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Title: Federico Lennois Author: Mastriani, Francesco Language: Italian As this book started as an ASCII text book there are no pictures available. *** Start of this LibraryBlog Digital Book "Federico Lennois" *** FRANCESCO MASTRIANI PARTE PRIMA ROMANZI FRANCESCO MASTRIANI FEDERICO LENNOIS ROMANZO V Seguito del Romanzo IL MIO CADAVERE NAPOLI STAB. TIP. CAV. GENNARO SALVATI (Casa Editrice) Maddalenella degli Spagnoli, 19 Proprietà letteraria, dell’editore Cav. Gennaro Salvati acquistata con rogito per notar Tucci. _Parte Prima_ I. AUTEUIL Due creature, al pari gentili, al pari avvenenti, vestite con la studiata semplicità de’ villeggianti parigini, erano sedute all’ombra d’un gran tiglio, in un amenissimo parco, nelle circostanze d’Auteuil, presso Parigi. Queste due creature, di cui la mano dell’una riposava mollemente in quella dell’altra, erano fratello e sorella, Augusto e Isalina d’Orbeil. Comechè belli entrambi, i loro volti nondimeno erano al tutto differenti nel carattere e nell’espressione. Quello di Augusto, giovine di 24 anni all’incirca, era una copia perfetta di tutt’i belli e insipidi volti inglesi: lungo, biondo, spelato, occhi cerulei, naso affilato, fronte spaziosa e intelligente. Di botto si scorgea nelle sembianze di questo giovine una placidezza di temperamento, non soggetto ad alterarsi che nel caso di offese al suo infiammabile amor proprio: poco loquace, poco espansivo, il più lieve dolore fisico spremea lagrime da quel debil corpo, cui la più delicata e gentilesca educazione avea renduto vie più molle e insofferente. Il cuore di Augusto benchè rigonfio di alterigia, era proclive ad ogni gentil sentimento; ma la sua fibra non reggeva alla vista de’ mali e delle miserie umane: egli torceva con disgusto il guardo dagli accattoni e da’ mendici di strada, e non comprendea la vita senza gli agi e le ricchezze. Augusto era di quegli uomini pei quali la miseria è sempre un delitto, qualsivoglia ne sia la cagione. Un sentimento peraltro era da lui onorato in sommo grado, l’amicizia, incapace di grandi e bollenti passioni, egli era parimente incapace di mire basse e di volgari interessi; nobile per nascimento, per istinto, per tempera d’animo e di corpo, il fratello d’Isalina era amico sincero e cordiale, perocchè nimico di ogni interessata simulazione. Isalina, cui diciotto anni appena innostravano il volto di vaghe rose, era una bellezza interamente francese; ogni suo movimento era una grazia; ogni sua parola una rivelazione del gusto più fino e del sentimento più nobile. Amante riamata del più vago ed elegante giovine di Parigi, ella sarebbe stata felice se il suo amante non si fosse trovato da oltre un anno fuori della Francia. Ella sapea che ogni giorno era un novello cumulo di piaceri; e a diciotto anni la vita si slancia con ardore nel campo dell’avvenire; ne divora col pensiero le ardenti emozioni; l’immaginazione è sì ricca; l’anima è sì riboccante di affetti! A diciotto anni si ama tutto; si amano i fiori del campo, i colori dei tramonto, le nugolette passeggieri, si amano il riso e le lagrime. Isalina era l’idolo della sua famiglia, de’ suoi amici, ed in particolar modo del fratel suo; il quale l’amava con indicile affetto... La sua mano, da parecchi anni promessa a Giustino Victor, uffiziale della marina francese, era stata l’oggetto delle più vive speranze d’una schiera di signorotti che frequentavano la casa del Visconte d’Orbeil padre delle due gentili creature, di cui abbiamo abbozzato il ritratto con fugaci pennellate. Auteuil è uno de’ siti più pittoreschi e ameni che circondino la capitale della Francia, da cui non dista che una lega e mezzo. La moda, regina assoluta e dispotica in Francia, ne faceva al tempo da cui noi diamo principio al nostro racconto, uno de’ villaggi aristocratici, imperocchè, prescindendo dalla salubrità dell’aria e dalle belle campagne che invitano al raccoglimento e al riposo, racchiude questo circondario di S. Dionigi non poche rimembranze di gloria letteraria, avendo offerto amica stanza a Moliere, a la Chapelle, a Elvezio, a Condorcet, a Boileau e ad altri sommi, di cui le dimore vengono mostrate a’ riverenti viaggiatori. Il Visconte d’Orbeil, uno de’ più ricchi e ragguardevoli discendenti d’antica nobiltà di Francia, possedeva in Auteuil un magnifico parco e un casino che per la sua ampiezza e vetustà potea ben dirsi un castello, essendo convenuto a Parigi, tra le persone di qualche levatura, di addimandare _hôtels_ i più modesti palagi di città e _castelli_ le più pastorali casette di campagna. Ma è noto che la gran parte di supremazia che i Francesi vantano in fatto di civiltà, consiste specialmente nel dare grandi e bei nomi alle cose più semplici e comuni: la VERNICE ecco il prodigioso segreto di questa pretesa supremazia! In questo casino la famiglia d’Orbeil veniva a passare ogni anno la stagione estiva e gran parte dell’autunnale. Bello oltre modo è il parco attiguo al casino a sinistra un lago d’acqua si spiega come un lungo nastro cilestre tra due file di salici e di pioppi: a dritta si perdono alla vista una infilzata di case rurali da’ tetti rossi, dietro alle quali si alza quella nebbia sottile che dir si può la respirazione di Parigi. Varietà di passeggiate, simulate foreste e cascate, fontane zampillanti, tugurietti eleganti improvvisati nel mezzo di ombrosi padiglioni di alti alberi, spelonchette misteriose: asilo di voluttà per isvariate frotte di augelli: tutto questo era combinato eziandio colla parte di utilità; dappoichè un grandioso filatoio di cotone e un lanificio rompevano un poco a rispettosa distanza la poesia del parco, e gittavano un certo riverbero plebeo su i blasoni del Visconte, rivelando forse le prime sorgenti della sua famiglia. Tramontava un bel giorno di maggio. Il sole accompagnato da numeroso corteo di nugolette da’ vivaci colori, si adagiava mollemente sovra un letto di porpora e d’oro, e mandava su le lunghe zone di verdura i suoi pallidi raggi. Un’auretta gentile, correndo tra i roseti e i gelsomini ne rapiva la pura essenza e ne profumava la campagna. Tutto era quiete e raccoglimento all’intorno. Non si udiva che lo spirar di zeffiro lungo i filari di acere e di pioppi, e la lontana monotona voce delle lavoratrici, che tornavano dall’opificio di cotone, cantando le malinconiche canzoni de’ loro villaggi circonvicini. La luce si perdeva unitamente alle rimembranze del giorno nelle mille trasformazioni delle ombre cadenti. Le pianure lontane e le case campestri, che ne interrompevano a quando a quando la monotonia, incominciavano a disegnarsi come sfumi nel fondo di un quadro: i paesaggi diventavano masse più o meno scure: colonnette di fumo elevavansi in diversi punti dell’orizzonte e attestavano l’ora di pranzo degli stanchi operai, raccolti nel seno delle loro famiglie. La scena era malinconica, e in armonia perfetta con lo stato delle anime che abbiamo primamente presentate a’ nostri lettori. Augusto e Isalina erano immersi da una buona mezz’ora in quella vaga contemplazione della natura che ha tanta segreta dolcezza! Que’ due giovani erano così felici in quel momento! — Isalina, diceva Augusto dopo lungo silenzio, io non posso pensare senza dolore al giorno in cui ci sarà forza di vivere separati l’uno dall’altra. Ogni volta che i nostri genitori parlano del prossimo arrivo di Giustino e del tuo immediato matrimonio, io sento nel mio cuore una tal pena che tu non puoi comprendere. La gioia di rivedere il mio caro Giustino mi viene amareggiata dal pensiero della nostra separazione. Non ebbi mai più dolce amica di te, sorella mia; insieme educati nella casa paterna, cresciuti sempre a fianco l’uno dell’altra noi abbiam goduto degli stessi piaceri infantili; e appresso, ci siamo scambiati i più reconditi segreti dei nostri cuori. Oh! io non posso riandare, senza una tenerezza estrema, sui cari giorni della nostra fanciullezza! Oggi noi siamo felici, Isalina; ma quanto più lo eravamo in quell’età che è corsa con rapidità sì grande! Ricordi quando il mattino a primissima ora, chiesto il permesso al nostro aio, ci davamo a scorazzare per questo parco, ad arrampicarci su gli alberi, a sfidare al corso la lodoletta? Ricordi quando, attraversando la vasta pianura dell’_Usignuolo_, andavamo a trovare la mendica del platano, in fondo di quel suo tugurio scuro e affumicato? Tu le portavi talvolta qualche moneta o ristoro di cibo, ed io ammirava il coraggio che avevi nel toccare le mani di quella disgraziata inferma! Io mi rimanea sulla soglia di quel tugurio, non potendo vincere la ritrosia che mi ispirava quella miseria... Oh, sorella, la povertà dev’essere pur un’orribil cosa! Non so dirti come viva è rimasta in me la rimembranza di quella vecchia ammalata! — E ricordi tu, Augusto, chi era quella vecchia? — No, propriamente, io non rammento altro tranne che la si addimandava la _poverella del platano_, perocchè, come sai un enorme platano covriva coll’ombra sua quel tugurio. Noi salivamo tante volte sulle prominenze di quell’albero annoso, e di lassù vedevamo qualche mattina sorgere il sole dietro le mura del nostro castello... Rammentami dunque, Isalina; chi era quella vecchia? — Ella era la madre della tua nutrice, di _mamma Zenaide_. Il giovine si rabbruscò in viso; abbassò gli occhi, e mormorò: — Oh sì, davvero, or mi sovviene perfettamente! In quale stato di miseria fu ridotta la povera vecchia! — Dissero, soggiungeva Isalina, che quando morì delirava da far compassione... Immaginati, Augusto, che ella diceva ne’ suoi vaneggiamenti cose talmente strane e curiose da far ridere e piangere al tempo stesso! Diceva che sua figlia Zenaide era la sposa di un gran signore, d’un forestiero ricchissimo, il quale l’avea poscia abbandonata; che ella avea fatto un bel sogno nel quale erale paruto di vedere il figliuolo di sua figlia divenuto un signore di gran levatura. — Chi? interrompeva Augusto, raggrottando le ciglia, quello sporco e guitto monello, che, se ben ricordo si nomava Federico Lennois, e che ebbe una volta l’arroganza di scagliar delle pietre su Giustino Victor e su gli altri nostri amici? — Per lo appunto. Or bene, la vecchia diceva di aver veduto in sogno questo Federico nobilmente vestito, circondato da servi, e festeggiato da tanti amici! — Ah! ah! interruppe Augusto ridendo, io per me credo invece che egli sia morto nella prigione di ladruncoli, dove, ci si disse, venne gittato a Parigi. — La vecchia, ripigliava Isalina, diceva nel suo vaneggiamento cose assai strane: diceva che non volea più riveder sua figlia; non la facessero entrar nel suo tugurio. La poveretta dimenticava che Zenaide era morta! — Ah! ella dunque è morta, la mia nutrice? chiedeva Augusto, sfogliando spensieratamente i petali d’un garofano. — Noi sai? l’anno scorso ella venne qui un momento... Tu eri a Parigi da tua zia la marchesa di Beauchamps... Oh! com’era sfinita dalla stanchezza del viaggio la povera donna!... Pallida, co’ capelli in disordine, collo sguardo smarrito, ella parea matta... Si cacciò senza dir nulla nelle sale del nostro castello; guardava stralunata in volto a’ servi; non riconobbe più nè mia madre nè me! Alle nostre interrogazioni rispondea parole vaghe, inconcludenti: parea che andasse in cerca di qualcuno; ed in fatti, indovina di chi cercava con tanta ansietà? — Di chi mai? — Di te, Augusto; e quando le si disse che tu eri andato a Parigi, rimase profondamente addolorata; si lasciò cadere sovra una sedia; abbassò il capo in atto di scoraggiamento e di stanchezza mortale; e, dopo alquanti minuti alzatasi di botto, scappò via, senza dir niente... Sapemmo che l’infelice era morta a Parigi. — Sì, diss’egli dopo alcuni momenti, or mi sovviene perfettamente di un’emergenza singolare, di cui allora non seppi rendermi ragione, ma che ora credo spiegarmi almeno verisimilmente. Io stava una sera nel salotto di mia zia a Parigi: eravi una ragunata di ragguardevoli persone. La conversazione era animata e brillante; da poco si era servito il tè. Udimmo di repente uno schiamazzo di voci che pareva accadesse nella strada, ma che avveniva nel cortile del palazzo Beauchamps. Dimandammo della cagione di quelle strida. Un servo ci disse che una donna, una furia, voleva ad ogni costo salire sull’appartamento dalla Marchesa, dicendo che, se non le si permetteva di rivedere il signor Augusto d’Orbeil, ella sarebbe andata a gittarsi nella Senna. Immagina, Isalina, la mia vergogna a queste parole. Tutti mi guardavano con istupore... Ci fu qualche insolente che in modo beffardo chiese al servo se quella donna era bella... Io sentii montarmi il sangue al cervello, e diedi ordine che quella sciagurata fosse cacciata via anche con forza. Poco stante, udimmo di bel nuovo le grida e lo schiamazzo. Mi parve allora di riconoscere la voce e il pianto di Zenaide; ebbi rossore dell’atto di rigore che avea comandato; ma non ebbi coraggio di richiamare il comando... Ora più non dubito, su quanto mi hai detto, che quell’infelice era la misera Zenaide, e sento il rimorso di aver forse contribuito alla morte di quella donna che pur tanto mi amava! — In verità, Augusto il tuo comando fu un po’ troppo severo; bisognava dapprima chiedere del nome e dello stato di quella sventurata! — Ma tu non consideri, Isalina, ch’io mi trovava in un consesso rispettabile, agli occhi di cui sarei paruto per lo meno ridicolo, se mi fossi diversamente comportato verso una donna plebea, che aveva l’arroganza di chiedere di _riveder_ me. Ciò facea supporre che ella mi avesse altra volta veduto; ed è egli permesso a simili donne di distinguere qualcuno di noi? Che abbiam noi di comune con tal gente? Può una donna del popolaccio permettersi arrogantemente di chiedere del nome d’un nobile, come se chiedesse del nome di suo figlio? Non le aveva io già da molti anni proibito di più annoiarmi colla sua ridicola affezione? — Ma finalmente, Augusto, se si fosse saputo che quella donna era Zenaide, la tua nutrice, non arrecava più maraviglia che ella facesse tanta istanza per rivederti. Era ben naturale! — Tu dunque credi sorella mia, che un giovine gentiluomo di 23 anni abbia tuttavia a ricordarsi dalla sua nutrice? Il volto di Augusto erasi alcun poco acceso di sdegno. Isalina più non rispose, e abbassò gli occhi. Questa buona fanciulla non si sentiva la forza di contraddire apertamente a suo fratello; ma nel suo cuore disapprovava l’alterigia e la durezza di lui. Scorsero alcuni minuti in silenzio dall’una parte e dall’altra. Augusto riprese la conversazione: — Nostro padre crede adunque che il ritorno di Giustino sia imminente? — Egli lo spera, rispondeva arrossendo Isalina, ma non ha voluto dirmi ciò che gli fa sperare il vicino ritorno del mio fidanzato. Voglia il cielo che non sia questa una ingannatrice illusione dell’animo suo! — Sta di lieto cuore, sorella; papà forse ha qualche informazione che non vuol comunicarci; ma ci è da scommettere che egli non s’inganna. Dopo un breve intervallo, in cui i due giovani rimasero in preda de’ loro pensieri, Augusto ripigliò: — Oh con quanta tenerezza ricordo que’ giorni che io passava in compagnia del caro Giustino! Egli, come rammenti veniva in questo castello ne’ mesi di villeggiatura ogni sabato a sera e ne partiva il lunedì mattina. Non so dirti con quale ansia io aspettava il ritorno del sabato! — Ed io, Augusto, ed io! interrompeva la sorella portandosi il fazzoletto agli occhi rossi di lagrime, ah... io non poteva allontanarmi un sol momento dal terrazzino. Davvero non saprei dirti da qual batticuore io era oppressa in quei momenti! Ad ogni rumore di carrozza che udiva in distanza, quando giungea l’ora in cui Giustino dovea venir da noi io era costretta a pormi una mano sul petto, perchè temeva che mi scoppiasse per la soverchia emozione; e non respirava che quando mi assicurava che non era il suo carrozzino. Era così forte l’affannoso batticuore che mi prendea nell’udire il cigolio delle ruote, ch’io temeva quasi di vederlo arrivare. E allorchè io scorgeva in fondo in fondo al viale di nocciuoli il suo cocchiere, e poscia il suo grazioso cappello di paglia, io era tanto felice e trista a un tempo! Lo salutava col fazzoletto, ed egli si alzava, e mi salutava tante volte col suo cappello! — Ben so, rifletteva Augusto, che tu divenivi invisibile per tutti noi, due o tre ore innanzi che Giustino solea venire. Qualche volta io ti sorprendeva sospesa alla ringhiera del terrazzino, cogli occhi fissi, immobili sul viale di nocciuoli... Tu eri talmente distratta e assorta nella tua febbrile aspettativa che non ascoltavi la mia voce, se non quando io ti abbracciava... Allora io aveva gelosia dell’amore che tu sentivi pel mio amico; invidiava la sorte di costui. Qualche volta, perdonami sorella, qualche volta, io sentiva nel mio petto un certo rancore contro Giustino che avea saputo cattivarsi l’amore di una sì bella creatura qual tu sei: e non ti nascondo che parecchie fiate mi proposi di torgli almeno il pretesto di venire al nostro castello. Mi proponeva di rimproverarlo sulla sua finta amicizia; di dirgli apertamente ch’ei non veniva a Auteuil per trovare l’amico, ma sibbene l’amante; che io avrei rivelato il tutto ai nostri genitori, e che non avrei più sopportato questa sua inclinazione per te, la quale potea diventar passione come in fatti addivenne. Insomma, io mi proponeva tante cose rabbiose contro lui e contro te; ma, quando Giustino veniva qui, quand’egli si gittava al mio collo con quel suo viso ridente e aperto, tutt’anima, tutto passione, vivo ed allegro, io dimenticava di botto tutte le mie risoluzioni, ed avrei voluto non istaccarmi un sol momento da lui. Egli era così felice nel rivederci! Non ponea nessuna cura a nascondere la sua nascente passione per te, Isalina; egli ti amava come amava me. Quel gentil cuore forse ignorava di che tempera era il suo affetto per te; l’amore rivestiva in lui il carattere di calda amicizia. Egli amava noi tutti, e ben sai come altro affettuoso figlio si mostrasse del visconte nostro padre, il quale era stato grandissimo amico del suo povero genitore. Ti è noto che egli entrò nel collegio di marina ad istanza di nostro padre; ed oggi se si trova a ventun’anni uffiziale di marina, a chi lo deve? Ei ne va debitore al visconte, il quale tanto si adoperò per ottenergli quella brillante posizione. Mentre Augusto parlava, Isalina mal celava, la pena, che le cagionava quel cumulo di felici rimembranze, e soprattutto il dolore che provava al pensiero della lontananza del suo diletto in altri lidi, e forse esposto ai pericoli di una dimora in mezzo ai nemici del paese. Nessuna parola può mai significare esattamente quello che prova un cuore giovine, ardente e appassionato al ricordo delle ore passate a fianco dell’oggetto amato, massime quando l’amore scambievole è tuttavia una manifestazione segreta e delicata, una simpatia che traspira nelle minime cose, un amor non per anco rivelato sulle labbra, ma che si lascia indovinare negli sguardi loquacissimi, avidi di abbracciarsi, e in quella fiamma che esala da’ cuori; un amore che è tanto più timido quanto più puro e fervido, e che è sì felice nella tacita e misteriosa corrispondenza delle anime! Conversando a siffatto modo, il giorno era caduto del tutto in una placidezza sì dolce che rassembrava al morire dell’uomo giusto. Già le stelle incominciavano a luccicare nella immensità del cielo, come il mantello di un re di oriente. La campagna sembrava presa da stupore, tanta era la immobilità delle piante, di cui neppure un filo di vento scuotea le cime. I due giovanetti eran rimasti muti l’uno a fianco dell’altro. La mitezza di quella sera di primavera, e le rimembranze evocate aveano novellamente immersi i due giovani in quella estasi dolcissima che prende le anime all’aspetto delle naturali bellezze. Una voce risonò carissima in mezzo al silenzio del parco. Isalina mandò un alto grido di gioia, di sorpresa, e si precipitò verso la parte donde era partita la voce. Era Giustino Victor il suo innamorato, il quale era di ritorno in Francia dopo l’assenza di un anno. L’uffiziale di marina non era solo — Un giovane, di volto nobilmente gentilesco, l’accompagnava. Entrambi, scavalcati al cancello d’ingresso del parco, eran coperti di polvere da capo a piedi, attestavano la rapidità della loro corsa. II. IL RITORNO DEL FIDANZATO Giustino Victor, cui la bella divisa della marina francese dava più grazia, sveltezza e leggiadria, può esser ritratto in poche parole; anima calda, appassionata, confidente, temperamento sanguigno-nervoso; salute di toro; coraggio di leone entusiasmo in tutto; gusto perfetto in ogni atto o parola; arguto ma insolente motteggiatore, che nulla risparmiava al desiderio di far mostra di sottigliezza e di spirito: egli era insomma il vero tipo del militare francese. Di buon nascimento; di bellissime fattezze di corpo e di volto, Giustino Victor non aveva altri difetti che quelli della sua nazione, della sua età e del suo mestiero, la volubilità e la derisione. Questi difetti per altro non impedivano che il giovine amasse con vera e profonda passione la figliuola del Visconte d’Orbeil, che era stata la prima e sola donna da lui amata. Questo amore, nato infin dalla sua fanciullezza, e quando egli visitava, nelle vacanze di collegio, la famiglia d’Orbeil, era sempre più cresciuto cogli anni, e discoperto, non avea trovato alcun ostacolo nei genitori d’Isalina, i quali invece eransi rallegrati di un’affezione che prometteva di assicurare la felicità della giovinetta. E allorchè la spedizione marittima della Morea allontanava il giovine uffiziale dal suolo della Francia non iscemava però nel cuore di lui l’amore per Isalina, la cui immagine lo seguitava dappertutto, e verso la quale volavano costantemente i suoi sospiri, le sue speranze, tutto il suo avvenire. Augusto e Isalina eran corsi all’incontro di Giustino Victor, il quale si era slanciato con impeto nelle braccia del primo, rimanendovi qualche minuto; di poi con indicibile trasporto di amore avea stampato un bacio caldissimo sulla fronte d’Isalina, il cui seno battea con estrema violenza e le cui belle guance erano rigate da lagrime di gioia. Victor piangea, ridea, parea demente, e non trovava nella commozione del cuore una sola parola un solo accento. Un anno di assenza era stato per lui un lunghissimo secolo; avea contato i giorni, le ore, i momenti! Il ritorno di Giustino dalla Morea non era stato annunziato da nessuna lettera, da nessun avviso. Qualche cosa era trasparito dai pubblici fogli, dai quali il Visconte d’Orbeil era stato indotto a creder vicino l’arrivo del fidanzato di sua figlia. La fregata _Didone_, al cui servizio era addetto il giovine uffiziale di marina, avea gittato l’ancora a Marsiglia pochi giorni addietro, restituendo al suolo della Francia il Generale Maison, comandante la spedizione di Morea. Giustino era volato a Parigi più ratto di quelle bombe che avean fatto il terrore de’ Turchi: egli era corso al palazzo d’Orbeil col cuore palpitante di ansia e di piacere; avea chiesto del Visconte e dei suoi figli. — Sono ad Auteuil, gli si era risposto. — Ed ecco, Giustino si gitta a cavallo a fianco del suo compagno di viaggio, e in un’ora han divorato una lega e mezza. Vi sono nella vita momenti di una gioia sì matta, che il capo ne risente sconcerto. L’uomo è così poco avvezzo a’ grandi piaceri; la letizia sembra così poco omogenea all’organizzazione umana, che un colpo di gioia uccide più che una grande sciagura. O miseria dell’uomo! Le lagrime che sono il linguaggio del dolore, lo sono pure della estrema contentezza; questa dunque non è che dolore! Isalina piangea; si era appoggiata al braccio del fratello, mentre questi stringevasi al cuore il dilettissimo amico e futuro cognato. Un mondo d’interrogazioni e di dimande era sulle labbra di tutti e tre; e intanto nessuno avea ancora proferito una parola; e tutti e tre si guardavano con occhi infiammati, di piacere e ritornavano ad abbracciarsi. Intanto il giovine compagno di viaggio di Giustino teneasi, taciturno e indifferente, a rispettosa distanza da quel gruppo. Questo giovine era alto di statura, di membra vigoroso, comechè la cute fosse piuttosto fina e delicata; di volto regolare ma scolorato e freddo: avea gli occhi e i capelli di color castagno; la barba, che egli portava folta e lunga, poco più scura dei capelli; la dentatura bianchissima e uguale; la larga fronte macchiata di lentiggini. Vestiva un soprabitino nero all’artistica, abbottonato sin sull’altezza del petto: una piccola cravatta amaranto lasciava scoperte e rovesciate le golette di una finissima camicia; sulle quali veniva mollemente ad adagiarsi la lunga barba. Un cappello di paglia della miglior qualità di Firenze avea coperto la corta sua chioma, ed ora, trovandosi egli nel cospetto dei due figliuoli del Visconte, riposava nella destra mano. Strana e curiosa fu la maniera onde questo personaggio diventò l’amico di Giustino Victor: crediamo necessario di farla conoscere ai nostri lettori. Giustino era arrivato a Tolone da non più di due giorni, i quali gli erano sembrati due lunghissimi anni, imperocchè bruciava d’impazienza di volare a Parigi; ma il Generale Maison, comandante la spedizione di Morea, dovè trattenersi in quella città della Francia per particolari faccende di Stato; intanto l’ordine era stato dato alla fregata _Didone_ di tenersi pronta a partire per Marsiglia all’alba del domani. L’amante d’Isalina, malinconico pel ritardo apportato al suo vivissimo desiderio di mettere il piede a Parigi, non sapea come passare le ore insopportabili che lo dividevano per poco ancora dall’oggetto del suo amore. Egli correa le strade; girava e rigirava per tutt’i quartieri della città; fumava venti sigari al giorno: si fermava distratto e pensoso alle cantonate delle piazze: compitava, senza intenderne sillaba, gli annunzi e gli affissi incollati alle mura, e finiva col gittarsi stanco, annoiato e tristo in qualche bottega da caffè, dove rimaneva insino a tanto che giungea l’ora di ridursi a bordo della _Didone_. Chi non ha provato qualche volta un simile stato di angosciosa impazienza? Chi non ha sperimentato qualche volta in sua vita un maledetto inciampo che si frappone al compimento d’una brama carissima, e che mette un indugio più o meno lungo alla soddisfazione di un desiderio nutrito per anni. Come tutto riesce tedioso e insoffribile durante quelle ore di martirio! Si soffre una smania, un arrabbiarsi, di tempestare, di batter qualcuno. In tale stato si trovava Giustino Victor. Egli malediceva le faccende dello Stato, il servizio militare, e scagliava contro i Turchi un sacco di villanie, perciocchè per loro cagione egli era stato costretto ad allontanarsi dalla Francia, da Parigi, da quanto egli amava. In sul cader della sera del secondo giorno della sua fermata a Tolone, Giustino si stava dunque sdraiato in un Caffè. E sperdeva i suoi malinconici pensieri nei densi buffi di fumo che tirava da un sigaro di Tripolizza. Egli era più dimesso e rabbonato del giorno innanzi, dappoichè allo albeggiare del domani si salpava per Marsiglia e le distanze accorciavansi, ed egli si avvicinava alla suprema gioia della sua vita. Stando a tal guisa beandosi nelle care immagini della sua futura felicità, non si era per niente avveduto che un giovine barbuto e pallido, il quale stava seduto nello stesso Caffè, vestito con decenza e semplicità, il ragguardava da circa mezz’ora con ostinatezza; ed avrebbe potuto costui guardarlo per un secolo, senza che l’amante d’Isalina si fosse neppur per ombra addato di essere fatto segno ad un’attenzione così prolungata. Ma l’incognito si alzò e trasse difilato alla volta dell’uffiziale di marina. — Non siete voi il signor Giustino Victor? dimandò quegli. Giustino fu scosso ne’ suoi pensieri, e s’inchinò guardando l’individuo che gli avea fatto quella interrogazione, alla quale non si aspettava, perchè non conosceva nessuno a Tolone. — Son io — rispose. — Ah! esclamò l’incognito, cui un lampo di gioia brillò negli occhi: non mi era dunque ingannato!... Quanto piacere mi fa lo avervi riveduto, signor Victor! Se sapeste da quanto tempo agognava di stringervi la mano! Ciò dicendo, l’incognito s’impadronì della destra di Giustino; e fermamente gliela strinse. Il giovine uffiziale era restato un po’ nelle nuvole; ciò non di meno, per quella espansiva cordialità sì comune nei Francesi, avea risposto alla stretta di mano con un affabile sorriso. — Il vostro nome, signore? — Ferdinando Ducastel. Giustino pensò un poco per raccogliere le sue rimembranze di Parigi. — Ferdinando Ducastel! Vi confesso, signore, che è questa la prima volta che odo un simil nome. — Che è non pertanto quello di un amico sincero e leale che ha avuto l’onore di stringere più d’una volta la valorosa mano del Colonnello Victor, vostro padre. — Un tal titolo mi basta, rispose alquanto commosso l’uffiziale, perchè io ascriva a mia somma ventura il profferirvi i miei servigi e la mia cordiale amicizia. Ferdinando Ducastel si sedè a fianco di Giustino, il quale comandò che si recassero in sul desco pasticcetti e sciampagna. La conversazione ebbe il linguaggio della confidenza e della intrinsechezza, siccome suole subitamente intervenire tra due giovani, e massimamente tra due giovani francesi. In pochi minuti que’ due si conoscevano come da lunghi anni: lo sciampagna aveva in gran parte operato un tale prodigio. I due giovani si abbandonarono a’ moti della più affettuosa amicizia; tranne che Ferdinando Ducastel lasciava parlar Giustino, tenendosi quasi sempre nella sua parte d’interrogatore, e inaffiando le sue interrogazioni con vigorose libagioni. Gli occhi di Ferdinando Ducastel sfolgorarono di gioia e di meraviglia, quando Giustino gli disse che ardeva d’andare a Parigi, dov’era atteso dalla sua fidanzata, Isalina d’Orbeil; ma questo lampo di sorpresa e di gioia non colpì Giustino il quale prendea sommo diletto a raccontare i suoi avventuratissimi amori e la prossima felicità, che lo aspettava a Parigi. Ducastel, per corrispondere con confidenze a confidenze, rivelò all’amico che anch’egli avea premura grandissima di trovarsi a Parigi, perocchè gli premea di arrivare in quella capitale qualche tempo prima della pubblica Esposizione di belle arti, alla quale avea destinato un suo lavoro di molti anni. Giustino si offrì di farlo imbarcar con lui, la dimane, sulla _Didone_, e di far così assieme il viaggio da Marsiglia a Parigi, e Ducastel, in segno di gratitudine e di amicizia, si offrì di fare il ritratto di lui e d’Isalina d’Orbeil. Victor era inebbriato di contento; e questa volta benediceva il Comandante per l’indugio arrecato alla partenza, senza il quale ei non avrebbe potuto stringere amicizia col caro artista. Dopo due o tre ore di schietta e fraterna conversazione, i due novelli amici, augurandosi la buona notte e dandosi convegno a bordo per la dimane, si partiano scambiandosi un bacio affettuoso. Ma un arcano sorriso vagava sulle labbra dell’artista, mentre cogli occhi seguitava l’amico Victor, che rapidamente prendea la via del porto per recarsi in sulla nave in cui pernottava. Ritorniamo al presente nel parco d’Orbeil, dove abbiam lasciato Giustino nelle braccia di Augusto e della costui sorella. Augusto, il meno agitato dei tre, ruppe il silenzio. — È necessario, egli disse, procurare a nostro padre una dolce sorpresa. Ben io diceva, sorella, che il ritorno del nostro caro Giustino non poteva esser lontano... Il Visconte lo sapea. Non pertanto, ora trarremo al salotto dov’egli si trova in compagnia del _maire_; diremo che un signore, a noi sconosciuto, ha qualche cosa di urgente a dirgli. — Da bravo! esclamò Giustino; oh, quanto mi sarà caro il baciar la mano del Visconte di Orbeil che è stato per me un secondo affettuosissimo padre... E la Viscontessa come sta? — Molto meglio di quel che stava a Parigi, rispose Augusto l’aria di Auteuil giova assai alla sua salute... E tu, Giustino, sei sempre quel fiore di bellezza e di sanità invidiabile!... Guarda, sorella, non diresti che venga da una festa da ballo anzichè dalla presa del Castello di Morea? Ma, dinne un poco, e quella cara Grecia che fa? Mi avete ben bene lavata la testa a quegli arrabbiati Musulmani? Quant’altra soldatesca è rimasta a Patrasso e a Navarrino? Come sono guardati i castelli di Corone e di Modone? — Lasciagli il tempo di riposarsi un poco, interruppe Isalina; non vedi che Giustino è stanco e trafelato? — Hai ragione, sorella, andiamo su nel salotto... Ma, oh Dio noi abbiamo dimenticato il tuo compagno di viaggio? L’amore e l’amicizia ci hanno renduto scortesi. — È vero perbacco! esclamò Giustino, ho dimenticato di presentarvi il mio amico Ferdinando Ducastel, giovine artista di sommo valore, amico intrinseco di mio padre; che ho avuto il piacere di conoscere a Tolone, e che ritorna a Parigi per la grande Esposizione... Egli è stato molti anni in Italia a studiare su i capolavori dell’arte. Ci siamo imbarcati assieme sulla _Didone_; l’ho presentato al mio comandante: vi dirò più tardi lo scopo della sua venuta a Auteuil, in questo castello. L’artista fece un grande inchino col capo e si avvicinò alquanto a que’ tre personaggi. — Ducastel! esclamò Augusto, Ducastel è un nome ignoto. È di Parigi il signore? — Sono nato a una lega e mezzo da Parigi, rispose l’artista. — Qual è il vostro genere? — La figura. — Sono contento di fare la vostra conoscenza, signore, soggiunse freddamente Augusto; e da quanto mi dice il mio amico Victor, debbo estimarmi avventurato di scrivermi d’ora innanzi nel novero de’ vostri ammiratori. L’artista tornò a inchinarsi. — Cerimonia da banda, disse Giustino, andiamo al castello; mi sa mille anni di riabbracciare il Visconte; avremo colà il tempo di ciarlare a nostro bell’agio. Tutti e quattro mossero alla volta del castello d’Orbeil. In ridentissima posizione è situato questo vecchio casino, al quale per magnificenza di stile si dava il nome di _castello_, e di cui la costruzione risale a’ tempi di Giovanni II, vale a dire, alla metà del decimoquarto secolo. Uscendo da una gioconda valle, si vede elevarsi un gruppo di collinette rivestite di gaia verdura. Di rincontro a questo gruppetto di poggiuoli, e nel seno di vasta pianura, sorge l’edificio di cui la parte posteriore inabitabile era in quel tempo pressochè tutta cadente screpolata e ripiena di bozze; però le muraglie facean corpo, e parea che ad ogni momento volessero fendersi e ruinare. Ma la parte che riguardava le collinette, e che era quella appunto la quale formava l’abitazione della famiglia d’Orbeil, è solidissima la faccia principale, rivestita da lunghi filari di terrazzini e di finestre in forma ovale, è allietata da bella prospettiva di lontane campagne, di paesaggi sfumati appena nell’aere sereno di vasto orizzonte, di casini, di opifici e di pianure sulla cui estensione l’occhio smarriscesi. L’interno del vecchio castello è di uno stile più severo, perciocchè un gran numero di lunghi stanzoni s’infilzano l’uno appresso dell’altro a guisa d’una vasta corsia. Nel mezzo di questa fuga di stanze, dipinte a colori austeri e zeppe di quadri antichi, è la gran sala che fu visitata da Francesco I, da Errico III, da Luigi il Giusto e da moltissimi personaggi illustri per armi e per scienze, tra i quali anche Elvezio, che ebbe tomba nella chiesa d’Auteuil. Il pavimento di questa sala è di grandi lastre di marmo a disegni bizzarri. Una botola, simulata perfettamente da un quadrone su cui sta dipinto un teschio umano, è nel mezzo di questa sala. Questa botola, da cui si scende, o meglio, si precipita in un sotterraneo, attesta le antiche lussurie e crudeltà baronali. Il palco a volta ha in ciascheduno dei suoi spigoli un ritratto di qualche re di Francia. Un’immensa lumiera di terso cristallo era sospesa alla volta. Questa sala era guarnita di antiche suppellettili di pertinenza degli antenati del Visconte: il solo mobile recente che si vedeva era un pianoforte di magnifica costruzione. Lunghi coltrinaggi rossi si aprivano sul passaggio de’ balconi e delle finestre, e ricascavano a’ lati in ricche onde su bracciuoli di bronzo dorato, le cui teste rappresentavano satiri, diavoletti e simili. Un gran cammino era nel mezzo della parete principale. In questa sala entrarono i quattro personaggi che abbiam veduti testè nel parco attiguo al castello. Il Visconte d’Orbeil e la viscontessa sua moglie eran seduti col _Maire_ d’Auteuil e con altra persona di età attorno ad un tavolino da giuoco. Altri crocchi di conversazione eran qua e là nella gran sala. Il Visconte era un uomo a cinquant’anni, di smilza persona, di occhi vivaci, di volto severo; il capo era coperto di folti e bigi capelli, nutricati con cura estrema; l’acconciatura del nobil uomo era d’una irreprensibile ricercatezza. La Viscontessa era più giovine di qualche lustro; bella ancora, comechè gracilissima e di cagionevol salute. Il suo primo parto, quasi prematuro, fu doloroso: orribili circostanze lo accompagnarono. La notte precedente allo sgravo, il Visconte era sfuggito, quasi per miracolo, ad un arresto politico fulminato contro di lui. La giovine sua moglie, andò debitrice della propria salvezza allo stato in cui fu trovata dai commissarii del novello governo francese: ella avea dato a luce, fra terribili convulsioni, un bambino semivivo che le venne subitamente strappato dal seno materno, sendo ella minacciata di morte. Quella fu una notte terribile pel castello d’Orbeil! La madre non vide il suo pargoletto che un mese di poi che l’avea messo al mondo. La salute della Viscontessa fu scossa e danneggiata in guisa che per molto tempo si ebbero per lei seri timori. Il ritorno di suo marito dalla frontiera della Svizzera dove si era rifuggito ridonò all’affettuosa donna alquanto del suo pristino vigor giovanile e quella placidezza di temperamento, che è causa insiememente ed effetto della ripigliata sanità. Augusto e Isalina ansanti e agitati da commozioni entrarono nel gran salone; baciarono le mani dei loro genitori; salutarono le persone che ivi erano riunite, ed annunziarono al padre che un forestiero desiderava parlargli. Il Visconte si alzò, e, prima che avesse avuto il tempo di riconoscerlo, si trovò nelle braccia di Giustino Victor che piangea di gioia. Fu un grido di tenerezza scappato da tutti. — Giustino! il caro Giustino Victor! Egli! Egli stesso! O Dio! Che piacere impensato! O figlio, figlio caro! Quando sei arrivato? E cotesta salute? Un anno, per bacco! Brutto mestiero quello del marinaro! Com’è tornato più bello e più vegeto! Viva l’ammiraglio! Questi e cotali altri moncherini di frasi si facevano udire frammisti ad esclamazioni di gaudio, a caldissimi baci ed amplessi, a reiterate interrogazioni che rimanevano senza risposta, però che questa era soffocata da nuove dimande, da nuovi amplessi, da nuovi baci. Le sembianze d’Isalina raggiavano di contentezza; i suoi occhi massimamente nuotanti in carissime lagrime, non si sapeano staccare un istante da quelli del suo fidanzato. Ella era gelosa delle proteste di affetto che da tutti gli si prodigalizzavano. Giustino Victor era veramente l’idolo di quella famiglia; la sua assenza vi avea portato il lutto e il dolore; il suo ritorno quasi inaspettato dovea per conseguenza riprodurvi slanci di schietta gioia. La felicità era nel cuore, sulle labbra e negli occhi di tutti: i voti eran soddisfatti, tutt’i cuori eran colmi! Un uomo soltanto, fermato all’uscio del gran salone, non visto ancora da nessuno, perchè ricoperto dall’ombra d’una gran portiera, guardava pallido e muto quel tenero quadro di famiglia, e nell’anima sua levavansi, come foschi nugoloni, due passioni maledette. Le due tristi passioni che fecero per la prima volta sparger sulla terra il sangue dell’uomo. L’invidia e la vendetta. Quest’uomo era il compagno di viaggio di Giustino Victor. III. IL COVILE DEL MONELLO Noi non vorremmo, anzi non sapremmo dire che razza d’uomo è questo Ferdinando Ducastel. Vi sono alcuni uomini nel mondo, i quali sfuggono destramente ad ogni esame, ad ogni investigazione; tutto il loro studio pongono a non far trapelar di fuora la loro anima: il loro volto di marmo nulla rivela, nulla discopre: l’osservatore perde il tempo e la pazienza appresso a loro, e finisce col confessare di non aver niente osservato. E così farem noi. Confessiamo con ischiettezza d’ignorare onninamente di che tempera è l’anima del personaggio, che accenna di prendere una parte sì importante e forse protagonista nella nostra istoria. Gli avvenimenti e le sue stesse parole ce lo faranno conoscere meglio di quello che noi potremmo fare. Diremo, intanto, che le sembianze di questo giovine nel suo tutto, dir si possono belle; che qualche cosa di nobile e di gentilesco è nella serietà e nella compostezza de’ suoi lineamenti statuari: ma pare che una nebbia perpetua copra il suo viso, tanta è l’impenetrabilità onde si circonda e si avviluppa. Lo sguardo di questo uomo cade e non si fissa; si direbbe uno sguardo di piombo; i suoi begli occhi non sono mai aperti in tutta la loro ampiezza, e, quando egli affisa qualcuno un leggiero inarcamento di ciglia toglie alla guardatura ogni carattere di dolcezza: quello sguardo annuvolato, incerto, sospettoso è un filo di sole invernale che fende la nube, è il morto raggio d’una lampada sepolcrale. Ferdinando Ducastel non ride mai; parla pochissimo, pensa e medita continuamente. La fosca pallidezza delle sue sembianze, la leggiera ipocondria che si scorge in sulla sua fronte impensierata attestano antiche sofferenze e lo scontento ben radicato nell’anima. A prima vista diresti quest’uomo aver già valicato i trent’anni, quantunque non ne conti più di 24; la freschezza della giovine età è sparita da quella persona, stanca e abbattuta, tuttocchè ancora nel nerbo della vita. Sono vizi o sventure le cagioni di tal deperimento? Dovendo il novello ospite ritrarre sulla tela le sembianze di Giustino e d’Isalina, fu invitato a rimanere per alquanti giorni nel Castello d’Orbeil. Egli avea fatto una profonda impressione sull’animo del Visconte e della Viscontessa, i quali si aveano palesato scambievolmente la strana sensazione che aveva in lor prodotto il viso dell’amico di Giustino. Una stanza gli fu assegnata, la quale riusciva sopra un’amena parte del parco. Il domani della sua presentazione al Visconte, Ducastel levossi a prima ora del giorno, uscì dal casino, e si avviò verso il platano della mendica. Egli camminava a passi frettolosi, preso da una febbrile agitazione di nervi. Quest’uomo che pel consueto, e quando era in compagnia, era freddo ed impassibile, al presente, solo, e in società de’ proprii pensieri, sembrava commosso da una prepotente passione. Il platano della mendica era a mezza lega dal castello. Un’aperta e vasta pianura, chiamata dell’_Usignuolo_, intraversata solamente da qualche viale di nocciuoli e da rigagnoli ricchi delle piogge di primavera, menava a diversi crocicchi, elevandosi il terreno insensibilmente fino alle proporzioni d’una modesta collina; le ineguaglianze del suolo e la purezza dell’aria davano a questo sito di Auteuil qualche cosa dei villaggi italiani o svizzeri. Nasceva un giorno soavissimo: numerose compagnie di augelli il salutavano co’ loro più ricercati e striduli gorgheggi: alcuni prendean diletto a lambir colle ali l’erbetta freschissima imperlata dalle stille di rugiada: altri amavano a spaziare sull’aperta pianura; altri ad amoreggiare con leggiadria di canto su pei rami degli verbusti: pareano aspettare con ansia la comparsa del sole. Ducastel battea concentrato e pensieroso il terreno, e il suo sguardo non si levava neanche per un istante a contemplare le bellezze che il circondavano; sembrava che avesse fretta di giungere ad un sito che ei si era prefisso nella mente. A vederlo camminare con gran sicurezza attraverso i tanti crocicchi di quei campi, senza smarrirsi un istante, e senza ricercar qualche volta cogli occhi la traccia del cammino che aveva da fare, si sarebbe detto che ei conoscesse appuntino ogni zolla di quella campagna, ogni solco di via. Quella vasta pianura era una specie di città dove le strade tortuose non erano altrimenti indicate che da alcune grosse pietre poste a guisa di termini tra i lunghi solchi, ciascuno de’ quali era un sentiero. Eppure Ducastel si voltava e rivoltava per quel laberinto, senza neppur pensarvi e senza stare in forse neanche un attimo sulla via da tenere. Come conosceva egli quella campagna? Quando vi era stato? A capo di un terzo d’ora, l’artista si fermò dalla precipitata sua corsa; affannoso era il suo respiro, imperciocchè al sito ove era giunto terminava la insensibil gobba del suolo, che per circa un dieci minuti ascendeva sempre... Ducastel aveva innanzi a sè il platano ed il tugurio della mendica. Egli avea fissato lo sguardo sovra una casupola perduta oggimai tra i lunghi fili di erba, tra le felci, e le semprevive cresciutevi da tutti i lati. Da tanti anni nessuno più abitava in quel solitario ricetto. La gente del paese non avea potuto spogliarsi de’ pregiudizii e delle paure su quella casupola: correa voce che in quell’abituro la notte si udissero certi lamenti strazianti, molti asserivano che sul platano attiguo ogni sera la civetta venisse a fare udire la sua lugubre voce: insomma il tugurio della mendica e la vicina casupola venivano sfuggiti come luoghi maledetti, le donne non li guardavano da lungi che facendosi a più riprese il segno della croce. Poco discosto, stava una specie di capannetta, oggi tutta in rovina, e che a Auteuil veniva addimandata il _Covile del Monello_, però che ivi solea giacere e riposare la notte il figliuol di Zenaide, Federico Lennois, il quale avea lasciato in quel villaggio una certa celebrità per gli strani fatti che di lui si narravano. Ducastel aveva incrociate le braccia ed era rimasto immobile a ragguardare il _Covile del Monello_: il suo volto avea preso un carattere straordinario di vivacità febbrile. — Ecco, diceva tra sè medesimo, riveggo dopo tanti anni i luoghi dove ho sparso tante lagrime in quell’età che per gli altri uomini è la più felice della vita!... Ecco il misero fenile in cui io dormiva col mio cane Astolfo, il quale mi riscaldava col suo fiato e colle sue membra. Orribili notti passate sotto quel mucchio di paglia, la vostra rimembranza mi fa fremere e raccapricciare! Oh! io sarei morto certamente, senza il mio cane! Abbandonato da tutti gli esseri umani, io non trovava un appoggio, un conforto, un compianto che in quella creatura, che, se non aveva il dono della parola, avea la voce del sentimento. Ecco là, al piè di quell’alto frassino, la tomba di quell’unico amico che io mi avessi, del mio diletto Astolfo! Oh! la tua morte fu la più cocente tortura pel povero mio cuore di dieci anni!... Ecco il ginepro al quale spesso io venia ligato per intieri giorni e qualche volta per intiere notti, in preda a’ più atroci tormenti della paura, del freddo e della fame: ecco laggiù il fosso nel quale io era gittato da colei che non oso chiamar mia madre: ecco l’antro nel quale io tante volte ritrovava un rifugio da’ furori di quella donna che per me non aveva le visceri di madre!... O mio destino incomprensibile, o stella crudele insin da’ più teneri anni della mia fanciullezza, tu snaturasti per me il più caro vincolo del sangue; tu mi negasti quel primo bene della vita, di cui godono anche le belve più feroci, l’amor materno! Non vi è uomo sulla terra il quale non abbia trovato nel seno della madre le ineffabili dolcezze di quell’amore che prepara e fortifica l’uomo al martirio della vita, di quell’amore che ne’ suoi infiniti sacrificii di ogni momento attinge novella vita, novella forza, e non vien manco giammai, però che anche quando una madre chiude per sempre gli occhi al mondo, lascia nelle rimembranze un’orma incancellabile, e uno scudo contro i mali dell’esistenza. Ed io solo, non trovai amor materno in mia madre; io solo trovai fiele ed odio in quelle sorgenti cui l’uomo corre con ansia ad abbeverarsi. Oh come avrei amato la madre mia, se costei non fosse stata il più spietato carnefice de’ miei anni infantili! E che colpa era la mia? Io era nato con un cuore amantissimo; ma la natura, la società, tutto parea respingere i miei sensi di amore. Trovai dappertutto durezza di cuore, insensibilità, tradimento. Non ebbi che un solo essere che mi amò; e quest’essere non apparteneva al genere umano. Astolfo, mio dilettissimo Astolfo, ed io ti vidi a morire sotto i colpi di questo Giustino Victor che ti ammazzava sol per vedermi piangere e per far ridere i suoi amici, tra i quali questo imbelle d’Augusto! La tua morte strappò dal mio ciglio le prime e sole lacrime del cuore. Io posi una pietra su la tua tomba e su quella pietra feci un terribile giuramento, il cui adempimento mi viene oggidì favorito da una incredibil casualità!» Gli angoli del volto di Ducastel si contorsero alquanto e significarono un’odio freddo e feroce. I suoi occhi, che si erano portati sui siti diversi che erano stati il teatro delle sue infantili sofferenze, rimaneano al presente fissi sul terreno: atroci pensieri si aggiravano in quel capo. Ei ripigliava tra sè: «Sì l’odio ha puranche la sua gioia, la sua voluttà! Oh quanto odio questa famiglia d’Orbeil, e questo felicissimo Giustino Victor, l’assassino del mio Astolfo! La sorte non potea meglio favorirmi che col farmelo incontrare a Tolone!... Il mio giuramento sarà compito... Or più non isfuggirai all’odio mio, alla mia vendetta! Giustino Victor, Augusto d’Orbeil, io era il vostro zimbello, il vostro passatempo! Io aveva l’onore di richiamar le risa sulle vostre gentilesche labbra; io era talvolta onorato da voi col titolo di bruto e peggio; ma questo bruto aveva un cuore altero e superbo, che voi corrompeste, pascendolo dell’odio più nero!... Io mi sentiva propenso al bene, alla virtù, ai più nobili e generosi sentimenti, e voi, per celia, per baia, per non aver che fare, per sollazzarvi un minuto, un istante, gittaste nell’anima mia il seme del vizio e del delitto, soffocaste in me ogni bella e onesta tendenza... Maledetti! Maledetti!! Ma ora la vostra felicità, la vostra gioia, la vostra vita è nelle mie mani... io vi odio, e quest’odio mio non è nato il giorno d’ieri... Ben ricordo le umiliazioni che io pativa alla tua vista, o felice figlio del Visconte, allorchè, in compagnia del tuo aio, percorrevi a cavallo queste campagne: la felicità insomma raggiava sulle tue sembianze: allora tu, Giustino ed io eravamo, fanciulli! Un giorno ti degnasti colpirmi colla frusta, perchè io non mi era scostato a tempo per farti passare col tuo superbo destriero: quel colpo di frusta, Augusto d’Orbeil, non mi è uscito più dal cuore... Un’altra volta tu ridevi mentre mia madre mi bastonava... e, quando ci facemmo più grandetti, spesso tu additavi a’ tuoi allegri compagni me infelice e lacero monello, rannicchiato in fondo alla pianura dell’_Usignuolo_: e Giustino Victor, una mattina gridando in lontananza mi disse queste parole che mi fecero piangere a lagrime disperate: «Ohè, figlio di mala donna, non rubar le fragole di questo podere, che te le faremo vomitar col sangue.» E quando penso che queste amare parole mi venivano indirizzate nel momento in cui il sereno aspetto della natura disponeva il mio cuore a sentimenti di conciliazione e di amore, nel momento in cui io scopriva nell’anima mia certe ascose corde che la facevano risuonare armoniosamente colla circostante natura ed innalzavano i miei pensieri verso quella regione di luce, d’amore e di pace che si addimanda il cielo; quando penso che quelle parole erano tanto più feroci quanto men da me meritate e ch’io non avea fatto alcun male a colui che me le lanciò sul viso, fremo ancora di rabbia e di vendetta... Rubare una fragola è dunque sì gran delitto! Eppure tante volte io ne aveva avuta l’opportunità e mai non lo aveva fatto! Ma da quel momento io ne rubai tante e tante, e rubai tutto ciò che mi venia fatto di rubare... Io provava una certa soddisfazione, una certa voluttà ad ingannare, a rapire, ingannar gli altri ed essere ingannato, non è forse questo lo spirito della società in cui viviamo?... Ecco... domani sarò ricco: domani il mio nome farà il giro della Francia e forse del mondo, e a che lo dovrò? Domani io sarò ricco, rinomato e vendicato! La vendetta, le ricchezze e la gloria faran tacere per sempre i rimorsi del delitto che ho commesso laggiù, in Italia. Domani più non avrò che desiderare.» Ducastel fu interrotto nel suo tristo monologo dalla voce di Augusto e di Giustino i quali si erano levati per tempo anch’essi per godere della freschezza del mattino. — Da bravo, Ferdinando Ducastel, gridò Giustino, ci hai prevenuti. Ma noi abbiamo trovato le tue orme. Sei buon levatore, per bacco! da vero artista! E che ne dici di questi siti? — Incantevoli, rispose Ducastel, sorridendo a’ due giovani, e dando alla sua fisonomia la più naturale e semplice espressione di ammirazione. — È la prima volta che vieni a Auteuil? — No, ci sono stato altra volta, nella mia fanciullezza. — Guarda, Giustino, disse Augusto che era stato disattento alla conversazione de’ due amici, guarda laggiù il covile di Federico Lennois. Ti ricordi, eh? Quel tristo bastardello che ardì scagliare delle pietre alle tue spalle? — Se il ricordo! disse Giustino con accento d’ira e di spregio, non potrà mai uscirmi di mente la feroce espressione del volto di quel maledetto monello... E che n’è di lui? — Sfido a saperlo! O è morto ucciso, o starà covando ancora i suoi furti in prigione... Sai che a Parigi fu gittato in carcere per una gran somma di denaro che avea rubato. — Eppur ci scommetto che quel diavoletto avrebbe avuto sveltezza d’ingegno... Rammenti le risposte che dava ai contadini di queste campagne che il beffeggiavano, e qualche volta anche a noi, quando ci saltava il capriccio di andarlo ad insultar nella sua tana per ridere un poco!... Ma dimmi, Augusto, com’è che che un bel giorno sparì da Auteuil senza che di lui si fosse saputo niente più? — Non saprei dirtelo con precisione. Ciò accadde pochi giorni dopo che sua madre lo battè a morte fino a fargli uscir sangue dalla bocca, per punirlo d’una violenza ch’ei stava per commettere su noi. Non si ebbe più di lui altra notizia, tranne che a Parigi era stato arrestato per furto. Di poi non ne intesi più a parlare. — Sarà crepato come un cane in qualche oscuro angolo del mondo, disse Giustino. A proposito di cani, ti ricordi come sacrificai a colpi di mazza quella povera bestiola tanto cara al Lennois? Fu quello per me un vero divertimento! Io godeva tanto a veder piangere quel briccone! — Eppur ti confesso, mio caro Giustino, disse Augusto, che, quando io vidi piangere a lagrime di disperazione il povero Federico, che era stato ligato al frassino da quella furia di sua madre, mi pentii quasi dell’amaro scherzo; ed avrei voluto ridonar la vita a quella bestiolina che egli amava tanto! In quel momento ebbi quasi pietà di quella creatura infelice che non avea sulla terra nessuno che lo amasse, neppur la madre! Ferdinando Ducastel non avea detto un sol motto durante questo colloquio de’ due giovani amici; egli affissava le lontane campagne, e parea che fosse stato disattento a tutto ciò che si era detto: ma alle ultime parole di Augusto, Ducastel si voltò subitamente inverso lui, e lo guardò con singolare espressione. I due giovani non vi badarono. — Ebbene, Ducastel, si comincerà in giornata il nostro lavoro, n’è vero? dimandò Giustino cercando di finirla con un soggetto di conversazione che non facea troppo onore al suo cuore. — In giornata, rispose freddamente l’artista, però che io non potrò a lungo aver l’onore di rimanermi a Auteuil; importanti affari mi chiamano a Parigi dove ho lasciato i miei bauli ed i miei quadri. — Non sai, Augusto? seguitò Giustino; il nostro Ducastel ci farà vedere il suo quadro destinato alla grande Esposizione: rappresenta la _Preghiera_. — Sublime soggetto! esclamò Augusto; e quando avremo il piacere di ammirare il vostro lavoro? — In qualunque giorno vorrete onorarmi all’albergo _Mirabeau_, strada della _Pace_, a Parigi. — Avete idea di vendere il vostro lavoro? — È già venduto, rispose Ducastel. — Per qual prezzo? — Cento mila franchi. — Cento mila franchi! esclamarono i due giovani compresi di maraviglia estrema; ma questo è dunque un capolavoro! — Un capolavoro, ripetè Ferdinando Ducastel pallido e distratto. — E di grazia, a chi lo avete venduto? Ducastel tentennò alquanto a dire il nome del compratore, abbassò lo sguardo; indi rispose: — Ad un forestiero che sarà tra giorni a Parigi, al più ricco banchiere di Scozia, a Eduardo Horms, di Glascovia. Pochi minuti dopo questa conversazione, i tre amici s’incamminavano alla volta del castello d’Orbeil. IV. EDUARDO HORMS Sono le sei pomeridiane. Intorno ad un gran tavolo rotondo d’una delle più belle stanze dell’Albergo _des Princes_, strada Richelieu a Parigi, sono sedute cinque persone, due donne e tre fanciulli. Non è passato un quarto d’ora dacchè il loro pranzo è finito. Sdraiato sovra una soffice greppina sta un giovine gentiluomo, il quale, comechè occupato a leggere il giornale de’ _Dèbats_, sembra non pertanto dominato da una certa impazienza di aspettar qualcuno. Una delle due donne, la più alta e pallida, è intenta a scrivere una lettera; e l’altra, sua sorella, appoggiata col gomito dritto in sul tavolo e colla fronte sulla palma della mano va seguitando cogli occhi le righe segnate dalla sorella maggiore. I tre fanciulli, seduti dall’altra parte del tavolo, sfogliano un albo di caricature. Ritroviamo con piacere Eduardo Horms, Lucia sua moglie, Marietta, Giuseppe, Andrea e Uccello Fritzheim. Conoscemmo Eduardo Horms nel momento della morte di Daniele de’ Rimini, e non avemmo, per così dire, il tempo di presentarlo ai nostri lettori; ma pur quel momento bastogli per conquistare le nostre simpatie e la nostra estimazione. Con un atto solenne, inaspettato, grande e generoso, egli cancellava in qualche modo le colpe del fratello, e ricompensava la virtù d’una onesta e sventurata fanciulla. Eduardo era il più giovine e il più bello dei figli maschi del Baronetto Edmondo Brighton, Conte di Sierra Blonda. Sua madre, nata da probi e ricchi proprietari di Glascovia, morti entrambi, quando ella era fanciulla ancora, era stata, al pari dell’infelice Juanita di Gonzalvo, la vittima della più scaltra e detestabile seduzione, alla quale non sopravvisse che pochi anni, lasciando il bambino, frutto della colpa, nelle mani d’un fratello di lei amantissimo, il quale rifuse addosso al pargoletto nipote l’amore che avea per la sorella. Eduardo ricevè la più accurata e gentilesca educazione, e riuscì un modello di squisitezza di modi: egli aveva un bel cuore, un bell’ingegno e una vasta erudizione. All’età di quindici anni, avea già fatto il suo corso di lettere e di filosofia: oltre a ciò, disegnava a meraviglia, sonava l’arpa e il piano, parlava l’inglese, il tedesco e il francese, e soprattutto componea versi da poter stare a pareggio con quelli dei più grandi poeti inglesi. Eduardo era una di quelle nature scozzesi che ricordano i personaggi di Ossian e di Walter Scott, la virtù più pura era negli occhi suoi che avean il color del cielo: la sua anima non comprendea la falsità, l’inganno, l’ipocrisia. Sensibilissimo e affettuoso, egli metteva un’estrema delicatezza nella manifestazione dei suoi sentimenti, di amore, di lealtà, di abnegazione. Ahi! trista condizione di chi non può respirare altra atmosfera! Le altissime montagne, i deserti, le foreste uscite dalle mani della natura, sono soltanto i luoghi ove l’aria è pura e serena, e dove l’anima si slancia con gioia ed amore verso la prima Sorgente del Vero, del Bello e del Grande; ma in grembo alla società, nelle auguste stanze de’ nostri appartamenti, nelle popolate strade delle nostre capitali, l’aria è corrotta e malsana: tutto è piccolo, inceppato, affettato: le parole non esprimono le idee o significano idee contrarie: a poco a poco si smarrisce, si perde l’attitudine a’ grandi pensieri e alle grandi azioni: l’anima umana, quasi uccello rinchiuso in gabbia, si dibatte per qualche tempo tra le grétole della sua prigione, e indi vi si avvezza e vi rimane tranquilla, e non mai felice. Eduardo era vivuto sin dalla sua fanciullezza in un castello remoto e solitario presso Glascovia. Questa bellissima città della Scozia, situata in una posizione elevata, sulla riva destra e alquanto al disopra del Clyde, offriva un quadro di naturali bellezze alla vergine fantasia del giovinetto poeta e artista, il cui pennello e la cui penna ritraevano la solenne maestà della lontana catena di Ross, o la severa bellezza de’ monumenti architettonici de’ mezzi tempi, ond’è ricca quella città della Scozia. I sensi e l’anima del solitario poeta si erano in certo modo raffinati al contatto della schietta natura. Pochi e vecchi amici di suo zio, persone di specchiata probità, formavano tutta la società che egli vedeva di tempo in tempo. Sempre dedito ai suoi studi, alle sue arti che coltivava con estrema passione, Eduardo vedea sorger la vita nel lontano avvenire come quei paesaggi incantati che sorgeano, all’alba, dal seno delle dense nebbie notturne, e che egli ritraeva sulla tela, sposandovi tutto l’entusiasmo e la tenerezza del proprio cuore. La meditazione e la contemplazione, le due nobili e sublimi facoltà dell’anima, erano state tutta la vita di Eduardo fino all’età di diciotto anni. A questa età, la morte dello zio, che il lasciava erede universale di tutte le ricchezze, il gittava ad un tratto fuori dei suoi gusti e delle sue consuetudini. Eduardo era divenuto in un momento il più ricco banchiere di tutta la Scozia; la ricchezza gli era piombata addosso come un pesante fardello. Lo zio aveva acquistate grandi ricchezze col commercio del carbon fossile, avendo saputo trar vantaggio dalla situazione di Glascovia, tanto favorevole ad un tal commercio; imperocchè, col mezzo del Clyde, questa città si mette in comunicazione coll’Atlantico, e, col mezzo del canale che congiunge quel fiume al Forth, manda nel mare del Nord i prodotti della sua industria, e massimamente il carbone alimentatore di quella gran possanza che si addimanda il vapore. Oltre a ciò, Glascovia, pel canale di Moukland, riceve il carbon fossile a prezzo discretissimo. Lo zio di Eduardo era eziandio il capo delle officine di _Clyde-ironworks_, onore, che, per la sua morte, ricadea sul suo erede e nipote. Ma Eduardo non era nato pel commercio: laonde trovossi in un mondo al tutto nuovo; cercò aiuto e consigli a’ vecchi amici di suo zio, e finì coll’affidare ad uno di questi la direzione dei negozii per potersi abbandonare, senza inciampo, alle sue favorite tendenze e ai suoi carissimi studi. Il primo uso che egli fece d’una gran parte de’ suoi capitali fu di spenderli all’acquisto di opere di arte. Egli aveva un gusto perfetto e una intelligenza così fina in fatto di pittura che al primo sguardo indovinava le opere eminenti, e ne additava la scuola e talvolta l’autore: erasi messo in corrispondenza coi più rinomati artisti di Europa, dando loro l’incarico di vari lavori, cui egli compensava largamente. Il suo nome era noto a quasi tutti i migliori artisti, i quali il riguardavano qual loro valente e generoso mecenate. Agl’Italiani il genio, agli Inglesi il gusto: quelli eseguono, questi apprezzano: ai primi la scintilla dell’ispirazione, a’ secondi l’istinto dell’estimazione; agl’Italiani il creare, agl’Inglesi il conservare. Eduardo Horms, al pari degli altri figliuoli del Baronetto Edmondo Brighton, riceveva da ignota mano ogni mese la polizza di cinquanta ducati. La prima volta che Maurizio Barkley si presentò nel castello di Horms ad offrire al figliuolo di Edmondo il misterioso assegnamento, di cui tacque la ragione e la provenienza, siccome avea fatto cogli altri quattro frutti dei giovanili errori del suo padrone, lo zio di Eduardo rigettò con isdegno la tarda memoria o pentimento che aveva il padre del garzoncello. Ma la incumbenza di Maurizio era precisa: egli era semplice esecutore di un ordine di cui non ispettava a lui valutare il merito e le ragioni; però fece chiaramente intendere al Banchiere scozzese che il denaro era pagato a Eduardo Horms, e che, se questi ricusasse dovea farne una dichiarazione in iscritto per discarico di esso Maurizio alla cui negligenza o poco zelo sarebbesi accagionato il rifiuto. Interrogato il giovinetto Eduardo, questi chiese la venia di suo zio per non ricusarne un attestato di affetto, qualsivoglia ne fossero la provenienza e la causa: dissegli ciò non pertanto che egli avrebbe consacrati que’ cinquanta ducati mensuali a sollevare le povere famiglie del suo paese, e che a tal modo avrebbe forse ottenuto perdono appo l’Altissimo la colpa che avea tratto alla tomba la sventurata genitrice. A così fatte ragioni conveniva piegar il capo; e lo zio, che grandemente amava il figlio di sua sorella, più non mise avanti nessun argomento di rifiuto. Non è a dire quanto la bell’anima di Maurizio fosse stata tocca dal candore e dalla virtù del giovinetto: i suoi occhi erano bagnati di lagrime; lo abbracciò, se lo strinse al cuore, e se gli dichiarò amico sincero e leale: moltissimo tempo con lui s’intrattenne a ragionare; e ad ogni parola del giovine scozzese, Maurizio discopriva in lui novelli tesori d’intelligenza, di tatto finissimo. Eduardo gli mostrò i suoi bozzi, i suoi disegni; fecegli vedere le compere di quadri che avea fatte, e diedegli a leggere i suoi versi, che spremeano lagrime di commozioni dagli occhi del virtuoso Esquire. Con quell’istinto di delicatezza che è retaggio esclusivo delle anime nobili, il giovine Horms non fece a Maurizio nessuna interrogazione risguardante il suo genitore, però che ben comprendea esser questo l’ignota mano che forse da lontane regioni pensava al sostentamento del figliuolo. Eduardo indovinò che Maurizio nulla potea rivelare, e volle risparmiargli il rammarico d’un rifiuto involontario. Maurizio comprese, e fu tocco da questa eccessiva delicatezza. Maurizio si separò dal giovinetto Horms, imprimendo sulla costui candida fronte un bacio tenerissimo; e gli giurò che non avrebbe giammai dimenticato di avere a Glascovia un amico cui tanto si era affezionato. Eduardo gli promise di scrivergli in ogni fin di mese, facendogli capitare la sua lettera unitamente al ricevo della polizza mensuale. Maurizio non rivide Eduardo Horms che dopo la morte del Baronetto, e quando trasse a Glascovia per eseguire le ultime volontà di Edmondo, il quale lasciava a ciascuno dei suoi cinque figliuoli la somma di duemila e quattrocento piastre. Non dipingiamo la gioia onde queste due nobilissime anime si rividero e si riabbracciarono. Una nube di tristezza copriva per altro la fronte, pel consueto tranquilla, del Barkley. Tutto il mistero della propria nascita fu rivelato al giovinetto di Glascovia, il quale pianse a lungo sulla morte del genitore, e dal profondo del cuore gli perdonò il tradimento fatto alla madre, e l’abbandono del figlio. Maurizio disvelò benanche al caro giovine l’esistenza ed i nomi degli altri quattro fratelli, i quali viveano in diverse regioni: narrò la storia di Daniele, e fece tal dipintura commovente della sventurata Lucia Fritzheim, che Eduardo ne fu tocco profondamente, e promise a Maurizio che, se si fosse determinato a venire in Napoli, dove il chiamava l’ardente suo desiderio di ammirare i capilavori di pittura che si conservano in questa città, avrebbe cercato tutti i mezzi di conoscere ed avvicinare l’adorabile figliuola dello stradiere. La storia di Daniele, la sua ambizione, la sua avidità di ricchezze, il tradimento fatto alla sventurata Lucia, le strane e terribili condizioni poste dal padre alla eredità, sorpresero e addolorarono il virtuoso e nobil cuore di Eduardo. Maurizio nulla gli avea rivelato dei suoi sospetti sulla reità del giovine erede, però che questo era un segreto che egli avrebbe voluto nascondere anche a sè medesimo. Eduardo regalò all’ospizio della Maddalena, pio stabilimento dove son ricettate in Glascovia le donne penitenti, parte del retaggio paterno che gli era stato portato da Maurizio, e parte ne fece dono all’altro ospizio di Hutcheson. Prima di separarsi da Eduardo, Maurizio il pose a parte delle pene del proprio cuore; e gli manifestò il suo amore per Emma di Gonzalvo. Eduardo fe’ voti al cielo che la bella andalusa corrispondesse ai puri sentimenti dello amico, e gli augurò tutto il bene che avrebbe potuto desiderare ad un fratello. I due amici si promisero d’intrattenersi continuamente per via di lettere, e si separarono giurandosi un’eterna e costante amicizia. Alquanti mesi dopo la partenza di Maurizio, Eduardo si risolse a venire in Francia e in Italia: la sua passione per le arti lo trasportava. D’altra parte, egli aveva il fermo proponimento di stringer la mano ai suoi quattro fratelli e sorelle, di cui si era fatto dare da Maurizio le indicazioni e gl’indirizzi: avrebbe offerto loro la sua amicizia e i suoi servigi, se costoro ne avessero avuto bisogno. Libero indipendente e ricco, Eduardo non indugiò a mandare ad effetto il suo proponimento, e partì, dopo aver raccomandato al suo amministratore i suoi affari commerciali, e la sorveglianza delle officine di _Clyde iron-works_. Egli visitò le principali città della Germania, e tra le altre quella dov’era sepolto suo padre, il Baronetto Edmondo Brighton, di cui volle veder la tomba a _Schoene Aussicht_: s’informò del giovine italiano Daniele dei Rimini, erede universale delle ricchezze del Baronetto, e gli fu detto che da poco tempo il nuovo Conte di Sierra Blonda era partito da Manheim, non ostante il divieto dei medici, ai quali il suo cattivo stato di salute incutea timore. Diceasi che egli recavasi in tutta fretta a Napoli per ammogliarsi. Eduardo conoscea la storia degli amori del giovine pianista; e più non dubitò che lo avrebbe trovato a Napoli: laonde si partì da Manheim, prendendo la volta della Francia. Arrivato a Parigi, non sapremmo dire che impressione produsse sull’animo suo questa rumorosa capitale, dove sembra che gli uomini non debbano avere altra occupazione che il divertimento. Eduardo sapea da Maurizio che suo fratello Federico Lennois non era a Parigi, ma bensì a Pisa, dove avrebbe anche trovata sua sorella Luigia Aldinelli: ei dunque si affrettò di volare in Italia, che egli sospirava di vedere, e dove tante artistiche commozioni lo aspettavano. In Francia ei non avea trovato che _caricaturisti_ e buoni dipintori di figurini di moda. Come prima ebbe posto il piede in Italia, Eduardo sentì una vita novella, un nuovo essere; tutto parlava alla sua fantasia; tutto il commovea e richiamava le lagrime agli occhi suoi. I campi rivestiti di eterna verdura, l’azzurro purissimo del cielo, la soavità voluttuosa dell’aria, gli occhi incantatori delle donne, i canti popolari ricolmi di malinconiche melodie, la magia inarrivabile del pennello, dello scarpello e del bolino, mettean sottosopra il cuore di lui e lo riempivano di un fiume di dolcezza e di amore; sicchè si trovava sempre sulle labbra il verso di Byron: _Is this a fancy that our reason scorns?_[1] Volò a Pisa: ardeva dal desiderio di conoscere almeno due de’ suoi fratelli: col cuore palpitante di commozioni trasse all’abitazione di Federico Lennois, secondo gli indizi ricevuti. Federico accolse dapprima lo straniero con freddezza e circospezione; ma quando questi si ebbe svelato e gli ebbe detto esser lui Eduardo Horms, figlio dello stesso genitore, Federico mostrò di gradire infinitamente la visita di lui. Già la fama delle ricchezze di Eduardo gli era giunta, per via di Maurizio, non meno che la riputazione che quegli si aveva di generoso spenditore in fatto di opere di arti. Federico ebbe un pensiero felicissimo: fargli vedere il quadro che tenea chiuso nel mistero del più gran segreto, avendolo destinato alla grande Esposizione di Parigi. Se Eduardo vedesse il quadro, non ci era dubbio che lo avrebbe comprato a qualunque prezzo. Il cuor di Federico battea violentemente al pensiero della ricchezza che teneva in pugno. Non mise però tempo in mezzo, e disse al giovine scozzese di seguitarlo in un’altra stanza, dove gli avrebbe fatto veder qualche cosa da rapirlo nel cielo. Federico prese per mano il fratello, il menò attraverso parecchie stanze, e si trovarono entrambi in uno studietto angusto che era chiuso a doppio giro di chiavi: una maniera di armadio era colà, dissimulato perfettamente nella parete. Federico si accostò a questo armadio, toccò un bottoncino perduto nella spessezza del muro, e l’armadio si aprì, lasciando scoverta una tela di circa otto palmi, e sulla quale era dipinta a grandezza naturale una figura di donna inginocchiata. Federico trasse il quadro dall’armadio e lo pose a luce per farlo osservare a Eduardo Horms. Il giovine scozzese spalancò gli occhi; ebbe una specie di capogiro; si avvicinò al quadro, si allontanò, e restò cogli occhi ardentemente fissi su quella tela. — O Dio immortale! Che bellezza è mai questa! Che espressione in quegli occhi rivolti al cielo! Che verità in que’ colori dell’alba che si annunzia da quella finestra! Che celeste candore e che profonda malinconia nelle sembianze di quella fanciulla inginocchiata! Ecco l’anello divino che congiunge l’anima dell’uomo a Dio, la creatura al Creatore; ecco il linguaggio dell’anima che prega per le miserie del corpo... ecco la Preghiera in tutta la purezza e la sublimità della sua forma cristiana... Ma questo è un lavoro sorprendente!.. Qui ci è del Raffaello... ci è dell’antico... e, soprattutto, qui ci è del genio Italiano a ribocco... Per carità, ditemi di chi è questo capolavoro? Eduardo, che avea gli occhi immobilmente fissi sulla tela, non vedea l’effetto che le sue parole produceano sul Lennois... Questi era estremamente pallido, nel tempo stesso che da’ suoi occhi partiva un baleno di gioia febbrile. — QUESTO QUADRO È MIO, mormorò Federico abbassando lo sguardo. — Vostro! vostro! Oh... non è possibile! non è possibile! esclamava Eduardo... O voi siete un secondo Raffaello, o siete un mentitore. — Signore!... disse Federico con voce profonda e sepolcrale. — Perdono, perdono, fratello; ma io sono fuori di me per la gioia, ripigliava Eduardo senza staccar gli occhi dal quadro... Io non so quello che dico, ma è certo che questo è un capolavoro. Oh! benedetto Iddio che ha fatto questa terra di genii! oh! benedetto, mille volte benedetto di avermi dato in voi un fratello! Federico Lennois, tu sei un genio; ed il nome tuo valicherà i secoli. Va, tu meriti di portare un nome immortale; lascia che io ti abbracci, e che stampi un bacio sulla tua mano, che ha fatto questa maraviglia dell’arte. Eduardo si gittò nelle braccia di suo fratello, il quale era divenuto livido come cadavere, e non corrispose al bacio cordiale dello scozzese. — Volete comprar questo quadro? si contentò di dire Federico, però che questa era l’idea che campeggiava nella sua testa. Egli gittava così l’agghiacciato positivismo della cifra su gli slanci della più entusiastica ammirazione. — Se voglio comprarlo! Ma voi dite da senno? Possibile che voi mi offriate di comprar questo quadro? — Sì, rispose seccamente il Lennois. — Ebbene, io lo compro a qualunque prezzo — Parlate — Cinquantamila franchi. — Cinquantamila franchi! — Non potrei darlo per meno. — Ma questo è un prezzo tenuissimo, disse Eduardo con gran maraviglia dell’artista; io ve ne offro il doppio; vi darò centomila franchi, anche per darvi un testimonio del mio affetto e della mia ammirazione. Quanto potrete darmelo? — Dopo che l’avrò messo alla Grande Esposizione di Parigi nell’anno venturo. — Ebbene, mi contento, e fido sulla vostra parola che nol venderete ad altri. — Ed io fido sulla vostra che me ne darete centomila franchi. — È convenuto. — Noi ci vedremo a Parigi in sul finir del mese di giugno l’anno venturo; io dimoro nell’Albergo di _Mirabeau_, strada della _Pace_... D’ora in poi il quadro è vostro. — Ed io ve ne ringrazio dal fondo del cuore, e spero di provarvi meglio la mia riconoscenza. I due fratelli si separarono, dopo di essersi riprotestata un’eterna amicizia, e scambiata solenne promessa di rivedersi a Parigi. Uscendo dalla casa di Federico, Eduardo si gittò a cavallo per fare una visita a sua sorella Luigia Aldinelli, povera lavoratrice d’immaginette di cera, la quale viveva in una delle campagne di Pisa. Ma ella avea cambiata dimora, nè si sapea dove fosse andata ad abitare. Molti vicini asserirono che ella era ita a Pisa. Per qualche giorno Eduardo cercò di trovare la sorella; ma fu tempo perduto... Il giovine scozzese ne sentì rammarico vivissimo, perchè avrebbe voluto soccorrere quella sventurata, la quale si dicea molto esperta nell’arte sua, ma oppressa da invincibile ipocondria. Tornate infruttuose tutte le ricerche, Eduardo partì per Napoli, dove sperava abbracciare Maurizio e conoscere Daniele e Lucia. Sappiamo la sua apparizione in casa del moribondo nuovo Conte di Sierra Blonda, e la sua istantanea risoluzione di sposare Lucia Fritzheim che egli vide ivi per la prima volta. Riportiamo ora le stesse parole che mettevano fine alla nostra precedente narrazione: «Sei mesi dopo la morte di Daniele, la famiglia Fritzheim non era più povera: Eduardo Horms, ricco di virtù e di dovizie, era lo sposo di Lucia, ed aveva ritirato presso di sè i fratelli e la sorella di lei. «Maurizio Barkley ed Emma sua moglie s’imbarcavano per l’Inghilterra; mentre Eduardo Horms colla sua nuova famiglia recavasi a Parigi ov’era aspettato da Federico Lennois. Il mese di giugno era per finire. Ritorniamo al presente all’Albergo _des Princes_, dove abbiam lasciato la famiglia Horms-Fritzheim. V. LA LETTERA Chiunque avesse veduto Lucia nell’Albergo _des Princes_ a Parigi, non avrebbe giammai potuto credere che quella bella ed elegante signora fosse la povera figliuola del doganiere Giacomo Fritzheim; eppure in nulla era cangiata l’anima della sensibilissima Lucia. Un velo di malinconia offuscava sempre la larga sua fronte; ma era questa volta una malinconia dolcissima, che amorosamente disposavasi a quella che formava il fondo del carattere di Eduardo, suo marito. Non poteva Iddio compensar meglio su questa terra la virtù di lei, che accordandole un compagno come il giovine poeta di Glascovia. Lucia aveva acquistato il colorito ed il vigore della più perfetta salute, ed ora l’avvenenza del suo volto era rialzata viemaggiormente da un’acconciatura del gusto più fino. Eduardo amava la sua sposa con un’adorazione che avea dell’infantile; non sapea discostarsene un momento; preveniva ogni desiderio di lei; molti ne facea nascere appositamente, per avere il piacere di soddisfarli; rimanea talvolta le lunghe ore a guardarla; ed era così felice nel possedimento di quell’angioletta, che egli benediceva ad ogni momento il suo amico Maurizio di avergli la prima volta parlato di Lucia in maniera da mettergli nel cuore la brama di conoscerla. Eduardo circondava la sua giovine sposa con tutte quelle delizie della vita, che sono il compimento felice di un amore che non è giammai contento nelle sue manifestazioni, e che vorrebbe vedere l’oggetto amato pienamente satollo di felicità. Il giovane scozzese amava sua moglie con quel delirio tranquillo dell’anima e dei sensi che non sente, non respira, non vive che per l’oggetto amato. Educato nella solitudine del cuore, avvezzo ad espandere sulla universal natura la pienezza dei suoi affetti, il marito di Lucia erasi fatto di questo amore consacrato dal matrimonio una specie di culto. Era nonpertanto nel cuor di Eduardo un arcano sentimento di tristezza, di cui egli stesso non sapea rendersi ragione, e che non poche volte, quando egli si trovava al cospetto della consorte, il sospingeva a piangere come un fanciullo. Avvi nel fondo delle anime sensitive certi incomprensibili misteri, di cui indarno si cercherebbe trovar la spiegazione. Veggendo piangere il marito, Lucia, sulle prime, era spaventata, e gli occhi le si bagnavano parimente, di lagrime, ed ella chiedevagli la ragione di quel pianto. Eduardo non le rispondeva che stringendosela al cuore, e le chiedea perdono di affliggerla, e le prometteva che ciò non sarebbe più accaduto. La qual cosa non di meno si ripetea dopo mezz’ora, e ripeteansi del pari gli stessi trasporti di amore dall’una parte e dall’altra. Peraltro, se noi dovessimo addurre una ragione di queste momentanee tristezze di Eduardo, diremo che egli, siccome tutti gli uomini d’una esagerata sensibilità, era profondamente geloso. Però, comechè siffatta passione non avesse alimento alcuno nella piena corrispondenza di affetti che ei trovava nella moglie, il cuor di lui era qualche volta inquieto per vaghi timori, per apprensioni lontane, per quella debolezza di animo che accompagna sempre le grandi e profonde passioni. D’altra parte, ancor viva era la rimembranza dell’amor di Lucia per Daniele de’ Rimini: e questo pensiero non lasciava di gittare un’ombra sulla felicità di Eduardo. Noi non entreremo nell’intimo del cuor di Lucia per investigare se la ricordanza di Daniele il facea battere ancora. Il cuor della donna è un santuario di cui fa d’uopo rispettare i misteri, tenendoci contenti a quella amorosa luce che da esso deriva e che anima, ravviva e riscalda tutto ciò che lo circonda. Gli è certo che Lucia amava suo marito coll’abbandono di tutta l’anima, colla delicatezza di un sentimento di gratitudine che nobilitava l’amore senza scemarne la intensità e la tenerezza. Eduardo le aveva detto, alla presenza del cadavere di Daniele: «Lucia Fritzheim, al sublime tuo cuore conviensi un cuor puro e vergine di affetti: alla tua mano ardente di giovinezza conviensi una mano parimente giovane e forte»: E queste parole l’aveano salvata dalla disperazione e forse dalla morte: queste parole aprivano dinanzi a lei una vita novella, nel momento che una tomba schiudevasi, nella quale tutte le parea che andar dovessero ingoiate le speranze che annodano la donna alla vita. Daniele aveva occupata tanta parte nell’esistenza di Lucia, che costei credeva non poter il suo cuore esser capace di altro amore. Ma è questo uno de’ più validi argomenti a dimostrare la profonda miseria e debolezza dell’uomo. Nei momenti di disperazione egli gitta uno sguardo nel proprio cuore, e dice a sè medesimo: Ora posso morire, perchè tutto è morto di quanto mi attaccava alla vita. Un istante dappoi, sorge una emergenza felice, ed ei si slancia novellamente con trasporto e fiducia nel campo dell’avvenire. Eduardo non avea sposato Lucia che circa sei mesi dopo la morte di Daniele: egli avea rispettato il lutto del cuore di lei. Coloro i quali veggono tutto co’ colori dell’esagerazione e che non perdonano mai alle azioni di una donna, quali si sieno, ammiravansi del come subitamente si fosse spento nel cuor di Lucia il suo ardentissimo affetto per Daniele, ed ella avesse, dopo men di sei mesi, dato la mano di sposa ad altro uomo. Noi, pel converso, veggiamo in questa condotta di Lucia la più bella pruova della nobiltà della sua anima. Doveva ella sacrificarsi ad un eterno e sterile rimpianto? La lieta e prosperevole sorte della sua disgraziata famiglia non sarebbe stata sacrificata ad una vana ostentazione? Un rifiuto non sarebbe stato la più grande ingiuria alla Provvidenza e la più indegna ingratitudine verso un cuor nobile, affettuoso e leale, che era stato sì profondamente commosso dalle sventure e dalle virtù di lei? Crediam superfluo di aggiungere che Eduardo amava i fratelli di Lucia come suoi fratelli, ed in ispezialità quell’infelice creatura di Uccello, verso il quale Eduardo era prodigo delle più tenere cure, trattandolo con quelle blandizie e adescamenti onde soglionsi prendere i pargoletti. Marietta la sorella minore di Lucia, erasi fatta assai più bella, benchè un poco più seria... Il viaggio e le contentezze di ogni maniera le avean dato una incipiente pinguedine. Ella era così felice nel veder felice la sorella! Al che si aggiungevano le tante vesti e scialli e merletti che il cognato le regalava, e che pur formano tanta parte della felicità d’una fanciulla, d’una donna. Laonde s’immagini ognuno s’ella amasse Eduardo! Colla sorella; Marietta non parlava che di Eduardo, non volea sentir parlare che di lui, e spesso dicea, colle lagrime agli occhi e col riso sulle labbra, che se Dio avea tolto il senno a un fratello e la vita ad un altro, che pur qual fratello ella aveva amato, le aveva dato in compenso un fratello che era... e qui sciorinava tante lodi stravaganti, e diceva tante curiose assurdità, che Lucia ed Eduardo ne ridevano di cuore, e più amavano quella vispa ed innocente creatura. Eduardo solea dire, per ischerzo, che egli amava più Marietta che Lucia, e che, quella era più bella di questa, perchè avea come lui, occhi cerulei e capelli biondi. In sul principiar del capitolo precedente lasciammo, in una stanza dell’Albergo _des Princes_ a Parigi, Eduardo occupato a leggere il _Debats_, e Lucia a scrivere una lettera. Non poche volte Lucia era stata costretta ad asciugarsi gli occhi che le si empivano di lagrime, mentre ella fermava sulla carta i suoi pensieri. Dicemmo che Eduardo era inquieto per una certa impazienza di aspettativa; in fatti le sei erano sonate da un quarto d’ora ad un magnifico orologio da tavolino, e la persona che Eduardo aspettava avrebbe potuto arrivare da oltre un’ora. — Che ti sembra della mia lettera? avea dimandato Lucia alla sorella, alzando su lei i suoi belli occhi neri. Marietta era tutta piegata col corpo e colla testa in sullo scritto; per modo che Lucia incontrato il volto della sorella sì vicino al suo, vi stampò due baci sonori, che le furon renduti con usura dalla vispa fanciulla. — La tua lettera è bella come te e come la persona a cui è diretta. — Adulatrice! — No, davvero ti dico, sorella, disse Marietta cogli occhi rossi di pianto, tu hai certi pensieri, certe espressioni, ch’io non so come le abbi e dove le vadi a pescare... Un letterato, un poeta, e sia pure l’eccellentissimo signor Eduardo Horms, non potrebbe scrivere meglio. Il giovine, udendo nomarsi, alzò gli occhi. — Di che si tratta? Ah! hai finita la tua lettera, Lucia; bravo... sentiamola... A chi scrivi? — Bravo! Sentiamola!... A chi scrivi?... ripetè Marietta, contraffacendo la voce del cognato; e questo è appunto quello che non vogliamo dirvi... Gli uomini non debbono impacciarsi negli affari delle donne. Vogliam noi forse conoscere quello che dice cotesta cartaccia stampata che avete nelle mani? Le donne colle donne e gli uomini cogli uomini. Eduardo sorrise, e si alzò gittando sovra una mensola il giornale: egli si era avvicinato al tavolo dov’erano la moglie e la cognata. — Via, via, Marietta, disse Lucia, per questa volta sola gli daremo il piacere e l’onore di metterlo in terzo nelle nostre faccende. — Ebbene, signor geloso, ripigliò prestamente Marietta, mettendo la mano sulla lettera per non farvi gittar gli occhi a Eduardo, noi abbiamo scritto... indovinate a chi? Marietta dette un’occhiata alla sorella. — A chi avete scritto? — Ebbene... al mio innamorato, soggiunse in aria solenne la graziosa fanciulla. — Bravissimo!... sclamò sorridendo Eduardo, al tuo innamorato! E Lucia ti fa da segretario n’è vero? — Lucia è meglio fatta per queste cose... non è la prima lettera di questo genere ch’ella scrive... Mi ricordo ben io... a _S. Maria degli Angeli alle Croci_... Uno sguardo supplichevole di Lucia impose silenzio alla troppo indiscreta verbosità della fanciulla... Il sorriso era sparito dalle labbra di Eduardo, e una nube di tristezza ne aveva coperta la bella fronte... Egli avea compreso che trattavasi di Daniele dei Rimini. — Abbiamo scritto a Emma Barkley di Gonzalvo, si affrettò a dire Lucia, per dissipare il rabbruscamento della fronte del marito. Leggi la mia lettera, Eduardo. Questi tolse nelle mani la carta e lesse: «Parigi, 28 giugno 1829. — Dilettissima e generosa amica — Questa mattina alle 12 siamo arrivati in questa capitale della Francia in ottimo stato di salute, per la mercè di Dio. Noi non ci siamo trattenuti che poche ore a Marsiglia, però che mio marito avea grandissima premura di giungere a Parigi per la compera diffinitiva del quadro di Federico Lennois, siccome forse vi è noto, e che mio marito assicura essere il più stupendo lavoro di pittura dei tempi nostri. Ben sapete se egli s’inganna nei giudizi che dà sulle opere di arte. Del resto, tra poco l’Europa ne giudicherà, dappoichè il quadro avrà il suo posto nella Grande Esposizione che avrà luogo in questa capitale nel corso dell’entrante mese. Non abbiamo avuto un momento di tempo in tutta questa giornata, ed ora il mio primo pensiero è quello d’intrattenermi con voi, e dirvi quanto io sono felice a fianco del migliore degli uomini, e nel mezzo dei miei cari fratelli. O Emma, io credeva che le sorgenti della mia sensibilità fossero state per sempre inaridite dalle mie sventure; ma Iddio mi ha benedetta con tesori di amore! Vi scrivo questa lettera bagnandola colle mie lagrime di gioia, la quale divide con me la mia buona sorella Marietta, che m’incarica di dirvi tante cose, e di abbracciarvi mille volte... Ma, ohimè! quando penso al vostro dolore, dilettissima amica, io mi rimprovero di esser felice, e di parlarvi della mia contentezza, quando voi piangete la morte del Duca vostro padre! Questa notizia fu per noi un colpo di fulmine. Morto apoplettico! Se aveste almeno potuto raccoglierne gli estremi aneliti! Che cosa farà la Duchessa vostra madre? Iddio l’assista, e accordi forza a entrambe per sopportare una tale impensata sventura. «Per distrarvi un momento dal dolore, vi dirò che questa mattina stessa ho saputo che nella galleria del Piccolo Lussemburgo sono esposti alla vendita, a favore dei poveri, i lavori delle più distinte dame di Parigi: due volte all’anno si fa una simil vendita. Questo nobilissimo pensiero fu della Viscontessa di Ambray. Mi si dice che vi sieno stupendi lavori, tra i quali gli abiti ornati di ricami, opera della Marchesa di Gosse, non meno che altre magnifiche fatture della Signora Ecquerello e di Madamigella O... Domani mi recherò al Piccolo Lussemburgo a fare qualche compera; e voi permetterete che la moglie del Banchiere Eduardo Horms ardisca offrire ad Emma Barkley un piccolo ricordo di Parigi quale attestato di gratitudine pei tanti favori ond’Emma di Gonzalvo confondeva in Napoli la povera Lucia Fritzheim... Oh con quale amore io bacio ogni giorno il prezioso anello che mi metteste al dito la prima volta che onoraste di vostra presenza il nostro povero tugurio! Eduardo mio marito è geloso di quest’anello, ma il poveretto non me lo dice per tema di dispiacermi.» A questo punto Eduardo interruppe la lettura della lettera, e guardò la moglie con uno di quegli sguardi più loquaci di qualunque frase: un mesto sorriso sfiorava le sue labbra. Egli continuò: «Quest’anello, voi lo diceste, è il simbolo del legame fortissimo che unisce i nostri cuori. O Emma, dopo mio marito e la mia famiglia, voi siete il mio pensiero, l’amor mio. Quando sarà che io vi riabbracci? «Mia sorella Marietta e i miei fratelli mi incaricano di dirvi un milione di cose, che voi indovinerete; e vorrebbero abbracciarvi, se voi loro il permetteste, come vi abbraccio io da amica appassionata. «I saluti più affettuosi all’ottimo vostro marito, «Addio, Emma, addio. Possa la mia felicità riverberar su voi e dissipar quella tristezza da cui è oppresso il vostro animo! Addio, dolce amica; un altro abbraccio, un altro bacio della vostra.... LUCIA.» La lettera era finita, ed Eduardo era ancora cogli occhi sovr’essa, rigustando il piacere di leggerla sottovoce. Non dimentichiamo di dire che i pochi mesi della sua dimora in Napoli erano bastati a Eduardo per imparare l’italiano. D’altra parte, non s’impara in un attimo la lingua parlata dalla donna che si ama? Eduardo trasse dal suo taccuino il lapis, e a piè della lettera pose in inglese: «Eduardo Horms rende i più devoti omaggi a Mrs Barkley, e la prega di dire a suo marito che col prossimo corriere riceverà sue lettere.» Un cameriere si presentò alla porta del salone. — Finalmente! esclamò Eduardo gittando la lettera sul tavolo; ebbene, perchè tardaste tanto? L’avete trovato? — Egli mi segue, signore. — Ah! bravo! Eduardo corse verso l’uscio, dove si abbattè faccia a faccia con Ferdinando Ducastel. Il servo si ritirò per lasciar passare il novello arrivato. La porta del salone fu chiusa. VI. LA COMPERA Ferdinando Ducastel era nobilmente vestito, una giubba nera, opera del più rinomato sarto di Parigi, un corpetto bianco venato di leggiera e finissima stoffa, calzoni e cravatta nera, la quale lasciava scoperta una ben increspata gala di camicia, su cui sfolgoravano due bottoncini di brillanti, formavano il suo ricercato abbigliamento; portava nelle mani, coverto da guanti di color paglino, un elegante cappello all’ultima moda: un semplice nastrino rosso senza ciondoli sporgeva dal taschino dell’oriuolo. I suoi corti capelli e la lunga barba erano allustrati e profumati con isquisiti oli odorosi. Questa ricercatezza di vestimenti e di acconciatura formava un gran contrasto col suo viso marmoreo e scolorato. Entrando Ferdinando Ducastel nel salone dove era raccolta quella famiglia, Lucia mise un leggier grido di sorpresa, e la sua faccia diventò bianchissima. Per una di quelle illusioni onde non rare volte sono prese le anime sensibili che han molto sofferto per la perdita o per la lontananza di qualche cara persona, parve a Lucia di veder entrar redivivo Daniele dei Rimini. Quell’esclamazione non era sfuggita a Eduardo, che l’attribuì a mera sorpresa alla vista della persona, di cui tante volte egli le avea parlato. Certo si è che, venendo per la prima volta Ferdinando Ducastel nel mezzo di quella felice famiglia qualche cosa di tristo e di agghiacciato pesò su tutt’i cuori, come se quegli fosse venuto ad arrecare una dolorosa novella, e a strappare una parte della felicità di che godevano quelle virtuose creature: Vi sono alcuni la cui presenza annunzia subitamente disgrazie e mali, appunto come que’ volatili la cui comparsa sul mare è foriera di tempesta. Non si sa spiegare il sentimento di paura che essi incutono negli animi: parte dagli occhi loro un raggio malefico, come dallo sguardo di un serpe avvelenatore; l’ambiente che gli attornia par che risenta la pressione di queste esistenze maledette; tutto si agghiaccia dappresso a loro, s’inaridisce e muore, come interviene alle piante sottoposte alla influenza del gelo o di qualche altra devastatrice cagione. Lucia e Marietta si erano abbracciate, tratte l’una verso dell’altra da un movimento simultaneo di paura, e guardavano con una inesplicabile curiosità la persona che era entrata. Marietta aveva indovinata la viva illusione che era passata nell’animo di Lucia all’aspetto di quel personaggio, e, a voce bassa, e quasi nell’orecchio, le avea detto: — Non ti è parso di veder Daniele? Lucia non rispose che stringendosi più dappresso alla sorella. Ma questa strana illusione non avea soltanto colpito le due sorelle, ma aveva attraversato benanche il grossolano spirito di Uccello, che ad alta voce avea detto: — Oh! il Contino! E dicevano che era morto! Eduardo era corso all’incontro di Ferdinando Ducastel: veggendolo, distese le braccia verso di lui; ma questi si trasse alcun poco indietro, e, invece di corrispondere all’amplesso del giovine scozzese, balestrò uno sguardo attorno al salone, fermandosi su Lucia, la quale fu costretta ad abbassar gli occhi. — Con quanto piacere ti riveggo, mio caro Federico! A questo nome Ferdinando Ducastel fu scosso come da un fulmine; afferrò per mano Eduardo, il menò rapidamente in un angolo del salone, e sottovoce gli disse: — Che cosa sono queste donne e questi fanciulli? — Mia moglie e i miei cognati. — Vostra moglie! esclamò sorpreso Ducastel, e fece un inchino a Lucia che il guardava sempre con un certo arcano sentimento di paura. — Lasciate che io vi presenti a Mistress Horms. — Un momento, si affrettò a dire Ducastel; innanzi tutto fa d’uopo ch’io vi avverta che da molto tempo io non mi chiamo più Federico Lennois, ma Ferdinando Ducastel. Ho le mie ragioni per un tal cangiamento: e mi auguro che voi vorrete darmi una pruova della vostra amistà, serbando nel più profondo segreto il mio antico nome. Me lo promettete? — Ve lo prometto. — Sul vostro onore? — Sul mio onore. — Ma ciò non basta; fa d’uopo che vostra moglie ed i vostri cognati non imparino a chiamarmi che col nome di Ferdinando Ducastel, siccome oggi sono conosciuto a Parigi. — Sarà fatto, se ciò vi fa piacere. Il nostro comune amico Maurizio Barkley mi aveva già parlato del mutamento del vostro nome; e quando io venni a visitarvi a Pisa già sapea di tal cangiamento; ma volli chiamarvi col nome del fratel mio. Oggi solennemente vi prometto che nessuno al mondo saprà che un giorno vi chiamavate Federico Lennois. — Ed io ve ne ringrazio, Eduardo: a suo tempo vi dirò i motivi che m’indussero a questa trasformazione, che dee naturalmente sorprendervi. — Quali che sieno i motivi che a ciò v’indussero, io li rispetto, e sono contento quest’oggi di stringer la mano di Ferdinando Ducastel, siccome l’anno scorso fui contento di stringer quella di Federico Lennois. Questo breve dialogo era avvenuto a voce così bassa tra i due giovani che le donne ed i fanciulli non ne potettero udir niente. Soltanto Lucia e Marietta non lasciavano di ragguardare il giovine artista con una sostenuta attenzione, trovando qualche cosa d’inesplicabile nelle sue maniere e nel suo aspetto. — Ora presentatemi a vostra moglie col mio secondo nome. — Ma ella vi riconosce come Federico Lennois. — Mi riconosce! E quando e dove mi ha veduto, o inteso nominarmi Lennois? — Io le ho parlato tante volte di voi, ed ella sa che voi siete la persona che io aspettava, e che questa persona si chiama Lennois, perciocchè giammai non le ho fatto parola del cangiamento del vostro nome. — Ebbene, non importa: presentatemi a lei come Ducastel. Eduardo prese per mano il francese e, avvicinandolo a Lucia, le disse: — Lucia, vi presento il signor... Ferdinando Ducastel. Lucia fu estremamente sorpresa di questo nome. — Ferdinando Ducastel!! ella esclamò. Questo signore non è dunque l’artista Federico Lennois. — Sì Mistress Horms, rispose Federico, (però che ora sappiamo che Ferdinando Ducastel non è altri che lo stesso Lennois) io sono l’artista; ma il mio nome non è più Federico Lennois, sibbene Ferdinando Ducastel. Alcune ragioni particolari m’inducono al presente a seppellire nel mistero il nome di Lennois; ed io rivolgo a voi, Mistress Horms, ed a’ vostri fratelli la stessa preghiera che ho diretta a vostro marito, di non pronunziar giammai il nome di Federico Lennois. — Esso non sarà mai pronunziato da noi, signore, se questo è il vostro piacere. — Grazie, Mistress Horms, grazie, rispose Federico baciando la mano di Lucia: questo tratto della vostra amicizia sarà per me un sacro titolo di eterna gratitudine. A quel bacio sulla mano Lucia sentì scorrersi per le vene un gelo mortale. Federico aveva fissato i suoi occhi sul volto della giovine moglie di sir Eduardo, e sembrò abbandonarsi ai suoi pensieri. — Voi ignoravate il mio matrimonio? dimandò Eduardo. — Interamente. E Mistress Horms è inglese? — No, ella è napolitana. — Napolitana! Oh davvero! napolitana! Ella è nata in Napoli! Forse in questa città d’Italia l’avete sposata, non è vero Eduardo? — Verissimo. — Da quanto tempo? — Non son che due settimane. — Ah! voi dunque siete nella vostra luna di miele! siete nel tempio della felicità! Ci era nell’accento con cui queste parole furono pronunziate, qualche cosa di sinistro e di lugubre: l’invidia, che spesso alligna ne’ francesi, trapelava quasi visibilmente nel Lennois. — Sì, rispose Eduardo assorto nel pensiero della propria felicità, io sono veramente contento e felice della mia scelta. Lucia è un angelo di bontà, e queste care creature che mi circondano sono la mia gioia, la mia consolazione... Dopo alcuni momenti di silenzio, Eduardo riprese: — Siete stato in Napoli, fratello? — Certamente; ci fui nell’anno 1825... Città incantevole, paradiso del mondo! Sotto quel cielo posi per poco in obblio le mie sventure. Ivi soltanto io sono stato meno infelice. Quando la sera io traeva a passeggiare su la riviera di Mergellina, e fissava i miei sguardi su quell’anfiteatro di colline su cui la luna gittava le sue onde di candidissima luce: quando nel silenzio della sera, venivano a colpir le mie orecchie i canti dei marinai che sposavano le loro malinconiche melodie al mormorio della spiaggia, la quale sembrava raccogliere nel suo grembo acque di argento: quanto, in sull’alba, schiudendo il balconcino della mia terrazza a Mergellina, una luce purissima, un’aura ricca di odori inebbrianti mi circondavano allargando i miei polmoni e tutta l’anima mia; oh... in quei momenti io era felice, nè saprei dirvi quel che sentiva il cuore!... Ma, quando la società mi attorniava coi suoi rumori, quando cessavano le voci della natura, e cominciavano quelle degli uomini; la tristezza e l’esasperazione si impadronivano di me, ed io malediceva i nomi di coloro che, in sull’aurora della mia esistenza, avvelenarono l’anima mia. A quelle rimembranze della sua patria, gli occhi di Lucia si erano bagnati di lacrime: le parole di Federico avevano fatto su lei un’effetto singolare. Ella non guardava più con sospetto il giovine artista... e questo era ciò che bramava Federico Lennois, il quale con uno sguardo aveva indovinato la tempera di animo della moglie di Eduardo, e di botto avea trovato le armi onde investirla. Scuotere l’ardente fantasia di lei, muoverne la sensibilità; eran questi i mezzi onde guadagnar la stima della napolitana, e Federico adottò un linguaggio di poesia per commuoverla. Egli avea bisogno di cacciar dall’animo di lei il sospetto che naturalmente avea dovuto nascervi dal cangiamento di nome onde egli le si era per la prima volta presentato. — È ormai tempo di parlar di affari, disse Eduardo porgendo una sedia a Federico, e sedendosi di fronte a lui. — Parliam di affari, rispose Federico, senza staccar gli occhi dal volto di Lucia. — Noi ci siamo trovati esattissimi al nostro convegno, mio caro... Ducastel, n’è vero? — Ducastel, ripetè Federico, guardando questa volta fissamente negli occhi a Eduardo. — Oggi siamo al 28 Giugno, continuò questi, e noi ci avevamo scambievolmente promesso di vederci in questa città non più tardi della fine di questo mese. — E ci siamo: io sono a Parigi da oltre 15 giorni: vi aspettava con impazienza; ma non ho neppure per un istante dubitato della vostra lealtà. La parola di un Inglese è proverbiale per l’esattezza; e quella del banchiere Horms è nota per la sua rigorosa puntualità. — Il quadro? dimandò Eduardo con ansietà. — È pronto rispose Federico; alla fine dell’entrante mese è vostro. Gli occhi dello scozzese scintillarono di gioia. — Vorreste permettere a Mistress Horms e sua sorella di ammirare il vostro capolavoro innanzi che il presentiate all’Esposizione? — Ben volentieri... Ma il tempo stringe, però che pel primo di luglio prossimo debbo consegnare il quadro alla commissione incaricata di ricevere le opere di arte... Vi aspetto dunque domani all’albergo _Mirabeau_, alle undici del mattino. — Opera maravigliosa! Stupendo lavoro!! esclamava Eduardo, rapito al ricordo delle bellezze del dipinto. — Mio marito non si sazia di levare al cielo il vostro lavoro, signor Ducastel: comprenderete però e scuserete la nostra natural bramosia di ammirarlo, prima che gli occhi di tutta Parigi si fissino sovr’esso. — Ascrivo a sommo onore cotesta vostra brama di vedere il mio debil lavoro, Mistress Horms. Eduardo erasi intanto recato ad uno scrigno, e ne avea tratte alcune cambiali. — Eccovi una parte del prezzo del vostro quadro: sono dieci banconote su la casa Dufresne di Parigi del valore di cinquemila franchi ognuna. Federico tolse nelle sue mani le cambiali, le scorse con avidi occhi, e disse: — Sono in perfetta regola. Eduardo gli presentò l’occorrente da scrivere. — È ben giusto. Federico si sedè e scrisse: «Ho ricevuto da sir Eduardo Horms, di Glascovia, la somma di cinquantamila franchi, metà del prezzo convenuto del mio quadro rappresentante _La Preghiera_ a lui venduto, quello stesso che verrà tra giorni da me esibito alla Grande Esposizione di questa città. Io mi obbligo di consegnargli il detto quadro non sì tosto cessata la pubblica mostra di Belle Arti. — Parigi 28 giugno 1829. _Ferdinando Ducastel_.» Eduardo gittò gli occhi sulla scritta di Federico, e stette qualche tempo a considerarvi sopra. Federico si affrettò a dire: — Non abbiate alcun dubbio per la diversità del nome. Il mio quadro porterà all’Esposizione il nome di Ferdinando Ducastel... Federico Lennois più non è.... L’AUTORE DEL QUADRO LA PREGHIERA NON È FEDERICO LENNOIS. Eduardo intascò la ricevuta di Federico, e sembrò al tutto sicuro della lealtà di suo fratello e della validità dell’obbligazione da lui fattagli. La conversazione si raggirò sovra altri soggetti, ai quali presero parte eziandio Lucia e Marietta. — Ho letto testè nel _Dèbats_, disse Eduardo, che S. M. il Re Carlo X è venuto da S. Cloud in questa capitale per vedere nel palazzo del Louvre il dipinto del suo primo pittore, il Barone Gèrard, nel quale questo artista ha rappresentata l’epoca memoranda della incoronazione del Re nella Cattedrale di Reims. Avete veduto questo quadro? — Sì, rispose freddamente Federico, è un bel lavoro. — Oh! son così rare in Francia le belle dipinture! esclamò Eduardo. Io sono sicuro che quando Parigi contemplerà l’opera vostra, andrà superba del vostro nome; ma sono anche sicuro che voi non avreste fatta quella magnifica creazione, se non vi foste ispirato al cielo d’Italia: non è vero, Ducastel? — Verissimo: quel quadro è un lavoro italiano, disse cupamente il Francese. — Oh come sono felice di esserne il possessore! esclamò Eduardo: conto tra i più be’ giorni della mia vita quello in cui venni a visitarvi a Pisa. — Ed io tra i più fortunati. Federico si alzò per accommiatarsi da quella famiglia. — A domani adunque, Mistress Horms; vi aspetto alle undici allo Albergo _Mirabeau_, strada della _Pace_. — Non mancherò di procacciarmi il piacere di ammirare il parto del vostro sublime pennello, sig. Ducastel. Lucia porse la sua destra all’artista, il quale strinsela nella sua. — A rivederci, Mistress Horms; addio felice Eduardo. — Addio, fratello: per l’ultima volta permetti che io ti abbracci come Federico Lennois. L’artista portò l’indice della destra alle labbra, significando che quel nome avesse a tacersi per sempre; indi s’inchinò alle due donne, e partì, gittando su Lucia uno sguardo onde costei fu scossa e rabbrividì. — Com’è pallido! disse Marietta... Ho capito ben poco di quanto avete detto fra voi. Maledetta lingua francese che non vuole entrarmi in testa! Avvicinatasi poscia alla sorella, e mettendole un braccio sul collo, le disse: — Ci è del Daniele in quell’uomo; or me ne sono accorta, e son sicura di non ingannarmi. Sarà un grande artista, ma non sarebbe un buon marito, n’è vero, illustre sorella? Lucia era rimasta pensosa, e non rispose che sorridendo sbadatamente alla fanciulla. Eduardo che avea accompagnato il Lennois fino all’uscio del salotto, ritornò stropiccicandosi le mani, come chi è contentissimo del fatto suo; e venne a sedersi tra i tre suoi cognati per prender parte a’ loro innocenti sollazzi. VII. LE DUE NAPOLETANE Il dì vegnente, Federico Lennois stava solo nella sua camera dell’Albergo Mirabeau. Erano le dieci del mattino; ed egli si era alzato da oltre un’ora, e si era messo a fumare una pipa d’ambra, seduto vicino ad una finestra aperta donde si godeva la vista della bella strada della Pace, e in distanza, la strada trasversale di Sant’Agostino, la piazza Vendome, la strada di Tivoli, e parte de’ cancelli del Giardino delle Tuillerie. Una ricca veste di camera di leggerissima stoffa copriva interamente la sua persona, non lasciando scoperte che le due estremità delle gambe, su cui aderivano perfettamente i calzoni color violetta ritenuti da due corte staffe. Egli avea due stanze al secondo piano e sul dinanzi dell’albergo, l’una delle quali gli serviva da camera da letto, e l’altra da studio e da salotto di ricevimento. Quest’ultima era fornita di tutto ciò che la moda e l’eleganza comandano che si tenga in una stanza da conversare: poco o nulla traspariva dell’artista; molto del gentiluomo. Ed infatti un artista si sarebbe tenuto contento di alloggiare nella parte interna dell’Albergo, la quale riesce su vasto e bel cortile. Presso ad una delle finestre del suo salotto, Federico si stava dunque seduto quella mattina, e facea vagar lo sguardo nella strada e i buffi di tabacco nel sereno cielo di està. Non ci arrischiamo a indovinare i pensieri che si aggiravano in quel capo; ma ben possiamo asserire che non erano concepimenti artistici o morali meditazioni quelle che facevano piegare a un tristo sogghigno le labbra di questo giovine. L’ora di solitudine del perverso è l’ora più trista per la società: più tardi, quell’ora sarà feconda di mali innumerabili: la Giustizia di Dio la segna nel libro incancellabile. Tre passioni terribili eran nel fondo del cuor di Federico Lennois: tre passioni, di cui una sola basterebbe a distruggere l’esistenza di un uomo; l’ambizione, la vendetta, l’invidia: l’ambizione che di nulla si sazia, che tutto calpesta per aggiungere una meta che sempre più si allontana; che pone una benda innanzi agli occhi e un’angue al cuore; che spegne ogni buon sentimento e vive nella tortura; e che, a guisa di fiamma repressa, incendia e divora tutti gli ostacoli per salire in alto: la vendetta, che si pasce nei pensieri di sangue e di morte; che tiene un occhio fisso all’offesa passata e un altro alla rivincita futura; e che si esagera sempre la prima per esagerarsi la seconda; e che si adopera giorno e notte a scavare una tomba, in cui dee precipitare un’esistenza aborrita: l’invidia, lurida, schifosa, strisciante, che ritien per offese personali gli altrui meriti e grandezze; che macera sè medesima e gitta la bava del suo veleno su tutto ciò che la circonda; e che adotta il linguaggio del serpe per trarre a morte i figli di Eva. Il pensiero della vendetta era quello che occupava in preferenza da qualche tempo il nero animo di Federico Lennois. Egli avea giurata la perdita di Giustino Victor e di Augusto d’Orbeil; ma l’odio suo era ormai tutto concentrato sul primo; e perchè era costui vicino a toccar l’apice dell’umana felicità sposando la donna che amava, e perchè il secondo avea fatto una specie di ammenda del suo passato, allorchè, presso al platano della mendica a Auteuil, avea proferite quelle parole di compassione per Federico Lennois, redarguendo la codardia di Giustino. Federico Lennois avea fatto a Auteuil il ritratto dei due sposi. Mentre il pennello riproduceva sulla tela quelle due vaghe sembianze giovanili e felici, la mente dell’artista covava i più tenebrosi disegni. Quanto più sorridenti eran quei volti, tanto più metteano la rabbia ed il livore nel petto di lui. La mano dell’artista dava novella esistenza a que’ bellissimi volti, e il suo pensiero ne meditava la distruzione. Per malaugurata fortuna, que’ due ritratti riuscirono rassomigliantissimi. La famiglia d’Orbeil non si saziava di profondere ringraziamenti ed elogi al giovine pittore, manifestandogli in pari tempo i più cordiali sentimenti di amicizia e le proteste di una riconoscenza, di cui il pregavano di volersi valere. Federico ricusò l’offerta di un prezioso gioiello onde il Visconte d’Orbeil volea ricompensare l’opera del valente artista. Giustino e Isalina erano più felici dacchè possedevano ciascheduno l’immagine dell’oggetto amato: eglino amavano l’artista per questo dono inapprezzabile che ne aveano ricevuto, e con ogni maniera di preghiere aveano ottenuto la sua promessa di assistere al loro prossimo matrimonio che doveva celebrarsi nel mese di settembre a Parigi negli appartamenti della Marchesa di Beauchamps, in casa della quale gli sposi dovean rimanere per qualche tempo. L’ammiraglio di Rigny avea promesso al giovine uffiziale di marina di fargli ottenere un avanzamento pel coraggio e pel valore onde erasi comportato in un incontro avvenuto nel Mar di Candia, contro un brigantino turco, e per lo zelo con cui aveva servito nel tempo della spedizione di Morea. Il ministro della marina Hyde de Neuville, e il ministro della guerra, Visconte di Gaux, aveano, con lettere ripiene dei più lusinghieri elogi, significato il loro compiacimento al giovine Victor, e gli avean dato le più belle speranze di vicine promozioni. Giustino Victor più non avea che desiderare; tutt’i suoi voti erano sul punto di essere appagati: la felicità lo circondava e gli sorridea da ogni parte: la natura, gli uomini e gli eventi lo favorivano. Ma, guai all’uomo che nel mezzo della sua felicità e quando l’anima sua è ricolma di contento, non leva uno sguardo al cielo in rendimento di grazie, e non ha sulle labbra una prece e una parola di consolazione per coloro che soffrono: LA SUA FELICITÀ SI CONSUMA E PASSA QUAL NUBE. Giustino Victor derideva i sofferenti, scherniva gli infelici, e si abbandonava con fiducia alla giovinezza, all’amicizia, all’amore: egli aveva il malvezzo di metter tutto in ridicolo, abito deplorabile che hanno la maggior parte dei Francesi, nella opinione de’ quali il buon successo giustifica tutto. Noi spesso siamo maravigliati e atterriti d’un colpo improvviso che abbatte a vespero un’esistenza sfolgorante di giovinezza il mattino; accusiamo il destino di una tanta ingiustizia, e gittiamo uno sguardo scoraggiante sulle sorti dell’umanità. Ma quel colpo ha le sue profonde ed arcane ragioni che sfuggono alla vista degli uomini, e il cui segreto è negl’immortali disegni di Dio, dalla cui onnipotenza ogni parola proferita sulla terra è pesata, ogni pensiero è scrutato, ogni azione è giudicata. Federico Lennois pensava al modo onde vendicarsi di Giustino Victor, la cui felicità era per lui un continuo insulto. Da oltre un mese Federico avea riveduto l’uffiziale di marina; erano stati assieme e sotto il medesimo tetto le intere giornate, e non avea ancora trovato una vendetta fredda e sicura; quando una luce infernale balenò nel suo cervello; con un colpo egli appagava la sua sete di vendetta, e rendeva misere tre famiglie, che ei detestava appunto perchè troppo felici. «Questo mezzo è sublime, mormorava tra sè il perverso: la loro insultante felicità sarà dissipata; l’abborrito Giustino cadrà forse per altra mano che la mia; la bella Isalina perderà l’amante adorato: piangerà la famiglia di Orbeil, piangeranno i parenti di Giustino; piangerà la Napoletana, e quel felice mio fratello che compra per centomila franchi un poco di tela. Lagrime dapertutto ov’era il sorriso; ecco la mia gioia, la mia vita, la mia missione. Bel pensiero è questo che mi è venuto; ma fa d’uopo diportarsi con prudenza e circospezione. Prima di tutto, è necessario avvicinar l’uno all’altra; epperò bisogna che Giustino Victor sia presentato a Mistress Horms...» Non aveva egli finito di dire a sè medesimo queste parole, che la porta del salotto si aprì di repente, e Giustino Victor in compagnia di Augusto d’Orbeil corsero ad abbracciare l’artista, che non potè nascondere un movimento di grandissima gioia nel vederli, e che quei due presero per uno slancio di tenera amicizia. — Eccolo, il nostro caro Ducastel! sclamò Giustino, stringendogli la mano con effusione grandissima di cuore. — Abbiam l’onore di riabbracciare l’insigne artista, disse Augusto, stringendogli l’altra mano. — Io vi aspettava, o signori, e non potevate giungere in miglior momento, si contentò di dire il Lennois con bieco sorriso. Soggiunse indi per dare un pretesto a quello che avea detto: — Un altro giorno che aveste indugiato, avrei avuto il rammarico di non potervi far vedere il mio quadro che all’Esposizione. — Epperò ci siamo affrettati a procurarci questo piacere, disse Giustino: era un secolo che non ci vedevamo. — Sedici giorni, io credo, rispose Federico. — Tuttavia ci avevate promesso di venire a trovarci a Auteuil in una delle scorse domeniche, disse Augusto, sedendo sovra un esimio sofà. Il suo esempio fu imitato dagli altri due giovani. — È vero rispose Federico, ma che volete? Io mancava da una pezza da Parigi, e ho avuto molte faccende per le mani. Quando si ha la sventura di non essere nati ricchi come voi altri, il tempo è tutto il capitale; e fa mestieri di bene impiegarlo. Noi altri poveri artisti dobbiam lavorare per vivere. — E la gloria? esclamò Giustino. — Fumo, mio caro signor Victor, fumo e non altro. A proposito di fumo mi fo ardito di prendere la mia pipa, e offrirvi in pari tempo due saporosi avana di prima qualità. — Da bravo! questo è quello che ti avremmo chiesto, se tu non ci avessi pensato. I tre giovani si posero a fumare. In un momento il salotto diventò annebbiato come la fucina di un fabbro. — Ma sai, cospetto, disse Giustino dopo aver mandato via dalla bocca una colonna vorticosa di fumo, sai che questo tuo salotto è qualche cosa di gentile e di principesco? — Miserie, signor Victor, miserie!... D’altra parte, ben sapete che questa roba non è mia; appartiene allo albergo. — Sia comunque: pochi artisti possono alloggiare in un albergo di questa sfera, alla strada della _Pace_... Ma quando si vende un quadro per centomila franchi, è cosa naturalissima il trinciarla da gran signore. Ci era qualche cosa di sardonico e d’irrisorio in queste parole di Giustino, come se avessero posto in canzone il prezzo esagerato, pel quale Federico aveva detto di aver venduto il quadro _la Preghiera_. A Federico non isfuggì il sottil sarcasmo di Giustino. — I quadri che si pagano centomila franchi, egli rispose misurando le parole e calcandole con la voce, come se avesse voluto sottolinearle, non sono della specie più comune: essi sono rarissimi come gli artisti che li creano e costano sudori di morte. Se poi aveste il minimo dubbio, signor Victor, sulla verità del prezzo che mi si paga pel quadro _la Preghiera_, tra poco ve ne convincerete del tutto, perocchè sarà forse qui a momenti il compratore. — Mi guardi il cielo di dubitare delle tue parole, mio caro Ducastel: ho avuto una puova evidentissima del tuo valore nell’arte ne’ due ritratti che hai avuto la cortesia di fare a Isalina ed a me; però non ho bisogno della conferma di chicchessia per credere alla lettera il prezzo che si da ai tuoi lavori. — Ma perché maggiormente indugiare a farci ammirare il vostro quadro? disse Augusto; potremo discorrere a nostro bell’aggio dopo che avremo contemplato il dipinto. — Bisogna aver riguardi pel bel sesso, disse Federico; avremo questa mattina due graziose e ragguardevoli forestiere che vengono per vedere il quadro, la galanteria vuol che si aspetti: ma la pena dell’indugio vi sarà ricompensata dal piacere di trovarvi in compagnia di queste dame, alle quali intendo presentarvi. — Chi sono queste dame? dimandò Augusto in aria di semplice curiosità e senza dare alcuna importanza alle parole dell’artista. — La moglie e la cognata di sir Eduardo Horms, il compratore del mio quadro. — Son belle, eh? disse Giustino. — Son nate in Italia, rispose Federico; hanno negli occhi loro l’incanto di quel cielo. — Italiane! E di qual paese d’Italia? — Di Napoli. — Di Napoli? Ah... ah... ah... la terra del Vesuvio, dei lazzaroni e dei _virtuosi_... E anche delle belle donne, non è vero, mio caro artista? E Giustino si pose a bufonchiare tra i denti i versi di La Fontaine: «C’est de tout temps qu’ à Naples on a vu Règner l’amour et la galanterie. De beaux objets cet ètat est pourvu Mieux que pas un qui soit en Italie.» — Or vedremo se La Fontaine ha ragione o torto, disse Augusto. — Belle forse, ma goffe e impacciate, n’è vero, Ducastel? — Non voglio influire nel vostro giudizio, disse Federico; ne giudicherete secondo l’impressione che faranno in voi. Per me, mi limito a dirvi che le trovo adorabilissime. Le Napolitane! oh, voi altri che non siete stati giammai laggiù, non vi farete giammai un’idea di quel che sono le Napolitane, care figlie del sole... Queste donne sono la perfetta immagine del loro vulcano; coperte di neve all’esterno, ripiene di fuoco nell’interno. — In verità che mi sa mille anni di vedere coteste due immaginette del Vesuvio, disse ridendo Giustino; a che ora verranno? — Alle undici rispose Federico, e die’ una occhiata al suo oriuolo; sono le dieci e trentacinque minuti. Avete fretta signori? — No, propriamente, disse Augusto, e ancorchè avessimo fretta, ora vogliamo positivamente esser presentati a queste signore. — Badate per altro, amici, osservò Federico che il marito è geloso, a quanto mi sembra. — Tanto meglio, esclamò Giustino, avremo il piacere di farlo un poco arrabbiare. — Badate che egli è Scozzese. — Ci ho gran diletto; è come se fosse un _John Bull_[2], ed io non mi diverto mai tanto quanto a tormentare i figli del Regno Unito. Ho avuto in Grecia un piccolo _affare_ con uno di essi, ed ebbi il piacere di spedirlo lassù con un colpo di pistola, pel quale ricevetti gli encomii di tutt’i miei camerati. — L’ammazzaste? dimandò Federico. — No, solamente il pregai di recare un messaggio a mio nonno. Federico sorrise, e disse cupamente tra sè. — Fra qualche giorno forse GLIEL RECHERAI TU STESSO. — E che uomo è cotesto Sir Eduardo Horms? dimandò Augusto alquanto distratto. — _Ce n’est pas un homme, c’est un mari_, rispose col suo solito sorrisuccio di scherno il Victor. — Riflettete, signor Giustino, che tra pochi mesi anche voi sarete marito disse Federico. — E che però? Fin qua, nol sono ancora; e quando il sarò, non rappresenterò certamente l’Otello, come fanno questi arrabbiati Britanni. Ma dimmi, Ducastel, è molto geloso cotesto isolano di Horms? — Tal lo credo estremamente, e così lo dicono tutti. — Allora io m’impegno di farlo disperare. Che ne dici, Augusto? — Ben pensato; ed io mi attengo alla sorella minore; alla cognata del selvaggio. Va bene? — Bravo! Ora le due napolitane son nostre, intendo dire, nostre per mezz’ora. — Ed io vi prendo in parola, signori, disse Federico, e darò solenne baia a quello dei due che farà fiasco. I parlari seguitarono in su questo tenore per altro quarto d’ora all’incirca, e Federico non cessò un momento di stimolare i due giovani ad attener la loro parola, rialzando con ogni sottile artifizio il valore dell’impresa. Le undici erano passate da pochi minuti, quando un domestico dell’Albergo annunziò la visita della famiglia Horms. I tre giovani si alzarono e andarono a ricevere le dame. Lucia entrò appoggiata al braccio dello sposo; Marietta si appoggiava al braccio della sorella. Nel veder apparire la giovine forestiera, Giustino e Augusto rimasero attoniti e muti. Non mai parigina vestì con più finezza di gusto e con più ricercatezza, come vestiva la napolitana Lucia Horms. La semplicità si sposava alla grazia, l’eleganza del taglio alla perfetta scelta dei colori. All’infuora di questo, Lucia, essendo di persona alta e ben formata, spiccava con nobiltà di disegno attraverso le graziose pieghe del suo scialletto bianco. Un cappello di paglia di Italia senz’alcun ornamento ombreggiava le sue dilicate sembianze. Marietta era, al pari della sorella, vestita con perfetto buon gusto; ma, comechè più bella di Lucia, non ne aveva il gentilesco e grazioso portamento, nè la cara malinconia. Qualche cosa di sbrigliato e di troppo gaio era nel viso di questa fanciulla, che le toglieva gran parte dell’effetto che avrebbe prodotto la sua avvenenza più composta e più seria. Ella avea nel suo tutto, quel che si chiama una salute insultante. Eduardo Horms e le due giovanette salutarono i circostanti e strinsero la mano di Federico Lennois, il quale fu prodigo verso di loro di distinte cerimonie e convenevoli. La brigata si sedè in circolo in fondo al salotto. Federico chiese il permesso di andare a porre in giusta luce il quadro, e ritirossi nella stanza contigua, dopo di aver presentato i due suoi amici a sir Eduardo e alle damine. Eduardo serrò colla sua solita cordialità la mano ai due Francesi, e aprì la conversazione sul suo tema favorito, le belle arti. Ma i due giovani scambiarono, per convenienza, poche frasi col marito, e rivolsero poscia i loro discorsi, ciascuno alla donna, vicino a cui si era allogato. Giustino era seduto a fianco di Lucia, e Augusto d’accanto a Marietta. Eduardo rimase segregato. Benchè per la seconda volta ei si trovasse a Parigi, era poco avvezzo alla vita parigina e ai costumi singolari di questa gente; non sapea che, nei crocchi, il bel sesso è tutto, e che un uomo il quale ha la qualità di padre, di marito o di fratello è un’ombra e non altro, e qualche volta un’ombra importuna. Così, per altro, non la pensava Eduardo, accostumato a maggior rispetto della società in generale e a nessuna affettazione di modo e di linguaggio. Giustino era sorpreso e trasportato udendo a parlare la _signora_. Egli, senza darsi verun pensiero del marito presente, scaricava negli orecchi di Lucia un fiume di elogi alla finezza del linguaggio di lei, al senno onde ragionava di cose le quali sogliono essere affette per la mente di una donna, e alla irreprensibile pronunzia che ella aveva acquistata dell’idioma francese. A questo assalto di lodi, dal quale Lucia si schermiva il meglio che poteva e senz’alcuna affettata esagerazione di modestia, seguitava un torrente d’interiezioni ampollose, e di avverbii stravaganti, solite forme d’una lingua povera e svenevole che si sostiene su le più iperboliche figure. È incomprensibile come la lingua francese, così schifa e inceppata nella sua costruzione, così monca e zoppa nel suo andamento, così stentata e ridicola nella sua pronunzia, così poco atta ai grandi pensieri, è incomprensibile come questa civettuola abbia ottenuto in Europa una specie di universalità, e venga dai più tenuta in concetto di vaga e dolce favella. Augusto era men verboso verso Marietta, perocchè costei, non conoscendo il francese, non rispondeva che con monosillabi, per lo più affermativi. Eduardo intanto cominciava ad impazientarsi, e forse avrebbe rotto bruscamente una conversazione a cui lo avean fatto straniero e che però non gli andava più a sangue, quando per buona ventura, Federico invitò la brigata a passare nella stanza contigua, dov’era il quadro. Giustino s’impadronì del braccio di Lucia, e Augusto di quello di Marietta. Eduardo era corso il primo a rigustar la gioia di affissare i suoi occhi sul gran dipinto. Uscendo i cinque personaggi dalla stanza dove era il quadro, la maraviglia e l’ammirazione erano su’ loro volti. Eglino erano rimasti atterrati dalla possanza del genio. Eduardo era pallidissimo; ma il suo estremo pallore non era tutto effetto di ammirazione: il suo nobil cuore avea ricevuto un colpo mortale. Lo sguardo di Federico scintillava di un doppio trionfo. VIII. GELOSIA Alcuna spiegazione è necessaria di quanto era avvenuto nella camera di Federico, nel tempo che quelle cinque persone erano ivi per ammirare il sublime dipinto, il quale doveva avere il suo posto alla Grande Esposizione del Louvre. Mentre l’appassionato giovine scozzese figgeva, rapito in cielo, gli avidi sguardi sulla tela del Lennois, questi iva ravvolgendo per l’animo i più sinistri pensieri. Lucia, per non mancare a’ precetti della più semplice creanza, sorrideva alle ampollose ciance di Giustino, e parea compiacersene, o almeno fingea che le gradissero. Questo attentamente osservava il Lennois, e, colpendo il momento in cui Lucia bisbigliava alcune parole quasi nell’orecchio dell’uffiziale di marina (ella facea notargli come la Marietta erasi fatta rossa e sembrava sconcertata oltremodo per non capire quello che le spiattellava il galante), il Lennois avea chiamata l’attenzione di Eduardo su la moglie e su Giustino e a fior di labbra gli avea detto: — È mestieri che vi guardate da quello scostumato giovinotto, il quale è un fatuo insolente capace d’infangare ogni onesta riputazione di donna. A queste parole lo Scozzese lanciò sull’uffiziale di marina un’occhiata di sdegno, e dal cuor suo sprizzò una scintilla di quegli odii che non perdonano mai. La significazione di quello sguardo non iscappò a Federico: onde, per non far morire e spegnersi quella favilla di odio, lasciò cadere sul cuor di Eduardo piuttosto che nelle orecchie di lui queste altre parole, che vi sgocciolarono come stille di vetro arroventato: — Badate, Sir Eduardo; colui è capace di riempir tutta Parigi colla voce d’una immaginaria conquista; e non sarebbe improbabile che andasse quest’oggi spacciando e trombando su i _boulevards_, nelle botteghe da caffè e nelle sale de’ bettolieri e bozzolari alla moda, che egli è l’avventurato amante della vaga napolitana dell’Albergo _des Princes_. Io sono tanto più persuaso di questo che dico, quanto più veggo vostra moglie in confidenza con quel pessimo garzone. A grandissima pena Eduardo si tenne dal prorompere in un violento scoppio di collera: il suo animo schietto e ardente, non assuefatto a dissimulare i propri sentimenti, era vicino ad infiammar que’ nervi e quei muscoli, facendo divampare un incendio, che avrebbe avuto funesti e terribili effetti. Ma Federico antivide questo scoppio inopportuno che avrebbe ruinato tutto il suo disegno, e si diè fretta a dileguarlo. — Or gli parlerò come va fatta, ei disse al sospettoso marito: or gli dirò qualche cosa di pesante a cotesto zerbinaccio di Victor, e vedremo se, dopo le mie ammonizioni, perdura tuttavia a fare lo sdolcinato con la signora. Detto ciò, si scostò per poco dal fianco dello Scozzese; trasse alla volta di Giustino, il tirò un tantino in disparte e gli mormorò nell’orecchio: — Il marito è sulle furie; badate a voi; ma non abbandonate l’impresa, che è onorevole e degna. Pensate a non far fiasco. Congedandosi dall’artista, Eduardo sperava di sbarazzarsi finalmente da que’ due insolenti; ma qual fu la sua sorpresa e il suo dolore nel veder Lucia accettare, con amabile sorriso, il braccio del Francese, per andar via! Egli era stato in procinto di colpire la guancia del giovine uffiziale; ma ormai la sua collera era volta contro la moglie, la quale sembrava sì compiaciuta dei modi e del linguaggio del Parigino. Pur si contenne; divorò in silenzio il proprio dolore, e maledisse tra sè quella falsa e sciocca civiltà francese che impone tanti inutili e vergognosi sacrificii. Arrivati nel gran cortile dell’Albergo, un’altra spina era riserbata al cuore del povero Eduardo. Egli volea far salire la moglie e la cognata nel cocchio che li avea attesi; ma Lucia gli significò il desiderio di andare a piedi insino al Piccolo Lussemburgo, dov’ella dovea fare alcune compere tra gli oggetti lavorati dalle dame di Parigi, ed esposti in vendita in benefizio dei poveri. Indarno Eduardo fece osservare a sua moglie che la distanza era molta, ed eccessivi il caldo e la polvere a quell’ora. I due galanti non abbandonarono le braccia delle due donne, e, poi ch’ebbero risposto alquante parole di opposizione al parere dello Scozzese, strascinarono quasi le dame, ridendo in corpo della vessazione che pativa il marito. Eduardo seguitò le due coppie quasi a rimorchio: egli era pallido come un morto: la gelosia, tormento delle anime sensitive, lo gittava per la prima volta in un’angoscia che gl’inceppava il respiro. Ei camminava a sghembo, dava la vista di essere un ebbro morto: qualche cosa gli frullava negli orecchi si che più nulla udiva: e il rumor di Parigi, a mezzodì, nell’ora della maggiore operosità, il colpiva tardo e smorto, come un frastuono lontano e poco sensibile. Giù per la vista gli scendeva una frastagliata di oggetti e di colori che l’annebbiavano per forma ch’ei non discerneva neanche più sua moglie e il costei cavaliere. Lucia si era avveduta del contraggenio onde pareva esser preso il marito; ma non seppe esser forte abbastanza da attirarsi la taccia di goffa o di malcreata per non dar dispiacere al consorte. Gli è una giusta e curiosa osservazione a fare, che le donne le quali sono generalmente capaci de’ più inauditi sacrificii per gli oggetti del loro amore, sono in pari tempo così fiacche contro gli assalti della vanità. Dite a una madre che si butti nel fuoco per salvare il figliuolo, non tituberà un momento a buttarsi: ma se le dite di turarsi gli orecchi al serpe che la innalza con le lodi al cielo, ella li aprirà maggiormente, ancorchè un’esistenza a lei cara dovesse pericolare in quelle allettatrici lusinghe. Fu una ben trista ora per Eduardo Horms quella che passò con quei forzosi compagni. Arrivati al Piccolo Lussemburgo, egli era come un uomo stordito da un poderoso colpo di mazza sul capo: più non capiva ciò che si mormorava attorno a lui. Lucia lo interrogò su la scelta degli oggetti che doveva comprare, e non ottenne che risposte vaghe e senza sentimento. Quando si trattò del donativo, che Lucia intendeva di fare ad Emma Barkley, indarno si chiese il piacere e il gusto del marito, il quale era alienato dai suoi pensieri di gelosia. Si differì ad altro giorno la compera del dono ad Emma. Giunti all’Albergo _des Princes_, Giustino Victor, nel tor commiato da Lucia, accostò la destra di lei alle sue labbra e vi pose un bacio. Eduardo era stanco di sofferenze. — Basta ormai, disse scuotendo con furore il braccio dell’uffiziale, sono stanco e stomacato delle vostre effeminatezze che non mi vanno per nulla a sangue. Ritiratevi in buon’ora signor profumatuzzo uffizialetto dall’acqua di colonia, e guardatevi di parlar di mia moglie in qualsivoglia luogo, se vi è cara la vita. Per ora vi proibisco di venire a visitarci per qualunque pretesto. Uno scoppio di risa sgangherate tenne dietro a queste violenti parole di Eduardo. Giustino e Augusto si tenevano i fianchi per le risa, e seguitarono cogli occhi, insino alla prima branca delle scale Eduardo, il quale afferrato il braccio della moglie e della cognata, le menava seco quasi a corsa battuta su pe’ gradini, senza volger loro nè lo sguardo nè la parola. — Voi siete un fanciullo, disse con certo dispetto Lucia arrivata nella sua camera; e, gittato lo sciallo sul letto, lasciò solo il marito. Eduardo si abbandonò sovra una sedia mormorando tra sè: — È questa la vantata città dell’incivilimento! la Capitale modello d’ogni squisitezza di modi e di favella! Questa la Parigi che detta leggi di buon vivere e di perfetta educazione! Impostura! Impostura! La più meschina e povera città d’Italia ne sa più, in fatto di civiltà, che questa vanitosa ciarliera che vi abbraccia, vi abbaglia e vi strangola. Qui tutto è simulato, tutto finzione; l’intonaco e il belletto coprono i volti come gli animi: indarno ti sforzi di trovare qui l’uomo; non vi trovi che il parigino: tutto qui ha una veste accattata, un colore non proprio: l’aria stessa non è naturale! Oh suolo della mia Glascovia, ed oh terra d’Italia! Estreme e opposte contrade di Europa, voi vi rassomigliate nella purezza de’ vostri costumi! In Inghilterra e in Italia la moglie appartiene al marito; ma in Francia!!! Qui hanno inventata una parola che si chiama IL RIDICOLO!... Ogni cosa è qui sottoposta al governo di questo terribile despota, il quale si compiace a fulminare il suo anatema sulle cose più sante e rispettabili... Oggi io ho sofferto tanto, e son sembrato ridicolo agli occhi di quei due giovinastri! Oh! sento che non rimarrò lungo tempo a Parigi. Non sì tosto finito il tempo dell’Esposizione, e messomi in possesso del quadro del Lennois, abbandonerò questa terra, per non più riporvi il piede. La virtuosa indole di mia moglie non sarebbe certamente bastante a salvarla: fa d’uopo allontanarsi e subito. Lucia mi ha chiamato _fanciullo_! Ma dunque ella non sa quanto ho sofferto questa mattina! Oh! io amo questa donna con tal passione di cui io stesso non mi sarei sentito capace... Se questa donna un giorno mi tradisse, io l’ucciderei... «Ma Lucia mi ama; sì, ella mi ama, ne son sicuro, e bisogna ormai cacciar dall’animo ogni ombra di sospetto offensivo alla virtù di lei. Eppure, che cosa hannosi detto tra loro per oltre un’ora? Perchè spesso ridevano tra loro? Mi è parso che ella si appoggiasse con un certo abbandono sul braccio di lui... Ma che! Son io demente da foggiarmi simiglianti fantasmi! Lucia, la virtù più pura, il cuore più candido, ingannar me! Ancorchè il vedessi cogli stessi occhi miei, nol dovrei credere. Via, ripigliamo il nostro buon temperamento e scacciamo questi pensieri nemici della mia pace. Marietta entrò nella camera di lui. La fanciulla non era ilare e spensierata secondo il consueto. — Signor cognato, ella disse con istizza, accostandosi alla finestra, e mettendosi quasi di spalle a lui, la bella cosa che avete fatta! Lucia è là che piange... — Piange! E perchè? — Perchè questa mattina siete stato di un umore insopportabile; avete detto un sacco di villanie a quei due compitissimi giovani che noi proteggevamo, e che in fin dei conti non vi aveano certamente guardato alla storta. — Lucia piange! parlava tra sè pallido e alienato il giovin marito. — E torniam da capo, ripigliava la fanciulla; ella non sa ch’io sono venuto a dirvelo; non vuole che sappiate ch’ella ha molto sofferto per la vostra ruvidezza. Che diascine! Siete un geloso matto, e questa mattina siete stato d’un grugno il più truculento; non vi ho visto mai così!... Licenziar con modi così selvaggi quei due che aveano avuto la cortesia di accompagnarci fin qui... Non ho capito propriamente quello che avete detto loro perchè questa maledetta lingua francese non è così chiara come l’italiana; ma sonomi accorta che avete dovuto dire di famose scioccherie da eccitare il riso di quelli carissimi nostri cavalieri, giovani di tanto brio. Meno male che han riso!... Che ne sarebbe avvenuto se avessero preso le cose in sul serio? Lucia è in collera, ed io particolarmente, signor cognato garbatissimo, non so perdonarvi di avermi maltrattato il mio cavaliere: egli era così avvenente, così gentile, così buono per me, m’ha sembiante di così onesto! Mi dicea certe cose che mi faceano ridere così saporitamente! È vero che io non intendeva sillaba di quello che affastellava con quella fregola di lingua che mi sembrava un passarino che cinguetti; ma, alla fin fine, doveano certamente essere cose inzuccherate quelle che mi diceva, e vi ripeto che io non so perdonarvi di avervelo inimicato... Con lui avrei così presto imparata la lingua francese. E che cosa è quello che fate adesso? Anche voi piangete? Ma voi siete matti tutti e due; non ne capisco niente. Mentre la giovinetta arroncigliava le frasi e i ragionamenti a suo modo, Eduardo, concentrato in una sinistra idea che se gli era affacciata al cervello, aveva abbandonato il capo sulle due mani, e poco stante erasi messo a singhiozzare come un fanciullo. La sinistra idea era che sua moglie piangesse perchè più non doveva incontrarsi con Giustino Victor. La gelosia è madre delle più stravaganti fantasticherie, ed è ingegnosa a trovar pretesti e fomite onde alimentarsi. Marietta, cogli occhi già rossi di lagrime, si era avvicinata a Eduardo, e colla destra mano cercava di rialzar la fronte di lui. — Via mo, Eduardo, mi sembrate un bambino! Che vuol dir questo? Venite da vostra moglie, abbracciatela, e tutto sarà finito. Ella non avea terminato di profferir queste parole che Lucia era alla soglia dell’uscio. Udendo a piangere il marito, ella si era slanciata verso di lui, e l’aveva chiamato per nome. Al suono di quella cara voce, Eduardo balzò dalla sedia, levò il capo. Marito e moglie eran nelle braccia l’uno dell’altra; e tutto era perdonato, tutto era posto in obblio, tutto era come prima. Il resto della giornata passò nella gioia più schietta. Eduardo e Lucia non si lasciarono per un momento: la felicitò raggiava negli occhi loro. Anche Marietta, vedendo felice la sorella e il cognato, avea dimenticato Augusto d’Orbeil, e si era di bel nuovo abbandonata alla cara giovialità del suo naturale. Il pranzo della famiglia fu lietissimo. Si parlò molto di Maurizio Barkley e di Emma, del dono che si dovea fare a questa dolcissima amica, degli stupendi lavori che erano esposti al Piccolo Lussemburgo, e da ultimo, Eduardo cadde ne’ suoi trasporti di ammirazione pel quadro del Lennois, trasporti a’ quali questa volta si univano anche le due donne che lo aveano veduto. Eduardo fece in inglese un vivo brindisi alla Italia, di cui era innamorato, e per la cui libertà e indipendenza ei faceva caldissimi voti: fece quindi un altro brindisi alle belle arti, al genio e alla salute di Federico Lennois. Ma questo nome, non sappiam perchè, ruppe in un istante l’ilarità del desinare, come quando si nomina in un cerchio d’amici una persona di sinistro augurio. La sera si andò a passeggiare in carrozza: tutta la famiglia fu della partita. Un bel chiaro di luna illuminava Parigi. Dappresso al teatro delle _Variétés_, un bel carrozzino tratto da superbo cavallo sauro fermò il cammino al cocchio della famiglia Horms. — Ducastel! sclamò Eduardo, salutando la persona che era nel carrozzino. — Ducastel! ripeterono le donne e i fanciulli, levandosi per vederlo. Ferdinando Ducastel era intanto smontato dal suo carrozzino e si era avvicinato allo spaccio de’ biglietti. Ritornati all’Albergo, e smontati dalla carrozza, Eduardo e la famiglia di sua moglie si accingevano a salir le scale, quando il guardaportone consegnò nelle mani dello Scozzese due biglietti di visita. Eduardo vi gittò gli occhi e impallidì di rabbia. Quelle due cartelline portavano i nomi di _Giustino Victor_ e _Augusto d’Orbeil_. IX. IL 7 LUGLIO Parecchi giorni sono scorsi. Federico Lennois avea presentato il suo quadro alla Commissione incaricata di raccogliere e distribuire le opere di arte nelle sale dell’Esposizione, la quale aprivasi al 15 luglio nelle Gallerie del Louvre. Nessun incidente era venuto a turbare la quiete che si godeva a Auteuil. Giustino Victor era sempre l’idolo della famiglia d’Orbeil. Isalina lo amava sempre con tenerezza, con passione, con illimitata fiducia. Si appressava il tempo della loro sospirata unione, per la quale si andavano facendo i necessari preparativi. Giustino si era astenuto dal raccontare alla sua fidanzata le scappatelle di Parigi, la conoscenza che avea fatta delle due signore napolitane all’Albergo Mirabeau, nello studio di Ferdinando Ducastel, e l’avventura col marito scozzese: anzi, avea pregato l’amico Augusto non toccasse questo discorso al cospetto della sorella; imperciocchè se Isalina avesse tutto ciò saputo, avrebbene al certo sentito dispiacimento, ed avrebbe potuto impedire che eglino fossero novellamente tornati a Parigi. Augusto, complice de’ divertimenti del suo futuro cognato, avea promesso di serbare il segreto. Giustino abitava a Auteuil in un piccolo casinetto attiguo al castel d’Orbeil, per modo che si considerava quasi dimorare in casa del Visconte. E nel fatto, tutto il dì egli era nel castello, in compagnia di Augusto: prendeva la colazione e il pranzo colla famiglia della sua fidanzata; e solamente la notte ritraevasi nel suo casinetto, dov’era aspettato da un veterano, che era stato al servizio del colonnello Victor, suo padre. Dal suo ritorno in Francia, una sola volta Giustino erasi recato a Parigi in compagnia di Augusto, ad oggetto di ammirare il quadro di Ducastel. La sera stessa del giorno in cui i due giovani aveano tormentato di gelosia Eduardo Horms, erano tornati a Auteuil, dopo aver consegnate, per lo Scozzese, le loro cartelline di visita al portinaio dell’Albergo _des Princes_, e dopo aver raccontato tutto l’accaduto a Ferdinando Ducastel, al quale erano andati a fare altra visita. Una mattina (qualche settimana dopo la visita a Ducastel) Giustino Victor era ancora in letto, nel suo casino a Auteuil, e il suo veterano gli consegnò una lettera che avea recata un corriere particolare da Parigi. Giustino l’apri con gran curiosità, gittò lo sguardo sulla firma e rimase attonito leggendo il nome di Lucia Horms. La sua maraviglia si accrebbe a mille doppi, allorchè divorò le seguenti righe. «Signore — Per quanto strana e inconveniente sembrar possa la mia condotta, una ragione, che non posso confidare alla carta, mi fa ardimentosa a segno d’invitarvi a volervi trovare questa sera, verso le nove, e mezzo, al primo piano della casa n. 8, strada D., dov’io sarò immancabilmente e sola. La tirannia di un marito geloso e barbaro mi costringe a tal passo, che per altro sarà scusato dalla vostra anima generosa e discreta, quando saprete i motivi che mi hanno indotta. Le offensive parole che scagliò contro voi mio marito alla porta dell’Albergo _des Princes_ mi stanno sul cuore, ed ho bisogno che voi stesso mi assicuriate di averle perdonate. È superfluo raccomandarvi la maggior segretezza su questa faccenda, di cui non direte motto neanche al vostro amico d’Orbeil. Comprenderete la mia delicata posizione: rimandatemi però questa lettera con una vostra parola. Addio — Parigi 7 luglio 1829 — _Lucia Horms_.» Giustino lesse e rilesse cento volte questa strana lettera fermandosi un minuto su ciascheduna riga. Era la prima volta che un’avventura di questo genere solleticava il suo amor proprio... Quella lettera gl’incendiava il cervello; e tosto gli ricorrevano alla mente il _Faublas_ e i _Racconti_ di _La Fontaine_, libri che non mancano mai di esser divorati dai collegiali, non ostante la severa oculatezza che si pone perchè questi libri non vengano a loro mani... Giustino aveva un batticuore che gli toglieva il sospiro. Dopo aver bene letta e considerata la lettera della Napolitana, in sino a mandarsela a memoria, Giustino chiamò il suo domestico; si fece recare in letto l’occorrente da scrivere, e sotto la lettera di Lucia pose queste semplici parole: «Questa sera, alle nove e mezzo, io sarò immancabilmente al primo piano della casa N. 8, strada D... Verrò solo; e giuro che nessuno al mondo saprà quanto io sono felice di avervi ispirato, bella straniera, questa per me lusinghiera confidenza. G. V.». La lettera fu consegnata al messo che l’avea portata, il quale partì a corsa battuta. Giustino intanto, abbandonato il capo su i cuscini del suo letto, si piaceva di trasportare il pensiero alla gioia che lo aspettava. Gli parea che da questo giorno ei cominciasse a diventar uomo. L’idea che quella lettera fosse un agguato non si presentò neppure per un istante al suo pensiero; e, avvegnachè vi avesse pensato, le particolarità menzionate nella lettera erano tali da allontanare ogni dubbiezza. Dopo un quarto d’ora, Giustino, che ormai avea addosso la febbre della prima _buona fortuna_, siccome si addimandano in Francia le turpitudini, gli adulterii ed altre scostumatezze di questo genere, si gittò dal letto, si vestì e si pose a spasseggiare in lungo e in largo per la sua camera, pensando al modo che dovea tenere per colorare con un pretesto agli occhi d’Isalina e d’Augusto la sua gita a Parigi. Giustino non si fermò a verun proponimento per sottrarsi alle interrogazioni della sua fidanzata e della famiglia d’Orbeil. Soltanto egli avea fermato di svignarsela dopo il pranzo, adducendo per pretesto una chiamata frettolosa del suo Ammiraglio che era tuttavia a Parigi. E nel fatto, non sì tosto, verso le sei fu finito il pranzo, il domestico di Giustino, che avea ricevuto l’ordine di ciò fare, venne ad annunziargli che un uomo, espressamente venuto da Parigi, lo aspettava al casino, dovendo dirgli cose della massima urgenza. Giustino dimandò il permesso di allontanarsi per un momento, e, dopo un quarto d’ora tornò e disse che il suo Ammiraglio lo aspettava in quella sera stessa a Parigi, e che però gli era forza di volare, senza perdere un minuto, alla capitale. Fu messo in ordine un buon cavallo. Augusto si offrì di accompagnarlo; ma Giustino si scusò dicendo che egli sarebbe giunto a Parigi prima che annottasse, e che però era affatto inutile, per lui Augusto, di darsi il fastidio di accompagnarlo. Questa inaspettata chiamata dell’Ammiraglio faceva presagire il prossimo avanzamento di Giustino; onde i voti e gli augurii della famiglia d’Orbeil lo seguitarono. Giustino si partì, non senza un piccolo rimorso di aver ingannata la sua cara Isalina, la quale avealo accompagnato collo sguardo lunghesso il viale dei nocciuoli. Il giovine sentì una pena nell’anima ch’ei non seppe spiegarsi, e provò un momento di tristezza cupa e profonda; ma tosto il pensiero della felicità che lo aspettava dissipò quella nube dalla sua fronte. Al cader delle prime ombre, Giustino era a Parigi. Mentre Giustino leggeva a Auteuil la lettera che abbiam posto sotto gli occhi dei nostri lettori, un’altra lettera era consegnata a Eduardo Horms, a Parigi. Questi usciva per sue faccende, quando il portinaio dell’Albergo _des Princes_ pose tra le sue mani il biglietto pocanzi arrecato da un _commissionario_. La lettera consegnata a Eduardo conteneva queste poche parole: «Signore — Un amico dei più leali e affezionati alla vostra persona, tenerissimo dell’onor vostro, vi avverte che questa sera, alle nove e mezzo, vostra moglie si troverà con Giustino Victor, al primo piano della casa n. 8, strada D... Se volete sorprenderli, sappiate che alle spalle di questa casa ci è un albereto, e che una delle finestre, a cui si abbarbica un grande albero, è dischiusa.» Lasciamo immaginare l’effetto che produsse questa scritta sull’animo dello Scozzese. Vi sono dolori che per la loro estrema violenza cagionano una specie di stordimento: dapprima par che l’animo non voglia prestarci fede. E in fatto, cinque minuti rimase Eduardo colla carta tra le mani, quasi colpito da idiotaggine. Sulle prime, egli tenne quale infame calunnia la scritta, dimandò al portinaio chi l’avesse recata, e, questi gli ebbe risposto di bel nuovo averla ricevuta da un fanciullo commissionario, il quale non avea indicato donde veniva. Eduardo die’ in accesso orribile di collera, e ruppe in due una bella mazza d’India che avea nelle mani. Ebbe poscia l’idea di risalir sul suo appartamento, mostrar la lettera alla moglie, e, dalla impressione che le avrebbe fatta, scorgere la verità. Oh! se avesse seguitato questo impulso del suo cuore! Ma il demone della gelosia gli aveva acciuffato il cervello e lo strascinava in sua maledetta balia. Eduardo si persuase che quel foglio contenesse il vero: uscì, senza dare alcuna direzione ai suoi passi: la testa gli girava come una trottola; le orecchie gli zufolavano; la vista perdeasi: le gambe gli tremavano. Eduardo era pallido come un cadavere; correva per le strade di Parigi, urtava nei passeggieri, si cacciava tra le carrozze, non ostante le grida dei cocchieri; poco mancò non rimanesse pestato dai cavalli; e correva... correva... correva come un corpo senz’anima, spinto da un soffio violento, tratto da una mano inesorabile. Eppure quel corpo aveva un’anima troppo bella, troppo nobile, troppo generosa, un’anima che ora venia gittata nella più crudele disperazione, quella della virtù! Eduardo corse per oltre un’ora lunghesso i _boulevards_. Le immagini di Lucia, di Marietta, dei suoi cognatini, le ricordanze dei pochi dì passati a fianco della virtuosa consorte, se gli presentavano alla mente come sogni di un’antica felicità ch’ei non doveva più rigustare, come larve adorate le quali ora erano armate di un ghigno laido e feroce. Eduardo, arrivato sul Ponte Nuovo, si fermò e si lasciò cadere sopra una pietra: egli era spossato, affranto, fulminato dal suo dolore più che dalla corsa disperata che avea fatta. Durante la febbrile agitazione del cammino, egli non aveva avuto, per così dire, una chiara coscienza della orribile crisi che lo colpiva: ma, cessato il movimento, lo stato suo se gli mostrò in tutta la spaventevole sua nudità. Eduardo avea tenuto sempre stretta convulsivamente nella mano la funesta lettera che divorava il più nobil dei cuori. Egli ritornò a leggerla con quella feroce voluttà, onde un infermo di cangrèna gode a scoprire e a guardar la piaga che lo tragge a inevitabil morte. Ogni parola di quella scritta fatale era un colpo di pugnale vibrato nelle più calde visceri del cuore: ciò non ostante, mille volte quella lettera fu letta, insino a tanto che macchinalmente il poveretto la ripeteva tra i denti, senza più guardare sulla carta. Eduardo ebbe dunque un momento lucidissimo, in cui tutta la propria situazione presentossegli nella orridezza della sua verità. Allora quel nobil cuore, così vulnerato e tradito nei suoi affetti e nella sua ardente fede alla virtù, sentì torcersi e convellersi e schiantarsi; allora il misero abbandonò il capo sulle mani e diè sfogo alle lagrime che sin a quel momento gli aveano pesato sul petto come un mare di piombo. E pensava tra sè: — Qualche ora fa, io era felice, il più felice degli uomini: avevo una moglie amante e virtuosa; le nostre labbra si sono incontrate prima che io fossi uscito; i suoi occhi erano bagnati di tenerezza e di amore per me; tutto ciò era finzione, tradimento, infamia. Questa donna era già adultera nel suo pensiero. A queste idee Eduardo vedea tinto di rosso il biglietto che avea tra le mani, e la vendetta dava al suo cuore la più violenta reazione. Eduardo avrebbe dato il resto della sua vita, la quale gli era omai un inutile fardello, perchè si fossero consumate qual polvere al fuoco le ore che lo allontanavano per poco ancora dal momento della vendetta. Egli aveva ormai concentrato tutto il sentimento della vita in questo istante. Aspettò sul Ponte Nuovo che passasse quella eterna giornata di luglio. Il sole, a perpendicolo sulla sua testa, gli aveva bruciato il corpo; ma egli era freddo, però che la sua anima bruciava di più. Quando il sole tramontò, Eduardo si mosse dal sito ov’era stato per sì lunghe ore; gittò un’ultima occhiata sul rosso cupo onde si era rivestito l’estremo occidente, e sorrise a questa perfetta immagine dei suoi pensieri. Egli s’incamminò alla fabbrica d’armi di un inglese suo corrispondente; dette al proprio aspetto la maggior serenità che potè, e chiese una delle migliori pistole a due colpi che ci fosse nella fabbrica: pregò non si badasse al prezzo! ne fece cinque o sei volte la pruova; finse di tirare al bersaglio, così per divertimento, e da ultimo, veduto che la pistola non fallava, caricolla solidamente con buone palle, e l’intascò, gittando un pugno d’oro all’armiere. Le nove suonavano a tutti gli orologi di Parigi. Eduardo s’incamminò alla strada D.... Erano le nove e venticinque minuti, quando il marito si trovò alla casa num. 8. Studiò la posizione dell’edificio, e si accorse in fatti che un albereto era a ridosso della casa. Le tenebre non erano siffattamente dense da non lasciare una trasparenza all’occhio linceo della gelosia. Tutte le particolarità menzionate nella lettera erano vere; una finestra dischiusa sosteneva quasi in sulla sua soglia un grande albero che vi si abbracciava tra le pannocchie dell’ellera che copriva tutto quel muro scalcinato. Eduardo, a mo’ di ladro, al favor delle ombre, arrampicossi ai rami dell’albero; giunse col capo all’altezza della finestra; diè un’occhiata nella stanza, ma nulla scorse, interamente soffusa di tenebre, non pertanto ei spiccò un salto, e fu colà entro: il suo petto balzava con un urto terribile. Guidato da un filo di luce che gli veniva dal cielo sereno di una bella sera di està, quasi a tentoni e in punta di piedi avanzossi nelle interne stanze: dappertutto era solitudine e squallore: nessun mobile dava impaccio agl’incerti passi dello Scozzese. Per un momento, nell’animo di Eduardo si affacciò la speranza che egli fosse stato ingannato, e che la lettera non fosse altro che un’amara burla. Eduardo fermossi a mezzo del suo sospettoso cammino, temendo che un rumore qualunque, un raggio di luce in qualche stanza venisse a dileguare così cara speranza. Ma poco stante, ei dette altri passi..., un debol lume gli colpì la vista. Eduardo fremè! Quel lume partiva da una stanza non molto discosta.... Pochi altri passi, e tutta la orrenda verità era per discoprirsi! Eduardo impugnò la pistola; tenne la mano sinistra sul cuore, e s’incamminò alla volta di quella stanza... Udì la voce di Giustino... e quindi una voce di donna, ma sì fioca... che appena toccava l’orecchio. Il lume non era situato propriamente nella stanza dove udivansi le voci.... Eduardo si trovò all’uscio della camera donde sentivasi a parlare. Egli vide Giustino e.... Lucia! Ma, non appena l’ombra sua si era proiettata sul suolo, la donna mise un gran grido e fuggì, udivasi lo scoppio della pistola... Un altro grido era messo... grido di morte. Giustino Victor, ferito al cuore, cadeva immerso nel proprio sangue! Eduardo si era immantinente involato allo spettacolo della spirata sua vittima; e gittatosi in una carrozza, disse distrattamente al cocchiere: all’Albergo _des Princes_. Una voce intanto risuonava sul capo del moribondo ed infelice Victor. Quella voce dicea lentamente: — Giustino Victor, oggi è il 7 luglio! Ricordati di Federico Lennois, del monello di Auteuil... Tu ammazzasti in Grecia con un colpo di pistola un Inglese, _pregandolo di recare un messaggio a tuo nonno_; oggi, con un colpo di pistola, uno Scozzese _ti prega di recare un messaggio a suo nonno_! Giustino Victor chiese a Dio perdono... e perdonò anch’egli. Il lampo della Giustizia di Dio balenò sull’anima del moriente e rischiarò un oceano sterminato di luce: la Misericordia di Dio. Giustino spirava!! Eduardo intanto, pallidissimo e stralunato, entrava senza pensarvi, nel cortile dell’Albergo _des Princes_, e saliva le scale, senz’accorgersi di quel che facesse. Avea posto il piede sulla prima branca della scalinata, quando una donna che avea pianto assai, corse all’incontro di lui, lo abbracciò piangendo ancora, e teneramente gli disse: — Star fuori di casa una giornata intiera e senza prevenirmelo! Che è stato? Oh come sei pallido! Eduardo, Eduardo mio, che fu? Quella donna era Lucia. Una benda fatale cadde dagli occhi dello sventurato marito. _Parte Seconda_ I. LA CASA DI SATANA Lasciamo per alcun tempo la città del rumore, del lustro, delle ciarle, e trasportiamoci sotto un cielo assai più bello e più puro, in Italia, dove ci chiama una trista istoria, la cui conoscenza è indispensabile per lo rischiaramento de’ fatti che andremo narrando. Passato il ponte di marmo, uno de’ tre ponti che congiungono la città di Pisa attraverso il canale del fiume Arno, e, lasciatesi addietro parecchie strade popolate da merciai alla minuta, incontrasi una seguenza di altre strade, le quali si mostrano men popolate secondo che si succedono, insino a che si giugne in quella parte della città, dove l’erba cresce dappertutto tra le commessure d’un bel pavimento, fatto per lo più di piccole lastre di marmo. Pisa può ben dirsi la città marmorea: i monumenti, i palagi, il suolo, le chiese, le tombe, tutto è di marmo. Gli stranieri sogliono dire che anche gli uomini di questa città sono di marmo, forse perchè così, per essi, vi trovarono le donne. In una strada solitaria quasi presso alle tetre mura della _Torre della fame_, renduta così famosa dal canto trentesimoterzo dell’Allighieri, giacciono le ruine di una casa, chiamata la _Casa di Satana_ per una delle più strane e curiose tradizioni del paese, la quale ci piace di far nota a’ nostri lettori. Si conosce che il celebre pittore Giotto, dolente che nissuno comperasse più quadri e che però più di un giorno gli convenisse contentarsi d’una magra polenta, ebbe un mattino il pensiero di dipingere una figura di donna di mezzana bellezza (forse più brutta che bella), e di esporre il suo quadro in su l’uscio della sua abitazione, a vista dei viandanti, dopo di avere scritto a grandi lettere, a piè del quadro: _Ritratto della più bella donna di Pisa_. Ben si può immaginare qual si fossero il dispetto e la collera delle donne pisane, non meno che de’ loro mariti o amanti, nel veder fatto così grave oltraggio al bel sesso, e a tal guisa disconosciuta e disprezzata la bellezza delle loro donne e moltissimi andarono dal pittore a dimandargli ragione del perchè avesse osato dire che quella donna, di cui avea fatto il ritratto, era la più bella in tutta Pisa, mentre spasseggiavano per la città certi visini da far morir di passione anche un morto. A simiglianti rimostranze e rimproveri il Giotto, che avea il suo disegno, rispondeva, in quanto a lui, non conoscere in Pisa una donna più bella di quella di cui avea posto l’immagine sulla tela, e che se altra ve ne fosse più bella, si desse l’incomodo di farsi vedere a lui, perciocchè subitamente, se così era nel fatto, avrebbela dipinta ed esposta al pubblico. Come prima si divulgò nella città la risposta del Giotto, la sua casa diventò il convegno delle più belle e ragguardevoli gentil donne di Pisa, le quali si faceano in tutta fretta ritrarre sulla tela, e compensavano largamente l’opera dell’artista, cui non bastava il tempo per li tanti incarichi ond’era assediato. I quattrini gli pioveano nel borsellino da ogni parte, sì che ei benediceva il bel pensiero che avea avuto di scavare nella più inesauribile miniera, quella della vanità femminile. Le dame Lanfianchi e Lanfranducci, la marchesa di Palvolo, la signora Albaccini, reputate in quel tempo le più belle donne, non pur di Pisa, ma d’Italia tutta, esposero le loro leggiadre sembianze agli sguardi del pittore e vollero essere riprodotte dal suo esperto pennello. Viveva ancora in Pisa un certo conte P...., il quale, volendo, per prave ragioni, rompere un malaugurato nodo che avea stretto pensò di chiedere il permesso a Roma, e, per dare un plausibile pretesto alla sua strana dimanda, immaginò di dire che sua moglie fosse divenuta, per effetto di malattia, d’una deformità spaventevole. Per appoggiare una tale assertiva, egli pensò di mandare a Roma il ritratto d’una donna così mostruosa. Venuto in questa determinazione, il conte P.... fece assegnamento sul Giotto per la buona riuscita del suo disegno; e, come quegli che era straricco, promisegli un guiderdone generosissimo, se fosse pervenuto a dipingere la bruttezza nel suo tipo più orrendo. Il Giotto, che molto avido era di danaro, accettò la commissione, e disse al Conte che fosse tornato a capo di 15 giorni per tor via il quadro e dargli la somma promessa. Dice il più comune degli adagi popolari: _Dal detto al fatto ci è un gran tratto_; e Giotto ebbe, con sua grandissima mala voglia ad esperimentare la verità di questo proverbio, imperocchè la cosa era assai più malagevole di quel che si pensava. Per oltre un mese Giotto avea tenuto dinanzi agli occhi i più leggiadri e cari visini di Pisa; così che la sua fantasia, ripiena di begli occhi, di nasi profilati, labbra porporine e di tante gentili fattezze che formano l’appannaggio delle belle donne, non sapea più raffigurare il brutto, e, per quanto si studiasse di concentrare il pensiero nelle forme sconce e contraffatte, il bello era sempre nelle sue recenti reminiscenze. Il Giotto disperava dell’impresa, quando gli ricorse alla mente un’idea che molto potea giovargli nella presente congiuntura. Ei ricordossi che un pittore per nome Malfeo avea fatto un quadro rappresentante una donna così brutta che le si era dato il nome di _Sposa di Satana_. Questo quadro aveva fatto tale impressione sull’immaginazione degli abitanti di Pisa, che nessuno volle compararlo, temendo di portarsi nientemeno che lo stesso Satana a casa. Laonde il quadro rimase al pittore che l’avea dipinto; e quelli che avevano in pregio le belle arti si limitavano ad andare a vederlo, e restavano stupefatti ed atterriti dalla singolare bruttezza della figura. Per molti anni quella dipintura formò il soggetto della ammirazione e dello spavento, non solo dei Pisani, ma dei forestieri che traevano a contemplarla. A poco a poco il terrore si comunicò financo alla casa di Malfeo ed alla strada ov’egli abitava; e il pregiudizio popolare si spinse così oltre da tener quella via siccome luogo di sinistro presagio, e quella casa come scomunicata e maledetta. I monelli scaraventavano contro i vetri di quelle finestre i ciottolini le donne costrette di passare lunghesso quell’abitazione, affrettavano i passi, abbassavano lo sguardo, e mormoravano avemmarie. Il povero Malfeo fu mostrato a dito per le vie di Pisa, e poco mancò non venisse lapidato o arso vivo come l’autore della _Sposa di Satana_. A Giotto si affacciò dunque alla mente il pensiero di andar novellamente, dopo molti anni, ad affissare la _Sposa di Satana_ per nutricare la fantasia con forti impressioni del brutto. A dispetto d’una certa paura che non mancava di incutergli la credenza popolare, e non ostante la ripugnanza che si avea di ricalcare i mattoni d’una casa che tenea scomunicata e maledetta, il Giotto era un dì nel cospetto del quadro di Malfeo. Egli usciva di quella abitazione pallido ed esterrefatto; la sua fantasia era incesa. A capo di pochi giorni, la incumbenza datagli dal conte P... era eseguita, e questi era pienamente soddisfatto e contento dell’opera dell’artista. Intanto, moltissimi anni dopo la morte di Giotto e di Malfeo, la costui casa cui si era appiccato il nome di _Casa di Satana_, la quale era sempre rimasta disabitata, fu trovata un bel mattino un mucchio di pietre, senza che mai si fosse saputo in che modo era avvenuta la strana catastrofe. Non pertanto quel mucchio di rottami serbò sempre in appresso il nome di _Casa di Satana_, e la via deserta e tetra fu tenuta sempre come appestata. Ma fin dal 1805, più non vi erano le macerie della _Casa di Satana_. Un altro novello edificio era stato costruito sull’antico; bensì una specie di _iettatura_ era appiccata a quel suolo: la nuova casa rimase sempre senza pigionali; ed il suo fondatore morì senza aver avuto il piacere di trarre un obolo di rendita da quelle mura. Gli eredi del fondatore abbassarono e ridussero la pigione fino a un prezzo esiguo; e ciò nulladimeno, la _Casa di Satana_ (poichè sempre questo malaugurato nome erale rimasto) non trovava affittuali, siccome non ne avrebbe trovati neanche se la si fosse data per mera limosina. Gli accattoni si sarebbero contentati di dormire al fresco, anzichè ricettarsi entro quelle mura bazzicate dal nemico degli uomini in persona. Un giorno intanto, un brutto giorno di novembre, dopo venti anni e più dalla sua nuova fondazione, dietro gli opachi vetri di una finestra della _Casa di Satana_ si vide per la prima volta una figura umana... ma così pallida, così diafana, che i curiosi fermati a guardarla credettero esser quello un fantasma. Eppure, non era fantasma, e, quando si fe’ sera un lume vacillante per mancanza di alimento, una lucernina, situata sovra una tavola scassinata, mandava a corti intervalli un getto di livida luce sovra un quadretto dell’ADDOLORATA sospeso alla parete, e serviva a far distinguere una miseria e un dolore che avrebbero fatto piangere un macigno. Gittata sovra un letticciuolo, sprovveduto al tutto di lenzuola, giaceva una donna che, alla macilenza estrema del volto e allo sfinimento mortale ond’erano ricoperte le sue sembianze, mostrava la devastazione di una cronica infermità, la quale sembrava oramai pervenuta a quello stato che non lascia più adito alla speranza. Un giovinetto di poco più di tre lustri, smilzo, pallido e macerato dalle sofferenze, era seduto vicino al capezzale di quel letto di dolore. Questo giovinetto era il pittore Ugo Ferraretti, di Pisa, e quella donna era sua madre. Quando cadde la sera, il tempo, che era stato scuro e nebuloso durante tutto il giorno, si ruppe in pioggia dirotta, e il vento urlava da forsennato nella deserta via della _Casa di Satana_. Ugo Ferraretti e sua madre erano stati la mattina mandati via dalla loro abitazione in Lung’Arno, perocchò da tre mesi non aveano pagato la pigione; tutto era stato venduto; e i quadretti del giovine artista bastavano a mala pena per suo sostentamento e per provveder di rimedii la dilettissima genitrice, cui lentamente menava alla tomba una di quelle malattie che non perdonano mai. Cacciati senza pietà dalla casa ove abitavano, non ostante il gravissimo stato in cui si trovava la sventurata donna, Ugo Ferraretti avea chiesta per carità la _Casa di Satana_! e il proprietario glie l’accordò con vero piacere fino al termine dell’anno, sperando che a tal modo venisse dileguato il pregiudizio che regnava contro le sue mura. Egli non si curò del male contagioso da cui la donna era travagliata, ed avrebbe, crediamo, introdotti cento tisici colà, purchè un essere umano fosse vivuto o morto in quella casa che da sì gran tempo non vedeva abitanti. Non diremo della spaventevole umidità che trasudava dalle pareti di quella casa e dal palco a volta: era impossibile viver sano là entro, anche con tutti gli agi della vita. La camera dov’era l’ammalata non aveva altri mobili che il letticciuolo su cui giaceva la misera sotto uno straccio di coperta, strettamente rincalzata nelle materasse, un tavolino che adempiva a tutti gli uffici, due sedie con parecchie traverse di meno, e lo scheletro di poltrona, su la quale stavasi rannicchiato un gatto compagno antico e fedele di quella miseria che agghiacciava il cuore. Sul tavolino, oltre alla lucerna che serviva soltanto a render visibili le tenebre, erano ancora due bicchieri di vetro contenenti pozioni per la inferma. Era quello siccome abbiamo detto, il primo giorno in cui quella donna e quel giovinetto abitavano nella _Casa di Satana_. Ugo non avea detto niente alla mamma della nuova abitazione; sì che ella non sapea sotto qual tetto fosse venuta. Il nolo di una carrozza per trasportarla quivi era costato al povero fanciullo le più inaudite umiliazioni; ma egli aveva sofferto tutto con amore, perciocchè trattavasi della sua cara mamma, che egli amava tanto tanto. Non diremo quante lagrime avea spremute dagli occhi di quel giovinetto la malattia inesorabile della genitrice; non diremo quante notti il miserello avea vegliato, lavorando accanto a lei, per poterle procacciare al domani un po’ di cibo; la storia dei quindici anni della vita di questo giovine si comprendeva di due sole parole: _amore e sofferenza_. Qualche giorno dopo che la sventurata vedova Ferraretti erasi messa a letto, dov’era confinata da oltre due mesi, ella avea pianto in tutta la giornata; e, quanto più il diletto ed amantissimo figliuolo facea di confortarla, tanto più ella, stringendoselo al cuore con trasporti di disperata tenerezza, piangeva a sciolte lagrime. E poi che mille volte il fanciullo ebbele chiesta la ragione di quel pianto così dirotto, la donna diceagli singhiozzando: — O figliuolo mio! E non ho io ragione di stemperarmi in lagrime? Ah! tu non sai che il mio male non può guarirsi senza un miracolo di Dio o della Vergine Santa!.... Ti ricordi di Luigi e di Errico tuoi, fratelli?.... Morti entrambi collo stesso male che ora mi sta consumando. Oh se io fossi almeno morta prima di loro!.. E che farai tu solo; figlio mio dopo la mia morte? Chi prenderà cura di te? E quando penso che la mia malattia sarà forse lunga, e che tu devi ammazzarti di fatica per così poco! Ma io non voglio che ti levi di bocca il sostentamento per comprar farmachi per me e pagare il dottore che viene a visitarmi... Credi che io non sappia che l’altro giorno non hai mangiato altro che un pugno di castagne! Alla tua età, e con tanta fatica che fai! E qui la misera ricominciava a piangere, ed Ugo la baciava e ribaciava, non sapendo trovare altro argomento di consolazione per lei. E così passarono due mesi. La donna che, quando stava bene, non risparmiava fatica veruna pel vitto e per la pigione, ora, ridotta a letto, non potea più cooperare a provvedere ai bisogni della vita. Ugo lucrava quel tanto che bastava ad uno scarso e malsano cibo: la pigione di casa non fu più pagata, ed ecco come una mattina, dopo tre mesi, il proprietario ordinò che sgombrassero la casa, ed avrebbe fatto vendere i mobili se ve ne fossero stati. Quella sera, il cielo di piombo pesava sulla terra, cui di tempo in tempo inondava con istemperata pioggia: i lampi solcavano l’aere, a guisa di serpi di fuoco, e il tuono rumoreggiava in mezzo alle nubi, come la voce del leone nel deserto. La donna si moriva sotto gli urti di una tosse secca e violenta: un ansamento orribile troncavale il fiato e la vita: un ristoro, un farmaco era necessario, e Ugo non aveva un soldo per comprarlo. Il quadretto che rappresentava la Sacra Immagine dell’Addolorata era opera sua; era tutto ciò che gli era rimasto delle sue fatiche. Ugo vi fissò uno sguardo d’indicibile angoscia, corse alla parete, lo staccò dall’arpione, sel pose sotto al braccio, e: — Madre, io esco, le disse, vado a comprar qualche cosa. Ed alzò la voce soffocata perchè sua madre udiva debolmente. — Ah! figliuol mio, non lasciarmi sola!... io sto così male! Se io morissi prima che tu torni... Io soffro tanto! Ugo mormorò qualche cosa che parve alla madre una parola d’ira. — Ah figlio... figlio.. mio... vedi io ho peccato e soffro; ma quella Madre benedetta non avea peccato e pur soffria! L’inferma aveva cogli occhi accennato il quadro della Madonna; ma non si accorse che più non istava alla parete. La voce della madre di Ugo era così debole, e il soffio del vento sì forte che il giovinetto non udì le parole di lei. Intanto, egli si gittava sul capo un logoro e vecchio cappello, baciava la mano della madre, e, raccomandatala al Padre di tutti gl’infelici, usciva sotto una stretta di pioggia che allagava la strada come un mare che si fosse scaricato dal cielo. Ugo Ferraretti si dirigeva alla casa del sig. Paillard, rivendugliolo di quadri, una specie di ebreo, che abitava in una stradella accosto alla piazza dei Cavalieri. II. UGO FERRARETTI Prima di seguitare il Ferraretti dal rivenditore di quadri, è mestieri che i nostri lettori facciano più stretta conoscenza con questo caro giovinetto, la cui storia forma uno dei più importanti episodii della nostra narrazione. Ugo nacque in Pisa da Luigi Ferraretti, buon miniatore, espertissimo nel dipingere agli acquerelli o sulla bambagina. La pittura era stata la professione di questa famiglia: da padre in figlio se l’ebbero trasmessa; e vuolsi che un Ferraretti avesse avuto l’onore di ritoccare parecchi dei quadri della chiesa Cattedrale di Pisa, i quali formano una gloria italiana e l’ammirazione degli stranieri. I nomi di un Andrea del Sarto, di un Rosselli di Firenze, di un Ventura Salimbeni, di un Passignani e di un Giovanni da Bologna rendono la Cattedrale di Pisa uno dei più insigni monumenti artistici di cui si onori l’Italia. Dicesi che il Ferraretti avesse restituito il prisco colorito alla maggior parte delle belle dipinture che rappresentano la storia di san Ranieri, protettore della città. Ad ogni modo, sia che fosse stato il Ferraretti o altri quegli che ritoccò i quadri della storia di san Ranieri, questa fatica fu lodata dagl’intenditori; e soltanto un Francese, che scrisse nel 1765 una _descrizione istorica dell’Italia_, si permise di dire che colui che avea restituito il loro primitivo colorito a quei quadri fu _un maladroit qui les avait gatès_ (un inesperto che gli avea guasti). Il cielo scansi gli artisti italiani dai giudizi che i Francesi danno sulle opere loro! Luigi Ferraretti, padre di Ugo, di debil salute, morì alla età di quarant’anni, lasciando nella povertà la moglie e tre figliuoletti maschi, dei quali Ugo era il più piccolo. La vedova di Luigi, giovine ancora, amantissima dei suoi pargoletti, si consacrò interamente a procacciar loro la sussistenza, esercitando a muta il mestiere d’insaldatora e di cucitrice. Commoventissimo scambio di affetti era tra la giovin madre e i tre fanciulli che l’amavano alla follia. Comechè di età tenerissima, Luigi, il primogenito, comprese che bisognava aiutar la mamma a portar il peso della famiglia, e, non ostante il disvoler di lei, si pose nella bottega di uno scarpellino a prestargli i minuti offici che può un fanciullo di nove in dieci anni. E parimente venuto grandetto Errico, si mise appresso a un doratore e per apprendere quest’arte, e per guadagnar qualche coserella da recare alla mamma. Ugo soltanto aveva appalesato, fin dall’età infantile, sviscerato amore all’arte di Raffaello. Quando ancora bambinello non sapea reggersi e camminare, e correva nel cestino o nel carruccio per l’angusto spazio della materna cameretta, rimaneva preso da singolare contemplazione innanzi ai lavori del genitore; e, appresso, quando per anco non arrivava coll’alto del capo a superare l’orlo di una tavola, spendeva le ore e talvolta le intere giornate a trarre col gesso o col carbone sul pavimento di grosse figure, le quali attestavano la maravigliosa attitudine che quel fanciullo si aveva a dipingere. Ma una così fatta straordinaria disposizione era in qualche modo inceppata e costretta da un naturale sì malinconico e pauroso che il gittava, a quella età sì bella e innocente, in accessi di tristezza inconcepibile. Avvi di tali fanciulli al mondo che non dànno quattro passi in tutto il corso del giorno; che stanno sempre avviticchiati alla gonna materna, e che, astretti la sera ad attraversare una stanza, si spiritano di paura e non si arrischiano di guardare addietro, per tema che una figura col cappuccio non corra addosso a loro per menarli seco, Dio sa dove. Ugo era nel novero di questi fanciulli: gracile, smilzo, delicato, il suo volto era sì bianco che in guardandolo si sarebbe detto una figura di cera, e il suo corpo era sì debole che a due anni camminava ancora colle falde o nel cestino. Ogni fiato di vento il facea tossire, ed ogni urto di tosse il facea piangere. D’altra parte, la fantasia di Ugo era così viva, e così sviluppata la sua intelligenza, che facea spavento a coloro i quali sanno come di tristo presagio sia il precoce sviluppo della mente. Tre sventure consecutive fulminarono la disgraziata famiglia Ferraretti: dapprima la morte del padre, e, a pochi anni d’intervallo, quella di Luigi e di Errico, fratelli di Ugo, morti di consunzione. Il germe fatale di questa malattia era nel seno della loro genitrice. Inesplicabili decreti di Dio! Intere famiglie si distruggono, lentamente strascinate alla tomba da questo male inesorabile, che sembra prender diletto a colpire le sue vittime allorchè la vita s’infiora di tutte le più belle illusioni. Ma Iddio, assoggettando, per incomprensibili disegni, ad una inesorabil legge di morte tante care e giovanili esistenze, dispensa larghi tesori d’intelligenza e di sensibilità alle misere creature che, nascendo, portano nel seno il serpe che dovrà roderle nella freschezza della vita. Un tisico è uomo a dieci anni, vecchio a venti. Questi tre colpi terribili, vibrati al cuore d’una moglie, d’una madre svilupparono nel petto di lei i germi di quella malattia, per la quale l’abbiamo veduta confinata nel letto delle sofferenze. Ugo era divenuto il solo sostegno della famiglia. Fanciullo ancora, egli lavorava da otto a dieci ore al giorno per non far difettare del bisognevole la cara madre, la quale, per quanto lo sopportasse la mal andata salute, dava solertemente opera a lucrare il sostentamento della vita. Non sì tosto uscito della prima infanzia, Ugo erasi posto a studiare appresso a suo padre, e, morto questi, appresso a un mediocre figurista, non tanto valente pel pennello, quanto pel cuore; però che grandissimo affetto aveva messo al garzoncello Ferraretti, e con ogni sua possa facea di spianargli il cammino all’arte difficile che questi sembrava amar cotanto. Ugo studiava in ispezialità su quel gran maestro, che solo forma i grandi artisti, la natura. Egli prediligeva i soggetti malinconici o religiosi. Dotato d’una sensibilità eccessiva, colpiva subitamente la vera espressione dei suoi soggetti, e sapea dare alle forme del volto un carattere così delicato e così vero ad un tempo che le sue teste erano altrettanti piccoli gioielli di arte. Tutto era precoce in questo giovinetto, e tutto annunziava il genio immortale in un corpo fragile, che ad ogni momento parea che volesse disfar la creta e morire. A quindici anni, Ugo era già uomo; il suo petto ardeva di aspirazioni sublimi; ma la fralezza del corpo e la miseria il gittavano spesso nella più desolante ipocondria. Egli avea veduto morir di consunzione due suoi fratelli, e questo pensiere era sempre presente al suo spirito, come un avvertimento, un presagio, una minaccia. Spesso egli abbandonava il pennello sul cavalletto, e si lasciava cader sulle ginocchia le braccia e la tavolozza de’ colori, colpito da un pensiero di scoraggiamento, e rimaneva una buona mezz’ora nella più grande immobilità. Allora il suo bel capo si curvava sul petto; i suoi grandi occhi neri si socchiudevano quasi assonnati e stanchi; e l’anima sua sembrava staccarsi da quel corpo affranto e malaticcio per volare verso una regione dove la creta più non istringe nei suoi lacci crudeli l’essenza purissima del pensiero. Ma se per caso egli udiva la voce della madre, o la vedea passare nello studio dov’egli lavorava, il suo petto balzava di gioia, e si rimproverava di nutrire lugubri idee quando la mamma non aveva più che lui per consolarla; e ripigliava con alacrità l’interrotto lavoro, e le sue ciglia si bagnavano di lagrime di amore per quell’essere che era tutta l’anima sua, tutta la sua gioia sulla terra; ed egli era così contento e superbo di lavorare per la mamma sua! Qualche volta Ugo non potea resistere alla tentazione di andarla ad abbracciare, e, quando la madre stampava su la pallida faccia di lui un tenerissimo bacio, il giovinetto era così lieto, e così, direm quasi, rinato alla vita, che gli sembrava un delitto l’abbandonarsi a malinconici pensieri e allo scoraggiamento quando Iddio avea benedetto i suoi lavori santificandoli col più puro amor filiale. Ma questa riconciliazione con sè medesimo durava sì poco, che un momento di poi ricascava il miserello nelle cupe idee di morte; si alzava da’ suoi lavori, e andava a guardare il suo volto a un piccolo specchio a viticci che era sovra uno degli stipiti della porta d’ingresso del suo studio. Un quarto d’ora rimaneva il giovinetto a contemplare la propria immagine nel cristallo. Ogni dì pareagli che si fosse accresciuto il matto biancore delle sue gote e la fosca lividezza delle labbra; ogni dì sembravagli che l’arco delle spalle prendesse più vaste proporzioni, come se il suo corpo volesse impennar le ali per isciogliere il volo verso il cielo. Egli guardava con un indicibile sentimento di angoscia i suoi omeri ricurvi ed elevati sovra un petto stretto e compresso; la concavità delle sue gote e le plumbee sue labbra; e l’anima sua addiveniva così trista che tutto gli pesava, e la vista degli uomini, e l’aspetto sereno di natura, e i benefici raggi del sole, e la fresca aura che giocava ne’ suoi più fieri nemici, i polmoni. Ugo trovava un supremo conforto in quella religione che sa porgere un lenitivo ad ogni piaga; una consolazione ad ogni tribolo, una gioia ad ogni dolore. Egli pregava con fervore, con piena fede; e le sue preci non mancavano di spargere un balsamo dolcissimo su quel cuor giovanile che amava la vita, non per sè, ma per la cara madre. Lasciamo immaginare a’ lettori quale corrispondenza di affetti avvenisse tra questo giovinetto e la genitrice, dappoi che morto ebbe per tre volte visitata la loro casa, e gli ebbe lasciati soli a piangere e ad amarsi. Era un delirio di ogni momento, un pensiero costante, che l’un de’ due si avea per l’altro. Un leggiero impulso di tosse facea balzar di spavento il cuor della madre o del figlio, secondo che l’una o l’altro avealo sofferto. In qualche sera di està, verso il tramonto del sole, quando Ugo avea fornito il suo compito di lavori, e la mamma avea dato ordine alle faccende domestiche, soleano trarre entrambi a diporto a qualche miglio della città, nell’aperta campagna. La giovin donna appoggiavasi al braccio dell’amato giovinetto, ed era così lieta, così felice, che il suo volto di cera si colorava del più leggiadro vermiglio; e una piena di lagrime le correva agli occhi. Eglino si trovavano spesse volte soli nelle vaste pianure, quando le prime ombre s’inchinano sulla terra. Allora si sedevano su qualche tronco rovesciato l’uno a fianco dell’altra; e così strettamente abbracciavansi, come se qualcuno avesse minacciato di separarli. Le essenze più pure si esalavano dalla terra umettata dalla brina serotina, e il fogliame de’ giovani alberi eseguiva tali melodie di mormorii sul capo di quella coppia benedetta da dirsi quasi che la natura festeggiava un amore che scuote e fa vibrare anche le visceri della terra. Chi si fosse trovato a passare per quelle amene solitudini, ed avesse veduto quel giovine e quella donna sì amorosamente solleciti l’uno dell’altra, avrebbe al certo creduto esser quelli due felici innamorati o sposi novelli, imperciocchè la donna, tuttora giovine e bella quantunque eccessivamente sfinita dalla persona, avea negli occhi tanto fuoco di tenerezza e tanta vita di amore, che soltanto un’amante avventurata può avere. Agli occhi di Ugo nessuna donna era più bella della madre sua, di cui l’immagine ei ripetea in ogni quadretto che facea: quella donna aveva una chioma sì bella e sì ricca, che sciolta le scendea sino alle ginocchia; e quei capelli erano passati su tante tele, che il Ferraretti era soprannominato in Pisa il dipintore delle belle chiome. E anch’egli avea lasciato crescere i propri capelli che gli cascavano in vaga zazzaretta quasi fin sulle spalle, e vieppiù faceano risaltare la fosca bianchezza delle sue sembianze. A quindici anni, in questa età in cui a’ dì nostri un giovanetto suol mostrarsi tanto profondo conoscitore e pratico del male, Ugo era innocente come quando era bambinello nelle fasce. Egli non conosceva il mondo che attraverso il prisma della sua ardente fantasia; tutte le donne erano rappresentate nel suo cuore dalla madre. Quanto più la sua intelligenza e il suo genio si sviluppavano, tanto più la vita positiva, il mondo, la società prendevano agli occhi di lui colori e vesti non proprie. Le gioie dei banchetti, i piaceri delle veglie, gli svagamenti dell’età giovanile erano per lui misteri, o non indovinati giammai, o troppo lontani dallo stato della sua anima. Ugo fuggiva le sale assordate per canti di letizia, le galanti passeggiate al rezzo di molli acacie, le profumate camere di facili amori. Sola, pallida, lenta scorrea sua vita, simile alla luna ne’ placidi campi dei cielo; avea sedici anni all’incirca, eppure nissun amico gli avea stretta ancora la mano, nissuna fanciulla avea susurrato al suo orecchio parole di amore. Il giovine artista amava la solitudine: faceva parecchie volte scorrer le ore sul bruno declivio d’un colle, e vi restava immobile a contemplare un ultimo riverbero di sole oscillante nel convesso de’ cieli, o l’ombra bigia d’una nube sospesa sovra un gruppo di poggetti, o una lontanissima veduta avvolta in una ondosa squame di raggi. Dicemmo che fin da’ primi anni di sua fanciullezza, Ugo appalesava il fuoco di un’anima artistica. Non fu l’ipocrito sorriso di amicizia o il bacio venduto di un lubrico amore, che accolsero i primi slanci dell’animo di lui. Solo, sempre solo, ei non idolatrava che sua madre e l’arte sua, cioè la pittura: e questa non era già per lui un vano accozzamento di forme e di colori; ma le sue dipinture tramandavano non so che profumo del cielo. Ugo aveva una divozione grandissima per la Madre Addolorata. Non sì tosto egli fu al caso di dipingere una immagine, dipinse quella sacra, rivestendola di soprannaturale dolcezza e malinconia. A questa immagine ei confidava i più segreti affanni del suo cuore; a questa BENEDETTA FRA TUTTE LE DONNE ei susurrava i misteri delle sue notti passate in veglia: a questa Madre Celeste ei raccomandava la sua madre terrestre. Il mattino e la sera egli appoggiava la fronte scottante su quella sacra Immagine, e subitamente una pace, una calma, una soavità gli scendea nel pensiero e gli fluiva sul cuore. Ugo si rialzava dalla sua prece con un mondo di speranze ravvivate, e si slanciava a’ suoi lavori con freschezza di mente e con giocondità di animo. Quell’immagine operava prodigi sul giovine artista. E ora il miserello andava a vendere quella gioia dell’anima sua per comprare un ristoro alla madre. Nello staccare il quadretto dal muro, gli parve che tutto ormai l’abbandonasse, e che era finita per sempre per lui e per la mamma infelice. La Madonna si partia di casa loro! La disperazione vi entrava. Parve ad Ugo che il lumicino che ardeva dinanzi all’Addolorata avesse messo un lamento e si fosse tosto rabbuiato, quando il quadro più non fu al suo posto. La stanza sembrò covrirsi di tenebre di morte. III. UN RIVENDUGLIOLO FRANCESE Diluviava che era una pietà. I rigagnoli aveano inondato a segno le vie di Pisa, che pareva il fiume Arno si fosse rovesciato su tutta la città. Rimbombava il tuono, come una immensa palla di piombo rotolata sovra un’immensa lamina di ferro. Sonava l’Avemmaria, e i tocchi della campana aveano questa volta qualche cosa di più solenne e di più malinconico del solito, imperciocchè erano accompagnati dal fragor del tuono. E il sig. Paillard, poichè si ebbe anch’egli per divozione segnata la fronte, imboccò saporitamente un pezzo di pollo. Questo sig. Paillard, rivendugliolo di qualche rinomanza nella piazza de’ _Cavalieri_, insaccato in un pastrano di pelo, che gli scendeva insino alle calcagna, avea pensato bene, per vincere la noia del cattivo tempo, di protrarre il pranzo fino a sera, e, seduto di fronte alla sua grassissima metà, antitesi bizzarra della sua macilenta figura, spolpava, il più garbatamente che fatto gli venisse colle mani e co’ denti, un pollastrello arrostito, il quale metteva una tal fraganza da far venire l’appetito anche ad un morto. E andava così bene levigando le ossa a quell’animaluccio, che pareva avesse avuto in pensiero di farne uno scheletro zoologico. Ma, durante questa lenta operazione, egli scambiava qualche parola colla sua donna: — Affe’ mia, non ricordo un temporale più insatanassato di questo... Il cielo è scuro come il fondo del mio ventricolo... Carlotta, accendi un altro lume. — Via mo, non ti basta questo? Devi forse infilzare il refe nella cruna? E dopo un’altra boccata ben piena: — Carlotta, con cento diavoli, perchè non mi hai fatto un po’ di fuoco nel braciere? Le ossa mi ballano per la umidità e pel freddo. — Ora ti scalderai; questo è il freddo della digestione. — Che diascine dici? Non vedi i cristalli della finestra che piangono dirottamente?... Chiudi, chiudi quelle imposte. E la povera Carlotta che avrebbe dato volentieri la sua parte di pollastro per non alzarsi, trovò una scusa, e si stette impiombata sulla sedia. Il signor Paillard brontolò tra i denti qualche parola grassa, che si perdette nella caverna dello stomaco coll’ultimo boccone del pollo. Egli nettossi le labbra con un tovagliuolo, su cui erano parecchi ricordi di pranzi precedenti, fe’ saltare alla soffitta il turacciolo d’una bottiglia di sciampagna, e, glo glo glo, fece spumeggiare il conico bicchiere. L’accostava con vera delizia alla bocca assetata, quando un suono morto morto del campanello il fe’ ristare. — Colga il mal sottile a chiunque viene a seccarmi con questo tempaccio. Poffardio, non si può prendere un boccone!! E qui, per parentesi, bisogna avvertire che il nostro uomo avea mandato giù l’inezia di cinque generose vivande. — Non andare in bestia, Giacomo: è il vento che ha mossa la corda del campanello. Giacomo vuotò il bicchiere. Il campanello suonò un’altra volta, ma con un poco più di forza. Allora Carlotta lasciò la salvietta sulla tavola, nettossi la bocca col dorso della mano, ed andò ad aprire. — Santa Vergine!... (Era un lampo). — Perdoni, è in casa il signor Paillard? Questa dimanda uscia tutta tremula e fioca da una figura sepolcrale, che pareva fosse stata ivi balzata dalla vampa atmosferica, come l’immagine di un estinto cacciata per arte magica dal fornello di un alchimista. E la donna, tutta spaurata, non badando a quelle parole, si rintasò gli orecchi colle mani per non udire lo strepito del tuono, quasi, che quel turamento dell’organo sensorio dovesse servirle di parafulmine; e accomandossi a Santa Barbara. Scoppiò il tuono, e di tal fatta, che pareva avesse l’intera città subissata. — Mille perdoni, signora Carlotta, è in casa il signor Paillard? — Mio marito?... Ah! siete voi, signor Ferraretti, con questo tempaccio!... Favorisca; noi siamo a pranzo; senza cerimonie... Che ci porta questa sera? Del suo, non è vero? Bravo giovinotto; si fa quel che si può, non è così?... Ma entri pure: qui tira vento. Ugo era già entrato nella stanza dove pranzavano i coniugi Paillard. Giacomo si soffiò il naso, solo membro nudo che apparisse della sua pelosa figura, e si strinse nelle spalle, vedendosi dinanzi il miserello, cui avea già visto altre volte in sua casa. Ugo sembrava lo sfumo d’una forma umana, egli era pallidissimo, inzuppato ben bene e tremante a verghe pel freddo e per l’umido: portava calzoni i quali, essendo stati manomessi tre anni addietro, erano divenuti sì corti, che a mala pena passavano le ginocchia; e aveva addosso una specie di abito grigio, abbottonato fino al collo, intorno al quale attortigliavasi un cencio di cravatta. — Scusi, sig. Giacomo, se la incomodo a quest’ora... — Anzi!!.. è un piacere!.. metta il cappello su quel tavolo e si segga... Che comando ha da darmi? Ugo restò col cappello in mano, ed aprì la bocca senza mettere alcun suono. Fu questo un movimento involontario dei muscoli, come se egli avesse voluto ingoiare un bel boccone, che in quel momento il rivenditore tenea sospeso in su la punta della forchetta. E il tapino inghiottì invece una piena di lagrime, che gli montava agli occhi, stringendogli la gola. Giacomo era uno di quegli uomini che in tutto il corso del giorno si affaticano, sudano, si ammazzano per le loro faccende; ma, quando sonosi posti al lavoro dei denti, non vogliono essere sturbati neanche dal ronzio d’una mosca. Or si consideri con che buona voglia potea vedersi innanzi quello stordito col cappello in mano, come chi dimanda l’elemosina. — E così? chiedeva il rivendugliolo di malissimo umore. — Avrei questo quadretto, si affrettò a dire il giovinetto, il cui viso era divenuto una fiamma di vergogna. — Capiti in brutto momento, giovinotto mio, disse quell’ebreo, per isgomentare le speranze di lucro del venditore; questi maledetti tempi che corrono fan chiuder bottega; non si compra neanche per un centesimo; le arti vanno giù in modo da far piangere le pietre... Miseria... e poi miseria!... Ho venduto l’altro giorno un Pietro di Cortona per un pugno di fave, come suol dirsi... Ma che volete? Non si posson tener le tele ad impolverarsi nei fondachi; bisogna cacciarle; altrimenti le s’intarlano come panni... Insomma, vediamo la vostra merce, bel fanciullo. Ugo pose il quadretto nelle mani di lui, e fu come se si avesse strappato dai visceri del petto il proprio cuore. Nel torre tra le sue mani il quadretto per esaminarlo, Giacomo avea messo un caldo sospirone impregnato di non so quanti profumi di cucina. Ad Ugo le guance si erano intanto colorate per poco: ma tosto subentrò un lividore di morte, quando il miserello vide la faccia di Giacomo contorcersi in tante smorfie, che era proprio una grazia da bertuccia. — Lo sapea ben io che trattavasi di qualche madonnetta... Se almeno fosse l’Addolorata di Guido Reni!! E che cosa ho da farne io di cotesta vostra meschinità? Roba da sacrestia... Ora si domandano quadri a soggetti, quadri per salotti... Mi duole che per questa io non posso servirti; è cosa che non fa per me... Potete vedere da altri _negozianti_. Il giovinetto non parlò molto, non pregò, non pianse, ma si passò la mano sulla fronte, e zitto zitto spelossi per la rabbia e per dolore un trucioletto di capelli: si cacciò indi il quadretto sotto l’ascella, e si partia, quando Giacomo il richiamò pregandolo di farglielo meglio osservare. — Orsù, la mi lasci pure questo quadretto, disse il francese rivendugliolo, gittandolo sopra un cassettone senza più riguardarlo; il terrò per non perdere la sua buona grazia... perchè mi dorrebbe assaissimo che fosse qui venuta inutilmente con questa stretta di pioggia... Eccole dieci soldi. — Dieci soldi! sciamò il giovinetto atterrato dallo avvilimento; oh madre! madre mia! — E l’assicuro che glielo fo per amicizia: un altro non avrebbe ottenuto tanto da me; ma io fo stima del suo ingegno e dei suoi lavori; e mi sta veramente a cuore di non perdere la sua _pratica_. Questo terribile gallicismo compì l’opera di carità del signor Paillard, il quale, tratto dai baratri dei suoi tasconi due o tre grosse monete di rame, le mettea gravemente nelle mani del giovine artista, il quale, abbrancolle con una stretta convulsiva di nervi. Ugo si trovava in tanta prostrazione di animo ed in tanto bisogno di danaro, che non pur quel quadretto, ma per meno di dieci soldi avrebbe sibbene venduta la vita, tutto! Quel quadretto dell’Addolorata fu poco tempo appresso venduto alla casa Righetti di Livorno per la somma di lire 500. IV. IL CAMPOSANTO DI PISA La _Torre pendente_, la Cattedrale ed il Camposanto sono i tre edificii che richiamano la curiosità dei viaggiatori, che visitano la celebre città del Conte Ugolino contro la quale con tanta stizza fulminava le sue imprecazioni il gran poeta ghibellino. Ed in vero, questi tre edifizii; per magnificenza di costruzione, per importanza di storiche memorie, pel gran numero di preziosi monumenti d’arte, sono a giusto titolo da porsi tra i più considerabili delle città della penisola, e non è maraviglia se in ogni stagion dell’anno un numeroso concorso di visitatori vengono a tributare un saluto e un omaggio a quei luoghi e a quei marmi. Ma, sopra tutto, grandioso e solenne è il Camposanto, ove riposano le ossa dei Pisani. Se quello di Napoli è più bello per l’amenità del sito e per isvariata magnificenza di mausolei, quello di Pisa ha un carattere più maestoso e più grave, ed ispira più tristezza e raccoglimento. La sua forma è un gran quadrato, circuito da portici, e rivestito di marmo alla faccia esterna ed interna. Antichi e pregevolissimi quadri adornano tutto il sacro recinto, tra i quali le sei classiche dipinture del Giotto, rappresentanti la storia di Giobbe. Avvi eziandio il quadro del _Giudizio finale_, tratto da Orgagna: allato di questo quadro è dipinta la morte dell’uomo e lo stato a che riducesi il suo corpo divenuto cadavere. Veggonsi perfettamente effigiate tre tombe dischiuse, in una delle quali è un corpo che incomincia a corrompersi; nell’altra, un corpo già quasi interamente spoglio di carni; e nella terza, uno scheletro. Queste dipinture allogate presso al luogo dello sfacimento dell’organismo umano producono un’impressione profonda e terribile. Tra i più notevoli mausolei di questo Camposanto osservasi la tomba del giureconsulto Decio, ornata di bassorilievi e arabeschi, lavorati secondo il gusto antico; quello di Matteo Curzio, filosofo e medico, opera di Artolfo Lorenzi, ottimo allievo della scuola di Michelangelo, ed altro con epitaffi ed iscrizioni del tempo in cui la città di Pisa governavasi a repubblica. Tre modeste croci sovra tre fosse, poste a pochi passi di distanza l’una dall’altra, indicano l’ultimo asilo di Luigi Ferraretti e dei suoi figliuoli. Tre cerchi di mortelle assiepano le tre fosse. Alle due punte delle sbarre trasversali delle croci sono le iniziali dei nomi degli estinti. Queste iniziali rappresentano tre ricordanze tenerissime e tre mucchi di ceneri. Quasi una volta al mese, Ugo visitava questo recinto di morte, per deporre tre sorti di rose su quelle tre fosse. Ed ogni volta che i suoi passi avvicinavansi a quella muta città dei defunti, il giovinetto era preso da tale batticuore che non potea respirare. Ma, piuttosto che aggravare la sua tristezza, queste visite periodiche al Camposanto versavano un’arcana dolcezza sull’anima sua: la morte perdeva in qualche modo, agli occhi di lui, l’orrore della sua solitudine, però che, quando a Dio piacesse di chiamare al cielo lo spirito immortale, il suo corpo avrebbe avuto anch’esso una croce, simbolo della clemenza di Dio verso l’uomo, simbolo di pace, di carità e di amore. Le fresche e odorose aurette del cielo, la pura e serena luce del sole rischiaravano quei filari di fosse, ognuna delle quali avea forse al di là di que’ portici un rimpianto carissimo, un desiderio perenne e inconsolabile, una vita di reminiscenze, e un mondo di affetti nel cuore di qualche superstite. La dolce serenità di quel campo di ossami parlava all’anima un linguaggio misterioso, e le rivelava, al di là dell’azzurra volta del cielo, la immarcescibile corona dei Giusti e la felicità senza fine. Talvolta la luce del giorno, abbattendosi su quelle tombe, sorprendeva il giovinetto artista nelle sue malinconiche meditazioni. La luna si alzava dietro un ceppo di mausolei, come la pallida faccia d’una vergine estinta, e covriva colla sua antica luce quei sarcofaghi di marmo bianco e nero. Allora i cipressi prendeano figure fantastiche e rassembravano alle ombre dei morti ritti su i loro sepolcri. E, quando la sera si avanzava, il maestoso campanile torreggiava nel cielo, come un sublime pensiero di religione che nascesse da quegli avelli. Nudrito fin da fanciullo nella lettura delle Sacre Pagine, Ugo avea sulle labbra e nel cuore le racconsolanti parole dei sacri salmi dei morti, che egli mormorava a suffragio delle anime dei suoi, i quali dai loro sepolcri pareano dirgli: _Figlio, fratello, prega pe’ tuoi cari: partiti, ma non estinti siamo_. È indicibile la soavità che piovea sull’anima di Ugo, dopo aver recitate fervide preci su le fosse de’ suoi. Le lagrime abbondanti che gli scorreano dalle ciglia erano rugiada dolcissima al suo cuore. Egli pensava con estrema tenerezza alla cara madre sua, che un giorno sarebbe forse venuta a piangere e a pregare su la tomba di lui; il suo amore gli creava questa dolcissima illusione; imperochè egli era ben sicuro di morire pria di lei. Ei ricoglieva un fiore nato il mattino su la fossa del padre, il baciava bagnandolo di lagrime, e caramente il conservava per recarlo alla mamma che lo aspettava. Quel fiore, comecchè sbucciato su la terra dei morti; dava olezzi del cielo, siccome le speranze che nascono da’ sepolcri. Ugo ripeteva i bei versi di un giovine poeta napolitano, rapito nella età di anni 21 all’amore, all’amicizia, alla gloria[3]: «Dolce alle scompagnate alme è la pace De’ patrii cimiteri, E quando l’armonia del giorno tace Co’ torbidi pensieri, E quando vien da una chiesa lontana Un lamentar di salmi o di campana. «È dolce, dove un nero arbor su i morti La molle ombra protende, E dove annunziar sinistre sorti La civetta s’intende, Con lagrime educar rose leggiadre Sopra una fossa, e dir: qui dorme il padre! «E allor che su la pigra aura notturna Voce non vola o canto, Alla madre reddir, che taciturna Al focolare accanto Pensa de’ corsi tempi, e offrirle un fiore Ricolto nel giardino del dolore.» V. AMORE La madre di Ugo morì qualche mese dopo la trista vendita del quadretto l’Addolorata. Risparmiamo ai nostri lettori le scene strazianti che precedettero e seguitarono la morte della virtuosa donna. Chiunque ebbe la sventura di perdere, ancor giovine, una madre adorata, la quale era tutto il bene ch’ei possedea sulla terra, comprenderà questo dolore infinito, questo perpetuo lutto della vita. Ugo non soccombette a tanto strazio del cuore, perocchè tuttora non erano compiti i disegni della Provvidenza su lui. Il giovinetto rimase solo in questo mondo tutto ciò che egli aveva amato non vivea più che nelle sue rimembranze: i nomi degli esseri a lui così cari non erano più pronunziati che nelle sue preci; la più desolante solitudine il circondava, e nelle deserte camere della sua casa più non risuonava la dolce voce di quella donna che tanto lo amava! Nessuno veniva il mattino ad aggiustargli i lunghi capelli sulla pallida fronte, mentre egli era intento a’ suoi lavori; nessuno avea più per lui quelle piccole e minute cure di ogni momento, che sono la viva e la perpetua testimonianza di una abnegazione intera, disinteressata, caldissima, immensa come l’amore che la produce; nessuno preparavagli più l’umile zuppa, condita da quel sorriso materno, gioia di paradiso in sulla terra; nessuno più la sera gli rifaceva il letticciuolo, o il mattino l’abballinava sulle assi. L’abbandono, il silenzio, la morte regnavano in quella casetta, dove pocanzi erano l’amor più vivo, la voce più tenera, la vita più attiva. Oh l’amor di madre è una felicità che supera tutte le altre! Beato, mille volte beato chi ha ancora la madre sua! Iddio è con lui. Ugo Ferraretti non fu più veduto per le vie di Pisa per oltre un anno; forse ei più non usciva dalla Casa di Satana, dove non sapeasi ciò che facesse in tutta la giornata. I curiosi, gli sfaccendati, i maldicenti sentivansi rodere le budelle per fiutare qualche cosa dei fatti di lui; ma altro non avevano potuto traudire, se non che il giovine vivea tranquillamente tra i suoi lavori, da cui ricacciava il vitto giornaliero. Ma tutti si erano ingannati. Qualche tempo dopo la morte della madre, Ugo usciva ogni dì prima che aggiornasse, e non tornava a casa che nel fitto della sera, e talvolta della notte. Noi non sapremmo dire dov’egli andasse e in che spendesse le intere giornate. Certo si è che a vederlo egli mettea compassione, tanto era smagrato e diafano. Ciò nulla di meno una certa straordinaria vivacità era negli occhi suoi: più non sembrava così avvilito e prostrato di forze, e sulla sua bianchissima faccia si mostrava a quando a quando una vampa di fuoco che pareva incendiarla. Era la stagione estiva, e Pisa si spopolava di abitanti, de’ quali i benestanti si ritiravano a Livorno, a Firenze, nelle montagne o a’ bagni pubblici, a qualche miglio dalla città. Ne’ calori dell’està, l’aria di Pisa diventa malsana, e la maggior parte de’ forestieri che non vi sono avvezzi vi periscono. Ugo si ritirava la sera stanco morto, e si gittava sul suo letticciuolo qualche volta non rifatto dal giorno precedente, dove indarno egli invocava il balsamo del sonno: tutta la notte ei si dimenava in sulle ardenti materasse, or pregando, or piangendo, or tossendo. In sull’alba il sonno gli scendea sulle pupille come il bacio d’un fratello o d’una madre; ma, poco di poi che aveva attinto nel sonno un’ombra di forza, ei si rigettava dal letto, vestivasi in fretta, e usciva, dirigendo i suoi passi verso quella parte della campagna di Pisa che mena alla Cascina. Per più di due ore Ugo camminava per vie tramezzate da paludi formate dagli straripamenti di Arno: i suoi piedi affondavano continuamente nella bolletta e nella melma. A capo di due ore all’incirca di cammino, la strada si facea meno malagevole: ma subitamente ritornavano le difficoltà e l’asprezza del cammino, soprattutto in un gran bosco di sugheri e di querce, in cui non era strada del tutto, e di cui gran parte era inondata. Questa foresta coperta d’alberi difendeva almeno dagli ardenti raggi del sole; e quivi, all’ombra di qualche gran mirto, Ugo riposavasi alquanto per riprender lena e giungere alla meta di cui tutt’i giorni ei si dirigeva. Noi non ardiremo seguitarlo fin dove egli fermava i suoi passi, e ci terremo contenti nel dire che questa sua giornaliera peregrinazione durò per molto tempo. Ma, sopravvenuta la stagione del freddo e delle piogge, Ugo mise qualche intervallo alle sue gite alla Cascina dove andava soltanto nelle giornate di sereno. Una gran trasformazione erasi operata nell’animo del giovine artista, della quale era ben difficile indovinar la cagione. Ugo era sempre distratto, come se un sol pensiero gli stesse in mente: egli era sempre malinconico; ma qualche volta una gioia sovrumana parea che sfolgorasse sul suo sembiante; e talvolta una crudele disperazione parea che gli acciuffasse il cervello ed il gittasse in balia de’ più sinistri proponimenti. Spesso, allorchè, affranto dalla stanchezza, ei tornava in sulla sera alla _Casa di Satana_, Ugo si abbandonava sul suo letticciuolo e disfogava in un mare di lagrime l’acerbo dolore che gli premea sul cuore! Oh come erano orribili quei momenti di solitudine pel misero giovine! Nissuna amica voce il confortava, nissuna mano gli tergea le copiose lagrime. Allora lo sventurato artista cadeva in ginocchio alla sponda del letto; alzava al cielo gli occhi nuotanti in lagrime e pregava.., pregava... pregava l’Addolorata Vergine, e a lei confidava ad alta voce i segreti dell’animo suo, a Lei si apriva interamente come ad una tenerissima e cara madre. E la preghiera ridonava all’animo suo la serenità, la fiducia, la speranza. Una mano soprannaturale parea che scendesse a rasciugare le ciglia di lui: una voce misteriosa parea che facesse udirgli parole che gli arrecavano una consolazione grandissima. Dopo aver pregato con tutto il fervore della fede e della speranza, Ugo rimaneva immobile in ginocchio, alla sponda del letto, cogli occhi sempre rivolti al cielo, e colle mani congiunte in atto della più divota umiltà. Una mezz’ora passava in questa soavissima elevazione dello spirito, in questa misteriosa e sublime espansione di un cuor trafitto, che attinge sollievo e forza da Dio e dalla più diletta ed Immacolata Creatura di Dio. E quando serenatosi l’animo e confidente, Ugo si cacciava sotto la coperta per ritrovare il balsamo del sonno, che è al corpo ciò che la prece è all’anima, egli pensava: La preghiera non è forse il più gran dono del cielo? Non è l’espressione naturale dei nostri bisogni, delle nostre miserie, de’ nostri patimenti? Non prega forse ad ogni momento l’intero creato che ne circonda? Le mille voci di pianto, che partono dai luoghi di dolori e di miserie, non sono preghiere rivolte a Colui che volle esser chiamato NOSTRO PADRE? E la natura inanimata non prega ella forse nel suo misterioso linguaggio? Gl’indistinti mormorii che si esalano dal seno delle convalli, lo stormir dei fogliami, l’armonia delle acque, il fremito destato dall’aleggiar de’ venti; e il solenne rombo del tuono, lo squassar delle antiche foreste, i ruggiti dell’Oceano, e il milione di voci degli animali tutti, che sono in sulla terra; non è questa una continua preghiera, un concerto di lodi all’Altissimo pel gran miracolo di conservazione che si opera ogni dì, e nel tempo stesso l’attestato più schietto della debolezza di tutti gli esseri e di tutte le cose create, le quali rientrerebbero nel nulla, senza il perpetuo amore che le sostiene? La luce che rischiara il creato, e gli Astri innumerevoli che a notte rivelano la Gloria di Dio, non volgono incessanti preghiere all’Essere che col suo braccio possente e invisibile li tien sospesi tra due abissi, ove si perde l’umana ragione? Il tempo che disperde e accumula i secoli, siccome il vento disperde e accumula i granelli di sabbia, non è forse la tacita e perpetua preghiera della Creazione? E l’uomo, questa creta portentosa, che da un punto impercettibile del creato scruta le profondità de’ cieli, e segna il corso degli astri, l’uomo, quest’essere assetato di felicità, questo tipo del grande e del misero, non ha egli d’uopo di pregare ad ogni istante della vita sua? Le nostre pupille non sono fatte per guardare in cielo? Le umane passioni non sono forse il più ardente linguaggio della preghiera? Oh misero, mille volte misero chi mai non prega! Quando le passioni, il mondo, la vita gli sfuggono, che farà egli? Questi pensieri si aggiravano nel capo del caro giovinetto, innanzi ch’ei chiudesse gli occhi al sonno. Gli amantissimi nomi del padre, della madre e de’ fratelli si mischiavano sempre nelle sue litanie e nelle sue orazioni alla Vergine Addolorata. Ma, da qualche tempo, un altro nome, un altro carissimo nome veniva ad ogni istante sulle labbra di Ugo Ferraretti; e questo nome mettea nel cuor di lui una dolcezza febbrile, gli dava sussulti di gioia e di angoscia inenarrabili, e popolava ormai l’avvenire del giovine artista di larve adorate, di seducenti immagini che gli scottavano la fronte. Quel nome era in oggi l’ultimo che mormoravano le sue labbra, prima che il sonno facesse succedere nell’animo di lui un altro mondo ideale a quello della realtà. Quel nome era ormai per Ugo Ferraretti la vita, la felicità la gloria. Quel nome era di una fanciulla bellissima per quanto sventurata. LUIGIA ALDINELLI. Eccoci ormai sulle orme di un segreto importantissimo che gitta una gran luce sulla nostra istoria. Luigia Aldinelli è un nome che abbiam lasciato nelle tristi memorie del Baronetto Edmondo Brighton: ella è una de’ cinque personaggi che, nati frutti della colpa in diversi lontani paesi, un pensiero di riparazione congiungea sulla medesima lista. Il delitto gli avea generati in cinque luoghi diversi; il rimorso ne riuniva i nomi e gli affidava all’amicizia e alla virtù. Oggi noi ritroviamo il nome di Luigia Aldinelli sulle labbra d’uno sventurato giovine artista, suo compatriotta. Dove, quando, come Ugo Ferraretti avea conosciuta Luigia Aldinelli? Perchè sventurata questa giovinetta? Per ora noi sappiamo, imperocchè tuttora è avvolta nel mistero la storia di questa figliuola naturale del Conte di Sierra Blonda. Ma ben possiamo asserire che non mai due anime più belle e più pure furono unite da più pura fiamma di amore. Il cielo, che avea tolto a Ugo Ferraretti l’intera famiglia, compensava largamente questa perdita, concedendogli una corrispondenza di affetti tenerissimi e tali da riempir pienamente il vuoto profondo del cuore dell’orfano infelice. Ugo Ferraretti amava dunque Luigia Aldinelli, e n’era riamato con tal passione, che egli non avrebbe giammai potuto sperare ne’ sogni delle sue notti febbrili. Era felice l’amore di queste due innocenti creature? Felice sì nella sua piena ed intemerata corrispondenza; ma una funesta necessità costringeva i due amanti a non far trasparire i loro sentimenti: onde segretamente si amavano. Iddio solo potea rompere l’ostacolo di ferro che si frapponeva alla loro felicità. E la preghiera soltanto, la preghiera costante e fervida, poteva ottenere dall’Altissimo una tal grazia. In sul cominciar dell’autunno Ugo più non andò tutt’i giorni alla Cascina, dove sappiamo al presente quale oggetto l’attirasse. Ne’ dì che non traeva alla campagna, Ugo rimaneva chiuso nella camera. Egli meditava un lavoro, un quadro, il cui sublime concetto disposavasi alla più cara sua passione sulla terra. Un mese intero Ugo stette a meditare sul suo quadro e a pregare. La Religione, la Gloria e l’Amore moveano il genio dell’artista e davan la febbre alla sua fantasia. E un bel mattino, Ugo Ferraretti segnava i primi tratti del quadro rappresentante: LA PREGHIERA. VI. L’ISPIRAZIONE L’ispirazione è un sublime dono che l’Ente Supremo concede ai figli dell’uomo. Essa è come un raggio della divina possanza, una scintilla di quel fuoco che dà la vita al nulla, che caccia la luce dalle tenebre, le forme dal caos. L’ispirazione pone il suggello dell’immortalità alle opere che essa anima: il Tempo annienta le generazioni, polverizza le foreste, dissecca i mari: e l’opera dell’ispirazione rimane incrollabile e salda. A guisa della luce del sole, che nulla perde giammai nel passaggio de’ secoli, l’opera ispirata non invecchia giammai. L’ispirazione non ha niente di comune colla materia che ne circonda: Essa non si rivela che ne’ suoi mirabili effetti, il mondo l’ammira, ma non la comprende, e spesso la scambia colla follia. A simiglianza dei grandi agenti di natura, la cui intima essenza sfugge all’umana ragione, essa non si lascia indovinare neppur dall’ente privilegiato a cui si abbandona. Il Genio stesso non sa che cosa è l’ispirazione, che lo anima. Essa si spazia nell’universo; fende la regione degli astri; indovina i segreti della Creazione; scruta gli abissi del cuor umano; sorprende il magistero del Bello e ne disvela le maraviglie alle attonite moltitudini; anima il marmo, la tela, la carta; strascina al suo carro di trionfo le ricchezze e gli onori che essa disprezza e calpesta; sorride alla Gloria, sua figlia; comanda l’Entusiasmo, lo provoca, lo spande; nobilita i suoi stessi adoratori, e guarda baldanzosa attraverso i secoli, siccome al solo campo degno di Lei. L’ispirazione, immenso dono che Iddio fa a qualche anima, uccide il corpo ove quest’anima risiede: quanto più essa vola verso il cielo, donde emana, tanto più il corpo si disfà e tende alla terra, donde provviene; quanto è più ardente il pensiero, tanto è più freddo e pallido il volto; quanto più vigoroso è il concepimento, tanto più debole è l’organizzazione della creta; quanto più feconda è la scintilla del genio, tanto più il corpo invecchia e il capo incanutisce. L’ispirazione, nemica del tempo e dello spazio, spegne ben presto la vita che ne è l’espressione più naturale e sensibile. Più che altrove, l’ispirazione discende sulle anime italiane. Il sole che allieta e feconda la bella penisola fa sbocciare in gran copia i fiori del genio come i fiori de’ prati, ma quelli non marcescibili come questi. Ogni zolla di questa terra d’Italia è un ricordo glorioso pei suoi figli, le sue stesse ruine sono un semenzaio di genii. La poesia, la pittura, la scultura, la musica, queste vergini sorelle che fanno sì lieta l’umana vita e infiorano le tombe, si ebbero lor culla su questa terra incantata. E Dio benedisse e ricompensò la virtù di Ugo Ferraretti, accordandogli la purissima fiamma dell’ispirazione. Non tenteremo di descrivere le peculiari bellezze che il pennello del Ferraretti facea nascere sulla tela. Bisognerebbe che facessimo assistere i nostri lettori ad ogni seduta del giovin dipintore, e, ancorchè ciò facessimo, non sapremmo far loro minutamente osservare o ammirare il portento che ogni tratto di pennello creava: il genio ha i suoi misteri, che egli stesso talvolta non comprende; la mano esegue ciò che la ispirazione le detta, e i dettami di questa non sono traducibili in nessuna lingua dell’uomo. Bisognerebbe far passare negli animi de’ nostri lettori i sentimenti medesimi che agitavano di perplessa gioia l’anima del Ferraretti ad ogni sfumo che si disegnava sulla tela, quasi tocca da magica bacchetta. Il quadro rappresentava l’interno d’una camera, il cui fondo scuro, alla maniera fiamminga, dava risalto grandissimo alla bianca figura di donna che, colle mani congiunte e cogli occhi rivolti al cielo, poggiava ambo le ginocchia al suolo, sostenendo appena il destro fianco alla panchetta di un letticciuolo messo di scorcio. Tutto rivelava la miseria e l’abbandono: quella donna avea sulle sue sembianze una giovinezza di dolori: l’innocenza vi trasparia e con essa la fede più viva: avea gli occhi e i capelli neri, d’una soavissima bellezza, il volto allungato da’ patimenti dell’animo, ma pur sì bello che lo sguardo vi si fissava con amore... Una veste di mussolina d’un azzurro sbiadato copriva la leggiadra persona; lo scollo alquanto basso lasciava nudo un collo di avorio e la parte superiore del petto, mal difesa da una rozza pezzuola gittata sulle spalle colla noncuranza propria di chi ha una gran pena nel cuore. — Questa lievissima offesa al pudore smoria nel sublime atteggiamento che riportava i pensieri dei riguardanti ad una sfera superiore ad ogni bassa passione. Non è dicibile con quale arte e naturalezza era messo il fazzoletto sulle spalle di quella fanciulla. Si vedea che la pena e gli affanni, per cui ella pregava, le avean fatto per un istante, solo per un istante, porre in obblio la natural modestia; nel quale momento di obblio parea che si giovasse un’auretta finissima che venia da una finestra dischiusa, e che iva sollevando il leggiero lino. Da quella finestra discoprivasi in distanza la Cattedrale di Pisa, come per dare un’idea del luogo ove la scena accadeva. Le pupille della fanciulla voltate al cielo lasciavano discoperta la sclerotica degli occhi bianchissima e velata da una nebbia di pianto: però il cielo, che quelle pupille cercavano, era disceso in esse, tanta era la soavità che da quelle partiva, e che si diffondea su tutto l’ambiente del quadro. Le labbra semi aperte avean forse mormorato un nome assai caro, che parea vibrasse ancora nella loro tremula oscillazione: la preghiera, in fondo di quell’anima, rivelava l’amore; ed ella stessa, l’innocente creatura, non sapea forse esprimersi altrimenti che col linguaggio dell’amore. Questa passione nella sua purità era scolpita in tutt’i tratti della figura: e la Religione, interprete scusatrice appo Dio di tutte le umane debolezze e miserie, le dava un carattere solenne e rispettabile. Le mani congiunte in atto di rassegnazione, di umiltà, di speranza erano di una perfezione inarrivabile e d’una morbidezza che vincea la stessa natura: un anello, un semplice cerchietto d’oro, era al dito anulare della mano destra: ricordo forse tenerissimo di una madre, di una sorella o di altra persona. Ma ciò che sovrammodo attestava il genio dell’artista era la massa de’ capelli della giovinetta che pregava. Era in essi quel disordine naturale a chi è preso da una prepotente passione: alcuni truccioletti le veniano staccati sulla bella fronte, ombreggiandone il niveo candore. La foltezza della scompigliata massa in sulla coppa del capo rivelava l’ardenza malinconica di quella natura appassionata: que’ capelli erano così vivi, così naturali, che facea d’uopo del ministero del tatto per assicurarsi che erano dipinti e non veri. Tutta la scena era rischiarata dalla pura luce dell’alba, i cui rosei colori si vedeano spuntare dalla dischiusa finestra. Questa luce modesta investiva di scorcio le sembianze dell’inginocchiata: il resto della camera era ancora soggetto a quelle mezze ombre che attestano le tenebre della notte non del tutto cessata. Oh perchè non possiamo ad una ad una particolareggiare le meravigliose bellezze di questa dipintura! Perchè non possiamo mostrarla agli occhi de’ nostri lettori nella sua sublime semplicità, nell’armonico suo tutto! Oh se avessimo il potere di cangiare questa fredda pagina nella stessa tela, ov’ella nacque! Che cosa sono le imperfette e monche descrizioni quando si tratta delle opere del genio? Che può il freddo narratore a petto della realtà che lo abbaglia, e non gli lascia altro sentimento tranne quello dell’ammirazione? Il concepimento, il disegno, il colorito, le ombre, la espressione, il dramma, tutto era grande in quel quadro, tutto additava un futuro Tiziano nel giovinetto malaticcio che facea passar l’anima sua su quella tela. Quello che formava il pregio maggiore de’ lavori di Ugo Ferraresi, e massimamente di questo della _Preghiera_ era la disposizione del fondo. Abbozzando i suoi quadri, egli traea profitto, come Rubens, non pure dall’abbozzo medesimo, ma eziandio da’ tuoni dell’impressione della tela. Ugo schivava eziandio l’abito che si hanno non pochi pittori di dipingere interamente il nudo, per passar poscia alle vestimenta ed agli accessorii. Con tal metodo non può giammai ottenersi un perfetto accordo di parti, e l’effetto non ne risulta sì mirabile e limpido, come quando il tutto è stato osservato attentamente insin dalle prime pennellate dello abbozzo. Ugo studiava in principal modo gli accidenti di luce, ai quali dava quelle graduazioni spiccate e forti che distinsero il Caravaccio e il Guido, e che han renduto sì pregevole la scuola fiamminga. In quanto al colorito, Ugo sapea con tant’arte e genio distribuirlo, che non gli si avrebbe potuto rimproverare una sola tinta superflua o mal locata. Lo speziale dà i coloriti a tutti, dicea il Tiziano, ma solo il buon pittore ne fa il colorito. Ugo insomma dimandava all’arte di sforzarsi a vincere l’inopia dei mezzi e la non cedevolezza della materia, egli sudava a gran goccioloni, come sudano tutti gli artisti che traggono la vita da un impasto di colori e danno alla tela tutte le passioni umane. Egli possedea que’ pregi che gli assicuravano piena vittoria in quel certame di opposti, qual’è il poter congiungere l’ardimento colla dolcezza, la forza colla grazia, il grande col modesto. Noi abbiam cercato di descrivere il quadro compiuto, però che non avremmo potuto seguitarne la lenta esecuzione. Un anno intero fu speso da Ugo Ferraresi a terminare il suo lavoro, durante il qual tempo molti avvenimenti ebber luogo, che a mano a mano andremo narrando. Ci affrettiam di dire intanto che il Ferraresi avea fatto passar sulla tela le sembianze di Luigia Aldinelli, la cui immagine era scolpita incancellabilmente nella fantasia di lui. Però, a seconda che quelle adorate sembianze andavansi conformando, egli amava l’opera sua con tal delirio che spesso ei dimandava a sè medesimo quale più amasse, se l’originale o il ritratto. Rimanea le lunghe ore a contemplar le care fattezze di quel viso, e talvolta non sapea resistere al desiderio di baciar le labbra inanimate ma vive della sua dipintura. Questo gran lavoro era tramezzato dalle frequenti gite, che il giovine artista innamorato faceva alla Cascina. Luigia Aldinelli non poteva mostrarsi al suo amante che di soppiatto; ed egli era costretto a starsi per molte ore rincantucciato nello spigolo di un muro, immobile, all’impiedi, esposto alle intemperie ed a’ rigori della stagione. Ciò non pertanto, una breve distanza li separava la quale permetteva all’amante Ferraretti affissare i suoi sguardi su quella carissima creatura. Oltre a ciò, la disposizione del sito era tale che il luogo ove Ugo si ponea sovrastava alla casa di Luigia; così che costei, per guardar l’artista e per parlargli, aveva sempre i suoi begli occhi levati in alto. Eppure le ore in cui que’ due si vedeano e s’intratteneano tra loro erano le più belle: il freddo, la pioggia e il vento non erano neanche avvertiti, ed eglino erano così felici, che il cielo avrebbe potuto cadere sul loro capo senza che quasi se ne fossero addati. L’anno che fu necessario ad Ugo Ferraretti per compire il suo quadro fu per lui un anno di emozioni si vive, che lo avrebbero senza dubbio spinto a morte, se gli avvenimenti che si succedettero non avessero dato altro avviamento agli abiti della sua vita. Eran circa sei mesi dacchè egli lavorava al suo quadro, quando una mattina, il campanello della sua casa fu udito a suonare. Era questa una straordinaria singolarità; che dovea grandemente sorprendere il giovine artista; però che nessun amico egli aveva, e non mai anima viva era ito a visitarlo nella _Casa di Satana_. Egli rimase per qualche tempo in forse se veramente all’uscio di sua casa il campanello si era fatto udire; ma tal sospensione di animo presto si dileguò al risuonare che fece lo stridulo istrumento, il quale erasi quasi arruginito per l’umidità di quella casa, e per l’ozio perpetuo in cui giaceva. Ugo si alzò, gittò un panno sulla tela per nascondere l’opera sua e andò ad aprire. Un giovine si presentò al suo aspetto, decentemente vestito: Era Federico Lennois. VII. L’INVIDIA — Siete voi l’artista Ugo Ferraretti? chiese Federico Lennois al giovine con ispiccato accento straniero. — Io son desso, rispose il giovinetto figgendo gli occhi sul personaggio introdotto nello studio. — Quanto piacere io provo nel conoscervi di persona! disse Federico; ho veduto dal sig. Giacomo Palliard i vostri quadretti, che sono tante gemme di arte; particolarmente la vostra _Addolorata_, che è stata venduta per 500 lire alla casa Righetti di Livorno. — 500 Lire! la mia _Addolorata_! O infamia! — Dite benissimo, soggiunse Federico ingannandosi sulla significazione di quella parola di dolore e di vituperio; quel quadretto vale al più poco mille franchi. — Eppure, signore, sapete quando mi fu dato dal signor Paillard per quel quadro che era l’anima mia e che io ricomprerei col mio sangue? — Ah, credo che non vi fu dato meno di cento cinquanta lire. — Dieci soldi! signore; dieci soldi! — Dieci soldi!! Possibile! Ma questa è una vera infamia, siccome diceste; dieci soldi! — Ecco, signor mio, la generosità e la coscienza che hanno i Francesi! Ecco il disinteresse, la filantropia, l’amor dell’ingegno e l’estimazione del merito, di cui eglino si vantano! Federico si turbò, non perchè vulnerato nel suo sentimento nazionale, ma perchè, sendo egli francese, era molto mal raccomandato nel cuor di Ugo Ferraretti. Diremo più tardi qual si era lo scopo della sua visita al giovine Ugo. — Ma in somma, diss’egli lisciandosi la barba, perchè precipitaste a tal modo il vostro quadro? Che bisogno ci era di venderlo per quella meschinità di dieci soldi? Ugo scolorò in volto siffattamente, che Federico sembrò spaventarsene; e il ragguardò con moltissima attenzione non senza un sentimento di secreto piacere. — Voi mi domandate, signore, perchè precipitai a tal modo il mio quadro? Che bisogno ci era di venderlo per quella meschinità di dieci soldi? Perchè vi sono alcune emergenze nella vita in cui per un soldo si darebbe anche la propria esistenza... Ah, signore, se voi sapeste che cosa orribile è la miseria! Guardarsi allo intorno nel proprio abituro sfornito di mobili, spingere il pensiero al di fuori e trovare la solitudine più desolante; nessun parente, nessun amico, nessun protettore: e, d’altra parte, udire i lenti gemiti d’una madre che si muore nella totale inopia di mezzi... Mancar di tutto, tranne del sentimento della propria dignità!... In questo stato io mi trovava, signore, tutto era venduto: la lunga e penosa malattia della sventurata madre mia assorbiva tutto il prodotto delle mie fatiche per varii mesi io aveva dovuto pensare ogni giorno a procacciarmi il sostentamento del giorno; lavorava dì e notte, mi sfiniva di forze, e ciò nonostante io era così felice, allorchè mia madre prendeva la sua zuppa ben calda, ben nutrita da ottima carne; io era così felice, quando ella mi volgeva uno sguardo di amore e di riconoscenza!... Povera madre mia! Oh se io potessi faticar come un cane, e nutrirmi con un sol tozzo di pane ogni due giorni, per riacquistarti! Se potessi dormir sul nudo pavimento, purchè io dormissi un’altra volta a fianco del tuo letticciuolo, o madre mia!... Perduta, perduta, per sempre! Le lagrime irrigavano il bianco volto del Ferraretti. Federico era rimasto muto e impassibile a quella espansione di dolore... Ugo ripigliò lentamente e con voce fiacchissima: — Una sera, l’orribil sera: mia madre era infranta dalla sua inesorabile malattia: la tisi, l’implacabile tisi, che non risparmia le sue vittime, l’orribile tisi che rende scheletri gli ammalati, lasciando loro tutto il vigor della mente per far loro guardar di fronte la morte che si approssima; la tisi onde anch’io morrò, ne son certo, e forse tra non molti anni la tisi facea le sue ultime prove sull’infelice vivente scheletro di mia madre; una pozione, un refrigerio era indicato per quella misera, ed io non aveva un sol pezzo di rame, una sola di quelle infime monete, che pur bastano a dare e a toglier la vita. Tutt’i miei lavori erano stati venduti a quel carnefice di Paillard, però che nessun altro volea comprar quadri moderni: non mi restava che il quadro dell’_Addolorata_, da me dipinto con tanto amore, con divozione, con tanta fede: a quell’Immagine benedetta io raccomandava ogni mattina e ogni sera la madre mia: quella Madonnetta era la gioia nei miei dolori, la speranza nella mia disperazione, il raggio di sole nella notte dei miei pensieri... Ebbene, non avendo a chi rivolgermi, non sapendo su che cosa dar di mano per ottenere una moneta senza chieder la limosina, gittai uno sguardo sull’_Addolorata_, pregandola che avesse illuminata la mia mente.... ed essa sembrò guardarmi in atto pietoso, e dirmi: Io ti darò i mezzi onde soccorrer tua madre; va e vendi questa mia Immagine: grande è il sacrificio, ma una madre lo chiede..... Stetti molto tempo a contemplar quella figura; piansi dirottamente, però che mi parea che strappando quel quadro dal muro, io ne strappassi il culto dal mio cuore; stetti in forse lunga pezza; ma un sordo lagno di mia madre e la tosse straziante mi decisero. Io staccai dalla parete la sacra Immagine. Non saprei dirvi come diserta mi sembrò quella camera spogliata di quel quadro! Parve che l’olio della lampada si disseccasse in un momento, non essendo più destinato a rischiarare la benedetta effigie della Madonna. Baciai le pallidissime gote della mia genitrice, e, non ostante la dirotta pioggia che faceva e la distanza che mi separava dal rivendugliolo francese, andai a vendere l’_Addolorata_ al signor Paillard. Probabilmente la mia disperazione si leggea scritta sulla mia fronte; onde quell’uomo senza cuore indovinò il bisogno estremo di danaro in cui io mi trovava e cercò trar profitto dalla mia sventura... Ecco, signore, la storia della vendita di quel quadro; ecco in che modo un Francese apprezza e valuta l’ingegno, l’opera e la fatica!... Su quel quadro ci erano più di dieci franchi di colori, ed egli non mi pagò neppure il prezzo del cencio di tela su cui la sacra Immagine era dipinta. Una tosse violenta succedette a questo concitato parlare del giovine artista italiano, il quale aveva appoggiato il braccio sulla traversa del cavalletto e posata la fronte in sulla palma della mano in atto di sfinimento e di dolore. Federico, il quale era seduto affianco di Ugo, sovra una sedia spagliata e rotta nelle traverse, misera gemella di quella su cui era seduto il Ferraretti inchiodò i suoi occhi di piombo su le costui sembianze, e un sinistro sorriso balenò sulle sue labbra. Poco stante, il Lennois, poscia che il tossir di Ugo si fu alquanto calmato, gli disse: — Sventurato giovine, io sono tanto profondamente commosso della vostra sorte, quanto ammiratore della vostra abilità. Troppo severo è l’opinione in che avete i Francesi. Se uno di loro gittò nel fango il vostro ingegno e abusò della vostra sventura, un altro si offre a emendare tanta ingiustizia. Io ho comprato dal signor Paillard, due vostri lavori, una _Vergine Assunta_ e una _Natività del Signore_, due copiette inapprezzabili, ho dato al sig. Paillard due luigi, soltanto per averli da lui, ma non intendea pagarne il loro prezzo che al loro esimio autore; ed eccovi in questa borsa duecento franchi i quali mi estimo avventurato di potere io medesimo offrire all’egregio Ugo Ferraretti, la cui amicizia mi sarà anche più cara dei suoi quadri. Ciò dicendo, egli ponea la borsa sulla traversa del cavalletto. Ugo restò attonito: non credeva ai suoi occhi e alle sue orecchie: gli parve un sogno tanta felicità. Era la prima volta ch’ei trovava un nobil cuore, un amico! Ugo non potè rispondere che gittando un diluvio di baci e di lagrime sulle mani di Federico, di cui si era impossessato. — Il vostro nome, signore, il vostro nome che io dovrò portar scolpito nell’anima mia, chiedeva il Ferraretti tra i singhiozzi della gioia. — Ferdinando Ducastel, pittore come voi, ma non del vostro ingegno e della vostra terra, perocchè io sono francese: — Ferdinando Ducastel! Francese! Oh perdono alle mie stolte parole, perdono al dolore che me le dettava. Ugo cadde nelle braccia del Lennois, il quale stampò sulla fronte di lui un freddo bacio. Era il bacio dell’Iscariota. Cessata la commozione, Ugo rialzò la faccia rischiarata dalla gioia e guardò con passione il suo giovine amico. — L’emozione che io provo, signor Ducastel, è troppo grande perchè mi dia l’agio di significarvi l’animo mio. Le lagrime di contentezza che ho versato vi dicono abbastanza quanto io sono profondamente tocco dalla vostra squisita delicatezza. Oh questo è certamente uno dei più bei giorni della mia vita! Iddio ha benedetta la mia solitudine accordandomi un amico... — E dei più affettuosi, disse Federico abbassando gli occhi al suolo. Passò qualche momento di silenzio. — Anche voi dunque siete pittore, signor Ducastel? dimandò Ugo — e avete avuta tanta indulgenza per le mie deboli cose? — Sappiate meglio conoscere voi stesso, Ugo Ferraretti. Io non temo d’ingannarmi asserendo che voi siete destinato a formar la gloria del vostro paese. Sì, ne son sicuro; il vostro nome aggiungerà una bella pagina alla storia delle arti italiane, e un giorno forse Pisa andrà superba di aver dato i natali ad Ugo Ferraretti, siccome va superba di esser la patria di Galileo Galilei. Ugo volse al cielo i suoi occhi perduti nelle lagrime. — Dio! Dio mio! Questo momento dolcissimo compensa tutte le sofferenze della mia vita! Un artista, un Francese, dice che un giorno forse la mia patria andrà superba di me! Oh se io potessi abbandonarmi a questa lusinghiera speranza! La gloria! Ed io non ho che diciotto anni! Dio, Dio mio, se la mia mente s’illude, se le sue parole son false, oh non voler togliermi questa cara illusione che mi dà forza, coraggio e vita. Io lavorerò con tutta l’espansione della mia giovinezza; sfibrerò il mio cuore sulla tela; consumerò i miei giorni allo studio, alla meditazione. Mi lascino pure nella miseria, se il mio nome dovrà vivere dopo la mia morte, se un giorno Pisa dovrà additare la _Casa di Satana_ come la dimora dell’artista Ugo Ferraretti. E che cosa ho a farne io dei piaceri e delle ricchezze del mondo, se Dio mi concederà l’ispirazione ed il genio! Questa febbre che mi scalda i polsi ogni sera, sarebbe mai la febbre dell’arte! Oh Luigia, Luigia mia... Ugo mise un piccol grido e si coprì il volto colle mani. Egli aveva avuto uno di quei momenti di delirio a cui si abbandonano le anime inconcepibili degli artisti. Dopo alquanti momenti di silenzio, egli levò il capo avvampato, e disse umilmente al Lennois: — Perdonate, signor Ducastel, perdonate la stoltezza delle mie parole.... I patimenti e la solitudine hanno così sfiaccata la mia ragione, che talvolta esco in mattezze di cui hommi a vergognare. A seconda che Ugo si lasciava rapire dai trasporti dell’anima, il volto di Federico diventava livido come quello di un morto: il suo sguardo pigliava una espressione di ferocia: e un amaro sogghigno contraeva il suo labbro. — Non vergognate di abbandonarvi a sì dolci pensieri, che sono pur troppo i puri e veridici sentimenti dell’animo vostro. Indarno la vostra eccessiva modestia combatte la bella speranza della gloria, di cui si annunzia per voi così splendida aurora. Voi avete innanzi a voi così lungo avvenire!... Ci era qualche cosa di crudelmente derisorio in queste ultime parole di Federico; ma la crudele ironia non potea comprendersi dall’anima schietta e sublime del giovinetto italiano: ciò non pertanto quelle parole gli parvero strane e d’una vaga significazione. — Un lungo avvenire! ripetè lentamente il Ferraretti, come se avesse cercata la soluzione di un arduo problema. Il suo capo si chinò in atto di scoraggiamento, a guisa di un fiore su cui passa un violento soffio di aquilone. Quei due rimasero in silenzio per alcuni secondi. — Ditemi, Ferraretti, riprese Federico, la vostra _Natività_ non è una copia di quella di Giovan Battista Naldini, il cui originale è in S. Maria Novella di Firenze? — Sì, signor Ducastel: io ne trassi l’idea da un bozzo venutomi tra mani alcuni anni fa: solamente credetti aggiungervi qualche cosa del mio. Ben sapete che il Naldini, detto dal Vasari _pratico, perito e fiero dipintore_, trascurava moltissimo gli accessorii, e sprecava lo spazio della tavoletta in certe dappochezze che hanno in certo modo oscurata la sua fama. — In fatti osservò Federico, ho veduto a Firenze la sua _Purificazione_, di cui si mena dai Fiorentini gran vanto; è una miseria: vi sono in aria due angeli, di cui uno è senz’ali, sì che non si sa come si regga in alto, e sembra un bambino che minacci di cadere. — Voi avete molto viaggiato, signor Ducastel? — Sono da parecchi anni in Italia a studiare su i capilavori del genio. — Oh quanto amerei di vedere un vostro lavoro, signor Ducastel! Se debbo giudicare da quel che sente l’animo mio nell’udirvi a parlare, io dovrò dire di voi quello che la vostra generosa bontà si compiaceva dir di me, vale a dire che la Francia un giorno andrà superba del vostro nome. A queste parole gli occhi di Federico scintillarono come due razzi accesi, e la sua fisonomia, pel consueto fredda e impassibile, s’irradiò d’una luce di entusiasmo e di passione. — Oh se ciò fosse vero! Ma io non ho il vostro genio, la vostra abilità; io non sono nato sotto questo cielo, non sono Italiano! Eppure io sento che farei tutto per acquistarmi un nome, per uscire dalla insopportabile oscurità a cui mi danna la mia nascita; tutto farei per udir mormorare il mio nome quando passo per le strade, per essere anch’io additato nelle riunioni e nei pubblici spettacoli. Oh felici, mille volte felici, coloro che sanno crearsi un nome! Una delle corde più vive del cuor di Federico era stata mossa, e il suo linguaggio questa volta era la genuina espressione del suo pensiero; tranne che l’invidia si avea posta la maschera del desiderio di gloria. Era l’ignobile mosca che vuole imitare il volo della farfalla. La conversazione fu novellamente interrotta dalle riflessioni a cui ciascuno di quei due si abbandonò. — La vostra _Vergine Assunta_ è magnifica riprese Lennois, ci è dello Zingaro in questa tavoletta: che soavità di colorito! che studio di prospettiva! Ho veduto qualche cosa di simile al vostro lavoro nel Museo di Napoli: era una dipintura del Solario, che egli facea, se ben ricordo, per la chiesa di S. Pietro ad Aram di quella città. — Oh, per carità, signor Ducastel!... La vostra amicizia per me vi trasporta... Paragonare le mie povere pitture a quelle dell’immortale Solario! — Io non vi adulo, Ferraretti; bensì vi dico schiettamente quello che penso di voi... Ve l’ho detto, e ve lo ripeto: voi avete genio e maniera tutta propria... Ma, perdinci, è una ora che sono qui, e non mi avete ancora fatto ammirare del bello e del nuovo, soggiunse Federico, gittando all’intorno della camera uno sguardo indagatore; io voglio vedere qualche altro vostro lavoro, mio caro Ferraretti; questa tela ricoperta da un panno. Ugo fu scosso, si turbò, arrossì. — Ah! questa tela... è un quadro, su cui lavoro da sei mesi: esso è tutta la mia vita, tutta l’anima mia, tutto il mio amore; ma sono appena a metà dell’opera. — Ah questo certamente sarà un capolavoro, esclamò il Lennois, ed io sarò felice di poterlo ammirare nel suo nascere. È tempo di far notare ai nostri lettori che sin dal primo entrare di Federico Lennois nello studio dell’artista italiano, avea quegli balestrato uno sguardo sulla tela ricoperta, divorato dal desiderio di vedere ciò che vi si contenesse: ma non avea creduto prudente e discreto il richiederne a prima giunta il Ferraretti. — Un capolavoro!... Oh, lo sarà lo spero. Questo grido, scappato involontariamente dalla intuizione del genio, fece allibir d’invidia il Francese. — Su, su, togliete quel panno, disse questi mal contenendo l’amarissima curiosità che il divorava, e si appressava al cavalletto per iscoprire il quadro; ma Ugo il rattenne. — Un momento, signor Ducastel, io sono pronto a soddisfare alla vostra curiosità; ma debbo avvertirvi che è questa una gran prova di amicizia che vi do... Nessun al mondo ha finoggi veduta quella tela. — Ah! esclamò il Lennois, cui un pensiero d’inferno attraversò l’anima nera; nessuno ha veduto il vostro quadro! — Nessuno l’ha veduto, ed io ho le mie ragioni per nasconderlo per ora ad ogni occhio mortale... Laonde giuratemi, signor Ducastel, che non paleserete ad anima viva l’esistenza di questo quadro. — Ve lo giuro sulla mia vita, rispose cupamente Federico. Ugo sollevò il panno che copriva la tela... Egli era pallido come per morte. Invece il volto di Federico Lennois era divenuto una vampa di fuoco; i suoi occhi erano ardentemente fissi in sulla tela: un pensiero intanto gli annebbiava la vista: — «Questo quadro sarà mio... Lavora, lavora, Ugo Ferraretti e, poi muori... io raccoglierò il frutto delle tue fatiche. Tra pochi mesi il mondo saprà che l’autore del quadro _la Preghiera_ è... Ferdinando Ducastel.» VIII. IL DISEGNO DEL LENNOIS Egli è mestieri che disveliamo qual si era lo scopo di Federico Lennois nel trarre a visitare l’artista della _Casa di Satana_. Federico era a Pisa da alquanti mesi; egli avea già percorso le principali città d’Italia, non tanto, come egli diceva, per vaghezza di studiare i capilavori di arte, di cui è sì ricca questa terra, quanto pel bisogno incessante di distrazioni ch’ei sentiva, per isfuggire al suo più mortale nemico, sè medesimo. Un’inquietudine perpetua seguitava questo giovine in qualsivoglia paese. Diremo altrove qual si fu la prima tempestosa giovinezza, e quali sciagure la colpirono. A Pisa, siccome a Milano, a Roma, a Napoli, a Firenze, Federico prendea contezza dei più rinomati artisti del paese, e andava a visitarli, annunziandosi loro ammiratore: spesse volte facea delle compere per ispecularvi sopra: tal’altra fiata si poneva per qualche tempo appresso ad un pittore per meglio apprendere l’arte. Ma nè l’ammirazione, nè l’interesse, nè la brama di apparare guidavano i passi di lui nelle dimore degli artisti. Altra passione, assai differente, ve lo menava, passione ignobile, rarissima appo gl’Italiani, L’INVIDIA. Federico non era cattivo dipintore; egli avea studiato sotto abili maestri, e qualche volta si potea dire che una scintilla di genio era in lui; ma la mezzanità, morte delle arti e degli artisti, la mezzanità, che genera la presunzione, la cattiveria e l’invidia, la mezzanità era tutto il retaggio di Federico. Comechè si sforzasse di dare alle sue tavolette energia, grazia e naturalezza, lo stento e l’artificio vi trasparivano sempre. Era nelle sue figure qualche cosa che a prima vista colpiva per vivacità di colorito, per risalto de’ _primi piani_, per una certa originalità di concetto; ma quando l’occhio del perito si riposava sul quadro, vi trovava tanti difetti e sconcezze, quanti pregi e grazie vi si erano scorti in sul primo riguardare. Niente del bello stile italiano, quantunque in Italia egli avesse studiato: nulla della semplicità che è tutto il mistero del genio. Veggendo poco valutati i suoi lavori, a’ quali erano sempre messi avanti anche i più mediocri di pittori italiani, arrovellavasi contro di questi; e scagliava su le più orrende bestemmie e imprecazioni. Col germe dell’odio grandemente sviluppato nel seno, simili giuste preferenze non poteano che sempre più esasperare l’animo di lui e farvi nascere le più crudeli passioni. Dapprima ei si ficcava negli studi degli artisti per cercare di scoprire qualche segreto di cui valersi per dar merito a’ suoi lavori. Destro, sottile, ipocrito, spiritoso, insinuante, di bella e pulita corteccia, di linde maniere, egli trovava facile e gradita accoglienza dappertutto, e si faceva un gran numero di amici, i quali tutti ei tradiva, svelando all’uno i segreti dell’altro, dicendo a questo un gran male di quello, e burlandosi di tutti. Federico si studiava di screditare i più abili e rinomati, di gittare l’ironia, lo scherno, la maldicenza, la calunnia sulle opere più insigni; ed avrebbe voluto aver la possanza della distruzione, per annientare in un sol momento tutti i prodotti del genio italiano. Egli spendea danaro per corrompere i più accreditati giornali d’Italia: faceva scrivere articoli virulenti contro le più lodate dipinture degli artisti italiani: egli stesso non si facea scrupolo di farsi il proprio elogiatore. Ma le lodi comprate non fruttano gloria, siccome la satira calunniosa non può che per un momento offuscare il vero merito. Il pubblico condanna le bugiarde voci de’ giornali, e dispensa l’encomio o il biasimo nella bilancia della giustizia. Dopo qualche mese della sua dimora in Pisa, Federico avea conosciuto il suo degno compatriotta Giacomo Paillard. Ogni mattina quegli traeva a casa di costui, e vi s’intrattenea alquante ore. Il Paillard era informato di tutta la cronaca del paese; sapeva i fatti più segreti delle famiglie, facea baratto di quadri con tutto il resto d’Italia. Egli aveva alcune superficiali cognizioni di pittura, ma conosceva da professore la storia sul merito, sull’autore, sulla data e sulla scuola d’un quadro. Il Paillard ritoccava, ristaurava, impastava, imbrogliava, vendea lucciole per lanterne; dava del nuovo per vecchio; improvvisava celebrità; dava dei fratelli all’Urbinate, al Tiziano, al Coreggio; prodigalizzava e toglieva il genio a suo pieno piacimento: facea di tutto insomma per carpir quattrini dalle tasche de’ merlotti, siccome soglion fare questi francesi che vengono a speculare in Italia. Non potevano meglio riscontrarsi due arnesi della stampa di Federico e del sig. Paillard: l’avarizia e l’invidia si erano abbracciate in un solo intento, la morte del genio. Federico avea veduti i quadri di Ugo Ferraretti ed era rimasto colpito dalla straordinaria bellezza di que’ dipinti: erasi tosto informato del loro autore, e la sua gioia fu grande quando seppe che il Ferraretti vivea nella più squallida miseria. _L’Addolorata_, la _Vergine Assunta_ e la _Natività del Signore_ erano tre quadretti inapprezzabili: era in essi qualche cosa del bel secolo di Leone X. Federico non potea saziarsi di ammirare la finezza, il colorito, il partito di pieghe, l’espressione e la soavità de’ volti. Benchè il rivendugliolo gli avesse detto che que’ quadretti eran copie e ne avesse additato gli originali, Federico trovava in quelli l’impronta del genio. Egli aveva già veduto a Firenze l’originale della _Natività del Signore_: ed era convinto che la copia del Ferraretti valea più del dipinto del Naldini. Federico comprò i due quadri dal Paillard, ed avrebbe anche comprata l’_Addolorata_, se questa non fosse stata già venduta, per contratto, alla Casa Righetti di Livorno. Il Lennois avea il suo proponimento: avvicinarsi al Ferraretti, cattivarsi l’amicizia col fare mostra di generosità, e trar profitto dalla miseria di lui comprandone il pennello. Federico volea far servire il Ferraretti come istrumento della gloria, i quadri di Ugo avrebbero un giorno portato il nome di Ducastel. Federico non indugiò a mandare ad effetto il suo disegno, e noi l’abbiamo veduto presentarsi alla _Casa di Satana_ e divenire in un momento l’amico del Ferraretti, il quale non potea giammai supporre quale anima si nascondesse sotto le avvenenti forme del Francese. È facile il comprendere come esultasse il cuore del perfido Federico nel vedere il quadro la _Preghiera_, e nell’udire dalla bocca del suo autore che nissun occhio mortale aveva affisato quella dipintura. Le ardenti parole pronunziate dal Ferraretti quando gli si parlò di gloria davano chiaramente a divedere com’ei lavorasse dietro l’impulso di questo fervidissimo desiderio: laonde era impossibile di ottenere da lui, per qualsivoglia somma di danaro, la compra di quella creazione, la quale non potea mancare di eccitare il più grande entusiasmo e di procacciare al suo autore una gloria non peritura. Però Federico non si fermò alla idea di comperarsi i dritti di autore; ma concepì il nero disegno di rubare il quadro del Ferraretti, come prima questi vi avesse dato le ultime pennellate. L’idea del furto congiungeasi naturalmente all’idea della morte di Ugo, la quale, per la gracilissima salute di lui, non parea mica distante. Noi oseremo spingere il nostro sguardo nelle profonde latebre del cuor di Federico per leggervi tutta la perversità che vi si ascondeva. Egli aveva fatto il seguente crudelissimo disegno: Non abbandonar mai Ugo Ferraretti e stargli d’accanto in tutti i giorni, in sino a che avesse terminato il suo quadro. Vegliare attentamente sulla sua salute: non fargli patir difetto di niente; circondarlo di allettamenti fino al termine del quadro. Badare con ogni circospezione a tener nascosto quel dipinto ad ogni anima viva, per modo che, morto il Ferraretti, nissuno al mondo avesse potuto dire che quel quadro era del giovine artista Pisano. Mostrarsi amico sviscerato del Ferraretti per poter avere accesso in sua casa ad ogni ora del giorno e della notte. Allontanare dalla _Casa di Satana_ qualunque persona la quale, venuta in intrinsechezza, avesse potuto discoprire l’esistenza del quadro, e finalmente, data l’ultima pennellata alla grande opera, porre ad arte tutti i mezzi infernali per accelerare la fine del giovin pittore senza commettere un aperto assassinio! Era questo il diabolico proponimento del Lennois, e tutto sembrò sorridere alle sue speranze; tutto corrispose fatalmente alla sua aspettativa. In poco tempo la più stretta intrinsechezza fu tra i due giovani artisti. Federico non sapea dividersi da Ugo, e questi contava i momenti quando l’amico non era al suo fianco. Federico si sedeva da costa al Ferraretti allorchè costui lavorava al suo quadro; gli preparava la tavolozza, gli approntava i pennelli, gli stemperava i colori, gli riscaldava il caffè col latte, solita colezione del giovinetto artista. E, quando questi avea dipinto per due o tre ore, il Lennois facea chiudere il quadro in luogo riposto, e seco menava il suo amico a spasso nella città, a pranzo in qualche elegante osteria o in altri luoghi di diporto e di svagamento. Ugo sembrava più rimesso in salute, e la piccola tosse che solea tormentarlo era sparita. Ma la tristezza non era scemata in lui, alimentata da un amore infelice e da sinistri presentimenti. Ugo avea giurato a Luigia Aldinelli (che ne lo avea richiesto, per ragioni che diremo in appresso) di non rivelare ad alcuno l’affetto che avvinceva, nella massima purità, i loro cuori; epperò il giovinetto si era sempre astenuto di aprire il suo animo all’amico e disvelargli le angosce di un amore senza speranze. In ogni cinque o sei giorni, Ugo diceva al Lennois ch’ei si recava in campagna per far visita a un suo parente; e coloriva a tal modo le sue gite alla Cascina, dov’egli attingeva novelle ispirazioni pel quadro sublime della _Preghiera_, e dove ei beveva a gran sorsi il veleno di un amore tanto più infelice quanto più puro e incontaminato. Le soavissime e care sembianze di Luigia Aldinelli lasciavano la loro impronta incancellabile nella mente del giovine artista, il quale riproducevale in tutta la loro purezza sulla tela. Ugo avea fatto un mistero a Luigia Aldinelli del quadro ch’ei stava facendo, però che egli voleva, a suo tempo, procurarle una dolce sorpresa. Era in quel quadro tutto il cuore dell’artista, colle sue fervide speranze nel Cielo, col suo amore straziante, colle sue solitarie passioni. Circondando il malinconico giovinetto con tutti gli allettamenti della vita Federico volea fargli prendere a poco a poco il gusto e l’abito dei piaceri, per poterlo indi spingere ad ogni eccesso, quando giungeva il tempo di spingerlo alla tomba. Era questo il pensiero del perfido Lennois. Profittare della debil salute di Ugo Ferraretti per ammazzarlo cogli stessi piaceri della vita. Ugo si era dato con trasporto a questo nuovo genere di vita. Il poveretto avea diciotto anni, avea sensibilità eccessiva, un cuore amantissimo, ed aveva la fibra di un tisico, vale a dire estremamente pieghevole agli accessi ed alle commozioni di ogni sorta. D’altra parte, fino a quell’età, l’infelice non avea provato che le sole torture della vita; è facile dunque immaginarsi con quale ardore ei si lanciasse in quella nuova esistenza ricolma di tanti piaceri. Oltre a ciò Ugo sentiva il bisogno di distrarsi dal pensiero di un amore che gli rodeva lentamente il cuore. È noto eziandio che coloro i quali portano nel loro petto il germe fatale della tisi, sono più facili degli altri ad abbandonarsi a’ piaceri; quasi che un presentimento segreto gli avverta che debbono affrettarsi a godere, essendo ben corta la loro carriera. Ed il giovane Ferraretti si abbandonava a’ piaceri della sua età, e correva però al precipizio che gli schiudeva la perfida mano dell’invido francese. Il quadro la _Preghiera_ era pressochè finito; epperò la vita del suo autore doveva eziandio accostarsi al suo termine! IX. IL CARNEVALE DI PISA Era giunto il tempo di carnevale. La bella strada di Lung’Arno si animava di cocchi ripieni di mascherate, di canti e suoni popolari, di giocose brigate, di festevoli compagnie. In ogni casa era un divertimento; i ricchi spendeano a mano franca; i poveri vendeano o impegnavano le loro masserizie; le donne si abbandonavano con gioia alla danza, gli uomini anche più seri faceano mille follie. Tutti insomma dimenticavano le cure, le faccende, i pensieri e si davan tempone, non conoscendo altro dovere che il divagamento, altra legge che il piacere. La vita umana è così breve! il piacere così raro! la ragione così fiacca! le passioni così prepotenti! Vi è tanta seduzione negli occhi delle donne, ne’ bicchieri di sciampagna, negli accordi melodiosi d’una musica inebbriante! Durante tutto il carnevale, Federico aveva spinto l’amico Ferraretti a’ divertimenti di ogni sorta: la mattina al quadro; la sera all’osteria, al giuoco; al ballo. In pochi giorni Federico avea renduto il giovine Ugo esperto in ogni maniera di danza; e questi vi si abbandonava con quell’ardore che a nulla riflette. In mezzo al fascino de’ veglioni, Ugo avea per poco dimenticata la sua Luigia: egli vedeva ogni sera tante belle donne, che gli sorrideano e lanciavano occhiate da renderlo matto di amore! Egli non avea più, per così dire, il tempo di pensare alla sua Luigia; tranne quando lavorava al suo quadro, il quale, essendo quasi finito, non richiedea più che qualche mezz’ora al giorno. Alcune volte, quando Ugo ritiravasi a casa trafelato e stanco per lunga veglia, l’immagine di Luigia se gli affacciava al pensiero e gli rimprocciava la sua dimenticanza, il suo abbandono: spesso lo avvertiva di starsi in guardia contro le insidiose suggestioni dell’amico... Ma il sonno, che si abbatteva immediatamente su quella spossata organizzazione, cancellava la cara immagine, e ne riproduceva di meno pure e modeste alla febbrile fantasia del Ferraretti. Nel porsi a letto, Ugo sentiva ogni sera un calore febbrile, il quale era succeduto da brividi irresistibili d’intenso freddo. Una smania indicibile, un affannoso eccitamento il tormentavano e il faceano balzare sulle materasse: il sonno era pieno di larve: eran vaghe e scinte donne che trescavano; giovinotti che lo invitavano al piacere; era una confusione di colori, di luce, di fiori, di suoni; un turbine incessante nel quale ei si avvolgea senza tregua e fino a che cadea spossato e infranto. Da queste notti ambasciose Ugo si alzava a stento: tutte le membra gli dolevano; il capo gli pesava come se fosse stato ripieno di gran massa di piombo; le braccia gli cascavano inerte, e le ginocchia si ricusavano al movimento. Un’apatia invincibile s’impadroniva di lui, per modo che non avea la forza neanche di vestirsi. Qualche volta ei rimaneva mezzo vestito e seduto sulla sponda del letto per due o tre ore, senza poter muoversi e senza sentirsi forte abbastanza da levarsi e vestirsi: rimaneva immobile in quella positura, fino a tanto che arrivava l’amico Lennois. Allora il volto di Ugo si animava; una certa vita si appalesava in lui; l’immagine dei piaceri della veglia davagli forza a sopportar la fatica de’ piaceri che lo aspettavano la sera. Veggendo il Ferraretti a tal segno prostrato di forze, Federico sentivane contento, però che si avvicinava il tempo in cui doveva estinguersi la vita di Ugo. Il carnevale non doveva finire prima che questi fosse finito. Era l’ultima domenica di carnevale. La neve scendeva a lenti fiocchi sulla terra e si ammonticchiava sulle alture delle case. Ugo Ferraretti si alzò ben tardi: la sua faccia era così bianca che sembrava un riverbero del letto di neve ond’eran ricoperte le campagne circostanti alla _Casa di Satana_. Egli non avea potuto chiuder l’occhio in tutto il corso della notte precedente; chè le larve de’ suoi estinti fratelli e quella della madre di fresco trapassata aveano popolata la diserta sua camera da letto. Oltre a ciò, una civetta era venuta a posarsi sulla ringhiera del balcone e non avea cessato di fare udire il suo funebre canto, quasi che avesse sentito colà il fetore d’un morto. Ugo avea desiderato con ansia la luce del giorno, e, quando questa ebbe fugate le tenebre, la pesantezza dell’aria esterna e la densa nebbia che avviluppava le strade facevano ancora durar la notte. Ma in sull’alba Ugo si addormentò; e il suo sonno durò fino alle undici; fu un sonno febbrile visitato da spaventevoli fantasmi. Alzatosi, Ugo die’ le ultime pennellate al suo quadro la _Preghiera_. E non sì tosto fu compiuto questo sublime lavoro, la campana della Torre pendente annunziò esser giunto il giorno a metà del suo corso, e chiamava i fedeli all’ultima Messa che si celebrava nella Cattedrale. Ugo voleva assistere al divin Sacrificio, ma la forza gli mancava; le ginocchia piegavansi sotto di lui; e, al di fuora la neve copriva di candide stelle le regioni dell’aria. Federico neanche giungeva, e Ugo si sentiva infelice senza il suo amico: la solitudine era per lui oggimai la miseria, la febbre, le larve di morte, la tisi; il canto della civetta gli rintronava tuttavia nelle orecchie. E stette così fino a sera... Quando la luce si perdè nel cielo, essa rinacque più viva e rossa nelle case e nelle strade, le quali rifulsero di mille falò, di mille fiaccole e fanaletti, di mille nicchi accesi in sulle ringhiere dei balconi e sulle soglie sporgenti delle finestre. Carnevale spasseggiava sulle vie di Pisa, e il suo lungo mormorio arrivava sino agli orecchi di Ugo Ferraretti... Allora una specie di rabbia nervosa afferrò l’infelice artista: egli avrebbe voluto slanciarsi nel mezzo della folla festante, mischiar le sue grida a quelle dell’ebbra gioventù che berlingava ne’ baccanali del carnevale: avrebbe voluto satollarsi di piaceri fino a morire nell’ebbrezza: avrebbe voluto immergersi fino alla gola nella più sbrigliata intemperanza, per non trovarsi più a faccia a faccia coi proprii pensieri, cogli orribil pensieri di un tisico. Disperate lagrime solcavano le guance di Ugo; lagrime di debolezza, di delirio... Pochi mesi fa, quel caro giovine avrebbe con indifferenza e forse con disprezzo e pietà gittati gli occhi su quelle lontane scene di sollazzi e di piaceri, ed avrebbe trovato nella religione quella felicità che ora ei dimandava alle larve ingannatrici del mondo. Ma pochi mesi fa, il Francese non avea calpestata la soglia di quella casa! Mezz’ora all’incirca era stato Ugo Ferraretti inchiodato a’ cristalli del suo balcone, quando il campanello dell’uscio di scale suonò stridulamente. Ugo fece un balzo sopra se stesso e corse ad aprire. Era il suo amico Ducastel, il quale sfoggiava per lusso ed eleganza di vestimento. — Il quadro? dimandò questi nell’entrare, perciocchè vedendo sì mal ridotto il misero giovine, temè non fosse morto innanzi di dare le ultime pennellate al quadro. — Finito, interamente finito, rispose Ugo, e si affrettava ad accendere un lume ad olio. Il volto di Federico si rischiarò, e dal suo petto si sprigionò un gran sospiro. — Io vi aspettava con impazienza, Ferdinando, disse Ugo, mentre il Lennois gittava gli avidi occhi sulla tela: era inquieto, però che in tutta questa giornata io non vi ho veduto. — La gran neve che è venuta giù... e poi, questo benedetto carnevale uccide il tempo... visite, amici, inviti... Ma tu hai una cera terribile questa sera!... Andiamo su, a divertirci, voglio menarti al ballo in maschera di Clorinda Valdelli, la cantante. — Ah! Clorinda Valdelli! davvero! Voi mi portate in sua casa! — Sì, sì, le ho parlato di te; ella brama di conoscerti, e sono arcisicuro che sarai ben accetto. — Andremo in maschera? — Certo; ho lasciato laggiù nella carrozza due dominò uno rosso e l’altro nero; il primo per te, il secondo per me. — Vi sarà molta gente? — Un diluvio di belle donne; la più brillante gioventù di Pisa; affogheremo nello sciampagna, e ti dico in confidenza che noi saremo della _partie carrèe_.[4] — Che significa? — Lo saprai... Dimmi un poco, hai dormito abbastanza la scorsa notte? — Niente; la tosse mi ha impedito... Ho avuto una notte orribile... ho sofferto... assai... assai... — Tanto meglio!... voglio dire, tanto peggio; perchè stanotte non si dormirà; il giorno ci sorprenderà dalla Valdelli; ma vestiti, su, fa presto; voglio presentarti a lei prima che giunga la folla degl’invitati e degli adoratori. Dopo mezz’ora, Federico Lennois presentava Ugo Ferraretti a Clorinda Valdelli, cantante ricchissima e amica dei piaceri. La Valdelli era una donna a trent’anni, assai bella, ma di costumi non al tutto irreprensibili. La cronaca dei salotti non la risparmiava; e sulle attinenze di costei correvano alcune voci le quali aveano molto fondamento di verità, e non erano lusinghiere per la sua fama. La società che la Valdelli ammetteva nelle sue sale non era certamente la più scelta; il bel sesso che vi figurava apparteneva a quel genere di donne che non fanno troppo sospirar gli amanti. Le scene fornivano il lor contingente, erano mogli e sorelle di artisti, cantanti in prospettiva, ballerine di passaggio o in permanenza; insomma vi accorreva quella classe di donne, ottime per una festa di carnevale. Ci era un profluvio di uomini: le maschere confondeano le condizioni; ed era meglio così, imperciocchè queste non erano tutte alte e onorevoli; la confusione e il pericolo vi dominavano, e la padrona di casa non si mostrava molto scrupolosa in fatto di ricevimenti. Era da scommettere che due terzi delle persone le quali si trovano nelle sue sale non erano conosciute da lei. Questa noncuranza è comoda per chi riceve e per chi è ricevuto: ma spesse volte bisogna esclamare in mezzo al brio della festa: _Badate alle tasche_. La festa era splendidissima, se si considera la quantità dei lumi, lo sfoggio delle maschere e il gran numero di gente che ingombrava il salotto da ballo. Nelle stanze attigue si giuocava, si fumava, si beveva; e ciascuno trovava a soddisfare il proprio gusto. Carnevale era nel suo seggio in quella casa: il divertimento era la legge che vi dominava. Tutta la scioperata gioventù studentesca di Pisa e dei dintorni era raccolta nelle sale della Valdelli, la quale distribuiva a dritta e manca i tesori de’ suoi sorrisi. Ma al ballo essa non volle per compagno che il giovine Ugo Ferraretti: ella stessa si offrì a ballar con lui in tutta la serata. Si sarebbe detto che ella avesse giurato di stancarlo a morte, perocchè volle provar con lui la contradanza, il valser, la galoppa, il cancan. Dalla Valdelli si ballò il _cancan_ francese, e nessuno ricusò di ballarlo: lo sciampagna era in terzo tra le coppie. La Valdelli era vestita alla polacca: la sua bella persona spiccava sotto i vivaci colori di questo _costume_; e la sua folta capellatura le cadea sulle spalle, uscendo dal grazioso berretto. Dai suoi sguardi partivano scintille infiammate. Ugo si sentiva scoppiare il petto. Ogni sorta di maschera era ivi: ogni paese sembrava che fosse rappresentato dal suo _costume_ particolare... Il vocio, il rumore, le chiacchiere, gl’intrighi, la musica, la danza, la varietà dei colori e delle fogge, la stranezza delle larve di cera; tutto ciò produceva un effetto singolare e dava il capogiro, la vertigine, l’ebbrezza. Ugo parea sostenuto in vita dalla forza del piacere. La Valdelli non lo lasciava un solo istante, ella scambiava occhiate significative con Federico Lennois: Ugo Ferraretti era la vittima designata. Egli doveva morire sotto l’affanno di un valsero. Un dominò nero, che aveva in testa un berretto di velluto con una larga penna scarlatta, era sempre dappresso alla coppia di Ugo e di Clorinda Valdelli. Questo dominò parea che non prendesse parte alcuna alle comune letizie: esso affissava costantemente quella coppia, e sembrava seguitar cogli occhi con perplessa ansietà i loro vorticosi movimenti nel valsero, o voler carpire le loro parole nelle contradanze. Una volta questo dominò si avvicinò al Ferraretti, e, nel momento in cui la Valdelli era intenta a rispondere ad alcune maschere che le avevano presentato dei confetti e dei fiori, sottovoce gli mormorò nell’orecchio queste parole. — Voi v’immergete in tutte le delizie del ballo; e la vostra Luigia piange pel crudele abbandono in cui la lasciaste. Ugo fu scosso, si voltò subitamente; afferrò il braccio di quel dominò, ma questi giunse a distrigarsi, e disparve in mezzo alla folla. Ugo rimase come colpito da un fulmine, ma fu strascinato al valsero dalla sua inesorabile compagna: era giunto il momento del più gran delirio. Quel dominò intanto non si lasciò più vedere. Il valsero durò circa un terzo d’ora. Il colpo fatale era dato al misero giovinetto: egli si sentiva affogare, e più non potea respirare. Verso le tre dopo la mezzanotte, la Valdelli menò Ugo Ferraretti in un salottino, dov’era imbandita una mensa con quattro posate. Federico Lennois era seduto a fianco di una bionda giovinetta sorella della Valdelli. Clorinda invitò il Ferraretti a sedere al suo fianco. Le due coppie erano l’una di prospetto all’altra. Ogni maniera di squisitezze era su quella mensa, tra vaghi mazzolini di fiori, nitidi cristalli e rilucenti doppieri di argento indorato. Rinunziamo a dipingere la folle gaiezza del banchetto. L’ilarità attuffava la ragione. Un residuo di modestia fu soffocato ne’ vapori dell’ebbrezza. Ugo si trovò la Valdelli nelle braccia. Egli sentivasi ardere e divampare il petto. Lo sciampagna fremea nei bicchieri, come il sangue nelle arterie di quei quattro commensali. Dieci bottiglie disparvero in un baleno. Ugo ne aveva bevuto tre egli solo... Le sue labbra erano lividissime. La Valdelli cantava: Allor che ne’ be’ vortici D’un valse ei mi stringea, E che il suo sguardo elettrico Quest’anima accendea; Rapita in ciel credeami Nell’estasi d’amor. Oh, suora mia quell’aere Tutto spirava amore: Stretta al suo seno e trepida, Scoppiar sentiami il core. Quell’ora sì incantevole Oh se tornasse ancor! Questi versi finirono di gittare lo scompiglio nelle menti. Federico Lennois si alzò, colmò un gran bicchiere di poderoso vino, e intuonò con voce stentorea il seguente brindisi: Per passar lungamente e felici Questo sogno che vita si appella, Sempre a mensa restiam cogli amici; Esultiam tra l’amore e il bicchier, Viva il vino e Clorinda la bella, Da noi lungi ogni tristo pensier! E, dopo aver vuotato di un tratto il conico cristallo, e riempiutolo, ripigliò: Di letizia sia colmo ogni core, Brilli il nappo qual vivida stella, E lo sguardo sfavilli d’amore D’ogni dama pel suo cavalier. Viva il vino e Clorinda la bella. Si disperda ogni tristo pensier! Ugo Ferraretti fu obbligato dal Lennois e dalle donne a ripetere questo brindisi; ma egli avea del tutto perduta la voce, si alzò barcollando; fece uno sforzo violento per cantare... ma un orribile urto di tosse il colse... e, invece delle parole di letizia, cacciò dalla bocca un rivo di sangue! Un grido straziante fu udito nella stanza contigua... Ma quel grido fu perduto nel rumore della danza che si continuava ancora nel salone. Ugo Ferraretti era ricascato sulla sua sedia, privo di sensi e bianco come la salvietta, che stringea convulsivamente tra le mani. Federico Lennois guardava con occhi asciutti l’infelice sua vittima; e un sogghigno di trionfo balenava sulle sue labbra, mentre canticchiava con beffarda ironia: Viva il _rosso_ e Clorinda la bella; Vada a monte ogni tristo pensier! X. UN’ALTRA MASCHERA Ugo Ferraretti, dopo il terribile accidente da cui fu colpito a casa Valdelli, era stato trasportato in casa sua più morto che vivo. La Valdelli volea mandare un suo domestico per assistere lo sventurato giovine, ma Federico Lennois pregolla di astenersene, perciocchè egli avrebbe pensato a tutto ciò che era necessario pel disgraziato amico. Nella mattina del lunedì Ugo parve più rimesso e tranquillo: qualche cosa di soavemente sereno era nelle sue sembianze; e l’anima sua era tutta staccata dalle mondane passioni, e rivolta al Cielo. Egli non avea proferita nessuna parola; ma i suoi occhi eran fissi con amore sul perfido amico, il quale non lo aveva neppur per un momento abbandonato, temendo che alcuno entrasse nella camera dell’infermo e discoprisse l’esistenza del quadro. Federico era seduto alla sponda del letto di Ugo, e con ansia contava i momenti di quella vita, la cui fine egli aveva sì barbaramente affrettato. Verso il mezzo giorno, Ugo fe’ segno al suo amico che se gli fosse più avvicinato, però che la sua voce era quasi perduta; accennò di voler bere, e, dopo di aver rinfrescate le sue labbra con un sorso di acqua, così parlò al Francese: — Ferdinando... sta sera o... domani... io più non sarò... — Speriamo, mio caro Ferraretti, interruppe il ribaldo con doppia significazione; una di conforto al moribondo e l’altra per sè medesimo. — Ora io più non ispero che congiungermi ai miei carissimi, soggiunse Ugo; la vita... mi abbandona... tra qualche ora io forse non potrò più parlare.... Ascoltami bene, amico mio.... Un’ultima.... grazia.... ti chiedo.... fa che il mio corpo riposi a fianco di quelli dei miei genitori... e de’ miei fratelli... là nel nostro Camposanto, da me... tante volte visitato, e dove le lagrime che io versava sulle fosse a me care faceano forse sbucciarvi quei malinconici fiori... ch’io mi piaceva di cogliere... e di recare alla mamma... Dì, Ferdinando, mi darai questa ultima prova della tua amicizia? — E ne dubiti? rispose il falso amico, fingendo di nettarsi una lagrima. — Ed io voglio... mostrartene la mia gratitudine, ripigliò Ugo con affannoso parlare... Quel quadro... — Ebbene? esclamò con occhi infiammati il Lennois. — Quel quadro... io l’affido a te... esso è tuo. — Mio!!! — Sì esso è tuo... è l’unico contrassegno di amicizia, ch’io possa darti... Tu lo venderai; ma non qui... vendilo in qualche altro paese d’Italia.... Vorrei che lo vendessi al Principe T... a Roma, il quale vien generalmente riputato esimio protettore e conoscitore di arti belle... Mi dice l’animo che quel quadro sarà... trovato un capolavoro... che il mio nome sarà pronunziato con rispetto dagl’Italiani... Oh perdona, perdona, mio Dio, se un pensiero di vanagloria è in me in queste ore supreme... della mia vita... Ma è questo il compenso che tu dai ai miei corti giorni, visitati da tanto dolore, da tante privazioni, da tante sofferenze! — Sì Ugo disse Federico prendendo con ipocrito viso di amicizia la gelida mano dell’artista, il tuo quadro è un capolavoro... esso è destinato a valicare i secoli portando il tuo nome sulle ali della fama... Possa tu vivere ancora lunghi anni! ma se al dolore di perderti mi riserba il cielo, sii sicuro che in tutti gli istanti della mia vita mi adoprerò a far noti il tuo genio e le tue sventure... Sì Ugo, illustre artista tu sei, e il tuo quadro la _Preghiera_ empirà del tuo nome il mondo civile... abbiti piena e sincera la mia ammirazione... Ma spetta a tutti quelli che han mente e cuore il lodar te degnamente: spetta a’ posteri, delle cui lodi tu ancor vivo godi gran parte col pensiero. Ugo Ferraretti, tu devi e con ragione superbire dell’opera tua... Strascinato dall’entusiasmo d’una perfetta simulazione, il Lennois riprese come chiaroveggente nel futuro: — Vedi.... vedi... quella schiera infinita di ammiratori che si accalcano intorno alla tua tela e se ne partono plaudenti col cuore e colle labbra... Odi quel concerto di elogi che si ripetono di giorno in giorno, di anno in anno, di secolo in secolo... Vedi quella turba di mezzani pittori ed anco di non pochi abili, che si affrettano a copiare la tua magnifica dipintura, degna di aver posto accanto alle tavolette del Caracci, dello Zingaro, del Guido. Oh, le immagini ch’io presento al tuo pensiero, Ugo Ferraretti, non son mica esagerate fantasie di una troppo condiscendente e affettuosa amicizia; no, il quadro ch’io ti fo non è caricato, ed è forse dammeno del vero... Ugo Ferraretti qui alla sponda del tuo letto, in quest’ora solenne, nel silenzio di questa camera, io ti proclamo un genio immortale, e bacio questa mano che creava quel prodigio dell’arte. È incredibile come questa serpe sapesse imitare la colomba, e come il suo linguaggio si vestisse di tutt’i tuoni dello schietto entusiasmo figlio della più cordiale amicizia. Non trascuriam poi di dire che era, d’altra parte, convintissimo dell’alto valore e de’ meriti singolari del quadro di Ugo. — Basta, basta, mormorava con voce appena sensibile il tradito italiano, basta... non più... la gioia mi soffoca... Iddio mi ha fatto la grazia di farmi terminare il mio lavoro... Oh se io potessi rivedere per l’ultima volta... — Chi mai? dimandò il Francese raggrottando le ciglia. — Quella giovinetta che prega... Tra poco forse pregherà per me! Ed io l’ho abbandonata, posta in obblio!... Oh se io potessi rivederla un solo istante, io morrei, contento! Federico non poteva comprendere il senso arcano di queste parole, e le reputò dettate da un cominciamento di delirio. — Sì, Ugo, diletto amico, quella donna pregherà... pregherà sempre..... pregherà per farti ottenere quella gloria nel cielo che già ti sei conquistata in sulla terra; e con quella pregheranno tutti gli uomini che leggeranno le pagine crudeli della tua biografia... Oh, quando l’Italia e il mondo sapranno che un genio moriva nella più squallida miseria: che un Francese gli mitigava il più scellerato abbandono; quando si saprà che in una strada solitaria di Pisa, in una casa maledetta, l’autore della _Preghiera_ esalava gli aneliti estremi, senza che un sol Pisano fosse venuto a confortare gli ultimi momenti, il mondo ripeterà con Dante Allighieri: _Ahi, Pisa vituperio delle genti_... . . . . . . . . . . . . . . . . . . _Non dovei tu i figliuoli porre a tal croce_. — No Ferdinando... Iddio benedica il mio paese, com’io lo benedico, interruppe il moribondo. Non più, non più parole di vendette e di odio... Un figliuolo non dee giammai svillaneggiare la madre sua, e, quali che sieno i torti di questa non debbe giammai nel petto di quello venir manco l’amore e la gratitudine. Maledetto è da Dio chi svilisce e maledice la terra nativa. Sono cinque secoli che Pisa piange per l’amaro verso del fiorentino Allighieri.. Il Redentor degli uomini comanda il perdono: bellissima e santa legge che allarga il cuore e lo fa degno di ricevere il divino perdono... Si, mio Dio, Dio d’infinita misericordia, perdona le follie cui mi sono abbandonato e che mi hanno accelerata la morte... Perdonami siccome io perdono col cuore a tutti quelli che hanno fatto del male, e specialmente al francese... Giacomo Paillard. Federico si avea sentito ribalzare il cuore a queste ultime parole, come se Ugo avesse detto: _e specialmente al francese Ferdinando Ducastel_. Il francese Federico Lennois, nato a Auteuil, uccideva abbracciando la sua vittima e facendoglisi credere sviscerato amico; appunto come il francese Daniele de’ Rimini, nato a Baionna, assassinava il Conte di Sierra Blonda riconfermandogli un affetto caldissimo a tutta pruova. Per rimuovere il malanimo contro i Pisani che le calunnie del Lennois han potuto far nascere ne’ nostri lettori, ci diamo premura di dire che allo spuntar del giorno del lunedì e in tutto il corso della giornata come anche il domani, non pochi tra conoscenti del Ferraretti e altri della festa della sera precedente, si erano presentati ad informarsi della salute del giovine pittore e a far profferte larghissime di servigi e di assistenza; ma Federico avea, con isvariati pretesti, allontanate le officiose persone, per rimaner solo appo il letto del moribondo, a fine di non far nascere ostacoli al compimento del suo divisamento infernale. Ugo era caduto nell’abbattimento: le parole che avea proferito gli aveano fatto crescere l’affanno, in tanto che ora si sentiva affogare: volle essere posto a sedere in mezzo al letto, e Federico il sollevò adagiandone la schiena debolissima a un batuffolo di guanciali. Sembraci superfluo il dire che Federico, dal dì che si era fatto intrinseco del giovine artista non risparmiava danaro e per procacciargli sollazzi e piaceri, arma di cui lo scellerato si era servito per cacciarlo alla tomba, e per rifornirlo di que’ comodi che rendono piacevole la vita, e di tutto ciò di cui il meschino sembrava patir difetto. Egli spendeva di buonissima voglia il suo denaro, però che sapea che, alla morte dalla sua vittima, i quattrini gli sarebbero rientrati in saccoccia con larga mano di guadagni per la vendita del quadro. A capo di alcuni minuti, Ugo ricercò novellamente la mano del Lennois e gli disse con estrema lentezza: — Ferdinando... dal ricavato della vendita del mio quadro... tu.... mi farai la grazia... di pagare quattro mesi di pigione al padrone di questa casa... Non voglio che... la memoria di me venga macchiata in qualsivoglia modo... Me lo prometti? — Lo giuro, mio carissimo, vivi tranquillo! — Morrò tranquillo! mormorò il misero. E più non parlò insino a sera. Come prima si fe’ bruno nell’aria, cominciò a farsi udire indistintamente il rumor delle mascherate per le vie; il brighella, il dottore, l’arlecchino e il pulcinella francese andavano per le strade buffonando, e cantando, e dicendo lepidezze più o meno argute, e facendo tanta baldoria da parer demonii e peggio. A seconda che passavano per una strada, una folla di sfaccendati, di lerci, di monelli, di donne del popolo traevano dietro a loro, menando a tondo tutti quelli che incontravano, di tal maniera che qualche baruffa non mancava di rendere più vivace il divertimento. Questa mascherata avea percorso rapidamente parecchie vie e stradelle e ronchi, fermandosi or qui or là, a tenore dello spasso che si promettea, quando un uomo di mezzo alla folla gridò: — Alla Casa di Satana. — Sì, sì, alla Casa di Satana. E tutti accolsero con grandi urli e fischi questa proposta, e si diedero a correre, come il turbine mosso dal vento, verso la strada dove era quella casa. — Che cosa è questo rumore? dimandò Ugo colpito dal gran frastuono che si facea sotto la sua abitazione. — È una mascherata, rispose Lennois. — Ah! una mascherata... mi ricordo... un festino, non è vero?... un banchetto... O mio Dio, mio Dio! il tuo perdono!... Il rumore cresceva a dismisura, era un concerto di voci altissime, di canti spropositati e osceni, di grida stonate. — Saliamo sulla casa maledetta, gridò un arlecchino. — All’assalto di Satana, gridarono parecchi altri. E tutti si avviarono a salire sull’abitazione. Si picchiò all’uscio da scala a colpi di mazze e di randelli. Federico fu spaventato, ma, non si perdendo d’animo, andò a dischiudere la porta. — Alto là, signori, non vi inoltrate... qui, in casa, è un moribondo. Cessarono di repente il fragore e le grida. — Un moribondo! esclamò una voce, vogliamo vederlo. — Non posso permettervi l’ingresso; la vostra presenza, le fogge de’ vostri abiti, le strane maschere che coprono i vostri volti, potrebbero distogliere i suoi pensieri e farli deviare dal cammino del cielo, al quale in questo momento debbono esser drizzati. — Lasciamo dunque che muoia in pace, disse un brighella; andiamo, amici; questo luogo non fa per noi, puzza di cimitero. — Andare a scegliere la _Casa di Satana_ per morirvi dentro, osservò un pagliaccio; che razza d’idea! E tutti se le svignarono quatto quatto per le scale, timorosi di far strepito. Tanto è vero che la morte incute rispetto anche a’ più baldanzosi e sfrenati. Il martedì, ultimo giorno di Carnevale, era anche l’ultimo della vita dello sventurato giovine Ugo Ferraretti. Federico Lennois non l’aveva abbandonato nella notte del lunedì... Vinto dalla stanchezza e dalle veglie, ei si era abbandonato sovra una scrinata poltrona, dove il sonno l’avea colto. Quando si destò verso l’alba del martedì, Ugo aveva una insolita fiamma negli occhi. Dio, Dio, ti ringrazio, mormorava più col pensiero che colle labbra, l’ho veduta, l’ho veduta! questa grazia mi è stata concessa! ora sì che muoio contento: niente altro ho a desiderare. Federico non poteva udir queste parole che il moribondo pronunziava con voce sì debole da non colpir neanche i propri orecchi... Veggendolo muovere le labbra, il Francese suppose che quegli fosse preso dal delirio, e procurò di richiamargli le idee ad uno stato più naturale. Ugo non parlò più; ma sulle sue sembianze era sparsa una soavità che di rado si osserva su i volti de’ vicini a trapassare. Verso le vent’ora all’italiana, Ugo proferì distintamente questa parola; — Un sacerdote. Lo scellerato Federico finse di non averla intesa: il ribaldo temea che un ministero di Dio discoprisse il quadro, sia per proprie osservazioni, sia per la stessa rivelazione dell’infermo. Ugo ripetè parecchie volte con ansia quella parola; ma Federico si mostrò distratto, occupato. Il moribondo congiunse le mani, rivolse le pupille al cielo, e si pose a pregar colla mente. Le ventiquattro ore suonavano al gran Campanile, quando Ugo Ferraretti fece uno sforzo, come se avesse voluto alzarsi dal letto; guardò attorno alla camera con occhi spalancati; mise un gran sospiro... o singulto; e voltò le spalle a Federico Lennois, il quale, per vincer la noia di quelle lunghe ore, leggeva sbadatamente un romanzo francese. Dopo un paio d’ore di assoluto silenzio, Federico trasse alla volta del letto dell’infermo, il chiamò per nome, le scosse,.. indi mise un grido di gioia feroce. UGO FERRARETTI ERA MORTO!! Il domani, giorno delle ceneri, il corpo del Ferraretti era disteso nel suo medesimo letto di dolori, senz’altro apparato funebre che quattro candele messe a’ quattro angoli del letto. Nessun vivente era in quella casa abbandonata. Federico Lennois era sparito nella notte portando seco il quadro la _Preghiera_. Poche ore prima che i becchini fossero venuti per trasportare il cadavere al suo asilo, una donna era entrata in quelle stanze dov’era il morto. Questa donna, giovane e bella, portava sul suo volto l’impronta della disperazione. Ella avea tra le mani parecchi oggetti, qualche cosa come un vasetto ripieno di cera liquefatta ed altro recipiente con gesso. Ella si accostò al cadavere, lo covrì di baci e di lagrime; indi applicò una forma di gesso sul volto dell’estinto, e vi gittò la cera. LA MASCHERA di Ugo Ferraretti era fatta: il suo volto era riprodotto! Quella donna guardò lungo tempo le bianche sembianze del cadavere; pianse a lagrime dirotte; s’inginocchiò alla sponda del letto e pregò. Era ella in quel momento il quadro vivo della PREGHIERA. Era Luigia Aldinelli. _Parte Terza_ I. I DUE BAMBINI Prima che riprendiamo la nostra narrazione al punto dove la lasciammo alla fine della prima parte, cioè, alla morte del giovin francese Giustino Victor, e pria che proseguiamo a raccontare le tristizie del Lennois, è mestieri che facciam conoscere ai nostri lettori qual si fu la prima giovinezza di questo malvagio, e quali sventure ad un tempo e turpitudini l’accompagnarono. Lasciamo alquanto avvolta nel mistero la storia della sua nascita. Solamente dir dobbiamo che la natura sembrò aver posto il marchio della sua riprovazione su questo fanciullo, sulla cui schiena era una larga macchia nera, la quale vi restò incancellata; anzi vennesi rabbuiando sempre più a guisa di nero scudo. Federico era figlio della colpa. La dimora del Baronetto Edmondo Brighton a Parigi, e propriamente nelle vicinanze di Auteuil, non poteva esser feconda che degli stessi errori, i quali avevano contrassegnata la sua permanenza a Cadice, a Siviglia, a Bajona, a Glascovia e a Pisa. Zenaide era stata la più bella giovinetta dei dintorni di Auteuil. La domenica, quando ella si recava colla mamma alla chiesa, tutti gli scapestratelli del villaggio e tutti i signorotti parigini, che traevano a diporto in quelle amene campagne, avevano qualche alloccheria a rivolgerle, cui ella rispondeva pressocchè sempre regalando un sorrisetto a ciascheduno... Ella si vestiva sempre con un’attillatura superiore al suo stato e alla sua nascita, perciò che suo padre non era stato che un operaio dabbene ma povero, il quale avea per lungo tempo servito, in qualità di scardassiere, in uno dei lanificii di proprietà della famiglia di Orbeil... Zenaide, camminando a fianco della mamma, non facea che voltarsi addietro ogni momento per dare orecchio ai galanti che mai non mancavano di seguitarla... La vanità e per essa la ingordigia del denaro dominavano nel cuore di questa disgraziata fanciulla; ella sognava sempre uno stato che potesse abilitarla a sfoggiar di abiti, una fortuna che le procurasse tutti gli allettamenti della vita... Ella sdegnava di accomunarsi colle altre sue compagne, alle quali si estimava superiore per la sua bellezza e per gli sguardi signorili che questa le attirava. Zenaide avea disprezzato i migliori matrimoni di giovani operai, perchè le sue mire erano più in su... Egli è certo che la sua rara bellezza avrebbe potuto innalzarla; ma il suo cuore non corrispondeva al suo volto; e il grido delle sue male tendenze allontanava ogni buon proponimento. I giovanotti di Parigi se le faceano d’attorno nel solo intento di burlarsene: i regalucci piovevano, e Zenaide era sempre la più scontenta figliuola del mondo; imperocchè quei piccoli presenti non faceano che darle il gusto dell’ozio senza attutire la sua smodata brama di danaro. A diciotto anni, quando una donna possiede singolar bellezza, si crede dispensata dal pensare a quelle cose che sole rimangono, quando i diciotto anni e la bellezza saranno passati; e reputa inutili tutte quelle doti morali, senza le quali la donna è debil canna che si piega allo spirar di ogni vento, e si frange all’urto del più lieve uragano. E Zenaide non poteva sfuggire agl’incessanti pericoli, in cui la gittava la sua giovinezza, piena di tristi passioni e sgovernata di freno morale. La virtù della donna è più fragile del filo d’erba che cresce sull’altezza di un colle esposto al tempestar dei venti... Uno sguardo, una parola, e quella virtù non è più, e una vita d’innocenza è travolta in una vita di rimorsi. Ma Dio pose a guardia di quella virtù uno scudo di adamante, il pudore. Meschina di colei che gittò lungi da sè questo usbergo, e che porse compiacente l’orecchio a’ melliflui detti della seduzione! Il Baronetto Edmondo Brighton, andando un giorno a caccia con parecchi suoi amici nella _Pianura dell’Usignuolo_, presso Auteuil, vide la bellissima Zenaide, e fu preso d’amore per questa fanciulla. L’amore nel petto di quest’uomo era odio alla virtù dell’oggetto che egli amava. Edmondo era straricco, e gittava il denaro con una facilità incredibile. La pioggia d’oro sorprese e ingannò la Danae novella. L’antico mito si riproduceva in una casipola d’Auteuil! Zenaide non fu veduta per molti mesi ne’ soliti luoghi dov’ella usava, e poi la si vide con un puttino tra le braccia, un bambinello di un mese, così leggiadro e gentile, che le vicine le diceano, in baciandolo su e giù per tutto il volto, ch’ei rassembrava un figliuol di principe, di duca o di altro nobil personaggio. E poi, queste medesime vicine che aveano tante volte baciato e ribaciato il bambinello, e dette le più care parole alla Zenaide, quando la sera raccoglievansi in crocchio, teneano presso a poco questa conversazione: — Margherita, sai tu donde sia piovuto alla Zenaide quella bella creatura? — Non farmi mo la stordita, Paolina; non ti ha ella detto che si è maritata? — È vero, ma che so! cotesto marito, io non l’ho mica veduto; e tu, Margherita? — Io neanche l’ho veduto... Dio ci guardi dal pensar male del prossimo; ma è noto a tutto il paese che la Zenaide non è poi la più riservata figliuola del mondo. — Venirci ad imbeccare questa storiella di marito!... Per me, non ne credo niente... E che nome ha cotesto marito di paglia? — Ella dice che si chiama Francesco Lennois; che è un gran benestante di campagna, e che, dopo averla sposata, l’ha menata non so dove, onde noi non l’abbiam veduta per qualche tempo.. Che te ne pare, eh? — Gesù e Maria!... che scandalo! Per me, mi guardi il cielo dal pensar male del prossimo; ma voglio mettere su il più bel paio di orecchini che tengo, per sostener che quel bambino... — Avrà la buona ventura, se è vero quel che dicono, che i bastardelli hanno la miglior sorte in questo mondaccio. Tali cose buccinavansi tra quelle donne, e di questo passo trottava la conversazione con isvariate annotazioni, chiose e comenti non del tutto conformi a’ precetti della cristiana carità. La Zenaide intanto avea dato giù a vista, ed il suo volto, per lo addietro vera miniatura leggiadrissima, ora si rassomigliava piuttosto ad una di quelle immagini che veggonsi per istrada e che la pioggia e il tempo hanno tutte scolorate e impallidite. Ella avea presentato alla gente del paese, in qualità di marito, un certo Francesco Lennois, uomo di circa cinquant’anni, e che alla pronunzia sembrava un Avergnese. Non sapremmo dire chi fosse questi e che parte rappresentasse nella trista e vergognosa commedia. Si tiri un velo di carità su gli errori delle passioni, e si guardi alle funeste conseguenze cui mena l’obblio de’ più sacri doveri. Pochissimo tempo dopo la nascita di quel bambinello, cui si era dato il nome di Federico Lennois, un gravissimo avvenimento arrecò sventura nel Castello d’Orbeil. Un arresto politico venne fulminato contro il Visconte: fu un prodigio la sua salvezza. Sotto un abile travestimento, egli era pervenuto a raggiungere la frontiera della Svizzera, per involarsi alla persecuzione del nuovo governo francese. Frattanto, il giorno dopo della fuga di lui, la Viscontessa, che era stata presa da spavento grandissimo per la vita del consorte, fu assalita da dolori di un parto prematuro, e, tra convulsioni che minacciarono di ucciderla, mise al mondo una creatura, alla quale fu imposto il nome di Augusto. La Viscontessa rimase per oltre un mese in uno stato che fece temere pe’ suoi giorni. Il difficile e intempestivo parto avea necessitato la mano del chirurgo: la vita del figlioletto e della madre fu salva dall’abilità dell’uomo dell’arte. Il bambinello, tratto a stento dal seno materno, non potea ricevere i primi succhi vitali dalla stessa genitrice, pericolosamente inferma; era mestieri d’una balia... Si sapeva al Castello d’Orbeil che la figliuola dello scardassiere, Zenaide, si era sgravata di fresco: fu però mandata a chiamare e invitata a nutrire il fanciulletto Augusto. Ella accettò subitamente la proposta, e il puttino le venne abbandonato tra le braccia. Ella sel menò seco alla sua dimora, dov’era eziandio il proprio figliuolo. La prima parola che la Viscontessa pronunziò, dappoi che fu nello stato di esprimere i suoi pensieri, fu il desiderio di vedere il pargoletto suo figliuolo. Fu mandato a chiamar Zenaide col bambino; e costei, dopo un’ora, era con questo al castello d’Orbeil. La madre si stemperò in baci e in lagrime di tenerezza sul bianco visino della creatura, su cui l’aria pura della campagna aveva operato salutari effetti. E poscia il fanciullo fu riconsegnato alla nutrice, che si affrettò di abbandonare il castello d’Orbeil. Si sarebbe detto che Zenaide avesse fretta di togliere il figlio dalle braccia della madre. Quando la balia era tornata al Castello per presentare il bambino alla Viscontessa, lasciava leggere sul suo volto un’agitazione e come un sentimento di paura. Ma nissun badò a lei, e tanto meno la madre, che, abbandonandosi alla sua tenerezza inverso quell’angiolo di figlio, era tutta assorta nel piacere di abbracciare e baciare la carissima prole, la quale poco mancò non le avesse costato la vita. Passò qualche anno — La Zenaide veniva di tempo in tempo al Castello d’Orbeil, e vi s’intrattenea per lo più parecchi giorni col fanciullo Augusto, il quale crescea bello e gentile come un amoretto. La Viscontessa non sapea saziarsi di accarezzarlo, di stringerselo al seno e covrirlo di baci, e largamente ricompensava le cure onde Zenaide circondava quella creaturina, prodigalizzandole, per così dire, gli affetti d’una madre. E nel fatto, non potea dirsi che i testimonii di amore che la nutrice mostrava inverso il figliuolo del Visconte fossero dettati in lei dal desiderio di lusingare l’amorevolezza della madre e di cattivarsene le buone grazie, profondendo carezze e baci senza numero al piccol pargoletto; imperciocchè bisognava veder la Zenaide quando era sola nella sua abitazione co’ due bambini, di cui l’uno erale figlio e l’altro figliuol di latte. Torceremmo volentieri i nostri sguardi dallo spettacolo che ci offriva quella donna snaturatissima, se non sentissimo il dovere di non trascurare alcuni fatti che saranno di non poca importanza per la nostra narrazione. Zenaide viveva sola in una meschina casupola poco discosta dal sito ove scorgemmo il platano della mendica. Dopo che la sciagurata fu caduta ne’ lacci della seduzione del Baronetto Edmondo, la vecchia madre aveala maledetta, e, separatasi da lei, era ita ad abitare in quel tugurio, su cui il gran platano stendea l’ombra della sua vigorosa vegetazione. La buona donna era tutto il giorno occupata a lavorare in una delle fabbriche del castello per trarre innanzi la vita alla meglio. Zenaide adunque vivea sola co’ due bambini, entrambi sì belli e gentili che i loro visini erano vere calamite di baci. Nati quasi ad un tempo, essi parevano perfetti gemelli, se non che il bambino Augusto avea la fibra più forte e valida del bambino Federico. Ma se poca differenza era tra loro in quanto alle naturali fattezze, grandissima differenza, una inconcepibile barbarie di donna, ponea tra le sorti di que’ due innocenti. Oh noi non comprendiamo come si possa far del male ad un bambino! Fa d’uopo aver rinunziato alla natura di essere umano, per torturare l’innocenza e la grazia, congiunte alla debolezza e all’impotenza della difesa. Maledetti son da Dio i tiranni dell’infanzia: costoro piangeranno a lagrime amare nella loro vecchiezza, e non gusteranno giammai la dolce consolazione di sentire i loro bianchi capelli carezzati dalle vezzose manine di cari pargoli. Dio non concede la soavità di un’amorosa corrispondenza filiale se non a coloro che ebbero viscere di uomini per l’infanzia, e che le prepararono assistenza e piaceri. Zenaide era tutto amore e sollecitudine pel figlio della Viscontessa, ed era tutto odio e tirannia pel proprio figlio! Con un’atrocità senza esempio, ella lasciava piangere per fame acutissima il piccolo Federico, giacente quasi nudo sul suolo smattonato e umido, mentre nutriva il piccolo Augusto, tenendoselo ben caldo avviluppato nelle proprie vestimenta. Qualche volta la scellerata spingea l’eccesso della crudeltà fino a torsi entrambi i bambini nelle braccia; e allora, dava a poppare al figliuolo di latte sotto gli occhi medesimi dell’affamato figlioletto, che colle manine cercava di strappare Augusto dal seno materno. E quando la perfida Zenaide si stancava di udire gli urli del bambino, lo scagliava lungi da sè sul terreno, dove il meschinello giacea per lunghe ore e finiva coll’addormentarsi con quel sorriso ineffabile che è l’amore degli angeli nel cielo. L’aspetto di un bambino addormentato ha qualche cosa che accheta le tempestose passioni e parla all’animo un misterioso linguaggio di dolcezza e di carità. Quella certa velleità di dispotismo che è insita a ogni uomo si calma alla vista della più gran debolezza, e sottentra un sentimento di protezione e di aiuto. Il pensare che un bambino abbandonato per poco a sè stesso sarebbe l’essere più infelice e morrebbe per ignoranza de’ pericoli e per mancanza di soccorsi, debbe per necessità muover la pietà e l’affetto. Ma la vista del suo Federico addormentato non facea che esasperare la ferocia di sua madre, la quale si sdegnava quasi di trovare nelle sembianze del fanciullino la serenità e l’obblio del dolore, congiunte al celeste candore della innocenza. Una sola volta al giorno, la Zenaide dava a poppare al figliuoletto, mentre ad ogni ora del giorno e della notte porgeva il seno ad Augusto, che però veniva grassotto e vermiglio come que’ putti che si pongono ai canti di un apparato di festa. La sera, il piccolo Augusto, sazio felice e soddisfatto, si addormentava nello stesso morbido letto, ove dormiva la Zenaide; ed il piccolo Federico, gittato in misera cesta, non potendo, per istimolo di fame e per freddo, prender sonno, assordava l’aria co’ suoi gridi, pei quali la perfida madre, per dormir placidamente, si determinava a ligargli un fazzoletto alla bocca. Ci piange il cuore a raccontare di simili atrocità senza esempio, e che ripugnano all’umana natura; laonde più non diremo delle incessanti sevizie onde veniva tormentata, nei primi albori della vita, quella esistenza di uomo. Il tempo ci schiarirà forse il mistero di questa incomprensibile tirannia di madre, come anche ci mostrerà la soluzione del grande assioma morale, nascosto in tutt’i fatti della vita: LA PUNIZIONE ACCANTO ALLA COLPA. II. LA FANCIULLEZZA DI FEDERICO Una vita che si annunziava con questi foschissimi albori non poteva certamente essere la più lieta e felice; e i giorni che seguitarono alla prima infanzia del Lennois non furono che conseguenti nella sventura e nel pianto. Il fanciullo Augusto, fatto grandetto, rientrò sotto il tetto paterno e fra le braccia dell’affezionatissima sua genitrice. Egli era bello assai di volto, ed era, siccome dicemmo altrove, una miniatura delle sembianze inglesi; ma insin da quella tenerissima età dava manifesti indizii di alterigia e di disprezzo per quelli che non aveano la ventura di nascere in un serico letto. La Zenaide, quando il figliuolo della Viscontessa fu rientrato nel castello d’Orbeil, non faceva passare un sol giorno senza andare a rivedere il fanciullo che ella aveva allattato con tanto amore. Ella non volea giammai dipartirsi dal sito ov’era quell’angioletto del suo cuore, il suo amatissimo piccolo Augusto: chiedeva in grazia alla Viscontessa di permettere che ella guidasse ancora il fanciullo nelle vaste camere del castello e tra i viali del parco; che nol perdesse giammai di vista; che gli stesse tuttodì addosso cogli occhi e coll’anima. «Imperciocchè, ella diceva, io l’amo tanto, questo fanciullo, più che s’ei fosse figliuol mio, e non so partirmi da lui un sol momento. Quand’io sto dall’altra parte del parco, il mio pensiero è al castello d’Orbeil, e non riposo che quando ritorno qui dove è l’amor mio, il mio piccolo Augusto, tanto caro e leggiadro, con quella faccia di serafino, con quegli occhi di sultano!» E via via così parlando, la Zenaide dicea tante cose, che erano una maraviglia di amore a sentirla: e la Viscontessa era qualche volta gelosa di queste eccessive dimostrazioni di affetto, avvegnacchè i suoi sensi materni ne fosser lusingati a dismisura. Però ella non sapea vietare all’affettuosa nutrice il giusto sfogo di una tenerezza che suole apprendersi ai cuori di quelle donne che han dato ad un bambino il primo alimento vitale. Se non che, la nobile moglie del Visconte ammiravasi talora che la Zenaide, la quale si sfacea di affezione pel suo figliuolo di latte, abbandonasse il proprio figliuoletto per intiere giornate e non mai ne parlasse, e mai seco nol menasse al castello, o in modo alcuno significasse sollecitudine e attaccamento pel sangue proprio. Di questo la Viscontessa richiedeala sovente, ma la Zenaide parea mal portasse inchieste simiglianti, alle quali dava sempre vaghe risposte, or dicendo che il fanciullo Federico venia su un pessimo furfantello, il quale non madreggiava per niente in quanto al cuore; or certificando che il figliuoletto non pativa di alcuna mancanza per l’assenza di lei, essendo accomandato a buone mani; or, per ultimo, svoltava destramente il discorso e usciva di palo in frasca con istorielle e ciance da nulla. Ma, vuoi caso o tendenza naturale o altro motivo, il fanciullo Augusto, a seconda che cresceva negli anni, addimostrava un disamore grandissimo per la sua balia, e noia e disgusto per l’affezione di lei. E questo disamore crebbe a modo, che, dispotizzando egli la madre sua, la quale teneramente lo amava, ottenne da lei di non permettere più l’ingresso nel castello a _mamma Zenaide_, essendo ormai indecoroso a un nobil fanciullo il sentirsi stretto al seno di una villica. È impossibile descrivere l’acerbità del dolore da cui fu presa la Zenaide alla inaspettata nuova del divieto che le veniva inflitto per ricompensa del suo amore. Poco mancò non ne morisse, perciò che tutta l’anima sua erane straziata... Ella pianse a lagrime disperate; si arruffò i capelli, si lacerò le vesti, e per isfogare la rabbia e il dolore, corse... a battere e a tormentare il suo Federico! Non ci è cosa che più squarci un cuor sensitivo ed ecciti sdegno grandissimo, che l’udire le grida di dolore messe da un fanciullo innocente sottoposto a barbare battiture. La pietà si muove nei petti più feroci, e non vi ha chi non si slanci a togliere quell’innocente dalle mani spietate che il torturano. Ma nella solitaria campagna dove abitava la Zenaide col suo Federico, non era chi udir potesse le alte strida che il miserello spingeva al cielo, allorchè la madre il tempestava di colpi con un grosso randello, non il rilasciando se non quando quell’infelice creatura si accasciava per isfinimento di dolore. Quella disumana era diventata una tigre assetata del sangue proprio; era qualche cosa d’orribile a vedersi!... Quanto più intenso era l’amore di quella iena per Augusto d’Orbeil, tanto più crudele era l’odio suo per Federico Lennois. Chiediamo perdono a’ nostri lettori, se siamo costretti a porre sotto i loro occhi uno spettacolo disgustante e pietoso a un tempo. Oh come vorremmo, ne’ nostri racconti, evitare di avvenirci in codeste situazioni che fan fremere i cuori ben temperati; ma, nello svariatissimo dramma delle passioni che si agita sulla scena del mondo, la virtù, per mala ventura, non è la felice protagonista; è la scelleratezza quella che più tiene il campo dell’intrigo. Lo spettacolo della umana degradazione ha i suoi effetti salutari come lo spettacolo del più elevato innalzamento dell’anima per grandi e generose virtù. Ricevuto il divieto di ripresentarsi al castello, la Zenaide, non potea vivere senza rivedere di tempo in tempo il suo Augusto. Perdeva le intere giornate, appiattata in una siepe che divideva il parco dalle circostanti campagne, nella speranza che il fanciullo, nelle sue corse ed emigrazioni, fosse passato per quel sito. Ma il più delle volte, era tempo inutilmente sprecato; perciocchè Augusto prendeva col suo aio altra direzione, sia che scorrazzasse per gli andirivieni del parco, sia che uscisse a cavallo fuori di Auteuil. Il dolore e la collera di Zenaide in questi casi superavano qualsivoglia immaginazione. Ella ritornava, in sulla sera, alla sua casipola, scapigliata come una furia: i suoi occhi schizzavan fuoco; le sue labbra eran pregne di veleno. Il primo oggetto che le si offriva alla vista era il suo Federico, il quale tremava tutto nel vedere sulle sembianze della madre la ferocia del dolore. E quest’oggetto non faceva che aizzare la collera di lei a tal punto, che ella scagliavasi come demente sull’infelice creatura, e, quando a questa non riusciva di sottrarsi a’ furori di quella belva, era cosa da pianger di pietà, tante e sì forti erano le battiture che piovevano sul miserello. Alcune volte la ribalda femmina, toltosi dal capo scompigliato uno sdentato pettine di ferro, perseguiva il meschinello in tutt’i versi; e, acchiappatolo, gli conficcava nelle spalle o ne’ reni gli acuminati denti di quello strano supplizio. Altre volte, cacciatosi quel miserello sotto i piedi, gli andava pestando il corpicino, nè più nè meno che se fosse stato un cane o un gatto morto. Egli è vero che il fanciullo fuggiva molto lungi, allorchè vedea la mamma invasa dalle furie: la notte ei non ritornava sotto il tetto dov’era la sua crudele nemica, e andavasene a dormire sotto un pagliaio che venne poscia addimandato il covile del monello. Quivi il freddo, la paura e la fame torturavano a muta e talvolta tutt’insieme lo sventurato, il quale piangea, piangea di un pianto che avrebbe scosso i fusti degli alberi. Nissuno, nissun vivente, nissun essere umano veniva a sollevare quel povero fanciullo dalle incomprensibili crudeltà della genitrice; nissuno gittava uno sguardo di compassione su quell’innocente che soffriva per una di quelle imperscrutabili ragioni che rimangono ascose nella infinita saggezza della Giustizia Divina. Iddio solo udiva il pianto e i gemiti dell’infelice, e Dio mandava una consolazione su quel dolore, una gioia su quell’esistenza, un amico a quel derelitto. In una notte placida e serena, Federico erasi addormentato sulla stoppia del suo covile. Egli avea pianto lungo tempo innanzi di comporre gli occhi al sonno... La stanchezza del dolore lo avea tolto momentaneamente alla sofferenza.... Durante il sonno, ei provava indistintamente una sensazione dolcissima di calore che gli scorrea con tutta soavità per le vene, come se una mano pietosa gli avesse ricoperto il corpo con un grosso panno di lana... Federico sentiva una voluttà che mai non avea gustata nel breve periodo di sua vita, giacchè egli avea dormito sempre in sulla nuda terra o sulla paglia, senza altra coperta che la logora travatura della stanza materna o l’aperto e stellato palco dei cieli... Egli era questa volta così felice nel suo sonno che dormì per lunghe ore, e insino a tanto che i raggi del sol nascente vennero a colpirgli la fronte. Qual fu la sorpresa del fanciullo, allorchè, nello schiudere le palpebre, si vide disteso in sul corpo un bel cane, di razza inglese, il quale avea gli occhi drizzati verso di lui con tal guardatura, che era ripiena delle più tenere dimostrazioni di affetto! Federico non potè astenersi dal gittar le braccia attorno al collo del cane e stringerselo al petto, come avrebbe fatto con un caro fratello! Oh come battea di contentezza il cuore di quel fanciullo! Come le lagrime gli sgocciolavano per le guance!... Eppure, in mezzo alla sua gioia, Federico aveva un palpito di timore, che quel cane non fosse appartenuto a qualche vicino abitante del contado, e che però gli venisse tostamente strappato dalle braccia... Onde non si saziava di premerselo al seno, di coprirlo di baci, d’accarezzarne la bionda schiena; e il cane parea sì contento di quella corrispondenza di affetti, da non cessare un momento di agitar la coda in segno di soddisfazione; e guardava sempre negli occhi di Federico con una sì lampante significazione di amore, che meglio non avrebbe saputo un innamorato guardar l’amante. Il fanciullo temea giustamente che la madre, veggendolo protetto e amato da quella cara bestia, non gliela avesse rapita o uccisa o in altra maniera fatta sparire; però tornando quella mattina con gran batticuore alla casa della mamma, ei tenea sempre l’occhio sul suo amico, quasi che avesse da lui implorato di non abbandonarlo giammai e di proteggerlo dal materno furore. A pochi passi dalla temuta dimora, il miserello gittò un altissimo grido nel veder la mamma che venivagli incontro con baleni di sdegno nelle feroci pupille. Federico fu, come altre volte lo era stato parimente, ligato a un ginepro e ivi abbandonato dalla spietatissima donna, la quale solea lasciarlo in quel martirio per ventiquattro ore; dopo il quale tempo davagli un boccon di cibo, così per farlo sopravvivere ai tormenti, e per riserbarlo ad altri castighi e vessazioni. Ma questa volta il tapinello non rimase lungo tempo ligato al tronco dell’albero, imperciocchè il cane, con mirabile esempio di fedeltà e di amicizia, tanto si adoperò co’ denti, che pervenne a spezzar la fune e a sciogliere il fanciullo dai barbari ceppi. Mentre il cane faceva l’estremo di sua possa per islegar Federico, questi piangea di tenerezza; e, quando si vide libero, saltò addosso a quell’impareggiabile amico, e gli disse tante cose e gli dette tanti baci, e si stemperò in tanti affetti che poco mancò non ne svenisse. A contar da quel giorno, il cane, cui Federico avea dato nome di Astolfo, diventò siffattamente l’amico dello sventurato fanciullo, che questi non ebbe più in certo modo a temere gli strazii che la madre gli facea soffrire. Zenaide era più istizzita dacchè vedeva il figliuol suo spalleggiato dalla bestia, la quale supplivagli di quell’amore, di cui ella avealo defraudato. Non poche volte, la perfida tentò di uccidere il maledetto Astolfo, ma questo parea protetto dal cielo, e scampò alle insidie che tendeagli la malvagità di quella donna, la quale, quanto più sentivasi accrescere i trasporti di amore pel suo figliuol di latte, già fatto grande, altrettanto sentiva ringagliardirsi l’odio per Federico, cui, per altro, ella non aveva il coraggio di uccidere d’un colpo. Ben presto, a questo nemico possente e incredibile si aggiunsero due altri non meno congiurati a danno dal monello, Augusto d’Orbeil e Giustino Victor. La fiamma del rossore, dello sdegno e dell’odio incendiava il volto di Augusto, quando gli si diceva che egli era fratello di latte del guitto monello di Auteuil, del figlio di mamma Zenaide. Augusto sentivasi grandemente umiliato da questo confronto, e colpì una mattina la guancia d’un suo domestico per avergli detto, per casualità, quell’amara parola. Tutte le volte che il nobil giovinetto si avveniva in Federico Lennois, non facea passar l’occasione di mostrargli il suo profondo disprezzo; anzi, sovente andava cercando l’opportunità di far cadere su quel poverino lo sfregio e l’insulto. E in questo egli avea per complice fedele il fanciullo Giustino, il quale veniva a passar nel castello le vacanze di collegio. Spesse volte i due giovanetti amici con altri fanciulli compagni di collegio di Giustino Victor traevano appositamente alla volta della casipola di Federico, per prendersi lo spasso di sbeffeggiare ed insultare questo infelice. Con una codardia indegna in un giovinetto, Augusto valendosi dell’ascendente grandissimo che esercitava sull’anima di Zenaide, comandava a costei di applicare al figliuolo una leggiera _lezione di educazione_; com’egli dicea per celia... Allora la perfida, per far piacere al suo caro figliuol di latte, correva addosso a Federico, e, con un ramo d’albero secco, davagli su e giù pel corpo, insin a tanto che la nobil comitiva di fanciulli era sazia di ridere. Alcuna volta riusciva al misero Federico di gittarsi in un fosso, per sottrarsi a queste brutali e proditorie violenze; ma in questo caso ei correva il rischio di rimanere in quel fosso per lunghe ore, aspettando che qualche contadino, il quale si fosse trovato a passar di là, avesselo aiutato a risalire sul terreno. Menzionammo altrove alcuni dei fatti relativi a quest’odio che il figlio del Visconte e il fanciullo Victor aveano spiegato contro il così detto monello di Auteuil. Dicemmo come un dì la frusta del giovinetto d’Orbeil, tagliò la faccia del Lennois, però che questi non era stato in tempo a scostarsi al passare di quello a cavallo; e come, in altro dì, la parola _ladro_ era uscita dalle labbra di Giustino Victor, e aveva ferito il cuore più che l’orecchio del disgraziato ma onesto figliuol di Zenaide; e da ultimo, accennammo l’inaudita perfidia del Victor e l’immenso dolore del Lennois, quando colui diè morte al carissimo cane che era tutta la vita e lo amore di Federico. Le battiture, il freddo, la fame, gli strazi corporali di ogni sorta eran da estimarsi un niente a paragone del dolore che provò l’infelice nel veder sotto i suoi occhi il tenerissimo Astolfo battuto a morte da Giustino Victor. E Federico non potea correre in aiuto del suo amico, perciocchè la madre lo avea ligato all’albero di martirio! Oh... Federico da fanciullo divenne uomo in quel momento. L’immensità del dolore avea fatto sparire la fanciullezza! Per la prima volta, un’orrenda bestemmia era corsa sulle sue labbra: egli avea maledetto l’uman genere; erasi vergognato di essere uomo; e il suo cuore formava il giuramento di vendetta... Questo tristo avvenimento accadeva il dì 7 luglio dell’anno 1815. E, quattordici anni dopo, il dì 7 luglio 1829, Giustino Victor, mortalmente ferito da Eduardo Horms, CADEVA VITTIMA DELLA GIUSTIZIA DI DIO. Se l’uomo nel corso di sua vita facesse attenzione a certe maravigliose coincidenze di date, riconoscerebbe sempre più l’opera della Divina Giustizia in quegli avvenimenti che soglionsi credere figli del caso. Federico guardò per lunga pezza con occhi asciutti e come idiota il cadavere del suo Astolfo; i grandi dolori annientano ogni senso di vitalità e inaridiscono le sorgenti delle lagrime; appunto come le grandi bufere lasciano le campagne in uno stato di stordimento e di stupefazione. Quella comitiva di nobili fanciulli, non così tosto videro morto il fido compagno di Federico, sciolsero questo disgraziato dal fusto dell’albero, affinchè si fosse a suo bell’agio abbandonato alla tenerezza verso il cane. E, scioltolo, e veduta la sua faccia stupida e selvaggia, come se non avesse compreso niente di quanto era avvenuto, si diedero a ridere a sganascio, e poi, a pigliarlo, a voltarlo e rivoltarlo in tutt’i versi, a fargli un mondo di sberleffi sul muso; e, da ultimo, poi che se l’ebbero rimandato dall’uno all’altro, come una palla di zimbello, gli dettero una spinta e il fecero cader bocconi sul corpo dell’animale disteso in sul terreno. Gli occhi della bestia erano aperti in tutta la loro ampiezza, per effetto del supplizio a cui l’aveano sottoposto que’ piccoli manigoldi: quegli occhi pareano affisar Federico con angosciosa espressione, come se avessero voluto dirgli: «Non duolmi della mia morte e del dolore che mi han fatto soffrire; ma soltanto mi accuora di doverti abbandonare e lasciare alla balia de’ tuoi inesorabili nemici. Dio possa aiutarti e confortarti!» Nel cadere sull’estinto animale, Federico era uscito dallo stato di stupefazione in cui lo avea gittato l’atrocità del dolore: egli aveva abbracciato quel gelido mucchio di carni; e questa volta faceva piovervi sopra un fiume di lagrime: e anch’egli guardava negli occhi immobili del suo amico, e parea comprendere il loro muto linguaggio. Non sappiam dire quanto tempo quel misero fanciullo rimase a piangere e a singhiozzare amaramente sulle spoglie del suo Astolfo, la cui voce più non risuonava armoniosa e cara agli orecchi di lui. Che cosa è l’esistenza di un cane pel comune degli uomini? La sua vita non ha più importanza che il passaggio di un’ombra attraverso lo sguardo; e la sua morte non è avvertita dagl’immondi insetti che divoreranno la sua carogna gittata in mezzo alla strada. Eppure l’esistenza di quel cane Astolfo era stata la gioia di quell’esistenza di fanciullo, e la sua morte operava una di quelle crisi che decidono del destino di un uomo. Dal dì della morte del cane, Federico rinnegò ogni buon sentimento nell’anima, e fermò freddamente di essere un malvagio ed un nemico spietato della razza umana, appo la quale, ne’ suoi dieci anni di vita, egli non avea trovato un sol raggio di amore e di carità. Con grandissimo dolore ei fa d’uopo convenire che la maggior parte degli uomini cattivi e nemici della società non sarebbero stati tali senza un concorso di funeste emergenze che farebbero giurare sulla esistenza del destino se non si conoscesse che, nel mirabile magistero del mondo morale, il male è un elemento indispensabile per la grandezza dell’umana natura, però che è desso quello che rialza agli occhi di Dio l’uomo giusto e virtuoso. Nonpertanto è cosa che richiama la attenzione del pensatore il considerare come un’infinità di circostanze si accumulino intorno ad un uomo per renderlo malvagio: la natura e la società par che si mettano di concerto per fargli rinnegare ogni principio di virtù. Centomila soccombono; un solo trionfa: questo uno è un eroe, un santo. E questo concorso di circostanze appunto aveva costretto il disgraziato Lennois nell’aurora della sua vita. Qual maraviglia s’ei riuscì cotanto scellerato? Da altra parte, è nostra opinione che l’uom cattivo è talvolta una vittima dall’alto indicata ad espiazione di antichi falli di famiglia; però che è scritto nelle sacre pagine che Iddio punisce ne’ più tardi nepoti i delitti di violenze e d’ingiurie all’altrui stima ed onore. La maldicenza è il vizio più comune e universale della presente società, e massime in Francia, dove il così detto _spirito di conversazione_ altro non è che una sottile e perpetua guerra all’altrui nome. Per una parola di offesa all’onore altrui Iddio PERSEGUITA LE INTERE FAMIGLIE. E le sventure onde fu colpita la prima giovinezza di Federico non furono forse che espiazione di vecchie colpe di questo genere. Dopo essere stato qualche ora a piangere e a gemere sulla compassionevole sorte del cane, Federico scavò profondamente il terreno a poca distanza dal covile ov’egli solea giacere, e seppellì quelle spoglie a piè di un alto frassino. Con cura estrema e con somma amorevolezza ricompose il terreno sul cadavere di Astolfo, come se lo avesse ricoperto di morbida coltre; ne raggiustò la superficie, e v’incastrò solidamente una pietra, sulla quale incise col ferro queste stolte ed empie parole: «Qui riposa il solo essere che mi ha amato, e il solo che io ho amato ed amerò sulla terra: il mio cane Astolfo. Giuro sulla mia ragione odio irreconciliabile all’uman genere, e giuro di adoperarmi in tutta la mia vita a fargli del male. Giuro ancora sulle ceneri del mio amico di spargere il sangue del suo crudele uccisore. Oggi 7 luglio 1815. Federico Lennois». Poco altro tempo il figliuol di Zenaide rimase colla madre sua, dopo la morte di Astolfo. Una inaudita crudeltà di lei spinse il giovinetto, già stanco di sofferenze, a fuggire da quel luogo di dolori. Un giorno la Zenaide era appostata, secondo il solito, alla siepe del parco, aspettando il momento in cui fosse passato il suo caro Augusto in compagnia di Giustino Victor. Volle il caso che Federico si trovasse in sulla via la quale doveva esser battuta dal figlio del Visconte; eglino eran vicini ad incontrarsi. Alla vista dei suoi implacabili nemici, ed in particolar modo di Giustino che gli aveva morto il cane, Federico sentì accendersi di una fiamma di sdegno prepotente. Senza pensare a quel che si facesse, abbrancò da terra il manico di una zappa, e con una benda di furore in su gli occhi, si scagliava contro Giustino: e già era in sul punto di fulminarlo con quel formidabile istrumento, quando la Zenaide, credendo che il figliuolo si avventasse contro Augusto, gittò un alto grido di spavento; saltò come scoiattolo su per la siepe ed il fossato che la circuiva, e piombò su Federico appunto nell’istante in cui gli avversari erano a pochi passi di distanza. La Zenaide afferrò pei capelli il disgraziato giovinetto, e, strascinandoselo quasi bocconi per terra, lo menò sino alla sua casupola. Qui cominciò la più pietosa tragedia. Quella fiera stizzita, dopo aver chiuso tutti gli usci del suo abituro, ritornò ad afferrar pei capelli quel miserello, lo sbattè al suolo, e ivi, balzata in piedi sul corpo di lui, sfogò la sua ferocia di tigre insino a tanto che Federico non gridò più. Il sangue uscivagli in copia dalla bocca! Questo immanissimo fatto pose il colmo alle sofferenze di Federico: egli era stanco di essere vittima di tanta barbarie. Fin dal momento che Giustino aveagli detto quelle amare parole da noi menzionate nella prima parte di questo racconto: «Ohè, figlio di mala donna, non rubare le fragole di questo podere, chè te le farem vomitare col sangue», Federico avea messo da banda ogni scrupolosità in quanto ad usurpazione della roba altrui, e si era dato a rubare tutto ciò che gli veniva fatto, non risparmiando la stessa Zenaide, a cui sovente involava qualche coserella (però che molto ricca e avara ella era); la quale, discoperto alcune volte il furto, regalavagli un buon numero di busse e di gastighi di ogni maniera. Laonde, fermato in cuor suo di postergare i luoghi testimonii dei suoi martirii, studiò il modo onde rubare una buona somma di denaro alla perfida madre. Parecchi giorni si adoperò in tale tentativo; e vennegli fatto di scoprire il sito dove colei tenea nascosto del denaro. Il cimento era terribile, e il rischio mortale. A dispetto di ogni paura il colpo fu tentato e coronato di lieta riuscita, perciocchè in una notte un pesante sacchetto di danaro fu involato dal destro fanciullo. Alla dimane Federico, senz’altra provvisione che il suo sacchetto, abbandonava Auteuil, mettendosi tra i piedi la via di Parigi. Ma qual fu la sua dolorosa sorpresa nello schiudere il sacchetto che conteneva il suo tesoro, e trovarlo zeppo di monete di rame! III. LA PRIMA SERA A PARIGI Quel sacchetto di rame era sempre qualche cosa di meglio che il puro niente, e forse quel denaro era bastante per un paio di mesi. Giunto in un luogo rimoto, Federico si sedè sovra una grossa pietra di campo: e si pose a numerare i suoi pezzi di rame. La somma ascendeva a centoventi franchi e cinquanta centesimi. Era sempre una fortuna pel povero monello di Auteuil. Nessun accidente era venuto a turbare il pedestre cammino di Federico fino a Parigi. Solamente l’estremo caldo della giornata (che era in su lo scorcio di luglio) avea gittato in uno sfinimento di forze il giovinetto, cui le tante sevizie fattegli soffrire dalla madre aveano già guasta e mal ridotta la salute. Ciò nulla di meno, noi non tenteremo di dipingere la felicità di Federico nel vedersi libero dai materni furori e padrone di sè medesimo. Egli respirava con gioia l’aria aperta dei campi; non era abbastanza contento di spaziar lo sguardo intorno a sè, sicuro di non aver più a temere la vista della sua tiranna od a rincontrare la comitiva del castello di Auteuil. Durante il suo lento viaggio, egli si era fermato non poche volte, sia per riposarsi e prender lena a proseguire il lungo cammino, sia per rifocillare lo stomaco, cui la barbara Zenaide aveva assuefatto ad una involontaria dieta, insopportabile a quella età di attività organica e di sviluppo; sia per la natural curiosità che dovevano eccitare in un fanciullo, il quale non si era mosso giammai dal villaggio nativo, la varietà delle amene campestri vedute che circondano la Capitale della Francia. Strani pensieri e un mondo di visioni passavano pel capo del garzoncello in quel suo solitario viaggio. Poche altre ore, ed egli entrava nella città, di cui nella sua infanzia aveva inteso a parlare come di una regione incantata, dimora di fate e di genii, ed alla porta di ingresso della quale, la Felicità, coronata di fiori, accoglieva e abbracciava i novelli arrivati, ammettendoli alle delizie dei suoi dolcissimi arcani. Parigi, la bella, la ricca, la splendida, la bianca, la nitida, l’aurea, la serica, la cara Parigi, la città del lusso, delle gioie, dei divertimenti, dell’obblio dei mali, stava per offerire tra poco agli attoniti sguardi del fanciullo le sue centomila maraviglie: i filari dei suoi eleganti e ben costruiti palagi, asili del piacere, del lusso e delle civili maniere; le sue strade, i suoi selciati marciapiedi, i _boulevards_, specchio di nettezza, formicolari del più giocondo popolo del mondo: le sue piazze di cui ciascheduna racchiude un monumento di storica solennità, i suoi tanti teatri sempre zeppi e affollati da tutte le classi della società; i suoi diciannove ponti, ligamenti che congiungono le diverse membra di quel corpo pieno di vita e rigoglioso d’esuberante salute; le brune acque della Senna, arterie turgide di quella mole di organizzazione architettonica di vari secoli e che sembra l’opera di un _fiat_ istantaneo. E già, verso il declinar del giorno, Parigi incominciò a far udire agli orecchi di Federico il suo gran mormorio confuso e indistinto, lontano riverbero di centomila cocchi che serpeggiano tra le sue strade, mischiando un popolo di cavalli nella immensa varietà dei loro indifferenti padroni. È uno spettacolo bizzarro e curioso quello che si osserva nelle strade principali delle primarie capitali di Europa. Una popolazione di nobili e generosi animali strascina sul dorso una infinità di macchine morbidamente imbottite in cui si dondolano un gran numero di esseri umani i quali spesso non hanno altro merito tranne quello che lor deriva dai cavalli che li strascinano. Per una parte delle popolazioni di queste capitali, il moto non ci sarebbe senza i cavalli. I primi rumori di Parigi colpivano appena le orecchie di Federico, e i primi lumi delle sue stelle di gas si mostravano già nel lontano orizzonte agli occhi di lui, quando egli, che sentivasi battere fortemente il cuore per violente commozioni che gli cagionava l’aspetto della gran città, si mischiò alla folla dei bevitori che sedevano a diversi crocchi presso una bettola di campagna. Era di lunedì, giornata che forma continuazione e appendice della domenica per gli operai di Parigi, i quali traggono in gran folla alle barriere, e si danno, in quelle attigue osterie, ad un rombazzo senza fine nè freno. Federico si sedè anch’egli sovra una panca; fecesi arrecare del pane, del formaggio e del vino, e via via, mangiando, e rimirando da lungi la sospirata capitale, ravvolgea nel suo capo i seguenti pensieri, che la malvagità gli ispirava. La malizia non è forse luce pericolosa? «Che cosa farò colà? Povero fanciullo di dieci anni, di fiacca salute, senza un parente, un amico, un conoscente, e nella piena ignoranza di tutto? Strana e tremenda posizione! Ma che dico mai, nella piena ignoranza di tutto! Non ho io ricevuta la più valevole ed efficace lezione che può un uomo ricevere entrando nel commercio sociale, la sventura? Che bisogno ho io di saper leggere e scrivere per guardarmi dal mio più feroce nemico, l’uomo? Oh quanto ho imparato nei miei dieci anni di vita! Quanto mi hanno insegnato le mie sofferenze!... Checchè avverrà di me, il terribile mio giuramento emmi ognora presente all’animo... Ogni passo, ogni parola, ogni pensiero sarà volto al male di questo nemico che mi affianca e che si dice mio simile... Ho inteso parecchie volte a parlare di una forza superiore che colpisce il misfatto, che schiude le prigioni a’ perversi, che condanna nel capo gli omicidi, ma... io saprò ridermi di questa forza... L’ipocrisia, l’astuzia, la durezza di cuore, la falsa amicizia, il sorriso traditore non uccidono forse, senza che le leggi possano colpirli?.. Ed io saprò sfuggire ai rigor delle leggi: l’ipocrisia sarà il mio pugnale e il mio usbergo.» Povero insensato fanciullo! Egli non pensava che l’ipocrisia non può sfuggire all’occhio sempre vigile di chi, dall’alto de’ cieli, scruta i cuori nelle più scure loro latebre! Ma nissuno avea fatto risuonare all’orecchio di lui quella parola che schiude all’anima un mondo mille volte migliore di quello in cui vive materialmente il corpo: quella parola che annienta i sofismi dell’empietà e sperde i mali calcoli del malvagio: nissuno avea susurrato all’animo di quel fanciullo il solenne e immenso NOME DI DIO! È vero che qualche volta, quando il miserello, accovacciato nel suo covile e non potendo abbandonar gli occhi al sonno, vedea, tra le sconnessure del suo pagliaio, rilucere le auree stelle del firmamento, e partire da alcune di esse una luce sì bella, come uno sguardo di pietà sul derelitto da tutti gli esseri, ei sentiva che lassù nel cielo era la protezione a’ deboli, il conforto de’ sofferenti. Ma simiglianti salutari pensieri si perdeano poscia nella fitta notte della sua ignoranza; e l’idea della Divinità era per lui così vaga e confusa come l’idea di morte pe’ bambini di tre o quattro anni. Le tenebre erano già cadute sulla città dominante; ma gli ultimi riverberi del sole coprivano d’un manto di porpora la collina Rercy, e il giorno durava ancora su i bastioni esterni che sono a fianco e fuori del muro di cinta di Parigi. Federico Lennois si avanzava verso la capitale, facendo strani comenti e chiose a’ pensieri che abbiamo accennati. Veggendo il flusso e riflusso della gente su i pubblici passeggi esterni, Federico incominciò a sospettar di ladri. Egli aveva sotto al braccio il suo sacchetto di monete, e questo poteva adescare al furto; perciocchè era probabile che si estimasse un sacchetto di monete d’argento. A seconda che si facea bruno nell’aria, più si accresceva la paura di Federico; così che andava guardingo e sospettoso, scansando i crocchi di gente, e tenendosi sempre ad una certa distanza dalle facce dubbiose. Moltissimi infatti il guardavano con certi occhiacci minacciosi pel piccolo tesoro ch’ei portava. Federico cominciava a temer seriamente: avrebbe volentieri nascosto in qualche parte la sua pesante fortuna: ma dove? Neppure un palmo della terra ch’ei calpestava gli apparteneva; tutto gli era straniero e ignoto. Era già sera avanzata quando egli entrava in Parigi. L’estremo caldo cacciava gran parte della popolazione fuori delle case. Avendo camminato senz’alcuna guida o direzione, il garzoncello era entrato nella gran città dalla parte del sud-est. L’aspetto delle vie tortuose, sporche e meschine de’ sobborghi S. Marcello e S. Ettore, rendute anche più tetre per l’elevatezza delle case, non era tale da pareggiar l’altezza e la magnificenza delle immagini che si era formata il monello di Auteuil. Le strade peraltro erano piene di gente, benchè non ancora Federico si fosse inoltrato nel seno della capitale, nelle strade frequentate delle alte classi, su i _boulevards_, abbaglianti per mille magazzini. Tratto da stupore, da curiosità, da vaghezza naturale, il fanciullo Lennois camminava sempre attraverso quella infilzata di stradelle, ristando ad ogni passo, levando il naso in aria; e tenendo sempre stretto in mano il pesante sacchetto pel quale sentiva addolorate le braccia e i polsi. Per mala ventura egli avea preso quel cammino che mena agli accessi meridionali dell’Hotel-Dieu. Federico avea camminato per molte ore senza che gli fosse accaduto nulla di sinistro. Duravano la folla e il movimento... Ma a poco a poco la gente si diradava; qualche rara bottega era aperta; il rumore delle carrozze diventava rarissimo. Pienamente rassicurato su i suoi timori di ladri, Federico non vi pensava più, nè badava a’ moltissimi che si fermavano mentr’ei passava, e davano uno sguardo d’amore al sacchetto. Federico si trovava nel centro dell’isola della città, quartieri di operai e di giornalieri di bassa mano. Qui egli cominciò un poco a pensare a quello che si avesse a fare, e al come, al dove passar la notte... Non era prudente l’andare a locanda, dove facilmente la fanciullesca sua età e il benedetto sacchetto avrebbero potuto indurre alcuno a rubarlo; bisognava intanto passar la notte in qualche parte sicura e comoda. A chi rivolgersi? A chi dimandare? Mentre ei stava pensando a tali cose, si sentì afferrare per la goletta della camicia da una mano ossuta e vigorosa; era un guardia municipale. — Dove porti cotesto sacchetto, ladroncello? gli chiese questi con modi per niente gentili, — È roba mia, signor uffiziale. — È roba tua!! Oh sì davvero, signor milionario, ciò si vede soltanto a guardare i vostri abiti! Federico non aveva mai pensato che, portando per vestimento un paio di calzoni laceri e di colore interamente perduto, e un cencio di camicia di antico servigio, era ben fondato il sospetto che il denaro ch’ei portava non gli appartenesse. Assorto nell’idea di esser rubato, non avea giammai sospettato che avrebbe potuto egli stesso esser preso per ladro; il che forse era peggio. Nè il meschino, sopraffatto e sbalordito in quel momento, ebbe abbastanza giudizio di rispondere ch’ei recava a qualcuno quel danaro. — Generale, vi giuro che questo denaro è mio, soggiungeva il poveretto alzando i titoli al guardia municipale per lusingarne la vanità e cattivarsene la benevolenza. Un poderoso e bene assestato scapezzone fu la risposta del _Generale_, il quale, senza tampoco brigarsi di aggiungere un’altra sola parola al già detto, tenendo sempre stretta nel pugno la goletta del monello, gli fece svoltar cammino, e il menò al più vicino posto di guardia. Prima che si fosse proceduto alle debite interrogazioni sul fanciullo, si aprì il sacchetto per esaminare il contenuto: poscia venne tolto dalla vista del piccolo arrestato. — Chi sei tu, furfantello? dimandò un uomo di aspetto autorevole. — Io mi chiamo Federico Lennois. — Tu dici che quel sacchetto _era tuo_? — Mio, illustrissimo signore. — E dove il portavi a quest’ora? Era ben difficile rispondere su due piedi a quest’ardua e inaspettata domanda; però Federico si smarrì alquanto e titubò a rispondere. — E così? Possiamo sapere dove portavi quel rame? — Il portava meco per ispenderlo qui, a Parigi, e per divertirmi un poco. Tutta la rispettabile udienza ruppe in uno scroscio di risa impossibile a reprimere. Passò un cinque minuti innanzi che si fosse calmata l’ilarità di quei signori. Il povero Federico non sapea più che contegno assumere, e sperava che quel riso avesse fatto piegare a più miti sentimenti coloro che egli estimava suoi giudici. — Di dove sei tu? — Sono di Auteuil, Illustrissimo. — Che fa tuo padre? — Non ne ho, Illustrissimo. — E tua madre? — Mia madre è la più ricca contadina di quel villaggio. — Ed ella ti ha dato quel denaro per venire a divertirti a Parigi, non è vero? — La cosa è appunto siccome voi dite, signore Illustrissimo. — Va benissimo; noi manderemo ad Auteuil per informarci del vero. Intanto, tu resterai in buona compagnia stanotte, e potrai sollazzarti a tuo bell’agio. L’uomo che avea parlato fece un cenno, e Federico Lennois tornò ad essere acchiappato per la goletta della camicia da due robuste guardie. Si camminò per un buon tempo: si svoltarono molte strade e stradelle, per insino a che si giunse ad uno spiazzato ampio e scuro, rischiarato soltanto dalla limpida e stellata volta del cielo. Un vasto edificio di sinistro aspetto terminava l’orizzonte di questa piazza. Qualche fiacco lume vacillava nell’interno di quell’edificio che avea di strani coltrinaggi alle finestre. Il portone di questo brutto palagio era guardato da sentinelle, siccome il vasto cortile, nel cui mezzo erano varie panchette su cui eran seduti parecchi soldati. Le due guardie menarono Federico nell’interno del cortile: fu chiamato un uomo, ed indi un altro uomo, e indi un terzo il quale dimandò del nome del garzoncello e lo scrisse sovra un gran libraccio ricoperto da vecchissima carta pecora. Fatta quest’operazione, le due guardie che aveano menato il piccolo Lennois a quel luogo, il consegnarono ad uno grosso e paffuto, il quale non avea del militare che il solo berretto. — Andiamo, speranza di capestro, disse quest’omaccio a Federico, dandogli una spinta, _en avant, marche_. Federico non sapea dove fosse e quel che si volesse da lui: fu spinto a salire alquante branche di scale, a ciascuna delle quali era un cancello e un custode. — Alla camerata di _filosofia_[5], disse quell’uomo con un sorrisetto tutto particolare, ad un altro di orribile grugno, il quale afferrò pel braccio il nuovo arrivato, il menò per uno stretto corridoio, e, datogli un urtone alle spalle, il fece entrare in un lungo stanzone, dove erano assiepati un gran numero di lerci fanciulli e giovanetti. Una sola lampada sospesa alla volta di questo camerone rischiarava le più stupide e feroci sembianze di adolescenti. Un _hourra_ di saluti osceni accolse il nuovo ospite. Federico restò immobile allo stesso luogo dove lo avea spinto il suo conduttore, nè sapeva ancora in che mondo si fosse. IV. UN AMICO La trista persuasione di essere nelle carceri non tardò a gittare il piccolo Lennois in uno stato d’abbattimento, di dolore e di rabbia impotente. Egli non si era sottratto alle sevizie della donna che si dicea sua madre che per cadere in una serie di sciagure forse maggiori: non avea cercato la felicità del proprio dominio, che per perdere al tutto ogni libertà; non era fuggito dalla crudele schiavitù di Auteuil che per piombare in una prigione di Parigi! Il primo periodo della sua vita era passato nelle lagrime della più sventurata fanciullezza; e il secondo periodo incominciava con un’aurora vie più fosca e minacciosa. L’odio, di cui egli si era alimentato a Auteuil, ribolliva con accrescimento di calore nel suo petto; imperciocchè pareagli che la più nera ingiustizia governasse il mondo, e che il far del male al prossimo fosse la suprema legge e l’unico scopo del consorzio civile. La sua mente era gittata in un cosiffatto disordine di idee e in tale antagonismo di verità che l’animo suo ne rimase affetto per tutta la vita. Egli era restato come fulminato dalla sorpresa a tal termine che il vocìo e il baccano che si fece attorno a lui nel suo entrare in quello stanzone, gli susurravano all’orecchio come uno strano ronzìo; guatava all’intorno con sembiante stupefatto; e nel suo capo stordito correva una idea come se si fosse trovato sospinto improvvisamente in quell’inferno, di cui aveva inteso a parlare nei giorni della sua infanzia. Gli urli, i fischi, gli sberleffi, gli urtoni pervennero finalmente a trarlo da quello stato d’insensataggine in cui parea caduto. Sul bel principio il fiochissimo lume che era in quel camerone non bastava agli occhi del monello per fargli discernere bene le persone e gli oggetti che stavangli attorno: ma a poco a poco le pupille si fecero a quella scarsezza di luce insino a che tutto il quadro fiammingo si svelò agli sguardi di lui. E non era al certo un quadro racconsolante che apre il cuore e pone il sorriso in sulle labbra. Tutto all’incontro, ci era da sentirsi venir la pelle di oca, da gelare il sangue fine agli accessi del cuore, da sentirsi scombuiar l’animo come per morte. Erano ivi alla rinfusa gittati su anguste asserelle di letti un mezzo centinaio di omicciattoli da dieci a quindici anni, con certe facce, con certi occhi che avresti giurato non appartenere a razza europea. Vi erano di quelli, la cui capellatura increspata e ritrosa parea volesse fuggire da un capo sconcio e privo d’intelletto; altri che aveano i sopraccigli così malamente piegati in sulle orbite degli occhi e così stretti in sulla glabella, da farli assimilare ad una striscia nera incollata sul basso della fronte; alcuni fanciulli che gittavano un puzzo insopportabile da tutta la loro persona, e che facevano un’armonia strana e curiosa nel tirar su il moccio, il quale minacciava di fluire a grondaie dalle pinne del naso; altri che non aveano fronte di sorta alcuna, a tale che gli avresti presi per scimie; altri che avean il capo conformato come quello del cane, del gatto e d’altro animale men nobile e comune. Aggiungi a queste singolari avvenenze certi discorsi che non gli avresti uditi in bocca ad uomini usciti dalle galere; certi gesti che avrebbero superato la più erotica fantasia. E questa generazione di adolescenti fu la prima società nella quale si trovò lo sciagurato Federico Lennois, cui parea che un incomprensibile destino spingesse al male e al delitto. Federico era la faccia più signorile, l’intelligenza più limpida, la coscienza men turpe che stesse in quell’assemblea di piccoli demoni: onde è chiaro che egli dovesse essere il più infelice di tutti quei bastardelli già imbestiati dal vizio e dalla fisica sofferenza. Gittato nel mezzo di quella bolgia di Dante, senz’altra raccomandazione che un calcio, Federico non indugiò a prendere un partito; perciocchè egli avea una di quelle anime che non si lasciano facilmente schiacciare dalla sventura, ma vi resistono con una certa voluttà di coraggio, e finiscono col disprezzarla e non più sentirla... Egli andava a porsi in un angolo di quel camerone, risoluto a tener broncio alla sua sorte nimica: volgea di tempo in tempo una occhiata di disprezzo profondo su i suoi compagni di prigione, e si sarebbe fatto mozzar la lingua piuttosto che scambiare un motto con alcuno di loro. Era qualche cosa in fondo all’anima sua, che gli dicea, non valer quella mano di birbe idioti l’onore d’una sua parola: una superiorità, di cui egli stesso non sapea rendersi ragione, gli facea una legge di non accostarsi in modo alcuno con quei turpi rampolli del vizio ignobile e strisciante, i quali non aveano nessun pensiero, nessuno scopo, nessuna ambizione, e che facevano il male soltanto perchè nelle loro vene correva un sangue infame. Era pertanto impossibile che que’ piccoli manigoldi lo avessero lasciato tranquillamente segregato nell’angolo scuro del camerone. Parecchi seguitavano a burlarsi di lui, e maggiormente s’indispettivano quanto meno colui sembrava far caso delle loro beffe: vari altri, più insolenti, se gli buttavano addosso fingendo di ruzzar tra loro: e da ultimo, non si pose più freno allo insulto, e apertamente si dichiarò la guerra contro il novello _collegiale_. Federico era stanco di sopportare quelle proditorie offese; la sua faccia divenne gialla per rabbia e per sete di vendetta; balestrò un occhiata di sangue intorno alla camera per trovare un arma qualunque; e, non veggendone alcuna, si gittò come leone sull’asse d’un letto; imbrandì col taglio quell’arma strana e terribile, e fece piovere colpi disperati sulle teste di quanti gli vennero sotto. A molti il sangue solcava la fronte e le guance. I custodi lo afferrarono e lo trasportarono ad un’altra prigione più trista, più scura, più umida: un antro di quattro palmi, in fondo al quale giaceva un essere umano. Era un uomo di circa trent’anni: pressocchè tutto il volto era coperto da una barba così bionda che pendeva in rosso: la guardatura era torva e sinistra, e le sopracciglia raggrottate, il capo abbassato sul petto: la pallidezza estrema del volto addimostrava la tristezza dell’animo e il decadimento del corpo. Ciò non di meno, era nelle fattezze di quest’uomo, in ben considerandole, qualche cosa che parlava in suo favore, e che non respingeva al tutto una simpatia di pietà. Nell’entrar che fece il piccolo Federico in quello speco, quest’uomo era gittato interamente all’ombra sovra un paglione; non dormiva, nè era desto, perciocchè si trovava in quello stato d’indolenza sonnacchiosa e di apatia brutale, in cui cadono sovente gli uomini che non hanno niente più a sperare o a temere. Quando la porta fu chiusa dietro il piccolo compagno che il caso gli metteva a fianco, quell’uomo non si mosse dalla sua giacitura, e soltanto fece udire un suono come d’un grugnito. Passò qualche tempo prima che i due compagni di carcere si fossero scambiata una parola. Ma non era possibile durar nei silenzio per lunga pezza. Comechè molta distanza di età fosse tra loro, la necessità di trovarsi congiunti in quel luogo di pena, l’istinto della società che è in tutti gli uomini, il bisogno di udire la voce umana, che è pure un gran bisogno, in ispezialità nella sventura, doveano alla perfine avvicinare moralmente i due esseri che erano così stranamente riuniti. D’altra parte, abbiam detto che l’aspetto del carcerato, quantunque miserando e repulsivo a prima vista, non poteva mancare, dietro un’attenta osservazione, d’ispirare un senso di fiducia; siccome l’aspetto di Federico, il quale la crudel sorte della sua fanciullezza e i maschi pensieri che nudriva avean fatto più grande della sua tenera età, non poteva che eccitar la compassione e forse un sentimento di riguardo, se si portava una critica attenzione alla gentilesca finezza dei suoi lineamenti. Egli avvenne però che, dopo un’oretta, i due compagni di prigione si avean comunicato i loro nomi, ed erano divenuti, come dicesi, intrinseci amici. Quell’uomo si chiamava Paolo Dumourier, di Parigi; era accusato di falsità di firme: il suo caso era strano e curioso a un tempo: così raccontollo al Lennois che attentamente l’udiva: «Una sera, prese a dire Paolo Dumourier, io vagava tristamente in uno di quegli spazi assai estesi al settentrione della riviera della Grève: non mi era riuscito nessun affare durante tutto il giorno, sì che io sentiva la rabbia del rubare; giacchè tu devi conoscere, bel fanciullo, che è per noi una giornata nefasta quella in cui non ci vien fatto di toglier la borsa a qualche merlotto. Non era da perdere interamente la speranza di qualche bottino, perciocchè non era tardi, e da poco le ombre della sera erano cadute su i quartieri di Parigi... Infatti, passando d’accosto a una bottega, scorsi un uomo ben vestito e di aspetto onesto il quale facea delle compere, e poco di poi il vidi porre le mani in tasca e cavarne un portafogli da cui trasse un biglietto di banco, e il consegnò al mercante che gli avea venduto alcune mercanziuole di qualche pregio... Arrivai a intravedere che quel biglietto di banco era compagno di altri molti parimente contenuti in quel portafogli, e sentii battermi il cuore al pensiero della bella ed onorevole impresa che la sorte mi offriva. Quel signore, che all’aspetto e alla vestitura parea forestiero, poscia ch’ebbe pagato le sue compere, partissi celeramente insaccando il portafogli in uno de’ tasconi di fianco del suo lungo soprabito bigio. Egli prese la via Pelletier, ed io gli tenni dietro, studiando il modo d’impadronirmi di quel prezioso taccuino. Camminammo lunga pezza e passammo per vari quartieri; io nol perdetti giammai di vista. «Giugnemmo al teatro dell’_Ambigu-Comique_: l’amico si fermò al posto dello spaccio de’ biglietti. Un felice pensiero mi surse in mente. Ratto come il baleno, mi accostai anch’io, e vidi ch’egli aveva preso un biglietto di platea: io aveva in tasca alcuni franchi; li gittai tosto sulla tavola dello spaccio, e dimandai pur io un biglietto di platea. «Non abbandonai un istante il mio forestiero; me gli posi appresso, e fui avventurato a segno da potermi sedere a fianco di lui e propriamente alla sua dritta, dov’egli aveva insaccato il portafogli. Una metà del colpo era fatto, giacchè il resto non dipendeva che dalla destrezza della mia mano, della quale io era più che sicuro. In effetti, non passò un terzo d’ora, ed il sospirato portafogli era venuto ad alloggiare in una delle tasche de’ miei calzoni. Si comprende benissimo ch’io mi affrettai di abbandonare il mio posto e il teatro. «Non sì tosto in istrada, accelerai il passo, infilzai una infinità di strade, e dopo una mezz’ora io era ben lungi dal teatro della mia illustre impresa. «Arrivato alla mia momentanea abitazione sul _baluardo_ che si estende a guisa di riviera, lungo il lato occidentale del fossato della Bastiglia, la prima cosa ch’io feci fu di aprire il portafogli per conoscere a che somma ascendessero le polizzette che vi si conteneano. Erano nove biglietti, ciascuno della somma di mille franchi al latore sulla Banca di Parigi. Io era dunque possessore di novemila franchi! Io mi sentiva bruciar le tempia e ribaltare il cuore dal piacere... Era il più bel colpo che avessi mai fatto nella mia carriera di ladro! Feci quella notte un sonno dolcissimo, e, allo svegliarmi in sulla dimane, formai mille proponimenti per l’avvenire. Io avea conservato un poco di danaro contante in fondo d’una specie di cantina; pensai cambiare un paio di quei biglietti per ammucchiare un po’ di oro e conservarlo assiem coll’altro... Io non portava nè la barba nè i baffi, stimai però, pria di tutto, esser conveniente trasformare alquanto le mie sembianze per non essere riconosciuto, nel caso lontanissimo che mi fossi avvenuto nel forestiero della scorsa sera: mi applicai però sulle labbra un paio di basettoni posticci, ed uscii in cerca di novelle avventure. Ma, per la contentezza, quella mattina io voleva generosamente refocillare il mio stomaco, e mi recai al primo ristoratore del _Boulevard Mont-martre_; comandai le più squisite delicatezze di pesci e di vini; mi detti un’aria di milord, mangiai come un Inglese, e bevetti come un Tedesco. Finita la mia colazione, cacciai, con alquanta circospezione, il mio portafogli; ne cavai una di quelle gioie di polizze, e la posi nelle mani del garzone, dicendogli che mi avesse dato il resto in oro, tenendosi la giusta estimazione dell’aggio di questo metallo. Tutti gli astanti mi squadravano con moltissima attenzione; la qual cosa io sopportava con mala voglia, ed aspettava con impazienza che il garzone mi avesse arrecato i miei luigi, per isvignarmela prestamente: perocchè mi sembrava in tutte le facce, che io vedeva, di riconoscere quella del forestiero, cui aveva involato i novemila franchi. «Il mio vestimento non corrispondeva alla splendidezza ond’io avea pagato il mio scotto: epperò questa visibile contraddizione poteva generar qualche sospetto; ma la fredda compostezza della mia fisonomia, l’aria singolare che mi davano i miei novemila franchi, allontanavano presto le occhiate de’ curiosi, o se alcuno continuava a ragguardarmi, era con quella specie di rispettosa ammirazione con la quale si sogliono guardare gli uomini ricchi. «Era più d’un quarto d’ora ch’io aspettava il mio denaro; e il garzone non tornava: feci chiamare il padrone del luogo: e questi mi disse che il garzone era ito dal più vicino cambista per ridurre la polizza in contanti; e che però avessi avuto la bontà di aspettare altro poco, non potendo quegli di molto indugiare. Mi accorsi peraltro che, quest’uomo, mentre diceami ciò, aveva in sul labbro un certo sorrisetto beffardo che non mi andò a sangue e che mi dette una vaga apprensione, la quale pur troppo doveva essere giustificata. «Non aspettai un gran tempo, e vidi entrare nella stanza, dov’io era seduto fumando e facendo tranquillamente il mio chilo, il garzone; ma egli non era solo: venivangli appresso un ispettore di polizia e due gendarmi, i quali m’intimarono di seguitarli. «Mi si legarono le mani, si rovistarono le mie tasche; il taccuino e quant’altro aveva addosso mi fu tolto; venni gittato in una carrozza seduto tra i due gendarmi e coll’ispettore di fronte. Arrivammo a non so qual luogo di giustizia: subii un interrogatorio; peraltro io era sorpreso di non vedere il volto del forestiero, ch’io immaginai mi avessi, per una funesta casualità, riconosciuto e denunziato all’autorità. Ma qual fu la estrema mia maraviglia nel sentirmi accusato di falsità! Que’ biglietti sulla Banca di Parigi eran falsi! Protestai la mia innocenza. Confessai di esser ladro ma non falsario; raccontai fil per filo e genuinamente il furto che io avea fatto al creduto forestiero, il quale era il vero falsario, o almeno quegli che potea dar contezza della falsità. Non fui creduto e, siccome io non potetti rispondere alle diverse interrogazioni che mi vennero fatte, risguardanti la pretesa falsità di che io era accagionato niente meno che contro lo Stato, imperocchè erano polizze sulla Banca di Parigi quelle che erano falsate, fui gittato in questa prigione dove sto da oltre sei mesi, senza sapere quale sarà il mio destino. E così, bel ragazzo, tu vedi in che modo singolare io sono stato punito la prima volta che in realtà non ho rubato niente (perchè quelle carte non aveano un valor positivo e legittimo) mentre da tanti anni che rubo ho saputo sempre ingannare l’autorità. Sarebbe mai vero che Dio NON PERMETTE GIAMMAI SULLA TERRA L’IMPUNITÀ DEL DELITTO?» Questo che avea raccontato Paolo Dumourier sembrò fare una profonda impressione sul piccolo Federico, e massime l’ultima osservazione che era sfuggita dalla coscienza di quel ladro. Il rimanente della notte fu speso in gran parte nella più confidenziale conversazione; e Federico si credè in dovere di narrare anch’egli il successo pel quale si trovava in prigione. Paolo Dumourier, benchè esercitasse il vergognoso mestiero di ladro, e benchè cresciuto senza verun principio di onore, non avea però l’animo interamente corrotto e malvagio: era in fondo del suo cuore qualche cosa che il facea battere per coloro che soffrono per ingiustizia o per mera altrui crudeltà. Quest’uomo, che rubava freddamente la borsa al suo vicino, si sarebbe forse spinto nel fuoco per salvar qualche innocente senza pensiero di guadagno e di mercede. Vi sono alcuni misteri nell’anima dell’uomo che tutta l’umana scienza non basta a spiegare. Talvolta, per trovare un eroe, non è necessario il cercarlo tra gli uomini elevati dalla religione, dalla nascita, dall’educazione o dalla scienza: basterebbe scendere nelle più abbiette regioni della società, ed anche in quei luoghi di pena che la Giustizia umana dischiude all’usurpazione, alla violenza, all’assassinio. I martirii narrati da Federico, le sevizie incredibili alle quali assoggettavalo sua madre; la beffarda crudeltà dei giovanotti del castello di Orbeil; la barbarie della morte del cane Astolfo, e, da ultimo, il suo imprigionamento, aveano mosso a pietà il cuore del Dumourier, il quale francamente avea significato i suoi sentimenti pietosi al garzoncello Lennois, manifestandogli nel medesimo tempo una sincera affezione. Federico dunque trovava un amico là dove giammai non avrebbe potuto sperarlo. A tal modo la Provvidenza confonde la stolta ragione umana e i suoi mali argomenti. L’uomo si spigne con frenetica ardenza verso un bene da lunghi anni sospirato, l’abbraccia con islanci di matta gioia; e subitamente dal seno di quel creduto bene scaturisce il disinganno, il disgusto, e non poche volte la sventura. Un altro, pel converso, cade nella voragine di ogni male, credesi giunto all’imo della sciagura e della miseria; niente potrebbe farlo più infelice; ed ecco, sorge da quella voragine un raggio di luce che allieta l’animo, una speranza che addormenta il dolore, una contentezza incredibile che disarma la disperazione, che volge la bestemmia in dolce rendimento di grazie, e che opera una di quelle salutari trasformazioni onde si redime un’anima. Parecchi mesi passarono senza che alcuna novità fosse venuta a interrompere la monotonia della prigione. Paolo Dumourier avea giurato a Federico Lennois un’amicizia a tutta prova; ma questi, mostrandosi grato all’amico, non avea, nella singolar tenacità dell’animo suo, posto in obblio lo stolto giuramento che gli faceva un dovere di odiare gli uomini. Eppure, Dumourier lo amava davvero, lo amava senza pensieri secondarii, lo amava perchè leggeva sulla fronte del fanciullo un’anima non comune, e perchè il povero Dumourier era stato sempre solo, poi ch’ebbe perduto un fratello dell’età di Federico. Il ladro accresceva il piatto del fanciullo, aggiugnendovi un poco del proprio; il facea dormire il più comodamente che fosse possibile, e mostravagli tanti testimoni di affezione, che Federico ne era tocco e felice, e si abbandonava qualche volta al piacere sovrumano di amare un uomo intelligente e sensitivo. Benchè non di frequente avvenisse, pur tuttavia Federico apriva il suo cuore a Paolo Dumourier, e nelle lunghe notti invernali, palesavagli i suoi sogni infantili, i pensieri che spesso il visitavano; e questi pensieri erano sì alti e sì belli ch’ei sentivasi battere il cuore e non sapea donde gli venissero. Diceagli come ei sarebbe stato felice di essere, per esempio, una celebrità di qualsivoglia maniera; com’egli sentivasi nato per qualche cosa di non comune e prosaico, e come un segreto presentimento avvertivalo che un giorno egli avrebbe riempiuta la Francia col suo nome. Dumourier sorrideva a queste parole del giovinetto, e tanto più se gli affezionava quanto più scorgeva in lui elevatezza di aspirazioni e nobiltà di animo. Un giorno, Dumourier, abbracciato Federico Lennois, gli disse di botto: — Ebbene, mio piccolo grand’uomo, sai a che cosa ho pensato? — A che cosa? — A salvarti. — Come! a salvarmi! — Sì, a farti libero, a farti fuggire da questo carcere. Ho combattuto qualche mese con siffatto proposito; perchè, dicoti il vero, mi piange il cuore al pensiero di perderti e di non rivederti forse mai più; ma mi son detto che l’amicizia non debb’essere egoista, e che non bisogna, per soddisfare al proprio cuore, astenersi dal rendere un gran servigio. Chi sa! forse ci rivedremo, forse no; il domani è scuro come questo antro maledetto nel quale hannoci sepolti, scordandosi al tutto di noi. IL DOMANI È SEMPRE QUEL CHE NOI MENO IMMAGINIAMO. Federico ascoltava con somma attenzione questo straordinario linguaggio del ladro, e sentivasi pulsare il cuore per sentimenti di riconoscenza e di amore. — Voi dunque potreste farmi uscire da questa prigione? chiedeva al Dumourier spalancando due occhi pieni e rotondi, perciocchè il suo volto, per la estrema sottigliezza in cui era venuto, era tutt’occhi. — Ben lo potrei, rispose il ladro con un sorriso di amorevolezza, che andò a colpire il fondo del cuore del garzoncello. — E in che modo? dimandò questi. — Non occorre dirti tutto quello a cui ho pensato. Soltanto voglio farti una semplice interrogazione: Mi amerai tu un poco quando io ti avrò renduto alla libertà? Federico si fe’ rosso come brace e mormorò sotto voce: — Cercherò di provarvi un giorno la mia riconoscenza. — Ascoltami bene. Hai tu veduto il figliuolo del nostro carceriere? Hai tu osservato ch’ei ti rassomiglia a capello, per la statura e pel volto, tranne che quel fanciullo ha una faccia stupida e selvaggia, mentre la tua è nobile ed intelligente? Spesse volte suo padre lo mena da noi ed il fa restare qui qualche tempo. È certamente il cielo che ha fatto questo prodigio di rassomiglianza per salvar te, e per fare che io nobiliti la mia vita con una bella azione. Avvenga che può, ecco il proponimento che ho formato. La prima volta che quel fanciullo tornerà da noi e resterà qui, ti spoglierai in un attimo dei miseri cenci che ti coprono, mentre io svestirò il fanciullo de’ suoi panni. Tu te ne vestirai al più presto, e uscirai fuori della prigione, imitando la voce e l’andatura del figlio del carceriere. Tu hai senno ed abilità; saprai con destrezza raggiungere la porta maggiore ed illudere i custodi, i quali sono da molto tempo avvezzi a veder entrare ed uscire questo fanciullo. Una volta che sarai fuori di questo carcere, non indugiare ad abbandonare Parigi. Ho pensato anche ad un poco di denaro che ti sarà necessario ne’ primi giorni della tua fuga. Non sì tosto sarai libero, ti recherai al _Boulevard_... numero 13 bis: entrerai nel fondo di una specie di cantina posta alla dritta di un angusto cortile; scenderai alcuni gradini, e in una fossetta, solidamente ricoperta da una pietra, troverai qualche centinaio di franchi in oro che io solea conservare per le inattese emergenze. Hai ben capito? Federico restò trasognato e stupefatto; affisava con istupore grandissimo quell’uomo straordinario, credendo che il detto da lui fosse un’amara burla; ma le sembianze del ladro eran questa volta gravi e solenni, e sulla sua fronte pallidissima raggiava la contentezza di una nobile azione. — E che ne sarà di voi? dimandò Federico. La giustizia non vi chiederà conto della mia sparizione? — Non penso a questo. Ho tante volte meritato il gastigo per turpi azioni, che ora son contento di meritarlo per una buona; e tante volte ho trovato l’impunità alle mie colpe, che ora spero trovarla alle mie virtù. Ad ogni modo, io sono risolutissimo di salvarti, e ci riuscirò, purché mi secondi con destrezza e senza titubare. La fortuna non poteva meglio favorire l’ardito proponimento del Dumourier. Non passarono due o tre giorni; e l’occasione si presentò mirabilmente propizia. In pochi minuti il travestimento era operato. Dumourier avea ligata la sua cravatta alla bocca del figliuolo del carceriere, e il tenea fermo per le braccia; mentre Federico, vestito coi panni del fanciullo, ingannava la vigilanza delle guardie, passava con gran disinvoltura per tutti gli usci delle carceri, e riusciva a raggiungere sano e illeso il sito indicatogli dal suo salvatore. V. FEDERICO PITTORE Tutto accadde appuntino siccome era stato ne’ desiderii del Dumourier e di Federico. Con somma sorpresa mista di piacere costui ritrovò al sito indicato il danaro, di cui il ladro gli facea dono; e in questo singolare avvenimento la logica del piccolo Lennois era sconcertata: chè egli non potea persuadersi come da un uomo che rubava per mestiero fossegli stata fatta sì bella azione, senza veruna mira d’interesse. Se Federico fosse stato più grandicello e più atto a ragionamenti sodi e imparziali, avrebbe di leggieri riconosciuto il suo torto nel giudicare troppo prestamente degli uomini e nel crederli tutti incapaci di bene; ma egli era in quell’età in cui i giudizii son figli delle prime impressioni; e queste avevano lasciato tale impronta d’odio nel cuore del giovinetto, da non poter più cancellarsi per qualsivoglia salutare effetto di virtù. Federico si ritrovò nel medesimo stato in cui era quando giunse a Parigi, colla sola differenza che la prima volta lacero e scalzo egli aveva addosso un sacchetto di monete di rame, ed ora, vestito un poco più decentemente, aveva nella tasca dei suoi calzoni una decina di napoleoni, moneta al tutto nuova per lui. Aggiunger fa d’uopo che cinque o sei mesi di prigionia aveano accresciuto cinque o sei anni sulle spalle del fanciullo, per modo che egli aveva ormai l’aspetto di un giovinetto a sedici anni: un’ombra di barba eragli già spuntata in sul basso del volto. Bisognava abbandonar Parigi al più presto, secondo il consiglio e le raccomandazioni di Dumourier. La sua ulteriore permanenza nella capitale poteva esporlo ad una seconda cattura, dalla quale non avrebbe potuto facilmente liberarsi, e che avrebbegli precluso il cammino ad ogni impresa, ad ogni ventura. Ma come abbandonar Parigi? Dove dirigersi? Che via prendere? Federico fermò di affidare al caso il pensiero della sua sorte futura. Spesse volte è questo il miglior partito, cui un uomo si possa appigliare, e che non raramente è fecondo di lieti successi. Dumourier gli avea dato alcune indicazioni per isfuggire alle ricerche della Giustizia, e gli avea consigliato cangiar tostamente di nome. — Fatti chiamare, per esempio, Ferdinando Ducastel: questo è un nome come gli altri, ed ha il vantaggio di non essere conosciuto che da noi due. — Ferdinando Ducastel! pensò Federico; ed è questo un nome inventato? — Perfettamente inventato, soggiunse il ladro; possa questo nome portarti la buona ventura! — Ed io mi chiamerò Ferdinando Ducastel, esclamò il giovinetto; d’ora in poi il maledetto nome di Federico Lennois rimarrà sepolto in questa prigione. — Grazie del buon augurio! avea detto il ladro ironicamente: spero almeno che non rimanga sepolto con me. Ecco in qual modo Federico era divenuto Ferdinando Ducastel; ed ecco il perchè tanto gli premea che il suo primo nome non fosse trasparito a Parigi, dove potea esporlo a pericoli ed a rischi. Noi non vogliamo tener dietro passo a passo alla storia di questo giovinetto, e ci terremo contenti di aver narrato le principali avventure occorsegli nella prima sua età, e le quali abbiamo estimate necessarie alla intelligenza e allo sviluppo del dramma che abbiam preso a raccontare. Or non faremo che accennar di volo quelle cose che servir debbono all’appicco della presente narrazione, per ritrovare il nostro protagonista al punto in cui il lasciammo alla fine della prima parte, vale a dire, al momento di aver compiuta la sua turpe vendetta sull’infelice Giustino Victor. A Federico non riuscì di abbandonar Parigi che dopo un quindici giorni dalla sua fuga dalla carcere. Un Inglese lo tolse a’ suoi servigi, il menò seco a Marsiglia, e di là imbarcollo per l’Italia. Da questo tempo incominciò una vita novella pel Lennois. L’Inglese, suo padrone, ricco e splendido, viaggiava da gran signore, e profondeva il danaro a larga mano. Egli è facile intendere che Federico non si facea scrupolo alcuno di rubare il Milord il meglio che fatto gli venisse: il suo scopo era di accumular quattrini per crearsi una posizione indipendente e scegliersi un’arte, un mestiero che più gli convenisse. Nelle lunghe ore di ozio che spesso egli godeva, aveva imparato a leggere e a scrivere: il suo maestro era stato una bella cameriera sua compatriotta, la quale era benanche ai servigi del viaggiatore Inglese, e che in breve tempo diede a Federico un corso compiuto di educazione. Questa cameriera, vivace, destra, insinuante e facile ad abbandonarsi alle tendenze del proprio gusto, avea fatto di quel fanciullo un uomo, nella speranza di formarsene più tardi un marito. Con siffatto proposito nell’animo, Maddalena Bonnefille (tal era il nome di questa donna) dava mano ai furti del suo diletto Ferdinando, e lo spingea, con ogni maniera di seduzione, ad innamorarsi di lei. Ma tutt’altra idea era nell’animo del Lennois, il quale nudriva il più profondo disprezzo per questa donna, e avea sempre scolpito nel cuore il giuramento che avea fatto sulla tomba del suo cane. Noi non faremo certamente il torto a’ nostri lettori di far loro credere che Federico Lennois fosse un gran malvagio, solo per serbar fede ad un giuramento inetto e fanciullesco. La costanza in qualsivoglia cosa non è nel sangue francese. Federico era malvagio, perchè tale lo avean fatto le circostanze della sua vita, la mancanza di ogni educazione intellettuale e morale, e l’influenza d’una società corrotta fin nelle visceri. L’Inglese avea, come la maggior parte dei suoi compatriotti, un gran gusto per le arti, e massimamente per la pittura. Egli spendea di belle somme per quadri antichi e moderni; e la sua casa o albergo era sempre assediato da artisti, da rivenduglioli e da altra gente barattiere di tavolette, d’incisioni e di costumi. Federico si mischiava sempre in cosiffatti negozi, e si faceva pagare i dritti di mezzano: alcune volte comprava egli stesso qualche quadro di alcun pregio (però che egli avea una straordinaria attitudine naturale alla pittura), e il rivendea, pel doppio del valsente, al suo padrone. E questo continuo traffico con dipintori, con negozianti di quadri e restauratori finì col porre nell’animo di Federico la voglia di studiare l’arte. E vi si pose con animo fermamente deliberato, con ardore, con desiderio di apparare bene e presto. Al che inducevalo eziandio e spronavalo il suo medesimo padrone, il quale, come vide i primi sforzi del suo valletto e la sua grande bramosia di apprendere, il provvide di maestri, di disegni, di lapis, di matitatoi e pennelli; e si compiaceva oltremodo de’ progressi del giovinetto. Federico avea ottime naturali disposizioni per ogni maniera di disciplina. In tutto il tempo che egli stette al servigio dell’Inglese, il quale molto lo amava ed avea per lui somma indulgenza, egli imparò con facilità l’italiano e l’inglese. Fenomeno strano e singolare, questo giovine offriva in sè la più curiosa contraddizione di gusti, di tendenze, di passioni. Il suo cuore era corrotto e depravato: nessun sentimento virtuoso e nobile il faceva battere, tranne quello d’una sfrenata voglia di elevarsi e di far parlare di sè. Nudriva nell’animo un pensiero costante di far rumore, di spandere il suo nome: non sapeva il come nè con quali mezzi; ma era deciso di afferrare la prima congiuntura. Pensava in sulle prime di gittarsi al teatro; imperciocchè sentiva che sarebbe riuscito un buon artista drammatico; la sua persona, la sua voce, l’arte di simulare che egli aveva appresa alla perfezione, erano altrettante raccomandazioni per un attore: e forse egli si sarebbe col fatto posto in sulle assi d’un proscenio, se i lusinghieri elogi ond’erano accompagnati i suoi primi passi nella pittura non avessero deviato i suoi pensieri dal teatro, ponendogli in cuore la più viva speranza di gloria. Maddalena intanto vedeva con estrema gioia gli avanzamenti del suo amante nella pittura; udiva con giubilo le lodi onde veniva incorato, e non rifiniva di spingerlo a sposarla; imperciocchè la scaltra donna prevedea che crescendo Federico negli anni e nei meriti avrebbe disdegnata una donna, già matura, e che non poteva neanche offrirgli quello che forma la più grande attrattiva per un giovin cuore, la novità del possedimento della donna che si ama. Maddalena Bonnefille sperava nel sentimento di gratitudine ond’esser dovea preso il cuore dell’amante. Ma un bel dì la benda cadde dagli occhi della sciagurata! Federico, il quale più non potea sopportarla, non seppe porre un freno al suo disprezzo e alla sua avversione, e apertamente le disse che egli non volea saperne di nozze; ch’era stanco di lei, e che se ella non ponea fine alle vessazioni di amore con che lo tormentava, avrebbe abbandonato il paese dove si trovavano. La Bonnefille pianse, si disperò, si scaraffò i capelli, giurò di vendicarsi: una parola trasse l’altra, ed avendo ella dato a Federico gli epiteti di ladro e peggio, costui, salito in gran furia, le colpì la guancia e la caricò d’ignominiosi epiteti. Il giorno stesso la Bonnefille rivelò all’Inglese tutte le peccata domestiche del Ducastel; e questi veniva ignominiosamente cacciato da quella casa. Un tal fatto era accaduto a Genova. Federico avea allora diciassette anni ed avea fatto grandi progressi nella pittura: risolvette di percorrere l’Italia a fin di studiare su i capilavori di cui è ricca questa terra. Egli aveva accumulato un denaro bastante per qualche anno. D’altra parte, ei cominciava oggimai a vendere le sue dipinture ed a prezzi non del tutto scoraggianti. Federico volea visitare, innanzi tutto, la sede della maggior gloria artistica italiana, Roma, la città dei monumenti colossali; sperava attinger colà maggiore ispirazione. Lunga permanenza ei fece a Roma, essendovi rimasto per circa tre anni. A dispetto di tutt’i suoi studi, egli non era riuscito che un mediocre pittore. Dicemmo altrove i difetti della sua maniera, difetti i quali in verità non erano riconoscibili che dall’occhio esperto di un valente artista; imperciocchè Federico avea abilità (comune quasi a tutti gli artisti francesi) di dare ai suoi lavori tali artificii che colpivano a prima vista per elevatezza di stile, per vigoria di tinte e per risalto dei primi piani. Ma questo orpello e questa vernice non potevano che abbagliare per un momento; e tosto doveano i suoi quadri cadere sviliti innanzi alla grandezza del genio italiano. Però gigante sorgea nell’animo di Federico l’ignobil passione dell’invidia, nutrita giorno per giorno dal rumore che menavano in presso che tutte le città d’Italia i lavori di un Marsigli, di un Guerra, di un de Vivo, tra i Napolitani, e di cento altri nomi che in quel tempo si contendeano il primato dell’arte in Italia. A Roma, dove traggono i più eletti ingegni artistici della penisola, il Lennois o il Ducastel trovava dunque un pascolo quotidiano al tossico d’invidia che gli rodeva il cuore; e quanto più ei vedeva riuscir vani ed infruttuosi i suoi lunghi sudori stemperati sulla tela, quanto più trovava ribelli il cuore e la mano allo impulso della volontà, perciocchè Dio non soffia l’alito del genio ne’ cuori malvagi, tanto più egli si arrovellava contro sè medesimo, e malediceva la sterilità dei suoi concepimenti, e la terra, formicolaio di geni che egli calcava, e pensava talvolta di torsi una vita che gli riusciva importabile. Nelle logge del Vaticano, in quelle gallerie dove un Raffaello, un Michelangelo, un Giulio Romano respiravano ancora nelle sublimi produzioni de’ loro pennelli, in quegli asili dove tutto è grande, Federico si sentiva schiacciato, come il serpe dal piede della Donna Immacolata. Non potendo pareggiare il merito degli artisti suoi contemporanei, egli erasi appigliato al facil partito di screditarli colla più bassa calunnia. Finto, ipocrita e insinuante, ei visitava gli studii dei pittori, stringeva a costoro la mano, lor si dichiarava ammiratore entusiasta, chiedeva il permesso di vederli a lavorare, e sperticava lodi infinite anche ai meno saliti in rinomanza. E non sì tosto si partia da qualcuno di loro, ivane dicendo il più gran male del mondo, affastellava bugie, inventava storielle, accagionavali di sfacciati plagii, e improvvisava originali a quelle pretese copie. Non si facea scrupolo di fare scrivere vilmente articoli di biasimo contro le più colossali riputazioni: in somma, egli si dava, per uccidere la fama degli altri, più gran fatica che per crearsi la propria. Così stando le cose, e vivendo egli in Roma di malissimo animo da circa tre anni, occorsegli un giorno un fatto singolare, che diede per poco altra direzione ai suoi pensieri. Egli era in sua casa un bel mattino, dando le ultime pennellate ad un gran ritratto ad olio del cardinal L.... quando al suo sguardo si offrì un forestiere che dimandollo se fosse lui il nominato Federico Lennois. Lasciamo immaginare ai nostri lettori qual dovette essere la sua sorpresa nel sentirsi interpellato, con un nome, che egli credea sepolto nella prigione di Parigi. Impallidì siffattamente, che lo straniero ne fu per poco inquieto, e dissegli che non si smarrisse d’animo, perciocchè, lungi dallo avere ostili intenti contro lui, amichevole era lo scopo della sua visita. Avremo spiegato il tutto ai nostri lettori, quando avremo detto che quello straniero era semplicemente Maurizio Barkley. Questi avea quella stessa incombenza che aveva adempiuto verso Daniele de’ Rimini, Eduardo Horms, e le altre due figliuole del Baronetto. Soltanto molti anni di ricerche, lunghi stenti e una incredibile pertinacia di proposito, aveano potuto menare il Barkley al discoprimento del Federico Lennois sotto il fattizio nome di Ferdinando Ducastel. È inutile il soggiungere che Maurizio era latore d’una somma di denaro per questo figlio del Baronetto e di una promessa di assegnamento mensuale, siccome per gli altri quattro fratelli. Fin dalla sua infanzia, Federico sapea di non aver padre; e quando il nome di bastardello, lanciatogli in faccia da Augusto d’Orbeil e da Giustino Victor, veniva a colpire il suo orecchio, comechè ei non ne intendesse perfettamente il significato, davagli pertanto un’idea vergognosa relativa ai suoi natali. Più tardi, ei comprese il tutto; soltanto ignorava il nome di colui che gli avea dato per madre una tigre. Maurizio serbò come sempre, il segreto di Edmondo, e, contentissimo di aver discoperto un’esistenza che tanto gli premea, si allontanava dal giovine artista, per trarre dove il chiamavano i rimorsi e i timori del suo padrone ed amico. Federico si trovò gittato in un’altra sfera di pensieri. Egli che si credea solo ed abbandonato da tutti gli esseri, rinveniva, quasi caduto dal cielo, un protettore, e forse un padre, che gli mandava, forse da lontane terre, danaro e promessa di aiuto e di assistenza. Un pensiero volò per la mente di Federico Lennois, lo stesso che avea fatto battere il cuore a Daniele de’ Rimini, un pensiero che gli facea correre per le vene un fuoco e gli ponea ne’ polsi la febbre: egli era forse nato nobile e ricco! E quando pensava alla Zenaide, la quale tenea nascosto, egli n’era certo, qualche rotoletto di oro, si riconfermava nel pensiero che suo padre esser doveva un alto personaggio. Ma come e perchè questo tardo riconoscimento? perchè il paterno suo affetto eragli nato dopo vent’anni? Ecco ciò che imbrogliava la testa del Lennois, e ciò che egli sperava il tempo avrebbegli rischiarato. Certo è che ormai egli era ricco, o almeno agiato a segno da non aver più d’uopo del pennello per vivere; vedea lampeggiar nel futuro una speranza di gloria o qualche cosa di simile che gli sorridea e davagli sprone a gittarsi con fidanza in balìa della sua sorte. Dopo non guari dalla visita di Maurizio, Federico abbandonava la città di Roma e traeva a Napoli, dove spese qualche anno più negli svagamenti e nell’ozio che negli studii. Tuttavolta ei non trascurava di coltivar l’arte sua, e di malignare gli artisti che in quel tempo, vale a dire negli anni 1825-29, in gran copia fiorivano in questa capitale, dove le arti belle han trovato mai sempre di valenti ed operosi cultori, comechè pochissima protezione nelle alte classi e nel governo. A Napoli, Federico ebbe agio di ammirare gli stupendi lavori della Scuola Napolitana, diffusi in quasi tutti i templi della metropoli, e abbondanti sovrammodo in quello archivio di gloria domandato il Museo, monumento che riverbera i suoi raggi di gloria sulla schiera de’ genii immortali che ivi son raccolti. Federico visitò in appresso la Toscana. Firenze, la bella città, la patria dell’Allighieri, offrì all’invido sguardo del Francese i suoi mille monumenti, che parlano al cuore e alla fantasia, e che danno a questa città a giusto titolo il nome di sede della civiltà italiana. Nella capitale della Toscana, Federico fu di bel nuovo visitato da Maurizio Barkley, il quale gli arrecò l’ultima porzione del retaggio paterno, e gli svelò il segreto della sua nascita, il nome del genitore, e la notizia della costui morte a Manheim. Da Firenze, Federico venne a Pisa. E qui ci fermiamo, avendo già, in altri capitoli, discorso abbastanza di ciò che ei fece in questa città d’Italia, la quale doveva essere per lui sorgente d’una efimera gloria, comprata coi sudori e con la morte dello sventurato Ugo Ferraretti. A Pisa egli ebbe la visita di Eduardo Horms. È noto ai nostri lettori il risultato di questa visita, la quale finì col convegno datosi scambievolmente a Parigi per l’anno susseguente. Pria di chiuder questa parte del nostro racconto, è mestieri far notare che dopo la morte del Ferraretti, Federico si era ritirato a Pisa, dove tenea nascosto a tutti gli sguardi il frutto del suo tradimento, il quadro la _Preghiera_. _Parte Quarta_ I. DILUCIDAZIONI Andiam debitori verso i nostri lettori di parecchi rischiarimenti che ci affrettiamo a dar loro, pria di riprendere le fila della nostra narrazione. In che modo Federico Lennois avea mandato ad effetto la sua truce vendetta sullo sciagurato Giustino Victor? Chi era quella donna che avea rappresentata la parte di Lucia Horms? Di chi era quella casa alla strada D... numero 8? Insin dal giorno in cui Federico ritrovò e riconobbe a Tolone (dove si era recato per riscuotere il denaro della vendita d’un suo lavoro) il giovin compagno di Augusto d’Orbeil, e che Giustino gli ebbe detto che ritornava a Parigi per impalmare la sorella del suo amico, Federico avea conceputo il nero proposito di vendicarsi dell’assassino del suo cane, in quel medesimo giorno in cui quattordici anni fa il Victor avealo ammazzato. Federico non avea dimenticato questo dì nefasto: egli l’avea segnato col ferro in sulla pietra che chiudea la tomba del suo fido compagno: egli avea maledetto il 7 luglio: ed ogni anno ritornava a maledirlo, rinnovando nel suo cuore il terribile giuramento di Auteuil. Tutto parea favorire il suo tristo proponimento: l’incontro a Tolone avvenuto alcuni mesi pria del 7 luglio; la facilità di aver nelle mani ad ogni momento il giovine uffiziale di marina; il non essere stato Federico riconosciuto nè da Giustino nè da alcuno della famiglia d’Orbeil; l’amorevolezza ond’era trattato al castello; e da ultimo la confidenza in cui egli era entrato col giovine fidanzato d’Isalina. Ma, comechè egli avesse designato il 7 luglio a giorno di sua vendetta, non avea pertanto trovato ancora il modo di eseguirla. La prima volta che Federico vide Lucia Horms ebbe subitamente il pensiero di farne strumento di tal vendetta, perciocchè i mali pensieri nascono con faciltà negli animi de’ tristi. Avvicinar Giustino a Lucia era facil cosa, e più facile eziandio il persuader quello ad eccitar la gelosia dello Scozzese, marito di costei. I Francesi prendono sempre sommo diletto a tormentare i mariti; e questo deriva dalla ragione che presso di loro il matrimonio è considerato sotto un aspetto tanto leggiero, che le infedeltà coniugali formano quasi sempre il soggetto dei romanzi, de’ drammi, delle commedie e di quelle mostruosità che si chiamano _vaudevilles_. Metter la fatua vanità d’un giovin francese alla prova della gelosia d’un _bourreau_ (carnefice), siccome hanno la gentilezza di nominare i mariti, significa invitarlo a nozze, dargli uno spasso carissimo, farlo felice. Però Federico era sicuro del fatto incitando il Victor a corteggiar Lucia. L’inferno parea arridere alla vendetta del perfido Lennois. Avendo stabilito in suo pensiero di preparar l’agguato a Giustino e a Eduardo Horms (che egli detestava parimente perchè possessore del segreto del suo nome, e perchè sperava frodargli il quadro, di cui avea già ricevuto la metà del valsente), e, fermato il disegno delle lettere apocrife, egli trovava una insormontabile difficoltà nel modo d’ingannar Giustino e Eduardo sulla condiscendenza di Lucia. Come Giustino non conosceva i caratteri della napolitana, era facile far credere scritta da lei la lettera che ei gli avrebbe spedita a Auteuil: siccome era agevole eccitare i gelosi sospetti di sir Eduardo, il quale già ravvolgea per la mente foschi pensieri, mossi in lui dalle svenevoli galanterie dell’uffiziale di marina. Abbiam dettò che l’inferno pareva arridere a’ disegni del Lennois; ed in fatti, la difficoltà di trovare il modo onde ingannar gli occhi di Giustino e di sir Eduardo lo avrebbe forse fatto desistere; almeno per qualche tempo, dal suo proposito, quando una strana casualità si offrì a vincere ogni malagevolezza. Essendo andato Federico una sera al teatro delle _Variétés_, pochi giorni innanzi del 7 luglio, fu estremamente sorpreso di scorgere in una delle attrici la Maddalena Bonnefille, che egli non avea più riveduta da sette anni, e da quel dì che abbandonò il servigio dell’Inglese. Ella era ancor giovane e bella, però che non potea contar più di un trentaquattro anni; era riuscita una attrice di molto merito; e la sua bellezza, rialzata e strebbiata dall’acconciatura teatrale, non mancava di attrarle i sospiri dei leoni di Parigi e di qualche vecchio conquistatore di ballerine. Nella mente di Federico lampeggiò un pensiero che poteva esser fecondo del più felice risultamento, in quanto al disegno che egli avea formato. Il domani, verso le dieci antimeridiane, ora molto mattutina per una donna di teatro, Federico si faceva annunziare in casa della Bonnefille. Contro la sua aspettativa, egli fu ricevuto in un modo che lo sorprese. Maddalena corse, in veste da camera, ad abbracciare l’antico suo amante; il prese per mano, il menò nel salotto, e, al tutto dimentica dell’offesa che avea ricevuta dal giovine Ducastel, fu verso lui prodiga di tante dimostrazioni di amicizia e di affetto, che Federico, dovè, a suo dispetto, convenire che talvolta la generosità si annida nelle più corrotte nature. Di leggieri s’intende che Federico usò ogni artificio di simulazione per farsi credere un’altra volta innamorato di lei; promisele e protestò un attaccamento a tutta prova, e finì col richiederle un testimonio di amicizia in una delicata faccenda. La Bonnefille dichiarò ch’ella era avventurata di potergli essere utile a qualche cosa; che avesse fatto assegnamento su lei per qualunque emergenza, sendo ella disposta a provargli l’amor suo per via di ogni sacrificio. Allora Federico le significò quel che si voleva da lei, e dissele esser d’uopo che ella rappresentasse una parte in una privata commedia che egli intendeva di fare. Trattavasi nè più nè meno, che d’uno scherzo di quel genere che i Francesi chiamano _mistifications_: le avrebbe dato spicciolata relazione di una donna di cui ella doveva imitare perfettamente la vestitura e la voce; giacchè, per felice combinazione, la statura era la stessa. Le avrebbe indicato il sito e il giorno in cui ella dovea rappresentar questa parte. Maddalena accettò con piacere un tale incarico, e tanto più volentieri ch’ella seppe in seguito trattarsi di un convenio amoroso a mezza luce, dov’ella sarebbe forse riuscita a illudere perfettamente la vista e l’udito del giovine amante. Tuttavolta, un vago timore le si apprese all’animo, quando seppe che c’era per lo mezzo un marito geloso, a cui precisamente il malo scherzo era da farsi e che dovea creder lei sua moglie. Federico rassicurolla su queste apprensioni, dicendole che ei sarebbe stato presente alla commedia non visto che da lei; e che le avrebbe, con segni concertati avanti, rivelato il momento, in cui ella doveva abbandonare il campo, e sottrarsi con pronta fuga allo sdegno del nuovo Otello. Ordinata questa astuzia, la quale avea presentato non piccola difficoltà, restava a trovare il sito, ovvero la casa in cui la trista commedia dovea rappresentarsi. Ma ciò non poteva generare un serio imbarazzo, giacchè è noto esser Parigi una città comodissima per ogni maniera di garbugli amorosi; imperciocchè vi sono quartieri che offrono case, dove la morale soffre frequenti naufragi; però, dopo qualche giorno di ricerche, riuscì al Lennois di trovare nella strada D... una casa sfittata; e questa, visitata da lui e trovata comodissima al suo intento, ei destinava a teatro della prava impresa. Il 7 luglio, giorno designato alla vendetta del Lennois, era spuntato. Un messo partiva all’alba per Auteuil, presentatore dell’apocrifa lettera di Lucia Horms a Giustino Victor: mentre un’altra lettera, anonima, era consegnata a Eduardo Horms a Parigi, nel momento che questi usciva dallo albergo _des Princes_, per sue faccende. La trama infernale ebbe, siccome è conto ai nostri lettori, la sua piena riuscita. Il nobile e appassionato sir Eduardo, involontario istrumento e vittima anch’egli della perfidia del francese Lennois, si recava, con la morte nell’animo, alla maledetta casa di convenio, dove volea con gli occhi propri accertarsi del temuto vero, e lavare nel sangue dell’adultero la macchia che si faceva al suo onore. Tutto era stato diabolicamente ordinato in guisa dal ribaldo Lennois, che non pure il virtuoso Scozzese, acciecato di gelosia, ma lo stesso Giustino fu tratto in inganno dalla simulata voce, dal portamento e dalle vesti della scaltra commediante, la quale spinse a tal segno la simulazione, che imitò finanche la dilicata riserbatezza e il nobil pudore di una donna onesta, ma traviata dalla passione e dai pretesi mali trattamenti del marito. Un’orrenda tragedia avveniva. L’offeso marito facea rintronar l’aere di quella casa con lo scoppio d’una pistola, e Giustino Victor cadea col petto squarciato, vittima miseranda degli alti decreti di Dio. E qui ritorniamo ad osservare che tutte le volte che un colpo impensato e terribile annienta a sera un’esistenza che nel mattino era sfolgorante di vita, di giovinezza e di felicità, è mestieri riconoscere in questo fatto una di quelle tremende lezioni, con cui l’Onnipotente punisce quelle colpe che sfuggono alle leggi degli uomini. Non sì tosto l’ombra del marito si prostese all’uscio della camera dov’eran Giustino e la creduta Lucia, la commediante, già istrutta di quello che aveva a fare, messo un gran grido fuggiva nel momento in che si udiva lo scoppio dell’arma a fuoco. Federico era stato occulto testimone dell’accaduto. Un riso feroce avea contratto le sue labbra, allorchè avea visto disteso in sul suolo il misero Giustino; e, nel momento in cui questi era per esalar gli ultimi aneliti, facea risuonare agli orecchi di lui le parole: _Oggi è il 7 luglio, Giustino Victor; ricordati di Federico Lennois, del monello d’Auteuil_. Una delle tre funeste passioni che dominavano il cuore di Federico era appagata, la vendetta: due altre rimanevano, del pari orrende e dannose, l’invidia e l’ambizione. Vedremo più tardi a che menavanlo queste turpitudini dell’anima sua, e fin dove Iddio segnava il termine alle nequizie di lui. È mestieri intanto rivolgersi allo sventurato sir Eduardo, il quale, nel piacere indicibile che avea provato riabbracciando la moglie innocente, avea per poco dimendicato che un sangue del pari innocente era stato versato dalla sua mano, e che la giustizia degli uomini avrebbe dimandato conto ed espiazione dell’omicidio. Era chiaro che Eduardo era stato ingannato; ma chi era l’autore della funesta commedia che era costata il sangue d’un uomo? Ecco ciò che imbrogliava la ragione del misero, e facea delirar per dolore quell’anima candida e virtuosa. Ei sapeva di non aver nemici di sorta, e che nel breve tempo da che era di belnuovo a Parigi, poche aderenze avea contratte; siccome era sicuro di non essersi attirata la nimistà di alcuno la prima volta che egli avea visitata questa capitale. Come spiegar dunque un fatto che non avea alcuna ragione plausibile, e che pareva uno scherzo crudele del destino? Egli rileggeva la lettera anonima che gli era stata consegnata; la facea leggere a sua moglie, la quale raccapricciò d’orrore, si stemperò in amarissime lagrime, pensando al vituperio che si volea gittar sul suo onore. Non potremmo esprimer con parole adequate lo spavento misto di dolore onde fu presa la nobil donna al racconto minuto che fecele il marito di quanto eragli occorso. Ciò che più confondea le menti di entrambi era il pensare chi fosse quella donna che tanto bene avea simulato per arte o per mera casualità le vestimenta e la voce di lei Mistress Horms: nessuna congettura potea reggere, nessuna supposizione; c’era da perdere il senno. Un lampo tuttavia rischiarò la mente di Lucia; i biechi sguardi di Federico Lennois, le sue significative maniere, l’aria di tristizia che lo accompagnava; tutto ciò ritornava alla memoria di lei e le metteva nell’animo un vaghissimo sospetto, ch’ella non si arrischiava di aprire al consorte; giacchè ella stessa non sapea rendersi conto d’una nefandezza senza motivi di un odio senza ragione tranne che, pensava tra sè fremendo, quegli, per mala ventura innamoratosi di lei, non avesse avuto l’animo di porre ad un pericolo di morte il marito, o indurlo ad un atto di separazione, che avrebbe agevolata la via al malo intento di esso Lennois. Queste erano impertanto semplici supposizioni, ed anche tali da non doverci dar peso e comunicarle al marito. La notte passò in veglia crudele. In sull’alba, un ordine di arresto era scagliato contro sir Eduardo Horms, scozzese, dimorante da pochi giorni a Parigi, uccisore del nobil giovinetto Giustino Victor, uffiziale della Real Marina di sua Maestà il Re Carlo X, uno dei prodi della spedizione di Morea. Fu forza obbedire alla legge. Sir Eduardo si staccò con nobile rassegnazione e con coraggio dalla sventurata Lucia, e fu tradotto innanzi alle Autorità competenti per essere interrogato sul funesto accaduto. Si comprende facilmente che lo stesso Federico aveva fatto denunziare il delitto alla giustizia. Tutta Parigi fu commossa al domani dal miserevole caso. L’avvenimento era in diversi modi raccontato e spiegato nei crocchi e dai giornali; e un giorno intero trascorse in comenti, in chiose e interpetrazioni sull’assassinio della strada D... Il giorno vegnente, tutto era dimenticato: e il nome di Giustino Victor non si ritrovava più che sulle labbra de’ suoi inconsolabili amici. La notizia di questa morte miseranda era corsa a Auteuil con la rapidità del baleno. Lasciamo all’immaginazione de’ nostri lettori la dipintura del dolore d’Isalina d’Orbeil e di tutta la sua famiglia. Per qualche giorno la giovinetta fu creduta morta. Dagli occhi di Augusto eran cadute lagrime abbondanti di angoscia disperata, perciocchè qual fratello egli amava il Victor. Il nero disegno del Lennois era al tutto compiuto. Tre famiglie, da lui abborrite, erano immerse nel lutto e nel dolore. Egli si accingeva intanto a raccogliere i frutti del suo tradimento di Pisa: il giorno dell’apertura della Grande Esposizione si avvicinava. II. IL SALONE DEL 1829 Ogni anno Parigi invita i suoi abitanti ad ammirare le opere di pittura e di scultura, le quali sono credute degne di essere presentate agli sguardi d’una colta nazione. Ogni anno il giurì decreta il premio al migliore de’ lavori esposti, e distribuisce gran numero di medaglie a’ più valorosi concorrenti. Per tre mesi consecutivi il pubblico parigino accorre in folla, sia nelle Gallerie del Louvre, dove per lo passato si tenea l’esposizione, sia nel Conservatorio, alla sala de’ _Minuti-Piaceri_, sia al palazzo delle Tuillerie, sia al palazzo Reale. I parigini accorrono sempre in folla dovunque li chiama un novello spettacolo, di qualunque maniera si sia; e per essi è indifferente lo assistere così ad una di quelle scene che si chiamano _sommosse_, come trarre ad una pubblica mostra di belle arti. L’annuale Esposizione è dunque pe’ Parigini uno spettacolo come ogni altro, un divertimento come qualunque altro, un motivo per aggrumolarsi in un luogo e far folla e rumore, per vedere ed essere veduti, per avere di che discorrere par qualche giornata. Ma queste pubbliche esposizioni, comecchè incuoranti gli artisti e feconde di belle opere, quantunque commendevoli sotto ogni aspetto e onorevoli per lo Stato, che schiude il campo a nobil gara d’ingegni, non potranno giammai far nascere sul suolo della Francia quella scintilla divina che crea i Raffaelli, i Michelangeli, i Tiziani. Le sublimi arti della pittura e della scultura non si innalzano che coll’innalzamento dell’anima sul plasticismo della creta. Quanto più il pensiero dell’artista si sublima e sorvola alla terra, tanto più il suo concepimento è ispirato, e l’opera sua è immortale. La Fede innalza l’anima e crea il genio. La storia e i misteri della religione di Cristo aprono il campo alla vasta ispirazione, e fanno scaturire dall’argilla tesori di celesti bellezze che sfidano il soffio onnipossente dei secoli. Gli artisti italiani sono grandi e immortali perchè ispirati. Iddio ha benedetto e fecondato di genii le terre della penisola. Ma che diremo della Francia? Essa non ebbe mai sommi artisti ed opere di arte veramente grandi e immortali. I soggetti storici profani, le imitazioni mitologiche, le dipinture erotiche non innalzarono giammai un nome al di sopra della mezzanità. Tutto ciò che tende a corrompere la morale e i costumi non vive che una vita efimera; imperocchè dal fondo dell’umana coscienza si leva sempre un grido di riprovazione e di biasimo su tutto ciò che non è conforme a’ dettami della eterna legge di virtù. Un vasto ingegno del nostro secolo, cosmopolita più che francese, il signor di Chateaubriand imprendeva in ampie proporzioni nel suo Genio del Cristianesimo a far rilevare la superiorità degli autori e artisti cristiani su i profani. Il libro del signor di Chateaubriand è un monumento onorevole innalzato alle bellezze della poesia cristiana, in un tempo in cui la tirannide sacerdotale e gli eccessi della corte papale aveano scrollata e fatta cader la fede da’ cuori. D’altra parte, l’Enciclopedia e le empie sette dell’ateismo beffardo aveano preteso dimostrare la sterilità del dogma cristiano e la sua impossanza a fecondare il genio. Ciò fu solennemente smentito, dapprima dal ragionar matematico del gran Pascal, cui Voltaire avea regalato il nome di _pazzo sublime_, non potendogli contrastare la elevatezza della mente, e quindi dal signor Chateaubriand, il quale trasportò nel secolo decimonono, purificate dalla luce cristiana, le forme antiche e la poesia di Omero. È indubitato che l’arte e la poesia profana mancano di una delle più grandi bellezze, di cui son ricche l’arte e la poesia cristiane, quella cioè dell’ineffabile incanto che spargon sull’anima i pensieri della sua immortale natura, d’una vita migliore dopo il passeggiero esilio in questa valle di lagrime, d’una Provvidenza che regge con eque mani le sorti degli uomini. Il vago dell’infinito predomina nella poesia cristiana: la mente è sollevata dalle basse regioni del fango della terra: l’uomo chiamato ad alti e nobili destini, sembra sdegnare tutto ciò che lo assimila al bruto. La sventura e la morte stessa sorridono e si cingono il capo di rose imperiture. Non vi ha che la religione cristiana la quale sparga un incanto fin sul sepolcro. Il filosofo di Ferney scrisse mille volumi; e una sola volta egli fu sublime, quando accattò un subietto di tragedia a quella religione, che egli avea schernita. La _Zaira_ di Voltaire è la più grande confutazione delle opere di questo autore. Le grandi bellezze de’ nostri poeti, le opere immortali de’ pittori e degli scultori italiani, i poemi che hanno illustrato la letteratura tedesca e slava, van debitori al genio e alle credenze della nostra religione, feconda madre e ispiratrice di tutte le fonti del vero e del bello. Il genio artistico è soltanto italiano e cristiano. Le gallerie del Louvre si aprivano, il 15 luglio, alla grande Esposizione di belle arti. Il così detto Salone del 1829, siccome suolsi dimandare l’annuale Esposizione, fu uno dei più splendidi e ricchi di opere di pregio. I più abili e rinomati dipintori e scultori francesi mandarono al Louvre i prodotti di lunghi mesi di studi e di meditazioni. Ogni genere vi facea sua mostra: ma il paesaggio la vincea sulla figura istorica. Non faremo una minuta disamina dei lavori che erano esposti nelle sale del Museo: tardo e superfluo ciò sarebbe, dappoichè nei giornali di quel tempo si parlò a lungo di questa Esposizione, il cui grido (esempio raro) valicò le Alpi e si fece udire in Italia. Gli è vero che il Salone del 1829 non menò questo rumore che per un quadro, La _Preghiera_ (opera di genio italiano) e pe’ fatti singolari che questo quadro fe’ nascere, i quali verremo esponendo nella nostra presente narrazione. Ciò non di meno, il riverbero di quella gran luce, la quale venne soffusa dal sublime concepimento del Ferraretti, miseramente spogliato dell’opera sua, rischiarò parecchi altri corpi opachi, i quali, senza quello, sarebbero rimasti nelle più dense tenebre. Come sarebbero eziandio rimasti ottenebrati i creduti capilavori nascosti dalla fittizia muraglia che li copre in tempo di esposizione. Bensì, la figura istorica e fantastica fu interamente ecclissata e scombuiata; e a mala pena vien ricordato il quadro della _Morte di un Monaco_ del pittore Adolfo P..... il quale lavoro avrebbe forse richiamata l’attenzione del pubblico parigino, se la _Preghiera_ non avesse esaurito le sorgenti dell’universale ammirazione. E questo è, a nostro credere, il più grande elogio che far si possa, in questa occasione, a’ Parigini: l’aver saputo estimare al suo vero punto di altezza un’opera italiana. È vero che essi credevanla francese, credendola prodotta dal pennello del Ducastel. Non sì tosto furono schiuse le porte delle Gallerie del Museo artistico, una folla stragrande vi si precipitava, fermandosi poco alle prime tele e stivando fino alla soffocazione quella dov’era la tela rappresentante, la _Preghiera_. Già la voce di questo capolavoro era corsa in Parigi, precedentemente all’apertura dell’Esposizione: e tutti i cultori e dilettanti di pittura erano venuti ad ammirare l’opera del giovine artista, il cui nome era già sulle labbra di tutti. Il Giurì avea fatto situare il quadro del Ducastel nelle più favorevoli condizioni di spazio e di luce. Tutte le altre tele di soggetti storici che erano nella medesima sala pareano fulminate dalla grandezza e sublimità del concepimento della _Preghiera_. Un grido d’irrefrenabile ammirazione scappava dall’anima di tutti i riguardanti, non appena i loro occhi si portavano sulla singolar dipintura. E poscia era un susurro che non terminava mai, un mormorio di elogi infiniti che eran trovati sempre inferiori al merito del lavoro, il quale veniva esaminato con iscrupolosa attenzione in tutte le sue minute bellezze. La lingua francese, tanto ampollosa e esagerata nei suoi avverbi ed aggiunti, si trovava povera e meschina nello esaltare quell’opera maravigliosa. La Francia non avea veduto giammai un simile prodigio della arte: era la prima volta che il genio riempiva di luce inusitata le Gallerie del Louvre.... Quel quadro era un’emanazione dell’essenza purissima dell’anima prigioniera della vita, era una rivelazione della possanza della Fede a circondare una creatura di raggi immortali, e a torle dalla fronte tutto ciò che vi pone di scuro e di tristo l’umana fralezza. Durante i primi giorni dell’Esposizione ci fu bisogno della forza armata per impedire che un disordine accadesse per l’immensa quantità di gente che fluiva da tutt’i quartieri di Parigi per la curiosità di vedere il già famoso dipinto. Quelli che erano una volta entrati, non volevano più uscire, incantati e rapiti in cielo dalle bellezze del quadro, e, anche volendo, non potevano tornar fuori, essendo stretti e pigiati in tutt’i versi. Intanto l’impazienza vincea quelli che aspettavano di fuora, i quali bruciavano dal desiderio di trovarsi al cospetto della magnifica tela. I forestieri, ed in particolar modo gl’Italiani che erano a Parigi, mandavano già in tutta fretta ai loro rispettivi paesi la notizia del capolavoro di cui la Francia andava superba; e i fogli di tutta Europa consegnavano il nome di Ferdinando Ducastel alla venerazione dei contemporanei e dei posteri. Tutta Parigi era ripiena di quel nome. Nei caffè, nei teatri, nelle case private, alla Corte, non si parlava che di Ferdinando Ducastel: e da tutti si chiedea con premura chi fosse costui, dove avesse studiato, quali le sue aderenze; se avesse fatto altri lavori, ed esposto altri quadri negli anni scorsi. In un baleno si seppe che il quadro _la Preghiera_ era venduto allo scozzese Eduardo Horms, uccisore del giovine uffiziale Giustino Victor, avvenimento che pochi giorni addietro avea desto tanto rumore a Parigi. Il prezzo del quadro era portato alle stelle. Chi asseriva essere stato venduto per un magnifico feudo di Edimburgo, chi per un castello baronale con parco e poderi d’immensa estensione, e chi pel prezzo di un milione di lire sterline. Il nome di Ferdinando Ducastel diventò alla moda: estimavasi felice chi poteva avvicinar questo artista, parlargli, stringergli la mano. L’albergo Mirabeau era giorno e sera assediato da visitatori. Un’altra delle detestabili passioni del Lennois era appagata! Egli otteneva quel trionfo e quel grido ch’erano stati sempre nei sogni della sua vita. Due mesi all’incirca erano passati dacchè il quadro _la Preghiera_ era esposto nei lunghi corridoi del Louvre, quando una mattina, una donna, giovine e bella, tutta vestita a bruno, restava lunghe ore al cospetto della tela del Ducastel, senza avvedersi di essere fatta segno alla universale attenzione: È impossibile rendere l’espressione delle sue sembianze: la sorpresa e il dolore si leggeano su quella bianchissima faccia. Ella era rimasta gran tempo immobile dinanzi al quadro, immersa nei suoi pensieri. Urtata, stretta, sospinta dalla gente che traeva sempre in gran folla ad ammirare il gran dipinto, parea che niente avvertisse, e che il movimento che si faceva intorno a lei non colpisse i suoi sensi. Questa donna si partìa poscia dal Louvre in gran fretta: sembrava uscita di senno: nei suoi begli occhi lampeggiava un’estrema risoluzione. Ella fermossi alla Piazza del Carrousel, e fece un passo come se avesse voluto ritornare indietro; ma questo pensiero durò un istante: attraversò correndo le Tuillerie, e, arrivata alla porta del Giardino, fe’ ristare una carrozza da nolo, vi si gittò dentro, e disse al cocchiere: — Albergo _des Princes_. III. SOSPETTI Mentre il nome di Ferdinando Ducastel menava tanto rumore a Parigi e fuora; mentre il trionfo, i plausi e la gloria gli sollevavano il cuore per troppa felicità, le tre famiglie che egli aveva immerse nel dolore e nel lutto rimanevano tuttavia sconsolate e misere. Riserbandoci di occuparci in appresso della famiglia di Orbeil a Auteuil, gittiamo uno sguardo all’Albergo _des Princes_ dove abbiam lasciata la sventurata Lucia, piangente sulla sorte del marito. È il dopo pranzo di un giorno di settembre. La famiglia è raccolta in quel salotto in cui la prima volta Federico Lennois fu presentato alla moglie di sir Eduardo. Ad un sofà, situato colla spalliera all’uscio del salotto, sono sedute due giovani donne, sulle cui sembianze si legge il dolore di una sventura scemata pertanto dal piacere di ritrovarsi assieme. Queste due giovani donne sono Lucia Horms e Emma Barkley di Gonzalvo. Costei è tutta vestita a lutto per la morte del padre. L’abito nero rialza vieppiù la bianchezza abbagliante della sua carnagione: la sua veste, di un tessuto di estremo lusso, è ricoperta di punte d’Inghilterra, i suoi capelli le caggiono ancora in ricciaie di fulgido ebano sulle spalle e sembrano mal sopportare un piccolo cappello a larghi nastri ondati. La sua maravigliosa bellezza sembra accresciuta in grazia di un leggier pallore che le copre il viso. Niente di più bello a riguardarsi che queste due giovani amiche. La più leggiadra pagina di un albo artistico sarebbe stata quella in cui fossero state riprodotte quelle due persone, le quali alla beltà naturale congiungeano tutto ciò che la eleganza e la ricchezza del vestimento possono aggiungere alle attrattive di una donna. Alla dritta di questo sofà era un’ampia poltrona di raso cremisi, sulla cui morbida spalliera era disteso un uomo di circa trentaquattro anni. Una lunga barba gli rivestiva la mascella inferiore rafforzando la nobile e maschia serietà del bruno suo volto. Egli era vestito alla foggia inglese, ed anche tutto a nero: i suoi occhi, che avevano una forza straordinaria di sguardo e una espressione di profondo sentimento, erano fissi su Lucia Horms. Quest’uomo era l’_esquire_ Maurizio Barkley. Più lungi da questi tre personaggi, era un crocchio di donne e di fanciulli, Marietta e i suoi fratelli erano bellamente intrattenuti da alcune signore fiorentine che erano nello stesso albergo _des Princes_. Marietta, supponendo che Maurizio, Emma e Lucia avessero a parlare di cose importanti e segrete relative allo sventurato Eduardo, avea, sotto un pretesto, allontanato le signore forestiere, ed avea fatto il sacrificio della propria premura e curiosità di sentire quello che si diceva da quei tre. S’immagini dunque ognuno su quali spine dovesse stare la vispa fanciulla, sendo costretta a far compagnia a quelle dame, mentre il suo pensiero era tutto ai ragionamenti a bassa voce che si teneano dalla sorella e dai due amici. Innanzi tutto, fa d’uopo osservare che Maurizio e sua moglie si trovavano a Parigi da qualche mese, e quando le gallerie del Louvre erano già state aperte alla esposizione di arti belle. Non diremo dello smisurato dolore da cui furono compresi quei due nobili e generosi animi alla trista nuova dell’accaduto del 7 luglio, di cui Lucia avea scritto loro, e che gli aveva indotti a recarsi a Parigi, affin di mitigare l’acerbità del duolo di lei, e di cooperarsi al discoprimento dell’autore della lettera anonima, per cui il misero Eduardo era stato menato a bruttarsi di sangue, e trovavasi al presente segregato dalla cara famiglia. — È strano! esclamava Maurizio, affissando al suolo lo sguardo con leggiero inarcamento di ciglia, e in sembiante di gran concentrazione mentale. È strano, ma è pur tal cosa da rafforzare i nostri sospetti. La malvagità umana scava profondamente nelle tenebre le sue male opere, e cova i più neri disegni. Da quanto voi mi dite, mistress Horms, e da quanto io mi accingo a dirvi, avremo forse da poggiare solidamente le nostre congetture, e potremo forse arrivare a discoprire un attentato dei più infernali. Indarno il perverso annoda le sue fila nel buio e nel mistero; la Giustizia, che veglia dall’alto a punire le colpe, fa lampeggiare alcuni fatti particolari che menano in sul cammino del vero. Quel che mi avete accennato, o Lucia, sulla prima visita del Lennois in questo albergo mi ha aperta la mente... Ascoltatemi bene. Maurizio trasse la sua poltrona più dappresso al sofà, su cui eran sedute le due dame, e si chinò verso di loro, quasi per far velo del suo corpo alle sue parole, a fin di non esser udito dal crocchio di donne e di fanciulli poco discosto. La curiosità e la brama di scoprire qualche cosa che avesse potuto salvare Eduardo si leggeano sulle belle sembianze di Lucia e di Emma. Marietta era su i carboni ardenti; non sapea che contegno prendere; bruciavala una voglia grandissima di andare a sentire quel che si diceva da Maurizio; era distratta, alienata, di pessimo umore; e, se non fosse stata trattenuta dal pensiero di dispiacere alla sorella, avrebbe piantato lì le vicine di albergo, i fratelli e la noiosa conversazione, e sarebbe andata a sedersi in terzo sul sofà che l’attirava. Ella dava gli occhi alle dame presso cui era seduta, e gli orecchi spingeva, appuntava dalla banda del sofà, per carpire almeno un brano di quei parlari, che le importavano molto più di tutte le frivolezze le quali formavano il subbietto dei discorsi del crocchio in cui si trovava. — Quando io fui incaricato, diceva Maurizio, dal mio signore il Conte di Sierra Blonda a pormi sulle tracce del suo figliuol naturale Federico Lennois, cominciai, come dovete supporre, le mie visite dal sito ove questi era nato in povera culla: trassi però a Auteuil, fornito di tutte quelle indicazioni, datemi dal Conte, e che doveano servirmi a ritrovare il giovinetto. Quando io giunsi ad Auteuil, la madre di Federico non vi era più, nè si sapea di lei altro, tranne che la era sparita da quel circondario, dopo la morte della vecchia sua madre che l’avea maledetta. Nulla si sapea del giovinetto Lennois, e, per quante ricerche avessi fatte, non mi era riuscito di conoscere, se non che da vari anni egli era fuggito una notte dal tetto materno, menando seco un sacchetto di denaro che apparteneva alla madre. Questi indizi erano un niente per farmi rinvenire le orme del figliuolo del Conte; però pensai di fare una visita al Castello d’Orbeil, sapendo che la Zenaide era stata la nutrice del bambino Augusto d’Orbeil, figlio del Visconte. La famiglia d’Orbeil era a Parigi, perocchè essa non dimorava a Auteuil che nel tempo della bella stagione; ed allora eravamo nel mese di marzo. Ciò nondimeno la mia gita al castello non fu infruttuosa; dappoichè dalla gente ivi rimasta seppi che il monello Federico Lennois, fratello di latte del signorino Augusto d’Orbeil, era stato arrestato a Parigi come ladro e menato in una prigione di quella città. Ciò era quanto mi bisognava: non posi tempo in mezzo: animato dal piacere di compiere la mia dilicata incombenza, e di rendere più lieve il peso dei rimorsi al mio signore, volai di botto a Parigi, trassi a tutte le prigioni, dimandai di Federico Lennois, e, dopo non pochi stenti e indagini, giunsi a sapere che il nominato Lennois era fuggito dalla prigione dopo alquanti mesi, mercè un abile travestimento, e mercè l’aiuto di un suo compagno di carcere, cui si era accresciuta la durata della pena per una simile cooperazione ad isventare il castigo della giustizia. Mi venne un pensiero; chiesi di parlare a questo delinquente; gittai dell’oro e tosto fui introdotto nella specie di tomba ove giacea questo sciagurato a nome Paolo Dumourier. È incredibile l’ostinazione che costui pose per molto tempo nel non voler rispondermi: le più larghe promesse e le offerte più generose non valevano a fargli rompere un silenzio che distruggea tutte le mie speranze di riuscita. Benchè da molti anni il Lennois fosse fuggito da quella prigione, quell’uomo straordinario, temendo forse non saprei quali pericoli pel giovinetto da lui salvato, si tenea chiuso nella sua taciturnità; sicchè io disperava di piegarlo giammai al mio volere. Quel giorno e molti altri appresso io spesi in visite infruttuose al Dumourier; il quale, per altro, sebbene ostinato a tacersi su quanto concernevasi al Lennois, parea non mi guardasse più col sospetto di prima e collo stesso grugno. Credetti necessario rivelargli la mia incumbenza, tacendo sempre il nome del Baronetto. Sembrò non dubitare di quanto io diceva; mi diresse varie interrogazioni, come per iscandagliare l’animo mio; mi affissava sempre con certi occhi che pareano volessero iscavare nel fondo della mia coscienza; e, alla fine, un bel giorno, mi ebbi il piacere di sentir da lui raccontata filo per filo la storia della fuga del giovinetto. Allora egli non credè dover porre più limite alla sua confidenza, e, stimandomi uomo sincero e leale, mi disse che Federico Lennois avea tolto in appresso il nome di Ferdinando Ducastel; aver saputo, da una lettera di lui, essere egli in Italia al servigio di un nobile Inglese. Questi ragguagli erano più che bastanti per darmi nelle mani il filo del laberinto; e col fatto, mercè di essi, io pervenni a ritrovare in Roma il figlio del Conte nell’artista Ferdinando Ducastel, che oggi ha ripiena la Francia col suo nome. Ma quello che ora serve grandemente a noi, sono le confidenze che il giovinetto Lennois facea nella carcere a Paolo Dumourier, e che questi mi comunicava fedelmente, ispirato forse da Dio, il quale sa così bene far servire le azioni e le parole degli uomini al compimento dei suoi imprescrutabili disegni. Il Dumourier mi disse adunque che Federico Lennois gli avea rivelata la storia de’ suoi primi anni passati a Auteuil, delle sue sofferenze fanciullesche, de’ tormenti fattigli patire da una madre snaturata, e della guerra dichiarata tra lui, Augusto d’Orbeil e Giustino Victor. A questo nome Lucia mise un piccol grido di sorpresa: i suoi occhi scintillarono; il cuore le batteva con estrema violenza. Maurizio parea sempre concentrato nelle sue reminiscenze. Emma sembrava prendere viva premura al discorso del marito, ed aveva appoggiato il suo braccio al collo della diletta amica. — Sì, me ne ricordo perfettamente; questi erano i nomi pronunziati da Paolo Dumourier; i nomi de’ due nemici del fanciullo Lennois. Uditemi, uditemi attentamente. Giustino Victor ammazzava un giorno per mera libidine di odio verso il Lennois, il costui cane, sola creatura che erasi mostrata con visceri umane verso quel misero fanciullo. Giustino Victor ammazzava quella cara bestia nel momento in cui Federico, ligato ad un albero, non potea sottrarlo a que’ barbari colpi. Il Lennois, siccome egli stesso confessò a Dumourier, vergava sulla tomba del suo cane un terribile giuramento di vendetta contro Giustino Victor. Il volto di Lucia era divenuto ardente brace; il piacere di poter salvare l’amato consorte e smascherare l’iniqua trama del Lennois, le davano sussulti di gioia irrefrenabile. — Basta, basta, esclamava ella, or tutto è chiaro; ben lo diceva il mio cuore no, non m’inganno: Federico Lennois è il reo: le sue parole, le sue occhiate, tutto conferma quello che ora voi avete palesato. E voi, Maurizio, voi siete sempre il mio salvatore, l’amico che la Provvidenza mi ha dato a conforto di tutte le mie sciagure. Io lo diceva alla sorella: Scriveremo a Maurizio Barkley, ed egli salverà Eduardo, salverà noi scoprirà il colpevole autore della lettera anonima diretta a mio marito. Sì, io lo diceva che voi Maurizio, giungete sempre in tempo nelle grandi sventure; non è vero, Marietta? A questo nome la giovinetta balzò dal sito ove era, e, contentissima di essere interpellata e tolta alla noia di una conversazione che la teneva su gli spinai, volò presso la sorella maggiore, e si sedè al fianco di Emma. — Verissimo, ella rispose incontanente e senza sapere di che si trattasse; che ci è sorella? — Ci è, mia cara Marietta, che Eduardo è salvo. — Salvo! gridò costei battendo le palme per un moto di gioia infantile. E i suoi begli occhi si riempirono tostamente di lagrime; e più non potè dir parola per la contentezza che l’affogava. — Non ci abbandoniamo ancora alle nostre speranze, disse compostamente Maurizio; è un barlume che forse ci menerà allo scoprimento del vero; mi recherò a Auteuil; ho un’idea, ma niente è ancor certo, e Ducastel è oggi l’occhio dritto della nazione francese e del governo. — Ferdinando Ducastel è un infame impostore, un assassino della gloria italiana, gridò una voce di donna che nissuno avea veduta starsi all’impiedi presso al sofà. Non diremo la sorpresa da cui furon colti tutti gli astanti. — Luigia Aldinelli, sclamò Maurizio, e corse incontro a lei: io vi aspettava qui, a Parigi; ma in quale stato! In effetti: la misera giovine era sì bianca in volto e parea soffrir tanto, che Emma, Lucia e Marietta se le strinsero attorno, e circondaronla co’ segni della più sentita pietà. Luigia Aldinelli era la donna che abbiam veduta restare immobile innanzi al quadro del Ducastel, e gittarsi quindi in una carrozza per trarre all’albergo _des Princes_. Ella sapea che Maurizio Barkley era ivi. IV. IL CARNEVALE DI PARIGI I tre mesi dell’Esposizione erano passati. Il dì 15 ottobre, le gallerie del Louvre chiudevansi con gran dispiacere del pubblico parigino, il quale parea non sazio ancora di ammirare ed estollere a cielo, con ogni maniera di ovazioni, il dipinto di Ferdinando Ducastel. S’intende già che il Giurì avea decretato il premio di seimila franchi e la medaglia d’onore al quadro la _Preghiera_. È noto che il giurì si compone di membri nominati a squittinio segreto dagli artisti che espongono i loro lavori: a quelli aggiungesi dal governo un certo numero di persone appartenenti all’amministrazione delle Belle Arti e all’istituto. Il Giurì a tal modo composto decreta i premii a maggioranza di voti. Per essere eletto membro del Giurì, fa d’uopo non essere compreso nel novero de’ concorrenti; oltre a ciò, è necessario o l’aver ottenuto qualcuno de’ premii delle passate esposizioni, o il formar parte dell’Istituto. Le altre secondarie ricompense di medaglie di prima, seconda e terza classe furono accordate, pel salone del 1829, al bel quadro del Barone Gérard, che rappresentava _la incoronazione del Re Carlo Decimo nella Cattedrale di Reims_; al dipinto di Adolfo P..., rappresentante _la morte di un monaco_; ad un _Combattimento navale_ del Vernet, e ad un gran numero di paesaggi e dipinture di animali, nel quale genere i Francesi si esercitano con preferenza. Dietro un magnifico rapporto del direttore delle Belle Arti, il governo accordò a Ferdinando Ducastel la croce del merito come a colui che si aveva ottenuti gli onori del Salone del 1829. Siccome suole intervenire allo sbucciare d’una inattesa celebrità; le biografie del Ducastel col suo ritratto piovevano ne’ giornali di Parigi. Tuttavolta queste biografie erano foggiate in gran parte dal capo de’ giornalisti i quali creavano su lui romanzi più o meno verosimiglianti. Leggevasi in quelle biografie come il Ducastel avesse arricchito co’ suoi lavori i più famosi templi d’Italia, come il suo nome si fosse già renduto celebre in mezzo a quei tanti valorosi di cui l’Italia va superba; come avesse venduto per istraordinarie somme altri suoi quadri, i quali, se non dello stesso altissimo merito della _Preghiera_, erano parimente preziosi gioielli di arte da estimarsi dagl’intenditori. Su i suoi natali o sulla sua fanciullezza, questi giornali serbavano un discreto silenzio; perocchè il Ducastel non gli avea ragguagliati su questo, per ragioni troppo facili ad esser comprese. Il compratore intanto del quadro, lo scozzese sir Eduardo Horms, era tuttavia ritenuto sotto il processo dell’assassinio sulla persona di Giustino Victor. La villeggiatura autunnale avea mandato nelle campagne circostanti a Parigi i ministri della giustizia: si aspettava il mese di novembre per la riapertura delle Corti. Ferdinando Ducastel, ebbro di gloria, più non pensava alla vittima della vendetta, e libava con sommo diletto tutti i piaceri che gli procurava il suo nome. Pertanto, un giorno egli ebbe a fremere allorchè videsi avanti Augusto d’Orbeil, cui a mala pena potè riconoscere, tanto questi parea sopraffatto dal dolore per la perdita del suo amico. Federico non vedea il figlio del Visconte che dal giorno in cui questi e Giustino erano venuti a fargli visita all’albergo Mirabeau. Non ostante l’assuefazione che egli aveva a dissimulare l’animo suo, Federico non avea potuto nascondere un movimento di spavento alla vista dell’amico di Victor; lo accolse però con alquanto freddezza, e cercava sempre di addentrarsi nei pensieri di lui ed iscoprire se avesse qualche sospetto sul vero autore della morte di Giustino. Ma Augusto se gli mostrò come prima confidente e affezionato: le lagrime gli scorreano in abbondanza dagli occhi udendo a parlare del diletto infelice suo amico. Egli disse al Lennois che tutta la famiglia era tornata a Parigi fin dal principio del mese d’ottobre; che Isalina sua sorella era gravemente inferma per effetto dell’orrendo colpo che aveva straziato il suo cuore; che il Visconte suo padre e la Viscontessa sembravano inconsolabili; e che la voce di un amico, come lui Ducastel, avrebbe potuto scemare l’intensità di quel dolore. Da ultimo, Augusto gli disse che era soprammodo compiaciuto della fama e degli onori che gli avea procacciati il quadro la _Preghiera_, e il pregava di accettare le sue vive congratulazioni. Federico, rassicurato su i suoi dubbi e sospetti, si abbandonò con più franchezza alle false proteste di amicizia, e promise che sarebbe al più presto andato a riverire la famiglia d’Orbeil. Nissuna novità avvenne fino allo spirar di quell’anno 1829. Giungeva intanto il tempo in cui Parigi, zeppa di forestieri e dei suoi più prelibati abitanti di ritorno dalla villeggiatura, sembra più che in ogni altra stagione dell’anno, compresa dal delirio del divertimento. Dal dì delle strenne a quello delle Ceneri è una continuazione di balli, di concerti, di mattinate musicali, di veglie; di mascherate, di feste pubbliche e private, di berlingamenti d’ogni maniera. Tutte le più serie faccende si differiscono a quaresima. Gli uomini più gravi per età, per senno e per cariche si mettono nel carro dei piaceri e si lasciano strascinare con faciltà e con garbo; la contradanza invade il regno della politica e dei negozi. Insomma, in fatto di divertimenti, Parigi non si fa pregar due volte. Carnevale aveva annunziata la sua ricomparsa. Le _petites maitresses_, le _grisettes_ e le _lorettes_ si accingevano a far valere il loro impero. L’Opéra, la Renaissance, Mabil, Renelagh, Musard, Grignon, Deffieux, Sévres, ed altri cento luoghi pubblici aprivano le loro sale alla matta allegria. In questo tempo dell’anno Parigi non conta poveri; tutti hanno da spendere per divertirsi; il piacere mette a contribuzione volontaria il milione di abitanti di questa capitale. Nel carnevale, Parigi non si dà tanto pensiero di dettare le solite sue leggi a tutta Europa su le giubbe e sulle cuffie; essa ne lascia la cura ai direttori di giornali di mode, e non s’incarica neanche di far valere la sua supremazia... in materia di pasticci. Lo sciampagna, di cui la Francia va superba e con ragione (perciocchè è una delle pochissime cose di cui può andar superba) inonda le mense dei ricchi e non isdegna di mostrarsi in su quelle de’ modesti borghesi. Carcerato a piccole frazioni, in milioni di bottiglie, esso rompe i suoi ferrei ceppi, manda ai palchi delle stanze i suoi turaccioli, e caccia fremendo la bianca sua spuma che vien raccolta con delizia dalle labbra delle galanti parigine. I balli pubblici si aprono alla brillante gioventù francese, che vi accorre in isvariate fogge di travestimenti da maschere, a capo dei quali signoreggia quello prediletto di tutte le prostitute di Parigi, il _débardeur_[6]. Non sì tosto il clarinetto o il violoncello fanno udire le prime battute delle quadriglie carnovalesche al Vauxball e al Prado, il _débardeur_ si abbandona con frenesia alle tante mattezze che lo han renduto sì celebre. La passione della danza è personificata da questo tipo della maschera francese. Tutti gli stabilimenti pubblici, dove si balla sotto l’ispezione di un sergente di città, sono ingombri da tutti quei che non passano i trent’anni. Due franchi non mancano a nessun parigino di venti anni. A Parigi, un uomo che ha venti anni e una buona salute trova sempre i mezzi di divertirsi; anzi la sua giocondità cresce a ragione inversa del suo denaro. Possedere venti anni a Parigi è lo stesso che possedere ventimila franchi di rendita: gli è vero che i primi, al contrario di ogni altra proprietà, perdono di valore accrescendosi; ma nel momento in cui si posseggono, la felicità non è men positiva e inebbriante di quella che deriva per alcuni dal possedimento di grandi ricchezze. Nel carnevale, i teatri di Parigi sono assiepati di gente a segno che si vendono a carissimi prezzi i posti nelle quinte; sicchè veggonsi gli uomini della più alta sfera respirare la stessa aria che respirano le cantanti, i mimi, le ballerine e le _ratus_[7]. Sono più di centoquarantasette anni dacchè a Parigi si balla pubblicamente; e ogni anno si è accresciuto il numero dei ballanti e de’ luoghi dove si balla. Nell’anno 1830, a cui siam giunti colla nostra narrazione, Parigi contava all’incirca duecento sale da ballo dove si poteva essere ammesso, pagando. Il giorno 2 febbraio 1716, per la prima volta il pubblico parigino fu invitato al ballo dell’_Opéra_. Da quel giorno in poi Parigi ha ballato ogni anno senza interruzione e ogni maniera di danza, da’ passi di grazia a quelli di forza, dalla campestre contradanza[8] allo sfrenato _cancan_. La gran sala dell’_Opéra_ era affollatissima oltre l’usato nella sera della penultima domenica di carnevale di quell’anno 1830. Le fulgidissime lumiere gittavano torrenti di luce sulla folla che si agitava nel turbine del piacere. Era questo il ballo della _buona società_ parigina: banchieri, agenti di cambio, ricchi proprietarii, leoni e leonesse, tigri, colombe e _sorci_[9] pullulavano in quella sala assordata dai melodiosi concerti dell’orchestra. Non istaremo a descrivere la magnificenza, lo splendore ed il brio di questo ballo pubblico: quelli dei nostri lettori che non sono stati a Parigi in uno di questi incomparabili veglioni non se ne possono giammai formare un’immagine corrispondente alla realtà. Diremo soltanto che colui il quale venisse improvvisamente gittato nel mezzo di una di queste sale nell’ora più allegra e rumorosa, crederebbe certamente di essere il gioco di un sogno ingannatore; imperciocchè tutto ciò che l’umana fantasia può crearsi di più seducente è tradotto alla lettera e realizzato. I racconti delle fate, le maraviglie delle novelle orientali, i delirii di un voluttuoso, le immagini che si affacciano al cervello di un uomo assopito dall’_atchic_ turco, non potrebbero dare un’idea del gran ballo in maschera dell’_Opéra_ a Parigi. I Francesi ballano con grazia, con disinvoltura; e questo è incontrastabile, ed in questo noi riconosciamo reverenti ed umili la loro superiorità. Ma il più gran poeta epico è italiano, Dante; il primo scultore e architetto in tutto il mondo è italiano, Michelangelo; il più gran ristauratore delle scienze naturali è italiano, Galileo; il più profondo politico de’ mezzi tempi è italiano, Macchiavelli; il primo che abbia rischiarato colla filosofia la storia, è italiano, Vico; quegli che scoprì un nuovo mondo è italiano, Colombo. Ma a qual paese appartiene chi insegnò pel primo all’Europa il vero modo di _valsare_? In su la mezzanotte una gran folla verso l’uscio maggiore della sala attestava l’entrare di qualche personaggio ragguardevole. In fatti, l’uomo che da alcuni mesi era sulle labbra di tutt’i Parigini, il già celebre artista Ferdinando Ducastel, era stato incontanente riconosciuto sotto un ricchissimo travestimento orientale. Una schiera di amici e di curiosi lo aveano circondato; un susurro accompagnava i suoi passi attraverso la sala: egli era l’ammirazione degli uomini e il sospiro delle donne. Ducastel non lasciò verun divertimento che gli offriva l’allegra serata. Circondato, corteggiato, festeggiato, ei nuotava nella felicità e se ne saziava con una specie di avidità, quasi per vendicarsi della nimica sorte che lo avea ricolmo di sventure nella sua prima giovinezza. Tra le maschere che attorniavano il Ducastel notavasi un _dèbardeur_ di una insolenza incredibile: questi facea sempre tutti gli sforzi possibili e usava benanche di una certa violenza per istar sempre al fianco dell’artista: urtava, premea, tirava gli altri pel braccio; faceva insomma cose da matto per non perdere il suo posto allato al Ducastel: era tollerato, perchè sotto al suo mascherino si vedeva una bocca sì cara ed un mento così pallido e gentile, da non poter appartenere se non ad una leggiadra donnina: e due occhi, neri come le tenebre, lampeggiavano da’ due fori del mascherino. Ferdinando Ducastel non poteva a lungo rimanere indifferente a questa straordinaria premura e ostinazione del _dèbardeur_ a starglisi allato. Allorchè, per l’ora avanzata della notte, si diradò alquanto il cerchio de’ suoi amici, e che gli riusci d’involarsi a’ curiosi che l’assediavano, prese per mano il _dèbardeur_ ed il menò in disparte. Quella mano era di una morbidezza e di una bianchezza rarissima. — Vuoi tu dirmi, mia bella, a che debbo attribuire il piacere di averti sempre al mio fianco? chiese Federico al suo grazioso persecutore. — Non è la prima volta ch’io sono al tuo fianco, rispose questi con voce simulata e in purissimo idioma e accento italiano. Federico fece un atto di sorpresa, e cercò di riconoscere le sembianze dell’incognita sotto il mascherino. — Tu non sei francese? dimandò con turbamento e in buon toscano. — No, io sono italiano, rispose il _dèbardeur_. — Tu vorresti darmi a credere di essere un uomo, come se la leggiadria della tua persona non ti tradisse. E dimmi, dove mi hai conosciuto per la prima volta? — Laggiù, in Italia, disse la maschera. Federico affissava gli occhi con estrema curiosità su quella parte del volto del _dèbardeur_, la quale era discoperta; ma quella porzione del viso non gli ricordava nessuna antica fisonomia. — Quanti anni ha che mi conosci? — Sono circa tre anni. Questo breve dialogo fu interrotto dalla folla che venia su a gran flutti. Gli amici di Ducastel lo aveano ritrovato, e questa volta a forza lo strascinavan seco loro. Egli ebbe appena il tempo di dire al _dèbardeur_, — Alle cinque in punto da Very; verrai? — Immancabilmente. E si perdettero entrambi in mezzo alle maschere. Alle cinque, in fatti, il _dèbardeur_ si fece trovare alla porta d’ingresso del rinomato trattore Very. Federico era solo: ei si cacciò il braccio della misteriosa maschera sotto al suo, e chiese a uno de’ garzoni del luogo: — _Un cabinet particulier._ Entrambi furono introdotti in uno di quegli stanzini, dove tanti oltraggi riceve il pudore, e dove un garzone non può entrare senza esser chiamato dalla discreta corda del rispettivo campanello. Una tavola con due posate era imbandita. Il _dèbardeur_ era stanco a morte, ma non avea appetito. Federico mangiò per due. Il mascherino era sempre sulla faccia del misterioso compagno di cena. A dispetto delle istanze e delle preghiere del Lennois, quegli non avea voluto smascherarsi. Poche parole si erano scambiate tra loro durante la cena. Federico si versava frequentemente da bere lo sciampagna e il Reno, e offrivane alla sua bella italiana, la quale sfiorava col labbro i bicchieri. In sul finir del banchetto, Federico avvinacciato si alzò. — Or voglio assolutamente conoscere chi tu sei, egli disse, e contemplare tutto il tuo leggiadro visino. È inutile ogni tua resistenza, o bella italiana; giù la maschera! E la sua mano si portava verso il volto del _débardeur_ per istrappargli il mascherino; ma questi si alzò, afferrò il braccio del Lennois, e pacatamente gli disse: — Un momento, signore, un sol momento, e il vostro desiderio sarà appagato. — E che si ha da attendere, vezzosa pallidetta? dicea barcollante il Lennois cercando di svincolarsi per chiudere nelle sue braccia la bella incognita e strapparle il mascherino. — Ditemi prima: non avevate, voi in Italia nessun amico? — Che cosa vuoi ch’io mi ricordi ora, rispondeva l’ebbro Lennois. A quest’ora, con tanto sciampagna in testa, e col riverbero dei tuoi occhi che m’incendiano il cuore? — Non vi ricordate di nessun amico a cui foste ligato per parecchi mesi? — Al diavolo tu e gli amici! Faresti meglio a dirmi qualche parola di amore, o il più amabile dei _débardeurs_! E ti ostini sempre a non farmi vedere il tuo volto d’angelo, su cui ardo di stampare i miei baci? — Or ora farò il tuo volere.... Versami da bere; versami del _rosso_, che voglio fare un brindisi alla tua salute e alla tua gloria, illustre artista! — Ben pensato; sì, fammi un brindisi... e poi... Con mano vacillante per l’ebbrezza versò del _bordeaux_ nel bicchiere del _débardeur_, e versò da bere anche per sè. L’incognito alzò il bicchiero, con ferma voce intuonò questo brindisi già noto a’ nostri lettori: Per passar lungamente e felici Questo sogno che vita si appella, Sempre a mensa restiam cogli amici, Esultiam tra l’amore e il bicchier. Viva il vino e Clorinda la bella; Da noi lungi ogni tristo pensier! È impossibile a rendere l’espressione del volto di Federico a seconda che colui pronunziava questi versi. La ebbrezza sembrò sparire in un momento: ei diventò pallido come un morto. — Come sai tu questi versi? Dove gli hai uditi? chiedeagli con voce soffocata. — Dalla Valdelli, a Pisa! ti ricordi? rispondeva impassibile la maschera. — Dalla Valdelli; a Pisa! ripeteva Federico, tu dunque mi conoscesti in casa della Valdelli? Ah? indovino, tu sei sua sorella, la cara Giannina! E la sua mano si levava di bel nuovo alla maschera del _dèbardeur_; ma questi afferrò di bel nuovo e con forza quel braccio. — No, io non sono sua sorella, come tu non sei l’autore del quadro la _Preghiera_. A simili parole il viso di Federico diventò come quello di un demente. — Donna, uomo o demonio, chi sei tu? Parla, o ch’io... L’incognito si tolse il mascherino e disse: — Riconoscimi infame; io sono... Ugo Ferraretti! Federico mise un grido straziante, e cadde sulla sedia come colpito dalla folgore. Intanto il _dèbardeur_ canticchiava lentamente: Viva il _rosso_ e Clorinda la bella; Vada a monte ogni tristo pensier! V. LUIGIA ALDINELLI Il _débardeur_ altri non era che Luigia Aldinelli. Pria che spieghiamo un tal mistero a’ nostri lettori, sentiamo il dovere di rischiarare alcuni particolari della vita di questa giovinetta, la quale occupa di presente un posto così importante nella nostra narrazione. Luigia Aldinelli, siccome è noto a’ nostri lettori, era figlia naturale del Baronetto Edmondo Brighton. Non è nostro intendimento il tesser la storia di quest’altra seduzione, dappoichè abbiam già raccontato altri traviamenti di questo genere, e ne abbiam vedute le molte funeste conseguenze. È mestieri tuttavolta, per la chiarezza del nostro racconto, far conoscere in che modo la sventura travagliò fin da’ primi anni la vita di Luigia, e come su lei sembrava che il cielo avesse voluto far cadere la espiazione della colpa de’ suoi genitori. E questo non è mica raro nel mezzo degli uomini; e non pochi fatti della storia umana ne confermano in questa verità, che spesso hanno i figliuoli a patire le pene meritate da’ falli dei padri. L’origine della famiglia Aldinelli rimonta agli sventurati tempi delle civili discordie dei Guelfi e Ghibellini. Nota è la storia di Antonio Bandinelli in Firenze, barbaro guelfo, il quale perseguitava con odio inflessibile il nominato Lanucci non pur per ispirito di parte politica, ma per altre particolari ragioni, cui per brevità tralasciamo di menzionare. Costretto a difendere la propria vita contro un impensato assalto del Bandinelli, il Lanucci era rifuggiato a Pisa, dopo aver lasciato immerso nel proprio sangue il suo avversario. Ma il guelfo non era morto; e un giorno il Lanucci si vide fulminato da una sentenza di bando e di confisca di tutti i suoi beni. Non potendo più rientrare nella sua patria, Firenze, il Lanucci continuò a starsene a Pisa, presso un suo affezionato amico per nome Belfiore, il quale aveagli offerto la propria casa ad asilo di sicurezza. Una breve sala divideva le camere da letto dei due amici. Una notte un fioco gemito partì dalla stanza ove dormiva il Belfiore. Il Lanucci accorre, ed oh spettacolo d’orrore! un pugnale era conficcato nel seno dello sventurato: pochi istanti ei visse e non ebbe nè il tempo nè la forza di rivelare il suo assassino. Il Lanucci, compreso da pietà e da dolore senza fine, cadde sulle spoglie esanimi del diletto amico, e quivi rimase lungo tempo privo di sensi. Trovato sul cadavere dell’estinto, egli ne vien creduto l’assassino, e menato in carcere, non ostante le più alte proteste d’innocenza. Un processo s’istituisce contro di lui; la sua disperazione vien creduta un’astuzia per farsi credere innocente; tutto ciò ch’ei dice non distrugge le prove del supposto delitto. Una condanna di morte è pronunziata sul suo capo. Rassegnato a’ voleri del cielo, lo sventurato Lanucci si prepara all’estremo supplizio. Suona l’ora di morte: egli avanza con maestà verso il palco di esecuzione; la scure è per troncar la sua vita, quando un alto mormorio e grida di letizia fermano il colpo fatale. Un corriere è giunto da Firenze a briglia sciolta: l’assassino di Belfiore è stato scoperto: egli era uno scellerato emissario del Baldinelli il quale, essendosi, di soppiatto e col favor delle tenebre, introdotto nella dimora della sua vittima, avea scambiato le stanze, e, cacciatosi in quella in cui dormiva il Belfiore, aveva immerso un pugnale nel petto di costui, credendo immergerlo in quello del Lanucci. Lo stesso Bandinelli avea confessato il delitto e dichiarata l’innocenza dei suo avversario. Da quel tempo in poi esecrato fu in tutta la toscana il nome de’ Bandinelli, i quali, per quest’odio che un tal nome attirava loro addosso, si videro costretti alla più deplorabile miseria; ed uno di essi, per isfuggire alla sorte comune, ritiratosi in un villaggio sulle sponde dell’Arno, aveva cambiato il suo nome in quello di Aldinelli, togliendo e sostituendo alcune lettere. E questa fu l’origine della novella famiglia toscana, ultimo rampollo della quale era Luigia. Sua madre fu vittima del più sleale tradimento fattole dal milionario Conte di Sierra Blonda. Una funesta casualità avea fatto incontrare Stefania Aldinelli col ricco Inglese. Bella sovra modo, ella gli avea ispirato una di quelle passioni le quali ne’ cuori depravati fruttano le più nefande opere. Ahi! perchè la virtù deve esser tante volte posta al cimento dalla luce dell’oro! perchè questo metallo ha tanta possanza di rendere ribelli ad ogni legge ad ogni dovere i cuori meglio formati! Il Conte avea giurato di sposar Stefania; ma un tal giuramento non servì che a compiere la seduzione obbrobriosa sulla sventurata e onesta donzella. Poco tempo dopo del segreto nascimento di Luigia, Stefania maritossi con un Ridolfi di Firenze, e die’ alla luce un altro figlio, il quale ebbesi nome Carlo. Il marito di Stefania morì alcuni anni dopo la nascita di questo fanciullo. La madre amava di pari amore entrambi i suoi figlioli; ma non così il fratello amava la Luigia, cui egli opprimea co’ più rozzi mali trattamenti. Non ostante la viva tenerezza materna, che le facea scudo, Luigia vivea la più sventurata fanciulla del mondo, in conseguenza di quest’odio fraterno che pesava su lei, e che ogni dì vieppiù si accresceva, a seconda che la ragione e le passioni di Carlo si sviluppavano. Venne a porre il colmo alla sventura di Luigia la morte di sua madre Stefania. Strazianti di tenerezza furono gli addio di queste due donne che tanto si amavano: Addolorava le ultime ore di quella vita di madre il pensiero che la diletta figliuola sarebbe rimasta quindi innanzi sotto il potere dello snaturato fratello, il quale dameno di una schiava trattavala. Il perfido Ridolfi promise alla moribonda genitrice di avere per la sorella sensi più umani: ma il suo cuore smentiva ciò che il suo labbro pronunziava, e l’avvenire giustificò le giuste materne apprensioni. Innanzi di spirare, l’amantissima madre donava alla figlia un prezioso anello, antica ed unica eredità della famiglia Bandinelli, trasmessa da padre in figlio; e le soggiunse di non mai dipartirsi da quell’anello, il quale rappresentava in terra il legame che dovea ricongiungerle in cielo. Luigia il baciò mille volte e sel pose al dito per non più separarsene. I nostri lettori han già veduto questo anello al dito della figura inginocchiata dipinta nel quadro del Ferraretti. Luigia restò sola col fratello, il quale possedeva alla Cascina, poco discosto da Pisa, alcuni poderi lasciatigli dal padre. Non avendo alcun negozio che l’obbligasse a rimanersene a Pisa, egli volle ritirarsi alla Cascina, e seco menò la disgraziata Luigia, alla quale ingiunse di lavorare per procacciarsi il pane; che egli intendeva darle solamente il tetto sotto cui dormiva; ma che, in quanto alle altre necessità della vita, ella dovea provvedersene colle proprie fatiche. La fanciulla si pose al duro stato cui dannavala il cielo. Umile, dolce, rassegnata, ella non proferì giammai una parola di sdegno contro il suo tiranno, e accettò con cristiana virtù la croce che le veniva imposta. A Pisa, per natural talento, e quando ancor vivea la madre, ella solea prendere sommo diletto a formare immaginette di cera, le quali spesso riuscivano sì gentili e perfette, che sua madre ne iva superba; e le amiche e le vicine pregavanla sovente di regalar loro qualcuna di queste fatture della Luigia; al che costei, dolce e amorevole quanto fosse mai fanciulla al mondo, prestavasi con buonissima voglia, e porgeva a dritta e a manca tutto ciò che le venia richiesto. E via via lavorando sempre per diletto, ella giunse a tal perfezione di artista, che molte cospicue donne pisane la fecero pregare di voler far loro il piacere di ornare i loro salotti con qualcuna delle sue belle immaginette; e queste commissioni non finiron per qualche tempo, e con esse di bei regalucci che rendevano la sua sorte alquanto meno trista. Or di questa sua virtù l’onesta fanciulla si valse per lucrarsi il pane che il sordido fratello le dinegava. Ella lavorava alla Cascina le sue immaginette di cera, le quali eran poscia vendute a Pisa, a Livorno, a Firenze, ed in altre città della Toscana. Nè del prodotto delle sue fatiche ella era padrona; imperciocchè suo fratello mettea le mani sul denaro che le proveniva, sotto il pretesto che egli spendea di bei quattrini per alimentarla e vestirla. Con tutto questo, non cessavano i disumani trattamenti verso di lei: anzi, quando più ella mostravasi buona, ubbidiente, rassegnata, tanto più il Ridolfi la caricava di asprezze tali, che peggiori non ne avrebbe sofferte una schiava in una delle piantagioni dell’America meridionale. Luigia era venuta a quella età, in cui la donna non ha d’uopo soltanto di esser nutrita e ricoperta di panni; bensì sente un bisogno nel cuore, il quale, ove rimanga non soddisfatto, sparge un velo di malinconia sull’anima, intristisce la vita e rendela quasi importabile; massimamente quando nella prima età le dolcezze d’un affetto materno sono state all’improvviso tronche dalla mano di morte. Luigia videsi abbandonata nella più tetra solitudine del cuore; e però a Dio si volse quell’anima candida, e, spesse volte, nelle sue notti lagrimose, sognò la ineffabile quiete del chiostro. Ed un bel dì ebbe il coraggio di aprire l’animo suo al fratello, e rivelargli la tendenza ch’ella sentivasi per la vita monastica. Si crederà impossibile che a questa semplice manifestazione di un sì pio desiderio, il ribaldo avesse risposto portando la scellerata sua mano sulla guancia della misera, e soggiungendole che, se una altra volta simigliante idea le fosse venuta nel capo, ed ella avesse ardito palesarla, egli avrebbela sottoposta a così severo castigo da farnela pentire per sempre e da cacciarle dal capo la voglia di prendere il velo. Si capisce che non era mica avversione al chiostro che spingeva il Ridolfi a mostrare tanta asprezza alla sorella, ma sì bene l’interesse e la brama di non perdere il considerabile profitto che traeva dalle fatiche di lei. La Luigia intanto, comechè sofferente e misera, cresceva sì bella che il suo viso rassembrava a quello di una madonnetta, e di quelle che han renduto sì celebre il pennello del Leonardo da Vinci. Le sue sembianze pallide e fine, i suoi occhi neri a forma di mandorle, la folta massa dei suoi capelli di ebano le davano tanta poesia; che al vederla si sarebbe detto esser nata quella donna per ispirare le più grandi passioni. Un avvenimento sopraggiunse, il quale, invece di rendere meno trista e dura la sorte di Luigia, non fece che accrescerne i triboli e la schiavitù. Questo avvenimento fu la venuta di Maurizio Barkley a Pisa, apportatore del tardo frutto del pentimento del Baronetto Brighton. Il Barkley ignorava in quali mani stesse la sventurata figliuola di Stefania Aldinelli; epperò si rivolse primamente al Ridolfi per aver contezza di lei. S’immagini ognuno il contento che dovè provare quell’ingordo al sentire che indi innanzi l’Aldinelli non era più povera, e nel vedersi tra mani una polizza di duemila scudi. Essendo Luigia minore di età, il Ridolfi amministrar doveva ciò che le apparteneva: egli adunque firmò le ricevute e incassò il denaro. Maurizio vide l’Aldinelli; e il costei dolcissimo aspetto il commosse; chiese al fratello minuta relazione della vita di lei; e questi improvvisò un tenor di vita come giammai non fu goduto da donna nel mondo. Ciò non di meno, l’aria di mestizia che copriva le sembianze della fanciulla smentiva le bugiarde parole del Ridolfi, e Maurizio non istette lungo tempo ad accorgersi che l’Aldinelli soffocava nella più umile rassegnazione i più crudeli trattamenti. Ed ora più che mai la tapinella non potea neanche sognare la vita del chiostro: imperocchè sapeva che il fratello aveva ora più che mai interesse a ritenerla presso di sè, a cagione della nuova fortuna che le era sopraggiunta, e di cui ella non godea che poco o niente. Carlo Ridolfi non tanto temea le tendenze di lei a chiudersi in un convento, quanto un matrimonio che avrebbela per sempre tolta alla sua tutela, ed avrebbe fatto passare ad altri i begli scudi che una incognita e misteriosa mano non mancava di mandarle ogni mese. Laonde non è a dire con qual severità egli guardassela, e come le proibisse di cacciare il piede fuori delle mura della casa, per tema che la bellezza di lei non avesse attirata l’attenzione di qualcuno e lo avesse indotto a sposarla. Un marito, come vogliasi brutale e geloso, non avrebbe usate maggiori violenze e crudeltà sulla persona della moglie, di quelle che usava il Ridolfi in sulla infelice sua sorella uterina. Ogni dì era lo scoppio d’un insano furore, che veniva cagionato da’ sospetti di lui; e ogni dì crescevano le contumelie, le sofferenze, i rigori a tal termine che la vita della meschina ivasi rendendo insoffribile; quando, a sopraccarico di sventure, un giorno il fratello le dichiarò di averle trovato un marito, e che si fosse apprestata ad accogliere le _dolci_ catene del matrimonio. Questo marito che il Ridolfi le proponeva altri non era che un suo compagno di dissolutezze, ruinato da debiti, e con cui il Ridolfi, volendo assicurar per sempre i suoi vantaggi sull’assegnamento della sorella, avea patteggiato di dividerne gli scudi mensuali. Luigia si armò del più gran coraggio, e solennemente significò che sarebbe morta piuttosto anzi di accondiscendere a così fatta unione. Ingiurie, violenze, battiture furono la natural conseguenza di questo suo ardimento, per cui maggiormente si ribadirono le catene della sua schiavitù. Oh! la trista condizione, a cui la società pone la donna! Il servaggio è tutto ciò che le si concede sotto sembiante di protezione! Le leggi, fatte dagli uomini, non hanno occhi per le domestiche tirannie; e la donna, questo essere così caro, capace di tanto amore e di tanti nobili e ignoti sacrifici, non è spesse volte che la più misera delle creature, senza ricevere neanche il premio di un compianto. I tesori di sensibilità che erano sepolti nel cuor di Luigia erano serbati a spendersi in un amore nobilissimo e puro. Spesso Iddio riunisce sulla terra la sventura e il genio, e Luigia rappresentava la prima, come Ugo Ferraretti il secondo. Alcun tempo dopo la morte della madre del Ferraretti, Ugo si piaceva a vagare nelle più solitarie campagne, ove il traeva natural vaghezza di malinconici pensieri, e quel rincrescimento di ogni umano consorzio, il quale suol tener dietro alle grandi pene del cuore. E gli intervenne però che, avendo un bel dì protratta la sua passeggiata insino a poche miglia da Pisa, trovossi in quella parte della campagna che si domanda la Cascina. Vinto dalla stanchezza, egli si era seduto sovra una specie di collina rivestita della più fresca vegetazione, quando, volgendo a caso gli occhi attorno a sè, ebbe veduta non molto lungi, in sul terrazzo di una sottoposta casina, una fanciulla, la cui pallidezza, congiunta a beltà singolare, fecegli battere il cuore a tal modo, che mai per lo addietro non avea provato. Ed allorchè l’Aldinelli, chè era dessa per lo appunto la fanciulla, ebbe levati gli occhi, quasi chiamata da misteriosa voce, Ugo Ferraretti restò compreso di sommo piacere e maraviglia dall’angelica espressione di quello sguardo, il quale era tutta una storia di virtù e di pianto. La sventura riunisce presto i cuori e forma quelle prepotenti passioni, cui niuna forza basta a distruggere. Da quel dì Luigia ed Ugo si amarono, e segretamente sel confessarono: le loro notti furono visitate da immagini di paradiso; i loro giorni non furono contati che dalle ore in cui si vedeano. Luigia sapeva, con quell’astuzia che dà l’amore, ingannare la vigilanza del suo tiranno: pertanto alcune volte ella era costretta a nascondersi agli occhi del suo diletto, ovvero a mostrarglisi a traverso il breve spiraglio d’una maniera di carcere, sottoposto al rialto su cui veniva il Ferraretti a passar le lunghe ore, le quali eran per lui rapidissimi istanti. Ben si comprende che un tale amore, nutrito soltanto dalla simpatia di quelle anime, dovea restare nelle più fitte tenebre; ed ecco perchè la Luigia aveva richiesto al suo innamorato di non palesare ad anima viva la loro corrispondenza, per tema che la voce non fosse arrivata agli orecchi del Ridolfi, e avesse costui distrutto per loro ogni speranza di più rivedersi. Ugo, come altrove dicemmo, non avea detto giammai parola a Luigia del quadro cui lavorava, e che era il più schietto ritratto delle adorate sembianze di lei. E mai nol mostrò a nissuno, temendo che il segreto del loro amore venisse discoperto, a grande offesa della pace dell’Aldinelli. Vittima del disegno infernale di Federico Lennois, il Ferraretti, immerso con lui in ogni maniera di svagamenti e di piaceri, aveva, se non dimenticata, abbandonata la sua Luigia, la quale quanto di ciò dovesse soffrire, ben può immaginarsi. Supponendo da prima che il giovine artista fosse travagliato da qualche malattia, aspettava con impazienza angosciosa alcuna novella di lui; ma non tardò ad assicurarsi che, ben lungi dall’esser confinato a letto, egli scorrazzava per la città, in cerca di biscazze, di osterie e di altri simiglianti luoghi di dissipazioni: seppe altresì che a compagno di divertimenti egli aveva un tal Ferdinando Ducastel, anche pittore e francese. Luigia Aldinelli avea subornata una di lui fantesca, la quale in ogni due giorni rendevale conto di quanto operava il Ferraretti; ed una sera, ella veniva informata che, vestiti da maschere, i due compagni traevano alla festa della Valdelli, la cui pessima riputazione fece raccapricciare il cuore dell’onesta donzella. Il dolore e la disperazione le dettarono un proposito ardito, e di cui non son capaci che le donne le quali amano profondamente. Verso le quattr’ore della notte, ella avea fatto sembiante di dormire per illudere la vigilanza del suo Argo, si gitta dal letto, si veste in fretta, e al buio perfetto esce dalla sua casa, corre attraverso i campi, giunge a Pisa un po’ prima della mezza notte, si provvede dell’abito di un dominò, e si caccia in mezzo alla folla che ingombrava le sale della Valdelli. Il suo cuore fu lacerato dalla gelosia veggendo il suo amante non dipartirsi un momento dal fianco di quella donna. Un quarto d’ora di valzer ballò il Ferraretti con la bella cantante, e quell’ora fu un ora d’inferno per la misera Luigia. Ella vide poscia entrar la coppia nel salotto dov’era imbandita la cena; e, gittatasi sovra un sofà il quale aderiva con la spalliera ad un coltrinaggio del salotto, udiva ogni cosa e vedeva tutto ciò che ivi accadeva. Ella fu testimone della orribile crisi sopravvenuta al suo amante, e i nostri lettori ricorderanno il grido straziante che fu messo da lei nel momento che il Ferraretti soccombeva all’eccesso dell’eccitamento del valzer. È noto il rimanente di quello che operò l’Aldinelli alla morte del suo amante. La maschera di cera che ella traeva dal volto del cadavere, a ricordo del più sventurato amore, dovea servirle a strumento di vendetta contro il perfido Lennois. I nostri lettori avranno compreso che sotto il mascherino del _débardeur_ era la maschera di Ugo Ferraretti, da cui era interamente coperto il volto dell’Aldinelli. Or più non ci rimane a dire tranne che, minacciata di morte dal perfido Ridolfi, e stanca di mali trattamenti e di violenze, ella si era sottratta dalla casa del fratello, ed era venuta a Parigi, ove sperava trovare in Maurizio Barkley consiglio e protezione. Diremo ciò che ella fece a Parigi, e la ragione per cui, veduto il quadro all’Esposizione del Louvre, e riconosciute le sue sembianze nella creduta opera del Ducastel, ella non avesse indugiato a far palese la nera falsità di cui si era renduto colpevole l’artista francese. VI. SMASCHERAMENTO Abbiamo detto che dopo la morte di Ugo Ferraretti, Luigia si era sottratta alla tirannide del fratello. Ella era fuggita nel colmo della notte, provveduta di una piccola somma che per ispecial favore il Ridolfi le avea conceduta sulla parte dell’eredità del Baronetto: ella erasene andata dapprima a Pisa in casa di una tenerissima amica di sua madre, la quale approvò la condotta di lei; chè troppo conte le erano le crudeltà del sordido fratello, e le promise di serbare il più gran segreto sulla permanenza di lei in sua casa. E qualche tempo Luigia rimase in sicurtà appo questa amica, lamentando un dolore, cui lo stesso tempo non potea mitigare. Ella passava gran parte della giornata a lavorare; ma di notte non dormiva, chè dava sfogo all’affanno che le pesava sul cuore; e bagnava i suoi guanciali con disperate lagrime, e abbracciava nei trasporti del suo delirio l’immagine del suo estinto Ferraretti. Qualche volta, ella si metteva a sedere nel mezzo del letto, tenendo tra le mani la maschera del suo diletto, sulla quale venivano a cadere i morti raggi della notturna lampada. Questo ella non facea di giorno, perciocchè avea promesso all’amica di non abbandonarsi alle crudeli angosce di rimembranze sterili e funeste. Tuttavia, quando si alzava il mattino, le profonde occhiaie scavate sulle gote e l’estremo pallore del volto rivelavano abbastanza in che modo avesse passata la notte; di che la tenera amica rimproveravala con uno di quegli sguardi più eloquenti di qualunque discorso. Luigia amava Ugo Ferraretti con quell’amore che tanto più è vivo ed intenso, quanto meno nutrito da speranze. La morte del giovine artista lungi dallo spegnere questa fiamma, l’avea alimentata col fuoco della disperazione. Un solo era ormai il desiderio di questa misera giovinetta: ricongiungersi, morendo, al suo caro. Qualunque ragionamento che le si faceva per indurla a dismettere la tristezza che l’opprimea, le riusciva molesto e fastidioso; dappoichè ella sentiva che non era nelle sue facoltà lo strapparsi dal cuore una passione in cui avea riposta la sua vita; nè potea persuadersi a dimenticare l’estinto Ferraretti, però che ella dicea lui non esser morto, ma sibbene partito per una regione, a cui tra poco ella stessa andarne dovea: dicea di amare, non il corpo, ma l’anima di Ugo, la quale, sendo immortale, non era soggetta ad estinguersi e consumarsi; sapeva insomma trovare di tali argomenti ed arzigogoli da pascersi di lugubri fantasime sino a caderne inferma, e sino alla minaccia di follia. Non passarono molti mesi dalla sua dimora in Pisa, che discoperto venne da Carlo Ridolfi il suo asilo: questa novella arrecò dolore grandissimo all’amica di Luigia, la quale comprendeva ormai la necessità di doversi dividere dalla cara e sventurata giovinetta, che a tal modo sarebbe rimasta abbandonata in balìa del suo dolore, ovvero restituita novellamente in potere del dispotico fratello. Una mattina, due ceffi di uomini, nell’un de’ quali riconobbesi Carlo Ridolfi, e nell’altro colui che doveva impalmar la Luigia, si presentarono a casa della costei amica, chiedendo con maniere rozze e bestiali, lor venisse renduta quelle donna, a cui dettero epiteti infamanti e osceni. Soggiunsero che se di buona voglia la non si fosse renduta loro, avrebbero, per via della autorità e delle leggi, costretta la consegna di lei. La amica di Luigia, con coraggio superiore al suo sesso, rispose che non avrebbe giammai acconsentito a consegnar nelle loro mani l’onesta fanciulla, figliuola della più diletta amica ch’ella s’avesse, e che, se le leggi e l’autorità glielo avessero comandato, avrebbela tosto restituita a chi di dritto; facendo pertanto conoscere a tutti le sevizie, le estorsioni e i mali trattamenti di ogni maniera, ond’egli, il Ridolfi, opprimeva la sventurata donzella. Non sappiamo se furon queste ultime o altre le ragioni che indussero que’ due ceffi a desistere per un momento da ogni violenza; certo si è che, bufonchiando tra i denti vituperevoli parole e forse alcune bestemmie, si partiano di malissima voglia, e in sembiante di chi mediti estremi propositi. La Luigia intanto, la quale tutta tremante e spaurata avea udito, a traverso di un muro soprammattone, il colloquio della sua amica con que’ due ribaldi, e che si era veduta libera, almen pel momento, dalla violenza di coloro, pregò subitamente la dolcissima amica di volerle permettere che si allontanasse da quella casa, in cui non potea rimanersi in sicurtà. Alla qual persuasione, comecchè a contraggenio, dovette affarsi la buona donna, e, dandole ogni ragione di consigli, di raccomandazioni e di aiuti, si separò da lei, sul cui capo genuflessa implorò la benedizione di Dio. Luigia Aldinelli trasse a Livorno, dove era stata raccomandata, in qualità di esimia lavoratrice d’immaginette, ad un vecchio ed onesto scarpellino di questa città. Da due oggetti l’Aldinelli non si era mai divisa, dall’anello di sua madre e dalla maschera di Ugo Ferraretti, la quale era per lei tutto ciò che può attaccare una donna alla vita, perocchè su quella parlante immagine affisava la miserella per lunghe ore gli sguardi, e vi beveva un dolcissimo tossico, e vi si confortava con le più ardenti speranze di essergli congiunta nel cielo. Ma parea che un fato incomprensibile si piacesse a perseguitar questa misera; giacchè una lettera della sua amica da Pisa avvertivala che suo fratello, nella massima rabbia di vendetta, accingevasi a venire a Livorno per istrapparla alla quiete; se non alla felicità della presente sua dimora. La Luigia era stanca di tali persecuzioni; e, volendo porsi a salvamento da ogni ulteriore violenza, pensò di scrivere al solo amico che ella si avesse nel mondo, Maurizio Barkley. Aspettando la costui risposta dall’Inghilterra, si era intanto ritirata in un sobborgo di Livorno, rimoto e solitario, ove menava miserissima vita, o dove con ansia aspettava che l’operaio scultore livornese, a cui era stata raccomandata, le avesse fatto ricapitare la sospirata lettera del Barkley. La quale non tardò ad arrivarle; perciocchè Maurizio giammai non mettea tempo in mezzo nel venire a soccorso de’ sofferenti e de’ miseri. In quella risposta, ripiena delle più calde dimostrazioni di amicizia, Maurizio le facea sapere che, per un funesto avvenimento accaduto al fratello di lei, Sir Eduardo Horms, egli dovea recarsi immantinente a Parigi; epperò le ingiungeva di non frapporre alcun indugio ad imbarcarsi sul primo vapore diretto a Marsiglia, e trarre a dirittura alla capitale della Francia; dove egli si sarebbe trovato immancabilmente all’Albergo _des Princes_, strada _Richelieu_. Il generoso e nobile Maurizio avea messo nella sua lettera una cambiale a vista sovra un banchiere di Livorno, per la somma di mille franchi. Le lagrime della riconoscenza irrigarono le pallide gote di Luigia; ed ella volse al cielo i suoi begli occhi in atto del più fervido ringraziamento. — E si partia tosto da Livorno, dopo avere scritto una tenerissima lettera di addio alla sua amica di Pisa, e dopo aver ringraziato lo scultore di Livorno per le cure ed assistenza prestatele durante la sua permanenza in questa città. Luigia Aldinelli giungeva in Parigi verso il mezzo del mese di settembre dell’anno 1829, vale a dire, due mesi all’incirca dacchè le gallerie del Louvre si erano aperte all’esposizione di quell’anno. Smontata appena dalla diligenza, ella si era fatta condurre all’albergo _des Princes_ per chiedere di Maurizio Barkley, ma le venne detto che questi era uscito fin dalla prima ora del mattino, e non si sapea a che ora fosse di ritorno. Luigia, straniera ed ignorante di tutto e di tutti in quella vasta capitale, non sapendo che cosa farsi di quelle lunghe ore che la dividevano dal momento in cui avrebbe riveduto l’amico Barkley, si era fatta condurre in carrozza a passeggiare pei _Boulevards_. Arrivata presso le Tuilleries, vide una gran folla che pareva trarre verso un luogo, quasi mossa dalla curiosità di qualche spettacolo; però ne chiese, come meglio potè al cocchiere, il quale disse che quella folla traeva ai corridori del Louvre aperti alla pubblica mostra di Belle Arti. Per cercare una distrazione ed una occupazione Luigia si condusse appresso agli altri in quelle sale, e vide che tutti sembravano convergere verso un sol punto, dove forse era esposto il quadro del più gran merito. Ben s’intende che la curiosità, spinse l’Aldinelli ad immischiarsi in quella folla, e trarre assiem con gli altri nella gallerie in cui era esposto il quadro la _Preghiera_. Non tenteremo di dipingere l’immensa sorpresa da cui fu colta la giovinetta nel portare i suoi sguardi su quella tela nella quale parea palpitare l’anima ed il genio del Ferraretti. Ella non prestava credito agli occhi suoi, tenendo come illusione della fantasia quel dipinto; le sue proprie sembianze eran quelle ivi ritratte; quello il suo vestimento; l’anima sua quella che si vedea negli occhi rivolti al cielo; quello in fine l’anello che splendea al dito dell’inginocchiata: non ci eran dubbi! Quel ritratto era il suo, e l’autore di quel ritratto altri non poteva essere che Ugo Ferraretti, il suo amante. Però ella gittò incontanente gli occhi sul nome posto a piè del quadro; e la sua meraviglia ed il suo dolore furon smisurati nel leggere un nome francese a vece del vero italiano. Quel nome erale noto: esso era quello dell’amico dell’estinto Ferraretti, di colui che gli aveva forse accelerata la morte coll’immergerlo nelle più pericolose orgie. Il lampo della verità balenò alla mente di lei quando le ricorse al pensiero averle il suo amante parecchie volte accennato vagamente che ei stava sopra un lavoro di qualche lena; e questo era certamente il quadro che ora colpiva gli occhi suoi; e questo, senza dubbio alcuno, era stato involato dal perfido francese, dopo la morte dello sventurato giovine artista italiano. Una simile infamia metteva un incendio nell’anima di lei, sicchè ella non sapea staccare i suoi sguardi da quella tela; e la sua faccia, or bianca come per morte, or soffusa di rossore, esprimeva a vicenda la sorpresa, il dolore, la rabbia e una certa commozione di piacere. E cosiffattamente era ella tutta sospesa col pensiero e cogli affetti in sul quel quadro, che punto non si avvide della straordinaria ammirazione di cui ella stessa era divenuta l’oggetto, in simil guisa che tutti gli astanti compresi da stupore, guardavan lei ed il quadro, ed eran vivamente colpiti dalla strana rassomiglianza tra essa e l’immagine dipinta. Nè badò al mormorio che le si facea dattorno e che vieppiù si prolungava, richiamando sempre l’attenzione degli spettatori e de’ nuovi arrivati. E poscia che qualche ora fu rimasta al cospetto della creduta tela del Ducastel, Luigia si partì dal Louvre in gran fretta; un pensiero le saettava il cervello: smascherar subitamente tanta infamia e tanta impostura, e restituire alla memoria del Ferraretti gli onori che un ladro esimio involavagli. Arrivata alla piazza Carrousel, ella voleva ritornare indietro per andare a cancellare pubblicamente l’infame nome del Ducastel sotto quella tela, e restituirvi quello di Ugo Ferraretti a cui si apparteneva; ma si trattenne temendo di non ruinare per imprudenza lo smascheramento dell’impostore. Fra pochi istanti ella dovea riveder Maurizio Barkley; onde fermò di parlarne a costui e prender di concerto le risoluzioni su ciò che si avesse a fare. Gittatasi però novellamente in carrozza, ella era tornata all’albergo _des Princes_, dove venne introdotta nell’appartamento di Lucia Horms, nel momento in cui Maurizio Barkley, Emma, Lucia e Marietta erano in conversazione intorno alla sorte di sir Eduardo Horms. Ella era giunta, inosservata da que’ quattro, nel punto in cui Maurizio aveva sulle labbra il nome di Ferdinando Ducastel, chiamandolo _l’occhio diritto della nazione francese e del governo_. I nostri lettori ricorderanno che Luigia avea gridato queste parole: — Ferdinando Ducastel è un infame impostore, un assassino della gloria italiana! Luigia Aldinelli fu accolta come sorella da que’ cuori sì nobili e affezionati: la più gran simpatia nacque subitamente tra quelle donne e la sventurata sorella di sir Eduardo. Lucia abbracciò con estrema tenerezza la cara cognata, delle cui sventure Maurizio le avea parlato. Un diluvio d’interrogazioni fu rivolto a Luigia: nel modo più succinto ella dovette compendiare il tristo racconto della sua vita, che rischiarò il mistero di quelle parole che ella aveva proferite mostrandosi in quel crocchio di famiglia. Grandissimo fu lo stupore di tutti nel sentire la novella infamia del Ducastel e la storia del giovine artista pisano Ugo Ferraretti. I sospetti dell’Aldinelli apparvero come evidente certezza agli occhi di Maurizio Barkley, però che questi si ricordava delle confidenze fattegli dal ladro Dumourier e rammentava avergli costui rivelato quanto il Ducastel raccontava su l’ardente sete di gloria che il tormentava, e per ottener la quale avrebbe commesso anche un delitto. Non c’era dubbio: Ducastel era il ladro del quadro del Ferraretti, siccome era il vero autore della morte di Giustino Victor! Per una delicatezza che Lucia ed Emma seppero apprezzare, Maurizio non avea voluto manifestare a Luigia che il creduto Ferdinando Ducastel era il fratello di lei, Federico Lennois. Questa rivelazione avrebbe forse potuto mettere nell’animo generoso dell’Aldinelli qualche scrupolo nocivo allo smascheramento delle turpitudini di cui si era bruttato il Lennois. Lungamente si ragionò intorno al modo di ottenere il desiato smascheramento, dapprima del furto del quadro, e indi della trama commessa a danno del giovine Victor, e per la quale sir Eduardo era privo di libertà e minacciato da grave processo criminale. Bisognava anzi tutto trovar modo onde i sospetti fossero addivenuti realtà. Dopo non pochi ragionari, fu convenuto di prendersi del tempo per aspettare dalle circostanze qualche novella prova dei delitti del Ducastel, e sorvegliare intanto i passi e la condotta di costui. Luigia avea confessato di conservar la maschera del cadavere dell’infelice artista di Pisa. Questa confessione ispirò a Maurizio Barkley il disegno dell’inganno che i nostri lettori hanno veduto operarsi dall’Aldinelli al ballo dell’_Opéra_. Il risultato di quella scena avea pienamente confermato i sospetti di Luigia e de’ suoi amici. Or più non trattavasi che svelare in modo nobile e dignitoso la verità, e colpire della meritata infamia l’autore di sì nera usurpazione. Una mattina, due giorni dopo della scena nello _stanzino particolare_ di Very, tutta Parigi accorreva a leggere ne’ caffè e nei gabinetti di lettura un articolo della _France Artistique_ così concepito: «Nel momento in cui tutta la Francia si rallegra di salutare in uno dei suoi figli un emulo delle più colossali riputazioni artistiche: nel momento che tutta Parigi si contende l’onore di stringer la mano a Ferdinando Ducastel, cui il Giurì ha decretato il premio del _Salone_ di quest’anno, una grave rivelazione ci vien fatta da persona, il cui carattere ci vieta revocarla in dubbio. Ci piange il cuore nel segnar queste righe, ma ci sentiamo nel dovere di parlare, prima che ne parlino i giornali italiani e gettino su noi la riprovazione e lo scherno. «Si cessi dignitosamente dal profondere ovazioni ed incensi a Ferdinando Ducastel. _L’autore del quadro_ LA PREGHIERA _non è Ferdinando Ducastel, ma sibbene un giovine artista italiano, morto l’anno scorso, per nome Ugo Ferraretti_. Le prove incontrastabili di questa usurpazione saranno date a’ Tribunali competenti dalle persone che vi hanno interesse». Mentre con grandissimo stupore e sdegno si leggea questo inatteso articolo della _France Artistique_, giornale di somma riputazione, si seppe che il Ducastel era gravemente infermo, e che, poche notti addietro, venia trasportato quasi morto al suo domicilio, essendo stato soprappreso da un colpo improvviso in una delle stanze segrete del _trattore_ Very. _Parte Quinta_ I. ET SIC REPENTE PRAECIPITAS ME Richiamiamo i pensieri de’ nostri lettori a meditar con noi pochi momenti su i terribili versetti delle Sacre Carte. Vuota e sterile è ogni narrazione, quando nessuna utilità ne deriva allo spirito, al cuore, alla ragione. Noi detestiamo le futili novelle, che altro scopo non si propongono all’infuora di quello di un semplice passatempo. La vita umana è così breve! Il tempo così prezioso! La pagina che fa ritornare la mente sulle eterne verità della morale non sarà discara, neanche a coloro i quali sono meno avvezzi a meditare. Una segreta e inesplicabile dolcezza è ascosa in quei pensieri che ci ricordano il nulla della vita, l’immancabile punizione della colpa, e la costante verificazione di que’ detti registrati nel Libro della Sapienza. Che che ne dica l’empio, lo scettico, il mondano, l’anima sente alcune volte un bisogno d’innalzarsi sopra tutte le miserie di ogni maniera che la circondano, l’inceppano e la sviliscono: nobilissima immagine dell’Infinito che la creò, essa avvedesi pure che infinite sono le aspirazioni che l’agitano incessantemente e le danno quello stato d’increscimento, di noia, di tristezza, il quale è il più gran testimonio della sua momentanea soggezione all’argilla ond’è rivestita. Una delle ragioni per cui il malvagio vive in piena sicurezza dell’impunità, si è perchè egli non comprende in che modo l’occhio di Dio vede tutto _et non intelligit quoniam omnia videt oculus illius_. Egli o nol comprende, o nol crede, o giammai non vi ha pensato, o non il ricorda, o giammai non gli fu detto; imperocchè, se innanzi agli occhi della mente egli avesse un tal pensiero o non farebbe il male, o si fermerebbe in mezzo del perverso cammino, o si pentirebbe con salutare ritorno alla virtù. Ma, per trista ventura, egli interviene il più delle volte che le passioni, per la violenza dei loro eccessi, offuschino in tal guisa il lume dell’intelletto, che questo travede le più lucenti verità, e più non ritrova quegli eterni ammaestramenti che rendono l’uomo avveduto sulle conseguenze del mal’operare. Parimente comune e pernicioso si è ne’ malvagi il credere che Dio non si ricordi de’ loro delitti. Eglino esclamano nel loro cuore: Le tenebre mi circondano; le pareti mi coprono; nessuno mi vede; di chi avrei sospetto? L’Altissimo non si ricorderà de’ miei delitti. _Tenebrae circumdant me, et parietes cooperiunt me, et nemo circumspicit me; quem vereor? delictorum meorum non memorabitur Altissimus._ Noi non sapremmo a bastanza richiamare l’attenzione dei nostri lettori sopra alcune verità morali, la cui profonda convinzione allontanerebbe o almeno scemerebbe il numero delle colpe, e massime di quelle che vengono commesse nelle tenebre e nel mistero. In tutte le nostre narrazioni abbiam cercato dimostrare come le medesime fila onde l’empio tesse la sua rete di misfatti, sono quelle appunto di cui si vale l’Altissimo per confonderlo, umiliarlo e punirlo. Abbiam detto, e mai non cesseremo dal ripetere, che L’IMPUNITÀ SULLA TERRA NON È PER NESSUNO. A queste considerazioni veniam tratti nel presentare il nostro protagonista Federico Lennois in tutt’altro stato di quello in cui sinora lo abbiam veduto. Come fugace ed efimera è la felicità del perverso! Come un niente la distrugge! Il mattino egli leva alto il capo e borioso; una turba di parassiti adulatori il circonda, applaude alle sue parole, lo invita a satollarsi di piaceri; il sorriso, la festa e il tripudio lo accompagnano dappertutto: la sanità, la giovinezza, la gioia brillano ne’ suoi sguardi: egli è il padrone e il despota della società; le donne strisciano umili ai suol piedi; diresti che egli abbia in pugno l’avvenire, e che sfidi la più inesorabile delle leggi di natura, la morte. Vedete a vespero questa bella esistenza: l’elce orgogliosa è caduta al suolo schiantata da impetuoso rovaio: il superbo padrone non è che il più umile dei suoi schiavi, l’altiero dominator dei cuori non ha più intorno a sè una voce che il racconsoli: la giustizia di Dio è passata sul suo capo! _Vidi impium superexaltatum..... Transivi, et ecce non erat!_ La notte stessa in cui Federico Lennois fu trasportato all’albergo Mirabeau quasi privo di vita, una febbre, accompagnata da forte delirio lo avea colto, minacciandolo di una letale malattia di cervello. Non gli mancarono aiuti ed assistenza di ogni maniera: perocchè egli era ancora, per tutta Parigi, il Ferdinando Ducastel, il benemerito e acclamato autore del quadro la _Preghiera_. Anzi, non sì tosto si fu sparsa, al dì vegnente, la novella del sinistro accidente onde era stato colpito il giovine artista, reduce dal ballo dell’_Opéra_, una immensa folla fu veduta assiepare il cortile del portone dell’albergo Mirabeau; chè universale era il dolore che si provava da quasi tutti i Parigini nell’udire il Ducastel sì improvvisamente e gravemente ammalato. Nissuno sapeva ancora la fine dell’avventura del _débardeur_; imperciocchè Luigia Aldinelli, la quale aveva fatto accompagnare il Ducastel alla sua casa, non avea rivelato ad alcuno il segreto che uccideva quel ribaldo. Intanto, in tutto il rimanente della notte, e in quasi tutta la giornata del domani, Federico, siccome abbiam detto, fu in preda del delirio, durante il quale dicea cose sì strane e maravigliose che tutti gli astanti ne eran sorpresi e addolorati. Egli non facea che nominar sempre Ugo Ferraretti, di cui l’immagine parea perseguitarlo. Alcune volte egli si poneva a sedere in mezzo al letto; girava intorno alla camera lo sguardo smarrito e demente; i capelli gli si sollevavano sul capo; e gridava si togliesse a viva forza dal suo cospetto Ugo Ferraretti e Giustino Victor; e si ricopriva il volto con ambo le mani per sottrarsi alla vista di quelle due larve implacabili. Coloro tra i suoi amici, i quali erano stati testimoni di questo inesplicabile delirio, e che poscia lessero l’articolo della _France artistique_, ebbero pienamente a convincersi della verità di quell’articolo, il quale, siccome i nostri lettori avran compreso, era stato l’opera di Maurizio Barkley e di Luigia Aldinelli. In un baleno Ferdinando Ducastel era caduto dal seggio di gloria su cui con tanta albagia si era seduto, usurpandolo al modesto italiano. Parigi disama colla stessa facilità onde ama. Ducastel era gittato nel fango, e non potea dire come Tolomeo agli Ateniesi, i quali ne aveano atterrate le statue: «Voi non potete atterrare le virtù per cui quelle statue mi furono erette». Quell’articolo della _France artistique_ fu riprodotto da quasi tutti gli altri giornali, e da quelli stessi che maggiormente eransi allargati in sulle lodi del Ducastel. La efimera gloria di questo artista e la sua vergognosa caduta formavano il subbietto di tutte le conversazioni. Si dicea tra le altre cose, esser falsa la voce della morte del giovin pittore di Pisa, Ugo Ferraretti; esser costui ricomparso a Parigi, mascherato da _débardeur_ al ballo dell’_Opéra_; essersi fatto invitare a cena dallo stesso Ducastel, nel mezzo della quale essersi tolto il mascherino ed aver mostrato il suo volto all’artista francese, il quale non avea dovuto al certo provar gran piacere in questo riconoscimento. Diceasi che Ugo Ferraretti erasi recato all’albergo Mirabeau per rinnovare le sue _proteste di amicizia_ al ladro di quadri. Erano insomma tali e tante le voci e le ciarle che sopra questa singolare avventura buccinavansi in Parigi, che, secondo il solito, moltissima favola vi si innestava; e la verità era soffocata da un diluvio di commenti e di variazioni senza fine. Intanto, il governo, fatto arrestare il Ducastel, benchè ammalato, procedeva alla disamina di un fatto sì grave; mentre dall’altra parte, il processo sulla morte di Giustino Victor si ricominciava alle Corti con alacrità, e il Lennois era chiamato a comparire in questo novello giudizio; ma lo stato della sua mente non permetteva ch’ei si fosse presentato a’ tribunali, tanto più che, essendo disparsa la febbre, la ragione non gli era tornata. E col fatto, questi colpi non eran tali da fargli rimanere a sesto il cervello; imputato di due accuse infamanti, arrestato e chiamato a comparire in un doppio giudizio, Federico Lennois non si sentiva neanche la forza di difendersi. Egli era nella certezza che Ugo Ferraretti era ancora vivo, e questo fatto terribile e inesplicabile confondea la sua ragione a tal segno da metterla all’uscio della pazzia. Accrescea lo scompiglio della sua mente il pensiero del come si fosse potuto discoprire la sua trama su Giustino Victor. Una sola persona era stata complice di questo delitto, Maddalena Bonnefille, la quale non era a Parigi da oltre quattro mesi, essendosi recata col resto della Compagnia in altra città della Francia. Oltre a ciò, perchè tradirlo? In che modo i tribunali aveano potuto venire a conoscenza dell’antica inimicizia che era tra lui Lennois e il Victor? Certo si è che Federico si vedea _repente precipitato_ all’imo della sventura e della ignominia! Il suo volto più non era riconoscibile; una pallidezza di morte era sulle sue sembianze abbattute; i suoi occhi scolorati e foschi esprimeano l’incipiente follia. Nessuno amico era più al suo fianco. Tutti erano spariti giustificando l’unica sentenza del Saggio. Il genere umano, al quale egli avea _giurato odio eterno e irreconciliabile_, l’abbandonava e lo lasciava a faccia a faccia colla sua coscienza. Era scorso qualche mese dacchè Federico Lennois rimanea confinato nella sua prigione, non potendo presentarsi in giudizio per lo stato della sua salute e per la poca connessione che si scorgea nelle sue idee; allorchè un mattino, però che fu trovato un po’ meglio dai medici, ei venne obbligato a comparire alla sbarra dei rei al cospetto della riunita corte Criminale. Una folla stragrande, ivi attirata dalla singolarità del fatto e dal nome del Ducastel, ormai celebre per l’originalità dei suoi misfatti, ingombrava la sala; e alle tribune destinate al Corpo diplomatico si vedeano moltissime dame cospicue, tra le quali Emma Barkley di Gonzalvo. Un lungo mormorio annunziò la comparsa dell’accusato. Egli avea l’aspetto di un cadavere, e non era possibile riconoscere in lui quel giovine che un mese fa, colmo di vita e di gloria, era oggetto di ammirazione e di invidia. Il suo sguardo era rimasto ostinatamente conficcato al suolo; e soltanto per rispondere ad una interpellazione del Presidente, egli levò gli occhi, e li balestrò attorno a lui. Sulla medesima scranna ov’egli sedeva, un altro uomo era seduto, le cui sembianze troppo gli eran note. Questi era Eduardo Horms; il volto del giovine scozzese era smagrato e pallido; ma la nobile rassegnazione della virtù si leggea nel composto raccoglimento del suo sguardo. Incominciò la discussione sulla morte di Giustino Victor. Federico rimase stupefatto nel sentir leggere l’atto di accusa, disteso con una sagacia da sbalordire. Un uomo si alzò a deporre contro di lui. Era questi di oltre a quarant’anni: una lunga barba tra il biondo e il bianco gli copriva due terzi del volto; era vestito alla maniera degli operai di Parigi, con una di quelle vesti che si domandano _blouses_: alto, complesso, di fattezze maschie e vigorose. Quando il Presidente lo ebbe chiamato per nome, il cuore di Federico Lennois fece un balzo come se avesse voluto scoppiare. Quel nome era di Paolo Dumourier. Un’orrenda confusione era nel cervello dello sciagurato Lennois: le idee e le rimembranze vi si sbaragliavano come l’arena mossa dal vento. Egli più non capiva ciò che si diceva dal Presidente e dall’accusatore. Federico Lennois si credea soggiogato da un sogno crudele. Maurizio Barkley aveva incontrato nelle strade di Parigi Paolo Dumourier, uscito di carcere per aver compito i suoi anni di pena, ed avea riconosciuto in lui il carcerato, che lo aiutò a scoprire le orme di Federico Lennois. Non fu difficile a Maurizio di farsi riconoscere e d’indurre il Dumourier a venire a dichiarare in tribunale tutto ciò che il Lennois gli disse riguardo a Giustino Victor, non meno che sulla brama immoderata che quegli si avea di rendersi celebre in qualsivoglia maniera. Il Dumourier fece dapprima qualche opposizione, la quale subitamente venne ovviata da generosa ricompensa promessagli da Maurizio, il quale gli avea detto quelle deposizioni esser necessarie per salvare un innocente e restituirlo alla libertà. La deposizione del Dumourier fu semplice e genuina; ma un grido di sorpresa si levò nella sala, quando si udì che il Ferdinando Ducastel, accusato d’omicidio e di falsità, e nel tempo stesso quegli che avea ripiena la Francia un mese fa col grido della sua fama usurpata, non era altri che un tal Federico Lennois, quattordici anni fa chiuso in carcere come ladruncolo, e scappato per via di travestimento dalla prigione. Questa rivelazione gettò una luce grandissima su tutte le accuse onde veniva accagionato il Ducastel; i sospetti divenivano certezza, le supposizioni realtà. La lettera anonima scritta a Eduardo Horms, e per la quale questi avea creduta infedele sua moglie, fu trovata dello stesso carattere di Federico Lennois, il quale, per una di quelle cecità di cui Dio si serve per confondere i rei, non avea pensato di fare scrivere quella lettera da altra mano. L’antica nimistà tra Giustino Victor e lui fu comprovata, non solamente dalle sue stesse dichiarazioni fatte a Dumourier, ma da due possenti testimoni, ritrovati dalla sagacia di Maurizio Barkley, vale a dire da Augusto d’Orbeil, che Federico a sua sorpresa vide nel numero degli accusatori, e da una copia del giuramento da lui Lennois segnato sulla tomba del suo cane, e col quale il monello d’Auteuil giurava di spargere il sangue dell’uccisore del suo cane Astolfo, che fu per lo appunto Giustino Victor. Semplice e naturale era stata l’induzione per la quale Maurizio Barkley, secondo le confessioni da Federico fatte a Dumourier, era andato a ricercare ad Auteuil questa incontrastabile prova della trama del Lennois. Quel giuramento, che noi ponemmo sotto gli occhi dei nostri lettori nella terza parte di questo racconto, era malamente scritto e zeppo di mende ortografiche, dappoichè, sebbene, come dicemmo, Federico apprendesse a leggere e a scrivere da Maddalena Bonnefille, quando era al servizio dell’Inglese, dobbiam peraltro far osservare che ei già quasi da sè solo avea imparato a Auteuil ad accozzar le lettere in modo da potere formare una scritta qualunque. Schiacciato dal peso delle accuse, Federico non avea risposto una sola parola in difesa, e pareva compiutamente straniero a quel processo che gittava sul suo capo l’infamia e la minaccia di morte. A questo giudizio vituperante si congiungeva quello del quadro. Luigia Aldinelli si presentò innanzi ai giudici, terribile accusatrice del Lennois, e vendicatrice del giovine italiano Ugo Ferraretti. Ignara dell’idioma francese, ella si fe’ intendere per via d’interprete, e narrò la trista istoria de’ suoi amori col giovine artista, e i costui lavori; e disse come questi desse opera ad un quadro, su cui facea passare le medesime sembianze di lei e lo stesso vestimento. Dichiarò che il Federico Lennois non l’avea giammai veduta, e che però non gli era possibile il ritrarla sulla tela. Da ultimo narrò l’astuzia di cui si era servita al ballo dell’_Opéra_, il terrore del Lennois e le parole che questi pronunziava durante il delirio, da cui fu preso per effetto di quella scena rappresentata in casa del ristoratore Very. Molti altri testimoni vennero a confermare ciò che l’Aldinelli diceva riguardo alle parole del Lennois, quando era colto dal delirio, le quali tutte confermarono il suo delitto. Parlò da ultimo Eduardo Horms, e, dopo aver difeso la propria causa con l’energia che dà la persuasione del vero, disse come, essendosi recato a Pisa per ritrovare nel Federico Lennois un fratello, questi gli avea mostrato il quadro la _Preghiera_, vendendoglielo per la somma di cento mila franchi, di cui la metà avea già ricevuta. Non tralasciò di far notare a’ giudici le precauzioni onde quel quadro era conservato dal Lennois, e che attestavano la paura con cui si conserva una cosa rubata. Straordinaria singolarità offriva in questo processo la presenza di tre figli di uno stesso padre, separati per sì opposte condizioni, e di cui due erano sì forti e terribili accusatori dell’altro. Una condanna di galera a vita colpiva Federico Lennois nel momento in cui Dio il fulminava in quei mezzi medesimi di cui questi si era servito per oprare il male. Uno scroscio di risa d’idiota accolse la lettura della terribil condanna. Federico Lennois era demente! Egli avea giurato _sulla sua ragione_ odio irreconciliabile all’uman genere, E LA SUA RAGIONE FU SCHIACCIATA. II. IL MANICOMIO DI BICETRE L’inatteso discoprimento del vero essere che si nascondea sotto il nome di Ferdinando Ducastel; lo strepitoso giudizio sul quadro la _Preghiera_, e quello su la morte del giovine uffiziale Giustino Victor; la condanna fulminata contro l’autore del doppio tradimento; e da ultimo la demenza che avea colpito il Ducastel, formavano ampio soggetto di ragionamenti nella capitale della Francia, mentre, dopo esatta verifica della follia, il Lennois era stato trasportato al Manicomio di Bicètre. È noto che, prima del regno di Luigi Filippo, l’ospizio di Bicètre era quello che raccoglieva, oltre i dementi, i condannati di ogni maniera. Oggi sembra che l’ospizio di Charenton sia più specialmente destinato a ricettare i condannati, innanzi di trarre a patire la pena loro inflitta. Tuttavia Bicètre è stimato il miglior manicomio per gli uomini, siccome la Salpetrière per le donne: salubrità di aria, di spazio, esimii professori addetti alla cura de’ maniaci, e ottimo trattamento rendono questi luoghi fecondissimi di felici risultati a pro dei miseri sofferenti. Pochi giorni addietro Federico, ora forsennato, avea riuniti in sè tutti gli elementi della felicità: giovinezza, salute, dovizie e gloria; ciò non pertanto, siffatti elementi appoggiati sulla colpa, eran rovinati con un sol soffio di Dio, e l’uomo che li possedea, fatto segno primamente all’invidia di tutti, or più non era che un misero oggetto di pietà. Forse il Lennois condannato ai ferri non avrebbe desta quella commiserazione che destava il Lennois pazzo; perciocchè le sventure che vengono dal cielo soglion muovere l’altrui compassione più di quelle che son prodotte dagli uomini. A qual genere di follia apparteneva la sua? Noi cercheremo di darne una rapida e precisa idea. Lo stato di fiaccamento nervoso a cui lo avea ridotto l’ultima infermità sofferta, l’avvicendarsi di tante impensate accuse, il veder quasi risorti gli estinti che si levavano per lacerargli la coscienza e per ismascherare i suoi delitti alla Giustizia; la certezza d’una irreparabile ruina e di una vergogna incancellabile; tutto ciò avea cagionato quello sconcerto d’idee, il quale si era venuto accrescendo poco a poco, ed avea preso l’aspetto ed il carattere di follia, nel momento in cui la sentenza venia letta e che il condannava alla catena de’ galeotti. Lo scroscio di risa che era scoppiato sulle labbra del Lennois quando il Cancelliere ebbe posto fine alla lettura della sentenza, avea fatto fremere e raccapricciare gli astanti. E quello scroscio di risa non si era estinto che dopo un bel pezzo; egli rideva ancora, quasi di un riso di convulsione, quando, ammanettato, era messo in una carrozza e trasportato provvisoriamente all’ospizio dei folli. Molte accurate disamine furono fatte dalle autorità per accertarsi che il Lennois non avesse usato un’astuzia per sottrarsi alla pena cui era condannato; e queste disamine, eseguite dai più abili professori della Facoltà di Parigi, avevano comprovato la realtà del fatto, dichiarando che positiva era la demenza del condannato, ma che essa non apparteneva a quella specie che dir si può incurabile: essere però suscettivo di guarigione il caso del Lennois. Questo avea determinato le Autorità a mandarlo all’ospizio di Bicètre, affinchè, guarito, avesse potuto scontar la pena, inflittagli dalle leggi. Il Manicomio di Bicètre dir si può uno dei migliori ospizii di folli che vanti l’Europa. E qui ci è forza di riconoscere il progresso che la scienza ha fatto in talune sue branche sul suolo della Francia, ed in particolare la scienza medica. La facoltà di Parigi e l’Accademia delle scienze hanno dato pressocchè in tutti gli anni insigni nomi che l’Europa ha rispettato, e i quali lustro hanno accresciuto al lor paese e molto lume alla scienza. Epperò gli stabilimenti sottoposti alla intelligenza ed alla filantropia di uomini dotti e filosofi, van commendati pe’ lieti risultamenti che vi si ottengono: ed in ispecialità i Manicomii, i quali, più che in ogni altra parte di Europa, si riempiono ogni anno di vittime infelici, sia di eccessi di passioni, sia d’immoderata ambizione, sia di abuso di piaceri, sia di disillusioni politiche, rendono in pari tempo bella testimonianza delle cure e delle sollecitudini con che son assistiti i dementi, di cui gran numero vengono restituiti, nel pieno uso delle loro facoltà intellettuali, alle riconoscenti famiglie. Abbiam detto che in Francia, più che in ogni altra parte di Europa, grande è il numero dei dementi. Uno degli spettacoli più tristi ed avvilienti si è senza alcun dubbio quello delle misere creature _che han perduto lo ben dell’intelletto_; è questo uno degli argomenti più validi e atti a dimostrare l’umana fralezza e miseria: l’essere intelligente, che ragiona, che analizza, che comprende ed ama, che si ricorda e spera, che si spazia col pensiero nelle astruse regioni del calcolo astronomico, e che discopre i più riposti segreti di natura; l’ente sublime, perfezione del creato, immagine di Dio; eccolo messo a livello del bruto, eccolo caduto al di sotto di quegli animali su cui dianzi imperava col divino raggio della ragione. Il capo de’ dementi è come se fosse di continuo sottoposto all’impero de’ sogni, i quali non si aggirano che sovra sensazioni e non mai sovra idee: l’idea del tempo non è più ne’ dementi; siccome avviene ne’ sogni; qualche volta neanche l’idea del luogo. Ei parla senza intendere il significato delle proprie parole; ode sulle altrui labbra la lingua nativa e non la comprende, come se fosse uno straniero idioma; ei riguarda e più non riconosce quelle persone che poco prima, quando egli era ancora sano di mente, gli facean battere il cuore per piacere ed amore: le care ed ineffabili parole di _sposo, padre, figlio e fratello_, parole che eran tutta una vita di tenerezza, una storia di dolcissimi affetti, ora più non risuonano agli orecchi di lui che come suoni vuoti di sentimento. La sua vita non ha più nè passato nè avvenire; il sogno delle reminiscenze, sì caro all’anima, è finito! Ei più non ritroverà nella schiacciata memoria i giorni soavissimi della giovinezza, le immagini di quelle persone che gittavano nei suo cuore fiumi di amore: tutto, tutto è finito; il passato non è più per lui che uno sconcerto, un caos orribile; è l’immagine di una casa ricca di suppellettili e per dove è passato l’incendio: non vi è più che ceneri e tenebre. L’insano non ha più avvenire: egli più non conta gli anni, le stagioni, i mesi, i giorni, le ore: a simiglianza di un lugubre sonno, la sua vita trascorre avvertita soltanto da una molesta sensazione al cervello e da un fuoco interno che gli serpeggia pe’ nervi. Solo, sempre solo, il demente non aspetta nessuno, nè è aspettato da alcuno; non pur la ragione questo misero ha perduto, ma il cuore eziandio con tutte le sue care affezioni di famiglia e di amici: la stessa voce dei figliuoli, che fa scuotere anche il cuor d’un cadavere, non tocca più quel muscolo cavo e inerte: il tenero padre, lo sposo amantissimo, il figlio affettuoso, lo sviscerato fratello, più non è che un bruto. La sua forza fisica si sviluppa, però che il morale è schiacciato: i muscoli guadagnano quello che perdono i nervi, l’animale acquista ciò che l’uomo abbandona. Gli è però che sovente la mazza del custode, il letto di forza, il bagno di sorpresa, la camicia di ferro, debbono inceppare l’esagerazione della forza muscolare che minaccia irrompere e scoppiare come ardente caldaia. L’incessante avvicendarsi di prosperi e lagrimevoli casi, l’eccesso delle passioni, favorito da un’ardenza di temperamento, la mancanza del sentimento religioso nelle grandi sventure, il veder ruinata l’una dopo l’altra tutte le speranze di avvenire, la perdita di qualche troppo cara persona, la vergognosa caduta dalla stima de’ concittadini, un’amara ingiustizia sofferta, e tante altre innumerevoli cagioni possono determinare lo stato dell’insania più o meno intenso, più o meno capace di guarigione. La specie umana offre sì perpetuo contrasto di gioie e di dolori; l’avvenire si burla in tante guise della sorte degli uomini, che non sempre la loro ragione può resistere a’ colpi impensati: talvolta essa combatte con coraggio e con vittoria contro un improvviso assalto di mali, e poi soccombe alla durata di questi. Abbiam detto che la demenza di Federico Lennois non era stata trovata incurabile, perciocchè sono da estimarsi generalmente incurabili quelle infermità in cui un organo è leso in modo da non poter più adempiere al suo particolare officio vitale. Ora, uno de’ pregiudizii più funesti all’umanità, osserva il profondo Pinel[10], e che è forse la deplorevole cagione dello stato di abbandono in cui vengon lasciati quasi dappertutto i dementi, è il risguardarsi il loro male come incurabile, e di riferirlo ad una lesione organica nel cervello o in qualche altra parte del capo. «Io posso assicurare, soggiugne lo stesso autore, che nel più gran numero di fatti che ho raccolti sulla mania delirante divenuta incurabile e terminata da altra funesta malattia, tutt’i risultati dell’apertura dei cadaveri, comparati a’ sintomi che si sono manifestati, provano che questa alienazione ha in generale un carattere puramente nervoso, e non è l’effetto di nessun vizio organico della sostanza del cervello. Anzi, tutto annunzia in questi alienati un forte eccitamento nervoso, un nuovo sviluppo di energia vitale; la loro continua agitazione, le loro grida talvolta furibonde, la loro tendenza ad atti violenti, le loro veglie ostinate, lo sguardo animato, la loro petulanza, le loro vive risposte, un certo sentimento di superiorità nelle loro forze e nelle loro facoltà morali, dal che nasce un ordine novello d’idee indipendenti dalle impressioni de’ sensi, nuove emozioni senza nessuna cagione positiva, ed ogni specie d’illusioni e di prestigi». La follia di Federico apparteneva a questa specie che vien detta puramente nervosa: egli ebbe nei primi giorni non pochi momenti di furore, i quali eran seguiti da una tristezza e da una immobilità spaventevole. Alcune volte egli si ostinava tenacemente a non prender cibo veruno di qualunque maniera, la qual cosa non fa che esasperare e prolungare gli accessi di mania: altre volte si gittava con avidità sul pasto e il divorava con tanta fretta che ad ogni boccone correa pericolo di strozzarsi. Era pertanto più frequente il caso in cui Federico rifiutasse con forza incredibile ogni maniera di alimenti. Questa ripugnanza era forse fondata sul sospetto che volessero avvelenarlo. Egli chiudeva ermeticamente la bocca, serrava i denti, e rendea vani tutti gli sforzi che si facevano per introdurre nel suo stomaco qualche sostanza alimentare. Ciò non pertanto, raramente finiva una giornata, senza che egli avesse mangiata la minestra della sera[11]. Tra le altre singolarità di questa mania era quella che il Lennois spingeva gridi altissimi ogni qual volta sentiva pronunziar la parola _ferro_, sia che questa parola avesse analogia col cognome Ferraretti, di cui l’immagine rediviva tanto lo avea perseguitato, sia che egli ricordasse la pena infamante, alla quale era stato condannato. I medici dell’Ospizio che conoscevano la sua storia, avean proibita l’applicazione assurda e pericolosa della catena, e si erano limitati a prescrivere per Federico il semplice corpetto di forza nei momenti dell’effervescenza del suo furore. La sola vista della catena destava tanta rabbia in quel misero che la sua vita ne era minacciata, per un colpo di apoplessia. Tristo in vero era il caso di questo sciagurato; pel quale non si sapea se dovesse desiderarsi la guarigione o la continuazione della follia; imperocchè la prima il consegnava alla pena cui era stato condannato. Pazzo o galeotto; ecco il terribil dilemma a cui lo avevano ridotto le sue tristizie! Oh se coloro i quali avean veduto un mese prima questo giovine in tutto lo splendore dell’umana felicità, lo avessero riguardato nella sua cella di Bicètre! Qual tremenda lezione per quelli che si coricano sulle rose dei piaceri comperati a prezzo d’ingiustizia, di tradimenti e di sangue! Collo sguardo fosco, bieco ed incerto, co’ capelli scompigliati, colla barba incolta e rozza, Federico si aggirava nella sua cella, come una belva nella stia, or parlando tra sè a voce bassa, or camminando, o fermandosi a vicenda, or mettendo alte grida di spavento e rincantucciandosi in uno spigolo della sua stanzetta. Gli abiti della demenza coprivano le sue membra; il capo era sempre piegato sul petto, le labbra semiaperte, le mani penzoloni, le ciglia aggrottate. La sua fisonomia era seria, ma non di quella serietà figlia del pensiero; sibbene di quella immobilità d’idiota. Federico Lennois, che era stato oggetto di ammirazione e di curiosità, ora era anche oggetto di curiosità, ma quale differenza! Prima, egli era additato come un figlio prediletto del genio, ed ora come uno strano fenomeno di umana miseria; prima egli era contemplato come un uomo raro, oggi come una rara belva. Molte persone erano andate a visitarlo durante la sua trista infermità: non diremo che queste visite fossero dettate da premura di amicizia, da ricordo affettuoso, o da altra nobile e generosa cagione. Federico Lennois non aveva più amici; la curiosità, la semplice curiosità, mista forse ad un segreto compiacimento, richiamava quella gente intorno alla sua stia. Era già passato un mese all’incirca ch’egli era a Bicètre, sottoposto ad un regime di cura di cui si aspettavano i più felici risultati, allorchè un avvenimento impensato sopraggiunse, il quale gittò l’intera Parigi nello stupore, per uno dei più strani casi che fosse mai avvenuto nella commedia della umana vita. III. LO SPERIMENTO La cella dove era stato messo il Lennois era l’ultima di una lunga seguela di camerelle. Un gran terrazzo, da cui si scendea in uno spazioso giardino molto dilettoso, si apriva in questa sua cella, e serviva per que’ dementi i quali, venuti in più tranquillo stato, aveano d’uopo, per prescrizione de’ medici, di respirare l’aria fresca ed ossigenata degli alberi. Queste passeggiate, le quali non si permetteano che in certe ore del giorno, erano spesso feconde di felici risultamenti; imperocchè il moto regolare molto contribuisce a calmare quella specie di agitazione nervosa che accompagna sempre lo stato dell’insania. In sul cominciamento della follia di Federico, simiglianti passeggiate non gli eran consentite, però che era troppo esasperato lo stato della sua fibra, a tal termine, da non poterglisi permettere libertà di movimenti, o almeno da non poterlo lasciare uscir fuori della sua cella. Ma posciacchè un mese fu scorso dalla sua permanenza a Bicètre, essendo di molto calmati l’effervescenza ed il furore, gli venne prescritta la passeggiata lungo i viali del giardino. Sogliono per le prime volte i custodi accompagnare i matti in tali passeggiate per isperimentare se questi sono a bastanza rimessi e tranquilli, e per incuter loro un certo timore, nel caso che volessero spingersi ad atti di violenza. Ma di poi che si sono assicurati, per alquanti giorni, della disposizione più dolce e riposata degl’insani, li lasciano in loro libertà, restituendoli in certo modo a quello stato che faccia ricordar loro il tempo in cui non erano assoggettati alla guardia e alla continua ispezione di un uomo. D’altra parte, il giardino, in cui passeggiano i dementi di Bicètre, è circuito da alte mura, e ben difeso da ogni lato: i viali di giocondi arbuscelli son simmetrici e ordinati in guisa da offrire una comoda passeggiata, e senza veruna di quelle cose le quali potrebbero diventar dannose ad uomini privi d’intelletto. Egli è appunto come se fosse luogo destinato ad esser percorso da bambini i quali provino i loro primi passi: non vi è niente di tutto ciò che può formare oggetto di pericolo o di tentazione a quegl’infelici privi di ragione; nessun vivaio, nessuna fonte, nessun pendio: un ordine direm quasi ragionato regna in quel recinto ombroso ed ameno, dove le più ridenti aiuole di fiori spezzano un poco la monotonia dei lunghi viali. Con prudenza e con avvedutezza si permette a’ dementi qualche volta il passeggiare a due a due o a crocchi; affin che possano _ragionar_ tra loro, o, per meglio dire, scambiar tra loro parole più o meno vuote di raziocinii. Simiglianti pratiche non sono del tutto infeconde di beni, e non rare volte, la mercè di esse, si sono sperimentate guarigioni credute impossibili o almeno difficilissime. Durante l’estiva stagione, sogliono i dementi di Bicètre trarre a queste passeggiate nelle prime ore del mattino o verso il tramontar del sole, quando le aurette della sera incominciano a rinfrescare le calde esalazioni della terra. La primavera copriva di rose e di mammolette le aiuole del giardino e rivestiva di giovine fogliame gli arbusti de’ viali. La natura sembrava rinascere più bella e rigogliosa di vita: un nembo di profumi che parea venir dal cielo si riversava dai poggetti circonvicini seminati di aromatici fiori e di piante odorifere: schiere di giocondissimi augelli si abbatteano, quasi ebbri di felicità, su i rami degli alberi, mischiando i loro striduli e svariati gorgheggi, interrotti soltanto da qualche lontano colpo di schioppo tirato da qualche cacciatore de’ dintorni. Questa soavità di natura parea che volgesse a più ragionevoli disposizioni le misere creature ritenute nel manicomio di Bicètre, le quali avresti vedute, in sull’ora prima del mattino, andarne a braccio l’una del l’altra lungo i viali; e tra loro così compostamente discorrere su svariati subbietti, nè più nè meno che se ragionato avessero nel pieno lume dell’intelletto. Ad alcuni di loro le fattezze del volto sembravano anche più rischiarate ed aperte; ad altri la fosca taciturnità cedeva il posto ad una sconnessa loquacità, la quale accennava per altro ad un ritorno a più miti sensi; era insomma nell’aria della rinata primavera qualche cosa che dolcemente ricercava le fibre di quegl’infelici, nei quali sembrava smuovere le antiche affezioni dell’animo. E lo stesso avveniva per Federico Lennois, la cui demenza era caduta in una profonda ipocondria. Egli mostravasi docile e obbediente a tutto ciò che si volea da lui; mangiava poco ma compostamente; dormiva con calma; e, se la ciera allucinata e qualche strana proposizione non avessero testificato tuttavia la sua insania, si sarebbe potuto credere alla perfetta guarigione della sua mente. Ei più non vedeva Ugo Ferraretti in tutte le pallide sembianze; più non mettea spaventevoli strida alla vista o al nome del ferro; più non si ostinava a rimaner digiuno per tema di avvelenamento. I medici dello Stabilimento, i quali erano obbligati a dare all’autorità periodiche relazioni sullo stato di mente del condannato Federico Lennois, scriveano già esser vicina la costui guarigione. Ci affrettiamo a far conoscere a’ nostri lettori che sir Eduardo Horms, riconosciuto innocente o almeno giustificato sulla morte di Giustino Victor, non aveva avuta altra condanna che quella di abbandonare tra un mese il suolo della Francia. Quest’anima nobile e generosa avea spronato la famiglia Victor e Luigia Aldinelli a presentare al re una supplica, affinchè la pena, cui era stato condannato lo sciagurato giovine Lennois, fosse stata scemata o commutata, nel caso che avesse riacquistata la ragione. Una tal petizione, presentata da coloro medesimi che avevano portato querela contro il Lennois, mosse vieppiù la clemenza del monarca, e la pena de’ ferri fu commutata in quella del perpetuo esiglio dal regno. Allorchè la grazia sovrana fu letta a Federico, costui non diè segno alcuno d’intelligenza. Non ostante le speranze che i medici faceano concepire della sua prossima guarigione, ci era da scommettere che il perpetuo esilio non avesse a tradursi in una perpetua permanenza a Bicètre. Due altri mesi all’incirca passarono senza novità veruna nello stato del Lennois, tranne che un giorno gli venne offerto alla vista un visitatore, che avrebbe dovuto fare su lui una qualche impressione, ma che ciò non pertanto non parve esser da lui riconosciuto. Questi era Maurizio Barkley, il quale, poscia che aveva adempiuto al suo debito di salvare un innocente amico ed ismascherare il delitto, era tornato a quella consuetudine dell’animo suo dolcissimo, affettuoso e perdonevole, ed oggi avrebbe voluto, a costo del proprio sangue, riaccendere il lume della mente di Federico, il cui miserevole stato gli moveva il cuore a pietà. E questa sua visita non era stata la prima; ma spesse volte egli era andato a chieder contezza del matto, ed aveva interrogato i medici, offrendo la sua borsa ai custodi, affinchè fossero stati inverso il misero infermo prodighi d’ogni maniera d’assistenza e di riguardi. Maurizio aveva visitato benanche parecchie volte la famiglia d’Orbeil, la quale, benchè un anno all’incirca fosse passato dalla morte di Giustino, non sapea ritrovare altra consolazione, che nel ragionar di lui con quei pochi amici che traevano a vederla, fra i quali qual degno posto occupasse il Barkley non diremo: egli era l’uomo che si faceva amare da tutti per le carissime doti del cuore, e per quel culto onde venerava e serviva l’amicizia. Maurizio amava soprattutto e con molta particolarità il giovine Augusto, il quale si era mostrato sì caldo e appassionato amico di Giustino Victor. Il mese di giugno volgeva al suo termine, quando accadde a Bicètre lo strano avvenimento cui abbiamo accennato nel precedente capitolo, e che ci accingiamo a narrare. Il manicomio di Bicètre, siccome abbiam detto, è esclusivamente destinato agli uomini, come quello della Salpètriere alle donne: debbesi non per tanto far notare che all’ospizio di Bicètre, per particolari raccomandazioni o per altri motivi di eccezioni, si suole eziandio dar ricetto a qualche povera demente. Segregate dal corpo dell’edificio, havvi alcune stanze riserbate a queste eccezioni in favore del debil sesso; e queste stanze riescono colle loro finestre, guardate da inferriate, sovra il giardino dove i dementi sogliono trarre a passeggiare. Situate ad una certa altezza, queste finestre ricevono tutte le benigne e soavi esalazioni del sottostante giardino. Un giorno, Federico Lennois era uscito pria degli altri suoi compagni, a passeggiar ne’ viali: egli era solo. Una dolce serenità era sparsa sulle sue sembianze, ridotte ora così pallide e smunte da non poterle più riconoscere: la pena con che Dio avea fulminata quella esistenza aveva in qualche modo rischiarata la fronte di quell’uomo, e ne avea cancellata la macchia onde il delitto l’aveva bruttata. Federico si accostava ogni giorno vieppiù alla sua guarigione. Egli adunque stavasene tranquillamente passeggiando nel giardino, allorchè, levati per avventura gli occhi dal suolo, ove pel consueto li tenea conficcati, ebbe veduta, ad una delle stanze delle folli, una donna che si era avviticchiata a’ ferri della finestra, e che parea guardar lui con somma attenzione. La luce del sole che tramontava rischiarava interamente le fattezze di lei. Non sì tosto Federico ebbe scorta quella demente, mise un altissimo grido, e si diede precipitosamente a fuggire, compreso da spavento grandissimo. Rientrato nella sua cella, egli tremava tutto come colpito da convulsione nervosa, ed era andato a rincantucciarsi dietro il suo letticciuolo, dal quale sito nessuna persuasione potè trarlo. I custodi e i medici non sapeano a che attribuire questo strano fenomeno; gli domandarono se alcuno oggetto avesse veduto che gli avea desto spavento, e Federico, senza rispondere, digrignava i denti, dava segni di paura, più si stringea ed afferrava a’ ferri del letto, ed il suo sguardo esterrefatto esprimeva un invincibile terrore. Più non fu possibile d’indurlo a passeggiar nel giardino. Ma, a capo di qualche settimana, ad uno dei primi medici dell’ospizio venne un pensiero. Egli era certo che Federico avea veduto nel giardino qualche oggetto che gli avea fatto paura, o che gli avea ridestato una molto dolorosa rimembranza. «Il regno delle rimembranze è il supremo rimedio della follia, avea detto tra sè l’uomo della scienza: ei fa d’uopo richiamarlo nella mente degl’infermi; adopriamoci adunque a discoprire quale è stato l’oggetto che ha prodotto sì terribile impressione sull’animo del Lennois, e ripresentiamolo ai suoi sguardi, nella speranza di oprare su lui una crisi salutare.» Condotto da questo acconcio e filosofico ragionamento, il medico non istette un gran pezzo a sospettare che forse una delle donne rinchiuse nelle attigue stanze, le cui finestre riescono sul giardino, avesse cagionata nel Lennois quella forte impressione di spavento. Bisognava indovinare qual si era di esse; il che nemmanco gli riuscì gran fatto difficile. Imperciocchè in quelle stanze non erano che solo tre donne, una delle quali era ammalata a letto con dolori alla gamba da non permetterle di muoversi e recarsi alla finestra; laonde una delle altre due esser dovea quella che ei Ricercava. Egli fece dapprima presentare agli sguardi di Federico la più giovine delle due; ma sembrò che costei non producesse nessuna impressione sul demente, il quale guardolla con indifferenza, e senza fare alcun segno di compiacimento o di dispiacere. Ma qual differenza allorchè l’altra gli fu offerta alla vista! Avviticchiato a’ ferri del suo letto, Federico mettea tali strida che l’ospizio intero erane assordato, e cercava di nascondere il volto nelle materasse, quasi per non farsi riconoscere da quella donna. La quale, benchè non avesse ancora raggiunta l’età del dechinamento, chè non le si poteano dare più di un quarantacinque anni, portava non per tanto su tutta la persona le ruine dello sfacelo morale. Questa donna avea dovuto esser bella sopra modo; ciò si scorgea facilmente alla dilicata regolarità delle fattezze del volto, alla incomparabil forma e al colore degli occhi, alle chiome lunghissime, che ora in pieno disordine le cascavano giù pel collo e per le spalle. Quando questa donna si vide alla presenza di Federico Lennois, rimase dapprima immobile nel mezzo della stanza: uno straordinario eccitamento lampeggiava ne’ suoi occhi; ella guardava il giovin demente, e si cacciava ambo le mani su per la fronte e tra i capelli, come se una dolorosa sensazione vi fosse di repente scoppiata; le grida di colui pareano ridestarle un molesto passato, che ella si affaticava di ritrovare tra le macerie della sua ragione. Parecchi medici dell’ospizio erano testimoni di questa scena, da cui si riprometteano salutari effetti per entrambi gl’insani. Era chiaro che quella donna e quel giovine si erano dovuti conoscere, e che tra loro ci era stata per lo addietro una di quelle aderenze le quali non di leggieri vengon poste in oblio. Il medico che avea pensato a tale esperimento non istimò limitarsi a questo saggio: volle fare un altro tentativo. — Federico Lennois, riconoscete voi questa donna? chiesegli ad alta voce. Come tosto questo nome ebbe colpito l’orecchio della pazza, un sussulto la colse, e mise un grido, come se fosse stata ferita nel capo; si gittò a dietro le spalle i capelli che le eran tornati sulla fronte; gli occhi sembravano sghizzarle fuori dalle orbite; una vampa ardentissima le accendea la faccia. — Federico Lennois! — ella mormorava digrignando i denti — Federico Lennois! Oh! oh! Mio figlio! E un fragoroso scroscio di risa, seguito da strani gesti d’allegrezza accompagnava quel nome che ella pronunziava di frequente, dicendo sempre con un sentimento d’incredibile ironia la parola: Mio figlio! Federico intanto, cogli occhi stravolti da un irrefrenabile spavento, guardava... Zenaide, la madre sua! Un tremor convulsivo l’aveva assalito; un sudor di morte bagnava la sua fronte. La Zenaide rideva a colpetti: dicea cose che non si comprendeano; si avvicinò al disgraziato giovine, accovacciato sempre dietro al suo letticciuolo; colle due mani gli afferrò la faccia, e ripetea sempre: — Mio figlio!... mio figlio!... E rideva a sganascio. Poscia cessò di botto da ogni ilarità; il suo viso diventò serio, conturbato, ed ella mormorò: — Al Castello... a Auteuil... Augusto, Augusto... Questo nome che sembrò ella avesse cercato nel proprio capo, e ora avea ritrovato, operò un’altra crisi singolare. Zenaide si strappò i capelli, si lacerò le vesti, e ruppe in un pianto così dirotto, che i medici ne trassero buon augurio per la sua ragione. Era ormai tempo di allontanarla dalla stanza di Federico Lennois. Il medico si avanzò verso di lei. Ella il ragguardò con occhio in cui splendeva un raggio d’intelligenza. — Non vi chiamate voi Luigi Reynold? — Per lo appunto, rispose il medico sorpreso che la matta conoscesse il suo nome. — E non foste voi, ripigliava colei dopo alcuni momenti di silenzio e di lagrime, non foste voi che assisteste al parto doloroso della Viscontessa d’Orbeil al Castello di Auteuil? — Io propriamente, rispondeva il medico con batticuore che mai così forte avea provato in sua vita. Zenaide cadde in ginocchi in mezzo alla camera: i suoi begli occhi nuotanti in un mar di lagrime erano volti al cielo. — Oh.. io non sono più folle!.. Dio, Dio mio... che sogno orribile è quello che ho fatto! Oh, conservami, gran Dio, conservami la ragione pochi momenti almeno, pochi momenti, affinchè io possa rendere a questo infelice (e indicò Federico) ciò che gli ho tolto... Pochi altri istanti di vita e di ragione. E tu, figlio mio, perdonami, perdonami... Dio lo comanda... Egli rischiara la mia mente pria ch’io spiri, ad oggetto ch’io sveli il mio esecrato delitto, per cui la sua Divina Giustizia mi ha fulminata nello intelletto... Non sappiam dire con quanta maraviglia gli astanti udivano le parole della Zenaide; nessuno ardiva interromperla. Ella proseguì come ispirata: — Luigi Reynold, e voi, signori che siete in questa stanza, uditemi uditemi, attentamente... Federico Lennois, l’infelice demente che là vedete, la sventurata vittima della mia feroce crudeltà, non è figlio mio: egli è sibbene Augusto d’Orbeil, figliuolo del visconte d’Orbeil! E, veggendo che gli astanti la riguardavano ancora come forsennata, ed estimavano le sue parole figlie della follia, ella soggiunse solennemente: — No, credetemi; in questo momento io non sono matta; ne chiamo in testimonio Dio che mi ascolta, ed al cui cospetto sento che tra poco dovrò comparire; uditemi e.. prestate fede alle mie parole... Io era divorata dall’ambizione e dall’avidità delle ricchezze! Sognava pel pargoletto mio figlio un avvenire ricolmo di tutt’i piaceri dell’umana vita... Da un mese io mi era sgravata, quando un mattino fui chiamata al Castello d’Orbeil; la famiglia era nel disordine e nello scompiglio del dolore; il visconte era fuggito; un parto prematuro e doloroso, conseguenza dello spavento, avea minacciata la vita della madre e del figlio... il quale, pallido e smunto, mi venne gittato tra le braccia, affinchè io il nutrissi col mio latte e allevassi... Nel recarmelo a casa, un orrendo pensiero attraversò la mia mente... ed il posi ad effetto. L’innocente mio bambino riposava nella sua culla; era così bello! Egli era figlio del Conte di Sierra Blonda, di un gran signore che mi avea sedotta, e poscia abbandonata... Io volli che l’astuzia desse a mio figlio ciò che la fortuna gli toglieva. Quando la Viscontessa, rimessa alquanto dalla sua grave malattia, mi fece dire ch’io mi fossi recata al castello col bambino, avendo ella immenso desiderio di abbracciare il frutto delle sue visceri, io tolsi dalla cuna il figliuol mio, e lo presentai alla viscontessa, dandole a credere che quel bambino fosse il suo, e ciò affinchè mio figlio avesse ereditato le ricchezze e i titoli della famiglia d’Orbeil. Ella non avea giammai per l’addietro veduto il proprio figlio, nè alcuno del castello ebbe mai pensiero dell’inganno. Soltanto voi, Luigi Reynold, voi solo potevate discoprire in sul principio il mio tradimento, però chè il figlio della Viscontessa portò nascendo un segno troppo visibile in sulla schiena; segno che l’età non cancellò giammai, e che oggi forse dovrà servire quale potente testimonio della verità de’ miei detti... Luigi Reynold, vi ricordate che il bambino Augusto d’Orbeil portò dal seno materno una larga macchia nera sul dorso? Ebbene... ecco lì Augusto d’Orbeil... ecco il figlio della Viscontessa... Andate, denudate le sue spalle; e Dio mi fulmini se ho mentito. Luigi Reynold e tutti gli astanti si affrettarono a trarre verso l’infelice Lennois; gli posero a nudo le spalle, e un grido di sorpresa sfuggì dalle labbra di tutti nel vedere su quella schiena un grande scudo nero!! Federico era caduto in una specie di stupefazione accompagnata da febbre violenta. IV. IL VISCONTE D’ORBEIL Dalla inaspettata rivelazione di Zenaide risultava che il figliuolo del Visconte, Augusto d’Orbeil, era il vero Federico Lennois, figlio di Zenaide. I medici dell’ospizio di Bicètre, riuniti in consesso, aveano riconosciuto e attestato che la Zenaide non era più demente, e che però la rivelazione di lei, sorretta e convalidata dalla testimonianza di Luigi Reynold, uomo di gran merito e probità, aveasi a tenere come vera, tanto più che, essendosi la Zenaide gravemente infermata, avea chiesto spontaneamente di deporre la sua rivelazione a’ piedi di un ministro della Chiesa. Fu compilato su questo singolare avvenimento un processo verbale, firmato da Luigi Reynold e da tutti gli altri medici del manicomio; le autorità s’impossessarono del fatto per sottoporlo ad un regolare procedimento giudiziario. Lasciamo al presente per alcun poco il manicomio di Bicètre, e trasportiamoci a Auteuil, dove la famiglia d’Orbeil era tornata col ritornar della bella stagione. Una copia del processo-verbale sulla rivelazione di Zenaide fu mandata al Visconte d’Orbeil. Chi potrà dipingere la sorpresa e il dolore del nobil uomo nel sapere che quegli il quale avea goduto i dritti di amatissimo figlio, l’erede del titolo e delle dovizie della casa d’Orbeil, il rampollo di uno de’ più nobili stipiti francesi, non era altri che un bastardello, cui un tradimento inaudito avea messo al luogo del vero figlio ed erede? Chi potrà esprimere lo sdegno infinito da cui fu preso il Visconte nel sapere che il vero suo figliuolo, bruttato da infamanti accuse, giacea miseramente privo di senno in uno ospizio di pazzi, da cui non sarebbe uscito che per patire la condanna del perpetuo esilio dalla Francia? Nel leggere quella carta che gittava per sempre nel fango il cognome d’Orbeil, il Visconte, colpito in sulle prime di stupefazione, fu indi assalito da un tal disperato dolore, che caduto sovra una sedia, e cacciatosi le mani tra i lunghi capelli, stette come percosso dalla folgore: la scritta funesta era caduta sul pavimento. La Viscontessa, la quale era venuta nelle camere di suo marito, ed avea veduto il costui profondo dolore senza potere ottener da lui risposta veruna, raccolse la carta che ella vide sul suolo, vi gittò gli occhi avidamente, e spinse al cielo un grido, che parve le fosse uscito dal cuore che si fendeva. Sembrava che que’ due non avessero dapprima prestato fede alla tremenda rivelazione che strappava dalle loro braccia un dilettissimo figliuolo, condannandolo alla miseria, all’abbandono, e a portare un nome disonorato. Ma, a seconda che la Viscontessa si richiamava a mente l’estrema tenerezza della Zenaide per quel bambino che era in fatti il vero figlio di costei, e le crudeltà inaudite che questa perfida femmina esercitava sulla infelice creatura con tanta infamia tolta all’amore della vera sua madre; quando la moglie del Visconte si ricordava delle frequenti visite che la Zenaide faceva al castello e del come sembrava afflittissima quando il piccolo Augusto non vi era; quando insomma, la gentildonna riandava col pensiero su le più indifferenti azioni di quella ribalda che sì crudelmente l’aveva ingannata, più non poteva dubitare della verità di quella tarda rivelazione che piombava sulla famiglia d’Orbeil per distruggerla. _Le parole del giovine Visconte aveano distrutto la felicità e l’onore di qualche povera e onesta famiglia._ E le parole di una povera inferma chiusa nell’ospizio di Bicètre distruggeano di botto la felicità d’una famiglia ricca, nobile e possente! Passati i primi impeti del dolore e dello sdegno, il Visconte e la moglie s’interrogarono su quel che avessero a fare pel misero Augusto il quale perdeva tutto in un punto! Un affetto nutrito tenerissimamente per lo spazio di ventiquattr’anni non può cessare in un momento, e per una cagione estranea alla persona che n’è l’oggetto. Augusto, benchè figlio della perfida Zenaide, era sempre innocente agli occhi del Visconte e della moglie, i quali sentivano sempre per lui la stessa paterna tenerezza. Ma oggi un altro veniva a prendere il suo posto! Un altro, che un giudizio criminale avea condannato all’infamia; che tutta la Francia avea maledetto, perchè egli avea ingannata la Francia intera usurpando una gloria che ad altri era dovuta; un altro che aveva fatto morire Giustino Victor, il caro fidanzato della sventurata loro figlia Isalina! Ma pur quest’altro era il vero loro figliuolo! La natura e le leggi peroravano la sua causa. Il dare all’uno ciò che spettava all’altro sarebbe stata la più ingiusta estorsione, non consentita nè da Dio nè dagli uomini, ed avrebbe compito il misfatto di Zenaide. Che fare? Che risolvere? A qual partito appigliarsi? Eppure tra poche ore, fra qualche minuto forse, l’orrenda rivelazione sarebbe pervenuta agli orecchi dell’infelice Augusto! Il Visconte d’Orbeil passeggiava nella sua camera tenendosi tra le mani il capo, da cui sentiva quasi volar via la ragione. Improvvisamente egli si ferma nel mezzo della stanza, colpito da un pensiero; si fa dappresso alla scrivania, dà di mano al campanello. — A me Augusto, dice ad un cameriere che se gli presenta alla soglia della stanza. E si ripone a passeggiare agitatissimo. Sua moglie non sa quale determinazione egli abbia presa. Augusto si mostra agli sguardi de’ suoi genitori: il suo volto, benchè tuttavia malinconico, è sereno e quasi sorridente. Ma tosto egli si avvede dell’estrema agitazione del padre e del dolore in cui sembra immersa la cara genitrice. Il Visconte intanto è corso all’uscio della stanza e l’ha chiuso a chiave; poscia, in sembiante più tranquillo, è ritornato presso la scrivania, ha tolto nelle mani la carta funesta, e, porgendola con mano tremante al giovine: — Leggete, Augusto, gli dice, e abbiate coraggio. Augusto divora cogli occhi la scrittura; una pallidezza di morte copre il suo viso, a seconda ch’ei legge, e non arriva alla fine, che, sentendosi venir manco, si appoggia alla sponda della scrivania..... Egli è fulminato!... non ha la forza di pronunziare una sola parola: le sue pupille, le quali smarriscono la luce, si perdono nel suolo, dov’ei vorrebbe si aprisse una fossa per inghiottirlo. La Viscontessa, veggendo il giovine così pallido come vicino a morte, corre a sollevarlo tra le sue braccia. — Che mai faceste, Visconte! Ed ella stende la mano al campanello per chiamar soccorso; ma suo marito la ferma. — Nessuno debbe qui entrare, signora, le dice: coraggio e fermezza. Indi, rivolgendosi ad Augusto, che sembrava atterrato: — Augusto, soggiunge, rialzate la vostra fronte; voi siete puro ed innocente.... voi non dovete soffrir la pena di un altrui fallo.... voi non porterete l’abborrito nome di Federico Lennois... Vostra madre..» Il Visconte fu interrotto da un leggier picchio all’uscio della stanza. — Chi è là? domandò con collera. — Una lettera urgentissima, signor Visconte, rispose un cameriere. Il nobile aprì l’uscio, afferrò la lettera dalle mani del servo, e gittò gli occhi sulla soprascritta. — Dall’Ospizio di Bicètre. Il Visconte lesse rapidamente. — No, non sarà mai, esclamò indi con uno scoppio di collera, il mio perdono!... e domanda di riveder suo figlio per l’ultima volta.... No, disgraziata, ella non ha più figlio! Ella mi rapiva il mio, ne faceva un infame, disonorava il mio sangue! No... no... Aspetta. E, come spinto da un soffio di fuoco, si accosta al tavolino, afferra una penna, e sotto la lettera che gli era stata mandata da Luigi Reynold, scrive queste parole: «La disgraziata Zenaide non ha più figli... Io la perdono, ma ad un sol patto: che muoia! — Presto, si rechi questa risposta a Bicètre; ei grida. E il messo partì in gran fretta. La stupefazione di Augusto (con tal nome seguiteremo a chiamarlo) avea dato luogo ad una commozione sì forte, che egli piangeva come un bambino. E la Viscontessa, la quale più non ardiva di riabbracciare il figlio di Zenaide, nascondeva il suo volto nel fazzoletto. Il Visconte era di presente il più tranquillo dei tre; parea che un pensiero, un proponimento gli desse coraggio, ed anche una tal giocondità... Egli si era messo di bel nuovo a dare di lunghi passi nella stanza: i suoi sguardi passavano con celerità concitata da Augusto alla moglie e da questa a quello. Dieci minuti all’incirca trascorsero nel più assoluto silenzio. Era tanta la piena dei pensieri e degli affetti che si agitavano negli animi di quei tre personaggi, che nessuno era atto a parlare. IDDIO PUNIVA LA SUPERBIA D’AUGUSTO! Egli cadeva ad un tratto dal suo seggio dorato e diveniva quello che avea sempre formato il subbietto del suo scherno e del suo disprezzo: _bastardo e povero!_ Di repente Augusto sembra compreso da un solenne pensiero; la sua dignità fulminata, la generosa tenerezza del Visconte gli pongono nell’animo il desiderio di emendare con la nobiltà dei sentimenti l’abbiezione in cui è precipitato: ei cade in ginocchi ai piedi del Visconte. — Grazia, signore, grazia per la madre mia; ella si muore: fate che io la rivegga per l’ultima volta, e che le rechi la consolazione del vostro perdono. Non aveva egli finito di pronunziare queste parole, che un altro messo ansante e coperto di sudore, consegnava al Visconte un’altra lettera. — Vostra madre più non è! disse costui dopo avere scorsa la lettera. Zenaide è morta! Alzatevi, Augusto: ella avea più d’uopo del vostro perdono che del mio; Ora Dio la perdoni! Augusto, senza muoversi dalla sua giacitura, si era di bel nuovo coperto il volto con ambo le mani; singhiozzava. Il Visconte fece un passo verso di lui, il sollevò per le braccia e gli disse: — Alzatevi, Augusto, alzatevi; più tardi penseremo al nome che dovete portare, perciocchè quello di Federico Lennois rimarrà sepolto nel manicomio di Bicètre; per ora io vi restituisco un titolo assai caro al mio cuore, quello di mio figlio! — Vostro figlio! esclamava Augusto come fuori di sè; vostro figlio, e l’altro? — Anche l’altro! Quello mel restituisce la natura, voi l’affetto. Voi non sarete povero, poichè la dote di mia figlia è vostra. — Che! esclamò stupefatta la Viscontessa, la dote di vostra figlia, signore? — Certo; non la si debbe forse all’uomo che le sarà marito? — Ebbene? dimandò con ansietà la nobile donna. — Ebbene, rispose il Visconte; ecco il marito d’Isalina. E indicò Augusto, il quale restò qual trasognato. — Egli l’amava qual tenero fratello; ora l’amerà quale amantissimo sposo; non è vero, Augusto? E ciò dicendo distese la mano al giovine, il quale vi si precipitò, ricoprendola di baci e di lagrime, e senza poter proferir parola, che la gioia gli troncava il respiro. — Ma riflettete, dicea la Viscontessa, riflettete, signore, a quello che fate; ei fa d’uopo, è vero, pensare a questo giovine che ancor ci è caro; fa d’uopo provvedere al suo avvenire, è ben giusto; lo riterremo presso di noi, quale altro nostro figlio; ma... riflettete, Visconte.. questo giovine è figlio della colpa, egli non ha un nome, e voi non vorrete esporre Isalina ad arrossare. Il Visconte sembrò scosso da questo pensiero: portò la mano destra alla fronte, come se avesse cercata una soluzione alla difficoltà che sorgeva, quando una voce si fe’ udire in quella stanza, la voce d’un personaggio che nessuno dei tre avea veduto entrare, compresi com’erano da tanti affetti, ed il quale era stato ascoltatore delle ultime parole della Viscontessa. — Questo giovine ha un nome onorato, signora; egli ha il mio nome: io l’adotto, egli è mio figlio, ed il cognome d’Orbeil non si adonterà di unirsi a quello di Barkley. La più affettuosa amicizia e sacri obblighi mi ligavano al defunto suo padre, il Baronetto Edmondo Brighton, Conte di Sierra Blonda. Un grido di sorpresa e di gioia accolse la proposta dell’incomparabile Maurizio Barkley, il quale si trovò tra le braccia del Visconte di Orbeil, i cui occhi erano bagnati di lagrime di gioia. RIEPILOGO Un mese dopo la morte di Zenaide, scoppiava in Parigi la insurrezione che contrassegnò le tre giornate del 27, 28 e 29 luglio 1830. Il regno del _dritto divino_ cedeva il posto al regno della _volontà nazionale_, e per non più rialzarsi. In sulla sera del 29, una lettera fu spedita a Auteuil al Visconte d’Orbeil. Questa lettera era così concepita: «Sig. Visconte — Con immenso dolore vi fo sapere che il nominato Federico Lennois, vostro disgraziato figliuolo, scappato questa mane dall’Ospizio di Bicètre, nel momento che i rivoltosi hanno aperte le porte del manicomio, per dar la libertà a qualche condannato politico, è stato trovato estinto sotto la barriera del quartiere s. Antonio. Una palla di moschetto l’ha colpito verso le regioni del cuore». Dopo aver letta questa lettera, il Visconte restò lungo tempo immobile e pensoso: levò poscia gli occhi al cielo, e, con un sentimento di tranquilla rassegnazione, mormorò tra sè il motto de’ legittimisti di Francia: — Dio lo vuole! Il domani, il Visconte d’Orbeil, unitamente alla sua famiglia, abbandonava il suolo della Francia. Sir Eduardo Horms, colla sua famiglia, partiva per la sua terra nativa, accompagnato da Maurizio Barkley e dalla costui moglie. Il governo francese avea renduto a sir Eduardo il quadro la _Preghiera_; ma questi, consigliato dagl’impulsi del suo animo nobile e generoso, ne avea fatto dono a sua sorella Luigia Aldinelli, di cui quel quadro era il ritratto, e qual retaggio d’amore dello sventurato Ugo Ferraretti. Qualche tempo è scorso dagli avvenimenti che abbiam raccontati. Un giorno, la bella e famosa chiesa di S. Dionigi presso Parigi era tutta vestita di brune gramaglie, siccome tutte le altre chiese pertinenti al culto cattolico perciocchè era il giorno che, al dire di un gran poeta italiano. ....... _al sol si scoloraro,_ _per la pietà del suo Fattore, i rai._ Era il Venerdì santo del 1831. Molti fedeli eran raccolti in quella chiesa, all’ora del vespero, cantavasi il _Miserere_ dello Zingarelli. Tra le voci di donne era una, la quale non sappiam dire quanta soavità si avesse: non era una donna che cantava, sì bene un angelo che pregava. Questa cantilena che trova i suoi accordi nelle ime latebre del cuore; avea commossi fino alle lagrime i fedeli radunati in quel tempio, ed in ispezialità avea prodotto una gran commozione nell’animo di una signora, la quale al vestimento e al volto si appalesava ragguardevole straniera. Questa donna sembrava facesse violenza a sè medesima per rattenere un impeto di lagrime che quel canto le suscitava: cogli occhi alzati verso il Coro, e interamente compresi da stupore e da tenerezza, ella cercava con avidità di raffigurare il volto dell’angelo che cantava; ma la pochissima luce che arrivava su quella parte rimota della chiesa non permetteva a lei lo scernere l’oggetto delle sue ricerche. Quando il _Miserere_ fu finito, questa dama, che aveva dietro alla sua sedia un domestico in ricca livrea, mandò questi a pregare da parte sua la portinaia conversa, perchè le si desse il permesso di vedere la monaca che avea cantato l’assolo del _Miserere_. Nessuna difficoltà fu trovata a tale innocente dimanda. La nobil dama venne introdotta nel sacro collegio delle religiose, e le fu presentata colei che tanta commozione le avea prodotta. L’incognita fu scossa dalla singolar bellezza della monaca, e massimamente dall’aria di dolore onde pareano soffuse le sue sembianze. Con grande effusione di cuore abbracciolla, e le dimandò in francese il suo nome e la sua patria. — Luigia Aldinelli, rispose la novizia. — Luigia Aldinelli! esclamò con somma sorpresa l’incognita; e di qual paese siete voi? — Di Pisa, e orfana. Una fiamma incendiò le sembianze della dama; un lampo di gioia brillò nel suo sguardo. — Luigia Aldinelli di Pisa! ella ripetè con voce tremante per commozione; abbracciatemi, e riconoscete in me una sorella, la quale ardentemente desiderava di conoscervi e stringervi al cuore. — Una sorella! esclamò Luigia stupefatta. — Sì, una sorella; le vostre virtù e le vostre sventure già mi erano note; ma io ignorava che aveste preso il velo. Io viaggio da circa un anno, e la meta che mi propongo è l’oriente. Son pochi giorni appena che mi trovo a Parigi. — Il vostro nome, sorella? — Estrella Encinar, di Cadice, figliuola come voi del Conte di Sierra Blonda, e sposa del marchese Alberto de Rinville, che vado a raggiungere a Strasburgo. Il volto della novizia si bagnò di lagrime, ed ella si abbandonò fra le braccia della spagnola che amorosamente strinsela al seno. Sospeso ad una parete della cella di suora Luigia vedeasi il quadro _la Preghiera_. Luigia, consacrandosi a Dio, avea seguita l’antica e cara propensione dell’animo suo. Ora ella non vivea che per PREGARE. INDICE =Parte Prima= I. _Auteuil_ Pag. 5 II. _Il ritorno del fidanzato_ » 12 III. _Il covile del monello_ » 19 IV. _Eduardo Horms_ » 25 V. _La lettera_ » 33 VI. _La compera_ » 38 VII. _Le due napolitane_ » 44 VIII. _Gelosia_ » 51 IX. _Il 7 Luglio_ » 56 =Parte Seconda= I. _La casa di Satana_ » 62 II. _Ugo Ferraretti_ » 68 III. _Un rivendugliolo francese_ » 73 IV. _Il camposanto di Pisa_ » 77 V. _Amore_ » 80 VI. _L’ispirazione_ » 85 VII. _L’invidia_ » 90 VIII. _Il disegno del Lennois_ » 96 IX. _Il carnevale di Pisa_ » 100 X. _Un’altra maschera_ » 107 =Parte Terza= I. _I due bambini_ » 113 II. _La fanciullezza di Federico_ » 118 III. _La prima sera a Parigi_ » 126 IV. _Un amico_ » 132 V. _Federico pittore_ » 140 =Parte Quarta= I. _Dilucidazioni_ » 146 II. _Il salone del 1829_ » 151 III. _Sospetti_ » 155 IV. _Il carnevale di Parigi_ » 160 V. _Luigia Aldinelli_ » 167 VI. _Smascheramento_ » 174 =Parte Quinta= I. _Et sic repente praecipitas me_ » 180 II. _Il manicomio di Bicètre_ » 186 III. _Lo sperimento_ » 191 IV. _Il visconte di Orbeil_ » 198 _Riepilogo_ » 203 N. B. — Pag. 112 ultimo rigo leggersi Luigia e non Lucia. NOTE: [1] È questo un sogno che illude la mia ragione? [2] Soprannome di scherno dato dai Francesi agl’Inglesi, e che vuol dire _Giovanni toro_. Questi poi danno a quelli gli aggiuntivi di _French dog_ cane francese e di _Jack frog_ Giovanni ranocchia. [3] I seguenti versi sono del nostro sventurato S. C. Amato, morto nel 1837. Ci si perdoni l’anacronismo, a cui ci ha tratto il desiderio di citare questa malinconica Poesia. [4] Così chiamasi una partita di piacere in quattro persone di cui per lo più due uomini e due donne. [5] Si dicono _filous_ in francese i ladroncelli di strada; onde l’epigramma di _filosofia_ applicato nelle carceri alla camerata dei ladri. [6] Specie di maschera, tutta francese, la quale rappresenta la foggia di vestire di quei facchini che scaricano le legna dalle barche o battelli. [7] Diconsi «ratus» quell’ultima classe di figuranti in un balletto, fanciulle da dieci a sedici anni, le quali rappresentano le parti di zeffiri, di amorini, di silfidi e altre simili. [8] L’etimologia della parola «Contradanza» par che sia dall’inglese «Country-dance» (ballo di campagna). [9] Sono chiamate «rats» (Sorci) le donne di teatro che ruinano qualche merlotto. [10] Traité médico-philosophique sur l’aliénation mentale. [11] Il pranzo dei folli di Bicètre ha luogo ordinariamente al mezzogiorno; e la sera, essi ricevono una zuppa accuratamente preparata. Nota del Trascrittore Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. Le correzioni indicate a fine libro sono state riportate nel testo. *** End of this LibraryBlog Digital Book "Federico Lennois" *** Copyright 2023 LibraryBlog. All rights reserved.