Home
  By Author [ A  B  C  D  E  F  G  H  I  J  K  L  M  N  O  P  Q  R  S  T  U  V  W  X  Y  Z |  Other Symbols ]
  By Title [ A  B  C  D  E  F  G  H  I  J  K  L  M  N  O  P  Q  R  S  T  U  V  W  X  Y  Z |  Other Symbols ]
  By Language
all Classics books content using ISYS

Download this book: [ ASCII ]

Look for this book on Amazon


We have new books nearly every day.
If you would like a news letter once a week or once a month
fill out this form and we will give you a summary of the books for that week or month by email.

Title: Storia degli Italiani, vol. 10 (di 15)
Author: Cantù, Cesare
Language: Italian
As this book started as an ASCII text book there are no pictures available.


*** Start of this LibraryBlog Digital Book "Storia degli Italiani, vol. 10 (di 15)" ***
10 (DI 15) ***


                                 STORIA
                             DEGLI ITALIANI


                                  PER
                              CESARE CANTÙ


                           EDIZIONE POPOLARE
         RIVEDUTA DALL’AUTORE E PORTATA FINO AGLI ULTIMI EVENTI

                                TOMO X.



                                 TORINO
                      UNIONE TIPOGRAFICO-EDITRICE
                                  1876



LIBRO DECIMOTERZO



CAPITOLO CXL.

Secolo di Leon X. Belle arti.


La vitalità de’ tempi repubblicani sopravvivea, portando all’attività
e alla creazione; mentre dai modelli classici, che allora o si
discoprivano, o meglio fissavano l’attenzione, imparavansi eleganza e
correttezza. Da questo felice temperamento trae carattere il secolo di
Leon X; secolo di tante miserie per l’Italia, eppure di bocca in bocca
qualificato come d’oro, come un meriggio, sottentrato alle tenebre del
medioevo: ma l’altezza a cui si spinsero le arti del disegno e quelle
della parola, anzichè creazione de’ Medici, fu effetto dell’antica
vigoria, che agitava l’Italia anche sul punto di perire.

Il bisogno di contemplare e imitar la bellezza visibile siccome
scala alla suprema e immutabile, e di farla specchio alla coscienza
meditatrice, alimentò sempre le arti fra noi: tanto che, ridotte quasi
una parte della liturgia, si prefiggevano certi tipi e forme rituali,
volendo esprimere piuttosto la visione dello spirito che la corretta
imitazione della natura, raggiungere l’evidenza efficace dell’emblema
piuttosto che la squisitezza della forma; piuttosto ispirare devozione
e raccoglimento, che destare vaghezza e meraviglia; atti di fede
insomma, meglio che prove d’abilità. All’ispirazione accoppiasi poi
lo studio; dalle immobili rappresentazioni bisantine si passa alle
libere e variate d’un’arte indipendente, la quale infine prevalse fin
a proporsi anzitutto la plastica squisita, lasciva però di sembianze,
scarsa d’affetto; traducendo la realtà della fisica, non interpretando
i misteri della morale natura. Infine si torna a tipi convenzionali,
non desunti dalla liturgia, ma da un maestro; e l’imitazione vaga o
servile scostasi dal vero e dal bello, mentisce alla natura, mentre
lascia perire ogni tradizione.

L’arte che il medioevo esercitò insignemente è l’architettura,
mantenendole il predominio sopra le altre. L’ordine gotico, nato a
piè degli altari, era giganteggiato in erigere chiese e conventi,
sede e simboli della podestà preponderante allora; e il duomo di
Milano, la Certosa di Pavia, San Petronio di Bologna ne sono tardi
e insigni monumenti. Ma oggimai la civiltà e ricchezza de’ laici
aumentate domandavano edifizj, che non potevano improntarsi di quel
carattere jeratico; e come le lettere rifaceano i classici, così nelle
costruzioni cominciò quel ritorno verso l’antico, che s’intitola
risorgimento. Se la originale inventiva si fosse attemperata ai
modelli antichi per ragionare meglio l’insieme, proporzionare le
parti, ingentilire gli ornamenti, poteva uscirne un’arte cristiana
e nazionale. E di fatto que’ nostri che primi si conformarono ai
modelli dell’antichità, non rassegnaronsi alla servile imitazione;
ma appurando la parte ornamentale, sbizzarrirono in modiglioni,
candelabri, gemme e marmi colorati, ed animali e fiorami finissimi,
intrecciati a fantastiche capresterie, dette grotteschi e arabeschi.
Tali occorrono spesso a Venezia, tali ne’ Miracoli di Brescia, nel
mausoleo Coleoni a Bergamo, sulle cattedrali di Como e di Lugano, nella
Certosa di Pavia: e fregi a porte, a pulpiti e pilastri, e candelabri
in luogo di colonne, e finestre a somiglianza di compiuti edifizj
sono finiti col fiato, anche se in posizione meno visibile; sempre di
gusto squisito, anche quando d’artefici innominati: l’eleganza delle
impronte rileva l’umiltà della terra cotta, della quale si compiacquero
i quattrocentisti, e che resistendo al tempo meglio che la pietra,
unisce alle variate forme quell’apparenza policromatica, che solo gli
accademici sentenziarono di barbarie[1].

Dell’architettura romana, la quale attestava la maestà del gran
popolo più originalmente che nol facesse la letteratura, non crederà
che avessimo smarrite le tradizioni chi abbia posto mente alle
costruzioni gotiche: pure al fiorentino Filippo Brunelleschi (-1444)
assegnano il merito d’aver ricondotta quell’arte dall’immaginazione
all’intelligenza, migliorata col volgere de’ secoli. Di Roma non
istudiò soltanto gli avanzi classici, per rinnovare i calcoli delle
forze, de’ materiali, delle spinte, e trarne esatto concetto de’ metodi
di costruire, e di quel punto ove confinano l’ardimento e la temerità;
ma meditò pure sui monumenti cristiani, e cercò la divina melodia del
ritmo visibile.

L’appello fatto dai Fiorentini agli architetti d’ogni paese per voltare
la cupola sopra Santa Maria del Fiore, lasciata scoperta da Arnulfo,
fece sottigliare gl’ingegni; e che bizzarri spedienti non furono
suggeriti! Uno diceva di ergere in mezzo un pilastro, cui attaccare
le volte a maniera di padiglione; uno di empiere la chiesa di terra,
con monete per entro, affinchè l’avidità di trovare queste inducesse
a sgombrarla dopo cessatone il bisogno; e tali altri armeggiamenti,
che, forse abbindolati dai cortigiani de’ Medici, furono raccolti
dal Vasari. Vero è che nessuna cupola fin allora avea coperto un
ottagono del diametro di quarantatre metri. Nelle antiche del Panteon,
della Minerva Medica, delle terme imperiali, della villa Adriana, la
calotta posa immediata sopra i muri di sostegno, senza pennacchi. La
cupola di San Marco a Venezia misurava il diametro di quattordici
metri, di diciotto quella di Siena, minore la pisana; tutte poi
erano circolari, elevate sovra pendenze, che ripartivano il loro peso
sui punti d’appoggio, disposti secondo il quadrato circoscritto al
circolo della base. I concorrenti conosceano le forme, gli effetti, il
pittoresco dell’architettura, non i mezzi scientifici di costruzione,
ed ajutavansi con rinfranchi esterni; mentre il Brunelleschi ideò una
mole che si reggesse da sè, e invece di rinunziare all’arco acuto,
conquista del medioevo, comprese come la spinta in su venga corretta
dalla sovrapposta lanterna, e da quella massa di marmo ne derivi la
solidità. Vinte l’invidia oculata e la miope diffidenza, s’accinse
attentissimo all’opera[2]; sopra gli archi d’Arnolfo elevò un tamburo
alto otto metri, e con aperture circolari, sicchè la volta insistesse
sopra i sostegni con doppio sistema d’arcate; una calotta esteriore
incatenavasi all’interna con una robustezza qual non raggiunsero
altre, benchè minori. Dal calcolo scientifico doveva scaturire la forma
artistica e quel grandeggiare maestoso, che sembrava privilegio delle
guglie gotiche; e ancora la casa di Dio sovrastette alle abitazioni
degli uomini, e costituì la fisionomia della città.

È del Brunelleschi anche Santo Spirito, la più bella chiesa di
Firenze, ideata sulle basiliche antiche: in San Lorenzo, già avviato
su piano timido, piegò il contorno delle cappelle fin a terra, gotico
avvedimento, dissonante dal resto. Le costruzioni appropria alla
destinazione senza arroganza, con più severità che grazia, più armonia
nell’insieme che nei particolari. Cosmo de’ Medici, che, colla spesa
di centomila scudi romani, gli aveva già commesso la badia a Fiesole,
il richiese di un palazzo; ma trovò il disegno troppo magnifico per un
privato qual egli voleva parere. Non se ne fecero riguardo i Pitti, e
sul suo modello fabbricarono quel che oggi ancora stordisce per una
forza come di costruzioni ciclopiche, con bugne non interrotte per
centottanta metri, senza studio di gentilezza e varietà.

Cosmo preferì il disegno di Michelozzo (palazzo Riccardi), il quale
accoppiò il lusso alla solidità, conservando le bugne ma variando
il prospetto esteriore, e nell’interno distribuendo con opportuna
magnificenza gli appartamenti; ed oltre il palazzo Cafagi a Mugello,
uno a Fiesole, quel de’ Tornabuoni a Firenze, e la villa di Careggi,
disegnò un ospedale per Costantinopoli, un acquedotto per Assisi, la
cittadella di Perugia, la biblioteca di San Giorgio a Venezia, a Milano
una porta in via dei Bossi, tutti per Cosmo, di cui pure fece la tomba
ne’ Serviti.

Leon Battista Alberti fiorentino (n. 1401), bello, robustissimo,
destro a giuochi, a cavalcate, alla musica, versatissimo nel diritto
civile e canonico, autore del _Philodoxeos_, commedia che fu creduta
antica, dettò libri latini e italiani sul dipingere; dei ritratti
reputava merito primo la somiglianza, onde ne cercava il giudizio a’
bambini. Avendo l’accorgimento d’imparare dagli ignoranti, travestito
girava le botteghe, informandosi dell’arti e involandone i segreti
per migliorarle. Fece una cassa, in cui guardando per breve pertugio
vedeansi monti e piani e notturni aspetti di costellazioni; cioè la
camera ottica, che suole attribuirsi a Giambattista Porta. Elaborò
Vitruvio, malconcio dal tempo e dai copisti; e conoscendo che il
migliore commento n’erano gli antichi edifizj, andò ad osservarli,
disegnarli, misurarli per tutta Italia, viaggiando con Lorenzo Medici,
Bernardo Rucellaj, Donato Acciajuoli; e riscontrate le teoriche
dell’arte, ne scrisse pel primo (_De re ædificatoria_, 1485).

Era però rimasto inedito un trattato di Averulino Filarete fiorentino
verso il 1450; il quale nel divisare una città non perde mai di vista
il concetto simbolico, e il _Nisi dominus ædificaverit civitatem_.
Fa la chiesa in forma di croce con cupola e decorazioni a modo del
San Marco, e vuole che, come l’uomo, sia _bella, utile, perpetua_. La
casa del principe resti inferiore, ma più ricca di pitture religiose,
simboliche, allegoriche, storiche, sicchè egli ritragga continue
istruzioni sui proprj doveri verso Dio, verso i popoli, verso se
stesso: v’avrà un portico per la storia sacra, uno per la profana,
e tutto dai migliori pennelli. Vicino staran le memorie degli eroi
cristiani, cioè le chiese de’ santi Francesco, Domenico, Agostino,
Benedetto, e una casa di Carmelitani, una di Clarisse. Vengono poi
gli ospizj in forma di croce; la casa d’un patrizio, quadrata con una
torre a ciascun angolo; e circo, e porta, e anfiteatro, e ponte, e una
carcere dove tenere i condannati, invece di farli morire; e un ginnasio
per la gioventù, che principalmente venga avvezzata alla preghiera,
al digiuno, ai sacramenti. Le fanciulle s’insegnino a cucire, filare,
tessere, ricamare. La città, oltre le fortificazioni, avrà sentinelle
avanzate che la custodiscano coll’arma migliore, la preghiera; cioè
santi eremiti.

Tali concetti mistici cedevano all’arte più materiale; e l’Alberti,
occupati i primi libri intorno al terreno, alle misure, ai materiali,
agli operaj, ai modi di costruzione, alle cerimonie degli antichi,
nel quinto dà norme pei castelli dei cattivi e i palazzi de’ buoni
principi, per tempj, accademie, scuole, spedali e gli altri edifizj
civili e militari, campagnuoli. Empiono il sesto la storia dell’arte,
e la scienza delle macchine; il settimo gli ornamenti architettonici,
in particolare per le chiese. Nell’ottavo son notevoli le sue idee
religiose e morali intorno alle tombe; nel qual libro e nel nono
informa delle vie, de’ sepolcri, delle piramidi e d’altri pubblici
edifizj, e sul decorare i palazzi. L’ultimo s’aggira sulle acque: ed a
lui crediam dovuto l’ingegno delle chiuse o conche, non a Leonardo da
Vinci, nè a Dionigi e Pierdomenico Orologieri di Viterbo, poichè esso
le descrive quali appunto oggi le usiamo, e non come trovato nuovo[3].

Semplicità, grandezza, variata invenzione, solido costruire,
convenienza d’ornamenti egli aveva imparato dagli antichi, se non la
castigatezza. Dei principi favorito, non cortigiano, gli innamorava
del bello. Dal signore di Mantova, cui la protezione delle arti valse
il titolo di Augusto, applicato a molti lavori d’architettura in
quella città già ricca di opere antecedenti, disegnò San Sebastiano
a croce greca (1460), e Sant’Andrea (1472), regolare di pianta e ben
distribuita; imitato nella facciata l’arco di Rimini, nell’interno
volea dar lume soltanto dalle finestre della facciata, della cupola
e dello sfondo del coro, siccome egli avea dimostrato convenire agli
edifizj religiosi. Da Nicola V fu molto adoprato a Roma; a Firenze
fece la porta di Santa Maria Novella, il palazzo Rucellaj colla loggia
rimpetto, e migliore quella dell’altro palazzo Rucellaj strada della
Scala, ove non voltò l’arco sopra colonne, il che tenne pure nella
cappella d’essa famiglia in San Pancrazio.

Sigismondo Malatesta, che ornava Rimini col fiore d’uomini e donne
e colle arti, destinò alle ceneri degli illustri la chiesa di San
Francesco, già ben avanzata alla gotica, e con altissimi pilastri
tripartiti, a teste d’elefanti, e nicchie ed altri fregi di eletto
lavoro. L’Alberti, chiamato a ridur quella fabbrica, cercò dare maestà
all’insieme, rialzando con uno stilobate e guidando lunghe linee di
portico, le quali ai lati sono interrotte da sarcofagi, lavorati alla
classica.

Simile mistura del classico col gotico ricorre nel palazzo d’Ancona,
e a tacere altri, nell’ospedale di Milano, condotto dal Filarete
con egregia distribuzione e proporzioni[4], e con finestre gotiche a
fregi classici. La quale unione del pieno sesto coll’acuto, dell’arte
medievale colla romana e con ricchi ornati di cotto, ove, pretendendo
rifarsi all’antico, si secondava però l’alito nuovo e cercavasi
l’effetto pittoresco delle masse, forma un genere più proprio della
Lombardia.

Lo intitolano bramantesco, da un Bramante, di cui e casato e patria e
tempo sono mal sicuri: nè è fuori probabilità che vengano attribuite
ad un solo le opere di tre, o natii od oriundi milanesi. Finchè il
dubbio non sia chiarito, ripeteremo colla vulgata che Bramante de’
Lazzari d’Urbino (1444-1514?), da Lodovico Moro chiamato a Milano,
vi eseguì l’elegante canonica di Sant’Ambrogio, la pittoresca cupola
delle Grazie, il cortile peristilo di San Celso, il Lazzaretto, la
sacristia di San Siro, e a Pavia la chiesa di Canepanuova. Serbando
dell’architettura gotica l’indipendenza, la sveltezza ardita
delle elevazioni, la maestria delle volte, dai classici deduceva
l’euritmia, la decorazione regolata, che accompagna la costruzione
senza mascherarla, e la prudente scelta delle proporzioni, che dà
rilievo ai più semplici edifizj. Così fosse rimasto più fedele al
medioevo, anzichè surrogare simboli, allegorie, teste ideali alle sante
sembianze! Chiamato a lavorare a Roma, i diruti della villa Adriana
e le vestigia antiche della Campania lo resero più severo nel palazzo
della Cancelleria, nel tempietto a San Pietro Montorio, nel chiostro
della Pace, ove però non si fece scrupolo d’interporre una colonna
sul falso ai pilastri del secondo ordine troppo distanti: come alla
Consolazione di Todi, croce greca di quattro tribune semicircolari,
variò ne’ capitelli e negli ornamenti. Alessandro VI gli fece eseguire
la fontana di Transtevere e quella di San Pietro ed altri lavori.
Giulio II gli diè campo di giganteggiare in Vaticano, dove la valle
fra il palazzo e i due casini del Belvedere ridusse a cortile,
dissimulando la china con ingegnosa combinazione di terrazzi e scale;
e vi diede aspetto teatrale mediante due ale di gallerie, svolgentisi
per trecencinquanta metri; a un estremo del cortile la gran nicchia con
galleria circolare; all’altro un anfiteatro per giuochi.

La scala spirale, sostenuta da colonne di ordini succedentisi, è
accessibile sino a cavalli. Ma, forse per secondare la furia di Giulio
II, talvolta difettò di solidità.

Gli fan merito dei ponti da fabbrica sospesi, non attaccati alla volta;
e delle centinature portanti l’impronta de’ rosoni, che così trovatisi
begli e finiti, e incorporati colle volte. Scriveva e improvvisava
versi; onesto e retto, amò gli emuli, incoraggiò i talenti nuovi. Il
suo allievo Ventura Vitoni pistojese in patria eseguì il gentilissimo
tempio ottagono dell’Umiltà, che, quantunque poi guasto dal Vasari,
forma la compiacenza di quella città, ricca d’altri monumenti sì
romanzi sì del risorgimento.

Scolaro del Bramante s’intitola Cesare Cesariano milanese (-1542),
che primo vulgarizzò ed illustrò Vitruvio, pretendendo riscontrarne le
regole negli edifizj gotici. Con più bizzarra idea Francesco Colonna,
nato a Venezia da famiglia lucchese, volle rendere famigliari le
dottrine di Vitruvio, mediante uno strano romanzo (Cap. CXXI, fine),
dove illustra molte antichità, iscrizioni e pietre incise. Anche frà
Giocondo veronese commentò l’architetto latino ed altri scrittori
d’arte, quali Frontino, Catone, Cesare, Aurelio Vittore, l’Ossequente,
e venne in riputazione nel fabbricare ponti, come forse a Verona quel
di pietra, e a Parigi il Piccolo e quel di Nostra Donna di sasso a
pieno sesto[5]; ove pure fece la corte dei Conti, la villa di Gaillon,
e forse quella di Blois. Di Venezia specialmente ben meritò, sia
fortificandola contro la lega di Cambrai, sia regolando il Brentone;
divisò un bel ponte colle fabbriche a Rialto: ma avendo i soliti
intrighi fatto preferire lo Scarpagnino, egli indispettito migrò a
Roma, dove, morto Bramante, fu posto architetto di San Pietro[6].

Di Giuliano da Majano è il palazzo a Roma ordinato da Paolo II e da lui
regalato a Venezia, estesissimo e pesante, con grandiosi compartimenti:
come anche Poggio Reale presso Napoli, con giardini, boschetti, giuochi
d’acqua, insidie d’uccelli, e quanto può lusingare una regia residenza.
Benedetto, suo fratello ed ajuto, fece lavori di tarsia, e l’altare
dell’Annunziata a Montoliveto nella stessa città; operò alla corte
di Mattia Corvino in Ungheria; a Firenze eseguì il pulpito in Santa
Croce colla storia di san Francesco, e cominciò il palazzo Strozzi,
finito da Simone Pollajuolo, detto il Cronaca, il quale vi pose il
cornicione più bello che ancor siasi eseguito. Al Cronaca deve pure
Firenze la elegante sacristia ottagona di Santo Spirito, il salone dei
Cinquecento, ed il San Francesco al Monte.

Non ancora si erano segregate le tre arti del disegno, e in tutte dovea
valere chi alto aspirasse. Andrea Orcagna alle pitture sottoscriveasi
_sculptor_, alle sculture _pictor_, e fu inoltre poeta, architetto,
orafo; raccomandò il suo nome alla loggia dei Lanzi, che, se girasse
l’intera piazza, non avrebbe la pari al mondo; ai Novissimi del
cimitero di Pisa, invenzioni severe dantesche, con contorni rigidi
ma non senza prospettiva; al Giudizio, che servì di tipo per quello
di Signorelli a Orvieto, e per quel di Michelangelo nella Sistina;
in fine al tabernacolo in Or San Michele, capolavoro di quel secolo,
indipendente da modelli classici, e con facile e maestosa ricchezza.
In questa chiesa il corpo de’ mercadanti fiorentini sfoggiò una
magnificenza, che i principi posteriori non emularono; ed oltre il
Battista, il Santo Stefano ed il San Matteo del Ghiberti, bronzi
ammirati, v’ha fatture insigni di Nicola d’Arezzo.

Pietro e Paolo aretini, allievi di Angelo ed Agostino senesi, primi
(1346) eseguirono opere grandi a cesello, e per un arciprete del loro
paese condussero una testa d’argento quanto il vivo. Poco poi, Cione
faceva l’altare d’argento in San Giovanni di Firenze, cavando molte
storie ragionevolmente in argento a mezzo rilievo, e che fu poi ornato
dal Finiguerra, da Antonio Pollajuolo e da altri. Ugolino di maestro
Pieri senese aveva già prima finito un preziosissimo reliquario pel
santo Corporale d’Orvieto, di seicento oncie d’argento, con graziosi
dipinti sopra smalto. Insigne è pure l’altare di san Giacomo nella
cattedrale di Pistoja, lavorato da molti fra il 1314 e il 1466.

A Perugia ben da antico fioriva l’oreficeria, se fin dal 1296 il
consiglio concedeva a quell’arte di eleggersi il proprio rettore,
purchè sotto la tutela dell’arte del Cambio, _sicut fuerunt in
temporibus retroactis_. La tazza dell’insigne fontana, le tre ninfe
del piede, i due grifi, i due leoni di bronzo portano _Rubeus me fecit
A. D._ MCCLXXVII, _indictione_ V: il tabernacolo in Santa Giuliana, di
rame dorato a smalti e figure rilevate, è del secolo XIV uscente: poi
nel cinquecento Cesarino Roscietto non la cedeva a qualunque miglior
cesellatore per abilità e gusto[7]. A Lanciano nel regno di Napoli
ammiravano una croce del 1360, coperta di lamina d’argento, con figure
sbalzate ad alto rilievo e smalti.

Come Nicolò ebbe soprannome dall’arca di San Domenico a Bologna, da
lui ornata, così Jacopo della Quercia dalla fonte di Siena. Quivi un
elegante tabernacolo eseguì nel duomo Lorenzo Vecchietta nel 1492, e un
Redentore in croce, oltre compire il fonte battesimale in San Giovanni.
Il Brunelleschi col Filarete condussero le porte di bronzo della
basilica Vaticana.

L’arte spiegò le ale quando i Fiorentini decretarono mettere al
battistero porte di bronzo che accompagnassero quelle disegnate da
Giotto ed eseguite da Andrea di Pisa. In concorso col Brunelleschi,
con Jacopo della Quercia e con quattro altri, ebbe la preferenza
Lorenzo Ghiberti; e la meritò. Decretate nel 1400, solo nel 1413 furono
compiute, avendovi egli adoprato con diligente lentezza, tutto copiando
dal vero, ogni pezzo esponendo al pubblico, ascoltando i pareri,
distruggendo i modelli meno perfetti, e così con purezza di forme,
nobile semplicità d’espressione, naturale varietà di pose, movenze
eleganti, felice aggruppamento de’ fatti e chiarezza ad esprimerli,
sostenne la poesia della composizione. Il metterle in posto fu una
solennità per Firenze; alla casa dell’artista si portò trionfalmente il
gonfalone della giustizia: un secolo più tardi, Michelangelo le diceva
degne dell’entrata del paradiso; e dopo quattro secoli e mezzo noi le
ammiriamo come il primo giorno.

Il Ghiberti, non che superare gli antichi nella prospettiva lineare
ed aerea, pretese raggiungere gli effetti della pittura: e quivi
e nel sarcofago di san Zanobi in duomo avventurando molte figure
in profondità, e mescolando l’alto, il basso, il mezzano rilievo,
come gli antichi mai non aveano osato. A siffatte illusioni aspirò
pure il Donatello fiorentino, lodato pei pulpiti in San Lorenzo, i
putti cantanti con sì gaja ingenuità nel Santo di Padova, a Napoli
l’adorazione de’ Pastori in Montoliveto e altri nella cappella de’
Brancacci. Invaghitosi del vero, cercò l’anatomia e la forza muscolare:
del che se lo ammirava poi Michelangelo, il Brunelleschi, a cui
mostrò un suo Crocifisso fatto di quel gusto, lo trovò somigliare a un
facchino; e tolse a far quello che sta in Santa Maria Novella; veduto
il quale, Donatello sclamò: — Tu sai fare dei Cristi, io dei villani».
D’allora pose maggiore studio all’espressione, come si vede nella
Maddalena, nel San Giovanni, nel San Giorgio d’Or San Michele, nello
Zuccone sul campanile, e nella Giuditta.

Statue equestri, che sono il monumento eroico per eccellenza,
non s’erano fatte da Giustiniano in poi[8], ed ecco in trent’anni
eseguirsene quattro da fiorentini: da Donatello quella di Gattamelata
a Padova nel 1453; da Antonio di Cristoforo e da Giovanni Baroncelli
quelle di Nicolò e Borso d’Este a Ferrara nel 1445, abbattute poi nel
1799; e nel 1479 il Coleone in Venezia, modellato da Andrea Verocchio,
fuso da Alessandro Leopardi, che vi sottopose elegantissima base[9].

Andrea Verocchio, valoroso orefice, insegnò ad accurar un giojello
quanto una statua; introdusse di formare di gesso sul vivo, col che
poi si levarono le maschere de’ morti, e si fecero anche figure intere
di cera; cioè al naturalismo s’immolava interamente il concetto. Di
Andrea, oltre molti argenti e bronzi, sono l’Amore abbracciante il
delfino per la fontana di Palazzo vecchio, il san Tommaso di bronzo
d’Or San Michele, il mausoleo ornatissimo di Giovanni e Pietro di Cosmo
de’ Medici in San Lorenzo, con flessibili festoni fusi.

Desiderio da Seltignano impresse alle figure il riso e la capricciosa
finezza che più tardi rinnovò il Correggio. Di Matteo Civitali
ammirano a Lucca il San Sebastiano, l’altare di san Regolo con statua
e bassorilievi accurati, il sepolcro di Pier da Noceto segretario
di Nicola V, con grandiosa architettura e ornamentazione finita:
l’elegantissimo suo tempietto ottagono in duomo, ov’è riposto il santo
Volto, precede di diciassette anni l’ammirato di Bramante a San Pietro
Montorio[10]. Antonio Pollajuolo pittore e orefice, vivace e sicuro
disegnatore, dall’anatomia imparò a dar movimento e posa alle figure,
come si vede in Vaticano nei depositi d’Innocenzo VIII e Sisto IV,
quello più semplice, questo più faticato. Lavorò attorno alle porte del
Ghiberti, e massime una quaglia ammirata, e molti nielli e medaglie:
ed è rinomato un suo grande intaglio di dieci uomini nudi combattenti
colla spada.

Chi abbia veduto il coro di fanciulli cantanti che sta nella galleria
degli uffizj a Firenze, e le porte di bronzo alla sacristia del
duomo, non esita a porre in prima altezza Luca della Robbia. Inventò
di vetriare le terre cotte, e se ne ammirano per tutta Toscana, e le
migliori ne’ SS. Apostoli e sulla porta maggiore d’Ognissanti a Firenze
e sullo spedale di Ceppo a Pistoja[11], se pur non sono della sua
famiglia o d’alcuno dei tanti imitatori che ebbe, finchè il magistero
perì nel 1565 con Sante Buglione. Il Vasari non rifina di lodar
quell’arte: e divenuta oggetto da commercio, se ne posero fabbriche
principalmente ad Urbino, a Pesaro, a Casteldurante, massime ducando
Guidubaldo II, ove stoviglie e piatti erano condotti or sopra soggetti
di Rafaello e Giulio Romano, ora con modelli appositi di Rafael del
Colle e Battista Franco; e la maggior raccolta è quella che dai duchi
d’Urbino passò alla pia casa di Loreto.

Di Mino da Fiesole nel duomo della sua patria, oltre un altarino
d’ineffabil grazia, la testa di Leonardo Salutato vescovo è vera pelle
e carne. Bello è pure il cenotafio di Paolo II nella cripta della
basilica Vaticana, e in badia a Firenze il monumento di Ugo marchese,
svelto nell’insieme, con una Madonna ed angioletti graziosissimi. Il
mausoleo di Bernardo Giugni vogliamo accennare per l’iscrizione che lo
chiama _publicæ concordiæ semper auctori et civi vere populari._

Questi esempj fecero estendere i sepolcri suntuosi, e anche da vivi
se li prepararono i cardinali, principalmente gli spagnuoli venuti
coi Borgia; e può indursene il più certo e originale andamento della
scoltura. Sono per lo più composti architettonicamente con zoccolo e
frontone, il morto disteso, angeli che sorreggono un panneggiamento,
molli ornati, qualche bassorilievo, e in alto madonne e santi, e spesso
fiori che di tranquillità e speranza consolano la morte. Non v’è chiesa
che non se n’abbelli; ed oltre i menzionati sono insigni i depositi
del Coleone a Bergamo per Antonio Amedeo pavese, d’Ilaria del Carretto
a Lucca per Jacopo della Quercia, a Roma del cardinale Consalvi in
Santa Maria Maggiore, e di Bonifazio VIII per Giovanni Cosmate, a
Verona de’ Torriani in San Fermo per Andrea Ricci, architetto di Santa
Giustina di Padova, e autore del più ricco e grandioso candelabro di
bronzo nel Santo. Bernardo Rosellini in Santa Croce fece il deposito
del cancelliere Leonardo Bruni, Desiderio da Settignano quello de’
Marsuppini; quasi riscontri l’un dell’altro, abbandonando l’arco acuto,
sdrajando il morto sopra un letto, in alto due angeli che sorreggono la
Madre della misericordia. Un più magnifico eseguì Antonio Rosellini in
San Miniato al Monte per un cardinale portoghese, morto di venticinque
anni il 1459, occupando l’intera cappella, ricchi marmi il pavimento,
smalti la volta, il defunto giacente in abito vescovile sopra un letto
sostenuto da due angioletti, in alto l’urna, e più in su la Madonna
fra gli angeli; tutto marmi a vario colore, festoni e ornati, la cui
sobrietà è offesa dallo smanioso drappo funereo aggiunto nel secolo
seguente.

Fin allora ai monumenti e alle pitture s’accompagnavano iscrizioni,
che insinuassero le virtù pie e le patriotiche, e soprattutto
raccomandassero la pace e la concordia. Nel palazzo della repubblica di
Siena[12], sotto Curio Dentato leggesi la sua lode per aver disprezzato
l’oro, che adesso, ahimè! corrompe il mondo (_Et spretum auram,
proh! quod nunc inficit orbem_): sopra una porta di Padova il podestà
Giovanni Ardizzo metteva il consiglio di evitar le discordie, per le
quali le città sono disfatte[13]: al tribunale di Milano un’iscrizione
rammentava ai litiganti come dai processi nascano nimicizie, si perda
denaro, si cruci l’animo, si stanchi il corpo, ne derivino disonestà e
colpe, e oblio delle buone e utili opere; e quei che credono vincere,
spesso soccombono; o se vincono, alla fine non hanno che un pugno di
mosche[14]: a Siena suddetta, sotto a Cesare e Pompeo è rammentato come
la costoro rivalità traesse a ruina Roma[15]; e fra le immagini d’altri
grandi romani, una scritta insiste perchè da loro s’impari come fu
grande il popol di Marte per l’unione, e scadde per le scissure[16]; ma
insieme un’altra intìma: _Quodcumque facilis in verbo aut in opere, in
nomine domini nostri J. C. facite_.

Ormai però le belle arti, intimamente associate nel medioevo, si
disunivano, e quelle del disegno raffinavansi una separatamente
dall’altra. La pittura ai vivi colori e ricisi della orientale ne
preferiva di degradati e misti; alla convenzione surrogavasi la
realtà; a’ segni delicati ma fantastici de’ fondi, il paesaggio e
le architetture; e Giotto (tom. VII, pag. 199), pur conservandosi
monumentale, staccavasi dai tipi jeratici per accostarsi al ritratto,
non cercando però nella materia un maestro troppo grossolano, nè
dipartendosi dal sentimento di pietà. Quai gli mancarono qualità
di gran maestro? I visi femminei più pudicamente colora; piega
elegantemente gli abiti; disegna a meraviglia, come può vedersi ne’
monocromi della cappellina degli Scrovegno a Padova; studiò caratteri,
donde scaturisce la forza delle rappresentazioni simboliche, di cui
egli si piaceva; e infatti variatamente gli espresse nella Cena di
Santa Croce, con guisa meno scientifica di Leonardo, non meno sentita.
Se non dava ancora profondità ai quadri, nè posa ben equilibrata
alle figure, le composizioni sue, siano le minute sugli armadj della
sacristia di Santa Croce, o le gigantesche di Assisi e di Padova, sono
bene aggruppate ad un’azione comune, con altitudini espressive e scorci
arditi, quali il San Giovanni che alla vista di Lazzaro resuscitato
gitta indietro le braccia: e Michelangelo affermava «non poter esser
dipinta più simile al vero di quel ch’era» la sua morte della Madonna.

Estesa influenza esercitò per tutt’Italia, ma presto cominciarono a
dividersi quei che voleano esprimere il sentimento e quei che miravano
all’effetto, e per esso all’anatomia. Paolo Uccello, così detto per
l’abilità in ritrarre bestie, considerava merito supremo il situar
figure su piani diversi, e farle scortare; e tanto s’affaticava in
tirar di prospettiva cerchi armati di punte, triangoli differentemente
combinati, palle a settantadue faccie, che la moglie facevagliene serj
rimproveri, e Donatello gli diceva: — Cotesta tua prospettiva ti fa
lasciare il certo per l’incerto».

I pittori, quando, mercè di lui e di Pietro della Francesca, trovaronsi
in possesso della prospettiva, la credettero mezzo supremo di ben
esprimere le forme vere, alle apparenze esatte della realtà, agli
scorti ben indovinati, al rilievo evidente posponendo l’espressione.
Masolino da Panicale in Val d’Elsa, avvezzo all’arte dell’orafo, diede
insigne rilievo ai dipinti per mezzo delle ombre, e morendo a soli
trentasette anni lasciò imperfette nella cappella Brancacci al Carmine
le storie, ritratte con maestà di sembianze e morbido panneggiare. Le
compì Masaccio (Tommaso Guidi 1402-43) con belle attitudini, vivaci
movenze, contorni sinuosi, toni robusti di colorito forte e ricco,
felici combinazioni di chiaroscuro, per cui i suoi gruppi movonsi
liberamente anche su spazj ristrettissimi: al che vuolsi aggiungere la
buona rappresentazione degli affetti[17].

Dalla devozione unicamente ispirato, il beato Giovanni Angelico da
Fiesole (1387-1455) la pittura guardava come un’elevazione della
mente a Dio, e commoveasene fin al pianto. Sebbene fin nella dolcezza
ponga austerità, innamora colla soavità de’ volti, e con que’ santi
che anche fra i crucci del martirio serbano la pace che il mondo non
può rapire. Coprì il convento di San Marco d’affreschi da cui non si
staccherebbe mai l’occhio, e nella grandiosa storia del Capitolo unì
maravigliosamente il sentimento antico con un disegnare che nessuno
eguagliò fino a Rafaello. Per la storia dei santi Stefano e Lorenzo
in Vaticano il papa gli offerse l’arcivescovado di Firenze, ed egli
preferì la povertà del convento. Semplice uomo e santissimo ne’ suoi
costumi, volendo una mattina papa Nicola V dargli desinare, si fece
coscienza di mangiar della carne senza licenza del suo superiore, non
pensando all’autorità del pontefice (VASARI).

La finitezza di Masaccio col sentimento del beato Angelico cercò
accoppiare Benozzo Gozzoli, che nel camposanto di Pisa rappresentò
ventiquattro grandi storie, tutte movimento e fantasia, ed altre
altrove con serenità e vaghezza sbizzarrendo in accessorj. Frà Filippo
Lippi (1412-69) cede appena a Masaccio nelle figure al Carmine, nella
tribuna di Spoleto, e nell’Assunta, con toni vigorosi, aria grande,
proporzioni eroiche; ma secondò il genio voluttoso del rinascimento
col sostituire alle ascetiche i ritratti di belle, sviato com’era da
avventure romanzesche. Offerto frate a otto anni, fuggì di convento;
caduto schiavo de’ Barbareschi, col ritrarre il suo padrone guadagna
la libertà; rimpatriato, dipinge nelle monache di Santa Margherita da
Prato, e ne rapisce una educanda, e n’ebbe un figlio cui trasmise il
nome e l’arte sua, e ne fu superato per scioltezza di composizione,
dignità e grazia, qual si ammira ne’ due grandi affreschi della
cappella Strozzi in Santa Maria Novella.

Domenico Ghirlandajo (1485-1560) pose un’accuratezza direi fiamminga
agli accessorj e all’esatta imitazione della natura[18]; e colle severe
forme architettoniche rialzò i suoi affreschi, pure mostrando maschia
nobiltà e varietà nelle composizioni estese, quali la gran Cena della
cappella Sistina, ove dipinse con Filippino, figlio non degenere di
Filippo Lippi, con Luca Signorelli e con Cosimo Roselli. Quest’ultimo
in Sant’Ambrogio di Firenze frescò gruppi rafaelleschi, ma poi si voltò
ai guadagni sì col lavorare in fretta, sì col darsi alle ciurmerie
degli alchimisti.

La dipintura a fresco predominava sull’altre, obbligando a studiare
le vaste proporzioni, le leggi della disposizione e la prospettiva.
I quadri di solito faceansi sul legno, scegliendo tavole compatte e
capaci di fina levigatura; se occorresse commetterle di varj pezzi, vi
si stendeva una tela, sopra cui uno smalto finissimo, o talvolta una
foglia d’oro che diveniva il campo; alla quale si surrogarono paesaggi
o cieli. Vuolsi derivato dai Greci, vale a dire che è molto antico fra
noi l’uso di dipingere i cassoni e cassapanchi che si teneano nelle
camere da piè del letto, e massime quelli in cui la sposa portava il
suo corredo; con soggetti semplici dapprima e generalmente devoti,
poi recati ad ampiezza dai gran maestri: ne fece Andrea Tafi, poi
Spinello di Arezzo, Taddeo Gaddi, e di più grandi Mariotto Orcagna,
Dello fiorentino, il Lippi, l’Uccello, il quale pure dipingeva certi
taglieri, sopra i quali si offrivano doni alle puerpere. Sui mobili
della camera di Pierfrancesco Borgherini, magistralmente intagliati da
Baccio d’Agnolo, più tardi esercitarono a gara il pennello Andrea del
Sarto e Jacopo Pontormo; Neri di Bicci pitturò l’armadio ove a Firenze
si custodivano le Pandette; l’Angelico quello dei vasi sacri in Santa
Maria Novella e all’Annunziata; Antonio Razzi a Siena i cataletti;
altri le predelle degli altari.

Ricchezza di colori già possedeano i Bisantini; e crebbe poi così,
che alla tavolozza di Masaccio non mancava alcuna gradazione. Che gli
antichi non istemperassero i colori coll’olio ce n’è prova il silenzio
di Plinio: nel medioevo sì; e Teofilo, monaco del XIV secolo, vivente
in Lombardia, suggerisce l’olio di linseme per pitturare case e porte;
se non che, essendo il dissolvente meno essicabile, riusciva lungo e
difficile il ripassarvi sopra. Il Cennino, nel trattato, della pittura
del 1437, «insegna a lavorar d’olio in muro o in tavola, che usano
molto i Tedeschi»; e suggerisce di cuocer l’olio di lino, e valersene a
stemperare i colori e velarli. Giovanni Van-Eyck surrogò olio di noce e
di papavero, mescendovi un essiccante che permettesse di immediatamente
passare sopra lo stesso colore. Fu dunque considerato inventore della
pittura a olio; e aggiunsero che Antonello da Messina, presa con lui
dimestichezza, ne succhiellasse il secreto, che poi recò in Italia,
insegnandolo a Domenico veneziano, che nol tacque ad Andrea del
Castagno fiorentino, il quale l’ammazzò per rimaner unico possessore
d’un artifizio che «ancora in Toscana non si sapeva»[19], e che fu
surrogato alla tempera.

A Venezia fin dal secolo VI una colonia bisantina ornava di musaici
le chiese di Grado e di Torcello; una migliore fu chiamata dal doge
Orseolo a decorare San Marco nel 1000; altri artisti vi accorsero
dall’espugnata Costantinopoli: de’ musaici in San Marco, se alcuni
sono di mano greca, altri s’accertano di nazionale; è memoria d’una
confraternita di pittori, erettavi sin dal 1290; e in tutte le città
venete ricordansi dipinti in muro o in tavola anteriori a Giotto.
Del quale poi appare l’influsso in Giovanni e Antonio padovano, nel
Semitecolo, nel Giusto, nell’Altichieri, nel Guariento, che dipinse il
palazzo ducale, e tutto cura ed espressione il Crocifisso a Bassano.

I Vivarini di Murano, che per quasi un secolo fiorirono attorno
al 1400, han bello e schietto fare, ma stecchito, formato men
sugl’italiani che su Fiamminghi e Tedeschi, molti de’ quali operarono
a Venezia, e massime Giovanni da Brugia e l’Hemmelink, il più grazioso
pittore mistico di quel secolo[20]. Di maniera propria lavorarono
Paolo veneto e Lorenzo; e Carlo Crivelli sfoggiò di colorito in gemme e
rabeschi.

Gentile, da Fabriano nella marca d’Ancona, formatosi sul beato Angelico
e sulle tradizioni dell’Umbria, fu invitato dalla Signoria a dipingere
il palazzo dogale, decretandogli un ducato al giorno, e il diritto di
portar la toga senatoria. Egli educò Giacomo Bellini, e questo i due
suoi figliuoli Giovanni e Gentile; i quali a concorrenza con Luigi
Vivarini, col Carpaccio, col Pisanello rappresentarono nel palazzo
dogale i patrj fasti. Ricchi di pratica, pittori insieme e architetti,
miniatori, orefici, armonizzavano i loro quadri coll’ordine della
chiesa per cui li facevano, colle cornici di cui gli ornavano, sicchè
lo spostarli è un corromperli. Gentile (1421-1507) fu chiamato a
Costantinopoli; e narrano che, per dargli un modello di decollazione,
Maometto facesse balzar la testa d’un paggio. Più acconcio alle scene
popolose e alle cose di prospettiva, come si vede nel miglior suo
quadro che sta in Brera, egli cercava l’arte classica, benchè non
fallisse alla poesia religiosa[21]: mentre Giovanni (1426-1516),
disegnatore più savio, più intelligente del chiaroscuro, tutto
devozione, escludeva qualunque leziosità potesse frastornare il
patetico severo, la dignitosa gravità e l’intensa espressione; nella
lunga vita andò sempre migliorando, talchè immenso divario corre dalle
prime alle ultime opere sue, e fu dei primi a dare colla pittura a
olio vigor nuovo ai dipinti. Aveva ottant’anni quando fece la mirabile
tavola in San Zaccaria, e divenne contemporaneo ai rinnovatori
dell’arte.

Capitava in quel tempo a Venezia (1506) Alberto Dürer, insigne pittore
e incisore tedesco, per domandar riparazione di certe sue stampe,
contraffatte da Marc’Antonio. I Veneziani, innamorati del colorito, in
lieve conto presero lui incisore, ma Giovan Bellini il suffragò presso
i patrizj. — Deh poteste voi esser qui!» (scriveva Dürer a un amico).
Quanto amabili sono gl’Italiani! mi si fecero attorno, e ogni dì più
mi s’affezionano; di che in cuor mio provo indicibile contentezza.
Sono gente educata, istruiti, eleganti, bravi sonatori di liuto, tutti
spirito e dignità, affabili e buoni con me oltre ogni dire. Vero è che
non vi è difetto di sleali, mentitori, bricconi, che non hanno i pari
sotto il cielo; e a vederli li scambiereste pei migliori del mondo;
ridono di tutto, fin della loro cattiva reputazione. Io fui avvertito
in tempo da’ miei amici di non mangiare nè bere con costoro, nè coi
pittori del loro mazzo. Tra questi alcuni si sono messi a farmi guerra,
e copiano sfacciatamente i miei quadri nelle chiese e ne’ palazzi,
mentre gridano ch’io rovino il gusto allontanandomi dall’antico. Ciò
non tolse a Gian Bellini di largheggiarmi elogi in numerosa brigata;
inoltre egli volle qualche cosa di mio, venne a trovarmi in persona e
domandarmi un disegno, aggiungendo ch’era geloso di pagarlo bene. Egli
è amato, riverito, ammirato da tutti, e non si parla che della bontà e
dell’ingegno suo; e benchè vecchio, ha pochi uguali».

Il sentimento di Giovan Bellini si trasfuse nel Cima da Conegliano,
non inferiore a verun quattrocentista per bella convenienza ed intensa
espressione, mentre la grazia di Vittore Carpaccio commove anche
gl’ignari dell’arte in molti soggetti leggendarj, e principalmente
nelle storie di sant’Orsola, piene di popolo e di addobbi, come doveva
esser Venezia allora.

Pellegrino da San Daniele udinese, scolaro di Gian Bellini, così
povero che chiese dalla città sua il posto di portiere, promettendo,
se gliel concedessero, di dipinger le arme de’ luogotenenti, il pallio
della comunità e gli stemmi su tutte le fabbriche nuove, le porte,
gli stendardi ove occorressero, lavorò principalmente a San Daniele;
e in Sant’Antonio (1497) una Crocifissione è grandemente ideata, ben
colorita e piena d’espressione, non men che altri soggetti evangelici.

Anche Marco Basaiti friulano, Giovanni Mansueti, Bartolomeo Montagna
vicentino si tennero alla castigatezza antica. Cominciò a traviare
il padovano Francesco Squarcione, che li superava in dottrina, in
prospettiva, in espressione, quanto n’era dissotto nel colorito,
nella dolcezza di contorni, nelle arie gentili e nel sentimento
religioso. Dal Levante, ove trovava intatte molte opere, da poi
mutile o distrutte, recò in patria la più bella raccolta di disegni,
statue, urne, bassorilievi, e sostituì il culto classico alle
tradizioni cristiane, coadjuvato in ciò dai professori dell’Università
padovana; sicchè vene e muscoli diligentati, pieghe architettate, pose
artifiziose parvero merito supremo.

Tali effetti spinse al massimo grado Andrea Mantegna (1430-1506), il
quale, negligendo la leggiadria dei frammenti greci per non vederne che
l’esattezza, riuscì secco come il suo maestro, fin quando sui bronzi
del Donatello acquistò un segno più libero e men convenzionale, e
pareggiò i migliori, mentre a tutti sorvolava per l’accorta convergenza
delle linee al punto di vista, non solo negli edifizj, ma nelle varie
posizioni e mosse del corpo umano: della qual maestria è il colmo il
suo scorcio del Cristo morto in Brera a Milano. Per Luigi Gonzaga a
Mantova dipinse molte opere in castello, e a chiaroscuro il trionfo di
Cesare, divenuto per l’incisione il suo più celebre lavoro, come lo
stupendo trittico della tribuna degli Uffizj, condotto con diligenza
da miniatore. Con larga erudizione e buona estetica scrisse sopra i
giganti, dipinti in chiaroscuro da Paolo Uccello nel palazzo Vitaliani
a Padova, e ottenne fama e lodi più di qualfosse contemporaneo.

Dall’ingenuità affettuosa e dalla mistica ispirazione più sviò
Giorgione Barbarelli da Castelfranco (1477-1511): come uomo che conosce
la propria possa e l’adopera senza misura, superò tutti nell’impeto,
negli impasti cacciati terribilmente di scuro, e nell’anatomia;
lusingando i sensi, non il sentimento. Di tal passo la scuola veneta
erasi avviata allo sfarzo e a non vedere il concetto se non traverso al
colorito; e la moda dei ritratti, invalsa ne’ patrizj, fe cercare più
ch’altro la materiale imitazione del vero.

Già da pezza si sapeva stampare con legni carte da giuoco e immagini
sacre, al qual modo si formavano iniziali, fregi, contorni ai libri fin
da quando esemplavansi a mano, e più dopo che si stamparono; e a tale
artifizio, ampliandolo a grandi composizioni, si applicarono Mecherino
da Siena, Domenico delle Greche, Domenico Campagnola ed altri. I nostri
però non raggiungono il merito del Dürer e dei Tedeschi, poco accurando
la perfezione tecnica, e piuttosto conducendo schizzi[22]. Solo nel
chiaroscuro, che imita l’inchiostro della Cina, primeggiarono Andrea
Andreani ed Ugo da Carpi, pittor mediocre, di cui nella sacristia de’
Beneficiati in Vaticano è un sudario _fato senza penelo_, cioè colle
dita; e che inventò o piuttosto introdusse di stampare a chiaroscuro;
cioè in due, poi tre pezzi, sicchè esprimessero tre tinte; col che
pubblicò varie invenzioni di Rafaello, con evidenza maggiore di
Marcantonio.

Un gran passo fu il sostituire al legno il rame. Il _Tractatus
lombardicus_ di Teofilo anzidetto descrive a punto il _nigellus_,
«fusione d’argento puro, rame, piombo, solfo, che si fa entrare negli
incavi fatti in una lamina d’argento, indi si leviga, e ne risulta una
lastra lucente col disegno nero». Di siffatti _nielli_ si ornavano
scrigni d’ebano, paliotti, calici, messali, reliquie, paci; e vi
spiegarono maestria Forzone Spinelli aretino, il Caradosso e l’Arcioni
milanesi, Francesco Francia da Bologna, Giovanni Turini da Siena, e i
fiorentini Matteo Dei, Antonio Pollajuolo ed altri. Compito l’intaglio,
per vedere l’effetto del nero, se ne cavava l’impronta con terra
finissima, sulla quale gittavasi solfo liquefatto, ne’ cui incavi
insinuato del nerofumo, imprimevasi su carta umida, a mano o col rullo.
Si conservano alcuni di quei solfi e di quelle prove, esordj d’un nuovo
magistero. Poichè, notatone il bell’effetto, si pensò a tirarne molte
copie, e così nelle botteghe degli orefici ebbe culla la calcografia.
Si cambiò di materia, preferendo alfine il rame; s’introdussero i
torchi, si variarono le tinte; e pare che Corrado Schweinheim, editore
dell’elegantissimo Tolomeo di Roma, insegnasse qui l’inchiostro più
opportuno.

Di questo o trovato o passo deve gloriarsi Maso Finiguerra fiorentino?
Quand’anche si accertasse che la prima impressione della sua Pace su
carta appartenga al 1452, i Tedeschi ne producono di anteriori al 50;
certo al 66 n’aveano di più belle de’ nostri[23]: dei quali poi fu
carattere il maggior rilievo, l’accuratezza de’ contorni, poi l’ombrare
robusto perchè tondeggiassero le forme. Si applicarono all’intaglio
artisti di nome: Baccio Baldini sopra disegni di Sandro Botticelli
ha lavori certi del 1477, poi il Pollajuolo, e meglio il Mantegna
cinquanta lastre lavorò, tirando alla plastica antica. In questa
pendenza lo seguirono Giannantonio e Giammaria da Brescia, Giulio e
Domenico Campagnola, Nicoletto da Modena, Girolamo Mozzetto, Benedetto
Montagna. A tutti sorvolò Marcantonio Raimondi bolognese (1488-1546?),
allevato nel niellare dal Francia, poi imitatore del Dürer, finalmente
raffinato nel disegno sotto Rafaello, col cui spirito prese un
movimento, corrispondente allo slancio dell’arte d’allora. Lo ajutarono
e seguirono Agostino veneziano e Marco ravignano, l’innominato Maestro
col Dado, Enea Vico, i Ghisi, che moltiplicarono le opere degli artisti
d’allora; talvolta disegnarono di proprio, o variavano le composizioni
dei maestri, o toglieanle da pensieri di questi; come principalmente
fece Giulio Bonasone bolognese, sicchè venivano imitati come originali.
Il fare leggero di quest’ultimo introdusse il manierato, nel quale
caddero i susseguenti.

Tutto era dunque predisposto a grandiosi progressi; la scienza dava
braccio alle arti; il Brunelleschi e l’Alberti porgevano canoni
matematici di costruzione e di prospettiva; l’incisione divulgando le
opere, cresceva l’imitazione, non restringendo più l’azione su pochi
maestri; l’immobilità monumentale delle fisionomie faceasi varia e
morbida; più studiate e ragionevoli le composizioni. Se non che lo
studio dell’antico portava a vagheggiare la correttezza delle forme
meglio che l’espressione, più ad eccitare meraviglia ai sensi che
affetto al cuore; sicchè l’arte, quanto guadagnava vigore e leggiadria,
tanto perdeva d’innocenza e dignità, divenendo manualità di stile, e la
cura di questo riducendo a puro effetto. Poi i privati per ornamento
delle case, i principi per le loro residenze chiedeano soggetti
mitologici o scene naturali; laonde gli artisti si staccarono dai
pensieri affettuosi e devoti e dai tipi tradizionali, che erano nella
pittura quel che il dantesco nella poesia.

Se la derivazione dell’arte bisantina è evidente in Firenze e Venezia,
città cresciute dopo caduto l’impero romano, in altri paesi d’antica
grandezza gli artisti poterono formarsi su modelli rimasti dall’età
latina, e fin anco dalla etrusca; e scuole distinte ebbero i paesi già
etruschi, poi aggregati alla Romagna. Piero della Francesca di Borgo
Sansepolcro dipinse in patria e pei signori di Feltre e di Ferrara,
con grazia, semplicità e difficili scorci; valse nelle matematiche,
e primo introdusse di fare modelli di terra, e coprirli di panni per
ritrarre le pieghe e le pose. Lo superò il suo scolaro Luca Signorelli
di Cortona (1440-1521), che dalle immagini commoventi e terribili passò
ad ormare i nuovi nel nudo e nel movimento, e ghiribizzò d’anatomia
nel finimondo in quel duomo d’Orvieto, nel quale apparve la robusta
giovinezza dell’arte, come l’adolescenza nel camposanto di Pisa e nel
tempio d’Assisi.

E quasi le spirasse l’alito di questo, la scuola dell’Umbria serbò
le devote concezioni e i tipi mistici, meglio il cuore appagando
che i sensi. Ivi crebbe Pietro Vannucci perugino (1446-1514), e
venuto a Firenze, coi bei paesaggi e coi fondi calmi su cui rilevano
persone agili, con piccole teste, fisionomie soavi ed espressive,
contorni fin aggraziati, pastoso rivestimento della muscolatura,
destò meraviglia; mentr’egli a vicenda vi contraea le mode che allora
invaleano della forza e del movimento, e la ricerca dell’abilità e
dell’anatomia. Quindi la diversità del suo fare; e dove nelle teste
ovali così studiate, in occhi da colomba, nelle fine labbra, sublima
il sentimento; dove invece palesa il convenzionale e gli spedienti
stereotipi, non variando le composizioni, e tirando via di pratica.
Pitagora, Orazio Coclite, Pericle, Catone, altri eroi nel Cambio di
Perugia hanno pose arcaiche e uniforme dolcezza di visi, disdicente
dal loro carattere; nè lodevoli ci pajono gli Dei della vôlta, ai
quali accompagnò sibille, profeti, il Padre Eterno, la natività, la
trasfigurazione. Stupendamente riuscì quando non cercò espressioni
istantanee, ma si attenne ai tipi devoti e alle pose riposate de’
santi: che se pare povero ne’ vestimenti e secco negli atti, con
somma grazia arieggia le teste, e colorisce con leggiadria e con un
dorato, forse troppo uniformemente diffuso per naturale sentimento
dell’armonia, ma che anima i quadri d’un dolce calore. Sisto IV lo
chiamò ad ornare la sua cappella, immortalata poi da Michelangelo: si
ammirano la Pietà del palazzo Pitti e l’affresco in Santa Maddalena de’
Pazzi: l’Assunta meritò d’essere collocata fra i pochissimi del museo
Vaticano. I dipinti fastosi di Città della Pieve sono l’anello tra lui
e Rafaello, il quale forse v’ebbe mano, certo gl’imitò.

Il quale Rafaello (1483-1520), nato da Giovan Santi pittore e poeta
d’Urbino, cominciò a lavorare in Civita di Castello e ne’ Camaldolesi
di San Severo a Perugia, e nel 1504 creò lo Sposalizio[24], di
componimento (che che vi appuntino) sobrio e di celestiale purità,
come uomo che produce il bello quasi per istinto. Quelle testoline su
corpi svelti, quelle proporzioni delicate, quella graziosa euritmia,
que’ tempietti che sembrano incorniciare la bellezza delle figure,
quell’incantevole chiarezza diffusa pertutto, rilevano affatto
del maestro. Quando poi a Firenze vide gl’idolatri dell’antico e
del naturale, fuse i tipi coll’individualità, l’ispirazione colla
finitezza; e trattando le figure con maggior pienezza e dignità,
attrasse l’universale ammirazione.

Da Bramante presentato a Giulio II, com’ebbe commissione di coprire le
vaste pareti delle camere vaticane, maggior volo prese; e colà vuolsi
seguirlo nelle varie sue maniere, che altri chiama progresso, altri il
contrario, secondo che più s’attenne all’ingenua grazia del Perugino, o
al sapiente disegno de’ Fiorentini, o al caldo colorire de’ Veneziani.
Ritraendo dalla primitiva scuola l’essenza dell’arte cristiana,
ancorchè sostanzialmente differisca nel modo di rappresentare, scelse
soggetti simbolici, la Teologia, la Filosofia, la Giurisprudenza, la
Poesia, rappresentando le idee colle figure, sfoggiando la poetica
bellezza, tanto diversa dalla simmetrica; e se minore finitezza,
ha maggiore sentimento che nella seconda maniera. Le Sibille alla
Pace non rivelano il divino spavento misto a una vaga contentezza di
concepire le verità future! Il conversare cogli eruditi, l’ammirare gli
stupendi avanzi di Roma, massime da che Leon X lo sovrappose a tutte le
antichità, lo innamorarono del classico, di più caratteristiche forme,
di più vigoroso chiaroscuro, di quello insomma che diceasi il far
grande, col che, staccandosi dalle tradizioni, indulse alla fantasia;
non si restrinse nell’unità del soggetto; alle composizioni tipiche ne
surrogò di accademiche, le quali nè forza traevano nè unità da concetti
elevati e generali. La voluttà antica purificare colla grazia, parve
il compito di Rafaello; e la serie della bellezza migliorantesi, il
progressivo affinarsi del tipo medesimo può seguirsi nella Madonna
de’ Constabili, nella Giardiniera di Parigi, in quella del Cardellino
alla Tribuna, in quella del granduca, in quella della Seggiola, nella
Madonna di San Sisto ora a Dresda, in quella di Foligno nel Vaticano.
Ma se sorpassarono quanto si fosse mai fatto, non raggiungono quella
bellezza di pacato soddisfacimento, che da Dio viene e a Dio conduce;
e mentre prima, interrogato donde traesse quelle sue divine effigie,
rispose, — Da una certa idea che mi vien in mente», da poi le cavò da
certe persone.

Agostino Chigi senese, ricchissimo e voluttuoso negoziante, lo
richiedeva di lavori continui, compiacendogli a segno, che, saputolo
invaghito d’una fornarina, se la tolse in casa acciocchè il pittore
non isvagasse fuori. E la Fornarina divenne il modello delle sante di
Rafaello, alle quali manca spesso dignità, mentre agli uomini tale
la imprime, che pajono cosa più che umana, e nel ritrarli rivela
potenza interiore; affabilità intelligente in Leone X, vivacità
arguta nel Bibiena, in se stesso grazia dolce insieme e focosa. Nella
storia di Psiche sfoggiò d’arte pagana, eppure nel nudo non riusci
mai eccellente[25]. Com’egli accurasse le opere lo attestano i suoi
cartoni; e in quelli a Milano della scuola d’Atene fin sette volte
ripassa su linee, che altri avrebbe tenute perfette alla prima. Più
tardi, pressato da commissioni, abbozzava le tele; fattele tingere
da Giulio Romano, egli vi dava quella tranquilla chiarezza e quel
finimento, oltre il quale non si poteva pretendere; poi lasciavale
copiare da scolari di seconda mano, riservandosi gli ultimi tocchi.
Ecco perchè tante le opere attribuitegli, e tante dispute su quali
siano originali: ma quanta immaginazione, quanta prontezza si voleva
per idearne e finirne tante, e anche di vaste dimensioni; oltre
dirigere feste, e disegnare cartoni per tappeti da eseguirsi in
Francia.

Di quelle stranianze, di quel fare selvatico e astratto che gli artisti
affettano quasi segno di genio, non peccava Rafaello; benignissimo
di naturale, amabile quanto le sue pitture. Instancabile a crescere
in cognizioni, traeva a sè con una specie di fascino i migliori
intelletti; de’ cui consigli si giovava, e spesso per genio antiveniva
i trovati faticosi della scienza. I giovani dirigeva amorevolmente,
e fin cinquanta pittori di nome gli facevano corteo come a maestro
allorchè andava a corte. Non che detraesse agli emuli, s’ingegnava
profittare del merito di ciascuno; quindi cerco da tutti, e la sua
vita fu una serie di trionfi; fortunato sempre, anche nel morire
prima di perdere le illusioni. A trentasette anni, spossato da
voluttà cui traevalo la sua sensibilità al bello, fu salassato, e
dovette soccombere. Il quadro della Trasfigurazione ch’egli avea sul
cavalletto, quasi la parola incompiuta d’un morente che lasciando
indovinare raddoppia l’emozione, fu la più splendida orazione alle sue
esequie.

A parte a parte si troveranno pittori che lo superino; nessuno che
come lui congiunga disegno, colorito, forza di chiaroscuro, effetto
prospettico, immaginativa, condotta, quella grazia che è più cara
della bellezza, e l’armonia della vita esteriore coll’interna; egli
divoto ne’ santi e voluttuoso nelle Galatee; egli grazioso a finire
un quadretto, magnifico nelle epopee della sacristia di Siena e
dell’incendio di Borgo, patetico nello Spasimo. Il suo disegnare non
è il supremo grado della delicatezza e giustezza? dove trovar mani e
piedi meglio rilevati che nel Battista della Tribuna? dove chiaroscuro
più efficace che nella liberazione di san Pietro? l’Eliodoro e il
miracolo di Bolsena sono pel colorito i migliori affreschi del mondo,
anche a fronte di quei del Giorgione e di quei del Tiziano a Padova. Nè
altri mai colse la natura sul fatto come lui; mirabilmente esprimendo
le particolarità della vita morale e fisica, cioè l’individualità,
senza pregiudicare all’insieme; e in quegli ampj componimenti
potè estenderla alle età, agli affetti, ai caratteri tutti, non in
situazioni esagerate, ma in gradazioni composte, alla profondità
congiungendo flessibilità meravigliosa, nulla trattando alla leggera,
e dalla graziosità delle forme non iscompagnando la giustezza del
pensiero; sicchè, come Apelle dell’antica, così egli offre il tipo
della bellezza moderna e del mistico ideale[26].

Scolpiva anche ed architettava; e composizioni di gusto castigato e non
servile pose per isfondo dei quadri. A Firenze i palazzi Uguccioni in
piazza del granduca, e Pandolfini in via San Gallo disegnò con purezza
e nobiltà d’elevazione e di fregi; in Roma rimpetto della Farnesina
del Peruzzi pose un palazzino elegantissimo pel Chigi; e principalmente
lodano quello vicino a Sant’Andrea della Valle. Nel cortile in Vaticano
le loggie aperte a tre piani, e vi storiò cinquantadue fatti sacri, con
arabeschi ai quali innestò figure umane e simboliche, cosa non usitata
nè da Cristiani nè da Arabi, ma che poi si riscontrò nelle terme di
Tito, e ch’egli potea aver conosciute: e quel lusso fu adottato a
ornare regalmente i palazzi, e diffuse il gusto di purissimi ornamenti;
tanto più che, essendosi allora perfezionata l’incisione, Marcantonio
non credette adoprar meglio il magistrale suo bulino che sulle opere
di Rafaello, le quali così potevano rapidamente essere ammirate dai
lontani.

Per altre vie che dell’ordine e della castigatezza giganteggiò
Michelangelo Buonarroti (1475-1564), da Caprese aretino. Allogato
a Firenze col Ghirlandajo, il dipintore allora più famoso, tanto se
l’affeziona, da farsene perdonare le correzioni che fa ai disegni di
lui, ridintornandoli fieramente. Per dare la baja a cotesti che non
sanno ammirare se non ciò ch’è antico, finge avere scoperto un Cupido,
e come l’ode lodato a cielo, palesa d’esserne autore egli, giovane sui
vent’anni. Il conversare con Lorenzo de’ Medici e coi letterati della
costui Corte, e le preziosità di quella galleria l’iniziano ai precetti
della scuola; ma diceva che chi non sa far bene da sè, non può ben
servirsi delle cose altrui.

Vedendo insigni antichità allora venute in luce, quali il torso del
Belvedere, l’Ercole e Anteo, l’Ercole Farnese, il Laocoonte, giudicò
inespressiva la calma dei moderni: e mentre prima di lui usavansi
inflessioni sobrie e maestose, cercando nel disegno piuttosto il
decente che il miracoloso, dell’anatomia valendosi solo per dar
ragione delle movenze; nell’architettura volendo accoppiare la forza
colla convenienza, Michelangelo pensò bisognasse alle figure dare
vita dal capo ai piedi, anzichè concentrarla nel solo volto; preferì
i nudi e le musculature; e pigliata fiducia dalle vive lodi e dalle
grandiose commissioni, lanciossi ad ardimenti che solo il suo genio
può giustificare; e colla imitazione della natura arrivò a surrogare
all’antico ideale un altro, ch’è l’apoteosi della forza dell’uomo.

Dapprima baldanzoso ad abbracciare tutte le arti sorelle, come si
vide cerco e vantato fu preso da subito sgomento di se stesso e
dell’arte; e gittato lo scalpello, senz’altro che la Bibbia e la
Divina Commedia si ritirò a gemere in versi desolati; avvicendamenti
d’esaltazioni e di sconforti, che le anime grandi conoscono. Gli
restituì la fiducia Giulio II, commettendogli un mausoleo, degno del
committente e dell’artista, con grande architettura e ben quaranta
statue, delle quali il Mosè non era che una[27]. Ne strillarono i
competitori, e attesero a torgli l’amor del papa; ma avendolo questo un
giorno fatto aspettare in anticamera, egli lasciò detto all’usciere:
— Quando mi domanda, rispondigli che son ito altrove». E detto fatto,
monta sulle poste e torna in Toscana; vani i corrieri a spron battuto
spacciati sull’orme di lui dal pontefice; vane le lettere a lui, i
brevi minacciosi alla Signoria; dice voler recarsi al granturco, che
lo richiede d’un ponte fra Costantinopoli e Pera. Alfine rivenne a
Roma, e il monsignore che l’introdusse volle scusarlo presso Giulio
II della sua scortesia; ma il papa, costretto a fargli buon viso, fu
lieto d’avere su cui sfogare il suo rancore, strapazzando il prelato;
poi all’artista commise la statua sua per Bologna. «Maestà, forza,
terribilità» v’avea egli espressa, talchè il papa gli domandò, — Dà la
benedizione o la maledizione?» I Bolognesi ammutinati la mandarono a
pezzi, e Alfonso d’Este ne fece un cannone.

I cartoni della guerra di Pisa, che in venti mesi terminò a Firenze,
avevangli dato fama del più grande disegnatore. Vorrebbesi che
Bramante, per mortificarlo, insinuasse a Giulio II di fargli storiare
la cappella di Sisto IV, sperando, nell’insolito artifizio del fresco,
resterebbe inferiore a Rafaello e agli altri. Invano scusatosene,
Michelangelo si rinchiuse senza veder nessuno, nè a nessuno fidarsi;
non potendo escludere le distraenti officiosità del papa, or gli faceva
cascare una tavola ai piedi, or lo impolverava, quasi fosse caso; e se
l’impaziente gli chiedeva — Quando avrai finito?» rispondeva: — Quando
potrò». Vorrebbero che in venti mesi compisse quel suo capolavoro.
Rispettando le architettoniche forme, come opportune a dare anch’esse
solidità e vita, divise in altrettanti comparti la storia, dalla
prima colpa sino a’ preludj della redenzione. I profeti e le sibille,
gigantesche cariatidi ne’ pennacchi, sembrano appoggiare non meno la
vôlta della sala che l’edifizio dell’antica legge; e negli atti nuovi,
ne’ volti, ne’ panneggiamenti mostrano quel vigore di spirito che sa
tenere viva la speranza in un mondo pervertito: mentre con moltissime
difficoltà d’esecuzione è espresso l’incanto del bello nella creazione,
e la calma nelle scene patriarcali.

Compiva egli i sessant’anni quando Paolo III con dieci porporati gli
venne a casa pregandolo di ripigliare a dipingere una faccia della
cappella stessa. Accettò, ma cascato dal palco e fiaccatasi una
gamba, per nuovo scoraggiamento avea deliberato lasciarsi morire; pure
distolto dal proposito, in otto anni compì il famoso Giudizio. Quella
simmetria che s’ammira negli affreschi precedenti, qui è dissimulata
fino a somigliare alla varietà della natura: eppure senza che verun
interstizio palesi una distribuzione sistematica, il pensiero si eleva
di giro in giro dal primo rifluire della vita, dalle prime angosce
dell’inferno, dalle prime aspirazioni verso il bene supremo, fino alle
ultime lotte della speranza, o dalla calma delle schiere beate fino
all’esultanza del trionfo e alla gloria di Colui, che sovra i maledetti
fa terribilmente inclinare le sfere rotanti.

Ebbe così ritratti in quella cappella i due punti estremi della vita
del genere umano; e niuno seppe meglio rapire alla natura il segreto
delle ineguali proporzioni, in modo d’imprimere sulle membra i
differenti destini; nè rivelare più sentitamente la robusta espressione
meditabonda. Come Fidia ad Omero e alle tradizioni poetiche dell’età
sua, così egli s’ispirò alla Bibbia e alla Divina Commedia per
nobilitare la natura umana: ma Dante, dopo gli spasimi dell’inferno,
ricrea coll’eterno riso e l’ineffabile dolcezza del cielo; Michelangelo
subordina l’etereo e il sovrumano ai materiali spedienti del
disegno; vuole il nudo e l’anatomia, senza riflettere a modestia o a
convenienze, senza ricordarsi che, nell’arte non meno che nella morale,
si trova vero quel proverbio, — Non osservar troppo sotto la pelle». E
coloro che si avventano contro Paolo IV che fece da Daniele di Volterra
velare i nudi della Sistina, sappiano che l’Aretino, l’Aretino io dico,
disapprovò tali indecenze, il cui abuso in un’anima così bella mostra
quanto si fossero incarnate coll’arte le idee pagane[28].

Vogliono che dalle opere di lui Rafaello traesse l’ultima sua
maniera larga: ma mentre Michelangelo diceva, — Quanto Rafaello sa
di pittura, sono io che glie l’ho insegnato», questi, senza tenersi
offeso dell’esagerazione, si chiamava felice d’essere nato al tempo di
Michelangelo. Mentre Rafaello infrena il proprio genio, s’acconcia ai
varj maestri, e tiene della grazia primitiva anche quando s’avventura
al robusto e al teatrale, il Buonarroti sovverte le nozioni del
bello, rende incerti, arbitrarj, convenzionali i limiti dell’arte.
Rafaello, col segreto delle simpatie esprime il carattere, il patetico
ancor più che il bello; in invenzioni che appagano il giudizio e
toccano il cuore, si può dir veramente trasfonda la vita e il sentire
e il visibile parlare. Gli studiosi dei segreti dell’arte e delle
difficoltà materiali stordiscono innanzi alle opere di Michelangelo;
ma chi non vuole disgiunto il bello dal ragionevole, appunta quella
fantasia senza moderazione, quel grandioso esagerato, quella robustezza
posta ne’ santi come ne’ demonj, quei gruppi d’abilità, d’apparato,
d’ostentazione, che comandano la meraviglia, non ispirano l’affetto.

In mano di Michelangelo ogni cosa giganteggia; sempre originali i
concepimenti, grandiose le forme, larga la maniera; magnificenza di
piani e varietà di accessorj accoppiate a profondità e semplicità. Nel
Mosè io non vo ad ammirare quel braccio nè a censurare quella barba,
e i muscoli da facchino o il non istorico panneggiamento; neppure mi
ricordo che dovea figurare fra tante altre statue e in piano diverso
dal presente: ma a quell’indefinibile di melanconico e di venerando
impressogli nel viso che cosa potrebbe mettere a petto l’antichità?
Se non che l’anima sua tutt’azione mal tollerava i freni dell’arte,
quasi neppur quelli della materia: di qui la natura de’ suoi lavori,
tanti eppure tutti staccati da ogni tradizione di scuola, e sempre con
potente personalità, e aventi per carattere indefettibile la forza.
Architetture bizzarramente complesse carica di statue in posizioni
faticose, quasi potenti volontà incatenate da una forza prevalente, e
costrette a mestizia eterna o ad una meditazione prossima al disperare:
fino i suoi colori sono così ricisi, così taglienti i contorni, che li
credi destinati a rilevarsi in marmo.

Soggiogando la materia alla sua fantasia, pretendeva dare corpo
al sentimento, ridurre le statue ad esprimere generose concezioni,
possibile fosse o no; onde molte incominciò e non finì; altre ferì
di colpi sì risoluti, da venirgli poi meno il marmo; i nudi sdrajati
sulle tombe de’ Medici, doveano essere allegorie, nate nella concitata
immaginazione per significare tutt’altro che le glorie dei Medici; e in
Lorenzo di Pietro, il più inetto e tristo di quella razza, atteggiava
un’idea intitolandolo il _Pensiero_, e mettendo l’anatomia a servizio
di questa. E sempre egli vagheggiava una forma indipendente, che
traesse importanza unicamente da sè e per sè, che comandasse lo stupore
colle ardite combinazioni: ma cercando l’effetto senza riguardo alla
convenienza, aperse la via alla corruzione, e coll’abuso dell’astratto
spuntò il sentimento della castigatezza. Sarebbe però ingiustizia
apporre all’iniziatore il trasmodare degli imitatori.

Anche nell’architettura ridestò lo stile colossale e l’unità d’ordine:
ma poichè il modo antico non si confaceva più coi bisogni e colle
idee presenti, gli si surrogava il convenzionale. La sacristia di
San Lorenzo, cappella funeraria de’ Medici, maestosa nelle masse,
pecca di licenze e magrezze: nella biblioteca Laurenziana si trovava
legato da troppe convenienze: al palazzo Farnese di Roma, disegnato
dal Sangallo, pose il cornicione più bello dopo quel del Cronaca a
Firenze. Commessagli da Pio IV una chiesa sulle terme di Diocleziano,
seppe valersi delle ossature antiche con un rispetto che neppure
in quella chiesa usarono a lui i successivi architetti. Riordinò il
Campidoglio sul declive opposto al primitivo, con un balaustro tutto
a pezzi antichi, e col Marc’Aurelio equestre; la spianata fiancheggiò
di due ale di palazzo, e cominciò quello del Senatore, alzato poi da
Giacomo della Porta e dal Rainaldi con infelici variazioni. Ivi egli
inventò il capitello jonico colla voluta in fuori, per quel desiderio
d’originalità che il traeva a innovamenti non necessarj di disposizione
e di decoramento; come nella porta Pia, mescolanza illaudevole
di classico e di nuovo, da cui furono spinti a tante bizzarrie
gl’imitatori.

La basilica di San Pietro in Vaticano, malgrado i difetti, resta
il capolavoro delle arti, delle quali offre la storia dal tempo
che Proba nel IV secolo v’ergeva un tempietto a suo marito Anicio,
infino al Tenerani. Ideata al tempo di Costantino sul tipo di San
Giovanni Laterano e di San Paolo, ebbe atrio quadrifario al vestibolo;
internamente cinque navi; erte mura di mattoni; pavimento di marmi varj
di figura, di grandezza e colore; finestre colorate in telaj di bronzo;
bronzo le imposte della porta principale, tolte a qualche tempio, come
n’erano tolti altri membri. In appresso fu modificata, e aggiuntivi
altari e monumenti di forma e destinazione diversa, oratorj, sacristie,
cappelle, biblioteca, monasteri, mausolei; varianti di stile secondo
i passi dell’arte. Dite altrettanto delle pitture e de’ musaici, sì
internamente come sulla facciata, alla quale sovrastava una croce di
marmo con a’ piedi Cristo seduto, avente alla destra la Madonna, alla
sinistra san Pietro, da piè Gregorio IX inginocchiato, e ai lati i
quattro animali simbolici.

Riedificare quella basilica in modo che, sorpassando i monumenti eretti
dai padroni del mondo, rappresentasse la grandiosità cattolica, pensò
Nicola V, e ridurre il palazzo Vaticano bastante a tutti i cardinali,
che circonderebbero il papa quasi un concilio permanente; ivi tutti gli
uffizj della curia; ivi grandioso ricinto del conclave; immenso teatro
per la coronazione; sontuosi appartamenti pei principi; il colle,
tutto sparso di edifizj, comunicherebbe colla città per lunghi portici
a botteghe; attorno giardini, fontane, cappelle, biblioteca. Morte
interruppe il disegno datone da Nicolò Rosellini; e il piano di Leon
Battista Alberti per la chiesa conosciamo solo dalla descrizione del
Bonanni.

Fatto che sarà il mausoleo di Giulio II, dove collocarlo? Michelangelo
propose di compiere la tribuna, dal Rosellini divisata in testa
all’antica basilica; non vi vorrebbero meno di centomila scudi. —
Ducentomila se occorrono», rispose Giulio; e si cominciò a discuterne;
e come di cosa nasce cosa, quel papa, a cui nulla parea troppo grande,
sentì nascersi il desiderio di dare degna occupazione ai valenti
artisti col ricostruire San Pietro. Bramante prevalse ai competitori,
ma i disegni andarono perduti, salvo quel che Rafaello raccolse e che
il Serlio pubblicò. Davanti, un peristilio a triplici colonne; dentro,
croce latina terminante in tre semicircoli, donde l’occhio s’alzerebbe
alla cupola, per la quale, sopra le volte gigantesche del Tempio della
Pace, proponevasi collocare la rotonda del Panteon.

Niuno dunque può contendergli il merito del gran concetto, benchè non
effettuato: e quella perfetta unità, con armonia delle linee e delle
parti, avrebbe fatto parere San Pietro più grande del vero, come ora
accade il contrario. Postovi mano, della fretta apparvero risentimenti
nei crepacci; e i contrafforti con cui Michelangelo rinforzò i deboli
piloni, alterarono l’economia dell’edifizio. Morti Giulio e Bramante;
morto il Sangallo che aveva compilato tutti gli edifizj di Roma antica
in un disegno che sarebbe riuscito interminabile; morti frà Giocondo
e Rafaello, cui Leone X l’avea successivamente affidato, l’ebbe
Baldassarre Peruzzi. Costui disegnò una croce greca, finita in quattro
emicicli, sopra cui quattro campanili: entrandovi per quattro porte,
l’occhio da ogni parte cadeva sopra l’altare posto in mezzo, sotto alla
cupola. Bello e armonico disegno, ma al quale sarebbe stato mestieri
altro coraggio e vivacità che non n’avesse il Peruzzi, meglio opportuno
a disporre piccoli palazzi e facciate eleganti.

Paolo III nel 1546 affidò la fabbrica a Michelangelo, il quale
di settantadue anni si accinse a coprire San Pietro. L’età e più
il carattere toglievano ch’e’ pensasse, come altri, a perpetuarsi
l’impiego eternando il lavoro; ricusò l’assegno di seicento zecchini;
e mentre un modello complicatissimo del Sangallo era valso cinquemila
centottantaquattro scudi, egli finì il suo in quindici giorni, e
con venticinque scudi, sopprimendo le particolarità dispendiose, e
con ciò aumentando maestà, grandezza, facilità. Preferì la croce
greca, corintia dentro e fuori, con un ordine solo, e colla più
possibile unità. Il papa gli concesse di mutare quel che voleva,
ma nulla alterasse il modello; ond’egli, vinte le cabale, superando
le maldicenze coll’unico mezzo da ciò, il disprezzarle, inoltrò di
pari passo tutto l’edifizio. La cupola doveva costituirne la parte
principale, e dai quattro bracci godersene la vista; e il grandioso
stilobate, sovra cui rilevò tutto l’edifizio, accenna qual sarebbe
riuscita la fronte se i successivi non l’avessero guasta.

Tra questi lavori morì a novant’anni. Al suo mortorio in San Lorenzo
soprastavano il Vasari e il Bronzino pittori, l’Ammanato e il Cellini
scultori: Benedetto Varchi recitò l’orazione funebre, molti poetarono,
altri fecero una quantità d’iscrizioni. V’assisteano da ottanta fra
pittori e scultori: molti aveano fatto mostra di abilità nel catafalco,
ornato di storie a chiaroscuro e di statue: e Fame ed Eternità, e
l’Odio e la Sproporzione e la Pietà, tutti i fiumi del mondo che
venivano a condolersi coll’Arno; tutti i pittori da Cimabue in poi che
incontravano l’ombra di Michelangelo; e varj atti della vita di questo,
e massimamente gli onori rendutigli da principi; ed altre invenzioni ed
allegorie, perdonabili ad apparati effimeri[29].

Certo egli fu uno de’ caratteri più nobilmente improntati. Molto doveva
ai Medici, pure ne aborrì la tirannia; munì di difese Firenze, ma
prima che assediata fosse partì per Venezia. Reduce poi, e perdonato
da Clemente VII, s’adoprò per quelli che aveano resa serva la sua
patria; ma sulla statua della Notte scrisse, « — È bene ch’ella dorma
per non vedere i mali e l’obbrobrio»[30]: rifiutò d’architettare la
fortezza; e chi dicesse che poco monta perchè altri la farebbe, non
merita di capire cosa sia la dignità. Di profondità morale e religiosa
son monumento le sue lettere al Vasari, che gli narrava le feste per la
nascita d’un nipotino di lui: — Mi dispiace tal pompa, perchè l’uomo
non deve ridere quando il mondo tutto piange; e mi pare che Lionardo
a un che nasce non abbia a fare quella allegrezza che s’ha a serbare
alla morte di chi è ben vissuto». Austero di condotta, frugale e perciò
incorruttibile, amò quei che gli stavano attorno, la morte d’un fedel
servo l’accorò come fosse d’un figlio, e scriveva al Vasari: — Voi
sapete come Urbino è morto, di che m’è stata grandissima grazia di
Dio, ma con grave mio danno e infinito dolore. La grazia è stata che,
dove in vita mi teneva vivo, morendo m’ha insegnato morire non con
dispiacere, ma con desiderio della morte. Io l’ho tenuto ventisei anni,
e hollo trovato carissimo e fedele; e ora che lo avevo fatto ricco, e
che io lo aspettavo bastone e riposo della mia vecchiezza, m’è sparito,
nè m’è rimasta altra speranza che di rivederlo in paradiso. E di questo
m’ha mostro segno Iddio per la felicissima morte che ha fatto, chè,
più assai che ’l morire, gli è rincresciuto lasciarmi in questo mondo
traditore con tanti affanni, benchè la maggior parte di me n’è ita
seco, nè mi rimane altro che un’infinita miseria».

Amò Vittoria Colonna d’amor casto e profondo, e nella morte di lei
risentì tutta la poesia del dolore; «e mi ricorda d’averlo udito
dire che d’altro non si doleva, se non che, quando l’andò a vedere
nel passare di questa vita, non così le baciò la fronte o la faccia,
come baciò la mano»[31]. Agli emuli non rispondeva, dicendo: — Chi
combatte con dappochi non vince a nulla». La persuasione del suo
merito s’avvicinava all’arroganza, eppure tratto tratto ricadeva nella
diffidenza, non delineava più che soggetti della Divina Commedia,
e rifuggiva sotto l’ale della misericordia eterna[32], e credevasi
insufficiente all’arte, mentre gli fioccavano onori.

Con sì splendide, anzi uniche commissioni abbracciando l’intero
ciclo delle arti, sopravvivendo a quanti aveano levato grido,
colla robustezza di un genio che ne’ suoi vortici trascinava quanto
l’avvicinasse, colla nobiltà d’un carattere incontaminato, colla
franchezza nel dar precetti e sentenze, coll’aver creato modelli
in ciascuna delle arti e nelle due città che n’erano centri, dovea
naturalmente eccitare l’entusiasmo del suo secolo, che lo proclamava
«più che mortale angel divino»; entusiasmo alimentato anche dagli
scrittori d’arte, fiorentini i più, e dai successivi che voleano
innestare la nascente loro gloria sul nome del maestro di cattiva
scuola. Perocchè, amico siccom’era del singolare più che del vero,
proponendosi che le produzioni dell’arte riuscissero più belle che
quelle della natura, e mirando agli effetti anche dove il soggetto non
li domanda, avviò ad un bello di convenzione, e a quel precipizio di
cui egli accorgevasi di camminare sull’orlo, quando, nel compiacersi
della cappella Sistina, esclamava: — Quanti quest’opera mia ne vuole
ingoffire!»

Fu nel maggior trionfo di Michelangelo che tornò a Firenze il Perugino,
e mentre le sue figure erano dichiarate goffe da quello, egli trovava
dure e senz’anima quelle di Michelangelo: ne derivarono ingiurie e
risse, e il tribunale degli Otto interpostosi, die’ torto al Perugino.
Il quale allora scredette in se stesso, volle emulare la scuola
naturalista, e mal riuscendo, era bersagliato dai Michelangioleschi
con epigrammi e pasquinate, come secco di stile, duro e povero nel
drappeggiare, monotono ne’ caratteri e nelle pose, scarso e ripetuto
nelle invenzioni; aggiungevano fosse avaro[33]; le quali maldicenze
raccolsero e tramandarono il Vasari per piaggiare a Michelangelo,
e Paolo Giovio, pel cui museo egli non volle tributare. Il Perugino
difendevasi male, come chi un tempo si vide lodatissime le qualità che
allora gli si rinfacciavano; uscì di Firenze per sempre, ma continuò
a lavorare; e attorno a lui fiorivano Giovanni spagnuolo, Gaudenzio
Ferrari lombardo, Girolamo Genga d’Urbino eccellente prospettista,
Pierino da Pistoja, il Boccaccini di Cremona, il Pinturicchio, il
Rossetti, l’Ingegno, come era soprannominato Andrea Luigi d’Assisi,
che divenuto cieco, visse fino a ottantasei anni, consolandosi che sol
questa miseria l’avesse impedito d’eguagliare Rafaello.

Coi due sommi s’accompagna Leonardo da Vinci (1452-1519), pittore,
scultore, poeta, musico, geometra, architetto; talento universale,
eppure in niuna parte leggero; se non che quel suo bisogno di cercar
sempre novità gli lasciò eseguire poche cose, poche finirne. Carattere
puro e fermo, a’ suoi scolari largheggiava soccorsi; a chi non fosse
contento de’ suoi quadri, restituiva il prezzo convenuto; e quanto
fosse disinteressato lo attestano le centinaja di disegni che lasciò,
la cui finitezza prova pure quanto e come studiasse. Comprava uccelli
per diletto di liberarli: sbizzarriva d’invenzioni; e per sorprendere
gli amici or diffondeva esalazioni fragranti, ora fetide; or
disponeva un immenso budello, e riempiendolo d’aria con un soffietto,
ravviluppava gli astanti fra quelle inaspettate spire; or dava il volo
ad uccelletti meccanici, trastulli di mente bisognosa di creare.

Lodovico il Moro, «il quale molto si dilettava del suono della
lira», lo chiamò a Milano «perchè sonasse uno stromento, di sua
mano fabbricato»; ma datosi a conoscere per meglio che sonatore,
fu adoperato in opere di meccanica e idrostatica. Mentre però tanto
ardimento mostrava in queste, «pareva che di ogni ora tremasse quando
si poneva a dipingere; e però non diede mai fine ad alcuna cosa
cominciata, considerando la grandezza dell’arte, talchè egli scorgeva
errori in quelle cose che ad altri parevano miracoli» (Lomazzo).
Sedici anni si ostinò attorno al modello della statua equestre di
Francesco Sforza, e indugiossi a fonderla tanto, che i Francesi di
Luigi XII venuti a Milano la presero a bersaglio. Nel refettorio delle
Grazie dipinse con lunghissima attenzione il Cenacolo[34]; dove,
escludendo i materiali indizj della santità e divinità e i simboli
tradizionali degli apostoli, volle che ciascuno restasse conosciuto
dall’aria e dall’emozione natagli all’udire le patetiche parole: onde
in quel dramma armonico e ragionevole presentò la scala ascendente
nella bellezza della forma, usandola come pacata manifestazione di
sentimenti profondi. E dipinger la passione fu la sua gran lode, e
col rappresentare i caratteri elevò l’arte al patetico che n’è il
trionfo. Duole che, oltre l’infelice situazione, egli abbia compromesso
quest’insigne lavoro col dipingerlo non a fresco, ma a olio; sicchè
ormai non si va che a deplorarne gli smunti avanzi. Con sentimento
ragionato coglie felicemente l’insieme e i particolari, unendo l’ideale
e il reale penetra nella vita del corpo e dello spirito; giovasi
di tutte le scuole per vestir forme perfette a concetto assegnato e
profondo, nè cede a veruno de’ contemporanei per isquisito disegnare
e fermezza di linee e forme. Sommo nel magistero del colorire, colla
grazia e il giuoco dell’impasto dava ai lumi uno splendore misurato
che portasse rilievo alle figure, sicchè divenne maestro del tingere ai
Veneziani stessi, e al Giorgione[35] non meno che a frà Bartolomeo.

Caduto Lodovico il Moro, Leonardo tornò a Firenze, e per quattro
anni carezzò il ritratto di madonna Lisa, dove il sorriso della
voluttà antica è rialzato dall’intelligenza moderna, e che fu da re
Francesco comprato quattromila scudi; come la bellezza misteriosa
e il riso fugace si ammirano in quella sua Gioconda, attorno alla
quale s’industriò vent’anni il bulino del Calamatta, per offrirla
come un giojello all’esposizione universale del 1855. Preparò il
cartone della battaglia d’Anghiari, che a concorrenza con Michelangelo
dovea dipingere, tutto impeto e vita d’uomini e di cavalli: ma nato
un tumulto, gli invidiosi o gli ammiratori (spesso per vie diverse
riescono al medesimo fine) lo fecero in brani per disputarseli: quasi
fosse destino l’andar a male le opere di lui più studiate. Aveva allora
cinquantadue anni; e incontentabile com’era, non potè più reggere a
fronte de’ Michelangioleschi, che a vedere e non vedere finivano le
loro opere; onde volentieri accettò la chiamata di re Francesco, ma non
pare compisse alcun lavoro in quella Francia, che or tanti possiede dei
quadri e degli scritti suoi[36].

Quanto profondo scrutatore fosse della natura, lo attestano gli scritti
di variatissima scienza, che lasciò confusi ed informi, e gli estratti
o raccozzamenti che se ne stamparono; dove la qualità che campeggia è
la sagacità. Il suo trattato della pittura è delle prime disquisizioni
intorno ai canoni dell’arte, solendo dire che la teorica è il capitano,
la pratica i soldati: meditato scientificamente il corpo umano, diede
una teorica precisa d’anatomia pittoresca. Pose prima di Bacone che,
«senza la sperienza, nulla dà di sè certezza»; e vuole per mezzo di
questa si scopra la ragione: essa è interprete della natura, nè mai
s’inganna, bensì il giudizio nostro coll’aspettare effetti ch’essa non
porge; la si consulti dunque, variando di modi, finchè possano trarsene
conseguenze generali. Mancano di certezza le scienze cui non possa
applicarsi qualche parte delle matematiche. Quelli che non consultano
i fatti ma gli autori, non sono figli della natura, ma nipoti,
poichè essa sola è maestra de’ veri ingegni. Benchè essa cominci dal
ragionamento e finisca colla sperienza, via opposta dobbiamo tener
noi; citare prima lo sperimento, poi dimostrare perchè i corpi sieno
costretti operare a quel modo.

La meccanica chiamava «paradiso delle scienze matematiche, perchè
con quella si viene al frutto d’esse scienze»: onde fece moltissime
macchine per le arti o per le occorrenze domestiche, e v’applicò la
geometria. Conobbe la teorica delle forze obliquamente applicate alla
leva, e il contrasto delle travi; tenne conto degli sfregamenti, con
metodi ingegnosi che poi Amontons perfezionò; dichiarava impossibile
il moto perpetuo e la quadratura del circolo; inventò un dinamometro;
applicò a molti casi il teorema delle celerità eventuali; primo de’
moderni si occupò del centro di gravità e dell’influenza sua sui corpi
in riposo e in moto; spesso ripete che i corpi pesano nella direzione
del loro movimento, e che il peso (oggi diremmo la forza) cresce in
ragione della velocità; sa che, nella discesa per piani inclinati di
eguale altezza, il tempo sta come le lunghezze; che un corpo discende
per l’arco d’un circolo, piuttosto che per la corda; e che calando
per un declive, risale con altrettanta velocità come fosse caduto
perpendicolarmente da altezza eguale.

Scrisse sulle fortificazioni; d’idrostatica stese un compiuto trattato
con un concatenamento di problemi, e prevenne d’un secolo il Castelli
posando le basi della teoria delle onde e delle correnti; conobbe la
forza del vapore, e pensò fin applicarlo ai cannoni da guerra[37]. A
lui è dovuto il pensiero d’incanalar l’Arno dopo Pisa, opera compiuta
due secoli appresso da Vincenzo Viviani; insegnò le colmate, o almeno
le descrisse esattamente e ne diede la teorica; descrive la camera
oscura prima del Porta; prima del Maurolìco spiega lo spettro solare
in un buco angoloso; prima di Argand osserva che, se il lucignolo
d’una lampada fosse forato, il colore della luce riuscirebbe uniforme;
insegna la prospettiva aerea, la natura delle ombre colorate, i
movimenti dell’iride, gli effetti dell’impressione visuale e altri
fenomeni dell’occhio, ignoti a Vittelion.

In un capitolo _Sull’antico stato della terra_ confuta coloro che
diceano la natura e l’influenza degli astri aver potuto formare le
conchiglie d’età differenti che si trovano nelle roccie, e indurire
le sabbie a varie altezze, in varj tempi; ma supponendo il mare
abbia coperti i terreni, non solo spiega per via di sedimenti le
stratificazioni orizzontali o diversamente inclinate, ma accenna
anche il sollevamento de’ continenti. Attribuì alla forza del sole
l’esser le acque sotto all’equatore più elevate che ai poli, affine
di «ristabilire la perfetta sfericità»; errore, ma che indica come
conoscesse la disuguaglianza degli assi. Prima di Copernico sostiene
la rotazione della Terra, in grazia della quale considera come composto
il movimento de’ corpi nel cadere. La luce cinerica della parte oscura
della Luna spiega colla riflessione della Terra, come gran tempo
di poi asserì Mästlin[38]. Capì che l’aria atta alla respirazione
doveva alimentare la fiamma. All’universalità di cognizioni univa
quella potenza magistrale, che non solo trova la perfezione, ma sa
trasmetterla, e alle due scuole distinte che lasciò a Firenze e in
Lombardia insegnava a dipinger la vita, il movimento, farvi concorrere
alla rappresentazione tutte le abilità, disegno, colorito, carattere, e
tutte regolate dalla ragione.

Collochiamo dunque il Vinci tra i restauratori della scienza e della
filosofia, col rincrescimento che le occupazioni troppo variate gli
abbiano impedito di trarre a compimento o di far pubbliche tante
sottilissime e capitali invenzioni. E agl’ineducati artisti dei
giorni nostri non si finisca di ripetere come i tre più grandi fossero
addottrinati così che sarebbero immortali se anche non avessero dipinto
e scolpito. L’intelligenza dà all’arte l’ultima forma e grandezza.

Meno per genio proprio che per fatica perseverante e armoniosa
imitazione si schiera coi sommi Andrea del Sarto (1488-1530), il quale
la devozione di frate Angelico e la meditazione di Leonardo riprodusse
nella Madonna di San Francesco, e in quella del Sacco, che Rafaello
non avrebbe finita più delicatamente, nè Michelangelo più largamente
disegnata. La storia del Battista nello Scalzo del 1514 ha disegno
puro e facile, semplice disposizione di figure, pôse assicurate,
angeli e bambini deliziosi a vedersi, e inarrivabile contrasto di luce
e d’ombre. Nel cortile dell’Annunziata cominciò, il 1510, la vita di
san Filippo Benizzi, ridente sempre e grazioso, con ischietta dignità,
pur già piegando verso la monotonia e la negligente facilità: che
se meritò il nome di _Andrea senza errori_, difettò nella poesia di
grandiosi concetti, e nel robusto aggruppare. Chiamato in Francia, e
avuto da quel re denari per venir qui a comprare quadri, se li tenne
per passione della Lucrezia del Fede; dalla quale bassezza avvilito, si
rimpiattò; ebbe a soffrire dei disastri ultimi della sua patria, infine
morì di quarantadue anni, derelitto perfino dalla Lucrezia. Quando, per
l’assedio del 1529, si demolivano i sobborghi di Firenze, non si osò
porre il martello ad una parete di San Salvi, dove Andrea avea dipinto
la Cena.

Furongli amici e ajuto il Franciabigio e il Puligo; e migliore Jacopo
Carducci, detto il Pontormo, che, vedute le incisioni di Alberto Dürer,
chinò a quel fare, poi al michelangiolesco, e così variando sempre
senza proprio carattere, l’altrui imitava per modo di farsi scambiare.
Del Bronzino suo scolaro lodano l’Adultera e il Sagrifizio d’Abramo;
gentile ne’ volti e vago nelle composizioni, ma con poco rilievo e
colorire giallastro e scarsa varietà. La Deposizione alla Trinità de’
Monti, uno dei tre migliori quadri di Roma, loda Daniele Ricciarelli di
Volterra, indipendente scolaro di Michelangelo, come la strage degli
Innocenti alla galleria di Firenze. L’intimo sentimento religioso,
ricavato dalla venerazione pel Savonarola, salvò frà Bartolomeo della
Porta (1469-1517) dalle invenzioni voluttuose, allora domandate, e
colla tranquillità dignitosa che infuse nelle sue figure meritò un
posto nella tribuna di Firenze. A lui Pier Soderini gonfaloniere
commise un quadro da collocare nella sala del gran consiglio, dove
fossero tutti i santi e protettori di Firenze, e quelli nel cui
giorno ebbe vittorie. Sommo coloritore e maestro nel panneggiare, dai
Michelangioleschi era motteggiato come inetto alle grandi proporzioni
e inesperto d’anatomia; al che rispose trionfalmente col colossale
San Marco e col nudo San Sebastiano: ma la moda e le statue antiche lo
trassero negli ultimi tempi in crudezze di linee e di tinte[39].

Fede all’arte cristiana conservarono l’incisore Baldini, devoto al
Savonarola, Giannantonio Sogliani, che ne’ visi dei santi esprimeva
«un riverbero della gloria del cielo», e dell’inferno in quelli dei
ribaldi; Lorenzo di Credi, puro, ingenuo, tutto soave melanconia;
Ridolfo del Ghirlandajo, che spira pietà nella Madonna in San Pietro
di Pistoja, e nei due miracoli di San Zanobi alla galleria de’ Pitti.
Ebbe carissimo un Michele, per ciò detto di Ridolfo, che seco lavorò in
molte chiese di Firenze. Le costoro botteghe prendeano spesso apparenza
di oratorj; e deposto il pennello, or recitavano passi di Dante, ora
sul liuto accompagnavano qualche sacra cantilena, o ragionavano della
morte; mentre la bellezza delle modelle, le braverie, le canzoni
amorose spassavano quelle del Cellini o del Peruzzi.

Fra gli aneddoti, di cui è tessuta e forse travisata la storia
artistica d’allora, vien raccontato che Michelangelo, volendo emulare
Rafaello nelle temperate invenzioni e nel colorire armonico, desse i
proprj disegni a tingere a Sebastiano del Piombo (1485-1547), imitatore
del Giorgione, e diligente nel finire. A questo modo la Risurrezione
di Lazzaro fu contrapposta alla Trasfigurazione; e Sebastiano,
invanito, pretese pareggiarsi a Michelangelo e Rafaello: ma quando
egli accompagnava Tiziano alla visita delle pitture, questi vedendo i
restauri fatti nelle stanze vaticane dopo i danni del sacco, proruppe,
— Chi fu il presuntuoso ignorante che guastò quelle faccie?» Era stato
Sebastiano.

Di Francesco Rustici, scolaro di Leonardo, e morto in Francia, sono
le statue di bronzo sopra il battistero di Firenze, dove lavorò pure
Andrea Contucci da Sansovino, scultore, fonditore, architetto, che
lasciò opere a Genova, a Roma nella chiesa del Popolo, in Portogallo,
e principalmente l’esterno della Santa Casa di Loreto. Molti Fiesolani
continuavano la disciplina del Ferruccio e del Boscoli.

E già pareva non si potesse far meglio che imitare o le delicatezze
di Rafaello o le grandiosità di Michelangelo; ma, come disse ad
altro proposito il Guicciardini, «l’imitazione del male supera sempre
l’esempio, siccome, al contrario, l’imitazione del bene rimane sempre
inferiore». Gli scolari di Raffaello ne seguirono principalmente il
lato sensuale; e cacciati dalla peste e dai Tedeschi, si diffusero
per tutta Italia propagatori del buon gusto, che modificò le qualità
primitive delle varie scuole.

A Giulio Pippi (1492-1546), di storia ignota, pien d’estro e celerità
più che scelto nelle idee, Rafaello dava a compire le invenzioni
architettoniche appena schizzate; donde nacquero varj casini di Roma,
e la elegantissima villa Madama a monte Mario, colle decorazioni più
gentili dopo le loggie vaticane. Dal marchese Gonzaga fu chiamato
a Mantova, dove la scuola del Mantegna era sopravvissuta in due
suoi figliuoli, nei Monsignori, in altri che scolpendo e pitturando
modificarono la maniera di quel maestro, poi il ferrarese Costa avea
formato eccellenti scolari, fra cui il Leonbruno e il Febus. Giulio di
robuste dighe vi frenava il Po ed il Mincio, sanò le bassure, intere
vie rifece, restaurò antichi e pose edifizj nuovi, tra cui principale
è il palazzo del Te, quadro di sessanta metri di lato, con immenso
cortile; ed egli stesso lo storiò imitando l’antico, massime nei
bassorilievi di stucco[40], e nella sala de’ Giganti mascherando la
forma architettonica colla pittura, e sempre decrescendo di nobiltà e
purezza con invenzioni gentilesche, conformi alla sensuale sua vita, nè
sdegnò prostituirsi alle infamie dell’Aretino. La cattedrale di Mantova
rifece sul gusto antico; nella facciata ineseguita di San Petronio a
Bologna tenne il mezzo fra il gotico e il greco.

Baldassarre Peruzzi (1481-1556), abbandonato a Volterra da un
Fiorentino fuoruscito, per vivere copiò quadri, finchè potette fare
di suo. Come ajuto di Rafaello dipinse in Vaticano, poi sostentato
da Agostino Chigi, perfezionò la prospettiva da teatro, dipingendo
scene per le feste di Giuliano de’ Medici, e per la _Calandra_ del
Bibiena. Opere temporanee, di cui possiamo farci un’idea nella galleria
della Farnesina, dipinta con tanta illusione, che Tiziano la credette
rilievo[41]. Nel sacco di Roma bistrattato, e costretto a fare il
ritratto dell’ucciso Borbone, fugge ignudo a Siena. Ivi fabbricò,
e principalmente le fortificazioni; ricusò assistere Clemente VII
nell’assedio di Firenze; pure da quel pontefice e da altri ebbe lavori
a Roma più che denari, e conduceva il palazzo Massimi, capo suo, quando
morì.

Il Fattorino (Francesco Penni) andò a ravvivare la scuola napoletana.
Perino, figlio abbandonato da un de’ Francesi di Carlo VIII, fu posto a
dipingere sotto il Vaga, da cui prese il nome; e adoperato da Rafaello
ad eseguire a fresco, al fare di questo s’attenne poi sempre, ma
declinando al materiale. Anche Polidoro da Caravaggio, capitato a Roma
come manovale, e da Rafaello avviato alla pittura, con Maturino dipinse
di chiaroscuro al modo del Peruzzi, perciò copiando l’antico. Fuggendo
dai Tedeschi ripararono a Napoli, ove Maturino morì, nè a Polidoro
badavano i nobili, dediti a caccie e comparse: in Sicilia abbondarongli
commissioni, fin quando il servo per rubarlo l’assassinò. Da Rafaello
e dal Pinturicchio, che vi effigiò le imprese di Paolo II, di bei
paesaggi variando il fondo, Siena conobbe l’arte moderna, che la fece
infedele alle caste ispirazioni, conservate fino a quell’ora.

Fu detto che Rafaello visse poco per le arti, e il Buonarroti troppo; e
in fatto già sul costui sepolcro in Santa Croce le statue, atteggiate
in aria di farsi copiare, preludono ai difetti de’ suoi scolari. I
quali, dimenticando quel suo detto che «chi va dietro non passerà
mai avanti», copiavano dalle sue figure il rilievo muscolare, non la
morbidezza de’ rivestimenti, nè sovrattutto l’impetuoso immaginare
e il profondo sentire. L’esecuzione era migliorata, modellavasi e
scolpivasi vivo e ben composto, meglio foggiavansi le prospettive,
ma più sempre dalla pia semplicità si sviava alla mera apparenza;
stil grande voleasi; nulla di magro, di secco; movimento, muscoli,
appariscenza, grazia; dimenticando che questa è schiva di chi la cerca,
e che il bello degli antichi non salta agli occhi con pretensione,
ma esce a forza di contemplarlo. Quindi dappertutto atteggiamenti
ostentati, arida anatomia, giganti, statue sdrajate su cartelloni:
quindi una spensata facilità d’invenzioni, tanto più che i Medici,
piuttosto generosi che savj mecenati, soggetti mitologici o adulatorj
surrogarono alla devozione e al sentimento; e il profano Paolo Giovio
sceglieva e divisava quei della villa di Poggio a Cajano. Fra quella
turba, improntata d’un’aria di famiglia, distingueremo il Granacci
fiorentino; Battista Franco, che emulò Giovanni da Udine nel dipingere
le majoliche di Castel Durante; Mariotto Albertinelli, avverso al
Savonarola per ligezza ai Medici, che non fece scelta fra’ suoi tipi, e
morì d’intemperanza; Bernardino Poccetti, che il miracolo dell’Annegato
nel chiostro dell’Annunziata farebbe porre tra i sommi se all’estro e
al tocco risoluto avesse unito la pazienza.

Pier di Cosimo, idolatro della natura fino a non soffrire che l’uomo
la modificasse, stizziva quando fossero potate le piante o svelte le
erbaccie dal suo verziere; non teneva ora fissa al mangiare, vagolava
in luoghi strani, e contemplava le figure disegnate dalle nubi e
dagli sputi; onde riuscì sommo nell’imitare, nella prospettiva e nel
chiaroscuro, quanto scarso nel sentimento. Il Battista nel duomo di
Firenze, e il monumento di san Giovanni Gualberto, disperso nel 30,
lodano Benedetto da Rovezzano. I mausolei dei Doria a Genova e del
Sannazaro a Posilipo, e la fontana di Messina di frate Montorsoli sono
macchinose esecuzioni di poveri concetti. Nelle porte di San Petronio
a Bologna il Tribolo seppe schivare le esagerazioni. Vincenzo Danti
perugino del fondere lasciò ragionevolissimi suggerimenti e opere
finissime, comechè peccanti di leziosaggine. Giacomo della Porta
milanese voltò la cupola di San Pietro, finì i lavori di Michelangelo
in Campidoglio, e fece palazzi, facciate, fontane in Roma, a Frascati
il Belvedere degli Aldobrandini, a Genova la bella cappella del
Battista. Suo nipote frà Guglielmo, addestratosi alla Certosa di Pavia
e a Genova, abbandonò le sobrie finitezze de’ Lombardi per ormare
Michelangelo; e il suo deposito di Paolo III è delle migliori opere in
San Pietro, chi guardi all’atto soltanto, alla grazia, alla carnosità:
ma ai due lati del bellissimo papa son coricate una giovane e una
vecchia che, sotto il simbolo di non so quali virtù, ritraggono l’amica
del papa e la madre di lei, inverecondamente ignude, sicchè l’un corpo
raggrinzito eccita schifo, l’altro voluttà e peccato.

Tra gl’Italiani si schiera Gian Bologna, di Fiandra venuto giovanissimo
in Firenze, dove lavorò assai marmi e bronzi, fra cui il Mercurio
volante, di componimento ardito e d’esecuzione gentile; il ratto della
Sabina, ove s’intrecciano con arte le figure di tre differenti età;
la bella statua equestre di Cosmo I; e preparò quella di Enrico IV,
terminata poi da Pietro Tacca. Molto gli giovò il valente fonditore
Domenico Portigiani fiorentino, principalmente nella grandiosa cappella
di Sant’Antonio ne’ frati di San Marco, i quali vi spesero ottantamila
scudi; e nelle porte della cattedrale di Pisa.

Ai Michelangioleschi e all’emula stizza di Benvenuto Cellini fu
bersaglio Baccio Bandinelli, inventore scorretto ma robusto, qual si
vede nell’Ercole e Caco, opera non inferiore alle contemporanee. Il
Nettuno in piazza del granduca, fatto da Bartolomeo Ammanato a concorso
con Gian Bologna, col Danti e col Cellini, fu preferito perchè le
decisioni non dipendeano più dal popolo, ma da Cosmo (1490-1559).
Quell’edificatore di colossi fece il Giove Pluvio a Pratolino, che
rizzandosi sarebbe alto sedici metri; a Roma fabbricò il palazzo
Ruspoli, che doveva avere quattro faccie, e il vastissimo collegio de’
Gesuiti; finì il palazzo Pitti, adattando l’interno alla facciata con
opportuni abbellimenti. I ponti soleano voltarsi su pile massiccie fin
d’un quarto o un terzo della luce dell’arco, col che restringevasi il
letto, e tanto più quanto più crescea la piena; mentre la curva a tutto
sesto crescea la ripidezza del pendìo. L’Ammanato in quello di Santa
Trinita a Firenze aprì i tre archi circa trenta metri, e sopra le pile,
grosse otto, li curvò in ellissi molto scema. Vecchio si raccolse a
Dio, e pentivasi delle figure nude[42].

Infervorato di Michelangelo, Giorgio Vasari aretino (1512-74) ancor
giovinetto diceva a se stesso: — Chè non poss’io procacciarmi le
grandezze e i gradi che hanno acquistato tant’altri?» Misero scopo
per un artista, e il conseguì dipingendo a furia per la coronazione
di Carlo V, poi a Roma pel cardinale Medici una Venere con le Grazie;
e quell’impudica composizione tanto aggeniò al prelato, che diede una
veste nuova al pittore, e la commissione di un gran baccanale, per cui
entrò nelle grazie di Clemente VII, e fu l’artista di que’ dinasti dopo
ch’ebbero impugnata Firenze. Valoroso architetto si palesa nell’ardita
fabbrica degli Uffizj e negli appartamenti di Palazzo Vecchio, ch’egli
poi coprì di storie medicee, tirando via di pratica e a giorni contati.
In quanto si dice, dipinse la sala della cancelleria, sempre con
concetti superficiali o frivole allegorie e fisionomie insignificanti,
colorito abjetto e disarmonico, scarso rilievo, negletta prospettiva
aerea, studio delle statue e di Michelangelo, non della natura. Egli
cavaliero, egli pittor di corte, egli in grado di dare occupazione alla
gioventù, col suo esempio avvezzò al toccare audace e negligente, allo
stile manierato.

Più che dall’arte trasse lode dalle sue _Vite de’ Pittori_. Affatto
incerto di cronologia, quasi solo di cose toscane vi ragiona,
anzi di fiorentine, e colle passioni di contemporaneo e d’artista;
encomiasta de’ recenti, dimentica che essi aveano ammirato e studiato
i quattrocentisti[43], quasi volesse adulare i Medici col cancellare
anche in ciò le memorie, come restaurando Santa Maria Novella avea
cancellato affreschi di Masaccio e dell’Angelico; e prendendo per
canone unico la scuola propria, pone mente soltanto alla forma, alla
materialità del disegno, alla collocazione dei piani, al muscoleggiare,
al rilievo delle teste, armonizzino poi o no collo stato dell’animo;
mai un istante non elevasi alla poesia, a contemplare il concetto;
innanzi al mirabile componimento di Giotto ad Assisi non vede che «il
grandissimo e veramente meraviglioso effetto d’uno che beve stando
chinato in terra a una fonte»; non calcola i tempi in cui l’artista
fiorì, e le circostanze che il poterono soccorrere o disajutare; quasi
a un gran pittore bastasse essere abile operajo, non interprete del
pensiero morale de’ suoi contemporanei.

Pure egli dissodava un campo vergine; vide infinite opere co’ proprj
occhi, e giudicolle da esperto; per la seconda edizione moltissime
correzioni e mutamenti gli suggerirono il tempo, gli amici, la prudenza
e un nuovo viaggio per Italia; e sebbene non vi sia storico che non
abbia dovuto ad ogni piè sospinto confutarlo, pure rimarrà sempre
uno de’ più cari testi per l’ingenuità del parlare; per la copia di
aneddoti che ci dànno vera e spirante la vita d’allora; sovrattutto per
la passione che mette nella descrizione di quadri. Con quale evidenza
non ritrae la Crocifissione del Gaddi in Arezzo, la cappella Spinelli
in Santa Croce, le pitture della beata Michelina in Rimini! come si
esalta per la Maria in gloria del frate Angelico[44], pel ritratto
di Leone X e per lo Spasimo di Rafaello! con che impeto ritrae i
capolavori di Michelangelo! Solo l’artista può innamorarsi così; e
chi ha gustato le delizie stesse esulta di riprovarle con esso. Si
gode pure del suo piacersi nell’amicizia de’ grandi, e del vantarsi
che «nessuno abbia praticato Michelangelo più di lui, e gli sia stato
più amico e servitor fedele; nessuno possa mostrare maggior numero
di lettere, scritte da lui proprio, nè con più affetto». Aggiungete
ch’egli non è costretto alla polemica, nella quale s’imbroncano
perpetuamente i successivi scrittori d’arte, anche per colpa de’ molti
errori di lui.

_Pareri_ scrisse Bernardino Campi; _Veri precetti_ Giambattista
Armenini di Firenze, appoggiandosi agli esempj; Rafaele Borghini estrae
dal Vasari per esporre in dialoghi, che sono lunghissimi discorsi
di stentati tragetti, coll’assurdità di far recitare a memoria tante
notizie positive. Trattò di pittura anche Federico Zuccari, che col
fratello Taddeo dipinse i palazzi Farnesi a Roma e Caprarola, poi
l’Escuriale di Spagna, e fu presidente all’accademia di San Luca; la
quale, fondata sotto Gregorio XIII, ottenne che nessuno scritto sulle
belle arti si pubblicasse in Roma senza sua licenza; spediente sicuro
d’impedire che si conoscessero ed emendassero gli abusi.

Gianpaolo Lomazzo milanese, buon pittore quanto vedesi principalmente
a Tradate, e che a trentun anno perdè la vista, avea dettato precetti
dell’arte sua[45], che considerava come un sacerdozio privilegiato a
rappresentare Dio e i santi. Da queste idee, rinvolte in astruserie e
circonlocuzioni e metafore secentiste e osservazioni di stelle, deduce
alti concetti e devote pratiche; più che lo studio degli antichi e de’
Tedeschi vuole si cerchi d’avere nell’idea quel che poi s’ha da ridurre
in tela; molta cura domanda dei caratteri, e in quelli dei santi vuol
combinate maestà e bellezza, onde crescere in noi i sentimenti di pietà
e venerazione; mostrasi arguto osservatore nell’esprimere le passioni,
principalmente nelle delicate, battendo il mal gusto, e gli sfoggi
teatrali de’ Michelangioleschi, e la predilezione per soggetti lubrici
e il rappresentar la donna sol come oggetto sensuale, o villanamente
nelle cariatidi; predilige la venustà infantile, sin a credere che
senz’essa un quadro non possa essere bello; nell’architettura e
nella decorazione preferisce il modo antico e il bramantesco a quegli
introdotti dagli idolatri di Vitruvio. Dopo di che fa meraviglia come
secondi i pregiudizj correnti nel giudicar degli autori, nell’ammirare
la muscularità, nello sprezzo del medioevo. Ma oltrechè men
superficiale del Vasari ne’ giudizj, giova alla storia in quanto i suoi
precetti appoggia d’esempj anche lombardi, altronde ignoti.

La scuola lombarda rimontava fino ai giotteschi Andrino d’Edesia e
Giovan da Milano, che lasciò bei dipinti in Firenze, e fu seguito da
Vincenzo Foppa bresciano, dal Crivelli, da Nolfo di Monza, imperfetti
di forme, non senza grandezza di carattere. I due Civerchi, Bernardino
Zenale e il Buttinoni da Treviglio poterono profittare degli esempj del
Bramante. Sull’orme di questo, Bartolomeo Suardi, detto il Bramantino,
delicato modellatore, valse assai nella prospettiva, studiò gli effetti
più che il carattere, lavorò pure a Roma, e scrisse sulle antichità
greche e romane, come il Foppa e lo Zenale sulla prospettiva lineare
e le proporzioni del corpo umano. Anche dopo che il Mantegna vi
aveva recato le pratiche prospettiche, Gentile Bellini le tradizioni
dell’Umbria, poi le raffinatezze fiorentine Leonardo, una fisionomia
particolare conservarono i migliori; quali Francesco Melzo prediletto
del Vinci, ma più grazioso che robusto; Gianantonio Boltraffio, che
della scuola arcaica mantenne la gravità e le vigorose concezioni,
pur diffondendovi freschezza di vita, magia di chiaroscuro, finezza di
modello, ed esatta traduzione della fisionomia. Marco d’Oggiono rimane
inferiore, massime per disegno, quando non copiò il maestro; ma è
maggior di sè nel quadro in Sant’Eufemia a Milano.

E fa meraviglia come la scuola lombarda continuasse a fiorire, malgrado
di tante sventure pubbliche e quasi a consolazione della perduta
indipendenza; ma non fortunata di storici come le altre, restò quasi
ignorata di fuori. Eppure gli affreschi di Bernardino Luini (-1528?),
abbastanza frequenti in Lombardia, non iscapitano dai migliori, e
le sue tele sono dai forestieri scambiate con quelle di Leonardo,
sul quale egli avea studiato a segno, da farne propria la sublime
schiettezza, la purità del concetto, la vereconda soavità, sebbene di
quell’iniziatore non raggiunga la veemenza e l’espressione grandiosa e
profonda, prevalendo nella dolcezza di spirito e nella grazia armonica.
Ma egli non fu protetto dai re, bensì da quei che piangevano e
pregavano nelle sopravvenute miserie, e lavorò quasi soltanto in chiese
e conventi. Della Santa Caterina, leggenda prediletta dei pittori
lombardi, non è possibile trovare una composizione e un’esecuzione più
felice che il trasporto del cadavere per man degli angeli, qual si vede
a Brera. Nulla di più soave e patetico degli affreschi nel Monastero
Maggiore. Nell’età piena dipinse a Saronno la disputa di Cristo, e a
Lugano la Crocifissione, vero poema, con infinite persone in atti e
panni ed affetti tutti varj e veri, con teste spiccanti, e quella magia
di guardatura che pajono chiederti risposta. Eppure sembra non avesse
veduto i sommi contemporanei se non forse per via delle stampe; ed era
retribuito a miseria[46].

Cesare da Sesto (-1524) tiensi nella ragionevolezza del soggetto come
il maestro, e come lui si prepara con lunghi studj e attenti disegni;
e se non l’eguaglia in ricchezza d’idee e costanza di correzione, e se
spesso abbandonasi alla sicurezza dell’applauso, non si torrebbe mai
l’occhio dalle tele dove ha voluto esser grande. Passò poi a vedere
modelli differenti in Sicilia e a Roma, dove ajutò Rafaello, il quale
vuolsi gli dicesse: — Non comprendo come, essendo noi tanto amici, ci
usiamo così pochi riguardi». Il suo carissimo Bernazzano spesso gli
lavorava i fondi con paesaggi, ne’ quali era eccellente. Quando si
scoperse il quadro di Antonio Salaino della sagristia di San Celso,
tratto da cartone di Leonardo, tutta Milano concorse ad ammirarlo.

Gaudenzio Ferrari di Valdugia (-1550), educato a Vercelli da Girolamo
Giovenone, poi ajuto di Rafaello quand’ancora attenevasi alle maniere
dell’Umbria, ma soprattutto studioso del Vinci[47], ancor meglio
di questo unì la forza alla grazia, sebbene al fine s’ingrandisse,
cioè degenerasse dietro ai Michelangioleschi. Singolarmente accurò
l’espressione de’ volti, e la pia affezione; e il Lomazzo sfida
chiunque a rappresentare la divina maestà meglio che nella sua morte di
Cristo, al sacro Monte di Varallo. Quel santuario e quel di Saronno,
allora frequentati a proporzione delle pubbliche miserie, furono
il campo dell’abilità di Gaudenzio, e d’ogni parte eragli chiesto
qualche episodio del gran dramma della redenzione, che a Varallo avea
rappresentato intero.

Bernardino Lanini vercellese, più che nel disegno e nel chiaroscuro
valse nel buon comporre anche in grande, come nella Santa Caterina
presso San Nazaro. Di Giannantonio Bazzi da Vercelli (1477-1519),
detto il cavaliere Soddoma, peniamo a credere le turpitudini che il
Vasari racconta, poichè la bellezza de’ suoi dipinti in Lombardia
tiene del leonardesco, anzi nelle Madonne supera per grazia naturale il
maestro; i Senesi, della cui scuola ridestò lo spirito, gli affidarono
a dipingere le storie di san Bernardino e santa Caterina, e gonfaloni
veneratissimi; altre pie immagini fece altrove, leggiadre insieme
ed elevate e gravi principalmente a Napoli, e veramente di Rafaello
mostrasi scolaro ne’ puttini e anche negli adulti: vero è che non sa
comporre storia, e invecchiando declinò verso i manieristi.

Con questi pittori va una eletta di scultori, massime ornatisti.
Maestri di muro e di pietre, venuti dai laghi di Lugano, di Como, di
Varese, divenivano scultori e architetti; e le cattedrali lombarde
e Venezia s’allietano d’opere di autori non nominati, o appena col
titolo di Lombardi, di Campioni, di Bregni. Gaspare e Cristoforo Pedoni
luganesi assai lavorarono d’ornato a Cremona, e a Brescia il vestibolo
de’ Miracoli; i fratelli Rodari di Maroggia con incantevole pulizia nel
duomo di Como, e probabilmente nella semicattedrale di Lugano; Bonino
da Campione il mausoleo di Cansignorio a Verona, una delle più belle
opere gotiche, a sei faccie con sei colonne d’eleganti capitelli, e con
bellissimo serraglio di ferro; Antonio Amedeo pavese in Bergamo quel
del Coleone.

Gian Galeazzo avea dotato lautamente i monaci della Certosa di Pavia
perchè continuassero la fabbrica (tom. VII, pag. 185); finita, quella
somma dovesse compartirsi ai poveri. La distribuzione cominciossi nel
1542; ma i grandi miglioramenti recati ai terreni lasciarono ai monaci
di che proseguire, e farne, come il Guicciardini lo chiamava, «il
monastero il più bello che alcun altro non sia in Italia».

Fu architettata da Giacomo da Campione milanese nel 1396, non dal
fiorentino Nicolò de’ Galli, cui molti l’attribuiscono. Disposta al
modo bramantesco e policromatico, senz’archi acuti, sessanta medaglioni
sulla base della facciata offrono ritratti di imperatori e re, stemmi,
simboli, fatti scritturali, la più parte d’eccellente gusto: i quattro
finestroni direbbonsi incomparabili, se non li vincesse la porta,
con un incantevole complesso di sculture, storianti la fondazione
del tempio, i funerali di Gian Galeazzo, le vite de’ santi Ambrogio,
Siro ed altri: e l’infinità delle figure, la finitezza di tutte,
l’espressione di qualcuna incantano gli occhi, per quanto il vandalismo
rivoluzionario e la villania irreligiosa le abbiano mutile e guaste.
Dentro, la maestà delle ampie arcate, le volte ad oltremare stellato e
a fregi, la cupola ottagona a gallerie, le quattordici cappelle ornate
a gara, gli avanzi d’alcune vetriate dipinte, le ricche balaustrate di
ferro e ottone, toccano di meraviglia prima che si venga ad ammirare le
particolarità.

A tacere altri lombardi, Andrea Solaro, che lavorò a Venezia e in
Francia[48], e Bernardino Campi meritano lode di vivace espressione
e vigorosa tavolozza in un quadro della sacristia nuova, ora spoglia
delle ricchezze religiose e artistiche. Aggiungi le prospettive
felicissime e le riquadrature, con qua e là alcuni monaci, che si
direbbe veramente sporgano e ti guardino, e solo non parlino perchè la
regola lo vieta[49]. Ma qui è a conoscere ed ammirare come pittore il
Borgognone, cioè Ambrogio da Fossano, quasi ignoto alle storie[50],
e che per vigor di disegno, artifizio di ombre, varietà di scorci va
co’ migliori, mentre per espressiva e castigata dolcezza, pel posare
grazioso, per la mistica delicatezza può dirsi il frate Angelico
lombardo. Sempre mosso da pie ispirazioni, e ascetici ricordi, senza
perdersi in allusioni e simboli, imprime carattere serafico agli
angeli, grave devozione ai santi, aura divina alla Madonna, come può
vedersi nel coro di San Sebastiano a Milano, e a Bergamo nell’Assunta
di Santo Spirito, con quegli apostoli d’estatica espressione, irradiati
dall’alto.

Ne’ tempi di decadenza vi si proseguirono i lavori, ed enormi colossi
ingombrarono le arcate minori; gli altari furono sopraccarichi di
tarsie, di marmi, d’intagli, diligentissime esecuzioni principalmente
dei Sacchi, famiglia che restò per secoli addetta a questa chiesa.
I quadri del Procaccino, del Cornara, del Fava, gli affreschi del
Lanzani, de’ Carloni, del Ghisolfi, del Bianchi, del Montalto,
del Vairone, del Cerano, del Morazzoni, le sculture del Begarelli,
del Bussola, del Simonetta, del Brambilla, del Rosnati, per quanto
stacchino dalla cara semplicità dei primitivi, non mancano di merito, e
formano una galleria tutta lombarda, che a noi non parve fuor di luogo
descrivere.

Su disegno del Borgognone gli stalli del coro della Certosa furono
intarsiati da Bartolomeo Dalla Porta o da Pola nel 1486, con
atteggiamenti semplici. Nella sacrista vecchia un trittico di denti
d’ippopotamo in sessantasette bassorilievi e ottanta statuine presenta
storie sacre, opera pazientissima di Bernardo degli Ubriachi di
Firenze. Nel mausoleo del fondatore, cominciato il 1490 a disegno
d’un Galeazzo Pellegrini, e finito solo nel 1562, con lautezza di
ornati, Antonio Amedeo ne espresse la storia in sei medaglioni: la
statua è stesa sul proprio avello, dove impropriamente si aggiunsero
due statue simboliche di Bernardino da Novi, sedute sul monumento
come aveano introdotto i Michelangioleschi. Nè minore miracolo è il
sarcofago della duchessa Beatrice d’Este, opera di Cristoforo Solaro
il Gobbo. Capolavoro d’architettura è il chiostro, disegno di Francesco
Richino, portico a cenventi campate con colonnette di marmo sostenenti
bassorilievi di terra cotta, busti, statuine, fogliami, arabeschi che
danno la più vistosa varietà policromatica, e tutt’attorno al gran
cortile, ventiquattro cellette, ciascuna disposta come un compiuto
quartiere, e con giardinetto ove ricrearsi dall’obbligata solitudine.

Un’altra è il duomo di Milano, del quale manca una descrizione,
che per sentimento d’arte e giustezza d’erudizione convenga ai
tempi. Il Martino V, lavorato da Jacopino da Tradate, e alcune
guglie dell’Omodeo, son di gotico grazioso. Oltre il Gobbo Solaro,
ricordiamo il Bambaja che mettea per tutto rabeschi, fiori, recami e
nettissimamente conduceva i capelli, le barbe, le pieghe; e prova di
prospettiva più da ammirare che da imitare fece nella Presentazione
al tempio, scorciando una scala, in cima alla quale sta Simeone, ed
al piede Maria. S’abbandonò al gusto ammodernato nel deposito del
Caracciolo; ma più memorabile era quello di Gastone di Foix, che,
cambiati i dominatori, andò dissipato, e i pezzi che sopravanzano si
direbbero di cera, sicchè il Vasari «mirandoli con istupore, stette un
pezzo pensando se è possibile che si facciano con mano e con ferri sì
sottili e meravigliose opere»[51].

Annibale Fontana, Andrea Biffi, Andrea Fusina, chinavano al manierato:
Francesco Brambilla ornò la cappella dell’Albero, e fuse le cariatidi
del pulpito, squisitamente condotte, ma tormentate di minuzie; Marco
Agrati volle scaltrito il pubblico non esser opera di Prassitele[52]
quell’ammirato suo San Bartolomeo scorticato che panneggia la propria
pelle, senza espressione nè idealità. Altri bellissimi lavori de’
suddetti offrono le facciate di San Paolo e di San Celso in Milano.
È fra i più notevoli lavori di Napoli la cripta dell’arcivescovado,
fatica di Tommaso Malvita comasco; sala tutta marmo, col più bel
lacunare a mezze figure, sostenuto da colonne e pilastri squisiti.

Noi ci diffondiamo sul Lombardi perchè i patrioti, con vezzo non
più disimparato, neglessero le glorie compaesane, e i forestieri
gl’ignorano. Il Vasari, che solo per incidente li nominò, confessa che
il Bambaja, il Solaio, l’Agrati, Gaudenzio, Cesare da Sesto, Marco
d’Oggiono, il Luini «farebbero assai se avesser tanti studj quanti
n’ha Roma; onde fu bene che Leon Leoni vi recasse tante opere antiche
e modelli». Intende dello scultore Leon Leoni d’Arezzo, che a Milano
fuse pulitissimamente il mausoleo del Medeghino in duomo, sopra disegno
di Michelangelo alquanto manierato; e per sè costruì un palazzo colla
facciata sostenuta da grandi cariatidi (gli Omenoni), e l’aveva empito
di gessi e modelli che propagarono il gusto delle prominenze musculari
e delle manifestazioni esagerate della forza vitale, sempre più
spegnendo l’ideale artistico.

E artisti e scuole avea si può dire ciascuna città d’Italia; ma troppo
spesso i paesani trascurarono di darcene contezza, o svisarono.
Bergamo, fra molti che vi chiamò o nutrì il patronato del Coleone
e dei Martinengo, ci mostra il suo Lorenzo Lotti, che quando da
Alessandro Martinengo ebbe commissione di un quadro per la chiesa
di San Domenico, «pubbliche preci si fecero alla Madonna e ai santi
perchè l’ispirassero; e finito che fu, venne portato in processione
per le vie» (Tassi). Lodi aveva in San Francesco pitture vecchie
d’eccellente maniera, quando la pietà e la scienza del santo vescovo
Carlo Sforza Pallavicino fece erigere il tempio dell’Incoronata dal
Battaggio lodigiano bramantesco, e chiamò a dipingerla il Borgognone,
con Giovanni e Matteo della Chiesa, e a scolpirvi Ambrogio e Gianpietro
Donati milanesi. Forse da loro prese scuola la famiglia Piazza, che
diede molti artisti, fedeli alla tradizione affettuosa, finchè Calisto,
quasi unico nominato fuor di patria, si gettò al giorgionesco, pur
qualche volta raggiungendo l’affetto, come nell’Assunta di Codogno e
nel monastero Maggiore di Milano.

Nulla in Piemonte fino al 1488, il che fa strana la pretensione del
Galeani Napione, che la scuola senese, la genovese, la milanese devano
i cominciamenti a tre piemontesi, Antonio Razzi di Vercelli, Lodovico
Brea di Nizza, Gaudenzio Ferrari[53]. A Genova nel 1481 gli statuti
de’ pittori sono detti antichissimi; poi si costituirono come arte
distinta, pel cui esercizio si chiedevano sette anni di tirocinio.
Dal 1475 al 1525 v’ebbe ottantatre pittori, non contando quei che
lavoravano nelle Riviere, e v’appartenevano alcuni de’ Grimaldi, dei
Calvi, dei Da Passano, d’altre casate illustri. Un Damiano dei Lercari
sopra un osso di ciliegia scolpì tre santi, e sopra uno di pesca la
passione di Cristo. Daniele Téramo nel 1437 vi fece la bella cassa
di san Giovanni Battista d’argento dorato, colle storie in rilievo;
collocata nel tempietto, splendido di marmi e d’oro, cominciato il
1451.

Napoli imparò la scultura da Nicolò e Giovanni di Pisa, i cui lavori
nel duomo e nelle cappelle de’ Minutoli e Caraccioli furono finiti
da Masuccio primo: il secondo rifabbricò Santa Chiara, San Giovanni
a Carbonara ed altre chiese, ed eseguì i farraginosi depositi dei re
in San Lorenzo e Santa Chiara. Se la torre di quest’ultima chiesa,
fondata il 1318, fosse del primo Masuccio, un secolo prima di Bramante
avrebbe tornato in uso gli ordini greci[54]; ma ogni occhio avverte il
diversissimo modo con cui al rustico del primo ordine si sovrapposero
il dorico e lo jonico, che aspettano ancora il finimento. Sembra dovuto
a Pier di Martino milanese[55] l’arco di marmo bianco erettovi pel
trionfo di Alfonso I, il migliore dopo i romani, e non copiato da essi:
sebbene disacconciamente serrato fra le due torri del Castel Nuovo,
ne sono ben disposte le parti e gli accessorj, rigogliosa la generale
decorazione. Di venti anni posteriori, assai meno lodevoli sono le
porte di bronzo, da Guglielmo Monaco poste ad esso castello.

Il macchinoso e complicato mausoleo di re Ladislao in San Giovanni
a Carbonara loderebbe Andrea Ciccione se fosse del trecento. Poco
migliore, ma di più interesse è l’altro deposito suo in quella
cappella Caracciolo, nella quale Silla e Giannotto milanese ritrassero
guerrieri, col vestire di que’ tempi[56]. Nella cappella di Tommaso
d’Aquino in San Domenico, Angelo Aniello Fiore mostrò abilità e
purezza; mentre disordinatamente cariche sono le composizioni di
Antonio Bamboccio da Piperno.

La scuola giottesca fu colà propagata da maestro Simone napoletano,
di cui nessun’opera certa. Antonio Salario, di Civita degli Abruzzi
o più veramente veneto, detto lo Zingano, s’invaghì della figlia
di Colantonio pittore[57], e per ottenerla si mutò da pentolajo
in dipintore, e si segnalò per colorir fresco e buone mosse,
principalmente nella storia di san Benedetto a San Severino. Incerti
e poco degni di nota gli altri di quella scuola, finchè allo stile
nuovo dal Fattorino e da Polidoro di Caravaggio furono allevati
Andrea di Salerno, il Lama, il Ruviale detto Polidorino; poi altri
dal Vasari e dal Soddoma. Simone Papa il giovane si scevera da tutti
codesti per nobile semplicità. Giovanni Marliano da Nola finì scolture
eccellenti in Montoliveto, in San Domenico Maggiore e al monumento
di tre Sanseverino avvelenati dalla zia, di Antonio Gandino in Santa
Chiara, di Pier Toledo in San Giacomo degli Spagnuoli. A gara con lui
Girolamo Santacroce fece le pale di marmo alle Grazie, e altri lavori a
Montoliveto, al sepolcro del Sannazaro, e alla cappella dei Vico in San
Giovanni a Carbonara.

A Modena, Properzia de’ Rossi, rejetta dall’amante, per allusione ai
proprj casi, scolpì egregiamente il casto Giuseppe. A Bologna Lorenzo
Costa mantegnesco, di vigoroso colorito e lieta fantasia, frescò pei
Bentivoglio favole greche; datosi a quadri di chiesa, e visti i buoni
a Roma, depose le durezze, e ben avviò una scuola ricca di ducento
allievi. Simone dei Crocifissi e Lippo Dalmasio delle Madonne trassero
il soprannome dai soggetti di cui si piacquero. Jacopo Davanzi a
dipingere preparavasi col digiuno e colla comunione. Anche Francesco
Raibolini, detto il Francia, abilissimo in far nielli e medaglie,
passato di quarant’anni alla tavolozza e al fresco, dipinse quasi
sempre Madonne, con pazienza più che dottrina e varietà. Rafaello
quando spedì a Bologna la santa Cecilia, il pregò a ritoccarla se
alcun guasto v’avvenisse: complimento di modestia; ma è favola che
il Francia ne morisse d’invidia, giacchè sopravvisse fino al 1533.
Il suo san Sebastiano della Zecca fu il tipo dei Bolognesi; mentre
altri formavansi sui nuovi, come Ippolito Costa, che empì Mantova di
manierati dipinti; come il Sabbatini, grazioso nel comporre, debole
nel colorire; come Orazio Sammachini, suo grand’amico, che nei santi
infonde dignitosa e tenera pietà, mentre seppe esser robusto nella
volta di Sant’Abbondio in Cremona. Tommaso Vincidor, pittore e scultore
di Carlo V, che lasciò insigni monumenti nelle Fiandre, non è tampoco
citato dal Vasari, dallo Zani è dato per forestiero: ma l’Accademia
Belgica negli atti del 1854 lo provava bolognese.

Poichè i principi aveano il sentimento del bello anche mancando
dell’intelletto del buono, la trista genìa degli Estensi fece lavorare
gli artisti a Ferrara; e il marchese Nicola, oltre la gran chiesa
votiva a san Gotardo, fabbricava Belriguardo, le cui trecensessanta
camere furono dipinte da un Giovanni da Siena: come in quello di
Schifanoja il duca Borso fece da Piero della Francesca effigiare
principalmente uccelli e caccie, la meno ignobile delle sue passioni:
poi il duca Ercole di pitture coprì palazzi e chiese. Francesco Cossa
devotamente dipinse la miracolosa Madonna del Baracano a Bologna, e vi
allevò Lorenzo Costa. A Bologna si drizzarono gli artisti ferraresi,
quali Ercole Grandi, dal Vasari appajato ai migliori, il Vaccarini,
l’Ortolano, il Cortellini, Girolamo Marchesi da Cotignola. Il Garofolo
(Benvenuto Tisi) da Rafaello, da Leonardo e dal Boccaccino trasse
gentilezza, perfezione di modello dalle statue antiche; ma ripete gli
stessi tipi, gli stessi partiti di pieghe, collo stesso valore di toni:
che se l’eleganza e soavità il fanno encomiare, e quella finitezza
da miniatura ne’ piccoli lavori, e la devota idealità di molti suoi
quadri, in altri sacrificò alla moda o alle commissioni ducali; collocò
in paradiso l’Ariosto fra santa Caterina e san Sebastiano; fece il
bambin Gesù che si diverte con una scimmia sulle ginocchia di Maria.
In vecchiezza votò di lavorare tutte le domeniche a ornare il convento
di San Bernardino, dove s’erano consacrate due sue figliuole; finchè
divenne cieco.

Nel Giudizio universale della metropolitana, Sebastiano Filippi, detto
il Bastianino, seppe riuscir grande e nuovo anche dopo Michelangelo.
Sigismondino Scarsella suo competitore fu superato dal figlio Ippolito,
gentile nelle fisionomie e nelle velature, e di agile disegno. Il
Bastarolo (Giuseppe Mazzola), dipintor lento e studiato, è conosciuto
men del merito. Alfonso ed Ercole d’Este, che facevano dipingere nudità
mitologiche e le imprese d’Ercole, trovavano compiacenza nell’estro
pagano di Giambattista Dossi paesista e di Dosso Dossi figurista e
coloritore vantato, fratelli sempre in rissa, e che pure lavorarono
sempre insieme ai palazzi ducali e altrove, e non meritavano certo che
l’Ariosto gli affastellasse coi sommi.

La forma, la grazia, l’armonia pareano incarnate in Leonardo,
Michelangelo, Rafaello, eppure con questi trova posto originale Antonio
Allegri di Correggio (1494-1534). I documenti odierni smentiscono
quanto ne disse il Vasari, benchè scrivesse appena ventott’anni dopo
lui morto, ma non rendono bastante conto degli atti e del genio di lui.
Formato sui Lombardi, anzichè sul Mantegna, istruitosi nelle lettere e
nella storia, si fa stile indipendente e grazioso, e insieme potente
e ardito, benchè non paja essersi mai mosso da Parma, ove non ebbe
larghezze di lodi e compensi, ma non è vero languisse nell’inedia[58].
La Madonna di Sant’Antonio fatta a diciott’anni è forse il quadro suo
più bello, elegante e puro. Nell’appartamento della badessa di San
Paolo scene più che mondane ritrasse colla libera facilità e la limpida
grazia degli antichi, ammirate per leggerezza di capelli, labbra
femminili, sorrisi innamorati. Chiesto a dipingere in San Giovanni la
cupola, fece miracolo nuovo, giacchè non esisteva ancora il Giudizio
della Sistina, colla quale gareggia per grandezza d’espressione e
ardimento d’attitudini, principalmente negli apostoli de’ pennacchi.
Ben gli sta a fianco l’Assunta della cupola del duomo, composizione fin
troppo ricca, sicchè la celestiale purità è confusa dal desiderio di
ostentare abilità.

Nell’espressione degli affetti il Correggio possiede una tenerezza qual
neppure Rafaello conobbe, sebbene talora l’esageri quando domanderebbe
tranquillità: e desta la maraviglia degli accademici collo scortare
di sotto in su, e colla prospettiva della figura umana, ove contorna
sempre con curve eleganti fino alla leziosaggine. Ma o dipinga momenti
sereni come le sacre Famiglie e il riposo in Egitto e la Notte, o
dolorosi come Cristo all’orto e davanti a Pilato, o colla mitologia
non miri che alla vita esterna, sempre primeggia, sempre vi si ammira
la sovrana intelligenza de’ chiaroscuri, l’armonica fusione della luce
coll’ombra, le tinte impercettibilmente graduate in modo da parer
sobrio quel ch’è trattato con una ricchezza, valutabile solo da chi
tenta copiarla; come la facilità che sembra d’improvvisatore dileguasi
a chi esamini la varietà delle pose e la ragionevolezza degli atti.
Testimonio ch’egli associava l’immaginazione all’erudizione, l’eleganza
alla ricchezza.

Francesco Mazzola, detto il Parmigianino (1503-40), ingegno
precocemente maturo, la grazia di lui esagerò fin al lezioso. Attento
alle sue tele, non s’accorse quando le bande del Borbone devastavano
Roma, e lui come tanti altri ridussero alla miseria. Cominciò a
dipingere alla Steccata di Parma, poi non finendo benchè avesse tocchi
i denari, dovette fuggire a Casalmaggiore, dove ne vive la memoria
in popolari tradizioni e in quadri grandiosi, di buon concetto e di
miglior esecuzione[59]; dappertutto ottenendo onori e non ricchezze,
queste cercò all’alchimia, e finì di rovinarsi, e morì all’età del suo
Rafaello. Abilissimo nell’incidere, pare v’introducesse l’acqua forte.
Girolamo Beduli viadanese, marito di Elena sua cugina, bene impasta e
colorisce, felice nelle prospettive, vario nelle composizioni ma dalla
fretta pregiudicato.

I Farnesi, nuovi dominatori di Parma, non vi suscitarono alcun
grande; quando poi il Sammachini ed Ercole Procaccino furono chiamati
a dipingervi, poi l’Aretusi e Annibale Caracci, la correggesca fu
modificata dalla maniera bolognese, come si vede nel Tinti e nel
Lanfranco.

Nella depravazion generale galleggiò la scuola veneta. Tiziano Vecelli
cadorino (1477-1576) cominciò la sua reputazione dal terminar opere
di Giovan Bellini, fosse il Federico Barbarossa nella sala del gran
consiglio, fosser quelle nel palazzo di Ferrara; e lo studio di
tal maestro, poi l’emulazione del Dürer lo fecero attentissimo alle
particolarità, e fin minuto quando volesse. Dicea dover il pittore
esser padrone del bianco, del nero, del rosso, benchè non sia vero
che soli questi adoprasse; e per virtù de’ contrapposti ottenne un
ombreggiar robusto di stupendo effetto. Nelle invenzioni non mostra
gran fantasia; agli uomini impronta dignità ed espressione ben meglio
che negli angeli e santi; nè le composizioni sacre anima di devozione
affettuosa, sempre i concetti subordinando all’effetto, e questo
cercando dal colorito, fin a trascurare il segno.

Han riflesso che le opere sue per la patria son meno accurate di quelle
commessegli di fuori; forse perchè erangli retribuite scarsamente.
In fatto ben poco guadagnava, sinchè non capitò a Venezia l’infame
Aretino, il quale, sprezzatore di Dio e adoratore dei potenti, non
potea che contaminare una scuola educata nella fede. Tiziano n’ebbe
l’amicizia e le lodi, e sua mercè la commissione di ritrarre Carlo
V; e subito, entrato di moda fra i cortigiani, divenne il pittore dei
re, e gli chiesero l’immortalità del ritratto Francesco I, Paolo III,
Solimano II, Filippo II, l’imperator Ferdinando, il duca e la duchessa
d’Urbino, il Farnese, varj dogi e cardinali. Cresciuto di gloria e
denaro, a Venezia in palazzo ricchissimamente addobbato, riceveva
principescamente; ottenne trionfi a Roma, alla corte dell’imperatore,
in Ispagna, ove lasciò le opere sue più encomiate. Non potea dunque
tenersi sempre alle ispirazioni de’ suoi maestri, la patria, e la fede;
sfoggiò maestria in soggetti di mera e inespressiva bellezza naturale,
come le tante sue Veneri e Danae e Diane; dal quale naturalismo deriva
la sua abilità nel paesaggio. Lunghissimi giorni menò e tranquilli,
sopravvissuto agli amici; e senza conoscere nè tardità nè decrepitezza,
moriva in tempo di peste, e il senato dispensava il suo cadavere
dall’esser bruciato come gli altri.

Poco paziente all’insegnare o forse geloso, non formò scolari; pure una
famiglia di pittori gli si cacciò dietro, con composizioni macchinose
e trascurate. Mentre Michelangelo cerca espresso le difficoltà, il
Tiziano le declina, volendo imitar la natura senza che vi paja stento:
e però gl’imitatori del primo peggiorarono esagerando, quei dell’altro
dall’apparenza di semplicità furono strascinati nel triviale. Perocchè
le scuole apparvero distintissime quando ciascuna si sforzò d’elevare
sopra la natura l’ideale a cui propendeva; a Firenze sottoponendola
alla dottrina delle proporzioni coll’armonia delle tinte e le soavi
gradazioni; a Roma dandole espressione leggiadra, col disegno fino e la
squisitezza dei contorni e delle forme, derivati dalle statue antiche,
pel cui studio si deteriorò nel sentimento, non già nell’esecuzione:
la scuola lombarda, meno attenta alla regolarità dell’arte, forzò
l’espressione; la veneta, corrispondente alla tedesca per fedeltà alla
natura, volle esprimerne tutta la forza mediante il colorito sereno e
splendidamente armonioso, fin al punto di negligere il concetto e il
disegno. Nei frequentissimi ritratti non avendo campo a inventare, i
veneti si raffinavano sulle particolarità; donde la loro maestria in
riprodurre panni, velluti, metalli, oltre le architetture, le mense ed
altri accessorj.

Francesco I fece ritrarre le principali damigelle della sua Corte
a Paris Bordone trevisano, di colorito ridente e variatissimo, di
teste vivaci, di decente composizione, ma che sfumando sagrifica il
contorno, nè vale dove si richiede forza. Licinio da Pordenone, nei
tre Giudizj del palazzo ducale, al colorito tizianesco unisce il
chiaroscuro e il fuso modellare lombardo, ma dà nel caricato: vivea
selvatico, figurandosi continuamente nemici, dai quali dicesi fosse
avvelenato. Il Tintoretto (Giacomo Robusti 1512-91), avea scritto sul
suo studio _il disegno di Michelangelo e il colorito di Tiziano_, e su
tali modelli più che sul vero s’esercitava. Dicendo non potersi trovare
corpo perfetto, disponeva figurine di cera o creta, e le illuminava
secondo l’occorrenza, per copiarle, ottenendone un ombreggiare tetro,
lontano dal chiaro e vivace di Tiziano. Dell’acquistata facilità abusò
per precipitare i lavori, sicchè alcuni quadri pajono appena sbozzi,
e diceva che accurandoli li fredderebbe. Buon uomo, ambiva la gloria,
purchè senza macchia: gli scolari ne imitarono i difetti, non la
potenza.

Verona, non dimentica dei modi di frà Giocondo, più che del Brusasorci
manierista deve gloriarsi di Paolo Cavazzola, che l’affetto esprimeva
secondo le migliori tradizioni, e fu il più corretto disegnatore
dell’arte veneta. Paolo Caliari (1528?-88) s’ingrandì dietro al Tiziano
e al Tintoretto, e sulle stampe e le statue antiche, il cui studio
accoppiando a quel della natura, tradusse piena ed esultante la vita
con pompose architetture, gente briosa, metalli e vetri smaglianti,
giojelli, festivi banchetti, e più d’ogni altro rivela i meriti e i
difetti della scuola veneziana. A dipinger la vôlta della libreria
vecchia di Venezia concorsero il Salviati, il Franco, Andrea Schiavone,
lo Zelotti[60], il Licinio, il Varotari, facendo ciascuno tre dei
ventuno compartimenti; e per giudizio di Tiziano, la palma fu data a
Paolo, che dai procuratori di San Marco ebbe allora la commissione de’
quattro suoi quadri migliori: due Maddalene a’ piedi di Cristo, Gesù
coi pubblicani, e le nozze di Cana. In quest’ultimo, di ben centrenta
figure, tutti ritratti, fin il cane di Tiziano, finge una suntuosità,
degna solo dello sfarzo del XVI secolo; tra sfoggiato vestire e cani e
mori e nani e infinito servidorame fingendo un concerto, ove ciascun
artista suona lo stromento che simboleggia la sua qualità; e Carlo
V siede da imperatore a quel banchetto de’ mal provvisti artigiani
galilei: tanto il naturalismo soffocava e convenienze e tradizioni[61].
Nè Paolo badava a costume o carattere; la stalla di Betlemme pareggiava
a una reggia; le donne di Dario svisava col guardinfante. Ester
si presenta ad Assuero col corteggio d’una dogaressa: ma tutto si
perdona a quella gaudiosa serenità, a quell’inarrivabile freschezza e
trasparenza di colorito.

A malgrado di questo irrazionale naturalismo, il palazzo ducale, che è
la vera galleria veneta con tanta profusione di dipinti, di stucchi,
d’oro, d’intagli, respira dappertutto devozione e patriotismo. I
ventidue quadri della sala del maggior consiglio, ove il Pisanello,
il Guariento ed altri aveano dipinto il convegno di Alessandro III col
Barbarossa, essendosi guasti precocemente, nel 1474 si decretò fossero
rinnovati da Giovanni e Gentile Bellini, Alvise Vivarini, Cristoforo da
Parma ed altri, fin a Giorgione, Tiziano e Tintoretto; ma l’incendio
del 1577 li mandò in rovina. Quelli che si vedono ora, esaminati
distintamente, accusano la ricerca dell’effetto, eppure formano un
grandioso complesso.

Francesco da Ponte, piantatosi a Bassano, vi cominciò una scuola
rinomata. Giacomo suo figlio (1510-92) imitò Tiziano e il Parmigianino,
ma con semplicità naturale; preferì soggetti di modica forza, lumi
di candela, lustri di rame, capanne, paesaggi; tutto quello che poi
si caratterizzò per fiammingo, e dove il soggetto si smarrisce negli
accessorj. Lavorò moltissimo, e meglio di tutto il Presepio a Bassano.
Vivere in pace, non intrigare, non accattare o invidiar lodi, fu
il suo piacere. Francesco suo figlio, al contrario, si piaceva di
soggetti tragici, e n’ebbe alterata la mente a segno che credevasi
sempre assalito, e una volta balzò dalla finestra. Altri di quel
cognome empirono le botteghe di loro quadri, ai quali mancava anche
la spontaneità, essendo manuale riproduzione di anteriori. Giacomo
Palma emulò Giorgione nella vivacità del colore e nello sfumare: fu
detto il Vecchio per distinguerlo dall’omonimo suo nipote, che mal
pretese gareggiare con Paolo Veronese e col Tintoretto finchè vissero;
morti, diè al pessimo. Non è inferiore al Vecchio il Verla, benchè poco
dipingesse, e fu dimenticato da tutti gli storici dell’arte.

In Cremona, che già sul fine del quattrocento mostrava abilissimi
artisti, poi il pittore Bonifazio Bembo, e l’architetto Bartolomeo
Gazzo, acquistarono grido Altobello Melone e Boccaccio Boccaccino, «il
miglior moderno fra gli antichi e il miglior antico fra i moderni»
di quella scuola, e che, quanto grandioso nel Cristo dell’abside in
duomo, tanto grazioso si mostrò in minori soggetti. Il fare veneziano
vi dominò da che la città venne a San Marco; e Camillo suo figlio,
«acuto nel disegno, grandioso coloritore», come dice il Lomazzo che
lo appaja ai sommi, a quella guisa carpì l’ammirazione. Dicevasi che
ogni merito ne fosse dovuto alla verità degli occhi; ond’esso fece il
Lazzaro resuscitato e l’Adultera senza pur un occhio: bizzarria imitata
da un nostro contemporaneo nel supplizio di Giovanna Grey. Galeazzo
Campi, e Giulio Antonio e Vincenzo suoi figli, e Bernardino parente
ebbero colorito morbido, disegno corretto e grandioso; ma nobiltà ed
eleganza perdeano man mano che acquistavano le qualità per cui gli
esalta il Vasari. Di quattro sorelle Anguissola pittrici, la Sofonisba,
dal duca d’Alba condotta in Ispagna, ottenne favore presso la regina, e
adulazioni da esso Vasari[62].

Il Moretto (Alessandro Buonvicino), venuto quando le sventure
disponevano Brescia alla pietà, mentre usava un sugo tizianesco,
propendette alla scuola milanese per le ispirazioni, e alla soavità
di Rafaello, che conobbe sol dalle stampe; e in patria lasciò dipinti,
che i maestri ammirano per scelto e variato panneggiamento, magnifici
accessorj e tinte di grand’effetto; noi per graziosa espressione di
volti, per elevatezza e soavità devota. Gli vanno di brigata i suoi
compatrioti Girolamo Romanino e Giambattista Morone sommo ritrattista,
a cui la condotta studiata non toglie l’ingenuità.

Per decorare palazzi, molti Veneti si diedero alla quadratura, con buon
intendimento di prospettiva; altri al paesaggio e agli ornati, del
che avevano esempio domestico in Giovanni da Udine, inarrivabile ne’
chiaroscuri, negli arabeschi, ne’ vasi, ne’ paesaggi.

L’architettura si corruppe men presto che la pittura; ma la venerazione
pei classici ridestati e per Vitruvio fece considerar barbarie i lavori
del medioevo, e scorrezione ogni novità; alla convenzionale purezza
sacrificare l’esperienza di molti secoli, gli ardimenti ignoti agli
antichi, e le forme generate da idee e da abitudini nuove. Smarrite
allora le esoteriche tradizioni, tolti i reciproci sussidj, ripresi
l’ordine e la regolarità classica, lo stile nuovo rimase disgiunto
dai nuovi bisogni; copie senza relazione coll’originale, imitazioni
senza vita, dove non si rinnovava già l’antico, ma se ne adottavano
superficialmente le apparenze, mal conciliabili col vivere moderno.

Antonio Sangallo, di famiglia d’architetti, pel fiorentino cardinale
Farnese disegnò in Roma il gran palazzo, che passa pel più perfetto
che si conosca, massime il cortile, terminato poi da Michelangelo e
dal Vignola. Varie parti del Vaticano eseguì, e principalmente belle
scale; le cittadelle di Civitavecchia, Ancona, Firenze, Montefiascone,
Nepi, Perugia, Ascoli: in quella d’Orvieto riparò al difetto d’acqua
con un pozzo, per la cui doppia scala anche bestie da soma scendono e
risalgono senza incontrarsi. Diresse a Roma le feste per Carlo V che
tornava da Tunisi; e guardano come un modello la sua porta a Santo
Spirito non finita.

Pirro Ligorio napoletano, ingegnere civile e militare, che fece
l’originale casino del papa in Vaticano, e riparò Ferrara dal
Po, pubblicava il primo libro sui costumi dei popoli; ci conservò
disegnati i monumenti romani, ove spesso nelle iscrizioni erra, spesso
nelle misure geometriche; pure giova tanto più perchè molti di que’
fabbricati più non sussistono. Anche Sebastiano Serlio bolognese levò
disegni e misure degli edifizj di Roma, su’ quali formò lo stile
corrompitore dell’estetica tradizionale, e lo applicò in Francia a
fabbriche e ad un buon trattato d’architettura.

Giacomo Barozzio da Vignola (1507-73) molte regole di prospettiva
scoprì, e trovò ingegnose soluzioni. Nella _Regola dei cinque ordini_
ridusse l’architettura a misure fisse e principio costante; nè
pago agli esempj, indagò le ragioni, e proclamò che degli edifizj
antichi più lodati il merito consiste nell’offrire una intelligibile
corrispondenza di membri, convenienze semplici e chiare, e un complesso
ove le minime parti vengono comprese e ordinate armonicamente nelle
più grandi; lo che costituisce il fondamento delle proporzioni. La
guerra non lasciò eseguire veruno dei progetti ch’e’ fece in Francia,
nè quello pel San Petronio di Bologna; ma gli sono vanto immortale
il palazzo ducale di Piacenza, varie chiese e nominatamente quella
degli Angeli d’Assisi, eseguita poi dall’Alessi e da Giulio Santi.
La chiesa del Gesù e la Casa professa in Roma avea disegnate con
eleganza di profili e regolare distribuzione, guastata poi da Giacomo
della Porta. Giulio III gli affidò l’acquedotto di Trevi, e la villa,
sulla via Flaminia, a lui più cara che non gli affari, col vicino
tempietto rotondo. Al palazzo di Caprarola pel cardinale Alessandro
Farnese, in pittoresca situazione, diede aria di castello con pianta
pentagona e bastioni al piede, mentre opportunissimi ne sono l’interna
distribuzione e i disimpegni. Annibal Caro vi dirigeva le pitture,
eseguite dagli Zuccari e da altri con prospettive del Vignola stesso.
Allora Filippo II ergeva l’Escuriale, e da ventidue disegni di artisti
italiani il Vignola ne compilò un nuovo; ma non volle andare ad
eseguirlo, preferendo lavorare a San Pietro, ove continuò le idee di
Michelangelo, alzando le due cupole laterali.

In Venezia con maggiore indipendenza s’architettava, desumendo molti
concetti anche dal Levante, abbellendo il gotico[63], e variando in
guise originali, quanto può vedere chi scorra il Canalgrande. Precoci
frutti di buona scoltura e distinta dalla toscana sono le statue che
nel 1393 Jacopo e Pier Paolo delle Masegne posero sopra l’architrave
dell’abside di San Marco; e i capitelli del palazzo dogale, lavoro
forse del malarrivato Filippo Calendario[64]. Da poi vi vennero molti
Lombardi, fra’ quali Guglielmo bergamasco nella cappella Emiliana
a Murano merita posto fra gl’insigni. Alessandro Leopardi fece nel
deposito di Andrea Vendramin in San Giovanni e Paolo i migliori
bassorilievi d’arte veneziana, il monumento Coleone e i pili di bronzo
in piazza San Marco. D’Antonio Rizzo da Bregno sono il monumento
Tron ai Frari, di ricchezza non esuberante, l’Adamo ed Eva or posti
rimpetto alla scala de’ Giganti da lui architettata, come anche il
prospetto interno del palazzo dogale, e forse l’esterno verso il rio.
A lui, a Paolo, a Lorenzo pur da Bregno, cioè comaschi, sono dovuti
altri monumenti, e singolarmente quelli del doge Foscari e di Dionigi
Naldo da Brisighella; altri a Pietro, Antonio, Tullio Lombardo, che
segnano il passaggio fra l’ingenuo scolpire di quei delle Masegne e la
raffinatezza già leziosa nel ricco deposito del doge Pier Mocenigo in
San Giovanni e Paolo. Pietro Lombardo[65] fece Santa Maria de’ Miracoli
con decorazioni francamente graziosissime. Altri di quella piuttosto
colonia e scuola che famiglia operarono di decorare e d’architettare
al modo dell’alta Italia; e nominatamente la cappella Zeno, ammirata
in San Marco[66], alla quale preferisco il vicino altare; e a tacer
altro, il palazzo Vendramin, la ricca torre dell’orologio, e il fianco
del cortile ducale verso San Marco, «esempio d’aurea ed elegante
ordinanza». Di Martino Lombardo basti accennare la scuola di San Marco,
di bellissimo effetto. Dello Scarpagnino sono le fabbriche vecchie a
Rialto e l’incantevole facciata dell’arciconfraternita di San Rocco.
Bartolomeo Buono fabbricò le Procuratie vecchie. Gianmaria Falconetto
veronese (-1524), mutatosi dal pennello alle seste, e nudritosi degli
antichi, di cui disegnò e descrisse pel primo i teatri e anfiteatri,
servì all’imperatore Massimiliano che allora aveva conquistato Verona;
poi rimessa la pace e avuto perdono, di begli edifizj empì lo Stato, in
Padova pose la _bellissima e ornatissima loggia_ dei Cornaro, le porte
di San Giovanni e Savonarola, quella sotto l’oriuolo in piazza de’
Signori, e gli ornamenti di stucco alla cappella del Santo.

Mutò l’andazzo il Sansovino (Giacomo Tatti di Firenze 1479-1570). Già
era chinato allo stile michelangiolesco quando dalla saccheggiata Roma
ricoverò a Venezia, e nominatovi protomastro, sgombrò la piazzetta e
vi pose l’ammirata loggetta, riparò le cupole di San Marco, fece la
chiesa di San Geminiano, e più semplice, l’interno di San Francesco
della Vigna, la scala d’oro, i bellissimi palazzi Cornaro presso San
Maurizio, e Dolfin a San Salvadore; e nella facciata della Libreria,
uno de’ migliori edifizj moderni, pretese sciogliere il problema
difficilissimo, e nato da mala interpretazione del testo vitruviano,
del far cadere la metà d’una metopa nell’angolo del fregio dorico.
L’aveva appena finita, quando ne crollò la vôlta; ond’egli fu messo
prigione, poi rilasciato, la eseguì di legno e cannuccie. Nelle
scolture diede al gonfio; e i due suoi giganti che impiccioliscono la
scala da essi denominata, sebbene non pecchino degli atteggiamenti
teatralmente triviali, che allora usavano il Baldinelli e simili,
mancano di significazione e di opportunità, e cedono a gran pezza alla
dignitosa statua di Tommaso da Ravenna sulla porta di San Giuliano,
alla Madonnina, e agli altri bronzi nelle nicchie della loggetta, e a
quelli della squisita porta, da lui soltanto disegnata, della sacristia
di San Marco[67].

Andrea Palladio vicentino (1518-80), deliberato a non dare mai passo
fuor dei canoni di Vitruvio, divenne modello del buon gusto per coloro
che nol riscontrano fuori del greco e romano. A Roma postosi a misurare
e disegnare le fabbriche antiche, sui loro restauri stampò un’opera,
e un trattato d’architettura che fu voltato in tutte le lingue[68].
Avvertiva ch’è «comoda quella casa, la quale sia conveniente alla
qualità di chi l’ha ad abitare»; e perciò «a gentiluomini e magistrati
si richiedono case con loggie e sale spaziose e ornate, acciocchè in
tai luoghi si possano trattenere con piacere quelli che aspetteranno il
padrone per salutarlo e pregarlo di qualche ajuto e favore... Le sale
servono a feste, a conviti, ad apparati per recitar commedie, nozze
e simili sollazzi; e però devono esser molto maggiori degli altri, ed
aver forma capacissima... Le stanze devono essere compartite dall’una
e dall’altra parte dell’entrata e della sala... Ma si badi che le case
siano comode all’uso della famiglia, senza la qual comodità sarebbero
degne di grandissimo biasimo»; e qui segue a divisare le opportunità
delle stanze grandi, mediocri e piccole, delle estive e invernali.

La gotica basilica di Vicenza, cominciata il 1444, e che già rovinava,
egli rinfiancó di portici a stile nuovo, con prodigalità di colonne.
Ammirando quell’opera, i signori vicentini gli diedero commissione di
palazzi, che restarono poi incompiuti; fece la rotonda del Capra, e per
l’Accademia Olimpica un teatro disposto all’antica per rappresentazioni
di soggetto classico; e nell’entrata del vescovo Priuli coprì di
disegni architettonici tutto il corso di Vicenza dal ponte degli Angeli
fino alla cattedrale. Chiesto a gara per fregiare Venezia e le rive
del Brenta, tutte le combinazioni di ordini e di materiali sperimentò
ne’ palazzi, dove più che la magnificenza appare l’eguaglianza di
molte fortune, e la gara di non parere inferiori al vicino. Belli
sono gli atrj suoi, perchè tali li trovava ne’ Romani, ma appiccia
quelli de’ tempj alle ville; negli appartamenti riesce discomodo, meno
delle convenienze brigandosi che del gusto classico, dell’esecuzione
corretta, delle forme scelte. Succeduto in Venezia al Sansovino, nel
chiostro della Carità effettuò il piano dato da Vitruvio per le case
romane; ma il fuoco lo distrusse, come il suo teatro. Nella chiesa
e refettorio di San Giorgio Maggiore, anzichè il tempio gentilesco
imitò le basiliche. Suo capolavoro è il Redentore, voto del senato
per la peste del 1576: ma i pochi elementi offertigli dagli antichi lo
costrinsero a riprodurre tre volte quella medesima facciata in Venezia,
senza riguardo alla distribuzione interna, nè alla differenza tra due
chiese di poveri Cappuccini ed una di lauti Benedettini. Concependo poi
separate l’architettura e la scultura, lasciava le opere sue deturpare
dagli stucchi e dalle statue farraginose del Vittoria e del Ridolfi.

A Brescia lavorò pel duomo e pel pretorio; a Torino pel parco reale;
avea dato disegni per la cattedrale di Bergamo, e per altri edifizj
non eseguiti; in somma non faceasi opera d’importanza, ch’egli non
ne fosse sentito. Amò murare di mattoni, vedendoli durare più che la
pietra. Edificando riccamente senza soverchia spesa, adoprando ogni
sorta materiali a decorare, meritò essere studiato come classico, non
dai contemporanei, che anzi allora ruppero al peggio, ma dai moderni, e
quando principal bellezza si considerò ancora la regola.

Il ponte di Rialto, studio di frà Giocondo, del Sansovino, del
Palladio, fu dato a fare a Giovanni da Ponte, che offrì il disegno
men costoso, e insieme così ardito che si dubitò della solidità, ora
attestata da due secoli e mezzo. Fosse altrettanta la bellezza[69].

Vincenzo Scamozzi da Vicenza (1552-1616), recato all’arte dagli esempj
del Palladio suo concittadino, e conoscendo i libri e i lavori degli
antichi, si mostrò valente costruttore e ingegnoso a Venezia, vero
campo dell’architettura civile; ma trovando già i primi seggi occupati,
pensò sbizzarrire in novità o palliare l’imitazione, protestandosi
indipendente da maestri, nè parlandone che per vilipendio. Il suo
mausoleo del doge Nicola da Ponte nella Carità, più architettonico che
altro, gli ottenne di lavorar la fronte della libreria di San Marco e
le Procuratie nuove. Nella prima superò con lode l’ineguaglianza dello
spazio; nelle altre adottò il disegno del Sansovino, peggiorandolo col
sovrapporgli un altro piano, e adoprandovi i tre ordini, nel qual modo
fu terminato da Baldassarre Longhena. Nessun lavoro volea ricusare
per quanti gliene fioccassero, ma di molti non ci restano che i
disegni. A Bergamo fece il bel palazzo del Comune: però al suo disegno
per ricostruire quella cattedrale, fabbrica di Antonio Filarete, fu
preferito quello del Fontana; a quello per la cattedrale di Salisburgo
uno di Santino Solari comasco.

Nell’_Idea dell’architettura universale_ lo Scamozzi intendeva a
precetti unire esempj, raccolti da tutta Europa. Per averne i disegni
teneasi bene coi nobilomini veneti che andavano ambasciadori, coi quali
potè far lontani e ripetuti viaggi senza spesa, e tutto scrivendo,
tutto delineando. Ma sarebbesi richiesto troppo più di cognizioni e
di viaggi; ed egli riuscì confuso, prolisso, ingombro di digressioni,
oltre la noja di vederlo sempre posporre alle sue le opere altrui,
per quanto insigni. — Le fatiche le abbiam fatte molto volentieri,
e per studio nostro particolare e per benefizio degli edificatori,
e anche per lasciar qualche esempio del bel modo di edificare alla
posterità; chè veramente nulla aveano lasciato ad esempio Palladio,
Buonarroti, Vignola, Sanmicheli, Sansovino, ecc.»; così nell’_Idea_:
e perfino nel testamento scriveva: — Ho procurato di restituire alla
sua antica maestà questa nobilissima disciplina...; con molta fatica
e spesa ho ridotto a perfezione i miei libri...; ho adornato Venezia
d’infinite fabbriche, le quali in bellezza e magnificenza non cedono a
qualsivoglia delle antiche... Non dubito che li miei scritti di tante
fabbriche fatte da me non sieno per conservare la memoria del mio nome
a pari dell’eternità».

La loggia di Brescia basta a lode del Formentone vicentino, come il
palazzo ducale di Modena a lode del romano Bartolomeo Avanzini.

A Milano già eransi fatti il canale della Muzza e il Grande, i maggiori
del mondo, eppure guidati senz’altra arte che quella d’un agrimensore
di genio. Ora Giuseppe Meda ideò i navigli di Paderno e di Pavia con
nuovi congegni, e architettò il maestoso cortile del seminario grande.
Per quello così teatrale del collegio Elvetico e per la biblioteca
Ambrosiana s’immortalò Fabio Mangone; Martino Bassi architettò la porta
Romana e San Lorenzo; Vincenzo Seregni molte fabbriche attorno alla
piazza de’ Mercanti e alcuni chiostri; Francesco Richini molte chiese
e varj palazzi, tra cui quello di Brera, notevoli per grandiosità,
apparenza scenica e bei cortili: eppure son nomi ignoti agli storici.

Pellegrino Pellegrini di Tibaldo (1527-92), milanese nato a Bologna,
rammaricato di mal riuscire nella pittura, volea lasciarsi morire,
poi meglio si consigliò a voltarsi all’architettura. Tra molti suoi
lavori grandiosi e scorretti sono i santuarj di Ro e di Caravaggio,
l’arcivescovado di Milano, la casa professa dei Gesuiti a Genova.
Dichiarato ingegnere dello Stato di Milano e direttore della fabbrica
del duomo, ne disegnò il pavimento e la facciata, dove Martino
Bassi s’oppose a molte sue bizzarrie, appoggiato dal voto di buoni
maestri[70]. Da Filippo II chiamato ad architettare l’Escuriale, ne fu
rimunerato con gran somma e col feudo di Valsolda.

Genova, sentendosi ricca, volle anche esser bella, e i suoi signori
quasi d’accordo presero ad ornarla, e non potendo estenderla in
quartieri nuovi, rifecero i vecchi, nel che si esercitarono Andrea
Vannone comasco, Bartolomeo Bianco, Rocco Pennone lombardo, Angelo
Falcone, il Pellegrini, altro di bel nome. Anima di tutti fu Galeazzo
Alessi perugino, che in patria avea compiuta la fortificazione
cominciata dal Sangallo, e molti palazzi, e in Genova aperse la strada
Nuova, fronteggiata dei superbi palazzi Grimaldi, Brignole, Lercari,
Carega, Giustiniani, pei quali la natura chiedea distribuzione diversa,
e offriva marmi e colonne. Quello de’ Sauli va fra’ meglio intesi
d’Italia, tutte colonne d’un sol pezzo di marmo. Tacendo alcune ville
ne’ contorni, eseguì la Madonna di Carignano, una delle più finite
e solide chiese; prolungò il molo, abbellì il porto e i granaj;
nell’arditissimo edifizio de’ Banchi, con pochissimi materiali coperse
la lunghezza di trentacinque metri e la larghezza di ventidue. Anche
altrove lavorò, e a Milano il palazzo di Tommaso Marino, sfoggio
degli ordini e delle decorazioni più appariscenti, e la troppo carica
facciata di San Celso.

Michele Sanmicheli (1481-1559) apprese l’arte dal padre e dallo zio,
e dai resti dell’antichità, prima in Verona sua patria, poi in Roma,
ove presto salì in rinomanza. Nella cattedrale d’Orvieto, lavorata dai
migliori architetti precedenti, s’uniformò al loro stile; a quella di
Montefiascone, trovandosi più libero, fece una cupola ad otto spicchi,
la cui circonferenza costituisce il tempio. D’altre opere abbellì la
sua patria e Venezia, e non imprendea lavoro senza avere fatto cantare
messa.

Il suo nome è specialmente affisso all’architettura militare, la
quale avea dovuto riformarsi col cambiar delle armi. Già se n’erano
occupati il Brunelleschi, che lavorò di fortificazioni per Filippo
Maria Visconti, e a Pisa, a Pesaro, a Mantova; Mariano Jacopo Taccola e
Giorgio Martini senesi, Leon Battista Alberti, Lampo Biraghi milanese,
che fu de’ primi a parlar d’artiglierie, proponendole per liberare
Terrasanta. Il trattato, che Roberto Valturio stese ad istanza di
Sigismondo Malatesta, portò in queste costruzioni il lume, che nelle
civili quel dell’Alberti; e può vedervisi il passaggio fra le armi
da tiro antiche e le nuove. Ne scrissero pure per incidenza Pietro
Cattaneo da Siena, Daniele Barbaro, il Filarete, Antonio Cornazzano,
Francesco Patrizio, Vannoccio Biringucci, e per tacere d’altri,
Leonardo da Vinci.

Il Sanmicheli, quando ebbe da Clemente VIII l’incarico delle
fortificazioni dello Stato papale, e principalmente di quelle di Parma
e Piacenza con Antonio Sangallo seniore, s’innamorò di tal genere, e ne
conformò il sistema al mutato modo di guerra. Sin allora una robusta
mura, largo fossato, torri quadre o rotonde che proteggessero la
frapposta cortina, distanti due trar d’arco, bastavano per proteggere
una città. Introdotte le armi da fuoco, colle rotonde si richiesero
torri angolose, che precedettero i baluardi propriamente detti[71],
e che, al comparire di questi, bisognò demolire, perchè, sporgendo
dalla cortina, impacciavano la difesa. Il Sanmicheli fece i bastioni
a triangolo saliente più o meno ottuso, appoggiato sui due fianchi che
proteggono le cortine, con camere basse ai fianchi, che raddoppiano il
fuoco, e schermiscono la cortina e la fossa. Mentre nel modo antico la
fronte restava scoperta, qui tutte le parti venivano tenute in riguardo
dai fianchi de’ bastioni.

Alle difese piombanti sostituivansi così le fiancanti, alle mura
perpendicolari quelle a scarpa; l’artiglieria, dando ad angolo obliquo
nei muri, facea minor colpo che percotendo a retto; e se anche smuri la
camicia esteriore, il terreno si regge per se medesimo. A questo modo
il Sanmicheli fabbricò a Verona il bastione della Maddalena ed altri,
demoliti ai dì nostri per condizione della pace di Lunéville; e quelli
di Legnago, Orzinovi, Castello; poi a Sebenico, Cipro, Candia, Napoli
di Romanìa, buone barriere contro gli Ottomani. Della fortezza di Lido
a Venezia, sopra terreno molliccio e flagellato dalla marina, si fece
la prova collo sparare da quelle mura tutta l’artiglieria grossa a un
tratto.

Dalla forza il Sanmicheli non dissociava la bellezza, ornando le
entrate cogli accorgimenti che il Vauban suggeriva dappoi: e le
porte Nuova, del Pallio, di San Zenone a Verona mostrano quanto giovi
l’accordo di molteplici cognizioni.

Galeazzo Alghisi da Carpi inventò di applicare la cortina a tanaglia
a qualsiasi poligono, e volle sperimentare la bontà delle cortine
addietro, riflesse in angolo quanto più acuto tanto migliore; ma
la prova stette contro di lui. Nicolò Tartaglia prevenne i tiri di
rimbalzo, che si credono inventati un secolo e mezzo più tardi; primo
disputò intorno ai gradi d’inclinazione dei pezzi, all’effetto de’
projetti, alle distanze dei tiri ragguagliate all’inclinazione ed alla
carica; e molti miglioramenti propose circa la forma de’ baluardi e
cavalieri. Giambattista Bellucci da San Marino, che servì al Marignano
nell’oppugnazione di Siena, a Francesco I e ad altri, perfezionò le
fortificazioni. In tempo che tanta fiducia si riponeva in queste,
Giambattista Zanchi dimostrò che contro l’offensiva non danno altro
vantaggio se non del tempo che gli assediati ebbero per provvedersi: e
null’altro che traduzione dell’opera sua è quella del La Treille[72],
che i Francesi adducono come la prima di tale materia in lor favella.

Jacopo Lentieri bresciano scrisse dialoghi su questo proposito e
sul levare le piante delle fortezze; e primo vestì di matematiche la
scienza delle fortificazioni. Carlo Theti insegnò varj contrafforti,
recinti doppj, controguardie continue, bastioni distaccati. Pierantonio
Fusti da Urbino, detto il Castrioto, osteggiò Siena, munì San Quintino,
Calais e tutta quella frontiera con un campo trincerato, fece tre forti
in Navarra, e morì ingegnere generale di Francia il 1563. Egli avea
stampato _Della fortificazione delle città_ (Venezia 1564), insieme
con Girolamo Maggi che difese Famagosta, dove preso dai Turchi, dopo
dura cattività fu strozzato. Gabriele Tadini di Martinengo restaurò
le fortificazioni di Bergamo; operò per Venezia nella guerra contro
la Lega, onde meritò d’esser fatto soprantendente alle fortificazioni
di Candia; fu de’ più attivi difensori di Rodi, indi granmaestro
dell’artiglieria di Carlo V; infine provvide a fortificare le isole
dell’arcipelago contro i Turchi.

Vuolsi saper grado a questi ingegneri d’aver opposto un riparo ai
nuovi Barbari che minacciavano la civiltà europea, e contro cui i re
litigiosi lasciavano Venezia a combatter sola.

Aristotele Fioravanti, che in Bologna trasportò la torre della città,
lavorò molte fortezze per la Moscovia. Rodolfo, dopo fatti i baluardi
di Camerino, sua patria, in Transilvania e in Polonia servì al re
Stefano Batori, e v’insegnò l’uso delle palle roventi. Nelle Fiandre
il Paciotto alzò la cittadella di Anversa, e diede disegni per quelle
d’America: altre ne fortificò nelle Fiandre Ascanio della Cornia.
Girolamo Bellarmati, fuoruscito senese e autore di una _Corographia
Thusciæ_, fu ingegnere maggiore di Francesco I, costruì il porto
dell’Havre de Grace allo sbocco della Senna, e bastionò Parigi; e
volendo il re mandarlo coll’ammiraglio conte dell’Anguillara ad assalir
Barcellona, ricusò, perchè con quello era stato costretto due volte a
fuggire[73].

Con Caterina de’ Medici andarono in Francia Girolamo e Camillo Marini,
il Campi, il Befani, ingegneri militari, e il cavalier Relogio che
fortificò sapientemente la città di Brouage. Antonio Melloni da
Cremona, dopo difesa Vienna e ajutato a prendere molte fortezze sul
Reno, ove allestì un campo trincerato per quarantaquattromila Francesi,
ne fabbricò altre in Picardia, prima che Calais fosse presa dal nostro
Strozzi; poi ottomila Italiani con esso guidati dal principe di Melfi,
combatteano altrettanti Italiani che, al soldo d’Inghilterra, in
Boulogne si munivano per opera dell’ingegnere Girolamo Pennacchi da
Treviso, che vi perdè la vita nel 1544.

Bourg-en-Bresse fu munito dal Busca milanese. Alessandro del Borro
aretino, allievo del Piccolòmini, utilissimo all’Impero, massime per
avere fortificato Vienna, già prima munita da altri Italiani, quali
il Floriani di Macerata, Pietro dal Bianco, lo Scala, Giovan Peroni,
intervenne alle principali battaglie di quel tempo; a servigio di
Venezia, sottomise Egina, occupò Tenedo e Lenno, e morì dalle ferite
tocche nel difendersi con una sola nave contro tre barbaresche[74].

Ostilio Ricci toscano fortificava le isole di If e Pommiers: Agostino
Ramelli milanese serviva al re di Polonia, e morì sotto la Roccella, da
lui munita: il Pasini ferrarese fortificò Sedan: nel Portogallo lavorò
Vincenzo Casali, autore della darsena di Napoli: e a Saragozza Tiburzio
Spannocchi faceva un ponte levatojo che bastava un soldato ad alzarlo,
e non se ne vedeano le catene. Francesco Giuramella munì Custrino; il
Bosio genovese fondeva artiglierie pei Russi; il Solaro costruiva due
castelli a Mosca; Simone Genga nel 1581 muniva le sponde della Duina.

Più segnalato nella pratica e nelle teoriche fu Francesco Marchi
bolognese, ingegnere di Alessandro de’ Medici, poi di Pierluigi Farnese
e di Paolo III, indi passato in Fiandra colla costui vedova Margherita,
dove attese trentadue anni a munimenti militari, e introdusse le
carrozze all’italiana. D’un suo lavoro esteso su molte scienze e molte
macchine, restato imperfetto e inedito, porse ampia informazione il
Fantuzzi negli _Scrittori bolognesi_. Inventò molte guise di bastioni,
cavalieri, rivellini, aloni, tanaglie semplici e doppie, grande varietà
di linee magistrali, fossi, strade coperte. Cercò innanzi tutto di
elevare il carattere e la morale dell’uomo. Gli si accerta il merito
dei tre metodi attribuiti a Vauban, al quale forse solo spetta la
gloria delle applicazioni sistematiche, e dell’alleare l’arte delle
fortificazioni colla strategia.

Nè a sostenere la priorità degli Italiani è inutile il riflettere
che i nomi delle fortificazioni nuove sono la più parte d’origine
nostrale anche nel parlar francese, e a tacere _piattaforma, mina,
rivellino, ingegnere,_ possiamo addurre _bastione, cittadella,
baluardo, orecchione, merlone, parapetto, gabbioni, casematte, caserme,
banchetta, cannetta, lunetta, contrascarpa, palizzata, spianata, bomba,
artiglieria._..

Altri s’occuparono dell’architettura nautica, come Camillo Agrippa
milanese[75] e Mario Savorgnano conte di Belgrado[76]. Nell’idraulica
molti ebbero ad esercitarsi e a scrivere, fra cui il longevo Luigi
Cornaro tratta delle lagune venete come difesa[77].

Come in queste grandi opere, così in minori s’addestravano i nostri.
La scrittura e la pittura, uscendo insieme dal santuario, continuarono
lungo tempo affratellate; e la miniatura de’ libri dove procedeano
di conserva, mantenne a lungo i tipi, che gli artisti abbandonavano.
Che se la stampa e l’incisione le aveano tolto importanza, ne abbiamo
ancora stupendi esempj in libri devoti e in corali, anzi può dirsi
che i migliori fossero degli ultimi tempi. A Venezia il codice di
Marciano Capella, alluminato dal fiorentino Atavanti sul finire del
Quattrocento, con tale ricchezza d’oro, di minio al modo antico, di
oltremare al modo nuovo, e tanta varietà di figure e di fregi, dedotti
dalla natura materiale, dalla fantastica e dalla simbolica, impone
l’ammirazione anche ai più ritrosi. Meravigliosi corali dalla Certosa
di Pavia passarono in Brera a Milano: di bellissimi Antonio Cicognara
ne miniò pel duomo di Cremona, e nel 1484 un mazzo di tarocchi pel
cardinale Ascanio Sforza. E come che questa minuta maniera fosse
considerata di povero gusto, fatta per denari, ristretta a copiare
materialmente il vero, molti cultori trovò, fra’ quali primeggiarono
Girolamo de’ Libri, Liberale da Verona, don Giulio Clovio croato, e
Felice Ramelli suo scolaro, frà Eustachio, frà Filippo Lapaccini ed
altri Domenicani. Il breviario della Marciana, che fu del Grimani,
opera dell’Hemmeling, disputa il primato colle miniature di Stefano
Fouquet di Tours, oggi possedute dai Brentano di Francoforte.

Benvenuto Cellini, orefice e fonditore di cui altrove discorreremo,
unicamente a Michelangelo soffriva d’essere considerato inferiore;
nel suo Perseo risente dell’esagerazione dominante, ma è considerato
inarrivabile nel niello e nelle orificerie. Usavano allora ai berretti
medaglie d’oro, e Caradosso Foppa milanese le facea pagare non meno
di cento scudi l’una. Il Cellini, che lo reputava «il maggior maestro
che di tali cose avesse visto, e di lui più che di nessun altro aveva
invidia», ne fece di molte, e vezzi per gli arredi papali e per le
belle della Corte francese. La preziosità della materia fece perdere
molte delle opere sue; le rimaste non è prezzo che le adegui. E
forse tutti i grandi artisti si esercitarono anche in piccoli getti e
giojelli.

Le gemme non pareano lusso bastante se non fossero lavorate; e Giovanni
delle Corniole s’immortalò sotto il Magnifico Lorenzo, e fece uno
stupendo ritratto di frà Savonarola; Domenico de’ Cammei milanese
ritrasse Lodovico Moro in un rubino; Giovan Antonio milanese nel più
gran cammeo moderno ritrasse fin alle ginocchia Cosimo duca, Eleonora
sua e sette figli; il Raggio intagliò sopra una conchiglia l’inferno
di Dante, colle bolgie e i diversi supplizj. Una meraviglia sembrarono
i cristalli dei cinque fratelli Saracchi; uno dei quali pel duca
di Baviera fece una galea legata in oro e gioje, con schiavi negri,
artiglieria che sparava, vele e tutto; un vaso gli fu pagato seimila
scudi d’oro, oltre duemila lire di regalo. Jacopo da Trezzo scolpì
in diamante lo stemma di Carlo V, e per l’Escuriale di Madrid un
tabernacolo con otto colonne di diaspro e sanguigno e dovizia di statue
d’oro, di gemme.

Valerio vicentino (-1546) in gemme fece composizioni difficili, «con
una pratica così terribile, che non fu mai nessun del suo mestiere
che facesse più opere di lui» (Vasari). Una sua cassettina, con nove
compartimenti nel coperchio e nove nell’urna, storiati della vita di
Cristo, gli fu pagata duemila scudi da Clemente VII, che la regalò
a Francesco I in occasione delle nozze con Caterina de’ Medici. Una
d’argento con fregi e statue michelangiolesche e molti soggetti in
cristallo di rôcca, che come del Cellini mostrasi nel museo di Napoli,
è fatica di Giovan Bernardi di Castelbolognese. Matteo del Nazaro
veronese in un diaspro sanguigno fece una Deposizione dalla croce,
ove le macchie rosse figuravano il sangue; comprato a gran valuta da
Isabella d’Este marchesa di Mantova. Francesco I lo chiamò in Francia,
pensionato come artista non meno che come sonatore, poi gli diede
a lavorare alla zecca. Una serie d’intagliatori nostri continuò a
quella Corte, e di loro certamente sono i braccialetti in conchiglie
di Diana di Poitiers, che or s’ammirano al gabinetto imperiale di
Parigi. Girolamo del Prato cremonese, detto il Cellini lombardo, fece
nielli, medaglie, oreficerie, e un giojello che Milano donò a Carlo
V. In commessi di pietre dure lavorarono altri milanesi a Firenze
e in Francia: e sin dai Fiorentini erano allogate opere ad orefici
milanesi[78].

Molti mostrarono eccellenza nelle medaglie[79], altra imitazione degli
antichi; e ve n’ha de’ primi artisti, e principalmente del Pollajuolo.
Vittore Pisanello da Verona si applicò affatto a questo genere, che può
dirsi da lui creato, con teste finitissime e variate, e nel rovescio
belle invenzioni, trattate con vita e con ardito disegno. Gianpaolo
Poggi fiorentino lavorò alla corte di Filippo II: così Leon Leoni
aretino, e Pompeo suo figlio. Ma a migliorare le monete correnti si
pensò tardi, e coll’uso dello stampo.

Alcuni, preponendo il guadagno alla gloria, davansi a contraffare
l’antico, e Giovanni Cavino da Padova empì il mondo di medaglioni
falsi, mentre avrebbe potuto insignemente far di proprio. Michelangelo
disse essere giunta al colmo l’arte, quando vide una medaglia di
Alessandro Cesari, detto il Grechetto, che nel diritto rappresentava
Paolo III, nel rovescio Alessandro Magno che s’inchina al gran
sacerdote a Gerusalemme: il costui Focione non cede ad antichi. Anche
il baccanale, detto sigillo di Michelangelo, fu per un pezzo creduto
antico, ma si sa lavorato da Maria di Pescia.

Il magistero della tarsia (1549) fu vôlto principalmente a stalli di
coro e sacristia. Gli armadj di Santa Maria del Fiore di Benedetto
da Majano sono ammiratissimi, e più le opere ch’egli mandò a Mattia
Corvino. Frà Damiano da Bergamo, converso in quell’ordine de’
Domenicani, che di tanti artisti segnalossi, lavorò insignemente in
patria, ma più a Bologna pel coro di San Domenico, migliorando la
maestria de’ colori e degli scuri, tanto da emulare il dipinto[80]. A
suo fratello Stefano pajono da attribuire le tarsie ne’ Benedettini
di Perugia, su disegno del Sanzio o di Rafaellin del Colle o forse
di lui stesso. Altri compaesani lo imitarono, quali Lorenzo Zambelli
nel coro della cattedrale di Genova, a Bergamo i fratelli Capodiferro
da Lovere in quel di Santa Maria Maggiore, e Piero de’ Maffeis, e
i Belli: così furono lodati i Legnaghi e frà Rafaello da Brescia, i
Genesini da Lendinara, gl’Indovini da Sanseverino, in Milano Cristoforo
Santagostino, Giuseppe Guzzi, Giambattista e Santo Gorbetti. Padova,
Verona, Treviso, Venezia ebbero stupende tarsie da tre frati Olivetani,
il più celebre de’ quali, frà Giovanni da Montoliveto veronese,
chiamato da Giulio II, al Vaticano intagliò una bellissima porta su
disegno di Rafaello; oltre gli stalli di cui ora si vanta la cattedrale
di Siena. Fra varj che mostrano a Napoli, il coro di San Severino e
Sossio per Bartolomeo Chiarini e Benvenuto Tortelli di colà, dal 1550
al 65, è meraviglioso per varietà ed eleganza. Con quest’arte si posero
ai quadri cornici bellissime; e Rafaello fece lavorare porte e soffitte
in Vaticano da Giovanni Barile.

Sto per chiamare tarsie i chiaroscuri di pietre commesse, arte forse
nata, certo perfezionata a Siena nel meraviglioso pavimento del duomo,
da Duccio cominciato rozzamente, proseguito dai migliori, via via
raffinando sin al Beccafumi. I musaici di San Marco furono una scuola
continua in Venezia; ma di migliori se ne compirono a Roma.

Nell’arte delle finestre colorate ci vinceano Francesi e Fiamminghi.
Bramante chiamò maestro Claudio e frà Guglielmo di Marcillac per ornare
il palazzo Vaticano e Santa Maria al Popolo: l’ultimo arricchì d’altre
opere Arezzo, Firenze, Perugia, e fu maestro del colorire al Vasari,
che nel ripagò con un’affettuosa biografia. Artisti nostri in tal
genere troviamo Fabiano di Stagio Sassoli e Battista Porro aretini,
Pastorino Micheli da Siena, Maso Porro da Cortona, Visconti e Andrea
Postanti all’Incoronata di Lodi, un Alessandro fiorentino che fece
quelli di Santa Maria Novella a Firenze: ma non son certo de’ Vivarini
quelli in San Giovanni e Paolo a Venezia. Molti Gesuati applicaronsi a
questo artifizio.

Neppure negli smalti non raggiungemmo i forestieri; ma mentre questi
asseriscono che di translucidi se ne fecero soltanto nel cinquecento,
noi possiam mostrarne sin dal 1350 a Orvieto ed a Venezia.

L’arte delle majoliche, come accennammo (p. 15), fiorì a Urbino,
Pesaro, Gubbio e Casteldurante. In Pesaro l’artifizio era antico,
giovato dalla fina terra del Foglia (Isauro), ma risorse sotto gli
Sforzeschi, tanto che questi regalarono vasi, nel 1478, a Sisto IV.
Hanno la particolarità d’un lustro meraviglioso di vernice, quasi di
perla, che cangia di riflessi a ogni voltarsi. Dal 1500 al 1540 gli
artisti lavoravano su cartoni di Rafaello, comprati da Guidubaldo, che
ne fece disegnare anche da altri artisti, massime da Rafaele del Colle
e Battista Franco veneto. Giacomo Lanfranco trovò di mettervi l’oro
vero, e ne fece di forma antica con rilievi, ond’esso e la famiglia
ebbero il privilegio di tali manifatture. Francesco Maria donò alla
spezieria della Madonna di Loreto 300 vasi, la più parte disegnati dal
Franco, e che passano pei più belli: altri mandavansi a varie Corti,
storiati con fatti d’allora, o del Testamento, o della mitologia,
e talora con versi, ovvero con frutti, con amori, con allusioni,
con oscenità; o sbizzarrivasi in calamaj, gruppi, vasi magici,
rinfrescatoj: faceansi anche pavimenti a disegni.

Delle fabbriche d’Urbino la prima menzione cade nel 1477, poi nel 1501.
Giorgio Andreoli forma la gloria di Gubbio, eccellente non solo ne’
modelli, ma nella pittura e scultura, e introdusse il buono stile,
mentre quivi insegnava il segreto de’ colori rosso, verde, aureo e
argenteo, che aveva imparato in Lombardia. Morì dopo il 1552.

Di Casteldurante le produzioni erano grossolane finchè da Luca della
Robbia non s’imparò la maravigliosa vernice. Si valsero di disegni
di Rafaello, e dal 1535 all’80 ebbero i principali artisti, molti de’
quali andarono in colonia in altri paesi, ad Anversa, alle Jonie, in
Venezia. I fratelli Orazio e Camillo Fontana raggiunsero l’eccellenza,
e dietro loro il Piccolpassi, Luzio Dolce, Giustino Episcopi, Tommaso
Amantini, Taddeo Zuccari, che disegnò una credenza da donare a Filippo
di Spagna. Quivi le fabbriche durarono anche dopo che ne’ paesi
anzidetti erano cadute dopo il 1560, perchè mancò l’incoraggiamento, e
perchè s’introdussero le porcellane della Cina, superiori al certo per
finezza e colore, ma spoglie d’ogni merito artistico[81].

Altre majoliche lodatissime fabbricavansi ad Atri negli Abruzzi e
principalmente dai Grue.

Artisti italiani e l’italiano esempio diffusero il moderno gusto e la
correzione oltr’Alpi, e fecero abbandonare il gotico: del che il primo
esempio è forse nella sala della coronazione a Praga, e in una fabbrica
di Solesmes nella Turena del 1493. In Francia lo stesso Luigi XI, in
mezzo all’ignobile suo corteggio, apprezzò i meriti di Giovan Bellino.
Carlo VIII, invaghito della nostra coltura, menò di là dall’Api
artisti e artieri[82]; fece eseguire molti lavori, principalmente ad
Amboise, «da operai eccellenti scarpellini e pittori che avea menati
da Napoli» (COMMINES); e la sua tomba di marmo nero con figure di
bronzo dorato è del modenese Paganini. Francesco I, svegliato dal
funesto suo sogno della conquista d’Italia, si fece a Fontainebleau
un’Italia artifiziale, raccogliendovi i rottami del paese, al cui
naufragio avea troppo contribuito; e il maresciallo di Chaumont,
che governando il Milanese, avea procurato alleviare la servitù
col proteggere le arti, chiamò di quivi Andrea Solaro, che dipinse
il castello di Gaillon. Leonardo da Vinci avrebbe potuto educare
i Francesi non a contraffare i nostri, ma a studiare in che modo
operassero; non abbagliarli coll’entusiasmo, ma secondare la qualità
in essi dominante, l’intelligenza. Al contrario, col recare di colpo
la Francia a copiar l’Italia, le fu tolto il vantaggio del noviziato,
e affogata l’originalità nell’imitazione. Rosso de’ Rossi fiorentino,
quasi non esistesse pittura prima del grande stile, e non comprendendo
se non quella che sapeva, operava di pratica, e pretendendo non
seguire alcuno, cadeva nel fantastico; nella Trasfigurazione a Città
di Castello, collocò a’ piè del quadro una zingarata. Costui impiantò a
Parigi la scuola italiana, compatendo cotesti Francesi secchi, poveri;
pochi accettava a scolari, e a patto che rinnegassero le tradizioni
nazionali e ingenue, per assumere il teatrale, il lezioso; a compagni
preferiva i mediocri, onde adoperò Lorenzo Naldini allievo di Francesco
Rustici, il quale pure aveva lavorato colà; Antonio Mimi, Domenico del
Barbiere, Luca Penni, Bartolomeo Miniati, Francesco Caccianimici.

Il Primaticcio di Bologna, che gli succedette nella sovrantendenza
ai reali edifizj, derivava da Rafaello, ma erasi cambiato dopo visto
Michelangelo e sotto Giulio Romano, con cui lavorò nel palazzo del
Te; conservava dell’eleganza, ma credeva ai metodi di scuola. Decorò
la villa di Fontainebleau, e vi pose molte statue e modelli antichi:
v’ebbe a collaboratori Bagnacavallo, Ruggeri di Bologna, Prospero
Fontana, Nicolò dell’Abbate modenese, che tutti lasciarono opere in
Francia. Girolamo della Robbia, itovi nel 1530, ornò il palazzo di
Madrid nel bosco di Boulogne, con terraglie dipinte magnificamente,
alcune grandissime e con rilievi: ma tutto fu diroccato nel 1792, e
le opere vendute a un terrazziere, che le macinò per farne cemento.
Domenico Boccadoro di Cortona, nel disegnare il palazzo di città
a Parigi, non dimenticò i bisogni e il gusto del paese, onde le
larghissime finestre del pian terreno, la tettoja molto inclinata,
con forma monumentale. Il Vignola stette due anni a Parigi, il Serlio
vi morì, il Bellarmati, il Bellucci, Gianangelo da Montorsoli, altri
ed altri chiamati o venuti; sicchè Fontainebleau fu un museo d’opere
italiane e di copie, su cui si formarono alcuni buoni, quali Pietro
Lescot, Goujon, Cousin, Delorme, che per incarico di Caterina de’
Medici alzò il Louvre.

Contucci da Montesansovino fu in Portogallo; in Inghilterra Jacopo
Aconzio, Girolamo da Treviso e Toto della Nunziata; in Ispagna Leon
Leoni, l’Anguissola, il Pellegrini. Matteo Pietro Alesio romano dipinse
a Siviglia un san Cristoforo, le cui gambe al polpaccio han quattro
piedi di larghezza. Fu ammirato dagli anatomisti, ma egli, veduto un
Adamo di Luigi di Vargas, dichiarò: — Una gamba di questo vale ben più
che tutto il mio Cristoforo».

Pier Torrigiani, allevato negli orti di Lorenzo de’ Medici con
Michelangelo, prese ira contro di questo, e gli ruppe il naso;
fuggito, militò nelle truppe del Valentino, poi da mercanti si lasciò
condurre in Inghilterra, ove fu ammirato pel mausoleo di Enrico VII
nell’abbadia di Westminster. Per un grande di Spagna lavorò un bambin
Gesù, che fu trovato mirabile; e il committente per pagarlo gli mandò
a casa alcuni sacchi di denaro: ma svolgendoli trovò ch’erano piccole
monete, sommanti appena a trenta ducati; onde stizzito diè del martello
nell’opera propria. Il grande, in luogo di vergognarsi, ne volle
vendetta, e l’accusò come oltraggiatore d’immagine sacra; onde preso
dall’Inquisizione e messo allo spasimo, lasciossi morire.

Il czar Ivan, che allora tentava introdurre la Moscovia nella società
europea, chiese artisti nostri: e nel kremlin di Mosca, Aristotele
Fioravanti fabbricò la chiesa; Pierantonio Solaro nel 1487 il palazzo
detto di granito, terminato da Paolo Bossi genovese, da Marco ed
altri; Aloisio milanese vi fece il Belvedere, e finì l’Assunta con nove
cupole, e altre fabbriche, dove l’orientale era modificato secondo il
tipo italiano, che collocavasi a fianco alle piramidi del Messico e
alle pagode dell’India[83].



CAPITOLO CXLI.

Lingue dotte. Risorgimento della italiana. La Crusca. La Critica.


L’andamento medesimo che nelle arti, ricorre nella letteratura: alcuni
ricalcano l’antico, altri s’avventano al nuovo qual ch’egli sia; i
migliori temperano l’un coll’altro in sì felice accordo, da esser posti
fra’ classici anche dagli stranieri.

Già salutammo quel restauramento della retorica, che i pedanti venerano
come risorgimento dello spirito umano. Lo studio del latino viepiù
necessitava in Italia, donde occorreva di carteggiare con tutte le
nazioni, in tempo che scarsamente si conosceano i vulgari altrui: oltre
che quella lingua ci era una specie di vanto nazionale, portandoci
verso que’ gloriosi, che noi chiamiamo progenitori; e lo scrivere
pretto ciceroniano pareva avvicinasse ai tempi quando quelle parole
dalla tribuna esprimevano liberi sensi, e dal senato imperavano ai
Barbari, da cui adesso ci troviamo calpesti. Qui dunque fiorivano
solenni latinisti. Jacopo Sannazaro napoletano (1458-1530) seguitò
vent’anni a visitare tutti i giorni il cieco Francesco Poderico
sagacissimo critico, e leggergli i versi che avea composti, fin dieci
mutazioni facendone prima che n’uscisse uno approvato[84]. Purezza,
eleganza e virgiliana armonia spira il suo poema _De partu Virginis_:
ma Ninfe e Protei e Febi che hanno a fare coi dogmi più venerabili?
Chiede perdono alle Muse se le trae a cantare uno nato nel presepe;
l’Arcangelo che annunzia la beata Vergine, non è diverso da Mercurio;
il Giordano personificato narra l’ascensione di Cristo, qual la udì da
Proteo: arte pagana insomma attorno a soggetto sacro, alla guisa stessa
che sul suo sepolcro sorgono Apollo e Minerva, Fauni e ninfe, in chiesa
cristiana.

Miglior partito dal soggetto medesimo trasse il vescovo Girolamo Vida
cremonese, che nella _Cristiade_ (1566), se nol raggiunse in dolcezza
e dignità, mostra pietà verace, eppure ancora il Cristo è poco più che
un ricalco di Enea, l’uomo soffrente, non il Dio riparatore; e non che
tutta la natura sembri risentirsi alla grand’opera della redenzione, e
l’alito d’amore si spanda sovra le ire procaci, gli Angeli vorrebbero
far la vendetta del loro Dio. Insomma, nel mentre i poeti profani
formavano gli eroi più che uomini, e Giove e Plutone ingrandivano
accostandoli al tipo divino, i poeti sacri impicciolivano Cristo nelle
proporzioni d’un eroe.

Il Vida verseggiò pure con molta agevolezza l’_arte poetica_, il
_giuoco degli scacchi_, il _baco da seta_, affrontando la difficoltà di
precetti aridi e non mai espressi in latino; e dettò un buon trattato
_De optimo statu civitatis_. Girolamo Frascatoro veronese (-1553),
da medico e poeta volle figurare nella _Sifilide_, tema ributtante
ch’e’ rese tollerabile con belle digressioni e coll’armonia costante,
quantunque lontana dalla soavità di numero e dalla parsimonia di
Virgilio, a cui i retori lo assomigliano. Il Navagero talmente aborriva
dalle arguzie e dalle lambiccature di Marziale, che ogn’anno bruciava
alle Muse un’ecatombe di esemplari di quel poeta. Da lui intitolò
il Fracastoro un dialogo sopra la poesia, dove elevandosi sopra la
meschinità precettiva, ne colloca l’essenza nell’ideale, qual viene
inteso da una recentissima scuola filosofica.

Gabriele Faerno di Cremona, di cui si ignora ogni altra particolarità
che la sua modesta virtù e la protezione largitagli da Pio IV e da
Carlo Borromeo, stese cento favole esopiane in versi latini, destinate
alla gioventù quando Fedro non era stato scoperto; con tale limpidezza
e semplicità, che si credettero plagio di qualche antico. Il Flaminio
veronese gareggia coi lirici antichi.

Pier Angelo Bargeo canta la caccia coi cani e col vischio, e la
_Siriade_ o le crociate. Marcello Palingenio (_Zodiacus humanæ vitæ_),
in versi men belli de’ concetti, flagella la corruttela clericale.
Aggiungiamo Basilio Zanchi bergamasco, che per accuse ereticali
morì prigione di Paolo IV; tre fratelli Capilupi; cinque Amaltei,
_egregii fratres queis julia terra superbit_; Andrea Marone bresciano
improvvisatore, che l’Ariosto paragonò all’omonimo antico, e che morì
di fame nel sacco del 27; Aurelio Augurelli, che presentò a Leone X la
_Crisopeja_ o arte di far l’oro, e Leone spiritosamente il ricambiò con
una borsa vuota, acciocchè vi mettesse il metallo che creava.

Le lettere papali erano sempre state le meglio stese, e gli scrittori
di esse consideravansi successori legittimi dei retori antichi,
anzi perfino di Cassiodoro e di Virgilio, e presero luogo vicino
ai canonisti. Molti ne trattarono espresso[85], e distinguevano
dodici stili _curiali _ oltre gli stili poetici, fra cui principali
il Gregoriano, poi il Tulliano, l’Ilariano, l’Isidoriano, de’ quali
noi abbiamo smarrito la chiave. Ora potersi scriverle con purissima
eleganza dimostrarono il Sadoleto e il Bembo, al qual ultimo si
attribuisce l’avere insegnato ad imitar solo Cicerone, lasciando via
gli scrittori di bassa latinità: ma per quanto lodato, egli mi pare
aspro, e nella sua magnificenza ben lontano dalla schiettezza de’
classici.

Lazaro Bonamici da Bassano (-1552), filologo ai servigi del cardinal
Polo, nel sacco del 27 perdette i libri; poi a gara domandato a Padova,
a Vienna, in Polonia, in Francia, formò valentissimi scolari; con
criterio censurava le opere altrui, repugnava dallo scrivere italiano,
e diceva di amare men tosto esser papa, che parlare come Cicerone. Al
Beazzano da Treviso, autore di meschine poesie e spertissimo negli
affari, dopo che fu ridotto infermo dalla podagra, accorrevasi da
tutta Italia per consigli letterarj. Più tardi, i Volpi padovani furono
correttori della stamperia del Comino di Cittadella.

Giulio Cesare Scaligero (1484-1558) volea farsi frate sulla speranza
di diventar papa, onde ritorre ai Veneziani la sua Verona, da’ cui
antichi dominatori pretendeva discendere. È il primo moderno che
nella interminabile sua _Poetica_ pensasse ridurre a sistema l’arte
dei versi con copiosissimi esempj. Più di gusto che di genio, con
amore dell’eleganza non sentimento della forza, preferisce a Omero
l’_Eneide_, e fino l’_Ero e Leandro_; Orazio e Ovidio ai Greci, e con
molto artifizio sostiene un assunto che, preso alla spicciolata, non è
sempre paradossale. Rivede anche i moderni, fra i quali dà la palma al
Fracastoro, poi al Sannazaro e al Vida.

Francesco Arsilli, nell’elegia _De poetis urbanis_, loda più di cento
poeti latini viventi a Roma sotto Leone X. Dai loro contemporanei erano
paragonati ai classici: ed anche il facile Roscoe, che figurò buono
come lui il secolo di Leone X, ma nè il conobbe nè il fece conoscere,
pareggia que’ nostri umanisti e Giovian Pontano ai contemporanei
d’Augusto; come quando intitola grande il Bojardo, e pone l’_Arcadia_
del Sannazaro sopra quanto l’Italia avesse fin allora prodotto;
l’Italia di Dante.

I fantasticatori recenti d’una letteratura europea potrebbero trovarla
già in cotesti latinisti, che costituivano veramente una repubblica
universale, potente per questa medesima lingua e per l’accordo: ma il
latino non essendo più la lingua del pensiero, ne veniva uno sciagurato
divorzio tra questo e le parole; e lo studio della frase e dello
stile riusciva a scapito della naturalezza. Erasmo derideva i nostri
latinanti che non avventuravano parola la quale non fosse in Cicerone;
mentre (siccome qualche nostro contemporaneo pretese saper la storia
romana meglio di Tito Livio) egli presumea saper meglio di Cicerone
come scrivere latino. Ma essi stessi confondevansi; e intanto che
Lipsio e Aonio Paleario portano a cielo il latino di Paolo Giovio, lo
Scaligero il giudica affettato e lussuriante anzichè puro[86].

Quell’ostinazione di studj conduceva facilmente alla presunzione, ad
amare dell’antico fino la ruggine e le scorie, annichilare la propria
personalità per camuffarsi alla greca e alla romana. Abbagliati
non sapevano che ammirare; tutto vi ritrovavano bello ed uno; e
viepiù sprezzavano la bizzarra varietà e la complessità laboriosa
del medioevo e quel mondo di contrasti; vergognandosi d’essersi
inginocchiati a quell’idolo misto di fango e diamanti. E per vero
la scienza e la filosofia v’erano mancanti d’ogni gusto artistico,
sicchè allo svegliarsi della letteratura classica fu vantaggio il
considerarla principalmente dalla bellezza dello stile, e ravvivar così
il sentimento estetico. Sebbene si esagerasse, continuando diveniva
necessario volger lo studio de’ classici a sviluppare e crescere la
conoscenza dell’uomo, e non solo dello scrivere, ma del pensare chieder
loro lezioni; dall’esame della forma passare a quello della sostanza.

La purezza dello scrivere costava viepiù perchè dovea ciascuno per
fatica propria accattar voci, frasi, regole, ed accertarle; finchè
l’agostiniano Ambrogio Calepino da Bergamo diede fuori il vocabolario
(Reggio 1502), che d’edizione in edizione cresciuto, in quella di
Basilea del 1581 comprese ben undici lingue. E poichè non v’ha genìa
più litigiosa dei pedanti, ne pullulavano rinfacciamenti scambievoli,
e battaglie che s’appigliavano a tutto il regno letterario, tra il
Poliziano e Bartolomeo Scaligero, tra Fiorentini e Napoletani, in
proposito sempre di parole e parole.

Continuavasi a far buone edizioni, e stampatori eruditi apparvero
il Minuziano a Milano, i Giunti a Firenze e Venezia, il Torrentino
a Firenze e Mondovì, il Paganino a Venezia e Tusculano, il Viotto a
Parma. I Ferrari di Piacenza erigono stamperia a Milano e a Trino,
donde a Venezia; e perchè un d’essi, Gabriele, ito in Francia, fu
soprannomato _Joli_, prese il cognome di Giolito, e per impresa la
Fenice[87]. Costui non guardava a spesa per avere buoni correttori e
buone opere, e per lui lavoravano il Dolce, il Domenichi, il Doni,
il Brucioli, il Turchi, il Sansovino, il Fiorentino, il Bettussi,
il Toscanelli, il Baldelli; fece vulgarizzare Diodoro Siculo, Dione
Cassio, Onesandro, Appiano, Cicerone, Plinio; stampò un Ariosto
con begli intagli; eseguì la collana degli Storici greci, ideata
dal Porcacchi; in sua casa accoglievansi i principali Veneziani e
forestieri; Carlo V il fece nobile, re e papi gli concessero grazie.
Aldo Manuzio romano, stipite d’una famiglia di tipografi celebri a
Venezia, continuava a stampar Aristotele mentre le palle di Francesi e
Tedeschi sgomentavano la città; pubblicava Platone l’anno dell’eccidio
di Ravenna e di Brescia; poi mutatosi a Roma, formò una _Neoacademia_
dove ragionare di letteratura, e scegliere i lavori da stamparsi e
lezioni da preferire, e pose sulla porta del suo gabinetto: — Se vuoi
nulla, spicciati, e subito va; se pur non vieni come Ercole allo stanco
Atlante, per sottopor le spalle; chè in tal campo sempre vi sarà da
fare per te e per chiunque venga» (tom. VIII, pag. 367). Anche Pier
Vettori procurò eccellenti edizioni e vulgarizzamenti di classici.

Dilatavasi lo studio del greco; e Giovanni Lascari, Francesco
Porto, Marco Musuro e altri Greci qui formarono numerosi scolari,
principalmente a Firenze, che parea un’Atene risorta[88]; Varino
Favorino ne fece il primo dizionario dopo quello imperfetto del
Crestone (tom. VIII, pag. 325). La prima grammatica in latino scrisse
Urbano Valeriano, che lunghissimi viaggi avea compito sempre a piedi.
Anche le lingue orientali aveano cultori, e non vogliamo dimenticare il
dizionario perso-comano-latino, che il Petrarca lasciò alla repubblica
veneta, forse trascritto di suo pugno. A spese di Giulio II, Gregorio
Giorgi di Venezia pose a Fano la prima stamperia arabica che al mondo
fosse, e nel 1514 ne uscirono le Sette ore canoniche, e poco poi il
Corano per Paganino da Brescia. Pier Paolo Porro milanese stampò in
Genova nel 1516 il Salterio in greco, ebraico, arabo e caldeo per cura
di Agostino Giustiniani vescovo in Corsica, che possedeva ricchissima
biblioteca orientale, della quale fece dono a Genova; e che da re
Francesco chiamato a Parigi, primo v’introdusse le lingue orientali.
Il cardinale Ferdinando de’ Medici ne aprì a Roma stamperia; a Venezia
il Pomberg impresse la Bibbia in ebraico, assistito dal dottissimo frà
Felice da Prato. Angelo Canini d’Anghiari pubblicò gli _Ellenismi_,
e istituzioni per le lingue siriaca, assira, talmudica[89]. Teseo
Ambrogio pavese imparò moltissime lingue, e preparava un salterio in
caldaico, ma dal saccheggio di Pavia del 27 dispersi i libri e gli
apparecchi suoi, non potè dar fuori che l’introduzione alle lingue
caldaica, siriaca, armena e diciotto altre, con quaranta alfabeti, fra
i quali comprese i caratteri che adopera il demonio, mostratigli da un
adepto: opera che toglie la priorità a quella del Postel, giudicata
il primo tentativo di filologia comparata, e la vince in ampiezza ed
erudizione.

Anton Maria Conti detto Majoragio, che avvivò l’eloquenza a Milano e vi
eresse l’accademia de’ Trasformati (1555), accusato d’irreligione per
aver mutato il suo nome in Marcantonio, si scagiona davanti al senato
col dire che, mancando esempj classici di Anton Maria, non avrebbe
potuto scriverlo in latino pretto. Qual era più ridicola, l’accusa
o la discolpa? Moltiplicò opere d’erudizione, impugnò i Paradossi di
Cicerone, di che ripicchiollo caninamente Marco Nizolio, autore del
_Thesaurus ciceronianus_.

La principale biblioteca era sempre la Vaticana; vi tenea dietro quella
di San Marco a Venezia, dono del Bessarione; poi quelle di Urbino, di
Modena, di Torino.

Molti applicavano alle antichità, specialmente romane, Lorenzo de’
Medici pose una cattedra per insegnarle; Pomponio Leto e Rafaele
di Volterra scrissero sui magistrati, Marliano sulla topografia
dell’antica Roma, Robortello sul nome delle famiglie, Manuzio delle
leggi e della cittadinanza, Francesco Grapaldi delle case; della
milizia Francesco Patrizj, e meglio Gianantonio Valtrini gesuita
romano; il Panciroli delle dignità; Lucio Mauro, Andrea Fulvio, Lucio
Fannio e altri delle antichità di Roma. Benchè nato a Scio, Leone
Alazis o Allacci può arrogarsi all’Italia, ove sempre visse. Archeologi
zelanti voleano tutto spiegare, descrivere tutto: ma più pazienti che
ingegnosi, più di buon volere che di critica e di cognizioni sulla vita
degli antichi, facilmente erravano, o sminuzzavansi in meschinità;
i più non miravano che alla migliore intelligenza di Cicerone: tutti
poi ligi all’autorità, veneratori della virtù romana, e d’inconcussa
fede in Livio e Dionigi, che sì poco vagliono nelle antichità; in
Pomponio e Gellio, che ignorarono le istituzioni repubblicane; in
Tullio, ch’era men intento a vagliare la verità che a vincer le cause.
Pure un giudice rigoroso e competente, il Niebuhr, dà lode a que’
nostri, che raccogliendo a gran fatica una moltitudine di particolarità
isolate, giunsero a trarne ciò che nessun’opera avanzataci della
letteratura antica offriva, un’esposizione sistematica delle antichità
romane. Quanto fecero, conchiude egli, è prodigioso, e basterebbe per
assicurarli di fama immortale[90].

Piaceva radunare senza discernimento medaglie, iscrizioni, arnesi,
cimelj d’ogni sorta, d’ogni età, d’ogni nazione; nel qual genere
levò fama il _Museo_, dove Paolo Giovio, accattando e blandendo, avea
disposto di bellissime rarità e ritratti, dei quali stampò la prima
raccolta che si vedesse, intagliati in legno. Enea Vico da Venezia
primo trattò _sulle medaglie degli antichi_; e Sebastiano Erizzo, suo
compatrioto, pose i fondamenti della numismatica.

Onofrio Panvinio veronese (1529-68) fu de’ primi a sentire l’importanza
delle iscrizioni; interpretò alcune non prima intese, e pubblicò le
più importanti, ben avanti del Grutero, che non gli rese giustizia;
fu anzi il primo a ideare una collezione generale delle epigrafi
antiche, e ne dedusse la cronologia de’ tempi romani, la serie de’
consoli e degli imperatori, e notizie sulla religione, i costumi, il
governo, le dignità, gli uffizj, le tribù, le legioni, le vie, gli
edifizj pubblici, i magistrati municipali, i giuochi; conobbe falsi
i frammenti di Annio da Viterbo (tom. VIII, pag. 341); aggiungete una
cronaca universale dalla creazione fin a’ suoi tempi, un ritratto del
mondo abitabile, ed altre opere viepiù maravigliose a chi guardi la
brevissima sua vita. Da Marcello Cervino esortato poi a volgersi alle
antichità sacre come più convenienti ad ecclesiastico, raccolse immensi
materiali; di cui furono stampati il _Primato di San Pietro_ contro
i centuriatori di Magdeburgo, le note alle vite dei papi del Platina,
le sette basiliche di Roma, delle sepolture cristiane; altri giaciono
inediti[91] o incompiuti, fra cui gli _Annali ecclesiastici_.

Con maturità e più accertate cognizioni Carlo Sigonio da Modena
(1520-84) illustrò le romane antichità, i fasti consolari, il diritto
romano (italico) e provinciale. Dopo la storia dell’impero occidentale
da Domiziano ed Augustolo, primo ardì quella del regno d’Italia
dai Longobardi sino al 1286; non traendo lume che dagli archivj,
sicchè, malgrado gli errori, vuolsi venerare qual rinnovatore della
diplomatica. Descrisse la repubblica degli Ebrei, quasi specchio alle
costituzioni moderne. Premesso con Aristotele, che scopo d’ogni civile
consorzio è conciliare l’utile col giusto, vuole si abbiano consigli
occupati dei vantaggi della nazione, magistrati che non permettano
di disgiunger da questi la giustizia, un capo che gli uni e gli altri
convochi, distribuisca loro gli affari; il che tutto pargli fosse tra
gli Ebrei felicemente combinato[92].

Pirro Ligorio napoletano per tutta Italia raccolse e disegnò
iscrizioni, formando trenta volumi d’antichità, rimasti inediti e
preziosi, malgrado i troppi errori. Mariangelo Accorso di Aquila,
che visse trentatre anni alla corte di Carlo V, e per suo servizio
viaggiò nel Settentrione, fu de’ più attenti antiquarj; adunò parecchi
monumenti, che pose in Campidoglio; corresse molti passi di autori.
Celso Cittadini avea pur fatto una raccolta d’iscrizioni: altre
particolari di paesi servirono di fondamento alle storie municipali
di Verona, Brescia, Como, Faenza, e alla milanese di Andrea Alciato
(1492-1550).

Quest’ultimo, scolaro degli altri celebri Giasone del Maino e Carlo
Ruino, a ventun anno pubblicò le note sui tre ultimi libri degli
_Istituti_ di Giustiniano, poi i paradossi del diritto civile, che
lo fecero da alcuni riprovare come novatore, da altri levar a cielo.
Ricco d’onnimoda letteratura, come ne diè prova in opere variatissime,
rappresenta il progresso della giurisprudenza dall’autorità al
raziocinio. Quanto alla Bibbia i teologi, tanta venerazione i giuristi
professavano pei codici romani; riverendone il testo, senza osar
più che qualche correzione o variante (_glossa interlinare_). Si
procedette poi alla interpretazione logica (_glossa marginale_), che
diede prevalenza al criterio personale sopra l’objettivo, passando
dalla scuola d’Irnerio a quella d’Accursio, ma sempre con una specie
di fede nell’accordo tra la parola e il senso logico della legge.
Questa fede diminuisce allorchè Bartolo crea il _Commento_, dove la
dialettica è considerata come mezzo per ottenere la vera conoscenza
del diritto. Ma della dialettica si abusò, con interminabili teoriche,
definizioni, cautele degenerando nella sofistica. Di questa l’Alciato
rivela gli abusi, e come i professori insegnassero le industrie di
fare, con parole, sembrar forte una causa debole, e sottoporre la
verità all’interesse: Barbazia, Giason del Majno, Parisio davano
consulti, dove il sofisma facilmente si scopriva; ma Decio e Bartolomeo
Socino mentivano con finezza tale da ingannare i pratici. Decio poi
a’ suoi consulti metteva soltanto la soscrizione, perchè così diceva
non avere già affermato che quello fosse il diritto, ma scritto solo
perchè la materia si prestasse meglio alla meditazione. Sannazaro,
tanto per contentare il cliente, mutava qualche circostanza del fatto,
sicchè il consulto procedeva legalmente, ma inutile. Paolo di Castro
e Lupo asserivano d’avere scritto non consulti, ma allegazioni, nè in
conseguenza doversi esigerne il vero a puntino (_Parergon juris_, lib.
XII, c. 12).

Siffatto abuso della logica rendeva inestricabili le liti, irreperibile
il vero. Si cercò orizzontarsi mediante l’autorità de’ grandi
giureconsulti, ma con ciò la scienza sottometteasi alla tradizione
scientifica, e non si facea che accumulare autorità, fra le quali
la legge veniva sagrificata all’opinione collettiva: e Giason del
Majno, campione di questa scuola, diceva che, dove urtino la verità
e l’opinione comune, questa deve preferirsi a quella... l’errore
comune costituisce diritto e si ha per verità (Lib. I, § _testes cod.
de Testamento_). Di questo sottoporre il vero a un criterio legale
dolevasi l’Alciato, e che si consumasse un intero semestre a porre
in bilancia le opinioni dell’Aretino, di Socino, di Carlo Ruino, e
confutare una sentenza accettata, con molta ambizione e pochissimo
senno (_Prælatio in bononiensi schola_, an. 1550). Ma quell’ardimento
che il raziocinio veniva prendendo anche nelle cose di fede, s’applicò
alla giurisperizia, e l’Alciato n’ha il merito (per dirlo alla
moderna), proclamando la superiorità della ragione individuale nel
conoscere la vera realità del diritto positivo nella sua idealità, e
tradurlo a tutte le conseguenze teoriche e pratiche della vita sociale
in armonia colla religione. «Omesse (dic’egli nella prolusione di
Pavia) le ambagi degli entimemi, più atte a ostentare ingegno che a
compier la dottrina, riferirò in breve quel che s’abbia a sentire,
e francheggerò l’interpretazione nostra con ragioni che bastino a
rimuover le contraddizioni altrui». Opponeva dunque al formalismo
dialettico la libera ragione. Per iscoprire poi il senso intimo della
legge, ricorreva all’erudizione, che pondera i tempi, gli usi, le
circostanze da cui ne fu accompagnata la formazione; colla storia
migliorando il criterio objettivo.

Nascea da ciò la necessità di studiare i classici; onde gli derivò
una inusitata bellezza di forme. E della filologia si valse a
emendar varj passi del _Corpus juris_; industrie frammentarie, che
avviavano alle sistematiche de’ moderni. Il testo rettificato volea
costantemente premesso al commento, affinchè mai non se ne dimenticasse
la realità, come era avvenuto agli scolari di Bartolo. La ragione è la
perfezionatrice della realtà del diritto; del quale il senso più che la
parola deve considerarsi. In conseguenza dedusse dai commentatori molti
principj scientifici sconnessi, che coordinò sotto tre regole capitali
intorno alle presunzioni.

In questo sforzo di emancipar la ragione dalla tradizione,
l’individualità dall’autorità, s’inchinò sempre al dogma, e pose il
diritto canonico per limite al romano. Che se le forze d’un solo non
bastavano a compiere il passaggio dal medioevo ai moderni, aprì la via
ai tre grandi lavori che restavano a fare d’archeologia storica, di
filosofia del diritto positivo, di conciliazione fra i due elementi
predetti; imprese serbate a Cujaccio, Donello, Domat[93].

L’Alciato godette di fama estesissima; ad Avignone ebbe seicento
scudi di stipendio, settecento scolari e le divise di conte palatino;
professò a Bourges per seicento scudi, e volendo partirne, il re
gliene aggiunse trecento, il Delfino gli regalò una medaglia che
ne valea quattrocento, e Francesco I sedè qualche volta fra’ suoi
uditori. Non ancora contento, l’Alciato si partì, e lesse a Pavia per
millecinquecento scudi, poi a Bologna, a Ferrara, senza mai chiamarsi
soddisfatto. — Son richiesto (scriveva egli) da tutte le parti del
mondo, da Inglesi, da Sassoni, da Belgi, da Pannoni; tanto non v’è
luogo, che dagli scritti o dalla fama non conosca l’Alciato: testè mi
scrisse Giovan Caspiano presidente al senato in Austria, testè Claudio
Metense da Basilea, ed altri dotti».

Alcuni delle forme e del linguaggio degli antichi valeansi a materie
nuove, come gli storici, i filosofi, e coloro che agitavano vive
quistioni civili, ai quali ben tosto aprì vastissimo arringo la
Riforma. Allora quest’erudizione, che placidamente armeggiava sui
classici e in disquisizioni di parole, venne sospetta dacchè i novatori
la spinsero nei campi della fede: poi studj più attuali le tolsero
il primato; mentre dal 1491 al 1500 eransi stampate quattromila
cencinquantotto opere, appena settecento ventitre ne comparvero fin
al 1513; e Aldo Manuzio racconta che, nell’ora di far lezione, egli
stava passeggiando davanti alla vuota Università romana, attesochè le
lingue vive aveano occupato il posto delle classiche, ridotte a erudita
curiosità.

Quegli studj aveano certamente giovato anche all’italiano, come la
grammatica ai bambini; ma vi introdussero l’artifiziato periodare,
le disdicevoli trasposizioni, la mescolanza di congiunzioni latine; e
l’ermafrodita pedanteria guastava fin lo stile epistolare e domestico,
e insegnava un’aria pomposa e cortigiana, e ciò che più rincresce,
adulazioni svergognate; perchè lo scrivere consideravasi come un’arte,
non come una manifestazione. Tanto le colpe letterarie toccano alle
morali.

Coloro che dallo studio del latino traevano il pane, n’esageravano
l’importanza a segno, da pretendere che l’italiano fosse indegno delle
scienze. È noto che il Bembo suggeriva all’Ariosto di scrivere il
suo Orlando in latino. Alla coronazione di Carlo V, Romolo Amaseo,
arringando davanti a questo e al papa, sostenne doversi lasciar
l’italiano ai trecconi e al vulgo da cui trae il nome. Gli fecero eco
Pietro Bargeo in un’orazione allo studio di Pisa, Celio Calcagnini
e Bartolomeo Ricci ne’ trattati dell’imitazione, Francesco Florido
nell’apologia di Plauto, Giambattista Gorneo in un paradosso agli
Infiammati di Mantova, altri ed altri, fin all’illustre Sigonio.

Siffatta preminenza avea fatto negligere l’italiano; dico dai dotti,
perocchè vi fu sempre chi l’adoprò; e a non nominare Leonardo da Vinci
e l’Alberti e qualche altro scienziato, più alle cose intenti che alle
parole, bastino le soavissime prose di Feo Belcari, nobile fiorentino
che si serbò semplice in tempo di stile latineggiante e intralciato.
Qual carissima semplicità nella sua vita del beato Colombini! e la
castissima dettatura delle molte sue laudi e rappresentazioni convince
come fosse tutt’altra che perita la poesia italiana.

A questa Lorenzo de’ Medici giovò con una protezione meglio
ragionata che il padre, e col proprio esempio. Per imitare il
Petrarca, anzichè per passione, celebrò egli la Lucrezia Donati
con sottilità platoniche; non infelicemente tentò le pastorali e
la satira, e canti carnascialeschi per le feste, che, a spesa e
direzione sua, rallegravano il carnevale. L’_Ambra_ sua villa encomiò
in un poema; nella _Nencia da Barberino_ in dialetto contadinesco
amoreggiò una campagnuola con inarrivabile vivacità e naturalezza;
nell’_Altercazione_ espose concetti di filosofia platonica, e ne’
_Beoni_ una satira dell’ubbriachezza. Inspirato dalla madre, compose
anche laudi sacre, che si cantavano come quelle di frà Savonarola (tom.
VIII, pag. 299).

Dalla scuola di Angelo Poliziano (1454-94), il quale vantavasi che da
mille anni nessun maestro d’eloquenza latina ebbe tali e tanti scolari,
uscirono Guglielmo Grocin, da poi professore di greco ad Oxford;
Tommaso Linacre, amico del cancelliere inglese Tommaso Moro; Dionigi,
fratello dell’eruditissimo Reuclin; i due figli di Giovanni di Tessira
cancelliere di Portogallo; ed altri, esaltati da Erasmo. Chi la prima
volta vedesse il Poliziano in cattedra con naso sformato, occhio losco,
collo tozzo, pigliavane disgusto: ma se schiudesse una voce dolce
e vibrante, quella parola simile a un mazzo di fiori, quella frase
tutta sali attici, faceano ben tosto dimenticare i torti di natura
(GIOVIO); mentre egli s’infervorava, e sapea trasfondere le proprie
emozioni nell’anima degli uditori. Gran gusto prendeva ai Bucolici;
e incontrandovi lodata la felicità campestre, deponeva il libro e
improvvisava su questa, non dimenticando nè il susurro dell’aria che
fa ondeggiar le coniche vette del cipresso, nè la voce mormorante dei
pini, nè quella del rivo serpeggiante sui ciottoli coloriti, nè l’eco
che ripete le armonie. E tutti accorrevano alla chiesa di San Paolo
dove egli era priore; uno con una spada alla mano, di cui non sapea
leggere le sigle misteriose; uno a chiedergli un’epigrafe pel suo
studio; un terzo una divisa; un quarto epitalamj o canzoni. «Appena
mi rimane tempo da scrivere (esclama): fin il breviario bisogna ch’io
interrompa».

Di mezzo agli studj filosofici e filologici, egli compose con maggior
arte d’italiano le _Stanze_ per la giostra di Giuliano Medici,
con bellezza compassata ed elegante, non nerboruta e impetuosa; da
paragonare a Cosimo Rosselli e alla scuola sua, staccata dalla prisca
ingenuità per copiare il vero e l’antico. Le lasciò incompiute, ma
dopo alzata l’ottava a magnificenza degna de’ grandi epici che vennero
dietro. Ad istanza del cardinale Gonzaga, distese in due giorni il
più antico melodramma, l’_Orfeo_, dove alla dolcezza dei Bucolici di
Virgilio unì la spettacolosa libertà delle rappresentazioni medievali
(tom. VIII, pag. 438).

Giusto de’ Conti al modo petrarchesco cantò la _Bella mano_ della
sua donna. Girolamo Benivieni l’amor divino espose con idee elevate,
ma stile incondito. L’inno alla morte, di Pandolfo Collenuccio,
s’invigorisce di civile filosofia.

Il Sannazaro suddetto fece quel che in Portogallo già si usava, il
romanzo pastorale in prosa numerosa mescolata di versi; ma versi
manierati, a cui volle aggiungere l’inarmonica difficoltà delle rime
sdrucciole; e prosa rabberciata di latinismi, a zeppe, a parentesi, a
trasposizioni; per quanto vive esprima alcune pitture, e veraci alcuni
affetti. Studiò Teocrito, il quale non avea studiato la natura; e
figurò i pastori colti d’ingegno e raffinati di sentimento. Poi _alle
Camene lasciar fe i monti ed abitar le arene_, inventando le egloghe
pescatorie, ancor più artifiziate, sebbene ispirar lo dovessero le
spiaggie della sua Mergellina, le più belle che il sole indori.

L’italiano colto era dunque ridesto, ma non vi si tornava
coll’ingenuità primitiva, sibbene colla riflessione, collo studio,
coll’imitazione; e in conseguenza camminò manierato, pretensivo,
anzichè analitico e svelto qual si parla da chi parla bene. Considerata
la lingua come una fattura de’ letterati, ne conseguiva che i letterati
potessero a voglia regolarla; onde comparvero grammatiche[94] e
discussioni e sofisticamenti sull’indole e sugli usi di quella che
due secoli innanzi era stata adoperata insignemente. Il Boccaccio, in
grazia spesso di quel che n’è meno imitabile, fu preso per canone,
posponendo la casta semplicità de’ suoi predecessori ai costrutti
singolari e alle eleganti giaciture. Sovra lui sottigliò Pietro Bembo
nobile veneto (1470-1547), che chiamarono balio della lingua. Avea
quaranta portafogli, dall’un all’altro dei quali passava le sue carte,
correggendole man mano; e ci ripetono, — Egli è una prova che può
scriversi pretto senz’essere nato sull’Arno». Ma (oltre sapersi che
suo padre, letterato dottissimo e operoso magistrato, il portò seco a
Firenze in età di otto anni), quel suo non ismontar mai da’ trampoli,
non dettar mai naturale, rivela che non ha nativa la lingua; fin le
epistole egli lavora a tessello di frasi altrui e strascico di periodi
e ricorrenti latinismi, senza vigore mai. Le sue _Regole grammaticali_
ebbero quattordici ristampe, ma trovarono molti contraddittori; il
Castelvetro, il Caro, il Sannazaro, gli Accademici Fiorentini le
appuntarono, e chiarirono che neppur esso autore vi si atteneva: e
di fatto non posano su verun fondamento razionale, nè allargansi a
comprensioni generali.

Caterina Cornaro, rinunziato il regno di Cipro alla Repubblica
veneta, si ritirò ad Asolo, castello sopra Treviso, alle prime falde
dell’Alpi, e fattane signora con un assegno di ottomila ducati, vi
spiegava qualche lembo avanzatole del manto regio, alla corte fastosa
di ottanta servi e dodici damigelle, e giuliva di mille delizie,
aggiungendo la compagnia di letterati e artisti, visitata or da Teodora
d’Aragona moglie d’un Sanseverino, or dal marchese di Mantova, ora
dal cardinale Zeno, più spesso da Pandolfo Malatesta di Rimini, che
venivano a godervi caccie, pesche, corse, balli, o le nozze di qualche
a lei prediletta. E v’interveniva giovinetto galante il Bembo, e
v’ideava i dialoghi _degli Asolani_ «per esortar i giovani ad amare»;
introducendo però un Dardi Giorgio, pio solitario, che dal terreno li
solleva all’amor divino. Danno per isquisita la canzone sua in morte
del fratello, e i sonetti in morte della Morosini, madre de’ suoi
figliuoli: ma il cuore non mel disse. Insomma, di tanti che il lodano,
quanti lo lessero? Guarda un’opera sua, tu credi sempre che tanta
fama sia dovuta a un’altra; ogni encomio si conchiude nella compassata
eleganza: ma a questa si può giungere colla fatica, e perciò molti lo
tolsero ad imitare fra que’ tanti che cercavano, non qual cosa dire, ma
come dirla.

Non sarà superfluo l’avvertire come gli Italiani, ogniqualvolta
peggio soffrivano e si trovavano precluse le disquisizioni politiche,
si buttarono sopra quelle della lingua, quasi una protesta della
nazionalità che ad essi voleasi strappare. E il fecero allora. Il
Giambullari nel _Gello_ tolse a derivar la nostra dall’etrusca, che
è ignota, ma che supponeva affine all’ebraica, donde i suoi fautori
si dissero Aramei. Celso Cittadini la facea vissuta fin ai tempi di
Roma antica; ma la filologia comparata era sì bambina da non recar a
distinguere la maternità dalla fratellanza. Peggio litigarono sul nome.
Il Trissino vicentino la voleva detta italiana; fiorentina il Varchi e
il Bembo; senese il Bargagli e il Bulgarini; toscana Claudio Tolomei;
il Muzio, ribattendo l’Amaseo che la rilegava nel trivio, voleva che
la lingua fosse desunta da ciascuna città e provincia d’Italia «come
un’insalata di diverse erbe e di diversi fiori», asserendo che «non
i fiumi toschi, Ma il _ciel_, l’arte, lo studio e ’l santo amore Dan
spirito e vita ai nomi ed alle carte»: contro Bartolomeo Cavalcanti,
che trovava lo stile del Machiavelli incomparabilmente superiore a
quel del Boccaccio, sostenne che questo s’addice ad ogni maniera di
componimento: contro il Varchi lanciò deboli ragioni con violenza, e
quasi sapesse la lingua meglio di loro, appunta modi del Ruscelli, del
Dolce, del Castelvetro, del Machiavelli, del Guicciardini: contro Dante
pure s’avventò, nel che lo contraddisse il Cittadini. E su tutto ciò
si compilarono libri senza fine, che meglio avrebbero sciolto il nodo
adoprando essa lingua ad alcun che di elevato e degno.

Il Salviati[95] rabbuffa il Muzio e il Trissino e gli altri
_forestieri_, «i quali pronunziando la loro favella in maniera che
scrivere non si possono le loro parole nè senza risa ascoltare, ci
motteggiano nella pronunzia, e dannano in noi la virtù che si disperano
di poter mai ottenere... A tutte le cose che da coloro contro la nostra
lingua si son volute dire, bastata sarebbe questa risposta sola, che
essi niuna cosa propongono, niuna ne vogliono provare, che mai allegano
uno scrittore che di Firenze non sia. E che nuovo linguaggio, che
inaudita rimescolanza, che centauro, che chimera, che mostro sarebbe
quello, quando pur anche far si potesse, un mescuglio di vocaboli
di forse trenta diverse lingue? E dove mai e quando mai fu veduta
scrittura di questa guisa, o come la siffatta dir si potrebbe lingua,
se lingua non è quella, la quale o da alcun popolo non si favelli, o la
quale alcun popolo per alcun tempo non abbia mai favellata? Chi sarebbe
che la intendesse pur mediocremente? dove s’avrebbe a far capo, dove
a ricorrere per le proprietà? e in qual guisa maravigliosa andarono
questi nostri per tutto il corso della loro vita passeggiando per tutta
Italia a prendere cento vocaboli di Romagna, trecento di tutte le terre
di Lombardia, altrettanto di Napoli e suo reame, e finalmente dieci
di quel paese e quattro di quel castello? Che fatica, che stento, che
infelicità convenne che fosse la loro in quel tempo!» Insomma vorrebbe
lo scrittore fosse nato in Firenze, poi studiasse in Dante, Petrarca,
Boccaccio e negli altri trecentisti la legatura delle parole e lo
stile: lo che rese tanto difficile lo scriver bene, all’imitazione
degli antichi dovendosi aggiungere l’imitazione dei moderni.

Sono le controversie che si rinnovano di tempo in tempo, discutendo
sulle parole, invece d’occuparsi di cose; rimestando la tavolozza,
invece di dipingere. Parve poi fatale da que’ primordj fino alla
umanità odierna, che contraddittori e apologisti credessero ragioni le
villanie, non s’elevassero mai alla natura dei linguaggi e al paragone
di ciò che negli altri paesi intervenne, e, per angusto municipalismo,
negassero la preminenza ai Toscani quegli stessi che pescano toscane
eleganze per parer belli; impugnando così, almeno in teorica,
quell’unità della lingua che ad altre unità è scala e suggello.

Già il Tolomei avea proposto di levare l’_h_ da _hora, dishonore,
havea_; ma con più senno voleva il Trissino distinguere l’_i_ dall’_j_,
l’_u_ dalla _v_, smettere la _ph_ per _f_, il _th_ per _z_; e coll’η,
ed ε, coll’ο e ω greci discernere il suono stretto o largo di queste
due vocali. Sciaguratamente egli adoprò quest’ortografia in un poema
illaudabile, e non essendo toscano, errò nell’applicazione, onde gli si
levarono addosso le beffe, massime dal Firenzuola; eterno modo anche
questo d’impacciare le cose buone! Alcune di siffatte innovazioni
prevalsero, le altre rimangono desiderate.

Particolare attenzione alle regole della lingua si applicò quando cadde
la libertà fiorentina, cioè quando cessarono i grandi scrittori; e
fu istituita anche una cattedra di italiano per Diomede Borghese, il
quale con quarant’anni di studio pretendeva avere ottenuto il titolo
di arbitro e regolatore della toscana favella. I malcontenti dei
Medici, per avere un pretesto di adunarsi, proposero di emendare il
_Decamerone_, guasto nelle varie stampe; e l’edizione fatta dal Giunti
nel 1527 è cercata come un lavoro di partito. E perchè il Decamerone si
teneva pel libro più utile, ma insieme pericolosissimo al buon costume,
fu commesso al Salviati di prepararne una lezione castigata, per la
quale gli toccarono i vituperj che al pittore Braghettone.

Continuò quella fratellanza nell’accademia degli Umidi, la quale
adunavasi in casa di Giuseppe Mazzuoli, «cittadino (com’egli diceva)
senza stato, soldato senza condizione, profeta come Cassandra», che
avea combattuto nelle Bande nere, poi all’assedio; poi fatto vecchio,
ma sempre sollazzevole ed amoroso dei giovani, molti ne univa, i
quali «ancorchè fussino la maggior parte in esercizj mercantili
occupati, pure si promettevano tanta grazia dalle stelle e dalla
natura, che bastava lor l’animo a render conto dei casi loro in
simile professione»[96]. Cosmo, conoscendo l’astuzia del farsi serve
le lettere col proteggerle, cominciò a dare a questi giovani il
titolo più lauto di Accademia Fiorentina, poi stanza nel suo palazzo,
e pubblicità, e prebende, e fin privilegio di fôro; per quanto
il Mazzuoli si dolesse di questo voler il duca tirare tutto a sè.
Propostosi a studio speciale la lingua, i membri di essa si buttarono a
leggere dissertazioni sopra un sonetto, un verso, una parola di qualche
classico, e principalmente del Petrarca; e poichè ciascuno voleva avere
esordio, perorazione e congrua lunghezza, considerate quanto sciupìo
di parole in un secolo già tanto verboso! Saviamente pensando che
gioverebbe alla lingua l’esercitarla in traduzioni, il duca ne commise
molte ad essi accademici, come di Aristotele al Segni, di Boezio al
Varchi, di Platone al Dati, e via là.

Nojati dallo stillar quintessenze, i membri di essa Giambattista Dati,
Anton Francesco Grazzini, Bernardo Canigiani, Bernardo Zanchini e
Bastiani de’ Rossi fecero scisma, e raccoglieansi ad altre tornate che
chiamavano _stravizj_, perchè rallegrate dall’amenità del luogo, da
festivo cicalare, da squisite cenette[97]. Pier Salviati gli esortò a
dare a quei ritrovi alcuno scopo certo, senza abbandonare l’originaria
giovialità; onde formarono un’accademia che per celia battezzarono
della _Crusca_, togliendo per emblema il frullone, per seggiole le
gerle del pane rovesciate cui serve di spalliera una pala da grano, per
sedia dell’arciconsolo tre macine, e ognuno un nome da tali simboli,
l’Infarinato, l’Inferigno, il Rimenato, l’Insaccato; Grazzini volle
ritenere il titolo suo primitivo di Lasca, perchè questo pesciattolo
a friggerlo s’infarina. Continuarono così a mandar fuori cicalate
bizzarre, finchè assunsero di compilare il vocabolario della Crusca,
sgomento dei pedanti, beffa dei frivoli, che non vogliono conoscerne
l’intento e l’uso.

Quantunque persuasi che la favella d’una nazione sia un dialetto
elevato alla dignità di lingua scritta, e che in Italia il fiorentino
meriti questo vanto, gli Accademici non s’accontentarono (come poi col
parigino fecero quelli di Francia) di dare tutte le voci dell’idioma
toscano, ma le rinfiancarono d’esempj. I filologi, che allora
s’abbaruffavano sopra il valore di parole latine, non poteano risolvere
che per esempj scritti; l’illustrazione de’ Classici era l’oggetto
di moltissime opere, di moltissime accademie, e singolarmente della
fiorentina; il quale andazzo portò i Cruscanti a voler munire ogni voce
e i varj significati di essa con testi, credendo dare autorità ai modi,
e chiarire il senso degli autori[98].

Ma poichè negli autori non si trova che la minor parte della lingua,
i Cruscanti ricorsero a scritture ove abbondano le parole d’uso
famigliare, come ricettarj, zibaldoni da bottega, e somiglianti. Di
più si fece; e alcuno prese a scrivere componimenti col preciso scopo
d’inserirvi voci di cui gli esempj mancassero, quali furono la _Fiera_
e la _Tancia_ del Buonarroti. Non sarebbe tornato più speditivo il
mettere a catalogo le voci stesse, quali s’udivano dal popolo? io lo
credo; e crederò sempre rimanga ancora questo bel compito a qualche
Toscano, che voglia offrire un vocabolario non voluminoso e da pochi,
ma usuale e da tutti. Quale però fu fatto dagli Accademici, ha il
merito, per quel tempo rilevantissimo, di spiegare i Classici.

In tal lavoro essi errarono spesso, non sempre usarono testi corretti,
benchè l’emenda di questi fosse una delle loro applicazioni; non
registrarono a pezza tutte le voci neppur d’essi autori; diedero per
vivo ciò che era quattriduano, per comune ciò che era d’un luogo o d’un
tempo particolare; fin errori e storpiature registrarono, pel proposito
di spiegare gli autori. Sovrattutto erano vacillanti nella grammatica,
allora in fasce, scarsi nella critica, nata appena. Quindi pecche
vere, confessate da essi medesimi nella prefazione, riparate via via
nelle stampe successive, ma lasciandone altre che diedero facile messe
a chi volle appuntarneli, o supplirne le dimenticanze. Sensatissime e
pizzicanti e miniera ai futuri sono le postille che vi pose Alessandro
Tassoni, appena uscito il Vocabolario, con frizzo più pungente che non
si dovesse aspettare da un accademico. Benedetto Fioretti pistojese
(che, con vocabolo composto di tre idiomi, s’intitolò Udeno Nisieli,
cioè uomo di nessuno se non di Dio) pose saviissime note in margine a
una copia che, comperata a caro prezzo, giovò alle posteriori edizioni
del Vocabolario. Il quale resterà come bel monumento storico: e noi,
aborrendo le scurrilità lanciategli, lo abbandoneremo solo quando ci
abbiano forniti d’uno migliore.

Ma a ciò si richiedono condizioni, che non sono letterarie. E del
resto le quistioni della lingua si vincono coll’adoprarla a qualcosa
di utile e di grande; e quel secolo abbondò di scrittori che parvero
rinfrescare il Trecento, ingentilendolo. Bizzarria, disordine, spirito
religioso sopravviveva ancora nei meno accurati, e una fecondità
quale di giovinetti appena buttati nel mondo; ma tutto veniva alterato
dall’educazione, e poco a poco la coltura sottentrava all’originalità,
il lenocinio alla robustezza: la prosa, non più abbandonata al caso e
al sentimento, prendeva ordine, e spogliavasi dell’affettazione latina,
pur vestendo graziosi costrutti ed eleganti giaciture.

Monsignor Giovanni Della Casa da Mugello (1503-56), il migliore de’
periodanti artifiziosi, scrive qual si conviene a precettore di buone
creanze. Di magniloquenza sono tipo le sue orazioni: ma chi in quello
strascico cortigianesco può riconoscere il modo di persuadere e di
muovere? Aggiungi lo sconcio variare di sentimenti, sicchè nell’una
sublima quel medesimo Carlo V[99], che in due altre aveva mostrato
peste d’Italia e rovina d’ogni libertà; in quella confonde perfino la
giustizia colla volontà di esso[100], in queste ne esagera l’avidità
nell’invadere l’altrui; qua predica la libertà d’Italia, altrove esorta
a ridur Siena in dominio della famiglia Caraffa.

Orazioni si facevano allora per ogni occasione, ma qual raggiunge
l’eloquenza vera? Sonorità di periodi, ridondanza d’epiteti, verbosità,
descrizioni, enfasi invece di forza e concisione, nessuna arte di
incalzare cogli argomenti, di penetrare l’intimo degli animi per
isnidarne il vizio o indur la persuasione. Non un buon predicatore
sorse in quel meriggio delle lettere. Per via severa camminò frà
Girolamo Savonarola, tutto impeti e con movimenti qua e là di vera
eloquenza: ma quella che arte chiamiamo gli manca, e troppo spesso
converte il pulpito in tribuna. D’orazioni profane funebri, di
complimento, di persuasione, un migliajo rimane, ma chi leggerebbe quel
cicaleccio inane, se non per ripescare fra un diluvio di parole qualche
notizia?[101]

Vuolsi coraggio a trangugiar quelle di Leonardo Salviati con tanto
profluvio di voci oziose, tanto viluppo di membri e membretti.
Questa palma mancante all’Italia, pretese cogliere Alberto Lollio con
arringhe di assiderante eleganza, sovente sopra soggetti immaginarj,
e puntellate di figure retoriche e luoghi topici uno infilato
all’altro; talchè somministrano abbondanti esempj ai precettisti, e
noja insuperabile ai lettori. Buoni favellatori possedette Venezia, ma
scarsi d’arte e di lingua incerta; robuste e spigliate procedono cinque
orazioni che si hanno stampate di Pietro Badoero; e lodatissime furono
le arringhe giudiziarie di Cornelio Frangipane friulano.

Deh potessimo avere i ragionamenti onde i Fiorentini ed altri
repubblicani persuadevano al meglio della patria!; ma quelli intarsiati
ai racconti dal Bembo, dal Nardi, dal Varchi e peggio dal Guicciardini,
sono esercitazioni compassate, di niuna spontaneità, e guaste spesso
dall’imitazione. Bartolomeo Cavalcanti è più vero, e per ciò più
robusto. Unite il discorso di Giambattista Busini al duca di Ferrara
pei profughi di Firenze perseguitati da Clemente VII, quello di Giacomo
Nardi a Carlo V sulle tirannie del duca Alessandro, e se vogliasi
l’apologia di Lorenzino; e avrete tutta l’eloquenza politica di
quell’età, prima che le fosse tolto il parlare. E il non essere sorto
un grand’oratore fu non ultima causa del mancarci una prosa nazionale;
prosa svelta, propria, concludente, che in tutti gli scrittori
apparisca unica di fondo, variata di colore secondo la materia, la
persona, gli studj; prosa approvata dai dotti e insieme gradita al
popolo, che vi riscontri le forme sue ma nobilmente atteggiate, le sue
parole ma con arte disposte. E restammo fra una lingua colta e morta,
usata spesso a materie inette; ed una viva, ma creduta solo acconcia
a frivolezze, a commedie, a novelle, che saranno sempre il più ricco
tesoro di bei modi, d’animosi tragetti, di frasi calzanti.

Gli storici (t. IX, p. 254) sono i migliori scrittori, ma neppure essi
evitano l’espansione smodata e la prolissità, nè le parole rinzeppate
o le particelle superflue, che stornando l’attenzione, fanno o meno o
male intendere l’idea. Alcuni all’arte unicamente posero pensiero, come
Pier Francesco Giambullari, che i fatti generali d’Europa dopo il IX
secolo espose con bellissima retorica; caro alle scuole dove si separa
il pensiero dalla parola. L’irremediabile amplificare di Francesco
Guicciardini, que’ periodi intralciati di tante fila, che dianzi un
editore faticò per distrigarli in qualche modo, possono correggere il
moderno sfrantumare, ma troppo distano dalla rapidità che il racconto
esige[102]. In fatto egli non erasi mai esercitato a scrivere; ma la
profonda intelligenza e il buon senso, cui unisce sperienza e calcolo,
gli valgono a gran pezza meglio che i precetti.

Bernardo Davanzati mercante fiorentino (1529-86), indispettito dal
forestierume che s’infiltrava col commercio e colla Corte, per rimedio
suggeriva di «spolverare i libri antichi, e servirsi delle gioje nostre
che ci farebbero onore»: preferiva la lingua fiorentina alla comune
italica, che «quasi vino limosinato a uscio a uscio, non pare che
brilli ne’ frizzi». Ristrettosi a Tacito, Orazio e Dante, maestri dello
scolpire i pensieri, egli solo, fra tanto sproloquio in cui smarrivansi
i pensieri, propose di mostrare come la nostra favella possa emulare
la madre in nervosa brevità; e traducendo Tacito, ridusse più conciso
il concisissimo fra gli storici antichi. Che se licenziossi a qualche
ribobolo che detrae al signoresco narratore, le più volte l’intende
a meraviglia, e lo riproduce colla vera fisionomia, coll’efficace
semplicità afferra il punto e picca; e noi lo teniamo inarrivabile
modello del vulgarizzare[103].

Rimane sempre vero che i libri più pregevoli di quel secolo sono i
meno artifiziati, le lettere del Caro, la vita del Cellini, e quelle
del Vasari. Ben hanno preteso i letterati d’aver abbellito queste
ultime; ma la storia li smentisce, quand’anche nol facessero esse
medesime. Chiarezza, brevità, vigore son lodi costanti dello stile del
Machiavelli, più pregevoli quanto al suo tempo più rare; del resto
va senz’arte: ne’ periodi zoppica non di rado, mirando unicamente
alla forza; è ricco d’idiotismi; ma quei che supposero non sapesse
di latino, badino come l’imitazione latina lo traesse a costruzioni
o falsate o contorte; e, malgrado i molti difetti, merita gran lodi
da chi sappia non solo ammirare ma osservare. Come poeta, oltre le
commedie ove mostrò quanto poteva migliorarsene il gusto, stese i
_Decennali_, meschina imitazione di Dante, narrando i fatti del suo
tempo. Nell’_Asino d’oro_, che solo pel titolo rammenta la spiritosa
fatica di Apulejo, finge essersi smarrito in una foresta, ove da’
mostri lo campa una donna, che lo conduce a un serraglio di bestie
allegoriche.

Nell’imbratto che fece della lingua di Dante e del Villani, il
Boccaccio ebbe troppi imitatori; sicchè i novellieri sentono tutti
di quella puzza. D’interesse, di color locale, d’affetto mancano in
generale, si dilatano in uno stile spento e languido, e connettono i
racconti con filo ancor più tenue che il loro modello. Nella peste del
1374, una brigata d’ogni condizione viaggia per Italia, distraendosi
con cencinquantasei racconti, la più parte osceni, tutti incolti,
che Giovan Sercambi lucchese raccolse. Dall’Aretino, da Speron
Speroni, da Ercole Bentivoglio ed altri, sorpresi dalla pioggia alla
pesca, suppongonsi narrate le diciassette novelle dei _Diporti_ di
Girolamo Parabosco, musicante piacentino e poligrafo. Cinque uomini e
altrettante donne, spinti da egual accidente in una casa, vi ingannano
la sera novellando; del che sono formate le _Cene_ del Lasca speziale
fiorentino, procedenti con sintassi naturale, periodo disinvolto,
espressione tersa propria; e con molta varietà, nè senza tragico
interesse, che poi l’autore volge dispettosamente in riso. Egli
avea pure composto pungentissimi scherzi e commedie di candidissima
dettatura, di scarso intreccio, d’invereconda morale.

Agnolo Firenzuola fiorentino (1493-1548), tutto fiori e grazie,
deh perchè quell’insuperabile trasparenza di stile adoprò solo in
frivolezze e scurrilità? Era monaco vallombrosano; e appassionato
della materiale bellezza femminile, ne stese un trattato fra lubriche
particolarità e sogni cabalistici. In una brigata fa ragionar d’amore,
e raccontare laide novelle innanzi alla «regina del suo cuore... bella
e pudica quant’altre mai». Anche dagli animali fa dare precetti ed
esempj; sul soggetto di Apulejo forma un _Asino d’oro_, acconciato ad
altre idee.

La _Filena_ di Nicolò Franco fu messa un momento di sopra del
_Decamerone_, poi dimenticata. Giovanni Sabadino degli Arienti
bolognese dettò neglettamente settanta Novelle Porrettane. Masuccio
Salernitano nel _Novellino_ moltiplica avventure a scorno de’ frati
e in istile boccaccevole. Delle ottanta novelle latine trivialmente
oscene di Girolamo Morlino napoletano si valse Gianfrancesco
Strapparola di Caravaggio, che le divise in notti, zeppe di
meraviglioso e d’inverosimile, e benchè da postribolo, le suppone
esposte da oneste fanciulle. Alle consuete immoralità vollero sottrarsi
Sebastiano Erizzo, che fece sei giornate di racconti prolissi, e
Giraldi Cintio, che negli _Ecatomiti_, narrati da giovani fuggenti
a Marsiglia dal sacco di Roma, pretese insegnar la morale, e non fu
letto; eppure somministrò il soggetto a più d’una composizione di
Shakspeare.

Matteo Bandello da Castelnuovo di Scrivia (1480-1561), generale dei
Domenicani in Milano, ostentò amori e cortigianerie a Napoli e Firenze,
eppure ottenne da Enrico II il vescovado d’Agen. Tra le occupazioni,
raccolse piuttosto aneddoti che vere novelle, alle quali non si brigò
tampoco di dare qualsiasi legame, ma a ciascuna prepose una dedica
adulatoria, unica e misera originalità; chè del resto va con parlate
prolisse, dialogo sgraziato, insulse particolarità, scarsa fantasia,
caratteri sparuti, nè mai drammatico movimento. «Dicono i critici che,
non avendo io stile, non mi doveva mettere a fare questa fatica: io
rispondo loro che dicono il vero, ch’io non ho stile, e lo conosco pur
troppo: e per questo non faccio professione di prosatore». Così egli; e
di fatto la sgraziataggine del suo scrivere rende viemeno tollerabile
con lardellarlo di frasi classiche[104]. «Dicono i critici che le mie
novelle non sono oneste...: io non nego che non ce ne siano alcune,
che non solamente non sono oneste, ma dico e senza dubbio confesso che
sono disonestissime...; ma non confesso già ch’io meriti di essere
biasimato; biasimarsi devono... coloro che fanno questi errori, non
chi li scrive». Muove nausea la sguajatezza con cui, egli vescovo e
di settant’anni, espone sconcezze, da cui ebbero sciagurato appiglio i
Protestanti: eppure il marchese Luigi Gonzaga gli affidò ad educare sua
nipote Lucrezia; e monsignore se ne innamorò, ma platonicamente, e la
cantò in molte liriche e in un poema di undici canti!

I trattatisti di morale, oltre non aversene pur uno originale,
peccano del massimo dei difetti, l’esser nojosi. I _Ragionamenti_
di monsignor Florimonte, la _Vera bellezza_ di Giuseppe Beluzzi,
i _Ricordi_ di monsignor Saba da Castiglione, i _Ritratti di donne
illustri d’Italia_ del Trissino, sono per lo più dissertazioni in
tono retorico, rinzaffate di erudizione e prive d’attualità. Benedetto
Varchi, prolisso, allenato, cascante sempre anche nella storia, empì
le sue _Lezioni_ di futilità aristoteliche; pure dagli stranieri erano
ristampate e lette come delle migliori. Mattia Doria fece la _Vita
Civile_, ed aveva preparato l’_Idea d’una perfetta repubblica_, ma se
ne sospese la stampa; e conosciutovi immoralità e concetti panteistici,
fu arsa.

Di Sperone Speroni, che fece arringhe ciceroniane, e che giudicano
armonioso e grave, sono gracilissimi e di concetti generici i dialoghi
intitolati il _Guevara_, il _Marcantonio_, l’_Orologio dei principi_,
molte volte ristampati: al più si possono leggere i suoi _Consigli
alla figlia_. Molto da lui copiò Alessandro Piccolòmini senese nelle
_Istituzioni di tutta la vita dell’uomo nato nobile e in città libera_:
professava a Padova, e nelle opere di filosofia considera Aristotele
come suo «principe e guida e più che uomo», eppure osa scostarsene;
e secondo l’andazzo, distingue la verità filosofica dalla teologica.
Francesco Piccolòmini della patria stessa, nel _Comes politicus pro
recta ordinis ratione propugnator_, discute la morale (_de moribus_)
e la sociale (_de republica_), considerando come un dovere de’
magistrati il diffondere la virtù nella città e nello Stato. Altri
scritti sull’educazione e sulla morale stanno nelle biblioteche,
non più fra le mani: solo vive il _Galateo_ di monsignor Della Casa,
libro condiscendente più che retto, che la cortesia confonde colla
moralità. Delinea o adombra i costumi d’allora, in alcun lato ancora
grossolani, mentre già si mescevano a puntigli e smancerie spagnuole;
e molto insiste sul modo di raccontare accidenti e novelle, il che era
ingrediente primario del conversare di quel tempo. Nei _Doveri fra
amici di stato diverso_ riduce a precetti la servilità; l’inferiore
mai non intacchi il suo patrono; ne soffra piacevolmente persin le
impertinenze. Pur troppo va così: ma perisce la civiltà vera d’un paese
quando la moralità svapora in cerimonie, e il dovere in convenevoli,
che non vagliono se non sgorgando dal cuore.

Analisi dell’uomo e degli affetti intimi, efficacia di particolarità,
la profonda riflessione di Pascal o l’ingenua sensualità di
Montaigne mancano sempre ai nostri, che offrono soltanto modelli
generici e astrazioni; del qual falso sistema la maggior riprova sta
nell’_allegoria_ anteposta da Torquato Tasso al suo poema; come i
difetti di questo rivelano l’assurdità del metodo. Esso Torquato; il
Varchi, il Muzio, altri ed altri discussero alcuni punti particolari
di condotta, e massime dell’onore e della scienza cavalleresca. Questa
cominciava a prender piede, per divenire poi quasi unica norma a’
portamenti de’ gentiluomini; e sul duello, punto essenziale, scriveano
i teologi per disapprovarlo, gli altri per darvi regole. Tutto ciò pei
gentiluomini, reggentisi in un’atmosfera affatto artifiziale; ma al
grosso della nazione avvilita, al popolo escluso dagli interessi, chi
provvedea più fuorchè i preti?

Pietro Martire d’Angera milanese, del 1488 portato in Ispagna, col
Mendoza conte di Tendilla vi attese alle armi, e dopo presa Granata si
ordinò ecclesiastico, e la regina Isabella il pose maestro de’ paggi.
Avendo il soldano d’Egitto spedito a re Ferdinando il padre Antonio
da Milano, guardiano de’ Francescani al Santo Sepolcro, per intimargli
cessasse di molestare i Mori, se no egli tratterebbe all’eguale stregua
i Cristiani in Terrasanta, Ferdinando gli mandò Pietro Martire, che
ottenne quanto chiedeva, e in quell’occasione vide il Cairo e le
piramidi, che descrisse; come poi l’_Oceano_ ed il _Mondo nuovo_ da
che fu consigliere reale per gli affari dell’India, onde potè avere in
mano i documenti della navigazione di Colombo, opera tradotta in tutte
le lingue. Fin al 1525 dettò ottocentotredici lettere sugli uomini
e sui fatti contemporanei, perciò cercate dagli storici, quantunque
paja certo che non furono dettate al tempo proprio degli avvenimenti.
Approva l’Inquisizione e l’intolleranza, pressente l’importanza della
Riforma appena nata, descrive egregiamente le fazioni di Firenze, la
battaglia di Pavia.

Altri dei nostri si occupavano di paesi forestieri. Girolamo Faletti
di Ferrara (_De bello sicambrico_) narrò le guerre di Carlo V coi
Francesi ne’ Paesi Bassi, e contro la lega Smalcaldica; Orazio Nucula
in latino non inelegante la spedizione di esso in Africa. Paolo Emili
veronese, chiamato da Luigi XII a Parigi per iscrivere la storia di
Francia, la stese latina in quattro libri, dall’antichità fino al 1489,
qualche ordine portandovi colla critica allora possibile[105]: fu la
prima ragionevole di quel paese, e lodatissima, tradotta, per lungo
tempo rimase di testo, e Giusto Lipsio diceva che _pene unus inter
novos veram et veterem historiæ viam vidit....; genus scribendi ejus
doctum, nervosum, pressum...; non legi nostro ævo qui magis liber ab
affectu_[106]. Lucio Marineo siciliano a Salamanca dettava la storia
di Spagna ad esaltazione di Fernando e d’Isabella; Polidoro Vergilio
di Urbino, autore d’un esile trattato _De inventoribus rerum_, ebbe da
Enrico VII l’incarico di scrivere quella d’Inghilterra: sicchè anche
gli storici di que’ paesi cominciano da un nostro. Così Ciro Spontoni
scrisse quella d’Ungheria; Alessandro Guagnino veronese quella della
Polonia; il padre Antonio Possevino quella di Moscovia; Gian Michele
Bruto quella dell’Ungheria e di Stefano Batori; Luigi Guicciardini
fratello dello storico, _Commentarj delle cose di Europa specialmente
ne’ Paesi Bassi_ dal 1529 al 60, e una descrizione di questi, ne’ quali
egli abitò quarant’anni come negoziante.

Valeriano Pierio trattò de’ geroglifici come allora si poteva, delle
antichità di Belluno sua patria; e sull’infelicità dei letterati
raccolse aneddoti che ora potrebbero triplicarsi, anche tralasciando,
come egli non fece, le miserie inseparabili dall’umanità. Luca
Contile senese, segretario al cardinale Trivulzio e a Ferrante
Gonzaga governatore di Milano, al cardinale Trento, al capitano Sforza
Pallavicino, al marchese Pescara, fu storico diligente e chiaro più che
coraggioso, e nel trattare delle divise e insegne si elevò a qualche
intendimento generale. Corteggiò la marchesa Del Vasto e Vittoria
Colonna, cui dedicò la _Nice_, poema non casto, assomigliando le virtù
di lei al vello d’oro e ai pomi esperj, custoditi, invece di drago, da’
suoi begli occhi, lo spavento de’ quali non potrebbe superarsi che da
Giasone od Ercole.

Altri speculavano sulla vanità tessendo genealogie, e spesso
inventandole, all’appoggio principalmente di frate Annio da Viterbo e
simili. Scipione Ammirato storiò le famiglie napoletane e fiorentine,
il Morigi quelle di Milano, il Sansovino le illustri d’Italia, Marco
Barbaro la discendenza delle patrizie famiglie, e moltissimi di
particolari parentele. Alfonso Ceccarelli da Bevagna con autorità
e documenti falsi formò le genealogie dei Monaldeschi, de’ Conti e
d’altre; e infine meritò che Gregorio XIII gli facesse tagliar la mano
e impiccare.

Il più bel campo ai letterati sarebbe stata la storia: ma molti
valendosi della lingua latina perchè più divulgata, ne veniva nocumento
alla verità, costretta ad un linguaggio non suo, ed a sopprimere
quelle particolarità che le danno vita. Ricorrere alle fonti immediate,
raccogliere gli svariati materiali, vagliarli severamente, valersene
con intelligenza, e ridurli ad un complesso omogeneo, non si pensava
ancora. Presi gli autori precedenti meglio reputati, se ne compievano
i racconti o supplendo l’un coll’altro, od osservandoli sotto aspetto
diverso, o inserendovi documenti nuovi, senza farsi coscienza di
copiar lunghi brani, e talvolta quasi solo traducendo: come assai
fosse l’indurvi nuova veste, e unificarne lo stile col resto dell’opera
propria.

Ma già la storia riduceasi classica, cercando al racconto attribuire
eleganza ed ordine, nettezza di stile, interesse di ritratti e quadri.
Si volle dunque analizzarne l’arte, e Giovian Pontano, che primo ne
trattò, la considera come una specie di poesia; nota che Livio comincia
col mezzo verso (_Facturus ne operæ pretium_), e Sallustio con un
esametro spondaico (_Bellum scripturus sum quod populus romanus_),
e va mettendo a fronte passi di questi autori e di Virgilio. Insieme
però raccomanda la brevità, posta nelle parole, e la rapidità posta
nel movimento dello stile; quanto al fondo, desidera le particolarità,
massime le biografiche, e descrizioni topiche, e le arringhe.

E la storia alla poesia confronta pure Francesco Patrizi in dieci
dialoghi, nojosi di digressioni e appoggiati al trattato di Luciano.
Eccetto le storie sacre, s’avvisa che nelle antiche si va troppo
tentone, nelle moderne manca libertà; lo storico non differisce dal
poeta che nel non alterare i luoghi e i tempi; noi siamo spettacolo
agli Dei, e verità non avvi se non nelle opere di Dio e della natura.

I precetti dati dal Foglietta nell’introduzione alla sua storia
genovese, e dal Viperano (_De scribenda historia_), sono trivialità
o plagi, che che ne paja al Tiraboschi. Quel genio universale di
Bernardino Baldi disputò pure della storia, ponendo per fine di essa
non l’ammaestrare che spetta alla filosofia etica, ma il rappresentare
altamente e secondo le leggi sue la verità delle cose succedute.
Nell’esporre i consigli, lo storico deve esprimere il proprio giudizio,
non solo in universale, ma scendendo allo speciale, e dire qual cosa
lodi o vituperi; perciocchè il narrare i fatti nudi e non esternare che
cosa ne senta, è da uomo che non discerne il bene dal male. Il parlar
dello storico sia grave e chiaro[107].

Annibal Caro (1507-66), uno de’ più simpatici scrittori, nato
poveramente a Cittanova nella Marca, si direbbe vero toscano; con tanta
proprietà adopera i modi più calzanti della lingua viva; professando
riconoscere tutto quel poco che ne sa dalla pratica di Firenze[108].
Servì ai Farnesi, e scrisse le loro lettere: ma veri modelli son quelle
in proprio nome. Si lagna più d’una volta che gli fiocchino versi ed
encomj di gente sconosciuta, che poi pretende risposta; e che i libraj
mettano a stampa le sue epistole[109]: nuovo argomento della passione
universale allora per gli studj, e dell’importanza attribuita agli
scriventi.

Pure l’ufficio più sociale a cui questi fossero chiamati, era lo
stender lettere per signori: Giambattista Sanga e il Sadoleto scrissero
quelle di Clemente VII; il Berni quelle del Bibiena pei Farnesi; il
Flaminio pel datario Ghiberti; Bernardo Tasso pei Sanseverino, il Muzio
per don Ferrante Gonzaga ed altri; Luigi Cassola piacentino, forse
il maggior madrigalista di quell’età, pel cardinale Santafiora; altri
per altri. Da ciò una prodigiosa ricchezza di epistole, dettate colla
scorrevolezza e precisione che mancano nei lavori più studiati. Molto
si scrisse intorno alla confezione delle lettere; e benchè il buon
senso riprovasse il dirigere il discorso all’_altezza, eccellenza,
signoria_ d’un altro, queste spagnolesche ostentazioni rimasero. In
quelle del Bembo e di Paolo Manuzio sentesi l’intenzione di stamparle:
Bernardo Tasso è retore di sterile abbondanza: dignitose e d’artifizio
velato son molte del Casa, e quelle di Claudio Tolomei, inventore de’
versi alla latina[110]. Jacopo Bonfadio di Salò (t. IX, p. 267) fu caro
al Bembo e al Flaminio, ma anche al ribaldo Franco e agli ereticali
Valdes e Carnesecchi; in Genova ebbe cattedra di filosofia: ma si
lagna che colà «letterati non ci sono, dico che abbiano finezza»;
confessa che «gl’ingegni sono belli», ma si contenterebbe di più «se
fossero tanto amici di lettere quanto sono di traffici marinareschi»:
coltissimo nelle due letterature, poeta migliore in latino, stese le
lettere con dignitosa affabilità, non senza lambiccature e lungagne.
Forse la fama di lui restò ingrandita dal supplizio del fuoco, al quale
Genova lo condannò, dicesi per amori infami.

Letterati di mestiere, quali il Porcacchi, l’Atanagi, il Dolce, il
Ruscelli, il Sansovino, lo Ziletti raggranellavano ogni frivolezza
de’ migliori, per farcirne volumi da guadagno: ma da quella farragine
di carteggi alcun paziente potrebbe stillare pochi volumi, rilevanti
non solo alla letteraria, ma alla politica storia. Quelle d’artisti
splendono di meriti particolari e maggior libertà, e fanno conoscere
quali fossero più o men colti, e come l’animo si trasfonda non men
nelle tele che nelle carte. I secretarj doveano anche inventare imprese
e motti, dar idee di pitture e di feste, accompagnare di versi le
principesche solennità.

Il Caro tutta la vita elaborò le opere sue, senza mai pubblicarle;
ridottosi poi in riposo, pensò fare un poema, e per addestrarvisi
prese a tradurre qualche cosa dell’_Eneide_; e vi si piacque tanto,
che la trasse a fine, sentendosi vecchio per un’epopea. Son versi
sciolti cinquemila cinquecento più dell’originale; onde il compatto del
parlare antico scompare, talvolta la fedeltà è tradita o per errore o
per negligenza, ma conservata la ricchezza e la lucidità dell’autore;
vi è fatta prelibare la potenza del verso sciolto, arricchendolo
d’infinita vaghezza di armonie, e di frasi e giri nuovi; sicchè, dopo
tanti tentativi e tante censure, rimane la migliore veste che siasi
data all’impareggiabile Virgilio. Il Caro con greca venustà vulgarizzò
gli _Amori di Dafne e Cloe_ secondo Longo Sofista; e con grandiloquenza
alcun che de’ santi Padri.

D’ordine de’ suoi padroni aveva egli scritto in lode dei Reali di
Francia la canzone _Venite all’ombra dei gran gigli d’oro_, dove,
togliendosi alla monotona sobrietà dei petrarchisti, avventuravasi
nell’immaginoso, nel ricercato, in quella gonfiezza che si scambia
per sublimità. Ai servidori di quella casa e ai molti amici di lui
nessuna lode parve bastante a un componimento che usciva dalle vie
ordinarie; ma altrimenti ne parve a Lodovico Castelvetro, arguto e
schizzinoso modenese, e ne mandò attorno una censura. Al Caro parve
più ostica quanto maggior dolciume di lodi avea gustato, uscì con
apologie e risposte, or sue, or d’altri, or sue in nome d’altri,
massime fingendo ciancie degli scioperoni che frequentavano la via
de’ Banchi a Roma. L’altro risponde, e come avviene nelle dispute, si
travalica ogni moderazione, e si divulga una delle liti più clamorose
di questa litigiosa repubblica letteraria. Il Castelvetro ebbe il
torto d’essere provocatore; indi trovò gusto a mostrare acume, e con
illustri nimicizie guadagnarsi celebrità. Scriveva egli le censure con
tocco impetuoso e colla vivacità di chi attacca, sottile talvolta,
ma con maggior gusto che non si aspetterebbe in un tempo in cui il
bello era sentito più che ragionato: il Caro era sussidiato da amici,
e principalmente dal Molza e dal Varchi ricevea pareri e correzioni:
villanie da piazza mai non furono dette con maggior eleganza che
nell’_Apologia_ e nei sonetti _de’ Mattaccini_, ove la bile lo fece
poeta; nè celie più spiritose si potrebbero opporre a ragioni ben
rilevate. Donne gentili, cardinali, il duca di Ferrara s’interposero
pacificatori, ma inutilmente; i partigiani del Castelvetro
obbrobriarono il Caro a principi e cardinali; essendo ucciso un amico
di questo, se ne pose colpa al Castelvetro; si pose colpa al Caro
d’aver lanciato sicarii contro il Castelvetro. Certamente il Caro avea
scritto: — Credo che all’ultimo sarò sforzato a finirla per ogni altra
via, e vengane ciò che vuole»; e fu chi sostenne che, coll’arte infame
onde anche oggi cotesti manigoldi dell’arte subillano i Governi contro
il censurato, denunziasse all’Inquisizione il Castelvetro: imputazione
alla quale egli fece piede col dirlo «filosofastro, empio, nemico di
Dio, che non crede di là dalla morte», e «agl’inquisitori, al bargello
e al grandissimo diavolo vi raccomando». Fatto è che il Castelvetro
stimò prudenza rifuggire tra i Grigioni e morì a Chiavenna (1571).

Chi non si sgomenti delle lungagne, trova nella costui _Poetica
d’Aristotele_ molta erudizione, riflessi sottili, critica assennata,
e franchezza di appuntare anche là dove i commentatori non sanno che
applaudire. Spesso egli censura Virgilio; a Dante imputa la pedanteria
di parole scientifiche, ingrate e «inintelligibili a uomini idioti, per
li quali principalmente si fanno i poemi»; incolpa di plagio l’Ariosto,
oltre l’infedeltà storica sino ad inventare a capriccio i nomi dei re.

Non era più il tempo che l’Italia splendesse unica al mondo; e Francia
poteva opporle Montaigne, Balzac, Voiture e l’altra plejade non
duratura; Spagna e Inghilterra gl’immortali nomi di Calderon, Lope
de Vega, Camoens, Shakspeare. Questi conoscevano e usufruttavano la
letteratura italiana; e da Andrea Navagero ambasciator di Venezia
presso Carlo V, che molto viaggiò e ben vide e ben descrisse, fu
ispirato l’amore pei nostri classici a Giovan Boscano Almogaver, che
postosi sull’orme del Petrarca, introdusse la correzione nella poesia
spagnuola; alle fonti nostrali attinsero Garcilaso de la Vega imitatore
del Sannazaro, e Diego Hurtado de Mendoza (t. IX, p. 482); il principe
de’ poeti francesi Ronsard traduceva sonetti del Bembo; il maggior
tragico dell’Inghilterra e del mondo, Shakspeare, dai nostri novellieri
deduceva alcuni soggetti da drammatizzare, come più tardi Milton
scriveva sonetti italiani, e Molière razzolava ne’ nostri comici per
trovarvi o temi o caratteri o scene; Grangier traduceva Dante, e tutti
i Francesi leggevano il Petrarca, come poi il Tasso.

Al contrario, i nostri mai non danno segno di conoscere i grandi
contemporanei[111]; e allorchè il Castelvetro, che pur esso forse ne
avea contezza solo per udita, osò dire che in Francia e in Ispagna si
trovavano scrittori grandi quanto in Italia, se ne scandolezzarono i
pedanti, che mai non gli aveano saputi; e rabbuffollo il Varchi, il
quale poi sosteneva Dante esser superiore ad Omero. Dal che pullularono
nuove quistioni; e per puntiglio Belisario Bulgarini senese s’aguzzò
a spulare difetti nella Divina Commedia, in una serie di lettere e
risposte e dissertazioni, dimostrando che non era vero poema perchè
mancava alle regole d’Aristotele: il Mazzoni scese nella lizza a
difenderla.

Ma quel poeta, il più ispirato insieme e calcolato, il più lontano
dall’orpello e dal gergo convenzionale, che reggesi soltanto su nome
e verbo senza epiteti nè frasi, mal s’affaceva all’arte raffinantesi;
la sua simbolica cristiana diveniva meno intelligibile all’irruente
classicismo; studiavasi, ma non come ritratto di cose cittadine e
incarnazione di credenze vive; e posponevasi al Petrarca, a cui si
usava la venerazione che più non s’aveva per la Bibbia, togliendo
a disputar delle parole, stillarne ogni voce, ogni verso, ogni
sentimento, ogni atto. A tacere gl’infiniti commenti, dei quali
sopravvissero quelli di Bernardino Daniello e d’Alessandro Velutello,
Simon della Barba perugino, a proposito del sonetto _In nobil sangue
vita umile e cheta_, dichiarava qual sia stata la nobiltà di madonna
Laura; Lodovico Gandini lungamente indagò perchè messer Francesco
non avesse mai encomiato il naso di lei; poi disputavasi se fu donna
vera; se allegoria, cosa rappresentasse: e si prese scandalo quando il
Cresci osò crederla maritata. Così da lite nascea lite, mentre Carlo
V spegneva l’indipendenza d’Italia, e Lutero squassava la potestà di
Roma.

Di mezzo al culto che prestavasi alle lettere, ecco il ferrarese
Giglio Gregorio Giraldi sostenere, non solo la vanità, ma il pericolo
del sapere (_Proginnasma_); la medicina incertissima, garbugliona la
giurisprudenza, bugiarde e sofistiche l’eloquenza e la dialettica,
piacentiera al vizio la poesia; i letterati inetti a governare le città
e le famiglie; Roma, grande finchè rozza, essersi corrotta a misura che
ingentiliva. Sono i paradossi che a Rousseau furono poi suggeriti da
accessi di superbia, come al Gregorio da accessi di pogadra; il quale,
del resto, conchiude avere scritto per pura mostra d’ingegno. Forse per
penitenza ordì la storia degli Dei, poi ancor più quella scabrosa de’
poeti anteriori e de’ viventi.

Girolamo Muzio (1496-1576) nato a Padova, ma che s’intitolava
justinopolitano perchè oriundo e cittadino di Capodistria, buon’ora
attaccatosi a persone illustri lodandole e ad esse dirigendo lettere e
componimenti, a Venezia lega pratica coi giovani studiosi: nel concorso
apertosi per la cattedra di retorica, dove gli aspiranti doveano
ciascuno leggere per tre o quattro giorni sopra alcun classico, egli
menò la briga fra gli studenti perchè fosse preferito Giambattista
Egnazio, che perciò lo alloggia e nutre: agli spettacoli che da natale
a tutto carnovale ogni domenica davansi ora sull’uno ora sull’altro
campo delle chiese, con balli e improvvisatori, vagheggia un’alta
donna, che presto gli è tolta da morte: poi coi nobiluomini visita
varie parti d’Italia, soffrendo dall’insolenza militare, ed ora ai
militari si unisce al soldo del conte Claudio Rangone: ito in Francia
con questo, vi conosce la Corte: serve a Galeotto Pico, usurpatore
della Mirandola, poi al duca di Ferrara, ove canta la celebre Tullia
d’Aragona, per la quale, dopo ammogliato, dettò il trattato intorno
al matrimonio. Col Varchi, col Cittadini, col Cavalcanti, col Tolomei
si rissò per cose di lingua (pag. 141); con Fausto da Longiano,
coll’Attendolo, coll’Averoldo, con Giambattista Suzio, con altri per
punti e giudizj cavallereschi; giacchè, vedendo non poter fare abolire
il duello (dic’egli), volle almeno porvi regola, e le opere sue in tal
proposito, stampate con privilegio di Pio V, passavano per classiche:
poetò anche[112], e divisava un’epopea su Goffredo Buglione, che forse
avrebbe distolto il Tasso dalla sua. Talento universale, diplomatico
e guerriero, letterato e teologo, prosatore e poeta, instancabile
disputatore, diede egli stesso il catalogo degl’innumerevoli scritti
che poterono «uscir dalla penna ad uomo che, dal ventesimoprimo anno
della sua età fin al settantesimoquarto ha continuamente servito, ha
travagliato a tutte le corti di cristianità, e vissuto fra gli armati
eserciti, e la maggior parte del suo tempo ha consumato a cavallo, e
gli è convenuto guadagnarsi il pane delle sue fatiche». La sua _Arte
poetica_ ha merito di non servili giudizj, appuntando l’Alighieri
per durezza, per mollezza il Petrarca, il Boccaccio perchè prosastico
ne’ versi e poetico nella prosa: all’_Orlando_ preferisce le commedie
dell’Ariosto; e di certe verità gli daremmo lode se non venissero dal
farnetico d’accattar brighe, che l’accompagnò quanto visse.

Alfonso de Ulloa, figlio d’un capitano di Carlo V, e soldato egli
stesso sotto Ferrante Gonzaga, tradusse in italiano un’infinità di
opere spagnuole, tra cui principalmente la vita di Colombo scritta
da Ferdinando suo figlio, preziosa perchè l’originale andò perduto:
scrisse pure la vita di Carlo V, di don Ferrante, e altre storie di
pochissimo valore.

Fra cotesti scarabocchiatori, che a forza di lodarsi a vicenda si
creavano una reputazione, novereremo anche Francesco Sansovino figlio
dell’architetto, che tradusse, raccolse, compose, raffazzonò orazioni,
lettere, poesie, una storia dei Turchi, l’arte del secretario, le
famiglie illustri, il ritratto delle città, osservazioni sulla lingua
e sul _Decamerone_, Venezia descritta, del governo dei regni e delle
repubbliche, e ortografia, retorica, arte oratoria; molte altre opere
promise, ne stampò d’altrui col proprio nome, e di sue con nome
finto; ebbe amicizie ed inimicizie, doni, titoli accademici, lode
di contemporanei e anche di posteri; e maggiori lodi si diede da se
stesso, o le finse dategli in lettere[113].

Siamo entrati con costoro nelle fogne della letteratura militante,
corrispondente alla giornalistica d’oggi, fin d’allora chiassosa,
intrigante, vaniloqua, superba, carezzatrice de’ mediocri e di chi
paga, implacabile a chi mostra ingegno o dignità. E ce ne verrà a mano
di tali, che il classare fra i letterati sarebbe vergogna, come il
mettervi la plebe degli odierni giornalisti.



CAPITOLO CXLII.

Poeti del secolo d’oro. Il teatro.


Nella _Divina Commedia_, solida e sistematica struttura di compatta
unità, avente per fine assoluto l’amor divino, per teatro l’inferno, il
purgatorio, il paradiso, per attori le passioni e le azioni dell’uomo,
assorte già nell’esistenza che più non si muta, per istromento quanto
allora si sapeva, l’individualità è rappresentata nella interezza,
siccome già compita dalla retribuzione che il poeta vi assegna in
nome di Dio, condannatore o purgatore o glorificatore delle anime. La
collera dell’onest’uomo contro i vizj, l’espressione sobria, lo stile
rattenuto, la meravigliosa intelligenza della natura, quelle melanconie
che, dal cuore traducendosi nell’opera del poeta, vi aggiungono il
diletto d’una conversazione intima, quell’accordo delle ragioni del
calcolo colle ragioni del bello, formano pregi immortali a quel dramma
ove atteggia l’universo, a quella gran sinfonia dove si rispondono
tutti i toni, a quella vera epopea del medioevo, dove s’intrecciano
storia e favola, teologia e libero pensare, Olimpo e paradiso. È
insomma il pensiero fatto arte; ma già questa separavasi da quello; e
gli uni vagheggiavano il pensiero senza mondo, siccome i devoti e gli
eretici; i più il mondo senza pensiero negli interessi, nella politica,
nella guerra. All’amor della regola e della correzione soccombeva quel
simbolismo che richiede freschezza di idee, diffusa nelle moltitudini
e da queste passata nello spirito de’ vati e degli artisti, eredi di
quella poesia popolare che tutti fanno e non è fattura di nessuno:
l’allegoria e la fede cedevano il campo alla mitologia, che introdotta
non più come accessorio, ma come essenza, conduceva la gentilesca
individualità colla chiarezza serena.

Era dunque naturale la preferenza data al Petrarca, il quale versa in
un sentimento universale. Ma se il poetare sopra tutti gl’incidenti
della vita è facile quanto lo scriver lettere, difficile è l’uscire
dalla vulgarità, vedere il lato profondo o bello o lepido di ciò che
tutti vedono, animare le situazioni, identificarsi con quelle, e trarne
l’originalità sia nel modo di concepirle, sia nel modo d’esprimerle. Il
Petrarca avea saputo, nelle mille contingenze dell’amor suo, conservare
la libertà del suo sentimento e le nobili aspirazioni, e difendere
i tesori del suo genio ne’ piaceri della creazione artistica. I suoi
imitatori no, appunto perchè imitatori; e su lui nelle poesie, come sul
Boccaccio nella prosa si modellò il Bembo; e dietro a questo imitatore
divenne universale il poetare imitando, sicchè abbiamo raccolte
rime di principi, rime di artigiani, di calzolaj, di tessitori, di
fruttivendoli; raccolte secondo le provincie, secondo le città, secondo
le accademie o le famiglie. Giambattista Giraldi Cintio cantò le
_Fiamme amorose_, e Lodovico Paterno vi soggiunse le _Nuove fiamme_,
egli che già avea pubblicato il _Nuovo Petrarca_. Il Muzio in dieci
canzoni celebrò distintamente il viso, i capelli, la fronte, gli occhi,
le guance, la bocca, il collo, il seno, la mano, la persona della sua
amata. Luca Contile, dietro alle canzoni sorelle del Petrarca, fece le
_Sei sorelle_ di Marte, per le quali il Patrizj, non che agguagliarlo
al suo modello, lo anteponeva a qualsifosse erotico latino e greco. Frà
Girolamo Malipiero veneziano fece il _Petrarca spirituale_.

In questi scritti a musaico, imitanti sino al plagio, si smarrisce
la personalità degli autori, che avendo impressioni, non s’accorgono
d’aver anima; guardano al modello non mai alla natura: cantano un
amore senza progresso o regresso, e tutto generalità di visi e costumi
angelici, ovvero di empie tigri in volto umano, e la crudeltà delle
coetanee della Imperia e della Borgia, e il morire per metafora. C’è
alcuno cui sa di insulso questo sbadigliare pastorellerie? sottiglia
di spirito celebrando i miracoli dell’amore che di due forma uno, o fa
gelare il fuoco, e divampare il ghiaccio. Pompeo della Barba di Pescia
ha «l’esposizione d’un sonetto platonico fatto sopra il primo effetto
d’amore, ch’è il separarsi l’anima dal corpo dell’amante». Angelo di
Costanzo chiama la donna sua _dolce mia morte e dolce male_; ed evita
d’accostarsele, per paura che la forza degli occhi di lei nol guarisca;
e che, se quella il risana al comparirle davanti, essa non creda
che la salute sua sia altro che un riflesso della divina sua beltà.
Altrove si querela che amore per torgli la vita s’annidò negli occhi
della sua dama; il cuore ferito chiama l’anima al soccorso; l’anima
non ascolta, perchè dalla bellezza di lei rimase stordita; e quando
la donna parli, l’anima che voleva rientrar nel cuore, ne trova chiusa
la porta; torna dunque alla dama, ma questa non l’accoglie, talchè non
vive più nel poeta nè in lei; prega la penna di spargere intorno il suo
dolore, a cui le pareti domestiche sieno e culla e tomba. Si beffano
le _cronicacce_ del medioevo: ma forse sono esse scipite quanto i
petrarchisti?

Marin Brocardo, poeta non infimo, avendo osato sparlare del Bembo,
i dotti principalmente di Padova levarono contro di lui un rumor
tale, che ne morì di crepacuore. Pure non mancò chi disapprovasse e
deridesse quell’inesausta fecondità, come il Muzio e il Lasca; Nicolò
Franco imputava al Petrarca le miserie de’ suoi pedissequi; Ortensio
Landi diceva, il meglio de’ costoro libri essere i fogli bianchi; il
Doni scorbacchiava coteste girandole dei poeti, e capei d’oro, e sen
d’avorio, e spalle d’alabastro. In quella caratteristica frivolezza,
tra quell’entusiasmo a freddo d’innamorati di testa, si possono
ammirare le difficoltà superate e l’armonica espressione, il gusto
corretto e l’equa misura; se non quando diffondendosi nel descrittivo,
abilità dei semipoeti, cadono nel manierato. Ma il tema sovente abbassa
l’ingegno; di rado l’ingegno nobilita il tema; e in secolo così fecondo
per le belle arti, il sentimento poetico scarsamente si manifestò, e in
poche anime si raccoglieva. Quali di tanti sonettisti passò nel cuore
della nazione? e se de’ medesimi si facesse un fuoco, poco patirebbe la
letteratura, e ne guadagnerebbe la gloria italiana.

Per scernere i migliori, Francesco Maria Molza modenese, cercatissimo
dall’amicizia dei dotti, buono in molti generi, grande in nessuno,
riponeva il colmo dell’arte nel ben imitare, e cantò licenziosamente
gli amorazzi suoi, che dopo molte tribolazioni il consumarono.
Monsignor Della Casa diede allo stile poetico la vigoria che nel Bembo
gli mancava, e al verso la sprezzatura che gli cresce varietà e maestà;
nol potendo di dolcezza, il lodano di nobili pensieri e immagini
vivaci. Francesco Beccuti detto il Coppetta schivò le asprezze, ancora
non infrequenti benchè l’impasto del verso fosse assai migliorato.
Angelo di Costanzo sviluppava un pensiero con continua progressione,
filando i sonetti a maniera di sillogismi; e se ne compiaceva egli
stesso, e dagli altri n’era lodato, e imitato da Bernardino Rota,
il quale celebrò la donna sua, prima di sposarla e dopo morta, non
senza verità d’affetto; dal Tansillo, che il disonesto _Vendemmiatore_
riparò colle _Lacrime di san Pietro_, gelato sempre; e in generale dai
Napoletani. Suoni cui risponde la nazionale simpatia, fece intendere
monsignor Giovanni Guidiccioni di Lucca, robustamente deplorando
l’Italia che «Giace vil serva, e di cotante offese Che sostien dal
Tedesco e dall’Ibero Non spera il fin».

A brevi componimenti, fatti e letti per passatempo, potrebbe compatirsi
la frivolezza, ma trovandola in opere che richiedono intera la
vita e l’attività, quali i poemi epici, corre al labbro la condanna
di Marziale, _Turpe est difficiles habere nugas, Et stultus labor
ineptiarum_.

Per la vera epopea, quella che in un personaggio o un’impresa ritrae
un popolo, un’epoca, una civiltà, i tempi erano troppo innanzi, e nè
tampoco cascava in mente questo elevato concetto, che pure era stato
attuato dall’Alighieri. Neppure l’epopea cristiana addicevasi alle
capresterie di quel secolo; Vida e Sannazaro vedemmo fallirvi, non
intendendone l’essenza, e a vicenda non intesi dal popolo. Nè si prese
amore all’intemerata bellezza di Virgilio, benchè come lui si cercasse
squisitezza di forma e perfetta regolarità. I nobili sentimenti
di patria, i severi di religione, i profondi della vita intima,
sfuggivano ad una poesia, che era tema retorico non ispirazione;
scelto fortuitamente o imposto; da autori che non se n’erano _fatti per
molt’anni macri_, nè _lasciavano dir la gente_, ma voleano applausi e
denari, non importando se vital nutrimento rimarrebbe dopo digerito.

Dei due elementi dell’epopea, tradizione e immaginativa, i nostri
neglessero la prima per buttarsi sull’altra, ma nemmeno qui con
originalità. Dovunque il genio nazionale spieghi i vanni, apresi alla
facoltà del bello che è una delle primordiali dello spirito umano,
e si manifesta in concezioni poetiche conformantisi al grado della
civiltà. Tale era stata nel medioevo la poesia cavalleresca, che nelle
sue assurdità valse pure a dirozzare i baroni, di cui allettava la
solitudine e riempiva gli ozj.

Dalla mistura del carattere bellicoso colla devozione e colla storia
religiosa, quando la nobiltà sentivasi superiore ai vulghi, e credeva
all’onnipotenza della forza e volontà propria sovra le turbe, che
le andavano dietro nelle battaglie, e pensava che Dio e i Santi
assistessero anche materialmente gli eletti, era derivato nel medioevo
un eroismo, differente da quello dell’epopea greca e latina, eroismo
d’onore, d’amore, di fedeltà, non incarnato in qualche tipo reale,
ma finzioni forse provenute da Levante, certo modificate all’indole
nostra. Quegli eroi sono prodi come gli antichi; ma il coraggio non
mettono a servigio d’un interesse reale, bensì della fantasia e d’un
sentimento profondo di personalità, svolgendosi in fatti rischiosi.
L’onore, ignoto agli antichi, si fonda sull’opinione che l’uomo ha di
sè, e sul valore che si attribuisce: e poichè esso è infinito, d’ogni
cosa si risente, ogni cosa riferisce a sè.

L’amore, istinto ridotto a sentimento, che fantastica un mondo
destinato solo a servirgli d’ornamento, concentra tutta la vita
intellettuale e morale, di modo che non è o leggerezza o colpa, ma
un identificarsi colla persona amata; in conseguenza starebbe in
opposizione coll’onore, se non si riducesse ancora alla personalità
che vuol trovare tutto se stesso nell’oggetto amato. La fedeltà d’un
vassallo verso il signore non somiglia al patriotismo nè all’obbedienza
del suddito; ma in una società dove il diritto e la legge esercitano
debole impero, fondasi sulla libera scelta, sulla personale promessa,
lasciando interi l’indipendenza e l’onore dell’individuo, il quale può
resistere al suo signore, disdirne la fedeltà, non essendo un dovere
che possa pretendersi davanti a un tribunale. Sin l’amore della patria
o del principe, l’attuazione della giustizia si considerano sol come
impegni personali; arbitrarj sono i fini, nè s’indaga se un’azione sia
moralmente buona, ma se conforme all’onore; e poichè questo dipende
dall’opinione, è estremamente puntiglioso; altera a voglia la gravezza
dell’offesa e della riparazione; anche nell’offensore non considera un
reo, ma un uom d’onore, giacchè riparazione non si potrebbe ricevere
se non da un proprio simile. Insomma è la coscienza d’una libertà
illimitata, che ritrae unicamente da se stessa.

L’interesse dunque delle invenzioni cavalleresche versa tutto sull’uomo
indipendente, perfino nei casi ove molti seguono un impulso mistico,
come nelle crociate; sono azioni individuali, aventi per iscopo la sola
persona. Ma a quella grande indipendenza manca la realtà sostanziale
ch’è propria de’ personaggi di Omero, e non è possibile ridurla
all’unità artistica di questo e de’ suoi imitatori.

In Italia, dove i baroni non soverchiarono i mercanti, la poesia
d’amore e di fede prevalse alla cavalleresca, di cui poche tradizioni
rimasero[114]; ma queste rivissero quando appunto lo spirito della
cavalleria degradavasi nelle piccole Corti. L’ingegno arguto dei
nostri prese in beffa quelle imprese iperboliche; pure nel bisogno
di espandere l’amore del bello, e non volendo faticare in cerca di
soggetti meditati, da quei romanzi si dedussero poemi. La fantastica
rappresentazione dell’assoluta indipendenza individuale attagliavasi
al rinnovato paganesimo; a quelle azioni tutte personali non facea
mestieri di connessione, cominciate ove si vuole, finite ove si può,
atteggiando personaggi di cui erano tradizionali i caratteri e i
precedenti, come avvien nelle maschere: vi s’innestò l’adulazione,
altra peste di quel secolo, traendo genealogie principesche o da
Troja o dai paladini di Carlo Magno. Dai _Reali di Franza_, scritti o
tradotti in italiano fin dal Trecento, rampollò una delle prime epopee,
il _Buovo d’Antona_, canti XXIV in ottava rima; dalla supposta cronaca
di Turpino, la _Spagna historiata_ di Sostegno di Zanobi fiorentino, la
_Regina Ancroja_ e centinaja d’altri nojosamente prolissi. Ma nessuno
penetrò nella vita cavalleresca, nel culto della donna, nell’entusiasmo
della prodezza; fermandosi alla sopravvesta, desumendone i nomi e
poco più, e le bravure stravaganti, e un incondito soprannaturale,
colle persone stesse e le stesse valenterie: e fossero pur bizzarre
e stravaganti, erano permesse non solo, ma lodate a scapito del buon
senso; riuscendo ridicoli senz’esser buffi, giacchè affettano buona
fede, e mescolando il devoto all’osceno.

Alla Corte de’ Medici, mentre si rintegrava la cultura classica, non
erasi ancora dimenticata quella del medioevo; e come piacea leggere
Virgilio e Terenzio, così godeasi de’ Misteri, de’ Carnevali e delle
finzioni cavalleresche. E forse i concetti cavallereschi si discutevano
nelle sale di Lorenzo de’ Medici, quando Lucrezia Tornabuona sua madre
domandava: — Non potrebbesi da quelle leggende cavar della brava e
originale poesia?» Luigi Pulci, fiorentino (1432-87), di famiglia
tutti poeti, si fa legge di quel desiderio, e fra pochi giorni porta il
primo canto d’un poema, il _Morgante_. Forse alla lettura assistevano
il Poliziano, il Bruno, il Rucellaj, certamente il Magnifico Lorenzo;
e risero di quella mistura di sacro e profano, di frasi classiche
con riboboli fiorentini, dell’evangelio di san Giovanni con panzane
di Turpino; trovarono bella quella veste, fantastici que’ passaggi,
e il poeta incoraggito seguitò, senza un disegno nè un fine nè una
orditura, come l’usignuolo che canta pel bisogno di cantare: non
conoscendo altro canone che la fantasia, non altra regola che di dar
nel genio degli uditori, e allo spirito, alla celia sacrifica l’arte e
il sentimento, fin il gusto e la creanza e il pudore, benchè canonico
e di cinquant’anni; moltiplicando valenterie di eroi nient’altro che
forti, cuor di draghi e membra di giganti, non curasi più che tanto
di ragguagliare le parti col tutto, d’acquistarvi interesse, e nè
tampoco credenza; mette in riso e le imprese e il modo onde le canta;
balza dal patetico allo scurrile; pazzescamente accumula trivialità
e scienza; diavoli scipiti ravvolge in dispute interminate sopra ciò
che di più astruso presentano la teologia e la filosofia; invoca i
celesti in capo di canti ne’ quali mena a strapazzo le cose più sacre.
Come doveva esser l’uso de’ cantastorie, poeti che per le piazze e
nelle sale declamavano quelle imprese, volgesi all’auditorio, e nel
finire lo congeda. Forse è il primo che la epica sembianza di Carlo
Magno travestì da infingardo credenzone. Se gli chiedi come fosse
tanto balordo da lasciarsi abbindolare da Gano, le cui tranellerie
costituiscono la parte prevalente del poema, egli risponde ch’era
fatalità[115]. Quando ne sballa di troppo sonore, le rigetta sul
conto di Turpino. Tratto tratto ti vien di domandare s’e’ beffa o dice
serio; poi al fine non sai quel ch’abbiasi voluto con quell’incoerenza
d’invenzioni, con quel delirio d’immaginativa. Eppure il fa delizioso
a leggere quell’ingenuità di lingua ch’e’ tenea dalla cuna, nè dallo
studio fu guasta.

Ne difettò invece Matteo Bojardo conte di Scandiano (1434-94), che
in latino e in greco lasciò liriche, di pensieri e di modi peregrini.
L’_Orlando Innamorato_ dedusse dal solito Turpino, ma volle raccogliere
il ciclo romanzesco in un gran tutto attorno ad Orlando, pretendendo
alla simmetria delle antiche epopee sottoporre queste storielle, per
lor natura balzane e interminabili. Riuscì dunque troppo vario pel
genere classico, troppo grave pel romanzesco; però caratterizza i
suoi personaggi, espone con forza; d’immaginativa supera l’Ariosto:
ma è disarmonico, inelegante, frondoso, mentre sol dall’incanto dello
stile le opere d’immaginazione possono sperare immortalità. Alcuno
pretese vedervi allusioni argute di morale e politica, e censure alla
Chiesa corrotta: ma egli non voleva se non quel che gli altri del suo
tempo, divertirsi e divertire. Alle avventure applicò i luoghi del suo
feudo e i nomi strepitosi de’ suoi villani, di modo che i Rodomonti,
i Mandricardi, i Sacripanti furono scritti indelebilmente coi
grand’uomini che veramente patirono e fecero patire. — Strani capricci
della gloria!

De’ cento canti che dovean essere, soli ottantasei finì, lasciando
così in tronco le favole; onde molti s’accinsero a raffazzonarlo
e proseguirlo. Fra essi Lodovico Ariosto di Reggio (1471-1533), il
quale, per la lode de’ primi canti conosciuto e conoscendosi poeta,
prosegue, e ne forma un poema, cui la posterità conservò il titolo
di divino. Il prosastico trascinarsi in piccoli impieghi, in minute
ambascerie, in servidorie di corti, svigorì questo grande ingegno, che
le contraddizioni e la sventura avrebbero sublimato; disavvezzo d’ogni
attività interiore, lasciando fare, e vivacchiando alla spensierata,
instabile non solo in amore ma in ogni sentimento, quell’incomparabile
suo istinto poetico non diresse a scopo veruno, o ad un solo,
l’adulazione[116]. Se questo accattapane dei fiacchi disabbellì le
scritture ne’ cortigiani de’ Tolomei e ne’ Latini della decadenza, nei
grandi non s’era ancor veduta mai così meretricia. Virgilio canta gli
eroi per cui Roma crebbe e stette, e deriva da loro la gente Giulia,
ma gli encomj dati a quelli sono encomj a Roma; nè inventa avi al nuovo
Augusto; prostrandosi all’ara di questo che gli restituì il camperello,
pur gli dipinge lo squallore de’ poderi da lui donati al veterano, e
il guerriero che usurpa i colti novali e soppianta i possessori dai
paterni vigneti. Orazio celebra Augusto, ma perchè riordina in pace
la patria; e non dimentica o l’intrepido Regolo, o l’invitto animo di
Catone. Lo stesso Lucano sotto Nerone esalta le repubblicane virtù. Ma
l’Ariosto non altro loda che casa d’Este, «il seme fecondo che onorar
dee l’Italia e tutto il mondo; il fior, la gioja d’ogni lignaggio
ch’abbia il ciel mai visto». Or chi fossero costoro, chi il _giusto_
Alfonso o Ippolito _benigno_, chi Lucrezia Borgia, da lui messa più in
su della romana, la storia cel disse.

Tre fatti principali camminano di fronte nel suo _Orlando Furioso_:
Carlo Magno assediato in Parigi; la pazzia d’Orlando; gli amori di
Bradamante e Ruggero. Ma il primo direbbesi piuttosto l’imprimitura
su cui dipingere; il secondo è un episodio, che comincia a poema
inoltrato e finisce prima di questo; rimane prevalente l’amor di quei
due, inventato per glorificare gli Estensi, di cui quella coppia dovea
fingersi capostipite. Sicchè soggetto è l’adulazione; adulazione bassa
a principi immeritevoli, e per la quale inventa quegli Enrichi, quegli
Azzi, quegli Ughi, che mai non esistettero se non nelle elucubrazioni
di qualche genealogista.

Italia boccheggiava sotto il calcagno straniero, il tradimento era
diritto, il manto di Pietro stracciato, i Turchi minacciosi, i costumi
pervertiti. Qual dignità per un poeta che fosse comparso a rialzar la
coscienza nazionale; ed elevandosi nelle serene regioni dell’eterna
bellezza, avesse espresso il lato serio della vita, gl’impeti sublimi
del cuore, la grandezza morale dell’uomo e della nazione, celebrato le
benefiche virtù, il ben usato valore!

Orlando, il quale non dà il titolo al poema se non per fare riscontro
a quel del Bojardo, comincia con lamenti bellissimi, ma da vagheggino;
abbandona Carlo quando di lui avrebbe maggior uopo; le sue pazzie
il rendono un flagello di Francia; senza di lui si vince la guerra;
nè rinsavisce che per distruggere le reliquie del nemico e uccidere
Agramante, re che fugge senza esercito più nè regno, e già mal condotto
da Brandimarte; del resto non una battaglia dirige, non un assalto,
salvo consigliare Astolfo nell’impresa d’Africa, agevole impresa contro
un regno sprovveduto e con esercito creato per miracolo. Avvegnachè
tanto valore de’ paladini non approda se non sostenuto da continui
prodigi, di soccorsi arrivati alla guida d’angeli, di sassi conversi in
cavalli, di foglie in navi.

Dal nome di Carlo Magno in fuori, tutto v’è favoloso; Carlo stesso non
era imperatore quand’ancora non era calato in Italia[117]; e somiglia
a un tralignato rampollo di razze vecchie, sprovvisto di carattere
proprio, amico del far nulla; uno scaltro lo corbella grossolanamente,
impunemente l’insulta un valoroso; spada e scettro abbandona a chi
li sa ghermire; dà ordini che non sono obbediti; trova in discordia i
suoi paladini, e non vale a ricomporli in pace; ha bisogno estremo di
loro, ed essi, invece di accorrere alla chiamata, esercitano coll’armi
le private querele; nè egli ricupera la sdruscita potenza se non
sacrificando la propria dignità. Tanti dotti splendeano alla corte di
Carlo, e l’Ariosto non sa rammentare che un Alfeo, il quale dorme al
campo, non si sa perchè (c. XVIII). Vuol imitare il Niso ed Eurialo
di Virgilio, e li trasporta fra Mori, ove l’amicizia di Cloridano
e Medoro non è meno spostata che la libertà onde vagano Angelica,
Marfisa, altre donne orientali. Nè Parigi era allora città di conto,
nè fu mai assediata da Mori; nè i Mori avevano in mano Gerusalemme,
nè già fondato era il regno d’Ungheria; e non che tutti quei re mori,
sono baje l’imperator greco Costantino e suo figlio Leone, che han
per insegna l’aquila d’oro a due teste, e che pugnavano per ricuperare
Belgrado dai Bulgari.

Vivendo in sì gran lume d’arti belle e di scienze, in queste vaneggiò
affatto, di quelle mostrò ignorare e pratica e teorie. I suoi palagi
sono bizzarre mostruosità; le pitture esprimono azioni successive[118].
Conducendo Astolfo nella luna, falla negli elementi di cosmogonia;
crede quell’astro eguale o poco minor della terra _perchè_ non ha
luce. Altri viaggiatori «lasciando Tolemaide e Berenice e tutta Africa
dietro, e poi l’Egitto, e la deserta Arabia e la felice, sopra il mar
Eritreo facean tragitto» (1º dei cinque canti).

Della cavalleria, al tempo suo, si vedevano ancora scene serie, come le
sfide di Carlo V con Francesco I, come il torneo dove fu ucciso Enrico
II di Francia; e appena un anno prima che il suo poema si stampasse,
Bajardo armava cavaliero il re Francesco dicendo, — Venga come se fosse
Orlando od Oliviero, Goffredo o Baldovino». Non poteva egli dunque
proporsi di metterla in discredito; oltrechè, nel mentre in un canto
egli la beffa, nell’altro ne ragiona seriamente; e qualora c’inebbria
di sangue e dipinge il macello di migliaja d’inermi, noi restiamo
indignati contro gli eroi non meno che contro il poeta, il quale ha
coraggio di ridere fra carnificine di ottanta e centomila il giorno,
ove molti dei cristiani e quasi tutti gli eroi musulmani finiscono
a morire, ove le stragi sono così continue che il poeta stesso pare
talvolta stancarsene e grida: — Ma lasciamo perdio, signore, omai
di parlar d’ira e di cantar di morte» (c. XVII); noi fa però che per
cantare altre ire ed altre uccisioni.

Gli dan lode d’immaginoso: ma nei precedenti, e massime nel Bojardo,
già erano ordite le favole ch’egli tessè, e che talvolta sciolse,
per verità, stupendamente, e abbandonando (eccetto nelle avventure
di Ruggero con Alcina) l’allegoria, con cui il Bojardo avea creduto
dover sorreggere l’immaginazione[119]. Comincia con versi di Dante,
finisce con versi di Virgilio; dai predecessori imitò i rapidi e crudi
passaggi, e la sconnessione, e il mancar d’un cominciamento e d’uno
snodo.

D’altra parte, qual cosa è più facile delle invenzioni fantastiche,
quando non devano essere riscontrate dalla ragione? E coll’Ariosto
versiamo in un mondo perpetuamente falso, tra eroi che si tempestano
di colpi senza mai ferirsi, che randagi per foreste selvagge, pure
conoscono le cortesie del Cinquecento; fra donne che avvincendano
l’amore e le battaglie; fra maghi ed angeli che alternamente sovvertono
l’ordine della natura, sicchè nelle buffe inverosimiglianze il
fantastico distrugge se medesimo. Eroi uccisi in un canto, ne’ seguenti
ricompajono ad uccidere. Angelica, causa di tante risse, scompare a
mezzo del poema; e inerme bella, va da Parigi alla Cina, siccome il
poeta andò astratto da Modena a Reggio in pianelle. Direste che col
balzar di meraviglia in meraviglia, voglia torre alla riflessione
di appuntarne le sconvenienze; nè comprende che la grand’arte d’ogni
poesia sta nell’ammisurare la finzione al vero in tal guisa, che il
meraviglioso s’accordi col credibile.

Rinaldo e Astolfo vanno traverso agli spazj del cielo e all’Italia,
eppure non s’imbattono mai in arti, in mestieri, in leggi, in quello
di che vive l’umanità, in quello di che era pieno il Cinquecento.
D’Italia insigne vanto sono Colombo, Americo, il Cabotto; e l’Ariosto,
parlando della scoperta di nuovi mondi, non accenna che a Portoghesi
e Spagnuoli, e ne trae occasione di encomiare Carlo V, «il più saggio
imperatore e giusto che sia stato e sarà mai dopo Augusto» (c. XV).
Una sola volta e’ ricorda d’avere una patria, per rimbrottare i
Cristiani che esercitano l’ire fra sè e contro la terra nostra, invece
di respingere l’irruente Musulmano. Poi, come uno di quei meschini
che mendicano la lode col prodigarla, nell’ultimo canto affastella
ai gloriosi contemporanei altri bassi nomi, talchè gran lamento se
gli levò incontro, quali lagnandosi d’essere dimenticati, come il
Machiavelli, quali credendosi mal qualificati, quali confusi alla turba
o male accantati.

E poemi e ogni altro libro, in tanto son lodevoli in quanto porgono
un concetto utile e grande: sparpaglia il sentimento, e n’avrai
impressioni diverse, che, come i circoli dell’acqua percossa con una
pietra, l’una cancella l’altra, nessuna rimane. Ora l’Ariosto, ridendo
di sè, del soggetto, de’ lettori, diresti siasi proposto distruggere i
sentimenti man mano che li suscitò: ti vede atterrito? eccoti una scena
d’amore; commosso? ti fa il solletico; devoto? ti lancia una lascivia.
E celiasse solo degli uomini; ma non la perdona alle cose sante; mette
in beffa Iddio (c. XIV) facendogli dare puerili comandi; l’Angelo,
servo balordo e villano, vistosi tradito e ingannato dalla Discordia,
cerca questa, e «poste a lei le man nel crine, e pugna e calci le dà
senza fine, indi le rompe un manico di croce per la testa, pel dorso
e pelle braccia» (c. XXVII). Continua empietà è quell’aereo viaggio,
dove san Giovanni ad Astolfo mostra le Parche, il Tempo ed altrettali
gentilità, e dove esso evangelista è paragonato agli storici che
travoltano il vero (c. XXXV); e Dio a Mosè sul Sinai insegna una erba,
«che chi ne mangia, fa che ognun gli creda» (IIIº dei cinque canti).
Motti degni dell’Aretino.

Triviale è la moralità de’ capocanti, allorchè non sia ribalda.
Or t’insegna che il simulare _è le più volte_ ripreso (c. iv); ora
che «il vincere è sempre mai laudabil cosa, vincasi per fortuna o
per ingegno» (c. XV). Se esorta le donne a non dare orecchio agli
amadori, i quali, conseguito il desiderio, volgon le spalle, tosto
se ne ripiglia spiegando ch’esse devono dunque fuggire i volubili
giovanetti, e attaccarsi alla mezza età. Stranissime idee del vizio e
della virtù: unica gloria la forza militare; talchè Ruggero, Marfisa,
che più? Gradasso, Sacripante, Rodomonte, le cui carnificine non sono
tampoco discolpate dal dovere della difesa, pajongli «drappello di
chiara fama eternamente degno» (c. XXVII). Il _buon_ Ruggero _di virtù
fonte_, ama colla volubilità di un sergente; appena Bradamante sua con
tanti affanni lo liberò dal castello di Atlante, egli vola ad Alcina,
e dimentica «la bella donna che cotanto amava»; poi dalla maga non si
spicca per ragioni, siccome da Armida Rinaldo, sibbene perchè altri
incantesimi gliela discoprono vecchia e sformata. Guarito n’esce, e
campa Angelica dal mostro; ma non istà da lui di toglierle il fiore,
che ad una donzella è seconda vita. Quella sua cortesia di gettar nel
pozzo lo scudo incantato, che vale, s’egli ritiene l’altr’arme e la
spada, tutte fatate al par di quelle d’Orlando, e che tolgono ogni
merito al valore? Fin la donna egli abbandona, per restar leale ad
Agramante; poi quando gli è affidato il duello con Rinaldo, decisivo
di quella guerra, combatte lento, più difendendosi che aspirando alla
vittoria. O ricusar doveva, o non mancar dell’usato valore. Bella
è l’azione sua verso Leone, ma egli s’era dritto colà per torgli le
corone, e così esser degno sposo: ottima ragione di rovesciare troni!
Poi, come il magnanimo Leone in un subito divenne così vilissimo
da mandare altri a combattere per sè? Quando Ruggero e Bradamante
tengono in mano lo scelleratissimo Marganorre, il difendono da chi
volea dargli la morte, ma per qual fine? perchè «disegnato avean farlo
morire d’affanno, di disagio, di martire» (c. _xxxvii_). Zerbino _di
virtù esempio_, gravissimamente offeso da Oderico, pregato da questo
di perdono, pare v’inchini l’animo riflettendo «che facilmente ogni
scusa s’ammette quando in amor la colpa si riflette»: voi credete di
applaudire finalmente a un atto di virtù; niente! egli non l’uccide
per obbligarlo a girare un anno con Gabrina, certo che «questo era
porgli innanzi un’altra fossa, che fia gran sorte che schivar la possa»
(XXIV).

Se i duchi d’Este aveano senso morale, doveano stomacarsi di discendere
da razza, ove, non gli uomini solo, ma le donne erano ferocemente
micidiali. Bradamante, per consiglio di Melissa, uccide Pinabello;
vendetta inutile: e poniam fosse giusta secondo la guerra, è di buona
cavalleria il trucidarlo mentre fugge, nè si difende che con alti
gridi e con chiedere mercede? (c. XXIII). Nè solo ella e Marfisa sono
fiere nel combattere per la loro causa, ma pigliano vera dilettanza del
sangue; e quando Ruggero e Rinaldo combattono per la risoluzione del
gran litigio, elle tengonsi in disparte, frementi che il patto le freni
dal metter la mano nelle prede adunate (c. XXXIX); e appena vedono
rotte le tregue, liete si tuffano nella strage.

Io non amo si spogli la donna delle naturali sue qualità per cacciarla
fra l’armi; ma se tale fantasia sorride ai poeti, non dimentichino
almeno la gentilezza d’un sesso fatto per l’amore e la pietà.

Altri indaghi perchè generalmente i lirici, dai siculi cominciando,
abbiano velato l’amore, mentre agli epici, come ai novellieri,
piacque voluttuoso ed osceno, e persino il Tasso, anima candidissima
e in poema sacro, non isfuggì lascivia di pitture ed epicureismo di
consigli. Ma nessun peggio dell’Ariosto, zeppo di lubriche ambiguità
e d’immagini licenziose qui come nelle commedie. Chi ci tacciasse di
non collocare l’uomo in mezzo a’ suoi tempi, sarebbe smentito da tutta
l’opera nostra, e noi conosciamo i vizj di quell’età mezzo pagana
e mezzo superstiziosa: ma dietro agli errori e ai pregiudizj sta il
genio dell’uomo e la poderosa sua volontà; poi scagionando l’autore,
rimane il difetto dell’opera, nè alcuna apologia potrà togliere che sia
giudicata bellissima e perversissima.

Dissero che l’Ariosto abbraccia tutti gli stati e le condizioni: ma
per entro quel barbaglio di meraviglie perde di vista l’uomo, fallisce
ed esagera il linguaggio della passione, e la donna virtuosa, la madre
di famiglia, l’amante casta o in lotta con se stessa non t’offre mai;
sibbene sozze Gabrine e Origille, o tirannesche madri di Bradamante, o
voluttuose amiche, fra le quali è a relegare fino Isabella, che resiste
alla violenza, ma nulla ha negato all’amore.

Dopo la prima edizione del 1516, un’altra ne fece l’autore nel 1532,
dopo vissuto lungamente a Firenze[120], con moltissime mutazioni e
indicibili miglioramenti, massime di stile; e corrente quel secolo,
sessanta volte fu ristampato, sì caro diventò. Perocchè, se pochissimo
quanto ai fatti, moltissimo inventò l’Ariosto quanto allo stile, e
alle particolarità che sono la vita d’un racconto e ch’egli sceglie con
finissima arte, come pittore che storie vecchie riproduce con disegno
e colorito nuovo; onde quel ritrarre così vivo, così vario, che lo
renderà miniera inesaurabile di quadri. Ridendo con una dabbenaggine
arguta, a guisa d’un beffardo che racconta stravaganze tenute per
serie da altri, ma che non vuol parerne nè complice nè zimbello;
signore delle armonie quanto il Petrarca; mirabilmente versatile
nell’espressione, senza la pretendenza, troppo ordinaria negl’Italiani,
senza la frase tessellata, senza abuso di classiche rimembranze,
discernendo per istinto le eleganze dall’affettazione, il vezzo natìo
dell’idioma parlato dal ribobolo mercatino; falseggia qualvolta tocca
il figurato, ma quando procede per la piana e fuor di metafora,
meravigliosamente produce quel piacere che nasce dal conversare
alla domestica con uno de’ più begl’ingegni, non d’Italia solo, ma
del mondo. È la maggior prova che i libri vivono per lo stile; e da
questo il Galilei confessava avere appreso a dar chiarezza e grazia a’
suoi dettati filosofici; un uomo di buon senso dichiarava la lettura
dovrebbe concedersene soltanto a quelli che fecero alcuna bella azione
a pro della patria: ma Silvio Pellico lo qualificò un uom vulgare con
sommo ingegno. E degli ingegni è grande, è incalcolabile la potenza;
e guaj a chi la sconosce, peggio a chi l’abusa! L’uomo, allorchè si
accinge a scrivere, tremi delle conseguenze d’ogni sua parola. Ai
pensamenti del Machiavelli è debitrice Italia di lutto e d’infamia oh
quanta! Dagli scherzi dell’Ariosto, che stravolge le idee di virtù, che
divinizza la forza, che fa delirare il raziocinio, che imbelletta il
vizio e seconda gl’istinti voluttuosi, forse la patria trasse più mali
ch’ella stessa nol sospetti.

E noi giudichiamo inesorabilmente i sommi, non per menomarne la gloria,
ma per iscaltrire la gioventù, che speriamo c’intenda, e che chiediamo
giudice altrettanto austera di noi e de’ contemporanei[121].

Rigorosissimi verso questo grande, che diremo de’ suoi imitatori,
sprovvisti del genio che tanto a lui fa perdonare? Luigi Alamanni
da Firenze (1495-1556), oltre la _Coltivazione_, una sequenza di
poemi cavallereschi compose non per altro che per secondare il gusto
d’Enrico II; il _Girone Cortese_, versificazione d’un romanzo francese;
l’_Avarchide_, o l’assedio di Bourges (_Avaricum_), dove Agamennone,
Achille, Ajace traveste da Arturo, da Lancilotto, da Tristano,
ricalcando interamente i fatti e i detti e le descrizioni omeriche;
onde la sua condanna sta nella lode datagli da suo figlio, di toscana
Iliade. Aggiungete satire, stanze, elegie, salmi, tutto mediocre.
Alfine si ritirò in Provenza, povero di fortuna, e perciò rifiutato da
una fanciulla di cui invaghì[122].

Lodovico Dolce veneziano, scrittore instancabile di grammatiche,
retoriche, orazioni, storia, filosofia, satira, lirica, traduttore,
editore, commentatore, correttor della stamperia del Giolito, fece
sei poemi, fra cui le _Prime Imprese d’Orlando_, che sarebbero i
precedenti del Bojardo. Il seguito ne sarebbe l’_Angelica Innamorata_
di Vincenzo Brusantini ferrarese; e mettetevi insieme i _Reali di
Francia_ dell’Altissimi, la _Morte di Ogero danes_e, la _Trebizonda,
Dama Rovenza dal Martello, Marsiglia Bizzarra_. D’ogni dove pullulavano
imitatori dell’Ariosto, fin tra’ ciabattini; e l’_Aspramonte_, il
_Dragoncino_, l’_Altobello, Anteo Gigante_, l’_Antifior d’Albarosia_,
l’_Oronte Gigante_, il _Falconetto delle battaglie_, i _Fioretti
de’ Paladini_, lo _Sfortunato_, e le _Marfise_, e le _Bradamanti_,
e i _Ruggeri_, e tutti i paladini della favola ariostesca ebber
poemi che vissero quanto i romanzi de’ nostri giorni. Il Bernia fece
l’_Artemidoro, dove si contengono le grandezze degli Antipodi_, e
l’_Erasto_, le _Pazzie amorose di Rodomonte secondo, Parigi e Vienna_.
Giambattista Pescatore di Ravenna scrive in venticinque canti la
vendetta, e in quaranta la morte di Ruggero; «giovanile fatica fatta
in breve tempo, piuttosto per esercizio di mente che per vaghezza di
fama»: eppure più volte ristampata, benchè flacida di stile e povera
d’armonia. Francesco de Lodovici veneziano volle qualche novità
coll’abbandonare l’ottava, e cantò i trionfi di Carlo Magno in due
parti di cento canti ciascuna, e ciascun canto di cinquanta terzine: a
Dio surrogando l’Amore, il Vizio, la Natura, la Fortuna, Vulcano; alle
lodi dei re quelle del doge Andrea Gritti.

In quella folla d’epopee, fatte tra il riso e lo sbadiglio, per
reminiscenze ed imitazione, come si facevano sonetti amorosi perchè
Petrarca fece l’innamorato, e dove alle adulazioni e alle lascivie si
trovava scusa nell’esempio dell’Ariosto, non si toglieano di mira che
le industrie materiali di mestiero. Il bisogno di creare, d’innovare,
non si sentiva; perduta l’intelligenza del medioevo, nè ancora
all’ingenua contemplazione della natura surrogata quella finezza di
osservazioni, quell’analisi dell’uman cuore che costituisce la poesia
dei secoli colti; i personaggi sono o ribaldi o virtuosi tutti d’un
pezzo, con vizj e virtù generiche, non quella mistura che è propria
della povera nostra umanità.

Poniamo tra questa pula anche l’Anguillara, che traducendo le
_Metamorfosi_[123] con espressione facile al par del suo testo, potè
riuscire più prolisso e più sconcio di quello; eppure ebbe in quel
secolo trenta edizioni. Morì di miseria e libidine.

La memoria del miglior figlio conserva quella di Bernardo Tasso
(1443-1569). Alcuno trarrebbe la famiglia di lui dai Della Torre di
Valsassina, che signoreggiavano a Milano, e che al prevalere de’
Visconti ricoverati nelle montagne di Tasso fra Bergamo e Como,
v’ebbero in signoria Cornello. Al 1290 un Omodeo Tasso stabilì le
poste, invenzione perdutasi nel medioevo, e che da’ suoi discendenti
diffusa in Germania, in Fiandra, in Ispagna, valse a quella casa
un’illustrazione di genere particolare e il titolo di principi,
conservato finora nei signori Della Torre e Taxis. Un Agostino Tasso
era generale delle poste d’Alessandro VI, e da un suo fratello nacque
Gabriele, da cui Bernardo. Questi, senz’altro patrimonio che la nobiltà
e una diligente educazione datagli dallo zio vescovo di Bergamo,
s’affisse di buon’ora alle Corti; e prima servì da secretario e da
messo a Guido Rangone generale della Chiesa, poi alla duchessa Renata
di Ferrara, indi a Ferrante di Sanseverino principe di Salerno; e colmo
d’onorificenze e di pensioni, partecipò alla spedizione di Carlo V
contro Tunisi e a quelle del Piemonte e di Fiandra. Ma il Sanseverino,
essendo deputato a Carlo V da’ Napoletani per isviare il flagello
dell’Inquisizione spagnuola, cadde in disfavore a questo, sicchè
gettossi coi Francesi. Bernardo il seguì; come ribelle ebbe confiscati
i beni; e mentre il Sanseverino andava a Costantinopoli a sollecitare
il Turco, Bernardo a Parigi in prosa e in versi confortava Enrico II
all’impresa di Napoli, ma invano. Tornato in Italia, vi perdette la
moglie Porzia de’ Rossi[124], e ne’ disastri della guerra d’allora si
trovò sul lastrico, finchè Guidubaldo duca d’Urbino non l’accolse, e
gli diede agio a finire il suo poema: di poi visse a Mantova, e governò
Ostiglia.

Vita sì tempestosa non interruppe il suo poetare. Fra le altre, fu
amoroso d’una Ginevra Malatesta, e quando essa sposò il cavaliere degli
Obizzi, egli espresse la sua disperazione in un sonetto che tutte
le colte persone d’Italia ebbero a mente. Compose poi due poemi, il
_Floridante_, di cui più non si parla, e l’_Amadigi_. Il soggetto gli
era dato dalla moda, e dalle lodi attribuite all’Amadigi, settant’anni
prima pubblicato dallo spagnuolo Montalvo. Volea farlo in versi
sciolti, ma gli amici e i principi lo persuasero all’ottava; volea
farlo aristotelicamente uno, ma avendo letti i dieci canti alla corte,
gli sbadigli e il diradarsi dell’uditorio attribuì alla regolarità,
onde intrecciollo di tre azioni e moltissimi episodj. Finito, lo
sottopose a varie persone: col qual modo non si cerca profittare d’un
buon giudice, ma avere consenso e lode, comprata con condiscendenze. I
cento suoi canti cominciavano tutti con una descrizione del mattino,
con una della sera si chiudeano, se gli amici non l’avessero indotto
a sopprimerne alcune. Avendo dapprima diretto il poema a onor e gloria
di Enrico II e della Casa di Francia, cui derivava da Amadigi, di poi,
per secondare il duca d’Urbino, lo dedicò a Filippo II, cambiando
moltissime parti ed episodiche ed essenziali. Non era egli dunque
trascinato da genio prepotente, ma deferiva all’opinione altrui, e
tanti cambiamenti elisero ogni spontaneità del primo getto. Alfine
il Muzio, l’Atanagi, Bernardo Cappello, Antonio Gallo furono a Pesaro
convocati dal duca per esaminare l’opera, la quale era aspettatissima:
l’accademia di Venezia il pregò lasciarla stampare da essa, ma egli
preferì farlo per proprio conto. Eleganza e morbido stile ne sono il
carattere, ond’egli medesimo diceva: — Mio figlio non mi supererà mai
in dolcezza». E veramente d’immagini e d’espressioni è ricco quanto n’è
indigente Torquato; ma sempre vi scorgi studio e non natura, artifizio
non ispontaneità; esatto ai precetti grammaticali e retorici, corregge
ed orna lo stile, ama le descrizioni, ripiego de’ mediocri, ma non
interessa mai, mai non palesa il vigore che viene dalla semplicità.
Lasciamo che Sperone Speroni lo anteponga all’Ariosto, come il Varchi
facea col _Girone Cortese_; sta a mille miglia da quella smagliante
varietà d’intrecci e da quella limpidezza di stile; tu il leggi da capo
a fondo senza che un’ottava ti resti in memoria o ti lasci desiderio di
rileggerla.

Non nelle laidezze de’ poemi consimili, ma si bruttò nelle adulazioni
comuni; e al cardinale Antonio Gallo scriveva il 12 luglio 1560: —
Mando a S. E. due quinterni dell’_Amadigi_, dove sono i due tempj
della Fama e della Pudicizia: nell’uno laudo l’imperatore Carlo V,
il re suo figliuolo, molti capitani generali illustrissimi, così de’
morti come de’ vivi, e altri illustri nell’arte militare; nell’altro
lodo molte signore e madonne italiane. E Dio perdoni all’Ariosto che,
coll’_introdur questo abuso_ ne’ poemi, ha _obbligato_ chi scriverà
dopo lui ad imitarlo. Che, ancora ch’egli imitasse Virgilio, passò,
in questa parte almeno, i segni del giudizio, sforzato dall’adulazione
che allora ed oggi più che mai regna nel mondo. Conciossiachè Virgilio
nel VI, conoscendo che questo era per causar sazietà, fece menzione
di pochi; ma egli dimora nella cosa, e di tanti vuol far menzione,
che viene in fastidio. E pur _è di mestieri_ che noi che scriviamo da
poi lui, andiamo per le istesse orme camminando. A me perchè d’alcuni
_bisogna_ ch’io parli per l’obbligo di benefizj ricevuti, d’alcuni per
la speranza ch’io ho di riceverne, d’alcuni per la riverenza, d’alcuni
per merito di virtù, d’alcuni _mal mio grado_... tanto mi sarà lecito
dire, che in questa parte fastidirò meno che l’Ariosto».

Ma da quel Carlo V ch’egli sollucherava, eragli stato tolto il pane
pe’ suoi figliuoli; e invece d’acconciarsi a un onorato mestiero,
colle cortigianerie ne invocava le misericordie, e al cardinale Gallo
scrivea, il 18 maggio di detto anno: — Se la magnanimità del cattolico
re, al quale ho dedicato questo poema, non si move a pietà delle mie
disgrazie, e in ricompensa di tante mie fatiche non fa restituire a’
miei figliuoli l’eredità materna, e non ristora in alcuna parte i miei
gran danni, io mi trovo a mal partito».

Chi c’intende sa perchè abbondiamo in queste particolarità, nè crederà
superfluo l’avvertire come Bernardo Tasso compose que’ cento canti
senza tampoco sapere se il suo Amadigi fosse di Gallia o di Galles,
cioè nè dove nè quando succedano que’ fatti; poi gliene viene rimorso,
e — Non sarebbe egli peccato veramente degno di riprensione; peccato,
non di trascuraggine, ma d’ignoranza, o di quelli che Aristotele vuole
nella sua Poetica sieno indegni di escusazione, se io pubblicassi
questo poema sotto il titolo d’Amadigi di Gaula, senza sapere dove
fosse questo regno? Non volete voi che io nomini qualche porto?
qualche città principale?» e sta persuaso che Gaula sia uno sbaglio
dell’ignorante scrittore invece di Gallia, e che l’erede del trono
inglese s’intitoli principe di Gaula per le antiche pretensioni sopra
la Francia; e propenderebbe ad intitolare il suo Amadigi di Francia,
e ne interroga Girolamo Ruscelli, pregandolo a chiederne l’ambasciator
d’Inghilterra od altro pratico[125].

Pochi s’avventurarono a cantare fatti contemporanei, come nel
_Lautrecco_ Francesco Mantovano, nella _Guerra di Parma_ Leggiadro
de’ Gallani, nell’_Alemanna_ ossia la Lega Smalcaldica l’Olivieri di
Vicenza: ma non si leggono se non i _Decennali_ del Machiavelli pel
nome dell’autore.

Gian Giorgio Trissino vicentino (1478-1550), ornatissimo di lettere,
s’indignò al vedere ogni cosa risolversi in buffonerie, sulla scena
come nell’epopea; e determinato d’opporvi soggetti serj e patrj,
compose l’_Italia liberata_. Tema infelice, perocchè l’Italia
non guadagnò nulla dalla liberazione gota, onde manca l’interesse
nazionale; mancano pure gli eroi, giacchè a Belisario la fama derivò
dalle imprese d’Africa, e a Giustiniano dalle leggi. Doveva però
solleticare la curiosità sì pel verso sciolto a cui egli primo si
perigliava[126], sì per la nuova ortografia: ma troppo difettava
di vena poetica, e trapiantare la greca semplicità mal presunse in
un secolo pomposo e in lingua di ben altra indole: a tacere quella
refrattaria tepidezza, manca sempre d’inventiva e d’affetti; ignaro
delle convenienze di stile, frasi prosastiche e plebee annesta fra
discorsi di eroi; a Giunone attribuisce un linguaggio da merciaja,
come nella sua _Sofonisba_ non dialoga altrimenti che ne’ _Simillimi_.
Sperava l’immortalità, come tutti i verseggianti d’allora[127]; poi
vedendo cascata nell’oblìo quella sua prosa misurata, l’attribuiva al
non avere anch’egli cantato le follìe cavalleresche[128]: ma in fatto
poteva accorgersi come (per usar la sua frase) _magistro Aristotele ac
Homero duce_ si può fare una meschinissima epopea.

Questo mal esito svogliò ancor più dal compor serio, e fece prevalere
le composizioni leggere e la lepidezza; onde Dionigi Atanagi scriveva:
— Gli Stoici ed i Catoni ai nostri giorni sono assai rari. Anzi, se
alcuna età giammai amò il riso, o che ’l numero delle molestie sia
fatto maggiore, o che la natura sia divenuta più tenera, o qual altra
se ne sia cagione, questa veramente par che sia dessa»[129].

Francesco Berni da Lamporecchio (-1536) conferì il nome alla poesia
burlesca, che ben prima di lui avea fatto sue prove. Stette egli ai
servigi del cardinale Bibiena, che «non gli fece mai nè ben nè male»;
poi del Ghiberti datario, che l’inviò a far «quitanze e diventare
fattore d’una badia»; fu carissimo a Clemente VII, finchè si ritirò a
Firenze sopra un canonicato. Egli ci si dipinge come un giovialone,
dilettantesi soprattutto del non far nulla[130] e dello star sulla
berta; innamorato sempre, discretamente libertino: eppure qualche
volta tocca alle miserie correnti; or compiange i cortigiani, usciti
dalle mani dei Medici per cadere in quelle di Tedeschi e Spagnuoli e di
Adriano papa avaro[131]; or impreca al duca Alessandro e a chi fa per
lui[132]. Anzi affermano che da questo fosse richiesto di avvelenare il
cardinale Ippolito, e l’aver ricusato gli costasse la vita.

Quella pigrizia trapela dal compor suo alla carlona, con un tal quale
timido coraggio e buona dose di libertinaggio e d’inurbanità: ma chi
lo legge per ridere, non vi trova lepidezza maggiore che in altri
molti contemporanei, e l’arguzia sua consiste men tosto nel frizzo che
nell’espressione, qual eragli data dal parlare natìo[133]. Per questa
medesima accidia, invece d’ideare un poema nuovo, tolse a rifondere
l’_Orlando innamorato_ del Bojardo; all’espressione ingenua e calzante
surrogando la generica; all’indipendenza di una natura doviziosa e
vivace sovrapponendo il decoro richiesto da società più raffinata
e meno spontanea; eppure, senza crear nulla, fece dimenticare il
predecessore. Tanta è l’importanza dello stile!

I capitoli furono la consueta forma, e il paradosso il fondo dei
berneschi; e per non perdermi a nominarne mille, accennerò Giovanni
Mauro dei signori d’Ariano nel Friuli, appartenente all’accademia de’
Vignajuoli, che univasi presso Uberto Strozzi: fu amico ed emulo del
Berni, colle cui poesie vanno spesso unite le sue. Cesare Caporali
perugino, cercando uscir dalle peste, verseggiò un _Viaggio al Parnaso_
ed una _Vita di Mecenate_, modelli quello al Boccalini e questo al
Passeroni, con episodj continui, con un misto di bonarietà e malizia,
di particolarità moderne e fatti antichi. L’Arrighi nella _Gigantea_
non vuol altra musa che la pazzia: — Venga l’alma Pazzia dolce e
gradita, — Ch’io la vo sempre mai per calamita»; e il Grassini gli
oppone la Nanea, ove i giganti vincitori degli Dei sono vinti dai
nani. Veramente tempi da piacevoleggiare erano quelli! Eppure, quasi
la lingua natìa non bastasse alle celie, inventarono la _pedantesca_,
italiano latineggiante introdotto da Fidentio Glottochrysio
Ludimagistro, cioè Camillo Scrofa vicentino, che non dissimula i suoi
gusti pederasti; e la _maccheronica_, latino italianeggiante.

Teofilo Folengo (-1544), nato a Cipada presso il lago di Mantova,
professatosi benedettino, poi per amore gittate via la tonaca e la
vergogna, errò pel mondo, e mentre poteva con poesie serie farsi
salutare emulo di Virgilio, col nome di Merlin Coccaj s’imbrodolò nel
maccheronico, componendo con quel mimico innesto non epigrammi soltanto
ed egloghe, ma interi poemi, celebrando bagordi e sguajataggini ed
un’epica voracità; buffoneria inesauribile, sostenuta da squisito
sentimento dell’armonia[134]. Rabelais lo cita spesso e più spesso
lo copia, ma dirigendosi a qualche intento o buono o cattivo, mentre
il Folengo altro non fece che uccellare a farfalle. Pentito, ritornò
frate, e gli errori e l’oscenità tentò redimere componendo in ottave la
vita di Cristo e varie rappresentazioni sacre.

Altri sui vizj di quel secolo avventaronsi indignati. Le satire
già erano messe in moda dai _Beoni_ e dai _Canti carnascialeschi_:
la terza rima vi fu applicata da Antonio Vinciguerra, segretario
della repubblica fiorentina, nelle sei contro i peccati capitali che
impestavano Italia e la Chiesa; rozze e dure, eppur sapute a mente
da tutti. Quelle dell’Ariosto meglio si direbbero epistole; pedestri,
individuali, di rado accostate alla quistione civile e di fuga; frizzi
di vivace letterato che, desideroso di viver bene, d’avere miglior
abito, maggiore libertà di arte, delle traversie non prende rabbia
ma impazienza; spiritoso sempre, violento talora ma senz’asprezza, al
modo d’Orazio partendo sempre da se medesimo, e dipingendosi come un
epicureo di placidi godimenti. Tutto fuoco invece e biliose invettive,
il fuoruscito Alamanni senza riguardo passa in rassegna i governi
d’Europa; e si sveleniscono pure Gabriele Simeone e Pietro Nelli: il
Bentivoglio procede meglio, così da beffa e da senno: il Lasca celebra
la piazza imprecando a cotesto tedio del pensare.

Frequente bersaglio a’ satirici è il vivere lauto dei cherici e de’
prelati, e la scostumatezza de’ monaci. Giovanni Mauro va in estasi
davanti a questo dolce guadagnare il paradiso colle mani in mano, e
tesse la storia della bugia, che nata in Grecia, tragitta a Sicilia,
a Napoli, infine a Roma, dove nessuno ancora la sturbò dal trono, e
dove essa è lo scorciatojo per arrivare agli onori dopo venduto il
caldarrosto per la via. Francesco Molza predica felice lo scomunicato
perchè non ha più nulla a partire con Roma.

Con altrettanto ardore si coltivò un genere diametralmente opposto,
il pastorale; ma anche questo senza verità. Aveano dinanzi agli
occhi una natura ridente d’ogni bellezza; potevano esaminare la vita
rustica, così varia dalle cascine delle Alpi alle vallate di Sonnino;
dalle incolte pascione di Sicilia, divise da siepi di fico opunzio, a
quelle di Roma pittorescamente sparse di grandiose rovine: ma no; per
ispirarsi ricorreano alle corti di Tolomeo e di Augusto, soffiavano
nella zampogna di Teocrito e di Titiro.

L’amore del descrittivo fece coltivare anche un altro genere della
decadenza greca, il didattico. Luigi Alamanni e Giovanni Rucellaj
cantarono la _Coltivazione dei campi_ e _quella delle api_, ma non
come chi si appassiona per la natura e per le semplici diligenze
pastorali, testimonio di cuor buono: la sazievole monotonia del
primo e la prosastica cascaggine del secondo non rattengono i pedanti
dall’offrirceli come esemplari del verso sciolto. Erasmo di Valvasone
friulano scrisse della _Caccia_, oltre l’_Angeleide_, poema sulla
caduta degli angeli, che non desta interesse perchè tutt’altre passioni
che le nostre s’incontrano fra esseri perfetti come Dio od orribili
come i demonj: ma il Milton ne desunse alcuna cosa, e nominatamente
l’infelice fantasia del cannone, adoprato in guerra dai demonj[135].
Bernardino Baldi urbinate, studioso delle lingue e delle matematiche ed
uno de’ talenti più universali, soprantendendo alle fabbriche ducali
d’Urbino, vi fabbricò Santa Chiara, creduta di Bramante; imprese la
storia di Guastalla, d’ond’era abate ordinario; fece molte versioni
dal greco, tentò introdurre nuove misure di versi, dettò egloghe
pescatorie, e il poema della _Nautica_, diffuso e spesso prosastico; e
sonetti sopra Roma, benchè la contemplazione di quella città «pur nelle
sue ruine anco superba» non gli ecciti che idee di morale comune.

Donne molte salsero in fama di lettere e di coltura. La Cassandra
Fedele, tutta entusiasmo e pietà, volta dall’infanzia ad elevati
studj senza scapito della grazia e dell’ingenuità, ori o gemme mai
non portò, mai non comparve altrimenti che con un vestitino bianco e
velata il capo; ammirata per tutta Italia, venerata dai Veneziani, che
faceva stordire coll’erudizione sua classica e teologica, e che rapiva
coll’incanto e la vigoria del suo improvvisare musica e versi. Quando
Isabella d’Aragona volle attirarla a Napoli con magnifiche promesse, il
senato non sofferse che «la repubblica fosse privata de’ suoi più begli
ornamenti». Gian Bellini ebbe commissione di riprodurne i lineamenti
quando essa non finiva i sedici anni, quando cioè per cogliere al vero
una fisionomia quasi infantile eppure già vagamente ispirata, voleasi
un pennello, la cui delicata naturalezza fosse in armonia col soggetto.

Alle nozze di Lavinia, figlia di Guidubaldo d’Urbino, col marchese Del
Vasto nel 1583, vuolsi intervenissero dodici poetesse italiane: Tullia
d’Aragona, Gaspara Stampa, Laura Terracina, Chiara Matraini, Lucrezia
Gonzaga da Gazzuolo, Claudia della Rovere, Costanza d’Avalos, Ersilia
Cortese e le urbinate Elisabetta Cini, Isabella Genga, Minerva Bartoli,
Laura Battiferri.

A Tarquinia, figlia del primogenito di Francesco Molza poeta, il senato
romano decretò il titolo di cittadina, onor nuovo per donna, e il
soprannome di Unica; il Tasso le intitolò il suo dialogo dell’amore;
Francesco Patrizi il terzo tomo delle sue _Discussioni peripatetiche_,
chiamandola «la più dotta fra tutte le più illustri matrone che sono,
che furono e che in avvenire saranno».

Gaspara Stampa padovana verseggiò dietro al Collalto, guerriero il
quale non prese che tedio de’ rimati piagnistei. Veronica Gàmbara
da Brescia, in gioventù amica del Bembo, poi per nove anni moglie
a Giberto di Correggio, passò la restante vita in casta e studiosa
vedovanza. In maggior rinomo salì Vittoria, figlia del gran
connestabile Fabrizio Colonna, di soli quattro anni fidanzata al
marchese Alfonso di Pescara che n’aveva altrettanti: a diciassette si
sposarono, ma a trentacinque egli perì nella battaglia di Pavia; ed
ella disacerbò il dolore cantandolo, poi dandosi a fervorosa religione.
Amata da Michelangelo, come cosa divina lodata da Bernardo Tasso,
dal Rota, dal Costanzo, dal Minturno, dal Filocalo, dal Musofilo, da
Galeazzo di Tarsia, de’ quali era la musa ispiratrice, nessuna nube
offuscò l’illibato suo carattere[136].

Tullia d’Aragona, generata da un cardinale, bellissima, coltissima,
cinta dal fiore di letterati e di galanti, gareggiando colle
famigerate cortigiane di Bologna, di Roma, di Ferrara, di Venezia,
alfine si ritirò a Firenze a vita migliore, e pubblicò molte liriche.
Stomacata dalle sconcezze e profanità del Boccaccio, che «è da stupire
come nè anche i ladri e i traditori che si facciano pur chiamar
cristiani, abbiano mai comportato d’udir quel nome senza segnarsi
della santa croce e senza serrarsi l’orecchio come alla più orrenda
e scellerata cosa che possano udire le orecchie umane», compiangeva
le altre sudicerie de’ suoi contemporanei, i Morganti, le Ancroje,
gl’innamoramenti d’Orlando, i Buovi d’Antona, le Leandre, i Mambriani,
l’Ariosto, i quali contengono «cose lascive, disoneste, e indegne
che non solamente monache o donzelle o vedove o maritate, ma ancora
le donne pubbliche le si lascino veder per casa»; onde, scaltrita
per proprio esempio «di quanto gran danno sia nei giovanili animi il
ragionamento, e molto più la lezione delle cose lascive e brutte»,
scrisse il _Guerrino detto Meschino_, coll’intenzione «di dar lode
a Dio solo, e colla persuasione d’aver procurato al mondo un libro
da essergli gratissimo per ogni parte». Non si può encomiarla se
non del retto volere. E per verità fa scandalo non meno che stupore
l’inverecondia dominante nelle composizioni d’allora; nei canti
carnascialeschi, che ripeteansi dalle mascherate; nei capitoli, ove
troppi riscontri trova monsignor Della Casa; nelle satire, nelle
novelle, nelle commedie.

Non erano ancora dimenticati i _misteri_ del medioevo[137], anzi
continuarono assai tardi. Nel 1585 capitarono a Roma alcuni,
probabilmente finti, principi Giapponesi, mostrandosi nuovi e
convertiti ammiratori della nostra religione. Tornando per Venezia,
la repubblica volle dar loro lo spettacolo d’una delle magnifiche
sue processioni, nella quale le grandi confraternite rappresentarono
alcuni misteri. Quella di san Marco atteggiò il miracolo avvenuto nel
1242 quando (un pescatorello l’attestò al doge) una turba di demonj
avventava la più sformata procella sopra la città, se san Marco,
san Giorgio e san Nicolò non l’avessero sviata. La scuola della
Misericordia rappresentò Venezia circondata dalle Virtù, e con vesti
e gioje che costavano più di cinquecentomila ducati. La scuola della
Carità figurò la decollazione del Battista e i tre fanciulli nella
fornace. La scuola di san Giovanni rappresentava gli Evangelisti,
l’Abbondanza, le quattro Stagioni. Più ricca delle altre, quella di
San Rocco era preceduta da quattro demonj, poi vedevansi su differenti
palchi il peccato d’Adamo, il sacrifizio d’Abramo, vari atti di Mosè,
una Samaritana che dal secchiello d’argento spruzzava i circostanti,
e molti altri fatti dei due Testamenti; poi allegorie, poi il
giudizio finale. Alla confraternita di San Teodoro precedeva uno che
dall’inaffiatojo spargeva acqua rosata; poi il giudizio di Salomone,
la Sibilla che ad Augusto addita il neonato bambino, Costantino
battezzato, le beatitudini del paradiso, gli strazj dell’inferno; e
non serve dire la quantità di preti, di confratelli, di angeli, di
argenterie. Una processione consimile si fece nel 1598 in occasione
della pace fra Enrico IV e Filippo II[138]. Anche Roma godeva di
spettacoli più somiglianti ai misteri, che non ai drammi moderni, come
la storia di Costantino rappresentata il carnevale del 1484 nel palazzo
pontifizio.

Ma qui pure si vergeva al classico; e in qualche Corte, e massime
a Ferrara, si recitavano componimenti antichi: Pomponio Leto
espose davanti a Sisto IV commedie di Plauto e Terenzio, e nel
1486 in Ferrara i _Menecmi_ tradotti. Non andava festa senza
rappresentazioni drammatiche; e per dirne una, Lucrezia Borgia
quando sposò il duca di Ferrara, vi giunse con tale accompagnamento,
ch’erano quattrocentoventisei cavalli, ducentrentaquattro muli,
settecentocinquantatre persone. Legga in Marin Sanuto chi vuole le
particolarità di quell’entrata[139], splendida se altre mai, e i
giuochi di funambuli e le giostre e i balli: noi diremo come centodieci
commedianti rappresentarono cinque commedie di Plauto, con intermezzo
di moresche, ossia di danze pirriche e pantomime di fatti mitologici,
con musica del Tromboncino. A Venezia l’11 febbrajo 1514 si rappresentò
l’_Asinaria_ di Plauto in terza rima[140].

In questa città al principio del secolo XV per le rappresentazioni
si formarono molte Compagnie dette _della calza_, perchè la loro
divisa consistea nel colore d’una delle brache. Ciascuna distinguevasi
con nomi particolari, degli Accesi, dei Pavoni, dei Sempiterni,
dei Cortesi, dei Floridi, degli Eterei, ecc., con priore, sindaco,
secretano, notajo, cappellano, messaggio[141]. Gli statuti, approvati
dai Dieci, venivano solennemente giurati; e imponevano fratellevole
benevolenza, non contese, non propalare le decisioni, festeggiare
alle nozze di ciascun compagno; sposandosi far donativi a questi;
accompagnarne il mortorio, e portare il lutto. Prendeano a stipendio
artisti valenti per dirigere le loro feste; e il Tiziano ebbe soldo dai
Sempiterni; una ordinò al Palladio un teatro nel grand’atrio corintio
del monastero della Carità, e a Federico Zuccaro dodici scene per
rappresentare l’_Antigone_, tragedia del conte Dalmonte vicentino. Quel
teatro era di legno e poco poi bruciò, ed esso Palladio, dall’accademia
Olimpica invitato a costruirne uno stabile a Vicenza, lo modellò sugli
antichi, in una semiellissi poco favorevole all’acustica e meno alla
visuale. Il palco offre in iscorcio sette vie, con palagi, tempj, archi
in rilievo: ma, a tacerne lo stile moderno, essendo per necessità
sproporzionati al vero, danno sgraziato vedere; e poco si tardò a
conoscere inopportune decorazioni stabili, le quali non poteano valere
se non ad un solo componimento. Il teatro di Sabbioneta fu da Vincenzo
Scamozzi modellato più rigorosamente sull’antico, semicircolare, col
palco visibile da tutti gli astanti. Ranuccio I Farnese nella Pilotta
di Parma ne fondò un vasto, a disegno di Giambattista Aleotti, reso
poi capace di quattordicimila spettatori, e dove potea condursi acqua
per le naumachie. Dappoi si moltiplicarono; surrogaronsi palchetti alle
scalee; e al tempo del Bibiena già teneano forma odierna.

In una rappresentazione alla Corte d’Urbino, descritta da Baldassarre
Castiglioni, la scena fingeva una via remota tra le ultime case
e il muro della città, dipinto sul dinanzi del palco, mentre la
platea figurava la fossa. Sopra i gradini degli spettatori girava un
cornicione rilevato, in cui lettere bianche su campo azzurro mostravano
questo distico del Castiglioni, allusivo al duca Guidubaldo:

    _Bella foris, ludosque domi exercebat et ipse_
      _Cæsar; magni etenim utraque cura animi._

Mazzi e festoni di fiori e d’erbe pendevano dal cielo della sala;
attorno alla quale due ordini di candelabri, tanto majuscoli da portar
ciascuno fin cento torcie, rappresentavano le lettere _Deliciæ populi_.
Sulla scena era disegnata una bella città, parte in rilievo, con
un tempio ottagono di stucco, lavorato a finissime storie, finestre
finte d’alabastro, architravi e cornici d’oro e oltremare, e finte
gemme e statue e colonne e bassorilievi, che in quattro mesi non
le avrebbero finite quanti artisti nutriva Urbino. Musica emanante
da luoghi nascosti ricreava una commedia tutta di fanciulli, e la
_Calandra_ del Bibiena. Più si ammirarono gl’intermezzi, nel primo
de’ quali Giasone, armato all’antica, uscì ballando, poi côlti due
tori ignivomi, gli obbligava all’aratro; allora dai seminati denti
del dragone rampollavano uomini armati a danzare una moresca, sinchè
l’un l’altro si uccidevano. Nel secondo, Venere appariva sul carro
tratto da due colombe, cavalcate da amorini; altri amorini coi simboli
proprj carolavano, sinchè colle faci metteano fuoco ad una porta,
donde uscivano nove coppie di amanti affocati a ballare. Nel terzo,
atteggiarono Nettuno e otto mostri marini: nel quarto, Giunone coi
pavoni e i venti. E un amorino spiegava l’intenzione degli intermedj
con versi composti dal Castiglioni, che riducevanli a significazione
unica e morale[142].

Passando Leone X per Firenze, il Rucellaj ne’ suoi famosi orti fece
recitare la _Rosmunda_: poi nel palazzo de’ Medici si atteggiavano
due commedie oscene, la _Mandragora_ del Machiavelli e l’_Assiuolo_ di
Gianmaria Cecchi, disponendo nella sala due palchi per modo che, finito
che fosse un atto dell’una, sull’altro cominciavasi un atto dell’altra,
con questa alternativa ingannando la lunghissima durata[143].

Nè qui vogliamo dimenticare il famosissimo _atto della Pinta_,
rappresentato in Santa Maria della Pinta a Palermo il 1562, l’anno
appunto in cui nasceva Lope de Vega, a’ cui _atti sacramentali_
tanto somiglia. Aveva composto il libretto Merlin Coccaj, compiutolo
Gaspare Licco, musicatolo il Chiaula: rappresentava la creazione e
l’incarnazione, e costava ogni volta dodicimila scudi; onde il vicerè
Colonna ebbe ad esclamare: — È troppo per questa terra, poco pel
paradiso».

La prima tragedia regolare e in versi sciolti fu la _Sofonisba_
del Trissino, modellata sopra Sofocle[144], dove il coro non solo
riempie gl’intervalli, ma rappresenta la parte morale. Nel carattere
dell’eroina, non mai tentato da altri, abbastanza si commisurano la
realtà coll’ideale; ma i colori sono pallidi e uniformi, la semplicità
greca portata all’eccesso, misero l’intreccio, troppi gli sfoghi d’un
dolore rimesso, soprattutto squallida la dicitura. La _Rosmunda_ e
l’_Oreste_ del Rucellaj, l’_Antigone_ di Luigi Alamanni, la _Tullia_
del Martelli son pitocchi ricalchi degli antichi, sull’esempio de’
quali voleansi giustificare le prolisse narrazioni, il dialogo esanime,
la triviale moralità de’ cori. Moltiplicaronsi poi quando invalse di
recitarne all’entrata de’ principi; e forse la migliore di quel secolo,
sebbene sconosciuta nè credo stampata, è l’_Orazia_ dell’Aretino,
primo esempio dei drammi storici ad azione ampia e spettacolosa, che
formarono poi la gloria di Shakspeare.

Dalla pittura degli affetti si fe pronto passaggio a quella dei
delitti; e nella _Canace_ di Speron Speroni la protagonista compare
sulla scena un istante prima del parto, consultando la nutrice sul
come nasconderne il frutto; entra a partorire due gemelli, che per
ordine del padre son gettati ai cani[145]. Nella _Selene_ di Cintio
Giraldi ferrarese la regina e sua figlia per un atto intero tengono
alla mano, dinanzi al senato egizio, due teschi, che credono del
figlio e del marito: un incesto, un parricidio, un suicidio, e
qualch’altre uccisioni secondarie empiono il suo _Orbecche_. Gli va
di costa l’_Arcipranda_, posta fra le migliori del secolo; soggetto di
atrocità romanzesca, con cadaveri strascinati, ed altri fatti a brani,
e pur mescolata a pitture voluttuose; opera di Antonio Decio, amico e
lodato dai migliori d’allora e da Torquato Tasso. Nella _Semiramide_
Muzio Manfredi cesenate sceneggia sfacciatamente l’incesto. Frate
Fuligni espone sul palco le torture inflitte dai Turchi al Bragadino;
l’atteggiamento delle quali atrocità rivela l’abitudine di vederle
nella vita, e la fomentava.

Noi primi avemmo dunque un teatro colto e regolare, ma nulla di
nazionale e spontaneo, giacchè l’ammirare le produzioni antiche
stoglieva dall’aprir nuove vie colla forza propria. Il modello
trascelto era cattivo, cioè Seneca, atteggiatore ciarlero d’intrighi
romanzeschi; Lodovico Dolce tornò verso Euripide, ma con una semplicità
priva d’arte e d’interesse. La tragedia vuole il popolo; e il popolo
restava sequestrato dalla letteratura come dalla politica: e veramente
nella drammatica sentivasi viepiù il difetto endemico della letteratura
d’allora, il mancarvi il popolo.

Chi più della commedia dovrebbe far ritratto del vivere presente?
eppure la buttavano a imitare le poche latine, che sono imitazione
delle greche. Di là traevano i caratteri, di là la tresca e gli
accidenti, e quella inevitabile catastrofe de’ riconoscimenti:
v’aggiungevano la prurigine di nuove immoralità, quasi tutte versando
sopra un intrigo salace, e l’oscenità mettendo sotto agli occhi o agli
orecchi degli astanti. La mezzana è personaggio obbligato, come lo
scroccone, la meretrice, lo scemo, il bargello; sempre l’avaro che ha
nascosto il tesoro, dopo uscito ritorna indietro per assicurarsi di
aver chiusa la porta; e amici che si accusano d’aver ciuffato l’uno
all’altro la ganza; e fratelli somiglianti; e poverette che scopronsi
figlie di gran signori; e amanti che vogliono introdursi entro casse, e
invece sono sequestrati alla dogana; e vecchie che rimpiangono gli anni
dov’era possibile peccare. Questi caratteri generici e perciò senza
interesse nè verità, acconciavansi alla giornata coll’innestarvene
altri parziali; ora il Senese, prototipo dell’imbecille, va a
Roma per diventar cardinale, e dettogli che in prima bisogna farsi
cortigiano, cerca lo stampo con cui i cortigiani si formano, siccome
nella _Cortigiana_ dell’Aretino; or si dipingono i vizj di Ferrara e
se ne tempestano i magistrati, come ne’ _Suppositi_ dell’Ariosto; or
il sacristano di San Pietro o il guardiano di Ara Cœli spacciatori
di miracoli; ora donnicciuole sgomentate dall’arrivo del Turco; ora
Spagnuoli tagliacantoni fugano gli eserciti coll’ombra propria o col
barbaglio dello scudo, eppure alla cantoniera abbandonano per paura il
mantello o la cappa; ora l’Ebreo cacciato di Spagna viene a spacciare
alchimie e truffare; più spesso vi son messi in iscena i frati o che
vendono per cento scudi l’assoluzione al ladro, il quale esita fra la
borsa, la coscienza e il buon senso; o che dicono alle Comari l’appunto
dei giorni che un’anima deve stare in purgatorio, e quanto vuolsi a
riscattarla. Comuni vi sono le maschere, caricature di se stessi e
volontarie esagerazioni.

La prima tra le moderne, nostrali e forestiere, è la _Calandra_ del
cardinale Bibiena, comparsa a Venezia il 1513[146], ricalcata sui
_Menecmi_, sfavillante di festivi motti, di riboboli e d’impudicizia.
Gli _Straccioni_ del Caro, la _Trinuzia_ e i _Lucidi_ del Firenzuola,
riscattano i comuni difetti colla coltura degli autori e col dialogo di
impareggiabile leggiadria. Chi meglio dell’Ariosto, stupendo pittore
di costumi nel poema, poteva riuscire insigne comico? ma sebbene
i soggetti desunti da Plauto e Terenzio arricchisca di graziose
particolarità e di stile facile e vivo, li disabbella colla lubricità
frequente e col verso sdrucciolo. La _Mandragora_ del Machiavelli
mostra che avrebbe potuto formare un teatro nazionale chi avesse ardito
togliersi dalle orme antiche.

Il Cecchi, come il Gelli calzajuolo, hanno vanto di naturalezza e
atticismo. Il Parabosco, e meglio Ercole Bentivoglio, e Francesco
d’Ambra, fra gl’intrighi che ne formano il fondo, lanciano care vivezze
di stile. L’Aretino cede in gusto quanto vantaggia in arguzia. Il Lasca
conosceva i difetti delle commedie «tutte nuove di panno vecchio, come
la gamorra di monna Silvestra»; censura gl’intermezzi spettacolosi, i
lunghi discorsi, gli a solo, gl’inverosimili riconoscimenti; vorrebbe
la commedia «immagine di verità, esempio di costumi, specchio di
vita»; osa ricordare che «Aristotele e Orazio videro i tempi loro; i
nostri son d’altra maniera: abbiamo altri costumi, altra religione,
altro modo di vivere, e però le commedie bisogna fare in altro modo.
In Firenze non si vive come si viveva già in Atene e in Roma: non ci
sono schiavi, non ci si usano figliuoli adottivi, non ci vengono a
vendere le fanciulle; nè i soldati del dì d’oggi nei sacchi delle città
e dei castelli pigliano più le bambine in fascia, e allevandole per
loro figliuole fanno loro la dote; ma attendono a rubare quanto più
possono»[147]. Ma all’atto e’ non fa meglio degli altri, ricasca negli
stessi intrecci; sebbene getti qualche sprazzo di costumi nostrali,
massime mordendo le pinzocchere.

Angelo Beolco, detto il Ruzzante di Padova, imparò sì bene i modi
de’ contadini, che pareva un di loro, e quando usciva mascherato, gli
si faceva intorno folla per ridere delle sue lepidezze: combinò una
compagnia di giovani padovani coi quali recitava; introdusse sulle
scene varj dialetti, oltre il padovano; e attribuiscono a lui le
maschere del Pantalone, dell’Arlecchino, del Dottore. Antonio Molin
soprannominato il Burchiello, di Levante tornato alla patria Venezia
verso il 1560, cominciò a fare commedie ove s’introduceano dialetti
varj, il bergamasco, lo schiavone, il greco; e vi traeva tanta folla
che le sale non bastavano a capirla[148]. Andrea Calmo veneziano, nato
e cresciuto pescatore, rappresentava maravigliosamente il personaggio
di Pantalone, e nel patrio dialetto dettava ghiribizzi in lettere, con
sali che or ci sanno di scipito. Francesco Cherrea, fuggito dal sacco
di Roma, introduceva allora stesso a Venezia la commedia a soggetto.

Giovan Giorgio Arione nel dialetto astigiano pubblicò dieci farse piene
di laidezze e di frizzi contro i frati, per le quali fu lungamente
prigione, poi scarcerato a patto che le correggesse. Si introdussero
anche lingue forestiere, parlate a sproposito, e nell’_Amor costante_
di Alessandro Piccolomini, rappresentato a Siena quando ne passò Carlo
V il 1536, v’ha tedesco e spagnuolo, con napoletano e senese, oltre un
boccaccevole. Inoltre si variavano i metri, s’intrammezzavano cantari e
balli; la durata non misuravasi, nè il numero de’ personaggi; insomma
v’avea libertà. Presto poi le commedie a soggetto tolsero agli autori
la fatica del comporre, e agli ascoltanti la possibilità del criticare.
Però anche i comici improvvisatori posero arte e connessione nei
loro piani; Flaminio Scala pel primo fece stampare le sue tessere di
commedie, feconde e ingegnose; e secondato da attori vivaci e osceni,
superò tutti i contemporanei. Fama europea acquistavano gli Arlecchini
e i Pantaloni; e Mattia imperatore conferiva la nobiltà all’arlecchino
Cecchino, prova che del successo di que’ componimenti gran parte era
dovuta alla gesticolazione[149].

Appunto per ciò commedie che tanto divertivano recitate, or pajono
esangui e grossolane; in tutte il ridicolo solletica i sensi, anzichè
eccitare l’intelletto con que’ motti arguti che sono altrettanti
giudizj. L’oscenità non vi è solo condimento, come in Aristofane, ma
il fondo, raffinata, senza vergogna; nè sfoggiata solo da cortigiane,
ma da figliuole e mogli. Quell’arbitraria giocosità di personaggi di
convenzione troppo palesa il proposito di eccitare il riso; un riso
tutto di sensi e di fantasia, non di ragione, non fondato su pittura
evidente della vita, su opposizione di caratteri e di sentimenti: pare
che evitino a studio le situazioni patetiche, condotte dal soggetto
proprio; all’azione preferiscono il racconto; tolgono effetto alla
satira collo sparpagliarla ed esagerarla; barcollanti fra la noja e
la lascivia, non ti offrono una scena, una situazione, un carattere
imitabile, o che diano traccia de’ costumi d’allora. Ci presentano
uomini disoccupati, non un atto di cuore, un nobile tratto, una parola
che annunzi o desti un pensiero. I nostri cataloghi ne contano fino
6000, e nessuna buona, nessuna caratteristica. Eppure erano quel che
l’Europa possede di meglio, largamente vi attinsero i maggiori comici
forestieri, e più felicemente il Molière[150].

Ma il teatro nostro rimase troppo discosto e dalla originalità
spagnuola, che, propostosi un fine, un sentimento, un fatto, lo svolge
sotto tutti gli aspetti possibili, qualunque sia il mezzo adoperato;
e dalla regolarità francese, che dà ragione d’ogni passo, arruffa la
matassa pel solo piacere di ravviarla; e dalla grandezza inglese, che
presenta l’uomo coll’intimità delle virtù e de’ vizj suoi.

Miglior vanto trae l’Italia dalla musica: questa espressione
dell’ordine nel tempo emulò i trionfi della scultura e della pittura,
espressioni dell’ordine nello spazio. Al par di esse fu educata nel
tempio; ma il sentimento musicale era proprio anche del popolo, e il
popolo inventò le _intonate_, le _ballate_, le _maggiolate_, i _canti
carnascialeschi_ e altre melodie, delle quali non sarebbe facile
indovinare la natura; giacchè quel che ce ne rimane è lavorato in
contrappunto. In questo seguivansi le regole stesse della musica sacra,
ma con maggior libertà, il che recò a miglioramenti che dalla sacra
vennero poi adottati.

Nel 1274 il Marchetti di Padova, nel _Lucidarium artis musicæ_ e nella
_Musica mensurabilis_, pel primo parlò di diesis accidentale, del
contrappunto cromatico, della preparazione e risoluzione degli accordi
dissonanti, delle armoniche e del temperamento; col che diede lo
sfratto agli errori più grossolani. Anche dopo Guido d’Arezzo restavano
imperfettissime le note, segnando bensì i gradi dell’intonazione, ma
non le differenze di durata; finchè da Giovanni Muris parigino, che
notò diversamente le massime, lunghe, brevi, semibrevi, minime, può
dirsi cominciasse l’armonia moderna. Anche la dissonanza s’introdusse,
ma timidamente e quasi ritardo d’una consonanza: nelle armonie del XIV
secolo si trovano accordi di quarta e quinta, terza e settima, e fin
di terza e nona: sbocciò di poi il contrappunto doppio, che divenne
armonia a quattro parti, dopo che gl’intervalli del contrappunto furono
condensati in accordi.

Migliori andamenti pigliò la musica nel secolo XV. Franchino Gaffurio,
lodigiano, maestro di cappella a Milano, procuratosi copie e traduzione
dei trattati di musica antica, si perdè in ricerche sulla tonalità
antica, che più non era in relazione coi bisogni del tempo: ma riportò
fama colla _Pratica musicæ_ in quattro libri[151], ove tratta dei
principj e della costituzione dei toni nel canto fermo, con varie
intonazioni giusta il rito ambrosiano; poi del contrappunto, della
proporzione delle note e dei tempi.

I Fiamminghi erano considerati maestri e chiamati anche in Italia,
dove in singolar pregio aveansi i madrigali francesi. Di Spagnuoli
principalmente fornivasi la cappella papale; e Bartolomeo Ramos Pereira
di Salamanca, chiamato da Nicola V a professar musica nell’università
di Bologna, mostrò l’insufficienza del sistema di Guido d’Arezzo, e
propose un temperamento che, quantunque combattuto dal Gaffurio e da
altri, venne adottato. Esso Gaffurio e i fiamminghi Bernardo Hycart,
Giovanni Tintore, Guglielmo Guarnerio, chiamati da re Ferdinando, a
Napoli fondarono un’accademia, donde uscirono i migliori maestri.

Il Gaffurio già adoprava la massima, la lunga, la breve, la semibreve,
la minima; al principio del secolo XVI, si trovano la nera, la croma
e la biscroma; Enrico Isacco, verso il 1475, notava a Firenze i
canti carnascialeschi di otto, dodici e fin quindici voci. Il suono
e il canto furono vera passione di quei tempi: per sentire Antonio
degli Organi fiorentino organista venivasi fin d’Inghilterra e dal
Settentrione[152]; Leonardo da Vinci fu chiamato alla Corte milanese
per sonare: Benvenuto Cellini si gloria della sua abilità al liuto,
quanto del bulino; principi e re vi si esercitavano.

Girolamo Mei trattò della _musica antica e moderna_ e dei _modi_:
ma molte opere d’antichi si ignoravano, altre mal interpretavansi.
Giuseppe Zarlino da Chioggia, per le istituzioni e le dimostrazioni
armoniche è considerato ristoratore della musica. Vincenzo Galilei,
padre di Galileo, nel _Fronimo_ ed altri dialoghi sulla musica, ha
erudizione copiosa e buone riflessioni; ed essendone nata controversia
fra don Nicolò da Vicenza e Vincenzo Lusitania, tutti i dotti vi
presero parte, e se ne disputò nella cappella papale. Il primo
sosteneva, la musica greca non essere che una confusione dei nostri
generi cromatico, diatonico ed enarmonico; l’altro, non comprendere che
il diatonico, e riportò la palma.

I cori e intermezzi delle commedie e tragedie erano madrigali a più
voci: la compagnia dei Rozzi a Siena ne inframmettea spesso alle sue
rappresentazioni, cantati da un personaggio che chiamavano l’Orfeo: ai
Filarmonici di Verona, istituiti da Alberto Lavezzola pel miglioramento
della musica, era imposto a certi tempi d’uscire colla lira in mano
divertendo la città.

Forse nell’_Orfeo_ del Poliziano, che fu rappresentato in Mantova, i
cori si cantavano, recitavasi il resto. Molti drammi pastorali gli
vennero dietro, innovazione condannata dai puristi; e tali furono
l’_Aretusa_ d’Alberto Lollio, lo _Sfortunato_ di Agostino Argenti con
note di Alfonso della Viola, che forse fu il primo ad unire il canto
alla declamazione[153].

Al _Sagrifizio_ di Agostino Beccari, rappresentato a Ferrara il 1554 a
spese degli studenti, assisteva Torquato Tasso, e dagli applausi dati
all’autore incitato ad emularlo, compose l’_Aminta_, che poi fu esposta
nel 73 e superò tutti. Ivi i fiori poetici sono profusi; e l’uniforme
lindura, e quel parlare tutti con altrettanta forbitezza, perfino il
satiro, tempera agli amatori del vero l’ammirazione, che nei cercatori
del bello suscita quella lambiccatissima composizione.

Pensò emularlo Giambattista Guarini, il cui _Pastor fido_ fu recitato a
Torino nell’85. L’arte, suprema nella drammatica, di tener in susta la
curiosità e connettere le scene gli è ignota; in seimila versi stempera
l’azione, ritardata da dialoghi lenti, da riflessioni vane, da luoghi
comuni; pure il frequente calore, il tutt’insieme della favola (tratta
dall’avventura di Coreso e Calliroe di Pausania), la padronanza dello
stile, la pietosa dipintura dell’amore, il rendono pregevole. Ma porlo
a petto dell’_Aminta_ è ingiustizia, giacchè ai difetti medesimi, alla
maggior raffinatezza nei pastori tramutati in personaggi di anticamera,
alle arguzie più lambiccate, unisce l’evidente imitazione di Torquato,
il quale a ragione diceva: — E’ non sarebbe giunto a tanto se non
avesse veduto me».

Nel bisogno universale di scrivere e di cantare, uno stormo di poeti si
applicò anche a questo genere; e al fine del Seicento già si numeravano
dugento drammi pastorali.

Il canto era sempre serbato a solo alcuna parte lirica; ma avendo
qualche erudito opinato che gli antichi cantassero i drammi, si volle
imitarli. Il cavaliere Giovan Bardi de’ conti del Vernio, presso cui
conveniva il meglio di Firenze, per le nozze di Ferdinando Medici
con Cristina di Lorena nel 1589 fece rappresentare in sua casa il
combattimento d’Apollo col serpente. Di poi con magnifico apparato don
Grazia di Toledo, vicerè di Napoli, la pastorale del Tansillo; e così
l’Aminta del Tasso con intermezzi del gesuita Marotta.

Ma nella pratica la musica restava ingombrata e bizzarra, disattenta
delle parole a tal punto, che si cantò il primo capitolo di san Matteo
con quei nomi sì poco armonici. Anzi lavoravasi un canto, poi vi si
accomodava sotto la prosa. Vincenzo Galilei si oppose a tal guasto, e
trovò un nuovo modo di melodie ad una voce sola, puntando l’_Ugolino_
di Dante, poi i _Treni_ di Geremia. Giulio Caccini, nella brigata del
Bardi suddetto, tolse a perfezionare quest’invenzione del Galilei,
massime coll’applicare l’armonia a parole passionate. E poichè quelle
dei classici mal s’addicevano alla musica, e i madrigali bilicavansi
s’un pensiero arguto, poco opportuno alla passione, si chiesero
strofe apposta, e don Angelo Grillo fece i _Pietosi affetti_, altre
esso conte del Vernio. Essendosi questo mutato a Roma, l’adunanza si
trasferì in casa di Jacopo Corsi; il quale, col Caccini e con Ottavio
Rinuccini, pensò accomodare la musica alle parole, credendo avere
scoperto il vero recitativo degli antichi. La _Dafne_ del Rinuccini vi
fu rappresentata con note di esso Caccini e di Jacopo Peri; e meglio
riuscì l’_Euridice_, esposta in occasione che Enrico IV sposava Maria
Medici, e puntata dal Corsi, dal Peri e dal Caccini[154]. Così Firenze,
che sembra dal cielo privilegiata a tutte le iniziative, vide prima
accoppiato nell’opera la scelta della favola, la squisitezza della
poesia, l’espressione della musica, l’illusione delle scene.

Altri drammi furono poi rappresentati, massime l’_Arianna_ del
Rinuccini, con scene magnificamente preparate, e con musica del
Monteverde, musica scarsa di note, poco variata, e che ben non
distingue il tempo, ma di mirabile semplicità, e rispettosa ai diritti
della parola. Quantunque il recitativo del Peri e quello del romano
Emilio del Cavaliere nella _Rappresentazione di anima e di corpo_,
fossero poco meglio d’una declamazione notata, pure, veduta la
necessità di porre sui versi un’accentuazione, e perfezionandosi la
frase poetica, ne uscì la vera frase melodica, poi quella del periodo
che ne è lo sviluppo.

Gli strumenti si erano perfezionati. Alcuno attribuisce ai Crociati
l’aver portato il violino dall’India: ma in un bassorilievo della porta
maggiore di San Michele a Pavia, che, se non longobardo, è di poco
posteriore al Mille, una rozza figura suona questo stromento; in un
manoscritto dell’VIII secolo trovasi pure uno stromento ad archetto,
foggiato come un mandolino ad una corda sola. La rebeca era usata dai
menestrelli. La viola portava sette corde, col manico a tasti divisi
per semitoni come la ghitarra, e se n’aveano infinite varietà, viola
di gamba, di braccio, di bordone con quarantaquattro corde, d’amore
con dodici, di cui sei sopra un cavalletto alto, sei sovra uno basso
sovrapposto. Generalissimo era il liuto, e sue varietà la pandora, la
mandòla, il mandolino, con corde d’ottone e doppie, il colascione,
il pantalone, il salterio, il timpano. Nicolò Vicentini inventò
un archicembalo, Francesco Nigetti il cembalo onnicordo, Bernhard
l’organo a pedali. Il clavicembalo fu poi perfezionato, nel secolo
scorso, da Giovanni Sebestiano Bach in Germania, in Italia da Domenico
Scarlatti, in Francia da Francesco Couperin; destinato poi, come la
spinetta, a soccombere ai pianoforti, de’ quali il primo fu fabbricato
da Silbermann, organista sassone. Eccellenti liuti fabbricavansi
a Cremona, massime dagli Amati. Il violino _alla francese_ divenne
comune, e se ne valsero i compositori ne’ primi saggi drammatici.
Il canonico Afranio dei conti d’Albonese in Lomellina, ch’era ai
servigi del cardinale Ippolito d’Este, ci è dato per l’inventore o
perfezionatore del fagotto, che portò a ventidue voci[155].

Invece però di quell’unità che noi diciamo orchestra, gli stromenti
ne costituivano diverse parziali, ciascuno riservato ad accompagnare
un tal personaggio o un tal coro. Nell’_Orfeo_ del Monteverde
rappresentato il 1607, due gravicembali sonavano i ritornelli e gli
accompagnamenti del prologo cantati dalla musica; dieci soprani
di viola facevano i ritornelli al recitativo d’Euridice; Orfeo
accompagnavano due contrabassi di viola; l’arpa doppia, un coro di
ninfe; due violini francesi a quattro corde, la Speranza; due ghitarre,
Caronte; due organi di legno, il coro degli spiriti infernali; con
tre bassi di viola cantava Prosperina, con quattro tromboni Plutone,
coll’organo di regale Apollo, il coro finale di pastori era sostenuto
dallo zufolo, dai corni, dalla chiarina e da tre trombette a sordina.

I ritornelli, conosciuti importanti a preparar lo spirito degli
uditori, vennero perfezionati ed allungati; indi si fece preceder
l’opera da una sinfonia: talchè la musica, subordinata fin allora al
canto e al ballo, giungeva a vita indipendente, facendosi puramente
istromentale.

Si moltiplicarono le scuole musicali. In Napoli furono istituite
quella di Santa Maria di Loreto nel 1537, della Pietà dei turchini
e di Sant’Onofrio nell’83, de’ Poveri di Gesù Cristo nell’89: e in
quella città si cominciò la musica popolare a più voci, consistente
in melodie, dette arie, villotte, villanelle o simili: Denticio al
1554 descrive un concerto nel palazzo di Giovanna d’Aragona, dove le
voci erano accompagnate da orchestra, e ciascuna cantava su diverso
stromento. Dalla scuola veneta, fondata da Adriano Willaerst di Bruges,
uscirono Giovanni Gabriel e Costanzo Porta, capo della Lombarda. A
Milano nel 1560 Giuseppe Caimo componeva madrigali; ballate Giacomo
Castoldi da Caravaggio, e Giuseppe Biffi: e famoso organista vi fu
Paolo Cima. Potremmo aggiungere il Festa, pieno di grazia, di ritmo, di
facilità; il Corteccia, maestro di cappella di Cosmo granduca; altri ed
altri.

Nell’opera si predilesse il meraviglioso, come quello che si presta
a maggiori situazioni e a sfoggiate decorazioni, e rendea men deformi
le inverosimiglianze. La prima buffa che si conosca è l’_Amfiparnaso_,
musica e parole del modenese Orazio Vecchi, dedicata a don Alessandro
d’Este il 1597; dove le maschere parlavano ciascuna il proprio
dialetto, con musica bizzarra quanto il soggetto. San Filippo Neri
introdusse gli oratorj, che tentavano ritornare alla musica di teatro
quell’alito religioso, che avea rinnegato.



CAPITOLO CXLIII.

Indole di quella letteratura. I mecenati. Gli artisti.


Aveasi dunque la letteratura in conto d’una distrazione o
d’un’industria, nè tampoco sospettandovi la missione sociale che
l’Alighieri le avea sì ben conosciuta. Verun alto scopo proponendo
ai desiderj e alla volontà, e unicamente sollecita delle forme, non
s’abbandonò all’ispirazione, non sentì bisogno d’originalità, nè un
genere nuovo trovò, nè ebbe i lanci inconditi ma spontanei dell’età
antecedente. Da principio gli studj si piantarono sull’antichità, ma
per oltrepassarla; meditavansi Aristotele e Platone, ma ribattendone
gli errori ed ampliandone gli intendimenti; i politici prendean
norme dagli antichi, ma serpeggiando pei labirinti della società
più che quelli non avessero fatto; dai classici deducevansi le
poetiche, ma scrivendo poemi che tutte le violavano. E da quel misto
d’imitazione e di spontaneità si dedusse uno stile naturalmente puro
e buono in tutte le scritture come in tutte le arti, quel sentimento
dell’elegante sobrietà che sa scegliere e condensare le idee e le
particolarità; in modo che i Cinquecentisti riescono classici quanto
si può essere senza genio. Ma lo studio sugli antichi degenerò ben
presto in contraffazione, lasciando infingardire l’intima attività
degl’intelletti. Dato alla lingua nazionale correzione e dignità
insolita, la tormentarono colle reminiscenze e colle forme accademiche;
invece di maneggiare la favella del popolo con artifizio dottrinale,
si produssero pensamenti triviali in istile dilavato, periodar vuoto,
prolisso, rinvolte circonlocuzioni, frasi pedantesche, in quel purismo
affettato che applica alla società moderna le idee dell’antica. Per
l’abitudine contratta nel far i latini, i quali non potevano esser
dettati se non dalla memoria, i versi sono centoni del Petrarca, del
quale alcuno raggiunge la serenità, nessuno la creazione. Il Rucellaj
lucida la _Rosmunda_ sulle tragedie antiche, le _Api_ su Virgilio;
il Sannazaro, che ha sott’occhio il più bel golfo del mondo, canta
l’Arcadia, o trasferisce gli Dei dell’Olimpo nella casta cella di
Nazaret; la commedia ritesse gli orditi di Plauto, strascinandoli a
costumanze moderne; come nelle belle arti il Palladio edificava un
teatro alla greca, e il Vaticano era ridotto a palazzo delle Muse.

La politica, la teologia, le altre severe ispirazioni di Dante, le
ampie sue allusioni, le macchine jeratiche più non si riscontrano:
l’elevazione ideale che penetra nell’intelligenza divina, più non
si cura: al soprannaturale del concetto si surroga il soprannaturale
della fantasia: ai concetti, impacciati in forme non loro, manca calore
di sentimento, profondità di pensiero, potente concisione, accorta
sagacia: la scienza si limita ad ammirare i sommi antichi, e per
rispetto a loro sentenzia di barbari i tempi incolti ma robusti, in cui
erasi mutato il nuovo incivilimento. Arguti a conoscere i difetti della
società e svelarne le ridevolezze o l’infamia, accettano poi opinioni
vanissime, errore da verità non discernendo o essendovi indifferenti;
e l’imitazione toglie quel ch’è principal merito alle produzioni
dell’intelletto, l’indipendenza d’un pensiero ingenuo, o il giro
d’un’espressione originale. La letteratura di lusso mai non sorge a
grandezza vera: trastullo, non culto; attenta a piacere ai dotti e alle
Corti, per ciò abbandonasi a frivolezze e adulazioni, mette entusiasmo
unicamente nel fare bei versi, a segno che Mariano Buonoscontro
palermitano si divertì a comporre sonetti di bellissime parole e senza
senso, e furono ammirati non solo, ma commentati; e singolarmente a
una sua ode in morte del duca d’Urbino, in quattro libri si facea dire
ciò che mai non avea sognato[156]. Ammirando la forma de’ migliori
Cinquecentisti, deploriamo di dover porre studio in gente che separò il
vero e il buono dal bello; deploriamo un progresso tutto a vantaggio
dell’eloquenza, in tempo che di là dell’Alpi diventava acquisto di
ragione.

L’amore dell’arte fa prosperar l’arte; e il popolo risorto ne’ Comuni,
il popolo credente, l’avea risuscitata dalla barbarie, e spinta
per sentieri nuovi ad una maniera, scorretta se volete, ma ardita
e originale e consona ai nuovi bisogni. Allora sorsero magnifiche
cattedrali in ciascuna città; allora Dante cantava. La cognizione e
lo studio sopravvenuto degli antichi, avrebber potuto ripulire quelle
forme conservando l’intima ispirazione; nel che coraggiosamente vedemmo
progredire gl’ingegni nel secolo precedente. La pratica dell’arte esige
cultura intellettuale; nè l’artista può elevarsi all’ideale se non in
una società ove sia delicato il sentimento, appurato il gusto; e per
essere capace d’ammirarne le opere richiedonsi cognizioni proprie d’una
civiltà avanzata. Quel prosperare delle arti indica dunque un’estesa
cultura ne’ nostri compatrioti: ma artisti senza fede ne’ costumi,
amatori eleganti, impudichi modelli, prelati spenderecci, principi che,
avendo il sentimento del bello, mancavano del sentimento del buono, le
trassero ben presto al decadimento.

Intaccata la grande unità cattolica, disperse le società massoniche
e con esse i loro segreti, l’architettura si ravviò sulle più facili
pratiche dell’antico. La pittura, educata dal cristianesimo e dalla
libertà, s’era fatta educatrice del popolo, manifestazione di nobili
affetti e soavi, scorretta ma spontanea, leccata ma limpida come
derivante dalle miniature, calma senza artifizj di scorci, di sott’in
su: or eccola ripudiare il medioevo a nome dell’antichità; e se in
prima tentò rivestire il nuovo suo ideale co’ prestigi classici, ben
presto i segni jeratici paragonava alla natura che imitano, piuttosto
che alle verità che rappresentano; da liturgica che era quando la
scelta dell’artista sottoponeva all’autorità del teologo, profanossi in
una libertà che ben presto le tolse dignità ed efficacia; e dimenticata
la sostanza per l’inviluppo, il gusto surrogò all’entusiasmo,
posponendo la devozione al blandimento de’ sensi, non attendendo più
a tradurre dogmi, ma a seguire la moda e le commissioni. Affinata
nell’abilità tecnica, e divenuta mestiere, variò da paese a paese,
da maestro a maestro, qui prediligendo il disegno, là il colorito,
altrove la composizione o lo scorto, e sempre mirando a piacere, a
imitar la natura e l’arte antica, a ottener l’illusione quand’anche
si sacrificassero all’evidenza e al movimento il decoro e la grazia,
alla bellezza l’espressione; ben ritraendo muscoli, nervi e vene, e
altri sfoggi di scienza; affollando persone in modo che si smarrisse
il soggetto principale; toccando risolutamente; e intanto negligendo il
concetto che vivifica, l’espressione che eleva il sentimento e ajuta la
contemplazione.

L’artista non fu più pel popolo, ma dovè cercare compensi e
protezione alle Corti, onde si fece piacentiero: e l’intento morale
e l’espressione, anima delle belle arti, non possono che scapitare
allorchè non obbediscano all’intimo sentimento, ma a commissioni.
E in fatto le arti scaddero dall’importanza storica, perchè cessò
l’opportunità di quei reggimenti tra cui erano rinate: allora,
tornato il predominio della materia, e l’idolatria della forma, che si
raffina a scapito dell’idea, come la moltiplicità de’ lavori detrae
all’originalità; insozzate le fantasie, svanito l’affetto sublime e
religioso, si fecero ministre a lascivie e adulazioni, e contribuirono
a crescer le nostre vergogne e perpetuare l’avvilimento.

Non s’insisterà mai troppo sulla deficienza di moralità, mentre
si ammira quello splendore delle lettere e dell’arti. Dal quale
abbagliati, taluni lo attribuiscono alla protezione dei grandi. E certo
onori ed eccitamenti mai non vennero così splendidi, così universali.
Carlo VIII, Luigi XII, Francesco I, Caterina de’ Medici, invitavano
i nostri ad accendere la fiaccola del bello in Francia, e Leonardo,
il Primaticcio, il Cellini, Andrea del Sarto, una colonia d’artisti,
vi lasciarono opere e scolari; Guido Guidi fiorentino era medico
di Francesco I; Italiani dettavano dalle cattedre, e scienze nuove
portavano nell’Università di Parigi, della quale l’Aleandro trevisano
fu anche rettore, benchè gli statuti n’escludessero i forestieri.
Publio Andrelini da Forlì, coronato poeta latino a ventidue anni,
di stile facile ma negletto e caldissimo disputatore, fu intitolato
poeta del re e della regina (_regius et reginus_), e riccamente
donato da Carlo VIII e dai successori suoi. Francesco Vimercate,
illustre aristotelico, chiamato da Francesco, restò venti anni a
Parigi, e fu il primo che professasse filologia greca e latina in
quell’università; nella qual pure ebbe invito Angelo Canini d’Anghiari,
lodato grammatico; mentre Jacopo Corbinelli e gli Strozzi innamoravano
di quella lingua, in cui a Valchiusa era stata cantata la bella
Avignonese. L’Alamanni ripagava con bei versi l’ottenutavi ospitalità,
e felicitava la Senna di scorrere pacifica tra popoli concordi, mentre

    Il mio bell’Arno, ah ciel! chi vide in terra
      Per alcun tempo mai tant’ira accolta
      Quant’or sovra di lui sì larga cade?
    Il mio bell’Arno in sì dogliosa guerra
      Piange soggetto e sol, poi che gli è tolta
      L’antica gloria sua di libertade.

E a Paolo Emili veronese, chiamatovi da Luigi XII, la Francia deve
la prima sua storia, che fu continuata da Daniele Zavarisi del paese
stesso.

Giovanni Grolier di Lione, posto da Francesco I, nel 1515, gran
tesoriere a Milano, benchè forestiero e in tal impiego, si fece
amare, almeno dai letterati, coi quali mostravasi tanto munifico,
che avendone un giorno molti a pranzo, donò a ciascuno un par di
guanti, e si trovò ch’eran pieni di monete d’oro[157]. Pietro Tomai
ravegnano, di portentosa memoria, sopra la quale scrisse egli stesso
un’operetta latina (_la Fenice_, 1491), insegnò leggi per molte città
fin quando Bugislao duca di Pomerania vedutolo a Venezia, il pregò a
seguirlo a Gripswald. Ivi egli insegnò, poi vecchio volle rimpatriare:
ma il duca di Sassonia per via mandò pregandolo a venir a lui, e gli
usò grandissime cortesie: cercato a gara dai principi di Germania,
fu un trionfo il suo passare di città in città: poi ritrattosi ne’
Francescani, pare morisse il 1511.

Al naturalista Mattioli levavano un figlio al battesimo l’imperatore
di Germania e i re di Francia e Spagna; ad Agostino Nifo papa Leone
X concede il titolo di conte palatino e di portare il cognome e lo
stemma de’ Medici; a Rafaello vuole il cardinal Bibiena dare sposa una
nipote. Perfino il disdegnoso Carlo V consuma lunghe ore a Bologna
nell’ammirare la bella e minutissima scrittura di Francesco Alunno,
e massime il credo e il principio del vangelo di san Giovanni scritti
sullo spazio d’un denaro[158]; festeggiò in ogni guisa il Castiglioni,
lo naturalizzò spagnuolo, gli diede un vescovado, e morto l’onorò di
splendide esequie, professando «aver perduto un de’ migliori cavalieri
del mondo»; s’abbassa a raccorre il pennello caduto a Tiziano; al
venire di Michelangelo si leva esclamando: — Imperatori ve n’ha
di molti, ma pari a voi nessuno»; ai cortigiani che s’arricciano
degli onori renduti al Guicciardini, risponde: — Con una parola io
posso fare cento cavalieri, e con tutta la mia potenza non un pari
a questo»; richiese Giannello della Torre cremonese raccomodasse a
Pavia l’orologio fatto da Giovanni Dondi; e avendo quegli risposto
non potersi più ripararlo, e fattone un nuovo, Carlo V sel menò in
Ispagna, ove a Toledo lavorò macchine ingegnosissime, sicchè fu detto
l’Archimede di quel tempo; e lo volle seco nel ritiro di Just.

Carlo V, vincitore dell’Africa, sbarcando a Napoli, riceveva in
pubblica udienza Laura Terracina poetessa, e dalle mani di lei la
petizione perchè alla città fosse concesso il titolo di Fedelissima.
Al domani poi recavasi alla casa di lei a Posilipo, e sulle treccie
della giovinetta deponeva la corona di lauro tolta dal proprio capo,
dicendo convenir essa del pari ai trionfanti e ai poeti. Poco poi
dall’Inghilterra le giungeva l’ordine della Giarrettiera.

Il fiero Giulio II spaccia corrieri sopra corrieri per richiamare
Michelangelo e scende seco a scuse d’avergli fatto fare anticamera:
papi, principi se lo faceano seder accanto: profugo dalla patria a
Venezia, invano si ritira alla Giudecca per cansar visite e cerimonie,
chè subito la Signoria gli manda due gentiluomini a onorarlo e
offrirgli ogni comodità, gli esibisce seicento scudi l’anno senza
verun obbligo e sol pel piacere di possedere un tanto maestro delle
tre arti[159]: Francia e il granturco lo domandano del pari: da Roma
ne fu rapito il cadavere, perchè riposasse non nella basilica del
cristianesimo, ma a Firenze nel sacrario degli uomini grandi.

Nel nome di Leon X si compendia quanto ha di segnalato l’amore
delle lettere; impieghi, benefizj, dignità ecclesiastiche, denari
suoi proprj metteva a disposizione dei dotti; usava per segretarj
il Bembo e il Sadoleto, i più tersi scrittori latini; al Tibaldeo
di Ferrara, venutovi dalla corte dei Gonzaga, diede trattamento
e ricchezze e cinquecento zecchini per un epigramma; riconosciute
felici disposizioni nel Flaminio giovinetto, sel tenne accanto; stava
attonito agli improvvisi del Marone; pagò cinquecento zecchini i
primi cinque libri degli _Annali_ di Tacito, venuti di Westfalia; e
nel privilegio conceduto per istamparli, glorifica le lettere come
il più bel dono che, dopo la vera religione, Iddio abbia fatto agli
uomini, loro vanto nella fortuna, conforto nell’avversità; e al fine
dell’opera promette ricompensa a chi gli porterà vecchi libri ancora
inediti. Adopera Fausto Sabeo a cercarne, il quale percorse a piedi
mezz’Europa, affrontando (canta egli) fame, sete, pioggia, soli,
polvere onde liberar di schiavitù qualche antico scrittore. A Giovanni
Heytmers diede incarico di rintracciar le Deche di Tito Livio pagandole
a qualsifosse prezzo, e dicendo che «importante porzione dei doveri
pontifizj è il favorire i progressi della classica letteratura».
Concedeva privilegi alle edizioni più accurate, e ad Aldo Manuzio,
colla riserva che non le vendesse troppo care: affidava la biblioteca
Vaticana al Beroaldo: a Nicola Leoniceno scriveva chiedendogli licenza
di fare qualcosa per lui, e gli offriva un’abbadia, una villa presso
Roma, alloggio sull’Esquilino, ch’egli però pospose alla studiosa
quiete: fissava a Roma Giovanni Lascari e Marco Musuro filologi famosi,
il primo dei quali prepose a un collegio apposito per l’insegnamento
del greco, con alquanti giovani condotti di Grecia e con stamperia: più
di cento professori soldava nel ginnasio romano, che volle emulasse
le migliori Università[160]; esortando agli studj serj, non a quella
filosofia mendace che si chiama platonismo, e a quella folle poesia che
corrompe l’anima.

Quest’amore ereditato da’ suoi maggiori trasmise egli ai discendenti:
il cardinale Ippolito a Bologna teneva trecento famigliari, la più
parte letterati; e avendogli Clemente VII rimostrato ch’erano troppi
per lui, rispose: — Non li tengo a corte perchè io abbia bisogno di
loro, ma perchè essi l’hanno di me». Cosmo granduca scriveva di proprio
pugno agli artisti, sollecitava Michelangelo a ritornare da Venezia, e
che gli portasse del pesce sôla che gli piaceva. Francesco suo figlio,
istrutto d’ogni letteratura, crebbe le Università di Pisa, Firenze,
Siena e l’accademia Fiorentina, fondò quella Crusca e la stupenda
galleria, aumentò la biblioteca Laurenziana, promosse la botanica,
sostenne chiunque avesse valore, e a Gian Bologna scriveva: — Non
potevano più che quel che hanno fatto soddisfarci le due figurine che
ci avete mandate, non potendo essere altrimenti d’opera che esce dalla
vostra mano»; e Ferdinando granduca allo stesso: — Desideriamo che,
nella voglia di lavorare, vi ricordiate principalmente d’avere una
buona cura alla vostra sanità, chè questa importa più di tutto»[161].
Esso Ferdinando comprò la Venere Medicea, cominciò la ducale cappella
di San Lorenzo, pose la stamperia di caratteri orientali.

I principi considerano come un altro lusso di loro Corti il possedere
i più celebri letterati: siffatti vedemmo i principi di Milano e di
Napoli, sinchè non furono sbalzati dai forestieri; il duca di Mantova
tenne lungamente il broncio col Castiglioni perchè gli chiese di
passare dalla sua alla Corte d’Urbino; il Tasso era disputato agli
Estensi dai Medici; Alfonso I d’Este, benchè continuo in guerre,
nè d’artista e letterato avesse che la pretensione, e lavorasse da
mestierante in tornire e fare stoviglie, fabbricò dispendiosamente
e rifiorì l’Università di Ferrara, dove Lucrezia Borgia, Lucrezia
ed Anna d’Este, Isabella de’ Medici erano cortesi al bel sapere fin
coll’amore; come Isabella d’Este marchesa di Mantova. Alfonso II teneva
in corte Matteo Casella, Lodovico Cato, Jacopo Alvarotti giureconsulti
rinomatissimi, il medico Nicolò Leoniceno, l’erudito Celio Calcagnini,
e quel che fa per mille, l’Ariosto; e conferì a Girolamo Falletti
piemontese il titolo di conte di Frignano e varj assegni, coll’obbligo
feudale di dargli ogni anno due opere nuove di piacevol lettura,
altrimenti pagherebbe il doppio delle sue rendite[162].

Pico della Mirandola diede i fondi ad Aldo Manuzio per istabilire la
stamperia, e voleva assegnargli un podere affinchè Carpi divenisse
il nido di quelle edizioni; ma le proprie sfortune gliel’impedirono.
Il cardinale di Trento promette dar mantenimento per tutta la vita
all’Anguillara s’e’ traduce l’_Eneide_; e gli regala tante braccia di
velluto quanti ha terzetti un capitolo assai piaciutogli. Il valente
condottiero Vespasiano Gonzaga, che fece rifabbricare Sabbioneta, con
vie allineate e larghe, e bellezza di case, di tempj, di piazze, statue
e fortificazioni, pose scuole, e ricercava letterati ed artisti. Era
della casa stessa Scipione cardinale, che fondò a Padova l’accademia
degli Eterei, amico del Guarini e del Tasso; del quale scriveva fin
le lettere e copiò tutto il poema, e volea comune con lui la camera,
la tavola, il bicchiere. Udito Pier Vettori, uno dei più famosi retori
del suo tempo, il cardinale Alessandro Farnese gli mandò un vaso pieno
di monete d’oro; Francesco Maria duca d’Urbino una catena d’oro; una
Giulio III nel riceverlo a Roma, e i titoli di conte e cavaliere. Esso
duca d’Urbino, di mezzo alle armi, avea della sua Corte formato il
ritrovo delle persone erudite e colte[163].

Gonzalvo di Còrdova e Pier Navarro a Napoli profusero segni di
benevolenza al poeta latino Pietro Gravino. L’Alviano, nel respiro
delle battaglie, radunava a Pordenone, borgata regalatagli dai
Veneziani, il Fracastoro, il Cotta, il Navagero ed altri, che chiamava
sua accademia, e che il ricreavano ed istruivano. Gian Giacomo
Trivulzio, anche vecchio, traeva a udir professori. Alfonso d’Avalos
si circondava di letterati; e Girolamo Muzio racconta che, viaggiando
con esso da Vigevano a Mondovì il 1543, ragionarono continuo di poesia,
ed esso compose per via sin venti sonetti e un’epistola di cento
versi a rime libere. Sin l’infame Valentino, sin il turpe Alessandro
Medici ambivano fama di bella educazione. E tutti a Michelangelo, al
Puccini, al Bandinello, al Bronzino dirigeano lettere famigliarissime,
discutendo i progetti, pregandoli di qualche lavoro; Francesco I di
Francia scriveva di proprio pugno a Michelangelo perchè gli mandasse
alcuna sua opera; Filippo II scriveva al Tiziano: — Mi farete sommo
piacere e servizio se vi occuperete di questo quadro colla maggior
possibile sollecitudine».

Anche ricchi privati voleano mostrarsi protettori; e mentre i nobili
transalpini si gloriavano della propria ignoranza, e firmavano con una
croce, «non sapendo scrivere perchè baroni», i nostri abbellìvansi
di arti e di lettere. Che non dovettero Rafaello al Chigi, Gian
Bologna a Bernardo Vecchietti di Firenze, a Marco Mantova Benavides
padovano, l’Ammanati ed altri? Angelo Collocci, nell’antica villa
di Sallustio, raduna cippi, busti, statue, medaglie, tra cui i fasti
consolari. Il conte Gambara di Brescia, padre della poetessa Veronica,
proteggeva i letterati, e da Mario Nizzoli fece comporre le celebri
_Osservazioni su Cicerone_, e stamparle nel suo feudo. Le case de’
Sauli a Genova, de’ Sanseverino a Milano erano aperte ai dotti. I
tesori d’erudizione raccolti dal Pinelli divennero fondamento d’insigni
biblioteche. Tommaso Giannotto Rangoni da Ravenna, scrittore d’opere
mediche di lieve conto, d’un libro sul campare centovent’anni e
d’altri astrologici, arricchito colla sua scienza, istituì a Padova un
collegio per venti giovani ravegnani che andassero a quella Università,
provvedendoli dell’occorrente, e ponendovi anche una biblioteca con
molti libri, specialmente orientali, e strumenti e quadri e rarità
opportune agli studj; riedificò la chiesa di San Giuliano in Venezia,
restaurò quella di San Geminiano, ed ebbe monumenti onorifici,
decorazioni, medaglie. In casa di Domenico Venier si adunavano a
Venezia Bernardo Tasso, Triffone Gabriele, Girolamo da Molino, Gian
Giorgio Trissino, Pietro Bembo, Bernardo Cappello, Daniele Barbaro,
Domenico Morosini, Aluisi Priuli, Fortunio Spira, Bernardo Navagero,
Speron Speroni ed altri.

A questi esempj conformavasi la folla. I masnadieri assaltano
l’Ariosto, ma appena sanno chi fosse, gli fan riverenza. Centinaja di
sonetti venivano affissi alle statue, quando compite erano esposte
in pubblico, giudicandole con isquisito sentimento del bello, e
con una severità di gusto che i maestri rispettavano e la posterità
approvò. Quando nei giardini di Tito fu dissepolto un gruppo, che il
Sadoleto riconobbe pel Laocoonte descritto da Plinio, le campane di
Roma sonarono tutte a letizia, e il marmo coronato di fiori traversò
la città fra musiche e parati; i poeti lo cantarono a gara, mentre
ascendeva al Campidoglio tra una solennità, memorabile nel paese delle
solennità. Il Tartaglia facea bandire le sue scoperte matematiche
a suon di trombe, e d’ogni parte riceveva problemi da sciogliere. A
Vittore Fausto, che pretendeva avere scoperto la forma delle galere
antiche, la repubblica veneta somministrava i mezzi di costruire una
quinquereme, e ordinò una gara, nella quale Fausto vinse. Il Sansovino
propose di trovare il modo di far cadere esattamente il mezzo della
metopa sull’angolo del fregio dorico, e tutta Italia s’agitò intorno
a questo problema, e non solo gli architetti, ma il cardinal Bembo,
monsignor Tolomei ed altri. Romolo Amaseo udinese era disputato fra
principi e università; e il cardinal Bembo a Padova, il governatore
Gonzaga a Milano, il cardinale Wolsey in Inghilterra, Clemente VII a
Roma, il richiedevano a gara a professare eloquenza. Bernardo Accolti
d’Arezzo, detto l’Unico, usciva circondato di prelati e colle guardie
svizzere, fu dichiarato duca di Nepi, e onorato d’illuminazione dove
arrivasse; aveva a declamare suoi versi? chiudevansi le botteghe di
Roma; avendo recitato un ternale in lode di Maria davanti al papa,
gli uditori proruppero esclamando: — Viva lungamente il divino poeta,
l’incomparabile Accolti»; apoteosi da ingannare la posterità, se per
sciagura que’ versi non fossero sopravvissuti[164]. Al Sannazaro, per
l’epigramma in lode di Venezia, il senato regalò seicento zecchini:
Giambattista Egnazio e Marco Antonio Sabellico furon fatti esenti di
imposte essi e i loro beni, e pensionati: ad Antonio Campi, per avere
disegnato Cremona, questa città concedette esenzione d’ogni gravezza
personale e reale a lui ed a’ suoi figliuoli[165].

Se voltiamo il quadro, scema d’assai il merito di quei protettori.
Leone X non pareva comprendere se non la bellezza dello stile; commette
un lavoro a Leonardo, ma udendo che s’è messo a stillar vernici e
piante, — Ah costui non farà mai nulla, perchè pensa al fine dell’opera
prima d’averla cominciata»: forse Leonardo non conosceva le blandizie
onde s’accattavano le commissioni, nè fu favorito dai Medici, i quali
del resto, se blandivano i letterati, non onoravano la letteratura.
L’Ariosto lamentava che, dopo essere disceso sin a baciarlo[166],
il papa l’avesse poi lasciato nella miseria, tanto da non avere di
che rinnovarsi un manto; e dal duca di Ferrara suo mecenate fu messo
governatore nell’alpestre Garfagnana; dal cardinale Ippolito fu tenuto
quindici anni in continuo moto per faccende di niun conto «da poeta
mutandolo in cavallaro»; poi quando ebbe svilita la propria riputazione
col levare a cielo una stirpe immeritevole, udì da costui domandarsi: —
Messer Lodovico, dove avete preso tante castronerie?» e perchè seco non
volle andare in Ungheria, si vide congedato, e privo delle venticinque
corone che gli retribuiva ogni quattro mesi[167]. Pietro Medici teneva
Michelangelo a fare statue di neve, e si vantava d’aver alla Corte due
portenti, Michelangelo e un corridore spagnuolo; Cosmo preferiva il
Vasari al Tiziano; nè essi nè i loro successori osarono terminare le
grandiose opere cominciate quando ancora non era spento l’alito della
repubblicana libertà; neppure il monumento di Giulio II e la cappella
funeraria. I rabbuffi del cardinale Farnese fecero morire consunto
Onofrio Panvinio, come quelli del duca d’Este impazzire il Tasso. Le
pensioni spesso erano decretate ma non pagate[168].

Federico Badoaro nel 1557 istituiva l’accademia veneziana _della Fama_,
con cento e più socj, che doveano leggere d’ogni scienza, ricevere
notizie d’ogni parte, dotata di libri e di sostanze, rallegrata da
conviti: repente la repubblica la chiude, volendo che sin il nome «sia
del tutto casso, talchè sotto pena di bando perpétuo di tutte le terre
e luoghi dello Stato nostro non possi più essere usato d’alcuno»[169].
Illustre era pure l’accademia dei Pellegrini, con cene e beneficenze al
modo de’ Franchimuratori, e buona biblioteca, e fondi per pubblicare
libri che si regalavano, e dare doti a zitelle; ed essa pure venne
proibita nel 1557, quarantacinque anni dopo istituita, forse per ombra
del segreto che vi dominava.

Invece dunque d’invidiarli perchè trovavano protezione, parmi a
deplorare la condizione di quei letterati e artisti che non potevano
attendersi la ricompensa disinteressata del favor popolare e la
gloria spontanea. Poteva dirsi che pubblico non v’avesse, ma due sole
classi di lettori, ecclesiastici e Corte; onde la funesta necessità
di rassegnarsi ad essere protetti, e d’invocare non già tolleranza e
perdono all’utile verità, ma sicurezza d’ozj a prezzo della dignità del
carattere e del pudore dell’arte.

Sicuramente un artista non potrà mai fabbricare Santa Maria degli
Angeli o la cupola di San Pietro, nè dipingere le stanze vaticane se
non ne sia comandato; e il genio che concepisce ha mestieri di allearsi
colla ricchezza che fa eseguire: ma che questa basti a suscitare
grandi uomini o a formare un’età, non dirò di genio, ma nè tampoco di
buon gusto, è ciancia di cortigiani. I Medici trovarono già formati
que’ grandi, ed ebbero il merito o la scaltrezza di valersene; ma
quando le lettere, le arti e la poesia che è l’arte stessa, cioè il
bello rivestito di forme sensibili, furono salariate dai principi,
staccaronsi dai bisogni e dai sentimenti della nazione, perdettero
in genio quanto acquistavano in forbitezza, divennero un ornamento
aristocratico anzichè un’espressione nazionale; e posti fra il
trivio donde uscivano e le Corti che li salariavano, i letterati non
raggiunsero la raffinatezza di queste, e perdettero l’efficacia feconda
e geniale della popolarità, e furono tenuti di qua dall’eccellenza,
a cui soltanto può arrivarsi col felice accordo di tutte le facoltà
dell’anima e dell’intelletto. E noi, ammirando l’esecuzione, deplorando
l’intento, più volte ci compiacemmo di considerare quel che sarebbe
riuscito l’Ariosto, se, invece degli inonorevoli dinasti di Ferrara,
avesse preso per tema la nazione o la cristianità; se il Guicciardini
non avesse dovuto scagionare se stesso de’ turpi servigi prestati alla
tirannide; se Machiavelli non avesse scritto la storia per comando di
Clemente VII, e il _Principe_ per ottenere un impiego; se Michelangelo
non fosse stato trabalzato dallo scalpello al pennello, al compasso,
nè costretto a stizzirsi col marmo acciocchè sulle tombe de’ Medici
esprimesse un’idealità, repugnante agli ordini e al merito dei
committenti.

Fra i precetti dettati da molti, fra le censure rimbalzate in quelle
rivalità clamorose e accannite, appare egli mai che si credesse l’arte
obbligata ad alcuna cosa più elevata che l’arte stessa? Piacere;
piacer alla Corte, ai letterati, era l’unico intento. Vedeasi lacerare
il manto della religione, e si credea rattopparlo facendo scrivere
diatribe dal Muzio: si tassavano le sconvenienze insinuatesi nella
liturgia, e Leone X faceva emendare gli inni e il breviario secondo le
frasi di Cicerone e di Tibullo: periva la patria, e cantavasi; periva,
e pochi animarono la storia con quei magnanimi dispetti, che rimangono
come una protesta indelebile delle nazioni; periva, e nessun grande
avea voce per intonare l’epicedio, il quale rimbombasse nei sepolcri,
per risonare un giorno qual tromba della risurrezione.

Il primo soggetto che si presentasse coglievasi, purchè opportuno a
sfoggiare bellezza ed arte. Almeno nell’età seguente il Tasso dibattè
lungamente seco stesso qual eleggere al suo poema: l’Ariosto non vi
fu indotto da altra ragione che di far la continuazione d’un altro.
Chiedi al Vida e al Fracastoro perchè cantarono il baco e la sifilide;
risponderanno, — Per mostrare che latinamente si possono dire cose
non mai da Latini trattate». L’Alamanni: — Scrissi poemi, perchè que’
soggetti cavallereschi garbavano ad Enrico II». Bernardo Tasso compone
cento canti prima di chiedersi se il suo Amadigi sia di Galles o di
Gallia.

Di qui la nessuna dignità nella morale e negli argomenti, la nessuna
cura di conservare alle composizioni quell’unità che degli scritti
fa un’azione. Il Sannazaro, congratulato di sua pietà da Leone X e
Clemente VII, volge a carmi lascivi la musa che avea cantato il _parto
della Vergine_; monsignor Della Casa encomia quel Carlo V, cui aveva
imprecato come a peste d’Italia; e l’encomiava l’Alamanni, il quale,
mandatogli ambasciadore, e sentendosi da lui rinfacciare versi d’altro
tenore, lanciati già tempo contro l’aquila grifagna e divoratrice,
se ne scagionò col riflettere ch’è uffizio della poesia mentire.
Machiavelli va ambasciatore al duca Valentino come ad un capitolo di
frati; Leonardo fa statue pel Moro, e archi trionfali pel vincitore
del Moro; notando nel suo taccuino la caduta del primo, non riflette
se non che «nessuna delle sue opere compì»; e dopo dipinta la Cena,
va a fabbricar fortezze pel Valentino; Rafaello compunge collo Spasimo
quanto seduce colle Psichi e le Galatee; Michelangelo fortifica la sua
patria contro i tiranni, e immortala questi nel marmo; tutti pensano
quel che Cellini dice: — Io servo a chi mi paga».

Tale bassezza trapela dalle lodi che l’un l’altro si rimbalzavano
i letterati; e a tacer i tanti nuovi Virgilj e Ciceroni e Livj
nuovi, il Varchi collocava il _Girone Cortese_ di sopra del
_Furioso_; lo Stigliani anteponeva i Tansillo al Petrarca; il sommo
Ariosto consumava un mezzo canto ad eternare oscuri nomi di suoi
contemporanei. Questo bisogno del lodare e d’essere lodato, questo
circoscrivere l’approvazione in pochi veniva espresso dal moltiplicarsi
delle accademie, dal secolo precedente resuscitate per imitazione
dell’antichità nella Platonica di Lorenzo de’ Medici. Burlevoli spesso
di nome, puerili d’occupazione, coi pasti, col vino infervoravano
l’estro; vi si cantavano e recitavano versi ed orazioni e lezioni
e dicerie; principi e vescovi sedeano ad ascoltare, a fianco de’
letterati; e talvolta in mezzo a questi gravi _padri_ sorgeva il Caro
a lodare il naso del presidente, «naso perfetto, naso principale, naso
divino, naso che benedetto sia fra tutti i nasi, e benedetta sia quella
mamma che vi fece così nasuto, e benedette tutte quelle cose che voi
annasate»; ovvero il Berni vi lodava le anguille, i cardi, la peste; il
Firenzuola la sete e le campane; il Casa la stizza e il martel d’amore;
il Varchi le ova sode e il finocchio; il Molza l’insalata e i fichi;
il Mauro la fava e le bugie; e chi la tosse, chi la terzana, chi la
pelatina, chi qualcosa di peggio. Encomj divisi coi principi mecenati,
e applauditi da quegli _Assonnati, Infecondi, Filoponi_ e che mi so io.

Taciamo la frivolezza, n’era pregiudicata l’originalità, atteso che
tali corpi sogliono erigere monopolio del buon gusto, e giudicare
secondo canoni prestabiliti; nè potendo sperarsi rinomanza senza
il loro suffragio, forza era rassegnarsi a quelle norme arbitrarie,
anzichè procedere per sentimento e per interna attività.

Unica aspirazione essendo lodi e denaro, si mendicavano e le une e
l’altro. — Gli stolti ridono de’ cenci ond’ho coperto il corpo, e de’
sandali bucati che ho in piede; mi celiano che il mio abito perdette
il lustro e il pelo, e la corda traditrice mostra i grossolani fili,
ultimi resti della pecora tosata sul vivo; ridono, e non m’hanno in
verun conto, e dicono che i miei versi non vi piaciono più. Mandatemi
dunque una delle vostre vesti migliori». Così il Poliziano al Magnifico
Lorenzo; e questo affrettavasi di spedirgliene una, ed esso tal quale
se la indossava, e il popolo riconosceva ch’era della guardaroba
del principe, e ne inferiva che i versi del poeta n’erano ben degni.
Il poeta, nella necessità di ringraziare, invocava l’assistenza di
Calliope, la quale scendea dall’Olimpo, ma non riconosceva il suo
prediletto dacchè era sì riccamente in arnese, e risaliva al cielo;
sicchè il Poliziano batteasi invano la testa, chè i versi riconoscenti
non sapeano venire.

Non vi fecero pietà le condiscendenze cui Bernardo Tasso si credette
obbligato onde buscar protezione e pane da quell’imperatore, che gli
avea tolto ogni bene perchè serbò fede al padron suo? Luigi XII, andato
ad ascoltare le lezioni di Giason Del Màino a Pavia, l’interroga perchè
non pigli moglie; — Perchè Giulio papa sappia, per testimonio di vostra
maestà, che io non sono indegno del cappello di cardinale». Bisognando
il Guicciardini d’un poco di dote per le sue figliuole, il Machiavelli
l’incoraggia a richiederne Leon X, gli annovera esempj della costui
liberalità, gl’insegna come formare la lettera accattona, e «tutto
consiste in domandare audacemente, e mostrare mala contentezza non
ottenendo». I dispacci del Machiavelli nelle sue missioni chiudonsi
sempre col domandare quattrini, e in quella chiave cantano tutti gli
altri ambasciatori.

Andrea dell’Anguillara da Sutri (1517-70), conosciuto da tutti per la
gran gobba; l’abito tacconato e la ciera ridente, vendeva le sue ottave
mezzo scudo l’una, e perciò ne fece tante; e non ricevendo compenso
d’una sua canzone al duca Cosmo, ne mosse arroganti querele: — Lo stare
sei mesi senza rispondermi è tale disprezzo verso la persona mia, che
non ha punto del duca, chè non credo che dei pari miei ne trovi le
migliaja per le siepi della Toscana, come delle more selvatiche. Ed io
sarei tentato di far sentire le mie querele con una satira in versi;
ma ho dovuto scrivere in prosa, perchè mi ricordo che un Fiorentino mi
disse una volta in Francia ad un certo proposito, che se le lettere di
cambio fossero in versi, non se ne pagherebbe niuna; ed io desidero
che mi sia pagata la presente, almeno d’una risposta, sia quale si
voglia»[170]. Traduceva i primi due libri dell’Eneide, e prometteva
che Enea nell’Eliseo troverebbe tutti coloro che nel regalerebbero,
all’inferno i differenti; e inviandone copia al cardinale Farnese, gli
scriveva: — È necessario, acciò ch’io il possa finire, che ella mi
mandi quell’ajuto, che si richiede alla sua grandezza e magnanimità
ed al mio amore e bisogno. Io ne mando per questo effetto a tutti i
principi d’Italia, perchè tutti concorrano ad ajutarmi. E piaccia a Dio
che non mi bisogni mandare e lei e gli altri tutti a casa del diavolo,
e che Enea non abbia troppo da fare nell’inferno a parlare con tante
anime dannate, quante io son per mandarvene se non fanno il debito
loro». Con tutto ciò morì povero, del morbo allora divulgantesi.

Novidio Fracchi, poeta latino, dedicò a Paolo IV un poema _Sacrorum
fastorum_, cui precede una stampa, figurante il papa in trono fra
l’imperatore di Germania e il re di Francia, e l’autore in ginocchi
offre loro il suo poema; ai piedi è scritto: _Hos ego do vobis, vos
mihi quid dabitis?_

Paolo Giovio, venale dispensiero di gloria e di strapazzi, diceva
tener due penne, una d’argento, una d’oro per proporzionare la lode
ai regali; e, — Io ho già temperata la penna d’oro col finissimo
inchiostro... Io mi costituisco obbligato a consumare un fiaschetto
di finissimo inchiostro con una penna d’oro per celebrar le opere di
vostra santità... Io starei fresco se gli amici e padroni mei non mi
dovessero esser obbligati quando gli faccia valere la sua lira un terzo
più che ai poco buoni e mal costumati. Ben sapete che, con questo santo
privilegio, ne ho vestito alcuni di broccato riccio, e al rovescio
alcuni, per loro meriti, di brutto canevaccio, e zara a chi tocca; e
se essi avranno saette da bersagliare, noi giocheremo d’artiglieria
grossa. So ben io ch’essi morranno, e noi camperemo dopo la morte,
ultima delle controversie»[171].

Fa stomaco l’insistenza con cui egli cerca or una pelliccia, ora un
cavallo, ora confetti; a Luca Contile chiede «pomi cotogni e pesche
confette, che ne son provenute da Napoli alla signora principessa
un diluvio»; a Isabella di Mantova settanta risme di carta per
istampare le sue opere[172]; a monsignor Farnese scrive: — Io comincio
a lucubrare, e farò cosa ad onore di vossignoria che i posteri la
leggeranno, e basta. Ma vossignoria si disponga a fare che Alessandro
mio nipote sia vescovo di Nocera»; al marchese del Vasto, che gli
fece intendere voler venire al suo Museo, villa a Como, dove avea
raccolte belle rarità e i ritratti degl’illustri contemporanei: —
L’aspetto con desiderio grandissimo, e so che non uscirà dell’uso suo
magnanimo e liberale, ricordandomi, quando ella per suo diporto va alle
Grazie, ovvero a San Vittore, dove, benchè sia perpetua la grassezza
e l’abbondanza, andando per quattro giorni vi porta provvisioni per
un mese. Che spererò io se quella viene al Museo fra tanti uomini
immortali che se ben non mangiano, allettano però infiniti mangiatori?
Voglio che Pitigiano sappia che le botti del suo magazzino favorito
fanno querciola, e suonano il tamburo. Farebbe anco bel vedere se
vostra eccellenza accompagnasse il fornimento che vi lasciò, con un
altro bello e simile». E s’impazienta se i doni tardano o vengono
scarsi alla sua avidità; e chiama perduti i lavori cui mancò quella
mercede, che unica l’avea mosso. Principi e ricchi gliene profondevano
a gara; e tanto si temea l’azione di siffatti scribacchianti
sull’opinione, che perfino Adriano VI pregava il Giovio a dir bene
di lui; il quale lo compiacque nella Storia, salvo a vituperarlo nel
trattato dei Pesci quando più non avea nulla a sperarne o temerne.
E Carlo V, che chiamava lo Sleidan e il Giovio i suoi due bugiardi,
uno dicendone troppo male, troppo bene l’altro, pure, sapendo che uno
scrittore, per quanto poco coscienzioso, è letto purchè mostri talento,
accarezzava il Giovio e donava, poi facealo confutare da Guglielmo Van
Male, massime a proposito della spedizione di Tunisi.

Come gli odj dall’amore, così i vituperj germogliano dalle lodi: quindi
le risse schiamazzanti di quel tempo. — I letterati (scrive Girolamo
Negro) sono in guerra; Pietro Cursio combatte con Erasmo sopra il
vocabolo _bellax_, se pigliarlo in cattiva parte per cosa precipua alla
guerra, o vero s’egli è _verbum merum_; ogni dì vengono fuori libri
nuovi ed invettive sopra questa cosa; sono alcuni che in nome d’Erasmo
rispondono a questo Cursio, e costui va in collera». Da polverosi
scaffali abbiamo dissotterrato due invettive contro Giovanni Parrasio
cosentino, famoso maestro di retorica in Milano, una intitolata _contra
Janum Parrhasium asinum archadicum_, e l’altra _in Janum Parrhasium
scarabeum fœdissimum et vespam aculeatam_. I Medici pigliavano spasso
d’udire i sonetti che si avventavano Luigi Pulci e Matteo Franco.
Girolamo Ruscelli s’accapiglia con Lodovico Dolce, due pedanti a una,
i quali non acquistano calore che per l’ingiuria. A proposito del
libro _De nominibus Romanorum_, Francesco Robortello da Udine cominciò
invelenato litigio con Carlo Sigonio, e se non bastarono le ingiurie
latinamente prodigatesi, il primo pubblicò un cartello di sfida contro
l’altro, cioè cedole dove proponeva un nuovo metodo d’insegnare
il latino; il Sigonio ne oppose un altro, il Robortello replicò,
il Sigonio diè fuori una filippica potentissima, sinchè l’autorità
v’impose silenzio. Giraldi Cintio entrò in baruffa col Pigna; Paolo
Manuzio col Lambino perchè volea stampare _consumtus_ senza il _p_;
e avendogli l’emulo portato un marmo ove leggevasi _consumptus_,
gliel’avventò alla testa. Il Varchi litiga col Lasca e col Pazzi, che
lo invita a mandargli i suoi manoscritti per farne impannate, sicchè
vedano la luce almeno per un inverno, poi egli tocca pugnalate da
signori che pretendeansi maltrattati nella sua Storia, ed egli stesso
assale con un coltello Alfonso de’ Pazzi che lo satirizzava; ma questo
gli disse: — Rimettete l’arma a suo luogo, ch’io non pretendo vincervi
per assalto ma per assedio».

Pietro Angeli, detto Bargeo, per versi mordaci è costretto fuggir di
Bologna, poi uccide in duello un Francese; Anton Francesco Raineri
poeta milanese è morto da un suo amico; Diomede Borghesi da Siena
per risse dovette fuoruscire; Dionigi Atanagi usurpa una traduzione
a Mercurio Concorezio, che lo assalta e ferisce; il celebre grecista
Prividelli reggiano, professore a Bologna, scelto da Enrico VIII a
patrocinar la causa del suo divorzio, fu ucciso da uno di cui avea
difeso l’accusato; Michelangelo portò in perpetuo l’impronta del pugno
avuto da Pier Torrigiano; Tiziano dipingeva spesso col corazzino;
Pietro Facini insidia alla vita d’Annibale Caracci; Lazzaro Calvi
avvelena Giacomo Baregone; credesi che così finisse il Domenichino.
Girolamo Parabosco sonatore, nell’insegnar musica alla Maddalena famosa
cortigiana di Venezia, cerca cattivarsene l’amore, ma i vagheggini
di essa, un giorno ch’e’ batteva alla porta, gli buttarono sul capo
acqua calda e brage, onde restò segnato tutta la vita. Giambattista
Sanga poeta s’innamorò d’una giovane; e la madre di lui, non potendo
distornelo altrimenti, stabilì avvelenarla; fintasele amica, le imbandì
un’insalata, della quale sopraggiungendo mangiarono pure il Sanga e
Aulerio Vergerio segretarj di Paolo III, e tutti morirono (ZILIOLO).

Scorrete la vita di que’ letterati, e a nessuno mancano vicende:
alcuni primeggiano per isfolgorata ciarlataneria. Giulio Bordone,
soprannomato della Scala dall’insegna della paterna bottega, fattosi
nome nelle lettere e nella medicina, passava in Francia, e intitolavasi
Giulio Cesare Scaligero (pag. 122); e non che asserirsi discendente
dai signori di Verona, spacciava un’infinità di imprese guerresche
compite da suo padre e da lui; e il mondo credeva; e mentre è scrittor
mediocrissimo, il Tuano lo chiama _hujus seculi ingens miraculum, e
vir quo superiorem antiquitas vix habuit, parem certe hæc ætas non
videt_[173]; e Giusto Lipsio lo pone quarto con Omero, Ippocrate e
Aristotele.

Gian Francesco Conti, scolaro poi emulo di Giovan Britannico bresciano,
prese il nome di Quinzano o dal villaggio dove umilmente nacque presso
Brescia, o da quell’amico cui Marziale faceva correggere i proprj
versi; e vi aggiunse quello di Stoa, perchè i suoi condiscepoli lo
dicevano portico delle Muse. Risoluto d’entrare in grazia ai grandi,
quando Luigi XII vinse ad Agnadello, celebrò questa vittoria, e ne
chiese in compenso la corona poetica, che il re gli decretò: mandò odi
al cardinale d’Amboise, e ne fu chiamato a professare a Parigi e ad
educare Francesco I: da questo è messo professore a Pavia, ma cadute
le fortune francesi, si ritira in patria. Molti lo levano alle stelle,
altri gli trova trecento sbagli di grammatica, o l’accusa d’aver
usurpato fatiche altrui. Bisogna sentirlo deplorare l’insufficienza
degli onori concessigli! — Molte opere pubblicai; molte più ancora ne
pubblicherò. Non si stamparono più di seimila versi miei? non fui visto
comporne mille ottocento in un sol giorno? quante tragedie, commedie e
satire, concepite nella mia testa, fan ressa per isbucarne? Enumererò
gli epigrammi, i monostici, i distici, i miei dubbj su Valerio Massimo,
le mie opere sulle donne, i miei panegirici, le orazioni pubbliche,
le favole, le epistole, le odi, la mia vita di re Luigi XII, i miei
libri sui miracoli dei pagani, i miei endecasillabi, le mie selve, la
mia Eraclea (_la guerra veneta_), il mio Orfeo, e seicento altri? Non
fui dall’invitto re di Francia decorato della corona d’alloro? è poco
onore per me che codesta laurea poetica, che pochi altri ottennero
in vecchiaja, siami stata concessa quando appena compivo la quinta
olimpiade»[174].

A Leone X fu presentato un fanciullo di sei anni come un portento;
ed era Gabriele Simeoni fiorentino, che poi invece di studj mostrò
presunzione, e insaziabile avidità di doni e mecenati. In Francia
sollucherò la duchessa d’Etampes, ganza di Francesco I, onde ottenne
fin la pensione di mille scudi[175]; a Firenze, a Roma impieghi, che
poi riperdeva. Reduce in Francia, carezzò la duchessa di Valentinois:
poi servì al principe di Melfi, accompagnò il vescovo di Clermont al
concilio di Trento, ma cadde in sospetto dell’Inquisizione, che il
tenne in ferri un anno: militò col Caracciolo nella guerra di Piemonte,
col duca di Guisa in quella di Napoli; singolarmente egli sperava da
don Ferrante Gonzaga, allora vicerè di Sicilia, e più volte tornò
a ricordargli che Achille ed Augusto non sarebbero in sì alta fama
se non si fosser mostrati generosi con Omero e Virgilio. Saputo che
Pierluigi Farnese avea regalato cencinquanta scudi all’Aretino, e’ gli
scrisse «sperando che la sua liberalità e favore abbia a condurre così
lunga, rara, onorevole e faticosa impresa, quale è il mettere tutta
l’astrologia giudiziaria in versi sciolti a felice fine, e consegnarla
al nome suo»: ma il Farnese non accettò. Emanuele Filiberto di Savoja
bensì accettò la dedica delle _Imprese_, e gli die’ ricovero a Torino,
ove morì il 1570. Fa di se stesso gli elogi più sguajati; quando
trovasse monumenti antichi, vi scolpiva il proprio nome; lagnavasi
che sì pochi fossero «inclinati a giovare ad un uomo virtuoso, il
quale in un momento poteva rendere immortale il suo benefattore»; e
paragonandosi a Dante, sulla tomba di questo cantava:

    E facciam fede al secolo futuro
    Tu qui coll’ossa, io con la vita altrove,
    Ch’uom di virtù, poco alla patria è grato.

La sua _Tetrarchia di Vinegia, Milano, Mantova, Ferrara_ è un aborto
di storia. Nella prefazione alle _Satire alla bernesca_ sostiene
esser questo genere il solo ove possa mostrarsi ingegno, perocchè
«mille si trovano poeti capaci di cantare i gesti d’un eroe, ma pochi
assai capaci di celebrare le oneste qualità di una fara, d’un forno,
d’un’anguilla»; e ne mandava copie manoscritte ai principi in essa
lodati. In un’altr’opera figurata rappresenta enigmaticamente i varj
Stati d’Italia, esortando Enrico II a conquistarla, derivando i re
francesi da Franco figlio d’Ettore, mentre i Romani, discesi da Enea,
non erano che un ramo cadetto. Altrettanto presuntuose e ignoranti sono
le tante altre sue opere, illustrate anche di belle stampe; alcune in
francese; sempre rifriggendo le poche sue cognizioni, promettendo opere
grandiose che mai non cominciò.

Come Raimondo Lullo aveva inventato un’arte di ragionare, così altri
volle inventare una meccanica di scriver bene. Camillo Delmino da
Portogruaro, autore di varie opere retoriche, diceva a chi nol volesse
ascoltare, di aver l’_idea d’un teatro_, nel quale entrerebbero tutti
gli oggetti sensibili, tutti i concetti umani, e quanto spetta alle
scienze, all’eloquenza, all’arti belle e meccaniche. Dal conte Giulio
Rangone suo protettore menato in Francia, spiegò il suo divisamento a
Francesco I e ad altri principali, e n’ebbe in dono seicento scudi,
ma non effettuò mai la sua idea; bensì voleva stamparla e dedicarla
al re purchè gli assegnasse duemila scudi di pensione, e Francesco
non stimò d’esaudirlo. Tornato in patria, il Muzio suo ammiratore lo
presentò ad Alfonso d’Avalos; e questi per cinque mattine di seguito lo
ascoltò esporre la generalità e i particolari di cotesto teatro, ch’era
omai la favola del mondo, e ne prese tal meraviglia, che gli assegnò
quattrocento scudi di rendita, oltre cinquecento pel viaggio; e volle
che al Muzio dettasse l’idea. Dormivano il Muzio e Camillo nella stessa
camera, e ogni mattina quegli scriveva sotto dettatura, e così nacque
il libro stampato col titolo di _Idea del teatro_. Osceni eccessi
trassero al sepolcro il Delmino di sessantacinque anni, e fu sepolto
nelle Grazie a Milano: il nome di lui visse alcun tempo, le opere
sue furono ristampate, e il Muzio ci descrive l’estro che sfavillava
dal volto di esso quando parlava, simile a quel della sibilla sul
tripode; ma chi cercasse quell’opera sua, nel poco che potrebbe
intendere troverebbe le vanità d’un ciarlatano e una miscea di cabala,
d’astrologia, di mitologia, di tutto insomma, eccetto quello che il
titolo promette.

Giacomo Critonio (Crichton) nato altamente in Iscozia, e detto
l’Ammirabile, a vent’anni sapea quanto conosceasi del suo tempo, sonava
molti stromenti, parlava venti lingue, primeggiava negli esercizj
cavallereschi. Di tali sue abilità volle dar mostra all’Europa, e dopo
Parigi venne a Roma, affiggendo una cedola dove sfidava chiunque fosse
versato in una qualunque scienza a disputar seco in qualsifosse lingua;
e intanto si diede alla caccia, ai giuochi, alla cavallerizza, alla
scherma. Pasquino lo canzonò dunque come un ciarlatano, ond’egli se
n’andò a Venezia, ove divenne amico di Aldo Manuzio e d’altri eruditi;
davanti al doge e ai pregadi orò con tanta eloquenza, da colmar tutti
d’ammirazione, e la gente affollavasi a vederlo e udirlo. Passato a
Padova, vi recitò le lodi di questa città; sei ore disputò coi più
valenti professori sopra ogni varietà d’argomenti, confutò gli errori
aristotelici, poi finì con uno stupendo elogio dell’ignoranza. Di
gloria onusto, capitò a Mantova mentre il duca trovavasi dolente di
aver concesso la sua protezione a uno spadaccino rinomato che già aveva
ucciso tre persone: e Critonio si esibì di combatterlo, e di fatti lo
trafisse a morte. Il duca pertanto, oltre mille cinquecento pistole
già promessegli, il chiese maestro di suo figlio Vincenzo Gonzaga.
Ma ecco una sera del 1583 è assalito da dodici persone mascherate;
esso tien testa a tutti, finchè il loro capo, ridotto alle strette,
scopre esser il principe suo allievo. Critonio se gli butta a’ piedi
domandandogli scusa, ma quegli stizzito o ubriaco il passa fuor fuori.
Tali e molte più avventure furono certo esagerate; ma di lui abbiamo
varj componimenti di bella latinità, e di lodi altissime l’onora Paolo
Manuzio.

Altro ingegno bizzarro, Ortensio Landi milanese (1500-60), porge di se
medesimo la più trista pittura ne’ _Cataloghi_ e nella _Confutazione
dei Paradossi_: contraffatto, di volto tisicuccio e macilento, sordo,
benchè sia più ricco d’orecchie che un asino; mezzo losco, piccolo
di statura, labbra d’etiope, naso schiacciato, mani storte, color di
cenere, favella e accento lombardo, quantunque molto s’affaticasse di
parer toscano; pazzarone, superbo, impaziente ne’ desiderj, collerico
sin alla frenesia, e composto, non come gli altri uomini di quattro
elementi, ma d’ira, di sdegno, di collera e d’alterizia. Le opere sue
lo scoprono temerario, arguto, vigoroso; batte tutte le verità, non con
serrato argomentare, ma con scettica burla; sputacchia gl’idoli del suo
tempo; dice il contrario di quel che pensa la comune e che forse pensa
egli stesso, e maschera di pazzia la libertà. Il Boccaccio è la bibbia
dei pedanti? ed esso lo conculca come imbecille, incolto, ruffianesco,
spregevolissimo, e amar meglio il parlar milanese e bergamasco che
il boccaccevole. Bestemmia quell’_animalaccio_ d’Aristotele, lodando
Lutero che se n’emancipò. Muore Erasmo, e tutti l’elevano al cielo
come si fa sulle tombe recenti: ed esso lo mette in canzone. Se
la piglia coi Toscani per fatto della lingua; encomia l’infedeltà
conjugale, il libertinaggio e i pregiudizj. Eppure non gli mancano
nobili aspirazioni; nel _Commento delle cose più notabili e mostruose
d’Italia_ mena una specie di viaggio burlesco traverso al bel paese,
mostrandone il decadimento; contro i vizj che lo producono s’irrita
fin all’invettiva; e torna ogni tratto, e principalmente nel libro _De
persecutione Barbarorum_, a scagliarsi contro i principi e prelati,
solleciti a nodrir buffoni, più che uomini dotti. Fastidito de’ costumi
italiani, e desideroso «d’una patria libera, ben accostumata e del
tutto aliena dall’ambizione», andò in Isvizzera e fra’ Grigioni: ma
se quivi sulle prime «fu allettato da un soavissimo odore d’una certa
equalità troppo dolce e troppo amabile», ben presto vi scôrse «tanta
ambizione e tanto fumo, che fu per accecarne».

Che importa qualche goccia di senno in un mar di follie, d’immoralità,
d’empietà? Egli medesimo disdiceasi, contraddicevasi, e sempre con
pari sicurezza; i suoi Paradossi confutò egli stesso coll’accannimento
d’un nemico; nella _Sferza degli antichi e moderni scrittori_ mena a
strapazzo non solo gli autori, ma le scienze stesse; eppure finisce
coll’esortare i giovani allo studio. Conosceva ben addentro gli autori
antichi, e, come dice Giannangelo Odoni, volea Cicerone e Cristo; ma
quello nei libri non avea; se questo avesse in cuore, Dio lo sa[176].

Insomma costoro personificano la parte rivoluzionaria della
letteratura, in lizza colla madrigalesca e accademica, però in nome
soltanto del materialismo, con fantasie sbrigliate, invocando il
privilegio della pazzia[177], drappeggiandosi nella propria abjettezza
per isfuggire la persecuzione; e niuna fidanza ponendo nell’efficacia
riparatrice della letteratura, l’ardor razionale non esercitavano
nell’esame, ma svampavano nel riso.

Ed ecco farcisi innanzi il più sguajato esempio del domandare, del
lodare, del censurare. Per un sonetto contro le indulgenze merita
costui d’essere cacciato da Arezzo, dov’era nato in un ospedale,
non avendo altro nome che di Pietro, cui aggiunse quel della patria
(1492-1557). A Perugia vede dipinta una Maddalena che tende le braccia
verso Cristo, ed egli nottetempo vi dipinge un liuto che essa in
quell’atto sembra sonare; vive alcun tempo di legar libri, col che
conosce opere e letterati; poi spintosi fin a Roma pedone e senza
bagaglio, dal Chigi, mecenate di Rafaello, è ricevuto per valletto, poi
cacciato per ladro; ma egli campa di scostumatezze, si fa cappuccino,
si sfrata, adula, sparla; busca un bell’abito, e con quello si presenta
a Leone X offrendogli un elogio, e ricevendone un pugno di ducati;
offre elogi a Giuliano Medici, e n’ha un cavallo, e ottien rinomanza
collo scrivere in quel modo, che non richiede altro che sfacciataggine.

E la sfacciataggine è l’unica scienza di costui. Ingegno naturale non
educato, «come un asino (diceva) io non so nè ballare nè cantare,
ma far all’amore». Guardatosi attorno, s’avvide che sfrontatezza e
ribalderia gli procaccierebbero gloria meglio che le placide virtù;
e traendo al peggio la potenza della stampa, di mezzo ai sonetti
sospirosi e ai torniti periodi si pone ad avventare limacciosi
strapazzi in istile bislacco; simile all’assassino, apposta la
gente inerme sulla via, e intima, — La borsa, o vi ammazzo con
uno scritto». Cuculiando gli studiosi e gl’imitatori, vantavasi
di non somigliarli; sapea vilipendere le lettere allorchè tutti le
idolatravano; scaraventare metafore tra la forbitezza eunuca degli
umanisti; metter impeto ed estri ove gli altri accuratezza e gelo.
E diceva: — Ascoltate, acciò chiaro s’intenda se più meritano in sè
lode di gloria della natura i discepoli, ovvero gli scolari dell’arte.
Io mi rido dei pedanti, i quali si credono che la dottrina consista
nella lingua greca, dando tutta la riputazione allo in _bus_ in _bas_
della grammatica... Io non mi son tolto dagli andari del Petrarca
e del Boccaccio per ignoranza, che pur so ciò ch’essi sono; ma per
non perdere il tempo, la pazienza e il nome nella pazzia di volermi
trasformare in loro. Più pro fa il pane asciutto in casa propria, che
l’accompagnato con molte vivande su altrui tavola. Imita qua, imita
là; tutto è fava, si può dire alle composizioni dei più... Di chi ha
invenzione, stupisco; di chi imita, mi faccio beffe: conciossiachè
gl’inventori sono mirabili, gl’imitatori ridicoli. Io per me d’ognora
mi sforzo di trasformarmi talmente nell’uso del sapere, nella
disposizion dei trovati, che posso giurare d’esser sempre me stesso,
ed altri non mai. Non nego la divinità del Boccaccio; confermo il
miracoloso comporre del Petrarca; ma sebbene i loro ingegni ammiro, non
però cerco di mascherarmi con essi: credo al giudizio dei due spiriti
eterni, ma credendoli vado prestando un po’ di fede al mio»[178].

Con uno scrivere contorto e scarmigliato, con frasi affettate e fuor
di luogo, con metafore sbardellate[179], stupiremmo che fosse salito
a potenza così irrefrenata, se anche ai dì nostri non la vedessimo
usurpare nelle gazzette da chi ha la fronte di dire e fare ciò che
onest’uomo non ardisce. Su quel tono dunque egli scriveva satire,
commedie, lettere, libelli, e li dedicava a persone virtuose e a sacre;
e alla vita e genealogia di tutte le cortigiane di Roma, al dialogo di
Maddalena e Giulia, a libri di cui neppur il titolo si può trascrivere,
alternava prediche e i sette salmi e il Genesi e dell’umanità di Cristo
e vite di santi e opere d’asceticismo esagerato, nelle quali c’era di
che bruciarlo quanto nelle laide.

Così divenne terribile; cerco e scacciato da chi imitava o aborriva
la scapestrata sua vita, o ne temeva gl’irreparabili assalti[180].
— Io mi trovo a Mantova appresso il signor marchese, e in tanta sua
grazia, che il dormire e il mangiare lascia per ragionar meco, e dice
non aver altro intero piacere, ed ha scritto al cardinale cose di
me, che veramente onorevolmente mi gioveranno; e sono io regalato di
trecento scudi, e gran cose mi dona. A Bologna mi fu cominciato ad
esser donato; il vescovo di Pisa mi fe una casacca di raso nero, che
fu mai la più superba; e così da principe io venni a Mantova». Avendo
Giulio Romano dipinti, e Marc’Antonio Raimondo incisi sedici voluttuosi
atteggiamenti, l’Aretino impetra ad essi il perdono da Clemente VII, e
intanto li correda di altrettanti sonetti descrittivi; e quest’infame
alleanza di belle arti corse il mondo, e crebbe la deplorabile fama
di Pietro. Cacciato allora da Roma «che sembra con esso perdere la
vita», va e ricovera al campo di Giovanni dalle Bande nere, e v’arriva
mentre questi avea concesso a’ suoi una _notte franca_, cioè di potere
abbandonarsi ad ogni lor voglia; sicchè pensate gli stravizzi, le
risse, i furti, gli amori rapiti o pagati o conquisi, le violenze, la
scena d’inferno, e come l’Aretino vi si trovasse nel proprio terreno.
E Giovanni, ribaldo quanto qualunque de’ suoi ribaldi, si compiace di
sì bell’acquisto, lo vuol sempre a tavola, spesso a letto seco, pensa
farlo principe[181], e gli scrive: — Il re jeri si dolse ch’io non
t’avea menato meco al solito; diedi la colpa al piacerti più lo stare
in corte che in campo. Mi replicò che ti scrivessi, facendoti qui
venire. So che non manco verrai pel tuo benefizio che per veder me, che
non so vivere senza l’Aretino». Questo re gli regalò una catena d’oro;
ed esso il _Dialogo delle corti_, «come l’ostia della virtù sull’altare
della fama consacrò al nome del glorioso Francesco I, creatura saggia
ed anima piena di valore».

Don Ferrante Gonzaga gli passava una pensione. Luigi Gonzaga gli
spediva versi e denaro; e l’Aretino rispondevagli trovandoli scarsi: —
Se voi sapeste sì ben donare come sapete ben versificare, Alessandro
e Cesare potrebbero andare a riporsi. Attendete dunque a far versi,
poichè la liberalità non è vostr’arte»[182]. Guido Rangone e sua
moglie Argentina Pallavicini anch’essi gl’inviavano lettere e doni; ed
esso ringraziando lei d’uno scatolino con una medaglia e ventiquattro
puntali d’oro, — Quanto è (soggiunge) che io le ebbi le due vesti di
seta, che vi spogliaste il dì che ve le metteste? quanto è che mi daste
i velluti d’oro e le ricchissime maniche e la bellissima cuffia? quanto
è che mi mandaste i dieci e dieci e otto scudi? quanto è che faceste
porre il trebbiano nella cantina? quanto è che mi accomodaste dei
fazzoletti lavorati? quanto è che mi poneste in dito la turchina? Sei
mesi sono, anzi non pur quattro»[183].

Vuol vivere, come sguajatamente scriveva, «col sudore de’ suoi
inchiostri»; e denari, gioje, vesti gli fioccavano; «più di
venticinquemila scudi l’alchimia del suo calamo ha tratto dalle
viscere dei principi»; duemila n’aveva di pensioni; mille all’anno ne
guadagnava, dic’egli, con una risma di carta e un’ampolla d’inchiostro;
più di ottantamila dicono ne buscasse in tutta la vita. Eppure non
gli pajono abbastanza quegli onori e quelle ricchezze. Al tesoriere di
Francia che gli pagava una somma, — Non vi meravigliate se tacio; ho
consumata la voce nel chiedere, e non me ne resta per ringraziare». A
tanto arrivava per pura sfacciataggine, e intitolandosi _per divina
grazia uom libero_, e vituperando i principi in generale mentre li
loda ciascuno, o vituperando come gli giova per istigare le reciproche
gelosie: — Emmi forza di secondare l’altezza de’ grandi con le grandi
lodi, tenendomi sempre in cielo con l’ali delle iperboli. A me bisogna
trasformare digressioni, metafore, pedagogerie in argani che movano
e in tenaglie che aprano: bisogna far sì che le voci de’ miei scritti
rompano il sonno all’avarizia».

E voi, re della terra, che vantate di non curvar più la fronte dinanzi
al vicario di Dio, abbassatela al masnadiere della penna. Enrico VIII
gl’invia trecento corone d’oro in una volta; mille Giulio III per un
sonetto ricevutone, oltre la bolla di cavaliere di San Pietro, e lo
bacia in fronte. Ma altro e’ voleva, e non ottenendo quanto le sue
speranze, tornò a Venezia dicendo non aver voluto accettare il cappello
rosso. Sì; fin alla speranza di diventar cardinale s’elevò costui,
fiancheggiato dal duca di Parma; poi prese il nome di _divino_ e
_flagello dei principi_; fu ritratto dai primi artisti, ebbe medaglie
per sè, per la moglie, per la figlia, pei bastardi, e sul rovescio
d’una leggevasi: _I principi tributati dai popoli il servo loro
tributano_.

Carlo V gl’inviò una collana del valore di cento zecchini, dopo
sconfitto in Barberia, perchè nol beffasse, ma egli rispose: — È cosa
ben piccola per una sciocchezza sì grande». E Carlo, che aspirava
alla monarchia universale, tributò onori e una pensione al _divino_;
se lo fece cavalcar alla destra a Bologna, ond’egli scriveva: — Gran
cosa che, non pur mi sia il di lui favore successo siccome a me il
divisate, ma la mansuetudine del religioso imperadore ha d’assai
avanzato l’opinione di voi nello affermarvi che, riscontrandolo per
ventura per il cammino, m’imporrebbe il cavalcare con seco, fin a darmi
la man destra che mi diede, atto tanto degno della sua clemenza, quanto
indegno della mia condizione. Io certamente sono uscito di me in udirlo
e in vederlo; conciossiachè chi non l’ode e nol vede, immaginarsi
non può l’inimmaginabile senno della umana famigliaritade di quella
piacevole grazia...»

E con che arti gli s’insinua? col protestargli che i pittori gli han
fatto torto ne’ ritratti, col parlargli d’Isabella sua moglie defunta;
«nel poi dirgli io, che non pensava che le mie carte fossero lette da
lui che tiene in sè le faccende del mondo, rispose che tutti i grandi
di Spagna aveano copia di quanto gli scrissi sulla ritirata d’Algeri,
la cui impresa minutamente contandomi, mi scoppiò l’anima nel pianto,
sì mi commosse la tenerezza udendogli dire: _E a che fine voleva io
più venirci, se in cotal fatto moriva tanta gente per me!_ Ancora
sento il timido della sonora favella augusta... Il mio non esser punto
vano mi faceva dimenticare il suo aver chiamato a sè cavalcando i
miserabili veneti ambasciadori, alle cui solenni spettabilitadi disse:
_Amici onorati, certo che non vi sarà grave dire alla Signoria ch’io
le chieggo in grazia di tener rispetto alla persona dell’Aretino, come
cosa carissima alla mia affezione_».

Altra volta scriveva: — Leone e Clemente, in cambio d’asciugarmi il
sudore della servitù colle pronte mani del premio, le intinsero con
presta crudelità nel mio sangue, non per altro che per esser io senza
inganni, perchè l’adulazione non mi guasta, perchè la crapula fuggo,
perchè procedo alla libera, perchè conosco i ribaldi, perchè aborrisco
gl’ingrati, e perchè non lo vuo’ dir per modestia, eppure si sa nè si
nega, per sì môre offesa e sì turche non manco di battezzata credenza
alla Chiesa; del che fanno pubblica fede i libri che di Cristo ho
scritto e dei santi... Intanto è manifesto ch’io son noto al Sofì,
agl’Indiani ed al mondo, al pari di qualunque oggi in bocca della
fama risuoni. Che più? i principi, dai popoli tributati, di continuo
me loro schiavo e flagello tributano. Io non allego la forza dello
incredibil miracolo per superbia che n’abbi o per vanto; ma ne favello
per confessare a me stesso l’obbligo che ho con Dio, che mi ha fatto
tale»[184].

Tardasi a donare? minaccia di porre Cristo in man de’ Turchi: — Intanto
comincio a metter la penna in tutto il leggendario dei santi, e tosto
ch’io abbia composto, vi giuro, caso che non mi si provvegga da vivere,
che al sultano Solimano lo intitolo, facendo in sì nuova maniera la
epistola, che ne stupirà ne’ futuri secoli il mondo; imperocchè sarà
cristiana a tal segno, che potria moverlo a lasciar la moschea per
la chiesa». È regalato scarsamente? rifiuta: — Ho rimandato i dieci
ducati, pregandolo che si degni, nel ritor del suo dono, di rendermi
le lodi da me dategli; imperocchè non mi pare onesto di onorare
chi mi vitupera nel modo che mi vituperebbe lo aver accettato cotal
piuttosto limosina da mendici che presenti da virtuosi. Certo che a
quelli che comprano la fama, conviene esser larghi da senno, dando,
non secondo il grado del loro animo, ma come richiede la condizione di
chi gliene rende; conciossiachè i poveri inchiostri hanno che fare a
sollevare un uomo impiombato in terra da ogni demerito». A Francesco
I scriveva: — Astenetevi dal promettere almeno ai virtuosi, acciò
consumati dietro a la speranza, non abbino con che mordervi la fama...
Non sapete voi, sire, che non si conviene al grado della vostra altezza
il non rammentarvi dei seicento scudi che, con il moto proprio della
reale lingua, diceste al messo mio che qui mi si pagherebbero da lo
imbasciatore?... E perciò la gloria vostra riguardi la ingiuria che fa
a se medesima, mentre indugia la mercede offerta da se stessa a me che
la predico».

Se talora indignati lo caccino, restagli aperta Venezia, «ricevitrice
d’ogni bruttura», come dice il Boccaccio, dove il vivere licenzioso è
in moda, e libera ogni cosa fuorchè il parlar di Stato. — Io (scrive
al doge Gritti) io, che nella libertà di cotanto Stato ho fornito
d’imparare a esser libero, refuto la corte in eterno, e qui faccio
tabernacolo in perpetuo agli anni che ne avanzano; perchè qui non ha
luogo il tradimento, qui il favore non può far torto al diritto, qui
non regna la crudeltà delle meretrici, qui non comanda l’insolenza
degli effeminati, qui non si ruba, qui non si sforza, qui non si
ammazza. Perciò io che ho spaventato i rei ed assicurati i buoni,
mi dono a voi, padri dei vostri popoli, fratelli dei vostri servi,
figliuoli della verità, amici della virtù, compagni degli strani,
sostegno della religione, osservatori della fede, esecutori della
giustizia, eroi della caritade, e subjetti della clemenza. Per la qual
cosa, principe inclito, raccogliete l’affezion mia in un lembo della
vostra pietà, acciò ch’io possa lodare la nutrice dell’altre città,
e la madre eletta da Dio per fare più famoso il mondo, per raddolcire
le consuetudini, per dare umanità all’uomo, e per umiliare i superbi
perdonando agli erranti... O patria universale! o libertà comune! o
albergo delle genti disperse!» Torna a Roma? — Fuori da me sempre fui,
non per altro che per dubitare che le smisurate accoglienze con cui il
papa abbracciandomi baciommi con tenerezza fraterna, col concorso di
tutta la corte a vedermi, non m’incitassero a finir la vita in palazzo,
nel quale mi si diedero stanze da re, non da servo. Veramente si è
visto il tumulto de’ popoli, che in ciascuna terra che siam passati,
hanno dimostrato nel caso miracoloso del contemplarmi, dell’onorarmi
e presentarmi di sorte che la peste dello stesso veleno ha sprofondato
sotterra l’invidia... Il comune giudicio afferma che, tra ogni meritata
felicità di sua beatitudine, debbe il pastor sommo mettere il mio esser
nato al suo tempo, nel suo paese e suo divoto».

Qual meraviglia se gonfiavasi in superbia? — Tanti signori mi rompono
continuamente la testa colle visite, che le mie scale son consumate
dal frequentar de’ loro piedi, come il pavimento del Campidoglio dalle
ruote di carri trionfali. Nè mi credo che Roma, per via di parlare,
vedesse mai sì gran mescolanza di nazioni, come è quella che mi capita
in casa. A me vengono Turchi, Giudei, Indiani, Francesi, Tedeschi e
Spagnuoli. Del popol minuto dico nulla; perciocchè è più facile di tor
voi dalla divozione imperiale, che veder me un attimo senza soldati,
senza scolari, senza frati e senza preti intorno: per la qual cosa mi
par essere diventato l’oracolo della verità, da che ognuno mi viene a
contare il torto fattogli da tal principe o da cotal prelato; onde io
sono il segretario del mondo, e così m’intitolate nelle soprascritte...
Qual dotto in greco e in latino è pari a me in vulgare? quali colossi
d’argento e d’oro pareggiano i capitoli, ne’ quali ho scolpito Giulio
papa, Carlo imperatore, Caterina regina e Francesco Maria duca? Se io
avessi predicato Cristo nel modo che per me si è laudato Cesare, avrei
più tesori in cielo, che non ho debiti in terra»[185].

Per onore dell’umanità vorremmo crederli nulla più che un bugiardo
galloriarsi di quel vituperoso briffaldo, se non ce ne rimanessero
documenti; e principi più elevati, quei delle lettere e delle arti,
gli porsero tributo. Il Bertussi dedicava i madrigali del Cassola al
divinissimo signor Pietro Aretino: Alessandro Piccolomini, scrittore
moralista, gli professava stima, e lo fece iscrivere tra gli Infiammati
di Padova. Quando Adria sua bastarda andò sposa a Bernardino Rota,
gli Urbinati le furono incontro per otto miglia, e poichè era notte
quando tornarono, si posero i lumi a tutte le finestre. Frà Bellandini
gli mandava un’elegia sull’Assunzione, e quattro sonetti al sepolcro
di Cristo, per averne il parere: ne accettava le lodi il piissimo
Beccadelli. Fausto da Longiano, precettore e poligrafo, che moltissimo
si mosse, ed ebbe qualche somiglianza e grand’amicizia coll’Aretino,
nelle lettere a questo loda sguajatamente se stesso e lui, fin a
dire che un suo fratello predicatore avea terminato una predica
coll’asserire che se la natura e Dio voleano riformar la razza umana,
non poteano far meglio che produrre molti Aretini. Aldo Manuzio gli
scriveva: — Non mi meraviglio che i maggiori principi e re del mondo
temano ed onorino le forze della vostra eloquenza, nè che i pontefici
vi bacino in fronte, nè che gl’imperatori vi pongano a man dritta;
maravigliomi piuttosto che non dividano le signorie con voi, comprando
l’immortalità che può dar loro la virtù vostra, per quanto ella vale».
E la pia e casta Veronica Gambara: — Divino messer Pietro mio, mio
figliuolo mi pregò in nome vostro ch’io fossi contenta di far un
sonetto in lode della avventurosa donna novellamente amata da voi... Ve
lo mando qui incluso»[186]. L’Ariosto il collocò fra quelli onde Italia
si onorava: Ferdinando d’Adda, rettore dell’Università di Padova, gli
dirigeva un epigramma ove il mette di sopra di Carlo V e Francesco I:
nessun’accademia voleva esser senza il suo ritratto, il quale vedeasi
ne’ gabinetti de’ principi come nelle bettole e ne’ lupanari: la città
d’Arezzo lo dichiara nobile e gonfaloniere onorario: c’è un volume
di lettere in sua lode: che più? lo denominarono persino il quinto
evangelista.

Diciamo altrettanto degli artisti. Il Sanmicheli era frequente
bersaglio di sue celie, onde montava sulle furie, ma essendo timorato
di Dio, pentivasene tosto, e gli mandava frutti e leccornie, ch’egli
poi godeva col Tiziano e col Sansovino. Il Vasari si loda ogni tratto
di esso, e gli scrive: — Se nello intervallo di qualche mese non vi
ho visitato, non è per questo che ogni minuto d’ora non vi ricordi e
ancora non visiti con l’animo riverentemente quella gran presenza ch’è
in voi; e così come il ricordarvi e il vedervi mi fa sentore nella
memoria di riguardare la divinità della vostra virtù, dove si specchia
ogni persona rara, che delle cose mirande che la natura produce fa che
la vostra è più colma di meraviglia; e ben gloriare mi poss’io nell’età
sì giovane essere stato da un Pietro tale chiamato figlio, a aver
meritato dalle virtù sue esser messo nelle sue opere»[187].

Il Tiziano ne prendeva consigli, lo dipinse[188] più volte, e da
Augusta nel novembre 1550 scriveagli d’avere presentata una sua lettera
all’imperatore, e avergli soggiunto che «a Venezia, in Roma e per tutta
Italia si confermava dal pubblico che sua santità teneva buona mente
circa il farvi cardinale. In questo, Cesare mostrò segno d’allegrezza
nel viso, dicendo che molto gli piaceria, e che non potrà mancare di
farvi piacere, ed anche soggiungendo altre parole nel caso di voi,
onorate e grandissime»; e tutto ciò in presenza di suo figlio, del duca
d’Alba, e d’altri gran signori. «Il duca d’Alba non passa mai giorno
che non parli meco del divino Aretino, perchè molto vi ama, e dice che
vuol esser agente vostro appresso sua maestà. Io gli ho raccontato che
spendereste un mondo, e che ciò che avete è di tutti, e che date ai
poveri fino i panni di dosso, e che siete l’onor d’Italia».

A Michelangelo «bersaglio di meraviglie, nel quale la gara del favor
delle stelle ha saettato tutte le freccie delle grazie loro», l’Aretino
domandava licenza di dir le sue lodi, perchè «il mondo ha molti re,
e un sol Michelangelo»; e questi gli rispondeva: — M. Pietro mio
signore e fratello», lo esortava a scrivere di lui, e — Non solo l’ho
caro, ma vi supplico di farlo, dacchè i re e gli imperatori hanno per
somma grazia che la vostra penna li nomini». L’Aretino gli mandava
suggerimenti sulla cappella Sistina, e consistevano in quelle allegorie
della Speranza, la Disperazione, la Vita, la Morte, il Tempo, la Fama e
altrettali, che i letterati trovano sulla punta della penna, ma che mal
rispondono al dovere della pittura, che è di rappresentare delle forme.
E Michelangelo se ne scusa come si farebbe oggi con un giornalista,
desolato di non potere dargli ascolto perchè già avanzato il lavoro.

Non crederete se la passasse liscia coi tanti che malmenava. Il Berni
in un sonetto caudato gli avventò un tal risciacquo d’ingiurie e
sconcezze, che dovette rimanerne ancor più ingelosito che offeso, e
disperò di poterlo sorpassare. Altrettanto fecero il Muzio e Bernardo
Tasso; e a chi gli mostrasse il dente, esso s’acchetava; anzi il
Boccalini lo chiamava «calamita de’ pugnali e de’ bastoni». Un Volta,
con cui rivaleggiava nel corteggiare una contessa, gli appoggia cinque
coltellate: Pietro Strozzi, nominato in un sonetto, gli manda dire che,
se lasciasi uscir mai il suo nome, lo farà freddare, ed egli sel tiene
per detto: l’ambasciadore d’Enrico VIII, da lui sospettato di frode
nel trasmettergli i doni del re, lo fa bastonare, ed egli ringrazia
Dio che gli concede forza di perdonar l’offesa. Il Tintoretto, da lui
pizzicato, chiamosselo nello studio col pretesto di fargli il ritratto,
e cavato un pistolese, l’andò misurando pel lungo e pel largo, e infine
gli disse: — Voi siete lungo due pistolesi e mezzo, ve ne ricordi»; e
lo rimandò collo spavento, e l’ebbe da poi lodatore.

Si raccolse infine a Venezia, quivi scapestrando in amori, e
insieme facendo del bene a partorienti, a pitocchi; finchè, ridendo
all’ascoltare dalle sue sorelle, che tenevano postribolo, le salacità
da tal luogo, cascò dalla scranna, e si percosse a morte. Ricevuto
l’olio santo, sclamò: — Guardatemi dai topi or che son unto», e morì in
luogo e modo degni di sua vita.

Contro di lui era diretto il «Terremoto del Doni fiorentino, colla
rovina di un gran colosso, bestiale anticristo della nostra età, opera
scritta ad onor di Dio e della santa Chiesa per difesa non meno dei
buoni Cristiani», con una prefazione «al vituperoso, scellerato e
d’ogni tristizia fonte ed origine Pietro Aretino, membro puzzolente
della pubblica falsità, e vero anticristo del secol nostro».

Questo Anton Francesco Doni da Firenze (-1574), servita, poi
prete secolare, «vivendo di _kyrieleison_ e di _fidelium animæ_»,
bizzarrissimo come uomo e come scrittore, stampava opere, che poi
riproduceva sotto mutato titolo, e lavori altrui pubblicava col
proprio, sempre variando di mecenati, per buscare. Le sue _Librerie_
sono cataloghi e giudizj di opere, ma talora fine o mutate a capriccio,
e sempre inesatti. La _Zucca_, i _Marmi_, i _Mondi_, le _Pitture_, i
_Pistolotti_, e l’infinità de’ libercoli suoi riboccano di capresterie
pazzesche, non ben discernendosi quando burli o parli da senno. Volle
sin fare una dichiarazione sopra il terzo dell’Apocalisse contro gli
Eretici.

Ferocissimamente lo nimicò Lodovico Domenichi (-1564), scrittore
spiritoso e vuoto, vissuto in corte de’ Medici e sotto i cui auspizj si
formò a Piacenza sua patria un’accademia, che avea per patrono Priapo
e le costui insegne. Egli stampò come originali alcune traduzioni,
e come sue delle opere altrui, fra le quali un dialogo, che dieci
anni prima era comparso fra i _Marmi_, e a cui allora aggiungeva tre
invettive contro il Doni. Il quale, oltre la taccia di plagiario,
allora molto comune, in una lettera che rimane a suo perpetuo
vitupero[189] lo accusava con infamie da spia, ed ebbe il dispetto di
non vedere esaudita la sua ira. Eppure fin medaglie si coniarono al
Domenichi[190].

Amico, nemico, imitatore dell’Aretino, Nicolò Franco beneventano
(-1569) cerca incessantemente e ottiene, e ne’ suoi sonetti l’accocca a
re, a papi, a cardinali, a letterati, al concilio di Trento, con vomito
di rabbia e di sudiceria. L’Aretino lo adoprò per iscrivere satire e
per farsi correggere i proprj scritti, come dotto che era di latino e
greco: poi guastatisi, Nicolò intitolossi _flagello del flagello_, con
oscenità grossolane il serpentava, «agli infami principi dell’infame
secolo» diresse un virulento rimbrotto de’ favori a un tal mostro
conceduti, e — Principi, io v’ho parlato in rima, ed ora vi parlo in
prosa. Che parte aggiate fra tante infamie vel potrete conoscere, se
la vostra trascuraggine non sia così cieca in leggere com’è stata in
donare». Fece i commenti alla _Priapea_, e toccò anch’egli pugnalate
eroiche, come diceva l’Aretino: ma avendo pizzicato persona potente,
o piuttosto a punizione delle scritture ed azioni infami, Pio V il
condannò alla forca. Il Franco esclamò: — Questo è poi troppo», e fu
strozzato.

Di perversità men profonda, ma non meno bizzarro a conoscersi è
Benvenuto Cellini da Firenze (1500-70), che direste un disutile
millantatore, se nol conosceste uno de’ più lodati artisti. Suona
di cornetto e di flauto, e se ne vanta non men che del suo bulino;
tutto ammirazione pe’ bei colpi degli spadaccini, e per coloro che ne’
duelli versano la _bravosissima_ anima; onde guaj a chi gli tocca un
dito, o vien con esso a paragone di mestiere! non ha parole bastanti
per denigrarlo, e nella sua jattanza non comporta d’essere posposto
che al _divinissimo_ Michelangelo. Vengono i Tedeschi del 27? in
quella _infernalità_ crudele egli serve d’artigliere; a credergli, da
lui partono i colpi che uccidono il Borbone e feriscono il principe
d’Orange; e si lagna gli abbiano impedito un tiro, col quale avrebbe
schiacciato i capi nemici, radunati a parlamento; s’inginocchia al
papa pregandolo di ribenedirlo degli omicidj fatti in servizio della
Chiesa, e «il papa, alzate le mani e fattogli un potente crocione
sulla figura», lo manda assolto. I principi lo hanno famigliarissimo;
il granduca capita tratto tratto nella sua bottega; i principotti
d’Italia, i cardinali, le mogli e le ganze di questi e di quelli
gareggiano per averne qualche lavoro. Il papa gli dice: — Se io fossi
un imperator ricco, donerei al mio Benvenuto tanto terreno quanto
il suo occhio scorresse; ma perchè noi del dì d’oggi siamo poveri
imperatori falliti, ad ogni modo gli daremo tanto pane che basterà alle
sue piccole voglie». Ma i doni o non vengono o sempre inadeguati al suo
merito ch’era grande, o alla sua presunzione ch’era più grande ancora;
le lodi gli sono contrastate: onde egli adopera una lingua che fora e
taglia, e quello schioppetto «col quale e’ dà in un quattrino», e una
spada eccellente con cui assalì più volte i suoi nemici e sgominò i
birri.

Un oste esagera lo scotto? Benvenuto «vien in pensiero di ficcargli
il fuoco in casa, o di scannargli quattro cavalli buoni ch’egli aveva
nella stalla»; ma si contenta di tritargli col coltellino quattro
letti. Un’altra volta tira stoccate, e il nemico gli cade morto, «qual
non fu mia intenzione, ma li colpi non si danno a patti». Al papa froda
bravamente l’oro, salvo a farsene assolvere; ruba fanciulle, corrompe
ragazzi; e le sue ribalderie racconta con tale sicurezza, come fossero
atti di giustizia; e pretende che «gli uomini come Benvenuto, unici
nella loro professione, non hanno ad essere obbligati alle leggi»; e
trova un gran torto quando, a trentanove anni, per la prima volta è
messo prigione. Eppure ha la sua morale anch’esso, a’ servigi della
passione; e se muore un suo nemico, «si vede che Iddio tien conto
de’ buoni e de’ tristi, e a ciascuno dà il suo merito». È religioso,
è credulo; nel Coliseo gli è fatta vedere la tregenda de’ diavoli,
dov’egli solo non ha paura; messo prigione, legge continuo la Bibbia
italiana, ed ha apparizioni di Dio e di santi, onde ne porta una
fiammella sulla sommità del capo, «la quale si è evidente ad ogni sorta
d’uomo a chi io l’ho voluto mostrare, quali sono stati pochissimi».
Alfine, lieto di fuggire di Castel sant’Angelo «a dispetto di colui
che in terra e in cielo il vero spiana, liberamente perdona alla santa
madre Chiesa, sebben gli abbia fatto questo scellerato torto». Poi nel
terribile momento della fusione del Perseo, momento le cui convulsioni
non può immaginare se non chi sia artista, invoca Dio, e a questa
devozione attribuisce la buona e inaspettata riuscita, e perciò va in
pellegrinaggio ai santuarj «nel nome di Dio sempre cantando salmi e
orazioni».

E «sempre cantando e ridendo» era ito da Firenze a Parigi tra molti
pericoli della vita. Ivi si mette a vivere magnificamente con tre
cavalli e tre servitori; è alloggiato in una villa reale: ma l’invidia
si solleva contro di lui, ed egli si compiace di nemici potenti. Tale a
Firenze era la duchessa, tale è quivi madama d’Etampes: e s’arrovella
coi cortigiani _scannapagnotte_ di colà; e sempre sono i subalterni
che gli mandano attraverso le buone fortune, guastando le intenzioni
dei re. Ivi trova «una certa razza di brigate, le quali si domandano
venturieri, che volontieri assassinano alla strada; e sebbene ogni
di assai se ne impicca, quasi pare che non se ne curino». Un altro
impaccio v’incontra, le liti, perchè «subito ch’ei cominciano a vedere
qualche vantaggio nella lite, trovano da venderla, e alcuni l’hanno
data per dote a certi, che fanno totalmente quest’arte di comperare
liti[191]. Hanno un’altra brutta cosa, che gli uomini di Normandia
hanno, quasi la maggior parte, per arte loro il far testimonio falso;
di modo che questi che compran la lite, subito istruiscono quattro
di questi testimonj o sei, secondo il bisogno; e per via di questi,
chi non è avvertito a produrne tanti in contrario, e che non sappia
l’usanza, subito ha la sentenza contro». Ma quand’egli vede la causa
pigliar mala piega, ricorre per suo ajuto a una gran daga, e «all’uno
tronca le gambe, l’altro tocca di sorte, che tal lite si fermò»;
ringraziando sempre di questa e d’ogni altra ventura Iddio.

Il suo racconto, tutto brio e bugie, non lo scrisse lui, ma lo dettava,
e ben te n’accorgi all’enfasi e alle vanterie; sotto aspetto d’ingenua
confidenza lo svisa, come tutte le autobiografie, coi sentimenti
d’autore e con un’insaziabile jattanza, per la quale si dà vanto fin
del delitto. Terribile agli altri, era o credeasi in continui pericoli;
più volte assaltato, più altre avvelenato: porta i denari in dosso
«per non essere appostato o assassinato come è il costume di Napoli»;
il papa lo fa avvelenare con diamante in polvere, ma l’avaro orefice
pesta invece un berillo; le altre volte la sua robusta costituzione
trionfa. E scapola da processi di delitti orribili, talvolta col solo
far fracasso, come con colei che l’accusava di peccato infame, di cui
non fece altra discolpa che col gridare cominciassero dal bruciar lei,
complice e paziente.

Leon Leoni tenta per invidia avvelenare il Cellini, sfregia il viso
a un tedesco giojelliere di Paolo III, ond’è condannato alla galera;
in Venezia fa da un sicario attentare alla vita d’un Martino suo
discepolo; nella propria casa a Milano assalì col pugnale il pittore
Orazio Vecellio per ammazzarlo e derubarlo; eppure egli è carezzato
da Annibal Caro, chiesto e largamente rimunerato dal governatore di
Milano, dal duca di Parma, da Carlo V.

Non ci s’imputi di confondere con coteste un’esistenza molto più
nobile, ma che tanto ritrae del suo secolo. Nicolò Machiavelli, nato
d’illustre sangue fiorentino, entra giovane agli affari; e presto
nominato segretario ai Dieci della guerra, vi si mantiene quattordici
anni, finchè mutata signoria è deposto: sopraggiunti i Medici, per
sospetto vien messo in prigione e alla tortura; resiste al manigoldo,
ma non alle blandizie del principe buon padre, al quale dal carcere
dirige versi supplichevoli e scuse[192]. La repubblica ristabilita lo
trascura come ligio ai Medici: quando questi ritornano, e’ mette di
mezzo amici e donne per ottenere impiego; e non contentato, piagnucola
e bela, senza sapersi acconciare colla fortuna e colla propria dignità.

Capace di vedere quanto v’avea di moderno nell’antichità e d’antico
nel medioevo, venuto in tempo che la assolutezza dello Stato pugnava
colla democrazia sovrana, a quella s’affisse, e precorse l’età
dell’onnipotenza dello Stato, oggi stabilita dappertutto fuorchè
in Inghilterra. Che bizzarre origini, che strani intenti non si
attribuirono al suo _Principe_! Udiamo lui stesso confessarceli: —
Io mi sto in villa, e poichè seguiono quelli miei ultimi casi, non
sono stato, ad accozzarli tutti, venti dì a Firenze. Ho insino a
qui uccellato ai tordi di mia mano, levandomi innanzi dì; impaniavo,
andavane oltre con un fascio di gabbie addosso, che pareva il Geta
quando torna dal porto con i libri d’Anfitrione; pigliava al meno
due, al più sette tordi. Così stetti tutto settembre; di poi questo
badalucco, ancorachè dispettoso e strano, è mancato con mio dispiacere;
e quale la vita mia dipoi vi dirò. Mi levo col sole, e vommi in un
mio bosco che io fo tagliare, dove sto due ore a riveder le opere
del giorno passato, ed a passar tempo con quei tagliatori, che hanno
sempre qualche sciagura alle mani o fra loro o coi vicini. Partitomi
dal bosco, io me ne vo ad una fonte, e di qui in un uccellare, con un
libro sotto, o Dante o Petrarca, o uno di questi poeti minori, come
dire Tibullo, Ovidio e simili. Leggo quelle amorose passioni, e quelli
loro amori ricordanmi de’ miei, e godomi un pezzo in questo pensiero.
Trasferiscomi poi in sulla strada nell’osteria, parlo con quelli che
passano, domando delle nuove dei paesi loro, intendo varie cose, e noto
varj gusti e diverse fantasie di uomini. Viene in questo mentre l’ora
del desinare, dove con la mia brigata mi mangio di quelli cibi, che
questa mia povera villa e paulolo patrimonio comporta. Mangiato che
ho, ritorno nell’osteria: qui è l’oste per l’ordinario, un beccajo,
un mugnajo, due fornaciaj. Con questi io m’ingaglioffo per tutto il
dì giuocando a cricca, a tric trac, e dove nascono mille contese e
mille dispetti di parole ingiuriose, ed il più delle volte si combatte
un quattrino, e siamo sentiti non di manco gridare da San Casciano.
Così rinvolto in questa viltà, traggo il cervello di muffa, e sfogo la
malignità di questa mia sorte, sendo contento mi calpesti per quella
via, per vedere se la se ne vergognasse. Venuta la sera, mi ritorno a
casa, ed entro nel mio scrittojo; ed in sull’uscio mi spoglio quella
vesta contadina, piena di fango e di loto, e mi metto panni reali e
curiali; e rivestito condecentemente, entro nelle antiche corti degli
antichi uomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel
cibo, che solum è mio, e che io nacqui per lui; dove io non mi vergogno
parlare con loro, e domandare della ragione delle loro azioni: e quelli
per loro umanità mi rispondono, e non sento per quattro ore di tempo
alcuna noja, sdimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi
sbigottisce la morte, tutto mi trasferisco in loro.

«Perchè Dante dice_ Che non fa scienza senza ritener lo inteso_, io
ho notato quello di che per la loro conversazione ho fatto capitale,
e composto un opuscolo _De principatibus_, dove io mi profondo quanto
io posso nelle cogitazioni di questo subjetto, disputando che cosa
è principato, di quali spezie sono, come e’ si acquistino, come e’
si mantengono, perchè e’ si perdono; e se vi piacque mai alcun mio
ghiribizzo, questo non vi dovrebbe dispiacere; e ad un principe,
e massime ad un principe nuovo, dovrebb’essere accetto; però io lo
indirizzo alla magnificenza di Giuliano.

«Io ho ragionato con Filippo Casavecchia di questo mio opuscolo, se
gli era bene darlo o non lo dare; e se gli è ben darlo, se gli era
bene ch’io lo portassi, o che io ve lo mandassi. Il non lo dare mi
faceva dubitare che da Giuliano non fussi, non che altro, letto: il
darlo mi faceva necessità che mi caccia, perchè io mi logoro, e lungo
tempo non posso stare così, che io non diventi per povertà contennendo.
Appresso, il desiderio avrei che questi signori Medici mi cominciassino
adoperare, se dovessino cominciare a farmi voltolare un sasso; perchè
se io poi non me li guadagnassi, io mi dorrei di me: e per questa cosa,
quando la fussi letta, si vedrebbe che quindici anni che io sono stato
a studio dell’arte dello Stato, non gli ho nè dormiti nè giucati; e
dovrebbe ciascuno aver caro servirsi d’uno, che alle spese di altri
fussi pieno di esperienza. E della fede mia non si dovrebbe dubitare,
perchè, avendo sempre osservato la fede, io non debbo imparare ora a
romperla; e chi è stato fedele e buono quarantatre anni, che io ho, non
debbe poter mutar natura; e della fede e bontà mia ne è testimonio la
povertà mia».

Finì l’opera al modo che conosciamo (t. IX, p. 150), e la dirigeva
all’inetto Lorenzo dicendogli: — Pigli vostra magnificenza questo
piccolo dono con quell’animo che io lo mando; il quale, se da quella
fia diligentemente considerato e letto, vi conoscerà dentro un estremo
mio desiderio che ella pervenga a quella grandezza che la fortuna e le
altre sue qualità le promettono. E se vostra magnificenza dall’apice
della sua altezza qualche volta volgerà gli occhi in questi luoghi
bassi, conoscerà quanto indegnamente sopporti una grande e continua
malignità di fortuna».

Che glien’incontrò? I tiranni nol curarono; solo alla fine il
cardinale de’ Medici lo deputò al capitolo de’ frati di Carpi, e il
fratello di quello gli fece un assegno affinchè scrivesse le storie di
Firenze. Nella qual opera stava ben sull’avviso di non offendere, e al
Guicciardini scriveva: — Essendo per entrare in certe particolarità,
avrei duopo sapere da voi s’io mettami a rischio di dispiacere sia
rivelando, sia rappicciolendo gli avvenimenti; consiglierommi del resto
meco medesimo, e m’ingegnerò a far sì che, pur dicendo la verità, a
niuno debba ella rincrescere». Fortuna fu dunque che morte il togliesse
dall’impaccio di narrare i casi contemporanei, ove impossibile
l’orzeggiare.

Che se lo ammiravano i politici, la sana cittadinanza gli volle male
di quella sregolata politica[193], la quale dovea non liberare l’Italia
dagli stranieri, ma buttarla in loro braccio pervertita e derisa.

Intanto conosciuto per bizzarro e d’opinioni singolari[194], detta
sconcie commedie, e da Firenze gli scrivono: — Ora che non ci siete
voi, nè giuoco nè taverne nè qualche altra cosetta non ci s’intende».
A cinquant’anni spasima d’una fanciulla, e, fra altre sudicie lettere,
nel gennajo 1514 scriveva al Vettori, inviandogli un sonetto amoroso:
— Io non saprei rispondere all’ultima vostra lettera con altre parole
che mi paressino a proposito, che con questo sonetto, per il quale
vedrete quanta industria abbia usato quel ladroncello d’Amore per
incatenarmi. E sono, quelle che ha messo, sì forti catene, che io son
al tutto disperato della libertà. Nè posso pensar mai come io abbia
a scatenarmi: e quando pur la sorte, o altro aggiramento umano, mi
aprisse qualche cammino a uscirmene per avventura, non vorrei entrarvi;
tanto mi pajono ora dolci, or leggiere, or gravi quelle catene; e fanno
un mescolo di sorte, che io giudico non poter vivere contento senza
quella qualità di vita. Io mi dolgo che voi non siate presente per
ridervi ora dei miei pianti, ora delle mia risa; e tutto quel piacere
ne avreste voi, se lo prova Donato nostro, il quale insieme coll’amica,
della quale altre volte vi ragionai, sono unici porti e refugi al
mio legno, già rimaso per la continua tempesta senza timone e senza
vele». Vive discolo sempre, corifeo de’ bontemponi; e nelle regole che
dettava per una brigata compagnevole, imponeva che tutti intervenissero
puntuali ai perdoni, alle feste, alle cerimonie ecclesiastiche, e
insieme a tutti i balli, le colazioni, le cene, gli spettacoli, le
veglie ed altri spassi, sotto comminatoria d’essere relegati gli uomini
in un convento di monache, le donne in uno di frati.

Poi di mezzo a questa vita godereccia dava arguti pareri intorno alla
situazione dell’Italia, o andava ad una delle tante confraternite
devote, e alla sua volta vi recitava una predica sul _De profundis_,
conchiudendo coll’esortare a penitenza, e ad «imitare san Francesco
e san Girolamo, i quali per reprimere la carne e torle facoltà a
sforzarli alle inique tentazioni, l’uno si rivoltava su per i pruni,
l’altro con un sasso il petto si lacerava... Ma noi siamo ingannati
dalla libidine, incôlti negli errori, e inviluppati ne’ lacci del
peccato, e nelle mani del diavolo ci troviamo; perciò conviene, ad
uscirne, ricorrere alla penitenza, e gridare con David, _Miserere mei_
Deus, e con san Pietro piangere amaramente». Così predicava forse prima
d’uscire a cantar la serenata:

    Apri all’amante le serrate porte...
    Pon giù quella superbia che tu hai;
    Segui il regno di Venere e la corte...
    Usa pietà, e pietà troverai.

Perocchè questi ritorni dalla dissipazione e dalla corruttela a
sentimenti pii e religiosi son naturali in tempo che l’educazione
vi predisponeva; e non c’è artista, compresi l’Ariosto e il Cellini,
che non sentisse rinascer il bisogno di raccogliersi talvolta a Dio,
e rinnovare quelle pratiche in cui gli avea nodriti la madre. Di
Michelangelo già lo vedemmo; e compreso d’ammirazione per la natura
semplice, al Vasari scriveva: — Io ho avuto questi dì nelle montagne
di Spoleto a visitare que’ romiti, in modo che io son tornato men che
mezzo a Roma, perchè veramente non si trova pace se non ne’ boschi».
Esso Vasari, tutto arte, pur a tratto sentivasi preso dalle bellezze
naturali e dalle ispirazioni della pietà; e quando, alla morte del
duca Alessandro[195], vide interrotti i suoi lavori, sicchè preso da
melanconia temeva un cattivo fine, risolse darsi alla solitudine e
all’arte sua, «e così offenderò meno Iddio, il prossimo e me stesso.
La solitudine sarà in cambio dello stuolo di coloro che, per lodarti
e per metterti innanzi, sei obbligato a temerli, amarli e presentarli;
dove in essa contemplazione d’Iddio, leggendo si passerà il tempo senza
peccato, e senza offendere il prossimo nella maldicenza». Avendogli poi
Giovanni Pollastra suggerito di ricoverare fra i monaci di Camaldoli,
di là gli scriveva: — Siate voi benedetto da Dio mille volte, poichè
sono per mezzo vostro condotto all’ermo di Camaldoli, dove non potevo,
per cognoscer me stesso, capitare in luogo nessuno migliore; perchè,
oltre che passo il tempo con util mio in compagnia di questi santi
religiosi, i quali hanno in due giorni fatto un giovamento alla natura
mia sì buono e sano, che già comincio a conoscere la mia folle pazzia
dove ella ciecamente mi menava, scorgo qui in questo altissimo giogo
dell’Alpe, fra questi dritti abeti, la perfezione che si cava dalla
quiete; così come ogni anno fanno essi intorno a loro un palco di rami
a croce, andando dritti al cielo; così questi romiti santi imitandoli,
ed insieme chi dimora qui, lassando la terra vana, con il fervore
dello spirito elevato a Dio alzandosi per la perfezione, del continuo
se gli avvicina più; e così come qui non curano le tentazioni nemiche
e le vanità mondane, ancorchè il crollare de’ venti e la tempesta
gli batta e percuota del continuo, nondimeno ridonsi di noi, poichè
nel rasserenar dell’aria si fan più dritti, più belli, più duri e
più perfetti che fussero mai, che certamente si conosce che ’l cielo
dona loro la costanza e la fede; così a questi animi che in tutto
servono a lui. Ho visto e parlato sino a ora a cinque vecchi di anni
ottanta l’uno in circa, fortificati di perfezione nel Signore che m’è
parso sentir parlare cinque angioli di paradiso; e stupito a vederli
di quell’età decrepita, la notte per questi ghiacci levarsi come i
giovani, e partirsi dalle lor celle, sparse lontano centocinquanta
passi per l’ermo, venire alla chiesa ai mattutini ed a tutte l’ore
diurne, con un’allegrezza e giocondità come se andassero a nozze.
Quivi il silenzio sta con quella muta loquela sua, che non ardisce
appena sospirare, nè le foglie degli abeti ardiscono di ragionar co’
venti; e le acque, che vanno per certe docce di legno per tutto l’ermo,
portano dall’una all’altra cella de’ romiti acque, camminando sempre
chiarissime, con un rispetto maraviglioso».



CAPITOLO CXLIV.

Costumi. Opinioni.


Confessiamo che le nostre storie letterarie tennero sempre
dell’aristocratico, e quand’anche badarono all’efficienza degli
scrittori sul popolo, non posero mente all’efficienza di questo su
quelli. Or come fosse possibile scrivere il _Principe_ del Machiavelli,
l’_Orlando_ dell’Ariosto e le innominabili sguajataggini dell’Aretino,
non può spiegarsi senza esaminare i costumi di quel tempo. E noi
le lungagne che gli altri spendono dietro a battaglie, le occupammo
piuttosto intorno all’arte e al progresso del pensiero, non solo per
predilezione a questi studj, ma perchè meglio rappresentano ciò che noi
cerchiamo, gli uomini di ciascun’età.

Stabilite le lingue, distintivo delle nazionalità, agevolati i
trasporti, diffuse colla stampa le scoperte dell’intelligenza, quella
splendidezza delle arti, quelle ricchezze e delizie improvvisateci da
un nuovo mondo, diffusero su quel tempo un bagliore, che il fa dagli
altri singolare. Ma chi discerne la coltura dalla civiltà, avvisa che
questa non ingrandisce stabilmente se non per l’armonico svolgersi
delle facoltà umane. Ora nei tempi che descriviamo, l’immaginazione
esuberava sopra il raziocinio, e i frutti di quel seme abbellirono
ed uccisero la patria nostra. Come nelle arti e nelle lettere, così
nei governi e nei costumi, il paganesimo rinnovato cercava seduzioni
sensuali dal puro bello, immolando quel vero di cui esso dev’essere
splendore e manifestazione. Leone X con una bolla protegge l’edizione
d’immoralissimo poema; Clemente VII predilige il Berni, e privilegia la
stampa delle opere di Machiavelli, non eccettuato il _Principe_; Giulio
III bacia l’Aretino, il quale dedica la più infame delle sue commedie
al cardinale di Trento; un altro cardinale aspirante alla tiara
scrive la _Calandra_...; immorali, oscene, micidiali composizioni; ma
che importa? erano belle e bastava; l’immaginazione n’era ricreata,
abbagliata la ragione.

Il dubbio scientifico non s’era gettato sui dogmi della fede; i dotti
non vi faceano attenzione; i mediocri credevano che il migliore omaggio
a prestarle fosse il non parlarne; fra il popolo si direbbe più allora
che mai viva la devozione, e sentito il bisogno di cercar nel cielo
ristoro alle miserie della terra; onde una serie di miracoli si propalò
e frequentissime apparizioni della madonna. I Fiorentini, «quando
dubitavano che i Lanzichenecchi col duca di Borbone dovessero passare
in Toscana, facevano ogni venerdì processione del corpo di Cristo, e
tutta la città andava dietro con grandissima devozione»[196], e la
pietà rincalorita da frà Savonarola ispirava gli eroi dell’assedio
di Firenze: i Milanesi chiedevano con universali supplicazioni
l’alleviamento dei mali cagionati dai re: colle processioni i Senesi
s’incoravano a resistere agli oppressori della patria. Fra i grandi
stessi non restava spenta la devozione neppur dalle iniquità; e Cicco
Simonetta scriveva sul suo libro di _Ricordi_: — Oggi fui a Santa Maria
delle Grazie di Monza, e v’udii due messe dai frati, e feci voto non
mangiar di grasso il venerdì; al mercoledì pure feci voto non mangiar
carni, e dopo d’allora non fui più tormentato da podagra»; Lodovico
Sforza moltiplicava chiese, e la notte prima di fuggir da Milano la
passò in quella delle Grazie a far la veglia sul sepolcro dell’estinta
sua donna; voti faceva Carlo VIII il giorno della battaglia di Fornovo;
Vitellozzo, preso dal Valentino, «prega ch’e’ supplicasse al papa che
gli desse de’ suoi peccati indulgenza plenaria» (MACHIAVELLI); fin chi
accingevasi alle iniquità si premuniva di reliquie ed assoluzioni.

Tacio i buoni che dell’altrui lascivire pareano assumersi la penitenza
in rigidissime macerazioni e pellegrinaggi e sanguinose discipline, e
farsi poveri volontarj, e anticiparsi il sepolcro col rimanere per anni
fra quattro anguste pareti. A Venezia è frequente memoria di recluse,
donne che faceansi murare in cellette sopra tetto o sotto ai portici
delle chiese, vivendovi in astinenze ed orazioni, spettatrici dei
divini uffizj per un fenestrino che dava nella chiesa, donde riceveano
pure i sacramenti e le limosine[197].

Chi non ricorda i mirabili effetti prodotti da frà Savonarola? A
tutt’uomo egli erasi opposto alla recrudescenza del paganesimo, dalla
quale andarono stravolte non solo le idee di pudore, ma quelle pur di
giustizia, ostentandosi francamente l’immoralità nei costumi, nelle
azioni, nei libri. I prelati si tenevano, non che senza vergogna, ma
senza riguardo i proprj figliuoli; le aule principesche erano popolate
di cortigiani, genìa che, come diceva Alessandro Allegri, «accenna in
coppe e dà in ispade, e bacia e morde insieme, e ride e rade», e di cui
correva in proverbio che nell’infanzia servivano da buffoni, da mogli
nella puerizia, da mariti nell’adolescenza, da compagni nella gioventù,
da mezzani nella vecchiaja, da diavolo nella decrepitezza. Lentati i
legami di famiglia, soffogata la benevolenza dalla riflessione, l’uomo
era adoprato come stromento persin nell’amore. Nel 1534 il Comune di
Lucca prendea grand’interessamento per le meretrici; e dolendosi che
per gli strapazzi fattine non ne fosse provvista la città quanto è
conveniente[198], le favoriva di privilegi non pochi, e fin quello
di cittadine originarie, tanto ambito. A Venezia se ne contavano
undicimila seicencinquanta[199]; eppure il lenocinio de’ servi e le
facilità della gondola si prestavano alle tresche; poi rapivasi, poi
si irrompeva contro natura; i chiostri erano in pessima nominanza,
e il panegirista del doge Andrea Contarini gli facea pubblico merito
dell’aver resistito alle tentazioni delle monache[200].

Atene non aveva idolatrato Aspasia? in commemorazione di questa
venivano onorate le cortigiane; e a Roma la Imperia fu «senza fine
da grandissimi uomini e ricchi amata», dal Sadoleto, dal Campari,
dal Colocci; convegno di amori insieme e di gentilezze e studj era la
costei casa; e in una somministratale dal Bufalo «era tra le altre cose
una sala ed una camera ed un camerino sì pomposamente adornati, che
altro non v’era che velluti e broccati, e per terra finissimi tappeti.
Nel camerino ov’ella si riduceva quando era da qualche gran personaggio
visitata, erano i paramenti che le mura coprivano, tutti di riccio
sovra riccio, con molti belli e vaghi lavori. Eravi poi una cornice
tutta messa a oro ed azzurro oltramarino, maestrevolmente fatta; sovra
la quale erano bellissimi vasi di varie e preziose materie formati, con
pietre alabastrine, di porfido, di serpentino e di mille altre spezie.
Vedevansi poi attorno molti cofani e forzieri riccamente intagliati, e
tali che tutti erano di grandissimo prezzo. Si vedeva poi nel mezzo un
tavolino il più bello del mondo, coverto di velluto verde. Quivi sempre
era o liuto o cetra, con libretti vulgari e latini, riccamente adornati
ecc.»[201]. Morta a ventisei anni il 1511, fu sepolta in San Gregorio,
coll’epitafio: _Imperia cortisana, quæ digna tanto nomine, raræ inter
homines formæ specimen dedit_.

Altrettanta fama ebbe la Tullia d’Aragona a Venezia (pag. 202),
corteggiata da Bernardo Tasso e da altri valenti, i quali Speron
Speroni introduce a ragionare con essa nel suo _Dialogo d’amore_. Non
serve ripetere le infami glorie di Rosa Vanozza e di Lucrezia Borgia,
cui seguirono dappresso i fasti di Bianca Capello: ben deve far colpo,
che donne di famigerata libidine fossero assunte a nozze principesche;
ma quei principi, non frenati da potere superiore nè dal formidabile
dell’opinione, credeansi lecito ogni talento. Della Franco già
parlammo, ed è curiosa una lettera in cui dissuade una signora veneta
dal render cortigiana la propria figlia; curiosa dico per gli argomenti
che vi adopera, singolarmente insistendo sui pericoli cui espone la
vita e le facoltà[202].

Nei diarj manoscritti del Sanuto leggiamo sotto il 1497: — Pochi
zorni fa don Alfonso (poi marito di Lucrezia Borgia) fece in Ferrara
cosa assai liziera, che andoe nudo per Ferrara con alcuni zoveni in
compagnia, di mezo zorno». Il Baglione di Perugia vive in pubblico
amore colla sorella. Una signora di Ferrara amata dal cardinale
Ippolito d’Este, il mecenate dell’Ariosto, essendosi abbandonata al
costui fratello Giulio, ne incolpa la gran bellezza degli occhi di
questo; e Ippolito glieli fa cavare. Allora Giulio trama col fratello
Ferdinando per ispodestare Alfonso, ma scoperti, son presi, mandati al
supplizio; poi sul palco graziati, e chiusi in perpetua prigione. Si
rifugge dall’oltraggio di Pierluigi Farnese nel vescovo di Fano.

Paolo Giovio, in un dialogo latino manoscritto presso la sua famiglia
in Como, si lagna che, «traboccando il lusso e la licenza, le più
nobili matrone ruppero a libidine sfacciata; e mentre i Francesi,
uomini subiti, liberali, violenti in amore, già n’aveano parecchie
contaminate, gli osceni Spagnuoli, astuti, importuni, con assidui
corteggi e scaltri artifizj salirono al talamo di molte. Giacchè
altre per cattiveria e lascivia, quali per gran prezzo, le più per
ambizione, per tema, per rivalità delle altre, fanno getto del pudore.
Che se alcuna savia e pudica rifiuta gl’ignominiosi propositi, non è da
nobili cavalieri corteggiata, si mandano soldati a far sacco nelle sue
ville e nelle campagne, nè si finisce finchè i mariti stanchi non se
ne ricomprano colle notti delle mogli. Casa alcuna non è sicura dalla
militare avarizia, se la padrona non si spalleggi della brutta lascivia
di alcun insigne uffiziale».

A pugnali e veleni ricorreano o credeansi ricorrere non solo il
Valentino e suo padre, ma anche persone in voce di oneste; e li
adoprava Alessandro Farnese, reputato dolce e umano, e quando udiva
essersi attentato contro la vita del principe d’Orange, mandava
circolari d’esultanza; talmente gli assassinj erano parte della tattica
d’allora. Di avvelenamenti fra gente d’ogni condizione son piene le
biografie e le novelle, e sarebbesi detto fossero il pudore di chi si
vergognava dell’assassinio manifesto: fin que’ lietissimi umori del
Bibiena e del Berni furono, o si dissero uccisi di veleno: frà Paolo
Sarpi consigliava alla Signoria veneta di ricorrervi per tor di mezzo
gli uomini pericolosi, stante che il veleno sia men odioso e più utile
che il carnefice. Le scene tragiche, onde restò funestata la corte di
Cosmo di Toscana, forse vennero esagerate dall’odio dei fuorusciti;
ma non meno della lettura del Machiavelli sgomenta il giornale ove il
Burcardo notò freddamente misfatti orrendi eppur giornalieri. Nel 1514
la città di Piacenza sporgeva supplica al papa contro del governatore
Campeggi, il quale permetteva ogni iniquità, al punto che sotto
gli occhi di lui cittadini de’ primarj, e non pochi, sono trafitti
impunemente, matrone strozzate nelle proprie case, donne rapite in
città, botteghe e officine predate di pieno giorno, ville saccheggiate,
rivissute le fazioni, ogni casa piena d’armi e d’armati[203].

Di mezzo a tanta corruzione e atrocità sopravviveano rimembranze
cavalleresche: Francesco I combatteva come un antico paladino; venivano
a morire di qua dell’Alpi Bajardo e Gastone di Foix; questi mentre
assedia Marcantonio Colonna in Verona, udito che trovasi malato, gli
spedisce il suo medico, e guarito, lo prega uscire un momento perchè
possa vederlo. Ma piuttosto che ad imprese di guerra, la gentilezza
ora volgeasi al vivere delle Corti, divenuto una necessità pei poveri
di spirito, a cui fanno di mestieri il fasto e le blandizie, e una
palestra di belle creanze e di spiritoso conversare.

Il conte Baldassarre Castiglioni mantovano, mandato a raffinarsi presso
i principi milanesi, accompagnò nelle armi Francesco Gonzaga di Mantova
e Guidobaldo d’Urbino; sostenne ambascerie in Francia, in Inghilterra,
in Ispagna; a Roma godette l’amicizia de’ migliori; e quando morì,
Rafaello gli fece il ritratto, Giulio Romano ne disegnò la tomba,
Pietro Bembo ne preparò l’iscrizione. Stette egli lungamente nella
corte d’Urbino, ove esso Guidobaldo, infermo di podagra, «sopra ogni
altra cosa procurava che la casa sua fosse di nobilissimi e valorosi
gentiluomini piena, coi quali molto famigliarmente viveva, godendosi
della conversazione di quelli: nella qual cosa non era minore il
piacere che esso ad altrui dava, che quello che d’altrui riceveva, per
essere dottissimo nell’una e nell’altra lingua, ed aver insieme con
l’affabilità e piacevolezza congiunta ancor la cognizione d’infinite
cose: ed oltre a ciò, tanto la grandezza dell’animo suo lo stimolava,
che, ancor che esso non potesse con la persona esercitare l’opere della
cavalleria come avea già fatto, pur si pigliava grandissimo piacere
di vederle in altrui; e con le parole, or correggendo or laudando
ciascuno secondo i meriti, chiaramente dimostrava quanto giudizio circa
quelle avesse; onde nelle giostre, nei torneamenti, nel cavalcare,
nel maneggiare tutte le sorti d’arme, medesimamente nelle feste, nei
giuochi, nelle musiche, insomma in tutti gli esercizj convenienti a
nobili cavalieri, ognuno si sforzava di mostrarsi tale, che meritasse
esser giudicato degno di così nobile commercio.

«Erano tutte l’ore del giorno divise in onorevoli e piacevoli esercizj
così del corpo come dell’animo: ma perchè il signor duca continuamente,
per la infermità, dopo cena assai per tempo se n’andava a dormire,
ognuno per ordinario dove era la signora duchessa Elisabetta Gonzaga a
quell’ora si riduceva. Quivi i soavi ragionamenti e le oneste facezie
s’udivano, e nel viso di ciascuno dipinta si vedeva una gioconda
ilarità, talmente che quella casa certo dir si poteva il proprio
albergo dell’allegria: nè mai credo che in altro loco si gustasse
quanta sia la dolcezza che da un’amata e cara compagnia deriva, come
qui si fece un tempo; chè, lasciando quanto onore fosse a ciascuno
di noi servire a tal signore, a tutti nasceva nell’animo una somma
contentezza ogni volta che al cospetto della signora duchessa ci
riducevamo; e parea che questa fosse una catena che tutti in amor
tenesse uniti, talmente che mai non fu concordia di volontà o amore
cordiale tra fratelli maggiore di quello, che quivi tra tutti era.
Il medesimo era tra le donne, con le quali si aveva liberissimo ed
onestissimo commercio; che a ciascuno era lecito parlare, sedere,
scherzare e ridere con chi gli parea: ma tanta era la riverenza che
si portava al volere della signora duchessa, che la medesima libertà
era grandissimo freno; nè era alcuno che non estimasse per lo maggior
piacere che al mondo aver potesse il compiacere a lei, e la maggior
pena il dispiacerle. Per la qual cosa, quivi onestissimi costumi
erano con grandissima libertà congiunti, ed erano i giuochi e i risi
al suo cospetto conditi, oltre agli argutissimi sali, d’una graziosa
e grave maestà; che quella modestia e grandezza che tutti gli atti e
le parole e i gesti componeva della signora duchessa, motteggiando e
ridendo, facea che ancor da chi mai più veduta non l’avesse, fosse per
grandissima signora conosciuta. E così nei circostanti imprimendosi,
parea che tutti alla qualità e forma di lei temperasse; onde ciascuno
questo stile imitare si sforzava, pigliando quasi una norma di bei
costumi dalla presenza d’una tanta e così virtuosa signora...

«Tra l’altre piacevoli feste e musiche e danze che continuamente si
usavano, talor si proponevano belle questioni, talor si faceano alcuni
giuochi ingegnosi ad arbitrio or d’uno or d’un altro, nei quali sotto
varj velami spesso scoprivano i circostanti allegoricamente i pensieri
suoi a chi più loro piaceva. Qualche volta nasceano altre disputazioni
di diverse materie, ovvero si mordea con pronti detti; spesso si
facevano imprese, come oggidì chiamiamo; e sempre poeti, musici, ed
ogni sorta d’uomini piacevoli, ed i più eccellenti in ogni facoltà che
in Italia si trovassero, vi concorrevano»[204].

Queste colte e decenti eleganze volle il Castiglioni ritrarre con
uno stile senza frasche, fingendo ragionamenti in cui si delineano
le condizioni del Cortigiano, come allora chiamavasi il gentiluomo.
Secondo l’andazzo, troppo spesso egli imita, e principalmente nelle
introduzioni ricorda Cicerone. Come questo, anzichè sulla stoica
austerità, si regge sulla media condiscendenza socratica, che riduce la
virtù alla scienza, il vizio all’ignoranza. Nè s’approfonda egli nella
natura umana come dovrebbe chi detta precetti; sbiadisce lo spicco
delle fisionomie; nulla vuole si operi con originalità e di primo
lancio. Per raggiungere il tipo ideale del cortigiano dà precetti del
vestire, del parlare, far riverenze, se mentire e fin a qual punto;
sovrattutto sappia bene di scherma, oltre il ballo, il nuoto, il salto,
e sonare e gli esercizj piacenti; non abbia poi particolarità, cioè
carattere. Vuole «che il cortigiano si volti con tutti i pensieri e
forze dell’animo suo ad amare e quasi adorare il principe a cui serve,
sopra ogni altra cosa, e le voglie sue e costumi e modi tutti indirizzi
a compiacerlo» (lib. II); e insegna l’arte di lodare il principe senza
che paja adulazione, di lodar se stesso senza che paja vanità, di
mostrar renitenza agli onori e posti che più s’ambiscono, di spassare
la brigata con bisticci e coll’esagerare un motto; l’arte insomma
d’essere immorale e grazioso. Eppur vuole che il suo cortigiano eviti
le piacenterie e le condiscendenze smodate, non dissimuli le opportune
verità; del che offre esempio egli stesso, disapprovando le arti troppo
comuni fra i principi.

Ammiratore dell’età sua come tutti i contemporanei, deride i lodatori
del passato. «Che gl’ingegni di quei tempi fossero generalmente molto
inferiori a que’ che son ora, assai si può conoscere da tutto quello
che d’essi si vede, così nelle lettere come nelle pitture, statue,
edifizj ed ogni altra cosa. Biasimano ancora questi vecchi in noi molte
cose che in sè non sono nè buone nè male, solamente perchè essi non le
faceano; e dicono, non convenirsi ai giovani passeggiare per la città
a cavallo, massimamente sulle mule, portar fodre di pelle, nè robe
lunghe nel verno; portare berretta, finchè almeno non sia l’uomo giunto
a diciott’anni, ed altre tai cose: di che veramente s’ingannano; perchè
questi costumi, oltre che siano comodi ed utili, son dalla consuetudine
introdotti, ed universalmente piaciono, come allor piaceva l’andare in
giornea con le calze aperte e scarpette pulite, e, per essere galante,
portare tuttodì uno sparviero in pugno senza proposito, e ballare senza
toccar la mano della donna, ed usare molti altri modi, i quali, come
ora sariano goffissimi, allor erano prezzati assai. Però sia lecito
ancor a noi seguitare la consuetudine de’ nostri tempi, senza essere
calunniati da questi vecchi, i quali spesso, volendosi laudare, dicono:
— Io aveva vent’anni che ancor dormiva con mia madre e mie sorelle,
nè seppi ivi a gran tempo che cosa fossero donne; ed ora i fanciulli
non hanno appena asciutto il capo, che sanno più malizie che in que’
tempi non sapeano gli uomini fatti»; nè si avveggono che, dicendo così,
confermano i nostri fanciulli aver più ingegno che non avevano i loro
vecchi» (lib. II).

La conversazione piacevoleggiavasi con racconti e con facezie, sulla
qual materia egli si dilata; e molto intorno alle donne di palazzo,
facendole ispiratrici del suo cortigiano; tocca con delicatezza
l’amore, e se convenga corteggiare, e se piuttosto una pulzella o una
maritata, e come impedire che l’amore degeneri in effeminatezza, contro
della quale si avventa.

Educato il suo gentiluomo, lo colloca a fianco al principe, e qui
l’interesse diviene più largo, l’autore più franco nel deplorare
quelli abbandonati alla licenza e all’adulazione, mentre vorrebbe si
presentasse loro la verità sotto il velo del piacere. Vero è che i
consigli ch’e’ porge al principe riduconsi a generalità inconcludenti,
o al più dicevoli a piccoli signori, e col patto che sieno buoni. «Non
si può forse dare maggior laude nè più conveniente ad un principe, che
chiamarlo buon governatore. Però, se a me toccasse instituirlo, vorrei
che egli avesse cura non solamente di governar le cose già dette, ma
le molto minori, ed intendesse tutte le particolarità appartenenti
a’ suoi popoli quanto fosse possibile, nè mai credesse tanto, nè
tanto si confidasse d’alcun suo ministro, che a quel solo rimettesse
totalmente la briglia e lo arbitrio di tutto ’l governo; perchè non
è alcuno che sia attissimo a tutte le cose, e molto maggior danno
procede dalla credulità de’ signori che dall’incredulità, la quale non
solamente talora non nuoce, ma spesso sommamente giova: pur in questo
è necessario il buon giudizio del principe, per conoscere chi merita
essere creduto e chi no. Vorrei che avesse cura d’intendere le azioni,
ed esser censore de’ suoi ministri; di levare ed abbreviare le liti tra
i sudditi; di far fare pace tra essi, e legargli insieme con parentadi;
di fare che la città fosse tutta unita e concorde in amicizia come una
casa privata, popolosa, non povera, quieta, piena di buoni artefici; di
favorire i mercatanti ed ajutarli ancora con denari; d’essere liberale
ed onorevole nelle ospitalità verso i forestieri e verso i religiosi;
di temperare tutte le superfluità; perchè spesso per gli errori che
si fanno in queste cose, benchè pajano piccoli, le città vanno in
ruina. Però è ragionevole che il principe ponga meta ai troppo suntuosi
edificj dei privati, ai convivj, alle doti eccessive delle donne, al
lusso, alle pompe nelle gioje e nei vestimenti, che non è altro che un
argomento della lor pazzìa; chè, oltre che spesso, per quell’ambizione
ed invidia che si portano l’una all’altra, dissipano le facoltà e la
sostanza dei mariti, talora per una giojetta o qualche altra frascheria
vendono la pudicizia loro a chi la vuol comperare» (lib. IV).

L’opera del Castiglioni divenne la più diffusa in Europa. L’avea
preceduto Agostino Nifo[205], il quale, riducendo l’arte del cortigiano
a disannojar i grandi con facezie e novelle, ne apre loro le fonti,
a scapito della carità e del pudore. In tal senso vanno la _Donna
di Corte_ di Lodovico Domenichi; gli _Uffizj dell’uomo di Corte_ di
Pelegro Grimaldi e Giambattista Giraldi; del Muzio il _Gentiluomo_,
ove sostiene la libertà essere personale, e perciò maggiore nel
letterato che nel guerriero, e le _Cinque cognizioni necessarie a
giovin signore che entra alla Corte_, le quali sono, ricordarsi d’esser
uomo, cristiano, nobile, giovane, signore; ed altre operette di questo
andare, i cui precetti tendevano a togliere più sempre quell’impronta
individuale, così propria delle creazioni moderne, che primeggia in
Dante, mentre scompare nell’Ariosto e nel Tasso, e che spiccava ancora
negli uomini del principio del secolo; e il togliere la quale fu il
còmpito della seconda metà di esso, per consegnare l’uomo mutilo e
schiomato alle vergogne del seicento.

L’Italia ne’ suoi bei giorni avea speso ad erigere quelle cattedrali,
di cui altrove è una per regno, e qui in ciascuna città; quei canali,
che portavano la fertilità sui campi e il commercio. Adesso più non
era il popolo che pensasse alle glorie e ai comodi proprj, ma duchi e
signori che volevano ostentare magnificenza per abbagliare e stordire,
e dar a credere ai vicini che i loro popoli fossero beati perchè
aveano feste e magnificenza di Corti. Chi, scorrendo le storie di
quel tempo per meglio che per mera curiosità, non è preso da un senso
singolare al vedere tanta pompa accanto a tante sofferenze, tanta
allegria fra sì cocenti infelicità? Il gusto dei godimenti materiali,
tanto pregiudicevole alla libertà, quanto opportuno a quei che la
vogliono rapire, aveva invaso i mortali; i prodotti tributati dai
nuovi paesi erano accolti colla spasmodica ingordigia d’un recente
acquisto; la ridesta erudizione porgeva soggetti a briose mascherate e
a composizioni teatrali; il medioevo proseguiva i suoi tornei; sicchè
mescolavansi misteri di santi, comparse di numi, arcadiche semplicità.
Nel Berlingaccio a Roma ogni cardinale mandava maschere in carri
trionfali e a cavallo, con suoni e ragazzi che cantavano, e buffoni
che lanciavano arguzie lascive, e commedianti ed altri, vestiti non
di lino e lana, ma di seta di broccato d’oro e d’argento, spendendo
ducati a josa[206]. Nozze, battesimi, ingressi di principi o di papi
spesseggiavano occasioni di tripudj sontuosi.

Han rinomanza i carnevali di Roma, de’ quali il corso e i moccoletti
durano tuttora. Più chiassosi erano un tempo, e singolarmente
abbiamo ricordi di quello del 1545, detto di Agone e di Testaccio.
Dal Campidoglio si diressero a piazza Navona molti trombetti a
cavallo vestiti di rosso, poi i ministri della giustizia, da 7000
artieri, tutti in compagnie e divise con trombe e tamburi e bandiere,
trammezzati da soldati e carri. Dei quali il primo diceasi massimo, ed
apparteneva al rione di Transtevere; l’altro al rione di Ripa, portando
la Fortuna; il terzo al rione di Sant’Angelo, figurante Costantinopoli,
e così de’ varj rioni, con varie significazioni, fra cui un cervo
inseguito, Abila e Calpe, il Mongibello, Prometeo sul Caucaso, Turchi,
Italiani, Tedeschi in zuffa, un Concilio che condannava gli eretici;
i connestabili dei tredici rioni, i gentiluomini di Sutri e Tivoli,
e cori all’antica, e musici, infine il carro del papa, colla statua
in abito pontificale, e virtù simboliche e attorno le cariche, e
staffieri e paggi, poi il gonfaloniere di Roma, ornato di gioje perfin
gli sproni, e da ultimo i conservatori della città e il senatore
del Campidoglio. Nei palazzi lungo il giro tutto era folla e parati;
sulla piazza Navona schieraronsi come un battaglione, poi ripresero la
marcia; e la festa costò 100,000 scudi, oltre i vestimenti.

La festa di Testaccio fu a modo simile, eccetto i carri. Le alture che
circondano il prato eran piene di gente, e palchi e carri e attorno
fanterie e cavalli. Vi si rinnovò la pompa suddetta, poi la caccia
dove furono uccisi tredici tori, e lanciate sei carrozze, ciascuna
con pallio rosso e un porco vivo. Qui gran livree di varj cardinali,
con divise variatissime e a gara ricche; si corsero pallii, anche
d’asini e di bufale, e bagordi e tumulti, poi alla sera commedia. E il
narratore[207] avverte che il primo giorno di quaresima fu la stazione
a Santa Sabina, la quale fu tanto solenne, che molti vennero in disputa
chi fosse più bello, il carnevale o la quaresima di Roma.

Alle feste di Roma doveano contribuire gli Ebrei, la cui università
pagava 1130 fiorini d’oro pel carnevale, inoltre mandar alcuni
deputati al magistrato della città, implorando che il popolo romano ne
continuasse la protezione, e offrendo un mazzo di fiori con una cedola
da 20 scudi per addobbare i palchi d’essi magistrati.

Lo slanciar polvere, farina, razzi cagionava molti disordini, finchè
Sisto V, che alzò forche e torture in cospetto di tali divertimenti,
represse gli eccessi, e introdusse di scagliare confetti.

Firenze, come già Atene, vi accoppiava squisitezza d’arti; e veramente
lungo tempo si mantenne paradiso degli artisti, i quali formavano quasi
un mondo distinto, tutto vivacità e studio e gare ed anche invidie,
siccome manifestano sovrattutto gli scritti del Cellini e del Vasari.
Già a lungo ne divisammo; e non finirono colla libertà, anzi di nuovo
tutte le arti si congiunsero per celebrare le nozze di Cosmo de’ Medici
con Eleonora di Toledo. La prima sera, fra splendidissimo apparato,
Apollo celebrò gli sposi, e le muse risposero una canzone in otto
parti; seguì una dopo l’altra ciascuna città di Toscana personificata,
e cinta di ninfe e di fiumi, cantando una strofa agli sposi. La
seconda sera, fu rappresentata una commedia di cinque atti in prosa,
con prologo e intermezzi in verso cantati, dove figuravano l’aurora e
le varie ore del giorno, finchè la notte riconduceva il sonno; ma un
coro di satiri e baccanti collo strepito, le danze, il riso, eccitava
l’ilarità. Giambattista Gelli avea composto la musica del primo giorno,
Giambattista Strozzi del secondo, Sebastiano Sangallo dipinte le scene,
e il Giambullari ce ne lasciò la descrizione: come il Vasari diè quella
degli apparecchi per le nozze di Francesco de’ Medici con Giovanna
d’Austria[208].

Se le maggiori magnificenze si vedevano a Roma e a Firenze, nè Ferrara
nè Napoli voleano lasciarsi togliere il passo. Di Venezia continuavano
ad essere rinomati i carnevali; e allo sposalizio del mare, e all’altre
patriotiche commemorazioni, il popolo illudevasi di partecipare ancora
a un governo che lo invitava alle feste e ai pranzi. Quando Zilia
Dandolo sposò il doge Lorenzo Priuli nel 1557, i senatori, passando
sotto una serie di archi trionfali, mossero alla casa della novizza,
e come salirono le scale e posero il piede in quelle stanze fornite
a gran ricchezza, si fece loro bellamente incontro la sposa vestita
alla ducale, con sulle spalle un bianchissimo velo di Candia, fissato
a sommo la testa al diadema. Dopo salutazioni ed ossequj, le fecero
giurare l’osservanza del suo capitolare; ella rese grazie, donò a’
consiglieri una borsa d’oro riccio, e un’altra al cancelliere grande.
Correvasi poscia la regata in canale, mentre convenivano da ogni lato
barche e gondole, di gran vista pei damaschi e ricchi velluti onde
andavano adorne, e lustravano da lunge per molto oro. In queste erano
tutte le arti, con tal pompa che gli orefici traevano quattordici
gondole; e tutte insieme solcavano la laguna al suono di pifferi, e
tra allegri balli e viva, e sotto archi e trionfi; ultimo il bucintoro
che trasportava in trono la dogaressa. Allorchè la pompa fiottante
approdava alla piazza San Marco, tutta a parati bianchi, calavano
prima le arti con innanzi i mazzieri e la musica, indi gli uomini più
ragguardevoli, e seguiti da trombetti e donne, fra le quali sei spose,
diffusi sulle spalle i capelli intrecciati d’oro; indi ventuna matrone
in nero e velate; poi i senatori, il cancellier grande, i parenti del
doge; finalmente tra due consiglieri e gran corteggio la principessa,
la quale, cantate grazie e rinnovato il giuramento in San Marco, salì
negli appartamenti, passandovi a rassegna nelle ricchissime sale le
arti, che per mezzo de’ loro castaldi offrivano ciascuna complimenti
e doni. Pervenuta alla gran sala, andava assidersi sul trono ducale.
Le facevano corona i grandi dello Stato, e per la sala s’aggiravano
signori e maschere di bizzarrissime guise.

Caduta la notte e fatta gran luminaria per tutto il palazzo, apparvero
in giro sulla piazza trecensessanta uomini divisati a un modo, ciascuno
sollevando un piatto d’argento riboccante di confetti e dolci, e
accompagnati da cento torcie portate da giovinetti in seta, seguiti da
venticinque gentiluomini con mazzieri e musica: poichè ebbero condotto
un lungo giro fra la plaudente moltitudine, si condussero in palazzo,
ed entrati nel salone, offrivano quelle delicatezze al corteggio e
alla principessa; intanto davasi fuoco a una macchina d’artifizio. Indi
cominciava la danza, intramezzata da splendida cena; nè si cessava dal
ballo fino al nuovo giorno, in cui ritornavasi alla festa ed in ispecie
i macellaj vi facevano la caccia de’ tori. E durarono molti giorni
quelle allegrezze[209].

Superò ogni anteriore magnificenza la festa fatta nel 1574 a Enrico
III, quando fuggiasco dalla mal governata Polonia, passava a governar
peggio la Francia. Nell’arsenale gli fu imbandita una colazione di
frutti canditi, ove forchette, cucchiaj, piatti erano di zucchero:
stavano allora in lavoro ducento galee sottili, sei galeazze e molti
piccoli legni; e mentr’egli girava visitando, si compaginò e allestì
una galea. Alla festa nella sala del maggior consiglio intervennero
da ducento gentildonne, biancovestite con ricchissime gioje, e tutte
ebbero cena nella sala dello Squittinio. Il re prese gran divertimento
delle recite e invenzioni di mascherate e musiche di Andrea Calmo;
visitò le belle, e le ville signorili: peccato che tanta splendidezza
siasi sciupata per chi non la meritava[210].

Quando a Milano il magno Trivulzio sposò Beatrice d’Avalos, il
banchetto fu siffatto. Data alle mani acquarosa, cominciossi da
pasticci di pignuoli e zuccaro e focaccia di mandorle e altre
delicature, tutte messe a oro; vennero poi belli asparagi, più ammirati
perchè fuor di stagione; indi polpe e fegatelli, carne di starne
arrostita, teste di vitelli intere, colla pelle messa a oro e argento;
capponi e piccioni con salsiccia e presciutto e vivande di cinghiali
con _potaggi delicati_; un castrato intero arrosto con savore di
cerase; tortore, pernici, fagiani e altri uccelli arrosto, con olive
per concia; pollastri con zuccaro, aspersi d’acquarosa; un porchetto
intero arrosto con agro dolce, un pavone arrosto, una miscela d’ova,
latte, salvia, zuccaro; pomi cotogni con zuccaro, pini e carciofi;
altre dolcezze pruriginose; infine dieci maniere di torte e molte
confetture; ogni cosa in piatti d’argento e oro, accompagnata ciascuna
da fiaccole e trombe; e in esse fiaccole v’avea gabbie di tutti quegli
uccelli e quadrupedi che si servirono cotti. Si finì al solito con
commedianti, saltatori, musici e funamboli»[211].

Nel febbrajo 1515 Prospero Colonna, quando divenne capitano della gente
d’arme del duca di Milano, fece al duca, a’ cortigiani, ed a trentasei
damigelle un mirabile convito e festa da ballo, sotto un atrio di
legname dipinto e indorato, di gran bellezza e misteriosità, dice il
Prato, che prosegue: «Stavano gli uomini alle sue tavole, e le donne
altresì, con sì lunga varietà di cibi, che per quattro ore durò il
portare. E a ogni bocca si serviva un intiero fagiano, una pernice, un
pavone e altre cose: portando per ogni imbandigione una cosa di zuccaro
indorata, somigliante a quella che si offeriva; ed in compagnia altri
tanti pesci: e tre volte fu levato e rimesso la tovaglia e mantili,
con tanti adornamenti di acque e di foglie, che l’Arabia ne avria avuto
scorno. Venuto il fine della cena, venne un giovine, il quale s’infinse
di esser giojelliero, molte collanette, braccialetti e altre fantasie
d’oro mostrando: onde le damigelle con maraviglia cominciorno tante
bellezze a vedere, e domandavano il prezzo d’una cosa e d’un’altra,
finchè sopraggiunse esso signor Prospero, mostrando d’intromettersi;
e alla fine ogni cosa finse comprare, e a quelle damigelle le donò,
talchè niuna partì che non avesse presente per venti scudi d’oro, e
chi trenta; e dicesi che questo fece, solo per potere la sua amata,
senza biasimo d’infamia, con le proprie mani presentare. Poi la
mattina seguente a tutte mandò un cesto inargentato, con entro la sua
colazione; e al duca fece portare venticinque cariche di salvaggine, a
lui avanzate»[212].

Avvertiremo di nuovo come un lusso di tanta ostentazione andasse
scompagnato da quelle comodità che fanno confortevole il vivere. Pure
di molte n’erano state introdotte. In Santa Maria Maggiore a Firenze
leggeasi sopra un sepolcro: _Qui diace Salvino l’Armato degli Armati di
Firenze, inventor degli occhiali, Dio gli perdoni le peccata. Anno D._
MCCCXVII. Altri ne nominano inventore fra Alessandro da Spina pisano,
morto il 1313, che forse non fece che divulgare quest’arte tenuta
in prima secreta; poichè nel _Trattato del governo della famiglia_
di Sandro di Pipozzo fiorentino, nel 1299, già si legge: — Mi trovo
così gravoso d’anni, che non avrei valor di leggere e scrivere senza
vetri appellati occhiali, _trovati novellamente_ per comoditate de li
poveri vecchi quando affiebolano dal vedere»; e il famoso frà Girolamo
da Rivalta predicava in Firenze nel 1305: Non è ancor vent’anni che
si trovò l’arte di far gli occhiali... ed io vidi colui che fece gli
occhiali, e favellaigli».

Il primo oriuolo da torre che si ricordi fu a Padova per un Dondi, la
cui famiglia conserva il titolo dell’Orologio; poi a Milano quelli di
Sant’Eustorgio nel 1306 e di San Gotardo nel 1335; nel 1328 Wallingford
n’avea posto uno a Londra, e da quel tempo si estesero. A Firenze nel
1512 «si mise in palazzo de’ Signori un nuovo oriuolo, che cominciò a
sonar l’ore in calen di febbrajo 1512 a dodici ore: dove prima sonava
da un’ora per insino ore ventiquattro, ch’è il dì e la notte, lo
ridussero a ore dodici per volta, che vengono a dividere la notte e
il dì per metà a uso di ponente» (CAMBI). Anche gli oriuoli da tasca
divulgaronsi; venivano di Germania, e dalla forma erano detti ova di
Norimberga.

Le strade pure miglioravano, ad alcuna si posero cartelli indicatori:
ma viaggi e passeggiate faceansi a cavallo o in bussola, finchè le
carrozze divennero più comuni; in qualcuna la cassa fu sospesa a
cinghie per diminuire le sciacche; ma non v’avea mantice nè vetri,
e al più erano protette da cortine, mentre le dorature, le pitture,
gl’intagli le rendevano dispendiose. Nella facilità odierna è curioso
leggere come lord Russell, incaricato di pagare al connestabile di
Borbone i sussidj di Enrico VIII, dovette da Genova a Chambéry portar
il denaro a schiena di muli entro ballotti e sacchi, sotto forma di
biancheria vecchia e di legumi venderecci. Da Chambéry scrisse a quel
re qualmente il duca di Savoja «da nobile e generoso principe» degnò
permettere si trasportasse il denaro a Torino «sui proprj muli nel
forziere della casa reale, ove stanno di solito gli ornamenti della
sua cappella; sovra ciascuno compartimento di esso baule è scritto il
contenuto, affinchè nessuno dubiti che v’abbia altra cosa»[213]. Sotto
tale artifizio viaggiò a salvamento il sussidio, che doveva fomentare
la guerra in Francia. Il cardinale Bibiena rimprovera Giuliano de’
Medici che era in Torino, di non dar notizie sue al papa; «nè si
scusi con dire che per essere il loco fuor di mano, non ha saputo ove
indirizzare lettere; perciocchè a Genova o a Piacenza si potevano ad
ogn’ora mandare per uomo a posta»[214]. La comodità delle poste fu
introdotta prima che altrove in Italia, mediante corrieri a cavallo,
regolarmente stabiliti agli opportuni ricambi, per servizio de’
negozianti, ancor prima che de’ principi e del pubblico. Noi dicemmo
(pag. 190) come i signori Della Torre portassero fuori quell’uso.

Dovette certamente scompigliare le abitudini l’affluenza del metallo
d’America, che alterò i salarj, agevolò le transazioni e il modo di
pagare i debiti; ma sul principio angustiò i poveri, pei quali erano
rincarite tutte le necessità, nè ancora cresciuti i compensi. Insieme
vennero diffuse molte droghe, lo zuccaro principalmente e il caffè.
Il Redi nel _Bacco_ loda Antonio Cadetti fiorentino di aver dei primi
fatto conoscere la cioccolata in Europa, aggiungendo che la corte
toscana v’introdusse scorze fresche di cedrati e odore di gelsomino
insieme colla cannella, la vaniglia, l’ambra. Allora pur venne la
sudiceria del tabacco, indarno contrastata dall’igiene e dalla buona
creanza[215].

In Italia, più che negli altri paesi, mangiavasi bene, abitavasi
comodo: le vesti, impreteribile distintivo delle condizioni, non erano
cenciose nelle infime classi, mentre nelle superiori caricavansi di
pelliccie e ricami e ori e perle: straordinaria la profusione dei
profumi. Il Bandello[216] riferisce d’un Milanese che «vestiva molto
riccamente e spesso di vestimenta si cangiava, ritrovando tutto il dì
alcuna nuova foggia di ricamo e di strafori ed altre invenzioni. Le sue
berrette di velluto[217] ora una medaglia ed ora un’altra mostravano;
tacio le catene, le anella e le maniglie. Le sue cavalcature, o mula o
ginetto o turco o chinea che si fosse, erano più pulite che le mosche:
quella che quel giorno doveva cavalcare, oltre i fornimenti ricchi e
tempestati d’oro battuto, era da capo a piedi profumata, di maniera che
l’odore di muschio, di zibetto, d’ambra e d’altro si faceva sentire per
tutta la contrada... Teneva un poco anzichè no del portogallese, che
ogni dieci passi, o fosse a piedi o cavalcasse, si faceva da uno dei
servitori nettare le scarpe, nè poteva soffrire di vedersi addosso un
minimo peluzzo».

Francesco I in una spettacolosa festa di Corte ricevette sul capo un
tizzone ardente, e per medicare la ferita fecesi rasare i capelli,
tenendo invece la barba prolissa come gli Svizzeri e gl’Italiani; i
cortigiani, che si fanno merito de’ morbi del re, subito adottarono
le lunghe barbe; l’Università e il Parlamento non vollero accettarle.
Leone X ordinò che i preti smettessero le barbe; e tutta Roma fece
scene sul dolore che provò Domenico d’Ancona nel tagliarsi la sua,
immortalata dal sonetto del Berni quanto la chioma di Berenice da
Callimaco.

I mobili domestici, se mancavano di quell’opportunità che oggi
reputiamo dote prima, erano magnifici, intagliati maestrevolmente,
dipinti dai migliori pennelli. Girolamo Negro[218] scrive, il cardinal
suo padrone trovarsi in estrema povertà pel suo grado; «tiene circa
venti cavalli, perchè le facoltà sue non gli bastano per più, e bocca
quaranta; vivesi mediocremente a guisa de’ religiosi senza pompe; e il
papa gli ha assegnato scudi duecento al mese per il suo vivere, la qual
provvisione, con gli emolumenti del cappello, basta per l’ordinario
della spesa; e scorrerassi così finchè Dio mandi altro». Quale
splendido e ricco cardinale d’oggi raggiunge la costui povertà?

Gli oratori spediti da Venezia nel 1523 ad Adriano VI, in Roma furono
festeggiati dal cardinale Cornér, che diè loro un «pasto bellissimo, da
sessantacinque portate, e per ciascuna venivano tre sorta di vivande,
che erano mutate con gran prestezza, sì che appena si aveva degustata
una, che ne sopraggiungeva un’altra, il tutto in bellissimi argenti e
in gran quantità. Finito il pasto, si levarono stufi e storditi e per
la copia delle vivande, e perchè vennero ogni sorte di musici; pifferi
eccellenti sonarono di continuo; erano clavicembali con voci dentro
mirabilissime, liuti a quattro, violoni, lironi, canti dentro e fuori,
una musica dietro all’altra[219].

Luigi d’Este cardinale, fratello del duca di Ferrara, una volta
mandò al re di Francia in dono quaranta superbi cavalli da guerra
di grandissima valuta, con selle e gualdrappe a oro, e condotti da
quaranta palafrenieri vestiti di seta con oro alla levantina. Non meno
di ottocento persone componeano la sua famiglia; ed essendo venuto a
Roma il granmaestro de’ Giovanniti con trecento cavalieri per purgarsi
d’un’accusa, esso li ricevette e trattò tutti nel suo palazzo.

Eppure non di rado uscivano prammatiche severissime contro il lusso,
e potremmo addurre quella che il consiglio generale di Cremona emanò
il 1547, e fece approvare dal senato di Milano e da Carlo V. Proibiva
essa di portar collane, braccialetti o altro ornamento d’oro, salvo una
medaglia al berretto di non più che dodici scudi d’oro, e anelli; sugli
abiti nessun ricamo o intaglio di seta; alle cavalcature non fornimenti
con oro o argento o ricami. Le donne maritate abbiano negli abiti oro
o argento, nè ricami, trine, cordoncini; non più di tre vesti di seta,
e una sola di cremisino; non perle o gioje, fuorchè due anelli d’oro
con pietre alle dita, una collana d’oro di scudi venticinque non più,
un’altra al ventaglio di scudi quindici al più; non guanti ricamati
o zibellini, non berrette fuorchè la notte e in viaggio. Le fanciulle
non mettano vesta di seta, nè gioje od oro, salvo un vezzo di coralli
al collo del valore al più di scudi quattro; nè vadano a ballo che i
tre ultimi giorni di carnevale. Ai banchetti, vietati assolutamente
pavoni e fagiani, una sola o due sorta di selvaggina, non più di tre
sorta di lessi domestici, escludendo la salsa reale, il biancomangiare,
i pasticci, e i pesci e le ostriche o altre frutte di mare, nè più di
due maniere di torta; ne’ pranzi di magro una sola qualità di pesce,
escluse le ostriche. Le vivande si diano semplici, senza ornamento di
pitture, intagli, banderuole ed altre frascherie trovate dagli scalchi.
Ai battesimi non si doni cosa alcuna a compadri e comadri. Ai mortorj
non si attacchino in chiesa insegne, scudi, pitture, nè si faccia
banchetto.

Ciascuna città potrebbe mostrarne di consimili, più convenienti alla
curiosità municipale che alla storica erudizione. Alla quale neppur
so se sia duopo soggiungere che sempre erano delusi. In Venezia era
vietato ai cittadini vestir altrimenti che nero. Ma che? aspettavano
i giorni di carnevale per isfoggiar pompe e forestierie, e massime
diamanti; attesochè le gioje non si vendevano dalle famiglie patrizie,
ma trasmettevansi agli eredi accumulate. Colà sappiamo che le fanciulle
non uscivano mai di casa, salvo che per andar alla messa e alla
comunione a pasqua e a natale, ed anche allora velate; e contraevano
nozze senza essere conosciute[220].

Dopo la calata di Carlo VIII si propagò l’uso delle _imprese_, che
erano o figure o motti, e spesso figure e motti personali, a differenza
degli stemmi; e che uno adottava per indicare lo stato o l’inclinazione
propria; e si ricamavano o scolpivano sui mobili, sulle vesti, sulle
arme. Di inventarne erano richiesti i letterati, e massime i secretarj;
e dall’Ariosto fu trovata una pel duca di Ferrara, dal Molza pel
cardinale De’ Medici, dal Santuario varie pei Colonna, dal Giovio pei
Medici, pei Pescara, per gli Adorni. Esso Giovio in un _Dialogo_ trattò
ampiamente delle imprese _militari e amorose_, del modo di farle e
delle loro significazioni; sulla qual ingegnosa arguzia dettarono pure
il Simeoni, il Buommattei, il Ferri, il Contile; e Scipione Bargagli
n’era reputato l’Aristotele. Le mille accademie d’allora aveano
ciascuna la loro impresa, e ciascun accademico una particolare.

Cesare Borgia tolse per impresa _Aut Cæsar aut nihil_. Lodovico il
Moro, un’Italia in sembianza di regina, davanti a cui un Moro con una
scopetta in mano; e all’ambasciator fiorentino che gli chiedeva a che
servisse questa, rispose: — Per nettarla d’ogni bruttura»; al che il
Fiorentino: — Bada che questo servo scopettando tira la polvere addosso
a sè». Federico re di Napoli ebbe un libro bruciato col motto _Recedant
vetera_, ad indicare l’oblio de’ torti ricevuti. Il cardinale Sforza,
ad esprimere l’ingratitudine di Alessandro VI, che da lui fatto papa,
avea poi depresso il duca suo fratello, adottò la luna che eclissa
il sole col motto _Totum adimit quo ingrata refulget_. Alfonso di
Ferrara, una bomba che scoppia _a tempo e luogo_. Vittoria Colonna,
uno scoglio contro cui l’onde spumavano, e il motto _Conantia frangere
franguntur_. L’Ariosto, una bugna di pecchie cui il villano uccide col
fumo per cavarne i favi, e il motto _Pro bono malum_. Il Burchelati
letterato trevisano, un granchio colla zampa aperta, e _Melius non
tangere, clamo_. Il Bembo, un Pegaso in atto di levarsi a volo, e
_Si te fata vocant_. Il Davanzati, un cerchio di botte, e _Strictius
arctius_, alludendo al suo stile stringato. Il grancapitano Gonzalvo
ebbe una leva a corde che tende una balestra, col motto _Ingenium
superat vires_. Carlo Orsini un pallone sbalzato dal bracciale, col
motto _Percussus elevor_. Francesco Gonzaga di Mantova, accusato d’aver
lasciato sfuggire Carlo VIII a Fornovo, poi giustificatone, prese
la divisa _Probasti me, domine, et cognovisti_. Alludendo ai proprj
omonimi, Muzio Colonna adottò una mano che arde, e _Fortia facere et
pati romanum est_; e Fabrizio, un vaso di monete d’oro, con _Samnitico
non capitur auro_. Pel duca Cosmo succeduto ad Alessandro si scrisse
_Uno avulso, non deficit alter_. Il magnifico Lorenzo aveva un lauro
sempreverde, e _Ita et virtus_. Luigi Marliano medico milanese inventò
per Carlo V le colonne d’Ercole coll’aquila in mezzo, e _Plus ultra_.

Delle magnificenze italiane presero gusto i Francesi, sì dal vederle
qui, sì dalle donne che per matrimonio passarono a quella reggia.
Eppure ancora il Castiglioni diceva che «i Francesi solamente conoscono
la nobiltà dell’arme, e tutto il resto nulla estimano, di modo che
non solamente non apprezzano le lettere, ma le aborriscono, e tutti
i letterati tengono per vilissimi uomini, e pare dir gran villania a
chi si sia quando lo chiamano clerco». Ma di là già venivano arguti
osservatori e beffardi a esaminare i nostri costumi: Rabelais, che
doveva alla corte romana affiggere il ridicolo; Montaigne, che col suo
buon senso rilevava le stranezze di alcuni costumi italiani: il poeta
Marot, che «in questo paese alberato, fertile di beni, beato di donne»
imparava a parlar poco, far buona cera, non parlare di Dio, poltrire,
e fermarsi un’ora sopra una parola[221]. E certamente moltissimo ci
comunicarono i Francesi, dotati del genio della divulgazione, prodighi
delle idee proprie quanto vaghi delle altrui, che danno e ricevono
a piene mani senza far ragguaglio, che non arrossiscono d’esser
obbligati, anzi sembrano credere che gli stranieri devano ringraziarli
d’essersi lasciati beneficare.

L’amor de’ piaceri e delle comparse doveva crescere il desiderio
dell’oro e dei doni, e la facilità del vendersi. Il cardinale d’Amboise
ministro di Francia ricevea cinquantamila ducati di provvigione da varj
principi e repubbliche d’Italia, di cui trentamila dalla sola Firenze.
A Giovanni Micheli, ambasciador veneto alla Corte inglese, ricercava
molti doni mistress Clarenzia cameriera della regina Maria «per bisogno
e servizio di sua maestà, oltre un cocchio con i cavalli e tutti li
apparecchi, presentato per la voglia che ne aveva la detta cameriera,
alla quale la regina il donò: il quale cocchio fatto venire d’Italia,
tenevo per mia comodità, avendolo usato tutta questa stagione, che non
voglio per modestia dir quello che mi costasse; basta ch’era tale che
non disonorava il grado d’ambasciatore»[222].

Tra questi godimenti dell’immaginazione, Italia consolavasi o
stordivasi della servitù, o si divezzava dall’aborrirla; e come
solennità e allegrie accoppiava alle miserie e ai patimenti, così
a quel meriggio d’arti e di lettere accompagnava molti delirj, e le
superstizioni che mai non abbondano quanto allo svanire del giusto
sentimento religioso. Più delle altre funesta e universale fu la
credenza a relazioni immediate fra l’uomo e gli esseri soprannaturali,
e che la magia possa legare la potenza divina e la libertà umana, e
romper l’ordine morale e fisico del creato con atti materiali senza
intelletto nè amore.

Si manifestò essa in forma scientifica e in forma vulgare, e
l’una diede mano all’altra per riuscire a spaventosi effetti. Dal
neoplatonismo, cioè da quell’impasto mezzo poetico e mezzo filosofico
di dottrine indiane, egizie, greche, ebraiche, che la scuola
d’Alessandria pretendeva sostituire ed opporre al cristianesimo,
vennero inoculate alla società moderna le arti teosofistiche.
Conservatesi traverso al medioevo, rinvalidate dal contatto coll’Asia
nelle crociate, parve che il rinnovato studio degli antichi, che pur
doveva invigorire il pensiero, trascinasse a credenze, ove da principj
falsi deducevansi logicamente errori sciagurati. Alla ricerca dei
tre maggiori beni del mondo, salute, oro, verità si dirigevano tali
scienze.

Guardate gli scrittori più spregiudicati, e sarete chiari come si
credesse generalmente all’astrologia, ai pronostici, ai sogni. Il
Pomponazzi, che impugna l’immortalità dell’anima, sostiene (_De
incantationibus_) gl’influssi dei pianeti, ai quali non a demonj è
dovuta la facoltà di alcuni d’indovinar l’avvenire; e secondo il loro
ascendente, l’uomo può scongiurar il tempo, convertire in bestie, far
altre meraviglie[223]. Credettero all’astrologia il Campanella e il
Fracastoro, Machiavelli e Lutero: Melantone la difendeva contro Pico
della Mirandola, mostrando molti casi predetti da congiunzioni di
pianeti. Carlo VIII acquistava fiducia alla sua spedizione col far
correre una profezia promettitrice d’insigni vittorie. Del valente
astrologo Galeotto Marzio di Montagnana è manoscritta nella biblioteca
di Padova una _Chiromanzia_ del 1476: accusato d’eresia, fu obbligato a
pubblica ammenda, bruciato un suo libro che aveva portato in Ungheria
e Boemia; cascando poi da cavallo fuor d’Italia, s’uccise. Ebbero pur
grido il veronese Lionardo Montagna autore d’un _Breviarium vaticinii_,
Lodovico Lazarelli da San Severino, Luca Guaríco napoletano, che molte
opere scrisse, e fece fortuna; ma predetto al Bentivoglio di Bologna
che per le sue crudeltà sarebbe espulso, questi fece dargli cinque
tratti di corda, de’ quali risentì tutta la vita, e imparò ad esser
meno preciso e più cauto. Jacopo Zabarella padovano, il cui trattato
di logica fu adottato nelle Università di Germania, era invasato
dell’astrologia, fece moltissime predizioni, e anche della propria
morte.

Più tardi il buon matematico Cavalieri nella _Ruota planetaria_ pretese
rivelar ciò che fanno nelle loro sfere le stelle, e come in bene e
in male influiscano; il Borelli dettò una difesa dell’astrologia per
Cristina di Svezia; Marcantonio Zimara di Otranto, famoso medico,
pubblicò _Antrum magico-medicum, in quo arcanorum magico-physicorum,
sigillorum, signaturarum et imaginum medicarum, secundum Dei nomina et
constellationes astrorum, cum signatura planetarum constitutarum, ut et
curationum magneticarum, et characteristicarum ad omnes corporis humani
affectus curandos, thesaurus locupletissimus, novus, reconditus etc._,
con un trattato del conservar la bellezza, e uno del moto perpetuo
senz’acqua nè peso.

Tiberio Rossiliano Sesto, astrologo calabrese, avea sostenuto potersi,
per mezzo dell’astrologia, prevedere il diluvio universale; e fu
confutato nel 1516 da Gerolamo Armellini faentino, famoso inquisitore
di quei tempi[224]. Sul qual proposito frà Giuliano Ughi nella
cronica di Firenze scriveva: — A quel tempo si conobbe falsa una lunga
opinione, la quale quasi da tutti gli astrologi era tenuta per vera;
e questa fu, che per alcune congiunzioni di pianeti dovesse nell’anno
1524, di febbrajo e di marzo, venire in Italia e vicini paesi tanta
quantità di pioggie, che dovesse distruggere e rovinare tutti o gran
parte degli edificj e case propinque a’ fiumi o in luogo basso poste.
Lo messono in scritto e nei pubblici pronostici: e furono tali che,
per fare sollecita provvisione, le case loro fornirono di vittuaria
per più tempo; alcuni altri di barchette e legnami; altri imbottarono
il vino nei palchi, o vero in su i monti: ed era in tutte le parti
d’Italia quasi un comune timore[225]. Ma Dio, che la notizia delle
future cose ha a sè riservata, mostrò l’umano vedere esser di poca
certezza; imperò ch’io non mi ricordo mai un febbrajo ed un marzo il
più bel tempo, nè manco piovve, e fu un anno abbondantissimo d’ogni
bene, e di buona sanità. Ben è vero che in molti seguenti anni, per sei
o sette anni, seguitarono pioggie più che il consueto; onde dal 1525 in
là, seguitò tre anni assai carestia e peste. E pensavasi che la divina
Bontà misericordiosamente avesse le pioggie, che nel 1524 dovevano
naturalmente con nocumento del mondo venire, in più anni scompartite,
non senza qualche nocumento. E così nell’anno 1524 fu molto dileggiata
e schernita l’astrologia da quelli che non pensavano che Dio fusse ai
cieli superiore: ma quelli che credevano che Dio fusse moderatore de’
celesti corsi, pensarono esser vera l’astrologia; sicchè secondo il
corso de’ cieli, tal diluvio dovesse venire, ma che la misericordia di
Dio l’avesse impedito».

Singolare contesto di pregiudizio e buon senso! Eppure quando lo
Stöffer di Tubinga pronosticò che, per la congiunzione dei tre
pianeti superiori, il mondo andrebbe a diluvio nel 1554, tutta Europa
fu in pensiero di prepararsi uno schermo, e Carlo V ne stava in
grand’apprensione, per quanto Agostino Nifo il rassicurasse. Altri
parziali spaventi eccitarono i dotti compilatori degli almanacchi[226],
or una peste minacciando, or la venuta dei Turchi, ora il mal anno;
e poichè indicavano non pure la stagione, ma i dì precisi in cui
conveniva fare il salasso, molti morivano piuttosto che farsi trar
sangue contro tale indicazione.

Tutte le vite son piene di strologamenti. Al Bembo erasi predetto
sarebbe amato e accarezzato più dagli estranj che da’ suoi, e su
quest’aspettazione egli regolava le proprie determinazioni. Una notte
sua madre sognò che Giusto Goro, lor avversario in un processo, lo
feriva nella destra mano; e di fatto costui, per istrappargli un
libello che andava a presentar al tribunale, gli diè una coltellata,
sicchè poco mancò gli tagliasse via l’indice della dritta. Una suor
Franceschina monaca di Zara gli avea vaticinato non sarebbe mai papa.

Due mercanti milanesi, mentre passavano per le foreste di Torino
andando in Francia, incontrarono un uomo che ordinò loro di tornare
in patria a presentare una lettera a Lodovico Sforza; e soggiunse lui
essere Galeazzo Sforza, nipote defunto di questo. Obbedirono: ma come
impostori furono incarcerati e posti al tormento; persistendo però essi
all’affermativa, dopo lungo discutere del senato si aperse la lettera,
e fu letto: — O Lodovico, guardati, perchè Veneziani e Francesi stanno
per allearsi a’ tuoi danni, e annichilare la tua stirpe. Ma se mi darai
tremila scudi, vedrò di conciliare gli spiriti, sicchè i destini siano
sviati». Il duca non credette, e ne seguì quel che sapete.

Anche un secretario di Lodovico Alidosi signor di Imola incontrò il
fantasma del padre di questo, che gli ordinò di dirgli al domani si
trovasse in quel luogo stesso, e gli rivelerebbe cose di supremo
rilievo. Lodovico mandò in sua vece altri; a cui affacciatosi lo
spettro, si lagnò della disobbedienza, e gli commise di annunziare a
Lodovico che, dopo ventidue anni, il tal giorno perderebbe la città.
E così fu appuntino, per quanto l’Alidosi se ne fosse tenuto in
guardia[227].

Francesco Guicciardini, mentre governava Brescia per Leone X, scrisse
a Firenze qualmente, in una pianura colà vicina, si vedeano di giorno
venir a parlamento un gran re da una parte e un altro dall’altra con
sei o otto signori, e stati così un pezzo, sparivano; poi venivano in
battaglia due grandi eserciti per un’ora; e ciò accadde più volte a
qualche intervallo; e alcun curioso che si volle appressare per vedere
cosa fosse, dalla paura e dal terrore cascò malato, e stette in fin
di morte[228]. Benvenuto Cellini vede diavoli, come li vedeva Lutero.
Machiavelli consuma uno de’ capitoli sulle Deche intorno ai segni
celesti che precorrono le rivoluzioni degl’imperj, assegnando alle
stelle le cause che egli aveva sì a fondo meditate nella nequizia degli
uomini e col desolante pensiero del continuo peggiorare della stirpe
umana.

In quel sensualismo tra cui smarrivasi la legge morale, l’oro diveniva
suprema potenza; e come Spagnuoli e Portoghesi lo cercavano nelle
viscere di migliaja d’Americani scannati, i re nello smungere i
popoli con nuovi arzigogoli di finanze o intrepidi furti, i letterati
mendicando, i soldati rapendo, i preti mercatando le cose sacre, gli
eretici invadendo i beni della Chiesa, così gli alchimisti persistevano
a rintracciarlo in fondo ai crogiuoli, struggendosi ai fornelli ed ai
lambicchi, o andando imparare la _grand’arte_ fra gli Orientali, o a
strapparla alla natura ne’ monti magnetici della Scandinavia.

Bernardo Trevisano, nato il 1406 da famiglia di conti, a quattordici
anni già si occupava nell’alchimia, e ispiratosi da Geber e Rases,
spese da tremila scudi in esperienze; poi si volse a quegli altri gran
maestri Archelao e Rupescissa, e in quindici anni di prove «tanto in
ciurmadori, che per me onde conoscerli, spesi circa seimila scudi».
Cominciava a scoraggiarsi quando un suo paesano insegnogli a far la
pietra con sal marino: ma in un anno e mezzo tentatala quindici volte
invano, adottò un altro metodo, qual era di sciogliere separatamente
in acquaforte, argento e mercurio; e lasciatele un anno, mescolò le
soluzioni e le concentrò su ceneri calde in modo da ridurle a due
terzi; questo residuo pose al sole in una storta, poi lasciavalo
cristallizzare durante cinque anni; ma non ne seguì l’effetto
atteso. Bernardo, giunto a quarantasei anni, si mise per altra via,
insegnatagli da mastro Goffredo cistercese: comprarono duemila ova di
gallina, le fecero sodare, e levato il guscio, lo calcinarono al fuoco;
separarono i torli dall’albume, e li fecero fermentare a parte entro
concio di cavallo; poi li distillarono trenta volte, finchè n’ebbero
un’acqua bianca ed una rossa; si rifecero più volte da capo, variarono,
ma senza frutto; onde Bernardo abbandonò anche questa via, dopo
seguitala otto anni. Nè però disilluso, lavorò con un gran teologo e
protonotaro, che pretendeva cavar la pietra filosofale dalla coperosa;
calcinavasi per tre mesi, poi metteasi in aceto distillato otto volte;
il misto passavasi al lambicco quindici volte il giorno per un anno.
Qual meraviglia se la fatica e l’ansietà gli diedero una febbre che
durò quattordici mesi, e fu per torgli la vita?

Guarito appena, ode da un cherico del suo paese che maestro Enrico,
confessor dell’imperatore, sapea preparare la pietra filosofale.
Detto fatto, eccolo in viaggio per la Germania, e con difficili mezzi
introdottosi presso di quello, n’ebbe dieci marchi d’argento e il
processo che era siffatto. Mesci mercurio, argento, olio d’ulivo,
solfo; fondi a fuoco moderato; cuoci a bagnomaria, rimenando continuo.
Dopo due mesi, si secchi in una storta di vetro coperta d’argilla,
e il prodotto si tenga per tre settimane sulle ceneri calde; vi si
unisca piombo, si fonda al crogiuolo, e il prodotto si sottometta alla
raffinazione. Quei dieci marchi doveano allora trovarsi cresciuti d’un
terzo: ma ohimè! al fine di tanto lavoro non erano più che quattro.

Il Trevisano desolato giurò d’abbandonare quelle fantasie; i parenti
esultavano della risoluzione sua; ma dopo due mesi rideccolo al
lambicco. Persuaso però che gli occorressero i consigli di gran
sapienti, andò a interrogarli in Ispagna, in Inghilterra, in Iscozia,
in Germania, in Olanda, in Francia; e viepiù in Egitto, in Palestina,
in Persia, sede di quelle dottrine; a lungo si badò nella Grecia
meridionale, visitava principalmente i conventi, coi monaci più
rinomati travagliando alla grand’opera. Così arrivò ai settantadue
anni, avendo dissipato il ricavo del venduto patrimonio, e giunse a
Rodi senza denari, ma colla fiducia nella polvere cercata tutta la
vita. Deh perchè una fede altrettanto viva non hanno i cercatori di ben
più utili spedienti?

A Rodi tenea stanza un religioso, rinomato in tutto Levante come
possessore del gran secreto; ma d’avvicinarlo il conte perdea la
lusinga, se un mercante veneziano, conoscente di sua famiglia, non gli
avesse prestato ottomila fiorini, e raccomandatolo a quel savio. Tre
anni costui lo tenne in studj e speranze onde preparare il magistero
per mezzo d’oro e argento amalgamati a mercurio; e alfine gli aperse
i secreti della scienza ermetica. Perocchè gli indicò che tutto era
frode, lo persuase a cessare dalle illusioni, nel codice della verità
mostrandogli questo assioma, — Natura si fa giuoco di Natura, e
Natura contiene la Natura». Qui sta il gran secreto, significando in
linguaggio comune che per far oro ci vuol oro; e tutta l’alchimia non
giunse mai a ottenerne di più di quello che adoperò.

Perdere a settantasett’anni l’illusione di tutta la vita, è pur penoso.
Ma il conte Trevisano volle almeno giovare agli innumerabili adepti
della scienza ermetica, occupando i sette anni che ancor sopravvisse
a scrivere diversi trattati su quella scienza, il più celebre de’
quali è intitolato _Il libro della filosofia naturale de’ metalli_; e
ognuno può leggerlo, e certo pochissimi il leggeranno nel tomo II della
_Bibliothèque des philosophes chimiques_. Opera inutile anch’essa,
giacchè, invece di confessar chiaro i suoi inganni a scanso degli
altrui, si rinvolse in modo che molti cercarono in esso la scienza
ermetica, molti perseverarono a crederlo maestro della grand’opera.
Altrimenti pare a noi, sia per quell’assioma fondamentale, intorno
a cui si raggira sempre, sia per questo passo del libro suddetto:
— Ondechè io conchiudo, e credetemi; lasciate le sofisticazioni
e chiunque vi crede; fuggite le loro sublimazioni, congiunzioni,
separazioni, congelazioni, preparazioni, disgiunzioni, connessioni ed
altre decezioni; e taciano quelli che offrono qualsiasi altra tintura
diversa dalla nostra, non vera nè di alcun profitto; e taciano quei che
van dicendo e sermonando altro solfo che il nostro, il quale è latente
nella magnesia, e che vogliono trarre altro argento vivo che dal
servitore rosso, od altra acqua che la nostra, la quale è permanente,
e non si congiunge che alla propria natura, e non bagna altra cosa se
non l’unità della propria natura; e non vi è altro aceto che il nostro,
nè altro regolo che il nostro, nè colori altri che i nostri, nè altra
sublimazione che la nostra, nè altra soluzione che la nostra, nè altra
che la nostra putrefazione»[229].

La lezione per verità non sembra abbastanza evidente: d’altra parte
sarebbe stata inutile, giacchè qual avvi evidenza alla quale ceda la
passione? E certamente allora si continuò in tali ricerche, formandosi
una scienza tutta distinta, il cui canone fondamentale era che ogni
metallo si compone di solfo e mercurio; per mercurio però intendendo il
principio metallico, variante secondo i diversi corpi; e per solfo il
principio combustibile[230]. Eppure nella ricerca del grande incognito
e dell’immortalità in terra, questa scienza scontrava per via il gas
acido carbonico, il fosforo, l’antimonio, l’arsenico, quella chimica
insomma che oggi aspira ad essere la scienza delle scienze.

Sciagurata nominanza ne acquistò Marco Bragadin veneziano, che
pretendeasi nato a Candia dal famoso Bragadino, segato dai Turchi.
Gittata la tonaca per darsi tutto all’alchimia, e protetto da Giacomo
Contarini nobiluomo, spacciava aver trovato il secreto filosofale,
s’intitolava conte di Mammona, cioè genio dell’oro, e menava seco
due cani col colletto d’oro, che doveano credersi due demonj a suo
servizio. Molte tramutazioni di metallo effettuò egli al cospetto
del pubblico per mezzo d’una polvere che vendeva carissima: in fondo
però il suo secreto consisteva in un amalgama di mercurio e d’oro, e
facendo svaporar quello, restava questo. Ben avvedeansi che il peso
era diminuito, eppure se ne faceano le meraviglie; il doge comprò a
gran valsente il suo secreto, con uno scritto che trovasi nel _Trattato
chimico_ di Manget; Enrico IV gli scrisse per averlo a sè; altri
principi lo domandavano, ed egli splendidamente vivea corteggiato da
tutti. Vero è che non mancava chi ne ridesse, e una brigata di giovani
veneziani mandò in giro una mascherata di alchimisti con tutti i loro
arnesi, e un tra loro, figurando il Mammona, gridava: — A tre lire
il soldo l’oro fino». L’elettore Guglielmo II di Baviera l’ebbe poi;
ma quando ne sperava ricchezze, trovatosi illuso, lui fece impiccare
alla forca d’oro destinata agli alchimisti, e i suoi cani uccidere a
schioppettate.

Non appartengono alla nostra nazione nè Teofrasto Paracelso (1501-70),
predicato come testa divina, e creduto autore di miracolose guarigioni
e di trasformazioni soprannaturali; nè Cornelio Agrippa di Colonia,
consigliere dell’imperatore, deputato dal cardinale Santa Croce ad
assistere al consiglio di Pisa, fatto professore di teologia a Pavia,
chiesto a gara astrologo da gran re, dal marchese di Monferrato, dal
cancelliere Gattinara, e che diede lo stillato delle teorie e delle
pratiche delle scienze occulte. Ma a questo entusiasta e scettico
insieme possiamo raffrontare il milanese Girolamo Cardano da Gallarate,
teosofista e insieme scienziato illustre, di variatissima erudizione
e fecondo di pensamenti strani ma indipendenti, talvolta elevato
come il genio, talaltra dissotto del senso comune, e come disse lo
Scaligero, suo nemico acerrimo, in molte cose superiore ad ogni umana
intelligenza, in altre inferiore ad un bambino. Lasciò le proprie
memorie, preziose come delle scarse che francamente rivelino il cuore,
e curiosa pittura d’uomo vivente nel mondo poeticamente disposto dalla
dottrina cabalistica. Se tu gli credi, e’ poteva a sua voglia cadere in
estasi; vedeva quel che gli piacesse; degli avvenimenti era premunito
in sogno, e da certe macchie sull’unghie. Il piacere, secondo lui,
non è che la cessazione del dolore, e il male giova, se non altro,
perchè s’impara a schivarlo: anzi per lui era un bisogno il penare
o far penare altrui; flagellava se stesso, e morsicavasi le labbra o
si pizzicava. Giocatore e perciò dissestato, ricorre a bassezze; un
suo figlio fu attossicato dalla moglie, che perciò venne strozzata; a
un altro dovette far tagliare un orecchio per reprimerlo; e tutta la
sua vita andò bersagliata da sciagure. Conoscevasi invido, lascivo,
maledico, spensierato? ne riversava la colpa sulle stelle, ascendenti
al suo natale[231]. Del resto credesi oggetto d’una predilezione
speciale del cielo; sa più lingue senz’averle imparate; più volte Iddio
gli parlò in sogno; più spesso un genio famigliare, lasciatogli da
suo padre, il quale l’avea tenuto per trent’anni[232]; può in estasi
trasportarsi da luogo a luogo a sua volontà, ode quel che si dice lui
assente, e prevede l’avvenire. Appena ogni mill’anni nasce un medico
par suo; nè rifina di vantare le sue cure e l’abilità nel disputare;
infine, per avverare il pronostico fatto, lasciasi morir di fame.

Scrisse maestrevolmente sui giuochi delle carte e dei dadi; bizzarri
elogi sulla podagra e di Nerone; pubblicò centotrentun’opere, ne lasciò
centundici manoscritte, e ne’ dieci volumi in foglio[233] a stampa
m’ha l’aria di un giornalista ch’è obbligato ad empiere le pagine,
e più tira in lungo meglio è pagato, meno riflette più lavora. Chi
volesse ridurre ad unità filosofica quel suo balzellare, troverebbe
ch’egli dichiarava la natura essere il complesso degli enti e delle
cose. In essa tre principj eterni e necessarj, lo spazio, la materia,
l’intelligenza del mondo, cui funzione è il movimento. Lo spazio
eterno, immobile, non è mai senza corpi; cioè, come poi disse Cartesio,
non si dà vuoto in natura. La materia è pure eterna, ma mutasi di
forma in forma mediante due qualità primordiali, calore e umidità. Non
può concepirsi veruna porzione di materia senza forma. Ogni forma è
essenzialmente una ed immateriale, laonde tutti i corpi sono provveduti
d’anima; tant’è vero, che sono suscettibili di movimento. Le anime
particolari sono funzioni dell’anima del mondo; nella quale stanno
rinchiuse tutte le forme degli esseri, come i numeri nella decade; e
somiglia alla luce del sole, una ed eguale nell’essenza, infinita nella
diversità d’immagini.

Non potea dunque sottrarsi al panteismo se non col sospendere
le conseguenze, o col variare egli stesso quanto all’unità
dell’intelligenza. L’uomo, organo di quest’intelligenza universale, ha
però un carattere distinto, la coscienza. Questa il mena a distinguere
dal corpo l’anima, di cui mostra l’immortalità mediante gli argomenti
de’ predecessori; ma crede questo dogma abbia prodotto gran mali, come
le guerre di religione. La fisica sua fonda sulla simpatia generale fra
i corpi celesti e le parti del corpo umano.

Di tutte le scienze occulte favella con intima persuasione, altamente
riprovando quei professori inesperti, «per cui vizio resta infamata»
una scienza, nella quale la certezza non è minore che nella nautica e
nella medicina. Per vendicarla da tali ingiurie, e mostrare «come sieno
manifesti i decreti delle stelle in noi», esso non procede che per
raziocinio e sperimento, e riduce quella dottrina ad aforismi, distinti
in sette sezioni, donde s’intende come ogni paese, ogni colore, ogni
numero avesse il suo astro soprantendente. La magia naturale insegna
otto cose: prima i caratteri dei pianeti, e a far anelli e sigilli;
secondo, il significato del volo degli uccelli; terzo, le voci loro
e d’altri animali; poi le virtù dell’erbe, la pietra filosofale,
la conoscenza del passato, del presente, del futuro per tre viste;
la settima parte mostra gli sperimenti proprj sì del fare, sì del
conoscere; l’ottava, la virtù d’allungare molti secoli la vita.

Chi reggerebbe ad accompagnarmi nell’indicazione de’ varj canoni di
queste dottrine? Il Cardano, che le conosceva tutte a fondo, non ne
fa mistero: anzi insegna a comporre sigilli per far dormire o amare,
rendersi invisibili, non istancarsi, aver fortuna; e ciò combinando
quattro cose, la natura della facoltà, della materia, della stella,
dell’uomo che fa: al qual uopo egli divisa la natura delle varie gemme
e degli astri che vi corrispondono. Fra i talismani il più potente
era il sigillo di Salomone. Una candela di sego umano, avvicinata
a un tesoro, crepita fin a spegnersi; e la ragione è che il sego è
formato di sangue, il sangue è sede dell’anima e degli spiriti, i quali
entrambi concupiscono oro e argento finchè l’uom vive, e perciò anche
dopo morte ne rimane turbato il sangue. Vuoi i presagi da dedursi da
tutte le arti e dai casi naturali? vuoi la chiromanzia? o quel che
significhino le macchie sulle unghie? e come interpretare i sogni, ed
ottenere responsi? chiediglielo, e te n’insegnerà con sicurezza.

E responsi da lui impetravano insigni personaggi, tra cui Edoardo VI
d’Inghilterra; il primate di Scozia affidò le sue malattie a’ costui
strologamenti; san Carlo il propose maestro nell’Università di Bologna.
Cento geniture egli formò d’illustri personaggi, dall’oroscopo di loro
nascita deducendo le cause delle loro qualità. Alle stelle convien
avere riguardo nella medicazione; infallibile esaudimento ottengono
le preghiere a Maria, fatte il primo aprile alle otto del mattino; che
più? spinse l’audacia fin a tirare l’oroscopo di Cristo. Insegna a chi
soffre d’insonnia d’ungersi col grasso d’orso; a chi vuol far tacere
i cani del vicinato, tenere in mano l’occhio d’un cane nero. A volta
a volta si ride della chiromanzia, della stregoneria, dell’alchimia,
della magia, dell’astrologia; eppure le esercita per compassione: i
fantasmi reputa illusioni di fantasia scompigliata; eppure è pieno
d’apparizioni e di spiriti, crede gl’incubi generare bambini, e deporre
il vero le streghe nei processi. Eppure egli ha luogo durevole nella
storia delle scienze per osservazioni sottili ed argute, e per più
scoperte, fra cui la _formola cardanica_ e la possibilità d’educare i
sordimuti.

Giambattista Della Porta napoletano (1540-1615) istituì in propria
casa un’accademia _de’ Secreti_, ove non ammetteasi se non chi
avesse trovato qualche rimedio o qualche macchina nuova. Nella
_Magia naturale_ espone tutti i sogni, le forme sostanziali delle
intelligenze, emanazione della divinità; darsi uno spirito mondiale,
che genera anche le anime nostre, e ci rende capaci della magia,
al modo che per esso gli astri influiscono sul corpo umano. Non è
maraviglia se gliene vennero accuse presso l’Inquisizione, per le
quali chiamato a Roma si scagionò, e fu dimesso, con ordine che in
avvenire non s’impacciasse di far predizioni, avvegnachè il volgo
ignorante non sappia distinguere se siano effetto di accorgimento o di
sovrumana potenza. Pure egli svelava le arti onde altri producevano
effetti, creduti soprannaturali; mostrò che l’unguento delle streghe
fosse una mescolanza d’aconito e belladonna, i quali per efficacia
naturale esaltano le fantasie; a suo figlio consigliava: — Non opporre
resistenza ai potenti nè alla plebe; quand’anche avessi ragione.
Invitato a un banchetto, tien d’occhio a chi ti mesce il vino. Quando
parli con un malvagio o un disonesto, guarda alle sue mani più che alla
sua faccia».

Insomma le scienze occulte formavano la parte astrusa delle umane
cognizioni. Considerando la natura come una successione di prodigi,
alla magia chiedevasi la spiegazione d’ogni fenomeno; un fanciullo
malato, una donna consunta, il subito arricchirsi; i temporali, e vie
meglio le combustioni spontanee, le illusioni ottiche, le esaltazioni
nervose; che più? il male più ordinario, il mal d’amore e della
gelosia, parevano effetti oltra naturali; e per chiarirli si ricorreva
a patti che conchiudesse l’uomo col diavolo, dandogli carte segnate col
proprio sangue, e scritte col sacrosanto calice.

Come i dotti toglievano dal vulgo il fondamento degli errori, così
questo dal voto dei dotti v’era semprepiù ribadito, e ne nasceva una
orrida congerie di pubblica forsennatezza. Nella Bibbia ricorrono fatti
di demoniaci; gli esorcismi, se talvolta erano semplici cure igieniche,
o rimedj all’inferma fantasia, doveano però convalidare l’opinione
della diretta efficacia de’ demonj sugli uomini, e persuadevano che il
contatto e la presenza delle cose sacre raddoppii i sofferimenti degli
ossessi, la cui intelligenza scintilla a volte a volte di luce più
viva, danno risposte meravigliose, parlano latino, ebraico, vedono le
cose lontane e le future.

Quel bisogno essenziale alla natura umana d’ampliare il mondo visibile
mediante la fantasia, bisogno maggiore in tempi o fra persone dove
l’istruzione non dilata la vista sulla storia e sull’universo, avea
creato e qui trasferito dall’Oriente quelle fate benevole, e che
appiacevolivano i racconti e le fantasie, anzichè sgomentassero, come
la Melusina, la Morgana, che il sabbato convertivansi in serpi, gli
altri giorni godevano della loro bellezza e d’una vita che partecipava
all’immortale: anche il genio famigliare e i folletti spesso
mostravansi amorevoli e serviziati. Un padrone superbo comandò a un
villano di trasportare a casa una quercia grossissima, o guaj a lui:
l’impresa eccedeva le forze del misero, che se ne desolava, quando un
folletto gli si esibì, e presa in collo la pianta come un fuscello, la
collocò attraverso la porta del padrone, indurendola talmente, che nè
accetta nè fuoco valsero a intaccarla, sicchè fu forza aprire un’altra
porta: ciò fu appunto nel 1532. L’inquisitore Menghi sa d’un folletto
famigliare ad un garzone sedicenne mantovano, che inseparabilmente
l’accompagnava or da servo, or da facchino, or da mastro di casa.
E nel 1579 un altro in Bologna era innamorato d’una fantesca; e se
mai i padroni la sgridassero, di moltissimi guasti disturbava la
casa: e chi vuole, guardi lo strano esorcismo con cui i padroni se ne
liberarono. L’anno appresso nella città medesima si rinnovò la scena
con una fanciulla trilustre: e il folletto faceva le più bizzarre
burle; or rompere i vassoj del bucato, or lasciare tombolar dalle scale
grosse pietre, or di piccole lanciarne a romper i vetri, e nel pozzo
gettare secchi di legno o di rame, e gatti. Un predicatore raccontò
ad esso Menghi che, mentre dispensava la parola divina in una città
del Veneto, gli si presentò uno stregone, accusandosi di tenere due
spiriti in un anello, coi quali esso il farebbe parlare; ma come egli
esortollo a buttar via l’anello, ecco gli spiriti a piangere e pregare
ch’esso predicatore li ricevesse a proprio servizio, promettendo farlo
il maggior oratore del mondo: egli con gravi scongiuri gli indusse a
confessare che questa era un’orditura per mettersegli accanto, farlo
cadere in qualche eresia, ed acquistarlo all’inferno.

Più tardi fu stampato il _Palagio degli incanti_, coll’approvazione
dell’inquisitore, che li commenda «come dilettevoli per vaga et
varia lettione et non meno ferma che recondita dottrina»; e sono a
leggervi innumerevoli storielle di demonj, di incubi e succubi, sulla
fede d’autori accreditatissimi. Il più piacevole è d’un giovane,
contemporaneo di Ruggero re di Sicilia, che nuotando una sera in mare,
prese pei capelli una figura che gli veniva dietro, credendola uno dei
suoi compagni: ma alla riva trovatala una bellissima fanciulla, l’ebbe
seco, e ne generò un figlio, e vivea lieto di essa, se non che mai
non parlava. Avvertito da un compagno ch’egli erasi menato a casa un
fantasma, colla spada minacciò uccidere il bambino se essa non parlava:
onde rotto il silenzio, ella gli disse che perdeva un’eccellente moglie
con questa violenza, e subito sparve. Il fanciullo dopo alquanti anni
trastullavasi in riva al mare, quand’essa lo prese ed affogò.

Se non fossersi rinnovate ai dì nostri la raddomanzia e qualcosa di
peggio, non accennerei di don Antonio Lavoriero arciprete di Barbarano,
che con la virtù di Dio faceasi obbedienti i diavoli. Costui narrò allo
Strozzi Cicogna, che un frate Egidio, ad istanza del duca di Ferrara,
aveva scoperto un tesoro, ma nol si potè mai cavare perchè gli spiriti
rompeano le funi e spegneano i lumi: il frate fece da don Antonio
ascondere una moneta, promettendo trovarla; e presi quattro rametti
d’oliva benedetta e incisane la scorza, vi scrisse entro «Emanuel
Sabaot Adonai, e un altro nome che non si può rammentare», poi recitò
il _miserere_, e quando fu all’_incerta et occulta manifestasti mihi_,
don Antonio si sentì tratto verso la porta del giardino, e giunto
ov’era sepolta la moneta, le bacchette voltarono la punta in giù, come
fossero tirate. Lo stesso don Antonio gli narrò che in Noventa sul
Vicentino a una fanciulla mandavasi un fazzoletto del malato, ed essa
il faceva venir grande grande, poi piccolo piccolo; che se tornasse
alla primitiva dimensione, era segno di guarire; se no, di morte:
egli le mandò il suo fazzoletto, fingendo fosse d’un’inferma; nè la
fanciulla se n’accorse, perchè egli era esorcista, ma visibilmente lo
fece ingrandire e impicciolire, poi tornar di misura. Ed altre belle ne
raccontò quel don Antonio allo Strozzi[234].

Questi _fatti_, accertati non meno di altri su cui si fondano
anch’oggi altre teoriche, meriterebbro soltanto il riso se fossero
rimasti nel campo della speculazione: ma la natura umana ha una
terribile inclinazione a tradurre le credenze in fatti. E così avvenne
delle streghe, uno dei tanti errori che la civiltà moderna ereditò
dall’antica (Cap. XXXIV in fin.). Nel medioevo la pascolarono leggende,
nelle quali si confondeano il misticismo e l’empietà, il tremendo
e il buffo; però fu repulsato dai legislatori, fin da’ rozzissimi
Longobardi; e se comminavasi qualche pena, consisteva nel sottoporre le
maliarde alla prova dell’acqua fredda, mandando assolte quelle che non
restassero a galla; il che forse era un artifizio per salvarle tutte.
Quanto alla Chiesa, adducevasi un canone di papa Damaso, or repudiato
per falso, dove sono attribuiti a mera illusione i traslocamenti delle
streghe; sicchè alcuni teologi dichiaravano peccato mortale ed eresia
il credere ai notturni congressi[235].

Tanto è falso che nel bujo del medioevo imperversasse una credenza,
la quale non dirò nacque, ma si estese col rinascimento degli
studj, e viepiù nel secolo d’oro[236] dopo mescolatasi colla fungaja
delle scienze occulte; e fu un altro sintomo della riviviscenza del
paganesimo. Già il famoso giureconsulto Bartolo consigliava al vescovo
di Novara di far morire a lento fuoco una, imputata di aver adorato
il diavolo, e con sortilegi mandato a morte de’ fanciulli[237]. Sul
fine del quattrocento, secondo Antonio Galateo, credevasi che alcune
malefiche ungendosi si tramutino in animali, e vaghino o piuttosto
volino in lontani paesi, menino carole per paludi, s’accoppiino a
demonj, entrino ed escano a porte chiuse, uccidano animali[238]. E di
fatto si divulgò l’opinione che le streghe, masche, buonerobe, o con
che altro nome si chiamassero, _andassero in corso_, si congregassero
in certi luoghi, come al monte Tonale in Lombardia, al Barco di
Ferrara, allo spianato della Mirandola, al monte Paterno di Bologna,
al noce di Benevento..., e sotto la presidenza di Erodiade, di Diana
si dessero a balli e a sozzi amori, trasformandosi in lupi, gatti e
altre bestie. Empietà e lascivia formano il fondo di quelle congreghe;
splendidi banchetti il sabbato; frati vi ballavano, tutt’in onta della
Chiesa; e vi si vilipendeva ciò ch’essa ha di più venerando, le croci,
le reliquie, il sacrosanto pane.

Eravi qualche vecchia di bruttezza insigne con alcun marchio
particolare? avea risposto con imprecazioni ad insulti fattile? bastava
per sospettarla strega. Moltissime processate aveano confessato, —
Abbiam veduto il diavolo, siamo andate a cavalcione della scopa alla
tregenda, vi conoscemmo il tale e la tale»: come dubitare della loro
veridicità? Se l’uomo può impetrare dal diavolo le colpevoli gioje
che non osa chiedere a Dio, se v’è modo di patteggiare con una potenza
sovrumana, perchè sol pochi v’avrebbero ricorso? Si venne dunque nella
credenza che moltissimi fossero, e massime donne, e formassero tra sè
una specie di società secreta, con capi e adunanze, e piaceri carnali,
e voluttà di vendette.

Frà Bernardo Rategno comasco, zelante inquisitore, ci lasciò un libro
_De strigiis_[239], dove si scandalizza di chi le metta in dubitare. Le
masche (così egli) fanno congrega principalmente la notte del venerdì,
rinnegano in presenza del Diavolo la santa fede, il battesimo, la beata
Vergine, conculcano la croce, prestano fedeltà al diavolo toccandogli
la mano col dosso della loro sinistra, e dandogli alcuna cosa in segno
di ligezza. Qualvolta poi tornano al giuoco della _buona compagnia_,
fanno riverenza al diavolo, che assiste in forma umana. Nè vi vanno
già per illusione, ma corporalmente e sveglie e in sentimento, a piedi
se la posta è vicina, se no sulle spalle al diavolo; il quale talvolta
le abbandonò a mezzo del cammino, onde si trovarono fuorviate: tutte
cose che constano dalle loro _spontanee_ confessioni agl’Inquisitori
per tutta Italia. Anzi, a chiuder del tutto le labbra agli avversarj,
adduce esempj di se stesso, che istruendo processi in Valtellina,
ebbe deposizione da uomini d’intera fede, i quali veramente le aveano
vedute. Niuno poi era in Como che non sapesse che, un cinquant’anni
prima, in Mendrisio Lorenzo da Concorezzo podestà e Giovanni da Fossato
indussero una strega a menarli al giuoco; essa gli esaudì, e videro le
congregate; ma il diavolo, accortosi di loro, li fece battere in malo
modo[240]. Riducono poi la cosa ad evidenza e l’esserne bruciati tanti,
e l’avere i papi stessi consentito.

Per verità quest’argomento era perentorio, stantechè l’Inquisizione
gravò sopra i siffatti con legali carnificine, delle quali
ingloriavansi gli autori, come gli eroi di sanguinose battaglie.
Massime nella Germania la proclività al misticismo avea diffuso il
timore delle streghe; onde Innocenzo VIII nel 1484 le fulminò di
severissima bolla, dietro la quale si moltiplicarono e processi e
supplizj. Ma anche in Italia quest’errore era comune, e nella diocesi
di Como Bartolomeo Spina asserisce che oltre mille in un anno se ne
processavano, e più di cento bruciavansi.

Dinanzi a tanto numero di processi e di vittime, l’uomo è preso da un
terribile sgomento della propria ragione, interrogandosi se tutto fu
menzogna o delirio? tutto invenzione di tribunali, sitibondi di sangue?

Che l’uomo si creda pel male maggior potenza che realmente non ha,
casi giornalieri ce lo attestano; che i delitti si moltiplichino
col punirli, è un fatto troppo chiarito a chi studia le malattie
dell’intelletto e le passioni; e che a forza di sentir dire
che una cosa si fa, alcuno persuadasi di farla. Poteano operare
sull’immaginazione delle streghe i suffumigi e le unzioni, che, secondo
il Porta e il Cardano, si faceano con solano sonnifero, giusquiamo,
oppio, belladonna, datura stramonio, mandragora, laudano. Alcuni
fenomeni ricevono ora spiegazione dalle inalazioni dell’etere e del
magnetismo animale, arcano che gl’insulsi devono beffare, gli astuti
usufruttare, ma gli scienziati verificare e studiare. Fin a qual punto
un uomo può operar sul corpo o lo spirito d’altr’uomo per sola forza
dell’immaginazione, spinta sin al punto ove va la fede, non è ben
chiarito: nè quanto possa l’effetto delle passioni, e massime della
paura, causa preponderante delle malattie nervose. L’ipocondria fa
considerar le immaginarie sofferenze come un prodotto della volontà
dell’altra o frutto di lor ira o vendetta. L’insensibilità di certe
parti o di tutto il corpo è spiegata or che si distinguono due ordini
di nervi, uno che presiede alle sensazioni dolorose, gli altri a
condurre al cervello le impressioni di contatto; e ciò toglie la
vulgare teoria della simulazione: e in generale soppresse le entità
demoniache, la maga vien considerata come dipendenza dello studio delle
facoltà dell’anima. Tralascio casi stranissimi in medicina, affezioni
nervose ed isterismi che, come un tempo si curavano coi pellegrinaggi,
allora si dichiaravano malattie demoniache[241]. Vedeasi una propagare
le sue convulsioni a un collegio, a un convento, attribuivasi a
fatucchieria quel che ora sappiamo esser istinto di imitazione.

Chi serbava intero il senno proponeva talvolta rimedj efficaci, ma non
prudenti. Se un vampiro venisse a suggere il sangue, l’autorità faceva
bruciare il cadavere, e il male cessava, per fede di Montaigne. Ad una
signora mantovana che credevasi ammaliata, il medico Marcello Donato
dispose che tra gli escrementi si facessero comparire chiodi, piume,
aghi; ella credendo averli cacciati di corpo, sanò: sì, ma dunque il
fatto era vero; ma la donna avea visto quegli oggetti, nè potea più
dubitarne, e la persuasione sua trasfondeva in tutti i suoi conoscenti,
e questi ai loro. I fatti dunque sussistevano; erano fuor del naturale;
le cause venivano esibite dalla scienza e dalle opinioni del tempo;
dalla giurisprudenza di allora le procedure.

L’esistenza però de’ notturni congressi non era così generalmente
creduta che non trovasse contraddittori. Samuele De Cassini tolse a
provare che il demonio non trasporta effettivamente queste donne,
e solo in esse produce un’estasi, per la quale credono volare o
trovarsi fra la moltitudine; ma Giovanni Dadone domenicano sostenne
il volo talora avvenir realmente[242], e con lui sono frà Bartolomeo
Spina maestro del sacro palazzo[243], frà Silvestro Mazzolino detto
Priero, Paolo Grillandi legista fiorentino che dapprima le aveva
negate[244], e fino Gianfrancesco Pico della Mirandola[245] in un
libro, la cui occasione è così esposta da frà Leandro degli Alberti
che lo vulgarizzò: — Essendosi scoperto l’anno passato qui quel tanto
malvagio, scellerato e malefico giuoco _della donna_, dove è rinnegato,
bestemmiato e beffato Iddio, e ancor conculcata con i piedi la croce
santa, dolce refrigerio dei fedeli cristiani e sicuro stendardo, e
dove ancor vi sono fatte altre biasimevoli opere contro della nostra
santissima fede; il perchè essendo stato integramente investigato
e ponderatamente conosciuto, e ancor proceduto giuridicamente dal
savio e provvidente censore ed inquisitore degli eretici, furono da
lui consegnati al giudice molti di questi maledetti uomini, i quali,
secondo il comandamento delle leggi, fece porre sopra d’uno grandissimo
monte di legne, e bruciarli in punizione delle loro scelleraggini ed
anco in esempio degli altri. Or così di giorno in giorno procedendosi
per estirpare e svellere questi cespugli di pungenti spine di mezzo
delle buone e odorifere erbe de’ fedeli cristiani, cominciarono molti
con ingiuriose parole a dire non esser giusta cosa che questi uomini
fossero così crudelmente uccisi, conciossiachè non avevano fatto
cosa, per la quale dovessino ricevere simile guiderdone; ma ciò che
dicevano di detto giuoco, lo dicevano o per sciocchezza e mancamento di
cervello, ovvero per paura degli aspri martirj. E non pareva verisimile
che fossero fatti dagli uomini tanti vituperj all’ostia consacrata,
nè alla croce di Cristo, e alla nostra santissima fede. E questo
facilmente potevasi confermare, perchè molti di loro prima avendolo
detto, di poi costantemente lo negavano. Per questi biasimevoli
ragionamenti di giorno in giorno crescevano nel popolo simili mormorii:
la qual cosa intendendo lo illustre principe signor Gianfrancesco, uomo
certamente non manco cristiano che dotto e letterato, deliberò di voler
intenderne molto integramente, e con sottili investigazioni conoscere
così il fondamento come tutte le altre minime cose che erano formate
sopra di esso, prima intervenendovi e ritrovandosi alle esaminazioni
di quelli avanti dell’inquisitore, poi interrogandoli da sè a sè,
parte per parte di detto scellerato giuoco, e degli abominevoli riti
e profani costumi e scomunicati modi e maledette operazioni che ivi
continuamente si fanno, e non solamente da uno di quelli, ma da gran
numero; e ritrovandoli accordarsi nelle cose di maggior importanza,
cioè sommersi in tanti sozzi vizj, siccome vero servo di Gesù Cristo,
acciò che ciascuno si deva ben guardare dalle fraudi dell’antico nostro
nemico, ed ancora per poterlo meglio in ogni luogo perseguitare,
si pose a scrivere di questa rea, scellerata e perversa scuola del
demonio...»

Gianfrancesco introduce la _Strega_ a dialogar con uno che non vi
crede (_Apistio_), il quale fa le objezioni del buon senso a tutte le
confessioni di lei, mentre il giudice (_Dicasto_) adopera le formole
giuridiche per provare che non sono illusioni, e sostenere la verità
delle deposizioni di lei intorno al trasporto delle persone, ai sozzi
convivj, alle infande nozze, all’abuso del sacrosanto pane. E da altri
processi egli raccolse d’un prete Benedetto, innamorato del diavolo in
carne col nome d’Armellina, i cui piaceri esso preferiva a qualunque
altro, e con essa discorreva fin per le piazze, sembrando mentecatto
agli altri che non la vedeano; per amor di lei non battezzava i
bambini, non consacrava le ostie, e all’elevazione le alzava capovolte,
così eludendo i sacramenti. D’altri ancora egli sa, così presi d’un
demonio in forma di donna, che voleano abbandonar piuttosto la vita;
finchè quella gran fiamma ne era cacciata coll’altra fiamma destata
d’una catasta di legna. E questi fatti sono comunissimi, tanto che
confessano andare alla tregenda oltre due migliaja di persone.

La strega introdotta da Pico conviene d’aver mandato la gragnuola sui
campi di suoi malevoli, uccisone il bestiame, succhiato il sangue
di sotto le ugne de’ bambini, finchè morivano se essa medesima
non vi desse rimedj, insegnatile dal demonio. L’incredulo insiste
principalmente sul perchè dal demonio non domandasse denari; ed essa
risponde averne anche avuti, ma che scomparvero, e l’attrattiva
maggiore consistere sempre ne’ piaceri del senso. Il demonio
permetterle tutti gli atti di cristiana, ma mentre assisteva ai divini
uffizj dovesse sottovoce protestare come a menzogne, stralunare gli
occhi, far atti di scherno, e la particola trarsi di bocca e conservare
per profanarla poi alla tregenda.

Uno dei più persuasi in tal fatto è il padre Girolamo Menghi di
Viadana, che empì l’opera sua di fatterelli curiosi[246]. Nel tempo che
i signori Veneziani mossero guerra al duca di Ferrara, stando Alfonso
d’Aragona duca di Calabria in Milano con molti illustrissimi signori,
tennero lungo ragionamento intorno agli spiriti, ove diversamente fu
da quei signori parlato e discorso, recitando ciascheduno le loro
opinioni; il che avendo udito il predetto duca, rispose in questo
modo: — È cosa verissima e non finzione umana quello che si parla di
questi demonj»; e narrogli, che stando lui un giorno a Carrone città
di Calabria, dopo le cure e spedizioni regie cercando qualche spasso
e ricreazione, gli fu detto che ivi era una donna vessata di spiriti
immondi. Il che intendendo esso, se la fece condurre, e cominciando
il duca a parlare con essa, niente rispondeva nè movevasi, come se
fosse senza spirito. Vedendo questo il principe, e ricordandosi d’una
crocetta che con certe reliquie portava al collo, datagli da Giovanni
da Capistrano, segretamente la legò al braccio della spiritata; la
quale subito cominciò a gridare, e torcere la bocca e gli occhi.
Allora quel signore le domandò il perchè, ed ella rispose, dovesse
levarle dal braccio quella crocetta «perchè (diss’ella) ivi è del
legno della croce consacrata, dell’_agnus_ benedetto, e una croce di
cera del mio grandissimo nemico». Le quali cose levando il duca, di
nuovo divenne come morta. La notte seguente andando quel principe a
dormire, incominciò udire fortissimi strepiti e rumori nel palagio e
nella propria camera, di maniera che fece chiamare alcuni servitori per
sicurezza, coi quali stette fino al giorno senza punto dormire. Venuto
il giorno, un’altra volta si fece menare davanti la donna, la quale
sorridendo interrogò il duca s’egli avesse avuto spavento la notte
passata: e riprendendola egli come spirito infernale nojoso ai mortali,
e addimandandogli — Ove eri tu nascosto?» rispose lo spirito: — Io era
nascosta nella sommità dello sparaviero che circonda il tuo letto; e
se non fossero state sopra di te quelle cose sacre che porti al collo
secretamente, con le mie mani io ti levavo di peso, e ti gettavo fuori
del letto. Anzi ti dico di più, che tutto quello che jeri ragionasti
e trattasti coll’ambasciatore de’ Veneziani, ti saprò narrare, perchè
il tutto ho udito e saputo». Il duca per chiarirsi mandò fuori tutti
quelli che ivi si ritrovavano, poi comandò allo spirito che dovesse
narrargli quanto era passato tra l’ambasciatore e lui; il quale,
come se fosse stato presente, per bocca della donna narrogli tutto il
fatto di parola in parola; di maniera che empiè quel signore di tanta
meraviglia, che d’indi in poi sempre credette che gli spiriti maligni
andassero vagabondi tanto nell’aria, quanto nei corpi umani.

Paolo Grillando inquisì una donna che, mentre era riportata a casa
dal diavolo amante, udì sonar l’_ave_ della mattina, ond’esso fuggì
lasciandola nuda sul terreno, ove fu scoperta. Un marito spiò sua
moglie tanto, che s’accôrse dell’ungersi e dello scomparire, e a forza
di bastonate obbligatala a confessare, volle menasse lui pure alla
tregenda, ove sedutosi a mensa, tutto trovava insipido, onde chiese
del sale, inusato ai loro banchetti. Quando dopo lunga istanza gli fu
portato, sclamò: — Lodato Dio che finalmente il sale è venuto»; e bastò
quell’esclamazione perchè tutto andasse in dileguo, ed egli rimase
colà ignaro del luogo, finchè la mattina da pastori sopravvenuti seppe
trovarsi in quel di Benevento, a cento miglia dalla patria sua. Dove
tornato, fece processar la moglie e condannare[247].

Altri fatti egualmente certi aveva in pronto Bartolomeo Spina predetto.
Una fanciulla, che dimorava colla madre a Bergamo, fu una notte trovata
a Venezia nel letto di un suo parente; chiesta del come, vergognosa
raccontò aver visto sua madre ungersi, e trasformata uscir dalla
finestra; ed ella volle far prova dell’unto stesso, e seguì la madre,
cui vide tender insidie al fanciullo parente; di che ella spaventata
invocò il nome di Gesù, e tosto ogni cosa sparve: l’inquisitore ne
stese processo, e la madre alla tortura confessò ogni cosa. Antonio
Leone di Valtellina, carbonajo dimorante a Ferrara, narrava d’un marito
che parimente vide la moglie ungersi, ed uscir dalla finestra, ed egli
imitatala, trovolla in una cantina: essa, come il vide, fece un segno
pel quale tutto sparì, ed egli rimasto colà, fu côlto per ladro, se
non che si sgravò narrando il fatto, pel quale la moglie fu mandata al
supplizio[248].

Basta il buonsenso più triviale a spiegar questi fatti: ma non tutti
così chiari sono quelli che adducono gli apologisti; l’insistenza dei
quali mostra che v’avea contraddittori. Nel 1518 il senato veneto,
disapprovando le esorbitanze degl’inquisitori nella Valcamonica,
rinomatissima per tale fastidio, revocò a sè i processi e statuì che
in tali materie i rettori delle città si unissero agli ecclesiastici.
Combatterono l’opinione vulgare il francescano Alfonso Spina[249], il
cavaliere Ambrogio Vignato giureconsulto lodigiano[250], Gianfrancesco
Ponzinibio giurista piacentino, negando possa il demonio generare
come incubo o come succubo, e i voli delle streghe e le tregende
essere illusione[251]. Andrea Alciato[252] scrive: — Appena ornato
delle insegne dottorali, mi si offrì la prima causa in cui rispondere
del diritto. Era venuto un inquisitore nelle valli subalpine, per
inquisire le streghe: già più di cento n’avea bruciate, e quasi
ogni dì nuovi olocausti a Vulcano ne offeriva, delle quali non poche
coll’elleboro piuttosto che col fuoco meritavano essere purgate; finchè
i paesani colle armi si opposero a quella violenza, e recarono la
cosa al giudizio del vescovo. Egli, spediti a me gli atti, chiese il
mio parere»; e fu diretto a sottrarre queste sciagurate ai supplizj;
dichiarò di sole donnicciuole siffatta credenza, e chiedeva perchè non
potrebbe il demonio aver preso le sembianze di esse donne? e come mai
scomparisse tutta la tregenda all’invocare Gesù?

Pietro Borboni arcivescovo di Pisa consultò i dotti di quell’Università
intorno a certe monache ossesse, se il fatto fosse naturale o
soprannaturale; Celso Cesalpino, famoso naturalista, rispondendovi
espone a lungo i portenti attribuiti alla magia, senza mostrare
impugnarli; di poi argomentando con Aristotele, asserisce esistere
intelligenze medie fra Dio e l’uomo, ma non poter queste comunicare con
noi[253]. Forza era conchiudere non poter essere reali gli esaminati
invasamenti: ma egli, per riguardi al tempo, non dichiara se non che
non sono naturali, e volersi applicarvi i mezzi della Chiesa.

Traviata così l’opinione del vulgo e dei dotti, farà più dispiacere che
meraviglia il vedere membri rispettabilissimi della Chiesa trascinati
dalla corrente. Nel 1494 papa Alessandro VI, avendo udito _in
provincia Lombardiæ diversas utriusque sexus personas incantationibus
et diabolicis superstitionibus operam dare, suisque veneficiis et
variis observationibus multa nefanda scelera procurare, homines et
jumenta ac campos destruere, et diversos errores inducere_, commette
agl’inquisitori di perseguitarli. Pure egli avea vietato s’intrigassero
di sortilegi, malìe, fatucchierìe, se non v’intervenissero abuso di
sacramenti o atti contro la fede. Nel 1521 Leone X, all’occasione de’
molti sortilegi scopertisi in Valcamonica, parlava agl’inquisitori
della Venezia d’una genìa perniciosissima che rinunzia al battesimo, e
dà il corpo e l’anima a Satana, e per compiacergli uccide fanciulli,
ed esercita altri malefizj[254]. Nel 1523 Adriano VI al Sant’Uffizio
di Como scriveva essersi trovato persone d’ambo i sessi, che prendono
signore il diavolo, e con incantagioni, carmi, sacrilegj ed altre
nefande superstizioni guastano i frutti della terra e commettono altri
eccessi e delitti[255]. Più tardi Gregorio XV si scagliava contro quei
che fanno malefizj, donde, se non morte, seguono malattie, divorzj,
impotenza di generare, altri danni ad animali, biade, frutti, ecc., e
vuole che siano immurati.

Ben centotre bolle di pontefici servivano di norma agl’inquisitori, e
fra tutte famosa la lunghissima _Cœli et terræ creator Deus_ del 1585,
con cui Sisto V[256] condannò la geomanzia, idromanzia, aeromanzia,
piromanzia, oneiromanzia, chiromanzia, necromanzia; il gettar sorti
con dadi o chicchi di frumento o fave; il far patto colla morte o
coll’inferno per trovare tesori, consumar delitti, compiere stregherie,
ed al demonio ardere profumi e candele; come pur quelli che negli
ossessi e nelle linfatiche e fanatiche donne interrogano il demonio sul
futuro; le donne che entro ampolle serbano il diavolo, ed untesi con
acqua od olio la palma o le unghie, lo adorano: quindi proibisce tutti
i libri d’astrologia, il far l’ascendente, descrivere pentagoni, e le
altre superstizioni allora in credito. San Carlo nel suo primo concilio
provinciale ordinava che maghi, malefici, incantatori, e chiunque fa
patto tacito o espresso col diavolo sia punito severamente dal vescovo,
ed escluso dalla società dei fedeli[257]. Nel 1588 Agostino Valerio,
vescovo di Verona e cardinale, pubblicava una pastorale compiangendo
come «si trovino alcuni, sebbene di vile e bassa condizione, che hanno
fatto patto coll’inferno, cioè col demonio infernale, attendendo a
superstizioni, incanti, stregherie e simili abominazioni».

I rimedj della Chiesa avrebbero dovuto consistere in preghiere e
ammonizioni, al più nell’esorcizzare; del che il vescovo Filippo
Visconti impartì molte regole per ovviare gl’inconvenienti: — A
pochissimi se ne conceda licenza; e questi s’informino prima dal medico
se l’infermità provenga da mala disposizione del corpo, o da umori
malinconici, o da molestia del demonio, o da capriccio: e trovando
il caso d’esorcizzare, lo faccia nella chiesa parrocchiale con cotta
e stola; se son donne, vi assistano sempre due loro parenti o altre
persone buone, nè l’esorcista le tocchi, se non al più colla mano sul
capo: non dia medicine, non interroghi il diavolo di materie curiose e
superstiziose».

Ma già vedemmo come, allo scemar della fede, si fosse radicata
l’Inquisizione, e come ne’ processi si fossero assottigliati i legulej,
e introdotta la procedura secreta, riprovata dal diritto canonico, e
colla quale non è onest’uomo che non possa andar condannato. L’uomo, e
più la donna, abbandonati al terrore della solitudine e alla pertinacia
di processanti incalliti allo spettacolo del dolore e ponenti gloria e
talvolta guadagno nel convincerli, come se ne poteano sottrarre? Non
pochi dunque, nella persuasione di dovere a ogni modo morire, e che,
se anche campassero, rimarrebbero in un obbrobrio peggior della morte,
confessavano _spontaneamente_, e ne restava convalidata l’opinione.

I processanti medesimi erano superstiziosi quanto i processati; teneano
per norma di far entrare la strega nella stanza per indietro, onde
veder lei prima d’essere da lei veduti; badare ch’essa non li tocchi,
«e portare del sale esorcizzato, della palma ed erbe benedette, come
ruta ed altre simili»[258]. Un altro insegna che, se il paziente non
regge all’odor del solfo, dà indizio di essere indemoniato; poi lo
facevano denudare e purgare, chè mai non avesse sul corpo o dentro
alcun malefizio che impedisse di rivelare la verità.

Non vi fu codice che non stampasse pene contro le stregherie; e per
dirne un solo, lo statuto di Mantova dei Gonzaghi, che durò quanto la
loro dominazione, cioè fin al 1708, impone che i malefici, incantatori,
fatucchieri, e chiunque fa incantagione, o dà pozioni per sottoporre il
cuore altrui, e trarre all’amore o ad altro fine pernicioso, in modo
che uomo o donna sia rimasta malefiziata, e condotta all’insania o a
malattia e morte, sieno bruciati. Se nessun effetto ne seguì, vadano
alla frusta e al taglio della lingua, ed espulsi dal territorio. Chi
ha l’abitudine di tali cose in secreto o in pubblico, sia arso. Possa
chiunque denunziarli, e si creda a chi con un testimonio di buona fama
giuri d’aver visto, o con quattro testimonj giuri che tal è la pubblica
voce. Si eccettua chi faccia tali incantagini all’intento di guarire.

Che poi i processi dall’Inquisizione orditi fossero reputati
regolatissimi e legali, n’è prova l’averne stampato i codici, anzichè
tenerli arcani[259]; e del resto qual necessità di nasconderli, poichè
procedevano non altrimenti che tutti i tribunali, tutti i giudizj?

Eliseo Masini[260], parlando di maghi, streghe e incantatori, contro
cui deve procedere il Sant’Uffizio, dice: — Perchè simili sorta di
persone abbondano in molti luoghi d’Italia e anche fuori, tanto più
conviene essere diligente; e perciò s’ha da sapere, che a questo capo
si riducono tutti quelli che hanno fatto patto, o implicitamente o
esplicitamente, o per sè o per altri col demonio;

«quelli che tengono costretti (com’essi pretendono) demonj in anelli,
specchi, medaglie, ampolle o in altre cose;

«quelli che se gli sono dati in anima ed in corpo, apostatando dalla
santa fede cattolica, e che hanno giurato d’esser suoi, o glien’hanno
fatto scritto, anco col proprio sangue;

«quelli che vanno al ballo, o (come si suol dire) in striozzo;

«quelli che malefiziano creature ragionevoli, o irragionevoli,
sagrificandole al demonio;

«quelli che l’adorano o esplicitamente o implicitamente, offerendogli
sale, pane, allume o altre cose;

«quelli che l’invocano, domandandogli grazie, inginocchiandosi,
accendendo candele o altri lumi, chiamandolo angelo santo, angelo
bianco, angelo negro, per la tua santità, e parole simili;

«quelli che gli domandano cose ch’egli non può fare, come sforzare
la volontà umana, o saper cose future dipendenti dal nostro libero
arbitrio;

«quelli che in questi atti diabolici si servono di cose sacre, come
sacramenti, o forma e materia loro, e cose sacramentali e benedette, e
di parole della divina scrittura;

«quelli che mettono sopra altari, dove s’ha da celebrare, fave,
carta vergine, calamita o altre cose, acciocchè sopra essi si celebri
empiamente la santa messa;

«quelli che scrivono o dicono orazioni non approvate, anzi riprovate
dalla santa Chiesa, per farsi amare d’amor disonesto, come sono
l’orazione di san Daniele, di santa Maria e di sant’Elena; o che
portano addosso caratteri, circoli, triangoli, ecc., per essere sicuri
dall’armi de’ nemici, e per non confessare il vero ne’ tormenti; o
che tengono scritture di negromanzia, e fanno incanti, ed esercitano
astrologia giudiziaria nelle azioni pendenti dalla libera volontà;

«quelli che fanno (come si dice) martelli, e mettono al fuoco
pignattini per dar passione e per impedire l’atto matrimoniale;

«quelli che gittano le fave, si misurano il braccio con spanne,
fanno andare attorno i sedazzi, levano la pedica, guardano o si fanno
guardare sulle mani per sapere cose future o passate, ed altri simili
sortilegi».

Contro siffatti delinquenti vediamo alcuni canoni della procedura,
desunti dalla _Lucerna Inquisitoris_ del Rategno. Pochi indizj bastano
a presumere un eretico; un lieve segno, anche il sospetto e la fama.
Non è mestieri che i costituti de’ testimonj concordino; se diranno
sapere quell’infamia per udita, non sono tenuti a provarlo; non infirma
i testimonj l’essere scomunicati e criminosi. Chi vuol camminar di
piede sicuro, fa così; se alcuno è diffamato o sospetto di eresia, si
citi e si esamini; confessa? _bene quidem_; se no, pongasi in carcere;
gli avvocati non prestino ajuto o consiglio agli eretici; possono
ben processarsi senza strepito di avvocati. È tolto l’appellarsi;
la confessione purga ogni vizio del processo; l’inquisitore non è
obbligato mostrare il processo all’autorità secolare, che deve solo
eseguirne i cenni; non è viziato il processo sebbene non si pubblichi
il nome de’ testimonj, nè se ne dia copia al reo.

— Come scoprire le streghe?» domanda il Rategno stesso; e risponde:
— O per conghiettura, o per confessione delle compagne che tra loro
si conoscono al giuoco, benchè il diavolo può in tregenda averne
assunto le forme. Si conoscono anche se facciano spregi al santissimo
sacramento, torcano il volto dalla croce, minaccino ad alcuno che male
gli accadrà, che si troverà malcontento, e in fatti così avvenga».
Mattia Berlica narra d’un bifolco che, per conoscere le streghe,
metteva in un sacco tanti fili aggruppati quante erano donne nel suo
villaggio, e dette certe parole, bastonava ben bene il sacco, poscia
andava di casa in casa, e se alcuna donna scoprisse ammaccata, la
denunziava per rea, e messa alla tortura dovea confessare.

Due leggieri indizj bastano per sottoporre uno alla tortura, segue il
Rategno; non fa pur mestieri che per questo convengano l’inquisitore
ed il vescovo o il suo vicario. È in arbitrio del giudice lo stimare
gl’indizj per torturare: sia più facile nelle colpe più segrete. Si
tenti prima se v’ha alcuna più agevole via di scoprire il vero; poi si
tormentino primi quelli da cui sia maggiormente a sperare la verità,
le femmine più deboli, il figlio prima del padre, e al cospetto di
questo. L’occhio del giudice dà arbitrio e misura al tormento. Non vi
sia sottoposto chi è dissotto de’ quattordici anni, quand’anche non
si possa estorcergli la verità colla sferza o collo staffile; nè i
vecchi oltre settant’anni; nè le donne che sieno veramente riconosciute
incinte.

«Quante volte può torturarsi il reo per le confessioni revocate? —
Due o tre», risponde il Pegna[261]. E il Rategno soggiunge: — Ma se il
reo negasse da poi quel che confessò ne’ tormenti? Rispondo: il reo è
tenuto a perseverare in quella confessione, se no si ripeta il martoro
fino alla terza volta.

Cessiamo; chè già il lettore sa di troppo per intendere che cosa
significassero i processi, i quali per eresie e stregherie si
moltiplicavano allora, quanto oggi quelli di Stato[262]. Nella
Mesolcina, valle italiana appartenente ai Grigioni, abbondavano
le streghe, che faceano malìe, affascinavano fanciulli, inducevano
temporali, e adunavansi ai sabbati, ove dal diavolo erano sollecitate a
calpestare la croce. San Carlo, legato pontifizio in que’ paesi, mandò
a farne processo; e si trovò il male ancor peggiore dell’aspettazione:
centrenta streghe abjurarono, altre furono arse, fra cui Domenico
Quattrino prevosto di Rovereto, che da undici testimonj era stato visto
alle tregende menar un ballo coi paramenti da messa, e recando in mano
il santo crisma[263].

Un tal padre Carlo (forse il Bescapé), sotto gli 8 dicembre 1583,
descriveva al suo superiore il supplizio d’alcune fra queste: — In un
vasto campo costrutto un rogo, ciascuna delle malefiche fu sopra una
tavola dal carnefice distesa e legata, poi messa boccone sulla catasta,
a’ lati della quale fu appiccato il fuoco; e tanto fervea l’incendio,
che in poco d’ora apparvero le membra consunte, le ossa incenerite.
Dopo che il manigoldo l’ebbe avvinte alla tavola, ciascuna riconfessò
i suoi peccati, ed io le assolsi: altri sacerdoti le confortavano in
morte, e le affidavano del divino perdono... Io non basto a spiegare
con qual intimo cordoglio, e di quanto pronto animo abbiano incontrato
il castigo. Confessate e comunicate, protestavano ricevere tutto dalla
mano di Quel lassù, in pena de’ loro traviamenti; e con sicuri indizj
di contrizione offrivangli il corpo e l’anima. Brulicava la pianura
di una turba infinita, stivata, intenerita a lacrime, gridante a gran
voce, Gesù! e le stesse miserabili poste sul rogo, fra il crepitare
delle fiamme udivansi replicare quel santissimo nome; e pegno di
salute aveano al collo il santo rosario... Questo volli io che la tua
riverenza sapesse, perchè potesse ringraziare Iddio, e lodarlo per li
preziosi manipoli da questa messe raccolti»[264].

Il padre Carrara, nella storia di Paolo IV, l. II, § 8, riferisce che
in quel tempo i demonj fecero l’estremo di lor possa, come chi si sente
alle strette. Fra gli altri nel 1558 invasero un luogo pio d’orfanelle
in Roma, di modo che il papa istituì una congregazione di ragguardevoli
prelati, alla cui testa il cardinale decano Bellay, e Giambattista
Rossi generale de’ Carmelitani, perchè riconoscessero il fatto e cogli
esorcismi riparassero la repentina perturbazione di quelle zitelle. Una
maga africana abitante in Trastevere promise guarire un certo Cesare,
sellajo pontifizio, che diventava acatalettico, e credeasi indemoniato;
ma voleva averne la permissione dal papa, onde non incorrere le pene
da esso minacciate contro le superstizioni. Il padre Ghislieri non solo
negò tal licenza, ma fe carcerare la strega, e sebbene non si riuscisse
a provarla rea, la esigliò, e il sellajo raccomandò agli esorcismi
del padre Rossi. Questi lo trovò veramente indemoniato; e ordinò alla
madre di lui facesse minute indagini per casa, massime nelle còltrici,
e sotto i limitari delle porte, ove gli streghi sogliono riporre lor
malefizj: e di fatto sotto un mattone si trovò un pentolino sudicio e
polveroso, e in esso un battufolo di carte e cenci, un circoletto di
capelli biondi come l’oro, con un nodo lento: due unghie di mulo, due
penne di gallina piegate a triangolo; due aghi fitti in un cuore di
cera; un ritaglio d’unghia umana, grani di cicerchia e d’altri legumi;
e nel fondo tre carte piegate; in una delle quali una rozza effigie
d’uomo, trafitto da due dardi incrociati a modo di _x_; nell’altra
tredici nomi ignoti, probabilmente di demonj; nella terza era scritto:
«Cesare, come qui sopra passerai, per dieci anni in gran pena sarai» e
parole inintelligibili.

Subito il pentolino fu messo nell’acqua santa e riposto in luogo
sicuro; e intanto Cesare si trovò liberato e tornò florido e
tranquillo. Tutto ciò il padre Carrara, per attestar come il mondo
fosse contaminato da diavolerie, e come vi rimediasse il santo rigore
di Paolo IV.

Nel 1586 Daniele Malipiero senatore veneziano fu arrestato come
negromante, e così i nobili Eustachio e Francesco Barozzi, e condannati
all’abjura. Questo Francesco, di cui si hanno molti trattati matematici
e filosofici, persistette al niego, finchè promessogli salva la vita
e la roba, confessò aver praticato diavolerie con profanazione d’olj
santi e d’altri sacramenti; costretto le intelligenze con circoli;
fatto la statua di piombo conforme alle regole dell’Agrippa; saper fare
venir persone dalle estremità del mondo; con una lamina fabbricata
sotto l’ascendente di Venere, costringere alla benevolenza, e stare
preparandone altre sotto l’influsso di diversi pianeti per conseguire
oro, dignità, onorificenze; confidarsi di potere con sortilegi istruire
in tutte le scienze il proprio figlio; avere scoperto il senso de’
geroglifici esistenti sulla piazza di Costantinopoli, secondo i quali
al 1590 doveva estinguersi la casa Ottomana e la potenza de’ Turchi;
trovandosi in Candia durante una lunghissima siccità, vi fece piovere,
ma insieme versossi tal gragnuola, che devastò i campi ch’esso v’aveva.
Perocchè egli era abbastanza ricco, ma pe’ vizj e il disordine spesso
si trovava sprovvisto. Fu condannato a dare pochi denari di che far
crocette d’argento, e a praticare alcuni atti di pietà «esortandoti
anche a tener sempre acqua benedetta nella tua camera per difesa contra
tanti spiriti infernali con li quali hai avuta famigliarità»[265].

Ben peggio andavano le cose fuori d’Italia. In Francia, regnante
Francesco I, centomila persone furono condannate per fatucchiere[266];
e da seicento accusate nel 1609 sotto Enrico IV. Dite altrettanto
dell’Inghilterra e della Germania; e da Soldam, che recentemente
trattò dei processi di stregheria[267], raccogliamo che a Nördlingen,
cittaduola di seimila abitanti, dal 1590 al 94 furono arse trentacinque
streghe. Tra i Riformati usavasi altrettanto, anzi più ferocemente che
tra i Cattolici; e da penna straniera, quella di Martin Delrio, uscì la
più seria dimostrazione e il più compito codice di siffatte credenze e
procedure.

Così durò tutto il XVI e XVII secolo[268], e gran parte di quel che
precedette il nostro. Ma le scienze progredendo portavano spiegazione
a molti fenomeni, riputati fin allora miracoli; la medicina additò le
naturali analogie di assai casi; la giurisprudenza persuadevasi non
dover bastare alle condanne la confessione del reo; il fatto che più
colpiva, cioè l’accordo delle varie deposizioni, si trovava ridursi
alle sole generalità, delle quali tutti aveano inteso parlare, e dove,
le interrogazioni dirigendosi in tal senso, spesso non restava che
rispondere sì o no. Alcuni diedero intrepidamente di cozzo all’ubbia
popolare, e principali fra questi i gesuiti Adamo Tanner e Federico
Spee, le cui opere lasciarono ben poca novità a quella, più efficace
perchè breve e vulgare, del Beccaria; se non che essi trattavano la
quistione per via di testi e canoni, ad uso dei dotti, lasciando che la
plebe covasse i proprj inganni.

Primo recò la querela davanti al pubblico il roveretano Girolamo
Tartarotti[269] negando le tregende, e ribattendo specialmente il
Delrio: eppure non solo accettò, ma sostenne la verità della magìa; col
che concedendo l’immediata potenza del demonio, come potea ricusargli
la potestà di trasferire anche le maliarde? Riducevasi dunque a
conchiudere che, nei casi speciali, ripugnava al buon senso il credere
a queste, e sovrattutto al loro numero. E non che questa fosse una
concessione da lui fatta ai pregiudizj del suo secolo, allorchè Gian
Rinaldo Carli e Scipione Maffei[270] estesero quella negativa ad ogni
immediata arte diabolica, egli protestò che, tacciando d’illuse le
streghe, non aveva inteso mettere dubbio sulla potenza del demonio;
tanto la ragione umana ha bisogno di forza per sottrarsi alle opinioni
nelle quali fu educata. E il padre Cóncina, nella vasta sua teologia
pubblicata dopo il 1750, accettava i prodigi delle streghe e dei
concumbenti come sentenza comune[271].

Sovra i beati e ridenti uomini del Cinquecento pendeva dunque da
una parte il terrore delle potenze malefiche, dall’altra la spada di
orribili quanto irreparabili processi, che dirigevansi pure contro gli
eretici, e ne colpivano persino i figliuoli. Il Rategno sancisce che i
figli d’eretici, quantunque buoni cattolici, sono privati del retaggio
paterno; gli eredi, obbligati adempire la penitenza imposta al reo;
possono privarsi degli uffizj e delle dignità i fautori, i figli, gli
eredi degli eretici; uno si può dopo la morte dichiarare eretico, e
confiscarne i beni; poichè il delitto d’eresia non s’estingue neppur
colla morte. Dei beni confiscati il diocesano non tocca: se ne dà
un terzo al Comune ove segue la condanna, l’altro agli uffiziali
del Sant’Uffizio, il resto s’adopera ad incremento della fede ed
estirpazione delle eresie.

Secolo singolare il Cinquecento, misto di tanta grandezza con tanta
miseria, tanto splendore con tanti errori, tanta civiltà con tanta
fierezza; secolo che tutto cominciò, nulla finì; e che di particolari
attrattive riesce per noi, atteso che, come oggi, ogni cosa vi era in
moto, e possiamo trovarvi esempj, consolazioni, speranze. Mescolato
tuttora l’antico col nuovo, non godevansi più i vantaggi dell’uno,
nè ancora quei dell’altro; del passato tenevasi un’energia selvaggia
che, qualora dal carattere passi nelle idee, fa guadagnare in forza e
dimensione quanto si scapita in delicatezza e misura: ma erasi perduto
la fede e la docilità; verso il futuro spingeasi coll’intelligenza, ma
non n’avea la pulitezza e la regolarità.

Colombo scrive ad Isabella: — Il mondo conosciuto è troppo piccolo»,
e altrettanto pare s’intimi da ogni parte anche pel morale; nè
in verun altro periodo erasi ampliata cotanto la sfera delle idee
relative al mondo esteriore, o l’uomo avea sentito sì vivo bisogno
d’interrogare la natura; in verun altro fu messa in giro tanta
copia e varietà d’idee nuove. Come in Grecia Platone, Aristotele,
Fidia, così in Italia Ficino, Michelangelo, Falloppio concorrono a
scoprire la natura dell’uomo sotto il triplice aspetto intellettuale,
artistico, materiale: quasi a un tempo fioriscono sette artisti a cui
non sorsero i pari, Leonardo, Michelangelo, Rafaello, frà Bartolomeo,
Correggio, Tiziano, Andrea del Sarto: sedettero contemporanei principi
grandissimi, quali Carlo V, Leone X, Francesco I, Enrico VIII, Andrea
Gritti, Andrea Doria, Solimano II: non c’è strada che lo spirito umano
non batta da gigante; indagine dell’antichità e smania del nuovo; lanci
del genio e longanimità dell’erudito; poesia e calcolo; e ogni facoltà
umana trovasi rappresentata da insigni personaggi.

Intanto, splendidezza d’abiti, di Corti, di apparati; dall’Occidente
e dall’Oriente nuove ognidì squisitezze vengono a lusingare i sensi;
oggi Brescia ode proclamare per le vie, a suon di tromba, che il suo
Tartaglia scoperse un nuovo teorema matematico; domani non si parla che
del nuovo canto dell’_Orlando_, letto jeri dall’Ariosto nel palazzo
di Ferrara; un giorno allocuzioni, sonetti, scampanìo, luminarie
annunziano che s’è dissotterrato il Laocoonte, o che Michelangelo
aperse la cappella Sistina, o Gian Bologna espose la Sabina.

Il dominante spirito aristocratico cerca nelle scoperte quello che può
dar gloria alla nobiltà, anzichè quello che migliori ed arricchisca
le plebi. Una politica egoista che dell’astuzia si fa merito più
che della forza, un’inettitudine irrequieta, un viluppo di maneggi,
fanno e contrasto e lega con una malvagità or ipocrita ora sfrontata,
e cogli abusi della forza, che, dalla grande migrazione in poi, non
aveva mai così inverecondamente proclamato la sua morale onnipotenza,
quanto nelle guerre pel Milanese e per la Toscana, nel sacco di Roma,
negli assedj di Firenze e di Siena. L’acquisto di cognizioni e di
libertà era ancora a servizio delle passioni; innestate l’ispirazione
colle reminiscenze, il genio colla pedanteria, il paganesimo colle
esaltazioni devote, la santimonia coll’empietà, l’azione colla
meditazione, la moralità col machiavellismo.

Del medioevo durano ancora gl’incidenti, in bizzarro contrasto coi
nuovi costumi. Tutte le fasi delle repubbliche sussistono accanto a
tutte quelle del principato, esse decadendo, questo assodandosi; le
secrete tranellerie de’ gabinetti trovansi a fronte con impeti di
generosità cavalleresca; i condottieri rompono ancora le ordinanze
delle fanterie stanziali, e pretendono opporre le armadure di un tempo
alle bocche di fuoco; principi eroi sono uccisi a Ravenna perchè fecero
voto all’amante di non coprirsi; o ne’ tornei s’avventurano re moderni,
mentre la tragedia regolare chiama a piangere sulle simulate sventure
degli antichi.

Strigatisi dai ceppi del medioevo, ma senza aver assunto ancora
quelli che impongono le convenienze, abbandonavansi agli istinti od
alle ispirazioni della fantasia o della coscienza; ribaldi o virtuosi
ma francamente, senza insuperbire nè vergognare. Quindi nella vita
tradizioni di lealtà insieme con un epicureismo non dissimulato;
scetticismo micidiale, e fanatismo sterminatore; l’entusiasmo
e l’ironia; l’assiderante regolarità del Trissino, e il geniale
sbizzarrire dell’Ariosto; il ghigno sguajato dell’Aretino, e il belare
dei Petrarchisti; la silvestre semplicità de’ Bucolici, e l’insaziabile
accattare di Paolo Giovio; la bizzarria spensante di Benvenuto e
l’austerità di Michelangelo, forse unico artista in cui appaja la
lotta dello spirito colla materia; il sarcasmo del Pomponazzi e la
convinzione del Savonarola, le orgie di Lucrezia Borgia e i roghi
di Pio IV, Machiavelli e Filippo Neri, Leone X e Adriano VI, Carlo
V e Francesco I: stampasi il _Corpus juris_, mentre ogni dritto è
calpestato: la serenità della scuola di Rafaello fa contrasto al ceffo
del Borbone e del Frundsperg. Di qui l’immensa difficoltà di giudicare
della moralità delle azioni e della grandezza dei personaggi, dipintici
da passione e da spirito di parte, convulsi fra idee così disparate,
fra pregiudizj inumani e servili, fra l’insuperabile efficacia degli
esempj e quel che chiamasi senso comune.

Aggiungiamo la desolazione che entra negli spiriti allorchè un gran
dubbio gettato nella società rimette in problema tutto quello su cui
essa riposava.



CAPITOLO CXLV.

La Riforma religiosa procede. Opposizione papale. Riformati italiani.
Inquisizione[272].


Tanto sovvertimento di costumi e d’opinioni crescea forza ai
Protestanti, i quali con ispaventosa celerità propagaronsi dai Pirenei
all’Islanda, dall’Alpi alla Finlandia, occupando le menti pensatrici,
allettando le frivole, trasformando nazioni intere. Vi sono errori
antichi, i quali, col resistere alla prova del tempo, mostrano essere
compatibili col bene; vi sono verità nuove che, balzando su calle
insolito la società, le riescono micidiali: laonde ogni rivoluzione,
e per ciò che demolisce e per ciò che erige, cagiona perturbamenti e
guerre.

Al disordine, che dagl’intelletti trasfondevasi nelle volontà, da
queste nella politica, avrebbe dovuto rimediare la Chiesa; ma da
principio i suoi capi parvero non accorgersi dell’intensità del male, e
con frecce di legno e lance di piombo repulsavano un attacco decisivo.
Fra i campioni da lei scelti, Silvestro Mazzolini da Priero presso
Mondovì[273], maestro del sacro palazzo, raffinì tra le mani per modo
che parve spediente comandargli di cessare; pur costituendolo vescovo,
e giudice di Lutero. Girolamo Muzio (pag. 165) ne’ viaggi avendo
osservato i costumi de’ Protestanti, non gli parvero quali da’ lodatori
erano vantati, e la loro dottrina confusione ed abusione; e accintosi a
combattere la comunione del calice a’ laici, il matrimonio de’ preti, e
le altre novità, sostenne che non era necessario adunare un concilio,
dissuase Lucrezia Pia de’ Rangoni dall’abbracciar gli errori diffusi
tra i Modenesi. L’Inquisizione romana aveagli dato incarico di far
bruciare tutte le copie del Talmud nel ducato d’Urbino, e d’informarla
di quanto scoprisse di men religioso, principalmente a Milano.
Quivi udendo predicare Celso Martinengo, lo chiamò ad esame, e lo
incarcerava se non fosse fuggito a Ginevra, dove fu assunto pastore de’
Protestanti in Ginevra, e l’effigie del Muzio chiassosamente bruciata.
Del Vergerio, vescovo di Capodistria, era stato amico d’infanzia; ma
non che lasciarsene sedurre, non lasciò strada intentata per ritrarlo
al vero, e frustrati i consigli amichevoli, scrisse contro di lui al
popolo di Capodistria, e più dopo che apostatò. Nei _tre testimonj
fedeli_ esaminando le dottrine de’ santi Basilio, Cipriano, Ireneo,
convince di falsità Erasmo ed altri: Pio V gli affida la riforma
dell’ordine di san Lazzaro, e di rispondere all’Apologia Anglicana e
alle Centurie Magdeburghesi: a sostegno del concilio di Trento scrisse
principalmente il _Bullingero riprovato_; l’_Eretico infuriato_
contro Matteo Giudice professore di Jena; la _Cattolica disciplina
de’ principi_ contro il Brenzio. L’_Antidoto cristiano_, la _Selva
odorifera_, la _Risposta a Proteo_, il _Coro pontificale_, le _Mentite
Ochiniane_, le _Malizie Bettine_, la _Beata Vergine incoronata_ sono i
bizzarri titoli d’opere sue, buttate giù con violenza e scarsa critica,
svelenendosi colle persone, anzichè teologicamente incalzar l’errore;
modo di farsi leggere dal vulgo, non di vantaggiare la causa del vero.

Erasmo, che fra i dotti d’allora rappresenta il cattivo moderato, avea
dato spinta e spirito alla Riforma colle lepidezze e cogli epigrammi,
sebbene poi ricusasse farsene campione per amor di pace, onde era
blandito dai prelati: ma Alberto Pio signore di Carpi, delle lettere
e delle arti e di Aldo Manuzio protettore, benchè attivamente involto
negli affari, scrisse contro di lui e di Lutero, con qualche eleganza,
ma scarsa forza.

Non di tali difese era tempo, e meglio operarono Girolamo Amedei,
servita senese spedito in Germania; il padre Silvestri domenicano, che
fece un’_Apologia della convenienza degli istituti cattolici colla
evangelica libertà_; Ambrogio Fiandino da Napoli, agostiniano, che
già avea confutato il Pomponazzi, _senem delirium, hominem maledicum,
patriæ vituperium_, e dettò contro Lutero tre opere, che non furono
stampate; Cristoforo Marcello veneziano, vescovo di Corfù, e famoso per
dottrina non meno che per disgrazie (t. IX, p. 371); e principalmente
Ambrogio Caterino domenicano, che nel secolo era stato Lancellotto
Politi senese, uomo di molta dottrina ma litigiosa[274], per la quale
s’abbaruffò anche co’ teologanti cattolici, e massime col cardinale
Gaetano, ch’egli imputava d’interpretazioni nuove e opinioni singolari.

Girolamo Aleandro della Motta trevisana, lodatissimo da Aldo e da
Erasmo per conoscenza del greco e dell’ebraico, da Alessandro VI dato
segretario al duca Valentino, poi spedito per affari in Ungheria,
da Leone X tenuto al fianco in alti impieghi, chiesto da Luigi XII
professore all’Università di Parigi, quando fu deputato in Germania
contro i Luterani parve esorbitare di zelo. Invece parve condiscendervi
troppo il veneziano Gaspare Contarini, ne’ più difficili momenti
mandato nunzio di Paolo III in Germania per indurre i Protestanti a
riconoscere almeno i principj fondamentali, cioè il primato della santa
Sede, i sacramenti ed altri punti appoggiati alla Scrittura e all’uso
costante della Chiesa. Eruditissimo di filosofia, matematica, politica,
avea scritto contro Pomponazzi e Lutero sopra la giustificazione
per mezzo della fede, e due libri dei doveri del vescovo con
semplice gravità e con minori triche scolastiche che non solessero i
teologi[275].

Spesso lo zelo dava ombra; e Andrea Bauria ferrarese agostiniano,
vigorosissimo predicatore contro i vizj, fu messo in sospetto a Leone
X, il quale fece sospendere la stampa del suo _Defensorium apostolicæ
potestatis contra Martinum Lutherum_, comparso poi dopo la morte
di esso. Frà Girolamo Negri di Fossano, che con abbondevole frutto
missionava nelle subalpine valli di Luserna e d’Angrogna, fu impinto
d’eresie, e sospeso dal predicare, finchè si provò innocente, e scrisse
una delle migliori difese della messa contro Lutero (Torino 1554).

Ma una vigorosa ed assoluta confutazione non apparve allora; nè tampoco
fu tra noi chi facesse quel che Erasmo tedesco tentò e lo spagnuolo
Melchior Cano compì, di ristabilire le vere nozioni sulla teologia e
le prove di cui essa si vale: dissertavasi sovra punti particolari,
non si toccava al fondamentale qual è l’autorità della Chiesa; si
discuteva davanti al tribunale inferiore della ragione individuale;
si filavano sillogismi de’ quali era impugnata la maggiore; non erasi
scoperto il lato debole della Riforma, nè incalzati gli avversarj entro
barriere saldamente posate col mostrare che il dogma fondamentale di
essi, l’individuale interpretazione, distrugge l’essenza della società
spirituale, distruggendo la fede. Togli alla verità il carattere
obbligatorio, essa rimane indistinta da qualsivoglia errore, e il
protestante non può condannare l’ebreo, il deista, l’ateo, giacchè nol
potrebbe che coll’opporre alla ragione di questi l’autorità.

Tutto poi esponeasi con tecnico gergo, argomentazioni opponendo ad
argomentazioni; i teologi sprezzando i letterati come gente da frasi,
ed essendo sprezzati da questi come pedestri scolastici. Il sant’uomo
Gregorio Cortese da Modena benedettino, riformatore del famoso
monastero di Lerins, vescovo d’Urbino, poi cardinale, contro Ulrico
Velenio dimostrando che san Pietro fu veramente a Roma, deplora la
scurrile polemica allora usitata[276], ed alla quale egli porgeva sì
diverso esempio.

Si scusi quanto si vuole Leone X, ma dicano i leali credenti se
fosse un papato opportuno a richiamare all’ovile gli erranti quando
le divinità dell’Olimpo erano evocate ad esilarare il Vaticano. Gli
successe (1522) Adriano VI, il quale, convinto per argomenti scolastici
delle verità rivelate, non poteva supporre buona fede ne’ Protestanti,
al tempo stesso che deplorava fossero stati spinti all’eccesso col
serrar loro le porte in faccia. D’altra parte, venuto da contrade
forestiere, restò colpito dagli abusi della Corte romana, e sgomentò
coll’annunzio di volerli svellere di colpo; mentre col confessarli
e promettere di ripararvi porse soggetto di trionfo ai nemici. Alla
dieta di Norimberga dal nunzio Cheregato fece dichiarare ai principi
tedeschi «conoscere il papa che l’eresia luterana era supplizio di Dio
per le colpe spezialmente de’ sacerdoti e dei prelati, e che però il
flagello avea cominciato dal tempio, volendo prima curare il capo che
le altre membra del corpo infermo; che in quella sedia già per alcuni
anni eransi viste abominazioni, turpi usi nello spirituale, eccessi nei
comandamenti, il tutto insomma pervertito»[277]. Sta nella biblioteca
Vallicelliana a Roma il discorso che Bernardino Carvajal, cardinale
ostiense, gli recitò all’entrata in Roma, esponendogli sette ricordi,
che sono: 1. eliminare le arti antiche, che sono simonia, ignoranza,
tirannide e gli altri peccati; aderire a buoni consiglieri; reprimere
la libertà de’ governatori; 2. riformare la Chiesa sicchè più non paja
una congrega di peccatori; 3. i cardinali e gli altri ecclesiastici
amare d’amor reale, esaltando i buoni, e provvedendo ai bisognosi
perchè non s’avviliscano; 4. amministri la giustizia senza divario;
5. sostenti i fedeli, massimamente nobili, e i monasteri nelle loro
necessità; 6. faccia guerra ai Turchi; 7. compia la basilica di San
Pietro[278].

Gli scrittori d’allora gareggiano nell’esaltare sopra quanti
predicatori viveano frate Egidio da Viterbo; il cardinale Sadoleto
lo vanta per facilità di parlar toscano, profondi studj di teologia
e filosofia, talchè sa nelle prediche piegar le menti, serenare le
turbate, accendere le languide all’amor della virtù, della giustizia,
della temperanza, alla venerazione di Dio e all’osservanza della
religione; e senza divario di giovani o vecchi, d’uomini o donne,
di primati o vulgari tutti scotea con forza di ragionamento, fiume
d’elettissime parole, d’eccellenti sentenze[279]. Non v’era solennità
cui non fosse invitato, sicchè Giulio II riservò a sè il destinarlo:
e sebbene il pochissimo ch’e’ ci lasciò non giustifichi tanti encomj,
tutti sono d’accordo nell’esaltarne la virtù e l’integrità, per le
quali Leon X, che gli scriveva colla famigliarità d’amico, lo ornò
della porpora.

Egli dirigeva ad Adriano VI un commentario sulla corruzione della
Chiesa e le guise di ripararvi. A dir suo, la depravazione s’insinuò
dacchè la facoltà di sciogliere e legare fu adoprata più a vantaggio
degli uomini che a gloria di Dio. Convien dunque limitarla,
considerandola come uno de’ principali uffizj del pontefice, e quindi
adoprarvi il consiglio d’uomini integri ed esperti; escludere le
aspettative de’ benefizj, che fanno desiderar la morte, quand’anche
non la procurino; evitare quell’avaro e ambizioso accumulamento di
benefizj; reprimere l’ambizione dei monaci, che sotto la giurisdizione
de’ loro conventi tengono infinite parrocchie, affidandole a qualche
prete amovibile e mal provveduto. La turpe vendita di cose sacre,
ammantata col titolo di composizioni, repugna ai canoni, ispira invidia
a’ principi, e dà ansa agli eretici; sicchè dovrebbe restringersi
l’uffizio del datario, che smunge il sangue dei poveri come dei ricchi.
Nè le riserve di benefizj gli pajono oneste. Prima di conceder le
grazie, si facciano da persone savie esaminare secondo la giustizia e
l’equità; e così prima di promuovere a benefizj vacanti. A tutti poi
gli uffizj si scelgano quei che più buoni, abili, fedeli, si diano
uomini alle dignità e alle amministrazioni, non queste ad uomini:
le concessioni, gl’indulti, i concordati con principi si rivedano
esattamente, acciocchè questi non usino e abusino verso secolari e
verso ecclesiastici. Indecoroso e imprudente fu il modo di maneggiar le
indulgenze; sicchè voglionsi richiamare le commissioni date ai Minori
Osservanti, per le quali riesce svilita l’autorità vescovile. Nessuna
cura paja soverchia nell’amministrare la giustizia; un cardinale
robusto e savio riveda le suppliche sporte al papa; scelgansi con
somma diligenza gli auditori di Rota, man destra del pontefice, ed
abbiano un soldo fisso, anzichè impinguar sulle sportule, le quali
sono cresciute a segno, che le cariche vendute un tempo a cinquecento
ducati l’anno, or si comperano a più di duemila; come quelle degli
auditori di Camera pagansi trentamila ducati, mentre dianzi valutavansi
quattromila. Via via determina gli uffizj della giustizia; se ne
rivedano le giurisdizioni e gli statuti, che buoni dapprima, poi
depravaronsi; abbia riforma il governo delle Legazioni, dove vorrebbe
che i legati non rimanessero oltre due anni, come pure i governatori
e prefetti e gli altri uffiziali; tutti lasciassero garanzia del loro
operare, finchè subissero un sindacato; e a chi n’esce con lode, si
attribuissero onori e comodi. I debiti onde Leone X gravò la sede col
creare tanti nuovi uffizj che consumano l’anno centrentamila ducati
delle rendite della Chiesa, si cercasse redimerli, e se ne esaminassero
attentamente i titoli; non si surrogassero i vacanti, e gl’investiti
medesimi si compensassero con altri benefizj. Si potrebbe pure
alleggerire il debito col riservarsi una parte delle rendite di tutte
le chiese ed un sussidio caritativo massime dai monasteri[280].

Una riforma conciliativa sarebbe ella stata ancora possibile?

Roma nel concilio Tridentino confessò col fatto che Lutero in molti
appunti avea ragione; e se ella immediatamente avesse corretta
la disciplina, receduto dalle pretensioni meramente curiali, non
trasformate in dogmatiche le quistioni giurisdizionali, ceduto in
somma di voglia ciò che poi dovette per necessità, avrebbe almeno
levato pretesto alle declamazioni più popolari. Tuttodì noi vediamo
le temporalità togliersi alle chiese senza scisma; circa alcuni riti
s’era già condisceso coi Greci e cogli Ussiti; nè sul conto delle
indulgenze, dei dogmi essenziali e dei misteri non parea fin allora
stesse interposto l’abisso. Potè dunque Adriano VI sperare ancora un
ravvicinamento, e vi si accinse: ma la luce di quel pontefice rivelò
la profondità dell’abisso. Entrando in Roma, non volle le burbanze e
lo spendio che si soleva; un arco di trionfo fece sospendere dicendo,
— Le son cose da Gentili, e non da Cristiani e religiosi»; come il
nome, così serbò i costumi prischi; si menò dietro la dabbene fantesca,
che il servisse al modo di prima; per pranzo non spendea meglio d’un
ducato, che ogni sera dava di propria mano allo scalco, dicendogli, —
Te’ per la spesa di domani»; richiesto di prendere dei servi, rispose
voler prima sdebitare la Chiesa; e udendo che Leone X tenea cento
palafrenieri, si fece la croce, e disse che quattro basterebbero[281].
Essendogli mostrato il Laocoonte, esclamò: — Idoli pagani», e torse
gli occhi dalle classiche nudità. Avendo dato un benefizio di sessanta
scudi a un suo nipote, che poi gliene chiese uno vacato di cento,
gli rispose con un gran rabbuffo che quello bastava a mantenerlo; e
quando, vinto da molti preghi, glielo concesse, volle prima rassegnasse
l’altro. Si fece promettere dai cardinali che deporrebbero le armi, non
darebber ricetto ne’ loro palazzi a sbanditi e birbi, lascerebbero che
il bargello v’entrasse per esecuzione della giustizia.

«Se gli ecclesiastici aveano barba grande alla soldatesca o abito non
lecito a preti, ei riprendevali, perchè era tanto scorsa la cosa che
portavano i prelati la spada a cavallo e cappa corta e barba. Ed io
scrittore vidi in Firenze un nostro fiorentino, ch’era arcivescovo di
Pisa, d’anni ventiquattro in circa, fattogli avere da papa Leone da
un altro arcivescovo di Pisa ch’era ancor vivo con dargli uffizj di
Roma in compenso e altri benefizj, in fatti comperato a dirlo in brevi
parole, vederlo andare per Firenze il giorno a spasso a cavallo con
una cappa nera alla spagnuola che gli dava al ginocchio, e la spada
allato, e il fornimento del cavallo o mula di velluto a onore di Dio
e della santa Chiesa: e il cardinale Giulio de’ Medici sopportava
tal cosa, e andava sempre alla chiesa col rocchetto scoperto senza
mantello o cappello, con una barba a mezzo il petto, e assai staffieri
colle spade attorno, e senza preti e cherici: e a questo era venuta la
Chiesa, d’andar in maschera cardinali e prelati, a conviti, a nozze e
ballare»[282].

La semplicità di Adriano, il suo dir la messa e l’uffizio tutti i
giorni eccitarono le risa nel palazzo abituato con Giulio II e con
Leone X. Da un pezzo non v’erano papi forestieri, e questo neppur
sapeva la lingua italiana; di che s’arricciava il patriotismo de’
nostri. Egli, che oltr’Alpe era reputato protettore degl’ingegni, e
che aveva rimossi gli ostacoli dalla fondazione del collegio trilingue
a Lovanio[283], fu reputato un barbaro da cotesti umanisti che più non
salariava, e che presero la fuga beffando e bestemmiando: tutti i Sesti
(diceva un epigramma) han rovinato Roma[284]; il Negro querelavasi
che tutte le persone da bene se ne partissero; il Berni avventava un
capitolo violento contro di lui e dei _quaranta poltroni_ cardinali
che l’aveano eletto; e Pasquino il dipinse in figura d’un pedagogo,
che ai cardinali applicava la disciplina come a scolaretti. Molti
interessi offendeva, perocchè, volendo togliere le vendite simoniache,
pregiudicava quelli che le avevano legalmente prese in appalto: gravi
nimicizie si suscitò coll’abolire le sopravvivenze delle dignità
ecclesiastiche: privo d’appoggi di famiglia come straniero, di nuovi
non se ne creò, perchè innanzi di conferir benefizj ponderava a lungo,
e così lasciava scoperti i posti: diffidando dei più come corrotti,
era costretto porre il capo in grembo ai pochi cui credeva, e che
lo tradivano; onde fu inteso esclamare: — Quale sciagura che v’abbia
tempi, in cui il miglior uomo è costretto soccombere». In fatti egli
pio e zelante fu reputato un flagello non minor della peste che allora
correva; la morte sua fu pubblica esultanza, e alla porta del suo
medico si sospesero corone civiche _ob urbem servatam_.

Per verità il peggior momento a riformare è quando sia impossibile il
differirlo. Ora, solo col tempo si poteva riparare ai guasti recati dal
tempo: ma intanto la Riforma procedeva colla violenza di chi distrugge;
nei popoli s’introduceva l’abitudine dei riti nuovi, e lo sprezzo dei
dogmi vecchi; i preti ammogliati v’erano avvinti col doppio legame
dell’interesse e degli affetti; e i figliuoli s’educavano nel nuovo
credo.

Qualunque volta una grave eresia le lacerò il grembo, la Chiesa
erasi adunata in concilio attorno al successore di san Pietro, onde
profferire secondo il sentir suo e dello Spirito Santo. Questo rimedio,
efficacissimo allorchè non era messa in quistione l’autorità della
Chiesa, fu proposto al cominciamento del male, e primi i Protestanti
dalle scomuniche del pontefice appellarono al concilio, e i Cattolici
confidavano potere in siffatta adunanza opporre il sentimento
universale e antico alle opinioni particolari e nuove. Clemente
VII (1523), succeduto pontefice, mandò fuori lettere, ove coi treni
consueti deplorando le jatture della cristianità, ne accagionava la
discordia dei principi e lo sformamento dell’ordine ecclesiastico;
dovere la correzione cominciarsi dalla casa di Dio; egli emenderebbe
se stesso, i cardinali facessero altrettanto; visiterebbe in persona
tutti i principi onde concordar una pace, fatta la quale, celebrerà un
concilio per restituirla anche alla Chiesa. E persuaso che la suprema
importanza consistesse nell’opporsi al Turco e sopire l’incendio
germanico, rassegnavasi a qualunque transazione coi novatori: stile
delle autorità minacciate, che si riservano di eluderle quando siansi
rimesse in assetto. «Sua santità (scriveva il Muscetola) ha fatto
esaminare da varj teologi nostri le confessioni stese da’ Luterani; e
n’ebbe in risposta che molte delle cose ivi contenute erano del tutto
conformi alla fede cattolica; altri poi capaci d’un’interpretazione
non contraria alla fede se i Luterani volessero prestarsi a un
accomodamento, il quale per altri rispetti ancora non sarebbe
impossibile»[285].

Carlo V, che la Riforma guardava principalmente dall’aspetto politico,
come imperatore potea desiderare l’umiliamento di questi papi che
aveano tenuto al freno i suoi precessori, e che con Giovanni XII aveano
proclamato il distacco dell’Italia dall’Impero, e con Giulio II la
cacciata degli stranieri. Ma d’altro lato prendea dispetto che un frate
cacciasse i suoi sillogismi traverso alle smisurate ambizioni di lui;
e che i principi dell’impero profittassero delle innovazioni religiose
per emanciparsi non meno dall’imperatore che dal pontefice; diversione
disastrosa quando i Turchi sovrastavano. Stette dunque cattolico anche
per calcolo, e con Leone X conchiuse un accordo pieno d’interessi
mondani: ma quando uscì vincitore dell’emulo Francesco a Pavia, non
sentendo più bisogno nè di Lutero come spauracchio dei papi, nè de’
papi come contrappeso alla potenza francese, mutò linguaggio; tacciò
il papa di voler solo tergiversare; un poco ancora che tardasse, egli
stesso adunerebbe il concilio.

Ma un concilio generale, che al modo di quel di Basilea potrebbe
dichiararsi superiore al pontefice stesso, maggior ombra dava a
Clemente VII, nato illegittimamente e poco legittimamente eletto;
sicchè abbindolò soprattieni e objezioni, dicendolo inutile e
pericoloso: inutile, perchè l’eresia di Lutero essendo condannata
dagli editti imperiali, bastava far questi eseguire; pericoloso, perchè
parrebbe si revocassero in dubbio le antiche decisioni della Chiesa, e
radunamento di tante teste torbide potrebbe al papa o all’imperatore
strappare concessioni, di cui si pentissero poi. Se l’imperatore lo
credeva opportuno, l’intimasse pure a nome del pontefice, patto però
che gli eretici promettessero obbedirvi, e i punti a discutere si
ponessero prima in iscritto, onde non perder tempo. Uberto Gámbara
nunzio pontificio spiegò più chiaro che i Luterani domandassero il
concilio, e promettessero sottoporvisi; dovesse unicamente occuparsi
della guerra col Turco e dell’estinguere l’eresia, non già del
riformare la Chiesa; si tenesse in Italia; vi avessero suffragio quei
soli a cui spettava per gli antichi canoni.

Carlo mostrò aderirvi: ma Francesco I pretese che il concilio
fosse libero di trattar quanto e come volesse. Intanto Clemente VII
disgustava anche i Cattolici; per le ambizioni di sua casa esigeva
decime dal clero, e le appaltava; e avendole il clero di Ferrara
ricusate, egli pose all’interdetto la città. Altrettanto fecero, due
anni dopo, i preti di Parma, esclamando contro i rigori esorbitanti;
quand’ecco arrivare Vincenzo Canina canonico d’Imola commissario
papale, e tutto in collera esporre cedoloni minacciosi: ma i preti
stanno al niego, anzi insorgono, il popolo li seconda, e il canonico
è ammazzato a strazio. Fatti simili si riprodussero altrove. I
Riformati poi ebbero di che ridere al vedere, sotto il nome imperiale,
saccheggiata Roma, e provocato uno scisma.

Di Paolo III succedutogli (1534) severamente giudicammo il nepotismo
e la versatile politica; ma come pontefice comprese che lo spirito
cattolico, assonnato nella tranquillità, pel contrasto raddrizzava
gl’ingegni e i costumi; e secondandoli con sincerità, si cinse di
ottimi cardinali, Caraffa, Contarini, Sadoleto, Polo, Ghiberti,
Fregoso, tutti che avevano cominciato per fatiche particolari la
ristaurazione della Chiesa. Incaricati della riforma, essi col modenese
Tommaso Badia maestro del sacro palazzo, virilmente levarono rimproveri
contro i papi che «spesso avevano scelto non consiglieri, ma servidori,
non per apprendere il dover loro, ma per farsi dichiarare permesso ogni
desiderio»[286]; denudarono gli abusi della curia; e poichè alcuno gli
appuntava di eccedente vivacità, — E che? (disse il Contarini) dobbiam
darci pena de’ vizj di tre o quattro papi, e non anzi correggere ciò
che è guasto, e a noi medesimi procacciare fama migliore? Arduo sarebbe
lo scagionare tutte le azioni dei pontefici; è tirannide, è idolatria
il sostenere ch’essi non abbiano altra regola se non la volontà loro
per istabilire o abolire il diritto positivo».

Paolo III riformò la camera apostolica, la sacra rota, la cancelleria,
la penitenzieria: e i Protestanti, che volevano la morte non
l’emendazione di Roma, ne menarono vampo quasi ella si confessasse in
colpa.

Ma oltrechè negli abusi profondamente radicati può temersi che
colla zizzania si svelga anche il buon frumento, gl’interessi
personali impedivano i buoni e pronti effetti. Il clero superiore
s’era invecchiato fra abitudini aliene dalla religiosa austerità:
il basso (lasciam via le eccezioni) si conformava a quegli esempj,
nè l’educazione lo aveva addestrato ad armeggiare nella lotta
decisiva. Negli Ordini monastici alcuni per gli ozj opulenti
destavano scandalo; altri le beffe per la povertà degenerata in
sudicieria, per la semplicità ridotta a grossolanità, per lo stesso
zelo ingenuo, dissonante da tempi di dubbio e di controversia. Venne
dunque a grand’uopo l’istituzione di un Ordine vigoroso di gioventù,
addottrinato e pulito come il secolo.

Ignazio di Lojola, gentiluomo di Guipuscoa in Ispagna, paggio alla
Corte di Fernando e Isabella, poi uffiziale, distinto per valore non
meno che per belle forme, nel respingere dalla patria gli stranieri è
ferito (1521): stando a letto prende a leggere alcune vite di santi,
e commosso da quelle austere virtù, vota la sua castità a Maria coi
riti cavallereschi ond’altri dedicavasi a una donna, e strappatosi
alla famiglia, mendicando s’avvia pedestre a Gerusalemme. A stento
indotto a surrogare al sacco un ferrajuolo e cappello e scarpe,
naviga da Barcellona a Gaeta, fra i ributti serbati a un pezzente, a
uno straniero, e in tempo di peste. Baciati i piedi di Adriano VI,
arriva a Venezia, sozzo, macilento, rejetto, donde in Terrasanta.
Nel pellegrinaggio risolve di fondare una nuova cavalleria, che
combatta, non giganti e castellani e mostri, ma eretici, maomettani,
idolatri; e con sei amici entrati nel suo disegno fa voto di mettersi
all’obbedienza del papa per le missioni. Tornando in Italia, e agitando
le ampie tese de’ patrj cappelli, predicano penitenza in quell’italiano
spagnolesco, in cui i nostri erano troppo avvezzi a udire minaccie e
improperj.

È solito de’ tempi di setta attribuire ad uno i vizj più opposti a’
suoi meriti. Si prese dunque sospetto che costoro fossero eretici
mascherati; il vulgo soggiunse avessero un demonio famigliare, che
gli avvertiva quando convenisse mutar paese; fu divulgato che fossero
stati arsi dall’Inquisizione. Ma il nunzio pontificio e Gian Pietro
Caraffa, sant’uomo, ne compresero la virtù, della quale davano prova
assistendo agl’incurabili; Paolo III, trovatili dotti e pii, gli
ammise al sacerdozio, preparati con rigorosi esercizj; quando poi
gli presentarono il disegno d’un Ordine, diretto ad assodare la fede,
propagarla colle prediche, cogli esercizj spirituali, coll’assistere a
prigionieri e malati, l’approvò, chiamandoli _Cherici della Compagnia
di Gesù_, come testè dicevasi della compagnia del conte Lando o di frà
Moriale. Ignazio, militarmente designatone generale, ben tosto la sua
milizia diffonde per tutta la cristianità; ed egli la governa senza
uscire dal collegio di Roma, fuorchè due volte per ordine del papa:
una onde rimettere in pace gli abitanti di Tivoli coi loro vicini di
Sant’Angelo; una per riconciliare il duca Ascanio Sforza con Giovanna
d’Aragona sua moglie. Francesco Strada, suo discepolo, cento e più
giovani guadagna a Dio in Brescia; e a Ghedi, ove si solea prendere
in burletta i predicatori, egli col lasciar via i fioretti oratorj, e
col venir alle strette, ottiene copiosissimi frutti. A disciplinare la
difficile Corsica faticarono i padri Silvestro Landino di Lunigiana ed
Emanuele di Montemayor. In Sicilia il vicerè di Vega gli ajutò a porre
la prima casa di novizj: il padre Domenecchi gl’introdusse a Messina,
poi a Palermo, ove presto ottennero l’Università. Il doge di Venezia ne
chiese due ad Ignazio, fra i quali il Laynez che fu poi generale, e che
ivi predicò ai tanti eretici chiamativi dal commercio: alloggiava nello
spedale di San Giovanni e Paolo, ma tanti doni vi affluivano, ch’egli
protestò dal pulpito non riceverebbe più nulla. Poi il priore Lippomani
provvide d’una casa i Gesuiti, che n’ebbero pure a Padova, a Belluno, a
Verona. Degl’italiani ascritti pei primi a quella società ricorderemo
Paolo Achille, Benedetto Palmia, oltre Paolo da Camerino e Antonio
Criminale, che apersero l’India alla fede[287].

Quando Ignazio morì (1556), contavansi più di mille Gesuiti in dodici
provincie: Portogallo, Italia, Sicilia, Germania alta e bassa, Francia,
Aragona, Castiglia, Andalusia, Indie, Etiopia, Brasile.

Le loro costituzioni portano i tre voti soliti: ma alla povertà si
obbliga il privato, mentre i collegi e i noviziati ponno possedere
onesta agiatezza. Legavansi ai voti solo a trent’anni, e dopo che
lungo e scabroso noviziato avesse prevenuto le incaute professioni
e i tardivi pentimenti. Non che isolarsi, vivono in mezzo alla
società, pur senza mescolarvisi; non hanno chiostri ma collegi ben
fabbricati; abito ecclesiastico, non monacale, e che possono mutare
con quello del paese ove dimorano; vita tutta diretta ad azioni reali,
efficienti, avendo per ogni condizione un posto, per ogni capacità una
destinazione. Ciascuna provincia aveva un luogotenente e gradazione
d’impieghi, dipendenti dal generale, che, a differenza degli altri
Ordini, era perpetuo, sedeva nella capitale del mondo cristiano, e
conoscendo ciascuno per le relazioni trasmessegli dai capi, sorvegliava
l’amministrazione de’ beni, disponeva dei talenti e delle volontà.
Acciocchè l’ubbidienza fosse più intera, non cercavano dignità, anzi
da principio asteneansi da qualunque impiego permanente. La Riforma
avea tolto a pretesto l’ignoranza e la corruttela del clero? ed essi
mostransi studiosi e d’una costumatezza che i maggiori avversarj
non poterono se non dire ipocrisia. Si sono paganizzati i costumi
e la disciplina? essi li emendano cogli spedienti migliori, cioè
l’esempio e l’educazione. L’alto insegnamento è negletto? essi se ne
impadroniscono. Vedono ottenere lode la poesia latina? essi formano
a quella gli scolari. Piaciono le rappresentazioni? ed essi ne danno
di sacre. È tacciata la venalità e l’ingordigia del clero? ed essi
insegnano gratuitamente, gratuitamente si prestano alla cura delle
anime, istituiscono scuole pei poveri, esercitano la predicazione,
e ne colgono mirabili frutti, sin a portare all’entusiasmo della
devozione. Non stitichezza nel confessare, non vulgarità nel predicare,
non eccessiva disciplina che maceri un corpo destinato a servigio del
prossimo; non istancar i giovani, nè prolungarne l’applicazione più che
due ore, e ricrearli in villeggiature ed esercizj ginnastici. Liberi
pensanti e scopritori di nuove verità, porgeansi officiosi, affabili,
l’un l’altro coadjuvanti, staccati da ogni personale interesse a segno,
che vennero imputati d’affievolire gli affetti domestici.

I letterati d’allora sono una voce sola a magnificarne le scuole; e per
tutto erano cerchi a maestri, a predicatori, e massime a confessori.
Al tempo che contro del papa s’elevano l’esame e la resistenza,
essi professano obbedire incondizionatamente ad ogni suo accenno; e
propugnarne l’autorità, non la temporale già crollante, ma quella che
poneva Roma a capo dell’incivilimento; combattere i Protestanti con
ogni modo, eccetto la violenza; avendo anzi impetrato il privilegio
d’assolvere gli eretici dalle pene temporali. Mentre poi i re ed i
mercanti mandavano nel Nuovo mondo a uccidere e conquistare, essi
vi corsero a convertire le Indie, il Giappone, la Cina, le Americhe.
Non v’è forte pensatore che i meriti de’ Gesuiti non confessasse; non
v’è ciarliero da caffè che non ne esagerasse le colpe, sicuro d’esser
creduto, come l’accertava due secoli fa il maggiore scettico[288], e
come ne diè prova fin il secolo della tolleranza, ricusandola solo
a costoro e a chi osasse non bestemmiarli. E per vero una società
che proponeasi per canoni il sentimento e l’esempio dell’unità, il
rassegnare la propria alla volontà superiore, la propria ragione
al decreto altrui, urtava talmente cogli istinti rigogliosi e
coll’irruente fiducia dell’uomo in se stesso, che non è meraviglia
se fu segno d’inestinguibile odio, e se ogni lampo di libertà portò
un fulmine sul loro capo. La podestà secolare poi armavasi allora
per reprimere lo spirito di rivolta, e Casa d’Austria, costituitasi
guardiana dell’ordine, spingeasi alle riazioni; onde i novatori
nell’avversione a questa confusero i Gesuiti, che ne pareano o
incitatori o stromenti. Ma la storia vive d’indipendenza e libertà;
se esecra i persecutori forti, peggio ancora i persecutori pusilli; e
pronta a lodare le virtù perchè non disposta a dissimulare i vizj, non
può contentarsi di beffe e leggerezze nel giudicare quest’associazione,
fusa e robusta come l’acciajo, in mezzo alle moltitudini che perdevano
ogni altra coesione fuorchè quella de’ governi; questa milizia
che mette brividi di paura perfin nel suo sepolcro, e che allora,
baldanzosa di gioventù e di sagrifizj, offrivasi ai pontefici per la
giornata campale.

Perocchè Roma era convenuta anch’essa sull’opportunità d’un concilio,
non più nella speranza che ravvivasse i rami disseccati, ma che con
nuovo succhio rinvigorisse il tronco indefettibile. Chi non ricorda le
assemblee o legislative o costituenti, volute dai popoli e promesse
dai principi nel 1848? Con altrettanta lealtà l’imperatore, il re di
Francia, gli ecclesiastici, Lutero aveano chiesto il concilio: altri il
tragiversavano col solito sotterfugio del chiedere troppo, pretendendo
che il papa vi comparisse non capo ma membro, e che anche i novatori
avessero voce deliberativa; lo che equivaleva a dare già per concesso
lo scisma. Paolo III, che da senno il voleva, e che all’uopo spedì in
Germania Ugo Rangone quantunque contrariato dalla lega Smalcaldica e
da mille ostacoli[289], intimò il concilio (1545) a Trento, sul limite
dell’Italia e della Germania. Inviando a presederlo come _angeli
della pace_ Gianmaria Ciocchi Dal Monte e Marcello Cervini, italiani
che divennero papi, e Reginaldo Polo inglese che ne fu ad un punto,
dichiarava scopo del concilio l’estirpazione delle eresie, l’emenda dei
costumi e della disciplina, e la concordia fra i principi cristiani.

Ma oltre avere i Protestanti ricusato intervenirvi, ogni passo era reso
scabroso da puntigli dei re cattolici e dei prelati delle nazioni: e la
prima adunanza (13 xbre), con venticinque vescovi, si logorò in dispute
sui convenevoli, sul cerimoniale, sulle forme, sul modo di votare,
perfin sul titolo del sinodo: perditempi che noi vedemmo rinnovarsi
pur jeri, e non da frati e cardinali. Sospese le tornate in pericolo di
peste, poi riassunte, quando Maurizio di Sassonia marciò sovra Trento
per sorprendere l’imperatore, i padri sgomentati si dissiparono.

Non vi si doveano mettere in dibattimento quistioni parziali come a
Costanza, bensì l’essenza stessa della Chiesa; e in tanto bollimento
degli spiriti quanto non era pericoloso il raccorlo, difficile
il tenerlo ne’ limiti! Nè il divisarne il procedimento appartiene
al nostro racconto, bastando toccare quei sommi capi che valsero
sull’avvenire.

Dopo settantacinque giorni di baruffe tra la fazione imperiale
e la francese, Gianmaria Ciocchi Dal Monte per via di promesse e
transazioni ottenne la tiara col nome di Giulio III (1550), e subito
dalla lodatissima operosità cascò nell’infingardaggine, e abbandonando
gli affari al cardinale Crescenzio, sciupava tempo e denari in una
deliziosa vigna fuor di Roma, divenuta proverbiale. Di titoli e beni
fece prodigalità ai parenti; diede Camerino in governo perpetuo a
Balduino suo fratello, al costui figlio Giambattista il titolo di
gonfaloniere della Chiesa, e Novara e Civita di Penna in signoria, e
«maggior grandezza in Roma che se fosse stato duca o signore naturale
e antiquato in qualsivoglia parte d’Italia» (SEGNI). Donn’Ersilia,
moglie di Giambattista, lussureggiava di tal fasto, che la duchessa
di Parma figlia dell’imperatore penava a ottenerne udienza. Ai nipoti
per sorelle diè stati e titoli di signori, ed ornolli di cardinalati,
di titoli di capitan generale, e li fece simili a veri signori, essi
di cui jeri s’ignorava la stirpe. A un pitocchetto raccolto e che lo
spassava giocolando con un bertuccione pose tal amore, che il fece
adottare da suo fratello, lo colmò di benefizj, e per quanto zotico
fosse, e i prelati vi repugnassero, lo ornò della porpora: ma il mal
allevato riuscì alla peggio, e finì per le prigioni.

Erano andamenti da togliere pretesti ai Riformati? anzi il costoro
apostolato si diffondeva anche in Italia. Ci fu veduto come qui prima
che altrove se ne svolgesse il seme, tra per senno di pensatori, tra
per arguzia di letterati. La estesa reputazione de’ nostri dotti fece
che i novatori forestieri ne bramassero l’adesione, e cercassero qui
divulgare le loro scritture, mentre la vivacità degli ingegni nostrali
inuzzoliva delle nuove predicazioni. Veramente nella libertà con cui
qui si disapprovava la romana curia, svampavano quelle stizze che
compresse invigoriscono, e la vicinanza facea che coi traviamenti delle
persone non si confondesse la santità delle istituzioni. Gl’Italiani,
la cui immaginazione non era inaridita dal raziocinio, mal poteano
gradire un culto senza bellezza, senza vita, senz’amore, che riprovava
le esteriorità, e sbandiva dal santuario le pompe tanto popolari, e
quella liturgia or festante e trionfale, or tenera e melanconica, grave
sempre e maestosa; quelle cerimonie derivate dalle idee più sublimi
unite ai simboli più graziosi, dai sentimenti più puri manifestati
colle forme più splendide e variate, e che nutrivano le arti, sì gran
parte della gloria nazionale. Sentivano poi come il papato conservasse
all’Italia l’importanza che sotto ogni altro conto smarriva, e vi
traesse denaro, persone, affari; tutti i principi e le case magnatizie
tenevano parenti nelle prelature e nel sacro collegio, i quali e
godevano pingui benefizj, ed esercitavano influenza: molti contavano
dei santi fra i loro antenati: i letterati chiamavansi riconoscenti
ai papi e ai cardinali, che gli aveano per secretarj o clienti:
insomma l’interesse che spingeva i forestieri, distoglieva i nostri
dal volere la Riforma; oltrechè li vegliava più dappresso l’autorità
ecclesiastica.

Lutero avrebbe avuto efficacia sopra le profonde convinzioni di Dante;
non sopra i contemporanei dell’Ariosto che di tutto ride, e ride dei
dogmi più che Lutero.

Ma se l’amore della novità non invase nè le plebi nè i principi, e
se quelli che si occupano di regolare la propria fede son pochissimi
a fronte di coloro che ne usano e ne vivono, erra chi crede la
Riforma non abbia qui avuto ed estensione e conseguenze civili e
politiche[290]. Alcuni nostri teneansi in corrispondenza coi dotti
tedeschi; e i cardinali Bembo e Sadoleto scriveano all’erudito
Melantone, il principale apostolo di Lutero. Gli studenti tedeschi
che qui venivano a raffinarsi, o i nostri che s’addottoravano nelle
Università tedesche, servivano di conduttori alle nuove dottrine.
Francesco Calvi da Menaggio (_Minicio_), librajo a Pavia, andò a
cercare dal Froben di Basilea le opere di Lutero, e le propalò in
Lombardia[291]: a Venezia si ristamparono la spiegazione del Pater di
Lutero anonima, i _Luoghi comuni_ di Melantone col titolo di _Principj
della teologia d’Ippofilo da Terranegra_, poi il catechismo di Calvino,
e il commentario di Bucer sui salmi col nome d’Arezio Felino, e le
opere di Zuinglio sotto quello di Corisio Pogelio; pseudonimie che
eludevano la superiore vigilanza.

Con apostolato diverso, la negazione era stata sparsa dai guerrieri,
qui scesi a straziarci; fra i quali il fanatico Giorgio Frundsberg,
inventore de’ lanzichenecchi (t. IX, p. 367), portava allato una
soga d’oro colla quale vantavasi volere strozzare in Clemente VII
l’ultimo dei papi. E poichè i partiti non sottigliano sulla moralità
dei mezzi purchè giungano al fine, vi fu chi esultò dello strazio che
que’ ribaldi recarono all’Italia e al papa; e un frate Egidio della
Porta comasco, il quale con Zuinglio divisava i modi di diffondere la
protesta evangelica di qua dall’Alpi, esclamava: — Dio ci vuol salvare;
scrivete al Borbone che liberi questi popoli; tolga il denaro alle
teste rase e lo faccia distribuire al popolo famabondo; poi ciascuno
predichi senza paura la parola del Signore; la forza dell’Anticristo è
prossima al fine»[292].

In quella corte di Ferrara, dove s’era veduta ogni bruttura, e dove il
duca Alfonso fece dipingere dal Lotti la sua Laura Dianti in figura
di Madonna col versetto _Fecit mihi magna qui potens est_, Renata
di Francia figlia di Luigi XII era venuta moglie d’Ercole figlio di
esso duca, che le regalò gioje per centomila zecchini. Aveva essa
imbevute le dottrine di Calvino, e la troviamo lodata come _santissima
anima_ dal Brucioli nella dedica della Bibbia, per gran religione
dal Betussi nella giunta alle _Donne illustri_ del Boccaccio, e da
Gianfrancesco Virginio bresciano nel dedicarle le sue _Lettere_, che
al Fontanini (rigoroso giudice) parvero seminate di frasi eterodosse,
e la _Parafrasi_ sulle epistole di san Paolo. Essa formò della Corte
ferrarese un focolajo di pratiche anticattoliche; vi imbandiva
grasso ne’ giorni di digiuno; vi ricoverò alcun tempo Calvino e
Marot, traduttore francese dei salmi, e quanti per religione fossero
spatriati; e istituì una piccola chiesa riformata.

Il marito, sollecitato dal padre Pelletario, per alcun tempo tenne essa
ed i suoi chiusi nel castello di Consandolo; ma e quivi e ad Argenta
essi diffusero le loro dottrine, sicchè il duca riferiva al re di
Francia i traviamenti della moglie, narrando come dovette interporre
prelati e ambasciatori perchè lasciasse far la pasqua alle proprie
figlie; onde esorta il re a vincere un’ostinazione, la quale non potrà
che recare disgustosissimi frutti[293]. In fatto, non venendone a capo,
la rimandò in Francia.

Colla Renata vivea Francesco Porto cretese, insegnatore di greco
nelle nostre città, poi ricoverato nel Friuli, in fine a Ginevra,
dove Teodoro Beza ne compose l’epitafio. Emanuele Tremelli ferrarese,
dal giudaismo convertito per cura del poeta Flaminio e del cardinal
Polo, ben presto in patria e a Lucca sorbì le opinioni protestanti,
e piuttosto che rinunziarvi, passò con Pietro Martire Vermiglio a
Strasburgo, poi in Inghilterra; insegnò ebraico a Eidelberga, a Metz, a
Sedan ove morì, lasciando varie opere e la versione latina della Bibbia
siriaca e quella del Testamento Vecchio sul testo ebraico.

Frà Bernardino Ochino da Siena godeva tal rinomanza d’eccellente
predicatore, che Carlo V diceva: — Farebbe piangere i sassi»; e il
Bembo: — E’ fa girar tutte le teste; uomini, donne, tutti ne van pazzi;
qual eloquenza, quale efficacia!» Dedito a quelle eccessive austerità,
che non di rado inducono soverchia fiducia in se stesso, dai libri
di Lutero imparò a cercare nella sacra scrittura ciò che alla sua
passione piacesse, e fin dal 1542 Gaetano Tiene gli fece interdire la
predicazione in Roma[294]. Presto gli fu ripermessa, ma forse perchè il
papa non gli concedette la porpora cominciò a insultarlo, poi temendolo
fuggì a Ginevra, e pubblicò molte opere, fra cui _Cento apologhi contro
gli abusi della sinagoga papale, de’ suoi preti, frati, ecc._

Filosofo e dialettico non vulgare, insegnava egli che non è possibile
giungere al vero colla ragione, ma è necessaria l’autorità divina; e
poichè la sacra scrittura non basta se un lume infallibile non ajuti a
interpretarla, e avendo ripudiata l’autorità della Chiesa, fu costretto
rifuggire nel misticismo e nell’immediata ispirazione[295]. Sarebbesi
rassegnato a credere a Calvino, egli che non avea consentito a credere
alla Chiesa universale? Fu dunque maledetto e perseguitato a Ginevra;
da Zurigo pure sbandito di settantasei anni con quattro figliuoli nel
cuor dell’inverno; nè raccolto a Basilea ed a Mülhausen, s’ascose in
Moravia, dove perduto due figli e una ragazza dalla peste, morì nel
1564.

Fu de’ più bei trionfi della Chiesa nel medioevo l’aver sostenuto
l’indissolubilità del matrimonio a fronte delle regie lubricità. Ma
già Lutero, per favorire il landgravio d’Assia, aveva approvato la
bigamia: ora l’Ochino nel XX de’ suoi _Trenta dialoghi_ sostenne che un
marito il quale abbia moglie sterile, malescia, insopportabile, deve
prima implorar da Dio la continenza; e se tal dono, chiesto con fede,
non possa ottenere, può senza peccato seguire l’istinto, che conoscerà
certamente provenir da Dio, e prendere una seconda moglie senza
sciogliersi dalla prima[296].

In quel centro di studj e di gioventù ch’era Bologna, seminò le
novità nel senso zuingliano Giovanni Mollio di Montalcino minorita;
e dalla corrispondenza de’ corifei forestieri appare che in molti
germogliarono, anzi un gentiluomo esibivasi pronto a levare seimila
soldati se si recasse guerra al papa[297]. Al Mollio teneva bordone
Pietro Martire Vermiglio fiorentino, predicatore dottissimo, il quale
potè stabilire una chiesa a Napoli, una a Lucca, una a Pisa[298],
finchè fuggì a Strasburgo, e vi ebbe moglie e la cattedra lasciate dal
famoso Capitone, e vien contato fra i loro ministri meglio versati
nelle sacre scritture. Seco erano vissuti Paolo Lazise veronese,
che a Strasburgo professò greco ed ebraico; Alessandro Citolini da
Céneda, autore d’un’_Arte di ricordare_, nella quale riduce sotto certe
categorie tutte le cose escogitabili[299]; Celso Martinengo bresciano;
Girolamo Zanchi bergamasco, professore di teologia a Strasburgo, dove
non essendovi chiesa italiana, i nostri si radunavano nella casa di
lui.

Di Firenze fuggirono Gianleone Nardi, che molto scrisse a difesa delle
eresie, e Michelangelo frate predicatore, che apostolò a Soglio ne’
Grigioni, e stampò un’_Apologia, nella quale si tratta della vera e
falsa Chiesa, dell’essere e qualità della messa, della vera presenza di
Cristo nel sacramento della Cena, del papato e primato di san Pietro,
de’ concilj e autorità loro ecc._ Fuori professarono pure e Alfonso
Corrado mantovano, autore d’un commento sull’Apocalisse, violentissimo
contro i pontefici, e Guglielmo Grattarola medico bergamasco, e
parecchi Napoletani[300]. Girolamo Massari vicentino, a Strasburgo
insegnò medicina, e descrisse un processo dell’Inquisizione[301].
Scipione Gentile da San Ginesio nella marca d’Ancona, autore di molte
opere legali e di annotazioni sopra il Tasso, morì professore di leggi
in Franconia il 1616.

Celio Secondo Curione valente grammatico da Chieri, studiando
giurisprudenza a Torino, prese contezza delle innovazioni, e
invogliatosene fuggì per la Germania con Giovanni Cornelio e Francesco
Guarini. Scoperto in val d’Aosta, dopo due mesi di fortezza fu
collocato in un monastero ad esservi istruito nella fede: ma egli a
reliquie di santi sostituì una Bibbia, poi sottrattosi, girò molte
città d’Italia; a Milano ebbe moglie e cattedra; sinchè udito che
di ventitre fratelli e sorelle suoi una sola era rimasta, ripatriò.
Quivi udendo un domenicano in pulpito confutar Lutero, gli gridò,
— Tu menti!» e cacciò a mano le opere di questo. Scontò l’ardire
in carcere a Torino; ma, benchè incatenato, riuscì a sottrarsene
tanto miracolosamente, che fu creduto opera di magia[302]. Per la
qual evasione «non feci voto (dic’egli) di visitare Compostella o
Gerusalemme, che sono idolatrie; nè di castità, perchè Dio solo può
darla, ma mi consacrai tutto a Gesù Cristo, unico liberator nostro».
Presto ebbe una cattedra a Pavia, e sebbene trapelasse come sentiva,
mai per tre anni non si potè arrestarlo, perchè gli studenti vegliavano
a sua tutela. Insistendo però il papa acciocchè il senato milanese
svellesse quella gramigna, egli si raccolse a Venezia, indi a Ferrara,
ove la duchessa gli diè lettere per le quali conseguì a Lucca una
cattedra. Ma domandandolo caldamente il papa, la republichetta il
consigliò di mutar aria; sicchè entrato negli Svizzeri, fu maestro a
Losanna, poi a Basilea, donde più non si scostò, per larghe offerte che
ricevesse. Una volta ardì tornare a Lucca per prendervi la moglie e i
figli; il bargello si presentò per coglierlo, ma egli con un coltello
da tavola alla mano si salvò. Molte opere di libertà protestante
lasciò, fra cui è una rarità il suo Pasquino in estasi (_Pasquilli
extatici de rebus partim superis, partim inter homines in christiana
religione passim hodie controversis cum Marphorio colloquium_). Anche
suo figlio Celio Orazio, professore di medicina a Pisa, latinizzò
alcuni sermoni dell’Ochino; e in quel senso pendettero pure Agostino e
l’Angelico, fratelli di quello.

Questa connivenza de’ Milanesi indica che fra loro non mancassero
fautori ai Riformati. Milanese era frà Giulio da San Terenzio,
che imprigionato a Venezia, potè fuggire oltremonti, e stampò
opere ereticali col nome di Girolamo Savonese[303]. Di un processo
contro sospetti luterani nel 1535 fa memoria il pizzicagnolo
Burigozzo, narrando che gl’imputati, fra cui un prete, furono in
duomo riconciliati dall’inquisitore e dall’arcivescovo dopo lettone
la condanna, obbligandoli per alcune domeniche a stare alla porta
maggiore vestiti di sacco, e con una disciplina battersi dal principio
della messa fin all’elevazione[304]. Nel 1556 Paolo IV lagnavasi col
vescovo di Modena si fossero a Milano scoperte conventicole di persone
ragguardevoli d’ambo i sessi, professanti gli errori di frà Battista
di Crema[305]. Da Milano era pur fuggito tra gli Svizzeri e i Grigioni
quell’Ortensio Landi (pag. 253), le cui opere furono dal concilio di
Trento messe fra le condannate in primo grado.

Il cardinale Sadoleto, persuaso che colla mansuetudine si potrebbero
ancora ricondurre gli erranti, pure dolevasi che il papa non
s’accorgesse della defezione degli spiriti e dell’indisposizione loro
contro l’autorità ecclesiastica[306]; e il cardinale Caraffa dichiarava
a Paolo III che l’eresia luterana aveva infetto l’Italia, e sedotto non
solo persone di Stato, ma molti del clero[307]. Più ancora esprimono le
baldanzose speranze d’alcuni apostati.

Troppo vicina di Ferrara era Modena «città piacevolissima d’aere,
d’acqua e di belle donne, ed ornata di bellissima gioventù, datasi
tutta agli studj delle muse»[308]. Della famiglia de’ Grillenzoni,
Giovanni era stato scolaro devotissimo del Pomponazzi, del quale
raccolse le lezioni: neppur omettendo gli scherzi di che talvolta le
condiva. Tornato in patria, imparò il greco da Marcantonio di Cretone,
pel quale fece istituirvi una cattedra; e in casa teneva una specie
d’accademia, ove ogni giorno davasi una lezione di latino, una di
greco, s’interpretavano autori, e massime Plinio, potendo ognuno recar
in mezzo il proprio parere. Vi s’aggiungeano banchetti letterarj, dati
per turno da ciascun accademico, con frugalità delicata; e ogni volta
si proponeva qualche esercizio d’ingegno, qualche epigramma o sonetto o
madrigale; vivande non doveansi domandare se non nella lingua prefissa
dal capo del convito, non ripeter le formole già usate da un altro,
citare tutti i proverbj relativi a un animale o a una pianta, o a un
tal santo o a una tal famiglia, ovvero recitare una novella.

Essendosi nel 1537 divulgato non so qual libro delle nuove opinioni,
quell’accademia tolse a difenderlo, onde venne in sospetto; poi
nel 1540 capitatovi l’erudito siciliano Paolo Ricci, che faceasi
chiamare Lisia Fileno, banditore di dogmi riprovati, con baldanza se
ne discuteva nelle piazze, nelle botteghe, da dotti e indotti, e fin
dalle donne, allegando testi e dottori che mai non aveano veduti.
Preso e menato a Ferrara, costui si ritrattò; ma gli effetti durarono,
ed apparivano specialmente nel cuculiare che faceasi i predicatori,
e sinistrarne i detti, tanto che più d’uno fu costretto scendere dal
pergamo, e il cardinal Morone colà vescovo scriveva: — L’altro jeri
un ministro dell’ordine ingenuamente mi disse che li suoi predicatori
non voleano più venire in questa città, per la persecuzione che gli
fanno questi dell’accademia, essendo per tutto divulgato questa città
esser luterana»[309]. Il cardinale Sadoleto a nome del papa ne mosse
querele con Lodovico Castelvetro, che n’era il migliore ornamento, e
fu mandato un formulario di fede che i sospetti sottoscrivessero, come
fecero alcuni, e fra gli altri il vescovo Egidio Foscarari, i cardinali
Sadoleto, Cortese, Morone ed esso Castelvetro[310], e poco poi avendovi
due Francescani predicato errori, furono puniti.

Il Castelvetro avea tradotto i _Luoghi comuni_ di Melantone, che
impressi in Venezia, furono bruciati dal carnefice. Essendosi poi
inviluppato nel turpe arruffio che dicemmo con Annibal Caro (pag.
162), fu imputato d’eresia, e affidatane l’indagine a Pellegrino
Erri, prelato modenese che avea tradotto i salmi dall’ebraico, e che
procedette con zelo rigoroso. Il Castelvetro fu citato a Roma con
Filippo Valentino, e suo fratello Paolo prevosto della cattedrale, e lo
stampatore Antonio Gadaldino: il prevosto fece pubblica ritrattazione;
il Gadaldino, che avea divulgato libri ereticali, fu sostenuto; Filippo
fuggì, e con lui il Castelvetro, che si ritirò a Chiavenna. Condannato
in contumacia con Gianmaria suo fratello, chiedeva perdono dal concilio
di Trento, ma il papa pretendeva si presentasse al Sant’Ufficio di
Roma, che aveva iniziata la procedura; onde vagò coi soliti guaj
degli esuli, finchè a Chiavenna ebbe dai Salis onorata sepoltura, con
un’iscrizione ove ancora si legge: _Dum patriam ob improborum hominum
sævitiam fugit, post decennalem peregrinationem tandem hic, in libero
solo liber moriens, libere quiescit._

Nel 1825, nel basso Modenese, in una casa già dei Castelvetro, si
trovarono murati da sessanta libri ereticali di prime edizioni, e
furono acquistati dalla biblioteca Estense: i molti manoscritti che gli
accompagnavano, lasciaronsi sciaguratamente disperdere.

Chiavenna, come la Valtellina, era allora suddita dei Grigioni, i quali
avendo adottato le dottrine zuingliane, nei loro paesi davano pace a
chi fuorusciva per religione. La Pregalia e l’Engadina, valli retiche
confinanti coll’Italia, aveano avuto predicazione e chiese da frati
apostati nostri.

A Chiavenna pure visse e morì Agostino Mainardi agostiniano, che
scrisse l’_Anatomia della messa e la soddisfazione di Cristo_.
Francesco Negri da Bassano agostiniano, legatosi con Zuinglio, lo
accompagna alla conferenza di Marburgo, alla dieta d’Augusta caldeggia
la libertà di coscienza, si asside a Chiavenna come maestro e pastore,
finisce cogli Antitrinitarj: nella sua _Tragedia del Libero Arbitrio_,
la Grazia giustificante tronca la testa al re Libero Arbitrio, e il
papa è riconosciuto per Anticristo[311]. A Chiavenna stessa fe lunga
dimora come pastore Girolamo Zanchi, canonico di Alzano bergamasco,
che convertito da Pietro Martire, a Ginevra stampò sei volumi d’opere
teologiche, onde salì in tal conto, che Sturmio diceva basterebbe egli
solo a tener testa a tutti i padri tridentini. Dolce e conciliante,
procurava ravvicinare i dissenzienti, ma le sue concessioni spiacevano
ai Luterani. Vedovo d’una figlia di Celio Orione, sposò Livia Lumaca,
ricca chiavennesca, e n’ebbe molti figliuoli: professò ad Eidelberga,
finchè il successore dell’elettore Federico III suo patrono escluse
quei che deviavano dal luteranismo, onde lo Zanchi andò a finire nel
Palatinato.

In Trento episcopava Bernardo di Clees nel 1535 quando le idee luterane
vi presero piede, non tanto per convinzione, quanto per odio de’
valligiani contro i signori. Il vescovo tentò calmare i capi, e non
riuscendo si ritirò a Riva, mentre gli abitanti della val Sugana e
della val di Non tentavano prender Trento per forza; ma prevalsero
le milizie del principe vescovo, il quale tornato ne fece appiccare
e decapitar molti e mutilare e tenere in carcere. Di là era Jacopo
Acconzio, giureconsulto rifuggito a Zurigo, poi a Strasburgo, e che
alla _divina_ Elisabetta d’Inghilterra, da cui ebbe ripetuti segni
di stima, dedicò i famosi suoi _Stratagemmi di Satana in fatto di
religione_ (Basilea 1565), tradotti in molte lingue, dove tende a
ridurre a pochissimi i dogmi essenziali del cristianesimo, affine
d’indurre a vicendevole tolleranza le sêtte. Ma la tolleranza era
ignota fin di nome, e tutte le parti lo disapprovavano, quasi menasse
all’indifferenza[312].

Compagno eragli stato Francesco Betti romano, segretario del marchese
di Pescara, che fuggito a Zurigo poi a Strasburgo, pubblicò una
_Lettera all’illustrissimo marchese di Pescara_, nella quale dà
conto della cagione che lo mosse a partirsi dal suo servigio e
uscire d’Italia; specie di disfida ai Cattolici. Vi rispose il Muzio
colla solita beffarda iracondia (pag. 362); molti si accinsero di
richiamarlo all’ovile; ma egli continuò in varie città, e nel 1587, già
vecchissimo, stampò a Basilea la traduzione di Galeno.

Pier Paolo Vergerio di Capodistria, nominato vescovo di Madrusch
ancora laico, il giorno stesso ricevette tutti gli ordini e l’unzione
episcopale da suo fratello Giambattista vescovo di Pola. Spedito
nunzio papale in Germania, si lusingò di convertire Lutero, ma parve
invece se ne lasciasse pervertire. Reduce, e non compensato quanto
sperava, ritirossi vescovo in patria, dove cominciò a introdurre
novità, dalle chiese tor via certe immagini e le tavolette de’
miracoli, negare il patronato speciale de’ santi su certe malattie,
ed altri partiti che seppero d’empietà ai timorati, e singolarmente
al Muzio e a monsignor Della Casa suoi violenti detrattori. Il quale
monsignore si mostrò in fatto zelantissimo, non tanto per la santa
Sede, diceva egli stesso, quanto per servire all’illustrissimo sangue
della casa Farnese; e al famoso Pierluigi, da Venezia ove stava nunzio
pontificio nel 1544, scriveva[313]: — Avendo io fatto mettere prigione
un Francesco Strozzi, eretico marcio, il quale si tiene traducesse
in vulgare il _Pasquillo in estasi_, libro di pessima condizione e
pestifero, essendosegli trovato addosso, quando fu preso, un epitafio
mordacissimo e crudelissimo fatto da lui contro la persona di nostro
Signore, ed avendo sua santità a Roma con l’oratore di questi signori
fatto ogni istanza necessaria, ed io qui non mancato di tutte le
diligenze possibili per poter mandare il detto Francesco a Roma, il
quale è prete ed è stato frate dodici anni, non si è potuto avere, e
finalmente il serenissimo mi ha dato precisa negativa, fondandosi sopra
la conservazione della giurisdizione, e mostrando quanto ciascuno Stato
deva sforzarsi di mantenerla».

Il Casa instruì il processo del Vergerio, e mentre il papa insisteva
per averlo sott’occhio, egli esortava il cardinale Farnese ad
impedirlo, perchè «in questo processo è una parte che contiene
maldicenza, e spezialmente un particolare di quella calunnia che
fu data al duca di Castro sopra il vescovo di Fano; per la quale
particolarità, quand’io mandai a vostra signoria reverenda il detto
processo, ne levai la parte della maldicenza, acciocchè nostro Signore
non avesse a sentire questa calunnia, se forse non l’ha sentita fin
qui»[314].

A questo modo s’ingannano i grandi! Intanto il Vergerio continuava con
tale impudenza, che dal dotto Egnazio, presso cui ospitava, fu mandato
via di casa: mostrava credere che suo fratello vescovo fosse stato
avvelenato perchè apostato, poi d’essere in pericolo egli medesimo,
tanto più dacchè venne inquisitore il suo compatrioto e nemico Annibale
Grisoni. Presentatosi al concilio di Trento, per la cui convocazione
egli si era tanto adoperato, non ne ottenne udienza, onde ricoverò
in Valtellina, e il dispetto o il bisogno lo trasformò in caloroso
novatore. A Poschiavo stampò il _Libro ai principi d’Italia_, ricco
di particolarità storiche; trattò _delle superstizioni d’Italia e
dell’ignoranza de’ sacerdoti_; girò la Germania, «invece di tesori
mondani» portando molti scritti de’ novatori[315], e piacendo «per una
certa sua eloquenza popolare e audacemente maledica» (PALLAVICINO);
lanciava dardi infocati contro di Paolo III, dei prelati e del
concilio, e principalmente di monsignor Della Casa, il quale poi
vecchio e scaduto di speranze, ritirossi a Narvesa componendovi sonetti
pieni di disinganno, e diceva di sè: _Puer peccavi, accusant senem._

Il Vergerio alla Riforma acquistò credito e proseliti coll’autorità
di vescovo e lo zelo di apostolo; favorì assai tra i Grigioni gli
arrolamenti per Francesco I; ma perduta l’alta sua posizione nel clero
nostro, neppure acquistò la fiducia de’ Protestanti, perchè, libero
pensatore, non aderiva a Lutero più che a Zuinglio, sicchè dovette
andar a morire a Tubinga (1565), dove qualche zelante disperse le sue
ceneri.

Con lui stette in corrispondenza il militare Orazio Brunetti di Porcìa,
le cui lettere (Venezia 1548) abbondano in senso protestante; in
molti opuscoli italiani, nè pregevoli per scienza nè belli di forma,
non mostra lealtà o convinzione, combattendo il cattolicismo collo
svisarlo.

Simone Simonio lucchese, perchè dal niente non si fa niente,
sosteneva che il Verbo era fatto, e vantava d’aver sillogismi che
imbarazzerebbero san Paolo, e si dicea credesse nel cielo padre,
nella terra madre, e nella forma, cioè nel senso e intelligenza del
cielo. Buttatosi or con Calvino, or con Lutero, or cogli Unitarj,
imprigionato a Ginevra, esulante per Germania e Polonia finchè
visse, è dopo Melantone contato fra i restauratori della scienza dei
Protestanti[316], mentre altri lo svillaneggiavano; nemici cui allude
nel libro intitolato _Scope con le quali si scopano gli escrementi
delle calunnie, delle bugie, degli errori_.

Alessandro Citolini di Serravalle nel Trevisano rifuggì a Strasburgo,
poi in Inghilterra, ed è grandemente lodato da Sturm; ma la sua
_Tipocosmia_, imitazione del _Camillo_, è una confusione inestricabile.

E molti potremmo indicare, che dalle ricerche scientifiche erano
tratti nell’errore. Paolo Mattia Doria napoletano, autore della _Vita
civile_, avea preparato l’_Idea d’una perfetta repubblica_, ma ne fu
sospesa la stampa, e come lorda di immoralità e panteismo fu arsa. Il
Panizzi, nell’edizione inglese dell’_Orlando innamorato_, ripubblicò
un opuscolo del vescovo Vergerio (Basilea 1554), dov’è asserito che il
Berni al burlesco poema intarsiasse dottrine anticattoliche, espunte
dopo morto l’autore, e allega diciotto stanze, prologo al XX canto,
donde l’editore conchiude che tali opinioni fossero comuni nella
classe educata d’Italia, quanto oggi le liberali. Prova incerta, ma non
nuova; chè già altri vollero noverare tra i Riformatori il Manzolli pel
_Zodiacus vitæ_, astiosissimo contro il clero, l’Alamanni, il Trissino,
altri ed altri, mal comparando chi riprova gli abusi con chi proclama
la ragione individuale per unica interprete del codice sacro[317]. Fra
essi è Vittoria Colonna, le cui poesie spirituali rivelano una profonda
religione, qual doveva penetrare le anime virtuose, sofferenti dei
mali della patria, che attribuivansi alla depravazione de’ costumi, e
alla negligenza e peggio de’ prelati. Massime chi era contemplativo
più che indagatore doveva restar commosso dai dubbj allora gettati
nell’intelligenza della fede, onde furono confusi coi Riformati persone
di gran pietà, che colla loro stessa austerità, col congregarsi a
ragionar di Dio, coll’occuparsi delle indagini teologiche protestavano
contro l’indifferenza dei più. E molti infatto della predicazione
luterana non vedeano che il lato morale; una pietà forse inconsiderata,
ma invaghita d’una purezza che deploravano perduta nella Chiesa;
un compiangere le persecuzioni fatte all’Ochino o a Pietro Martire,
mentre si tolleravano l’Aretino e il Franco; una profonda fiducia nei
meriti di Gesù Cristo, senza accettare l’autorità e i sacramenti da lui
istituiti.

Così di Marcantonio Flaminio, elegante latinista che ridusse i salmi
in odi, messe all’Indice, si dà per segno di apostasia l’ardor suo per
Cristo, le lettere _piene di pietà_, e il raccontare egli stesso come,
essendo malato, per le preghiere del Caraffa risanò[318]. Lo storico
Pallavicino, sebbene appunti il Flaminio di «covare nella mente tali
dottrine, per non dover combattere le quali ricusò d’andare secretario
del concilio di Trento», soggiunge che, in fine degli anni suoi, la
salutevole conversazione del cardinal Polo il facesse ravvedere, e
scrivere e morire cattolicamente.

La libertà del Trissino (t. IX, p. 316) prova quanto fossero tollerate
le declamazioni contro di abusi, che si confessavano anche quando
non si pensava a correggerli. I nostri godeano udirle ripetere dai
Protestanti, e di poter esclamare, — Anch’io l’avea detto e prima
di loro»: chi vagheggiasse fama di franco pensatore assentiva alla
disapprovazione delle cose antiche, a quegli epigrammi, o raziocinj
poco migliori d’epigrammi, che vengono facilissimi a chi è mal
informato della soggetta materia.

Come oggi il liberalismo politico professa di volere la libertà, nel
mentre i conservatori pretendono combatterlo in nome anch’essi della
libertà, così era allora del religioso: sparlavasi della Corte romana,
senza per questo volerla disfare; chi gridava ad una riforma del
clero, chi al depuramento del culto; alcuni o a voce o per iscritto
emettevano errori di cui aveva colpa l’intelletto non la volontà, più
scusabili quando i dogmi non erano stati nè così ben definiti, nè così
popolarmente espressi come dopo il concilio di Trento. E molti potevano
lealmente credere che la critica non farebbe che appurar la Chiesa e
consolidare il dogma; non essendosi ancora veduto succedersi dottrine
tutte cangianti, tutte discutibili in modo, che gli spiriti non si
inebbrierebbero più che del dubbio. E in generale si sapeva, o almeno
si sentiva che riformare non è distruggere; che le riforme opportune
e durevoli denno venir dall’amore non dalla collera, dall’autorità che
dirige, non dalla violenza che scompiglia.

Ma già appariva la moltiforme natura della Riforma; in Germania
assodatrice del principato, in Francia faziosa, in Inghilterra
dispotica e persecutrice, in Iscozia fanaticamente esagerata, regia
nella Scandinavia, repubblicana in Isvizzera, deleterica in Polonia.
A noi proveniva o da Germania o da Ginevra: i pensatori propendevano
piuttosto a Zuinglio che a Lutero, perchè quegli avea scritto in
latino, e più serio e più logico. Ma presto anche di qua dell’Alpi si
comunicarono i litigi che di là si dibattevano intorno alla presenza
reale; e Lutero, interrogatone dai novatori del Veneto, anatemizzava
Zuinglio ed Ecolampadio «dottori contagiosi, falsi profeti».

Eppure i dissensi non doveano qui limitarsi; e i nostri, non solo
contribuirono a distendere altrove la Riforma, ma ne dedussero
più rigorose conseguenze. Lutero aveva mantenuto molti dogmi, e la
gerarchia, e il canone dell’autorità, rendendola però servile al potere
temporale che solo, rinnegata la scomunica, potea mantenere colla
spada quell’unità di fede che appunto erasi spezzata; onde non fece che
diroccare l’ecclesiastica disciplina, a segno che più volte si sperò
una riconciliazione. Calvino dall’inerte uffizialità del luteranismo
avventossi alla critica, negando addirittura la Chiesa nel senso
mistico, e facendola sparire in faccia all’individuo, sicchè restava
interposto un abisso: eppure nelle vertigini della ragione egli non si
spinse fino all’estremo. Furono Italiani che senza ritegno compirono la
doppia dissoluzione della disciplina e della gerarchia, unendovi quella
delle fondamentali verità; e in nome dell’irrefrenata autorità della
ragione intaccarono l’idea stessa, l’ontologia cristiana. Non gente di
stola e di tonaca, ma giureconsulti e medici, ammessa unicamente la
Bibbia, e in questa non trovando espresso il dogma della Trinità, lo
impugnarono, come gli antichi Ariani, negando la divinità di Cristo,
la consustanzialità del Verbo, ed altre che diceano introduzioni de’
sofisti greci.

Forse ne dubitavano l’Ochino ed altri Riformati, e probabilmente
l’Accademia di Vicenza; ma risoluti antitrinitarj si dichiararono
i figli del medico Matteo Gentile, che per seguire la Riforma era
spatriato. Alberico professò giurisprudenza a Oxford sinchè morì del
1611. Scipione insegnò ad Eidelberga e altrove, latinizzò i due primi
canti della _Gerusalemme liberata_ appena usciti. Giovanni Valentino
di Cosenza professò a Ginevra, in Francia, in Polonia; esigliato dalla
Svizzera, perchè ruppe il bando, fu decapitato a Berna. Gianpaolo
Alciato milanese, che morì a Danzica, da Austerlitz scrisse due lettere
(1564-65) a Gregorio Paoli, in sostegno della dottrina unitaria, per
le quali dal Beza era detto «uom delirante e vertiginoso», da Calvino
«ingegno non solo stolido e pazzo, ma affatto frenetico sin alla
rabbia»[319]. Aggiungi l’abate Leonardo, Nicolò Paruta, Giulio da
Treviso, Francesco da Rovigo, Giacomo da Chiari, Francesco Negri, Dario
Socino.

Matteo Gribaldi detto Moffa, legista chierese, che professava a Padova
collo stipendio fin di mille fiorini, e vi acquistò tal fama che la
sala non bastava agli ascoltatori, ne fuggì perchè sospettato d’eresia
in grazia di un libro stampato a Basilea nel 1550, ove descriveva la
morte di Francesco Spiera, accompagnata, dicevano i Protestanti, da
orribile disperazione per avere disertato dalle loro opinioni. Calvino
temendolo infetto dell’eresia unitaria, per la quale egli allora faceva
processare Serveto, nol volle ricevere. Bruciato poi questo, l’invitò
a una conferenza, ed esso vi si condusse; e perchè l’intollerante
eresiarca negò stendergli la mano, e voleva costringerlo a una
professione di fede, egli credette più sicuro passare a Tubinga, indi a
Berna; ma quivi pure perseguito come antitrinitario da Calvino, benchè
si ritrattasse, dovè partirne, nè sembra vero che prima di morire
(1564) tornasse cattolico[320].

Suo discepolo era Giulio Pacio cavaliere vicentino, fuggito ad altri
compatrioti in Ginevra, v’ebbe una cattedra di legge; ed era disputato
dalle Università di Francia e di Germania per opere di diritto e di
filosofia, ora affatto dimenticate. A Montpellier ebbe scolaro il
famoso Peiresc, il quale faticò per tornarlo cattolico, ottenendogli
qualche cattedra ben provveduta, e dopo molti anni abjurò in fatto; a
Padova insegnò diritto civile, poi finì a Valenza.

Lelio Socino (-1562), discendente da illustri giureconsulti, da Siena
passato in Isvizzera e in Germania, si amicò i principali Riformati
e Melantone; disgustato dell’intolleranza di Calvino[321], andò in
Polonia, professando apertamente le credenze antitrinitarie, alle
quali convertì Francesco Lismanin di Corfù, priore de’ Francescani
e confessore della regina Bona Sforza. Accolto a gara dai signori
polacchi e dal re Sigismondo, morì a Zurigo (-1604). Fausto Socino,
nipote e allievo di lui, bello scrittore, facile parlatore, gentile di
modi, occupato dodici anni presso la corte di Firenze, quando i suoi
parenti furono perseguitati si mutò a Basilea, studiando teologia; e
pubblicò opere anonime. Per una disputa con Francesco Pucci, avendo
dovuto partirsene, fu chiamato in Transilvania e Polonia, ed ereditati
gli scritti dello zio, ne trasse fuori un nuovo simbolo che differiva
in punti essenziali dagli Unitarj polacchi. Secondo lui, bene aveano
meritato Lutero e Calvino, ma non abbastanza, giacchè era mestieri
sbrattar la fede da ogni dogma che trascenda la ragione. La Bibbia
è d’origine divina, e voglionsi prendere in senso letterale i passi
che si riferiscono a Cristo; il quale a Dio, unico d’essenza come di
persone, è inferiore soltanto nella maestà e potenza, ch’esso acquistò
colla morte, coll’obbedienza e colla risurrezione. L’uomo fu mortale
prima della caduta; altrimenti Cristo abolendo il peccato, l’avrebbe
sottratto alla morte; nè si trasmette colpa originale. L’uomo è
libero nel proprio arbitrio; l’onniscienza divina non abbraccia le
azioni umane; e la dottrina del predestino sovverte ogni fede. Alla
giustificazione sono necessarie le opere buone: Cristo non soddisfece
pei peccati degli uomini, poichè Dio gli avea perdonati anche prima di
lui: il battesimo d’acqua è meramente atto allusivo all’iniziazione.

Socino fu dunque il vero grande eresiarca, poichè non accettò limiti
nel proclamare i diritti della ragione: se Lutero e gli altri avevano
secolarizzato la religione, egli secolarizzò Dio, e togliendo il
soprasensibile, fu il padre del razionalismo, che è l’eresia dei tempi
nostri.

Gravi contraddizioni gli suscitarono queste dottrine, e perseguitato
e povero dovette vivere della generosità de’ suoi adepti; i quali
crebbero tanto, che le differentissime sêtte di Unitarj si ridussero a
quest’una, detta de’ Sociniani. Ma i suoi avversarj eccitarono contro
di esso il popolo di Varsavia, che lo strascinò per le vie; a gran
fatica salvato, ritirossi in un oscuro villaggio, e alla sua morte gli
fu posto quest’epitafio:

    _Tota licet Babylon destruxit tecta Lutherus,_
    _Calvinus muros, sed fundamenta Socinus_[322].

Giorgio Biandrata saluzzese (-1585), dottore nell’Università di
Montpellier poi di Pavia, scrisse intorno all’ostetricia e alle
malattie muliebri il meglio che fin allora si fosse fatto, e senza
conoscere nè il commento del Berengario nè le opere del Pareo.
Chiesto a curare Giovanni Zapoly vaivoda della Transilvania, lo
portò al grado di prendere moglie Isabella, figlia di Bona Sforza
regina di Polonia, alla quale e al bambino, nato poco prima della
morte del padre, prestò utilissimi servigi. Non è da annoverare fra
i perseguitati di Vicenza[323], perocchè nel 1552 lo troviamo reduce
in quiete a Mestre; di là pare fuggisse a Ginevra, dove udì Calvino,
ma datosi agli Antitrinitarj, fu dal Vermiglio chiamato a Zurigo,
poi capo d’una chiesa istituita da Olesnieski signor di Pinczowia; e
quando Sigismondo Augusto di Polonia aperse questo regno agli eretici,
Giorgio si trasferì a Cracovia, assistette a due concilj, collaborò
alla traduzione polacca della Bibbia sotto la protezione di Nicola
Radzivil, e sostenne calorose dispute[324], tenuto come colonna dagli
Antitrinitarj, e da quel re fatto archiatro e consigliere intimo.
Pure non si staccava affatto dai Cattolici, tornò talvolta alla Corte
polacca, che l’adoprò in importanti nunziature: onde Fausto Socino lo
mise in sospetto al vaivoda, poi inveì contro di esso, e sparse fosse
ucciso dal nipote Bernardino.

In Polonia predicò pure Francesco Stancari mantovano (-1574), che
insegnando ebraico in un’accademia eretta a Spilimbergo da Bernardino
Partenio, manifestò idee eterodosse, onde dovette fuggire, e da
Basilea diresse ai magistrati veneti un trattato _della Riformagione_.
Il concilio di Ginevra preseduto da Calvino lo scomunicò, perchè
professava che Gesù Cristo fu mediatore presso l’eterno Padre come uomo
non come Dio; e dappertutto venne contrariato per dottrine esorbitanti.
A Cracovia seppe dissimularle; ma quando il vescovo insospettito
il fece arrestare, i signori ne ottennero la liberazione; ond’egli
incoraggiato propose si abbattessero le immagini e tutto l’antico
culto, e diede un codice in cinquanta regole per le nuove chiese.
Nell’opera _contro i ministri di Ginevra e di Zurigo_ (Cracovia 1562)
scrive che «il solo Pietro Lombardo val meglio che cento Luteri,
ducento Melantoni, trecento Bullinger, quattrocento Pietro Martiri e
cinquecento Calvini; dei quali tutti, se si pestassero in un mortajo
non si strizzerebbe un’oncia di vera teologia».

Francesco Pucci fiorentino, stando a Lione per commercio e frequentando
i letterati contrasse le opinioni protestanti, e lasciati i traffici,
si pose alla teologia in Oxford, dove fu dottorato il 1574. Nel
trattato _De fide in Deum quæ et qualis_, combattè i Calvinisti che
prevaleano su quell’Università; onde perseguitato, ricoverò a Basilea,
e legato d’amicizia e di credenze con Fausto Socino, pubblicò una
tesi che tutto il genere umano fin dall’utero materno è efficacemente
partecipe dei benefizj di Cristo e della beata immortalità. Per essa
dovette andarsene anche da Basilea; nè maggior tolleranza trovò
a Londra, ove anzi fu messo prigione; nè in Olanda, ove con molti
disputò. A Cracovia due alchimisti inglesi lo persuasero che poteano,
mediante il commercio con certi spiriti, scoprir cose ignote al
resto degli uomini; ed egli vi credette, e cercò persuaderne altri.
Disingannatone, si ravvide anche de’ suoi errori, in man del vescovo
di Piacenza nunzio a Praga si ritrattò, e ordinato prete, servì come
secretario al cardinale Pompeo d’Aragona[325].

Da qui siete chiari come la Riforma straziasse se stessa; e qualvolta
il senno individuale sottentri al comune, è egli possibile trovar un
punto d’accordo, cui si pieghi l’orgoglio della libera interpretazione?
Intolleranti come quelli da cui s’erano staccati, e senza avere
come questi l’appoggio dell’autorità divina, ognuno presumeva con
eguali titoli essere al possesso della verità, sicchè condannava il
dissenziente; i sinodi scomunicavano l’un l’altro; l’un predicante
cacciava l’altro; il Bullinger, pastore supremo a Zurigo, querelevasi
altamente dei tanti Italiani rifuggiti in quella città; Comander li
chiamava accattabrighe, insofferenti d’istruzione altrui, della propria
opinione tenacissimi[326].

Risentiva dunque tutta la società le scosse della Riforma, la quale
era giunta alle estreme sue conseguenze, cioè fino a rinnegare
Cristo, e surrogare al deismo epicureo il deismo razionale; onde i
Cattolici aveano bene di che sgomentarsi, e voler riparare con una
riforma cattolica. Di questa fu zelantissimo Paolo IV, succeduto
(1555) al brevissimo papato del sant’uomo Marcello II. Avea istituito
i Teatini, detti così dal vescovado cui egli rinunziò per entrarvi;
e avendo a Trento costantemente propugnato la parte più rigorosa, nè
mai usato condiscendenza a verun cardinale, si meravigliò al vedersi
eletto. Se appuntammo il suo sparnazzarsi in una politica secolaresca,
lodiamolo d’aver piantato la politica pratica fondata sui diplomi, e
che perciò fu poi detta diplomatica: poichè il cardinale Vitellozzo
Vitelli avendone raccolto un gran numero, principalmente concernenti
la famiglia Caraffa, chiarì di quant’uso potessero essere, incoraggiò
le grandi famiglie a fare altrettanto, e il papa secondò le ricerche.
Questo gloriavasi di non aver trapassato un giorno senza fare un ordine
per emendazione della Chiesa; onde ben gli si appropriò una medaglia,
portante Cristo che caccia dal tempio i profanatori.

La dominazione spirituale ben s’impianta sopra il volontario consenso
degli intelletti; e quando ricorre deliberatamente alla forza
materiale, palesa un indebolimento già sentito. Nessuno negherà nè
che la Chiesa abbia diritto di eliminare e punire chi la contamina,
nè che nell’applicazione siasi ecceduto: ma la storia contemporanea
non ci spiega abbastanza questi trascorsi, comuni a tutte le nazioni?
L’inquisizione come tribunale, ignota ai primi secoli quando pena era
la scomunica, cioè l’escludere dalla comunione delle preghiere e de’
sacramenti, fu introdotta in Linguadoca come spediente politico per
assodare nella Francia quella nazionalità che altre genti vagheggiano
a qualsiasi costo: negli altri paesi, in mancanza d’eretici, vegliava
sui costumi e sulla disciplina, puniva le bestemmie anche dette per
ira o malvezzo, la bigamia, le superstizioni, lo sparlar del clero.
In Ispagna diretta pure in senso della nazionalità, cioè a svellere
ogni residuo della dominazione straniera, trascese, come avviene delle
nazionali vendette; e quando essa perseguitava i Musulmani, migliaja
di famiglie arrivarono a Genova e in altri porti d’Italia in tale
sfinimento, che molti soccombettero alla fame e al freddo, costretti
sin a vendere i figli per pagare il naulo; e diffusero qui il morbo
marano.

Sisto IV, deplorabile pontefice, sin dal primo momento che re
Ferdinando la introdusse, ne mostrò tal disgusto, che d’ambe le parti
si arrestarono gli ambasciatori, e il Cattolico richiamò i suoi
sudditi. Sisto da poi cedette, e confermolla nel 1478; ma udendo
lamenti sulla durezza de’ primi inquisitori, dichiarò surrettizia
quella bolla, ammonì essi inquisitori, e determinò non procedessero
che d’accordo coi vescovi, nè si estendesse il Sant’Uffizio alle altre
provincie; poi destinò un giudice d’appello papale, a cui potessero
gravarsi i maltrattati; molte sentenze cassò e addolcì; e per quanto
i Cattolici e Carlo V procurassero eludere quest’intervenzione
della santa Sede, è memoria di condannati a cui quei giudici fecero
restituire o i beni o l’onore civile, almeno i figli cercarono salvarne
dall’infamia e dalla confisca, e spesso imposero agli inquisitori
d’assolverli in segreto, per sottrarli alle pene legali e alla pubblica
ignominia. In tali arti perseverarono Giulio II e Leone X, e quali
dispensarono dal portare il sanbenito, cioè il sacco di penitente,
a quali tolsero d’in sulla tomba i segni di riprovazione: Leone
scomunicò l’inquisitore di Toledo nel 1519, ad onta di Carlo V; ed
essendo condannato il Vives come sospetto di luteranismo, Paolo III lo
disse innocente, e lo pose vescovo delle Canarie: il famoso latinista
Marcantonio Mureto, chiesto in patria al rogo come eretico, fu accolto
in Roma ad insegnare all’ombra papale: Leone proferì reo di morte
chi falso testimoniasse davanti al Sant’Uffizio, e voleva riformare
radicalmente l’Inquisizione di Spagna, legandola ai vescovi; ma Carlo V
ne lo stornò col solito spauracchio di Lutero[327].

Fin dal suo tempo il Segni accorgevasi che l’Inquisizione spagnuola
«fu istituita per tôrre ai ricchi gli averi e ai potenti la stima.
Piantossi dunque sull’onnipotenza del re, e fa tutto a profitto della
potestà regia, a scapito della spirituale. Nella prima sua idea e nel
suo scopo è un’istituzione politica: è interesse del papa mettervi
ostacoli, come fa tutte le volte che può: ma l’interesse del re è di
mantenerla in continuo progresso». E che sia vero, il re di Spagna
nominava il grande inquisitore, approvava gli assessori, fra cui
due dovevano essere del consiglio supremo di Castiglia; il tribunale
dipendeva dal re, così padrone della vita e della roba de’ sudditi, e
che della cassa dell’Inquisizione faceva un fondo di riserva proprio,
a segno che più volte agl’inquisitori non restava tampoco abbastanza
per le spese; i grandi e il clero n’erano colpiti egualmente, senza
privilegio o eccezione; laonde, mentre esprimeva lo sforzo nazionale
contro i Maomettani e gli Ebrei, era pure un artifizio regio per
assoggettarsi la Chiesa e la nobiltà.

Ogni autorità minacciata suol esacerbare i rigori, e colla necessità
della difesa giustificare la persecuzione: e quel tribunale fu
esteso come una legge marziale contro l’irrompere di eresie, che dove
prevalsero, cagionarono ben maggior effusione di sangue, che non tutti
i roghi del Sant’Uffizio.

Prevalse poi le idee di tolleranza, vengono obbrobriati coloro che
propongono spiegazione, non giustificazione alle vecchie persecuzioni,
mentre pajono eroi coloro che declamano senza lealtà contro istituzioni
di cui più non si ha a temere, o echeggiano senza critica coloro
che a carico della religione posero e quei rigori e quegli _atti di
fede_[328].

Fatto è che allora, in nome della religione della misericordia, si
rinnovavano gli orrori dell’imperio romano, e al gentilesimo delle
voluttà e dell’ingegno credeasi riparare con quello dell’oppressione
e de’ supplizj, togliendosi e la sicurezza del vivere e la franchezza
del pensare[329]. Paolo IV dando all’Inquisizione un’insolita vigoria,
non la volle più dipendente da ciascun vescovo, ma dalla congregazione
del Sant’Uffizio, autorizzata a giudicare delle eresie di qua e di là
dall’Alpi; laonde pose in ogni città «valenti e zelanti inquisitori,
servendosi anche di secolari zelanti e dotti, per ajuto della fede,
come verbigrazia dell’Odescalco in Como, del conte Albano in Bergamo,
del Muzio in Milano. Questa risoluzione di servirsi di secolari fu
presa perchè non solo moltissimi vescovi, vicarj, frati e preti, ma
ancora molti dell’istessa Inquisizione erano eretici»[330]. Singolare
confessione!

Allora si estesero le procedure del Sant’Uffizio, il quale doveva
inquisire gli eretici o sospetti d’eresia, i fautori loro, i maghi,
malefici e incantatori, i bestemmiatori, quelli che si oppongono al
Sant’Uffizio ed a’ suoi uffiziali. Sospetto d’eresia è chi lascia
sfuggirsi proposizioni che offendono gli ascoltanti o fanno atti
eretici, come abusare de’ sacramenti, battezzare cose inanimate, quali
sarebbero calamita, cartavergine, fave, candele; percuotono immagini
sacre, tengono, scrivono o leggono libri proibiti; si allontanano dal
vivere cattolico col non confessarsi, mangiar cibi vietati, e simili.

Le procedure sue, che tanto ci destano orrore, non erano che le
consuete; e basti in prova l’essere pubblicamente stampati i suoi
codici, secondo i quali, al reo è dato un procuratore, persona
intelligente e di buon zelo, col quale egli possa comunicare e che
ne faccia le difese; di tutti gli atti e le deposizioni si tenga
protocollo; «i vicarj saranno avvertiti di non permettere che i notari
diano copia degli atti del Sant’Uffizio, per qualsivoglia causa,
salvo al reo, e solamente quando pende il processo; senza il nome de’
testimonj, e senza quelle particolarità per le quali il reo potesse
venir in cognizione della persona testificante»[331].

I principi, accortisi che al religioso teneano dietro cambiamenti
politici, fecero causa comune con quella Roma di cui aveano avuto
gelosia, e per tutto fu invigorita l’Inquisizione, repudiando la
connivenza tanto consueta in Italia; con privilegi e indulti si
allettavano fraternite d’uomini e donne a servire di famigli al
Sant’Uffizio, che non solo investigava l’eretica pravità, ma la
negligenza delle pratiche religiose, fiutava le cucine al venerdì,
sofisticava qualche parola sfuggita ai professori, insomma avviava
alla polizia odierna; superiore a questa solo in quanto supponeva
andarne di mezzo, non l’interesse momentaneo d’un principe, ma la
salute delle anime. La tolleranza, virtù eminentemente civile, che
nell’uomo di credenza diversa non ci lascia considerare se non il
fratello e il concittadino e a Dio riserva il giudizio della coscienza,
chi conoscevala in quell’età? Lutero invocava le spade regie contro
i dissidenti, mentr’esso li perseguitava colle imprecazioni; e tutti
potemmo vedere a Dresda la mannaja che i Luterani adopravano contro gli
avversarj, dov’è scritto: _Hüt dich Calvinist_: Calvino facea bruciare
Serveto: Enrico VIII ed Elisabetta scriveano col sangue de’ Cattolici
tiranniche leggi, come Maria e Filippo II con quello degli Eretici:
Ferdinando d’Austria colle stragi d’Ungheresi e Boemi dissidenti
vendicava stragi precedenti di costoro: insomma inviperiva una lotta
dove chi non uccidesse, sarebbe ucciso.

Fu allora che l’Accademia di Modena andò dissipata come dicemmo, e
molti membri di essa fuggirono; molti Ferraresi, tra’ quali Olimpia
Morata ch’era stata educata da Giovanni Sinapio, protestante precettore
delle figliuole della duchessa, e sposò Andrea Grundler protestante,
studente all’Università di Ferrara. Scrisse ella dialoghi latini e
poesie greche; e rifuggita ad Eidelberga professò lingua greca, e
morì di soli ventinove anni. Di là scriveva: _Ferrariæ crudeliter in
Christianos animadverti intellexi, nex summis nec infimis parci: alios
pelli, alios vinciri, alios fuga sibi consulere[332]._

I Riformati, che ci conservarono il nome de’ loro martiri, descrivono
la fierezza de’ supplizj subiti dal Fannio di Faenza in Ferrara, da
Domenico Cabianca bassanese, da frà Giovanni Mollio professore di
Bologna, da Pomponio Algieri di Nola, da Francesco Gamba di Como, da
Goffredo Varaglia cappuccino piemontese, da Luigi Pasquale di Cuneo.
Il Poggiali estrasse da vecchia cronaca il nome di molti inquisiti
piacentini[333].

Ogni causa ha tristi apostoli, che credono servirla col mostrare come
abbia molti nemici, e in quella generalità di nomi che esclude la
critica e la discolpa avvolgono le persone meno meritevoli di sospetto.
Così allora avvenne, e nella inflessibilità del suo zelo Paolo IV fe
gittare prigioni il cardinale Morone ed Egidio Foscarari vescovo di
Modena, reputatissimi prelati, e i vescovi Tommaso Sanfelice della
Cava, Luigi Priuli di Brescia, imputati di nutrire opinioni ereticali,
o mal difendere le ortodosse. Anche don Gabriele Fiamma veneto,
canonico lateranese e vescovo di Chioggia, autore di poesie spirituali,
predicando a Napoli il 1562, fu accusato d’eresie[334]. E per verità,
se la Riforma, filosoficamente considerata, era un lanciarsi dello
spirito verso la libertà, un voler pensare e giudicare secondo la
testa propria intorno a fatti e idee che fin allora si erano ricevuti
dall’autorità, ne scendea drittamente che divenissero sospetti tutti i
pensatori, tutti, anche gli zelanti.

Questo frà Michele Ghislieri alessandrino si segnalò nell’alta Italia
per zelo inquisitorio; e l’opposizione che trovò dappertutto ci rivela
non tanto il precipitare delle opinioni in senso protestante, quanto
l’indispettirsi della violenza. Avuto spia che a Poschiavo, paese
italiano appartenente ai Grigioni, si stampassero libri ereticali
destinati all’Italia, e che alcune balle erano state spedite ad un
negoziante di Como, frà Michele le sequestrò. Il capitolo comasco,
spalleggiato dal governatore, voleva fossero restituite; e non
riuscendo, il popolo ne levò tal rumore che frà Michele dovette
ritirarsi. Anche a Morbegno in Valtellina eresse processo di eresia
contro Tommaso Pianta vescovo di Coira, senza citarlo nè nominare i
testimonj; sicchè i Grigioni gli fecero vietare di procedere contro
chicchefosse senza previa loro licenza: e perchè egli, obbedito alla
prima, rinnovò poi le processure, il popolo a pena si tenne che non gli
mettesse le mani alla vita.

Ebbe poi ordine d’inquisire Vettore Soranzo vescovo di Bergamo, il
quale in conseguenza fu sospeso, ma dopo due anni rintegrato. Maggiori
indizj trapelavano contro Giorgio Medolago: ma la costui potenza
avrebbe impedito l’inquisitore se a questo non fosse venuto in sussidio
Giovan Girolamo Albani. Mercè del quale il Medolago fu preso: ma la
Signoria veneta lo fece levare a forza delle carceri del Sant’Uffizio e
trasportarlo nelle sue, nelle quali morì. L’opposizione allora obbligò
il Ghislieri a partire di Bergamo, del che si dava colpa a Niccolò
da Ponte che poi fu doge, e che perciò venne in odore di luterano.
Quell’Albani, valentissimo giureconsulto, godea di alto favore presso
la Signoria; ma quando due suoi figliuoli nella chiesa di Santa Maria
Maggiore uccisero il conte Brembati, egli, come loro complice, fu per
dieci anni relegato in Dalmazia. Il Ghislieri però, divenuto papa Pio
V, conferì ai figliuoli il titolo di gentiluomini romani, e al padre
il governo della marca d’Ancona, poi il cappello cardinalizio, che, non
senza eventualità di salir papa, portò degnamente fino ai novantasette
anni.

Il decreto del 1558, per cui tutti i frati che fossero fuori venivano
obbligati a tornare ai loro conventi e ricevere il castigo meritato,
indusse molti a fuggire in Olanda e a Ginevra: e se credessimo a
Gregorio Leti[335], più di ducento buttaronsi eretici.

In generale l’Inquisizione, severissima a chi si ostinasse, ai
confessi e ricredenti mostrava carità: alquanti furono arsi in Roma
e mazzerati a Venezia: molti obbligati a ritrattarsi d’errori, in cui
erano incorsi prima di saperli condannati. Ma il popolo ne prese tal
disamore a Paolo IV, che appena morto abbattè la sua statua, erettagli
poco prima dal troppo labile favore di quella plebe, e ficcò il fuoco
al palazzo dell’Inquisizione. Pontefice difficile a giudicare fra atti
così disformi; ma certamente coll’alienarsi dall’imperatore per istudio
dell’italica indipendenza, tolse che questo il coadjuvasse ad estirpare
l’eresia che allora prese consistenza.

Carlo V, che odiava i Protestanti dacchè in Germania l’aveano costretto
a concessioni repugnanti al suo orgoglio, s’accorse come le loro
dottrine serpeggiassero in Napoli, e con un severissimo editto del
1536, valevole per tutti i suoi regni, v’interdisse ogni commercio
e corrispondenza con persone infette o sospette d’eresia, pena la
morte e la confisca. Colà avea predicato e fatto proseliti l’Ochino:
poi Giovanni Valdes, gentiluomo spagnuolo, dall’imperatore lasciato
segretario al vicerè Pier di Toledo, disputò della Giustificazione;
sebbene scarso di dottrina, coll’enfasi cattivava gli animi; e
gl’inquisitori attestano che fin tremila proseliti si trasse dietro.
Fra questi Galeazzo Caracciolo marchese di Vico, figlio d’una Caraffa,
parente di Paolo IV, marito d’una duchessa di Nocera, gentiluomo dalla
chiave d’oro di Carlo V, le dottrine di Pietro Valdes e di Pietro
Martire propagò, poi abbandonando la famiglia, e una splendida fortuna,
andò nel 1551 a fondare a Ginevra un concistoro italiano, e chiesa
distinta con un formulario proprio. Primo ministro ne fu Massimiliano
Martinengo conte bresciano, poi Lattanzio Rangoni profugo di Siena.
Invano i parenti procurarono richiamarlo; suo padre, pregatolo ad
un colloquio in Venezia, non potè espugnarne la fermezza; trattolo
un’altra volta a Vico, il padre, i figliuoli, la moglie ch’esso
teneramente amava, il supplicarono rimanesse in patria e nella fede
comune, ma egli s’ostinò al niego. Proposto a Calvino, a Pietro
Martire, al Zanchi se potesse far divorzio, decisero di sì, ond’egli
sposò una dama di Rouen, visse onorato fin al 1586, e Calvino gli
dedicò la seconda edizione de’ suoi commenti sull’epistola ai Corintj.

Antonio Caracciolo, figlio del principe di Melfi maresciallo di
Francia, lasciò la corte di Francesco I per farsi certosino: ma anche
nel chiostro recò l’inquietudine, intrigò in Corte, e fatto vescovo, nè
potendo da Sisto V ottenere il cappello rosso, si diede coi Riformati,
dapprima continuando a dirsi vescovo e ministro del santo Vangelo:
scrisse poesie francesi e italiane; e polemiche religiose, finchè morì
nel 1569. Lorenzo Romano di Sicilia, già agostiniano, disseminati
occultamente gli errori di Zuinglio qui, poi rifuggito in Germania,
tornò a casa nel 1549 insegnando la logica di Melantone, sponendo
le epistole di san Paolo nel nuovo senso, e pubblicò anche un’opera
intitolata _Beneficio di Cristo_. Citato all’Inquisizione fuggì, poi
venne volontario a costituirsi, si disdisse e ottenne perdono, facendo
molte penitenze e pubblica abjura nelle cattedrali di Napoli e Caserta,
e confessando d’avere assai proseliti, fra cui molte dame titolate.

Il vicerè Toledo, cui Carlo V nessuna cosa aveva raccomandata più
che d’impedire la diffusione dell’eresia, bruciò una gran catasta di
libri che la propalavano, e vietò l’introdurre qualunque trattato di
materie teologiche non approvato dalla santa Sede, e le accademie che,
sotto coperta di letteratura o di filosofia, facilmente invadevano il
campo teologico. Poi, spintovi dall’imperatore che vedeva in Germania
gli scompigli causati dalla Riforma, cercò introdurre nel regno
l’Inquisizione spagnuola, la quale, operando indipendente dai vescovi
e da ogn’altra autorità, nè dando contezza de’ testimonj, apriva
agevolezza alle vendette e alle false deposizioni, e aggiungeva alle
pene anche la confisca. Pertanto i Napoletani vi si oppongono, e non
valendo le parole, le piazze insorgono (1547) gridando arme, strappano
i cedoloni, surrogano ai vecchi eletti del popolo altri più creduti;
i nobili si mescolano co’ plebei aizzandoli e chiamandoli fratelli.
Il Toledo citò Tommaso Anello sorrentino plebeo, e il nobile Cesare
Mormile, capi del tumulto; ma tal folla gli accompagnò, ch’egli dovette
dissimulare, e lasciar che fossero portati in trionfo alle varie piazze
onde rassicurare e attutire il popolo; intanto egli, dando buone parole
e promettendo che, vivo lui, mai non s’introdurrebbe tal tirannia,
chiamava truppe.

Un accidente da nulla dà occasione di far sangue; gli Spagnuoli
assalgono i tumultuanti; questi rispondono colle barricate e colla
campana a martello; la via Toledo e la Catalana inorridiscono di
carnificina; alcuni nobili, non più rei degli altri ma per esempio,
sono mandati sommariamente al supplizio, e il Toledo, credendo aver
atterrito, passeggia fieramente la città. Nessuno gli fece atto
di rispetto; la plebe, a fatica rattenuta dal farlo a brani, formò
regolarmente un’_unione_, considerando per traditore della patria chi
non v’entrasse, e prese le armi, guidata dal Mormile e dai Caracciolo;
si deputò all’imperatore Ferrante Sanseverino principe di Salerno,
con Placido Sangro, per chiarirlo come non fosse ribellione contro
lui quell’insorgere contro un rigore illegale, giacchè fra i capitoli
del Regno era che non si porrebbe l’Inquisizione spagnuola. Stettesi
dunque lungo tempo in aspetto di guerra, nè mancava chi suggerisse
o di darsi al papa che all’antica ragione di sovranità univa ora
l’odio particolare contro gli Ispani, o di chiamare Pietro Strozzi e
i Francesi che allora campeggiavano a Siena. Ma i più perseveravano
nelle forme di soggezione, gridando Impero e Spagna: i baroni erano
stati domandati in castello dal vicerè a titolo di obbedienza feudale:
le buone famiglie si ritirarono, sicchè la feccia prevalendo e i
fuorusciti, tutto andava a disordine l’infelicissimo paese, e bisognava
blandire alla ciurma coll’esagerazione delle parole e la villania del
vestire e del trattare; intanto che i soldati spagnuoli coglievano
ogni occasione e pretesto di saccheggiare, e da una parte e dall’altra
cercavansi sussidii e munivansi fortezze.

A suggerimento pure del papa e di san Carlo fu deputato all’imperatore
il famoso giureconsulto Paolo d’Arezzo con calde suppliche, nelle
quali si dà questa strana ragione che, essendo colà troppo comuni i
giuramenti falsi, niuno si terrebbe sicuro della vita e dell’avere.
L’imperatore a fatica volle concedere udienza ai deputati, e ordinò
si deponessero le armi in mano del vicerè; e la città scoraggiata
obbedì, implorò misericordia; pure ottenendo che i casi d’eresia
fossero giudicati dagli ecclesiastici ordinarj. Trentasei eccettuati
dall’amnistia già erano fuggiti; il Mormile con altri ricoverò in
Francia, ben visto e provveduto; l’imperatore dichiarò _fedelissima_
la città, e le impose centomila scudi d’ammenda. Il nuovo papa Giulio
III vietò per bolla si facessero confische per casi d’eresie, cassando
anche le fatte sin allora[336]: e i colpevoli erano diretti a Roma,
dove fatta abjura e le penitenze imposte, erano rimandati a casa.

A Carlo V era succeduto nel regno di Spagna e ne’ dominj dell’Asia,
dell’America e dell’Italia Filippo II, il cui nome rappresenta
proverbialmente la opposizione contro l’eresia, e in conseguenza
per taluni una generosa come che inesorabile perseveranza, per
altri il tipo della tirannide, della fierezza, dell’ipocrisia.
L’Inquisizione, da suo padre in testamento raccomandatagli, fece
esercitare coll’inflessibilità di chi crede compiere un dovere. Allora
si estesero quelle arsioni di eretici, teatralmente solennizzate,
talmente credevansi giuste: e perchè i suoi sudditi non fossero
trattati disugualmente, voleva anche a Milano fare l’infausto dono del
Sant’Uffizio al modo spagnuolo; ma la città deputò alti personaggi al
re, al concilio, al papa che si adombrava di questo tribunale da lui
indipendente; e si ottenne di non aggiunger questo ai tanti mali della
Lombardia.

Nel Napoletano esacerbati i rigori e i sospetti, delle persone che
aveano frequentato le conversazioni di Vittoria Colonna e Giulia
Gonzaga, molte furono citate al vicario dell’arcivescovo; e Giovan
Francesco d’Alois di Caserta e Giovan Bernardino di Gargàno d’Aversa
decapitati ed arsi, e confiscati i loro beni, malgrado il privilegio di
Giulio III. Ciò empì la città di sgomento; molti migrarono; le piazze
inviarono al vicerè duca d’Alcala onde sincerarsi se stesse il disegno
di piantarvi l’Inquisizione spagnuola, ed egli assicurava di no. Nè
però ricusavano l’Inquisizione consueta, esercitata dai vescovi; e nel
_Seggio di Capuana_ è detto[337]: — Si faccia deputati, con ordine che
devano andare a ringraziare monsignor arcivescovo illustrissimo delle
tante dimostrazioni fatte contro gli Eretici e gli Ebrei, e supplicarla
che voglia esser servito di far intendere a sua beatitudine la comune
soddisfazione che tiene tutta la città, che queste sorte di persone
sieno del tutto castigate ed estirpate per mano del nostro Ordinario,
come si conviene; come sempre avemo supplicato, giusta la norma de
li canoni e senza interposizione di corte secolare, ma _santamente_
procedano nelle cose di religione tantum». Però anche que’ paesi
vedremo allagarsi di sangue per cagione religiosa.

I principi trovarono l’Inquisizione spediente a reprimere i germi
repubblicani, e sotto il granduca Cosmo si fece a Firenze un
atto-di-fede: la processione degli Eretici condannati a far ammenda
era preceduta dal gonfalone, colla croce in campo nero tra la spada e
il ramo d’ulivo, e colla scritta _Exurge, Domine, judica causam tuam_;
ventidue soggetti seguivano Bartolomeo Panciatichi, già ambasciatore
ducale alla corte di Francia, vestiti con cappe e sanbeniti dipinti
a croci; e condotti alla metropolitana, vi ottennero l’assoluzione,
mentre sulla piazza bruciavansi i loro libri. In San Simone subivano la
stessa cerimonia privatamente alcune donne, sospette di novità.

Pure esso granduca non accettò il decreto di Paolo IV sui libri
proibiti, se pure non fossero avversi alla religione, o trattassero di
magia od astrologia giudiziaria; de’ quali il 3 marzo 1559 fu bruciata
una catasta avanti a San Giovanni e Santa Croce. Lodovico Domenichi,
per aver tradotto e stampato con falsa data la _Nicomediana_(?) di
Calvino, fu condannato abjurare col libro appeso al collo, e a dieci
anni di carcere; ma ne ottenne remissione per istanze di monsignor
Giovio. Frà Luca Baglione perugino nell’_Arte di predicare_ (1562), tra
molti atti proprj racconta che, inveendo in una, non dice quale città,
contro gli eretici, un di costoro gli tirò un’archibugiata, da cui
però Iddio preservollo; e un’altra volta assalito da più di quindici
siffatti in istrada, potè difendersene colla sola parola di Dio[338].

Presa Siena, i soliti zelanti subillarono Cosmo contro i Socini,
eresiarchi di colà; ed egli sulle prime non vi badò, poi li tolse
a perseguitare: furono presi alquanti Tedeschi che vi stavano a
studio, oltre alcune maliarde, cinque delle quali bruciate nel 1569.
Maestro Antonio della Paglia di Veroli che latinizzò il suo nome in
Aonio Paleario, scrittore coltissimo d’un poema sull’_immortalità
dell’anima_, che Vossio chiama divino e immortale, attinte a Siena le
idee de’ Socini e dell’Ochino, le diffuse a Colle e a San Geminiano;
scrisse il _Trattato del beneficio della morte di Cristo_, dove
sostiene la giustificazione per mezzo della fede, che fu confutato
da Ambrogio Caterino; e l’_Actio in pontifices romanos et eorum
asseclas_, quando trattavasi di raccorre il concilio di Trento; e
lettere a Lutero e Calvino[339]. Perseguitato, indirizzò a’ senatori
di Siena una pomposa diceria latina, e, — Non siamo più a’ tempi dove
un vero cristiano possa morire a suo letto. Ma ci accusino pure,
ci imprigionino, ci torturino, ci strozzino, ci diano alle belve,
tutto sopporteremo, purchè ne derivi il trionfo della verità». Allora
passò a Lucca e v’ebbe impiego, poi dal senato di Milano fu invitato
professore, indi rifuggì a Bologna, infine vi fu consegnato alla
romana Inquisizione, che dopo tre anni di carcere il condannò ad essere
strozzato ed arso, di settant’anni.

Fu allora che il Torrentino, nitido editore, si mutò dalla Toscana
ne’ paesi del duca di Savoja, e stampò le storie di Giovanni Sleidan,
probabilmente tradotte dal Domenichi; e i Giunti a Venezia, ove la
maggior libertà fece prosperare la tipografia[340]. Antonio Bruciòli,
durando ancora la repubblica fiorentina, aveva sparlato dei monaci:
a che tante religioni e tanti abiti? tutti dovrebbero ridursi sotto
una regola sola; e non impacciarsi d’affari mondani, dove non recano
che guasto, come è avvenuto di frà Girolamo; altre volte morendo
lasciavasi di che abbellire e fortificare la città, ora unicamente
ai frati acciocchè trionfino e poltreggino, invece di lavorare come
san Paolo; ed «era tanto costante e ostinato in questa cosa de’ preti
e de’ frati, che, per molto che ne fosse avvertito, e ripreso da più
suoi amici, mai non fu ordine ch’egli rimanere se ne volesse, dicendo
_Chi dice il vero, non dice male_» (VARCHI). Stabilitisi i Medici, e
svelenendosi egli anche contro di questi, fu imprigionato; uscitone,
si salvò a Venezia con due fratelli stampatori, pei quali pubblicò
la _Bibbia tradotta in lingua toscana_ (1538). Sebbene pretenda aver
lavorato sul testo originale, pochissimo sapeva d’ebraico, e la sua
Bibbia fu trovata riboccante d’eresie, come il prolisso commento che
ne stese in sette tomi: non sembra però che egli disertasse la Chiesa
cattolica[341].

Monsignor Pietro Carnesecchi, gentiluomo favorito dai Medici in patria,
in Francia e a Roma, conobbe in Napoli Pietro Valdes, l’Ochino, il
Vermiglio, il Caracciolo, poi in Viterbo il vescovo Vittore Lorenzo,
il Vergerio, Lattanzio Rangone, Luigi Priuli, Apollonia Merenda,
Baldassarre Altieri, Mino Celsi; ebbe dimestichezza con Vittoria
Colonna, Margherita di Savoja, Renata di Francia, Lavinia della Rovere
Orsini; con Melantone e con altri eretici trattò di presenza poi per
lettere, e col credito e col denaro combattè l’autorità pontifizia,
i frati, il purgatorio, le indulgenze, la confessione, la cresima,
i digiuni; l’invocazione dei santi, i voti di castità; a salvarsi
bastare la fede senza concorso delle opere; nell’eucaristia trovarsi
veramente il corpo di Cristo, ma non transustanziato; potersi senza
colpa leggere i libri ereticali e mangiar grasso in qualunque giorno.
Paolo IV citatolo invano, lo fece scomunicato; ma perchè continuava
senza dissimulare, Pio IV ottenne che Cosmo gliel consegnasse. Sì bene
si difese, che fu rimandato; nè però tacque, sovvenne di denari Pier
Leone Marioni e Piero Gelido da Sanminiato, ecclesiastico di molta
dottrina, che scoperti di eresia poterono rifuggire a Ginevra. Cosmo
non gli diminuiva la sua famigliarità; ma poi richiesto dal rigido Pio
V, il consegnò all’Inquisizione, ove confesso e convinto, fu condannato
al fuoco. Il papa sospese dieci giorni l’esecuzione se volesse intanto
ricredersi; ma disputando egli in sinistro senso fin col frate che il
confortava, venne decapitato ed arso[342] (1567).

Antonio Albizzi, che in Firenze istituì l’accademia degli Alterati
e fu console della Fiorentina, servendo al cardinale d’Austria in
Germania prese affetto alle dottrine nuove, e con un amico venne in
Italia onde metter sesto agli affari suoi, per poi andare a liberamente
professarle. Ma scoperti, l’amico fu côlto e dato al Sant’Uffizio;
l’Albizzi fuggì (1626), e tornò ad Innspruck poi a Hempen in Svevia; e
quando appunto il Sant’Uffizio gli iterava la citazione, morì. Intanto
in Toscana crescevansi i famigliari del Sant’Uffizio, distinti con
una croce rossa, esenti dalla potestà secolare ed autorati a portar
l’armi. Il granduca temette che quest’abito non servisse di maschera
ai molti che avversavano la sua dominazione; pure non potè frenare
gl’inquisitori, che a Siena e a Pisa inesorabilmente perseguivano
chiunque uscisse in proposizioni ambigue, nè tampoco perdonando a
leggerezze di studenti.

Se la paura che si volgesse la critica dalle cose sacre alle politiche
faceva rigorosi i governi principeschi, anche l’aristocratica Lucca
se n’inquietava. Già fin dal 1525 proibiva i libri di Lutero e di
Luterani, e chi n’avesse dovea consegnarli; ma molti proseliti già vi
erano, e il cardinale Bartolomeo Guidiccioni da Roma nel 1542 scriveva
al governo di quella sua patria: — Qui è nuova per diverse vie quanto
siano multiplicati i pestiferi errori di quella condannata setta
luterana in la nostra città; li quali, ancorchè paressero sopiti, si
vede che hanno dormito per svegliarsi più gagliardi... Fino ad ora
si è potuto pensare che il male fusse in qualche pedante e donne;
ma intendendosi le conventicole qual si fanno in Santo Agostino, e
le dottrine quali s’insegnano e stampano, e non vedendo fare alcuna
provvisione da quelli che governano, o spirituale o temporale, nè
ricercare che altri la facci, non si puol credere altro se non che
tutto proceda con volontà e consenso di chi regge. Onde di nuovo
prego le S. V. che ci faccino tal provvigione, che rendi presto tanto
buon odore, quanto fetore ha sparso e sparge il male; e chi cacciasse
con autorità della sede apostolica quelli frati, autori e nutritori
già tanto tempo di quelli pestiferi errori, e desse quel loco a chi
facesse frutto bono, e castigasse qualcuno di quella setta, saria forse
salutifero rimedio...

«Intanto pareria che le S. V. col loro braccio ordinassero che il
vicario del vescovo facesse incontinente prendere quel Celio (_il
Curione_) che sta in casa di messer Nicolò Arnolfini, il quale dicono
aver tradotto in vulgare alcune opere di Martino, per dare quel bel
cibo fino alle semplici donne de la nostra città, e che ha fatto
stampar quei precetti a sua fantasia: oltrechè e da Venegia e da
Ferrara se ne intende di lui pessimo odore. Così è da far diligenzia
in quei frati di Sant’Agostino, massime di ritener quel vicario, il
quale s’intende per certo che ha comunicati più volte molti de’ nostri
cittadini con darli dottrina che quello debbon fare in memoria solo
della passione di Cristo, non già perchè credino che nell’ostia vi
sia il suo santissimo corpo. E custoditi con diligenzia, li potranno
mandare a Roma, o vero avvisare come li tengono ad instanzia di S. B.;
acciocchè ogni uomo cognosca che le S. V. vogliono cominciare a far
qualche dimostrazione, ed essere, come sono stati i nostri avoli, buoni
e cattolici cristiani e obbedienti figli della santa Sede apostolica...

«Questa mattina, da poi la partita dell’ambasciatore, in la
congregazione fatta dalli reverendissimi deputati sopra queste eresie
e errori luterani, dinanzi N. S. sono state lette otto conclusioni
luterane e non cattoliche di don Costantino priore di Fregionara,
le quali sono tanto dispiaciute a N. S. e alli reverendissimi
deputati, che mi hanno commesso che io scrivi a V. S. che lo faccino
incarcerare con darne avviso, o che lo mandino con quello altro frate
di Sant’Agostino. E così le ricerco che vogliano fare e con diligenzia,
perchè sarà grande purgazione del mal nome della nostra città, e
mostreranno che tali errori li dispiaciono, e faranno cosa grata a
Dio».

Nè tale sollecitudine era senza motivo; perocchè Pietro Martire
Vermiglio, dirigendo ai fratelli lucchesi l’apologia della propria
fuga, si congratulava che colà i credenti aumentassero. Forse
ne esageravano il numero sì Roma per aver ragione di piantarvi
l’Inquisizione, sì il signor di Firenze per pretesto di mettere le
mani su quell’ambita repubblica, la quale pensò ovviare i pericoli con
esorbitanti rigori (1545). Il Consiglio generale «dubitando che siano
alcuni temerarj, li quali, con tutto che non abbino alcuna intelligenza
delle scritture sacre nè di sacri canoni, ardischino di metter bocca
nelle cose pertinenti alla religione cristiana, e di essa ragionar così
alla libera come se fossero gran teologi, et in tali ragionamenti dir
qualche parola, o udita da altri simili a loro, o suggerita dalla loro
diabolica persuasione, la qual declina e tiene della eresia, e leggere
anche libretti senza nome d’autore, che contengono cose eretiche e
scandalose; donde potrebbe facilmente succedere, che non solo essi
s’avvilupassero in qualche errore, ma vi avviluppassero anche dentro
delli altri», multa siffatti ragionari, ed ai recidivi sin la galera;
assolto chi denunzia altri; i libri d’eretici si consegnino, pena la
confisca; non si conservi corrispondenza con eretici, e nominatamente
coll’Ochino o con Pietro Martire; tre cittadini siano eletti
annualmente per sovrintendere a tali colpe. Nel 1548 rivedeasi la legge
mitigando le pene, ma estendendole a qualunque libro di religione non
sottoscritto dal vicario del vescovo; ognuno sia obbligato confessarsi
e comunicarsi; in quaresima non si macelli, nè si spacci carne se non
di capretto, vitello o castrato; niuno tenga a servizio persone uscite
di convento; a tutto mettendo comminatorie, e provocando a spioneggi.
Nel 1558 si proibiva ogni colloquio o corrispondenza colle persone
dichiarate eretiche, o contumaci alle chiamate del Sant’Uffizio.

A tali editti probabilmente la Signoria fu obbligata per dare
soddisfazione ai vicini: certo il papa la querelò di cotesto
intromettersi di materie ecclesiastiche; ma la Inquisizione romana
non fu mai stabilita nella piccola repubblica, che si serbò monda
di sangue. Bensì nel 1555, forse perchè si temesse veder ridotte ad
effetto quelle che fin allora non erano state che minaccie, molti se
n’andarono, tra cui Filippo Rustici che a Ginevra tradusse la Bibbia,
Giacomo Spiafame vescovo di Nevers, Pietro Perna, che pose tipografia
a Basilea moltiplicando edizioni principalmente di Riformatori, e
avendo a correttore Mino Celsi senese, il quale esaminò _Quatenus
progredi liceat in hæreticis coercendis_; il già detto medico Simon
Simoni: anche intere famiglie sciamarono, come i Liena, gli Jova, i
Trenta, i Balbani i Calandrini, i Minutoli, i Buonivisi, i Burlamacchi,
i Diodati, gli Sbarra, i Saladini, i Cenami, che poi diedero alla
Svizzera utili cittadini, e alla repubblica letteraria personaggi
illustri[343].

Nel 1561 si raddoppiò d’oculatezza al confine sopra i libri
proibiti, dando autorità di aprire i plichi e le valigie provenienti
d’oltremonte. Quando Pio IV temette che i molti Lucchesi che
viaggiavano in Isvizzera e in Francia non ne contraessero l’infezione,
il senato proibì di dimorare in quelle contrade; coloro che abitano a
Lione devano tutti insieme comunicarsi il giorno di pasqua; chi alloggi
alcun forestiere, e il veda far atti o discorsi meno cattolici, lo
denunzii: ai dichiarati eretici dello Stato si proibisce di fermarsi
in Italia, Spagna, Francia, Fiandra, Brabante, «luoghi ne’ quali la
nazione nostra suole conversare, abitare e negoziare assai»; e se vi
siano trovati, «chiunque gli ammazzerà guadagni per ciascuno di loro,
de’ denari del Comune, scudi trecento d’oro; se bandito rimanga libero;
se no, possa rimettere un altro bandito». Questo decreto attirò al
Comune le lodi di Pio e di san Carlo: ma che non abbia spinto nessuno
all’assassinio, ce ne dà speranza l’udire l’anno stesso lamenti che
molti eretici restassero in questa città, tenessero corrispondenza coi
profughi, e ricevessero opere protestanti[344].



CAPITOLO CXLVI.

Rimbalzo Cattolico. Concilio Tridentino. Riforma morale.


Del famigerato Giangiacomo Medici, marchese di Marignano, era fratello
Giannangelo, valente giureconsulto milanese, che successe pontefice
col nome di Pio IV (1559). Disapprovava la severità del predecessore,
eppure i tre nipoti di quello mandò a processo e a morte, non
eccettuando il porporato. Il supplizio d’un cardinale diacono era tal
novità che il mondo fu pieno; tutti cercarono conoscerne il processo,
nessuno lo vide intero, nemmanco l’imputato o il suo difensore; e vi si
volle scorgere una vendetta della Spagna contro codesti suoi avversarj
ch’eransi vantati capaci di torle il reame di Napoli. Pio IV espresse
allo storico Pallavicino che peggio d’ogni cosa eragli rincresciuta
quella condanna, ma averle dovuto lasciare corso per lezione dei futuri
nipoti: dappoi Pio V, rivedutane la causa, li dichiarò condannati
iniquamente, fece tagliare la testa ad Alessandro Pallentieri, orditore
del processo, e questo fu bruciato, così togliendo alla posterità di
giudicarne in supremo appello[345].

Pio IV cavalcando ascoltava chiunque gli parlasse, agli ambasciatori
dava udienza in Belvedere senza cerimonie; benchè aderente per origine
all’Austria, non prese parte alla guerra; procurò a Roma anni quieti
ed abbondanti; ridusse a fortezza la città Leonina, dov’è il Vaticano:
a questo aggiunse molti abbellimenti, fra cui la sala regia, ove da
Giuseppe Salviati fece storiare le geste de’ papi con epigrafi dettate
da apposita commissione; ed una di queste ritrae il convegno di
Federico Barbarossa con Alessandro III a Venezia, e l’umiliarsegli a’
piedi[346].

Neppur Pio IV si astenne dal favorire i nipoti, e diede l’arcivescovado
di Milano, e ben tosto la porpora a un giovinetto di appena ventitre
anni (1560) e non ancora sacerdote, e su quello accumulò benefizj e
cariche; egli legato _a latere_ di Bologna e Ravenna, poi d’Italia
tutta; egli abate e commendatore di almen dodici chiese in varj Stati,
arciprete di Santa Maria Maggiore, penitenziere supremo della santa
Chiesa, protettore del regno di Portogallo, dei Cantoni svizzeri
cattolici, della bassa Germania, degli Ordini francescano e umiliato,
dei canonici regolari di Santa Croce a Coimbra, e de’ cavalieri
di Malta e del Cristo; sicchè unendovi il contado d’Arona sul lago
Maggiore, e il principato d’Oria nel Napoletano, fruiva dell’entrata
di almeno novantamila zecchini; e aveva cognata una duchessa d’Urbino,
maritate le sorelle una nei Gonzaga principi di Molfetta, una nel
principe di Venosa, una nel principe Colonna vicerè di Sicilia.
Scialava dunque principescamente, quando la morte che colse il fratello
Federico in mezzo al fasto e alle speranze, lo concentrò ne’ gravi
pensieri della tomba, e d’allora il nome di Carlo Borromeo indicò
uno dei prelati che meglio onorarono la Chiesa e più efficacemente
faticarono nel riformarla. Rinunziando a quel cumulo di cariche, onde
mortificare col suo esempio la splendida dissolutezza dei principi
secolari ed ecclesiastici di Roma congedò ottanta persone di corteggio,
non ritenendo secolari presso di sè che nei bassi uffizj; da novanta
restrinse a ventimila zecchini il suo spendio domestico; non più sfarzo
e spassi, ma ai clamorosi convegni consueti nel suo palazzo sostituì
un’accademia settimanale di lettere e morale, detta le Notti Vaticane:
eccitò il papa a fabbricare Santa Maria degli Angeli e la superba
Certosa di Roma; molte chiese procurò s’edificassero per tutta Italia,
e l’Università di Bologna.

Invece di soggiornare a Roma, come troppi vescovi soleano, o alle Corti
o nelle nunziature, egli volle al più presto venire alla sua sede di
Milano, che da quarant’anni costituiva una commenda per cadetti di casa
d’Este. Qual meraviglia se la disciplina vi si era sfasciata, e pietà
e costumatezza scomparse dai preti? I quali, non che curare le anime
altrui, la propria negligevano a segno, che si credeano dispensati
dal confessarsi perchè confessavano; secolareschi nel vestire, nelle
abitudini, nelle compagnie, trafficavano, e delle chiese e delle
sacristie si valevano come portifranchi per sottrarre le merci e il
contrabbando alle imposte e alle perquisizioni; quand’anche non ne
facevano ritrovi per conviti e balli. Le solennità e le domeniche
porgeano occasione soltanto a bagordi, a feste indecenti e persino
feroci; i monaci dati all’ozio in convento, agl’intrighi fuori; le
monache, in onta alla clausura, uscivano a far visite e ne riceveano, e
l’abilità non manifestavano che in confortini e manicaretti.

Attorniatosi di valent’uomini, de’ quali mai non si mostrò geloso,
Carlo si accinse a riformare la sua arcidiocesi: e armato di qualità
penetranti e sovrane, di autorità sensibile, direi della verga di
penitenza per convertire e costringere allo spirito interno i Cattolici
paganizzati, autorevole per parenti e congiunti in tutta Italia,
per amici alla Corte di Roma, per illustre nascita e la signorile
magnanimità fra i nobili, fra gli ecclesiastici per la dignità, fra
il popolo per le ricchezze e per l’uso che ne facea, fra i pii per
la bontà e le macerazioni; vigoroso di corpo a sostenere viaggi ed
astinenze, e d’animo a reggere le opposizioni dei governatori, le
persecuzioni de’ viziosi, l’indifferenza dei beneficati, con que’
decreti che costano poco a farsi ma molto a far eseguire, disciplinò
la sua Chiesa nelle materie più importanti, come nelle minime di
sacristia. Diceva l’uffizio a testa scoperta; leggeva la Scrittura
a ginocchio; poco parlava, pochissimo leggeva e neppure le novità,
dicendo che un vescovo non potrebbe meditare la legge di Dio se badasse
a vanità curiose; teneva frequentissime conferenze col suo clero;
instancabile nell’impedire che dalla vicina Svizzera l’eresia si
dilatasse in Italia, perlustrolla come legato pontifizio, vi rincalorì
la parte cattolica, e fondò a Milano un collegio Elvetico, semenzajo
d’apostoli e parroci a que’ paesi (V. pag. 352).

Principale impegno egli pose nel trarre a compimento il concilio
ecumenico. Indicato primamente a Mantova nel 1537, poi a Vicenza, in
fine fu aperto a Trento il 13 dicembre 1545: dopo la settima sessione
del 3 marzo del 47, se ne decretò la traslazione a Bologna: nel
dicembre 1550, Giulio III lo restituì a Trento, ove nel 51 e 52 si
tenne fin alla decimasesta sessione, sciogliendolo poi all’appressarsi
della guerra. Pio IV ne ordinò la riunione nel 29 novembre 1560; ma
si cominciarono le tornate sol nel 18 gennajo del 62, per finirle il 3
dicembre dell’anno successivo. La bolla di conferma uscì il 26 gennajo
1564.

I concilj, da quel di Nicea fino al Tridentino, anche nella storia
mondana furono le assemblee più segnalate per la dignità dei personaggi
raccolti, per la grandezza delle quistioni che vi si agitarono, per
l’elevazione delle idee, superiori a restrizioni di paese, di razza, di
tempo, fondate su principj irremovibili, e ispirate da una generosità
non d’astrazioni, ma effettiva nè mai smentita. Se fonte viva della
vera civiltà è la fede divina, importa conservarla nella sua purezza;
i popoli di tutto il mondo congiungere in unità di credenze e di
riti, e mondare l’interno di questa società col correggere i costumi e
principalmente quelli del clero; fuori difenderla dai nemici comuni,
effondere fiumi di verità e di vita sopra quanto v’ha di nobile, di
bello, di generoso nella natura umana. So che gli spiriti negativi
disputano su questi meriti: noi parliamo ai serj e leali.

Al Tridentino, maestosa assemblea de’ Cattolici più consumati
negli affari, nelle lettere, nella santità, viene apposto d’essere
stato menato a senno degl’Italiani; ma questa parola, come avviene
delle denominazioni di partito, significa chiunque caldeggiasse le
prerogative romane. In realtà la discussione dogmatica fu diretta
dai gesuiti Lainez e Salmeron spagnuoli, e con loro Le Jay ginevrino,
rappresentante del cardinale Turchsess vescovo d’Augusta; uno dei tre
presidi n’era il cardinal Polo inglese; Andrea de Vega, Volfango Remio,
Genziano Hervet, luminari di quell’adunanza, non erano italiani. Vero è
che i vescovi forestieri ogni tratto scarrucolando, era d’uopo mandarne
di italiani, più poveri e men pretensivi, e valersi de’ Gesuiti, che
allora furono più che mai, come alcun li chiamò, i giannizzeri della
santa Sede.

L’importanza che la Chiesa attribuisce a ciascun uomo pei meriti suoi
proprj, non per la nascita, dovea condurre al votar per testa, anzichè
per nazione; ma ne derivava la prepollenza degli Italiani, giacchè agli
ottantatre prelati di tutti insieme gli altri paesi stavano a fronte
centottantasette dei nostri. Oltre san Carlo, che non riceveva alcun
breve papale se non iscoprendosi il capo, primeggiava tra questi il
cardinal Morone, figlio del famoso grancancelliere di Milano, in alta
fama di sapere e d’abilità negli affari, che ad istanza di sant’Ignazio
promosse la fondazione del collegio Germanico, e perchè il papa mancava
di denari, indusse a obbligarvisi i cardinali, e vi diede ordini che
poi servirono al concilio di Trento per norma nel regolare i seminarj.
Malgrado di ciò, malgrado che avesse adoprato ogni poter suo nel
reprimere l’eresia in Germania ed escluderla da Modena, fu sospettato
di novatore e fautor de’ novatori, onde Paolo IV lo carcerò in Castel
sant’Angelo: ma il nuovo pontefice non solo lo trasse giustificato, ma
lo destinò a presedere al concilio.

Fra gli altri cardinali distingueremo il Foscarari bolognese, che a
Modena fondò un monte di Pietà e profondea l’aver suo ai poveri in
modo, che non si sapeva dove tanto pigliasse; l’eruditissimo Seriprando
di Troja, già secretario al celebre cardinale Egidio da Viterbo; il
Bertani, autore d’un commento a san Tommaso e d’un trattato sulla
podestà del papa; il veneziano Gianfrancesco Comendone[347], di
limpida dicitura e abilissimo a trarsi dagli affari più difficili e
meno attesi; nunzio in Inghilterra, poi in Polonia, donde ottenne
fosse cacciato l’Ochino, poi alla dieta di Augusta per impedire
vi si decidesse sopra materie ecclesiastiche; i suoi viaggi sono
leggiadramente descritti da Annibal Caro, al quale fu amicissimo, come
a Paolo Manuzio, a Basilio Zanchi, a Guglielmo Sirleto, ai migliori
d’allora. Per un Antonio Ciurelio di Bari, vescovo a Budua in Dalmazia,
che esilarava con profezie e buffonate, severa scienza mostrava
il calabrese Guglielmo Sirleto, biblioteca ambulante, che parlava
francese, latino, greco, ebraico, non fu eletto papa per tema che gli
studj nol distraessero troppo, e sepoltosi nella biblioteca Vaticana,
colà pose affatto l’animo in ajutar tutte le opere altrui, benchè di
sue niuna pubblicasse, provvedeva testi e argomenti ai campioni del
sinodo; eppure non isdegnava raccogliere attorno a sè i bambini che
capitavano in piazza Navona co’ fasci della legna per istruirli nel
catechismo. In Agostino Valier vescovo di Verona non sapeasi qual
più ammirare, la rara erudizione o la coscienza intemerata; scrisse
cenventotto opere, ma pochissime ne pubblicò, fra cui una _Rethorica
ecclesiastica_ spesso ristampata, e una storia di Venezia; e impugnò la
barbarie scolastica e il timor delle comete. Daniele Barbaro d’ordine
pubblico scrisse la storia veneta, fece poesie filosofiche lodatissime
col titolo di _Predica dei sogni_, fondò in Padova l’orto botanico
e l’accademia degli Infiammati, tradusse e commentò Vitruvio, diede
bellissimo ragguaglio della sua ambasciata a Edoardo VI d’Inghilterra.
Ivi pure Gianantonio Volpi e Antonio Minturno, letterati di prima
schiera; Onorato Fascitello vescovo d’Isola, autore di lettere e
poesie lodate; Marcantonio Flaminio e il vescovo Vida, Catullo e
Virgilio redivivi; Isidoro Clario, Taddeo Cucchi di Chiari, che
emendò la versione della Bibbia vulgata a confronto del testo ebraico
e greco, senza trascurare l’esegesi dei Protestanti. Sfoggiavano
nelle prediche i più insigni oratori, Alessio Stradella di Fivizzano,
Francesco Visdomini ferrarese, Bartolomeo Baffi da Lucignano, Cornello
Musso vescovo di Bitonto (t. IX, p. 289), intorno alla cui eloquenza
Bernardino Tomitano medico e retore di Padova compose un ragionamento,
e gli fece coniare una medaglia con un cigno, e l’iscrizione _Divinum
sibi canit et orbi_.

La Chiesa professa di essere unica depositaria e interprete della
parola divina, e quindi infallibile nel profferire ciò che tutti devono
credere: i Protestanti arrogano a ciascuno l’intendere come vuole le
sacre carte, all’autorità comune sostituendo la capacità individuale.
Questo radicale dissenso toglieva qualunque possibilità d’accordo,
talchè al sinodo, non potendo mettersi conciliatore, nè decidere
altrimenti da quel che avea fatto la Chiesa sin allora, restava
soltanto da «far una lunga e coscienziosa recensione del sistema
cattolico». E già a quel punto ciascuno avea preso partito; le opinioni
religiose eransi interzate cogl’interessi politici; il mondo diviso in
due campi, umanamente irreconciliabili.

I punti capitali della divergenza furono risoluti al bel principio,
mettendo fine alle ambiguità, mediante le quali per un pezzo erasi
cercato di rannodare i dissidenti. I libri dei due Testamenti furono
dichiarati canonici, come le tradizioni concernenti la fede e la
morale, conservate nella Chiesa. Il peccato originale fu riconosciuto,
non con decreto dottrinale[348] ma condannando chi lo negasse;
ed esprimendo che, nel dire nati in peccato tutti gli uomini, non
comprendeasi la Vergine Madre, per rispettar le bolle che Sisto IV avea
emanate in proposito dell’immacolata concezione di lei, controversa
fra Scotisti e Tomisti. Sulla Grazia e la giustificazione restava
assolutamente condannata la dottrina che Lutero pretendeva appoggiare
a sant’Agostino, in sedici capitoli di decreto dottrinale riconoscendo
la giustificazione per mezzo della Grazia preveniente e del libero
consenso; condannando le false idee sulla predestinazione, e che la
Grazia basti senza le opere. I sacramenti furono prefiniti a sette,
giusta la dottrina di Pier Lombardo appoggiata alla tradizione; ed
espressi canoni sopra ciascuno.

Giacomo Lainez generale dei Gesuiti, nel discorso più celebre di
quest’assemblea, sostenne la potestà della giurisdizione essere data
unicamente al pontefice, e da lui ogni altra derivare. E vinse; e restò
consolidata quella supereminenza del papa, che erasi voluta crollare;
egli solo interpretasse i canoni, imponesse le regole della fede e
della vita. Già i vescovi, anzichè inuzzolirsi d’ingradire la propria
a scapito dell’autorità pontifizia, vedeano necessario di salvarla
all’ombra di quella; e i principi vedendo la propria esistenza messa
a repentaglio dalle quistioni teologiche, provvedeano men tosto a
sottigliare sui limiti del potere ecclesiastico, che ad appoggiarvisi.

Spetta alle storie particolari lo svolgere la rete complicatissima
delle pretensioni, dei ritardi, delle domande, delle opposizioni; a
noi bastando attestare che, se in alcune decisioni sembrò aver parte la
politica, le più comparvero dettate da persuasione e coscienza.

La Riforma, a cui toglievano pretesto gli oracoli di quell’assemblea
cui essa aveva continuamente appellato, rimase una manifesta rivolta;
e dagli oppositori che si staccavano ed isolavano, la Chiesa non potea
difendersi che col fortificarsi entro le barriere della fede antica.
Fra’ Cattolici non occorrevano transazioni, nè quasi dibattimenti,
restando solo a porre in chiaro l’intero sistema della fede cattolica:
e in effetto vi si eliminò una serie di discrepanze, di modo che la
teologia trovossi ridotta a scienza positiva, sgombra dalla dialettica;
le decisioni tridentine, divenute credenza cattolica, parve superfluo
ogni altro concilio; e come chi convalesce da pericolosa malattia, la
Chiesa cattolica parve animarsi di vita nuova, e tutta si applicò a
migliorare se stessa e la società. Dell’uniformità de’ riti si fece una
condizione della cattolicità, mettendola sotto la vigilanza d’una sacra
Congregazione.

Pio IV chiamò a Roma Paolo Manuzio, affinchè cogli insuperabili suoi
tipi pubblicasse i santi Padri. Le lezioni apocrife, le goffe antifone,
i riti burlevoli, introdotti dall’ignoranza e dalla semplicità,
domandavano emenda; ma dotti preoccupati della eleganza, cardinali cui
facea stomaco san Paolo per l’impulito latino, poteano essere acconci
a questo servigio? Gli inni che, per commissione di Leon X, introdusse
Zaccaria Ferreri vicentino, vescovo della Guarda, quanto puri di
stile tanto erano freddi nel sentimento; e meglio parve di quelli che
per Urbano VIII rispettosamente corresse il Sarbiewski[349]. Pio V
mandò un nuovo breviario obbligatorio per tutte le chiese che non ne
avessero uno almen ducentenario: la quale riserva non tolse che le più
adottassero il romano, cui tenne dietro il messale. Sisto V pubblicò
una Bibbia, che unica avesse autorità, e v’attese egli medesimo col
Nobili, l’Agello, il Morino, Lelio Landi, Angelo Rôcca, il cardinale
Caraffa[350]: ma appena uscita vi si conobbero molti errori[351], onde
fu ritirata, e un’altra ne diè fuori Clemente VIII.

Non pare che nel medioevo si formassero catechismi, che ad uso del
popolo esponessero l’essenziale della religione. Il concilio di Trento
ne ordinò uno, incaricandone san Carlo, che prese a collaboratori i
domenicani Foscarari suddetto, Muzio Calino bresciano vescovo di Zara
poi di Terni, Leonardo Marini genovese arcivescovo di Lanciano; e fu
pubblicato italiano e latino[352], poi diviso per capitoli, infine
a domande e risposte nell’edizione di Andrea Fabrizio, unendovi una
tavola dei vangeli di ciascuna domenica, con una tessera di predica,
e coi richiami all’opera stessa per isvolgerla; inoltre i doveri del
parroco sopra i diversi punti della Dottrina, in modo che ad esso
servisse come corso di teologia, di sermoni, di meditazioni. Questo
_Catechismo romano_, ammirato per eleganza e lucido metodo, provava che
la profonda e solida erudizione sacra non ha bisogno di invilupparsi in
argomentari e formole da scuole, ma si accorda coll’esposizione chiara
e precisa, e colla sublime semplicità del pensiero. I Gesuiti, in punto
alla Grazia dissonanti dai Domenicani, gli scemarono credito, ed altri
ne pubblicarono, fra cui primeggia quello del Bellarmino.

La Riforma erasi sempre invocata da’ Cattolici in nome dell’autorità,
opponendosi all’individualità sia d’opinioni, sia di morale,
quand’anche questo individuo fosse pontefice, soggetto anch’egli
all’errore e alla debolezza, giacchè in lui si connettono l’autorità
e l’uomo. Or la superbia di non volere dar ragione ai dissidenti non
distolse dalla riforma morale, e il sentimento religioso fu sovrapposto
alla classica idolatria nelle arti, nelle dispute, nelle lettere, nella
vita. Nessuna sessione del concilio passò senza decreti di riforma
onde restituir alla Chiesa anche la purezza delle opere; proibiti i
matrimonj clandestini, o senza le tre pubblicazioni; la comunione sotto
le due specie; l’ordinare senza benefizio; i questori e spacciatori
d’indulgenze le quali non possono pubblicarsi che dai vescovi; siano
gratuite la collazione degli ordini, le dispense, le dimissorie;
obbligata la residenza, e perciò impedita la pluralità di benefizj
curati; nessuno sia messo in questi prima dei venticinque anni, nè a
dignità in chiesa cattedrale prima dei ventuno, e sempre con esame
preliminare; i vescovi ogni anno visitino le chiese, dando cura a
quanto vi occorre, e provvedendo vi si facciano i necessarj restauri;
delle cattedrali e collegiate un terzo delle rendite si eroghi in
giornaliere distribuzioni; con dignità e disinteresse si compia il
sagrifizio dell’altare, senza canti che destino idee profane. I vescovi
avessero ciascuno un seminario, e ne’ sinodi provinciali e diocesani
estirpassero i resti delle superstizioni e delle indecenze: e chi ne
guardi i decreti direbbe che que’ pii riformatori si fossero lusingati
di tornare il mondo all’apostolica purità, neppur evitando gli eccessi
che possono guastar le cause migliori.

Il cardinale Ghiberti, già datario, dalla stamperia posta nel suo
vescovado di Verona fece riprodurre le opere dei santi Padri, rese quel
clero un modello di ecclesiastica disciplina, talchè il concilio non
fece quasi che ridurre a decreto ciò ch’egli aveva introdotto.

Di lui teneva in camera l’effigie e seguiva le pedate Carlo Borromeo,
vero restauratore del regime ecclesiastico e della direzione delle
anime, e tipo di questi cattolici riformatori. Gli _Atti_ sono come la
carta costituzionale della Chiesa, l’universalità di questa applicata
al governo delle varie diocesi in que’ comizj che si chiamano concilj
provinciali, venerabili per la promessa che lo Spirito Santo sarà ove
due o tre si congreghino nel santo nome. E sei di questi concilj tenne
san Carlo, donde gli _Atti della Chiesa milanese_, corpo ammirato di
disciplina[353]. Instancabile a cercare della estesissima sua diocesi
qualunque angolo più invio e remoto, oltre destinarvi visitatori
generali e particolari, gran fatica egli sostenne, e consigli, comandi,
esempj adoperò per rimettere l’uso quasi dimenticato de’ sacramenti,
e la decenza nelle chiese, più ch’altro simili a taverne, senza
campane o confessionali o pulpiti o arredi; introdurre devozioni e
riti e un regolato cerimoniale; ripristinare l’adempimento de’ legati
pii; istituire nuove parrocchie ove prima un solo prete attendeva
a vastissimi territorj; circoscrivere meglio le pievi, con vicarj
foranei in corrispondenza colla curia; i preti abituare al pulpito, su
cui prima non salivano quasi che frati; misurare i diritti di stola
bianca e nera; render regolari i registri di battesimi, matrimonj,
morti; svellere le superstizioni, sincerare le leggende di santi e
miracoli. Istituì le compagnie della dottrina cristiana[354], ove la
festa s’insegnasse, oltre le verità della fede, anche il leggere e
scrivere; e con espresso divieto ai membri di essa di cercar rendite
o vantaggi temporali per questo titolo. Zelò l’osservanza delle
feste; cercò purgare dalle profanità carnevalesche le domeniche di
sessagesima, quinquagesima e quadragesima: sebbene però in quei giorni
esponesse il Sacramento, e facesse processioni, «strepitavano quasi
sulle porte della chiesa tamburi, trombe, carrozze di concorso, gridi
e tumulti di tornei, correrie, giostre, mascherate ed altri simili
spettacoli profani». Niuna donna, qual che ne sia lo stato, il grado,
la condizione, entri o stia in chiesa, nè accompagni le processioni
se non col velo non trasparente o zendado o tela o altro panno di tal
modo che stiano coperti tutti i capelli. Niuno entri in chiesa con
cani da caccia o sparvieri, nè con archibugi, balestre, arma d’asta o
simili, nè le appoggi alle porte o ai muri di chiesa, nè le deponga ne’
cimiterj o negli atrj[355]. I principi vogliano escludere i ciarlatani,
gli zingari, i giuochi, le smodate spese; vietino le taverne al
possibile, e vi si possa dar mangiare e bere, ma non alloggiare.

Moltissimo s’incarica della dignità e del contegno dei preti nel
vestire, nel radere la barba, nel conversare, nell’abitare. Alla tavola
del vescovo si servano due piatti, tre al più, e non confortini o
altri delicature di zuccaro. Vuol diligenza nel riconoscere le antiche
reliquie e nell’accettarne di nuove o nuovi miracoli; pose ritegni ai
troppi che andavano in pellegrinaggio o per devozione o per penitenza;
bonissime norme ai predicatori tanto per le materie e la forma de’
discorsi, quanto pel modo di porgere; e al suo clero ripeteva quel
della Scrittura, _Maledictus homo qui facit opus Dei negligenter_. I
suffraganei suoi si facessero mandare una volta l’anno una predica
da ciascun parroco, e se nol vedesser migliorare, vi spedissero un
predicatore. I morti si sepelliscano in campagna, cinta di muro; si
tenga cura delle biblioteche, ove le suntuosità de’ vecchi ha raccolto
libri d’ogni genere, e principalmente de’ manoscritti. In generale
voleva il clero oculato su’ costumi de’ fedeli, sino a tenere in ogni
parrocchia un registro della condotta di ciascuno: avrebbe anzi voluto
rintegrare le prische penitenze pubbliche, nel suo rituale raccogliendo
quelle comminate in antico ai varj peccati, fra cui v’era che, chi
consulta maghi, stia penitente per cinque anni; chi getta tempeste,
anni sette in pane e acqua; chi canta fascinazioni, tre quaresime;
chi fa legature o malìe, due anni; chi sortilegi, quaranta giorni;
chi cerca i furti nell’astrolabio, due anni[356]. E fra le penitenze
che poteansi imporre, enumera il vietar le vesti di seta e d’oro, i
conviti e le caccie; il far limosine, o mettersi pellegrini o servi in
ospedali, o visitare carcerati, o chiudersi alcun tempo in monasteri, o
pregare in chiesa a braccia tese, o tenervisi bocconi, o flagellarsi, o
cingersi il cilizio.

Il commercio dei libri sorveglia; non si tengano bibbie vulgari, nè
opere di controversia cogli eretici, senza licenza; non si lascino
andar i fedeli ne’ paesi ereticali, nemmeno a titolo di mercatura
o d’imparare la lingua; si favorisca in ogni modo il Sant’Uffizio.
Gli Oblati di Sant’Ambrogio, preti con voto di speciale obbedienza
all’arcivescovo, istituì perchè accudissero alle parrocchie più
faticose e povere, e dessero esercizj e missioni. I frati Umiliati,
arricchiti colle manifatture della lana (tom. VI, pag. 315),
possedeano nel Milanese novantaquattro case, capaci di mantenere
cento frati ciascuna, e non ne conteneano due; onde quelle rendite di
venticinquemila zecchini, godute da pochissimi, erano fomite d’orribile
depravazione. Carlo volle ridurli a disciplina, ma un d’essi gli sparò
una fucilata; di che il papa prese ragione per abolire l’Ordine, e
delle rendite di esso dotare collegi e seminarj, massime di Gesuiti.

Traversando la val Camonica, ove alcun tempo non si pagavano le decime,
Carlo non dà la benedizione, e que’ popolani ne restano sgomenti;
nella valle retica della Mesolcina fa processare severamente eretici
e maliardi[357]: illusioni che al par di certe esorbitanti pretese
di giurisdizione, come d’avere forza armata a sua disposizione, di
far eseguire le sentenze del suo fôro anche contro laici i quali non
vivessero da buoni cristiani, vorremo perdonare ai tempi, piuttosto
proclamando come profondesse ogni aver suo coi poveri, e a sovvenire
di corporale e spirituale assistenza gl’infermi d’una terribile peste
allora scoppiata, e che, prevalendo l’idea della carità a quella de’
patimenti, oggi ancora in tutta Lombardia è intitolata peste di san
Carlo.

Suo prediletto Giovan Francesco Bonomo, patrizio cremonese, vescovo
di Vercelli, dove sostituì l’uffizio romano all’eusebiano, fabbricò
il seminario affidandolo ai Barnabiti, istituì un monte di pietà
colla propria sostanza[358]; tra gli Svizzeri e i Grigioni a tutela
della fede pericolò anche la vita, e introdusse Gesuiti a Friburgo,
Cappuccini ad Altorf, poi andò nunzio apostolico all’imperatore, indi
nelle Fiandre, sempre zelando la causa cattolica. Ed essendo avvenuta
la defezione del vescovo di Colonia, fu il primo nunzio ordinario a
Utrecht, nunziatura che durò fin ai giorni nostri. San Carlo lasciò a
lui i manoscritti delle sue prediche, e n’abbiamo a stampa due poemi,
uno in lode di quel santo, uno per la vittoria di Lepanto, e altri
versi e molte orazioni e lettere e sinodi.

Delegato da Gregorio XIII a visitare la diocesi di Como, vi stampava
delle prescrizioni[359], dove insieme con evangeliche maniere ed
elevati intenti appajono esagerazioni che viepiù risaltano dopo
cessata la prevalenza ecclesiastica. I vescovi non abbiano cortine
e tappeti a fiori, non lauta mensa, non elegante suppellettile, non
vasellame d’argento, col quale potrebbero mantenere dei poveri; lor
precipuo uffizio è la predicazione, nè possono mancarvi senza potente
motivo. Nel triduo avanti Pasqua il vescovo sieda in confessionale per
ascoltare chi si presenti; ogni due anni compia la visita diocesana,
non ricevendo a tavola che tre piatti, oltre cacio e frutta: dia
facile udienza a tutti, anzi v’incoraggi i poveri; veda e spedisca
da sè quanto può. Ogni maestro faccia in man di lui professione di
fede: le feste si vogliano osservate coll’astenersi da opere servili
e dagli stravizzi. Vieta l’usar figure e anelli magici a curar uomini
od animali, le stregherie, le fasciature, il trattar feriti e mali
colla recita di certe preci e formole. Il raccoglier felci e loro semi
in dati giorni e ore; i maghi e indovini siano puniti dal vescovo,
come pure le maliarde che affascinano o uccidono fanciulli, inducono
sterilità e gragnuola. Ogni anno si rinnovi l’intimata della scomunica
a chi non denunzia fra quindici giorni qualunque eretico o sospetto di
opinioni dissenzienti dalle cattoliche; si pubblichi la costituzione di
Pio V contro chi offendesse le fortune o le persone del Sant’Uffizio;
e ogni settimana il vescovo si affiati coll’inquisitore e con alcuni
teologi e avvocati sovra il processare gli eretici. Chi bestemmia
Dio o la beata Vergine sia punito in venticinque zecchini, il doppio
se ricada, e cento alla terza volta, oltre il bando e l’infamia.
Non gli ha? alla prima stia colle mani legate al tergo, genuflesso
tutt’un giorno di festa al limitare della chiesa; se ricade, sia per
le strade battuto a verghe; alla terza, foratagli la lingua con un
acuto, indi condannato in perpetuo al remo. Crescono le pene se il reo
è cherico; altre a chi bestemmia i santi; e si pubblichino indulgenze
ai denunziatori e ai giudici. I parroci visitino ogni settimana le
case per conoscere i bisogni spirituali e temporali, e raccolgano i
viglietti della comunione pasquale.

La prebenda de’ parroci si migliori col prelevare dai benefizj
inutilmente goduti da cardinali o prelati. Freno all’avarizia de’
curiali; via i borsellini che soleano appendersi ai confessionali; via
i sepolcri elevati in chiesa; non si nieghi sepoltura per mancanza
di denaro, nè si varii secondo le fortune il suon delle campane o
la grandezza della croce. Se le donne in chiesa lascino dal denso
velo apparire pur un capello, sia colpa riservata al vescovo. Questo
ponga ben mente che nessuna fanciulla venga monacata per forza o per
seduzione; i confessori di monache non ne accettino regalo o cibo;
esse non tengano nella cella nessun arnese da scrivere, e in caso di
necessità lo chiedano alla badessa; v’abbia carceri e ceppi e catene
ne’ monasteri per quelle che violano la disciplina.

Istruzioni di tenore somigliante si diedero dappertutto. La Corte e la
città di Roma presero aspetto ecclesiastico e spirito di regola, e il
cardinale Tosco non fu eletto papa perchè lasciavasi sfuggire certi
lombardismi. La residenza fu ingiunta rigorosamente ai vescovi, come
a tutti i benefiziati; cessò l’abuso d’attribuire badie, collegiate,
vescovadi a secolari e fin a militari, che dicevano _la mia chiesa, i
miei frati_, come avrebbero detto _i miei famigli, i miei cavalli_.
Un gentiluomo tedesco, udendo sempre declamare contro i costumi di
Roma, era voluto venire accertarsene co’ proprj occhi, e ad un principe
scriveva nel 1566 come avesse invece trovato gli abitanti dediti alle
pratiche pie, rigorosi osservatori della quaresima, frequenti alla
comunione e alla visita delle chiese; la settimana santa poi dormire
per terra, e veglie, e digiuni, e tutti _gli artifizj della penitenza_
adoprati per raggiungere i beni dell’anima. E segue descrivendo quelle
commoventi solennità ponteficali del giovedì santo; e le scomuniche
lette a gran voce al popolo che le ascolta in venerabondo silenzio,
e il bombo de’ cannoni che vi tien dietro, gli davano sembianza del
terribile giorno finale. Lunghe file di penitenti disciplinandosi
giungeano a San Pietro, ove ad essi mostravansi la lancia di Longino e
il volto santo, fra singhiozzi, gridi, preghiere.

Io non accetto a piene braccia queste lodi, perchè, come costui
vede tutto santo, così altri tutto scellerato, secondo l’affetto
individuale. I carteggi dei residenti veneti di quel tempo annunziano
continui rigori contro simoniaci, adulteri ed altri peccatori; ma
da Roma scriveano il 25 settembre 1568: — In una terra della Marca,
chiamata Amandola, i fuorusciti, con quali si dice che si sono
accompagnati molti sfratati, entrati dentro, hanno usate gran crudeltà
abbruciando le chiese, e buttando a terra, e rompendo le immagini, con
gran dispregio di tutte le cose sacre; onde si dice che sua santità
ha animo di fare qualche grande provvisione per quella terra, e per
un’altra ancora vicina chiamata San Genese, poichè intende che in esse
vi sono molti eretici. Ma non è città della Chiesa che abbia nome di
averne più di Faenza: onde sua santità ha avuto a dire, che chiaritasi
un poco meglio, la vuole al tutto distruggere con levar via tutti
gli abitatori, provvedendo poi per lei di una nuova colonia; e in
questi giorni sono stati condotti qua molti di quella città per conto
dell’officio dell’Inquisizione».

Questi sfratati sono i fuggiaschi dai conventi: ma nel carteggio stesso
è pur narrato degli Amadeisti, francescani molto depravati che il
papa soppresse, surrogandovi i Minori Osservanti; e in molti luoghi,
massime nel Bresciano, a Iseo, Erbusco, Quinzano, si opposero armati,
rincacciando dai loro conventi gli Osservanti[360].

Il nepotismo non cessò, ma trasformossi, usando i papi mettersi
a fianco un nipote cardinale e un laico, che acquistavano gradi
e ricchezze ma non dominio, al modo d’un ministro de’ paesi
costituzionali. Benedetto, figlio del cardinale Accolti, si credette
che a Ginevra attingesse e odio contro i papi e idee repubblicane;
conforme alle quali ordì a Roma una congiura con giovani principali
per trucidare Pio IV, dopo il quale dicevano verrebbe quel papa
angelico, di cui più volte avea discorso il medioevo; pretendevano
essere in comunicazione coi celesti, e si prepararono al misfatto colla
confessione e l’eucaristia; fallito il colpo e scoperti, sempre ridenti
sostennero la morte, esacerbata quanto allora si sapeva, asserendo
esservi consolati dagli angeli.

Michele Ghislieri alessandrino da Bosco, di religione rigorosa e
d’integerrima vita, non andava mai che pedestre; come priore de’
Domenicani redense molti conventi dai debiti; inquisitore a Bergamo
e a Como, affrontò ingiurie e minaccie[361]; il papa l’avea creduto
opportuno a reggere la diocesi di Mondovì, sperperata dalle guerre;
fatto cardinale, non mutò tenore, nè quando venne assunto pontefice col
nome di Pio V (1566).

La sua scelta spiaceva a non pochi, sì perchè creatura dei Caraffa,
sì pel noto suo rigore; ma egli disse: — Faremo in modo che ai
Romani rincresca più la nostra morte che la nostra elezione». Nella
festa inaugurale solea gettarsi denaro alla popolaglia; indiscreta
prodigalità, in cui vece Pio V fece distribuire quella somma a’
veramente poveri e vergognosi. I mille zecchini che sciupavansi in
far cortesia agli ambasciadori, spedì ai conventi più bisognosi; e
dettogli che molti gliene faceano accusa, rispose: — Non me la farà
Iddio». Regalò i cardinali, ma li pregò di consiglio e cooperazione nel
restaurare la Chiesa, riconoscendo che il disastro di questa era venuto
dai cattivi esempj del clero. Dicendo — Chi vuol governare altrui,
cominci dal governare se stesso», restrinse le spese, mantenendosi
da monaco; nè provava bene che nello stretto adempimento de’ proprj
doveri, e nella fervorosa meditazione e adorazione, da cui si levava
in lacrime. Solo per calde istanze conferì la sacra porpora a un suo
pronipote, frate di gran virtù; un altro ch’era caduto ne’ pirati,
riscattò a lieve prezzo, e fattolo comparire a Roma in arnese da
schiavo, gli regalò un cavallo e cento scudi. Prodigò invece ai poveri,
massime in un’epidemia allora gettatasi.

Siffatto genere di perfezione suol recare gran confidenza nella propria
volontà, e pertinacia a domare l’altrui. Inaccessibile a passioni
umane, qualora v’entrasse il concetto del dovere più non guardava a
chi che fosse; onde i cardinali erano obbligati rammentargli ch’e’ non
aveva a fare con angeli[362].

Nelle cose di religione (diceva l’ambasciador veneto) egli pensa di
saperne più degli altri, e di non aver bisogno di consiglio; e dove
prende una deliberazione per bene, si ferma; nè ragion di Stato, nè
qualsivoglia cosa è per rimoverlo; lascerebbe piuttosto rovinare il
mondo che mutarsi d’opinione; anzi un cardinale diceva che, dov’egli
si affissava a queste opinioni, per sostenerle sarebbe stato uomo da
assalire solo un esercito intiero che fosse contro di lui, sperando
che, avendo buona intenzione, Dio lo dovesse ajutare[363].

Imponeva rigori di disciplina, quasi fossero i primordj del
cristianesimo; divieto ai medici di visitare tre volte un infermo se
non siasi confessato; chi profana la domenica, deva stare un giorno
in piedi avanti alle porte della chiesa, colle mani legate al dosso;
se ricade, sia fustigato per la città; alla terza volta, abbia la
lingua forata e la galera. Espulse le meretrici, poi visto venirne
di peggio, le raccolse in un solo quartiere; represse il lusso degli
abiti; vietò d’andare alle osterie, salvo i forestieri, e di dare
in feudo terre della Chiesa per qual si fosse titolo; andò scarso in
dispense e indulgenze; proibì ai curati di scostarsi dalle parrocchie,
ripristinò la regola nei conventi, restrinse la clausura delle monache;
e secondato da vescovi zelanti migliorò grandemente la chiesa d’Italia,
e pubblicò messale e breviario nuovo.

Poichè i Riformati, cresciuti in Francia e divenuti partito col nome
di Ugonotti, rompevano a guerra civile, egli soccorse di truppe e
denari la Lega che li guerreggiava; non per imposizione ma a preghiere
ottenuti centomila ducati da Roma, altrettanti dagli ecclesiastici,
e altrettanti dallo Stato, armò quattromila fanti e mille cavalli,
da unire con altri mille fanti e duecento cavalli dati dal granduca;
e scriveva al re Carlo IX: — Preghiamo il Dio degli eserciti a
dare a vostra maestà vittoria compiuta su’ nemici, sperando che,
se esso concede questo favore alla maestà vostra, ella se ne varrà
gloriosamente per vendicare non solo le sue ingiurie, ma gl’interessi
divini, e punire severamente gli orribili attentati, i sacrilegi
abbominevoli commessi dagli Ugonotti, mostrandosi così giusto esecutore
dei decreti di Dio».

Guidava quell’esercito italico il conte Sforza di Santa Fiora; e i
ventisette vessilli, tolti da questo agli eretici, furono sospesi
con gran pompa nella basilica Laterana il 1570. Al duca d’Alba che
combatteva gli eretici in Fiandra, Pio V spedì il cappello benedetto;
contro l’Inghilterra, calda avversaria della santa Sede per opera
della regina Elisabetta, avea permesso adoperare tutti gli averi della
Chiesa, non eccettuati calici e croci; ed egli medesimo proponeasi
d’andar a dirigere la guerra. A tali concetti lo portavano il suo
secolo e il suo posto. Egli vedeasi preceduto da ducentoventinove
papi, che il voto popolare e lo Spirito Santo aveano fatti capi
della cristianità, mentre novatori di jeri, senza missione o
miracoli, voleano scindere l’unità gloriosa. Quei papi aveano salvato
l’incivilimento col congiungere tutti i Cristiani contro l’islam: ora
i Turchi sovrastavano con nuova minaccia, e intanto i regni cristiani
si straziavano l’un l’altro. Pio V operava dunque come un generale in
guerra, dove il rigore è indispensabile per assicurare la vittoria;
poi fissava i pensieri nel riparare all’irruzione dei Turchi; e in un
secolo tanto scommesso potè armare un esercito cristiano, e a Lepanto
riportare l’ultima vittoria che la cristianità unita ottenesse sopra la
mezzaluna.

Pretendeva sostenere nel pieno vigore la bolla _In cœna Domini_,
negando ai principi il diritto d’imporre nuove gravezze ai sudditi; e
poichè i tempi e i regnanti più nol soffrivano, serie contraddizioni
incontrò: lo stesso Filippo II rifiutava questa bolla, pretendeva
necessario l’_exequatur_ regio, ed ebbe a scrivergli non volesse
porsi all’avventura di vedere quel che possa un re potente spinto
all’estremo.

Saputo che d’eretici formicolava Mantova, vi spedì Camillo Campeggi,
teologo del concilio, il quale carcerò e processò molti, e otto
condannò a pubblica abjura in San Domenico. I costoro parenti cercarono
levar rumore per impedire l’atto, ma non poterono: onde insidiarono
la vita dell’inquisitore, e ferirono due frati la notte di Natale.
Il duca Guglielmo, ch’erasi professato ligio all’inquisitore sino a
fargli da sbirro se occorresse, mandò severo bando contro que’ procaci,
ma insieme chiese al papa rimovesse il Campeggi (1568). Il papa non
v’assentì, imputò anzi que’ disordini alla tepidezza del duca, e spedì
colà san Carlo col cardinale Commendone, per cui opera fu infervorata
l’Inquisizione, e procedure gravissime e pubbliche abjure si compirono,
non senza que’ supplizj che la libera America oggi ancora infligge
ai Negri, e che l’alto concetto della santità della Chiesa ci spinge
a deplorare. Anche quelli che di là eransi sparsi pel resto d’Italia
perseguitò alacremente, finchè tutti gli ebbe in mano.

Tanta severità non diminuiva nel santo papa la mite semplicità. Con
un compagno di fanciullezza avea piantato per trastullo una vigna,
dicendo, — Del vino di questa nessun ne berrà». Or ecco comparirgli
l’invecchiato compagno con un barlotto, e offrirglielo rammemorandogli
quel detto, e — Allora vostra santità non era ancora infallibile».
Viaggiando da Milano a Soncino, s’imbattè in un servitorello, che,
compassionandone la stanchezza, gli fece deporre sul suo somiere la
bisaccia, e gliela recò fin alla destinazione: Pio se ne sovvenne, e
mandatolo a cercare, gli conferì un uffizio in palazzo.

Sentendosi morire, Pio visitò le sette chiese, baciò la scala santa
_per congedarsi da quei sacri luoghi_; e la sincerità della sua
devozione fece che, malgrado l’austerità, il popolo l’amasse vivo,
morto lo venerasse: Bacone meravigliavasi che la Chiesa non noverasse
fra i santi questo grand’uomo; e di fatti egli fu l’ultimo papa
canonizzato.

Per la solita altalena gli fu dato successore Ugo Buoncompagni
bolognese (1572), che volle chiamarsi Gregorio XIII, arrendevole e
clemente fin a scapito della giustizia. Le inclinazioni sue mondane
dovè reprimere a fronte dell’opinione morale, tanto che a fatica potè
favorire un proprio figliuolo, niente i nipoti; esatto del resto
ai doveri di capo dei fedeli, ad elevar alla mitra i migliori, a
diffondere l’istruzione. Secondo i decreti tridentini, mandò visitatori
apostolici che chiedeano i conti delle chiese, de’ luoghi pii, delle
fraternite; nel che trascendendo, eccitavano scontentezze. Spendendo
quanto Leon X per riparare alle rotte cagionate da questo, fondò e dotò
ben ventitre collegi, e all’apertura di quello di tutte le nazioni si
pronunziarono discorsi in venticinque favelle; rifondò il Germanico,
palestra di futuri atleti; uno pei Greci, che vi erano allevati al modo
e col linguaggio e il rito patrio; uno Ungarico, uno Illirico a Loreto,
uno pei Maroniti, uno per gl’Inglesi; rifabbricò il collegio Romano,
istituì quel de’ neofiti, poi ne seminò Germania e Francia, e fin tre
nel Giappone; erogò due milioni di scudi in sussidiare studenti, e un
milione per monacare o maritare zitelle bisognose[364]. A suggerimento
di lui, il cardinale Ferdinando Medici aprì stamperia di lingue
orientali, spedì in Etiopia, ad Alessandria, in Antiochia eruditi
viaggiatori, massime Giambattista e Girolamo Vecchietti fiorentini, che
ne recarono codici.

Pio IV avea destinato una congregazione di cardinali a correggere
il decreto di Graziano, nel quale si trovavano misti il falso col
vero[365], canoni confusi o mutili, erronea cronologia. Compito il
lavoro sotto Gregorio XIII, uscì in magnifica edizione il _Corpo del
diritto canonico_, migliorato assai, se non affatto scevro d’errori e
di false decretali. Il primo _Bollario_ comparve nel 1586, ove Laerzio
Cherubini collocò cronologicamente le costituzioni pontifizie da Leone
I a Sisto V; Angelo Maria suo figlio lo aumentò, poi Angelo Lantusca
e Paolo di Roma: collezioni superate dal _Bullarium Magnum_ del 1727
che va da Leon Magno fino a Benedetto XIII, e dalla collezione di Carlo
Coquelines fatta a Roma dal 1789 al 48, a cui Andrea Barberi nel 1835
aggiunse le costituzioni fino a Pio VIII.

Gregorio XIII immortalò il suo pontificato colla riforma del
calendario. È noto (vedi Appendice II) come Giulio Cesare lo
correggesse, fissando l’equinozio di primavera al 25 marzo, e l’anno
di trecensessantacinque giorni e sei ore, cioè undici minuti e dodici
secondi più del vero; talchè ogni centonove anni l’equinozio s’anticipa
d’un giorno. La Chiesa, che dovette occuparsene a motivo che la pasqua
cade nel plenilunio succedente all’equinozio di primavera, al concilio
Niceno del 325 trovò questo che rispondeva al 23 marzo, ma non si seppe
indovinarne la ragione.

Nel 1257 la precessione era di undici giorni; e già d’allora si parlò
d’una riforma, spesso tentata, non mai riuscita; in tutti i concilj, e
più nel Tridentino se ne discorse; e al fine Gregorio XIII, convocati
a Roma i personaggi meglio versati in tali materie, e singolarmente il
perugino Ignazio Danti domenicano e il gesuita Clavio di Bamberga, fece
librare le varie proposizioni; ma la formola vera fu rinvenuta da Luigi
Lilio medico calabrese, e compita da suo fratello Antonio. Il papa nel
1577 ne mandò copia a tutti i principi, le repubbliche, le accademie
cattoliche; e avutane l’approvazione, nel 1582 pubblicò il nuovo
calendario, sopprimendo dieci giorni fra il 5 e il 15 ottobre. L’anno
vi è fissato di trecensessantacinque giorni, cinque ore, quarantanove
minuti e dodici secondi; e che ogni quattro anni secolari, uno solo sia
bisestile; correzione tanto prossima al vero (365^g 5^o 48^m 55^s), che
solo dopo 4238 anni i minuti residui formeranno un giorno.

Per verità allora si sarebbe potuto, invece del ciclo di quattrocento
anni, adottarne uno di trecencinquantacinque, che invece dell’errore
di ventisette secondi l’avrebbe dato soltanto di un decimo di secondo
sull’effettiva durata dell’anno: sarebbesi potuto concordare il
cominciamento dell’anno col solstizio, e di ciascun mese coll’entrata
del sole ne’ varj segni dello zodiaco, e assegnare trentun giorno a
quelli fra l’equinozio di primavera e l’autunnale, trenta agli altri, e
scemo il dicembre.

Più che questi difetti, spiaceva ai Protestanti che il papa comandasse,
fosse anche in fatto di calendario; è un attentato alla libertà dei
principi; è un invadere l’indipendenza de’ popoli; ne va dell’onore e
della dignità dell’impero germanico; compromette le libertà gallicane;
è un’ordita de’ Gesuiti; è un primo passo, che chi sa dove menerà!
Com’è stile dell’opposizione parlamentare, se non altro voleasi
mettervi qualche restrizione; e i Grigioni proponevano di levare
cinque giorni invece di dieci; il giusto mezzo! Di fatto furono lenti i
principi ad accettarlo; solo nel 1699 vi s’acconciarono i Protestanti
di Germania, nel 1700 l’Olanda, la Danimarca, la Svizzera, nel 1752
l’Inghilterra, nel seguente la Svezia, e non ancora i Russi nè i Greci,
che perciò trovansi in ritardo di tredici giorni[366].

Poco poi, nella congregazione _De propaganda fide_, dovuta a Gregorio
XV e a suo nipote Lodovico Lodovisi, tredici cardinali, tre prelati,
un secretario furono destinati a diffondere la religione e dirigere i
missionarj; che con portentosa attività dall’Alpi alle Ande, dal Tibet
alla Scandinavia, dall’Irlanda alla Cina si spargono a convertire
Protestanti, Maomettani, Buddisti, Nestoriani, Idolatri. Mentre la
civiltà non portava ai selvaggi che l’acquavite per ubriacar sè, e le
armi per uccider altri, i prodigi dell’apostolato, coll’eroismo più
disinteressato e coi miracoli più insigni, si rinnovavano specialmente
nelle missioni delle due Indie, sicchè da tante perdite in Europa
i papi erano consolati ricevendo ambasciadori dall’Abissinia, dal
Giappone, dalla Persia, dagli antichi regni d’Oriente e dai nuovi
dell’America, dove s’istituivano vescovadi e conventi, scuole e
spedali. Urbano VIII nel seminario Apostolico preparò un vivajo di
missionarj e un rifugio pei prelati che la Riforma spogliava: il
cardinale Antonio Barberino vi istituì dodici posti per Georgiani,
Persi, Nestoriani, Giacobiti, Melchiti, Copti, sette per Etiopi, sei
per Indiani o Armeni.

I papi entrarono nella speranza d’acquistare il mondo slavo, quando
perdeano il germanico. La Russia era per anco straniera all’Europa,
e un viaggio in essa equiparavasi alla scoperta d’un paese nuovo. I
granprincipi si lusingavano di farsi accettare nella società europea
per mezzo dei papi, fin da quando al vescovo di Modena spedivano
pregando inviasse missionarj a diffondere colà il vangelo: e Innocenzo
IV ne spediva di fatto nel 1247, dando anche il titolo di re a Daniele
Galitsky[367]. Ma quella nazione aderì allo scisma greco: poi quando
cadde Costantinopoli, i granprincipi elevarono la pretensione di
sottentrare ai Cesari, fomentata dai molti Greci che in Moscovia
cercarono ricovero; e Geremia, patriarca esiliato di Costantinopoli,
nell’istituire il patriarcato russo diceva: — L’antica Roma è caduta
nell’eresia; la nuova sta in mano degli infedeli; vera Roma è Mosca».

Tommaso Paleologo, fratello dell’ultimo imperatore, da Corfù ove
regnava era fuggito a Roma portandovi il teschio di sant’Andrea,
e donandolo al pontefice, dal quale ebbe cortesie e onorificenze.
Sua sorella Sofia principalmente si attirò stima e ammirazione per
la bellezza non meno che per le virtù; e il cardinale Bessarione,
convertitala alla fede romana, sperò per mezzo di lei acquistare
alla Chiesa nostra la Russia, e per tal via estirpare lo scisma.
Ivan III aveva allora redenta la Moscovia dalla servitù de’ Tatari:
e un Giovanni Franzin monetiere italiano, che viveva a quella corte
fingendosi di religione greca, si fece mediatore tra Paolo II e
Ivan, il quale accolse le proposte nozze, per cui ereditava ragioni
sull’impero d’Oriente: ma ricevuta ch’ebbe la sposa, non che venire
alla nostra fede, ne staccò anche Sofia.

Ventott’anni più tardi Alessandro VI ripigliò pratiche onde
Ivan s’armasse contro i Turchi. Un capitano Paolo genovese offrì
d’aprir nuova via alle Indie traverso la Russia, e Leon X profittò
dell’occasione per ispacciare lettere a Basilio IV, esortandolo
ad unire le due Chiese, dal che sperava non solo il recupero delle
genti slave, ma un contrasto all’invasione musulmana. Confortato da
buone risposte, recate da quel capitano, il papa spedì un vescovo a
Basilio: e dopo molt’anni, pontificando Clemente VII, giunse a Roma
un’ambasciata da Mosca, condotta da esso capitano Paolo; ammirò le
pompe sacerdotali, ma ritornò disconchiusa. Carlo V imperatore indusse
Giulio III a rannodare trattative con Ivan IV, che desiderava il
titolo di re, e al quale il papa lo prometteva se tornasse all’unità
cattolica, per fare di concerto guerra a Turchi e Tatari. S’avviarono
dunque corrispondenze fra il Vaticano e il Kremlin, ma i principi
d’Europa repugnavano dall’accomunare il titolo di maestà a cotesto
capo di orde. Pio IV gli scrisse di nuovo perchè deputasse prelati al
concilio di Trento; ma monsignor Giovanni Giraldo, portatore dello
spaccio, fu attraversato prima dalle gelosie del re di Polonia, poi
dalla renuenza dello czar. Questo, allorchè si trovò umiliato da
Stefano Batori nuovo re di Polonia, interpose la mediazione della corte
di Roma, la quale però avea cessato di confidare in lui, e gli spedì
non un prelato, ma il gesuita Possevino, che ce ne lasciò una delle
relazioni più interessanti.

Nato a Mantova nel 1534 di nobili poveri, era entrato educatore in
casa del cardinale Ercole Gonzaga, presso cui conobbe quanto di meglio
fioriva in Italia; e reciprocamente stimato, e costituito abate di
Fossano, vedeva aprirsi avanti uno splendido avvenire, al quale preferì
lo zelo da Gesuita. E fu de’ più operosi in quell’operosissima società;
adoprato in missioni scabrosissime, fondò collegi in Piemonte, in
Savoja, in Francia; fu dal papa spedito in Ungheria, in Polonia, in
Isvezia, nel che, oltre i servigi resi, giovò col far conoscere i paesi
settentrionali. Nel cuore della vernata nel 1582 giunto a Mosca con
cinquanta fra interpreti e dottori, lungamente ebbe a lottare colle
astuzie e colle brutalità di Ivan IV, che al fasto degl’imperatori
bisantini accoppiava la fierezza d’un barbaro: potè rimetterlo in pace
col re di Polonia, e menare a Roma una deputazione di lui per trattare
dell’unione. Ma il Possevino, la cui relazione è contata anche dai
Russi come capitale documento sul loro paese, s’avvide non potere nulla
sperarsi fra tanta ignorante docilità del vulgo, tanta presunzione de’
bojari e del czar. E così avvenne[368].

Tanto erasi ravvivata la santa attività dei pontefici! Poi Sisto V,
sebbene più gran principe che gran pontefice, fin settantadue bolle
pubblicò, tutto zelo per l’interezza della fede e del costume; fulminò
gli adulteri, le meretrici, l’astrologia giudiziaria; sull’usura e sui
contratti di società diede le norme che regolano ancora i canonisti,
prefisse a settanta il numero de’ cardinali, e li voleva irreprovevoli.

Grandi uomini illustrarono allora la porpora e la mitra; ed oltre i
già menzionati (p. 443), fra gli italiani menzioneremo il Rusticucci,
uomo perspicace quanto retto; il Salviati, vivo tuttora nella
lode de’ Bolognesi; il Sartorio, severissimo e degno di star capo
dell’Inquisizione; Gabriele Paleotto bolognese, versatissimo nelle
leggi e ne’ canoni, sicchè a Trento era consultato continuamente;
in concistoro si oppose alla tassa che voleasi levare per ajutare i
Cattolici nelle guerre civili in Francia; poi destinato arcivescovo
a Bologna, adoprò la vita in istituirvi seminarj, congregazioni,
confraternite, raccolse uomini sapienti, quali l’Aldrovandi, il
Sigonio, il Pendusio[369]. Il cardinale Lorenzo Campeggi, arcivescovo
della stessa chiesa, fu adoperato in affari difficilissimi, e massime
in quello del divorzio di Enrico VIII, e nella dieta di Augusta.
Altrettanto fu di suo nipote cardinale Tommaso, che nell’opera _De
auctoritate ss. conciliorum_ mostra la necessaria dipendenza di
questi dal papa, salvo i casi dati. Clemente Dolera genovese, vescovo
di Foligno, combattè gli errori correnti, e lasciò un _Compendium
institutionum theologicarum_, molto reputato. Tolomeo Gallio di Como
aperse alla sua patria inesausti tesori di beneficenza, fra i quali
un collegio, dove i fanciulli della diocesi dovessero educarsi, non
in grammatiche solo e retoriche, ma nelle arti e ne’ mestieri; scuole
tecniche, quali il nostro secolo le proclama. Fabio Chigi, legato
pontifizio per la pace di Westfalia, poi papa, teneva sempre una
bara sotto al letto e un teschio sulla mensa non imbandita che di
radici. Il beato Paolo d’Arezzo teatino, vescovo di Piacenza che trovò
sviatissima, poi di Napoli e cardinale, cooperò con san Carlo. Di
Annibale da Capua arcivescovo di Napoli servono ancora di modello le
visite diocesane. Giampietro Maffei bergamasco scrisse storie latine
di sapore liviano. Tra gli auditori di Rota si nominano tuttora il
cardinal Mantica friulano, le cui opere fecero testo nella scuola e
nel tribunale; l’Arrigone, men dato ai libri che agli affari, tra cui
conservossi intemerato. Serafino Olivieri, le cui decisioni «portano
tanto vantaggio sopra l’altre di tutti i comuni fôri, come egli lo
godeva sopra gli altri auditori del proprio suo tribunale», dice
il cardinale Bentivoglio. Il quale aggiunge che «benchè l’Arrigone
(milanese nato a Roma) non eguagliasse Mantica nello strepito esteriore
della stampa, non gli cedeva però nella qualità più essenziale della
dottrina, e lo superava d’assai nell’abilità dei maneggi».

Feliciano Scosta da Capitone servita adoprò assai contro gli Ugonotti;
poi ad istanza di san Carlo e per autorità di san Pio V promosso
arcivescovo d’Avignone, salvò questa città dalle dottrine e dalle armi
dei Protestanti (1511-77). Lungo sarebbe ripetere quelli che nelle
nunziature furono spediti a sfidare o dissipare le procelle di quel
tempo. Tale corredo i pontefici s’erano messo attorno, invece dei poeti
e dei soldati d’un secolo prima.

Il cardinale Carlo Caraffa, nunzio apostolico in Germania, scrisse la
_Germania sacra restaurata_, ove divisa i progressi della Riforma ne’
paesi tedeschi, e le agitazioni che ne seguirono fino alla guerra dei
Trent’anni. Giovenale Ancina di Fossano, amico a Roma de’ gran santi
e de’ gran dotti, si sottrasse alle dignità per rendersi oratoriano;
e cansato più volte l’episcopato, al fine fu costretto accettare il
povero e pericoloso di Saluzzo, ove potè mostrare zelo e dottrina,
finchè il veleno gli accorciò la vita. La chiesa di Gubbio fu riformata
da Federico Fregoso genovese, dottissimo in greco ed ebraico, e
fautore di quanti vi si applicavano; ravvolto nelle vicende della
famiglia e della patria sua, e nelle guerre contro i Barbareschi,
adoprato in gravissimi negozj, caro ai migliori d’allora, desiderato
dai Protestanti che il finsero aderente alle loro opinioni[370].
Luigi Lippomano vescovo di Padova, reduce di Germania nel 1553,
stampò _Confirmazione e stabilimento di tutti li dogmi catolici con
la subversione di tutti i fondamenti, motivi e ragioni delli moderni
Eretici_; raccolse con critica inusata fin allora le vite dei santi
fino ai tempi di Bernardo, conservando così molti preziosi racconti
di greci e latini. Lodovico Beccadelli, insigne letterato, amico
de’ valenti, e massime del Bembo, del Contarini, del Polo, dei quali
scrisse la vita, segretario al concilio di Trento, amministratore di
diversi vescovadi, poi vescovo egli stesso di Ragusi, morì in odore
di santità prevosto di Prato. Carlo Bescapè barnabita milanese, usato
da san Carlo in molti maneggi, poi vescovo di Novara ove fondò il
seminario, scrisse molte opere di diritto ecclesiastico e storia.

Quanto il sentimento religioso si fosse ravvivato, lo indicano i
tanti miracoli allora proclamati, e le frequenti apparizioni, alla cui
storia abbisogna il prolegomeno della fede. La beata Vergine appare a
Caravaggio, ai Monti in Roma, a Narni, a Todi, a San Severino, nella
val San Bernardo nel Savonese; sul monte Pitone a Brescia ordina
a un pastore di fabbricarvi una chiesa. L’effigie di Subiaco suda:
davanti al santo Crocifisso di Como si spezzano le catene opposte alla
processione. Una Madonna piange a Treviglio (tom. IX, pag. 382); una
parla in San Silvestro; una in Sant’Eugenio di Concorezzo dà segni
miracolosi; una è prodigiosamente scoperta a Portovenere. Nel 1539
a Castiglione delle Stiviere in casa Bonetti spaccandosi un grosso
noce, se ne staccò una grossa scheggia, sulla quale trovossi finamente
intagliata un’immagine della Vergine col Bambino: la vista recuperata
dalla padrona di casa fece prestarle venerazione, e collocatala ne’
Cappuccini, si illustrò per grazie concedute. Un soldato a Lucca nel
1588, perdendo al giuoco, avventa bestemmiando i dadi a una Madonna,
ma in quell’atto gli si rompe il braccio; pel qual miracolo i doni
fioccarono, e dugencinquanta processioni in mezz’anno vi accorsero,
dalle cui oblazioni si fabbricò la Madonna de’ miracoli. Nel 1503,
assediando gli Spagnuoli Oria in Terra d’Otranto, san Barsanofio
patrono di quella città apparve in forma di vecchio con abito
pontificale, e ordinò ai nemici non molestassero più quella terra, lo
che fecero, accettando a dedizione i Francesi.

Un Gesuita nel 1569 sotto il nome di Maria associava i giovani
studenti, e da Napoli a Roma, Genova, Perugia quella congregazione
si diffuse tanto, che già nell’84 ogni città la possedeva, e
Gregorio XIII l’arricchiva di indulgenze. Dalle scuole trapassarono
siffatte unioni di spirito alle varie condizioni, artigiani e
nobili, mercadanti e magistrati, tutti invocanti Maria in concordia
di formole. A Roma s’istituì l’oratorio del Divino Amore, al quale
appartenevano Contarini, Sadoleto, Ghiberti, Caraffa, che poi furono
cardinali, e Gaetano da Tiene e il Lippomano. In Firenze Ippolito
Galantino setajuolo, fin dall’adolescenza applicato ad amare e
soccorrere i poveri, col sussidio del cardinale Alessandro Medici
fondava la congregazione de’ Vanchetoni o della Dottrina cristiana,
che dura fin oggi principalmente a vantaggio de’ lavoranti in seta.
Ivi stesso, a persuasione di frate Alberto Leoni, fondavasi una pia
casa de’ catecumeni. In Milano un prete Castellini da Castello formò
la compagnia della Riforma cristiana, che in somma era quella del
catechismo, e che poi prese il nome di _Servi de’ puttini_. Frate
Buono da Cremona vi introdusse la devozione delle quarant’ore, il sonar
l’agonia alle ventun’ore, e un asilo per le pentite a Santa Valeria.
Potremmo aggiungere le congregazioni del Buon Gesù, della Madre di Dio,
della Buona Morte, e d’altri nomi.

I frati aveano cessato la missione politica sostenuta nel medio evo, e
al più per obbedienza andavano ambasciadori o pacieri; ma Ordini nuovi
o antichi rigenerati tendeano a rintegrare il sentimento religioso,
e ringiovanire il monachismo quando i Protestanti lo abolivano.
Già prima san Francesco da Paola calabrese avea istituiti i Minimi,
che in Ispagna furono detti _padri della Vittoria_ perchè alla loro
intercessione s’attribuirono i trionfi sopra i Mori; e in Francia
_Boni uomini_, perchè così era indicato il loro fondatore alla corte
di Luigi XI. I Francescani ebbero le varie riforme dette degli Scalzi,
de’ Minori conventuali, della stretta Osservanza, poi de’ Cappuccini.
Questi impetrarono di venire esentati dalla licenza di poter possedere,
che il concilio di Trento avea data anche agli Ordini mendicanti;
e come i Gesuiti per la società colta, così essi erano fatti pel
vulgo, tra cui si diffondeano a consigliare e predicare, fin triviali
e buffi; ma dal deriderli di ciò e delle assurde prove del loro
noviziato e delle minuziose osservanze si asterrà chi non dimentichi
come mostraronsi eroi nelle pesti ricorrenti allora, e sempre furono
spruzzati dal sangue de’ suppliziati. Ambrogio Stampa-Soncino milanese,
genero di Anton da Leyva, abbandonò le dignità per vestirsi di
quell’abito: udendo per le vie di Milano un che bestemmiava, prese a
correggerlo, e percosso da questo con uno schiaffo, gli offrì l’altra
guancia dicendo, — Batti, ma cessa di bestemmiare»; col quale atto
corresse il violento: andò poi apostolo fra’ Barbareschi, convertendo e
riscattando, ove morì il 1601. Alfonso III duca d’Este a trentott’anni
depone il dominio, e si fa cappuccino a Merano del Tirolo, dove
assiste appestati, converte eretici. Giuseppe da Leonessa, mandato
missionario in Turchia, a Pera catechizza i galeotti, onde i Turchi lo
appiccano per un piede, poi lo esigliano: roso da un orribile cancro,
e dovendosi operarlo, non volle esser legato, dicendo, — Datemi il
Crocifisso, e mi terrà immobile più di qualunque legame». Lorenzo da
Brindisi, professato a Verona, a Padova si diede a migliorare i costumi
dei giovani studenti; chiamato a Roma per procurare la conversione
degli Ebrei, discuteva co’ rabbini senza iracondia nè personalità,
invitandoli ad esaminare il testo biblico; poi tolse ad esortare i
principi tedeschi contro Maometto III, e a capo dell’esercito cavalcò
colla croce in mano nella battaglia dell’11 ottobre 1611, che volle
attribuirsi a miracolo di esso; indi fu adoperato a stringere leghe e
menare ambasciate nella guerra dei Trent’anni.

Già mentovammo Sisto da Siena ebreo, che di buon’ora guadagnato alla
Chiesa e vestito francescano, predicò con molto grido e frutto, ma
ne prese superbia e cadde in errori tali che fu condannato al fuoco
dal Sant’Uffizio. Il Ghislieri, commiserando tanta gioventù e tanta
scienza, si propose di convertirlo, e malgrado il puntiglio ch’e’
metteva nel non recedere dalla propria opinione, vi riuscì, ne ottenne
la grazia da Giulio III, e messolo ne’ Domenicani, l’adoprò utilmente
sì a predicare, sì a convertire ebrei, de’ quali un gran numero s’era
raccolto a Cremona, e divulgava libri di loro fede. Sisto sceverò le
opere utili, come il Talmud e altre, da quelle che non poteano recar
giovamento di sorta, e le mandò alle fiamme; e nella sua _Biblioteca
sacra_ trattò de’ libri sacri, de’ loro interpreti, e degli errori che
ne derivarono. Di quarantanove anni morì il 1569 a Genova.

Paolo Giustiniani avea riformato i Camaldolesi colla nuova
congregazione di Monte Corona detta degli Eremiti; come fuor
d’Italia santa Teresa riformò le Carmelitane. Francesco di Sales
fondò le Visitandine; Giuseppe Calasanzio le Scuole pie; Giovanni
di Dio i Fate-bene-fratelli; Luigia di Marillac le Suore della
carità, propagatesi ben presto in Italia. Frà Pietro spagnuolo,
carmelitano scalzo, predicando a Napoli, raccoglie quattordicimila
ducentottantacinque reali, coi quali compra il palazzo e i giardini
del duca di Nocera, e li trasforma in chiesa e monastero della Madre
di Dio; mentre le Teresiane scalze vi compravano per sedicimila ducati
il palazzo del principe di Tarsia, e ne faceano il loro monastero di
San Giuseppe. Il palazzo Caracciolo divenne ospedale de’ Frati della
carità; il Seriprando, chiesa de’ Filippini la più sontuosa forse
di Napoli; i Camaldolesi vi occuparono quella deliziosa altura, i
Cappuccini la Concezione, i Domenicani la Sanità, i Paolotti la Stella.

Francesco Adorno genovese fu il primo rettore del collegio gesuitico di
Milano, provinciale di Lombardia, e direttore spirituale di san Carlo.
Nel 1581 diventò loro generale il padre Aquaviva, dell’insigne famiglia
dei duchi d’Atri, e per trentaquattro anni zelò la gloria dell’Ordine
suo, intorno al quale e alla religione stese molti scritti: a lui
sono attribuiti i _Monita secreta_, libercolo assurdo, riconosciuto
falso perfin in un libro ostilissimo, stampato poco poi sui Gesuiti
moderni[371].

Da don Ferrante, terzo principe di Castiglione delle Stiviere, prode
condottiero di Filippo II contro gl’inglesi e i Mori, nacque Luigi
Gonzaga, che lasciate le grandezze per farsi gesuita, ne’ brevissimi
anni di vita si rese modello della perfezione interiore, e insieme
della carità, per la quale egli principe andava accattando per Roma
di che soccorrere ai poveri infermi. Avea avuto direttore spirituale
Girolamo Piatti, gesuita milanese di straordinaria virtù, che molti
trasse alla vita monastica coll’_Ottimo stato di vita del religioso_.

La Compagnia fu illustrata pure dal polacco Stanislao Kostka, che
moriva a Roma il 1568; e da Francesco Borgia duca di Candia, vicerè di
Catalogna, grand’amico del poeta Garcilaso de la Vega, e che venuto a
Roma, ne fuggì per paura che Giulio III il facesse cardinale. Il padre
Pietro Venosta valtellinese, spedito da sant’Ignazio a ristabilire
la religione in Sicilia, vi fu ammazzato nel 1564. A Napoli il padre
Salmerone predicava per le piazze, e andava nelle pubbliche librerie
cercando i cattivi libri da bruciare. Il padre Palmia convertì molti
studenti a Padova, fra cui tre fratelli Gagliardi e Antonio Possevino,
divenuti luminari della Chiesa. Achille Gagliardi, le cui opere
spirituali vorrebbero mettersi a fianco all’_Imitazione di Cristo_, con
zelo e abilità diresse la gioventù nei collegi di Torino, di Milano, di
Venezia, di Brescia; e già più che sessagenario faceva sin tre prediche
al giorno. Il padre Landini apostolò la Lunigiana, la Garfagnana,
il Lucchese, Spoleto, Modena, Reggio, ove trovava molto luteranismo,
«ammorbatine perfino de’ sacerdoti, e professarlo dove più e dove meno
alla scoperta» (BARTOLI); rabbonacciò ire, principalmente a Careggio in
Garfagnana; poi passò con egual frutto nella Capraja e nella Corsica.
Bernardino Realino da Carpi, caro alle Corti per bei modi, ai dotti per
scienza filologica e legale, lasciò gl’impieghi e gli onori per entrare
gesuita, e colla dolcezza, la pazienza, la carità si attirò la pubblica
venerazione.

Come gli altri Ordini nuovi, essi vigilavano sui costumi, e fra il
resto abbiamo una memoria che i Gesuiti di Parma sporgeano a Pierluigi
Farnese contro la immoralità propagantesi «in disonore di Dio, in
dannazione delle anime, e molte volte in perdizione di molti corpi e
facultadi». Lamentano dunque il poco timor di Dio, manifestato nelle
chiese, dove si conversa e negozia e passeggia; usuali le bestemmie,
e il lavorare ne’ dì festivi; le bettole infestate da carte e dadi,
donde sciupamento di denari e frequenti risse; molti concubinarj anche
ecclesiastici, e adulteri pubblici: i ragazzi fanno alle sassate per
le strade; altri furfantoni gagliardi oziano per città e sui sagrati,
giocando, strepitando, bestemmiando; numerose e sfacciate le meretrici.
Domandano pure si temperi il rigore delle pene statutarie, che
usurpano denari e tempo ai poveri; si assistano meglio i prigionieri e
giustiziati; si prevengano i contratti usurarj[372].

E in ogni Ordine ci si presentano numerosi operaj della vigna di
Cristo, che, nella educatrice vigilanza delle contese, nelle maschie
gioje della persecuzione, nella dignità del pericolo permanente,
divennero santi. Ma al clero secolare specialmente facea mestieri
di riforma. Gaetano Tiene nobile veneto, buona e placida creatura,
nel pregare piangeva, e desiderava «riformare il mondo, ma senza che
il mondo s’accorgesse di lui». Come l’angelo all’aquila, s’accordò
coll’impetuoso Gian Pietro Caraffa vescovo di Chieti, che fu poi
Paolo IV, e che, visto come l’abbandonarsi al cuor suo non gli avesse
che cresciuto inquietudini, cercò la pace in seno di Dio; e sul
monte Pincio, or così ridente e popoloso, allora deserto, nel 1524
istituirono i cherici regolari Teatini, preti con voti monastici, ma
senza regole strette affine di liberamente attendere alla predicazione,
ai sacramenti, ai malati, ai prigionieri e giustiziati, rendere al
culto il lustro antico, indurre frequenza ai sacramenti, predicare
senza superstizioni, convertire eretici; professando la povertà eppur
senza mendicare, aspettando la limosina dalla mano che veste i gigli
de’ campi. Nel sacco di Roma spoglio e torturato, Gaetano ne partì
co’ suoi senz’altro che il breviario, e a Venezia furono raccolti in
San Nicola di Tolentino. Gran luce ne fu ben tosto Andrea Avellino,
il quale nel far l’avvocato avendo commessa una bugia, se ne pentì a
segno, che lasciò il mondo. Incaricato di metter riparo agli scandali
delle monache di Sant’Arcangelo in Napoli, s’inimicò un giovinastro,
che lo fece pugnalare; guarito dalle ferite, si rese teatino, e questa
religione andò a fondare a Milano, a Piacenza, a Parma. Vecchissimo,
nel cominciare la messa cascò d’apoplessia. Il suo scolaro Lorenzo
Scupoli di Otranto fu autore del _Combattimento spirituale_ (1608), che
Francesco di Sales tenea sempre a lato.

A Milano sperperata dalle guerre, Anton Maria Zaccaria da Cremona,
Bartolomeo Ferrari e Giacomo Morigia patrizj milanesi 1533 istituirono
i Barnabiti, per far missioni, dirigere collegi, sussidiare i vescovi,
con voto di non brigare cariche nella loro congregazione, nè fuori
di essa accettarne se non con dispensa del pontefice. Agostino
Tornielli novarese ricusò molti vescovadi per attendere alla devozione
claustrale, nella quale compose gli _Annali sacri e profani dalla
creazione fino alla redenzione_, primo buon tentativo a chiarire le
difficoltà de’ sacri libri, e serve d’introduzione agli _Annali_ del
Baronio.

Domenico Sauli, letterato, filosofo, storico, politico eppur
negoziante, da Genova si mutò a Milano, dove nacque Alessandro, che
entrato barnabita, fu inviato a Pavia, dov’egli fu de’ primi e meglio
meriti nel riformare l’insegnamento filosofico e teologico. Iniziati
gli allievi nel greco, al qual uopo compilò una grammatica, mettevali
alla _Logica_ d’Aristotele, il libro più opportuno, a sentir mio,
per restaurare ciò che dalle rivoluzioni è più guastato, il buon
senso. Uno scolaro Alessandro Salvi leggeva il testo, uno volgevalo
in latino; il maestro snodava i principi, evitando l’impaccio dei
chiosatori. Alla metafisica univa lo studio della geometria. Ai teologi
proponeva la _Somma_ del maggior filosofo del medioevo, la quale egli
aveva talmente digerita che in Pavia si diceva, — Se si perdesse la
Somma di san Tommaso, donn’Alessandro potrebbe dettarla per intero».
Sull’insegnamento del diritto, sgombero anch’esso dai chiosatori, si
consultò con Marcantonio Cucchi, il quale ivi insegnava i canoni; e
il ricambiò con pareri per le lodate sue _Istituzioni_; e, come dice
il Gerdil, aperse la mente degli studiosi disponendoli a raccogliere
tutte le forze razionali nella contemplazione di un solo oggetto,
principalmente coll’avvezzarli alle matematiche[373]. Collaborò con san
Carlo nel riformare la diocesi milanese; poi fu apostolo della Corsica,
dove con provvidente assiduità introdusse i sinodi diocesani, e morì
nel 1592 vescovo di Pavia.

Filippo Neri fiorentino (1519-95), all’erudizione congiungendo
quell’umiltà che di rado le si concilia, cercava il disprezzo con
tant’arte, con quanta altri l’ammirazione. Padre spirituale de’ più
gran santi, quali gli operosi Carlo Borromeo e Francesco di Sales,
e il contemplativo Felice da Cantalíce; amico de’ maggiori studiosi,
quali il Tarugi insigne predicatore poi cardinale, Silvio Antoniano
poeta che scriveva i brevi papali, il medico Michele Mercati, Filippo
adagiavasi fra i cenciosi mendicanti sotto ai portici di San Pietro,
come ai banchi de’ cambisti o ai tribunali o nei palazzi, colla
soavità inalterabile e colle arguzie fiorentinesche insinuando la
carità, persuadendo la giustizia, campando la vacillante virtù;
indulgente nelle cose accessorie, quanto irremovibile nelle essenziali,
al confessionario dirigeva con mirabile perspicacia le coscienze;
facendosi un deserto della popolosa Roma, nottetempo visitava le sette
chiese, poi ritiravasi nel cimitero di San Calisto e nelle catacombe
di San Sebastiano. Con dilettazione venerabonda si va ancora a sedere
sopra un amenissimo poggetto del Gianicolo, donde si domina tutta Roma,
e ch’egli avea ridotto ad anfiteatro, ove all’ombra di begli alberi
facea recitare ai giovinetti commediole volgenti alla pietà; vera
ribenedizione dell’arte e del teatro[374].

Col Baronio, ch’egli eccitò al gigantesco lavoro degli _Annali_, e
con altre persone di merito, nel 1564 istituì la comunità de’ Preti
dell’Oratorio, dove accoglieva la gioventù a devozioni piacevoli,
a studj liberali, a una pietà affabile come la sua. Gli Oratoriani
possono quando vogliano tornare nel mondo, non avendo altre regole che
i canoni, altri voti che il battesimo e il sacerdozio, altri legami che
quelli della carità.

San Filippo con Persiano Rosa aprì l’ospizio di Santa Trinità
per quei che pellegrinavano alle soglie degli Apostoli; e
quattrocenquarantaquattromila cinquecento pellegrini, venticinquemila
donne vi furono ospitate per tre giorni in quel giubileo del 1600,
pel quale vuolsi concorressero tre milioni di devoti a Roma, e dove
principi e cardinali faceano le stazioni indistinti dal vulgo; e
si moltiplicarono le conversioni. Tommaso Bozio da Gubbio, gran
conoscitore di lingue e di storia, da san Filippo fu persuaso a
privarsi della cosa che più tenea cara, i suoi libri, e destinato
per umiltà a insegnare la grammatichetta: vestitosi oratoriano,
scrisse opere di grand’erudizione, e principalmente la confutazione
della politica del Machiavelli[375]; e quei che venivano a riverirlo
stupivano che un sì piccol uomo sapesse tanto.

Allora preti in cotta e berrettino si rividero in pulpito, ove dianzi
non montavano che tonache e cappucci: e se le esuberanti austerità,
le interminabili salmodie, le prostrazioni ripetute convenivano in
secoli rigidi, a sensi bisognosi di scosse violente, allora nella ricca
varietà de’ sacrifizj si avvisò piuttosto al raccoglimento dell’animo,
alla mortificazione del cuore, all’educazione dell’intelletto, ad
acquistar dominio sopra la carne mediante il vigore dello spirito.

Fra le guerre di quel secolo era cresciuta deh quanto! la miseria; e il
chiudersi di tanti conventi tolse a un’infinità d’uomini non meno il
pane spirituale che quello del corpo; ben avea dunque ove esercitarsi
la carità cattolica. Girolamo Miani, patrizio veneto, difesa contro i
Tedeschi la fortezza di Castelnuovo di Piave dai collegati di Cambrai,
e cadutovi prigioniero, tornò sopra se stesso come Ignazio infermo:
chè il letto e la prigione sono tremende e fruttifere occasioni a
rimeditare il passato e proporre per l’avvenire. Votatosi alla beata
Vergine di Treviso e miracolosamente liberato, raduna gli orfani per
le isole venete rimasti da quelle guerre e dalla fame del 1528, ove si
mangiavano sin gli animali più schifi; e deposta la toga senatoria e
vestito da povero, pertutto fonda ospizj a ricovero ed istruzione di
quelli e ad emenda delle traviate: assiste in Venezia gl’Incurabili, a
cui faticarono pure sant’Ignazio, san Gaetano, il Saverio: fa istituire
o sistemare gli ospedali di Verona, Padova, Brescia, Bergamo: poi
con amici nel 1531 fonda a Somasca altri cherici regolari, diretti
ad istruire nelle lettere, ne’ mestieri, nella virtù. Sul Bergamasco
lasciavansi in piedi le biade per mancanza di braccia; ed egli
raccoglie falci, e mena attorno mietitori, che invece delle villotte,
cantano orazioni.

De’ primi a seguirlo fu Primo Conti milanese, valentissimo letterato,
che stabilì andare a riparo dell’eresia in Germania. Lusingandosi
di convertire Erasmo, che pareagli propendere a quegli errori, gli
scrisse firmandosi _Primus comes mediolanensis_. Quel dotto olandese
lo credette qualche gran principe, e gli si fece incontro tutt’in
cerimonia; poi vistolo arrivare in umile arnese, senza tampoco uno
staffiere, rise dell’inganno, ma protestò veder ben più volentieri
sì gran letterato che non qualsifosse barbassoro. Il Conti non trasse
gran pro dal tepido Erasmo, ma giovò ad altri. Rimpatriato, e a Como e
a Milano lasciavasi a lui la scelta de’ professori di belle lettere;
i conventi faceano gara per averlo lettore di teologia e di lingue
orientali; fu adoprato a preparare materie pel concilio di Trento, ove
assistè poi come teologo del cardinale Visconti vescovo di Ventimiglia;
il dotto vescovo di Como Gianantonio Volpi conosciutolo colà, se ne
valse nella propria diocesi, e singolarmente a combattere gli eretici
in Valtellina[376].

Ai Somaschi per qualche tempo unita, fu poi distinta la congregazione
della Dottrina Cristiana, istituita nel da Cesare de Bussi, milanese
nato in Francia, e rivolta a catechizzare i poveri.

Camillo de Lellis da Bacchiano negli Abruzzi, biscazzato ogni aver suo,
è ridotto a far da manuale in una fabbrica de’ Cappuccini: ivi tocco
nel cuore da Dio, si veste frate: tormentato da un ulcere alla gamba,
sente quanto mal giovi agl’infermi la prezzolata assistenza, e nel 1586
fonda i Crociferi che li servano come servirebbero a Cristo stesso.

Dopo la peste del 1528 una società a Cremona fondò un ritiro per orfani
d’ambo i sessi, che lavorassero seta, bambage, lana; la compagnia
di San Vincenzo vi aprì un conservatorio per vedove o mal maritate,
uno per le convertite; una casa di soccorso per le pericolanti; un
ricovero pei poveri, al quale il medico Giorgio Fundulo aggiunse un
legato onde esimere i mezzajuoli dalle esecuzioni per debiti in causa
d’affitto; nel 62 l’ospedale di Sant’Alessio per gl’incurabili, nel
64 uno pei poveri vergognosi. E in quella città il Campi ricorda una
Margherita Spineta, terziaria carmelitana, che per trentacinque anni
si tenne rinchiusa in una cameretta presso Sant’Antonio: accenna pure
l’affollatissimo concorso al giubileo del 1575, venendovi tutti i
diocesani in processione vestiti di sacco, e la gara di alloggiarli
nelle case: la notte principalmente vedeansi queste lunghe schiere
d’uomini e donne andar coi lumi accesi e scalzi anche di stretto verno,
flagellandosi e cantando salmi e litanie.

Veronica Franco, che a Venezia teneva convegni rinomati con musica,
versi, amori, e stampò lettere e rime[377], contrita aprì per le
sue pari il ricovero di Santa Maria del Soccorso; Francesca Longa a
Napoli, il famoso ospedale degli incurabili; Mariola Negra di Genova,
un reclusorio per le femmine disperse, un altro per le pentite,
e intendeva porne uno per ciascun sestiere della città. E Genova,
oltre Caterina Fieschi e altri beati, ricorda Battista Interiano che
all’Acquasola pose un conservatorio di zitelle che si educassero
a lavori femminili; Vittoria Fornari, che vedovata a venticinque
anni, votò a Maria i suoi sei figliuoli, e fatta povera per amor di
quella, fondò le Annunziate, che sol tre volte l’anno riceveano al
parlatorio i più stretti parenti; la venerabile Battista Vernazza,
autrice di trattati e poesie spirituali; Agostino Adorno, che con
Francesco Caracciolo istituì i Cherici regolari minori, e la devozione
dell’Adorazione perpetua al Sacramento. Nè dimenticheremo quei diciotto
di casa Giustiniani, che côlti dai Turchi, sostennero il martirio
piuttosto che aderire al corano.

In quella città si estesero le confraternite fin a ventuna, dette
casaccie per le grandi case ove si radunavano, e che si corruppero poi
in gare di lusso e di esercizj atletici. Tre sorelle Gonzaga, nipoti di
san Luigi, fondarono a Castiglione delle Stiviere le Vergini di Gesù,
nobili, senza clausura, e dedite all’istruzione, per la quale furono
risparmiate fin da Giuseppe II e da Napoleone.

Le primarie famiglie fiorentine crebbero lor nobiltà con qualche santo.
Maddalena de’ Pazzi e de’ Buondelmonti, sin da fanciulla dilettandosi
alla gioja dell’obbedienza, divenne miracolo della perfezione
spirituale e della contemplazione delle cose eterne, accoppiate a
intensa carità del prossimo. Lorenza Strozzi di Capalle, vestitasi
domenicana, molto fu in relazione coll’Ochino e col Vermiglio, la loro
apostasia pianse a calde lacrime, e tutta infervorata d’amor divino,
compose inni per ciascuna solennità dell’anno, cantati lungamente
e tradotti anche in francese e messi in musica. Caterina de’ Ricci,
sottrattasi alle lusinghe preparatele dalla domestica lautezza, sacrò
a Dio una vita tutta d’amore e di dolori, provata dalle contraddizioni
e dalla calunnia, poi dalle lodi e dall’ammirazione: e come la beata
Michelina a Giotto, santa Umiltà a Bufalmacco, santa Caterina da Siena
al Vanni e al Pacchiarotto, così la Ricci divenne soggetto di pitture
al Parenti e al Tosini in Prato.

Suor Angela Merigi di Desenzano, terziaria di san Francesco, a
ventisei anni palesò averle Dio ordinato una nuova società, e trovate
settantatre compagne di primarie case bresciane, nel 1515 le pose in
protezione di sant’Orsola. Non regole austere, non contemplazione,
ma presa a modello Marta la sollecita, rimanevano in grembo alle
famiglie, intente a scoprire gl’infelici per soccorrerli, visitare
spedali e malati, educar bambine. Le fondatrici s’accorsero d’operare
una rivoluzione, e dicevano: — Bisogna innovare il mondo corrotto
per mezzo della gioventù; le fanciulle riformeranno le famiglie, le
famiglie le provincie, e le provincie il mondo». Quest’istituzione di
carità e beneficenza esalava tale fragranza di santità, che san Carlo
accolse ben quattrocento suore nella sua diocesi: poi diffuse in Europa
non solo, ma oltre l’Atlantico, coi miracoli della carità faceano
stupire i selvaggi del Canadà, ove predicavano il vangelo del pari che
nelle capitali della Francia e dell’Inghilterra: e pur testè faceano
invidiare dagli Inglesi i soccorsi ch’elle prestavano ai guerreggianti
nella Crimea.

E la carità trovò un magnanimo campione in Vincenzo di Paolo, popolano
francese, il cui nome ricorda quanto essa ha di sacro, di spontaneo,
di squisito. I suoi Preti della Missione, istituiti nel 1625, ben
presto si diffusero nella Corsica, straziata da efferate vendette; e
nell’Italia, ove il Piemonte, il Genovesato, la Romagna offrivano tanta
materia al loro zelo. I pastori che guidano gli armenti per la campagna
di Roma e nelle valli dell’Appennino, mesi e mesi restavano senza
sacramenti nè predicazione, ignorando fin le cardinali verità della
fede; e i Missionarj li raccoglievano la sera per ammaestrarli nelle
stalle o a cielo aperto; e la festa li chiamavano attorno a qualche
tabernacolo per rigenerarli coi santi riti[378].

Allora si pubblicarono libri di più regolata devozione, e legendarj di
critica migliorata; e quelli di Pietro Natali vescovo d’Equilio, del
milanese Bonino Mombrizio, di Luigi Lippomano vescovo di Verona furono
sorpassati da Lorenzo Surio, poi dai Bollandisti.

La riforma doveva insinuarsi in tutta la vita, e fu grand’arte
l’impossessarsi dell’educazione, come fecero i Barnabiti, i Somaschi,
gli Scolopj, e maggiormente i Gesuiti. Del veder a questi affidata
dappertutto la gioventù non sapeano darsi pace i letterati; e
Giambattista Giraldi, il marzo 1569 scrivendo a Pier Vettori, riprovava
Emanuele Filiberto che nell’Università di Torino aveva abolito la
cattedra d’eloquenza e poesia, lasciando ne dessero lezione i Gesuiti,
così infondendo (diceva egli) la barbarie più vergognosa.

Certo allora l’educazione e nelle pratiche e ne’ precetti prese
un’insolita tinta religiosa; ed anche fuor de’ seminarj insinuavasi
la venerazione per le cose sacre e l’incondizionata obbedienza ai
papi; gli esercizj ignaziani abituavano al meditare, a frequentare
i sacramenti, a voler pulite le chiese, decorosi i riti. Il lodato
Sadoleto scrisse un buon trattato in latino sull’educazione; e ad
istanza di san Carlo in volgare il cardinale Antoniano, ammirato
improvvisatore (_Dell’educazione cristiana e politica_); cui
s’accompagnarono poi i _Costumi dei giovani_ di Orazio Lombardelli
senese.

Ma qui rampollava una questione che altre volte si ridestò; convien
egli formare il gusto de’ giovani sopra i classici gentili? I Padri
primitivi di consueto gli escludevano, attesa l’urgenza del pericolo
quando il paganesimo non aveva ancora ceduto le armi alla verità,
anzi nella società presentavasi colla potenza degl’interessi,
dell’abitudine, della legalità. Nel medioevo decaddero quegli studj,
ma se ne sopravvisse traccia fu ne’ conventi; e in questi ci vennero
conservati tutti i classici che ci rimangono. Li vedemmo poi fin
riprendere il passo sovra gli autori ecclesiastici; laonde alcuno
per riazione pensava si dovessero sbandire almen dalle scuole, come
ispiratori di sentimenti e di morale pagana. La Chiesa qui pure si
mostrò tollerante, e più intesa a volgere in bene che a distruggere
gli elementi dell’istruzione. A’ suoi seminaristi san Carlo pose in
mano i classici, ma insieme suggeriva alcun che de’ santi Padri, cogli
_Uffizj_ di Cicerone quelli di sant’Ambrogio, colla retorica di lui
quella di Cipriano; di Virgilio si omettessero le dipinture scandalose;
si adoprasse Orazio ma castigato.

Alquanto più tardi, il padre Possevino proferiva a Lucca un discorso,
dove mostrava come trarne profitto anche per la morale[379], purchè
come antidoto vi si accoppiassero le opere di Pantenio, di Giustino
martire, di Eusebio, principalmente di sant’Agostino, i quali diedero
cristiana interpretazione alla civiltà gentilesca; vorrebbe che i
professori avessero alla mano i santi Padri, e se ne ajutassero per
cercare la verità anche ne’ profani, e chiarissero qual divario
corre fra la luce pura di Dio, e la imperfetta e nubilosa che i
Pagani trovavano ne’ loro cuori, e che faceali parlare da fanciulli
balbuzienti, anzichè da uomini ragionevoli; nè si dimenticasse che
quanto dissero i Pagani della virtù non è che un’ombra a petto della
cristiana; a Cicerone riuscivano enigmi quei che la religion nostra
mette in evidenza; gli elogi da lui profusi a se stesso o ad altri,
non potrebbero accettarsi come tali da cuori cristiani, i quali
devono fondare le loro speranze sulle ricompense eterne, e metter le
loro corone ai piedi di Cristo, cui appartiene tutta la gloria e la
lode. Quel proposito di Marco Tullio che non si dee vendicarsi se non
quando provocati, porge nuovo contrasto fra la perfezione cristiana e
la difettiva morale gentilesca, e nel confutarla potrà innestarsi la
verità sui giovani germogli. Si mostri che quell’abbondanza ciceroniana
non conviene a tutti nè sempre. I trattati della _Divinazione_ e del
_Destino_ non s’addicono alla prima gioventù; ma agli _Uffizj_ perchè
non s’aggiungerebbe qualche estratto di quelli di sant’Ambrogio, o
pezzi di Lattanzio per supplire a ciò che Cicerone non conobbe, o
emendarlo ove errò? Così si faccia buon uso d’entrambi, desumendo da
Tullio lo stile, dai Padri la dottrina e pietà vera. Non si trarrebbe
mirabili frutti d’eleganza e proprietà e pietà dal trattato di Cicerone
sull’_Amicizia_ se vi si accostassero i precetti di carità che trovansi
nel Catechismo romano e in un’epistola di san Paolo ai Corinti? Unendo
ai _Commentarj_ di Cesare gli esempj del libro di Giosuè o dei Re, si
opporranno i sani intendimenti della storia, e lo studio dei castighi
di Dio contro i Pagani. Santi e istruttivi riusciranno i paralleli
fra gli eroi di Roma e di Grecia e i guerrieri cristiani, quali Carlo
Magno, san Luigi di Francia, santo Stefano d’Ungheria, aggiungendovi
quelli che ai dì nostri posero freno alla barbarie orientale, come
Vasco de Gama e l’Albuquerque, tanto più che se ne hanno le imprese in
buon latino dai padri Emilio, Giovio e Maffei.

Così il Possevino: e chi ripudierebbe tali concetti?

Fra i libri proibiti era giusto comparisse il Decamerone, contro
del quale già un pezzo declamavano le anime oneste e i confessori;
e fra mille altri, Bonifazio Vannozzi diceva che «questi trattati
amorosi, questi discorsi tanto lascivi hanno aperto di gran finestre
all’idolatrie ed all’eresie, ed a pessimi costumi, ed a corrottissime
e licenziosissime usanze tra di noi cattolici. Chi potesse contare
quante traviate ha fatto il Decamerone del Boccaccio, rimarrebbe
stupito»[380].

Rincrescendo però di privare gli studiosi d’un libro che si reputava
modello del bene scrivere, fu preso il compenso di emendarlo. Il
maestro del Sacro Palazzo segnò i passi da levare o correggere; e
una deputazione di Fiorentini, in cui principale Vincenzo Borghini,
adattò quel libro, che così comparve nel 1573 con approvazione di
Gregorio XIII. Gli zelanti non ne rimasero soddisfatti, e ad una nuova
emendazione attese Leonardo Salviati; e non è a dire quanto ridere
e declamare ne facessero gli umanisti, mettendo questa operazione a
parallelo colle brache onde Paolo IV velò gl’ignudi del Giudizio di
Michelangelo.

Aveva il concilio Tridentino ordinato non si ponessero immagini nelle
chiese se non approvate dal vescovo; sicchè nulla vi fosse di falso,
di profano, di disonesto, di contrario alla verità delle Scritture e
delle tradizioni, di vulgari superstizioni. Le immagini convengano alla
dignità e santità del prototipo, sicchè la loro vista ecciti pietà,
non turpi pensieri. San Carlo ripeteva queste prescrizioni, abolendo
inoltre la pia ma abusata costumanza di rappresentare la passione di
Cristo o atti de’ santi; nè i visi di questi siano ritratti di persone
vive.

Ma i teatri sono compatibili colla religione? Molti asserivano di
no: e quelli d’allora vi davan troppo ragione, massime le commedie
a soggetto. Una banda di cotesti recitava libertinamente a Milano;
san Carlo li colpì d’una decretale, e il governatore inerendovi li
sbandi; ma essi ricorsero al santo, mostrandogli come ne resterebbero
ridotti in ultima miseria; ed esso accolseli con carità, e permise
continuassero gli spettacoli, patto però che sottoponessero l’orditura
a persone da lui destinate. Simile precauzione fu pigliata altrove.

Vedemmo come Filippo Neri introducesse gli oratorj, che prima erano
laudi cantate in chiesa sopra musica di Giovanni Animuccia, maestro
in San Pietro; poi crebbero fino a compiute rappresentazioni di
fatti morali e sacri. Quando però la musica più non era che studio
di superate difficoltà, continue fughe, e imitazioni e combinazioni
disparate, e poneva gloria in imitazioni di suoni, prolazioni,
emiolie, nodi, enigmi, la voce umana non valutando che come un altro
stromento, poteva più convenire alla santità di riti che elevino
l’anima al Creatore? In composizioni di quattro, cinque, sei, sette
e fin otto parti, le parole si intralciavano, nè più offrivano senso;
i compositori si permetteano di intercalarne di italiane e perfino di
oscene; gli organisti cercavano l’effetto da arie conosciute, e intere
messe furono composte sovra motivi profani. Leon X aveva chiamato
da Firenze Alessandro Mellini, per avvezzare i suoi cappellani a
conservare la tonica nel canto de’ salmi e la misura sillabica negli
inni. I riformatori e cattolici e protestanti ne esclamavano dunque:
il concilio di Trento se ne mostrò scandolezzato, come _piarum aurium
offensio_. Paolo IV fece esaminare se dovesse tollerarsi la musica in
chiesa; e la commissione a ciò eletta stabilì non si canterebbero messe
e mottetti in cui si trovasse quella confusione di parole, nè sopra
arie profane, e s’ammetterebbero solo testi adottati dalla Chiesa: ma i
maestri assicuravano non si potrebbe in un canto figurato far intendere
chiaramente e costantemente le parole, in grazia delle fughe e delle
imitazioni, carattere della musica sacra.

— E perchè non si potrebbe?» disse Pier Luigi Palestrina (1529-94).
Allievo dei Fiamminghi, che allora tenevano il campo in quest’arte,
ed escluso dalla cappella per essersi ammogliato, viveva nella
solitudine e nel bisogno, approfondendosi nell’arte sua fino ad
elevarsi a composizioni libere e originali. Conosciuto, e posto maestro
di cappella a San Giovanni Laterano, puntò i _Treni_ di Geremia, il
_Magnificat_, gl’_Improperj_, non sagrificando la parola all’armonia.
Invitato a comporre una messa che servisse di sperimento, vi si pose
come uomo che deve salvar da morte la sua arte: sul suo manoscritto si
trovò, _Signore, illumina me_; e dopo due poco felici tentativi, gli
riuscì la famosa _missa papalis_ a sei voci reali nel genere antico
italiano, con melodia semplice, rispettando l’espressione rituale, e
adattandola alla varia significazione de’ cantici e delle preghiere:
onde la paragonava alle celesti che l’Apostolo prediletto udì nelle
estasi sue.

Bastò perchè fosse vinta la causa a quest’arte come alle altre; e
mentre la Riforma non sapeva che distruggere e abolire, anche in ciò
la Chiesa ravvivava e santificava[381]. Preso un motivo, il Palestrina
lo svolge con tutto l’artifizio del contrappunto fugato, rimovendo
qualunque accompagnamento strumentale. Precisione, chiarezza, severo
rispetto dell’armonia, grazia, verità d’espressione unita a gusto
delicato, nobile semplicità nella modulazione, il fanno ammirare; e
mentre nei Fiamminghi tutto era ritmo e matematica, egli possedeva lo
spirito, l’unzione; cantava invece d’argomentare; alle forme materiali
dava serenità e vita, quasi volesse effettuare quel concetto di san
Bernardo che la musica _sit suavis at non sit levis, sic mulceat aures
ut moveat corda, tristitiam levet, iram mitiget, sensum literae non
evacuet sed faecundet_[382]. Non raggiunse la pienezza dell’arte,
sicchè possiam paragonarlo al Perugino: e sebbene tuttora povero
di melodia, sì possedeva il sentimento puro dell’armonia e della
tonalità, che altri non seppe con pari felicità ed eleganza far cantare
quattro, sei, fin otto parti distinte. I madrigali suoi sono ancora
l’inarrivabile emulazione de’ contrappuntisti; ma chi assistette un
venerdì santo alla cappella Sistina, dica se non possa esprimere più al
vero l’intimo senso della Scrittura, e la significazione sua simbolica.
Handel e poc’altri ne pareggiarono la maestà di stile; nessuno
la potenza, il profondo e semplice accento, la mistica tenerezza,
l’incantevole soavità delle armonie, per rivelare i dolori della
madre d’un Dio o le ambasce dell’Incarnato, o trasportarci in un mondo
invisibile ad ascoltare le sinfonie di cui gli angeli circondano il
padiglione dell’Eterno.

Mentre dunque, al principio del secolo tutto era paganeggiato ne’
costumi, nelle arti, ne’ governi, nella chiesa, al fine di esso non si
operava quasi che per interessi religiosi; in nome del cristianesimo
si scriveva, si combatteva, si uccideva, si educava, si nutriva;
potenze ecclesiastiche robustissime entrano ne’ consigli dei re a
dirigerne i modi e gli atti; i papi, spogliati di mezzo mondo, se ne
rifanno coll’acquisto delle due Indie, e mettono soggezione ai re ed
ai pensatori con un pugno di cherici, paventati dovunque vi sia rivolta
contro l’autorità di Pietro.

Se la Riforma non ebbe divelto il vizio e la corruttela, non mutato la
struttura delle Università e dei corpi religiosi cui l’alta istruzione
veniva affidata, se anche gli Ordini nuovi s’intepidirono o corruppero,
ecco la carità che aveva balsami per ogni piaga, e impediva che la
corruzione toccasse all’estremo. Anime stanche dal fortuneggiare del
mondo, cercavano ricovero in grembo a Dio: le Suore della carità
lanciandosi in mezzo alle miserie, le Carmelitane sepellendosi
anticipatamente, parevano invase da una passione cristiana; il clero
spandeasi dappertutto; cercando l’ignoranza da istruire, il vizio da
correggere, la virtù da sostenere, la povertà da pascere, esposto al
quotidiano martirio del disprezzo e della calunnia; e il rinvigorito
spirito cristiano combatteva l’effervescenza della carne e la voluttà
sensuale.



CAPITOLO CXLVII.

Quistioni giurisdizionali. Diritto cattolico. Il Sarpi e il Pallavicino.


Fra tanta divergenza d’accidenti e di dogmi, unico proposito conforme
della Riforma si fu l’abolire la centralità papale, opponendo le
nazionalità alla cattolicità, il giudizio personale all’unità della
fede, subordinar la potestà ecclesiastica alla civile, cioè la
coscienza al decreto, il diritto al fatto, la libertà alla permissione;
il fôro interno all’esteriore. La cristianità non fu più una contro un
nemico comune, gl’infedeli; ma si trovò scissa in due campi ostili,
da cui e in cui si avvicendavano le persecuzioni. La Riforma diede
importanza agli studj; le lingue antiche si trovarono necessarie per le
controversie religiose, ma nel vortice di queste la bella letteratura
naufragò; il sospetto fece reprimere la coltura in paesi dove avea
preso tanto incremento, come fra noi; l’antichità non considerossi più
in connessione coll’intera storia del mondo; e sul greco e sul romano
si concentrò l’attenzione di cui parvero men degni i mezzi tempi, che
pur erano la fanciullezza e la gioventù delle società moderne; e il
ripudiarne ogni provenienza spense l’originalità. L’immaginazione,
che addormentatasi fra i popoli classici col restringersi a imitare
e compilare, era stata poi ridesta dalla fede, dovette cedere alla
ragione positiva, la quale acclamò il pensiero come forza sterminatrice
o conservatrice, e travolse in dispute, che più non furono risolte.
Separato il mondo della scienza da quello della fede, provveduto
piuttosto a opprimere l’opinione falsa che a diffondere la vera, ne
seguirono reazioni violente, la tirannide del pensiero nella proclamata
sua emancipazione, e la necessità di nuove rivoluzioni.

Più ch’altri ne deteriorò l’Italia, cessando di essere la metropoli
del mondo; sicchè più non v’affluivano le ricchezze e cognizioni, sfogo
all’attività, stimolo agli ingegni colle speranze prelatizie. A tanti
scritti liberissimi fu imposto silenzio o punizione; e per ovviare gli
abusi, impacciata la vera scienza. Il papato, nell’aspetto temporale,
fu ancora ambizione di famiglie illustri, e spesso più che il sommo
sacerdote vi apparve il principe nazionale, intento a restituire
lo splendore alla tiara cogl’intrighi e coll’abile schermirsi in
situazioni scabrosissime.

Quando Roma ebbe tratti a sè tutti gli elementi della vita morale e
intellettuale, e rifattasi vigorosa col chiarire il dogma ed emendare
la pratica, represse ne’ meridionali la propensione alla Riforma, in
aspetto di conquistatrice s’accinse a ricondurre alla sua autorità i
divaganti, e ripigliò l’offensiva, posando come assolute le sue verità,
e negando che fuor di queste si dia salute; avrebbe anche voluto
togliere ogni diversità interna di chiese nazionali, di riti distinti,
credendo prova di forza l’esigere l’unità assoluta. Dissipate le
false Decretali, l’autorità pontifizia si trovò più solida perchè più
misurata, e il diritto ecclesiastico venne rigenerato. Come le reliquie
d’un esercito scompigliato si rannodano attorno allo statomaggiore,
così i Cattolici sentirono la necessità di restringersi al papa;
e principalmente i Gesuiti, animati dall’alito del ringiovanito
cattolicismo, si diedero a sostenere il solo pastore, attorno a cui
dovea farsi un solo ovile; e un nuovo grandioso campo s’aperse alla
letteratura teologica e storica nel sostenere la verità e le ragioni di
Roma.

Come l’autorità civile proibisce la vendita dei veleni, o provvede ai
cani idrofobi, alle esalazioni deleteriche, così l’ecclesiastica si
credette in dovere di proibire le cattive stampe. Da qui gl’indici
di libri proibiti, de’ quali i primi si fecero a Lovanio e a
Parigi: poi Paolo IV, in una costituzione nel 1564, oltre quelli
specialmente indicati, proibiva in generale tutti i libri di magia
o altre superstizioni e i lascivi ed osceni, eccettuando i classici
antichi per riguardo all’eleganza; i libri d’eresiarchi, non quelli
di eretici; nè le traduzioni di scrittori sacri fatte da questi,
purchè nulla contengano di erroneo. Per la Bibbia vulgare ci vorrà
la permissione, e così per le controversie con eretici. Pio V regolò
questa materia mediante la Congregazione dell’Indice, alla quale
diede norme definitive Benedetto XIV nel 1753, badando men tosto alle
opere d’eretici che di cattolici. Quando un di questi sia deferito
al tribunale dell’Indice, verrà preso in serio esame dal secretario
con due consultori, e se lo trovino condannabile, se ne farà una
ragionata informazione, che verrà discussa da sei consultori sotto al
maestro del sacro Palazzo; e proferita la condanna o la correzione,
sarà sottoposta al papa. Trattasi d’autore illustre e di fama integra?
si proibirà _finchè sia corretto_; se ne comunicheranno all’autore i
motivi e le correzioni da farsi; e solo s’e’ ricusi verrà pubblicato
il decreto, o se l’opera sia divulgata. Se è d’autore cattolico di bel
nome, e la cui opera emendata possa giovare al pubblico, è necessario
se ne sentano le difese. A censori poi si assumano persone di pietà
e dottrina riconosciuta, la cui integrità non lasci luogo a odio o
favore, e credansi destinati non a condannar l’opera, ma ad esaminarla
equamente; pesar le opinioni senza affetto di nazione, di famiglia, di
scuola, d’istituto, di parte; ricordandosi che molte opinioni pajono
indubitabili ad una scuola, a un istituto, a un paese, eppure senza
detrimento della fede sono rejette da altri cattolici. Sovrattutto
s’abbia a mente che d’un autore non può giudicarsi se non leggendo
intera l’opera, comparando i differenti passi, e badando al fine di
esso; non proferendo sopra una o due proposizioni staccate; giacchè
quel che in un luogo egli dice oscuramente e per transenna, spiega
chiaro e abbondantemente altrove.

Quanto ai dogmi, nessun Cattolico poteva impugnare l’autorità
inappellabile del concilio: ma v’aveva articoli che toccavano la
società secolare; quali sarebbero i privilegi del fôro ecclesiastico,
l’esclusione de’ giudici secolari dalle cause di curia; il divieto ai
principi di tollerare il duello, di far editti su materie e persone di
chiesa, di esigere gabelle e decime, di voler mettere l’_exequatur_
alle bolle pontifizie; e la scomunica minacciata a chi facesse
altrimenti, od usurpasse beni e ragioni ecclesiastiche. Anche contro i
laici violatori dei precetti divini si comminarono pene; riservato ai
vescovi l’approvare i maestri, l’espellere le concubine, l’ispezione
sui luoghi pii, i monti, gli spedali; obbligati i parrocchiani a
supplire alle prebende inadeguate dei pievani. Da tali decreti parvero
lesi molti interessi, ed intaccata quella sovranità indipendente,
a cui i principi aspiravano; i quali pertanto reluttarono contro il
sinodo. Venezia era stata la prima a dar l’esempio d’adottarlo senza
restrizioni; indi Cosmo di Toscana, poi la Polonia e il Portogallo;
ma altri potentati fecero riserve per le consuetudini o le leggi de’
loro Stati; la superiorità dei concilj al papa, pretesa in quelli di
Costanza e Basilea, fu ritenuta da’ Tedeschi; i Francesi ne fecero
il cardine delle libertà gallicane, negando l’infallibilità del papa
diviso dal consesso della Chiesa: e ne vennero dissensi che turbarono
il seno della Chiesa cattolica; principi che aveano declamato contro
gli abusi, non sapeano acconciarsi ai rimedj, e contro le decisioni
tridentine accampavano le ragioni del principato.

Che l’autorità deva governare le opere, non già possedere i popoli, di
modo che rimangano indipendenti i due poteri nell’ordine della propria
competenza, l’avea mal compreso il medioevo, e peggio l’evo moderno:
anzi l’atto effettivo della Riforma era consentito nel sovrapporre il
temporale allo spirituale, e i papi si rassegnarono a molte concessioni
onde salvare la Chiesa. Perocchè di primo achitto i principi
s’accorsero qual partito potessero trarre dalla Riforma concentrando in
sè i poteri e incamerando i beni; anche quei che restarono cattolici,
se ne valsero per isbigottire i papi, e ridurli alle loro voglie
colla minaccia di abbandonare la messa per la cena e pel sermone;
e alla monarchia cattolica del medioevo parve volessero sostituire
la monarchia politica. Le controversie teologiche si risolsero
dunque in dispute sull’autorità regia; frangere le barriere opposte
dall’immunità e cincischiare la giurisdizione ecclesiastica, divenne
l’intento comune; quasi uno Stato, per trovarsi davvero indipendente,
non dovesse lasciar veruna ingerenza ad altri, nè autorità che non
fosse concentrata nel governo. I Protestanti lo avevano conseguito
di colpo coll’aperta ribellione; i Cattolici s’ingegnarono con mezzi
termini di accordare la coscienza coll’ambita onnipotenza: a tal uopo
fomentavano le ambizioni particolari, e con titolo d’indipendenza
tendevano ad isolare i sacerdoti dei loro Stati dagli altri, impedire
le comunicazioni dirette col capo spirituale, formando speciali chiese,
necessariamente docili al potere che loro permetteva d’esistere; e così
passo passo ottennero le attribuzioni ecclesiastiche, che i Protestanti
avevano carpite.

Di rimpatto la Chiesa, sentendosi robusta e rinovellata nella
precisa espressione del dogma, parve si lusingasse di far rivivere
i tempi della sua prevalenza, e anche per questa parte correggere il
paganizzamento della società. Adunque ridestò le pretensioni che in
un’età organica aveano accampate Gregorio VII e Innocenzo III, e si
asserì di nuovo il predominio illimitato della Chiesa sopra lo Stato,
il papa essere superiore a qualunque giudizio, e decadere il re che
esca dal grembo cattolico.

Il proprio simbolo espresse Roma nella famosa bolla, detta in _Cœna
Domini_ perchè doveasi leggere solennemente ogni giovedì santo; la
quale ebbe l’ultima mano da Pio V, e suole citarsi come il massimo
dell’arroganza papale. Tralasciando i punti di minor rilievo e
spogliandola delle frasi conformi al tempo, essa, in ventiquattro
paragrafi, scomunica gli eretici di qualsiano nome e chi li difende,
o legge libri loro, o ne tiene, stampa, diffonde; chi appella dal
papa al concilio, o dalle ordinanze del papa o de’ commissarj suoi a’
tribunali laici; i pirati e corsari nel Mediterraneo, e chi spoglia
navi di Cristiani naufragate; chi impone nuovi o rincarisce gli
antichi balzelli a’ suoi popoli; chi dà ai Turchi munizioni da guerra
o consigli; chi fa leggi contro la libertà ecclesiastica, o turba i
vescovi nell’esercizio di loro giurisdizione, mette la mano sopra le
entrate della Chiesa, cita ecclesiastici al fôro laico, impone tasse
al clero, occupa o inquieta il territorio della Chiesa, compresevi
Sicilia, Corsica, Sardegna.

Dopo Lutero e Grozio[383] chi sarebbesi aspettato così elate
pretendenze? ma le riazioni trascendon sempre, e nel diritto come nella
buona guerra il miglior difendersi è l’attaccare. Se non che poco
erano disposte a condiscendere le Potenze; i principi d’oltremonte
ripudiarono quella bolla; altri l’accettarono, col proposito di
modificarla nell’applicazione; Venezia la ricusò, per quanto il nunzio
insistesse; l’Albuquerque governatore di Milano vi negò l’_exequatur_;
a Lucca non si teneano obbligatorj i decreti dei funzionarj papali
senza approvazione del magistrato; in Savoja si conferivano benefizj al
papa riservati; a Genova erano proibite le assemblee presso i Gesuiti,
pretestando vi si facessero brogli per le elezioni; l’Inquisizione
vi fu sempre tenuta in freno, e dopo il 1669 sottoposta alla giunta
di giurisdizione ecclesiastica; i vescovi di Toscana lasciavano
ammollire nell’applicazione la tremenda bolla, ma i frati la zelavano a
rigore; e guaj a parlare di tasse sui beni di ecclesiastici; negavano
l’assoluzione, donde vennero tumulti ad Arezzo, a Massa marittima, a
Montepulciano, a Cortona.

Il regno di Napoli se ne trovava viepiù compromesso per la sua feudale
dipendenza; e il vicerè duca d’Alcala fece risoluta opposizione
alla bolla, sino ad arrestare i libraj che la stampassero[384]; fu
condannato alle galere uno che avea pubblicato l’opera del Baronio
contro il privilegio, chiamato la monarchia siciliana, pel quale al re
competevano le divise e i diritti di legato pontifizio. Di rimpatto
i vescovi pretendeano giurisdizione sui testamenti, e di chi moriva
intestato poter qualche tempo tenere i beni applicandone una parte a
suffragio del defunto: alcuni scomunicavano chi mettesse ed esigesse
imposizioni: la piazza di Nido a Napoli ricusava un dazio nuovo,
perchè non approvato dal papa; nei casi misti, cioè sacrilegio, usura,
concubinato, incesto, spergiuro, bestemmia, sortilegio, voleasi potesse
procedere il fôro ecclesiastico o il secolare, secondo che all’uno
o all’altro fosse prima recata la querela; fonte d’inestricabili
alterazioni. Il papa dava rinfianco all’opposizione, e minacciava
interdire la città; fu respinto dal confessionale, fu privato del
viatico chi, ne’ consigli vicereali, aveva opinato in contrario; e i
doveri di suddito erano posti in conflitto con quelli di cristiano, nè
vedeasi via di comporre. Vi si aggiungevano le citazioni che faceansi
alla corte di Roma, e i visitatori apostolici, che il papa mandava
nel regno per esigere le decime, esaminare l’uso fatto de’ beni
ecclesiastici e le alienazioni indebite. Onde aver denari per costruire
San Pietro, Roma aveva instituito in varj luoghi, e nominatamente
nel Napoletano, un tribunale, che durò fino al 1647, per esaminare
se fossero adempiti i legati pii; se no, trarli a vantaggio d’essa
fabbrica; il che attribuiva ai nunzj una giurisdizione molesta e
facilmente abusata.

Perchè mancasse stimolo alla declamata avidità dei prelati, era
stabilito che delle ricchezze da loro lasciate non redassero i parenti,
ma la Chiesa romana; onde il papa mandava collettori per tutto il
mondo, ed ecco derivarne controversie e dispute inestricabili cogli
eredi e colle chiese stesse, turbarsi i possessi, e viepiù sotto papi
rigorosi come Pio V. Dall’ispezione sull’adempimento dei legati pii,
i vescovi traevano ragione di vedere i testamenti, e scoprire così i
segreti di famiglia, e fisicare sulle frodi supposte. La proibizione
del concubinato portava a ricorrere alla forza per sciogliere
temporarie unioni, e le curie voleano all’uopo valersi di birri e
carceri proprie; i principi non tolleravano questa diminuzione della
loro autorità, e giudizj non solo, ma armi indipendenti dall’unità
che si andava introducendo. Adunque una concatenazione di litigi,
che neppur oggi perdettero senso e importanza; perocchè in fondo
erano le quistioni costituzionali d’allora; la libertà, questo Proteo
irrefrenabile, compariva sotto le cappe pretesche, come ora in abito
di avvocato e di senatore; e non è strano se di siffatte importanze
s’empie la storia interna della Chiesa di questo secolo e del
seguente[385]. Stefano Durazzo arcivescovo di Genova, martire della
peste del 1556, interminabili dispute sostenne col doge sul posto che
gli competesse nel presbitero, e sul titolo d’_eminenza_ che allora
cominciavasi dare ai cardinali: non soddisfatto, negò coronare il
doge, e la lotta si prolungò anche assai tempo dopo che l’arcivescovo
ebbe rinunziato. Carlo Borromeo cozzò assai coi governatori di Milano
che alle riforme opponevano i diritti regj, come il senato opponeva
i privilegi della Chiesa milanese. Peggio ancora suo cugino Federico,
che due volte per ciò viaggiava a Roma, e che minacciò di censure chi
trafficasse con Svizzeri e Grigioni eretici, e scomunicò il governatore
perchè, col proibire le risaje nelle vicinanze della città, arrogavasi
giurisdizione sui possessi ecclesiastici[386].

Della politica romana che la supremazia papale professava più
alteramente quant’era più minacciata, e pretendeva insegnar doveri ai
re e diritti ai popoli, è rappresentante il gesuita Roberto Bellarmino
da Montepulciano (1542-1621). A ventidue anni egli saliva già i più
celebri pulpiti: da san Francesco Borgia spedito all’Università di
Lovanio perchè si opponesse all’eresia serpeggiante, vi fu consacrato
sacerdote da quel Giansenio che doveva poi divenire antesignano di
famosissimo partito: combattè Bajo che deviava in un punto alla Grazia,
e continuò a predicare e istruire finchè per salute si restituì a
Roma. Quivi servì da teologo, e produsse le insigni _Dispute delle
controversie della fede_. In queste espone prima l’eresia, poi la
dottrina della Chiesa e i sentimenti de’ teologi, rinfiammandoli
non con argomentazioni, ma con testi della Scrittura, dei Padri, de’
concilj e colla pratica; infine confuta gli avversi. Modello d’ordine,
di precisione, di chiarezza, scevro dalle aridità scolastiche e dal
formalismo di scuola, se erra talvolta sul conto degli scrittori
ecclesiastici non ancora passati al vaglio d’una critica severa,
non di rado arditamente ripudia scritti apocrifi: non inveisce
contro gli avversarj, ma li ribatte con chiara e precisa brevità,
appoggiato all’autorità dei teologi: e Mosheim, uno dei più accanniti
campioni dell’eresia, pretende che «il candore e la buona fede di
lui lo esposero a rimbrotti de’ teologi cattolici, perchè ebbe cura
di raccogliere le prove e le objezioni degli avversarj e per lo più
esporle fedelmente in tutta la loro forza». Ad attestarne il merito,
basterebbe la quantità di quelli che lo confutarono[387]; anzi si
eressero cattedre a posta per ciò. Anche il suo catechismo non v’è
lingua in cui non fosse tradotto.

Nè gli eretici lasciavano quiete, o mostravano tolleranza. Un inglese
entrato in San Pietro di Roma, mentre il sacerdote stava per elevar
l’ostia, l’assalì per istrappargliela di mano, e sparse per terra
il calice; onde assalito dal popolo, fu battuto, poi consegnato
all’Inquisizione; e confesso d’essere venuto con altri in Italia per
commettere simili atti, fu condannato al fuoco, che subì «con tanta
fermezza che ha dato da ragionare assai»[388]. Un altro pubblicò
un «Avviso piacevole dato alla bella Italia da un giovane nobile
francese», sozzo di bestemmie contro il papa e il papato, e che ebbe
confutazione dal Bellarmino.

La Riforma, mentre seminava l’Europa di sanguinose eppur feconde
ruine, turbò gli animi con opinioni variabili quanto le teste: dubbj
nell’intelletto e scrupoli nella coscienza nascevano dall’essere
rotto l’equilibrio fra il sentimento dei diritti e quello dei doveri.
Scassinata l’autorità divina, fu forza cercare nuovi fondamenti alle
obbligazioni dei privati e delle nazioni: ma i liberali protestanti non
giungevano che alla negazione, resistendo al potere in nome del diritto
non del dovere, o zelando un patriotismo inesperto, che vede le piaghe,
non la difficoltà del rimedio, e incita alla disobbedienza.

Essi tacciavano i Cattolici di legittimare la resistenza agli
arbitrj; di voler anche che la Chiesa partecipasse al potere che essi
concentravano tutto ne’ principi; di supporre qualcosa di superiore e
anteriore ai patti sociali, là dove essi ponevano nelle leggi l’unica
fonte dell’obbligazione; d’insegnare con san Tommaso che l’obbedienza
ai re è subordinata all’obbedienza dovuta alla giustizia.

I teologi nostri sostenevano che la prerogativa del pontefice sovrasta
alla politica, perchè di diritto divino: se rispondeasi dover essere
divino anche il diritto dei principi, altrimente qual ne sarebbe il
fondamento? essi non esitavano a rispondere, — Il popolo», sancendo
così la sovranità di questo. Secondo il Bellarmino, la podestà civile
deriva da Dio; e prescindendo dalle forme particolari di monarchia,
aristocrazia o democrazia, fondasi sulla natura umana; e non essendo
connessa ad alcun uomo in particolare, appartiene all’intera società;
questa non può esercitarla da se medesima, onde è tenuta trasferirla
in alcuno od alcuni, e dal consenso della moltitudine dipende il
costituirsi un re o consoli o altri magistrati, col diritto di
cambiarli[389]. Nell’opera _De summo pontifice capite totius militantis
Ecclesiæ_, la supremazia papale vuole indipendente da qualsiasi
giudizio; anima della società, di cui non è che corpo la potestà
temporale[390]. Però negli affari civili il papa non deve maneggiarsi,
salvo ne’ paesi suoi vassalli; anzi è lecito resistergli se turbi lo
Stato, e impedire che sia obbedito. Deporre i re non può ad arbitrio,
qual che ne sia la cagione, eccetto i suoi vassalli; ben può mutarne il
regno ad altri ove lo esiga la salute delle anime[391]. Alla monarchia
pura antepone il Bellarmino la temperata dall’aristocrazia; e se pur
dice che il papa può dell’ingiustizia far giustizia, convien ricordarsi
che Hobbes attribuiva lo stesso diritto ai re[392]. La sua opera
spiacque grandemente a Napoli e a Parigi; ma neppure gradì a Roma,
anzi Sisto V la pose all’Indice, ma contro il voto della Congregazione,
sicchè ben tosto ne fu depennata.

Fra i tanti libelli usciti contro di lui, uno narrava come, straziato
dai rimorsi, fossesi condotto alla sacra casa di Loreto a confessare
sue colpe; ma uditene alcune, il penitenziere lo cacciò come
irreparabilmente dannato, sicchè cadde per terra, e fra orribili
scontorcimenti perì. Ciò stampavasi mentr’egli viveva in umiltà
laboriosa; ammirato per disinteresse e umiltà, in tutta Europa volava
il suo nome; un Tedesco venne apposta a Roma, con un notaro attese
presso la casa dove il Bellarmino abitava finchè questo uscisse,
fece rogar atto d’averlo veduto, e di ciò glorioso tornò in patria;
il papa lo creava cardinale _quia ei non habet parem Ecclesia Dei
quoad doctrinam_; e morendo santamente, professava non solo la fede
cattolica, ma quanto alla Grazia pensare come i Gesuiti.

Volemmo badarci sul Bellarmino perchè in lui si personifica ciò che di
più avanzato si rinfaccia alla santa Sede, e perchè quelle dottrine
ebbero grande efficienza sulle sorti delle nazioni. Anche l’altro
gesuita Santarelli insegnava potere il papa infliggere ai re pene
temporali, e per giuste cagioni assolvere i sudditi dalla fedeltà.
Invano i suoi confratelli ritirarono tosto quell’opera; il parlamento
di Parigi e la Sorbona, cui era stata denunziata, la condannarono
ed arsero, obbligando i Gesuiti a far adesione a tale condanna, e
dichiarare l’indipendenza dei re[393].

Son queste le opinioni, per le quali i Gesuiti furono dichiarati
nemici ai re, fautori del tirannicidio, insomma precursori dell’odierno
liberalismo; il quale poi alla sua volta dovea sentenziarli dispotici,
oppressori del pensiero e della libertà: e allora e adesso senza esame
o senza lealtà. Nè dobbiamo tacere come Clemente VIII, in un’istruzione
sull’Indice, raccomanda «si abolisca ciò che sente di paganesimo, e che
dietro alle sentenze, ai costumi, agli esempj gentileschi, favorisce
la polizia tirannica, e ne induce una ragion di Stato avversa alla
cristiana legge». Ecco da qual lato stesse il liberalismo.

Eppure corre opinione che la Riforma introducesse la libertà, e che la
Chiesa nostra la bandisse. Vero è bene che questa, ridotta impotente
alle più elevate attribuzioni sociali, e ristretta ognor più alla vita
individuale e al bisogno di conservarsi, si alleò coi re, a scapito
del carattere popolare che l’avea controdistinta nel medioevo; e la
tirannide uffiziale, introdotta dai principi protestanti, si estese
pure ai cattolici, perchè il clero la pensò opportuno freno al popolo;
i principi, minacciati dalla libertà del pensiero, fecero sinonimi
eretico e ribelle, e insieme li perseguitarono; a vicenda i fautori
della Riforma, vedendo la Chiesa cattolica porsi dal lato della
resistenza, la denunziavano come sostegno dell’assolutismo, ottenendo
quella confusione di cose umane e divine, che il secol nostro si
compiace di rinnovare, e che tanto pregiudica alla vera libertà.

La franchigia di commercio, per cui Armeni, Turchi, Ebrei, v’erano
egualmente i ben venuti, favoriva a Venezia l’indifferenza; l’autore
del _Discorso aristocratico sopra il governo dei signori Veneziani_
assicura che, venendo a morte un Luterano o Calvinista, permetteano
fosse sepolto in chiesa, e i parroci non se ne faceano scrupolo:
aggiunge però: — Non ho mai conosciuto alcun Veneziano seguace di
Calvino o di Lutero od altri, bensì d’Epicuro e del Cremonini, già
lettore nella prima cattedra di filosofia nello studio di Padova, il
quale assicura che l’anima nostra provenga dalla potenza del seme, come
le altre dell’animal bruto, e per conseguenza sia mortale. Seguaci di
questa scelleratezza sono i migliori di questa città, ed in particolare
molti che hanno mano nel governo».

Fin dal 1520 Burcardo Scenck gentiluomo tedesco scriveva a Spalatino,
cappellano dell’elettore di Sassonia, che Lutero godeva stima a
Venezia, e ne correano i libri, malgrado il divieto del patriarca;
che il senato penò a permettere vi si pubblicasse la scomunica contro
l’eresiarca, e solo dopo uscito il popolo di chiesa[394]; Lutero stesso
felicitavasi che tanti di colà avessero accolto la parola di Dio[395],
e tenea corrispondenza col dotto Giacomo Ziegler che caldamente
vi s’adoperava; come di là erano dirette esortazioni a Melantone
affinchè non tentennasse nella fede, nè tradisse l’aspettazione
degl’Italiani[396]. Molto oprò a propagarvi la Riforma Baldo Lupatino,
per cui consiglio Matteo Flach di Albona in Istria (_Flaccius
Illiricus_) suo compatriota e parente, fuggì in Germania, e fu
principal penna nelle famose Centurie Magdeburgensi[397]. Baldassarre
Altieri d’Aquila, stabilito a Venezia e agente di molti principi
tedeschi, ebbe comodità di diffondervi libri e idee; e tanto crebbero,
che nel 1538 Melantone esortava il senato a permettere vi s’istituisse
una chiesa[398].

Sappiamo che il Bruciòli pubblicò a Venezia la sua Bibbia vulgare; le
opinioni di sant’Agostino sulla Grazia e il libero arbitrio vi furono
stampate il 1545 da Agostino Fregoso Sostegno; ivi predicava l’Ochino;
a Padova fece lunga dimora Pietro Martire Vermiglio; a Treviso si
formò un’accolta di novatori; e in una a Venezia il 1546 tennero
conferenze circa quaranta persone che spingeansi ben oltre i confini
dei Protestanti; Giorgio Rorario da Pordenone credesi autore delle
note marginali alla Bibbia tedesca di Lutero[399]. Jacopo Brocardo
veneziano seguì Calvino, e pretese confermare colla santa Scrittura
le visioni che dicea d’avere: nel 1565 ritiratosi nel Friuli, scrisse
di fisica, ma fu scoperto e arrestato dai Dieci: rilasciato, andò
vagando a Eidelberga, in Inghilterra, in Olanda, in Francia, dove il
sinodo nazionale della Roccella proibì la sua _Interpretazione sopra la
Genesi_: in Olanda ritrattò i suoi libri mistici e profetici, pure ne
fu sbandito e campò miseramente fin dopo il 1594. Da Candia, dominio
di Venezia, era Cirillo Lucar, che in Italia e in Germania avuta
cognizione della Riforma, dissimulò, finchè a gradi a gradi divenuto
patriarca d’Alessandria, poi di Costantinopoli, cominciò ad insinuare
le novità: se n’avvidero i vescovi e preti, e lo fecero relegare a
Rodi; ma col sostegno dell’Inghilterra e dell’Olanda fu ristabilito, e
pubblicò un catechismo calvinico, col quale eccitò turbolenze, che la
Porta sopì col farlo strangolare; diversi sinodi anatemizzarono lui e
le sue dottrine.

Venezia fin dal 1248 (tom. VI, pag. 354) stabilì si punissero quelli
che un concilio di prelati sentenziasse d’empietà; quarantun anno prima
che, ad istanza di Nicola IV, introducesse la santa Inquisizione, alla
quale tenne poi sempre la briglia, volendo ai processi assistessero tre
nobili, le ammende si avocassero all’erario, i beni de’ rei andassero
agli eredi, non al fisco, nè potesse giudicare Ebrei e Greci, ai quali
fu sempre lasciato libero culto. Essendo denunziato un libro favorevole
alle opinioni di Giovanni Huss, lo arsero, e l’autore mandarono attorno
colla mitera in capo, indi sei mesi di prigione, e nulla più. Del
resto Venezia vi suppliva co’ Savj sopra l’eresia e cogli Esecutori
sopra la bestemmia, destinati ad approvare le stampe, vigilare sopra
gli eretici, castigare chi celebrasse messa non ordinato, punire chi
bestemmiasse o violasse cose sacre.

Anche qui si crebbero i rigori dopo che ne apparvero le conseguenze.
Al 29 novembre 1548 il doge Francesco Donato scrive: — Avemo inteso
con grandissimo dispiacere nostro che in questa città di Bergamo si
ritrovano alcuni eretici, i quali non solo non vivono cattolicamente,
ma pubblicamente disputano e cercano di persuadere agli altri le
opinioni luterane, cosa che non volemo comportare per modo alcuno»;
ed essendosi il papa lagnato che il capitano e il podestà di Vicenza
lasciassero predicare l’errore, la Signoria emanò ordini severi e
cominciò supplizj. Guido Zanetti fu consegnato all’Inquisizione romana;
Giulio Ghirlanda trevisano e Francesco Rovigo condotti a Venezia e
strozzati; così Antonio Ricetto vicentino, Francesco Spìnola prete
milanese, frà Baldo Lupetino suddetto; i restanti approfittarono del
terribile avviso per fuggire, tra cui Alessandro Trissino con altri
riparò a Chiavenna, donde a Leonardo Tiene suo concittadino scrisse,
eccitandolo ad abbracciare una volta la Riforma, con tutta la città.

Sollecitato da Pio V perchè la Signoria applicasse rigorosamente
l’Inquisizione, l’ambasciatore veneto Pietro Tiepolo scrive avergli
risposto si farebbe, «ma troverebbe che in quel dominio si vive più
religiosamente e cattolicamente che forse in qualsivoglia altra parte;
e non sapeva dove più si frequentassero le chiese e i divini ufficj
che in quella città. Di che rimase alquanto sopra di sè, forse per
l’informazione avuta del contrario». E altra volta: — Venne a trovarmi
l’inquisitore di Brescia, e mi disse che il papa l’aveva lungamente
esaminato sopra le cose di quella città, e che egli, che conosceva
che con sua santità non era bisogno di sperone ma di freno, avea
fatto ogni sorta di buon officio, scusando e raddolcendo quelle cose
che erano venute alle orecchie della sua santità, affermando che da
quei clarissimi rettori gli erano prontamente prestati tutti quegli
ajuti e favori che sapea desiderare. Mi soggiunse aver detto a sua
santità d’avere sentito che non era ben disposto verso quel serenissimo
dominio; ma come devoto della sua santità volea dirle che non sapea
Stato che facesse più di quello per la santa Sede; che sebbene in una
moltitudine grande si trovasse qualcuno che non avesse mente del tutto
netta, non bisognava fare mal concetto di tutta una repubblica così
degna e così buona come quella».

Altrove narra come rassicurasse il santo padre che la Signoria veneta
stava attentissima contro gli eretici, non solo per zelo religioso,
ma per la concordia e unione de’ cittadini, che ne sarebbe turbata;
e che «le cose erano in buono stato, e forse migliori che in altra
parte della cristianità, non ostante che quel dominio avesse per
più di trecento miglia continui confini colla Germania, e per questo
rispetto convenisse aver molto commercio con Tedeschi». Aggiunge che
il consiglio dei Dieci vi bada attento, «ma che noi usiamo più effetti
che dimostrazioni, non fuochi e fiamme, ma far morire segretamente
chi merita..., che quelle dimostrazioni palesi, più grandi, severe e
terribili, portavano maggior danno che utile; che in Francia e ne’
paesi di Fiandra si erano fatte ammazzare le decine di migliaja di
persone, non solo senza frutto, ma con vedere ogni giorno moltiplicar
la gente nell’opinione dei morti; che il consiglio dei Dieci aveva
ultimamente fatto legge, che chiunque fosse bandito da qualsiasi città
per conto di religione, s’intendesse bandito da tutto il dominio,
cosa che forse non si avrebbe pututo fare per gli ordinarj termini di
giustizia»[400].

È vero che Venezia si tenne sempre sulle guardie nel trattare coi
pontefici, nè si lasciava impacciare da ecclesiastiche immunità[401],
anzi professandosi «prima veneziani che cristiani», spingevasi
l’ombrosità fino a temere che i preti colla virtù acquistassero
influenza sulla plebe. «La ragion di Stato non vuole che i suoi
sacerdoti siano esemplari, perchè sarebbero troppo riveriti ed amati
dalla plebe»; è scritto nel _Discorso aristocratico sopra il governo
de’ signori Veneziani_[402]. Un Gesuita raccoglieva i gondolieri ogni
festa per istruirli nelle cattoliche verità; ma la Signoria riflesse
che i gondolieri praticano con persone d’ogni grado, e quindi possono
servire allo spionaggio, e proibì quella congregazione, e cacciò il
Gesuita. Un altro declamava contro il carnevale, asserendo che quel
denaro si spenderebbe meglio in ajutare il papa nella guerra contro i
Turchi, minacciosi alla repubblica; e la Signoria lo sbandì.

Il clero indistintamente restava sottoposto alla giurisdizione dei
Dieci, ed escluso dagli uffizj civili: qualora si recassero sul tappeto
affari relativi a Roma, venivano rimossi dal consiglio i _papalisti_,
vale a dire quelli che tenessero aderenza con quella Corte, o soltanto
parentela negli Stati pontifizj: il 9 ottobre 1525 i Dieci risolsero,
chi avesse figli o nipoti negli Ordini fosse escluso da qualunque
affare concernente Roma. Allegando che il custodire Corfù e Candia,
antemurali della cristianità, costava più di cinquecentomila scudi
l’anno, Venezia chiedeva un decimo delle rendite ecclesiastiche, non
escluse quelle de’ cardinali; e lo ottenne dal papa. Alle trentasette
sedi vescovili l’investitura era data dal doge stesso, in nome di
Dio e di san Marco; ma dopo la lega di Cambrai la curia romana n’avea
tratta a sè la collazione, lasciando alla Signoria solo un quarto delle
nomine, sebbene anche le altre non potessero cadere che in sudditi
veneti. E quando Innocenzo VIII pretese l’incondizionata elezione dei
vescovi di Padova e d’Aquileja, la Signoria si oppose, com’anche alle
decime ch’e’ volea levare sopra le istituzioni di beneficenza. Nominato
da Pio IV vescovo di Verona Marcantonio da Mula allora ambasciatore a
Roma, la Signoria ricusa riceverlo: eletto cardinale, fa altrettanto,
mandando scuse al papa, ma ai parenti del cardinale vietando d’assumere
la veste purpurea in segno di festa; e si rimase saldi al no, scrivendo
al papa: — Noi siamo schiavi delle nostre leggi, ed in ciò consiste la
nostra libertà».

Mal dunque si rassegnava Venezia alle pretensioni papali; non volle
che il Vendramin, da essa eletto patriarca, dovesse subir l’esame a
Roma; la bolla _In Cœna Domini_ proibì di ricevere o pubblicare; non
che esercitar giurisdizione sovra persone ecclesiastiche, n’era tanto
gelosa che gl’Inquisitori di Stato, avuto spia che in casa del nunzio
si discorreva «che l’autorità del principe secolare non si estende a
giudicare ecclesiastici se questa facoltà non sia concessa da qualche
indulto pontifizio», stabilì che i prelati paesani i quali tenessero
simili discorsi fossero notati su libro apposito «come _poco accetti_,
e si veda occasione di farne sequestrare le entrate; e se perseverino,
si passi agli ultimi rigori, perchè il male incancrenito vuol al fine
ferro e fuoco». Quanto ai curiali del nunzio, se tengono tali propositi
fuori della Corte, «sia procurato di farne ammazzar uno, lasciando
anche che, senza nome di autore, si vociferi per la città che sia stato
ammazzato per ordine nostro, per la causa suddetta»[403].

Un frate a Orzi pubblica un libello contro un magistrato veneto, e
questo lo fa arrestare, togliendogli di mano il Santissimo ch’egli
avea preso per sicurtà. Condannato un prete marchigiano, la Signoria
manda al patriarca che lo dissacri; e poichè questo esitava, alcuni in
consiglio propongono di dargliene ordine preciso; altri soggiungono che
con ciò s’impaccerebbe in futuro il corso della giustizia, e perciò
si mandi al supplizio senza degradazione. Egualmente la Signoria fa
carcerare Scipione Saraceno canonico di Vicenza e l’abate Brandolino
di Narvesa nel Trevisano imputati di enormi colpe, e rinnova l’antico
decreto che gli ecclesiastici non possano acquistare beni stabili, e
devano vendere quelli che ricevessero per testamento, nè si fondino
nuove chiese senza beneplacito del senato.

Se n’adontò Paolo V, papa di rigorosa virtù e infervoratissimo della
primazia ecclesiastica, per la quale lottò con Lucca, Malta, Savoja
e Genova non solo, ma con Francia e Spagna sempre prosperamente, e
ripetea: — Non può darsi vera pietà senza intera sommessione alla
podestà spirituale». Egli scrisse minaccie al doge (1606), e non
ascoltato spedì monitorj e scomunica severissima[404]: la Signoria
ne mostrò dolore, ma non cambiò guise; intimò guaj a chi «lasciasse
pubblicare il monitorio», impose che i preti continuassero le
uffiziature; Gesuiti, Teatini e Cappuccini, i quali credettero dover
obbedire al papa anzichè al principe secolare, furono mandati via, e
partirono processionalmente dallo Stato con un crocifisso al collo e
una candeletta in mano; al vicario del vescovo di Padova, che rispose
farebbe quanto lo Spirito Santo gl’ispirerebbe, il podestà soggiunse: —
Lo Spirito Santo ispirò ai Dieci di far impiccare chiunque recalcitra».

Tutta Europa vi prese parte, in tutta ritrovandosi persone e cause
interessate; Enrico IV sosteneva i Veneziani, la corte di Spagna
rifiutò il loro ambasciatore come scomunicato; tesi e consulti furono
scritti e contro e in favore dai migliori giuristi, e singolarmente dal
celebre Menocchio, preside al senato di Milano; i più sosteneano ne’
governi il diritto di esaminar i motivi delle scomuniche e degli ordini
pontifizj; e quel che ne sentissero i libertini ci appare da Gregorio
Leti, che nella _Vita di Sisto V_ scrive: — I frati veneziani hanno
tanto a cuore la riputazione della loro repubblica, che in servizio di
questa rinuncierebbero, per maniera di dire, Dio, non che il papa e la
religione; ed io trovo che tutti gli altri frati devono far lo stesso
in servizio del loro principe, quantunque si veggano molti esempj
contrarj e scandolosi».

Il Governo veneto si mostrò allora rigorosissimo, e n’ebbe
congratulazioni dai Protestanti, i quali vi sperarono occasione di
scattolicizzare l’Italia. Più che in altri essi confidavano in Paolo
Sarpi (1552-1623), frate servita, di San Vito al Tagliamento. Fu egli
uno de’ maggiori ingegni di quell’età, e settecento suoi pensieri
manoscritti mostrano come sentisse addentro in geometria, algebra,
meccanica, fisica, astronomia, areometria, architettura. Nell’_Arte
di ben pensare_ s’accorge che i sensi non ingannano, riferendo essi
all’intelletto ciò che loro si presenta, e che alle scoperte sono
inetti gli assiomi. Teologo della Repubblica veneta, nel litigio di
questa contro del papa fu condotto ad esaminarne il diritto, e con
ragioni ed autorità sminuire l’ingerenza di questo ne’ negozj civili;
e sebbene scrivesse per comando e «a norma delle pubbliche mire»[405],
venne ad infervorarsene per modo, che personificò l’avversione alla
santa Sede. Nella _Consolazione della mente nella tranquillità di
coscienza, cavata dal buon modo di vivere nella città di Venezia
nel preteso interdetto di papa Paolo V_, domanda: 1. nel pontefice
e nella Chiesa v’è autorità di scomunicare? 2. quali persone sono
soggette a scomunica, quali le cause di applicarla? 3. la scomunica è
appellabile? 4. è superiore il pontefice o il concilio? 5. per ragion
di scomunica il principe legittimo può essere privato de’ proprj
Stati? 6. per impedire la libertà ecclesiastica s’incorre giustamente
nella scomunica? 7. qual è questa libertà? e si estende solamente alla
Chiesa, ovvero anche alle persone di questa? 8. il possesso delle cose
temporali spettanti alla Chiesa è di diritto divino? 9. una repubblica
come un principe libero può restar privata dello Stato per causa di
scomunica? 10. il principe secolare ha legittima azione di riscuotere
le decime, e legittima potestà d’ordinare ciò che giovi alla repubblica
sopra i beni e le persone ecclesiastiche? 11. ha per se stesso autorità
di giudicare gli ecclesiastici? 12. quanto si estende l’infallibilità
del pontefice?

A tali quistioni rispondeva in somma, che la podestà del santo padre
si limita alla pubblica utilità della Chiesa: il cristiano a quello
non dover obbedienza assoluta, e prima esaminare se il comando è
conveniente, legittimo obbligatorio; che se obbedisce alla cieca,
pecca: quando il pontefice fulmina scomunica o interdetto per
comandi ingiusti e nulli, non deve tenersene conto, essendo abuso
di podestà: la scomunica è ingiusta e sacrilega quando fulminata
contro la moltitudine: non può sussistere se non s’appoggia a peccato
anticipatamente minacciato di scomunica: il concilio di Trento, fuoco
di sant’Elmo apparso nelle maggiori burrasche della Chiesa, ingiunge
estrema circospezione nell’infliggerla, ma erra quando vuole che
chi vi persevera un anno, sia dato all’Inquisizione come sospetto
d’eresia; e quando vieta al magistrato secolare d’impedire al vescovo
di pubblicarla: le immunità ecclesiastiche non sono di diritto divino.
La Chiesa greca, sempre povera, patì meno scandali che la latina; ed è
patto tra il popolo e i ministri della Chiesa che questi somministrino
la parola e i sacramenti, quello il pane corporale. I papi, non che
la temporale, neppur sempre ebbero la sopreminenza spirituale, e se
la usurparono favorendo principi usurpatori. Mentre le cose umane col
tempo svigoriscono, nella monarchia ecclesiastica cresce l’autorità,
non già la santità e la riverenza. I principi temporali non dipendono
che da Dio: nè Cristo poteva trasmettere al suo vicario la potestà
temporale ch’egli non esercitò. Il papa non ne ha veruna sui principi,
non può punirli temporalmente, non annullarne le leggi, o spogliarli
de’ dominj. A rincontro, gli ecclesiastici non han nulla di esente
dalla potestà secolare, e il principe esercita sulle persone e i beni
loro altrettanta autorità che sugli altri sudditi.

Del resto l’impugnar Roma non era prova d’eroismo in una repubblica
sempre ricalcitrante alle pretensioni curiali; e frà Paolo
sbraveggiando il papa umiliavasi a Filippo II, preconizzandogli
ridurrebbe schiave Europa ed Africa, e muterebbe Parigi in un
villaggio; sommessissimo si mostrava a’ nobiluomini del suo paese,
e lusingando ad essi ed alle opinioni interessate, usurpavasi gli
onori del coraggio. Come sentisse in fatto di libertà cel dicono certe
costituzioni da esso ideate pel suo Ordine, ove non dubita ricorrere
fino alla tortura; e l’insinuare alla repubblica provvedimenti
tirannici. Che nella Quarentìa si giudicasse per consulti gli spiaceva,
e al più li tollererebbe nelle cause civili; le criminali vorrebbe
tutte assunte dal consiglio dei Dieci[406], il quale escludeva il
dibattimento. Raccomanda di tenere ben depressi i nobili poveri, chè,
come la vipera non è buona nel freddo, così i nobili nella bassezza.
Suggeriva d’opprimere le colonie levantine; ai Greci, come a belve,
limar i denti e gli artigli, umiliarli spesso, togliervi ogni occasione
d’agguerrirsi, dar pane e bastonate, serbando l’umanità per altre
occasioni; nelle provincie d’Italia industriarsi a spogliar le città
dei loro privilegi, fare che gli abitanti impoveriscano, e i loro beni
sieno comperati da’ Veneziani; quei che ne’ consigli municipali si
mostrano animosi, perderli se non si può guadagnarli a qual sia prezzo;
vi si trova qualche capoparte? sterminarlo sotto qualche pretesto,
cansando la giustizia ordinaria; e il veleno tenendo come meno odioso e
più profittevole che non il carnefice[407].

Altrove denunzia come «da pochi anni in qua escono quotidianamente
a stuolo libri, che insegnano non esser da Dio altro governo che
l’ecclesiastico; il secolare esser cosa profana e tirannia, e come
una persecuzione contro i buoni da Dio permessa: che il popolo non
è obbligato in coscienza obbedire le leggi secolari, nè pagar le
gabelle e pubbliche gravezze: che, purchè l’uomo sappia far sì che
non sia scoperto, tanto basta: che le imposizioni e contribuzioni
pubbliche per la maggior parte sono inique ed ingiuste, ed i principi
che le impongono scomunicati; insomma i principali magistrati sono
rappresentati e posti in concetto dei sudditi per empj, scomunicati
ed ingiusti: che sia necessario temerli per forza, ma in coscienza sia
lecito fare ogni cosa per sottrarsi dalla loro soggezione». E conchiude
suggerendo una rigorosa legge sopra le stampe.

Contro il papa e contro Gesuiti e Cappuccini predicava pure
frà Fulgenzio Manfredi minorita, il quale poi andato a Roma con
salvocondotto, ottenne l’assoluzione e ricevimento cortesissimo: poi
repente fu arrestato dal Sant’Uffizio, e per avergli trovato libri
proibiti, scritture ereticali, e carteggi esprimenti intelligenze col
re d’Inghilterra, fu appiccato ed arso in Roma. Secondava al Sarpi frà
Fulgenzio Micanzio da Passirano presso Brescia, predicando con tale
franchezza, che il francese medico Asselineau, caldo di quei maneggi e
che spesso scriveva invece di frà Paolo, ebbe a dire: — Pare Dio abbia
per l’Italia suscitato un altro Melantone o Lutero»[408]. Egli fece il
quaresimale (1609) «con libertà, verità e gran concorso di nobiltà e
popolo, a dispetto del nuncio e delle sue rimostranze», come scriveva
Duplessis-Mornay; e frà Paolo gradiva che ne pigliassero disgusto i
Gesuiti, de’ quali non è male che non dica in ogni occasione, nè lasciò
via intentata perchè fossero esclusi prima, non riammessi poi dalla
repubblica; procacciavasi sollecitamente i libri contrarj ad essi, e —
Non c’è impresa maggiore (scriveva) che levare il credito ai Gesuiti.
Vinti questi, Roma è presa; senza questi, la religione si riforma da
sè»[409].

Esultavano i Protestanti alle scritture che, in occasione
dell’interdetto, pubblicavansi contro Roma; Melchiorre Goldast, Gaspare
Waser, Michele Lingeslemio, Piero Pappo ne esprimevano congratulazioni,
faceanle tradurre e divulgare; lo Scaligero viepiù, il quale scriveva:
— Il signor Carlo Harlay di Dolot m’ha detto di aver portato libri
di Calvino a diversi signori di Venezia, dove già molti hanno la
cognizione degli scritti nostri»; e divulgavasi la profezia di Lutero
nell’esposizione del Salmo XI: — A Venezia riceverassi il vangelo:
e i poveri e gli oppressi cristiani liberalmente si sostenteranno e
nutriranno, sicchè la Chiesa si moltiplichi».

Del resto chi abbia vissuto appena questi ultimi anni, sa come le
controversie con Roma o l’avversione ad un papa infondano ardire
e lusinghino speranze di rompere colla Chiesa. E di siffatti non
difettava Venezia, quali Ottavio Menino di San Vito, legale lodato
e poeta latino, che molto scrisse in proposito dell’interdetto,
ed eccitava il Casaubono a fare altrettanto; un Querini, autore
dell’_Avviso pernicioso_; don Giovanni Marsilio, gesuita napoletano
apostato, colà fuggito, ove continuava a celebrar messa benchè sospeso
dal pontefice[410]; l’erudito Domenico Molino; un Malipiero, «uomo
d’una pietà senza fuco e senza superstizioni, che era solito ogni sera
accompagnare il Sarpi, a cui portava un amore e venerazione singolare,
che era tra loro vicendevole»[411].

Faceano capo all’ambasciatore d’Inghilterra ed al famoso Bedell suo
cappellano, il quale tradusse la Storia dell’Interdetto e quella
dell’Inquisizione di frà Paolo; e la pratica continuò anche dopo
che Venezia si fu rassettata col papa. Giovan Diodati, discendente
da profughi lucchesi, dalla Chiesa di Ginevra deputato al sinodo
di Dordrecht nel 1618, ed eletto, benchè straniero, a redigerne le
deliberazioni, avea tradotto la Storia di frà Paolo; e a lui di queste
intelligenze scriveva il Bedell, _Ecclesiæ venetæ reformationem
speramus_, e lo esortava a recarsi colà, dove lo sospiravano
l’ambasciator suo e frà Paolo.

Il nunzio Ubaldini nel novembre 1608 avvisava il cardinal Borghese
come fossero partiti per Venezia due predicanti ginevrini, sicuri
di liete accoglienze da alcuni nobili, poi aveano ricevuto ordine
di tornar indietro. Fu per tal occasione che il Diodati pubblicò la
sua traduzione italiana della Bibbia e scriveva: — Non sono senza
speranza di farne entrare e volare degli esemplari in Venezia, dove
la superstizione ha già ricevuto gran breccia, per dove è entrata
la libertà, cui Dio santificherà per la sua verità quando ne sia
il tempo». E pochi mesi dopo: — A Venezia ne ho già spedito qualche
numero di esemplari, e spero ben tosto maggior commissione. Per avviso
dell’ambasciator d’Inghilterra in Venezia, io fo attualmente stampare
il Nuovo Testamento a parte in piccola gentilissima forma, perchè serva
agli avventurosi principj che Dio vi ha fatti apparire. E può essere
che questo sarà il meno, di servirli con la penna solamente; poichè
bisognerà intraprendere altra cosa più forte ed espressa, e i progetti
sono tutti formati, i quali il tempo è vicino molto a dar fuori,
siccome io spero in nostro Signore».

Al Duplessis-Mornay, detto il papa de’ calvinisti francesi, e autore
del _Mistero d’iniquità_, esso Diodati porgeva contezza come già da
due anni stesse in pratica di riformar Venezia; da lettere di colà
venir assicurato che il paese è rinnovato; liberissimi discorsi
tenervisi, massime da frà Paolo, da frà Fulgenzio, dal Bedell, in modo
che si crederebbe essere a Ginevra; il mal umore contro il papa non
acchetarsi; e tre quarti de’ nobili aver già raggiunta la verità. De
Liquez, compagno del Diodati soggiungeva: — Frà Paolo mi assicura che
nel popolo conosce più di dodici o quindicimila persone, le quali alla
prima occasione si volterebbero contro la Chiesa romana. Son quelli che
da padre in figlio ereditarono la vera cognizione di Dio, o resti degli
antichi Valdesi. Nella nobiltà moltissimi hanno conosciuto la novità,
ma non amano esser nominati finchè non venga il destro di chiarirsi.
E una prova si è che frà Paolo, quantunque scomunicato, ebbe ordine
dal senato di continuare a celebrar messa». Aggiunge che avendo i
preti esatto, prima di assolverli, che i loro penitenti promettessero
obbedire al papa nel caso d’un nuovo interdetto, il Governo gli
ha arrestati, _et mis en lieu où depuis ne s’en est ouï nouvelles;
tellement que, depuis l’accord, ils ont plus fait mourir de prêtres et
autres ecclésiastiques, qu’ils n’avoient fait en cent ans auparavant_.
Anzi Link, emissario dell’Elettor palatino, del quale si legge la
relazione negli _Archivj storici_ del professore Lebret, parla di
oltre mille persone aspiranti alla Riforma, fra cui trecento distinti
patrizj; avrebbero dunque trecento voti nel gran consiglio, che di
rado eccedeva i seicento; e se si aggiungano quelli su cui poteano
aver influenza, facilmente potevano conseguire la maggiorità, e quindi
l’effetto dei loro desiderj.

Eppure, non che risoluzione, neppur mai proposta ne fu fatta. E
come? In Venezia tutto era cattolico, l’origine, il patrono, le feste
nazionali, le belle arti; ivi sfoggiatissime le solennità; ivi antica
l’inquisizione contro l’eresia; ivi sulla religione innestata la
politica, per la crociata perenne contro gl’Infedeli; ivi aggregati
quasi tutti alle confraternite, dove anche il plebeo trovavasi non solo
pari, ma superiore al nobiluomo e al senatore. Dove lo spirito pubblico
era così identificato al cattolicismo, un governo eminentemente
conservatore poteva mai pensare alla rivoluzione più radicale?
Moltissimi atti noi scorremmo a proposito dell’interdetto, e in tutti
gran franchezza ci apparve, ma soggezione cristiana e desiderio di
ricomporsi; e chi ha occhio dica se è culto che perisce quello che
fabbricava allora tante splendide chiese.

Il Diodati stesso nel 1608 venuto a Venezia, trovò assai meno che
non si fosse ripromesso, nè però deponeva le speranze; quei due
frati adoprarsi a tutt’uomo, ma ancor troppo radicata esservi la
riverenza[412] pei monaci. Alfine egli confessa avere «a fondo
scoperto il sentimento di frà Paolo, e ch’e’ non crede sia necessaria
una precisa professione, giacchè Dio vede il cuore e la buona
inclinazione». Anche l’apostato De Dominis a Giacomo I d’Inghilterra
scriveva che il Sarpi «non udiva volentieri le soverchie depressioni
della Chiesa romana, sebbene aborriva quelli che gli abusi di essa come
sante istituzioni difendessero».

Del quale Sarpi, oltre le Storie, abbiamo e fatti e lettere, che
della fede sua fan molto dubitare. Avendo Nicola Vignerio stampato
una dissertazione contro il Baronio, Filippo Canaye ambasciatore
di Francia in Venezia e amico di frà Paolo scriveva al signore di
Commartin, da quell’opera tenersi offesa la Signoria veneta perchè
vedeasi noverata fra quelli che si smembrarono dalla Chiesa. Eppure a
quell’opera del Vignerio e all’esposizione sua dell’Apocalisse, ove
riscontra l’anticristo nel papa, diede applausi e forse ajuti frà
Paolo. E da questo crederonsi esibiti i materiali al libello inglese
di Edvino Sandis, sullo stato della religione in Occidente, ove riduce
a superstizione e inezia la pietà dei Cattolici, e massime degli
Italiani[413].

Quando il Priuli ambasciator veneto tornava di Francia, Francesco
Biondi suo segretario imballò moltissimi libri ereticali; il qual
Biondi poi passò col De Dominis in Inghilterra, e apostatò. Successe
ambasciatore in Francia quell’Antonio Foscarini, che finì decapitato
per isbaglio, e ch’era molto legato cogli Ugonotti. Poi diè luogo
al cavaliere Giustiniani, che frà Paolo indica come _papista_,
soggiungendo che perciò «conviene servirsi di quello di Torino per far
qualche cosa di bene per la religione»[414].

Era costui Gregorio Barbarigo, tutta cosa di frà Paolo, che lo
giudicava «una delle più tranquille anime che abbia non solo Venezia
ma forse l’Italia»; ma presto fu spedito in Inghilterra, ove morì,
surrogandogli il Gussoni, col quale frà Paolo avvertiva il Groslot
di non comunicare «le cose di evangelio, se non in quanto fossero
congiunte con quelle di Stato e di governo». Coll’eguale bilancia pesa
egli i differenti ambasciatori.

Quelli che si lusingavano di veder Venezia protestante, ebbero per
buon segno il suo legare intelligenze coi sollevati dei Paesi Bassi
e riceverne un ambasciatore[415], così dando credito agl’insorgenti:
ma era un provvedimento politico. Confidavano che Enrico IV, per
la nimicizia con Casa d’Austria, vi favorirebbe le novità; ma
inaspettatamente egli trasmise alla Signoria veneta una lettera del
Diodati, il quale al Durand, pastore in Parigi, esponeva per filo e
per segno quant’erasi tramato in Venezia; nominava come consenzienti
i principali; che fra poco le fatiche sue e di frà Fulgenzio
conseguirebbero l’intento; e se il papa si ostinasse, Venezia la
romperebbe definitivamente colla Chiesa cattolica, di che già il doge
e alquanti senatori erano in desiderio[416]. Questa diretta denunzia
costringe il Governo a provvedere; i papalini prevalgono; il Sarpi se
ne scoraggia, e geme, ed — È incredibile quanto grande sia stato il
male fatto con questa lettera. Se sarà guerra in Italia, va bene per
la religione, e questo Roma teme; l’Inquisizione cesserà, e Evangelio
avrà corso»[417]; e si duole che «le occasioni sono smarrite, dirò
morte e sepolte, e solo Dio può eccitarle, al quale se piacerà così,
ho materia accumulata e formata secondo le occasioni»[418]. Nelle
lettere di quel torno compiange che il papa proceda lenemente, sicchè i
politici s’accomodano alla pace, tanto più che i Turchi minacciavano;
e — Non vedo altro rimedio per conservare e nutrire quel poco che
resta, se non venendo molti agenti dei principi riformati e massime
de’ Grisoni, perchè questi farebbero l’esercizio in italiano[419].
Spagna non si può vincere se non levato il pretesto di religione; nè
questo si leverà se non introducendo Riformati in Italia. E se il re di
Francia sapesse fare, sarebbe facile e in Torino e qui. La repubblica
negozia lega coi Grisoni; per questa strada si potrebbe far qualche
cosa, se dimandassero esercizj di religione in Venezia»[420]. Del suo
scoraggiarsi lo rimbrottava Mornay, soggiungendogli che, di tal passo,
morrà prima di veder compiuta la sua opera[421].

Fatto è dunque che il litigio col papa poteva incancrenirsi; ne
esultavano i Protestanti, e il Casaubono invitava Giuseppe Scaligero
e Scipione Gentili a rallegrarsi che, in mezzo a Venezia, fosse sorto
un sì magnanimo oppugnatore dei sofisti per manifestare i paralogismi
con che illudono il mondo[422]: ma il famoso Sully, benchè ugonotto,
compiangeva che si svertasse l’autorità del pontefice fra i Veneziani,
i quali se avessero dato segno d’apostatare, subito avrebbero avuto in
soccorso Turchi, Greci, Evangelici, Protestanti d’ogni paese, di che si
risusciterebbe un incendio, quale al tempo di Leone X e Clemente VII.
Laonde egli si concertava coi cardinali di Giojosa e di Perrona per
impedire che tali semi si sviluppassero in Italia, e per riconciliare
Venezia col papa[423].

Un tale pericolo affliggeva le anime pie, e forse ne morirono di dolore
Agostino Valier cardinale di Verona, Matteo Zane patriarca di Venezia;
e il Bellarmino lasciò da banda le controversie cogli eretici per
ribattere i libelli de’ _sette teologi_ veneziani. Da lui francheggiata
e dal Baronio, Roma raccolse anche armi, finchè l’imperatore e i re
di Spagna e Francia e i duchi di Savoja e di Firenze interpostisi
ripristinarono la pace, consegnando i carcerati al nunzio pontifizio
(1607 aprile), che fu mandato con istruzioni moderatissime[424],
derogando gli atti lesivi, rimettendo alla quieta i frati, eccetto i
Gesuiti; e Venezia non fece verun atto d’umiliazione o ritrattazione,
solo usò temperamenti; il doge ritirò la protesta che avea fatta
contro l’interdetto; il papa ricevette cortesemente l’ambasciadore
Contarini, dicendogli che «dalla buona intelligenza fra la santa
Sede e la Repubblica dipende la conservazione della libertà d’Italia;
che non voleva ricordarsi delle cose passate, ma _nova sint omnia et
vetera recedant_». Giacomo I d’Inghilterra re teologastro, pubblicata
allora l’_Apologia pro juramento fidelitatis_ in senso ereticale,
la mandò a tutte le Corti; il re di Spagna e il duca di Savoja non
vollero riceverla; il granduca di Toscana la fe bruciare: i Veneziani
combinarono fosse presentata dall’ambasciadore in collegio, e dal
doge ricevuta come segno della benevolenza reale, poi trasmessa al
gran cancelliere, che la chiudesse sotto chiave. Il nunzio apostolico
Gessi presentò al collegio la censura che Roma avea proferito contro
quel libro, e domandò venisse proibito; onde il collegio gli espose
l’operato, e al capo degli stampatori comunicò verbalmente di non
venderlo. Se ne indispettì l’ambasciadore, tanto che fu duopo spedir
apposta in Inghilterra Francesco Contarini, il quale sì bene discorse,
che il re lodò il procedere de’ Veneziani[425].

Dileguarono dunque le speranze di riforma, e frà Paolo si moderò,
benchè non cambiasse sentimenti. Invero egli fu nimicissimo ai Gesuiti;
dice che «è sicuro assolverebbero d’ogni colpa anche il diavolo, quando
con loro volesse accordarsi»; e «che essi si vantano di dovere fra
poco poter tanto a Costantinopoli quanto in Fiandra»[426]; e al signor
Dell’Isola scriveva: — De li Gesuiti ho sempre ammirato la politica
e le massime nel servar li secreti. Gran cosa è che hanno le loro
costituzioni stampate, nè però è possibile vederne un esemplare. Non
dico le regole che sono stampate in Lione; quelle sono puerilità; ma le
leggi del loro governo, che tengono tanto arcane. Sono mandati fuori,
ed escono dalla loro compagnia ogni giorno molti e mal soddisfatti
ancora, nè per questo sono scoperti li loro artifizj. Non vi sono
altrettante persone nel mondo che cospirino tutte in un fine, che
siano maneggiate con tanta accuratezza, e usino tanto ardire e zelo
nell’operare».

Si trovò infatti chi finse i _Secreta monita_, ma l’accannimento
non toglieva al Sarpi il lume della ragione sicchè non ne avvertisse
l’assurdità: — L’ho scorso, e m’è parso contenere cose sì esorbitanti
che resto con dubitazione della verità: gli uomini sono scellerati
certo, ma non posso restare senza meraviglia che tante ribalderie
sarebbero tollerate nel mondo. Al sicuro, di tali non abbiam sentito
odore in Italia: forse altrove sono peggiori; ma ciò sarebbe con molta
vergogna della nazione italiana, che non cede a qual altra si voglia».

Chi dunque fa tutt’uno i Gesuiti e santa Chiesa, dovrà sentenziare al
rogo frà Paolo: ma vogliasi in lui vedere un patrioto infervorato,
perciò nimicissimo alla Spagna, e in conseguenza a’ Gesuiti, che
credeva incarnati con questa; mentre ben sentiva de’ Protestanti
perchè, nelle guerre d’allora, contrabilanciavano Casa d’Austria. Pur
jeri (1856) il mondo non parteggiava pei Turchi, sol perchè nemici
alla Russia? inferiremmo da questo che l’Europa propendeva all’islam?
Alla curia romana, che bisogna ben distinguere dalla Chiesa, frà Paolo
professava un’ostilità, accannita da puntiglio; repugna dal Baronio
e dal Bellarmino, campioni di quella, quanto è morbido al Tuano, al
Perkinson; celia sui miracoli, mentre applaudisce agli Ugonotti: ma
resta ancora un gran passo al rinnegare. La riforma che egli bramava
consisteva nella disciplina più che nei dogmi, intorno ai quali, com’è
probabile credesse di poter impegnare l’attenzione d’una Signoria tanto
positiva, tanto nemica dei cambiamenti? Più che luterano o calvinista,
il Sarpi può dirsi razionalista, tendendo a venerare la propria ragione
più di qualsiasi autorità, e quindi a cercare continuo la verità, senza
trovar mai dove riposarsi.

Bensì a quella ch’e’ chiamava _meretrix, bestia babylonica_, diede
uno de’ colpi più micidiali colla _Storia del Concilio di Trento_. Da
fanciullo dovea sentire discorrere di quel fatto come capitalissimo
nella Chiesa; poi a Mantova usò famigliarmente con Camillo Olivo,
segretario al cardinale Gonzaga uno dei presidi al sinodo; in Venezia
con ambasciadori di principi: e parendogli le storie già stampate, fin
quella che a tutte antepone di Giovanni Sleidan, fossero insufficienti
per dar a conoscere l’_Iliade del secol nostro_, si propose di
raccontare «le cause e i maneggi d’una convocazione ecclesiastica,
nel corso di ventidue anni per diversi fini e con varj mezzi da chi
procacciata o sollecitata, da chi impedita e differita, e per altri
anni diciotto ora adunata, ora disciolta, sempre celebrata con varj
fini, e che ha sortito forma e compimento tutto contrario al disegno di
chi l’ha procurata, e al timore di chi con ogni studio l’ha disturbata:
chiaro documento di rassegnare li pensieri in Dio, e non fidarsi della
prudenza umana. Imperocchè questo concilio, desiderato e procurato
dagli uomini pii per riunire la Chiesa che incominciava a dividersi, ha
così stabilito lo scisma ed ostinate le parti, che le ha fatte discordi
ed irreconciliabili; e maneggiato dai principi per riforma dell’ordine
ecclesiastico, ha causato la maggior diformazione che sia mai stata
da che vive il nome cristiano. Dalli vescovi sperato per riacquistar
l’autorità episcopale passata in gran parte nel solo pontefice romano,
l’ha fatta loro perdere tutta intieramente, riducendoli a maggior
servitù. Nel contrario, temuto e sfuggito dalla corte di Roma, come
efficace mezzo per moderarne l’esorbitante potenza, da piccioli
principj pervenuta con varj progressi ad un eccesso illimitato,
gliel’ha talmente stabilita e confermata sopra la parte restatale
soggetta, che non fu mai tanta nè così ben radicata».

Vi lavorò con attentissima pazienza; come costumavasi allora, si valse
a man salva degli storici precedenti, Giovio, Guicciardini, Tuano,
Adriani, principalmente dello Sleidan perchè ostilissimo a Roma, e
che sovente traduce; ma li completò con documenti preziosi e colle
relazioni de’ legati veneti; rialzò i fatti con osservazioni proprie;
in tempo d’impetuose diatribe conservò un’apparente calma, quasi non
ragionasse che su fatti e su documenti, col che irretisce gl’inesperti;
e più con quella sua dettatura limpida e facile, e coi frizzi onde
rianima l’argomento; colle mordaci capresterie e colla vivacità
continua sbandì la noja che annebbia gli altri, ed abbagliò in modo
che non apparissero le ignoranze e le contraddizioni sue; tutto poi
dispose non a chiarire la verità, ma ad ottenere effetto, sin alterando
i documenti per trarli alla sistematica sua opposizione e ai politici
interessi del suo paese. Se in quell’opera non abbraccia risolutamente
un simbolo protestante, staccasi dal dogma cattolico, e conduce
all’eresia ed al razionalismo volendo la personale interpretazione
delle sacre Scritture senza badare alla tradizione; ripudia i libri
deuterocanonici; disprezza la vulgata; separa l’esegesi dalla dottrina
patristica, come i Riformati; riguardo al peccato originale, alla
Grazia, alla Giustificazione, ad altri dogmi, copia alla lettera
Martino Chemnitz, uno dei teologi più arrabbiati contro il concilio.
Alla Chiesa primitiva, nella quale solo vuol egli trovare il vero
cristianesimo, revoca sempre la credenza e la disciplina, condannando
come intrusioni umane tutte le istituzioni che essa trae dalla sempre
fresca sua vitalità. Vuol la Chiesa sottomessa alla territoriale
direzione, come nei primi tempi, nei quali le relazioni fra la Chiesa
e lo Stato, o pagano o giudaico, doveano certo essere ben altre da
quando acquistò compiuto sviluppo. Perciò nè storica, nè ecclesiastica
è la sua intuizione della gerarchia, della giurisdizione spirituale,
del primato, della scolastica, del monachismo, e via discorrendo. La
gerarchia non si consolidò che per ambizione de’ papi, e debolezza
ed ignoranza dei principi; nè portò giovamento ai popoli, bensì
oppressione e tirannia; non che il clero favorisse il sapere, l’arte,
l’umanità nel medioevo, usufruttava a puro suo vantaggio i collegi e
le scuole. Sverta ad ogni proposito la Corte romana e le rinnovate
pretensioni di essa, nè tampoco avvedendosi ch’erano l’espressione
del restauramento religioso allora iniziato. Prevenne insomma que’
concetti che nel secolo passato ingrandirono, dell’indipendenza de’
principi da ogni autorità ecclesiastica, e che furono dottrinalmente
esposti da Febronio e attuati da Giuseppe II: laonde disse il Ranke,
che i principi devono aver somma grazia al Sarpi, il quale ne consolidò
l’assolutezza; altrettanta i nemici del cattolicismo, cui affilò le
armi, più micidiali quanto che somministrate da un Cattolico.

Rappresentante e tipo del partito antiecclesiastico, il sorpassò se
non per accannimento, almen per ingegno e per l’originalità di vestire
apparenza cattolica a un’opera, dove ogni periodo fosse un dardo contro
la cattolica Chiesa: anzi la sua è la prima storia diretta di proposito
alla denigrazione, applicata a tutti i fatti, che il narratore non
pondera, ma accumula[427]. Onde dal suo esempio può chiarirsi quanto
vadano collegati il dogma e la Chiesa, e come s’illudano coloro che
questa combattono a fidanza, dichiarando rispetto a quello.

Marcantonio De Dominis dalmato (1556-1624), a vent’anni gesuita,
professore a Padova d’eloquenza, filosofia, matematica, da Rodolfo II
fu destinato vescovo di Segna in Dalmazia, poi arcivescovo di Spalatro.
Le sue vivezze gli procacciavano brighe dappertutto; scrisse a difesa
de’ Veneziani contro Paolo V; e vedendo le proprie opere riprovate
dall’Inquisizione romana, passò ne’ Grigioni, poi ad Eidelberga, infine
a Londra, dicendo voler faticarsi a rannodare le divergenti sêtte
cristiane: ma nel fatto vi cercava libertà di studj e di professione.
Fu lui che pubblicò la storia del Sarpi col nome anagrammatico di
Pietro Soave Polano, e con prefazione e note che l’invelenivano, ed
ebbe favorevole accoglienza da re Giacomo I. Ma per rimorsi o per
naturale leggerezza, montò un giorno in pulpito disdicendosi; col
che scadde d’ogni credito. Gregorio XV, già suo scolaro, l’invitò
al ritorno, ed egli venne, ed abjurò in concistoro di cardinali per
ricuperare il vescovado. Succeduto però il rigoroso Urbano VIII, come
incostante e recidivo il fe chiudere in Castel Sant’Angelo, ove morì
durante il processo, e il cadavere ne fu arso col trattato suo _Della
repubblica ecclesiastica_, nel quale impugna la primazia del papa
e l’autorità de’ concilj in materia di fede: opera che da molti fu
confutata.

Il Sarpi ci è dipinto come uomo integerrimo, continuo allo studio ed
a raccogliere da ogni parte, ma per poi pensare a modo proprio. Cinque
volte tentato ed una volta colpito da assassini, esclamò, — Conosco lo
stile della romana curia»; motto che fece fortuna, onde, non osandosi
imputare il papa che n’attestò vivo rammarico, restò vulgare opinione
che il colpo venisse dal cardinal Borghese o dai Gesuiti, capri
emissarj[428].

Roma però pensava altro modo di ribattere i colpi di lui, e commise
un’altra storia d’esso concilio a Terenzio Alciato gesuita romano.
Raccolse egli una congerie di materiali; che, essendo egli morto,
furono affidati all’altro gesuita Pallavicino Sforza (1607-67) pur
di Roma, uno dei migliori in quello stile leccato che per alcuni è il
solo bello. Ebb’egli aperti gli archivj più ricchi, cioè i romani, e,
a differenza del Sarpi, indica continuamente la natura dei documenti
e i titoli; dà un catalogo degli _errori di fatto_ del Sarpi fin alla
somma di trecensessantuno, oltre infiniti altri (dic’egli) confutati
di transenna. Il più vantato storico della odierna Germania, il
protestante Ranke, confrontò le asserzioni di lui coi documenti a’
quali s’appoggia, e lo trovò di scrupolosa esattezza; bensì alcune
volte s’appose in fallo, e come avviene nella polemica, eccedette;
vuole scagionar tutto, perchè tutto accagionava frà Paolo; affievolisce
dove non può negare; dissimula qualche objezione, qualche documento;
sta poi a gran pezza dal brio del Sarpi, oltre il disavvantaggio di
chi è ridotto a schermirsi, e ribattere ogni tratto l’opinione altrui.
Dove il Sarpi è sottile, maligno e di felice talento nell’esposizione,
quantunque scorretto nella lingua, il Pallavicino è ingegnoso, ma fa
sentire sempre l’arte, paniccia i pensieri nelle frasi, e per istudio
d’armonia casca talvolta nell’oscuro, spesso nell’indeterminato, e
convince del quanto l’eleganza resti inferiore alla naturalezza. Frà
Paolo suppone sempre distinta la verità dalla probità, donde bassezze
e ipocrisie; mentre il Pallavicino rivela caratteri nobili, salde
persuasioni, generose resistenze; istruisce meglio, ma il Sarpi è
letto più volentieri, come avviene di chi attacca; nè l’uno nè l’altro
hanno l’imparzialità di storici, volendo questo denigrare ogni atto,
quello difenderli tutti; e ai cercatori della verità riesce doloroso
il trovarsi costretti a ricorrere a due fonti, entrambe sospette per
opposto eccesso.

La storia era stata chiamata dai Protestanti a coadjuvarli, e nelle
_Centurie di Magdeburgo_ pretendevasi osteggiare il cattolicismo,
raffacciando le antiche alle credenze e alle pratiche odierne. Vi
si oppose dunque una storia ecclesiastica tutta in senso cattolico
e propugnatrice della primazia papale, per opera di Cesare Baronio
(1538-1607) da Sora nel Napoletano. Dagli archivj pontifizj trasse
egli documenti importanti alla storia di tutta la civiltà, della
quale Roma era fin allora stata il centro; e noi già l’indicammo
come la fonte migliore per la conoscenza del medioevo (tom. VII, pag.
351). Arrivò solo al fine del XII secolo, donde lo continuarono poi
il Rainaldi e il Laderchi. Piissimo uomo, lavorava l’intera giornata
all’opera sua, e mangiava colla servitù; nè cambiò tenore dopo ornato
cardinale. Non iscusa mai il delitto, e ne’ successi vede sempre il
castigo o il premio di Dio: tema eccellente per prediche, ma fallace
perchè suppone che la retribuzione tocchi quaggiù. Ignorava il greco,
e facea tradurre dal Muzio. Frà Paolo esortava il dottissimo Casaubono
a scrivere contro del Baronio, del quale non è mal che non dica; lo
scaltrisce però di nol tacciare di fraude o malafede, chè nessuno gli
crederebbe di quanti il conobbero, essendo uomo integerrimo; se non che
bevea le opinioni di chi stavagli attorno[429]. Neppur la venerazione
alla santa Sede nol fa dissimulare i vizj di qualche pontefice, e «ben
ponderate (dice) le sconvenienze del metterne a nudo le colpe, stimo
meglio esporle francamente, anzichè lasciar credere agli avversarj
che i Cattolici siano conniventi alle debolezze de’ papi». Anche il
cardinale Pallavicino, a chi l’appuntava d’aver rivelato le loro azioni
biasimevoli rispondeva: — Lo storico non è panegirista; e lodando meno,
loda assai più di qualunque panegirista»[430]. E ai dì nostri il più
avventato lodatore dei papi diceva, che a questi non si deve se non la
verità.



CAPITOLO CXLVIII.

Guerre religiose. I Valdesi. La Valtellina.


La Riforma intanto scorreva ad orme di sangue l’Europa, e un secolo
e mezzo si volle prima che questa recuperasse un assetto, che non
poteva più consistere se non in un equilibrio tra forze contrastanti.
Principale teatro a que’ movimenti fu la Germania, che fra accordi,
soprattieni, paci di religione, straziata nelle viscere, cessò d’essere
a capo dell’Europa com’era stata tutto il medioevo; gl’imperatori non
poteano occuparsi a riparare giorno per giorno il torrente, il quale
alfine traboccò in quella che chiamarono guerra dei Trent’anni; guerra
per la libertà non de’ credenti, bensì dei principi d’introdurre la
religione che volessero e d’obbligarvi i sudditi. Vi fu involta tutta
l’Europa continentale; e la ferocia di ducentomila masnadieri impuniti
recò la perdita di due terzi della popolazione germanica e di tutto
il commercio, finchè la pace di Westfalia nel 1648 rimetteva le cose
della religione quali erano al trattato d’Augusta; fossero tollerate,
non tutte le credenze, concetto ancora affatto fuor di stagione, ma
la luterana e la calvinista; l’Impero ebbe un raffazzonamento debole
all’esterno non men che all’interno, ottenendo ciascuno Stato la
sovranità territoriale nelle cose ecclesiastiche come nelle politiche;
e stabilito un patto che, cancellando il religioso del medioevo,
diventava base civile e del nuovo diritto delle genti.

Chi pensi a ciò, e a quanto sangue costasse dappertutto il mutamento di
credenze, si rallegrerà anche umanamente che l’Italia siasi conservata
nella nave di Pietro: pure le tempeste non vi rabbonacciarono così
presto. Coloro che per curiosità letteraria o per incalorimento
religioso aveano sdrucciolato e tirato altri allo sdrucciolo, ne furono
stornati dai cresciuti rigori: i pertinaci nelle novità uscirono di
patria, e fondarono chiese italiane a Zurigo, a Ginevra, a Londra,
ad Anversa, a Lione, altrove: in qualche parte del nostro paese il
conflitto fu prolungato.

Indicammo (t. IX, p. 451) l’orzeggiare di Carlo III duca di Savoja
nella politica, e come aspirasse a cose alte, le quali non seppe
raggiungere: fallitegli le altre spedienze, fu chi l’esortava a trar
profitto dalla Riforma per assicurarsi grande importanza in Italia,
accogliendosi intorno quanti reluttavano al papato. Anemondo di Coct,
cavaliere del Delfinato fervorosissimo della nuova fede, esortava
Lutero perchè inducesse esso duca ad abbracciarla: — Egli è grandemente
propenso alla pietà, alla religione vera[431], ed ama discorrere
della Riforma con persone della sua Corte. Sua divisa è _Nihil deest
timentibus Deum_; la quale è pure la vostra. Mortificato dall’Impero
e dalla Francia, avrebbe modo d’acquistare somma ascendenza sulla
Svizzera, la Savoja, la Francia». E Lutero gli scrisse, ma senza
effetto; di rimpatto i tre Stati di Savoja nel 1528 richiedevanlo
a tener in pronto milizia che bastasse a reprimere i tentativi de’
Riformati, che temeano si spandessero nel paese. A lui poi rifuggivano
i Cattolici d’oltr’Alpe e il vescovo di Ginevra perseguitati, coi
quali tenne assediata un anno quella metropoli del calvinismo. Per
quest’impresa il papa gli aveva consentito di levare le decime sugli
ecclesiastici e gli argenti delle chiese, gli promise anche soccorsi,
e ne scrisse ai principi cattolici: ma i cantoni di Berna, Friburgo,
Zurigo vennero a liberare la città loro alleata[432].

Carlo III vagheggiava il concetto allora prevalente d’unificare lo
Stato, e questo lo traeva a svellere l’eresia dalla patria italiana.
Chi da Torino procede a libeccio verso le alpi Cozie, dopo Pinerolo
vede fra monti più o meno selvaggi aprirsi una successione di valli:
a settentrione quella di Perosa, e più oltre quella di Pragelato; a
mezzodì di queste la valle di Rorà più piccola ed elevata; a occidente
quella di Luserna, da cui diramasi quella d’Angrogna, e che da un
lato chinasi al Piemonte, dall’altro pel col della Croce dà adito al
Delfinato, importante passaggio d’eserciti e di merci per Francia.
Lungo i torrenti Angrogna e Pellice, che le irrigano e non di rado
le devastano, si stendono pingui pascione, da cui a scaglioni si
elevano piani studiosissimamente coltivati dagli abitanti, che nella
pastorizia, nella caccia, nella pesca, nell’educare i cereali, i gelsi,
la vigna, i boschi, e nel cavare lavagne esercitano la forte vita. Alle
scene campestri più in su e più in dentro ne succedono di austere, con
nevi quasi perpetue e terror di valanghe. Vi si parla piemontese con
mistura ancor maggiore di francese.

Colà, medj fra la pianura subalpina e le gigantesche Alpi, gli avanzi
di que’ Valdesi che nel secolo xiii ci diedero a ragionare (tom. VI,
pag. 340), si erano ritirati sotto la direzione di anziani, detti
_barba_, cioè zii, carezzevole nome di famiglia, donde ebbero nome di
_Barbetti_. Avversi a Roma e ai riti che qualificavano d’idolatrici,
pretendeano aver conservata la interezza dell’evangelica predicazione;
ma smesse le dispute dogmatiche, stavano paghi di poter credere e
adorare come la coscienza loro dettava; e sì poco dissentivano dalle
credenze cattoliche, che talvolta in difetto di barbi chiedeano
sacerdoti nostri.

Andavano alcuni ad apostolarli, fra cui Antonio Pavoni di Savigliano fu
da essi ucciso. San Vincenzo Ferreri nel 1403 scriveva al suo generale
come avesse predicato in Piemonte e in Lombardia: — Tre mesi occupai a
scorrere il Delfinato, annunziando la parola di Dio; ma più mi badai
nelle tre famose valli di Luserna, Argentiera e Valputa. Vi tornai
due o tre volte, e sebbene il paese sia zeppo d’eretici, il popolo
vi ascoltava la parola di Dio con tal devozione e rispetto, che dopo
avervi piantato la fede, Dio soccorrente, credetti dovervi ricomparire
per confermar i fedeli. Scesi poi in Lombardia a preghiera di molti, e
per tredici mesi non cessai d’annunziarvi il Vangelo. Penetrai quindi
nel Monferrato e in altri paesi transalpini, dove ho trovato molti
Valdesi ed altri eretici, principalmente nella diocesi di Torino...;
e Dio sosteneva visibilmente il mio ministero. Queste eresie derivano
principalmente da profonda ignoranza e difetto d’istruzione: molti
mi assicurarono che da trent’anni non v’aveano inteso predicare se
non qualche ministri valdesi, che soleano venirvi di Puglia due volte
l’anno. Di ciò io arrossii e tremai, considerando qual terribile conto
avranno a rendere al supremo pastore i superiori ecclesiastici. Mentre
alcuni riposano tranquillamente ne’ ricchi palazzi, altri vogliono
esercitare il ministero soltanto nelle grandi città, lasciano perir le
anime, che sprovviste di chi spezzi loro il pane della parola, vivono
nell’errore, muojono nel peccato... Nella valle di Luserna trovai un
vescovo d’eretici, che avendo accettato una conferenza con me, aprì le
luci al vero, ed abbracciò la fede della Chiesa. Non dirò delle scuole
de’ Valdesi e di quanto feci per distruggerle; nè delle abominazioni
d’un’altra setta in una valle detta Pontia. Benedetto il Signore
della docilità con cui questi settarj rinunziarono ai falsi dogmi, e
alle usanze criminali insieme e superstiziose! Altri vi dirà come fui
ricevuto in un paese, ove già tempo si erano rifuggiti gli assassini
di san Pietro Martire. Della riconciliazione de’ Guelfi e Ghibellini e
della generale pacificazione de’ partiti, meglio è tacere, a Dio solo
rendendo tutta la gloria»[433].

Così operavano i missionarj: ma il tenersi tranquilli non sempre
sottraeva i Valdesi da sospetti e animadversioni de’ governi, massime
per parte della Francia, ombrosa della loro vicinanza. Re Carlo
VIII gli avea tolti a perseguitare, e papa Innocenzo VIII esortato
all’armi contro questi _aspidi velenosi_: e in fatto nelle placide
valli d’Angrogna e Pragelato condusse un esercito il legato; al
cui avvicinarsi alcuni abjurarono, altri si ridussero fra monti più
inaccessi; ma re Luigi XII, dopo presane informazione, esclamò: — Son
migliori cristiani di noi». Quando però essi ebbero contezza della
Riforma, alla quale non erano spinti per reazione come gli Svizzeri e
i Tedeschi, deputarono (1530) alcuni loro barbi ai capi di quella in
atto d’adesione; ma gl’informavano qualmente usassero la confessione
auricolare, i loro ministri vivessero celibi, alcune vergini facessero
voto di perpetua castità[434]. A chi pretendeva le dottrine riformate
essere antiche quanto il cristianesimo, spiacque il trovare che questi
pretesi contemporanei degli Apostoli discordassero in punti così
dibattuti, e singolarmente che prendessero scandalo dell’opera di
Lutero contro il libero arbitrio.

Maggiore conformità si pretese trovarvi colle dottrine di Calvino,
il quale, penetrato in val d’Aosta, diede calda opera perchè questa
abbracciasse la sua credenza, e togliendosi a Savoja, si fondesse coi
Cantoni protestanti svizzeri. Gli Stati però di quella valle, adunatisi
nel febbrajo 1536, presero severi provvedimenti per la conservazione
della fede cattolica. Meglio riuscì coi Barbetti il celebre ginevrino
Farel, e gl’indusse a pubblicare la loro professione di fede, e
chiarirsi o divenire calvinisti, abolendo i suffragi pei defunti,
i digiuni, il sagrifizio della messa, tutti i sacramenti eccetto il
battesimo e la cena, e credendo alla predestinazione e alla salvezza
per mezzo della sola fede, nè altri che Cristo esser mediatore fra Dio
e gli uomini.

Era questo veramente il loro simbolo antico? o è vero che da prima
ammettessero l’efficacia delle opere? Quando ai novatori rinfacciavasi
d’esser nati jeri, importantissimo riusciva l’accertarsi di ciò, e
quindi se ne discusse con quell’accannimento che sempre inscurisce la
verità.

Nelle loro valli cercarono ricovero molti dei perseguitati in Italia,
tra cui Domenico Baronio prete fiorentino, che volle comporre una
messa, la quale conciliasse il nostro rito con quello de’ Valdesi;
ma fu ricusata come di mera fantasia[435]. Scrisse pure diversi
libri latini e italiani contro la Chiesa cattolica, in uno dei quali
sosteneva, in tempo di persecuzione essere necessario manifestare
patentemente le proprie opinioni religiose; nel che venne contraddetto
da Celso Martinengo.

Ecco dunque strappati i Valdesi dalla quieta loro oscurità per
fortuneggiare nelle procelle d’un tempo sospettosissimo; e subito
il parlamento d’Aix e quel di Torino applicarono ad essi le leggi
comminate agli eretici, e il rogo e il marchio; poi, perchè
maltrattavano i frati spediti a convertirli, si bandì il loro
sterminio, e che perdessero figli, beni, libertà. Forte vi s’oppose il
Sadoleto vescovo di Carpentras; e re Francesco I, vedutili mansueti
e che pagavano, diè loro tre mesi di tempo per riconciliarsi; scorsi
i quali, Giovanni Mainier barone d’Oppède, preside al parlamento,
l’indusse a dare esecuzione all’editto. Adunque una fanatica soldatesca
vi comincia il macello: quattromila sono uccisi, ottocento alle galere,
ventidue villaggi sterminati. Il racconto sente delle esagerazioni
consuete a tempi di partito; fatto è che, per quanto universale e
sanguinaria fosse l’intolleranza, ne fremette la generosa nazione
francese, e il re morendo raccomandava a suo figlio castigasse gli
autori di quell’eccesso; ma per protezione questi rimasero impuniti, il
che i Protestanti recaronsi a grand’onta.

Passarono anni, e sottentrò duca di Savoja Emanuele Filiberto (1553);
e poichè i Valdesi prendeano baldanza dall’incremento dei loro
religionarj di Svizzera e di Francia, fu deputato l’inquisitore Tommaso
Giacomelli che sollecitasse il duca a forzarli all’obbedienza della
Chiesa. Allora si vietano con gravi comminatorie l’esercizio pubblico
del culto e le prediche dei barbi; sicchè Scipione Lentulo, napoletano
di molta dottrina, e Simone Fiorillo, che v’erano ricoverati,
trasferironsi a predicare in Valtellina; altri pure abbandonarono quel
ricovero, mentre andavano ad apostolarvi pii missionarj, fra cui il
Possevino, e si tentavano tutte le vie di conciliazione. Crescendo i
rigori, i Valdesi irritati si levano a rivolta; il duca, sì per affetto
alla religione avita, sì per timore che i Francesi, accorrenti in gran
numero a soccorso dei loro fratelli, non rimettessero in pericolo la
nazionale indipendenza, vi spedì truppe, che nella difficile guerra
di montagna recarono e soffersero gravi strazj. Alfine vedendo la
difficoltà dell’esito e l’inopportunità dei mezzi, egli concesse ai
Valdesi perdono (1561 5 giugno), e di tener congreghe e prediche in
determinati luoghi; ma non uscissero dai confini, e non escludessero i
riti dei Cattolici.

I duchi di Savoja pubblicarono molti editti per sistemarli o per
comprimerli; v’andavano spesso inquisitori o missionari, e vi si
adoperarono le arti della persuasione e della preghiera, massime quando
la Savoja fu illustrata dalle virtù di Francesco di Sales (1567-1622),
vescovo di Annecy poi di Ginevra. Il duca Carlo Emanuele I mandò
pregarlo venisse a Torino, per divisare i modi di tornare alla verità
il Ciablese; e il santo propose che del traviamento era stata causa
principale il non conoscer altra religione, sicchè bisognava spedirvi
missionarj zelanti, capaci di dissipare le prevenzioni e confutar le
calunnie; si escludessero dalla Savoja i ministri calvinisti; ai libri
ereticali se ne surrogassero di buoni; s’introducessero i Gesuiti per
educare i giovani e sostenere le controversie. Il duca promise tutto,
e cooperava col santo nel convertire i Savojardi; li traeva al suo
castello di Thonon, e accoltili con grazia, esponeva loro gli argomenti
più efficaci a dimostrare l’unità della fede e della Chiesa; molti
corrisposero alle sue premure, e quand’egli usciva, la gente faceasegli
attorno gridando: — Viva sua altezza reale! viva la Chiesa romana! viva
il papa»[436]. Ma fra i ministri di Carlo non pochi inclinavano alle
novità; e il Sales ebbe troppo ad esercitare la modesta sua maestà e la
dolce persuasione onde rinnovare i riti cattolici nella Savoja, donde
alfine i Calvinisti furono esclusi. Cristina di Francia, venuta sposa
al principe di Piemonte, volle avere Francesco per limosiniere, ed egli
dopo lunghe istanze accettò, a patto di non dover staccarsi dalla sua
residenza. Essa gli regalò un bel diamante, e presto il santo lo vendè:
gliene diede allora un altro, e facendole esso intendere non gli era
possibile conservare preziosità finchè poveri vi fossero, lo pregò di
nol vendere, ma impegnarlo, ed ella medesima lo riscatterebbe.

In quel mezzo i Valdesi, principalmente colla protezione del
maresciallo Lesdiguières, che da Carlo Emanuele aveva ottenuto per
essi un editto di grazia, ripassarono il Pellice, confine prescritto,
s’introdussero nelle valli di Susa e di Saluzzo, fabbricarono tempj,
celebrarono solenni pasque, e commisero profanazioni e delitti che
la storia riceve con gran precauzione, conscia delle assurdità onde i
partiti sogliono recriminarsi. Usciti vani i ripetuti editti, e nuove
concessioni e rigori di Carlo Emanuele II per ricacciare i Barbetti fra
i designati confini, il marchese di Pianezza (1653) accampò in mezzo a
loro, e fece occuparne gli abituri. Si ritirarono essi sulle cime più
erte, e al Prato del Forno si munirono insuperabilmente.

Amanti la patria come chi l’ha infelice, ribaditi nelle loro credenze
dal vederle perseguitate, i Valdesi scrissero ogni loro avvenimento,
e il giornale delle fughe, delle vittorie, dell’esiglio con quella
passione, che, se scema fede, cresce interesse, e che oggi pure
attrae noi lontani, noi dissidenti. Or che doveva essere allora, e
tra religionarj? Giovanni Léger, ministro a Prali e Rodoreto, che
gli aveva empiti di sospetti contro i Piemontesi, poi al sinodo
di Boissel determinati all’insurrezione, descrivendo e (speriamo)
esagerando le persecuzioni da loro sofferte, massime nella _Storia
delle Chiese evangeliche nelle valli del Piemonte_ (Leida 1669),
eccitava l’indignazione de’ Riformati di tutta Europa; narrò le
vergini stuprate, le madri impalate, i fanciulli sfracellati contro le
roccie, il paese sparso d’incendj dal Pianezza sollecitato da frati;
v’aggiunse l’allettativo de’ disegni di que’ martirj; onde fra i
coetanei Carlo Emanuele II passò per un Nerone. Rimostranze fioccarono
dall’Olanda, dalla Svizzera, principalmente da Cromwell, protettore
dell’Inghilterra; il quale ai perseguitati offrì asilo e terre in
Irlanda, e decretò a lor sussidio una rendita perpetua di dodicimila
sterline. Finalmente interpostasi la Francia, a Torino fu ricomposta
la pace (1655 31 luglio) con perdonanza generale e colle concessioni di
prima.

Non è vinto un nemico che si lascia intatto di forze; e ben presto
nuovi tumulti, principalmente nel 1663, v’attirarono nuove armi
e guerre, fomentate dai molti ch’erano rifuggiti in Isvizzera, e
che, come tutti i fuorusciti, sommoveano la patria per desiderio
di ricuperarla; tanto più che il Léger non cessava d’accannire gli
animi imbrunendo ogni atto del Governo, di portar lamenti ai principi
protestanti, accumular calunnie, armi, denari con soscrizioni;
implacabile finchè non morì ministro a Leyda.

Luigi XIV in quel tempo (1685) rivocava l’editto di Nantes, pel
quale Enrico IV avea concesso libero culto in Francia ai Calvinisti,
colà detti Ugonotti. Molti profughi da quel reame ricoverarono nelle
valli subalpine per sottrarsi al carcere e alle _dragonate_; onde
il gran re persecutore domandò al duca di Savoja spegnesse quel
focolajo d’eresia e di ribellione sulle frontiere del Delfinato; e
spedì truppe per indurlo ed ajutarlo a cacciarli. Vittorio Amedeo II,
per quanto mostrasse ch’erano nel pieno loro diritto, non credette
poter negarglielo, e intimò che fra due mesi tutti i Protestanti del
marchesato di Saluzzo si rendessero cattolici; se no, morte e confisca.
Pertanto di quelli sparsi ne’ Comuni di Paesana, Bioletto, Croesio...,
non uno rimase: anche nelle valli privilegiate interdisse quel culto
fin nelle case private, fossero demolite le chiese, espulsi i barbi, i
bambini si allevassero cattolici; se no cinque anni di galera ai padri
e sferzate alle madri: i Riformati stranieri uscissero, vendendo i loro
beni, che altrimenti sarebbero comprati dal fisco.

Per eseguire l’intollerante decreto bisognò un esercito, e lo comandò
Vittorio Amedeo in persona, forse per farlo meno esiziale. I Barbetti
scannarono e salarono il bestiame, e rifuggirono fra le Alpi meno
accessibili, mentre i robusti s’accingeano a respingere valorosamente
le truppe. Chi, conoscendo la potenza del gran re e il valore del
maresciallo Lesdiguières e del Catinat, mal sapesse persuadersi che un
pugno di Valdesi vi resistesse e felicemente, mostrerebbe non conoscere
la possa di gente che difende la patria e le credenze, l’importanza
della guerra di montagna, e sovrattutto le insuperabili posizioni di
Balsilla, di Serra il Crudele e d’altre dell’Alpi valdesi, ove due
possono resistere a mille, e i sassi sepellire cavalleria e cannoni. Ma
la disciplina del nemico e più la fame peggioravano la situazione de’
Barbetti, che furono uccisi, mandati alle carceri, alle galere (1689);
a molti concesso di riparare fra gli Svizzeri.

Di là ribramavano la patria; alcuni per forza vollero ricuperarla, e
una colonna di novemila penetratavi, sterminò chi resisteva; ma molti
di loro furono côlti ed appiccati. Essendosi però in quel tempo il duca
di Savoja guastato colla Francia, consentì ai Barbetti il ritorno. I
quali, unitisi in reggimenti colla divisa _La pazienza stancata divien
furore_, gravemente danneggiarono il Delfinato. Quando poi Vittorio
Amedeo si ricompose in pace con Luigi XIV, e ricuperò Pinerolo e val
Perosa, da sessantasei anni obbedienti a Francia, egli riprese l’antica
tolleranza, ma vietò ogni comunicazione tra i Valdesi suoi sudditi e
quelli di Francia, i quali in numero di duemila cinquecento uscirono
allora dal Piemonte per ricoverarsi in Isvizzera, nella Prussia,
nell’Assia, nella contea d’Isemberg, nel Würtemberg, nel Baden-Durlach.

I rimasti abitarono poi sempre in pace quelle valli, silenziosi
obbedendo ed anche amando il loro principe e oppressore. Nel 1603
aveano pubblicata la loro professione di fede, consentanea alle Chiese
riformate; la ripeterono nel manifesto del 1655, e conserva forza
legale, benchè da una parte scassinata dal razionalismo, dall’altra
dalle esaltazioni dei Moumiers. Dianzi contavano quindici chiese,
ciascuna con un ministro, che dev’essere suddito sardo, stipendiato
dagli abitanti, i quali per tal uopo ottengono una diminuzione
sull’imposta. Le chiese sono dirette da un sinodo che ogni cinque
anni si raccoglie, composto di tutti i pastori e di deputati laici.
La Tavola, che è una magistratura di tre ecclesiastici e due laici,
dirige negl’intervalli fra un sinodo e l’altro, è rieletta ad ogni
sinodo, risolve le controversie, ripartisce le limosine. Ogni chiesa
poi ha un concistoro suo proprio, composto del pastore, degli anziani,
dell’economo, del procuratore, che cura l’amministrazione spirituale e
temporale, i buoni costumi, i poveri, le scuole che vi sono frequentate
e ben dirette. Poi, a tempi determinati, il ministro va a cercar le
popolazioni isolate fra le Alpi, per recar ad esse il ristoro della
religione. Allora da tutte le vallee, da tutti i vertici accorrono i
mandriani sui passi del ministro; la melodia degl’inni ridesta l’eco
delle vallate, e si diffondono nelle ripopolate solitudini le lodi del
Signore e i salmi della fede e della consolazione. Il ministro ha pei
singoli un consiglio, un conforto, un rimprovero; compone dissidj,
concilia matrimonj, sradica scandali; poi a tutti insieme infrange
dalla cattedra il pane della parola, e raccomanda loro di vigilare,
pregare, star in fede.

Solo entro i loro confini poteano i Valdesi possedere, ed essere anche
notaj, architetti, chirurghi, procuratori, speziali, amministratori
del Comune. In tal condizione rimasero fin al 17 febbrajo 1848, quando
furono dichiarati eguali a tutti gli altri sudditi sardi; allora
si estesero dove vollero, e in mezzo a Torino non solo, ma in ogni
città han tempio, han predicazione, han giornali, hanno apostolato, e
ispirano paure e speranze.

Da queste valli subalpine sin dal 1370 alcuni erano sciamati in
Calabria, terreni incolti riducendo popolati ed ubertosi; e crebbero
fino a quattromila, esercitando i riti religiosi diversamente dai
Cattolici, tollerati dai signori de’ luoghi perchè quieti e pagavano.
Udita la Riforma di Germania, mandarono a Ginevra chiedendo dottori,
che in fatto vennero e fecero proseliti. Il cardinale Alessandrino,
capo dell’Inquisizione a Roma, inviò predicatori, inviò minaccie,
ma senza frutto, onde si ebbe ricorso al braccio secolare. Il duca
d’Alcala vicerè spedì un giudice e molti soldati, che, secondando
i missionarj, costringevano andare alla messa, i disobbedienti
punendo nei beni e nella persona. I quali, spinti alla disperazione,
impugnarono le armi, e prima alla spicciolata, poi in giuste battaglie
combatterono; alfine disfatti (1561), si ricoverarono alla Guardia
Lombarda; quivi per forza e per tradimenti presi, furon messi sotto
fieri giudizj, e i renitenti a supplizj studiatamente atroci. Serrati
in una casa tutti, veniva il boja, e pigliatone uno, gli bendava
gli occhi, poi lo menava in una spianata poco distante, e fattolo
inginocchiare, con un coltello gli segava la gola e lo lasciava così:
di poi, con quella benda e quel coltello insanguinati, ritornava
a prender un altro, e farne altrettanto. Ce lo narra un testimonio
oculare, che fa perirne così fin a ottantotto. «I vecchi vanno a morire
allegri; i giovani vanno più impauriti. Si è dato ordine, e già sono
qua le carra, e tutti si squarteranno, e si esporranno di mano in mano
per tutta la strada che fa il procaccio fino ai confini della Calabria;
se il papa ed il signor vicerè non comanderà al signor marchese (di
Buccianico) che levi mano. Tuttavia fa dar della corda agli altri, e
fa un numero per poter poi fare del resto. Si è dato ordine far venir
oggi cento donne delle più vecchie, e quelle far tormentare, e poi far
giustiziare ancor loro, per poter fare la mistura perfetta. Ve ne sono
sette che non vogliono veder il crocifisso, nè si vogliono confessare,
i quali si abbruceranno vivi. In undici giorni si è fatta esecuzione
di duemila anime; e ne sono prigioni mille seicento condannati; ed è
seguita la giustizia di cento e più ammazzati in campagna, trovati con
l’arme circa quaranta, e gli altri tutti in disperazione a quattro
e a cinque; bruciate l’una e l’altra terra, e fatte tagliare molte
possessioni»[437]. Luigi Pasquale loro capo fu arso a Roma; altri messi
a remare sulle galere spagnuole.

Sappiamo (tom. VIII, pag. 92) come una parte d’Italia, appartenente al
ducato di Milano, fosse, nelle vicende del secolo precedente, caduta in
dominio degli Svizzeri e dei Grigioni loro confederati. I tre Cantoni
elvetici primitivi di Uri, Svitto, Unterwald aveano occupato i baliaggi
di Bellinzona, Blenio e Riviera, stendentisi dal Lago Maggiore alle
vette del Sangotardo: tutti i dodici Cantoni insieme tennero i baliaggi
di Lugano, Locarno, Mendrisio, Valmaggia, attorno ai laghi Ceresio e
Verbano. Colla Riforma si inimicarono gli uni agli altri i Cantoni,
e mentre colla Chiesa stettero Uri, Svitto, Unterwald, Lucerna, Zug,
Soletta e Friburgo, gli altri ne disertarono. Dai Cantoni dominanti
venivano balii a governare le podestarie cisalpine, comprando quella
carica a denaro, e rifacendosene col rivender la giustizia; e secondo
che essi Cantoni ed i balii erano cattolici o protestanti, trovavano
persecuzione o favore gli apostati. Gli Orelli e i Muralti, famiglie
primarie in Locarno, innestarono alla lor patria le dottrine nuove; e
un Baldassarre Fontana carmelitano di là scriveva alle chiese svizzere
_fedeli a Gesù Cristo_ perchè pensassero al Lazzaro del Vangelo, che
desiderava nutrirsi delle bricciole cadute dalla mensa del Signore;
mossi dalle lacrime e supplicazioni di lui mandassero «le opere del
divino Zuinglio, dell’illustre Lutero, dell’ingegnoso Melantone,
dell’accurato Ecolampadio»: e dessero opera perchè «la nostra
Lombardia, schiava di Babilonia, acquistasse quella libertà che il
vangelo impartisce».

Colà erano rifuggiti non pochi Italiani; allettati dalla vicinanza,
dal clima, dalla lingua, dai costumi ancora italiani; e principalmente
un Beccaria milanese, amico dell’Ochino e del Carnesecchi, v’avea
diffuso gl’insegnamenti di questi, predicando con altri frati apostati,
sinchè venuto un balio cattolico lo cacciò prigione. I suoi devoti
nel trassero a forza, ed egli crebbe in baldanza, poi reputò prudenza
ricoverare nella valle Mesolcina, ove ammogliatosi tenne a educazione
figliuoli d’Italiani che li volessero allevati nella Riforma.

Questa prossimità turbava i sonni del papa e del re di Spagna come
duca di Milano. Pertanto Carlo Borromeo, che già aveva istituito
il collegio Elvetico a Milano ove preparare pastori a que’ paesi,
penetrato nella Svizzera in qualità di legato pontifizio, vi esercitò
anche giurisdizione di sangue contro maliardi ed eretici (p. 352). A
sua istanza i Cantoni cattolici posero impedimento a quel dilatarsi
dell’eresia in Italia, e malgrado l’ostare de’ Cantoni riformati,
stanziarono severi divieti, e infine intimarono (1555 marzo) che chi
non volesse andar alla messa, abbandonasse la patria coi beni e le
famiglie. Pertanto un gran numero di persone colle donne e i figliuoli
varcarono il Sanbernardino, e indugiatisi alcun tempo nella Mesolcina,
entrarono nei Cantoni riformati, e principalmente a Zurigo. Fra quegli
esuli Taddeo Duni locarnese vi si segnalò come medico, amico del famoso
naturalista Gesner, stampò varie opere, e tradusse in latino alcune
dell’Ochino e dello Stancari. I nostri fecero fiorire a Zurigo l’arte
della seta, lasciarono a una strada il nome di Lombardi; alcuni dei
Duni, degli Orelli, dei Muralti, de’ Pestalozzi furono benemeriti della
scienza e dell’umanità; v’ebbero chiesa italiana, amministrata dapprima
dal Beccaria, poi dall’Ochino, e illustrata da Pietro Martire, da
Lelio Socino, mal vista però dal Bullinger e dagli altri apostoli della
Chiesa svizzera. Anche a Ginevra dimoravano moltissimi dei nostri, e
ogni giovedì vi predicavano in italiano[438].

E però forza credere che la pieve di Locarno non restasse ancora
mondata, giacchè attorno al 1580 il papa trovò bisogno di commetterla
alle particolari ispezioni dello Speziano vescovo di Novara.

Da quel punto un nunzio pontificio sedette sempre nella Svizzera, ove
si fondarono scuole di Cappuccini ad Altorf per le classi inferiori,
e di Gesuiti a Lucerna per le superiori. Col pretesto di religione, ma
con intento politico il re di Spagna, qual duca di Milano, strinse una
_lega d’oro_ o _borromea_ coi Cantoni cattolici per conservazione della
Chiesa e pace dei rispettivi paesi; ove i collegati consentivano a
quel re di condur gli eserciti in Lombardia traverso alle loro terre, e
potervi levare uomini, mentr’egli prometteva sostenerli di tutte le sue
forze.

Più seria passò la briga fra i Grigioni. Questi discendenti dagli
antichi indomiti Reti, e misti con gran numero di Romani che dovettero
rifuggirvi al cader dell’Impero, e che vi lasciarono dialetti
somigliantissimi al loro, quali sono il romancio e il ladino, abitano
valli parallele e confinanti coll’italiana Valtellina, alla quale
accedono pel monte Fraele, pel Muretto, per la montagna Giulia e per lo
Spluga. E Valtellina chiamasi la valle solcata dall’Adda, che nascendo
dal monte Braulio vicino all’Ortlerspitz, scorre per ottanta miglia
da levante a ponente fino al lago di Como. Sondrio n’è capoluogo;
cittaduole secondarie Morbegno e Tirano: all’estremità orientale
formava contado distinto il territorio di Bormio; presso al lago
di Como devia verso la Spluga e la val Pregalia l’altro contado di
Chiavenna, antichissimo valico del commercio coll’Alemagna.

La postura rende importantissima la Valtellina, perocchè un suo
fianco s’appoggia alle valli venete del Bergamasco e del Bresciano,
un’estremità tocca al Tirolo, l’altra alla Lombardia, entrambi
possessi della Casa d’Austria. Se questa l’avesse dominata, avrebbe
potuto liberamente tragittare eserciti dalla Germania in Italia onde
padroneggiarla e sommoverla, e impedire che i Veneziani potessero
per di là tirare nelle lor guerre mercenarj, di cui la Svizzera era
il vivajo. La politica aguzzava dunque gli occhi su quel piccolo
territorio, chiave o catena d’Italia: i Grigioni la tolsero al ducato
di Milano nel 1512, e benchè nella pace di Jante l’avessero ricevuta
come alleata, presto l’ebbero ridotta a serva, e della servitù più
trista, qual è quella a repubbliche. Persone ignoranti uscivano
a governarla, non d’altro meritevoli che d’aver comprata quella
magistratura all’asta, non d’altro desiderose che d’impinguarsi col
vender la giustizia.

Giovanni Comander arciprete di Coira, Enrico Spreiter, Giovan
Biasio e Filippo Saluzio avevano diffuso le dottrine di Calvino fra’
Grigioni, laonde essi cercavano innestarle nella Valtellina e ne’ due
contadi: negavano al Borromeo di entrarvi come visitatore pontifizio,
sorreggevano i Riformati a scapito de’ Cattolici, rapivano chiese a
questi, e usavano i soprusi consueti in paesi ove gli interessi de’
sudditi son opposti a quelli degli imperanti. Quindi rancori e litigi,
e violenze repulsate colle violenze.

Tra i Grigioni stessi i dissidj religiosi s’erano convertiti in
politici, formandosi due fazioni, una detta evangelica, favorevole
a Francia e capitanata dai Salis, l’altra cattolica e ligia a Spagna
sotto la guida dei Planta; di che peggiorò la condizion del paese; già
mal governato dall’aristocrazia, guasto dalla corruzione straniera,
e oppressivo de’ sudditi. I Riformati recansi a contrario il partito
austriaco, e infervorati dai predicanti, abbattono i castelli dei
Planta (1620), carcerano gli avversi, e a Tusis stabiliscono lo
_Strafgeritch_, corte marziale che ergevasi con poteri dittatorj
qualora lo statuto patrio pericolasse.

Qui cominciano processi violenti e supplizj e bandi; Nicolò Rusca,
santo arciprete di Sondrio, muore sulla corda; molti caporioni
cattolici sono uccisi, altri fuggono, e spargesi voce d’una congiura
ordita per trucidare tutti i Cattolici della Rezia e della Valtellina,
e rendervi dominatrice esclusiva la Riforma. I Cattolici mutano la
pietà in isdegno, lo sgomento in furore, e accordatisi, scannano
quanti sono Protestanti nella valle (19 luglio), la quale si dichiara
indipendente, e ordina governo proprio sotto Giacomo Robustelli, ch’era
stato l’anima di que’ movimenti. I Grigioni accorrono alla vendetta;
le vittorie s’avvicendano; i Cattolici allora invocano l’Austria,
che sempre desiderosa di quella, invade non solo la Valtellina,
ma ben anche la Rezia. Però la gelosia di Francia ostava, il papa
intromettevasi, e più anni trascorsero fra guerre e trattative e
certa infelicità della disputata valle, incapace col proprio coraggio
a sostenersi fra quei grossi ambiziosi. Alfine questi a Milano,
senza tampoco ascoltare i Valtellinesi, fecero un capitolato che la
restituiva ai Grigioni (1637), patto non vi dimorassero Protestanti nè
Inquisizione.

Su questi fatti ritorneremo (cap. CLIII), ma qui volemmo accennarli
anche trascendendo i limiti del presente libro, onde insieme
raccogliere quanto ha tratto alla grande critica religiosa, gittatasi
nel XVI secolo; secolo che cominciò nel modo più grandioso, colla
scoperta d’un nuovo mondo e la rapida conversione di quello, col
massimo fiore dell’arti e delle lettere; poi vide intromettersi
la quistione religiosa, e dietro ad essa la confusione degli
spiriti, l’anarchia degli atti, la tirannide ammantata dal pretesto
di reprimerla, il fanatismo persecutore; sicchè, invece di poter
congiungere la libertà cittadina coll’indipendenza religiosa, fu d’uopo
combattere dentro e fuori la barbarie che parea rinnovarsi; e fu reso
possibile il succedere in Italia d’un secolo d’indecorosa miseria, ove
potè giudicarsi perita la civiltà da chi non credesse fermamente che
la Provvidenza per la via del male guida l’umanità a continuamente
procedere verso idee più vere, costumi più umani, libertà meglio
intesa.


  FINE DEL LIBRO DECIMOTERZO E DEL TOMO DECIMO



INDICE

LIBRO DECIMOTERZO


  CAPITOLO

      CXL.  Secolo di Leon X. Belle arti                   _Pag_. 1
     CXLI.  Lingue dotte. Risorgimento della italiana.
              La Crusca. La Critica                         »   118
    CXLII.  Poeti del secolo d’oro. Il teatro               »   168
   CXLIII.  Indole di quella letteratura. I mecenati.
              Gli artisti                                   »   222
    CXLIV.   Costumi. Opinioni                              »   283
     CXLV.  La riforma religiosa procede. Opposizione
              papale. Riformati italiani. Inquisizione      »   361
    CXLVI.  Rimbalzo cattolico. Concilio Tridentino.
              Riforma morale                                »   439
   CXLVII.  Quistioni giurisdizionali. Diritto cattolico.
              Il Sarpi e il Pallavicino                     »   499
  CXLVIII.  Guerre religiose. I Valdesi. La Valtellina      »   552



NOTE:


[1] Quante cose restino ancora a rivelarsi sulle arti nostrali appare
dall’opera di Runge, che testè si pubblicò a Berlino, _Beiträge zur
Kenntniss der Backsteinarchitecture Italiens_.

[2] Ha il diametro di quarantatre metri, alta cento metri dal suolo,
quarantadue dalla cornice del tamburo all’occhio del lanternino;
meno alta di quella del Vaticano sol perchè meno elevati i piloni
su cui imposta; ma la supera di quattro braccia di larghezza; non
ha rinfianchi o gradinate o speroni, bastando alla solidità sua i
costoloni degli otto spicchi; eppure non ebbe bisogno di cerchi di
ferro, nè diede quelle tante paure, per cui grossi volumi si scrissero
e i principali architetti studiarono intorno a quella di Michelangelo.

[3] _Duplices facito clausuras, secto duobus locis flumine, spacio
intermisso quod navis longitudinem capiat, ut, si erit navis
conscensura, cum ea applicarit inferior clausura occludatur, aperiatur
superior; sin autem erit descensura, contra claudatur superior,
aperiatur inferior. Navis eo pacto, cum instar dimissa parte fluenti
evehetur fluvio secundo: residuum autem aquæ superior asservabit
clausura. — De re ædificatoria_, lib. X. c. 12.

Gli Olandesi pretenderebbero il passo sovra gl’Italiani, riportando
quest’invenzione fino al 1220: ma chi ponga mente al trattato _Della
fortificazione per chiuse_ di Simone Stevin, ingegnere del principe
Maurizio di Nassau, stampato nel 1608, sarà chiaro dalle figure, che le
chiuse a doppia imposta da lui descritte non servono che a rimontare
coll’alta marea ne’ canali che vi sboccano, e non a discenderne dopo
il riflusso, come si potrebbe colle nostre. In Francia dovett’essere
portata l’invenzione da Leonardo da Vinci al principio del 1500; il
quale forse inventò di mettere le porte ad angolo, spediente a farle
facilmente servibili.

[4] L’ultimo descrittore delle arti italiane ch’io conosca, Jacopo
Burckhardt, dice che le finestre dell’ospedale di Milano _Sind die
reichsten und elegantesten gothischen Fenster, die sich in diesem
Stoff bilden liessen. — Der Cicerone; eine Anleitung zum Genuss der
Kunstwercke Italiens._ Basel, 1855.

[5] Donde l’epigramma del Sannazaro:

    _Jucundus geminum imposuit tibi, Sequana, pontem;_
      _Hunc in jure potes dicere pontificem._

[6] Rafaello scriveva a suo zio Simon di Battista Ciarla: — Circa a
stare a Roma, non posso star altrove più per tempo alcuno, per amor
della fabbrica di Santo Pietro, che sono in loco di Bramante: ma qual
loco è più degno al mondo che Roma? qual impresa è più degna di San
Pietro? che è il primo tempio del mondo, e che questa è la più gran
fabbrica che sia mai vista, che monterà più d’un milione d’oro. E
sappiate che ’l papa ha deputato di spendere sessantamila ducati l’anno
per questa fabbrica, e non pensa mai altro. Mi ha dato un compagno,
frate dottissimo e vecchio di più d’ottant’anni: il papa vede che ’l
può vivere poco: ha risoluto sua santità di darmelo per compagno, ch’è
uomo di gran riputazione, sapientissimo, acciò che io possa imparare se
ha alcun bello secreto in architettura, acciò io diventa perfettissimo
in quest’arte. Ha nome frà Giocondo, e ogni dì il papa ci manda a
chiamare, e ragiona con noi un pezzo di questa fabbrica».

[7] Sulle moltissime opere d’oreficeria di Perugia lesse un discorso
Angelo Angelucci nell’accademia di quella città il 18 settembre 1853.

[8] L’Oldrado da Tresseno nel Broletto di Milano è ad alto rilievo.
È pur a mentovare la statua di Alberto d’Este sulla cattedrale di
Ferrara.

[9] Si dà per un monumento della riconoscenza de’ Veneziani; ma in
fatto il Coicone lasciò di che erigergli questa statua in piazza di
San Marco, il che dal senato non fu consentito. Di cavalli ricorderemo
quello di Enrico II, per ordine di Caterina de’ Medici fuso da Daniele
Ricciarelli da Volterra; e le due statue di Piacenza per Francesco
Mocchi di Montevarchi, con svolazzi ed attitudini teatrali. Un
gigantesco cavallo stava davanti a Santa Restituta in Napoli, che il
vulgo credeva fatto per incanto da Virgilio, e vi si conducevano i
cavalli per guarirli o preservarli da malattie. I vescovi credettero
bene distruggere cotesta superstizione, e ne fecero le campane del
duomo; solo la magnifica testa fu conservata dai Caraffa.

[10] Sul Civitali e sulle opere d’altri di sua casa a lui attribuite,
vedi _Memorie lucchesi_, vol. VIII. p. 57 e seg., e due lezioni del
marchese Mazzarosa.

[11] Lo stile le fa credere più recenti, quand’anche non vi fosse la
data del 1515, cioè di ottant’anni dopo che Luca era morto. Suo nipote
Andrea cominciò a corromperne la purezza. Seguirono Giovanni, Girolamo,
Luca, e frà Ambrogio seguace del Savonarola, che fecero importanti
lavori ma sempre deteriorando.

[12] Di quel mirabile palazzo è la parte più notevole la cappella,
dipinta nel 1407 da Taddeo Bartoli con istorie di Maria e di santi,
figure simboliche, eroi, ecc.

[13]

    _Vos, Antenoridæ, si tuti vultis ab hoste_
    _Esse, foris muros, pax vos liget intus amoris....._
    _Arboreis frustra petitur sub frondibus umbra_
    _Interius morbus si viscera torret acutus._
    _Ne pereant igitur labor ac impendia muri,_
    _Cives, consilium vestri servate Johannis._

È del 1240.

[14] _In controversiis causarum corporales inimicitiæ oriuntur, fit
amissio expensarum, labor animi exercetur, corpus quotidie fatigatur,
multa et inhonesta crimina inde consequuntur, bona et utilia opera
postponuntur, et qui sæpe credunt obtinere, frequenter succumbunt, et
si obtinent, computatis laboribus et expenses, nihil acquirunt_.

[15]

    _Hos spectate viros, animisque infigite, cives._
    _Publica concordi nam dum bona mente secuti_
    _Majestas romana duces tremefecit et orbem;_
    _Ambitio sed cæca duos ubi traxit ad arma,_
    _Libertas romana perit, scissoque senatu,_
    _Heu licet et puero caput altæ abscindere Romæ._

[16]

    Specchiatevi in costor, voi che reggete,
      Se volete regnar mille e mille anni:
      Seguite il ben comune, e non v’inganni
      Se alcuna passione in voi avete.
    Dritti consigli, come quei, rendete,
      Che qui di sotto son con lunghi panni,
      Giusti coll’arme ne’ comuni affanni
      Come quest’altri che quaggiù vedete.
    Sempre maggior sarete insieme uniti
      E salirete al ciel pien d’ogni gloria
      Siccome fece il gran popol di Marte,
    Il quale avendo del mondo vittoria,
      Poichè in fra lor si fur dentro partiti,
      Perdè la libertà in ogni parte.

[17] L’epitafio in onor di esso composto da Annibal Caro dice:

    Pinsi, e la mia pittura al ver fu pari;
    L’atteggiai, l’avvivai, le diedi moto,
    Le diedi affetto: insegni il Buonarroto
    A tutti gli altri, e da me solo impari.

[18] Nella storia di san Francesco, il Vasari ammira «un vescovo,
parato con gli occhiali al naso, che gli canta la vigilia, che il non
sentirlo solamente lo dimostra dipinto». _Vita del Ghirlandajo_.

[19] VASARI. Il Cicognara, _Storia della scultura_, lib. III. c. 2, c
il Tambroni nell’edizione del Cennino sostengono averci pitture nostre
a olio, anteriori a Giovanni da Brugia. Raspe, _A critical essay on
oil Painting_, cita un manoscritto _De artibus Romanorum_ di un Eraclio
romano, che si suppone vissuto nell’XI secolo, ove si parla _de omnibus
coloribus oleo distemperatis_, ma per dipingere muri a somiglianza di
marmi.

Nei documenti che Sebastiano Ciampi trasse dalla sagristia pistoiese
leggo al 1301 che, per dipingere la _maestà_ (in Lombardia si dà
ancora tal nome alle immaginette di foglio) furon date _libre_ XXXIX
_trementina; e pro pretio centinarum quatuor linseminis ad operam
magiestatis et aliarum figurarum quæ fiunt in majori ecclesia_. Il
padre Marchesi, nel _Commentario alla vita di Antonello da Messina_,
raccolse tutte le ragioni pro e contro, e asserisce a Van-Eyck
l’invenzione di stemperare i colori nell’olio vegetale, poi combinarli
insieme, e condur francamente il pennello in modo che paja opera
d’un sol getto, senza che occorra aspettare che le varie velature si
asciughino.

* Il conte Giovanni Secco-Suardo (_Sulla scoperta e introduzione in
Italia dell’odierno sistema di dipinger ad olio_, Milano 1858) tolse a
chiarire che lo stemperare i colori nell’olio naturale di linseme non
erasi mai fatto prima di Van-Eyck, che lo trovò fra il 1410 e il 1417:
che Antonello, nato verso il 1414 da padre pittore, presso re Renato
vide un quadro di Van-Eyck a olio, e invaghitosene, andò in Fiandra
per apprenderne l’arte, e nel 1445 vi dipinse il Calvario ad Anversa.
Tornato in patria, dipingeva ancora nel 1497, cioè avendo ottant’anni.

[20] Le molte pitture di Fiamminghi e Tedeschi che trovavansi in Italia
nel cinquecento son noverate da Burkhardt, _Der Cicerone_, pag. 845.

[21] Sotto due quadri nell’accademia di Venezia leggesi: _Gentilis
Bellinus amore incensus crucis_ 1496. — _Gentilis Bellinus pio
sanctissimæ crucis affectu lubens fecit_ 1500. Giovanni, sotto la
madonna della sacristia dei Frari scrisse:

    _Janua certa poli, duc mentem, dirige vitam_
    _Quæ peragam, commissa tuæ sint omnia curæ._

[22] È noto che l’intaglio in legno fin al 1795 consistette
nell’abbassare col temperino tutte le parti che non fossero
disegnate: dopo d’allora vi si adoprò il bulino, e perciò vi si
richiede esercizio, come in arte particolare. Nella splendida opera
_Holzschnitte berühmter Meister_, Rodolfo Weigel vuol dimostrare che i
grandi pittori d’ogni età amarono e coltivarono l’intaglio in legno.

* Nel _Kunstblatt_ del 1835, nº 58, è riferita un’immagine
coll’iscrizione _S. Nicola d’Tholentino_. Il santo porta un libro ov’è
scritto _precepta pris mei servavi_. 1446. È l’anno appunto in cui
quel santo fu canonizzato: e se quella data sogna il tempo di tale
incisione, sarebbe un documento antichissimo dell’intaglio in legno,
fatto, secondo tutte le probabilità, in Italia.

[23] Le ragioni dei Tedeschi sono sostenute principalmente da Rumohr,
_Untersuchung der Gründe für die Annahme, dass Maso di Finiguerra
Erfinder des Handgriffs sei, gestochene Metalplatten auf genetztes
Papier abzudrucken_. Lipsia 1841.

[24] È forse anteriore alla Crocifissione della galleria Fesch. Anche
dopo il Vasari, Duppa, Braun, Rumohr, Nagler, Rehberg, Quatremère de
Quincy, Passavant (_Rafael von Urbino und sein Vater Giovanni Santi_),
resta a desiderarsi una compiuta monografia di quel genio della
bellezza armonica.

[25] «Gl’ignudi, che fece nella camera di Torre Borgia, ancorchè siano
buoni, non sono in tutto eccellenti. Parimenti non soddisfeciono
affatto quelli nella volta del palazzo Chigi». VASARI, _Vita di
Rafaello_.

[26] Il parallelo fra i pittori antichi e i nostri fu da molti
istituito, e ultimamente con più sistematica erudizione da M. H.
Fortoul (_Etudes d’archéologie et d’histoire_, 1854). Alla prima epoca
paragona Polignoto con Giotto; alla seconda, Apollodoro con Masaccio;
alla terza, dell’imitazione esatta, Aristide e Pamfilo con Leonardo da
Vinci, Eupompo e la scuola Sicionia col Mantegna e coi Veneti, Melanto
con frà Bartolomeo, Aetione col Correggio, Pausia con Giorgione;
nelle scuole dell’imitazione dotta, Asclepiodoro col Ghirlandajo,
Eufranore col Michelangelo, Nicia con Andrea del Sarto; nelle scuole
dell’imitazione bella, Apelle con Rafaello, Protogene col Francia;
nella quarta epoca, Nealco, Timomaco e gli altri imitatori vanno coi
Caracci.

[27] Non s’accordano nel descrivere quel monumento. Doveva esser lungo
diciotto braccia, largo dodici, isolato; di fuori girava un ordine di
nicchie, tramezzate da termini che sostenevano colla testa la prima
cornice; e ciascuno con bizzarra attitudine teneva legato un prigione
ignudo, posato co’ piedi sul risalto d’un basamento; i quali prigioni
rappresentavano le provincie riunite al dominio pontifizio. Altre
statue pur legate figuravano le Virtù e le Arti, soggiogate dalla morte
come il papa che le favoriva. Sui canti della prima cornice andavano
quattro statue grandi, la Vita attiva, la contemplativa, san Paolo
e Mosè. Alzavasi l’opera sopra la cornice, diminuendo con un fregio
di storie di bronzo, e con altre figure, puttini e ornati diversi.
In cima due statue; una il Cielo sostenente sulle spalle una bara, e
ridente che l’anima del papa fosse passata alla gloria; l’altra Cibele
dea della terra, reggendo anch’essa la bara, ma dolente per la perdita
fatta. Si entrava ed usciva per le teste della quadratura dell’opera,
di mezzo alle nicchie; e dentro si trovava un tempio ovale, nel cui
mezzo il cadavere del papa.

Si tacciano gli eredi di Giulio II di non averlo fatto compire: però
aveano con lui stipulato lo finisse per sedicimila ducati. Vedi le
prove in GAYE, _Carteggio_, tom. II.

[28] Al Cicognara queste nudità parvero effetto dell’_innocente
semplicità del_ cinquecento! Ma che anco allora scandolezzassero, e
non solo i pusilli, appare, a tacer altri testimonj, da un manoscritto
della Magliabechiana, _cl_. XXV. 274, ove si legge: «19 di marzo 1549
si scoprì le lorde e sporche figure di marmo in Santa Maria del Fiore
di mano di Baccio Bandinello, che furono un Adamo ed un’Eva; della
qual cosa ne fu da tutta la città biasimato grandemente, e con seco il
duca che comportasse una simil cosa in un duomo dinanzi all’altare,
e dove si posa il santissimo Sacramento. — Nel medesimo mese si
scoperse in Santo Spirito una Pietà, la quale la mandò un Fiorentino
a detta Chiesa, e si diceva che l’origine veniva dallo inventor
delle porcherie, salvandogli l’arte ma non la devotione, Michelangelo
Bonarruoto. Che tutti i moderni pittori e scultori per imitare simili
capricci luterani, altro oggi per le sante chiese non si dipigne o
scarpella che figure da sotterrar le fede e la devotione: ma spero
che un giorno Iddio manderà i suoi santi a buttare per terra simili
idolatrie come queste».

Dell’Aretino una lettera, tra di senno e di baja, è prodotta dal Gaye
alquanto diversa dalle edite:

— Signor mio, nel vedere lo schizzo intiero di tutto il vostro dì del
giudicio, ho fornito di conoscere la illustre gratia di Rafaello ne
la grata bellezza de la inventione. Intanto io, come battezzato, mi
vergogno de la licentia sì illecita a lo spirito, che havete preso ne
lo esprimere i concetti, u’ si risolve il fine, al quale aspira ogni
senso de la veracissima credenza nostra. Adunque quel Michelagnolo
stupendo in la fama, quel Michelagnolo notabile in la prudentia, quel
Michelagnolo ammirando, ha voluto mostrare alle genti non meno empietà
di irreligione che perfettion di pittura? È possibile che voi che,
per essere divino, non degnate il consortio degli huomini, haviate
ciò fatto nel maggior tempio di Dio, sopra il primo altare di Gesù,
ne la più gran cappella del mondo, dove i gran cardini della Chiesa,
dove i sacerdoti riverendi, dove il vicario di Cristo con ceremonie
cattoliche, con ordini sacri, e con orazioni divine confessano,
contemplano et adorano il suo corpo, il suo sangue e la sua carne? Se
non fusse cosa nefanda lo introdurre de la similitudine, mi vanterei di
bontade nel trattato de la Nanna, preponendo il savio mio avvedimento
a la indiscreta vostra conscienza, avvenga che io in materia lasciva
ed impudica non pure uso parole avvertite e costumate, ma favello con
detti irreprensibili e casti; e voi nel suggetto di sì alta historia
mostrate gli angeli e i santi, questi senza veruna terrena honestà, e
quegli privi d’ogni celeste ornamento. Ecco i Gentili, ne lo iscolpire
non dico Diana vestita, ma nel formare Venere ignuda, le fanno ricoprir
con la mano le parti che non si scoprono; e chi pur è cristiano, per
più stimare l’arte che la fede, tiene per reale ispettacolo tanto il
decoro non osservato nei martiri e nelle vergini, quanto il gesto
del rapito per i membri genitali, che anco serrarebbe gli occhi il
postribolo per non mirarlo. In un bagno delizioso, non in un coro
supremo si conveniva il far vostro; onde saria men vitio che voi non
credeste, che in tal modo credendo, iscemare la credenza in altrui.
Ma sin a qui la eccellenza di sì temerarie maraviglie non rimane
impunita, poichè il miracolo di loro istesse è morte de la vostra
laude. Sì che risuscitatele il nome col far de fiamme di fuoco le
vergogne de i dannati, e quelle de’ beati di raggi di sole; o imitate
la modestia fiorentina, la quale sotto alcune foglie auree sotterra
quelle del suo bel colosso, e pure è posto in piazza pubblica e non in
luogo sacrato... Ma conciosiachè le nostre anime han più bisogno de lo
affetto de la devotione, che de la vivacità del disegno, inspiri Iddio
la santità di Paolo, come inspirò la beatitudine di Gregorio, il quale
volse in prima disornar Roma de le superbe statue degli idoli, che
torre, bontà loro, la riverentia a l’humil imagini de i santi...»

Anche Salvator Rosa tira contro le nudità della Sistina:

    Dovevi pur distinguere e pensare
      Che dipingevi in chiesa: in quanto a me
      Sembra una stufa questo vostro altare...
    Dunque là, dove al Ciel porgendo offerte
      Il sovrano pastore i voti scioglie,
      S’hanno a veder le oscenità scoperte?

[29] Sono descritti dal Vasari in lettera 14 luglio 1564 al duca Cosmo.

[30]

    Grato m’è il sonno, e più l’esser di sasso
    Mentre che il danno e la vergogna dura;
    Non veder, non sentir m’è gran ventura;
    Però non mi destar; deh, parla basso.

[31] CONDIVI, _Vita di Michelangelo_. Celebrandosene il centenario a
Firenze nel 1875, si pubblicarono molte cose di Michelangelo e sopra di
lui.

[32] Al Vasari dirigeva questo sonetto:

    Giunto è già ’l corso della vita mia
      Con tempestoso mar, per fragil barca,
      Al comun porto, ov’a render si varca
      Conto e ragion d’ogni opra trista e pia.
    Onde l’affettuosa fantasia,
      Che l’arte mi fece idolo e monarca,
      Conosco or ben quant’era d’error carca,
      E quel che a mal suo grado ognor desia.
    Gli amorosi pensier già vani e lieti
      Che fien or, s’a due morti mi avvicino?
      D’una so certo, e l’altra mi minaccia.
    Nè pinger nè scolpir fia più che queti
      L’anima volta a quello amor divino
      Ch’aperse a prender noi in croce le braccia.

[33] Il Vasari, che pur denigra il Perugino, ne racconta questo tratto:
— Era il priore (de’ Gesuati a Firenze) molto eccellente in fare gli
azzurri oltramarini, e però, avendone copia, volle che Pietro in tutte
le sopraddette opere ne mettesse assai; ma era nondimeno sì misero e
sfiduciato, che, non si fidando di Pietro, voleva sempre esser presente
quando egli azzurro nel lavoro adoperava. Laonde Pietro, il quale
era di natura intero e da bene, e non desiderava quel d’altri se non
mediante le sue fatiche, aveva per male la diffidenza di quel priore,
onde pensò di farnelo vergognare, e così, presa una catinella d’acqua,
imposto che aveva o panni o altro che voleva fare di azzurro e bianco,
faceva di mano in mano al priore, che con miseria tornava al sacchetto,
mettere l’oltramarino nell’alberello dove era acqua stemperata;
dopo cominciandolo a mettere in opera, a ogni due pennellate Pietro
risciacquava il pennello nella catinella; onde era più quello che
nell’acqua rimaneva che quello ch’egli aveva messo in opera; ed il
priore che si vedea votar il sacchetto ed il lavoro non comparire,
spesso spesso diceva: — Oh quanto oltramarino consuma questa calcina! —
Voi vedete», rispondeva Pietro. Dopo partito il priore, Pietro cavava
l’oltramarino che era nel fondo della catinella; e quello, quando
gli parve tempo, rendendo al priore, gli disse: — Padre, questo è
vostro; imparate a fidarvi degli uomini da bene, che non ingannano mai
chi si fida, ma sibbene saprebbono, quando volessino, ingannare gli
sfiduciati, come voi siete».

Plinio racconta che coll’artifizio stesso i pittori antichi rubavano
il minio: _Pingentium furto opportunum est; plenos subinde abluentium
penicillos; sidit autem in aqua, constatque furantibus._ Hist. nat.,
XXXIII. 40.

[34] Il Roscoe, fra tante altre inesattezze, scrive che Leonardo non
finì il Cenacolo, e che «non indicando se non per un semplice tratto la
testa del suo personaggio principale, ha confessato la sua incapacità,
e a noi rimane da compiangere o la poca audacia dell’artista, o
l’impotenza dell’arte». _Vita di Leone X_, cap. 2. Anche il Vasari dice
che «la testa di Cristo lasciò imperfetta». Invece il cardinal Federico
Borromeo, nel _Musæum_ stampato il 1625, loda tanto quella testa:
_Salvatoris os altum animi mœrorem indicat, qui gravissima moderatione
occultatus atque suppressus intelligitur_. Vedasi GALLENBERG, _Lionardo
Vinci_, Lipsia 1834. L’opera di Giuseppe Bossi sul _Cenacolo_ è di
mera accademia. Interessanti pubblicazioni su Lionardo si fecero quando
nel 1871 se ne inaugurò il monumento a Milano. Vedi principalmente il
_Saggio delle opere di L. Da V._, con 24 tavole litografiche tratte dal
Codice Atlantico. Milano, Ricordi 1872, in gran folio.

[35] Vasari mette fuor di dubbio questo fatto.

[36] Dopo i furti fattine all’Ambrosiana di Milano, dove non fu reso
che il Codice Atlantico, molti dei suoi manoscritti si conservano alla
biblioteca dell’Istituto di Francia, uno a Holkham in Inghilterra dal
conte di Leicester.

Francesco Melzo descriveva a minuto la morte di Leonardo in una lettera
al fratello: ma non dice spirasse tra le braccia di Francesco I,
il quale re sappiam di certo che al 2 maggio 1549 era a San Germano
in Laja. Mentisce dunque il Vasari, come probabilmente nelle altre
circostanze di sua morte, ove il fa non solo convertito, ma istruito
nella fede soltanto in quegli estremi; benchè temperasse quel che avea
messo nella prima edizione, che fosse infetto di nozioni eretiche
«in modo che non credeva ad alcuna specie di religione, e metteva
la filosofia molto sopra il cristianesimo». Abbiamo il testamento,
da Leonardo fatto nove giorni prima di morire, tutto pietà; ove
«raccomanda l’anima sua a nostro Signore messer Domenedio, alla
gloriosa Vergine Maria, a monsignor san Michele»; vuole si dicano
trenta messe basse e tre alte per l’anima sua in tre chiese di regolari
ad Amboise. Oggi gl’invidiosi, quando non sanno di peggio, tacciano
gl’invidiati di illiberalità e servilità: dubito che il Vasari,
per lo spirito stesso, tacciasse d’irreligiosi quelli con cui non
simpatizzava, come Leonardo e il Perugino.

[37] Nel manoscritto B, pag. 33 dei codici parigini di Leonardo,
stanno varj disegni di lui, postillati al solito, e sotto l’uno si
legge: — Inventione d’Archimede. Architronito è una macchina di fino
rame, e gitta balotte di ferro con gran strepito e furore. E usasi in
questo modo: la terza parte dello strumento sta infra gran quantità
di foco di carboni, e quando sarà bene lacqua infocata, serra la
vite _b_, chè sopra al vaso de lacqua _bc_, e nel serrare la vite,
si distoperà di sotto, e tutta la sua acqua discenderà nella parte
infocata de lo strumento, e di subito si convertirà in tanto fumo che
parerà maraviglia, e massime a vedere la furia e sentire lo strepito.
Questa cacciava una balotta che pesava uno talento». Voi vedete che
qui Leonardo non lo dà per suo trovato, ma l’assegna ad Archimede; e
quel suo nominare il talento fa credere lo desumesse da qualche antico
libro del Siracusano, ora perduto, e che attesterebbe conosciuta in
antichissimo la potenza del vapore, la quale è caratteristica del
nostro secolo.

[38] Nel 1604 nella _Astronomiæ pars optica Kepleri._

[39] Il suo epitafio sente l’età pagana, che bada solo a forme e
colorito:

    Apelle nel colore e ’l Buonarroto
    Imitai nel disegno; e la natura
    Vinsi, dando vigor ’n ogni figura
    E carne ed ossa e pelle e spirti e moto.

Invece quella di frate Angelico diceva:

    _Non mihi sit laudi quod eram velut alter Apelles,_
      _Sed quod lucra tuis omnia, Christe, dabam._

[40] Lo coadjuvarono Francesco Primaticcio e Giambattista Mantovano, e
alcuno vorrebbe anche Rinaldo da Mantova, scolaro di Giulio Romano.

[41] Genere allora usitato: si tracciavano i contorni sullo smalto, poi
si adombravano con argilla, carbone e polvere di travertino, che davano
aspetto di bassorilievo.

[42] Scriveva al granduca Ferdinando:

«I pesi della gioventù mia, gli anni et ogni industria per servigio
di cotesta serenissima casa di vostra altezza, e già vicino agli
ottant’anni, nè lungi da quella voce colla quale Iddio chiama tutti
a sè, sono costretto dalla coscienza a dire a vostra altezza quel
che spero di conseguire facilmente. È ito in questo secolo intorno
quell’abuso nella scoltura e pittura, che per tutto si vede, di
dipingere e scolpire persone ignude, e per questo mezzo, sotto colore
e mostra dell’arte, far vivere la memoria di cose sporche, o svegliare
una tacita adoratione di quegli idoli, per togliere i quali tenevano
per bene impiegata la vita e ’l sangue i martiri et altri santi amici
di Dio. Or io, dolentissimo d’essere stato in mia vita instromento di
tali statue, nè veggendo come poterle togliere dalla vista de gli occhi
molti, scrissi, già alcuni anni, una epistola che si stampò, a gli
uomini della profession mia, acciocchè codesto Stato di vostra altezza
non ricevesse, fra gli altri vitii a che siamo inclinati, qualche ira
da Dio. Et hora che in questa mia vecchiaja debbo sentire l’importanza
di questo fatto, e con tanta età mi sento crescere un vivo desiderio
della vera grandezza e felicità di vostra altezza, la voglio, prima
che muoja, supplicare per l’onore di Dio, che non lasci più scolpire
o pingere cose ignude; e quelle, che o da me o da altri sono state
fatte, si cuoprano, o del tutto si tolgano, in modo che Dio ne resti
servito, nè si pensi che Fiorenza sia il nido degli idoli, o delle
cose provocanti a libidine et a cose che a Dio sommamente dispiaciono.
E perciocchè ultimamente vostra altezza comandò che quelle statue,
che già trent’anni io feci per commissione del serenissimo granduca,
vostro padre, in Pratolino, si trasportassero nel giardino de’ Pitti,
siccome si è fatto, sento grandissimo rimorso che fatica di mie mani
tale debba quivi restare per stimolo di molti disonesti pensieri,
che a chi le mira potranno venire. Però anche in questo la supplico
con ogni riverenza, per il maggior dono e rimuneratione di ogni mio
servigio potessi ricevere, che mi faccia gratia, prima, che io non
ci ponga punto di altra cooperatione per assettarle; da poi, che mi
conceda ch’io possa vestirle così artificiosamente e decentemente sotto
titolo di qualche virtù, che non possano mai dare occasione di brutti
pensieri a persona veruna. E questo anco tanto più converrà, quanto
a gli occhi della serenissima granduchessa, e della compagnia che
menerà con seco, et a tante signore che verranno spesso a visitarla,
essa havrà occasione di vedere in ogni parte e luoco di vostra altezza
cose, le quali christianamente edifichino una principessa, come è
christianissima. Et io in eterno ne resterò obbligatissimo a vostra
altezza».

Sono noti i rimorsi che laceravano gli ultimi anni di Agostino Caracci
per le sue incisioni lascive. Sel sappiano i giovani.

[43] Narra egli stesso che Michelangelo si fermò a riguardare il San
Marco di Donatello a Or San Michele, e disse non aver mai visto figura
che avesse più aria da uom dabbene; e che se san Marco era tale, se gli
poteva creder ciò che avea scritto.

[44] Nel descrivere questa gli scappano molte verità di sentimento,
e che «devono coloro che in cose ecclesiastiche s’adoperano, essere
ecclesiastici e santi uomini, essendo che si vede, quando cotali
cose sono operate da persone che poco credono e poco stimano la
religione, che spesso fanno cadere in mente appetiti disonesti e voglie
lascive, onde nasce il biasimo delle opere nel disonesto, e la lode
nell’artificio e nella virtù».

Poc’anzi il sig. Didron scriveva: _Vasari est coutumier de l’erreur,
et je connais peu d’historiens qui se trompent plus souvent que lui, ou
volontairement, ou par ignorance. — Annales archéologiques_, 1856, pag.
23. Molti errori suoi furono raddrizzati nell’edizione fattane dal Le
Monnier.

[45] _Trattato dell’arte della pittura_, diviso in sette libri, nei
quali si contiene tutta la teorica e la pratica di essa pittura;
Milano, 1584. _Idea del tempio della pittura_; 1590. A ciascun pittore
appropria un metallo ed un animale; Michelangelo è il dragone, Polidoro
il cavallo, Rafaello l’uomo, Tiziano il bue, Mantegna il serpente.
Avea raccolti quattromila quadri; riferisce molte particolarità del
Bramantino (lib. IV, e 21); possedeva un trattato di prospettiva di
Bernardino Zenale, e un altro di Vincenzo Foppa, dove erano prevenuti
Alberto Dürer e Daniele Barbaro.

[46] Su Bernardino Luini riferiamo questa nota, del Cantù stesso, tolta
dalla _Illustrazione del Lombardo-Veneto_.

Fu da Luino, ma le notizie ne sono scarse e favoleggiate. Povero di
casa, ricco d’ingegno, robusto di volontà, bizzarro e rissoso, vuolsi
avesse a maestro Stefano Scotto pittore di arabeschi, il quale lo
innamorò dei vecchi pittori. Infatto il suo primo modo ritrae del
Civercio, del Montorsolo, del Borgognone, con fregi d’oro, ombreggiar
timido, colorito pacato, che si direbbe anche freddo. Di quel primo
modo sarebbero la Addolorata dietro l’altar maggiore della Passione, il
Noè in Brera, ed anche la spettacolosa Crocifissione a Lugano, ove gli
adoratori della forma appuntano il poco rilievo e la scarsa gradazione
di chiaroscuro. Gran progresso appare nella Coronazione di spine
all’Ambrosiana, ne’ freschi del Monastero Maggiore, e specialmente in
quelli di Saronno, nell’_Ecce homo_ e nella Deposizione dalla Croce a
San Giorgio in Palazzo. Abbiamo a credere che profittasse della scuola
di Leonardo da Vinci? Sicuramente l’amabile e affettuosa espressione
della Madonna con sant’Antonio e santa Barbara in Brera, la Madonna
in grembo a sant’Anna nell’Ambrosiana, e quella degli Archinti, altre
pitture delle gallerie Melzi, Borromeo... non lasciano invidiare
qualsiasi maestro. Io poi non so staccarmi dalla carissima composizione
della santa Caterina trasportata dagli angeli, affresco or messo
in Brera, come tanti altri che erano sparsi qua e là. Il Monastero
Maggiore è una vera galleria di opere luinesche: e le figure dal corno
dell’epistola non potrebbero dirsi più care e maestose.

E d’un tanto maestro, pochissimo (lo ripetiamo) si sa. Che fosse
compensato a miseria lo prova il sapersi che per la Crocifissione
di Lugano ricevette lire 244 e 8 soldi imperiali. Della mirabile
Coronazione di spine, dipinta in un oratorio di Santa Corona, ora
annesso alla Biblioteca Ambrosiana, una memoria del 1521 dice: «Messer
Bernardino da Luino pictore s’è accordato a pingere il Cristo con li
dodici compagni in lo oratorio, et comenzò a lavorare il dì 12 octobre,
e l’opera fu finita a dì 22 marzo 1522. È vero che lui lavorò solo
opere 38, et uno suo giovene opere 11, et oltre le dicte opere 11, li
teneva missà la molta (gli rimeschiava la calcina) al bisogno, ed anche
sempre aveva uno garzone che li serviva. Li fu dato per sua mercede,
computati tutti i colori, lire 115, soldi 9».

Delle sue vicende si favoleggia. Dicono che, partito da Milano per
la peste, andasse a dipingere una chiesetta presso la Pelucca. Indi
tornato a Milano, lavorò nella chiesa di San Giorgio le belle opere
che ancora vi si ammirano. Ma piantatisi i palchi, il parroco volle
salirvi, e cadde, e si ruppe la persona. Temendo esserne imputato, il
Luino fuggì e i signori della Pelucca lo tennero in protezione, ove
dipinse quasi tutto il palazzo a storie e mitologie, delle quali una
parte fu recata poi in Brera, fra cui la suddetta santa Caterina. Ivi
s’invaghì d’una figlia di que’ signori, e avendo essa per amor di lui
rifiutato un illustre cavaliere, fu mandata monaca a Lugano.

Trovò subito occasione il Luino di recarsi colà, ove, messosi
ne’ frati, per loro dipinse la grande Crocifissione, la Cena nel
refettorio, e la Madonna sopra una porta del chiostro, così sentita e
cara, che tu non vorresti veder altro. V’è il millesimo 1528, sicchè è
posteriore ai dipinti di Saronno.

Ma la fanciulla soccombette al dolore, e il Luino tornò in patria, ma
non dimenticolla mai, e pose spesso il ritratto dell’amata fanciulla,
e principalmente nel quadro che dicesi la Monaca di Luino. Occasione di
questo dipinto fu il cav. Giambattista Pusterla quando, combattendo per
Massimiliano Sforza, cadde prigioniero de’ Francesi, e votatosi alla
beata Caterina Brùgora, si trovò trasportato alle proprie tende; onde
fece dipinger questo fatto dal Luino, ove la fanciulla della Pelucca
compare in sembianza della santa, con un crocifisso nella destra
serrato al cuore, la palma nella sinistra, e sulla spalla la colomba.

Danno al Luino due figli, Aurelio ed Evangelista; e un fratello
Ambrogio che gli servì d’ajuto, e al quale si attribuiscono alcuni
dipinti del santuario di Saronno, e alcuni del Monastero Maggiore, men
chiari e di un fare meno spigliato. (_Gli editori_).

[47] Il Bordiga (_Notizia intorno a Gaudenzio_, Milano 1821) reca un
concilio novarese, dov’è menzionato _Gaudentius noster, opera quidem
eximius, sed magis eximie pius_. Non crediamo fosse scolaro del
Perugino. Nel suo quadro del 1511 per la chiesa d’Arona si sottoscrive
_Gaudenzio Vinci_.

[48] Egli e Cristoforo detto il Gobbo pare nascessero da Boniforte, che
per Francesco Sforza a Milano fabbricò l’Incoronata, la Rosa, la Pace,
le Grazie, sempre attenendosi al gotico.

[49] Gli scultori, che si trovano mentovati nei rendiconti dal
principio del cinquecento alla Certosa di Pavia, sono Antonio Amedeo,
Gian Giacomo della Porta, Silvestro di Carate, Giuseppe Rosnati,
Dionigi Bussola, Carlo Simonetta, Alberto di Carrara, Giambattista De
Magistris detto il Volpino, Cristoforo Romano, Bernardino da Novi,
il Gobbo Cristoforo Solaro, Agostino Busti detto Bambaja, Battista
Gattoni, Antonio Tamagini, Tommaso Orsolino, Andrea Fusina, Angelo
Marino, Marco Agrati, i fratelli Mantegazza, Ettore d’Alva, Antonio
da Locate, Battista e Stefano da Sesto, Biagio di Vairano, Francesco
Piontello, Giacomo Nava.

[50] Il Lomazzo lo nomina una volta, nessuna il Lattuada.

[51] Un altro artista trovo menzionato. Giovan Cristoforo Romano,
«oltra le altre virtù e massimamente della musica, fu al suo tempo
scultore eccellente e famoso, e molto delicato e diligente, e
massimamente per la nobile ed ingegnosa sepoltura di Galeazzo Visconti
nella Certosa di Pavia. E se non che nell’età sua più verde e più
fiorita fu assalito d’incurabile infermità, forse fra Michelangelo e
Donatello stato sarebbe il terzo». SABA CASTIGLIONI, _Ricordo_ 409.

[52] _Non me Praxiteles, sed Marcus finxit Agratus_.

[53] _Vite ed elogi d’illustri Italiani_, in FEDERICO ASINARI.

[54] Lo stesso pensiero effettuò Antonio di Sangallo nel campanile di
San Biagio a Montepulciano. Accumula molti errori il Valery, _Voyage
historique et littéraire en Italie, ove dice: Le clocher de Sainte
Claire par Masuccio II, est d’un beau et pur gothique. On remarque
au troisième étage l’heureuse innovation du chapitau ionique, opérée
par Michelange, avec lequel l’architecte napolitain doit en partager
l’honneur_.

[55] In Santa Maria Nuova leggesi: _Petrus de Martino mediolanensis,
ob triumphalem arcis novæ arcum solerter structum, et multa statuariæ
artis suæ munera huic ædi pie oblata, a divo Alphonso rege in equestrem
adscribi ordinem et in ecclesia sepulchro pro se ac posteris suis
donari meruit_ MCCCCLXX. A torto il Vasari l’attribuisce a Giulian di
Majano, che neanche può aver eseguito le scolture, opere di diversi,
e nominatamente di Isaia da Pisa, figlio di Filippo, secondo un
manoscritto della Vaticana Nº 1670.

[56] Un altro milanese sconosciuto ci è rivelato dalla pittura di San
Giovanni a Carbonara coll’iscrizione: _Leonardos Bisucio de Mediolano
hanc capellam et hoc sepulcrum pinxit_ 1417. Quelle pitture fin oggi
furono attribuite a Gennaro di Cola e Stefanone. Un Ambrogio da Milano
fece il sepolcro del vescovo di Ferrara in San Giorgio di questa
città. Ottavio Scotto da Monza incise nel 1484 un soggetto della Divina
Commedia, rarissimo intaglio che venne recentemente al marchese Campana
di Roma.

[57] Due pajono i Colantonio. I primordj dell’arte a Napoli furono
ingombrati di favole da Bernardo Dominichi, _Vite dei pittori, scultori
e architetti napoletani_; seguitato dal Lanzi. Volea correggere i
troppi errori Enrico Guglielmo Schulz prussiano, che da molti anni
lavorava a una storia delle arti nell’Italia meridionale, ma morì
precoce. Masuccio secondo forse scomparirà dalle storie successive. Si
veda il _Discorso sui monumenti patrj_, dell’architetto Luigi Catalani.
Napoli 1842.

Quasi ogni scuola, anzi ogni paese ha storie artistiche particolari,
come

MARIOTTI, _Lettere pittoriche perugine_;

VIDONI, _La pittura cremonese_;

AVEROLDI, _Pitture scelte di Brescia_;

ZAMBONI, _Memorie intorno alle fabbriche di Brescia_;

PINO, _Dialogo della pittura veneziana_;

MORONA, _Pisa illustrata nelle arti del disegno_;

Trotti per Bergamo, Milanesi e Porri per Siena, Cricco per le arti
trevisane, Maniago per le friulane, Malvasia, Ridolfi ecc. e i recenti
editori del Vasari e il Cavalcasella.

[58] Appartiene agli aneddoti plateali la povertà del Correggio e la
tenuità dei prezzi attribuiti alle sue opere. Il Tiraboschi ricavò
dalle carte che, per la cupola di San Giovanni cogli ornamenti aggiunti
alla nave maggiore, toccò quattrocentosettantadue zecchini; millecento
per la cupola della cattedrale, cento per la Madonna e sant’Antonio,
ottanta pel san Girolamo, quarantasette e mezzo scudi d’oro pel
quadro della Notte, ora a Dresda. I moltissimi errori tradizionali
sul conto del Correggio furono confutati da Tiraboschi, Pungileoni,
Affò; e parecchi documenti si pubblicarono da poi. Al disegno che nella
biblioteca Ambrosiana è indicato come la _famiglia del Correggio_, e
che offre un vecchio, colla moglie ancor giovane, e una figliuola e tre
ragazzi a piè nudi, bisognerà cambiar titolo; giacchè il Correggio di
ventisei anni sposò Girolama Merlini di sedici, e n’ebbe un maschio e
tre ragazze.

[59] Enrico Mortara, in un’affettata biografia di questo pittore,
dubita se alchimiasse, e se intagliasse in legno. Il tipo delle sue
Madonne vorrebbesi riconoscere nella famiglia Beduschi. Alla Carossa,
un miglio da Casalmaggiore, additano la cascina ove dicono morisse di
sifilide sopra un pagliajo.

[60] Paolo, non molto abile nel frescare, volea sempre seco lo Zelotti
in tale uffizio.

[61] L’Algarotti, _Opere_, tom. VIII, p. 26, dice che Paolo della
sua Cena ebbe soli novanta ducati d’oro, «siccome io ho ricavato dai
quaderni della celleraria del monastero di San Giorgio Maggiore». Noi
addurremo il contratto qual si legge nell’archivio di esso San Giorgio,
donde apparirà quanto l’Algarotti _ricavasse_ male:

  «Addì 6 zugno 1562.

Se dichiara per il presente scritto, come in questo giorno il padre
don Alessandro da Bergamo procurator, e io don Mauritio da Bergamo
cellerario, semo rimansi dacordio con messer Paulo Caliar da Verona
pictor di far uno nostro quadro nel refectorio novo, di la larghesa et
alteza ch se trova la fazada, facendola tutta piena, facendo la istoria
di la cena del miracolo fatto da Cristo in Cana Galilea, facendo
quella quantità de figure che le potrà intrar acomodadamente, et che
si richiede a tale intentione: metendo il detto messer Paulo la sua
opera de pictor et ancor tutte le colori de qual sorte se sia, et così
la tela et ogni altra cosa che se possa intrar a tuti soe spesi. Et il
monasterio mettira solum la tela simplizamente, et farà far il telaro
per ditto quadro; del resto poi inchiudarà la tela a soi spesi et
altre manifatura a che le potrà intrar. Et il detto messer Paulo sarà
obligado a metter in ditta opera boni et optimi colori, et no mancar
in niuna cosa dove abia a intrar oltremarin finissimo, et altre colori
perfettissimi che siano aprobati da ogni perito. Et per sua mercede
l’abiamo promesso per detta opera ducati trecentovintiquatro da ll. sei
ss. quattro per cadauno, dandoli detti danari alla zornada secondo farà
bisogno; et per capara le abiamo dato ducati cinquanta, promettendo
il detto messer Paulo dar l’opera finita alla festa de la Madona de
septembre 1563; et sopra mercado le abiamo promesso una botta di vino
condotta in Venezia, da esser data a sua requisition. Et il monasterio
le darà le spese di bocca per el tempo che lavorerà a detta opera, et
averà quelle spese di bocca che se manzarà in refectorio. Et in fede».

Seguono le sottoscrizioni e la quitanza finale di ducati trecento di
esso Paolo, sotto il 6 ottobre 1563.

[62] Antonio Campi pittore e storico numera molte Cremonesi del suo
tempo, celebri nelle belle arti o per virtù. Al 1572, altre pittrici
del cinquecento conosciamo; e suor Plautilla Nelli bolognese, non
potendo uomini, copiava donne, sicchè diceano che facea non Cristi ma
Criste. Altre monache, e principalmente Domenicane, coltivarono le arti
belle.

[63] Di bel gotico sono a Venezia il coro di San Zaccaria, la porta
della Carta, il portico del palazzo dogale verso la scala de’ Giganti,
la facciata di San Giovanni e Paolo, il monumento del doge Foscari,
ecc.

[64] Ma l’architetto di quel palazzo non fu il Calendario, e piuttosto
Pietro Baseggio: nè la facciata e la scala de’ Giganti sono del Bregno,
indicato dalla tradizione, se pur questo non era il soprannome del
Rizzo. Un’iscrizione infissa nella gran finestra del palazzo ducale,
che dà sul molo, porta:

    _Mille quadrigenti currebant quatuor anni_
    _Hoc opus illustris Michael dux Stellifer auxit._

Dunque già allora parte della facciata era costruita. Forse nel 1424,
additato da due cronache contemporanee, si fece la porzione che va
dalla tredicesima colonna fin alla porta della Carta. Ma come spiegare
la bellezza de’ capitelli, che li mostra posteriori al 1404? Il lavoro
continuò fino al settembre 1463, quando «fo saldado la raxon a maistro
Pantalon et a maistro Bartolamio tajapiera per el lavor del palazzo
a lor deliberado». Questo Bartolomeo Bon, autore dell’ammirata porta
della Carta nel 1439, è differente dal Buono, che diresse la fabbrica
delle Procuratie vecchie e il campanile di San Marco. Tutto ciò consta
da documenti recentemente scoperti. Il Morelli pubblicò _Notizia
d’opere di disegni nella prima metà del secolo XVI, esistenti in Padova
Cremona, Milano, Pavia, Bergamo, Crema e Venezia_ (Bassano 1800),
tratta da manoscritti di Apostolo Zeno, e con copiose annotazioni.
Meglio giovano i documenti che pubblicò il Cadorin ne’ _Pareri di XV
architetti sopra il palazzo ducale_. Vedi ZANOTTO, _Il palazzo ducale
illustrato_, 1854.

[65] Di costui trovo a Ravenna un altare e un sepolcro in San
Francesco, un san Marco in duomo del 1491.

[66] Il cardinale Zen nel 1501 testò lasciando cinquemila ducati,
perchè in San Marco gli si facesse la sepoltura di bronzo, altri
milleseicento per ornare la cappella, e duemila da investire in beni
stabili, del cui reddito vestir gentiluomini di casa Zen con mantello
nero ogni suo anniversario, e cinquecento per un paliotto broccato
con velluto e oro, da mettere quel giorno; al Sant’Antonio di Padova
ducati cinquemila per una cappella con messa quotidiana; al duomo
di Vicenza ducati cinquemila per una messa quotidiana e altre opere
pie; al San Marco di Venezia nove grandi vasi d’argento; ai poveri di
Venezia diecimila ducati; dodicimila per la fabbrica di San Fantino,
oltre minori legati; e dell’avanzo, consistente in oro, argento, gemme,
costituiva eredi Alessandro VI e la repubblica di Venezia.

[67] Alcuni bronzi della loggetta sono di Tiziano Aspetti, che altri
lodevolmente ne fuse a Bologna. Nella necessità della guerra turca,
la repubblica impose tassa su tutti, eccettuati Tiziano e Sansovino.
Francesco, costui figlio, lasciò una descrizione di Venezia. Il
Sansovino allevò Tommaso Lombardo da Lugano, buon architetto, mediocre
scrittore e cattivo cantore di Marfisa.

[68] Menzioneremo anche l’_Architettura_ di Antonio Labacco.

[69] Ha ventotto metri di corda, ventidue di larghezza, e sorge metri
sette sopra l’acqua media. Or ora l’abate Magrini, autore delle
_Memorie del Palladio_, raccolse dai documenti che quel ponte fu
architettato da Giovanni Aluise Bolchi, patrizio, di cui null’altro si
conosce.

[70] Vedi BASSI, _Dispareri in materia d’architettura e di
prospettiva_. 1572.

[71] Che i baluardi del Sanmicheli non fossero i primi è dimostrato dal
Promis nei Commenti al Martini, ii. 300. Attorno a Firenze già n’erano
nel 1526; a Urbino dopo il 1521; a Bari prima del 1524. Nell’assedio di
Rodi nel 1522, i baluardi già erano formati alla moderna per opera di
Basilio della Scala vicentino, ingegnere di Massimiliano I e Carlo V:
nel 1518, Carlo III di Savoja aggiunse baluardi siffatti al castello
sul monte di Nizza: nel 1518 Alberto Pio muniva così Carpi: e al modo
stesso furono bastionate Padova, Treviso, Ferrara ed altre.

[72] _La manière de fortifier villes, châteaux, et faire autres
lieux forts; mis en français par le seigneur de Beroil François de la
Treille_. Lione 1586. Vedi pure MAFFEI, _Verona illustrata_, part. III.
cap. 5.

[73] UGURGIERI, _Pompe sanesi_.

[74] CRASSO, _Elogi d’illustri capitani_.

[75] _Nuove invenzioni sopra il modo di navigare_. Roma 1595.

[76] _Arte militare terrestre e marittima secondo la ragione e l’uso
de’ più valorosi capitani antichi e moderni_. 1599.

[77] _Trattato delle acque_, Padova 1560.

[78] GAYE, _Carteggio d’artisti_, II. 364.

[79] Matteo Pasti, Giulio della Torre, il Pomedello, il Caroto; inoltre
Galeazzo e Girolamo Mondella, Nicolò Avvanzo, Giacomo Caralio, che
intagliarono anche pietre dure; Sperandio mantovano, Giovanni Boldù
veneziano, Francesco Francia bolognese, Vittorio Camelo veneziano.
Domenico di Paolo era valente per imitare le medaglie antiche, come
Lodovico Marmitta parmigiano. CICOGNARA, _Storia della scoltura_, lib.
V. c. 7.

[80] E dipinti li credeva Carlo V quando fu per la coronazione a
Bologna, e tratto lo stocco, ne distaccò alcune scheggie per chiarirsi.
Andò poi alla cella ove il frate lavorava; il quale, appena lui
entrato, richiuse l’uscio. L’imperatore gli disse che il suo compagno
era Alfonso duca di Ferrara; e il frate soggiunge ben conoscerlo, ma
nol voler ammettere alla sua officina perchè, traversando gli Stati di
lui, era stato costretto pagar dazio pei pochi ferri di suo mestiere.
L’imperatore lo chetò, e il duca concesse franchezza d’ogni pedaggio a
lui ed a’ suoi allievi.

[81] PASSERI, _Storia delle majoliche fatte in Pesaro_, 1857.

[82] Negli _Archives de l’art français_, per P. De Chennevières,
lib. II, leggesi l’_état des gages des ouvriers italiens employés
par Charles VIII_; dove, insieme con pittori e scultori, appajono
artigiani d’ogni sorta, falegnami, sartori, un giardiniere, profumieri,
ricamatori ecc.

[83] KLAPROTH, _Tableaux historiques_, pag. 274.

[84] CRISPO, _Vita del Sannazaro_.

[85] Per un saggio citeremo Matteo, _Ars dictatorum_; Tommaso
da Capua, _Summa dictaminis_; Maestro Punicio, id.; Bernardo da
Napoli, _Dictamina_; Pier delle Vigne, _Flores dictaminum, Summa
salutationum_; Guidone Fabio, _Summa dictaminis, Viridarium dictaminis,
Summa purperea_; e Buoncompagno, Teodoro da Niem, Ricardo da Pophi,
Giovanni retore, Giovanni di Garlando, che ciascuno fecero una _Summa
dictaminis_; Alberto di Morca, che fu poi papa Gregorio VIII, _Forma
dictandi quam Romæ notarios docuit_...

Sin dai primordj le lettere papali adottarono la forma e le formole
delle imperiali: ce ne restano fin del 614 che hanno attaccata la bolla
di piombo, sulla quale da un lato l’Α Ω, e dall’altro l’agnello, o il
buon pastore, o i santi Pietro e Paolo, e ben presto il nome medesimo
del papa, spesso in lettere greche. Si conservò l’uso del papiro fin
all’XI secolo. Talvolta i papi stessi scrivevano, più spesso i notaj e
scriniarj, e furono modelli di calligrafia.

Leone IX è il primo che nelle bolle di piombo adottò le lettere
numerali per distinguere i papi del medesimo nome. Vittore II vi fece
un personaggio che dal cielo riceveva una chiave, e sul rovescio una
città coll’iscrizione _Aurea Roma_. Alessandro II vi fece scendere dal
cielo il motto, _Quod nectes nectam, quod solves ipse resolvam_. Urbano
II pose la croce fra i due Apostoli, il che fu adottato da tutti i
successivi fino a Clemente VII.

Il nome de’ consoli è scritto nelle bolle fino al 546: quel degli
imperatori greci fin al 772. Adriano I, cessando di porre il nome
degl’imperatori d’Oriente, segna coll’anno del proprio pontificato: i
successivi v’aggiungono quel degl’imperatori d’Occidente, ma or sì,
or no. Fin a Urbano II il computo dell’indizione si riferisce alla
costantinopolitana, di poi alla romana che cominciava al 1º gennajo.
Non prima di Giovanni III compare l’anno dell’Incarnazione. Sol fino a
Urbano II è usata l’êra vulgare: ma Nicola II torna a valersene secondo
l’uso fiorentino, cioè cominciando al 25 di marzo, come divien comune
dopo Eugenio III. Nelle semplici lettere non mettono che l’anno del
pontificato.

[86] È piuttosto a dire vario; ma parmi bellissimo in questo elogio
di esso Giovio a Venezia: _Ea tempestate Veneti, et magnitudine opum,
et diuturnitate imperii, et rebus terra marique feliciter gestis,
summam auctoritatem obtinebant. Urbs eorum ampla atque magnifica,
mercaturæ et rei navalis studio a parvis initiis crevit. Sed ea propter
incredibilem situs munitionem, ante alias et beata et admirabilis
æstimatur, quod interfluentis Hadriæ paludibus cincta, nullisque ob
id opportuna hostium injuriis, veteres thesauros domestica in pace
cumulatos periculosis etiam temporibus conservavit. Nulli etenim
a terra aditus, intercedente quadraginta stadiorum pelago, nulli
penitus a mari ingressus propter cœca atque humilia vada, usu tantum
indigenis nota, aut ingruentium Barbarorum avaritiæ, aut magnis ab
alto classibus patuerunt. Veneti homines in universum consilio sunt
graves, severi in judiciis, et in adversa rerum fortuna constantes, in
altera nunquam immodici. Omnibus quum idem sit conservandæ libertatis
et augendi imperii incredibile studium, in senatu libere et sæpius
acerrime sententias dicunt; nec quemquam temere ex optimatibus, qui
vel insigni virtute, vel spiritu in gerendis rebus cæteris antecellat,
nimio plus crescere, vel collecta gratia potentem et clarum fieri
patiuntur. Quibus institutis, dum servitutis metu, aliena virtute
quam sua terrestri in bello uti longe utilius et tutius putant, togati
omnes per octingentos amplius annos rempublicam nullis fere intestinis
seditionibus exagitatam, administrarunt. Cæterum ipsa nobilitas totius
maritimi negotii et navalis disciplinæ munera naviter implet, exutisque
togis arma desumit._

[87] La prima opera che siasi stampata a Parigi, furono le epistole del
nostro Barziza, il 1469, e vi sono premessi de’ versi, che finiscono:

    _Primos ecce libros quos hæc industria finxit_
      _Francorum in terris, ædibus atque tuis_ (della Sorbona).
    _Michael Udalricus Martinusque magistri_
      _Hos impresserunt, ac facient alios._

[88] Così il Poliziano nell’orazione su Omero: _Primæ nobilitatis pueri
ita sincere attico sermone, ita facile expediteque loquuntur, ut non
deletæ jam Athenæ atque a Barbaris occupatæ, sed ipsæ sua sponte cum
proprio avulsæ solo, cumque omni, ut sic dixerim, sua supellectile
in florentinam urbem immigrasse, eique se totas penitus infudisse
videantur._

[89] Molti italiani cultori dell’arabo nel cinquecento sono ricordati
dal DE WETTE, _Orientalische Studien_, nell’Enciclopedia di Ersch e
Gruber. In questi tempi fu famoso il rabino Barbanella (Abarbinel)
portoghese, che, dopo esclusi gli Ebrei dalla penisola, venne alla
corte di Ferdinando I di Napoli, dal quale e da Alfonso II fu adoprato
in affari; all’invasione di Carlo VIII, seguì i reali a Messina, poi si
collocò a Monopoli in Puglia, occupandosi in commenti sui libri santi e
in combattere Aristotele. A nome del re di Portogallo andò a trattare
colla repubblica a Venezia, ove morì di settant’anni, e fu onorato
di splendidissime esequie. Accannito contro i Cristiani, da molti di
questi fu confutato. Di due suoi figli, uno si fece cristiano, l’altro,
Giuda, fu medico e poeta e scrisse dialoghi d’amore.

[90] Prefazione alla _Storia romana_. Citerò i lavori più celebri:
MANUZIO, _De legibus Romanorum_, 1558, _De civitate_, 1585; PANVINIO,
_De civitate romana interiore_; SIGONIO, _De jure civium romanorum_,
1560, _De jure Italiæ_, 1562, _De judiciis Romanorum_, 1574; PATRIZI,
_Della milizia romana_, 1583, che è il primo trattato di cose
guerresche; PANCIROLI, _Notitia dignitatum_ ecc. Potremmo aggiungere
Gian Pierio Valeriano, Lelio Giraldi, Celio Calcagnini, ecc.

[91] Alcune cose furono pubblicate dal Maj, vol. IX dello _Spicilegium
Romanum_, 1839; come anche alcune delle _Vite_ scritte dal Vespasiano.

[92] Il Sigonio avendo trovato frammenti del _De consolatione_ di
Cicerone, li supplì di suo, e passarono per opera tulliana, finchè il
Tiraboschi non trovò lettere, ove il Sigonio confessava l’inganno.

[93] Il dottor Maccaferri, che nell’_Irnerio_ studiò il genio
d’Alciato, lo riguarda come quello che chiuse le scuole della
giurisprudenza del medioevo; intrammezzò ed espresse il trapasso
dall’epoca di autorità a quella di libertà: sostituì al _credamus ut
intelligamus_, l’_intelligamus ut credamus_; eresse l’umana ragione
a supremo criterio di verità legale, ma non lo condusse tutte le
malefiche conseguenze, e ciò perchè fu genio che iniziò soltanto ma
non portò la riforma al suo compimento. Restituendo la primazia della
ragione individuale sulla opinione comune, sollevava la forza del
genio individuale, e toglieva dallo stato di torpore e di stazione la
giurisprudenza. Sostituendo la ragione libera ed intera alla dialettica
delle scuole di Bartolo, emancipava la scienza della legge positiva
dal formalismo scolastico, e poneva in suo luogo la filosofia, guidata
dalla logica naturale. Quindi attingeva il suo movimento scientifico
dal concetto supremo della giustizia assoluta, guardando alla quale, si
proponeva di migliorare il criterio oggettivo, dimenticato ed oscurato
dalla scuola di Bartolo, in causa delle sottigliezze dialettiche;
al qual fine si serviva delle notizie molteplici e indefinite, che
gli erano offerte dalla enciclopedia umana. Il genio d’Alciato fu
precursore dell’erudizione e della filosofia, dell’enciclopedia e del
sistema, applicati alla scienza del romano diritto, ed appartiene al
novero dei genj progressisti.

I titoli delle opere sue più studiate ne indicano l’importanza:
_De verborum obligationibus — De verborum significationibus — De
jurejurando — De pactis — De sacrosancta Ecclesia etc._

[94] La prima ch’io sappia è di Francesco Fortunio, _Regole
grammaticali della vulgar lingua_. Ancona 1516; ma vuolsi approfittasse
dell’opera d’egual titolo del Bembo, comparsa solo nel 1525, dopo che
dal 1521 erano uscite le _Vulgari eleganze_ di Nicolò Liburnio.

[95] _Avvertimenti della lingua_, II. 21.

[96] Proemio agli statuti dell’Accademia.

[97] Le continuarono anche dopo istituita la Crusca: e in quella datasi
il 17 settembre 1599 intervennero coi Cruscanti sei accademici Desiosi
e sei Alterati; e dopo un discorso dell’Impastato ch’era Michelangelo
Buonarroti il Giovane, si posero a tavola, il cui servizio è ricordato
ne’ Diarj; e verso la fine si servirono delle grandissime schiacciate,
che pareano di crusca, come quelle chiamate inferigne, ma realmente
erano di pistacchi e zucchero, e tutte divise in spicchi che non
apparivano. Nel pigliare ciascuno la sua porzione, vi trovava sotto
quattro versi in lode o satira sua.

La storia dell’Accademia della Crusca può leggersi in fronte al volume
I degli _Atti_ di questa, pubblicato nel 1819.

[98] È curioso a vedere come i Cruscanti lottino contro questa loro
convinzione, sacrificandola al pregiudizio universale e scolastico.
Il Magalotti, fiorentino e accademico, riconobbe colpa principale
del dizionario il volersi appoggiare all’autorità de’ classici. «Il
vocabolario della Crusca ha questo di particolare sopra quelli di
Francia, di Spagna, d’Inghilterra, che, laddove essi sono una sicura
guida nelle rispettive lingue, il nostro c’inganna addirittura delle
dieci volte le otto, e ciò perchè noi non siamo ancora tanto coraggiosi
d’approvar per buono, come gli altri popoli fanno, quello che di mano
in mano si parla, e NON ALTRO».

[99] «Io non saprei bene affermare, serenissimo principe (_il doge_)
quali sieno più, coloro che la potenza e la cupidità dell’imperadore
non conoscono, o coloro che, conoscendola, e grande e spaventevole
riputandola, stordiscono, o, come piccioli fanciulli desti la notte al
bujo, temendo forte, per soverchia paura sì taciono, e soccorso non
chiamano, quasi l’imperadore, come essi facciano zitto o motto, così
gli abbia a tranghiottire e divorare incontinente, e non prima...

«Che voglion dire tante vigilie, tanto dispendio, tanto travaglio, e
tante fatiche dell’imperadore? o a qual fine o a qual termine vanno,
altro che recare Italia e l’universo in sua forza, e la sua potenza e
la sua signoria dilatare, e distendere più là, che già i confini del
mondo non sono, come egli nelle sue bandiere scrive di voler fare?...

«E siamo certi che niun pensiero, niun atto, niun passo, niuna parola,
niun cenno dell’imperadore ad altro intende, nè altro opera, nè d’altro
ha cura di tôrre, o, come altri stimano, di ritôrre gli Stati, le terre
e le città de’ vicini e de’ lontani, e all’imperio o darle o renderle;
ed in ciò si consumano i suoi diletti e le sue consolazioni tutte.
Queste sono le sue caccie; questi gli uccelli, questo il ballare, e gli
odori, e il vagheggiare, e gli amori, e i carnali appetiti e delizie
sue...

«Ecco adunque, serenissimo principe, i misericordiosi e magnanimi gesti
dell’imperadore, i quali, coloro che di sua parte sono, in tanta gloria
gli attribuiscono: uccidere i re non nati ancora _anzi_ pure ancora non
conceputi o generati, nè da doversi concepire; e alle afflitte città,
che nelle braccia sue si gettano, ed a lui per alcun rifugio corrono,
mugnere il sangue, e gli spiriti suggere, e la vera libertà, onde essi
l’han fatto depositario e guardiano, rivendere, _anzi_ renderla loro
falsa, e contraffatta e di mal conio impressa...

«Ricordisi adunque la serenità vostra, che questa medesima lingua e
questa medesima penna, che artificiosamente v’alletta e adesca colla
sua falsità, Roma arse, e gli altari e le chiese e le santissime
reliquie ed il vicario di Cristo; _anzi_ pure il santissimo corpo
di sua divina maestà tradì e diede in preda alla barbarica ferita ed
all’eretica avarizia: perocchè la santa memoria di Clemente, fu con tre
false paci e non con alcuna real guerra vinto...

«E i suoi parentadi, quali e come fatti? Bruttarsi le mani nel sangue
dell’avolo de’ suoi nipoti, e il suocero di sua figliuola ucciso
gittare a’ cani, e la sua stessa progenie innocente cacciare di Stato,
sono le sue tenere e parentevoli carezze... Oh infelice, oh sfortunata,
oh travagliata, oh veramente ebbra e sonnacchiosa Italia!

«L’imperadore vuole abbattere e disertare santa Chiesa, e in ciò è
fermissimo e pertinace. Ed oltre a questo, non essendo a sua maestà
per tutto il tradimento di Piacenza cessata ancora l’ira nè avendo il
suo sdegno col sangue di quel misero duca satollo, la vita e lo spirito
di sua beatitudine appetisce, e vuole similmente il re cristianissimo
cacciare di Piemonte e di Francia, e distruggerlo ed ucciderlo; nè mai
da questo suo proponimento in alcuna maniera, nè per alcuno accidente
s’è potuto rimovere...»

Egli stesso, nell’orazione a Venezia _per la Lega_, descrive la
monarchia: — Certo sono, serenissimo principe, che la serenità vostra
non vide mai questa pessima e crudelissima fiera, nè di vederla ha
desio: ma ella è superba in vista, e negli atti crudele, ed il morso
ha ingordo e tenace, e le mani ha rapaci e sanguinose; ed essendo il
suo intendimento di comandare, di sforzare, di uccidere, di occupare,
di rapire, conviene ch’ella sia amica del ferro e della violenza e del
sangue: alla quale sua intenzione recare a fine, ella chiama in ajuto
(perocchè invano a sì crudele ufficio altri chiamerebbe) gli eserciti
di barbare genti e senza leggi, l’armata de’ corsali, la crudeltà, la
bugia, il tradimento e l’eresia, lo scisma, le invidie, le minaccie
e lo spavento; ed oltre a ciò le false ed infide amicizie, e le paci
simulate, ed i crudeli parentadi, e le pestifere infinite lusinghe.
Tale, serenissimo principe, è l’orribile aspetto; tali sono i modi ed i
costumi e gli arredi della crudel monarchia, quali divisato e figurato
gli ho: nè altra effigie, nè altro animo, nè altra compagnia potrebbe
avere sì dispietato e sì rabbioso mostro; poichè ella il sangue e la
libertà e la vita di ognuno appetisce e divora».

[100] «E quantunque assai chiaro indizio possa essere a ciascuno che
quest’opera (l’occupazione di Piacenza) è giusta, perchè ella è vostra
e da voi operata...»

[101] _Delle orazioni scritte da molti uomini illustri de’ nostri
tempi_, raccolte da Francesco Sansovino; Venezia 1661: e spesso
ristampate con cambiamenti.

[102] Trajano Boccalini, negli spiritosi suoi _Ragguagli del Parnaso_,
introduce uno Spartano, che, per aver detto in tre parole ciò che
poteva in due, è condannato a leggere il Guicciardini: scorsene alcune
pagine, va e implora piuttosto le galere che quel supplizio. Vaglia
d’esempio questo periodo, che pure è dei discreti, e che riferisco
anche per le molte e belle e ben dette sentenze: — Queste cose dette
in sostanzia dal cardinale (di san Pietro in vincola), ma secondo la
sua natura più con sensi efficaci e con gesti impetuosi ed accesi, che
con ornato di parole, commossero tanto l’animo de’ re, che non uditi
più se non quegli che lo confortavano alla guerra, partì il medesimo
dì da Vienna, accompagnato da tutti i signori capitani del reame di
Francia, eccetto il duca di Borbone, al quale commesse in luogo suo
l’amministrazione di tutto il regno, e l’ammiraglio, e pochi altri,
deputati al governo ed alla guardia delle provincie più importanti;
e passando in Italia per la montagna di Monginevra, molto più agevole
a passare che quella di Monsanese, e per la quale passò anticamente,
ma con incredibile difficoltà, Annibale cartaginese, entrò in Asti
il dì nono di settembre dell’anno mille quattrocentonovantaquattro,
conducendo seco in Italia i semi d’innumerabili calamità e
d’orribilissimi accidenti e variazioni di quasi tutte le cose,
perchè dalla passata sua non solo ebbero principio mutazioni di
Stati, sovversione di regni, desolazioni di paesi, eccidj di città,
crudelissime uccisioni, ma eziandio nuovi abiti, nuovi costumi, nuovi
e sanguinosi modi di guerreggiare, infermità in sino a quel dì non
conosciute, e si disordinarono di maniera gl’instrumenti della quiete
e concordia italiana, che non si essendo mai potuti raccordare,
hanno avuto facoltà altre nazioni straniere ed eserciti barbari di
conculcarla miserabilmente e devastarla; e per maggiore infelicità,
acciocchè per il valore del vincitore non si diminuissero le nostre
vergogne, quello, per la venuta del quale si causarono tanti mali, se
bene dotato sì ampiamente de’ beni della fortuna, era spogliato quasi
di tutte le doti della natura e dell’animo, perchè certo è che Carlo
insino da puerizia fu di complessione molto debole e di corpo non sano,
di statura piccolo e d’aspetto (se tu gli levi il vigore e la dignità
de gli occhi) bruttissimo, e l’altre membra sproporzionate, in modo
che pareva quasi più simile a mostro che a uomo, nè solo senza alcuna
notizia delle buone arti, ma appena gli furono cogniti i caratteri
delle lettere; animo cupido d’imperare, ma abile più ad ogni altra
cosa, perchè aggirato sempre da’ suoi, non riteneva con loro nè maestà
nè autorità; alieno da tutte le fatiche e faccende, ed in quelle, alle
quali pure attendeva, povero di prudenza e di giudizio; se pure alcuna
cosa pareva in lui degna di laude, risguardata intrinsecamente, era
più lontana dalla virtù che dal vizio; inclinazione alla gloria, ma
più presto con impeto che con consiglio; liberalità, ma inconsiderata
e senza misura o distinzione; immutabile talvolta nelle deliberazioni,
ma spesso più ostinazione mal fondata che costanza; e quello che molti
chiamavano bontà, merita più convenientemente nome di freddezza e di
remissione d’animo».

[103] Lo _Scisma d’Inghilterra_ del Davanzati è traduzione o compendio
di Nicolò Saunders, illanguidito dal passare in silenzio la parte
politica; pure è savio il giudizio che, sul fine, dà intorno ad Enrico
VIII.

[104] Il Napione, ne’ _Piemontesi illustri_, ha coraggio di lodare
l’armonica brevità de’ costui periodi, la rapidità della narrazione e
la nativa semplicità.

[105] È pur notevole che la prima traduzione dell’_Eneide_ in francese
è d’un anonimo del 1483, oggi illeggibile, mentre noi leggiamo i _Fatti
di Enea_, anteriori di due secoli. Lemaire de Belges, che viaggiò
in Italia nel 1508 e 9, scrisse la _Concorde de deux langages_, ove
disputa sulla preminenza tra il francese e l’italiano, e concede la
superiorità di questo nel tempio d’Amore, ma l’eguaglianza nel tempio
di Minerva. Or bene, egli non può opporre a Dante che Jean de Meung,
autore del _Romanzo della Rosa_, e a Boccaccio e Petrarca, Crétin
e Meschinot; autori ignoti fino ai più eruditi francesi, mentre noi
leggiamo tuttodì que’ nostri.

[106] Nota al lib. I. c. 9, _Politic._

[107] Fu edito nello _Spicilegium_ del Maj.

[108] _Lettere_, nell’edizione de’ Classici, tom. III. c. 218.

[109] — Di grazia, signor Bernardo, quando vi scrivo da qui innanzi,
stracciate le lettere, chè io non ho tempo di scrivere quasi a persona,
non che di fare ogni lettera col compasso in mano; e questi furbi
libraj stampano ogni scempiezza. Fatelo, se volete ch’io vi scriva alle
volte: altramente mi protesto che non vi scriverò mai. Dico questo
in collera, perchè adesso ho visto andare in processione alcune mie
letteraccie, che me ne sono vergognato fin dentro l’anima».

[110]

    Te sola amo e te solo amare, Lisetta, desio,
      Che sol tra l’altre degna d’amor mi pari.
    Giusto guiderdone deh rendimi dunque, Lisetta,
      E come te sol amo, pregoti me sol ama.

[111] Giammaria Barbieri di Modena stette molti anni in Francia per
istudiare i poeti provenzali, dai quali esso induceva l’origine della
poesia italiana; ricco di cognizioni e di manoscritti tornò in patria,
e chiese la collaborazione del Castelvetro; ma morì, non lasciando
compiuto che un trattato sull’origine della poesia rimata.

[112] Quando gli stranieri irrompevano contro Pavia, fece una canzone,
ove dice:

    Eran tutta la turba di Guascogna
      I vil fanti di Francia anime ladre
      Contro l’alma Pavia giurati insieme
      Co’ pastor di Lamagna e mille squadre
      D’altri Tedeschi: ed oh nostra vergogna!
      Con loro Italia preme.
      Bastarda Italia, ahi che il cor m’arde, e teme
      D’accoglier tutto a un tempo un sì gran fascio;
      Questo in disparte or lascio,
      Chè ’l primo carco pur troppo mi pesa, ecc.
    Tutte accampate son le schiere inique;
      Come le rive, il Barco arme risuona,
      Già son piantati i fulmini infernali.

[113] Novantasei opere del Sansovino cataloga il Cicogna, _Iscrizioni
venete_, tom. IV. p. 40.

[114] Se altro mancasse, citerei l’Oliviero e l’Orlando colla durindana
in pugno, scolpiti sulla facciata di San Zeno a Verona.

[115]

    Io ti rispondo: era così permesso,
    Era nato costui per ingannarlo,
    E convenìa che gli credesse Carlo.
                              Cap. XXVIII. 15.

[116]

    _Hoc olim ingenio vitales hausimus auras,_
      _Multa cito ut placeant, displicitura brevi._
    _Non in amore modo mens hæc, sed in omnibus impar_
      _Ipsa sibi, longa non retinenda mora._
                                Carmina, lib. II.

[117] Nel III. 25, Melissa predice che da Ruggero nascerà un fanciullo,
il quale sarà in ajuto di Carlo contro i Longobardi.

[118] V’è una fontana _bella e ben intesa_, fatta come un padiglione
ottagono, _coperta_ da un cielo d’oro _colorito_ di smalti, e sostenuto
col braccio manco da otto statue, ognuna delle quali nella destra ha
un corno d’Amaltea da cui versa acqua; poi pilastri in forma di donne,
che fermano ciascuna il piede sugli omeri di due immagini, con la bocca
aperta, e con lunghe ed amplissime scritture in mano.

[119] Un’_Allegoria sopra il Furioso_ fu stampata nel 1584 da Giuseppe
Bonanome, dedicandola al cavalier Bonifazio Agliardi bergamasco, «che
in sostegno della patria era stato un Sobrino, un Nestore, un saggio
senatore, senza mancargli punto di consiglio ne’ turbolentissimi
tempi, e adoperandosi sempre con sommo studio e fatica e come privata e
pubblica persona».

[120] L’Ariosto diede il suo poema da correggere ad Annibale Richi
senese, capitano: e il Muzio fa le grosse meraviglie che si valesse
«d’un soldato senese che di lingua toscana sapeva quanto egli ne aveva
appreso dalla mamma». Questa condizione, per chi non sia un pedante, è
appunto la meglio opportuna a diligenze di tal genere.

[121] Non è mio costume domandar perdono della verità. Ma voglio
dire come, fa alquanti anni, credetti dover mio avvisare altamente i
padri e i maestri del danno a cui esponevano la gioventù col darle in
mano questo scrittore, che fra’ nostri è il più pericoloso perchè il
più bello. Mi si levò ’ncontro la sfuriata de’ pedanti vecchi e de’
nuovi, e fu chi, a nome dell’Italia, mi sfidava a disdire o a provare
l’ingiuria fatta al gran poeta. Miserabili! Inchinatevi agl’idoli
del bello; ornate di balocchi i sonni e le orgie della vostra patria.
Noi sentiamo nelle lettere una vocazione, un sacerdozio; noi abbiam
bisogno, abbiamo dovere di ammonir la gioventù, e di avvezzarla a
torcere dal bello, quando nemico del buono.

[122]

    Qui tra servi d’amor s’annulla e sprezza
      Nobiltà d’alma, lealtade e fede,
      Quanto gemme e tesor s’onora e prezza.
    Ben vi so dir che qui negletto siede
      Parnaso, e i lauri, e che all’argento e all’oro
      Febo, Vener, Minerva e Marte cede;
    Qui non bisogna ordir sottil lavoro
      Per adempir le sue bramose voglie,
      Chè ricchezze mostrar basta con loro.

[123] Gli furono pagate ducento scudi romani.

[124] A lei scriveva tra le altre belle cose: — Non fate come per
avventura fare a Torquato vostro alcune volte avete visto, che sendogli
tolto un pomo o alcun altro frutto per forza, tutti gli altri che si
ritrovava in mano per dispetto ha in terra gettati; volendo voi per
questo fuggire e gettar via ogni specie di consolazione e di piacere».

[125] Lettera 4 maggio a Girolamo Ruscelli: — Non dubito che lo
scrittore di questa leggiadra e vaga invenzione l’ha in parte cavata
da qualche istoria di Bretagna, e poi abbellitala e ridottala a quella
vaghezza che il mondo così diletta; e nel dare quel nome della patria
ad Amadigi, tengo per fermo che abbia errato, non per dare quella
reputazione alla Francia, ma per non aver inteso quel vocabolo Gaula,
il quale nella lingua inglese vuol dir Gallia. Nè io per altro (se non
m’inganno) credo che il primogenito del serenissimo re d’Inghilterra
si faccia principe di Gaula nominare, che per le ragioni che detto
re pretende d’avere sopra il regno di Francia. E che sia vero che
l’autore si sia ingannato nell’interpretazione, o meglio dir traduzione
di quella parola Gaula, e che chi prima scrisse questa istoria
volesse intender della Francia, vedete nel II libro al cap. 20, dove
Gaudanello, invidioso della gloria e grandezza d’Amadigi, dice al
re Lisuarto queste parole: — Già sapete, signore, come gran tempo fu
discordia fra questo regno della gran Bretagna e quel di Gaula, perchè
di ragione quello deve essere a questo soggetto, come tutti gli altri
vicini vi sono, e ci conoscono voi per superiore». Dalle quali parole
si può agevolmente conghietturare, che costui non volesse intendere
d’altro regno che di quello di Francia. Ma perchè potrei facilmente in
questa come in molte altre cose ingannarmi per non aver pratica nelle
cose d’Inghilterra più che tanto, vi supplico che, avendo comodità,
o dall’ambasciadore d’Inghilterra o da altri che più di questo
particolare vi possino dar notizie, d’informarvene, me ne scriviate».

[126] E non il Rucellaj; il quale nella dedica delle _Api_ gli scrive:
— Voi foste il primo che questo modo di scrivere in versi materni
liberi dalle rime poneste in luce».

[127]

    Io son pur giunto al desiato fine
      Del faticoso e lungo mio poema,
      Che fatto è tal che non avrà più tema
      Di tempo e guerre, o d’altre empie ruine;
      Anzi di poi che al natural confine
      Giungerà l’alma, e dopo l’ora estrema,
      Spera aver laudi ancor quasi divine.

[128]

    Sia maledetta l’ora e il giorno, quando
    Presi la penna, e non cantai d’Orlando.

[129] Nella dedica delle _Lettere facete e piacevoli di diversi grandi
uomini et chiari ingegni_. Venezia 1565.

[130]

                 Viveva allegramente
    Nè mai troppo pensoso o tristo stava...
    Era faceto, e capitoli a mente
    D’orinali e d’anguille recitava...
    Onde il suo sommo bene era il giacere
    Nudo, lungo disteso; e il suo diletto
    Era non far mai nulla e starsi a letto.

[131]

    O poveri infelici cortigiani,
      Usciti dalle man de’ Fiorentini
      E dati in preda a Tedeschi e marrani,
    Che credete che importin quegli uncini
      Che porta per impresa quest’Arlotto,
      Figliol d’un cimador di pannilini?

[132]

    Empio signor, che della roba altrui
      Lieto ti vai godendo e del sudore,
      Venir ti possa un canchero nel core
      Che ti porti di peso a’ regni bui.
    E venir possa un canchero a colui
      Che di quella città ti fe signore;
      E s’egli è altri che ti dia favore,
      Possa venir un canchero anche a lui.

[133]

    Come m’insegna la natura e mostra,
    Così scrivo senz’arte, e così parlo.

[134] Ma prima di lui Giovan Giorgio Arione d’Asti avea pubblicato
_Opera jocunda metro maccheronico materno et gallico composita_, con
lodi a Carlo VIII e Luigi XII. Nelle sue commedie costui ritrasse
troppo al vivo la depravazione de’ nobili e del clero, onde dovette
ritrattarsi, e i suoi libri furono arsi dal Sant’Uffizio.

[135]

    Di salnitro e di solfo oscura polve
      Chiude altri in ferro cavo, e poi la tocca
      Dietro col foco, e in foco la risolve,
      Onde fragoroso suon subito scocca,
      Scocca e lampeggia, ed una palla volve,
      Al cui scontro ogni duro arde e trabocca:
      Crudel saetta che imitar s’attenta
      L’arme che il sommo Dio dal ciel avventa.

[136] Di se stessa cantava:

    Un sol dardo pungente il petto offese
      Sì ch’ei riserba la piaga immortale
      Per schermo contro ogni amoroso impaccio.
    Amor le faci spense ove le accese,
      L’arco spezzò nell’avventar d’un strale,
      Sciolse ogni nodo all’annodar d’un laccio.

Nel 1558 si stampò un _Tempio alla divina signora Giovanna d’Aragona_,
poetessa, moglie di Ascanio Colonna. Laura Battiferri, figliuola
naturale d’un Urbinate e moglie dello scultore Ammanato, fece poesie,
la più parte sacre, ed ebbe gran lodi da Bernardo Tasso, da Annibal
Caro, da Benedetto Varchi. Isotta Brembati bergamasca fu poetessa
lodatissima; sapeva latino e francese; in spagnuolo potè trattare
affari proprj nel senato di Milano. Lucia Bertani genovese univa alla
bellezza virtuosa il talento del poetare, e molto s’industriò per
rappacificare il Castelvetro col Caro. Giulia Rigolini padovana scrisse
in lode dell’Aretino, che la ripagò d’encomj; e fra i molti che la
encomiarono, lo Scardeoni dice che compose rime e novelle al modo del
Boccaccio _insigni argumento, artificio mirabili, eventu vario et exitu
inexpectato_. Ersilia Cortese del Monte, nipote del cardinal Gregorio
Cortese e moglie d’un nipote di Giulio III, fu lodata assai pe’
suoi versi, ma più per la virile virtù, con cui nello stato vedovile
perseverò contro i tanti che vagheggiavano i meriti di lei o forse
le signorie di cui l’avea dotata papa Giulio. Suor Lorenza Strozzi,
domenicana di Firenze, scrisse centoquattro canti latini, più volte
stampati e messi in musica, e che si cantavano per le chiese. Ponno
aggiungersi Isabella d’Este, Argentina Pallavicino, Bianca e Lucrezia
Rangone, Francesca Trivulzio, Maria di Cardona, Malvezzi, Angiola
Sirena, Claudia della Rovere, Laura Terracina, le lucchesi Silvia
Bandinelli e Clara Matriani, ecc. Vedansi CHIESA, _Teatro delle donne
letterate_; LUISA BERGALLI, _Raccolta delle più illustri rimatrici
d’ogni secolo_; conte LEOPOLDO FERRI, _Le donne letterate_.

[137] A Parma nel 1414 si diè nella cattedrale una rappresentazione
dei tre re Magi: nel 1481 la storia di Abramo ed Isacco, probabilmente
quella di Feo Belcari. PEZZANA, _ad annum_.

[138] SANSOVINO, _Venetia città nobilissima e singolare_; colle giunte
dello STRINGA.

[139] O nelle lettere di Isabella d’Este al marito Francesco Gonzaga,
edite nell’_Archivio storico_.

[140] _Biografia universale_; traduzione veneta, in Plauto.

[141] Il Campi scrive che Francesco Affaitati, ricchissimo e nobile
cremonese, fu della Compagnia della Calza, «la quale è solita di farsi
alle volte con tal splendore, che i primi principi d’Europa si recavano
a grandissimo onore l’esservi o ricevuti o invitati».

De’ grandiosi apparati che accompagnavano la recita delle commedie è
prova una lettera del Vasari a Ottaviano de’ Medici, a proposito delle
grandi pitture ch’ei fece quando l’_Atalanta_ dell’Aretino fu recitata
dai Sempiterni in Venezia. Ancor più magnifici descrive gl’intermezzi
pel matrimonio del granduca Francesco con Giovanna d’Austria.

[142] Lettere di C. Castiglioni.

[143] Di una particolare favola scenica di Aurelio Vergerio parla così
il Muzio nell’_Arte poetica_:

    Il mio Vergerio già felicemente
    Con una sola favola due notti
    Tenne lo spettator più volte intento.
    Chiudean cinque e cinque atti gli accidenti
    Di due giornate; e ’l quinto, ch’era in prima,
    Poi ch’avea ’l caso e gli animi sospesi,
    Chiudeva la scena ed ammorzava i lumi.
    Il popolo, infiammato dal diletto,
    Ne stava il giorno che veniva appresso,
    Bramando ’l fuoco de’ secondi torchi;
    Quindi correa la calca a tutti i seggi,
    Vaga del fine, ed a pena soffriva
    D’aspettar ch’altri ne levasse i velti.

[144] Sin dal 1502 era conosciuta una _Sinfonisba_ in ottave di
Galeotto Del Carretto da Casal Monferrato, autor di commedie in versi e
d’una cronaca del Monferrato. Vedi _Monum. Hist. patriæ_.

[145] Ancor manoscritta fu criticata e sostenuta calorosamente, ed egli
la difese con cinque lezioni, donde botte e risposte clamorose.

[146] Non 1508, come in Tiraboschi.

[147] Vedi principalmente il prologo alla _Strega_ che è recitato dal
Prologo e dall’Argomento.

[148] SANSOVINO, lib. X. p. 450.

[149] Fra questi pantomimi merita ricordo la famiglia Grimaldi,
che si trapiantò in Inghilterra, e da cui uscì il famoso clown
Giuseppe Grimaldi, morto nel 1857, e che scrisse le proprie memorie,
all’edizione delle quali assistette lo spiritoso romanziere Dickens.

[150] Molière copiò molto dal _Candellajo_ di Giovanni Bruno,
dall’_Assiuolo_ di Gianmaria Cecchi, dai _Suppositi_ dell’Ariosto,
dall’_Emilia_ di Luigi Grotto, dalla _Trinuzia_ del Firenzuola.

Nella Memoria, premiata dall’Accademia francese il 1852 intorno
all’_Influenza dell’Italia sulle lettere francesi_, Rathery scrive:
_C’est par le côté régulier que le théâtre italien a dû plaire à
l’école de Ronsard et de Dubelloy. C’est là que Lazare de Baïf, Thomas
Sebilet, Jodelle et Garnier puisèrent leurs imitations de sujets
grecs..... Pour compléter la ressemblance, il y eut aussi chez nous, à
côté de cette école classique, une autre veine comique plus franche,
et qui, bien que représentée par un auteur italien d’origine, peut
passer pour la chaîne qui relie à Molière nos vieux gabeurs français.
Pierre de Larivey _(L’Arrivato)_ était fils d’un des Giunti, cette
famille d’imprimeurs florentins ou vénitiens, venu à Troyes à la suite
d’artistes ou de banquiers du même pays. Son théâtre se compose de
traductions ou d’imitations d’italien, non pas de pièces régulières,
mais des _imbroglio_, improvisades, _commedie dell’arte_, parade de
la foire: en un mot, de tout ce répertoire anonyme et non imprimè,
qui subsista de tout temps en Italie à côtè du théâtre classique. Tel
est le fond qui, chez Larivey, s’échauffe de la verve gauloise, et
s’assaisonne du sel champenois._

[151] Milano 1496. È il primo libro ove s’imprimessero note musicali,
con caratteri di legno.

[152] CRISTOFORO LANDINO nel commento di Dante.

[153] Almeno l’opera più antica ch’io conosca è l’_Orbecche_, tragedia
di Cintio Giraldi, rappresentata in Ferrara in casa dell’autore il
1541, dinanzi ad Ercole II d’Este, quarto duca di Ferrara; fece la
musica Alfonso della Viola; fu architetto e dipintore Girolamo Carpi
ferrarese.

[154] A quest’ultimo il Grillo scriveva: — Ella è padre di nuova
maniera di musica, o piuttosto di un cantar senza canto, di un cantar
recitativo, nobile e non popolare, che non tronca, non mangia, non
toglie la vita alle parole, non l’affetto: anzi glielo accresce
raddoppiando il loro spirito e forza. È dunque invenzione sua questa
bellissima maniera di canto, o forse ella è nuovo ritrovatore di quella
forma antica, perduta già tanto tempo fa nel vario costume d’infinite
genti, e sepolta nell’antica caligine di tanti secoli. Il che mi si
va più confermando dopo l’essersi recitata sotto cotal sua maniera
la bella pastorale del signor Ottavio Rinuccini, nella quale, coloro
che stimano nella poesia drammatica e rappresentativa il coro essere
ozioso, possono benissimo chiarirsi a che se ne servivano gli antichi,
e di quanto rilievo sia in simili componimenti».

[155] TIRABOSCHI, vol. XII. pag. 1560.

[156] GIRALDI, _Discorsi di varie considerazioni di poesia_, p. 78;
CRESCIMBENI, _Storia della poesia_, tom. I. p. 361.

[157] Morì intendente delle finanze di Francia nel 1575 a ottantasei
anni, e lasciò la più ricca collezione di libri e di medaglie che fosse
colà.

[158] ARETINO, _Lettere_, tom. I, p. 205. — Sono della più stupenda
gonfiezza le lodi che l’Alunno dà a se stesso per l’abilità
calligrafica. Della quale ebbe gloria anche il patrizio milanese
Gianfrancesco Cresci, che superò il napoletano Giambattista Palatino,
inventò la scrittura cancelleresca, stampò opere e modelli, e fu a
servizio di Pio V e del cardinale Federico Borromeo.

[159] CONDIVI, _Vita di Michelangelo_, § LVII.

[160] Da un quadro dell’Università romana nel 1514 si raccoglie che
mastro Luca di Borgo avea cenventi fiorini l’anno per insegnare le
matematiche; Guarino, trecento pel greco; Angelo di Siena medico,
cinquecentotrenta; Scipione Lancelloti pur medico, cinquecento; in ogni
rione di Roma v’era un maestro di grammatica a cinquanta fiorini. I
corsi cominciavano il 3 novembre; faceasi lezione mattina e sera, ed
anche i giorni festivi. V’erano sei professori di retorica, undici di
diritto canonico, venti di diritto civile, quindici di medicina, cinque
di filosofia morale.

[161] Gian Bologna ad essi scriveva ora, al dir suo, _philosofesco_,
ora _a lo escoultoresco_, ma sempre barbaramente; e per es.: — O
ricevuto duo suo amorevola alquanto don medesimo tenore, el quale
infinitamente ringratia vostra signoria del bona offitio aver fatta
apresa a sua Altezza serenissima per conto di quele giovano di
Sachognia ecc.».

[162] _Promisit duci... annis singulis una vel iterata vice dare,
præsentare, tradere duos libros qui sint jucundæ et delectabilis
lectionis pro captu animi ejus excellentiæ, in hoc satis noti ipsi
feudatario, sub pœna dupli sólemni stipulatione promissa._ Ap.
TIRABOSCHI. Doveano essere libri suoi o d’altri?

[163] Del duca d’Urbino l’Atanagi scriveva:

    Anime belle e di virtude amiche,
      Cui fero sdegno di fortuna offende,
      Sì che ven gite povere e mendiche
      Come a lei piace che pietà contende,
      Se di por fine alle miserie antiche
      Caldo desio l’afflitto cor v’accende,
      Ratte correte alla gran Quercia d’oro,
      Onde avrete alimento, ombra, ristoro.

[164] Ce li conservò l’Aretino, e riduconsi a un bisticcio:

    Quel generasti di cui concepisti,
      Portasti quel di cui fosti fattura,
      E di te nacque quel di cui nascesti.

[165] CAMPI, _Storia di Cremona_, al 1571.

[166]

    Finchè me ne rimembre, esser non puote
      Che di promesse altrui mai più mi fidi.
    La sciocca speme a le contrade ignote
      Salì del ciel quel dì che ’l pastor santo
      La man mi strinse e mi baciò le gote. (_Satire_).

Nel Ginguené il bene che Leon X fece alle lettere _est si incontestable
et si grand, qu’il couvre toutes ses fautes_; pt. II, c. 1. Di Clemente
VII dice: _Cette tête si forte ou du moins si ténace!_

[167]

    Opra che in esaltarlo abbia composta
      Non vuol che ad acquistar mercè sia buona;
      Di mercè degno è l’ir correndo in posta...
    S’io l’ho con laude ne’ miei versi messo,
      Dice ch’io l’ho fatto a piacere e in ozio;
      Più grato fora essergli stato appresso. (_Satire_).

«È una baja che fosse coronato» dice dell’Ariosto Virginio suo
figlio. Jacopo Nardi nel prologo della _Commedia d’Amicizia_ chiede
compatimento sul poco merito di questa, giacchè non v’è oggi chi
pareggi «gli antichi esempj de’ poetici ingegni»:

    Ma sia chi a me insegni
    In questa nostra etate
    Augusto o Mecenate,
    Il qual conforti e sproni,
    Porga sussidj e doni
    Agli animi gentili,
    I qual diventan vili
    Vedendosi negletti,
    Conculcati ed abjetti,
    E senza alcuno onore.
    Chi a virtù porti onore
    Non trovo di mille uno,
    Benchè benigno alcuno
    E grato esser conosco.

[168] Il Tiziano scrive a Carlo V: — Restami di supplicare l’Altezza
di vostra maestà di concedermi grazia che la provvisione mia sopra la
camera di Milano di scudi duecento, di cui non ho mai ricevuto cosa
alcuna, e così delle tratte delle trecento carra di grano del regno
di Napoli, e della pensione della naturalezza di Spagna di scudi
cinquecento per mio figliuolo, abbino ormai quella espedizione che si
ricerca alla cortesia di vostra maestà e alli bisogni del servo suo
poter soddisfare con la sua liberalità alla dote di mia figlia».

E più tardi a Filippo II, mandandogli la Cena, scrive ancora: — Se è
stata giammai grata in qualche parte la mia lunghissima servitù, ella
si degni di compiacersi ch’io non sia più tanto lungamente tormentato
da’ suoi ministri in riscuotere le mie provvisioni, acciocchè io
possa più tranquillamente vivere questi pochi giorni che mi restano...
senza spenderne la maggior parte, come mi convien fare al presente,
in iscrivere or qua or là a diversi suoi negoziatori, non senza mio
gravissimo dispendio, e quasi sempre indarno per avere quel poco denaro
che posso appena trarre dopo molto tempo».

[169] Decreto del senato 29 agosto 1560.

[170] Sono sei mesi passati ch’io diedi una mia canzone indirizzata
all’eccellenza vostra, al suo segretario in Venezia, a fine che gliela
facesse capitar nelle mani, come mi promise di fare, e come il dovere
vorrebbe che avesse fatto. Non ho avuto fino al dì d’oggi alcuna
risposta nè da lei in iscritto, nè dal suo segretario, nè in alcun
altro modo; mi pare impossibile, se l’avesse avuta, che non m’avesse
almeno renduto canzon per canzone, come pare che da un tempo in qua
si sia cominciato ad usare... Nel caso dunque che detta mia canzone
non le sia pervenuta, io la prego che faccia che don Silvano gliela
presti, e la legga, che non dubito di avere quella cortese risposta che
si conviene alla sua grandezza. Che don Silvano n’abbia copia ne sono
sicuro, perchè non solo mi rispose d’averla avuta, e me ne ringraziò
con parole, ma in ricompenso mi mandò un ricco presente di lavori di
tele sottilissime, non da frati, ma da papi, e di tal valore, che se i
principi, a’ quali ho scritto, mi avessero presentato a proporzione a
quel modo, io mi troverei aver più tele e più lavori nelle casse, che
versi in istampa... Torno a dire che vostra eccellenza parli un poco
con don Silvano, che mi conosce, e, al modo suo di procedere, mostra
aver giudizio e conoscere il buono; e mi perdoni se per risentirmi
contro un disprezzo, che mi pare patire a torto, sono uscito alquanto
dei termini; che non resta per questo ch’io non le sia quel devotissimo
servitore che dicono i miei versi, ai quali riportandomi farò fine,
pregando a lei ogni felicità, ed aspettando a me risposta da duca e non
da sofista. Di Venezia il dì 22 maggio di 1563». È pubblicata dal Gamba
nelle _Memorie dell’Ateneo veneto_, ed è lunghissima.

[171] _Lettere_, pag. 19. E a messer Girolamo Anglerio a Pisa, la
vigilia di carnevale 1522, scrive: — Vorrei bene che (il cardinale di
Tornone) mi raccomandasse al signor cardinale di Guisa, che facesse
che il vescovo di Tul fosse uomo da bene, con pagarmi la pensione per
l’anima del magnanimo re Francesco e per la felicità del generosissimo
re Enrico, li quali sono stati finquì onoratamente celebrati da me...
Se vi venisse fatto di parlare al signor cardinale Montepulciano,
vogliate pregarlo si degni nelle sue lettere al signor cardinale Poggio
di ricordargli la promessa opera circa il farmi pagare la pensione di
Pamplona. E perchè il denaro _est hodie sanguis secundus_, pregate un
poco il signor cardinale Maffeo che mi renda agevole il signor Bozzuto
con esortare ancora _lippomaniter_ il signor Francesco Corona a voler
essere galantuomo, e non troppo riservato _erga veteres servitores
lippomanæ domus_».

[172] _Archivio storico_, appendice, vol. II. 322.

[173] _Historia_, lib. XII e XXI.

[174] Dedica delle Epigrafie.

[175] «Dammi la cetra omai, musa gentile»; così comincia egli, e _ab
uno disce omnes_.

[176] NICERON, _Memorie_, tom. XXI, p. 115.

[177] — Io certamente per essere di me sparsa opinione che alquanto ne
partecipassi (della pazzia), so bene quanta comodità e quanti vantaggi
n’ho riportato: altri di me si rideva, ed io lor tacitamente uccellava;
e godendo de’ privilegi pazzeschi, sedeva quando altrui, che ben
forbito si teneva, stavasi ritto; coprivami quando altri stava a capo
ignudo; e saporitamente dormiva quando altri non senza gran molestia
vegliava». LANDI, _Parad._ 5 del lib. I.

[178] Prologo dell’_Orazia_.

[179] Scriveva a madonna Lucietta Saracina: — Per non sapere con qual
sorta di gratitudine ricompensare i saluti che mi mandate per bocca
del di voi signor Gasparo senza menda e senza inganno consorte, mi è
parso di mio uffizio e di mio debito il commettere con i prieghi ad
Alessandro Vittoria che, subito costì giunto in Vicenza, l’idea del
volto vostro rassempli».

[180] Al cardinale di Mantova scrive: — Io mi credo che oggi mai si
sappia con che sorte siano in grado le mie composizioni, massimamente
quelle che si fanno temere; e chi mancasse di tal notizia, può
domandare il caso del Brocardo, la brava memoria del quale fulminata
fra loro, se ne morì col testimonio di tutta Padova». E a Bernardo
Tasso: — Io che vi sono più fratello in la benevolenza che voi non
mostrate d’essermi amico in l’onore, non mi credevo che il sereno del
mio animo dovesse mai più comprendersi dalla sorte di que’ nuvoli,
che dopo i tuoni e i baleni scoppiarono nel folgore che mandò Antonio
Brocardo sotterra».

[181]

    Sotto Milan dieci volte, non ch’una,
    Mi disse: Piero, se di questa guerra
    Mi campa Dio e la buona fortuna,
    Ti voglio insignorir della tua terra.

[182] Lib. II. p. 148.

[183] Lib. I. p. 102.

[184] Ad Ersilia del Monte, nipote di Giulio III.

[185] Vedi la sua vita nel MAZZUCHELLI, pag. 57.

[186] E altrove: — Vi giuro, per quanta riverenza porto alla molta
virtù vostra, che, ogni volta che da voi ricevo lettere, divengo cara
a me stessa, e mi persuado esser qualche cosa, dove che, senza esse, mi
tengo niente..... Amatemi quanto vi onoro».

[187] _Lettera_ XXXVI. È notevole che tutti quelli che scrivono
all’Aretino, adoprano gonfiezze e metafore e bisticci. Qui il Vasari
gli dice: — Non posso fare che non lo ricordi, e ricordandomi che di
me non era ricordo se lui di me ricordato non si fosse». E in un’altra
lettera: — Sì come Febo con i suoi lucentissimi raggi, scoprendosi dopo
la venuta dell’aurora, lumeggia col suo lampeggiar chiarissimo i colli,
ed universalmente la gran madre nostra antica, dando quel nutrimento
che dà il vitto alle figure create da lei; così mi hanno inluminato
l’animo, così mi ha ingagliardito le forze la virtù del romore della
voce di voi, tinta da sì avventurati inchiostri; di maniera che ne
ringrazio Dio, avendovi messi i candidi fogli dinanzi alle luci, e con
la destra presa la penna e scrittomi ecc.». E su questo tono van anche
le altre di quello scrittore così piano e ingenuo.

[188] Per quanto amico del Tiziano, ecco come l’Aretino parlava d’un
suo mirabilissimo ritratto:

  «A Cosimo I, da Venezia 17 ottobre 1545.

Padron mio. La non poca quantità de’ denari che messer Tiziano si
ritrova, e la pur assai avidità che tiene di accrescerla, causa che
egli, non dando cura a obbligo che si abbia con amico, nè a dovere
che si convenga a parente, solo a quello con istrana ansia attende
che gli promette gran cose; onde non è maraviglia se, dopo avermi
intertenuto sei mesi con la speranza, tirato dalla prodigalità di
papa Paolo, essere andato a Roma senz’altrimenti farmi il ritratto
dell’immortalissimo padre vostro, la cui effigie placida e tremenda
vi manderò io e tosto, e forse conforme a la vera, come di mano
dal prefato pittore uscisse: intanto eccovi lo stesso esempio della
medesima sembianza mia, del di lui proprio pennello impressa. Certo
ella respira, batte polsi e move lo spirito nel modo ch’io mi faccio in
la vita; e se più fossero stati gli scudi, che gliene ho dati invero, i
drappi sarieno lucidi, morbidi e rigidi, come il da senno raso velluto
e broccato. Della catena non parlo, però che ella è solo dipinta che
_sic transit gloria mundi_».

[189] — Sempre dovrebbono essere uniti tutti i membri con il buon
capo; però se ne fu mai alcuno bonissimo, la maestà di Carlo V è uno
di quelli; al quale io son devotissimo servitore, e per esaltazion
sua vo giorno e notte investigando, come io possi mostrarmi grato et
a sua maestà et a chi fa per l’onor di quella onorate imprese. Vostra
eccellenza debbe dunque sapere come Lodovico Domenichi piacentino è
uno dei grandissimi traditori che vadi per il mondo, e per quel ch’io
possa comprendere, teneva già con un fuoruscito o rubelle del duca di
Piacenza trattato contro sua maestà, come per questa inclusa vostra
signoria potrà immaginarsi: il qual rubelle doveva aver ottenuto
grazia, se faceva qualche tradimento, come si può congetturare per
questa lettera, la quale è scritta di mano del segretario, detto Anton
Francesco Riniero. Che questo Lodovico Domenichi sia nemico di sua
maestà cesarea, n’apparisce da un sonetto (perchè è poeta) stampato,
del quale io ne mando la copia; e che sia nemico di vostra signoria
illustrissima è chiarissimo (ancor ch’una candela non può far ombra
al sole), perchè ha fatto un altro sonetto contro a Mantova, dove già
dovette esserne cacciato per qualche sua bontà: ma piuttosto credo
ch’egli tenga odio particolare a vostra signoria perchè i suoi ministri
di giustizia appiccarono ai merli di Pavia, dico del castello, un
fratello di questo Lodovico; però il mal uomo, cattiva lingua e peggior
fatti, tratta di tornare a Piacenza, dove io penso che non ci sia bontà
nessuna in lui, perchè la vigilia del carnevale andò a Roma, e subito
tornò. Vostra signoria illustrissima veggia queste cose, e le tacci
seguendo l’orme e i vestigi di questo tristo, acciò che non venisse
in danno qualche cosa o in vitupero di sua maestà o del suo Stato. La
prego bene a non li far dispiacere e perdonargli, piuttosto scusandolo
appassionato che maligno. Vostra signoria illustrissima mi perdoni s’io
avessi favellato con poca riverenza, et incolparne l’amore ch’io porto
alla cesarea maestà, e alla servitù ch’io tengo con tutti i personaggi
pari a vostra signoria illustrissima, alla quale umilmente m’inchino, e
le bacio la mano.

  Di Firenze, alli 3 di marzo 1548.

                               Umil. servitore Anton Francesco Doni».

[190] D’alloro fu dal duca Sforza coronato l’Albicante, cattivo poeta
milanese, che punto nel _Combattimento poetico del divino Aretino e
del bestiale Albicante_, rispose così furiosamente, che l’Aretino
sentendolo capace di tenergli testa e di rinfacciargli i denari
regalatigli, cercò riconciliarselo. Reso famoso da quell’inimicizia,
altre ne agitò; e massime col Doni, contro il quale «usava bravure che
avrebbero fatto smascellare gli elefanti». (LUCA CONTILE), e volle che
ogni amico suo scrivesse contra di quello.

[191] Il famoso cancelliere L’Hôpital, ch’era stato in Italia, nel
discorso al parlamento di Parigi 7 settembre 1560 dice: _Peult dire
qu’il a plus de procès au Chastelet de Paris, qu’en toute l’Italie_.

[192] Migliori DELL’ARTAUD (_Machiavelli, son génie et ses erreurs_.
Parigi 1825) sono i recenti studj di Gervinus sopra tutti i cronisti
fiorentini, e di Teodoro Mundt su Machiavelli e l’andamento della
politica europea, di Norrisson, e di molti altri.

[193] — La cagione dell’odio, il quale gli era universalmente portato
grandissimo, fu, oltra l’esser licenzioso della lingua, e di vita
non molto onesta e al grado suo disdicevole, quell’opera, ch’egli
compose e intitolò _il Principe_, ed a Lorenzo di Piero di Lorenzo,
acciocchè egli signore assoluto di Firenze si facesse, indirizzò, nella
quale opera (empia veramente, e da dover essere non solo biasimata
ma spenta, come cercò di fare egli stesso dopo il rivolgimento dello
Stato, non essendo ancora stampata) pareva ai ricchi, che egli di tor
la roba insegnasse, e a’ poveri l’onore, e agli uni e agli altri la
libertà. Onde avvenne nella morte di lui quello che pare ad avvenire
impossibile, cioè che così se ne rallegrarono i buoni come i tristi;
la qual cosa facevano i buoni per giudicarlo tristo, ed i tristi per
conoscerlo non solamente più tristo, ma eziandio più valente di loro».
VARCHI, _Storie_, lib. III. p. 210.

— L’universale per conto del suo _Principe_ l’odiava; ai ricchi
pareva che quel Principe fosse stato un documento da insegnare al
duca Lorenzo de’ Medici a tor loro tutta la roba, e a’ poveri tutta la
libertà; ai Piagnoni pareva che ei fosse eretico, ai buoni disonesto,
ai tristi più tristo o valente di loro; talchè ognuno l’odiava. Fu
disonestissimo nella vecchiaja, ma oltre alle altre cose goloso; onde
usava certe pillole, avutane la ricetta da Zanobi Bracci, col quale
spesso mangiava. Ammalò, parte per il dolore, parte per l’ordinario:
il dolore era l’ambizione, vedendosi tolto il luogo dal Giannotto assai
inferiore a lui... Ammalato cominciò a pigliare di queste pillole, e ad
indebolire ed aggravare nel male; onde raccontò quel tanto celebrato
sogno a Filippo, a Francesco del Nero ed a Jacopo Nardi, e così morì
malissimo contento, burlando. Dice Pietro Carnesecchi (che venne seco
da Roma con una sua sorella) che l’udì molte volte sospirare, avendo
inteso come la città era libera. Credo che si dolesse de’ modi suoi,
perchè infatti amava la libertà e straordinarissimamente, ma si doleva
d’essersi impacciato con papa Clemente». BUSINI, _Lettera_ XI.

[194] Guicciardini gli scrive: — Tanto più che essendo voi sempre
stato, _ut plurimum_, e stravagante di opinione dalla comune, e
inventore di cose nuove ed insolite, penso ecc.». 18 maggio 1521.

[195] In una lettera all’Aretino chiama esso duca «veramente degno
d’esser principe, non solo di questa città, ma di tutta l’affannata,
misera e tribolata Italia; perchè solo questo gran medico sanerìa le
gravi infermità sue». E racconta come, allorchè doveva entrar Carlo
V, esso duca sur un ronzino correva visitando i grandi apparecchi che
si faceano: e «giungendo a San Felice in Piazza, dove io avevo fatto
una facciata alta quaranta braccia di legname, con colonne, storie ed
altri varj ornamenti, e vedendola del tutto finita, maravigliatosi per
la grandezza e celerità, oltre alla bontà di quell’opera, dimandando
di me, gli fu detto ch’io ero mezzo morto dalle fatiche, e che ero in
chiesa addormentato sur un fascio di frasche per la lassezza: ridendo
mi fece chiamare subito, e così sonnacchioso, balordo, stracco e
sbigottito venendogli innanzi, presente tutta la corte, disse queste
parole: — La tua opera, Giorgio mio, è per fin qui la maggiore, la più
bella e meglio intesa e condotta più presto al fine, che quelle di
questi altri maestri; cognoscendo a questo l’amore che tu mi porti,
e per questa obbligazione non passerà molto che ’l duca Alessandro
ti riconoscerà e di queste e dell’altre tue fatiche; ed ora, che è
tempo che tu stia desto, e tu dormi?»; e presomi con una mano nella
testa, accostatala a sè, mi diede un bacio nella fronte, e partì; mi
sentii tutto commovere gli spiriti, che per il sonno erano abbandonati:
così la lassezza si fuggì dalle membra affaticate, come se io avessi
avuto un mese di riposo. Questo atto di Alessandro non fu minore di
liberalità, che si fosse quello di Alessandro, quando donò ad Apelle le
città ed i talenti e l’amata sua Campaspe».

[196] _Relazione_ dell’ambasciadore veneto Marco Foscari del 1527.

[197] MUTINELLI, _Del costume veneziano_.

[198] _Quod causatur quod in ipsa nostra civitate ipsæ mulieres in
ea stare possunt libere, prout dicens et conveniens est in civitate
libera prout est nostra, ex quo procedit quod vitium sodomiticum in
ea radicatur et nimis incrementi suscipit, ac etiam ex defectu ipsarum
mulierum multæ rixæ fiunt et scandala committuntur..._

[199] FILIASI, _Memorie storiche_, tom. III p. 263.

[200] GALLICIOLLI, MEMORIE VENETE, tom. I. p. 254, 262, 336; tom. III.
p. 269, 272, ecc.

[201] BANDELLO, part. III. nov. 42.

[202] _Lettere famigliari_, cap. 41.

[203] _Archivio storico_, app. VI. 18.

[204] _Il Cortigiano_, lib. I.

[205] _De viro aulico et de muliere aulica_.

[206] INFESSURA, _ad_ 1490.

[207] _Stato della Basilica di Santa Maria in Cosmedin_, presso
il Crescimbeni e negli _Archiatri pontificj_ del Marini, _Il vero
progresso della festa d’Agone e di Testaccio_ ecc.

Nella Notizia della famiglia Boccapaduli, Marco Ubaldo Bicci riferisce
molte curiosità intorno alle famiglie romane, e specialmente agli usi
maritali avanti il Concilio di Trento. Nel 1525 davansi di dote ducati
3000; e 500 per l’acconcio, oltre le gioje e la cassapanca, detta
sposareccia, che non mancava mai, spesso dipinta, talvolta intagliata.
Nell’atto degli sponsali il padre donava allo sposo un boccale e bacile
d’argento di 70 ducati. I due fidanzati congiungevano le mani e le
bocche in segno di parentela, poi lo sposo metteva alla sposa l’anello.
Nel 1521 s’ha uno stromento di dote di 2000 scudi, e 500 d’acconcio; in
uno del 1536, di scudi 1700 e 300 d’acconcio; in uno del 1577, di 5000
ducati, oltre l’acconcio e le gioje. In essi stromenti sono descritti
i doni, gli abiti, ecc. I donativi che facevano i nobili romani erano
di 2, o 3, o 6 ducati; di 6, 8, o 12 fazzoletti e camicie; o abiti di
raso, o drappi di damasco, di velluto cremisi, o tela d’oro. Lo sposo
donava anelli e gioje.

[208] Vedi DOMENICO MELINI, _Descrizione dell’entrata della reina
Giovanna d’Austria in Firenze_. Firenze 1566. Cicognara, _Storia della
scoltura_, II. 249, ne fece una lunga nota col nome degli artisti che
vi lavorarono.

[209] SANSOVINO. Quarant’anni più tardi sono descritte le nozze
della Morosini col doge Marin Grimani. Continuavansi le battaglie fra
Nicolotti e Castellani, e su quella del 1521 abbiamo un poemetto che
dice:

    Per certe risse antighe de mil’ani
    Ogn’ano se sol far una gran guera
    De Nicoloti contra Castelani
    Su ponti ora de legno, ora de piera.
    A dar se vede bastonae da cani,
    E chi cazzar in aqua e chi per tera
    Con gambe rote e visi mastruzzai,
    E qualcun de sta vita anche cavai.

[210] L’iscrizione, che ancor si vede di fronte alla scala de’ Giganti,
con bei fregi del Vittoria, dice: _Magnificentissimo post hominum
memoriam apparatu, atque alacri Italiæ prope universæ, suorum principum
præsertim concursu_. Possono quelle feste leggersi descritte dal
Mutinelli, _Annali urbani_, pag. 148.

[211] MORIGI, _Nobiltà di Milano_, 353.

[212] _Archivio storico_, pag. 325.

[213] Nelle _Memorie dell’illustre casa Russell_, pubblicate di fresco.

[214] _Lettere di Principi a Principi_, vol. I. p. 15.

[215] Seme di tabacco fu spedito in Toscana il 1570 da Nicolò
Tornabuoni ministro di Cosimo I alla corte di Francia, che l’ebbe
dall’Hernandez, il quale l’avea trasportato d’America il 1520. Nel 1645
fu in Toscana ridotta privativa la coltura del tabacco.

[216] _Novelle_, part. II. p. 47.

[217] Nella _Scaligeriana_, stampata il 1669, si fa dire a Giuseppe
Scaligero che «il Balbani, ministro italiano a Ginevra, portava in seno
una berretta, che metteva entrando in chiesa, e predicando deponeva il
cappello: gli altri pastori di Ginevra portavano tutti de’ berrettini
piatti. Mio padre (Giulio Cesare) lo portava di velluto, piano a guisa
d’un piatto, e gli cascava se si movesse. A Roma lo portavano tutti
così quando io c’era. Io portai sempre berretto di velluto».

[218] _Lettere di Principi a Principi_, III. 49.

[219] SANUTO, _Diarj_ all’anno.

[220] GALLICIOLLI, _Memorie venete_, tom. I. p. 262; NANI, _Storia
veneta_, lib. VI della part. II. Il Cappelletti riferisce molti
statuti suntuarj, e importa singolarmente quello del 4 gennajo 1644
che concerne i rettori delle città e fortezze, prescrivendo anche
tutti i mobili. Un _ordinamento intorno agli sponsali_ in Firenze,
tra moltissime minuzie comanda: — Item che a le nozze non possa avere
nè essere più di ventiquattro donne, de le quali ne sieno diece da
parte della donna novella, e quattordice da parte de lo marito; e non
s’intenda nel detto numero madre, sirocchia o altre donne, femmine o
fancigli che siano residenti ne la casa de lo marito a uno pane e uno
vino; nè più di diece uomini, nè più d’otto servidori, i quali non si
possano vestire de niuno d’un assiso overo a intaglio; nè più di dui
trombatori, uno naccarino, e dui altri jocolari, se si vorranno, e non
più, a la pena di lire cento per ciascuna volta e cosa al marito che
contra facesse. E che dal dì delle nozze e lo dì seguente innanzi nona,
se no nei detti dui die non si possa avere tromba, trombetta o naccara,
nè più di due servidori, non intendendovi i servidori residenti in
de la famiglia de la detta casa, a la pena di lire venticinque a lo
marito detto, e a pena lire diece a ciascuna altra persona che oltra
a ciò facesse o v’andasse. E che niuno modo o verso ne lo tale luogo
si possa carolare, danzare overo ballare, fuor de la casa ove sono
tali nozze, de dì overo de notte, con lume overo senza lume, a la
pena di lire venticinque per ciascuna persona e a volta che fosse
fatto contra, così a chi ballasse come a chi facesse fare. E che lo
dì de le nozze solamente si possa dare confetti, e non si possa dare
alcuno confetto prima overo poscia a cinque diei a la pena di lire
venticinque; ed intendasi due maniere confetti, contandosi la traggea
tutta per una maniera. E che a le dette nozze non possa avere più di
tre vivande, tra le quali possa essere un rosto con torta chi vuole. E
quello arrosto e torta s’intenda sola una vivanda, non intendendosi per
vivanda frutti e confetti. E che non possa apparecchiare nè avere per
tutto el corredo de le nozze più che venticinque taglieri de ciascuna
vivanda, intendendosi per vivanda raviccioli o bragiere e tortelletti:
salvo che a le nozze di cavalieri possano avere quelle donne e uomini
che a loro piacerà, e dare di quattro vivande, e confetti e jocolari
quanti e quanto tempo a loro piacerà, pena di lire cinquanta al marito
che contra facesse, e per quante volte; e pena di lire venticinque
de ciascuna donna e ciascuno trombatore, naccarino o altro qualunque
jocolare che facesse contra. E che lo coco che farà le tali nozze,
sia tenuto e debbia denunziare a lo officiale, almeno uno dì dinanzi,
quelle cotali nozze, e quante e quali vivande dee fare, e chi è lo
marito, a la pena di lire venticinque; e se più vivande facesse ch’è
ordinato, caggia nella detta pena. E se darà vitella, non possa dare
alcun’altra carne con essa, e non passi più di lire sette; nè più d’una
possa dare per tagliere, a la pena di lire venticinque per ciascuna
cosa e volta; dichiarando che in su lo tagliere de lo arrosto non
possa dare nè avere altro che uno cappone colla torta, e uno pajo di
pollastri con uno pippione o due pippioni con uno pollastro, overo uno
anitrottolo e non più, a la detta pena per qualunque cosa fosse contra
fatta. E che i detti trombatori, naccarini, sonatori o altri qualunque
jocolari non possano torre o avere a tali nozze più, per uno, di soldi
quindici el dì, a la pena di lire diece chi dà o riceve». Ap. GIUDICI.

[221]

                  _Ce pays plantureux_
    _Fertile en biens, en dames bienheureux_...
    _Depuis un peu, je parle sobrement;_
    _Car ces Lombards avec qui je chemine_
    _M’ont fort appris à faire bonne mine,_
    _A un mot seul de Dieu ne deviser,_
    _A parler peu et à poltroniser._
    _Dessus un mot une heure je m’arrête,_
    _Si on parle à moi, je réponds de la tête._
                              Ep. XLIV.

[222] _Relazioni d’ambasciadori veneti_, serie I. vol. II, p. 379.

[223] Per iscoprir un ladro piglia un vaso, empilo d’acquasanta,
accostavi una candela benedetta, e proferisci: — Angelo bianco, angelo
santo, per la tua santità, per la mia verginità, mostrami chi ha tolto
tal cosa», e l’effigie apparirà al fondo del vaso. _Consilia in causis
gravissimis_, pag. 414, citato da Alfredo Maury, _Revue archéologique,
1846_, pag. 161.

[224] MAZZUCHELLI, in _Armellini_.

[225] Anche Clemente VII era ito abitare lungi dal Tevere, benchè
il fisico Riccardo Cervini mandasse più volte suo figlio, che fu poi
Marcello II, a rassicurarlo.

[226] Keplero nel 1618 mise fuori la profezia di sette M. Essendo morto
l’imperatore Mattia, al 20 marzo seguente, si spiegò: _Magnus monarca
mundi medio mense martii morietur_.

Nella XXIX lettera al signore Dell’Isola fra Paolo Sarpi scrive: — Non
posso penetrare in modo alcuno il senso di quelli che dicono, Dio ha
predetto e voluto questo, e tuttavia si affaticano acciò non sii. Ma
dell’astrologia giudiziaria bisognerebbe parlarne con qualche Romano,
essendo quella più in voga nella loro corte, che in questa città. Con
tutto che vi concorra ogni abuso, questo mai ha potuto aver luogo: la
vera causa è perchè qui le persone non aggrandiscono se non per gradi
ordinarj, e nessun può sperare oltre lo stato suo, nè fuori dell’età
conveniente. In Roma, dove oggi si vede nel supremo grado chi jeri era
ancora nell’infimo, la divinatoria è di gran credito.

«Che miseria è questa umana di voler sapere il futuro! a che fine?
per schifarlo? Non è questa la più espressa contraddizione che possa
esser al mondo? Se si schifarà, non era futuro, e fu vana la fatica.
Io nell’età di anni venti attesi con gran diligenza a questa vanità, la
quale se fosse vera meriterebbe che mai si attendesse ad altro. Ella è
piena di principj falsi e vani, onde non è maraviglia che seguano pari
conclusioni; e chi ne vuol parlare in termini di teologia, credo che la
troverà dannata dalla Scrittura divina, _Isaia_, c. 7. Sono anche assai
buone le ragioni di Agostino contro questa vanità, _De civitate Dei_,
lib. V. cap. 1 e 6; III. c. 4; _Confess_., cap. 3 e 5; _super Genes_.,
cap. 16 e 17. Se costì fosse un re mutabile, che ricevesse in grazia
oggi questo, domani un altro, l’astrologia piglierebbe molta fede, e
chi fosse giovane perderebbe anco quella che ha.

«Io tengo poche cose per ferme, sì che non sii parato a mutar opinione;
ma se cosa alcuna ho per certa, questa n’è una, che l’astrologia
giudiziaria è pura vanità».

[227] SABELLICO, lib. I. c. 4.

[228] CAMBI, al 1517.

[229] Il suo _De secretissimo philosophorum opere chimico per naturam
et artem elaborando_, più volte ristampato nel XVI e XVII secolo,
conchiude: _Finit hic liber et tractatus compositus per M. Bernardum
comitem trevisanum, qui aquisivit comitatum et ditionem de Neige in
Germania per hanc artem pretiosam et nobilem_. Anche frà Bonaventura
d’Iseo fece molte ricerche alchimiche.

[230] Il più importante trattato che il medioevo ci abbia trasmesso
intorno alle belle arti, la _Diversarum artium schedula_ del monaco
Teofilo del XIII e XIV secolo, piena di preziosi metodi, non scevera
di arcani, al cap; 47 del lib. I tratta del far l’oro ispanico a questo
modo: — È composto di rame rosso, polvere di basilisco, sangue umano e
aceto. I Gentili, la cui abilità è nota, si procurano dei basilischi
a questo modo. Hanno sotterra una camera tutta di pietre con due
finestruoli che appena ci si vede attraverso. Vi mettono due galli
vecchi di dodici o quindici anni, dandovi ben a mangiare. Ingrassati
che sieno, prendono caldo, s’accoppiano e fanno ova. Allora si levano
i galli, e si mettono dei rospi a covar le ova, nutrendoli di pane.
Da quelle ova escono pulcini maschi, come quei delle chiocchie, ai
quali in capo a sette giorni crescono code da serpente; e se la camera
non fosse pavimentata, tosto entrerebbero sotterra. Onde impedirlo,
quei che gli educano hanno dei vasi di bronzo rotondi molto capaci,
perforati d’ogni parte e cogli orifizj chiusi; vi pongono questi
pulcini, chiudono le aperture con coperchi di rame, li sepelliscono,
lasciandoli nutrirsi sei mesi colla terra fina che penetra pei buchi.
Dopo ciò li scoprono, e v’accendono vicino un gran fuoco sin a che gli
animali sieno dentro bruciati affatto. Raffreddito che sia, li levano,
li macinano, v’aggiungono un terzo di sangue umano rosso... Poi si
prendono lame sottili di rame rosso purissimo, e da ciascuna parte vi
si pone uno strato di quella preparazione, e si mette al fuoco... Così
si seguita finchè la preparazione consuma il rame, e prende il peso e
il color dell’oro. Quest’oro è adattato a qualunque uso».

Le indagini chimiche di Newton ebbero a scopo per lungo tempo la
tramutazione dei metalli; e nel 1669, a ventisette anni, quando avea
fatto già le più insigni scoperte, scriveva ad un amico partente per
un viaggio: — Procurate sapere se a Schemnitz in Ungheria cambiano
davvero il ferro in acciajo sciogliendolo in un’acqua vitriolata che si
raccoglie nelle cavità del masso in fondo alla miniera, poi scaldando
la soluzione fin allo stato di pasta in un fuoco violento, e quando
raffredda trovasi di rame. Dicono che ciò si usi pure in Italia. Venti
o trent’anni fa traevasi da questo paese un vitriolo detto Romano; ma
non può più aversene, forse perchè trovano più profittevole adoprarlo a
tramutar il ferro in rame». DAVID BREWSTER, _Mem. of the life, writings
and discoveries of J. Newton_. Edimburgo 1855.

[231] Il Cardano ancor fanciullo vide una meravigliosa pioggia di sassi
(_Opera_, tom. _iii_. p. 279), ch’egli dice furono mille ducento,
di cui uno pesava centoventi libbre. Più circostanziato ci si dà
quest’avvenimento da Pietro d’Anghiera (_Epistolarum_, pag. 245),
facendolo proprio del Cremasco, e accompagnato da una notte fosca, da
lunghissimi lampi e tuoni: e che nella pianura di Crema, dove non si
troverebbe un sasso grosso come un ovo, ne caddero di così grossi che
dieci passavano le cento libbre, uccidendo uccelli, montoni, pesci.
E’ parla delle infinite ciancie che ne fecero i fisici, i teologi, i
fanatici. Ciò fu il 4 settembre 1511.

[232] Altra opinione comune al suo tempo. Marsilio Ficino, _De Vita_,
dice: — È assioma fra i Platonici, e che sembra appartenere a tutta
l’antichità, vi sia un demone a tutela di ciascun uomo al mondo, e
ajuti coloro, alla cui custodia è proposto. Famigliare di casa Torelli
di Parma era la figura d’una brutta vecchia, la quale appariva sotto
un camino quando dovesse morir uno della famiglia». CARDANO, _De rerum
varietate_, XVI. 93.

[233] _H. Cardani, mediolanensis philosophi ac medici celeberrimi opera
omnia... cura Caroli Sponii_. Lione 1663, tom. X in-fol. L’editore
dice: _Inter innumeros elapsi sæculi scriptores vix ullus occurit,
cujus monumenta majore omnium eruditorum applausu, admirationis
assecla, fuerint hactenus excepta ac concelebrata, quam H. Cardani
... idque merito quidem ... Quo factum, ut auctor ipse_ maximus
literarum dictator _a quibusdam magni nominis viris, ab aliis_ vir
incomparabilis, _ab aliis_ portentum ingenii _audire meruerit_ etc. E
vi soggiunge una serie di testimonj.

[234] Pag. 218, 214, 302 del _Palagio degli incanti e delle gran
meraviglie degli spiriti e di tutta la natura, diviso in libri
quarantacinque e in tre prospettive, spirituale, celeste ed
elementare_, di STROZZI CICOGNA. Vicenza 1605.

[235] Il penitenziale del vescovo Burcardo, anteriore al Mille, assegna
le penitenze per chi crede che altri possa per incantagione eccitar
procelle, odio o amore, affascinare o venir alle tregende. Di tutto ciò
parliamo più a disteso nella nostra _Storia universale_, lib. XV, c.
15. Però il Muratori, _Dissertaz._ LXVIII, pubblicò una penitenziale
del monastero di Bobbio: _Qui cum vidua aut virgine peccavit, qui
falsa testimonia super alios apponunt et ad sorcerias recurrunt, aut
divinationes credunt... isti pæniteant V annis, vel III ex his in pane
et aqua._

[236] Frà Bernardo da Como, 1584, dice che le streghe non sussistevano
_tempore quo compilatum fuit decretum per dominum Gratianum...
Strigiarum secta pullulare cœpit tantummodo a centum quinquaginta annis
citra, ut apparet ex processibus Inquisitorum_.

[237] XILETTI, _Consilia criminalia_. Venezia 1563, tom. I. cons. 6.

[238] _Sunt qui credunt mulieres quasdam maleficas, sive potius
veneficas, medicamentis delibutas, noctu in varias animalium formas
verti et vagari, seu potius volare per longinquas regiones, ac nuntiare
quæ ibi aguntur, choreas per paludes ducere, et demonibus congredi,
ingredi et egredi per clausa ostia et foramina, pueros necare, et
nescio quæ alia deliramenta._ De situ Japigiæ, pag. 126.

[239] Forma seguito alla _Lucerna Inquisitorum hæreticæ pravitatis
reverendi patris fratris Bernardi comensis ordinis Prædicatorum ac
inquisitoris egregii, in qua summatim continetur quidquid desideratur
ad hujusce Inquisitionis sanctum munus exequendum_. Milano 1566. Fu
stampato per opera del reverendo padre Inquisitore di Milano _ad laudem
Dei_, ristampato delle volte assai, e commentato da Francesco Pegna.

[240] Citano questo fatto anche il Bodino nella prefazione della
_Demonomania_, e frà Silvestro Priero, il primo contraddittore di
Lutero, nelle _Mirabili operazioni delle streghe e degli demonj_.

[241] Il famoso Peiresc al 28 giugno 1615 da Aix scriveva a Paolo
Gualdo a Padova: — Il medico che mi cura, desidera con passione d’avere
un libro _Baptistæ Codrunqui medici imolensis de morbis ex maleficio_,
per causa di certe monache di questa città in assai numero, che si
trovano inferme di malattie incognite e soprannaturali».

[242] FRANCESCO VITTORIA, _Prælectiones theologicæ_, lib. II.

[243] _De strigibus_, 1523; e quattro apologie, 1525.

[244] _De sortilegiis._

[245] _Strix, sive de ludificatione dæmonum_, 1523; e la versione
italiana stampata a Venezia il 1556 col titolo: _Il libro detto Strega,
ovvero delle illusioni del demonio._

[246] _Compendio dell’arte esorcistica, e possibilità delle mirabili
e stupende operationi delli demonj e de’ maleficj, con li rimedj
opportuni alle infermità maleficiali... opera non meno giovevole agli
esorcisti che dilettevole ai lettori, ed a comune utilità posta in
luce._ Venezia 1605.

[247] _De sortilegiis_, lib. II. q. 7.

[248] _De strigibus_, c. 17 e s.

[249] _Fortalitium fidei._

[250] _De hæresi._

[251] _De lamiis, et excellentia utriusque juris._

[252] _Parergon juris_, VII. c. 23; VIII. c. 21. Contro di lui
principalmente sono dirette le confutazioni di Martin Delrio,
_Disquisitionum magicarum_, lib. III. q. 16.

[253] _Dæmonum investigatio peripatetica, in qua explicatur locus
Hippocratis, si quid divinum in morbis habeatur._ Firenze 1580.

[254] _Cum in brixiensi et bergomensi civitatibus et diœcesibus quoddam
hominum genus perniciosissimum ac damnatissimum labe hæretica, per quam
suscepto renuntiabatur baptismatis sacramento, Dominum abnegabant, et
Satanæ, cujus consilio seducebantur, corpora et animas conferebant, et
ad illi rem gratam faciendam in necandis infantibus passim studebant,
et alia maleficia et sortilegia exercere non verebantur_... Bolla del
15 febbrajo.

[255] _Repertæ fuerunt quamplures utriusque sexus personæ...
diabolum in suum dominum et patronum assumentes, eique obedientiam
et reverentiam exhibentes, et suis incantationibus, carminibus,
sortilegiis aliisque nefandis superstitionibus jumenta et fructus
terræ multipliciter lædentes, aliaque quamplurima nefanda, excessus et
crimina, codem diabolo instigante, committentes et perpetrantes etc._

[256] Il serio storico De Thou racconta: — Diceasi che Sisto V
avesse pratica col demonio, e patto di darsegli purchè fosse papa
e pontificasse sei anni. Di fatto ebbe la tiara, e per cinque anni
segnalossi con azioni che sorpassano l’elevazione dello spirito
umano. Al fine cadde malato, e il demonio venne a intimargli il patto.
Sisto incollerito lo rimbrottò di mala fede, giacchè soli cinque anni
erano corsi; ma il demonio gli disse: Ti ricorda che, trattandosi di
condannar uno che non avea l’età legale, dicesti _Gli do uno de’ miei
anni_? Sisto non seppe cosa rispondere, e si preparò a morire fra i
rimorsi». Vero è che De Thou non sta garante del fatto, potendo essere
invenzione de’ malevoli Spagnuoli. _Histoire universelle_, tom. XI.

[257] _Magos et maleficos, qui se ligaturis, nodis, characteribus,
verbis occultis mentes hominum perturbare, morbos inducere, ventis,
tempestati, aeri ac mari incantationibus imperare posse sibi persuadent
aut aliis pollicentur, ceterosque omnes, qui quovis artis magicæ
et veneficii genere pactiones et fœdera expresse vel tacite cum
dæmonibus faciant, episcopi acriter puniant, et e societate fidelium
exterminent._ Act., p. 5. pag. 5.

[258] Così frà Girolamo Menghi nel precitato _Compendio dell’arte
esorcistica_, pag. 480. Però egli stesso, pag. 416, dice che le streghe
non aveano potenza sugli Inquisitori in uffizio, e «più volte essendo
interrogate queste maghe et malefiche per che cause non offendevano gli
giudici et inquisitori, respondevano, questo più volte aver tentato et
non l’aver potuto fare».

[259] De’ moltissimi io allego quei soli ch’ebbi alla mano:

EIMERICO, _Direttorio degli Inquisitori_.

CARENA, _De officio Sanctæ Inquisitionis_.

PEGNA, _Praxis Inquisitorum_.

BODINO, _Demonomania degli stregoni, cioè furori e malìe de’ demonj col
mezzo degli uomini_. Venezia 1592.

MENGHI, _Compendio dell’arte esorcistica_. Ivi 1605.

CARDI, _Ritualis romani documenta de exorcizandis obsessis_. Ivi 1733.

_Flores commentariorum in Directorium Inquisitorum, collecti per
Franciscum Aloysium Bariolam mediolanensem._ Milano 1610.

_Aphorismi Inquisitorum._ Bergamo 1639.

Quando Morellet nel 1762 ebbe tradotto il _Directorium Inquisitorum_,
Malesherbes gli disse: — Voi credete aver raccolto de’ fatti
straordinarj, delle processure inaudite. Or bene sappiate che questa
giurisprudenza di Eymeric e della Santa Inquisizione è ad un bel presso
la nostra giurisprudenza criminale tutt’intera. — Io restai confuso di
tale asserzione (soggiunge Morellet, _Mémoires_, I. 59); ma di poi ho
riconosciuto ch’egli avea ragione».

[260] _Sacro arsenale, ovvero Pratica dell’ufficio della Santa
Inquisizione, di nuovo corretto ed ampliato._ Bologna 1665. Lo stesso
trovo nella _Breve informatione del modo di trattare le cause del
Santo Officio per li molto reverendi vicarj della Santa Inquisitione di
Modana_. 1659.

[261] _Flores commentariorum_, pag. 3.

[262] _Millenarium sæpe excedit multitudo talium, qui unius anni
decursu in sola comensi diœcesi ab inquisitore qui pro tempore est,
ejusque vicariis, qui octo vel decem semper sunt, inquiruntur et
examinantur, et annis pene singulis plusquam centum incinerantur._
SPINA, _De strigibus_, cap. 13.

[263] RIPAMONTI, _Historia mediolanensis_, dec. IV. lib. V. p. 300; —
OLTROCCHI, _Notæ ad vitam sancti Caroli_, pag. 684-94.

Nell’archivio della curia di Milano esistono diversi processi contro
maliardi ed eretici, e principalmente son notevoli la «Relazione di
quanto fece san Carlo nella visita dei Grigioni (_Instructiones pro
iis qui in missionibus contra hæreticos versantur_)»; i «Dubbj dati
dal prevosto di Biasca», un de’ quali è: — Sono processati i sospetti
d’arte diabolica, et il notar dice d’aver mandato i processi a Milano,
nè altra provvision s’è visto: perciò vanno peggiorando con scandalo
d’altri»; e un altro: — Sono alcuni mercanti i quali non osservano
il decreto di non andare ne’ paesi d’heretici senza licenza, et sono
difesi dalli signori temporali (svizzeri) perchè così fanno loro, però
con precetto di non andar alla predica d’heretici, nè trattar con loro
della religione».

Anche nella vita del cardinale Federico Borromeo nel 1608 si legge: —
Ancora alcuni perseverano con i segni superstiziosi in guarir malìe,
nè si può aver testimonj per formar processo. Si admettono chirurgi,
medici et maestri di scuola senza far la professione della fede; et
volendo noi che la faccino, il fôro secolare dice di voler loro far
giurare di non far cosa illecita, nè usar cose diaboliche, e con questo
si admettono persone vagabonde». Tutto ciò si riferisce alle tre valli
di diocesi milanese, appartenenti agli Svizzeri.

[264] Nell’epistolario di san Carlo stampato a Milano il 1857, leggesi
a pag. 419 in una lettera a Giovanni Fontana: — M’è dispiaciuto
d’intendere quello che passa nelle Tre Valli per conto di quel
negromante, il quale, facendo professione di scoprire le streghe e
stregoni di quel paese fuor delle vie giuridiche, mi par non men degno
di castigo lui medesimo che li stregoni stessi, camminando per via di
negromantia o altra proibita a’ cristiani. Però ne scrivo ai signori e
do ordine al visitator Bedra che vadi in dentro a posta per riportar
provvisione, perchè costui sia rivocato et anche castigato». Segue
l’ordine al visitatore.

Il 18 aprile 1567 san Carlo scriveva aver saputo che in val di Blenio,
quando si fanno esequie, molti preti, dopo detta messa nella loro
chiesa, vanno a dirla anche al luogo del funerale; e mancando le
particole, le spezzano e consacrano solo un frammento. Egli vuole che a
ciò si provveda. _Lettera nell’arch. arcivesc._, dove vi son moltissime
lettere sopra essa valle.

[265] Il processo esiste nell’Ambrosiana di Milano, segnato _R_. 109 in
fol.

[266] CREPET, _De odio Satanæ_, lib. I. disc. 3.

[267] Stuttgard, 1843.

[268] Sotto il 19 luglio 1675 il Torriano vescovo di Como scriveva a un
parroco del territorio bormiese aver trovato colà _quamplures tam viros
quam fœminas variis sortilegiis infestos, fascinationibus incumbere
et vere strigas esse, arte in tenera ætate prehensa_. Perciò ne’
quattro anni seguenti furono giustiziate trentacinque persone, e molte
sbandite.

[269] _Del congresso notturno delle lamie, libri_ III. Rovereto 1749.

[270] _Lettere del Pr. G. B. Carli al signor G. Tartarotti intorno
all’origine e falsità della dottrina dei maghi e delle streghe_; —
MAFFEI, _Arte magica dileguata_. Verona 1750. — A queste uscì una
risposta in Venezia l’anno stesso, _Osservazione sopra l’opuscolo Arte
magica dileguata_ di un prete dell’Oratorio, per dimostrare che, avanti
e dopo Cristo, sempre vi furono maghi e streghe; e raccolgonsi passi
de’ santi Padri che sembrano credere alle stregherie. Il padre Zacaria,
annunziando l’opera del Tartarotti, disapprova il negar le magìe: — In
una città m’accadde d’udir un medico spiritoso, il quale negava che si
dessero indemoniati, tutto attribuendo alla fantasia di chi si crede
offeso..... Ma perchè mai tanto impegno di relegare dentro l’inferno i
demonj?» _Storia letteraria d’Italia_, 1750.

A disteso ho ragionato io di tal materia nella _Storia universale_ e in
quella degli _Eretici d’Italia_, e prima nella _Storia della diocesi
di Como_, lib. VII. pag. 97 e seguenti, adducendo anche una sentenza
motivata. Altre possono vedersi nel MAZZONI TOSELLI, _Origini della
lingua italiana_, tom. III. p. 880, 1043, 1076, 1360.

[271] _Communis Catholicorum sententia docet re ipsa hanc commixtionem
dæmonum mulierumque accidere. — Theol. Christ._, tom. III. Il milanese
frà Francesco Maria Guacci, nel _Compendium maleficorum_, stampato
a Milano nel 1608 e nel 1626, ove le dottrine sono illustrate con
molte figure, al cap. 12 del lib. I scrive: _Solent malefici et
lamiæ cum dæmonibus, illi quidem succubis, hæ vero incubis, actum
venereum exercere; _communis est hæc sententia_ patrum, theologorum,
philosophorum, doctorum, et omnium fere sæculorum atque nationum
_experientia_ comprobata._

[272] Alle materie religiose io attribuii sempre importanza ed
estensione primaria nella storia, e sempre mi proposi di maneggiarle
da sincero indagatore, ma docile e riverente cattolico. Qui entrando
a dirne più di proposito, e in questioni dove l’esattezza dogmatica
può restar offesa da una parola meno precisa, sento il bisogno di
riprofessare la mia piena sommessione all’indefettibile autorità
della Chiesa, e l’incondizionata accettazione d’ogni suo decreto.
Il che fo nè obbligato nè consigliato, ma per vero convincimento; e
tanto più spontaneo quanto che mi sento e mi mostrai sempre cittadino
indipendente, e scrivo in paese dove nessun vincolo ha la stampa, in
tempi ove l’opinione careggia tutt’altri sentimenti.

(L’autore trattò più ampiamente questa materia in un lavoro speciale,
_Gli Eretici d’Italia_, volumi 3 in-8º, da questa medesima Unione
editrice. _Gli Editori_).

[273] Ho alla mano _Replica fratris Silvestri Prieratis ad fratrem
Martinum Lutherum_, senza data, di dieci carte, ove difende sè dalle
incolpazioni dategli.

[274] Fra altri compose il _Compendio d’errori ed inganni luterani;
Rimedio alla pestilente dottrina di frate Ochino; Discorso contro la
dottrina e le profezie di frà Girolamo Savonarola_.

[275] Era egli a Siviglia nel 1522 quando fece ritorno la nave
_Vittoria_, che per la prima avea fatto il giro del globo; e trovavano
d’aver perduto un giorno, benchè esatto giornale avessero tenuto.
Nessuno sapeva darne ragione, ma il Contarini la spiegò.

[276] _Non tam exemplis rationibusque actum est, quam conviciis ac
maledictis; nec christiana pietate sed canina facundia... Nec jurgiis
modo, sed, quod dictu nefas est, jocis et scommatis libros referserunt.
Quin vero qui veritatis indagandæ studio scribunt, mites modestosque
se ipsos exhibeant, Christi exemplo, qui cum esset veritas, in se ipso
quoque mansuetudinem prædicavit, tantumque abfuit ut ultro maledixerit,
ut etiam, quod Petrus ait, maledicenti non minaretur._ Il Bembo lodava
grandemente le lettere del Cortese, «nella qual cosa egli merita tanto
maggior laude, che _delet maculam jam per tot sæcula inustam illi
hominum generi_, di non saper scrivere elegantemente».

[277] PALLAVICINO, _Storia del Concilio di Trento_, lib. XI. c. 30.

[278] 1º Quod eliminet omnes dolores præteritorum temporum, simoniam
videlicet, ignorantiam e tirannidem, ac vitia omnia quæ alias Ecclesiam
affligebant; et bonis consultoribus adhæreat, et libertatem in votis,
in consiliis ac executione gubernatorum cohibeat.

2º Ecclesiam juxta sancta concilia et sacras leges canonicas religiose,
quantum tempora patientur, reformet, ut faciem sanctæ Ecclesiæ, non
peccatricis congregationis referat.

3º Fratres suos et filios carissimos sanctæ romanæ Ecclesiæ cardinales,
aliosque prælatos et membra Ecclesiæ integro amore non verbis tantum
sed rebus et operibus complectetur, bonos honorando et exaltando,
illisque et maxime pauperibus providendo, ne apex apostolicus
paupertate sordescat.

4º Omnibus indifferenter justitiam administrabit, et in hoc optimos
officiarios constituet, qui nullis compositionibus aut altercationibus
jurium justiciam pessundabunt.

5º Fideles, signanter nobiles, et monasteria consueta adjuvari, in suis
necessitatibus juxta tempora bonorum pontificum sustentabit.

6º Infideles, maxime Turchas, pessimos crucis hostes, nunc apud
Rhodum et Hungariam multis victoriis superbientes, qui maximo dolori
et terrori Ecclesiæ sanctæ sunt, excludet et expugnabit, et ad
hanc expeditionem pecunias congruentes, inducias inter Christianos
procurabit, et justam expeditionem magna auctoritate ordinabit, et nunc
aliquo pecuniario præsidio obsidioni Rhodianæ succurret.

7º Ecclesiam Principis Apostolorum magno nostro dolore diruptam et
conquassatam, partim sua impensa, partim principum et popolorum piis
suffrages, sicut prædecessores sui fecerunt, eriget, consolidabit.

[279] _Epistolæ famil._, tom. I. p. 18.

[280] Tratto dalla Biblioteca di Monaco, noi l’abbiamo inserito negli
schiarimenti al libro XV della _Storia Universale_. Nello SCHELHORN,
_Amœnitates historiæ ecclesiasticæ_, nº VIII, trovasi un lungo
consulto di riforme, proposte da una commissione eletta da Ferdinando I
imperatore, colle risposte fattevi dalla curia romana.

[281] SANUTO, _Diarj_ al 1523; presso il quale è un’epistola, che dice:
_Vir est sui tenax, in concedendo parcissimus, in recipiendo nullus
aut rarissimus; in sacrificio quotidianus et matutinus est: quem amet
aut si quem amet, nulli exploratum. Ira non agitur, jocis non ducitur.
Neque ob pontificatum visus est exultasse; quinimo constat graviter
illum ad ejus famam nuntii ingemuisse._

[282] Giovanni Cambi, al 1522.

[283] Erasmo, _Ep._ 1176, dice: — _Vix nostra phalanx sustinuisset
hostium conjurationem, ni Adrianus tum cardinalis, postea romanus
pontifex, hoc edidisset oraculum: Bonas literas non damno, hæreses et
schismata damno_». Anche Girolamo Negri, nelle lettere, ove dipinge
sì bene quel pontificato, dice: — Dilettasi soprattutto di lettere,
massimamente ecclesiastiche, nè può patire un prete indotto».

[284]

    _Sextus Tarquinius, Sextus Nero, Sextus et iste:_
      _Semper et a Sextis diruta Roma fuit._

Sono di gran verità i due epitafi destinatigli:

  Hadrianus VI hic situs est, qui nihil sibi infelicius in vita quam
  quod imperaret duxit.

  Pro dolor! quantum refert in quæ tempora vel optimi cujusque vita
  incidat.

[285] Lettera del 19 aprile 1532, nelle _Cartas al emperador Carlos V
escritas por su confesor_. Berlino 1848.

[286] Vedi _Consilium delectorum cardinalium et aliorum prælatorum de
emendanda Ecclesia, S. D. N. D. Paulo III ipso jubente conscriptum et
exhibitum_. 1538.

[287] Vedi BARTOLI, _L’Italia_.

[288] _On n’a qu’à publier hardiment tout ce qu’on voudra contre les
Jésuites, on peut assurer qu’on persuadera une infinité de gens._
BAYLE, in _Lojola_.

[289] Marco Mantova Benavides, dotto giureconsulto e professore a
Padova, scrisse un libro _del concilio_, dove esamina quali persone
abbiano diritto d’intervenirvi, e che qualità ad esse convengano; ove
deplora che molti cardinali e prelati sì poco intendano di studj, o
soltanto di filosofia e lettere anzichè di canoni e scritture; esamina
poi i varj concilj precedenti, e quistiona se il concilio sia superiore
al papa. E benchè non risparmiasse i disordini degli ecclesiastici,
ebbe lodi da Paolo III e applausi da Roma.

[290] Sulla riforma in Italia possono vedersi: SCHELHORN, _Amœnitates
historiæ ecclesiasticæ et literariæ_. Lipsia 1737-46; GERDES, _Specimen
Italiæ reformatæ_, 1763; TIRABOSCHI, _Storia della letteratura_, tom.
X. p. 560; MAC CRIE, _Storia dei progressi e dell’estinzione della
Riforma in Italia nel XVI secolo_, con un compendio della storia
della Riforma tra i Grigioni (ingl.) 1830; CANTÙ, _Storia della città
e diocesi di Como_, lib. VIII, il _Sacro Macello in Valtellina_,
Firenze 1853, e _Gli Eretici d’Italia_. Sui protestanti napoletani
vedi GIANNONE, _Storia civile_, VIII, p. 12; e nella _Zeitschrift für
Geschichtswissenschaft_, 1847, vol. VIII, p. 545, un articolo di G.
HEINE, _Ueber die Verbreitung der Reformation in Neapel_, con notizie
tratte dall’archivio di Simancas.

[291] Il famoso Andrea Alciato diresse al Mallio una lettera per
dissuaderlo di farsi francescano; ove a tal uopo gli espone gli
abusi e i disordini della vita monastica, con grandissima libertà.
Il Calvi n’ebbe copia, la mandò ad Erasmo, e pensava pubblicarla.
Grand’apprensione ne prese l’Alciato, e in bel latino ironicamente gli
scriveva: — Oh tristo di Calvi! e più che capital nemico dell’Alciato
se ciò farai! Che mi varranno le mie veglie, che i tanti studj? Se tu
mi spargi di questo veleno, vorrei piuttosto esser morto. Lutero, i
Picardi, gli Ussiti e gli altri nomi d’eretici non saran tanto infami
quanto il mio se ciò avvenga. Non sai o dissimuli di sapere le faccende
di questi cucullati, la forza, la potenza, le esclamazioni sui pulpiti,
le esecrazioni fra il popolo, le detestazioni, e gl’infiniti mali
che (gli Dei me ne campino) ricadran sul mio capo? Intenterò processo
d’ingiuria, prima a te come campione, poi a Erasmo, poi a Frobenio;
invocherò uomini e Dei, moverò ogni pietra per iscagionar me, e voi
soli imputare ecc.». _Marquardi Gudii et doctorum virorum ad eum
epistolæ._ Utrecht, 1697.

[292] Ap. HOTTINGER, _Ecclesia sæculi XVI_, tom. II. p. 61.

[293] Lettera del 27 marzo 1554, esistente nella biblioteca nazionale
di Parigi, cod. 8645, carta 56. — Calvino conservò sempre l’amore
della duchessa. Quando il duca di Guisa, campione de’ Cattolici di
Francia, genero di lei, fu assassinato davanti Orléans dal fanatico
Poltrot, e i predicanti dalla cattedra inveivano contro di lui, la
duchessa ne mosse lamento con Calvino, il quale rispondendo non riprova
l’assassinio: _Si le mal fâchait à tous les gens de bien, monsieur de
Guise, qui avait allumé le flambeau, ne pouvait pas être épargné. Et de
moi, combien j’ai toujours prié Dieu de lui faire merci, si est-ce que
j’ai souvent désiré que Dieu mit la main sur lui pour en délivrer son
Eglise, s’il ne le voulait convertir... Cependant de le damner c’est
aller trop avant, si non qu’on eût certaine marque et infaillible de sa
réprobation._ Lettere di G. Calvino, raccolte da G. Bonnet, tom. II. p.
553. Parigi 1855.

[294] Angelica Negri di Gallarate, piissima monaca, le cui lettere
spirituali si leggevano nei refettorj, e che il marchese Del Vasto
governator di Milano volea consigliera e al letto di sua morte, udendo
l’Ochino predicare a Verona nel 1542, predisse cadrebbe nell’eresia.

[295] Predica III e IV.

[296]

  T. _Quid vero mihi das consilii?_

  O. _Ut plures uxores non ducas, sed Deum ores ut tibi continentem
  esse det._

  T. _Quid si nec donum mihi, nec ad id petendum fidem dabit?_

  O. _Tum si id feceris ad quod te Deus impellet, dummodo divinum
  esse instinctum exploratum habeas, non peccabis. Si quidem in
  obediendo Deo erravi non potest._

[297] SECKENDORF, _Historia Luteranismi_, tom. III. pag. 68, 69, 579.

[298] SIMLERI, _Oratio de vita P. M. Vermilii_.

[299] _Dizionario storico_ di Bassano.

[300] RAYNALDI, ad 1539.

[301] _Eusebius captivus, sive modus procedendi in curia romana contra
Lutheranos._ Basilea 1533. Non è del Curione, come può vedersi dalla
lettera dello Zanchi al Muscolo, sibbene del Massari, che nel 1554
stampò a Basilea _De fide ac operibus veri christiani hominis ad mentem
Apostolorum, contra Evangelii inimicos_, nella cui prefazione è cenno
di molti italiani dimoranti in quella città.

[302] Ottenne dal carceriere che gli legasse una gamba sola; poi che
alternasse la catena fra le due gambe; nel qual mutamento riuscì a
far mettere la catena a una gamba finta. _Vita Cælii Secundi Curionis;
de mirabili sua e vinculis, ac ipsis diræ necis faucibus liberatione
dialogus._ — Abbiamo l’orazione funebre recitatagli da Giannicolò
Stuppani, _Oratio de Cælii Secundi Curionis vita_. Vedi pure SCHELHORN,
pag. 258.

[303] Il Gerdesio, pag. 280, crede sia tutt’uno con Giulio da Milano,
agostiniano apostato che in Isvizzera pubblicò la I e II parte delle
prediche da lui recitate in San Cassiano a Venezia nel 1541.

* Nei registri de’ giustiziati, tenuti dalla compagnia di San Giovanni
alle Caserotte di Milano, al 23 luglio 1569 trovo abbruciati «un
frate di Brera e Giorgio Filatore, quali erano luterani». Al 1587,
1º ottobre, abbruciato un Giulio Pallavicino della pieve d’Incino per
eretico; «fu messo sul palco in duomo l’anno 1555 e 1573, e l’anno 1587
fu morto dopo essersi confessato e comunicato».

[304] Lo stesso Burigozzo sotto il 1534 parla d’uno spacciatore
d’indulgenze: — In questo tempo venne a predicare in domo un frate de
Santo Augustino Remitano; e questo fu una dominica a dì 25 januario,
e predicò tutta la settimana seguente. E la dominica seguente, che fu
a dì primo febraro, anunziò uno perdon, con certe bolle da absolvere
dei casi; e fu messo per la cittade le cedole in stampa, qual se
contenevano in ditta bolla; et el ditto perdono fu messo fora el dì de
santa Maria delle Candele; e fu fatto procession dal clero. Circondorno
la ecclesia del domo de dentro, e riportorno ditto perdono a loco suo,
zoè a presso el barco dove se predica; e sempre con el ditto frate, e
ancora el commissario de ditta indulgenzia (dandoli li danari ch’erano
d’accordo), li davano la ditta carta, e li metteva suso el nome de
colui che pagava, overo de soi morti: donde che durò questo circa a
otto giorni. Et in questo termino assai homeni mormoravano, vedendo
questa indulgenzia così larga; dondechè fu trovato questa cosa essere
una ribalderia, et essere false le bolle; et a questo fu preso el dicto
frate, et ancora il commissario; e furno messi in preson in casa del
capitanio de justizia; e lì ghe fu data la corda e tormenti. Al fine
disseno di sì, che l’era vero; e lì furno reponuti fin a che da Roma
venisse la risposta de quello che de lor far se dovesse; et a questo
passò qualche giorni: al fine fu concluso, che ditto frate e ditto
commissario fusseno mandati in galea...».

[305] RAYNALDI, _ad annum_.

[306] NICERON, _Memorie_, tom. XXI. p. 115.

[307] SPONDANI, _Annales ad 1543_.

[308] Lettera XXI, lib. IV del Minturno al Gesualdo del 1534.

[309] QUIRINI, _Diatriba ad vol. III epistolarum Poli_, pag. 286; e
vedi TIRABOSCHI, _Biblioteca degli scrittori modenesi_, tom. III.

[310] Il formulario fu pubblicato nel vol. I delle opere del cardinal
Cortese colle firme de’ suddetti, e del vicario vescovile, l’arciprete,
il prevosto, tre canonici, il conte Giovanni Castelvetro, il cavaliere
Lodovico Dal Forno, Giambattista Tassone, Girolamo Manzuoli, Angelino
Zocchi, Bartolomeo Fontana, Antonio Grillenzone, Pietro Baranzone,
Bernardo Marescotti accademici; Giannicolò Fiordibello, Gaspare
Rangone, tre Bellincini, Alfonso Sadoleto, Giovanni Poliziano, Elia
Carandino, Filippo Valentino, Bartolomeo Grillenzoni, Pellegrino Erri,
ed il celebre Falloppio.

[311] Si hanno tre medaglie coniate al Negri, e queste opere:

_Rhætia, sive de situ et moribus Rhætorum._

_De Fanini faventini ac Dominici bassanensis morte, qui nuper ob
Christum in Italia romani pontificis jussu impie occisi sunt, brevis
historia._ Chiavenna 1550.

_Historia Francisci Spieræ civitatulani qui, quod susceptam semel
evangelicæ veritatis professionem abnegasset, in horrendam incidit
desperationem._ Tubinga 1555 (probabilmente tradotte dall’italiano da
Vergerio).

Del Negri parlarono il Verci nelle _Notizie degli scrittori bassanesi_,
e il Carrara nel _Dizionario storico_ di Bassano; e li contraddisse
il grigione Domenico Rosio de Porta, ministro riformato a Soglio nel
1794, dirigendosi al delegato don Fedele di Vertemate Franchi; poi più
diligentemente Giambattista Roberti, _Notizie storico-critiche della
vita e delle opere di Francesco Negri_, Bassano 1839. È errore del
Quadrio il farlo di Lovere: nacque a Bassano, per un amore sfortunato
si vestì benedettino in Santa Giustina di Padova, poi la gelosia lo
trasse a un assassinio, pel quale fuggì in Germania nel 1525, ove
alquanto più tardi abbracciò le dottrine zuingliane. Che intervenisse
alla conferenza di Marburgo nel 1529, nessuna prova è. Tenne scuola a
Chiavenna, ma sembra non vi fosse pastore, come in niun’altra chiesa di
Svizzera. Infatto, primo ministro della chiesa riformata a Chiavenna fu
Agostino Mainardi, che vi rimase fin alla morte, avvenuta nel 1563; e
allora gli successe Girolamo Zanchi.

Quando Lelio Socino da Vicenza fuggì a Zurigo, il Mainardi dubitò
che Camillo Renato rifuggito a Chiavenna, e in corrispondenza con
quello, ne avesse adottato le dottrine antitrinitarie; laonde obbligò
tutta quella chiesa a far una professione di fede. Questa spiacque e
al Renato e al Negri, parendo deviasse alquanto dalla zuingliana; la
chiesa chiavennasca si trovò scissa, e il Mainardi scomunicò quei due
come Sociniani. Il Negri se ne scolpò a Zurigo, poi pubblicò la propria
professione di fede, confessando la divinità e incarnazione di Cristo,
l’efficacia del battesimo e dell’Eucaristia.

Le molte opere sue lo attestano dotto di greco e d’ebraico, e versato
nelle quistioni teologiche, benchè privo di gusto e d’eleganza.
Parecchie sono pubblicate a Poschiavo, dov’era stamperia che dava
giusta ombra ai nostri, e Pio IV spedì ai Grigioni il prevosto
della Scala di Milano nel 1550 per domandarne la soppressione. È
notevole quella sulla morte del Fanino di Faenza (non Fanno, come
dice il Tiraboschi) e di Domenico Cabianca di Bassano. Quest’ultimo
avea militato con Carlo V, e, bevute le dottrine nuove, se ne fece
apostolo: a Piacenza le predicò apertamente, ma arrestato e non
volendo ritrattarsi, fu appiccato nel settembre 1550. Un’altr’opera
è la traduzione latina del caso di Francesco Spiera da Cittadella,
giureconsulto (non medico), padre di undici figli, il quale apostatò;
poi citato da monsignor Della Casa, fece pubblica ritrattazione in
patria. Dissero i religionarj che per castigo impazzisse, e urlando e
maledicendo cercava uccidersi, finchè terminò miseramente.

Ma l’opera più famosa del Negri è la tragedia intitolata _Libero
arbitrio_, 1546, poi 1550, poi in latino 1559. È un’azione drammatica,
alla quale sono intessute le controversie religiose. Ne diamo l’analisi
negli _Eretici d’Italia_.

Vuolsi che il suo carteggio fosse, or fa alquanti lustri, trovato in
Isvizzera e portato a Bassano; ma per quante ricerche ne facessimo,
non poterono esserci additate che due lettere, tra quelle onde il
Baseggio arricchì quella biblioteca; una di nessun interesse, l’altra
da Strasburgo il 5 agosto 1530 al M. R. maestro Paolo Rossello di
Padova, ove gli parla del molto che, dopo spatriato, ebbe a soffrire
per Cristo; e come la quaresima precedente si fosse recato incognito
a Venezia e in altri luoghi d’Italia, ove trovò «diversi fratelli,
alli quali narrai (dic’egli) diffusamente tutte le cose sì mie quanto
dell’Evangelio. Li nomi di essi fratelli sono questi. In Venezia parlai
con prè Alovise dei Fornasieri de Padoa, olim in monachata chiamato
d. Bartolommeo. In Padoa parlai con pré Bartolommeo Testa, al quale
lassai el benefizio mio, che al presente è maestro de casa de monsignor
Stampa. Deinde in una villa sul Veronese, appresso Lignago tre ovver
quattro miglia, il nome della quale al presente non mi soccorre,
parlai per dui giorni copiosamente cum pré Marino Gujoto, qui quondam
monachus, dicebatur d. Pietro de Padoa. Ultimo loco, a Brescia ragionai
cum d. Vincenzo di Mazi per un giorno continuo. Da questi adunque
potrete intender tutto». Dategli poi le nuove di Germania, conchiude:
«Non potiamo se non aspettar qualche gravissima croce. _Orandum
sine intermissione nobis ac vobis est, ut Dominus ipse negotium
suum defendat._ In Venezia non potei parlar con frate Alovise, come
desiderava, imperciocchè l’era andato a star a Treviso, prout mi disse
sua madre. Altro non mi occorre se non instantissimamente pregarvi che
vui et gli altri fratelli cristiani preghino _enixissime_ Dio per nui».

Era agostiniano, non benedettino come dicemmo noi sulla fede del _Nuovo
Dizionario istorico_, pubblicato in Bassano il 1796, dov’è un esteso
articolo su questo apostato. Abbiam cercato notizie delle persone
nominate in questa lettera; ma solo potemmo raccogliere dal sullodato
signor Baseggio che il Fornasiero era agostiniano e bassanese, come
anche il Testa; fuggirono di patria nè più se ne seppe; nè si potè
raccapezzare la corrispondenza ch’essi tenevano collo Spiera di
Cittadella; la cui storia fu tradotta in latino, non dal Vergerio, ma
dal Negri.

[312] Vuolsi ricordare con lode la sua opera _De methodo, sive recta
investigandarum tradendarumque scientiarum ratione_ (Basilea 1558),
ove, lasciando la dialettica ordinaria, propone un nuovo metodo di
giungere al vero collo scomporre e ricomporre più volte la cosa, e
sotto aspetti diversi esaminarla, salendo dal noto all’ignoto.

[313] Vedi _Lettere d’uomini illustri conservate nel regio archivio di
Parma_, 1853. In questo vi ha di molte lettere concernenti il Vergerio.

[314] Ivi, 4 aprile 1545. Tutti capiscono che allude alla violenza
di Pierluigi contro il vescovo di Fano, riferita dal Varchi al 1537.
Ora, ben otto anni dopo, il Casa dubita che il papa possa averne avuto
sentore: il che per lo meno smentisce la bolla che si vorrebbe avesse
egli stesa per assolverlo. Del resto il fatto medesimo vien impugnato
con buone ragioni dall’AMIANI, _Memorie di Fano_, vol. II, p. 149.

* Nel 1856 a Brunswick fu pubblicata una monografia di Pier Paolo
Vergerio da C. H. Sixt (_P. P. Vergerius papstlicher Nunzius,
katholischer Bischof, und Vorkämpfer des Evangeliums: eine
reformationsgeschichtliche Monografie_) col ritratto e quarantaquattro
lettere originali; e Findel ne fece un compendio popolare.

Si ha un _Catalogus hæreticorum_ dell’Arcimboldo, con note del Vergerio
che il rendono curioso.

[315] Così Celio Curione nel proemio alle _Cento considerazioni divine_
del Valdes napoletano. Credonsi del Vergerio le «Due lettere d’un
cortigiano, nelle quali si dimostra che la fede e la opinione di Roma
è molto più bella e più comoda che non è quella dei Luterani. Terza
lettera d’un cortigiano, il quale afferma che a suo parere la messa
del papa è più bella che la comunione che si fa in alcun loco della
Germania. Quarta lettera d’un cortigiano, nella quale gli si dice che
si comincia ad accorgere che la dottrina ch’ei chiama la luterana sia
la buona e la vera, e che quella del papa sia la corrotta e la falsa».
Tutte ironie, che giravano per Italia; e a Pavia si riprodusse nel 1550
dalla stamperia Moscheno il _Latte spirituale, col quale si debbono
nutrire ed allevare i figliuoli de’ Cristiani a gloria di Dio_, opera
forse del Vergerio, comparsa l’anno avanti a Basilea. Vedi _Apologia
pro P. P. Vergerio adversus J. Casam_. Ulma 1754.

[316] BAYLE, _ad Theod. Simon._

[317] Lo fecero principalmente lo Schelhorn e il Gerdes. Di Vittoria
Colonna adduceano il _Pianto della marchesa di Pescara sopra la
passione di Cristo_, e l’_Orazione sopra l’Ave Maria_. Aldo 1561.
Vedasi LEFEVRE DEUMIER, _Vittoria Colonna_, Parigi 1856, libro di poco
merito.

* Un nuovo eretico pretese regalarci ultimamente Sigwart, dimostrando
la relazione fra le dottrine di Zuinglio e quelle di Pico della
Mirandola (_Ulrich Zwingli; der Karakter seiner Theologie mit
besonderer Rücksicht auf Picus von Mirandula dargestellt._ Stuttgard
1855).

[318]

    _Cum casum miseratus ille magnus_
    _Carapha, Italiæ decus Carapha_
    _Ad cœlum geminas manus tetendit_
    _Multis cum lacrymis Deum salute_
    _Orans de mea: et ecce acerba fugit_
    _Febris, et lateris dolor, refectæ_
    _Vires, etc._

Nello SCHELHORN, vol. II, è una dissertazione _De religione M. Antonii
Flaminii_. Nel _Giudicio sopra le lettere di tredici uomini illustri
pubblicate da M. Dionigi Atanagi_ (Venezia 1554), opera forse del
Vergerio, si legge che il Flaminio «solo tra questi ebbe qualche
gusto e cognizione di Cristo e della verità, ma non in tutti gli
articoli, perocchè Dio non scopre e non rivela tutti i suoi tesori ad
un tratto, ma a parte a parte. Certa cosa è che, se il Flaminio intese
la giustificazione per la sola fede in Cristo e la certezza della
salute nostra, egli o non intese la materia dell’eucaristia, o non ebbe
ardimento di dirla come sta». E riferite le discrepanze, soggiunge: —
Questo guadagno almeno facciam noi di quella lettera flaminiana, che,
avendo esso dimostrato dissentire da noi in questi punti, e non detto
di dissentire ove noi neghiamo esservi la transustanziazione, e quella
oblazione doversi applicare per vivi e per morti, e dove anche neghiamo
la Cena doversi dividere, il che fanno i papisti, quando ai laici non
danno la spezie del vino, in questi tre punti almeno esso Flaminio ha
dimostrato di tenere che noi abbiamo ragione; e credo io che, se egli
fosse vivuto, sarebbe eziandio in tutti gli altri corso più avanti ed
entrato nelle opinioni nostre; e credo di più che, chi avesse potuto
veder il secreto del suo cuore, avrebbe veduto che già v’era entrato».
Induzione assurda, eppure abituale.

[319] Vedi BAYLE, _Dictionnaire critique_.

[320] BAYLE, in _Gribaldi_; GERDES, pag. 276; NICERON, _Mémoires des
hommes illustres_, tom. XLI. p. 235.

[321] _De hæreticis quo jure quove fructu coërcendi sunt gladio vel
igne, dialogus inter Calvinum et Vaticanum_: e senza nome d’autore nè
di stampatore, ma credesi di Lelio Socino.

[322] Andrea Wissovatius, suo nipote, pubblicò le opere di lui nella
_Bibliotheca fratrum polonorum_ 1636, 6 vol. in-fol.

[323] Bayle corregge moltissimi errori del Varillas e del Mainbourg in
proposito di esso, ma cade in molti altri. Vedi MALACARNE, _Comm. delle
opere e delle vicende di Giorgio Biandrata_. Padova 1814.

Dalle corrispondenze di Biandrata conosciamo un Giambattista Puccini
lucchese, dalla regina Bona spedito a Isabella d’Ungaria come
cancelliere, in surrogazione del Savorgnano; Lodovico Biandrata
fratello di Giorgio, protonotaro apostolico, e segretario di Enrico di
Valois re di Polonia; Giambattista Castiglioni milanese, marchese di
Cassano, che secondò Ferdinando d’Austria nelle guerre contro i Turchi,
ebbe alte cariche alla corte imperiale, e da Filippo II di Spagna era
destinato vicerè in Francia contro gli Ugonotti, quando morì a Milano,
e volle esser sepolto senza pompe. Di che vedi NATALE CONTI, _Historiæ
sui temporis_, al 1551.

[324] Calvino lo taccia di barbaro stile, senza troppa ragione.

[325] GIAMBATTISTA GASPARI, _De vita... Francisci Pucci Filidini_,
nella raccolta Calogeriana, tom. XXX. Venezia 1776.

[326] _Contentiosi sunt, et inquieti; ex quacumque re lievissima rixam
movent, ne doceri a quoquo sustinent, nec a sua pervicacia remittunt;
unde nobis sunt oneri._ COMANDER.

[327] Questi fatti risultano dalla storia affatto ostile del Llorente.
Hefele di Tubinga, nella bella monografia del Ximenes, li svolge
largamente e conchiude che «nella storia dell’Inquisizione di Spagna,
la santa Sede compare protettrice de’ perseguitati, come fu in ogni
tempo». Il protestante Schroeckh, nella _Storia ecclesiastica_, si
meraviglia che il papa abbia consentito questa trasformazione d’un
tribunale ecclesiastico in secolare, da lui indipendente. E Ranke,
protestante anch’egli, disapprovando la storia del Llorente, scritta
per favorire re Giuseppe Buonaparte contro le libertà basche e le
immunità ecclesiastiche, dice che da quella appare come il Sant’Uffizio
fosse una giustizia regia sotto divise ecclesiastiche; tantochè il
cardinale Ximenes nicchiando a ricevere nel consiglio un laico nominato
da Ferdinando, questo gli rispose: — Non sapete che quest’Uffizio non
tiene la giurisdizione se non dal re?»

Il gagliardissimo pensatore Giuseppe De Maistre fece l’apologia
dell’Inquisizione spagnuola, non tanto dal punto di diritto, come
dall’essere stata un minor male, risparmiando alla Spagna que’ torrenti
di sangue che la Riforma e le discordie civili conseguenti costarono
al resto d’Europa. Dicendo _apologia_ ho usurpato un luogo comune de’
retori; ma del resto egli medesimo, per quant’ardito, non osando quasi
pronunziarlo in testa propria, fa dire da _taluno_ che «il Sant’Uffizio
con una sessantina di processi in un secolo ci avrebbe risparmiato lo
spettacolo d’un monte di cadaveri che sorpasserebbe l’altezza delle
Alpi, e arresterebbe il Reno e il Po.

Sant’Agostino disapprovò affatto le persecuzioni contro i dissidenti;
ma poi nelle _Ritrattazioni_, lib. II. c. 5: — Ho fatto due libri
contro i Donatisti, ove dissi non piacermi che, per forza secolare,
i scismatici siano violentati alla comunione. Per verità allora mi
spiaceva, perchè non ancora avevo provato a quanto male ardisca
l’impunità, nè quanto a mutare in meglio valga la diligenza del
castigo». E nel trattato 11 in _Joann._ nº 14: — Vedete che cosa fanno
e che cosa soffrono: uccidono le anime, e son afflitti nei corpi;
producono morti sempiterne, e lagnansi di soffrirne di temporali».

Il Forti nelle _Istituzioni civili_, lib. II. c. dice che
«l’Inquisizione puniva non l’azione esterna, non la manifestazione
pubblica delle opinioni, ma il pensiero dell’animo; ed _in questo_
veramente eccedeva al di là dei confini d’ogni giurisprudenza». Sarebbe
stato opportuno ci avesse detto come conosceva essa il _pensiero
dell’animo_.

[328] Chiamavansi così le esecuzioni contro i condannati
dall’Inquisizione, perchè la maggior parte ne passava in assolvere
gl’imputandi, facendoli ricredere e recitare l’atto di fede; e spesso
non bruciavasi se non la candela che tenevano in mano. Llorente cita
un auto da fe del 1486 a Toledo, con settecentocinquanta condannati,
ma nessuno a morte; e un altro di novecento, pur senza morti; in uno,
tremila trecento furono condannati, di cui ventisette a morte; ma
si avverta che, oltre l’eresia, erano di competenza del Sant’Uffizio
i peccati contro natura, la seduzione in confessione, la bestemmia,
i ladri di chiesa, gli usuraj, perfino il contrabbando di cavalli e
munizioni al nemico in tempo di guerra.

Dalla tolleranza dei nostri fratelli aspettiamo d’essere anche noi
tacciati di difensori del cavalletto e del rogo: noi.

[329] Verso il 1574 Mureto scriveva d’Italia all’illustre storico De
Thou, _Qu’il était esbahi qu’il se levât qu’on ne lui vint dire qu’un
tel ne se trouve plus; et si l’on n’en oserait parler._

[330] _Il Compendio della Santa Inquisizione._

[331] Vedi _Breve informatione del modo di trattar le cause del
Sant’Uffizio per li molto reverendi vicarj della Santa Inquisizione di
Modana_; e altri da noi citati a pag. 348.

[332] Di là, l’8 agosto 1555, scriveva una lettera a una madonna
Cherubina, dipingendo i guaj che dovè patire nell’assedio di quella
città, ed esortandola alla fede in Dio e nel Vangelo; sempre abbondando
di citazioni scritturali e di pietà: — Pregate ancora per noi, com’io
faccio per tutti i Cristiani che sono in Italia, che il Signore
ci faccia costanti acciocchè possiamo confessarlo in mezzo della
generazione diversa... Qui il padrone è sempre il primo andare alla
predica: di poi ogni mattina chiama tutta la sua famiglia, ed in sua
presenza si legge un evangelio ed un’epistola di san Paolo, ed esso,
postosi in ginocchioni con tutta la sua corte, pregano il Signore.
Bisogna poi che, casa per casa, ciascheduno de’ suoi sudditi gli renda
ragione della sua fede, eziandio le massare, acciocchè ei veda come
fanno profitto nella religione, perchè dice che sa bene che, se non
facesse così, esso sarebbe obbligato a render ragione di tutte le anime
de’ suoi sudditi. Io vorrei che tutti i signori e principi fossero
tali. Il Signore vi dia fede e vi accresca nella sua cognizione, perchè
di continuo noi dobbiamo pregare di crescere in fede». O. Moratæ Opera,
Basilea 1580, pag. 212.

Altre donne favoreggiarono la Riforma: Manrica de Bresegna napoletana,
Lavinia Orsini della Rovere, Maddalena e Cherubina della casa stessa,
Elena Rangone Bentivoglio, Giulia Gonzaga contessa di Fondi, a cui
Valdes dedicò i suoi _Commenti sui salmi_...

[333] Nel 1553 Paolo Palazzo cantore, propenso ai Luterani, fu tratto
in carcere a San Domenico, e dopo alquanti giorni liberato per favore
di molti. Nel 1557 l’inquisitore carcerò Matteo Dordono e Innocente
Nibbio notaj, che pentiti, fecero pubblica ammenda e penitenza,
e tornarono con gran disonore a casa. Taddeo Cavalzugo citato per
luterano, fuggì a Ginevra, sicchè fu bandito. Prete Simone, vissuto
seco lungamente e arrestato, cercando fuggire di carcere si ruppe una
coscia, e dovette far penitenza de’ suoi errori. Alessandro Cavalgio
fu preso per aver tratto di convento una sorella e maritatala. Altri
assai nobili si scopersero fautori dell’eresia, e ne pagarono il fio;
molti esularono, e i loro beni furono dati al principe. Nel 1558,
prete Riccio, che avea conversato, mangiato, bevuto con Luterani
e ajutatili a fuggire, s’un palco fu sferzato dall’inquisitore frà
Valerio Malvicino e dovette palesare quanto avea operato contro i
decreti del sommo pontefice: seco due altri cittadini: Giuseppe de’
Medici pure sferzato, confessò quanto avea creduto e fatto contro la
cattolica fede: e un notajo Giuseppe di avere scompisciato la pila
dell’acquasanta, ferito di spada le immagini e le braccia e coscie di
San Rocco.

_Memorie di Piacenza_, vol. IX, pag. 277 e 344, ove però non sono
date che le iniziali, avendo temuto il Poggiali far torto a’ loro
discendenti. Il Corvi parla di altri processati per luterani e che
abjurarono o furono puniti.

[334] Scriveva al Gonzaga signor di Guastalla: — Jeri sera, per
commissione del cardinale Alessandrino (_Ghislieri_), furono pigliati
tutti i miei libri e notata ogni minima mia polizza. Questo non m’è
grave, venendo la commissione da quel dabbene e religiosissimo signore,
e dal santissimo tribunale dell’Inquisizione; ma ben mi doglio che
gli ne sia data occasione da alcuni maligni ed invidiosi miei emuli».
TIRABOSCHI, vol. XII, p. 1712. Io ho pubblicato il processo del Morone.

[335] _Vita di Sisto V_, part. I. l. III.

[336] GIANNONE, lib. XXXII, c. 5.

[337] Manoscritto all’anno 1571.

[338] MAZZUCHELLI, _Scrittori d’Italia_.

[339] Nello SCHELHORN è una lettera di Aonio Paleario a Lutero,
Melancton, Calvino, Butzer, dissuadendoli dall’accettare la
convocazione del concilio, e mostrando quanta premura v’abbia il papa:
_Pontifex qui id ætatis non satis firma est valetudine, ne nocturnum
quidem tempus sibi ad quietem relinquit; magnam copiam consultorum
habet, quibuscum ad multam noctem sermonem producit; interdum autem
jurisperitos, aut usu rerum probatos, aut astutos homines, addite autem
si vultis improbos, consulit... advocat, orat atque obsecrat ut in
communem curam incumbant._

Del libro attribuito al Paleario, _Del beneficio di Cristo crocifisso_,
dapprima diffuso come di retto sentire, poi severamente proibito, si
moltiplicarono le edizioni e le traduzioni in tutte le lingue: eppure
asserivansi distrutte tutte le copie, quando ne fu trovata una nella
biblioteca di Cambridge, e ristampata il 1856 a Londra per cura di
Churchill Babington con una traduzione francese e una inglese del
secolo XVI: e gran rumore ne fan oggi principalmente i Tedeschi.

Il Paleario stando professore a Milano, propose a due suoi allievi di
combattere e di difendere la legge Agraria. Abbiamo a stampa la tesi
colla traccia data da lui, e le due declamazioni di Lodovico Raudense e
di Carlo Sauli; uno che fa da Tiberio Gracco, l’altro da Marco Ottavio.
Milano 1567.

[340] Alla stamperia dei Giunti lavorò Francesco Giuntini fiorentino
(1522-90) carmelitano, che scrisse d’astrologia, poi apostatò in
Francia, poi ravvedutosi fece pubblica abjura in Santa Croce di
Lione. Quivi stette correttore di stampe, ma guadagnò con una banca
sessantamila scudi, di cui tremila lasciò ai Giunti; ma sepolto
sotto le ruine della propria biblioteca, di tal somma non si rinvenne
traccia. Fu balzano e libertino, e il Possevino non crede guari alla
sua ritrattazione; pure allo _Speculum astrologiæ_ antepose una lettera
diretta ai vescovi e agl’inquisitori protestando _Ego revoco et tamquam
a me nunquam dictum volo_ ciò che avea scritto contro la Chiesa.

Da un Giunti fiorentino, stabilitosi a Troyes in Sciampagna, nacque
nel 1540 Pietro De Larivey, il primo che scrivesse commedie in Francia,
e nella ristampa fatta il 1855 si attesta l’efficacia di lui sopra il
teatro francese, specialmente sopra Molière, e si mostra quanto abbia
tratto da’ nostri. Tradusse pure le _Notti facete_ dello Straparola.

[341] È poc’altro che una revisione di quella del Brucioli la _Bibbia
novamente tradotta da la hebraica verità in lingua toscana_, per
maestro Santi Marmochino fiorentino dell’ordine dei Predicatori
(Venezia, Giunti 1538 e 46). Anche Filippo Rustici lucchese apostato, a
Ginevra fece o rivide una versione della Bibbia sopra i vulgarizzamenti
del Vatable, del Pagnini, del Brucioli.

[342] Il residente veneto ai 27 settembre 1567 scriveva alla Signoria:
— Fu fatto domenica l’atto solenne della Inquisition nella Minerva,
con intervento di tutti i cardinali che qui si trovano, segondo che
sua santità nel concistoro precedente li haveva esortati, eccetto che
il cardinale Boncompagno, che non vi volse andar per rispetto d’un
suo nepote che doveva abjurar. Ed un altro cardinale anchora prese
licentia dal papa per andar fuori della terra, per non si ritrovare,
dubitando di poter essere da tutti riguardato, per rispetto della
stretta amicitia e conversation che havea avuta col Carnesechi,
che dovea comparer tra condannati. Forono i rei diecisette, de’
quali quindici si sono abjurati, restando condannati, chi serrati
in perpetuo fra dui muri, chi in prigion perpetua, chi in galea
perpetua, o per tempo, et alcuni appresso in certa somma di danari
per la fabrica, che s’ha da far d’un hospital per li heretici, et
tra questi vi sono stati sei gentil’homeni bolognesi; ma li altri
dui sono stati remessi al fôro secular, e conseguentemente destinati
alla morte et al foco: l’uno di loro è da Cividal di Bellon, frate
di san Francesco conventuale, maestro di theologia, condannato come
relasso, e l’altro il Carnesechi, incolpato di aver tenuta già lungo
tempo continuamente la heresia di Lutero e de Calvino, e d’aver più
volte ingannato l’officio della Inquisitione, fingendo di pentirsi,
ma in fatto essere stato sempre impenitente e pertinace, et in fine
d’haver havuto stretta conversatione et intelligentia con heretici e
sospetti d’heresia, scrivendo loro spesse volte, ed agiutandoli con
denari. E tra sospetti di heresia si è nominato qualcuno, che è morto,
del quale universalmente si ha già avuta ottima opinion di bontà e
santità, ma pare che si abbia premuto assai in tassar la corte del
cardinal Polo, non havendo rispetto di nominar alcuno, con intention
principalmente di far parer che con qualche causa Paulo IV havesse
cercato di procedere contro di lui e contra i suoi dipendenti, e per
tassar anco con questo forse qualche cardinale. Così è passato questo
atto di inquisitione, sopra ogn’altro che s’abbia fatto notabile.
E il Carnesechi, al qual per maggior infelicità è occorso di essere
stato condannato dinanzi la sepoltura di papa Clemente VII che sopra
ogn’altro lo haveva caro e favoriva, fò vestito di fiamme, come si
usa, insieme col frate, e condotto alla sagrestia a desgradar, e poi
menato in torre di Nona pregione, dove anchora si ritrova per esser
quest’altra settimana giustiziato. Hanno i cardinali dell’Inquisitione
fatta ogn’opera per salvarli la vita, ma, come dicono, egli in
pregione anchora dimostrandosi impenitente, ha scritto fuori lettere
per avertir altri sui complici, et ha negata ogni verità, anchor che
chiarissima, lasciandosi convincere sempre colle proprie lettere sue,
onde sono stati astretti far questa sentenza. Si desiderava ch’egli
non morisse, per rispetto di dar qualche satisfattion al duca di
Fiorenza, che lo diede a sua santità, e si saverìa che la regina di
Franza, ricognoscendo in parte da lui la sua grandezza, desiderava la
sua salute, se ben ha avuto rispetto di domandarla; ma egli ne’ suoi
costituti ha avuto a dire, che la regina dovea ricercar la serenità
vostra che intercedesse per lui. Delle entrate de’ sui benefizj già
riscosse, o che si devono riscuoder fin questo dì, le quali dicono che
importano circa cinquemila scuti all’anno, sua santità in gratification
del duca di Fiorenza ha fatto grazia alli sui parenti. Ma li beneficj
che vacano, che sono principalmente due buone abbadie, l’una nel reame
di Napoli, e l’altra nel Polesine, sua santità non ha voluto in modo
alcuno conferir.....

«Mercor fò qui giornata per diversi accidenti assai notabile. Perciò
che la mattina per tempo fò tagliata in ponte la testa al frate di
Cividal et a Carnesechi, e l’uno e l’altro poi abbrusciato. Morite
il frate di Cividal assai disposto; ma se ’l Carnesechi havesse
dimostrato perfetto pentimento, haverìa salvata la vita, che tale era
la inclination del pontefice e dei cardinali della Inquisitione. È
stato egli tanto vario nel suo dir e forse nel suo creder, che egli
medesimo in ultimo confessò non aver satisfatto nè alli heretici, nè
alli cattolici... Fu fatto domenica passata l’atto della inquisitione
nella Minerva con la presentia di ventidue cardinali. Sono stati
quattro impenitenti condannati al fuoco, uno dei quali pentitosi
quando era per esser giustiziato, hebbe gratia della vita, altri dieci
sono abjurati e condannati a diverse pene, e fra questi Guido Ginetti
(Zanetti) da Fano, che fu già mandato qua da Venetia, il quale è stato
forse venti anni immerso nelle heresie, et ha avuto parte in tutte le
sêtte, è stato condannato in prigion perpetua, e li è stata salvata
la vita, parte perchè dicono che per lui si ha havuto notizia di molte
cose importanti, parte perchè non è mai stato abjurato, e però non si
può haver per relapso, se ben ha continuato nell’errore tanti anni,
e li canoni non levano la vita a chi è incorso in errore per la prima
volta».

[343] Quali Giovanni, Carlo e Alessandro Diodati; Burlamachi Federico e
il famoso Gian Giacomo; Gian Lodovico Calandrini; Benedetto, Francesco,
Michele, Gian Alfonso, Samuele Turrettini, Vincenzo Minutoli; Giacomo,
Bartolomeo e Francesco Graziano Micheli; Gian Lodovico Saladini. Dai
Turrettini scesero molti uomini rinomati, e principalmente Giovanni
Alfonso, che si fece ammirare viaggiando per Europa, come uno de’
luminari della Chiesa riformata, e procurò conciliare le dissidenti.

[344] RAYNALDI, _ad annum_ 1562. Una riformagione del 1270 contiene i
nomi di essi banditi, che sono Giofredo di Bartolomeo Cenami, Nicola
Franciotti, Giuseppe Cardoni, Salvatore dell’Orafo, Antonio fratello
di Michelangelo Liena, Gaspare e Flaminia Cattani, Cesare di Vincenzo
Mei, Benedetto di Filippo Calandrini, Michele di Francesco Burlamachi,
Giuseppe Jova, Lorenzo Alò Venturini, Marco di Clemente di Rimino.

Fra gli apostati indicheremo qui Nicola Balbani di Lucca, che nel 1581
stampò a Ginevra la vita di Antonio Caracciolo (p. 477), la quale da
Vincenzo Minutoli fu tradotta il 1587 in latino e in inglese, e molto
si diffuse.

[345] Su di ciò vedi il tom. XII dell’_Archivio storico italiano_.

[346] La scritta dice: _Alexander papa III, Federici I imperatoris
iram et impetum fugiens, abdit se Venetiis. Cognitum et a senatu
perhonorifice susceptum, Othone imperatoris filio navali prœlio a
Venetiis victo captoque, Federicus pace facta supplex adorat, fidem et
obedientiam pollicitus. Ita pontifici sua dignitas venetæ reipublicæ
beneficio restituta_ MCLXXVII. Quest’ultima frase fu tolta quando
nacquero dissidj colla repubblica veneta.

[347] Una bella vita del cardinale Comendone fu scritta in latino da
A. M. Graziani (Parigi 1669) e subito tradotta in francese da Spirito
Fléchier, il quale dice che «la corte romana non ebbe mai ministro
più illuminato, più attivo, più disinteressato e fedele: condusse a
termine con rara perizia negoziati rilevantissimi in tempi difficili;
procacciossi l’amicizia de’ principi senza condiscendere alle passioni
e agli errori di essi; infaticabilmente adoprò ad assodar la fede e la
disciplina della Chiesa, e con senno e fermezza si oppose al torrente
delle nascenti eresie».

[348] Molte volte non potendo i padri accordarsi sull’espressione di
qualche articolo, gli davano solo la forma negativa, condannando cioè
una proposizione: nel qual caso non si possono voltar in positive,
giacchè il riprovare un’asserzione non implica che si tenga vera la
positiva opposta.

[349] Per esempio, trovava:

    _Ad cœnam agni providi_
      _Et stolis albis candidi_
      _Post transitum maris Rubri_
      _Christo canamus principi._
    _Cujus corpus sanctissimum_
      _In ara crucis torridum_
      _Cruore ejus roseo_
      _Gustando vivimus Deo._

Esso toglie le oscurità e le assonanze, e fa:

    _Ad regias agni dapes_
      _Stolis amicti candidis_
      _Post transitum maris Rubri_
      _Christo canamus principi:_
    _Divina cujus charitas_
      _Sacrum propinat sanguinem,_
      _Almique membra corporis_
      _Amor sacerdos propinat._

[350] Tito Prospero Martinengo di Brescia (-1595) collaborò alla Bibbia
Sistina, oltre rivedere le edizioni di san Girolamo, del Grisostomo e
d’altri. Marco Marini suo compatrioto (-1584) lasciò una _Grammatica
linguæ sanctæ_.

[351] Fu posta all’Indice da Gregorio XIV, ed è una rarità
bibliografica.

[352] Che Paolo Manuzio ne rivedesse lo stile è negato dal Lagomarsino,
il quale vuol redattori pel latino Muzio Calino, e i milanesi Pietro
Galesino e Giulio Pogiano. Vuolsi pur memorare la _Summa doctrinæ
Christianæ_ del gesuita Canisio, molto adoprata ancora in Germania.

[353] L’assemblea del clero di Francia nel 1657 fece ristampare e
diffondere a sue spese le _Istruzioni di san Carlo_.

[354] _Questa è la regola per la compagnia dei servi dei puttini
di charità, che insegna le feste ai puttini et puttine a leggere et
scrivere et li boni costumi, gratis et amore Dei_, 1565. Chi ama la
storia del retto insegnamento, ponderi questo libriccino.

[355] Editti del 7 marzo 1579, e del 13 novembre 1574.

[356] Egli avea vietato che nessuno, predicando, dicesse il giorno
del fine del mondo: _ne certum tempus antichristi adventus et extremi
judicii diem prædicent; cum illud Christi Domini ore testatum sit,
non est vestrum nosse tempora vel momenta_; Act. pag. 3. Pure nel V
concilio provinciale dice: _Ad nuptias matrimoniaque impedienda vel
dirimenda eo cum ventum sit, ut veneficia fascinationesve homines
adhibeant, atque usque adeo frequenter id sceleris committant, ut res
plena impietatis ac propterea gravius detestanda; itaque, ut a tanto
tamque nefario crimine pœnæ gravitate deterreantur, excommunicationis
latæ sententiæ vinculo fascinantes et venefici id generis irretiti
sint_. De’ processi suoi per stregherie parlammo a pag. 352: fatti
speciali, la cui colpabilità non può asserirsi se non dopo esaminato
ciascuno, e veduto quanto si peccasse contro la carità e abusando di
oggetti sacri. D’altra parte, anche posto impossibile il delitto, il
tentarlo palesa malvagità, e può punirsi come l’attentato fallito. Una
difesa dell’Inquisizione, quale oggi può farsi, vedi in TAPPARELLI,
_Saggio teoretico_, XCIII.

* Le penitenze non le pose soltanto nel rituale, ma le voleva eseguite.
È nell’archivio arcivescovile una sua lettera del 6 maggio 1569, dove
ordina che Giacomo Riva di Calenico e Margherita de Filippi di Tonza
in val di Blenio, che avean avuto ardire di coabitare prima d’essere
benedetti dal curato «tutte le domeniche d’un anno continuo stiano
ambedue su la porta della chiesa con una corda al collo e con una
candela accesa in mano mentre si dirà la messa, e il sacerdote che
dirà la messa avvisi il popolo della causa perchè si fa far loro questa
penitenza, che è per l’inobedienza predetta».

[357] I signori Svizzeri, saputolo, spedirono un ambasciadore a Milano
perchè quel governatore richiamasse il cardinale. L’ambasciadore
scavalcò in casa d’un mercante compatrioto; ma prima che presentasse le
credenziali, l’Inquisizione l’arrestò. Il mercante informò del successo
il governatore, che fece rilasciar l’ambasciadore e onorollo: ma gli
Svizzeri, appena udito il fatto, mandarono intimare avrebbero arrestato
il cardinale, che per lo meglio si ritirò.

[358] Del De Vio, di cui parlammo nel tom. IX, p. 329, conosciamo un
opuscolo _De Monte Pietatis,_ Roma 1515, diretto a Leone X, contro i
monti di pietà quando se ne trattava nel concilio Lateranese; e mostra
che _nullo modo injustitiæ macula abest a capitulis montis hujus; et
etiam quocumque alio modo casos formetur, justitia et æqualitas non
servatur_. In quell’età molto disputossi sulla moralità di siffatta
istituzione, in grazia della dottrina che condannava il ricavar
interesse dal danaro.

[359] _Decreta generalia in visitatione Comensi edita_. Vercelli 1579,
e Como 1618.

[360] Vedi MUTINELLI, _Storia arcana_. Nelle visite alla parrocchia
di San Cassiano a Venezia attorno al 1570, riportate dal Galliccioli,
appare molto comune la scostumatezza de’ preti, ordinandosi ogni tratto
agli uni di far penitenze per peccati commessi, ad altri d’abbandonar
pratiche, di non bazzicare meretrici; chi non sapeva il latino, chi
dava pubblici scandali, chi giocava. Nel carteggio dell’ambasciadore
veneto a Roma sotto il 30 novembre 1585 leggiamo: — Il pontefice è
stato informato da diversi che molti delli monasteri di Venezia e della
diocesi di Torcello sono in uno malo stato, e ridotti alcuni di loro a
pubblici postriboli; e ha detto di volervi provvedere».

[361] Vedi pag. 421. Nel 1563 viaggiò in Italia Filippo Camerario,
illustre dotto tedesco, il quale descrisse quel viaggio giorno per
giorno, più fermandosi sulla parte materiale. Sparla del Regno,
allegando il proverbio «il Napolitano è un delizioso paradiso, ma
abitato da diavoli», e si meraviglia come il re di Spagna da paesi
tanto feraci tragga o nulla o pochissimo, dovendo spender tutto nel
frenare i sudditi e respingere i Turchi. Descrive i fenomeni del
tarantismo: e che spesso all’entrare in una città eran obbligati
deporre le armi e le pistole, ricuperandole poi all’uscita; del che
non sa trovar la ragione, massime che v’ha osterie dove si è più in
pericolo che sopra alcune strade di Lombardia e di Toscana. A Roma
fa il solito piagnisteo sulla diversità dall’antica; ma soprattutto
decaduti gli sembrano gli uomini, la più parte ignari fin delle
lettere. «Poeti, filosofi, oratori v’ha per certo, ma tali che non
vorresti udirli: chiaman poeti certi ciarlatani che cantano per le
strade versi lascivi; filosofi che tutto attribuiscono alla natura,
o secondano le voluttà; oratori che mai non lessero Cicerone nè
Demostene, ma arringarono una o due cause». Quivi di peggio gli toccò,
poichè sul partire l’Inquisizione lo colse, e gittò in orrenda carcere,
ove stava da un anno Pompeo De Monti barone napoletano, reo d’uccisioni
e d’incendj, ma allora imputato d’eresia. Il Camerario si confessò
luterano, onde cercarono trarlo alla nostra Chiesa: il gesuita Canisio
gli procurò agevolezze, e gli dava libri per convertirlo: e se il
domenicano frate Angelo il vessava, usavagli ogni cortesia il dottor
Donato Stampa milanese: un Cencio carceriere lo salvò da insidie e
veleni, un medico umanissimo l’assisteva, un ignoto gli offerse denaro
pel ritorno. Egli medesimo ne stese una _relatio vera et solida_ per
dimostrare come Dio, per mezzi insperati, campi i suoi dalle mani
de’ nemici, e liberi dalle calunnie. Suo inquisitore era stato il
Ghislieri, e perciò gli si avventa accannito.

[362] L’ambasciadore veneto, in agosto 1566, assistette a una cena
di Pio V: «Mangiò quattro susini cotti con zuccaro: quattro bocconi
di fiori di boracina acconci in salata da lui medesimo; una minestra
d’erbe; dui soli bocconi d’una fortaja fatta con erbe, e cotta in acqua
solamente senza olio e senza onto sottile; cinque gamberetti cotti in
vino; e dopo pasto tre bocconi di pero o persico cotto, con che finì la
cena; nè altra vivanda fa portata in tavola. Bevve due volte, ma tanto
quanto comunemente un altro beve in una sola».

Lo spaccio 15 aprile 1570 d’esso ambasciadore dice: — Il Pistoggia,
ch’è un predicatore molto famoso dell’ordine delli Cappuccini, e grato
al papa, perchè lo ha per homo molto dabbene e catholico, ritornato
ultimamente in Roma, è stato introdotto a sua santità, alla quale da
poi che hebbe basciato il piede e dato conto dove havea predicato,
disse ch’era sforzato inanti sua santità gridar sempre _misericordia,
misericordia_, perchè vedeva tante anime andar in perditione in poter
d’infedeli et in mano di cani, e ch’essendo lei vicario di Jesu-Christo
in terra, toccava a lei la cura di queste anime, e che le saria
dimandato ragione d’esse da Dio perchè non li usava misericordia. E
che vedeva bene ch’ella era pronta alla giustitia, e che ogni giorno
faceva impiccare e squartare hora uno, hora un altro; ma che doveva
ricordarsi che, per un luogo della Scrittura che nomina Dio giusto,
ne sono dieci che lo nominano misericordioso; onde volendo imitar Dio,
come è debito suo, doverà più esser sollecita in ajutare e sostentare,
e defendere le anime che vanno in perditione per la potenza dei Turchi,
che in castigare per giustizia li scelerati. E le considerò molti
vescovi antiqui che havevano messi se stessi in potere delli nemici
per liberare altri, e fra li papi moderni Calisto, Pio, Innocentio, che
venderono li beni delle chiese per far guerra contro li Turchi. Disse
molte cose in questo proposito con gran libertà per un gran spacio:
et il pontefice, benchè si sentisse trafitto, però non mostrò d’haver
niente a male di quello che diceva. Ma poi ch’ebbe finito, disse
con un gran sospiro che egli diceva il vero in ogni cosa, ma che non
sapeva li travagli in che si trovava; ch’era in un papato poverissimo e
debolissimo, et oppresso da ogni parte, et che se voleva far un bene,
haveva mille impedimenti, e non solamente da heretici e da inimici
della fede, ma da quelli che fanno professione d’amici, che con mille
modi fanno offese a Dio, e pensano d’opprimere l’autorità di sua maestà
in terra: il che le travagliava l’animo grandemente; ma che con tutto
questo sua santità gli ha pietà, e vorria ajutar tutti, se bene doverìa
castigarli; e si mostrò piena di ramarico per occasione di questa
guerra, e per il poco modo che haveva d’ajutarla.

[363] Dispaccio di Paolo Tiepolo da Roma, 16 febbrajo 1566. E vedi il
capo seguente.

[364] TIRABOSCHI, Storia letteraria, tom. VII. lib. I. c. 3.

[365] Quelle false decretali, che per lungo tempo si dissero inventate
a Roma, diffuse in Ispagna e di là nel mondo, introducendo nuovi canoni
e diritto nuovo per consolidare l’autorità dei papi a scapito di quella
dei vescovi, apparvero tutt’altro avanti a leali cercatori, protestanti
e cattolici. La prima indagine avrebbe dovuto cadere sul corpo del
delitto, e si provò che tutti ne aveano discorso senza conoscerle sia
nei testi, sia nell’unica informe edizione fattane da Merlin nel 1530.
Una esatta descrizione ne porse il dottore Phillipps; poi l’abate Migne
le stampò nel vol. CXXX della sua _Patrologia_, con una dissertazione
del dottore Denzinger professore a Wurzburg.

Risulta di là che la Spagna non le conobbe mai; che sino al secolo XI
uscente non ebbero mai autorità in Italia; a tal segno che nel 1085 il
cardinale Otto, il quale fu poi Urbano II, incontrandone primamente
alcune in un concilio tedesco, le ripudia con disprezzo; che l’opera
fu compilata in Germania, probabilmente da Benedetto Levita, cherico
dell’arcivescovo di Magonza Autcario.

Quanto al fondo, le decretali non toccarono pur un punto che già non
fosse stabilito; e scopo loro è di sorreggere i diritti de’ primati
a fronte de’ metropoliti, cioè sostenere l’indipendenza de’ vescovi,
anzichè rialzare il poter pontifizio. L’autore, tutt’altro che
ignorante e inetto, non inventò nulla, ma tolse brani e brandelli da
lettere di papi, dai codici di Teodosio ed Alarico, dalla regola di san
Benedetto, dal _Liber pontificalis_, e da altre autorità, rispettate
anche prima dell’834 in cui egli cominciò.

[366] Nella chiesa di San Gaudioso a Napoli si conserva una caraffina
del sangue di santo Stefano, che soleva liquefarsi il 3 agosto; e
riformato il calendario, non bollì più che al 13. Così fu di quel
di san Gennaro al 19 settembre: prova che quella riforma era stata
aggradita in cielo, benchè non dappertutto in terra. Il Pancirolo, al
cap. 177, _De Claris legum interpretibus_, racconta che alcuni noci,
i quali stanno secchi fin alla mattina del San Giovanni, e allora
compajono coperti di frutti e foglie, anticiparono questa meraviglia
secondo il calendario nuovo.

[367] BARONIO _ad annos_; THEINER, _La Chiesa russa_.

[368] Vedi A. POSSEVINI _Moscovia_. Vilna 1586. Marco Velser, da
Augusta il 18 aprile 1608, scrive al Gualdo a Roma: — Conta il
Possevino che in Moscovia, al suo primo arrivo in corte, gli misero
innanzi certa minestra, fatta ad uso del paese, troppo insipida;
ed avendo domandato come gli gustava, parve che per creanza non
potesse rispondere salvo che _Bene_; a che appigliandosi que’ bojari,
soggiunsero subito: _Antoni, habebis quotidie_. Nè mancarono di
attenergli la promessa fedelissimi».

È descritta l’ambasciata che nel 1656 venne da Moscovia a Venezia,
dove i Russi stupivano che la marea, abbassandosi, non menasse vie
le case, che credeano galleggianti; e supponevano che le macchine
teatrali fossero semoventi. Di quella arrivata a Venezia il 1582, vedi
MUTINELLI, _Storia arcana_.

Della parte che il Possevino ebbe nella spedizione contro i Valdesi,
rende conto in una memoria edita dallo Zaccaria nell’_Iter literarium
per Italiam_, part. II. op. VIII. Vedi la _Vita del Possevino_ scritta
da Nicolò Ghezzi.

[369] Vedine la vita, scritta dal suo segretario Agostino Bruni,
_Veterum scriptorum amplissima collectio_ tom. VI. p. 1387.

[370] GERDES, _Specimen Italiæ reformatæ_, pag. 262.

[371] _De modernis Jesuitarum moribus_, col finto nome di Filadelfo, e
la falsa data d’Ignatianopoli 1672. Il residente veneto a Roma, sotto
il 12 aprile 1567, cioè ventisette anni dopo approvata la Società,
scriveva alla Signoria: — Ha concesso sua santità a’ Gesuiti di
poter tenere fin centomila scuti di monti, appresso le altre cose che
possedono in questa città. Sono essi qui in gran numero, dipendendo
da loro principalmente il culto divino e la educazione buona della
gioventù, perciocchè tengono quattro case o palazzi principali,
due de’ quali servono per abitazione loro, dove hanno le lor chiese
mirabilmente frequentate, dove ogni giorno concorrono molte persone a
confessarsi e comunicarsi, e nelle due altre maggiori si nutriscono, e
disciplinano nella religione e nelle buone lettere più di quattrocento
giovanetti con ordine singolare sotto nome di seminario e collegio
germanico; oltre che per loro medesimi si tengono pubblicamente lezioni
in ogni sorte di professioni, da leggi in fuori, e sono da sua santità
adoperati in molte cose spettanti alla fede, da che si hanno acquistato
appresso ognuno gran nome di bontà e di dottrina».

[372] L’abbiam pubblicato noi nella STORIA UNIVERSALE, ed. VIIª,
Schiarimento Q al Libro XV. Ma il Pezzana crede (V. _dell’Affò_, pag.
63) non sia de’ Gesuiti, bensì della Compagnia del santissimo nome
di Gesù, istituita a Parma il 1542, che, oltre insegnar la dottrina
cristiana e confortare i giustiziati, avea l’obbligo «de advisare
il principe et soi gobernatori de tutti l’inconvenienti». Può farvi
riscontro la nota degli abusi che correano in Milano, sporta al re
di Spagna per parte di san Carlo, e che leggesi a p. 76 vol. II dei
Documenti circa la vita e le gesta di san Carlo. Milano 1857.

[373] Il padre Spotorno lo dichiara il primo che assennatamente
riordinasse gli studj filosofici.

[374] Se ci piacquero tanto le epistole di Cicerone, non torceremo il
labbro a questa che san Filippo Neri dirigeva a Clemente VII: — Santo
Padre, cosa son io che i cardinali vengano a trovarmi? Jer da sera
ci furono il cardinale di Cusa e Medici. E avendo io bisogno d’un po’
di manna, quest’ultimo me ne fece dare due once dall’ospedal di Santo
Spirito, a cui n’ha procurato molta. Restò da me fin alle due di notte,
dicendo di vostra santità tanto bene che parvemi troppo; giacchè, a
parer mio, un papa dev’essere trasformato nell’umiltà stessa. Alle
sette Cristo è venuto da me, e mi ha riconfortato col sacratissimo suo
corpo. Vostra santità invece neppur una volta s’è degnato venire alla
nostra chiesa. Cristo è Dio e uomo, eppure ogni qualvolta lo chiedo
viene da me... Ordino a vostra santità di permettermi d’ascriver
alle monache la figlia di Claudio Neri, alla quale da un pezzo avete
promesso di prendervi cura de’ suoi figliuoli. E un papa deve mantener
la parola; sicchè affidate a me questo affare ecc.».

Clemente sul foglio stesso gli rispondeva: — Il papa dice che la prima
parte del viglietto sente d’ambizione, ostentando le frequenti visite
dei cardinali; se pur non fosse per mostrare che queste sono persone
pie, del che nessuno dubita. Che se non è venuto in persona, è colpa
vostra, che non voleste mai esser cardinale. A quel che comandate
consente, e che voi sgridiate quelle buone madri, come solete, con
forza e autorità se non obbediscono alla bella prima. Di rimpatto vi
comanda di curare la vostra salute, e non tornar a confessare senza
ch’egli lo sappia; e che quando riceverete nostro Signore, preghiate
per lui e per le permanenti necessità della repubblica cristiana».
Negli _Acta Sanctorum_ al 26 maggio.

[375] _Annales antiquitatum ab orbe condito usque ad annum_ 2024. —
_Imperium pendere a veris et non simulatis virtutibus. — De antiquo
et novo Italiæ statu. — De jure status — De ruinis gentium et regnorum
etc_.

[376] OTTAVIO MARIA PALTRINIERI, _Memorie intorno alla vita di Primo
del Conte_. Roma 1805.

[377] Enrico III andò a visitarla in quell’incognito che lasciasi
indovinare, e le chiese il ritratto in ricambio dell’immagine sua che
le lasciò nel cuore:

    Così venne al mio povero ricetto
    Senza pompa real che abbaglia e splende:
    Benchè sì sconosciuto, anch’al mio core
    Tal raggio impresse del divin suo merto,
    Che a me s’estinse il natural vigore.

GAMBA, _Lettere di donne italiane del secolo_ XVI, Venezia 1832.

[378] La carità a domicilio e i visitatori del povero, istituzioni
tanto lodevoli dell’età nostra, appartengono anch’esse a quel medioevo,
che tanti esempj ci potrebbe offrire studiato con benevolenza. Nel
1402, Pileo de Marini vescovo di Genova aveva istituito un uffizio
per raccorre e distribuire limosine ai poveri della città. Questo
_magistrato della Misericordia_ fu poi amplificato, e aggiuntovi
l’_uffizio dei Poveri_, i cui statuti furono fatti nel 1593.
Sant’Antonino, non ancora arcivescovo di Firenze, il 1441 ordinò
i _Provveditori de’ poveri bisognosi_, che dal popolo furono detti
Buonomini di san Martino, i quali, divisi pei sestieri della città,
soccorrevano a tutte le necessità dei poverelli, a maritar fanciulle, a
dar letti, coperte, panni, medicine, a riscattare i pegni, a ritrarre
dal vizio; con divieto alla pubblica autorità civile nè ecclesiastica
d’intromettersene, o di mutarne gli ordini, o di esplorarne gli averi;
tutto volendo affidato all’onestà de’ provveditori e alla Provvidenza.
In tal modo si distribuivano l’anno quattordicimila zecchini, e
diecimila nel secolo seguente. PASSERINI, _Storia degli istituti di
beneficenza di Firenze_.

[379] Nel 1589; e fu primamente pubblicato dal Cavedoni nelle _Memorie
di Modena_ del 1829.

[380] _Lettere miscellanee_, tom. I. p. 580.

[381] GIUSEPPE BAINI, _Memorie storico-critiche della vita e delle
opere di Pierluigi da Palestrina_. Roma 1828. — WINTERFELD, _Giovanni
Gabrieli ed i suoi contemporanei, o Storia del fiore del canto sacro
nel secolo_ XVI_, spezialmente nella scuola di musica di Venezia_.
Berlino 1834.

[382] _Epist_. 1312.

[383] Grozio assegna come primario diritto maestatico l’imporre la
religione dello Stato; _In arbitrio est summi imperii quænam religio
publice exerceatur; idque præcipuum inter majestatis jura ponunt omnes
qui politica scripserunt._

[384] Il GIANNONE, sempre furioso contro le libertà, enumera a lungo
questi _pregiudizj_ recati dalle esenzioni ecclesiastiche, espone
le opposizioni del governo, e declama contro i papi che «cercavano
togliere ai re di Napoli una prerogativa cotanto loro cara, ch’è
reputata la pupilla de’ loro occhi e il fondamento principale della
loro giurisdizione, l’_exequatur regium_, che si ricerca nel regno alle
bolle e rescritti del papa, e ad ogni altra provvisione che viene da
Roma». _Storia civile del regno di Napoli_, lib. XXXIII. c. 3.

[385] Perfino il Daru, enciclopedista professo, dichiara che nella
nostra età si guardano con dispregio le dispute ecclesiastiche che
allora travagliavano gli uomini, senza considerare di qual importanza
fossero a quei tempi, nè gli effetti troppo veri che produceva
un’opinione oggi sprezzata. _Storia di Venezia_, lib. XIX.

[386] Alcuni ecclesiastici impedivano di far passare le acque sulle
loro terre: libertà d’acquedotto ch’è uno de’ più utili statuti
antichi del Milanese, e causa di tanta prosperità agricola. San Carlo
considerando _hac in re non de ecclesiæ ejusve ministrorum damno, sed
de utilitate evidente agi_, comanda di non opporvisi. Editto 21 agosto
1572.

[387] Contano fin ventidue confutazioni, tra cui l’_Antibellarmino_ di
Adamo Scherzer; un altro di Samuele Ueber; l’_Antibellarmino contratto_
di Corrado Vorstio; l’_Antibellarmino biblico_ di Giorgio Albrecht;
il _Collegio antibellarminiano_ di Amando Polano; le _Disputazioni
antibellarminiane_ di Lodovico Crell; il _Bellarmino enervato_ di
Guglielmo Amesio: e taciamo altri, fra cui le confutazioni di re
Giacomo Stuart. Anche Duplessis-Mornay scrisse: «il Mistero d’iniquità
o storia del papato; per quali progressi salì al colmo; che opposizione
gli fece la gente dabbene di tempo in tempo; dove si difendono i
diritti degl’imperatori, re e principi cristiani, contro le asserzioni
de’ cardinali Bellarmino e Baronio». Saumur, 1611.

Un librajo forestiero da una ristampa delle _Controversie_ avendo
lucrato tredicimila scudi, volle regalarne quattromila al Bellarmino,
che ricusò. GIAMBATTISTA LAURO ORCHESTRA, pag. 69. Fu asserito che
quell’opera non fosse sua, ma compilata dai Gesuiti d’accordo. Il padre
Bartoli, oltre l’_Istoria della Compagnia di Gesù in Italia_ (Roma
1673), dettò pure la vita del Bellarmino col solito stile.

[388] Carteggio dell’ambasciador veneto, 29 luglio 1581.

[389] _De laicis_, lib. III. c. 6: _Certum est politicam potestatem
a Deo esse.... jus divinum nulli homini particulari dedit hanc
potestatem; ergo dedit multitudini... Respublica non potest per se
ipsam exercere hanc potestatem; ergo tenetur eam transferre in aliquem
unum vel aliquos paucos... Pendet a consensu multitudinis constituere
super se regem vel consules vel alios magistratus_.

[390] _Summus pontifex simpliciter et absolute est supra Ecclesiam
universam et supra concilium generale, ita ut nullum in terris supra se
judicem agnoscat. De concilii auctoritate_, cap. 17.

[391] _De romano pontifice_, II. 29.

[392] _Reges quæ imperent justa facere imperando quæ volent injusta.
— De cive_, 112. L’opinione attribuita al Bellarmino si fonda
principalmente sul _De romano pontifice_, lib. IV. c. 5; ma l’ultimo
punto suole travisarsi.

[393] Suarez dimostra che sentimento comune de’ giureconsulti e teologi
era che il potere dei re vien loro da Dio per mezzo del popolo, e ne
sono responsali non solo a Dio, ma anche al popolo. Un predicatore
davanti a Filippo II a Madrid, avendo pronunziato che «i sovrani hanno
potere assoluto sulla persona e i beni de’ sudditi», l’Inquisizione
lo processò, condannollo a penitenze e a ritrattarsi, dicendo dal
pulpito che «i re non hanno sui loro sudditi altri poteri se non quello
accordato loro dal diritto divino e dall’umano, e nessuno che proceda
dalla loro volontà libera ed assoluta». Vedi BALMÈS, _Il Protestantismo
paragonato al Cristianesimo._

[394] SECKENDORF, _Historia luteranismi_, tom. I. p. 115 e 116.

[395] LUTHERS, _Sämmtliche Schriften_, tom. XXI. p. 1092 (edizione
Walch.); MELANCTON, _Op_., col. 598, 835, ecc.

[396] Celestini, Act. Comit. Aug., tom. II. p. 274; tom. III. pag. 18.

[397] Al 20 febbraio 1582 il residente veneto a Roma informava d’una
_pubblicazione_ di diciassette inquisiti dal Sant’Uffizio, tre dei
quali furono mandati al fuoco come relapsi, altri come fatucchieri
e stregoni a pene diverse. Fra i bruciati era Jacopo Paleologo di
Scio, famoso eresiarca unitario, riprovato per eccessivo sin da
Fausto Socino; e dopo girato assai per Germania, fu tradotto a Roma e
condannato.

[398] _Epistolæ_, col. 150.

[399] Vedi _Monografie friulane_, 1847, pag. 18.

* Nel 1558 il senato veneto deputò alcuni commissarj, che uniti
a quelli del patriarca d’Aquileja, inquisissero alcuni eretici in
Cividale (LIRUTI, _Notizie del Friuli_, vol. V fine); al tempo stesso
che il luogotenente del territorio di Gradisca avvertiva il capitolo
d’Aquileja a procedere contro il suo vicario di Farra, il quale
ricusava levare e accompagnare i morti secondo l’antico rito, toglieva
le sacre immagini e ne vietava il culto a’ suoi (MORELLI, _Storia di
Gorizia_, vol. I, pag. 295). Nella contea di Gorizia penetrarono alcuni
luterani dalla Carniola e dalla Carintia, ma erano poco favoriti. Lo
zelo di Giovanni Tauscher parroco vigilò su quei che sorgessero, ed
erano esigliati dal principe.

[400] Il medesimo descrive un atto-di-fede eseguito in Roma, ove sette
furono condannati alle galere come testimonj falsi; sette abjurarono;
un relapso fu rimesso al fôro secolare, ed era «don Pompeo de’ Monti,
di sangue assai nobile, fratello del marchese di Cortigliano, e stretto
parente del cardinale Colonna; ma finora non è stato fatto morire».
Dispacci 2 e 9 marzo, 27 aprile e 29 giugno 1566. Ap. MUTINELLI,
_Storia arcana_.

[401] Appare da Paolo Sarpi, e massime dalle sue lettere al Priuli,
ambasciadore al Cesare. Egli ha un consulto se l’eccelso consiglio de’
Dieci deva esaminare i rei ecclesiastici coll’intervento del vicario
patriarcale, e sostiene il no. Nelle sue lettere informa ogni tratto
de’ ripullulanti litigi di giurisdizione colle varie potenze. Per es.
nella LXV: — In Sicilia è occorso, che volendo il vicerè punire un
prete non so per che delitto, egli si salvò in chiesa, e l’arcivescovo
lo difendeva e per esser prete e per esser in chiesa. Le quali cose
non ostanti, il vicerè lo fece levar di chiesa e impiccare immediato.
L’arcivescovo pronunciò il vicerè scomunicato, e il vicerè fece piantar
una forca innanzi la porta del vescovato con un editto di pena del
laccio a quelli ch’erano di fuora se entravano, e a quelli di dentro
se uscivano fuora. Di questo è stato mandato corriere espresso a Roma,
dove non hanno molto piacere che si parli di successi di questo genere;
atteso che per queste cause di giurisdizione ecclesiastica pare che in
tutti i luoghi nascano controversie, e che essi per tutto le perdono».

Nella LXIX: — Alcuni monaci di Padova, avendo molte baronìe tutte
possedute da loro, avevano formato una giurisdizione sopra li
contadini, la quale gli è stata levata con disgusto del papa. Roma
sopporta ogni cosa, ma finalmente converrà overo rompersi, overo perder
tutto. Il papa ha creduto far dispiacere, non facendo cardinale alcun
veneto; ma li buoni l’hanno per cosa di pubblico servizio».

Nella LXXIV: — Trattano gli Spagnuoli di fortificar Cisterna, ch’è
un luogo confine tra il ducato di Milano e il Piemonte, e quello che
importa, è feudo del vescovato di Pavia, onde dispiacerà e al duca e al
papa. Questo lo sopporterà, e quello non può resistere».

Nella LXXV: — Si è abboccato il duca di Savoja in Susa con monsignor
Lesdiguières, e quel principe tratta continuamente con capitani di
guerra. Che disegni egli possa avere, qua non è ancora penetrato, nè io
posso pensar altro, salvo che voglia dare qualche gelosia a Spagna. È
andata attorno una certa voce, che il suo primogenito voglia vestirsi
cappuccino. Io non posso assicurare questo per vero; ma questo son
ben certo, che sua altezza ha comandato alli Cappuccini, che nelli
luoghi del suo dominio non tengano frati, se non sudditi suoi naturali.
Ha ancora quel duca fatto spianare una rôcca nella terra di Vezza,
feudo della chiesa d’Asti; nè per questo il pontefice fa quel tanto
rumore, che s’averebbe potuto credere. Li Spagnuoli hanno fatto quattro
richieste al papa: una, che non si metta pensione in capo di Spagnuoli
per Italiani; la seconda, che le cause anco in seconda instanza siano
giudicate in Spagna; la terza, che il re abbia la nominazione di tutti
li vescovati delli Stati suoi d’Italia; e la quarta, che, in luogo
delle spoglie di Spagna, si statuisca un’intrata annuale ordinaria, e
non si faccia più spoglie. Pareva che sopra le tre prime si fosse posto
silenzio; nondimeno tornano in trattazione, e di Spagna si aspetta
persona espressa, che viene per sollecitare l’espedizione, e di Roma
mandarono in Spagna il padre Alagona gesuita, per mostrare che le
dimande sono contra conscienza.

«L’altro giorno è stato carcerato per il Santo Officio l’abate di
Bois francese dell’ordine de’ Celestini per ordine della regina, per
esser quest’uomo sedizioso, e che dopo la morte del re abbia predicato
pubblicamente cose in pregiudizio della religione: e quello che gli ha
cagionata questa risoluzione, è stato per avere sparlato alla gagliarda
de’ Gesuiti, e detto pubblicamente ogni male. E volendo il consiglio
e la regina farlo carcerare, fu deliberato a non venir a simile
risoluzione, dubitando di qualche sollevamento, avendo quest’uomo
gran seguito, ma con intenzione di mandarlo a trattar certo negozio
per servizio della regina a Fiorenza: ed in questa corte l’hanno
benissimo trappolato, e sì bene che la passerà male, non avendo alcun
appoggio e malissimo veduto dall’ambasciatore di Francia; e li Gesuiti
faranno ancor loro quanto potranno acciocchè non abbia più modo di
sparlar di loro: perchè fra le altre cose si affatica a più potere a
dare da intender alli Francesi in Parigi, che detti Gesuiti avevano
cagionata la morte del re; del che persuasi quelli popoli, un giorno
avrebbono potuto fare qualche segnalato risentimento contra di loro.
Io pronostico che questo pover’uomo debba correre la fortuna di frà
Fulgentio Cordeliere, e prego Dio che gli abbia misericordia».

Nella LXXVI: — Già diedi conto a vostra signoria della cattura
dell’abate di Bois successa in Roma. Debbo dirli di più cosa che
allora non sapeva, che il pover’uomo, forse dubitando di quello che
gli è avvenuto, non volse partir da Siena se non avesse prima un
salvocondotto del pontefice; con quello se ne andò, e si credette
esser sicuro; ma nè è il primo, nè sarà l’ultimo, che si fiderà di chi
si professa non esser obbligato a servar fede. La cattura si scusa
dalla Corte con dire, che il salvocondotto pontificio non si cura
dell’Inquisizione. Fu preso il dì 10 e il 24 fu impiccato pubblicamente
in campo di Fiore; ma la mattina per tempo fu immediate levato
dalla forca, e portato a sepellire, senza che si possa penetrare che
cosa significhi questa mistura di pubblico e d’occulto. Certo è che
l’ambasciadore del re ha parte in quella morte.

«Altro non abbiamo in Italia di nuovo se non che il Piemonte è pieno
di soldati, ma però con certezza che in Italia non debba esser nissuna
novità, e che tra tanto quel paese si rovina. In Torino è avvenuto un
accidente considerabile. Il vescovato d’Asti ha alcune terre, delle
quali più volte è stata controversia tra il duca e gli ecclesiastici,
pretendendo questi che la sopranità sia del papa, e il duca come
conte pretendendo che debbano esser riconosciute da lui. Finalmente
in questi tempi essendosi fatta una fortificazione e reparazione, il
nuncio del pontefice ha fulminato una scomunica contra il presidente
Galleani; però l’ha pubblicata solamente in scritto. Li ministri del
duca, veduto questo, hanno fatto una dichiarazione di avere il decreto
del nuncio come nullo ed ingiusto, comandando che senza averli risposto
si proceda all’esazione; e sono passati anco a usar queste parole, che
non solamente il tentativo intrapreso dal nuncio è nullo, ma ancora
quando venisse dal papa medesimo. Si aspetterà di vedere dove terminerà
questo principio assai considerabile, e che un giorno sarà fatto dalla
repubblica per Ceneda, massime che molte turbolenze sono per confini».

[402] Venezia 1670, cap. 116.

[403] _Statuti dell’Inquisizione di Stato_, supplem. I, art. 3.

[404] — E se gli detti doge e senato, per tre giorni dopo il fine
dei ventiquattro giorni, sosterranno con animo indurato (il che Dio
non voglia!) la detta scomunica, noi, aggravando la detta sentenza,
da adesso parimenti siccome da allora sottoponiamo all’interdetto
ecclesiastico la città di Venezia e le altre città, pronunciandole e
dichiarandole tutte poste a detto ecclesiastico interdetto; il quale
durante, in detta città di Venezia e in qualsivoglia altra città,
terre, castella e luoghi di detto dominio, e nelle loro chiese e luoghi
pii e oratorj, ancorchè privati e cappelle domestiche, non possono
celebrarsi messe solenni e non solenni e altri divini officj, eccetto
che nei casi dalla legge canonica permessi, e allora solamente nella
chiesa e non altrove, e in quelle con tener ancora le porte chiuse
e senza sonar campane, ed escludendo affatto gli scomunicati e gli
interdetti; nè in quanto a questo possano di altra maniera suffragare
qualunque indulti o privilegi apostolici concessi o che si concedessero
per l’avvenire in particolare o in generale a qualsivoglia chiese tanto
secolari, quanto regolari, ancorchè sieno esenti ed immediatamente alla
sede apostolica soggetti, e se bene sono di jus patronato eziandio per
fondazione e dotazione o per privilegio apostolico dell’istesso doge e
senato...

«Ed oltra di questo, priviamo e decretiamo che restino privati gli
suddetti doge e senato di tutti i feudi e beni ecclesiastici se
alcuno ne possede in qualunque modo, dalla romana e dalle nostre o
altre chiese; e ancora di tutti e qualsivoglia privilegi e indulti, i
quali in generale o in particolare sono stati forse loro concessi in
qualsivoglia modo da’ sommi pontefici nostri predecessori, di procedere
in certi casi per delitti contro i cherici, e di conoscere con certa
forma prescritta le cause loro. E niente di meno, se detti doge e
senato persisteranno più lungamente pertinaci nella contumacia loro,
riserviamo a noi e successori nostri pontefici romani nominatamente
e specialmente la facoltà di aggravare e riaggravare più volte le
censure e pene ecclesiastiche contro di essi e contro gli aderenti
loro, e contro a quelli che nelle cose suddette in qualsivoglia modo
gli favoriranno o daranno ajuto, consiglio o favore, e di dichiarare
altre pene contro gli stessi doge e senato, e di procedere secondo la
disposizione dei sacri canoni ed altri rimedj opportuni; non ostante
qualsivoglia costituzioni e ordinazioni apostoliche e privilegi,
indulti e lettere apostoliche agli detti doge e senato, o qualsiasi
loro persone concessi, in generale o in particolare, ed in ispecie
disponenti che non possano essere interdetti, sospesi e scomunicati
in virtù di lettere apostoliche, nelle quali non si faccia piena ed
espressa menzione di parola in parola di tale indulto, ed altrimente
sotto qualunque tenore e forme, e con qualsivoglia clausola eziandio
deroganti alle derogatorie, ed altre più efficaci ed insolite e con
irritanti ed altri decreti, ed in ispecie con facoltà di assolvere nei
casi a noi ed alla sede apostolica riservati, a quelli in qualsivoglia
modo, da qualunque sommi pontefici nostri predecessori, e da noi e
dalla Sede apostolica, in contrario delle cose sopradette, concesse,
confermate ed approvate».

* Inoltre, nel processo contro Antonio Foscarini (sospettato anch’egli
di opinioni ereticali) è un carteggio di Pietro Contarini ambasciadore
di Venezia in Francia, del 1515, ove scrive d’aver inteso dal nunzio
pontifizio che «vivendo il fu re, per le pratiche che teneva del
continuo a Ginevra, aveva avuto avviso ed alcune lettere, che non mi
espresse se fossero scritte da Venezia o dal signor Foscarini, con le
quali si aveva fatto venir costà (a Venezia) un ministro ugonotto;
del che il re fin d’allora ne facesse avvertire la repubblica per
l’ambasciatore M. di Champigny, considerandole il pregiudizio che
poteva ricevere la religione cattolica dalle pratiche di simil gente
in quella città; e che saputosi ciò da esso signor Foscarini, ne era
grandemente conturbato». Vedi _Relazioni degli Stati Europei lette al
senato di Francia_, pag. 405.

Il Foscarini, condannato poi pel noto accidente, in testamento lasciava
«ducati cento al padre maestro Paolo (Sarpi) servita, perchè preghi il
signor Dio». Il Sarpi saputolo, scrisse ai Dieci, che «conoscendo esser
in obbligo per conscientia et per fedeltà di non haver a fare con chi
s’è reso indegno della gratia del prencipe, nè mentre vive nè dopo la
morte, ha stimato dover rifiutar il legato assolutamente». Rifiutare un
legato per pregare! e da uno che poco dopo fu dichiarato innocente!

[405] Il Grisellini, nella vita o piuttosto apologia di frà Paolo,
dice che questo, «dopo che fu eletto consultore, ad alcuna opera non
diede mano giammai senza il motivo del pubblico interesse, cioè o
per difendere il sovrano diritto del principato, o per autorizzare
la santità delle sue ordinazioni», pag. 78. E anche d’altre opere
dice sempre: — A norma delle pubbliche mire venne dal nostro autore
intrapresa»; pag. 101, e _passim_.

[406] _Opinione di frà Paolo come debba governarsi la repubblica per
avere il perpetuo dominio_ ecc.

[407] Filippo II avendo fatto ammazzare dal famoso suo secretario
Perez l’altro secretario Escovedo, il confessore di lui ne scolpava
l’esecutore scrivendogli: — _Secondo la mia opinione sopra le leggi_,
il principe secolare che ha potestà sopra la vita dei sudditi, come può
torla loro per giusta causa e per giudizio in forma, può anche farlo
senza tutto ciò, giacchè le forme e la sequela d’un processo sono nulla
per lui, che può dispensarsene. Non v’è dunque colpa in un suddito che,
per ordine sovrano, dà morte a un altro suddito: si dee credere che il
principe diede quest’ordine per giusto motivo; come in diritto lo si
presume sempre in tutte le azioni del sovrano». Lettera del settembre
1589 presso MIGNET, _A. Perez et Philippe II_.

Il Sarpi dunque non era peggiore degli altri politici contemporanei.

[408] _Mémoires de Duplessis-Mornay_, X. 292. Parigi 1825. — È capo
d’opera di giochetti l’iscrizione posta al Micanzio nei Serviti
a Venezia, scherzando sul nome, sul cognome, sull’età. _ Siste
pedem hospes! — non ad tumulum sed ad gloriæ thalamum acquiesce
— terreni quod superest reverendissimi patris magistri Fulgentii
Micantii — exiguo hoc clauditur lapide — cælesti quod animæ — superno
conditur cælo — hic tamen — magnum serenissimæ reipublicæ theologum
— quadraginta et octo annis — intuere — cujus virtus — servitanæ
religionis nescio an melius — micans sidus aut sol fulgens dixeris —
octuagenarius et tertius obiit scilicet ut — octavum virtutis gradum
et in tertio — omnis perfectionis numerum explevisse — scias — patruo
syderi vere micanti — P. dom. Micantius nepos pp._ 1667.

[409] Lettera LXV, 5 luglio 1611. Tutte le lettere dei residenti
di quel tempo riferiscono o di satire o di prediche o di discorsi
tenuti da Gesuiti contro la repubblica; de’ loro sforzi per mettere
un’Università a Gorizia, o a Ragusi, o a Castiglione delle Stiviere;
finchè uscirono le ducali del 14 giugno 1606 che sbandivali dallo
Stato, del 18 agosto che proibiva a’ sudditi di mandar figliuoli ai
collegi de’ Gesuiti, del 16 marzo 1612 che vietava ogni corrispondenza
con essi.

[410] — Jeri morì don Giovanni Marsilio. Li medici dicono che sia
morto di veleno; di che io non sapendo innanzi, altro non dico per ora.
Hanno bene alcuni preti fatto ufficio con esso lui che ritrattasse le
cose scritte; ed egli è sempre restato costante, dicendo avere scritto
per la verità, e voler morire con quella fede. Monsieur Asselineau
l’ha molte volte visitato, e potrà scrivere più particolari della sua
infirmità, perchè io non ho possuto nè ho voluto per varj rispetti
ricercarne il fondo. Credo che, se non fosse per ragion di Stato, si
troverebbono diversi che salterebbono da questo fosso di Roma nella
cima della Riforma: ma chi teme una cosa, chi un’altra. Dio però par
che goda la più minima parte de’ pensieri umani. So ch’ella mi intende
senza passar più oltre. _Lettera di frà Paolo_, di Venezia il 18
febbraio 1612.

[411] FRÀ FULGENZIO. — Nel lib. IV della _Letteratura veneziana_ del
Foscarini è a vedere quanti nobili veneziani in quel tempo coltivassero
le scienze sacre e la storia ecclesiastica e ne scrivessero, oltre i
prelati e i monaci.

[412] Ricavansi tali particolarità dalle _Memorie_ citate. Vedi pure
_Blicke in die Zustände Venedigs zu Anfang des_ XVII _Jahrhunderts_,
negli _Historische politische Blätter für das Katholische Deutschland_.
Monaco 1843.

* Questo punto fu trattato nelle _Memorie storiche e letterarie della
società tedesca di Königsberg_ da G. MOHNICKE, _Versuche zu Anfang
des XVII Jahrhunderts etc._ — _Tentativi fatti al principio del secolo
XVII per introdur la riforma a Venezia, con due lettere finora inedite
di Giovanni Diodati, per illustrare la storia di frà Paolo._ Le quali
lettere, che parlano del viaggio del Diodati a Venezia nel settembre
1608, furon date da un suo discendente, professore a Ginevra. Egli
dice che frà Paolo non vuol proferirsi, allegando che così potrebbe
meglio _saper secrètement la doctrine et autorité papale, en quoi
il a extrêmement profité_: quanto a frà Micanzio, _sans doute il
aurait effectué quelque notable exploit, s’il n’était continuellement
contropesé par la lenteur du p. Paul_.

[413] Ugo Grozio lodava molto quel libro e scriveva: _Sandis quæ
habuit scripsit ipse, sed ea ex colloquiis viri maximi fratris Pauli
didicerat. Item ad quædam capita notas addivit, jam egregias in
defæcando lectorum judicio_. Ep. 388, p. 865. Esso Grozio, stando
ambasciadore in Isvezia, ebbe in mano, e trascrisse a varj amici
un passo di lettera del Sarpi al Gillot, 12 maggio 1609, siffatto:
_Si quam libertatem in Italia aut retinemus aut usurpamus, totam
Franciæ debemus. _Vos et dominationi_ resistere docuistis, et illius
arcana patefecistis. Majores nostri pro filiis habebantur olim,
cum Germania, Anglia et nobilissima alia regna servirent; ipsique
servitutis instrumenta fuere. Postquam excusso jugo, illa ad libertatem
aspirarunt, tota vis _dominationis_ in nos conversa est. Nos quid
hiscere ausi fuissemus contra ea quæ majoris nostri probaverant, nisi
vos subvenissetis? sed utinam omnino subsidiis vestri uti possemus!_
Ep. 574.

Le lettere del Sarpi pubblicaronsi a Ginevra colla data di Verona
1673, poi in calce alla _Storia arcana di frà Paolo_. Sono dirette
a Girolamo Groslot signor Dell’Isola, amico del Casaubono, al
medico Pietro Asselineau, a Francesco Castrino ugonotto, a Giacomo
Gillot, consigliere al parlamento di Parigi. Il Leti, nella vita di
Cromwell, si attribuisce la pubblicazione di queste lettere. Alcuni
ne hanno impugnato l’autenticità; altri le supposero interpolate.
Questa seconda asserzione non potrebbe che provarsi coi particolari:
esaminate le ragioni contrarie, io le credo autentiche; e gran peso
mi fa questo passo del famoso Pietro Bayle, nella lettera al signor
Sondré, 21 settembre 1671: _Frà Paolo a été un des plus grands hommes
de son temps. On a imprimé ici ses lettres; mais on croit qu’ont
arrêtera l’impression, à cause que messieurs de Rome y verroient qu’il
entretenait commerce avec ceux de notre religion...... et qu’ainsi ils
recuseraient son témoignage touchant l’histoire du Concile, que nous
leurs opposons. Ce fut une des raisons qui obligea monsieur Dallez à
s’opposer à l’impression de ces mêmes lettres; quoique au reste il eût
beaucoup de passion pour la gioire à frà Paul, qu’il avoit autrefois
connu très-particulièrement à Venise lorsqu’il conduisit les petits
neveux de monsieur Duplessis-Mornay_.

Non così credo autentiche le _Scelte lettere inedite_, stampate
a Capolago il 1847, essendo di stile pieno di tropi, e girato in
tutt’altro modo che quel di frà Paolo: o piuttosto sono di mani
diverse. V’è premessa una vita, d’un anonimo che rinnega il buon senso
più triviale per dire le più sbardellate ingiurie a Roma e ai preti.
Egli crede vere le lettere del 1673, ed esaltando frà Paolo per la sua
avversione a Roma, nega però ch’e’ pensasse far protestante Venezia, nè
che convenisse abbattere la dominazione della Chiesa: — È vero che la
politica romana si mostrava oscillante e mal ferma; pure era necessaria
al contrappeso politico della penisola, contribuiva a conservare
l’agonizzante indipendenza dei governi nazionali d’Italia. Lo Stato
pontifizio era un governo nazionale, buono o cattivo che fosse, ma
per quei tempi più buono che cattivo, e sotto cui i popoli viveano men
peggio che altrove, massime che sotto il dominio de’ forestieri; nè si
sarebbe potuto abbatterlo senza far sorgere gravi disordini».

[414] _Lettera_ LXX, 13 settembre 1611.

[415] Chiesto dall’ambasciatore olandese di commendatizie, Mornay
gli scriveva il 3 ottobre 1609: _Pour adresse, je ne la vous puis
donner meilleure qu’au vénérable père Paulo, directeur des meilleurs
affaires... auquel, avec le zèle de Dieu, vous trouverez une grande
prudence conjoincte: mais il faut l’exciter à ce que l’une enfin
emporte l’autre. Vous avez aussi le père Fulgenzio qui n’est que feu,
prêcheur admirable_. Mémoires, 393.

Il Pallavino, nella prima edizione della _Storia del concilio
Tridentino_, avea detto che frà Paolo, imbattuto l’ambasciadore
d’Olanda, gli disse che avea gran piacere di vedere il rappresentante
di una repubblica, la quale teneva il papa per anticristo: ma convien
dire riconoscesse falso l’aneddoto, giacchè nelle ristampe lo eliminò.
Bayle lo riferisce sotto Aarsens. Vittorio Siri dice aver trovato negli
archivj di Francia moltissime traccie del favore dato dal Sarpi agli
Ugonotti, e massime ne’ registri del nunzio Ubaldini, attentissimo a
svertarne la trama, e che cercò averne lettere originali per imputarlo
d’eretico avanti al senato veneto.

[416] Questo fatto, arditamente impugnato e da Voltaire e da Daru come
viltà indegna di Enrico IV, è messo fuor di dubbio dalle Memorie di
Mornay.

* In una cronaca citata dal Cicogna, _Iscrizioni_, tom. V. p. 556,
leggesi al 1606: «Occorse in questi giorni che le R. monache di S.
Bernardo di Murano, persuase dal suo cappellano, furono scoperte che
osservavano l’interdetto del papa, e che non ascoltavano messa nè si
confessavano e comunicavano, havendoli detto reverendo mostrato un
giubileo che ha concesso il papa a chi osserverà l’interdetto, nè
ascolterà messa, promettendogli un paradiso di delitie fatte a lor
modo... Havendole prima persuase li suoi procuratori del monasterio
et senatori loro parenti, et anco il vicario del suo vescovo, nè
per questo havendole potute rimover da questa loro opinione, furono
immediate mandati li capitani del Consiglio di X d’ordine del senato a
serrarle nel Convento, ficando le finestre et porte de fuori con buoni
cadenazzi con pena della vita a chi s’accostasse a detto monasterio, nè
meno le soccorresse di cosa alcuna, tenendole del continuo guardie».

[417] _Lettera_ XLIV al signor Dell’Isola.

[418] _Lettera_ LX allo stesso. Vedi pure le Memorie di Mornay, X. 386,
390, 443, 456, 546; e Courrayer, nella vita di frà Paolo premessa alla
sua traduzione della _Storia del Concilio di Trento_, pag. 66. Anche
pochi giorni prima dell’uccisione di Enrico IV, il Sarpi scriveva:
_Nulli dubium quin, sicut Ecclesia verbo formata est, ita verbo rite
reformetur. Attamen, sicuti magni morbi per contrarios curantur, sic
in bello spes; nam extremorum morborum extrema remedia. Hoc mihi crede
e propinquo res videnti. Non aliunde nostra salus provenire potest_.
Opp. di frà Paolo, VI, 79. Nella LIII lettera, compiangendo la morte
di Sully, dice che l’amava «per la fermezza della sua religione».
Di Giacomo I scrive: — Se il re d’Inghilterra non fosse dottore, si
potrebbe sperare qualche bene, e sarebbe un gran principio, perchè
Spagna non si può vincere se non levato il pretesto della religione; nè
questo si leverà, se non introducendo i Riformati nell’Italia. E se il
re sapesse fare, sarebbe facile e in Torino e qui». _Lettera_ LXXXVIII.

[419] _Lettera_ LI, 12 ottobre 1610.

[420] _Lettera_ LXXXVIII, 29 marzo 1612 al Groslot. E di tutto ciò
più distesamente vedasi nella _Storia arcana della vita di_ _frà Paolo
Sarpi, scritta da M. G. FONTANINI, e documenti relativi_. Venezia 1803.
È opera postuma, e l’editore arciprete Ferrario l’annunzia così: —
Chiunque tu sia, che pigli a leggere questo libro, a me basta che abbi
amore e zelo di religione; che abbi fedeltà ed attaccamento ai governi.
Buon cattolico e buon cittadino, questo libro ti piacerà. Esso leva una
gran maschera, scopre un grand’impostore, palesa un grand’empio ecc.».

Esso Fontanini dà frà Paolo come un tipo dell’ipocrito, perchè del
carattere sacerdotale e dell’esemplarità «non volle servirsi ad altro
fine che per guadagnarsi il concetto popolare di uomo dabbene, con
disegno occulto di quindi poter seminare a man salva le sue dottrine,
senza sospetto che fossero giudicate aliene dalla vera credenza ecc.

[421] Lettera 6 marzo 1611. _Memorie_, X. 169. Nelle _Lettere
diplomatiche_ del Bentivoglio, al 27 febbrajo 1619 leggesi: — Per via
di un ministro già ugonotto, che si è convertito poi alla religione,
ho saputo ultimamente che, nel tempo dell’interdetto dei Veneziani,
alcuni ministri eretici di Ginevra, di Berna e d’altre parti convicine
pensarono di valersi di quell’occasione per ispargere in Venezia
il veleno dell’eresia. Onde fra loro fu risoluto in particolare che
si mandasse colà sotto nome di mercante un certo tale dei Diodati,
italiano lucchese, che è ministro in Ginevra. Egli dunque v’andò in
compagnia d’altri mercanti eretici, i quali, anch’essi consapevoli del
disegno, avevano carico di doverlo ajutare. Giunto che fu in Venezia,
esso Diodati trattò segretamente con diversi ed in particolare con frà
Paolo, nel quale scoperse una grande alienazione dalla corte di Roma,
e sensi del tutto contrarj all’autorità della santa Sede; ma nel resto
non poteva comprendere ch’egli avesse alcuna inclinazione di voler
abbracciare assolutamente l’eresia. Il detto Diodati insieme con que’
mercanti, oltre al parlare che fece, vi disseminò con molta segretezza
un buon numero di libri eretici, particolarmente della Bibbia tradotta
in lingua italiana. Ciò fatto, egli se ne tornò poi a Ginevra con
isperanza che il veleno ch’egli aveva sparso fosse per fare non piccolo
progresso. Io, dopo aver inteso questo, dubitando che di quel veleno
non vi resti ancora qualche corruzione, stimai di doverne parlare, come
feci al signor cardinale di Retz ed al signor di Pisins, e trovai che
anch’essi avevano avuto l’istessa informazione per la medesima strada,
e Pisins mi disse che si erano ricevute appunto lettere pochi dì sono
dall’ambasciadore di questa maestà in Venezia, che avvisava che colà
le cose passavano a qualche libertà pericolosa in questa materia di
religione, per rispetto della licenza che si pigliavano quelle genti
forestiere che sono state assoldate dalla repubblica, ed in particolare
il loro capo. Dopo mi ha detto il medesimo Pisins che con altre lettere
più fresche dello stesso ambasciatore era inteso che questo disordine
non fosse di quel pericolo che si era dubitato».

[422] _Magna Deo gratia, quod mediis Venetiis virum magnanimum,
magnum illum Paulum excitavit, qui teterrimas sophistarum fraudes,
et paralogismos quibus orbi christiano illuditur, palam faceret.
Puto vidisse te opuscula hujus Pauli, meo judicio præstantissima, et
dignissima quæ legantur a te. Lætaberis scio, et magno heroi votis
favebis tuis._ Ep. 474 del 7 novembre 1606. Pochi giorni prima egli
stesso scriveva d’essere stato dall’ambasciadore Pietro Priuli invitato
a Venezia, dove rallegravasi di poter incontrare _magnum Paulum,
quem Deus necessario tempore ad magnum opus fortissimum athletam
excitasset_, e prosegue in lodarlo. Allo Scaligero (ep. 480, 11 marzo
1607): _Vidisti ne quæ Venetiis prodiere scripta a paucis mensibus? Ego
cum illa lego, spe nescio qua ducor futurum fortasse illic aliquando
et literis sacris et meliori literaturæ locum. Mirum dictu quam multi
tam brevi tempore animum ad scribendum applicuerint. Atqui nemo erat
qui existimaret ex ea urbe unum aut alterum posse reperiri earum
rerum intelligentem, quæ a doctrina lojolitica abhorrent tantopere.
Exitum ejus controversiae cum hæc scribebam, omnes μετέωροι in hac
urbe expectabant. Deus ad gratum sibi finem omnia perducat_. Nell’ep.
484 del 18 marzo a Scipione Gentili: _O viros! o exactam earum rerum
cognitionem, quas in illis oris nemini putabant plerique esse notas!
multa legi... omnia probavi et laudavi, sed inter omnes mirum dictu
quantum judicio Paulus excellat, quem scimus virum esse doctissimum,
vitæ innocentissimæ, juditii tenacissimi. Hujus si scripta legisti,
ecquid de vestra Italia sperare incipis?_ E lo Scaligero rispondendogli
d’aver tutto letto, soggiunge: _In illis auctoribus tres palmam
obtinent: Paulus servita, Marsilius neapolitanus, Antonius Querinus
patricius. Certe quomodocumque in amicitiam coeant illæ duæ partes,
nunquam coire poterunt in cicatricem illa vulnera, nunquam stigmata
deleri, quæ pontifex accepit_. Ep. 131 del 22 marzo 1607.

[423] _Mémoires de Sully_, tom. III. p. 27.

[424] In esse è detto: — A me pare poterle ricordare che convenga
procedere con lenità; e che quel gran corpo voglia esser curato con
mano paterna... Delle persone di frà Paolo e Giovanni Marsilio e degli
altri seduttori, che passano sotto nome di teologi, si è discorso
con vostra signoria a voce; la quale doverìa non aver difficoltà in
ottenere che fossero consegnati al Sant’Officio, non che abbandonati
dalla repubblica, e privati dello stipendio che si è loro costituito
con tanto scandalo del mondo».

[425] MOROSINI, _Storia_, lib. 18. p. 699.

* L’anno dopo che la storia del concilio era stata pubblicata,
mandavasi alla riconciliata Venezia un nunzio apostolico, nelle cui
istruzioni (1 giugno 1621) leggesi:

«Sotto il capo della santa Inquisizione pare che si possa ridurre la
persona di frà Paolo servita, della quale vostra signoria ha piena
cognizione. Io non le favellerò dei mali che faccia, nè delle pessime
dottrine ed opinioni che sparge, e de’ perniciosissimi consigli che
apporta, tanto più rei e malvagi, quanto più sono coperti dal manto
della sua ipocrisia, e dalla falsa apparenza della mal creduta sua
bontà, perchè il tutto è a lei manifesto; ma le dirò brevemente
che nostro Signore non ha lasciato di parlarne come si conviene a’
signori ambasciatori, li quali, così in questo come nella materia del
Sant’Officio, hanno sfuggito gl’incontri delle paterne esortazioni di
sua santità, non coll’opporsi, ma col negare il male; e però, quanto
a frà Paolo, hanno risposto non essere stimato da loro nè tenuto in
credito nessuno appresso la Repubblica, ma starsene colà ritirato,
nè doversene però avere ombra o gelosia veruna, benchè si sappia
pubblicamente il contrario. Vostra signoria potrà nondimeno osservare
di fresco i suoi andamenti, e ce ne farà la più vera relazione che
potrà averne, perchè sua santità penserà a continuare gli ufficj ed
altro opportuno rimedio; e vostra signoria successivamente ci anderà
proponendo quello che più riuscibile si potesse adoprare, almeno
per levarlo di colà, e farlo ritirare altrove a viversi quietamente,
reconciliandosi ad un’ora colla Chiesa: ma finalmente non è da sperarne
molto, e converrà aspettarne il rimedio da Dio, essendo tanto innanzi
negli anni, che non può esser grandemente lontano dalle sue pene; e
solamente si deve temere che non si lasci dietro degli scolari e degli
scritti, e che ancora morto, non continui ad essere alla Repubblica
pernicioso».

[426] _Lettere_ LV e XI, XII al signor Dell’Isola.

[427] Il Botta, che pur la copia a tutto pasto, com’è il suo solito,
e che s’ispira di tutti i suoi rancori, è costretto confessare che
«l’odio acerbo che frà Paolo portava alla corte di Roma, il faceva
dare alcuna volta in opinioni erronee ed in soverchia mordacità»; lib.
XVI. Appena uscì la traduzione francese pel Courayer, il cardinale di
Tencin emanò una pastorale fortissima contro quell’opera, intitolando
frà Paolo vero protestante. L’autografo d’essa storia si conserva nella
Marciana, e non differisce punto dallo stampato. Si conoscono varie
confutazioni di frà Paolo, tra cui le osservazioni di Bernardino Florio
arcivescovo di Zara, rimaste manoscritte. Abbiamo _Frà Paolo Sarpi
giustificato, dissertazioni epistolari_ di GIUSTO NAVE, Colonia 1752,
che credonsi del veneziano Giuseppe Bergantini, ovvero del Grisellini,
e stampate a Lucca; come pure _Justification de frà Paolo Sarpi, ou
lettres d’un prêtre italien à un magistrat français_ etc., Parigi 1811,
che sono del genovese Eustachio Degola. Alberto Mazzoleni, monaco nel
bergamasco convento di Pontida, avea raccolto ben cinquanta volumi di
documenti intorno al concilio, del quale volea scrivere la storia: morì
senza farne nulla, e la sua collezione fu venduta al tirolese Antonio
Mazzetti, che poi la lasciò alla città di Trento.

[428] Quanto si è detto su quegli assassini! Il principale era un Poma
mercante fallito, fanatico come tanti cattolici e protestanti, che
credevano legittimar anche il pugnale colla religione; ad un amico
scriveva: — Non è uomo del mondo cristiano che non avesse fatto quel
ch’io, e Dio con il tempo lo farà conoscere»; e volea stampare che,
non ad istanza di chicchessia, ma per servigio di Dio aveva operato.
Frà Fulgenzio dice che gli assassini ricoverarono in casa del nunzio.
Potrebbe anch’essere, e le immunità, di cui si era allora tanto gelosi,
avrebbero indotto il nunzio a proteggerli: ma il preciso contrario
consta dalle deposizioni de’ gondolieri; ne conviene perfino l’autore
della ostilissima vita del Sarpi, anteposta alle lettere inedite. La
storia di que’ miserabili è conosciuta; vantavano aver denari a josa,
poi trovavansi tutti sul lastrico, e precisamente in Romagna vennero
arrestati, e il Poma terminò nelle carceri di Civitavecchia; così prete
Michele Viti, e il Parrasio; uno fu decapitato a Perugia. L’autore
della vita suddetta va almanaccando i motivi di tal condotta di Roma;
frà Paolo stesso se ne meraviglia; conseguenza d’un dato arbitrario e
falso.

[429] _Lettera_ dell’8 giugno 1612. Il cardinale Baronio aveva anche il
giusto sentimento dell’arte, e del rispetto che le si deve; onde nella
chiesa sua titolare de’ Santi Nereo ed Achilleo, ridotta all’antica
forma, fece porre quest’iscrizione:

  PRESBYTER. CARD. SVCCESSOR QVISQVIS FVERIS — ROGO TE PER GLORIAM
  DEI ET — PER MERITA HORVM MARTIRVM — NIHIL DEMITO NIHIL MINVITO
  NIHIL MVTATO — RESTITVTAM ANTIQUITATEM PIE SERVATO — SIC TE DEVS
  MARTYRVM SVORVM PRECIBVS — SEMPER ADJVVET.

Ora la storia ecclesiastica si vien rinnovando mercè la cognizione
d’un’infinità di lettere pontifizie, pubblicate nei _Regesta pontificum
romanorum ab condita ecclesia ad annum 1098_, di Filippo Jaffe, Berlino
1852. Soltanto dall’882 al 1073 aggiunge al Mansi 1557 documenti, e
1881 al gran Bollario: del XII secolo ha 6791 bolle, mentre il Bollario
ne ha 600, 1176 il Labbe, 1389 il Manso.

[430] _Lettera_ 2 marzo 1658 a Gian Luca Durazzo. «Chi legge la storia
esattissima del Pallavicino, attonito della libertà dei Padri, sarìa
talor tentato di appellarla licenza; ma è tale la saldezza di forza
organica, che la Chiesa mai non teme rimostranze». TAPPARELLI, _Saggio
teoretico di diritto naturale_, nota CXXVII.

[431] _Ein grosser Liebhaber der wahren Religion und Gottseligkeit._
LUTERO, _Ep._ 401.

[432] Di tali avvenimenti non fa motto il Guichenon; ma vedi MURATORI
al 1531.

[433] Lettera data da Ginevra il 17 dicembre 1403; e prosegue narrando
alcune superstizioni di Ginevra, ove festeggiavasi sant’Oriente; e di
Losanna, ove i campagnuoli veneravano (dic’egli) il sole, ogni mattina
dirigendogli voti e preghiere.

[434] J. J. Herzog (_De origine et pristino statu Waldensium secundum
antiquissima eorum scripta cum libris catholicorum ejusdem ævi
collata_, Hala, 1849) vuol provare che la _Confessio fidei_ non è già
del 1120, ma posteriore al colloquio de’ Valdesi con Ecolampadio nel
1530.

Egli stesso pubblicò a Hala nel 1853 _Die romanischen Waldenser
ihre vorreformatorichen Zustände und Lehren, ihre Reformation in
sechzehenten Jahrhundert, und die Rückwirkungen Derselben nach ihren
eignen Schriften dargestellt_. Tuttoché protestante, vuol provare che
le credenze dei Valdesi modificaronsi assai, sempre più allontanandosi
dalla Chiesa cattolica, e accogliendo le opinioni degli Ussiti.

Anche A. W. Dieckhoff (_Die Waldenser in Mittelalter_, Gottinga 1851)
tende a provare che i varj scritti, i quali si sogliono riferire ai
cominciamenti dei Valdesi, son mera imitazione degli Ussiti.

[435] GILLES, _Histoire générale des Eglises vaudoises_, cap. I.

[436] HAMON, _Vie de saint François de Sales_, 1854.

[437] Cavo queste parole da lettere che si trovano nell’archivio
Mediceo (_Corrispondenza di Napoli_), forse non autentiche, certamente
esagerate, come ciò che si scrive in tempo di partito e sotto
l’impressione del momento. Vorrebbero attribuirsi ad uno che accompagnò
Ascanio Caracciolo in quella spedizione, e datano dal giugno 1562, da
Montalto. Dicono:

— S’intende come il signor Ascanio per ordine del signor vicerè era
sforzato a partire in posta alli 29 del passato per Calabria, per
conto di quelle due terre de’ Luterani che si erano date fuori alla
campagna, cioè San Sisto e Guardia. Sua signoria a Cosenza al 1º del
presente ritrovò il signor marchese di Buccianico suo cognato, che era
all’ordine con più di seicento fanti e cento cavalli, per ritornare a
uscir di nuovo in campagna, e quella fare scorrere, e pigliare queste
maledette genti: e così partì alli 5 alla volta della Guardia, e giunto
quivi, fecero commissarj, ed inviò auditori con gente per le terre
circonvicine a prender questi Luterani. Dalli quali è stata usata
tal diligenza, che una parte presero alla campagna; e molti altri tra
uomini e donne, che si sono venuti a presentare, passano il numero di
mille quattrocento: ed oggi, che è il dì del corpo di Cristo, ha fatte
quelle giuntar tutte insieme, e le ha fatte condur prigioni qui in
Mont’Alto, dove al presente si ritrovano; e certo che è una compassione
a sentirli esclamare, pianger e domandar misericordia, dicendo che
sono stati ingannati dal diavolo; e dicono molte altre parole degne
di compassione. Con tutto ciò il signor marchese e il signor Ascanio
hanno questa mattina, avanti che partissero della Guardia, fatto dar
fuoco a tutte le case; e avanti avevano fatto smantellare quella, e
tagliar le vigne. Ora resta a fare la giustizia, la quale, per quanto
hanno appuntato questi signori con gli auditori e frà Valerio qua
inquisitore, sarà tremenda; atteso voglion far condurre di questi
uomini, ed anco delle donne, fin al principio di Calabria, e fin alli
confini, e di passo in passo farli impiccare. Certo che se Dio per sua
misericordia non move sua santità a compassione, il signor marchese
ed il signor Ascanio faranno di loro gran giustizia, se non verrà ad
ambidue comandato altro da chi può lor comandare...

«La prima volta che uscì il signor marchese, fece abbruciare San
Sisto, e prese certi uomini della Guardia del suddetto luogo, che si
ritrovarono alla morte di Castegneta, e quelli fece impiccare e buttar
per le torri al numero di sessanta: sicchè ho speranza che avanti che
passino otto giorni, si sarà dato ordine e fine a questo negozio, e se
ne verranno a Napoli...

«Questi eretici portano origine dalle montagne d’Angrogna nel
principato di Savoja, e qui si chiamano gli oltramontani; e regnava fra
questi il _crescite_, come hanno confessato molti. Ed in questo regno
ve ne restano quattro altri luoghi in diverse provincie: però non si sa
che vivono male. Sono genti semplici ed ignoranti, e uomini di fuori,
boari, zappatori; ed al morir si sono ridotti assai bene alla religione
e alla obbedienza della Chiesa romana».

[438] LETI, _Italia regnante_, tom. I. 37.



Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici.



*** End of this LibraryBlog Digital Book "Storia degli Italiani, vol. 10 (di 15)" ***


Copyright 2023 LibraryBlog. All rights reserved.



Home