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Title: La peste di Milano del 1630
Author: Ripamonti, Giuseppe
Language: Italian
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*** Start of this LibraryBlog Digital Book "La peste di Milano del 1630" ***
1630 ***


                                   LA
                            PESTE DI MILANO
                                  DEL
                                  1630

                              LIBRI CINQUE

                    CAVATI DAGLI ANNALI DELLA CITTÀ
                 E SCRITTI PER ORDINE DEI LX DECURIONI
                       _Dal Canonico della Scala_

                           GIUSEPPE RIPAMONTI

                         ISTORIOGRAFO MILANESE


        _VOLGARIZZATI PER LA PRIMA VOLTA DALL’ORIGINALE LATINO_
                                   DA
                            FRANCESCO CUSANI

                        CON INTRODUZIONE E NOTE



                                 Milano
                  _Tipografia e Libreria Pirotta e C._
                                 1841.



                                   A
                           SUOI CONCITTADINI
                           QUESTA NARRAZIONE
                                   DI
                          TREMENDA CATASTROFE
                      CHE DESOLÒ LA COMUNE PATRIA
                   DAL PIÙ ELOQUENTE STORICO MILANESE
                             DI QUELLA ETÀ
                         TRAMANDATA AI POSTERI
                         NELL’IDIOMA DEL LAZIO
                      SVOLTA NELLA LINGUA D’ITALIA
                      PERCHÈ SIANO A TUTTI ESEMPIO
                    LA VIRTÙ GLI ERRORI LE SCIAGURE
                             DEI NOSTRI AVI
                                 OFFRE
                           CON CANDIDO ANIMO
                           =FRANCESCO CUSANI=



Introduzione

DA UN RAGIONAMENTO INEDITO SUI PRINCIPALI STORICI E CRONISTI MILANESI

DI

FRANCESCO CUSANI


I.

Siamo all’epoca spagnuola, che comprende un periodo di cento
settant’anni, d’allora che le armi vittoriose di Carlo V e il
Trattato di Cambray aggiunsero anche il nostro paese agli sterminati
possedimenti di quel monarca, fino alla venuta degli Austriaci
sull’incominciare dello scorso secolo. Epoca fatale e di amara
ricordanza pei Lombardi! Re lontani e di tanto più difficile accesso,
che per giungere a Madrid era d’uopo traversare la Francia quasi
sempre in guerra colla Spagna, ovvero altri Stati Italiani per
prendere imbarco in qualche porto del Mediterraneo. Governatori,
che rappresentavano il Sovrano, estranei alle leggi, alle abitudini,
alla lingua nostra, avidi di saziare la loro ambizione e l’avarizia,
non reggevano, ma angariavano il paese ad essi per tre anni lasciato
in balìa. Un Senato, composto in buona parte di Spagnuoli, che
giudicava inappellabile _come Iddio. Il Consiglio segreto di Stato; il
Magistrato di Sanità; i Sessanta Decurioni; il Capitano di Giustizia;
il Magistrato ordinario, lo Straordinario_, tutti poteri che agivano
indipendenti nella propria sfera, urtandosi e collidendosi sovente
nell’esercizio dei loro attributi non troppo chiaramente definiti.
All’allegria ed all’attività ingenita nei Lombardi sottentrò il
cupo sussiego, l’albagia e l’indolenza spagnuola; quindi i nobili
abbandonarono il commercio, riputandolo disonorevole al casato;
le manifatture andarono in decadimento, le arti e gli studj furono
negletti, le opere pubbliche trascurate, in breve il nostro paese,
consumandosi per lenta inedia, da florido e ricco che era, fu ridotto
sterile e inerte per mancanza d’industria agricola e manifatturiera e
di civile energia.

Però l’attribuire il decadimento e la ruina della Lombardia
esclusivamente al dominio spagnuolo, come fecero parecchi scrittori, mi
sembra un peccare d’esagerazione. E valga il vero: que’ disordini erano
in buona parte conseguenza del trambusto d’idee e di passioni, generale
fra i popoli d’Europa, che, usciti di recente dall’età di mezzo,
incominciavano a stabilire su nuovi principj i loro governi.

Ma, per tornare a noi, in due periodi credo si possa dividere l’epoca
spagnuola: dal 1537 al 1632, e da quest’anno al 1705 in cui vennero
gli Austriaci. Le due pestilenze del 1576 e 1630 sono fatalmente i
fatti più importanti del primo; come S. Carlo e Federico Borromeo
ne sono i più celebri personaggi. Il secondo non è segnato da
verun grandioso avvenimento, giacchè prostrata dalla carestia e dai
contagi, e rallentato l’impulso dato al clero ed al popolo da quei due
arcivescovi, la Lombardia giacque in un letargo sempre più profondo.

Esaminando quali sieno le tradizioni storiche, conservate tra il popolo
fino a noi, ho dimostrato essere poche e confuse, e procurai indagarne
le cause[1]. Or bene, del dominio spagnuolo, il più lungo di tutti fra
noi, altra memoria non sopravvisse nel volgo fuorchè quella di S. Carlo
e della peste avvenuta sotto il suo pontificato.

Le visite fatte in tutta la milanese Diocesi, le riforme di tanti
abusi, l’istituzione delle scuole della dottrina cristiana, le
generosissime e continue limosine agli indigenti d’ogni classe; lo zelo
e l’esimia carità di lui durante la peste, radicarono profondamente
negli animi dei cittadini e dei campagnuoli la memoria di S. Carlo.

La congregazione degli Oblati, che lo ebbe a fondatore, mantenne
d’età in età, per mezzo de’ Seminarj, viva nel clero milanese la
ricordanza de’ suoi benefizi. Aggiungasi la venerazione del popolo,
il quale accorre a pregare al sepolcro del santo arcivescovo, ed ogni
anno, ricorrendo la festa di lui, soffermandosi dinanzi i quadri,
che rappresentano i principali fatti della sua vita, ne rinnovella la
memoria. In tal guisa si andò perpetuando questa tradizione religiosa e
civile ad un tempo; e se ben consideriamo i meriti esimj del Borromeo,
non è meraviglia che il nome di esso rappresenti tutta un’intera epoca
pel popolo milanese. De’ tanti governatori spagnuoli e dei nostri
concittadini, che pure furono celebri per virtù o delitti, non conservò
il medesimo la ricordanza di un solo nome.

Ed a chi mi citasse il cardinale Federico, degno imitatore delle
virtù di S. Carlo, e la peste del 1630, senza confronto più micidiale
della precedente, risponderei che sarebbe errore il credere che
avanti la pubblicazione dei _Promessi Sposi_ se ne fosse conservata
una tradizione popolare. Il voler qui indagare le ragioni presumibili
d’un tale obblio sarebbe troppo lungo. Basti il dire che Federico, per
carattere e pe’ suoi studj, fu di gran tratto meno popolare del cugino.
Quanto al contagio del 1630, il popolo, che confonde assai sovente
le epoche, ne fece un solo coll’antecedente, di cui aveva conservata
memoria a motivo sempre del Borromeo. In prova di che, interrogate
anche in oggi gli uomini volgari intorno la peste di Milano, e vi
risponderanno citando sempre quella di S. Carlo, come se mai vi fossero
state altre pesti.

Onore dunque ad Alessandro Manzoni, che, adoperando con tanta potenza
d’ingegno i materiali copiosissimi di cui riboccano le storie e gli
archivii, sparse di luce sì viva quel luttuoso episodio della nostra
storia, e richiamò gli studj e l’attenzione sopra uomini e vicende,
caduti pei più in dimenticanza!

Ora, venendo agli storici ed ai cronisti milanesi dell’epoca spagnuola,
incomincerò da[2]...


II.

Eccoci a Giuseppe Ripamonti, uno de’ più illustri e benemeriti
scrittori delle cose patrie. Parlerò delle sue opere e della sua vita
più a lungo che non abbia fatto degli altri storici, perchè le prime
sono importantissime, e la seconda rimase finora ravvolta in una specie
di nube misteriosa, che tenterò diradare.

Tutti gli scrittori milanesi contemporanei, i quali parlano del
Ripamonti, lodandone alle stelle il sapere e l’elegante latinità,
pochissimo dicono delle sue vicende. E per quanto io frugassi, non mi
venne fatto di trovare neppure una parola intorno al processo e ad una
prigionia di cinque anni da lui subíti.

Anche nella Biblioteca Ambrosiana, di cui fu dottore, non se ne
rinviene traccia, meno un’annotazione[3], in cui è detto che il
Ripamonti fu escluso, poi riammesso nel collegio, e null’altro.
Girolamo Legnano, uno de’ 60 Decurioni, il quale lo incaricò di
scrivere la storia di Milano, e che dopo la morte di lui pubblicò la
Decade V.ª, contenente la vita di Federico Borromeo, serba egli pure
un assoluto silenzio. Nella breve vita che premise a quella V.ª Decade
dice: «Provò varj casi di fortuna, ora prospera, ora avversa; ma
l’animo suo fu sempre imperterrito;» concetto così vago che significa
un bel nulla. L’accusato medesimo, nelle sue opere posteriori, mai
si lascia sfuggire parola intorno a’ proprj casi. Eppure il processo
era stato sì lungo e clamoroso, che i contemporanei era impossibile
l’ignorassero. Perchè dunque un sì generale ed assoluto silenzio?
Per deferenza a’ dottori dell’Ambrosiana ed alla congregazione degli
Oblati, parecchi membri della quale non figurarono troppo bene in
quel processo. E la venerazione altresì al cardinale Federico indusse
probabilmente al silenzio, giacchè, quantunque Egli non solo mitigasse
la pena al Ripamonti, ma lo tenesse in seguito vicino a sè, colmandolo
di favori, pure è sempre vero che lo aveva lasciato languire in carcere
molt’anni per lenta procedura. Tutte le quali cose appariranno chiare
da ciò che verremo esponendo.

Il primo a sparger luce sulla vita del Ripamonti fu Ignazio Cantù,
consacrandovi il capitolo XLI delle sue _Vicende della Brianza_.

Egli esaminò il voluminoso processo sostenuto dal nostro storico, e
che si rinvenne nell’archivio dell’Ill. Famiglia Borromeo, archivio
prezioso per documenti importantissimi di storia patria[4]. Avendomi
il conte Vitaliano Borromeo, colla cortesia che il distingue, permesso
di esaminare i documenti relativi al Ripamonti ed alla Peste del
1630, io ne cavai molte nuove particolarità che varranno, di certo, a
mettere del tutto in chiaro questa specie di mistero storico, non senza
compiacenza degli amatori delle cose patrie.


III.

Nacque Giuseppe Ripamonti nel 1577 a Tegnone[5], paesello della pieve
di Missaglia in Brianza[6]. I parenti di lui non erano ricchi, ma,
senza coltivare la terra, vivevano con parsimonia del ricavo de’
loro campi. Il fanciullo, di belle forme, cresceva robusto nell’aria
balsamica di que’ ridenti colli; e siccome appalesava ingegno precoce e
svegliatissimo, fu dai genitori destinato alla carriera ecclesiastica,
che allora schiudeva largo campo d’onori e di fortuna anche ai giovani
del ceto medio.

È bello sentire lo stesso Ripamonti raccontare quali furono i suoi
studj.

«Sino alli 17 anni io sono stato allevato da mio zio curato di
Barzanò[7], chiamato prete Battista Ripamonte, che è morto. Studiavo
grammatica che m’insegnava detto mio barba. Io andai dopo li 17 anni in
Seminario ad interessamento di mio barba suddetto, il quale m’haveva
insegnato parte della lingua Hebraica della quale il sig. Cardinale
si dilettava, e da esso sig. Cardinale fui esaminato e da lui posto
nel Seminario in Canonica, nel quale stetti un anno. Et in detto
Seminario il sig. Cardinale mi fece attendere alla lingua Hebraica et
io l’insegnavo a certi altri giovani. Et perchè mio barba non poteva
o non voleva pagare la dozzina del Seminario, uscii fuori, e mi misi
in una camera vicino a Brera in compagnia d’un prete Antonio Giudici
di Macconaga, et andava a Brera a scuola alla logica, et lì stetti
un anno. Finito poi l’anno, mi ruppi con questo mio barba, et andai
a stare con il sig. Giacomo Resta in Milano per maestro d’un suo
figlio che hoggi si chiama il sig. G. Battista, con il quale io stetti
quattro anni. Dippoi andai a stare con il vescovo di Novara, monsignor
Bescapè, quale mi voleva introdurre per scrivere sue lettere, con il
quale stetti sei mesi. Dippoi ms. Settala, arciprete di Monza, mi fece
andare a Monza per maestro di quella Comunità dove stetti duoi anni,
et da Novara mi partii perchè non mi piaceva servire quel vescovo,
et da Monza partii chiamato dall’Illustr. sig. Cardinale Borromeo
nel Seminario di Milano, dove stetti per maestro di Grammatica per lo
spatio di quattro anni circa. Nel qual tempo con li ammaestramenti et
indirizzi dello stesso sig. Cardinale fui incamminato allo studio della
Historia, et insieme della lingua Greca, Hebraica et Caldaica; nelle
quali lingue avendo fatto qualche progresso, esso Cardinale, comandò
ch’io attendessi solamente all’Historia. Et finiti detti quattro
anni[8], dopo essere stato due anni nel detto Seminario a studiare
ciò che il sig. Cardinale mi aveva ordinato, fui aggregato al Coleggio
Ambrosiano et ivi addottorato, sebbene stetti altri quattro anni nel
Seminario della Canonica. Poi per le liti che aveva coi rettori del
Seminario, i quali pretendevano ch’io pagassi la dozzina, et io non
pretendeva pagarla, il Cardinale per sua cortesia m’accettò in sua
casa a sue spese, attendendo io al Coleggio Ambrosiano, dal quale era
stipendiato di lire 1000 all’anno[9]».

Da questo passo apparisce chiara la predilezione che Federico ebbe pel
Ripamonti, fin da quando lo conobbe giovanetto. Nel 1609, instituendo
l’Ambrosiana, lo nominò dottore, affidandogli l’onorevole incarico
di scrivere la storia patria; e più tardi, per toglierlo alle brighe
in cui era avvolto coi colleghi del Seminario, l’accolse nel suo
palazzo arcivescovile. Ne ottenne Federico gratitudine? non troppa. Il
Ripamonti, d’indole altiero e irrequieto, e facile a sparlare d’altrui,
era, bisogna pur dirlo, un accattabrighe: s’inimicò il rettore del
Seminario, un Bernardo Rainoni, dileggiandolo di continuo perchè
balbuziente, e gli altri colleghi, non volendo uniformarsi alle rigide
discipline della congregazione. È vero che essendo costoro uomini di
poco ingegno e pedanteschi, mal sapevano tollerare la superiorità d’un
letterato il quale viveva tutto solo intento agli studj.

Nè le cose camminavano meglio coi dottori dell’Ambrosiana, tra per
l’irascibilità di lui, tra per l’invidia che il favore del Cardinale
gli suscitava contro. Uno dei colleghi, il teologo Antonio Rusca,
una volta trafugò e nascose la medaglia che il Ripamonti portava al
collo, come distintivo della carica. Corsero tra l’offeso e l’offensore
dapprima parole d’insulto, poi vennero alle mani. Anche col primo
bibliotecario Antonio Olgiato col Giggeo ed il Salmazia, furonvi
aspri e ripetuti alterchi, i quali, sebbene eccitati da frivoli cause,
esacerbarono in guisa gli animi contro il Ripamonti, che non tardò a
scoppiare la tempesta. Uscita in luce nel 1617 la prima Decade della
_Storia Ecclesiastica di Milano_, ottenne elogi universali, e lo stesso
Federico ne lodò l’autore. Ma i suoi avversarj lo accusarono di aver
narrato i proprj casi, e così pure di avere qua e là denigrato con
maligne allusioni il buon nome di parecchi suoi colleghi, tanto del
Seminario che della Biblioteca, e di avere, nel raccontare le vicende
di un prete Fortunato, falsate le lettere di S. Gregorio Magno, d’onde
aveva tolto quell’episodio.

Vociferavasi che, durante la stampa, avesse intrusa quella storia
nel manoscritto già approvato dal censore Bariola, membro del Santo
Uffizio.

Rispondeva il Ripamonti, averne avuta licenza a voce, ma siccome il
censore era morto nel frattempo, riusciva impossibile dicifrare il
vero. Frattanto, l’istabilità di carattere, l’amore di lucro e forse
più di tutto il presentimento delle vendette minacciate, invogliarono
il Ripamonti ad accettare l’offerta del conte di Toledo, governatore
di Milano, il quale voleva condurlo in Spagna, stipendiandolo per
iscrivere storie. Federico, zelante protettore degli studj, e buon
letterato egli stesso, non poteva di certo essere indifferente alla
perdita del suo protetto, il quale, ad onta d’un carattere irascibile
e irrequieto, dava lustro al nascente Collegio Ambrosiano, ed avrebbe
fatto onore all’arcivescovo ed alla patria, continuando a pubblicare
le sue Decadi. Però Federico, come esigeva la dignità sua, non
pose ostacolo all’andata di Ripamonti, limitandosi ad una tacita
disapprovazione. Questa bastò a rendere dubbioso il nostro scrittore,
che era d’un’instabilità senza pari.

Chiunque non abbia avuta la flemma di scorrere il lunghissimo processo
di lui, mal crederebbe quante volte mutasse consiglio; ora lietissimo
di recarsi in Spagna, ora pentito d’abbandonare la patria ed il suo
illustre mecenate. In queste dubbiezze trascorse la primavera del
1618. Alfine lo stipendio di 400 ducatoni annui e la metà di questa
somma che gli venne sborsata nel luglio dal segretario del Toledo,
vinse la titubanza del Ripamonti a partire senza l’esplicito consenso
del Cardinale. Ma, pochi giorni dopo, si pentì per la centesima
volta, e col mezzo d’un Padre Ignazio cappuccino, «il quale fece
il servitio[10]», fece restituire i 200 ducati. Mandò in pari tempo
l’abbate di Chiaravalle ad intercedere perdono da Federigo, il quale
trovavasi nella sua villa di Groppello, supplicando gli permettesse di
rimanere ivi, perchè temeva una vendetta del governatore. L’arcivescovo
non volle riceverlo, e rispose: «facesse quello che gli tornava a
conto, che egli non ne voleva saper altro[11]». Suggerì però che
si recasse in casa del proposto Melzi alla Canonica, presso Vaprio
(29 luglio): «Et gli piacque (al Ripamonti) et andò et pregò me che
subito fatta la restituzione dei suddetti denari dal Padre Capucino,
io l’hauisassi subito per un uomo a posta per sua consolatione,
perchè non hauria potuto dormire fin a tanto che non haueva nuova
della restituzione: di che lo consolai la mattina seguente[12]». Ma
la consolazione fu assai breve, perchè ai primi d’agosto venne ivi
arrestato.

Vistosi a mal partito, trovò il mezzo di spedire segretamente una
lettera al segretario del conte di Toledo: _Mi vien fatta violenza_,
scriveva, _dimani mi porteranno altrove e non so il luogo. Perciò
supplico V. E. a cavarmi dalle mani, perchè ad ogni modo voglio venire
in Spagna seco_[13].

Ma il vecchio e bizzarro spagnuolo, per quanto ambisse d’avere al suo
servigio un elegante storico, non era uomo da tirarsi addosso una seria
contestazione coll’autorità ecclesiastica, per difendere un uomo di
carattere così volubile[14]. Ripamonti fu tradotto il giorno seguente
a Milano, dove ebbe per carcere una stanza del palazzo arcivescovile; e
si aprì l’inquisizione.

I capi d’accusa furono:

D’avere nella Decade Prima della sua _Storia Ecclesiastica di Milano_
intruso, mentre stampavasi, la storia del prete Fortunato dopo la
revisione del censore, raccontando sotto il nome di Fortunato i casi
del Rainoni, rettore del Seminario. — D’avere ricordate certe azioni
di S. Agostino prima della sua conversione, che era bello tacere, e di
aver derisa la canonizzazione di S. Carlo. — Gli si imputava che sotto
il nome di certi finti religiosi, vissuti all’epoca di S. Ambrogio,
raffigurasse alcuni suoi colleghi, deridendoli con maligne allusioni.
— Che negli anni in cui era maestro in Seminario, trascurasse i doveri
religiosi a tale che non l’avevano mai veduto recitare l’ufficio,
e neppure farsi il segno di croce. — Da ultimo accusavasi perfino
di ateismo, e di negare l’immortalità dell’anima. — Ripamonti venne
imputato anche di vergognose turpitudini; ma fin da principio emerse
sì patente la calunnia, che di ciò non si fece più motto durante la
procedura o nella sentenza.

Oppresso da sì gravi accuse e spinto dal naturale desiderio della
libertà, l’inquisito cercò sedurre il carceriere, promettendo
venticinque scudi se voleva dargli mano, e rifugiarsi seco presso il
Duca di Savoja, il quale, come dicemmo, l’aveva invitato alla sua Corte
con largo stipendio. Trovato incorruttibile colui, una sera uscì pian
piano, e, serratolo a chiave nella vicina stanza, stava già per uscire
quatto quatto dall’arcivescovado, allorchè fu raggiunto dal custode,
che i compagni accorsi alle sue grida avevano liberato.

Codesto tentativo d’evasione, di cui il Ripamonti cercava
giustificarsi, dicendo temere che il Cardinale volesse farlo morire
in prigione, complicò il processo, tanto più che il carceriere, per
stolidaggine o per vendetta, l’accusò d’essere indemoniato. Crebbero
i rigori, nè gli fu conceduto altro libro che il Breviario; soltanto a
Pasqua 1619 gli si accordarono le Opere di Cicerone. La quale mancanza
di libri dovè riuscire penosissima ad un uomo avvezzo dall’infanzia
a studiare gran parte del giorno. Vennero esaminati tutti i dottori
dell’Ambrosiana, gli Oblati del Seminario e quanti avevano avuta
relazione in qualsiasi modo col Ripamonti, e le deposizioni loro furono
aggravanti per l’accusato.

Il vicario ecclesiastico criminale Arcelli, cui era devoluta la causa,
era suo personale nemico, e per soprappiù uomo da poco[15].

I torti reali del Ripamonti, e le suggestioni de’ molti suoi nemici,
bilanciavano in cuore del Cardinale la stima e l’affetto che nutriva
per esso, per cui mal sapeva indursi a condannarlo o ad assolverlo.
Riferiremo in prova alcuni brani di lettere scritte a’ suoi procuratori
presso la Corte di Roma che palesano l’animo benevolo e moderato
dell’esimio Federico.

  _=A Monsignor Settala.=_

                                           Roma, 19 Settembre 1618.

  _Il Ripamonti non sta in privato carcere ma in prigione formale
  da quei primi giorni in qua, che si tenne in una camera sinchè
  si terminassero alcune cose concernenti la sua persona. Ne si
  trattiene per impedirgli l’andare e servire il Sig. D. Pietro di
  Toledos; ma per le cause che si vedranno a suo tempo dal medesimo
  processo, il quale si va facendo giuridicamente. Avvenga che si
  stimi d’andar procurando la verità con qualche destrezza e con
  un poco tempo, anzichè usare certi termini rigorosi di torture, e
  simili. Non essendo possibile d’ovviare che il mondo non dica ciò
  che le pare in questo come nel rimanente, Vostra Signoria assicuri
  Nostro Signore, et ogni uno con chi occorrerà trattarne, che dal
  vedere il processo quale si manderà, resteranno soddisfati della
  maniera con cui si procede, e vedranno i fini che si hanno in
  questa causa, ec._


  _=A Monsignor Besozzo.=_

                                                     28 Marzo 1619.

  _Attendete voi a spedire il negozio del Ripamonti, restate in
  concerto col Padre Commissario che di tutto quello che qui seguirà,
  se ne darà parte costì. Et che bisogna solo pensare alla sicurezza,
  acciocchè non ci dia costui un giorno da sospirare a tutti; et che
  questo è il mio fine et timore. Perchè se non fosse questo io già
  l’hauerei lasciato di prigione 6 mesi sono, ec._


  _=A Monsignor Besozzo.=_

                                                    17 Aprile 1619.

  _Alla carcere perpetua che certi disegnano condannare il Ripamonti,
  io non posso inclinare tenendola per troppo gran pena. Ma vorrei
  che fosse per qualch’anni, come già vi scrissi. Et con disegno di
  poterlo anco dopo alcun tempo habilitare per ajutarlo con ogni
  possibile mezzo, e non lasciarlo cadere in qualche miserabil
  stato o disperatione. Vedete però di operare che l’ispedizione
  sia tale che ci resti maniera di usarle misericordia, se si
  vedrà emendato, et speranza di ridurlo in buon segno. Almeno si
  potrà pigliar l’espediente di soprassedere un poco nella causa et
  tenerla alquanto sospesa, et dare un poco di tempo per poter meglio
  deliberare. Et il tempo mostrerà quello che si ha da fare. E se S.
  Santità dubita di qualche molestia che possa ricevere per questa
  causa tenuta così in sospeso, rispondere quando si sentirà alcuna
  cosa all’hora si potrà poi deliberare subito senza dimora. Così
  veremo a fuggire pericoli da tutte due le parti, ec._


  _=Al medesimo.=_

                                                    11 Maggio 1619.

  _Nel negotio del Ripamonti per far bene bisogna che non sappia
  quello che si è deliberato costì perchè entrerebbe in superbia
  e sarebbe peggiore ogni dì più. Però desidero che lo tenghino in
  timore, poi staremo a vedere, ec._[16].

Da queste lettere avrete scorto, o lettori, come il Pontefice e la
congregazione de’ Cardinali avessero avocato a loro, quai giudici
supremi in materie ecclesiastiche, l’affare del Ripamonti. Il padre
dell’accusato si rivolse al Papa nella primavera del 1619, col seguente
ricorso che trovasi negli atti del Processo, e che riferiremo come
documento importantissimo.

  _«Bartolomeo Ripamonti devotissimo servitore di Vostra Santità
  umilissimamente li espone qualmente Giuseppe suo figlio sacerdote
  ed autore dell’Historia Ecclesiastica di Milano, doppo longo
  servicio fatto al Sig. Cardinale Borromeo così nel Seminario come
  nel coleggio ambrosiano et in altre occasioni, a persecutione
  d’alcuni suoi emuli et maleuoli che con diaboliche suggestioni et
  falsi pretesti gli hanno implacabilmente irrittato contro il Sig.
  Cardinale viene ritenuto prigione a quella corte archiepiscopale
  da molti mesi in qua, senza sapersi il pretesto della sua
  carcerazione. Et per molte istanze che si siano fatte di haver
  copia degli indiccj, o di habilitarlo con sigurtà, et promesse
  haute della sua liberatione, non si è però potuto mai conseguire
  cosa alcuna, nemeno vedere che si formi altro processo contro
  di lui. Disperando pertanto il povero petente di poter hauere
  altro compimento di giustizia a quella corte, ne da alcuno de’
  suoi ministri, et vedendo già in manifesto pericolo il figlio per
  la poca sua sanità offesa anche dal patire longo delle carceri,
  supplica humilissimamente Vostra Santità a degnarsi ordinare che
  la causa sia conosciuta per giustizia, e terminata da alcuno de’
  Cardinali della Sacra Congregazione dei Vescovi, o da altro giudice
  di questa corte, con commandare che sia trasmessa la inquisitione,
  et processo contro di esso fabbricato quando ve ne sia, che sarà
  gratia della molta pietà di Vostra Beatitudine quam Deus, ec._

                                         _Giovan Ambrogio Crivelli_
                                              _Per il Supplicante._

Infatti i cardinali Millino e Cadonisi scrissero, d’ordine del Papa,
a Federico, che facesse terminare il Processo, custodendo frattanto
l’accusato, ed informando a Roma de’ suoi diporti[17]. Ma che fosse,
che non fosse, per due anni l’affare rimase stazionario, e trovasi una
lacuna nella procedura dal 1620 al 1622.

Il prigioniero, languente in carcere da quattro anni, e ridotto a
pessimo stato di salute, instava che lo mandassero a Roma per essere
giudicato; anche la Congregazione lo reclamava colà; e infatti il
cardinale Millino, tra le altre lettere, scrisse il 22 aprile 1622
avere il padre del Ripamonti presentato un nuovo ricorso al Papa: _Il
quale ordinò che si faccia venire a Roma insieme al suo processo, et
per l’esecuzione S. S. mi ha comesso di scrivere a V. S. Ill. perchè
il suddetto Giuseppe sia rilasciato con rinnovare la sigurtà data
altre volte di 4000 scudi di venir qui addirittura tra 20 o 25 giorni
et presentarsi a questo S. Ufficio, col mandare al tempo stesso le
scritture relative_[18]. Allora Federico, posto alle strette, nè
trovando conveniente che un uomo così irascibile, ed inasprito da lunga
prigionia, si recasse a Roma, affidò la causa all’inquisitore generale
Abbondio Lambertenghi ed al vicario Antonino, succeduto all’Arcelli.
Nel luglio vennero uditi per la prima volta, dopo sì lungo tempo,
i testimonj in difesa. Il confessore del Seminario, varj parrochi
e sacerdoti, alcuni segretarj del Senato e molte persone d’integra
fama di Milano, Pavia, Lodi ed altre città, deposero tutti a favore
del Ripamonti. Un canonico Rossignoli del Duomo, nominato difensore
d’Ufficio con altri due causidici, sventò di molto le accuse, ed il 16
agosto di quell’anno venne finalmente emanata la sentenza.

Dichiarato nel preambolo essere egli meritevole di severo gastigo, ma
che pure volevasi usare qualche benignità, venne condannato:

I. Ad incorrere nelle censure ecclesiastiche del Concilio Lateranense,
con facoltà però d’invocarne l’assoluzione.

II. A tre anni di prigionia nelle carceri arcivescovili e ad altri due
anni in qualche luogo pio a scelta dell’arcivescovo, e ciò a titolo
d’emenda, e coll’obbligo di dare idonea sigurtà.

III. Sospesa la sua storia finchè non si ristampi colle debite
correzioni.

IV. Proibita la pubblicazione di altre opere senza speciale
autorizzazione del Santo Ufficio.

V. Gli fu ordinato di digiunare per un anno tutti i venerdì, e di
recitare il rosario ogni settimana.

Venne lasciata facoltà all’Arcivescovo ed agli Inquisitori di commutare
ed alleggerire la condanna.

Fu equa codesta sentenza ed il severo castigo pari alla gravità delle
colpe? Ecco il dubbio che sorge nell’animo di ogni lettore imparziale.
Siami quindi conceduto di esporre quanto, dopo il minuto esame ch’io
dovetti necessariamente fare del Processo e d’altri documenti, emerge,
a senso mio, di vero o almeno di molto probabile.

L’accusa d’aver falsato il passo di S. Gregorio, narrando i casi di
prete Fortunato, è falsa, e basta a provarlo il semplice raffronto
dei due testi[19]. Quanto ai passi, nei quali il nostro Autore venne
accusato di sparlare di S. Carlo e di S. Agostino, è un’imputazione
assai vaga e insostenibile, per poco che si ammetta una ragionevole
libertà di opinioni nello storico.

L’accusa gravissima di ateismo e di materialismo, non solo manca di
prove reali, ma è sventata da validissime testimonianze in contrario.
Le quali testimonianze d’uomini riputati per dottrina e pietà non
mancarono al Ripamonti per giustificarlo altresì di aver sempre
trascurati i proprj doveri ecclesiastici.

Una riprovevole freddezza nell’adempiere gli obblighi del suo stato non
curandosi d’altro che degli studj, un carattere irascibile e impaziente
di qualunque disciplina, la facilità di mettere in ridicolo chiunque
non gli andasse a genio, l’amor del denaro un po’ spinto e la poca
gratitudine per l’Arcivescovo suo benefattore; ecco i veri e provati
torti del Ripamonti, che lo rendevano meritevole di gastigo, ma che
vennero oltre misura ingranditi dall’astio profondo de’ molti suoi
nemici.

Persuaso di non aver meritato le severe pene inflitte dalla sentenza,
egli voleva appellarsene a Roma; ma calmato il primo sdegno, con più
savio consiglio invocò grazia dall’Arcivescovo, il quale, d’animo
benigno e ritenendolo abbastanza punito, mutò la prigionia in un
semplice arresto nel suo palazzo. Esultante il Ripamonti per tale
grazia, che mitigava quasi per intero la rigorosa sentenza, dettò, la
mattina del 29 settembre, la seguente dichiarazione:

«Constituito io Prete Gioseffo Ripamonti alla presenza di noi Notaro
e testimonij infrascritti: Dico e protesto che mia mente non fu, nè
di presente è, che hauendo io renontiato all’appellatione ch’era stata
da me interposta dalla sentenza data contro di me dai signori Giudici
Deputati da Monsignor Illustrissimo Cardinale Borromeo Arcivescovo di
Milano mio Signore e Padrone con rimettermi del tutto alla pietà del
Signor Illustrissimo acciò modificasse le pene e penitenze impostemi
in detta sentenza, persona alcuna facesse più ricorso dal sommo
Pontefice nè da altro superiore per ottenere la reuisione o altr’ordine
contra detta sentenza, et se tal ricorso è stato fatto dopo detta
mia renuntia, ciò non è stato fatto di mio consenso et più non uoglio
che sortisca effetto alcuno. E perchè detto Monsignor Illustrissimo
hieri per quanto da te notaro mi fu notificato, ordinò che io fossi
allargato con assegnarmi (per sua mera gratia e benignità) tutto il
palazzo arcivescovile, con che io dia prima sicurtà di non partirmi poi
senza prima speciale licenza, dico et protesto, che l’intentione mia è,
che quando io sarò posto in tal libertà, nel qual caso io potrò a mio
piacere trattare con miei parenti et amici e dargli quei ordini che a
me pareranno necessarj per mio seruitio se di nuouo fosse tentata cosa
alcuna col far ricorso in mio nome, o in fauor mio al sommo Pontefice
o ad altri superiori come sopra, ciò non sarà, ne uoglio che s’intenda
fatto di mio consenso, se di ciò non constarà per qualche scrittura
fatta o almeno firmata di mia mano perchè non intendo di far ricorso ad
altro superiore per mio aiuto che al suddetto Monsignore Illustrissimo
mio Signore e Pron. dalla cui pietà spero ottenere ogni giusta
gratia[20]».

La lezione era stata amara, ma non inutile al nostro storico, poichè,
rimessosi egli con ardore agli studj interrotti, ricuperò l’amicizia la
protezione di Federico, e si aprì larga carriera di onori e fortuna.
«Fu riammesso nei Dottori dell’Ambrosiana, anzi dichiarato di non
licenziarsi mai, e graziato di aumento di soldo in lire 1600 all’anno
in esecuzione della mente del Cardinale[21]».

Nominato dal re di Spagna canonico di Santa Maria della Scala, e
storiografo regio[22] dal marchese di Legnanes, governatore di Milano,
che lo tenne alcun tempo presso di sè[23], stampò la seconda (1625),
indi la terza parte (1628) della sua _Storia Ecclesiastica di Milano_.

Cessata la peste, il Consiglio Generale lo incaricò di scriverne
la storia, e Ripamonti la pubblicò nel 1640. Tre anni dopo diede
in luce i primi dieci libri d’un grandioso lavoro affidatogli dal
Consiglio medesimo, che l’aveva eletto a cronista patrio, vale a
dire la _Storia di Milano_, dal 1313, dove ha termine quella di
Tristano Caleo, fino alla morte di Federico Borromeo[24]. E attendeva
a compiere quest’opera, ma i lunghi e laboriosi studj e la sofferta
prigionia avevano logorato il robusto temperamento di lui. Soprappreso
da lenta febbre, gli si enfiarono, per idropisia, il ventre e le
gambe. I più esperti medici, per decreto pubblico, ne intrapresero la
cura; ma vani furono i rimedj[25]. Allora decisero, come sempre, che
l’unica speranza di guarigione stava nel respirare l’aria nativa. Il
malato andò sui colli briantei a Rovagnate in casa del parroco, ma
cresciuta l’idropisia, il 14 agosto 1643, con cristiana rassegnazione
trapassò[26].

L’annunzio della sua morte rattristò Milano e i letterati[27], e
trovai scritto in certe Memorie che il Senato sospese la seduta a
solenne testimonianza di lutto per la perdita dell’istoriografo della
patria. Ma fu momentaneo entusiasmo, che si esaurì in gran numero
d’epigrammi, nei quali, con tutta la gonfiezza del seicento, si
portavano alle stelle l’ingegno e le opere di lui, e s’inveiva perfino
contro la Parca che ardì troncargli la vita. Io ve ne fo grazia, o
lettori, e se v’aggrada conoscerli, li troverete stampati in fronte
ai diversi volumi delle sue storie. Neppure fu posta una lapide, che
nella chiesa di Rovagnate ne additasse il sepolcro, anzi cadde in tale
dimenticanza, che le sue vicende, e perfino l’epoca della sua morte,
rimasero una specie di mistero fino ai giorni nostri. Del che niuno
vorrà farsi meraviglia, infiniti essendo in tutte le epoche gli esempj
di noncuranza e ingratitudine verso gli uomini benemeriti del proprio
paese!

Chiuderemo questa biografia, che i lettori mi perdoneranno d’aver forse
allungata di soverchio, per la simpatia che ho a questo storico, e per
il desiderio di rivendicarne la memoria, col ritratto che di esso ne
lasciò un contemporaneo. «Imparò con tanta prestezza lettere greche
et hebraiche, et arrivò tant’oltre nella perfezione di queste lingue,
che facilmente si sarebbe fatto credere agli huomini d’esser nato et
allevato piutosto in Atene o in Gerusalemme che in Lombardia. Ch’egli
poi vaglia molto nella lingua latina, non m’affaticherò in accennarlo,
posciachè riesce così mirabile in quella, come altri nella materna.
Favorillo il cielo d’una sì tenace memoria, che di quanto ha letto
distintamente si ricorda, e di questa virtù particolare se ne servì più
volte nel sentire le prediche, le quali da esso nel tesoro della sua
memoria portate a casa, nel latino idioma trasportava, come le aveva
sentite in volgare. Al presente va componendo la vita del cardinale
Federigo[28]».


IV.

Ora veniamo all’esame delle opere del Ripamonti in ordine cronologico.
La _Storia Ecclesiastica di Milano_...

La _Storia della Pestilenza del 1630_ scritta, come abbiamo notato,
per ordine dei 60 Decurioni, fu data in luce nel 1640 e dedicata al
Consiglio Generale ed ai medesimi. È un volume in 4.º, di pagine 400
circa, diviso in cinque libri. La Carestia e la Peste. — Gli Untori.
— Gesta di Federico Borromeo e del Clero durante il contagio. — Atti
della Sanità ed altre magistrature. — Paralello fra gli antecedenti
contagi e quello del 1630.

È libro importantissimo per autenticità, sì perchè l’autore fu
testimonio oculare di gran parte degli avvenimenti, come perchè ebbe
a sua disposizione gli archivj pubblici pei documenti necessarj. Il
racconto è maestoso, energico, pittoresco; la lingua forbita, elegante,
chè il Ripamonti conosceva e maneggiava il latino da maestro. Lo stile
però si risente del falso gusto del tempo; quindi periodi intralciati,
antitesi, arzigogoli, turgidezza di pensieri e d’immagini. I quali
difetti rendono assai difficile ad intendersi, anche pei valenti
latinisti, codesto libro.

Manzoni, che lo cita più volte ne’ _Promessi Sposi,_ dice «questa
narrazione va di gran lunga innanzi a tutte e per la scelta dei fatti e
ancora più pel modo di vederli».

Le Decadi III, IV, V della Storia in continuazione di Tristano Calco...


V.

Alessandro Tadino, di antica e nobile famiglia milanese, fu aggregato
al Collegio medico nel 1603. «Uomo, dice l’Argellati, che ad un
grande ingegno e sapere univa molteplice esperienza e destrezza negli
affari». Inviato dal Magistrato di Sanità come commissario sul lago
di Como e nella Brianza, all’avvicinarsi della peste diede ottimi
provvedimenti. Penetrato il contagio in Milano, il Tadino s’adoperò
con zelo instancabile, e sostenne, si può dire, solo il grave incarico
del Tribunale di Sanità, di cui era uno dei conservatori, stantechè il
protofisico Settala era reso inabile ad operare dalla vecchiaja.

Tadino morì ottuagenario[29] il 26 novembre 1661, e fu sepolto nella
chiesa de’ Cappuccini di Porta Orientale, benchè fino dal 1617 avesse
posta, giusta una consuetudine non infrequente in quel secolo, la
seguente lapide in Santa Maria della Passarella.

                  ALESSANDRO TADINO FILOSOFO E MEDICO
                       E GIOVANNA TADINO DONEGANA
                            CONJUGI CONCORDI
                                 POSERO

Lasciò varie opere di medicina e la relazione della pestilenza del
1630, di cui diremo, avendolo appunto per essa annoverato fra i nostri
storici. Ha il titolo pomposo di «Ragguaglio dell’Origine et Giornali
Successi Della Gran Peste Contagiosa Venefica et Malefica seguita in
Milano e suo Ducato dall’anno 1629 al 1631». Un volume in 4.º di pag.
150, stampato nel 1642, e dedicato al vicario di provvisione Francesco
Orrigone.

Il Tadino dice che rimase perplesso in quale lingua scrivere, «sendoche
in idioma latino dal fu D. Giuseppe Ripamonti alcuni anni sono fu data
fuori. Ho risoluto valermi del naturale linguaggio anche perchè così
dal pubblico era molto desiderata, come che con maggiore facilità da
ogni qualunque persona potrà essere letta...... La mia fatica qual
si sia contiene ciò che in questo contagio dal principio al fine è
occorso. Un racconto minuto et distinto di tutti i casi di tempo in
tempo et luogo seguiti in generale et in particolare, con molti ordini
et provigioni fatte per beneficio publico».

Ed è veramente tale, offrendo questo _Ragguaglio_ di particolarità
storiche, mediche, statistiche, che invano si cercherebbero altrove.
Quanto poi al pregio letterario del libro, il Tadino sta al Ripamonti
come un disadorno ma esatto racconto prosaico sta ad un’elegante ed
immaginosa narrazione poetica.

Un Agostino Lampugnani, benedettino, morto nel 1646 in S. Simpliciano,
dov’era priore, pubblicò nel 1634 un libriccino, in cui nulla trovasi
d’importante, e dettato con uno stile sì falso e barocco che non si
potrebbe far peggio. Lo cito soltanto per essere stato il primo a
scrivere intorno la Peste: «Correndo il quart’anno, dic’egli, ch’è
cessata, ne veggendosene ancora alcun volume alla luce, ho voluto
intraprendere io a raccontarti quel poco che, trovandomi in essa, ho
avvertito».

Pio della Croce, guardiano de’ Cappuccini, cinquant’anni dopo compilò,
servendosi, a quanto pare, di una cronaca esistente nel suo convento a
Porta Orientale, la _Memoria delle cose notabili successe in Milano in
quel contagio e del Ricorso dei signori della città ai Padri Cappuccini
pel governo del Lazzaretto_. Il libro è dedicato al marchese Giuseppe
Arconati, pronipote di quello che si distinse nel 1630 come presidente
della Sanità, e tratta per diffuso di quanto operarono i Cappuccini
durante il contagio. Sotto quest’aspetto è di molto interesse, perchè
è noto il gran bene che fecero quei Padri adoperandosi con uno zelo
superiore ad ogni encomio.

Il conte Carlo Cavazzo della Somaglia nel suo _Alleggiamento dello
Stato di Milano per le imposte, ec_., opera di cui ragioneremo più
innanzi, offre importanti particolarità di statistica ed economia
intorno il contagio.

Omettendo parecchi altri libri e scritti su questo argomento, che
riuscirebbe nojoso e superfluo l’enumerarli, conchiuderò con uno di
sommo rilievo. È un manoscritto del cardinale Federico Borromeo che
si conserva nell’Ambrosiana tutto di sua propria mano, col titolo:
_De Pestilentia quæ Mediolani anno 1630 magnam stragem edidit_.
L’esposizione di varj fatti dei quali Federico fu testimonio, le sue
opinioni intorno gli Untori, l’impulso che diede al proprio clero, sono
dati preziosi a chi studia codesto periodo. Il Ripamonti trasfuse nel
libro III della sua storia i passi più rilevanti di esso racconto.

E basti, poichè di editti, processi, lettere e documenti d’ogni genere
intorno la Peste del 1630 riboccano i nostri archivj pubblici, e varj
delle famiglie private, in guisa che lo storico, nell’abbondanza dei
materiali, trovasi imbarazzato a scegliere.

Venendo ora agli storici milanesi che scrissero durante il secondo
periodo del dominio Spagnuolo, ecc....

                   *       *       *       *       *

Il desiderio di far conoscere a’ miei concittadini questa storia della
Peste che rimaneva necessariamente ignota al più de’ lettori, m’indusse
a tradurla. Come vi sia riuscito, ne giudichino gl’intelligenti
latinisti, i quali condoneranno, spero, i difetti della versione, in
vista della somma difficoltà del testo talvolta quasi inintelligibile.

Quanto alle note, io le desunsi dagli autori contemporanei e da
documenti inediti, nè mi si farà, spero, rimprovero d’avere in esse
ecceduto, ove si consideri che valgono a mettere in luce il più fatale
e miserando periodo della storia milanese.

                                                       IL TRADUTTORE.



_Agli Illustrissimi Signori_

IL VICARIO ED I SESSANTA DECURIONI DEL CONSIGLIO GENERALE DELLA CITTÀ
DI MILANO


_Volge il terz’anno dacchè il Consiglio Generale, per decreto
degli Illustrissimi Decurioni, affidommi la cura di raccogliere i
documenti della patria storia, e di ordinarli in continuata narrazione
dall’origine della città nostra fino al principio del regno di Filippo
II ed alla morte di S. Carlo. E siccome la nostra Opera riuniva
sotto un titolo ecclesiastico le cose sacre e le profane insieme, fu
decretato, per servire alla fama di Milano, che le Memorie da me anche
posteriormente raccolte fossero scritte nella lingua del Lazio, come
quella che sempre venne giudicata propria alle storie, e che sola può
rendere sempiterna la ricordanza degli umani eventi. Così statuirono
i due sapienti decurioni Giovanni Maria marchese Visconti e Gerolamo
Legnani[30], a’ quali era affidata la tutela della storia patria.
Opinarono essi che i miei scritti aggiunti a’ volumi già da me dati
in luce, formerebbero uniti un corpo di storia completo e d’uniforme
tenore; monumento che fra tanti d’Insubria manca tuttora al desiderio
degli studiosi._

_Le memorie dell’Insubria e di Milano, dalla sua fondazione fino ai
giorni nostri, ci furono, è vero, tramandate da molti e chiari autori;
ma nè l’arte, nè la diligenza sono eguali in essi, nè tutti servironsi,
nel compilarle, della medesima lingua. Talvolta si contraddicono gli
uni gli altri; e la storia di Milano, come quella dei grandi imperj,
pecca per soverchia copia di materiali, laonde soccombe, per così dire,
sotto il proprio peso._

_Non facilmente si troverebbe altrove una schiera numerosa di
scrittori quale ne offre Milano, città dal poeta Ausonio, precettore
dei Cesari, chiamata Roma Seconda; a misura che in essa succedevansi
gli avvenimenti, cresceva tra gli uomini d’ingegno il desiderio
di lasciarne memoria nei loro scritti. Ciò accadde ai tempi della
Repubblica, allora cioè che i Milanesi liberi governavano l’Insubria
con regime quasi eguale a quel de’ Romani, e vieppiù allorquando essa
Repubblica cadde in eredità dei duchi. Da ultimo crebbe il numero degli
scrittori dappoi che, spenta la milanese repubblica ed estinta poscia
la stirpe dei duchi, venne la città nostra aggregata all’impero del
cattolico monarca._

_Fuvvi adunque, ripeto, una turba di storici i quali scrissero o di
proprio moto o per ordine di chi comandava, e che sono diversi tra
loro per indole e per tendenze. Galvano Fiamma inclina volontieri a’
favolosi racconti, derivando da’ tempi eroici i nomi delle più illustri
famiglie, mescolando sempre qualche miracolo all’accaduto, vago di
narrare cose incredibili anche laddove la nuda verità basterebbe
ad allettare i leggitori. Altri, scrittore sincero, si smarrisce
nella caligine dei tempi, e non dà per sicuro se non quanto rinviene
negli archivj. Alcuni de’ nostri storici studiarono la brevità dello
stile, invece l’Arluno, coll’ampollosità de’ vocaboli e lo scrivere
prolisso, guastò le sue storie colla vaniloquenza, come del declamatore
Alcidamante riferisce Platone._

_Taluni lasciarono giornali delle cose accadute a’ tempi loro in
Milano. Bonaventura Castiglioni, già canonico della Scala e nostro
collega, fece raccolta di iscrizioni e di marmi, e con non lieve
fatica, sebbene da molti stimata pedantesca, notando luoghi, epoche,
nomi, e colla durevole memoria delle lapidi fe’ in guisa che la patria,
per così dire, narrasse i proprj casi, divenuta storica di sè medesima.
Tristano Calco e Simonetta, i soli due tra i nostri che si sforzarono
di raggiungere il genio dell’antica storia romana, lasciarono
imperfette le loro opere; il Simonetta la sua Sforzeide ed il Calco
la Storia di Milano, che non continuò oltre la morte dell’imperatore
Enrico III._

_Per la qual cosa i due sullodati Decurioni stimarono partito più
facile e più idoneo che io, ripigliando il filo delle storie milanesi,
le quali scrissi e pubblicai in addietro, le continuassi collo stesso
metodo. Sono tre anni che m’affidarono codesto incarico: morto nel
frattempo il Visconti, il superstite collega di lui, Legnano, continuò
ad instare perchè dessi mano alla storia di cui m’aveva incaricato,
e che avrebbe potuto scrivere benissimo egli stesso. Io non reputai
quindi di oltre procrastinare, e pigliate le mosse dalla fine del regno
di Filippo II e dai principj dei due Borromei, dapprima reggente il
vicario Sormani, indi il vicario Archinti, stabilii narrare i casi e le
azioni di questo periodo, e la guerra che ora si combatte implacabile
ed atroce fra i due re, e che sarà famosa anche alle venture
generazioni. Un volume di questa storia consegnai al decurione Legnano
perchè, esaminatolo giusta l’ufficio suo, decida se debbasi tosto dar
mano a stamparlo, ovvero sospendere, secondochè approverà o no il mio
scritto. Frattanto, avendo io raccolte parecchie note e memorie intorno
la peste che fu in Milano nel MDCXXX, risolvetti, tra per sdebitarmi
in parte col Legnano, tra per le vive istanze del vicario Castiglioni,
poi dell’Alfieri, suo successore, di pubblicare il racconto di essa
peste diviso in cinque Libri, stampandoli senza indugio, staccati
dal corpo delle storie. E ciò, dietro l’esempio di celebri storici, i
quali staccarono alcun brano dell’opera loro, allorchè o la grandezza
d’un avvenimento superava ogni altro, ovvero l’ammirazione ond’erano
compresi li infiammava ad illustrarlo con maggior cura. — Siami lecito
imitare l’esempio loro, quantunque non possa eguagliarne i pregi._

_Cercai procacciare un grand’onore a questo mio lieve e melanconico
lavoro, pubblicandolo in nome del Consiglio Generale, e dedicandolo a
voi, Illustrissimi Decurioni, com’era di diritto. Nato sotto i vostri
auspicii, a voi era devoluto, che foste in quell’epoca funestissima
padri della patria e di codesta città. L’ordine vostro, durante quella
strage, erogò denaro in tal copia, che alle altre genti sembrerà
incredibile come siasi potuto raccogliere, qualora con minuto esame de’
giornali e de’ libri non vedano in che fu speso. E invero, le generose
vostre offerte furono tali da equivalere al valore di altre città._

                                                 =Giuseppe Ripamonti=



LIBRO PRIMO

CONDIZIONE DI MILANO PRIMA DEL CONTAGIO. — LA CARESTIA. — LA PESTE.


I[31]

Scrittori sì nazionali che stranieri narrarono l’origine ed i primordj
della città di Milano, e quanto in essa accadde poscia di memorabile
per vizi e virtù cittadine, e pel volgere delle umane sorti. Noi pure
imprendemmo, non ha molto, a trattare questa storia, esponendo in
trenta libri molti avvenimenti degni di ricordanza. E in vero, dopo
l’epoca romana, e quel Senato che governava il mondo, non fuvvi, a
mio credere, repubblica o popolo alcuno che più del milanese offrisse
esempj di beni e di mali, e un più continuo avvicendarsi di paci, di
guerre e di studj civili. A Milano fiorirono, più che altrove, codesti
studj, e gli scrittori qui volsero l’ingegno alla istruzione degli
uomini. Tutte le quali cose io credo averle esposte nella citata mia
storia.

Ma ora che m’accingo a narrare le orrende stragi della peste, la città
stremata dalle morti, e i diritti più sacri di natura violati, m’è
d’uopo impetrare indulgenza dai lettori, i quali, nella loro politica
gravità, forse spregeranno me ed il mio racconto al leggere codesta
atroce e mesta storia simile a squallido deserto. Però non fia inutile
rivolgervi la mente: gli uomini onesti, stanchi delle frodi e delle
tristizie che deturpano i nostri annali, vedranno in questo racconto
il gastigo dei vizj, e stimeranno adequatamente cose che loro danno
sì gran pensiero, qualora vedano tante migliaja di uomini essere
periti pel loro alito avvelenato, tante famiglie rimaste senza eredi;
la metropoli fatta deserta, e insultata la gloria e la rinomanza del
nome. Da ultimo, per mostrare quanto più sia fatale codesta rinomanza,
di cui taluni cotanto insuperbiscono, e perchè viemeglio si conosca
la fierezza della pestilenza, e da quali principj originata, grado a
grado diventasse così desolatrice, io premetterò alcuni cenni sulla
posizione e lo stato di Milano prima della catastrofe che per poco non
la distrusse.


II.

Posizione e stato della città avanti la Peste.

Milano, situata in un’aperta pianura, riceve purissimi i raggi
del sole, vantaggio non comune ad ogni città. L’aria salubre non è
contaminata dai vapori degli irrigati terreni, i quali danno abbondanti
raccolti, laonde il mite clima e il suolo ubertoso nulla lasciano
desiderare di quanto serve a nutrire gli uomini ed a rendere loro
piacevole l’esistenza; nè più lunga, nè più felice scorre altrove la
vita, purchè l’intemperanza non distrugga l’effetto di tanti doni di
natura. Buona copia di frumento si esporta fra gli Svizzeri, i Grigioni
ed altre genti che scarseggiano di terre coltivabili; e con tal mezzo
si riesce spesso ad averli alleati, e si ottiene dai medesimi pegno
di fede che non apriranno al nemico i passi dei loro monti verso la
Lombardia. Così anche il principe, per rimunerarli della fedeltà,
concede talvolta agli stessi licenza di estrarre granaglie, dividendo a
metà il guadagno dei trasporti. I governatori poi adoperarono sovente
questo modo speditissimo di far denari, sì grande è l’esuberanza dei
grani nell’ubertoso agro milanese.

I due celebri fiumi, l’Adda e il Ticino, agevolano l’importazione e
l’esportazione. Uscendo il primo dal Verbano, il secondo dal Lario,
abbracciano, in tutta la sua larghezza, il milanese territorio,
e andando a gettarsi per diversa via nel Po, il quale mette foce
nell’Adriatico, avvicinano in certo modo l’Oceano alla città nostra.
Imperocchè ogni merce che o viene dal mare o ad esso si deve condurre,
trasportasi per un canale navigabile, che, estratto dall’Adda e dal
Ticino, fa il giro delle mura, e la congiunge co’ due fiumi anzidetti.

Milano, potente per uomini, armi e ingegni, non è soltanto dominatrice
de’ confinanti popoli, ma nutrice altresì di estranee genti. E l’essere
non ultima cura del re Cattolico cui è suddita, accresce vieppiù lo
splendore del suo nome, che in uno coll’Italia è il più bell’ornamento
e la forza dell’impero di lui, che si estende su due mondi. Non ha
Milano più di sette mila passi in circuito, ma fu tanto popolata, che
molti de’ suoi quartieri somiglierebbero ad altrettante città qualora
venissero isolati. Contava un tempo trecento mila abitanti; duecento
mila avanti la peste, cui mi sono proposto descrivere. Le abitazioni
ed il vestire dei cittadini erano tali, che appalesavano ricchezza
principesca; i grandi poi imitavano il fasto reale: i negozianti ed
i banchieri erano divenuti sì ricchi, che, abbandonato il commercio
e sprezzando ulteriori guadagni, innalzavano l’animo al dominare, e
molti ambivano fregiarsi di coronati stemmi, ignoti ai loro oscuri
antenati. Il mediatore si faceva coraggio di occupare i luoghi da essi
abbandonati, l’infima plebe deponeva i cenci, e il marito spregiava
la moglie se non indossava veste di seta ricamata in oro. L’abito di
pura seta veniva ormai lasciato ai mendichi; il portar gemme, anello
di gran valore in dito o orecchini divenne ostentazione spregiata, e
le nobili matrone, cui tali ornamenti erano venuti a noja, quasi per
soverchiare le donne del volgo, sfogavano la superbia vestendo con
tutta semplicità. Del pari gli uomini facevano pompa di quadri, statue
e d’altri miracoli dell’arte antica in sì gran copia, che io stimo non
ve ne fossero tanti a Siracusa o nell’Attica, allorquando Marcello e
Filippo il Macedone per diritto di guerra le devastarono.

Monumenti pubblici, oratori e poeti fanno fede che a Milano non
fiorivano soltanto le belle arti, le quali, inventate dai Greci,
dilettano gli occhi e l’udito, ma altresì le scienze educatrici degli
uomini. Molti coltivarono con buon esito l’eloquenza e la poesia,
lasciandone prova nelle opere loro. E come nella felice etade antica
gli imperatori lavoravano colle proprie mani la terra, che, fessa
da regio vomere, pareva dare più rigogliosi frutti, così a Milano i
più nobili cittadini, applicando l’ingegno agli studj, ne traevano
abbondevole messe. Nè la pestilenza, che tanti danni arrecò, mutando
quasi interamente le cose, potè gran fatto nuocere alle lettere.

In esse coi ricchi gareggiavano anche i poveri, spronati, non come i
primi, dalla gloria e dal desiderio di accrescere l’avita nobiltà, ma
dall’amor del guadagno, e dalla speranza di premj in una città dove le
lettere ottenevano la preminenza appo i dominatori. Infatti fu in ogni
tempo sì grande la liberalità de’ principi nostri verso gli studiosi,
che i fanciulli poveri ebbero agio ad istruirsi quanto i ricchi, e
l’intera città sembrava un tempio sacro alle muse, se ponevasi mente
alle scuole, ai collegi ed alle pubbliche librerie della medesima.

Così Milano, ricca, fiorentissima e beata un tempo, indi ridotta misera
per intestine e continue discordie, superò altre città e popoli nelle
scienze e nelle civili discipline. L’affetto alla religione primeggiava
su tutto; e i costumi e le leggi del popolo milanese accrebbero fama
alla metropoli per aver riunite cose fra loro disparate, e fatto
sì che regnassero a vicenda la ricchezza pubblica e la temperanza,
l’irrequietudine e l’ubbidienza dei cittadini, la carità pubblica ed
il fasto, e quanti vizj per l’indole umana sono in continua lotta colle
opposte virtù.


III.

Come gli apparecchj di guerra, indi la fame, cominciassero ad
affliggere Milano.

La pace inveterata e il lungo disuso delle guerre estere, che sono
sorgente di beni e di mali per ogni città, avevano radicati i costumi
e le abitudini da noi più sopra descritte. Dopo le guerre combattute
tra Francesi e Spagnuoli sotto i re Carlo V e Francesco I, per le
quali con gran strage d’ambe le parti fu decisa la sorte del milanese
ducato, nemico alcuno non aveva più disturbata la metropoli lombarda.
E siccome ella non mosse guerra ad alcuno, rimase per quasi cento anni
(1535-1630) tranquilla, siccome mare cui non agita il più lieve soffio
di vento. Ma dappoichè i capi di molti regni e provincie, congiurati
col fiero Enrico re di Francia, cominciarono ad armarsi, quel mare,
immagine della città nostra, s’agitò con moto sì intestino che esterno,
suscitando tale una burrasca, che ne addusse la guerra, la fame, e da
ultimo la pestilenza, che quasi interamente ne distrusse. La mano ed il
furore d’un solo uomo, seppure non fu la mano d’un nume, fiaccò ad un
tratto quella tremenda congiura che minacciava principalmente la nostra
città[32]. Ma i semi di quella congiura, sparsi da lontano, furono
causa di molte vicende, che misero sossopra re e principi minori cogli
odj, i sospetti, la tema per le atroci insidie che si erano tese gli
uni gli altri, aizzati a ciò segretamente dai loro ministri. Durante
il qual tempo, la nostra provincia, in mezzo a continui apparecchi
guerreschi, attendeva che scoppiassero le ostilità, come conseguenza
inevitabile della congiura.


IV.

Dei governatori di Milano Fuentes, Velasco e Mendozza, e ancora
dell’origine e delle cause di guerra.

Governava a que’ giorni Milano Azevedo, conte di Fuentes, il quale,
mentre tutte le cose erano sicure e quiete, non si abbandonava al
riposo. Educato fin dalla prima gioventù alle armi, che gli avevano
procacciata fama di valoroso, ora che già vecchiezza il premeva, più
che la stessa morte, abborriva dal terminare tranquilli i suoi giorni.
Egli, per indole guerriero in tutta la sua vita, impaziente d’ozio,
irrequieto, smodato ne’ desiderj, acceso della gloria, ansioso per
inveterata fedeltà al suo re, d’ogni cosa sospettoso, a tutti sospetto
egli stesso, simulatore, indagatore degli altrui pensieri, stipendiava
uomini che spiassero non solamente le aule, ma i pensieri de’ principi
inimici. E radunando ad un tempo armi e soldati ed ogni apparecchio di
guerra, aveva ridotto a tale le cose, da tener assopiti, in una falsa
sicurezza, i nemici, e da poter egli stesso co’ suoi preparativi farli
avvertiti del pericolo in cui si trovavano, suscitandoli a muoversi. Ma
già i mal certi suoi alleati, che in segreto gli erano nemici, di loro
spontanea volontà si agitavano, ed ordivano macchinazioni. Rimane ancor
dubbio se il vecchio governatore le avesse sottomano suscitate, ovvero
se ignorandole, morisse di dolore posciachè le ebbe scoperte.

Comunque sia, per mirabile coincidenza opportunissima a mantenere la
quiete, l’assassinio del re di Francia e la morte del conte di Fuentes
accaddero quasi al tempo stesso. Il qual ultimo non saprebbesi dire
se mancasse di vita per vecchiaja o pel rammarico della sua congiura
di repente sventata. Allora, per reciproca dissimulazione delle parti,
non fu turbata la pace tra Francia e Spagna; e la Lombardia rimase più
sicura che prima nol fosse nella vacillante pace.

Era questa però affatto precaria, e l’odio ed i guerreschi apparecchi
tenevano in sospeso gli animi. Al morto Fuentes succedettero
governatori Velasco e Mendozza, grandi di Spagna, nè temuti dai nemici,
nè intenti a spiarne le mosse. Il Velasco, dedito agli studj ed ai
piaceri, il Mendozza alquanto più attento all’ufficio suo, entrambi
paghi della gloria dei loro avi, venivano lodati dai saggi perchè,
malgrado le istigazioni di molti, mantenevano la pace e la tranquillità
degli animi, cotanto necessaria a quell’epoca. Ruppe la quiete e l’ozio
del Mendozza il duca di Savoja, il quale, nemico di suo genero, invase
colle sue truppe il Mantovano, turbando la pace d’Italia, e dando un
pessimo esempio agli altri principi col trascendere i limiti della
moderazione. Le armi del re di Spagna s’interposero a difesa della
parte più debole, e da ciò ebbe origine la calamità d’introdurre in
Lombardia soldati stranieri, i quali vi diffusero il contagio. A questo
precedette la carestia, di cui narrerò gli andamenti in quanto servono
a rischiarare la storia di essa terribile pestilenza.


V.

Toledo, Figueroa, Consalvo di Cordova governatori di Milano. — Origine
della carestia.

Scoppiata, come dicemmo, la guerra, ed introdotti gli stranieri,
si schiuse larghissimo adito alla fatale carestia ed alla peste
desolatrice, che per ordine naturale sovente le tiene dietro. Gli
artifizj e la tristizia dei dominatori, non che la malvagità degli
uomini accesero la guerra, e da questa scaturirono la fame e la
pestilenza.

Le vettovaglie in vero bastavano a Milano, a’ suoi cittadini, a’
forastieri, alle truppe, e fino al nemico avventizio, giacchè da
quindici anni alternavasi la guerra e la pace, durante la quale,
esportavasi più frumento all’estero di quanto se ne consumasse per gli
abitanti e pe’ soldati.

Codesta abbondanza di granaglie era dovuta in parte ai saggi
regolamenti dei due governatori mandati da Spagna a reggere il milanese
ducato, il conte di Toledo ed il Figueroa, tanto lodati dal pubblico
quanto vennero biasimati i loro due antecessori.

Il conte di Toledo, che correva fama appartenesse alla famiglia reale
di Spagna, era uomo cupo, avido di gloria, insofferente di rivali,
sprezzatore di tutti in cuor suo, esperto nell’armi, aspro in tempo
di pace: tutta la vita conformò ad esempio dell’antichità. I prudenti
del nostro secolo però ardivano dare ben altri nomi alla virtù,
all’innocenza ed alla severità del conte di Toledo. Ora agevolando,
or restringendo l’esportazione delle vettovaglie, secondochè l’annata
prometteva scarso od abbondante raccolto, e bilanciando le spese coi
redditi come un diligente padre di famiglia, egli sempre provvide
alle vettovaglie, e in tempo di guerra e quando per l’inclemenza delle
stagioni scarseggiavano i grani. Mercè tali provvidenze, la carestia
era scomparsa, e neppure se ne ricordava il nome.

La medesima sicurezza continuò sotto il Figueroa, che gli succedette.
Benchè fosse giovane, non era inferiore per senno e per esperienza
al Toledo, il quale, ormai decrepito, gli rendeva giustizia, non
sdegnandosi punto che venisse paragonato, e fino anteposto a lui.
E veramente lo superava nella gentilezza dei modi e nelle arti
d’ingannare gli scaltri, i quali si burlavano del vecchio e rabbuffato
suo predecessore.

Dopo un breve interregno, ricominciando più accanita la guerra, venne
governatore il Consalvo, uomo d’illustri natali e di animo grande; ma
cui la sorte riuscì contraria negli affari d’Italia.

Dopo Consalvo, lo Spinola, tutto occupato nell’assedio di Casale. Per
tale impresa, migliaja di soldati tedeschi discesero in Lombardia: il
paese fu oppresso da imposte; i ricchi ammucchiavano grano, e la terra
non dava raccolti. In tal modo, col trasportare il frumento pel campo,
sprecarlo od occultarlo per avidità di guadagno, cominciò a patire
la fame il nostro popolo, che dianzi alimentava le altre genti, e fu
ridotto a tale, che anche vendendo ogni suppellettile, non trovava da
comperare gli alimenti necessarj alla vita[33].


VI.

Della fame che precedette la peste.

Molti e orribili esempj di fame trovansi raccolti negli storici, come
più volte gli abitanti delle città assediate siansi nudriti de’ più
schifosi animali, d’erbe e fin di cuojo, e come talora per smania di
cibo taluni si gettassero dalle mura, offrendo l’inerme petto ai colpi
del nemico, per morire di ferro anzichè spegnersi in lenta inedia, ai
quali delitti spingeva la disperazione della fame. Ma io racconterò
non già esagerazioni scritte per amor del meraviglioso, sibbene quanto
ho veduto e pianto co’ miei occhi medesimi. Questa fatale carestia si
diffuse tra il popolo non all’improvviso, ma grado a grado, e, sto per
dire, metodicamente. Gli abitanti del contado furono i primi a morir
di fame, poscia i campagnuoli più doviziosi, cui le glebe, oltremodo da
loro stancate, negarono quasi a gastigo le messi.

Il lusso e i vizj de’ cittadini furono domati dalla calamità. La quale,
se non fosse stata sì forte da istupidire le menti, avrebbe offerto uno
spettacolo ridicolo, e in uno mortificante l’umana alterigia. Coloro
poc’anzi terribili al popolo pei soprusi e pe’ bravi che loro facevan
codazzo, pronti al menomo cenno ad eseguirne i sanguinarj capricci,
ora giravano soli, mansueti, ad orecchie basse, con volto che sembrava
implorar pace; e taluni colle vesti sdruscite appalesavano chiaro il
mutamento delle cose.

Un somigliante spettacolo offrivano anche i servi ed i bravi, dianzi
azzimati e profumati, ed ora vagabondi per la città, seminudi, e
stendendo la mano a chiedere elemosina; a tal segno la fame aveva
prostrata la superbia dei viziosi! Ma più aspramente furono colpiti gli
innocenti contadini, gli artefici, l’infima classe quasi indigente, ed
i mendicanti.

Dapprima cessarono i lavori, che, servendo al pubblico uso, e,
diciam anche, a fomentare i vizj, alimentavano però un gran numero
d’individui. Si cominciò dal chiudere le botteghe, dalle quali il
popolo nelle città trae in gran parte la sussistenza; e le poche
rimaste aperte, somigliavano a deserto campo, reso squallente
dalla sterilità e dalla carestia. La plebe, priva di lavoro con
cui guadagnarsi il pane, senza traffico alcuno, costretta a marcire
nell’ozio, non usa a patire entro la città, anzi emulante perfino
nel vestire e nelle vivande il lusso dei ricchi, la plebe cominciò
a stentare, indi a languir per fame, e da ultimo moriva. Cessata
qualunque elargizione, era la moltitudine divenuta tutta quanta
mendica, gli accattoni novizj in ciò solo diversi dai vecchi, che mal
sopportavano con pazienza le frequenti repulse.

Sfiniti per mancanza di cibo, cadevano morti per le strade, ovvero
vagolavano per le piazze ed i tempj con faccia cadaverica. Nè scemava
di numero quella turba infelice, poichè tanti più ne rapiva la morte,
e tanto più ingrossavano i rimasti per le famiglie che ogni giorno
piombavano nell’ultima miseria, trascinandone seco altre, sia col
cessar di soccorrerle, sia col defraudarle con malizia de’ loro
crediti. E quasi non bastasse la folla de’ mendichi accorrenti verso
la città dalle nostre campagne e colline, ve ne giungevano altresì
dalle città limitrofe e dall’estero come in asilo sicuro, dove non
mancherebbe alimento, illusi dal nome di Milano, ed ignorando in che
triste condizione fosse caduta.

Era uno spettacolo lagrimevole il vedere cittadini, campagnuoli e
forastieri elemosinare insieme spinti dalla fame, mentre i nostri
Milanesi andavano nelle campagne e nelle vicine città in cerca di pane.
Ma delusi tutti egualmente nelle vane speranze, morivano per le strade
o in terra straniera.

Vid’io, passeggiando con alcuni compagni lungo le mura sulla strada
militare, una donna con un fardelletto sul dorso ed un bambino in fasce
pendente dal seno, la quale, non trovando alimento, erasi, a quanto
sembra, indotta ad uscire dalla città, seco recando il bimbo e i pochi
oggetti più cari; ma sopraggiunta dalla morte, cadde estinta appena
fuori delle porte. Le usciva di bocca un pugno d’erba semimasticato,
il cui sugo verdastro le imbrattava le fauci, prova della rabbiosa
fame: il bambino vagiva sul cadavere della madre. Noi rabbrividimmo
a quell’atroce caso, e sopraggiunte alcune persone compassionevoli,
raccolto il lattante, ne presero cura.

Parecchi casi simili, ed alcuni anche più atroci, si raccontavano
giornalmente da persone che li avevano veduti o uditi da testimoni
oculari. Per quegli infelici, ridotti a tanta miseria, la morte era il
più lieve dei mali.

È legge di natura che l’uomo, animale ragionevole, nato alla virtù ed
al cielo, si nutrisca di pane, che fu suo cibo dacchè abbandonò il
vivere ferigno tra le selve, pascendosi di ghiande[34]. Ora in que’
giorni, mancato il pane ai contadini, e costretti a rosicchiare erbe
come gli animali, vivacchiarono con corteccie d’alberi, che in breve li
traevano a morte.

I contadini, tanto benemeriti della società, perchè colle fatiche
alimentano anche gli oziosi, esalavano l’anima lungo le strade e sulle
glebe medesime, che, bagnate dai loro sudori, diedero sovente copiose
messi.

Ve ne furono molti i quali fuggirono in città, e coll’aspetto
macilente, e il racconto della patita miseria, spinsero molti altri ad
abbandonare la città stessa[35]. Le vedove coi figliuoli, il marito
colla moglie, portando sulle spalle i bambini e i pochi attrezzi
rusticali, si trascinavano alla volta di Milano, dove, arrivando
giornalmente a frotte, sdrajati per terra sotto le grondaje, empievano
le contrade frammisti ai vecchi mendicanti. Il tanfo che esalavano per
sudiciume, i visi grami, e più l’immagine ributtante di miseria che
in tutta la persona appariva, ispirava tal ripugnanza ai passaggieri,
che questi turavansi la bocca e le nari, quasi camminassero in
mezzo ad appestati. La misera turba rattristiva la città: il giorno
coll’aspetto, la notte coi gemiti; ed era una nuova calamità, perchè
ciascuno dava in parte a sè la colpa della disperazione cui vedeva
ridotti que’ sciagurati.

In siffatto disordine, nulla conturbava maggiormente gli animi
compassionevoli, quanto il mirare i semplici ed innocenti agricoltori
ridotti come scheletri, e moribondi di fame. Come il bue dell’aratore,
che, dopo aver lavorato l’intero giorno sotto la sferza del sole,
tirando il pesante giogo per aprire i solchi, s’infuria, allarga le
narici, e gira minaccioso il muso se gli viene negato il suo pasto;
così i contadini giravano torvi gli occhi spalancati e invasi da egual
furore, trovando di non aver potuto, col tanto affaticare, sottrarsi ai
tormenti della fame, anzi ridotti, per mancanza d’ogni sussidio, a non
poter lavorare. Vedevansi colle facce abbronzate dal sole, gli occhi
stravolti, i petti vellosi, la pelle informata sull’ossa, lacere le
membra, vergognarsi della loro nudità. E i cittadini arrossivano come
di pubblico disonore al mirare in loro sì avvilita l’agricoltura, che
dagli stessi romani imperatori venne cotanto nobilitata.


VII.

Del pubblico Consiglio, ossia dei LX Decurioni di Milano che provvidero
alla miseria generale.

Fra i magistrati di Milano, vi sono i sessanta Decurioni, scelti tra
il fiore dei nobili, i quali hanno l’incarico di regolare l’annona, e
d’amministrare il patrimonio municipale. Vengono eletti dal governatore
tra i patrizj originarj, nè alcun straniero viene ammesso in questo
Consiglio. Zelanti, istrutti nelle cose patrie, concordi, gareggiano
pel bene dello Stato, e loro precipua cura è di conservare ed
accrescere l’antico lustro di Milano, col ristaurarne gli edifizj. Un
tempo novanta, sono oggidì sessanta, numero sufficiente pel decoro del
corpo e pel disimpegno delle loro funzioni.

V’hanno fra essi alcuni educati alle pacifiche discipline, altri che
conobbero le arti della guerra, secondochè sortirono dalla natura
indole mansueta o focosa. Taluno vi entrò per bontà di animo e per
sentimenti religiosi, tal altro, esacerbato per i vizj degli uomini,
si trova costretto a immischiarsi fra le umane nequizie per l’ufficio
suo. Questi opera con cautela, quegli propende sempre a facili
concessioni, e cotanta varietà di opinioni giova mirabilmente al bene
della patria comune, siccome notarono gli antichi Saggi, immaginando
un perfetto governo, giacchè erano d’avviso che le aspre e blande
sentenze temperandosi fra loro, riescano utilissime alla pubblica
amministrazione. Ed io stimo che fu ottimo pensamento di scegliere,
istituendo il Consiglio, per membri appunto coloro che hanno il maggior
interesse alla prosperità del paese, e che ponno contribuirvi colle
loro ricchezze.

I sessanta Decurioni vedendo il misero stato cui era ridotta per
la carestia Milano, dove il popolo moriva di fame come fosse in un
meschino abituro, per dar coraggio, aprirono il Lazzaretto, come un
generale asilo ai bisognosi[36].


VIII.

Del Lazzaretto e della moltitudine dei poveri in esso ricoverati.

Il Lazzaretto venne edificato dal duca di Milano all’epoca in cui
Francesco Sforza, salito al trono, cercava renderlo ereditario nella
sua famiglia. I successori di lui abbellirono la città, innalzando
molti pubblici edifizj, tra i quali il Lazzaretto fa prova che l’animo
de’ nuovi principi era superiore all’umile loro origine[37]. La porta
che dicesi Orientale, perchè a destra guarda ad oriente, apresi nella
parte più salubre di Milano, rimpetto alle colline donde spira un’aria
mite. Non vi sono all’intorno fetide paludi che corrompano l’aere come
in altri siti, e lo rendano greve[38]. Colà innalzarono il Lazzaretto
gli Sforza, ricovero degli appestati, perchè in caso di contagio si
provvedesse alla pubblica salute, dividendo i malati ed i sospetti dai
sani. Credo che derivasse il nome da Lazzaro, il quale viene ricordato
dal Vangelo, coperto di piaghe, come esempio della giustizia e in uno
della misericordia divina.

L’edifizio è quadrato, e racchiude un gran campo; lo circonda una fossa
piena di acqua. Ha tante stanze quanti sono i giorni dell’anno[39];
ciascuna capace di otto o dieci persone, oltre i portici che corrono
all’ingiro dai quattro lati, e servono di ricovero ai malati, piene
che sieno le camere. Inoltre sorgevano allora nel campo fila di capanne
per iscaricare il numero soverchiante de’ malati, quasi in altrettanti
cortili del Lazzaretto, come ricordavasi aver fatto i nostri padri
allorquando la peste afflisse Milano. Sorge in mezzo la cappella
visibile d’ogni parte, coperta da un tetto sostenuto da un portico a
colonne che la circonda, affinchè nè la vista sia impedita, nè il vento
o la pioggia turbino i sacri misteri in essa cappella celebrati.

Il Lazzaretto, fabbricato per caso di peste, diventò utile anche
per la carestia, quantunque scorso poco tempo tornasse all’antica
destinazione, ricoverando colà gli appestati. Tutti i poveri che
trovavansi nella città, i venuti dalle campagne, e quanti vagavano
o giacevano per le strade e le piazze, ignudi e famelici, vennero
raccolti con decreto in quell’ospizio pubblico[40]. Il Municipio ed
il Governo, scordando le proprie strettezze, provvidero largamente ai
bisogni. Erasi indugiato alquanto ad aprire il Lazzaretto per timore
di dar fomite all’imminente contagio, il quale, preceduto dalla fame,
avvicinavasi minaccioso alla città nostra, dopo aver desolati i paesi
limitrofi. Quindi tutte le merci provenienti da luoghi o da gente
sospetta, venivano ivi rinchiuse, e in breve il Lazzaretto ne fu tutto
quanto ripieno.


IX.

Discipline stabilite al Lazzaretto e nell’ospitale della Stella.

Sussidiò il Lazzaretto un secondo locale di mendicanti, abbastanza
vasto pel momento, e per la sua posizione, vicino a grandi ortaglie,
facile, occorrendo, ad ampliarsi. Quel ricettacolo della più abbietta
miseria chiamavasi ospitale della Stella, e vi si alimentavano
fanciulli e fanciulle senza parenti, senza tetto, e ignari di loro
origine, quasi fossero nati dalla terra.

In questo ospitale si raccolsero pel momento le turbe degli affamati,
vecchi cadenti, giovani d’ambo i sessi, pei disagi sofferti simili
ai vecchi, fanciulli, cittadini e forensi insieme; coloro che da
lungo tempo pativano la fame e quelli che da poco penuriavano, i
vergognosi per nuova miseria, gli sfrontati per vecchia abitudine,
tutti spinti dalla fame e dal bisogno, vennero colà radunati. A
misura che aumentavasi ogni giorno il numero, s’allargavano i confini
dell’ospizio, e cresceva adeguata ai bisogni la munificenza dei
cittadini.

Parecchi nelle domestiche strettezze restringevano i cibi, mandandone
parte colà in elemosina, altri venuti a morte, deludendo la speranza
e la cupidigia de’ parenti, legavano le sostanze alla Stella, per cui
tanta moltitudine di poveri viveva in separate camere, e divise le
mense secondo il sesso e l’età. In pochi giorni salirono a tre mila, e
giornalmente crescevano. Ma fu osservato e conosciuto a prova la verità
di quel proverbio che si diceva per ischerzo: «Esservi nel mendicare
una tal quale dolcezza». Uomini e donne senz’asilo il giorno, senza
ricovero la notte, nè certi di procacciarsi il giornaliero nutrimento,
che sdrajavansi esposti ai venti ed al gelo, ora si trovavano al
coperto, avevano cibo, letto e quiete. Cionnondimeno era d’uopo farveli
condurre legati dai bargelli, i quali ricevevano dal magistrato due
soldi per ogni povero che là traducevano. Era chiaro preferire i nostri
accattoni il questuar per le strade e il piagnuccolare all’aperto,
all’essere pasciuti e dormire rinchiusi nell’ospizio. Ormai i molti
bagagli venuti dall’estero e mercanzie d’ogni genere sospette di
peste, le quali ne’ primi giorni ingombrarono il Lazzaretto, spurgate
co’ suffumigi e raccolte in un sol luogo, davano agio a potere
ivi raccogliere i poveri, che l’ospizio della Stella ormai più non
capiva. Laonde, aperto anche il Lazzaretto, una parte de’ medesimi fu
trasferita colà, dove ebbero stanza un tempo gli appestati, ed aver la
dovevano di nuovo tra breve.

Entrambi i luoghi in breve furono zeppi, venendovi ogni giorno alcuni
spontaneamente, altri molti trascinati a forza; pure non iscemava la
sollecitudine per nutrirli.

Ammiratori noi dell’antica età, e poco curanti di quanto è recente,
non lodiamo per consueto le virtù dell’epoca nostra, spregiando
quanto essa offre di splendido e di ammirabile. Ma io, quand’anche
ritornassero i tempi lodati degli Spartani e le vecchie loro leggi,
non credo che possano offrire istituzioni migliori per nutrir una
folla di poveri in chiuso recinto, di quelle che adottarono in allora
i nostri magistrati. Erano scomparsi l’inumano rigore e durezza,
e quell’indulgenza che spinge a nuove colpe; difetti che, fuor di
dubbio, deturpavano le antiche ed encomiate istituzioni dei Greci,
allorquando, uniti nei medesimi recinti gli abitanti d’una provincia,
mescolavansi i loro vizj e virtù. Presso di noi non stimavasi virtù
la sfrenata libidine ed il furto come già nelle riunioni profane di
quelle antiche genti. In un’accozzaglia d’uomini, prese le dovute
cautele per l’onestà, si cercò, con tutto lo zelo, di rivolgere le
menti di quei traviati ai doveri religiosi ed ai riti della Chiesa,
da essi posti in dimenticanza. I magistrati ed i nobili milanesi
offrirono in que’ giorni un esempio luminoso di cattolica pietà,
alimentando ed instruendo ad un tempo il popolo. Nè i superbi politici
mi faranno carico se faccio qui un cenno della disciplina introdotta
nel Lazzaretto e delle sacre funzioni, alle quali più d’una volta io
assistetti con indicibile piacere.

Celebravasi ogni giorno la messa nella cappella, sorgente, come dissi,
in mezzo al campo, e che aperta all’intorno, è visibile da tutto il
circostante portico. Dal quale e dagli usci delle stanze ciascuno
poteva assistere all’incruento sacrifizio, in cui il figliuol di Dio
è immolato per la salute del genere umano. Dappoi, andavano i poveri
al lavoro, ciascuno secondo il mestiere che professava, procurando
qualche utile al luogo, e sfuggendo l’ozio, dannosissimo anche ai più
miserabili. Molti infingardi giravano qua e là sciupando il tempo fino
all’ora del desinare. Costoro molestavano gli altrui lavorerj, nè fu
possibile mantenere sì rigorosa la disciplina, che non pullulassero
alcuni vizj tra quella moltitudine.


X.

Il Lazzaretto è riprovato e si sgombra.

Ma ben più degli animi si viziavano i corpi, e ne seguirono tante
morti, che quasi poteva chiamarsi un piccolo contagio. Certuni
attribuivano la causa alla furfanteria degli inservienti, che avessero
adulterato il pane, meschiando la farina con sabbia. Ma io sono
d’avviso che la mortalità fosse attribuibile al caldo eccessivo di
quell’anno, al sudiciume ed ai pidocchi, brutali compagni, quasi
indivisibili dei mendici, e che ivi pel contatto più schifosamente
li affliggevano. Intanto que’ poveri gementi e frementi, per aver
perduta la libertà ed il diritto di vagabondare, anelavano le antiche
ed a loro sì care abitudini. La noja, la melanconia, la disperazione e
l’odio pel Lazzaretto trasparivano su tutti i volti: crescevano sempre
più le lagnanze. Gridavano che per certo erano stati chiusi in quel
recinto a morirvi fuori della patria senza che nemmeno volger potessero
alla medesima gli occhi moribondi; così imprecando, esalavano molti
l’ultimo respiro. I nobili anch’essi vergognavano e sdegnavansi che
tante cure e la liberalità stragrande in quelle pubbliche angustie,
non avessero servito che a far morire in maggior numero i poveri che si
volevano nutrire[41]. Perciò, riferita la cosa in consiglio, trovarono
che l’unico spediente era il mettere al più presto in libertà quella
poveraglia, lasciando che tornasse, come per l’addietro, ad accattare.
Ciò stabilito, si aprì il Lazzaretto, e le turbe irruppero con pazza
gioja e gratitudine maggiore di quando, vagabondi senza fuoco e senza
tetto, avevano ottenuto ricovero e nutrimento.

La città, liberata per poco dall’esosa vista dei mendici, ne rivide il
funesto spettacolo; anzi s’accrebbe la pietà in coloro che pensavano
come tanti poveri fossero morti, ad onta dei sussidj della pubblica
carità, per cui ne arrossivano più ora che in prima, alloraquando li
vedevano morire di fame.


XI.

Tumulto popolare per la carestia[42].

Il giorno di S. Martino di quell’anno 1628 si tumultuò in Milano per
la carezza del frumento. Rade volte in passato erano accaduti simili
tumulti, giacchè, siccome accennai fin da principio, l’agro milanese,
ubertissimo, forniva annualmente in copia i grani, non solo alle vicine
popolazioni, ma altresì alle lontane. Narrerò l’origine e la fine
di questa sommossa, quali disordini commise la plebe, e come vennero
repressi, quali furono le misure adottate dal Consiglio, e per frenarla
al momento e perchè non si rinnovasse, affinchè la plebe, animale di
molte teste, terribile sempre alle città più potenti, avesse un gastigo
condegno al suo ardire, nè s’attentasse alzar di nuovo il capo.

Reggeva la città e il ducato in quel tempo, trovandosi assente
il governatore Consalvo, occupato nell’assedio di Casale, il gran
cancelliere Ferrer. Egli, crescendo giornalmente la penuria del grano,
nè trovandovi riparo, e sentendo il fremito ed i lamenti del popolo,
immaginò un ripiego, che non tolse il fomite della sedizione, ma solo
la protrasse. Al qual ripiego, i negozianti di frumento ed i fornaj,
gente che conveniva blandire in quel tempo, esacerbati, minacciavano
un’estrema ruina, d’abbandonare cioè il traffico dei grani, la
fabbricazione e la vendita del pane. Il prezzo minimo del frumento era
dalle quarantacinque alle cinquanta lire; prezzo adeguato e volgare,
che il venditore non arrossiva domandare, nè gli acquirenti udivano
con indegnazione. Ma gli incettatori danarosi, gli sfrontati usuraj ed
i ricchi possidenti, fissato in segreto fra loro il prezzo, dissero,
pronunziarono, richiesero con infame e sfrenata cupidigia prezzi
enormissimi, quasi che fossero arbitri della vita dei cittadini, od
essi solo avessero diritto di vivere. Mi consta che vi furono certuni,
e li ho conosciuti, i quali pretesero cento lire al moggio, e non
ancora contenti, per avidità di maggior guadagno in avvenire, tenevano
chiusi i granaj, insultando la pubblica fame. Nè giovarono contro
siffatta cupidigia, anzi rabbia degli avari, le solite gride con cui
ordinavasi che ciascuno notificasse la quantità di frumento che aveva
in casa.

Il gran cancelliere, in mezzo alle frodi ed all’avarizia degli
uomini ed alla penuria di grano, in que’ difficili momenti, aveva
immaginato, tenendo una via di mezzo, di far sopportare a’ fornaj
il danno derivante dalla calamità dei tempi e dall’umana malizia.
Ordinò che si facesse e si vendesse il pane al peso prescritto ad una
meta che ragguagliavasi a lire trentatrè al moggio, fissando questo
limite ai venditori ed ai compratori. Credeva egli per avventura
che lo scapito si compensasse coi precedenti guadagni de’ fornaj,
e con quanto lucrerebbero in appresso. Fors’anche aveva loro data
lusinga, calmata quella burrasca, di compensarli a spese dell’erario;
ma codeste erano speranze vaghe, e intanto la perdita sicura rendeva
insopportabile l’editto. Schiamazzarono i fornaj, protestando senza
tregua che avrebbero chiusi i forni ed abbandonata l’arte loro. Il
gran cancelliere punto non si smosse, fermo nel voler eseguito il
suo decreto, ed il popolo, quasi per rapire a gara il pane a sì buon
prezzo, che era una specie di regalo, assediava l’intero giorno i forni
con tanta importunità, che i fornaj, per quanto si sbracciassero a
cuocere, non riuscivano a soddisfare i compratori. Rinnovaronsi più
forti le grida e le lagnanze, cui i magistrati non sapevano ormai
come rispondere. I Decurioni scrissero al governatore, al campo, e
stabilirono di concerto con esso lui di trovare un temperamento.
Consalvo nominò il presidente del Senato, i presidenti dei due
magistrati e due fra i questori, i quali, adunatisi, fissassero il
prezzo del frumento, tanto allo stajo, in modo che i fornaj potessero
continuare a fare il pane. Favoriti i fornaj, venne cresciuto il prezzo
di dieci soldi il moggio.

Grande fu la rabbia ed il furor della plebe per tale accrescimento,
che dava agio a respirare ai fornaj, poichè aspettavasi che si calasse
il prezzo del pane anzichè aumentarlo. Visto essere caduta in peggior
condizione, non si curò altro di editti e tariffe, e si fece ella
stessa padrona e dispensatrice dei grani. Allora in Milano, città
rinomata dai tempi più remoti per ossequio ai governanti e per modestia
degli abitanti, fu conosciuto a che servano le armi contro il popolo
infuriato, anzi contro una turba imbelle di donne e ragazzi spinti
dalla fame.

Correva il dì di S. Martino, giornata allegra sempre e geniale, perchè
si finiscono le vendemmie, si mettono in botte i vini, e chiudonsi
nelle case de’ ricchi i prodotti dell’annata. All’albeggiare molti
garzoni di fornaj uscivano in volta con gerla e canestri pieni di pane
per recarlo ai monasteri ed alle case dei signori, o per venderlo
al minuto in altri luoghi. Il popolo si pigliò tutto quel pane come
suo, e come se avesse già pattuito che dovessero portarglielo a casa.
Drappelli di ragazzi, di giovanetti, donne e vecchi senz’alcun arme, ma
forti pel numero, ed aizzati dal bisogno, mossero incontro ai garzoni
de’ fornaj, che portavano in ispalla il pane, e quanti ne trovarono,
costrinsero colla violenza a fermarsi e deporre il carico, intimando
poscia che se ne andassero. Bisognava ubbidire, perchè, circondati
all’improvviso, sbalorditi, gettavano il peso, e fuggivan a gambe,
temendo di peggio: chiunque tentava opporsi, veniva malconcio a pugni
ed a calci. Così ebbe principio la sommossa della plebe, che, adescata
dalla gustosa preda ottenuta senza sangue, imbaldanzì, credendosi
capace di tutto purchè l’osasse, e giudicando che la sofferta miseria
era una conseguenza della mansuetudine fin allora usata. Il popolo
erasi fatto superbo ed audace per aver rapito il pane con la sola
intimazione, forzando pel momento a starne senza le famiglie cui
recavasi. I magistrati però, invece d’irritarsi, compassionavano que’
traviati, ridendo essi medesimi, di dover in quel giorno aspettare
assai tardi il pane. Ma il popolo proruppe a misfatti più gravi, e
risoluto a distruggere il forno, s’avviò alla volta del medesimo
senz’alcun capo, chè l’innumerevole turba era guida a sè stessa.
Vociferavansi sediziose grida, strepitavano che avrebbero distrutte
le botteghe de’ fornaj, centri di raggiri, di fame e della calamità
pubblica.

Capitarono a caso dinanzi il forno di porta Orientale[43]. La
moltitudine erasi già armata di bastoni, di sassi e di quanto gli
capitava alle mani, come se andasse a battagliare[44]. Scassinarono
le porte, e vi diedero fuoco, e rotti i cancelli, fecero man bassa
su tutta la farina ed il grano ivi raccolti, spargendone per terra, e
gettandolo anche in istrada per disprezzo.

Alcuni empirono di farina i sacchi rubati, e via se li portarono;
altri caricarono con carri, e tornarono più volte senza che veruno
si opponesse al loro depredare[45]. Le contrade per dove andavano
e venivano i saccheggiatori, biancheggiavano di farina come se
fosse nevicato, ed era preda dei poveri e dell’infima plebe, che
s’affaccendava a raccoglierla. Intanto i caporioni della turba, avendo
trovato il banco del fornajo in cui eravi il denaro di molti giorni,
lo rubarono tutto quanto. Sfogata in tal guisa la rabbia sopra quanto
aveva eccitata la sommossa, e più nulla restando da rubare, sfogarono
da ultimo il furore sulle tavole, i banchi, i canestri e gli altri
utensili da bottega, che non eccitavano l’avidità dei saccheggiatori,
e fattone un mucchio, vi diedero il fuoco, quasi olocausto a Cerere,
alla carestia ed in uno al Santo, la cui festa avevali riuniti a
quell’impresa! Gettarono altresì tra le fiamme tutti i giornali ed i
registri del negozio, e v’avrebbero gettati anche il fornajo ed i suoi
garzoni, se questi, per buona ventura, non si fossero salvati fuggendo
o appiattandosi. Il capitano di giustizia, co’ suoi satelliti armati
accorso per ultimo spediente per sedare il tumulto colle armi, côlto da
una sassata, mentre fuggiva, ebbe la buona sorte di rifuggirsi nella
casa del fornajo, e nascosto in una soffitta, vi rimase in un angolo
finchè, dispersa la folla, potè uscire a salvamento[46].

Trascorsa in tali fatti la mattina, la plebe giunse al colmo
dell’atrocità, correndo delirante e furibonda per uccidere il vicario
di provvisione (magistrato milanese, che viene eletto annualmente, ed
è capo del pubblico consiglio, e quasi della città stessa), nobilissimo
ed ottimo personaggio, contro il quale esternava un odio accanito[47].
Il suo nome, profferito forse da qualcuno a caso, risuonò in un subito
per tutta la città. Il vicario, o sentito lo strepito o avvisato che
fosse, si teneva chiuso e nascosto in casa.

Siccome la tempesta scoppiata da un negro nembo tutto riempie il
paese d’acqua, di lordure, di spavento, così le caterve de’ plebei
accerchiarono di repente la casa, traendo a sè dietro la morte e
l’ignominia se riuscivano nell’intento. Recavano seco scale e ferri
per spezzare le porte ed introdursi dalle finestre od anche dal tetto.
Imposte e ferriate sarebbero riuscite inutili a schermo contro l’impeto
della romoreggiante moltitudine, la quale voleva penetrare a tutta
forza, ed era sicura di riuscirvi. Fu veduto un vecchio che portava
chiodi, un martello ed una corda, e andava dicendo di voler impiccare
il vicario alla porta della sua casa, dove sarebbe straziato ed ucciso
dal popolo.

Con tali intenzioni assediavano la casa, battendola con spessi colpi, e
tentando d’ogni parte la scalata. I magistrati chiamarono, dal prossimo
castello di Porta Giovia, una squadriglia di soldati spagnuoli, per
mandarla a presidiare la casa del vicario; ma quei soldati, invece
dell’incutere timore, furono côlti da subita paura al vedere il popolo
che circondava, come un esercito, quell’abitazione. Che far potevano
cogli archibugi, scaricati che li avessero sulle donne ed i fanciulli
misti cogli uomini? dar mano alle spade? Non ne avevano l’ordine,
e d’altronde avrebbero inferocita vieppiù la moltitudine, la quale,
già rotto ogni freno, correva agli estremi delitti. Titubarono gli
Spagnuoli, e si tennero lontani, mentre il popolo gl’insultava insieme
ai loro archibugi, che temuti sempre perchè colpiscono da lungi, allora
diventavano inutili e soggetto di scherno. L’arrivo dei soldati non
rallentò punto la furia di quelli che battevano la casa.

A frenare alquanto l’impeto loro, sopraggiunse il gran cancelliere
Ferrer, venerabile per vecchiaja, e che si guadagnò la simpatia del
popolo, appunto perchè non temeva di esporsi in quel parapiglia.
Avanzandosi in carrozza tramezzo la folla, ora chiedeva colla mano
silenzio, supplicando che lo ascoltassero, ora coll’alzar delle spalle
e col piegar la testa interrogava che cosa volessero. E quando, cessato
un momento il fracasso, poteva farsi sentire, egli, ponendosi la mano
al petto, imprometteva pane a josa, sedando colla sua dolcezza il
tumulto. Ma più gli giovò l’arte, che riuscì sempre anche nelle antiche
sedizioni utilissima agli uomini, che il popolo voleva uccidere.
Affermava il gran cancelliere ch’egli veniva per condurre il vicario
colla sua carrozza in castello, dove, se era colpevole di qualche
ingiustizia contro una tanto benemerita popolazione, sarebbe punito
giusta gli antichi statuti di Milano. Questa promessa calmò la plebe,
ed il vicario, messo in carrozza, sotto finta di condurlo al supplizio,
evitò, in quel terribile incontro, la morte[48].

Era già tardi, e tra per la sorvegnente notte, tra per la fatica e la
sazietà, tutti a poco a poco si ridussero alle proprie case, contenti
del bottino e della vendetta che loro pareva aver fatta de’ sofferti
stenti; e tra le domestiche pareti gustavano il riposo, e raccontavano
gli avvenimenti di quel giorno. Non riposavano però i magistrati ed
i decurioni, timorosi che durante la notte si commettessero nuovi
delitti; assicurarono la casa del vicario con travi[49], e vi posero a
guardia una mano di soldati; indi si raccolsero a consulta.

Provvidero in prima affinchè l’indomani, che era domenica, vi fosse
pane in abbondanza: i forni lavorarono tutta la notte. Al tempo stesso
diedero gli ordini opportuni che si cercasse dappertutto frumento,
onde non mancasse. Nominarono gli anziani, che, recandosi ciascuno di
buon mattino al suo posto, custodissero il forno del loro quartiere
coll’autorità del nome, cercando, col favore di che godevano presso il
pubblico, d’impedire il tumulto qualora ricominciasse, siccome accadde.
Spuntato il giorno, il popolo era tranquillo, ed uscendo, mezzo
sonnolento, a comperare i viveri, ciascuno andava per la sua strada,
appena soffermandosi per scambiar parole. Avresti detto che erano
confusi per vergogna della precedente sommossa.

Ma fu una breve sosta, ed ecco infuriare, con più violente impeto, la
plebe, non tanto per far bottino nelle botteghe de’ fornaj, quanto per
atterrarle dai fondamenti e darvi il fuoco.

La nuova rabbia mirava principalmente al forno del Cordusio, e già
dilapidata quanta farina vi si trovò, il frumento e ogni utensilio,
stavano per incendiarlo e involgere tutto il caseggiato nelle
fiamme, sia che non badassero alle conseguenze, sia coll’intenzione
di propagare l’incendio alle vicine case, indi alle lontane. Mentre
stavasi per commettere il delitto, un uomo pio del vicinato, scorto
il pericolo, riuscì, se non a calmar subito la ferocia della plebe,
almeno ad evitare un’irreparabile sciagura. Prese egli un crocifisso,
ed accese alcune candele, lo calò d’improvviso innanzi la bottega. Il
Salvatore pendente dalla croce, che salvò il genere umano, sembrava
chiedesse il termine della follia e dei misfatti. I tumultuanti si
mitigarono un poco, chè i Milanesi, anche nei tempi più calamitosi,
non obbliarono giammai l’avita pietà; al mirare l’immagine di Cristo
crocefisso rimasero stupefatti.

Giunse nel frattempo[50] tutto il clero della metropolitana a croce
alzata: i canonici colle cappe procedenti in fila si mescolarono tra
la folla[51]. Avevano lasciato in Duomo gli arredi solenni per timore
della sommossa. In tal modo si evitò il minacciato incendio. La minuta
plebe allora corse alle botteghe di secondo ordine, in cui vendevasi
il pane nero; e cessò dal tumultuare allora soltanto che il gran
cancelliere ebbe fissata la tariffa di quello e del pane di frumento
ad un prezzo che non potevasi desiderare più vile. Fu decretato che
il pane nero di otto oncie costerebbe un soldo, e l’altro migliore si
vendesse in ragione di tre lire lo stajo[52]. A tale annunzio i plebei
tripudiarono con pazza gioja, ridevano amaramente, e su per gli angoli
delle vie e nelle taverne si millantavano d’aver essi medesimi creata
così bassa la tariffa. In pari tempo cavillando, borbottavano che
finirebbe in breve la baldoria: dicevasi il pane esser mescolato con
materie venefiche, non aver fiducia in sì gran beneficio, però volerlo
intanto godere. Laonde correvano in folla ai forni, comperandone
oltre il bisogno; o ne empivano le casse, le caldaje, gli orciuoli,
nascondendolo in mille guise, come se ormai fossero i medesimi
venditori quelli che dovevano rapir loro il pane di bocca.

Io fui spettatore di tutti questi avvenimenti: testimonio per caso
del principio della sommossa, il desiderio di ben conoscere l’indole
umana in quella circostanza, mi spinse ad osservarla fino al termine,
lontanissimo dal pensare che un giorno avrei dovuto esserne lo storico.
In seguito trovai esattamente registrato, negli atti della città,
l’origine e il crescere del tumulto, non che il finire e reprimersi
spontaneo di esso, come appunto io aveva veduto.

La sommossa della plebe milanese afflisse ed angustiò il pubblico
Consiglio, il quale altresì ne arrossiva, come un padre di famiglia se
scopre svergognato il casato, violato il pudore dei figli e macchiato
il suo buon nome. Un’altra volta, a nostra memoria, fuvvi penuria in
Milano di granaglia, perchè vendevasi il frumento sette lire lo stajo
ed anche più; ma non per questo il popolo, amato e stimato dai nobili,
e per la sua fedeltà ed ossequio verso il monarca, tenuto come un’altra
classe di nobili, non per questo ruppe il freno all’ubbidienza, nè
ribellossi ai decreti del Consiglio. Ora invece aveva calpestata
l’autorità pubblica, insultando lo stesso re e la patria nostra, a lui
carissima, perchè nutrice sempre di uomini forti e in uno modesti.

Siffatti riflessi angustiavano i magnati, per tema che la notizia
dell’accaduto, misto il vero col falso, non pervenisse al monarca,
come se la popolare sommossa per la carestia fosse scoppiata per colpa
del Consiglio. Aveva la città, per altre sue faccende, spedito al re
cattolico un legato[53], il quale trovavasi allora in Madrid, con buona
speranza di riuscita in alcuna delle trattative affidategli, di altre
disperando. A lui il Consiglio inviò, con apposito corriere, lettere
del seguente tenore.

Pochi dell’infima plebe, colla speranza di rubare, aver eccitati da
principio ragazzi e donne, a questi essersi uniti altri, poi altri,
finchè il tumulto, per la carezza del pane, diventò una specie di
sommossa. Dilapidati i forni, il vicario di provvisione cercato a
morte, e quanto avvenne dappoi. In conseguenza scrivevano al legato,
si presentasse, quanto prima, ai piedi del re, ed esposto il caso,
soggiungesse: Che fu un impeto repentino ed una follia del popolo,
non mai una meditata rivolta, chè la nobiltà conservava intatta la
fede ereditata dai suoi maggiori verso Sua Maestà, che non eravi in
Milano alcun nobile il quale titubasse a sacrificare la vita, se quella
popolare agitazione non si calmava[54].

I membri del Consiglio aggiunsero a questa altre lettere, di cui
doveva servirsi il legato a tempo e luogo, ove mai, sotto pretesto
dell’accaduto, si tentasse ledere gli antichi statuti della città, e
indurre il re a gastigarla, promulgando nuove leggi. Raccomandavano
di esporre la premura del Consiglio, le spese sostenute, e la non
interrotta diligenza affinchè non mancassero al popolo i viveri. E
come recentemente avesse comperato a spese pubbliche quindici mila
moggia di frumento e dodici mila di segale, trattando inoltre, per
un acquisto maggiore, da trasportare in città, alla quale non sarebbe
giammai mancato grano, se si fosse eseguito quanto i Decurioni avevano
impetrato dall’autorità suprema, vale a dire, che a chiunque non
fosse lecito l’esportazione. Invano avevano i medesimi implorato
si decretasse con leggi e pene gravissime che non potessero gli
incettatori venire dagli estremi confini del Verbano fino sulle porte
della città co’ somari a far compera di grano, e poscia dalle loro
case portarlo ai confinanti Svizzeri, come loro riusciva facile per la
vicinanza.

Ed eziandio si proibì di trasportare in esteri paesi il frumento della
Lumellina, che è il granajo di Milano. Ai fornai ed ai mugnai di questa
città era stata negata la chiesta licenza di comperarlo e trasportarlo
ne’ loro magazzini.


XII.

La peste scoppia in Milano.

Sono il Ponte Vetro ed il borgo di Porta Orientale quartieri di Milano,
paragonabili, per ampiezza, a due piccole città. In essi apparvero
i primi sintomi della peste, la quale, al pari di fiamma sbuccante
dai tetti, doveva invadere le vicine case, percuotere quasi tutti i
cittadini, e diffondersi lontano nelle campagne, cessando soltanto
allorchè, ministra dell’ira celeste, avesse ogni cosa purgata. Non
fia inutile notare in che luogo e in che giorno scoppiò il contagio,
e quali persone furono le prime colpite per vedere, come da lievi
principj, ingrossata la tremenda procella, invase l’intera città,
uccidendo tante migliaja di vittime. Il primo fu un soldato di nome
Pietro Paolo Locato, il quale, trovandosi di quartiere a Chiavenna,
a motivo delle agitazioni della Valtellina, ebbe un permesso dal
suo comandante. Entrato in Milano il 22 novembre[55], recossi da
certa Elisabetta sua zia, e vi rimase per tre giorni nè visitato,
nè custodito, quantunque proveniente da luoghi infetti. Ammalò, e
peggiorando, venne trasportato all’ospital grande, non avendo mezzi da
farsi curare in quella casuccia. A capo di due giorni morì, e fatta
l’autopsia del cadavere, si trovarono i bubboni, indizio sicuro di
peste, non mai riscontrati per l’addietro in città, benchè il volgo
molto ne cianciasse. Morirono in breve quanti abitavano in quella
casa, togliendo ogni dubbio che la peste fosse introdotta in Milano.
Denunziato il caso al magistrato di Sanità, venne posta sotto sequestro
la casa di cui era proprietario un Colona, il quale morì egli pure
insieme alla moglie ed ai figli[56].

Il morbo incominciò a serpeggiare lentamente, quasichè Iddio
misericordioso, concedendo respiri ad intervalli, desse campo ad usare
rimedj. Ma i nostri nobili, nelle cui mani risiedeva il governo dello
Stato, non giovandosi della bontà divina, non curanti opponevansi alla
strage, come accade sempre quando il cielo vuol gastigare gli uomini.
Furono lenti i rimedj, quantunque la peste, che minacciava la città,
ne’ primi giorni si nascondesse come timorosa.

L’essere disceso il contagio dalle valli Rezie, e rimanendo pochi
giorni in casa del Colona, fu causa, e per la distanza del luogo
donde veniva e per la lentezza a diffondersi, che si considerasse
come tutt’altra malattia. Eppure, prima dei suaccennati casi, verso
il principio del febbrajo 1627 erasi sparso un vago romore di vicina
pestilenza: più tardi giungevano ogni dì avvisi funesti, che la
calamità ne sovrastava. Ormai era venuta, ed in segreto, e quasi di
furto, colpendo i cittadini, alcuni ne prostrava a viva forza; sostava,
irrompeva di nuovo, alternando così, giusta l’indole degli uomini, la
speranza e i timori, per cui ora si davano a credere aver esagerato
per vano sospetto il pericolo, ora di non aver usate sufficienti
cautele per guarentirsi dal medesimo. Quindi furono posti cancelli e
guardie a ciascuna porta, istituite le quarantene ed altri consueti
provvedimenti; ma non andò molto, che si levarono, negligentando
per indolenza le precauzioni con tale volubilità ed incostanza, che
sembrava uno dei fenomeni della peste.

Scorsero circa tre anni fra le ansie cure e la fatale trascuranza;
scoppiata la peste in casa del Colona, non più di cento morirono nel
decorso di quattro mesi; piccolo numero, avuto riguardo alla natura
del male, all’ampiezza di Milano ed alle tante migliaja che tra breve
dovevano caderne vittima.

Ben presto però la belva, irritata dai vincoli che la raffrenavano,
gli spezzò, lacerando senza contrasto i corpi. E furono veri strazj,
quantunque non fatti da armi o ferite. Spettacolo più orribile le morti
pel contatto, l’alito e l’occulta tabe, che non è il vedere sul campo
lacerate viscere, sparse cervella, tronche braccia ed altre orrende
ferite, allorchè due nemiche schiere, spinte dal furore, vengono a
battaglia.


XIII.

Furore e stoltezza della plebe circa la credenza della peste.

Io son d’avviso che tra i fomiti del contagio, molti pur troppo
e fatali, nessun altro contribuì di più ad accrescerla, quanto
l’ostinazione della plebe in negarlo, insultando con fischi, con
ghigni ed improperj chiunque ne profferiva il nome[57]. E tale follia
non era invalsa soltanto tra la plebe: ma anche in alcuni medici, i
quali, perdendosi in dispute interminabili, ridevansi de’ bubboni e
della gonfiezza degli inguini, chiamandoli effetti di sfrenata libidine
ogni qual volta un appestato mostrava loro quei segnali certissimi di
peste, e chiedeva rimedj. Quegli ignoranti[58] andavano vociferando ne’
crocchi, che le stesse febbri sono un contagio, e che molti morivano
all’improvviso per mancanza di vitalità, ovvero per occulti guasti
de’ visceri. Con tali assurdi e con altre dicerie, proprie dell’arte
loro fallacissima, distolsero i malati dal prendere i rimedj cui
bisognava ricorrere in tempo. Codesti medicastri si guadagnarono il
favore del volgo a segno, che i savj, i quali, ben altrimenti opinando,
convinti esistere omai la peste in città ed essersi l’influenza morbosa
indonnata dei corpi, predicavano doversi usare ogni cautela, furono
trattati come impostori, anzi quai nemici della patria[59]. Gridava
la plebe che essi cercavano occupazione, e che per avidità di guadagno
introdurrebbero la peste anche dove non esisteva.


XIV.

Pericolo corso dal protofisico Lodovico Settala all’incominciare della
peste.

Ricorderò il caso di tale cui la pubblica catastrofe sopraggiunta
avrebbe potuto accrescere gloria, se egli non ne avesse già raggiunto
l’apice per chiari studj e ingegno grandissimo. Era Lodovico Settala,
il primo dei medici e dei filosofi, e letterato esimio[60]. Alla
dignità dell’arte sua aggiungeva una vita illibata, ed il disprezzo del
denaro ogni qual volta veniva chiamato dai poveri o dai letterati ed
amici, menomo questo de’ suoi pregi. Vecchio e sommamente autorevole
per l’esattezza de’ suoi pronostici, l’Ippocrate del secol nostro
godeva un’illimitata fiducia anche tra i più circospetti, e la plebe
l’aveva in gran venerazione prima ch’ella s’infatuasse nella sua pazza
credenza. Un giorno che il Settala recavasi a visitare i suoi ammalati
in lettiga, a cagione della vecchiaja, fu insultato con tali urli da’
facchini e donnicciuole, che i portatori della lettiga, temendo per
la sua vita, entrati nella vicina casa d’un amico, vi si trattennero
finchè, quetato il subbuglio, quei mascalzoni si fossero dispersi.

Vociferavano tutti in coro, essere il protofisico capo di coloro che
asserivano vera la peste, spargere egli colla barba e col cipiglio il
terrore in tutta la città, affinchè non rimanesse in ozio la turba de’
medici e si trovasse modo da occuparli. In tal guisa l’ottimo vecchio,
che aveva salvata la vita ad un gran numero di persone colla perizia
dell’arte e col largire il proprio denaro, corse un grave pericolo
per la stolidaggine e la petulanza del volgo. Il quale non insultò lui
solo, ma gli stessi tribunali e la santa giustizia, osando deludere le
leggi sanitarie come inutili ed ispirate dal solo timore alle pubbliche
autorità.


XV.

I Magistrati pensano a più efficaci rimedj.

Ormai la peste era patente, confessata anche dai più ostinati
contraddittori, e faceva mostra di sè colle stragi e i mucchj di
cadaveri come in battaglia, invadendo ogni parte della città: pur
nondimeno molti disprezzavano la furia e la tremenda possa di lei. Fu
necessario istituire tribunali, mettere guardie, pubblicar editti, e
d’ogni cosa aver cura con somma attenzione e previdenza.

Furono eletti a presidenti della Sanità due gravissimi senatori;
Giovanni Battista Arconati, e M. Antonio Monti suo successore[61].
Entrambi con vera carità della patria esposero la vita nell’ufficio
loro, sprezzando il pericolo per difendere con prudenza, fedeltà
e vigilanza le reliquie della misera città e la nostra milanese
provincia, bellissima tra le contrade soggette al cattolico re.

Il regime fu il seguente: tutti gli altri magistrati e i primarj
nobili davano consiglio ed ajuti alla Sanità, a misura del coraggio
di ciascuno e della prudenza nel pericolo. In ogni porta e regione
di Milano vennero fissati i giorni e le volte che ciascun nobile
doveva visitarle, e gli uffici da esercitarvi. Si ordinò primamente
che uomini, animali e merci non si lasciassero entrare in città senza
prima esaminare le bollette comprovanti la provenienza loro da’ luoghi
sani. E perchè non si sforzasse il passo, si misero cancelli fuor delle
porte, e dietro i cancelli s’innalzarono capanne, dove stavano giorno e
notte i soldati a custodia.

Altri nobili e persone dai medesimi elette, giravano ogni giorno nelle
regioni, nelle parrocchie e nei borghi di Milano, visitando le case e
provvedendo ai bisogni di molti a spese pubbliche, ed anche con private
elemosine.

Quanto al male, ai sospetti ed ai casi giornalieri di peste,
fu proveduto nel modo seguente. Quelli che ammalavano venivano
immediatamente trasportati al Lazzaretto, in uno colla famiglia, e
quanti dimoravano sotto lo stesso tetto; ovvero se esternavano il
desiderio di rimanere in casa, si custodivano, postevi le guardie
di Sanità[62]. Coloro poi su’ quali non eranvi che vaghi sospetti,
venivano per cautela segregati, ma con meno severa custodia,
ricevendo gli alimenti dal pubblico se riconosciuti poveri. I cadaveri
trasportavansi sopra carri, preceduti da un fante, il quale, gridando,
allontanava i passaggeri, avvisando ad alta voce chiunque venisse
all’incontro di tirarsi in disparte, d’astenersi da qualunque contatto
e scansare i Monatti, chè erano ivi i morti, ivi la peste. Furono
scavate immense fosse profonde sino al livello dell’acqua, e depostivi
i cadaveri, gettavasi sopra ogni fila uno strato di calce viva, perchè
col suo caustico più presto assorbisse il putridume, pericoloso anche
da sotterra, alla vita ed alla comune salute[63].

Ma ormai sembrava non esservi più speranza di vita e salute, chè quanti
più morti seppellivansi ogni giorno, e tanto più ne cresceva ad ogni
momento il numero. Riempite quelle immani voragini, altre ed altre se
ne scavarono, e neppur queste bastavano.


XVI.

Il corpo di S. Carlo viene trasportato solennemente per Milano, onde
impetrare che cessi la Peste.

I Magistrati, visto che umani provvedimenti più a nulla giovavano
contro sì fiero morbo, ed il terrore della moltitudine, impetrarono,
dal cardinale arcivescovo Federico, che aperta l’arca in cui riposava
il corpo di S. Carlo, venisse reso alla luce e trasportato per la
città. Nutrivano vivissima speranza che le spoglie mortali del Santo,
rivedendo le contrade un tempo percorse, il cielo e l’aure della
città natìa, ne scaccerebbero la tabe, il veleno e qualunque influsso
spirava funesto ai corpi ed alla vita. L’eminentissimo Borromeo annuì
alla preghiera fatta dai Decurioni a nome della città, e permise che,
tratto dal sepolcro il corpo di S. Carlo, venisse portato per Milano.
Senz’indugio si disposero apparati e pompe, in guisa che le vie, le
pareti e fino i tetti delle case, l’aspetto del popolo supplichevole,
e, sto per dire, l’aere circostante, facessero palese testimonianza
del vivo affetto pel Santo, avvalorando, per così dire, le preci al
medesimo indirizzate.

La privata magnificenza gareggiò colla pubblica, e i cittadini non
badarono a dispendio in quelle pompe, con cui la misera umanità
pretende onorare il supremo Fattore. E la gara non fu soltanto tra
privati e privati, ma di questi col municipio, forzandosi superare
quanto i Decurioni ordinarono co’ loro editti. Aveva il Vicario[64]
pubblicato un ordine, che in tutti i luoghi pei quali transiterebbe
il cortèo, ciascuno adornasse colla maggior pompa la fronte della
sua abitazione, aggiungendo che ove i cittadini si fossero mostrati
indolenti e avari non avrebbero forse avuta mai più occasione di dar
prova della divozione e dell’agiatezza loro. Ogni casa senza padrone,
ovvero abitata da poveri inquilini, veniva adorna a spese di qualche
ricco vicino o dell’erario. Da ultimo fu imposto che per quel giorno
non potessero girare carrozze carri ed altri impedimenti, affinchè le
strade tutte e le piazze dove passerebbe le processione rimanessero
sgombre alle reliquie del Santo, del quale imploravasi il patrocinio.
Anche il cardinale arcivescovo emanò un cerimoniale pel clero: che si
raccogliessero i sacerdoti nel giorno e nell’ora fissata in Duomo, e
purificati prima coi Sacramenti, procedessero in modesta schiera cogli
occhi proni a terra, senza tumulto e senza distrazioni.

L’ordine della processione, le fermate dell’arca, il giro vennero
stabiliti come segue:

Dal Duomo doveva avviarsi per la strada detta anticamente Decumana,
indi piegando per la contrada dei Tre Re, al Bottonuto, poscia per la
contrada Larga e la piazza di Santo Stefano, svoltare nel corso di
Porta Tosa, fin dove sorge la croce vicino agli olmi. Di là entrar
nella via che mette alla cloaca di essa porta; indi alla croce di
Porta Orientale, donde procedendo in linea retta, dopo la chiesa di
Sant’Andrea, giungerebbe a capo della contrada ove s’innalza la croce
di Porta Nuova. Presa una scorciatoja, pel vicolo di Sant’Agostino,
venire alla croce del Ponte Vetro, poi alla chiesa di San Tomaso,
e piegando per la contrada dì San Prospero, alla croce di Porta
Vercellina; indi alle Cinque Vie, a San Sepolcro, al Cordusio, e
finalmente per la Piazza dei Mercanti, far ritorno in Duomo. Stabilito
in tal modo il giro, si fecero i preparativi con siffatta pompa, che
non avresti detto essere la città in preda allo squallore per tremenda
pestilenza, bensì celebrare con pubblico tripudio una festa nazionale.
In quel giorno la stessa letizia de’ Milanesi e l’apparato festivo
dei proprj funerali era spettacolo lugubre. Ne lieve saria stato
il dolore e la compassione de’ nazionali come pure degli stranieri,
qualora avessero posto mente a tali pompe e presagito quanto stava per
accadere. Avrebbero essi contemplata l’allegria e la magnificenza d’una
città già invasa dalla peste, e di una popolazione tra breve moritura;
le ricchezze profuse e un’ingegnosa gara per ricevere, con modeste
acclamazioni, le ossa dell’Arcivescovo, il quale, vivente, aveva,
giusta la popolare credenza, scacciata la peste da Milano. Ma come
presagire l’immensa strage imminente, e che, coloro i quali addobbavano
a festa la città, per trarre in luce il cadavere del Santo, tra breve,
quasi Iddio si fosse irritato del pubblico supplicare, giacerebbero
ammucchiati cadaveri!

Tre soli giorni v’ebbero pei preparativi, ed in tempo sì corto, le
vie tutte ed i crocicchj assunsero un aspetto trionfale, che teneva
dell’antica magnificenza romana: anche le iscrizioni erano nell’idioma
latino. Tanto fecero i cittadini, che l’ingegno natio e la peste già
contratta agitavano con febbrile inquietudine. Emblemi, versi, cento
e cento iscrizioni a lettere cubitali dorate, rammentavano le virtù
del defunto Arcivescovo, e sentenze sublimi a consuetudine degli
antichi Romani, quasichè la festa nel Lazio si celebrasse, e non in
una città longobarda. Sorgevano frequenti archi ed altari, e cori
posti sui balconi, udivansi ad ogni angolo di strada dove svoltava la
processione. Arazzi, quadri, drappi d’ogni genere, vasi e tutto quanto
di prezioso e d’antico possedeva ciascuna famiglia, fu esposto per
dove passava il cadavere di S. Carlo. I tetti e le mura delle case de’
poveri risplendevano per lusso regale: tutta la strada era coperta al
disopra con drappi, che difendevanla dai raggi del sole, e qua e là
rami d’alberi, fiancheggianti la via, ancor più l’abbellivano. Invero
che se non era statuito negli eterni decreti di purgare od ammonire
il popolo, io sono d’avviso che tanto ossequio e tante preci avrebbero
placata l’ira divina salvando la città nostra dal fatale eccidio.

Il corpo di S. Carlo, o piuttosto le reliquie di esso, sopravanzate
alla voracità del tempo, che distrugge fino i più duri metalli,
giaceva entro un’arca coperta d’un drappo di seta bianca con ai lati
finestrette di cristallo, traverso le quali intravedevasi la consunta
faccia del Santo, più venerabile agli occhi dei divoti, che se fosse
stata intatta. Portavano l’arca i canonici della metropolitana,
preceduti da una parte del clero e del popolo, seguìti dal restante;
adorni delle loro insegne venivano i sacerdoti, i magistrati, i più
cospicui della città, con doppieri accesi; molti a pie’ scalzi e
colle vesti strascicanti quai penitenti, palesavano la costernazione
dell’animo. Però gli sguardi d’ognuno, non distratti dai circostanti
oggetti, rivolgevansi ansiosi alla calva e mitrata testa di S. Carlo,
alla bocca semiaperta, ai pochi denti, che più la sformavano, alle
livide e vuote occhiaje, chè in tal guisa la morte, coll’ineluttabile
sua possa, aveva guasto il venerabile capo del santo Arcivescovo. Pur
nondimeno rimanevano alcune tracce indicanti la benevola fisonomia del
Pastore quale la tramandarono ai posteri gli antichi simulacri.

Ad esso erano rivolte le preci di mille labbra, che osavano quasi per
diritto implorare che di nuovo difendesse colla sua intercessione,
appo Iddio, il popolo già da lui altra volta salvato. Il guardavano
ed oravano, e da quel teschio inanimato e corroso, volgendo le preci
e la speranza al vivente capo della Chiesa milanese, ad alta voce
supplicavano il cardinale arcivescovo Borromeo, il quale seguiva da
vicino l’arca, che offerisse i pubblici voti al cugino, cui egli andava
dappresso per parentela, per dignità, per meriti[65].


XVII.

Dopo la processione s’accresce la peste.

Riuscirono vane le preci; e la pestilenza, quasi eccitata dal
vociferare de’ supplicanti, più crebbe e inferocì. Non è lecito a
noi l’indagare le cause di sì grande arcano, ed il voler determinare
per qual motivo il contagio, che prima lentamente serpeggiava, si
diffondesse terribile appunto dopo la traslazione del corpo di S.
Carlo. Gli uomini savj e pii, vedendo la violenza del morbo crescere
a dismisura, dopo che s’era invocato il celeste patrocinio, lo dissero
un gastigo divino; gli stolti invece sostenevano che neppur lo stesso
Iddio poteva domarlo[66]. Da alcuni mesi la peste, nascosta, s’era
mostrata ad intervalli qua e là; ma ormai infuriava a tutto potere.

L’undici di giugno, giorno sacro a S. Barnaba, erasi fatta la solenne
processione con somma gioja de’ cittadini, e da quel giorno veramente
la peste acquistò nome, forza e impero, giacchè dianzi non esisteva che
l’ombra di essa[67]. È da notare che tutti i contagi e simili mali che
afflissero e noi ed altri popoli e città, assumono il nome improprio di
peste.

L’arca in cui giaceva il cadavere del santo Arcivescovo in abiti
pontificali e mitrato, rimase otto giorni e altrettante notti
esposta in Duomo sull’altar maggiore. Il popolo v’accorreva in
folla, implorando, con lagrime ed orazioni, quell’ajuto che per gli
imperscrutabili decreti divini era ormai ad esso inesorabilmente
negato.

In que’ giorni molti perirono, come se le morti fossero la risposta
del Cielo. E perchè niuno ne dubitasse, cresceva giornalmente il
numero delle vittime, finchè giunse a mille e ottocento[68] per giorno.
Vuotavansi le case, e si trasportavano sui carri i cadaveri d’ogni età,
sesso e condizione, chè la morte non perdonava ad alcuno. Le grandi
fosse scavate fuori della città non bastavano a seppellire i cadaveri,
come le stanze del Lazzaretto erano poche alla moltitudine degli
agonizzanti appestati che invocavano, come un sollievo, la morte.

E costoro erano più sgraziati di quelli che il terribile morbo
repentinamente uccideva.


XVIII.

Aspetto ributtante di Milano pe’ mucchi di cadaveri e l’insolenza dei
Monatti.

Miserandi spettacoli degli umani eventi pei furori guerreschi o
per le stragi della morte, che i sommi agli infimi adegua, vengono
descritti nelle storie; ma io son d’avviso che in nessun luogo mai fu
visto tale ludibrio quale presentava Milano in quel tempo ad ogni ora
della giornata. Nessuno ignora che razza d’uomini fossero i Monatti,
disperati ministri della peste, ed i becchini, i quali, sprezzatori
della morte, affrontavano qualunque pericolo.

Il loro nome deriva dalla solitudine in cui devono stare, chè ad alcuno
non è conceduto l’immischiarsi con essi[69]. Codesta genia maneggiava,
senz’alcuna precauzione, morti e moribondi, toccando i bubboni, la
tabe, le membra sanguinanti, e perfino facendo gozzoviglia con pazza
gioja sopra i mucchi de’ cadaveri. I Monatti, arrossisco in narrare
tanta turpitudine! violarono gli stessi cadaveri, ultimo eccesso della
libidine e dell’umana pazzia, che neppure riscontrasi fra le belve!
Introducendosi in ogni casa, fosse o no sospetta di peste, perchè ormai
era lecito il sospettare di tutti, afferravano i mariti, le mogli, i
figliuoli per trascinarli al Lazzaretto, se non redimevansi sborsando
denaro. Alcuni giovani sfacciatissimi, legatesi le campanelle a’ piedi,
s’introdussero per le case, frugando le stanze, ed anche per le strade
facevano quanto loro saltava in capo come se fossero Monatti rivestiti
di pubblica autorità[70]. Accadde una volta che nella casa medesima
s’incontrassero codesti Pseudo-Monatti coi veri, e ne seguirono risse
e colpi, nè l’alterco terminò senza sangue. Fu altresì una calamità
pubblica il modo con cui i magistrati provvidero a simili disordini,
perocchè gli stessi impiegati subalterni ed i satelliti irrompevano
nelle case, commettendovi, colla maggior petulanza e impunità, i
furti, le rapine, le ingiurie cui sempre sono usi. E non cessarono dal
rubare e dall’estorcere denaro, finchè accusati e presi alcuni di essi,
vennero, per gastigo ed esempio, condannati alle forche. Un giorno che
si doveva impiccarne tre, mancando il carnefice, si esibì ad uno la
grazia qualora volesse farne le veci: accettò con gioja, e strangolò i
compagni.

Ma la ciurma de’ Monatti maltrattava a sua voglia e viventi e morti,
trascinandone i cadaveri, come il beccajo trascina al macello, legati
tutti con una sol corda, vitelli e capretti. Andavano a fascio uomini
e donne, adolescenti, fanciulle, bambini pendenti dalla poppa materna,
giovani, vecchi. Il servo coricato addosso al padrone pestandogli
coi piedi la faccia, ricchi e poveri ignudi, raro essendo che un
cencio loro coprisse per pudore le nudità, e se a caso veniva gettato
sovr’essi un lenzuolo, tosto gli avidi becchini via lo strappavano.
Teste, braccia, gambe spenzolavano dal carro, s’intricavano fra le
ruote, ed i cadaveri rotolavano qua e là per terra![71]

  FINE DEL LIBRO PRIMO.



LIBRO SECONDO

GLI UNTORI.


I

A molti era entrata nell’animo la persuasione che la peste fosse
seminata e diffusa per frode dei principi congiurati, affine d’invadere
la città e il territorio di Milano con buon esito, dopo che invano
l’aveano tentato altrimenti. Devastate così, e rese dappertutto
squallide le campagne per mancanza d’agricoltori, nè più essendovi
chi impugnasse le armi, avrebbe chiunque potuto occupare il nostro
paese inerme e deserto. Re potenti, e ministri loro, si accusavano
autori di sì disperato consiglio, e il publico, nell’impeto della
sua disperazione ingiuriava altresì coloro che forse commiseravano
altamente i nostri guai. Nè faccia meraviglia se in tal guisa agivano
i cittadini, incriminando lontani ed estranei, poichè nutrendo eguali
sospetti, si diffamavano a vicenda gli uni gli altri.

La quale agitazione degli animi, non meno fatale della strage della
peste, dobbiamo attribuirla agli imperscrutabili decreti della
Provvidenza. E tanto crebbe la cosa, sia per calamità e miseria,
sia per superbia e pazzia, che ogni giorno si punivano gli Untori in
città, mentre al tempo stesso nel Lazzaretto, simile ad una pubblica
sepoltura, i sospetti e gli indizj del loro delitto sussistevano e in
una svanivano.

Mirabile a dirsi! si trovarono nel Lazzaretto alcuni con indosso
cassettine, ampolle e tutti gli altri utensili del delitto.
Confessarono, e non ricredutisi sotto il cruccio della tortura,
vennero tradotti al patibolo. Ma ivi nelle mani del carnefice, che già
avea loro posto al collo il laccio, protestarono d’essere innocenti,
gridando al popolo che morivano volontieri per altri misfatti da loro
commessi, ma che giammai avevano praticata l’arte di ungere, ignari di
qualunque veneficio e incantesimo. Tale era l’infamia degli uomini,
ovvero la malvagità ed il livore del demonio. Per tal modo sempre
più si confondevano gli indizj, e gli animi dei giudici rimanevano
perplessi.

Il primo e fondatissimo sospetto degli unguenti sparsi dall’umana
malizia per creare od alimentare la peste, nacque allorchè fu visto
in tutta la lunghezza della città le pareti delle case a destra ed
a sinistra contaminate qua e là di grandi macchie. Ciò accadde il 22
aprile allo spuntare del giorno, che era sereno, cosicchè ognuno vedea
chiaramente co’ proprj occhi tali macchie. Alcuni che uscivano pei loro
affari sull’albeggiare le videro; poi altri che eccitarono i passanti
ad esaminarle, finchè cresciuta la curiosità v’accorse il popolo in
folla. Erano codeste macchie sparse e sgocciolanti in diverse guise,
come se alcuno avesse imbevuta una spugna di marcia, appiccicandola
alle pareti. Anche le porte delle case e gli usci qua e là scorgevansi
bruttate da quell’aspersione. Funesto delitto di recente commesso quasi
per insultare il popolo, e che io pure andai a vedere. Inorridirono i
circostanti, ma, giusta il consueto, presto le ebbero dimenticate; se
non che crescendo il male e le stragi quotidiane, tornarono loro più
vivamente al pensiero le vedute macchie. Ogni dì si andava narrando
essersi trovati oggetti unti e bisunti, ed avere in un subito contratta
la peste coloro che li toccarono. Diffusa tale credenza, si ritenne che
venissero unte altresì le persone, cosicchè nel gran numero dei morti
pochi si credeva non fossero stati in tal guisa infetti; sia perchè
unti all’insaputa loro, sia pel contatto avuto con altre persone già
contaminate con quel veleno, sia finalmente per aver tocco legni, muri,
o checchè altro serve ad uso giornaliero. In breve la pubblica credenza
s’accrebbe a tale, che non solo i ferri, i legni, e simili oggetti, ma
le contrade medesime della città e l’aere si temevano infettati dagli
untori. E siccome correva quella stagione dell’anno in cui il frumento
ammucchiasi, secondo l’usanza, sulle aie e nei campi, il timore
persuase fosse appestato anch’esso. La pubblica voce aggiungeva avervi
parte gli incantesimi, e che i demonii erano congiunti cogli uomini per
desolare Milano e il suo territorio[72].


II.

D’un terribile e falso rumore divulgato in Milano ed all’estero.

Non ignoro che a taluni sembreranno esagerate le cose che narrai e
quelle che mi rimangono a dire; ed io suppongo altresì favoloso quanto
a que’ giorni venne divulgato e creduto tra simili vaneggiamenti degli
uomini o esempii di calamità. Fu adunque in Milano comune la credenza,
non isventata come assurda nemmeno dagli uomini di senno, tenere i
demonii sicure stanze in essa città, nelle quali avevano stabilito
l’emporio delle loro arti per dispensare gli unguenti. Molti osavano
indicare il quartiere dove erano situate quelle case, nominandone
perfino i proprietarii. Finalmente citavasi a nome, e s’indicava a dito
un tale che faceva il seguente racconto.

Essendo un giorno fermato a caso sulla piazza del Duomo, vide venire
un cocchio tirato da sei cavalli bianchi, nel quale, scortato da
numeroso seguito, sedeva un uomo con aspetto da principe, ma con fronte
infocata, occhio fiammeggiante, irti capegli, labbro minaccioso, e con
una fisonomia che mai egli non aveva veduta l’eguale. Mentr’ei stava
guardando a bocca aperta lo strano personaggio, il cocchiere, tirate
le briglie a sè, arrestò la carrozza, e gli disse di salire e andar
con loro. Avendo annuito per cortesia, lo condussero alquanto in giro
per la città, finchè giunti dinanzi la porta di una certa casa, scese e
v’entrò insieme coi forastieri.

Quella casa, continuava il narratore, gli parve somigliantissima a
colui che l’aveva fatto montare in carrozza, e i cui ordini osservò
che là venivano da tutti ubbiditi. La descrizione della medesima,
si può dire eguale a quella che fa Omero, immaginando nella Odissea
l’antro di Circe. Orrori congiunti a maestà, un non so che di ameno
e di terribile: qua fulgori e luce, là tenebre e notte artificiale;
dove larve sedute in giro quasi a consesso, dove vasti deserti, sale,
boschi, giardini, e dall’orlo di nereggianti scogli acque cadenti
con gran fracasso nel sottoposto bacino. Altri portenti meravigliosi
aggiungeva il nostro narratore, i quali, esaminati sul serio, divengono
insulsi e ridicoli. Da ultimo conchiudeva che in quella casa gli furono
mostrati immensi tesori, e scrigni pieni di denaro, colla promessa
che ne avrebbe la sua parte, e di più quanto mai potesse desiderare,
purchè, giurando in nome del principe, coadiuvasse a quanto si doveva
fare. Ove gli offerti patti accettasse, desse il segnale del consenso,
alzando il dito, facendo un giro sulla persona e piegando il ginocchio
a terra. Il che avendo egli ricusato di fare, repentinamente si trovò
trasportato sulla piazza del Duomo dov’era salito in cocchio.

In simil guisa impastoiava colui la sua favola, che molti ritennero
desunta da un fatto riferito nell’antica storia. Credettero i Milanesi,
credettero gli esteri, ed i libraj di Germania trassero partito da
quella fola per guadagnar denaro, alle spalle della curiosità pubblica,
vendendo una stampa rappresentante il supposto mirabile avvenimento.

Ho veduto io stesso frammenti di un disegno in carta eseguito in
Germania, sul quale scorgesi il demonio sopra un alto cocchio, e
con sotto un’iscrizione in lingua tedesca, in cui è detto qualmente
l’apparizione di lui illudesse i Milanesi. Ho veduto altresì lettere
scritte dall’arcivescovo di Magonza al cardinale nostro, richiedendo
lo informasse sulla veracità dei maravigliosi avvenimenti che la fama
divulgava accaduti tra il suo popolo. Gli venne rescritto che nessun
cocchio infernale, spettro nessuno erasi veduto in Milano. Così le
estranee genti non davano piena credenza a tali fole, perchè vivendo
da noi lontani, poco interesse vi prendevano, fra noi invece il malore
crescente ogni dì sotto gli occhi, e nell’ime viscere, rendeva vieppiù
credibili tutti i racconti quanto più erano truci e stravaganti.

Dappoichè adunque il timore che gettasi prontamente ad ogni stolta
credenza ebbe persuaso avere le frodi e le malvagità degli uomini,
compagni all’opera i demonj, ed esistere in Milano un’officina per
ispargere il contagio, nacque quella noncuranza che suole venir
compagna della disperazione. I primarj cittadini, incapaci di trovar
rimedj e purgare la città, vedute le tante stragi della peste, andavano
tra loro commentando con sottigliezze le dicerie del volgo ignorante,
e indagavano da qual principe o re straniero avesse potuto chiamare
l’inferno in ajuto, e far ministri i demonj della sua malevolenza
contro noi. Codesta era la insana investigazione, nè ritengo che
mai riuscissero a scoprire l’autore del misfatto, stantechè non ne
esisteva per avventura alcuno. Mentre la tabe, i cadaveri a mucchj e i
moribondi qua e là giacenti facevano inorridire, ed i morti commisti
ai vivi tramutavano questa città in un solo sepolcro ed in un rogo,
la pubblica calamità diveniva vieppiù orrenda per gli odj intestini,
l’esacerbazione degli animi e il mostruoso sospetto che taluni,
corrotti e compri dai demonj, a prezzo d’oro attendessero a disseminare
la pestilenza. I congiunti medesimi e gli amici si schivavano; nè
paventavasi solo il vicino e l’ospite come pericoloso, ma i genitori,
il figlio, il fratello, il marito e la moglie, cui ne uniscono i
vincoli dell’affetto. Orribile e vergognoso a dirsi! la mensa, il
talamo geniale, e checchè altro v’ha di santo per diritto di natura e
delle genti, incuteva terrore, come se ivi appunto s’appiattasse e si
effondesse il morbo. Trepidanti e con piè sospeso giravano i cittadini
le strade, sopraffatti dalla tema de’ pestiferi unguenti[73].


III.

Del Piazza, del Mora, del Baruello, e d’altri Untori.

Io non credo cadere nell’assurdo introducendo in questo tragico
racconto anche i rei degli unguenti e dei maleficj, affinchè,
siccome tra i ferri innanzi ai giudici o tra i tormenti offrirono uno
spettacolo tetro e in un curioso, così sieno in oggi spettacolo ai
leggitori, ed essi, e le risposte loro, e ciò che fecero, o vennero
convinti d’aver eseguito[74]. Un certo Piazza[75], capo di tutti gli
untori, fu messo in carcere: alcune donne, chiamate ad esame, dissero
averlo veduto dalle loro finestre imbrattare con unguenti i muri. E
sì bene concordarono nelle risposte, descrivendo la fisonomia e gli
abiti del Piazza, che, riconosciuto dai magistrati, fu tradotto in
carcere. Era egli uno degli ufficiali incaricati di girare giornalmente
per le case, e notare in un elenco i nomi dei malati: gli era stato
destinato il quartiere della città detto di Porta Ticinese. Arguivasi
che incominciando dallo sbocco della Vedra de’ Cittadini avesse unto
tutte le vicine case, gli angoli, i vicoli, le contrade, le chiese
ed i palazzi dei nobili[76]. Il capitano di Giustizia, per ordine del
Senato, lo fece tradurre in carcere il sabato 22 giugno. Era il Piazza
un furfantaccio d’alta statura, scarmo, di barba rossigna, capelli
castagni, portava calzoni e stivaletti stracciati, ed un corpetto di
panno nero; un cappello a falde cascanti gli copriva la testa e la
faccia.

Interrogato, dopo i consueti preliminari solenni del foro, se avesse
udito dire che si erano trovate in Porta Ticinese molte pareti
stropicciate d’unguento, negò, dichiarando essere al tutto inscio di
ciò. Si misero i giudici a redarguirlo ed a convincerlo, giacchè, sendo
ormai la cosa nota e divulgata in tutta la città, non era verosimile
che egli, incaricato di visitare le case in Porta Ticinese, nulla ne
sapesse, e fosse l’unico che ignorava una faccenda sì conosciuta e sì
pericolosa per tutti.

Le interrogazioni e le risposte si smarrirono in ambiguità, perocchè il
malizioso co’ suoi sutterfugi lottava per sottrarsi al sapere ed alla
prudenza de’ giudici.

Posto sull’eculeo, e sospeso alla corda, fu tormentato più del consueto
con tutte le carneficine della tortura per le sue contraddizioni, dalle
quali emerse il delitto, che egli persisteva a negare. Pure, anche in
mezzo ai tormenti, negava con risposte sempre intralciate, le quali
davano campo a maggiori sospetti, laonde fu più volte sottoposto alla
prova.

Il quarto giorno, insistendo egli pur sempre sulla negativa, i
giudici, dopo avergli indarno fatte squassare le membra, lo fecero per
stanchezza, anzichè per clemenza, calare. Allentate le corde che gli
annodavano le braccia, stava per essere sciolto, e, senza rimettere a
luogo le ossa slogate[77], ricondotto nella sua prigione, allorquando,
contro l’aspettativa d’ognuno: — Un barbiere, gridò, mi diede gli
unguenti![78]

I giudici, raccolta avidamente questa spontanea confessione, che
sembrava palesare l’origine del delitto e della pubblica salvezza ad un
tempo, cominciarono ad esaminarlo con gran diligenza sui particolari.
Nè finirono prima d’aver indagato chi fosse il barbiere, in qual giorno
e luogo, ed a che patti avesse il medesimo somministrato l’unguento.
Diceva il Piazza avergli il barbiere insieme coll’unguento dato un
ampollino con certa acqua, la quale, bevendola, possedeva la virtù
d’impedire, per occulta forza, che uno confessasse. E gridava non poter
egli in conseguenza palesare cosa alcuna finchè i giudici lo tenevano
sospeso alla corda: e quando veniva calato a basso, e rientrava in sè,
ricuperando il senno, offuscato da quel beveraggio, non solo abborriva
di confessare il delitto, ma gli usciva anche di memoria chi fosse il
reo.

Ciò detto, spiegava il modo tenuto per ungere, quanto denaro gli esibì
il barbiere se avesse lavorato con zelo e fedeltà; però fino allora
era rimasto colla speranza, non avendo ancora toccato denaro. Il
barbiere, accusato dal Piazza come autore e complice degli unti, aveva
nome Giacomo Mora[79], abitava alla Vedra dei Cittadini, ed aveva casa
e bottega, laddove oggidì sulle ruine di essa casa sorge la Colonna
Infame, monumento del commesso delitto, siccome si legge nell’appostavi
iscrizione.

Il giudice, udito che ebbe quanto il Piazza affermava con giuramento,
recossi colla sua squadriglia all’officina del delitto, credendo
cogliere sul fatto il nemico della pubblica salute. Entrati, trovarono
il Mora occupato ad un fornello con ampolle: anche il cammino
ardeva, perch’egli distillava acque in diverse maniere; piena la casa
d’utensili per accendere il fuoco e di caldaje. Gli scrivani, i birri,
lo stesso giudice, susurrando tra loro, profferirono che quella era
l’officina degli unguenti.

Il barbiere, a tutta prima imperterrito, disse che quelle acque
erano medicinali e spiegò per qual uso le componesse o le mescolasse.
Indicava specialmente un rimedio contro i contagi, chiedendo scusa
d’averlo composto senza licenza della pubblica autorità, mosso dal
desiderio di salvare dal generale flagello almeno i congiunti e gli
amici, ai quali era sua intenzione dare esso medicamento[80]. Le
sue parole furono udite in mezzo al fremito eccitato dai sospetti e
dall’ira.

Gli uffiziali si misero a perscrutare la casa, e postala in un
momento tutta sossopra, ricominciarono più adagio a frugare, finchè
ordinatamente ebbero presa nota dei vasi, degli orciuoli, barattoli,
trepiedi, caldaje, e di quant’altri utensili, atti a nuocere,
rinvenivano in quell’infelice abitazione. Più d’ogni altro irritò
gli animi una cosa forse per sè innocua, e scoperta a caso, comechè
sudicia, e che dava maggior adito a sospettare di quello che cercavasi.

Trovarono due caldaje di rame piene di liscio marcio e vecchio, aventi
sul fondo un sedimento sporco, tenace come vischio, color di cenere, e
che puzzava come gli umani escrementi. Ispezionato e analizzato codesto
sedimento dai medici, i quali per abitudine non hanno a schifo siffatte
immondezze, non rimase dubbio che tale materia servisse a preparare
veleni[81]. Furono trascinati in prigione il barbiere, la moglie, i
figli, i parenti di lui, i garzoni di bottega, e coloro che venivano
ad impararvi il mestiere. L’infelice ed imprudente padre, accusato di
sì infame delitto, persisteva, in mezzo ai tormenti, a negare, giusta
la usanza dei malfattori. Allorchè il tormento vinceva, egli implorava
alcun sollievo, dando lusinga che scoprirebbe il vero, e alcuna cosa
andava dicendo che aveva del verosimile; ma tosto si ritrattava,
accusando la violenza degli spasimi che suo malgrado gli avevano
strappata la parola dal labbro. Ritormentavasi più aspramente, ed egli
di nuovo, per aver tregua, rispondeva a beneplacito de’ giudici, poi
subito si contraddiva.

Si fece venire il Piazza, accusatore e complice suo; messi al
confronto, altercarono fra loro i due rei, ma con notabile differenza.
Il Piazza volgevasi con parole familiari ed amare al Mora; e questi
negava d’averlo mai conosciuto neppure: s’ingiuriavano l’un l’altro.
Il Piazza rimproverava al barbiere l’infame delitto, le stolte
sue speranze, e il fine cui si trovavano ridotti; l’altro gridava,
invocando la vendetta di Dio contro la calunnia e le insidie che
qualunque malevolo può tendere ad un innocente. Sottoposto di nuovo
alla tortura, il Mora continuò nell’alterno confessare e ricredersi,
fintantochè, smarrito d’animo, quasi gloriandosi del misfatto, palesò
fedelmente l’origine delle unzioni, l’arte adoperata, il progetto di
distruggere la città, quanto aveva apparecchiato nei singoli barattoli,
e quai luoghi fossero di già contaminati ed unti.

Mentre ferveva il processo del Mora, e facevansi indagini, si
scoprirono altri indizj e novelli untori, gente da bettola e da
lupanare, e tutti usciti da quell’officina, nomi degni di forca e di
rogo: un Migliavacca, un Baruello, un Bertone[82]. Mandata per essi
la sbirraglia, furono tradotti dinanzi ai giudici, e con poca fatica
confessarono il delitto, come s’erano trovati e che avessero operato in
quella iniqua congrega. Sorse una voce che fece abbrividire i giudici
stessi d’orrore, senza che osassero parlare, come accade lorquando gli
uomini neppur ardiscono palesare i proprj mali. L’untore Baruello, fra
le sue deposizioni, disse che eravi un gran capo all’ombra, e sotto il
patrocinio del quale ascondevansi tutti gli untori, senza temere danno
o pericolo di sorte.

Questa confessione fu tenuta per indizio di un male maggiore, ed
insistendo i giudici per conoscere chi fosse codesto gran capo sì
potente, riuscirono a fargli dichiarare essere Giovanni Gaetano
Padilla[83], colui che aveva somministrato il denaro, promettendo un
politico cambiamento, quindi onori e titoli, qualora rovesciato il
vigente Governo di Milano e dello Stato, egli ne diventasse il supremo
signore. Riferirono senz’indugio i magistrati tutto ciò al governatore
prima di continuare le investigazioni: frattanto occultavasi la cosa
sotto rigoroso silenzio. Per ordine del governatore venne replicato
l’esame, ed i furfanti, ora interrogati con dolcezza, ora sottoposti a
tormenti d’ogni sorte, esponevano, incominciando dall’origine, quanto
segue. Avere avuto frequenti colloquj col Padilla; molte cose aver
discusse e pattuite insieme, e essere corsi avanti indietro messaggi
tra loro, finchè da ultimo si trovarono di notte oscura sulla piazza
del castello, ed ivi, nella spianata dove fa i suoi esercizj la
cavalleria, scelto un luogo per eseguire l’incantesimo, e confermare
con riti infernali i patti dianzi fra loro convenuti, asserivano
aver evocati i demonj a prendere parte nei veneficj, giurando ai
medesimi con empie cerimonie di ungere. In quell’incantesimo apparì
un Pantalone, con indosso una toga, colle brache, ed in testa una
perrucchetta; il Padilla che si copriva la faccia con un tabarruccio,
ed un prete, il quale, tenendo in mano una bacchetta, descriveva
linee e circoli[84]. Queste ed altre cose che soggiunsero, cadono
nell’assurdo e nel ridicolo. Il Padilla, incarcerato, confutò gli
accusatori suoi, i luoghi, l’epoca, provando all’evidenza essere egli
a que’ giorni assente da Milano, e non avere conosciuti nè mai veduti
costoro. Gli untori furono nonostante puniti con sì acerbi supplizj,
che la città ne avrebbe inorridito, ove la gravezza del misfatto non
avesse fatta parer lieve qualsiasi pena[85].


IV.

D’altri che a torto furono creduti untori, o per tali imprigionati.

Molti innocenti, che la fisonomia, l’abito sdruscito, o il soffermarsi
qua e là rendeva sospetti, furono accerchiati dal popolo con grida
e con tale tempesta di sassi e di colpi, che anelavano d’arrivare al
carcere, come in porto di salvamento. I campagnuoli e gli agricoltori,
gente nelle calamità crudelissima, irritati dai proprj mali e dalla
scarsezza delle biade, se scorgevano alcun viandante camminare a
rilento lungo le strade maestre, o lasso riposarsi sul terreno,
unendosi a frotte, lo circuivano, e, ben legato, lo traducevano
a Milano. Ogni giorno capitavano turbe di contadini con siffatti
prigionieri in catene[86].

Io stesso fui testimonio della disgrazia toccata ad un vecchio, che
oltrepassava gli ottant’anni, e che all’aspetto ed al vestire appariva
di agiata condizione. Entrò il medesimo nella chiesa di Sant’Antonio,
dei Padri Teatini, i quali sono modello a Milano di sapere e di virtù,
seguendo le orme dell’Abate istitutore del loro Ordine. Recitate che
ebbe in ginocchio le sue preci, sentendosi stanco, e volendo riposare
alquanto, spazzò col mantello la polvere da una panca per sedervisi.
Alcune donne, lì vicine, al vedere un tal atto, gridarono che il
vecchio ungeva le panche, e quanti erano in chiesa vociferando, fecero
coro.

Correva in quel giorno, non mi ricordo che festa, ed il concorso del
popolo era numeroso quanto permetteva il tristo tempo del contagio e lo
squallore della città. Udite appena le grida essere un untore, tutti
gli astanti si precipitarono addosso a lui. I più vicini, afferrato
l’infelice vecchio, gli strappano i capegli, lo pestano a pugni ed a
calci, e lo trascinano, già semivivo, per le gambe. Un solo pensiero
trattenne que’ furibondi dal ferirlo di coltello nella testa o nel
ventre; volevano tradurlo in prigione per serbarlo alla tortura dinanzi
i giudici.

Io lo vidi trascinare, nè seppi altro che ne avvenisse, ma ritengo
sia morto in breve, tanto era malconcio. Coloro che, sdegnati per
quell’atroce caso, indagarono chi fosse il vecchio, raccontarono che
era persona rispettabile ed onesta.

Il dì seguente fui spettatore d’un caso consimile, ma meno luttuoso,
perchè la stolta plebe non inferocì contro un concittadino, ma contro
Francesi. Certi giovani di quella nazione eransi associati per visitare
l’Italia, e investigarne gli antichi monumenti. Seppesi dappoi essere i
medesimi istrutti nelle arti che valgono a guadagnarsi il vitto lontano
da casa, quale letterato, quale pittore e meccanico, in guisa che
potevano essere utili a Milano se vi fossero capitati in tempi diversi.

Essi destarono sospetti nel popolo, perchè contemplando i bassirilievi
della facciata del Duomo, non paghi di saziare la vista, gli andavano
con diletto toccando colle mani. Un passaggero si fermò a guardarli,
poscia un secondo; s’aggiunsero altri, e in un momento si fe’ calca,
e tutti a bocca aperta e con occhi spalancati affissavano i pretesi
malfattori. A poco a poco la folla circondò gl’incauti stranieri, e
li vide tasteggiare quanto a loro sguardi sembrava pregevole in que’
marmi.

Questo bastò per giudicarli colpevoli; il popolo non seppe più a lungo
frenarsi, e tanto più inferocì contr’essi, che dal vestire, dalle
zazzere, dal fardello che portavano in spalla, e dalle grida con cui
cercavano sottrarsi alle busse, furono riconosciuti per francesi. La
prigione li salvò dal furor popolare; interrogati da’ magistrati, e
conosciuti innocenti, vennero posti in libertà.

Ho narrati questi due casi per mostrare la leggerezza e la crudeltà
della sospettosa plebe in quei giorni. E li scelsi a preferenza, non
già come i più atroci tra quanti accadevano giornalmente, ma perchè
d’entrambi fui spettatore io stesso: piansi il destino di quegli
innocenti, e più ancora la follia cui abbandonavasi la nostra plebe
durante il contagio.

Oltre codesti casi lagrimevoli, per tutti coloro che hanno senso
d’umanità, altri pure ne accaddero faceti e quasi ridicoli a segno, che
in mezzo a tanto pubblico lutto costrinsero a involontario riso chi ne
fu spettatore o li udì raccontare. Ed ora, cessata la calamità, giovi
il ricordarli a sollievo de’ leggitori, servendo, per così dire, di
piacevoli fermate nel mesto campo che percorriamo.

Infuriando, come dissi, la pestilenza e gli atroci sospetti delle
unzioni in Milano, il nostro Cardinale Arcivescovo volle sottrarre al
pericolo due chierici suoi famigliari, de’ quali molto servivasi, e
sì fedeli e industri, che difficilmente avrebbe potuto supplire se il
contagio glieli rapiva. Mandolli perciò a Senago, villa discosta sette
miglia da Milano, dove poco prima aveva comperata la rocca e gli orti
ameni che la circondano. L’umano e dotto Arcivescovo, mentre viveva
parcamente e fra gli stenti col restante della famiglia in mezzo alle
morti quotidiane e le afflizioni di quei giorni, ordinò che venissero
cautamente trattati i due chierici che dovevano in essa villa occuparsi
d’alcuni lavori letterarj.

La peste non era fin allora penetrata in Senago, che anche in seguito
rimase illeso[87], quindi i terrazzani lo custodivano vigilantissimi,
e per la propria salvezza ed anche per l’ambizione di preservare
fino all’ultimo sè stessi incolumi nel generale incendio; ricinto di
cancelli il villaggio, non vi lasciavano penetrare alcuno.

Sorge la casa del Borromeo sopra una collinetta che domina Senago; i
chierici nel dì stabilito, girando intorno al paese, giunsero in cima,
senza che i guardiani li vedessero, seppure non dissimularono d’averli
scorti. Il giorno seguente non uscirono, aggirandosi per le vuote e
silenziose sale, pieni ancora l’animo dello sbalordimento e del terrore
recato seco da Milano. Trascorso però alcun tempo, s’inanimarono a
metter piede nell’atrio, poi nell’orto: contemplavano i fiori, gli
alberi, il frutteto, e allettati dall’amenità del luogo, valicarono la
siepe, e salirono il colle vicino. Ivi sedettero al rezzo degli alberi,
ed avendo seco loro il breviario, per non isprecare il tempo nell’ozio,
si misero a salmeggiare alternativamente l’ufficio divino di quel
giorno.

Il luogo ameno e solitario andava loro a genio, per cui recitato che
ebbero alacremente l’uffizio, tratte di tasca le loro lezioni, si
diedero a ripassarle, lieti d’adempire in quel giorno, senza noja, i
doveri ecclesiastici e i letterarj. E tanto più volentieri s’ajutavano
a vicenda negli studj, che non eravi maestro cui ricorrere durante il
pericolo del contagio.

Quattro fanciulli che trovavansi sopra la collina a custodia del
gregge, si divertivano a giuocare alle palle: uno di essi, scorgendo
sdrajati all’ombra i due giovani in negre vesti, i quali parlavano
ad alta voce e gesticolavano con in mano scartafacci, li additò ai
compagni, e tutti estatici, affissarono que’ sconosciuti. D’improvviso
decisero essere due di coloro che dalla casa del demonio in Milano
(già erasi sparsa nel contado la favola) mandavansi nelle campagne a
spargere gli unti. Non si avvilirono per questo i contadinelli, due
corsero ad avvisare i terrazzani di Senago, affinchè accorressero
armati, e due restarono a guardia per vedere se quei malefici fantasmi
si dileguavano nell’aria. Intanto i due supposti untori a tutt’altro
pensando che all’imminente pericolo, discorrevano tranquilli di poesia
al rezzo degli alberi, alloraquando, alzati gli occhi a caso, videro il
vicino bosco pieno di contadini armati di archibugi e di ronche. Era
corsa l’intera popolazione di Senago, e molti giungevano altresì dai
circostanti villaggi, cui erasi dato l’avviso per affrontare i ministri
dei demonj, schiamazzando essere venuto il momento di vendicarsi di
quei mostri infernali. Già avevano circondati i due chierici, ed i più
lontani altro non aspettavano per scaricare gli archibugi che un cenno
di coloro, i quali, essendosi di più avvicinati, volevano guardare in
faccia que’ neri uomini, e interrogarli d’onde venissero, e con quali
intenzioni. I chierici, alzatisi senza profferir parola, meravigliavano
di quella turba d’armati; per loro ventura sopraggiunse un contadino
di Senago al servizio del Cardinale come custode della casa, il
quale, essendo stato esonerato d’ogni altra incumbenza per servire
i due giovani, appena avuto sentore del tumulto, corse anelante con
uno spiede da caccia, e visto di che trattavasi, arse di rabbia e di
vergogna, e insieme ridendo dell’equivoco, disse loro di seguitarlo.

Per tal modo sfuggirono ad una morte sicura gli innocenti giovani, che
non già di veleni e di unzioni, ma dei proprj doveri e di letteratura
si occupavano.


V.

D’un grande e insigne personaggio sul quale cadde il medesimo assurdo
sospetto.

Ricorderò un altro fatto che nel tragico e lugubre aspetto di Milano
pur mosse al riso. E fu caso tanto più ridicolo, in quanto non
trattavasi di chierici oscuri, ma d’uomo conosciutissimo e stimato.
Il rispetto dovuto al medesimo e la dignità storica esigono ch’io
ne taccia il nome; però egli era tale che riuniva quanti pregi danno
diritto all’altrui stima ed alla gloria: uno di quegli uomini che nel
corso dei secoli di rado fioriscono nelle città.

Dotto nelle lettere sacre e profane, filosofo, teologo, oratore, poeta,
commoveva e calmava a voglia sua gli animi quando parlava al popolo;
e, dote rara in un sacro oratore, era sì esperto nel maneggio degli
affari, che pochi politici l’avrebbero superato. Conosceva i segreti e
le intenzioni dei principi, e quanto ciascuno di essi poteva meditare
ed eseguire; famigliare e ministro d’un potentato, che gli ignoranti
dell’età nostra tennero per astutissimo, corse gravi pericoli alla
corte del medesimo, ma da ultimo ne uscì salvo. Di nobile schiatta,
d’aspetto dignitoso, riuniva la pietà e la religione a modi affabili
e lepidi, doti che ben di rado trovansi congiunte. Tenevasi come un
oracolo in Milano, ed ogni giorno molti andavano da lui per consigli.
Poco prima che scoppiasse il contagio, volle peregrinare a Roma per
la brama, dicevasi, di rivedere quella metropoli e baciare devoto le
glebe innaffiate dal sangue dei Martiri, ed i luoghi nobilitati dalle
vestigia de’ Santi. Siccome però alla pietà egli univa, come dicemmo,
le cure civili, taluni affermavano avere intrapreso il viaggio per
qualche affare.

I curiosi sfaccendati, sempre proclivi al misterioso, susurravano
essersi recato a Roma per trattare di una guerra importante che
andavasi macchinando in segreto, per far conquista di regni e
provincie. Altri interpretavano più semplicemente la cosa, affermando
che il Papa, mosso dalla celebrità ovunque divulgata dell’ingegno ed
erudizione di lui, avevalo, per conferire seco, chiamato a Roma. Ivi
giunto dalla Toscana, venne ricevuto con grandi onori nella Corte
pontificia, e tutti gli altri uffiziali, giusta il consueto delle
corti, lo festeggiarono, vedendolo così accetto al Pontefice.

La nostra patria, quantunque di certo non bisognosa delle lodi
d’estranei, pure rallegravasi che un suo cittadino venisse in tal guisa
onorato. E noi udivamo con piacere narrare che il Papa gli aveva fatti
alcuni regalucci, e l’invitava a pranzo in Vaticano, o a villeggiare
con lui sugli ameni colli cari alle muse; che uno ed anche più
cardinali erano stati lo stesso giorno a fargli visita per salutarlo e
parlar seco. Cotanto in Roma, ammiratrice solamente delle cose proprie,
era piaciuto quest’uomo per l’ingegno, i modi e que’ pregi che rendono
benevisi gli inferiori ai personaggi oppressi dalla loro medesima
grandezza. Divulgavansi per Milano notizie anche più liete, non essere
improbabile ch’egli divenisse cardinale in quella città dove gli uomini
ponno repentinamente salire in alto. E vieppiù ci rallegravamo in udire
che il nostro concittadino con elevatezza di sentimenti aveva sprezzato
d’usare le solite arti con cui ivi spianasi la via agli eminenti gradi.

Così un solo uomo peregrinante lontano dava argomento a discorsi
in mezzo a tante miserie e tante stragi, per cui l’afflitta Milano
paventava l’estrema ruina. I nostri, quantunque afflitti, pure si
divertivano con quelle dicerie, e non essendo proibita ancora la venuta
a’ forastieri, questi vi recavano notizie d’esteri paesi, e in pari
tempo diffondevano in altre contrade i discorsi giornalieri e le favole
credute nella città nostra.

Quand’ecco all’improvviso spargersi una stolida e atroce diceria
infamante quest’uomo: da sicuri indizj risultare che egli era il capo
degli untori. Trovossi il nome d’un nuovo delitto, ma che in quel
tempo ammettevasi come le altre colpe comuni, e per tale veniva punito.
Scorsi sette od otto giorni, si sparse nuovamente nel pubblico la voce,
che egli, rinchiuso in profondo carcere, veniva custodito dai soldati:
che il Papa aveva ordinato si recassero a lui ogni sera le chiavi della
prigione, di nessuno fidandosi, ch’eransi suggellate le porte, cambiati
e raddoppiati i guardiani. Aggiungevasi come si sperasse ottenere dal
reo indizj di cose portentose, e tutte codeste notizie si affermavano
con tale uniformità, che gli stessi congiunti ed amici più autorevoli
dell’assente non ardivano aprir bocca e rispondere agli accusatori.

Attivissimi a spargere siffatta calunnia erano i nobili e le persone
addette alle più cospicue famiglie. Arrossivano d’essere lontani
parenti di lui, negando aver avuti comuni gli antenati, e ricusavano,
spergiurando, quei legami di cui per l’addietro andavan superbi,
falsando perfino le genealogie, tanto premeva loro di vantare una
benchè lontanissima parentela con uomo sì pieno di meriti e sì
rinomato. Nè tralasciarono nei discorsi e nei crocchi di spargere
calunnie, come s’usa a danno degli infelici colpiti da qualche sventura
o da un disonore di famiglia. Vennero a duello, e fu detto che taluni
sostennero fino cogli schiaffi la verità dei loro racconti.

Infrattanto acquistava più fede la notizia che il reo, in catene e
con una scorta di cavalleria, per togliere ogni adito di fuga, veniva
tradotto, dietro un ordine del Papa, a Milano, non già per sottoporlo
ad una procedura, essendo manifesto il delitto; ma perchè salisse
al patibolo, ove le straziate sue membra servirebbono di spettacolo
alla città, ch’egli voleva coi veneficj distruggere. Sparse la plebe
simili dicerie, e le credettero anche i nobili minori[88], e con tale
convincimento, che s’indicavano le fermate del viaggio, ed il giorno
dell’arrivo. Si precisava l’ora della notte in cui il prigioniero,
levato dal carcere e messo in carrozza, era uscito da Roma; quando per
la via Emilia valicò i gioghi dell’Appennino, giunse a Bologna, sostò
a Modena, fu aspettato a Parma; ed altre particolarità del viaggio,
come se venisse tradotto fra l’armi quel re dei Vandali che poco prima
aveva tumultuato[89]. Fissavano il giorno in cui giungerebbe a Milano,
e il genere di supplizio cui era dannato, spacciando il tutto con tale
asseveranza, che se fosse stato vero, non avrebbe ottenuta più ferma
credenza.

Allora i parenti di lui non si lasciarono più vedere in pubblico, ed i
suoi nemici, che poc’anzi imbaldanzivano per l’accadutagli disgrazia,
compiangevano con finta pietà il caso d’un sì onorando cittadino,
rattristandosi, come se fosse loro propria, dell’onta che i delitti
ed il supplizio d’un solo uomo recherebbero alla patria e ad una
stimabilissima famiglia. Ma non esisteva ombra di colpa o di vergogna,
perocchè mentre quel cittadino assente era fatto ludibrio tra noi,
godeva il favore del Papa e di tutta la romana Corte, che sel teneva
carissimo. Reduce in seguito a Milano, vi fu più stimato e ben voluto
di prima, per avere, come dicevasi, ricusati tutti gli onori e le
ricchezze offerte. Tali ridicole scene accadevano quasi ogni giorno
in mezzo alla strage, all’incendio, e, per dir giusto, alle esequie di
Milano. Ed io credetti farne cenno come nelle tragedie, fra le lagrime
introduconsi talvolta cori e danze.

Ora mi si fa innanzi un argomento incerto e difficile a svolgere; se
oltre questi innocui untori, uomini dabbene, che nulla macchinarono di
male, e corsero nonostante pericolo di vita, vi siano stati altresì
veri untori, mostri di natura, infamia del genere umano e nemici
alla vita comune, siccome con troppo ingiurioso sospetto si andava
affermando. E non solo è argomento arduo perchè dubbioso in sè stesso;
ma altresì perchè non mi è conceduta la libertà sì necessaria allo
storico di emettere e sviluppare la propria opinione sopra ciascun
fatto. Ov’io volessi dire che non vi furono untori, e che indarno si
attribuiscono alle frodi ed alle arti degli uomini i decreti della
Provvidenza ed i celesti gastighi, molti griderebbero tosto empia la
mia storia, e me irreligioso e sprezzatore delle leggi.

L’opposta opinione è ora invalsa negli animi: la plebe credula, com’è
suo stile, ed i superbi nobili essi pure, seguendo la corrente, sono
tenaci in dar fede a questo vago rumore, come se avessero a difendere
la religione e la patria. Ingrata ed inutile fatica sarebbe per me
il combattere siffatta credenza, laonde esporrò soltanto le altrui
opinioni e i detti senza affermare o negare, e senza propendere nè per
gli oppugnatori, nè pei sostenitori delle unzioni[90].


VI.

Si espongono le opinioni di filosofi e medici chiarissimi circa gli
unguenti pestiferi; e vari casi.

Esposi nel precedente libro qual fosse il carattere ed il sapere di
Lodovico Settala, e di che fama godesse, narrando il pericolo da lui
corso con stolidi plebei, i quali per nulla volendo credere alla peste,
schiamazzavano essere egli medesimo che ne spargeva il nome tra il
volgo. Alessandro Tadino, alunno ed amicissimo di codesto filosofo, cui
era eguale, o almeno somigliante per indole, cuore, nobiltà di stirpe,
studj, in una parola, per tutto, l’età eccettuata, ebbe anch’egli a
soffrire le ingiurie della plebe, e trovò scampo ricoverandosi in una
casa; il corso pericolo accrebbe la riputazione d’entrambi.

Il Tadino, nel fiore della virilità, quasi di già principe de’ medici
egli stesso, compagno assiduo negli studj ed emulatore del venerando
ed illustre Settala, cui stava di continuo a fianco, lo pareggiò, per
così dire, dappoichè fu morto[91]. Entrambi, per quanto concedevano gli
affari e la vita operosa, specialmente in quel tempo di peste, molto
filosofavano insieme circa l’origine del morbo e l’avvelenamento di cui
i Milanesi credevano essere vittima.

Morto il Settala, il superstite Tadino continuò ad esaminare tali
fatti, giovandosi e delle proprie osservazioni e dei colloqui già
tenuti coll’amico; ed espose la sua opinione diffusamente e con
sottigliezza. Avendo io avuto sott’occhio alcuno de’ suoi scritti,
ed udendo egli che già stava per uscire in luce questo mio libro, mi
comunicò gentilmente le proprie opinioni e dispute, prestandomi i suoi
commentarj[92]. Dai medesimi riferirò fedelmente le principali sentenze
di codesto medico e filosofo chiarissimo circa la peste manufatta, e
codesta diabolica fattura degli unti. Ma non pertanto rimarrà ancora
per noi indecisa la cosa; in quantochè le unzioni, siccome d’origine
diabolica e tenebrosa, ingeneravano mille dubbiezze negli animi.

Il Tadino, giusta lo stile dei filosofi, incominciava la sua disputa
con argomenti cavati dagli astri, essendo egli non meno abile nello
studiare le regioni celesti, di quel che fosse nella medicina, che
vien detta una delle tre scienze nate, e in uno adulte. Scriveva egli
avere preceduto agli unguenti una cometa, apparizione che si ritenne
sempre presagio di grandi novità e sciagure. Tale cometa, d’aspetto più
spaventevole ancora dell’usato, comparve nel cielo il mese di giugno,
tempo in cui è opinione aver maggiormente lavorato l’officina degli
unguenti[93]. Brillava a settentrione, e molti la videro; ed uomini
esperti e presaghi delle future cose, dietro giornaliere osservazioni
del cielo, vaticinarono da essa cometa quanto avvenne dappoi. Un’altra
cometa apparì nel 1628 nel cardine destro per la congiunzione di
Saturno, portento che fra tutti i celesti è ritenuto il più minaccioso
e sanguinario.

Queste ed altre conseguenze deduce Tadino per mezzo di quella scienza
sublime che ascende tra le celesti sfere, vi soggiorna, ne scruta gli
arcani, e ardisce perfino trarre gli astri sempiterni, a partecipar
colla vita e i casi dei mortali, ed imparenta il firmamento col genere
umano. E forse egli ne è capace[94]; ma io, privo di siffatto coraggio
o potenza, e chino a terra, sto pago di narrare alcune cose comuni e
terrestri al par di me, citate anche dallo stesso a proposito degli
unguenti. A confermare la credenza nei quali, furono non tanto un
argomento quanto una specie d’oracolo le lettere che il re nostro
scrisse al governatore Spinola del seguente tenore.

Eransi scoperte in Madrid quattro persone[95], le quali avevano
recato seco unguenti per spargere la peste nella reggia. Fuggirono, ma
ignorandosi per dove fossero rivolte, avvertiva il governatore stesse
sull’avviso affinchè Milano e il ducato, cui egli presiedeva, non
rimanessero vittime di quella scelleraggine.

Queste lettere, essendo firmate di propria mano del re, furono di gran
peso sugli animi de’ cittadini, già proclivi a credere ogni più nefando
delitto. Spedite dal governatore al Tribunale di Sanità, comunicate ai
grandi, divulgate per Milano, suscitarono in tutti sì fieri sdegni,
indignazione, sospetti, che ormai fu creduto lecito il dubitare di
chicchessia.

Codesto avviso del monarca si tenne dunque per prova certissima degli
unti ben più della cometa, cui attribuiva tanta influenza il citato
filosofo. Subito dopo ricevute le lettere regie, occorse il caso d’un
forastiere, che sulle prime accrebbe la fede del temuto e misterioso
delitto delle unzioni, spargendo nuovi terrori; ma dappoi ridotto a
nulla, come parecchi altri fatti, mescolò vieppiù, per una specie di
fatalità, il vero coll’ambiguo in codesta faccenda, aggiungendo tenebre
a tenebre, perocchè succedettero altre cose, le quali confermarono
quant’era dubbioso.

Nell’albergo dei Tre Re, in cui sono usi prendere alloggio i forestieri
oltremarini e oltremontani, e stanziano per solito i viaggiatori
francesi e tedeschi, capitò un giorno un Girolamo Bonincontro, giovane
sui ventiquattro anni, di bell’aspetto, e che dall’abito elegante,
dalla bionda e lunga capigliatura e dalla florida carnagione appariva
francese. L’albergatore notificò il suo arrivo al magistrato,
descrivendo il bagaglio, e riferì i discorsi tenuti dal giovane a
mensa, ed ogni sua parola che i servi dell’albergo avevangli riferito a
puntino.

Spacciavasi egli, fra le altre cose, esperto in medicina, portatore di
farmachi ignoti, ed in ispecie di certe cassettine con entro un balsamo
mirabile contro la peste, tutti i quali rimedj era disposto a far
conoscere al Tribunale di Sanità, qualora lo mandassero a curare gli
appestati nel Lazzaretto. Si vantava che la città di Palermo, desolata,
nell’anno 1624, dalla pestilenza, erasi salvata dall’estremo eccidio
soltanto pe’ suoi rimedj; e in prova esibiva diplomi e privilegi,
dal vicerè di Sicilia a lui dati in premio del segnalato servigio, e
conchiudeva, instando, di presentarsi alla Sanità perchè gli schiudesse
il Lazzaretto[96].

Il presidente Arconato, ciò saputo, memore delle lettere reali, e
riflettendo essere costui un francese, e parlar di medicamenti cotanto
a que’ giorni sospetti e invisi, tanto più che cercava entrar nel
Lazzaretto, come luogo opportuno a’ maleficj delle unzioni, ordinò che
il forastiere venisse imprigionato, sequestrando i vasi, i fardelli e
quanto seco aveva.

Fattone l’esame, si rinvennero oggetti che sembravano proprj di un
famigerato untore, molte ampolle e barattoli ripieni di polveri, di
liquori, d’unguenti, ciascuno col suo cartellino, chiusi e suggellati
con molta diligenza. Egli affermava che erano tutti specifici innocui
preparati per varie malattie.

Il medesimo Tadino, intervenuto per sicurezza come conservatore della
Sanità, all’apertura della valigia ed all’esame che fu fatto nel
Lazzaretto, li giudicò per tali. Il forastiero, esaminato, rispondeva
in modo soddisfacente ai giudici; se non che confessò d’essere apostata
d’un ordine religioso e che aveva abbandonata Ginevra, lupanare
d’eresia, desideroso di viaggiare alquanto e recarsi a piedi in Roma
ad implorare dal Papa perdono de’ suoi traviamenti. Il giovane venne
rilasciato[97], ed apparve sì chiara l’innocenza di lui, che cessarono
i sospetti anche sugli altri forastieri.

Però i vaghi sospetti e la credenza delle unzioni crebbero nel pubblico
per questo caso e per altri molti che il Tadino, chiamato a darne
giudizio, non solo per la sua esperienza medica, ma per l’esimia
prudenza, registrò siccome argomenti irrefragabili, e nei quali non
poteva alcuno muover dubbio. Constava che alcuni rei del misfatto,
sottoposti alla tortura, furono strozzati dal demonio, che le medesime
case, untate una notte, lo furono in seguito ripetutamente, ed il
nuovo unto sovrimposto alle prime macchie in guisa che apparivano segni
d’arte diabolica.

Dodici vagabondi, arrestati e posti in ferri, confessarono e
sostennero, anche fra i tormenti, esservi un tale che ogni giorno
li menava all’osteria, e dopo che avevano ben mangiato e bevuto, li
spediva ciascuno alla sua volta, ovvero in cerca della materia per
fabbricare gli unguenti, rospi, scorpioni ed altri schifosi animali, e
marcia di bubboni[98].

E perchè non si dubitasse di simili iniquità, di cui era capo
il demonio, gli Inquisitori del Sant’Uffizio, nel lutto e nella
disperazione della città, notificarono al presidente Arconato qualmente
fosse stabilito al demonio un termine, oltre il quale l’inferno non
avrebbe più alcun potere sulla vita del popolo milanese. Le quali
parole dell’Inquisitor generale può dirsi aver troncata la questione
degli unguenti coll’autorità apostolica che non può ingannarsi, nè
venire ingannata.

Queste prove intorno le unzioni adduce il Tadino, medico, filosofo,
conservatore della Sanità, ed altre più efficaci a conferma. Non è cosa
nuova, e accaduta soltanto nella città nostra, il creare, per arte
umana, la peste, che altre volte ritenevasi morbo naturale, prodotto
dalla corruzione dell’aria o da interno guasto dei corpi, diffuso
e contratto per mezzo dell’alito e del contatto. Anche a Palermo,
in Sicilia, quattr’anni circa prima della nostra peste, apparve il
furore dei demonj frammisto alla stoltezza e frode de’ mortali; certi
scellerati cospirarono in orribile accordo coll’eterno e implacabile
nemico del genere umano, per avvelenare i precordi degli altri uomini,
e toglier loro il bene dell’alito e della luce, per la quale noi, per
favore divino, respiriamo e viviamo.

In quell’antica, nobile ed opulenta metropoli perirono, nello spazio
di sei mesi, cento trentacinque mila persone, vittime della furibonda
scelleraggine d’uomini iniqui al pari dei demonj. E vi furono Monatti
che, salariati allo scoppiare di quel contagio con sei zecchini il
giorno[99], temendo, allorquando la furia del male andò scemando,
di perdere il vistoso guadagno, si rivolsero per ajuto agli spiriti
infernali, forse col mezzo delle streghe, e ottenuto che l’ebbero,
manipolarono, con infame miscuglio, veleni, ne’ quali racchiudevasi una
forza per sè mortifera e insieme il nodo del veneficio.

Anche fra noi accaddero eguali e non ambigui portenti nell’antecedente
peste, che afflisse Milano nel 1576; maggiore d’ogni altra ove
quest’ultima non ne avesse scemata la fama. Uno degli untori, scoperto
e convinto del delitto, mentre veniva appeso alle forche, confessò,
palesando altresì l’antidoto del venefico unguento; il qual antidoto,
sperimentata che se ne ebbe l’efficacia, divenne celebre sotto il nome
d’_Unguento dell’Impiccato_[100]. A questi esempj conosciuti e recenti,
s’aggiunse l’autorità d’antiche memorie; che più volte furono punite
donne venefiche per manufatta peste. E trovasi ricordo di untori, i
quali, per mezzo di sapone, d’aghi e d’altri oggetti d’uso giornaliero,
sparsero il contagio in grandi città, sulle flotte, in intere provincie
e regni; nè le pene cui vennero condannati valsero ad impedire in altri
malvagi lo stesso delitto.

Finchè uomini esisteranno sulla terra, accaderà mai sempre di
scoprire di tempo in tempo nuovi delitti e punirli; ma dopo la pena
riproduconsi, e compressi risorgono nuovamente, tale essendo il giro
delle colpe come d’ogni altra umana vicenda. Da ciò si arguisce che se
in altri tempi e luoghi, ed anche in Milano, audaci mortali provocarono
la natura e l’inferno colle arti loro, formando, per così dire, una
terza potenza distruggitrice, altrettanto poteva accadere a’ giorni
nostri.

Tali cose discute con lungo esame il Tadino, notando persone, luoghi,
epoche, testimonj. Afferma aver veduto co’ proprj occhi nella contrada
di San Raffaele un furfante a cavallo, che di soppiatto e destramente,
allungando la mano, gettava una polvere venefica addosso ai
passaggeri[101]. Essendosi messo a gridare per avvertire gli astanti,
colui, dato di sprone al cavallo, fuggì.

Ho conosciuta, egli prosegue, un’onesta famiglia, ch’io frequentava
come medico ed amico, la quale perì tutta quanta per la polvere
venefica e contagiosa. Due giovani nubili[102], recatesi alla chiesa
de’ Padri Serviti, attinsero col dito l’acqua benedetta nella pila,
e si toccarono la fronte, il petto, le spalle, facendosi il segno di
croce. Esse videro dei pulviscoli ed un sedimento sabbioso, che rimase
loro attaccato sulle dita e sulle vesti. Tosto s’annebbiarono gli
occhi, e furono prese da vertigini e dolore acuto di testa: portate a
casa, dopo quarant’ore morirono fra gli spasimi, senz’indizio veruno
di peste. La madre e tutti i servi morirono anch’essi di quel male
inesplicabile.

Il senatore Caccia divenne rinomato in Milano non tanto pel suo grado,
ma per l’ultimo suo caso, il quale per la novità del delitto rese a
tutti notissimo il nome di lui. Un certo Ferletta[103], suo servo,
ovvero uno di que’ clienti che frequentano le case de’ senatori ed
ambiscono accompagnarli allorchè escono di casa, si presentò una
mattina tutto ossequioso e sorridente, e porse al Caccia un fiore,
lodandone per avventura la specie o la fragranza. Il buon Senatore
per gentilezza l’appressò alle nari, e tocco all’istante nelle parti
vitali, morì in brev’ora[104].

A Volpedo, nel Tortonese, si scoprirono sette malfattori: confessarono
d’aver fabbricati gli unti, e mentre subivano il supplizio della
ruota, si vide, sopra la macina d’un mulino vicino, una macchia di
quel pestifero veleno[105]. Se ne fece l’esperimento, stropicciando
quell’unto con mollica di pane, che fu data in briciole ad alcune
galline; in una mezz’ora caddero morte, e sparate, si trovarono le
interiora nerissime. Un moscone, che forse erasi posato sopra quella
macchia, volò sull’orecchio d’un cocchiere, il quale in quattro
giorni morì senza dolore o sintomi d’altro male, accusando soltanto
ch’era stato morsicato da quell’insetto. I riferiti casi di persone
e animali sono indizj che la peste non era solo naturale, ma vi
concorreva altresì l’arte degli uomini, i quali manipolavano le più
velenose sostanze della natura, fatali alla vita. Se non che le unzioni
erano fattura più diabolica che umana, come apparisce dal fatto che
racconterò[106].

Antonio Croce e Giovan Battista Saracco, abitanti in Porta Ticinese,
nella contrada di Cittadella, si presentarono al Tribunale di Sanità, e
deposero con giuramento quanto segue:

«Che ivi loro vicino si ritrovava un legnamaro infermo suo amico,
al quale di notte v’andorno alcune persone in camera senza sentire
aprire l’uscio; e li fu commandato dovesse di subito levare e andare
al bastione, che colà avrebbe ritrovato una persona di molta autorità,
la quale gli avrebbe dato da ungere le case in quel suo contorno, e
dipoi gli promettesse andar seco che lo avrebbero risanato. Fratanto
pigliasse a buon conto 25 scudi, li quali per quello fu rifferito,
furno riposti sopra una tavola, e benchè l’infermo ricusasse più
volte il fare questa funzione, prima perchè non poteva per la sua
infermità, e non voleva pericolare la sua vita; e poi perchè non vedeva
persona alcuna, se non sentirse movere il letto e levarli la coperta
e li lenzuoli; il meschino, non sapendo più che dire, atterrito di
tanto accidente, si risolse dimandare che persone erano, e da chi
mandate. Uno di loro rispose nominarse Ottavio Sasso, il quale mai s’è
ritrovato, per certo essere stato il demonio. Finalmente non volendo
promettere di fare questa loro volontà, ritornarono pregare con
lasciarli altri denari, sentendo l’infermo il moto sopra la tavola.
E dopo molto contrasto gli fu detto, che si vestisse: sarebbero poco
dopo tornati per andar seco, e dopo partiti, si ritrovò una voce di uno
lupo che mugghiava sotto la lettiera, e tre gattoni sopra il letto, che
sino al far del giorno vi dimorarono. Dopo tutti sparvero, restando il
meschino mezzo morto, e riavuto alquanto domandò ajuto, e v’andarono
i sopra menzionati suoi amici vicini, a’ quali raccontò subito tutto
il successo seguito quella notte; il quale fu riferito subito al
Presidente allora della Sanità».

Per questo fatto e per altri, il Tribunale di Sanità ed il Tadino,
conservatore di essa, avevano piena fede nelle unzioni.


VII.

Repentino e pestifero tumulto.

Ormai il sospetto e il terrore de’ mortiferi unguenti, se non era
dileguato dall’animo in tutti i cittadini, in molti almeno andava di
giorno in giorno scemando; quand’ecco il 25 luglio repentinamente e
contro la comune aspettazione, correre il popolo d’ogni parte all’arme,
innondare le strade e scoppiare incendj in diversi luoghi. Dubitarono
i magnati, ed il volgo tenne per sicuro, che il subbuglio fosse
suscitato per spargere dappertutto gli unti. Verso l’ora undecima di
quel giorno[107], pochi Decurioni trovavansi in Palazzo, consultando
intorno i provvedimenti, che ogni dì diventavano più necessarj. Giunse
fino al loro orecchio il romore, per cui, balzando in piedi costernati,
s’affacciarono ai balconi: alcuni più animosi scesero le scale. Non
udivasi che un solo grido: «All’armi! i nemici sono in città!» I pianti
delle donne ed un confuso schiamazzío rintronava l’udito, mettendo in
agitazione gli animi, perchè nessuno ne conosceva la causa. Alfine
serpeggiò, fra la tumultuante moltitudine, la voce che i Francesi
si trovavano presso le mura, e quivi appiattati, avevano introdotti
emissarj per dar fuoco a Milano.

Alcune persone mandate dal Palazzo a scoprire che fosse, riferirono
aver viste le fiamme. Bruciavano infatti alcune beccherie a Porta Tosa:
al Carrobbio ed al Cordusio ardevano cataste di legna, ammucchiate da
taluni della plebe, i quali suscitarono il tumulto per aver occasione
di rubare e depredare. Ivi accorreva d’ogni parte la folla, non già
per ispegnere il fuoco e portar soccorso con acqua ai vicini, come
s’usa, ma per godere lo spettacolo, spinta dalla solita curiosità.
In un momento tutti i cittadini rimasti fino a quel giorno illesi dal
contagio, si stivarono intorno ai roghi, e quasi ne avessero l’ordine,
con impeto accorrevano, non per agire, ma per essere spettatori di que’
straordinarj incendj.

I magnati, ignari ancora del vero, e ritenendo i fuochi accesi dai
Francesi già penetrati in Milano, diedero armi a quanti avevano
d’intorno, e, armatisi essi pure, corsero alle porte, mettendosi ivi
a difesa colle caterve di popolo che li aveva seguiti. Colà rimasero
non solo quella notte, ma i dì e le notti seguenti, come se i nemici
potessero entrare a porte chiuse, o già dentro le mura dovessero
sbuccare all’improvviso fuori dalla terra. Il tumulto però non era che
una congiura di pochi ladri.

Del resto, il popolo, correndo qua e là, raccogliendosi a gruppi, ora
cianciando, ora rimanendo estatico a guardare, diede nuovo fomite
al contagio. Il quale, siccome trasse a morte parecchj senza che i
consueti segnali di peste apparissero, fu creduto per sicuro che i
Francesi e i loro partigiani avessero unto in quel trambusto. Opinione
anche questa che in seguito si riconobbe insussistente[108].

La peste, rinnovata in esso tumulto repentino, dopo ch’ebbe per qualche
tempo fatta strage del popolo, s’attaccò agli animali: i buoi e l’altro
bestiame che serve ai bisogni dell’agricoltura, stramazzavano di colpo
durante il lavoro, ovvero nelle stalle e ne’ pecorili morivano come
colpiti da un dardo. Tre anni durò la mortalità nelle campagne[109],
ed al danno presente univasi il timore per l’avvenire, che non avesse
termine l’ira divina ora contro la vita degli uomini, ora contro gli
animali e le messi che servono agli alimenti.

Fu riferito in que’ giorni al Tribunale da certi Padri religiosi
gravissimi, i quali non avevano motivo di mentire e non v’erano
usi, qualmente nei loro campi e nelle ville, dove si ritiravano per
ricrear gli animi stanchi degli studj, si fossero trovate palle e
gomitoli, tutti ravvolti, agglomerati, intrecciati di filo unto e
sgocciolante veleno. I contadini e alcuni religiosi malcauti, che
li raccolsero e maneggiarono, caddero estinti al momento. Così pure
morirono repentinamente altri, che raccogliendo le spiche ne’ corbelli,
s’imbrattarono le dita dell’unto, di cui erano contaminate.


VIII.

Varj casi di peste nel Lazzaretto. — Il padre Felice presidente del
medesimo.

Mentre questi casi ed altri, sì tragici che burleschi, accadevano
ogni giorno in città e nelle campagne, la peste infuriava ostinata e
senza tregua nel Lazzaretto. Regolatore ed arbitro d’ogni cosa in esso
recinto, fu tal uomo degno d’essere ricordato negli annali milanesi,
anche se io narrassi non già il contagio e le stragi, ma i fasti e le
glorie della patria nostra.

Il padre Felice Casati di Milano, del sacro Ordine dei Cappuccini,
attissimo a quell’ufficio, parve fosse stato disposto dalla Provvidenza
celeste per soccorrere la patria in quell’estrema ruina. Di corpo
indomito alle fatiche, nel fiore della virilità, d’animo grande,
placido, mansueto, all’opportunità rigoroso; sprezzatore della vita e
delle terrestri cose, cui aveva rinunziato fin da quando, abbandonate
le delizie del secolo, vestì l’abito de’ cappuccini ed entrò in
quell’austera religione.

Era perito negli studj che sollevano al cielo l’umana mente e del
pari nelle scienze indagatrici dei segreti della natura. V’univa
l’eloquenza, sublime dote che a nulla giovava tra le miserie e le
morti, ma utilissima in quanto, lasciata in disparte la vanità e
la pompa oratoria, rimaneva quel solido e grave ragionare con cui
l’oratore cristiano eccita gli animi ai proprj doveri, e li sa all’uopo
raffrenare.

I Decurioni, chiamato il padre Felice, lo pregarono che per la santità
sua e dell’ordine, assumesse l’arduo governo del Lazzaretto. Ei,
parlato che ebbe modestamente di sè e con ornate parole dell’importanza
e gravezza di tale ufficio, prese tempo a deliberare, risoluto ad
aprirsi col cardinale arcivescovo. Ove il sommo e religioso Federico
annuisse, egli, interpretandone il cenno come volere di Dio, entrerebbe
tosto nel Lazzaretto; in caso diverso il padre Felice non si credeva
destinato a quell’incarico dal cielo. Ma accadde un non so che di
faceto e di elegante[110] in quel lutto generale, nella visita che il
cappuccino fece all’arcivescovo.

Questi, udito il padre Felice, rimase alquanto sospeso, e disse alcune
cose che parevano esprimere la titubanza dell’animo suo, per cui il
cappuccino, piegato il ginocchio a terra, già già si accommiatava.
Quand’ecco Federico, con ilare volto «È dunque vero, disse, o padre,
che senza difficoltà entrerete tosto nel Lazzaretto!» e gettando le
braccia al collo al padre Felice, lo baciò e ribaciò[111], dimostrando,
colla familiarità e tenerezza sua, quanto fosse lieto d’aver trovato
un uomo che, spregiando ambizione e vita ad un tempo, era pronto
a lasciare la sua carica di guardiano, e gire incontro a tremendi
pericoli. Ripieno d’ammirazione per tanto sacrificio, nulla ommise
per accrescergli poteri ed onori, e confermando il pubblico decreto
coll’autorità propria, lo elesse capo supremo del Lazzaretto.

Ricevuto il mandato, entrò fra gli appestati in quel recinto il
padre Felice, quale vittima volontaria del contagio, di cui morir non
doveva[112]. E ciò accrebbe la venerazione per esso, imperocchè l’uomo
che salvò a tante migliaja d’infelici la vita, ebbe egli pure bisogno
de’ soccorsi che prestava altrui; e dopo averne seppelliti mille e
mille, bramando invano la morte, quasi periva per lo strazio che fece
del proprio corpo siccome narrarono. Era spettacolo bello, e in uno
miserando, che mostrava la miseria e le angustie di que’ giorni, vedere
il padre, esercitare il comando nel Lazzaretto, con indosso il cilicio,
quasi paludamento di guerra. Vigilantissimo, quasi sempre digiuno, mal
reggendosi per istanchezza, spargendo lagrime e sudori, egli s’aggirava
pei portici, le capanne, le vie del Lazzaretto, di giorno imponendo
coll’autorità del nome e del cappuccio, la notte armato di una lunga
asta. Qua raffrenava in segreto misfatti, là distribuiva pubblicamente
premj e gastighi, dove recava vesti e farmachi, dove porgendo orecchio
alle confessioni dei moribondi gli confortava a lasciare il mondo colle
speranze d’una vita migliore. Erano queste le giornaliere fatiche
del padre, senza riposo mai; sovente cure ed affanni più gravi lo
angosciavano.

Aveva egli sotto di sè ne’ portici e le capanne cinquantamila appestati
all’incirca, cui la città forniva gli alimenti, ma soverchiando la
moltitudine de’ malati, non bastarono le cure, i denari o l’ordine
stabilito per la distribuzione, talchè molti pativano fame e sete in
mezzo all’abbondanza di cibi e di vino.

Laonde più volte fu grande l’angustia, non sapendosi in qual modo
rimediare, finchè si riconobbe per esperienza che Iddio vi provvedeva.
Ed i regolatori del Lazzaretto vi si avvezzarono, in guisa che mancando
gli alimenti necessarj a tante migliaja di persone, nell’ultime
strettezze aspettavano fiduciosi i soccorsi della provvidenza.

Narrava il padre Felice, e narra anche oggidì, che più volte, quando
mancato del tutto il denaro ed esaurite le provviste di pane e vino,
temevasi nel Lazzaretto la fame, estremo de’ mali, sopraggiungevano
all’improvviso i viveri in abbondanza, senza che si conoscessero i
nomi dei benefattori. E venne largito oro ed argento in tal copia,
che il detto Padre ebbe stupito ad ammirare i sacchi ammucchiati a sè
dinanzi. Le persone ricche ed i più opulenti cittadini, o per divina
ispirazione, o perchè, deposto ormai ogni pensiero delle terresti
cose, nè stimando più utile il denaro a qualsiasi uso, s’infervoravano
a placare lo sdegno di Dio, mandavano il vile metallo affinchè si
recitassero preghiere. Ma non era ancora giunto il termine della
calamità, imperocchè, non appena provveduto ad un bisogno, un altro ne
sopravveniva più grave ed istantaneo, cui era impossibile riparare.
Casi luttuosissimi e repentini, mentre distribuivansi le vivande a
sollievo degli infermi, turbarono l’alacrità del donare e distolsero
gli animi dei caritatevoli da future elargizioni. I deliquj e le morti
di coloro cui sporgevasi il cibo, la spuma grondante di bocca, i veleni
rinvenuti nelle cinture, le confessioni fatte nella stessa morte,
ed altri manifesti indizj, appalesarono come quei miserabili fossero
untori essi pure, ed insieme rimanessero unti.

Un subitaneo portento celeste e fatale, se mirabilmente non vi si
rimediava, allagò di nottetempo, con ruina impreveduta, le capanne
innalzate nel recinto del Lazzaretto.

La notte del 23 luglio cadde un acquazzone così dirotto, che i vecchi
non si ricordavano averne veduto uno simile, talchè uomini e donne
credettero precipitasse il cielo medesimo. Smosse e rovesciate le
capanne e le tettoje, sotto le quali giaceva la turba infelice, travi,
paglia, letti nuotavano travolti dall’acqua in mezzo al prato.

Padri e madri, ansiosi non della propria, ma della salvezza dei
figli, ne corrono in traccia, e con difficoltà li rinvengono fra
le tenebre in mezzo agli urli, ai vagiti, al generale schiamazzo. I
gridi di disperazione, di dolore, i clamori non rompevano il silenzio
di quell’orrida notte, chè il fracasso del cielo romoreggiante
non lasciava udire verun altro suono. E se fin dal principio non
apparissero in questa storia congiunti i prodigi celesti colle stragi
de’ mortali, chiunque terrebbe per incredibile come un solo uomo abbia
potuto tener fronte a simile violenza; e in quel tremendo diluviare
notturno salvare da morte i naufraganti bambini, e loro restituire la
quasi spenta vitalità.

Al primo scoppiare della procella, il padre Felice, prevedendo che
l’acqua irromperebbe dovunque, che gli infermi correvano grandissimo
pericolo, e che i soccorsi riuscirebbero inutili ove non fossero
istantanei, accorse, seco traendo un drappello d’uomini, ne’ quali
ripor soleva maggior fiducia nelle più difficili circostanze.
Sprezzando l’acqua, e più rapido di essa, si precipitò colla sua scorta
tra gli appestati, che s’annegavano, e i crollanti tugurj[113]. A guisa
che il pescatore trae dalla rete i pesciolini, porgendoli ai compagni,
che tosto li chiudono nel corbello, così il padre Felice districava i
bambini e li trasmetteva ai satelliti, che a tutto potere lo ajutavano
a salvarli, recandoli di mano in mano dal prato nel portico, e da
questo nelle stanze. La procella s’acquetò finalmente dopo alcuni
giorni, in cui piovve sì a rovescio, che fu detto non essere mai caduto
simile acquazzone[114].

Tra il diluviare, che non cessava giorno nè notte, e l’impeto
del turbinoso vento, rovesciante ogni riparo nel Lazzaretto, gli
agonizzanti appestati, quasi infraciditi dall’acqua, esalavano l’anima.
Io non ardirò discutere se la mancanza di soccorsi fosse imputabile
all’incuria dei magistrati municipali, ovvero effetto dell’imprevista
intemperie; perocchè se da un lato l’esempio di quanto fecero i nostri
maggiori nell’antecedente contagio suggeriva d’innalzare tugurj,
tavolati e ripari in più gran numero, dall’altro fu sì grande lo
spavento e la violenza dei morbo, che, stupefacendo gli animi, impedì
le necessarie previdenze.

Perirono in quel trambusto fatale anche coloro che il morbo non aveva
colpiti, perchè i servi ed i becchini in mezzo al disordine gettarono
a fascio malati e sani. Per verità i nostri magistrati presero cura di
far allestire altri locali e lazzaretti sussidiarj; ma ciò eseguivasi
lentamente, talchè sembrava esservi un’occulta forza impediente que’
soccorsi. Frattanto gl’infermi, ammucchiati ne’ tugurj del Lazzaretto
grande, morivano, attaccandosi il contagio ai sani pel contatto e pel
fetore dei cadaveri, ovvero trasportati ne’ lazzaretti incompiuti,
malgrado i soccorsi perivano.


IX.

Come incominciò a rallentare la pestilenza, e come ebbe termine.

Il morbo, contumace a tutti gli umani rimedj, e mandato dal cielo a
punizione delle umane scelleraggini, non poteva infrenarsi e spegnere
fuorchè dalla misericordia divina, la quale non mancò all’infelice
Milano, ormai in tanta desolazione ridotta all’ultimo eccidio.

Fra i tempii che l’avita pietà de’ cittadini e l’età più recente,
imitatrice de’ costumi e degli esempj paterni, sacrò a Maria,
celebratissimo è quello cui diede nobile nome il favore della Vergine
per la città nostra, e che chiamasi _delle Grazie_, per le molte grazie
dalla Madre Santissima a’ Milanesi impartite. Lo adornarono i nostri
duchi con munificenza regale, allorchè governavano questo paese; e i
Padri di S. Domenico, colonne della fede, stanno a custodia del tempio,
e hanno stanza nell’attiguo monastero, dove risiede il Sant’Uffizio ed
il tribunale supremo dell’Inquisizione[115].

Là il 23 settembre, nel queto silenzio della notte, mentre alcuni
de’ Padri riposavano o attendevano agli studj nel ritiro delle
singole celle, ed altri a ciò destinati vegliavano in orazione negli
oscuri angoli del tempio aspettando l’ora della mattutina salmodìa,
d’improvviso le campane suonarono da sè. Coloro che sonnecchiavano si
riscuotono, i desti meravigliano di cosa tanto insolita, e tremanti
s’aggirano pel monastero; ma in un subito conobbero agitarsi le campane
per forza miracolosa, chè niuno le aveva tocche. Meraviglia e terrore
invasero gli animi de’ Religiosi, che, riunitisi, discutevano su quel
portento; allorquando, narrasi, fra i suoni de’ sacri bronzi fu udita
una voce più sonora che se fosse umana, prorompere in questi detti:

                  AVRÒ PIETÀ DEL MIO POPOLO, O MADRE,

e tosto s’interpretò che cessar doveva in breve la peste; averlo
implorato la Vergine dal divin Figlio, che esaudì le sue preghiere.

Ho riferito questo portento, perchè era giusto ed equo l’annoverarlo
tra i fatti autentici, dietro la testimonianza dei Padri Dominicani,
la credenza generale della città, e l’esito che lo confermò. Anche
la desta turba de’ prigionieri che per delitti contro la religione, o
per sospetti trovavansi nelle carceri del Sant’Uffizio in una remota
parte del monastero, udirono il rimbombo delle campane. Interrogati,
risposero essere loro venuti all’orecchio in quella notte suoni e voci
inusitate, e per togliere qualunque dubbio, che la pubblica salvezza
sia venuta da Maria patrona del tempio delle Grazie, aggiungerò come
l’olio della pendente lumiera che arde avanti l’effigie della Vergine
Sacratissima fu salutare antidoto anche in seguito contro la peste.

Quell’olio cercavano a gara ne’ giorni seguenti i grandi e gli
infimi del popolo come mirabile rimedio, e i Padri lo distribuivano a
stille quasi dono celeste[116]. Allorchè poi il scemare giornaliero
dell’intensità del morbo e delle stragi, la fede nel miracolo ed il
numero dei morti che di continuo sminuiva[117] attestarono placato
Iddio; i magnati si animarono a togliere di mezzo ogni negligenza,
che assai di rado è meritevole dei divini favori. Intimarono una
quarantena[118], nuova ed ultima speranza della città ed alla intera
popolazione, che per tale spazio di tempo rimaner doveva chiusa e
nascosta nelle case. Vietarono comunicare coi limitrofi, uscire in
istrada, e quant’altro poteva attaccare e far ripullulare il contagio,
con minaccia di pene capitali che, disprezzate per l’addietro, ormai la
vezzeggiata speranza di salute e gli allettamenti del vivere inducevano
ad iscansare e temere. In sul finire di quell’anno era quasi scomparsa
la peste, ma non rediva agli animi la sicurezza, e Milano, trepidante,
afflitto, quasi annientato, pareva risorgesse da morte. I superstiti,
con faccie pallide e smunte, macilenti, stravolti gli occhi e lo
stupore in viso, sbucavano, per le vie come se uscissero dal sepolcro:
appena osavano tremebondi appressarsi e far colloquj, sfuggendosi l’un
l’altro: non stringevansi le destre, temevano l’alito reciproco, e
con tronco saluto s’allontanavano, non prestando per anche fede alla
ripristinata salute ed alla patria salva. A costoro sì guardinghi
venivano incontro altri, i quali nell’incuria domestica, noncuranti
delle pubbliche sciagure, e divenuti pingui pel lungo ozio, ridevansi
dell’altrui prudenza e del terrore intempestivo, perciò solo che essi
ignari di tema, e senz’usar cautele, erano nondimeno usciti illesi
dalla pestilenza.

Gli uomini semplici, caparbj, che, restii a qualsiasi persuasione,
non volevano credere ascondersi ne’ panni, e in molti altri oggetti
un principio mortifero a chi lo toccava; ed altri, i quali superando
ogni timore per cupidigia di rapinare e per la dolcezza del lucro,
afferravano quanto loro capitava alle mani, e poscia avidissimamente
il custodivano, porsero di nuovo alimento alla peste. Il Tribunale
di Sanità fu in grande travaglio per questi miserabili e per le robe
ch’essi tenevano nascoste o sotterrate.

Gli punivano i giudici, ed ogni giorno emanavansi sentenze con multe
e pene; ma nè i gastighi, nè il timore del contagio valevano a impedir
loro di comperare, rubare e nascondere cose sospette o venderle altrui.
Nessun vantaggio ritraevano da quel mercimonio perchè, o venivano côlti
e puniti dai satelliti[119] di sanità, o, se pure riusciva ad essi
di deluderne la vigilanza, incorrevano in peggior danno per le robe
comperate o vendute. Parecchi morirono per gli abiti, o i lenzuoli
trafugati, e vi furono taluni che per un meschino guadagno, non solo
la propria famiglia, ma villaggi, borghi, interi municipj, ormai liberi
dalla peste, in nuovi guai e in nuove stragi precipitarono.


_APPENDICI_

DEL TRADUTTORE AL LIBRO SECONDO


I.

_DIFESA_ DI GIOVANNI DE PADILLA

                    Il Padilla, incarcerato, confutò gli accusatori
                      suoi, i luoghi, l’epoca, provando all’evidenza
                      essere egli a que’ giorni assente da Milano, e
                      non avere conosciuti nè mai veduti costoro.

                                        RIPAM., _Lib. II_, pag. 78.

Il Processo degli Untori, come dissi (pag. 67), non era conosciuto
che per metà, vale a dire, la sola _Pars offensiva_. L’altra, cioè
la Difesa del Padilla, e che include altresì le giustificazioni
de’ principali accusati, sapevasi esistere, ma a pochi, o forse a
nessuno, era riuscito trovarla. Sia che durante il Processo ne fosse
stampato un solo esemplare per senatore, come taluni pretenderebbero,
sia piuttosto che si perdesse coll’andar del tempo un libro di cui
nessuno occupavasi, fatto sta che divenne rarissimo. Verri di certo
non lo conobbe, perchè se ne sarebbe moltissimo giovato nelle sue
_Osservazioni_, e d’altronde il Processo manoscritto, postillato di
sua mano, esistente tra le carte di lui, contiene la sola prima parte.
Tutti gli altri che scrissero dappoi su gli Untori notarono che il
Padilla venne assolto, e nulla più.

Ora, essendomi riuscito di avere in mano un esemplare dell’intero
Processo, trovai che la Difesa racchiude fatti di somma importanza,
e schiarisce molti dubbj, in guisa da spargere viva luce su questo
compassionevole e misterioso dramma. Risolsi quindi di aggiungere al
Ripamonti codesto nuovo Documento istorico, pubblicandolo non già
per intero, perchè altrettanto voluminoso e prolisso come la Parte
offensiva, ma bensì offrirne un sunto. Non era però sì agevole il
compilarlo, stante che i costituti dal 24 luglio 1631 al 12 agosto
1632, altro non sono che un ammasso di testimonianze in favore del
Padilla senz’alcun ordine. A misura che egli e i suoi difensori
trovavano prove o testimonj contro alcuno de’ capi d’accusa, li
presentavano al Senato, cosichè tutte le giustificazioni trovansi
sparpagliate dal principio al fine del Processo.

Io tenterò darvene un saggio, o lettori, con una succinta ed ordinata
esposizione, nella quale, a maggior schiarimento, inserii in corsivo
varj brani del Processo medesimo, che ha per titolo:

               DEFENSIONES D. JOANNIS GAYTANI DE PADILLA
                     EQUITIS SANCTI JACOBI A SPATA
                        DUCIS EQUITIS PRO S. M.
                         IN DOMINIO MEDIOLANI.

D. Francesco de Padilla, governatore del castello di Milano nel 1630,
era un vecchio, religioso, altiero, esatto ne’ proprj doveri fino
alla pedanteria; un vero tipo dei cavalieri spagnuoli, _inimicissimo
di Francesi, Veneziani e di gente forastiera come il diavolo con la
croce_. Appartenente ad una delle nobilissime famiglie di Spagna, non
gli mancavano al certo protettori, dacchè i Padilla coprivano le più
cospicue cariche: troviamo un Sancio Padilla, governatore del castello
di Milano, il quale resse lo Stato provvisoriamente dal 1580 al 1583,
dalla morte cioè del marchese d’Ayamonte alla venuta del duca di
Terranova; e un Martino, che era Adelantado Mayor di Castiglia.

Entrato da giovine nella carriera militare, fu nominato cavaliere di
San Jago nel 1583 da Filippo II, _que està en el Cielo!_ Nel 1590 venne
eletto capitano nel presidio del nostro castello. Sul principio del
secolo passò a guerreggiare in Francia, e ne buscò onori e pensioni
non poche. Nel 1609 fu eletto membro del Consiglio Segreto a Milano e
capitano generale dell’artiglieria dello Stato di Milano, e finalmente
il re, con decreto dato dall’Escuriale il 29 agosto 1620, _le hace
merced del cargo de Castillano de Milan_.

Durante l’assenza dello Spinola sotto Casale, era vice governatore
dell’armi, e grande fiducia avevasi in lui, dacchè appunto nel 1630
_haueva sotto la sua custodia in castello circa doi miglioni de’ reali
da otto, et di pasta d’argento tali quali vengono dalle Indie. Detto
tesoro staua sotto tre chiavi una de’ quali l’hauesse a tenere il
sig. Castellano, l’altra il Presidente del Magistrato e la terza il
Tesoriere generale_.

Scrupolosissimo de’ proprj doveri, scoppiata la peste, custodì il
castello con tutta diligenza, chiudendo la porta verso la città, e
mettendo guardie a quella del soccorso. Niuno entrava od usciva senza
bolletta e saputa di lui, _che assisteua in persona benchè piovesse et
facesse qualsivoglia mal tempo: e così mentre lui visse non successero
in castello doi casi dechiarati di peste_. Ed era savio e necessario
rigore: infatti _la mattina o sera seguente alla sua morte, il signor
Tenente fece aprire la porta che viene alla città, et serrar quella del
soccorso, et allargò la mano nel lasciar uscire li soldati; sicchè fu
portata la peste in castello, in modo che ne morsero più de’ quaranta,
o quarantacinque persone_.

D. Francesco aveva varj figli ed uno di nome Giovanni, che sfuggì
all’obblio per essere stato accusato qual capo degli Untori.

D. Giovanni Padilla, soldato come il padre, fu nominato nel 1620
capitano d’infanteria, passò in seguito in cavalleria, avendogli il
duca di Feria data a comandare una compagnia di lance, e si trovava
coll’esercito sotto Casale all’epoca della peste. Bello della persona,
esperto cavallerizzo e schermitore valoroso, il Padilla era _bizzarro
et peccava piutosto di troppa bravura che di poltroneria. Il giorno di
S. Giovanni venne alle mani con alcuni francesi che erano sortiti di
Casale, et andò a risigo di restar prigione perchè l’afferrorono in un
braccio, ma se li ruppe la manica sicchè si liberò; avendo date molte
coltellate all’inimici seguitandoli fino al castello_.

Il nostro valoroso, che metteva a repentaglio così spensieratamente
la vita, era ben lungi dall’immaginare che il Senato avesse emanato un
ordine d’arresto contro di lui come capo degli Untori.

Il Processo frattanto andava per le spiccie, e uscì la fulminante
sentenza del 27 luglio. A tale annunzio il castellano tremò per suo
figlio. _Hauendo inteso che per giustizia si doveva far morire un certo
Barbiero et un certo commissario della Sanità e che la detentione del
signor D. Giovanni suo figliuolo era causata perchè questi lo hauessero
aggravato in cosa toccante la riputazione_, ordinò al suo luogotenente,
D. Francesco di Bargas che, insieme col segretario Diego Patigna,
andasse dal presidente della Sanità, Monti, per pregarlo _a far
sospendere l’esecuzione della sentenza, finchè detti tali s’hauessero
potuto confrontare con detto signor D. Giovanni per giustificare la
causa; altrimenti per tutto quello che poteva occorrere per alcun tempo
a venire li protestava l’ingiustizia_. Andarono i due il dopo pranzo
del 31 luglio, e trovarono il Monti in _casa sua in una sala abasso. Il
quale subito si retirò in studio, et gli feci l’imbasciata. Rispose che
non era lui il giudice della causa, ma che toccava al Senato, et però
ne douessi parlare al signor Presidente_.

Il quale, udita che ebbe l’inchiesta del castellano, diede per risposta
_che l’esecutione della sentenza non si poteva soprasedere, se non per
ordine del patrone supremo o dal signor Governatore perchè il popolo
reclamava[120]. Ma_, soggiunse, _che il detto de’ due vigliacchi non
poteua macchiare la reputazione d’un cavagliere della qualità del
signor D. Giovanni, et che però Sua Signoria Illustrissima non si
douesse pigliar fastidio_.

Però il vecchio e altiero spagnuolo, prevedendo le conseguenze del
rifiuto, se ne pigliò invece grandissimo fastidio. _Restò mortificato;
la qual mortificazione fu tale che fra pochi giorni se ne morse._

Mentre ciò accadeva a Milano, un bel giorno arrivò al campo, col
mandato d’arresto, l’auditore di Sanità Gaspare Alfieri, lo stesso che
aveva esaminati il Mora ed il Piazza. Il marchese Manfrino Castiglioni,
commissario generale, intimò al Padilla, per ordine di S. E., che si
costituisse prigione nel castello di Pomate. _Et esso sig. D. Giovanni
con ogni prontezza se ne andò di longo al castello; ma prima senza
che alcuno glielo dimandasse, si levò dalle calci una borsa senza
quattrini, con dentro una reliquia et un’altra con dentro alcune
lettere che erano d’amore e scritti alla francesa o fosse piemontesa_,
e le consegnò al Castiglioni, che gettolle al fuoco.

L’Alfieri fece una minuta perquisizione delle sue robe, ma senza
trovare nulla di sospetto e nemmeno denari, giacchè il nostro D.
Giovanni, quantunque facesse debiti allegramente, _non haueua mai un
soldo_.

Dopo essere rimasto qualche tempo nel castello di Pomate, venne
condotto in quello di Pizzighettone, dove era libero sulla data parola
di girare nel recinto. Spensierato ma leale, non pensava nemmen per
sogno violarla, e fermavasi sul limitare del castello ogni qualvolta
accompagnava gli amici che lo visitavano. E tanta fiducia avevasi in
lui che morto il comandante di Pizzighettone, egli ne fe’ le veci sino
all’arrivo del successore.

Alfine, dopo parecchi mesi, giunse l’ordine del Senato di tradurlo a
Milano. Il capitano D. Cristoforo Caviglia andò a pigliarlo da Codogno,
e, cavalcando uniti da buoni amici, giunsero a Milano la sera del 9
gennajo 1631. L’ordine portava di consegnare il Padilla al giudice
della causa, ma il Caviglia, che da vero soldato nulla sapeva nè di
giudici nè di uffizj, mandò uno de’ suoi uomini a prender lingua,
e intanto coll’amico si mise a passeggiare su e giù nella chiesa di
Sant’Antonio, non discosta dal Palazzo di Giustizia. Il messo tornò,
dicendo aver trovate chiuse le porte, ed il Caviglia, stanco della
lunga cavalcata, s’avviava per dormire all’albergo. Se non che D.
Giovanni, colla puntigliosa esattezza d’un castigliano, rispose che
_voleua andare consegnarsi prigione_.

E quasi non vi riuscì, perocchè il custode del Capitano di Giustizia,
non avendo ordini, gli diede per grazia una camera. La mattina
vegnente, messo in prigione in tutte le regole, fu interrogato, ma
siccome, cessata omai la peste, e con essa lo spavento degli untori,
le cose avevano ripresa l’ordinaria lentezza, soltanto il 9 maggio _il
Senato decretò che si procederebbe contro l’inquisito come reo d’aver
fabbricati e sparsi gli unti in Milano_.

Il 24 luglio cominciò il Padilla a produrre le sue giustificazioni per
testimonj, e continuò più d’un anno, dovendo far esaminare parecchi
soldati della sua compagnia, i quali si trovavano nelle Fiandre; stante
le difficili e scarse comunicazioni a quei tempi, vi volevano mesi per
avere le risposte.

Il Padilla provò con un gran numero di testimonj di non avere
abbandonato il campo per recarsi a Milano che una sola volta nella
quaresima, dando minuto conto delle poche ore che rimase con suo
padre. Deposero in favor suo soldati, uffiziali d’ogni grado, e lo
stesso governatore Spinola. Il commissario generale della cavalleria
Montera disse: _Se bisognasse entrare in un fuoco per mantenere questa
verità, purchè li miei peccati non resistessero, io v’entrerei sicuro
di riuscirne salvo_. E il tenente Pojetta: _Dio perdoni a chi ha fatto
male a questo cavagliere, perche sibbene io ho ricevuto male da lui,
perche m’ha levata la tenenza sua al torto, non posso di manco, che
non dica la verità che questo cavagliere non è mai mancato in tutta
la campagna fuorche questo mercordì santo ed il giorno di S. Pietro_.
Inoltre l’accusato provò come durante il mese di giugno, essendo
straripate le acque del Tanaro, della Sesia e del Ticino, e chiusi
tutti i passi a motivo della peste, egli era nell’impossibilità di
venire inosservato dal suo campo, lontano novanta miglia, a Milano,
come l’avevano accusato il Mora e gli altri.

Quanto all’accusa di essere capo degli untori, egli la ribattè
vittoriosamente, confrontando ad una ad una le deposizioni del Mora e
del Piazza ne fe’ risultare le incongruenze, le assurdità, le false
date, e dimostrò le loro confessioni non attendibili, _poiche oltre
all’essere tante volte spergiuri (il qual vizio non si può purgare
colla tortura se non una volta sola) inverisimili, falsi, vili, et
infami si scoprono, e nei particolari esami loro tanto varj che non
si può far certo giudizio sopra quale delle loro deposizioni debbasi
fondare il fisco. E per le quali contrarietà tanto manifeste che
risultauano e risultano dal detto processo era pur necessario, essendo
l’accusato in prigione far qualche confronto tra il sudetto, il Mora
e gli altri perche di tanto delitto si potesse finalmente cauar la
verità. Inoltre queste confessioni estorte a furia di tormenti non
fanno prova contro li nominati, perche vedendosi questi scellerati
persi et condannati, si movono a nominare persone grandi, sperando
saluarsi mediante il studio o privilegio delli nominati, o almeno
portar in longo l’esecutione della loro condanna_.

E tolse ogni ombra di dubbio con una scrittura che troncava di
netto la questione. I difensori del Padilla avevano introdotto fra
i testimonj un capitano Gorini, il quale raccontò, che trovandosi
in prigione, mentre il Piazza era in confortatorio, l’aveva udito
altercare _con doi padri capucini; Ed io mi leuai dal letto così in
camisa, et andai all’uschio et dando orrecchio al detto contrasto
quale durò circa mezzora sentei che detto Commissario strepitaua
et diceva che moriua al torto per essere stato assassinato sotto
promessa et che perciò si voleuano far perder l’anima. Insomma li
padri capucini partirono senz’hauerlo potuto disporre a confessarsi nè
a far atto di contrizione. In quanto a me m’accorgei che lui haueva
speranza che si douesse retrattare la sua causa e agiutarlo. Partiti
che furono i capucini io mi misi li calzoni et gippone et andai dal
detto commissario, pensando far atto di carità col persuaderlo a
disporsi a ben morire in grazia di Dio come in effetto posso dire che
mi riuscii. Poiche li padri non toccarono il ponto che toccai io; qual
fu che l’accertai di non hauer mai visto ne sentito dire che il Senato
retrattasse cause simili dopo seguita la condanna. Anzi li dissi che se
hauesse trouato altrimenti mi accontentauo di morir per lui_.

Il Piazza, rassegnatosi, gli domandò come potesse sgravarsi la
coscienza di aver indebitamente aggravati innocenti, ed il Gorini gli
suggerì di rivolgersi per consiglio al cappuccino che l’assisteva.
Avuti questi dati, riuscirono a trovare l’anzidetta scrittura che
era nelle mani di un prete Francesco Gallarati Varese, coadjutore nel
1630 a San Vito in Pasquirolo, e conteneva le proteste del Mora e del
Piazza, dettate al Padre Giacinto cappuccino loro confessore la notte
prima di andare al supplizio.

  «In nomine Jesu il 31 luglio 1630.

«Io Giacomo Mora, Barbiero, mi protesto, che essendo condannato a
morte, e perchè io non voglio, et protesto di non partirmi da questo
mondo con carico della mia coscienza, e perciò con la presente
scrittura, e protesta, mi dechiaro, et dico sopra la mi coscienza
che tutti quelli li quali sono stati nel processo incolpati da me per
causa degl’onti pestilentiali, li ho incolpati al torto, et questo in
quanto a me, et questo lo protesto avanti li Padri Capucini, et altri
assistenti alla cura dell’anima mia».

                   *       *       *       *       *

Et a basso pur nell’istesso foglio si legge un’altra scrittura, cioè:

  «In nomine Jesu il 1 agosto 1630.

«Io Guglielmo Piazza Commissario mi protesto, etc.» e ripete le parole
medesime del Mora.


Rimaneva a sventarsi la deposizione del Baruello, il quale, per avere
l’impunità e sfuggire ad una morte infame _ha hauto tanto ardire da
comporre il discorso tanto inverosimile et falso; e in sei ore divenne
così letterato che seppe distinguere le voci hebraiche et latine
se bene era persona lontana da tali scienze, e solo virtuoso nelle
infamie. Inventando cerchi, proferendo nomi diabolici et adducendo
concorsi del comune inimico, et il pantalone muto ma piacevole_.

Gabriele Millione, curato di Sant’Eusebio, depose che essendo egli
lontano parente del reo, aveva ufficiato per ottenere l’impunità quando
fu condannato a morte. Raccomandatosi al fiscale Bottinoni, questi
gli disse che il Senato aveva firmata la sentenza, ma però _a sua
persuasione egli s’accontentava di procurargli da S. E. l’impunità,
et salvarlo dalla morte et da qualsivoglia altra pena da un esiglio
perpetuo in poi dallo stato di Milano_. Il fiscale fece avere il
permesso di parlare col reo al curato Millione, che _lo trovò nella
camera della corda che diceva l’uffizio, ed al vederlo esclamò. Oh
monsignore portate forsi cattiva nova? ed io li risposi pur troppo la
porto, et così li dissi come il Senato l’haueva sentenziato a morte_.
Soggiunse però che gli otterrebbe una lettera d’impunità ove si
risolvesse a dir il vero circa gli unti. E il Baruello: _faranno poi
di me come hanno fatto del commissario?_ alludendo al Piazza cui erasi
lusingato coll’impunità. Nondimeno tanto è prepotente l’amore della
vita! immaginò subito una filastrocca tale che ben sapeva andrebbe
a genio al Senato, e disse che lo avevano un giorno condotto a casa
del Mora il quale _leuata una tappezzeria l’introdusse in una gran
sala_ (nella casipola del Barbiere!) _dove vide dieci o dodici persone
assentate sopra le cadreghe fra quali vi era il signor D. Giovanni
Gaetano Padilla._

Il curato Millione per quanto gli fosse caro salvar il parente, non
potè a meno di farli osservare che ciò era assurdo: allora il meschino
rispose: _tornate domani che fratanto vi penserò_. Ma l’indomani disse
ingenuamente _che in verità non sapeua che dire_.

Pure, risoluto ad afferrare ad ogni costo quell’unico mezzo di
salvezza, immaginò la mattina seguente il suo romanzo. Se non che,
caduto pochi giorni dopo il Baruello malato di peste (pag. 76), disse,
per isgravio di coscienza, al carcerato Giacomo Palazzi, datogli per
assisterlo: _Fattemi piacere di dire al signor Podestà che tutti quelli
che ho incolpati, li ho incolpati al torto, et non è vero ch’io abbia
chiapato denari dal signor Castellano, perchè ne anche mai ho praticato
con lui. Indi a due ore che fu sul far del giorno se ne morse_.

Simili proteste fatte nelle ore estreme, quando lo spavento della morte
vicina e inevitabile, forza anche l’uomo più scellerato a palesare
intera la verità, provarono la piena innocenza dell’accusato.

Il Padilla partecipava all’erronea opinione dei tempi intorno ai
patti conchiusi col demonio, quindi egli afferma che il Migliavacca
ed il Baruello erano _stregoni o dati al diavolo, e come tali essere
verosimile che si siano mossi a far morire le persone con li onti
maleficiati per sola et pura istigatione del diavolo, quale si sforza
come ognuno sa a proccurare simili morti improvise alli uomini,
perche non s’abbino tempo, ne commodità di confessarsi et ricevere li
santissimi sacramenti, ma vadano dannati, et non già per istigatione
o persuasione d’alcun uomo vivente._ E per viemeglio provare che il
Migliavacca era uno stregone, racconta che trovandosi egli in prigione
immaginò insieme con altri di _trouar forma di liberarsi dalle carceri.
Et egli preparò un incanto per scrittura con cerchi, et caratteri
diabolici scritto, e fatto a mano con la preda lapis; e poi con penna
et inchiostro trascritto per fare che il Giudice delle loro cause,
Notaro, Guardiani, et altri non trouassero mai reposso ne di berre, ne
di dormire finche non hauessero liberato lui et altri dalle carceri, et
che non liberandoli fossero morti fra poco tempo._

Chi dava fede a simili assurdità, era difficile non credesse agli
unguenti pestiferi. E in vero risulta dal Processo che il Padilla
opinava essere i medesimi adoperati in Milano. Nondimeno, benchè
partecipasse a tale erronea ma comune credenza, addusse, per
scolparsi, testimonianze che la dimostravano assurda. Voglio dire
alcune deposizioni di medici che riferirò testualmente, perchè onorano
il nostro paese, mostrando che nel generale delirio v’erano uomini
che non lasciavansi illudere. Che se tacquero finchè cessato il
tremendo contagio si calmarono gli animi, fu perchè avrebbero esposta
inutilmente la vita senza lusinga che si desse loro retta, chè il
fanatismo non ascolta ragione.

Il medico Appiano fu uno de’ più distinti e benemeriti, come vedremo
nel Libro IV.

                 _Deposizione del medico G. B. Appiano
              della parrocchia di S. Stefano in Broglio._

«Non solamente io ho visto la peste, ma provatala dal primo principio
et medicatola sino all’ultimo fine, sì nel Lazzaretto come per tutta
la città et tuttavia io l’ho sempre vista uniforme sì nelli mali
che apportaua come nella maniera che ammazzaua et nella prestezza
del tempo. E questo per infiniti casi veduti in quei principj nel
Lazzaretto dove tutti gli appestati o vivi o morti erano condotti,
non essendovi in quei tempi pur sospetto alcuno non che parola d’onti,
tuttavia con accidenti terribili, e repentinamente morivano molti delli
appestati.... Che se forse ne’ mesi caldi di luglio e agosto morivano
più persone più presto et con accidenti più terribili, cagione della
quantità dei morti n’era l’essere disperso per il contagio o commercio
il male per tutta la città. Delli accidenti o morti più terribili n’era
cagione il caldo, il quale quanto è maggiore tanto più fa malignare gli
umori... perciò non mi meraviglio de detti accidenti. E dopo ancora li
detti mesi caldi, et passato il sospetto dell’onto sono morti molti
con gl’istessi accidenti, con li quali morivano quando degli onti si
parlava».

E conchiude: «Onde, siccome ho detto da principio, mi pare che sempre
dal principiar di detto male sino al fine sii sempre stato et uniforme
a sè stesso et conforme a quello che viene descritto da buoni autori;
et che siano occorsi casi simili a quelli che erano riputati d’onti sì
avanti il sospetto degli onti come doppo, io ne posso fare certa e vera
testimonianza per aver prima et più d’ogni altro medicato detto male sì
nel Lazzaretto come per tutta la città».

            _Deposizione del fisico collegiato Branda Borri
                      di Santa Maria alla Porta._

«Io ho medicato quasi tutto il tempo della peste, visitando moltissimi
ammalati et ho notato in tutto quel tempo li segni di quel male,
tanto in una persona quanto in un’altra, ch’io non seppi mai trovare,
e accertare segni o accidenti o sintomi da noi detti, i quali
mi potessero distintamente con le loro indicationi indurre a far
conseguenza che più questo o quell’ammalato morisse di peste nata
solamente da contagio, ovvero che procedesse dall’onto. E ciò l’ho
potuto molto accuratamente notare et osservare, stando che essendo io
già dalla peste infetto non visitauo altro che appestati ai quali io
toccauo il polso, et vedeuo distintamente le urine, toccandoli ancora
il male (bubboni) sì nelle persone ordinarie quanto ne’ grandi, et
anche nelle clausure delle monache. In niuno de’ quali luoghi non ho
mai potuto accertare et dire quest’è ammalato per esser onto, o per
essergli in altra maniera il morbo contagioso comunicato... L’opinione
del volgo ha sempre giudicato e tenuto piuttosto tutto il male
procedere dall’onto, la qual opinione è sempre stata lontana dal mio
sentimento. Poichè ancor ch’io non neghi che vi sii potuto essere stato
l’onto col quale si potesse comunicare l’infettione, nulladimeno io
tengo per fermo che moltissimi morissero di contagio ordinario, benchè
da loro fosse stimato venir dall’onto.

              _Deposizione del chirurgo Antonio Gambaloita
                        a San Paolo in Compito._

Appoggiandosi al fatto che a taluni veniva prima la febbre, poi
«sopraggiungevano bubboni, antraci et carboni», ed in altri accadeva
il contrario, affermava essere il primo caso sintomo salutare, funesto
il secondo giusta Ippocrate. «Questa fu la causa, dice, che presso di
me (cioè in cuor suo) non credeuo che gli onti (se pure ve n’erano)
auessero fatti progressi alcuni... E concludo che doppo cessato il
sospetto degli onti la peste faceua l’istesso effetto, ed haueua gli
stessi accidenti come nel tempo che si parlaua degli onti».


E seguono altre testimonianze di medici affermanti essere morto egual
numero di persone anche dopo che non si parlò d’unti.

E il Padilla? era impossibile con tanto cumulo di prove che non uscisse
innocente, ed uscì, dopo due e più anni di prigionia. Ma che il Senato
lo dichiarasse tale con sentenza, ovvero gli aprisse il carcere,
mettendo, come dicevasi, in tacere le cose, è quanto ignorasi, perocchè
l’esemplare dell’intero Processo da me veduto finisce tronco. Per ora
non mi riesce di sciogliere questo dubbio, malgrado lunghe e ripetute
ricerche.


II.

CONSIDERAZIONI SUL PROCESSO DEGLI UNTORI

                    Nel 1630 quasi tutta l’Europa era involta in
                      queste tenebre superstiziose.

                                  VERRI. _Della Tortura, pag. 212_.

Dunque codesta triste e dolorosa storia delle unzioni si risolve in una
patente ingiustizia imputabile soltanto alla crudeltà ed ignoranza dei
Senatori? Prima di venire a siffatta conclusione, che sparge di tanta
infamia la memoria loro, permettete che aggiunga alcuni riflessi.

Che dall’aprile all’ottobre 1630 siansi trovate più volte unte
le pareti in varj luoghi di Milano, sembra indubitato, giacchè lo
affermano e tutti gli autori contemporanei testimonj oculari, e le
gride con tale unanimità, che il negarlo sarebbe un andar contro al
criterio storico. Ma d’onde e perchè queste unzioni? Ecco il mistero.
Dissero taluni che fu una burla di chi voleva ridere a spese della
pubblica credulità, e ciò potrebbe accordarsi ove si fosse unto una
o due volte, ma considerando la generale credenza nei veneficj di
simili unzioni, il furore popolare e la morte sicura per legge cui
affrontavasi, non è credibile che vi fossero ripetutamente uomini tanto
disennati da mettere a repentaglio la vita per cavarsi il capriccio
d’una semplice burla. Dunque? Io non sarei alieno dal credere che
alcuni del volgo, e specialmente monatti ed altri addetti al servizio
sanitario, persuasi come lo erano tutti a quell’epoca che vi fosse la
peste manufatta, cioè unguenti e veleni atti a spargerla, combinassero
chi sa quale miscuglio di schifosi ingredienti, imbrattandone le
muraglie. E ciò allo scopo di vieppiù propagare il contagio che offriva
loro insoliti e spropositati guadagni, e intera libertà di darsi in
preda a gozzoviglie e sfoghi brutali.

È storico che questa vile genìa di furfanti s’adoperava per spargere
la peste; i seguenti passi del Tadino, per non eccedere in soverchie
citazioni, lo provano senza contrasto.

_Gli monatti ed apparitori vedendosi la grande libertà et vtile
del guadagno per li furti che faceuano, a bella posta lasciauano la
notte per malitia cascare dalli carra delle robbe infette, et per la
ingordigia della robba, la meschina gente alla mattina gli portauano
alle loro case per tempo; d’indi à puoco s’infettauano, per lo che
cresceua l’vtile à questa canaglia de monatti et apparitori, atteso che
da loro in poi nissuno ardiua entrare nelle case de gli infetti, sì che
haueuano buona occasione di rubbare._ (Pag. 102.)

_Dependeua ancora in buona parte questo danno_ (dell’aria
infettata) _dalla malitia dei monatti, li quali mirando il suo fine
dell’interesse, acciò durasse longo tempo la loro fiera del guadagno;
essendo bene pagati, oltre li furti che di continuo faceuano, lasciando
alla notte cascare dalli carri di questa sorte di robbe infette, per
le contrate, per li cantoni, li quali non conducendosi al Lazaretto
destinato a questo effetto, per l’ingordigia veneuano rubbate dalli
passagieri, per causa delle quali restauano molte persone tocche della
peste in breue spatio di tempo, oltre che molti strazzi, et simile
sorte di robbe putrefatte restauano sopra il corso Marino, et iui
conueniua abbruggiarli per la loro pigritia et malitia di non condurgli
al luogo destinato, et causauano fetori et pericoli grandissimi di
nuouo contagio dell’aria. Fu ancora prouisto che sotto pena della
forca, li monatti tenessero nette le contrate, ec._ (Pag. 127.)

Se tanto interesse avevano costoro a diffondere il contagio, non si
potrebbe inferirne che ricorressero altresì alle unzioni qual mezzo
infallibile, secondo la credenza generale, a riuscire nel scellerato
loro progetto? Del resto è una mera congettura storica che sottopongo
al vostro giudizio, o lettori.

Molto fu scritto sul Processo del Mora, del Piazza e degli altri
untori, e compiangendo questi infelici, periti fra i barbari supplizj,
si gridò altamente contro l’ignoranza, la mala fede e la crudeltà dei
giudici che li condannarono.

Io non voglio mettere in dubbio l’innocenza de’ primi, nè giustificare
compiutamente l’operato de’ secondi, ma ritengo per intima persuasione,
derivata da paziente e minuto esame di questo fatto storico, che,
incolpando i senatori, non siasi fatto abbastanza ragione all’epoca in
cui essi vivevano.

Pietro Verri, educato alle dottrine filosofiche, nemico de’ vecchi
pregiudizj e abusi, che s’adoperò con zelo indefesso per isradicarli
a vantaggio della sua Milano, tanto a lui cara, fu il primo a
disseppellire l’obbliato Processo degli Untori. Che egli, amicissimo di
Beccaria, lo coadjuvasse nel santo ufficio di far abolire la tortura
che il secolo illuminato e i raddolciti costumi ormai tollerare non
potevano, è naturale. Quindi nelle _Osservazioni sulla Tortura_,
abbandonandosi agli impulsi del cuore, con quel suo stile vibrato e
immaginoso, sviscerò, se permettete la frase, il Processo degli Untori,
fulminandone i giudici, per dimostrare vittoriosamente l’assurdità e la
scelleratezza della tortura, quale mezzo per iscoprire i delitti.

Ma noi, che nessuno scopo muove fuorchè la scoperta del vero, badiamo a
non confondere la commiserazione col freddo ed imparziale esame voluto
dalla critica storica.

La credenza negli untori era, come abbiamo veduto, generale dagli
infimi del popolo, ai sommi magistrati, ai medici, al clero, data
appena qualche rarissima eccezione. Di più tenevasi per certo che vi
fosse un Gran Capo, il quale, con ogni sorta di mezzi, non escluso
l’ajuto del demonio, dirigesse tutta la macchinazione a danno della
pubblica salute. Gli animi erano trepidanti per quel misterioso
pericolo, contro cui non sapevasi immaginare difesa; e accresceva
tale febbrile inquietudine la esaltazione di mente che sempre domina
nelle grandi calamità, mantenuta dal pensiero continuo della morte,
che fa obbliare agli uomini le solite cure, e rallenta tutti i vincoli
sociali. In questo stato di cose vengono accusati il Piazza e Giacomo
Mora, il quale impacciavasi anche di flebotomìa e un poco di medicina,
come solevano i barbieri d’allora, e come fanno anche oggidì in molti
paesi d’Europa. Nella visita fatta in casa sua si rinvengono impiastri,
olj, unguenti in buon numero (_Processo, pag._ 50 e seg.) fra i quali
alcuni preservativi contro la peste. Arrestate altre persone di dubbia
fama, trovansi anche presso di loro unguenti che si prestavano a
vicenda per guarire dalla lue venerea ond’erano sporchi. I giudici
credono avere scoperto il filo della congiura, e li sottopongono
alla prova della tortura, che a quei tempi nessuno per sogno credeva
ingiusta e barbara. Gli infelici, senza badare alle terribili
conseguenze delle loro confessioni, per sottrarsi allo strazio
presente, come è istinto nell’uomo, dissero quanto loro suggeriva il
dolore, inventando fatti, esagerando azioni per sè indifferenti; quindi
confermarono sempre più la opinione preconcepita dai giudici. E siccome
questi instavano perchè nominassero il capo, si denunziò il Padilla
figlio del comandante del castello. Forse era desso l’unica persona
d’importanza da loro conosciuta, e tale da rendere credibile l’accusa,
fors’anche fu per vendetta di servigj mal ricompensati dallo spagnuolo.
Il quale, affetto egli pure da lue venerea, come pare indichi il
Processo (vedi specialmente pag. 329), aveva forse avuto relazione con
alcuno degli accusati per rimedj, o peggio.

Allora i giudici credettero aver rinvenuto gli untori ed il loro capo,
e con maggior fervore continuarono il processo, che a molti infelici
sgraziatamente costò la vita. Ma chi erano questi giudici che li
condannarono a morire tra le più orribili carnificine? Uomini distinti
per nobiltà, per sapere, per impieghi, che, durante la carestia e la
peste, si adoperarono con zelo non comune a vantaggio della patria,
uomini, che, nel generale scompiglio, rimasero fermi ai loro posti,
ingegnandosi con ogni mezzo di alleviare i danni del contagio, di cui
parecchi, come il Monti, presidente della Sanità, morirono vittima.

Ora librate in eque lancie le circostanze tutte che ho esposte, la
condanna degli untori è ella da rimproverarsi all’animo perverso
ed alla ignoranza dei giudici, o sì veramente alla triste e quasi
inevitabile conseguenza della superstizione de’ tempi? A voi, lettori,
lo spassionato giudizio!


III.

LA COLONNA INFAME

                                        Romita una colonna sorge.
                                                        PARINI.

La casa del barbiere G. Giacomo Mora, come il Senato ordinava nella
sentenza, venne distrutta sino dalle fondamenta, _et per memoria delli
futuri secoli piantata una colonna in mezzo con inscritione_ detta
_COLONNA INFAME ed a parte con epitaffio inserto nel muro del tenore
seguente._ (Tadino.)

                        QUI DOV’È QUESTA PIAZZA
                     SORGEVA UN TEMPO LA BARBIERIA
                          DI GIAN GIACOMO MORA
                IL QUALE CONGIURATO CON GUGLIELMO PIAZZA
               PUBBLICO COMMISSARIO DI SANITÀ E CON ALTRI
                  MENTRE LA PESTE INFIERIVA PIÙ ATROCE
                   SPARSI QUA E LÀ MORTIFERI UNGUENTI
                       MOLTI TRASSE A CRUDA MORTE
                      QUESTI DUE ADUNQUE GIUDICATI
                          NEMICI DELLA PATRIA
                           IL SENATO COMANDÒ
                          CHE SOVRA ALTO CARRO
                 MARTORIATI PRIMA CON ROVENTE TANAGLIA
                        E TRONCA LA MANO DESTRA
                       SI FRANGESSERO COLLA RUOTA
                        E ALLA RUOTA INTRECCIATI
                         DOPO SEI ORE SCANNATI
                           POSCIA ABBRUCIATI
             E PERCHÈ NULLA RESTI D’UOMINI COSÌ SCELLERATI
                          CONFISCATI GLI AVERI
                   SI GETTASSERO LE CENERI NEL FIUME
                    A MEMORIA PERPETUA DI TALE REATO
                    QUESTA CASA OFFICINA DEL DELITTO
                   IL SENATO MEDESIMO ORDINÒ SPIANARE
                     E GIAMMAI RIALZARSI IN FUTURO
                         ED ERIGERE UNA COLONNA
                         CHE SI APPELLI INFAME
                       LUNGI ADUNQUE LUNGI DA QUI
                            BUONI CITTADINI
                    CHE VOI L’INFELICE INFAME SUOLO
                             NON CONTAMINI
                       IL PRIMO D’AGOSTO MDCXXX.

  MARC’ANTONIO MONTI, pubblico Presidente della Sanità.
  G. BATTISTA TROTTO, Presidente dell’amplissimo Senato.
  G. BATTISTA VISCONTI, Capitano di Giustizia.

Questa Colonna, di granito con basamento di ceppo, ed una palla
in cima, sorgeva sull’angolo sinistro della via detta la Vedra dei
Cittadini entrando dal corso di San Lorenzo, precisamente rimpetto
all’attuale farmacia Poratti. Monumento sciagurato d’errori più dei
tempi che degli avi nostri, la Colonna Infame durò in piedi 148 anni,
e fu sempre guardata con ribrezzo ed esecrazione. Il canonico di
San Nazzaro Carlo Torre, il quale nel 1676 stampò il suo _Ritratto
di Milano_, che per stranezze di concetti, giuochi di parole ed
ampollosità di stile è un vero tipo del pessimo gusto dei seicentisti,
nella _peregrinatione_ cui guida per Milano il suo lettore, arrivato
alla Vedra de’ Cittadini, esclama:

«Venneui mai all’orrecchio più enorme sceleratezza? fu ragione
cancellare dal libro dei viuenti chi desideraua estinti gli stessi
viuenti: spiantare le mura dell’abitazione di colui che voleua
dipopolata di cittadini la sua natiua città, e che con untioni rendeua
più sdruccioloso il sentiere della morte. Credetemi che il nominato
Mora hebbe coscienza da Moro, e se è nero chi è moro, egli fu un crudo
moderno Nerone, che non con fuoco, ma con oglij haueua in pensiere
d’apportare l’ultimo esterminio alla sua Patria, benchè gli oglij
vengono adoprati per accrescere le mancanti forze negli indeboliti
induidui». (Pag. 129.)

Il Lattuada, uno dei pochi scrittori tanto ragionevoli da mettere
almeno in dubbio il fatto degli Untori, nella sua _Descrizione di
Milano_, tomo III, pag. 330-338, 1736, si esprime nel modo seguente:

«Sopra la vasta strada che guida verso il centro della città si trova a
mano manca una colonna piantata sopra piccola piazza che conduce entro
un’altra contrada detta De’ Cittadini, perchè ivi abitava una nobile
famiglia di questo nome, chiamasi Colonna Infame, ec.»

E narrato l’avvenimento colle parole del Tadino, conchiude: «Presso cui
sia la fede, se tali unguenti fossero fatti per arte diabolica, et atti
a dare la morte, non volendo noi farci mallevadori di tale asserzione».

Ma il giudizioso dubitare del buon Lattuada fu un’eccezione quasi
senz’esempio, poichè ci è grave il dirlo, i più stimati ed eruditi
uomini dello scorso secolo prestavano intera fede alle unzioni. Ed era
sì profondamente radicata codesta credenza, che non solo il volgo, ma
i primi magistrati e letterati chiarissimi l’avevano quasi per articolo
di fede.

Nel 1713, vale a dire quasi un secolo dopo, essendovi sospetti di
contagio dal lato del Piemonte, il presidente della Sanità di Milano
scriveva al commissario d’un villaggio sul Lago Maggiore, raccomandando
somma attività e vigilanza, perocchè era giunto a notizia del
magistrato che girassero da quelle parti Untori per diffondere la
peste. Ho veduto la lettera io stesso in una raccolta di documenti
patrii.

Quell’Argellati, che i benemeriti cavalieri milanesi, fondatori della
Società Palatina, chiamarono da Bologna a Milano per dirigere la
splendida edizione degli _Scrittori delle Cose Italiane_, immaginata
dal Muratori, quell’Argellati che sì bene rimeritò l’ospitalità avuta
tra noi, stampando nel 1745 la sua laboriosa e tanto utile _Biblioteca
degli Scrittori_ _Milanesi_, parlando in essa del Monti, presidente
della Sanità durante la peste, chiama _Onorevole Menzione_ che il suo
nome figuri nell’iscrizione della Colonna Infame tra i giudici degli
Untori. Il sapientissimo Muratori, che ad una sterminata erudizione
univa pietà sincera e carattere mansueto, credeva egli pure al delitto
degli Untori: «Ne esiste tuttavia, dice nel _Governo della Peste_, cap.
10, la funesta memoria nella Colonna Infame posta ove era la casa di
quegli inumani carnefici».

E in epoca ancora più vicina, l’Orazio Lombardo, che con sì frizzante
ironia e ingegno sì svegliato insorse a flagellare gli effeminati
costumi del suo tempo, e tanti vecchi pregiudizi fulminò coll’ira del
verso potente; egli, uomo di alti sensi e di libera mente, che dalla
sua cattedra d’eloquenza educava la novella generazione alle idee del
giusto e del bello, partecipò all’erronea credenza sulle unzioni.

Il traduttore in dialetto milanese della _Gerusalemme_ del Tasso,
Domenico Balestrieri, in una nota alla stanza 70 del canto VIII ci
conservò un frammento _d’un Sermone Chiabreresco e del più fino gusto,
Orazione che l’abate Parini, degnissimo R. Professore d’Eloquenza, ha
recitato in un’accademia pubblica. Si figura in esso d’incamminarsi al
Tempio di San Lorenzo, vivamente esprimendosi in questa guisa_.

    . . . . . . . . . . . . . . . . . .
    Quando tra vili case in mezzo a poche
      Rovine i’ vidi ignobil piazza aprirsi.
      Quivi romita una colonna sorge
      Infra l’erbe infeconde, e i sassi, e ’l lezzo,
      Ov’uom mai non penètra, perocch’indi
      Genio propizio all’Insubre Cittade
      Ognun rimove, alto gridando: lungi,
      O buoni cittadin’, lungi, che il suolo
      Miserabile infame non v’infetti.
      Al pie’ della colonna una sfacciata
      Donna sedea, che della base al destro
      Braccio facea puntello: e croci, e rote,
      E remi, e fruste, e ceppi erano il seggio
      Su cui posava il rilassato fianco.
      Ignuda affatto, se non che dal collo
      Pendeale un laccio, e scritti al petto aveva
      Obbrobriosi, e in capo strane mitre,
      Terribile ornamento. Ergeva in alto
      La fronte petulante; e quivi sopra
      Avea stampate con rovente ferro
      Parole che dicean: Io son l’Infamia.
    Io che, virtù seguendo, odio costei,
      Anzi gloria immortal co’ versi cerco,
      A tal vista fuggia; quando la Donna,
      Amaramente sorridendo, disse:
    . . . . . . . . . . . . . . . . . .

_Cioè espone poeticamente quanto contiensi nella mentovata iscrizione,
soggiungendo:_

    Così dicea la Donna... E il vil dispregio
      E mille turpi Genj intorno a lei
      La gian beffando intanto, ed inframezzo
      Il pollice alle due vicine dita
      Ad ambe mani le faceano scorno.

Ma ormai la Lombardia risorgeva dal letargo e dall’abbrutimento cui
l’aveva ridotta il dominio spagnuolo, mercè il savio e umano regime di
Maria Teresa; e alcuni cittadini, zelanti del patrio decoro, avvedutisi
come quella ricordanza di atrocità e stoltezze dei tempi disonorasse
Milano, idearono di fare in modo che la Colonna Infame venisse levata,
perchè colla medesima cadesse in totale obblio quanto riferivasi agli
untori. Pietro Verri ed i suoi amici del Caffè, i più chiari e attivi
letterati dell’epoca, erano impegnatissimi in tale divisamento; ma la
difficoltà stava nel trovar modo di eseguirlo.

Frattanto il Balestrieri aveva mandata una copia della sua _Gerusalemme
Liberata_, tradotta in dialetto milanese, al barone di Sperges,
ministro plenipotenziario per gli affari d’Italia in Vienna. E questi
nella risposta si dolse col poeta che avesse citata nel suo libro
la Colonna Infame, monumento di disonore pel Senato di Milano. Tale
disapprovazione che si sparse fra gli eruditi della città nostra, fe’
risorgere più vivo il desiderio di annullare quella infausta memoria.
Balestrieri, trovandosi a un pranzo del conte di Firmian, gli comunicò
la lettera, e l’illuminato ministro, di concerto con S. A. l’arciduca
Ferdinando, e gli altri membri componenti il governo della Lombardia,
appigliossi al seguente partito per riuscire nell’intento colla minor
pubblicità possibile.

Giusta un’antica legge, i monumenti d’infamia non si dovevano
ristaurare qualora per vetustà minacciassero di cadere. Ora la Colonna
Infame era, almeno in apparenza, minacciante ruina; il basamento, sia
che non l’avessero sprofondato abbastanza quando fu costruito, sia
pel naturale abbassarsi del terreno coll’andare del tempo, trovavasi
quasi allo scoperto, ed il ceppo, corroso dall’umidità, sfracellavasi.
La Colonna poi non era più ben ferma sul piedestallo, perchè, in
occasione di concorso per feste od altro, i ragazzi, come sogliono, si
arrampicavano tenendosi abbracciati al tronco di essa.

Traendo adunque partito da ciò, il Governo fece in modo che l’anziano
della parrocchia facesse sottoscrivere dagli abitanti le case attigue
una petizione, in cui imploravano l’atterramento della Colonna, stante
il cattivo stato cui era ridotta. Il Governo mandò la petizione al
Senato, il quale ricusò, e, se è vero quanto allora si diceva, per
ben tre volte, di farvi ragione, non volendo disapprovare con un
atto pubblico la sentenza che un secolo e mezzo prima aveva emanata
l’antico Senato. Allora il Governo, fermo nel suo proposito, mise mano
all’opera; nell’agosto 1778 gli abitanti della Vedra dei Cittadini
sentirono più volte di notte tempo battere con forti colpi la base.
La notte del 24 e 25 atterrossi la Colonna, che nel cadere si spezzò;
la palla che la sormontava, staccatasi, rotolò giù pel vicolo dei
Vetraschi. Finalmente l’ultima notte dell’agosto suddetto fu compiuta
la demolizione, e perchè nessuno fosse testimonio, si lavorò sul
far del giorno, ora di generale quiete, e per maggior precauzione
furono poste guardie agli sbocchi delle vicine contrade, vietando
l’avvicinarsi a chiunque a caso di là passasse.

Trovo accennato in una vecchia Guida di Milano, che il giorno vegnente,
cioè il 1.º settembre 1778, fu fatta una visita giudiziaria sul luogo;
ma di questa non mi riuscì rinvenire l’atto ufficiale.

Distrutta la Colonna Infame, i cui frammenti vennero gettati nella
cantina dell’antica casuccia del Mora, rimaneva ancora la lapide
coll’iscrizione, ma essendo divenuta quasi illeggibile per vetustà, non
fu tolta. Il che, a dir vero, era un controsenso alquanto ridicolo,
dacchè l’iscrizione ricordava, al pari della Colonna, il processo
degli Untori che tanto bramavasi di far cadere in dimenticanza. Nel
1801 sparirono affatto le rimaste vestigia, avendo quel luogo mutato
totalmente d’aspetto.

Un Franzino, mercante di vino, comperò l’utile dominio del piazzale
appartenente per livello alla famiglia Loria, indi Manzi, e v’innalzò
un fabbricato, aprendovi botteghe. L’anno medesimo fu atterrato l’arco,
o loggia abitabile, che riuniva i due lati della contrada. La Vedra
de’ Cittadini ed il luogo in tal guisa abbellito, non conservò più
traccia dell’antica destinazione d’infamia. La lapide nel 1803 fu data
all’avvocato Borghi, che pretendesi la collocasse nel proprio giardino.

Queste minute particolarità, non senza interesse per gli amatori
delle cose patrie, raccolsi con lunghe indagini e da una cronichetta
manoscritta del famoso chimico Porati, testimonio dell’atterramento, e
da molte altre private Memorie.

                                                    FRANCESCO CUSANI.


  FINE DEL LIBRO SECONDO.



LIBRO TERZO

IL CARDINALE FEDERICO BORROMEO E IL CLERO DURANTE LA PESTE.


I

Bastantemente chiaro, io son d’avviso, appariscono nel libro che
composi intorno la vita ed il pontificato del cardinale arcivescovo
Federico, l’animo generoso e le virtù di lui in ogni circostanza
gareggianti colle sublimi del santo suo cugino. Il quale volume[121]
consegnai a Primicerio Visconti, nipote suo per parte di sorella,
ed erede delle virtù avite, perchè, esaminata la mia narrazione di
que’ singolari avvenimenti, la pubblichi, se il crede opportuno. Si
ammirano in esso opere pastorali e virtù degne degli antichi vescovi ed
imperatori: fatiche, sto per dire, militari nelle cose ecclesiastiche,
animo cupido solo dell’onesto; modestia, sobrietà e quel misterioso
candor virginale[122] che mai viene facilmente creduto in alcuno, e che
Federico, per opinione comune custodì intatto per tanti anni: vi si
discorre altresì de’ suoi studj e delle opere che compose. Avessi io
almeno esposte tutte queste cose colla dignità e l’eleganza, eminenti
doti proprie di quell’esimio scrittore!

La virtù di cui egli più compiacevasi, e che recava a tutti meraviglia,
fu la vigilanza assidua pe’ suoi soggetti, non già come suol essere
in molti limitata a sole parole e consigli; ma generosa, pronta a
qualsiasi dispendio a vantaggio della pubblica salute, e della vita
degli individui.


II.

Provvidenze e disposizioni del Cardinale ai primi rumori di peste.

Federico in quell’anno (1629) che si cominciò a susurrare della
peste, udito che già serpeggiava all’estremità della milanese diocesi
nelle vallate soggette ai Grigioni ed agli Svizzeri, si turbò a tale
annunzio, come un padre di famiglia che sente colpiti all’improvviso
i suoi figli da una grande sciagura. Prima inviò ordini ai parrochi
ed ai vicarj su quanto dovevano tener d’occhio o fare, onde i rei di
gravi colpe non morissero senza i soccorsi della Chiesa, ed anche
perchè spinti dal bisogno e dalla fame non s’abbandonassero alla
disperazione il peggiore di tutti i peccati. Indi elesse un sacerdote
di sperimentata prudenza, e di specchiati costumi, e fornitolo di
denaro, lo spedì nelle valli affinchè dirigesse co’ suoi consigli que’
rozzi abitanti; siccome fece con molto senno.

Di ritorno da essa missione, venne largamente rimunerato
dall’arcivescovo, il quale aveva presa cura di quei valligiani appena
tra loro s’introdusse, per le facili comunicazioni colla Germania,
la peste, di cui allora neppure eravi timore fra noi. Durante la
carestia, che fu la prima ruina del nostro paese, non il solo Milano,
ma le terre vicine e discoste, gli abitanti della pianura e dei monti
sperimentarono del pari gli effetti della paterna sollecitudine di lui.

Come se fosse ei pure uno del pubblico Consiglio, emulatore della
carità cittadina e promovitore in uno di essa, spediva e faceva
distribuire pe’ villaggi sacelli d’orzo e frumento, perchè almeno
patissero meno la fame se non gli era dato di nutrirli tutti. E allora
che quella turba di contadini, abbandonati i campi, i monti e le valli
rifuggiossi, come narrammo, in Milano, egli dischiuse agli infelici
spontaneamente una casa dove ogni giorno venivano loro distribuiti
alimenti: le schiere de’ poveri rifocillati il mattino con pane e
minestra, avevano per quel giorno certa la vita, cui minacciava la
fame[123].

E siccome i poveri, allettati da quella elemosina, accorrevano sempre
più numerosi alla città, e molti, sfiniti per languore, giacevano
moribondi per le strade, esalando l’ultimo fiato prima di poter
ricevere alcun alimento, il Cardinale con antiveggenza paterna faceva
girare de’ sacerdoti[124], che a quei moribondi porgevano cibi e
bevande confortanti, e li munivano ad un tempo de’ conforti religiosi;
conducendoli poscia in attigue case, ove col necessario riposo e coi
rimedj potessero riaversi. Cotesta caritatevole istituzione continuò
fintanto che il pubblico Consiglio giudicò opportuno raccogliere tutti
i poveri vaganti per la città e rinchiuderli nel Lazzaretto.

Non per questo desistè Federico di nutrire in egual modo e riconfortare
i molti che, o nojati della disciplina del Lazzaretto e della chiusura
ne uscivano, o giungevano nuovi in Milano, abbandonati i proprj
abituri. Egli sostenne, insieme al Consiglio, il peso di quegli
affamati fin dove concedevano le sue rendite: e in lui trovarono
ancora sostegno i miserabili quando, usciti dal Lazzaretto, riempirono
e contaminarono di nuovo la città. La carità del nostro Pastore è
paragonabile alla carità e munificenza del municipio verso l’afflitta
patria, e verso tanto popolo ridotto agli estremi[125]. Il qual
paragone sarà valutato dagli imparziali, poichè siccome Federico era
anch’egli uno de’ cittadini, così la gloria comune di questo esempio
vivrà duratura nei secoli.


III.

Suoi fatti durante la peste.

Assecondando i magnati, che alle prime minaccie del contagio fecero
quanto loro suggeriva il timore e l’esperienza, Federico si diede
premura per salvare i corpi, e più assai le anime del proprio gregge.
Nè credendosi atto a sostenere da solo sì grave incarico, raccoglieva
ogni giorno a consiglio i più prudenti suoi sacerdoti, eccitandoli
ansiosamente ad esporre le loro opinioni, ed agiva in conformità delle
medesime e della propria saggezza.

Ottimo consigliere, sulla cui autorità riposava sicuro, era S. Carlo,
che scrisse Commentarj ed il _Memoriale intorno la pestilenza del suo
tempo_ (1576). Traendo norma da tali Memorie, altre aggiungendone,
Federico stabilì il metodo di tenersi in quelle calamitose circostanze,
additando ai sacerdoti ed al popolo la via che guidava a salvamento.
Indicò che cosa dovessero fare, che cosa evitare, per non contrar la
peste coll’alito o col contatto, e per non inasprire vieppiù l’ira
divina.

Tramise a’ sacerdoti tutte le facoltà ch’egli aveva dalla Santa
Sede per assolvere i moribondi, e nuove impetronne dal Pontefice,
estendendole a tutto quanto il clero della diocesi, affinchè non
mancassero ai peccatori negli estremi momenti i soccorsi della
religione. Tali provvedimenti furono disposti dal Cardinale allorquando
andavano crescendo i rumori di peste; ma non appena ella avvicinossi a
Milano, crebbe in lui lo zelo; teneva continui colloquj coi decurioni,
inanimava i parrochi, calmava lo spavento, ed offriva premj perchè
si affrontassero con coraggio pericoli ormai inevitabili. Eccitò
anche i superiori de’ monasteri ed i capi degli Ordini religiosi, i
quali, mossi dalla celebrità dell’Arcivescovo, volonterosi accorsero,
offerendo l’opera loro, pronti ad ubbidire ogni suo cenno. Ed egli
gli encomiava, dando promessa, che oltre l’eterno premio che sperar
potevano dal cielo, terrebbe conto della carità e dell’ossequio
dei singoli, ricompensandoli in modo, che riuscisse a vantaggio de’
rispettivi loro Ordini.

Assicurava che non si muoverebbe dal suo posto finchè la peste durasse
in Milano[126], non uscendo nè dalla città, nè dal palazzo se non
chiamato dalla salute del popolo o da qualche pubblica necessità.
E attenne la promessa fino al punto che da taluni si tacciò la sua
costanza di pertinacia; imperocchè, morti quasi tutti i famigliari,
Federico, desolato e mancante de’ necessarj sussidj, ricusò di partire,
contro le preghiere degli amici, dei grandi, degli stessi medici,
i quali lo persuadevano a ritirarsi per alcun tempo in una salubre
villa[127].

Pregato, andava a visitare i Lazzaretti, e affacciavasi alle porte
ed alle finestre dei poveri tenuti in sequestro per soccorrerli. Non
vietava l’accesso a chiunque voleva parlargli, non tralasciava i sacri
riti e le cerimonie e le omelie, e rimproverava con voce paterna
ora dal pulpito, ora sui carrobbj chi fosse restio a riconoscere
gli oracoli e gli avvisi del cielo. Fui presente anch’io allorquando
predicò al fonte di San Barnaba[128], ove si recò processionalmente
a ordinarvi preghiere affine d’impetrare soccorso dal cielo per mezzo
dell’Apostolo, che le antiche memorie di Milano e la comune credenza
acclamano fondatore e primo vescovo della Chiesa nostra.

Non erano ancora serrate tutte le case, come avvenne in appresso, non
ancora i cittadini si evitavano l’un l’altro, non era la città ancor
ridotta in solitudine, e il popolo, che in breve cader doveva vittima
del contagio, tuttora in vita, seguiva alla rinfusa l’Arcivescovo
supplicante, il quale col ricordare, per la scarna e pallida faccia,
S. Carlo, traeva le lagrime sugli occhi ed i sospiri dall’imo petto
ai molti, che rammentavano averlo veduto girare orando per la città
nell’antecedente peste.

Celebrato che fu al fonte di San Barnaba il divino sacrificio, Federico
salì in pulpito, e con voce quando chiara e sonora, quando rauca e
flebile, facendosi intendere in tutto il circostante campo, vaticinò,
come i profeti, ciocchè avvenne.

«Milanesi! popolo infelice! moltitudine che stai per divenir preda
della peste! Già già ti sovrastano le saette della giustizia divina:
andrete cadaveri sotterra, e le anime vostre dovranno presentarsi al
tribunale di Dio. Ma tu, o popolo, non mi vuoi credere finchè non avrai
riempiti di morti le fosse, finchè le tue carni non saranno pasto ai
vermi!» E continuò di questo tenore.

Allorchè poi si chiusero tutte le case della città, e fu pieno
il Lazzaretto, l’Arcivescovo scelse i più cospicui del clero che
attendessero ai singoli ufficj, invigilando ai loro soggetti. E non
fidandosi alla cieca nè degli uni, nè degli altri, mandava in segreto
alcuni suoi fidi, che ogni giorno lo informassero esattamente di tutto
quanto accadeva. Voleva egli sapere prima il numero dei morti; indi i
casi speciali, e se alcuno ve n’era nuovo atroce, miserando, o andava
all’istante egli stesso[129], ovvero spediva altri, porgendo tutti
i possibili soccorsi. Rimproverava e puniva, colla severità dello
sguardo, i renitenti al loro dovere; ed era il gastigo da lui adoperato
quando aveva giusto motivo di malcontento. Un sacerdote che abbandonò
il proprio gregge, fu da Federico costretto a tornare, sotto pena
di sospensione: con tutti poi largheggiò di ricompense, estendendole
anche ai loro parenti. I parrochi furono i più benemeriti, poichè fra
le azioni mirabili ch’io narrai, primeggiò l’alacrità indicibile colla
quale essi sprezzarono i pericoli ed affrontarono la morte, mentre
servivano a Dio, alla patria, al Cardinale.

Vidersi a que’ giorni i sacerdoti accorrere in mezzo al popolo
moribondo: spettacolo orrendo e in un pietoso, che forse più non
rinnoverassi! A tutte le ore della notte andavano in giro per le case
dov’eranvi malati o morti di peste per assisterli ed amministrar loro
i sacramenti. Alcuni de’ medesimi contrassero la peste, e morirono
insieme con tutta la famiglia; altri, superstiti ai loro cari,
non vinti dall’angoscia, nè l’immagine della morte, continuarono
imperterriti fino all’ultimo nell’adempimento de’ proprj doveri.
I parrochi, i canonici, i semplici preti si meritarono lodi per sì
esemplare condotta; e molti, cui sarebbe stato lecito l’allontanarsi,
rimasero al posto, fungendo il ministero di parrochi. I Domenicani
specialmente, i Teatini, i Frati Minori, distinti pel cappuccio, ed i
zoccoli[130] presero parte alle fatiche ed al martirio; e come martiri
gli ammirava l’intera città. Accrebbero essi con tali meriti la nobiltà
de’ proprj Ordini, e i Milanesi gli tennero e li terranno sempre in
luogo di padri. Bello vedere quei religiosi frammisti ai parrochi
gareggiando nella gloriosa lotta contro i pericoli e la morte! bello
e consolante in mezzo a tanto lutto vedere i parrochi raddoppiare gli
sforzi per uscir vincitori, e se pure venivano da’ zelanti religiosi
superati, andarne lieti come d’un loro trionfo.

Il Viatico portavasi intorno per le strade coll’apparato e coi lumi
che permettevano le circostanze: ove incontravasi qualche moribondo
giacente per terra, sostavano, ed uditane la confessione, gli porgevano
il pane degli Angeli, il che era d’eccitamento agli altri a ricevere
il santo Viatico, che loro schiudesse le porte del cielo. Frati e
sacerdoti battevano alle porte, salivano con scale per le finestre,
recando seco vivande e distribuendole con pronta e fervorosa carità.
Traevano seco loro dal palazzo del Cardinale cestelli con entro frutti
e ghiottornie che stuzzicassero il palato anche de’ moribondi.

Mentr’essi così provvedevano ai bisogni corporali, ed in uno delle
anime, sopraggiungeva sovente il Cardinale medesimo, con gran gioja
dei malati e de’ pietosi sacerdoti che gli assistevano. E se egli ne
incontrava alcuno portante sotto il serico ombrello il Viatico in
qualche casa d’appestati, il seguiva, e ritornava fino alla chiesa
d’ond’era uscito. Accadde un giorno, cosa degna d’essere ricordata: una
vecchia ed un uomo d’età matura s’inginocchiarono dinanzi un sacerdote
che portava il Viatico, chiedendo di comunicarsi, sebbene non avessero
lavata l’anima dalle peccata. Il cardinale presente li rimbrottò
in tal tuono, che agli astanti sembrò udire un profetico vaticinio.
«Perchè qui venite con falsa e intempestiva pietà? perchè non mondarvi
col Sacramento della Penitenza innanzi d’accostarvi al tremendo
mistero dell’Eucaristia?» I due se ne andarono confusi, e palesarono,
confessandosi, il tentato sacrilegio.

Adoperavasi il Cardinale che l’augustissimo Sacramento Eucaristico
venisse amministrato con decoro in mezzo a tanta confusione d’uomini e
di cose. E ciò fu di grande vantaggio spirituale.


IV.

Lazzaretto ecclesiastico istituito da Federico.

Indegna e sconcia cosa era non solo il vedere, ma il pensare che i
sacri ministri venivano ammonticchiati sui carri, insieme fin anche a’
nudi cadaveri di donne, e gettati alla rinfusa nelle fosse senza onor
di sepolcro. Turpe spettacolo e turpe uso, conseguenza di quei giorni
di miserie e calamità! L’edificio che dicesi la Canonica, apparteneva
già agli Umiliati, i quali vi passavano i giorni nell’inerzia colle
inutili loro ricchezze: incorsero le ecclesiastiche censure, e dopo
l’inaudito misfatto, abolito l’Ordine[131], vi sottentrarono i chierici
che ivi hanno stanza, e vengono educati al sacerdozio. Federico destinò
codesto edificio per lazzaretto ecclesiastico, all’uopo di trasportarvi
non già tutti i preti ed i chierici appestati, ma quelli soltanto che
prendessero il contagio nell’esercizio del loro sacro ministerio.

Vi mise a direttore Girolamo Settala[132], fratello del protofisico,
e che da arciprete di Monza era venuto penitenziere maggiore in
Milano; uomo di tal sapere e virtù, che pochi ne ebbe d’eguali la
Chiesa nostra, e pochi forse ne vedranno in futuro le altre chiese e
città. Lui morto, vi mandò Primicerio Visconti, nipote suo per parte
di sorella, nominato dal principio di questo libro. I due accennati
direttori del lazzaretto ecclesiastico scelsero parecchj tra i più
idonei della veneranda Congregazione degli Oblati, i quali avessero
cura che i sacerdoti infermi alla Canonica fossero ben trattati, e in
uno non mancassero dei sussidj della religione a ben morire. Grandi
provviste eransi fatte nel locale delle cose necessarie; e il Cardinale
ordinò si mandasse ivi dal suo palazzo ciocchè abbisognava.

Eranvi medici, chirurghi, inservienti ed altri mercenarj per supplire
alla meglio qualora alcuno di loro perisse. Morti i primi Oblati
nel lazzaretto[133], altri di quella Congregazione sottentrarono
alacremente, desiderosi della palma e per far cosa grata al Cardinale,
e perchè reputavano una gloria l’avventurare la vita in quell’ufficio
di carità. Siccome però le ricchezze del Borromeo ed i denari del
pubblico mal bastavano a tante spese, s’invitarono i parrochi, i
canonici e gli altri ecclesiastici della città a voler dare quella
somma che ciascuno poteva per sostenere quel lazzaretto, aperto a
loro vantaggio, e del quale forse ciascuno avrebbe bisogno. Non pochi
inviarono denaro per sentimento di carità, altri per rossore, altri
perchè ricchi.

Molti danarosi, che trovavansi malati in quel lazzaretto, vedendo
avvicinarsi la morte, testarono ai custodi le ricchezze che seco
non potevano portare, e che ormai dispregiavano, rivolti i desiderj
ai beni dell’altra vita. In tal modo s’accrebbero i fondi di quella
caritatevole istituzione. Sussistè per quattro mesi il lazzaretto
nel locale della Canonica, con numero variabile di ammalati, però non
minori giammai di sessanta. Ognuno di essi, guarendo, assisteva gli
altri, ed in tal guisa mostravano la loro riconoscenza della ricuperata
salute a Dio, al Cardinale ed alla nostra Chiesa.


V.

Denaro portato al Cardinale da due contadini e dal Lomellini di Genova.

Il 22 giugno stava Federico nella sala del palazzo in cui si custodisce
la croce arcivescovile. Erano due ore di giorno, ed egli, celebrata
nella domestica cappella la messa, passeggiava su e giù a lenti passi
immerso ne’ suoi pensieri, ovvero appoggiandosi al muro, dava udienza
a chiunque bramasse parlargli, essendo a tutti libera l’entrata: così
soleva impiegare il Cardinale quell’ora mattutina a sollievo dell’animo
oppresso da tante cure. Io mi trovava a caso in un angolo di quella
sala vicino alla porta, e vidi per la lunga fila di stanze inoltrarsi a
pari passo due contadini d’età quasi eguale, d’onesta fisonomia, ma con
vesti ancora più vili di quelle che indossano i bifolchi.

Entrati alla foggia contadinesca, s’inginocchiarono innanzi il
Cardinale, e quegli che pareva il maggiore, disse:

«Signore, noi siamo due fratelli coltivatori d’un campicello, che
nostro padre, contadino anch’esso, ci lasciò. Abbiamo nascosti in seno
e cuciti negli abiti due mila zecchini, denaro raccolto colle nostre
fatiche e a forza d’economia, ed è nostra intenzione deporre quest’oro
ai piedi di Vostra Eminenza, affinchè lo adoperi come crede meglio».

Una sì inaspettata offerta fece stupire l’Arcivescovo, il quale
sospettando un equivoco, ovvero che i due contadini fossero pazzi,
rispose badassero bene a quanto dicevano.

L’altro replicò essere sani di mente, e che parlavano da vero; allora
l’Arcivescovo, chiamato uno de’ suoi famigli, ordinò li conducesse
a parlare coll’arcidiacono. Scesi per le interne scale e introdotti
alla sua presenza, dopo alcune parole sulla loro intenzione, levate
le casacche, trassero fuori parecchi cartocci di zecchini, e avendoli
numerati, chiesero che un pubblico notajo rogasse un atto, qualmente
il denaro da loro portato rimanesse nelle mani dell’Arcivescovo da
spendersi a suo beneplacito: firmata la quittanza, che l’arcidiacono
rilasciò a nome di Federico, i due contadini la riposero e se ne
andarono.

La narrata avventura, della quale fui testimonio, m’ispirò allora e
sempre grande venerazione per l’animo sublime del Cardinale, che,
sprezzando l’oro, non volle giammai contaminare le mani toccando
l’altrui denaro. Anzi egli non soleva maneggiare neppure il proprio; e
spinse la delicatezza fino a ricusare in que’ giorni somme ingentissime
offerte da alcuni donatori.

Viveva in Milano un Lomellini, ricchissimo genovese, d’alta statura,
di colorito bruno, e che girava per città con abiti da privato anzichè
da gran signore. Egli, o per negozj, o perchè il soggiorno di Genova
gli fosse venuto a noja, dimorava di quando in quando in Milano,
ed era degno di esserne cittadino. Uomo pio e caritatevole, inviava
segrete limosine a’ monasteri, quando sapeva esservi alcun urgente
bisogno, e dicevasi aver egli portati in più volte tre mila zecchini
da distribuirsi, come avrebbe creduto opportuno il Cardinale, che molto
encomiò la pietà e la splendidezza del forastiero. Ma ritornato questi
con dieci mila zecchini e più, Federico, sorpreso per l’entità di tal
somma, rimase titubante, e corrugò la fronte sul riflesso che non fosse
decoroso per l’Arcivescovo il ricevere tanto denaro da un privato.
Indi, rasserenandosi, rispose: «Date piuttosto quest’oro ad altri che
ne abbiano maggior bisogno». Il Lomellini partì stupefatto, e come si
seppe in seguito, distribuì parte del denaro a persone avvezze a non
rifiutarlo mai, le quali, accettato ben volentieri sì magnifico dono,
comperarono molti sacri vasi di gran costo, ed abbellirono la loro
chiesa di colonne, statue, pitture e dorate soffitta[134]. Il residuo
lo impiegò a sollievo de’ pubblici bisogni, che erano molti ed urgenti
a quei giorni.


VI.

Avvisi e consigli del Cardinale al suo clero.

Esiste una lunga nota di rimedj e di cautele pubblicate da Federico per
uso del clero, ed io credo non inopportuno riferirne le principali,
e per mostrare l’attiva vigilanza del nostro Pastore, e per utilità
altrui se mai in alcun luogo, che Iddio tolga, ne venisse il bisogno.
Quanto al battesimo de’ bambini nati da donne appestate e in pericolo
di vita, Federico ingiungeva:

«Ove occorra a te, parroco del luogo, o a te, sacerdote, che ne
adempi le funzioni, di battezzare uno di codesti bambini, procura di
avvicinare alla faccia il fuoco per dissipare l’aria pestilenziale
d’intorno al volto del bambino, o almeno correggerla: adopera altresì
absenzio o erbe aromatiche per preservativo.

«Quanto all’amministrare il sacramento della penitenza, la seconda
porta di salvezza dopo il battesimo, ti regolerai nel modo seguente.
Se l’ammalato trovasi in istato che si possa muovere, lo farai venire
in luogo dove entrambi siate all’aria aperta; ed ivi ne udirai la
confessione; che se non può muoversi, ti collocherai vicino alla
finestra o sull’uscio in tale distanza però, che i segreti della
confessione non corrano pericolo d’essere uditi al difuori. Ove poi
necessitasse l’avvicinarsi di più, bada a non toccare colla tua veste
gli abiti o le coperte del malato, ed abbi la massima cura di non
aspirare l’alito suo[135], tenendo, per quanto è fattibile, la faccia
rivolta dall’opposta parte della sua bocca.

«La camera in cui sarete dovrà purgarsi con qualche suffumigio per
scacciarne la puzza e l’aria contagiosa. Ciò si ottiene con facilità,
bruciando lauro, ginepro od altre simili bacche; e in caso estremo, che
null’altro si trovi, anche paglia. Giova altresì umettare con aceto
la fronte e le tempia, ed avvicinare al naso pallottoline d’avorio o
d’osso con entro spugne odorifere, come si usò anche nell’ultima peste.
Voi, usando tali cautele e tenendovi riguardati, avrete ad ogni modo
almeno il merito dell’ubbidienza».

Con eguale premura il Cardinale prescrisse a’ suoi sacerdoti
quant’altro concerneva il loro ministero. Poter essi tralasciare
del tutto il sacramento dell’estrema unzione, che prepara all’ultima
lotta i moribondi; che se alcun sacerdote d’esimia pietà voleva pure
amministrarlo, ungesse soltanto l’occhio, omettendo le unzioni meno
necessarie alle reni ed alle gambe; ingiungesse poi al malato di
giacere colla bocca chiusa e il corpo ricoperto, per evitare di contrar
la peste dall’alito o dalle esalazioni di lui. Quanto ai matrimonj,
diceva Federico, che non abbisognando contatto, il sacerdote poteva
tenersi lontano dagli sposi mentre pronunziava le parole del sacro
rito. Circa poi alla messa, mistero del quale è impossibile escludere
il popolo, che si raccoglie promiscuamente nelle chiese, ordinava di
collocare un altare portatile vicino alla porta del tempio, affinchè la
gente potesse udire la messa in modo che nè il sacerdote contragga la
peste dall’accalcata moltitudine, nè questa ritorni a casa con maggior
numero di appestati che non aveva al suo venire[136]. Però badasse il
celebrante di non adoperare paramenti usati da altro sacerdote morto di
peste.

Morto appena un prete, tutti i sacri arredi, i camici, le tovaglie, i
pannolini e le robe medesime del defunto, dovevansi spurgare e porre
in disparte. Soggiungeva che sarebbe anzi meglio avanti la sua morte,
ai primi indizj di vicino pericolo, mettere in custodia gli oggetti
preziosi della chiesa e quanto è difficile a spurgarsi, facendone
un esatto elenco, affinchè, cessata la peste, si potessero scernere
le cose integre dalle sospette. Anche le cerimonie e i riti funebri
temperò a seconda del pericolo.

Tutte le quali cose, quantunque di minor conto, io le ho riferite
per vieppiù chiaramente mostrare la vigilanza del nostro Pastore, che
nulla trascurava, e perchè argomenti il lettore quali fossero le cure
di lui nelle cose di rilievo, dacchè anche delle più lievi cotanto
s’interessava.

Le pastorali diramate dall’Arcivescovo ai parrochi ed ai vicari della
milanese diocesi, esprimono ancora più al vivo i sentimenti di lui
per le anime del suo gregge. Le parole di Federico sembrano quelle
dell’apostolo Paolo.

«Vestite viscere di carità: vedete il gregge, vedete ridotti
all’estremo bisogno i figli, che la santa Madre Chiesa vi partorì e
vi affidò. Siate pronti come noi siamo pronti a perdere questa vita
mortale anzichè abbandonare la nostra famiglia, la casa, i figliuoli.
Abbracciate la peste come vita e consolazione, purchè possiate
guadagnare un’anima a Cristo. La modestia, la sobrietà e la pudicizia
vostra e tutte le virtù risplendano come fiaccole. Ciò placherà l’ira
celeste».

Altre ammonizioni quasi colle stesse parole ritrovai nelle lettere
arcivescovili da lui dirette ai parrochi, cui inculcava ammonissero
sovente il popolo di non dissimulare e tener occulta la peste, perocchè
il farlo era gravissimo peccato.


VII.

Premura del Cardinale pei monasteri delle Sacre Vergini.

Federico sovvenne, premuroso, con ogni sorta di soccorsi e conforti,
le vergini consacrate a Dio ne’ monasteri, dove il debol sesso vive
dal sociale consorzio segregato. Egli prescrisse quanto doveva farsi
subito e per l’avvenire, affinchè quelle religiose e solitarie vergini
conservassero integra la fama, tranquillo l’animo, nè mancassero
loro i necessarj alimenti. Provvide che si comperassero di tempo
in tempo i cibi duraturi per alcuni giorni, ordinando, fra le altre
cose, di evitare in tali compere gli inutili discorsi coi venditori e
l’intromettersi di molte persone ne’ monasteri, non esclusi i servi,
perchè sempre sospetti.

Le cose poi che soglionsi introdurre pel torno fossero senza panni
od involucro, ma poste in vasi di stagno, di rame, di vetro. I
quali vasi e le cordicelle non si ricevessero entro il monastero,
ma cavato fuori il contenuto nei medesimi, si restituissero subito,
mandandoli al di fuori. Così pure non dovevasi per allora mandar fuori
stoviglie, canestri, cesti, ovvero usciti una volta che fossero non più
riprenderli e toccarli. Proibì altresì di ricevere scrigni, casse, e
quant’altri oggetti i parenti, gli amici o i benefattori del monastero
e dell’Ordine volessero dare in custodia alle sacre vergini.

Stabilì e circoscrisse il numero degli inservienti, e limitò pure
i soliti cicalecci al parlatorio, le lettere femminili, i donativi
di dolci ed altre futilità quasi illecite sempre, e in quel tempo
pericolose e fatali, perchè non vietandole avrebbero introdotto il
contagio ne’ monasteri.


VIII.

Il Cardinale presagisce per ispirazione divina la prossima cessazione
della pestilenza, e si accinge a riordinare gli studj ecclesiastici e
le arti.

Il Cardinale, quando gli fu riferito essere morti sessanta parrochi
urbani[137], lagrimò per sì gran strage. E i pochi ecclesiastici
sopravvissuti che stavano al suo fianco nel solitario palazzo,
narrarono come in quel momento di costernazione e di lutto lo videro
rivolgersi all’effigie di Sant’Ambrogio con tal espressione di
fisonomia e muovere di labbra, che udivansi lagni misti a preghiere
all’antico pastore della città nostra, affinchè non lasciasse tutto
perire il suo clero e la sua chiesa. E notarono altresì che dopo quel
colloquio s’avvicinò a loro con fronte rasserenata come se avesse
ricevuta la favorevole risposta, che cesserebbe la pestilenza, e che
Iddio, placato, consentiva a salvare l’ambrosiana diocesi.

Da quel giorno l’animo del Cardinale s’andò calmando; e insieme scemava
gradatamente la peste, finchè all’incominciar del settembre, Federico,
vieppiù rassicuratosi, celebrò con solenne pompa la Natività di Maria,
e recitando, giusta il consueto, l’omelia non esitò a promettere al
suo popolo giorni fausti e lieti, ed il termine del contagio; e così
avvenne. Ricuperata che ebbe Milano la salute, e sgombro il nembo che
aveva ogni cosa ottenebrata, rifulse di nuovo lo zelo di Federico per
gli studj e le belle arti, da cui l’orribile calamità l’aveva a forza
distolto.

Egli diede opera a riordinare i seminarj pei giovani, a proporre
premj, cercar maestri e dotti, e tutti i mezzi opportuni ad educare gli
ingegni. E siccome morti in tanta strage esimj pittori e scultori, le
belle arti, delizia e decoro di Milano, erano abbandonate, il Borromeo
attese con tutta la premura a far rifiorire in città le arti stesse, le
lettere e le maggiori scienze. Riaprì a tal uopo nella Biblioteca e nel
Collegio Ambrosiano scuole d’ambo i generi; e comperati a giusto prezzo
i lavori d’illustri artisti che giacevano negletti nelle deserte case,
li trasportò nel museo della Biblioteca medesima. Non ebbe il Cardinale
cure più gradite di queste, com’io credo avere più diffusamente esposto
nella vita che di lui scrissi.


IX.

Opinioni e sentenze di Federico Borromeo circa la peste.

Narrati i precedenti fatti ch’io vidi, o udii, mi diedi ad indagare
e raccogliere d’ogni parte altre notizie che viemeglio illustrino la
memoria del Cardinale, e la tramandino all’esempio dei posteri. In
tali ricerche ho rinvenuto un breve manoscritto[138] in cui, secondo
era uso, notava, anche fra tanta calamità della patria, le amene
lucubrazioni della feconda sua mente, sempre intenta al filosofare. Ed
io, non volendo defraudare lui di questa gloria, e gli uomini d’ingegno
del frutto che trar ponno da’ suoi utili ed eleganti scritti, riporterò
in codesta mia storia molti fatti belli e insieme tristissimi, che
l’Arcivescovo, testimonio oculare della pestilenza, lasciò scritti,
ovvero raccontò ne’ discorsi famigliari. In quel modo che antichi
scrittori conservarono i detti memorabili di Socrate e l’altissima
sapienza di lui, così noi conserveremo i commentarj e i detti di
Federico intorno la peste.

Egli incomincia a paragonare la strage di Milano con quella di
Gerusalemme al tempo de’ Maccabei, quando il re Antioco, ministro
dell’ira divina, la desolò; e le attribuisce entrambe ai giusti e
clementi giudizj d’Iddio; affermando che quei castighi furono prove
della benignità e misericordia di lui, perchè il popolo Ebreo ed i
Milanesi divenissero migliori. E soggiungeva, che mirando egli le
buone opere e la pietà dei cittadini, sperava non si rinnovasse più sì
tremendo esempio dell’ira celeste; quantunque non sia lecito all’uomo
scrutare gli arcani della Provvidenza. La quale sentenza, da lui
profferita, sarà sempre un conforto ed una grata testimonianza per la
nostra metropoli.

Viene poscia a esporre la sua opinione circa l’origine della peste,
col senno che in esso univasi ai talenti letterarj ed alle molteplici
cognizioni, affermando che, sebbene scoppiata per divino volere,
avevano contribuita a spargerla anche cause umane. Appoggiandosi
all’autorità di Omero, citato da gravissimi filosofi e dai Santi Padri,
dimostra che non senza ragione il poeta introduce Apollo che vibra i
dardi avvelenati sul campo de’ Greci, per indicare che la Divinità si
serve anche di questo mezzo per castigare i mortali. E da ciò conferma
che la nostra pestilenza fu divino castigo, notando a maggior prova che
l’esercito alemanno, il quale recò a noi il contagio, ne andò quasi
immune; e che le truppe spagnuole occupate all’assedio di Casale,
ricevendo quasi giornalmente viveri dalla Lombardia, non contrassero
il male per tale comunicazione, essendo manifestamente così piaciuto a
Dio. Il quale volle certi luoghi ed uomini punire con tale morbo, ed
altri risparmiare, serbandoli forse ad altre pene. Anche nel recinto
del Lazzaretto, quella notte che poteva essere l’ultima ai rinchiusi
per l’allagamento, furono salvi dalle acque coloro che poscia la
peste tolse di vita. Laonde chiaro appariva essere destinato che tali
uomini dovevano morire di contagio. Stabilita in tal guisa una causa
soprannaturale, ragionava delle umane cose come segue, non diversamente
da quanto noi abbiamo esposto.

«La fame, dice Federico, originò il contagio; e la fame venne dalla
sterilità dei campi e più dai soprusi delle soldatesche e dalle
violenze usate dagli stranieri a questo paese. È la lombarda gente
forte e in uno delicata: la robustezza sua la rende indomita alla
guerra ed alle fatiche come attestano le storie; ma d’altronde sprezza
ed abborre, per superbia e mollezza, gli incomodi a’ quali aggiungasi
anche l’avvilimento. Laonde essendo ne’ Lombardi più vivo il senso dei
mali, la noja, la disperazione e l’impazienza loro li rese più proclivi
a contrarre la peste».

Tale è l’opinione di Federico intorno la duplice origine del
morbo; quanto a inganni ed artificj di principi e re stranieri per
diffonderlo, ed a congiure per devastare Milano, egli nega ve ne
siano stati. Circa l’unto venefico per spargere la peste, le misture
avvelenate, i veneficj, egli lascia in dubbio se realmente ve ne
furono, ovvero se li abbia sognati la vanità ed il timore degli uomini.
Pur nondimeno mostrasi proclive a dar fede a quanto fu detto e creduto,
che alcuni facinorosi e insani immaginassero la scelleraggine degli
unti nella speranza di rubare; e paragona la loro follia alla stoltezza
di certe arti. Che mai non fantasticano gli astrologi e gli alchimisti?
così del pari gli untori avevano forse vagheggiato un immenso bottino
e cambiamento di fortuna qualora si estinguessero le famiglie e si
distruggessero le case; ad ogni modo è cosa incerta ed ancora nascosta
nel mistero, ciò solo è sicuro ed evidente, che la peste afflisse
Milano per voler celeste, affinchè i cittadini si emendassero.

Dopo le stragi della pestilenza, apparvero in maggior numero che
per l’innanzi delitti e libidini dei plebei e de’ nobili; della
quale corruttela e perversità, molteplici furono per avventura le
cause e principalissima la seguente. Gli uomini, cessata la peste,
insuperbirono, abbandonandosi ad una gioja smodata e puerile come se
avessero trionfato della morte, essendo favoriti dalla prospera loro
sorte nell’universale calamità. Siccome quei che privi a lungo di
cibo e di vino, non appena vien loro fatto d’averne se ne riempiono
l’epa, così costoro, immergendosi in ogni genere di voluttà delle quali
credevano essere rimasti defraudati, si gettarono più sfrenatamente ad
ogni vizio, gozzovigliarono, lascivirono.

Le esposte cose rinvenni scritte nelle Memorie che il Cardinale
compilava di mano in mano.

In esse con eguale diligenza e saggezza notò e raccolse quanto
riferivasi alle arti di spargere il contagio ed all’origine loro;
ragionò de’ mostri, dell’orribile aspetto della peste, della penitenza
dei cittadini e frequenza ai sacri misteri de’ sacerdoti: descrisse i
vani specifici adoperati dal volgo per evitare il contagio; ed i rimedj
salutari che potevano adoperarsi per ristorare, dopo sì gran strage, la
città, e far rifiorire le arti. Tali ed altre cose desunte dalle sue
Memorie, e qui ripetute, hanno tanta maggiore autorità, in quantochè
lo Scrittore, per grado e per santità eminente, discuteva con somma
prudenza ogni fatto riferito.

Nel capitolo DEGLI UNGUENTI PESTIFERI, Federico s’esprime in questa
guisa: «Agevolmente e volentieri si mischia la verità colla menzogna,
le cose veridiche colle false; quindi intorno la peste manufatta molto
fu detto che può essere creduto, o confutato con pari facilità. E noi
abbiamo ammesse alcune cose, mentre siam d’avviso che a certe altre
si possa negare credenza. Non esitiamo di affermare per sicuro che
furonvi molti i quali per iscusarsi della loro riprovevole negligenza,
divulgavano che venne loro attaccata la peste cogli unguenti, mentre la
contrassero coll’alito od il contatto.

«Circa le arti dell’ungere, raccontavansi le seguenti cose, se vere
o false lo ignoro. Aggirarsi e vagarsi per Milano taluni con carte
avvelenate che, sporte come suppliche agli incauti, contaminavano
e davan morte a chi le pigliava. La terra, i grani e perfino le
picciole monete distribuite in elemosina a’ poveri, essere asperse
di quella materia venefica. Aggiungevano che si appiccicavano gli
unti alle pareti col mezzo di pertiche e soffietti, e che la rabbia
de’ congiurati untori giunse a tale, che uno dei loro emissarj cercò
d’introdursi in un monastero, dove ammesso, recò, sotto velo di
santimonia, il contagio, ungendo dal primo all’ultimo gl’infelici
monaci, i quali tutti perirono prima che venisse discoperta la frode.

«Questi ed altri racconti che giravano in bocca di molti, noi nè
crediamo, dice il Cardinale, nè osiamo dire temerariamente divulgate».

Quanto poi al furore dell’ungere si esprime come segue.

«Nel Lazzaretto un untore confessò in pubblico d’aver fatto patto col
demonio, e additò il luogo ove aveva nascosti i barattoli e i vasi
dei veleni, ed appena ebbe finito di parlare, spirò. Momenti prima,
stimolato da disperazione e rabbia, egli aveva cercato un pugnale per
uccidersi; ma non riuscendogli ottenerlo, tentò segarsi la gola con una
pietra tagliente. Una donna confessato il delitto, accusò la figlia sua
partecipe e ministra: arrestata immediatamente, si rinvennero presso
di lei i barattoli e gli altri stromenti delle unzioni. Un tale reo
convinto dello stesso misfatto traducevasi al supplizio sopra un carro
fra la moltitudine accorsa allo spettacolo, martoriato, a tenore della
sentenza, per tutta la strada dal carnefice, il quale con tenaglie
roventi gli stringeva le braccia e le nude membra. Il paziente,
additando uno degli spettatori, disse ai satelliti d’arrestarlo,
essendo reo d’aver sparsi in sua compagnia gli unti, facendo morire un
gran numero di persone.

Questi ed altri casi furono raccolti e narrati dal Cardinale, ed io
ne trascelsi alcuni pochi per offrire un saggio ed un esempio della
stoltezza di quegli untori. Ma poichè, siccome accennai più sopra, gli
animi ondeggiavano in molte dubbiezze circa la questione se vi furono
realmente unti ed un’arte di spargerli, ovvero se fu uno di quei vani
timori senza fondamento che spesso fan delirare gli uomini caduti
nell’estremo de’ mali[139]; io, per conchiudere sulle controverse
opinioni, riferirò un passo del medesimo Federico, che pone ad esame le
ragioni addotte da entrambe le parti.

«Consta, dic’egli, non essere stata questa la prima o l’unica
pestilenza che si dice composta per frode e colpa dei mortali, poichè e
in Italia e fuori ebbero luogo più d’una volta somiglianti sfrenatezze.
Esiste un libro della peste manufatta, prova non dubbia che gli uomini
inferocirono altre volte a danno della vita e della pubblica salute,
imitando in certa guisa le divine saette, con scellerate invenzioni,
per compiere il loro delitto. Nè questa è cosa di facile esecuzione,
sibbene soggetta a molte e incredibili difficoltà, come si riferisce
dell’arte degli alchimisti, i quali s’affannano a cuocere metalli e
trasmutarli, ma ad onta degli indicibili loro sforzi, invecchiano senza
riuscirvi. Gli untori però, trovato che abbiano i venefici unguenti,
paghi d’aver in mano questo colpevole mezzo, con molta facilità e
speditamente commettono il misfatto. Agli sfrenati appetiti degli
uomini ed a’ molteplici veleni che offre la natura, s’aggiunse il
potere dei demonj, nemici sempre del genere umano, eccitatori e maestri
ai delitti con cui i mortali, nuocendosi tra loro, offrono all’eterno
nemico graditissima preda di corpi e di anime.

«Tutto ciò conferma la divulgata opinione degli unguenti e dei
veleni, ma alla stessa opponesi che tali misfatti erano ineseguibili
con soli mezzi privati, e d’altronde nessun re o principe ajutò
gli untori coll’autorità sua o con sussidj. Di più non si rinvenne
mai alcun capo od autore di codeste scellerate unzioni, a provare
l’insussistenza delle quali non è lieve congettura, l’essere svanite
da sè, mentre sarebbero, fuori di dubbio, continuate fino all’ultimo,
ove fossero state sparse con metodo sicuro. La storia pende dubbiosa
fra le due opposte sentenze. Soltanto sì Lombardi che stranieri,
di carattere violenti, usi alle lascivie, annojati dello scarso
stipendio de’ faticosi lavori e di soffrire la fame, conseguenze
tutte della condizione infelice dei tempi, incominciarono a far tra di
sè combriccole per rinvenire un termine ai proprj mali. Ajutati dal
demonio, il quale vieppiù aizzava i loro animi accesi, immaginarono
quest’arte di ungere, i cui elementi avevano per avventura imparati ne’
paesi, d’onde la peste fu recata in Lombardia.

«E non è cosa nuova che uomini scellerati, per sottrarsi a’ mali ed
incomodi, ricorrano ai delitti. In ogni secolo esisterono uomini che i
sentimenti e la fortuna eguale consociò, siccome attestano le storie
romane, dei congiurati di Catilina. Che poi codesti untori fossero i
più spregevoli e corrotti degli uomini, chiaro apparisce dal modo con
cui incontrarono la morte. Parecchi di loro, sprezzando gli inviti
all’eterna salute e i sacramenti, perseverarono torvi e impenitenti già
col laccio alla gola, talchè, dopo varj tentativi ed esortazioni, si
strangolavano come già dannati all’inferno.

«Uno tra essi, côlto sul fatto mentre ungeva, e tradotto senz’indugio
alla forca, veduto un carro sul quale stavano i Monatti sovra cadaveri
d’appestati, prese la corsa, e si slanciò in mezzo a quella pestifera
turba, quasi in sicurissimo asilo, fra i bubboni e la marcia grondante,
dove nessuno avria osato porre le mani su lui. Côlto da un nembo di
sassi e projettili, cadde ferito in più parti, e sul carro medesimo fu
tradotto alla fossa[140]».

Fin qui il Cardinale con prudenti sentenze; e continua a discutere con
maggiore sottigliezza, all’uso dei filosofi, sui veleni ed unguenti
per comporre, alimentare e spargere la peste, affinchè gli untori
avessero tutto l’agio di rapinare e far bottino in mezzo ai malati ed
ai cadaveri.

Il Cardinale narra poscia i seguenti miserandi e abbominevoli casi.

Ad una nobile fanciulla erasi talmente enfiata la lingua chiudendo la
chiostra dei denti, che per otto interi giorni non potè inghiottire
cibo. Tagliata dappoi l’ulcera, ed introdotta in bocca una cannuccia,
i genitori vi stillarono alcune goccie, che diedero all’inferma un
momentaneo ristoro; ma rincalzando il male, poco stante spirò. Un
monaco, per un eguale tumore, rimase dieci giorni senza potersi cibare,
e colla lingua sporgente dalle fauci due dita di lunghezza, sicchè tra
spasimi atroci, e presentando un ributtante spettacolo, morì. Una donna
nel Lazzaretto continuò cinque giorni a correre su e giù, percorrendo
sempre lo stesso tratto, nè fu possibile tenerla quieta, chè il morbo
l’aveva resa furente: stracciava la veste, nudandosi il corpo, e
spezzando i legami. Casi simili e la smania di andar nudi, riferisce
Tucidide, che nobilitò colla sua storia la peste di Atene.

Fuvvi un altro nella turba del Lazzaretto che avendo a nausea il
cibo, rimase per otto giorni quasi digiuno e senza parlare come fosse
privo di lingua, talchè fu ritenuto per morto. Il nono dì, ito alla
stalla dei Monatti, ed agguantato la notte un indomito cavallaccio, lo
inforcò, e cacciandolo a corsa fino all’alba senza respiro, l’affaticò
in guisa, che il cavalcatore e la bestia, cadendo esanimi a terra,
spirarono.

Uno rimase in vita, cadutegli ambidue le gambe incancrenite; un altro,
scoppiatogli un bubbone sul petto, mostrava, in respirare, orrenda
vista! i palpitanti precordj.

Un giovane monaco, smarrito il lume dell’intelletto e in delirio
per violenza del morbo, fuggì dal chiostro, e vagava per la città,
e dicendo esser egli il papa, sporgeva il piede al bacio. E siccome
niuno appagava questa pazza fantasia, si astenne dal cibo, risoluto di
morire. Il simulato ossequio fu rimedio all’infelice deliro, e venerato
come pontefice da taluni, consentì a prendere gli offerti alimenti, e
risanò dalla peste, e in uno della sua monomania.

Miseranda e ridicola fu l’insania d’un altro, il quale, immersosi
in uno stagno coll’acqua fino alle fauci, durò per tre giorni senza
pigliar cibo, canterellando d’aver trovato un asilo sicurissimo contro
i satelliti, e che gli erano stati derubati dieci mila zecchini avuti
in regalo dall’imperatore.

Un fenomeno quasi identico a quello della pestilenza d’Atene, secondo
racconta Tucidide, fu rimarcato anche tra noi, cioè che i moribondi
cercavano i pozzi e le acque in genere.

Orrendo spettacolo e ributtante a vedersi più d’ogni altro, fu che
malati ed anche gli uomini sani e robusti, stillando marcia e sangue
dalla bocca o dal naso, stramazzavano a terra, spirando al momento.

Il dolore di capo fece ad alcuni schizzar gli occhi ridendo, e
vantandosi di non aver indosso la peste, esalavano l’anima; altri si
precipitarono dalle finestre. Taluni vennero a rissa armati di bastoni:
abbattuti dalle percosse, e in uno dal morbo, giacquero estinti nel
luogo stesso dove si batterono, spinti da pazzo furore.

Le donne incinte abortivano, e i bambini che nascevano vivi, davansi da
allattare alle capre, le quali, addestrate a codesto pietoso ufficio,
vagavano pei prati del Lazzaretto, porgendo le poppe con amorevolezza
quasi materna. E si osservò che una di esse capre aveva preso tanto
amore ad un suo lattante, che se le veniva tolto, ricusava dare le
mamme a qualunque altro. Alcuni, per curiosità di far sperimento
di questa strana affezione della capra, nascosero il bambino; e la
bestiola, irrequieta, palesò il dolore belando e rifiutando il pascolo;
e sembrava cercasse in modo intelligibile il suo alunno, il quale,
riavuto che ebbe, saltellava con insolita vivacità, esternando la
propria gioja.

Ultimi esempj codesti delle umane miserie; ma dono speciale della
misericordia divina in tanta confusione di cose e tante sciagure, fu
il seguente. Alcuni uomini scelleratissimi, i quali da venti anni non
avevano mai confessato le loro colpe, e se per avventura lo fecero,
astretti dalle leggi ecclesiastiche, con frode e sacrilego inganno
contaminarono sè stessi ed il sacramento della penitenza, tocchi di
repente nel Lazzaretto dalla grazia celeste, si pentirono, lasciando
dopo morte tale opinione di loro come se fossero saliti direttamente
in paradiso. A taluni fu sì benigno Iddio, che negli estremi momenti
di vita concesse la beatifica visione dei Santi, e specialmente
della Vergine Maria, che additarono ai circostanti, i quali resero
testimonianza del prodigio. Ciò affermava il cardinale Federico.

Al medesimo non andava punto a genio la traslazione del corpo di San
Carlo, proposta quando cominciava a infierire la peste. La credeva
per varj motivi cosa assai pericolosa, e in cuor suo sospettava che
certi stolidissimi uomini e le semplici femminuccie specialmente, use
ad apprezzare dalle apparenze anche le cose divine, immaginassero più
grande ciocchè dovevano vedere, e che per nulla concerne i meriti e
la beatitudine dei santi. Vale a dire che anche i cadaveri di coloro i
quali furono dopo la morte annoverati fra i santi, vadano sempre esenti
dalla dissoluzione, come è sorte di tutti i mortali al cessar della
vita.

Ma più temeva e prevedeva ciocchè avvenne infatti, che se v’erano
in Milano untori ed unguenti venefici, la processione darebbe loro
opportunità al delitto, e potrebbero, nella inevitabile affluenza di
popolo, ungere comodamente e nascondere le empie e impure mani. Se poi
untori non esistevano, sarebbe del pari inevitabile ciocchè ogni giorno
succedeva tra i singoli anche senza concorso di gente.

Il popolo affollato per le contrade, i cittadini stretti gli uni cogli
altri, le vesti femminili, il contatto dei corpi e dell’alito sarebbero
un male certo, prescindendo anche dagli unti.

Laonde il Cardinale negava l’assenso, e cercò dissuadere la traslazione
del corpo di San Carlo, perchè i cittadini non solo, ma tutti gli
abitanti dei vicini villaggi, non si raccogliessero in una sola
caterva. E quando annuì alle ripetute istanze, aggiungendo agli ordini
del Consiglio Pubblico ed alla magnificenza della città la pompa e lo
splendore ecclesiastico, ebbe ogni cura perchè la processione riuscisse
decorosa in modo, che se non pareggiava la santità del Borromeo,
attestasse almeno la divozione del clero e dei Milanesi.

Egli prescrisse ed emanò ordini, che trovansi riuniti in un libriccino,
circa le fermate, le preci e le flebili cantilene, onde impetrare il
soccorso e la misericordia divina. E siccome il desiderio del popolo ed
una certa esultanza pubblica fra le sciagure, esigevano che il corpo
di San Carlo non venisse rinchiuso subito dopo la processione, ma si
lasciasse esposto perchè la folla dei divoti lo potesse contemplare e
venerare, Federico accondiscese ai pii desiderj della città e di tutta
la popolazione, siccome già dissi. Egli stabilì pure e pubblicò la
norma disciplinare per la venerazione, affinchè tutti stessero innanzi
al santissimo corpo con quella disposizione di animo, che avrebbe in
essi voluto eccitare il santo Pastore alloraquando la celeste anima sua
era unita al corpo.


  FINE DEL LIBRO TERZO.



LIBRO QUARTO

VENUTA E DIFFUSIONE DELLA PESTE IN LOMBARDIA. — ATTI DEL TRIBUNALE DI
SANITÀ.


I

Narrai fin qui gli effetti tremendi dell’ira celeste e le cause che
svilupparono la peste, più fatali ancora dello stesso morbo. Il respiro
e l’alito reciproco, necessario alla vita, contaminati: la morte
quasi generale de’ cittadini e il nome della popolosa Milano pressochè
spento. Narrai altresì dei veleni, delle officine degli untori, e di
coloro che, spinti dai demonj, li dispensavano, fosse veritiera codesta
credenza, fosse un falso sospetto, perchè a tanti mali, quello pur
s’aggiungesse d’un vago e misterioso terrore. In pari tempo enumerai i
rimedj adoperati contro l’inevitabile morbo ed il celeste flagello, e
i pii sforzi degli afflitti per implorare perdono e salute, sforzi che,
lice credere, riuscirono accetti all’irato Iddio.

Rappresentai pur anche il meglio che ho potuto, anzi come comportava
l’argomento, le cure e le azioni magnanime del gran cardinale
arcivescovo Federico, e il coraggio de’ magistrati e de’ cittadini,
che in tanta calamità gareggiarono colle opere e colle ricchezze del
Pastore.

Tutte le quali cose io talvolta ho coordinate per ordine di tempo,
tal’altra le esposi alla rinfusa pel trambusto di quell’epoca, per cui
la mia narrazione riuscì quando seguitata, quando interrotta.

Ora mi torna più facile ripigliare più indietro il racconto, ed
avendo innanzi la memoria i fatti accaduti raccoglierli quasi in un
cumulo, narrando quale fu la procella di quel triennio, come per cause
manifeste ed occulte s’andava formando la peste, e come cominciò a
serpeggiare finchè irruppe furibonda menando stragi.

Dirò primamente ciocchè fece il Municipio, giusta quanto lasciò scritto
ne’ suoi ricordi il Chiesa segretario del medesimo, uomo per integrità
di vita e per ingegno stimabilissimo. Codeste effemeridi potranno
giovare in avvenire additando i provvedimenti opportuni in caso di
peste, giacchè vi si rinvengono decreti, lettere, consigli e risposte
dei capi della città; leggesi le somme spese, il modo di trovare denaro
in quelle angustie, i diversi ufficj che i Decurioni si assunsero, e
molte altre cose importanti di quell’epoca luttuosa.

Il 4 ottobre del 1628 il Tribunale di Sanità scrisse a quello di
Provvigione che la peste andava crescendo in Francia, nei Paesi Bassi
ed in Germania, e già incominciava a serpeggiare a Berna ed a Lucerna,
in Val Sesia e finanche a Poschiavo ed altri luoghi limitrofi alla
Valtellina. Per conseguenza il presidente della Sanità, di concerto
col Governatore, aveva deciso di non indugiare più oltre a chiudere
con cancelli le porte della città ed a istituire i registri giusta le
pratiche solite in caso di peste.

Ciò si fece il 18 ottobre, e la Sanità eccitò caldamente il Consiglio
di Provvigione a dare tutti gli opportuni provvedimenti.

Fu risposto che le spese dovevano sostenersi dall’Erario Regio; ma che
agitavasi tale questione tra il Governo ed il Municipio. Del resto,
il Vicario ed i dodici della Provvigione si rivolsero al Consiglio dei
LX Decurioni affinchè dessero, come avevano sempre fatto in addietro,
le norme da seguirsi. Infatti decretarono che, senza detrimento dei
pubblici diritti, o pregiudizio della già innoltrata supplica, fosse
facoltativo al Vicario di spendere l’occorrente secondo le norme tenute
nell’antecedente pestilenza.

Il 21 gennajo del 1629, a spese della città, i Decurioni fecero
celebrare quattro mila messe in tutte le chiese per suffragio dei
defunti, onde impetrare l’ajuto del cielo.

Il 5 di maggio il Vicario riferì in Consiglio, che d’ogni parte
concorrevano in Milano gli affamati contadini diffondendovi la miseria
e lo squallore; giacevano per le strade, e non pochi morivano ogni
giorno sulle piazze. Poteva, diss’egli, scoppiare la peste da siffatto
cumulo d’immondezze, quand’anche non venisse altrimenti recata, per cui
suggeriva lo spediente degno della saggezza e carità dei Decurioni di
purgar Milano di quella turba, assegnando qualche soccorso perchè non
morisse di fame, tanto più che già traboccava il numero degli indigenti
cittadini, senza che lo accrescessero i forensi.

I Decurioni, e per compassione di quegli infelici e pel pericolo,
decretarono senza indugio che si levassero tre mila zecchini
dall’erario per comperare alimenti ai poveri. Al tempo stesso, affinchè
i contadini rimanessero nei loro campi, ingiunsero si distribuisse nei
borghi e villaggi una data quantità di frumento dai pubblici granai,
vendendolo al prezzo medesimo che la città l’aveva comperato.

Il 5 giugno s’aggiunsero alla predetta somma altri due mila zecchini
per l’identico scopo, più un’altra somma, che fu raccolta nelle singole
parrocchie di Milano con una colletta fatta di casa in casa.

Il 13 dicembre il Vicario riferì in Consiglio d’aver tenuto discorso
con S. E. il Governatore sulla condizione attuale delle cose, e dopo
lungo discutere conchiuse, che, atteso il timore di carestia e di
peste, si dovesse raccogliere nei granaj segale, miglio, panico ed
orzo, nella quantità che i prefetti all’annona rispondessero potersi
comperare. Necessaria previdenza affinchè se le cose peggioravano non
mancassero alimenti al popolo.

Il 12 dicembre, i prefetti, consultati sopra tale acquisto, risposero
che si poteva comperare tre mila moggia di segale, mille ottocento
di miglio, mille di orzo, e che il prezzo totale ascenderebbe dai
quarantacinque ai cinquanta mila zecchini. Suggerirono poi d’aumentare
il dazio sopra il miglio e la segale per raccogliere l’anzidetta somma:
approvarono i Decurioni.

Il 15 dicembre il governatore ordinò si trovassero altri mezzi per far
denaro, quindi fu proposto un nuovo accrescimento di dazio sul miglio e
sull’olio, e si tenne discorso di stabilire un testatico ed un’imposta
sulle porte.

Quel giorno medesimo furono lette in Consiglio nuove lettere del
presidente di Sanità, e si trattò del modo di procacciare altro denaro
per sovvenire alle pubbliche necessità, le quali moltiplicavansi
simultaneamente. Innanzi tutto si risolse provvedere al Lazzaretto ed
alla moltitudine dei poveri rinchiusi in quel recinto, e che senza
ritardo si sborsasse quella parte di denaro, la quale, raccolta dai
varj luoghi della provincia, dovevasi riunire in Milano, stantechè
l’indugio altro non faceva che peggiorare lo stato delle cose. Si
riferì poi come i due delegati, Tadino e G. Visconte, spediti per
invigilare sulla pubblica salute a Como ed a Lecco, perdessero ivi
inutilmente il loro tempo, scrivendo i medesimi essere infruttuosa la
loro legazione ove non si attivassero gli spurghi e le quarantene di
osservazione, provvedimenti ineseguibili senza grave dispendio. Tali
cose furono riferite dal presidente in Consiglio.

Il quale domandava a tutti i Decurioni, che, stante le molte e ingenti
spese da farsi, venisse autorizzato il Tribunale di Provvisione ad
eseguire gli ordini che la Sanità credesse opportuno di emanare per
la salute pubblica. Si portò l’affare a’ Conservatori del patrimonio,
perchè, attenendosi alla vecchia consuetudine ed ai diritti delle
città, da loro benissimo conosciuti, e traendone norma, soddisfacessero
all’impegno.

Il 18 dicembre il regio governatore annuì che si levasse un tributo per
testatico. Dietro la quale concessione s’incaricarono i Conservatori
di riferire al Consiglio, dopo aver tra loro consultato, il modo più
spedito per la riscossione. Vennero interrogati altresì i prefetti
annonarj circa la compera del grano per la statuita somma.

Il 22 dicembre li autorizzarono a fare per tale effetto un prestito di
quindici mila zecchini.

Entrante il gennajo del 1630, si decretò spedire a Casalmaggiore,
afflitto da peste, tanto orzo ed olio, quanto potevasi comperare con
mille zecchini.

Il 26 marzo, instando di nuovo il presidente della Sanità per aver
denaro, che asseriva necessario per tener lontano il contagio,
trattandosi di non piccola somma, si riferì la domanda ai sessanta
Decurioni. Essi, quantunque l’anno precedente avessero data facoltà ai
Conservatori di supplire ad ogni emergenza, pure, attesa la gravezza
del dispendio, fecero un nuovo decreto, col quale confermavano gli
anteriori, usando però le solite proteste che i diritti della città non
avessero mai a soffrirne detrimento. Oltre codeste umane previdenze,
si statuì d’implorare l’ajuto divino, decretando, come erasi fatto
lo scorso anno, si celebrassero quattro mila messe in suffragio delle
anime purganti. L’elemosina delle medesime fu di lire mille in totale;
la metà venne mandata ai conventi più chiari per pietà religiosa, e in
uno privi di sostanza.

Il 3 aprile, dietro istanza del presidente di Sanità, si erogarono
quattrocento zecchini pei bisogni dei poveri. Aveva esposto il
presidente come si vedessero per le strade e pei vicoli di Milano
moribondi e cadaveri; infettarsi l’aria pel puzzo e per l’alito
infetto; e l’animo de’ passaggeri allibir di spavento a tal vista. Il
giorno stesso fu trattato di trasportare codesti infelici all’ospitale
della Stella, ovvero altrove, e nutrirli: si risolse inoltre di fare
uscir di città quanti di loro erano venuti a mendicare non dalle terre
del milanese ducato, ma da altri Stati.

Il giorno 11 aprile il vicario riferì ai LX Decurioni che il gran
cancelliere, anche a nome del governatore, avevagli significato la
necessità di apprestare maggiori sussidj per distribuire legna ed
elemosine vieppiù abbondanti. Perocchè i mercanti, usi a somministrare
lavoro alla plebe che ne traeva denaro per vivere, ormai cominciavano a
togliere quell’emolumento, e lo avrebbe sempre più ristretto a misura
crescesse il timore della pestilenza. Laonde si correva pericolo
che, cessando il mezzo di guadagnare, molti per ozio e miseria si
abbandonassero ai delitti. Anche il presidente del Senato, a nome
proprio e del corpo, ammoniva di riflettere a tale pericolo. Il vicario
lesse da ultimo in Consiglio le lettere del presidente di Sanità, che
si riferivano al medesimo argomento.

Gravissimo fu il dibattimento, perchè numerosa era la classe degli
operaj, usa ai comodi ed anche alle delicatezze del vivere, talchè
sarebbe pericoloso e fatale allo Stato ridurre la robusta e lasciva
plebe dalle delizie e dal lusso alla fame ed alla disperazione.

Tali cose scriveva al vicario il presidente, chiudendo la lettera
colle seguenti parole: «Ci sovrasta una calamità e ruina inevitabile,
nè ormai si può dubitare che la peste non sia tra noi e mortale. Già
sono periti alcuni monatti; jeri morì il chirurgo; oggi il portinajo
del Lazzaretto ed il medico Appiano caddero malati[141]; anche il padre
Felice sta male assai. E noi, in mezzo a tanti pericoli e minacce,
ove non troviamo sussidj valevoli per alimentare e guarantire in sì
grande calamità i poveri affidati alle nostre cure, non potremo durare
nell’assunto ufficio, e converrà gettare le armi».

I Decurioni, scossi da queste parole, decretarono venissero eletti
sei di loro, i quali, unendosi coi Conservatori del patrimonio,
avessero il regime d’ogni affare, adoperando come meglio stimavano il
pubblico denaro; coll’eccezione però che, occorrendo somma più ingente,
dovessero riferirlo in Consiglio.

Il governatore scrisse ai Decurioni che approntassero con energia i
soccorsi voluti dalle circostanze, non lasciandosi sorprendere dalle
estremità, giacchè poteva accadere che, rinchiusi e assediati, per così
dire, entro Milano, non potessero più fornire alimenti alla popolazione
di sì grande metropoli, e i cittadini perissero consunti dalla carestia
e dalla peste.

Il Consiglio ed il Tribunale di Provvisione erano bastantemente
affaccendati ed inquieti senza tali avvisi ed esortazioni, nè poterono
far altro di più che riconfermare le già date facoltà.

Il 1.º giugno autorizzarono i delegati non solo a far prestiti, ma ad
oppignorare ed alienare qualsiasi rendita spettante per diritto alla
città. Così anche, dietro le preghiere del governatore, del Senato, del
gran cancelliere, annuirono di adoperare la parte del denaro toccato
alla città e raccolto per fare gli spurghi in tutto il Ducato, nella
compera di maggior copia di grano e d’olio qualora fosse duopo.

Infrattanto, venuto il giorno di dar principio allo spurgo di
tutta quanta la città, d’impedire il mutuo contatto degli abitanti
rinchiudendoli nelle rispettive case, bisognava istituire una prova di
quaranta giorni per scevrare gli infetti dai sani. Per la qual cosa
il presidente del Senato instava perchè si eleggessero due nobili
per ogni quartiere, i quali, unitamente ai Senatori a ciò deputati,
sorvegliassero a quanto occorreva. Di più doversi nominare nelle
singole porte di Milano altri che regolassero, con ampj poteri, e i
lazzaretti e le capanne degli appestati.

I Decurioni, non trascurando alcun sussidio umano, o divino, accrebbero
il numero dei loro delegati, affinchè potessero più facilmente
riunirsi per provvedere alle urgenze. Decretarono altresì che qualunque
ordine emanato da quattro di loro, riuniti legalmente, si avesse come
ratificato dall’intero corpo. Avevano inoltre deciso che si facessero
i digiuni delle rogazioni giusta il rito romano; ma si tralasciò, non
avendo i parrochi approvato come gli altri questo pio voto.

Oltre i registri ed i cancelli già attivati alle porte per sicurezza
pubblica, i posti militari, e due nobili che invigilavano essi pure a
ciascuna porta, si prese la seguente misura. Vennero mandati architetti
a far il giro dei bastioni, esaminando se mai a caso le mura più
basse o qualche rottura offrissero una salita clandestina a coloro
che volevano penetrare in Milano di soppiatto deludendo la vigilanza
delle guardie. Tutti i luoghi di facile adito, notati dagli architetti,
furono ristaurati e senza indugio muniti.

Intanto il Tribunale di Sanità inviava di continuo lettere, ora
esponendo quanto aveva fatto il presidente di essa col collegio medico,
ora invocando nuove provvidenze dal Tribunale di Provvisione. Quelle
lettere riferivano, tra le altre cose, che la Sanità opinava più
facili le custodie qualora si chiudessero le porte Nuova e Vigentina;
ed averne dato l’ordine. Inoltre che, soggettando la disciplina
del Lazzaretto a buone norme, le avevano raccolte in un volumetto,
mandandolo ai due Conservatori del patrimonio Girolamo Legnano, e
Antonio Roma, perchè invigilassero che l’amministrazione del Lazzaretto
si eseguisse con tali norme. Conchiudevasi essere necessario per quiete
e salvezza della città ora afflitta di peste, ma che risanerebbe, il
fare l’anagrafi delle singole parrocchie.

I Decurioni si occuparono perchè si eseguisse tosto, e con esattezza,
affidandone la cura ad alcuni di loro, e ad altre idonee persone
scelte tra i nobili. Fu scritto ai medesimi del tenore seguente: che
essendo i poveri sempre stati raccomandati da Cristo Salvatore, sarebbe
a lui grata ogni fatica assunta a vantaggio dei medesimi. Laonde
s’accingessero all’anagrafi, ciascuno dal canto suo, con ordine e
diligenza, ma senz’indugio, affinchè la città, conosciuta la condizione
ed i bisogni dei singoli, potesse provvedervi. Ingiungevasi ai delegati
di riunirsi, e prendere tra loro gli opportuni concerti.

I delegati, insieme col parroco e coll’anziano, dovevano visitare
ciascuna casa della rispettiva parrocchia, e chiamati a sè dinanzi gli
inquilini, interrogarli con benignità, notando nel registro maschi
e femmine. Dovevano assumere informazioni sull’età, la condizione,
il genere di vita di ciascheduno, e quali mezzi avessero per vivere,
quali mestieri esercitassero, e ogni altra notizia che credessero
necessario d’indagare. Insorgendo poi difficoltà, o nascendo alcun che
d’imprevisto, fu ingiunto ai delegati d’informarne i nobili proposti
alla loro porta, ai quali dovevano consegnare i registri tosto che li
avessero compiuti.

Una copia di queste istruzioni venne distribuita a ciascuno dei
delegati, che assunsero l’incarico ingiunto dal Consiglio Pubblico.

Eseguita che fu con tali norme l’anagrafi, si scrisse di nuovo ai
delegati, pregandoli che ogni qual volta scoprissero tra i segregati
nelle case, trovarsi alcun miserabile privo degli alimenti necessarj
alla vita, esaminato prima il registro in cui erano iscritti i nomi
e le sostanze d’ogni individuo, mandassero ai prestini fissati per
avere, secondo il caso, il pane occorrente, il quale dovevasi poscia
distribuire di porta in porta da uomini probi, scelti dai medesimi
delegati. Le suppellettili domestiche: come tavole, mense, biancheria,
coperte, lenzuoli e simili, sporche per contatto di appestati, od anche
sospette, fu ordinato si abbruciassero, sborsandone la città il prezzo
al proprietario secondo la stima[142] che ne farebbero persone di ciò
incaricate. Furono pure nominati altri per fare indagini sui pezzenti
forestieri, perchè, riuniti in due diversi locali ed esaminati,
venissero espulsi, com’era giusto, liberando la città dell’aggravio
di quella moltitudine ad essa straniera. Il Tribunale di Sanità aveva
destinato il borgo della Trinità per segregare in luogo appartato i
molti cittadini che si trovavano malati o sospetti di peste. Ma ciò
non piacendo al Consiglio, i Decurioni risposero al presidente della
Sanità, che pareva sufficiente costruire capanne ne’ campi, e deporvi
gli appestati, anzichè sporcare quel borgo ancora netto di peste.
Intorno il qual provvedimento non solo discutevano i due Ufficj, ma gli
stessi membri della Sanità, e i Decurioni tra loro ondeggiavano incerti
qual fosse il miglior partito.

Gli opinanti pel borgo della Trinità, dicevano che ivi, e ne’ vicini
sobborghi, eravi copia di acque limpide e salubri, opportunissime ai
lavacri tanto necessarii in un Lazzaretto per lo spurgo, e lì più
vicino una gran fossa dove furono sepolti i morti dell’antecedente
contagio. I sostenitori dei tugurj invece adducevano essere il borgo
della Trinità, come notai, immune tuttavia di peste, laonde si verrebbe
a danneggiare in uno colle vicine strade, e quanti lo frequentavano
qual luogo per buona ventura ancora sano. Di più aggiungevasi, che le
case e gli orti in esso borgo numerosi, non che i prossimi ubertosi
vigneti, renderebbero costosissimo il piantarvi un lazzaretto.

Quanto al costruire le capanne, titubavano pel nome e la fama della
città nostra, che in tanta misera condizione ridotta, doveva pure alla
meglio favorire il minuto traffico. Perocchè l’ammucchiare il popolo in
tugurj era l’estrema prova di abbiezione e del contagio dominante. E si
nutriva timore che le suddite città, e le finitime, prese da spavento
per tale misura, perduta ogni riverenza alla metropoli, proibissero
il commerciare colla medesima. Noi allora, ridotti a forzato esiglio,
soffriremmo danno gravissimo per l’incarimento dei commestibili.

Neppure eravi paglia bastante per innalzare il numero delle capanne
necessario a tanta moltitudine, e quella che avevasi in pronto era
sporca ed umida: aggiungasi che l’infocato sole riscalderebbe quei
tugurj con gran tormento degli infelici malati, e pericolo di nuove
epidemie. Che ove poi si volessero costruire di legno, saría lavoro
troppo lungo, spesa di sovverchio gravosa, e indispensabile crescere il
numero dei guardiani e degli inservienti.

Cresceva ogni giorno il numero degli appestati, ed il Lazzaretto di
San Gregorio, per quanto ampio, più non poteva riceverne; quindi fu
scelto il villaggio di Vigentino, e se ne formò un’isola. Persone a
ciò delegate fecero gli opportuni accordi coi contadini perchè di là
sgombrassero; altri ebbero l’incarico di comperare lenzuola, legna,
sacconi e mille vestiti.

Mentre tali cose, e le enormi spese per alimentare il popolo agitavano
gli animi dei Decurioni, e urgeva il bisogno di raccogliere denaro,
i medesimi rinnovarono il già fatto tentativo di cercar soccorsi dal
re, che stimavano non solo consentanei alla maestà d’un tanto monarca
ed alla sua clemenza verso i fedeli sudditi, ma che loro altresì per
diritto competeva.

Fu inviata una nuova ambasceria al governatore Spinola, che stava in
quel tempo all’assedio di Casale, per chiedere soccorso a nome della
città, esponendo le comuni miserie, e da ultimo i diritti di essa. I
due legati furono Giovanni Battista Visconti, figlio di Coriolano, ed
il cavaliere Carlo, coll’incarico del pubblico Consiglio d’esporre al
governatore quanto segue.

Il contagio che aveva invaso Milano, non decrescere di violenza, ma
aumentare giornalmente, farsi più terribile, ed essere ormai giunto
agli estremi. Non dubitare la città ch’egli non concorra al peso
delle altre spese ed all’intollerabile distribuzione di denaro per
dar viveri a quasi tutta la plebe, ove non voglia abbandonar preda
alla fame ed alla peste tanti innocenti bambini e fanciulletti. Era
persuasa d’altronde che tale dispendio spettava alla munificenza del
re, per esservi esempj come gli antichi Duchi di Milano in tempo di
peste sottostarono sempre a tali spese, alleviando in siffatta guisa la
città, oppressa dal contagio; e l’imperatore Carlo V, con suo decreto,
aver sancito doversi così fare.

Dovevano aggiungere i due legati che ciò era consentaneo all’autorità
delle leggi, che sempre inclinarono a sollevare la città ed il popolo
afflitto, addossando simili dispendj alla potenza e ricchezza dei
principi. Nonpertanto i Decurioni eransi sforzati di far sopportare un
tal carico a Milano per conservare il popolo fedele al suo re; ora però
trovavansi ridotti agli estremi, ed era disperato consiglio il forzarli
a sostenere più oltre il gravosissimo carico. Non solo si trovava
vuoto l’erario civico, ma era oppignorato pel futuro in conseguenza dei
prestiti. Il levare imposizioni per testa, o per famiglie sarebbe ormai
cosa ineseguibile, perocchè coloro che avrebbero dovuto pagarle erano
divenuti miserabili anch’essi. I nobili poi in specie, rese incolte
e deserte le campagne per gli alloggi delle soldatesche, e quindi
impoveriti, più non avevano denaro da porre in comune.

Laonde eransi decisi a supplicare il governatore, e, per suo mezzo,
il monarca, affinchè trovasse qualche sussidio per la fedele Milano.
Chiedevano poi nominativamente che venisse condonato ciò che doveva
al regio fisco, finchè si riavesse alquanto dai sofferti mali. Il qual
sollievo fu conceduto alla città anche l’anno 1576, quando nè la peste
era sì fiera, nè le angustie sì grandi come al presente.

Il Marchese d’Ayamonte, in allora governatore, scrisse al re, esponendo
la condizione di Milano, ed ottenne l’implorato condono. Il che ora
impetravasi dal governatore nella speranza che con eguale benignità lo
accorderebbe.

Lo Spinola accolse umanissimamente i legati, e diede loro per la città,
ossia pei sessanta Decurioni, capi della medesima, una lettera del
tenore seguente. Ch’egli era assaissimo afflitto per i mali e le stragi
di Milano, narrategli da Giovanni Battista e Carlo Visconti, uomini
pari di nobiltà e prudenza; accrescersi il suo rammarico, chè, impedito
dalla guerra, non poteva pel momento accorrere per sollevare con ogni
suo mezzo la benemerita Milano da tante sciagure, come avrebbe fatto
se colà si fosse trovato. Nondimeno grandemente confidava, e teneva
per certo che i nobilissimi Decurioni, posti in sì eminente carica,
non mancherebbero all’ufficio loro, dando anche agli altri l’esempio
di quella carità, che mostrare ed esercitare dovevasi a vantaggio della
patria.

Questo, continuava lo Spinola, era il tempo di profondere a piene mani,
e di buon animo, quanto in altre circostanze è giusto e ragionevole
distribuire con misura. E quantunque sia difficile impiegare tutto
il denaro e la cura in un solo oggetto, laddove altri bisogni esigono
cure e spese, nondimeno considerassero i Decurioni come l’urgenza di
alimentare i poveri e sostentare la plebe, debba andar innanzi ad ogni
altra cosa, affinchè la miseria e la disperazione privata non produca
la ruina generale. Dal canto suo non mancherebbe di fare tutto ciò
che stimasse giovevole a rimovere un tal pericolo. Qualunque cosa il
Tribunale di Provvisione o la Sanità giudicassero opportuna all’uopo,
egli la sosterrebbe, perchè avessero prova non mancare in lui l’affetto
e il buon volere per la metropoli. Circa quanto chiedevano i legati,
rifletterebbe come si potesse eseguire.

Codesti erano soccorsi lenti e troppo lontani, e più ufficiosità di
parole che altro. Infrattanto, siccome i provvedimenti non ammettevano
indugio, vieppiù infervoratisi gli animi per la difficoltà d’operare,
fu discusso in Consiglio con qual modo e con che somme provvedere alle
pubbliche necessità, che per l’innanzi partitamente ed ora tutte in
un colpo erano a dismisura cresciute in uno col crescere della peste.
Il Tribunale di Sanità instava perchè gli si dessero quaranta mila
zecchini, con la qual somma provvedere a quanto urgeva.

Si destinarono inoltre altri sei mila zecchini per indennizzare
i proprietarj cui abbruciavansi le domestiche suppellettili[143],
affinchè nulla rimanesse d’infetto e contaminato.

Il 16 aprile, adunatisi i Decurioni, diedero facoltà ad alcuni di loro
che si rendessero mallevadori, stando garanti a nome della città con
quelli che si erano profferti di dare a prestanza alla città medesima
venticinque mila zecchini, somma che il presidente della Sanità aveva
esposto occorrere per espurgare nell’intero il Ducato, i corpi, i
luoghi, gli utensili, le case, dappertutto ove fossevi il menomo
sospetto di peste.

Si trattò di spedire nuovi legati al governatore Spinola che in quei
giorni assediava Casale, deplorando le miserie della città ed i suoi
bisogni, e supplicando, come già sopra accennai, per essere esonerati
dai tributi secondo che usavano condonarli altri governatori in
circostanze simili. Lasciossi la scelta dei legati a coloro cui era
affidato l’arbitrio di maneggiare il pubblico denaro per le spese tutte
della pestilenza.

Si trattò pure nella stessa seduta dei voti religiosi da farsi, perchè
riuscito vano quanto l’umana previdenza suggeriva, s’invocasse dal
cielo quell’efficacissimo ajuto che nell’antecedente secolo sotto S.
Carlo erasi ottenuto, alloraquando ormai più non si sperava salute.

Trascelsero alcuni Decurioni che consultassero e riferissero quali voti
e quali pratiche religiose conveniva fare. Dietro la loro risposta si
emanò il decreto seguente.

Per tre anni consecutivi, il popolo milanese santificherebbe come
festivo il giorno della Visitazione della Beata Vergine, per legge
inviolabile, osservando la vigilia di esso giorno. Scorso il triennio,
lasciavasi tale osservanza libera alla pietà di ciascuno, svincolando
il popolo dal voto.

In tal giorno ciascun anno in perpetuo nel tempio della Madonna presso
San Celso si porterebbero donativi dal Tribunale di Provvisione,
precedendo gli artefici colle insegne della loro arte, giusta l’usanza.
Vi si celebrerebbe una messa solenne a spese della Provvisione,
assistendovi tutti. Il primo anno di questo voto, verrebbero invitati
ad intervenirvi i Decurioni, portando ciascuno una torcia da sè
comperata in offerta alla Vergine liberatrice.

Al fonte di San Barnaba, il Tribunale mandasse donativi del valore
di mille zecchini, recandoli con pubblica processione, e facendone
regolare consegna al prefetto della chiesa.

Si stabilì che i LX Decurioni supplicassero l’eminentissimo Borromeo
arcivescovo di Milano, perchè annuisse ai trasporto con divota
processione e con solenne impetrazione del corpo di S. Carlo per
la città. Acconsentendo il Borromeo, dovevasi disporre le cose con
magnifica pompa adatta alle reliquie d’un sì gran santo. Memore la
città dello zelo e della carità di esso pastore, allorquando, sotto
il suo pontificato, Milano fu spopolato dal contagio, e sperando che
ora le fosse intercessore in cielo appo Dio, fece voto che il giorno
della sua morte sarebbe festivo in perpetuo pei cittadini milanesi,
astenendosi i medesimi da ogni lavoro.

Questo voto fatto dai Decurioni infondeva negli animi tanta maggiore
speranza e coraggio, quanto più le crescenti strettezze e i futuri
pericoli, aggravando il male presente, rendevano restii coloro che
avendo promesso di prestar denaro alla città, ora, mutati d’avviso,
assolutamente vi si rifiutavano.

Intanto il Tribunale di Sanità chiedeva al Municipio ingenti somme
pei due nuovi lazzaretti, resi indispensabili dal crescente morbo,
di cui non prevedevasi il fine. Era d’uopo costruirli e fornire le
necessarie suppellettili per raccogliere e mantenere migliaja di
cittadini indigenti, côlti da peste o sospetti, oltre la turba che già
ingombrava tutto il Lazzaretto massimo. A queste istanze della Sanità
univansi domande e ammonizioni del gran cancelliere, e del governatore
che, servendosi dell’autorità regia, instava perchè si facesse in tempo
compera di olio, frumento, orzo, sale e medicine pei quaranta giorni,
in cui la città doveva nutrire tante migliaja di persone rinchiuse
nelle loro case.

Il 23 giugno si fecero varj decreti, che lungo sarebbe l’annoverare;
e fra questi la compera di quattrocento letticciuoli almeno, e degli
utensili pei due summentovati lazzaretti, de’ quali si affidò la cura
ai decurioni Antonio Rainoldo e G. Pietro Negroli.

Il 2 luglio, crescendo in uno colla peste l’opinione invalsa negli
animi degli unti, e scopertesi macchie e traccie di venefici unguenti,
il vicario propose in Consiglio di stabilire un premio per chi desse
indizj del delitto. Si decretò che ai duecento zecchini e l’impunità
di due banditi, da concedersi ad arbitrio del giudice, come già aveva
promesso con una grida il governatore, s’aggiungessero a nome della
città altri cinquecento zecchini.

Riferì inoltre il vicario avergli il presidente della Sanità
significato che non si trovavano medici che volessero entrare nel
Lazzaretto per visitare e curare gli appestati. Il collegio medico,
invitato per lettere dal Tribunale di Sanità, perchè ne destinasse
alcuni a tale ufficio, procrastinava, laonde aggiungeva essere
urgente lo scrivere a nome della città al collegio suddetto, affinchè
soccorresse la patria coll’arte sua, nè disonorasse col negare sussidj,
la medicina, che già onorevole per sè, acquisterebbe in tal circostanza
nuova gloria.

Scritte le lettere dai Decurioni con preghiere ed istanze, siccome
comportava la gravità del caso, il collegio medico rispose: Darebbe
due de’ suoi che stessero fuori del Lazzaretto vicino la fossa per
medicare alla meglio gli appestati; ma che tutti ricusavano di entrare
in quel recinto, esponendosi ad una morte quasi certa. Si decise che
i due medici dimorassero a pubbliche spese in un luogo non lungi dal
Lazzaretto, e che i guardiani li guidassero alle case, a’ tugurj ed ai
letticciuoli dei malati. Fu cresciuto lo stipendio a chiunque spontaneo
si assumesse il pericoloso incarico[144]. Nè il Municipio cercò
medici soltanto in Milano, ma indirizzandosi ai negozianti nostri,
che trovavansi in Germania ed in Francia, procurò di far venire ed
assoldare uomini distinti nell’arte salutare.

L’eminentissimo Borromeo, degno, per le sue esimie virtù, del titolo
di cardinale, ed arcivescovo pieno di fervorosa carità pel suo gregge,
aveva acconsentito alla traslazione del corpo di S. Carlo colla
maggiore pompa possibile, mostrando in pubblico le reliquie di lui, che
altrevolte avrebbe potuto colla sua presenza impetrare il termine di
quel flagello, e che ora godeva tra i celesti il premio de’ suoi meriti
e delle episcopali fatiche. Ottenuto il permesso dall’arcivescovo, i
Decurioni si diedero ogni cura affinchè nulla mancasse alla solenne
traslazione.

Prima elessero due dei loro, il marchese Giovanni Maria Visconti e
Baldassare Barzi, che si combinassero con Alessandro Magenta, arciprete
della metropolitana, circa gli ornamenti dell’arca ed il serico
baldacchino, sotto il quale dovevasi trasportare il corpo per le strade
e le piazze della città.

Il Borromeo ed i suoi ministri nulla omisero dal canto loro di ciò che
serviva al decoro, e ad eccitare nel popolo la divozione. Le autorità
ecclesiastiche, gareggiando colle civili, si apparecchiarono magnifici
arredi per ornare le ossa del Pastore, che non ebbe mai l’eguale in
codesta metropoli per fama. Eravi ancora qualcuno che lo aveva veduto
vivente.

Federico inviò lettere pastorali, e le fece affiggere dappertutto,
affinchè il popolo sapesse che si apriva il sepolcro di S. Carlo,
traendone in luce le reliquie. V’aggiunse una esortazione gravissima
a tutti, ed a ciascuno che, ricorrendosi quasi ad ultima speranza
in tanta calamità della patria, e disperando omai di salvezza, alla
traslazione del corpo di S. Carlo, che Milano venerava suo protettore
in cielo, si disponessero a tergere le proprie colpe coi digiuni
e i santi Sacramenti; espiazione che sapevano essere stata sempre
raccomandata dal santo Protettore.

Frattanto i bisogni e le pubbliche cure non davano tregua, nè i
soccorsi umani o divini valevano ad infrenare la pestilenza ribelle a
qualunque rimedio. Scrissero i Decurioni al Senato, implorando a nome
della città sussidj dall’erario regio, e l’autorizzazione d’imporre
le tasse che si credevano opportune. E cercavano prima di tutto che
fosse salvo alla città il diritto di ripetere dal regio fisco il denaro
speso. Rispose il Senato che la domanda era giusta.

Il 14 giugno la città presentò una supplica al cardinale arcivescovo
sui voti pubblicamente fatti; esponevasi come per implorare il divino
ajuto contro la peste, che già aveva menata sì gran strage in Milano,
i LX Decurioni avessero determinato che il popolo milanese celebrasse
come festivo il giorno della Visitazione di Maria e quello della morte
di S. Carlo; il primo soltanto per un triennio, lasciando in seguito
l’osservanza libera alla pietà di ciascuno, il secondo in perpetuo.
Eransi intorno a questo voto consultato il popolo nelle varie regioni
della città, e fu sanzionato con generale consenso. Chiedevano quindi i
Decurioni al Borromeo che lo sancisse coll’autorità sua qual capo della
Chiesa milanese, ingiungendo ai parrochi di promulgare solennemente il
voto pubblico, siccome è d’uso.

Il governatore Spinola, dal campo sotto Casale, scrisse che aumentando
ogni giorno, a cagione della peste, gli affari pei quali era duopo
ricorrere a lui, assente ed occupato nella guerra, delegava il gran
cancelliere Antonio Ferrer a far le proprie veci, dandogli tutti i suoi
poteri, affinchè potesse con sollecitudine provvedere alle richieste
dei Decurioni.

I quali, oltre i mezzi già tentati per raggranellare danaro, urgendo
nuovi bisogni, suggerirono al gran cancelliere ed al Senato anche i
seguenti. Di eccitare i cittadini più agiati, e se non bastavano le
esortazioni costringerli con decreto a dare quanto denaro, grano e
vino potevano per ajutare il Municipio in tante angustie a mantenere
i poveri. Verrebbe loro dato credito sui pubblici redditi delle somme
prestate alla città.

Instavano i Decurioni perchè il governatore ed il Senato comandassero
che ciascuno notificasse quanto denaro, vino, grano aveva in casa,
per poter indi stabilire un’adequata imposta per ogni casa. Inoltre
si convocasse il collegio medico, quello de’ causidici, i mercanti
specialmente ed i banchieri, trattando con loro per aver in prestito
denaro; onde concorrendo essi pure a mantenere i miserabili, avessero
la loro parte in sì gloriosa e caritatevole opera.

Proposero altresì i Decurioni che si scrivesse a nome della città ai
cardinali e ad altri ecclesiastici, i quali avevano tanti beneficj
nella milanese provincia; pregando che, secondo l’opulenza loro,
soccorressero i coltivatori di quei terreni donde avevano tratte le
rendite, e che frutterebbero anche per l’avvenire se non li lasciavano
inselvatichire, come accadrebbe per la morte dei contadini mancanti di
pane. Eguali istanze doversi fare ai monasteri e luoghi pii, scrivendo
che sarebbe usurpato un tal nome presso la posterità, qualora non
largheggiassero in elemosine cogli indigenti.

Per ultimo si supplicasse l’eminentissimo Borromeo perchè alla sua
carità e munificenza, superiore ad ogni encomio, aggiungesse un altro
pietoso ufficio di esortare i suoi chierici, e molti dei quali erano
ricchi, a distribuire in carità, tanta in città che fuori, le cose a
loro superflue.

Il Senato decretò si mandassero ad effetto questi divisamenti dei
Decurioni, e scrisse al Consiglio pubblico in nome del re, giusta la
consuetudine, approvando tali misure come prudenti, e dichiarandosi
pronto a farle eseguire coll’autorità sua.

Intanto non aveva fine il carteggio intorno a ciò, ora del Consiglio
pubblico e dei LX Decurioni col Senato, ora d’entrambe queste
magistrature col governatore. Più volte spedironsi legati allo
Spagnuolo nel campo; più volte egli inviò a Milano ordini e promesse
circa i provvedimenti chiesti dai legati e circa i sussidj per le
pubbliche calamità. Le stragi di codesta pestilenza eguagliarono quasi
quelle d’una guerra, e grandi e molteplici furono le provvidenze e le
difficoltà che insorsero. Se non che io tralascierò di qui riportare
gli atti delle legazioni e le citazioni delle lettere, e per non
dilungarmi di sovverchio, e perchè ho già esposta la sostanza di queste
cose.

Del resto, mentre tutta la città in costernazione affliggevasi per lo
spettacolo della propria ruina, e la ricerca dei rimedj opprimeva gli
animi e il morbo i corpi, rifulse d’improvviso una speranza di salute.
Sia che a domare il contagio avessero in qualche modo giovato le umane
previdenze, sia che la divina misericordia, volendo soltanto ammonire
non distruggere il popolo, avesse già abbastanza atterrita e purgata la
città, la peste incominciò a scemare. Di giorno in giorno andava sempre
più sminuendo, e le persone, incaricate di tener registro de’ morti,
riferivano che giornalmente non arrivavano alla metà di prima.

Laonde molte provvidenze immaginate e decretate tornavano ormai
superflue, a segno che il presidente della Sanità Arconati scrisse ai
Decurioni, che uscendo egli di carica, lasciava la città libera dalla
peste, al che avevano giovato le cure e la munificenza del Consiglio.
Da ultimo, siccome a molti era dovuta una ricompensa pei fedeli e
operosi loro servigj, l’Arconati cercò una somma per rimunerarli,
giusta le promesse sue e del Consiglio.

Gli vennero consegnati subito mille zecchini, dando speranza di maggior
somma, e lodandolo per avere con rettitudine e previdenza adempiuto al
suo incarico durante il contagio.

Il Consiglio, volonteroso di mostrare la propria riconoscenza a
Dio misericordioso per sì grande beneficio, discusse quali offerte
sarebbero più accette al Signore, e che mai fosse più consentaneo alla
divozione del popolo. Avevano di già i Decurioni proposto, fra le altre
cose, d’incominciare un digiuno solenne di quaranta giorni, secondo
il rito romano, offerendo in certo modo questa salutare espiazione
invece di ricchi donativi. Ma al popolo non andò a genio la proposta,
e raccolti i voti, furono unanimi che non si alterasse l’antica
consuetudine della Chiesa ambrosiana, d’incominciare la quaresima
la domenica dopo le ceneri. Laonde si decise di fare altri voti, i
quali non urtassero le abitudini del popolo, nè variassero le vecchie
istituzioni.

Decretarono una lampada d’argento, del peso di seicento once, da
appendersi nella chiesa delle Grazie, colla manutenzione dell’olio
in perpetuo[145]. Mandarono un paramento dell’eguale valore in dono
al tempio della Madonna presso San Celso; e volendo altresì erogare
la stessa somma pel tempio di Sant’Ambrogio, protettore di Milano, il
Cardinale decise non potersi meglio impiegare che cingendo di cancelli
l’altar maggiore di essa Basilica, il che fu eseguito. Destinossi pure
una somma, ed altra in seguito, per finire ed adornare la chiesa di San
Sebastiano. Seicento zecchini vennero distribuiti ai monasteri ed ai
pii istituti, secondo i bisogni dei medesimi e la fama di santità che
godevano.

Finalmente si diede incarico ai conservatori di esaminare che altro
far convenisse con offerte e sacre cerimonie, per rendere grazie
all’onnipotente dell’insigne beneficio di aver salvato Milano, ormai
ridotta all’ultima ruina.

La malignità, il livore, l’invidia, che furono sempre e sono tuttora i
più mortiferi veleni dei popoli e dei governi, non ristettero, anche
nei luttuosi giorni del contagio, di denigrare i nostri magistrati
come se non avessero fatte le cose con quella diligenza e splendidezza
che conveniva. Io lascio indecisa tale quistione, limitandomi a notare
la somma totale delle spese per la peste, come risulta dai registri
pubblici. La quale ascese a 267,000 zecchini, calcolati questi a lire
sei.

Chiunque poi conosce le cose fatte duranti gli anni della pestilenza,
tanto più se rifletta al denaro che costarono, non potrà dubitare
di frodi e ruberie circa l’ingente somma che fu spesa. Il Lazzaretto
massimo, gli altri succursali, i campi che si dovettero occupare per
stabilirvi capanne, sto per dire, innumerevoli, le suppellettili, le
case prese a pigione nella città, medici, medicinali, cibi per gli
appestati ed i poveri; tante migliaja di persone per dieci mesi, come
se fossero riunite in una sola casa provvedute di ogni occorrente.

Aggiungerò, a maggior schiarimento, e perchè i cittadini milanesi
conoscano nelle età venture i miserandi sepolcri degli avi loro, che
il lazzaretto di San Barnaba, quasi eguale per forma e grandezza a
quel di San Gregorio, venne stabilito a Porta Ticinese. Occupava il
medesimo dieci jugeri[146] di terreno, ed aveva nel mezzo una chiesa
innalzata in fretta. Eranvi quattro condotti che, derivando l’acqua
dalle fontane, formavano quattro lavacri per lo spurgo; eranvi tettoje
per le guardie, affinchè impedissero a chiunque l’uscita, altre pei
religiosi, proposti alla cura delle anime, altre infine segregate per
coloro che, guariti, dovevano subire una quarantena prima d’uscire
liberi. I suddetti luoghi fuori del recinto: nell’interno di esso poi
si contavano 217 camere, e v’ebbero ricovero quattro mila appestati.

Un secondo lazzaretto, presso a poco egualmente ordinato, si stava
apprestando in Porta Comasina, vicino alla chiesa della Trinità, ma
non si riuscì ad ultimarlo in tempo da servirsene. Così pure alcuni
altri lazzaretti, che si preparavano con grave dispendio, rimasero
inservibili, per la violenza del morbo che irruppe repentino. Furono
però di sussidio certi vicoli, i quali, fatti sgombrare sul momento
gli abitanti, vennero isolati e muniti di guardie come altrettanti
lazzaretti. Se ne contarono quattro; uno in Porta Orientale, rimpetto
la Croce di San Rocco, in Porta Vigentina il secondo, in Porta Ticinese
il terzo, l’ultimo in Porta Comasina. Racchiudevano i medesimi molte
case, ed estendevansi fino alle mura della città.

Furono di grande uso ed opportunissimi per rinchiudervi quei fortunati,
che schivata la morte ne’ primi quaranta giorni, rimanevano altri
quaranta in essi vicoli per togliere ogni dubbio che s’ammalassero
di peste, finchè bene spurgati e sani venivano rilasciati. Quanti
uscirono vivi dai lazzaretti, rivestiti dei nuovi abiti per cura dei
caritatevoli e pii magistrati, vennero in ordinata schiera condotti a
questi più sicuri asili.

Una volta trovaronsi chiusi in quarantena fin sedici mila persone
tra malati e guariti; la prima schiera che uscì dal lazzaretto di San
Gregorio per entrare in quarantena, fu di quindici mila.

Dovere di storico mi vieta tacere delle capanne, dei sepolcri, de’
funerali e cadaveri: lugubre argomento! Le capanne degli appestati
furono 645 a Porta Nuova, 715 la Porta Vercellina, non più di 300 a
Porta Romana. Ognuna costò due zecchini oltre il compenso ai possessori
dell’occupato terreno, ai quali si resero altresì pubbliche grazie per
averli prestati al Municipio.

Le immani fosse pe’ cadaveri si scavarono in altri campi, e furono
ventiquattro oltre le più piccole, che pel gran numero de’ morti si
aprivano ogni giorno presso ciascuna porta della città.

Non si potè calcolare con esattezza il numero dei morti, perchè,
durante il furore del contagio, perirono anche gli uffiziali di
Sanità, incaricati di tenerne registro. Invano vennero sostituiti
altri ed altri, chè tutti con violenza rapiva la peste, laonde,
stringendo i bisogni e le cure, si abbandonò come men rilevante e
quasi impossibile quella degli elenchi mortuari. Nondimeno, giusta la
comune congettura, si calcolò morissero 140,000 persone. La qual cifra
ritrovai ne’ pubblici atti, dai quali ho desunte tutte le narrate
vicende. Però altre congetture e indizj dolorosi accrescono un tal
numero, coll’aggiungere i morti che vennero dai congiunti stessi
clandestinamente sepolti negli orti e nelle cantine[147].

La quale irriverenza pe’ corpi de’ defunti proveniva dal timore dei
becchini, genía non meno formidabile dello stesso contagio, giacchè,
appena posto il piede in una casa, la mandavano a soqquadro, rubando e
dilapidando ogni cosa.

Che se ambigua è tale congettura, e incerto il numero dei morti di
questo contagio, non avvi però dubbio alcuno che se durava più a lungo
il morbo, non avrebbero giovato le provvidenze del Consiglio e gli
avanzi dell’antica ricchezza per salvare i pochi superstiti cittadini.
Su tale misera condizione, i Decurioni, scrivendo allo Spinola, si
espressero colle seguenti parole:

«Milano, città devota e fedelissima alla Maestà Cattolica, fra tutte
che i confini del vasto suo impero racchiudono, era anche, prima della
peste, esausta di denaro ed oppressa dai debiti per le angustie de’
tempi. Ora poi esaurì tutte le sostanze del banco di Sant’Ambrogio;
tentò ogni sorta di prestiti e di mutui per servire a Dio, al re ed
alla patria, alimentando come fece il popolo; e sostenne spese, che
lo stesso invittissimo imperatore Carlo V dichiarò spettare al regio
fisco».

Io temerei di recar noia ai lettori se venissi esponendo ad una ad
una tutte le provvidenze dei magistrati per salvare dall’eccidio la
patria; ma d’altronde ho per sacro dovere di nulla ommettere di quanto
fecero que’ sapientissimi uomini in codesta luttuosa epoca. Imperocchè
i decreti che promulgarono per le singole emergenze, andranno forse
dispersi o consunti negli anni avvenire, come accader suole di fogli
staccati e leggieri. E invece queste mie storiche carte, quand’anche
non durassero eterne, avranno il vantaggio di poter essere nuovamente
riprodotte.

Però non è mia intenzione citare testualmente i decreti, ma soltanto il
sunto de’ medesimi, che furono i seguenti.

Ordinarono di fortificare e custodire i villaggi e i borghi tutti del
contado milanese, affinchè gli abitanti non ne uscissero e fosse tolta
ogni comunicazione fra loro. Ingiunsero poi specialmente di tener
d’occhio le terre e i castelli soggetti ad estera giurisdizione, perchè
i forastieri non s’introducessero in Milano.

Ordinarono che ogni giorno si notificasse al Tribunale di Sanità
l’elenco dei malati e le case contaminate di peste, ovvero sospette.

Ai medici, chirurgi, ed a quanto occorreva per gli appestati, si
provvide col pubblico denaro.

Fu proibito tener bachi da seta a motivo del lezzo de’ loro
escrementi[148]; tolto ogni traffico d’abiti e di cenci, per il
pericolo quasi inevitabile di attaccare con essi il contagio. Anche
i mercati si sospesero, meno quel di Lecco, che fu permesso con certe
prescrizioni.

Richiamarono in città i capi di famiglia che a poco a poco erano quasi
tutti emigrati nelle ville per timore del morbo.

Proibirono nuovi affitti di case, perchè gli inquilini, col trasportare
le suppellettili già per avventura infette, non recassero il male nelle
altrui abitazioni.

E siccome cresceva ogni dì la pertinacia e la leggerezza della plebe,
che negava dar fede alla peste e perseguitava coloro che, affermando
essere già penetrata fra noi, suggerivano gli opportuni rimedj, così
i magistrati, di concerto col governatore, che allora trovavasi per la
guerra a Carmagnola, cercarono tenerla in freno con minacce e gastighi.

Facendosi poi sempre più intollerabile l’aggravio di alimentare quella
famelica e riottosa plebe, nè bastando i granai per distribuire ogni
giorno pane di frumento, decretarono: Si adoperasse anche miglio e
panico, ed i pani fossero di minor peso, giacchè la scarsezza di denaro
rendeva necessaria ogni possibile economia.

Fu innoltrata una supplica al re che volesse condonare alla città le
gabelle, i pesi e quant’altro spettava al fisco, in vista dei pesi
giornalieri e delle tante morti, a tenore di quanto erasi accordato
nell’antecedente pestilenza.

Studiando tutti i modi possibili per raccogliere denaro e grano, fu
decretato: Che chiunque introduceva frumento o prestava denaro alla
città, avrebbe sulla somma un interesse del sette per cento. Venne
anche lasciato in arbitrio del venditore di convertire il prezzo del
frumento in una rendita annuale. Ai rivenditori al minuto, rigattieri,
droghieri, salsamentari, mercanti di legna e carbone, i quali o non
tenessero ben fornite le botteghe, ovvero accrescessero il prezzo dei
generi, fu imposta una multa di cinquecento zecchini ed anche più, ad
arbitrio dei Decurioni.

Si spedì ordine nei borghi e villaggi entro la periferia di dieci
miglia da Milano, perchè i contadini serbassero diligentemente la
paglia necessaria per le capanne, avendo cura nel mietere di tagliare
le spiche lunghe abbastanza perchè fossero servibili a tal uso.

Alcuni nobili vennero incaricati d’una visita nelle singole case
e famiglie di Milano, registrandone le sostanze, i traffici, il
numero, l’età degli inquilini, e quanti ne fossero già morti di peste
o trasportati nel Lazzaretto. E tutto ciò allo scopo di evitare
frodi ed errori nella distribuzione dei pubblici soccorsi e delle
elemosine[149].

Vennero ammoniti i poveri, che, incominciando a rallentare il contagio,
ognuno pensasse a ripigliare l’arte sua, invece di poltrire nell’ozio,
vivendo della carità pubblica a danno della città, la quale, ormai
ridotta alle ultime angustie, si rovinava senza poter saziare la fame
di tutti. Ciò fu pubblicato per incutere timore e introdurre qualche
disciplina in quella sfrenata moltitudine; del resto si provvide fino
all’ultimo con elargizioni ogni qualvolta l’indigenza non proveniva da
infingardaggine. Si stabilirono forti pene pei mendichi e vagabondi,
intimando ai nostri che fra due giorni si raccogliessero all’ospitale
di Sant’Ambrogio, ai forastieri, che, se entro quattro giorni non
sgombravano dallo Stato, verrebbero frustati o condannati al remo,
secondo l’età ed il sesso.

Si raffrenò più severamente la baldanza dei monatti e delle monatte,
appiccando per la gola e lasciando appesi alle forche quelli tra loro
che rubassero nelle case, occultassero, o nascondessero sotterra i
furti, ovvero non li denunziassero ai magistrati.

A me pure diventa gravoso il riferire tali cose, e l’animo mio è
oppresso dalla noja, contro la quale m’era a malincuore premunito,
allorchè impresi di fare un sunto delle gride e dei decreti. Ormai il
tedio rende languido lo stile e mi fa cadere di mano la penna, sicchè
compendierò in brevissime parole quanto mi rimane a dire.

I pericoli, gl’infortunj, le umane frodi, i casi dubbiosi, i
provvedimenti e i rimedj che vennero adoperati durante il contagio
in tanti pubblici guai e necessità, si rinvengono nei registri della
città, cioè nei decreti, avvisi, lettere, consulti, largizioni,
provvidenze del Consiglio generale tanto per vincere con umani mezzi e
col divino ajuto la peste, quanto per alimentare la plebe e infrenare
la licenza ed i delitti de’ malvagi. Lo zelo dei nostri magistrati
rifulse mentre inferociva il male, e divenne vieppiù attivo allorchè
questo cominciò a cedere. Ne fanno prova gli editti posteriori
all’agosto 1630, nei quali traspare la speranza di salvezza, congiunta
alla premura di non mostrarsi ingrati coll’indolenza alla misericordia
divina, che poneva fine al tremendo flagello.

I pubblici atti furono dati in luce dal segretario Chiesa, figlio
del segretario Jacobo, che lasciò un giornale da lui compilato. Ora
riferirò gli atti del Tribunale di Sanità, che rinvenni ne’ suoi
archivj, e che si pubblicarono congiuntamente o in pari tempo de’
sopraccennati.


II.

Atti del Tribunale di Sanità.

Ne’ primordj di queste luttuose vicende, allorquando indizio veruno o
terrore di peste eravi in città, e i Milanesi, tranquilli e scevri di
cure, attendevano alle loro occupazioni, godendo come è loro costume i
piaceri e le gioje della vita, si sparse voce che l’esercito imperiale,
movendo all’acquisto di Mantova, disseminava il contagio nei paesi
che traversava. Al qual morbo, la gente alemanna, per consuetudine
inveterata da secoli, non abbada più che alle comuni malattie. Già
era venuto l’avviso che in Lindò dodici famiglie infette di peste
trovavansi segregate giusta le prescrizioni sanitarie fra noi in
vigore; per la qual cosa il presidente Arconati adoperossi a tutto
potere perchè la Sanità dichiarasse Lindò infetto, e quindi interrotto
ogni nostro commercio col medesimo. E tanto più che oltre all’avervi
stanziato l’esercito alemanno, sporco di peste, essa città è sempre
sospetta come emporio delle merci provenienti dalla Germania[150];
laonde l’Arconati instava che per sicurezza di Milano si vietasse con
pubblico decreto di ammettere nello Stato persone e mercanzie di là
provenienti. Ma gli interessi privati, i quali, al dire d’un antico
scrittore, sono mai sempre in collisione coi pubblici, tolsero che si
attivasse questo sì provvido divieto. Alcuni nostri cittadini, potenti
e ricchissimi negozianti o parenti di negozianti, i quali coprivano
altresì eminenti cariche, vi si opposero coll’autorità loro e coi
suggerimenti, non tralasciando anche di trarre al loro partito uomini
di cui servivasi il Tribunale di Sanità.

Avevano i medici conservatori insistito che s’intercettasse la
comunicazione con Lindò almeno durante l’estate, il calore del quale
innasprisce sempre i contagi. E quando videro derisi i loro consigli
e che i guadagni de’ potenti ostavano ai dettami della filosofia,
cercarono che almeno si spedisse in quelle parti un uomo fidato, il
quale, fatte diligenti indagini, scrivesse a Milano come progredisse la
peste, come s’andasse sviluppando, e da che strade potevasi introdurre
nelle nostre provincie.

La Sanità affidò tale missione a Giulio Vimercati, uomo fedele,
ardimentoso e sprezzatore d’ogni pericolo, purchè ne riportasse lodi,
elogi, certezza di pronto lucro e speranze future.

Il Vimercati perlustrò ogni angolo, esaminando tutto quanto concerneva
la peste colla diligenza non solo d’un legato della salute pubblica,
ma d’uno speculatore. Ma le sue lettere e le relazioni circostanziate
tornarono vane, prevalendo, come dissi, i raggiri de’ negozianti,
i quali, per la condizione dei tempi, maneggiavano a loro voglia
le cose, ed insaziabili di guadagno, quantunque nobili e ricchi,
facevano cadere a vuoto ogni provvedimento contrario al loro interesse.
Coll’autorità e con segrete mene adunque riuscirono ad impedire che si
vietasse il pericoloso commercio colla Germania, come volevano i medici
conservatori. Di più fecero sopprimere le bollette, utile e salutare
cautela introdotta l’anno 1628 dal senatore Paolo Ro, presidente della
Sanità[151]. E tale misura così improvvida adottossi quando l’esercito
alemanno, infetto di peste, non si sapeva ancora per quale strada
scenderebbe in Italia. Allorchè poi, muniti i castelli dei Grigioni,
esso cominciò a scendere nella Valtellina, avvicinandosi sempre più
a noi, il Tribunale di Sanità decretò che niuno comperasse abiti,
utensili, vasi e qualsiasi cosa derubata dalle truppe nei villaggi
che già si sapevano infetti di peste. Gravissimo era il pericolo,
giacchè i soldati cercavano trar partito dei loro furti, offerendoli a’
compratori a basso prezzo; laonde il decreto della Sanità fu vilipeso,
e molti, con quell’infame traffico per ingordigia di guadagno,
contrassero il morbo, con ruina di molti e della patria.

Il Consiglio, la Sanità, il Senato ed i Questori ordinarj, instarono
con raddoppiata energia, perchè, se evitar non potevasi assolutamente
il passaggio delle truppe alemanne pel nostro territorio, almeno
s’imbarcassero a Chiavenna sul Lario fino a Como. In tal modo scemava
il rischio di spargere il contagio nelle terre, e lasciavasi minor
adito di rapinare alle soldatesche, baldanzose e sfrenate come è
proprio dei barbari. Ma i Comaschi, siccome corse voce, evitarono con
un donativo il disturbo: i capi della loro città, mediante quattro mila
zecchini, fecero in modo che i comandanti dell’esercito scegliessero
la via di terra toccando appena qualche terra del lago. Se l’esercito
veniva traghettato con barche, come erasi stabilito, e per abbreviare
il viaggio, e per minor danno del paese, il contagio avrebbe recato
guasti di gran lunga minori, nè sarebbesi cotanto esteso; e le truppe
alemanne non avrebbero desolate le popolazioni colle rapine e la
militare licenza.

Dovevano, giusta il prescritto, uscendo dalla Valle Solda, imbarcarsi
a Margozzo ed entrare nel Verbano; giù pel Ticino a Pavia, indi pel Po
giungere ai luoghi ov’era diretto l’esercito. Si propose altresì una
seconda strada, cioè da Belinzona a Magadino dove s’imbarcherebbero; la
terza finalmente, che a forza d’oro venne chiusa, era che le truppe,
uscendo dalla Valtellina, preso imbarco sul lago di Como, e fatto
un tragitto di quattordici miglia, si portassero a Laveno in riva al
Lago Maggiore; ovvero, traghettata l’Adda toccassero a Castelnuovo,
ove questo fiume mette foce nel Po, e di là s’avviassero per dove li
guiderebbero i loro comandanti.

I due Tribunali, il Senato ed i magistrati della città avevano così
stabilito; ma quando l’esercito, sprezzando i loro decreti, e cangiata
strada, devastò tutto il paese con latrocinj, incendj e crudeltà d’ogni
genere, eccedendo perfino la consueta militare licenza; quando Colico
fu data alle fiamme, la Valsassina posta a soqquadro, depredata la
Brianza e tutta la Geradadda, anche più crudelmente tiranneggiata come
se fosse invasa da orde barbariche, quando le truppe ebbero sparsa la
peste, lasciandone traccia ovunque passavano, allora la Sanità emanò
giornalmente nuovi ordini che furono di poco giovamento.

Il 23 ottobre 1629 il protofisico Settala denunziò alla Sanità che
nel villaggio di Chiuso, ultimo del territorio di Lecco sul confine
bergamasco, era indubitatamente scoppiato il male e che già dieci
case trovavansi infette. Vennero eguali notizie da Colico e Bellano e
da Lecco, avendo scritto il medico Francesco Maruello ivi residente.
In conseguenza di tali avvisi il Tribunale scelse a commissario un
certo Cisero, perchè senz’indugio si recasse sui luoghi, coll’ordine
di passare per Como, e prender seco un medico per meglio esaminare le
cose attinenti alla salute pubblica. I medesimi scrissero non esservi
in que’ dintorni peste, ingannati forse da un ignorante barbiere
di Bellano, il quale gli assicurò che era bensì morto qualcuno
d’improvviso, ma per le esalazioni delle paludi di Colico, ovvero
per gli strapazzi sofferti durante il passaggio degli alemanni; e che
molte malattie naturali somigliano alla peste. Ma pochi giorni dopo la
Sanità, saputo che anche in altri villaggi prendevano forza i sospetti
di contagio per morti improvvise, con spavento non solo degli abitanti
che abbandonavano fuggendo il paese, ma anche dei lontani pel concepito
allarme, ordinò preghiere a Dio perchè infrenasse il morbo che ormai
serpeggiava.

Poscia elessero Alessandro Tadino, uomo che all’ingegno non comune,
univa l’esperienza e l’attività necessaria in simile frangente,
pregandolo che a’ suoi meriti verso la patria, quello pur aggiungesse
di recarsi a perlustrare l’intero tratto di paese percorso
dall’esercito alemanno, informando il Tribunale quali luoghi trovasse
sani, quali sporchi[152]. Gli diedero compagno Giovanni Visconti,
auditore della Sanità, provvedendoli d’ogni mezzo occorrente pel
viaggio. Partiti da Milano il 29 novembre, visitarono colla possibile
sollecitudine la sponda del Lario, la Valsassina, i colli della Brianza
e la Geradadda.

Il quarto giorno scrissero al Tribunale le seguenti notizie. Ad
Olginate, paese della Brianza in riva all’Adda, non che a Galbiate,
avevano trovati i terrazzani agitatissimi per la peste scoppiata fra
loro, e molti che si erano isolati per timore, ovvero fuggiti nei
boschi e sui monti vicini[153]. Tutto ivi spirava miseria e squallore,
a segno che i contadini, senza pronti soccorsi, si sarebbero ammalati
di peste seppure già non l’avevano presa. Soggiungevano essere questi
i primi luoghi dove eransi fermati, ma che giungevano loro eguali nuove
dalle terre più lontane; il che verificherebbero in appresso. Urgeva il
bisogno di medici, chirurgi, infermieri, perchè tali infausti principii
non avessero più terribili conseguenze.

Il 10 novembre il Tribunale, dietro tale relazione, emanò ordini che le
suddette terre venissero dichiarate infette di peste, nè si ammettesse
alcuna provenienza dalle medesime. I registri ordinati sulle prime, poi
trascurati, vennero rimessi in vigore con severo decreto, il quale fu
osservato dai custodi per timore dei gravi castighi che minacciavansi
a’ trasgressori.

I due commissarj continuarono il giro, trovando parecchi villaggi già
invasi dal contagio o spaventatissimi pel suo avvicinarsi. Date le
più urgenti disposizioni sanitarie, e provveduto col pubblico denaro
ai bisogni istantanei, tornarono a Milano, riferendo al Tribunale di
Sanità, che ormai non era dubbio il contagio, e già serpeggiava ne’
dintorni della città. I medici collegiati, trepidanti a tale infausto
annunzio, ingiunsero ai due commissarj di recarsi ad informarne il
governatore. Il Tadino e il Visconte v’andarono, e tornati in seduta
riferirono che Sua Eccellenza era dispiacentissimo e molto agitato
per l’annunzio, ma che le cure più gravi della guerra, lo tenevano
occupato[154].

Il Tribunale ordinò che le lettere dei medesimi, venissero registrate
negli atti a perpetua memoria dell’origine e delle prime stragi
della pestilenza. Il Tadino, non soltanto medico ma storico egregio,
descrisse nella sua relazione lo stato delle terre che visitò,
delineando le pianure, le valli, i seni, le paludi, i luoghi irrigati
da acque, le squallide lande. Distinse le vigne, gli orti, le
campagne, i monti sassosi, i palazzi, le case, i miserabili tugurj dei
contadini; notò il numero delle famiglie di ciascun paese, e quali di
questi fossero aperti e indifesi contro la peste, quali invece o per
posizione, o perchè recinti di mura, avessero speranza di schivarla. A
codesta che può dirsi geografia della pestilenza, aggiunse il Tadino le
osservazioni sanitarie proprie dell’ufficio suo: descrisse la miseria
de’ contadini, molti dei quali trovò giacenti sulla paglia fracida e
sporca dal lezzo de’ soldati cui aveva servito; parlò dei rimedj da
lui amministrati, de’ soccorsi distribuiti, e delle prescrizioni che
aveva attivate, affinchè le terre ancora sane porgessero ajuto alle già
infette, e ne ricevessero esse pure, se fatalmente le colpiva il morbo.
Conchiuse dicendo aver’egli dati dovunque gli ordini, perchè i cadaveri
degli appestati che, frammisti ai viventi, facevano orrore coll’orrendo
aspetto, e contaminavano l’aria, venissero posti sotterra[155].

Coteste notizie del morbo, che già erasi diffuso per le campagne,
nelle valli, e fino entro i boschi, conturbarono tanto più i nostri
magistrati, quanto non se lo aspettavano in quella stagione autunnale,
essendo la pestilenza un mostro di cattivo augurio che d’ordinario
compare in estate, ed all’appressarsi dal verno si nasconde negli
antri, per rialzare nuovamente il capo col sole di primavera. Intanto
cinque morti di peste accaddero entro le mura di Milano, le quali,
confessate in segreto, minacciavano gravissimo pericolo pel venturo
estate. Non fecero senno i magistrati di quei cinque casi, però vollero
si registrasse negli atti il loro errore per istruzione dei posteri.

Quel Locato, di cui parlai al principio di questa storia, fu il primo
ad introdurre il contagio in città; era un soldato di presidio a Lecco,
che, voglioso di venire a Milano, vi s’introdusse con una bolletta
falsa, e portò seco un fardello di robe, oltre i vestiti che aveva
indosso, comperati dagli Alemanni, per venderli in Milano[156].

Morto il Locato nell’ospital maggiore, come narrai, ammalarono quanti
gli erano stati vicino; alcuni morirono, altri, presi da febbri acute
con gavoccioli, a stento risanarono. Questo è il primo caso di peste
che trovo registrato negli atti del Tribunale di Sanità; morirono in
seguito con segni di bubboni, e carbonchj certe donnicciuole della
famiglia di un Colonna, abitante nella casa medesima dove alloggiò il
soldato. La Sanità fece abbruciare le vesti e tutte le suppellettili
di esse donne, perchè avevano comperate alcune robe dal soldato.
In seguito si scoprì che, trovandosi esse in pericolo di morte,
avevano mandate al vicino oratorio di San Rocco alcune vesti perchè
si appendessero come voti al santo protettore della peste; laonde il
Tribunale diede ordine, che di là tolte, si abbruciassero, affinchè,
per l’intempestiva divozione di quelle femminuccie, il male non si
diffondesse dall’oratorio tra il popolo.

Il 2 novembre intervennero alla seduta il protofisico Settala, suo
figlio Senatore, da lui educato perchè fosse erede della gloria
paterna, ma che non gli sopravvisse a lungo, ed Alessandro Tadino, il
quale, congiunto ad entrambi per amicizia, studj uniformi ed amore di
patria, formava con essi quasi una sola scuola medica ed una famiglia.
Turbati in volto, riferirono come in porta Vercellina, in una casipola
di Bernardo Bellano venditore di cenci, era arrivato un Gerolamo
Radaello, fuggito per qualche motivo dal borgo di Merate, dove aveva
comperato dai soldati alemanni un colletto di bufalo. Preso da febbre
pestilenziale era morto in due giorni, ed apparvero sulla schiena del
cadavere negre pustole e bubboni; anche il Bellano, suo ospite, morì
cogli stessi sintomi di peste; di più Vittoria Cattanea, la quale per
compassione o per denaro aveva assistiti i due malati, erasi infermata.
Il figlio del Bellano, lattante, e la vecchia Caterina Cattanea con sua
figlia, inquilini di essa casa, morirono tutti di peste in conseguenza
del contatto inevitabile negli abituri dei poveri.

Dietro questa relazione dei tre illustri medici, la Sanità ordinò
che raddoppiassero le cautele preservative. Ma ormai era vicino il
principio di quell’anno che doveva menar tante stragi in tutta la
città.

Entrante il gennajo 1630, incominciò il contagio ad invadere Milano da
due opposte parti, cioè da Porta Orientale e da Porta Vercellina, e
il Tribunale di Sanità fece disporre fuori del Lazzaretto le capanne
destinate a ricoverare gli appestati. E siccome esistevano le norme
disciplinari istituite dal duca Francesco Sforza, pregò il Tadino
ed il giovane Settala, medici conservatori, perchè, esaminatele,
aggiungessero o mutassero ciocchè esigevano i tempi e l’attuale
condizione delle cose, raccomandando loro che traducessero ciascun
capitolo in lingua volgare, con apposite e chiare spiegazioni, in guisa
che il libro riuscisse utile a quanti dovevano usarne. I conservatori,
senza perder tempo, spiegarono e ridussero in tabelle le discipline del
vecchio Lazzaretto.

I medesimi riferivano giornalmente al Tribunale che mancava loro
autorità per costringere all’osservanza delle leggi sanitarie, non
solo i plebei, ma anche molti nobili, i quali andavano dicendo essere
falso il pericolo del contagio, e nemici della patria i medici che
la sostenevano. L’ottimo e venerando Settala ebbe a soffrire gravi
insulti, e per poco non fu dal volgo lapidato: un barbiere ingiuriò
il Tadino, e tentò suscitargli contro quelli che passavano per la
strada. Altri medici di minor grido, stranieri, e quindi senz’amor di
patria, ovvero nostrali, ma corrotti da malevolenza e da invidia contro
il collegio perchè non voleva riceverli, schiamazzavano frementi,
adoperandosi a tutto potere per mandar a vuoto i suggerimenti dei
conservatori e i decreti della Sanità, schernendola, come se fosse
magistratura inutile e di puro nome. Colleghi a costoro erano non solo
spregevoli barbieri, che dal rasojo e dal pettine passavano a fare il
medicastro, ma anche veri chirurgi, i quali avrebber dovuto sostenere
la medicina, come quelli ch’esercitano un’arte alla medesima sorella.

Costoro, in ischiera serrata, si scagliarono contro i sostenitori della
peste additandoli ai nobili ed al volgo quai carnefici, se non de’
corpi certo degli animi, come quelli che spargevano la costernazione
ed il terrore della morte e del pubblico eccidio. La Sanità, vedendo
che tutti gli argomenti per comprovare l’esistenza del contagio fra noi
erano derisi, decise tentare una prova efficacissima a far conoscere la
verità ai prudenti e agli stolti, e ad infondere un ragionevole timore
negli animi.

Era venuto il giorno in cui uomini, donne, molti nobili a cavallo o in
cocchio, giusta l’uso, ed il popolo, libero dai lavori per essere dì
festivo, accorrevano in folla al Foppone di San Gregorio da mattino
a sera a pregare pei morti dell’antecedente peste, colà sepolti.
Pietosa usanza conservatasi da mezzo secolo tra i milanesi, non senza
che taluni, giova confessarlo, v’andassero per far pompa di sè, o per
godere lo spettacolo dell’accorrente moltitudine.

I conservatori della Sanità scelsero quel giorno per vincere, con un
lugubre spettacolo, l’incredulità al contagio, che in molti, quasi per
celeste castigo, era invincibile. Posti sopra carri i cadaveri di non
pochi appestati morti in quella giornata, comandarono si traducessero
alle aperte sepolture nell’ora del maggior concorso di popolo, come se
ciò accadesse per semplice caso.

All’apparire dell’orribile convoglio, scoppiarono pianti, gemiti e voci
imploranti la divina misericordia. E fu avvisato il Tribunale che la
vista di quei carri aveva fatta sì grande impressione, che anche i più
increduli ormai s’erano persuasi dell’esistenza della peste.

Decretossi di chiudere le comunicazioni colla Savoja, affinchè altri
barbari da Susa e Pinarolo non introducessero eglino pure in Lombardia
il contagio, che già infieriva tra noi a segno, da poterlo trasmettere
di nuovo ai medesimi. Proibirono, sotto pena di morte e del bando,
qualunque compera d’abiti o stracci, spaventati forse dalla morte di
coloro che abitavano in casa del Bellano, venditore di cenci.

In mezzo alle cure che non davano tregua, e crescenti vieppiù di
giorno in giorno, suscitava indegnazione e dolore la prepotenza
degli individui posti alla sorveglianza delle poste e dei quartieri
in Milano, e dei custodi che stavano a guardia al di fuori. Costoro,
divenuti arbitri delle faccende e del traffico giornaliero, invece di
esercitare un’equa magistratura, tiranneggiavano il popolo.

Erano dessi falliti, in bisogno di pubblico impiego per campare la
vita, ovvero uomini danarosi che nelle calamità della patria agognavano
d’accrescere le loro ricchezze, o infine gente prezzolata, avida di
regali, speculante sulla miseria degli indigenti, e che spartiva i
guadagni co’ suoi padroni.

Chi di essi fingeva zelo, quasi fosse uno dei padri della patria, chi
vantavasi per ingegno e dovizie, atto a tener in freno gli uffiziali
subalterni, altri erano adoperati nel far eseguire gli ordini: pessimi
tutti, e fatali quanto il contagio, si tolleravano per la scarsità de’
buoni cittadini ch’eransi dati alla fuga.

Fuvvi uno, non so se fallito, o ricco prepotente, il quale ordinava gli
si portassero dalle case rimaste vuote per la morte de’ proprietarj
quanto vi si rinveniva di prezioso, ed anche le suppellettili
domestiche. In tal modo avevano que’ furfanti raccolto anelli, gioje,
vasi di rame e di stagno, biancherie e simili, fingendo tenerli presso
di sè come in deposito da restituirsi; ma in realtà per farne bottino.

Il Tribunale, conosciute le rapine di codesti iniqui, non riuscì
sulle prime a levarli dal loro posto, ma qualche tempo dopo, côlta
l’opportunità, li rimosse, oltrecchè la stessa peste molti ne tolse di
mezzo senz’altra briga[157].

In seguito uscì un decreto che sminuiva il numero di costoro, la cui
temporaria e illimitata autorità, era sì fatale al paese. Ridotti a
minor numero, le cose camminarono un po’ meglio, e la Sanità ebbe meno
reclami.

Morti parecchi medici e chirurgi, e trovandosi a stento persone che far
ne potessero le veci, sia nell’ordinare rimedj, sia nel cacciar sangue
ed altre operazioni di flebotomia, la Sanità invitò con premj quanti
esercitavano la medicina e la chirurgia in Milano, ed offrì lauti
stipendj a coloro che venissero dalle città e dai paesi vicini.

Il decreto di spurgare Milano colla quarantena fu di pochissimo
giovamento, anzi fu causa di disordine, e diede nuovo fomite alla
peste, imperocchè, sconsigliatamente, mettevansi insieme i sani, i
convalescenti, e quelli che portavano nascosto nelle viscere il male.
Tale quarantena, attivata non già nel Lazzaretto maggiore, ma ne’
succursali, stabiliti presso le singole porte della città, ammucchiava,
come dissi, i guariti di fresco cogli appestati. Ivi, come se fossero
in taverne, davansi in preda a gozzoviglie e giuochi, e con ogni
genere di lascivie contaminarono sè e gli altri, morendo avanti il
termine fisso all’uscita, per cui riuscì dannosissima quella disciplina
sanitaria. Il Tribunale non trovò altro rimedio al disordine, fuorchè
di aprire que’ recinti, e non far eseguire il decreto com’era accaduto
di parecchi altri, lasciando impuniti i trasgressori, perocchè in quei
luoghi riconoscevasi solo l’impero della morte.

Un caso impreveduto, o, per dir meglio, la vana speranza e la cieca
smania di creder vero ciò che ardentemente si desidera, trasse in
errore il Tribunale. Una donnicciuola giunse a Milano da un villaggio
del Lago Maggiore, e per materna tenerezza verso un suo figliuolo
condannato alle galere, presentossi al Tribunale, assicurando di
avere rimedj mirabili contro la peste, scoperti collo studio dei
semplici per grazia celeste, ed anche con mezzi arcani che non le era
lecito appalesare. Ella propose che ove le restituissero libero il
figliuolo, o almeno glielo promettessero, entrerebbe immediatamente nel
Lazzaretto, ove i fatti farebbero prova della verità di sue promesse.

La Sanità accettò, ed ammise tosto la vecchia medicastra nel
Lazzaretto, ove amministrò certe erbe e polveri agli appestati,
mormorando sovr’essi alcune misteriose parole con aria ispirata. Ma
coloro che la tenevano d’occhio osservarono che pronunziava parole
senza senso, e che le erbe e le polveri non avevano virtù efficace,
anzi quando porse rimedj attivi ai malati, riuscirono fatali, essendone
morti parecchi nelle sue mani. In tal guisa una donnicciuola ingannò il
rispettabile Tribunale della Sanità[158].

Il suddetto rappresentò poscia al Senato che nelle carceri i rei di
delitti capitali, e molti che vi si trovavano per debiti, cadevano
ammalati per lo squallore ed il sucidume delle prigioni, e molti erano
già morti[159]. Laonde suggeriva essere prudente consiglio lasciare
in libertà quanti si poteva senza rischio. Il Senato scelse alcuni
de’ suoi membri per esaminare le controversie e le liti de’ singoli
detenuti, non chè i loro delitti con piena facoltà di rilasciarli o
di trattenerli in carcere: inoltre decretò che per tre mesi alcuno non
s’imprigionasse per debiti[160].

In quest’ultima parte del mio racconto, inserii varj casi, non solo
di lieve conto, ma abbietti a tale che appena la storia degnasi farne
menzione. E li raccolsi dovunque, narrandoli a misura mi capitavano per
le mani e mi venivano sulla penna, a ciò mosso dal desiderio di nulla
ommettere di quanto fecero i nostri magistrati per zelo della pubblica
salute.

Presero molta cura per le filande, e perchè non si ammucchiassero gli
escrementi dei bachi di seta, dai quali estraesi quel filo emulatore
dell’oro, e che, tessuto in splendide vesti, fa brillare e rende
superbi i nobili. S’avvidero che, vietando pel lezzo il mettere bachi
e le filature de’ medesimi, sarebbe un togliere al popolo il mezzo di
vivere e in città e nelle campagne, giacchè quasi in tutti i paesi del
nostro territorio si aspetta avidamente la stagione de’ bozzoli che
dà lavoro a tante braccia. D’altra parte riflettevano che i contadini
per amor di guadagno e per abitudine, non baderebbero al pericolo
d’infettar l’aria col lezzo prodotto dalle diverse operazioni intorno
i bachi da seta. Perciò, quantunque nell’editto generale avessero
ordinato che in quell’anno della peste non si mettesse semente,
modificarono il divieto, concedendo di farlo sotto certe discipline
e cautele. Fu conceduto tener bachi non entro i borghi e villaggi, ma
soltanto nelle cascine e case isolate, qualora però queste non fossero
già infette per casi di peste. Se alcuno cittadino o campagnuolo dava
la semente a metà ai contadini, come si usa, doveva offrire sicurtà per
l’osservanza dei prescritti regolamenti.

Il letto de’ bachi, e le immondizie rimaste dopo che si sono messi
al lavoro dei cocconi, fu ordinato che si trasportassero ne’ campi
all’aperto, lungi dall’abitato. Nelle stanze, dove eranvi i bachi, si
prescrisse di accendere di tempo in tempo falò di lauro, ginepro, ed
altre erbe odorifere, comuni nelle campagne, servendosi in mancanza di
radici e tralci delle viti. In esse stanze poi niuno dormisse, anche
per ventidue giorni dopo, badando che il fetore non producesse deliquj.

I politici volgari, che vivono alla giornata, sentenziarono codeste
discipline minuziose e inconcludenti, ma ben altro giudizio ne daranno
coloro i quali rammentino ciò che un greco sapiente lasciò scritto.
Esservi, cioè, in una sola parola, in un movimento opportuno del corpo,
un cenno, in un volger d’occhi, maggior forza per indicare il senno e
la grandezza dell’animo, che non siavi in molte egregie azioni.

E siccome l’impero di Roma, giusta la sentenza d’un illustre storico
latino, crebbe appunto per molte minime circostanze da esso narrate,
così le minute prescrizioni immaginate e poste in opera dai nostri
magistrati, furono causa, dopo la divina misericordia, che non perisse
l’intera città pel contagio, e in tutte le terre dello Stato non si
propagasse.

Molti errori si commisero, e principalmente nell’aver trascurato con
grave danno di sequestrare dal commercio giornaliero le due Porte
Orientale e Ticinese. Il che ove si fosse fatto, ponendo guardiani
a custodia delle medesime, infette di peste, era sperabile che,
raffrenato il male, e respintolo come nemico, avrebbero salvata la
città, impedendo che si allargasse nel cuore di essa. Ma questa misura
era più facile suggerirla che mandarla ad effetto; però non v’ha
dubbio che il Locato in Porta Orientale, ed il cenciajuolo in Porta
Vercellina, furono i primi ad introdurre la peste in Milano.

Tutta la colpa di non aver avvertita simile cautela, o d’averla
trascurata, diedesi ad un uomo, l’opinione del quale, nel Consiglio
Pubblico, riuscì dannosa, e non solo in questo affare. Perocchè il
medesimo, contrario ai lavacri, che situati presso le acque correnti
del Lazzaretto, detergevano le immondizie, e via le trasportavano,
godendo il vantaggio d’una scaturigine perenne[161], s’adoperò a
tutto potere per far erigere altri lavacri in un padule, le cui acque
stagnanti e putrefatte, già di per sè corrotte, e vieppiù da sì gran
cumulo d’immondizie alimentavano ed esalavano la peste. Trovai ne’
registri che furono spesi quattro mila zecchini in quell’edifizio. Così
un uomo impetuoso ed ignaro della natura delle cose, fece sprecare al
pubblico sì grossa somma senz’altro effetto che di porgere fomite al
morbo ed accrescerlo[162].

Non già ch’io voglia farmi interprete dei divini giudizj, e chiamare
temerariamente l’imperscrutabile provvidenza, ministra dell’ire nostre,
e punitrice di chi, per leggerezza o per colpa, ne arrecò danno. Ma
fu caso mirabile e degno di ricordanza che il nobile summentovato, il
quale dirigeva le cose a suo capriccio, senza le necessarie cognizioni,
e parecchi commissarj e ministri subalterni della Sanità, colpevoli
di trascuratezza nell’adempimento dei loro doveri, perirono tutti
quanti. Il Primoldo, il Confalonieri, l’apparitore Pontino, il quale
col comperare, indi vendere il lenzuolo d’un appestato, fu causa che
perissero più di sette mila persone, ed altri furfanti di simil tempra,
morirono colle loro famiglie lo stesso giorno, offrendo un esempio
della giustizia divina.

È impossibile descrivere la violenza e l’atrocità di questo contagio.
I tanti casi narrati, e la città, resa quasi deserta d’abitanti,
basterebbero, ov’altro non fosse, a comprovarlo; pure mi turbano
l’animo meraviglia e terrore al ricordare la morte repentina di tutti i
religiosi d’un convento. E ciò non per contatto o per gli unguenti ed i
veleni pestiferi, ma per una cosa vana e leggera qual è il fumo. Nella
strada Marina, rinomata per amena posizione e per il vivace ingegno
d’un nobile e ricco vecchio, che indicò ai magistrati quello spazio
adjacente al pomerio della città[163], come opportuno al corso dei
cocchi ed ai passeggeri. E, ottenutane licenza, lo spurgò, lo ridusse
in linea retta, e l’abbellì, imponendo alla nuova strada il proprio
nome che tuttora conserva.

Ivi, mentre di notte tempo, nella supposizione che tutti i vicini
abitanti dormissero, abbruciavansi abiti, coltri, piumacci, cenci
ed altre suppellettili, il puzzo penetrò nell’adiacente monastero,
insinuandosi traverso le griglie delle finestre nelle stanze dei
religiosi.

Il dì seguente morirono parecchi di loro, gli altri per due giorni
lottarono col male, indi spirarono; quelli soltanto che abitavano
nell’interno in luoghi chiusi dove non penetrò il fumo ed il puzzo,
sopravvissero.

Fra tutte le cose rimarchevoli di quest’anno, e la catastrofe del
popolo milanese, nulla tanto mi commosse e commoverà, cred’io, gli
animi dei lettori, quanto l’esimia pietà del medesimo, che propria
di questa città, d’onde sembra siasi sparsa nelle altre regioni,
s’infervorò vieppiù tra le miserie, restando illustre ed imitabile
esempio a tutte le genti nei tempi futuri.

Oltre i digiuni pubblicamente intrapresi, i voti, e i sacri riti, e
quant’altro può rendere propizio Iddio; oltre le elargizioni a’ Luoghi
Pii, decretate dal Consiglio Generale, le limosine a’ poveri, in nome
di Cristo Salvatore per placarlo; in breve, oltre quanto la religione
e la natia munificenza della città suggerì, ciascuno gareggiava
nel promovere gli atti di pietà e di beneficenza, e tutto ciò che
reputavasi valevole a impietosire Dio, affinchè perdonasse colla bontà
e misericordia sua le colpe dei mortali.

Andavano a visitare le chiese a piedi scalzi, coperti di sacco,
battendosi il dorso col cilicio, finchè ne grondava in copia il sangue,
e tingevano di porpora quella veste di dolore e di penitenza. Molti
giravano di giorno coperti di sacco, assai più, durante la notte,
andavano ignoti e soli; poi, riunendosi a schiere, insieme piangevano,
oravano, flagellavansi, battendosi a gara gli uni gli altri nelle
tenebre. Lo spesseggiare dei colpi, ed il crescente romore raddoppiava
l’emulazione ne’ loro animi, siccome notarono certuni, cui prese
vaghezza di tener dietro di notte a quelle schiere spiandone gli atti.

Anche le donne, le quali sempre nei disastri sono più pietose ed
eccedono sì nelle cose oneste che nelle riprovevoli, intervenivano
a tali processioni e si flagellavano, offrendo le penitenze come
espiazione a Dio, alla Vergine, ai Santi loro protettori in cielo.
Queste pratiche facevansi in pubblico, altre moltissime tra le
domestiche mura, e più efficaci, io son d’avviso[164], ad impetrar
grazia del Cielo; ed erano le estreme prove degli animi compunti per
ottenere la misericordia del Signore.

L’amor del denaro è l’ultima passione da cui staccasi l’uomo anche
quando dispera di tutto, e a lui sovrasta la morte; nondimeno i
Milanesi l’offerivano a Dio, non già come vile e sprezzato metallo, ma
come prezioso e carissimo pegno. Non che credessero aver Dio bisogno
di quell’oro, ma nella speranza che accetterebbe benigno il loro buon
volere.

Donne avare, vecchi tenacissimi, crudi e sfacciati usuraj, che
custodivano il proprio scrigno come il gran drago[165]; molti nobili,
i quali, non per illeciti guadagni, ma per eredità d’antiche famiglie
eransi arricchiti; ogni agiato mercante, ogni artefice, per poco
denaroso, rivenditori, sensali, sacerdoti, ricchi per pingui prebende
o per risparmj d’una lunga vita, tutti costoro, chi al primo scoppiar
della peste, chi dopo morte, mostrarono che l’uomo, perduta ogni
speranza e cura delle terrene cose, affida sè stesso e gli averi a
Dio, o, per dir meglio, li restituisce a lui. Quelli de’ soprannomati
che vedevano con ispavento avvicinarsi il termine de’ loro giorni;
altri che pur speravano sopravvivere al contagio, altri finalmente, i
quali anelavano emigrare in lontani paesi per fuggire il morbo, ed ivi
trovare quieta stanza, tutti, secondo la propria condizione, diedero
denari per la comune salvezza.

Taluno li consegnò al confessore, altri all’amico, e fino al proprio
nemico. Chi lasciò per testamento alla città, chi a’ monasteri, alle
chiese, alle confraternite. Aprirono gli scrigni, legarono i crediti
loro, e palesarono fino i tesori nascosti nelle caverne, o tra i
ruderi delle case. Ve ne furono però di quelli che morirono senza
testare a favore di alcuno il molto oro trovato in seguito a caso ne’
più schifosi nascondigli, rimanendo incerto chi mai ne fosse stato il
proprietario.

Trovai ne’ pubblici atti orazioni contro la peste, composte da pie
persone, ovvero per ordine de’ magistrati, quasi che in Milano, città
fin dai più antichi tempi religiosissima, non si facessero bastanti
preghiere, e divote pratiche!

«O S. Nicola, decoro e gloria di Tolentino, caro a Dio per amore della
povertà, della virginità e dell’ubbidienza, i cui miracoli illustrano
l’ordine degli Eremitani, e lo rendono venerato fra gli uomini, deh! tu
co’ tuoi meriti ne intercedi il termine della pestilenza».

La qual divota antifona impararono cantare i nostri fanciulli e le
donne, avendo udito che in altri paesi era riuscita efficace.

Parecchie simili orazioni stampate o scritte, giravano per le mani e
pendevano affisse alle porte delle case. Una recitavasi con grandissima
divozione a Maria Vergine, che aveva liberata, com’era fama, la città
di Coimbra dalla peste, ed io qui la trascrivo colle proprie parole.

«La Stella del cielo che allattò il Nostro Signore, estirpò la morte
di peste, che il primo padre degli uomini piantò. Essa Stella si degni
ora frenare gli astri che avversi uccidono il popolo, piagandolo
crudelmente a morte. O piissima Stella del mare, liberaci dalla
pestilenza; porgi orecchio, o Signora, alle nostre preci, chè il
Figliuolo tuo ti onora, e nulla ricusa alle tue suppliche. Ne salva, o
Gesù![166]»

Questa ed altre molte orazioni furono usate insieme co’ rimedj umani
per allontanare il contagio; e il Signore, che per gl’imperscrutabili
suoi decreti pareva da principio negare soccorso, si mostrò poscia
clementissimo al supplicante popolo.

Io non sono di quelli, nè deggio esserlo, che vogliono scevri di
qualsiasi colpa i magistrati e la patria, anzi temo che alcuno non
trovi soverchj gli elogi da me compartiti in questo racconto. Ad ogni
modo, ove mi sia conceduta la libertà propria d’una veridica storia,
non esiterò a ripetere quanto già notai, e biasimai altrove. Questo
contagio non fu sulle prime conosciuto e creduto, e gli appestati non
vennero tosto rinchiusi nel Lazzaretto per tener conto dei sintomi.
Invece si rinserrarono, ammucchiati nelle case, ed ivi sulle scale, ne’
cortili, e perfino nelle soffitta, in numero di quaranta, e più ancora,
coll’alito, il lezzo, ed il fetore continuo, s’infettavano a vicenda.
Queste furono le cause per cui le stesse preghiere rimasero inefficaci
coll’Onnipotente, da cui dipendeva il cessare del flagello.

È altresì opportuno che io impunemente deplori un’altra calamità,
la quale non si potrà leggere o udire senza rammarico e senz’onta
per Milano come d’ingiuria alla natura. Per alcuni mesi, durante il
contagio, perì non solo la moltitudine già adulta, e che tosto o tardi
pur deve morire, ma anche la futura generazione, speranza dello Stato,
i bambini, che appena usciti in luce, morivano in uno colla madre di
peste. Imperocchè le nutrici mercenarie, per timore, ricusavano dar
le poppe, o prestandosi, comunicavano il male ai lattanti o da essi il
contraevano.

In tal guisa, oltre tante migliaja di cittadini, perirono i neonati,
che non avevano per anche il sentimento dell’esistenza. Più infelici,
mille e mille altri, i quali trovarono tomba nell’utero materno! E
sebbene i medesimi non sentissero la morte, ne patì il danno lo Stato,
mancandogli i nascituri che supplir dovevano al vuoto lasciato dai
periti pel contagio. I magistrati adducevano a scusa del non aver
posto riparo a tale sciagura la violenza del morbo, le immense spese
e la difficoltà di rinvenire in quei giorni, per qualsiasi mercede,
puerpere, il cui latte non fosse viziato.


III.

Nuove particolarità sulla carestia e la peste.

Torna a me pure in acconcio quello che afferma in un passo della sua
opera il principe della Storia Romana, cioè che vediamo accrescere le
pagine di un volume il quale sul principio credevamo dovesse riuscire
di piccola mole; così, mettendo il piede nel mare, a misura che ci
scostiamo dalla spiaggia, ci troviamo in acque più alte.

Nè mi sarebbe agevole venire al termine di questa storia, se volessi
continuare a raccogliere da quel calamitoso triennio, qui riunendoli
a fascio, tutti i terribili casi degli uomini, le sciagure tutte di
Milano, le cure dei governanti, i nuovi editti ed i pubblici sforzi
d’inesausta munificenza, i rimedj svariatissimi che vennero suggeriti o
usati; i doni, le elargizioni, la divina potenza, dalle accecate menti
non conosciuta, che preparava al popolo questo flagello, riserbandosi
di farlo cessare a suo beneplacito. Tutte le quali cose allungherebbero
fuor di modo il mio racconto, sicchè accennerò solo le circostanze che
mi sembrano preferibili, perchè servano d’esempio ai posteri, ed anche
per rallegrare alquanto l’animo attristato de’ leggitori.

Noterò prima di tutto, sul finire di questo doloroso racconto, un
accidente che servir potrebbe come esordio di una nuova opera. Oltre i
segni celesti e gli avvisi degli astri, non mai veduti fra noi, ma che
ai conoscitori riescono sempre formidabili, e le due comete apparse
nel 1628 e nel 1630, orribili entrambe a vedersi, corsero fatidiche
predizioni intorno la carestia e la peste. Nè mi vergognerò di citare
quei versi, benchè storpiati, correndo per la bocca di tutti gli
sciocchi, giacchè da ogni bocca udivasi ripetere:

    Regneranno dovunque e fame e morte[167].

E l’altro:

    Vedrem prodigi; letal morbo appresta[168].

Avverossi il vaticinio del poeta, chè ambidue i flagelli colpirono
l’anno predestinato, se non che io ho di già fatta protesta, e la
rinnovo, di non avere alcuna fede in somiglianti predizioni. Certissima
invece, e verace pur troppo, fu un’altra predizione, esposta non in
versi ma con cifre[169], ed origine delle nostre sciagure, previste
avanti che accadessero. Della quale ragionerò perchè ne rimanga
perpetua ricordanza.

Le schiere che sotto gli ordini de’ singoli comandanti discesero
dall’Alemagna in Lombardia, portandovi la desolazione, la carestia e la
peste, componevansi di 7456 cavalieri, e 28,000 fanti, in totale 35,456
uomini[170].

Lungo tutto lo stradale percorso da queste schiere, i soldati avevano
gli alloggi militari nelle campagne e nei paesi circonvicini. Se
fossero stati Francesi in guerra con noi, non poteva essere più
sfrenata la licenza, nè maggiore la fuga dei terrazzani. Quasi avessero
l’incarico di depredare i luoghi donde passavano, incendiavano,
rapinavano, rubando buoi, giumenti e quanto trovavano nascosto nelle
case o sotterra. Laddove il loro furore non rinveniva su che sfogarsi,
legati i capi di casa trascinavanli seco prigioni: le più scoscese cime
dei monti non erano a’ fuggitivi sicuro asilo, perchè un contadino
più ricco, o qualche invidioso li scopriva, e non di rado i soldati
medesimi coll’astuzia loro propria. Il soldato, avido di bottino,
teneva dietro al suo ospite e trovandolo entro i nascondigli lo
tempestava di busse finchè, costretto a seguirlo, avesse scavato per
lui quanto aveva seppellito.

I comandanti non provvedevano a simili nequizie, sia perchè partecipi
del bottino, sia perchè alcuni di essi gran signori, malcontenti d’aver
dovuto lasciare la patria, e occupati dei propri affari, chiudevano
l’orecchio ai reclami, sprezzando rimediare a’ disordini, secondo loro,
di nessuna entità.

Quando poi alle prime schiere che diedero siffatti esempj
d’indisciplina, tennero dietro le susseguenti, crebbe la ruina,
perocchè, furibonde le nuove soldatesche di non trovar più nulla che
saziasse la miseria o la cupidigia loro, sfogavano sui miseri abitanti
la rabbia della sfuggita preda. Intere famiglie restavano per giorni,
finchè potevano resistere, in vetta ai monti o ne’ burroni delle valli,
e quando, passato l’esercito oltre i loro confini, s’avventuravano
di tornare alle proprie abitazioni, trovavano rubato quanto eravi
di trasportabile, ogni altro oggetto a pezzi, sparpagliato, arso,
distrutto. Codeste ingiurie tollerate in quel tempo a danno dei
contadini, non solo snervarono a forza di patimenti i corpi, ma
indussero gli animi a disperazione. E quand’anche le tedesche coorti
non avessero portata seco la peste, l’avrebbero fatta scoppiare.

Le quali cose mi fu necessario notare, affinchè i nostri reggitori
conoscano di quante cautele sia d’uopo ogni qual volta muovono gli
eserciti.

Nel Lazzaretto, alle leggi e discipline sopra descritte si aggiunse un
savio regolamento, opportunissimo a scemare i tanti mali di esso luogo.
Due nobili vennero scelti ad intervalli per visitare ivi le capanne ed
ogni angolo del recinto, per invigilare sui bisogni dei poveri, sulla
fedeltà e lo zelo dei singoli impiegati nell’adempimento dei proprj
doveri, e provvedere ad ogni emergenza coll’autorità loro impartita, o
renderne avvisato il Tribunale di Sanità ed i Decurioni.

I medici conservatori ebbero l’incarico di fare ogni giorno per turno
la visita alle capanne degli appestati e tenere informato il Tribunale.
Si trascelsero sacerdoti, mantenuti a spese pubbliche nel Lazzaretto,
non solo per amministrare i sacramenti, attendendo alla cura delle
anime, ma affinchè con esortazioni, e dolci e paterni discorsi,
procurassero d’ispirare a ciascuno pazienza e coraggio.

Si stabilì che alcuni sovrintendenti salariati, si recassero
giornalmente nel Lazzaretto, osservando i casi varj, le morti, e
quant’altro trovavano cui bisognasse gastighi o rimedii, notandolo in
apposito libro da presentarsi tosto alla Sanità.

I medesimi s’incaricarono di visitare e far spurgare le cloache, le
fogne, gli abituri degli indigenti, fetide non meno di queste, affinchè
il lezzo non desse fomite al morbo. Così pure di tutti i cadaveri
trovati nel Lazzaretto o per la città, dovevano notare i nomi in un
registro, farne abbruciare gli abiti e qualunque oggetto di cui erasi
servito il morto. Dovevano altresì accendere il fuoco e bruciar profumi
nella stanza o capanna dov’era spirato; costringere a star disgiunti
gli appestati, e gli altri più o meno sospetti, non permettendo veruna
comunanza tra essi.

Eravi poi un custode cui incombeva la sorveglianza del Lazzaretto e
delle private abitazioni, e che su tutto doveva invigilare a norma dei
prescritti regolamenti.

Lungo sarebbe noverare la schiera degli uffiziali di Sanità, lungo
svolgerne i singoli incarichi e le molte e varie discipline con cui
governavasi la moltitudine dei malati raccolti nel Lazzaretto quasi
in una sola famiglia. Due casuccie e due uomini dell’infimo volgo
ruinarono Milano, spargendovi il contagio; del pari una lieve scintilla
incendiò, e quasi distrusse Monza, Saronno ed altre primarie terre. Nè
fia inutile ricordare due casi ad esempio, perchè si conosca, sto per
dire, l’indole di questo morbo, il quale esce donde meno si crederebbe,
e se assale un plebeo, acquistando terribile forza, a niuno perdona,
nè umano potere il può domare prima che fra tutte le classi non abbia
menato strage.

Una vecchia comperò da un soldato tedesco un sucido mantello foderato
di pelliccia, che aveva servito per avventura a qualche vivandiera;
pericoloso arnese anche senza sospetto di contagio. La vecchia,
indossatolo, venne dal suo villaggio a Saronno pel mercato, ed ivi morì
d’improvviso, e col suo contatto diffuse la peste in tutto quel nobile
borgo.

A Cassano sopra l’Adda, paese ancora sano, un tale comperò da
un soldato un sacchetto di polvere, e maneggiandolo, fu côlto da
vertigini e da fortissima emicrania, e in brev’ora cessò di penare
e di vivere[171]. Alcuni mesi dopo, la peste scoppiò nei dintorni di
Cassano, ma per allora quel caso singolare che spaventò i terrazzani,
con grande loro meraviglia e gioja non ebbe conseguenze. Delle molte
persone che avevano tocco il sacchetto di polvere e confabulato col
venditore e più col compratore nell’osteria e sulle barche, neppur uno
contrasse la peste che a ragione paventavano serpeggiasse loro nelle
viscere.

Il contrario accadde in Monza, dove una donna ebbe in regalo da un
uffiziale tedesco un astuccio con entro spille ed altri ferri per
lavori femminili. Avendone cavato uno spillone per accomodarsi i
capegli, cadde morta sull’istante. Due o tre sue parenti e vicine, e
gli uomini della loro famiglia ne rimasero vittima; ma niun altro caso
si verificò per allora in essa città, che in seguito fu desolata dalla
pestilenza quasi al pari di Milano.



APPENDICE

DEL TRADUTTORE AL LIBRO QUARTO


_Intorno la mortalità della peste del 1630 e la popolazione di Milano a
quell’epoca._

                    La città stremata dalle morti.

                                          RIPAM., _Lib. I, pag. 4_.

V’hanno nella presente storia molti fatti oscuri e controversi, ma
nessuno di certo sul quale le opinioni siano tanto divergenti come
sulla mortalità cagionata dalla peste. Volerne determinare la cifra con
esattezza riesce impossibile, perchè i registri battesimali o mortuarj
erano tenuti, a quell’epoca, con gran trascuranza. Inoltre si trovano
in questi registri grandi lacune durante il contagio, conseguenza
inevitabile delle morti di chi li teneva, e del generale trambusto. Nel
secolo XVII non s’aveva idea di quadri statistici, per cui lo storico,
in questo argomento, non può fondare le sue opinioni che su congetture.

Mi proverò nondimeno a schiarire possibilmente la questione, e prima di
tutto giovi qui riportare le cifre della mortalità, secondo varj autori
contemporanei.

Ripamonti, che lavorava sui documenti autentici messi dal Consiglio a
disposizione di lui qual storiografo di Milano, dice, _giusta la comune
congettura, si calcolò morissero_ 140,000 _persone_. (Pag. 222.)

Tadino, stabilendo la popolazione di Milano avanti la peste a 250,000,
dice che morirono 185,558, esclusi i religiosi (pag. 136); altrove
invece parla della _grandissima mortalità seguita in numero eccedente
di_ 165,000 _persone_ (pag. 86).

Somaglia afferma che ne perirono 180,000 oltre i bambini.

L’iscrizione dei Frati della Pace da me riportata (pag. 164) dice
190,000.

Pio della Croce: _Morirono entro il circuito della mura_ 150,000 _di
certissima scienza, non mancando chi lo accresce di altri_ 20,000.

Il Rivola nella vita di Federico, lib. V, cap. XIV, più moderatamente:
_Cessata per divina misericordia la ferocità del morbo, la quale,
secondo il calcolo fattosi circa la metà di settembre_ (1630), _trovate
furono essere morte di peste_ 122,000 _persone_.

Al Rivola s’avvicina il canonico Torri, che, scrivendo quarant’anni
dopo il _Ritratto di Milano_, diceva: _Nel_ 1630, _vivendo in que’
tempi anch’io benchè fanciullo, sovvi dire che vidi spettacoli da
inorridire pietre non che cuori umani, morendo de’ cittadini più di
dugento alla giornata ne’ principj del male, ed in meno di sei mesi
nella stessa città più di cento mila_. (Pag. 8.)

Siccome però questi ultimi due scrittori non parlano che della
mortalità di sei mesi, così estendendola ai due anni e mezzo che durò
il contagio (novembre 1629 — febbrajo 1632), si avrebbe una cifra poco
minore della citata.

Ma sarà dunque vero che in Milano il contagio mietesse da 160,000 a
180,000 vittime? Su che fondasi questa spaventevole cifra? Sulle vaghe
asserzioni del Tadino e del Ripamonti copiati dagli altri, i quali
scrissero parecchi anni dopo.

La vera e positiva base su cui istituire i calcoli della mortalità fu,
e sarà sempre, la popolazione. Vediamo quindi se indagando qual era
la popolazione di Milano d’allora, ne riescisse di sciogliere in modo
plausibile la questione.

Che la città nostra anticamente fosse numerosa d’abitanti, pare
indubitato, stante le manifatture d’armi, di lane e seterie che
occupavano gran numero d’artefici e commercianti. Bonvicino fa
ascendere nel 1288 a 200,000 gli abitanti. Il Morigia dice che nel 1590
erano 264,000.

Il Ripamonti: _Contava un tempo trecento mila abitanti, duecento mila
avanti la peste, ec_. (Pag. 6.) Il Tadino va oltre: _Trouandosi la
città per l’addietro più di duecento cinquanta mila persone_.

Ma nel 1630, quando già da un secolo la dominazione spagnuola
aveva ruinate le manifatture e il commercio, è egli presumibile
ragionevolmente che Milano fosse ancora sì popolato? Arrogi il gran
numero di chiese e monasteri che ricettavano un piccolo numero di
persone a confronto dell’area occupata.

Io feci lunghe indagini per rinvenire in qualcuno dei vecchi archivj
pubblici l’anagrafi della popolazione, eseguita durante la carestia
nelle singole parrocchie per ordine del Consiglio che voleva conoscere
in modo positivo il numero dei poveri da alimentare. Ma questo
documento, di cui parla a lungo il Ripamonti (pag. 225), senza però
indicare la cifra, che appunto è ciò che importerebbe, andò fatalmente
smarrito; almeno io non ne rinvenni traccia.

Esiste per buona fortuna nell’archivio di San Fedele un registro
mortuario dal 1452 in avanti, anno per anno, anzi mese per mese[172]
con poche lacune, con importanti annotazioni in margine sulle epidemie
e contagi che accrebbero in diversi tempi il numero dei morti.

Questo registro è l’unico documento che offre una base non certa ma
plausibile per determinare la popolazione di Milano in date epoche. La
mortalità ordinaria si ritiene al sommo di quattro per cento all’anno:
aggiungendo tutt’al più un due per cento pei morti negli ospitali e
conventi che non venivano notificati, riusciremo in qualche modo a
dedurre dai registri della Sanità quale fosse la popolazione.

Nei quattro anni prima della carestia abbiamo il seguente quadro:

  Anno 1625   Morti Num.  4181
    »  1626     »    »    3482
    »  1627     »    »    3157
    »  1628     »    »    3513

Sommando i quali anni trovasi un adequato di 3600, trascurate le
frazioni. Aggiungasi il 2 per cento per la mortalità degli ospitali,
conventi, ec., e risulterà che la popolazione di Milano avanti la peste
era di 140 a 150 mila anime.

Ora quanti è da supporsi ne morissero di peste o d’altre malattie dal
novembre 1629 al febbrajo 1632, periodo in cui durò il contagio?

Il citato registro mi dà le seguenti cifre:

  Anno 1629 Novembre   Morti Num.    422
    »    »  Dicembre     »    »      488
    »  1630              »    »   13,350
    »  1631              »    »    3,288
    »  1632 Gennajo      »    »      181

                          Totale  17.729

I morti nel Lazzaretto, ove, secondo Ripamonti e Somaglia, salirono
fino a 1700-1800 per giorno nel maggior furore della pestilenza in
luglio e agosto, si possono calcolare al più 60,000, ritenuto come dato
abitrario il numero di 1700 morti per giorno, stante l’incremento ed il
rallentamento proprio sempre dei contagi. Aggiungasi per ultimo i morti
negli ospitali, nei conventi, per le strade e i non registrati, che non
si potrebbero con ragionevolezza spingere più di 8000-9000, e si avrà:

  Dai Registri     Num.  17.729
  Nel Lazzaretto    »    60,000
  Ospitali, ec.     »     8,271

                 Totale  86,000

La qual cifra ritengo sia la più vicina al vero. In prova di che torna
in acconcio un passo del Tadino, il quale scrive che _per le santissime
feste del Natale_ (1631) _era restato nella città per le diligenze
fatte solamente il numero di_ 64,442 _persone_.

  Dunque, supposti come sopra i morti   86,000
  I sopravvissuti circa                 64,000

  Avremo un totale di                  150,000

che sarebbe a un dipresso la popolazione di Milano avanti la peste.

Che poi gli abitanti fossero morti più della metà, riducendosi appunto
a circa 60,000, lo comprova il più volte citato registro, dal quale
risulta, che nel 1632 morirono soli 1795, e che per undici anni, cioè
dal 1632 al 1643, la mortalità annua rimase fra i 1700 e 2000, che è
appunto la metà di quella dei quattro anni precedenti il contagio.

Quanto alla mortalità del Ducato di Milano è impossibile determinarla
per la mancanza di documenti; oltrechè le morti subirono variazioni
innumerevoli secondo i paesi, i quali soffrirono più o meno, e alcuni
perfino rimasero deserti, essendo periti tutti gli abitanti. Forse
però non andrebbe molto lontano dal vero chi facesse ascendere a mezzo
milione i periti di contagio nella Lombardia spagnuola.

Tanta perdita di gente recò gravissimo danno all’agricoltura, al
commercio, alle arti, e lasciò nei superstiti alla catastrofe e nei
loro discendenti un profondo sentimento di terrore. Di ciò fa prova
il più volte citato registro, nel quale dal 1630 s’incominciò a porre
le iniziali S. S. P., ovvero S. P. S., _sine suspicione pestis — sine
pestis suspicione_, segnatura d’ordine, che trovasi continuata per un
secolo e mezzo, cioè fino al 1780.

«Per tutto il passato secolo (dice Verri)[173] risentì questo
infelicissimo stato la enorme scossa di quella pestilenza. Le campagne
mancarono di agricoltori; le arti e i mestieri si annientarono; e
fors’anche al giorno d’oggi abbiamo dei terreni incolti, che prima
di quell’esterminio fruttavano a coltura. Si avvilì il restante del
popolo nella desolazione in cui giacque; poco rimase delle antiche
ricchezze, e non si citerà una casa fabbricata per cinquant’anni dopo
la pestilenza, che non sia meschina. I nobili s’inselvatichirono;
ciascuno, vivendo in una società molto angusta di parenti, si risguardò
come isolato nella sua patria; e non si ripigliarono i costumi sociali,
che erano tanto splendidi e giocondi prima di tale sciagura, se non
appena al principio del secolo presente.

                                                   _Francesco Cusani_


  FINE DEL LIBRO QUARTO.



LIBRO QUINTO

CONFRONTO DELLA PESTE DEL 1630 CON ALTRE, E SPECIALMENTE CON QUELLA DEL
1576.


PROEMIO

AL LIBRO QUINTO

Col Libro Quinto il Ripamonti dà termine alla _Storia della Peste
del 1630_. Io cercai illustrarla per quanto mi concedeva l’ingegno
e l’angustia del tempo; ed ora rendo pubbliche grazie a miei
concittadini, che accolsero con vero favore quest’opera ai medesimi
dedicata e in uno ai molti i quali mi furono cortesi di documenti e
notizie.

Le ricerche negli archivj e biblioteche, sì pubbliche che private, le
minuziose indagini per verificare fatti o date controverse, l’esame dei
monumenti, iscrizioni e di quant’altro ricorda fra noi la pestilenza
del 1630, sono per sè tali che esigono fatica e perseveranza non
poco. Se quindi, malgrado la scrupolosa diligenza usata, incorsi in
ommissioni e inesattezze, mi verranno, spero, condonate da chi conosce
le molte difficoltà, inseparabili in lavori storici di simil genere.

Siami però concesso, data l’opportunità, di scolparmi d’una inesattezza
che a torto mi venne rimproverata. Il signor Alfonso Frisiani
nell’Appendice della Gazzetta Privilegiata di Milano del 25 gennajo,
parlando del mio lavoro sul Ripamonti in modo per me lusinghiero,
soggiunge:

«Noteremo soltanto al Cusani che il Lazzaretto di Milano da lui
attribuito, secondo la comune opinione, a Bramante da Urbino (vedi pag.
18, nota 2.ª) lo è invece di Lazzaro Palazzi, siccome abbiamo scoperto
e pubblicato in questa Gazzetta al n.º 13».

Il signor Frisiani annunziò d’aver rinvenuto nell’archivio del nostro
Ospitale Civico documenti comprovanti che l’autore del Lazzaretto
fu un _Lazzaro de’ Palazzi_, ingegnere architetto, ed io, lungi dal
negare questa scoperta, che rivendica al vero autore di quel grandioso
edificio la gloria d’averlo innalzato, me ne rallegro con lui. Ma
come era possibile, senz’esser indovino, ch’io me ne giovassi nella
citata nota del Libro Primo, pubblicato nell’ottobre 1841, mentre il
Frisiani annunziò la sua scoperta il 13 gennajo 1842? Di ciò non avrei
fatta parola se parecchi amici miei, studiosi delle cose patrie, non
m’avessero tenuto discorso di quella supposta inesattezza.

Il LIBRO QUINTO del Ripamonti può chiamarsi un’aggiunta alla sua
storia, altro non essendo che un confronto del contagio del 1630 con
altri. Nei primi tre capitoli, sfoggiando erudizione, com’era usanza
de’ secentisti, il nostro autore compendia e traduce nel suo maestoso
latino Tucidide ed il Boccaccio, le cui descrizioni della peste di
Atene e di Firenze rimangono modelli di storica eloquenza. Poscia,
tacendo, per buona fortuna! delle moltissime pestilenze che afflissero
l’Italia e la Lombardia negli antecedenti secoli, viene a descrivere
quella del 1576, detta comunemente di S. Carlo, e ne racconta i casi.

Ora intendendo io d’illustrare anche quest’ultimo Libro con note
desunte specialmente dagli scrittori contemporanei, trovo necessario
dire in breve dei più importanti tra questi, inserendo qui un
altro brano del mio _Ragionamento sui principali Storici e Cronisti
milanesi_.

                   *       *       *       *       *

ASCANIO CENTORIO, Commendatore di San Giacomo di Compostella,
raccolse e pubblicò in Venezia pel Giolito 1579 _I cinque Libri degli
Avvertimenti, Ordini, Gride, Editti, Fatti, osservati in Milano ne’
tempi sospettosi della peste negli anni 1576, 1577_.

È un volume in 4.º di 450 pagine, dedicato a Gerolamo Monti Senatore
e Presidente della Sanità, avo di quello che vedremo figurare nelle
stesse magistrature durante la successiva peste del 1630. Il Monti
accettò la dedica, lodando molto il Centorio, ed anche d’aver scritto
_in lingua volgare, perchè gli ordini possino essere meglio intesi da
ognuno_.

Questo è il libro più completo ed importante circa la peste del 1576,
e per essere d’un contemporaneo che lo pubblicò subito dopo, e per la
copia delle notizie, e giacchè contenendo gli editti, ordini, ec.,
risparmia la fatica, non di rado inutile, di andarle a pescare nei
gridarj quasi tutti incompleti. L’esposizione e lo stile si risentono
dei difetti del secolo; ma almeno trovasi l’ordine, chè il Centorio
seguì passo passo l’andamento del contagio.

Il Padre BUGATO, Dominicano a Sant’Eustorgio, diede in luce nel 1578 un
libricciuolo di 60 pagine, intitolato: _I fatti di Milano al contrasto
della peste, over pestifero contagio dal 1 agosto 1576 all’ultimo
dell’anno 1577_. L’editore lo dedicò al cavaliere Gabrio Serbelloni,
il quale, sendo luogotenente del governatore d’Ayamonte, adoperossi,
benchè vecchio, con gran zelo in quella calamità a vantaggio della
patria. Quest’operetta serve di raffronto, e nulla più, attesa la
brevità sua.

Un FILIPPO BESTA, procuratore milanese, raccolse e pubblicò la _Vera
Narrazione del successo della peste che afflisse l’inclita città
di Milano l’anno 1576_. Libretto di 140 pagine, dedicato a S. E. il
Gran Cancelliere Ferrer. È di niun uso allo storico, perchè semplice
compendio del Centorio, e perchè pubblicato mezzo secolo dopo l’epoca
di cui tratta, cioè nel maggio 1630, quando, crescendo la pestilenza,
si ristamparono molti opuscoli, ordini, discipline, ec., riguardanti il
contagio del 1576, sia per ordine dell’autorità, sia per speculazioni
private.

Molte rilevanti notizie si raccolgono dal Giussani, dal Bescapè, e
dagli altri biografi di S. Carlo, il quale a tutti è noto con che zelo
s’adoperò a mitigare pel suo gregge quel flagello. Nel 1579 egli diede
in luce _per Michele Zini, stampatore del Seminario, il Memoriale di
Mons. Ill.mo et Rev.mo Cardinale di Santa Prassede, Arcivescovo, al
suo diletto popolo della città et diocesi di Milano_. Volumetto in 24º
di pagine 500, preziosissimo per quanto risguarda il clero durante
il contagio, e per l’unzione cristiana del santo arcivescovo che lo
compose a vantaggio spirituale del suo popolo.

Il _Memoriale_ di S. Carlo, unitamente alle pastorali regole, ec., da
lui dirette al clero in occasione del contagio, si trovano raccolte
negli _Atti della Chiesa Milanese, Parte VII_.

Potrei aggiungere molti altri Libri, ma essendo questi d’importanza
secondaria, sarebbe un dilungarmi con superfluo e vanitoso sfoggio di
bibliografica erudizione.

                   *       *       *       *       *

È mio intendimento di non apporre numerose note a questo Libro V,
perchè il racconto del Ripamonti è per sè stesso di già abbastanza
minuzioso, e perchè, a dirla francamente, la peste del 1576 fu in
realtà assai meno terribile e disastrosa di quello che ne suoni la fama
tra noi.

Ho già avvertito nella mia _Introduzione_ che in Milano, per tradizione
popolare, si conservò memoria unicamente della peste del 1576,
facendone una sola con quella senza confronto più micidiale che le
succedette, soltanto per la memoria di S. Carlo. A vieppiù comprovarlo,
ora soggiungo che venne dimenticata altresì la pestilenza del 1524,
avvenuta 52 anni prima, come per bizzarra coincidenza, avvenne 52 anni
dopo quella del 1629-30.

L’obblio in cui caddero queste due grandi calamità è invero strano
qualora si rifletta alle stragi ed ai danni gravissimi che ne soffrì la
nostra patria. Non sarà quindi inopportuno e discaro ai lettori di qui
ricordare brevemente il contagio del 1524.

Fervente la guerra tra Carlo V e Francesco I, i quali disputavansi il
ducato di Milano, vivo ancora l’infelice Francesco II, ultimo degli
Sforza, l’ammiraglio francese Bonnivet, sceso dalle Alpi, strinse
d’assedio Milano nel settembre 1523: ma dopo otto settimane, costretto
dalla pioggia e dalla neve a levare il campo, si ricoverò a quartieri
d’inverno in Rosate, ed Abbiategrasso.

La vicinanza di quel corpo nemico e la molestia che recava
intercettando i trasporti di viveri e provvisioni, che dal naviglio
passando per Abbiategrasso giungono alla capitale, indusse il Duca a
sloggiarlo. Nell’aprile, messosi egli alla testa di una squadra scelta
di Milanesi s’impadronì per assalto di quel borgo. Funesta vittoria!
perocchè, avendo gli stenti e la miseria generata la peste tra i
Francesi, i nostri, nel saccheggio, la contrassero e la portarono,
tornando col ricco bottino.

_Apichata_, dice il cronista Grumello, _fu la peste crudelissima in
epsa città per le robe amorbate d’epso castello portate in dicta
cittate_: E un altro cronista, il pizzicagnolo Burigozzo, ingenuo
raccontatore di quanto vedeva: _El povero Milano infettato de
pestilentia comenzò a far de mal in pezzo... al giugno tanta mortalità
e piccoli, e grandi, che quaxi per Milano non era come nessuno, perche
li sani fuggivano, et li amalati non se potevano movere... El qual mese
di luglio (1524) fu tanto crudele che veramente non saria possibile
poter narrare la crudelità, et la mortalità grande che fu, donde era
più sicuro a star a casa che andar in volta: et non se vedeva se non
gente con campanini in mane, se non carri de ammalati; non vi era
officio, ne campana che sonasse se non da corpo. In domo non li erano
ordenarj, ne offizii al solito ma doy o tre preti li quali cantavano
alla meglio che potevano. El mese de augusto sino al mezzo lavorò anche
lui, donde el dir seria troppo, ma al veder delli cimiterj delle giexe
era una paura_.

Questo contagio, che secondo la energica frase del Senatore Monti,
nella sua Lettera in risposta alla Dedica del Centorio, _venne come
una impetuosa onda, la quale, in poco spazio di tempo, inondò il paese
e diede infinito guasto_, durò tre mesi, dal giugno all’agosto 1524.
Grande a que’ giorni fu la mortalità in Milano fiorente di popolo.
Il Burigozzo: _Non credo che mai fusse simile pestilentia et fu detto
della morte di cento millia persone et così credo_.

Il Grumello: _Si existima morressero delle anime octanta millia et più
presto de più che di mancho_.

Lo spagnuolo Sepulveda, nella sua storia latina delle imprese di Carlo
V: _La peste invase con tal violenza Milano che tolse di vita in essa
città più di cinquanta mille persone_.

E finalmente il Bescapè, nella vita di S. Carlo: _Perirono in città più
di cinquantamila, oltre gli altri innumerevoli morti nelle ville_.

Conchiudiamo col ripetere che la peste del 1576, di gran lunga minore e
di questa e della successiva, deve la sua triste rinomanza, tramandata
d’età in età fra il nostro popolo, e viva anche in oggi, a null’altro
fuorchè alla gratitudine pel santo Arcivescovo, le cui esimie virtù
rifulsero luminose in quel disastro.

                                                  _Francesco Cusani._


I

Porrò fine alla mia triste e funebre istoria, col raffronto tra la
descritta pestilenza ed altre che afflissero un tempo grandi città e
la stessa Milano. Un simile paragone è convenevole tanto per provare
ciocchè dissi sul principio essere stato questo contagio il più grave
di tutti, e quello cui per intero s’addiceva il nome di sì orrendo
morbo, quanto perchè nella diversità di essi mali si osservi una grande
somiglianza ne’ particolari. Da ciò potrassi conoscere che la peste,
quando scoppia, si appalesa sempre co’ medesimi sintomi, fa stragi in
modo uniforme, e dovunque produce le medesime follie negli uomini.
Inoltre è decoroso cogliere l’opportunità di ricordare le glorie di
nobilissimi scrittori.

In tempi antichi la pestilenza s’introdusse nella città d’Atene, e
vi menò tanta strage, che divenne famoso lo storico che la descrisse.
Non verrà forse mai un narratore eloquente al pari di lui, che espulso
da’ concittadini, fu da Roma inviato alla Grecia; e nessun altro de’
suoi scritti è sì elegante ed arguto come la descrizione della peste.
I quai pregi derivano non tanto dall’ingegno dello scrittore, quanto
dall’atroce spettacolo delle cose che turbano e in uno dilettano
l’animo dei leggitori. Così un serpente sovra una tavola tanto più
piace quanto più è ributtante a vedersi; e gli occhi, avidi sempre di
nuovi spettacoli, s’affissano avidamente nel deforme rettile.

La pestilenza che menò sì gran strage in Atene, e lo storico della
medesima, sono in oggi celebratissimi dopo tanti secoli ne’ licei e
nelle scuole de’ filosofi. E il nome di essa città vive famoso, non
meno per memoria di quel disastro, che per avervi fiorite le scienze e
le arti.

A Tucidide sta presso per eleganza il padovano Livio, il quale
descrisse Siracusa, stretta da due potenti eserciti battaglianti e
ridotta all’estrema miseria da lento morbo. Anche i pochi versi con
cui Omero nell’_Iliade_ canta i dardi scoccati da Apollo sul campo
dei Greci, i mucchi di cadaveri lasciati pasto agli augelli ed ai
cani, anche que’ versi inspirano oggidì, in chi li legge, spavento,
meraviglia e diletto.

Uno scrittore, per l’età in cui visse e per la lingua che usò, non
paragonabile agli accennati, ma il quale trasse favole dal vero, ovvero
insegnò a raccontare favole; maestro ed artefice del linguaggio volgare
italiano, che da lui acquistò eleganza e leggiadria, narrò la peste
della sua patria.

Egli, faceto e scherzoso favellatore, descrivendo, coll’arte imparata
da sommi storici, l’eccidio di Firenze, desta meraviglia del suo
ingegno e pietà di tanta strage.

I letterati rileggeranno mai sempre la peste del Boccaccio, e i critici
più austeri essi pure non si sazieranno dall’ammirare quell’esempio
delle umane vicissitudini.

Gli atroci, turpi e miserandi esempi che la pestilenza mostrò negli
umani corpi nella mia patria, eguagliarono gli antichi o forse li
superarono. E se non fossero esposti con minore ingegno, offrirebbero
in queste carte spettacolo più imponente e più orrendo.

Ma ponendo fine ormai alle lagrime, alle miserie, ai flebili lamenti di
Milano, io mi proverò a temperare il sin qui mesto e lugubre racconto
con qualche vivezza, paragonando ciò che vide e sofferse l’età nostra
coi fatti che i citati scrittori ordinarono con pompa, direi teatrale.
Piacevole riuscirà un tale raffronto, ricreando l’animo e colla varietà
dei casi, e col trascorrere dai tempi antichi agli odierni, dai nostri
mali a quelli d’estranee genti.

E siccome la città nostra risorge quasi da stipite più florida dopo
l’eccidio, e i cittadini riedono ai prischi sollazzi, deggio anch’io
far sì che venga raddolcita l’amara ricordanza della strage col
raffrontarla ad altre di straniere contrade.


II.

Confronto della pestilenza di Milano coll’antichissima degli Ateniesi.

Se non fosse sconvenevole l’usare comici detti in argomenti tragici,
non troverei più simile il latte al latte, l’uovo all’uovo, che il
milanese contagio all’antichissima pestilenza d’Atene descritta da
Tucidide. Il germogliare, i primi passi e le cause d’entrambi i contagi
si rassomigliarono: l’indole stessa del morbo, le traccie che lasciava
procedendo, i terrori, le ruine, le stragi, i sospetti, i portenti,
in breve il cumulo di tutte le calamità della peste di Milano, in
nulla differirono dalla ateniese: sia che il caso abbia prodotto
effetti identici, sia che esista per le umane cose una certa legge che
riproduce ad intervalli di secoli le vicende medesime.

La peste che trasse quasi all’estrema ruina Atene, città famosa per
tante varietà di vicende, la minacciò in prima da lungi; poi da Lenno
ed altri luoghi più e più avvicinandosi s’introdusse fra le sue mura
e tutta l’invase. Il pensiero d’essere rimasti indolenti, malgrado i
fatti che avrebbero dovuto suggerir cautele contro il morbo, esacerbava
i dolori de’ moribondi e dei superstiti. Così avvenne tra noi, e
taluno direbbe che la peste cospirò con eguali mezzi all’eccidio di due
illustri città in Grecia e in Italia.

Anche il nostro contagio incominciò a desolare lontane genti, poscia,
avvicinandosi alle frontiere, invase lo Stato e da ultimo la capitale
con siffatto impeto, che pareva dovessero sopravvivere soltanto
gli edifizj e il nome di essa. Sì l’antica peste d’Atene che la
recentissima di Milano, lasciarono vestigia simili nel loro passaggio e
nelle altre circostanze.

Riferisce Tucidide che il popolo, vedendo il morbo uccidire quanti
colpiva, disperando d’ogni umano soccorso, ricorse sulle prime agli
Dei, poscia viste le preci inesaudite, e trovandosi in preda alla
disperazione ed alla morte, non più curando rimedj o suppliche alle
are dei numi, abbandonò sè e la repubblica senza schermo al flagello.
Da tale scoraggiamento ne venne che gli stessi medici perirono tra
i primi, rapiti dalla violenza del morbo, e le preghiere e i voti
cui ritornossi sovente, altro non fecero che rincrudirlo. Il citato
storico, rappresentando ne’ primordj della pestilenza gli Ateniesi
costernati per lo sterminio della loro patria, e privi di qualunque
ajuto divino o umano, infonde nell’anima terrore e pietà per gli
infelici che in siffatta guisa perivano.

Non altrimenti fra noi i medici perdettero la vita nei primi tentativi
di cure, e la città per alcun tempo vide ad evidenza che l’ira di Dio
per preci non mitigavasi.

E noterò un’altra somiglianza: le due popolazioni scorgendo il flagello
non avere termine, e non potersi spiegare l’origine e le cause del
morbo, l’attribuirono ad umana frode, supponendo la peste artificio
umano, mentr’era castigo di Dio. Gli abitanti d’Atene credettero che
i Peloponnesii, coi quali allora guerreggiavano, avessero avvelenati
i pozzi per ruinare la loro città. Noi del pari, trovando vano ogni
rimedio e provvidenza, credemmo vi fosse un gran capo il quale, col
mezzo d’altri e con denari, componesse veleni e li facesse spargere:
il qual sospetto fu pure una seconda calamità per Milano. Gli Ateniesi
portarono intorno il falso simulacro d’Iside, come noi il corpo di
S. Carlo. Parecchi di loro si gettarono nell’acqua e fecero molte
cose incredibili, talchè si può conchiudere essere in tutto simile il
contagio che desolò le due grandi e illustri metropoli.


III.

Confronto della peste di Milano con quella di Firenze.

All’antica pestilenza d’Atene, succede la più recente di Firenze,
della quale l’autore delle eleganti novelle lasciò una descrizione
non favolosa ma vera, e che differisce dalla mia come una copia che
ingegnoso artista trae da un dipinto originale per vendere. Nè soltanto
il Boccaccio, principe elegantissimo de’ toscani scrittori, ma altri
annalisti di quel paese, da me consultati, raccontano come segue
l’andamento di essa pestilenza.

Scoppiata a Fiesole, Prato Volterra ed in altri luoghi di minor conto,
minacciava Firenze, dove era aspettata e in uno sprezzata e derisa.
Dopo aver vagato pei colli e le ridenti campagne ne’ dintorni, irruppe
da ultimo nella capitale della Toscana e vi fissò il suo regno. Allora
qua colla ferocia di mal sicuro tiranno, là a modo di severissimo
censore, ogni cosa stravolse e insieme ordinò, riducendo entro giusti
confini quel popolo riottoso e mercatore, nuotante negli agi e nel
lusso smodato, e che, superbiendo pe’ doni del cielo e l’amenità del
clima, vantavasi superiore agli altri.

Se ciò pure sia accaduto fra noi, o se invece i costumi, malgrado il
gastigo, siano tornati qual prima, io lascerò che il decida la verità
e la fama, giacchè le genti lontane ponno meglio e con più certezza
giudicarne di quel che noi medesimi possiamo farlo.

Tutto il restante ha un colore sì uniforme, che la descrizione della
nostra peste, sarebbe pur quella dell’altra, ove io volessi narrare
ciocchè accadde in Firenze, allorquando i suoi cittadini erano
afflitti dal passeggero morbo, che in tanto numero li rapì. Nessuna
vigilanza de’ magistrati fiorentini contro il minaccioso morbo che
sopraggiungeva, come se côlti da fatale sonnolenza; vennero bensì
chiuse le porte della città e vietato l’entrarvi, ma con sì grande
noncuranza, che tanto valeva il non custodirle, a segno che la
peste inviata da Dio vi penetrò anche per colpa dell’indolenza degli
uomini. Si tentarono ivi pure suppliche, voti, e quanto il timore e
la divozione suggerisce per placare il cielo; ma riuscirono vane ad
ottenere pietà fino al tempo in cui, giusta i suoi imperscrutabili
arcani, la Provvidenza schiudere doveva i tesori di sua misericordia, e
spargere una salutifera rugiada sull’infelice città.

Anche i sintomi e le macchie, segnali ed effetti della peste, furono
eguali per l’andamento e le varietà in ambedue i contagi.

I furoncoli, i carbonchj, gli antraci, i buboni, tante volte nominati
durante la nostra calamità, apparirono anche a Firenze, in alcuni
malati grosse come una mela, in altri come un uovo, nell’anguinaja o
sotto le ditelle. Dalle quali parti del corpo a poco a poco si estesero
poscia per tutte le membra. Questi tumori, che i volgari nominavano
gavoccioli, si permutarono in macchie nere o livide, le quali
nelle braccia, e per le coscie ed in ciascuna altra parte del corpo
apparivano a molti, a cui grandi e rade, ed a cui minute e spesse.
Indizio certissimo di morte, perocchè quasi tutti infra ’l terzo giorno
dalla apparizione dei sopraddetti segni, chi più tosto e chi meno, e i
più senza alcuna febbre o altro accidente, morivano[174].

Narrano gli storici della peste di Firenze, che se alcuno toccava
un appestato, era inevitabile la morte, e che molti per questo
perirono. Ne accade soltanto che gli uomini contaminassero sè ed
altri, contraendo il nascosto principio morbifero col tocco di oggetti
inanimati, ma gli animali medesimi, le cui immondezze nulla hanno di
comune coll’alito e la vita dell’uomo, in egual modo s’infettarono.
Così i citati storici, che lo riferiscono come d’incredibile portento.
A noi però non fa meraviglia alcuna, stantechè era cosa notoria che
il contagio con somma facilità appiccicavasi alle vesti ed alle
suppellettili. Vedemmo qua e là i corpi di cani, gatti e d’altri
animali morti, senza dubbio, per avere toccato col muso, o trascinati
intorno robe d’appestati gettate in istrada.

Framezzo a tante ruine, e nella deplorabile condizione cui trovasi
ridotta l’umana vita, raccontasi che tre generi di persone furono
notate in Firenze. Era il primo degli uomini sobrj, ilari, moderati, ai
quali non avrebbesi potuto far rimprovero dai filosofi o dai più severi
moralisti, anche quando la città era florida e tranquilla. Costoro,
fuggendo ogni mordace cura ed ogni triste pensiero, ed evitando le
voluttà disoneste, erano parchi, ma dilicati nell’uso dei cibi e delle
bevande, e raccolti entro qualche albergo, ove non giungesse a turbarli
nè lo strepito nè il racconto delle esequie, ivi oziavano tra suoni,
canti ed amichevoli colloquj; credendo in siffatta guisa essi di ben
premunirsi contro la peste.

Altri, al contrario, per rimedio davansi in braccio ad ogni genere
di stravizj e lascivie; vagolavano come baccanti e baldanzosi per
le contrade, e introducendosi fin anche nelle altrui abitazioni,
rimaste vuote per la morte de’ padroni, vi gozzovigliavano per breve
tempo, come se fossero in casa propria. E trovando in loro balía
i commestibili e le cose tutte che nelle famiglie soglionsi tener
rinchiuse, se le godevano liberamente senza darsi alcuna briga che
fossero avanzi dei morti. Quando erano sazj di godimenti in una casa,
trasportando seco ciocchè ad essi dava più nel genio, e lasciandosi
dietro i morti della loro caterva, sen givano a tripudiare in altre
case colle abbandonate dovizie. Ivi, sprecando e gettando via anzichè
consumare la roba, morivano sui letti, le arche, le botti, ovvero
raccolto quanto eravi di prezioso, accumulavano tesori, ingrossandoli
per via, in guisa che perdevano la vita sotto il peso, prima di
giungere al luogo ove avevano fissato di seppellirli. A certuni riuscì
trasportarli e nasconderli, e qualche famiglia fiorentina arricchì
con tale spoglio nella calamità, mentre altri casati impoverirono o si
spensero.

Però a questi uomini rapaci e disperati, ed agli altri sobrj, modesti
e dilicati, s’aggiunse un terzo genere di persone, nè facinorose, nè
timide, le quali con savia circospezione recavansi a passeggiare negli
orti suburbani e pei campi, intorno le mura della città, alleviando
l’animo oppresso colla vista della ridente natura, e insieme nutrendosi
di laute e delicate vivande. Premunivansi contro l’alito pestifero,
odorando fiori ed aromi d’ogni specie, nella speranza di evitare in tal
guisa la sorte comune, o almeno di protrarre intanto giocondamente e
tranquilla la vita in mezzo allo spavento, alla fuga, alle morti dei
concittadini. Altri, d’egual tempra, scampando lungi da Firenze, si
ritiravano nelle ville, quasi in asilo sicuro dalla pestilenza, che
molti di loro nondimeno ivi pure raggiunse.

In siffatto modo gl’ingegnosi Fiorentini fuggirono, sprezzarono e
tentarono d’eludere il contagio, ma invano. Del pari in Milano si
videro ladroni sfrenati e lascivi bottinare nelle vuote case; altri
invece, modesti e cauti, solo curarsi della propria salvezza; e uomini
gaudenti, ed esito eguale come accadde tra il popolo di Firenze.


IV.

Confronto della pestilenza del 1630 con quella del 1576.

Ora, lasciati gli estranei, indagheremo il sempre uniforme andamento
della peste tra noi, e fia non tanto paragone, quanto nuovo racconto
delle vicende di Milano. Veramente all’età dei nostri padri non vi
furono nè guerre, nè eserciti stranieri che col passaggio o la dimora
angariassero il paese, disseminando per le terre il contagio, d’onde
s’introdusse in città, siccome dimostrai essere avvenuto ai giorni
nostri.

Imperocchè, debellato dall’imperatore Carlo V il re Francesco I,
la Francia, per la prigionia di lui a Madrid, e l’esempio delle
sofferte sciagure, prostrata ed avvilita, invano fremeva. Il figlio
del vittorioso Carlo, bramoso di quiete, con ogni mezzo la procurava,
essendo in lui trasfuso dal cielo lo spirito di sapienza e di pace
più vivo che mai non fosse in alcun principe o mortale, a detta dei
saggi. Perciò non solo tutta Italia era tranquillissima, ma anche i re
stranieri tacevano, non osi di muoversi in armi. Allora non precedette
il contagio la fame[175], pessima delle tre furie, la quale a dì nostri
spinse a tumultuare il popolo, rompendo al suo monarca quella fede
ond’era sì superbo, che avrebbe impugnate le armi, se un altro popolo
si fosse vantato averla più ossequiosa di lui.

I primordj del contagio nel 1576 vennero d’onde meno aspettavansi.
L’origine del morbo fu diversa, e non pertanto simile per noi e per gli
avi nostri.

Trento, Mantova, le città confinanti colla repubblica di Venezia e
la stessa Venezia erano sporche di peste, e andavansi spopolando le
terre lungo tutta la frontiera dello Stato. In quell’anno celebravasi
in Milano il Giubileo secolare, impartito per favore del pontefice
Gregorio XIII a codesta metropoli, colle stesse discipline con cui
poc’anzi erasi celebrato in Roma, ove desideravasi la stabilita
rinnovazione di quel grande e salutare mistero.

Mentre la gente accorreva in schiere a Milano per celebrare il
Giubileo, che, offrendo il mezzo di tergere le colpe, riconciliava
con Dio l’uman genere, non deve far meraviglia se alcuni delle terre
infette portarono, venendo, la peste[176].

Paruzero, meschino villaggio sulle sponde del lago Maggiore, e
Melegnano, popoloso borgo discosto dieci miglia dalla città, chiamare
si ponno le porte per cui s’introdusse il contagio nel 1576, come
furono nel 1630 Clusio, Bellano, Monza e Saronno, ed altre più o meno
nobili terre. In que’ luoghi e in questi si svilupparono i germi del
morbo, e dilatossi in ambedue le epoche verso la metropoli, cui recò
non lieve danno la prima volta, gravissimo la seconda, lasciando di sè
non peritura memoria presso i posteri e le estranee genti.

E siccome il Locato, il Bellano ed altre persone del volgo si resero
famose presso le venture età, acquistando un’infame celebrità, essendo
usciti dalle loro casipole i primi cadaveri con buboni ed altri sintomi
di peste, così le cascine Comino, vicino al borgo degli Ortolani, e nel
medesimo borgo, una vecchia ortolana sono per noi di triste ricordanza,
poichè i loro nomi leggonsi primi tra quelli che infettarono Milano
all’epoca dei nostri padri[177]. Riferiscono gli annali di quel tempo,
quali uomini introdussero e seminarono il morbo, come ho riferito.
L’origine ed il progresso d’ambedue le pestilenze apparisce uniforme
in quanto che vennero da straniere contrade, soltanto la prima in vece
d’un soldato la recarono i pellegrini del Giubileo.

Differenza rimarchevole nel principio delle due pesti fu, che gli avi
non si mostrarono increduli al morbo, la plebe stoltamente non ne rise,
nè s’indugiò a por mano ai rimedj, mentre invece a’ dì nostri accadde
il contrario con grave danno, siccome, scrivendo la presente storia,
non ho potuto dissimulare. Nel 1576, all’irrompere del contagio, i
governanti e coloro tutti che eseguire ne dovevano gli ordini, non
lasciandosi vincere dal terrore, s’adoperarono per salvare il paese
dall’imminente naufragio.

Non trovo che allora la plebe si scagliasse petulantemente contro
i medici, inseguendoli a sassate, o che i nobili e gli impiegati li
ingiuriassero a parole. Si comandò con energia, e l’ubbidienza de’
cittadini fu modesta e intera; talchè se non riuscì ad essi con ciò
di evitare il morbo, ne resero minore il danno. Invece a’ giorni
nostri i loro figli ed eredi, non credendo e sprezzando la peste, ne
sperimentarono più rapide e fatali le stragi. Pur nondimeno in questa
fatale disparità di regime, di circostanze e opinioni, verificossi
una coincidenza mirabile, e sto per dire divina; che tale potrebbero
crederla fin quelli che interpretano molti degli umani eventi come
effetto del caso. Ora dirò quale dessa fu.

Il Tribunale di Sanità, istituito dalla sapienza dei nostri antenati
come una salvaguardia contro le stragi della morte, allorchè regnava
tiranna la peste[178], ed al quale i trepidanti monarchi affidarono
l’autorità loro durante il pericolo, il Tribunale della Sanità nel 1576
ebbe a presidente il senatore Gerolamo Monti, padre di Princivalle, ed
avo di quel Marc’Antonio che fu presidente durante la nostra peste, e
morì in carica, siccome raccontai.

Fu opinione non ambigua dell’intera città, che il generoso Monti,
sprezzando i pericoli e non curante della vita, si sacrificasse per la
patria, propostosi di seguire le vestigia dell’avo, e di lasciare in sè
imitabile esempio ai posteri.

Essendo adunque Gerolamo Monti[179] presidente della Sanità l’anno
1576, ai primi romori di peste, d’animo nobilissimo com’era,
s’infervorò di zelo e carità, eccitando i tribunali e gli altri
magistrati, i quali però trovai che non abbisognarono d’eccitamento e
di esortazioni.

I decreti e gli istituti ebbero un’impronta di grandezza e magnificenza
pari a quelli fatti all’età nostra, meno che in allora non fuvvi
incredulità, e quindi nessuna fatale tardanza. Vennero poste guardie ai
ponti, ai traghetti dei fiumi; oltre la custodia delle porte in città,
s’innalzarono le mura in que’ luoghi che bassi rendevano facile la
scalata, e si ristaurarono dove ruinose, affine di chiudere ogni adito
a’ quei di fuori.

Si scrissero soldati nelle singole regioni di Milano, ordinandoli
in squadre, perchè a vicenda facessero la notte il giro delle mura.
Furono scelti tra i nobili quelli che dovevano girare a cavallo per
città, visitare le porte ed aver occhio a tutto; altri che procedessero
ogni giorno fino tre e quattro miglia ed anche di più; altri che
perlustrassero le campagne più lontane con una squadriglia di birri e
soldati, come se andassero contro il nemico. Lo stesso Monti, benchè
vecchio, e più forte d’animo che di corpo, si recava in persona ai
villaggi sospetti con al fianco altri nobili, i quali lo seguivano
per l’influenza che aveva su tutti gli animi e per la riputazione
d’integrità e sapere di esso senatore.

Furono usate grandi cautele per le bollette e le osterie nei villaggi
e dovunque, affinchè non accadessero frodi, esibendo false bollette
invece delle autentiche. Si proibì ricevere ne’ pubblici alberghi
i pellegrini, come anche nelle terre i custodi dovevano, traverso i
cancelli, gridar loro che si tenessero discosti, additando sentieri
fuor di mano, seguendo i quali sarebbero pervenuti a taverne o
casolari, dove loro accordavasi, secondo il diritto delle genti,
ospitalità; ma segregati da qualunque comunicazione.

Fu interdetto di venire a Milano ai facchini e a tutti coloro che
sogliono concorrervi dai monti e dalle vallate in cerca di lavoro,
affinchè non eccedesse il numero stabilito de’ medesimi.

I fanciulli e le fanciulle derelitte dai parenti, e questuanti per le
strade, non che i mendichi adulti, vennero presi e riuniti nell’antico
edificio fuor delle mura, che dicesi la Vittoria, per ricordanza dei
nemici ivi fugati ed uccisi, come lo comprovano le biancheggianti ossa
che vedonsi anche oggidì nelle adjacenti campagne. Colà la squallida e
sudicia caterva dei mendichi era alimentata a spese di S. Carlo[180],
ed insieme istruita, non altrimenti di quel che si fece a’ tempi nostri
all’ospizio della Stella. Anche il Lazzaretto di San Gregorio e gli
altri secondari si riempirono durante quella peste.

Giova il fare simili raffronti, perchè apparisca unica differenza fra i
due contagi essere stata la maggiore o minore credenza sul principio,
ed il numero più grande dei morti, appunto per l’incredulità loro.
Nell’ultima pestilenza non si credette finchè non fur visti i cadaveri
condotti alla sepoltura; invece i padri nostri tennero per certissimi
i primi rumori di peste, e si premunirono con quanti rimedj è concesso
d’usare a’ mortali.

Spinsero le cautele fino a proibire la vendita in città de’ funghi, dei
frutti e delle uve immature. Ordinarono che i conciapelli cessassero
dall’arte loro, e non si educassero bachi da seta, affine di evitare il
puzzo: i loro figli e nipoti gli imitarono, adottando essi pure eguali
provvedimenti. Le cloache, le fosse, che oggidì per mezzo delle acque
sotterranee assorbono, e via trasportano tutte le immondizie della
città, ristaurarono se inservibili per vetustà, e ne aprirono di nuove
laddove non esistevano.

Si lavorò, a quanto credo, assai più allora che durante la nostra
peste, benchè si trovasse con istento il denaro occorrente. Esausto
l’erario, il municipio trovavasi inoltre aggravato d’un debito per
il regalo di duecento mila zecchini fatto al re, onde sostenesse la
guerra contro i ribelli della Fiandra, nemici di lui e della cattolica
religione.

Neppure s’incassavano le consuete imposte, con cui lo Stato sopporta
i necessari pesi. Rimedio in tali strettezze fu un altro male, voglio
dire i debiti, i pegni, ed il sussidio degli altrui denari, che
produce sempre nuovi incomodi, perchè con simili ripieghi, non solo gli
individui, ma popoli e Stati ricchissimi, credendo uscir d’imbarazzo,
s’avviluppano miseramente, e con più danno, in lacci inestricabili.
Soltanto che nello sbilancio de’ pubblici redditi ciascun uomo libero
e indipendente lotta, dal canto suo, con energica costanza; e il male
in tal guisa si va perpetuando insensibilmente, perchè le città non si
ponno incarcerare per debiti.

I Decurioni in que’ giorni, giusta la consuetudine del Consiglio
Generale, ogni qual volta dovettero a malincuore erogare alcuna
somma per supplire alle gravosissime spese, ne resero pubblico conto,
instando perchè l’erario ne sostenesse il carico. Dicevano ciò spettare
al re per le antiche leggi; esservi l’esempio degli imperatori e
degli Sforza; avere annuito Carlo V con decreto dell’anno 1529. A
queste e simili rappresentanze fu risposto dai regi ministri, che lo
stesso monarca era sopraccaricato di debiti[181], risposta spiacente e
vergognosa per qualunque ministro, ma che non fe’ arrossire quelli d’un
monarca, padrone dei tesori del nuovo mondo, e sui dominii del quale
non tramonta giammai il sole.

I reclami del Consiglio Generale, ed i rifiuti dei regi ministri circa
le spese, furono identici in ambedue le pesti, come già ho riferito. In
entrambe le epoche si trovarono uomini che diedero in prestito denaro
alla città, ed ebbero la gloria di sostenere la patria, la quale però,
dopo la calamità, trovossi impoverita pei guadagni de’ prestatori.
Immaginarono gli avi, imitati anche in ciò dai nipoti, di stabilire
un erario separato per alimentare il popolo, raccogliendo denaro dai
Luoghi Pii, senza chiasso, senz’interesse, ed altresì senz’incontrare
ostacoli, poichè quello era una specie di patrimonio del pubblico.

Non saprei decidere se i nostri vecchi furono di noi più zelanti e
splendidi nelle preci e nei voti per rendere propizio Iddio e placarne
lo sdegno, imperocchè quelli non potevano mostrarsi più religiosi,
e i posteri, traendone esempio, gareggiarono con essi. Fecero voti,
visitarono supplichevoli per molti giorni, senz’interruzione, le
chiese; decretarono tempj da erigersi ai santi avvocati contro la
peste; innalzarono oratorj, instituendo anche feste e digiuni. E memori
che nel 1524, infuriando con più atroce violenza il contagio in Milano,
eransi alzate colonne colla croce nei quadrivj, perchè, ricordando
l’acerbissima morte di Cristo, consolassero ed ispirassero coraggio
agli afflitti del morbo, e insieme rappresentassero loro il pegno e
la speranza dell’eterna salute, ristaurarono que’ trofei cadenti per
vetustà, eccitando il popolo a tener fissi sempre gli occhi a quel
segno, vincitore della morte e del demonio.

Queste ed altre espiazioni adoperarono i maggiori nella loro
pestilenza, e qual mezzo per sè efficacissimo a placare l’ira celeste,
calarono dalla vôlta del Duomo il Chiodo, che, infisso nel corpo del
Redentore, fu anch’esso stromento della salvezza del genere umano; e
trassero fuori quel ferro imbevuto del sangue divino, siccome reliquia,
che avrebbe impetrata di certo la misericordia di Dio. Lo portò per
le strade della città, seguìto dal popolo, il cardinale arcivescovo
Carlo[182], che, per somma ventura di quell’età, fu tra non molti anni
assunto fra i beati in cielo, dove la seguente generazione invocar lo
doveva suo protettore. La qual peculiare circostanza avvalorò di molto
le preci degli avi, e noi, ridotti all’estreme angustie, trasportammo
il corpo del santo arcivescovo, mentre non era venuto ancora il
giorno del perdono; indi non cessammo da religiose pratiche finchè
Dio non accordò l’impetrata salute. Ma su tale argomento dicemmo ormai
abbastanza.

Piuttosto sarà questo il luogo opportuno d’esporre ciocchè fecero,
durante la loro peste, gli avi ed i padri dei nostri magistrati,
ciocchè il Borromeo, santo patrono dei Milanesi, operò, non ultimo
de’ grandi suoi meriti pei quali ora gode la beatitudine al cospetto
di Dio, e qui in terra cinto d’aureola il capo, ottenne l’onore della
santificazione, il più esimio premio che ad uomo compartisca la divina
misericordia.

Dopo la solenne processione, in cui Milano vide due mirabili cose,
il preziosissimo ferro che traforò i nervi e le vene del Redentore,
e il santo Pastore che lo portava colla destra lacera e sanguinosa,
incominciò a farsi sentire più grave la fame, calamità quasi eguale
alla pestilenza, o, per dir meglio, fomite della medesima. La carestia
che precedette a dì nostri il morbo, sopraggiunse invece più tardi nel
1576, ma non riuscì meno funesta.

Il milanese territorio, che tanto si estende intorno la città, non
forniva ormai più granaglia, privo d’agricoltori, i quali, morti,
nascosti ne’ tugurj, ovvero rinchiusi nelle capanne degli appestati,
sbalorditi dal terrore, attendevano con indolenza ai campestri lavori,
o del tutto gli abbandonavano.

Il Consiglio Generale, annuente il governatore con regio placito,
decise, per riparo, di comperare e far condurre a Milano buona copia di
frumento dalle città di provincia, e segnatamente da Lodi, Alessandria,
Novara e Pavia, come quelle che più abbondano di cereali. Non già
che i loro abitanti negassero di vendere frumento; ma incrudelendo
ed allargandosi ogni dì più la peste, aborrivano qualunque commercio
colla metropoli, talchè riusciva difficile il commercio fra essa e le
provincie.

I Pavesi in ispecie, con ardito rifiuto, s’erano resi odiosi, come
accadde un tempo coi Romani, quando alcune colonie militari ricusarono
di fornire soldati all’impero. Nondimeno si comperò frumento in copia,
specialmente in Lumellina, e fissato lo stradale, venne riunito presso
Abbiategrasso, in granaj ivi aperti lungo il naviglio, affinchè
rinchiuso in altri sacchi e caricato su barche, si trasportasse in
Milano senza frode o senza pericolo d’infettare le terre donde veniva
esso grano. E perchè l’operazione si eseguisse con ogni diligenza
e cura, tanto il Consiglio Generale quanto i venditori, delegarono
persone, le quali, recandosi sul luogo, invigilassero che il grano
fosse scaricato e ricaricato colle debite cautele.

A costoro si diede ampia facoltà di costringere i fittabili e gli
ammassatori di grani a vendere per equo prezzo al municipio quanto
frumento, riso, orzo e segale avevano ne’ magazzini. E non solo a
vendere, ma a trasportarlo ben condizionato a Milano ne’ pubblici
granaj. Altre vettovaglie si raccoglievano a Binasco sul Pavese, e nel
villaggio di Gallera[183] sul Lodigiano. Si stabilirono in quelle parti
emporj, a’ quali ricorrevano dalla città i compratori, affine di non
obbligare i venditori a venire ne’ paesi infetti di peste. Sul Pavese
ebbero la sovrintendenza Guido e Giulio Scacabarozzi, sul Lodigiano
Marco Fagnani, prefetto dell’annona.

Mentre, per alimentare i poveri adottavansi queste misure, senza cui
sarebbero mancati i grani indispensabili alla vita; i magistrati ebbero
cura anche dei salumi, olj, formaggi, majali, legna e carbone, oggetti
che sussidiano quei di prima necessità. E furono inviati Ambrogio
Archinto, Guido Cusani e Cesare Pietrasanta per farne acquisto sul
Piacentino. Finalmente non si trascurò la più piccola cosa in mezzo
a tante cure ed al trambusto. La quale previdenza, il più ammirabile
degli scrittori latini, quasi colle medesime parole da me usate, narra
aver avuta il Senato di Roma, allorquando la repubblica trovossi in
pericolo.

Del resto, nel mentre queste minute cure ed altre ben più rilevanti,
facendosi ad ogni ora più gravi, rendevano ormai intollerabile il
peso dell’amministrazione a’ nostri magistrati, non ristavano essi
dal ripetere che le spese toccavano al regio Fisco. Ma veniva sempre
data loro la solita risposta, il principe essere estraneo a quelle
spese, vasto l’impero, nè bastare l’oro che ricavasi dalle miniere o
dall’arena de’ fiumi, nè i tesori delle Indie e i tributi di tanti
regni. Quando poi i regi furono stanchi dal continuo insistere,
trovarono una sottigliezza per convalidare il rifiuto col diritto e
l’interpretazione delle leggi. Venne fuori, sia dal governatore, sia
dal Consiglio segreto, o forse d’ambidue, un rescritto del seguente
tenore.

Gli egregi Decurioni instavano, sostenendo che toccava al re di pagare
le somme impiegate per la peste, ma doversi fare una distinzione,
separando cioè gli stipendi dei ministri dalle altre spese. I primi
concedevasi di porli a carico dell’erario, ma non già il denaro
consunto per alimentare il popolo, giacchè spetta alla città nutrire
i suoi poveri, che dir si ponno membri del suo corpo. Appoggiavano la
loro decisione col citare gli editti dei medesimi decurioni, allorchè
sette anni prima nella carestia eransi addossato siffatto carico,
spendendo settantamila zecchini per mantenere gl’indigenti.

I Decurioni, a nome della città, di nuovo replicarono non doversi
apporre a pregiudizio quanto la città stessa, pietosa e splendida, in
altri tempi elargì, nè tacciar di frodi i suoi meriti e l’ossequio
verso il monarca. Perocchè la fedeltà al cattolico re, fu appunto
quella che l’indusse a non lasciar perire di fame tante migliaja de’
suoi sudditi in Milano, che egli guardava con speciale indulgenza ed
aveva sì cara. E siccome i Decurioni, volendo il giusto, non esigevano
che tutto il peso gravitasse sul regio Fisco, si prese una strada di
mezzo fra il bisogno e la munificenza.

Vennero assegnati quattro mila zecchini per anno alla città da esigere
sul dazio del sale, da aggiungersi ad altri quattro mila sulla misura
del vino, non lieve sussidio nelle angustie del momento, ma non però
quale esigevano le circostanze. Pel rimanente, il governatore diede
speranza di poterlo impetrare dal re, qualora scemassero in avvenire le
gravose e indispensabili spese che allora lo aggravavano. I magistrati
ripreso coraggio, scelsero Brivio Sforza, idoneo, per avita nobiltà,
per uso delle corti e pel favore di cui godeva presso il re, inviandolo
a Madrid ad esporre le istanze del Consiglio Pubblico; gli diedero
facoltà di legato, colle istruzioni relative all’affare, lasciando il
resto in suo arbitrio, spiate che avesse la mente del re e le tendenze
degli animi in corte.

Doveva lo Sforza, prima di tutto, far presente, che il decreto di
Carlo V era chiaro, e senza veruna restrizione, per cui il figlio
ed erede dell’impero e della gloria di lui, anche per riverenza del
volere paterno, mosso a pietà, guardasse con clemenza e benignità
l’infelice condizione dell’afflitta Milano. Qual esito abbia avuto
codesta legazione, trovasi nei nostri annali relativi alle vicende di
quell’epoca.


V[184].

Lazzaretti secondarj. — Capanne per gli appestati e per i poveri. —
Medici. — Asilo pei bambini.

La peste frattanto non rallentava, a segno che le sue stragi sarebbero
state più grandi d’ogni altra precedente, ove non l’avesse di gran
lunga oltrepassata quella dell’età nostra, nel descrivere la quale io
forse seguii l’esempio di tutti i tempi e degli uomini, sempre proclivi
ad esagerare i proprii mali a confronto degli altrui, talchè affermano
le recenti sciagure di tutte le altre più atroci e terribili.

Anche allora pel contagio diffuso diventò angusto il Lazzaretto
alla turba degli appestati, benchè sembri che un sì vasto edificio
essere debba a tal uopo più che sufficiente per qualsiasi città.
Nel 1576, come nel 1630, il popolo milanese, lagnandosi, come
sempre, de’ beneficj e delle liberalità dei governanti, strepitava,
tacciando d’avarizia e d’imprevidenza la saggezza de’ vecchi
duca, perchè avessero troppa circoscritta l’area del Lazzaretto.
A sentirlo avrebbero dovuto ingrandire quell’asilo della morte in
guisa che abbracciasse tutta quanta l’ampia Milano sopravvenendo un
contagio[185]!

In tale ristrettezza del Lazzaretto si supplì, come facemmo noi pure,
alla turba, erigendo pei malati ed i moribondi, lazzaretti succursali
fuori delle mure. Anzi ritengo in ciò aver noi seguito l’esempio
lasciatoci dagli avi, i quali decretarono che da tutte le terre, entro
il circuito di venti miglia, si trasportassero a Milano pali, assi e
paglia, e venissero anche i contadini per innalzare le capanne. Furono
queste duecento per ciascuna porta, e non fia inutile ricordarne
la forma come trovasi descritta negli annali di quella pestilenza,
affinchè non rimanga sepolta negli atti del municipio, ma si conosca
eziandio dagli estranei, se mai questa mia storia fia letta un giorno
in altri paesi.

Sceglievasi un luogo il più alto che si poteva e declive, piantando per
lungo le capanne in fila ed eguali, per quanto lo permetteva la natura
del terreno.

Le strade intersecanti il lazzaretto aprivansi dieci braccia lontane
l’una dall’altra, ed eravi uno spazio vuoto di sei braccia tra le
singole capanne, le quali avevano tutte l’ingresso rivolto dalla
medesima parte, con uno spiraglio sopra l’uscio, ed una imposta
congegnata in guisa che ciascun malato, anche piovendo, potesse
veder la luce, respirare l’aria libera, ed evitare in parte il tedio
dell’angusto suo carcere.

Le capanne formavansi con travicelli, il pavimento di terra battuta
ed alquanto alto perchè fosse meno umido, con vari buchi all’ingiro,
pei quali l’acqua piovana colava entro rigagnoli. Una larga fossa[186]
chiudeva intorno ciascun lazzaretto, per impedire che di giorno
o fra le tenebre, alcuno vi penetrasse a maltrattare i rinchiusi,
come anche perchè questi temerariamente non uscissero. In tale fossa
colavano tutte le acque derivate, con canali, dalle vicine sorgenti
pei vari usi dei lazzaretti. Fuori del recinto di ciascuno dei medesimi
s’innalzavano tettoje pei soldati che facevano la guardia sul limitare:
ivi pure sorgevano altri tugurj ad uso di cucina, taverne, farmacie,
pei molteplici bisogni della numerosa famiglia là radunata. Una gran
croce presentava la vista consolante del Redentore ai miseri appestati,
chè la religione fu la prima d’ogni cura sì nel lazzaretto di San
Gregorio[187] come ne’ secondarj. Ogni mattina davasi il segnale perchè
tutti, inginocchiandosi, volgessero gli occhi alla croce, meditando
i tormenti sofferti da Cristo. Celebravasi giornalmente la messa in
oratorj posti nel recinto, affinchè ciascun ammalato, dal limitare
della propria capanna, potesse, se non ascoltare, vedere almeno il
Santo Sacrificio.

Per impedire la fuga ai rinchiusi s’investirono di straordinari poteri
alcuni gentiluomini, i quali avevano il titolo di capitano, e sotto
di sè cento soldati per ciascheduno, con un pubblico scrivano ed
altri uffiziali. La somma spesa in queste guardie fu di 46,000 lire,
per fitto delle case vicine ai lazzaretti, legna, materassi ed altre
suppellettili ad uso dei soldati e dei capi, non che per le cibarie.

Ad ogni porta di Milano si destinarono altri nobili, coll’incarico
di comperare e spedire le vettovaglie ai lazzaretti. In questi però
non ammettevansi con facilità e promiscuamente tutti i poveri; ma
quando l’uffiziale, cui spettava tale cura, riferiva esservi alcun
povero da trasportare fuori di città, i nobili a ciò deputati nelle
singole parrocchie, li visitavano. E trovate vere le esposte ragioni,
lo ricevevano, pigliando nota in apposito registro del suo nome,
cognome, condizione; se aveva moglie, e quanti figliuoli, sotto quale
parrocchia, ed in quale casa abitasse, non che il giorno in cui venne
ricevuto. Poscia, condotto o trasportato all’ingresso dei lazzaretto,
spogliato degli abiti e lavato, si rivestiva d’una tunica nuova, era
messo in una delle capanne insieme con un compagno, e talvolta con due,
colla cautela di tenere sempre i sospetti e gli appestati in quartieri
divisi[188].

Ogni quartiere aveva i propri ministri e inservienti, col divieto di
qualunque menomo contatto fra loro, perchè i sani non contraessero il
morbo.

Scarsi erano i medici, essendosi nascosti, o simulando di non essere
tali, quei che anteponevano la dolcezza del vivere al lucro. Benchè
si promettessero stipendii generosissimi, non si riuscì a cavar
fuori dalle ville parecchi di loro, i quali vi si tenevano nascosti,
abborrendo la mercede della morte. In codesta privazione d’un’arte,
il cui nome soltanto è sollievo e farmaco agli infermi, nel mentre si
cercavano per ogni dove persone le quali, avendo almeno una tintura
di medicina, acconsentissero ad entrare ne’ lazzaretti, capitarono
vicino a Pavia alcuni Francesi che spacciavansi per medici, e tali
si sarebbero creduti alla fisonomia ed all’abito. Mettevano fuori
aforismi, e, condotti da un oste a visitare i malati in que’ dintorni,
prescrissero medicine, bevute le quali, guarirono, probabilmente perchè
non era giunta l’ora di morte per essi.

I Francesi dicevano d’esser avviati a Venezia per liberare dal contagio
quella città. Un Lonato, spedito dalla Sanità a Pavia, assoldò e menò
seco quattro o cinque dei sedicenti dottori, non più esperti della
vecchia montanara che a’ giorni nostri s’intromise, come raccontai,
nel Lazzaretto. Fu loro assegnato uno stipendio mensile, più largo
che non avrebbero ardito pretendere i più riputati medici, cioè mille
e seicento zecchini, la massima parte de’ quali venne loro sborsata
all’istante.

Introdotti ne’ lazzaretti, si scoprì poco dopo, non so come, la lora
sfrontatezza e ignoranza, per cui, messi in carcere, battuti con verghe
e ritolto loro il denaro avuto, affinchè non fossero d’ulteriore
aggravio, vennero scacciati. Due però di quei cerretani morirono
di peste in prigione. Infine si ebbe ricorso al Collegio dei fisici
che provvedesse in qualche modo all’urgenza, ed esso, coll’autorità
sua, fe’ sì che uscirono fuori medici, i quali adempirono al proprio
dovere. A ciascuno vennero assegnati dal pubblico zecchini cinquanta
di salario per ogni mese: cento a Lanfranco Boniperti novarese, per
la molta rinomanza di cui godeva nell’arte sua[189]. I medicinali,
le pozioni e quant’altro si trovò giovevole a curare e rifocillare
i malati, somministrò Santa Corona, istituto che il fondatore, con
regale munificenza, aperse a beneficio de’ poveri[190]. E quando non
bastavano le rendite del medesimo, supplirono alla spesa i nobili ed il
municipio.

Soccorso grandissimo in ogni bisogno prestava il cardinale arcivescovo
Carlo, allora vivente qual santo tra gli uomini, ed io son d’avviso che
quanto egli fece durante il contagio, valse più d’ogni altra azione
dell’operosa sua vita a schiudergli le porte del cielo al termine di
questa nostra calamitosa carriera, ed a procacciargli dappoi gli onori
della canonizzazione. Egli assunse con gioja la cura degli appestati
per amore del suo popolo, profuse ricchezze, vendè poderi, spogliò il
palazzo per sovvenire a’ bisognosi, e assai più fece in tutto il tempo
della pestilenza per la salute spirituale del suo gregge. Le quali cose
non istarò ora a ripetere per averle già bastantemente spiegate nei
libri che pubblicai sulla vita e il pontificato del Borromeo.

Il pane ed il vino si distribuivano nelle capanne come segue: venti
oncie di pane di frumento per testa al giorno, ventotto oncie di vino
non annacquato, un po’ di riso, o che altro più leggiero e gustoso
secondo le prescrizioni del medico. Tali commestibili erano forniti dai
dispensieri, e li recavano ai lazzaretti con tremende cautele a motivo
del contagio. Quei di fuori provavano il terrore di chi si avvicina
ad un covile di belve, poichè i rinchiusi, somigliavano a tante fiere
ivi incatenate, nè uscivano a prendere le vettovaglie, finchè non
eransi discostati i dispensieri dopo averle poste a terra lontano dal
limitare.

Alcuno meraviglierà forse per tante sollecitudini e ripieghi usati par
tenere in vita que’ plebei; ma rifletta che essi erano membri del corpo
dello Stato, che importava sommamente di salvare la metropoli, e che
le miserie e il sucidume del popolo mettevano a repentaglio anche la
vita dei grandi. La città spese la somma di 105,000 lire per alimentare
la caterva dei poveri chiusa ne’ tugurj dei lazzaretti, meglio e più
salubremente che nelle loro case. Si raddoppiarono diligenze nella
quarantena cui furono assoggettati per esplorare se la peste di
nascosto non covasse tra loro.

Nelle file di capanne destinate ai quarantenanti, se alcuno moriva,
quanti trovavansi nel medesimo recinto non potevano moversi di là
o rientrare in città prima che trascorressero quaranta giorni da
quella morte. Dopo il qual periodo di tempo, trasferivansi in altri
recinti netti, che avevano due ingressi. Colui che doveva fare lo
spurgo entrava da una porta, e spogliandosi, gettava fuori le vesti,
poi lavatosi nel serbatojo ivi pronto, indossava un abito nuovo che
gli veniva sporto dall’altra porta; allora soltanto gli era concesso
l’uscire, ben inteso che non apparisse in lui il più lieve indizio
di peste. Con tal metodo si denudavano, lavavano ed esploravano
gli uomini; quanto alle femmine, per non offendere il pudore,
erano visitate dalle levatrici, che assistevano le partorienti nel
lazzaretto.

Coloro che rientravano in città, subìta la quarantena, non potevano
uscire dalle loro abitazioni e vagare liberamente, ma per venti
giorni dovevano rimanervi chiusi ed isolati. Il denaro trovato nelle
tasche dei morti nelle capanne o che essi palesavano celato in qualche
nascondiglio, era restituito ai loro congiunti da uno dei Decurioni
trascelto a questo ufficio. Qualora non vi fossero congiunti o parenti,
ereditava il pubblico. Eguale buona fede ed esattezza usavano i
nobili col denaro depositato da molti, credendo inevitabile la morte,
poichè, guariti, lo riavevano senza la minima perdita. Il Senato,
perchè non riuscissero vane le ultime volontà dei moribondi, decretò
fosse lecito a qualunque ministro o custode de’ lazzaretti scrivere
e firmare testamenti, i quali sarebbero validi come se dettati con
tutte le solennità notarili, e col tabellionato inscritti nei loro atti
autentici. E per evitare che l’ignoranza non desse luogo a frodi più
dannose dei raggiri legali, s’aggiunse al decreto che simili testamenti
sarebbero nulli senza l’approvazione del Senato.

I lattanti, i bambini di fresco spoppati, e tuttora deboli, rimasti
privi di genitori; infelici non solo per l’imbecillità dell’infanzia,
ma perchè privi d’ogni sussidio, morivano nei letticciuoli stessi ove
erano ancora caldi i cadaveri dei genitori, o superstiti per maggiore
sciagura, traendo a stento la vita, avvoltolavansi per terra, senza
che alcuno li raccogliesse. I proprj mali e lo spavento dei maggiori
pericoli sovrastanti faceva sì che niuno badasse a quel vergognoso
disordine.

Finalmente il Municipio vi rimediò, destinando un ampio edificio, nel
quale i medesimi erano alimentati con materne cure, salvando questi
sgraziati che parevano venuti in luce per tosto morire.

Balie, levatrici ed altre donne pietose e amorevoli, fungenti le veci
di madre, che natura, madre comune, destina a fasciare e porre in culla
il neonato che vagisce, quasi presago de’ mali dell’esistenza; tutte
queste donne, madri ai figli dello Stato, furono a spese pubbliche e
per cura dei nobili riunite in quell’ospizio, ove i derelitti bambini
ebbero asilo. Il quale insieme colle nuove capanne che si dovettero
innalzare pel numero degli appestati sempre crescente, mancando altresì
paglia e legnami, costò cinquanta mila lire.


VI.

Voto a S. Sebastiano. — Quarantena generale — Spurghi.

Il 23 ottobre i LX Decurioni, per la salute pubblica, fecero voto a S.
Sebastiano martire, nostro concittadino, affinchè per le ferite aperte
nel suo corpo dalle freccie, supplicasse Iddio a liberare Milano dal
contagio. Il voto fu espresso colle seguenti parole:

«S. Sebastiano martire, nato in questa terra pel cielo, cittadino e
alunno di Milano, che ne va glorioso, deh! pe’ meriti tuoi impetra
grazia appo Dio onde abbia fine la pestilenza così fatale alla tua
patria. Noi riedificheremo più grande e magnifica entro i quattro anni
prossimi venturi la chiesa che i nostri avi dedicarono al tuo nome.
Il primo giorno anniversario che ricorrerà della tua festa offriremo
a detta chiesa un vaso di cristallo per riporvi, col debito onore, le
venerande reliquie del tuo corpo che ivi si conservano, portandolo noi
Decurioni, col clero e col popolo, confessati in prima e comunicati,
perchè il dono sia vieppiù aggradito».

I Decurioni, affinchè tutti conoscessero le promesse con cui
obbligavansi al santo, e la città sancisse il voto, chiamarono persone
dai borghi che rappresentassero le loro parrocchie, talchè il voto
fosse solenne ed a nome del pubblico: i sindaci annuirono per lettere.

Circa la forma e il modo del ristauro della chiesa, vennero delegati
a proporla ed a farla eseguire Alfonso Gallarato, Giovanni Arcimboldo
e Battista Visconti. Erano gli animi infervorati e per divozione
al martire concittadino e per la speranza d’impetrare salute per
intercessione di lui. S’aggiunsero altri voti i quali ignoro se oggi
sussistano ancora tutti, e vengano con fedeltà adempiuti, ovvero
siano caduti in dissuetudine, come si fece e si farà sempre, perchè
gli uomini sono fraudolenti perfino col cielo; ed all’antico peccato
dell’uman genere s’aggiunge pur quello d’ingannare i santi.

I Decurioni, annuente e consigliante il governatore spagnuolo,
promisero inoltre, a nome dei Milanesi, d’instituire una confraternita
di S. Sebastiano. Primo a inscriversi fu il marchese d’Ayamonte,
governatore, colla moglie e i figli, poi i Decurioni, il Senato, i
magistrati ed i nobili secondo i loro gradi. Le discipline e gli
obblighi di questa confraternita non furono assoggettati a verun
regolamento; ma lasciati in arbitrio della volontà di ciascuno, che far
poteva le opere pie che più gli andavano a genio. Distribuire ai poveri
qualche limosina; i più ricchi impiegare grosse somme in soccorso della
pudicizia pericolante, massime se qualche nobile donzella trovavasi in
simile rischio, seguire con torce la processione nella vigilia di S.
Sebastiano, giorno in cui si trasportavano in Duomo le sue reliquie;
lasciare dette torce ad usi pii, specialmente in raccogliere denaro per
doti di fanciulle bisognose. Votarono altresì che il giorno dedicato al
nome ed alla memoria del santo martire, sarebbe festivo in perpetuo pei
Milanesi, esclusa ogni opera servile. In esso giorno si recherebbero
coll’arcivescovo e il clero metropolitano alla chiesa di lui, portando
i doni col rito e la pompa medesima, con cui la seconda festa di Pasqua
si recano annualmente alla basilica di Sant’Ambrogio colle insegne di
ciascun’arte, e lo stendardo dell’augustissimo pastore. Ultimo voto
fu una messa quotidiana nella chiesa di San Sebastiano, da celebrarsi
da un sacerdote eletto dalla città a nome di essa, e coll’onere di
contribuire alla spesa della solenne funzione nell’anniversario del
voto[191].

Si supplicò il cardinale arcivescovo che si facesse autore di questi
voti, perocchè non sono validi senza l’autorità della Chiesa.

Frattanto il morbo, nè per umani rimedi, nè per divino soccorso
rallentava, i redditi della città, le profuse elargizioni degli
abitanti e fino le imposte forzose non bastavano alle spese giornaliere
del contagio. Trovo scritto che a quell’epoca alcune persone diedero
per uso pubblico, con ripetute largizioni, somme sì ingenti, che non lo
crederei ove non facessero indubitata fede i registri. I più generosi
in Milano furono Giacomo e Francesco d’Adda[192], i quali le ricchezze
tramandate dagli avi, o raccolte colla propria industria, nobilmente
impiegarono nel sostenere in parte le pubbliche gravezze, largendo
denaro alla città o prestandolo senz’interesse, mentre cert’altri
usuraj ne fecero vile ed esecrabile traffico.

Questi sussidj però non bastavano, e si trattò di vendere alcuni
redditi pubblici per incassare trentamila zecchini. Ma non
presentavansi acquirenti, sicchè dovette il governatore costringere
alcuni ricchi ad impiegare il loro denaro in siffatta compera.

Il Senato diede vacanze al foro, scarcerò i prigioni per debiti, i
senatori, deposta la toga, come dimentichi del loro grado, camminavano
per le strade in veste succinta[193]. Fu poscia discusso tra il Senato
ed i nobili del rimedio che nelle estreme angustie si ritenne sempre
unico e più efficace, quantunque difficilissimo a mettere in pratica.
Voglio dire, di tenere rinchiusa e segregata fino al quarantesimo
giorno, che si crede il termine dell’esperimento contro i contagi,
l’intera città come un individuo, e tante migliaja di persone quasi
formassero un solo corpo.

La quarantena venne prorogata per l’enormità del dispendio e la
scarsezza di quanto necessariamente bisognava somministrare alla
moltitudine sequestrata. Temevasi inoltre che il popolo, stanco dello
squallore e della solitudine domestica, senza pane e modo di vivere
per mancanza di guadagno, cessati i lavori, sorgesse a tumultuare.
Il disprezzo della morte che aveva di continuo sott’occhio, la vista
dello stato in pericolo di ruinare per tanti mali, e la speranza
dell’impunità potevano spingerlo ad ogni più disperato eccesso.
Nondimeno si decisero ad intimare la quarantena generale: il 31
ottobre fu decretato che tutti si chiudessero nelle case, e proibito
qualunque commercio e contatto e raccomunarsi pei bisogni giornalieri,
se i cittadini volevano nuovamente godere la vita civile e la luce.
Codesto rimedio contro la peste adottarono il governatore, il Consiglio
Segreto, il Senato, il Tribunale di Sanità e di Provvisione, non che i
LX Decurioni, i quali tutti, a nome del re e della patria, ne assunsero
l’incarico a vantaggio della salute pubblica.

Sarebbe, aggiungevasi, una molestia di quaranta giorni, un isolamento
necessario e salutare al tempo stesso. Niuno ardisse metter il piede
fuori dal limitare della sua casa, e se trasgrediva il divieto,
subirebbe gastighi, proscrizioni, multe, e quant’altro sogliono
minacciare in tali casi i dominanti. A tutte le cose necessarie
provvederebbe lo Stato.

Il decreto ebbe sollecita esecuzione; nel dì fissato ricchi e poveri
rimasero in casa, e furono serrate tutte le botteghe, ad eccezione di
quelle ove si vendevano commestibili. Ai poveri, le cui famiglie erano
registrate in ogni quartiere, non mancarono i viveri e si conservano
negli atti pubblici i nomi dei nobili che ebbero tale incarico nelle
singole parti di Milano.

È la Misericordia una confraternita di nobili, che sotto un tal nome
distribuiscono annualmente ventiquattro mila zecchini, se non che le
morti e le calamità del tempo avevano sminuito d’assai tale patrimonio
dei poveri.

Nell’oratorio della Misericordia riunivansi ogni giorno i delegati
della confraternita a consulta per sciogliere i viluppi delle sempre
nuove difficoltà che l’un l’altro esponeva. S’aggiunsero ai confratelli
due nobili per ciascuna porta, e più ancora secondo che in questa o
in quella parte di Milano maggiori erano le brighe. Quanto forniva il
Municipio, recavasi dalle campagne, ovvero si comperava nelle botteghe,
era deposto sul limitare d’ogni casa. Serrate tutte le porte della
città, venivano ammessi coloro soltanto che recavano commestibili, e i
quali, appena le avessero portate ne’ luoghi stabiliti, sia a privati
sia a’ venditori, dovevano ripartire, esibendo le bollette. Nessuno di
loro poteva pernottare entro le mura.

Formaronsi squadriglie d’uomini per andar in giro e comperare le
cose necessarie: costoro avevano un permesso rilasciato dai nobili,
affinchè niuno, per girovagare, si unisse impunemente alle squadriglie.
I bottegai e i rigattieri stavano allo sbocco ed all’ingresso delle
contrade e in mezzo di tutti i corsi, affinchè ciascuno de’ vicini
abitanti potesse comprare frutta, vino e commestibili d’ogni sorta. A
venditori furono condonate le solite tasse, rinunziandone il municipio
l’introito a vantaggio degli acquirenti.

Le taverne, le dispense e le primarie farmacie rimanevano aperte per
la vendita soltanto da terza al tramonto, con cancelli dinanzi e vasi
pieni d’aceto, ne’ quali si gettavano le monete perchè l’acrimonia
di esso liquido purgasse i metalli. Altri nobili, due per parrocchia,
ebbero lo speciale incarico d’indagare e riferire su quanto accadeva
in ciascheduna casa, notare i sintomi favorevoli o sinistri, i morti
repentinamente, coloro che già disperati risanavano. Questi nobili
conoscevano casa per casa, padroni, inquilini e lo stato loro,
altrettanto come la propria famiglia; gli tenevano scritti in appositi
elenchi, e ne facevano tutti i giorni la ricognizione coi medici,
continuando a tenerli rinchiusi, ovvero mandandoli alle capanne,
secondo il giudizio dei medici stessi.

Erasi lasciata alla loro prudenza facoltà di concedere il permesso
d’uscire, qualora trovavano giusti gli addotti motivi, con obbligo
però d’informare i superiori. Altri nobili delle primarie famiglie
sorvegliavano il loro operato, investiti d’ampi poteri, fino a punire
di morte gli uffiziali subalterni ed i quarantenanti, perchè quelli non
trascendessero, come è loro costume, a’ furti e rapine, e questi non
uscissero dalle abitazioni, vagando con pericolo della salute pubblica.
Altri nobili finalmente s’adoperavano coll’autorità ed i consigli
perchè ciascuno adempisse il suo dovere.

Il cardinale arcivescovo assoggettò ad eguale disciplina il clero,
ingiungendo che ogni ecclesiastico rimanesse in casa, secondo le
prescrizioni generali[194]. E colla santità e prudenza, virtù in lui
esimie, stabilì che per evitare le funeste conseguenze dell’ozio
nell’isolamento delle pareti domestiche, uomini e donne facessero
orazione sette volte il giorno, al tocco delle campane[195]. Le quali
preci, la messa quotidiana, giovarono a tener occupati gli animi in
divoti pensieri e placare l’ira celeste.

Ai birri e custodi che già v’erano in Milano a cagione della
pestilenza, s’aggiunse il banditore della città che ebbe speciale
incombenza durante i quaranta giorni. Egli girava colla sua squadra,
osservava le case, e se qualcuno usciva senza bolletta, con in mano
una verga, minacciava istantaneo castigo ai delinquenti presi. Per
le contrade eranvi forche alzate; il governatore offerse drappelli
di soldati tedeschi a custodia delle singole porte; ma i Decurioni
si scusarono dall’accettarli, perchè il Municipio, oppresso da tanti
pesi insopportabili, non era in grado di supplire anche a siffatto
dispendio.

Il marchese d’Ayamonte andò colla sua famiglia a Vigevano, conducendo
seco alcuni dei primarj Decurioni del Consiglio segreto, i quali erano
i suoi consiglieri intimi per gli affari. Investì d’ogni suo potere
in Milano il presidente del Senato Rainoldo e Gabrio Serbelloni,
distintissimi personaggi di quell’epoca, e superiori a tutti, il primo
per sapere giuridico ed esperienza nell’applicazione delle leggi,
l’altro per valor militare: entrambi per esemplarità di vita.

Gli annali dell’epoca tramandarono ai posteri il glorioso nome e
l’inclite gesta del Serbelloni[196].

Colle esposte discipline si aprì la quarantena, che fu mantenuta
sino al termine con maggior ordine e perseveranza che non a’ tempi
nostri, giacchè, dopo incominciata, cadde poscia in disordine e venne
abbandonata.

La intrapresero gli avi, ricorrendo ai santi, giusta l’antica
consuetudine. Il senatore Castiglioni, cui nello scomparto della
città era toccata la sorveglianza di Porta Vercellina, propose a’
colleghi di riunirsi nella chiesa di San Francesco, accostarsi alla
mensa eucaristica e formare un comune peculio per soccorrere i poveri,
facendo voto di fare lo stesso ogni anno, ad imitazione del voto fatto
nel 1524, quando la peste minacciava d’un totale sterminio Milano e la
Lombardia.

In tal guisa, attivata e proseguita la quarantena, si tennero gli
uomini rinchiusi come animali velenosi entro le tane, affinchè,
coabitando, non ispargessero il principio contagioso. Quando nelle
case, divenute altrettante carceri all’esigliato popolo, manifestavasi
sintomo alcuno del morbo, si spurgava ogni suppellettile, e tutti gli
oggetti di cui l’uomo fa uso, e finanche ciò che rimaner poteva infetto
per la presenza o per l’alito. L’arte di fare gli spurghi ebbe origine
a que’ giorni in Milano, infausta gloria della medesima! Ed io la
descriverò in questa luttuosa mia storia, non perchè n’abbino invidia
le altre città, ma perchè giovar se ne possano, ed averne gratitudine a
Milano, quando mai ritornassero codesti tempi, in cui s’acqueta fra gli
uomini ogni gara.

La casa infetta veniva tosto contrassegnata, affinchè si evitasse
come lo stesso contagio. Il cadavere dell’appestato asportavasi dai
Monatti[197], e gli infermi, se ve n’erano, si conducevano alle capanne
fuori della mura; gli scrigni poi, le casse e tutte le loro masserizie
venivano poste in istrada o nella corte. Non s’apriva però o movevasi
cosa alcuna se non in presenza di testimoni, e invitati coloro che
vi avevano interesse. Il denaro trovato recavasi a Francesco Ornati,
cassiere dell’erario pubblico, e rimaneva in deposito presso di lui,
fino al tempo della restituzione. Abbruciavansi gli oggetti di poco
o nessun valore, gli altri, previo elenco e marca, si consegnavano
ai Monatti sporchi in separati fardelli, perchè li portassero ai
lavacri, spurgandoli a tenore della loro qualità. Altri Monatti netti,
entrando in casa, profumavano con storace, incenso e pece in gran
copia l’inospitale dimora e le infette pareti; lavavano ogni parte con
calce e ranno per staccarne e detergerne la peste. Mescolate due libbre
d’incenso ed una di pece, gettavasi sul fuoco, e il salutifero vapore
spargevasi per tutta la casa. Sulle robe che si portavano alle fonti
per lo spurgo, era scritto sopra il nome del proprietario; gli stessi
Monatti, poste sopra pali le schede dei nomi, le mostravano poscia ai
padroni cui dovevano restituirsi le robe o qualsiasi altra merce.

Le case con tal metodo spurgate furono 8953; le famiglie 4066, la
spesa del municipio negli spurghi e suffumigi, oltre quelli sostenute
privatamente da coloro cui interessava di mantenere nette e le
abitazioni e le suppellettili loro, salirono a 120,000 lire[198].

I cocconi che i bachi da seta, finchè sono entr’essi chiusi, tessono e
spalmano colla loro saliva, turpe e fetida officina di vermi che dà in
seguito sì gran lucro e splendore agli opificj della città, venivano
collocati sopra bacini, e sottopostovi carboni ardenti con aggiunta
una mistura, temperavasi col vapore e col fumo il nauseante puzzo dei
medesimi onde non fosse nocivo.

Le stoffe poi e le vesti di seta gettavansi entro una caldaja in cui
bollivano erbe medicinali; il luogo dell’operazione chiudevasi tutto
all’ingiro, perchè quel fumo e calore dispendioso senz’alcun frutto non
si dileguasse per l’aria. In egual modo spurgavansi i giojelli d’oro e
d’argento, tutte le vesti di bambagia e di lana, qualora non fossero
già inzuppate d’olio, immergevansi in quel bollente liquido, poi
nell’acqua fredda ripetute volte, forzando così a staccarsi la sanie
che avessero per l’addietro assorbita.

I manipoli di canape o lino infetto ponevansi nelle acque correnti
e vi si lasciavano tre giorni. Tutte le stoffe si ritenne bastante
profumarle con fumo odorifero; le pelliccie, se di poco conto,
gettavansi al fuoco, se no venivano seppellite in botti con calce:
quando poi esigevano, pel molto prezzo, maggior cura, messe in un
ordigno movibile, si facevano girare sopra un recipiente di legno
riscaldato con suffumigi, perchè non si guastasse la morbidezza e il
lucido dei peli. Con queste cautele si conservavano le pelliccie,
evitando il pericolo che in simili oggetti di mollezza e di lusso
s’occultasse la peste. I codici, registri, le librerie, quante carte
eranvi presso gli speziali, gli albergatori, i causidici e i medici, i
cuoj, le piume, la borra, stramazzi e letti, quadri, metalli, e checchè
altro serve alla vita, agli studi o ai piaceri degli uomini, veniva
esposto prima all’aria salubre ed a cielo sereno, purgato e asterso
più volte con liquidi e profumi. E si rinvenne l’arte di non guastare
tali cose nello spurgo, giacchè provvedendo alla salute, si voleva
conservare ciò che abbellisce l’esistenza.

Spese il municipio 24,000 lire nell’acquisto dell’area e luoghi
circostanti per innalzare le lavanderie, e nella fabbrica di esse.
Due genovesi, Spinola e Gianfoglieta, mostrarono una splendidezza
d’animo pari a quella dell’ammirabile loro concittadino il Lomellini,
che a’ giorni nostri largì denaro con tanta profusione, da offendere
la modestia dei beneficati, a segno che solo gli uomini senza pudore
ricevevano soccorsi da lui[199]. Que’ due genovesi regalarono essi
pure denaro al municipio, e comperate vettovaglie nel territorio
lodigiano, le introdussero in Milano, vendendole ai poveri all’egual
prezzo dell’acquisto, rinunziando in tal guisa ad una città, cui erano
estranei, il guadagno proprio e degli avidi rivenditori. Le parrocchie
urbane, emulando questa munificenza, e vergognando di lasciarsi
superare in generosità da forastieri, invece di dar loro l’esempio,
assunsero l’impegno di mantenere ciascuna i suoi poveri, addossandosi
ripartitamente il peso che gravitava sul municipio.

Con queste largizioni de’ cittadini e degli estranei, proseguiva la
quarantena; e non era ancora giunta a metà, che s’incominciò a provarne
gli effetti salutari ed un sollievo crescente, che l’alternarsi del
morbo rafforzava ogni dì le speranze. Notabile differenza tra i due
contagi che la nostra peste non scemò fino all’ultimo, mancando le
risorse dei magistrati, la pazienza e la sommessione del popolo.

Nè soltanto perseverarono i nostri avi nell’intrapresa quarantena,
ma giunti quasi al suo termine, la ricominciarono per altri quaranta
giorni, affine d’esplorare più intensamente l’insidioso morbo, sempre
fallace, e che a guisa d’implacabile nemico sprezza le tregue e fino la
pace conchiusa. Così ordinava lo stesso governatore, ritirato a quel
tempo in Vigevano, e cui avevano scritto i Decurioni tornare salubre
tutta la città e scomparire la peste.


VII.

Donativi di Casalmaggiore.

Il municipio fece una nuova vendita per lire 300,000[200] delle sue
gabelle, costringendo, come nella prima, i privati a farne acquisto,
sotto condizione che sarebbe allo stesso facoltativo in perpetuo,
restituendo il denaro, di ricuperare ciocchè le urgenze del momento
l’avevano costretto ad alienare. Le città provinciali e villaggi vicini
gareggiavano coi lontani in zelo e munificenza verso la metropoli,
ad esempio delle antiche colonie che inviarono a Roma coppe d’oro per
alleviare il meglio che potevano le ristrettezze dell’impero.

Casalmaggiore spedì mille botti di vino[201], con un delegato che
lo offerse in dono al nostro Consiglio generale con ornate parole.
«Sanno i Casalaschi, diss’egli, che Milano, loro capitale e dominante,
scarseggia di viveri per nutrire tante migliaja d’indigenti dalla
peste, tenuti rinchiusi nelle case e privi d’ogni lavoro». Laonde
mandavano quel vino raccolto nelle lor campagne come un tributo,
ed altri ne spedirebbero raccolti o procurati altrove. Pregavano a
ricevere con aggradimento il vino, non pel suo valore, ma apprezzando
il buon animo di quelli che l’offerivano, secondo fece il senato e il
popolo romano colle sue colonie, come attestano gli antichi monumenti.

I Decurioni, ricevuto il dono, lodarono la cortesia di quel nobile
municipio e la sua fedeltà allo Stato, luminosa anche in altri tempi.
In appresso fu onorifico pe’ Casalaschi un tal fatto, perocchè il
collegio dei Giudici, che è, per così dire, il semenzajo de’ Senatori,
racchiudendo in sè il fiore degli uomini nobili e assennati di Milano,
antepose, nel conferire un impiego ambito da molti, uno di Casale
soltanto perchè oriundo di quella città.

Poco dopo la stessa inviò un altro regalo di lieve entità, ma gradito
dai grandi per dar forze a’ bisognosi languenti; mille polli, che,
rinchiusi com’erano nelle gabbie, mandaronsi tosto alle capanne per
distribuirli. Casale in tal modo sovvenne con munificenza e cortesia
l’afflitta metropoli, e ne ottenne la gratitudine.

I Decurioni la sentivano più viva, chè al recente benefizio,
aggiungevasi l’antico lustro di quella terra, nobile ed onorata fin dai
tempi romani al pari delle più grandi città, avendo ivi piantati gli
accampamenti l’esercito durante la guerra tra Ottone e Vitellio, d’onde
trasse principio e nome[202]. Ne’ secoli posteriori fiorì sempre Casale
nelle lettere, nelle armi e in tutte civili discipline, e da lei uscì
l’inclito cittadino Giovanni Baldesio, che, simile ad uno dei tre Orazj
cui venne un giorno affidata la sorte di Roma, duellò in singolare
tenzone con Enrico, figlio d’Enrico imperatore, che stringeva d’assedio
Cremona. Baldesio, vincitore, trafisse a morte l’avversario, ponendo
così fine alla guerra cui erano i Milanesi intervenuti per sostenere la
libertà di Cremona, la quale cessò di pagar l’annuo tributo all’impero.
Laonde que’ cittadini innalzarono una statua al loro liberatore, e
ricopertala d’un manto purpureo, festeggiano l’anniversario di quel
trionfo.

Oramai avvicinavasi il termine della peste, e gli avi, non meno divoti
di noi, non cessavano dal ringraziar Dio per la ricevuta salute,
aggiungendo pur anche i loro sforzi alla divina clemenza. Adempirono
i voti, come femmo noi pure, e siccome la festa di S. Sebastiano
coincideva quasi col termine della quarantena che, ricominciata una
seconda volta, avvicinavasi con ottime speranze al desiato compimento,
si decretò di recarsi la vigilia della festa con processione solenne
all’altare del martire, e deporvi il vaso col sacro osso; che tale era
il voto de’ Milanesi.

V’intervenne il governatore Ayamonte, per quest’unico motivo da
Vigevano venuto a Milano, e dodici fra Senatori e Decurioni. Celebrò
S. Carlo allo stesso altare, ed amministrò di sua mano l’Eucaristia
a tutti gli astanti. Se non che allora evitarono e provvidero ciò che
i magistrati dell’età nostra non scorsero, ovvero neglessero; voglio
dire, proibirono al popolo d’affollarsi in chiesa; escire in molti
dalle case e far crocchj per le strade; stabilendo agli individui
giorni ed ore e tempi diversi, non solo per andare in chiesa, ma pel
disimpegno delle proprie faccende, mentre noi al contrario, trascurando
codesta prudentissima distribuzione, e lasciando che la moltitudine
s’accalcasse promiscua nelle processioni ed altre divote pratiche,
anche queste riuscirono di fomite al contagio. Proibirono altresì gli
avi il ritorno in città a quanti per timore erano fuggiti a nascondersi
nelle ville o nei campi; e quanti, mitigata la peste, presentavansi
giornalmente alle porte, erano respinti. Invece all’età nostra, i
nobili fuggiaschi vennero non solo spontaneamente richiamati, ma si
minacciarono con pene i contumaci. Nelle altre cure, sul finire della
calamità, furono eguali e nel 1577 e nel 1631 la diligenza e gli
sforzi cui avvalorava la crescente speranza, e la brama di non rendersi
indegni colla trascuratezza della grazia da Dio ricevuta.

Giunta la nuova a Milano che Brescia era afflitta dallo stesso morbo,
il Tribunale di Sanità proibì qualunque commercio co’ Bresciani
ed il loro territorio, e si stabilirono le opportune guardie ai
confini; altrettanto si fece poco dopo con Pavia per essersi ivi pure
manifestato il contagio.

Il governatore spagnuolo stava in grandissima agitazione, per tema
non ripullulasse in Milano, tanto più che al presidente Monti, uscito
di carica spirato l’anno, sottentrò il senatore Brugora, nuovo nelle
cose sanitarie. Un decreto regio vietò con severe pene, di ricevere
chicchessia in città, anche muniti di regolare bolletta: il solo Gabrio
Serbelloni ebbe la facoltà di ammettere chi voleva, e niuno entrava
senza un permesso da lui sottoscritto[203]. Vennero pure fissate chiese
vicine alle mura, ove si recassero per adempire i doveri di religione
gli uomini e le donne separatamente. Così avevano ingiunto i medici di
permettere alcun sollievo ai rinchiusi, perchè respirassero dal carcere
diuturno, senza però lasciarli vagare alla rinfusa, o riunirsi ne’
luoghi medesimi.

I fanciulli e le donne in ispecie non si potevano frenare, impazienti
come augelli usciti di gabbia, e per la petulanza del sesso e
l’imprudenza fanciullesca, infrangenti le leggi sanitarie: fu quindi
d’uopo rinchiuderli e porli di nuovo sotto custodia. I disordini
continuarono nel lazzaretto di San Gregorio, vicino al quale eransi
riuniti nei campi i miserabili degli altri lazzaretti e delle capanne,
come altresì continuavano nell’ospitale pei convalescenti, aperto
vicino a San Dionigi. I Monatti sporchi erano frammisti coi sani,
e delitti e scelleraggini d’ogni genere pullulavano in quegli asili
per la convivenza dei rinchiusi, a guisa che nei corpi umani afflitti
da lunghi morbi si generano nuovi malanni. Per la qual cosa, mentre
il contagio era sul finire, e consolidavasi la pubblica salute,
que’ luoghi riuscivano pestilenziali a Milano; così vedemmo noi
pure deturpati i lazzaretti per quante colpe e turpitudini sogliono
commettere gli uomini.

Anche nel 1576 fu investito d’ampissimi poteri, come dittatore e
giudice, un uomo che si trovò laddove nessuno l’avrebbe creduto, e
dove nondimeno un altro ne rinvenne l’età nostra. Fra Paolo da Brescia
cappuccino, simile in parte al padre Felice, era d’altronde più idoneo
all’ufficio suo per severità, aspri modi, e certa feroce indole propria
del suo paese. Egli venne messo alla direzione del Lazzaretto da
S. Carlo[204], e anche oggidì vive in bocca degli uomini la memoria
de’ satelliti di fra Paolo, de’ carnefici, patiboli, cavalletti, e
di lui medesimo, armato e sempre truce e minaccioso in viso sia che
comandasse, che punisse. Oh! quale spettacolo vedere un frate col
cappuccio travestito da magistrato; ma a ciò stringeva la sciagurata
condizione di que’ tempi. Egli, censore severissimo[205], gastigò
e represse i furti, le libidini e gli altri vizj, che senza tregua
baldanzeggiavano in quegli antri della miseria e del bisogno.

Un altro non meno ammirabile spettacolo offrivano que’ luoghi;
la riottosa lasciva e nuda turba ricevente vesti e coltri mandate
dall’arcivescovado. S. Carlo, come narrai nella sua vita, vendette,
per vestire i poveri, le tappezzerie, gli arazzi, i drappi, e quanto
aveva presso di sè raccolto dai cortigiani durante il pontificato dello
zio Pio IV, o li fece tagliare e distribuire ai medesimi perchè si
coprissero. Avrebbe taluno meravigliato e riso, vedendo nel Lazzaretto
i plebei abbigliati sfarzosamente di seta, di porpora e d’altre stoffe
preziose, secondo che a ciascuno era toccato in sorte[206]. Cittadini
e mercanti ricchissimi spedirono in dono al Lazzaretto fino a mille
coltri, ed il Municipio spese esso pure in vestire la nuda plebe lir.
8000, mosso a vergogna pel suo decoro e munificenza, benchè si trovasse
ormai esausto di denaro. E ciò mentre la peste, nè rallentando nè
crescendo, teneva gli animi incerti tra il timore e le speranze.

Sul finire del 1576 Milano si ritrovò libera dal contagio, e i suoi
abitanti, sgombri i sospetti e rassicurati, ripresero le ordinarie
occupazioni della vita. Si trattò di dichiarar sana la città, ad
istanza del senatore Magenta, successo al Brugora come presidente
della Sanità, e impegnatissimo che durante l’anno del suo regime si
abbattessero tutte le capanne, non lasciando alcun vestigio di que’
funesti ricettacoli.

S’aspettò il giorno di S. Sebastiano, nel quale, con decreti e per
mezzo dei banditori, fra il giulivo rimbombo delle campane e le salve
d’artiglieria, con giubilo universale fu promulgato essere la città di
Milano, per la divina clemenza, per favore della Beatissima Vergine,
dei Santi, e massime del martire concittadino S. Sebastiano, libera di
peste, e riaperto il commercio colle altre città. D’ora in poi era in
facoltà di tutti l’uscire e l’entrare nelle case, godendo la pristina
libertà, l’aere e la luce del cielo comuni agli uomini. Quel giorno
venne festeggiato dai Milanesi, che rinascevano alla vita civile;
sopraggiunta la notte, l’intera città venne illuminata; splendevano i
lumi sui balconi, le finestre, i comignoli dei tetti, sulle piazze e
per le vie in grandissimo numero, talchè pareva risplendesse il sole in
pien meriggio. Raccontarono i superstiti, a noi nipoti, che non videro
mai giorno più clamoroso di quella notte di S. Sebastiano, perchè
l’intera popolazione, sopravvissuta al contagio, girava per le vie,
ringraziando con vociferazioni di gioja il santo protettore; squilli di
trombe e musicali stromenti risuonavano in ogni parte.

Queste cose si fecero in Milano nel 1576, epoca memoranda, perchè
reggeva la nostra Chiesa l’immortale San Carlo. Egli soccorse il
popolo durante quella strage col fervore ispiratogli dal cielo, colle
fatiche e la pietà del clero da lui istruito, degli Ordini religiosi, e
specialmente col sussidio de’ Padri della Compagnia di Gesù, religione
che sparse dappoi sì gran luce nella Chiesa, ed istruì nelle scienze,
nelle lettere, ne’ buoni costumi tante lontane genti, e che allora ne’
suoi primordj si rese benemerita di S. Carlo e di Milano[207].


VIII.

Nuove particolarità intorno i Presidenti della Sanità nel contagio del
1630. — Si accenna il gran numero degli altri Magistrati.

Esposi quanto riscontrasi fra le due pestilenze di simile, in guisa
che si confonderebbero in una sola, e quanto v’ha di diverso e non
paragonabile in alcun modo. Ora mi si presenta un fatto segnalatissimo,
non attribuibile al mero caso, bensì alla non interrotta successione
delle più cospicue famiglie di Milano, dalle quali, come da perenne
sorgente, escono personaggi idonei alle più illustri magistrature. E
fia giocondo, nel luttuoso racconto, contemplare, nella cessata peste,
i figli ed i nipoti de’ nobili sostenere le cariche medesime che i loro
padri ed avi sostennero nel precedente contagio, il che apparirebbe
ov’io ne ricordassi i singoli nomi.

Il presidente della Sanità, nel più fiero imperversare del morbo,
del quale rimase vittima, fu, come già dissi, Antonio Monti, figlio
e pronipote di senatori, e fratello del cardinale arcivescovo che
in oggi, con tanta gloria, regge questa Chiesa[208]. Il re nominollo
senatore appena toccò l’età prescritta, e pei meriti della famiglia e
per le chiare sue virtù.

Bello e dignitoso della persona, d’ingegno elegante, egli morì sul
fiore degli anni, e fu lagrimato non solo dal popolo, che lo amava, ma
dagli stessi grandi. Spenta l’invidia, cresceva il dolore per non avere
lasciato figli, ed accusavasi l’egregio giovane di ciò appunto che
forma l’elogio e la sua gloria, voglio dire della generosità con cui
si gettò fra i pericoli della peste, affrontando impavido la morte pel
bene del suo paese.

Prima del Monti, fu presidente della Sanità, nei primi mesi del
contagio, il senatore Arconati[209], maggiore d’età, non però ancor
vecchio. Pieno anch’egli di compassione per le sciagure di Milano,
vi provvide con zelo, non temendo una morte vicina, cui isfuggì per
allora. L’Arconati riassunse il terribile ufficio, affrontandone
intrepido tutti i rischi; imperocchè, morto il Monti, il Senato lo
pregò e scongiurò ad accettare, benchè contro la regola, la presidenza
del Tribunale di Sanità, non essendovi alcuno più idoneo di lui.
Accettò, e fu vittima della peste, lasciando desiderio di sè ne’
concittadini, i quali, istupiditi dallo spavento e dal male, pur ne
lamentarono la perdita. Ma più vivo si fece il dolore, allorquando,
cessato il flagello, si fecero a noverare tutti i sofferti danni.

Nobile e rinomata famiglia è l’Arconati; ma quand’anche tale non fosse
stata, ei solo l’avrebbe resa illustre, sì grande era la perizia di lui
nelle leggi, l’affabilità dei modi e la beneficenza. Passato per tutti
i gradi dei minori impieghi, era divenuto senatore e presidente: la
furiosa peste mietè quest’altro fiore della patria nostra.

Gli altri che succedettero a capo del Tribunale di Sanità, zelavano
d’emulare il nome e la gloria dei predecessori; se non che mancò loro
l’occasione di distinguersi. Imperocchè, venuti in carica in sul finire
della pestilenza, ebbero a lottare colla scelleraggine dei Monatti e
coll’avarizia e il sucidume de’ poveri, affinchè, nascondendo i cenci
e sottraendo abiti, camisce, coltri, biancheria e quant’altro dovevasi
abbruciare come infetto, non mantenessero vivo il principio contagioso.
La spilorceria di quei miserabili diede in sulle prime molti fastidj
al presidente Visconti, che rivolse ogni cura a punirli, e reprimere
uno sfacciatissimo traffico di simili oggetti esercitato da molti
occultamente ed anche in pubblico con insulto della divina clemenza, e
nuovo danno dello Stato.

Discendeva questo senatore dagli antichi duchi di Milano, e diede
splendida prova de’ suoi generosi sentimenti in questa vile trattativa,
perocchè coll’autorità del nome ed il terrore de’ castighi, impedì che
la peste ripullulasse pel contatto de’ cenci. Dottissimo in diritto
civile, consideravasi, all’età nostra, qual emulo di Scevola, di Paolo
e degli altri famosi giureconsulti, i quali, coi loro rescritti e
responsi, compilarono le leggi nei bei tempi della latinità.

Egual fama tra i dotti godeva il presidente Bescapè, il quale,
ripullulando il morbo sul lago di Como, allorchè tutti credevansi
sicuri, l’estirpò dalle radici, impedendo ogni commercio agli abitanti.
Uomo austero e rigoroso, di animo e di corpo indomito, non senza
ragione i letterati lo paragonarono a colui che gli antichi con greca
parola dissero avere viscere di ferro. Ammansò i Cremonesi, essendo
loro pretore, ed accusato presso il censore regio, venne assolto dal
re, non senza vergogna de’ suoi accusatori.

Religioso, prodigò denaro per innalzar tempi e istituire messe
quotidiane, assegnando annui lasciti per la manutenzione. Egli spese
alcune migliaja di zecchini per fabbricare una chiesa nel villaggio
di Bescapè, cognome della sua famiglia. La quale risale fino ai tempi
degli apostoli, e fu così appellata perchè i maggiori concessero in
Roma uno spazio di terreno a Papa Cajo per edificarvi la Basilica di
San Pietro.

Tali egregi presidenti di Sanità ebbe Milano durante il triennio della
peste.

Io compilerei un volume se volessi riferire i nomi e i titoli dei
Decurioni e degli altri magistrati che li sussidiarono; e non riuscirei
ancora a raccoglierli tutti. Immane lavoro! e d’altronde sorgente
d’odio e di invidia per coloro che fossero obbliati.

Così il poeta Omero, sconfidando di enumerare le schiere e i duci
venuti alla guerra di Troja, invocò nell’_Iliade_ le muse perchè le
noverassero. Avessi io ingegno e facondia maggiore! che ricorderei
non solo i nomi di tutti i nostri magistrati, ma il coraggio, le
opere esimie, la gara di carità tra loro, e le morti. Rimasero fermi
in Milano, frammisti ai cadaveri; si recarono nei villaggi e nelle
provincie appestate come se andassero alle proprie ville; presero cura
de’ sepolcri; andarono legati nel campo; nè badarono a dispendio per
sovvenire ai pubblici bisogni.

Lode e gloria agli altri cittadini, ai mercanti, ai ricchi popolani ed
alla minore nobiltà, la quale meno chiara ma più ricca sovente delle
primarie famiglie, la imita ne’ vizi e nelle virtù, e gareggiando con
essa specialmente in questa città, diede egregie prove di sè durante
la pestilenza. Se non che m’è forza tacerne i nomi, perchè troppo
numerosi, come già disse un geografo parlando delle isole del mare
Egeo; quantunque meritino d’essere ricordate. Furono gli accennati che
assunsero il regime dei lazzaretti; nutrirono i rinchiusi, e mantennero
l’ordine in que’ ricettacoli della morte con provvide discipline.
Nell’eseguire i comandi de’ sommi magistrati, giovarono assaissimo non
solo colla prudenza e industria loro, ma altresì col denaro, che era in
que’ giorni, fuori di dubbio, il perno d’ogni cosa.


IX.

Il Senato e il Presidente del medesimo nel tempo del contagio.

In codesta gara di magistrati e cittadini zelanti di salvare la patria
dall’eccidio, e nella gara pur anche de’ mercadanti di eseguire con
zelo e fedelmente gli incarichi loro affidati in quel regno della peste
e della morte, sovrastava a tutti per poteri e vigilanza il Senato,
cui lo stesso monarca investì dell’autorità e grandezza del suo nome.
E fu buon consiglio l’affidare il potere sovrano a quest’ordine, per
tenere in freno le umane ambizioni e le altre magistrature, affinchè
non ardissero venire con lui a contesa di supremazia. I membri del
Consiglio Generale vigilarono quai scolte della salute pubblica,
sovvenendo con inesauribili sussidj la popolazione affamata e moriente;
i Senatori s’adoperarono contro gli Untori ed il terrore de’ veneficj.
Nei giudizj e nelle pene inflitte usarono tanta moderazione e pietà,
che, se esistè realmente in Milano questo delitto delle unzioni, non
poteva il Senato agire con più clemenza di quel che fece, inviando
a morte i rei, invece di farli sbranare dalle fiere e dai cani. Se
poi non erano che sospetti e indizi di tale misfatto, grandissima
fu la previdenza dei Senatori medesimi nel punire i principj delle
scelleratezze che simili mostruosi sospetti lasciavano travedere[210].

I Senatori Picenardo e Aria trattarono il processo delle unzioni. Fu il
primo interprete di diritto in una cattedra dell’università Ticinense,
e godeva anche presso le altre università gran fama per la sua
dottrina; creato senatore, indi presidente del Magistrato Ordinario, e
infine reggente del Consiglio Supremo per gli affari d’Italia a Madrid,
il re, attesa la sua vecchiaja, gli accordò il riposo in patria.
L’Aria, ancora in età giovanile, era paragonabile, per ingegno e per
indole, al vecchio collega, e mi fu largo di notizie mentr’io scriveva
le guerre di questa età, talchè, mercè di lui, potei nella mia storia
estendermi sì nelle politiche deliberazioni, che nel racconto degli
avvenimenti e nella spiegazione di molti fatti importanti.

Entrambi i lodati Senatori continuarono nel proprio ufficio, non
atterriti dalle stragi e neppure dai casi dei loro famigliari, che
vennero unti dai medesimi inquisiti.

Era presidente del Senato a que’ giorni Giovanni Battista Trotti,
figlio del senatore Camillo e nipote di Luigi, il quale godeva l’intima
confidenza di Francesco Sforza, in modo che lui solo adoperava per
gli affari del ducato ed i pubblici consigli. Così leggesi di lui
nella lapide che il presidente Giovanni Battista, per ricordo de’ suoi
maggiori, fece collocare all’avo ed al padre quando ristaurò e ornò
la cappella di sua famiglia nella chiesa di San Marco[211]. Uscito
il Trotti da sì illustre stirpe, conscio di quanto doveva al pubblico
ed alla memoria avita e paterna, sosteneva con ansiosa sollecitudine
il grave peso addossatogli dal re, non solo per salvar Milano, ma per
conservare il lustro del Senato, conseguendone egli meritata lode. In
mezzo a tanti pericoli, fra le continue stragi de’ cittadini, udendo
ogni giorno la perdita di qualche magistrato, e scemando il numero
dei Senatori per la morte d’alcuni tra essi, spenti quasi tutti i suoi
servi, il Trotti non pose quasi mai piede fuori dalla città. E siccome
egli si mantenne sempre fermo al suo posto, così esortava i Senatori
senza tregua a non assentarsi. Diceva che il Senato non solo fungeva
le veci del re, ma ne portava anche il nome; che da Milano dipendeva la
sicurezza e la tutela delle altre città e provincie, che gli imperatori
avevano sempre avuta cura di essa e per inviarvi gli opportuni sussidj,
e per trarne altri non minori, onde valersene contro i nemici loro
e della cattolica religione. Queste ed altre cose in Senato o ne’
giornalieri convegni che aveva in sua casa, perorava il Trotti, alto di
statura, grave di fisonomia, e per raro dono di natura o di temperanza,
conservante anche vecchio la floridezza del viso. Ho veduto lettere
a lui scritte dal segretario Carnerio, nelle quali a nome del re lo
pregava che scrivesse per intero la sua opinione circa l’origine del
contagio e l’affare degli untori, poichè a Sua Maestà interessava
conoscere checchè egli ne pensava[212].


X.

Credenza che la peste cessasse per grazia di S. Carlo. — Arca donata
dal re di Spagna per deporvi il suo corpo, e nuova processione per la
città.

Fra tanti meriti de’ cittadini e magistrati verso l’afflitta metropoli,
fra tante fatiche e rimedj divini ed umani adoperati contro la peste,
e i voti e il supplicato favore celeste, unica speranza a’ Milanesi
fu sempre S. Carlo, cittadino e padre, gloria e splendore perpetuo
di questa patria. Gli abitanti superstiti, quasi risorgessero dal
comune sepolcro, credettero che Milano sarebbe perita, ove il santo
Arcivescovo non l’avesse salva, intercedendo appo Dio e la Vergine e
i Santi la ricuperata salute. La fama di questa grazia si disparse tra
le estere genti, accrescendo anche nelle loro contrade la divozione a
S. Carlo. Gli stessi principi volsero l’animo a lui, dispensatore dei
favori divini, e il Re di Spagna[213], divotissimo del Santo, ordinò
che si ultimasse l’arca di cristallo per riporvi il corpo di lui. Erasi
incominciata già da trent’anni, ma il lavoro procedeva lentissimo e con
interruzioni.

Il sesto anno dopo cessata la pestilenza, l’arca fu compita, miracolo
d’arte e di natura, immagine del sole, degna di racchiudere quel
luminare di santità, esposto all’ammirazione dell’accorrente popolo.

Ed io, mentre m’affanno a narrare guerre, casi funesti, sanguinosi
dissidj di re, principi congiurati a danno dei cattolici; e lo Stato e
la Chiesa nostra sconvolta di repente dall’insolenza dei Confederati.
Mentre raccontava la funesta irruzione dell’inimico, la fuga dei
Francesi, e la tomba che molti di loro qui trovarono[214]; mentre il
mio lavoro storico[215] lentamente progrediva, mi sono assai ricreato
nel vedere l’incredibile maraviglioso spettacolo dell’ultima solennità
di S. Carlo, tale che l’età trascorsa non vide, nè la ventura ammirerà
forse più mai. Contemplai in Duomo l’arca donata da S. M. Cattolica,
e la quale non avrebbesi potuto con alcun principesco tesoro ridurre
siffatta, se Iddio non faceva scoprire altre ricchezze di natura a ciò
adatte.

Accorsero gli abitanti dei borghi e villaggi, e quel giorno in Milano
convenne infinita gente dalle provincie e dalle città finitime.

Il governatore comandante gli eserciti accompagnò la processione
in mezzo al clero, cessando pel momento dalle cure di guerra. Tante
migliaja d’armati a lui sommessi sostarono, chè l’ispano Marte imponeva
tregua all’istinto guerresco, che spinse gli altri popoli forsennati
alle armi ed alle stragi. Vedemmo i demonj uscir frementi dall’inferno,
e questi, rabbioso e disperato per il grandioso trionfo della Chiesa,
riscuotersi in pubblico e tremare.

Il cardinale arcivescovo Cesare Monti, non solo terzo successore, ma
quasi un nuovo Borromeo, ne celebrò dal pergamo con apostolico zelo
l’elogio.

Le quali cose, parendo a me degnissime di venir ricordate in questo
Libro, aggiungo il seguente:


FRAMMENTO DELLA MIA STORIA

In cui è descritta l’arca di S. Carlo donata dal Re Cattolico, e la
solenne Processione fatta in Milano il 4 novembre 1638.

Il governatore di Milano Diego Gusmano, speso che ebbe l’autunno in
grandi apparecchi e in spedizioni militari di poca importanza, stabilì
di ritornare in città, perchè essendo prosperamente avviati gli
interessi del suo re, voleva, a nome del medesimo, onorare i Santi con
solenne omaggio. Avvicinavasi il giorno nel quale la Chiesa milanese
festeggia l’anniversario di S. Carlo con zelo de’ cittadini e tra il
concorso de’ forensi, sino dal tempo in cui papa Paolo V, ad istanza
specialmente del Re di Spagna, annoverò fra i Santi il Borromeo.

Quell’anno, 1638, accresceva la celebrità e la gioja della festa il
donativo reale dell’arca, paragonabile ai monumenti degli antichi
monarchi egiziani: depostevi le reliquie del santo Arcivescovo in mezzo
all’oro, all’argento, a lucentissimi cristalli, dovevasi trasportare
con isplendida pompa per le contrade, mostrando agli abitanti il loro
avvocato e consolatore.

L’aveva ordinata il cardinale arcivescovo Monti, fra le altre
espiazioni, per placare l’ira celeste durante l’attuale guerra, aprendo
l’animo a speranza che i meriti di S. Carlo e le preci del popolo
mitigherebbero Iddio, affinchè ispirasse a’ belligeranti re pensieri di
pace, ad ottenere la quale s’adoperano a tutto potere anche gli umani
mezzi.

Il governatore doveva intervenire alla funzione, e per ordine espresso
del sovrano, e perchè il pubblico ad una voce l’invocava. Incitavalo
pure l’ingenita pietà, e il desiderio di far onore al donativo del suo
re, cui egli aveva cooperato a far terminare.

L’idea dell’arca nacque sendo governatore il Velasco, che pel primo
raccomandò al re le reliquie di S. Carlo, e tanto fece, che ottenne
alcune migliaja di zecchini per darvi mano.

Ma i successivi governatori, benchè durasse la pace, lasciarono andare
in obblio l’ordine reale, nè più si pensava all’arca. Il Gusmano
alfine, in mezzo alle sue guerre e vittorie, ed all’incerta condizione
dello Stato, invocando il patrocinio di S. Carlo, instò perchè
si terminasse, collocandovi le reliquie di lui. E fu compiuta per
l’autorità sua e del cardinale Monti, il quale, zelante della gloria
dell’illustre antecessore, spronava i ministri regi ad eseguire, dopo
sì lungo tempo, i sovrani comandi. Egli stesso istruì gli artefici
intorno la forma, e gli ornamenti dell’arca, esperto come era nelle
belle arti per ingegno, e per studi sull’antichità; laonde gli
intelligenti opinano che sua mercè sia riuscita più vaga ed elegante.

Tale è infatti, nè sarebbe bastata qualunque somma, se Iddio, per
onorare il suo Santo, e dar premio alla munificenza del regio donatore,
non avesse infiammata la mente degli artefici, i quali superarono in
questo lavoro sè medesimi. L’arca risplendeva veramente come il sole:
pezzi di cristallo d’inusitata grandezza e lucidità, furono rinvenuti
per bontà divina, e narrerò un caso che somiglia a miracolo, non già
come s’usa per accrescere pregio a portentosi lavori, ma sibbene per
tramandarlo ne’ miei annali colle altre vicende dell’epoca.

Allorquando venne governatore in Milano il Velasco, due artefici, cui
erasi allogata la costruzione dell’arca, fecero entrambi un sogno
la stessa notte; che in certe caverne, framezzo le rupi, giacevano
pezzi stragrandi di cristallo di monte opportunissimo per eseguire
un lavoro che restasse splendido monumento fra i tesori del Duomo.
Erano i suddetti artefici Francesco Cingardo e Angelo Benzoni, i
quali, informato il governatore, recaronsi per suo ordine a Gliciga
in Valsesia, i cui monti avevano visti nel sogno. Ivi, per gli
indizi ottenuti da un mandriano che lì presso custodiva il gregge,
rinvennero i massi di cristallo stragrandi e di tale lucentezza, che
in nessuna officina eransi mai ammirati gli eguali. Questo s’aggiunge
di portentoso, che nel segare que’ massi e pulirli, non vi si trovò
macchia, mentre per solito ne’ cristalli destinati ad usi profani
rinvengonsi sempre scabrosità, corpi opachi e altri difetti; come anche
non di rado si scheggiano nell’ispianarli.

Descriverò l’arca giusta il disegno a matita degli autori; ma dirò in
prima l’impressione che fece su me e su tutti, quando ancora vuota fu
esposta al pubblico. Ammiravasi la materia preziosa e la bellezza del
lavoro; ma dopo che fuvvi deposto il sacro corpo, visibile in essa,
ispirò sensi divoti ed una specie di religioso terrore. Imperocchè,
quasi da un globo ardente o da una fonte di luce, scaturiva dall’arca
un sì sfolgorante luccicore che abbagliava, forzando a chiudere le
palpebre quanti vi tenevano fissi gli occhi. I cristalli, le lamine
d’argento rappresentanti umane figure ed altri oggetti, formavano un
bellissimo contrasto d’ombre e di luce; abbellendo l’unità del concetto
con vaghi accessorii, che i soli artefici sanno ben distribuire;
le quali cose piacevano all’occhio e deliziavano l’animo. Nè la
meraviglia era scevra d’un certo terrore: la brama di scrutare ogni
parte dell’arca veniva rattemperata dal rispetto, le quali diverse
sensazioni erano soavi, e vieppiù eccitavano i desiderii. Tutti gli
spettatori rimanevano estatici, e quando era forza scostarsi per dar
luogo ad altri, la seguivano cogli occhi. Udivansi risonare ad una voce
dai cittadini e dagli stranieri le lodi del re Filippo per sì ricco
donativo, e augurj di lunga vita a lui, e di prosperità all’Impero,
all’austriaca stirpe, al nome spagnuolo. Anche le donne gridavano
evviva ai re stranieri ed ai nostri principi.

Il meraviglioso lavoro dell’arca avrebbe fatto accorrere e plaudire
anche i gravi politici, e specialmente alcuni degli antichi romani,
se dopo tanti secoli potessero rivivere. Perocchè essi erano usi ad
ammirare soltanto le opere della natura e dell’arte, inscii della
purissima gioja che a noi soltanto è dato gustare, volgendo i pensieri
all’eterna gloria dei Santi.

Vedevansi d’ogni parte sull’arca angeli d’argento, effigiati
coll’espressione che aver denno lassù nell’empiro, ove gli alati
spiriti con forme infantili da secoli infiniti alzano inni di lode
a Dio ed ai Santi, e fruiscono essi pure d’ineffabile beatitudine.
L’angelica schiera, in volto umano, circondava giuliva le reliquie
del Santo, rappresentando le glorie dell’anima sua sì al vivo,
che l’umilissimo Arcivescovo avrebbe arrossito d’un simile trionfo
raffigurato dall’ingegno e dalla mano degli uomini. Gli angioli, benchè
di terrestre materia, avevano viso celestiale, e sembravano alienassero
i pensieri dalle mondane cose, ispirando pei santi più intensa
venerazione che avere non sogliono i mortali.

Intorno all’arca gli angioli parevano, con amabile gara, prestare i
loro uffici al santo Pastore, che dalla sua Chiesa trasvolò in cielo,
deposto il frale, che giace entro l’arca, portante le impronte de’
sofferti travagli e delle volontarie mortificazioni.

Siedono alcuni angioli sul coperchio, e quasi intuonassero le lodi
del Santo, imboccano con vezzo infantile le trombe chiamanti il genere
umano a quel glorioso spettacolo; altri, di soave fisonomia, pare che
cantino accompagnandosi colle cetre. Questi sta in atto di ammirazione,
quegli d’esultanza, uno meditabondo, un altro orante, adora il Signore
per sì gran prodigio. Molti altri tengono tra le mani le insegne
pontificali e i sacri arredi, dei quali un giorno servivasi l’illustre
Cardinale, della cui santità sembrano penetrati.

Componesi l’arca di due piani, e fu chiamata romboide, perchè ha
questa figura geometrica. Il primo, ossia l’inferiore, dividesi in
dodici scompartimenti angolari, più o meno grandi: quest’ordine è lungo
quattro cubiti, e nei due lati più piccoli un cubito e mezzo.

Modiglioni, cornici e piccoli gradini formano l’altezza della
base, sostenuta da dodici animali d’argento, come è tutta l’arca
sì nell’interno che al di fuori. Ad ogni angolo v’ha una cariatide
come gli antichi usavano sottoporre alle gronde per ornamento
architettonico; le cariatidi sono dodici nel piano inferiore. Gli
angioletti sopra descritti cogli arredi pontificali a guisa di trofei,
sedono ai plinti.

Questi angoli, o ante, sostengono entrambe le cornici, quello che
disotto corre, e l’altro che al disopra s’unisce col coperchio. Tutti
portano statue d’argento rappresentanti le virtù, quali solevano
effigiare gli antichi; e sono dodici virtù in tutto il circuito. Gli
interstizj sono di cristallo, ciascuno formato di tredici pezzi; uno
dei quali, più grande, di forma ottangolare e lucentissimo, viene
attorniato dai dodici cristalli minori. Per tal guisa, dodici gran
pezzi costituiscono l’arca in questo primo ordine, insieme cogli
accessori tutti d’argento. I pezzi però che stanno ai due capi
dell’arca sono assai più piccoli. Le incassature d’argento de’ medesimi
sono dorate, ed in totalità i pezzi di cristallo sono 156.

L’ordine superiore che rinchiude l’arca è simile al descritto, e per
la disposizione delle cariatidi e per l’aspetto della cornice. Se
non che varia pel rientrare dei lati, ossia curvatura, che termina
in rombo, e per la dissomiglianza che nella parte ovale del pezzo
avvi una finestretta. Gli angioletti, al basso, sono sedenti, invece
nella parte superiore stanno ritti quei che portano i regi stemmi.
Imperciocchè, per tributare il debito onore all’augusta Casa Austriaca,
sostegno fermissimo della Chiesa, questa volle, per gratitudine, che
si mettessero sul coperchio i suoi stemmi in oro, portati da angeli.
Due di questi veggonsi ai fianchi in atto d’intuonare un inno, altri,
nella parte inferiore, portano gli stemmi del marchese di Leganes,
per ricordo ai posteri, che l’arca venne compiuta lui governatore di
Milano.

Volevasi far altrettanto coll’eminentissimo Monti, per aver insistito
col Leganes affinchè l’arca si compisse; ma egli non consentì,
suggerendo che invece si incidesse in una lamina sotto quale
arcivescovo ed in qual anno fu ultimata.

Anche nell’ordine superiore sonvi dodici cariatidi fra grandi e
piccole, e tutti gli altri ornamenti eguali, eccetto che sono tutti di
minor dimensione, vale a dire, le statuine e le cariatidi proporzionate
a quest’ordine più basso. Fregiano la cornice quattro vasi d’argento
a fogliami. I pezzi di cristallo in quest’ordine sono 67, così trovo
scritto nei registri.

L’arca costò 60,000 zecchini, siccome risulta dai codici reali. È
dovere altresì tributare la meritata lode ad uno de’ più distinti fra
i cittadini e gli ecclesiastici, il quale, sotto l’arcivescovo Monti
ed il governatore Gusmano, amministrò il denaro, e s’adoperò perchè
nel giorno fissato l’arca fosse compiuta senz’alcuna menda. Fu desso
Primicerio Visconti, nipote per sorella di Federico, e venne trascelto
dalla autorità ecclesiastica, dalla governativa e dal re, per la
nobiltà del casato, i talenti ed il senno, e perchè appartenente alla
famiglia Borromeo.

Gusmano per intervenire, come dissi più sopra, ed offerire e consegnare
l’arca in nome del suo re all’arcivescovo metropolita, da Alessandria
si recò a Pavia, indi a Milano, ove giunse il 2 novembre, antevigilia
della festa di S. Carlo, disponendo le cose in modo, che dopo la
solennità potesse restituirsi senza ritardo all’esercito. Venne
modestamente in un cocchio tratto da sei mule nere, come esigeva
lo scopo del viaggio; però dovunque passava, la plebe tripudiava,
chiamando gli Spagnuoli liberatori dello Stato e terrore dei Francesi.
S’udì qualche applauso, ma la gratitudine era più vivamente sentita
nell’animo. Il governatore entrò in città verso le undici ore[216], sul
far della sera; dopo un breve riposo in palazzo, sbrigò alcuni affari,
diede, giusto l’uso, udienza, quindi recossi al Duomo per consegnare
alle autorità ecclesiastiche l’arca di S. Carlo, già collocata dinanzi
l’altar maggiore. Trovavansi presenti il cardinale arcivescovo, e a lui
d’intorno i monsignori colle loro insegne.

Appena si sparse la voce della cerimonia, si fece calca di popolo, e
fu d’uopo vietare l’ingresso in Duomo, poichè la moltitudine, allegra e
curiosa, accorreva fra le tenebre, come fosse di pien meriggio. Voleva
ciascuno vedere l’arca, come pure l’arcivescovo, essendovi in tanto
concorso di cittadini e forastieri, molti che nol conoscevano; ma pochi
vennero ammessi alla cerimonia.

Riferirò le parole con cui il governatore, colla dignità ed eloquenza
conveniente a principe, consegnò il regio donativo all’eminentissimo
Monti.

«Sua Cattolica Maestà, il re nostro Filippo IV, fra i presidj suoi,
questo grandemente apprezzò sempre, che S. Carlo Borromeo nacque nel
suo impero. Con speciale culto S. M. venerò ognora il nome e la memoria
del Santo, adoperando zelantemente che lo venerassero del pari i suoi
sudditi, e ne fu rimunerato con grazie celesti, delle quali ei serba
riconoscente, e perpetua memoria. Egli è persuaso che specialmente pel
patrocinio di S. Carlo, e l’intercedere di lui appo Dio, sia incolume,
e fiorisca il cattolico impero e l’austriaca Casa, fugati e domi i
nemici in ogni parte, e rivolta a danni loro la guerra accesa contro
l’Impero e la Casa medesima. Volendo il monarca, mio signore, non già
rimunerare sì grandi beneficj, ma dar prova di sua gratitudine, ordinò
si costruisse quest’arca per collocarvi il corpo del Santo Arcivescovo
suo protettore, ed ingiunse a me, infimo e fedelissimo suo servo, che
oggi compiuta la consegnassi in dono a questa metropolitana, siccome
faccio di presente. Supplico l’Eminenza Vostra che, in nome di S.
Carlo, voglia accettare di buon animo e serbare questo dono, tenue
per sè, ma grande se riguardasi l’animo e la divozione del donatore.
Riceva quest’arca, nel cui splendore rifulgeranno le reliquie del gran
Cardinale, come la purissima anima di lui lasciò risplendente questa
patria e questa Chiesa per ottimi costumi ed egregie discipline. La
riceva, dico, con pari benevolenza ed affetto, onde nelle preci e ne’
sacrifizj di questa cattedrale, rammenti di raccomandare a Dio O. M. la
salute del re e l’incolumità dell’impero, che tributa onore ed ossequio
al Santo.

«E degnisi, con eguale benevolenza, raccomandare me pure, ministro e
pronto esecutore dei regi voleri, al patrocinio di S. Carlo, il quale,
per favore singolare, già rese vittoriose le mie armi, che senza di lui
non avrebbero potuto spingersi, dalla necessaria difesa dello Stato,
fino sul territorio nemico. Del qual prospero esito, ci confessiamo
debitori all’intercessione di lui appo Dio. Riceva finalmente
l’Eminenza Vostra il donativo; un altro simile spera d’apparecchiare
lo stesso re, colle ricchezze del suo impero, alle reliquie di Vostra
Eminenza, allorquando, seguendo la vestigia di S. Carlo, giungerà al
termine di questa mortale carriera[217]».

Tali furono i detti del Gusmano, pieni di riverenza per S. Carlo, e
resi vieppiù efficaci dalla pietà e dal decoro dell’oratore. Più d’ogni
altro ne fu commosso l’arcivescovo, non ammiratore soltanto, ma egregio
imitatore delle virtù del Borromeo. Egli, edificato dalla divozione del
re, e immaginando di trovarsi presente al Santo, così rispose:

«Fece la Maestà Cattolica quello ch’era conveniente e decoroso al
re dei re, al potentissimo monarca del mondo cristiano, secondo
l’insegnamento de’ genitori dell’avo, del proavo, e della lunga
schiera de’ Cesari suoi antenati, di venerare i Santi come i più
validi sostegni dell’Impero. Nè ciò mi giunge nuovo, avendolo a lungo
osservato allorchè risiedeva come Nunzio apostolico alla Corte. S.
Carlo, fra le altre sue virtù e le gesta immortali che gli meritarono
la gloria celeste, procurò sempre, fino all’ultimo, di favoreggiare
l’Impero e la Casa Reale, cui è affidata la tutela e la difesa della
religione cattolica. Laonde meritamente venne mai sempre onorato, e lo
è in oggi, dalla munificenza reale. L’arca, che sembra tenue donativo
al possessore di tante ricchezze, da me e dal mio clero, è considerata
preziosissima. Questo tesoro verrà da noi custodito, non solo pel
suo valore, ma perchè collocato fra i monumenti della cattedrale, sia
illustrato dai letterati, e rimanga modello ammirabile dovunque fia
nota la splendidezza del donatore e il pregio dell’opera».

In tal modo favellarono il governatore e l’arcivescovo, presenti per
trascriverne le parole e testificare quanto fecero i due illustri
segretari Caimi e Platone, il primo eclesiastico, l’altro regio, i
quali ne rogarono pubblico atto.

Così fu eseguita la consegna dell’arca; la notte stessa, l’arcivescovo,
quasi colle proprie mani, vi depose il corpo di S. Carlo, colla mitra,
la pianeta e gli arredi pontificali. Erasi dapprima ideato di coprirgli
la faccia con una maschera d’oro, ma con più maturo riflesso si credè
più semplice di lasciarlo scoperto il volto, nello stato cui l’avevano
ridotto il tempo e la corruzione, che neppure risparmia le reliquie dei
Santi. Una delle guancie trovossi guasta e corrosa, non tanto dall’età,
quanto da uno stillicidio continuato per vent’anni, e prodotto
dall’umidore del sepolcro, il quale non era stato ancora aperto ed
esaminato[218].

L’altra guancia aveva meno sofferto, benchè non fosse intatta: il
mento e la bocca, come rimangono colla dentiera allorchè consumansi
le carni, serbavano una tal quale impronta della fisonomia. I vecchi
erano commossi, ricordando il volto paterno del Santo, e lo guardavano
compunti; anche i ritratti di esso comprovavano la rassomiglianza.

Altri scrittori descrissero la pompa solenne con cui si espose al
popolo milanese il venerabile corpo del Santo 54 anni dopo la sua
morte. L’arca venne tratta dalla sacrestia, e diligentemente chiusa
dopo avervi riposto il corpo e deposta sovra l’altar maggiore alla
venerazione, con gioja non scevra di rammarico. Il Duomo era addobbato
in modo da imitare, per quanto è concesso agli uomini, col decoro, la
splendidezza e la festiva ilarità, le eterne sedi dei Beati lassù in
cielo. L’augustissima nostra cattedrale, che forse più di qualunque
altra si spinge in alto, testificava l’allegrezza pubblica come se
un altro popolo ed un’altra celeste città esultassero alla vista del
Santo Pastore. Quanti adornamenti di palchi, arazzi, quadri[219],
luminarie, immaginarono gli antichi e le moderne arti, quanti ne ideò
con larghissimo dispendio lo splendido e intelligente nostro clero
nelle pubbliche festività, tutti vennero in quel giorno adoperati.
Splendeva corruscante il tesoro di S. Carlo collocato sul vecchio
tumulo, gareggiando per ricchezza coi tesori dei re, i quali l’avevano
arricchito di molti anelli e gemme votive al Santo, per gli sfuggiti
pericoli, e pei trionfi ottenuti o impetrati da lui. Le statue e i
simulacri argentei di alcuni tra essi ricordavano, a testimonianza
delle ricevute grazie, i varj mali che affliggono l’umanità.

Il cardinale arcivescovo Monti celebrò il divino Sacrifizio e recitò
il panegirico del Santo, come aveva fatto il cardinale Federico in un
precedente anniversario. Gloria non comune di quell’età, che sommi
arcivescovi fossero del pari sommi oratori! Graditissimo ai grandi
ed alla moltitudine non solo per l’eloquenza, ma per l’elogio della
generosità del re Filippo, riuscì il passo in cui il Monti, alzando gli
occhi al cielo, apostrofò il Santo così:

«Celeste Carlo! decoro e corona de’ pontefici; un giorno nostro
cittadino e pastore e padre di questa patria. Oggi ad onorare le tue
reliquie e il nome tuo s’unisce il divino favore alla magnificenza
del re di Spagna, il quale dona un’arca, che nessuna privata ricchezza
avrebbe potuto offerire. Apparisce come costruita in cielo, che, per
assecondare la divozione del re, fe’ scoprire meravigliosi cristalli,
per formare un’arca degna del principe e in uno della purità del sacro
corpo, che vince il fulgore di que’ cristalli».

Dopo l’ufficiatura, incominciò la processione; quattro vescovi
sostenevano in apparenza l’arca, che era portata da uomini nascosti
sotto il drappo che la cingeva. L’arcivescovo, quantunque mal fermo
per recente malattia, sostenevala egli pure. I senatori portarono il
baldacchino per un tratto di strada, scambiati da altri a seconda
del grado e dei privilegi delle varie magistrature: il governatore
la seguitava al suo posto con una torcia accesa. Sarebbe superfluo
descrivere i consueti apparati della città, le contrade coperte di
tele, le muraglie adorne di arazzi, i quadri ed altri oggetti preziosi,
tratti dalle case dei ricchi, giacchè simili pompe si ammirarono altre
volte in Milano.

L’ornamento tutto speciale di quel giorno fu la moltitudine, la quale a
stento capiva nella città, e lo strepito che vi faceva. Rimasero quasi
deserti i villaggi e le città vicine; e se il nemico avveduto sapeva
profittare dell’occasione, avrebbe potuto facilmente impadronirsene.
Molti giunsero dalle terre Venete, dalla Marca d’Ancona, dal
Genovesato, dalla Svizzera, dai Grigioni, avendo calcolato il tempo
del viaggio per arrivare il giorno della festa. Nè solo individui,
ma intere famiglie, le donne coi loro bambini, i figliuoli seguendo i
genitori, ovvero venuti nascostamente dalle vicinanze a Milano. Molti
vecchi altresì, nobili e plebej, ciechi, storpj e afflitti da malattie
si trascinarono, sì grande era il desiderio d’assistere alla solenne
traslazione del corpo di S. Carlo ed invocarne il patrocinio; nè vi
mancò una turba di mendichi. Seppi che parecchi mariti, che lo stato
conjugale rendeva infelici, e mogli angosciate per le libidini degli
adulteri consorti, accorsero con fiduciosa semplicità di cuore, che il
geniale talamo deterso e santificato per occulta virtù di S. Carlo,
e reintegrato il buon nome, la famiglia passerebbe dallo sprezzo e
dalla disperazione ad un onesto e giocondo vivere; la quale fiducia o
semplicità ebbero pure alcuni Milanesi.

Conosco certi tali che, afflitti per rovesci di fortuna o circondati
da pericoli, sperando nell’ajuto del Santo, ottennero, o almeno
affermarono d’aver ottenuto, grazie non meno evidenti di quelle che
ricevettero i guariti da corporali malattie. E siccome di queste
si narrano miracolose guarigioni, così viene assicurato che le più
gravi dell’animo, ed i domestici infortunj, mitigò in quel triduo S.
Carlo colla sua intercessione appo Dio, e molti videro prosperare i
loro traffichi e rimarginarsi le ferite del cuore, secondochè avevano
pregato e fatti voti.

Sessanta mila peregrini alloggiarono negli alberghi e nelle taverne;
numero che venne notificato al pubblico. Aggiungasi altri moltissimi,
i quali furono ospitati dai parenti ed amici, essendochè ogni casa,
grande o piccola, era zeppa di ospiti, una parte de’ quali venne
collocata negli abituri dei poveri, provvedendo al loro vitto, per non
poter fare altrimenti attesa la ristrettezza in cui trovavasi ciascuna
famiglia per tanta gente che aveva in casa.

I ricchi accaparrarono gli alloggi lungo tempo innanzi: perfino i
collegi e i chiostri diedero a molti ricovero, e nondimeno fu ancora
maggiore il numero di quelli che pernottarono a ciel sereno[220].
È facile l’immaginarsi lo strepito ed il tumulto che tanta folla di
gente fece per le vie e specialmente in Duomo; urli, risse, sassi,
coltelli, alcuni rimasero feriti ed uccisi. Rimbombava la cattedrale di
un continuo fragore, eguale al ruggito di torrente, che, ingrossato da
notturna pioggia, travolve giù per le roccie dei monti immenso volume
d’acque.

Pure superavano quel fragore le grida e lo schiamazzío degli ossessi, i
quali, alla presenza di S. Carlo, erano in siffatta guisa tormentati,
che molti in quel giorno cessarono dal ritenerli inganni femminili,
convinti che veramente gli spiriti infernali s’impossessano degli umani
corpi, nelle viscere dei quali soffrono i martirj cui sono dannati.
Consta, con bastante certezza, che in quel giorno furono liberate
alcune donne, avvinte, secondo le apparenze, con inestricabili nodi da
Satano.

Nè tacerò come uomini e donne, invasi da furore divoto, fur visti
avventarsi contro i bastoni e le picche. Imperocchè, custodendo le
sbarre un drappello di soldati tedeschi con armi per tenere indietro,
come s’usa, la folla, scuotevano di continuo all’ingiro le picche ed
i bastoni per incutere terrore. Un drappello di sbirri, frammisti ai
soldati, non solo brandiva le armi, ma con torvo viso e minaccie osava
irrompere nella calca, battendo e ferendo parecchi. Ne sorse una zuffa
che durò tutto il tempo in cui l’arca rimase esposta. Molti ne uscirono
colla faccia pesta e insanguinata; un birro fu battuto a morte da un
giovane colla mazza istessa con cui gli aveva pestato un piede.

Non si potè conservare nella processione l’ordine secondo i gradi: e
le due primarie magistrature della città altercarono, disputandosi il
posto più vicino all’arca. Al governatore spiacque la contesa; ma si
riappacificarono subito, e la gara fu piuttosto mossa da zelo che da
umana ambizione. Credo che il Santo medesimo gioisse, contemplando dal
cielo quel contendere intorno alle sue reliquie, e perfino i grandi
inquieti in mezzo al popolare tumulto. Questa unica dimostranza mancava
del cielo, partecipe al giubilo degli uomini, ovvero del nostro piccolo
globo turbato per sì gran trionfo!

Compito il giro sull’imbrunire, l’arca fu riposta sopra l’altare
maggiore. L’arcivescovo diede un pranzo frugale, e colle discipline
usate da S. Carlo e Federico nei loro conviti dopo alcuna solennità,
invitò quattro vescovi ed i fratelli Altemps, parenti di S. Carlo
dal lato di madre. Anche il governatore in palazzo diede un pranzo
militarmente frugale ai magnati ed a parecchi amici, che il dì vegnente
ritornavano seco lui all’esercito. Egli prolungò la sua partenza
d’un giorno: il sabbato 6 novembre da Milano avviossi per Pavia ad
Alessandria.


  FINE DEL LIBRO QUINTO
  ED ULTIMO.



Indice


  Dedica del Traduttore a’ suoi concittadini                 _Pag._ V
  Introduzione. — Da un Ragionamento inedito del
    Traduttore sui principali Storici e Cronisti milanesi      »  VII
  Dedica dell’Autore agli Illustrissimi Signori il Vicario
    ed i Sessanta Decurioni del Consiglio Generale della
    Città di Milano                                            » XXXI

  LIBRO PRIMO

  CONDIZIONE DI MILANO PRIMA DEL CONTAGIO. — LA
  CARESTIA. — LA PESTE.

      I.  Prologo                                              »    3
     II.  Posizione e stato della città avanti la peste        »    4
    III.  Come gli apparecchj di guerra, indi la fame,
            cominciassero ad affliggere Milano                 »    7
     IV.  Dei governatori di Milano Fuentes, Velasco e
            Mendozza, e ancora dell’origine e delle cause di
            guerra                                             »    9
      V.  Toledo, Figueroa, Consalvo di Cordova governatori
            di Milano. — Origine della carestia                »   10
     VI.  Della fame che precedette la peste                   »   12
    VII.  Del pubblico Consiglio, ossia dei LX Decurioni di
            Milano che provvidero alla miseria generale        »   17
   VIII.  Del Lazzaretto e della moltitudine de’ poveri in
            esso ricoverata                                    »   18
     IX.  Discipline stabilite al Lazzaretto e nell’ospitale
            della Stella                                       »   20
      X.  Il Lazzaretto è riprovato e si sgombra               »   23
     XI.  Tumulto popolare per la carestia                     »   25
    XII.  La peste scoppia in Milano                           »   37
   XIII.  Furore e stoltezza della plebe circa la credenza
            della peste                                        »   40
    XIV.  Pericolo corso dal protofisico Lodovico Settala
            all’incominciare della peste                       »   41
     XV.  I Magistrati pensano a più efficaci rimedj           »   44
    XVI.  Il corpo di S. Carlo viene trasportato solennemente
            per Milano, onde impetrare che cessi la peste      »   47
   XVII.  Dopo la processione s’accresce la peste              »   51
  XVIII.  Aspetto ributtante di Milano pe’ mucchi de’
            cadaveri e l’insolenza dei Monatti                 »   53

  LIBRO SECONDO

  GLI UNTORI.

      I.  Prologo                                              »   59
     II.  D’un terribile e falso rumore divulgato in Milano
            ed all’estero                                      »   62
    III.  Del Piazza, del Mora, del Baruello, e d’altri
            Untori                                             »   67
     IV.  D’altri che a torto furono creduti untori, o per
            tali imprigionati                                  »   80
      V.  D’un grande e insigne personaggio sul quale cadde
            il medesimo assurdo sospetto                       »   88
     VI.  Si espongono le opinioni di filosofi e medici
            chiarissimi circa gli unguenti pestiferi; e
            vari casi                                          »   94
    VII.  Repentino e pestifero tumulto                        »  107
   VIII.  Varj casi di peste nel Lazzaretto. — Il padre
            Felice presidente del medesimo                     »  110
     IX.  Come incominciò a rallentare la pestilenza, e
            come ebbe termine                                  »  119

  APPENDICI DEL TRADUTTORE AL LIBRO SECONDO

      I.  Difesa di Giovanni De Padilla                        »  127
     II.  Considerazioni sul Processo degli Untori             »  139
    III.  La Colonna Infame                                    »  145

  LIBRO TERZO

  IL CARDINALE FEDERICO BORROMEO
  E IL CLERO DURANTE LA PESTE.

      I.  Prologo                                              »  155
     II.  Provvidenze e disposizioni del Cardinale ai primi
            rumori di peste                                    »  156
    III.  Suoi fatti durante la peste                          »  159
     IV.  Lazzaretto ecclesiastico istituito da Federico       »  166
      V.  Denaro portato al Cardinale da due contadini e dal
            Lomellini di Genova                                »  171
     VI.  Avvisi e consigli del Cardinale al suo clero         »  173
    VII.  Premura del Cardinale pei Monasteri delle Sacre
            Vergini                                            »  177
   VIII.  Il Cardinale presagisce per ispirazione divina
            la prossima cessazione della pestilenza, e si
            accinge a riordinare gli studj ecclesiastici
            e le arti                                          »  178
     IX.  Opinioni e sentenze di Federico Borromeo circa
            la peste                                           »  179

  LIBRO QUARTO

  VENUTA E DIFFUSIONE DELLA PESTE IN LOMBARDIA. — ATTI
  DEL TRIBUNALE DI SANITÀ.

      I.  Prologo                                              »  195
     II.  Atti del Tribunale di Sanità                         »  227
    III.  Nuove particolarità sulla carestia e la peste        »  252

  APPENDICE DEL TRADUTTORE AL LIBRO QUARTO.

  Intorno la mortalità della peste del 1630 e la popolazione
    di Milano a quell’epoca                                    »  261

  LIBRO QUINTO

  CONFRONTO DELLA PESTE DEL 1630 CON ALTRE,
  E SPECIALMENTE CON QUELLA DEL 1576.

  Proemio del Traduttore al Libro Quinto sugli Storici della
    Peste del 1576                                             »  269

      I.  Prologo                                              »  275
     II.  Confronto della pestilenza di Milano
            coll’antichissima degli Ateniesi                   »  277
    III.  Confronto della peste di Milano con quella di
            Firenze                                            »  280
     IV.  Confronto della pestilenza del 1630 con quella
            del 1576                                           »  284
      V.  Lazzaretti secondarj. — Capanne per gli appestati
            e per i poveri. — Medici. — Asilo pei bambini      »  298
     VI.  Voto a S. Sebastiano. — Quarantena generale. —
            Spurghi                                            »  308
    VII.  Donativi di Casalmaggiore                            »  321
   VIII.  Nuove particolarità intorno i Presidenti della
            Sanità nel contagio del 1630. — Si accenna il
            gran numero degli altri Magistrati                 »  329
     IX.  Il Senato e il Presidente del medesimo nel tempo
            del contagio                                       »  334
      X.  Credenza che la peste cessasse per grazia di
            S. Carlo. — Arca donata dal re di Spagna per
            deporvi il suo corpo, e nuova processione per
            la città                                           »  337
  Frammento della Decade V.ª del Ripamonti, in cui è
    descritta l’arca di S. Carlo donata dal Re Cattolico, e
    la solenne processione fatta in Milano il 4 novembre 1638  »  339

  FINE DELL’INDICE.



NOTE:


[1] Ciò feci per esteso nel principio di questo _Ragionamento_,
esaminando le tradizioni popolari, per farmi strada a parlare dei
nostri Storici e Cronisti. Io credo superfluo di qui riportare questo
brano perchè si riferisce alla Storia generale di Milano, non alla
Peste del 1630.

[2] La presente lacuna e le altre, che trovansi in questa introduzione,
provengono dalla necessità di ommettere i passi del mio _Ragionamento
sugli Storici e Cronisti milanesi_, che sono estranei a questo libro.

[3] Nel libro I _Delle Ordinazioni, MS._ pag. 29 e 74.

[4] L’attuale archivista sig. Civelli lo ordinò con sapere e diligenza
lodevolissima.

[5] Fu battezzato a Nava il 18 agosto di quell’anno, come da’ registri
parrocchiali. Vedi Cantù, tom. II, pag. 72.

[6] _Oriundus fuit ex obscuro pago Briantaei collis aspero et
confragoso, ipsum dein illustraturus_. Così il Legnano nella vita
citata.

[7] Piccolo paese non lontano da Tegnone.

[8] Ripamonti fu ordinato sacerdote nel 1606.

[9] Da uno dei costituti del Ripamonti. _Processo MS_.

[10] Costituto 7 agosto 1618 dell’abbate di San Pietro in Chiaravalle.
_Processo MS_.

[11] Processo.

[12] L’abate di Chiaravalle nel costituto sopra citato.

[13] Processo.

[14] Intorno al Toledo vedasi il capitolo V, lib. I.

[15] Lo desumo da una delle lettere di Federico, che, scrivendo
a monsignor Besozzo a Roma, perchè cercasse un altro vicario da
sostituire all’Arcello, che si era licenziato, dice: _In verità è poca
perdita_.

[16] Lettere autografe del cardinale Federigo, esistenti manoscritte
nell’archivio Borromeo, parte unite al processo del Ripamonti, e parte
in un voluminoso carteggio tra Federico e diversi.

[17] Negli atti del Processo.

[18] Processo.

[19] Vedasi Decade I della _Storia Ecclesiastica_ del Ripamonti, pag.
515, e l’Epistola XXXIX, libro IV; e la IV del libro V di S. Gregorio
Magno, pag. 720 e 730, ediz. Maurina, Parigi 1705.

[20] Processo.

[21] Libro delle Ordinazioni MS. nell’Ambrosiana, pag. 74.

[22] Non trovo in qual anno, ma certamente prima del 1625.

[23] _In ejus aula cum ego viverem_. Ripamonti, introduzione alla
Decade III.

[24] Il Consiglio donò a ciascuno dei 60 Decurioni un esemplare di
quest’opera. Io ne posseggo uno, sul frontispizio del quale è scritto:
_Petrus Paulus Confalonerius I. C. Colegiatus Vicarius Provisionis de
anno 1646 librum hunc a civitate dono habuit._

[25] _Cum publico Decreto medicorum peritissimi frustra adhibiti
essent, etc._ (Legnano, vita citata.)

[26] «A dì 14 agosto morse il M.to Ill. e Magn. Rever. Sig. Ripamonti,
Canonico di Santa Maria della Scala in Milano, il quale essendo infermo
d’infermità d’idropisia, fu consigliato a venirsene fuori per mutar
aria. Al che fece elezione della mia habitazione: dove passò come sopra
dalla presente all’altra vita, che nostro Signore abbi seco in Cielo,
e fu sepolto in questa chiesa nella sepoltura de’ sacerdoti il giorno
dell’Assunta di Nostra Signora».

Dai registri parrocchiali di Rovagnate. Vedi I. Cantù, _Vicende della
Brianza_, 1837, Vol. II, pag. 83.

[27] _Magno cum urbis atque litteratorum mœrore_. Legnano, ivi.

[28] Ghilini Gerolamo. _Teatro d’huomini illustri_, p. 137. Venezia
1647.

[29] Non trovo l’anno della nascita, ma quando fu ammesso nel 1603 nel
collegio medico doveva avere almeno vent’anni.

[30] _G. M. Visconti fu eletto dei 60 Decurioni nel 1606; nel 1627 ebbe
il titolo di marchese, e morì verso il 1638. Girolamo Legnano, entrato
nei 60 Decurioni l’anno 1634, morì il 3 novembre 1650 a Madrid ove
dimorava come oratore di Milano presso il re cattolico._ (CUSANI.)

[31] Il primo capo di ciascun libro non ha l’argomento, essendo una
specie di prologo al libro medesimo. (_Il Trad._)

[32] Il Ripamonti con queste gonfie e oscure frasi intende parlare di
Enrico IV, il quale aveva in animo di ricuperare il ducato di Milano,
quando venne ucciso dall’assassino Ravaillac. Il nostro buon Storico
era o troppo affascinato o troppo cortigiano, per trattare sì male il
grande Enrico.

[33] Il frumento salì fino a lire 100 il moggia; la segale 70, e 60 il
miglio. (_Tadino_, pag. 9. — _Somaglia_, pag. 478.)

[34] Secondo la falsa opinione allora in voga intorno l’origine della
Società.

[35] Pare un controsenso od un bisticcio, ma in fondo l’Autore dice
il vero, perchè in simili calamità, l’uomo, spinto dalla fame, crede
sempre di trovare altrove i soccorsi che gli mancano in paese. I
contadini avevano, ed hanno ancora, idee esagerate dell’agiatezza
cittadinesca; all’opposto, il popolo che vive nelle città, sentendo in
confuso che le granaglie, il vino, le carni, gli oli, ec. vengono dalle
campagne, crede inesauribile la loro abbondanza, nè sa persuadersi,
in tempo di carestia, che si debba ivi morir di farne. Quindi lo
spostamento di popolazione cui accenna l’Autore nel suo gonfio stile, è
naturale.

[36] Sulle prime si distribuì una minestra di riso ai poveri, ad
imitazione di quanto erasi fatto nella peste del 1576. Allora il
governatore d’Hayamonte faceva recare ogni mattina una caldaja di riso
ad ogni capo di strada per tutti i poveri del vicinato; ed alla porta
del suo palazzo faceva distribuire un soldo per ciascun povero.

[37] Allude al padre di Francesco Sforza, villano di Cotignola in
Romagna. Il Lazzaretto, disegno del celebre architetto Bramante
d’Urbino, fu incominciato per ordine di Lodovico il Moro nel 1489; suo
fratello il cardinale Ascanio concorse in gran parte alla spesa. Fu
ridotto a termine soltanto nel 1507 sotto il re di Francia Luigi XII,
allora padrone del Milanese.

[38] Questa è una contraddizione a quanto l’autore disse dell’aere
salubre di Milano nel cap. II. Pur troppo v’erano, e vi sono intorno a
Milano praterie, che rendono greve l’aria.

[39] Tadino dice 288, benchè nella distribuzione ne calcoli 213
solamente, soggiungendo, che a ponente erano inservibili perchè non
finite.

[40] In città furono 3534, e tanti concorsi dal contado e dalle vicine
città, che in breve arrivarono a 9715, pasciuti di pane con entro
riso. Si scoprì che i fornaj lo adulteravano con materie nocive per
guadagnare; l’acqua bevile corrotta, la paglia delle stanze fracida
e non cambiata mai, ed il caldo eccessivo di quell’estate, 1629,
in cui per tre mesi non piovve, svilupparono le febbri contagiose
nel Lazzaretto. Era ivi sì insopportabile il puzzo, che il senatore
Arconato, presidente della Sanità, cadde in deliquio quasi mortale, e
si dovettero sospendere le visite.

Il Somaglia fa ascendere il numero dei poveri ricoverati nel Lazzaretto
ed alla Stella a 14,000.

[41] La colpa era dei Decurioni, i quali non diedero retta ai
conservatori della Sanità, Alessandro Tadino ed il Settala, i quali
protestarono con atto pubblico contro quell’imprudente misura,
predicendo che _la gran moltitudine dei poveri quale causava un
necessario reciproco commercio et alito fetente putrido fra loro
principalmente atteso la mala dispositione dei corpi haverebbe acceso
un contagioso morbo_. Il numero dei morti dal 1.º gennajo a tutto
settembre 1629 fu di 8570 nella sola Milano.

[42] Intorno a questo tumulto, oltre il Tadino, ec., ebbi sott’occhio
un documento autentico: la relazione dell’accaduto in lingua spagnuola,
spedita per ordine del Consiglio al governatore Gonzalvo, sotto Casale:
_Breve y sumaria relacion del subceso en Milan el savado fiesta de S.
Martin, y el domingo a 11 y 12 de noviembre 1628_. Concorda pienamente
col racconto del Ripamonti e ne prova la verità. Mi fu gentilmente
comunicata con altri MS. di molta importanza, di cui mi servirò
nel corso di questo libro, a schiarimento, dall’archivista signor
Civelli, il quale possiede una preziosa raccolta di atti pubblici e di
manoscritti riguardanti le cose patrie.

[43] Il prestino delle Grucce, detto volgarmente di _Scansc_, posto
anche in oggi sulla corsia che dal Duomo mette a porta Orientale, a
mano sinistra sul principio della medesima.

[44] _Io che sono stato presente non ho visto arme che eccedesse il
sasso et qualche spada; per il più tutti (erano) battilana et simile
scroccheria._ Lettera 18 novembre di Agostino Foppa al conte Carlo
Borromeo. (_Tra i MS. Civelli_).

[45] _Alcuni per non aver sacchi persa ogni vergogna et molestia si
ridussero a spogliarsi delli vestiti et questi riempire; et alcune
donne ad alzare le vesti quantunque una sola ne havessero et in quella
riporla._ (Tadino, pag. 7.)

[46] Il Tadino, narrando questa sommossa, parla della resistenza del
fornajo e de’ suoi garzoni, che vieppiù irritò il popolo. — _Li Padroni
et Ministri del quale vedendo non esservi a loro rimedio, ricorsero
anch’essi alla violenza, et saliti nelli luoghi superiori col gettare
anch’essi contra detta Plebe sassi, et pietre irritorno quella in tal
maniera (principalmente per essere morti duoi figliuoli con le percosse
de’ sassi et pietre) che fatta maggiore violenza, entrorno rompendo le
porte, ec._

[47] Il vicario di provvisione di quest’anno 1628, del quale Ripamonti
e Manzoni taciono il nome, era Lodovico Melzi, eletto dei LX Decurioni
fino dal 1618, e che nel 1630 venne creato conte, forse per guiderdone
del pericolo corso nella sommossa.

Gli succedette Alfonso Visconte, uomo integro e caritatevole. (Vedi il
_Somaglia_.)

[48] _La casa del povero Vicario è stata maltrattata, avendoli costoro
non solo fracassato le invetriate sotto la porta et scrostata tutta
la muraglia; ma mostrato risolutione di ammazzare e brucciare: E se un
tantino tardava il soccorso del castello, era fatto il becco all’ocha._
Lettera del Foppa, citata più sopra.

[49] _Furono necessitati gli Spagnuoli con carri attraversare la
strada, et con la moschetteria custodirla._ (Tadino, pag. 7.)

[50] _Fu necessario che il Primicerio, avvisato in Duomo, mentre si
stava dicendo la lezione dopo i vesperi, facesse sospendere al lettore
di proseguire la lettura, e che con parte dei chierici, e con due
crocefissi molto grandi, e con la gente che colà si trovava, andassero
in processione al prestino etc._ Traduzione letterale della _Relacion
etc._ in lingua Spagnuola sopra citata.

[51] _Dalli Monsignori Mazenta, Settala et Bosso de’ principali di quel
capitolo Metropolitano veniva assicurata la Plebe che avriano avuto il
pane in grande abbondanza ed a buon mercato il che giouò assai essendo
personaggi di gran credito et veneratione per le loro qualità presso la
detta Plebe et tutta la città._ (Tadino, pag. 8.)

[52] Codesta tariffa, secondo il Tadino, costò alla città più di
100,000 scudi di perdita.

[53] Il decurione Legnani.

[54] Degli autori della sommossa quattro ne furono appiccati la vigilia
di Natale; due innanzi il prestino, e due a capo della strada ove
abitava il vicario di provvisione.

[55] Il Tadino varia nella data e nel nome dell’individuo. _Entrò nella
città Pietro Antonio Lonato soldato alli 22 ottobre del sodetto anno
1629, habitante in borgo di Porta Orientale, parocchia di S. Babila
nella casa detta dell’orefice... conducendo seco molti vestimenti
comperati, ovvero rubbati alli soldati alemani, et subito gionto
s’infermò, et fu condotto all’Hospitale, il quale essendo soprapreso da
un tumore nel cubito del braccio sinistro con un bubone sotto l’ascella
sinistra, morbo maligno et pestilente, accompagnato da febbre parimente
pestilente, morse nel quarto giorno.... Tutte le sue robbe et letto
insieme furno subbito abbruggiati, che fu causa, mediante l’aggiutto
Divino di preseruarle per all’hora questo Hospitale Venerando; ma non
durò longo tempo questo sospetto perchè manifestamente si palesò con
l’infermità contagiosa, scoperta nella persona del Consegnero di detto
Hospitale et Barbiero con il Rever. P. Terzago, per la longa esperienza
del suddetto, il quale fece grandissima carità nella peste di Palermo
dell’anno 1624, disse il Lonato essere morto di peste et loro medesimi
essersi amalati del medemo male, se bene per gli preseruativi, et
loro robustezza mediante l’aggiutto Divino si fossero mantenuti_
(_guariti_). (Tadino, pag. 51.)

[56] _Carlo Colona Suonatore di Leuto poco prima anch’esso venuto da
Monza, per vedere il passaggio de gli Alemani et forsi che haveva
comprate alcune robbe da questa gente: alli 16 novembre infermò...
morse nella quarta_. (Tadino, pag. 51.)

[57] Ciò accadeva nella primavera del 1630, quando il male cominciava
a serpeggiare nel borgo di Porta Orientale, e si sarebbe forse potuto
circoscrivere con buone provvidenze.

[58] _A questa incredulità s’accompagnavano altri fisici... li quali
per degni rispetti non si nominano. Et in questo sinistro pensiero
cascavano ancora li chirurgi della città Carcano, Monte, Calvo et il
Chiodo, li quali non sapendosi governare mercè dell’ingordo guadagno,
con la loro morte confessorno la verità, atteso che tutti morsero di
peste, etc._ (Tadino, pag. 73.)

[59] _I Conservatori del Tribunale, et in particolare li Fisici come
fu del Tadino, et Settala cominciarono ad essere odiati dalla Plebe
ignorante, mediante la voce d’alcuni Medici puoco ben intenzionati alla
salute publica, li quali per li carobij attestauano non essere contagio
pestilente, ne loro conoscere altra peste che quella dell’aria; et
che questa mortalità copiosa di persone dependeua dalla mala regola
et penuria del viuere questi duoi anni prossimi passati.... Laonde la
plebe insupata ed imbibita da questa illusione, cominciò a sparlare
di questi fisici (che ritenevano vera la peste), li quali quando per
sciagura transitavano i carobij gli trattavano con male, et disoneste
parole; et a tale petulanza arrivò questa plebe, che non vi mancò con
le pietre restassero percossi._ (Tadino, pag. 83.)

[60] Lodovico Settala fu uno de’ più celebri medici dell’età sua,
e benemerito della patria per lo zelo con cui esercitò la medicina,
specialmente duranti le due pesti.

Nato nel 1552, ebbe per madre una Riva, figlia di Gian Francesco,
giureconsulto riputatissimo all’università di Pavia. Ivi fece i primi
studj, continuandoli a Torino ed a Milano nelle scuole Canobiane.
Laureato che fu, entrò nel collegio medico nel 1573, e quasi subito
venne nominato lettore all’Università di Pavia, ma scoppiata la peste
nel 1576, lasciò la cattedra per servire più utilmente il suo paese.
_In quel tempo_ (scrive il Settala nel Trattato della peste) _il Grande
Arcivescovo, che confortava con divina carità i moribondi milanesi,
destando ammirazione universale, mi volle, con indicibile benignità,
compagno all’esimia opera_.

Egli coadjuvò con tanto sapere e premura il Borromeo, che acquistò fama
di dotto e caritatevole medico, non solo in patria, ma in tutta Italia
e fuori. I principi facevano a gara per avere il Settala: nel 1608
il duca di Baviera gli fece offrire la cattedra primaria di filosofia
nell’Università d’Ingolstadt. Il duca di Toscana lo voleva professore a
Pisa. Il Senato di Bologna gli esibì 1200 zecchini di stipendio qualora
si recasse a quella famosa Università. Il Senato di Venezia instava per
fargli accettare una cattedra di medicina a Padova. Ma egli rifiutò
costantemente tali lusinghiere profferte, non volendo abbandonare la
sua Milano. E insistendo il Senato di Venezia perchè indicasse almeno
un uomo degno della cattedra ricusata, egli suggeriva il dottissimo
Santorio, il quale giustificò la sua scelta. Nel 1619 il re di Spagna
nominollo protofisico di tutto lo Stato di Milano, ricompensa meritata
colla sua dottrina e le sue virtù. Allorchè scoppiò la peste del 1630,
il Settala, benchè toccasse ormai l’ottantesimo anno, si adoperò
con gran zelo come capo del magistrato di Sanità per attivare le
più energiche misure onde frenare il contagio. Ma ebbe il dolore di
vedersi non creduto anzi insultato dal popolo, malgrado la venerazione
procacciatagli dal sapere e dai beneficj resi a’ concittadini. Non
s’avvilì perciò, e durante quel contagio, giovò colla sua sperienza,
poichè la vecchiaja non gli consentiva di giovare coll’operosità.
Uscito illeso, il Settala chiuse, il 12 settembre 1633, la sua lunga
e onorata carriera, lasciando nome di valente medico e d’ottimo
cittadino.

Scrisse molte opere, nelle quali traspare ingegno ed erudizione,
ma viziate dagli errori in allora comuni nelle scienze mediche. Il
progresso di queste, e un po’ il riprovevole dispregio di quanto è
antico, le fece cadere oggidì in totale dimenticanza. Se ne può leggere
il catalogo nell’Argelati. _Bibliot. Script. Mediol_.

Lodovico Settala riposa nel tumulo de’ suoi maggiori in San Nazzaro,
dove, quarant’anni dopo la sua morte, i figli gli posero una lapide,
la quale ora trovasi in sacristia, ivi con altre locata nell’anno 1830
quando ristaurossi quella basilica. Vi si legge una gonfia iscrizione,
piena di bisticci, secondo il pessimo gusto del seicento, la quale,
tradotta in italiano, suona così:

                                D. O. M.

                           A LODOVICO SETTALA
            PER SPLENDORI DI NOBILTÀ E DOTTRINA CHIARISSIMO
                   ARCHIATRO DI FILIPPO RE DI SPAGNA
                    CITTADINO E SALVATORE DI MILANO
                 CHE VINSE LA MORTE QUANTE VOLTE VOLLE
                E LA VINSE QUANTE VOLTE APPRESTO’ RIMEDJ
                    PUGNANTE COI MORBI E COLLA MORTE
                         COLLE SUE LUCUBRAZIONI
                       ANCHE DOPO LA DOMATA PESTE
                     PADRE AMANTISSIMO E DOTTISSIMO
                    I FIGLI CARLO VESCOVO DI CORTONA
                                   E
            ANTONIO INSIGNITO PIU’ VOLTE D’ONORI MUNICIPALI
                       OFFRONO TRIBUTO DI LAGRIME
                MANFREDO POI CANONICO DI QUESTA BASILICA
                  NEL DOMICILIO DELLA SUA IMMORTALITÀ
                         UN MONUMENTO IMMORTALE
                                  POSE
                         AI PRIMI IDI D’AGOSTO
                      L’ANNO INTERCALARE MDCLXXII

[61] Il primo nel 1629, il secondo nel 1630.

[62] Tadino espone minutamente le prescrizioni pei malati che
rimanevano in casa. Il Commissario doveva suggellare tutte le porte,
meno una, collocandovi guardie, profumare stanze e robe, visitare
in persona le case in sequestro, almeno una volta il giorno, e farne
esatta relazione alla Sanità. I provvedimenti erano buoni; ma tra per
la cupidigia degli uffiziali subalterni, tra per l’infierire della
peste, vennero mal eseguiti. (Vedi _Tadino, pag._ 76.)

[63] Fino dal febbrajo 1630 i Medici Conservatori avevano suggerito
di preparare fopponi _longhi profondi, e non troppo larghi, tanto che
si puotesse stare quattro cadaveri per traverso._ E questi fuori di
ciascuna porta; ma tale prudente misura non venne adottata che nel
maggio, quando crebbe il numero dei morti. Il Tribunale di Sanità,
conoscendo l’importanza somma d’una pronta e diligente tumulazione,
invigilava perchè fossero eseguiti i suoi ordini; pure, in onta alle
pene severissime non riusciva a farli ubbidire. Il caso seguente,
narrato dal Tadino, prova ad evidenza la verità dell’esposto. Morì
nell’aprile un Brasca d’anni 15, figlio d’un macellajo in Porta
Orientale, _et fu sepolto sopra il Cimiterio di S. Babila et perchè
s’era sparsa voce, che il caso fosse dubbioso, uno de’ sotterratori
per interesse de’ vestiti dopo duoi giorni di sepoltura, hebbe ardire
di leuare la cassa dalla fossa profonda, et aperta spogliarlo; et
accortosi l’altro compagno, dicesi, che lo riprendesse dell’errore
commesso contra gli ordini del Tribunale per le pene gravi intimate;
ma non palesandolo anzi per quello s’intese escusandolo fu messo in
prigione, et giustificata la verità del fatto, fu appicato d’ordine
del Tribunale per mezzo al sudetto Cimiterio, ad esempio degl’altri, et
bandito il principale_. (Tadino, pag. 92).

[64] Il Vicario di Provisione nel 1630 era Francesco Landriani.

[65] Questa processione ebbe luogo l’undici giugno: durò dalle ore 7
alle 19 italiane. (_Pio della Croce_.)

[66] La vera ed evidente causa fu il contatto di tante migliaja di
persone sempre fatale nei contagi, e specialmente colla caldura allora
dominante; ma l’ignoranza dei tempi non l’ammetteva. Il Tribunale di
Sanità comprese il pericolo; ma non aveva forza di opporsi al voto di
tutta una popolazione. Adottò quindi, come accade in simili casi, un
mezzo termine, cioè di escludere da Milano in quel giorno i sospetti;
inutile misura dacchè la peste era già penetrata in città.

_Il Tribunale di Sanità fece promulgare rigorose grida con pena della
confisca de’ beni e della vita stessa che niuna persona delle terre
infette o in cui fosse avvenuto qualche caso pestilente, ardisse, sotto
qualsiasi pretesto, intervenire alla detta processione. Furono chiuse
le porte della città e inchiodate le porte delle case infette; pure si
sviluppò il contagio_. Così il Somaglia, il quale lo attribuisce agli
Untori.

[67] Esagerazione rettorica, poichè in detto giorno le case sequestrate
erano già 500, ai primi di luglio crebbero a’ 2000. Prima della
processione la mortalità giornaliera arrivò a’ 130, dopo _caddero
talmente li ammorbati_, dice il Somaglia, _che in brevissimo tempo
si condussero più di dodici mille persone al Lazzaretto, sendosi
tant’oltre con progressi così orrendi avanzata la peste, che obbligò
quasi tutte le famiglie de’ ricchi, nobili, mercanti o chi poteva aver
ricetto nelle ville, a colà fuggirsene._ (Somaglia, pag. 484).

[68] Somaglia dice 1700 al giorno durante il luglio e l’agosto.

[69] Cioè da μονος _solo_, o da μονακὸς _solitario_. Il Bugato invece
lo deriva dal latino monere, avvisare, perchè col tintinnio delle
campanelle attaccate ai piedi avvisavano la gente di scostarsi. Ambedue
le etimologie sono stiracchiate, ma non si saprebbe indicare donde
venga precisamente questo vocabolo.

_I Monatti erano distribuiti nelle seguenti stazioni:_

_Al Guasto in Porta Comasina._

_All’osteria di Sant’Antonio in Porta Vercellina andando alle Grazie._

_All’osteria del Pavoncino in Porta Romana._

_In tutto il Borghetto di Porta Orientale vicino al Dazio._

_Gli carri, che di continuo dallo spuntare al tramontare del sole
s’adoperavano per la condotta dei morti o delle persone o robbe
infette, erano circa cinquanta_. (Somaglia, Alleggiamento.)

_Ad ogni carro servivano due Monatti ed un cavallo._ (Lampugnani, pag.
35.)

[70] _Indegna cosa parimenti fu l’aversi alcuni mal consigliati
giovani, poste le campanelle a piedi, per essere anch’essi creduti
Monatti. Colla quale inventione usurpavansi licenza di andar tra sani
per le case altrui, fingendo cercare se vi fussero infermi o morti.
Dal che ne avenivano robbarie e scandali notabilissimi_. (Somaglia,
Alleggiamento, pag. 500.)

[71] Non meno viva è la pittura che il Della Croce fa della condizione
di Milano. _Spettacolo orribile a vedere era allora la già tanto
gloriosa, ma in detti tempi misera città di Milano. Stavano desolate
le case, le famiglie estinte, chiuse le botteghe, cessati i traffichi,
serrati i tribunali, abbandonate le chiese, le contrade solitarie. Ed
ormai più non si vedevano per le strade che quei ministri funebri, che
dalle case ai lazzaretti conducevano gli infelici appestati. Stridevano
mai sempre per le strade i carrettoni dei morti, tanto più orrendi alla
vista quanto che i cadaveri confusamente caricativi sopra, davano di
loro stessi vista più spaventosa. Uscivano dal Lazzaretto cantando li
condottieri Monatti, già fatti duri in cuore in quell’orribile ufficio,
con piumacci e galle su le berrette, e quasi che a parte fossero del
trofeo di Morte, entravano audaci tanto nelle case infette, che più
pareva volessero darle nemico sacco che amichevole ajuto.

Pigliavano que’ Monatti per il capo, per le gambe, come loro meglio
comodo veniva, gli appestati caduti sul dorso, e dalle spalle gli
venivano poi a scaricare sul carro come sacco di grano, nulla curandosi
che indecentemente giù dai lati pendessero e gambe e braccia e teste. E
malamente copertegli le nudità con uno straccio di tela, se ne andavano
a scaricarli al foppone, celebrandogli intanto il funerale le flebili
grida dei famigliari che si vedevano tanto malamente trattare gli amati
cadaveri de’ suoi più cari e congiunti. Non udendosi altro suono di
campane che il doloroso, che andavano facendo le campanelle che li
stessi Monatti e cavalli de’ carrettoni portavano legate al collo ed
alle gambe per avviso di quelli che loro venivano incontrati.

Non men doloroso era anche la vista dei poveri infetti, cui non era
permesso_ spirar l’anima sotto il paterno tetto fra i lor cari. _Altri
venivano sopra carri e talvolta forzatamente legati, empiendo l’aria
di lamentevoli strida, altri sopra sedie portati, altri a piedi a
bastoncelli appoggiati, andavano gemendo ad incontrare, prima che
medico e medicina, la morte e la fossa_. (Pio della Croce, pag. 58 e
seg.)

[72] _La quale assurda opinione fu comune a tutti gli scrittori del
tempo. Io sono di parere che li capi malfattori ed autori di tanta
inumanità avessero anche patto col demonio, e che perciò, volendo
eglino palesar il fatto, venissero da quello soffocati, perchè io ne ho
visto alcuni, li quali imputati di tal scelleraggine, temendo il dovuto
gastigo, arrabbiati se gli crepò il ventre in due parti_. (Somaglia.)

Il Croce. _Sino all’ultimo pertinacemente affermarono d’esser
innocenti, sopportando del rimanente quella morte con assai buona
disposizione, dal che si argomenta la diabolica fattura di questo
fatto_. (Pag. 49.) Ed altrove aggiunge: _che la diabolica fattura era
tale che chi preso ne veniva con darle il primo consenso, sentiva tal
gusto e diletto nell’andar untando che umano piacere, sia qualsivoglia,
non è possibile se gli agguagli_. (Pag. 52.)

Il Tadino. _In questo tempo non fu medico alcuno, ne persona
inteligente che hauesse sentimento diverso di queste untioni pestilenti
che non fossero con arte diabolica fabricate._ (Pag. 117, e negli altri
passi dove favella degli Untori.)

La quale credenza delle unzioni, diffusa, come è detto sopra,
nell’aprile, andò crescendo ne’ mesi successivi. Si poneva in opera
ogni mezzo per iscoprirne i supposti autori, e le gride succedevansi
sempre più minaccevoli.

Cito i passi più importanti delle Gride medesime.

_Avendo alcuni temerarj e scellerati avuto ardire di andare ungendo
molte porte delle case, diversi catenacci di esse e gran parte dei
muri di quasi tutte le case di questa città, con unzioni parte bianche
e parte gialle, il che ha causato negli animi di questo popolo di
Milano grandissimo terrore e spavento, dubitandosi che tali untuosità
siano state fatte per aumentare la peste che va serpendo in tante
parti di questo stato, dal che potendone seguire molti mali effetti ed
inconvenienti pregiudiciali alla pubblica salute, ai quali dovendo gli
signori Presidenti e Conservatori della sanità dello stato di Milano
per debito del loro carico provedere, hanno risoluto per beneficio
publico e per quiete e consolazione degli abitanti di questa città,
oltre tante diligenze sin qui d’ordine loro usate per metter in chiaro
i delinquenti, far pubblicare la presente grida._

_Con la quale promettono a ciascuna persona di qualsivoglia grado,
stato e condizione si sia, che nel termine di giorni 30 prossimi
a venire dopo la pubblicazione della presente metterà in chiaro la
persona o le persone che hanno commesso, favorito, ajutato o dato il
mandato, o recettato, o avuto parte o scienza ancorchè minima in cotal
delitto, scudi 200 de’ danari delle condanne di questo Tribunale: e se
il notificante sarà uno de’ complici, purchè non sia il principale, se
gli promette l’impunità, e parimente guadagnerà il suddetto premio._

_Ed a questo effetto si deputano per giudici il signor Capitano di
Giustizia, il signor Podestà di questa città ed il signor Auditore
di questo tribunale a’ quali o ad uno di essi avranno da ricorrere i
propalatori di tal delitto, quali volendo saranno anco tenuti segreti._

_Dato in Milano li 19 Maggio 1630._

  M. ANTONIO MONTI, _Presidente_.

               GIACOMO ANTONIO TAGLIABUE, _Cancelliere_.

                   *       *       *       *       *

_Essendo pervenuto alle orrecchie dell’Ill.mo ed Ecc.mo Marchese
Spinola etc., il disordine et temerità seguita in questa città di
Milano et in quella di Cremona et Lodi dove sono stati unti quasi tutti
li muri delle case, molte porte, e cadenazzi di esse con untioni di
colore parte bianco, e parte giallo et il travaglio d’animo e spavento
che questa mala atione ha cagionato al popolo per il timore conseguito
che sia stata fatta per aumentare la peste, conferma la grida di Sanità
19 maggio, e promette altri 200 scudi, e liberazione di due banditi per
casi gravi a chi soministra indizj ed impunità anche al complice purchè
non sia il principale._

                                                         (13 Giugno.)

                   *       *       *       *       *

_In molte parti dello Stato et in particolare delle città di Milano,
Pavia e Cremona, et altri molti luoghi hanno con unti velenosi untate
le porte, etc. con animo diabolico di dilatare la peste._

_Promette l’impunità dei complici del detto delitto mentre non siano
dei principali.... et il premio di scudi mille et la liberazione di tre
banditi._

                                                         (14 Luglio.)

                   *       *       *       *       *

_La continuazione del velenoso male causato dalle untuosità
pestilenziali che senza alcun timore delle minacciate pene si vanno
tuttavia spargendo in questa città con tanta mortalità de’ cittadini,
inducono S. E. a bandire nel termine di due giorni tutti i forastieri
di qualsivoglia nazione, stato, grado, qualità, condizione, pena la
vita et confiscazione dei beni. Mille scudi, e cinque anni di galera
agli osti e tavernieri che non li denunziassero._

                                                         (30 Luglio.)

[73] La gente camminava con pistole in mano: i nobili senza mantello, e
con sportule per provigioni. (_Pio della Croce_.)

[74] Il Processo degli Untori, di cui s’è tanto parlato in quest’ultimi
anni, esiste per intero nell’Archivio Criminale, o, per dir meglio,
esisteva, giacchè andò in gran parte smarrito anni sono in un
riordinamento di vecchie carte. La parte di esso che riguarda il
Mora e gli altri condannati, si stampò nel 1630, perchè servisse a
continuare il Processo medesimo coll’accusato Padilla. Pietro Verri
fu il primo a spargere luce su questa miseranda storia degli Untori,
scrivendo nel 1777 le sue OSSERVAZIONI SULLA TORTURA, E SINGOLARMENTE
SUGLI EFFETTI CHE PRODUSSE ALL’OCCASIONE DELLE UNZIONI MALEFICHE, ALLE
QUALI SI ATTRIBUÌ LA PESTILENZA CHE DEVASTÒ MILANO L’ANNO 1630. Fino
dal 1761, Verri aveva abbozzate alcune idee sulla tortura, e nel _Mal
di Milza_, celebre almanacco che, unitamente al _Zoroastro_, pubblicò
per filosofica celia in quell’anno, così esprimevasi, facendo, sotto
forma d’indovinello, parlare la Tortura. «Io sono una regina, ed abito
fra gli sgherri; purgo chi è macchiato, e macchio chi non è macchiato;
son creduta necessaria per conoscere la verità, e non si crede a quello
che si dice per opera mia. I robusti trovano in me salute, e i deboli
trovano in me la rovina. Le nazioni colte non si sono servite di me,
il mio imperio è nato nei tempi delle tenebre; il mio dominio non è
fondato sulle leggi, ma sulle opinioni di alcuni privati». Undici anni
dopo, cioè nel 1777, egli riassunse le proprie idee su quell’orribile
abuso, e le ordinò nelle sue _Osservazioni_. Non vi sia discaro, o
lettori, udire il giudizio che ne dà il benemerito Pietro Custodi nelle
_Notizie del Verri_ premesse al volume XV, _Economisti Italiani_, Parte
moderna.

«Per rendere più efficace la forza dei ragionamenti, scelse un
famoso esempio di un delitto impossibile confessato per l’eccesso de’
tormenti, cioè il fatto delle unzioni venefiche cui si attribuì la
pestilenza che desolò Milano nel 1630. L’ordine, la chiarezza, la forza
de’ raziocinj e l’insinuantesi fluidità del suo stile trovansi nelle
_Osservazioni sulla Tortura_ in grado eminente. Non temo d’incontrar
taccia di esagerato, se dico che quest’Opera mostra più che ogni altra
qual grand’uomo era il Verri. Egli ebbe il talento di rendere una
lettura interessante dei pezzi di processo scritti col barbaro frasario
de’ tribunali, ancor più barbaro a que’ tempi; d’insinuare l’austerità
de’ ragionamenti per la via sempre facile e lusinghiera della
sensibilità; e di trasfondere ne’ suoi lettori, colla commozione della
sua anima, la sua stessa persuasione. Ma, per mala sorte, suo padre (il
conte Gabriele), era presidente di quel collegio di supremi giudici,
che centoquarantasette anni prima avea dato un sì atroce esempio
d’ignoranza e di crudeltà nel legale assassinio di tanti innocenti.
Si credette che l’estimazione del Senato potesse restar macchiata per
la propalazione dell’antica infamia. Questo riflesso prevalse; Verri,
per rispetto del padre, rinunciò all’idea di dare alle stampe le sue
_Osservazioni_, così il pubblico rimase defraudato di un’opera che
certamente su tutte le altre di eguale argomento avrebbe riportato la
palma.

Queste _Osservazioni_, unitamente alle _Memorie storiche sulla Economia
pubblica dello Stato di Milano_, scritte nel 1768, furono pubblicate
dal Custodi l’anno 1804, e formano il volume XVII, Parte moderna degli
_Scrittori Classici Italiani di Economia politica_. «Il manoscritto
originale, dic’egli, di questa importantissima Opera, già disposto
dall’autore per la stampa, mi venne cortesemente comunicato dalla
stimabile di lui vedova. Io ho creduto di aggiungervi, quasi in forma
di una lunga nota, le _Osservazioni sulla Tortura_, per soddisfare
alla curiosità di molti che bramavano di vederle pubblicate, e perchè
altronde l’esempio del fatto atroce che ne forma il principal soggetto,
può servire di più ampia dimostrazione della barbarie dei tempi». (pag.
53, Volume XV, Parte moderna).

Cesare Cantù, ne’ suoi _Ragionamenti intorno alla Storia Lombarda del
secolo XVII_, pubblicati in via di commento ai _Promessi Sposi_ nei
Volumi 11, 12 dell’_Indicatore_ 1832, tolse dal Verri, e riprodusse
tutto ciò che avvi di più importante nei due opuscoli citati, circa
la condizione politico-economica di Milano a quell’epoca, e circa il
_Processo degli Untori_.

Nel 1839 si sparse la voce in Milano che pubblicavasi un lavoro sulla
_Colonna Infame_, e molte ciarle se ne fecero, nell’idea che fosse lo
scritto tanto desiderato di Manzoni, o se d’altri lavoro originale.
Ma al comparire del volume fu delusa l’aspettativa del pubblico, non
essendo che una semplice ristampa della _Parte Offensiva del Processo_
data in luce, come accennai più sopra, nel 1630, aggiuntovi, per
informativa e per conclusione del fatto, due brani dei _Ragionamenti_
di Cesare Cantù. Il libro non poteva gradire alla comune dei lettori,
perchè nulla più nojoso d’un processo in istile barbaro e prolisso;
quindi giace dimenticato: però è un documento storico non senza
importanza pei Milanesi. Sceglierò alcune note ad illustrazione
del Ripamonti, tanto dal _Verri_ che dal _Processo_, citando di
quest’ultimo l’edizione del 1839.

[75] Figlio di Domenico e di Paola, levatrice, _habito in porta
Ticinese nella Parochia di S. Pietro in Caminadella cioè al Torchio
dell’Oglio: alli 26 di Maggio cominciai a far il Commissario sopra la
Sanità per far sequestrare sù gli infetti, farli condur via, et anche
far condur via li morti di peste con li carri, commandando alli monati,
et questo ufficio lo faccio per porta Ticinese; ma prima di far il
Commissario attendevo a scartezar filisello_. (Processo, pag. 37.)

[76] Vedi nel Processo i lunghi costituti dei testimonj, i quali
concordemente deposero che circa le due ore della mattina avevano
veduto passare dalla Vedra dei Cittadini il Piazza, imbacuccato,
tenendosi rasente i muri, e con in mano una carta fregare qua e là le
pareti delle case e le porte, che si scoprirono _imbrattate d’un certo
onto che pareva grasso tirante al giallo... una cosa gialla che pareva
che in duoi luoghi vi fosse stata buttata su con un deto_. (Processo,
pag. 30 e seg.)

[77] Di questa crudelissima esacerbazione non trovasi cenno nel
Processo; forse è amplificazione rettorica del Ripamonti.

[78] L’infelice protestò nei primi esami la sua innocenza; ma lo
spavento di venir sottoposto ogni giorno agli spasimi della tortura,
e l’impunità promessa qualora palesasse il delitto ed i complici, lo
spinsero, per amore della vita, alle più strane ed assurde confessioni.

«Il Piazza dunque chiese ed ebbe l’impunità, a condizione però che
esponesse sinceramente il fatto. Ecco perciò che al terzo esame egli
comparve, e accusandosi senza veruna tortura o minaccia d’aver unto le
muraglie, pieno di attenzione per compiacere i suoi giudici, cominciò
a dire che l’unguento gli era stato dato dal barbiere che abitava
sull’angolo della Vedra; che questo unguento era giallo, e gliene diede
da tre once circa. Interrogato se col barbiere egli avesse amicizia,
rispose: _è amico, signor sì, buon dì, buon anno, è amico, signor
sì_. Quasi che le confidenze di un misfatto così enorme si facessero
a persone appena conoscenti, _amico di buon dì, buon anno_. Come poi
seguì così orribile concerto? Eccone le precise parole. Il barbiere di
primo slancio disse al Piazza, che passava avanti la bottega: _vi ho
poi da dare non so che; io gli dissi, che cosa era? ed egli rispose:
è un non so che unto; ed io dissi: verrò poi a torlo; e così da lì a
tre dì me lo diede poi_. Questo è il principio del romanzo. Va avanti.
Dice il Piazza, che allora che gli fece tal proposizione vi erano
_tre o quattro persone, ma io adesso non ho memoria chi fossero, però
m’informerò da uno che era in mia compagnia, chiamato Matteo che fa
il fruttaruolo e che vende gambari in Carrobio, quale io manderò a
dimandare, che lui mi saprà dire chi erano quelli che erano con detto
barbiere_. Chi mai crederà, che in tal guisa alla presenza di quattro
testimonj si formino così atroci congiure! Eppure allora si credette:
I. Che la peste, che si sapeva venuta dalla Valtellina, fosse opera
di veleni fabbricati in Milano. II. Che si possano fabbricar veleni,
che dopo essere stati all’aria aperta, al solo contatto diano la
morte. III. Che se tai veleni si dessero, possa un uomo impunemente
maneggiarli. IV. Che si possa nel cuore umano formare il desiderio di
uccidere gli uomini così a caso. V. Che un uomo, quando fosse colpevole
di tal chimera, resterebbe spensierato dopo la vociferazione di due
giorni, e si lascerebbe far prigione. VI. Che il compositore di tal
supposto veleno, in vece di sporcarne da sè le muraglie, cercasse
superfluamente de’ complici. VII. Che per trascegliere un complice di
tale abbominazione, gettasse l’occhio sopra un uomo appena conosciuto.
VIII. Che questa confidenza si facesse alla presenza di quattro
testimonj, e il Piazza ne assumesse l’incarico senza conoscerli, e
colla vaga speranza di ottenere un regalo promessogli da un povero
barbiere! Tutte queste otto proposizioni si pongano da una parte
della bilancia. Dall’altra parte si ponga un timore vivissimo dello
strazio e de’ spasimi sofferti, che costringe un innocente a mentire,
indi la ragione pesi e decida qual delle due parti contiene più
inverosimiglianza». (_Verri, Osservazioni, pag_. 215.)

[79] _Gio. Giacomo Mora era huomo di statura mezzana, grosso, faccia
più tosto tonda che altrimenti, con carne bianca e rossa, con poca
barba castana chiara, et era di trent’otto anni in circa_. (Processo,
pag. 374.)

Aveva in moglie Chiara Brivio, un figlio di nome Paolo Gerolamo,
arrestato con lui, e quattro figlie, Anna, di 14 anni; Clara Valeria,
di 12; Teresa, di 7, ed un’altra Teresa, di 6, onde è verosimile che
fosse morta la precedente. (_Dai libri parrocchiali di S. Lorenzo,
citati dal Verri_.)

[80] Gli si trovò fra gli altri: _Un vaso con Ellettuario, con boletino
che dice_ contra pestem, fatto a 21 _Giugno, et è circa quattro
deta. — Se per sorte mi sono venuti in casa perchè io abbi fatto
quest’Ellettuario, et che non s’abbi potuto fare, io non so che farli,
l’ho fatto a fin di bene, et per salute de poveri, come si trovarà,
perchè ne ho dato via per l’amor di Dio_. (Processo, pag. 51.)

Questo unguento preservativo della peste era composto, secondo la
deposizione del Mora, di olio d’ulivo, olio filosoforum, laurino e
di sasso; di polvere di rosmarino, salvia e ginepro, e d’aceto forte.
_E con questo s’onge li polsi, sotto l’asselle, la sôla de’ piedi, il
collo della mano, nelli genochij_. (Ivi, pag. 75.)

[81] Il Tribunale chiamò Margarita Arpizarelli e Giacomina Andrioni,
lavandaje, perchè esaminassero il liscio. Le loro risposte furono
tanto stolide quanto potevasi aspettare da donne del volgo ignoranti e
superstiziose.

_Questo smoglio non è puro, ma vi è dentro delle forfanterie, perchè
il smoglio puro non hà tanto fondo, nè di questo colore, et non è
tachente_ (viscido) _come questo. — Sà V. S. che con il smoglio guasto
si fanno delli più eccellenti veleni che si possono imaginare. E
l’altra. Quanto più si ruga in detto smoglio, si vede che viene più
negro, et più infame, et con il smoglio marzo cattivo si fanno grandi
porcherie, et tossici._ (Processo, pag. 59-60.)

Assurdità che non meritano la pena di una confutazione.

[82] Girolamo Migliavacca, arrotino, fu giustiziato il 7 settembre.

Pietro Girolamo Bertone, oste della Rosa, fu arrotato e scannato il 23
dicembre insieme con Gaspare figlio del Migliavacca ed altri.

Gio. Stefano Baruello, oste di San Paolo, e cognato del Bertone, si
costituì volontario in prigione il 1.º luglio; l’undici ottobre gli
venne intimata la sentenza di morte; promettendogli però l’impunità
ove manifestasse gli untori e complici degli unti. Accettò, e in una
deposizione, che è un assurdo romanzo, accusò come capo degli Untori il
Padilla.

Baruello morì di peste in prigione il 18 settembre.

[83] Figlio del castellano di Milano. Dopo lunga procedura uscì
innocente nel 1632.

[84] Il Baruello, nella sua pazza deposizione, eccitato a dire la
verità, contorcendosi e battendo i denti, gridò: _Ù ù ù, se non lo
posso dire: — V. S. m’agiutti, ah Dio mio! ah Dio mio! — È là quel
prete francese con la spada in mano, che mi minaccia, — vedetelo là,
vedetelo là sopra quella finestra_. I Giudici ritenendolo ossesso,
fecero chiamare un sacerdote, il quale usò varj esorcismi, e benedì
la finestra accennata dal Baruello, che intanto strillava, gridando
_scongiurate quello Gola Gibla_. Alla fine eccitato più volte a
parlare, egli proruppe in queste parole:

«Signore quel prete era un Francese, il quale mi prese per una mano,
e levando una bachetina nera lunga circa un palmo, che teneva sotto la
veste, con essa fece un circolo, e poi mise mano ad uno libro largo in
foglio, come di carta picciola da scrivere, ma era grosso trè deta,
e l’aperse, et io viddi sopra li foglij delli circoli, e lettere à
torno, à torno, e mi disse, che era la clavicola di Salomone, e disse,
che dovessi dire, come dissi queste parole Gola Gibla, e poi disse
altre parole hebraiche, aggiongendo, che non dovessi uscir fuori del
chierchio, perche mi sarebbe succeduto male, et in quel ponto comparve
nell’istesso circolo uno vestito di Pantalone, et all’hora il detto
Prete tenendo il quadretto dell’onto nelle mani disse, Attaccatevi à
me, ne habbiate paura, e poi voltatosi verso di me, disse, Riconoscete
voi questo quà per vostro Signore, facendomi cenno, che dicesi de sì,
et io all’hora risposi: Signor sì, che lo riconosco per mio Signore,
e lui, cioè detto Prete andava dicendo, _nec propter te, nec propter
alios,_ mirando all’ampolino dell’onto, che haveva nelle mani, oltre
molte altre parole de quali non mi raccordo, e mentre ero in detto
circolo io non vedevo alcuno fuori, che il detto Prete, e detto
Pantalone: partì poi detto Pantalone, sentito che hebbe ch’io lo
riconoscevo per mio Signore, et uscito fuori del circolo, viddi..... il
Signor Don Gioanni il quale mi disse avete visto colui? denari non ve
ne lascerà mancare; et io dimandandoli chi era detto Sig. Don Gioanni,
rispose che era il diavolo: all’hora detto Prete li restituì detto
ampolino, et il Sig. Don Gioanni lo diede à me dicendo: Horsù vi hò
conosciuto per galant’homo mi voglio affidar di voi, pigliate questo
vaso, che è di quelli onti, che hoggi dì vanno per Milano, e perche non
è perfetto, trovate ghezzi, e zatti, come hò già detto di sopra, poi mi
soggionse: Non vi dubitate, che se la cosa va à luce, io sarò padrone
di Milano, e voi vi voglio fare delli primi di Milano». (_Processo,
pag_. 227.)

E seguitò la sua filastrocca, accusando molte persone, e
particolarmente un Carlo Vedano maestro di scherma. Baruello era
un furfante matricolato, che fingendosi invaso dal diavolo, sperava
a forza d’invenzioni e bugie, scampare la vita, godendo l’impunità
promessa; ma egli non fece che compromettere nuovi innocenti, e chi sa
quante altre vittime avrebbe sagrificate se in pochi giorni non fosse
morto, come notai, di peste.

[85] Il Mora e il Piazza subirono la morte il 2 agosto con tutte le
barbare esacerbazioni portate dalla sentenza 27 luglio del seguente
tenore.

«Riferito in Senato dal Magnifico Senatore Monti, presidente
dell’Uffizio di Sanità, il processo istrutto contro G. Piazza e G.
G. Mora, che con pestifero unguento unsero la Città, e udito esso
magnifico presidente, e raccolti i voti di tutti i Senatori, venne
nella determinazione che i predetti Mora e Piazza, intimata ad essi
la morte, vengano tormentati colla corda ad arbitrio d’esso magnifico
Presidente, intorno agli altri punti e ai complici; e che avuti per
ripetuti e confrontati, sopra un carro sieno condotti al solito luogo
del supplizio, e per via sieno morsi con tenaglie infocate nei luoghi
dove peccarono; ad entrambi si tagli la destra davanti alla barbieria
del Mora, e spezzate le ossa secondo il costume, e la ruota si levi in
alto e si intreccino vivi in quella, e dopo 6 ore sieno strozzati, e
subito i loro cadaveri sieno bruciati, e le ceneri gettate nel fiume, e
la casa del Mora si distrugga, e al posto suo s’alzi una colonna che si
chiami _infame_ con un’iscrizione del fatto, e a nessun più in perpetuo
sia concesso rifabbricarla. Ai creditori particolari si soddisfaccia
coi beni dei condannati se ne avranno, se no del pubblico; i beni del
Mora e del Piazza si confischino. Nel condurli al patibolo si tenga
questa forma. Precedano due trombetti che annunzino al popolo la causa
della condanna e del supplizio. Siavi bastante scorta, chè non avvenga
tumulto nel popolo, e perciò si chiudano le case dei sospetti; e si
proclami che ciascuno stia in casa, e si guardi. Il luogo dove avrassi
a far la giustizia cingasi di steccati di legno, i quali affinchè non
possan essere infetti con quell’unguento pestifero, custodiscansi da
uomini a ciò; e a quel luogo facciasi un coperchio, acciocchè i frati
possano con minor incomodo assistere ai condannati, e di tutto diasi
avviso al vicario di Giustizia. Ottaviano Perlasca sottoscrisse e
sigillò ecc.».

                   *       *       *       *       *

Chiuderò questo capitolo con un documento importantissimo, perchè prova
ad evidenza l’intima persuasione, e in uno lo spavento che i magistrati
avevano degli unti. Si noti che il fulminante decreto uscì cinque
giorni dopo il supplizio del Mora.

_Philippus IV Dei gratia Hispaniarum ecc. Rex, et Mediol. Dux ecc._

_Havendo prodotto questo infelice secolo huomini per non dir mostri,
usciti dalle più horride parti dell’Inferno, quali già divenuti così
scelerati et crudeli, che con fini barbari ed infami eccedendo nella
lor ferità tutti i termini dell’humana crudeltà, hanno havuto ardire
di cospirare nella morte ed eccidio de’ Popoli e Città di questo
stato, co ’l fabricare veneni pestiferi e dispergerli per le case,
per le strade, per le piazze e sopra gli huomini stessi, uccidendo in
questo modo infinito numero de’ cittadini e famiglie senza distintione
di età, di sesso e di stato; nè contenti di questo sono arriuati
a segno tale d’empietà verso Dio, che fatti sacrileghi, gli hanno
ancora disseminati sopra persone sacre, ed introdotto ne’ Chiostri
d’huomini Religiosi, e Vergini sacre ed innocenti, ed ancora nei Sacri
Tempij, imbrattando con essi le Sante Immagini ed i Sacrosanti Altari,
acciocchè niun luogo restasse in tutto della loro empietà sicuro a’
miseri, che per la salute propria e comune ai Santi intercessori ed
allo stesso Dio ricorressero. E quello che più accresce l’horrore è,
che molti di questi tali scellerati, mossi da una infame ed essecranda
avaritia, diuenuti parricidi siano arriuati a stato tale d’empietà,
di tradir per danari la propria Patria, e quei Cittadini, coi quali
s’erano nodriti ed alleuati, col fabricare e disseminare in essa questi
pestiferi veleni, rompendo con più non udita inhumanità quei legami
sacrosanti d’amore, coi quali dalla natura, da Dio stesso, e dalla
continua consuetudine i cuori humani si sogliono insieme stringere
ed alligare. Per rimediare ad un delitto tanto grande, e sradicare
dal mondo huomini tanto empj ed inhumani, oltre il premio proposto a
chi metterà in chiaro il detto delitto dal Tribunale della Sanità di
scudi 200 e l’impunità ad uno dei complici con grida del 19 maggio
p. p., fù d’ordine di S. E. publicata altra grida sotto il 23 giugno
susseguente, con premio di altri scuti 200 da pagarsi dalla R. Camera,
e d’altri scuti 500 offerti dalla città di Milano, e della liberazione
di due banditi di casi graui, con l’impunità ad uno dei complici, a chi
mettesse in chiaro il detto delitto. E communicato poi il negotio col
Senato, il quale stimò questo delitto in questa parte andar di paro con
quello di Lesa Maestà, anzi esser con esso inseparabilmente congiunto,
fu comminato con publico Editto del dì 11 Luglio a quelli che sapessero
quali fussero i rei di un tanto delitto, e non lo rivelassero, la pena
della vita, e confiscatione de’ beni che dalle leggi era prescritta a
quelli che non scoprissero i rei di Lesa Maestà. Ed ultimamente con
altra grida delli 13 luglio fatta co ’l parere del medesimo Senato:
per dar maggior animo a quelli che havessero voluto metter in chiaro
questo fatto, si propose nuovo premio dell’impunità a trè complici e di
mille scuti, e la liberatione di trè banditi di casi riseruati, purchè
hauessero le opportune remissioni. Ed il Senato, essendo venuto sotto
il suo giudizio due di questi traditori della patria, con la sentenza
del 27 luglio, hà posto mano a quella maggior severità delle leggi,
che fosse conforme, non all’enormità del delitto, poichè a quella
è impossibile arrivare, ma all’habilità della natura humana ed alla
Christiana pietà._

_Ma perchè non conuiene tralasciar alcun rimedio per sradicare dal
mondo sceleratezza tanto empia, e fiere tanto crudeli, ha risoluto
l’Ill. ed Ecc. signor Ambrosio Spinola ecc., co ’l parere anche del
Senato, di far pubblicare la presente grida._

_Con la quale inherendo alle sudette, le quali vuole che restino nel
suo vigore e forza, ed a tutte le proibitioni e pene fatte ed imposte
dalle sacrosante leggi, così comuni come particolari di questo stato,
per la salute commune e beneficio publico, prohibisce a ciascuna
persona di qualunque conditione e stato sia, senza eccettuarne alcuna,
il fabbricarne o far fabbricare questi pestiferi veneni, o l’usarli
sotto pena della vita, in modo che condotti al luogo del Patibolo,
le siano dal Carnefice con una ruota ben ferrata spezzate ad uno ad
uno tutte le ossa principali del corpo dal cranio della testa impoi,
perchè possino i loro corpi esser intessuti vivi fra i raggi di detta
ruota, e poichè in essa frà quelli acerbi cruciati in pena della sua
sceleratezza ed ad esempio de’ simili mostri di crudeltà havranno
vomitata quell’anima infelice, che informaua quel corpo scelerato,
sia quell’infame cadavere come peste del mondo gettato nelle fiamme, e
ridotto in minima polvere che sparsa nell’acqua d’un vicino fiume, si
disperda, non convenendo che qualsiuoglia minima parte di lui habbia
sepoltura in quella città ò luogo, che haurà così empiamente tradito._

_E se questi tali saranno Cittadini ò Sudditi di questo Stato, commanda
S. E. che le Case di tanto empj parricidi, come Nidi de’ traditori,
siano rouinate e distrutte; e che i posteri loro, come quelli che
haueranno hauuto la descendenza da’ traditori della patria, siano in
perpetuo priui di tutti gl’honori, commodi, priuilegi, utilità proprie
de’ Cittadini e Sudditi di questo Stato, e siano tenuti, trattati in
tutto e per tutto come stranieri e d’altre nationi, e per la nota che
porteranno sempre seco d’esser discesi da sangue d’empij parricidi
contra la propria patria, sia abborito il Commercio loro, come se
fossero nati frà que’ popoli che sono stimati più barbari e fieri,
e sogliono seruir ad altri per esempio d’ogni inhumanità e crudeltà.
Riseruando sempre al Senato l’arbitrio di aggiunger a queste pene quei
maggiori cruciati che la giustizia, e la seuerità delle leggi, havuto
risguardo all’attrocità del fatto, richiederà._

_Commanda di più S. E. che tutti i complici di un così horrendo
delitto siano sottoposti alle stesse pene, ed in oltre ordina che
non sia alcuna persona che habbia ardire di tenere in Casa ò in altro
qualsivoglia luogo conseruare sotto pena della vita, questo pestifero
veneno, nè trattar di fabricarlo, ò usarlo, rimettendosi nel genere
della morte all’arbitrio del Senato, havuto riguardo al fatto, ed alle
persone, seruando però sempre la dovuta seuerità._

_E perchè il distinguer da veleno a veleno potrebbe turbare
l’essecutione della presente grida, dichiara S. E. che tutti li
Veneni che non saranno nella sua semplice e natural forma, ma misti ò
trasformati, siano giudicati per pestiferi, ad effetto d’essequire le
sudette pene._

_Et acciochè tale e così essecrando delitto non possa restar occulto,
promette S. E. l’Impunità a quello de’ complici che preuenerà gli
altri in darne parte alla giustizia; e si dichiara che a quelli che si
lasceranno preuenire sarà da S. E. denegata ogni Gratia e misericordia,
e lascierà che abbia contro di loro effetto la seuerità della
giustizia._

_Di più commanda S. E. che tutti quelli che sanno ò sapranno alcuni
esser colpevoli di tutti ò alcuno de’ sodetti delitti, siano tenuti
subito a venirli a denuntiare alla giustizia, sotto pena d’esser tenuti
Complici, auuertendo bene a non lasciarsi prevenire da alcuno, perchè
se si scoprirà che l’habbino saputo, e si siano lasciati preuenire
da altri, non s’admetterà alcuna scusa, ma saranno con ogni pena più
severa et essemplare castigati._

_Dichiara inoltre S. E. che per la presente grida fatta in materia di
questo pestifero Veneno, non si intende di derogare a qualsiuoglia
altra Legge, che proibisca il fabricare, usare, portare ò ritenere
veleni: anzi vuole che tutte le leggi intorno a ciò fatte siano
inuiolabilmente osservate ed esseguite._

_E commanda S. E. al Capitano di Giustizia, Podestà di Milano ed agli
altri Podestà delle Città e Terre solite, a far pubblicare questa Grida
acciò venga a notitia di tutti._

_Data in Milano alli 7 di agosto 1630._

  _Ex ordine S. Ex. Antonius Ferrer._

                             Vidit FERRER.
                               PROUERIA.

[86] Esaminando i processi degli Untori, che esistono in gran numero
nei nostri archivj pubblici e privati, trovai molti inquisiti,
arrestati appunto nelle campagne. Mi ricordo aver letto tra gli
altri il processo d’un frate laico, che venne preso nelle vicinanze
di Legnano, perchè alcuni ragazzi, i quali custodivano le vacche al
pascolo, corsero in paese gridando ch’egli aveva unta una pianta,
vicino la quale erasi soffermato per bisogni naturali.

[87] Anche il vicino Limbiate andò immune dalla peste, se vuolsi dar
fede alla tradizione popolare conservata in paese fino ad oggi. Però
in entrambi gli archivj parrocchiali non esiste ricordo alcuno intorno
il contagio del 1630 a conferma d’una tanto fortunata eccezione nella
generale catastrofe.

Devo questa notizia alla gentilezza del Rev. parroco di Limbiate
Domenico Galli, che dietro mia inchiesta ebbe la compiacenza di
esaminare i suddetti archivj.

[88] _Plebeij quoque nobilium_.

[89] Pare che alluda a Gustavo Adolfo re di Svezia, detto il Leone del
Nord, che per sostenere la Riforma di Lutero guerreggiava in quel tempo
contro l’imperatore Ferdinando ed i principi cattolici della Germania.

[90] Da queste franche parole appare che il nostro Storico non
era persuaso delle unzioni. Infatti egli si limita a tradurre
nel seguente capitolo il Tadino, uomo, e pe’ suoi talenti e per
la carica di Conservatore della Sanità, molto stimato. L’urtare
un’opinione generalmente creduta non solo dal popolo, ma dai nobili e
magistrati, e cui inclinava a credere lo stesso Arcivescovo, era per
sè pericolosissimo. Aggiungasi le traversie sofferte dal Ripamonti
ed i molti suoi nemici, e si troverà che il lasciare, siccome fa, in
dubbio se le unzioni fossero reali o immaginarie egli è quanto potevasi
esigere da uno storico posto nelle sue circostanze.

[91] _Atque post ejus mortem futurus alter quodammodo Septalius_,
dice il testo. La frase _affixus lateri senis hærebat_, indica con
molta forza l’amicizia e famigliarità strettissima che univa questi
due medici, così distinti per talenti e bontà di animo, e i quali,
per eminenti servigj prestati alla patria durante una lunga carriera,
e specialmente nel contagio, meritano che la loro memoria sopravviva
benedetta tra i non ingrati posteri.

[92] Il Tadino somministrò importanti notizie al Ripamonti, senza le
quali avrebbe difficilmente potuto rischiarare molti punti della storia
del contagio. _E perchè questo Istorico personalmente non si trovava
presente alla crudeltà di questo pernitioso contagio_ (finora non mi
fu dato scoprire dove si fosse ritirato il nostro Ripamonti), _però
ne anche poteva essere informato d’alcune certe speciali et esentiali
particolarità che la città desidera; anzi la sua fatica si sarebbe
resa molto imperfetta, quando che o sì per ubbidire a chi mi poteva
commandare come che anche per essermi in persona à comune prò della mia
Patria dal principio sino al fine di così grande flagello adoperato,
non l’hauessi soccorso de’ molti avvisamenti et osservationi come ne’
suoi libri, con più et longhe memorie egli testifica._ (Ragguaglio,
ec., _nella Dedica al vicario Orrigoni_.)

[93] _Apparve nel fine del mese di Giugno una Cometa molto grande verso
settentrione et durò longo tempo, vista da più persone; come ancora
si viddero alcuni Eclissi et in particolare del Sole et della Luna;
inditio manifesto del futuro gastigo della peste che N. S. ci voleva
mandare..... Di modo aponto spirata la Cometa, puoco doppo successero
di nuovo le untioni nella città principalmente, et suo Ducato et doppo
passarono per tutto lo Stato_. (Tadino, pag. 110.)

[94] In questo pomposo elogio del Tadino, come astrologo, e nella
protesta che fa il Ripamonti della propria ignoranza e timidezza
nella medesima scienza, non ti sembra, o lettore, di travedere una
pungentissima ironia? Era il nostro Storico, per acume d’ingegno e
libertà d’opinioni, molto innanzi de’ contemporanei, e in tutte le
opere di lui scorgesi come disprezzasse buona parte dei pregiudizi
comuni a que’ giorni; ma la credenza delle unzioni era così generale,
che il negarla sarebbe stato, lo ripeto, pericoloso. Nè Ripamonti,
sfuggito una volta all’Inquisizione, era uomo da incapparvi la seconda,
ciocchè non sarebbe stato difficile, stantechè l’Inquisitore generale,
come vedremo avanti, le autenticò, per così dire, coll’autorità delle
sue parole.

[95] Secondo il Tadino erano francesi. (Pag. 111.)

[96] _Occorse che costui (il francese) trattò per accidente di tutte
queste cose con un Battiloro detto il Borghino, il quale habitava
vicino alla casa del Senator Arconato, presidente all’hora della
Sanità di tutto lo Stato, et subito conferto dal Borghino questo
negotio, con Gio. Battista Cogliate persona giuditiosa et prudente,
et desideroso molto della salute publica, et domestica della casa del
sodetto Presidente. Il quale essendo stato avvisato dal detto Cogliate
et ricordandosi delle lettere reali... nel fare del giorno seguente
dell’avviso, lo fece far prigione, ec._ (Tadino, pag. 111.)

[97] Tutt’altro che rilasciato! Essendosi rinvenuta fra le sue robe
_una vestina dell’habito di S. Francesco di Paola con una cintura del
detto ordine, dovè confessare ch’era frate. Arrivò questa nuova al
Padre Inquisitore Generale, il quale per suo officio, come appostata
et habitato in Geneura lo sequestrò con tutte le sue robbe, et puoco
dopo lo fece condurre al Santo Officio, il quale esaminato sopra altri
particolari, di più di quello haueua fatto il Tribunale della Sanità
per interesse del suo officio, s’intese che confessò il pregione molte
cose pregiudiciale alla salute dell’anima sua et scandalo universale;
dove puoco doppo fu condotto a Roma d’ordine di quella Santa
Congregatione._ (Tadino, pag. 112.)

[98] Il Tadino dice che gli Untori servivansi di _escrementi
putrilaginosi delli buboni, carboni, et antraci pestilenti misti
con altri ingredienti, li quali per hora non conviene riporgli in
carta...._ (Pag. 119.)

Sono incredibili le assurdità che si propalavano intorno la
composizione di tali supposti unguenti. I poveri accusati, per
sottrarsi agli atrocissimi spasimi della tortura, facevano sì pazze
e strane confessioni, che sarebbe bastato un po’ di buon senso nei
giudici per scorgere a colpo d’occhio la falsità; sgraziatamente
la credenza generale nelle unzioni era sì forte, che soffocava non
solo il buon senso, ma ogni principio di giustizia. _Si pigliava di
tre cose, tanto per una; cioè un terzo della materia che esce dalla
bocca dei morti, dello sterco umano un altro terzo, e del fondo dello
smoglio un altro terzo; e mischiavo ogni cosa ben bene, ne vi entrava
altro ingrediente o bollitura._ Così il Mora, in uno dei costituti;
le quali aberrazioni da delirante, prodotte dal bisogno di sottrarsi
al martirio, e dopo ritrattate, cadevano al solo riflesso che i due
ultimi schifosi ingredienti nemmeno per sogno sono velenosi, e la bava
degli appestati non era facile raccoglierla clandestinamente in gran
quantità, e maneggiarla senza contrarre la peste.

Ed il Maganza, figlio di frate Rocco, altro implicato nel processo.
_Il cognato del Baruello mi disse: andiamo fuori di Porta Ticinese, li
dietro alla Rosa d’oro, ad un giardino che ha fatto fare lui, a cercare
delle biscie, dei ratti e dei ghezzi ed altri animali, quali li fanno
poi mangiare una creatura morta, e come detti animali hanno mangiato
quella creatura, hanno le olle sotto terra, e fanno gli unguenti, e li
danno poi a quelli che ungono le porte: perchè quell’unguento tira più
che non fa la calamita._

«Un pazzo legato non potrebbe fare un dialogo più privo di senso di
questo, e allora seriamente veniva scritto. L’unto malefico, secondo il
romanzo del Mora, era di bava, sterco e ranno; ora, secondo il figlio
del frate Maganza, era di serpenti, rospi, ec. nodriti di carne umana,
e non si sapeva allora che questi animali non mangiano carni! — A un sì
strano e bestiale racconto conveniva di opporre alcune interrogazioni
necessarie... Tutto si ommise. Il fanatismo voleva trovare il reo dopo
di avere immaginato il delitto». (_Verri_, Osservazioni, _pag._ 232.)

[99] Dice il Tadino che i Decurioni di Palermo _per liberarse da
questo nemico così crudele si facevano tanto liberali con abbondanza
de’ dinari che somministravano fin due dople al giorno di mercede
alli Monatti oltre li straordinarj et furti che potevano fare.... E
si ridussero_ (i Palermitani) _a tal stato miserando, che se la peste
s’appizzava in due case in una contrata, v’erano gli ordini tanto
rigorosi, che subito attaccata s’abbruggiasse tutta, spettacolo invero
horrendo_! (Pag. 119.)

[100] Avete curiosità di sapere in che consistesse questo famoso
Unguento? Ecco la ricetta che insieme con altre parecchie trovasi nel
TRATTATO DI VARJ RIMEDJ CONTRO LA PESTE nel libro del cavaliere Ascanio
Centario intorno il contagio del 1576.

                    _UNGUENTO PRETIOSO ET MIRABILE_

_Contro la peste, che fu manifestato da uno che venne per infettar
Milano, che fu poi per questo giustitiato._

  _Piglia Cera nuova_                _oncie III_
         _Olio d’oliva_              _oncie II_
         _Olio di Hellera_         }
         _Olio di sasso_           }
         _Foglie di aneto_         }
         _Orbaghe di lauro peste_  } _ana ½ oncia._
         _Saluia_                  }
         _Rosmarino_               }
         _Un poco d’aceto_         }

_Et tutte queste cose si fanno negli sopradetti oglij bollire tanto
che ogni cosa sia bene incorporata insieme a’ modo d’unguento del quale
poi si ungono le narici del naso, ovvero li polsi della testa, o delli
bracci, et sotto la suola de’ piedi, usando prima il mangiare de agli,
cipolle, e gustare dell’aceto._

[101] E come se gli unguenti non bastassero, si trovarono anche le
polveri venefiche.

_S’aggiunse di più, che oltre l’unguento pestilente et venefico
fabricavano ancora una polvere della medema natura et qualità, la quale
spargevano nelli vasi dell’acqua benedetta pigliata dal popolo nelle
chiese et ancora nelli luoghi della povertà dove si trouauano camminare
con li piedi ignudi, attaccandose alle mani et piedi haueva tanta forza
che incontinente quelle misere creature s’infettavano et morivano in
brevità di tempo._ (Tadino, pag. 119.)

[102] Tadino dice che erano _figliuole di un Antonio Vailini di
Caravaggio_. (Pag. 121.)

[103] Codesto G. B. Farletta, morto in prigione durante la procedura,
venne abbruciato in effigie il 7 settembre mentre si giustiziavano il
Maganza ed altri untori.

[104] _Mentre odorava la superficie, nel manico ouero piede vi si
trouava il veleno, et morse in brevità di tempo._ (Tadino, pag. 121.)

[105] _Che si trouaua di colore gialdetto oscùro._ Questa pretesa
unzione accadde nel settembre 1630, ed il Tadino s’appoggia alla
relazione del dottore e avvocato Giuseppe Dondeo, delegato nel
Tortonese. (_Pag._ 122.)

[106] Avendo il Ripamonti tradotto questo pazzo racconto dal Tadino,
io cito l’originale perchè sarebbe inutile ed assurdo il ritradurre dal
latino. (_Tadino, pag._ 123.)

[107] Alle ore 23, secondo il Tadino, meglio informato; perchè il
Ripamonti non trovavasi a Milano.

[108] _Ma il camminare con tanta gente fu causa, che di queste persone
molte fossero unte, et morsero in breve tempo, et per dir il vero nel
principio del mese di agosto et nel prossimo non vi era giorno che non
si sentissero grande novità di queste maladette untioni per le contrade
di questa città, il che tutto di notte succedeva, et pochi malfattori
si ritrouauano._ (Tadino, pag. 129.)

[109] _Ma non dimorono quà le miserie nostre, che queste untioni
passorno ancora fuori della città per le terre, et ville, et di più
corse voce che sino li frutti fossero stati unti. — Oltre di questo
comminciò entrare il contagio et mortalità nelle bestie bovine, et
ancora nei caualli et durò longo tempo sino l’anno 1635._ (Tadino, pag.
129.)

[110] _Accidit vero facetum atque elegans quiddam._

[111] _Hominem sine fine deosculabatur._

[112] _Il Padre Casati uomo d’animo mite ed il compagno più severo
entrarono nel Lazzaretto il 30 marzo: era un sabbato santo._ (Croce.)

_Era il Padre Felice Casati di età matura, e l’altro Padre Michele
giovine d’anni, ma ambi duoi di molto senno, et di prudente giuditio
cittadini milanesi; Padri invero tanto caritatevoli et infervorati
nel servitio di Dio..., che se questi Padri iui non si ritrouauano, al
sicuro tutta la città annichilata si trouaua._

_Poco dopo il Padre Casati s’ammalò, in causa del manigoldo portinaro
ed apparitore del Tribunale Paolo Antonio Gallarate, il quale per li
furti che lui, figliuoli et figliuole lavandare faceuano, restorno
per divino giuditio tocchi dalla peste: doue non palesandola al
fisico Appiano, al quale detto Gallarate seruiua portandogli il libro
sopra il quale scriueua le medicine per gli infermi, restò ancor esso
contaminato.... et puoco doppo restorno offesi li due padri cappuccini
con un bubbone all’inguine, atteso che li medemi padri spesse volte
teneuano nelle mani il medemo libro, sì che il portinaro con li
figliuoli presto morirono et li Padri con detto Fisico Iddio lodato si
risanarono._ (Tadino, pag. 94, 98.)

_In maggio s’infettò anche il padre Michele Posbonello; ma sì mitamente
che non fu quasi mai obbligato a letto. In principio di giugno il Padre
Cristoforo di Cremona sacerdote molto avanti eletto a quel servitio
tolto li ostacoli, che sin allora gliel’avevano impedito alfine entrò
nel desiderato aringo.... Desiderio ch’ebbe poi felicissimo l’effetto
corrispondente, a’ 10 di giugno, morendo di peste per il servitio di
que’ poveri, nella persona de’ quali serviva il suo diletto Gesù._
(Croce, pag. 12.)

[113] _Per stragem illam hominum atque tuguriorum._

[114] L’esimia condotta del Padre Casati e del suo compagno
Pozzobonello ottennero meritamente il più dolce compenso che uomo
bramar possa in terra; la riconoscenza di tutta una popolazione. I
Cappuccini desiderar non potevano un più lusinghiero attestato di
quello che loro diede la sanità colla patente sottoposta. E sembra che
per onore dell’Ordine ne diramassero copie in varj conventi. Lo desumo
da quella che io ebbi sott’occhio, e che ha in calce quanto segue.

«Collazionata coll’originale da me Frate Ilario da Milano, sacerdote
Cappuccino, e socio ordinario, per ingiunzione del Rev.º Padre Lorenzo
da Novara, Provinciale e Ministro dei Frati Cappuccini della provincia
di Milano. E siccome trovai concordare parola per parola, in fede
sottoscrissi, apponendovi il suggello maggiore di essa provincia, per
mandato del prefato Rev.º Padre Provinciale. Dato in Milano nel nostro
convento della Concezione il XXI Ottobre 1646.

                                             «Frate ILARIO da Milano.

«_Il Presidente et Conservatori della Sanità dello Stato di Milano_».

«Poichè la memoria delli egregij fatti, si deve procurare di
accrescere, e mantenere nelle menti degl’huomini, per accenderli
a gloriose opere, et innanimarli a mostrare di sè quel valore, et
virtu, che puonno farli in ogni secolo immortali, e renderli dopo
morti vivi. Con questa ragione, debbiamo dunque essaltare l’opere
insigne, et eroici fatti del _Padre Felice Casato_ hora Guardiano
del Monastero nuovo de’ Capuccini in Porta Orientale di questa
Città, il quale con animo invitto, andò ad incontrare la morte, col
sottoporsi a manifesto pericolo della vita, mentre pregato da’ Signori
Carl’Antonio Roma, et Geronimo Legnano nobilissimi Cittadini, a nome
di questo Tribunale, et de’ Signori di Provisione, a far opera con
li superiori di quel Monastero, acciò mandassero qualche Padre della
loro Religione ad assistere, et governare il Lazaretto di S. Gregorio
fuori di P. O. di questa Città. Egli prontissimamente fece offerta di
sè stesso, la quale fu accettata con molto giubilo da detti Signori.
Ed ottenuta ch’ebbe detto Padre la dovuta licenza da’ suoi superiori:
si rinchiuse col Padre Michele Posbonello suo Compagno (il quale dopo
rihavuto dal male contagioso, e continovando nelle solite fatiche
di molti mesi nell’istesso Lazaretto: caduto in grave infermità, e
portato dal detto Lazaretto al suo Monastero; ivi fra pochi giorni,
rese l’anima a Dio) nel Lazaretto sodetto alli 30 di Marzo l’anno
1630 con carico di Regente e Governatore di detto Lazaretto, con
ampla autorità concessagli da questo Tribunale sotto il Presidentato
del Signor Senatore Marc’Antonio Monte di gloriosissima memoria, di
amministrar giustizia, di castigare i delinquenti, disobedienti, et
inosservanti degl’ordini di questo Tribunale; di comandare, ordinare,
prevedere, e fare tutto quello, che dalla singolare sua prudenza
fosse stimato necessario al buon governo d’esso Lazaretto, et al
servitio degl’infetti, et sospetti, che in quello si ritrovavano: e
che nell’avvenire vi fossero entrati per dover essere curati, o per
fare la quarantena. Ha atteso questo Padre al detto carico vintitrè
mesi continovi con somma pendenza, vigilanza, e carità, con l’agiuto
di dodici Padri della sua Religione, quali sono morti di peste nel
medesimo Lazaretto per servitio di esso; havendo hauto sotto al suo
governo, et commando, tal’hora più di sedici milla anime, e governato
nel detto spatio di tempo da cento milla persone, e più alle quali
ha fatto provedere, non solo li alimenti, e medicinali necessarij per
il corpo, ma ancora somministrato li santissimi Sacramenti, et altri
agiuti spirituali per l’anime loro, havendo quotidianamente celebrato
il santo sacrificio della Messa, predicato, frequentemente esortando
li poveri appestati alla patienza, penitenza, et rassegnatione di
se medesimi nel voler di sua Divina Maestà. Ma non contento degli
infiniti travagli, et dell’inesplicabili fatiche del Lazaretto, ha
voluto adoperarsi anco in servitio della Città, e suoi contorni, col
provedere de’ Monatti, e Carri per condurre alli fopponi i cadaveri, e
per levare gli appestati vivi, col far interrare i morti del Lazaretto,
e quelli che di giorno e di notte erano portati dalla Città in tanto
numero; havendo anco fatto cavare diversi fopponi vicino al Lazaretto,
e provisto agli altri sparsi in diverse parti fuori dalla Città, acciò
da quelli non esalasse fetore, et accompagnato molte volte (portando
la Croce) li medesimi appestati levati dal detto Lazaretto, a quello
di S. Barnaba per dar luogo ad altri più pericolosi; havendo anco
eletto tanti Ministri, quali appena assentati, si trovavano caduti
nell’infettione, et morti. Et con la sua opera, et industria, in tempo
tanto calamitoso, in gran parte ha provisto a tanti migliaja di persone
il vitto necessario. E finalmente dopo d’aver patito infiniti disagi,
sostenuto diverse infermità et esser stato due volte sì crudelmente dal
male contagioso oppresso, che più tosto ad opera Divina, che ad agiuto
humano si può attribuire la di lui ricuperata salute: se n’è uscito
con buona licenza di questo Tribunale vittorioso dal detto Lazaretto
nel quale ha dimorato dal principio del male sino al fine, sotto
il comando delli Signori Presidente della Sanità, Monte, Arconati,
Visconte; et ultimamente, sotto il Sig. Senatore Sfondrato hora
Presidente. Et perche la grandezza dei meriti di detto Padre, et il
voto di povertà della Religione, lo rendono incapace di premio terreno:
l’habbiamo almeno voluto honorare colla presente nostra testificatione
d’indubitata verità di tutte le predette cose, et anco maggiori, la
quale servirà a perpetua memoria, et essaltatione sua, a gloria di Dio,
et ad esempio de’ buoni Cittadini, et benemeriti della Patria loro.

«Dato in Milano li 20 Magio 1632.

  «D. GIOVANNI SFONDRATO, _Presidente_.

              «GIACOMO ANTONIO TAGLIABUE, _Cancelliere_.»

[115] La chiesa ed il convento delle _Grazie_ furono edificati nel
luogo ov’esistevano i quartieri delle soldatesche di Francesco I
Sforza. Il conte Gaspare Vimercati, generale delle medesime, donò ai
Domenicani il sito e pose nel 1464 la prima pietra del convento. Egli
morì prima di aver finita la chiesa e la raccomandò a Lodovico il Moro,
che la fece ultimare da periti architetti, gettando a terra la maggior
cappella e l’antico coro: fu ultimata nel 1497 dopo la morte di sua
moglie Beatrice d’Este. La stupenda cupola delle _Grazie_ è opera del
Bramante. Sarebbe superfluo ricordare che nel monastero esisteva il
famoso cenacolo di Leonardo, di cui oggi non rimane, per ingiuria del
tempo, quasi più traccia.

[116] Il Consiglio Generale dei 60 Decurioni, dopo avere con
solennissima pompa visitata la cappella della Madonna del Rosario in
questa chiesa, il 27 maggio 1631, decretò, in rendimento di grazie,
una lampada d’argento del valore di 500 a 600 scudi con tanto reddito
annuale che bastasse a comperare l’olio per tenerla continuamente
accesa. Nel 1796 la lampada fu rubata mediante un foro praticato
nel muro della cappella; nel 1816 la fabbriceria delle _Grazie_ fece
istanza alla città, e fu messa in corso l’antica prestazione di quattro
zecchini all’anno per la spesa dell’olio.

Di ciò esiste memoria sopra l’ingresso, munito di cancelli di ferro,
che mette all’antica cappella della Madonna. Trovasi nella mezzaluna
un dipinto a fresco, del quale non indicano l’autore nè il Torri, nè
Lattuada, nè lo stesso elenco delle pitture esistente in detta chiesa,
ma che io crederei di scuola del Cerano. Rappresenta la Vergine che
apparisce in mezzo a due angeli, uno dei quali sostiene la lampada
dell’olio miracoloso entro cui un Domenicano intinge una penna per
toccare gli appestati che in diversi gruppi sono disposti nel fondo.
Sotto leggesi la seguente iscrizione, che traduco al solito dal latino:

                                   A
                                D. O. M.
                           LA CITTÀ DI MILANO
                INFURIANTE IN ESSA CRUDELMENTE LA PESTE
                      NEGLI ANNI MDCXXX E MDCXXXI
                     SPERIMENTATO L’OLIO SALUTIFERO
                  DELLA LAMPADA DI MARIA DELLE GRAZIE
                             ALLA MEDESIMA
                          CON LAMPADA ARGENTEA
                        PERCHÈ ARDA IN PERPETUO
                      DINANZI LA SACRA EFFIGIE SUA
                       IL VOTO DELLA RICONOSCENZA
                           ESULTANTE SCIOLSE
                       L’ANNO DI RICONCILIAZIONE
                               MDCXXXII.

[117] _Dove morivano 1700 persone al giorno, cessò in modo la strage,
che non rimanevano estinte che tre o quattro al giorno._ (Somaglia.)

[118] La quarantena generale fu proposta nel luglio: ma non attivata
dietro parere della Sanità, perchè, dice il Tadino, _mai fu osservato
in niuno tempo di peste nel maggior fervore dell’estate venire a
quarantena.... molto più che le persone stesse sarebbero crepate nelle
loro proprie stanze, nelle quali ogni giorno se ne trovavano morti e
infetti_.

_Verso poi il fine di settembre et principio d’ottobre fu dato
principio alla quarentena generale.... si cominciò a prohibire a tutti
gli infetti et sospetti che non caminassero più per la città, sapere
nome cognome de commissarj, apparitori, et Monatti, perchè molti
non rolati andavano con grande temerità facendo l’offitio che più le
gradiua, mentre potessero rubare._

In novembre s’incominciò veramente la quarantena di giorni 22,
affidando la sovr’intendenza di ciascuna porta della città a
gentiluomini con ampii poteri. Il municipio somministrava ogni mattina
pane e riso ai poveri quarantenanti.

Nel dicembre la peste scoppiò nel castello, ma essendo luogo chiuso,
spurgate le stanze, e mandati in campagna gli infetti, presto fu
libero. In Milano però _al tempo stesso Iddio lodato si vedeuano
cessati li carriaggi del tutto, et si cominciava a rasserenarsi, et
aprirse le botteghe dei mercanti_.

L’anno 1631 si godè _puoco meno che intera salute, seguitando le
purghe particolari delle case sospette et infette le quali si trouauano
chiuse; et sebbene occorrevano alcuni casi di peste benchè rari, con
tutto ciò Iddio lodato non passauano più oltre. Si continuavano ancora
le guardie alle porte della città, poichè vi restauano ancora molte
terre del Ducato contaminate. Infine dopo molti ordini e provvedimenti
sanitarj ai duoi di Febraro 1632, a suono di Trombe, fu fatta la
liberatione della città et ducato di Milano_. (Tadino, pag. 135 e seg.)

[119] Fu d’uopo dare esempj di rigore. _Non restauano li furbi fare
delle ladrarie et furti, dove fu preso un Monatto et convinto fu
impiccato. Duoi infetti che non volevano ubbidire, andando per la città
furono presi, et gli fu troncata la testa._ (Tadino, pag. 136.)

[120] Ciò indurrebbe a credere che il Senato temeva una sollevazione,
ove non avesse prontamente appagato il pubblico col supplizio dei
supposti Untori.

[121] Forma, come dissi nella mia Introduzione, la Decade V della
Storia di Milano del Ripamonti.

[122] _Occultum virginale illud_.

[123] Somaglia, lodando le elargizioni di Federico, riferisce che
soltanto nella sua parrocchia di San Vittore Quaranta Martiri, faceva
distribuire _un quartaro di riso la settimana per ogni povero._

[124] _Si provvide di sei sacerdoti d’approvata vita e forti della
persona, i quali in tre parti ripartiti, avessero a due a due a
scorrere ogni giorno la tripartita ampiezza della città, ec._ (Rivola,
Vita di Federico, pag. 564.)

[125] Le splendide elargizioni dell’Arcivescovo nostro trovansi per
minuto notate dal Rivola, dal Somaglia e da altri contemporanei. È
celebre un suo detto, che appalesa quale carità veramente cristiana
lo infiammasse. Era intenzionato Federico di offerire alla Madonna
dell’Albero in Duomo un pallio tutto d’oro massiccio, tempestato di
gemme. Sopraggiunta la carestia e la peste, impiegò invece quel denaro
a soccorrere i poverelli, e rallegrandosene: _Lodata sia,_ esclamò, _la
Reina del cielo, che dandomi occasione di porger a’ poveri nelle loro
estreme necessità soccorso ed ajuto, m’ha fatto fare il pallio a suo
modo!_

[126] Il 30 novembre, trovandosi nella chiesa di San Dalmazio per la
rielezione degli uffiziali della dottrina cristiana, disse: _Se ’l
Signore Iddio per nostro gastigo hauesse determinato di mandar sopra di
noi questo gran flagello, non dubitate, fate animo, che ne da me, ne da
miei preti sarete giammai abbandonati_. (Rivola, pag. 574.)

[127] Esiste una vaga e assurda tradizione che Federico, durante il
contagio, si allontanasse da Milano, e che fu questo uno dei motivi
che vennero addotti contro la sua canonizzazione. Siccome però in
nessuna delle tante memorie dell’epoca trovasi indizio di ciò, io la
ritengo falsa. Tutt’al più si potrebbe supporre alcuna momentanea gita
fuori di città, che fu per avventura esagerata dai malevoli, tacciando
di pusillanime e trascurato il zelantissimo Arcivescovo. (_Vedasi il
Rivola_.)

[128] Nel luogo ove sbocca la via detta di Santa Croce, sulla piazza
attuale di Sant’Eustorgio, esisteva da antichissimi tempi _un fonte_,
traduco l’Alciati, _ove si pretende che San Barnaba battezzasse
primo i Milanesi, e celebrasse la messa, catechizzando il popolo_.
La tradizione aggiungeva che il santo Apostolo dimorò sette anni
in quel solitario sito, che San Cajo, il terzo arcivescovo della
nostra Chiesa, ivi battezzò gran numero di Gentili, fra i quali i
più nobili cittadini. Grandissima era la venerazione dei Milanesi,
che nelle infermità venivano a bere di quell’acqua, reputandola, per
intercessione di San Barnaba, miracolosa. Non essendovi alcun vestigio
di chiesa, Federico Borromeo pensò ad innalzarne una, ed il 28 ottobre
1623 pose la prima pietra coll’assistenza del Governatore, Tribunali e
Città, con infinito popolo accorso a quella divota funzione. (_Così il
Lattuada_.)

[129] «Non affrontava i pericoli temerariamente, come se disperazione o
noja lo costringessero a morire, ovvero cercasse lode fra i precipizj,
giusta quanto si narra facessero alcuni grandi uomini. Ma del pari non
evitò mai alcun pericolo cui fosse giusto e legittimo l’avventurarsi».
Così lo stesso Ripamonti nella Vita di Federico, pag. 389.

[130] Esisteva una tradizione fra i Padri Minori Osservanti che,
scoppiata la peste in Milano, il Guardiano del convento della Pace
dicesse in refettorio, che tutti coloro i quali erano disposti a
prestarsi si alzassero in piedi; e che neppure uno rimase seduto.
Questo fatto lo raccontava il vescovo Cerina, antico religioso
dell’Ordine, e morto in Milano nel 1827.

Onorevole Documento di quanto fecero i Minori Osservanti in tempo del
contagio è la seguente Iscrizione posta in una lapide nell’ortaglia
dell’ex convento della Pace, e oggidì di proprietà della Raffineria
di zuccaro dei signori Azzimonti e C. Tanto più volontieri io cito
quest’iscrizione, traducendola, in quanto che, malgrado la sua
importanza storica, non venne finora giammai pubblicata.

                TRATTIENI IL PASSO VIATORE NON IL PIANTO
                 L’ANNO DELLA NATIVITÀ DI CRISTO MDCXXX
                          UN FUNESTO CONTAGIO
                  INVASE L’ITALIA DEVASTÒ LA LOMBARDIA
            E LO STATO E LA CITTÀ DI MILANO QUASI ANNICHILÒ
                        SEICENTO MILA NEL PRIMO
                CENTONOVANTA MILA NELLA SECONDA MORIRONO
                       QUESTA MILANESE PROVINCIA
                  DEI FRATI OSSERVANTI DI S. FRANCESCO
             PIÙ CHE CENTO DEI SUOI FRATI RAPITI DAL MORBO
                       CON GIUSTO DOLORE LAGRIMÒ
           ESSI COL PRESTARE AGLI APPESTATI UFFICI DI CARITÀ
                PERDETTERO LA VITA ACQUISTANDO IN CIELO
                       IL PREMIO DEI CARITATEVOLI
                 NOVE DI LORO ESTINTI IN QUESTA DIOCESI
                    QUATTRO A S. STEFANO IN BROGLIO
                     DUE A S. BARTOLOMEO IN MILANO
          DUE IN ABBIATEGRASSO UNO A S. PIETRO FUORI DI MONZA
                           TUMULATI RIPOSANO
                     UNDICI ALTRI SACERDOTI INSIGNI
              PER DOTTRINA EVANGELICA PREDICAZIONE E PIETÀ
                 LA MEDESIMA PESTE VULNERÒ NON ESTINSE
           COSÌ LA FURIBONDA MORTE E I CADAVERI SANGUINOLENTI
                NON POTERONO SPEGNERE IL FUOCO DI CARITÀ
                       DEI FIGLI DI S. FRANCESCO
              NÈ RAFFREDDARE LE SACRE CENERI DI ESSO FUOCO
             QUESTO UFFICIO PIÙ DI OGNI ALTRO PIETOSISSIMO
                      LA MISERA PATRIA SPERIMENTÒ
                     DIVOTA RICONOBBE GRATA ENCOMIÒ
                       O TU CHE VAI OLTRE IMPARA
                 DA SÌ GRANDE CONTAGIO L’UMANA CALAMITÀ
                DA TANTA ABNEGAZIONE LA PIETÀ RELIGIOSA
                        DA SÌ TREMENDO FLAGELLO
                IL GASTIGO E INSIEME L’INDULGENZA DIVINA
                  I FRATI NOVIZJ DELLA CASA DELLA PACE
                      SUPPLICANTI LA PACE CELESTE
                             QUESTA LAPIDE
                   A SEMPITERNO MONUMENTO DEI DEFUNTI
                      E SALUTARE RICORDO DEI BEATI
                                 POSERO
               IL QUARTO GIORNO DI OTTOBRE ANNO MDCXXXXVI

[131] A schiarimento di questo passo, giovi richiamare l’attenzione
dei lettori sull’Ordine degli Umiliati, il quale estinto da quasi
tre secoli, cadde in dimenticanza, benchè abbia sostenuto una parte
importante nella storia. Sull’incominciare del secolo XI (1014), e
regnando l’imperatore Enrico I, alcuni nobili milanesi furono tradotti
prigionieri in Germania, e là fra le angustie dell’esiglio fecero
voto che se un giorno riveder potevano la patria, condurrebbero una
vita santa, rinunziando agli agi ed alle pompe mondane. Tornati in
patria, attennero il voto, e riuniti gli ingenti loro patrimonj, si
raccolsero in un cenobio sotto la regola di San Benedetto, assumendo
il nome di Umiliati per ricordo della _umìle_ vita cui erano stati
ridotti dall’inopia durante la cattività. L’Ordine crebbe rapidamente,
e in meno d’un secolo Milano contava sessanta ospizj, trenta per gli
uomini, e trenta per le donne. Gli Umiliati si resero benemeriti
al paese, dissodando in molte parti terreni, istituendo setificj,
e specialmente lanificj, ramo d’industria che fecero prosperare
in Lombardia, attivandone un esteso commercio. Le ricchezze loro
crebbero a dismisura, e, come accade, pervertiti i costumi, traviò
l’Ordine dall’originaria regola. All’epoca di S. Carlo contavansi in
tutta l’Italia non più di cento Umiliati, compresi i novizj, i quali
avevano nullameno che un reddito annuo di sessanta mila zecchini
imperiali, sommanti più d’un milione delle nostre lire. S. Carlo, fin
da quando trovavasi in sua gioventù a Roma, s’informò degli Umiliati, e
conosciutane la decadenza, stabilì richiamarli all’osservanza. Infatti
nel 1567 intimò un capitolo generale, privò i Proposti (così chiamavasi
i superiori delle diverse case degli Umiliati, e da ultimo vivevano
alla principesca, con autorità quasi dispotica) delle entrate, e nominò
un Generale dell’Ordine di sua scelta. Fu allora che diversi Proposti
congiurarono per togliere di mezzo l’Arcivescovo, scegliendo un frate
Donati, milanese, detto il Farina, perchè l’uccidesse. L’attentato
andò in lungo, tra per mancanza di denaro, tra per l’irresolutezza
del Farina, in cuore del quale il rimorso lottava colla sete dell’oro.
Un bel giorno, rubate le argenterie della sua chiesa in Cremona, egli
fuggì a Mantova, e di là a Venezia ed a Corfù, sciupando in bagordi il
ricavo della rapina. Tornato in patria, recossi in Isvizzera, sempre
indeciso a farsi mandatario de’ suoi superiori. Finalmente le costoro
suggestioni vinsero la titubanza del Farina; la sera del 2 ottobre
1569, mentre S. Carlo, in una cappella posticcia di legno, perchè
stavasi riattando l’ordinaria nel palazzo arcivescovile, assisteva co’
famigliari ad alcune orazioni cantate dai musici, l’empio frate presa
la mira dall’apertura dell’uscio, sparò contro il Borromeo uno schioppo
carico a palla e migliaroli grossi (pernigoni); ma nol ferì, perdendosi
il piombo entro le pieghe del rocchetto, con lieve scalfittura
soltanto.

Fuggito in Savoja, dove s’arruolò nelle truppe, il Farina venne più
tardi scoperto, consegnato, e insieme co’ Proposti suoi complici salì
il patibolo nel 2 agosto 1570. L’anno medesimo l’Ordine degli Umiliati
fu abolito con breve di papa Pio V, con lieve rammarico del pubblico,
irritato dal recente delitto. S. Carlo, oltre i locali di San Calimero
e di San Giovanni in Porta Orientale, già avuti sei anni prima (1564),
e dati il primo ai Padri Teatini, il secondo trasmutato nel Seminario
Maggiore, ottenne dal Papa la chiesa e cenobio di Brera (vi mise i
Gesuiti); — Santo Spirito (ne fece il Collegio Elvetico); — la Canonica
in Porta Nuova (altro seminario), — e finalmente Santa Sofia lungo il
naviglio in Porta Romana. Delle rendite degli Umiliati vennero messi a
disposizione di lui 25,000 zecchini imperiali all’anno.

[132] Intraprese la carriera ecclesiastica, e studiò indefessamente
diritto civile e canonico. Appena ordinato sacerdote, il Bescapè,
vescovo di Novara, nominollo vicario generale di quella diocesi, ove
si distinse col sapere e lo zelo. Di là passò arciprete a Monza, ove
nel 1602 fece costruire i due armadj che stanno ai lati dell’altar
maggiore in San Giovanni per riporvi le reliquie ed il famoso papiro
che contiene il catalogo delle medesime spedito da S. Gregorio papa
alla regina Teodolinda. In tale circostanza andò smarrito il papiro,
e, se stiamo alla tradizione, esso fu sottratto dallo stesso arciprete
Settala. E invero i dottissimi monaci Maurini, Germain e Mabillon,
viaggiando in Italia, lo scopersero nel 1638 nel museo della famiglia
Settala. Passato molti anni dopo in proprietà del conte di Firmian,
il successore di lui, ministro plenipotenziario in Lombardia conte
Wilzeck, generosamente lo restituì il 7 settembre 1777 alla Basilica
monzese, nel cui tesoro si custodisce. Un’apposita iscrizione,
indicando il fatto, dice che fu rinvenuto a caso nel museo Settala;
Frisi nelle sue _Memorie_ accenna la perdita del papiro; ma sembra
che per riguardi alla famiglia abbia taciuto il nome dell’imputato.
Io l’accenno per amore della verità storica. Nel 1618 il Settala passò
canonico della cattedrale di Milano e penitenziere maggiore; Federico
lo aveva carissimo, e molto se ne servì per comporre le vertenze tra il
foro ecclesiastico ed i regj ministri. Agitavasi in quei giorni a Roma
la causa della canonizzazione di S. Carlo, ed il Settala fu scelto a
pieni voti per recarsi colà quale procuratore arcivescovile. Esiste nel
carteggio di Federico buon numero di lettere scritte al Settala durante
il soggiorno in Roma, e provano la stima e l’affetto che nutriva per
lui. Tornato in patria, fu dal Cardinale, durante la peste, messo alla
direzione del lazzaretto ecclesiastico, in cui morì nel 1630. Lasciò
da cinquanta manoscritti concernenti casi di morale, di diritto, ec.
Se ne può vedere il catalogo nell’Argelati, _Biblioteca degli Scrittori
Milanesi_.

[133] L’oblato Carlo Rasino fu scelto per direttore spirituale, e vi
morì di peste: gli succedette Francesco Volpi, sacerdote esemplare ed
uno dei guariti. Nel Lazzaretto, rimasto aperto dai primi di luglio
sino alla fine di settembre, ebbero ricovero sessanta appestati, dei
quali risanarono soli quattordici. (_Rivola, pag._ 591.)

Stando ad alcune Memorie manoscritte la Congregazione degli Oblati
perdette 27 de’ suoi membri.

Varie importanti notizie, su quanto fecero gli Oblati anche nella
Diocesi in questo contagio, rinvenni in uno di quei libri dimenticati
nelle biblioteche, ma che riescono molto utili agli studiosi delle
cose patrie. Ha per titolo: _De origine et progressu Congregationis
Oblatorum ab anno congregationis conditæ 1678 ad 1737_. M.º 1739.
L’autore è un Bartolomeo Rossi, oblato e dottore dall’Ambrosiana,
poscia preposto a Cantù, e infine missionario nella Casa di Ro, dove
morì circa il 1750. In questo libro, scritto in buon latino, leggesi il
fatto seguente:

«Nè fu minore la pietà degli Oblati al di fuori di Milano. Adamo
Molteni e G. Battista Bassi, il primo, parroco a Monza, l’altro a
Biasca, morirono di peste. Dureranno fatica i posteri a credere ciocchè
è confermato da gravissimi documenti, esservi stato alcuno che incontrò
con tale rassegnazione la morte, da celebrare a sè medesimo le esequie
e scendere vivo ancora nel tumulo. Codesta fermezza d’animo, sto per
dire miracolosa, mostrò G. Battista Ro, proposto di Leggiuno, il quale,
nel confessare e portare il Viatico ai moribondi, contratta per l’alito
la peste, mentre sentiva venirsi meno la vita, discese entro la fossa
che aveva fatta scavare per sè. Ivi, dette alcune brevi parole sulla
miseria dei beni di questo mondo a’ suoi parrocchiani che in folla lo
circondavano tratti dal nuovo spettacolo, adagiando decentemente le sue
membra e incrociate le mani sul petto, dolcemente spirò».

[134] Ripamonti, misterioso sempre, non dice quale fosse codesta
chiesa, nè a me fu dato per indagini scoprirla.

[135] _Halitusq: tuos cum ipsius anima et spiritu quam minime
consociabis_.

[136] Questa savia disposizione prova sempre più quanto Federico
cercasse di ovviare il contatto, sì fatale nelle pestilenze; che se
annuì prima alla traslazione del corpo di S. Carlo, bisogna dire vi
fosse indotto dal desiderio dei magistrati e di tutta la popolazione,
giacchè non è supponibile che ignorasse il pericolo inevitabile di
vieppiù spargere il contagio con quell’imprudente funzione.

[137] Morirono in città 62 curati e 33 coadjutori: nella diocesi
infiniti. (_Pio della Croce, pag._ 62.)

Secondo il Rivola, 64 curati e quasi altrettanti coadjutori.

[138] La Storia MS. della Peste, vedi l’Introduzione, pag. XXXI.

[139] Anche questo passo, secondo Verri, fa prova che il Ripamonti, per
timidità piuttosto che per persuasione, sostenne l’opinione degli unti
malefici.

[140] Da qui trasse Manzoni l’episodio di Renzo che si pone in salvo
sul carro dei monatti.

[141] Questo Appiani fu uno dei medici che si prestarono con maggior
zelo durante il contagio. Uomo di buon senso non credeva alle unzioni
(Vedi Appendice I al Libro II). Infermò di peste nel Lazzaretto, ove
l’aveva destinato il collegio medico, _et rihautosi, si risolse per
servire alla sua patria, seguitare l’impresa sino al fine, non ostante
che di già il Tribunale gli hauesse assegnato cento scudi al mese. Et
non stimando l’interesse ma sibbene il servitio publico, et desideroso
di gloria, volse seguitare a servire con la conditione che dopo
medicate codeste creature con la debita cautione potesse ancor servire
per la città.... ma il capriccio di un Fisico intorbidò ogni cosa,
esigendo che habitasse di continuo nel Lazzaretto, cosa che continuando
sarebbe in breve stata la sua morte. Laonde si ritirò, ed il Lazzaretto
rimase privo de’ medici_ (Tadino, pag. 103).

La seguente lettera, che il Tadino suo collega ci ha conservata, è
importante, perchè espone gli effetti fisici e morali della peste; e
tanto più che sono descritti da un medico. La tradussi dal latino,
lottando con le anfibologie e le gonfiezze che la rendono qua e là
difficilissima.

  «_Illustrissimo Presidente di Sanità e Collegio,
    Senatori amplissimi_».

«Eccomi uomo nuovo e redivivo, ma sempre vostro servo. Perduta io
stesso ogni speranza, pianto dai miei famigliari nella città, e fino
ne’ lontani villaggi come morto; tre soli amici con un filo di speme
non m’avevano per anco cancellato dal numero dei viventi. Ora vivo
e non per me, ma per voi, Illustriss. e Colendiss. Sigg., Congiunti
amatissimi, cui sono debitore più assai che dell’esistenza. Ma quanto
non ho sofferto! non il solo male, ma le stesse pietose mani dei
medici furono crudeli: aperte le vene, mi trassero sangue due volte,
m’applicarono quattro vescicanti, i quali coll’acre calore fecero
sollevar vesciche dall’intorpidita cute. Ahi strazio! quai fetide e
putrefatte ulceri! quale orribile puzzo! Si minacciò perfino il fuoco,
e fu adoperato. Questi non pertanto sono lievi dolori, anzi giovevoli;
ma oh come atroce ed orrendo fu il male che non si potrebbe meglio
qualificare che col proprio nome di peste! Nessun altro più turpe
del medesimo che offende il cerebro sede dell’intelletto, tutte le
funzioni del quale sono turpemente viziate, illanguidite, travolte.
Qual mormorio agli orecchi che rintronavano d’inconditi suoni! gli
occhi erano abbagliati da mentiti colori e da vani fulgori: mal fermi
paventavano crollassero i vacillanti tetti, e vedevano le pareti
tentennare con moto incostante e vertiginoso. Ma più amaro era il
sapore che tormentava le fauci con ingrata sensazione. Aggiungevasi
per ultima angoscia la sete; e siccome il bere aggravava il male, così
erami forza in certo modo sopportarla per non peggiorare. Qual lotta
sostenessi contro il grave sopore che opprimeva tutti i sensi, quali
sforzi per non addormentarmi e per tener lontano il sonno e l’infame
sua sorella la morte, io non ho parole ad esprimerlo adeguatamente.
Il cuore, fonte della vita e talamo dell’anima, era da codesto malore
intorpidito. Ben egli sforzavasi con tremuli battiti di respingere
il mortifero veleno; ma come sottrarvisi se d’ogni parte gli aliti
avvelenati concorrevano alla sua ruina? Laonde il cuore, oppresso
da tanto peso, vinto da sì nemica forza, illanguidiva, non battendo
come avrebbe dovuto pel fuoco febbrile. Il bubone poi quanto più era
salutare, tanto riusciva più molesto, e se dava alcuna speranza di
guarigione, questa era bilanciata dal dolore presente. Aggiungevasi
una penosa spossatezza di tutte le membra e l’impotenza di aver requie
che nol concedevano le gambe esulcerate e lo spasimo all’inguine. E
qual sollievo io aveva in tanti mali? nessuno. Sì, nessuno, Illustris.
Signori, poichè i famigli e gli amici aborrivano il malato e lo
fuggivano; laonde nè blandi colloqui, nè veruno di quei conforti che
possono ridonare la vita. La speranza, sollievo dolcissimo in tutti i
guai che può inspirare anche fallaci gioje, e colle ridenti immagini
che ne rappresenta alla fantasia, tempera i mali e appena lascia
sentire il dolore, per maggiore mia infelicità, fuggiva lungi da me per
rendermi vieppiù misero, stantechè io era intimamente convinto la peste
essere mortale. Aveva vedute tante esequie! e tanti spirare sotto la
medicatura od anche mentre pigliavano cibo! Le orrende immagini di quei
moribondi che mi si paravano innanzi allo sguardo empievano di spavento
l’animo mio. Ma basti, che non voglio più a lungo tediarvi con sì
molesti discorsi. State sani, e con voi la città tutta».

                                             «Devotiss. Dottor Fisico
                                                G. BATTISTA APPIANI».

[142] I mercanti, a ciò eletti alla presenza dei Commissarj di Sanità,
faranno _all’interessata ad alla leggittima persona che per esso
comparirà pagare le giusta metà del valore in contanti o per quelli che
non haueranno chi leggittimamente comparisca si deporanno al Banco di
Sant’Ambrogio_.

_Et questo benefizio del pagar la metà s’intenda solamente per le
persone povere non intendendosi compresi i gentiluomini Mercanti
ed altre persone comode le quali da tal abbruggiamento non possono
ricevere notabile detrimento._

_Detti mobili saranno condotti nel Foppone di S. Gregorio, dove fatta
la massa s’incammineranno al luogo per tale obbjeto destinato nel
Foppone di Porta Comasina._

_Niuno per temeraria curiosità ne per malitia osi accostarsi ai carri,
ne al luogo dove si fa la stima sotto pena di tre tratti di corda;
ne con voci o fatti violare tale attione ne inquietarla sotto pena di
cinque anni di galera, nel che si obbligano per li figliuoli li Padri
et Madri sotto pena pecuniaria, et corporale ad arbitrio del Tribunale,
et si crederà ad un testimonio degno di fede._ (Grida 7 Giugno 1630.)

[143] _Il fumo delle robbe infette, come letti, piume, lane, strazzi,
portate di notte sopra il stradone di S. Dionigi vicino S. Primo per
abbruggiarle fu tanto pestilente et fetido, che entrando nelle finestre
delle camere dei Padri Cappucini mentre riposavano, gli contaminò
talmente gli spiriti che in puoco spatio di tempo ne morsero cinque._
(Tadino, pag. 101-126.)

[144] Il collegio offrì inoltre molti onori e privilegi a quei medici
di campagna che venissero a pericoloso incarico in Milano. Accettò
un Romanò; _ma il meschino entrato nel Lazzaretto in 15 giorni restò
tocco, et finì la sua vita in sette. Per questo esempio non si trovò
persona che volesse assistere in detto Lazzaretto_. (Tadino, pag. 108).

[145] Vedi la nota pag. 121.

[146] Probabilmente l’Autore intese dieci delle nostre pertiche comuni.

[147] Intorno la mortalità e la popolazione di Milano a quest’epoca,
vedi l’Appendice in fine del libro.

[148] Il Tribunale di Sanità però, avuto riguardo alla miseria dello
Stato a motivo del passaggio delle truppe, _rilasciò alquanto il
suo rigore permettendo si potessero tenere i bigatti con le debite
istruzioni_. (Vedi Tadino, pag. 97).

[149] Per quante ricerche abbia fatte nei pubblici archivj di
questa anagrafi, tanto importante per determinare almeno in modo
approssimativo la popolazione di Milano, non ne rinvenni traccia.

[150] _Lindò è un mercato generale, cioè un luogo ove si riducono
tutte le merci, che in Italia vengono da tutta l’Alemagna doue per
il più dell’anno sono molte città et luoghi infetti di questo morbo
contagioso._ (Tadino, pag. 13.)

[151] _Ad instanza della città ne fu procurata la sospensione sotto
il dì 17 luglio 1629 fino all’autunno, non ostante che molte città
dell’Alemagna nostre vicine fossero infette di peste._ (Tadino, pag.
14.)

[152] _Il quale provvedesse con ogni autorità et vigore di giustizia
alli bisogni.... Col carico di compire a visitare tutte le terre ville
castelli et porti di tutto il lago di Como di tutta la Valsassina monte
di Brianza et Gera d’Adda._ (Tadino Pag. 24).

[153] _Nel ritorno ritrouassimo colà_ (ad Olginate) _molto numero
de’ huomini et donne li quali giorno et notte dissero habitare alla
campagna per il timore del contagio hauendo abbandonate le proprie
case, et le loro comodità, et ci pareuano tante creature seluatiche
portando in mano chi l’erba menta chi la ruta chi il rosmarino, chi
un’ampolla d’aceto; che per dir vero ci faceuano piangere et furno da
noi consolati et fattogli di subito prouedere alli loro bisogni, atteso
che gli mancava sale, pane, aceto ed oglio._ (Tadino Pag. 26).

[154] _Sed belli graviores esse curas._

[155] Il Tadino racconta distesamente quanto osservò nel tratto
di paese da lui percorso; trascelgo alcuni fatti più importanti e
caratteristici.

Da Galbiate passarono a Chiuso, indi a Malgrate. _L’istesso giorno del
nostro arrivo ritrouassimo una giovane morta in 4 giorni; comandassimo
fosse cauata dalla sepoltura, il corpo della quale si trouaua con segni
pestilentiali come liuori nelli Hippocondrij, flagellationi, petecchie
negre, pauonazze, et tutto il dorso verso l’osso sacro moreleggiante.
Interrogata la sotteratrice che tiene cura di lauare li cadaueri
nominata la Tredesa donna vecchia ma robusta, se haueva osservato altri
segni nelli altri corpi simili a questi, rispose non se ne ricordaua;
ma si scorgeva che questa vecchia Gabrina s’andaua scusando et coprendo
la peste, la quale poco doppo pagò il douuto gastigo della sua bugia
perchè fra tre giorni morse._ Trovarono a Malgrate 29 malati, che, al
loro ritorno, sette giorni dopo erano morti. Lecco si conservava sano
tuttavia, non però Olate, Balabio e la Valsassina.

Nel discendere verso Bellano dalla _sommità del monte sentessimo fetori
insoportabili, et descendendo al basso per la terra non ritrouassimo
persona alcuna come luogo silvestre, et disabitato che ci arrecò non
puoco horrore. Finalmente arriuando alla piazza vedessimo un prete ad
una finestra con faccia quasi cadauerosa, il quale per le preghiere che
li facessimo che da noi douesse uenire fu molto difficile non ostante
hauessimo con noi una persona del paese. Et interogato della salute di
quella infelice terra... rispose il male hauer avuto principio circa li
6 dì ottobre et a quell’hora erano morti circa 64 persone... et ciò che
era notabile la sera si trouauano le persone sane, la mattina morte_.

Da Bellano i Commissarj passarono a Varenna dove _ritrouassimo una
donna morta in tre giorni con un carbone pestilente sopra una mamella,
presso di lei il marito, et figliolo parimenti con buboni_.....
Bellaggio lo trovò sano, non così Dorio e Colico, chiamato dal Tadino,
non so perchè, _delitia del lago di Como. Et questa terra è stata la
più destrutta et sualigiata di quante haueuamo visitate, perchè fu la
prima nell’ingresso delli Alemani_.

Anche sull’opposta sponda del lago dalla Cadenabbia a Domaso,
trovarono serpeggiare il contagio. Venuti a Como, e date le opportune
disposizioni, tornarono a Bellaggio, indi per Lecco e Valmadrera
incominciarono la visita della Brianza, costeggiando l’Adda. Per
Treviglio, Caravaggio, Cassano, Cambiago, ecc., paesi della Geradadda
ne’ quali incominciava a scoppiare qualche caso di peste, i due
commissari si restituirono a Milano il 15 novembre. Per le minute
particolarità di questo viaggio, rimando i lettori al Tadino. (Pag.
25-50.)

[156] _Et ferebat id vorato jam quæstu mercimonium in Urbem_.

[157] _Et ipsa pestilentia submoverat punieratque commode aliquem_.

[158] Il Tadino, riferendo questo aneddoto, dice: _Siccome N. S. haueva
levato l’inteletto al suo popolo d’Israel, così al presente molto più
haueva acciecato la città di Milano, la quale si lasciò persuadere
da una donna, ecc. Sebbene della promessa fattagli della liberatione
del figliuolo gli portaua consolatione grande, niente di meno sapendo
non hauer rimedj atti per questo male, non durò lungo tempo la sua
bugia, la quale fu puoi causa della sua morte. Et benchè dicesse hauer
ancora preseruativi, con tutto ciò s’appestò malamente, et hebbe il
condegno gastigo della morte pestilente, come nel fine de’ suoi giorni,
riconosciuta del suo errore, disse alli padri Capuccini, che ciò
haueua fatto per agiuttare il figliuolo per l’amore sviscerato che gli
portaua_. (Pag. 110.)

[159] _Atteso che di già se n’erano ritrouati morti in molto numero
di loro senza confessione nè aggiuti come tante bestie_. (Tadino, pag.
125.)

[160] Vedi nel Tadino i due decreti originali del Senato in data del 6
luglio. (Pag. 125.)

[161] Questa lavanderia, piantata pel contagio, _constaua de’ 24 banche
in acqua corrente chiara et copiosa, separati però li banchi delle
lauandare monatte brutte et nette.... In oltre si trouauano disposte
molte camere dalla parte di detta lauanderia, parte per gouernare le
robbe infette et parte per le purgate.... Veramente l’architettura col
parere di Carlo Butio architetto in ogni materia nella sua professione
singolare, et l’artificio si trouaua molto bene disposto. Sebbene
poco dopo detta lauanderia non fu mentenuta in grave danno del publico
benefitio, con tutto ciò volendo il tribunale restasse sempre memoria
di attione così honorata et segnalata per gli futuri secoli, fu dato
ordine alli detti fisici Tadino et Settala, di far mettere sotto il
portico delle camere laterali, all’opposto di detta lauanderia in
luoco eminente uno Elogio, come da loro fu eseguito di questo tenore_.
(Tadino, pag. 69.)

                        SOVRASTANTE IL PERICOLO
                         DELLA PESTE IMPORTATA
                             QUESTO LAVACRO
                    ORDINATO DA G. BATTISTA ARCONATI
            SENATORE E PRESIDENTE DEL MAGISTRATO DI SANITA’
                    COMPIUTO SOTTO IL SUO SUCCESSORE
                     MARCO ANTONIO MONTI PRESIDENTE
                         I MEDICI CONSERVATORI
                  ALESSANDRO TADINO E SENATORE SETTALA
                     A SPESE PUBBLICHE INNALZARONO
                             L’ANNO MDCXXIX

[162] Questi fu il delegato di Sanità, Marc’Antonio Arese, il quale,
reduce a Milano da una visita nella riviera di Lecco e Valassina,
_biasimò la lauanderia particolare del Lazzaretto con tanto artificio
fatta fabbricare. Perciò degno di scusa per non essere sua professione,
volendo fra gli altri errori, che l’acqua corrente si dimorasse mentre
si gettaua dentro le robbe infette doppo riceputo il bollo, cosa
lontana dalla ragione e dall’esperienza...... mentre che non può mai
nettarse et espurgarse le robbe infette, mentre resti l’acqua torbida e
sporca..... Il Delegato_ (Arese) _propose alla città di fare una nuoua
lauanderia generale all’incontro del Lazzaretto, che fu di spesa alla
città di_ 4000 _scudi senza frutto alcuno_. (Tadino, pag. 98-99.)

[163] I Romani davano questo nome ad un tratto di terreno lungo le mura
al di fuori o al di dentro di esse, consacrato dalla religione, e sul
quale era vietato fabbricare o coltivare.

[164] Ecco un’altra prova che il Ripamonti era superiore a’ suoi tempi,
distinguendo la soda pietà dalle pratiche esagerate e ignoranti.

[165] Allusione al dragone della favola, custode del vello d’oro, o
piuttosto alla superstizione popolare, che il diavolo, in forma di
Drago, custodisca i tesori sepolti.

[166] Ecco l’originale in versi latini, rimati secondo il cattivo gusto
dell’epoca:

    _Stella cœli extirpauit_
      _Quæ lactavit Christum Dominum_
      _Mortem pestis quam plantauit_
      _Primus Parens hominum._

    _Ipsa Stella nunc dignetur_
      _Sydera compescere,_
      _Quorum bella plebem cædunt_
      _Diræ mortis ulcere._

    _O piissima Stella maris_
      _A peste succurre nobis;_
      _Audi nos, Domina,_
      _Nam Filius tuus, nihil negans,_

    _Te honorat._
      _Salva nos, Jesus,_
      _Pro quibus Mater orat._

Altre orazioni trovansi nel Tadino. (Pag. 108.)

[167] _Mors et Fames vigebit ubique_.

[168] _Mortales parat morbos: miranda videntur_.

[169] _Numeris modisque diversis includitur_. E fa col pessimo gusto
d’allora un giuochetto di parole sul _numeris_ che si può intendere per
versi e per cifre.

[170] Tadino nomina venti reggimenti, e li fa ascendere
complessivamente a 36256, cioè 800 soldati di più. Il passaggio durò
dai 20 settembre al 3 ottobre 1629.

[171] _Cassano fu una delle prime tocche di peste nel Ducato, e fu
assai tribolata dalla fame, dall’alloggio dei soldati e dalla peste. Ma
quando pensaua di rendere gratie a S. Divina Maestà della misericordia
usatagli per averla liberata dal morbo, ecco che nel voler festeggiare
uno giorno, et far allegrezza per la gratia hauuta, Giouanni Pelegato,
fattore del marchese d’Adda, il quale sino nel transito delli Alemani
haueua comperato un sacchetto di polvere, volendola adoprare per tale
effetto, si sentì assalire di dolore di testa tanto insoportabile,
che cascò in terra, et raccolto nel letto con febre pestilente, et con
un bubone nell’inguine sinistro morse nel quarto giorno; cosa invero
miracolosa che non passasse più oltre._ (Tadino, pag. 71.)

[172] _Liber in quo descripta sunt nomina defunctorum civitatis
et corpora S.tor M.li per me Tragllum Zumalum locotenentem Not. D.
Christophori Zumali Canzel. Sanitatis Medl. Coram Ill. R. D. Senat. D.
D. Simone Bossio Præside Offitij Sanitatis_.

[173] Della Tortura, § VII.

[174] Ripamonti tradusse questo passo dalla famosa descrizione
del Boccaccio. Io l’ho ritradotto, adoperando le stesse parole del
Certaldese, cui rimando i lettori anche pel seguito del presente
capitolo.

[175] S. Carlo chiama Milano città numerosa di popolo, ristretta di
case, piena di povertà, frequente di commerci e di traffichi. (_S.
Carlo, Memoriale, pag. I, cap. I._)

[176] S. Carlo ottenne dal Papa questo Giubileo dell’anno santo
anche per Milano, ove fu pubblicato solennemente al principio della
quaresima. _Alla devotione del quale, per conseguire i celesti thesori
delle sue indulgenze, concorse tanta moltitudine di gente sì della
città e dello Stato, come di fuori di lui, che era uno stupore.
Venendo le terre e ville con diuote processioni alle quattro chiese
sante Il Domo, S. Lorenzo, S. Ambrogio, S. Simpliciano, in numero di
cinquecento, di settecento, e fino di mille anime per volta. E tra le
altre, la terra di Monza con bellissimo ordine, con due stendardi et
un S. Giovanni in mezo loro, innanzi in numero di ottomila persone vi
comparse, facendosi a tutti elemosina del mangiare e bere in alcuni
luoghi deputati. Lasso di dire quel che di giorno si faceano di tutte
le Parocchie con tanta divotione, che era gran meraviglia, chi in
habito de Peregrini, e chi con sacchi, e chi in altri humilissimi
vestiti. Per la frequenza grande, temendo i signori conservatori
della Sanità, che tra le genti che veniuano a questa divotione, non si
mescolasse alcuno delle terre infette o luoghi sospetti, ordinarono che
si moderassero queste processioni e si riducessero al numero di dieci o
dodici per luogo_. (Centorio, pag. 21.)

[177] Accennerò in breve l’origine e l’andamento di questo contagio.
Nel 1575 manifestossi in Svizzera, a Trento, indi a Venezia, Genova
e nel Piemonte, in guisa che, circondando d’ogni parte la Lombardia,
riusciva quasi impossibile chiudergli il passo. Infatti il 19 marzo
1576, scoppiò a Paruzero, villaggio di 600 anime, lontano due miglia
da Arona. Nel luglio la peste manifestossi a Melegnano, poi a Monza
_causata da una donna che da Mantoa vi haueua portato certi coralli et
robbe_. Il borgo di San Biagio fu tutto contaminato, e in tre settimane
morirono a Monza centocinquanta persone.

Il 3 agosto morirono due di peste nelle cascine di Comino, discoste tre
sole miglia dalla città. Il giorno 11 agosto, _da queste cassine poscia
si diffuse il male nel borgo degli Ortolani, fuori di porta Comasca,
separato dalla città, et in numero di sei mila persone, da cui usciuano
ogni giorno molte persone d’essercitare diverse arti di Milano, oltre i
giardini d’erbaggi, che per publica comodità et uso vi si faceuano, oue
ogni dì ne moriuano alcuni che erano giudicati sospetti di peste.....
Continuando questo male, saltò fin dentro la città di Milano, et prima
nel borgo di S. Sempliciano, come a lui più vicino per la pratica
degli ortolani con quei di dentro.... Dilatandosi il male verso S.
Marco e fino al Cordusio, e da questa parte nel borgo di Porta Romana,
et al Laghetto, luogo ove fa capo la maggior parte delle barche che
dal Ticino a Milano portano vini, legne, carboni et altre robbe, et
vettovaglie necessarie per il sostentamento della città. Et in Milano
proprio si distese a Porta Vercellina e tutte le altre_. (Centorio,
pag. 7.)

[178] Il Tribunale di Sanità, del quale si è tanto parlato in questa
storia, venne eretto dal Duca Francesco II Sforza l’anno 1534. I
disordini avvenuti in Milano nel contagio del 1524, per mancanza di
provvedimenti sanitarj, suggerirono l’erezione di questa provvida
magistratura. Innanzi Natale, il Duca, e poscia il Senato, eleggevano
i membri d’esso Tribunale: Due medici collegiati col titolo di
Conservatori, — il presidente, che era sempre un senatore, — tre
commissari, — uno scrittore, — un chirurgo, — due uffiziali di Sanità,
o apparitori, — un portiere, — un registratore dei morti, — custodi dei
lazzaretti di spurgo. — In tempo di peste il Tribunale di Sanità aveva
estesissimi poteri.

[179] _Al quale la città di Milano deve alzare una statua di marmo, e
ponerla ad eterna memoria nella piazza pubblica, in segno della gran
sollecitudine, prudenza e cura ch’egli ebbe della sua patria e della
integrità che in lui sempre si vide, per la quale eternamente egli
vivrà immortale._ (Centorio, pag. 336.)

[180] L’isolamento in cui ciascuno procurava di vivere per non
contrarre la peste, e l’aver i nobili, i manifattori ed i bottegaj,
per economia, licenziato un gran numero di servi e di operaj, i
quali vivevano del guadagno giornaliero, accrebbe a dismisura la
mendicità. _Onde in poco spazio di tempo si ritrovò in Milano un
numero grandissimo di persone dell’uno e dell’altro sesso ridotte ad
estremo bisogno; conciossiachè non trovavano i meschini nella città
ricetto alcuno, e fuori uscire non potevano per essere Milano bandito
e guardato intorno da ogni parte dalle vicine terre, acciocchè nessuno
n’uscisse. Non sapendo i poverelli che partito prendere, ispirati da
Dio, si congregarono insieme, e unitamente andarono dal Cardinale come
a padre comune, acciò egli prendesse la loro cura...... Restò tutto
commosso il pio Pastore a vedersi innanzi tanta moltitudine di poveri,
e come che fossero stati suoi cari figliuoli, li accolse, promettendo
che sariano certamente soccorsi e provvisti.... Ne applicò alcuni per
soldati a far le guardie, altri al servizio degli appestati, altri a
purgar panni sospetti di peste. Il resto, che giudicò inabili a simili
uffizi, in numero di tre a quattrocento, dopo averli trattenuti sotto
i portici della chiesa di S. Stefano in Broglio alcuni giorni, li mandò
fuori di Milano circa otto miglia, a un luogo detto la Vittoria, nella
strada di Melegnano, ov’è un gran casamento in forma di palazzo, che
fu fabbricato da Francesco re di Francia, in memoria della vittoria
ch’egli riportò in quel luogo istesso dell’esercito de’ Svizzeri,
ritenendo per questa causa il detto luogo il nome di Vittoria. Li
ridusse adunque tutti in quest’albergo, provvedendo loro delle cose
bisognevoli e per il vivere e per il buon governo spirituale.... Li
visitava egli stesso qualche volta, e n’aveva quella maggior cura che
poteva._ (Giussani, Vita di S. Carlo, Libro IV, cap. IIII.)

[181] _Majestatem quoque regis ære alieno pene esse demersam._

[182] I magistrati non volevano permettere le processioni per
timore che, atteso il concorso, si dilatasse la peste. Ma S. Carlo,
spinto da zelo eccessivo forse, ma condonabile per la rettitudine
dell’intenzione, insistè e ne fece tre solenni nei giorni 3, 5 e 6
ottobre, andando a visitare le chiese di Sant’Ambrogio, San Lorenzo e
San Celso; nelle prime due portò un crocifisso, nell’ultima il Santo
Chiodo. La seguente settimana, _l’infaticabile Pastore diede principio
ad un’altra processione più lunga e faticosa assai delle prime, con
la quale circondò tutta la città, portando egli in mano il Santissimo
Chiodo entro quella gran croce ch’aveva fatto fare a posta, camminando
a piedi scalzi, con l’abito e funi al collo, accompagnato da tutto il
clero e popolo. Fece in quel giorno una fatica incredibile, camminando
digiuno quasi fino a notte_.

Per le minute particolarità, rimando il lettore al citato Giussani.
(Lib. IV, cap. IIII.)

[183] Presso Casalpusterlengo.

[184] Essendo il precedente capitolo lungo fuor di misura, lo suddivisi
in tre, giovando alla chiarezza ed al riposo de’ leggitori le divisioni
inerenti alla stessa narrazione.

[185] _Spatiumque capere illud, unde pars nulla versa tantæ civitatis
in mortem tabemve et pericula mortis excluderetur._

[186] Il Giussani dice che le fosse erano alte quasi come bastioni.

[187] S. Carlo racconta il caso seguente ivi accaduto:

«Era uno appestato riputato morto, e per tale portato con gli altri
morti alla porta di dietro di S. Gregorio, per doversi poi portare
a seppellire in quel cimiterio.... Stava dunque questo poverello fra
un mucchio di 50 o 100 corpi d’uomini morti nella notte precedente,
per dover essere anch’esso, come morto, sepolto fra poco con loro, ed
era ancora vivo, o in mezzo tra la morte e la vita. Quando la mattina
per tempo, il sacerdote ch’aveva cura degli appestati di S. Gregorio,
portando, secondo il solito, il Santissimo Sacramento dell’Eucaristia
a’ suoi malati, passò davanti a quella porta, ch’era allora aperta,
ed ecco in un subito quest’uomo, rizzatosi inginocchione framezzo a
questi morti, e, tutto pieno d’ardente desiderio di non restar privo
di quel santissimo viatico nel suo transito già vicino, rivoltosi al
sacerdote, con voce piena d’affetto, degna d’ogni compassione, gli
disse: Ah padre, per amor di Dio, a me ancora il Santo Sacramento. Poco
più potè parlare, ma questo bastò per significare il suo desiderio, e
il bisogno alla carità di quel sacerdote, che subito andò a consolarlo,
ministrandogli il Santissimo Sacramento. Ed egli, ricevutolo con
grandissimo affetto e riverenza, tornò subito a collocarsi nell’istesso
luogo, e passò di questa vita prima che vi fosse quasi tempo di ridurlo
al luogo dei vivi». (_Memoriale, pag. 11, cap. III._)

[188] S. Carlo, paragonando Milano all’albero descritto dal profeta
Daniele, e che simboleggiava il castigo ed il perdono di Nabucco,
descrive altresì l’aspetto della città durante la peste.

«O città di Milano, la tua grandezza s’alzava sino ai cieli, le
ricchezze tue si stendevano sino ai confini dell’universo mondo; gli
uomini, gli animali, gli uccelli vivevano e si nutrivano della tua
abbondanza! Concorrevano qui da ogni parte persone basse a sostentarsi
nei sudori suoi sotto l’ombra tua; convenivano nobili ed illustri
ad abitare nelle tue case, a goder delle tue comodità, e a far nido
e stanza ne’ tuoi siti. Ecco che in un tratto dal cielo viene la
pestilenza, ch’è la mano di Dio, ed in un tratto fu abbassata a tuo
dispetto la tua superbia. Sei fatta in un subito dispregio agli occhi
del mondo, sei ristretta dentro de’ tuoi muri: son rinchiuse nei
tuoi confini le tue mercanzie, le tue abbondanze, i tuoi traffichi.
Non era più chi venisse ad abitar teco, a nutrirsi de’ tuoi frutti,
a provvedersi nei bisogni delle tue mercanzie, a vestirsi de’ tuoi
panni, a riposar nei tuoi letti, a godere delle tue comodità, nemmeno
a ornarsi delle tue invenzioni di nuove foggie, nè a pigliar da te il
modo di nuove pompe.

«Fuggivano i grandi, fuggivano i bassi, ti abbandonarono allora tanti
nobili e plebei.

«Chi non fuggiva, spesse volte era dal male o dai sospetti del male
ridotto nelle angustie del Lazzaretto, o fuori delle mura della città,
ad abitare in quelle piccole capanne con riputarsi gran ventura di
avere pur paglia che lo coprisse, ed altrettanta che gli facesse il
letto, che già era consumata tutta per molte miglia attorno di paese.
E però bene spesso gli faceva letto la terra dura, e talvolta l’acqua
o il ghiaccio. Così era la tua abitazione, in buona parte ridotta al
sereno, esposta alla rugiada del cielo, posta in mezzo alle campagne,
nei campi, nei luoghi ove si pascono gli animali e le fiere della
terra; ed ivi eri custodita dalle guardie ed arme de’ soldati, perchè
non uscissi di quei confini; che più? (è cosa da dire e da ricordarsi
perpetuamente per tener memoria sempre della grazia ricevuta) restarono
solitarie le contrade, le case, le piazze, le chiese, chiuse le
botteghe affatto.

«Tu Milano, affamato, angustiato e bisognoso di esser continuamente
soccorso per vivere dalle città, dai castelli e dalle povere ville
d’ogni intorno, restasti come fuor di te stupido, incantato; così in
quei principj specialmente abbassò l’ira divina in un tratto tutte le
tue grandezze».

«O figliuoli, quando andavamo per quei campi, per le capanne, pei
lazzaretti, per le case e contrade infette, e vedevamo in ogni parte
corpi morti, uomini e donne che stavano morendo, altri così gravemente
infermi, ch’erano poco dissimili di faccia e di forze dai morti, chi
dava grido pei dolori che lo affliggevano, chi si lamentava per la
fame, chi dimandava i medici o barbieri, chi era spaventato dalla morte
vicina, chi desiderava la sepoltura dei figliuoli. Pareva che ogni cosa
fosse piena di desolazione e di disperazione, e che fossimo abbandonati
da Dio, e che sebbene era grande quella calamità, fossero nondimeno
molto maggiori anco le afflizioni e ruine che fossero per venirci
appresso». (_Memoriale, cap_. I.)

[189] Oltre al Boniperti si distinse Cesare Rincio. Chi amasse sapere i
nomi dei medici deputati nelle varie porte, li troverà nel Centorio, p.
322. Erano 33, fra i quali il giovane Lodovico Settala, salito dappoi a
tanta celebrità.

[190] Nel secolo XVI Giovan Francesco Rabbia, nobile milanese, fondò
l’istituto di Santa Corona per far curare i poveri malati nelle loro
abitazioni e distribuire le medicine. Destinò per la farmacia ed altri
ufficj la sua casa vicina a San Sepolcro; aveva sull’ingresso una
lapide colla seguente iscrizione in latino.

                           A CRISTO REDENTORE
                   LA SOCIETÀ DEDICATA CON SACRO NOME
                        ALLA SANTA CORONA DI LUI
                                  QUI
                   AI POVERI E SPECIALMENTE AI MALATI
                         GLI OPPORTUNI SOCCORSI
                         LIBERALMENTE LARGISCE.

Questo Istituto, insieme con altri, venne, nel secolo passato, riunito
all’Ospital Maggiore, e sussiste anche in oggi, come è noto.

[191] Il 15 ottobre 1576.

[192] _Fra questi ricchi elemosinarj furono principali li due fratelli
Cusani, Pomponio ed Agostino, essendo poi quest’ultimo, dopo la morte
di S. Carlo, stato promosso al cardinalato da Sisto V._ (Giussani, Lib.
IV, cap. V.)

E S. Carlo nel Memoriale: _Hanno i Milanesi soccorso e sostenuto in
vita alcuna volta vicino a sessanta o settanta mila poveri, abbandonati
da ogni altro ajuto. Quante volte dettero e ferno venire alle mani
nostre le collane, gli anelli, le tazze d’argento per soccorso de’
poveri, senza pur sapere nè anco noi stessi tal volta da che mano
venisse quella carità._ (Pag. I, cap. II.)

[193] I magistrati che vestivano a quell’epoca ciascuno le insegne
della loro carica, vi erano affezionatissimi ed i Senatori avrebbero
creduto avvilirsi uscendo in abito comune, se non era il grave pericolo
di contrarre la peste colle ampie e svolazzanti toghe. Laonde questa
circostanza, avvertita dal Ripamonti, dipinge la costernazione dei
grandi più che a tutta prima non sembri.

Anche il Besta ricorda questo fatto: _Un nuovo modo di vestire fu
ritrovato, perchè li togati e Senato istesso vestivano di curta veste
ed altri abiti succinti e meno atti a prendere il contagio. Più non
si vedeva diversità di vestito pomposo e ornato, del quale già prima
lascivamente andava altiera la città, e non altro d’ognintorno si
sentiva che voci meste, lagrimevoli, nè altro si vedeva che Monatti con
li carri, alcuni d’infermi infetti carichi, altri di corpi morti: e le
povere donne in abito meschino seguendoli, far le spietate, dolorose e
affannate esequie, chi al marito, chi al padre, chi al fratello e con
i loro figliuoletti a mano o nelle braccia e letticciuolo alle spalle,
essere condotte poscia alle capanne._ (Pag. 58.)

[194] _Mille furono i poveri sacerdoti mantenuti a spese pubbliche
durante la quarantena, e dopo per 123 giorni: vi s’impiegarono Lir.
15493._ (Centorio, pag. 306.)

[195] _S. Carlo fece erigere molti altari ne’ crocicchi e luoghi
cospicui della città per dar comodità a tutti di sentir la messa,
stando in casa propria, e vi provvide di sacerdoti che vi celebravano
ogni giorno. Così fece di confessori, li quali andavano di porta in
porta confessando tutto il popolo; la domenica poi si comunicavano nel
medesimo luogo.... Ordinò che ciascuna vicinanza facesse orazione sette
volte tra il giorno e la notte a due cori.... cantavano salmi litanie
ed altre orazioni accomodati ai bisogni di quel tempo. L’ore erano
distribuite ordinatamente, dandosi il segno di ciascuna di esse col
suono della campana più grossa del Duomo, ed allora tutte le famiglie
andavano alle finestre, e un sacerdote o altra persona deputata, dava
principio all’orazione, e tutti gli altri genuflessi rispondevano._
(Giussani, lib. IV, c. 7.)

[196] L’assenza del governatore malcontentò a ragione i Milanesi; del
Serbelloni si lodavano, non senza però qualche taccia di parzialità.

_Non mi basta che abbiate qui lasciato il mio Gabrio Serbelloni
cavagliere onoratissimo e degno dei maggiori favori e onori, il quale
fa quanto può per mio servizio, e mi giova assai. Non però può far quel
che farete voi per essere egli cittadino, ed alle volte non può ne deve
negar piaceri agli amici, parenti e creati.... E tu Gabrio Serbelloni
lasciato con autorità dal mio governatore.... sia parco in conceder
licenze d’andar fuori e venir dentro le persone; usa gran diligenza....
Hai fatto piantare alquante forche e vanno per le strade soldati e
birri giorno e notte.... Provedi, castiga, ed usa la tua autorità che
il tempo lo richiede, e farai benefizio al pubblico etc._ (Pianto
di Milano per la Pestilenza, di Olivero Panizzone Sacco, cittadino
alessandrino. — Alessandria, 1578.)

[197] Pare che i Monatti fossero attivati nel 1576. Una grida del
12 settembre dell’anno suddetto proibisce, sotto pena di tre squassi
di corda, specialmente alle donne e fanciulli, _quando incontrano e
veggano Monatti sì in carretta che altrimenti, di accostarsi a loro. Et
altri insolenti gli tirano ancora dei sassi_.... Un’altra grida del 12
febbrajo 1577 ordina _che non ardisca alcun Monatto, e da verun’ora,
ne per veruna causa andare in alcuna parte di questa città e suoi
borghi, ne fuori dove sono le case, senza una assai lunga bacchetta in
mano, ed uno assai gagliardo campanino, che possa essere ben sentito
per ciascuno di essi, e sempre in compagnia del loro commissario_.
(Centorio, pag. 89-257.)

[198] Trovasi un minuto rendiconto di tutte le spese di questa peste
nel Centorio, pag. 305.

[199] Intende qui velatamente giustificare Federico pel rifiuto dei
dieci mila zecchini offerti dal Lomellini. (_Vedi pag. 173._)

[200] Fa d’uopo avvertire che il Ripamonti parla sempre di lire
imperiali, moneta nominale, e il cui valore subì grandi alterazioni dal
1200 fino a Maria Teresa, che introdusse la nuova monetazione. Nel 1576
la lira suddetta equivaleva a lire due milanesi, ossia franchi 1,44.
Nel 1630 era decaduta in ragione di milanesi lir. 1.15.6. ossia franchi
1,36. Riuscirà facile con questi dati fare il ragguaglio di tutte le
somme citate dal Ripamonti. Il zecchino d’oro nel 1630 valeva circa
lire 11 milanesi, cioè franchi 8,47.

[201] _Che erano circa 800 brente, condotte a sue spese fino ai
confini, il 23 novembre 1576._ (Centorio, pag. 191.)

[202] Da _Castra Majora_, secondo alcuni antiquarj.

[203] Grida 5 gennajo 1577, con altra del 28 gli fu levata questa
facoltà, perchè forse ne abusò. Vedi la nota precedente, pag. 316.

[204] _Trovando che quel sacerdote ch’egli pose fin da principio alla
cura del Lazzaretto, era passato a miglior vita per non aver stimato
il pericolo d’infettarsi, conciossiacosachè fin la prima notte si mise
a dormire pazzamente nel letto d’un appestato, ne fece immantinente
venire un altro dai paesi istessi de’ Svizzeri; avendo anche messo per
governo nel medesimo lazzaretto un padre cappuccino, zelantissimo, e
uomo di molto valore, chiamato fra Paolo Belintano da Salò nel lago di
Garda, per ovviare ai disordini che vi potessero nascere, con podestà
di far dare la corda ed altri castighi a chi li meritava. Il qual padre
vi fece opere stupende, e tenne in gran timore tutta quella moltitudine
di gente, astringendo ognuno a soddisfare interamente al proprio carico
così quelli che curavano il luogo, come chi serviva agli infermi_.
(Giussani, lib. IV, cap. 6.)

[205] _Fra Paolo faceva frustare uomini e donne, alle volte dar
della corda, non che prometterla, e dava loro delle altre penitenze
destramente e piacevolmente_. (Bugato, pag. 51.)

[206] _Venendo poi il verno, non trovandosi provvisione alcuna per
vestirli e difenderli dal freddo, non patendo il pietoso padre di
vederli patire, ne sapendo che in modo provvedere di vestimenti a tanta
moltitudine, gli venne in mente un buon partito, che fu di pigliare
tutti i panni di sua casa, e tagliarli in tanti vestiti.... Fece
dunque spogliare la guardaroba e tutte le stanze del suo palazzo di
quanti drappi v’erano.... e convertire in vestimenti de’ poveri: li
fece fare di diverse forme col cappuccio attaccato, acciò servissero
a tutti eziandio per cappello. Nella qual occasione furono misurati
ottocento braccia di panno rosso, e settecento di pavonazzo, oltre i
drappi verdi e d’altri colori.... Et era cosa molto graziosa a vedere
tanta moltitudine di poveri, vestiti variamente parte di rosso, parte
di pavonazzo, parte di verde, e altri d’altri colori, come se fossero
stati un esercito di soldati di diverse livree e insegne._ (Giussani,
Vita di S. Carlo, Libro IV, cap. IIII.)

[207] Alla narrazione della Peste del 1576, aggiungerò, che a quei
giorni si credette agli Untori. In una grida del 12 settembre 1576
trovasi: _Essendo venuto a notizia del governatore che alcune persone
con poco zelo di carità e per mettere terrore e spavento al popolo,
ed agli abitatori di questa città di Milano, e per eccitarli a qualche
tumulto, vanno ungendo con onti, che dicono pestiferi e contagiosi, le
porte e i catenacci delle case e le cantonate delle contrade di detta
città e altri luoghi dello Stato, sotto pretesto di portare la peste
al privato ed al pubblico, dal che risultano molti inconvenienti, e
non poca alterazione tra le genti, maggiormente a quei che facilmente
si persuadono a credere tali cose.... Fa intendere a ciascuno che
nel termine di quaranta giorni metterà in chiaro la persona o persone
che hanno dato il mandato ajutato, o saputo di tale INSOLENZA, se gli
daranno cinquecento scudi, e possa liberare due Banditi_.

La parola _insolenza_ addita che gli unti ritenevansi piuttosto una
braveria che un delitto meditato. Per fortuna in breve non vi si pensò
più. _Dopo la grida_, dice il Centorio, _più non si sentì tal cosa_,
mentre invece, nel 1630, la stessa credenza riprodottasi con maggior
forza e in circostanze diverse, produsse tanto danno.

[208] Il Monti venne eletto arcivescovo di Milano il 28 novembre 1632,
da Urbano VIII. Giovinetto andò a Roma, ove, entrato in prelatura,
fu nominato protonotario apostolico da Paolo V, che sorpassò l’età
pel distinto suo ingegno. Gregorio XII l’aveva carissimo: Urbano VIII
lo mandò suo Nunzio a Napoli, poi a Madrid, dove trovavasi all’epoca
della sua elezione. Reduce da Roma, ebbe il cappello cardinalizio col
titolo di Santa Maria in Transtevere. Soltanto nel maggio 1635 potè
venire a Milano, ove fu accolto con grande esultanza dai concittadini.
Seguendo le vestigia dei Borromei, visitò la Diocesi, e attese a
continuare la riforma del clero, celebrando nel 1636 il trentesimo
secondo Sinodo Diocesano, e due altri nel 1640. Fondò a Concesa un
convento di Carmelitani Scalzi. Fece ultimare il cortile del Seminario
di Milano, e trasferì a Monza nel 1644, entro il locale in cui trovasi
oggidì l’ospitale, il Seminario che S. Carlo aveva fondato sotto
la direzione degli Oblati a _Santa Maria alla Noce._ L’edificio era
meschino, e venne in gran parte rifabbricato l’anno 1687; nel 1755 si
innalzò un altro lato, spendendovi 115,000 lire. Nel 1768 soppressi,
per ordine sovrano, i Seminarj vescovili e concentrati nel Seminario
generale a Pavia, quello di Monza subì la medesima sorte, e fu
convertito in ospitale. Riaperti i Seminarj nel 1791, quello di Monza
si traslocò nell’ex convento dei Cappuccini sulla piazza del Mercato,
ove trovasi anche oggidì. Soltanto nel 1822 riedificossi la facciata,
con disegno dell’architetto Gilardoni, e furono spese lir. 100,000;
infine nel 1832 si diede mano al magnifico cortile, opera del valente
architetto Giacomo Moraglia, e fu di già spesa la ingente somma di
lire 544,000. Si spera di vedere tra non molti anni ridotto a termine
questo Seminario, che attesterà ai nipoti i talenti architettonici del
Moraglia, e la splendidezza di chi ne intraprese la ricostruzione.

Ma per tornare all’arcivescovo Monti, egli ampliò ed abbellì il palazzo
arcivescovile, e legò in testamento la sua preziosa raccolta di quadri,
in perpetuo, agli arcivescovi di Milano. Benemerito, morì il 16 agosto
1650, di soli 57 anni, e sta sepolto in Duomo innanzi la cappella della
Madonna che si chiama dell’Albero.

[209] Vedi pag. 45.

[210] Questo passo convalida l’opinione che esternai sul _Processo
degli Untori_. Vedi l’_Appendice II_ al _Libro Secondo_.

[211] A destra dell’altar maggiore vi si leggono, oltre la citata,
parecchie altre iscrizioni. È inutile di qui riportarle perchè estranee
all’argomento di questa storia.

[212] Chi riuscisse a dissotterrare la risposta del senatore Trotti
negli archivj di Madrid, ove giacciono sepolti i documenti più
rilevanti della storia nostra durante il periodo spagnuolo, rinverrebbe
probabilmente nuovi e importantissimi schiarimenti intorno il Processo
degli Untori.

[213] _Ac rex ipse regum_; così il nostro Storico, copiando per
adulazione il noto epiteto che dà Omero all’Atride.

[214] Allude alla scorreria fatta dal principe di Rohan; il quale nel
1635 si spinse dalla Valtellina fino a Lecco, dove gli chiusero il
passo i Brianzuoli raccolti in armi.

[215] Ripamonti stava scrivendo la Decade V della Storia Patria, che
venne pubblicata dopo la sua morte.

[216] _Hora erat diei fere undecima tenebræque jam appetebant_. Non
capisco in qual modo ciò si combini, sia coll’orologio italiano, sia
col francese. Ritengo che, per errore di stampa, siavi _undecima_ in
luogo di _vigesima_.

[217] La chiusa di questa gonfia allocuzione è più che strana:
Promettere al Cardinale Monti un’urna per quando morrebbe! Credo che ad
onta del sussiego spagnuolo non pochi de’ circostanti si commovessero a
sdegno o a riso.

[218] Precisamente ventun anno e quattro mesi, cioè dal 7 novembre
in cui S. Carlo, morto il 3 di quel mese, fu seppellito _rinchiuso
in una cassa di piombo, coperta d’un’altra cassa di grosse tavole_
(Giussani, Vita), fino al 6 marzo 1606, nel qual giorno si eseguì la
visita del cadavere di S. Carlo, ultimo atto che mancava per chiudere
il processo della sua canonizzazione. Federico Borromeo, coi vescovi
delegati, un medico, un chirurgo discesero nel sotterraneo. _Entrati
nella tomba, che per lo spazio di ventidue anni aveva tenuto in sè
rinchiuso quel prezioso tesoro, videro l’arca molto maltrattata per la
mala disposizione del sito, quantunque elevata fosse da terra sopra
due stanghe di ferro, e massimamente per una goccia che dalle fredde
vene della marmorea sepolcral pietra, stillando, era continuamente
sopra quella caduta, e fatto le aveva nel coperchio un gran foro_....
Sospesa la ricognizione, per l’umidità del sotterraneo, si decise
trasportare l’arca in sacrestia, ove, dopo aver lasciato il corpo per
sette giorni esposto all’aria perchè si asciugasse, fu dai vescovi,
_lasciando scoperta la faccia, le mani, i piedi, di purpurea talare
veste rivestito: sopra di quella aggiunsero un camice di sottilissimo
lino, le pontificie dalmatiche, ed il pallio arcivescovile, mettendogli
per ultimo in capo una preziosa mitra di preziose gemme ornata. Dopo la
qual cerimonia fu da Federico in detta arca riposto.

Perchè poi il collocar di nuovo quel sacro pegno nel medesimo sito
stimavasi da Federico cosa disdicevole molto, diedesi ad investigare
in qual altro più convenevole luogo del metropolitano tempio riporre
si potesse. Dopo molte discussioni, per non contrariare la mente
d’esso Beato, che aveva eletto in morte al suo corpo quel sito per
perpetuo suo riposo, si risolse di non mutar sito, ma di cangiar solo
la forma di sepolcro, in forma di vago e divoto oratorio_. Questo,
volgarmente detto _Scurolo_, benchè non grande, per l’escavazione
del terreno e l’intonacatura delle pareti a lamine d’argento, venne
finito soltanto nel seguente marzo 1607. Allora Federico, col vescovo
Archinti, delegato apostolico, aperta la sacristia ch’erasi murata,
_entrarono amendue, e ritrovato nell’arca il corpo nel medesimo stato
nel quale ultimamente dai delegati vescovi era stato riconosciuto,
sei primarj cavalieri della città con quella più decente maniera che
fosse possibile, sopra gli omeri se la recarono, e sopra l’altare
dell’oratorio, presenti quanti furono a quest’azione chiamati, la
collocarono._ (Rivola, Vita di Federico, lib. III, cap. XXV.)

[219] Ricorderemo i 28 quadri di straordinaria dimensione, che vengono
esposti negli intercolunnj durante l’ottavario della festa di S. Carlo,
ed altri 28 più piccoli, appesi sotto i suddetti. Rappresentano i fatti
principali della sua vita, e sono di famosi artisti lombardi del secolo
XVII. Crespi, Cerano, Morazzone, Procaccino, Lanzani, Parravicino,
Gianoli, Duchino; alcuni d’ignoto pennello.

Ma chi immaginò questo grandioso progetto? chi supplì alla spesa?
Consultate il Rivola nella Vita di Federico, il Torri, il Lattuada, e
tutte le Guide di Milano vecchie e nuove, l’opera del Franchetti sul
Duomo, l’altra con eleganti incisioni, pubblicata dall’Artaria, ec., e
troverete.... un bel nulla!

Unicamente sappiamo, per tradizione, che quando fu canonizzato S.
Carlo nel 1610, Federico, uomo di grandi concepimenti, come fa prova
la Biblioteca Ambrosiana, per tacer il resto, pensò di perpetuare
la memoria del Santo nel modo che parla più vivamente agli occhi di
tutti. Si conosce altresì che varii dei quadri suddetti furono dono
degli Oblati, di religiosi, e divoti privati. Avrei caro che qualcuno
riuscisse a schiarire questo fatto importante, massime per la storia
pittorica della Scuola Lombarda.

[220] Benchè il nostro Storico lo esageri coll’usata ampollosità,
il concorso fu straordinario per la divozione a S. Carlo vivissima e
generale, e incominciata subito dopo la sua morte. _Questa divozione
fu continua e ordinaria fino all’anno 1601, nel qual tempo, correndo a
volo per ogni parte del mondo la fama dei molti miracoli che nuovamente
faceva S. Carlo, si eccitò una tal commozione e fervore in tutti i
popoli della Lombardia e d’altri paesi più lontani, che si vedeva come
un gran profluvio di gente, d’ogni stato e condizione, che venivano a
venerare il sacro corpo suo.... Ed oltre il popolo innumerabile che
da tutte le ore del giorno ed anche per due o tre ore di notte vi
si vedeva promiscuo, vi venivano ancora numerose compagnie d’uomini
e di donne forastiere, processionalmente accompagnate di musica e
da compagnie di trombe.... alcune di sacco per segno di penitenza,
anzi si vedevano comparire sovente le terre intere col clero e tutto
il popolo che passavano molte miglia di persone. I pellegrini erano
frequentissimi d’ogni paese, e molti oltramontani._ (Giussani, Vita,
Lib. VII, cap. 8. cap. XVIII.)



Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici.



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