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Title: Le idee di una donna Author: Neera Language: Italian As this book started as an ASCII text book there are no pictures available. *** Start of this LibraryBlog Digital Book "Le idee di una donna" *** Neera Le Idee di una Donna _MILANO_ LIBRERIA EDITRICE NAZIONALE _Via Santa Margherita, 5_ 1904 _I diritti di riproduzione e di traduzione appartengono all’Autore._ S. T. E. P. SOCIETÀ TIP. EDIT. POPOLARE MILANO VIA S. PIETRO ALL’ORTO N. 16. _INTENDIAMOCI_ _Se qualcuno mi domandasse a bruciapelo: Lei è femminista? — dovrei rispondere: Adagio colle parole; ed a mia volta domanderei: Le piace l’acqua? A questa domanda che è pure tanto semplice non mi meraviglierei di trovare il mio interlocutore imbarazzato, poichè l’acqua incomincia colla goccia di rugiada tremolante nel calice di un fiore, va alla fonte che disseta, al bagno che ristora, alla irrigazione che feconda, fino allo straripamento che sforza, atterra, e conduce alla rovina ed alla morte._ _Dicevo dunque: adagio colle parole. Nella mia modesta opera letteraria ho sempre studiato i desideri e le aspirazioni della donna, la nobiltà delle sue attitudini e della sua missione, i suoi amori, i suoi dolori, i suoi disinganni, i suoi trionfi; nè rifuggii dall’agitare i ceppi che le stringono qualche volta i polsi, oh! molto allentati nel decorso dei secoli, e per ciò solo comprovanti che l’umanità segue il suo corso ascendente senza bisogno di violentarla. Il grido di dolore che il poeta raccoglie dal cuore stesso degli uomini e solleva nel suo canto ha la portata del raggio che illumina e riscalda; è benefico, è umano. Ma il monopolio che se ne vuol fare a base partigiana con mezzi violenti offende la coscienza di chi nella vita mira a qualche cosa di più alto che non sieno le materiali conquiste._ _I capitoli che raccolgo in questo volume mi vennero suggeriti osservando e ascoltando l’onda del femminismo che si avanza e nel quale non ravviso affatto il mio ideale di progredita femminilità. È troppo maschile per essere del femminismo sincero. Gli sforzi che si fanno per uguagliare l’uomo mostrano chiaramente che la donna non si riconosce più nella integrità del proprio valore, ed è questo valore suo che difendo con schietto ardore, dedicando i miei sforzi alle donne che accettano con semplicità e nobilmente la loro grande missione, facendo cioè del femminismo vero._ _Scritti a intervalli questi capitoli si sarebbero forse avvantaggiati in un rimaneggiamento di forma e di struttura se io avessi di mira il valore letterario dell’opera, ma volendo parlare da cuore a cuore penso sia meglio lasciare alle pagine sgorgate dall’entusiasmo la loro freschezza di improvvisazione e di conversare amichevole._ NEERA. _IL CONCETTO MATERIALISTA NELLA FELICITÀ_ Sulla tomba di Ruskin è stato detto che la specie di religione da esso fondata, più che religione della Bellezza il di cui culto può restare solitario, fu religione dell’Armonia, la quale ha una ben più vasta portata sociale. Così si ristabilisce un po’ d’ordine nell’elevato concetto della Bellezza, materializzato e immiserito da una pleiade di sedicenti esteti che vogliono imprigionare la Bellezza in date forme e farne il monopolio di pochi privilegiati a cui dovrebbe accarezzare i sensi raffinati e freddi; mentre nella significazione di Ruskin e di qualche altra anima ardente la vera bellezza, la bellezza ideale fecondatrice, larga di felicità agli uomini, non è la sensazione, squisita se si vuole ma povera, che un capolavoro d’arte dà agli iniziati o la sensazione più grossolana ed egualmente fredda degli appetiti soddisfatti; non infine un tributo che dalle cose viene a noi, sibbene una scintilla che dall’animo nostro partendo si slancia verso le cose e le comprende e le ama. Mi spiegherò meglio con un esempio. In una delle bellissime novelle di Francesco Domenico Guerrazzi è descritta una città toscana all’epoca del Rinascimento, dove abitava una donna di tale avvenenza che allorquando usciva per le vie nella cornice delle vesti magnifiche, vedendola “il popolo poeta esultava„ e questa esultanza di un popolo naturalmente composto di persone meno favorite per colei che riuniva in sè tutti i favori della sorte, ci dà esattamente la psicologia di quel momento storico. Il popolo poeta aveva nella mente una visione di bellezza e trovandosela viva e vera dinanzi agli occhi, il sentimento dell’ammirazione gli procurava una gioia che il popolo nostro non comprenderebbe più perchè alla ammirazione, sentimento ideale, è subentrata la smania dell’eguaglianza e l’inquietudine del possesso. Venendo a mancare agli uomini l’ammirazione pura, si rompe una delle più soavi armonie che rendessero bella la vita. La donna che faceva esultare il popolo toscano del Cinquecento al solo apparire in mezzo ad esso, se si mostrasse in una delle nostre città, rischierebbe di essere insultata o per la sua stessa bellezza, o per le sue vesti, o per quel complesso di superiorità e di fortuna che va a rintracciare i più bassi istinti dell’uomo moderno, continuamente richiamato al materialismo da un prosaico concetto della felicità. E non è da incolparsi di ciò la miseria, come taluno vorrebbe, perchè non solo verso il benessere va la brama, ma va contro tutto ciò che emerge con una specie di rabbia distruggitrice e, per dire la vera parola, di invidia, la quale non bisogna confondere col bisogno. Molti anni prima che tali questioni fossero diventate di dominio pubblico, mi ricordo che passeggiando una volta con un amico di casa sul Corso dove sfilavano le carrozze, egli uscì a dire: “Ecco, quando io vedo questi signori in carrozza, mi viene rabbia e vorrei essere io al loro posto.„ Rimasi colpita e quasi offesa da queste parole che non rispondevano affatto alle mie sensazioni, provando io invece un momentaneo diletto se la carrozza era bella, generosi i cavalli e armonica col tutto la dama; e solo un movimento di disgusto mi scuoteva quando codesta armonia era guastata da una parte mancante di bellezza. Procedendo nella passeggiata, l’amico invidiava i palazzi che si trovavano sulla nostra via, il viaggio che un terzo si accingeva a fare, e lui no, per modo che la stessa passeggiata che a me era fonte di immagini graziose, di estetiche compiacenze, si tramutava nell’obbiettivo del suo cervello in un seguito di piccole sventure piene di veleno. Ora essendo la mia e la sua condizione perfettamente uguali in cospetto della vita, risulta evidente che la diversa interpretazione nostra era nulla più che un effetto di temperamento. Ma è d’uopo convenire che il temperamento, questo termometro della psiche, al pari della salute che è il termometro del corpo subisce le influenze dominatrici, tanto che in tempo di peste si ha efflorescenza di bubboni e in tempo di utopia egualitaria perfino il grillo dell’eguaglianza dei sessi — e questo è certamente, quantunque vecchio, un fenomeno interessante sopra tutti per i rapporti intimi che lo legano a tutti gli altri. Fu già osservato che esso si presenta nei tempi moralmente più bassi, quasi che, rimasto deserto di forze divine il santuario dell’anima, le potenze nemiche vi si concentrino dando convegno ai più meschini istinti, rivestendo le spoglie ivi lasciate dal fuggitivo iddio, bruciando i sacri aromi rimasti in fondo ai turiboli. Il femminismo è una parola vuota di senso quando non si riferisce alla questione complessa e multipla nella forma, ma unica nella sostanza, che è la maternità; eppure questa parola vuota di senso serve di bandiera a una quantità di aspirazioni le più disparate, proprio da quella vescica floscia che essa è, che ognuno riempie a sua guisa e piacere; e se anche c’è qualche piccola idea buona, la soffocano sotto un frasario falso e ampolloso, e perciò destinato a dispiacere agli spiriti equilibrati. Dall’articolo di fondo che vuol redimere la donna, sollevarla e renderla pari all’uomo — gran mercè della modestia! — alla quarta pagina dei giornali dove si presentano invariabilmente per commesse o per governanti _signore distinte_, la confusione degli attributi è diventata un fatto corrente. Non più le persone di servizio si annunciano colle qualità antiche di fedeltà e di devozione; esse ora si compiacciono di farsi chiamare signore distinte. Alle signore poi non basta più l’essere belle, intelligenti, buone e come tali allietare e nobilitare la vita dell’uomo; sembra a loro che il còmpito d’amore per cui furono create e che esercitarono fin qui con tanta sapienza le scemi di fronte ai diritti ed a non so quali bisogni intellettuali i quali, pare, sarebbero colmati esercitando le professioni maschili. Una aberazione di simil genere, quantunque in senso inverso, ci fu altra volta offerta da quel tipo curioso di degenerato che era il fratello di Luigi XIV. Questo principe, che si copriva di veli e di profumi come una donna, invece di ammirare la bellezza delle signore amava egli stesso di essere ammirato; niente eragli più caro di un elogio sulla sua bellezza e sulla sua eleganza, e se fu per un momento geloso di sua moglie, lo fu solamente perchè era più bella e più elegante di lui. Effemminato lo chiamarono — e con maggior ragione del titolo di femministe che si dà ora alle donne in procinto di mascolinizzarsi. Egli è che in realtà il femminismo non esiste. Esistono delle questioni economiche e morali che interessano in egual modo i due sessi, che si scioglieranno o almeno si miglioreranno migliorando le condizioni generali dell’uomo, considerato quale esso è dalla scienza e dal sentimento un tutto insieme indivisibile parte maschio e parte femmina, ma indivisibile. Le esperienze hanno pur rivelato che la vita embrionale risulta dalla fusione di due masse di sostanza plastica, _nessuna delle quali considerata isolatamente ha vita propria_. A che cosa può condurre allora un movimento che va a ritroso delle leggi naturali, che urta l’armonia, distrugge la bellezza ed è smentito dalla scienza? Parlare di superiorità e di inferiorità a proposito dei sessi è un vaniloquio indegno di chiunque piegando la fronte sotto il bacio materno si è sentito sfiorare dall’ala del mistero. E chi non ha sentito questo non comprende nulla della vita. Ma veramente ecco il punto press’a poco dal quale eravamo partiti. La comprensione materialista della vita è quella che la intorbida su su fino alle origini. La Bellezza discesa dal suo altare di idea e perseguitata da desiderî concupiscenti qual femmina da trivio è resa infeconda; l’ammirazione inquinata dall’invidia perde la sua potenza benefica. È come se si spezzassero le stelle per farne dei fanali; le case degli uomini non ne sarebbero abbastanza illuminate e mancherebbe al cielo il suo splendore. Non è pertanto giusto incolpare unicamente il sesso che una volta dicevasi gentile e che aspira a farsi chiamare forte, di una malattia che è generale. Quantunque i femministi dicano che la resistenza di molte donne alle idee nuove non è altro che il risultato della educazione autoritaria che da secoli pesa su di loro, è lecito pensare invece che tutta l’agitazione cosidetta femminista non sia altro che la coda del serpente e le innovatrici che si immaginano di guidare sieno semplicemente guidate, anzi trascinate dalla follia egualitaria che spira sulla fine del nostro secolo tormentato. Ma è pure dalle donne, dalle vere, semplici, sante, amorose donne che deve partire il primo coraggioso grido di: Basta! Coraggioso veramente poichè ha da muovere incontro a nemici e ad amici, incontro all’attrattiva della novità e di fantastiche promesse dietro le quali si appigliano via via una folla di appetiti nobili, ignobili e mediocri, tanto che l’armata dei femministi ha veramente tutto il carattere delle truppe raccogliticcie dove può essere che si trovi l’eroe, ma dove si affratellano del pari il manutengolo e il tagliaborse. Coraggioso grido quello delle donne che oseranno resistere alla torbida fiumana! Una volta di più esse mostreranno di essere le degne compagne dell’uomo vigilando l’urna dell’ideale deposta nelle loro mani. Il materialismo non è da temersi finchè resta al suo posto tra l’argilla e il fango; non lo ha allora che chi lo vuole e quando lo vuole. Pericolosi al contrario sono quei sentimenti che la materiale origine nascondono sotto alle parvenze idealistiche, perchè assai facilmente per tal modo travolgono anche coloro che non vorrebbero essere travolti. Questo caso è specialmente difficile da combattere perchè l’avversario è in buona fede e credendo fermamente di camminare verso il sole trova per lo meno puerile l’avvertimento di guardarsi dalle tenebre. Così dobbiamo, non v’ha dubbio, a una degenerazione del sentimento ammirativo l’eccesso di produzione letteraria che si riscontra ai nostri giorni. I venticinque lettori che si immaginava di avere Alessandro Manzoni crebbero smisuratamente di numero e non si adattano più alla parte di lettore. Essi potevano essere lettori ideali e non se ne sono accontentati, preferendo a torto di divenire scrittori mediocri. Chi non vede qui che sotto parvenza di coltivare meglio l’ideale lo si offende continuamente e lo si danneggia? È la solita confusione degli attributi, per cui si annette pregio alla forma colla quale si rivelò a noi l’ingegno o la bellezza di un’altra persona e che noi crediamo di raggiungere entrando, con concetto materialistico, nella stessa forma. E di quale gretto materialismo non è circondata la teoria socialista diffusa nel popolo? Anche qui si è spezzata la stella per farne dei fanali, argomentando che il popolo non comprende le idee elevate, dimentichi che il raggio di una stella per l’appunto guidò i pastori alla culla di Dio. No, senza un grande ideale non si arriva al cuore del popolo! Dal mito di Orfeo che cantando commoveva le pietre, fino alla propaganda del poverello d’Assisi, era l’idealità di una gran passione che passando attraverso a un temperamento eccezionale raggiungeva nei più umili e nei più meschini la dormente scintilla della Bellezza e la rinfocolava unendola alla gran fiamma. Ma pretendere di ottenere un risultato alto appoggiandosi alla debolezza degli uomini anzichè alle loro forze, e volerli guidare al meglio mediante l’atrofia delle qualità più nobili congiunta allo sviluppo quasi mostruoso degli istinti minori, è opera sterile per la felicità. Io leggevo con grande tristezza le pagine propagandiste di uno dei più noti scrittori nostri che per venire in aiuto della sua recente fede non sapeva trovare altro argomento se non quello di porre a raffronto il salotto elegante di un ricco colla apparizione, sulla soglia, di un operaio; e con singolare abbondanza di colori sceglieva tutti i rosei per il salotto, tutti i neri per l’operaio, dilettandosi nell’antagonismo sì che per ogni ninnolo nuovo aggiunto da un lato scopriva uno sdruscio nell’altro, e i mobili artistici del salotto venivano a singolar tenzone colle macchie sparse abbondantemente sul camiciotto dell’operaio, del quale commiserava fin anco le mani indurite. Per ultimo tocco l’autore del bozzetto aveva ricorso alla pioggia, mostrando asciutto il salottino e bagnata la schiena dell’operaio. Ora, se non ho avuta la fortuna di farmi comprendere fin qui, cercherò di completare il mio pensiero dicendo che se le persone d’ingegno diffondono tali sentimenti superficiali e meschini, qual meraviglia se coloro che li raccolgono li immiseriscono ancor più, e se posta la questione su basi cotanto materiali nessuna luce possa sprigionarsi da essa? In tanto furore d’uguaglianza perchè si dimentica che il solo diritto di un uomo di fronte a un altro uomo è il diritto di avere un’anima alta? Perchè si continua a parlare volgarmente al popolo colla pretesa di educarlo? Se quell’operaio entrando nella casa del ricco non sa far altro che invidiare le cornici dorate e i morbidi tappeti e nessun sentimento di dignità personale sa trovare in se stesso, è un pover’uomo indegno affatto del nostro interesse. Per fortuna vi sono, fuori dei libri, operai che sentono nobilmente in se stessi e non si considerano nè infelici, nè umiliati per qualche macchia sul camiciotto e per qualche callo alle mani. Il Grande che disse: “Tu solo, o ideale, sei vero„ annunciò un assioma da pensatore, non un sogno da poeta come parrebbe. Nell’idea, in tutte le idee, c’è una grandiosità incorporea che può qualche volta trovarsi a suo agio nella mente solitaria del genio, ma che si frantuma miseramente e cade in polvere se obbligata ad entrare nella mente degli uomini comuni. Così si dissolvono le religioni, così si stanno ora alterando i significati della pietà e quelli ben più importanti dell’armonia fra i bisogni materiali e i bisogni ideali, onde l’agitazione femminile è uno dei sintomi più gravi. “Colui che possiede le divine facoltà dell’anima è un essere grande, qualunque sia il posto che egli occupa nel mondo„; sono parole di Chaning, il moralista americano, di quell’America che noi siamo abituati a considerare sotto il solo aspetto di terra dell’oro. Perchè dunque nulla si fa per sviluppare codeste facoltà dell’anima e si concentrano invece tutti gli sforzi sulla istruzione che è tutt’altra cosa, assai, ma assai meno importante e precisamente nella proporzione di un’anfora di fronte all’essenza? Deh! cercate di possedere l’essenza prima, l’anfora verrà poi. Che se anche non venisse, la virtù dell’aroma agirebbe pure in qualche modo, mentre un recipiente senza scopo non può essere che un inutile ingombro nella vita. All’anima, all’anima volgano le loro cure le donne! È questa l’ammalata, è questa la povera, è questa la pericolante. Ma l’anima non sta in un diploma conquistato, nè in un gruzzolo di denari contesi all’uomo. Poichè, da quando il mondo ebbe una storia, sempre vi furono donne meravigliose di saggezza, non è da ritrovare in escogitazioni nuove il segreto di ciò. Le donne hanno smarrito la loro via; tornino indietro e la cerchino. Ciò che ora esse vogliono non vale la pena del cambio. Quand’anche riuscissero a fare quello che fa l’uomo, chi farebbe quello che non vogliono fare più? Esse credono di offrire buon giuoco al loro orgoglio e mai furono tanto umili confessando implicitamente di non aver fatto fin qui nulla che valga. Dicono che la casa, coi costumi moderni, non basta alla loro attività; ed ecco il punto debole, ecco il concepimento materialista: come se la casa nel suo profondo significato morale potesse avere la benchè menoma attinenza coi fornelli a gaz e colle macchine da cucire. So che i femministi dicono: “Ma stanno forse più in casa le donne? Non escono esse buona parte del giorno a far visite e chiacchiere inutili? Escano dunque l’altra parte per correre ai nostri Comitati, Associazioni e Leghe„. Singolar modo invero di ragionare; paragonabile a un tale che possedendo due soldi venisse a perderne uno e gittasse il secondo dalla finestra. Modesta pensatrice cui move unicamente il desiderio della verità, io leggo sempre con attenzione quello che scrivono i miei avversari per sostenere la loro opinione, disposta a ravvedermi se trovassi nelle loro argomentazioni un solo pensiero alto, un vero ideale per gli uomini: ma confesso di non averlo trovato mai. Se gli uomini fossero migliori delle donne, oh! di certo queste dovrebbero fare il possibile per eguagliarli, ma poichè sono semplicemente diversi ed in tale differenza sta la legge armonica della natura che a tutto ciò che è vitale assegna una particolare funzione, nessuna nobile meta può raggiungere la donna nella concorrenza. Di tutte le altre ragioni addotte non conviene tener conto quando si agitano problemi morali di ordine così elevato. Rimanga la donna al suo posto da cui ha fatto tanto bene all’umanità, da cui ne farà ancora col resistere allo spirito volgare che ne circonda da ogni lato e che anche lei tenta, vestendo, naturalmente, le bianche forme di un angelo liberatore. La vera schiavitù dalla quale ella deve liberarsi sta nel concetto materialista della felicità, sta nel credere che il suo ingegno produrrebbe migliori frutti e maggiori soddisfazioni le darebbe in cattedra anzichè in casa; e credere che ella sarebbe più utile a se stessa ed all’uomo guadagnando del denaro; e non capire e non sapere ed avere dimenticato di quale delicatezza, di quale ardore misterioso sia circondata la sua missione sulla terra, così splendida e meravigliosa che ella potrà, sì, degenerando, esercitare i lavori maschili, ma nessun uomo saprebbe mai tra la più grande elevazione preparare i miracoli che ella compie nel silenzio del suo amore. Sono miracoli intimi, invisibili, imponderabili, non hanno nome, non si possono misurare nè descrivere, ma sono il suo genio, sono l’opera sua, il suo privilegio, il suo segreto. L’intelligenza della donna non deve disperdersi altrove perchè altrove non c’è bisogno di lei e qui, nel focolare, nel tempio, quando ella sarà lungi entrerà la morte. Già possiamo vedere gli effetti della propaganda femminile materialista in uno dei paesi dove si è maggiormente sviluppata, nel Belgio. Laggiù, nelle malinconiche borgate dense di opifici e di fabbriche, dove sulle case basse tutte uguali non aderge la maestà della chiesa e dove solo brillano di luce sinistra i fanali delle taverne, uomini e donne conducono la medesima vita di officina, fuori della casa. Le donne sono rappresentate al Consiglio del lavoro e dell’industria, hanno diritto al voto, percepiscono lo stesso salario dell’uomo, ma avviene questo: che l’uomo privato della sua responsabilità di capo della famiglia, privato del sentimento generoso della protezione e della forza, si dà più che mai all’alcoolismo e poichè la donna non rappresenta più per lui alcuna gentilezza di ideale, non gli par vero di scaricarle addosso tutti i pesi e di vivere alle sue spalle. Conseguenza logica e fatale di una dottrina che soffoca ogni elevazione per sostituirvi il basso raggiungimento di un livello comune dove l’animalità primitiva, atterrate le barriere in cui l’avevano costretta le conquiste della civiltà, ritorna con tutti i suoi istinti selvaggi. Oh! il momento veramente ispirato per una nuova Giovanna d’Arco, per una guerriera dell’ideale, che cinta di virtù femminili movesse alla novissima battaglia e contro questo preteso femminismo fatto di ambizione e di materialità bandisse il verbo d’amore che è il segreto, la potenza, la superiorità del suo sesso. E vorrei che non fosse, come Giovanna d’Arco, sterile, ma che la maternità le avesse già rivelato la via luminosa della donna attraverso i secoli. _LA DONNA E LA CULTURA_ Sopra un punto importante della questione occorre insistere e non deve arrestarci la considerazione che le cose le quali stiamo per dire possano per avventura essere già state dette, perchè il bene morale consiste, piuttosto che nella ricerca del nuovo, nella ripetizione costante di due o tre verità immutabili; persuadiamoci di questo: “Importa poco che un’idea sia vecchia e recente. È vera? È falsa? Ecco ciò che interessa„. Falso senza alcun dubbio è il modo col quale i femministi presentano la questione, imperniandola sopra un criterio di inferiorità della donna che nessuno seriamente si sogna di ammettere, ma che offre loro buon gioco per schierarsi a paladini di una causa che non esiste. Incominciando a dire che la donna è ritenuta inferiore, si preparano la scala per slanciarsi a liberarla da cotesta prigionia ipotetica ed arrivano alla conclusione che inferiore veramente è, ma per colpa dell’uomo il quale l’ha sempre dominata ed oppressa. Ora la verità vera è che da quando l’umanità uscì dai limiti sconosciuti ed ebbe una storia, quando sulla inconsulta brutalità del selvaggio si vennero delineando i primi albori della coscienza, e via via che la sostanza psichica quale sprigionata farfalla si librò dalla conquista animale alle conquiste del pensiero, si vide la donna salire lentamente insieme al suo compagno, assurgere, entrare con esso nei nuovi mondi conquistati, così che mai, in nessun periodo del lungo cammino percorso l’uomo si trovò solo — e quando occorse il sacrificio, quando occorse l’eroismo, quando bisognò lottare, soffrire, morire, la donna lottò, sofferse, morì con lui; morì con lui nell’esilio, sui campi di battaglia, nelle prigioni, nella tortura, sotto la mannaia, sulla forca. Si può immaginare che le donne della storia antica, le donne romane, le donne dei tempi di mezzo, le donne del Rinascimento, le donne della Rivoluzione Francese, le donne del Risorgimento italiano, sieno messe tutte a fascio come un batufoletto di cenci vecchi e mandate alla cartiera dalla quale deve uscire sotto altra forma la donna nuova? la donna forte cioè, la donna superiore? — poichè quelle altre che dormono ora così serenamente nei loro sudari di martiri, nelle loro vesti insanguinate o nei miti veli della loro spirituale bellezza — esse che ispirarono poemi immortali, non furono che larve di donna? No, non voi troppo lontane sotto la polvere dei secoli, eroine antiche; ma voi dalle ceneri ancora calde, Teresa Confalonieri, Anita Garibaldi, Adelaide Cairoli — e la interminabile falange di quelle senza nome e senza storia, oh! benedette, la di cui immagine passò come ultimo raggio all’ora estrema nelle pupille dei nostri Grandi, mirate la povertà delle anime nostre; un diploma vogliono, un titolo accademico.... E voi non eravate neppure maestre! Ma lasciamo stare i morti o almeno quelli fra i morti che noi non abbiamo conosciuti e guardiamoci attorno; cerchiamo nella nostra memoria, fra i parenti, fra gli amici. Sono così disgraziati i femministi da non trovare nelle loro famiglie, che donne senza coscienza e senza dignità? Non hanno essi mai osservato nell’ambiente della borghesia, e fra i piccoli artigiani e fra i contadini, dove i mezzi sono scarsi, la cultura nulla, dove spesso l’uomo è accasciato dal lavoro e dalla responsabilità, quale posto importante vi occupa la donna? Non le hanno viste proprie mai le donne econome, laboriose, serie, prudenti, amorose, pazienti e magari analfabete, ma ricche a dovizia di quel sentimento tutto femminile che è l’abnegazione e l’amore della casa? Non conoscono gli infiniti matrimoni nei quali il valore intimo della donna supera di gran lunga quello dell’uomo e lo supera precisamente in condizioni dove la cultura non ha nulla a vedere? E nei negozi, negli affari, nelle contese, nelle questioni di interesse, di opportunità, di convenienza, quante volte la moglie vede meglio e più lontano del marito? Quante fortune pericolanti furono salvate da una donna? Quante donne rimaste vedove, provvidero colla maggiore saviezza al buon avviamento dei figli mentre nessun uomo potrebbe fare altrettanto? E con una tale corona di meriti, con un campo così fertile dischiuso alla sua operosità e già coperto di sì ricca messe, dovrà la donna aspettare che la propria coscienza e la propria dignità le vengano bandite da appositi Comitati? Ma sono cose dell’altro mondo! Sta bene che si combatta la frivolezza della donna, la civetteria, la maldicenza, tale e quale come si possono combattere la grossolanità ed altri difetti degli uomini e meglio ancora fare una guerra leale alle colpe che i due sessi hanno in comune e che sono senza dubbio le più numerose, ma pretendere che dopo diciannove secoli si debba tornare a levare un’altra costola all’uomo per rifare la donna, ah! è troppo. La singolare confusione che si fa ora tra senno e scienza, fra criterio e cultura, contribuisce a spargere l’erronea credenza che tanto maggiori saranno gli studi della donna e meglio soddisferà i suoi obblighi di madre e di educatrice; modo questo assolutamente ristretto e materiale di considerare una questione dove l’essenza spirituale è tutto. Qualcuno che vale un po’ più di me ha già detto che la fede nel libro scolastico è uno dei grandi pregiudizi del secolo; (Spencer) ma si continua a credere che lo studio delle lingue sviluppa l’intelligenza e tutto porta a temere che si continuerà per un pezzo. Piccole famiglie di mezzi limitati vanno incontro a spese ed a sacrifici gravi perchè si reputerebbero disonorate se non mandassero le loro figliuole all’estero per educarsi e quando ritornano, sviate dalla casa, lontane dalla madre, ricche di nozioni e povere di esempi, povere di quel sentimento domestico che è la forza della donna e la base della famiglia, che cosa volete mai che facciano se non ricercare affannosamente fuori delle lor quattro mura il perchè della vita che si sono lasciate sfuggire di mano? Le parole hanno un destino crudele; le più nobili, le più sante fra di esse, goccie preziose di un liquore che si dovrebbe conservare nel più profondo sacrario della coscienza, sparpagliate da fanciulli pazzi e crudeli corrono per il mondo, si infiammano, accendono voglie inconsulte, vanità latenti, e sotto il bel nome sonoro di amore vanno distruggendo e soffocando la radice stessa dell’amore che è la donna. Vuole la donna riescire utile e compiere fino in fondo la sua missione? Si alzi e tenda le braccia; nel breve cerchio della sua persona troverà tanto bene da fare, silenziosamente, quanto le trombe di cento Comitati non faranno mai. Ogni donna faccia così, e sarà per tutta la terra come un onda propagata di piccoli cerchi armonici, come una rete di sottile incanto dove si acquieteranno le ire degli uomini. Quello che io domando non è facile, lo so, ma quello che propongono i femministi è inutile, ed è peggio. Essi vogliono offrire alla donna il posto della mosca che si immaginava di guidare il carro. Sanno bene che il lento passo dei buoi e il sudore che gronda dai loro fianchi e la preoccupazione del bifolco inteso a scrutare i solchi sono i soli fattori del maestoso lavoro, ma la mosca, ronza, ronza, ronza e c’è pur qualcuno che la prende sul serio. Io l’ho già detto altrove, però questa è appunto una di quelle verità che conviene ripetere. Se si potessero aprire scuole di criterio, di rettitudine, di senso morale, e si fosse sicuri di vederle frequentate con profitto, varrebbe la pena di sopprimere una buona metà degli edifici cittadini per convertirli a questo scopo; ma finchè le scuole sono quelle che sono, cioè una fredda e indigesta distribuzione di sapere in pillole e i maestri dei disgraziati obbligati a insegnare le origini del Missisipì e la fondazione dei gonfaloni a fanciulli in cui la coscienza è già guasta molte volte e la dignità già offesa, perchè sventolare continuamente la bandiera malamente dipinta dell’istruzione che tante magagne nasconde e nessuna risana? Cos’è mai l’istruzione impartita così se non un abito di gala messo sopra a una persona senza camicia? Che i ministri nel tracciare i loro programmi si allontanino affatto dal criterio educativo, hanno torto, ma si capiscono; essi sono oggi ministri dell’istruzione come ieri erano avvocati e domani chi sa che cosa. Ma le donne, le educatrici nate, se perdono in tal modo la bussola dove anderemo a finire? Esse hanno in mano la coscienza del fanciullo, che è la sola cosa necessaria, e non se ne curano; ed hanno l’istruzione della quale si può fare a meno, che forma tutto il loro tripudio. Esse difatti vi parleranno sempre dell’intelligenza dei loro figli, dimenticando che l’intelligenza non è che una impugnatura sulla quale bisogna innestare una punta di ben terso acciaio se si vuole che l’opera sua nel mondo sia profittevole. Vi sono, certo, donne colte che hanno sentimento, passione, buon senso, amore della casa e della vita intima; ma queste belle qualità femminili le conservano ad onta della cultura, non per essa. Essa, la cultura impartita a donne vane, leggere, superficiali, senz’anima e senza criterio le lascia tali e quali colla saccenteria in più. Non è dunque solamente inutile; è in molti casi anche dannosa. Nè basta. La voce della scienza ha già avvertito che tutto lo sperpero di forze fatto dalla donna per contendere all’uomo le occupazioni della mente diminuisce il tesoro di energie intatte di cui la donna è per così dire il serbatoio; forze eguali a quelle dell’uomo, ripetiamolo, senz’ombra di inferiorità, ma destinate a diverso impiego; impiego dopo tutto che alla natura preme assai più di ogni altro. Mettiamoci bene in mente che una donna la quale porta con pazienza per nove mesi un bambino e dolorando lo mette alla luce, indi lo cura con intelligenza, lo circonda di soavità, lo cresce sano, gli forma il carattere, gli fa amare la bellezza, lo educa alla morale, questa donna ha dato al mondo un uomo giusto e sfido chiunque a fare opera più grande. Provvedere poi alle donne che non possono essere madri coll’insultarle tutte e traviarne la missione, equivale al rizzare un ospedale e scrivervi sopra: casa per i sani. Fate l’ospedale, se occorre, ma abbiate il coraggio di chiamarlo ospedale. Per me tutto il movimento femminista si riduce a ciò. E non credo che un corso di storia o una dissertazione letteraria possano mai consolare una donna della sua vita mancata; ma ancora più illogico mi sembra educare le fanciulle col preconcetto che debbano restare zitelle; tanto varrebbe privarle appena nate degli organi della maternità. Noi le vediamo queste povere fanciulle trotterellare, cariche di quaderni, dalla scuola alle accademie intanto che la madre se ne sta in casa sola, oppure le segue docilmente facendo la spola innanzi e indietro — necessariamente divise d’anima e di pensiero. Le vediamo nella fresca età delle illusioni anemizzarsi sui banchi delle scuole, piegare la morbidezza istintiva verso un rigido ideale cattedratico, correre, affannarsi, profanare la loro femminilità in una gara che sarebbe grottesca se non fosse sommamente dolorosa. Non i baci impallidiscono le loro labbra, non le ansie misteriose del sesso ricercano le loro membra: sono stanche, sono affrante, sono anemiche senza avere compiuto nessuno dei loro doveri, senza avere affermato nessuno dei loro diritti, povere tradite cui attende la nevrastenia. Eppure non mancano le persone di buona fede che dicono ingenuamente: Ma bisogna pur fare qualche cosa per le donne che non trovano marito! Ora in tale circostanza una sola cosa potrebbe veramente riescire efficace: trovare il marito. Se questo non si può, tutto il resto è fumo e rumore vano; perchè mi vorrete concedere che isterilire sopra un calamaio piuttosto che sopra una calza come si faceva una volta non muta affatto la questione; e che l’infermo voltandosi sull’altro fianco si illuda di diminuire le proprie sofferenze, come ragionamento da infermo si può compatire, ma non sarà mai il ragionamento della scienza. Non serve proprio dar fiato alle trombe e stendere dei programmi per cambiare semplicemente di doglia, col pericolo già avvertito che la doglia futura sia anche maggiore e di più gravi conseguenze che non l’antica. So che i femministi citano volontieri le donne d’altri paesi. Piano a ma’ passi — rispondo con una sentenza di casa nostra. Piuttosto che uno studio profondo e un vero convincimento, io vedo in codesta mania quella medesima che fa preferire le maniche a pallone quando è troppo tempo che si portano le maniche piatte. Faccio una sola domanda: È maggiore la moralità e l’idealità di quelle donne? Chi le ha conosciute dice di no e dicono di no anche i fatti diversi delle gazzette di quei paesi. Dove dunque non è progresso morale non è vero progresso. Quanto all’essere felici, torniamo da capo. Le _spinster_ che tengono conferenze e presiedono _meeting_ sono davvero più felici delle nostre parenti che coltivano i loro gerani sul davanzale della finestra e preparano delle trine all’uncinetto per il salotto domestico? Tutto dipende dal punto di vista, ma anche questo non bisogna forzarlo. La vita naturale fisiologica della donna è nella casa: se qualcuna crede di battere altre vie, le ha sempre battute da che mondo è mondo e nessuno impedirà di farlo anche adesso; ma erigere l’eccezione a sistema, la medicina a pane quotidiano e propinarla alle giovani creature che non chiedono altro che di vivere secondo i diritti naturali, e far loro un torto di essere così, questo è l’errore funesto delle nuove teorie. Riassumendo la mia povera opinione domando: Che cosa vuole il così detto movimento femminista? Migliorare la donna? ma se vediamo colla storia alla mano e col solo nostro ricordo mirabili creature riguardando le quali ogni donna deve umiliarsi e imparare! Provvedere meglio all’educazione dei fanciulli? Ma se l’educazione non ha nulla a fare coll’istruzione, tanto intima, raccolta, personale è quella, tanto questa è parolaia, piazzaiola e pubblicamente infeconda! Contendere all’uomo le sue funzioni? Ma perchè? Per aiutarlo no; egli non ne ha bisogno. L’aiuto che egli ci domanda è di ben altra importanza e noi affannandoci a volergli dare quello che non gli occorre lo verremo gradatamente privando del solo bene che gli possiamo realmente offrire, essendo primissima tra le leggi naturali quella che non permette la concentrazione di forze in un punto senza affievolire le altre parti. Variare l’occupazione delle donne che non avendo figli si annoiano in casa?... Alla buon ora; questa piccola ragione potrebbe essere la vera; ma è ben piccola per interessare ad essa tutto il mondo. Proprio non vale la pena di una alzata di scudi. Basterebbe che quelle donne se la intendessero tra loro senza gettare tanto biasimo e tanto disprezzo sulle altre, senza pretendere di voler innalzare la loro piccola idea più o meno pratica alle grandiose proporzioni di un ideale umano. Resta la questione economica che si può dividere in due programmi, uno finanziario l’altro morale. Quanto possa essere giovevole in tempi di difficile impiego per l’uomo la concorrenza della donna, cioè la moltiplicazione in tutte le carriere della già enorme falange degli aspiranti è un quesito assai più che problematico. È dunque una guerra che le donne vogliono muovere all’uomo, una specie di arena dove i combattenti si contenderanno il pezzo di pane. Dicono che per la donna questa attitudine è più nobile che non quella di ricevere il pane dal padre, dal marito o dal fratello. Ora che due cani incontrandosi intorno ad un osso giudichino in tal senso non mi fa meraviglia; ma che l’uomo e la donna dopo tante lotte insieme combattute, dopo tanto sangue e tante lagrime versate insieme, debbano ritrovarsi in quella medesima attitudine animalesca è cosa che rattrista e che impensierisce. _AD UNA INCOGNITA_ (_APPENDICE_). Ho ricevuto questo biglietto che trascrivo integralmente: “Benedetta la voce che si eleva a difendere la vera ed unica superiorità della donna! Benedetta la voce autorevole che proclama la santità della maternità! Ma chi ha dovuto rinunziare al più bel nome che possa far sussultare un cuore di donna, chi ha visto cadere a terra infranto un ideale tutto amore, sarà condannabile, buona e valorosa Neera, se, pur rifuggendo da ogni teatralità consacra l’ultimo resto della sua sterile giovinezza al lavoro dell’intelligenza?„ Firmato: “Una donna„. * * * Ecco dunque che per quanto ci si metta di buona volontà non si riesce mai a farsi intendere da tutti. È scoraggiante, se vogliamo, non sufficiente tuttavia per farmi desistere dal consigliare quello che io credo il solo bene della donna. E a questa donna, a questa ignota, a quest’una fra mille mi piace oggi rispondere perchè altre ne potranno approfittare, considerando anzitutto che in una questione d’interesse così generale, il caso isolato non ha alcun valore. La mia gentile anonima ha dovuto rinunziare al più bel nome che possa far sussultare un cuore di donna, ha visto cadere a terra infranto un ideale tutto amore; poveretta, è assai da compiangere, ma ciò non ha nulla di comune colla questione femminista. Ella ha certamente tutto il diritto di consolarsi col lavoro dell’intelligenza, come lo avrebbe a coltivar fiori, a visitare ammalati, a occuparsi di opere benefiche, anche a viaggiare o a far raccolta di francobolli, insomma tutto quello che le pare e piace. Chi pensa mai a contrastarglielo? Resta però che tutte codeste belle cose non sono altro che _fiches de consolation_, pannicelli caldi, cerotti innocenti e che la ragione di esistere per la donna è precisamente quella che all’anonima è mancata; una profonda sventura per lei, non un’occasione di proclamare il progresso della donna per altre vie. Cerotto e pannicelli caldi non possono mai essere un progresso, nè una idealità; sono piccoli rimedi che ognuno di noi si applica il più segretamente possibile rimpiangendo il tempo in cui non ne aveva bisogno. I lavori dell’intelligenza che si fanno a caso disperato entrano appunto in questa categoria umile ed oscura; sono affarucci privati che non riguardano il pubblico. Ma poi la gentile anonima lo ha già detto “rifuggendo da ogni teatralità„ ed io mi immagino di vederla, questa donna infelice, raccolta in sè stessa, ascoltare e far sue le grandi voci della natura o quelle che per il tramite dell’arte pochi chiamati comunicano al largo pubblico dei sofferenti, e dar vita alle due sublimi parole dell’intendere e dell’ammirare in cui una nobile anima può trovare tanto diletto da riempirne l’esistenza. Così fosse sempre l’intelligenza per la donna quale lampada votiva che illumina il tempio, alla quale si rivolgono, sollevandosi, gli sguardi del celebrante e gli sguardi dei fedeli. E se le serene contemplazioni della mente, i lunghi raccoglimenti, l’ammirazione silenziosa non bastano ad alcuni femminili spiriti irrequieti, si donino essi ancora e sempre alle opere d’amore. Pieno è il mondo di bambini abbandonati, di vite infrante, di cuori sanguinanti, di malati, di ribelli, di traditi, di gente a cui manca il sorriso e il bacio spirituale di una donna. Senza uscire dalla propria casa la donna ha modo di beneficare i suoi parenti, i suoi dipendenti, i vicini, gli amici, tutti coloro che vengono più o meno a contatto del di lei cuore e del di lei criterio illuminato. Se in ogni casa vi fosse una donna di proposito la quale non facesse altro che _presenziare alla vita_ tanto basterebbe perchè una quantità di scogli venissero evitati e sciolte le più gravi questioni della felicità. Un viaggiatore arrivando presso una tribù selvaggia trovò tutti gli abitanti schierati in processione attorno ad una vecchia la quale, ornata di monili e di colori smaglianti, era fatta segno alle più grandi ovazioni della tribù che le saltellava intorno con capriole giulive e stridore assordante di grida e di istrumenti in segno di omaggio. Il viaggiatore domandò subito chi era quella vecchia a cui si rendevano insigni onori ed ebbe in risposta che si trattava del suo funerale. Come? Seppellite i vivi? esclamò il viaggiatore scandolezzato. E così era. La tribù, nomade, non potendo trascinare in lunghi viaggi i vecchi e gli infermi, li uccideva al principio di ogni spedizione, dando loro il contentino di un bel funerale anticipato ed ubbriacandoli con tanto rumore e tanto lucicchio, che la vittima stessa, stordita, camminava incontro alla morte come verso una apoteosi. Costumi selvaggi, non è vero, mia signora? eppure non vedo che sia una cosa molto diversa quella che si sta ora preparando per noi. La soppressione della donna e della famiglia: ecco a che tende il così detto femminismo e naturalmente ci inorpellano con grosse parole rimbombanti affinchè ci apprestiamo a morire con grazia. Un mio avversario ebbe a dire una volta che per tre motivi soli si combatte il femminismo. Lo combatte il Governo per gelosia di potere, lo combatte l’uomo per gelosia di sesso, e lo combatte fra le donne, la donna ignorante. Non appartenendo io dunque nè al Governo, nè al sesso forte, è chiaro come il sole che le mie opinioni provengono dalla mia ignoranza. Ebbene, quale donna ignorante reclamo il diritto di aver paura della morte. _LA PARTE DELLA DONNA_ Sempre mi sta dinanzi la casetta di Lazzaro in Bethania, sulla vetta della collina, cinta di ulivi e di tamarindi. È là che Gesù in mezzo a due donne tanto diverse l’una dall’altra pronunciò le sublimi parole “Marta Marta, tu sei sollecita e ti travagli intorno a molte cose, ma di una sola fa bisogno„. Io sono persuasissima che tutte le donne le quali ora lavorano per la questione così detta femminista ritengono fermamente di averla sepolta la buona Marta con tutte le sue faccende domestiche e si immaginano di essere Maria, Maria a cui Gesù disse “Tu hai scelto la buona parte, quella che non ti verrà tolta„. Esse invece non sono che Marte moderne; hanno abbandonato la rigovernatura delle stoviglie ma rigovernano ancora e si affannano materialmente intorno a Gesù, invece di offrirgli in silenzio l’ardore dell’anima — la sola cosa di cui fa bisogno. Una singolare confusione di idee si è venuta ora sovrapponendo alla nozione semplice e retta dei reciproci doveri e per ciò queste donne chiedono: volete che noi viviamo lungi dall’anima del compagno, insensibili alle vittorie e alle delusioni sue? e vivere accanto all’anima del compagno, partecipare alle sue vittorie e alle sue delusioni, vuol dire essere avvocato come lui, dottore come lui, professore come lui, scrittore come lui, elettore, conferenziere, mitingaio come lui; cioè interpretare la propria missione nel modo più pedestre, più gretto, più egoistico, più contrario all’ordine ed alla economia sociale, in cui i due sessi rappresentano due forze e due energie opposte, come sarebbe a dire le radici e la vetta dell’albero, entrambe necessarie ma per vie diverse alla completa fioritura di esso. L’ideale è che la donna sia tanto unita all’uomo da non formare che un essere solo, dunque una sola questione e un solo interesse: non capisco il progresso della donna disgiunto dal progresso dell’uomo. Se l’uomo ha progredito ha progredito con lui anche la donna per ineluttabile legge di equilibrio naturale, e progredirà ancora, ma senza bisogno di scindere quella che io chiamo causa comune. Fare ognuno la propria parte con un medesimo fine, ecco ciò che si deve; ma ognuno la propria parte. Non è del resto da meravigliarsi che l’utopia dopo di avere debellato lo spirito forte, il maschio, si attacchi allo spirito debole, la femmina, e mieta abbondantemente in ogni campo e in ogni classe, poichè essa ha veramente la superficie iridata degli specchietti per allodole ed alle spostate offre la seduzione delle carriere libere, alle infelici la speranza di riformare il loro destino, alle pedanti la gioia di stendere dei programmi, alle sciocche il mezzo di apparire intelligenti, a quelle che si annoiano una occupazione, a quelle che _flirtano_ un campo nuovo da esplorare. Tutte credono di essere mosse da un unico ideale grandioso e tutte non fanno altro che girare su se stesse. Certo vi sono anche anime elette che aspirano ad una perfezione i cui germi stanno esclusivamente dentro di loro, e queste veramente mi interessano e mi fanno compassione, come bravi soldati troppo impazienti che si stancano e vanno sciupando le loro forze a guerreggiare contro i fantasmi. Intanto abbiamo nel campo femminista uno spettacolo non molto dissimile da quello che presenta il Santo Sepolcro a Gerusalemme dove ardono quarantatre lampade: tredici per la fede dei cristiani Greci, tredici per la fede dei cristiani Latini, tredici ancora per i cristiani Armeni e quattro per i Cofti — tutti persuasi di adorare il vero Dio. Imitare e sostituire l’uomo mi sembra, oltre che inutile, molto più umiliante dell’avere una missione a sè che la donna ha davvero ed infinitamente superiore a quelle che può togliere dall’uomo. La brutta idea non è nemmeno nuova. Fino dal secolo tredicesimo una seguace di Guglielmina la Boema voleva andare a Roma per far abolire il papa maschio e istituire un papato femminile. Ma quando vediamo una donna emergere nelle arti o nelle scienze, non dobbiamo credere che ella sia un segno precursore di altre donne simili nell’avvenire; no, ella è semplicemente una eccezione, e come tale possiamo apprezzarla più o meno ed anche ammirarla, se è il caso, ma non di più. Dire che la donna non fa generalmente ciò che fa l’uomo per vizio atavico, è confondere in un modo troppo grossolano per verità gli ultimi dettati della scienza, ed è anche ignorare che donne straordinarie, cioè fuori del comune, o eccezionali come dico io, vi furono sempre; perchè tali qualità nella donna non possono essere il risultato di una educazione o di una preparazione, ma solo la manifestazione isolata e individuale di un modo specialissimo di sentire. Le due più grandi scrittrici del secolo, Giorgio Eliot e Giorgio Sand, passarono i primi trent’anni della loro vita, l’una a manipolare burro, l’altra a fabbricar conserve; forse nessuna, ripeto, nessuna delle fanciulle che ora si vogliono tirar su per scrittrici (povere fanciulle!) scriverà il _Mulino sulla Floss_ o _Consuelo_. Ma anche è necessario persuadersi che migliaia di donne le quali non scrissero romanzo alcuno sono e per intelligenza e per benefico influsso delle loro anime e per ricca sensibilità benemerite al pari e più della Eliot e della Sand. Appoggerò qui una tesi alla quale accennai già altrove, cioè che tutta la forza impiegata dalla donna per i lavori, dirò così esterni, della intelligenza, vanno a detrimento del lavoro intimo, sublime, inimitabile, che lei sola può compiere, sacrificando la sua personalità all’uomo che deve nascere da lei. Sotto questo aspetto è facile scorgere quanto e la Eliot e la Sand poco diedero alla umanità in confronto delle oscure madri di Leonardo e di Dante. Compiangiamo anzichè invidiare, la donna che spinta da occulti destini fallisce la sua missione di olocausto al sesso da cui esce il genio. Se io fossi investita di una autorità qualsiasi e la mia voce potesse lusingarsi di essere ascoltata, vorrei fare una ricerca e stabilire una statistica delle madri degli uomini grandi. Quasi sempre si troverebbe una donna superiore _che non produsse nulla_. La difficoltà di questa ricerca sta tuttavia nell’indole stessa della tesi che vorrei dimostrare, perchè appunto quelle donne non fecero parlare di sè e non lasciarono memorie scritte. Cito a caso le madri di Goethe, di Schopenhauer, di Tennyson, di Ruskin, tutte di gran valore intellettuale o morale. La madre di Alfredo de Vigny, moglie di soldato, sapendo il figlio pure destinato alle armi, potè nell’ambiente eccitatore delle guerre napoleoniche trasfondere in lui le proprie doti di sensibilità e di finezza per cui la Francia annovera Alfredo de Vigny tra i suoi uomini migliori. L’emulo suo, Lamartine, ebbe anch’egli una madre ideale, una madre che era ella stessa l’essenza della poesia e che invece di scrivere dei versi fece un poeta. Guardando in casa nostra vediamo Belli, uno dei poeti dialettali più simpatici, trarre la delicata e sensibile tempra non certo dal padre, gretto e brutale, ma irraggiarsi in lui l’anima gentile della madre morta giovane ed infelicissima. Enrico Tazzoli, il martire di Belfiore, ebbe dalla madre il cuore ardente e coraggioso come quasi tutti — mirabile accordo femminile — gli eroi del nostro risorgimento. E come non pensare alla scontrosa malata anima di Leopardi senza ricordare con istintivo movimento di ricerca quella donna così poco donna che fu la contessa Leopardi nata marchesa Antici? In qual modo si sarebbe svolto con un’altra madre il genio dell’autore di Ginestra?... Una figura grandiosa, una figura che trovo particolarmente interessante giganteggia in questa ricerca che sto facendo dei riscontri intimi tra madre e figlio. Agostino di Tagaste, l’ingegno più mirabilmente moderno dell’antica cristianità, non riconosce di dover tutto a sua madre? Qual donna fu Monica! Non si leggono più le _Confessioni_ di S. Agostino ritenendole buone solamente per i preti. Si ha torto. Sfrondati alcuni capitoli che non saprebbero più interessarci, tutto ciò che si riferisce alla vita intima del potente scrittore è ancora al giorno d’oggi affascinante. “Avvicinandosi il giorno in cui (la madre) doveva uscire da questa vita, giorno a Te (Dio) noto, ignoto a noi, avvenne, procurandolo Tu, credo, con occulti tuoi modi, che ella ed io fossimo soli appoggiati ad una finestra sopra il giardino dell’albergo in Ostia dove, lontani dal tumulto, dopo la fatica di lungo viaggio, ci rifacevamo per rimetterci in mare„. Così incomincia il capitolo che precede la morte di Monica; e ancora parlando di sua madre Agostino trova una frase ammirabile: “Aveva nutriti i figliuoli suoi _tante volte partorendoli quante scorgeva che deviassero da Te_„. E su queste parole luminose ricche di profondi ammonimenti lascio meditare le mie lettrici che trovano poco da fare nella loro parte di donna. _GUERRA DI SESSO_ Guerra di sesso! Chi avrebbe creduto che si doveva arrivare a questo? Eppure ci siamo, e mentre laggiù, nella tranquilla Olanda, i rappresentanti delle nazioni civili si riunivano in un congresso per la pace degli uomini, le donne pensano esse a suscitare una guerra di nuovo genere che per essere incruenta non è meno micidiale, anzi sarà la sola che avrà il potere di distruggere l’umanità, se date le premesse, è lecito spingere le conseguenze fino alla loro logica estrema come vedremo. Riassumendo in poche parole la teoria da me esposta nel capitolo precedente, ripeto che l’uomo, genio creatore, quanto più ha creato in opere, tanto meno trasmette al figlio, per naturale legge di equilibrio della quale ognuno può cercare da sè antichi e recenti esempi. La parte della trasmissione è invece affidata alla donna che, a sua volta tanto più trasmetterà d’ingegno quanto meno ne avrà impiegato. È dunque desiderabile che la donna abbia ingegno, e molto, ma nello stesso modo che le Vestali avevano il fuoco; per custodirlo e conservarlo all’altare: ogni lavoro intellettuale della donna è un furto all’uomo futuro. Nè serve l’obbiezione che quando il capolavoro c’è, importa poco che sia opera maschile o femminile; perchè davanti a due capolavori, l’uno maschile e l’altro femminile, il maschile avrà sempre la forza del suo sesso in più. Dunque la donna che avendo ingegno superiore non lo trasmette qual sacro deposito sacramente custodito al figlio che solo potrà farlo rifulgere nella sua pienezza, fallisce la propria missione e deruba il figlio; e così di furto in furto, propagandosi la mediocrità, il genio verrà estinto per sempre. Ora può darsi che questo sia inevitabile, ma è necessario sapere che si va incontro a ciò. Ci hanno mai pensato i femministi? In tal caso è su questo campo che bisogna portare la discussione se la battaglia deve essere leale. Se non ci hanno pensato, ci pensino, e se è questo che vogliono, lo dicano. È verissimo che ogni essere creato subisce la legge di adattamento, tanto che nella feroce smània di mascolinizzare la donna noi vediamo già sparire a poco a poco le linee generali del sesso. Guardiamo per persuadercene i figurini della moda, guardiamo la riproduzione della donna negli artisti ultimissimi dove la disinvoltura e la snellezza a furia di acrobatismi raggiunge la morbosità. Gli attributi materni, che formavano il vanto precipuo della bellezza femminile antica, cedono il posto ad una ambiguità androgina intorno alla quale si contorce la smaniosa ansia del nuovo. Non più petto, non più fianchi; qualche generazione ancora, e i posteri sosteranno meravigliati dinanzi alla _Venere_ del Tiziano domandandosi che razza di donne erano mai quelle. Ma resta da provare che vi sia in ciò un miglioramento; perchè questa appunto è la posa più antipatica del femminismo, di voler dar ad intendere che si migliora; mentre tutta codesta agitazione non rivela altro che lo stato convulsionario della società, febbrile, malcontenta, avida, insodisfatta, ammalata, che _con dar volta suo dolore scherma_. La maggior parte delle donne (io lo voglio sperare) che si ubriacano ora colle parole diritti, rivendicazione, dignità, pensiero, lavoro, progresso, sarebbero inorridite dell’avvenire che stanno preparando, se tale avvenire non fosse loro mascherato dai fiori e dalle fronde più inorpellate che abbia mai agitato la retorica. E siccome, pur essendo ardentissimo il palpito che mi muove, fredda e serena parla in me la ragione, non mi illudo menomamente di convertire nessuno. Deve bastare alla coscienza un grido libero e coraggioso. Il tempo farà l’opera sua. Consideriamo intanto che in seguito alla soppressione degli attributi femminili, cioè materni, la donna spinta fuori dalla sua orbita, rovesciando tutti gli ostacoli nella sua corsa cieca, vorrà sopprimere anche la maternità. Quando ella sia ben convinta di non avere altri obblighi diversi degli obblighi maschili, e quando per la sua educazione, per le occupazioni, per le abitudini sia pareggiata all’uomo, e tolto di mezzo qualsiasi ostacolo morale o religioso, qualsiasi reticenza di pudore, qualsiasi responsabilità sessuale — alle quali cose si deve arrivare infallibilmente — per logica fatale e terribile la donna si rifiuterà a soffrire. Perchè, dirà essa, l’uomo deve avere dall’amore solo diletto ed io tanto dolore? Da questo alla soppressione del figlio non c’è che un passo, e saranno solamente le stolide che porteranno il grave pondo; le intelligenti non ne vorranno sapere. Data tutta ai lavori dello spirito, in tre o quattro generazioni la donna avrà rinunciato al desiderio occulto delle sue viscere; la donna dunque morirà e con essa il mondo. Indubbiamente fra le odierne preoccupazioni che ci tormentano, questa, che tuttavia non appare, è forse la più seria di tutte; perchè andare incontro alla distruzione della nostra razza divenuta esausta per eccesso di civiltà può essere una suprema legge di natura alla quale convenga inchinarsi; ma esaltare la nostra agonia e fare della morte una apoteosi di progresso, questo poi, no. Cotale atteggiamento è sopratutto umiliante per la donna che si presta strumento inconscio alla lugubre mascherata, abbacinata anch’essa al pari dei selvaggi che si fanno marciare in guerra, assordandoli di scoppiettii e agitando dinanzi al loro occhi drappi variopinti. Si compirebbe così l’oscura profezia dei tempi biblici per cui la donna, l’eterna Nemica, conduce l’uomo alla morte. Fin qui la logica. È lecito tuttavia sperare nelle forze segrete della natura che ridona tante volte la vita quando i medici hanno già pronunciato la condanna. Certo se la società è ammalata al punto da avere tutti i suoi organi in isfacelo, i suoi giorni sono contati, non v’ha dubbio; e nello stesso modo che curvi sul cuore di un ammalato ne interroghiamo i battiti per sapere quanto vivrà, la donna che è il centro della vita universale ci darà la misura del pericolo. Esso è appunto grave nell’ora che corre; abbiamo quaranta pulsazioni al minuto. Ma che perciò? La malignità del morbo, i cattivi medici, perfino la cura sbagliata, nulla potranno contro l’imperscrutabile mistero che ci guida. Se la meta è la vita, l’avremo! Passata la crisi risorgerà l’inferma più rigogliosa di prima; questo dobbiamo credere per schietta fede nei destini dell’umanità. _PER UN MILIONE DI ZERI_ Dinanzi a questo titolo e ai fogli candidi che m’aspettano, sopratutto dinanzi all’onda incerta e vaga dei lettori tutti così ignoti, tutti così interessanti, penso con malinconica invidia agli scrittori che ebbero nel momento voluto un popolo intero d’accordo col loro sentimento. Non sempre furono questi i poeti migliori, i pensatori più profondi, ma essi conobbero la gioia di stringere in un solo amplesso il più gran numero di cuori! Io invece so già di andare contro corrente. Odo i fischi del vento contrario, vedo disegnarsi nell’ombra i profili minacciosi degli scogli, e qualcuno che già mi volle bene, ritrarsi sfiduciato da me. L’ora è triste. Ma forse che anche nelle ore più scoraggiate, nelle ore tragiche, non si può trovare una specie di bellezza a combattere e sia pur soli, per ciò che si crede vero, che si crede buono? Del resto cosa vuol dire essere soli nel campo del pensiero? Le idee non sono mai sterili. Cade da esse il polline misterioso che trasportato in lontane e più feconde regioni forma una selva di ciò che non era che un solitario arbusto. Per un milione di zeri io scrivo oggi — e dovrei dire per parecchi milioni. Non si chiamano così oramai le donne modeste ed oscure vantate dai saggi antichi, derise dai moderni? Nella affannosa ricerca che l’umanità va continuamente compiendo verso un inafferrabile ideale di bene, essa non fa altro che rinnovare l’immagine di un fanciullo brancicante dentro una selva, ora volgendosi a destra, ora a manca, ora retrocedendo di qualche passo, ora pigliando un dirizzone a capo fitto dove vien viene. E al di sopra del fanciullo e al di sopra della umanità raggiano ironiche le stelle. Gli antichi lodatori del _domo mansit lanam fecit_ si ispirarono forse ad un egoistico istinto di sovranità — io sono in questo d’accordo col mio gentile e intelligentissimo avversario Guglielmo Gambarotta che di ciò ebbe ad occuparsi molto felicemente nel suo bel lavoro sull’_Adulterio_ — ma se quello fu un errore di interpretazione che lasciava intatta la sostanza ideale del fatto, ed era per conseguenza innocuo alla causa comune, non si può dire altrettanto del movimento attuale che tende a scalzare nelle sue basi più positive e più razionalmente perfette la divisione del lavoro indicata dalla natura fra l’uomo e la donna. L’errore degli antichi aveva sotto forma brutale un alto significato educatore; l’errore moderno conduce per i fioriti sentieri di un illusorio progresso al trionfo della vanità e del materialismo. Ho già altre volte discusse — non so con quale risultato di merito ma certo con piena serenità e coscienza di osservatore — le conclusioni degli scienziati che a mezzo di bilance e di specilli credono di poter affermare l’inferiorità della femmina in confronto al maschio. Questione oziosa sulla quale vanamente si rintuzzano i campioni del femminismo. La femmina non è nè superiore nè inferiore al maschio; sono entrambi niente altro che femmina e maschio, cioè due parti ben distinte di un organismo indivisibile così armonico, così perfetto, che nulla di meglio si trova nella creazione e sarà sempre una perdita di tempo e di forze l’andare annaspando altrove che in questo meraviglioso mistero l’essenza del tutto. La bandiera del progresso non deve coprire dei lagni utopistici. Finchè la donna conserverà il privilegio di tenere nel suo grembo la vita del mondo ne avrà abbastanza per la sua attività, per la sua intelligenza, per i suoi doveri, per i suoi diritti, per tutte le parole che ci facciamo rimbalzare da un capo all’altro a guisa di palle elastiche, e che scoppieranno un bel momento da quelle vesciche vuote che sono, senza avere menomamente intaccato l’opera silenziosa della natura. Un argomento dei femministi — vorrei dire fra i più deboli se non mi sembrassero tutti deboli a un modo — è l’obbiezione che non tutte le donne possono essere madri. Tutte lo dovrebbero soggiungo io ed ecco che l’abbiezione cade. Perchè alcune donne sono sottratte alla loro missione si dovrà imperniare la società sul caso particolare, diciamo pure sulla disgrazia particolare? Non sarebbe invece meglio riunire gli sforzi perchè ogni donna abbia il suo posto nella via dei secoli? Questa è l’idealità, questa la verità — e questo sarebbe il progresso. Falso pudore, falso sentimentalismo e più che tutto materialismo mascherato da principio educativo consiglia ad allevare le fanciulle lontane da quella idea che rappresenta il solo perchè della loro esistenza e si tenta di gettare sovr’essa il dispregio dicendo che a questo modo la donna è una macchina da fare figliuoli. Si potrebbe dire egualmente che il sole è una macchina per produrre il calore e si direbbe la verità e non sarebbe meno vero per questo che il sole è la prima e la più poetica forza dell’universo. La missione della donna è precisamente quella di procreare; peggio per chi interpretando volgarmente tale cosa divina non sa scorgervi altro che la funzione di una macchina. Io spero di potere un giorno dimostrare, sull’appoggio di documenti che sto raccogliendo con molta pazienza, quale parte abbia la donna nella trasmissione della intelligenza, cioè a dire della parte più spirituale dell’essere umano. Ma non è ora il caso. Per oggi guardiamo come intorno a questo soggetto della donna così individuale e così complesso, abbiano lavorato tutti gli ingegni, in tutte le arti, in tutti i tempi. L’uomo nel cosmo può essere una accidentalità; ma dato l’uomo la donna vi diventa una necessità. Vi sono state a rigor di favola (e la favola non è altro che la maschera del vero) donne che vissero sole e guerriere sulla riva del Termodonte; ma di uomini senza donne nè storia nè favole parlano; anzi quando alcuni popoli credettero di non averne a sufficienza mossero a rapire quelle del vicino. Eppure accettando il principio indiscutibile della importanza e della necessità della donna, non si può a meno di restare sbalorditi contemplando per quali vie differenti e sotto quali diversi aspetti la donna si impose. Nei tempi antichi essa è una figura sbiadita che non ha, si può dire, poteri riconosciuti. L’uomo allo stato di barbarie, forte della superiorità fisica, la relegava al secondo posto, come vediamo praticare anche oggi via via che si discendono gli strati sociali. Ma è appunto ammirabile che da quest’umile posto ella abbia saputo innalzarsi fin dove è giunta. Consideriamo che le religioni ebraiche e mussulmane rispettando la donna come sposa e come madre, scrissero tuttavia per lei nella Bibbia e nel Corano alcuni paragrafi ingiuriosi e le crearono esclusioni insultanti, fra cui primissima nella religione di Maometto quella di non poter partecipare al culto di un essere supremo e nella religione di Mosè l’accusa di impurità. In Grecia, tra le raffinatezze di una vita lussuriosa, l’arte sorgendo dai limbi informi modellò i primi capolavori sotto l’ispirazione delle donna. Da animale domestico ella salì al grado di cortigiana. Fu adulata, fu incensata. Il paganesimo trovò in lei la più perfetta espressione del suo culto ed Aspasia scuotendo i braccialetti d’oro sul capo inebbriato di Pericle potè annunciare ridendo che il tempo delle catene era finito. Non doveva tuttavia essere questo il suo trionfo maggiore. Il cristianesimo primo rialzò veramente la donna. Coll’apoteosi di Maria ella fu salva. Passando dalla forma all’idea, dal talamo all’altare, la donna cristiana ha confermato l’infinito potere femminile. In vista di quella meta raggiante le martiri e le sante partirono dalle oltraggiate case ingrossando le file che divennero legioni e popolarono gli aspri sentieri della conquista nova. Innalzando il grido della rivolta si chiamarono figlie di Dio e vollero la libertà; si chiamarono sorelle di coloro che soffrono e vollero il martirio; si chiamarono compagne dei forti e vollero la lotta. La religione cristiana svolse tutta l’idealità della donna. Disse: tu sei la parte migliore dell’uomo, rialzati dal vil posto di concubina ed assorgi alla gloria della famiglia! Poi venne il Medio Evo. Quelle turbe su cui il cristianesimo aveva soffiato il concetto di una idealità elevata erano preparate all’accettazione del motto che fu per tanti anni la forza di intere nazioni: Dio, il re, la donna. Dal fondo delle borgate, dai tetri castelli, il fiore della gioventù accorse sotto il nobile vessillo. Nè conviene giudicare il trionfo della donna nel Medio Evo perchè la vediamo giudice nei tornei ed arbitra delle corti d’amore o perchè i menestrelli cantavano patetiche romanze sotto ai veroni illuminati dalla luna. Sfrondiamo pure la leggenda dei fiori che vi ricamò intorno la fantasia, resta sempre il nome della donna invocato quale egida dell’onore, messo a canto ai nomi di Dio e del re. Che fosse dittatrice di sentimenti gentili o monaca consigliera di sante abnegazioni, l’influenza della donna nel Medio Evo è grande. Temperò i costumi rozzi e violenti, pose nel cuore dell’uomo altri desideri che non fossero di stragi e di sangue. Ricompensando i prodi col suo sorriso elevò l’amore e dalla stessa fonte che l’aveva resa oggetto di bassa considerazione seppe far raggiare la sua gloria maggiore. Coll’amore poggiato in alto la donna fu regina. Ed ora che cosa le si vuole offrire di più? Scosso sui cardini il potente colosso del cristianesimo anche l’astro della donna si vela. Chi ha attentato al potere divino non indietreggerà davanti alla donna. Le sottigliezze di una filosofia ribelle, i costumi di troppo rozzi che erano divenuti eccessivamente raffinati, sviato l’ideale, cresciuta la smania dei godimenti, acuiti i bisogni, il ridicolo gettato a piene mani su tutto ciò che è mistero, cessa, si capisce, l’alto potere femminino. La donna ritorna donde era partita; strumento di piacere o macchina da fabbricar figli. Ma che cosa le si offre per rialzarla di nuovo? Io lo domando ai femministi che si illudono di giovare alla donna aprendole biblioteche e circoli, cattedre ed urne o di consolare il suo cuore angosciato con un titolo accademico o di riempire il vuoto della sua esistenza con un seggio alla Camera. Può darsi che questa cosa orribile avvenga: “_una donna felice fuori della famiglia_„. Ma allora o femministi il vostro trionfo segnerà la morte della donna. Avremo un’altro tipo di donna — essi dicono — più forte, più evoluta, più conforme alle esigenze moderne. No, no, no! Voi continuerete a svolgere esternamente senza profitto d’alcuno le qualità interiori che fecero finora della donna l’educatrice per eccellenza, voi devierete queste qualità (che hanno mezzi e fini diametralmente opposti a quelli dell’uomo) verso una meta unica, uniforme, raggiunta la quale vi troverete assiderati e nudi a guisa di chi abbia smarrito la luce e il calore, perchè la donna è appunto la luce e il calore, e quando non può essere ciò che è, non è più nulla, per quanto dottoressa o professoressa. Una grande maggioranza di donne si trova inferiore al proprio còmpito, è vero, ma questo si può dire anche degli uomini. L’errore consiste nel credere che ciò che giova all’uno debba giovare alle altre e che una parità di educazione sia desiderabile quando tutto è diverso in loro fin dalla nascita; quando scavando nella polvere dei secoli, davanti a pochi frammenti di ossa umane, si può dire: questo è lo scheletro di un uomo, questo è lo scheletro di una donna; quando nella oscurità più completa solo udendo un grido sappiamo se chi lo ha gettato è un uomo oppure una donna. Eh! via, il sesso non è un pregiudizio e non si cancella. L’errore consiste nel credere e nel far credere che la donna si trovi menomata restringendo la vita fra il talamo e la culla, che scrivere dei bozzetti sia occupazione più intellettuale che allevar figli, quasi la vita dell’anima e le più alte aspirazioni e l’ingegno più sottile non potessero trovare materia per loro nella cerchia delle pareti domestiche. Un nobile poeta ci lasciò di sua madre questa descrizione: “I primi succhi nutritivi della mia intelligenza li attinsi sopratutto nel cuore di mia madre; leggevo co’ suoi occhi, sentivo colle sue impressioni, amavo col suo amore; si avrebbe detto che la sua natura, i suoi sentimenti, le sue sensazioni, i suoi pensieri fossero i miei. Oh! senza di essa nulla avrei compreso della creazione che mi stava innanzi, ch’ella mi spiegava con quella sua anima aperta, calda, amante, spargendo su tutto la luce, mettendo in tutto la vita. L’istruzione insensibile che ricevevo non era una lezione, era l’attività stessa del vivere e del pensare che andavo compiendo sotto i suoi occhi. Mia madre si dava poca pena di ciò che chiamasi coltura; non aspirava a fare di me un fanciullo prodigio; non permetteva che mi si comparasse con alcuno, nè mai mi esaltava o mi umiliava con dannosi raffronti. Pensava che in tutte le condizioni dell’esistenza è mestieri da prima fare un uomo, e che quando l’uomo è maturo, e cioè quando l’essere intelligente è in giusti rapporti con se stesso, con gli altri uomini e con Dio, sia pure un principe od un operaio, egli è ciò che deve essere, è per sè stesso un bene e l’opera della madre è compiuta„. Facciano questo le donne, sempre questo e niente altro che questo! L’ammirabile creatura di cui parlo viveva nella più grande semplicità, in campagna, nella compagnia degli umili e dei poveri; non era dotta, non frequentava i dotti, ma formò l’animo di suo figlio per modo che egli potè dire parlando di lei: “È nel cuore che Dio ha messo il genio della donna, poichè le opere di questo genio non abbiano ad essere che opere d’amore„. Come si vede, io sono ben lungi dal negare l’intelligenza della donna e nemmeno la ritengo inferiore a quella dell’uomo. Dico e ripeto che è altra cosa e che perciò appunto deve applicarsi là dove l’uomo non riescirebbe, non potendo il bene derivare se non dall’equilibrio. Nessuno mi immagino vorrà negare che sia tattica errata quella di riunire tutto il peso da una parte sola della barca: nel nostro caso il punto sovracaricato è la produzione dirò così materiale dell’ingegno, una specie d’idolatria barocca e ottusa che si viene sostituendo all’ardore intimo per cui si apprezza maggiormente un ignorante laureato che un uomo d’ingegno senza diploma, uno che pubblica su per le gazzette ad uno che si accontenta di leggerle. E come non bastasse questa viziatura di criterio nel sesso forte, ecco che se ne immischiano le donne e fondano Leghe, architettano Circoli, sognano di Riviste e di Biblioteche dove possano riunirsi anch’esse. Chiamano tutto ciò: “migliorarsi!„ La casa intanto si vuota a poco a poco... Come già vedemmo spenti gli antichi focolari, centro di affetto, di allegria, di intimità, mentre un calore senza luce riscalda le nostre case dove una fiammolina senza abbracciamenti cuoce lugubremente nell’ombra le nostre vivande economiche, vedremo sparire il tavolino da lavoro, la seggioletta delle lunghe soste che tanta poesia di ore meditative chiudeva in sè e sulla quale noi, prossimi a dileguarci, evochiamo ancora pallidi e lontani profili di donne squisite che i nostri figli non troveranno più. Cade a proposito qui la sentenza dell’Evangelista: _la lettera uccide_. Sì, noi soffochiamo, anneghiamo nella interpretazione gretta e materiale di tutto ciò che si riferisce allo spirito. Invece dell’“anima aperta, calda ed amante che sparge su tutto la luce mettendo in tutto la vita„, si va educando una donna saccente e dottrinaria, una illusa che chiudendo alla sera i suoi dotti commenti su Tasso e su Ariosto o firmando un appello alle altre donne sarà persuasa di avere bene impiegata la sua giornata. Si intende che, direttamente, nè commenti, nè appelli non fanno male a nessuno, ma uno spreco di forze è sempre un danno e movere ad infilzare gli anelli di una giostra quando il nemico ci sta scassinando la porta di casa non pare veramente opportuno. L’istruzione al pari della religione sono parole vuote di senso ove non le animi una forte idealità. _Abecedario_ e _paternoster_ non hanno alcun valore se non vibra in essi il soffio elevatore. Abbiamo chiese, abbiamo scuole, abbiamo libri, ma guardiamo a che cosa ci hanno condotti questi ultimi venti anni in cui le scuole si sono moltiplicate e i libri abbondano e tanto abuso si fa della parola educare. Inutilmente si accusano la miseria e l’ignoranza per spiegare i traviamenti del popolo quando nelle classi più colte vediamo lo stesso scetticismo, la stessa sete di piaceri materiali, la stessa mancanza di moralità, la stessa leggerezza, starei per dire lo stesso ritorno alle barbarie ed alla impulsività primitive. Ah! purtroppo quello che manca non è l’istruzione, non è nemmeno il pane. Cessate dal rizzare altari, dall’agitar turiboli; è tutta opera e rumore vano; manca il Dio. Cuori amanti, anime appassionate, donne — donne nate all’amore — ricostruite la casa! Non è la scuola che educa, è la casa; non è il libro che insegna, è la vita; non sono i maestri che fanno l’uomo, è la madre. L’opera d’amore, come ogni mistero, ha bisogno di raccoglimento; e se vi è ancora da sperare qualche cosa nel futuro, se dobbiamo cercare un porto dove orientarci e un faro che ci additi la via, non sarà certo fra i comizi delle emancipatrici ma sarete voi, donne oscure, donne umili e forti, salde alla vostra missione che ci salverete tutti. Di una coscienza profonda abbiamo bisogno e la coscienza non si acquista studiando. Essa è innata negli esseri superiori, è un vero stato di grazia che si può, fino ad un certo punto, comunicare agli altri per mezzo dell’esempio, non in diverso modo. Ora l’esempio non è predica, non è dottrina; l’esempio è il calore silenzioso di un pensiero che segue il nostro e lo biasima o lo incoraggia con un solo volgere degli occhi. Un rossore, una lagrima, bastano qualche volta ad illuminare un’anima, una mano tesa al momento opportuno può salvare una vita che si accasciava. E si dirà che la donna non ha nulla da fare? E la si spingerà ancora nelle biblioteche, nei tribunali, nei comizi, ancora, quando la casa da lei abbandonata cade in rovina e l’uomo giunto alle maggiori conquiste dell’intelligenza troverà che tutto è arido, tutto è inutile, tutto è infecondo senza il suo amore? _VECCHIE ZITELLE_ Molto prima che si parlasse di una questione femminile io avevo presa singolarmente a cuore la causa della donna dal punto di vista della sua felicità, concentrando specialmente le mie osservazioni sulle vecchie zitelle. Circostanze particolari mi offrirono occasione di conoscerne molte, di poterle studiare quindi su larga scala con abbondanza di documenti e per la pietà somma che ne ebbi le feci eroine di molti de’ miei romanzi. Ma che questa parola pietà non faccia supporre alcun sentimento di umiliazione; se così fosse ho pronta un’altra parola sulla quale non vi può essere equivoco; dirò l’interesse che mi ispirano, dirò la bellezza artistica ed umana della loro causa, dirò il bene che volli a ognuna di esse, anche a quelle che mi fecero del male — forse sopratutto a quelle. È una schiera interminabile che mi sfila dinanzi. Qualcuna, timida, a piccoli passi, con quei movimenti legati così caratteristici di uccelletto in gabbia; qualche altra cauta e felina, coll’andatura leggera di chi porta scarpe felpate; altre invece procedono rigide, maschili, scambiando la durezza per disinvoltura e la violenza per il potere, quasi fosse in loro un tentativo di mutar sesso per aver fallito quello che ebbero dalla natura; riconoscibili al gesto, alla voce, allo sguardo, al sorriso; tutte segnate da un misterioso accenno, da un velo impalpabile che sembra isolarle dal fermento della vita e rinchiuderle nello stupore del sogno. Qualcuna pare, voglio convenirne, aiutata da qualità specialissime, creatura veramente superiore, sforza le linee generali del tipo e si presenta con un’apparenza nebulosa di vedova, dove, a studiarla bene, la tristezza è più profonda, più inconsolabile, più disperata ancora. Ed io le amo tutte: le rassegnate, le ribelli, le martiri, le maligne, le invidiose, le ipocrite, le ridicole, tutte, tutte! Le amo perchè queste sono le vere infelici, le derubate, le vittime della società qualunque sia la loro condizione di ricchezza e di coltura. Queste sono le vittime che bisogna redimere se una redenzione è possibile, se c’è un progresso da fare; e se non si può, commiserarle ed amarle infinitamente. Persone serie, animate dalle migliori intenzioni esclamano: “Oh! che la donna non debba far altro a questo mondo?„ Precisamente; ma scusate se è poco. Si vorrà ammettere per lo meno che non ci sarebbe stato bisogno di nascere donna se non fosse appunto per ciò. Tutte le questioncelle di sapere o non sapere, di diritti, di indipendenza, intorno alle quali si fa tanto baccano, sono men che bolle d’aria a confronto di questa questione capitale, la sola vera questione della donna. Il resto potrà essere buono o buonissimo od anche ottimo ma non è necessario. Raggruppando intorno ad esso tutte le forze si stornano dallo scopo principale, si impoverisce la pianta a furia di sbizzarrirsi nelle ramificazioni e col pretesto di giovare alla causa femminile si trascura l’essenza stessa e il perchè della donna nella creazione e nella società. — Non crede ella — mi obbiettava recentemente un giovane sacerdote di molta intelligenza — che vi sieno stati d’anima speciali i quali consigliano anche alla donna vie diverse che non sia la maternità? E non può la donna liberamente scegliere ciò che le conviene? Certo che lo può. L’eccezione è essa pure una regola od ha almeno al pari della regola diritto di vivere. Ma l’eccezione non risponde mai ad un bisogno generale. Noi tutti abbiamo veduto qualche equilibrista a reggersi sopra una lama di coltello; ma ciò non prova ancora l’utilità di una lama di coltello come passeggio pubblico. Quando si fa, come nel caso attuale, una questione di sesso, bisogna vedere anzitutto quale sia la sua precipua condizione d’essere e se è appropriandosi le attribuzioni maschili che meglio può giovare a sè stesso ed agli altri o non piuttosto cercando di migliorarsi nelle attribuzioni proprie. Il problema femminista va risolto in un accrescimento di femminilità. Sieno le donne sempre più interne, sempre più intime; presiedano esse all’urna della vita e versino da quella ai loro assiderati compagni la sola cosa necessaria alla felicità di entrambi: l’amore. Per la donna sopratutto sembrano scritte le parole di un nobile poeta e pensatore: “Studiate, studiate, studiate e sarete piccoli; amate, amate, amate e sarete grandi„. Promuovere delle leggi sul lavoro della donna è certamente ottima cosa che non si collega però se non indirettamente alla felicità della donna stessa. Poichè il bisogno primo della donna risponde con bella armonia allo scopo per cui fu creata, queste leggi le saranno di giovamento, ma sempre in seguito alla legge d’amore dalla quale la allontanano invece la concorrenza all’uomo nella carriera degli impieghi e la partecipazione materiale alla vita pubblica. Non a caso dico materiale perchè non è affatto mia intenzione di precludere alla donna l’interessamento a queste parziali necessità della vita, così come l’uomo si interessa e prende parte al reggimento della famiglia il quale appartiene di fatto alla sua compagna, onde fondendo, non gli uffici, ma le idealità loro, si aiutano e si completano. “L’emulazione — lasciò scritto Mirabeau — non deve essere la smania di uscire dalia propria condizione, bensì di distinguervisi„ differenza sottile che ogni donna deve meditare seriamente prima di rinnegare tutte le glorie del suo passato. Nè inferiori, nè superiori, nè eguali, ma diversi ed equivalenti. Essendo questa la mia formula di giudizio relativa ai due sessi, mi domando perchè si debba esigere dalla donna che ella compia oltre la sua anche la parte dell’uomo, mentre non si chiede all’uomo di surrogare la donna negli uffici suoi. Non vi è nessuna ragione, nè sentimentale, nè scientifica, nè economica che corrobori tale inversione dei diritti e dei doveri, perchè se per la dignità femminile basta di fronte al lavoro dell’uomo l’inimitabile ed invalutabile lavoro della maternità, il giudizio della scienza e dell’economia ha da lungo tempo proclamato il vantaggio della divisione del lavoro. C’è chi non fa mistero del fine a cui mira e dice chiaramente: Vogliamo la distruzione della famiglia, del nome, della legge, dell’eredità, dell’amore, di tutto ciò che è fuori dalla lotta selvaggia e primitiva. _C’est à prendre ou à laisser_, ma questa dichiarazione ha il vantaggio della sincerità; è qualche cosa; si può almeno discutere. Quando però un pazzo getta un zolfanello acceso in mezzo alla folla non si sa più dove si va a finire. Nel panico, nella eccitazione, nei malintesi, si compiono eccidii miserandi e una quantità di persone muoiono asfissiate, senza sapere nemmeno chi dover ringraziare. Nei miei ricordi pieni di compassione e di simpatia c’è una vecchia zitella gobba. Non so chi avesse gettato lo zolfanello vicino a lei, ma la poveretta col fumo negli occhi ed annaspando girava di casa in casa per raccogliere firme ad una promulgazione sulla legge del divorzio... Non voglio entrare qui a parlare del divorzio, si capisce; la singolarità sta tutta nella persona che si faceva interprete di una questione simile. Ella ripeteva come un povero automa dalle braccia di stoppa, a cui si è posto un meccanismo in gola. _L’amore_, _la libertà_, _i due coniugi_, _la separazione di letto e di mensa_ e l’amore da capo, colla intonazione sbigottita di uno che avendo viaggiato il mondo nel fondo di un baule volesse raccontare le sue impressioni del deserto, dell’oceano o delle aurore boreali. Poveretta! Ed una rammento, bellissima, di un ingegno che adunava ai suoi piedi tutti gli omaggi, ricca, buona, in possesso di ciò che si ritiene la felicità. La rammento in una calda sera di autunno, sotto un pergolato gonfio di grappoli, mentre toccandosi colla mano i fili d’argento della superba chioma mi diceva con un singulto spasmodico: Oh! fossi senza tetto e senza pane ma sapessi perchè germogliano queste piante, perchè questa vite porta i suoi frutti! Un simile grido in una bocca cotanto pura, assunse in quell’ora e in quel paesaggio, una espressione tragica che non dimenticherò mai più. Doveva aver pianto lagrime di sangue ed essere passata attraverso tutte le torture perchè le sconsolate parole trovassero il varco delle sue labbra. E quando la rividi alla luce dei doppieri colla maschera sul volto di donna felice, circondata, adulata, avendo intorno a sè le delizie del lusso e dell’intelligenza mormorai ancora: Poveretta! Non è il caso di accennare neppure lontanamente alla retrograda utopia del libero amore come rimedio, perchè, astrazione fatta dai riguardi di coscienza, esso risolverebbe la questione in senso puramente fisico, mentre è un complesso di diverse aspirazioni che si racchiude nell’amore ed anche coloro che inneggiano alla libertà dell’unione sessuale se vogliono informarla a un concetto elevato, devono pure annettervi una condizione di fedeltà, di responsabilità e di obblighi che ne fa una specie di matrimonio. Nè lo scoglio economico si allontanerebbe col duplicare il numero dei professionisti, che ove ciò accadesse non più in via di eccezione ma come fatto generale, per inevitabile legge di equilibrio verrebbero a diminuire tutte le mercedi, col solo risultato finale di guadagnare in due quello che ora l’uomo guadagna da sè — e fra questi due chi ha tutto da perdere è la donna perchè oltre alle occupazioni, ai doveri, alle fatiche, ai dolori del suo sesso dovrà aggiungervi le occupazioni, i doveri, le fatiche, i dolori dell’uomo. E chiamano ciò fare del femminismo! Ma poichè la parola è pronta, accettiamola. Siamo tutti femministi! La difficoltà consiste nell’intendersi e per intendersi conviene anzitutto allontanare il pregiudizio che tale altissima questione poggi esclusivamente sulla base materialistica come vorrebbero i riformatori o negli sdilinquimenti sentimentali, facile bersaglio di un ridicolo tanto ingiusto quanto puerile. La peggiore sorte che possa toccare ad una donna è il celibato, non perchè l’uomo sia in sè stesso il supremo dei beni, ma perchè nell’unione coll’uomo a scopo di fondare una famiglia la donna trova la estrinsecazione completa di tutte le sue facoltà, sieno pure intellettuali fin che si vuole. Fatta la debita parte alle eccezioni, che per ciò solo trovano la loro strada, una rivoluzione di sesso, mentre non giova a queste pochissime, danneggia le altre che in vani conati consumano le forze e perdono di vista la loro meta. S’intende che ciascuno a questo mondo è libero di sè, tant’è vero che abbiamo i suicidi, ma quando si tratta di fare una propaganda, questa deve mirare alla vita, non alla morte. _IL FANCIULLO_ Tra le forme diverse, buone e mediocri, alcune nobili, alcune anche morbose e sbagliate che assume la moderna beneficenza una sola è santa, se con questa parola un po’ antica ma non ancora scaduta dal suo fascino vogliamo indicare il massimo dell’eccellenza: la protezione del fanciullo. Il fanciullo è veramente un deposito sacro che gli uomini si trasmettono di generazione in generazione e quando un ricco dedica parte de’ suoi averi ad uno degli Istituti dove si raccolgono i fanciulli abbandonati parmi che esso compia davvero una bella azione; meglio che a soccorrere i ciechi, i rachitici, i vecchi, perchè in queste forme ristrette della pietà l’obbiettivo è anzitutto materiale e per quanto nobilissimo non assurge alla complessività grandiosa che si raccoglie intorno al problema della protezione dell’infanzia. Siano dunque benedetti i ricoveri dove tanti piccini derelitti sono strappati alla miseria ed all’infamia, e chi ha denari ne dia pure per una causa che racchiude in sè tutte quelle a cui metton capo i bisogni dell’umanità. Ma non basta. L’errore comune che fa credere a un miglioramento dell’uomo sotto forma di benessere materiale è pure quello che induce a pensare di aver colmato ogni lacuna dando da mangiare a chi ha fame; così molti di coloro che largheggiano in beneficenza verso i non abbienti sono così privi in casa propria di luce ideale che i loro stessi figli offrono ragione di compianto ben più dei loro beneficati. Guardiamo un bambino. Egli nasce ed è un nuovo mistero gettato nel mondo! Il suo primo vagito è una voce che nessuno ha udito ancora; il gesto delle sue piccole mani è quello di un’angelo che schiude le porte dell’avvenire; per questo il simbolo più profondo della religione cristiana mi è sempre parso l’adorazione della culla, la divinità dell’infante. A chi considera la grandissima differenza che corre fra l’educazione di una volta e quella dei nostri giorni, non può sfuggire la melanconica riflessione che il progresso è quasi tutto materiale quindi egoistico ed incompleto. I bambini dell’oggi vestono meglio, mangiano carne e bevono vino a scuola invece della classica mela che nei casi più fortunati riempiva da sola i panierini dei nostri tempi, si divertono di più, sono più svegli, più disinvolti; hanno giornali e riviste; i maggiori teatri si compiacciono di riservare per loro uso alcune serate o mattinate speciali, quando non siano addirittura veglioni e balli mascherati. I concorsi di bellezza sono stati offerti alla loro precoce vanità; si sono ideate esposizioni per essi e le famiglie non hanno mai fatto tanti sacrifici come ne fanno ora per circondare di rose le picciolette esistenze. Ma quanti sono compresi dalla riverenza del mistero? quanti intendono nella culla l’altare? Quanti nell’amore per il bimbo includono il rispetto alla sua innocenza ed alla sua libertà? La tendenza voluttaria dell’epoca in cui viviamo e il materialismo spietato di tutte le aspirazioni fa sì che, anche tra i genitori, i migliori sembrano quelli che alimentano le gracili membra dei figlioletti con ferro ed olio di merluzzo, che li conducono a respirare l’arie ossigenate dei monti e non risparmiano nè un maestro nè una classe, fosse pure al di là delle Alpi, perchè si possa dire che essi hanno fatto di tutto per il vantaggio della loro prole. La diffusione della scienza e dell’igiene hanno pure contribuito a questa ricerca affannosa del miglioramento della razza e sta bene; ma basta? Ricordiamoci che il contatto di maestri i quali sanno solamente quello che insegnano, nel caso che lo sappiano, dà bensì al fanciullo la conoscenza di qualche ramo del sapere, ma lascia intatta la zolla feconda dell’anima, se pure non la offende e la isterilisce per le gravi deficienze dell’anima dirigente, come avviene non di rado. Dicendo non di rado, temo di essere stata troppo ottimista, perchè davvero la più assoluta mancanza di criterio educativo si distende qual folta gramigna dalla casa alla scuola, dai maestri elementari ai professori cavalieri, dai genitori ricchi ai genitori poveri, dagli oziosi ai lavoratori, per cui nessuna scusa va ricercata nè nell’ignoranza, nè nella miseria e neppure nelle soverchie occupazioni, ma solo in una immensa dilagante povertà del sentimento educatore. Infatti se le buone condizioni della vita fossero causa prima di buona educazione perchè non sono tutti onesti i ricchi? Perchè abbiamo i ladri dove non c’è bisogno di pane e i delinquenti nati dove nessuna miseria strinse il concepimento? Egli è che per educare occorrono persone veramente superiori, e queste, rare sempre, non guardano quando nascono se le circondano agi o povertà ma vanno dritte per il loro cammino di luce seminando il buon germe tanto sulle vette radiose quanto nel fondo dei burroni dai quali surse tante e tante volte l’umana pianta del genio. Per educare bisogna avere un’anima ardente, chiara, retta, sensibile; tutto il resto è pedanteria. I genitori e i maestri di una volta trovavano un alleato già pronto nella fede. La religione, come la falsariga ad uno scrittore inesperto, offriva loro un percorso di precetti sul quale non c’era altro da fare che ricalcare i piccoli passi infantili; così anche le menti meno preparate entravano senza fatica in una parte dove l’opera della creazione si presentava compiuta e non rimaneva che quella della diligenza. Se la religione non avesse altri meriti, questo basterebbe per far comprendere quanto sia difficile sostituirla. Non dico certo che elementi morali non si possano trovare anche fuori di una professione di fede; ripeto che il dover fare una ricerca propria richiede una somma di qualità infinitamente superiore alla media, e se io abbia torto o ragione decida chi di codesti problemi si interessa. Ma ecco precisamente il punto debole. Chi se ne interessa? Se si riformasse l’educazione si riformerebbe il mondo, lasciò scritto Leibnitz. Noi intanto prendiamo nota che di tale riforma gli indizi sono purtroppo incerti, e sarebbe pure un vastissimo e nobile agone per l’ingegno femminile questo: L’educazione per i ricchi e per i poveri, la morale per i ricchi e per i poveri, l’amore per i ricchi e per i poveri. Molti anni fa abitavo una casa il di cui portinaio faceva il sarto. Era un piccolino, bruno, molto ossequioso, dalla faccia enigmatica; sua moglie, una bionda lunga e magra, allattava il loro unico figlio. In complesso non c’era niente da dire, sembravano brave persone. Dopo qualche tempo un ragazzetto di otto o dieci anni venne ad accrescere la famigliuola; chi era? Sulle prime lo dissero un parente, un garzone, che so io, ma a poco a poco si seppe la verità. Era un figlio nato loro prima del matrimonio, messo all’Ospizio dei trovatelli, dimenticato per tutti quegli anni e ripreso nel momento opportuno di sfruttarlo. Egli infatti fu subito sottoposto agli uffici più gravosi e trattato duramente, come uno straniero che si è obbligati a tenere in casa, meno utile di un domestico, meno simpatico di un cane o di un gatto; il posto peggiore per dormire, il rifiuto della cucina per mangiare, scarse le vesti, frequenti le busse.... Ah! non posso ricordare senza fremere certe sere d’estate. Le mie finestre davano sopra un giardino e al di là del giardino il bugigattolo del portinaio nereggiava all’ombra, fatto vivo dalla lucernetta a petrolio; e nel silenzio degli alberi, del cielo stellato, veniva a volte un rumore secco che io non comprendevo: Sarà il vento! — dicevo a me stessa. Ma nelle sere afose di luglio in cui non tremava foglia il rumore si faceva udire ancora, lontano, come soffocato: Sarà qualche telaio!... Mai, mi si era affacciata la terribile realtà. Me la dissero una volta a bruciapelo. “Sa che è un infame quel portinaio a battere suo figlio in quel modo?„ Scesi dal portinaio, indignata e quasi incredula. Egli si difese dolcemente, con compunzione; affermò che il ragazzo aveva una indole pessima, che era stato allevato male e che bisognava correggerlo. La madre impassibile, se ne stava sulla soglia coll’ultimo nato fra le braccia e confermava tratto tratto col capo, quasi sorridendo. Spiai il ragazzo le poche volte che usciva per qualche commissione; con buone parole, con carezze, mi parve di vedere l’animo suo ad aprirsi. Non mi fu possibile parlargli a lungo mai; ma sentendo in me un’amica mi guardava con lunghi sguardi riconoscenti e rispondeva con un bacio innocente alle mie carezze. Vedendolo seminudo gli regalai qualche oggetto di vestiario, ma non potè metterli perchè sua madre li adattò al piccino, suo unico amore. Era venuto dalla campagna florido, bello; l’Ospizio lo aveva affidato a una buona contadina che se lo teneva come un figlio e che pianse a calde lagrime quando dovette cederlo ai legittimi genitori. In poco tempo divenne pallido, giallo, colle guancie gonfie e l’occhio spento. La contadina, non potendo darsi pace, venne colla speranza di riprenderlo e se ne partì angosciata gridando: Povero Egidio come me lo hanno ridotto! Parlai allora con persone pie insistendo sulla necessità di togliere il fanciullo a quelle torture e mi risposero che non si poteva, che i genitori sono arbitri dei figli e che senza gravi motivi non è permesso ledere la paterna potestà. Chi sa, secondo loro, che cosa dovrebbero essere i gravi motivi! Il padrone di casa, al quale mi rivolsi pure, obbiettò che quel portinaio gli faceva comodo, che non aveva nessun appunto da muovergli sul servizio e che la sua vita privata non lo riguardava. Allora.... ebbene, sono passati tanti anni, tante cose, ma oggi ancora nel rammentare il povero Egidio non so darmi pace di essermi così facilmente rassegnata, di non avere fatto più nulla per lui. Lasciai la casa, è vero, e non lo vidi più, ma questa scusa farisaica non acqueta la mia coscienza. Essa mi rimorde sopratutto quando odo fatti atroci commessi da giovani. Egidio sarebbe ora appunto un giovane e qualche volta mi pare che se leggessi il suo nome tra gli accusati di un processo criminale avrei il coraggio di andare a difenderlo, di dire ai giudici e giurati: Questo reo fu un fanciullo infelice! E se mi accuso oggi in pubblico, se rendo palese il mio rimorso è nella speranza di prevenirne altri ad altri, di salvare i nuovi infelici che nacquero dopo quell’infelice che io abbandonai. Donna, parlo sopratutto alle donne e dico loro: Salviamo il fanciullo! L’infanzia è la parte viva della società; è il fiore che sarà frutto quando noi saremo verme. Salviamo il fanciullo! _LA DONNA SCRITTRICE_ Or non è molto una bella fanciulla mi proponeva questo singolare dilemma: devo fare la scrittrice o devo studiare medicina? Fare la scrittrice! ripeto ancora fra me. O cosa vuol dire ciò? Ma siccome anche una mamma venne apposta a trovarmi per dirmi che la sua figliola era passata senza esami e che aveva intenzione di fare la scrittrice; e lessi poi molti articoli dove seriamente si discute di tale argomento come di una carriera aperta alle donne, mi pare di dover dire qualche cosa in proposito; che se poco utile da’ miei consigli trarranno le donne, resterà almeno un documento di lunga esperienza e di osservazione schietta sopra un tema dove molti ragionano con fantasia superiore alla conoscenza. Osservate intanto come la maggior parte delle donne prima di scrivere dice o pensa che vuol scrivere. Ora basta ciò per far comprendere che la ragione determinante non scaturisce in esse dall’interno come polla di acqua sorgiva, la quale esistendo per naturali combinazioni cerca la sua via d’uscita, ma è una ragione riflessa. Scrivono perchè vedono a scrivere, perchè si immaginano, orgogliose della lista ininterrotta di dieci che hanno loro procurato le scolastiche composizioni, che sia questa una occupazione piacevole, onorifica e proficua. Pur troppo anche molti uomini procedono così; senonchè quello che nell’uomo è eccezione per l’adattamento più diretto de’ suoi studi a una data carriera, si impone quasi alla mente coltivata della donna che vede nella letteratura una applicazione immediata e simpatica del suo ingegno; e per poco che la vanità vi soffi dentro o la speranza di guadagno, subito afferra per vocazione ciò che è niente altro che suggestione. Badate che io non nego la possibilità nella donna di una vera vocazione. Dico appena che nelle attuali condizioni della nostra esistenza troppe cause premono intorno a quella che deve essere la causa unica e sopratutto preme il movimento femminista con finalità che, nulla avendo a vedere coll’arte, imbrogliano la questione di mille aggrovigliatissimi fili. È desso che scaglia sul mercato tante donne scrittrici, le quali, tra il sezionare cadaveri o disegnare ponti, o misurar terreni o escogitare macchine o stillar pandette trovano che scrivere dei romanzi è più dilettevole. Ed è per questo che la bella fanciulla di cui ho parlato, ondeggiando fra i nuovi ideali, mi domandava ingenuamente se dovesse fare la medichessa o la scrittrice, tanto era persuasa che i due termini si equivalgono. Penna o bistouri non devono condurre alla stessa conclusione del guadagno? Ma forse colla penna ci si diverte di più. Per quanto io abbia altre volte accennato a tale questione non l’ho forse sviscerata abbastanza. Mi pare che il momento sia giunto e con esso l’opportunità di fare quella specie di esame o di selezione che il maggiordomo della marchesa Travasa faceva ai preti nella “Nomina del cappellano„. Voglio scartare subito per non perdere tempo, e perchè francamente non ne valgono la pena, le candidate spinte alla letteratura dalla vanità, dall’ozio o dalla semplice imitazione; mettiamo pure nel numero anche quelle che vi si applicano come ad una nuova forma di _flirt_ — che sono parecchie — e prendiamo direttamente a considerare lo scopo utilitario, il solo che abbia almeno apparenza di serietà. È stato osservato che la donna scrive più facilmente dell’uomo e ciò è vero se si considera l’abbondanza della sua corrispondenza; ma se vogliamo ricercare il perchè di cotale abbondanza, piuttosto che nella disposizione della mente non la troveremo forse nelle abitudini sedentarie e nel bisogno di sfogo sentimentale? Occorre tuttavia aver presente che altro è scrivere lettere ad amici ed altro volumi per il pubblico, appunto perchè il contenuto e non la forma fa il vero scrittore e si può imparare a scrivere bene, ma se non si ha nulla a dire, scrittori non si diventa. Ora, ammettendo pure senza restrizioni l’abilità dello scrivere, in qual modo si può da tale abilità ritrarre un guadagno? In Inghilterra e in America molte donne trovano da collocarsi quali _reporter_ o corrispondenti di giornali; ma oltre che ciò rassomiglia più ad un impiego che alla letteratura propriamente detta, non essendoci da noi l’uso, converrà aspettare che questa fonte di guadagni si apra. Le fanciulle nostre cui sorride il miraggio della scrittrice (ahi! brutta parola e brutta cosa), è il volume che vagheggiano, il volume civettuolo affacciato alla vetrina del libraio, il volume che si compera, che si legge, che si loda, che vola su tutte le bocche, in tutte le mani.... e che rende tesori: Versi, romanzo o novelle. Nello stesso modo che ho ammesso l’abilità dello scrivere, voglio ammettere che il volume prenda forma e si legga e si lodi; è il resto che nella realtà corre meno liscio, perchè i gabinetti di lettura offrono un volume solo a migliaia di lettori col tenue prezzo dell’abbonamento: due e cinquanta al mese: e la creatura eccezionale che lo compera, si affretta a prestarlo a tutte le conoscenze, le quali a lor volta hanno amici intimi a cui non par vero di compartire lo stesso favore dimodocchè la vendita alla resa dei conti è illusoria e il guadagno del pari. Ma c’è pur stato A. B.... — Dio mio, sì! l’eccezione, la solita, fatale eccezione: _Di quanto mal fu matre_ il successo di un paio di volumi in dieci anni! Pensate; un paio di volumi in dieci anni; e saranno chi sa quanti scrittori! In Germania s’è fatto il calcolo; sono ventiduemila. Da noi poco ci mancherà. È serio parlare di guadagni sopra queste basi? La sola persona che disgraziatamente prende sul serio il guadagno degli scrittori in Italia è l’Esattore fiscale. Non mai dunque è da consigliarsi l’occupazione dello scrivere novelle e romanzi a coloro che cercano un profitto materiale e veramente dannosi mi appaiono sotto questo rapporto i concorsi dei giornali che coll’esca di cinquanta o cento lire incitano a delinquere tanta onesta gente preparando delusioni e amarezze senza fine. Nemmeno il più grande ingegno può essere sicuro di raggiungere il successo letterario nel pubblico, quel tal successo che frutta denari, perchè esso dipende da una quantità di cause anche momentanee, anche transitorie, anche ignote ed inafferrabili come è facile verificare esaminando il valore reale di certi successi; e come, facendo una prova contraria, ma che guida alla medesima conclusione, si resta meravigliati trovando alle volte vere gemme preziose perdute, sepolte ed inapprezzate in un libro che non ebbe fortuna. Sfrondato così delle fallaci promesse che vi tesse intorno il desiderio, noi non ci occuperemo più del profitto materiale dello scrittore altro che per dichiarare essere quello della scrittrice più problematico ancora; e ciò non farà meraviglia riflettendo a quanto ho già dichiarato, vale a dire che pur ammettendo nella donna la possibilità di una vera vocazione letteraria, è duopo riconoscere che per mille cause interne ed esterne si presenta in proporzioni molto minori che non nell’uomo; più facile è quindi che si illudano in una falsa vocazione verso cui l’attuale movimento femminista spinge con tutti i miraggi di un nuovo ideale. E veniamo a parlare della vocazione vera. Chiunque, leggendo un libro ben fatto, prova la singolare impressione di aver pensato egli stesso tutto quanto l’autore ha scritto. È questa la vittoria immediata dello scrittore sul lettore; è la presa di dominio delle anime, è la violenza del connubio che fa balbettare all’anima soggiogata la parola sublime del delirio amoroso: _Io sono tu!_ Ma non è che un delirio. Le anime, al pari delle umane spoglie, si incontrano, non si fondono, e cessato l’attimo misterioso ognuna di esse si riprende, ritorna sola. Tale fenomeno della psiche è, io credo, il punto di partenza per un volo di sogni e di sensazioni che i giovani facilmente possono scambiare per una divina chiamata. Certamente i più esposti ad essere colpiti da codesta illusione sono quelli che hanno particolari disposizioni: mente aperta, immaginazione viva, sensibilità, scorrevolezza a maneggiare la penna. Sono i premiati nelle scuole, i vittoriosi nelle Accademie e nei Concorsi; sono le fanciulle che si dilettano a copiare le pagine dell’autore preferito e che hanno il tavolino pieno zeppo di composizioni; sono gli intellettuali, non v’ha dubbio; essi hanno quasi tutto per riuscire. Ma nel _quasi_ sta racchiusa la loro condanna. Un filo impercettibile separa il dilettante dall’artista; non è più grosso di un capello, eppure siate certi che quel filo arresterà, paralizzandole, tutte le altre qualità. Una linea in spessore, in profondità un abisso. Che cosa sia propriamente e in che cosa consista tale differenza nessuno ancora ha saputo misurare, come non si misura la forza di amare e di soffrire, temperature speciali dell’anima che sfuggono agli umani scandagli. Così a un dipresso si potrà forse dire che occorre all’artista ed al poeta una capacità di ricevere le impressioni doppia alla solita, perchè chi sente in misura normale esaurisce in misura normale ed è necessario a chi vuol rendere, cioè far sentire ad altri ciò che egli stesso ha sentito, una somma di ardore da lungo tempo immagazzinata, tale da essere sufficiente al nutrimento proprio ed a quello delle altre anime, ed inoltre una facoltà specialissima di rinnovarla quando si esaurisce. Tutto ciò solamente per stabilire la vocazione, quanto a dire il terreno su cui edificare poi il paziente lavoro della educazione artistica. Un vecchio maestro di poesia, Lamartine, ripensando ai primi sogni della giovinezza, si domandava: “_Jamais l’éspoir des matelots_ _Couronna-t-il d’autant de roses_ _Le navire qu’on lance aux flots?_„ No, tutti i giardini dell’Ellade non basterebbero a fornire le ghirlande che la fantasia intreccia in quell’alba gioiosa di una anima che cerca la sua via e il pittore che dipinse _L’imbarcazione a Citera_ non ha trovato colori più tenui, sorrisi più seducenti di quelli che abbelliscono i sogni del giovane poeta. Costa così poco lodare i primi passi di un fanciullo! Se si tratta di una donna la galanteria rende il complimento obbligatorio. E poi nessuno pensa che anderà molto lontano. Questa considerazione riesce perfino a spuntare la lingua acuminata dell’invidia. Anche l’Editore per la prima volta, spinte o sponte, si riesce a trovare; si trova l’articolino; si trova l’amico o l’amica che si interessa alla pubblicazione, che promette di farne vendere molte copie. È un po’ come quando dinanzi alla folla di una piazza si tenta di avvicinarsi alla prima fila; c’è sempre qualcuno che guardandoci con una cert’aria tra il dabbene e il melenso che pare voglia dire: “Anche lei qui!„. si scarta di un centimetro per lasciarci passare. Siamo ancora ai confini, non conoscono le nostre intenzioni. Ma se facciamo tanto di sforzare le file sempre più compatte quanto già ci avviciniamo al centro, sentiremo che gomitate, che pugni nelle reni, che resistenza granitica! È allora proprio che si riconoscono tutti fratelli, cioè tutti uguali nel difendere il possesso. Guai ai toraci tisicucci fra quelle strette! Non è il primo passo il più difficile quando si tratta di una lotta perpetua, la lotta di uno contro tutti, sempre rinnovati, sempre forti di fresche reclute. Questo devono aver presente coloro che si accingono a diventare scrittori: _uno contro tutti_. Possibile! — pensano gli ingenui. Precisamente, amici miei. Il pubblico non sa che cosa farne dei libri nuovi; alla sua scarsa curiosità risponde il rigurgito delle biblioteche di tutto il mondo e un volume nuovo è accolto colla più profonda indifferenza, tolto il caso che ragioni estranee all’arte vi abbiano creato intorno un po’ di chiasso. “Ma il chiasso noi lo faremo„. dice qualcuno. Anche questo non è facile come sembra. Lo scetticismo di editori, lettori e critici innalzerà una muraglia tra l’opera vostra ed il pubblico. È grazia se fra una dozzina di coloro che fanno la ronda alle vetrine dei librai uno si accorge della pubblicazione. “Ah! lei ha dato alla luce un nuovo parto del suo ingegno? Bravissimo, mi rallegro. Volevo comperarlo, l’altro giorno, ma mio fratello lo porterà a casa dal Circolo e lo leggerò ugualmente. Sono tante le spese!„. Allora vi raccomandate all’editore perchè faccia parlare i giornali. È bello il vostro libro; ci avete messo la parte migliore di voi stessi; quando lo avranno letto dovranno ammirarlo per forza! L’editore risponde che vende i libri che gli vengono chiesti e che ne mandò cento copie ai giornali. Cento copie! Ve ne partite confortati. Saranno cento persone intelligenti che lo leggeranno, cento cuori che batteranno all’unisono col vostro. Aspettate le critiche con trepidazione. Rade rade, corte corte, svogliate, ne appare qualcuna finalmente. Sono tutte su uno stampo. Il sedicente critico col gesto disinvolto del ciarlatano che si prepara a fare la frittata in un cappello, vi sbriga in fretta raccontando a suo modo e col suo stile ciò che avete scritto a modo vostro collo stile vostro e dimentica lo sciagurato! che i lavori di scorcio non riescono che ai grandi artisti. Ecco qui — egli sembra dire — vi risparmio la fatica di leggere il libro: _Luisa abbandona la casa paterna_, _per farsi attrice_. _Incontra un ufficiale che le propone di sposarla._ _Ella lo ama ma non vuole; non si capisce il perchè. Si pente dopo, ma troppo tardi. Arte ed amore le mancano. Soggetto non nuovo, come si vede. Lingua discreta ma con qualche francesismo._ Voi cascate dalle nuvole. Come! È questo il vostro lavoro? Luisa intanto non è il nome della protagonista; è quello di una sorella che il critico non nomina neppure e che deve essere il filo d’Arianna di tutto il romanzo. Così non si capisce nulla. E la grazia dei particolari? E la forza del dialogo? E la vita dei personaggi? E l’idealità del concetto informatore? Nulla, nulla, nulla. Vi sentite soffocare, siete tentati di gridare: Al ladro! No, non è permesso manomettere così la roba degli altri. Piangete, o bestemmiate, o gridate, o ve ne state muti e frementi per l’indignazione, o chiedete sul serio: Perchè quel signore ha trattato tanto male il mio libro? — e vi sentite rispondere placidamente: Male? Non mi pare. Ha detto che la lingua è discreta. Capirà, con tutti i libri che ingombrano i tavolini di redazione il povero giornalista diventerebbe matto se dovesse leggerli. Correte dall’amico o dall’amica che ha relazioni, che aveva promesso di occuparsi del vostro libro e trovate un volto preoccupato, una stretta di mano distratta e superficiale. Quante cose avvennero dal giorno della promessa! una rappresentazione della Duse, una _toilette_ sciupata, il progetto di un viaggio, il principio o la fine di un amore... Il vostro libro? Ah! non avete più il coraggio di parlarne. Vi sentite solo, solo con esso, col vostro sogno, colla vostra illusione, colla vostra passione; solo nell’ampio mondo che non vi guarda, che non si interessa affatto a ciò che avete scritto per lui, che non gli importa nulla dei vostri pensieri e delle vostre convinzioni; che lavora, mangia, dorme, va a spasso, si diverte, si annoia, sta bene, sta male, lungi ben lungi da voi e dalle vostre fantasime. E vi abbattete intontito e grullo sulla vetrina dove il vostro libro giace nella immobilità tragica dei morti. Di fronte a tali insuccessi la vocazione che era in fondo semplice suggestione ripiega presto le tende, ma si è perduto tempo, salute, qualche volta denaro, illusioni sempre. La vocazione vera si ostina. Disponendo di un capitale ancora lo mette tutto sulla posta; e novantanove volte su cento perderà dell’altro tempo, altra salute, altro denaro, altre illusioni. Poichè la proporzione della riuscita è di uno su cento (la fermo qui per non terrorizzare i neofiti ma in realtà è assai minore) duopo è che gli altri novantanove abbiamo sperato, lottato, lavorato invano. Non tutti è vero cadono mortalmente. Sulla lunga scala che guida alla fama noi vediamo ad ogni scalino corpi giacenti, chi in principio, chi a mezzo, chi sul punto di toccare la cima. Sono coloro a cui le forse vennero meno e pur senza abbandonare la scala si aggrapparono dove poterono in più o meno nobile positura, ma tutti sopra uno scalino, anzi molti scalini più in basso di quanto avevano sognato, sentendo premere sui loro corpi piegati al suolo l’agile piede del conquistatore che li sorpassa. “Ma se uno giunge alfine, perchè non sarei io?„ L’interruzione mi viene fatta da una soave voce femminile. Ebbene, sì, perchè non sareste voi? Vi prendo in parola signora. Ecco dunque che avete rinunciato alla speranza dei lauti guadagni, che avete visto in qual modo il pubblico accoglie le nuove pubblicazioni e sapete quanta fatica e quanta coscienza costa un libro sul quale il primo venuto può sputar sopra impunemente e sapete il calcolo che vi è permesso fare sull’aiuto degli amici, sulla solerzia degli editori, sull’intelligenza dei critici. Sono appassite le rose delle vostre ghirlande, tacciono i preludi allettatori delle lodi prodigate ai primi vostri passi; nessuno vi sorregge nè vi incoraggia più; i benevoli che un tempo si occuparono delle cose vostre sono attirati altrove, poichè ogni giorno spunta un astro nuovo verso cui piega la momentanea attenzione e voi state per essere travolta irremissibilmente nella gran ruota del tempo... Tutto il vostro essere si ribella, nevvero? Avete consacrato la vita all’opera vostra, le avete dato il sangue migliore delle vostre vene; quella divina giovinezza che per gli altri è tripudio e festa, fu per voi austera preparazione e fu tutta la vostra esistenza olocausto al culto del pensiero. Non la vanità vi mosse, non il contagio dell’esempio non la bramosia di lucro. Avete dovuto vincere voi stessa ed altri, sorpassare ostacoli, frangere barriere, prendere sentieri di traverso, per correre ad impugnare la penna che nelle vostre mani significava corruscamente di lama. Nevvero, nevvero? Voi sentite di essere artista, di essere poeta, e la gran fiamma che rugge nel vostro cuore vi fa sicura della vostra vocazione. Povera donna! Appunto perchè il vostro ideale era alto non vi potete appagare di una mezza gloria guadagnata frusto a frusto. E’ la commozione universale che occorre al vostro sogno, è la conquista definitiva delle anime; e per giungere a ciò epurate ancora l’opera vostra, raccogliete tutte le voci del vostro cuore, date ali all’ingegno, avanti, sempre avanti. Non è vicina la meta? I giovani, coloro che stanno tastando i primi scalini, vedendovi tanto innanzi, non immaginano neppure con quali sforzi di equilibrio state ritta e non sentono la furia del vento che romba a quelle altezze. Dicono: quella è arrivata! Ma voi chiudete gli occhi nel terrore dell’abisso che vi sta sotto, e fatta pura nelle vostre lagrime, affrontate con ardore l’ultima scalata. Povera donna! E’ qui che vi aspetta la lotta corpo a corpo. Coloro che salirono insieme a voi, sperando, amando, lavorando come voi avete fatto e che ancora non giunsero, eccoli schierati sui vostri passi. Essi vi attendono, appostati come banditi in agguato, sul piccolo scaglione che poterono conquistare. Come voi hanno l’amarezza dei patiti disinganni, perchè essi furono al pari di voi buoni e fidenti e credettero nel loro sogno. Ed ora non credono più. La loro opera, la loro opera d’amore, giace dimenticata. Essi scrivono ora come non avrebbero voluto scrivere mai, per necessità di logica, perchè hanno sdegnato le altre vie e devono percorrere questa fino in fondo, incatenati e schiavi del loro ideale ch’essi volevano vincere e che li ha vinti. Guardateli bene, sono i vostri peggiori nemici! Forse, con stupore, riconoscerete volti lontanamente noti, mani che un tempo si erano tese fraternamente a voi, quando essi avevano la generosità della giovinezza che si sente ricca e che dà. Ma quei tempi sono passati e la vostra stessa qualità di donna che allora facilitava la dispensa della lode, inasprisce i loro disinganni. Ognuno di essi era ben disposto a festeggiare la scrittrice quando nel suo interno la considerava come un leggiadro puppazzetto del suo medesimo sogno, inoffensivo, divertente, forse utile. Ma è tutt’altra cosa se la donna diviene una rivale nella concorrenza. Vi ricordate il papato di prete Pero? — _Questo è un papa che ci crede._ — _E’ un papaccio in buona fede._ — _Diamogli l’arsenico._ Al punto in cui la lotta si impegna seriamente la differenza del sesso è cagione di astio maggiore. E’ allora che la scrittrice si sente straniera in mezzo a quegli uomini inaspriti che hanno gettato la maschera della galanteria, ripresi dalla atavica brutalità dell’animale in guerra. E’ il momento supremo. Se le forze, signora, vi hanno sorretta fin qui; se l’umiliazione; il dolore, lo scoramento, lo scetticismo, l’odio, non vi abbatterono sul fatale gradino dal quale nessuno si alza più, resisterete ai colpi dei vostri fratelli? Pensate di quante umiliazioni, di quanto dolore, di quanto scoramento, di quanto scetticismo, di quanto odio furono essi stessi abbeverati prima di snaturare nei lividi conati dell’invidia l’ingegno che mirava ad alte cose — e quando una fanciulla verrà a chiedervi se deve fare la scrittrice, penso le chiederete almeno se nella sua vocazione ha contemplato la possibilità del martirio. Tutto ciò che dissi fin qui si rivolge alle donne che pensano sul serio a divenire scrittrici. Per le altre, per le dilettanti, la via è larga e se esse si accontentano dei successi da salotto e di un paio di talleri per i loro guanti, non c’è nulla a dire. Solamente è accendere ben molte girandole per ottenere un lumino da cercar lumache. Quando la gloria e il guadagno debbono restare così lontani, non val meglio rinunciare ad una impresa dove si sciupano invano tante energie che troverebbero migliore impiego altrove? Questo io dico alle donne seriamente, onestamente, persuasa di fare a qualcuna un momentaneo dispiacere, e me ne duole, ma più persuasa ancora di evitare loro rancori e disinganni. A scrivere per sè ogni donna intelligente riesce a meraviglia. Scrivere per il pubblico invece è tutt’altra cosa ed è cosa difficilissima, che non si insegna e non si impara, ed anche quando la si sa è traditrice sirena che troppe volte trascina a naufragare fin sotto i fanali del porto. Guardiamo quante signore recitando in casa propria per i loro amici, o altrove in serate di beneficenza ci meravigliano per la grazia, l’efficacia, il calore della loro recitazione; ci sembra che esse non avrebbero da far altro che salire i gradini di un vero palcoscenico per essere pareggiate alle attrici più in voga. Ma ci inganniamo. Portate fuori dal loro ambiente, dal circolo ossequioso che le sorregge, dalla libertà e dalla limitazione della loro parte, dall’eccitamento momentaneo, dalla sicurezza che qualunque cosa accada non rischiano nulla in quella posta e che resteranno anche dopo le signore di prima; cambiati tutti gli accessori, e il lavoro, e il pubblico e lo scopo, vorrei vedere quante di loro si salverebbero! C’è una ragione brutale che, ove non ve ne fossero cento altre, basterebbe a creare la differenza tra il dilettantismo e la professione d’arte; la ragione del denaro. Quel denaro a cui mirate con tanta ansia, credete che il pubblico se lo lasci levar di tasca senza una terribile lotta? Pensate che il pubblico quando ha pagato diventa dispotico e quando non è contento, feroce addirittura. Tutte le scuse che salvano il dilettante, non valgono per l’artista; si può compatire il primo, ma per gli errori del secondo non vi sono che fischi. Ah! se non sapete, se non intuite cosa vuol dire trovarsi soli dinanzi alla massa del pubblico che non conoscete, fra cui sono indifferenti, distratti, idioti, maligni, invidiosi, vanitosi e appena qua e là, lontana e isolata, qualche rara anima che vi ascolta con simpatia, che non può parlarvi e che voi cercate disperatamente coll’ardore del vostro desiderio; se non sapete, se non intendete la dolorosità del distacco di quella parte di voi stessi che va a fecondare gli altri sollevandoli un istante dal torpore in cui vivono, e quanto del vostro sangue dei vostri nervi, del vostro cerebro dovete dare per giungere fino ad essi, per scuoterli, per infiammarli, per farli palpitare insieme a voi; se non sapete, se non intuite in mezzo alla vostra grande passione l’oltraggio di un sorriso ironico, il susurro agghiacciato dalla disapprovazione... e il vuoto della folla che si ritrae, mentre un sibilo viperino vi sferza il volto... ah! se non capite, se non intuite questo strazio e non siete preparati ad affrontarlo con reni di bronzo, con muscoli d’acciaio pronti al rimbalzo, non illudetevi neppure di poter strappare al pubblico quel grido di belva domata che solo segnerà la vostra vittoria. _FEMMINISMO STORICO_ Un piacere vivo, quasi un conforto ad una lunga fede, io provo tutte le volte che leggo vite, biografie o studi di donne antiche, di donne morte, di quelle donne che il femminismo moderno addita sempre in prova di vile servaggio, di compressa intelligenza e che pretende redimere dalle odiose catene del maschio. Prendiamo un esempio di prosa femminista per intenderci meglio. “Vogliamo lo sfacelo di tutti i pregiudizi che per succedersi di secoli curvarono la donna sotto il loro giogo impedendole ogni esplicazione alta e serena delle sue facoltà intellettive e spirituali. Vogliamo poter vivere secondo i nostri gusti e le nostre tendenze, vogliamo lottare e lavorare e se un sogno di gloria ci arride che ci sia permesso di realizzarlo. Scompaia la vana bambola, il prezioso gingillo, e sorga libera e redenta la donna capace di ispirare all’uomo nobili e grandiose azioni„: Questo è ciò che io lessi in un giornale di propaganda. Dunque la donna non ebbe mai fino ad ora esplicazione alta e serena delle sue facoltà intellettive e spirituali; non ha mai vissuto secondo le proprie tendenze, non ha mai lottato, non ha mai lavorato, non realizzò mai nessun sogno di gloria! Tenetevelo per detto o sante, o eroine, o martiri di tutti i tempi, regine e principesse gloriose in trono, poetesse gloriose nelle leggende antiche, nelle Corti del Cinquecento, nelle Accademie del seicento, nei salotti del settecento; madri gloriose dei Genii, amanti gloriose, donne, legioni gloriose di donne i cui nomi sono inscritti nei fasti più puri della religione, della patria, della genialità intellettuale; voi non valete nulla, siete tutte bambole, gingilli, zeri. Vorrei nominare qualcuna, ma esse sono milioni. Insieme alle lagrime di S. Monica scorrono fiumi di lagrime materne; fiumi di sangue femminile scorrono insieme al sangue di Giovanna d’Arco; e il senno che Cristina e Maria Teresa ebbero in trono, milioni di donne lo ebbero nel reggimento della famiglia e dei negozi. Se le madri di Lamartine e di Goethe, se le mogli di Carlyle, di Michelet, di Confalonieri, di Garibaldi ebbero una pubblica esplicazione dei loro meriti, quante e quante virtuose, intelligenti, forti, attive, energiche, seminarono nell’ombra i loro tesori di mente e di cuore; ma allora non c’era il femminismo e si tira una riga alla storia. È adesso che si incomincia a capire quali bambole fossero le donne del Testamento e di Roma pagana, fino alle prime martiri del Cristianesimo e alle monache del Medio Evo e, diciamo pure, alle Cortigiane poetesse della Rinascenza trasformate a traverso i secoli nelle dottoresse laureate alle Università del seicento, nelle eroine, perseguitate e uccise al tempo del Terrore, esuli volontarie nelle steppe della Siberia, compagne ai congiurati per la libertà della patria nelle carceri di Napoli e di Mantova. È dalla scomparsa di questi preziosi quanto inutili gingilli che deve sorgere la vera donna capace di ispirare all’uomo nobili e grandiose azioni. Oh! Beatrice, come mai potè il sommo Alighieri illudersi al punto da creare per te un paradiso? E come potè la marchesa di Pescara nella impossibilità di esplicare le proprie facoltà intellettive e spirituali lasciarci poesie che si ammirano ancora e avvincere a sè nella aureola purissima dell’ammirazione il più grande ingegno del suo tempo? So già che quando avrò pubblicato queste pagine una qualche donna buona, gentile ed illusa dal miraggio femminista mi dirà “Ma non è vero che molti pregiudizii gravarono per lo passato e gravano in parte ancora sulla vita della donna e che troppa parte di esse vive in frivole occupazioni assorta? Non è nostro dovere elevare le sorelle a più eccelso ideale?„ Al che rispondo subito: Sissignora, pregiudizi ve ne furono e ve ne sono; errori anche ed anche colpe; ma mi provi, di disgrazia, che si esercitarono solo sulla donna e che l’uomo ne fu immune, allora potremo sollevare una questione femminista; fino a dimostrazione contraria mi lasci credere che esiste una sola questione la quale non è nè di femmine nè di maschi perchè è semplicemente la questione dell’umanità. Una volta i costumi erano rozzi, l’ignoranza maggiore, maggiori gli abusi — ciò tanto per la donna quanto per l’uomo — e quando progredirono, progredirono insieme e insieme furono liberi. Frivole e stolte donne si ebbero, si hanno, si avranno, tale e quale uomini frivoli e stolti. Tutti abbiamo bisogno di educarci, di migliorarci, e questo è quanto. Che bisogno c’è di una questione femminista dal momento che uomo e donna non formano che un essere solo? Là, là, le conosco le opinioni del signor Lombroso sulla pretesa inferiorità della donna, ma sono persuasa che in fondo non ci crede neppure lui. Come può un naturalista ammettere che servendosi dei medesimi mezzi si mettano al mondo alternativamente esseri superiori ed esseri inferiori? Si potrebbe crederlo forse se i maschi li facessero gli uomini. Nè superiori nè inferiori — ecco la formula del buon senso. Se vi sono delle differenze sono differenze di sesso che indicano appunto le diverse missioni nelle due parti del medesimo tutto. L’attività cerebrale e muscolare è indispensabile alla parte maschio e non lo è alla femmina, la quale ha ben altro a fare che sollevar pesi e calcolare incognite, perchè mi vorrete concedere che se a cercar fuscelli s’adoprerebbe volendo anche la femmina, il maschio non saprebbe in alcun modo ponzare le uova. E questa è la ragione che taglia la testa al toro. Ma datevi pace, o femministi; se i doveri della donna non sono esattamente quelli dell’uomo, ciò non è da ascriversi a preconcetti arbitrari mummificati in vecchie forme, come si va dicendo, sibbene dalla natura stessa che non aspettò le nostre dispute per conformare i due sessi in modo diverso imponendo a ciascuno date funzioni vitali che non si possono nè confondere nè scambiare. E se la missione della donna così gelosa, così delicata, così alta, così unica, le richiede spesso l’assorbimento di tutte le altre facoltà non compiangetela ma invidiatela. L’uomo sperpera ed ella raccoglie le forze della vita. * * * Gli studi presentati nel volumetto che porta il titolo di _Femminismo storico_[1], e che sono sette, non accennano a una vera attitudine di combattimento, quantunque nell’ultimo studio su Giorgio Sand l’autore lanci qualche frecciata agli anti-femministi chiamandoli a giudicare la virilità dell’ingegno della insigne scrittrice; il che non vuol dir nulla per la causa del femminismo o direbbe precisamente l’opposto di quello che esso sostiene, cioè che i pregiudizi, le imposizioni, i legami, le così dette tirannie del sesso forte non impedirono un eccezionale ingegno di donna di farsi la sua strada nel mondo. L’esempio di Giorgio Sand sarebbe importante solo quando si riuscisse a dimostrare un vantaggio per l’umanità se tutte le donne le somigliassero. _Quod non est in votis_, mi pare, con tutta l’ammirazione dovuta a Giorgio Sand e che ben volentieri le rendo. Del resto leggiamo qui accanto il bozzetto di un’altra scrittrice celebre, incensata, adulata, laureata, con tutte le gioie infine e le soddisfazioni promesse dal femminismo; e tanto infelice, tanto infelice che vorrebbe morire, e morì infatti, perchè il suo Collatino non la corrisponde di pari affetto. Ho nominato Gaspara Stampa. Peccato ch’ella non possa venire a dare il suo voto nell’ardente polemica spezzando l’avello su cui sta scritto: Per amar molto ed esser poco amata Visse e morì infelice, ed or qui giace La più fedele amante che sia stata. Se scrivessi un articolo critico dovrei elogiare la molta erudizione addensata in questo volumetto, desiderando una maggiore semplicità di stile e un freno alle soverchie immagini; se un articolo morale rallegrarmi coll’autore per avere inneggiato largamente nelle sue eroine l’onestà; ma volendo considerare anzitutto la forza evocatrice che dà vita a questi bozzetti mi compiaccio di ritrovarla tale che ci fa rivivere nella precisione colorita della sua cornice il bel ritratto antico. Udite: “Dalla sua stanza che mi figuro aperta per una trifora aguzza, il cui marmo gareggi in sottili spume coi merletti di Burano, su la laguna, ella non ode le allegre voci del popolo tripudiante; è forse la festa dell’Ascensione... è l’incoronazione di una dogaressa... Gaspara non se ne cura. Sola nella remota stanza, guarda il cuoio dorato delle pareti, i tappeti di Arras, il liuto che le giace a lato, il muso aguzzo del suo levriere e vede dappertutto come fosse veramente inciso ne’ suoi occhi umidi e nel suo povero cuore la figura del conte Collatino di Collalto! Invano un recente “Aldo Manuzio„ le posa aperto sul grembo; invano la tenta l’ultimo sonetto di monsignor Della Casa. Sul tavolino a tarsie il _Sogno di Polifilo_ del monaco Francesco Colonna mostra le aperte pagine nitidamente incise, invano... Ella sorge dall’alta seggiola dalla spalliera in forma di lira, come quelle che vediamo nelle tele del Carpaccio, si appressa al balcone... e pensa che laggiù nell’acqua verde del Canalazzo troverebbe forse il riposo„. * * * Maria Antonietta, Laura, Giulia Récamier sfilano l’una dopo l’altra accarezzate con grande compiacenza dall’autore che ne ammira sopratutto la dote essenzialmente femminile della bellezza. Si direbbe anzi che questa sensazione della bellezza lo ubriaca e gli fa perdere qualche volta la misura. È forse per ciò che la sua anima pagana nutrita di classici splendori si raccoglie meglio dove maggiormente ne è pomposo il culto. Leggiamo la descrizione di Cleopatra: “Quale meraviglioso sogno di poeta può eguagliare la magnificenza della regale trireme che porta Cleopatra verso Tarso, navigando sulle brune acque del Cidno? La poppa è d’oro, i remi tutti d’argento, di porpora le vele che quali enormi farfalle fendono l’aria luminosa. Da tripodi d’oro si innalzano verso il cielo molli e sottili profumi; fanciulle vaghe come Nereidi recano intorno coppe preziose colme di vino biondo come il miele; garzoni belli come fanciulle offrono in piatti d’oro dolciumi prelibati; piccoli Etiopi bruni e lucenti agitano grandi ventagli composti colle piume di uccelli rari. Sopra il suo trono scintillante di gemme, tra la pompa di tappeti molli come chiome di Ondine, la Regina sta e aspetta vestita di porpora e di bisso: il serto regale cinge la sua breve fronte bianca come la luna, i suoi occhi splendono più delle gemme, la sua chioma profonda come le tenebre le ricade sugli omeri ignudi. Sistri e flauti, celati alla vista, suonano voluttuose melodie e la trireme si avanza maestosa„. Non è vero che l’evocazione è perfetta? Ma l’autore è così innamorato del suo soggetto che soggiunge ancora: “Creare della gioia e beneficare l’umanità. Cleopatra fece della sua vita una grande opera d’arte. La sua vita è un capolavoro vissuto„. Su la qual cosa non credo che i femministi saranno d’accordo con lui. Lo studio però che mi sembra più serio e più riuscito è il primo: Isabella d’Este Gonzaga. Della deliziosa principessa che si era composta “per sè ed a sua gloria una esistenza conforme alle sue inclinazioni„ che tutta visse per l’arte, per la grazia, la cui anima fresca e vibrante irraggiava su quante cose le stavano intorno, e che fu tanto saggia quanto bella, si hanno parecchi ritratti. Io però crederei di non sbagliare affermando che nessuno le somiglia, perchè il fàscino delle donne come Isabella d’Este difficilmente si può fissare sopra una tela. Essendo tutta luce e profumo di intellettualità, solo un genio ne conoscerebbe e potrebbe afferrarne il segreto. È veramente di Isabella il profilo disegnato da Leonardo da Vinci? Potrebbe, ma non ne siamo sicuri e tale incertezza paralizza i nostri entusiasmi. Alla Esposizione femminile che si tenne una di queste primavere in Milano vidi pure un ritratto molto suggestivo attribuito a questa principessa, senonchè il secolo decimoquinto è assai lontano e senza dubbio faremo meglio ad affidarci alla nostra immaginazione. L’autore del libretto ce ne offre l’esempio accomodando da par suo la splendida cornice. Ecco: “Così amo io evocarla, magnificamente bella e soave, in una lunga veste di broccato d’oro dalle ampie maniche foderate di ermellini o di vaî, cinto il collo, adorna la fronte di gemme che pur scintillano meno dell’oro della sua chioma. Intorno a lei tutta la società del Rinascimento; bellissime dame e damigelle, adolescenti dalle lunghe chiome, cavalieri serrati nelle cotte di velluto, di zendado o di ermesino, scintillanti d’armi damaschinate. Volan per l’aria le strofe di Poliziano e di Lorenzo, si slancia verso il cielo la recente cupola di Brunellesco, ridon per tutta Italia le tele di un manipolo di grandi che comunicano altrui la gioia dei loro sogni immortali„. * * * E basta in fatto di citazioni. Lo studio su Isabella d’Este che vivendo in comunione di idee cogli uomini più insigni, cogli artisti più geniali, nella sua bella dimora di Mantova, felice e serena, si presenta certamente come la figura femminile più equilibrata e più limpida del periodo quattrocentesco, ispira al suo moderno panegirista una specie di invocazione a tutte le donne perchè abbiano a donarsi all’adorazione dell’arte, la sola verità terrena immutabile, la consolatrice eterna, quella che non tradirà mai e sarà per i cuori assetati di ideale una luce imperitura. No dico di no. L’esortazione se non altro è nobile e bella e a non prenderla troppo alla lettera potrà anche essere utile. Dio ci guardi tuttavia dal cadere nell’errore, tanto comune in questi tempi di uguaglianza, che si possano foggiare le anime nella stessa guisa dei vestiti e che basti una pennellata di rosso o di bianco per metterle nella tinta di moda. Dell’arte si può dire quel che madama Guizot diceva della ragione: “La raison, par malheur, n’est faite que pour les gens raisonnables„. Oh! senza dubbio fin l’ultimo ciuchino è persuaso di ragionare e provatevi un po’ a domandare a Tizio ed a Sempronio se amano l’arte: vi risponderanno che ne van pazzi. Ma in verità vi dico che le vere anime d’artista sono rare e fuori di questo stato speciale di grazia l’arte serve anch’essa come tante altre cose belle a creare degli spostati e dei disgraziati. Lanciamo pure questa tavola di salvezza nel mare burrascoso delle vanità, ma non illudiamoci che essa tragga a salvamento il gregge umano. Solo qualche forte vi starà aggrappato. Ben vengano tuttavia queste ricostruzioni di ideali o morti o travisati. Anche se la maggior parte dei lettori non vorrà vedervi che l’interesse di una storiella qualunque, cadrà pure in un’anima vigile la buona semente, e se questa è un’anima femminile sarà Isabella d’Este ancora che ci sorriderà nel suo individualismo squisito di donna intelligente e buona. _SCHIAVE BIANCHE_ Due donne, l’una seduta ritta, l’altra sdraiata sopra un divano con una sigaretta fra le dita: questo il gruppo che uno scultore milanese presentò alcuni anni or sono ad una mostra di belle arti col titolo: _Schiave bianche._ Il gruppo per ragioni di pudore fu respinto e durante qualche tempo, esposto nella vetrina di un negozio, attirò gli sguardi di tutti i curiosi i quali naturalmente scissi in due fazioni approvavano o biasimavano il verdetto del comitato. Per verità il gruppo in sè stesso non giustificava il rigore del rifiuto. Nulla vi era nella posa e nell’abbigliamento delle due donne che potesse stonare in mezzo alle ninfe ed alle bagnanti, assai meno vestite, che sogliono popolare le esposizioni. Il titolo fu quello che impaurì i signori della giuria. Coll’innocente appellativo di _Oziose_ o qualsiasi altro del genere, il gruppo sarebbe passato senza lode e senza infamia, inosservato forse. Ma si chiamava _schiave bianche_ coll’evidente intenzione di oltrepassare il fine dell’arte, richiamando il pensiero sopra una questione d’ordine morale; e la commissione per le belle arti, presa così all’improvviso da una metafora che le metteva brutalmente dinanzi ciò che gli uomini sogliono relegare nelle loro memorie più nascoste e più gelose, si impennò, arrossì di tutte le debolezze passate, presenti e future, come se una mano violenta avesse strappato a quei signori l’ultimo velo del pudore. Cento ricordi lontani, dimenticati, soffocati, reietti nel cantuccio più vile dell’essere, come si cela la biancheria sudicia nel punto più buio della casa, dovettero sorgere nell’animo di quelle egregie persone. Cittadini, mariti, padri, essi non potevano permettere che le loro spose e le loro figlie contemplassero riprodotta nella plasticità della creta e nell’aureola dell’arte, l’infima vergogna del sesso; senza riflettere che gli ignari di quelle vergogne ben poco l’avrebbero scorta nel gruppo incriminato, anche coll’aiuto del titolo. Da allora, saranno circa dieci anni, l’argomento è salito agli onori della pubblica discussione e su questo soggetto delle schiave bianche si tennero conferenze, si scrissero articoli, si stabilirono commissioni, si apersero collette. Le donne oneste non temettero di mischiarsi al movimento, non solo, ma furono le prime a promuoverlo, le più ardenti a sostenerlo. Si potrebbe forse osservare che mancano un poco dell’esperienza del loro soggetto.... non certo di fede e di buona volontà! Ma anche la fede e la buona volontà hanno il loro lato manchevole quando si tratta di questioni tanto complesse. Mi pare intanto di dover avvertire che l’impostazione stessa della guerra che si vuol muovere pecca di vedute corte, unilaterali, vociando troppo quel ritornello ormai frusto per essere passato e ripassato su tutti gli organetti: _la miseria e l’ignoranza_. Colla miseria e coll’ignoranza oramai si vuol spiegare ogni cosa. Premetto che l’opera di protezione per le fanciulle pericolanti o abbandonate è santa come tutto ciò che si fa in pro della giovinezza santa ma non nuova; ammetto che molte fanciulle sono tratte coll’inganno alla mala vita e qualcuna, ma qualcuna appena, dalla miseria. Sta bene. Si faccia per queste poverette tutto quello che si deve e vada ad esse la compassione materna di tutte le donne. Credere però che vincendo la miseria e l’ignoranza (poichè le due parole si ripetono insistentemente su tutti i toni e _sole_) venga sciolto il doloroso problema, è accordare a fattori materiali una importanza esagerata e di gran lunga inferiore alla loro potenzialità. Chi afferma che la miseria e l’ignoranza traggono la donna all’estrema degradazione dice parte della verità, non tutta la verità. Io anzi non mi perito ad asserire che la miseria e l’ignoranza non forniscono che una centesima parte di contingente al vizio, il quale si alimenta a fonti ben altrimenti oscure. Col voler dare alla miseria ed all’ignoranza tutta la colpa delle abbiettezze umane si sottrae l’attenzione della coscienza all’esame delle altre cause prevalenti; e ciò è di gravissimo danno, perchè non bisogna dimenticare che una molla lasciata inoperosa si guasta. Così deve essere dei sentimenti di dignità e di responsabilità che la comoda teoria di buttar tutto sulle spalle della miseria e dell’ignoranza finirà col paralizzare completamente. No, io non posso interessarmi ai miglioramenti materiali che tanto appassionano al giorno d’oggi perchè non vedo in essi alcuna forza di veri ideali. Se il denaro e l’istruzione (quanto denaro e quale istruzione?) bastassero a risolvere il problema morale, esso sarebbe già risolto in una maggiore moralità delle classi ricche. I ricchi provvisti di denaro e di istruzione dovrebbero essere il modello della virtù. Abbiamo noi questo? Credo bene che nessuno vorrà affermarlo. E allora? Questo è il nodo della questione. Gli operai francesi che si citano sempre per i lauti stipendi e per la maggior coltura non sono più degli italiani viziosi ed alcoolici? Le operaie del Belgio che guadagnano quanto gli uomini e insieme agli uomini vivono in libero amore ed in concordi ubbriacature, potrebbero forse insegnare i buoni costumi alle operaie nostre più povere e più ignoranti? La miseria, questa famosa miseria, orco delle parole che fa inorridire tutte le altre, battuta da presso e rintracciata nella sua tana non si risolve il più delle volte in un desiderio di lusso e di vita comoda? Certo il moralista compatirà anche questo desiderio e lo troverà umano, ma è bene che ogni cosa abbia il suo posto ed ogni parola il suo significato. Mi trovavo un giorno nel negozio di un libraio quando entrò una bella ed elegante signora a ritirare dei libri in abbonamento. Avendo preso interesse ad alcuni particolari della sua fisonomia, chiesi chi fosse. Il libraio, che di frasi fatte ne ode tante, rispose enfaticamente: “È una vittima della società! — Vale a dire? — Sa.... una di quelle donne!...„ — Scusi mi spieghi un poco come c’entra la società, perchè infine apparteniamo tutti alla società e mi preme sapere la parte di responsabilità che mi tocca. La prego dunque di narrarmi la storia di quella signora. — Il libraio, grave, incominciò: — “Anzitutto è una donna senza testa„. Il fatto è autentico. Quante altre storie simili si potrebbero incominciare proprio così. Anzitutto è una donna senza testa! Mi rivolgo a tutte le donne, alle madri di famiglia, alle direttrici di stabilimenti, a coloro infine che avvicinarono molte fanciulle in qualità di serventi, di operaie, di allieve. Ricordano le infingarde che non amano il lavoro? le vanerelle tutte prese dalla loro bellezza? le squilibrate? le sciocche? le impudenti? le insensibili e irriducibili? E non hanno mai pensato che costoro erano altrettante candidate.... alla schiavitù? Senza dubbio la maggior parte aiutate da circostanze favorevoli entrano nelle rotaie della vita comune; ma basta un urto, una piccola occasione, un cattivo esempio, qualche disgrazia, perchè si buttino alla mala vita. Sarà giusto dire che la colpa fu della società, della miseria, della mancata educazione? E tutte quelle che resistettero? Quante ne conobbi fra le tentazioni e la miseria, le quali avrebbero veramente avuto una attenuante al cadere, nate da genitori abbietti, cresciute alla ventura, analfabete, eppure salvate dalla rettitudine dei loro sentimenti! Perchè non si vuole tener conto di questo fattore altissimo in una questione dove le ragioni psichiche militano per lo meno alla pari colle circostanze esterne? Una celebre orizzontale che viveva a Parigi sotto il secondo Impero e che lasciò le proprie memorie, narra il suo primo passo. Era figlia di un pastore protestante; aveva in casa pane, istruzione e buon numero di fratelli e sorelle. Un giorno tornando dalla scuola (aveva quattordici anni) incontra un signore che le narra delle storielle... Ella conosceva certamente l’avventura del Cappuccetto rosso, ma non ne seppe trarre un saggio ammonimento, poichè seguì lo sconosciuto a casa sua e il pastore non vide mai più la pecorella smarrita. Avrebbero agito in tal modo tutte le fanciulle? Anche cedendo alle lusinghe del... lupo, non sarebbero altre ritornate piangendo nelle braccia della madre? C’era dunque nella costruzione fisica e morale di quella fanciulla un alleato pronto a secondare le mosse del nemico. Non è questo che bisogna ricercare se si vuole che l’agitazione per la buona causa abbia uno scopo veramente efficace? Ah! troppo comodo partito è quello di gettare ogni responsabilità sulle braccia vaghe della miseria e dell’ignoranza! E mi rivolgo ora agli uomini. Dicano essi in quale incommensurabile raccolta di stupidaggine innata, di insensibilità e di impostura affogano le eccezionali creature cadute nel baratro per colpa degli altri. Quale sistemazione economica potrebbe far fronte alla stupidaggine ed alla vanità dei delinquenti nati? Dobbiamo avere pietà per costoro. Abbiamola. Ma pietà efficace non deve sciuparsi in sentimentalismi, i quali, non fosse altro, fanno perdere un tempo prezioso deviando il cercatore dal sentiero che guida alla verità. Un forzato della Nuova Caledonia lasciò in alcuni quaderni scritti nel penitenziario un esempio chiaro di questa criminalità istintiva. Figlio di un avvocato che spendeva la maggior parte del suo tempo e delle sue sostanze nella propaganda democratica, Alfonso Delfont rimasto orfano trovò un impiego di archivista; ma se in esso fece prova di intelligenza rivelò pure un carattere impetuoso e stravagante. Arrestato per moti sediziosi, fu rimesso in libertà, ma perdette l’impiego e cominciò allora nel suo cervello il fermento dell’odio contro la società. Ad onta di questo un amico di famiglia venne in suo aiuto offrendogli un impiego nella propria casa. Nè basta. Muore uno zio ricco e gli lascia da vivere agiatamente. Entra nell’esercito vi si distingue, è decorato, ha incombenze onorevoli. Qui si dovrebbe far punto. Invece sempre per la violenza e l’alterigia dei suoi modi schiaffeggia un superiore, è arrestato, condannato. Gli amici riescono a farlo fuggire. Ripara in Tunisia, rifà la sua fortuna, è creato bey... ma finisce all’ergastolo. Gravi, gravi assai questi problemi umani! Torniamo alle schiave bianche che per tante vie si riuniscono al problema della delinquenza nata. Era certamente una di esse ch’io vidi nel baraccone di una fiera; insensibile al freddo di un rigidissimo gennaio sotto la maglia di cotone che la lasciava quasi nuda. Sulle prime pensai anch’io che la povertà l’avesse ridotta a fare quel mestiere e mi stringeva il cuore di profonda compassione. Se non chè, guardandola, i tratti del suo viso me ne rammentarono altri veduti in ben altri luoghi, tra i doppieri delle sale dove vanno i felici del mondo. Erano gli stessi occhi luccicanti e superficiali, le stesse mani ripugnanti al lavoro, lo stesso stigma di delinquenza scolpito in fronte. Non avevo che a cambiare la maglia di cotone con un sontuoso abito da ballo per vedervi fremere dentro la stessa lascivia. Che cosa facevano di diverso quelle signore educate in collegio? Non si offrivano forse per un gioiello o per un abito nuovo, tanto e quanto questa poveraccia? E se pure per questa la causa fu la miseria, quale scusa avranno avuta le altre e perchè non dovremo preoccuparcene? Perchè non dovremo ricercare tutte le cause che spingono una donna sulla lubrica via se vogliamo veramente trovare tutti i mezzi per salvarla? La società può fare qualche cosa in questo senso ma non riescirà a nulla se prima non si occupa ad elevare la coscienza individuale. Non vorrei pronunciare qui la parola virtù perchè è stata sciupata dalle religioni che dividono gli uomini in due categorie: i credenti e i non credenti. Ma questo parmi anche l’errore di certi sociologhi i quali vogliono giustificare ogni bruttura, ogni vizio della classe povera, quasi la classe che ha denari e coltura e che dovrebbe perciò essere modello di perfezione, non ripetesse sotto altre forme le stesse brutture, gli stessi vizii. Se non dunque virtù nel significato chiesastico, chiamisi pure con altro nome il sentimento morale. Esiste e non appartiene all’una piuttosto che all’altra classe, non può essere il frutto di combinazioni materiali nè di materiali progressi. Sorge da ogni classe e da ogni popolo, sorge fra i ceppi della miseria e fra quelli dell’opulenza, fra la corruzione ignorante e la corruzione sapiente. È desso che bisogna coltivare. Sorge raro e solitario, sperando nelle conquiste ideali che la presente lotta di appetiti intorbida e ricaccia in un lontano avvenire. Il trionfo della razza umana sarà quello. . . . . . . . Ma non bisogna troppo affidarsi alla smania di collettivismo che domina l’ora presente. Coloro stessi che intendono di abolire fin l’ultimo privilegio di classe non faranno che spostarli dai nobili e dai potenti ai poveri ed ai plebei, mentre la verità è che non vi sono meriti di classe ma solamente meriti di persona. L’individuo vale per quello che è, non per la classe cui appartiene, la quale ugualmente non può nè inorgoglirsi nè vergognarsi di lui. Tutti gli uomini sono popolo; l’uomo solo è qualcuno. Lo stesso pregiudizio collettivista si infiltra nella questione femminile e minaccia il problema delle schiave bianche. Torno a ripetere volentieri che opporsi con tutti i mezzi all’inganno che trae fanciulle innocenti sulla mala via e punire severamente i corruttori sarà opera santa; non calcoliamo troppo tuttavia sopra questo mezzo; esso è limitato al pari dell’influenza della miseria. Per ben altre vie si turba e si corrompe l’animo femminile! È anche necessario conservare un certo disprezzo per il fatto, non scusarlo e ammetterlo con sì larga dose di irresponsabilità, quasi a creargli intorno un’aureola di sacrificio e di poesia. Ricordiamoci che nella maggior parte di queste donne c’è una disposizione morbosa, una criminalità latente, non molto diversa da quella dei delinquenti e al pari di essa cedevole a stimoli smodati di vanità, mentre rimane insensibile a tutte le ragioni di ordine morale. Infine, non vorrei mi si fraintendesse al punto di credere che la mia povera prosa tenda a intralciare l’opera dei filantropi. Al contrario, metto al loro servizio trent’anni di osservazioni sulla donna; esse potranno valere almeno come documento che l’importante questione è stata guardata da un altro punto di vista, con altro metodo e mezzi diversi e la conclusione è questa: Avanti! Avanti! Non avete finora fatto altro che sfiorare la corolla dell’immenso fiore del male. La radice è molto più in fondo. _LA DONNA DI SERVIZIO_ Per quanto umile possa giudicarsi questo argomento, esso è parte così vitale della nostra esistenza quotidiana che non può a meno di interessare il maggior numero dei lettori. Esso è inoltre un ramo della grande questione sociale collegandosi cogli interessi degli abbienti e dei proletarii, nonchè dei femministi. Ho scelto questo vocabolo _donna di servizio_ a preferenza dei sinonimi suoi perchè, figlio genuino del nostro dialetto è anche il più preciso, il più chiaro, il più decoroso e indica perfettamente la persona unica che nelle nostre famiglie borghesi aiuta la padrona nel disimpegno delle domestiche faccende. Fino a vent’anni fa dai borghi, dai paesucci, dai casolari, le fanciulle sia che fossero orfane o che si trovassero male in famiglia od anche solo ristrette e sopranumeraria al bisogno della piccola azienda movevano alla città in cerca di servizio, il quale rappresentava per esse l’asilo, la protezione, l’affetto. Perfettamente conscie della loro condizione, senza il desiderio di escirne, in cui luogo esisteva la volontà di distinguervisi e di farsi voler bene, entravano nella nuova casa con sentimenti tranquilli. Avvezze al lavoro, alle privazioni, agli stenti, al freddo d’inverno, al sollione d’estate, al cibo insufficiente, apprezzavano il vantaggio di lavorare in un ambiente sano, simpatico, al riparo dai morsi crudeli della povertà, alloggiate e nutrite cento volte meglio che nelle proprie case e di ciò si rallegravano, erano contente, erano paghe. L’ideale allora era di restare sempre nella stessa famiglia, di vedervi morire i vecchi, nascere i pargoli e dal loro umile posto prender parte a tutti gli avvenimenti, battere con un sol cuore nel cuore della casa. Invecchiate al servizio degli stessi padroni erano considerate con affetto, con riconoscenza, pensionate o aiutate in tutti i modi fino agli ultimi giorni. Era il tempo forse troppo calunniato delle disuguaglianze sociali che se davano luogo ad abusi sviluppavano pure gli istinti di generosità e di amore, i nobili sacrifici, le devozioni a tutta prova. * * * La donna di servizio di venti o di trenta anni fa vestiva di rigatino in foggia semplice e pratica, portava camicie solide di grossa tela resistente, la cui durata veniva considerata rigorosamente al momento dell’acquisto e in tutta la sua persona l’armonia fra l’essere e il parere rimaneva intatta, specchio felice dell’anima sua. Ricca di sentimenti affettivi, ella incominciava ad affezionarsi alla cucina che chiamava subito sua e dove le fiammate di legna sotto la pentola e il rosseggiare delle bragie sul fornello e il luccicchìo del rame appeso alle pareti mettevano una nota di calore raccolto di cui spesso approfittavano i padroni, venendo gli anziani a scaldarsi la schiena alla fiamma dopo pranzo ed invariabilmente i bimbi a tutte le ore del giorno. Quando poi il focolare era spento e con esso la luce (poichè insufficiente riusciva da solo il lumino prima ad olio indi a petrolio) la donna di servizio prendeva la sua calza di grosso cotone bianco o rosso e andava a lavorarsela in saletta, vicino alla padrona che faceva presso a poco la medesima cosa ed ai bambini curvi sui loro còmpiti. Non è vero che era così? Orbene, tutto ciò è scomparso irremissibilmente. Il moltiplicarsi delle fabbriche, diffondendo nelle campagne l’ansia di una vita nuova, apre alle giovani una porta che fa loro intravedere la giocondità tumultuosa di una giornata cui fa seguito una libertà senza confine e la maggior parte di esse non esita un solo istante. Andare alla fabbrica rappresenta ai loro occhi la compagnia, la solidarietà, l’indipendenza — a ore fisse è vero — ma sicura e senza controllo. Hanno ragione? Hanno torto?... Un domestico del duca di Choiseul che fu ministro sotto Luigi XV rifiutò la promozione che il suo padrone gli offriva di passare da valletto d’anticamera e guardaportone perchè — diceva lui — stando negli appartamenti aveva occasione di vedere trenta volte al giorno il duca e la duchessa e giù, alla porta, non avrebbero fatto altro che passare di tanto in tanto. È tutta questione di punto di vista, di maniera di sentire ed anche di valutazione del proprio interesse. È certo però che una tale simpatia di rapporti fra padroni e dipendenti doveva rendere assai più bella la vita di entrambi e far loro considerare come una sventura la separazione, che infatti avveniva di rado e solo per circostanze imperiose. * * * Nelle tradizioni della prima metà del secolo abbondano gli esempii di unioni indissolubili, emergenti sopratutto quando la sventura si abbatteva sopra una famiglia accomunando la padrona e la donna di servizio nella medesima sorte. Ma, caratteristica che non bisogna dimenticare per conservare il fatto nella sua vera luce, sia nell’opulenza, sia nella povertà fraternamente divisa, mai si offuscava quel sentimento di diversità di classe che spingeva la padrona e la donna di servizio a compiere ognuna per proprio conto una conquista più in su dell’eguaglianza, più elevata del diritto; una conquista che agitando gli occulti slanci di altruismo, assai prima che questa parola venisse di moda, guidava con semplicità al vero amore del prossimo. Non è per rimpiangere il passato che io vado ora esumando queste memorie. Esso, l’ho già detto, è morto irremissibilmente; ma volendo occuparsi della questione è necessario mettere a raffronto i due termini di passato e di presente per vedere che cosa si può sperare in seguito. Come sia la donna di servizio attualmente ognuno lo può osservare da sè. L’ingenuità delle Pamele, delle Bettine, delle Lisette, argomento di romanzi patetici e commoventi, non esiste più. Nelle stalle e nei crocchi rusticani si leggono ora le appendici del giornale cittadino che l’operaio si è dato la briga di ritagliare e di cucire diligentemente per farne dono, reduce in paese, alla sua bella. La prima applicazione della cultura appresa a scuola, in un paese di mia conoscenza, venne fatta da fanciulle di quindici o vent’anni sulla _Nanà_ di Zola. Non occorre dilungarsi in dimostrazioni. Il fatto, variamente ma insistentemente ripetuto, incomincia a portare un primo squilibrio nelle menti giovanili che si trovano per tal guisa sbalzate nei pieni marosi dell’esistenza senza bussola non solo, ma anche senza barca. Così quando una fanciulla invece di arruolarsi alla fabbrica si decide per il servizio in città, ella è già così corrotta, se non di costumi, di immaginazione, che al contatto del lusso e delle infinite tentazioni della vita moderna non ha nulla da opporre, nemmeno una virtù che sfuggita ai freni della religione è troppo debole per raggiungere altre vette, e si adagia nella indifferenza della morale comune. La fiamma di libertà e di eguaglianza che ella ode crepitare intorno, non potendo nel piccolo edificio dei suoi pensieri raggiungere l’altezza dei pensatori che la attizzarono, scalda, morde, rintuzza gli istinti volgari a danno principalmente suo, anzi suo unicamente. La meta per lei non è più, come era per le sue bisavole, la conquista dell’affetto, della rispettabilità, della vecchiaia assicurata. Attraverso il fumo che la involge non vede altro che il lusso. Vestire come le signore, avere la stessa foggia di camicie, lo stesso colore degli abiti e portare il cappello, ecco l’apice dei desideri di questa infelice. Come si fa a persuaderla che la felicità non è lì? * * * Dal tempo delle Pamele, delle Bettine, delle Lisette, i salari sono raddoppiati senza che la donna di servizio veda raddoppiare le spese di alloggio e di vitto il cui straordinario rincaro è tutto a carico dei padroni. Il doppio dunque del salario che ella percepisce, se si considera che gli oggetti di vestiario sono la sua sola spesa e costano ora molto meno di un tempo, dovrebbe accumularsi in risparmi a suo totale beneficio, rendendo questa professione una delle più lucrose e delle più ambite. Ma i risparmi non si fanno perchè la donna di servizio sente ora il bisogno di portare trine e falpalà che se anche costano poco si rompono facilmente, di cambiare ad ogni stagione la foggia degli abiti ed anche questo costa. Vestire come la padrona è il suo assillo e questa eguaglianza la rovina senza darle un solo giorno di felicità, perchè l’inseguimento febbrile dell’apparenza le fa trascurare l’intima conquista che avvicinava realmente i servitori di una volta ai loro padroni. Al concetto della previdenza e del risparmio si è sostituito quello del godimento. La cicala ha sovvertito la formica. Affezionarsi ad una casa e ad un padrone che sostituisca la propria casa e la propria famiglia, questo cardine della antica persona di servizio, fa ora alzare le spalle. Guadagnare di più per spendere di più. Ecco il credo moderno. Chi ode mai l’antica frase: _la tal cosa non è della mia condizione_. Tutte le cose sono ora di tutti gli uomini e tutte le condizioni sono pari, non è vero? Soffermiamoci un istante che questo è davvero il punto spinoso. Tutte le cose sono di tutti gli uomini. Bellissima dichiarazione, ma qual’è l’uomo che possiede tutte le cose, astrazione fatta di colui che tutte le tiene nel suo cervello e che una volta si chiamava il saggio? Tutte le condizioni sono pari. Ed è vero; ma pari davanti a che? Tra loro no, evidentemente, perchè un macellaio, uno scrittore, un tintore, un suonatore di violino, un medico, un imbianchino, un maestro non possono vestire allo stesso modo, nè allo stesso modo lavorare, nè ogni singolo lavoro misurare ad eguale stregua. Io direi piuttosto che tutti gli uomini sono eguali in qualunque condizioni si trovino e ciò è, nonchè giusto, chiaro. Eguali cioè nella dignità e nella libertà d’uomo. A tale riguardo la donna di servizio ha diritto allo stesso rispetto ed alla stessa considerazione della signora ed anche di più se ella è onesta e la signora no. Questa è la grande conquista che la civiltà ha fatto sulle barbarie e va spiegata al popolo con precisione nel suo significato elevatore, se non si vuole che gli ignoranti se la spieghino da sè, snaturandola a tutto beneficio dei bassi istinti; e da questo punto precisamente incominciarono i doveri dei padroni. * * * Accagionare la donna di servizio del disordine della sua mente, in un momento di transazione com’è il nostro e mentre il disordine è generale, non sarebbe giustizia. Se tutte le donne, di tutte le classi, sono agitate, qual meraviglia che si agiti anche la donna di servizio? Ed è pur naturale che la sua agitazione davanti ai nuovi ideali democratici conservi la scorie delle aristocrazie antiche, cioè il pregiudizio e l’errore che le fanno accettare l’apparenza qual meta e la persuadono di eguagliarsi alla signore prendendone le vesti. Non è facile certamente togliere ad una mente rozza questa conquista puerile resa così accessibile per le migliorate condizioni materiali, ma è necessario accingervisi. Il principio democratico se vuole conservare il suo posto fra gli ideali deve promulgare l’eguaglianza morale ed è una negazione assoluta di tale eguaglianza il vergognarsi di essere operaio o domestico. Gli uomini devono esser eguali, non le vesti; e dal momento che ogni professione ha esigenze ben definite, nessuno pure dovrebbe rammaricarsi di sembrare esteriormente quello che è in realtà. Quando avremo fatto questo passo sulla via del progresso molti attriti scemeranno e si può sperare che invece dell’odio e dell’invidia che dividono le classi, una reciproca intelligente comprensione del vero ristabilirà i rapporti affettuosi fra padroni e domestici. E però tra i padroni d’oggi troppo di frequente si contano i villani arricchiti a cui manca ogni tradizione di famiglia e che imbevuti della arroganza degli ultimi arrivati nulla fanno per affezionarsi e per educare i propri domestici; anzi si direbbe che col loro contegno mancante di tatto, di opportunità e di gentilezza contribuiscono al loro corrompimento. _ATTIVITÀ FEMMINILE_ Da noi — mi diceva una signora tedesca — il cuoco maschio non esiste; in cucina è la donna che lavora. E va benissimo. Sono anche pronta a concedere che in certi negozi a misurar trine e nastri, a spiegare velluti, a vender guanti, profumi, spilli, saponette, ventagli, ombrelli, calze, le donne ci starebbero meglio che gli uomini. Concedo pure che in un ordine superiore le maestre allarghino i loro orizzonti fuori delle prime classi e conquistino gradi più elevati di insegnamento quando speciali disposizioni ve le attraggano; così come le dottoresse di bambini potrebbero trovare un posto fra la levatrice e il medico e nelle Gallerie d’arte invece dei bidelli neghittosi meglio starebbe una donna con un lavoretto in mano. Tutte queste occupazioni non escono dalle attitudini femminili e non snaturano la missione della donna. Ma quanto al divenire capi di officina, direttrici di strade ferrate o di trasporti marittimi, banchieri, deputati, ministri, come è nelle idee di qualcuno che abbiano a divenire, non solo non lo credo attuabile ma non lo credo perchè tale utopia non è nè bella nè utile, quindi senza ragione d’essere. Veramente i miei avversari di ragioni ne espongono parecchie. Troppe io direi e spesso contradditorie; ma quelle che maggiormente si impongono sono tre: Per rendersi economicamente indipendenti. Per rivendicare il diritto all’uguaglianza. Per essere felici fuori della famiglia e del matrimonio. Chi non vede che quest’ultima le riassume tutte ed è forse la sola che a loro preme? Ma procediamo con ordine. Dire che tutte le donne, principesse o contadine, dipendono economicamente dall’uomo[2] non risponde alla verità, perchè noi sappiamo che le donne ereditano al pari dell’uomo e nelle famiglie provvedute di censo esse dispongono della loro rendita liberamente. Le donne povere poi hanno sempre lavorato quando hanno potuto farlo ed anche quando i bisogni della casa e dei bimbi le avrebbero così utilmente ritenute fra le domestiche pareti; onde parmi che se un progresso è desiderabile questo è appunto che ogni madre di famiglia attenda alla famiglia e solo le giovani cerchino occupazione altrove. Per ciò basterà, come ho detto sopra, che gli uomini cedano alle loro compagne alcuni impieghi e professioni meglio adatte alla natura femminile senza che la donna invada tutte le attività maschili per le quali, oltre al non essere indicata dalla natura, è contrario l’equilibrio sociale e il suo stesso interesse, perchè, già difficili gli impieghi per gli uomini, quando in grazia della concorrenza troveranno i posti occupati, dovranno stare essi in casa ad aspettare il salario della moglie. Sarà questa una bella conquista per l’uguaglianza. Si osserva che le mercedi essendo scarse il guadagno della moglie aiuta quello del marito a tirare innanzi la famiglia. Ma come tira innanzi? Una buona donnina scossa dalle parolone dei rivendicatori mi assicurava col candore dell’innocenza che in casa ella non aveva più nulla da fare e si sarebbe per ciò associata ai negozi del marito. — E i suoi tre figliuoli? — le domandai — Il primo lo tiene mia madre, il secondo mia sorella, il piccino è in casa colla donna di servizio. — Risposta testuale. Io non ebbi il coraggio di ridere in faccia alla donnina perchè evidentemente si trovava in piena buona fede, ma il fatto di tre donne sostituite ad una che diserta il suo posto è abbastanza eloquente per l’uguaglianza, per l’economia ed anche per l’educazione della prole. In condizioni più basse ancora vedo la moglie che va alla fabbrica sempre allo stesso scopo di vantaggiare il bilancio domestico; ma, oltre all’inevitabile abbandono dei figli, deve spendere denaro per aggiustature d’abiti, lavature, ecc.; e lei stessa ha bisogno di maggior spesa per il suo vestiario; tanto che l’economia se ne va per altra parte trascinando seco la sequela di guai che provengono dai figli cresciuti lungi dalla madre. Ma un nuovo argomento si impone e terribile. Quando la donna fosse pareggiata all’uomo nell’intero sistema di vita e cioè, sdegnando le occupazioni casalinghe, tutta concedesse la propria attività al lavoro pubblico, per inevitabile logica dovrebbe acquistare le abitudini ed i vizi che ora sono più propriamente dell’altro sesso, fra cui primissimo l’alcoolismo. Avremo dunque, oltre che dal lato paterno, anche per parte delle madri questo spaventoso flagello della razza. Si sa che l’alcoolismo ha sui figli una azione micidiale. Essa infallibilmente farà crescere il numero dei delinquenti, degli idioti, degli epilettici, dei nevrastenici. Avremo avvelenate le sorgenti stesse della vita e la natura si vendicherà della violenza che vogliamo imporle, dandoci generazioni sempre più deboli ed infelici. Le statistiche parlano chiaro in proposito. Il contributo maggiore fornito all’alcoolismo delle donne era fino a pochi anni fa additato primo nelle erbivendole, le quali alzate di buon mattino ed esposte ai rigori del freddo sulle piazze segnavano nientemeno che il cento per cento; venivano poi a distanza le cuoche, le lavandaie; ultime fra tutte e con un contributo debolissimo le cucitrici ed in generale le donne residenti in casa. Ora si può aggiungere le operaie senza tema di andar molto errati mettendole a fianco delle erbivendole. Il pregiudizio che un bicchierino di liquore fa bene allo stomaco e che rinforza, acquista tutta la sua eloquenza quando la donna strappata alla casa si trova attirata nella compagnia e coll’esempio degli uomini; così da una volgare questione economica si cade in un delitto antropologico. Davanti ai disastri dell’alcool nella fibra della donna, quanto dire della madre, non è il caso di rilevare la breccia che per questo lato si forma anche nel bilancio delle famiglie povere. Infine, coll’auspicato pareggio non si potranno già pareggiare le funzioni del sesso; la donna che tanto deve dare delle sue energie e del suo sangue alla conservazione della specie riuscirà inferiore alla lunga nella gara di fatiche coll’uomo. Occupata, e così seriamente nella maternità, la quale non è solo un travaglio di nove mesi ma è il lavoro di tutta la vita per la preparazione e per le conseguenze, ella sarà obbligata a cedere quando i pochi esperimenti personali (quindi inconcludenti per la verità di un principio) avranno invaso la totalità delle femmine. Purtroppo vi sono casi nei quali la donna è obbligata a lavorare al pari di un uomo il che vuol dire _di più di un uomo_ poichè ha già il suo lavoro di donna, ma queste sono piaghe sociali, non sono idealità future. Riserbandoci ad altra occasione di discutere meglio il diritto all’uguaglianza e la felicità fuori della famiglia, terminiamo per oggi la contemplazione del fattore economico. Bebel fa balenare come un grande miraggio di progresso l’assetto socialistico nel quale la casa deve ridursi alle minime proporzioni, una specie di tenda per ricoverarsi alla notte, dovendosi la maggior parte del tempo spendere nella vita pubblica, nelle riunioni, nei comizi, nelle arringhe. Egli assicura a dir vero che quando anche la preparazione dei cibi diventerà istituzione sociale lo stomaco funzionerà meglio (_La donna e il socialismo_, pag. 417) e tale mirabile affermazione è bene fatta per sorridere a molti; ma noi che non crediamo tanto prossima la distruzione della casa vogliamo un po’ vedere se essa è veramente quell’arnese inutile che si va dicendo. Perchè non si fanno più calze è forse cessato il lavoro femminile in casa? Consideriamo le esigenze della moda al giorno d’oggi, la frequente mutabilità, la spesa grandissima della mano d’opera da una parte; dall’altra il basso prezzo delle stoffe e la poca durata di esse, e sarà facile concludere che se le donne si applicassero a fabbricarsi da se una parte del loro abbigliamento realizzerebbero con un lavoro tranquillo e casalingo ben maggiori economie che non a correre le strade in cerca di guadagno. Questo io dico principalmente alle piccole borghesi, alle donne di quella categoria così detta civile ma scarsa di mezzi e che è forse la più numerosa e la più bisognevole di aiuto. Lo so anch’io che non trovano più nulla da fare in casa. Fanno fare tutto fuori! Provino a contare in fine d’anno quanto viene a costare la sarta, la modista, la bustaia, la stiratrice, la cucitrice, molto più se nel conto ci devono stare gli abiti, i grembiuli, le calzine, i berrettini dei bimbi; non parliamo della biancheria comune di famiglia che presto cade in rovina se non si rimedia a tempo e per la quale è pure cresciuto il lusso delle trine e dei trafori, quindi del lavoro per la donna economica che vuole far figurare bene la sua casa. Ognuno può vedere i sacrifici che si impongono certe piccole famiglie borghesi per insegnare alle fanciulle una lingua straniera, o il piano, o la pittura, persuasi che ciò renderà loro in avvenire; e intanto spendono trenta o quaranta lire in un cappello che ne ha, di valore, dieci o quindici ma che raggiunge quella cifra iperbolica perchè, comperato in un negozio, ha sopra di se la spesa dell’affitto, dell’illuminazione, della mano d’opera e del capitale impiegato. E la piccola famiglia paga tutto questo, mentre sarebbe così semplice che la fanciulla prima di imparare le lingue straniere, il piano o la pittura, imparasse a prepararsi i propri cappelli; visto che di cappelli ne porterà sempre, e l’applicazione di quelle altre cognizioni invece è per lo meno problematica. Si sono messe tante volte in ridicolo le trine all’uncinetto; confesso di non comprendere questo ostracismo assoluto. Oramai si fanno bellissimi lavori anche all’uncinetto, così come sono progrediti tutti i lavori femminili dei quali l’ultima Esposizione a Villa Reale diede luminosi esempi. Del resto dipingere quadri mediocri o scrivere romanzi noiosi è forse più nobile e più proficuo? Non sono di tale opinione. Gli uomini che hanno uno speciale interesse congiunto alla questione femminista vanno anche spargendo la voce che nelle occupazioni casalinghe la donna istupidisce e paralizza le facoltà dell’ingegno, che il ricamo è snervante, che il cucito è penoso, quasi che essi potessero essere buoni giudici in proposito. Io invece, avendo fatto in vita mia oltre ai ricami non so quante paia di calze ed avendo cucito io stessa gli abiti de’ miei figli fino all’età di dieci anni, posso assicurare che questi lavori sono piacevolissimi e riposano lo spirito. Se i nervi dell’uomo non resistono alla continua tensione mentale, come vi resisterebbero quelli della donna _sui quali gravita tanto altro lavoro?_ È dunque utile anche per la salute della donna questo genere di occupazioni così strettamente generate dalle sue attitudini e da’ suoi gusti concentrici; nè esse saprebbero turbare in alcun modo lo sviluppo del suo ingegno naturale, che anzi nel raccoglimento di tali lavori matura il talento di osservazione e si formano quei ben temprati caratteri femminili forti e dolci ad un tempo, appassionati e riflessivi, che furono in tutti i secoli onore e vanto nostro. Avendo già citate e la Eliot e la Sand in prova che i maggiori ingegni femminili si svilupparono nella solitudine e nel raccoglimento della casa, aggiungerò l’esempio delle sorelle Bronté una delle quali, Carlotta, sotto il pseudonimo di Currer Bell prese posto onorevole fra i romanzieri inglesi e l’altra, Emilia, è chiamata da Maeterlink l’anima femminile più grande del suo secolo — che fu pure il secolo della Eliot. E se la Eliot passò la giovinezza manipolando burro, e Giorgio Sand preparando conserve, le sorelle Bronté nello squallore della casa paterna tiravano il mangano per fare il pane. _UOMINI, UOMINI, DONNE, DONNE_ Ho letto in un recentissimo studio francese sulla questione delle nuove carriere da aprirsi alle donne una specie di dialogo che suonava così: — La donna nasce donna e madre prima di diventare commessa, impiegata, ecc. — Ma anche l’uomo nasce uomo e padre prima di diventare commesso, impiegato, ecc. E questa parve all’autore dello studio sopradetto (che è pur fatto con serietà e onesti fini) una conclusione magistrale del grande quesito; ma la verità di essa non è che apparente. Ben diverso è l’ufficio che la natura assegna all’uomo, il quale per divenir padre non ha molto da fare e lo diventa si può dire a sua insaputa, in confronto della donna che vi espone la vita e ne subisce prima e poi una sequela di disturbi, di mali, di privazioni, di sacrifici anche, ma insieme di commozioni e di gioie che l’uomo non conosce. Partendo dalle stesse false premesse, Bebel incita la donna a percorrere le carriere maschili per trovare in esse _un equivalente di ciò a cui è tratta da natura_ e per acquietare, a somiglianza dell’uomo, nella foga del lavoro e dello studio la prepotenza degli istinti sessuali. Ma sono sempre uomini che parlano e parlano molto leggermente giudicando la donna dal loro stesso punto di vista, senza tener conto che la differenza che sta fra i due sessi è sostanziale e impedirà sempre l’eguaglianza desiderata dai femministi. Fin dal momento misterioso della pubertà si sviluppa nel corpo della donna un fenomeno che accaparra le sue forze e le guida allo scopo precipuo per cui fu creata, tagliandole la strada ad occupazioni che sperderebbero senza vantaggio di alcuno il capitale di energie sacre alla maternità. I diritti e i doveri procedono dalla natura stessa delle cose. I diritti e i doveri della donna sono opposti a quelli dell’uomo; non è stata la società a stabilirli. Formati fisiologicamente in modo diverso, hanno ricevuto dalla natura stessa il còmpito di differenti funzioni vitali e dal momento che nessun progresso di civiltà farà mai di un uomo una madre, non c’è ragione nè materiale nè morale che le donne si assoggettino al tirocinio delle occupazioni maschili. Se la maternità abbisogna di una preparazione fisica, altrettanto — e come! — si dovrebbe preparare lo sviluppo delle qualità superiori che trasformano gradatamente la madre in nutrice, poi in educatrice e in guida. Si obbietta che non tutte le donne diventano madri. Pur troppo! Ma pieno è il mondo di bimbi abbandonati, educati male, offesi in mille modi, tratti al vizio ed alla perdizione, senza amore, senza carezze, senza dolci parole. Ecco la maternità offerta a tutte le donne. C’è da rifare il mondo, nientemeno, e si vorrebbe che la donna andasse a perder tempo in cattedra e al fôro! “L’uomo di domani non è forse colui che oggi la madre alleva? E chi per necessità di cose è destinato a tale preziosa missione, dovrà rifiutarsi dal fare ciò che tutti fanno per fini assai inferiori, dal dedicarsi cioè interamente al conseguimento del proprio scopo?„ Meditare questo periodo e meditare pure il seguente. “Altra cosa è posare la questione della capacità della donna e altra è il risolverla in presenza di un fatto brutale contro il quale si spezza ogni argomento ed ogni retorica„. Si può riconoscere la legittimità di certe aspirazioni, si può fraternizzare col desiderio di un miglioramento per tutte le donne, si possono, si devono anzi accogliere i voti in proposito, ma non perdere mai di vista lo scopo per cui la donna è nata donna, invece di nascere uomo. Per quanto le vecchie zitelle formino una casta rispettabile alla quale io dedicai da lungo tempo viva e profonda simpatia, esse sono una minoranza per cui non si può sacrificare l’interesse vero di tutte le donne e della società futura. Se si potesse fin dalla nascita preconizzare l’avvenire di una bimba e decidere che ella rinunciando ai diritti del suo sesso potrà invadere quelli del sesso contrario, pazienza. Le Amazzoni si bruciavano una mammella; niente a maravigliarsi che coi progressi della scienza non si possa praticare alle neonate una operazioncina che le liberi per sempre dalla maternità. È un’idea. Solamente, appropriandosi i diritti dell’uomo, la donna non potrà cedergli i suoi. Sarà dunque una rapina senza compensi e senza profitto. I femministi se la meriterebbero. Il loro profeta del resto (Bebel) ha già preconizzato che la donna futura non vorrà più seccarsi in questa funzione della maternità, nè trascorrere i più belli anni della vita o gestante o balia. La confessione è preziosa e conviene tenerne conto. Ma noi partendo dall’assioma inconcusso che le energie della donna, pur essendo pari a quelle dell’uomo non sono simili, ed hanno altra missione nell’armonia della società, veniamo direttamente alla conclusione logica che il soverchio lavoro mentale delle classi preparatorie ai diplomi, la tensione imposta dalla importanza degli esami, il lungo soggiorno nelle aule, anemizzano per tempo la fanciulla e favoriscono lo sviluppo degli elementi nervosi a danno del deposito, per modo di dire, ch’ella deve conservare in sè per le generazioni future. Il _surmenage_ intellettuale quasi come l’alcool avvelena il sangue della donna. Avremmo dunque in basso e in alto della scala sociale i più formidabili nemici della umanità: l’alcoolismo a cui verrà tratta la donna operaia e la nevrastenia che aspetta le laureate. Quella qualsiasi percentuale di casi che abbiamo ora in ambedue le malattie diventerebbe a regime femminista insiediato una spaventosa generalità. Ingenuità di giudizio, osservazione superficiale ed opportunismo suggeriscono la teoria che, studiando, la donna potrà eguagliare l’uomo e far senza come lui in molti casi della vita sentimentale e dei bisogni fisiologici. Ma forse che tutti gli uomini studiano? La maggioranza di essi non è ordinariamente ignorante? È dunque un’altra la ragione che favorisce il loro adattamento; e questa ragione è precisamente il sesso. Può la donna cambiarlo? Lo possono i femministi? No. E di qui non si esce. Lo stesso autore citato in principio di questo capitolo dice, pure in mezzo a parecchie concessioni femministe, verità preziose che mi piace raccogliere. “L’uomo deve alle sue qualità positive di ignorare gli arcani dalle facoltà della donna. In lui i bisogni dell’intelligenza, l’insieme stesso delle sensazioni procedono essenzialmente da una tendenza centrifuga. I suoi rapporti colla natura e coi suoi simili sono improntati a questa caratteristica speciale ed è un movente sufficiente per fargli ricercare nella lotta e nel combattimento un elemento armonico se non necessario, contingente almeno alla sua natura d’uomo. La donna, non bisogna stancarsi dal ripeterlo, è conformata diversamente. La sua intelligenza e le sue funzioni fisiologiche si esercitano in senso centripeto; in lei nulla è determinato dal mondo esterno; il ragionamento stesso non cede che a considerazioni affatto intime. Ciò che il suo compagno domanda ai contatti della folla, la donna lo aspetta da una specie di divinazione famigliare„. Voglio aggiungere una frase deliziosa della povera Elisabetta d’Austria. “Facendo troppo caso dello studio la donna _disimpara_ una parte di sè„. Quale profondità e quanta delicatezza in tale pensiero! Sono dunque ragioni d’ordine strettamente scientifico quelle che consigliano la donna a non invadere il campo dell’attività maschile e, come è naturale, la bellezza della verità scientifica trova il suo corollario nel sentimento unanime dei popoli, nel genio dei poeti. La storia e le matematiche, vedi pure le analisi chimiche e batteriologiche, non calmeranno mai le pulsazioni di un seno di vergine che anela a ciò che è veramente il suo diritto e la sua gioia sulla terra. Per terminare citerò la curiosa preoccupazione di una femminista la quale ha testè proposto l’abolizione della parola _mademoiselle_ e reclama per tutte le donne indistintamente l’appellativo di _madame_. Dove non giungerà, o mio Dio, la frenesia dell’uguaglianza?... Intanto però teniam conto che la donna nasce _mademoiselle_ e che, per essere logica, una vera femminista non dovrebbe dare nessuna importanza alla trasformazione in _madame_. _TUTTE MADRI_ In una poesia greca, credo di Simonide, la donna saggia viene paragonata all’ape: “... la donna che all’ape è somigliante “Beato è chi l’ottiene, “In carità reciproca “Poi che bella e gentil prole crearono “Ambo i consorti dolcemente invecchiano. e per quanti secoli siano passati l’ideale della donna e per la donna è ancora questo. Così parmi di dover compendiare le mie modeste osservazioni sul movimento femminista. Tutto ciò che allontana la donna dalla casa e dalla culla, malgrado gli apparenti vantaggi promessi, non può riescire che un danno per lei e per l’umanità. Credo di averlo provato con argomenti materiali e con argomenti ideali, essendo per fortuna indissolubili nelle eterne verità queste due forze che a noi sembrano tante volte contrarie. Ammesse dunque tutte le circostanze particolari, i casi separati, le eccezioni, le vocazioni, e considerato che la donna ha la sua struttura conformata in altro modo che non sia quella dell’uomo, e la sua intelligenza e la sua anima sono tanto necessarie altrove che non nel campo della attività maschile, resti donna, più che mai donna, niente altro che donna; alta, nobile, sublime, coraggiosa, forte, ma donna: e migliori i suoi interessi, ma restando donna. E sia madre! Poichè la maternità è la più splendida corona della vita e che la natura la offerse alla donna, a lei sola, facciano gli uomini in modo che ogni donna abbia la sua parte. Sia bandita da una società che vuole progredire la tristezza della vergine coi capelli bianchi, la tristezza di un grembo senza frutto. È questo il diritto più sacro del nostro sesso! Prepariamo il corpo e la mente alla maternità. Io sono fra coloro che ritengono miglior sorte per una fanciulla un modesto matrimonio, anche poco felice, ad una esistenza solitaria fra le ricchezze, i piaceri, lo studio o qualsiasi altro compenso. Nel primo caso avrà della vita le commozioni più intense e più vere e quando nel brivido meraviglioso che l’uomo ignora, dalle stesse sue viscere palpitanti ascolterà la voce del _grande mistero_, si sentirà così alta, così prossima all’infinito da giudicare ben meschina ogni altra opera. Nel secondo caso potrà avere dei piaceri, delle soddisfazioni, dei compensi, ma non giungerà mai ad afferrare il senso profondo della vita perchè su di lei non è passato quel fremito di un essere nuovo che entra nella luce. Tuttavia se il culmine di una esistenza femminile è la maternità, è pur duopo riconoscere che troppe donne ne sono prive ed in queste più facilmente fermenta la ribellione ad uno stato di cose contro natura e più agile vi guizza l’illusione di potersi in altro modo rifare. E’ principalmente fra le zitelle e le sterili che si accende la fiamma di conquiste e di rivendicazioni sociali; sono esse che nel morto focolare dei loro sogni rintuzzano scintille di desideri violentati, di attività represse, di aspirazioni passionali rimaste senza scopo. Ebbene, anche a queste dico: Siate madri. Se il vostro fianco non ha partorito fra i dolori il figlio delle vostre viscere, concepite moralmente. Siate con uno slancio di magnifico altruismo la madre di un orfano; e non occorre nemmeno che l’oggetto della vostra dedizione sia orfano. Fuori della famiglia il fanciullo ha ancora bisogno della donna. Siate materne per l’amico, per il dipendente, per l’ignoto che ricorre a voi, ed anche per colui che senza chiedervi nulla voi potete nobilitare e beneficare con un gesto, con una parola. E’ incredibile il bene che può fare una donna colla sua sola presenza; è sconfinato quello che può fare coll’esempio, colla persuasione, coll’educazione. Di scienziati, di giureconsulti, di artisti non ha bisogno il mondo. Il mondo ha bisogno di educatori. La donna che sa educare, che plasma un intelligenza, che sviluppa un’anima, è madre anche se fanciulla; occupa quindi la prima dignità femminile. “Nessuna cosa vale quanto un’anima: nè terra, nè mare, nè astri„ dice il mio scrittore prediletto. Nessuna cosa è più trascurata, più profanata nel seno stesso delle famiglie e delle scuole. Quando si fossero salvati migliaia di bambini dalla fame, dalle busse, dall’ignoranza, ve ne saranno altrettanti che occorre salvare dalla leggerezza, dalla violenza, dalla vanità, da tutti i difetti che genitori e educatori vanno propagando in mezzo al più grande sfoggio di studi e di erudizione. Si colma facilmente il bambino di tenerezze, lo si sottrae ai disagi, gli si cura il sangue per renderlo robusto, ma quanti ne rispettano l’anima? quanti dinanzi al suo candore frenano i discorsi di turpitudini e di brutture intorno al fatto del giorno? quanti dòmano l’impulso dei nervi irritati e del cattivo umore? quanti si preoccupano di non dargli cattivo esempio con parole triviali, o maligne, o sciocche, ferendo così la tenera anima in ciò ch’ella ha di più sacro e di più prezioso, l’ignoranza del male? Chi semina in queste innocenti creature i primi germi dell’invidia, della cupidigia, della violenza, dell’ingiustizia, dell’impostura, della menzogna, della calunnia se non i genitori e gli educatori stessi che si mostrano così sovente invidi, cupidi, violenti, ingiusti, ipocriti e bugiardi? — Dobbiamo dunque essere santi? — odo obbiettarmi. No; ma pensate che il gesto che voi tracciate dinanzi al vostro bambino è quello che si imprimerà per sempre nella cera molle del piccolo criterio e sopra quello, il più delle volte, svolgerà la sua vita avvenire. Qualcuno che pur col figlio proprio sorveglia il bel gesto, non ha gli stessi riguardi in pubblico. Io soffro continuamente per tutto ciò che si fa e si dice di male intorno ai bambini e penso quanta occupazione ci sarebbe lì per la donna, per tutte le donne. Se vogliono studiare, quale campo sconfinato l’educazione! (Insisto sul vocabolo _educazione_ da non confondersi coll’istruzione). Se hanno bisogno di amare, chi lo merita e lo implora più dell’infanzia? È sui ginocchi della donna che si forma l’umanità. Ma chi non educa prima se stesso si illude invano di poter educare altri; l’educazione è opera così tenue, così impercettibile, così continua e silenziosa che esige un lavoro non mai interrotto di calma, di pazienza, di dominio di se stessi. Per questo meglio è indicata la donna non distratta dagli affari e dalle cure della professione. Quando l’uomo, il padre, stanco e irritato dalla sua giornata di combattimento, coi nervi tesi e il cervello ingombro ritorna a casa, non è quasi mai nelle condizioni favorevoli per educare. Tocca alla donna l’ufficio delicato ed importante di eludere le occasioni che lo farebbero trascendere, di calmare i suoi nervi, di spiegare nel modo più confacente ai teneri bimbi lo scatto di malumori che essi non possono comprendere e che offuscano con una nube di diffidenza l’immagine di colui che dovrebbe sempre apparire il migliore dei modelli. La donna è in questa impresa infinitamente superiore al maschio per quelle stesse qualità di prontezza, di astuzia, di tatto che la scuola Lombrosiana le rinfaccia come suggello di inferiorità e che in altri casi meno nobili le servono di affilatissime armi. Sì, più pronta, più astuta, più agile, la donna elevata e saggia si servirà anche di queste attitudini particolari per raggiungere i suoi fini educativi, quei fini che essa sola può far trionfare per la gloria eterna della verità. Guai se tale donna venisse a mancare! Un professore, che è anche un critico elevato e profondo, ha avuto il coraggio di confessare. “Noi possiamo dare, sì qualche spirito solido, laborioso, ma non riusciamo ad avvivare nelle tristi aule della scuola sentimenti generosi, non sappiamo far battere dei cuori, non sappiamo sviluppare delle anime„. Questo compito sublime spetta alla donna. Se lo lascerà essa sfuggire per correr dietro a inutili fatiche? Proprio in questi giorni i femministi annunciano una nuova vittoria nel responso di trenta professori francesi i quali, interrogati sul risultato degli studi universitari rapporto alle donne, espressero l’opinione che detti studi le rendono mogli e madri migliori. In qual modo non è detto; per cui mi è lecito prendere la loro affermazione come una di quelle frasi retoriche di uso corrente nelle scuole e che in fondo non vogliono dir nulla. Domanderò invece a questi signori su quali documenti hanno fondato il loro giudizio; evidentemente sugli esami e sulle classificazioni delle loro alunne, quanto dire sopra una prova troppo lontana e troppo prematura. Che ne sanno essi delle loro scolare quando hanno abbandonato i banchi? Perchè le vedono a passeggio con una balia tenente un pargoletto basterà questo a dichiararle mogli e madri _migliori?_ È il superlativo migliore che io contrasto, badiamo, e sostengo come donna, cioè con autorità superiore a quella dei professori di Università, che qualsiasi studio non collegato alle nozioni morali e fisiche della maternità può forse _suo malgrado_ lasciar sviluppare i buoni istinti naturali in una donna razionalmente conformata, ma non aiuterà mai nessuna a diventare moglie e madre migliore. Per me, non i trenta professori universitari hanno ragione, sibbene colui che scrisse: “Noi possiamo dare qualche spirito solido, laborioso, ma non riusciamo ad avvivare nelle tristi aule della scuola sentimenti generosi, non sappiamo far battere dei cuori, non sappiamo sviluppare delle anime„. Nelle scuole si istruisce, raramente si educa; e in un gran numero di famiglie, purtroppo, nè si istruisce nè si educa. Teniamolo a mente noi donne, noi madri, e sia questa la meta di ogni nostro progresso. _INDICE_ _dei capitoli contenuti in questo volume._ Il concetto materialista nella felicità _pag._ 9 La donna e la cultura 33 Ad una incognita (appendice) 53 La parte della donna 61 Guerra di sesso 73 Per un milione di zeri 83 Vecchie zitelle 105 Il fanciullo 119 La donna scrittrice 133 Femminismo storico 163 Schiave bianche 183 La donna di servizio 201 Attività femminile 217 Uomini, uomini, donne, donne 233 Tutte madri 245 NOTE: [1] Il presente scritto, per quanto ispirato ad una pubblicazione recente, non essendo un articolo di critica, abbiamo creduto di poterlo accogliere in questo volume affermando esso con nuovi argomenti le idee dell’autrice. [2] BEDEL: _La donna e il socialismo_. Nota del Trascrittore Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. *** End of this LibraryBlog Digital Book "Le idee di una donna" *** Copyright 2023 LibraryBlog. All rights reserved.