salissero venticinquemila marinaj, altri undicimila sopra quarantacinque galee, sempre in acconcio d’arme: allo scorcio del seguente erano cresciuti a trentottomila sovra tremila trecenquarantacinque legni. L’arsenale, cominciato intorno al 1104 sulle antiche isole Gémole, si dilatò nel 1304, dogando Pier Gradenigo, poi nel 1325 e nel 1473 sino a formare quel gran complesso, che comanda l’ammirazione ancora cadavere. Veniva governato da due magistrature di senatori: cioè tre sopravveditori per l’alta ispezione, tre patroni che ordinavano i lavori e vi sorvegliavano, e dormivano in tre palazzi contigui all’arsenale, detti Paradiso, Purgatorio, Inferno. Gli arsenalotti formavano la guardia del corpo del sovrano; popolazione numerosa[308], devotissima alla Signoria, da cui riconosceva il suo bene stare. Le isole e le coste di Levante provvedeano abbondanza di legname: ristretti poi que’ possedimenti, e sovratutto dopochè i Turchi occuparono l’Albania e la Schiavonia, fu mestieri rifornirsene ne’ proprj possedimenti: e certo già prima del 1479 servivano i boschi di Montello nel Trevisano e di Montone nell’Istria, tanto rinomati finchè la barbarie diplomatica de’ giorni nostri non gli annichilò. Di cinque sorta galee usava Venezia: le grandi pel viaggio di Fiandra e Inghilterra, altre diverse per la Tana e Costantinopoli, le sottili, le navi quadre, le latine[309]. Famose ne erano le caracche. Abbiamo da Giovan Villani che Genovesi e Veneti avendo veduto verso il 1344 alcune navi bajonesi passar lo stretto di Siviglia, più sottili ed agili, e meglio acconce a fatti d’armi, essi ne fabbricarono di somiglianti; lo che fu notevole rivoluzione nella marina. Il Petrarca, dimorando in Venezia, vedeva sarpare navigli «simili a monti che nuotino nel mare, per trasportare in mezzo a mille pericoli i nostri vini agl’Inglesi, il nostro mele agli Sciti, il nostro zafferano, i nostri olj, il nostro lino ai Siri, ai Persi, agli Arabi, agli Armeni, e, ciò che appena uom crederebbe, la nostra legna agli Achei ed agli Egizj, e ritornare con altre merci: veleggiano fin al Tanai, e si lasciano indietro Gade e Calpe, creduti confini del mondo occidentale; tanto può sugli uomini la sete dell’oro»[310]. Le imprese mercantili erano secondate dalla marina pubblica, spedendosi in giro ogni anno venti o trenta galee _del traffico_, capaci di mille a duemila tonnellate, e del valore di centomila zecchini ciascuna, capitanate da nobili, eletti dal maggior consiglio e dai pregadi. Il Governo non ne ritraeva che modico nolo; ma a quel modo le teneva esercitate per un’evenienza di guerra, e faceva anche in pace rispettare il leone, nel mentre rendevano servizio ai particolari. Di esse squadre quella del mar Nero dividevasi in tre: una costeggiava il Peloponneso, per ispacciare a Costantinopoli le merci levate da Venezia o da Grecia; la seconda dirigeasi a Sinope e Trebisonda nel Ponto Eusino, facendo levata delle produzioni asiatiche recatevi dal Fasi e dalla Cina[310a]; la terza sorgendo verso settentrione, entrava nel mare d’Azof, e nei porti di Caffa procacciava pesci, ferri, antenne, grani, pelli, cui dal Caspio, dal Volga, dal Tanai recavano Russi e Tartari. L’altra squadra costeggiava la Siria, facendo scala ad Alessandretta, a Bairut, a Famagosta, a Candia ricca di zuccaro, e alla Morea. La terza metteva dapprima in Armenia e a Lajazzo, che Marco Polo intitola «porta de’ paesi orientali», dappoi in Egitto le merci del mar Nero, destinate al gran mercato di Tauris, massime schiavi di Georgia e Circassia, barattandoli colle derrate del mar Rosso e dell’Etiopia. La quarta volgeva alla Fiandra vascelli di dugento remiganti almeno, e rinfrescato a Manfredonia, Brindisi, Otranto, in Sicilia caricato zuccaro ed altre produzioni dell’isola, ne’ porti africani di Tripoli, Tunisi, Algeri, Oran, Tanger facea cogli africani baratto di frumento, frutti secchi, sale, avorio, schiavi, polvere d’oro; sboccata quindi dallo stretto di Gibilterra, forniva i Maroccani di ferro, armi, panni, utensili domestici, costeggiava Portogallo, Spagna, Francia, toccava Bruges, Anversa, Londra, e faceva cambj co’ vascelli delle città Anseatiche; poi aspettata stagione e mare acconcio, tornava libando Francia, Lisbona, Cadice; in Alicante e Barcellona comprava sete gregge; e costa costa rivedea la patria, un anno dopo lasciata. Ogni viaggio di lungo corso dovea prender le mosse e finire a Venezia, ove per ciò, nell’intervallo, si depositavano le merci, e venivano a cercarle i mercanti mediterranei, in modo che vi durava una fiera continuata. Quella dell’Ascensione fin dal 1180 si trova istituita per otto giorni; poi divenne delle più famose, avvivata dalle indulgenze che s’acquistavano a San Marco per concessione di papa Alessandro III, dallo sposalizio del mare, e dall’opportunità della stagione che allora chiamava le vele a lunghi viaggi. In quell’occasione si esponevano anche capi d’arte, e una popatola, il cui vestire serviva di canone per la foggia dell’anno. I dieci milioni di mercanzia che annualmente asportavano que’ legni davano due quinti di guadagno; altro ne veniva dal traffico mediterraneo. Vedemmo fin dal 1270 Venezia proclamarsi sovrana dell’Adriatico, obbligando a contributo tutte le navi che lo corressero. Fu generale lo scontento, ma il papa, chiesto arbitro, diede ragione ai Veneziani, come che, difendendolo dai corsari musulmani, avevano diritto a un compenso: il lodo non chetò gli emuli, contro cui essi dovettero munirsi di buone armi. Si assicurarono anche il commercio dell’alta Italia coll’acquisto del Friuli, della marca Trevisana, del Padovano e di altre piccole signorie, e stipulavano vantaggiosi accordi coi vicini, dove non potessero insieme col commercio estendere l’impero[311]. Udimmo il doge Mocenigo asserire che alla sola Lombardia spediva Venezia per due milioni e settecento ottantanovemila ducati, cinquantamila dei quali per gli schiavi, oltre il sale; e guadagnava seicentomila ducati annui sui Lombardi, quattrocentomila sui Fiorentini. Eppure essa usciva allor allora di guerre che l’avevano privata di tanti possedimenti, e minacciata fin nelle sue lagune. Poi, malgrado le due guerre contro i Turchi e col duca di Ferrara, aveva sì floride finanze, che nel 1490 entravano al tesoro per un milione e ducentomila ducati, quasi il doppio dello Stato di Milano, e un quarto di quel che fruttava il regno di Francia dopo ingrandito da Luigi XI. E a tal punto i Veneziani s’erano resi necessarj agl’Italiani, che, qualora essi rompessero le relazioni con un popolo, il riducevano a povertà; come avvenne de’ Napoletani, che il re Roberto costrinsero a pace col negargli le imposte, asserendo non aver più denaro dacchè quelli non comparivano ne’ suoi porti. L’inglese colonnello Cooper assicurava che fin oggi gli Asiatici dal Mediterraneo alla Cina non conoscono altra moneta che lo zecchino veneto, nel Yemen è tenuto in gran conto, e gli sceichi ne fondono per formarne piccole monete, o ne conservano entro vasi di vetro, laonde a Bruce domandarono se soli i Veneziani possedessero miniere d’oro in Europa, e supponeano conoscessero la pietra filosofale. Il qual Bruce, che al fine del secolo passato spingevasi alla estremità dell’Asia e dell’Africa, nel Thama arabico sovra Moka sentiva i nomi di _peso, rotolo, cantara, dramma, oncia,_ e ripetuti sull’opposto lido africano a Massuah; prova delle relazioni cogl’Italiani, del cui linguaggio è principalmente composto quel parlare _franco_, che fin oggi ha corso sul litorale di tutto il Mediterraneo. Or ci si spiega bene la sontuosità del più magnifico corso del mondo, il Canal Grande. Andrea Vendramin, che nel 1476 fu il primo doge di Venezia non nobile dopo la serrata, era ricco di censessantamila ducati; liberale, di gran parentela, ebbe tre maschi e sei figlie, che maritò con cinque in settemila ducati, mentre la dote legale era di duemila, ma diceva non badare a spesa onde aver generi a suo modo; fu gran mercante in gioventù, e di compagnia col fratello facea carico d’una galea e mezzo in due per Alessandria, e vantaggiò. Quando nel 1499 fallirono i Garzoni, molti ripeteano i loro fondi dal banco Lipomano per più di trecentomila ducati; onde, sebbene la Signoria l’ajutasse di qualche somma, dovette fallire. «È peggior nuova el falimento de questi due banchi, che se fosse perso Brescia». Lo sgomento fu per far gittare a terra i banchi Pisan e Augustini; se non che la Signoria mandò de’ savj che assicurassero sarebber tutti pagati. I Lipomani dovettero rassegnare i loro libri, dai quali appare che una casa dominicale valutavasi da tremila ducati; duemila una a Murano; milleduecento un mulino; e avevano in argenti e gioje per seimila ducati, e ottomila in un cappello di perle e gioje[312]. Tutt’occhi dovevano dunque essere i Veneziani onde mantenersi questi vantaggi, e vi adoperavano buoni mezzi e cattivi. La gelosia li faceva duri coi mercanti forestieri, imponendo doppie gabelle, ritardando la giustizia, escludendoli dalle comandite; pretesero che i sudditi comprassero lane, cotoni, seta, zuccari, saponi soltanto dalla dominante, non rizzassero manifatture fuor della dogana, nè usassero o spedissero merci se non passate per Venezia; talchè, per esempio, Verona dovea mandarvi i panni, che poi la traversavano di nuovo onde dirigersi alla Germania. Convien dire che i lucri fossero grassi, se i forestieri non badavano agl’impacci; avvegnachè in Venezia troviamo corporazioni d’ogni paese; nella chiesa de’ Frari avevano altare i Milanesi, un altro i Fiorentini, lavoro del Donatello; i Lucchesi una chiesa vicino ai Servi, i Tedeschi e i Turchi fondachi che ancor ne serbano il nome, come la piazza dei Mori, la ruga di Julfa degli Armeni; oltre i Greci che v’ebbero sempre congregazione religiosa. Ciascuna nazione potea regolarsi a leggi proprie; alcuni paesi vi godeano privilegio di qualche arte, Bergamaschi i fornaj, Friulani anch’essi fornaj del pane altrui e sartori e facchini, muratori i Bellunesi, Valtellini gli osti e i facchini pel commercio. Caduta Costantinopoli ai Turchi, Venezia e Genova dall’eccidio dei loro cittadini, dal saccheggio dei fondachi, dalla successiva distruzione de’ loro stabilimenti, dalle umiliazioni, a prezzo delle quali soltanto ottennero una tolleranza precaria e quasi vergognosa, conobbero la gravezza d’una perdita che con provvidenza e lealtà maggiore avrebbero potuto impedire o ritardare. Non restarono però snidati dall’Oriente, attesochè gli emiri musulmani, stabilitisi lungo la costa settentrionale e orientale dell’Africa e sui golfi Arabico e Persico, non avevano fatto causa comune coi loro fratelli di Siria, nè perciò nimicavano i Cristiani, che poterono continuarvi i traffici. Anche il soldano d’Egitto divenne più inchinevole agli Europei, e col doge de’ Veneziani Pasquale Malipiero, «possente, e il più apprezzato e onorato fra quei che adorano la Croce, colonna di tutti i Cristiani, amico de’ soldani ed emiri dell’islam», conchiuse un trattato di commercio, consentendo ai Veneziani il monopolio di molte merci, non però del pepe; e donò all’ambasciatore una veste lavorata alla moresca e foderata di pelliccie, e alla Signoria i regali consistenti in trenta rotoli di benzoino, venti di aloe, due paja di tappeti, un ampollino di balsamo, quindici bossoletti di teriaca, quattordici pani di zuccaro di Moka, cinque scatole di zuccari canditi, un cornetto di zibetto, venti pezzi di porcellana. Le contingenze duravano ancora favorevoli ai traffici dei Veneziani: perocchè i Ragusei correvano molto l’Adriatico, ma poco uscivano da quello, nè d’altro che di derrate trafficavano[313]; la Grecia era caduta sotto la scimitarra turca; a Napoli e Sicilia sarebbe tornata necessaria una flotta per mantenere comunicazioni coll’Aragona e colla Provenza, eppur l’aveano appena bastante alle reciproche guerre, e le vediamo valersi sempre delle genovesi, come faceano spesso Francia e Inghilterra, le quali nè l’Olanda non accennavano ancora alla futura grandezza; era un portento se qualche bandiera settentrionale comparisse nelle acque nostre; soli i Catalani veleggiavano il Mediterraneo come l’Oceano. Però Venezia e Genova erano le principali, non le sole commercianti d’Italia. Amalfi più non rigalleggiò: ma Napoli trafficava nelle variatissime sue produzioni con Costantinopoli, col mar Nero, con Marsiglia; Trani era un vasto emporio di merci asiatiche; Gaeta estendeva relazioni colla Barberia, dove sin dal 1125 teneva un console; la Sicilia colla Catalogna e colla Spagna orientale. In Messina e Palermo affluivano mercanzie di tutti i paesi; ed oltre le relazioni col regno di Napoli e col resto d’Italia, consolidate per mezzo di trattati, con Genova nel 1292, con Pisa nel 1316, con Venezia nel 1365, uno del 1331 con Narbona prova il suo commercio colla Francia, oltre Spagna, Fiandra, Inghilterra, le coste di Barberia, l’Egitto, la Siria, la Morea, Cipro, Rodi, Costantinopoli. Ancona, fiorente per industria, scala al commercio di Firenze coll’Oriente, mandava navi proprie a Costantinopoli, a Cipro, in Barberia, e corrispose con molte città d’Europa; con Genova aveva un trattato fin dal 1276; ma la postura sua la teneva dipendente da Venezia, che poi la sopraffece. Corsica e Sardegna, sì a lungo disputate fra i Pisani, i Genovesi e i re d’Aragona, asportavano i proprj prodotti; e quando la Sardegna passò all’Aragona, strinse maggiori relazioni colla Catalogna. Anche città mediterranee spedivano per varj paesi d’Occidente, acquistandovi privilegi non per forza ed astuzia, ma per superiorità d’intelligenza. Asti, che di settantamila abitanti popolava il piccolo territorio, aveva negozianti in Francia e ne’ Paesi Bassi, una colonia ad Alessandria d’Egitto; e postasi a prestar denaro in Francia, vi applicò tanti capitali, che avendovi quel re fatto arrestare tutti i banchieri astigiani, cinquanta trovaronsi possedere oltre ottocentomila lire di capitale, che si ragguaglierebbe a ventisette milioni[314]. Il Po serviva agl’interni ricambj e per esso fioriva Ferrara, che copiosa di ogni bene, dalle città vicine e dal mare traeva abbondanza di vettovaglie. Per le bocche del Po (narra un cronista) vi arrivavano navi di carico, piene fin al sommo dell’albero di mercanzie d’ogni lido; senza che andasse a Ravenna od a Venezia a cercare quel che le fosse mestieri, ogni anno nel prato comune presso a Po si tenevano due fiere, cui dall’Italia e dalla Gallia moltissimi concorrevano, e tutti guadagnavano mercatando. Sì lauto poi era il fisco, che, soddisfatto ad ogni spesa del Comune, rimaneva che spartire fra i cittadini in ragione del censo. Questa larghezza andò guasta allorchè i Veneziani, aggiudicandosi la padronanza assoluta del Mediterraneo, chiusero le foci di quel fiume, cagione di tanti dissidj. Comacchio avea cominciate le _fabbriche del pesce_, per cui ora ottantamila pesi d’anguilla escono marinati da quelle valli. I Pisani, elevatisi a paro de’ Veneziani e Genovesi per industria manifatturiera, per navigazione e commercio, dopo la funesta battaglia della Meloria nel 1284 più non fecero che declinare; la perdita di Terrasanta diradò le loro corrispondenze nella Siria, nè aveano possibilità di sostenere nel mar Maggiore una concorrenza, a cui furono costretti rinunziare col trattato del 1299; il porto che possedevano alla foce del Tanai, cadde probabilmente a’ loro nemici, e infine fu sfasciato dai Tartari. Andate a male le colonie donde traevano legname da costruzione e materie di baratti pel commercio esterno, costretti cedere a Genova la Corsica e la Sardegna, non restarono padroni che delle maremme tuttora abbastanza ubertose, e dell’isola d’Elba importante per ferro. Questa nel 1290 era stata occupata dai Genovesi; poi mercanti pisani la ricuperarono nel 1309 per cinquantaseimila fiorini, e ne traevano vena dalla miniera di Rio. Nella guerra contro Genova era stato distrutto il Porto Pisano alla foce dell’Arno; onde ridotta quasi alla sola rada di Livorno, esposta a’ nemici, Pisa fece costruire una torre per difenderla, e proteggere la navigazione. Di là continuava relazioni colla Sicilia, con Cipro, colla Barberia; ma non le bastava marina militare per proteggere stabilimenti lontani, nè assicurare gli armatori contro de’ nemici e de’ pirati. Firenze poscia la soggiogò, e per nulla rispettando le memorie d’uno splendore, di un’industria e di una perizia marittima, che formavano uno de’ migliori vanti della Toscana, ne sviò le manifatture e il commercio in grosso. Già ci è apparsa la commerciale operosità dei Fiorentini. Buon’ora essi erano penetrati nell’Ungheria, le cui miniere d’oro e d’argento s’aveano per le prime del mondo, e vi teneano case i Medici, i Portinari, i Boscoli, i Tosinghi, i Del Nero, i Del Bene, i Da Uzzano. Da Francesco Balducci Pegolotti, che prima del 1350 scriveva sugli usi e le regole da seguirsi dai mercanti nei viaggi[315], raccogliesi che essi Fiorentini stendevano le corrispondenze all’Inghilterra, al Marocco, a tutto il Levante; prendeano spesso in appalto le zecche, e alle inglesi da Edoardo I fu preposto un de’ Frescobaldi: un Bardi nel 1329 godeva le gabelle di tutto quel regno per due sterline il giorno, mentre nel 1282 ne avevano reso ottomila quattrocentoundici (HALLAM). A Bruges, dove non era permesso che un banco per ciascuna nazione forestiera, collegi distinti formavano i Genovesi, i Lucchesi, i Fiorentini, i Lombardi. Nel 1422 calcolavasi che in Firenze circolassero quattro milioni di fiorini: e delle lettere esterne di quella repubblica le più concernono commercio e mercadanti. Le lungagne delle asportazioni per terra non le erano più sufficienti; e conoscendo che la navigazione offrirebbe un mezzo più economico per commerciare coll’Italia e coll’Europa meridionale, ed il solo praticabile co’ paesi più remoti, fin dal secolo xiii trattò con Pisa onde farla emporio delle mercanzie: e vedendosi contrariata, prese accordo colla repubblica di Siena, onde spedirle pel porto di Telamone; e a questo ricorreva ogniqualvolta si guastasse con Pisa (pag. 248). Della quale poscia insignoritasi, cercò chiamarvi con privilegi ed incoraggiamenti le navi straniere, prese a stipendio gli armatori lasciati liberi dalla decadenza del commercio genovese, legò nuove relazioni e avvantaggiò le antiche[316], istituì la magistratura dei consoli di mare, però da gran tempo conosciuti in Pisa. In una carta del 1190 che contiene i privilegi del sintraco di Genova[317], Livorno appare già frequentato dai naviganti; e durante la guerra di Chioggia, Carlo Zeno vi ricoverò due volte la flotta veneta. Posto com’è fra porto Pisano e porto Telamone, poteva tener entrambi in soggezione; ma non acquistò importanza che al cadere di Pisa, e i Fiorentini, compratolo dai Genovesi nel 1421, lo privilegiarono in ogni modo. In quell’occasione rinnovarono il patto antico di caricare sopra navi genovesi le merci che traevano di ponente, ma poi cercarono sempre eluderlo, e infine lo abrasero nella pace fatta con Filippo Maria Visconti. Per siffatta guisa, quantunque mediterranei, i Fiorentini ottennero i vantaggi del mare, e non vi avea città dell’Italia, Francia, Inghilterra, Fiandra, in cui essi non tenessero banchi e non mandassero fattori. Un console inglese risedette a Pisa, e con Enrico VII nel 1490 si pattuì che Fiorentini soli estraessero le lane da quell’isola, eccettuandone soltanto per seicento sacca i Veneziani; premio dell’avervi Lorenzo Medici rizzate molte manifatture di lana con artefici toscani. Un governo mediterraneo non doveva pensare a stabilire banchi e consolati sulle coste dell’Asia e dell’Africa; ma il privato interesse lo fece. Quando si cominciasse a trafficare direttamente col Levante, non consta: ma la casa Bardi nel secolo XIV otteneva pe’ suoi agenti privilegi significanti in Cipro e nell’Armenia; poi si estese il commercio colle coste della Barberia, coll’Egitto, la Siria, Costantinopoli, l’Asia meridionale, e fino colla Cina traverso all’Alta Asia. Firenze volle anche armar flotte e spedire periodici convogli pel mar Nero, l’Egitto, la Barberìa, la Spagna, la Fiandra, l’Inghilterra; ma non trovò che scapito, sicchè dopo il 1430 le abbandonò alla privata speculazione. Venezia, che era sempre stata l’amica di Firenze, ne ingelosì quando la vide crescer tanto, e istigò Pisa a scuoterne il giogo: di che Firenze si vendicò col secondare i disegni ostili di Maometto II contro i Veneziani. Ne venne _una velenosa ed attossicata lettera di Venezia,_ a cui un Fiorentino oppose uno scritto che, in mezzo a una colluvie d’ingiurie, contiene un quadro, esagerato forse, ma vivo del commercio della sua patria[318]. Vi figurano come principali negozianti i Medici, i Pazzi, i Capponi, i Buondelmonti, i Corsini, i Falconieri, i Portinari, che avevano stabilimenti in tutte le tre parti del mondo aperte alla navigazione europea, cinquanta case in Levante, ventiquattro in Francia, trentasette nel Napoletano, nove a Roma, altre in Venezia, in Ispagna e Portogallo. Accertasi che Firenze fosse la prima a interdire in modo efficace il traffico degli schiavi e il somministrare munizioni di guerra a’ Musulmani. Essendo si può dire concentrato in mano degl’Italiani tutto il commercio che poi fu suddiviso fra Turchi, Inglesi, Olandesi, Francesi, Russi, quanto lauti doveano essere i guadagni! Giovan Villani stima di cenventimila fiorini la rendita che col prestare erasi formata Taddeo Pepoli di Bologna. Nel 1338 un negoziante di Siria, essendo arrivato a Portercole con molte stoffe ad oro e senza, cinture, borse da sposa, frontelle, Coluccio Balardi le comprò per centoquindicimila fiorini, e in capo a un anno le ebbe quasi spacciate. Egli teneva banco a Parigi, e Giovanni Vanno pure toscano a Douvres e a Cantorberì[319]; e già vedemmo i Bardi e i Peruzzi fiorentini essere creditori sopra il re d’Inghilterra d’un milione e mezzo di zecchini, e di centomila zecchini ciascuno sopra il re di Sicilia. Dino Rapondi di Lucca (1350-1414), mercante in Francia, avea case a Mompellieri, a Bruges ed a Parigi; la prima era l’emporio del vasto suo traffico col mezzogiorno d’Europa e gli scali di Levante. Avea palazzo a Parigi meraviglioso; commerciava di banca, cambio, metalli preziosi; servì molto a Carlo VI e Giovanni Senza-paura, secondandoli nelle imprese e nei delitti. A Siena (popolata di centomila abitanti prima che la peste la restringesse appena a tredicimila, e dove i diarj testimoniano che in un anno si fecero ottanta par di nozze nobili e cento di buone case) i Salimbeni adottarono per stemma la fortuna e il motto _Per non dormire_; cavavano anche miniere d’argento e di rame nella maremma; nel 1337 fra sedici casate manteneano un camerlingo comune per amministrare le loro entrate, e per più anni a ciascun casato spartirono centomila zecchini. Un’imposta su quella città del due per mille onde pagare il conte Lando nel 1357, fruttò quarantamila zecchini: lo che manifesta un valore di venti milioni d’allora, rispondenti a ducento d’adesso. Vuolsi che da commercio di carbone derivassero le smisurate ricchezze di Giovanni Medici, per le quali Cosmo suo figlio divenne il miglior negoziante di Europa. Di quale natura speculazioni fossero le sue s’ignora, ma ci si fa presumere lucrasse col commercio asiatico, coi prestiti e coi giri di banco[320]: e dicesi che quella casa occupasse trentamila persone in traffici e manifatture. Cosmo spese da quattrocentomila zecchini in chiese ed opere pubbliche. Lorenzo fu in procinto di capolevare, a malgrado del lauto suo commercio, per le insensate prodigalità de’ suoi fattori, i quali affettavano di fare il largo e il magno come il loro padrone; laonde sodò grossi capitali in possessi stabili, rompendo molti fili del commercio fiorentino. Ma era sullo scocco l’ora che gl’Italiani cesserebbero d’essere unici fattori del commercio. Le manifatture che ne’ paesi esteri noi stabilivamo, per quanta gelosia vi si mettesse, servivano di scuola agli emuli. I Medici, invece di continuare a trarre la lana greggia dall’Inghilterra, la fecero filare e tessere colà; allorchè essi usurparono il dominio, i tanti fuoruscititi propagarono i lavorieri di fuori; quando poi Pietro ritirò gl’ingenti capitali d’in sul commercio, i Fiorentini non poterono più reggere la concorrenza de’ forestieri, che aveano anch’essi accumulato capitali, e imparato la magìa del credito. All’estendersi dell’industria cessavano i privilegi, fondati sull’inoperosità degli altri popoli, la gelosia dei quali ritorse contro noi le arti medesime che noi avevamo inventate contro di loro; e Ferdinando il Cattolico di Spagna impose un dieci per cento su quanto asporterebbero i Veneziani, i quali rimasero vittime del sistema esclusivo che essi avevano introdotto. Danni più durevoli doveano venire dagl’incrementi della navigazione, dovuti ad Italiani. CAPITOLO CXXV. Viaggiatori italiani. Colombo. Le scoperte. Delineare la terra su globi e mappe già sapeano i Greci, e dopo Marino da Tiro vi tracciavano le longitudini e le latitudini, per quanto grossolanamente, cioè collocavano i paesi al posto determinato dalla loro elevazione sopra l’equatore, e dalla loro distanza da un meridiano, preso pel principale. Quelle medesime denominazioni indicano come la terra non si credesse rotonda, ma molto più _lunga_ da levante a ponente che non _larga_ da mezzodì a settentrione. Smisurata superficie piana circondata dal mare e divisa in cinque zone; le due gelate agli estremi e la torrida nel mezzo erano inabitate e inaccessibili, di modo che a noi abitanti d’una zona temperata niuna comunicazione era possibile con quelli dell’altra. Nè questa nostra tampoco aveasi tutta esplorata, e imperfettamente si conoscevano le regioni d’Europa a levante della Germania, la Prussia, la Polonia, la Russia: dell’Africa sol quanto è lambito dal mare Mediterraneo e dal golfo Arabico: dell’Asia restava ignota la regione di là dal Gange, quella dove erravano Sarmati e Sciti, e la Cina, dove pur fioriva da antichissimo un impero ancor più meraviglioso del romano. Negli spazj inaccessi ognuno collocava paesi e uomini favolosi, e massime quelle contrade felici, che supportano essere o il primo soggiorno degli uomini nell’età dell’oro, o il postumo delle anime virtuose. I Barbari che invasero l’impero romano, sprovvisti di marina e occupati a conquistare e stanziarsi, non aggiunsero alla geografia se non la cognizione dei paesi dov’essi aveano da prima avuto stanza. Il feudalismo legava gli uomini alla propria terra: e se la fede spinse alcuni missionarj in terre inesplorate, principalmente della Germania, e i pellegrini a visitare, poi a conquistar Terrasanta, le loro descrizioni erano più dirette ad alimentare la pietà che a chiarire la scienza. Gli Arabi dopo Maometto largamente viaggiarono a propagare la loro religione o stabilire commerci, e visitarono la Cina pel Cabul e il Tibet, mentre di colonie occupavano tutto il lembo orientale dell’Africa, e s’addentravano anche in quel continente. Di varj viaggiatori italiani ci accadde menzione, quali i frati spediti dai papi ai Mongoli, Alessandro e Alberto Ascellino, Giovanni da Piano Carpino e Oderico da Pordenone, che penetrò fino a Peking (Cap. XCIII, in princ.). Il 1309 moriva in Santa Maria Novella a Firenze frà Nicoldo da Montecroce, fiorentino, che avea girato l’Asia convertendo Saracini e descrivendone i costumi e le sêtte. Molti altri intrepidi missionarj visitarono certamente paesi ignoti, ma badando solo al frutto delle anime, non si brigarono di darcene contezza; e basti citare Alberto da Sarzana, celebratissimo predicatore e teologo, che da Eugenio IV fu spedito due volte in Egitto, in Etiopia, in Armenia per trarre i fedeli di colà al concilio di Firenze. Da altri impulsi fu mossa la famiglia veneziana del Polo. Nicolò e Maffeo mercadanti verso il 1250 passarono da Costantinopoli a Soldania, indi alla corte mongola di Capciak, poi con un persiano ambasciadore raggiunsero a Kan-fu l’orda di Cubilai-kan, successore di quel Gengis-kan che aveva esteso il suo dominio dal cuore dell’Asia fino alla Cina. Cubilai accolse con maniere di cortesia i due italiani, volle essere informato de’ costumi e della religione de’ loro paesi, e «come l’imperadore mantenea sua signoria, e come mantenea l’impero in giustizia, e de’ modi delle guerre e delle osti e delle battaglie di qua, e di messer lo papa e della condizione della Chiesa romana, e dei re e de’ principi del paese... E quando il gran kan ebbe inteso le condizioni de’ Latini, mostrò che molto gli piacessono», e gl’incaricò che, tornando al papa, il richiedessero di mandargli persone dotte nelle arti liberali affinchè dirozzassero le sue genti. Diè loro pertanto lettere e una lastra d’oro o dorata, portante ordine a tutti i sudditi di rispettarli, e fornirli di vetture e di scorte, franchi di spesa per tutte le sue terre. Traverso all’Asia giunsero ad Acri, d’indi a Venezia, ove Nicolò trovava di quindici anni il figlio Marco, che avea lasciato nell’utero materno. Vacando allora la sede romana, nè potendo prolungare gl’indugi, furono di ricapo in Palestina, ove presentarono l’ambasciata a Tibaldo Visconti cardinale legato; e poichè in quell’istante appunto arrivò l’avviso che questo era assunto alla tiara, esso li munì di lettere e della compagnia di Nicolò da Vicenza e Guglielmo da Tripoli carmelitani, letterati e teologi. Per mezzo ai pericoli cagionati dall’invasione di Bibars nell’Armenia, passarono i cinque Cristiani sino a Kan-fu, dove ragguagliarono il kan dell’ambasciata. Marco, giovane svegliato, restò attonito d’un mondo così differente dal nostro, e cominciò a notare quanto pareagli degno di ricordo, e «ch’egli seppe più che nessuno uomo che nascesse al mondo». Da Cubilai tenuto in gran capitale, fu posto fin assessore del consiglio privato, e spedito a raccorre notizie statistiche nell’impero e ad importantissime legazioni e governi. Stavano ambasciadori in Persia i Poli quando intesero la morte di Cubilai, onde risolsero tornare in cristianità; e rividero la patria, per la quale combattendo a Cùrzola, Marco restò preso da un legno genovese; e tenuto prigione, consolò la cattività raccontando «diverse cose secondo ch’elli vide cogli occhi suoi; molte altre che non vide, ma intese da savj uomini e degni di fede; e però estende le vedute per vedute e le udite per udite, acciocchè il suo libro sia diritto e leale e senza riprensione. E certo credi, da poi che il nostro signor Gesù creò Adamo primo nostro padre, non fu uomo al mondo che tanto vedesse o cercasse, quanto il detto messer Marco Polo». Reso alla libertà e alla patria, morì carico d’anni; e la sua _Relazione_[321], volata tosto per Europa, valse a invogliare a nuove scoperte, le quali poi confermarono la veridicità d’un libro, che mai non mente anche quando s’inganna, e che prima erasi creduto esagerazione, a segno che glie n’era venuto il titolo di _Milione_. Certamente nessuno ebbe miglior agio di esaminare la Cina e il Giappone; e fin oggi esso rimane fonte d’importanti notizie intorno ai Mongoli e al loro governo, ed ai paesi centrali ed orientali dell’Asia: ai contemporanei poi qual doveva eccitar interesse il ragguaglio della civiltà bizzarra de’ popoli al cui nome tremavano, e delle strane contrade da cui traevano le gemme, le porcellane, le spezie, le seterie! Le sue descrizioni apersero il campo a fantasie nuove, innestandosi le asiatiche alle nostre tradizioni; e potentissimo eccitamento diedero ai viaggi di scoperta del secolo XV. Anche Nicolò Conti viaggiò venticinque anni in Oriente; e avendo rinnegato la fede per salvare la vita, ne chiese perdonanza ai piedi di Eugenio IV, il quale in isconto gl’impose raccontasse i suoi viaggi colla massima fedeltà al Poggio fiorentino, da cui abbiamo una succinta relazione, che lascia appena accertare la traccia di lui fino a Giava e al Seilan, eppure è fedele ritratto dei costumi indiani. Caterino Zeno stese commentarj del viaggio che fece in Persia, come dicemmo, per sollecitare quel re a romper guerra ai Turchi. Al qual uopo fu pure, nel 1471, spedito con vasi d’oro e stoffe di Verona Giosafat Barbaro sopra due galee perchè attraverso l’Armenia e il paese dei Curdi arrivasse a Tebris e a Cassan, ma egli non vi giunse, per quanto incalzato: però reduce, da uom d’ingegno e di retto intendimento ci diede un ragguaglio, ove primo alla moderna Europa fece conoscere que’ paesi. V’andava pure ambasciatore Leopoldo Battoni per Trebisonda, e nel 1474 Ambrogio Contarini per la Polonia, la Russia, la Colchide, il Fasi, la Georgia, la Mingrelia, l’Armenia: tornando pel Caspio e trovato presa Caffa dai Turchi, salì da Derben a Mosca fra un paese selvaggio, e riscosso denaro dal gran principe per conto della patria, per la Germania rimpatriò due anni dopo: viaggio arditissimo per le scarse cognizioni d’allora, e fra le minaccie di gente barbara e i sospetti de’ Turchi; e ne lasciava un’informazione curiosa[322]. Pietro Quirini veneto negoziante a Candia, veleggiando alle Fiandre nel 1431, fu da spaventevole bufera gettato di là delle Sorlinghe, naufrago prese terra sulle estreme coste scandinave, donde ritornando per la Svezia, la Norvegia, l’Inghilterra, la Germania, raccontò in modo commovente le sue disgrazie, come pur fecero i suoi compagni Cristoforo Fioravante e Nicolò Micheli. Gironimo San Stefano nel 1496 per speculazioni s’incamminò da Genova verso le Indie, passando pel Cairo, il mar Rosso, e fino al Pegù, al cui re vendette con iscapito le proprie mercanzie; reduce a Camboja, si acconciò con un mercante di Damasco; ad Ormus si unì ad Armeni diretti a Tebris; per mare si condusse nel Laristan, provincia persiana, ove soleano approdare le navi spedite dall’imboccatura dell’Eufrate per l’India; nel paese degli Azameni aspettò le carovane, e per Ispahan, Kasbin, Soldania pervenne a Tebig, donde ad Aleppo. Luigi Rominotto perlustrava l’Asia e le coste d’Africa, ma non ci ragguaglia di nuove regioni: e maggior conto merita il periplo del mar Rosso e dell’Indiano, steso da un anonimo che nei 1538 assisteva con Solimano granturco all’assedio del castello di Diu, difeso dai Portoghesi. Nel 1374 Luchino Tarigo ed altri poveri avventurieri genovesi, da Caffa con una fusta armata risalito il Tanai fin dove nol disgiungono dal Volga che sessanta werste, trascinarono per quella lingua di terra la fusta, e messala sul gran fiume scesero al Caspio, e si arricchirono corseggiando[323]. Giorgio Interiano loro concittadino vide e descrisse i costumi de’ Circassi, fu il primo che portasse alcuni platani a Venezia, e fantasticava la probabilità dell’arrivare dall’Oceano nel mar Rosso[324]. Il Boccaccio dà vanto ad Andalon del Negro pur genovese d’avere percorso quasi tutto il mondo[325]: e il Petrarca loda Giovanni Colonna, spatriato per le risse de’ suoi con Bonifazio VIII, d’avere viaggiato lontanissimo, e «avresti anche trascesi i limiti della nostra zona abitabile, e varcato l’Oceano, saresti giunto agli antipodi»[326]; frasi, donde non può trarsi veruna contezza precisa. Oggimai si tiene per provato che i Normanni, arditissimi corsari, avendo popolate le isole Feroe, l’Islanda, la Groenlandia nell’estremo settentrione dell’Europa, di là si spingessero di proposito, o fossero cacciati dal caso sull’altro continente, e appunto nelle terre che più tardi furono chiamate la Carolina e il San Lorenzo. Nicolò e Antonio Zeno, fratelli di quel prode Carlo che salvò la patria, verso il 1380 si elevarono fin alle coste della Groenlandia e a coteste altre scoperte de’ Normanni, e ne stesero un’informazione, che Nicolò Zeno lor discendente dice avere stracciata per fanciullesca inconsideratezza, e pretese valersi della memoria e d’altri amminicoli per darne nel 1558 un ragguaglio. Voi vedete come poco sia degno di fede; pure ci resta la mappa delle terre da loro vedute: è corredata di gradi geografici, e fa supporre il maneggio dell’astrolabio; ed ha questa singolarità, che, più di mille miglia ad occidente delle Feroe, mostra due coste, nominate l’Estotilandia e Droceo, le quali non potrebbero essere se non Terranuova e la Nuova Inghilterra, e diceansi indicate da naufraghi. Tali viaggi non assumeansi, lo vedete, per intento scientifico o per iscoprire; ma delle costoro informazioni vi era chi traea profitto per formar delle mappe. L’unica che i Romani ci abbiano lasciata, è la Tavola Peutingeriana, rozzissimo disegno fuor d’ogni proporzione, ritraendo la terra sulla lunghezza di ventidue piedi e la larghezza appena d’uno, ma che dovea bastare come carta itineraria. In Italia quest’arte progredì, e nove mappe geoidrografiche di Pier Visconti genovese del 1318 conserva la biblioteca di Vienna con altre di Grazioso Benincasa anconitano del 1480[327]. Vuolsi che già dal 1300 i Veneziani segnassero i gradi sulle carte marittime; e di Veneziani sono lode le cinque carte di Marin Sanuto che accompagnano i _Secreta fidelium Crucis_ (Cap. XCIII), dove l’Africa si disegna triangolare e breve, ma con evidente comunicazione dal Grand’Oceano al mar Rosso; il planisfero del Pizzigano del 1367, fatto a penna con diligenti miniature, e colla rosa dei venti[328]; le dieci carte di Andrea Bianco del 1436, che danno delineato il Giappone, l’Estotiland, le Antille, il Brasile, parte del Canadà. Nel 1440 frà Mauro camaldolese in San Michele di Murano delineava in un planisfero tutto il mondo allora conosciuto, sparso di figure e descrizioni, e dove la terra empie un gran circolo, attorniata dal mare; centro n’è Gerusalemme; il settentrione abbasso, in alto il sud; vi è tracciato tutto il viaggio di Marco Polo, e ciò che importa agli eruditi, il capo Verde, il capo Rosso, il golfo di Guinea, e il girabile vertice dell’Africa[329]. Il re di Portogallo incaricò esso frà Mauro d’un planisfero, di cui potessero giovarsi quelli che mandava a tentare scoperte. Nella _Rason del martologio_, codice del 1428 o poco poi, che conservasi a Venezia, è spiegata la _regola de navegar a mente_, applicando la trigonometria alla nautica; il raggio è ridotto in decimali, anzichè in sessagesimi; si adoprano le tangenti nelle operazioni trigonometriche, ben prima del Regiomontano che se ne fa scopritore. La reale libreria di Parma ha un mappamondo coll’iscrizione _Becharias civis januensis composuit hanc tabulam anno Domini millesimo_ CCCCXXXVI, dove sono indicate la prima volta con qualche precisione le Canarie e Madera. Un’altra carta marina su pergamena fu compita il 1455 da prete Bartolomeo Pareto genovese, ponendo Genova come la città più grande, e il suo San Giorgio effigiando sopra tutte le colonie del mar Nero. Erasi intanto migliorata l’arte del navigare, del costruire le navi e dirigerle, e spingerle anche con vento sinistro. La proprietà dell’ago calamitato di volgere a settentrione forse non era sconosciuta agli antichi, ma furono primi gli Amalfitani, e dicono un Flavio Gioja nell’xi secolo, a valersene come di strumento costante onde precisare la direzione de’ viaggi. Con questo si potè osare d’avventurarsi nell’alto, dove più non si scorgono terre; ed alcuni si spinsero fuori dello stretto di Gibilterra, al quale gli antichi, chiamandolo colonne d’Ercole, aveano posto il _non plus ultra_; e abbandonando le coste spiegarono le vele in alto mare. Fin dal 1281 Vadino e Guido Vivaldi salpavano da Genova con due galee col proposito di girare l’Africa, e giungere per di là nelle Indie. Una diede nelle secche alla Guinea, l’altra giunse nell’Etiopia, ma fu catturata, e un solo marinajo campò, i cui discendenti, censettanta anni dopo, ritrovò in Abissinia il genovese Antoniotto Usodimare. Pietro d’Abano e Cecco d’Ascoli famosi astrologi soggiungono che tale notizia invogliò Teodosio Doria e Ugolino Vivaldi a mettersi, nel 1292, con due Francescani per lo stesso cammino, donde non furono più di ritorno[330]. Altri Genovesi di quel tempo scopersero le isole Canarie nell’oceano Atlantico[331]. Nicoloso da Recco, capo d’una spedizione diretta a quella volta, nel 1341 ne diè contezza in Siviglia a mercadanti fiorentini, dai quali l’ebbe e la registrò il Boccaccio[332]. Forse da Genovesi furono trovate anche le isole Azzore, e si era dato il gran passo collo staccarsi dalla costa, avventurarsi al largo, dissipare la paura del mare _tenebroso, inguadabile_. Da questi tentativi presero voglia e coraggio Spagnuoli, Portoghesi, Baschi a scoprire regioni nuove, fosse a dilungo della costa occidentale dell’Africa, fosse in mezzo all’Oceano. Principalmente l’infante Giovanni di Portogallo, erudito in tutte le scienze del suo tempo, si piantò presso al capo San Vincenzo, e di quell’estrema punta occidentale d’Europa volle far quasi una vedetta donde esplorare mari intentati, e vi stabilì un’accademia marittima. Uno de’ primi suggerimenti di questa fu l’astrolabio di mare, grande anello metallico, sospeso ad un altro fisso alla parte superiore dello stromento, e con traguardi disposti in modo, da determinare i gradi d’altezza del sole e riconoscere la propria situazione, anche quando siasi perduta di vista la terra. Stava fitto in mente a quel principe che, seguitando a dilungo la costa africana, s’arriverebbe a un punto ov’essa dà volta verso levante e settentrione, e per di là si giungerebbe alle Indie; e ostinandosi contro le beffe e l’incredulità di coloro che al primo tentativo fallito si scoraggiano, seguiva a mandar navi, le quali sempre più avanzavano giù per la costa africana. Alvise Ca de Mosto patrizio veneto, corso già molte volte il Mediterraneo, mentre tornava dalle Fiandre il 1454, si trovò cacciato da un rifolo di vento al capo San Vincenzo; e il principe Enrico, saputo l’arrivo di quelle galee, mandò a chiedere con istanza se alcuno volesse pericolarsi ad una spedizione oceanica. Arrise la proferta al Cadamosto, il quale, avuta una caravella, sciolse ai 22 marzo 1455, toccò Madera, le Canarie, capo Bianco, e al voltare del capo Verde s’imbattè in due altre caravelle, una delle quali capitanata da Antoniotto Usodimare, egli pure in traccia di paesi e più di ricchezze. Messisi di conserva, procedettero fino allo sbocco del Gambia; ma l’insubordinazione della ciurma, sgomentata dagli attacchi de’ Negri o dal pregiudizio che i cibi di questi fossero letali ai Bianchi, gli obbligò a dar volta. L’anno che venne, il Cadamosto, ripreso passaggio con Antoniotto, si trovò spinto alle inesplorate isole di capo Verde e fin al Rio Grande. Da uomo esperto e sincero ce ne diede un ragguaglio, che è il più antico di navigazioni moderne: forse già prima avea steso il portolano dell’Atlantico, del Mediterraneo e dell’Adriatico. Antonio da Noli genovese riconoscea poi meglio le isole di capo Verde nel 1462. Intraprendentissimi erano dunque i nostri navigatori, ma forse in questa, come in tutte le altre imprese, mancarono della perseveranza: mediante la quale invece i Portoghesi si videro premiati, quando alfine, nel 1486, con Bartolomeo Diaz diedero volta al capo di Buona Speranza, cioè all’estremo vertice dell’Africa, e con Vasco de Gama nel 98 giunsero per mare nell’India, dove i nostri si spingeano per così lungo e tortuoso pellegrinaggio. Emanuele re di Portogallo pensò che le primizie delle sue conquiste fossero dovute a Dio, sicchè mandò al papa un elefante dell’India mirabilmente grosso, un pardo, e una pianeta tempestata di gemme, di tal bellezza qual mai non erasi veduta[333]. Perocchè ancora valeano le idee del medioevo; e l’intento professato di tali spedizioni era il guadagnare anime alla fede, e trovare quel Prete Janni, che i viaggiatori aveano dato come pontefice d’un popolo cristiano, isolato tra gli infedeli (Cap. XCIII, in princ.): al papa chiedeasi l’investitura delle nuove isole, delle quali, secondo il diritto d’allora, a lui spettava la sovranità: e Martino V privilegio di plenaria indulgenza chi perisse in que’ tragitti, che doveano tante anime redimere col battesimo, incivilire col vangelo. Tali tentativi fissavano l’attenzione d’un Genovese che tutti dovea superarli, perchè più perseverante. Nato di nobile casa piacentina, che impoverita nelle guerre di Lombardia, erasi applicata al commercio delle lane[334], Cristoforo Colombo, fatti i suoi studj e messosi presto nella marina, vi si segnalò per coraggio e abilità, aggiungendovi cognizioni geometriche, astronomiche, cosmografiche. Dopo comandato navi napoletane e genovesi, stette in Portogallo, dove i Lombardi (come chiamavansi tutti gli Italiani) erano bene accolti; cupidamente raccogliendo quanto si diceva e progettava, s’allargò a ben maggiore concetto; e mentre i precedenti non faceano che conquiste d’esperienza, seguitando la costa occidentale d’un continente a piramide, di cui la orientale era frequentatissima dagli Arabi, Colombo ideò una conquista di riflessione, cioè di giungere in Asia per via opposta: gli altri andavano tentone dietro a un fatto; egli spingeasi dietro un’idea, una fede. Forse viaggiò sino alla Guinea, forse fu nell’Islanda, ove potè aver contezza di terre giacenti oltre l’Oceano, e dai racconti, dalle fantasie, dai calcoli, dai testi traeva pascolo a congetture, che presto mutò in persuasioni. Che la terra fosse sferica e abitata anche nella parte opposta alla nostra, l’aveano già insegnato nella bassa Italia i Pitagorici, poi ripetuto altri savj anche di recente, comunque la scarsezza di libri lasciasse altri nei classici pregiudizj; e l’induzione veniva di suo piede dacchè sapevasi non essere il peso che la tendenza al centro della terra[335]. Uno potrà dunque passare da un meridiano all’altro sia che si diriga a levante, sia che a ponente, e le due strade saranno complemento una dell’altra. Il circuito della terra è diviso, secondo Tolomeo, in ventiquattro ore da quindici gradi ciascuna: i quindici da Gibilterra fino a Tina in Asia erano già conosciuti agli antichi; d’un altro s’inoltrarono i Portoghesi: non rimangono perciò che otto ore, cioè un terzo della circonferenza del globo. I filosofi asseriscono che la superficie de’ mari è un settimo appena dell’arida: adunque non resterà che piccola parte dell’Atlantico a traversare per raggiungere il continente dell’India, le invidiate terre delle spezie e dell’oro, il Catai, Cipango, le altre regioni, del cui nome e delle cui meraviglie era stata empita l’Europa dal Milione di Polo. Più dunque che pel levante, è facile giungervi per ponente[336]. Le cinquecento miglia di mare che credeasi dover traversare, erano ancora eccessive alla scarsa arte d’allora; ma probabilmente tra via s’incontrerebbero isole, delle quali una vaga fama trasmetteasi fra i naviganti. Altre induzioni, d’origine ecclesiastica, davano al mondo non più che cencinquant’anni ancora di durata; e poichè è scritto che _il suono del vangelo uscirà per tutta la terra_, Iddio dev’essere sul punto di aprire l’India da quest’altra banda, acciocchè vi si predichi Cristo, e se ne traggano tesori, coi quali riscattare Terrasanta dai Turchi e tante anime dal purgatorio. Ognuno appoggia i proprj concetti cogli argomenti del tempo; e Colombo ne raccoglieva per la fede dei teologi, per l’avidità dei re, pei pregiudizj dei naviganti, per la pedanteria degli eruditi, per la scienza de’ matematici. Fra gli astronomi di quel tempo godea nome Paolo del Pozzo Toscanelli, che in Firenze sua patria fece il più elevato gnomone del mondo in Santa Maria Novella. A lui, già consultato dai principi di Portogallo, si diresse Colombo per lume e consigli, e questi gli rispose una lettera appoggiandolo di autorità e di calcoli; gli abbozzò una carta navigatoria, ove da Lisbona a Quinsay (città rivelata da Marco Polo) segnava sedici gradi da ducencinquanta miglia ciascuno; e — Il tuo disegno parmi nobile e grande, e ti prego quanto so a navigare da oriente ad occidente». Colombo dovette rimbaldirsi di tanta approvazione: ma donde ottenerne i mezzi? La Francia si buttava allora a guerre avventurose sotto il romanzesco Carlo VIII: l’Inghilterra faticava a ricomporre gli sconquassi delle lunghe discordie intestine: il Portogallo erasi messo alle scoperte s’una traccia diversa, e codesta novità non poteva che tornargli sgradita: di fatto quegli accademici, cui il disegno di Colombo fu presentato, lo dichiararono d’un fatuo vanaglorioso; pure i politici suggerirono, — Teniamolo a bada finchè si mandino navi a verificare cosa ne sia». Colombo indispettito si sottrasse, e venne in Italia: ma di que’ piccoli Stati e ringhiosi qual mai era capace di tanto ardimento? Venezia e Genova desideravano conservarsi il monopolio delle antiche vie, anzi che perigliarsi a nuove; tenere a tutto loro profitto il commercio nel Mediterraneo, anzi che vantaggiare le nazioni situate sull’Oceano. Febbricitante dunque d’un gran pensiero, cui non vedea modo di ridurre ad effetto, cogli spasimi del genio incompreso, Colombo vedea passare gli anni, logorarsi il suo vigore, e nessuno che volesse accettare il dono d’un nuovo mondo. Finalmente in Ispagna trovò un frate, che il raccomandò al confessore della regina Isabella; e la gran donna, capace di comprendere l’entusiasmo di un grand’uomo, gli diede ascolto, fece esaminare la proposta da teologi e da sapienti; ma poichè allora fervea l’impresa che dev’essere la prima per ogni nazione, quella di sbrattare la patria dalla dominazione straniera, il tentativo fu rimesso a migliori tempi: intanto Colombo militò contro i Mori, vivendo d’un sussidio assegnotogli, egli che teneasi distributore d’incalcolabili tesori[337]. Finalmente la presa di Granata decise la lotta di sette secoli; e gli Spagnuoli si assisero indipendenti sopra il suolo che palmo a palmo aveano ricompro dalla servitù moresca. Allora Colombo rincalorì le istanze, e ottenne due navi e trecentomila corone, col patto di concorrere egli stesso a un ottavo della spesa, purchè gli si assicurassero un ottavo de’ vantaggi e un dodicesimo delle gioje e de’ metalli preziosi, il titolo di ammiraglio e vicerè de’ paesi nuovi. Un terzo legno ebbe da un armadore di Palos, dal qual porto salpò il 3 agosto 1492, fidando in Dio, e ostinandosi a filar dritto a ponente, per quanto il disconsigliassero i compagni, per quanto altri fenomeni l’allettassero a cercar terre a dritta o a sinistra, per quanto lo scoraggiasse il dissiparsi delle apparenze di vicina terra. Perseveranza siffatta è l’impronta del genio. Non è di questo luogo il descrivere gli incidenti del suo viaggio, e come toccasse le Antille e più tardi il continente, ch’egli credette sempre fossero le settemila quattrocentottantotto isole orientali, indicate da Marco Polo. Il suo giornale lo mostra attentissimo osservatore d’ogni fenomeno della natura, quantunque non addottrinato abbastanza per trovarne la spiegazione; nè alla sagacia sua sfugge veruna delle apparenze d’un mondo e d’un ciel nuovo: ravvicina i fatti per indovinarne le mutue relazioni; primo avvertì la deviazione dell’ago magnetico; primo conobbe che si poteva trovar le longitudini mediante la differenza dell’ascensione diritta degli astri; notò la direzione delle correnti pelagiche, l’aggruppamento delle piante marine che determinano una gran divisione de’ climi dell’Oceano, il cangiarsi delle temperature non solo a norma delle distanze dall’equatore, ma colla differenza de’ meridiani; nè trascurò appunti geologici sulla forma delle terre e sulle cause che la producono. Quel che più ancora, lo caratterizza è il sentimento religioso, pel quale crede a visioni, a rivelazioni; per iscopo supremo dell’impresa si propone di annichilare l’islam, convertire i sudditi del gran kan, e coll’oro ritratto riedificare Gerusalemme, e suffragare tante anime aspettanti nel purgatorio. Ne traeva la perseveranza contro gli ostacoli, la pazienza de’ mali, e nei semplici suoi ricordi scriveva: — Benedetto Iddio che dà vittoria e buon successo a chi segue le sue strade, e l’ha miracolosamente provato in me. Io tentai un viaggio contro l’avviso di tanti assennati; tutti trattavano il mio disegno di chimera: confido nel Signore che il successo farà grande onore alla cristianità». E se i disastri l’opprimevano, pareagli una voce gridargli in sogno: — Di poca fede! cosa fece Iddio di più per Mosè e per David suo servo? A te aperte le barriere dell’Oceano; a te sottomesso infinito paese; il nome tuo reso celebre in tutta la cristianità. Volgiti a lui, e riconosci che infinita è la sua misericordia. Tu giaci di cuore, e gridi _È troppo_. Or di’, chi ha cagionato le tue afflizioni, Dio o il mondo? Dio non fallisce le promesse: ma delle fatiche sostenute per altri padroni questa è la ricompensa». Perocchè è nota l’ingratitudine con cui gli uomini compensarono quel sommo che, mentre al tornare del primo viaggio non era onoranza che non gli fosse profusa quasi a creatore, di poi dal nuovo mondo fu ricondotto in catene, le quali (dice suo figlio) io vidi sempre sospese nel suo gabinetto, e con quelle volle esser sepolto». Ai re si lagnava egli, ma invano; e a suo figlio scriveva: — Dopo vent’anni di servizj e fatiche e pericoli tanti, non possiedo in Ispagna ove ricoverare il capo: per mangiare e dormire mi bisogna andare all’osteria, e più volte non ho di che pagare lo scotto». Sazio poi di quella che tanto annoja, la censura degli oziosi, proponeva: — Coloro che si piaciono di far rimproveri e appunti, stiano a cianciare laggiù a loro agio, e dire _Perchè non fare così e così?_ Avrei voluto fossero stati a quell’impresa». Passata mezza la vita nella miseria sospirando di attuare la grande idea, e l’altra mezza nella invidia per averla compiuta, straziato da lunga ambage d’iniquità e scaduto dalle più fervorose speranze, moriva desolato a Valladolid di sessantott’anni nel 1506. Istituì un maggiorasco, e ne trasmetteva i documenti a Genova, «della qual città io sono uscito, e nella quale son nato»: pel banco di San Giorgio destinò un decimo della rendita di sua eredità, onde sgravare la gabella delle vittovaglie: e sedici giorni prima di morire, sopra un uffizietto della beata Vergine regalatogli da Alessandro VI papa, e «che gli era stato di gran sollievo nella cattività, nelle battaglie, nelle traversie»[338], vergava un codicillo militare da darsi «all’amatissima sua patria la repubblica genovese» pei benefizj che n’avea ricevuti; volea che de’ suoi beni stabili in Italia vi si ergesse uno spedale nuovo; mancando poi la sua linea, sostituiva il banco di San Giorgio nell’ammiragliato dell’India e negli altri privilegi, che dai re gli erano stati sconsideratamente promessi, e che poi gli furono codardamente fraudati; sicchè i figli suoi dovettero stentare tutta la vita a patrocinare i titoli e il nome di quel grande, cui negavasi la gloria d’aver egli primo scoperto un mondo, che testè gli s’imputava a monomania il credere potesse scoprirsi. Finalmente i suoi nipoti rinunziarono alle pretese ricevendo mille dobloni l’anno e il titolo di duchi della Veragua, che vive tuttora in una linea femminile, dalle ultime vicende spagnuole ridotta a strettezze. Più che i re, furono ingrati a Colombo gli scrittori, che del nome di lui non battezzarono la terra da lui scoperta. Al fine dell’ultimo secolo, gli Spagnuoli, costretti abbandonare ai Francesi l’isola d’Haiti ove era stato sepolto, lo trasportarono all’Avana in una solennità affettuosa, cui non si mesceano maledizioni, come alla traslazione d’altri eroi: e Bolivar volle col titolo di Colombia abbellire la repubblica, che le sue vittorie creavano e la sua temperanza conservava. Tarda giustizia! a Colombo non restò che la felicità dell’operare; felicità che voi, anime torpide, mai non comprenderete. Subito avidità d’oro, di gloria, di conquiste, di conversioni, di martirio, spinse gran gente verso quel nuovo mondo, del quale, in poco giro d’anni, tutto il contorno fu determinato: ma a noi non s’appartiene qui l’esporre se non la parte che vi presero gl’Italiani. Sebastiano Cabotto, mercadante veneziano, che fin dal 1494 avea veduto una terra che poi fu detta Terranuova, all’udire le imprese del Colombo, sentì suscitarsi «un desiderio grande, anzi un ardor nel cuore di voler fare ancor egli qualche cosa di segnalato»; ed esibì ad Enrico VII d’Inghilterra d’arrivare al favoloso Catai per altra via che non quella di Cristoforo, cioè pel nord-ovest; e avutone lettere patenti nel 1496, con Sebastiano suo figlio, e con quattro navi provvedutegli dai negozianti di Bristol, toccò il continente americano al Labrador il 24 giugno 1497, cioè un anno e sei giorni prima che Colombo mettesse l’orma in quel continente, del quale riconobbe 300 leghe di costa. Morto il padre, Sebastiano spinse un altro viaggio in quell’altezza, e pare scorresse a dilungo la costa dalla baja d’Hudson alla estremità della Florida; ma sgomentato dai geli e dalle lunghe notti, voltò indietro. Il papa, molte volte lo ripetemmo, era considerato signor supremo dei mari e delle isole: in forza di che, Martino V aveva conceduto al re di Portogallo quanti paesi si scoprirebbero dai capi Bogiador e Non fino alle Indie. Nessuno allora prevedeva che fra questi s’incontrerebbe nulla meno che un mezzo mondo; sicchè Spagna e Portogallo vennero a diverbio sul possesso di questo. Invece di strapparselo colle armi, compromisero la quistione in papa Alessandro VI, il quale segnò un meridiano, distante cento leghe dalle isole Azzore e dal capo Verde, e i paesi di là da quello attribuiva alla Spagna. Prima che tale controversia fosse composta, erasi adunata una giunta per discuterla, e in essa aveva parte il nostro Cabotto, il quale dagli Spagnuoli ebbe l’incarico d’un nuovo viaggio, in cui rimontò il gigantesco Rio della Plata. Fatto poi gran piloto d’Inghilterra, e presidente della compagnia istituita onde tentare il passaggio pel nord-ovest, in quell’isola morì onorato. Il gran problema che girava per la mente dell’illustre Veneziano, non fu risolto che jeri. Sant’uomo (_good aldman_), come lo intitola Ricardo Eden suo amico, morendo diceva sapere per rivelazione divina un metodo infallibile di trovare le longitudini; e forse intendeva mediante la deviazione dell’ago magnetico, la quale si vorrebbe da lui scoperta[339]. Anche Giovan Verazzani navigatore fiorentino fu adoprato da Francesco I onde tentare pel nord un passo alle Indie, costeggiò la Terranuova, conobbe la Nuova Francia, e più di settecento miglia di costa esplorò. Americo Vespucci, nato di buona casa a Firenze, poi fattore nella banca di Gioannotto Berardi a Siviglia, divenne spertissimo marinajo e buon cosmografo, eseguì diversi viaggi per commissione del Governo spagnuolo, dal quale fu assunto primo piloto alla morte di Colombo; e colmo d’onori morì a Siviglia il 1512. Niuna impresa capitale egli compì, ma in lettere dirette a Renato duca di Lorena e a Lorenzo di Pier Francesco Medici, diede delle sue navigazioni un ragguaglio gonfio e confuso, con ostentazione di scienza e con apparenza d’uomo che compila scritti altrui. Firenze lo lesse con avidità, e gli decretò il fanale, cioè che davanti alla casa di lui si accendesse un falò per tre giorni e tre notti, come in antico solevasi ai benemeriti della patria, e tutte le case si dovessero illuminare e più i palazzi[340]. Quella informazione fu subito messa a stampe, e perchè fu la prima che si pubblicasse, venne cercatissima, tradotta in varie lingue, talmente che i paesi nuovi si chiamarono la terra d’Americo, e il costui nome prevalse a quello del vero scopritore. Nol chiameremo per ciò falsatore e plagiario della gloria altrui, ma vi riconosceremo uno degli accidenti della gloria, tanto capricciosa nelle sue distribuzioni. Antonio Pigafetta vicentino, trovandosi in Ispagna al seguito di Francesco Chiericato ambasciatore della corte di Roma, partì collo spagnuolo Ferdinando Magellano per un viaggio all’estremità meridionale dell’America, e, datovi la volta il 21 ottobre 1520, compiva il primo giro del globo. Il viaggio era stato finito in millecentoventiquattro giorni; e la nave tratta in secco, fu conservata qual monumento della spedizione più arrisicata. Pigafetta fu accolto a Monterosi da papa Clemente VII, per cui istanza egli stese un racconto di quel giro, con poca esattezza e molta credulità, ma prezioso in mancanza d’ogni altro, e anche piacevole per la contezza di tanti paesi nuovi, e pel primo vocabolario di lingue parlate da Indiani. Con Magellano erano a quel passaggio anche Leone Pancaldo, Battista da Polcévera e un Baldassarre genovesi. Un altro genovese, Paolo Centurioni, proponeva a Basilio czar delle Russie un nuovo cammino alle Indie, venendo per acqua fin al Caspio, e dal Caspio pel Volga ed altri fiumi al Baltico, onde recare più presto e direttamente ai Settentrionali le droghe, senza ricorrere ai Portoghesi[341]. Così, intanto che la patria tempestava fra gravi sciagure, molti nostri, e principalmente genovesi, andavano ad ardite scoperte, delle quali l’Italia non doveva giovarsi: piloti genovesi fecero la prima circumnavigazione, designata dal nome di Magellano; altri tentarono il passaggio polare. Col solito carico erano partite le galee di traffico veneziane per distribuire le droghe ne’ porti dell’Oceano, quando Piero Pasqualigo, ambasciatore a Lisbona, diede avviso alla Signoria che i Portoghesi aveano schiuso un altro varco alle Indie, ed offrivano le spezie ed il legname di costruzione a più fiorito mercato. Fu tenuto come pubblico disastro dalla repubblica, e si pensò al riparo non colla generosità che si eleva a vantaggiare se stessi col vantaggio altrui, bensì coll’egoismo che impaccia e pregiudica. Spedirono a insusurrare al soldano d’Egitto che gravi pericoli deriverebbero al suo paese e alla religione maomettana dalla prossimità di que’ nuovi e intraprendenti mercadanti, e gli offrivano braccia, consigli, armi per esterminarneli. Egli di fatto il tentò, unito ai principotti di Cambaja e di Calicut; ma il valore di Vasco de Gama, poi dell’Albuquerque dissipò le resistenze. Consiglio più generoso e insieme più profittevole alla repubblica sarebbe stato il mettere in comunicazione il Mediterraneo col mar Rosso traverso all’istmo di Suez, o all’Egitto pei canali del Nilo; e non mancò chi lo suggerisse: ma forse lo impedì quell’empia lega, in cui tutt’Europa si strinse allora appunto per distruggere Venezia. Il commercio, che i Portoghesi allora cominciarono coll’Asia, differiva da quel di Venezia in quanto questa lo permetteva a qualunque cittadino, escludendo gli stranieri, mentre i Portoghesi lo teneano come proprietà della corona; quella non negligeva l’industria interna, mentre i Portoghesi lasciarono deserte le manifatture e le campagne per usufruttare le colonie orientali. Gl’Inglesi perseverarono a comprar le droghe dai nostri; ma un equipaggio veneto di millecinquecento tonnellate, che nel 1587 naufragò sopra l’isola di Wight, fu l’ultimo che approdasse in Inghilterra, avendo la regina Elisabetta ottenuti pe’ suoi dal granturco tutti i privilegi di cui fruivano i Veneziani. Presto dalla Sicilia passò la coltura dello zuccaro in America, che ne divenne la principale produttrice; di là vennero a noi molte nuove piante e derrate, molti usi ed abusi, e vizj e comodità e morbi. È generalmente accettato che l’inglese Raleigh portasse pel primo in Europa il pomo di terra nel 1586; ma il celebre botanico l’Ecluse (_Clusius_), che primo descrisse quel tubero nel 91, asserisce averne fin dall’88 coltivato nel suo giardino alcuni ricevuti dall’Italia, ove da qualche tempo servivano di cibo agli uomini e agli animali domestici. Ma noi avevamo cessato d’essere i fattori dell’Europa; non un palmo di terra acquistammo in quel mondo, che un nostro avea scoperto e un altro denominato; non ajutammo le successive indagini: vero è che restammo mondi del sangue e delle atrocità che le accompagnarono. Le scoperte schiudeano un nuovo campo alla santa operosità de’ missionarj, che da Roma correano a piantar la croce dovunque gli avventurieri avessero cominciato la strage. Famosi principalmente riuscirono i Gesuiti nella Cina, e primi Gabriele Rogerio di Napoli, il Ricci da Macerata, il Pasio da Bologna, che educatisi nei costumi e nella lingua del paese strano, furono tollerati e donati, ed ottennero grandi successi di conversioni; anzi il Ricci scrisse un’opera in cinese, che lo fece porre fra i classici di quella difficile nazione. Prodigiosi effetti conseguì pure nel Malabar il padre Roberto de’ Nobili romano, che però col troppo mostrarsi tollerante dei riti nativi meritò la disapprovazione di Roma, e (strano accordo) quella de’ filosofanti. Da questi ed altri missionanti si ebbero le prime e le più esatte contezze di que’ paesi. Gli ambasciadori nostri alle Corti straniere informavano i loro Governi delle scoperte, via via ch’erano risapute; i mercadanti ne faceano appunto sui loro mastri per l’alterazione che derivava al prezzo delle derrate. Gli eruditi, di mezzo ai loro studj sull’antico, sentivano agitarsi il mondo moderno; e mentre sulla fede dell’erudizione Colombo ostinavasi nel glorioso suo errore, Pietro Martire d’Anghiera milanese scriveva a Pomponio Leto: — Non passa giorno che non ci arrivino prodigi nuovi da questo nuovo mondo, da questi antipodi dell’Occidente, che un tal Cristoforo genovese ha scoperti. Credo bene che tu abbia trasalito d’allegrezza, e a stento ti sia frenato dalle lagrime quand’io per lettere t’informai dell’orbe dianzi nascosto. Qual cibo più soave di questo a sublimi ingegni? Da me lo misuro, che sento bearmi lo spirito quando ragiono con alcuni tornati di colà. Tuffino l’animo in accumular dovizie i miseri avari; noi allietiamo le menti nostre nella contemplazione di siffatte meraviglie. E che fecero di più i Fenicj quando in regioni remote riunirono popoli erranti, e fondarono altre città? Ai tempi nostri era serbato vedere allargarsi di tanto le nostre concezioni, e tante cose insolite apparir d’improvviso sull’orizzonte»[342]. Esso Pietro Martire pubblicò tre decadi _De rebus oceanicis_, che volle far credere scritte man mano che le informazioni giungevano[343], e il cui vanto riponeasi nell’aver saputo designare con parole classiche paesi e cose nuove. Dalle lettere del Colombo _De insulis Indiæ nuper inventis_ trasse un rozzissimo poema in ottave il canonico Giuliano Dati fiorentino[344], autore d’altri scrittarelli destinati a popolarizzare le scoperte. Di que’ viaggi poi una raccolta stampò il Fracanzano di Montalboddo a Vicenza nel 1507 col titolo di _Mondo nuovo e paesi nuovamente trovati da Alberico Vesputio fiorentino_; Antonio Manuzio un’altra de’ viaggi di Veneziani. Giovan Battista Ramusio, nato da Paolo letterato celebre, usato in molte legazioni, sperto di varie lingue, concepì principale amore per la cosmografia, e ne teneva accademia in sua casa a Venezia; e dei ragguagli che correano fece la miglior raccolta col titolo _Delle navigazioni e viaggi... nelle quali con relazione fedelissima si descrivono tutti quei paesi che da già trecent’anni finora sono stati scoperti, così di verso levante e ponente come di verso mezzodì e tramontana_, più più volte ristampate, dopo la prima di Venezia del 1550. Anche Livio Sanuto raccolse le migliori notizie delle scoperte, e s’un globo rappresentò tutto il mondo conosciuto, sicchè può considerarsi il primo che correggesse le antiche carte. Sventuratamente delle sue non si salvarono che dodici, pubblicate postume nel 1586, incise dal fratello Giulio; e l’Africa vi è ritratta con esattezza tale, che appena dalle recentissime scoperte potè essere migliorata. Alessandro Geraldini da Amelia nell’Umbria militò in Spagna, fu coppiere della regina Isabella, poi entrato ecclesiastico, educò quattro principesse che divennero regine; favorì i divisamenti del Colombo confutando i sofismi teologici che lo contrariavano; adoperato molto in diplomazia presso quasi tutte le corti d’Europa, finì vescovo di San Domingo in America. Scrisse molte opere di teologia, esortazioni ai Cristiani contro i Musulmani, e l’itinerario alle Antilie, con ragguagli sulle antichità, i riti, i costumi, le religioni de’ popoli di Etiopia, d’Africa, dell’oceano Atlantico, dell’India. Asserisce però aver veduto e trattato popoli e re, che nessun altro menziona; dà perfino iscrizioni latine, che asserisce aver copiate in Africa, evidentemente false: sì poco allora aveasi cura dell’esattezza. Altri continuarono viaggi. Giovanni da Empoli nel 1503 arrivava al Malabar. Filippo Sassetti fiorentino, buon matematico e discreto scrittore, visitò le Indie, e vorrebbesi il primo che avvertisse la declinazione dell’ago calamitato, che noi trovammo già prima indicata. Luigi da Vartema, gentiluomo bolognese, scrisse il suo viaggio in Levante, ristampato e tradotto in tutte le lingue. Mosso da Venezia dopo il 1500, visitò l’Egitto, la Siria, e nel 1503 imparato l’arabo, da Damasco colla carovana andò alla Mecca, soffrendo i disagi di quel tragitto, ammirando il gran mercato che vi si teneva, benchè declinasse dopo scoperto il passaggio marittimo all’India. Un Moro ch’era stato a Genova e Venezia, lo conobbe per italiano; nè al castigo serbato all’infedele che entra nella santa casa, potè sottrarsi se non fingendosi rinnegato, e bestemmiando i Portoghesi. Il Moro gli esibì di mettersi col re del Decan per fondere le sue artiglierie: ed egli, desideroso di avventure, accettò. Sbarcò a Aden, ma riconosciuto, fu messo in carcere; e solo col fingersi scimunito, e ricrear la regina colle sue buffonerie, potè campare. Allora visitò molte città dell’Arabia Felice, fendè la Persia, e giunse ad Ormus, a Herat, a Schiraz, centri di vivissimo traffico. Fece società con un mercante persiano, e dalle guerre impedito di giungere a Samarcanda, tornò a vedere altri paesi sino a Calcutta, dove stavano sin quindicimila mercanti forestieri. Il Vartema si estende a narrare i costumi dell’India, come uom che li vide in fatto, sebbene e spesso li frantendesse, e più spesso non osservasse quelle particolarità che ne formano il carattere. Seguitò a trafficar per que’ mari, e via fin al capo Comorin, all’isola di Seilan e al Bengala, indi al Pegù, a Sumatra, all’isola delle Spezierie, a Borneo, a Giava. Reduce a Calcutta, trova due Milanesi venuti nell’India co’ Portoghesi e disertati, coi quali s’accorda per fuggire dai paesi musulmani, e riesce a tornare fra i Cristiani. I Portoghesi l’ebber caro per le informazioni che offerse di regioni ignote, e gli agevolarono il ritorno a Lisbona, ove il re l’intitolò cavaliere; e di là tornò in patria il 1508. Gaspare Balbi veneziano, negoziante di gioje, trovandosi ad Aleppo il 1579, risolse visitare l’Oriente; e condottosi a Bir sull’Eufrate, navigò questo fiume pieno di pericoli fin presso a Bagdad; da questa _Babilonia_ nuova scese pel Tigri a Bàssora, donde a Ormus, osservando la pesca delle perle a Baharein, poi a Diu e a Goa, dove allora ingrandiva la potenza portoghese. La sua descrizione rispetto a storia e geografia non dilatò le nostre cognizioni, ma da mercante ch’egli era, informa a minuto del commercio, dei prezzi, delle direzioni. Da Goa traversò a Cochin, poi pel capo Comorin a San Tomé, notando i gran frutti delle missioni gesuitiche. Con mercadanti Portoghesi navigò nel Pegù, regno poderoso, che dominava quelli d’Ava e di Siam, e la cui capitale trovò grandiosa, qual rimase finchè i Birmani non la distrussero nel secolo passato. Quel principe, interrogatolo sul suo paese, e udito che governavasi senza re, volle sbilicarsi dalle risa, il regalò d’una coppa d’oro e tappeti cinesi, e ne comprò molti smeraldi, ricambiandoli con altre pietre e con pezzi di piombo che ivi scusavano la moneta. Passare ad Ava per farvi accatto di rubini non potè, in grazia d’una ribellione scoppiata, per la quale il re del Pegù chiamò a sè gli uffiziali e governatori, e sospettandoli d’intelligenze, li fece colle loro famiglie bruciare in numero di quattromila. Il Balbi potè vedere le trionfali solennità della vittoria, e marcie e pasti, dove i bianchi elefanti del re faceano segnalata comparsa. Ci dipinge quel popolo come mansueto, tollerante, educato dai buoni esempj de’ Talapoini, monaci austeri e caritatevoli, i quali non impedivano di farsi cristiani, dicendo che uno può esser buono in qualunque religione. Di là mandavasi argento al Bengala, riso a Malacca: sopratutto lavoravasi di cotone. Nol seguiremo nel ritorno e nella descrizione che fa delle usanze della costa del Malabar, donde per Ormus ripassò nel 1588 ad Aleppo, che avea lasciata nel 1579; e due anni dappoi pubblicava in patria il suo _Viaggio alle Indie orientali_, prezioso sì per la semplicità con cui acquista fede a’ suoi detti, sì perchè primo recò notizie dell’India transgangetica e particolarmente del Pegù. Pier della Valle può dar la misura della corrività, se non della sfacciataggine de’ viaggiatori. Staccatosi da Roma col proposito di percorrere le principali parti del teatro dell’universo, provvisto d’entusiasmo e di fede ma non di critica, sopra un legno veneziano approda prima a Corfù, dove riverisce le reliquie di santo Spiridione, e dove gli è mostrato un discendente di Giuda Iscariote. A Zante vede una fontana, la cui acqua proviene dalla terraferma, sottopassando alle salse, per tal segno che una volta ne sgorgò una tazza d’argento. Da Troja, che ricostruisce con tanta facilità, mentre con tanto stento i moderni non v’arrivarono, giunge a Costantinopoli, e vede gran meraviglie, e n’ode di maggiori, quali le due immense cisterne, sopra cui stanno sospese Santa Sofia e l’ippodromo, sostenute solo da alcune file di pilastri. Harlais ambasciadore di Francia gli agevola l’entrata nel serraglio, ove bacia la mano all’imperatore, ma preoccupato dalle idee de’ costumi e delle Corti europee, nulla intende di quella. Nelle case vede usare pertutto una bevanda nera, che chiamano caffè, e i cui effetti gliela fanno somigliare alla nepente, con cui Elena calmava i tedj degli assediati Trojani. Nell’Egitto scorre colla Bibbia e col leggendario alla mano, pertutto vendemmia pie tradizioni, e viepiù accostatosi a Terrasanta: e que’ racconti anche sì grossolani attraggono per la buona fede e la semplicità onde sono dettati. Dopo che potè prostrarsi sul sepolcro di Cristo, e ricever la comunione su quello di santa Caterina, crebbe di pietà, e sbandì quanto di mondano conservava. Avviatosi colla carovana verso Babilonia, sente parlare della bellezza stupenda, del raro ingegno, dell’incomparabile virtù della figlia del maggior ricco di Bagdad: onde invaghitosene per fama, non d’altro studia che d’arrivarvi presto, e la ottiene in matrimonio, e riconduce a Roma la bella Maani Gioreida. Jacopo Morelli, lodato bigliografo, stampò in pochi esemplari una dissertazione intorno ad _Alcuni viaggiatori eruditi veneziani poco noti_ (Venezia 1803), i quali sono Paolo Trevisano, Giovanni Bembo, Pellegrino Brocardi, Ambrogio Bembo, Giovan Antonio Soderino; e minori Bartolomeo Dandolo, Bonajuto Albani, Teodoro Gradenigo, Nicola Brancaleone, Antonio Priuli, Carlo Maggi, Cechino Martinello. Altri avremo a mentovarne, ma scarsissima messe ci danno i nostri campi. Ben fa meraviglia come di tanti portenti, che doveano concitare le fantasie e l’estro, poche o niuna scintilla traessero le muse nostre, severe od amene: alcuni poemi su que’ gloriosi fatti ricalcano i modelli antichi; e le allusioni fattevi non attingono l’originalità, neppure in mano del Tasso e dell’Ariosto. CAPITOLO CXXVI. La fine del medioevo. Così accompagnammo il passaggio dall’età media alla moderna. La società stabilita sulla libera autorità, sulla devozione dell’uomo all’uomo, sulla infallibilità cattolica, sulla ecclesiastica gerarchia, cede dinanzi all’indipendente indagine de’ pensatori, al cavillo erudito de’ leggisti, alla risoluzione de’ popoli di stracciar le fascie entro cui crebbero, e dei re di non tollerare superiori. Cessata quella robustezza di Roma imperiale, che assorbiva l’uomo nello Stato, la Chiesa avea proclamato la propria indipendenza: gli uomini franchi, i signori feudali, i Comuni, le maestranze ne voleano altrettanta, arrogandosi l’autonomia della propria sfera, per modo che non si trova più la nazione, lo Stato, ma l’individuo col suo senno e colla sua coscienza. Al contrario, gli Stati moderni sin dal nascere inclinano in un senso opposto alla società cristiana e ai dominj barbari, accentrando i poteri maestatici, estendendo la sfera della regia attività a scapito de’ signori e dei Comuni. A ciò erano ajutati dal desiderio d’ordine, di sicurezza, di protezione, ingrandito colle ricchezze e colla civiltà: ma ne derivava l’illimitata dominazione d’un uomo, giacchè tanti poteri concentrati non potendo più esercitarsi dal popolo, vengono affidati a un solo, e ne nasce la moderna assolutezza, ove l’individualità sparisce sotto i regolamenti, i diritti rimangono in arbitrio dei governi, e lo Stato dovendo regolare tutto ciò che interessa la maggioranza, più non conosce limiti nell’attività che si attribuisce, intacca perfino la proprietà coll’arbitraria imposta[345], surroga al concetto morale il calcolo del tornaconto, l’artifiziale autorità della magistratura alla naturale libertà di ciascuno, a un capo servito da poteri indipendenti l’idea dello Stato rappresentato da un uomo; insomma all’età cattolica sottentra l’età politica. È però compiuta la missione provvidenziale del medioevo, qual era di sfasciare l’onnipotenza dello Stato sopra i corpi e le anime, restituire all’uomo l’importanza che prima non attribuivasi se non al cittadino, rintegrare le nazionalità particolari, e in queste le famiglie. Da principio le famiglie de’ vincitori stavano raccolte in una imperfetta federazione, quale bastasse a tenere subordinate quelle de’ vinti; e al possedimento delle terre si annetteva la sovranità, che in conseguenza suddivideasi fra tanti signorotti, volgentisi nell’orbita propria, non trascinati in quella di un unico preponderante. Finite le invasioni, sui rottami dell’impero di Carlomagno erasi fondato un nuovo ordine di cose, medio fra la schiavitù antica e le libertà moderne, cominciarono a parlarsi lingue distinte, nelle quali prorompeano versi per esprimere le credenze, le passioni, i sentimenti. Allora i Comuni ampliarono esse famiglie, introducendovi i vinti come artigiani o anche solo come inquilini della città; poi via via abbracciarono la campagna e i servi, e formarono vorrei dire tanti nuclei, attorno a cui si cristallizzarono i decomposti elementi. Fu questa la rivoluzione per cui l’Italia, prima che ogn’altra, cancellò le impronte della barbarie: rivoluzione casalinga, dove il governo passò dai re ai conti, dai conti ai vescovi, indi ai Comuni aristocratici, poi agli industriali, poi alle plebi, non cercando tanto la libertà civile quanto l’eguaglianza, e questa non nelle persone, ma nei corpi che eransi emancipati coll’oro e col sangue, senza però mai che si aggregassero ad un potere centrale. Fissando quel bulicame di persone e di Stati che, non ancora stretti a fasci, ed operanti più per sentimento che per la riflessione, esercitavano un’esuberanza di vita, in rapida e perpetua mobilità spingendosi, attraversandosi, sormontandosi, combattendosi per motivi ignoti, s’inaspa lo sguardo. Le cronache danno un motivo a ciascuno di quei fatti, un nome a ciascuno di quegli individui, e caratteri e passioni proprie; e soventi vi scorgiamo generosi fini, nobili interessi, pericoli vigorosamente affrontati, tanto da meritare più che gli eroi de’ grandi imperj l’attenzione di chi, qualunque ne sia il nome e le proporzioni, prende interesse all’uomo che lotta per la coscienza, per la libertà, per la patria. Ecco perchè il medioevo è così diversamente valutato: tanto più che le forme n’erano grossiere, e che all’induzione e alla deduzione prevaleva l’intuizione, fecondissima fonte di conoscenze e di verità più dirette ed essenziali, perchè produce l’entusiasmo, trattato di pazzia dal freddo raziocinio, incapace a spiegarlo; e che sempre vi si trovano a contrasto l’infinita aspirazione del pensiero e la trista realità, carità e barbarie, ironia ed amore, dubbio e misticismo, e nell’autore stesso improperj contro i papi e venerazione per san Francesco. Gente che vuol tutto restringere alla misura della nostra piccineria, che a forza d’abusare della parola libertà, d’erigere in regola il sofisma, di non riconoscere verità contraddicenti al proprio partito, nè importanza a principj che non siano i suoi, senza volerlo si riduce cortigiana della violenza e dell’arbitrio, e quando non ode schiamazzo per le vie chiama organizzata la società, ben è dritto se non sa che deplorare que’ tempi, e preferendo alla tutela municipale l’imperiosità governativa, alla libertà dei più la sovranità politica, anatemizza i governi popolari a fronte de’ regj che, nell’evo seguente, portarono all’Italia il silenzio della prigione, il riposo del sepolcro. Acquistar la libertà senza lotte, traforarsi da un governo all’altro a chetichella, sono utopie di gazzettieri che idoleggiano la propria ragione, e immolano i fatti alla teoria. Anche Venezia ne’ primi suoi secoli avea fortuneggiato tra rivolture e ambizioni, finchè trovò il suo assetto. Le altre repubbliche faticavano ancora nel travaglio, dove più dove meno spasmodico; e tutte frastornate dall’irrequietudine de’ fuorusciti, dall’ingerenza ghibellina, e ben presto dalla conquista forestiera, per modo che non poterono trasformare gl’istinti in raziocinj, le passioni in principj morali. L’idolatria, sia al passato o al presente, non è degna se non di quella storia che fu adulterata dalla scettica manipolazione del secolo passato, e dal dilettantismo giornalistico di questi nostri, che conservano l’irriverenza e la leggerezza di Voltaire, quando Voltaire stesso penserebbe più seriamente. No: ai grandiosi spettacoli dell’umanità non vuolsi l’occhialetto indifferente o beffardo del teatro; e solo vi s’addentra chi, spogliato di presunzione filosofistica e di teologiche sottigliezze, cerca la figliazione degli elementi sociali, e come le civiltà procedano le une dalle altre per la forza d’evoluzione, che è propria della specie umana: che se la filosofia della storia errò ne’ singoli sistemi, convinse che l’oggi è figlio dell’jeri; che certe forme della società si attuano solo in alcuni periodi; che uno stadio dell’umanità procede dall’altro, la spiegazione di uno si trova nell’esistenza dell’altro. Scienza non si dà se non quella che riposa sopra le qualità insite e durevoli delle cose; che all’induzione aggiunge il lento corredo di prove, di fatti convergenti; che senza entusiasmo nè rancore aspira a discoprire la verità, la sola verità. E se il lungo studio e la violenta contraddizione ci valse, e la fatica nel determinare correnti del pensiero opposte a quelle che irriflessivamente lo trascinavano, a noi parve fatuità il credere che jeri solo nascessero i concetti di giustizia, d’indipendenza, di libertà; e che in un secolo, il quale non mette in prospettiva de’ suoi fatti che la prigione e la forca, giovasse ricordarne altri che vi mettevano il paradiso; che in un’età di vita fortuita e turbolenta e presto invecchiante, la quale proclama non esservi scampo dalla democrazia che nei soldati, giovasse non esaltare ma conoscere il medioevo, il quale avea creduto contro i soldati non trovare scampo che nella democrazia. Gridino a tutta gola che c’inganniamo; noi, scarchi delle intolleranze giovanili e attaccati pacificamente alle credenze nostre senza perseguitare le altrui, prostrandoci sulla recente tomba d’un amico, con lui proclamiamo: — Il vincitore è Abele». Tal è il senso della prima rivoluzione, segnata col nome de’ Comuni: ma agli eterogenei elementi bisognava metter ordine; e qui soccorrevano il diritto romano e l’ecclesiastico. Il romano, se anche aveva perduto l’efficienza legale, sopravviveva nelle tradizioni e negli scritti, e contribuì utilissimamente a dar norme di giustizia e di procedura. La Chiesa, che per la sua universalità era sfuggita dal frastagliamento del potere civile, al feudalismo, sistemato unicamente per la conservazione de’ vincitori, opponeva un ordine razionale, con poteri gerarchicamente coordinati, scritte le leggi, discusse in pubblico le prove testimoniali[346], la pena misurata dal dolo e dal fatto, non già dalla qualità del delinquente o dell’offeso, e sempre più identificata la legge colla morale. Dal diritto romano e dal canonico s’apprende ad accentrare i poteri sovrani; i diritti, le azioni, la pulizia si regolano con statuti, poi con codici, non dedotti da un concetto filosofico, ma dalle relazioni sociali e dallo storico andamento. Di tal passo l’Italia, che fino al Mille scomponeva le individualità, da poi le venne rannodando. Già erasi introdotta e avanzata l’opera dell’unificazione ragionevole dello Stato; comunanza ne’ tribunali; comunanza del diritto e dovere di difendere la patria negli eserciti; comunanza d’imposta per le strade, i fiumi, i canali, la pulizia delle città; comunanza dell’insegnamento; comunanza delle dignità sacre dal campanaro al sommo pontefice[347]: e ciò senza alienar tutto l’uomo allo Stato, in modo che nulla si sottragga, nè proprietà nè famiglia nè educazione nè culto. Al di sopra di tutti si bilicavano due podestà: una ecclesiastica, direttamente emanante da Dio, e confidata alla popolare elezione; temporale l’altra, ma che ancora riconosceva il diritto e dall’elezione e dal coronamento. Le due autorità supreme vennero a un conflitto, la cui essenza non consisteva nell’investire coll’anello o colla spada, bensì nella libertà di ciò che l’uomo ha di più prezioso, il credere e il pregare. Come avviene in tutte le gare, i campioni dell’una e dell’altra esuberarono: pure da un lato ci s’affacciano imperatori egoisti, che lavorano per sè, per le proprie famiglie, per denaro; violenti ora, ora subdoli; creano fantocci di papi, e li sostengono con male arti e coll’appoggiarsi agli uomini peggiori: dall’altro lato vecchi inermi, che non pretendono per se stessi ma per la Chiesa, irremovibili nel proposito, morali nei mezzi, veneratori della santità quand’anche non ne sono modelli. Quella contesa, oltre chiarire alquanto l’idea dello Stato, e l’indipendenza reciproca di due ordini in fatto distinti, preservò gli spiriti dal languore, che, nel morale come nel fisico, è la malattia più ribelle. La preponderanza del clero non era altro che quel jus sapientioris, per cui i Romani a coloro che hanno libera e adulta la ragione attribuivano la facoltà di governare gl’imbecilli ed inferiori. Senza la potente coesione della gerarchia cattolica, in tempi d’anarchia e d’ignoranza, che sarebbero divenute la religione e la civiltà? Essa dava al popolo cristiano l’unità necessaria per combattere l’unito islam; e cessato tal bisogno, lasciò rivalere le nazionalità. Ma non perdiamo di vista che quei papi furono della loro, non della nostra età; e il compararli a Giulio II o a Pio IX son retoriche piacevolezze o palingenesi fantastiche, giacchè essi non videro levante o ponente, conquistatori o conquistati, Latini o Slavi, bensì peccatori da redimere, spirito da sostenere nella lotta colla carne, ed altri aspetti inattendibili ai ciclopi del razionalismo, cui carattere è la paura e la detestazione d’ogni spiritualità. Scelti essi medesimi fra tutte le razze, poteano restringer la vista alla nazionalità? se non che, per l’arcana connessione delle verità superne colle temporali, fu sotto il manto pontifizio che le nazionalità si costituirono[348]. La supremazia dell’imperatore sovra i principi e potentati tutti, che il Barbarossa avea fatta acclamare dai leggisti a Roncaglia, terminò con quel Federico II che pareva riunire i mezzi migliori per attuarla; e l’epopea delle grandi lotte si immiserì in controversie di dominio sulle Due Sicilie. Poniamo che queste, come la restante Italia, si fossero governate a popolo, la santa Sede v’avrebbe conservato senza contrasti la primazia; ma reggendosi a re, ne seguirono guerre, in cui entrambi i poteri scapitarono. Alessandro III come avea resistito al Barbarossa? coll’unire popolarmente la Lega Lombarda; Urbano IV non potè abbattere i discendenti di quello che col chiamare Carlo d’Angiò, aggravare cioè colla tirannia francese la tirannia tedesca. Ne segui però un effetto rilevantissimo; perocchè l’abolizione del dominio svevo pose termine alla sopreminenza della stirpe conquistatrice, che qui erasi piantata coi castellani e coi vassalli, e lasciò rinascere la coscienza della nazionalità nei nostri, che si consideravano come discendenti dai Romani. In questo senso si diressero i tentativi di restaurazione; a ciò la letteratura, a ciò le arti, a ciò la giurisperizia. Che trionfassero i Ghibellini era difficile, giacchè veramente contro di essi erasi fatta la rivoluzione popolare anche quando pareva invocarli; e la primazia imperiale dagli Svevi in poi non è più che di nome: eppure ne’ fatti che succedono abbiamo una prova che si dà libertà senza indipendenza, ma l’indipendenza non basta alla libertà. La Chiesa stessa sente in dechino l’autorità sua universale, ed è costretta assicurarsi un dominio temporale, che se in prima era un accidente, allora divenne il punto d’appoggio della politica sua efficienza. Anche mentre la vita sociale rimaneva sparpagliata fra i castelli, mai non perdettero importanza le città, che sono l’antichissima e vivace forma de’ governi italiani; e risorsero, e ristabilirono la democrazia, e di essa i frutti buoni e i peggiori. Nella vita democratica l’uomo, nobilitato il carattere nell’obbedienza alle leggi quanto rimane depresso nell’obbedienza a un uomo, lavorando per sè non per un padrone, concepisce elevata idea di sè e del proprio paese, si fa agevole nella conversazione perchè non s’immagina che altri vilipenda lui, come egli non vilipende altri, fortifica il buon senso nel conversare co’ suoi simili, nei quali più valuta il senno e i sentimenti che non le maniere, il fondo che non le forme; e in quel vivere pieno ed attuoso, cercasi meno la libertà de’ singoli che l’indipendenza di tutti. Noi, che per libertà intendiamo la tutela del riposo civile e della franchezza domestica e personale, l’assicurazione contro gli abusi del potere in qualunque mano sia posto, non la riscontrammo in quei tempi, quando libero si considerava chi partecipasse alla sovranità, al potere attivo; lo perchè prediligendosi il governo dei più, trovavasi libertà politica anzichè civile. Oggi, qualunque siasi il Governo, noi pretendiamo la separazione dei poteri, l’indipendenza dei giudici, la inviolabilità della persona, il sottrarre a castighi il pensiero, la discussione filosofica, la bestemmia, lo scherzo, il costume, il lusso: allora invece tentonavasi fra sempre nuove forme politiche, non perchè garantissero contro gli abusi dell’autorità, sibbene perchè rappresentassero il popolo. Agli sconci parea rimedio o compenso la sovranità di tutti; la quale, emanata dal popolo, affidavasi a magistrati temporarj e responsali. Perfino nelle aristocrazie, il numero degli elettori e degli eleggibili era ristretto, ma non irrevocabile il potere: sola Venezia tenne doge a vita, ma il fasciò di gelosissime precauzioni: anche stabiliti i principati, questi non trasmetteansi con regolare eredità, sopravvivendo il concetto dell’elezione, sol cancellato poi dalla dominazione straniera. Quell’assiduo avvicendarsi di magistrati a troppo brevi periodi rinnova la febbre elettorale: pure l’abitudine delle assemblee rinvigorisce il senso comune, dà espertezza negli affari, e sentimento del diritto e del dovere; ove il merciajo e lo scardassiere può salir gonfaloniere e doge, ciascuno sente il bisogno di educarsi; ove due o seimila cittadini sono chiamati ogni anno a magistrati o rappresentanze, quanta cura di meritarsi stima! ove ogni uffiziale è sindacabile all’uscire di carica, quanta attenzione di contentare la pluralità! Non essendo lo Stato privilegio d’una classe, si cerca quel che compie al popolo: spedali e scuole si moltiplicano, e sontuosi edifizj, e, ciò ch’è distintivo, pulitezza universale negli abiti: che se oltr’alpe il palagio e la cattedrale, giganteggiando di mezzo ad informi casipole, indicano le largizioni e il decreto d’un re fra la nullità del popolo, da noi le vie allineate, i passeggi, le magioni erette a disegno, esprimono il genio generale e il concorso della intera nazione, operante non solo nelle capitali, ma in cittaducole, alla campagna e fin per entro a valli recondite. Chi rimaneva escluso dai godimenti, a cui convitano la natura, l’arte, il pensiero, l’attività? Quanto non riesce dolce all’uomo il cooperare alle sorti del proprio paese, il non obbedire che alle leggi cui egli medesimo discusse e sanzionò, non sopportar pesi se non accettati, non riconoscere autorità se non le elette da sè, insomma uscire dall’angusto circolo della vita individuale e domestica, per vivere e sentire in comune, dare e ricevere impulsi a nobili atti! Nelle passioni politiche l’anima si può depravare, ma non avvilire quanto fra i calcoli ignobili del cortigiano, del satellite, del finanziere. Coloro che credono l’immoralità essere nata soltanto colla stampa e coll’emancipazione del pensiero, han potuto vedere dal nostro racconto quanto gl’individui peccassero del vizio che accompagna l’ignoranza e la barbarie: eppure sullo spettacolo miserevole si stendono la fede e la carità, e nella prospettiva presa dall’alto scompajono molte deformità, e di mezzo alle colpe e ai difetti di una giovinezza tutta di esperienze rilevansi le qualità che distinguono l’Italiano. Non incalzato da bisogni urgenti, non lottante con un suolo e con un cielo ingrati, ha tempo di oziare, e in que’ riposi godere se non altro le vaghezze della natura, e riflettere sopra se stesso e sopra gli altri, persuadendosi così della propria dignità; alternando poi tra gli affari pubblici e privati, acquista pratica ed elevatezza, raffina l’intelligenza, nei modi e nel pensiero introduce quella pulitezza, che è l’espressione del rispetto che devonsi tutti i membri della grande famiglia. Nelle repubbliche ognuno sente la propria importanza, e registra i suoi dolori, che sommati pajono maggiori; mentre nelle monarchie si contano soltanto quelli de’ grandi, più strepitosi ma rari e meno compassionati. In quelle, private passioni s’intralciano alle rivolture pubbliche: ne’ principati ognuno soffre in silenzio i proprj malori, siccome effetto de’ cattivi ordinamenti, contro i quali è inutile reluttare; arresti, vessazioni, arbitrj sono dolori quotidiani, ma codardi e infruttiferi, nè raccolti dalla storia. Così viene quello stato, che i prudenti intitolano ordine, i servili prosperità, i generosi marasmo. Questo vivace sentimento dell’individualità, se affinava l’incivilimento di ciascuno, disserviva lo Stato, perchè gli uni agli altri si accostavano soltanto per costrizione. Il reciproco bisogno, nella mancanza d’ogni potere dirigente e tutorio, aveva ravvicinato spontaneamente gli uomini; e parentele e corporazioni procacciavano quella sicurezza, della quale non brigavasi lo Stato. Diminuito quel bisogno, si lentano perfino i legami domestici; i cittadini amano la patria ma per se medesimi; il governo di quella amano solo qualvolta vi partecipino; in conseguenza non si tollera nulla di prefisso, di durevole, d’obbligatorio. L’uomo, conscio de’ proprj diritti, facilmente s’impenna contro le necessità; anzichè incurvarsi ad esse, carpisce con violenza ciò che gli è ricusato, e vuol partecipare al governo, sia costituzionalmente, sia per forza. Da questo punto rimane solo un passo all’anarchia; e l’anarchia inevitabilmente ripiomba nella tirannide. Ponete una gente inesperta, di passioni ineducate, con tanti elementi deleterici, con tanti impacci al civile sviluppo, e poi incolpatela di non aver saputo costituire buone repubbliche e conservarle. Tenendo dall’origine loro una politica feudale che zelava il diritto della guerra privata, e la speculazione dei pochi sovra le moltitudini, sapevano più ingrandire per via di conquiste al modo germanico, che non aumentare in quantità di cittadini al modo romano; anzi, scemandosi questi pel logorarsi delle famiglie privilegiate o per l’espulsione delle vinte, fra sempre minor numero si restringevano l’autorità e l’interesse di conservare lo Stato. Pisa, Pistoja, Treviso, la Lunigiana... erano oppressate da una repubblica, quanto avrebbero potuto essere da un principotto; e poichè la metropoli, acciocchè non ricalcitrassero, le voleva fiacche e vigilate, per la conservazione interna negligevasi la forza necessaria alla difesa esteriore, la debolezza impediva di procedere risolutamente, e i partiti pigliavansi piuttosto per necessità che per riflessione. A molte anche internamente non restava di repubblica che il nome; e preterendo la salda oligarchia dei patrizj veneti, Bologna obbediva ai Bentivoglio, Lucca ai Petrucci, Perugia agli Oddi e Baglioni, Siena or all’uno or all’altro de’ suoi Monti, Firenze ai Pitti o ai Medici, Genova a sempre diversi. Anzi la società cittadina frazionavasi in piccole consorterie e maestranze, ognuna con privilegi e con qualche specie di sovranità; talchè se da Firenze era soggiogata Pisa, o da Venezia Padova, le maestranze della lana e della seta delle vinte si trovavano sagrificate agli utili e alla gelosia di quelle della vincitrice. Così disgregate e aliene d’interessi, come avrebbero potuto educare la coscienza pubblica? assodare il vincolo più forte d’uno Stato, la fiducia di ciascuno nella costituzione patria? Nell’eguaglianza si acquista de’ privilegi della società un’opinione più alta che non di quelli degli uomini; onde al poter dirigente si largheggiano diritti, anche micidiali alla libertà de’ singoli. Di fatto i Comuni non esitavano a concedere imperj assoluti a qualche magistrato; nelle ricorrenti insurrezioni i vulghi pigliavansi a capo qualche plebeo: ma questo ben tosto soccombeva alla propria inesperienza, e lasciava luogo a qualche signore che, conoscendo gli uomini e i tempi, avendo clientele ed uso delle armi e mezzi ed arte, si sosteneva almen fino ad una nuova rivoluzione. Cresciuti i commerci, il denaro rappresentò una nuova superiorità, come da prima erano i feudi. Dacchè il valor militare si ridusse vendereccio, molti generosi se ne distolsero, più volentieri maneggiandosi nella politica; e fattivisi destrissimi, guardarono come bestiale il rimettere all’avventura delle battaglie ciò che poteasi conseguire cogli accorgimenti. Fu necessità delle cose se le repubbliche gareggiarono coi principi in una politica senza probità, in subdoli maneggi, assassinj, avvelenamenti. Prevalsero dunque gli eserciti e il denaro, i più bei dominj carpì qualche condottiero fortunato o una città negoziante, e vennero a formarsi principati che abbracciavano i popoli non più come d’una razza o dell’altra, ma perchè abitanti sopra una data circoscrizione. Que’ principi dominavano a nome del popolo, o per commissione imperiale, due forme di despotismo; tanto più che avendo la tumultuosa libertà de’ Comuni svertato i privilegi feudali, più non trovavano barriere. I nobili, progenie de’ conquistatori, scapitavano d’importanza a misura che ne acquistavano i Comuni; interrotte le crociate, col fucile pareggiato l’eroe al villano, fatte venali le armi, si dissipò ogni prestigio della cavalleria, in cui quelli avevano ricoverato il valore e le pretensioni; ed ancora arroganti per non confessarsi vinti, ma insufficienti a surrogarsi ai vincitori, rifuggono alle congiure o alle perfidie, che colla mala riuscita offrono pretesto al signore d’impoverirli, e che manifestandone le debolezze li fanno anche spregevoli. Sono disastri della libertà, eppure con essi si va a quel che è vero progresso, l’eguaglianza; la risorta letteratura, a canto al diritto del sangue erige quello dell’ingegno; la classe lavoratrice pretende a tutti i vantaggi della possidente, e nel nome di sudditi sono tutti allivellati; la scoperta della stampa assicura che non si può bruciare il pensiero con un libro; quella del Nuovo Mondo, che il pensiero non si restringe fra i confini dell’antico, e che ci fa superiori ai selvaggi: e da questo movimento usciva attestato quel dogma del progresso, poter divenire inutili ed anche nocevoli ad un’età istituzioni a cui la precedente dovè salute e grandezza. Sel ricordassero i panegiristi come i detrattori del medioevo! Pertanto al quintodecimo secolo ogni cosa è cambiata in Italia. In tutte le contrade dominavano i forestieri, ora appena in Sicilia; apparivano nobili soli, ora anche il popolo; il castello prevaleva, ora la città; l’eguaglianza non è più concessione e favore: l’alito d’indipendenza, talmente vivace da non volere alcun uomo essere soggetto a uomo, non città a città, or lascia sormontare pochi dominanti: e mentre l’aspirazione liberale rendeva insofferente sin dei freni tutorj, or le tirannidi procedono sbrigliate. Era parso che i principi potessero meglio difendere le persone, le città, l’industria; oggetti a cui il popolo aspira, ben più che alla legislatura indipendente, alla eleggibilità, al suffragio universale. Ma que’ principi di piccoli Stati e di grande ambizione, sentendo precario il loro potere, trovando nemici fuori e dentro, avviluppavansi in turpi maneggi, in guerre sordamente menate, pubblicamente smentite, ispirate da gelosie, da puntigli, da egoismo, condotte a insidie più che a forza aperta; in quella politica, di cui Italia restò e diffamata e vittima. La storia del secolo xv è un avvicendamento di giornaliere sovversioni, congiure, omicidj, veleni, supplizj; la fede pubblica sconosciuta in pace e in guerra; e per qualche principe buono, una sequela di ribaldi, oppressori de’ popoli che gli aveano presi come tutela; e guerre indotte da personali ambizioni, nutricate coll’oro e col sangue della nazione che non le avea decretate e su cui ripiombavano. Non una forza o una persona prevalente appajono, come fra le altre nazioni; nè tampoco un’idea, quali erano per l’addietro la Chiesa e l’Impero, quali furono pei paesi vicini l’unità nazionale o il re. Il cadere e il sorgere d’un principe costituisce la storia apparente di questo periodo; agl’interessi generali e grandiosi sottentrano fatti parziali, vicende di famiglia, emulazioni intestine, ma non un papa, non un imperatore, non un signorotto, degni su cui si fermino ragionevolmente l’attenzione e i voti. Bensì, a vicenda da una fazione o dall’altra, era sorta una catena d’uomini a dominare o atterrire, quali furono Ezelino, Uguccione, Castruccio, re Roberto, Cane e Mastino della Scala, Bertrando del Poggetto, Azzone e Gian Galeazzo Visconti, re Ladislao, Francesco Sforza; ma nè la libertà, nè la Chiesa, nè la forza militare valsero a quel riordinamento, che è il compito più insigne dopo una rivoluzione. Non guelfi, non ghibellini, non imperialisti o papalini, i signori, aspiranti all’unità e al principato, vanno introducendo quell’imparzialità, che rimuove le occasioni di guerre, mentre, ridotta la politica a guerrieri, cioè a denari, danno alle finanze quell’importanza, che prima spettava alle idee e ai sentimenti. Finisce dunque il medioevo con un’età di posa fra le personali irrequietudini di quello, e le regie sovversioni del Cinquecento. Gli Italiani d’allora, non agitati da aspirazioni verso un avvenire di cui nessun principio era peranco affermato categoricamente, nè argutamente scontenti d’un passato di cui nessun principio rinnegavano perentoriamente, requiavano dagli interminabili guaj, dai quali erano spinti verso una società nuova, intelligente, artistica, governativa; in considerazione della quale stimavano i meriti anche più contraddittorj, ma sovra tutti la fortuna e il saper riuscire, e disfarsi de’ nemici senza sfoderar la spada; non disprezzavano l’indipendenza, supremo bisogno politico, ma meglio valutavano l’eguaglianza, supremo bisogno democratico, dando mano anche allo straniero per abbattere l’oppressore indigeno; veneravasi la religione, ma quasi altrettanto le idee classiche, nelle quali traducevasi il medioevo: e per le quali, coltivando le muse, volentieri le si metteano a mercato; e dell’erudizione come dell’ispirazione voleasi far dei motori per batter moneta, introducendo anche nel campo letterario come nel politico la supremazia della finanza. Ciò null’ostante noi trovammo personaggi illustri in ogni partita; soldati prodi e capitani ammirati anche di lontano; battaglie assai meno micidiali che nel secolo seguente; nessuna città veramente disfatta dalla guerra, se ne togliamo Piacenza; singolar favore alle lettere; commercio operoso tanto che il capitale produttivo italiano equiparava quello di tutto il mondo. Le età più suntuose faticheranno a superare i tre monumenti di Pisa, le cattedrali di Siena, d’Orvieto, d’Assisi, di Padova, di Milano, la Certosa di Pavia, la cappella Coleoni a Bergamo, le porte del battistero di Firenze, i bassorilievi del Donatello, i dipinti di frate Angelico. Grandiosi lavori intraprese la Lombardia per prosperare l’agricoltura: la Toscana pareva un giardino nella sminuzzata sua proprietà: che la campagna romana popolassero migliaja di villaggi, lo attestano le guerre fra Orsini e Colonna: Ostia era in decadenza, ma ancor popolosa: la maremma senese formicolava d’abitanti; grani raccoglievamo a soprabbondanza; e questi e i frutti, anzichè con galanterie e oggetti di lusso, barattavamo con materie prime, che porgevano alimento alle nostre manifatture. Il contadino, cessato d’esser servo, partecipava ai frutti con una specie di comproprietà, di cui non so se una migliore sappia ideare il socialista positivo; esente da servigi di corpo al padrone; del fitto era sicuro, perchè retribuivalo in natura; le condizioni restavano tradizionali da molte generazioni; de’ tributi il carico cadeva sul proprietario. L’essere i villani obbligati ad abitare in terre murate per salvarsi dal saccheggio militare, attribuiva loro qualche importanza civile, li chiamava a parte della difesa, ben altrimenti de’ paesi forestieri, dove ancora duravano a servire materialmente e personalmente un padrone, da cui non poteano staccarsi. Se non che in tutto sentesi mancare qualche cosa di ciò che fa sorgere e vivere le nazioni; la virtù. Quanti impeti generosi! quanti uomini insigni! quanto eroismo! ma tutto a momenti, a scosse, alla maniera d’un guizzo galvanico: quel perseverante proposito che per secoli si trasmette da una generazione all’altra, quell’elevazione di concetto che fa sagrificare costantemente il parziale al comune interesse, quella franchezza delle opinioni ponderate e fisse che chiamasi coraggio civile, quella nobiltà e giustizia dell’età matura che sottentra allo slancio buono ma improvvido della gioventù, e che offre il nobile spettacolo dell’ordine nella libertà, mancarono troppo spesso, direi sempre, alla storia nostra; e tale verità, o Italiani, non l’avrete mai ripetuta abbastanza alle generazioni nuove, che aspirano a quello cui non pervennero le precedenti. Il decadere de’ costumi della libertà assodava il potere dispotico, ma sgranato anch’esso, e quindi fiacco ed esposto prima alle brighe interne e all’emulazione de’ vicini, poi ai funesti appetiti degli stranieri. Il principe non avea fondamento se non, come diciam ora, nei fatti compiuti; non regolata la successione, non legalmente temperata l’autorità; la maestria delle finanze si riduceva ad almanaccare tasse nuove onde smungere il più che si potesse; del restante erano governi militari, che unici limiti conoscevano la potenza e il carattere di chi n’era investito. I magistrati comunali sopravviveano, ma ristretti alla minuta amministrazione e alla giustizia sotto di un podestà scelto dal principe, ed applicandola più con severità che con frutto. In nessun luogo i Comuni si congiunsero col potere centrale: in Sicilia prevalsero i baroni; a Genova e Venezia i cittadini divennero aristocratici onde escludere la turba che accorreva a tanta prosperità; la Romagna fu suddivisa tra infiniti signorotti, che però non costituivano un’aristocrazia politica, attesochè il governo rimaneva ai preti; in Lombardia si faticò sempre a piantare la vigoria del potere sopra l’eguaglianza; solo in Piemonte parvero associarsi popolo e principe mediante gli Stati, ma poco tardarono a soccombere anche questi al tributo arbitrario e all’esercito permanente. Le poche signorie, in cui erasi ristretto il primitivo frastagliamento, non adopravano le proprie forze che a contrappesarsi, affinchè nessuna prevalesse in modo da ridurre l’Italia in monarchia. Più d’uno vedemmo aspirarvi, e sempre fallire per opposizione degli altri, e massime de’ pontefici; potente sì, pure non unico obice all’unità del nostro paese, la quale non si potè effettuare nè prima che essi dominassero, nè quando si trovarono spossessati, come da Ladislao e da Napoleone. Stanno dunque più fondo che altri nol creda le radici di questa nostra divisione. Le forze de’ varj paesi trovavansi bilanciate in guisa, che uno mal poteva soggiogare gli altri. Inoltre per Lombardia, per Romagna, pel Reame avanzavano molti gentiluomini, che «oltre il vivere oziosi abbondantemente de’ proventi delle loro possessioni, comandavano a castella, ed avevano sudditi che gli obbedissero» (MACHIAVELLI), formando altrettante microscopiche sovranità, disposte ad allearsi contro chi le volesse sottomettere, e a costringerlo a tante guerre quante esse erano. Per raggiungere dunque cotesta unità ideale, bisognava il despotismo, che, abolendo le varietà di costumi, d’usi, di privilegi, e spianando le sommità, tutti comprime al ferreo livello dell’obbedienza. Ma quello non potea stabilirsi se non mediante la conquista, la quale avrebbe reso infelice la generazione che la subiva, e forse spento la vita che sì rigogliosa manifestossi finchè disuniti. Lo sminuzzamento degli Stati cresceva l’indipendenza politica, ed impediva il trascendere della potenza, la quale ingrossa a misura che esinanisce la libertà delle parti, e acquista i mezzi di rimovere gli ostacoli che gl’interessi particolari frappongono al generale. L’idea dell’unità nazionale, che sotto l’oppressione forestiera balza agli occhi con evidenza, è tra le sociali la più difficile, e l’ultima che i popoli acquistino, richiedendo e sforzo d’intelligenza e il sacrifizio di molte prevenzioni e l’abolizione d’ingiustizie radicate. Che poi l’identità di stirpe non basti perchè un popolo si trovi bene unito a un altro, effetti recenti lo dimostrano. Gli Stati italiani formavano altrettante unità indipendenti; e distruggere una sarebbe stato un omicidio, quanto l’abolire una vasta monarchia. Chi oggi tentasse sottoporre, fate caso, Toscana ai reali di Napoli, come sarebbe sentito dai pubblicisti? Pur jeri noi vedemmo un principato, lungo appena tre chilometri e largo uno, abitato da millecinquecento persone, e indipendente quanto quelli del medioevo, negare di abolir la propria autocrazia coll’annettersi al Piemonte; e se abbia provveduto al suo meglio, non potrà dirlo che l’avvenire[349]: certo l’Europa applaudì quando la repubblichetta di San Marino rifiutò d’essere aggregata agli Stati papali, ed essa ottenne rispetto fin dal guerriero che non riveriva se non gli Stati forti, non computava che il numero de’ cannoni. E qual mai popolo si rassegnò a perdere la locale indipendenza in vista d’una maggior solidità avvenire? Nè ragione d’immolare le parziali franchigie avevano, quando la divisione non recava i pericoli, che solo con Carlo VIII apparvero, di vedere strozzata la patria da soghe forestiere. O forse i paesi sottomessi a principato lo faceano invidiabile? Una Corte si surrogava alle loggie e all’arengo; una capitale alle dieci o venti città che prima imbaldanzivano di vita propria; un esercito assoldato alle milizie paesane; un erario alle borse de’ singoli cittadini, pingui di sudati guadagni, e sempre schiuse al pubblico bisogno. Qual vantaggio allettava dunque Firenze o Bologna o Genova a darsi ai Visconti o agli Angioini? Pareva anzi generosità l’ostare alle ambizioni di questi, e come propugnacoli dell’antica libertà furono vantati anche dagli statisti del secolo seguente. Iddio ti guardi, o popolo italiano, dal dimenticare le tue tradizioni e deporre le lunghe speranze! ma se puoi desiderare che allora l’Italia fosse stata soggiogata da alcuno, e per forza ridotta a quell’unità che Inghilterra e Spagna e principalmente Francia conseguirono, saresti ingiusto nell’accusare i padri di ciò che forse non era fattibile, certo non ad essi desiderabile. Ben deploreremo che i nostri menassero troppo strascico di memorie antiche, quando abbisognava senno pratico per surrogare l’ordine alla tumultuosa vigoria dei due secoli precedenti; ed aspettassero il colpo micidiale disuniti di leggi, di civiltà, di costituzioni, di dialetti, di tutto. Pure non pretendiamo dai nostri avi que’ sacrifizj, a cui non ci acconceremmo noi medesimi se non per forza; non trasportiamo al tempo loro la coscienza e le aspirazioni del nostro; non esigiamo prevedessero i mali che, venendo di fuori, scompigliarono i calcoli degli statisti e le forze de’ prodi. Tutta la letteratura di quel secolo è là per attestare come gli Italiani sentissero d’avere una patria quando nè il nome tampoco ne conosceano i Francesi[350]. E quanto lunga opera non fu necessaria agli stranieri per corrompere l’Italia innanzi di assoggettarla! e come dovettero cancellar tutti questi Comuni che ne aveano formato l’agitazione e il vanto, prima di piegarli alla neghittosa agevolezza del servire! Qual cosa più bella della vita? ma perchè è difficile regolarla, i cattivi Governi trovano più comodo lo spegnerla. Così si fece. Cessarono le agitazioni, e con esse la libertà: venne la pace, recata da quelli che avevano fomentato le ire: venne la pace, e con essa quell’accentramento d’amministrazione, che annichila l’individuale potenza e volontà, ed isola il governo dal popolo: venne la pace, e con essa lo spopolamento, la povertà, il disdoro, la morte politica, cui tennero dietro la intellettuale e la civile, finchè la giustizia, soddisfatta da torrenti di sangue e di lagrime in espiazione, dica _Basta_, e susciti i tempi di rinnovata alleanza, e le speranze fomentate da quelli che le possono adempire, e indarno guaste da coloro che nulla vogliono apprendere dal passato, non confidare che nelle rivoluzioni, e ad ogni rivoluzione ricominciare a proprio costo l’esperienza, e sperperare un altro bricciolo di libertà. Se dunque alcuni ripongono la colpa de’ nostri padri nel non essersi uniti tutti, perchè altri, additando l’abbassarsi del paese allorquando alla rigogliosa e molteplice vita se ne surrogò una artifiziale e scolorita, non potrebbe ricordar come, al mancare di quella forza vitale che tende a escludere dal corpo il nocevole, e dal morboso separare il vivificante, non resti che febbre frenetica o marasmo? Lo stesso Machiavelli, panegirista dei governi forti, confessa che il numero de’ grandi uomini sta in ragguaglio col numero degli Stati; annichilando questi, quelli decrescono insieme coll’occasione di esercitare la propria capacità. Che se alcuno di que’ principi fosse prevalso per astuzia o per forza, quest’Italia, tanto superiore alle altre genti in civiltà e ricchezza, facilmente sarebbesi gettata alle conquiste che allora ricominciavano, rinnovando i tempi romani, sostituendo la guerra al commercio e alle arti belle, e preparandosi nuove maledizioni per l’avvenire. Se valga meglio esser esecrati come i conquistatori, o come i conquistati rigenerare la fraternità nel dolore, il giudicherete, o Italiani, secondo che ciascuno crede virtù gli atti provenienti dalla forza o quelli dalla bontà. Allora poi che l’Italia perdeva la politica preminenza, ne acquistava un’altra coll’incremento della cultura e colle insigni produzioni dell’ingegno, al resto del mondo divenendo maestra d’arti e di lettere, come di politica. Quelle nel medioevo si erano conservate clericali; nei Comuni cominciò qualche laico a scrivere; indi i leggisti a levarsi, a paro de’ teologi; poi le Università soverchiare le scuole episcopali; infine quella volata di dotti greci e tanti poeti e tanti eruditi tolsero la mano al clero e primeggiarono fin ne’ concilj di Basilea, di Costanza, di Firenze: alla lingua universale ch’era quella dell’antica Italia, si sostituirono le nazionali; le lettere rannodarono gli Europei, come prima la religione; e mentre già repubblica cristiana, allora si disse repubblica letteraria; la quale, comunque sembrasse surrogare oziosi trastulli alle fatiche attuose, dovea col tempo giganteggiare, sentire la propria dignità, e collocarsi fra le potenze motrici del mondo, creando l’opinione. Quale scossa non dovette produrre negli intelletti il subitaneo diffondersi d’un quindici migliaja di libri stampati, più corretti che i manoscritti e a miglior patto! Alle letture scarse, attente, ripetute, succedono le rapide e molteplici; alle convinzioni irremovibili perchè non dibattute, il dilatamento delle cognizioni e la vaghezza d’aumentarle. Ben è dunque perdonabile se il culto dell’antichità degenerò in idolatria, se il farnetico di rinnovarla turbò il nobile intento d’emularla. In conseguenza, dagli originali passò l’impero dell’ingegno agli eruditi, gente di schiena e non di genio, che fabbricava non creava, che in metafisica e in morale non oltrepassava il punto ov’erano giunti gli Scolastici, nella storia e nelle antichità non sapeva schermirsi dall’impostura, nell’esposizione credea rusticità la naturalezza, e mutilava i pensieri onde esprimerli in una lingua con cui non erano nati, e nella quale non raggiungevasi l’ambita purezza. L’erudizione fu la forma generale d’ogni studio e progresso di quel tempo; i testi valeano quanto un argomento, e per convincere bastava citare; la medicina s’attaccava a spiegare o combattere Ippocrate e Galeno; la filosofia cercava in Platone o in Aristotele la maggiore de’ suoi sillogismi, la tessitura delle sue argomentazioni, perfino la scusa agli ardimenti suoi; l’alchimia si fiancheggiava di nomi antichi; la strategia, benchè innovata dalle armi a fuoco, studiava sopra Onesandro e Vegezio, e a ricostruire il ponte di Cesare sul Reno; l’architettura cercava a Vitruvio, non solo i canoni dell’imitazione, ma e la giustificazione delle novità; e Cesare Cicerano nella _summa æde baricefala_, cioè nel duomo di Milano, pretendeva applicate tutte le regole di quell’autore. Pure dentro questo circolo infrangibile i liberi spiriti non limitano il ristauramento de’ classici a industria letteraria, ma lo estendono alla vita; imperatori e repubbliche vi rintracciano leggi e ordinamenti; i giureconsulti ne allargano e talvolta impacciano il diritto nuovo; per classiche rimembranze Cola Montano, Cola Rienzi e Stefano Porcari meditano riformare la patria; per erudizione si ammirano le virtù e prediligonsi le idee del paganesimo, tanto che molti sentirono la necessità di assumere la difesa della tradizione religiosa, come Marsiglio Ficino, Alfonso di Spina, Enea Silvio, Pico Mirandolano; sulla fede degli eruditi Colombo italiano mosse a uno scoprimento, che all’Italia doveva tornare funestissimo. Trovata l’America, si trattava di dividerla fra i popoli scopritori, e per evitare un conflitto si ricorse al papa; e questo tracciò una meridiana, che delimitasse le conquiste di Spagnuoli e Portoghesi. Sublime spettacolo, il papa che, come ne’ tempi organici del medioevo, arbitro si asside fra due grandi popoli onde prevenire una guerra, e fra loro spartisce un nuovo mondo! Eppure l’antico era in procinto di sfuggirgli; era già nato Lutero; la Riforma, covata in Italia, sbocciava di fuori; e la Germania, che n’era stata l’emula per tutto il medioevo, sbalzava l’Italia anche da questo primato. FINE DEL LIBRO UNDECIMO E DEL TOMO OTTAVO INDICE Capitolo CXII. Gian Galeazzo Visconti, e sue brighe colla Toscana. Il Milanese eretto in ducato _Pag._ 1 » CXIII. Venezia e Genova. Guerra di Chioggia. Venezia ricresce, Genova si perde » 37 » CXIV. Giovanna I di Napoli e Luigi d’Ungheria. Ladislao. Giovanna II. Gli Aragonesi in Sicilia » 55 » CXV. L’ultimo Visconti. Gli Svizzeri. Il Carmagnola. Il Piccinino. Lo Sforza. » 88 » CXVI. Repubblica Ambrosiana. Venezia conquistatrice. Francesco Sforza. I Foscari » 122 LIBRO UNDECIMO » CXVII. I papi in Avignone. Il grande scisma. La Chiesa e i Concilj » 145 » CXVIII. L’impero d’Oriente, e sue relazioni coll’Italia. I Turchi a Costantinopoli. Perdita delle colonie italiane. Venezia guerreggia i Turchi » 200 » CXIX. Toscana. Tumulto de’ Ciompi. I Medici sormontano » 233 » CXX. Papi reduci in Roma. Congiura de’ Pazzi. Ferdinando di Napoli. Lorenzo Medici » 267 » CXXI. Gli eruditi » 303 » CXXII. Gli scienziati. I libri. La stampa. » 339 » CXXIII. Costumi cittadini, signorili e mercantili. Lusso crescente. Cultura estesa. Origini del teatro » 373 » CXXIV. Industria e commercio » 446 » CXXV. Viaggiatori italiani. Colombo. Le scoperte » 530 » CXXVI. La fine del medioevo » 562 NOTE: [1] ODORICI, _Storie bresciane_, pag. 184. [2] _Antichità estensi_, II. 133. [3] Secondo Gianrinaldo Carli, il prezzo medio del frumento allora era L. 5.1 al moggio, del vino L. 12.16 alla brenta. Da ciò si ragguagli il valor del denaro. [4] L’_Art de vérifier les dates_ dice: _Pétrarque, si avare de louanges même pour les grands hommes de son siècle, ne peut contenir son admiration etc._ Noi vedemmo se ne fu avaro. [5] Qui finiscono i tre Villani, carissimi storici, la cui mancanza è irreparabile. Giovanni Cavalcanti racconta che, quando all’Acuto si pagò grandissima quantità di fiorini, esso ne cavò seimila, e li regalò a Spinello (di Luca Alberti) tesoriere, per le fatiche che ebbe. Spinello ringraziò, e «tornando a Firenze, scavalcò alla porta del palagio, e a’ signori raccontò tutto il convenente, e a loro diè la ricca borsa dicendo: _Mandateli alla camera con uno bullettino di commissione ch’io li metto ad entrata del Comune_. E così seguì. Questo Spinello invecchiò nell’uffizio di tesoriere, ed alla sua morte non gli si trovò tanto lenzuolo che vi si fasciasse il suo corpo». _Storie fior_., tom. II. app. p. 491-93. [6] _Religionis timorem ponendum esse censebant, ubi is officeret libertatem_. POGGIO BRACCIOLINI, lib. III. p. 223. [7] Il primo podestà mandatovi da Gian Galeazzo, fu nel 1396: in Valtellina già si mandava nel 1378. [8] Qualche esempio anteriore ne troviamo. Così, nel 1241, Guglielmo Visconte, nominato vicario di San Romolo dall’arcivescovo di Genova, promette, oltre il resto: _Si forcia vel forfacta ab aliquo ejus loci et districtus facta fuerit, et notorium et manifestum seu publicum aut mihi denunciatum fuerit, quamvis non sit inde querimonia facta mihi, tamen ego ad vindictam faciendam, et veritatem ejusdem forciæ vel forfactæ inquiram, et vindictam faciam ac si querimonia propterea mihi facta esset_. Liber jurium, tom. I, p. 994. [9] Il concetto di successione ereditaria è nell’investitura del conte di Virtù. _Statuimus quod præfatus Jo. Galeaz Vicecomes et post ejus decessum eo modo quilibet alius tunc descendens legitimus masculus de corpore suo, prout ipse ordinaverit et disposuerit, sit et sint perpetuo verus legitimus et naturalis dominus et veri legitimi et naturales domini dictæ civitatis et totius districti._ (SITONI, _Vicecomitum genealogica monumenta._ Milano, p. 21). Già al 1385, 15 ottobre, i Milanesi fecero _Decretum de pœna dicentis contra statum Domini_: ove dichiarano _quod nulla persona audeat nec præsumat populum nominare_. (_Antiqua Ducum Med. decreta_. Milano 1654, pag. 88). [10] Corio. — Quella solennità è spiegata estesamente in una lettera, scritta li 10 settembre dell’anno stesso, da Giorgio Azzanello ad Andreolo Aresi cancelliere ducale. Furono invitati da quasi tutte le parti del mondo principi, signori e comunità per condecorare la coronazione del nuovo duca, onore dell’Italia. Appena spuntato il giorno di domenica, dal castello di porta Giovia accompagnarono il futuro duca fino a Sant’Ambrogio, preceduti da istrioni e musici. Sopra quella piazza verso la cittadella era alzato un palco quadro, difeso da steccato, coperto ne’ ripari e nei gradini di panno scarlatto, e sopra di broccato d’oro su rosso. Quivi il magnifico cavaliere Benesio Cumsinich, luogotenente cesareo, aspettava il futuro duca per intronizzarlo. Gli altri prelati, signori ed ambasciatori sedettero sopra lo stesso palco. Stavano vicino a questo a sinistra Paolo de’ Savelli principe romano ed il cavaliere Ugolotto de’ Biancardi, con schiera di cinquecento cavalli per custodire la piazza affollatissima. Arrivato il futuro duca e gli altri con lui, Benesio benignamente lo accolse, e collocosselo alla mano sinistra al più eminente luogo del soglio. La bandiera imperiale era tenuta a destra da un cavaliere boemo, compagno di Benesio: alla sinistra un’altra bandiera inquartata coll’arme del duca, era tenuta dal cavaliere Ottone da Mandello. Lettosi il privilegio, che costituiva Gian Galeazzo duca di Milano, concesso dall’imperatore Venceslao in Praga al 1º maggio 1395, il duca inginocchiatosi giurò fedeltà a Cesare nelle mani del luogotenente, il quale gli pose su le spalle il manto ducale foderato di vajo da cima a fondo; quindi presolo pel braccio lo intronizzò, ponendogli in capo una corona gemmata, stimata ducentomila fiorini. Stando seduti il duca e il luogotenente, i prelati cantarono inni di ringraziamento a Dio fra ’l concerto degl’istromenti musicali; poi Pietro Filargo recitò una orazione panegirica in lode del duca. Finita questa, si celebrarono gli uffizj divini; poi il luogotenente e il duca montarono a cavallo, e serviti da magnifico baldacchino portato da otto cavalieri e otto scudieri, andarono col seguito di tutti i prelati, signori ed ambasciatori sino all’antico palazzo, alle cui porte furono affisse le due bandiere imperiale e ducale. Erano in corte apparecchiate le tavole, servite con ricchissima argenteria, e di sopra padiglionate da arazzi tessuti a oro. Al capo della mensa sedè il duca avendo ai due lati i cesarei luogotenenti, e dietro per ordine di dignità gli altri signori. Al lunedì passarono mostra nel palazzo ducale i disposti giostratori. Al martedì, trecento di questi, divisi in due schiere, l’una rossa e l’altra bianca, colle loro bandiere entrarono nello steccato, essendo proposto premio della vittoria mille fiorini. Al mercoledì si giostrò di nuovo, e premio era un fermaglio del valore di mille fiorini, e lo vinse il marchese di Monferrato. Al giovedì terminarono le giostre, nelle quali Bartolomeo fratello di Domenico da Bologna acquistò un cavallo del prezzo di cento fiorini; e Giovanni Rubello scudiere del detto marchese, un altro di ducento». [11] Valtellina, Valcamonica, Varese, Legnago, Castello, Arquà, Salò, Bassano, Castelnuovo di Tortona, Riviera di Trento, Soresina, Lecco, Vigevano, Pontremoli, Voghera, Borgo Sandonnino, Casal Sant’Evasio, Valenza, Crema, Monza, Grosseto, Massa Lunigiana, Assisi, Bobbio, Feltre, Belluno, Reggio, Tortona, Alessandria, Lodi, Vercelli, Novara, Vicenza, Bergamo, Como, Cremona, Piacenza, Parma, Brescia che nell’epitafio di lui è detta _civili nondum enervata duello_, Verona, Perugia, Siena, Pisa, Bologna, Pavia, Milano. [12] _Mémoires_, cap. VII. [13] Andrea Biglia, allora vivente, racconta che Antonio Bosso, intrinseco di Facino, l’avvertì restargli poche ore di vita, e però provvedesse all’anima sua. Facino rabbujato gli intima: — Va tu a cercarti un confessore, che fra un’ora ti manderò al supplizio». Il Bosso, che lo sapea uomo da mantener la parola, sbigottì tutto, e quasi venne meno; ma Facino rasserenatosi gli soggiunse: — Da quel che provasti tu, argomenta quel che hai fatto soffrire a me col tuo pronostico». Davvero non era momento da burle. [14] Una casa comprata dalla Signoria per regalare a Luigi Gonzaga signore di Mantova, costò seimila cinquecento ducati; tremila un’altra donata al vaivoda dell’Albania. Le prove sono in DARU, _Storia di Venezia_, lib. XIII. [15] Alle tante prediche di pace si potrebbe opporre una di guerra, riferita da Franco Sacchetti, come udita da lui allora appunto da un romitano in San Lorenzo di Genova. E’ diceva: — Io sono genovese; e se io non vi dicessi l’animo mio, e’ mi parrebbe forte errare; e non abbiate a male che io vi dirò il vero. Voi siete appropiati agli asini: la natura dell’asino è questa, che quando molti ne sono insieme, dando d’uno bastone a uno, tutti si disserrano, e qual fugge qua, e qual fugge là, tanta è la lor viltà; e questa è proprio la natura vostra. E i Viniziani sono appropiati a’ porci, e sono chiamati Viniziani porci, e veramente eglino hanno la natura del porco; perocchè essendo una moltitudine di porci stretta insieme, ed uno ne sia o percosso o bastonato, tutti si serrano a una, e corrono addosso a chi li percuote; e questa è veramente la natura loro; e se mai queste figure mi parvono proprie, mi pajono al presente. Voi percoteste l’altro dì li Viniziani, e’ si sono serrati verso voi a lor difesa ed a vostra offesa; ed hanno cotante galee in mare, con le quali v’hanno fatto e sì e sì; e voi fuggite chi qua e chi là, e non intendete l’uno l’altro, e non avete se non cotante galee armate; egli n’hanno presso a due tanti. Non dormite, destatevi, armatene voi tante, che possiate, se bisogna, non che correre il mare, ma entrare in Vinegia. — Poi fe fine a queste parole, dicendo — Non l’abbiate a male, che io sarei crepato, s’io non mi fusse sfogato. — Ora questa cotanta predica udii io, e tornàmi a casa; l’avanzo lasciai udire agli altri». [16] ANDREA GATTARO, pag. 280. [17] Ecco l’esempio d’una dichiarazione offerta per parte del Caresini, che continuò la cronaca del Dandolo: — Raffaello Caresini, cancellier grande, offerisce lui con due buoni compagni al suo salario e spese e un famiglio d’andare sull’armata, e di pagare la spesa di tutti gli uomini da remo al mese ducati quattro e a’ balestrieri ducati otto al mese per uno. Item dona tutti i prò de’ suoi imprestiti e imposizioni, ch’egli ha e che farà nella presente guerra; e di prestare ducati cinquecento d’oro a renderseli due mesi dopo finita la guerra». Ap. SANUTO, pag. 736. ... _Concernentes anxio mentis intuitu magnificus dux, consilium atque cives januensem patriam, quæ, inter alias catholicas nationes, oris præsertim maritimis, triumphales sui roboris vires expandit comerciorum, negociacionibus etiam quam maxime frequentata, et portus et janua navigationibus et lucrorum agendis, quibus humanum alitur genus abundans magistra, nunc aliquot jam exactis annis, aut justa Dei ira ex ingentibus mortalium noxis, aut acerbæ sortis sinistris auspiciis ferali civilium parcialitatum contagiatam morbo, sic solitis debilitatam viribus, quod januensis reipublicæ corpus suis artubus plurimis peste lesis, nisi salubri succurrerentur remedio, flebilis excidii pernicie damnaretur ipsius equidem remedii medelam ab intimis anhelantes, diurnis cogitationum curis hinc inde versarunt, tandem prudentissimis consiliis advertentes serenissimi ac invictissimi principis domini Francorum regis laudabilem justitiam, qua sua regio felix floret, incomparabilem potentiam qua quicumque terentur iniqui, scelesti domitantur raptores, et barbarica reprimitur feritas, ad suam amplissimam clemenciam suarum deliberationum aciem direxerunt. Ita demum quod miseranda januensis nationis cimba, quæ jamdiu horrendis fluctuationum turbinibus agitata, nimia confusione ambitus et odiorum lacerata dissidiis, seu cautibus non parum allidens formidabile submersionis periculum vix evasit. Ecce tetris observata nubibus longe titubans pelago, clarum pietate cœlesti clementiæ regiæ jubar perspectans etc._ Dopo queste frasi retoriche, vengono i lunghi e chiari patti, che meritano esser letti nel _Liber juris_: vol. II. p. 1237, per più di 13 colonne. [18] Ad Enrico VII, a Roberto di Napoli, all’arcivescovo di Milano, e ora a Carlo. [19] STELLA, pag. 1176, 1193. _Rer. It. Script_., XVII. [20] _Rivoluzioni d’Italia_, lib. XIV. c. 8. Egli stesso si contraddice al cap. 4 del lib. XV. [21] Spesso egli recitò, o almeno compose sermoni per lauree, per capitoli di frati, per funzioni ecclesiastiche; e si trovano manoscritti. [22] _Suscipe Robertum regem virtute refertum_. [23] _Rerum memorabilium_, lib. I. c. 1. [24] Un anello con cinque perle; una trecciuola con ottantasei perle minute; una ghirlanda d’argento, su cui perle novantasei; una cintola con perle minute; una coppa di cristallo con coperchio fornito d’argento, che valse lire cinquantuna; un orcioletto di cristallo fornito d’argento e perle; una coppa di nacchera (madreperla) fornita d’argento e perle, furono dati in pegno per fiorini censettantasei a un mercante fiorentino. [25] _Fragm. Hist. romanæ_, lib. I. c. 10. — DOM. DE GRAVINA, _Rer. It. Script_., XII. 572. [26] Parole di Matteo Villani, lib. II. c. 61, e soggiunge questo fatto: — Un Catalano, il quale teneva una rôcca, fece a’ suoi compagni tenere trattato col conte di Ventimiglia, il quale, avendo voglia d’aver quella rôcca, con troppa baldanzosa fidanza sotto il trattato entrò nel castello con centoquattro compagni, benchè più ve ne credesse mettere; ma come con questi fu dentro, per l’ordine preso pe’ traditori furono chiuse le porte, il conte e i compagni presi; e avendovi uomini, i quali si volevano ricomperare a grande moneta, ed erano da riserbare per i casi fortunevoli della guerra, tanto incrudelì l’animo feroce de’ Catalani, che senza arresto spogliati ignudi i miseri prigioni, e legati colle mani di dietro, l’un dopo l’altro posto a’ merli della maggior torre della rôcca, sopra un dirupinato grandissimo furono dirupinati senza niuna misericordia, lacerando i miseri corpi con l’impeto della loro caduta ai crudeli sassi. Il conte solo fu riserbato, non per movimento d’alcuna umanità, ma per cupidigia di avere per la sua testa alcuno suo castello vicino ai crudi nemici». [27] Il Giannone, colle sue frasi grossolane insieme e gonfie, chiama «Giovanna la più savia reina che sedesse mai in sede reale», lib. XXIII. c. 3; e lo ripete nel cap. 5; poco poi scrive che la regina, «ancora che ella fosse in età di anni quarantasei, era sì fresca che dimostrava molta attitudine di far figli». [28] Ap. LÜNIG, tom. I. p. 210. 1215. Alla coronazione di Luigi II d’Angiò si presentarono in Napoli molti baroni, conducendo più di millecento cavalli; poi i Sanseverino ne condussero milleottocento tutti ben in arnese. Al che Angelo di Costanzo, che scriveva ai tempi di Filippo II, riflette: — Io, vedendo in questi tempi nostri, d’ogni altra cosa felicissimi, nella patria nostra, tanto abbondante di cavalieri illustri ed atti all’armi, la difficoltà che saria il porre in ordine una giostra, per la qual difficoltà si vede che ha più di trent’anni che non n’è fatta una, e l’impossibilità di poter fare in tutto il Regno mille uomini d’armi di corsieri grossi, simile a quelli di quei tempi, sto quasi per non creder a me stesso questo ch’io scrivo di tanto numero di cavalli, ancorchè sappia che è verissimo; ed oltre che l’abbia trovato scritto da persone in ogni altra cosa veridiche, l’ho anco visto nei registri di quelli re che gli pagavano. Ma questo è da attribuirsi al variar de’ tempi, che fanno ancor variare i costumi. Allora per le guerre ogni piccolo barone stava in ordine di cavalli e di genti armigere per timore di non esser affatto cacciato di casa d’alcun vicino più potente; ed in Napoli i nobili, vivendo con gran parsimonia, non attendendo ad altro che a star bene a cavallo e bene in arme, si astenevano da ogni altra comodità; non si edificava, non si spendeva in paramenti, nelle tavole dei principi non erano cibi di prezzo, non si vestiva, tutte le entrate andavano a pagar valent’uomini ed a nutrir cavalli. Or per la lunga pace s’è voltato ognuno alla magnificenza nell’edificare ed alla splendidezza e comodità del vivere, e si vede ai tempi nostri la casa che fu del gran siniscalco Caracciolo, che fu assoluto del Regno, a’ tempi di Giovanna II regina, ch’è venuta in mano di persone senza comparazione di stato e di condizione inferiore; vi hanno aggiunte nuove fabbriche, non bastando a loro quell’ospizio, ove con tanta invidia abitava colui che a sua volontà dava e toglieva le signorie e gli stati. Delle tappezzerie e paramenti non parlo, poichè già è noto che molti signori a paramenti di un par di camere hanno speso quel che avria bastato per lo soldo di dugento cavalli per un anno; ed avendo parlato della magnificenza de’ principi, con questo esempio non lascerò di dire dei privati che si vede di cinque case di cavalieri nobilissimi fatta una casa di un cittadino artista. Tal che credo certo, che, se fosse noto agli antichi nostri questo modo di vivere, si maraviglierebbono, non meno di quel che facciamo noi di loro». [29] RYMER, _Acta_, tom. IV. part. II. pag. 45. A tutti questi fatti era presente Teodorico da Niem, che scrisse la vita di Giovanni XXIII. [30] Questa vittoria, che il Sismondi chiama _la plus importante, la plus glorieuse, qui de tout le siècle eût été remportée sur la Méditerranée_, secondo i _Giornali napolitani_ fu dovuta ad uno stratagemma, che sembra pueril cosa quando già si conoscevano le artiglierie. «Fu combattuto con sapone, olio, pignatelli artificiali, pietre di calce, le quali buttando sopra le navi nemiche dalle gabbie loro, le redussero che l’uno non vedeva l’altro, et alcuna volta offendevano li loro medesimi credendoli nemici». E più distesamente Giovanni Cavalcanti: «L’arte dei Genovesi che usarono, fu di maraviglioso scaltrimento: conciossiacosachè portarono infinito numero di vasi di terra, come pignatte e orciuoli, e quelli di calcina viva e di cenere di vagello empierono; e nel cominciare della battaglia, i Genovesi si cercarono che a loro nelle reni ferisse il vento, e a’ nemici nella faccia soffiasse. I Genovesi non meno alle vasa correvano che all’armi, e i nemici erano nella faccia percossi dalle cocenti e ardenti ceneri dal vento soffiate; per il sudore e per l’affaticare della battaglia, i pori erano aperti: la qual calcina dava tanta passione, che l’arme abbandonavano, e a stropicciarsi gli occhi ciascuno attendeva». _Rer. It. Script._, XXI. 1101. [31] VESPASIANO BISTICCI. [32] S. ANTONINI _Chron_., part. III. tit. 22. not. _b_. [33] L’arringa del doge è riferita dal Sanuto, che dice averla tratta dal manoscritto proprio d’esso principe: noi la compendiammo; alcune partite, imbarazzate nell’edizione del Muratori, si sono racconcie alla meglio. Si sarà avvertito che il doge mette un eccesso di attivo veneto, giacchè bisogna dedurne un milione per l’importo dei panni e frustagni. [34] ANDREA BILLII, _Historia Mediol_., pag. 78. [35] Secondo un conto prodotto da ser Cambi, i Veneziani teneano in campo ottomila ottocentrenta cavalli, e ottomila fanti, quelli a fiorini quattro il mese ciascuno, questi a fiorini tre; e i Fiorentini seimila cavalli e seimila fanti; sicchè fra essi e i Veneziani spendeano al mese centoduemila fiorini. Il duca di Milano area ottomila cinquecentocinquanta cavalli del costo di venticinquemila fiorini il mese, e ottomila fanti e balestrieri di fiorini ventiquattromila. Nel conto sono divisati tutti i condottieri e gli uomini di ciascuno. Vedi _Delizie degli eruditi_, XX. 170. [36] Da un dialogo manoscritto di Paolo Giovio; dove pure leggo che, pel terrore causato dalle prime armi a fuoco, si troncava la destra a quanti fucilieri si coglievano; e che Bartolomeo Coleone generale dei Veneziani, e Federico d’Urbino, nella zuffa della Riccardina sul Bolognese, essendo tra il combattere discesa la notte, fecero ai donzelli apparecchiar fiaccole, al cui chiarore continuarono la pugna. [37] SANUTO, pag. 1029. Frà Paolo Sarpi, lodatore di tutto ciò che è tirannico, scrive «esser antico vanto della circospezione veneziana l’aver tenuta celata scrupolosamente per otto mesi la risoluzione della morte del conte Carmagnola». [38] CRISTOFORO DA SOLDO. [39] SABELLICO, _Deca_ III, lib. 5. [40] ROSSI, _Elogi storici_, pag. 150; CAPRIOLO, _Storie bresciane_; RIZZARDI, _Storia Asolana_ manoscritta. [41] Filippo Borromeo di Lazzaro, coll’ajuto de’ Milanesi cacciò da San Miniato sua patria i Fiorentini; ma poi da un capitano tradito a questi, fu ucciso il 1350. La Talda, sorella di Beatrice Tenda, ebbe quattro maschi. Andrea, dottorato in Padova e cavaliere aurato; Borromeo tesoriere di Padova al tempo de’ Carraresi, i quali temendolo ed invidiandolo gli cercarono cagione addosso e lo arrestarono, nè potè uscire di carcere che pagando ventiduemila scudi d’oro: egli per vendicarsene istigò Visconti e Veneziani finchè abbatterono il Carrarese. Borromeo coi fratelli Alessandro e Giovanni si piantò a Milano, e v’ebbero la cittadinanza il 1394, e tennero casa a Santa Maria Podone. Borromeo nel 1400 stette mallevadore per dodicimila scudi del marchese di Monferrato, in un accordo di questi coi Visconti. Giovanni fu consigliere e capitano di Gian Galeazzo; da Gian Maria nel 1403 ebbe in feudo Castell’Arquato e tutta la val di Taro col titolo di conte; e fu principale autore del matrimonio di Filippo Maria con Beatrice Tenda. Esso Filippo diè pure la cittadinanza milanese a Vitaliano Vitelliani, nipote per sorella di Giovanni, e diritto di conseguirne l’eredità e il cognome; lo fe tesoriere generale e consigliere nel 1439; nel 42 l’investì della rôcca d’Arona, come conte di Canobbio e sua valle; nel 46 di Ugogna e Margozzo: ed è lo stipite de’ Borromei di Milano, Galeazzo, Antonio, Giovanni, figlio del Giovanni suddetto, si mutarono a Venezia, dove sono ricordati nella chiesa di Santa Elena, da essi eretta ed arricchita. V. CORONELLI, _Bibl. universale_, tom. VI. p. 790. [42] Anche nel 1689 Pietro Ottobon dal prozio Alessandro VIII fu fatto cardinale, e prestò molti servizj alla Serenissima; e ottenne da questa fosse rimesso in grazia il proprio padre Antonio, disgradato perchè era divenuto generale di Santa Chiesa. Ma essendo stato eletto protettore della corona di Francia alla Corte pontifizia, il senato si oppose; e avendo egli non ostante spiegato le insegne di Francia, fu abraso dal libro d’oro, confiscatogli il patrimonio, sospesa ogni rendita de’ suoi beni ecclesiastici nel dominio veneto. [43] _Mutilasti Imperium Mediolano et provincia Longobardiæ, quæ juris S. B. Imperii fuerant, redeuntibus inde ad imperium amplissimis emolumentis; in qua ditione mediolanensi veluti minister S. B. Imperii partibus fungebatur, cum tu contra, accepta pecunia, Mediolani ducem et comitem papiensem creasti._ Così gli elettori nel deporre Venceslao. [44] _Jus, quod ex dictis concessionibus et citationibus in feudo dictorum ducatuum et comitatum habemus, nobis et nostris successoribus in Imperio salvum maneat et illesum._ LÜNIG, Italia dipl., I. 480. [45] Quella Repubblica fu censurata dal Corio per blandire i duchi, e dal Verri per stizzosa allusione alla Cisalpina; ma più che alle ironiche declamazioni di questo, credo ai documenti del Rosmini. Il Leo, tra gli errori onde ribocca la sua _Storia d’Italia_, dice che il Rosmini, «per biasimare la repubblica, produce molte ordinanze sulla religione, le scienze, la politica». Lo fa pel preciso contrario. Nell’archivio del duomo è un’ordinanza de’ capitani del 14 agosto, nella quale, poichè _Altissimi clementia ineffabili.... antiquissimam auream et sanctam libertatem urbs hæc feliciter reassumpsit_, stabiliscono un’oblazione annua; e sotto l’11 agosto, in riconoscenza a Dio _quod ad dulcissimum reipublicæ et libertatis statum nos reduxit_, ordinano una processione a Sant’Ambrogio. [46] Nella battaglia di Morat servivano al duca di Borgogna quindicimila Lombardi, il cui capitano Antonio Corradi di Lignana vercellese vi perì. [47] _Arch. storico_, XIII. 311. [48] _Historia desponsationis et coronationis Friderici III et conjugis ipsius, auctore_ NICOLAO LANKMANO DE FALKENSTEIN. Ap. PEZ, II. 569-602. [49] SPINO, _Vita di Bartolomeo Coleone_, pag. 255. La costui biografia fu scritta in latino da Antonio da Cornazzano, che con altri letterati e artisti vivea nel castello di lui; onde il ritrasse con colori lusinghieri che la storia smentisce. Del Cornazzano abbiamo pure manoscritta la vita di Francesco Sforza in terzine, e un trattato _De la integrità de la militare arte_, oltre un poema più volte stampato sul soggetto stesso: _Opera nuova de Mr. Ant. Cornazzano, la quale tratta de modo regendi, de motu fortunæ, de integritate, rei militaris, et qui in re militari imperatores excelluerint_. D’altri due condottieri, Attendolo Sforza e Braccio di Montone, scrissero le gesta Lodrisio Crivelli e Gianantonio Campano, rozzi ma interessanti. [50] Del 1467 fu pubblicata a Milano la seguente grida di guerra: — Si fa poto e manifesto a caduna persona de quale grado e conditione se sia, per parte del nostro M. signor duca di Milano ecc. in tutte le terre del dominio suo, che qualunche soldato, o che sia pratico al soldo, così de cavallo come de pede, tanto terriero quanto forastero, che al presente se trovasse habitare nel dominio ducale, che voglia venire in campo dove el prelibato ill. signor duca nostro se ritrovarà; venga in ordine ed armato, che averà buona e grossa guerra in lo parti de Piemonte, presentandose, subito che sia in campo, ad Petro, Francesco Visconte, conductero et marescallo del campo, et ulterius che porteno la banda bianca, come fanno gli altri». [51] Paolo Santini, che, sulla metà del secolo XV, scrisse un trattato di cose militari rimasto manoscritto, e pare fosse al servizio dei Veneziani, dice: _Qui in Italiam vincere desiderat, ista instruet: primo, cum summo pontifice semper sit; secundo, dominetur Mediolanum; tertio, quod habeat astronomos bonos; quarto, habeat ingegnerios qui sciant plurima; quinto, quod tot navigia conducantur plena lapidibus in canalibus.... impleantur canalia multitudine navium, navigiorum, barcarumque suffundatarum, etc._ [52] La sentenza si esprime: _Videtur, propter obstinatam mentem suam, non esse possibile extraere ab ipso illam veritatem, quæ clara est per scripturas et per testificationes, quoniam in fune aliquam nec vocem nec gemitum, sed solum intra dentes voces ipse videtur et auditur infra se loqui.... tandem non est standum in istis terminis, propter honorem status nostri..._ [53] Del discorso recitato da Nicola Oremme in concistoro porge l’estratto De Sade, _Vie du Pétrarque_, tom. II. I. 692. È nota la risposta che il Petrarca vi fece. [54] Ella stessa nel _Tratt. della Provvidenza._ E vedi BOLLAND, ad 30 apr.; HAGEN, _Die Wunder der h. Catharina von Siena_. Lipsia 1840. [55] «Pregovi per l’amore di Cristo crocifisso, che, più tosto che potete, voi n’andiate al luogo vostro dei gloriosi Pietro e Paolo; e sempre dalla parte vostra cercate d’andare sicuramente, e Dio dalla parte sua vi provvederà di tutte quelle cose che saranno necessarie a voi. «Poniamo che abbiate ricevute grandissime ingiurie, avendovi fatto vituperio e toltovi il vostro; nondimeno, padre, io vi prego che non ragguardiate alle loro malizie, ma alla vostra benignità, e non lasciate però d’oprare la nostra salute. La salute loro sarà questa, che voi torniate a pace con loro, perocchè il figliuolo che è in guerra col padre, mentre che vi sta, egli il priva dell’eredità sua. Oimè, padre, pace per l’amore di Dio, acciocchè tanti figliuoli non perdano l’eredità di vita eterna; che voi sapete che Dio ha posto nelle vostre mani il dare, il togliere questa eredità, secondo che piace alla benignità vostra. Voi tenete le chiavi, ed a cui voi aprite si è aperto, ed a cui voi serrate è serrato; così disse il dolce e buono Gesù a Pietro, il cui loco voi tenete. Adunque imparate dal vero padre e pastore; perocchè vedete che ora è il tempo da dare la vita per le pecorelle che sono escite fuora del gregge. Convienvele dunque cercare e racquistare con la pazienza, e con la guerra andare sopra gl’infedeli, rizzando il gonfalone dell’ardentissima e dolcissima croce: al qual rizzare non si convien più dormire, ma destarsi e rizzarlo virilmente. «Rizzate, babbo, tosto il gonfalone della santissima croce, e vedrete i lupi diventare agnelli. Pace, pace, pace, acciocchè non abbia la guerra a prolungare questo dolce tempo: ma se volete far vendetta e giustizia, pigliatela sopra di me miserabile, e datemi ogni pena e tormento che piace a voi insino alla morte. Credo che per la puzza delle mie iniquità sieno venuti molti difetti e molti inconvenienti e discordie: dunque sopra me, misera vostra figliuola, prendete ogni vendetta che volete. Ohimè, padre, io muojo di dolore e non posso morire. Venite, venite, e non fate più resistenza alla volontà di Dio che vi chiama; e l’affamate pecorelle v’aspettano, che veniate a tenere e possedere il luogo del vostro antecessore e campione apostolo Pietro; perocchè voi, come vicario di Cristo, dovete riposarvi nel luogo vostro proprio. Venite dunque, venite, e non più indugiate, e confortatevi e non temete di alcuna cosa che avvenire potesse, perocchè Dio sarà con voi». [56] Brigida andò poi pellegrina in Terrasanta, e reduce morì a Roma il 1373. Le rivelazioni ch’essa ebbe e scrisse, furono riprovate dall’insigne Gerson, approvate dal cardinale Torquemada, tradotte in tutte le lingue, e le valsero d’essere canonizzata da Bonifazio IX, benchè siasi avventata gagliardissimamente contro la corte pontifizia fino a dire: — Il papa è l’assassino delle anime; disperde e strazia il gregge di Cristo; più crudele che Giuda, più ingiusto che Pilato, più abbominevole che gli Ebrei, peggiore dello stesso Lucifero. Convertì i dieci comandamenti in un solo, _Portate denaro_. Roma è un baratro d’inferno, e il diavolo presiede, e vende il bene che Cristo acquistò colla sua passione, onde passa il proverbio _Curia romana non petit ovem sine lana;_ _Dantes exaudit, non dantibus ostia claudit;_ invece di convocar tutti, dicendo, _Venite e troverete il riposo delle anime_, il papa esclama: _Venite alla mia corte, vedetemi nella mia magnificenza maggior di Salomone; venite, vuotate le vostre borse, o troverete la perdita delle vostre anime_». [57] — Pregovi da parte di Cristo crocifisso, che piaccia alla santità vostra di spacciarvi tosto. Usate un santo inganno, cioè parendo di prolungare più dì, e farlo poi subito e tosto; che quanto più presto, meno starete in queste angustie e travagli. Anco mi pare che essi v’insegnino, dandovi l’esempio delle fiere, che quando campano dal lacciuolo, non vi ritornano più. Per infino a qui siete campato dal lacciuolo de’ consigli loro, nel quale una volta vi fecero cadere quando tardaste la venuta vostra; il quale lacciuolo fece tendere il demonio perchè ne seguitasse il danno e il male che ne seguitò: voi come savio, spirato dallo Spirito Santo, non vi cadrete più. Andianci tosto, babbo mio dolce, senza verun timore; se Dio è con voi, veruno sarà contra voi. Dio è quello che vi move, sicchè egli è con voi; andate tosto alla sposa vostra, che vi aspetta tutta impallidita, perchè li poniate il colore. «Sia in voi un ardore di carità per sì fatto modo, che non vi lasci udir le voci dei demonj incarnati e non vi faccia temere il consiglio de’ perversi consiglieri fondati in amore proprio, che intendo vi vogliono metter paura per impedire l’avvenimento vostro dicendo, _Voi sarete morto_. E io vi dico da parte di Cristo crocifisso, dolcissimo e santissimo padre, che voi non temiate per veruna cosa che sia. Venite sicuramente, confidatevi in Cristo dolce Gesù; chè, facendo quello che voi dovete, Dio sarà sopra di voi, e non sarà veruno che sia contra voi. Su virilmente, padre, ch’io vi dico che non vi bisogna temere: se non faceste quello che doveste fare, avreste bisogno di temere. Voi dovete venire; venite dunque, venite dolcemente senza verun timore. «Su dunque, padre, e non più negligenza; drizzate il gonfalone della santissima eroce, perocchè coll’odore della croce acquisterete la pace. Pregovi che coloro che vi sono ribelli voi gl’invitiate ad una santa pace, sicchè tutta la guerra caggia sopra gl’infedeli. Spero per l’infinita bontà di Dio, che tosto manderà l’ajutorio suo. Confortatevi, confortatevi, e venite, venite a consolare i poveri e servi di Dio e figliuoli vostri; aspettiamovi con affettuoso e amoroso desiderio...» Di santa Caterina abbiamo tre lettere a Gregorio XI, nove a Urbano VI, otto a varj cardinali, due a Carlo V di Francia, quattro alla regina Giovanna, le altre a prelati, a religiosi, a laici. [58] Vedi principalmente la parte II. cc. 16, 17, 21, 25 del _Defensor pacis_, stampato poi nel 1523. Al c. 28 è chiamata esecrabile la pienezza del potere invocato dai papi. [59] Colla costituzione _Exiit qui seminat_, nel VI delle Decretali, tit. _De verb. signif._ — Vedi tom. VI, pag. 353. [60] Quorum exigit, nelle _Estravaganti_, tit. _De verb. signif._ [61] Ap. CIBRARIO, _Economia_, 163. [62] FEO BELCARI, _Vita del b. Colombino_. [63] Possono aggiungersi Corrado d’Offida e Francesco Veninbene di Fabriano francescani; Gentile da Matelica che, dopo tante conversioni in patria, cercò più largo campo in Oriente, ove cadde assassinato; il beato Rigo di Treviso secolare; il beato Ugolino Zefirini di Cortona (-1370); il beato Giovanni da Rieti (-1347); Gregorio Celli da Verruchio; il beato Oddino Barotto curato di Fossano in Piemonte, tutto carità nella peste del 400. Angela da Foligno i disordini di gioventù pianse in severa penitenza e indefessa meditazione. Chiara da Rimini le dissipazioni di sua vedovanza espiò nell’austerità, nell’umiliazione, e nel soccorrere gli altrui bisogni spirituali e temporali per trent’anni (-1306). Chiara Gambacorti di Pisa volle mangiar il pane dell’assassino di sua famiglia. Angelina, figlia del conte di Corbara, malgrado il voto di castità, sposato per obbedienza il conte di Civitella, seppe indurre anche lui ad egual voto; poi vedova, si professò francescana e molt’altre indusse, e stabilì il terz’ordine di san Francesco a Foligno. Rita di Cascia ebbe ad esercitar la pazienza in diciott’anni d’infelice matrimonio, poi mortificando la carne e lo spirito. Nomineremo ancora la beata Michelina da Pesaro, vedova d’un Malatesta; e la beata Imelda de’ Lambertini di Bologna. [64] BARTOLOMEO FAZIO. Il quaresimale di san Bernardino da Siena fu raccolto da Benedetto di mastro Bartolomeo, cimatore di panni senese, che sarebbe uno de’ più antichi stenografi ricordati. Vedi _Sopra un codice cartaceo del secolo XV... osservazioni critiche dell’abate_ LUIGI DEANGELIS. Colle 1820. [65] _Ed. Moreni,_ 1831, I. 187, 252. Declamò novamente contro l’andare al perdono di Roma e altri santi luoghi, predicando sotto la loggia d’Or San Michele nel 21 settembre 1309, cioè parecchi anni appresso (II. 50). Forse questi luoghi delle prediche di frà Giordano furono presenti al beato Giovanni Delle Celle quando dissuase Domitilla dal pellegrinaggio di Terrasanta, nella IXª delle sue lettere. [66] «Dicetemi, dicetemi un poco o signori; donde nascono tante e diverse infermitade in gli corpi umani, gotte, doglie di fianchi, febre, catarri? non d’altro se non da troppo cibo et esser molto delicato. Tu hai pane, vino, carne, pesce, e non te basta; ma cerchi a’ toi conviti vino bianco, vino negro, malvagie, vino de tiro, rosto, lesso, zeladia, fritto, frittole, capari, mandole, fichi, uva passa, confetione, et empi questo tuo sacco di fecce. Émpite, sgònfiate, allàrgate la bottinatura, et dopo el mangiare va et bottati a dormire come un porco». _Predica_ I. Venezia 1530. [67] BURLAMACHI, _Vita di frà Savonarola._ [68] È a vedere anche il BARBERINO, _Documenti d’amore_, part. VIII. d. 2. [69] Nel 1379 Urbano VI sollecitava Rainero de’ Grimaldi, consignore di Mentone, per mezzo di Giovanni Serra giureconsulto genovese, a tenersi fedele a lui, e correr sopra i seguaci del suo competitore, facendogli dono di quanto avesse sorpreso, eccetto reliquie, libri, vasi, gioje o altro appartenenti alla camera apostolica. Dicesi ch’ei v’ascoltasse, e molta preda facesse sovra prelati aderenti a Clemente VII; e che fra il resto trovasse la verga di Mosè e altre sacre reliquie, ch’ei restituì a Urbano. GIOFFREDO, _St. delle Alpi Marittime_, II. 869. [70] Sant’Antonino di Firenze dice: — Benchè siam tenuti a credere che, come una sola Chiesa, così v’ha un solo pastore, però, qualora accada scisma, non pare necessario il credere che l’eletto canonicamente sia piuttosto l’uno che l’altro: basta sapere che un solo potè esserlo, senza arrogarsene la decisione». [71] Gian Galeazzo domandò che il giubileo potesse acquistarsi da’ suoi sudditi senza andare a Roma, ma visitando quattro basiliche di Milano. Con ciò voleva ed evitare i pericoli causati dalla guerra coi Fiorentini, e tener in paese il denaro, e fare che le obbligazioni fruttassero per la fabbrica del duomo. Bonifazio IX gli assentì la supplica, e il Corio dice che «se anche non fosse contrito nè confesso, fosse assoluto da ogni peccato in questa città dimorando dieci giorni continui». Menzogna, poichè la bolla data il 12 febbrajo 1391 vuole che sieno _vere pœnitentes et confessi_. [72] Così il dipinge l’anonimo romano. Antonio Flaminio forocorneliense dice che aveano veste bianca, sopra cui una cerulea tirante al nero, una croce bianca, e una rossa di panno; a sinistra la colomba coll’ulivo, in fronte il tau, in mano bastone senza puntale a modo dei pellegrini; e funi con sette nodi. [73] Su quelli di Firenze abbiamo un capitolo di Franco Sacchetti. Nei _Ricordi storici_ del Rinuccini, al luglio e agosto 1399 leggo: «Di verso Piemonte venendo, per tutta Lombardia e per Toscana e quasi per tutta Italia uomini e donne in grandissima quantità, grandi e piccoli e fanciulli, si vestirono di pannilini bianchi sopra gli altri vestimenti, con croce rossa in capo e nel petto, e andavano scalzi con grande divozione e grandissime discipline e digiuni senza mangiare carne, col crocifisso innanzi della loro parrocchia a grandissime brigate. Tutti i popoli andavano gridando in voci di laudi in versi, così in grammatica come in vulgare, _Misericordia e pace al nostro Signore e a nostra Donna_, per lo spazio di nove giorni continovi, senza mai dormire in letto, andando quegli da Firenze a Arezzo e a Cortona e per molte altre terre; e così le altre terre veniano a Firenze, e così intervenne per tutta Italia. È mirabil cosa che per detto viaggio non facevano danno a nessuno di frutti nè di niuna altra cosa, che tutti comperavano, e molte paci e accordi tra molte signorie, ed eziandio paci di morte d’uomini tra private persone si feciono: cosa mirabile fu per certo e degna di perpetua memoria, e fu annunziazione della moria che venne, e fu detto quell’anno l’anno dei Bianchi». [74] _Chron. patav._ ad an. 1399; ap. MURATORI, _Antiq. M. Æ._ IV. [75] Gregorio XI nel 1372 ordina _inquisitoribus, ut faciant comburi quosdam libros sermonum haereticorum, pro majori parte in vulgari scriptos_. [76] RAYNALDI al 1375, II. 26. [77] Enea Silvio descrive a lungo quella di Giovanni de Merlo spagnuolo con Erminio di Ramstein tedesco, per un colpo di lancia, tre di scure, quaranta di spada. [78] _Articulos omnia peccata mortalia, nec non infinita, abominabilia continentes_. TEODORICO DA NIEM. [79] Alquanti anni di poi si riscattò, e fu posto cardinale di Frascati. Il suo sepolcro nel battistero di Firenze è opera di Donatello. [80] Nel concilio di Costanza seguì un rumore fra l’arcivescovo di Milano e quello di Pisa, e dalle parole ne vennero alle mani, volendosi strangolare l’un l’altro perchè non avevano armi. Onde molti si gittarono giù per le finestre del concilio. SANUTO in _T. Mocenigo_. A quel concilio figurò grandemente il b. Enrico Scarampo de’ signori di Cortemiglia, vescovo di Acqui, poi di Feltre e Belluno 1404-1440, deputato anche al processo di Huss. [81] Così è generalmente asserito; pure si ha una lettera di Huss che dice: _Exeo_ (da Praga) _sine salvoconductu_; Ap. ROHRBACHER, Hist. eccles., tom. XXI. p. 191. [82] ENEA SILVIO, _Oratio de morte Eugenii papæ_. [83] Sono parole di Enea Silvio, _Comment._, lib. I princ. — Il Poggio ne sparla sbrigliatamente. [84] K. WALCHNER, _Politische Geschichte der grossen Kirchensynode zu Florenz_. 1825. I. LENFANT, _Histoire du concile de Constance_. 1727. [85] «Vennero il pontefice con tutta la corte di Roma, e collo imperatore de’ Greci e tutti i vescovi e prelati latini, in Santa Maria del Fiore, dove era fatto un degno apparato, ed ordinato il modo ch’avevano a istare a sedere i prelati dell’una chiesa e dell’altra. Istava il papa dal luogo dove si diceva il Vangelo, e’ cardinali e prelati della chiesa romana; dall’altro lato istava lo ’mperatore di Costantinopoli con tutti i vescovi e arcivescovi greci: il papa era parato in pontificale, e tutti i cardinali co’ piviali, e i vescovi cardinali colle mitere di damaschino bianco, e tutti i vescovi così greci come latini co’ piviali, i greci con abiti di seta al modo greco molto ricchi; e la maniera degli abiti greci pareva assai più grave e più degna che quella de’ prelati latini... Il luogo dello ’mperadore era in questa solennità dove si canta la Epistola all’altare maggiore; ed in quello medesimo luogo, com’è detto, erano tutti i prelati greci. Era concorso tutto il mondo in Firenze per vedere quell’atto sì degno. Era una sedia al dirimpetto a quella del papa dall’altro lato, ornata di drappo di seta, e lo ’mperadore con una veste alla greca di broccato damaschino molto ricca con uno cappelletto alla greca, che v’era in sulla punta una bellissima gioja: era uno bellissimo uomo, colla barba al modo greco. E d’intorno alla sedia sua erano molti gentili uomini che aveva in sua compagnia, vestiti pure alla greca molto riccamente, sendo gli abiti loro pieni di gravità, così quegli de’ prelati, come de’ seculari. Mirabile cosa era a vedere ben molte degne cerimonie, e i vangeli che si dicevano in tutte e due le lingue greca e latina, come si usa la notte di Pasqua di Natale in corte di Roma. Non passerò che io non dica qui una singulare loda de’ Greci. I Greci, in anni millecinquecento o più, non hanno mai mutato abito: quello medesimo abito avevano in quello tempo, ch’eglino avevano avuto nel tempo detto; come si vede ancora in Grecia nel luogo che si chiama i campi Filippi, dove sono molte storie di marmo, dentrovi uomini vestiti alla greca nel modo che erano allora». VESPASIANO FIORENTINO, _Vita di Eugenio IV._ Il decreto d’unione incomincia: Eugenio ecc. _Consentiente carissimo filio nostro Johanne Paleologo Romanorum imperatore illustri et... orientalem ecclesiam representantibus. Letentur celi et exultet terra: sublatus est enim de medio paries qui occidentalem orientalemque dividebat Ecclesiam, et pax atque concordia rediit; illo angulari lapide Christo, qui fuit utraque unum vinculo fortissimo caritatis et pacis utrumque jungente parietem; et perpetue unitatis federe copulante ac continente; postque longam meroris nebulam, et dissidii diuturni atram ingratamque caliginem, serenum omnibus unionis optate jubar illuxit. Gaudeat et mater Ecclesia, qui filios suos hactenus invicem dissidentes jam videt in unitatem pacemque rediisse: et que antea in eorum separatione amarissime flebat, ex ipsorum modo mira concordia cum ineffabili gaudio omnipotenti Deo gratias referat. Cuncti gratulentur fideles ubique per orbem, et qui christiano censentur nomine, matri catholice Ecclesie colletentur. Ecce enim occidentales orientalesque Patres, post longissimum dissensionis atque discordie tempus, se maris ac terre periculis exponentes, omnibusque superatis laboribus, ad hoc sacrum ycumenicum concilium desiderio sacratissime unionis, et antique caritatis reintegrande gratia, leti alacresque convenerunt, et intentione sua nequaquam frustrati sunt. Post longam enim laboriosamque indaginem, tandem Spiritus Sancti clementia ipsam optatissimam sanctissimamque unionem consecuti sunt. Quis igitur dignas omnipotentis Dei benificiis gratias referre sufficiat? quis tante divine miserationis divitias non obstupescat? cujus vel ferreum pectus tanta superne pietatis magnitudo non molliat? sunt ista prorsus divina opera, non humane fragilitatis inventa; atque ideo eximia cum veneratione suscipienda, et divinis laudibus prosequenda. Tibi laus, tibi gloria, tibi gratiarum actio, Christe, fons misericordiarum, qui tantum boni sponse tue catholice Ecclesie contulisti, atque in generatione nostra tue pietatis miracula demonstrasti, ut enarrent omnes mirabilia tua. Magnum siquidem divinumque munus nobis Deus largitus est: oculisque vidimus quod ante nos multi, cum valde cupierint, adspicere nequiverunt. Convenientes enim Latini ac Greci in hac sacrosancta Synodo ycumenica, magno studio invicem usi sunt, ut inter alia etiam articulus ille de divina Spiritus Sancti processione summa cum diligentia et assidua inquisitione discuteretur... Item diffinimus sanctam apostolicam sedem, et romanum pontificem in universum orbem tenere primatum, et ipsum pontificem romanum successorem esse beati Petri principis Apostolorum et verum Christi vicarium totiusque Ecclesie caput, et omnium christianorum patrem et doctorem existere; et ipsi in beato Petro pascendi, regendi, ac gubernandi universalem Ecclesiam a Domino nostro Jesu Christo plenam potestatem traditam esse; quemadmodum etiam in gestis ycumenicorum conciliorum, et in sacris canonibus continetur. Renovantes insuper ordinem traditum in canonibus ceterorum venerabilium Patriarcharum: ut Patriarcha constantinopotitanus secundus sit post sanctissimum romanum pontificem, tertius vero alexandrinus, quartus autem antiochenus, et quintus hierosolymitanus, salvis videlicet privilegiis omnibus et juribus eorum_. Vedasi CECCONI EUGENIO, _Studj storici sul concilio di Firenze con documenti inediti_. Firenze 1869. [86] _Neque unquam Januenses dimittent hanc conventionem, vel facient contra eam, neque pro ecclesiastica excommunicatione, neque pro præcepto alicujus hominis coronati vel non coronati._ Vedi _Codinus_, _De officiis_, cap. XIV; CANTACUZENO, _Hist_., lib. I. c. 12. [87] Dice il Sauli (_Della colonia di Galata_, I. 229) dietro Francesco Testa. [88] FOGLIETTA, _Hist. januensis_, lib. VIII. [89] Dei capitani latini sette erano genovesi, Maurizio Cattaneo, Giovanni del Carretto, Paolo Bocchiardi, Giovanni de Fornari, Francesco de Salvatichi, Leonardo da Langosco, Lodisio Gattilussi. LEON. CHIENSIS, pag. 95. Però il giornale dell’assedio di Costantinopoli di Nicolò Barbaro accagiona di tutti i tradimenti i Genovesi. [90] La primitiva colonia di Greci Albanesi in Puglia si divise in tre. Una si stabilì presso il Gargàno, e v’ebbe i villaggi di Cannone, Greci, Ururi ed altri. Una si stanziò nella provincia d’Otranto, fondandovi Faggiano, Colonia imperiale; San Crispiero, Monteparano, San Marzano. Una in Melfi, formando il comune di Ciuciari. Mal visti dagli indigeni, si sparsero alle falde del Vulture, fondandovi Maschito e Barile, che contenevano cinquemila abitanti prima de’ tremuoti del 1851 e nella Basilicata, fondandovi popolazioni a Brindisi e San Ciriaco nuovo. In Sicilia ebbero quattro tribù, di cui le principali sono la Piana de’ Greci e Adriano Palazzo, simili a città. Nella Calabria meridionale posero i villaggi di Zangarona, Vena, Carafa, Andali, Marcedusa, San Nicolò dell’Alto, Carfito. Nella Calabria occidentale ebbero fin venticinque villaggi, tra cui Longro con cinquemila abitanti, Spezzano con tremila, San Donato, San Benedetto con duemila. Quivi allettavagli Irene Castriota pronipote dello Scanderbeg, che portò que’ vasti dominj a Pietrantonio Sanseverino principe di Bisignano. Alcuni piantaronsi nelle sterile falde dell’Appennino verso la Basilicata; e una sola colonia negli Abruzzi, fondando Abbadessa. Pagavano un canone ai feudatarj o al Governo, col che restavano immuni d’ogni altra gravezza, fin alla conquista napoleonica. Cessato dall’armi e datisi all’agricoltura, preferivano i luoghi alti e vistosi e abbondanti d’acque: e poichè impedivasi di ingrossare in città, teneano i villaggi vicini, per soccorrersi facilmente fra popolazioni che li disamavano. Le varie famiglie conservansi in casali distinti; come i Bafa a Santa Sofia, gli Scura e Toci in Vacarizzo, i Busa in San Giorgio, i Toci e gli Strigarò in San Cosma, gli Stratigò, i Demarco, i Samangò in Lungro. E Lungro, paese sì grosso, conserva puro il dialetto antico, mentre occorrono interpreti per farsi intendere dalle terre confinanti: locchè avviene dappertutto. Molti si educano, e acquistarono nome principalmente come legali, professori e vescovi: e il collegio italo-greco è dovuto a Samuele Rodotà di San Benedetto, primo vescovo della Chiesa greca in Calabria. Oggi si hanno 89,000 Albanesi e 1800 Greci nel regno, con una colonia nella Corsica; oltre i molti che servono nei porti di Venezia, Trieste e Livorno. [91] Anna Paleologo, vedova dell’ultimo imperatore di Costantinopoli, sfuggita allo sterminio della patria, approdò con molti signori greci nella maremma toscana, e chiese a Siena il diroccato castello di Montacuto col suo distretto, promettendo rifabbricarlo fra cinque anni e starvi con almeno cento famiglie. Si pattuì dunque che il nuovo castello e ’l distretto s’intendessero del comune di Siena, il quale custodisce la rôcca, eccetto una porta, per la quale l’imperatrice potesse ad un bisogno rifuggirvi; questa e i suoi giurerebbero fedeltà alla Repubblica senese, e alla cattedrale offrirebbero ogn’anno un cero di otto libbre, e per dieci anni un tributo di cinque lire alla camera di Bicherna; il seguito di lei potesse levare in Orbitello il sale per proprio uso, a soldi dieci lo stajo: le si concedevano due bandite, una da ridurre a vigneti, l’altra per pascoli, bastante almeno a cento paja di bovi. Ella nominerebbe due uffiziali greci che per trent’anni renderebbero ragione a quella colonia nel civile e nel criminale secondo le leggi degli imperatori greci, solo nelle pene uniformandosi agli statuti di Siena, come pure nei pesi e nelle misure. Avrebbero per tutto il contado esenzione di gabelle; e se alcuno abbandonasse il suo domicilio dì Montacuto, la Repubblica li rifarebbe delle spese di fabbrica e degli utensili che vi lasciasse. La cosa fu approvata il 28 aprile 1474; ma la carta che riferisce questo fatto, taciuto dagli storici e inquinato da altri dubbj, non dice per quali cagioni non ebbe seguito una combinazione che avrebbe risanato que’ deserti paludigni. [92] La prima, di Menze, stampata a Venezia il 1500; il secondo, dal ragioniere Gottugli, pure pubblicato in Venezia. [93] Nelle missioni in Germania, in Baviera, in Ungheria gli era stato compagno, per destinazione dei papi, san Giacomo di Montebrandone nella Marca, acclamatissimo per miracoli, austera vita e conversioni. All’impresa di Belgrado andò pure Luigi Scarampa, patriarca di Aquileja e commendatario di Montecassino. [94] All’invito del papa, il doge parlò nel gran consiglio: — Signori. No se move foglia d’albero senza ’l voler de Dio. Considerè che, se questo Stato è vegnudo a tanta grandezza, questo è processo per volontà de Dio, più che per nostro senno e per le nostre forze. Chi crede che le cose contra ’l Turco fosse passade sì ben, se non fosse concorso la volontà de Dio? Voltemo la mente a Dio e alla so Madre, e ringraziamola dei benefizj che la ne fa ogni zorno; e sforzemose de far quello che la ne comanda, e posponemo li odj e la invidia. Se faremo così, Dio prospererà questo Stato da ben in meglio. Sora ’l tutto, no se partimo dalle elemosine, dalle orazion e dal far giustizia. El Cardinal Niceno ne ha presentà ona bolla del papa, che è stà letta a l’eccellenze vostre; la Signoria e i savj de colegio ne ha domandà l’anemo nostro su quello che ’l papa ne scrive. Avemo resposto, che dependemo dal voler della signoria vostra. Ve preghemo che considerè qual è ’l meglio della terra. Fè orazion, elemosine, lassè da banda le passion, e deliberè ’l vostro ben. Priego la bontà de Die umelment, perchè _humilitas vincit omnia_, che ne inspira a deliberar quel che è onor so e servizio vostro». [95] Enea Silvio era stato per alcun tempo vescovo di Trieste; onde il dottor Rossetti di questa città raccolse quanto potè di scritti e memorie di quel pontefice, e ne fece dono alla pubblica biblioteca. [96] Ap. RAYNALDI, al 1471, § 9. [97] Sabellico, _Dec_. III. l. IX. [98] «Tutto ciò che di male è stato nella benedetta Firenze, da nulla cosa è proceduto se non dal volere gli ufficj, e poi avuti, ciascuno volerli per sè tutti e cacciarne il compagno..... Sotto colori di guelfi e ghibellini, si sono ammoniti gli uomini non ad altro fine che per avere per sè gli ufficj: e per questo fu trovato l’ammonire ed il confinare e il porre a sedere e il divieto degli ufficj: e per ogni uomo che ha guadagnato d’ufficj, mille n’hanno perduto, senza l’anima e le inimicizie che per l’ufficio e nell’ufficio sono acquistate... E quand’uno s’è trovato ne’ luoghi, non ha pensato se non come disfare chi a diritto o a torto sentenza contro lui ha renduta... Tutti i discendenti s’accozzavano di voler essere capitano di parte per ammonire; e quando erano in ufficio, i capitani si ristringeano insieme, e diceano uno all’altro: _Non ha’ tu alcuno nemico, a cui tu vogli far noja?_ e così raccozzati, ciascuno mettea il suo o i suoi, e poi a una fava faceano il partito, e il guelfo come il ghibellino era ammonito». Questi lamenti del buon Coppo Stefani (_Rubrica_ 923) s’attagliano ad altri tirannelli del tempo nostro. [99] Simbolo di questa varietà è il Palazzo vecchio, sotto i cui sporti merlati sono gli stemmi della repubblica e de’ sestieri; cioè, pe’ Ghibellini il giglio bianco in campo rosso, o piuttosto il giaggiòlo o _ireos_, il quale co’ suoi fiori incorona le mura di Firenze; pe’ Guelfi il giglio rosso in campo bianco; la croce rossa in campo bianco, adottata per la riforma di Giano della Bella; le chiavi d’oro incrociate su campo turchino, con cui la parte guelfa attestò la sua devozione a santa Chiesa. I sestieri ebbero per insegna, quello d’Oltrarno il ponte, San Pier Scheraggio il carroccio, Borgo Santi Apostoli l’ariete, San Pancrazio una branca di leone, porta del Duomo il duomo, San Piero le chiavi. Nei vani degli sporti della torre del Palazzo vecchio sono dipinti gli stemmi de’ quartieri; cioè, Oltrarno, colomba bianca con raggi d’oro; Santa Croce, croce d’oro; Santo Maria Novella, sole a raggi d’oro; San Giovanni, tempio ottagono; tutti in campo azzurro. [100] Il famoso canonista ed erudito Lapo da Castiglionchio ebbe saccheggiata la casa in Firenze, donde riuscì a fuggire travestito da frate. Allora «fu mandato a confine a Barzellona; e chi l’uccidesse fuori di Barzellona, avesse dal Comune di Firenze fiorini mille d’oro; e chi ’l menasse preso, possa trarre di bando uno sbandito cui e’ vorrà, o rubello ch’egli vorrà nominare». (ap. MEHUS). Egli si fermò a Padova, dov’ebbe una cattedra di diritto ecclesiastico. Di lui si hanno a stampa le _Allegazioni_ (Firenze 1568), e un’epistola sulla nobiltà, e se sia più utile nascer nobile o plebeo (Bologna 1753). Continuò a mestare nelle cose della patria, ed anche i suoi figli; mal per loro, che n’ebbero punizioni severissime. Vedi AMMIRATO, _Storie fiorentine_, al 1391. [101] Sono parole degli storici; pure consta dai registri che nel 1366 egli era podestà a Mantigno nel podere degli Ubaldini, e nel 77 a Firenzuola. [102] «Quest’operazione (dell’escludere le due arti nuove) fu giustissima, giacchè in quell’ordine di persone non si poteano trovare, se non per un caso singolare, persone atte al governo: mancanti di educazione e di lumi, non si conciliavano con alcun mezzo la stima del pubblico, ond’era stato un grand’errore creare due nuove arti della più vile canaglia, e parificarle alle altre negli onori». AMMIRATO, lib. XIV. Eccede, poichè le due arti erano state create appunto per cernire dalla _canaglia_ quelli che per virtù e senno meritavano di non restar esclusi dalle magistrature. [103] È narrato che il vescovo Tarlati d’Arezzo incaricò Buonamico Buffalmacco di dipingere un’aquila viva addosso a un leon morto, volendo inferire la superiorità de’ Ghibellini sopra Firenze. Buffalmacco fecesi fare un chiuso d’assi e tende, e dipinse tutto il contrario, il leone soprastante all’aquila; poi fingendo andare per colori, non tornò più. Apertosi e trovata la burla, il vescovo a smaniarne e bandirlo. [104] Quando i Fiorentini tolsero i castelli degli Ubaldini, Franco Sacchetti applaudì con una canzone rimasta inedita fin al 1853: Fiorenza mia, poi che disfatti hai Le cerbïatte corna (_loro stemma_) Della superba e crudele famiglia, Festa dèi far più che facessi mai... Però che molti fur, tardi o per tempo, Rubati a questi passi, Ed ancor morti antichi di ciascuno, Chè non si taglia bosco, selva o pruno Che non v’abbia cataste Di teste e membra guaste... Ed Alemagna sola Più ch’altri dee goder di lor ruina, Perchè gli suo’ romei sentian rapina... Così Inghilesi, Fiamminghi e Franceschi... Meglio è che vinto aver la Santa Terra Aver vinto costoro Tra cui viandanti convenian passare... Dello stesso è pure una canzone contra il duca di Milano, ove dettogliene a gola, conchiude: A tutti quei che voglion giusta fama E tengon libertà, ch’è tanto cara Come sa chi per lei vita rifiuta, Canzon, non istar muta, Che se tal biscia ora non si disface, Non pensi Italia mai posar in pace. [105] Alla qual peste si riferisce il caso di Ginevra degli Almieri. Sposa da pochi mesi, ella morì e fu sepolta, ma rinvenne e uscì dalla tomba: andò dal marito, andò dai parenti, e nessuno la volle ricevere, credendola l’ombra di lei che domandasse suffragi; ond’ella ricoverò da Antonio Rondinelli che l’aveva amata, e che la ricevè e risanata sposò. Scopertosi il caso, la curia vescovile dichiarò che, essendo ella stata abbandonata per morta, il primo matrimonio era sciolto, teneva il secondo. [106] L’Ammirato, il quale condanna i Pisani, deplora che «Pisa s’andava tuttodì vuotando dei proprj cittadini, non soffrendo il loro altiero animo, non ostanti tanti benefizj, di star sudditi a’ Fiorentini». Ci sono descritti dallo stesso Gino Capponi il tumulto de’ Ciompi, e l’acquisto di Lucca, che pajonmi delle più belle e nobili storie di nostra favella. Nell’archivio secreto Mediceo sta una lettera 14 gennajo 1431 dei dieci di balìa al commissario di Pisa, ove conchiusero: «Qui si tiene per tutti, che ’l principale e più vivo modo che dare si possa alla sicurtà di cotesta città, sia di vuotarla di cittadini pisani; e noi n’abbiamo tante volte scritto costì al capitano del popolo, che ne siamo stanchi; e rispondeci ora l’ultimo, essere impedito dalla gente dell’arme, e non avere il favore del capitano (Cotignola). Vogliamo che tu ne sia con lui, ed intenda bene ogni cosa, e diate modo _con usare ogni crudeltà ed asprezza_. Abbiamo fede in te, e confortiamti a darvi esecuzione prestissima, che cosa più grata a tutto questo popolo non si potrebbe fare» Negli scrittori pisani recenti sono a vedere le incolpazioni atroci date al governo di Firenze, sin d’avere per decreto peggiorato l’aria di Pisa onde disabitarla. [107] TARGIONI, _Viaggi_, II. 221. [108] Non è superfluo mostrare i patti con cui il Comune di Lucca si diede a Carlo di Boemia nel 1333. Esso manderebbe un buon vicario, assegnandogli un salario fisso, di là del quale non possa nulla pretendere per sè o sua famiglia, cavalli ed uffiziali suoi; de’ quali pure sia prefisso il numero. Il salario è fissato in quattromila fiorini d’oro, dei quali deve stipendiare due giudici rinomati, tre buoni compagni, dodici donzelli, sedici ragazzi, un cuoco e due guatteri, venti cavalli. Esso vicario osservi le leggi e gli statuti di Lucca, e solo per furto, omicidio, falso incendio, tradimento possa far mettere alla tortura; non introduca prestiti o imposte o mutui o dazj, nè gli accresca; non possa fare spesa alcuna se non col consenso degli anziani, nè cominciar guerra; le cause civili e criminali si giudichino dalle solite curie, senza ch’egli vi s’intrometta. Gl’impieghi si diano al modo antico e a soli cittadini. Egli prepari pedoni e cavalli stipendiarj, ma che contrattino col Comune: le rendite di questo vadano nella cassa civica. Possa il vicario assistere al consiglio degli anziani; ma ciò che ottiene sette voti, si ritenga stabilito. Il re non voglia dare la città a chi altri si sia. _Docum. per servire afta storia di Lucca_, I. 278. [109] Morto Lionello duca di Modena nel 1440, Lucca occupò alcune terre della Garfagnana: Borso la respinse, anzi le tolse alcuni paesi: poi per interposizione di Firenze e ad arbitramento di Nicola V nel 1451 quelle rimasero al ducato, che ne formò la vicarìa di Frassalico, levando l’intralciatissima spartizione della Garfagnana bassa. [110] Il discorso è riferito da Giovan Cavalcanti, di poco posteriore. Rousseau ebbe l’idea di scrivere la storia di Cosmo de’ Medici. «Era (diceva a Bernardino Saint-Pierre) un semplice privato, che divenne sovrano de’ suoi concittadini col renderli più felici; non si elevò e non si mantenne che per mezzo dei benefizj». Esiste il catalogo delle preziosità appartenenti a Pietro de’ Medici nel 1464, che in medaglie, anelli, cammei, suggelli, tavole antiche di pietra o di metalli, sono stimati fiorini d’oro duemila seicentoventiquattro; i vasi preziosi e altre cose di valuta, ottomila centodieci; varie gioje, diciassettemila seicentottantanove; oltre gli argenti. _Appendice alla vita di Lorenzo il Magnifico_ del ROSCOE. Esso Lorenzo nei _Ricordi_ scrive: — Gran somma di denari trovo abbiamo speso dall’anno 1434 in qua, come appare per un quadernuccio in-quarto da detto anno fin a tutto il 1471: si vede somma incredibile, perchè ascende a fiorini seicentosessantatremila settecencinquantacinque, tra muraglie, limosine e gravezze, senza l’altre spese; di che non voglio dolermi, perchè, quantunque molti giudicassero averne una parte in borsa, io giudico essere gran lume allo Stato nostro, e pajonmi ben collocati, e ne sono molto ben contento». [111] Giovanni di ser Cambi reca la lista delle case grandi fiorentine al 1494 e assegna agli Altoviti sessantasei uomini, sessanta ai Rucellaj, cinquantatrè agli Strozzi, sessantacinque agli Albizzi, trentacinque ai Ridolfi, e così ai Capponi, ventisei ai Cavalcanti, e via là. Tra le antiche famiglie vanno ricordati i Bardi, che spesso ebbero nimistà coi Frescobaldi, massime nel 1340, allorchè li calmò il venerabile vecchione Matteo dei Marradi podestà. Cacciato il duca d’Atene, anche i Bardi furono espulsi a furor di popolo e bruciate ventidue loro case. Dianora de’ Bardi fu amata da Ippolito de’ Buondelmonti; ma, attesa l’inimicizia delle due famiglie, non potè che sposarla in segreto. Andava da lei la notte per una scala a corda; nel qual atto sorpreso dal bargello, fu arrestato per ladro, ed egli, anzichè mettere a repentaglio l’onore della fanciulla, lasciasi condannare a morte. Sol chiese che, nel condurlo al supplizio, si passasse davanti la casa de’ Bardi, volendo, diceva, in quell’estremo punto riconciliarsi colla famiglia sempre odiata. Ma ecco Dianora sbucarne scarmigliata, confessando: — Egli è mio sposo, e unica colpa di lui l’esser venuto a trovarmi». Si sospende il supplizio, si ripiglia la causa davanti al podestà, ove perorando Dianora stessa, facilmente si convinsero giudici e popolo, e si finì colle nozze pubbliche de’ due amanti e la pace fra le loro famiglie. [112] Cerchi chi vuol le pompe e gli alti onori, Le piazze, i templi e gli edifizj magni, Le delizie, i tesor, _qual accompagni_ Mille duri pensier, mille dolori. Un verde praticel pien di bei fiori, Un rivolo che l’erba intorno bagni, Un augelletto che d’amor si lagni, Acqueta molto meglio i nostri ardori; L’ombrose selve, i sassi e gli alti monti, Gli antri oscuri e le belve fuggitive, Qualche leggiadra ninfa paurosa. Quivi vegg’io con pensier vaghi e pronti Le belle luci come fosser vive; Là me le toglie or questa or quella cosa. [113] SCHROECK, _Allgem. Geschichte_, vol. XXXII, p. 90. [114] «Nel 1424 fu ucciso Braccio de Montone;... e per questa cagione ne fu fatto gran festa e letitia in Roma de fuochi e de ballare; et ogni Romano giva con la torcia a cavallo ad accompagnare M. Jordano Colonna fratello di papa Martino, perchè era morto l’inimico del papa; e morti che furono questi, rimase papa Martino senz’alcun altro impaccio, e mantenea nel suo tempo pace e divitia, e venne lo grano a soldi quaranta lo rubbio». INFESSURA, _Diario_. [115] VESPASIANO, _Comment_., p. 279. [116] Et a dì 19 de jennaro de martedì, fu impiccato uno Stefano Porcaro in castello, in quello torrione che sta quando vai in là a mano destra; e viddelo io vestito di nero, in gipetto e calze nere. Se perdette quell’huomo da bene et amatore dello bene e libertà di Roma, lo quale, perchè si vide senza cascione esser stato sbannito da Roma, volse, per liberar la patria soa da servitute, metter la vita sua, come fece lo corpo suo... Et in quel dì furono impiccati nelle forche di Campitolio senza confessione e comunione gl’infrascritti... Item con essi fu impiccato Sao e molti altri... Et in quel tempo furono ancora pigliati Mr Joanni... Adì 28 gennajo fu impiccato Francesco Gabadio et uno dottore, perchè accompagnarono Mr Stefano Porcari, e dissesi che avevano notitia dello detto trattato. E dopo andò uno bando, che chi sapesse dove sta... lo dovessino rivelare, e guadagnavano mille ducati, e chi li dava morti cinquecento. E lo papa fece cercare per tutta Italia per questi delinquenti... furon pigliati chi a Padua, chi in Venetia... et a molti fu tagliata la testa alla città di Castello. A dì 30 di jennaro fu impiccato Battista de Persona ». INFESSURA. [117] Delle lettere tengo l’edizione preziosa, fatta in Milano per maestro Ulderico Scinzenzeler il 1496. In queste è la troppo famosa storia degli amori della Lucrezia senese con Eurialo tedesco al seguito dell’imperatore Sigismondo, dipinti coi colori del Boccaccio. Delle altre lettere, molte illustrano assai i tempi. _Æneæ Silvii Piccolominei senensis, qui post adeptum pontificatum Pius, ejus nominis secundus, appellatus est, opera quæ extant omnia_. Basilea 1551. Opere capitali sono: _De gestis concilii Basiliensis commentarium; De ortu et historia Bohemorum; Europa, in qua sui temporis varias historias cumplectitur_. Scrive bene, quantunque con troppa frequenza di frasi o d’emistichi. Nella prefazione al Concilio di Basilea dice: — Non so quale sciagura o qual destino mi spinga così, che non valgo a distrarmi dalla storia, nè il tempo più utilmente consumare. Soventi mi proposi togliermi a questi allettamenti de’ poeti ed oratori, ed altro esercizio seguire, donde cavar alcuna cosa che mi renda men grave la vecchiezza, per non dover vivere alla giornata come gli uccelli e le fiere. Nè studj mancavano, nei quali se avessi voluto concentrar le forze, avrei potuto e danari e amici procacciare. Nè a ciò mi persuadeva da me solo, ma m’erano intorno gli amici, dicendomi di continuo: _Orsù, che fai Enea? Ti occuperà la letteratura finchè campi? A quest’età non ti vergogni di non aver poderi, non danaro? Non sai che a vent’anni bisogna esser grande, a trenta prudente, a quaranta ricco, e chi passa questi confini indarno poi s’affatica?_ Mi consigliavano dunque che, instando già il quarantesimo anno, cercassi posseder qualche cosa, prima che quello entrasse. Spesso vi posi mano, e promisi fare secondo il consiglio; buttai via i libri oratorj, buttai le storie e tutte siffatte letture, nemiche alla mia salute. Ma come certi volanti non sanno fuggire il fuoco della candela finchè non v’abbrucino l’ali, così io torno al mio male, dov’è forza ch’io pera; nè, a quanto vedo, altri che la morte non mi torrà questo studio. Ma giacchè il destino mi trascina, nè quel che voglio posso, bisogna congiungere la volontà al potere. Mi si rinfaccia la povertà; ma e povero e ricco devono vivere fin alla morte. Se è misera la povertà ai vecchi, è miserrima agli illetterati. Aver corpo sano e integra mente è dato al povero non men che al ricco; se questo ottengo, null’altro chiedo. Goder quello che ho in buona salute mi conceda Dio, e prego di poter condurre una vecchiaja con mente sana e non indecorosa nè senza cetra. E giacchè così sta fitto nell’animo, torniamo ai commentarj nostri». [118] La distinzione stessa faceva in quel suo motto famoso: _Quand’ero Enea, nessun mi conoscea; or che son Pio, ciascun mi chiama zio_. [119] Il nome che d’apostolo ti denno O d’alcun minor santo i padri, quando Cristiano d’acqua, non d’altro ti fenno, In Cosmico, in Pomponio vai mutando; Altri Pietro in Pierio, altri Giovanni In Jano e in Giovian van racconciando ARIOSTO, _Satira_ VI. [120] È caratteristico l’elogio che gli fa Gaspare Veronese: _Novi ego quod suorum codicum largissimus semper fuit, alienorum vero verecundissimus postulator, nec non suorum aliis commodatorum lentissimus repetitor_. Ap. MARINI, _Degli archiatri pontifizj_, tom. II. p. 179. [121] _Cronaca di Gubbio_, Rer. It. Script., XXI. f. 994. [122] Che ciò fosse con intelligenza di Francesco Sforza suo suocero è asserito da Machiavelli e da quasi tutti i contemporanei, i quali diceano averlo lo Sforza menato alla beccheria, e Ferdinando esserne stato il boja: ma vittoriosamente li confutano i documenti che pubblicò il Rosmini nella _Storia di Milano_. [123] Racconta Gioviano Pontano, _Belli neapolitani, lib_. V, che, mentre Ferdinando di Napoli assediava una rôcca sotto Mondragone aderente agli Angioini, e per difetto d’acqua l’avea ridotta all’estremo, alcuni empj sacerdoti procurarono le pioggie con arti magiche. Trovarono alquanti giovani arditissimi, che di notte per difficilissime vie uscirono fin al lido, e quivi bestemmiarono un crocifisso con ogni peggior maledizione, quivi gettaronlo in mare, imprecando tempesta al cielo, al mare, alle terre. Al tempo stesso i sacerdoti presero un asino, e come a moribondo gli dissero le preghiere degli agonizzanti, lo comunicarono, e fattegli le esequie, il sepellirono vivo davanti alla porta della chiesa. Ed ecco subito annuvolarsi, tempestar il mare, farsi bujo il cielo, e tuoni e folgori e nembi e diluvio di pioggie, sicchè abbondantemente provvista la rôcca, Ferdinando se ne dovette levare. In tali estremi, la sapiente Roma antica sepelliva un uomo e una donna. [124] Di quelli della sua patria fa l’enumerazione il Malipiero negli _Annali veneti_ sotto il 1483: — È stà tolto cenventottomila ducati all’una per cento, deputati a pagar el pro del Monte Nuovo: è stà cresciuto un terzo tutti i dazj; è stà impegnato tutte le volte de Rialto a rason de ventotto per cento all’anno; e stà pagato in zeca i argenti de particulari, sie ducati la marca; è stà tolto le cadenelle d’oro che le donne portava al collo, e messe in comun. Se fa li officj e regimenti con la metà e un terzo manco de salario. Oltre tante decime, è stà messo tanse a la terra; le entrate de la terra e quelle de la terraferma è calade; se ha perso molte nave e galìe; se ha tolti homeni de la guerra nudi e rotti, perchè no se ha possuto far altro; se ha evacuato l’arsenal che altre volte ha fatto tremar el mondo; avemo fame e peste; mendicheremo la pace e ghe restituiremo el tolto; se ha speso un milion e dusentomila ducati; ed è morti tanti homeni da ben». [125] INFESSURA, _Diario_, pag. 1226. [126] Pietro Aretino scriveva al Franciotto nell’aprile 1548, cioè mezzo secolo prima di quell’Enrico IV di Francia, a cui il fatto viene attribuito: — Se bene jeri l’altro, per esserci il numero delle persone che si stavano a casa mia, meco ragionando, non feci motto alcuno circa il vostro ridere nel vedermi in mezzo di Adria e di Austria le figlie mie; nel vedermi, dico, dalle braccia dell’una d’anni undici stretto nel collo, e dalle mani dell’altra di otto mesi preso nella barba; non è che io non me ne accorgessi, e me lo tacqui allora per dirvi adesso una bella cosa in comparazione di quella mia tenera sofferenza. Lorenzo e Giuliano, quello padre di Leone, questo di Clemente, standosi trapassando il tempo del caldo al Poggio, accadde un giorno, poco dopo il desinare, ch’eglino per fuggire il sonno essendosi ritirati in camera, venutegli alle mani due canne, se ne fecero cavalli, e salendo l’uno sopra l’una, e l’altro sopra l’altra, volse Giuliano che gli montasse in groppa Giulio, e Lorenzo che il simile facesse Giovanni; e così spronando ciascuno senza i sproni pareano proprio ispronargli daddovero; talchè i bambini tutti ridenti, quel piacere nella loro innocenzia provavano, che prova in la sua tenerezza ogni genitore che la di lui prole trastulla. Videgli in cotal atto quel Mariando, che poi ebbe il titolo di Frate dal piombo; e ridendosene da senno, fu chiamato dentro dai personaggi sì grandi; i quai pregarono il faceto e leale uomo, che non prima facesse motto dello avere i due fratelli (i quali poi furon padre di cotale coppia di pontefici) trovati in tal materia di scherzo, non prima, dico, ch’egli avesse figliuoli; inferendo in sì prudente voce di parole, che la minore dimostrazione di semplicità che si faccin coloro che ne hanno, è lo impazzirgli drieto». Il fatto però non è esatto, poichè Giulio nacque postumo. [127] _Atque aliud nigris missum, quis credat? ab Indis,_ _Ruminat insuetas armentum discolor herbas._ POLIZIANO, _Rusticus_. [128] Angelo Poliziano a Lorenzo de’ Medici: — Magnifice Patrone. Da Ferrara vi scripsi l’ultima. A Padova poi trovai alcuni buoni libri, cioè Simplicio sopra al Cielo. Alexandro sopra la Topica, Giovan Grammatico sopra le Posteriora et li Elenchi, uno David sopra alcune cose de Aristotele, li quali non habbiamo in Firenze. Ho trovato anchora uno scriptore greco in Padova, et facto el patto a tre quinterni di foglio per ducato. Maestro Pier Leone mi mostrò i libri suoi, tra i quali trovai un M. Manilio astronomo et poeta antiquo, el quale ho recato meco a Vinegia, et riscontrolo con uno in forma che io ho comprato. È libro, che io per me non ne viddi mai più antiqui. Similiter ha certi quinterni di Galieno _De dogmate Aristotelis et Hippocratis_ in greco, del quale ci darà la copia a Padova, che si è facto pur frutto. In Vinegia ho trovato alcuni libri di Archimede et di Herone mathematici che ad noi mancano, et uno Phornuto _De deis_, e altre cose buone. Tanto che papa Yanni ha che scrivere per un pezzo. «La libreria del Niceno non abbiamo potuto vedere. Andò al principe messer Aldobrandino oratore del duca di Ferrara, in cujus domo habitamus. Fugli negato a lettere di scatole; chiese però questa cosa per il conte Giovanni et non per me, che mi parve bene di non tentare questo guado col nome vostro. Pure messer Antonio Vinciguerra, et messer Antonio Pizammano, uno di quelli due gentilhuomini philosophi che vennono sconosciuti a Firenze a vedere el conte, et un fratello di messere Zaccheria Barbero sono drieto alla traccia di spuntare questa obstinatione. Farassi el possibile; questo è quanto a’ libri. «M. Piero Lioni è stato in Padova molto perseguitato, et non è chiamato nè quivi nè in Vinegia a cura nissuna. Pure ha buona scuola, et ha sua parte favorevole; hollo fatto tentare dal conte di ridursi in Toscana. Credo sarà in ogni modo difficil cosa. In Padova sta mal volentieri, et la conversatione non li può dispiacere, ut ipse ait. Negat tamen se velle in Thusciam agere. Nicoletto verrebbe a starsi a Pisa, non vorrebbe un beneficio, hoc est, un di quelli canonicati; ha buon nome in Padova, et buona scuola. Pure, nisi fallor, è di questi strani fantastichi; lui mi ha mosso questa cosa di beneficj: siavi adviso. «Visitai stamattina messer Zaccheria Barbero, et mostrandoli io l’affectione vostra, mi rispose sempre lagrimando, et ut visum est, d’amore; risolvendosi in questo, in te uno spem esse; ostendit se nosse quantum tibi debeat. Sicchè fate quello ragionaste, ut favens ad majora. Quello legato che torna da Roma, et qui tecum locutus est Florentiæ, non è punto a loro proposito, ut ajunt. Un bellissimo vaso di terra antiquissimo mi mostrò stamattina detto messer Zaccheria, el quale nuovamente di Grecia gli è stato mandato; e mi disse, che sel credessi vi piacessi, volentieri ve lo manderebbe con due altri vasetti pur di terra. Io dissi che mi pareva proprio cosa da V. M., et tandem sarà vostro. Domattina farò fare la cassetta, et manderollo con diligentia. Credo non ne abbiate uno sì bello in eo genere. È presso che tre spanne, et quattro largo. El conte ha male negli occhi, et non esce di casa, nè è uscito poichè venne a Vinegia. «Item visitai hiersera quella Cassandra Fidele letterata, et salutai per vostra parte. È cosa mirabile, discretissima, et meis oculis etiam bella. Partimmi stupito. Molto è vostra partigiana, et di voi parla con tutta practica, _quasi te intus et in cute norit_. Verrà un dì in ogni modo a Firenze a vedervi, sicchè apparecchiatevi a farle honore. «A me non occorre altro per hora, se non solo dirvi che questa impresa di scrivere libri greci, et questo favorire i docti vi dà tanto honore et gratia universale, quanto mai molti e molti anni non ebbe uomo alcuno. I particolari vi riserbo a bocca. A. V. M. mi raccomando sempre. Non ho ancora adoperata la lettera del cambio per non essere bisognato. Venetiis 20 junii 1491». [129] Lettera di Pietro da Bibiena a Clarice de’ Medici, ap. ROSCOE, _Vita di Lorenzo_, app. 7ª del vol. III. Ad esso Lorenzo scriveva Ferdinando re di Sicilia, il 23 agosto 1488: — Magnifice vir, compater et amice noster carissime. Non era necessario che da voi fossemo rengratiati per lettera de vostra mano di quello che ho offerto in beneficio di mess. Joanni vostro figlio, perchè sape Dio lo animo et la voluntà nostra, quanto desidereressimo fare tutte le cose del mondo per usarvi gratitudine per quello havete continuamente operato in beneficio nostro et de questo Stato, del quale sempre potete fare quella stima che fareste delle cose vostre medesime, perchè li obblighi che ne havimo così recercano, et mai ve porìamo offerire tanto in beneficio vostro et della casa vostra, che ne para havere satisfacta una millesima parte de quello è lo animo et desiderio nostro di fare: secundo speramo per experientia, omni dì porite conoscere più manifestamente». [130] Watson (_Massonic essayist_. Londra 1797, pag. 238) sostiene che l’accademia platonica era una loggia muratoria, e che vi sono ancora scolpiti dei simboli massonici. [131] _Phœnix, sive ad artificialem memoriam comparandam brevis quidem et facilis, sed re ipsa et studio comprobata introductio._ Venezia 1491. [132] E non dal Crisolara, come fa ragionevolmente avvertire il Tonelli nella traduzione della vita di esso scritta da Shepherd; Firenze 1835. Erasmo giudica molto severamente il Poggio, definendolo _rabula adeo indoctus, ut, etiamsi vacaret obscænitate, tamen indignus esset qui legeretur: adeo autem obscænus, ut, etiamsi doctissimus esset, tamen esset a viris bonis rejiciendus._ Ep. CIII. [133] _Si quando visendi desiderio in longinquum proficiscerer, visis forte eminus monasteriis veteribus, divertebam illico, et — Quid scimus_ (_inquam_) _an hic aliquid eorum sit quæ cupio?_ Senil., VI. 2. [134] Commento al canto XXII del _Paradiso_. Il fatto è dimostrato falso dal Tosti nella storia di Montecassino, dove la libreria fu sempre uno de’ più cercati ornamenti. [135] _O romani pontifices, exemplum facinorum omnium cæteris pontificibus, et improbissimi scribæ et pharisæi, qui sedetis super cathedram Moysis et opera Datan et Abyron facitis, itane vestimenta, apparatus, pompa, equitatus, omnis denique vita Cæsaris vicarium Christi docebit?... Nec amplius horrenda vox audiatur, partes contra Ecclesiam, Ecclesia contra Perusinos pugnat, contra Bononienses. Non contra Christianos pugnat Ecclesia, sed papa_. [136] _Universa in me civitas conversa est, omnes me diligunt, honorant omnes, ac summis laudibus in cœlum efferunt. Meum nomen in ore est omnibus. Nec primarii cives modo, cum per urbem incedo, sed nobilissimæ fœminæ honorandi mei gratia locum cedunt; tantumque mihi deferunt, ut me pudeat tanti cultus. Auditores sunt quotidie ad quadringentos, vel fortassis et amplius; et hi quidem magna in parte viri grandiores, et ex ordine senatorio_. Epist. del 1428. Vedi la costui vita scritta da Carlo Rosmini, Milano 1808, con moltissimi documenti inediti. [137] Nella Laurenziana v’è una sua _Oratio habita in principio publicæ lectionis, quam domi legere aggressus est, quum per invidos publice nequiret_. [138] Se quel verso Βούλομ’ ἐγὼ σάον λαὸν ἔμμεναι, ἢ ἀπολέσθαι significhi _Voglio che il popolo sia salvo o perisca, oppure Voglio che il popolo sia salvo o perire._ Il Filelfo s’accorse che aveano torto entrambi. [139] Vedasi l’_epistola_ 52 del lib. X. Di Gio. Maria Filelfo suo figlio, retore anch’esso inquietissimo e premorto al padre, scrisse la vita Guglielmo Favre. Ginevra 1856. [140] NALDO NALDI, _Vita di G. Manetti_, Rer. It. Script., XX. [141] _Operis quippe ac studii mei est et fuit multos libros legere, et ex plurimis diversos carpere flores._ Al fine:_ Mihi non bene scienti linguam græcam_ non vuol dire che la ignorasse, come pretende Eichhorn. [142] GIULINI, _Continuazione delle Memorie di Milano_, II, 594. [143] _Liber consiliorum_, vol. III. IV. XIII, nell’archivio civico di Torino. [144] TOMMASI al 1430. [145] È l’espressione del Bonfinio, _Rerum Hungaric._, dec. IV: Pannoniam Italiam alteram reddere conabatur.... _Varias quibus olim carebat artes, eximiosque artifices ex Italia magno sumptu evocavit... olitores, cultores hortorum, agriculturæque magistros, qui caseos etiam latino, siculo, græco more conficerent_. [146] Vespasiano, Ap. MEHUS, _Præf. ad vitam Ambrosii camaldolensis_. [147] Vita di B. Valori, nell’_Archivio storico_, tom. IV. p. 241. [148] PIO II, _Descrizione dell’Europa_, cap. 52. [149] LAMI, _Catalogo della biblioteca Riccardiana_, pag. 11. [150] _De educatione liberorum_. Milano 1491. [151] Sprezzando di tutto cuore i Barbari, il Poliziano gl’invita ad ammirare le bellezze e i pregi degl’Italiani, ove mostra di conoscere in che consiste il merito, anzichè qual fosse il merito vero degli Italiani: _Admirentur nos, sagaces in inquirendo, circumspectos in explorando, subtiles in contemplando, in judicando graves, implicitos in vinciendo, faciles in enodando. Admirentur in nobis brevitatem styli fœtam rerum multarum atque magnarum, sub expositis verbis remontissimas sententias, plenas questionum, plenas solutionum; quam apti sumus, quam bene instructi ambiguitates tollere, scrupulos diluere, involuta evolvere flexanimis syllogismis, et infirmare falsa, et vera confirmare. Viximus celebres, et posthac vivemus, non in scholis grammaticorum et pædagogiis, sed in philosophorum coronis, in conventibus sapientum, ubi non de matre Andromaches, non de Niobes filiis, atque id genus levibus nugis, sed de humanarum divinarumque rerum rationibus agitur et disputatur. In quibus meditandis, inquirendis et enodandis ita subtiles, acuti acresque fuimus, ut anxii quandoque nimium et morosi fuisse forte videamur, si modo esse morosus quispiam aut curiosus nimio plus in indaganda veritate potest_. Epist. lib. IX. [152] Ap. ROSMINI, _Storia di Milano_, IV. 224. [153] Leonardo Giustinian veneto, amico del Filelfo e degli altri celebri, oltre i lavori filologici fece molti canti d’occasione e di gioja, che poi furono pubblicati col titolo di _Fiori delle elegantissime cancionete_ (Venezia 1482); e le accompagnava anche di graziose note. Voltosi poi alla pietà, pubblicò le _Devotissime et sanctissime laude_ (Cremona 1474), più volte ristampate. Per la prima volta nel 1851 si pubblicarono a Lucca le _Laude spirituali_ di Bianco da Siena povero gesuato. [154] Si volle supporre non sia che un capitolo dell’opera di Leon Battista Alberti: ma altri crede che questi possa nella sua avere inserito il trattato del Pandolfini. [155] _Senilium_, XV. 5; _Familiarium_, II. 4. IV. 9. VI. 6; _Hort. ad Nicolam Laurentii_. [156] Il manoscritto d’Arona, che sta nella biblioteca di Torino, e che da un’assemblea di dotti erasi giudicato antico di cinque secoli, Daunou e Hase, valentissimi paleografi, nol fanno anteriore al secolo XV. Galeani Napione, poi De Gregory (_Mém. sur le véritable auteur de l’Imitation de Jésus-Christ_, 1827; e _Histoire du livre de l’Imitation de Jésus-Christ et de son véritable auteur_, Parigi 1843) sostennero i diritti del Gersenio di Vercelli. A provarlo d’un Tedesco si addusse testè quel passo del lib. IV. c. 5, ove dice che il sacerdote, vestito dei sacri arredi, ha davanti e di dietro la croce del Signore. Ora la pianeta degli Italiani e de’ Francesi non ha la croce che di dietro. Celebrandosi il suo centenario nel 1874 ed ergendosegli un monumento, si pubblicarono molti opuscoli in favore dell’abate Gersenio. [157] Lib. II. c. 12. [158] Narrando che Federico II aveva imposto alcun dazj nuovi senza attribuirne un terzo alla Chiesa, soggiunge che l’anima di lui _requiescit in pice et non in pace_. [159] ALIDOSI, _Instructione_ ecc. Forse questi tentativi avevano dato coraggio a Leonardo da Vinci di fare un modello col quale «mostrava voler alzare il tempio di San Giovanni di Firenze e sottomettervi le scalee senza rovinarlo». VASARI, _Vita_. [160] La sua opera è stampata «sulle rive del Benáco, nel quale si pescano i migliori carpioni, e le cui rive sono sparse di belle antichità». Uno de’ trattatelli suoi è intitolato: _Modus solvendi varios casus figurarum quadrilaterarum rectangularum per viam algebræ. Nº_ cioè _numero_, indica il noto; _Co_ cioè cosa, l’incognito; il quadrato _Ce_ (censo); il cubo, _Cu_; _p_ ed _m_ vagliono + e -. Dove oggi scriviamo 3x + 4x² - 5x³ + 2x⁴ - 6, allora facevasi 3 co. p. 4 ce. m. 5 cu. p. 2 ce. m. 6 Nº. Guglielmo Libri farebbe il + e il - inventati da Leonardo da Vinci; mentre Chasles (_Aperçu historique sur l’origine et le développement des méthodes en géométrie_, Bruxelles 1837), gli attribuisce a Stiffels. «E perchè noi seguitiamo per la maggior parte Lionardo Pisano (Fibonacci), io intendo di chiarire che quando si porrà alcuna proposta senza autore, quella sia di detto Lionardo». Queste parole della _Summa de arithmetica geometria_ purghino il Pacioli dalla taccia datagli di plagiario. [161] In Francia si cominciò nel 1376; solo nel 1556 Carlo V otteneva dai dottori di Salamanca la decisione che ai Cattolici non fosse illecito aprire umani cadaveri. [162] Nel XV secolo v’è menzione di pesti, in Dalmazia il 1416, 20, 22, 30, 37, 54, 64, 66, 80; nella Lombardia e Genovesato, il 1405 e 6; in Napoli, Milano ed altre parti d’Italia, il 1421 e 22; nel 21 a Bologna e Brescia; nel 28 a Roma; nel 29 e 30 a Perugia e altrove; nel 38 a Venezia e altrove; nel 48 nell’alta Italia; poi nel 50, 56, 60, 65, 68, 73, 75, 76, 78, 85: dal 92 al 95 la peste marrana, tifo navale, sviluppatosi fra gli Ebrei cacciati di Spagna contaminò tutta Europa. Scaligero contro Cardano dice che a Parigi, Colonia, Famagosta, Venezia, Ancona la peste ripullula così frequente, che può dirsi perpetua. [163] _Quamquam per civitates, domus qua hospitalia vocantur, et supellectiles sumptibus publicis paratæ structæque videantur elephantiacis suscipiendis. — De elephantia_. Ne’ secoli seguenti se ne parla pochissimo, ma non dovette scomparire del tutto: poi questi ultimi anni rivoltavi l’attenzione, fu riscontrata in molte parti, e più miserabilmente nella popolazione pescatrice di Comacchio, col nome di mal di fegato. Vedi _Sulla lebbra_, Commentario del D. A. VERGA. Milano 1846. Fallopio nel 1550 trovava che in Francia ancora molti erano affetti di lebbra; ma in Italia rimanevano rarissimi, e gli ospedali di San Lazzaro erano vuoti, mentre crescevano quelli di San Giobbe per gl’infraciosati. _De morbo gallico_, c. I. III. [164] Diconsi palimsesti (πάλιν φηστὸς, _di nuovo raschiato_). Ciò si costumava già dagli antichi, e Cicerone (_Famil_., VII, 18) scrive: _Quod in palimsesto, laudo equidem parsimoniam; sed miror quod in illa chartula fuerit quod delere malueris, quam exscribere, nisi forte tuas formulas. Non enim puto te meas epistolas delere ut deponas tuas. An hoc significas nil fieri? frigere te? ne chartam quidem tibi suppeditare?_ Il primo palimsesto cui si facesse mente, fu alla biblioteca del re di Francia nel 1692, ed era un manoscritto delle opere di sant’Efrem. Finchè s’ebbe carta papiracea, su quella si stesero gli atti pubblici. I più antichi d’Italia su carta pecora sono una concessione di re Liutprando del 712 nell’archivio di Milano, e uno del 784, ove Felice vescovo di Lucca conferma la donazione di Faulone al monastero di san Fridiano. Il più antico atto sopra carta bambagina è del 1145 in Sicilia, ove re Ruggero II fa concessioni all’abate di San Filippo di Fragola. Nell’archivio delle Riformagioni di Firenze trovasi un diploma in greco del 1192, in cui Isacco Langelo imperatore ammette i Pisani alla pace colle terre di Romania. [165] Plutarco (in _Catil_.) le fa inventare da Cicerone all’occasione della congiura di Catilina. Cicerone scrivendo ad Attico (lib. XIII) gli dice: — Tu non avrai forse intesa quella cosa perchè scritta διὰ σεμνῶν, per segni». Altri ne dicono autore Tirone suo liberto, da cui si chiamarono tironiane; e Dione Cassio (lib. LV) asserisce che Mecenate fece pubblicare queste note per Aquila suo liberto. Celebri tachigrafi antichi furono Perunnio, Pilargio, Pannio, e infine Seneca. San Cipriano aggiunse altre note alle già inventate, e tutte le adattò all’uso della religione. Prudenzio nell’inno di san Cassiano canta: _Verta notis brevibus comprendere cuncta peritus_ _Raptimque punctis dicta præpetibus sequi._ Origene, sant’Agostino, san Girolamo parlano dei tachigrafi. [166] Nel catalogo dei libri lasciati dal cardinale Guala al monastero di Sant’Andrea a Vercelli troviamo una biblioteca (cioè l’intera Bibbia) di lettera _parigina_, coperta di porpora e ornata di fiori d’oro ed iniziali simili; un’altra di lettera _bolognese_, con cuojo rosso; una di lettera inglese; una piccola preziosa di lettera parigina, con majuscole d’oro e ornamenti purpurei; l’Esodo e il Levitico di lettera _antica_; i dodici Profeti in un volume di lettera _lombarda_; i _Morali_ del beato Gregorio, di _buona lettera antica aretina_ ecc. FAVA, _Gualæ Bichierii card. vita_, pag. 175. [167] Il padre Sarti (_De prof. bonon_., part. II, p. 214) pubblicò un catalogo di libri in vendita a Bologna; per esempio, _Lectura domini Ostiensis_ CLVI _quinterni, taxati lib._ II. _sol_. X. _etc_. Un messale ornato a lettere d’oro e pitture, nel 1240, valse più di duecento fiorini (_Ann. Camald_., vol. IV. p. 349). Un _Digestum vetus_ a Pisa si vendette lire sedici (L. 127). Forse dunque non costavano cari se non quando miniati. [168] TIRABOSCHI, tom. VI. l. 1. c. IV. § 19. [169] Nell’inventario de’ possessi del vescovado di San Martino di Lucca dell’VIII o IX secolo la biblioteca è così composta: Eptaticum, vol. 1. Salomon, vol. 1. Machabeorum, vol. 1. Actus apostolorum, vol. 1. Prophetarum, vol. 1. Librum officiorum, vol. 1. Dialogorum, vol. 1, Vita... Ezechiel, vol. 1. Omeliarum, vol. 1. Commentarium super Mattheum, vol. 1. Commentarium aliud... vol. 2. Ordo ecclesiasticus, vol. 1. Rationes Pauli, vol. 1. Antiphonarium, vol. 2. Psalterium, vol. 1. Vita sancti Martini, vol. 1. Vita sancti Laurentii cum memoria sancti Fridiani, vol. 1. Nel 1212 Ugo, tesoriere della cattedrale di Novara, divenendo arciprete, facea la riconsegna degli oggetti che trovavansi nel tesoro del capitolo: fra cui notiamo un collettario gemmato con figura d’avorio, un cristallo rotondo donde si trae il fuoco, e venticinque volumi di libri da altare, cioè due messali, quattro antifonarj, tre testi del vangelo, quattro omeliarj, un sermonale, due epistolarj, un passionario estivo ed uno iemale, due collettarj, l’ordine, due salterj, la Bibbia, il Vecchio Testamento; e nell’armadio quarantotto libri, fra cui i morali di Giob, Agostino sopra Giovanni, le Etimologie di Isidoro, la storia ecclesiastica, un volume della prescienza e predestinazione, le Decretali, il Codice e le Novelle di Giustiniano, i pronostici del futuro giudizio, Prisciano, Cresconio _Della concordia de’ canoni_, un martirologio, Boezio _Della consolazione_, Marciano Capella, le vite dei Padri. [170] MARINI, _Degli archiatri pontifizj_, tom. II. p. 130. [171] «Milatrecenquaranta fur fatti la folla di tutti i Santi, e il lavorerio di panno, lane e carta di papiro. Del qual lavoro di carta di papiro primo inventor presso Padova e Treviso fu Pace da Fabriano, che per l’amenità dell’acque stette la più vita in Treviso». Nel 1318 un notajo promette non fare istromento in carta di bambage, nè da cui siasi abrasa altra scrittura; un altro, nel 31, di non iscrivere in carta bambagina; poi nel 67 di non iscrivere su carta siffatta nè papiro. Il senato veneto del 1366 stabilì che «pel bene dell’arte della carta che si fa a Treviso, e reca grand’utile al nostro Comune, in nessun modo possano levarsi stracci di carta (_stratie a cartis_) dalla Venezia per portarli altrove che a Treviso». [172] Nell’Archivio diplomatico fiorentino, carte del Comune di Colle; ap. REPETTI. [173] Reputavasi la più antica incisione in legno il san Cristoforo, sotto cui è scritto: _Xtofori faciem die quacumque tueris_ _Illa nempe die morte mala non morieris_ _millesimo_ CCCXX _tertio_. Ma il signor di Reiffenberg, direttore della biblioteca reale di Bruxelles, acquistò una Madonna con varj santi, intaglio colla data 1318. Vedi pure W. A. CHATTO, _Treatise on vood engraving historical and practical_. Londra 1839, con ducento belle vignette. [174] I Feltrini pretendono che Pamfilo Castaldi, loro concittadino e buon umanista, conosciuti gli studj del Guttenberg per istampare, a Faust suo discepolo additasse che si potrebbe far meglio che con tavolette stereotipe, cioè formar le lettere distinte, come quelle che già si usavano dai mercanti per far le iniziali e intestazioni sui loro libri. Si parlò molto questi ultimi anni di tale gloria; ma l’asserzione del cronista frate Cambiuzzi non è appoggiata a nessun documento. I meriti del Guttenberg sono chiariti da Ambrogio Firmin Didot nella _Nouvelle Biographie générale_. [175] _Annali della stampa in Italia._ 1465. Subiaco. 1467. Roma. 1469. Venezia, Parigi, Milano, il poema sacro di Aratore e le epistole latine di uomini illustri: ma non sono ben sicuri; bensì _Alchuni miraculi de la gloriosa Verzene Maria_ per Filippo Lavagna, che portò la stampa a Milano, con Antonio Zarotto e Cristoforo Valdarser. 1470. Verona, Foligno, Pinerolo, Brescia. 1471. Bologna, Ferrara, Pavia, Firenze, Napoli, Savigliano. 1472. Mantova, Parma, Padova, Mondovì, Jesi, Fivizzano, Cremona. 1473. Messina. 1474. Torino, Genova, Como, Savona. 1475. Modena, Piacenza, Barcellona, Cagli, Casole, Perugia, Pieve di Sacco, Reggio di Calabria. 1476. Pogliano, Udine. Primo libro greco a Milano. 1477. Ascoli, Palermo. 1478. Cosenza, Colle. 1479. Tuscolano, Saluzzo, Novi. 1480. Cividale, Nonantola, Reggio. 1481. Urbino. 1482. Aquila, Pisa. 1484. Soncino, Chambéry, Bologna, Siena, Rimini. 1485. Pescia. 1486. Chivasso, Voghera, Casalmaggiore. 1487. Gaeta. 1488. Viterbo. 1490. Portese. 1495. Scandiano. 1496. Barco. 1497. Carmagnola, Alba. [176] SERRA, _Discorso_ IV, pag. 215. [177] Impressa per _magistrum Dionysium Paravisinum_ con caratteri, dicesi, fusi da Demetrio Cretese. A Milano si stampò nell’80 Esopo e Teocrito; nell’81 il Psalterio greco. Vedasi HUMPHREYS, _A history of the art of printing_. [178] Renouard scrisse, negli _Annales des Aldes_, che _Manuce occupa et occupera longtemps et sans aucune exception le premier rang parmi les imprimeurs anciens et modernes._ La lode parve esagerata a Firmin Didot, che dice doverglisi eterna riconoscenza per l’attività adoprata a pubblicare tanti classici, e per la bella esecuzione tipografica; ma lo appunta di scarsa correzione, e allega un passo di lettera, ove Aldo dice d’essere così occupato, che appena ha tempo, non che di correggere, di scorrere i libri che stampa: _Vix credas quam sim occupatus. Non habeo certe tempus, non modo corrigendi, ut cuperem, diligentius qui excusi emittuntur libri cura nostra, sed ne perlegendi quidem cursim_. Di lui discorse pienamente esso Ambrogio Firmin Didot nell’_Alde Manuce et l’Hellenisme à Venise_. Parigi 1875. [179] Il primo libro in Italia ove il disegno figurasse bene negli intagli stampati insieme coi caratteri, o, come diciamo oggi, illustrato, è l’_Ypnerotomachia_, per Aldo, nel 1499, con belle figure che sono del Mantegna o almeno della sua maniera. Sono a tratti, e l’ombra è indicata da linee più o men lunghe. Ma già le favole d’Esopo, stampate a Verona il 1481 e a Venezia il 1490 con intagli, e quelle di Napoli del 1485 in 4º grande, ne hanno 87, però grossolani. Nel 1497 maestro Lorenzo de’ Rossi di Ferrara stampò molti libri, con figure a tratti, quali la _Vita et epistole di sancto Jeronimo_; il Boccaccio _De claris mulieribus_, ecc. [180] Esiste il contratto tra il celebre frà Jacopo Filippo Foresti e lo stampatore Bernardino Benaglio di Bergamo per l’edizione del supplemento alle _Cronache_ d’esso frate, il 7 gennajo 1483. Dovevano stamparsi in Venezia a non più di seicentocinquanta copie; l’autore promette rilevarne ducento a novanta marchetti per copia. Egli intendeva dedicar l’opera al magnifico Marcantonio Morosini nobile veneto «se lui vole exborsare sedici ducati per lo correctore; et casu quo non pagasse ditti sedici ducati, non ge la debba intitulare, sed a chi parerà a ditto frate Jacopo Filippo». Realmente la intitolò alla città di Bergamo, che gli regalò cinquanta ducati d’oro, da lui adoperati a vantaggio del proprio convento. TIRABOSCHI, tom. VI. l. c. IV. §32. [181] I privilegi concessi ad Aldo furono pubblicati da Armand Baschet. Venezia 1867. [182] Nell’archivio di Siena, _Denunzie_ del 1491, Bernardino di Michelangelo Cignoni scrive: — Pell’arte mia non si fa niente; pell’arte mia è finita, per l’amore dei libri, che li fanno in forma che non si miniano più». [183] _Tachygraphia veterum exposita et illustrata ab_ ULRICO FRED. KNOPP. Manheim 1817, vol. II. Sì poco sperava nella riconoscenza de’ contemporanei, che vi antepose questa scoraggiata dedica_: Posteris hoc opusculum, æqualium meorum studiis forte alienum, do, dico atque dedico._ [184] Tripudiamo anche noi col bibliotecario Maj, allorchè, di sotto ai versi di Sedulio, gli apparve Cicerone: _O Deus immortalis! repente clamorem sustuli. Quid demum video? En Ciceronem, en lumen romanæ facundiæ, indignissimis tenebris circumscriptum! Agnosco deperditas Tullii orationes; sentio ejus eloquentiam ex his latebris divina quadam vi fluere, abundantem sonantibus verbis, uberibusque sententiis._ [185] Vedi SACCHETTI, _Nov_. 178; e le canzoni di esso pubblicate nel _Giornale arcadico_, febbrajo 1819. Della mania d’imitar le foggie e i parlari stranieri move lamenti anche il Petrarca. Vedi MURATORI, _Antiq. M. Æ._, diss. XXV. [186] _Storia fiorentina_, IX. [187] Historia di Conforto Pulice. _Rer. It. Script_., tom. XIII. [188] Il gallo era lo stemma di Murano. [189] _Cronaca veneziana_, § 266. A Venezia era un magistrato suntuario, i provveditori sopra le pompe. [190] _Delizie degli eruditi_, XI. 162. [191] V. DU CANGE _ad vocem_. Egli cavò questo cerimoniale da un manoscritto di Cambrai. [192] _Paradiso_, canto XIV. 104. [193] Lib. II. c. 36. [194] Vedi PEZZANA, _Storia di Parma_, vol. III. doc. X. XV. [195] Nelle _Antichità estensi_, vol. II, p, 376, può leggersi la distinta del ricchissimo corredo che Giulia della Rovere figlia del duca d’Urbino portò con ventimila scadi d’oro di dote sposando Alfonso II d’Este nel 1549. [196] Del 1192, nel _Codice Eceliniano_ del Verci. [197] _Conto de’ tesorieri generali di Savoja_. [198] _Dummodo prædicta Lucia marito suo per carnalem copulam se non commisceat, sine speciali licentia in scriptis; nec cum alio viro rem habeat, nobis exceptis, si forte cum ea coire libuerit aliquando_. Manoscritto dell’archivio Trivulzio. [199] GHIRARDACCI, _St. di Bologna_ al 1313. [200] DI COSTANZO, _St. di Napoli_, lib. IX. [201] Anche quando Carlo V volle nel 1536 salire all’apertura della cupola del Panteon a Roma, un tal Crescenzi, che ve l’accompagnò, disse a suo padre essergli venuto il pensiero di buttarlo giù, per vendetta del sacco di Roma. E il padre: — Figliuol mio, queste cose si fanno e non si dicono». _Relazione del sacco di Roma_, manoscritto nella Vaticana. [202] BLANQUI, _Hist. de l’économie politique_, introd. — Vedi l’_Appendice_ IX. [203] LANDINO, _Apologia de’ Fiorentini_; VARCHI, _Storia_, lib. IX. Secondo il Dati, _Cronaca_, p. 128, i Fiorentini nella guerra col papa dal 1395 al 68 spesero fiorini d’oro 2,500,000 nella seconda contro il conte di Virtù dal 1375 al 98 » 1,800,000 nella terza dal 1401 al 4 » 2,500,000 nella guerra di Pisa del 1405 » 1,500,000 laonde in dieci anni di guerra avrebbero speso centrentotto milioni de’ nostri. [204] _Elogio storico_, nella _Serie di uomini illustri toscani_. [205] Presso MANNI, _Illustrazione del Decamerone_, pag. 431. [206] _Archivio storico_, IV. [207] Vedi i _Ricordi storici_ di F. RINUCCINI. Firenze 1841. — Perchè queste cifre avessero significato positivo, bisognerebbe paragonarle con quelle d’altri paesi: ora nulla è più incerto nelle storie che le cifre, nè più difficile che il depurarle. In un’altra opera noi offrimmo de’ paragoni; qui diremo come un atto del parlamento inglese del 1496 regolasse il salario del contadino in scellini sedici, soldi otto all’anno, oltre quattro pel vestito. In quell’anno a lady Anna, sorella del re Edoardo IV, sposata al figlio del conte di Surrey, fu assegnato per suo «mantenimento, decoro e tavola conveniente; e per un gentiluomo, una dama, una donzella, una gentildonna, una guardia, tre mozzi, ottanta lire sterline l’anno, e ventisei pel mantenimento di sei cavalli»; sicchè a una famiglia così ben montata bastavano circa duemilaseicento franchi d’oggi. Secondo Fortescue, a metà del 1400 i Francesi «non bevono che acqua; mangiano pomi e pane di riso, non carne, o al più un po’ di lardo o le interiora e la testa degli animali macellati pei nobili e pei mercanti; non vestono lana, o al più una ruvida giubba, e così i calzoni che arrivano appena alle ginocchia, lasciando nude le gambe. Donne e fanciulli vanno scalzi». Vedi F. M. EDEN, _Storia dei poveri_, vol. I. p. 70 e seg. [208] GIOVANNI VILLANI, cap. X. p. 164. [209] _Cronaca_ del GRAZIANI al 1448. [210] _Antonii Astesani carmen_, cap. VIII. IX. [211] _Archivio storico_, XIII. 316. [212] _Archivio storico_, XIII. 53, Appendice IX. 234. [213] _Cronaca_ del GRAZIANI. [214] _Circulus Pisanus_, 25. [215] La sentenza motivata, del 1327, porta ch’egli confessò che un uomo poteva nascere sotto una costellazione che necessariamente lo costringeva a peccare, ed altre eresie che toglievano a Dio la potenza e all’uomo il libero arbitrio. «E ciò reiterando ed affermando e credendo, disse di più che Firenze era fondata sotto il regno dell’ariete, e Lucca sotto quello del granchio; e che per ciò, se i Fiorentini andassero contro, sarebbe avverata la sua profezia ecc.». [216] _Quis tecum consulet astra_ _Fatorum secreta movens, aut ante notabit_ _Successus belli dubios, mundique tumultus,_ _Fortunasque ducum varias?_ [217] _Storie fiorentine_, X. 83. [218] Vedi le sue prediche, edite dal Manni, pag. 99-105, e specialmente quella del 7 gennajo 1303. Sta nella biblioteca Estense un breviario manoscritto del 1480, d’elegantissima lettera e miniatura, cui precede un calendario dove sono notati i giorni infausti (_ægyptiaci_) e le ore, con versi a ciascun mese. Per esempio, al gennajo: _Prima dies Jani timor est, et septima vanis,_ _Nona parit bellum, sed quinta dat hora flagellum._ [219] _Ex conjunctione saturni et jovis in principio arietis, quod quidem circa finem novemcentum et sexaginta contingit annorum,... totus mundus inferior commutatur, ita quod non solum regna, sed et leges et prophetæ consurgunt in mundo... sicut apparuit in adventu Nabuchodonosor, Moysis, Alexandri Magni, Nazarei, Machometi_. Conciliator controv., fasc. XV. [220] Nell’_Istoria miscella di Bologna_. Rer. It. Script., XVIII, al 1422. [221] FACIO, lib. IX; PANORMITA, lib. IV. [222] TARGIONI TOZZETTI, _Relazione di viaggi_, XI. 266. [223] VESPASIANO, _Vita di Pietro Pazzi_. [224] TRISTANI CALCHI, _Nuptiæ Mediol. Ducum_, VI. [225] _Diario dell_’INFESSURA. _Rer. It. Script_., part. II. p. 1143. [226] _Heu nequam gens judaica,_ _Quam dira præsens vesania._ _Plebs execranda!_ [227] Per esempio, un _Giudizio di Vulcano, Clitennestra_, ecc. Vedi principalmente MAGNIN, _Origini del teatro_, 1839. [228] _Antiq. M. Æ._, diss. XXIX. [229] NOSTRADAMUS, _Vite de’ poeti provenzali_; CRESCIMBENI, _Storia della vulgare poesia_, tom. II. part. I. p. 44. [230] Quali il don Pasquale e il Cassandrino de’ Romani, la Bonissima e il Sandrone di Modena, la Mariola di Ravenna, lo Stenterello e le Pasquelle de’ Fiorentini, i Travaglini de’ Siciliani, i Giovannelli de’ Messinesi, il Gianguigiolo de’ Calabresi, il Beltrame de’ Milanesi, cambiato poi nel Meneghino, il Girolamo e il Gianduja dei Piemontesi, ecc. [231] Dai _Diarj_ mss. di Marin Sanuto, vol. XXXII, fol. 341, si vede il lotto usato a Venezia, e disapprovato. Sotto il 22 febbrajo 1522 egli scrive: — La mattina non fu nulla da conto nè lettera alcuna, solum si attende a serar un altro lotto di ducati seimila, posti per Zuane Manenti sanser con ducati dieci per uno, e a lui tre per cento di utile. Li mazor precj sono ducati cinquecento l’uno, et sono precj... et fo serato; posto uno di cinquemila, et do di quattromila l’uno: et domenica poi disnar si caverà nel monastero di san Zuan e Polo... Et nota, il predicator di san Zuan e Polo, ozi a la predica, qual è di grandissimo onor e nome, fece assai parole su questi lotti, parlando non è lecito, et si dovria proveder che non vadi drio. Ed io Marin Sanuto _palam locutus sum omnibus_, che se fossi in loco che potesse, provederia a questi lotti, e fin al serenissimo principe mandai dir ecc. ecc.». Tonti, banchiere italiano stabilitosi in Francia il 1650, immaginò una lotteria, alimentata dal ricavo del pedaggio che pagavasi sul ponte reale di Parigi, costruito da azionisti, e il cui ricavo distribuivasi fra i sopravviventi di essi, fino alla morte dell’ultimo. Erano cinquantamila viglietti da quarantotto lire ciascuno, e da ciò cominciarono quelle assicurazioni fortuite sulla vita, che si dissero _tontine_. Con combinazioni del modo stesso si fabbricarono San Luigi, San Rocco, San Nicola, la cupola del Panteon ed altre chiese. [232] San Pier Damiani, lib. I. ep. 10, rimprovera agli ecclesiastici la caccia, la furia di fare a dadi e a scacchi, che mutano un sacerdote in mimo. Il Cortusio (_Rer. It. Script_., XII. 73) dice che il nobil uomo signor Rizardo di Camino, _alla foggia de’ nobili_, giocava per sollazzo agli scacchi. Galvano Fiamma scrive che i nobili si tratteneano giocando a dadi e scacchi. Nello _Statuto dell’arte di Calimala_, al lib. II. § 6: — Niuno tintore, affettatore o riveditore lasci giucare di dì nè di notte ad alcuno giuoco di dado o d’altro, dove alcuna cosa si possa perdere, in sua bottega; salvo che di dì si possa giucare a tavole o a scacchi palesemente; o a pena di lire dieci per ogni volta». Anche lo statuto di Pisa del 1284 proibisce ogni giuoco, eccetto che in pubblico le tavole, gli scacchi e il trucciare (_ad pistellandum ova_) in quaresima. Pascasio Giudico, medico viaggiatore del XVI secolo, passando da Pavia vi scrisse un trattato _De’ giuochi di rischio e della malattia di giocar danaro_; opera ove tentava guarir se stesso, ma invano. Riferisce molti aneddoti, fra cui d’un Veneziano che giocò la propria moglie; d’un altro che, giocato tutta la sua vita, volle continuare anche dopo morto, ordinando che della sua pelle si rivestisse un tavolino da giuoco, e delle sue ossa si facessero dadi. [233] _Fabulas scriptas in libris, qui Romanzi vocantur, vitare debeant, quos semper odio habui_. Rer. It. Script., XI. [234] Lib. VIII. ep. 2, 3, 5 ecc. [235] Leonardo Bruno scrive che Nicolò Niccoli _nunquam verba duo latina, ob inscitiam linguæ stuporemque cordis ac enervatam adulteriis mentem, conjungere potuit_. La prima e più solita ingiuria che usavano tra loro, era il chiamarsi bastardi e figli di preti. [236] Vedasi DU CANGE alle voci _Avaria, Anchoragium, Carratura, Exclusaticum, Foraticum, Gabella, Teranium, Hansa, Haulla, Mensuraticum, Modiaticum, Nautaticum, Passagium, Pedagium, Plateaticum, Palifictura, Ponderagium, Pontaticum, Portaticum, Portulaticum, Pulveraticum, Ripaticum, Rotaticum, Teloneum, Transitura, Viaticum_. — MURATORI, _Antiq. M.Æ.,_ tom. II. col. 4. e seg. e 866. — WERDENHAGEN, _De rebus publicis Hanseaticis_, part. III. c. 20. — MARQUARD, _De jure mercatorum_, lib. II. c. 6. — FISCHER, _Geschichte des deutschen Handels_, tom. I. p. 526 e seg. — PEGOLOTTI ap. Pagnini, _Della decima_, tom. III. p. 301. [237] Nel 1233 i frati Minori di Spagna aveano scomunicato i mercanti genovesi perchè portavano merci agli infedeli. Gregorio IX ne li rimprovera, _cum non sit precipitanda excommunicationis sententia, sed preambula discretione ferenda_; e vuole non s’abbiano a considerare scomunicati se non quelli che portano ai Saracini ferro, legnami ed altre munizioni contro i Cristiani; solo in tempo di guerra s’ha a negar ad essi ogni cosa. _Liber jurium_, I. 930. [238] _Storia fiorentina_, lib. III. c. 80. [239] CIBRARIO, _Economia politica del medioevo_, pag. 82. — Fin ai tempi di Giovanni da Uzzano, cioè del 1440, un corriere di commercio impiegava da Genova ad Avignone 7 in 8 giornate » a Parigi 18 in 22 » da Firenze a Milano 10 in 12 » » a Roma 5 in 6 » » a Napoli 11 in 12 » » a Parigi 20 in 23 » » a Genova 5 in 6 » » a Londra 25 in 30 » [240] L’albinaggio durò fin a jeri, e in qualche paese non è tolto interamente. Al 2 agosto 1817 l’abolirono fra loro la Toscana e Parma; al 5 gennajo 1818 e 12 gennajo 1836 essa Toscana colla Sardegna; al 3 maggio 1816 colle Due Sicilie, colla Svezia e Norvegia; poi nel luglio 1821 con Lucca, nell’aprile 1829 colla Prussia, nell’aprile 1848 col Belgio; ecc.; al 10 luglio e 5 agosto 1854 la Sardegna col granducato di Baden. [241] _Nova consuetudo de statutis et consuetudinibus contra Ecclesiæ libertatem editis, tollendis._ Le costituzioni di Sicilia del 1231 comminavano pene contro chi togliesse le robe dei naufraghi, e condannavano a restituire: pure Carlo d’Angiò confiscò le navi de’ Crociati naufragate nel 1270. Corradino suo competitore, in un trattato del 1268 con Siena, rinunziava al diritto di naufragio. Uno statuto a Venezia del 1232 proibiva di porre le mani sui naufraghi di qualunque nazione fossero, e puniva chi non restituisse entro tre giorni: ciò non pertanto questa medesima repubblica fece un trattato con san Luigi nel 1268 per abolire il diritto di naufragio nei due Stati; e nel 1454 i magistrati di Barcellona erano ancora costretti a negoziare con quei di Venezia per ottenere lo stesso favore. D’ugual passo andavano le cose in Oriente: la stessa inutile protezione delle leggi, la stessa usanza degli abitanti delle rive, la stessa necessità di esenzioni imperiali. Il capo 46 dell’Assisa dei cittadini del regno di Gerusalemme, attribuita al re Amalrico II montato in trono nel 1197, non apportò che incompiuto rimedio all’abuso, circoscrivendo la confisca ad una parte della nave naufragata. Se i Musulmani lo praticavano contro i Cristiani, e questi contro loro, era una conseguenza delle reciproche ostilità. Trattati del 1265, 82, 83, 85, 90... contengono scambievoli rinunzie. [242] Rodoano Papanticola di Genova riceve da Otton Bono fiorini quindici, pei quali dà in ipoteca una casa in Garignano: _Locum de Galignano pignori; intrare, estimare facias, et nomine vendicionis possidere sine decreto et cetera; et si ibi defuerit, in aliis bonis meis adimpleatur._ 16 giugno 1158, cartulario del notajo Giovanni Scriba, dov’è accennato un altro modo sommario, qual è l’andare in possesso senza formole giuridiche e sentenza: che trovasi pure altre volte. Ciò è più chiaro in un atto del 1º agosto anno stesso, ove Baldo Pulpo e sua moglie danno a Guglielmo Vento _locum Vulturis_ (Voltri) _pignori; et si ibi defuerit, alia bona nostra; et nisi sic observaverimus, tua auctoritate et sine decreto consulum et nostra contradictione in eis pro duplo intrare posse..._; e la moglie rinunzia al senato-consulto Vellejano, al diritto d’ipoteca, alla legge Giulia dei poderi inestimati. Altrettanto si stipula il 7 novembre 1158. Vedi esso cartulario nei _Monum. Hist. patriæ_. [243] Buonaccorso Pitti fiorentino, dovendo avere mille fiorini dal conte di Savoja nel 1409, fece arrestare in Firenze Giovanni Marchiandi figlio del cancelliere di Savoja, nè lo rilasciò se non dopo ch’ebbe dato mallevadori. Nel 1393 Amedeo VIII di Savoja pagava milleottocento fiorini di un debito, pel quale si erano offerti di star prigionieri i tre più grandi baroni di Savoja; nel 1409 pagava un’indennità a Pietro Colombet, ch’era stato prigione per lui. Ap. CIBRARIO, pag. 403. Perciò gli uomini di Racconigi stipulavano con Manfredo marchese di Saluzzo al 12 dicembre 1198: _Si ipse marchio aliquem hominem Racunisii in fidejussione ponere voluerit, et ipse intrare noluerit, non inde eum causare debeat_. Monum. Hist. patriæ. _Chart_. II. [244] _Et si civitas, communitas, castrum vel villa, post dictam requisitionem non fecerint satisfieri... dummodo de valore rerum habitatorum faciat plenam fidem, vel saltem per unum testem de visu et scientia, et duos de publica fama, senator vel ejus judices debeant dare et concedere eis represaliam et licentiam et potestatem liberam capiendi de bonis et rebus civitatis et hominum illius terræ. Et teneatur senator ad petitionem illius qui privilegium represaliarum habere meruit, facere stagiri et sequestrari personas et bona illorum qui sunt de terris et locis._ Senatus populique romani statuta, lib. I. c. 143. [245] CALVI, _Efemer_., tom. II. p. 613. [246] _Monum. Hist. patriæ_, Leges municipales, pag. 206. [247] _Una cum hospitibus, qui per colles Alpium siti sunt pro peregrinorum susceptione_. Ep. 39ª di papa Adriano a Carlo Magno ap. BOUQUET. [248] _Antiq. M. Æ._, dias XXX. — Qui i mercanti sono considerati come un corpo, e di fatto a Lucca fondavano nel 1262 l’ospedale della Misericordia. [249] _Apud_ CARLI, _Zecche d’Italia_, tom. II, p. 173. — Nel 1308, i Fiorentini al Comune di Lucca scriveano: _Quia desideramus quod comune nostrum desiderium, quod inest nobis et vobis, felicem sortiatur effectum, tractatum est sæpe sæpius de concordia cum nostris mercatoribus per vos faciendo, circa spectantia ad passagia et gabellas etc_. Archivio storico, tom. VI, p. 16. Di là (p. 20) appare che in quell’anno gli Ugolotti e i Nerli fiorentini aveano fatto una società a Ala di Svevia per batter la moneta di quel paese. L’anno stesso, venendo da Venezia a Reggio cinque balle di panni dorati, e una di perle, anelli, panni, _libri_ ed altre preziosità, spettanti a mercanti fiorentini, furono prese da Ilo di Cannela e Nicolò da Luni e complici. Laonde il Comune di Firenze interessava il Comune di Reggio a procurarne la restituzione, riflettendo quanto onore e vantaggio traesse dal passaggio delle merci fiorentine (p. 24) Altre querele simili sono a leggervi. [250] _Monum. Hist. patriæ_, Chart. I. [251] Ivi, 1501. [252] _Monum. Hist. patriæ_, Chart. II. 1378. Vi sono pure le promesse che altri feudatarj fanno al marchese, di tener essa strada in buon essere. I Tortonesi e Genovesi nel 1233 stipulano di conservar la strada da Gavi a Serravalle, _ita quod non rumpetur, nec in ea offendetur per homines jurisdictionis Terdone... et si contrafieret, comune Terdone faciet damnum emendari, vel illud emendabit, et hoc donec contraria voluntas comunis Terdone appareret per denuntiationem factam comuni Janue per dies xv antea. Quod si strata rumpetur infra dicta loca Gavii et Serravallis per extraneos homines, qui non essent in jurisdictione Terdone, nec de habitantibus vel reductum habentibus in terra Janue, comune Terdone damnum illud pro dimidia emendabit. Et comune Terdone salvabit et assecurabit dictam stractam a Serravalle usque Terdonam, et a Terdona usque in districtum Papiæ etc_. Liber juris, tom. I. 955. Manfredo, marchese di Saluzzo, aveva preso le merci dei mercanti di Alba, col pretesto di salvarla dalle insidie degli Astigiani: onde quelli il supplicarono a restituirle, ed esauditi pagarono trecento lire e trecento soldi d’Asti, promettendo far che l’arcivescovo ritirasse la scomunica lanciata per questo eccesso, e ajutarlo nelle guerre contro gli Astigiani. 1181. [253] SCIPIONE AMMIRATO, _St. fiorentina._ I. [254] Valuto il tarì a franchi 2.20; la salma, a ettolitri 2.76. Vedasi il _Regestum Friderici_ nell’archivio di Napoli, pag. 309-356; CIBRARIO, _Economia_; BIANCHINI, _Storia delle finanze del regno di Napoli_. [255] L’importanza di questo vegetale è attestata dai regolamenti di tutti i paesi mercantili. Lo _Statuto di Lucca_, rub. CXXI (ap. TOMMASI, _Sommario_), proibisce di venderne, se non sia stato riconosciuto dai deputati sopra ciò. In Genova al falsatore di zafferano la prima volta si taglia la sinistra, la seconda è bruciato vivo con esso zafferano. [256] Il riso proviene dall’India e dalla Cina, ma è incertissimo il quando fu introdotto in Italia. Da un documento del _Codice diplomatico arabo-siculo_ di monsignor Airoldi, tom. II. part. II. p. 94, risulta che nell’880 in Sicilia si fece tal raccolto di riso, che bisognò stabilire un magazzino apposito. Il trattato di agricoltura di Pier Crescenzi non ne fa cenno; bensì ve lo introdusse il traduttore, che però fu di poco posteriore, cioè del 1300 cominciante. Le tariffe di Giovanni e Luchino Visconti mettono ancora il riso fra le spezierie; e lo importavano dall’Egitto e dalla Spagna i Veneziani nel secolo XV. Nel reame di Napoli pare introdotto dagli Aragonesi; e singolarmente abbiamo notizia che i duchi d’Atri ne fecero coltivare nel piano tra gli sbocchi del Tronto e del Pescara. Vogliono che Lodovico II di Saluzzo recasse da Napoli il riso nel Saluzzese, dove molto produceva nel 1525. Nel Novarese vuolsi introdotto nel 1521 dai soldati di Carlo V. Nel Vercellese accennano la sua coltivazione al 1552: quando anche nel basso Veronese Teodoro Trivulzio l’introdusse nelle terre di Zevio e Palu. Nella seconda metà del xvi secolo Lobelio vedeva vegetare il riso nella campagna milanese mediante le acque del lago Maggiore; ma già prima il Mattioli lo diceva «famigliarissimo nelle mense di tutta Italia». Vedi CAPSONI, _Della influenza delle risaje sulla salute umana,_ Milano 1851. [257] Pazientissimi computi fece il Pagnini, poi dietro ad esso il Cibrario nell’opera citata; pure vacilla anch’esso, nè sempre si appone, massime ne’ ragguagli; basti vedere la pag. 528. E tutti gli economisti versano in somma incertezza sul valore delle merci, perchè non si conosce bene la moneta di conto su cui valutavano i prezzi. Nel _Liber jurium_ di Genova, vol. I. p. 1170, è un inventario delle rendite di Andora, venduta dai marchesi di Clavesana al comune di Genova nel 1252; e vi sono specificati i frutti che i differenti villani devono in natura; i servizj di corpo, col valore approssimativo. Meriterebbe un commento, donde sarebbe illustrata la condizione de’ campagnuoli, al tempo stesso che il valore delle derrate. [258] Cioè Santhià. _Monum. Hist. patriæ_. Chart. I. 341. Amedeo V di Savoja, cadente il secolo xiii, affidava a cavatori fiorentini o lucchesi la ricerca de’ minerali del suo Stato; ed oro traevasi, nel 1279, da Champorcher in val d’Aosta; nel secolo seguente lavavansi le sabbie aurifere dell’Orco e dell’Amalone; argento si cavava a Groscavallo e ad Ala in val di Lanzo; argento e rame a Usseglio e Lemie. Nel 1496 Giovanni Swerstab di Norimberga pagava al duca Filippo III trecento fiorini d’oro l’anno per usar le miniere di val di Lanzo, e quelle di Montjouet in val d’Aosta, e di Macot e Aime in Tarantasia per un quinto dell’oro, un decimo degli altri metalli. Nel 1508 Carlo III consentiva ai signori d’Aviso le miniere di Beaufort e Montjoye nel Fossignì per un quinto dell’oro e dell’azzurro, cioè il cobalto; un decimo dell’argento, un quindicesimo dell’acciajo e dello stagno, un ventesimo del piombo, ferro, rame. Nel 1530 deputava gran mastro delle miniere il tedesco Lodovico Jung, perchè le facesse lavorare a conto dello Stato. Dappoi si trovarono altre miniere a Vinadio, Pesey, Alagna, Olomont, Usseglio e altrove, ma il ricavo ne fu sempre scarso. CIBRARIO, _Monumenti di Savoja_, pag. 283. [259] La più antica menzione delle Arti fiorentine è in un trattato del 1204 tra i Fiorentini e quelli della Capraja. _Hæc sunt sacramenta, quæ potestas et consules communis, consules militum, priores artium etc. fecerunt_. Ap. TARGIONI, tom. I. p. 66. _Viaggi_. [260] _Statuto dell’arte di Calimala_. Merita d’esser visto pei molti savj regolamenti, frapposti ad altri superflui, e attestanti una civiltà molto sviluppata. Vi sono sempre determinate le elemosine da dare alle famiglie e alle vedove degli associati. [261] Nel 1280 il conte Bertoldo, per indur pace fra’ Lambertazzi e Geremei, convocava i signori e il popolo, tra il quale i consoli delle compagnie del Leone, de’ Beccaj, de’ Lombardi, de’ Toscani, delle Stelle, della Branca, del Griffone, dell’Aquila, delle Spade, delle Sbarre, de’ Leopardi, delle Schife, delle Traverse, delle Ballerie, de’ Castelli, de’ Quartieri, delle Chiavi, dei Balzani, della Branchetta, de’ Vari, degli Stracciajuoli, comminando a ciascuna compagnia duemila marche se non comparissero. Quest’erano compagnie d’armi. Di arti erano quelle dei Cordovanieri, delle Stelle, de’ Cambiatori, de’ Mercanti, de’ Notari, de’ Caligari, de’ Calzolaj, de’ Pescatori, de’ Pellicciaj, vecchi e nuovi, de’ Linaruoli, de’ Conciatori e Cuojaj, de’ Drappieri, de’ Falegnami, de’ Muratori, de’ Fabbri, de’ Sarti, dei Bacilieri. Le arti in Genova verso il 1250 erano albergatori e osti, arcadori, balestraj, bambagiaj, barbieri, barilaj, sellaj, calzajuoli, calzolaj, cappellieri, cambiatori, correggiaj, coltellinaj, drappieri, funajuoli e fabbricatori di vele, fornaj, giojellieri, minutieri, orefici, macellaj, maestri di ascia, calafati, muratori, legnajuoli, conciapelli, pescatori, remolaj, sartori, canovaj, incettatori di grasce, scudaj, spadaj, speziali, tavernaj, tintori, tornitorj, facitori di travi e puntelli, ciotolaj; in tutto trentatre maestranze, e non v’appare distinzione di maggiori e minori. V. SERRA, Annot. al lib. IV; ma discordiamo da lui sul senso di _callegarii_ e _zotolarii_. Delle arti di Firenze si vedono gli stemmi scolpiti sul Magistrato della Mercatanzia, ora uffizio del Bollo; e sono per l’arte di Calimala aquila d’oro su balla bianca in campo rosso; pei cambiatori, fiori d’oro in campo vermiglio: pe’ giudici o notaj, stella d’oro in azzurro; pe’ medici e speziali, la Madonna col bambino in fondo rosso; pe’ lanajuoli, agnello bianco con bandiera vermiglia; setajuoli, porta rossa in campo bianco; per i pellicciaj e vajaj, vaj bianchi e celesti, e agnello con bandiera e croce. Delle arti minori portarono, i beccaj, montone nero in campo bianco; i calzolaj, tre traverse nere in campo bianco; cuojaj, scudo metà bianco e vermiglio; muratori e scarpellini, scure in campo rosso; oliandoli, leone rosso rampante con olivo; linajuoli, bandiera a metà bianca e nera; magnani, due chiavi legate in campo rosso; spadaj e corazzaj, corazza e stocco in fondo bianco; coreggiaj, un legno dimezzato per traverso; legnajuoli, palma verde con cassetta rossa al tronco; albergatori, stella rossa in bianco. Mantova nel 1208 aveva le corporazioni de’ giudici, notaj, fabbricatori di pannilani, calzolaj e conciatori, beccaj, ferraj, _rioberj_, pellicciaj, speziali, tessitori di lana, sartori, pescatori, merciaj, barbieri, venditori di panni a ritaglio, tintori di lana, fabbricatori di pignolati, tintori e cimatori di pignolati, _corregatores_, linajuoli; e caduna aveva quattro capi e altrettanti consiglieri; tutti i membri erano notati; restava escluso chi non avesse dieci anni, e i garzoni; ogni socio doveva una tassa annuale, col che e con altri proventi formavasi una cassa per soccorrere gl’infermi e per altre beneficenze; ciascun corpo decideva sulle cose risguardanti il proprio traffico, sino a certe somme. _Statuti_, lib. IV, rub. 1. [262] Non qui solo i monaci adopravano il loro ozio alle manifatture, ma stavano in mano loro, a tacere altrove, quasi tutte quelle d’Inghilterra e di Scozia. Balducci Pegolotti ricorda tutte le magioni de’ Premontresi, dell’ordine di Promuxione ecc., che faceano traffico. [263] G. VILLANI, _Storie_, XI, 93; _Della mercatura de’ Fiorentini_, II. 102. I prezzi del Villani sono da ragguagliare oggi al quintuplo. [264] Pag. 295. Nella _Tariffa milanese_ del 1216 son notati come capi d’importanza i panni comaschi; e il loro transito è pure indicato in una di Modena del 1306. [265] TARGIONI TOZZETTI. _Viaggi_. Nello statuto di Pescia 1340 è ordinato di piantar mori gelsi e otto pedali di fico ogni coltra di terra. Un bando del 3 aprile 1435 ordina in ciascun podere per lo meno cinque pedali di mori gelsi _bianchi_; e sotto l’effigie del pesciatino Francesco Buonvicini nel palazzo del Comune in quell’anno gli è dato lode d’aver portato alla sua patria questa pianta, Dalla qual nacque poi ricchezza tanta Che in ogni luogo si noma il Delfino. Negli statuti dell’arte di Por Santa Maria a Firenze è registrato che «nel 1423 per l’arte si cominciò a fare i filugelli in Firenze, e furono eletti sei cittadini a farci fare l’esercizio dei filugelli bigatti, e trarne la seta». Vincenzo Chiarugi nel _Saggio delle malattie cutanee sordide_, 1798, all’art. _Lebbra_, pag. 174, dice che fin dal 1186 in Toscana era istituito uno spedale per la cura de’ lebbrosi lavoranti di lana e seta. [266] MORBIO, _Codice Visconteo Sforzesco._ [267] _Antiq. M. Æ._, II. 332. [268] GIANNONE, _Storia civile_, XXVII. 3. [269] _Documenti al_ TOMMASI, _Sommario della storia di Lucca_, pag. 63. [270] MANNI, _De Florentinis inventis commentarius_; e PAGNINI, tom. II. p. 100. I tintori da antico ebbero uno spedale proprio, fondato con spontanee elargizioni. Le tintorie fiorentine conservano ancora l’antico credito, co’ perfezionamenti che vi recò il raffinarsi de’ preparati minerali. Il gallato di ferro dà il famoso nero; l’azzurro di Raymond, introdotto da questo nel 1811, fu perfezionato dal professore Andrea Cozzi, avvivando la seta tinta dell’azzurro di Prussia con un bagno di campeggio sostenuto da idroclorato di deutossido di stagno. L’arsenico solforato e il cromato di piombo furono applicati dal dottore Calamandrei alla tintura; oltre che vi si adoprarono vegetali comuni, come le bacche di ginepro ancora acerbe per far giallastra la lana, la pula di castagne pel color ceciato delle tele cotone, ecc. [271] Dal 1812 al 25 fu il maggior fiore di questa manifattura, che introduceva fin dodici in quattordici milioni all’anno; e v’ebbe qualche cappello che fu pagato sin mille lire. [272] ANDERSON, _Hist. commerc_., pag. 371. [273] MANNI, _Veglie piacevoli in Dino di Tura_. In Francia i falliti portavano berretto verde, messo loro dal boja dopo espostili alla gogna. Gli statuti di Casale Sant’Evasio pongono: _Quicumque captus et detentus, volens cedere bonis suis, admittatur ad bonorum cessionem... probet coram judice Casalis se stetisse in carcere comunis per dies sexaginta die noctuque, et ista probacione facta, voce preconis premissa, per servitores comunis in publica concione publice et alta voce super lapidem comunis cridet et protestetur, quod ipse talis captus cedit bonis, et omnia bona sua et presentia et futura, exceptis vestibus de dosso ipsius cedentis, libere dimittit, et relaxat creditoribus suis liberam licentiam accipiendi et auferendi ejus bona quocumque et ubicumque ea invenerint, eorum propria auctoritate, usque ad solutionem integram ejus quod habere debent... Et ille qui amodo cedet bonis, non possit habere aliquem honorem vel aliquod officium, qui vel quod descendat a comune Casalis. — Monum. Hist. patriæ,_ Leges 987. Nello statuto antico di Civitavecchia, tradotto nel 1451 e stampato nel 1853. il c. XXXVI del lib. I. porta: _Come se renunzia a li beni suoi dando le natiche al pietrone_. «Statuimo che qualunque renunzierà o vorrà renunziare li suoi beni, questi non usi quello beneficio nè lo possa usare salvo non renunziasse con le solennità et modo infrascritto. Cioè, tale volente renunziare a li beni deve uscire de la sala del palazzo del Comune et ire sino a la piaza del peso, e debanli andare nante li tubatori sonando colle trombe, intanto che, con nude le natiche, dica tre fiate _Cedo bonis_, che vuol dire renunzio et do luogo a li miei beni, percotendo le decte natiche così nude fortemente ne la pietra. Et poi questo deve stare un mese fora de Civitavecchia et suo distretto. Et questo non abbia luogo nelle femine, le quali possano renuntiare a li beni secundo la ragione comune, senza le predecte solennità». [274] _Liber jurium_, vol. I. p. 1180. [275] _Monum. Hist. patriæ_, Chart. II. [276] Lo statuto di Pisa del 1161, rubr. V. _De modo cognoscendi et judicandi_, già stabilisce la procedura mercantile sommaria: _Statuimus ut quæstio de marinaratici, et nauli, et mercibus amissis seu deterioratis in navi vel ligno, a consulibus maris summatim et extra ordinem dirimatur._ [277] Possediamo siffatti statuti di molte città italiane, e nominatamente di Trani e Amalfi, la cui _Tavola_ fu edita a Napoli nel 1844 dal principe d’Ardore, copiandola dai manoscritti del Foscarini: _Capitula et ordinationes curiæ maritimæ nobilis civitatis Amalphæ, quæ in vulgari sermone dicuntur la Tabula de Amalphu, nec non consuetudines civitatis Amalphæ._ Al testo del _Consolato de’ fatti marittimi_ suol precedere una nota, che indica i paesi dove quello fu accettato; per esempio, Roma nel 1075, Genova nel 1186; ma non ha aspetto d’autenticità. Carlo Targa e Giuseppe Maria Casaregi, giureconsulti genovesi, illustrarono il _Consolato_ in modo che i loro commenti divennero regola della navigazione del Mediterraneo. Il _Consolato_ sanciva che, in tempo di guerra, le merci neutre caricate dal nemico sono libere, e non possono sequestrarsi, mentre invece la bandiera neutra non protegge merce nemica. Al contrario, le città del Baltico sosteneano il mare libero, non per generosità e giustizia, ma perchè soli navigando quel mare, vi trovavano il proprio conto, senza concedere reciprocanza alle potenze belligeranti. Sono divergenze che furono dibattute nei libri, nei congressi e colle armi. [278] _Excipimus præstantias de mari, quas marinarii inter se facere consueverunt, et credentias quas socii tractores facere consueverunt: verbigratia quas faciunt in Sicilia ad moccobellum vocatus, vel alias similes._ Rubr. XLII. [279] Il marco d’oro che oggi vale lire 848, nel 1300 valeva lire 55.10; e quello d’argento lire 2.10: sicchè la proporzione fra i due metalli era: 22 : 1. [280] _De usurariis puniendis_, lib. I. tit. 6. «Questo iniquo e scandaloso traffico (del prestare) era il più favorito mestiere dei Lombardi... Di così pestilente costume ho io trattato altrove». Sono parole del buon Muratori, _Annali_ al 1226. [281] _Delizie degli eruditi toscani_, XIX. 97. L’aggiotaggio all’alto e basso è perfettamente descritto da Marchione di Coppo: «Molti incantavano del Monte (del debito), e diceano: _Lo Monte vale trenta per centinajo; io voglio poterti dare da oggi a un anno, ovvero tu dare a me a trentuno per cento; che vuoi ti doni a far questo?_ e cadeano in patto, poi stava in sè. Se rinvigliavano, li comprava; se rincaravano, li vendeva, e ne permutava qua e là il patto, venti volte l’anno. Si pose su gabella fiorini due per cento a ogni permutatore». _Rubr_. 727. [282] Quella bolla, riferita dal Pezzana, _St. di Parma_, vol. III. dec. VII. 9, merita esser vista nella sua integrità pel patronato ivi estesissimamente professato. Quando Napoleone nel 1807 raccolse l’assemblea israelitica a Parigi, fu proposta e votata a grandi applausi questa deliberazione: — I deputati israeliti dell’impero francese e del regno d’Italia, penetrati di riconoscenza pe’ continui benefizj resi dal clero cristiano agli Israeliti ne’ passati secoli, e per l’accoglienza che i pontefici e molti altri ecclesiastici hanno usata agli Israeliti quando la barbarie, i pregiudizj e l’ignoranza li perseguitavano ed espellevano dalla società, stabiliscono che l’espressione di questi sentimenti sarà consegnata nel processo verbale affinchè rimanga eterna testimonianza autentica della gratitudine degli Israeliti di quest’assemblea pei benefizj che le generazioni precedenti hanno ricevuto dagli ecclesiastici». Nel 1436 il duca di Milano permetteva a una famiglia d’Ebrei di Mantova di stabilirsi in Como per dieci anni, co’ suoi fattori, socj ecc. L’uffizio di provvisione, cioè la municipalità di Como vi si oppose; ma il duca sostenne la concessione, dando la facoltà di tener banco, prestare a sei denari per lira al mese, aver esenzione da tutti i carichi reali e personali, coll’obbligo di pagare fiorini venticinque ogni anno al Comune. I Comaschi non potendo impedire, stanziarono però che gli Ebrei portassero un distintivo. [283] G. VILLANI, VII. 53. [284] PAGNINI, II. 54. [285] _Mémoires des Antiquaires de France; nouvelle série_, XVIII. 467. [286] MONTFALCON, _Hist. de Lyon_, pag. 735. [287] _Antichità estensi_, II. 48. [288] L’esempio di Cicerone, che incarica Attico di pagare in Grecia una somma, di cui esso gli farà i fondi a Roma, è l’unico di cambio fra gli antichi: ma trattavasi di un migrato da Roma, che quivi avea lasciato e beni e congiunti; sicchè era piuttosto un cambio d’amicizia che bancario. [289] Il Targioni (_Viaggi_, vol. II. p. 62) tolse da un copialettere del 1372 di un mercante di lana fiorentino questo: — Mandovi una lettera com quele di cambio di fiorini ducencinquanta avete a ricevere costà... Con questa vi mando una lettera di cambio di fiorini cencinquanta, avete a ricevere costà da Vieri di cambio per fiorini cencinquanta, n’avei qua a capo da me; quando gli avete, ponete a nostra ragione ecc.». Emiliani Giudici pubblicò due lettere di negozio del 1290 e 91, della ditta Consiglio de’ Cerchi e Compagni in Firenze, ove, tra altre belle cose, si legge: — Avemmo una lettera che ne mandaste per lo procuratore dell’abbate di Nostra Dama de’ Verucchi; ove ne scriveste che gli facessimo pagare a la corte del papa f. cento di sterlini per altrettanti che ne riceveste costà; onde avemgliele fatti ben pagare, e ancora avemo mandato che gli siano prestate altre f. cento se n’abbisognasse, sì come ne mandaste a dire; onde le procuragioni ch’avete, guardate; e noi per altra lettera vi scriveremo quello che gli prestassimo, e lettere che n’avremo vi manderemo». [290] Lodovico Luzi con documenti provò (Orvieto 1868) che in Orvieto fu eretto un Monte di pietà nel 1463; e Ariodante Fabretti che in Perugia nel 1462. [291] Nel 1483, 29 dicembre, Lodovico Gonzaga scriveva a frate Angelo Clavasio: — Questo devotissimo populo mantuano, mosso ed inducto de la predicatione, persuasione et efficacissime ragioni del venerabile padre frate Bernardino de Feltro, ha divisato lo laudabilissimo Monte de pietà; e a tanto bene è concorso lo signor marchese principalmente, e successive cittadini, plebei ed io». D’Arco, Nuovi studj sul Comune di Mantova. In Russia devono essere stati introdotti dai nostri quei monti che chiamavano i _Lombardi_, e sono una delle istituzioni più importanti dell’impero, prestando al sei per cento, mentre l’ordinario canone è dell’otto, dieci e fin dodici. [292] Un diploma di Corrado di Monferrato, dato da Tiro nel 1188, dice: _Donavi et concessi pisanis viris de societate Umiliorum quia mecum in Tyri defensionem pro honore nominis unigeniti filii Dei, totiusque christianitatis fideliter atque constanter permansere, furnum unum_ etc. [293] DU CANGE, _Glossarium_, tom. II. p. 43. _A Fulcone Cacio, cive placentino, capitaneo universitatis mercatorum lombardorum et tuscanorum, habente etiam potestatem et speciale mandatum a consulibus mercatorum romanorum, Januæ, Venetiarum, Placentiæ, Lucæ, Bononiæ, Pistorii, Astensium, Albæ, Florentiæ, Senarum et Mediolanensium_. [294] Se ne trovano stipulate alcune nel repertorio di Giovanni Scriba, ove anche il nome incontriamo in un documento del 24 aprile 1156: _Ego Bonusvassallus accepi in_ comendacionem _a te Wilielmo Filardo libras quinquaginta in panis etc._; e in un altro del 3 maggio seguente. [295] UGHELLI, _Italia sacra_, tom. IV. col. 871, che erra attribuendolo a Boemondo II. [296] Chi amasse minutissime particolarità di trattati di commercio, fondati sempre sulla gelosia e l’esclusiva, cerchi nel _Liber jurium,_ tom. I. p. 851, quello del 1229 de’ Genovesi coi Marsiglioti; e l’altro degli stessi del 9 novembre 1251, che riempie sedici colonne dei _Monumenta Historiæ patriæ_. [297] _Impositio officii Gazariæ_, pag. 326; _Capitulare nauticum_, cap. XXXV. [298] POGGIALI, _St. di Piacenza_, tom. VI. 31; TIGRIMI, _Vita di Castruccio_. Buonaccorso Pitti trafficava in Picardia, quando, essendovi sbarcati gl’Inglesi nel 1388, «feci compagnia con un Lucchese e con un Senese, e a nostre spese, con trentasei cavalli e bene armati andammo nel detto esercito, sotto il segno e condotta del duca di Borgogna». _Cronaca_, pag. 34. [299] MARSIGLI, _Ricerche sul commercio veneto_; FANUCCI, _Storia de’ tre celebri popoli marittimi dell’Italia_, vol. IV; PAGNINI, _Della decima della moneta e della mercatura de’ Fiorentini fino al secolo_ XVI. Lucca 1765; SERRA. _Discorso sopra il commercio, la navigazione e le arti dei Genovesi_; CARLO PAGANO, _Delle imprese e del dominio de’ Genovesi nella Grecia._ Genova 1852. [300] Sulla destra del ramo settentrionale del Don, a quattro miglia dal suo sbocco, fra i due villaggi che oggi si dicono Simarka e Nedvigovka. [301] Federico I nel 1162 concedeva un amplissimo privilegio a’ Genovesi, dove fra altre cose gli abilita a cacciare i Provenzali e i Francesi che vanno o tornano per mare da negoziare colla Sicilia, la Calabria, la Puglia e il Veneto; nelle terre dove vanno a mercatare, abbiano due o più Genovesi che rendano la giustizia fra loro; i loro mercanti possano valersi de’ pesi e delle misure proprie. _Liber jurium_. [302] E non vino, e così nella Borgogna; mentre a Parigi si spacciava vino di Napoli. _Pratica della mercatura_, cap. XLII. LIV. [303] Il vulgo genovese conserva ancora molte voci arabe: _Ramadan, camallo, tara, lalla, mandillo, marabotto, roboien, corba_... [304] Abbiamo l’inventario d’una nave, che andando all’Ecluse, fu spinta alla cala di Dunster. Portava due grosse botti di gengiovo verde, un barile di gengiovo in acqua di limone, una balla di arquinetta, tredici barili d’uve passe, nove di solfo, censettantadue balle di guado, ventidue di carta da scrivere, una cassa di zuccaro candito, sei balle di scatole vuote, un barile di prugne secche, trentotto balle di riso, cinque botti di cannella, un barile di polvere salmistra, e cinque balle di legno di bosso». [305] GIUSTINIANI, _Annali_, VI. [306] Se ne conoscono del 1302, 10, 19, 24, 32, 35, 42, 50, 62, 82. [307] Negli anni 1306, 17 e 20 Venezia fece trattati con Tunisi, nel 56 con Tripoli. Quattro trattati conchiusi fra la repubblica e i re di Tunisi della stirpe degli Afidi, ignoti agli storici di Venezia, sono dati dal barone de Hammer, _St. degli Osmanli_, tom. IV. p. 691. [308] Mille sono detti nei _Rer. It. Script_., XXII. 959. Il libro _Venezia e sue lagune_, al tom. I. p. 176, li farebbe diciannovemila; al tom. II. p. 151 dice che talvolta arrivarono sino a quattromila; a p. 253 accenna come il sommo tremila cinquecento. Tali discrepanze sono meno scusabili nelle monografie. [309] La galea grande, lunga di alto passi ventitre, piedi tre e mezzo, di piano piedi dieci, di bocca diciassette e mezzo, alta in coperta piedi otto, non ha opere morte; il timone a poggio movesi con una zanca per fianco. La galea di Levante era lunga di alto passi ventitre, piedi tre, di piano passi dieci con quattro vele. La sottile, passi sette e mezzo con tre vele, cioè come le nostre. La latina era lunga in colomba passi dodici, di piano piedi nove, piedi sedici in trepiè, ventiquattro in bocca, nove e mezzo in coverta, sedici in coverta lunga, il timone passi quattro, due battelli da piedi trentaquattro, una gondola da ventiquattro. La nave quadra era tredici passi in colomba, di piano piedi nove e un quarto, diciassette e mezzo in trepiè, ventisei e mezzo in bocca, e caricava trecento botti. Le descrive uno che vi serviva nel secolo XV; manoscritto della Magliabechiana, classe XIX. cod. 7. Le carrache erano i legni più grossi dopo i vascelli propriamente detti, e portavano fin millequattrocento barili, aveano tre ponti, e più tardi n’ebbero fin sette. Le galeazze aveano anch’esse un castello di prua e uno di poppa, tre alberi, vele latine e trentadue banchi di rematori. È quasi inesplicabile la rapidità delle costruzioni navali. Jacopo da Varagine (_Rer. It. Script._, IX. 17) attesta che dal 15 luglio al 15 agosto 1297 la Repubblica genovese allestì ducento galee da ducenventi uomini almeno ciascuna: nel 1284 ne allestirono settanta in tre giorni. Venezia in men di cento giorni preparò una flotta: presente Enrico III, in due ore fu posta insieme una galea e varata: nel 1569 distrutto l’arsenale dall’incendio, nel seguente uscivane la flotta che disfece la turca a Lépanto. [310] _Ep. seniles_, lib. II. ep. 3. [310a] Nell’Appendice XXIX dell’_Archivio storico italiano_ si pubblicarono documenti che rischiarano il commercio de’ Veneziani coll’Armenia e con Trebisonda. In questa città i Veneziani ebbero privilegi amplissimi fin dal 1201, più volte confermati, e quartiere fortificato, al par de’ Genovesi; colle conquiste russe perì la prosperità di Trebisonda, ma in questi ultimi anni tornò importantissimo scalo per l’estremo Oriente. [311] Tali sono, fra gli altri, due trattati del 1327 con Como e Brescia. [312] MALIPIERO, _Annali_, 666, 715, 717. [313] Ragusa anticamente area trattati di commercio con Fermo, Recanati, Rimini, Ravenna, Ferrara (APPENDINI, _Notizie storiche della città di Ragusa_); e prima ancora con Napoli, Siracusa, Messina, Barletta ecc.; dappoi si ridusse in dipendenza di Venezia, che vi teneva un conte a governarla con patti stabiliti. [314] _Rer. It. Script_., XI. 142. [315] _Libri di divisamenti di paesi, di misure di mercatanzie, ed altre cose bisognevoli di sapere a mercatanti di diverse parti del mondo_; edito dal Pagnini. [316] Fin dal 1422 entrò in trattative col soldano d’Egitto pel commercio d’Alessandria e della Siria, e col signore di Corinto in Romania, e conchiuse con loro vantaggiosi trattati; uno del pari nel 1425 coll’Inghilterra, che rinnovò nel 1490; coll’imperatore greco nel 1438; col re d’Aragona nel 1450. Nel 1487 e 88 rinnovò le trattative coll’Egitto per favorire la propria navigazione ad esclusione degli stranieri. Fra i canti per mascherate n’è uno di mercanti fiorentini, che tornati arricchiti, esaltano il girare il mondo e guadagnare, poi rimpatriati ajutare chi n’ha bisognò; ed esortano ad avviare a ciò i figli, anzichè lasciarli perdersi nell’ozio e ne’ vizj. [317] «Il sintraco (come a dire sindaco) deve aver tre mine di sale da ogni legno che vien di Sardegna con sale; se venisse di Corsica e avesse fatto cambio, n’avrà tre mine di grano; una mina da ogni legno che venga dalla Marittima e da Romania. Da ogni legno che va in Corsica, abbia una mina di grano; da ogni legno di sale di Provenza, tre quartini di sale; da ogni galea che va in corso oltre Sardegna o in Ispagna, un marabotico; da ogni legno che vien di Sicilia, due mine. Nelle principali feste pranzerà coll’arcivescovo. Tocca a lui ordinare le guardie delle città, e riconoscere se furono fatte; convocare il popolo, battere i ladri e malfattori secondo l’ordine de’ consoli, e fare i bandi per la città e per tutto il vescovado; entrar nelle case a ricevere i pegni, e quando spira vento d’aquilone andare per la città, pel castello e pel borgo ad avvertire che badino bene al fuoco. Il sabato santo custodirà le porte di San Giovanni finchè l’arcivescovo e i canonici vengano a benedir le fonti». Liber jurium, pag. 79. [318] _Lettera di_ Benedetto Dei _per difesa della mercatura dei Fiorentini contro le ingiurie sparse da alcuni mercadanti veneziani_. Vedi nel vol. II del Pagnini. [319] Nel 1505 per la prima volta Firenze tirò grano dall’Inghilterra per cinquantamila scudi d’oro, e duemila moggia da Linguadoca. NARDI, _Storie fiorentine_, lib. IV. [320] Nel 1499 i Salviati riceveano da Filippo d’Austria, duca di Borgogna, in pegno per quattromila fiorini grossi, trecentoventi centinaja di lana d’Inghilterra, e un famoso fiordaliso, vale a dire un reliquiario di oncie diciannove fiorentine, con crocifisso nero, quarantuno balasci, trentasei zaffiri, nove smeraldi, cinquantacinque rosette d’oro con quattro perle in ciascuna e un diamante acuto, e la corona con quattro perle a pera, un diamante grosso e trentotto perle. [321] Klaproth preparava l’edizione del _Milione_ di Marco Polo con commenti e colla carta analizzata dei paesi da lui visitati; e doveasi stampare a spese della Società geografica di Parigi: ma non potè compirla. Parrebbe a credere fosse scritto originalmente in veneziano, dialetto dello scrittore. Il padre Spotorno sostiene che, nella lunga lontananza, esso doveva aver dimentico l’idioma patrio, e che Andalon del Negro genovese lo scrisse in latino, sopra relazione del Polo stesso. I migliori ora tengono che Rusticiano da Pisa lo stendesse in francese, man mano che lo raccoglieva dalla bocca di Marco suo compagno di carcere. Il testo più genuino pare quello che pubblicò la Società geografica di Parigi nel 1824. Di buon’ora il Milione fu mutato in toscano e in altre lingue, ma interpolandovi novità; nel che maggior licenza si prese il Ramusio nella sua _Collezione di navigazioni_. Nel 1844 fu stampato a Edimburgo da Murray con copiose note illustrative; in tedesco da A. Bürck (_Die Reisen des Venezianers M. Polo_. Lipsia 1845) sopra le migliori edizioni, e con aggiunte di C. F. Neumann, che viaggiò i luoghi stessi, e che trova esattissimo il nostro Veneziano. Un’edizione italiana fu procacciata a Venezia il 1847 da Vincenzo Lazari, traducendo l’edizione del 1824, liberando il testo dalle aggiunte Ramusiane, e arricchendola di note. Il tenente Wood della marina britannica dell’India, il quale scoperse le vere sorgenti dell’Oxo nel 1829, dice esattissima la descrizione che di que’ paesi fa Marco Polo. * Il colonnello Enrico Yule, del corpo degl’ingegneri nel Bengala, stampò a Londra nel 1871 _The book of sir_ Marco Polo _the venetian, newly translated and edited with notes_, 2 volumi con mappe e figure e dissertazioni sulla vita, la famiglia, il carattere di M. Polo, e con abbondanti notizie geografiche, etnografiche e filologiche. [322] Vedi BIZZARRO, _Hist. rerum persicarum._ [323] GRABERG DE HEMSÖ, _Annali di geografia_; gennajo 1803. [324] _Idem videtur sentire noster Georgius, vir in peragrando orbe atque indagando terrarum situ diligentissimus,_ dice Antonio Galateo, che tratta la stessa quistione nel libretto _De situ elementorum_. [325] _Genealogia degli Dei_, lib. XV. [326] _Ep. famil_., lib. VI. 3. [327] TIRABOSCHI, tom. VI. l. 1, c. V. § 2. [328] ZANETTI, _Origine di alcune arti presso i Veneziani_, p. 46. [329] ZURLA, _Il mappamondo di frà Mauro descritto ed illustrato_. Venezia 1806; opera debole. Nel trasportare questo prezioso monumento da San Michele di Murano al palazzo ducale, si potè meglio esaminarlo; e a spalla vi si trovò scritto: MCCCLX adi XVI _avosto fo chomplido questo lavor_. È singolare vedervi in Africa accennato il _Dafur_, che è il Darfur, ignoto fin quando Bruce lo visitò ai giorni nostri: prova che frà Mauro si valeva di relazioni o perdute o mai non scritte. Nel congresso geografico del 1875 si trattò di tutte queste e di altre mappe. [330] FOLIETTA, _Hist. gen._, lib. V. [331] Il Petrarca (_De vita solit_., XII. sect. 6. c. 3) dice che all’età de’ suoi padri colà penetrò un’armata di Genovesi. [332] _Relazione della scoperta delle Canarie e d’altre isole dell’Oceano nuovamente ritrovate nel_ 1341; stampata da Sebastiano Ciampi a Firenze nel 1827. [333] Il Sadoleto, nel 1514, ne lo ringraziava a nome di Leon X per _elephantum unum indicum, incredibili corporis magnitudine, et pardum unum, et vestem destinatam rebus divinis. Erat ea species, ea pulchritudo nobilissimi operis, qualem nec vidissemus ante unquam, nec videre expectavissemus; is splendor, qui ex candore et copia tot gemmarum esse debebat; artem autem in eo et varietatem operum omnes plane confitebantur etiam pretiosiorem esse materia, cum diuturnus labor nobilitatem summi artificii, ordine et contextu mirabili margaritarum, antecellere omnibus indicis atque arabicis opibus coëgisset... Lectæ sunt literæ tuæ, scripta incertum elegantius an religiosius; te, quod primitiæ omnium rerum Deo dicandæ sunt, primitias Lybiæ, Mauritaniæ, Æthiopiæ, Arabiæ, Persidis atque Indiæ... nobis... dare ac dedicare_. [334] Quando naque Colombo? Nel 1430, o 36, o 41, o 45, 46, 47, 49, 55. — Dove? A Genova, a Cogoleto, a Bugiasco, a Finale, a Quinto, a Nervi sulla Riviera; a Savona o a Palestrella, o ad Arbizoli là vicino; o a Cosseria fra Millesimo e Carcare; in val di Oneglia, a Castel di Cuccaro fra Alessandria e Casale, a Piacenza, o a Pradello in val di Nura. Ciascuna di queste opinioni fu sostenuta con gran corredo di ragioni e di petulanze. Vedasi l’ultimo lavoro del marchese D’AVEZAC, _L’année véritable de la naissance de Colomb_ (Parigi 1873), che lo pone al fine del 1446, e le contraddizioni dell’americano Harris. [335] Dante indica le costellazioni del piede del centauro e della crociera del sud, invisibili al nostro emisfero. Io mi volsi a man destra, e posi mente All’altro polo, e vidi quattro stelle Non viste mai fuorchè alla prima gente... O settentrïonal vedovo sito Poichè privato se’ di veder quelle. _Purg._ I. I planisferi arabi e i nostri viaggiatori che arrivavano fino a Bab el-Mandeb, ne lo poterono istruire. La sua cosmogonia è siffatta: che l’emisfero boreale stava sott’acqua, e un gran continente era nell’australe opposto al nostro; Lucifero, _piovendo_ dal cielo per essere incarcerato nel centro della terra, spinse in su un cono di sollevamento, che forma la montagna del Purgatorio, sulla cui vetta ride il Paradiso: la massa arida agli antipodi si fece _del mal velo per paura_ di Lucifero, e nel nostro emisfero restò una _gran secca_, cioè un continente di cui è centro Gerusalemme. Questi sono concetti sistematici e poetici; e più importa il vedere precisamente designato da Dante il centro di gravità della terra, _il punto a cui son tratti d’ogni parte i pesi_. Vero è che Aristotele lo accenna e che il cronista Rolandino mezzo secolo prima di Dante scriveva, _Non aliter quam ad punctum terræ medium, quod philosophi centrum dicunt, ponderosa cuncta tendere naturaliter elaborant_ (Hist. Patavina, lib. XII. c. 9). Ammesso questo centro di gravità, non è più meraviglia che abitino uomini tutto in giro al globo. Il Petrarca nomina gli antipodi in un passo da noi citato nel volume vii a pag. 500; e nella canzone v scrive: Nella stagion che il Sol rapido inchina Verso occidente e che il dì nostro vola A gente che di là forse l’aspetta; e nella sestina I: Quando la sera scaccia il chiaro giorno, E le tenebre nostre altrui fan alba. I quali passi intarsiando il Pulci nel XXV del _Morgante_, fa dire dal demonio Astarotte che dappertutto «navigar si puote, Però che l’acqua in ogni parte è piana» benchè la terra sia rotonda; E puossi andar giù nell’altro emisperio Però che al centro ogni cosa reprime, Sì che la terra, per via di misterio, Sospesa sta tra le stelle, sublime; E laggiù son città, castella, imperio, Ma nol cognobbon quelle genti prime; Vedi che il Sol di camminar s’affretta Dov’io ti dico che laggiù s’aspetta. [336] Già Strabone comprendea la possibilità della circumnavigazione, «e se l’estensione del mare Atlantico non ci facesse ostacolo, noi potremmo, persistendo sotto il medesimo parallelo, navigare dalla Spagna fino all’India». _Geografia_, lib. II. E Seneca (_Quæstiones nat._), interrogandosi quanto vi sia dagli ultimi confini della Spagna fin all’India, risponde: — Lo spazio di pochissimi giorni, se il vento spiri in favore». [337] Nel 1488 Bartolomeo Colombo, fratello di Cristoforo, disegnatore di carte nautiche a Lisbona poi a Londra, donava a Enrico VII d’Inghilterra un mappamondo, che non ci è descritto particolarmente, ma dov’è questa rozza epigrafe: _Janua cui patria est, nomen cui Bartholomæus_ _Columbus de terra rubra, opus edidit istud_ _Londiniis A. D._ MCCCCLXXX _atque insuper anno_ _Octavo, decimaque die cum tertia mensis_ _Februarii, Laudes Christo canentur abunde._ [338] Quell’uffizietto sta nella libreria Corsini di Roma. — Di Colombo parlammo estesissimamente nella _Storia universale_ e negli _Italiani illustri_, e forse non senza novità. È notevole che egli non accenna mai Marco Polo, sebbene si fondi continuamente sulle tradizioni di quello. Nel 1670 Filippo re di Spagna donava alla repubblica genovese un codice in pergamena, foglio piccolo, legato in cordovano con mazzetto d’argento, e chiuso in una busta di cordovano con serratura d’argento. Era una raccolta fatta da Colombo stesso de’ proprj titoli a quella scoperta, e de’ privilegi venutigli; di cui fece fare due copie, spedendole a Nicolò Oderigo confidente suo, acciocchè le ponesse in luogo sicuro. Nelle ultime vicende di Genova andarono disperse. Una, portata a Parigi, fu ricuperata; l’altra si ritrovò nella biblioteca del conte Michelangelo Cambiaso, e il corpo dei Decurioni la comprò, e ne fece eseguire la traduzione dal padre Spotorno e la stampa, col titolo di _Codice diplomatico Colombo-Americano, ossia raccolta di documenti originali e inediti, spettanti a Cristoforo Colombo, alla scoperta e al governo dell’America_. 1822. [339] Ma Colombo dice precisamente che, al passare di un certo punto, cioè del meridiano magnetico, «come al passar d’una collina», l’ago, vôlto fin là a nord-est, piegava a nord-ovest. [340] ANGELO M. BANDINI, _Vita di Amerigo Vespucci_. Solo nel 1830, pei documenti pubblicati da Nugnes e Navarrete, si ebbe qualche certezza de’ costui fatti. [341] — Non erano passati molti anni che venne in Moscovia alla corte del suo principe un ambasciatore di papa Leone, nominato messer Paulo Centurioni genovese, sotto diversi pretesti; ma la principal ragione... era perchè il detto messer Paulo, avendo conceputo sdegno e odio grande contro Portoghesi, voleva vedere se poteva far aprire un viaggio per terra, che le spezierie venissero d’India per via dei Tartari e dal mar Caspio nella Moscovia». RAMUSIO, _Disc. sopra li viaggi delle spezierie_, vol. I. p. 374. [342] Epist. 152. [343] Il Roberston le adopera come tali, ma evidenti anacronismi le convincono scritte assai dopo il caso. Disopra della porta della chiesa di Siviglia dell’Oro alla Giamaica si leggeva: _Petrus Martyr ab Angleria italicus, civis mediolanensis, protonotarius apostolicus hujus insulæ, abbas, senatus indici consiliarius, ligneam prius ædem hanc bis igne consumptam latericio et quadrato lapide primus a fundamentis extruxit_. [344] _Isole trovate novamente per el re di Spagna_. L’ultima ottava dice: Questa ha composto de Dati Giuliano A preghiera del magno cavaliere Messer Giovan Filippo ciciliano, Che fu di Sixto quarto suo scudiere. Et capitano suo et capitano A quelle cose che fur di mestiere A laude del Signor si canta e dice Che ci conduca al suo regno felice. E il libro chiudesi con queste parole: — Finita la storia de la inventione delle nuove isole di Canaria indiane, tracta da una pistola di Christofano Colombo, et per messer Giuliano Dati tradocta di latino in versi vulgari a laude della celestiale Corte et a consolatione della christiana religione, et a preghiera del magnifico cavaliere messer Giovan Filippo di Lignamine, familiare dello illustrissimo re di Spagna christianissimo. A dì XXVI d’ottobre 1495, Florentiæ». Quali sono peggiori, i versi o la prosa? Certo nè gli uni nè l’altra invogliano a dissotterrare quel libro. Vedansi gli _Studj bibliografici e biografici sulla Storia della geografia in Italia_, pubblicati in occasione del Congresso Geografico di Parigi. Roma 1875. [345] Melchiorre Gioja vede nelle imposte «una forza di crescente proporzione, la quale non trova limite se non nella resistenza de’ popoli, e nel cuor de’ principi saggi». _Nuovo prospetto delle scienze economiche_, pag. 230. [346] Nel concilio Lateranese iv, sotto Innocenzo III, è sancito che l’indagine si faccia per trovar la verità, _coram ecclesiæ senioribus_; e si soggiunge: _Debet esse præsens is, contra quem facienda est inquisitio, nisi se per contumaciam absentaverit; et exponenda sunt ei illa capitula, de quibus fuerit inquirendum, ut facultatem habeat defendendi seipsum; et non solum dicta, sed etiam nomina ipsa testium sunt ei publicanda, ut quid et a quo sit dictum appareat; nec non exceptiones et replicationes legitime admittendæ, ne per suppressionem nominum infamandi, per exceptionum vero exclusionem deponendi falsum audacia præbeatur_. [347] Credesi che Pier Lombardo, per sollecitazione dei vescovi, sostenesse in Francia le ragioni de’ villani a segno da ottenere che anch’essi potessero portare lunghi i capelli, distintivo sin allora dei nobili, cioè della razza conquistatrice. Perciò la memoria di lui era celebrata annualmente dall’Università di Parigi. [348] Giovanni XXII avea pubblicato una bolla, ove diceva: — Per l’autorità conferitaci dall’eterno Padre e dai santi apostoli Pietro e Paolo, dopo matura riflessione, e udito il consiglio dei nostri venerabili fratelli, di piena nostra podestà separiamo l’Italia dall’Impero: riserbando a noi stessi di provvedere pel governo di essa; e facciamo ampio divieto d’entrarvi». _Provinciam Italiæ ab eodem imperio et regno Alemanniæ totaliter eximentes; ipsam a subjectione communitatum et jurisdictionum eorumdem regni et imperii separamus_. Il BALUZIO, _Vitæ Pap. Avenion_., i col. 704, la dà come falsa, ma come genuina la considera OLENSCHLAEGER, _Staatsgeschichte des römischen Kaiserthumes_, p. 249. [349] Allude al principato di Monaco. Tutto ciò fu scritto avanti le annessioni del 1860. [350] Touqueville (_De la démocratie_, II. 117) dice che la parola _patrie_ non si trova in nessun Francese prima del secolo XVI. Nota del Trascrittore Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. In particolare il testo in greco è stato trascritto tal quale, senza alcuna correzione. *** End of this LibraryBlog Digital Book "Storia degli Italiani, vol. 8 (di 15)" *** Copyright 2023 LibraryBlog. All rights reserved.