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Title: Le confessioni di fra Gualberto : Storia del Secolo XIV
Author: Barrili, Anton Giulio
Language: Italian
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*** Start of this LibraryBlog Digital Book "Le confessioni di fra Gualberto : Storia del Secolo XIV" ***
GUALBERTO ***


                          ANTON GIULIO BARRILI


                             LE CONFESSIONI
                                   DI
                             FRA GUALBERTO

                         Storia del Secolo XIV


                            Seconda edizione



                                 MILANO
                       FRATELLI TREVES, EDITORI.
                                 1874.



        Quest’opera, di proprietà dei _Fratelli Treves_, editori
                di Milano, è posta sotto la salvaguardia
         della legge e dei trattati sulla proprietà letteraria.

                         Stab. Fratelli Treves.



A LUIGI LUZZATTI


Onorarsi ed amarsi, anco se combattendo in campi contrarii, parve
fiore di gentilezza agli antichi. Diomede e Glauco insegnino, dei quali
racconta Omero, nel VI dell’Iliade, il generoso colloquio:

               «... Or nella pugna
    «Evitiamci l’un l’altro....
               «... Di nostr’armi il cambio
    «Mostri intanto a costor che l’uno e l’altro
    «Siam ospiti paterni. Così detto,
    «Dal cocchio entrambi dismontâr d’un salto;
    «Strinser le destre e si dier mutua fede.
    «Ma nel cambio dell’armi a Glauco tolse
    «Giove lo senno. Aveale Glauco d’oro,
    «Diomede di bronzo; eran di quelle
    «Cento tauri il valor, nove di queste».

A te il mio libro e l’affetto; a me la tua grazia costante. Son Diomede
in cotesto, che troppo più ci guadagno nel cambio.

  Di Genova, il 30 Aprile del 1873.

                                                ANTON GIULIO BARRILI.



PROLOGO.


Nessuna cosa ad uno scrittore, dopo il titolo del suo libro, è più
bisognevole d’una buona pròtasi, o cominciamento che dir si voglia.
Anche un adagio, prezioso stillato di scienza popolare, ammonisce
che «chi ben comincia è alla metà dell’opra»; il che per fermo non
s’intenderà esser vero, se non ammettendo che si possa tirare innanzi
a furia di sciocchezze, pur di aver fatto bella comparsa in principio.
Facciamoci vivi alle mosse; per tutto il rimanente della via è lecito
impoltronire, appisolarsi a cassetta (vedete Orazio che ne concede
larga perdonanza ad Omero); l’essenziale sta nello svegliarsi, da bravi
cocchieri, in prossimità della posta, e, con alto schioccar di frusta e
galoppar di cornipedi, mettere il borgo a romore.

Mano dunque alla pròtasi! Ma qui pur troppo le invenzioni scarseggiano;
testimone la repubblica letteraria tutta quanta, che, da forse tremila
anni, non ha saputo far altro che andare sulle pedate d’un cieco.
Egli è vero bensì che costui ci vede assai meglio di tutti i suoi
successori; tantochè nessuno è giunto così lontano com’egli, orbo
cantastorie di Grecia. Per ristringerci ai sommi, vediamo Virgilio
aver copiato da lui, l’Ariosto da Virgilio, il Tasso da ambidue.
«Canto l’armi pietose e il capitano», scrive Torquato. «Le donne, i
cavalier, l’arme, gli amori — Le cortesie, le audaci imprese io canto»,
ha scritto messer Lodovico. E Virgilio, quindici secoli avanti, aveva
lasciato il suo _Arma virumque cano_ che fa riscontro all’_Iram cane,
Dea_, dell’_Iliade_, e al _Dic mihi, Musa, virum_, dell’_Odissea_.
Insomma, già prima che mi sgoccioli dalla penna, lo avrete pensato voi,
lettori umanissimi: o canti tu, o canto io, gli è come a dir zuppa o
pan molle.

A me, per aver aria di novità, converrebbe far capo alla _Divina
Commedia_ o salire più in su fino al _Ramàiana_. Ma potrei io
raccontarvi con Dante che ero «nel mezzo del cammin di nostra vita»
e che avevo smarrito la strada? E ardirei giurarvi con Valmichi che
sulle sponde di un’altra Saraiù è una vasta e ridente contrada, ricca
di biade e d’armenti con un’altra città d’Aiodìa, bella ed avventurosa,
celebrata per tutto il mondo e fondata da Manù, padre del genere umano,
se la cronaca del Gange non mente? D’anni, a voler mettere in conto
il cominciato, ne avevo i miei trenta, e, lungi dallo aver perduto
la tramontana, ci diguazzavo per entro, a mia posta, in una di quelle
valli (meglio sarebbe dir forre) dell’Apennino, che quel dabben uomo
di Eolo ha lasciate in governo al primo ed al più turbolento de’ suoi
figli, Aquilone. Ero, per farvela breve, in val di Trebbia, e, poichè
si ragiona di venti, aggiungerò che me ne stavo al riparo in una
cittadella murata, trenta miglia a libeccio da Piacenza e ventotto a
scirocco da Voghera.

Ognuno, che abbia vissuto qualche giorno in quei luoghi, ricorderà
che dorsi di montagne, culmini e scoscendimenti, c’è n’ha in buon
dato, ma che la pianura si conta a palmi, pur troppo; che gli armenti
vi abbondano, ma solo di bestie lanose, e le messi non bastano pel
logorare d’una popolazione di quarantamil’anime, che tante ne dà la
provincia, spartite in ventisette comuni e sessantaquattro parrocchie;
che le più svariate famiglie d’erbe medicinali vi fioriscono in copia,
le industrie non già; nè magona, nè gualchiera, nè cartiera vi fa udire
il grato martellar de’ suoi mazzi scorrenti; che due fonti d’acque
minerali, l’una salsa, l’altra sulfurea, aspettando un imprenditore
di bagni, hanno tempo a seccarsi; che, per contro, i torrenti
s’industriano a rifare, con largo tributo di saporitissime trote, i
danni di lor piene invernali; che i tartufi amano qua e là disvelarsi
ai mortali collo svaporare delle fragranze natìe; che, finalmente, la
città capoluogo, se non è bella, nè avventurosa, nè celebre, non si
lagna altrimenti del fato, nè del governo centrale, e vive abbastanza
contenta de’ suoi quattromila abitanti, del suo sottoprefetto, del
suo vescovo suffraganeo, de’ suoi dodici canonici e de’ suoi otto
carabinieri.

Anch’essa, del resto, se guarda al passato, ci ha da insuperbire la
sua parte. A chi, dei caduti in basso stato, non è mai occorso di
rinvergare le pergamene, di frugare per entro alle memorie domestiche,
di almanaccare sulle tradizioni orali della famiglia, per rintracciarvi
la nobiltà di sua stirpe? Il passato, assai più del presente, e quasi
come il futuro, è il grattacapo dei miseri umani. E Bobbio (ecco, m’è
uscito dalla penna il suo nome) si consola spesso della sua umile
condizione, ripensando ai re longobardi, al diploma d’Agilulfo e a
san Colombano, il quale la reputò degna di accogliere in prima il suo
glorioso monastero e quindi le sue ossa, perseguitate dagli sdegni di
Brunechilde. Mettetevi a dirla colle donne! Ma allora i santi erano
così fatti e pigliavano male gatte a pelare; donde i travagli in vita e
dopo morti la gloria.

Io bene intendo che di questi archeologici fumi si ha poco costrutto
oggidì. Per la gente che tira al sodo, vogliono essere istituti di
educazione, di carità e di credito; pe’ buontemponi, alberghi, botteghe
da caffè, teatri e casini; pe’ trafficanti, manifatture e mercati.
Rispetto a ciò, Bobbio è ancora bambina; ma neanco Roma è stata fatta
in un giorno, e quando per val di Trebbia scorra la vaporiera invocata,
anche alla prediletta di San Colombano deriverà qualche pagliuola del
nuovo Pàttolo, che dee rifar d’oro l’Italia. Così la pensa il notaio
Malinverni-Tidone, ottimo cittadino, a cui mi gode l’animo di poter
dare pubblica testimonianza di lode, per l’amore grandissimo ch’ei
porta alla sua terra natale, e di gratitudine insieme, per la nobile
ospitalità e per gli utili cenni di cui mi fu largo. Egli non si
ricorderà forse più del suo giovine e curioso ospite del giugno 1867;
a me intanto premeva di mostrargli come io non avessi dimenticato lui
nè fra Gualberto, che mi ha insegnato a conoscere, e del quale il mio
libro gli recherà più estesa notizia, che egli medesimo non avesse
finora.

Che diancine era io andato a fare laggiù? Certamente il lettore
s’aspetta che glielo dica; ma, quantunque io senta la necessità
d’entrargli in grazia, non mi farò a contentarlo. Sappia egli che
feci un viaggio e due servizi, e che il secondo servizio fu quello di
visitare il famoso convento.

Vero luogo di meditazione gli è questo! A Bobbio il sole tramonta
un’ora prima che sui borghi vicini, e cotesto a cagione dei monti
che gli si stringono a’ fianchi. Così ravvolto nella tetraggine
delle sovrastanti alture, il monastero è malinconico tuttavia a
vedersi, sebbene l’architettura sua faccia fede di una ristaurazione
leggiadramente condotta nello stile del risorgimento; ora argomentate
quanto più melanconico e’ non avesse ad apparire in sui primordi del
medio-evo, allorquando l’austero monaco irlandese venne ad alzarne le
mura e a mettervi stanza. Ciò fu intorno al 596, dopo che egli, sceso
in Italia a combattervi l’arianesimo longobardo, otteneva il favore
della bella e pietosa vedova di Autari, la quale aveva dato poco dianzi
la mano e lo scettro al duca di Torino, Agilulfo. Frutto di tal favore,
un diploma del re concedeva a Colombano, monaco di Benchor, il luogo
di Bobbio, con quattro miglia di terre all’intorno, per fondarvi un
monastero del suo ordine, siccome aveva già fatto egli in tre luoghi
di Francia, e Gallo, il suo ardente compagno, era per fare in un angolo
della Svizzera.

Nè a tali prove si rattenne l’affetto di Teodolinda pel monaco
illustre. Imperocchè, essendo egli nel 613 ritornato dalle sue
fortunose peregrinazioni di Francia e di Svizzera, a vivere nella pace
del chiostro i due anni che furono gli ultimi di sua vita, la regina
andò a visitarlo, con orrevole compagnia, nella sua tranquilla dimora.
È fama viva tra i terrazzani che in questa occasione la regal donna
salisse fino all’estrema vetta del Pènice, donde si scopre la più vasta
distesa di monti e pianure che sguardo umano possa abbracciare. Lassù,
quando l’aere sia puro e limpido l’orizzonte, vi si para dinanzi la
mirabil veduta di tutta la catena delle nevose Alpi, girata ad arco
dal mar Tirreno fino alle giogaie del lontano Tirolo. Più in basso,
a manca, tondeggiano i colli del Monferrato, da Valenza a Superga;
più sotto ancora si stendono i campi di Novi, di Marengo e della
Trebbia, e, seguitando a destra, la vasta pianura lombarda, stagliata
qua e là dai tributari del Po, del gran padre Bodinco, che scorre,
immensa striscia d’argento, a’ suoi piedi, e tratto tratto si nasconde
allo sguardo e vedesi ricomparire in uno sfumato orizzonte, che si
confonde col cielo, là verso l’Adriatico. La gran tela è stupendamente
istoriata; Voghera, Alessandria, Novi, Piacenza, biancheggiano di qua
dalla lunga e tortuosa zona fluviale, a cui concorrono, più umili
tributari discesi dalle balze apennine, il Tidone, la Staffora, la
Scrivia, la Nure, il Taro e la Trebbia; di là, Milano, Pavia, Cremona,
e Bergamo, con ampio corteggio di città minori e borgate, poco in vista
più grandi d’un chicco di frumento, ma nitide e di contorni ricise.
Volgetevi indietro; il Lesima, il Penna, l’Alfeo, con gli altri gioghi
dell’Apennino, vi contendono il mare lontano; ma, per mezzo alla fosca
merlatura delle loro ripide coste, si dipingono in tinte più chiare
i balzi di Rapallo, di Chiavari e di Spezia, mentre in fondo alle lor
gole si discernono, pe’ soavi lumi interfusi, le fertili valli di Nure,
di Enza e di Taro.

La bella longobarda, che la fantasia del poeta ama raffigurarsi alta
della persona e flessibile, come donna che è nata al comando, ma può
inchinarsi a sollevar gl’infelici, mirabile nel volto per nobiltà
di severi contorni, rammorbiditi da un riso di dolcezza ineffabile e
dall’aureola dei biondi capegli cresciuti alle nebbie del settentrione,
ma indorati ai raggi del sole d’Italia, potè da quel sommo vertice
contemplare il vasto suo regno, mentre in lei l’ossequio immaginoso
dei riguardanti forse credè di vedere l’angelo della pace, librato in
alto tra vincitori e vinti. E veramente fu cosa di cielo quella soave
anima di donna, che, rattemprando la ingenita ferocia de’ suoi, valse
a fondare, più assai che non avessero fatto le armi, un regno migliore
a gran pezza delle sue origini, dalla cui caduta ebbero principio le
millenarie sciagure della penisola.

Che non possono le donne! Il detto è antico, e più vero eziandio
che non pensassero gli antichi, nello incenso de’ quali, così per
le donne come per ogni altra maniera di numi, si frammetteva spesso
un granellino d’ironia. La donna, anco se muta parvenza adorata,
nè d’altro curante che di piacere, è inspiratrice di grandi opere
all’uomo. Il bello esalta, il buono consola, il vero ricrea; ma la
donna, se il voglia, ci è tutte queste cose ad un tempo. Per lei
l’uomo, nella medesima guisa che l’insetto veste la sua livrea d’amore,
screziata di più vivi colori, per lei riluce d’inusato splendore,
nella lieta stagione delle speranze e dei rapimenti. Tal fiata nel
suo incendio si consuma e si spegne; ma che importa? La luce fu bella;
l’uomo sfavillò, lieto o triste, soave o terribile, nobilissimo sempre.
Ma come è possente al bene, se buona, così possente al male è la donna,
se d’animo reo. Può farvene fede quel venerando, che dorme da mille
e duecento anni il gran sonno nel sotterraneo del suo monastero di
Bobbio. La sua vita è colma di amarezze e di conforti, di tenebre e di
luce, trabalzata come fu da donna a donna, da regina a regina (che è
come dir donna due volte); da Brunechilde, che lui, importuno censore
di rotti costumi, incalza come fiera d’asilo in asilo, a Teodolinda che
lo accoglie ossequente; da Brunechilde dissoluta, tiranna, micidiale
nel suo sangue, che manda sossopra un fiorente reame, a Teodolinda
che commove i longobardi feroci col raggio della sua casta bellezza e
della religione fa stromento efficacissimo di civiltà, anco preparando
inconscia le vie alla prepotenza dei pontefici. L’anima sua è ignara
del male; la santa figura di Gregorio Magno non le lascia scorgere in
lontananza Stefano II, invocatore malaugurato della gente d’Heristal,
sanguinosi fantasmi che funestarono la lunga notte d’Italia.

Vedete mo’ dove siamo venuti bel bello a far capo! Ma così avviene
in casa nostra, dove ogni zolla ha le sue lettere di nobiltà da
mostrarci. In processo di tempo la storia e la leggenda non daranno
più di cosiffatte molestie ai galantuomini. L’orario delle ferrovie non
concede che pochi minuti di sosta; si viaggia colle cortine gelosamente
tirate in giù, col bavaro del pastrano tirato anche più gelosamente
in su e accorciati sul sedile come in una cuccia di bordo. E quando la
vaporiera, di cui v’ho già detto, passi anche da Bobbio, il viaggiatore
non penserà più che tanto a coteste anticaglie. Per ora, pazienza;
sorbitevi questo po’ di cronaca che incomincia dagli scorridori di
Annibale e viene giù giù fino agli ultimi benedettini, mandati a rotoli
dagli straripamenti della grande rivoluzione francese.

Non vo’ per altro tenervi sulla corda. Tocco a mala pena di Annibale
che, vincitore sulla riva sinistra della Trebbia, varcò da queste parti
l’Apennino, per andare a perdere un occhio in Val d’Arno e a vincere
una battaglia sul Trasimeno. Metto da banda gli scarsi cenni che si
hanno di Bobbio antica e l’etimologia acquatica del suo nome, il quale
si legge _Bobium_ ed anche _Ebovium_ nelle carte longobardiche. Noto
che i primi abati di San Colombano ebbero podestà signorile, ad essi
poscia contesa dai vescovi, venuti dopo il mille; che la città si
scrisse alla Lega lombarda, e che, mal difesa da tanti pastorali, fu
agevolmente signoreggiata dai Malaspina di Lunigiana, fino a che, nel
1346, non cadde con Tortona ed Alessandria sotto il dominio di Luchino
Visconti, buon’anima sua. Filippo Maria, ultimo di quella gente, la
diede in signoria, nel 1440, al suo generale Pietro dal Verme. Lodovico
XII, fatto padrone del Milanese, la regalò invece al suo scudiero
Galeazzo Sanseverino, e i Dal Verme non la ricomprarono che alla pace
del 1505. Seguì poscia le sorti del Milanese fino al 1743, quando venne
in potere del Re di Sardegna.

Libera nel 1793 di rifarsi ligure di nome, ma francese di fatti, fu
involta nelle peripezie della guerra, repubblicana dapprima, quindi
imperiale, che finì nel 1814, e lei ritornò alla sudditanza di casa
Savoia. Scelta nel 1799 da Moreau come scala alla sua congiunzione
colle forze di Macdonald, fu tenuta da Lapoye con grossa schiera di
liguri. Ma innanzi che Moreau, disceso dai passi della Bocchetta,
romoreggiasse utilmente alle spalle di Suwaroff, l’ardente Macdonald
s’impegnava al guado della Trebbia, e cosiffattamente lontano dai
monti, che la gente di Bobbio non potè calare al soccorso. Il resto è
noto; io torno alla pacifica storia dell’abbazia, per dirvi che, verso
la metà del secolo XV, essendosi il numero dei monaci grandemente
scemato, l’abate Giovanni dei Malaspina del Mulazzo, d’accordo col
vescovo e col signore di Bobbio, Luigi dal Verme, invitò i benedettini
di Padova, i quali nel 1449 presero possesso della chiesa e del
monastero. Per tal guisa la regola di San Colombano, che comandava
castità, cieca obbedienza, povertà, digiuno, silenzio, preghiera e
fatica, nè risparmiava la disciplina ai falli più lievi, cedette il
luogo a quella di san Benedetto, alquanto più dolce e pe’ suoi tempi
più utile al prossimo, come quella che surrogava la vita operosa alla
contemplativa, le fatiche della mente e la diffusione degli studi alla
rugginosa inerzia delle solitarie meditazioni. E qui, come moralmente
fu rinnovata, così fu restaurata materialmente l’abbazia, in quella
architettura che di presente si nota.

Ho fede che i lettori non mi torranno in iscambio, per questo perdermi
ch’io fo attorno ad un convento di frati. Vivo il presente e anelo il
futuro, ma rispetto eziandio il passato, e in questa pacificazione
storica, che è un’altra maniera di giubileo, si racqueta il mio
spirito, volendo giustizia, anzi misericordia per tutti.

Poveri frati di Bobbio! Io m’intenerivo per essi, io, figlio, nipote, o
qual più vi talenti chiamarmi, della rivoluzione che li spazzò via. Ma
diciamo tutto sinceramente; più che della sorte dei monaci, mi dolevo
dello sperdimento di una biblioteca, che il notaio Malinverni-Tidone
mi diceva ricca di volumi a parecchie migliaia e sopratutto copiosa di
manoscritti antichi e rarissimi. Erano i frutti di lunghe indagini e
di assidue fatiche; erano l’armi pazientemente raccolte da que’ fabbri
della critica, e con inconscia diligenza ordinate alle più felici
battaglie del pensiero odierno. E tanta ricchezza d’arsenale andò in
breve ora dispersa; tanta copia di utili stromenti andarono divisi
a confondersi tra mille e mille altri trofei fuggevolmente ammirati
nei templi maggiori della scienza. La miglior parte furono condotti
alla biblioteca Ambrosiana di Milano; molti alla Vaticana di Roma; il
rimanente all’archivio e all’università di Torino.

— Con tutto ciò, — narrava il mio ospite, che lo aveva da suo nonno,
dottissimo uomo e fratello ad uno degli ultimi monaci di San Colombano
— nel 1795 rimanevano ancora alla celebre biblioteca forse ottocento
volumi, settantacinque casse di atti e diplomi e un centinaio di
manoscritti preziosi. Ma anche questi, dopo essere stati qualche anno
dimenticati, pigliarono la via di Torino. E laggiù, a che servono?
a chi giovano? I libri, la più parte faranno a doppio con altri; i
manoscritti e i diplomi, quasi tutti attenenti alla cronaca paesana,
giaceranno negletti in qualche cassa insidiata dai topi, e con poca
utilità esaminati, come quelli che più non fanno un corpo solo, con
rispondenza di parti e facilità di raffronti. —

Io, sebbene non ne avessi gran fede, m’ingegnavo a dimostrargli il
maggior profitto che si può cavare nelle grandi città da una ricca
suppellettile archeologica.

— Ah, non lo credete! — mi diceva egli di rimando. — Egli è soltanto
ne’ centri minori che si può metter l’animo in certe minutezze, le
quali sono, ora inizio, ora complemento, ad una più vasta intrapresa.
Chi ha a fare una storia in cui tante cose di minor conto debbano
entrare, ci metta la fatica del viaggio; la certezza di trovare in
un angolo di terra tutto ciò che si ragguarda alle memorie d’una
provincia, val meglio della facilità di aver notizie pronte, ma
insufficienti. Io, per me, credo che la piccola città sia il luogo in
cui debbono rimanere tutte le memorie sue, se pure si vuole che tornino
ad utile di qualcheduno. L’accentramento scientifico non è dovizia, ma
ingombro di materiali.

— Eh, capisco; — soggiunsi io, in atto di chi volentieri si persuade. —
Ma nella biblioteca dei frati c’era egli poi roba preziosa davvero?

— Figuratevi! Il catalogo manca, ma in casa nostra si conserva
religiosamente un elenco delle cose migliori, e potrete vederlo, se
vi aggrada. Gl’incunaboli, così rari adesso, c’erano in buon dato,
e tra essi il _Monte Santo di Dio_, stampato nel 1477 a Firenze, che
fu la prima opera con incisioni in rame, e il famoso _Salterio_ del
1457, che fu il primo libro stampato con certa data; almeno (aggiunse
coscienziosamente l’eruditissimo uomo) dopo le _Bolle di Niccolò
V_, che sono del 1454. Tralascio gli Aldi, i Giunti, i Gioliti e i
Griffi, dei quali si ebbero qui le più pregiate e rare edizioni. E i
manoscritti...... ricchezza sterminata! Fu sui manoscritti di Bobbio
che Pio VI potè fare la magnifica stampa delle opere di S. Massimo. E
dov’era, se non qui, l’originale in pergamena del _Carmen paschale_
di Celio Sedulio, elegante poeta cristiano del secolo V? Ora lo si
custodisce gelosamente a Torino, come tant’altri tesori nostri a Roma
e a Milano. Ma non tutti, e, se piace a Dio, si troverà in questa casa
ancora tanto di essi, da poter dare onorato principio ad una civica
biblioteca. Venite con me, voi che amate un pochino i cartabelli; ce
n’ho di tali che un principe russo pagherebbe in oro i dieci cotanti
del peso, e che voi persuaderanno di rimanere qualche giorno ancora dei
nostri; la qual cosa, poichè sono alle moltiplicazioni, mi sarà dieci
cotanti più cara. —

Volevo rispondere che non occorrevano manoscritti preziosi per
trattenermi a Bobbio; ma non ebbi tempo, nè modo, imperocchè, afferrata
la maglia d’una lucerna d’argento a quattro beccucci, che era anch’essa
un bel saggio dell’arte di due secoli indietro, il notaio Malinverni si
alzò da sedere e mi condusse nella sua biblioteca.

Dirvi che rimasi sbalordito, non posso. I libri non fanno già l’effetto
delle agate, delle calcedonie, o d’altra maniera di pietre preziose.
Andate a Roma, e della Vaticana, famosa tra tutte le altre biblioteche
del mondo, non si additerà alla vostra ammirazione che una fuga di
stanze. In tal modo si misura l’importanza dei libri. Ma chi voglia
andare un po’ oltre l’apparenza, si faccia a considerare la ricchezza
di quei centomila volumi stampati; squaderni il catalogo di quei
ventiquattromila manoscritti; veda, tra gli altri, quell’esemplare
di Virgilio che ci conservò raffigurata ne’ suoi disegni tanta parte
degli usi e delle foggie romane; e per tal guisa, condotto mille e
ottocento anni a ritroso sul classico mare dell’età, tratto a vivere
d’un’altra vita, coetaneo d’una gente morta, testimone d’una civiltà su
cui si addensarono parecchi strati di barbarie e più altri di vergogna,
sentirà allora il pregio, vedrà allora la splendidezza di que’ gialli
e polverosi tesori. Così avvenne a me, quando il notaio, accennati
i libri alla grossa, si fece ad aprirmi un armadio, nel quale,
umili in vista e non numerose, giacevano le sue pergamene e filze di
carte, diligentemente legate e contrassegnate, siccome da notai e da
archivisti si suole.

— Tutta roba salvata dallo sperpero del monastero! — sclamai.

— E dalle unghie dei pizzicagnoli — aggiunse il mio ospite. — Non so
come ciò fosse, ma il meglio di queste carte era andato disperso per
le mani di tutti, quando i miei vecchi s’ingegnarono a raccattarle, e
qualcosa ho potuto scoprire io medesimo. Argomentate voi quant’altre
non ne saranno andate a male in mezzo secolo di scompiglio! Eccovi;
queste sono lettere di chiarissimi uomini vissuti qui nel corso di
trecent’anni; da Agostino Trivulzio, vescovo e poi cardinale, infino
al dottissimo Lorenzo Ballarini, nostro conterraneo, che fu medico
a Vittorio Emanuele I, e che io, giovinetto, conobbi preside alla
facoltà chirurgica nell’Ateneo torinese. Vedete questo libro in
cartapecora; esso contiene l’elenco degli abati della vecchia regola
di San Colombano, da Attalo e Bertulfo, suoi successori, infino a
Giovanni Malaspina che cedette il luogo ai benedettini. Quest’altro
è il Cartolario del Monastero, che contiene gli istrumenti pubblici,
condizioni, fedeltà, locazioni e tutte le altre congrue dell’abbazia.
Queste sono copie di antichi diplomi, tra i quali il famoso di Lotario
I, riferito dall’Ughelli e chiarito apocrifo dal Muratori. Nè mancano
le cose letterarie. Vedete questo volumetto di ottanta pagine in
pergamena della più fine, con lettere miniate ad ogni incominciar di
capitolo; è una raccolta delle rime di messer Francesco degli Accolti,
aretino. Tra queste potete leggere la nota canzone sulla _lorda vita
dei chierici_, che i bibliografi attribuiscono al fratello di lui
Benedetto. Converrebbe qui raffrontar gli esemplari. Questo manoscritto
è sincrono, e mi pare debba fare autorità. E adesso — chiuse
solennemente il notaio Malinverni — assaggiatemi questo. Se fosse
completo, non ci sarebbe niente di comparabile ad esso in veruna delle
più ricche biblioteche d’Europa.

— Capperi! Vediamo questa maraviglia! — dissi io, sorridendo.

Se mai v’ebbe rimorso che rapidamente seguisse il peccato, ei non fu
al certo più veloce del mio, poichè ebbi dato un’occhiata alle prime
pagine del volume postomi tra le mani dall’ottimo signor Malinverni.
Sperimentai allora in me stesso come sia sciocco il sorridere, quando
non è essenzialmente tristo, o essenzialmente sublime. Se a voi non
sembra che corra, lasciamola lì; io mi ristringerò a raccontarvi, senza
morale, come senza favola, che la mia mezza ironia mi tornò subito in
gola.

Il codice non era di gran mole, nè di molta appariscenza. Constava esso
di cinquantasei fogli di carta pecora, o, per dire più chiaramente,
di centododici facce di scritto. La coperta di pelle nera, bucherata
dai tarli, gualcita, sbrandellata, mostrava qua e là i rimasugli di
un fregio impresso sui margini; i fermagli di ottone annerito non
chiudevano più, lenti e sconnessi com’erano; il dorso lacero facea
scorgere i sudati artifizi dell’antico legatore, i capitelli disfatti
e il bruco penzoloni fuor di riga; i fogli, poi, apparivano giallicci,
grinzuti, co’ vivagni corrosi. Certo; il codice era più vecchio che non
dinotasse la sua scrittura, condotta in quei caratteri impropriamente
nominati gotici, che ebbero favore in Europa dal dodicesimo sino allo
scorcio del quindicesimo secolo. E difatti, guardando più attentamente,
si discernevano tra i versi dello scritto alcuni segni sbiaditi di più
vecchio inchiostro e traccie qua e là di lettere onciali. Non c’era da
dubitarne; io aveva sott’occhio uno di que’ palinsesti bobbiesi che
fruttarono rinomanza ai Niebuhr, ai Peyron, ai Vesme e più di tutti
ad Angelo Mai, che in due di essi ebbe a rinvergare i sei libri _De
republica_ di Cicerone.

Qual era l’autore perduto che si nascondeva nel mio palinsesto? Non
cercai di saperlo allora, nè poi; tanto mi parve degno di studio
il sovrapposto, che entrava in materia con queste parole: «_Incipit
liber confessionum Gualberti monachi;_» parole così semplici e così
promettenti ad un tempo.

Le confessioni di Gualberto monaco! Che cosa avrà avuto a dire questo
povero frate alla posterità? Per fermo egli ha molto operato e veduto,
molto pensato e sentito, fors’anco errato, certamente sofferto, e qui,
presso al fine della sua fortunosa carriera, colla schietta umiltà, ma
non colla gloriosa pace di Agostino, racconta sè stesso, o in penitenza
di falli, o per esempio di fede religiosa ai venturi. Questo pensiero
mi trasse a leggere; le prime pagine mi fecero suo.

Il mio ospite, chiamato dagli uffici del sue utile ministero, mi aveva
lasciato solo nella camera, ed io vi rimasi forse quattr’ore, assorto
in quella lettura, malagevole in sulle prime per la difficoltà di far
l’occhio ai caratteri, di deciferare le frequenti abbreviature, e di
cogliere il senso di molte frasi, non sempre di buona latinità, siccome
è facile argomentare d’un manoscritto del secolo XIV; chè di quel tempo
lo chiarivano per l’appunto i primi richiami storici dello scrittore.
Ma quel tanto che io ne avevo spiccicato, bastò perchè, quella sera,
deposto il volume, non pensassi più ad altro.

La notte, non furono che sogni della fantasia riscaldata. Vidi il mio
frate chiuso nella sua cella ed intento a scrivere le sue confessioni.
Le tempeste della vita gli aveano imbiancati anzitempo i capegli e
impresso il volto di segni fatali. Fredda era la cella; l’inverno
soffiava alle impannate; le dita del monaco s’irrigidivano intorno alla
penna; e tuttavia seguitava a scrivere, desideroso di versare in quelle
carte la piena delle sue ricordanze, prima che quel gelo gli penetrasse
nel cuore. E lo vidi, indi a poco, disteso sul suo letticciuolo; le
mani avea giunte sul petto; gli occhi, mezzo velati dall’ali della
morte, cercavano una immagine di donna, vapore diafano che tremolava,
vestito di forme a lui note, dipinto d’una pallida luce, nell’alto
della sua squallida cella. Quali arcane parole corsero tra il morente
e la morta? Era quello l’addio d’un vano fantasma, o l’invito d’uno
spirito eterno? Ella era là, librata in aria, e si facea man mano più
sopra a lui; si chinava l’omero mollemente; si stendeva il braccio e le
dita candide si appressavano, come per chiudere quegli occhi stanchi,
o cogliere l’ultimo sospiro, forse il primo bacio di quelle labbra
tremanti. E in quel mezzo, inginocchiati ai piedi del letticciuolo, i
bruni compagni venian recitando la preghiera degli agonizzanti.

Il giorno appresso ero da capo col manoscritto. Entrato in maggiore
dimestichezza coi vecchi caratteri, corsi più spedito nella lettura, e
non lasciai il volume che all’ultimo verso. Era una storia singolare,
quella del povero frate, e nel tempo istesso che la ci aveva per me
tutti gli allettamenti d’un romanzo, veniva a chiarire un punto di
storia di cui s’hanno scarsi lumi e testimonianze contradittorie.
Giunsi, dico, all’ultimo verso, non già alla fine, imperocchè le
confessioni di fra Gualberto, non solo non apparivano intiere, ma
s’interrompevano proprio là dove era più vivo il racconto.

— Peccato! — dissi al mio ospite, che in quel momento era venuto a
chiamarmi pel desinare. — Si resta in asso!

— Sì, ve l’ho detto ieri, se fosse completo, varrebbe un tesoro.

— Ma, non avete cercato?.....

— E in che modo? i miei l’hanno avuto per caso, siccome vi è noto. Qui,
poi, tutte le mie indagini tornarono vane.

— Ma forse fuori di qui..... nelle biblioteche tra cui si divisero le
spoglie di San Colombano.....

— Ah sì, forse, ma ne dubito assai. Come vorreste che un’opera
somigliante andasse dimezzata in tal guisa a Roma, a Milano, o a
Torino? Vedete inoltre; qui il volume finisce e non c’è segno di fogli
strappati.

— Appunto per ciò io credo ce n’abbia ad essere un secondo. Questo è un
palinsesto, ed il frate, che ha così conciato un primo codice, ne avrà
rastiato un altro del pari. Egli scriveva per penitenza; avrà dunque
finito.

— Invero, — mormorò il notaio Malinverni, — ora che ci penso...... C’è
sicuramente un secondo volume; ma dove scovarlo?

— Qui no, poichè avete cercato invano; — risposi; — ma ci abbiamo tre
luoghi ancora. Lasciate fare a me. Così avessi fortuna col genio che
custodisce i tesori nascosti, come l’ho con quell’altro che protegge
i ferravecchi. Non vedete? Egli mi ha condotto a Bobbio per trovare
il primo volume delle memorie di fra Gualberto; egli mi assisterà per
trovare il secondo. E frattanto, mi permettete di copiar questo?

— L’ospite è padrone — disse il notaio.

— E la lingua nostra — soggiunsi, inchinandomi per ringraziarlo — ha
confuso in un solo vocabolo colui che dà l’ospitalità e colui che la
riceve.

— Filosofia del linguaggio! — esclamò l’ospite, mettendo amorevolmente
il suo braccio sotto a quello dell’ospite, per condurlo nella sala da
pranzo.

Così venni, o lettori, in possesso del mio bel trovato. Ma
l’interruzione del manoscritto fu cagione di lunga scontentezza per me,
che il mutar di luogo e l’avvicendarsi di molti casi tra malinconici e
lieti, non valsero a cacciarmi dall’animo. Troppo spesso mi si facea
vivo il ricordo, e sempre cuoceva, come se fosse stato un rimorso.
Eppure, non era colpa mia se le indagini non andavano di pari passo
col desiderio. Nè a Torino, nè a Milano, avevo potuto correre in
quell’anno; a Roma fui per entrare un giorno, ma il genio protettore
dei ferravecchi, col quale avevo fatto di soverchio a fidanza, non si
degnò di aprire, e noi non si aveva una di quelle chiavi famose, che,
tre anni di poi, dovevano vincere la toppa rugginosa di porta Pia.

Intanto tra me e fra Gualberto durava il vincolo antico, nè io potevo
camparmene. Come il vecchio malnato delle _Mille e una notti_, che
s’era accavallato al collo di Sindbad il marinaio e non c’era verso
che questi potesse sgabellarsene, il monaco s’era impadronito di me,
mi dava ad ogni tanto di sproni, nè io ottenni di levarmelo di dosso,
se non quattro anni più tardi, allorquando finalmente mi venne fatto
di metter piede nella biblioteca Vaticana, ove giaceva ignorato il
secondo volume delle sue Confessioni. Ignorato, sicuramente! In mezzo
ai codici, quasi tutti palinsesti, che recavano la scritta: _Liber
sancti Columbani de Bobio_, stava il poverino dispaiato, e siccome
niente di esso, nè sulla coperta, nè dentro, richiamava il titolo
vergato nel primo volume, così questo secondo era notato a catalogo
col modesto contrassegno: _Anonymi Bobiensis quae extant_. Fu questa
gretola dell’anonimo che mi diede nell’occhio, mentre io già disperavo
di trovare il fatto mio; cercai il libro, e, vedete fortuna! gli era
proprio quello, la continuazione del manoscritto di Bobbio.

Con che animo mi facessi a leggerlo, argomentino i discreti lettori.
Così gradita tornasse loro la lettura di questa mia, che, se non è una
versione pedissequa, è pur tuttavia più fedele di tante e tant’altre.
Per quanto è degli eruditi, io son certo che eglino, se non leggeranno
con diletto la mia prosa, godranno largamente della scoverta di un
preziosissimo testo, il quale uscirà tra non molto alla luce, nè
più negheranno fede all’Alcaforado, al paggio del principe Enrico di
Portogallo, sulla cui testimonianza soltanto poggiava finora la storia
singolare, oggi comprovata dal manoscritto di Bobbio.

Or dunque, ci siamo; _incipit liber confessionum Gualberti monachi_.



LE CONFESSIONI DI FRA GUALBERTO



I.


L’anima mia è triste fino alla morte. Ma l’autunno è già innanzi; la
natura si spoglia senza rimpianto de’ suoi ultimi colori, e si dispone
al riposo; i pioppi in riva al fiume si sfrondano, e le foglie portate
dal vento battono frettolose alla mia finestra, quasi per dirmi:
sbrigati, vicino; bisogna partire. Ah! l’ora della partenza sarà lieta
per me, se Iddio mi avrà perdonato.

A frate Anselmo ho confessati i miei falli, non disvelato tutto me
stesso. Qui lo farò, al vostro cospetto, o Signore. Se alcuna delle mie
parole sentirà troppo degli ardori della carne, non vi sdegnate con me.
Fu opera vostra questo fervido cuore, nè io maledirò ai vostri doni.
L’anima rassegnata vi ringrazia delle afflizioni e vi domanda la pace
del sepolcro.

Dirò il mio nome, io che nulla feci di utile, io che, venuto meno a
tutte le impromesse della mia gioventù, lo recai oscuro alle porte
del chiostro? In penitenza della smarrita via lo dirò: Gentile Vivaldi
fu il mio nome tra gli uomini. Chiari furono i miei maggiori, e nella
patria loro, a cui prego concordia e temperanza pari alla grandezza di
sue fortune, tennero amplissimi uffici, sebbene, la più parte, amarono
le ardite intraprese ed anteposero il mare alla terra. L’aquila dei
Vivaldi s’allegrò nella vista dei flutti; fu chiamata sovra essi da
un’arcana virtù, siccome l’ago calamitato è attratto dalla stella
polare.

Furono antenati miei che, or fanno i sessanta anni, navigando
oltre le colonne d’Ercole, discoprivano le isole dei Corvi marini
e quell’altra che aveva a costare tante lagrime e tanti rimorsi al
loro sciagurato pronipote. Nè a ciò si fermarono; chè, procedendo ad
ostro, scoversero le isole Fortunate degli antichi, e animosi voltarono
il capo di Gòzola, d’onde più nuova di essi non giunse alla patria.
Ugolino e Vadino de’ Vivaldi il nome loro; le navi, già possedute da
Tedisio Doria, che fu ad essi compagno nell’impresa, si chiamarono
_Sant’Antonio_ e _Allegranza_. Dalla spiaggia natale avevano salpato le
àncore nel maggio 1291, siccome vidi scritto io medesimo negli annali
della patria, la quale saviamente adopera notando con diligenza ogni
cosa che torni ad utile suo e a gloria dei figli.

Che avvenne egli mai? Ruppero miseramente le galere sulle ultime rive
africane? O, ricondottesi in alto, le imprigionarono i mari di alighe,
terribili al nocchiero per le loro calme insidiose? O, più felici,
afferrarono l’isola di San Brandano, che molti videro e a cui nessuno
approdò? Comunque sia, glorioso e fatale alla mia gente fu il mare.
Anche di Benedetto, mio padre, partito nell’anno 1326 a discoprire
nuove terre insieme con Angelino del Moro, non si ebbe più nuova
sicura.

Ed io? Se le onde ricusarono questa misera spoglia mortale, ben vollero
la pace dell’anima mia. Anche me giovinetto allettarono i fragori del
mare tenebroso, e cercando del padre (così dissimulava le sue vie il
destino!) navigai verso i paurosi gorghi, ne’ quali il sole s’inabissa
ogni sera. La mia nave, ch’ebbe a nome la _Ventura_, corse i flutti
fino al capo di Gózola, si perigliò fino a quelle isole dei Corvi,
dove invero non sono corvi, ma falchi, astori e cani marini, cacciatori
pazienti delle vittime che l’audacia umana offre in tributo all’Oceano.

Vissi parecchi anni in tal guisa. La mia patria, guasta da intestine
discordie, non aveva lusinghe per me. Il mare erami divenuto patria, il
mare che era mio fino a tanto io non diventassi suo. Avido dell’ignoto,
che già aveva inghiottito alcuno de’ miei, amavo su tutti gli altri
i flutti che ruggivano oltre lo stretto di Septa. Colà in altri tempi
era stata l’isola d’Atlantide, di cui narrarono i sacerdoti egiziani
a Solone, così vasta che più non sono Asia e Libia riunite, e un
giorno sommersa per virtù di tremuoto, insieme col suo gran popolo di
conquistatori. Che rimase egli della gran terra? Poche isole deserte
di rincontro allo stretto. Ma forse più oltre, chi sa?... Seneca lo
ha scritto; giorno verrà, sebben tardi, che l’Oceano rallenti i suoi
vincoli e un’ampia regione si mostri; un altro nocchiero discoprirà
nuovi mondi, nè più tra le terre conosciute sarà ultima Tule.

Quel mare io correvo; dai confini dell’Africa, donde si tolgono le
resine e le polveri preziose che tutta Europa dimanda, risalivo alle
coste d’Iberia e di Lusitania e su fino ai porti di Fiandra, ove
gli aromi della famosa terra del Sole si mutano coi famosi tessuti,
sfoggio delle nobili case. Di là veleggiavo all’Inghilterra, ricca
cosiffattamente di lane, che spesso incontri monistero o badia che
possa fornirti il carico intiero.

Dell’Inghilterra erami sopra modo piaciuta la città di Bristol, che
siede dalla parte occidentale, nella contea di Glocester. È dessa un
ragguardevole emporio, presso a due fiumi, che uniti scorrono per lunga
e profonda foce al mare, di guisa che le navi hanno agio di avvicinarsi
alla città, risalendo il canale. Nobili edifizi l’adornano, tra i quali
l’abbazia di Santo Agostino, stupendo lavoro d’architetti normanni.
Colà, nel luogo sacro al raccoglimento e alla preghiera, mi venne
veduta la donna che prima ed ultima amai.

A venticinque anni, io non aveva ancora sperimentati i colpi d’amore.
Niente era ignoto delle umane lusinghe alla mia libera gioventù;
ma l’arcana dolcezza, che c’inonda come celeste rugiada, alla vista
d’una donna, di una sola tra tutte, ma la fiamma intensa che affina il
desiderio e lo eterna, come sacro fuoco nel profondo del cuore, erano
cose nuove per me. Un affetto mi ardeva, il mare; una sete, l’ignoto;
ad altro non si volgeva, di null’altro curava il mio spirito. Possanza
effimera, pace in un punto rapita!

Lo ricorderò sempre; era un bel dì d’aprile, e la primavera, confortata
dai raggi d’un benigno sole, alitava d’intorno le sue aure tepide
e molli. Non triste, poichè nessuna cagione di tristezza poteva
albergarmi nell’animo, ma tranquillamente pensoso, siccome l’uomo
che, solingo in terra, consideri il suo cammino vitale, su cui non
appariscano stagioni nè meta, m’ero ridotto nella chiesa del glorioso
apostolo dell’Inghilterra, mentre i monaci salmeggiavano intorno
all’altare e una sacra armonia accompagnava le note. Si udiva colà
lo strumento maraviglioso, che è detto organo, e migliore a gran
pezza che non fosse il celebratissimo della chiesa di Westminster,
imperocchè questo di Sant’Agostino era più recente opera di un frate
del monastero, e, come già allora in alcuni organi d’Italia e di
Lamagna, vi si ammiravano più ordini di voci gravi ed acute, e tra
essi l’umana, che è veramente angelica cosa. Molti cittadini, e dei
maggiorenti della terra, convenivano al tempio per ascoltare i suoni
di quella voce, che, cercando ogni fibra, si ergeva solennemente a
Dio, portandogli, raccolti in un inno di lode, tutti i commovimenti
e l’estasi degli uditori. La musica è anch’essa una preghiera; quel
misto di desiderio e di appagamento, quell’incognito indistinto di
soavi tumulti e di rapimenti dell’animo, bene risponde ai sensi della
creatura, allorquando ella si raccoglie e si concentra in sè medesima,
per innalzarsi al suo Dio.

E in quella che io chiamerò onda, vapore, incenso di melodia, vidi
l’angelica donna. La vidi? Meglio sarebbe il dire che n’ebbi come
un bagliore negli occhi. Stava ella dall’altra banda del tempio, ove
si raccolgon le donne, in piè ritta nel vano d’un arco della grande
navata, poco lunge dalla tribuna. La manca chiusa in un guanto di
Spagna, che saliva a coprirle il polso e una parte del braccio,
poggiava sopra lo scannello dell’inginocchiatoio, mentre la destra,
raccolta al petto, si ripiegava su d’un uffiziuolo, ornato di bei
fermagli d’oro. Come fosse bella, m’è impossibile il dire. Da lunghi
anni la sua immagine è scolpita nel mio cuore; il pensiero se la
raffigura ad ogni istante, ma le parole non reggono al paragone.
Aveva neri i capegli e lucenti sotto lo zendado bianco, in cui erano
a mezzo ravvolti; nè lo zendado agguagliava la candidezza del collo,
cui scendeva a carezzare co’ suoi lembi ricadenti. La fronte ampia,
nitida e perlata, su cui scintillava uno smeraldo raccomandato ad una
sottil catenella d’oro, mostravasi illuminata da un mite raggio di
sole, che rischiarava la profondità di due grandi occhi neri, e faceva
risaltare i delicati e in un grandiosi contorni del viso, i morbidi
alabastri delle guancie e il corallo tenero delle labbra semichiuse,
donde pur mo’ era esalata la preghiera. Niente dissimulava la rilevata
leggiadria della persona, nè cappuccio, nè manto, che forse avealo
qualche paggio, o donzello, preparato in sull’uscio; la cotta, che era
di sciàmito verde divisato a fogliami, stretta al corpo da una cintura
sprangata d’oro che s’annodava sul lato sinistro, donde pendeva la
borsa di drappo cremisino trapunta di bisantini, si rigirava sul fianco
tondeggiante, e qui si partiva in picciole pieghe, le quali si veniano
man mano allargando e si voltavano a strascico.

Certo ell’era donna d’alto lignaggio; ma, così bella e superbamente
ornata, non appariva altrimenti lieta. L’atto suo era di meditazione;
ma que’ grandi occhi neri guardavano essi l’altare, o non per avventura
più lunge? A me parve in quel punto cosa più che mortale; bellezza di
cielo venuta in terra a mostrare miracolo che sia, anima prigioniera
che anela a lontane regioni e si perde nella contemplazione d’una vita
arcana, d’un mondo invisibile, che ella indovina, o ricorda. E rimasi
lungamente estatico a riguardarla; non vidi nessuno, nè intorno a me,
nè più oltre. La chiesa era splendida e buia; sole e tenebre nell’ampio
recinto; luce dov’ella era, oscurità in ogni altro luogo; o, per dire
più veramente, era dessa la luce (perdonate, mio Dio!), e quella gran
luce copriva, offuscava, nascondeva intorno intorno ogni cosa.

Quanto durasse quella mia contemplazione non so. Ben m’avvidi ad un
tratto che l’organo taceva e i sacri canti del pari; il tempio era
quasi vuoto, la celeste visione sparita. Restai come trasognato alcun
tempo, indi corsi, volai all’aperto, ma senza vederla altrimenti;
quantunque errassi a lungo per le vie più nobili della città, dove
mi sembrava ragionevole che ella avesse dimora. Del resto mi venni
chetando, chè il colpo, sebbene gagliardo, era troppo recente,
perchè io già sentissi le trafitture della ferita, e poi, in simili
congiunture, pari ai silenzi precursori del nembo, l’uomo sente tal
fiata il bisogno di raccoglier gli spiriti. Io indagavo me stesso;
sentivo con stupore, per la prima volta, e di punto in bianco, la mia
vita esser piena di qualche cosa, e, quantunque non potessi farmene
ancora un giusto concetto, oramai volta ad un fine; frattanto sorbivo
la voluttà delle prime speranze, divisavo nell’animo gli ostacoli
vinti, i pericoli superati, le gioie ottenute.

Non pigliai lingua da nessuno; ai mercatanti che conoscevo in città
non chiesi contezza di lei, nè indizio anco lontanamente inteso a
scoprirla: chè mi sarebbe parso di profanare con atti volgari il
dolcissimo sentimento nato quel dì nel mio cuore. Presi in quella vece
ad andare ogni giorno alla chiesa, sempre sperando e mai non venendo
a capo di rivedere la bella sconosciuta. Che era egli accaduto? Forse
inferma? O il mio rapimento era stato notato? Imperocchè, anche ciò
era possibile; se così ero stato io fuori di me, da non avvedermi del
finire degli uffizi divini, la mia estasi aveva certamente potuto
dar negli occhi ai vicini, e a qualche geloso tra essi. E cotesto,
intravveduto da prima, indi ricisamente paventato, mi fece più
guardingo e peritoso a chieder di lei.

Infine, più non la vidi. Sogno svanito! — dissi un giorno tra me.
Pazienza, povero illuso! L’Oceano vuol la sua preda; torna al tuo mare,
torna al tuo vecchio amore, che ti perderà, non dubitare, come potrebbe
perderti l’amor d’una donna.



II.


La _Ventura_ stava per compiere in que’ giorni il suo carico, a ciò
invigilando Lanzerotto, il mio còmito. Io non avevo gentiluomini di
poppa con me, sebbene la mole della galera, accomodata ad uso di guerra
e di traffico, avrebbe potuto ragionevolmente consigliarmi a tôrre
compagni. Padrone della nave e desideroso di fare in ogni cosa il
mio talento, avevo amato meglio esser solo al comando, e Lanzerotto,
dal canto suo, siccome è uffizio dei còmiti, oltre il comandare alla
marinaresca e alla ciurma e dirigere la manovra delle vele e degli
ormeggi, era maestro nell’arte di stivar le galere.

Avevo divisato di portare le mie lane in Ispagna, non volendo
perigliarmi più oltre nel canale inglese, dove, per la guerra
incominciata tra Edoardo III Plantageneto e Filippo VI di Valois, non
era più sicura la navigazione da quattro anni in poi. Già tra le due
armate nimiche si era ferocemente combattuto nelle acque di Fiandra, e
in un viaggio precedente, aizzato da una nave britanna che non rispettò
lo stendardo di San Giorgio, avevo dovuto far arme in coperta e, col
divino aiuto, affondare il nemico. Siffatti scontri non mi piacevano,
imperocchè io non avessi odio contro nessuno; laonde da due anni non
solevo più veleggiare alla Schiusa, per recare o levare mercatanzie
dall’emporio di Brugge.

Ora, mentre io dava opera agli ultimi apprestamenti della _Ventura_,
triste in cuor mio ed impaziente ad un tempo, mi venne scorto un
giovine inglese, più notevole in vista di tanti altri che per solito
si soffermavano sulla riva a guardare le navi, quantunque e’ non fosse
meglio degli altri all’arnese. Il saio e le calze di bigello, con
sopravveste e cappuccio di mezzolano, lo dicevano marinaio; solo che,
nel muoversi, non aveva quell’andatura incerta che il continuo dondolìo
della nave conferisce alla gente di mare, e i suoi capegli erano più
lunghi che l’uso de’ suoi pari non comportasse. Ma forse in ciò era
da condonarglisi un poco di vanità giovanile, poichè quelle ciocche
bionde contornavano assai bene quel viso piacente che nulla più. Lo
notai, dico, essendo che egli rimaneva sul lido più a lungo d’ogni
altro viandante curioso, e parecchie volte, occorrendomi di andare e
venire sul ponte di sbarco, sempre lo avevo dinanzi, come desideroso di
darmi negli occhi. Non argomentando allora che cosa potesse bisognargli
da me, proseguii noncurante nelle mie faccende; ma egli, il giorno
appresso, fattosi animo, pose il piede sul ponte e venne diffilato in
coperta.

— Messere — mi disse egli nella sua favella sassone — una parola, se vi
aggrada.

Il suo aspetto e la scioltezza dei modi mi piacquero, e col gesto
amorevole, più assai che colle parole, gli accennai che parlasse.

— Mettete voi alla vela? — mi chiese egli allora.

— Domani; — risposi.

Egli rimase alquanto perplesso; indi mi volse un’altra domanda.

— Avete bisogno di marinai?

— No; — dissi a lui — ne ho più che non occorra per una nave di
carico. —

Ciò detto appena, vidi un’aria di così grande scoramento dipingersi sul
volto del giovine, che n’ebbi compassione ad un tratto.

— Non mi sembrate povero — soggiunsi, come per temperare a’ miei occhi
medesimi l’asprezza del diniego.

— No, veramente, non sono; — rispose egli con un sorriso, che volea
mostrarmi come da quel lato non ci fosse nulla a temere; — vi dirò anzi
che sono ricco; pel mio stato, s’intende; chè invero, se fossi stato
più ricco — proseguì, mutando il sorriso in un mezzo sospiro — sarei
oggi più felice d’un conte. —

Il suo fare m’andava sempre più a genio, e, per non aver aria di
dargli tosto commiato ed anche per offrirgli agio a dirmi in qual guisa
potessi tornargli utile, entrai a fargli qualche dimanda a mia volta.

— Il vostro nome?

— Bob.

— Roberto, dunque.

— Sì, Roberto; ma i miei compagni mi dicono Bob, il che riesce più
spiccio.

— Avete navigato a lungo?

— Sì, parecchio tempo, sulle galere del re.

— Come gentiluomo di poppa — diss’io che avevo notato pur dianzi le sue
mani bianche e leggiadre.

Diede egli un subbalzo a quelle inaspettate parole e mi guardò con un
piglio tra maravigliato e scontento.

— Messere — proseguii, rispondendo alla muta dimanda de’ suoi occhi —
le vostre mani vi accusano. —

Riavutosi dalla sua confusione, ed afferratami la destra, che io gli
avevo cortesemente profferta, il giovine Bob mi trasse alquanto in
disparte verso il tendaletto di poppa.

— Siete gentiluomo? — mi chiese.

— Nella mia patria non conosco chi mi vada innanzi per nobiltà di
lignaggio.

— Voi, dunque, non mi tradirete — soggiunse egli esitante.

— Serbate il vostro segreto, messere, se ciò temete di me — risposi
asciuttamente e in atto di por fine alla conversazione.

— Ah, perdonate! — sclamò egli allora con accento commosso. — Non è
già che io dubiti della vostra fede; ma il caso mio.... Infine, vi dirò
tutto; son gentiluomo, e mi chiamo....

— Non vo’ saperlo, il vostro casato; — interruppi. — Ditemi che cosa io
possa fare per vostro servizio, e basta.

— Vorrei lasciare l’Inghilterra, e vi chiedo ospitalità sulla vostra
galera. Dimandate pel tragitto quanto vi aggrada; pagherò.

— Non parliamo di ciò. Ditemi, invece, messere: avete voi ucciso
slealmente, o contraffatto in altra guisa all’onore?

— No, lo giuro nel nome di S. Giorgio e della mia dama.

— Or bene, la _Ventura_ è ai cenni vostri; rimanete fin d’ora, non
passeggiero, ma ospite.

— Ma... — aggiunse egli, mentre s’era inchinato per rendermi grazie —
io non vi ho detto ogni cosa.

— Che altro?

— Non sarei solo — rispose.

— Ah capisco, — esclamai sorridendo — la dama!

— Sì, una dama che condurrei meco; ma non già quale l’argomentate,
sibbene la più caramente diletta delle sorelle. Uditemi, messere,
— proseguì Roberto abbassando la voce, quasi temesse d’essere udito
dalla ciurma — la è una dolente storia, la nostra. Non ho che lei, di
mia casa, e per nissuna cosa al mondo mi ridurrei a farla infelice;
Edoardo, il nostro graziosissimo re, che Dio guardi, ha giurato che
ella andrà in moglie ad un potentissimo barone di questa contea,
che l’ha veduta e n’è fieramente invaghito. Ella abborre da queste
nozze e il Plantageneto vuol contentare il suo cortigiano, su cui fa
assegnamento grande per l’impresa di Francia, la quale, come non vi
sarà ignoto, sta per essere mandata innanzi colla maggior diligenza e
vigore. Ed eccovi perchè io tremo, perchè tento di fuggire, io, involto
nella sventura che il feroce amore di un possente chiamò sulla nostra
famiglia, io, minacciato della prigionia se non userò la mia autorità
di fratello, di padre, in obbedienza ai comandi reali; ed ecco perchè
mi rivolgo a voi per aiuto, anzichè ad un suddito d’Inghilterra.
La vostra nave mi è apparsa ieri come una tavola di salvezza ad un
naufrago. Che altro vi dirò? Ve ne supplico in nome della donna che
amate, calateci sulle rive di Francia e abbiate la mia gratitudine
eterna e quella di Anna.

— Anna! — gridai. — È il nome di mia madre. Messere, io ve lo ripeto,
la _Ventura_ è ai cenni vostri. Non avevo deliberato di toccare la
Francia, ma infine, farò di contentarvi anche in ciò, sebbene non ci
sia donna innanzi a cui io possa aver merito di un’opera buona.

— Non amate voi?

— Amo, sì, amo quanto si possa amare in terra, ma senza essermi
appressato mai alla donna dei miei pensieri e senza speranza alcuna
di vederla più oltre. Vi fa meraviglia? Noi, scorridori dell’onde,
ci abbiamo di questi amori sconsolati, stelle lucenti che ci guidano
inconscie nella solitudine dei mari e nell’orrore delle tempeste. Ma
non parliamo di me; quando v’imbarcherete?

— Voi partite domani a sera, diceste?

— No, domattina; ma se vi torna meglio per la sera....

— Sì, partite domani a sera. Nessuno dee vederla salire in nave.

— Per l’appunto; ma io posso anche far meglio. La _Ventura_ uscirà
domattina dal canale, sotto gli occhi di tutta Bristol, ed un
palischermo sarà domani a sera, con quattro de’ miei marinai, alla
riva degli Ontàni. Lanzerotto, il mio còmito, fidatissimo uomo, sarà al
comando e vi aspetterà, se occorra, fino al mattino.

— No, no; domani, alla prima ora di notte, saremo alla riva degli
Ontàni. Grazie, messere, e il cielo vi dia merito dell’atto umano e
cortese. —

Dopo queste e poche altre parole di commiato, il gentiluomo inglese
partì, correndo sul ponte di sbarco, che pareva avesse l’ali da tergo,
tanta era in lui l’allegra impazienza di giungere, siccome io credetti,
ad avvisar la sorella.

Anch’io era lieto di poter aiutare in quel suo bisogno il gentile
cavaliero. La gioventù (chi nol sa?) è pronta ad infiammarsi, e sembra
a quell’età fiduciosa e balda che il far servizio consoli. L’uomo
esperimenta allora le sue forze, e, sperimentando, dà tutto sè medesimo
altrui. In tal guisa avvenne che io più volonteroso mi facessi quel
giorno a mettere il legno in assetto di partenza. Poco del resto gli
abbisognava. Il carico era compiuto, vettovaglie, armi ed ormeggi
disposti nella stiva; le due grandi vele inferite alle antenne; i remi
diligentemente acconigliati sulle latte, aspettando la ciurma che li
ordinasse sulle posticcie e li tuffasse in cadenza per prendere il
largo.

Era bella a vedersi la _Ventura_, col suo castello di poppa
superbamente rilevato, il vessillo di San Giorgio sventolante in capo
all’antenna dell’albero di maestra e l’aquila dei Vivaldi scolpita
sulla freccia di prua; destra e sparvierata quant’altra mai, o
volasse sui flutti, portata dal suo palamento di quaranta remi, od
orzasse stringendo il vento con due larghe vele latine. I marinai
sull’arrembata e lungo la corsìa, la vedetta in sulla gabbia, sei
uomini ad ogni remo, il padrone ed il còmito sulla spalliera a comandar
la manovra!... Io la vedo ancora, quale essa fu per dieci anni, la
mia casa, il mio pensiero, l’amor mio, il mio tutto. E doveva perire!
Il giorno che l’amore di creatura mortale mi rese infedele alla mia
nave, la _Ventura_ fu condannata; ella doveva andare, senza il suo
signore, senza l’amico suo, in balìa dei marosi che aveva tante volte
impavidamente sfidati a rompere, negletto carcame, su d’una spiaggia
deserta. Ma non è sorte comune cotesta? Soli, ignudi di affetto,
giungiamo al tristo confine e tutti ci soverchia un medesimo flutto.
Che Iddio usi misericordia ai sommersi.

La notte che seguì il mio colloquio col gentiluomo inglese, dormii
sulla nave, già avendo tolto commiato dai mercatanti di Bristol. Nè
ad alcuno di essi io m’attentai di chiedere della sconosciuta. A che
l’avrei fatto? Partivo, nè forse sarei tornato più colà. Avevo io
mestieri di dare un nome a quella ricordanza cara ed acerba? Il suo
nome era bellezza, ed altra non ne avrei trovata di somigliante più
mai. Ben mi cuoceva il partire; ma la ragione, se non aveva potuto
consolarmi, m’aveva dato almeno la fortezza pari al proposito; e forte,
se non per avventura tranquillo, uscii in coperta al primo romper
dell’alba.

In breve furono salpate le àncore e sospese da prua. Ma quando al mio
cenno fu spiccato dalla riva il provese, sentii schiantarmisi il cuore.
Animo, via! La ciurma, sbucata di sotto la tolda, era già spartita
per branche, al suo posto, co’ remi armati e sospesi. Palamento in
guala! gridai, e tutti si disposero i remi in ordinanza, pronti a
pigliar voga insieme. I primi chiarori del giorno scoprivano a miei
occhi i tetti e le torri di Bristol; diedi uno sguardo all’abbazia
di Sant’Agostino, che campeggiava in disparte, e balenai, come uomo
percosso all’impensata nel petto. Cala remi e avanti! proseguii veloce;
e tosto la galera si scosse, scivolò sulle acque, volgendosi al mare.
Dopo un’ora di voga arrancata, più non si vedea la città.

Avanti, fanciullo, avanti! La tua dimora è là, dove sarà il tuo
sepolcro, nei flutti verdastri dell’Oceano. Tutti servono al fato, che
i volonterosi conduce, i ripugnanti trascina.

Con tali parole confortavo lo spirito. Anche il vento, che spirava
a seconda, parea recarmi gli auspicî, ed io li avrei colti, mettendo
subitamente alla via, se non mi fosse bisognato aspettare fino a notte
la fuggitiva coppia fraterna. Indettato da me, Lanzerotto erasi partito
col palischermo, ancora tra lume e buio, per non dare negli occhi
alla gente, e s’era appiattato in una cala non molto lunge da Bristol,
dietro la riva degli Ontàni, in attesa di due passeggieri.

Essi furono puntuali. A notte alta, un picciol lume, che parea scorrer
sull’acqua, mi additò il palischermo, che veniva a golfo lanciato verso
di noi.

Poco stante, giungeva all’abbordo, ed io potei offrire la mano alla
dama, per aiutarla a salire la scala.

— Grazie, messere! — mi disse il gentiluomo, poichè fu a sua volta in
coperta. — Il vostro nome, che ieri non ho ardito di chiedervi?

— Gentile Vivaldi.

— E il mio è Roberto Macham, vostro debitore per tutta la vita.

— Aspettate — dissi a lui di rimando — che gli uffici dell’ospitalità
siano compiuti, e che la _Ventura_ vi abbia condotto alle rive di
Francia. E voi, madonna, degnatevi di entrare in casa vostra. —

Per la seconda volta presi la mano di lei. Quella mano tremava. Il
volto non vidi, chè era coperto da un fitto zendado. Ma, come fu
giunta nella camera sotto il castello di poppa, che io di buon grado
m’ero disposto a cedere ai due ospiti, ella si fece a ringraziarmi in
francese, nella lingua prediletta alla nobiltà d’Inghilterra, tutta
normanna di consuetudini, come era d’origine.

Furono poche parole, dette con voce tremante, ma dolce, soave,
carezzevole, che mi scese nel cuore.

Indi, con atto cortese, recatasi la mano al lembo dello zendado, lo
trasse indietro, discoprendosi il viso.

Dio santo! la mia sconosciuta!



III.


Qual fui allora? Quale scompiglio avvenne in ogni parte di me?

Poco rammento di quell’istante solenne, donde ebbe a dipendere tutta
la mia vita. Al sollevarsi di quel velo, mi s’era, come per virtù
d’incantesimo, disserrato un mondo di nuove meraviglie. Quelle favolose
narrazioni, quei sogni della fantasia coloriti di storia, con che i
naviganti, nelle lunghe ed eterne giornate di calma, sogliono ingannare
il tempo e sè stessi, erano un nulla al paragone di ciò che a me
largiva in un tratto e di ciò che mi facea sperare il destino. Egli fu
un punto che credei di sognare, e ben dovetti richiamare alla memoria
il colloquio coll’infinto marinaio, la partenza della galera e l’arrivo
del palischermo, per sincerarmi che non ero in balìa di una larva
ingannevole.

Di lei ricordo che aveva il volto vermiglio e quasi non ardiva fissar
gli occhi su me. Anch’ella era in un mondo diverso di ogni costume a
lei noto. Povera donna! Divelta dalle sue consuetudini, dalla quiete
delle pareti domestiche, dai conosciuti sembianti delle ancelle, dai
cortesi ragionari, dai delicati ossequii, da tutto quanto in fine fa
parer comportabile la vita, e sbalestrata di repente su d’una nave,
tra mezzo a gente ignota, a squallide vesti, a ruvidi parlari, ad
ammirazioni che stringono il cuore di ribrezzo e paura, e quel che
è peggio, sul mare infido, che anco ai più animosi non dissimula i
sovrastanti pericoli, larga e dolorosa parte del caso, come avrebbe
potuto rimanersi lieta e serena?

Non so che giudizio ella facesse del mio turbamento. Forse non vi pose
mente, turbata come appariva ella stessa. Per quanto era di Macham,
egli non se ne addiede, imperocchè veniva dopo di me, ed io ebbi agio
di riavermi.

Chiesi a madonna se avesse mestieri di cosa alcuna a quell’ora.

Di riposo, mi disse, e di vedersi, quanto più speditamente per noi si
potesse, lontano dall’Inghilterra.

Risposi ciò metter conto a me, come agli ospiti miei; non temesse ella,
chè a guadagnar presto le rive di Francia avrei fatto ogni mia possa;
intanto riposasse tranquilla. Indi presi commiato da lei, dolente che
sulla mia nave non fosse, come avrei voluto, una donna a servirla.

Macham le favellò con tenerezza ineffabile e con riverenza del pari.
Anzichè ad una sorella, parea favellasse ad una regina e volesse farsi
perdonare d’averla salvata. Nè ciò mi spiacque in lui, chè anzi n’ebbi
buon segno della sua gentilezza. Poco dopo, anch’egli si ritrasse, ed
io gli fui guida al gavone di poppa, che era sotto la camera d’Anna. In
quello stambugio, che prendeva il suo lume dalle cantanette praticate
nel bordo, soleva alloggiare il còmito; ma Lanzerotto se n’era ito coi
marinai nel gavone di prora, e noi due mettevamo stanza là dentro.
Lo lasciai, cionondimeno, poichè gli ebbi additato il suo rancio, e
rimontai in coperta per sovraintendere alla manovra.

Barellavo a guisa di briaco, tanta era la piena de’ miei tumultuosi
pensieri. Mi piantai sulla spalliera, davanti al tendaletto di poppa,
donde, per le commessure dell’intavolato, trapelava un filo di luce.
Ella si dispone al riposo, pensai, e vigilo io i suoi sonni! Fu quello
un dolce momento, pieno di caste voluttà, di leggiadre fantasie, di
soavi speranze. Così pochi io ne ho gustati in vita mia, che il ricordo
di quella notte di gaudio, tutta fragranza e splendori, mi rimarrà
sempre scolpito nel cuore.

Il vento, seguendo il corso del canale, ci soffiava in fil di ruota; la
qual cosa è poco propizia alla navigazione delle galere, fornite come
sono di due grandi vele latine, l’una avanti l’altra, epperciò soventi
volte disutile. Ed io, per guadagnar cammino, feci voltare le antenne
di maestra e di trinchetto, l’una a destra e l’altra a mancina; il che
dicesi nella lingua marinaresca far le orecchie di lepre. Per tal modo,
da ogni banda del legno sporgeva in basso il carro d’un’antenna e in
alto si drizzavano opposte due penne, raccogliendo quanto più poteano
di vento. E la galera, obbediente al cresciuto impulso, trabalzò
immergendo allegramente lo sprone nei flutti.

Lanzerotto era venuto presso di me, siccome soleva. Pieno la mente di
lei e schivo d’ogni discorso che non si riguardasse a lei, mi feci a
chiedergli i particolari della sua impresa alla riva degli Ontàni.

«Ci siam giunti in sul bruzzo — mi rispose il buon Lanzerotto —
e insino al meriggio non ci ho visto anima nata. Capitarono certi
pescatori; ma siccome anche noi facevamo le viste di pescare, non
ci badarono più che tanto, e così passò la giornata. Al cader del
sole, giunse il vostro gentiluomo, ansimante, smanioso, chè la febbre
se lo divorava ad occhi veggenti, ed io non sapevo come chetarlo
colle mie grame ragioni. Basta, si udì finalmente il galoppo di due
cavalli e poco stante apparve frammezzo agli alberi la dama con un suo
famigliare.

— Siete voi, Anna? — gridò messere Roberto.

— Sì — rispose ella, nell’atto che smontava, aiutata da lui.

— Nessuno vi ha veduti?

— No, giunti fuor della porta abbiamo spronato a questa volta; ma più
tardi, quando mi cercheranno, Dio mio!...

— Non temete, Anna, sorella mia, saremo al largo fra breve. Non è egli
vero, Lanzerotto?

— Sicuro! — risposi, — ma i fatti debbono andare innanzi alle parole.
Infine, entrato messer Roberto e la dama nel palischermo, restava il
valletto, che non era altrimenti un valletto.

— Che farai del ronzino? — gli chiese il vostro gentiluomo.

— Lo lego a quest’albero — rispose quell’altro — e poi lascio un
mestiere che, dopo essere stato troppo dolce, potrebbe sapermi di
amaro.

— Generoso William! — disse la dama, sporgendogli la mano da poppa —
voi siete un leale amico. Che farete voi ora?

— Io? tiro via per Saltford e chi mi aggiunge ha da essere buon veltro.
Domani torno il cavaliere di Blackstone, che vi seguirà in Francia, ma
per altra via e per altra cagione.

Così ebbe fine l’impresa; noi diemmo dei remi in acqua, l’altro di
sproni nei fianchi al corsiere, e il resto lo sapete voi, messer
Gentile, al pari di me.»

Questo racconto, del quale ebbi poi a saperne più addentro, mi chiamò
spesso alle labbra il sorriso. Ero felice, e l’esito di quella fuga
aveva recato la mia felicità; però benedicevo in cuor mio a quel
gaio cavaliere di Blackstone, che aveva aiutato così validamente il
fratello, senza alzare i suoi desiderii alla sorella, e sfidato per
amicizia gli sdegni d’un pretendente, che era spalleggiato dal re
d’Inghilterra in persona.

Il mattino s’appressava. L’aria intorno era fredda, ma tutto il mio
corpo ardeva e i gelidi buffi del vento mi ricreavano lo spirito. Era
mista la mia gioia di stupore e di dubbio; ma era la prima gioia; ma
per la prima volta io sentivo di vivere. Giuoco della sorte! Dunque
colei era la sorella di Macham? Quella divina, ch’io avevo veduta,
amata e perduta in un giorno, era una sventurata che io dovevo salvare?
E là, nel tempio, raccolti sotto una medesima vôlta, ignoti l’uno
all’altro, eravamo già legati dalle invisibili fila del destino? Ella
appariva pensosa, certo a cagione di quelle nozze abborrite. Nè più
era tornata alla chiesa; ma or s’intendeva, si chiariva ogni cosa;
ella erasi chiusa nelle sue stanze a piangere, la bella sconsolata. E
finalmente era in salvo, là, presso a me, regina sulla mia nave!

Sorse l’aurora; ma quello spettacolo, sempre così lieto al marinaio,
non trattenne il mio ciglio. Guardavo entro di me; l’aurora io l’avevo
nell’anima.

E più bella dell’aurora apparve quella divina in sull’uscio, dal
quale io non m’ero per tutta la notte scostato. La sua bellezza non
si adornava più di sciàmito, d’oro e di pietre preziose, siccome la
prima volta che io l’avevo veduta. Indossava ella invece una cotta di
scarlatto pavonazzo, lunga ad uso di cavalcare, e un mantello, foderato
di vaio, ascondendo in parte i leggiadri contorni della persona, le
aggiungeva maestà. Il cappello bigio, collo zendado ravvolto intorno
alle falde, ella lo teneva ancora tra mani; laonde il crine appariva
scoverto, maravigliosa ricchezza di lucenti cascate, tra cui veniano
a scherzare le aure capricciose del mare. E così severamente vestita,
ella era più bella che mai.

— Buon dì, messere! — mi disse ella con quella sua angelica voce, a
mala pena m’ebbe scôrto lassù. — Dove siamo noi ora?

— Fuor del canale, madonna. Vedete, là a manca sull’orizzonte,
cominciano a nereggiare le vette dell’alpestre Cornovaglia. Bel dono,
per verità, che re Edoardo ha fatto al principe Nero!

Infatti, pochi anni addietro, il Plantageneto aveva eretto il paese
di Cornovaglia in ducato e datane l’investitura a suo figlio. In
Inghilterra dicevasi questo un assai magro presente, ed io avevo tirata
in mezzo la storia, per isvagar l’animo della gentildonna e dar giro
più lieto al discorso. Ma ella non si distolse perciò dalla sua cura.

— Siamo ancora troppo vicini a Bristol! — notò, sospirando.

— Ah, non temete per questo; — ripigliai — chè la mia nave vi perderà
anche troppo presto. In due giorni, se questo buon vento ci assiste,
toccheremo il lido di Bretagna.

Macham giungeva in quel mezzo sulla spalliera, tutto meravigliato
e confuso che io non avessi toccato per quella notte il mio rancio,
laddove egli avea fatto un lunghissimo sonno. Egli, per altro, era
vissuto in tali angustie per parecchi giorni, che il corpo avea pur
voluto la sua parte di riposo; ma quind’innanzi, proseguiva, non
avrebbe più consentito che vegliassi io solo al carico della loro
salvezza.

— Ad ognuno l’ufficio suo! — risposi sorridendo, anche nell’intento di
precorrere le condoglianze ed i ringraziamenti d’Anna. — È del padrone
l’aver cura del suo legno. Quante notti non ho io vegliate oramai, e
senz’avere un carico tanto prezioso, come ora? Venite, madonna, se non
vi spiace, a visitar questa nave, ove voi siete signora. —

Ella accettò il mio invito e, poggiato il guanto sul mio braccio,
discese nella corsìa. Nè il sostegno era inutile, perocchè agl’impulsi
del vento il mare fiottava, e la galera dava un tal poco di beccheggio.
A lei trepidante io venivo spiegando come ciò fosse nulla, e frattanto
il premere di quel guanto, il lieve stringersi di quel braccio sul
mio, mi faceva divampare il sangue nelle vene, e avrei amato che quel
viaggio da poppa a prora non fosse più mai per finire.

La tolda era gaia a vedersi per quel suo brulicame operoso di gente.
Parte de’ marinai, sotto la vigilanza del còmito, si affaticavano
al governo delle vele, parte attendevano a ripulir la coperta e a
preparare il pasto della mattina, mentre la ciurma, uscita da’ suoi
covi, stava mettendo in ordine i remi, per essere pronta ad ogni cenno
di voga. Allorquando la gentildonna passò lungo la corsìa, fu un moto
di curiosità, un bisbiglio, un fremito di ammirazione, che gli aguzzini
si affrettarono a chetare dietro di noi con severe parole.

— Schiavi! — esclamò ella con accento di dolce mestizia.

— Sì, madonna — risposi — ma così vogliono essi. La _Ventura_ non
porta prigionieri, costretti al servizio del remo, ma soltanto buone
voglie, chè in tal guisa si chiamano coloro i quali volontariamente si
profferiscono.

— E chi vi assicura, messer Gentile, che tutto quanto si fa
volontariamente, si faccia liberamente eziandio? Ah, io vorrei che
tutti gli uomini fossero liberi! —

Così parlava quella soave creatura, discoprendo, insieme cogl’impeti
del cuor generoso, una parte di sè.

Eravamo giunti all’arrembata del castello di prua. Ella appariva mesta;
io era travagliato da una grave cura. Ella guardava fiso davanti a
sè, verso le dirupate costiere di Cornovaglia; io indietro, verso il
canale. Man mano che il sole si alzava sull’orizzonte, più chiaramente
si discerneva sulla distesa del mare, ed io laggiù da levante, anche
prima che il marinaio in vedetta sull’albero di maestra l’accennasse
con un grido, aveva veduto una vela. Ora, mentre Anna veniva ragionando
con Macham, io non poteva spiccar gli occhi da quella vela, che, a
grado a grado crescendo, mostrava di guadagnar cammino su noi. Non
volli che si accorgessero della mia inquietudine, e cogliendo il
destro della venuta del dispensiere, che annunziava essere in pronto
l’asciolvere, li ricondussi al tendaletto di poppa.

— Che è ciò? Non rimanete con noi? — mi chiese ella, vedendomi in atto
di uscire da capo.

— No, grazie, madonna; più tardi. Ho alcuni comandi a dare.

Corsi fuori senz’altro, e, presa la via dei bandini, riuscii
sull’estremo della poppa, ove stava il timoniere. Ma egli non era già
solo; Lanzerotto mi aveva preceduto sul posto.

— Ah! tu pure vorresti sapere che sia quella vela?

— Sì, messere; la non mi garba punto, e siccome ho sempre pensato che
la buona cura discaccia la mala ventura, son qua venuto in disparte a
darle un’occhiata. —

Rimanemmo per un pezzo taciturni, intenti all’andatura del legno
misterioso; solo che il mio còmito, ad ogni tratto, con certi suoi
versi e batter di labbra, pareva rispondere all’inquietudine che mi
s’era fitta nell’ossa.

— Dimmi, Lanzerotto; ier l’altro, a Bristol, quando ci allestivamo,
c’erano altri legni per mettersi alla via?

— No, neppur uno, ed è ciò che mi mette in pensiero, poichè
(perdonatemi, messere, i giudizi temerarii) ho pensato tra me e me che
noi s’è frodata la gabella, con quella mercatanzia là, della riva degli
Ontàni, e gli inglesi non mi paion gente da reggere alla celia. Ma, per
sant’Ermo, che fanno laggiù?

— Non vedi? Hanno notato il nostro accorgimento e lo imitano, facendo
le orecchie di lepre.

— La è dunque al nostro ricapito! Ma perchè non pensarci prima? E’ mi
sanno di malpratici lontan quattro miglia; e metterei pegno che hanno
stancato tutta notte i rematori. Ma tanto meglio, se la è così, tanto
meglio! —

Il ragionamento di Lanzerotto mi persuadeva. Certo, se quella nave era
stata spedita a darne la caccia, essa, oltre le vele, avea fatto gran
forza di remi, per giungere nelle nostre acque, e vedutici poscia,
avendo stanca la ciurma, procurava di vantaggiarsi, imitando la nostra
manovra. E difatti, bene avvistandola, poichè ebbe incrociate le
antenne, non mi parve che ella tuttavia guadagnasse cammino, siccome
avea fatto in principio: segno che risparmiava la voga.

Cionondimeno riputai prudente consiglio provvedere ad ogni caso
peggiore, comandando che si facessero le impavesate. Tosto la
marinaresca fu in moto. Levati gli strapunti e le coltri dai covi dei
galeotti, fu disposta tutta quella miscèa sulle posticcie sporgenti
fuori banda e stesavi su l’incerata a più doppi; di guisa che d’ambi
i fianchi la galera apparve bastingata contro ogni danno d’artiglierie
nemiche[1].

Tutto ciò mentre io stava intento a guardar la galera che ci seguiva.
Le eravamo innanzi di tre o quattro miglia, come bene aveva detto
celiando il mio còmito; ma certamente, riposata la ciurma, ella avrebbe
ripigliata la voga e ristretto d’assai quello spazio.

L’animo mio durava un fiero travaglio. Non era quella la prima volta
che io mi mettessi in procinto di combattere, e in più scontri la
_Ventura_ avea tenuto fede al suo nome. A’ miei uomini, poi, provati da
tanti anni all’acqua ed al fuoco, ero certo di fare un lieto presente
con una chiamata all’arrembaggio. Ma era quella la prima volta che
mi toccasse combattere sotto gli occhi d’una donna, cagione e prezzo
della contesa ad un tempo. Imperocchè, egli non c’era da dubitarne,
niun legno era allestito per la partenza quando noi ci eravamo mossi da
Bristol. Onde quello con tanta diligenza? E come, partito dopo di noi,
certo allestito in furia nella notte, avrebbe potuto raggiungerci, se
non usava insieme di remo e di vela? E per chi tanto sforzo, se non per
noi? Nol diceva aperto quel suo imitare la nostra manovra?

Per fermo quella galera avea salpato ai comandi dell’amante di Anna,
dello sposo che il re le imponeva. Un rivale, e forse egli medesimo su
quel legno! In ogni altra congiuntura, n’avrei goduto; ma allora!...
Che avrebbe ella detto? E come andarle innanzi tra quegli apprestamenti
di pugna? Avrei potuto reggere all’ansia mortale d’una povera
sbigottita?

Cercai di dimenticare me stesso in quel punto; corsi a prua, e là,
sull’arrembata, diedi il comando solenne di far arme in coperta.

Incontanente si levò un grido di giubilo, che io m’affrettai a sedare,
perchè non avesse a intimorirsi anzi tempo colei.

— Non c’è nulla ancora, miei figli! È una nave che l’ha con noi?
Ci verrà tanto vicino da doverci rivoltare a mostrarle l’artiglio?
Vedremo. Se n’ha voglia e potere, ci troverà pronti a riceverla, ed
anco a farle una visita. Badate; concedo bottino a tutti e su tutto;
io non vo’ parte. La mia andrà mezza alla marinaresca e mezza alla
ciurma. —

Quest’ultime parole destarono grande allegrezza tra gli uomini del
remo. Erano il primo frutto della pietà di quella donna per essi.



IV.


I miei uomini erano pieni di ardimento e di desiderio; laonde non è a
dire se si mettessero con sollecitudine agli apprestamenti di pugna. Si
trassero fuor della stiva le armi, a gran furia; balestre e verretoni
per combattere da lunge, daghe ed accette da usarne all’arrembaggio.
Si posero le munizioni nei luoghi da ciò; vasi di bitume, morchia
d’olio, sapone e calce viva in polvere, che, gittata in aria al momento
dell’urto, acciecasse i combattenti avversarii. Da ultimo si collocò la
balista sull’arrembata, col suo corredo di lunghi dardi intonacati di
pece e zolfo, da appiccarvi il fuoco e scagliarli sulla tolda nemica.

Tutte queste cose ci bisognava far prima, imperocchè più tardi, se
avessi reputato necessario virar di bordo e correre a voga arancata
sulla galera che c’inseguiva, la marinaresca doveva aver libertà di
darsi tutta quanta ad imbrogliare le vele.

Regnavano sulla nave silenzio ed ardore. Tutti infiammati, ad un
tempo, ed austeri, parevano sentire la rilevanza del còmpito e dirsi
coll’esempio a vicenda: chi primo si è preparato ha la vittoria nel
pugno.

In quella che io vegliavo all’opera e Lanzerotto, salito sulla gabbia,
spiava i moti della galera nemica, ecco Macham venir frettoloso dalla
camera di poppa e farmisi incontro. Io pure mi mossi per andare alla
sua volta.

— Che avvenne egli mai? — gridò egli commosso. — Siamo dunque inseguiti?

— Anche voi avete veduto? — Gli chiesi.

— Sì; ma venite, venite laggiù, messer Gentile; la mia povera sorella
vi chiede.

— Ah! — esclamai turbato. — Ne avete già detto a lei?

— Ho fatto male! — rispose egli, chinando la testa. — Ma infine, non
aveva ella a saperlo più tardi?

— E perchè? Forse non è nulla e quel legno non viene per noi.

— Lo credete? A me il cuore presagisce tutt’altro; Messer Gentile,
ve ne supplico — proseguì Macham, già fuori di sè — ve ne scongiuro;
poichè non avrete cuore di consegnarci in mano a coloro.....

Il cruccio che mi lampeggiò dal volto gli fe’ rompere a mezzo la frase.

— Perdonate, amico — ripigliò tosto — perdonate il dubbio ad un cuore
che soffre! Invero, con qual diritto vi potrei chiedere di mettere a
repentaglio la vostra vita e quella dei vostri, per un disgraziato che
conoscete a mala pena da due giorni? Lo farete tuttavia e sarà nuova
testimonianza della nobiltà dell’animo vostro. Grazie, grazie per Anna
e per me! Ma siate generoso fino all’estremo; concedetemi il posto
d’onore sull’arrembata! Se s’ha a morire, io voglio, io debbo essere il
primo. —

Macham aveva pronunziate quelle parole con tale veemenza, che io rimasi
percosso, attonito a guardarlo. Egli si giovò del mio silenzio per
incalzare nella dimanda, accostandosi a me con piglio supplichevole e
stringendo le mie mani tra le sue.

— Basta, messer Roberto! Voi mi chiedete cosa impossibile. Quel
posto è mio; ma permetto a chi si sia — soggiunsi più dolcemente —
di conquistarsi il secondo al mio fianco. Andiamo ora, chè il tempo
stringe. Lanzerotto, che fanno quegli altri? —

L’alzata del castello di poppa mi toglieva allora di scorgere la nave
nemica.

— Non mi pare che acquistino vantaggio finora; — rispose dall’alto
della gabbia il mio còmito — del resto, s’avanzano a vele soltanto,
come noi.

— Sta bene; andiamo dunque — dissi a Roberto — e non facciamo che
vostra sorella si sgomenti oltre il bisogno.

Macham mi strinse con moto convulso la destra e non si fecero altre
parole tra noi. Entrammo allora nella camera di poppa, dove trovai
Anna in uno stato compassionevole, pallida, tutta smarrita, coi
capegli scarmigliati e gli occhi pieni di lagrime. Confesserò la mia
crudeltà. Provai un acerbo gaudio in vederla così addolorata e divorai
cogli occhi quella sua bellezza nuova, o, per dire più veramente,
quella antica bellezza, che il pallore, le lagrime, l’angoscia ond’era
dipinta, faceano vieppiù risaltare.

— Che sono que’ tristi apparecchi? — mi disse ella, venendomi incontro
e figgendo i suoi grandi occhi ne’ miei.

— Nulla, — balbettai, — Cautele d’uso....

— Ah, m’ingannate! — esclamò. — Ed è male, ciò che voi fate ora; ben
altro io m’aspettavo da voi.

— Or bene, madonna, — soggiunsi — io temo. Ma il temere non significa
già che si debba venire alle mani. Ho un prezioso carico, ve lo dissi
stamane, e giuro che lo condurrò a salvamento. Chi ha voi in custodia
si sente più forte dei casi, comunque volgano; degli uomini, checchè
s’argomentino di fare.

Mi guardò ella esterrefatta, come chi, in mezzo alle sue afflizioni,
scorga di repente una nuova cagion di dolore. Ma fu un lampo; altri
pensieri, altre cure incalzavano.

— Ah, voi non appiccherete battaglia! — gridò ella supplichevole.

— Madonna — dissi a lei di rimando — io farò il debito mio.

— Ma non è possibile! ma voi non accetterete la disfida!

— E come? Lo chiedo a voi, ora.

— Non so; sono una povera donna, una vil femminetta, io! che dirvi?
che consigliarvi? Ma voi non metterete la vita a repentaglio per me,
non tenterete la collera di Dio.... Non è egli vero? — proseguì ella
con accento straziante e carezzevole insieme — non è egli vero che
eviterete il combattimento? che sfuggirete il nemico?

— Pigliar caccia, io? Ma sapete voi ciò che mi chiedete, madonna?
Gentile Vivaldi non ha mai assalito, ma neppure è fuggito davanti ad
alcuno. Son nato di libera gente; sul mare, che è da dieci anni mia
patria, ho soventi volte incontrato uno stendardo nemico al mio, nè
mai gli ho sbarrata la via. Il mare è per tutti e dovrebb’esser di
tutti, libero campo a più nobili gare. Ma non fuggo il pericolo; mi
si gitta il guanto e lo raccolgo, avessi anche per avversario il re
d’Inghilterra.

— Se io ve ne scongiurassi? Se io cadessi ai vostri piedi e vi
chiedessi un sacrifizio in nome della madre vostra, della donna che
amate?...

— Dio santo! — gridai, tentando di svincolarmi e di rialzarla,
imperocchè ella s’era buttata ginocchioni davanti a me. — Ma ditele
voi, messer Roberto, che non posso obbedirla!

Il giovane era accasciato su d’uno sgabello, di riscontro alla parete,
il capo chino, e piangeva, col viso nascosto nelle palme.

— Voi pure, Macham? Voi pure?

— Sì, amico! — diss’egli, con voce rotta dai singhiozzi. — Io ve l’ho
detto pur dianzi. Se rivolgete la prora per combattere, concedetemi il
posto d’onore, per essere il primo a morire. Ma se è possibile ancora
cansar questo scontro, fatelo, ve ne prego a mani giunte, fatelo, non
per me, ma per lei! —

Li guardai trasognato, e rimasi alcuni istanti come fuori di me,
errante, perduto in un pelago di dubbiezze, che ben sarieno state
acerbe, se durevoli. Ma vinsi quella oppressura, non so per quale
ingenita virtù, o soccorso celeste, e balzai fuori della camera, al mio
posto di comando.

— A che distanza dagli altri? — chiesi a Lanzerotto, che era tuttavia
sulla gabbia.

— A tre miglia, forse.

— Dànno ancora nei remi?

— No.

— Sta bene; ora attenti tutti in coperta!

Un alto silenzio si fece da poppa a prora, tutti aspettando ansiosi il
mio cenno. Credevano di avere a virar di bordo per correre addosso al
nemico.

— Lesti ad ammainare l’antenna di trinchetto! — gridai. — Ammaina
volentieri!

Il comando fu sollecitamente eseguito. Io mi volsi alla ciurma.

— Palamento inguala! Cala remo e avanti!

Ammainata l’antenna per ispiccarne la vela di trinchetto, tardavasi
alquanto il corso della nave, rimasta senz’altro impulso che quello
della vela di maestra. Ma a questo difetto rimediava la voga. Io
quindi, slacciata la vela, feci inferire ed issare in sua vece il
marabutto, vela di fortuna assai più grande che s’adopera in caso di
vento fiacco, ma che a noi poteva giovare per correre più veloci, con
quel vento fresco che spirava già dal canale.

Quel mutamento fu il negozio di quasi mezz’ora; ma non fu tempo perduto
per noi, dacchè i remiganti facevano il debito loro.

Nè quegli altri guadagnarono tempo per la nostra manovra, la quale anzi
li trasse in inganno. Mentre si stava per issare il marabutto, il mio
vigile Lanzerotto avvertì che la galera nemica imbrogliava le vele.

— Ah, ah! son caduti nel laccio! — gridava egli dalla sua specola. —
Hanno creduto che noi s’imbrogliasse le vele, per dar gusto a loro.
Buona gente davvero! Come se noi ci mettesse conto virar di bordo e
accettar la battaglia col vento e la corrente contraria! —

Io intesi a che mirasse il mio còmito con quelle parole, dette ad
altissima voce, e glie ne fui grato nell’anima. La mia manovra era
di prender caccia, e a cotesto non s’aspettavano i marinai dopo tanti
apprestamenti di zuffa. Lanzerotto, dall’alto della sua gabbia, aveva
indovinato il mio caso, e dava amorevolmente colore d’artifizio
finissimo alla fuga cui m’accingevo, per sedare le angoscie d’una
povera bella.

Arranca! dissi alla ciurma; e fu sì poderosa la spinta di quei quaranta
remi, che la nave, con alto fragore di rotti marosi, diè un balzo,
si sollevò e prese, non che a correre, a volare sull’acque. Senonchè
il marabutto, così sporgente com’era rispetto alla vela di maestra,
incominciò anch’esso a portare in tal modo, che la prua della galera
s’immerse fin quasi alla freccia e un largo sprazzo di schiuma inondò
l’arrembata. Tosto comandai che tutti si recassero a poppa, e la nave
oramai liberata d’un peso soverchio da prua, pigliò così agevolmente
l’abbrivo, che Lanzerotto non seppe tenersi dal batter le palme, e la
marinaresca non volle esser da meno.

Mi condussi allora al timone per avvistare più attentamente l’andatura
del nemico. Egli per fermo si avvedeva di aver dato nella ragna;
ma gli era tardi oramai per racquistare il suo primo vantaggio. Le
vele aveva tuttavia mezzo imbrogliate; marabutto, che gli facesse
pigliar più vento, o non aveva, o non era più a tempo d’inferirlo con
profitto; epperò, sconcertato, impaziente, si dette ad inseguirci come
potè, a furia di remi. Ma innanzi che avesse pigliata quell’ultima
deliberazione e che le sue vele, finalmente da capo spiegate,
portassero, la _Ventura_ avea guadagnato due miglia di cammino.

— Il segugio perde terreno! Per San Giorgio, che caccia stupenda!
— dicea Lanzerotto. — Metto pegno che a quest’ora l’aguzzino è
affaccendato la parte sua, per rimettere i nervi nelle braccia della
ciurma. E noi si vola senza aiuto di sferza; non è egli vero, mastro
Pizzica? —

E la ciurma a ridere, e l’aguzzino del pari; mentre, sotto l’impulso
della voga in cadenza e del vento che facea cigolare le vele, il nostro
legno sfiorava baldanzoso la superficie del mare.

A me, per l’ansia febbrile di que’ momenti solenni, le membra ardevano
e il sangue martellava alle tempie. — Porta pieno! — gridavo al
timoniere. — Orzeremo più tardi, quando sia calato il crepuscolo.

Già la luce del giorno era presso a mancare, ed io avevo immaginato
di tirar profitto dall’ombre notturne per poggiare più in alto a
ponente. Su Francia, o su Spagna, avremmo potuto mettere prua nei
giorni seguenti; urgeva intanto d’involarci agli sguardi del legno
persecutore, che il giorno appresso ci avrebbe dato caccia sicuramente
verso le isole Normanne.

In sulla sera il vento rinfrescò, e non mi dolse, dappoichè i remiganti
si chiarivano stanchi, ed io volli che avessero almeno due ore di sosta
e convenevole ristoro alle forze stremate.

Per altro non mi disposi a ciò fare, senz’aver dato prima un’occhiata
alla molesta galera, che si vedeva ancora a guisa di punto nero, per
mezzo alla nebbia vespertina. Respirai allora, e mi passarono per
la fantasia gli accenti d’ira di colui che ci aveva inseguiti tutto
quel dì, con tanta speranza di giungerci. Certo l’arrembaggio, anco
se fatale per lui, avrebbe dovuto sapergli men reo di quella caccia
arrangolata ed inutile.

— Il segugio ha perso l’orma, venne a dirmi Lanzerotto. — Ed ora,
padrone, non vorrete andarvene a riposare?

— Sì, vado; ma poni mente: vo’ poggiare a garbino, stanotte.
Quell’altro, domattina, non ha più ad aver fumo di noi.

— Non dubitate; governeremo al largo, e l’Oceano vorrà serbarci il
segreto.

In quel mentre una mano stringeva la mia. — Grazie, messer Gentile! —
mi disse una voce soave.

Mi volsi; era dessa, e mi guardava così dolcemente, che a me parve
d’aver veduto il paradiso e fui per venir meno in un punto. Mi accorsi
allora che per tutto il giorno non avevo preso cibo.

Ella e Roberto, sorreggendomi amorevolmente, mi accompagnarono fino
alla camera, dove mi contentai d’un sorso di vino. Ero stanco, sfinito,
la forza che mi avea sostenuto quel dì era col pericolo andata in
dileguo.

— Grazie! — mi ripeteva ella, col suo accento divino. — Che sarebbe
egli avvenuto di noi, senza l’aiuto vostro, o messere?

Anche Macham s’era fatto vicino a me, e stringeva la mia mano tra le
sue. Io caddi, mi arrovesciai, non so più dove, nè come. Ben so che
ella tenea china la fronte sul mio viso, e che, innanzi di nuotare
nelle tenebre del sonno, i miei occhi si affissavano ne’ suoi.



V.


E sognai, beato, quanto umana mente può finger di nuovo, e cuore
desiderarsi di lieto; sognai che avevo tolto per sempre quella donna
all’ignoto rivale ed ella m’era compagna, amante ed amata, in più
felici regioni, sotto un più fulgido cielo. Narrano i viaggiatori
dell’Africa di una bevanda che reca insieme coll’ebbrezza i più cari
inganni allo spirito; ond’è che sembri di gustare, con ordinata sequela
di casi, le dolcezze d’una vita, ahi troppo facilmente impromessa
all’uomo sul mattino degli anni. A me la delizia bevuta da quegli occhi
di cielo, derivò l’arcana voluttà di così splendide fantasie, di così
care visioni.

Il mio risveglio non fu che un proseguimento del sogno, imperocchè Anna
era là, dormente poco lungi da me. Rimasi estatico a contemplare quella
bellissima testa, che, mezzo rivolta sull’omero, poggiava lentamente
contro l’assito della camera; vagheggiai cogli occhi desiosi quella
fronte candida, imperlata di lievissime stille, che avrei libate, mio
Dio, come celeste rugiada, e quel seno soavemente commosso da un dolce
respiro, che veniva a morirle sulle labbra socchiuse. Trepidante chinai
la faccia fin presso alla sua, aspirai quel soffio e mi trassi indietro
sollecito, ma barcollando a guisa d’un ebbro.

Macham dormiva egli pure, colla fronte appoggiata alla sponda del
letticciuolo intatto. Fratello e sorella aveano per fermo lungamente
vegliato il mio sonno fino a che la stanchezza non avesse soggiogato
anche loro.

Mi tolse da quello incantesimo il sentimento del debito; chè a me pure
si conveniva vegliare sovr’essi. Corsi all’aperto e vidi che la galera
proseguiva rapidamente il suo corso. Il vento era fresco; il cielo
nuvoloso non lasciava scorgere terra da veruna parte. Nessuna vela
appariva sul mare, e cotesto mi rallegrò. Mi feci quindi a guardare la
bussola e vidi che volgevamo sempre a garbino.

Lanzerotto era venuto in quel mentre a raggiungermi.

— Or bene? — gli chiesi — che nuove?

— Notte buonissima — rispose; — ma questa mane si gira al torbido.
Vedete, messere, come s’infosca il mare in lontananza. Temo d’un
groppo, e se si potesse poggiare....

— Che farci, Lanzerotto? Meglio una ventata al largo, che imbatterci da
capo in quella maledetta galera!

— Gli è giusto; or dunque si prosegue verso garbino?

— Certamente, e se occorressero novità, fammi avvisato.

Tornai nella camera di poppa. Anna erasi destata allora, ed io,
dopo il buon dì, le diedi la lieta nuova della sparizione del legno
persecutore. Mi chiese di accompagnarla fuori, ed io mi affrettai
a condurla sulla spalliera, dov’ella potè sincerarsi co’ suoi occhi
medesimi di quello che io le avevo annunziato, e più ancora si sentì
raffidata com’ebbe veduta la tolda libera di tutti quei brutti arnesi
e ingegni di guerra, che vi faceano ingombro il giorno antecedente;
laonde mi si volse tutta amorevole, per ringraziarmi di aver
sacrificato il mio orgoglio alla sua timidezza.

— Io ne vo altero, come del più largo trionfo; — dissi a lei di
rimando. — Aver potuto far cosa che vi fosse grata, è gran ventura per
me. Non siete voi la più bella memoria che io porterò meco del suolo
britanno?

— Povera cosa portate dalla mia patria! — notò ella umilmente.

— Ah, non lo dite, o ch’io aggiungerò cosa ugualmente vera; che questa
memoria non mi lascierà veder altro di bello al mondo, fino a tanto che
io viva. —

Confusa da quelle parole, in cui si mostrava tutto l’animo mio,
ella aveva chinato gli occhi a terra senza nulla rispondermi. Ed io,
non volendo lasciare il discorso a mezzo, poichè l’occasione s’era
profferta, incalzai:

— Ricordate la chiesa di Sant’Agostino?

— Or bene? — mi chiese ella, alzando la fronte e figgendo i suoi occhi
ne’ miei.

— Colà vi conobbi, madonna, e da quel giorno non ho più veduto che
voi. —

Mi avvidi, così dicendo, di averle recato molestia, tanto il suo volto
apparve turbato.

— Che è? — soggiunsi tremante. — In che vi sono dispiaciuto?

— Ah, non mi parlate in tal guisa, ve ne supplico! — mi disse ella con
voce lagrimosa. — Sono pur disgraziata! Deh, per carità, messer Gentile
— continuò, vedendomi rannuvolato ad un tratto — abbiate compassione
di una povera donna che non sa, che non può dirvi tutto ciò ch’ella
soffre; lasciate ch’ella possa stringere la vostra mano, come quella
d’un amico, del migliore degli amici. Non è egli vero che non vi
sdegnerete con me? Non è egli vero che mi perdonerete? In nome della
gratitudine che io vi serbo qui, nel profondo del cuore, ditemi che la
vostra amicizia mi resta senza corrucci e senza rancori! —

Non so che cosa fossi per rispondere allora. Macham sopraggiunse e il
doloroso colloquio fu rotto. Si fecero altre parole sui casi del giorno
innanzi, sulla notte trascorsa, sul sonno che lui ultimo aveva colto;
laonde io potei ricompormi. Poco stante ella si dolse del freddo e
noi la riconducemmo nella camera, pregandola che volesse coricarsi. Io
ardevo, in quella vece, e Macham, poichè fu uscito con me, si avvide
alla mia cera come io fossi fieramente turbato.

— Che avete? — mi domandò egli sollecito.

— Non vedete? — risposi, additandogli il cielo; — l’aria è cupa, il
cielo minaccioso.

— Ah! povera Anna! povera sorella! — esclamò sbigottito, mettendosi le
mani alla fronte.

— Messer Roberto — diss’io allora, cogliendo una ispirazione subitanea
— venite, debbo appunto parlarvi.

E discesi, precedendolo, fino al gavone di poppa.

— Siamo in pericolo? — chiese egli ansioso.

— No, no, per ora; ma d’altro ho a parlarvi. Sedete.

Roberto si adagiò sopra il suo rancio, ed attonito, coi pugni chiusi
sulle ginocchia, il collo teso, in atto di somma curiosità, stette
immoto a guardarmi.

— Vi ascolto — mi disse, dopo una breve pausa, senza distogliere i suoi
occhi da’ miei.

— Anzitutto, messer Roberto — incominciai, misurando le parole — vi
prego di dimenticare che io sono il padrone di questa nave, e che....

— Lo potrei forse? interruppe egli cortesemente. — Dimenticherei la
gratitudine immensa, eterna, che a voi mi lega, e per Anna e per me?

— Cotesto per l’appunto vorrei fosse lasciato in disparte — risposi.
— Per ciò che debbo dirvi, amerei essere giudicato da voi senza
preoccupazioni di spirito, quale sono, e nulla più; co’ miei pregi, se
alcuno in me vi piacque vederne; co’ miei mancamenti, che ben so non
andarne esente neppur io.

Macham mi trattenne col gesto, quasi volesse dirmi che ciò non pensava
di me.

— Sarà facile sentenza e grato ufficio — mi rispose egli poscia — farò
dunque di contentarvi.

— E adesso, incomincio — ripigliai. — Or fanno quindici dì, io ero in
un tempio di Bristol. Il luogo e lo stato dell’animo mi disponevano
alla meditazione. Egli era uno di quei solenni momenti in cui si odono
le voci del cielo, o quelle del cuore; le une e le altre possenti,
irresistibili, fatali. Colà vidi una donna, e l’amai.

Roberto mi guardò trasognato, o s’infinse, per aspettare che io mi
facessi a conchiudere.

— Non avevo mai amato — soggiunsi. — A trent’anni, vi parrà strano;
pure gli è così. Vivevo del mio mare, della mia nave, non ignaro
per fermo, bensì muto agli affetti gagliardi, che fanno l’uomo, o
pienamente felice, o senza fine sventurato. Ma l’ora ha da giungere
per tutti, se temuta, o sperata, non monta; non è creatura mortale
che possa sottrarsi al destino. E non sì tosto io vidi quella donna,
che sentii d’amarla profondamente, senza rimedio, per sempre. In noi,
uomini del mare, in noi, italiani, cotali affetti nascono di un tratto
giganti. E l’amai, come se da gran tempo l’avessi veduta e desiderata;
così lungo cammino avevo fornito nello spazio di un’ora! Nè chiesi il
suo nome, nè la seguii per istrada, nè mi scemò le prime vampe il non
vederla più oltre. L’amavo; anche deliberato di partire, il mio cuore
era suo; lontano, la sua immagine aveva a seguirmi, chiusa, suggellata
qui dentro. Che è il tempo, che è lo spazio, al cospetto dell’amore,
di questa cosa eterna che Iddio lasciò sulla terra, a testimonianza del
suo patto cogli uomini, a simbolo delle sue alte impromesse?

— Così vuolsi amare e non altramente! — esclamò Roberto, pensoso.

— Sì, ed appunto perchè amavo in tal guisa, deliberai di partire.
Forse, avevo detto fra me, forse è la donna d’un altro! Egli è
impossibile che tanta bellezza fosse qui sola, negletta, non amante, nè
amata. E fuggii; ma innanzi di scioglier le vele, voi lo sapete, venne
un gentiluomo a chiedermi ospitalità sulla mia nave. Egli bene avrebbe
potuto scoprirsi subito a me...

— Gli è vero, ho mentito l’esser mio! — interruppe Macham, chinando la
fronte.

— Non dissi ciò per farvene carico — fui pronto a soggiungere — bensì
per mostrarvi che mi avevate mal conosciuto e che io mi sarei profferto
a voi, senz’altro aspettare.... Ma, comunque vi sia piaciuto di fare,
io accolsi il fuggiasco. Nell’amarezza della mia dipartita, mi tornava
di qualche conforto l’essere utile altrui. Ed ora argomentate il mio
stupore; la donna da me amata, da me fuggita, era colei che cercava
rifugio sulla mia nave contro un nodo abborrito; era la sorella di
Macham. —

Roberto, sebbene, per la solennità del richiesto colloquio e per altro
costrutto ragionevolmente cavato dalla mia narrazione, appunto a ciò
s’aspettasse, non seppe tuttavia contenersi e balzò dal giaciglio che
gli tenea luogo di sedile. Stette taciturno in quell’atteggiamento
breve ora, mordendosi le labbra e guatando ora il suolo ora me, a guisa
di uomo fieramente combattuto da contrari pensieri; finalmente parve
chetarglisi quella tempesta nell’anima ed egli ripigliò la sua prima
postura.

— Proseguite, messere — mi disse allora, con accento tranquillo.

— Che vedete voi in cotesto? — ripigliai. — Non forse, come a me parve,
la mano del destino? Or bene, poichè questo è suo cenno, messere, non
già in nome d’un servigio fatto, non per tutto ciò ch’io son pronto a
fare per voi, ma per l’affetto ardentissimo che io porto nel mio cuore,
vi chiedo la mano di vostra sorella.

Alla onesta dimanda egli non rispose parola; aggrottò le ciglia e parve
chiudersi sempre più in sè medesimo.

— Che è ciò? La mia proposta vi torna ella ad offesa? Invece di Roberto
Macham, semplice gentiluomo inglese, siccome io nobile cittadino
italiano, ho per avventura dinanzi a me un cavalier di corona?

— V’ingannate — rispose egli finalmente; — quello che io vi ho
confessato è il vero esser mio.

— Ditemi allora, messer Roberto, che altro vi rende contrario a’ miei
voti? Suvvia, siate schietto con me. Io non vo’ credere che abbiate in
animo di farmi ingiuria. Forse vi duole di avermi a dire che la mano
di Anna è promessa ad altri.... a quel cavaliere di Blackstone, che dee
raggiungervi in Francia?...

— No! no! — interruppe Macham, crollando replicatamente la testa.

— Ma allora, in nome di Dio!... — gridai, facendo sentire in quelle
parole tutto lo strazio del mio povero cuore.

— Non posso dirvi altro... — balbettò Roberto schermendosi. —
Chiedetene a lei.... Ma non ora, non ora — aggiunse, come pentito; —
quando non saremo più qui.

— Non ora? Non ora! — tuonai, già tratto fuor di me stesso. — E credete
d’ingannarmi così?

Trasaltò egli, guatandomi in volto; impallidì repente e con pari
rapidità il sangue gli corse alla fronte. Mille discordi pensieri certo
gli turbinarono in capo, e, parendomi che già fosse per avventarsi su
me, attesi di pie’ fermo lo scontro. Ma egli fu peggio a gran pezza.

— Or bene, sì, a che tacerlo più oltre? — uscì con veemenza. — Vi ho
mentito due volte. Anna non è mia sorella; è dessa la donna ch’io amo.

Fu uno schianto di fulmine. Il cuore me lo aveva già detto, ma io non
avevo voluto credere al cuore. Diedi un grido e rimasi alcuni istanti
come insensato; rotte parole mi gorgogliarono nella strozza, mutatesi
poscia in un ghigno feroce.

— Ah! e il nemico che ci ha dato caccia pur dianzi? Era quegli lo sposo
prescelto, voluto dal re? Sollevate quello sguardo, messere! O non
piuttosto un marito? Ma ditelo, che non è ciò; ditemi ch’egli non è un
solenne giuramento violato, un sacro vincolo infranto!

Rifinito dal colpo, Macham si lasciò cadere sul giaciglio, mentre le
labbra mormoravano sommesse: «Pur troppo!»

In quel mezzo una voce, quella di Lanzerotto, suonò affannosa dal
boccaporto.

— Padrone! Il vento gira a tempesta. Che si fa?

— Ben venga! — esclamai soffocato! — Sferri la nave e mi affondi con
essa!

— Ed Anna? — mi chiese Macham, con accento supplichevole.

Quel nome mi scosse, e, ricercandomi le più ascose fibre del cuore, mi
fe’ tornare in me stesso. Corsi alla scala e salii difilato in coperta.

— Suvvia — dissi a lui, che mi seguiva — andate a racconsolare quella
povera donna. Io son più fatto per tener bordone alle bufère.



VI.


Lanzerotto non era inquieto senza ragione; il suo occhio esperto non lo
aveva ingannato intorno a ciò che stava per accadere.

Eloquenti sono talvolta i silenzi del mare. Egli è su quel liquido
piano, quando la terra è sparita ai vostri sguardi, quando le sue cure
materne sembrano avervi abbandonato, che voi incominciate ad udire una
voce nuova, paurosa, solenne, la voce delle cose, voce di pianto, di
minaccia, di morte. La natura acquista una favella e l’uomo la intende;
dovunque ei volga le pupille smarrite, vede le magiche cifre che gli
annunziano il triste futuro. Il cielo assume un aspetto sinistro,
grave di orrendi presagi; l’orizzonte, che d’ogni parte si cela, è la
speranza che si allontana da voi. Già la cerchia si stringe; il mare
è uno steccato in cui si prepara il giudizio di Dio; i foschi vapori
che si calano lentamente d’intorno, sono i biechi spettatori, che
tra breve stenderanno la mano per condannarvi a perire; l’Oceano è il
mostro immane che si concentra, guatandovi co’ suoi mille occhi lividi,
arruffa le squame, striscia, mugghia da lunge e vi grida implacato:
ogni varco è chiuso; ora a noi!

Il vento teso, che fino allora ci aveva spinti in alto, era cessato;
le vele sbattevano negli alberi, ed io tosto comandai di ammainare
le antenne, facendo issare il trevo, che è una vela quadra, più
maneggevole in tempo di burrasca, all’albero di trinchetto. Così
premuniti, aspettammo.

Triste cosa l’attendere, quando il viatore aspettato è la tempesta.
L’Oceano si raccoglie e il marinaio del pari; ma quello è il
raccoglimento dell’ira che medita i suoi colpi: questo della paura che
stringe il cuore e svigorisce i nervi dinanzi al pericolo. Il marinaio
è sicuro di sè, talvolta lieto, infiammato sempre, quando si appresta
a combattere prora a prora, petto a petto, uomo contr’uomo; ma la
furia delle onde scatenate lo fa per un’ora codardo, e quell’ora è
spesso l’estrema. Cader riverso sull’arrembata, per ferita di dardo,
o di scure, è lieve cosa. Il sangue bolle nelle vene, si è pieni di
baldanza, ardenti di vita; or bene, questa vita poderosa non muore;
l’anima freme, respira da tutti i pori, fin anche dalle ferite, l’aria
generosa e vivida del cielo; angelica farfalla, si sprigiona dal suo
involucro, vola via nell’azzurro e le sembra che, volando, ella debba
veder tuttavia i fratelli vincenti e lo stendardo, che fu già suo,
sventolar glorioso in mezzo alla strage. Ma lottare colle cieche forze
dell’Oceano sterminato, contendere una vita pigmea alle strette del
gigante che flagella le rupi e sconvolge gli abissi, sterile pugna,
vana audacia, la sua! Il cielo cupo romoreggia; l’aria grave opprime
il respiro; il sangue rifluisce e si agghiaccia nel cuore; un senso di
torpore soggioga le membra; tutto si rappicciolisce, perfino lo spirito
dentro di lui, lo spirito, già sì gagliardo e pronto ad espandersi in
lieti sogni, in leggiadre speranze. Il mare, inebriato de’ suoi stessi
furori, s’avventa, flagella il volto colle sue gelide schiume, incalza
sul naviglio la piena dei suoi flotti mugghianti. Reggerà all’urto
quel povero guscio di travi sconnesse che tremano e crocchiano per ogni
giuntura? E quell’altra rovina di acqua che s’avanza minacciosa, come
torre all’assalto, per cogliere di fianco la nave, non lo spazzerà
via dalla tolda? E giù nel pelago profondo, vivi ancora, con tutti i
terrori, con tutte le disperate angoscie d’uno spirito che non vede
più scampo; e un ruggito sul capo, la notte sugli occhi, l’esistenza
sommersa nel nulla!

Il trevo era già inferito al pennone e issato all’albero di trinchetto,
allorquando il mio còmito mi si fece da canto.

— Vedete laggiù da greco, messere! Il groppo si avanza e mala notte
vuol darci.

Difatti, da quella banda che Lanzerotto accennava, l’aria si venia
facendo più scura; il mare si arricciava a creste più fitte, e il
candor delle spume facea risaltare vieppiù il fosco dell’onda. Quella
negra mole cresceva, si rigonfiava a guisa di montagna, venendo ratta e
sicura sopra di noi, per pigliarci di sguancio.

Comandai sollecito al timoniere che poggiasse, per resistere alla
ventata, col lato più saldo della nave. Così, opposte le terga al
pericolo, si stette, non senza trepidazione, in attesa. La gran mole
si avanzò con alto fragore, misto a sibili acuti, e ci colse per
l’appunto da poppa. Il legno, sollevato di lancio ad una incredibile
altezza, curvò la prora e parve sprofondarsi in un baratro scavatogli
allora dinanzi, mentre il soverchio dell’ondata, rovesciandosi addosso
alla timoniera, ci recava il primo saluto del turbine. Tosto si udì
cigolare l’alberatura e le sartìe, come se fosse per ispezzarsi ogni
cosa; il trevo, subitamente investito dalla piena del vento, crocchiò.
Io m’avvidi esser troppo inciampo anche quella povera vela quadra, e
feci filare in bando le scotte, affinchè, sventolando liberamente, ella
non offrisse resistenza, e ad un’altra di quelle folate non mandasse
l’albero infranto. Questo salvai, non la vela; chè un secondo rifolo,
più gagliardo del primo, la trasse, la divorò, i brandelli divelti si
dispersero sibilando nell’aria.

Qui cominciò la più spaventevole ridda di elementi scatenati che io
avessi veduto mai in dieci anni di vita randagia sul mare. Il vento
soffiava furibondo, non mai a lungo in un verso, ma sbalzando da un
punto ad un altro dell’orizzonte, siccome è costumanza del turbine,
che i naviganti sogliono chiamar remolino. A quegli impulsi svariati
e discordi, ribolliva il mare, si scuotea dal profondo e le ondate
seguiano le ondate. Per colmo di mali, allo imperversare dei flutti
si aggiunse l’ira del cielo e un nembo si diruppe su noi. Pioggia e
grandine rovinosamente cadeano; la folgore ad ogni tratto balenava
dalle nubi squarciate, fulminava con orrido schianto dintorno alla
nave, e le sue livide striscie rischiaravano paurosamente quello
immenso scompiglio.

Ed Anna? In mezzo a quella pugna del cielo e del mare io non l’aveva
obliata per fermo; viva ed acerba ricordanza me ne faceva quell’altra
pugna, quell’altra tempesta, che ruggìa nel mio cuore. Avrei
voluto saperla in salvo, non vederla più, inabissarmi nell’Oceano,
dimenticare, morire. Nè ardivo mostrarmi a lei, nè mi reggea l’animo
a starne così lungamente lontano; attonito, istupidito, guatavo la
procella, non temendola fatale, non invocandola pietosa per me. In
sul far della notte, chiamato, mi concussi alla camera di poppa. La
povera donna soffriva aspramente, ma più dell’animo assai che del
corpo, rannicchiata nel suo letticciuolo, bianca come cera, disciolte
le chiome e gli occhi smarriti. L’odiavo, maledivo a quel giorno
che l’avevo veduta, e tuttavia per liberarla da quei patimenti, per
ritornarle sul volto le rose e il sorriso, avrei dato la vita, perduto
l’anima mia.

Macham le sedeva da fianco, ma senza pur tentare di consolarla, muto,
accigliato, cupo come un simulacro di sasso. Egli era scorato, il bel
cavalier d’amore; i suoi occhi languidi, le sue tenerezze, già non
poteano ridare la vita e la pace a quella gentil creatura; forse in
quel punto egli era, e sapea d’essere, la rea cagione di tante angoscie
ineffabili; destro a rapirla dalle braccia di un uomo, si sentiva
impossente a salvarla dagli sdegni del cielo.

Mi vide ella appena, che ansiosa volse le braccia verso di me. La
gravità del momento facea porre in non cale ogni superbo contegno, o
misurata riserbatezza tra la gentildonna e l’uomo che aveva ardito pur
dianzi confessarle l’amor suo.

— Dove andiamo? — chiese ella sgomentata. — Dite, in nome del cielo,
che avviene egli di noi?

— Madonna — risposi — il mal tempo ci coglie al largo, dove non
ignorate quale necessità e qual volere ci abbia condotti. Forse a
quest’ora, volando, come facciamo, sui flutti, siamo davanti alle
coste di Guascogna, o di Biscaglia; ma in alto ancora, troppo in alto,
nè, con questa furia di vento, ci verrà fatto poggiare alla riva. Non
vi sbigottite, tuttavia; ciò che oggi non può farsi, sarà possibile
dimani, a mala pena il turbine smetta alquanto della sua gagliardia.

Macham alzò gli occhi dubbiosi a guatarmi, forse per sincerarsi nel mio
sembiante se io dicessi da senno.

— Sì — ripigliai, notando quel dubbio — la galera è salda e può reggere
a tempi assai peggiori di questo. Conosco il remolino per prova,
e so che non è uso a durar lungamente. Ve lo ripeto, madonna, non
temete; ho fede di condurvi sana e salva alla prima spiaggia in cui ci
abbatteremo, sia ella di Francia, o di Spagna.

Mentivo, così parlando, e, per colorire la menzogna, mi studiai di
sorridere. Fede non mi albergava in cuore nessuna; poggiare a terra
senza aiuto di vele era folle speranza; e che potevano i remi in
quell’ondeggiar senza posa e senza misura, in quel continuo urtarsi di
falsi fiotti, che correvano per ogni verso, come il turbine capriccioso
voleva? Nemmanco era dato intendere in che paraggi si fosse; le stelle
ascose; la stima del percorso cammino impossibile. Si andava, sì, ma
verso l’ignoto, e in ciò non aveva mano l’accortezza dell’uomo. La
_Ventura_ errava sull’onde; il vento girava turbinando da destra e
da manca, trabalzando a suo talento la povera nave, con una rapidità
spaventosa. Come sperare, nonchè aver fede, di giungere a porto? Ma
ohimè! povera donna! l’inganno non era egli pietà?

Il secondo giorno fu anche più triste del primo. D’ogni parte
guardando, non si scorgeva che mare, e il mare sembrava un campo di
battaglia, seminato di stragi, sitibondo ancora di sangue, mentre i
negri nuvoloni, che si affoltavano tutto intorno, mettendo lampi e
rumore di tuono, pareano portar sempre nuove orde di combattenti a’
nostri danni, sul liquido piano sconvolto.

Cionondimeno lottavamo; taciturni, disperati, attendevamo al lavoro.
Dalla vigilanza nostra, dipendeva il tardare la temuta rovina; ed ogni
ora tolta alla morte non poteva forse riuscire alla nostra salvezza?

Così passarono tre giorni, orribili giorni, di stenti, d’insonnia e di
amare dubbiezze. Macham era sempre più cupo. Io credo che in caso di
naufragio egli avesse deliberato di uccidersi, per non morire di morte
peggiore, in lotta coll’Oceano. Talvolta, uscito dalla tolda, egli mi
chiedeva se l’agonia d’un naufrago durasse troppo lungamente; tal altra
contemplava la lama d’un pugnale che portava sempre alla cintola. Anna,
ogni qualvolta mi presentassi a lei, era pronta a ringraziarmi delle
mie cure e a dolersi dei pericoli ch’io correvo per cagion sua.

— Vedete, madonna — le dicevo io per racchetarla — ecco un altro giorno
trascorso; la _Ventura_, comecchè in balìa dei marosi, regge ai lor
colpi e va innanzi.

Ma, pur troppo, le nostre tribolazioni non erano per finir così presto.
La tempesta ne incalzava, seguitandoci, stringendoci sempre nelle sue
immani spire. Avevamo mai sempre a temere d’andare sbalestrati contro
una costa invisibile, perocchè tutto, intorno a noi, era buio, e le
folgori non rischiaravano altro, ai nostri occhi, fuor che nuvole,
ammassi di nebbia schierati in guisa di minacciosi dirupi. Per otto
giorni cotali angosce durarono. A volte il mare ribolliva spianato,
e subito dopo si ergeva in montagne, ricoperte di schiuma. Nella
notte le onde furenti pareano vomitar fiamme, tanta era la copia dei
vermi fosforici trabalzati a fior d’acqua. Egli fu un giorno ed una
notte intiera che il cielo, squarciato da continui lampi, rassembrò
un’immensa fornace, intanto che il fragore del tuono e l’urlo del vento
erano spesso dai marinai atterriti tolti in iscambio di dolorose grida
d’altri loro compagni di sventura, nel punto d’essere inghiottiti dalle
onde. In tutto quel tempo, ruinava dal cielo, non già una pioggia,
sibbene un altro diluvio, talchè la mia gente era come annegata in
coperta, e molti invocavano ad alta voce la morte, quasi ella sola
potesse metter fine a tanti patimenti ed orrori.

Nuova cagion di spavento si ebbe in una di quelle notti d’inferno.
La nave non era più in mezzo allo spesseggiar delle folgori, a
repentaglio d’andare in frantumi; le tenebre erano fitte; il tuono
baturlava lontano. Ad un tratto fu veduto il corpo di Sant’Ermo, con
sette candele accese sopra la gabbia dell’albero di maestra; vo’ dire
che vi si vedevano quelle bianche fiammelle che i marinai affermano
essere il corpo di Sant’Ermo, lor protettore, il quale, più non potendo
intercedere per essi dall’alto, scendeva ad annunziar loro il terribile
momento di raccomandar l’anima pericolante a Dio. Un profondo terrore
s’impadronì di tutti quegli uomini, fino allora sì saldi; tosto si
buttano ginocchioni; piangenti intuonano litanie ed altre lor note
orazioni, a stornare dal loro capo lo sdegno celeste. Le misteriose
fiammelle stettero a lungo librate sul calcese dell’albero, indi
sparirono e tutto ricadde nell’ombra.

Il giorno appresso l’Oceano parve stanco delle sue collere e volse
finalmente alla calma. Il cielo fosco tuttavia; l’orizzonte ristretto;
ma il remolino era cessato e un vento scarso spirava da levante, di
guisa che i poveri marinai ebbero tempo a respirare. Ma nuovi terrori
li assalsero in quel giorno; quella medesima tranquillità seppe loro
di sinistro, e, nel languore in cui erano immersi, tutto faceva paura,
tutto induceva sospetto. Scorgeansi intorno intorno alla galera torme
di cani marini, e ne fu tratto un presagio funesto; imperocchè ella
è credenza della gente di mare che quei voracissimi mostri sentano da
lungi l’odor dei cadaveri ed abbiano del pari un presentimento, che li
fa nuotar presso alle navi condannate a sommergersi.

A me ed al mio còmito dava maggior pensiero il non saper dove fossimo.
Erano già gli undici dì dopo la nostra partenza da Bristol; ma sulla
mia tavoletta del mare io non avevo potuto segnare nè il camino
percorso, nè i rombi navigati; gli astri erano ascosi; soltanto la
bussola indicava che procedevamo sempre a garbino.

Al cessar della tempesta, avevo fatto issare un trevo di rispetto,
ancora non osando spiegare le vele latine, per tema di qualche perfidia
del tempo, così mutevole com’era. In tal guisa, serrando il vento più
che ci venisse fatto, c’industriavamo di poggiare ad ostro, in cerca
della terra; frattanto io tentavo di trarre indizi dal mare. La via
tenuta dal turbine mi diceva chiaramente esser noi stati condotti
nell’Atlantico; ma fino a qual punto? Eravamo noi nelle acque del
capo di Finisterre, o più giù, davanti la costa di Portogallo, o più
al largo? L’aspetto delle onde, più lunghe e d’un colore traente al
verdastro, rincalzava quest’ultima supposizione. Cionondimeno, volendo
scendere ad ostro, continuai a serrare il vento siccome ho già detto.

La mattina seguente il mio dubbio si mutava in certezza. Il mare, fin
dove poteva giungere l’occhio, appariva coperto di erbe, dando immagine
di un vasto campo inondato. Toccavamo il mar d’aliga, o di sargasso,
siccome dicono i marinai forestieri, il quale contermina d’ogni parte
il mondo conosciuto. Donde quell’ampio strato di verde? Sono elleno
per avventura piante marine, le quali nascono nel fondo e quindi,
svelte dal moto delle onde e dalla forza delle correnti, si sollevano a
fior d’acqua? O il mare diviene qui meno profondo che altrove, e quei
prati sono essi la vestigia della terra inabissata, di cui parlano le
antiche memorie? O Dio ha disseminate queste rovine intorno alla terra,
perchè nessuno ardisca navigare più oltre a tentare gli arcani del
creato? Certo egli è che perfidi paraggi son questi, e i verdi ammassi
galleggianti sono in più luoghi così fitti, che i legni vi rimarrebbero
a lungo andare impigliati; siccome accade in quell’Oceano di ghiacci,
lassù oltre l’Irlanda, che niuno ardì mai perigliarvisi.

Io riconobbi il mar d’aliga, per averlo già alcuna volta costeggiato
ne’ miei tragitti dal capo di Gozola alle lontane isole dei Corvi
marini. Argomentai allora qual fosse stata la violenza del turbine, che
ci aveva in dodici giorni sbalestrati fin là, sui confini del mondo.
Oramai bisognava dar volta; e poichè non si sarebbe potuto serrar di
vantaggio il vento, come quello che da levante spirava, feci tosto
imbrogliare la vela, virar di bordo e andar contro il vento a furia di
remi.



VII.


Impossibile il dire qual fosse, tra gli affanni di quel periglioso
tragitto, il cuore della bellissima inglese. Ella era donna, e la donna
è debole; preparata dalla natura sua alle tenerezze, alle sollecitudini
di amante e di madre, regge tal fiata al dolore, agli stenti non già,
peggio ancora ai terrori. È dessa il fiore della creazione; quale
meraviglia se gli ardori soverchi alidiscono il fiore, se i geli lo
abbruciano, e solo le miti aure, nutrendo le delicatissime fibre, ne
svolgono le soavi fragranze? Povera pianta cedevole, ella si appoggia
all’uomo; la sua debolezza è il nostro incantesimo; l’amiamo, non pure
perchè è bella, ma altresì perchè è fragile ed ha bisogno di noi.

Passato il maggior pericolo, o fosse l’oppressura dei tanti patimenti
durati, od altra più acerba, assidua cura dell’animo, Anna si mostrò
più abbattuta che mai. Nè valsero a serenarla i certi segni del cielo;
chè quella calma improvvisa le parea traditrice, e i suoi terrori
si accrebbero alla vista del mar d’alighe, non ignorando ella, da
isolana qual era, tutte le paurose narrazioni dei naviganti intorno a
quelle orride chiostre del mar tenebroso. Nè manco spavento le venne
dal sapersi così lunge dalla meta, così fuori dalle rive del mondo.
Che sarebbe stato di lei, di noi tutti, se durava anche un giorno la
violenza del turbine? Non si sarebbe la nave irremissibilmente sommersa
là dove è ignoto se Dio abbia posto l’inferno dei dannati, o l’Eden di
delizie, perduto dalla prima colpa de’ padri? E in questo smarrimento
della nave, in questa sequela di nuovi pericoli, ella scorgeva la mano
del Dio punitore; imperocchè non era mia colpa se, usciti dal passo di
Cornovaglia, avevamo poggiato più in alto.

Non era mia colpa; e tuttavia!... Dentro il mio cuore non era egli
nato un truce desiderio di perir tutti inabissati nell’onde, anzichè
quella donna andasse lungi da me, in balìa di Macham, al primo luogo
d’approdo? Nè io già avevo mutato proposito, nè m’ero adoperato a
salvarla, se non allorquando una parola supplichevole di Macham mi
aveva richiamato, dolorosa visione, agli occhi dello spirito, le
angosce imminenti di quella povera donna, i terrori della sua disperata
agonia. Ma anco in quel punto, mi proponevo io forse di volgere a
terra? Lo avrei fatto io, se la tempesta, rimesso alquanto della sua
furia, me lo avesse pur consentito? Inoltrarmi sull’Oceano, non era il
voler mio, ma quello dei flutti; giungere ai confini del mondo, non
ardivo sperarlo; oppure nell’anima si agitava un disegno confuso, e
vigilanza ed opera risentivano di questo doppio impulso, per cui la mia
voce comandava una cosa, e un’altra ne voleva il mio dèmone. Gli eventi
mi soccorrevano; la bufera turbinava, le onde s’innalzavano per me.
L’avventura di Bristol era strana per modo, da non poter dicevolmente
risolversi in un tranquillo approdo, in una tacita separazione, in una
ricordanza fuggevole. Evidenti i segni; il destino avea poste le fila;
il destino le veniva intricando, ravvolgendo intorno a noi come una
rete di ferro.

Andavamo, siccome ho detto, col vento in prua, verso levante, remigando
senza posa, ma facendo poco cammino. Alcune ore dopo, per uno di quei
casi che occorrono frequentissimi su quel mare, cadde il vento del
tutto e la ciurma, traendone lieto auspicio, raddoppiò l’ardore nella
voga, mentre io facevo mettere deliberatamente la prua verso greco, e
issar da capo le vele. Sapevo difatti, per antica esperienza, come il
vento, tacendo da un lato, prendesse a soffiare dall’altro, e volevo
esser pronto a giovarmene. Non m’ero ingannato. Verso sera, una dolce
brezza incominciò a spirare da ostro, consentendo alla _Ventura_ di
orzare in quel rombo, che io mi ero proposto pur dianzi.

Avrei potuto volgere alle isole Fortunate, forse più vicine ai paraggi
in cui eravamo; ma, sebbene Lanzerotto me ne facesse proposta, egli che
ci aveva approdato al pari di me (ed una di esse portava il suo nome,
sendo stata primamente scoverta da Lanzerotto Malocello navigatore
genovese), io non volli saperne, per cagion dei naturali, gente
selvatica e feroce, tra i quali non era prudente consiglio inoltrarci,
non già per noi, ma per la gentil creatura che il nostro legno portava.
Meglio, dicevo, risalire più a greco, e giungere alle isole dei Corvi
marini, donde, poi, cogliendo il buon vento, che lassù spira più
facilmente da maestro, si potea navigare a golfo lanciato verso la
costa di Portogallo. Così ingannando me stesso, volgevo in cerca delle
isole dei Corvi marini.

Trascorsero ancora due giorni, malinconici ma tranquilli, su quella
immensità dell’Atlantico. Poche parole si ricambiarono con Macham,
quante bastarono per non farci sembrare l’uno all’altro stranieri;
Anna, in quella vece, si dimostrava oltre ogni dire cortese con me;
laonde io pensai che qualche cenno de’ nostri vincoli d’attinenza
necessaria fosse corso tra essi. Certo egli aveva dovuto toccarle
del nostro grave colloquio; ma ella, di rimando, gli aveva accennate
le ardenti parole udite da me? Non era da credersi. La donna ha più
sottile avvedutezza che non l’uomo, in congiunture siffatte. Anna amava
Macham e non ispregiava me; donde apparia manifesta la sua delicatezza
di donna. Impietosita di me, mi voleva amico, e qui smarriva il suo
senno, dimenticando esser cose impossibili al mondo; tra queste il
contentarsi all’amicizia d’una donna, di cui s’è sperato l’amore.

E nondimeno, le sue cortesie, temperate di tanta ritenutezza,
spiacevano a Macham, il quale rabbruscava la fronte ad ogni parola
che fosse nulla nulla più dolce, stavasi tra contegnoso ed impacciato
davanti a noi, eppure rimanea sempre terzo ne’ nostri brevi colloqui.
Io non amavo queste mezze vittorie; ben di grand’animo mi sarei
scagliato su lui, perchè in aperta guerra fosse giudicata la nostra
contesa; ma quelle schermaglie, donde non spicciava una goccia di
sangue, e assai più fiele per contro si accumulava ne’ cuori, m’erano
uggiose oltre modo; però mi tenni in disparte. Se ella non usciva fuor
della camera a dirmi alcuna delle sue amorevolezze, io non cercavo di
avvicinarmi a lei, e, sotto colore di aver comandi a dare, o di dover
osservare la carta insieme col mio còmito, facevo sempre di trovarmi
all’ora del pasto in faccende, lontano da essi.

La mattina del terzo giorno, ancora tra lume e buio, il marinaio
che stava in vedetta annunziò terra da destra. A tutta prima non gli
aggiustai fede, chè, secondo i miei còmputi, dovevamo essere ancora
più giorni lontani dalle isole dei Corvi marini. Saranno vapori
sull’orizzonte, pensai, e l’alba non tarderà a dissiparli.

L’alba comparve, bella di tutti i colori dell’iride, vestendo il cielo
ed il mare di miti splendori. Le onde, increspate dalla brezza, davan
riflessi d’argento; le vele della nave, dispiegate come le ali d’un
cigno, si tingeano di rosso, che era una vaghezza a vederle. Gli occhi
di tutti erravano incerti da quelle splendidezze vicine a quella parte
dell’orizzonte ov’era stata indicata la terra, e dove, man mano che si
dileguavano i vapori del crepuscolo, appariva una striscia d’azzurro
carico, somigliante ad una nube che incombesse sul mare. Era terra
davvero; ma quale? Un’isola al certo, che non pareva stendersi molto
lontana sui lati. Forse l’Isola di San Brandano, che, troppo spesso
veduta da lunge, fa palpitar d’allegrezza il cuore dei naviganti, e
poi, quando la nave si approssima, quando l’occhio desioso sta per
afferrarne i contorni, sfugge via via, si raccorcia e sparisce? No;
più ci appressavamo e più i contorni di questa si mostravano nitidi,
spiccati e recisi a fior d’acqua, davanti ai primi raggi del sole:
l’azzurra visione, non che allontanarsi da noi, sembrava venirci
incontro sui flutti tremolanti. Anna stessa, uscita poc’anzi, al grido
della marinaresca esultante, dimenticò un tratto i suoi dolori, nella
contemplazione di quella scena incantevole.

A quale isola eravamo noi per approdare? Non certo ad una delle
Fortunate, che si aggroppano ad ostro, dirimpetto al lido africano, nè
di quelle dei Corvi marini, a cui pensavo di volgere, poste più su a
settentrione, di contro al Portogallo. Cotesto argomentavo dai paraggi
in cui dovevamo trovarci, rispetto al mare d’alighe donde eravamo stati
solleciti a dar volta. E il pensare a cotesto e l’appormi, fu un punto.

— Poggia a destra, dritto sull’isola! — gridai al timoniere. — Affè,
non si poteva capitar meglio!

— La conoscete, messer Gentile? — mi chiese Anna, raccogliendo le
ultime parole che io aveva dette in francese per lei.

— Sì, ci abbiam toccato altra volta — risposi. È l’isola del Legname.

— Che nome! — esclamò ella.

— Invero, non è leggiadro; ma così siamo noi, ruvida gente di mare;
— notai con amarezza; — tiriamo al sodo perfino nei nomi delle terre
scoperte. Poichè il bello non è nato per noi, ci rifacciamo sull’utile.

— Oh! che dite voi mai? — interruppe ella, con accento di dolce
rimprovero.

— Eppure — proseguii — essa è l’isola più bella di questi mari, sorrisa
dal cielo più clemente, non contristata dalla presenza degli uomini,
i quali la insanguinerebbero coi loro sdegni feroci, ricca d’acque
limpide e fresche, di frutti soavi e di più soavi fragranze. Vedete,
madonna; incominciano a nereggiare le selve stupende che le meritarono
il nome; tra poco, essendo qui eterna la primavera, sentirete i grati
effluvii di quel giardino incantato.

— Questo — notò ella sorridendo — è più degno di voi, che volete farvi
ruvido e non siete.

In tal modo ella cercava di temperare la mala impressione fatta
sull’animo mio dalle sue prime parole e di stillarmi in pari tempo un
po’ di dolce nel cuore. Divina creatura! Si chiudevano nel suo seno
tesori di pietà, che pur troppo non hanno fatto migliore quest’indole
fiera e selvaggia. Ma se un affetto felice può soventi volte
rinfrancare uno spirito infermo, un amor disperato intorbida mai sempre
il sangue e lo attossica.

Intanto che così parlavamo, la galera, correndo a gonfie vele e a
piena voga di remi, si avvicinava all’isola, che dal lido infino alle
vette appariva tutta una selva di alberi giganteschi. Dei marinai, che
intendevano alla manovra, già alcuni l’avevano ravvisata a lor volta,
come quelli che da più anni erano ai miei servigi ed avevano corso meco
que’ mari.

— L’isola del Legname, non è egli vero, messere?

— Sì, quella! Lesti ad imbrogliare le vele quando svolteremo la punta,
poichè si va a dar fondo nel porto che già conoscete.

Tutti allora affaccendati a chiedersi, a ripetersi scambievolmente il
nome di quella terra promessa. — _Madeira!_ — gridò uno di essi, che
era portoghese, voltando nella sua lingua la parola italiana.

— In che punto del mare è dessa? — chiese Anna allora.

Io feci un cenno a Lanzerotto, che fu pronto a scendere nella mia
camera, e tornò poco stante col mio portolano, libricciuolo dalle
carte di pergamena, su cui erano delineate tutte le coste dei mari
conosciuti. Ivi, aiutata dalle indicazioni del mio còmito, ella potè
riscontrare la sua Inghilterra, le spiaggie occidentali di Europa
infino allo stretto di Septa, e, più al largo sull’Atlantico, l’isola a
cui eravamo vicini, col nome impostole da’ suoi scopritori.

— Furono i vostri gloriosi maggiori, messere; — notò Lanzerotto,
ingegnandosi a parlar francese, per essere capito da lei — furono
Ugolino e Vadino Vivaldi, che trovarono questa, coll’altre isole
segnate qui intorno. Arditissimi uomini! Essi perirono andando più
oltre nelle loro scoperte, là verso scirocco, lungo la costa africana,
siccome è perito messer Benedetto, il nobile vostro genitore, or fanno
i diecisette anni.

— Triste cosa! — esclamò ella, rabbrividendo.

— Va, Lanzerotto! — diss’io, mettendo fine ai discorsi del mio còmito.
— Sia pace all’anima degli estinti, i quali, più felici di noi, hanno
finito di patire. Bada ora a far trarre dalla stiva gli ormeggi; tra
mezz’ora ci bisognerà gettar l’àncora.

Lanzerotto corse obbediente alla bisogna e noi due rimanemmo soli sulla
spalliera, imperocchè Macham s’era poco dianzi tratto in disparte e
stava immobile sul ripiano dei bandini, presso la scala di fuori banda,
in atto di osservare la spiaggia.

— Triste cosa! — ripetè la donna compassionevole. — Ma voi, almeno voi,
messer Gentile, tornerete alla patria e vivrete felice coi vostri.

— No, madonna, io non ho nessuno sulla terra a cui possa metter conto
ch’io viva, e per cui mi abbia a tornar caro di vivere. E già il mio
cuore è morto, poichè mi è venuta meno la felicità che speravo.

Ella arrossì alle mie parole, chinò gli occhi e tacque. Nè altro io
soggiunsi, esacerbato com’ero. Per ventura, lo spettacolo che ci si
offriva in quel punto allo sguardo, distolse gli animi nostri da quella
mestizia e diede adito a nuovi pensieri.

La nave svoltava allora la punta settentrionale dell’isola, navigando a
due’ tratti di balestra dal lido. Tutta quella terra felice, dal basso
della spiaggia fino agli estremi ciglioni, lunghesso i meandri della
costa, le insenature e le sporgenze dei greppi, era come un ammasso
di fronde, bello di tutte le temperanze del verde, brizzolato qua e
là da ciuffi, grappoli e ghirlande di rose, di gigli e di viole, chè
tali apparivano da lunge i fiori ond’era ornata la macchia. Alberi
sconosciuti sorgeano dal lido e i rami spenzolavano sotto il peso dei
frutti, lambendo ad ogni ora, scossi dal venticello scherzoso, le acque
tranquille del mare. Cotale esuberanza di vegetazione io non avevo
visto che là. E, spettacolo a gran pezza più nuovo, stormi d’uccelli,
mirabili per forme diverse, screziati di vivi colori, si libravano a
volo, venendo allegramente a rincorrersi nel sartiame della galera,
a posarsi curiosi ed attoniti sul calcese degli alberi, sulla penna
delle antenne, perfino sul tendaletto di poppa e sulle posticcie dei
rematori. Tutto intorno era un garrito, un cinguettìo, un gorgheggio
di dolcissime note, un indistinto di mille fragranze, una festa d’aria,
di tepore e di luce, che allargava i petti e li invitava alla gioia. Il
paradiso di delizie, perduto dalla colpa dei primi parenti, non era al
certo più bello.

Io vidi Anna commossa, inebriata da quel concerto di meraviglie. Certo
in quell’istante il ricordo de’ miei mali le era uscito dall’animo. Ma
non nasceva ella forse allora ad una nuova vita? Come Eva, al suo primo
aprir gli occhi nell’Eden, confusa, palpitante, guardava ogni cosa
d’intorno e le parea di sognare.

Una colomba, dal collo vagamente piumato di nero e tutto l’altro
candido come neve, era venuta a posarsi sull’orlo del tendaletto, a
due passi da noi. Anna le sporse il braccio in atto di prenderla,
ma incerta, trepidante, per tema non avesse quella a spaventarsi
e fuggire. La colomba, non pure si lasciò prendere da quella mano
leggiadra, ma di slancio volò sull’òmero d’Anna, che mise un grido di
stupore e d’allegrezza ad un tempo.

— Tutti i cuori son vostri, madonna; — le bisbigliai. — Vi paia ora
strano che chi vi ha veduta appena...

Volevo dire di più, ma mi trattenni, per non turbare quell’ora di
pace. Il porto si apriva davanti a noi e la _Ventura_ vi entrava con
rapidissimo corso. — Palpa co’ remi! — gridai, per far sospendere la
voga e spegner l’abbrivo della galera, mercè la resistenza di tutto
il palamento di destra e manca, tenuto fermo nell’acqua. Spinto dal
suo impulso, il legno si inoltrò ancora un bel tratto, indi si fermò,
mentre il flutto spumante gorgogliava d’intorno alle pale.

Indi a non molto, il ferro a quattro marre pigliava fondo da prora,
mentre il palischermo era calato in acqua, per condurre a terra il
provese e legarne il capo al tronco d’un albero. Si acconigliarono i
remi, si ammainarono le antenne e, mentre una parte della marinaresca
attendeva a fare la tenda, noi scendevamo nella barca. Dopo quindici
giorni di trabalzamenti sui flutti, di angoscie, di terrori ineffabili,
era pur tempo di toccare una spiaggia ospitale. Anna, a mala pena ebbe
posto piede sul lido, si chinò riverente per baciare la terra. Io avrei
baciato dov’ella passava.



VIII.


Risiede l’isola del Legname tra le Fortunate e quelle dei Corvi marini,
ma non a pari distanza dall’une e dall’altre; ha quelle ad ostro, ma
non troppo lungi; queste invece a maestro, e per gran corso lontane.
Gira essa cento quaranta miglia tutt’intorno, e la sua forma arieggia
la pelta, che è lo scudo delle Amazzoni, o più veramente la luna presso
alla seconda fase, voltando il concavo a garbino, mentre una delle
punte guarda a scirocco, ove si dilungano alcune isolette brulle,
scogliose e deserte, e l’altra a maestro, dietro la quale è il porto,
già da me veduto altra volta, dove la galera aveva gettate le àncore.
Porto serrato, a dir vero, non era, imperocchè di tali non se ne vede
pur uno, bensì rade qua e là, al sicuro da certi venti; tra esse più
vasta quella che si apre a garbino, nel verso della gran curva che ho
detto. Dalla rada in cui eravamo ormeggiati, sendo il tempo chiaro,
vedevasi, forse a quaranta miglia verso greco, un’altra isoletta con
quindici miglia di giro, anch’essa già da me visitata ne’ primi viaggi.

Per aggiungere alcuna cosa intorno a questa isola del Legname, dirò
ch’essa è montuosa come la Sicilia, e sarebbe ancora più fertile, se
la mano dell’uomo si facesse a coltivarla. Deserta com’è, abbonda di
alberi fruttiferi, tra i quali è notevole il draco, che dà un frutto
buonissimo e in tutto simile alla ciliegia, salvo che è giallo.
Pregiata è la sua gomma, e in Africa, ove pur cresce quest’albero,
è dato ottenerla in tal guisa. Si dà un colpo di scure a’ piedi del
tronco, e l’anno di poi le tagliature fruttano gomme, le quali si
cuocono e si purgano, e fassene quel sugo rappreso, di color rosso,
che è detto sangue di drago, ed è di grand’uso in medicina. Mirabile su
tutti è l’albero che in Oriente chiamasi fico d’Adamo, perchè affermano
questo aver dato le foglie a coprire la nudità de’ nostri primi
parenti, e i rampolli di tal pianta, svelti dal giardino di Eden dalle
acque del diluvio, essere stati portati da prima sulle rive del Gange.
Dicesi in ebraico _dudain_ e dagli abitanti dell’Africa _banano_.
Nascono i fiori a mazzo e di un color di viola; i frutti maturano
dolcissimi ed anche se ne spreme un sugo gradevole, inebriante come
il vino; sorge il fusto ad altezza di sette in otto piedi, con larghe
foglie ricadenti ad ombrello, che albero veruno non ha le più grandi,
nè d’un verde più splendido.

Non tacerò il prezioso verzino, detto anche _brasile_, il cui legno è
di color rosso, molto pesante e duro, e serve alle tinte; nè del cedro,
assai somigliante al cipresso, che tramanda odore gratissimo, siccome
d’incenso; nè del nasso, pari nelle foglie all’abete, de’ cui rami si
potrebbero fare archi buonissimi e fusti di balestra. Di cosiffatti
alberi sono ampie boscaglie per tutto e macchie foltissime, spesso
intricate in flessuosi nodi dai sarmenti delle madreselve, assiepate
d’arbusti, d’erbe odorose e di fiori. Animali malefici non si annidano
colà, nè serpi velenose, nè bòtte impure, ma uccelli d’ogni specie più
strana, pavoni selvatici, fagiani neri e bianchi, pernici e quaglie,
come nelle nostre regioni, branchi di capre e copia di cignali su per
le forre.

Su questa terra benedetta eravamo discesi. Anna, siccome avviene a
chi sia rimasto più dì sul mobile piano d’una nave, si sentìa mal
sicura della persona, e, con quel sottile accorgimento che è dote
singolarissima della donna, aveva chiesto a Lanzerotto che volesse
reggerle il braccio. Al quale ufficio il mio vecchio aiutante
s’era posto con sollecito ossequio, mentre io e Macham li andavamo
precedendo, per distrigare que’ densi viluppi di caprifoglio, quei
bizzarri intrecciamenti di rami, e aprire talfiata a colpi di scure un
passo per mezzo ai cespugli.

Come l’uomo è bambino! Poichè nè io, nè egli, reggevamo sul nostro
il braccio di lei, eravamo più lieti, ci guardavamo manco crucciosi
ambidue, e giungemmo a tale di acchetamento, da barattar parole
frequenti, come due teneri amici.

Errammo un tratto per una macchia di nassi. Il suolo che noi
calpestavamo era odorato per una lieta abbondanza d’erbe, le quali
si ergevano all’altezza delle nostre teste. Da sette anni per fermo,
chè tanti ne erano corsi dopo il mio approdo in quell’isola, orma di
piede mortale non s’era più impressa in quella solitudine. Farfalle
d’ogni misura, dall’ali vagamente rabescate, svolazzavano qua e là
sui vertici delle siepi fiorite; sciami di pecchie ronzavano in aria,
s’addensavano a grappoli intorno ai favi silvestri, si lanciavano a
volo, soffermandosi il tempo d’un bacio sui calici schiusi, roteando,
guizzando, descrivendo ghirigori fantastici lunghesso gli sfondi del
bosco; uccelletti leggiadri, dalle penne d’un bel giallo paglierino,
ci seguivano, curiosi, di ramo in ramo, salutandoci con un loro verso
breve, ma arguto e melodioso come quello degli usignuoli; e di tratto
in tratto qualche capra vagabonda, inerpicata alle falde d’un ciglione,
lasciava il timo e il sermolino per voltar la testa dal nostro lato e
vederci a passare.

Rasentavamo, salendo, il corso d’un fiumicello. L’isola ne ha otto,
se ben ricordo, copiosi d’acque limpide e fresche. Giunti in un certo
punto, si diradò la boscaglia, che scendeva sino al margine dell’onda,
intrecciando da riva a riva i suoi rami, e ci si offerse allo sguardo
il lieto spettacolo di un vastissimo prato, lussureggiante, per forse
due tratti di arco, di colma verzura, e chiuso intorno intorno da
una selva di lauri. Lo partiva per mezzo, scorrendo placidamente in
un letto di finissima rena, un tortuoso ruscello, le cui scaturigini
si vedeano più lunge cadere dal sommo d’una rupe, rotte in argentei
zampilli e coronate dall’arco dell’iride. E là, in mezzo a quel prato,
poco lunge dal ruscello, solitario e gigante, sorgeva un cedro, che vi
pareva messo a bella posta per rompere la cheta uniformità dell’ampio
recinto. La natura precorre l’arte, e ciò che questa s’argomenta di
creare è mai sempre un’imitazione dei miracoli di natura.

Un grido di ammirazione ruppe dai nostri petti a quella stupenda
veduta. Colà e non altrove bisognava far alto; intanto, così divezzi
dalla terra per lunga sequela di giorni, già sentivamo un tal po’ di
stanchezza. Però, fatti ancora un dugento passi, andammo a sederci
all’ombra ospitale del cedro.

— Sarebbe pur bello di viver qui, — sclamò Anna, rapita, — eternamente
qui!

— Da voi dipende, madonna, — le dissi. — Del resto, non temete che si
abbia a partir subito da questo luogo incantato; per qualche tempo ci
bisognerà rimanervi.

— Perchè? — dimandò Macham. — Non rimetteremo domani alla vela?

— E come? — diss’io di rimando — come lo potremmo noi, dopo tanti
giorni di tempesta? La galera ha patito gran danni e occorrerà
ristoppare qua e là, fermar tavole sconnesse, altre cambiare a
dirittura, segnatamente nel castello di poppa, che più ha sentito della
furia del mare.

— Sì, sì; — aggiunse Anna — ed anche noi abbiamo mestieri di posarci,
di respirare, di raccogliere i nostri pensieri.

— E sia — conchiuse Roberto. — Quanti dì rimarremo?

— Dica Lanzerotto! — risposi brevemente, lasciando al caso di
pronunziar la sentenza.

Per fermo il vecchio marinaio mi lesse nell’anima, poichè, rimasto
alquanto sovra pensiero, rispose:

— Otto giorni almeno.

Egli per altro aggiungeva che dovevamo rifornirci d’acqua; che pativamo
scarsezza di pane e là erano banani maturi in gran copia, da farne
quella specie di pasta serbevole, così utile ai marinai, che n’hanno
imparato l’uso dai negri delle spiaggie africane. Inoltre, diceva egli,
si voleva dar la muta agli uomini della nave, perchè tutti godessero a
terra un po’ di calma, da rinfrancarvi le forze.

Macham non si piegava che a malincuore; pur gli convenne acchetarsi
a tali ragioni, che non patiano risposta. Deliberati di rimanere,
pensammo di allogarci il meglio che ci venisse fatto nell’isola. Sito
più acconcio di quello ove stavamo seduti, non era a cercarsi per
fermo, e tosto ci disponemmo a mettervi stanza. Gli uni colle scuri
ad abbattere tronchi d’albero, mondarli de’ rami inutili ed aguzzarne
le punte; gli altri a piantarli in bell’ordine d’attorno al cedro
gigantesco e a chiuderne gl’intervalli con rami avanzaticci e virgulti
intrecciati; per tal modo e in breve ora fu data forma e stabile
assetto ad una capanna, tramezzata in quattro camere: una per Anna,
che era la più vicina al tronco di cedro; due alla mescolata per me,
Macham, Lanzerotto e i quattro marinai che erano con noi; la quarta
finalmente che servisse ad un tempo di tinello e d’ingresso. Le frasche
doveano far ufficio di pareti; le foglie di banano, raccolte nei
dintorni, coprire il tetto dalle acque piovane, e talune anche servir
di tovaglia alla mensa.

L’impresa non aveva a finire in quel giorno, ma il grosso della bisogna
era fatto in poche ore, e, a ripararci per quella notte, bastava. Due
dei marinai, che erano andati colla balestra a scorrer la campagna,
tornarono indi a non molto con un capretto ucciso, il quale tosto fu
messo in quarti ad arrostire sugli schidioni. Recavano altresì miele
silvestre assai bianco e gustoso. Pane e vino s’era tratto dalla nave,
ed io fui lieto di aggiungere al pasto alcuni grappoli d’uva agresta,
raccattati lì presso, con una giumella di quelle ciliege che i drachi
serbavano ancora in buon dato, sebbene già fossimo presso alla calda
stagione, in quell’isola beata più precoce che altrove.

La mensa fu lieta abbastanza, chè il sorriso della natura festante e
quel senso di profonda calma, così dolce, così cara, dopo tanti giorni
d’ansie affannose, signoreggiavano il cuore di tutti. Talfiata il
viso di Anna si atteggiava a mestizia; gli sguardi erravano smarriti
nello spazio, come attratti da una incognita forza nella regione dei
tristi pensieri; un sospiro mal represso si schiudeva il varco per le
labbra tremanti; ed io allora mi faceva sollecito a svagare quell’anima
afflitta con ogni maniera di vuoti discorsi. Lanzerotto, poi, che ci
aveva la mente più libera di tutti noi ed il consueto umor gaio per
giunta, vedendo come a lui si spettasse di tener vivo il discorso, si
messe di grand’animo all’opera, e co’ suoi motti bizzarri e racconti di
marinaresche avventure, fatte più amene dalle incertezze e pentimenti
di chi cincischia una lingua non sua, la fece più volte sorridere. E
furono baleni, raggi di aurora, lembi di cielo per me.

Così aspettammo la sera. Il sole si calò, saettando i suoi ultimi
raggi, sotto un padiglione di fuoco, indi si ascose nel mare; e noi,
abbandonati dalla luce dell’astro, ci raccogliemmo fuor della capanna
a preghiera, con quali sensi, e come discordi, Iddio solo conobbe, egli
che legge ne’ cuori.

Alto silenzio di quella placida notte, io ti ricordo, ti sento ancora
nell’anima. Il soffio vespertino stormiva nella boscaglia, agitando
i diffusi ombrelli degli alti banani e gli svelti rami dei lauri
nereggianti sui confini del prato. Gemea lento il ruscello e la cascata
rumoreggiava da lunge, scintillando ai miti raggi della luna, che io
non vedevo, ma argomentavo sovrastante a noi, dai limpidi chiarori del
firmamento stellato. I mille arcani susurri della selva, sfrusciar di
foglie secche al guizzo di innocenti ramarri, cozzar di rami, ronzio
d’insetti operosi, saliano confusi al cielo, insieme colle fragranze
acute degli alberi resinosi e d’una moltiforme famiglia di piante.
Quella pace incantava; quella solennità ergeva lo spirito; quel metro
sommesso di umori cristallini, di fremiti, di fragranze e di chiarori
notturni, induceva nelle membra un dolce sopore.

Avevamo composto ad Anna il suo candido letticciuolo, sopra un soffice
strato di erbe odorose. Dalla galera, segretamente ravvolto in uno
stendardo, avevo fatto recare il tendaletto di damasco, trapunto a
vaghi colori, dintornato di frangie e galloni d’oro, che si stendeva
nei dì di festa sul castello di poppa. Al giungere del marinaio con
quella soffoggiata sotto il braccio, ella mi aveva chiesto che fosse,
ed io le aveva risposto esser il vessillo di San Giorgio, da inalberare
sulla nostra nuova dimora. Più tardi, quando ella ebbe veduto il
sontuoso drappo, disposto a padiglione e ricadente in larghe pieghe
sovra il suo letto, il volto le s’impresse di lieta meraviglia e dolci
parole mi dimostrarono la sua gratitudine.

Quella sera, dopo averla condotta sul limitare del suo bel nido e
datale la buona notte, me ne tornai fuori a pensare, lunghesso il
margine del ruscello vicino. Qual varietà di casi nel breve giro d’un
mese! Bristol, l’incontro in chiesa, il primo amore, la sconsolata
partenza, l’inattesa apparizione della sconosciuta, l’infinto suo
stato, la speranza e il disinganno, la tempesta sul mare e la gelosia
nel mio cuore, la salvezza sua, non la mia, tutto ciò mi si affollava,
mi si agitava confuso, mi turbinava nell’anima. Ed eravamo là, raccolti
in quella tranquilla solitudine verdeggiante, in mezzo all’oceano,
sotto i grandi occhi di Dio! Dopo avermi scorto fino a quella riva
ospitale, con quella donna adorata da fianco, avrebbe Iddio operato
un prodigio per me? In qual modo? Per qual merito mio? Non sapevo, non
ardivo immaginare; speravo. È così dolce sperare!

Mentre io fantasticavo in tal guisa, un’ombra si avanzò chetamente.
Era Macham, ed io ne rimasi forte turbato, chè mi parve dovesse egli
leggermi dentro nell’anima, o cogliere a volo per l’aure trasparenti i
miei diffusi pensieri.

— Limpida notte! — diss’egli avvicinandosi a me.

— Sì; — risposi — dolcezza ineffabile, pace divina!

Egli allora mi pose una mano sul braccio, e levando la fronte per modo
che io potei scorgere ogni più lieve moto del suo volto, con accento
solenne si fece ad aggiungere:

— E in pace dobbiamo viver noi ora. Così vuole la necessità, che è più
forte di noi.

— Che dirvi, messere? — ripigliai gravemente, — così è.

— In pace, dunque; siamo intesi?

— E sia; ma dite... Un pensiero mi cruccia, e non debbo tacervelo.
Egli rimane fermo che vivremo come fratelli... non già per noi —
soggiunsi prontamente — ma per quella donna che è là. I nostri pensieri
si innalzeranno liberi a lei, ma i nostri desiderii non profaneranno
il santuario ov’ella riposa? Padroni degli atti nostri, quando avremo
toccato alla fine del nostro viaggio, qui rimarremo schiavi di una fede
scambievole; non è egli vero? Me lo giurate voi, per quanto v’è caro e
sacro al mondo, per la donna che amate?

Macham mi saettò d’uno sguardo torvo; ma il mio non era manco feroce.
Ambidue si incontrarono e giunsero nel profondo del cuore.

— Uditemi: disse egli, mettendosi una mano sul petto — io vi odio; ma
vi sono debitore della salvezza di lei; abbiatevi il mio giuramento.

— Ed io del pari vi odio, Roberto Macham; la terra non ha più profondo
abborrimento, come non ha più possente amore del mio. Eccovi la mia
mano e la mia fede.

In queste parole eravamo giunti ai piedi dell’albero. Una voce
argentina si udì per mezzo alle frasche della capanna. Era la voce di
lei.

— Non andrete dunque a riposarvi, stanotte?

— Sì, subito — si rispose — anche noi!



IX.


La mattina vegnente balzai per tempo dal mio giaciglio e tolsi meco
due de’ miei uomini, per andare a scorrere la campagna. Macham voleva
seguirmi, ma io lo trattenni.

— Chi farà compagnia a madonna? — gli chiesi. — Questa gente è buona
e a me devotissima; cionondimeno, Anna non deve rimanere senza uno di
noi. Restate, messere; intanto egli c’è qui, nella casa nostra, molto
lavoro da compiere.

Lanzerotto invigilava quel dì al raddobbo della galera. Oltre i guasti
a cui bisognava rimediare nell’opera morta, e segnatamente nel castello
di poppa, c’era il timone malconcio, e, nella tema che non avesse a
farci qualche mal giuoco in caso di nuova tempesta, lo si era disarmato
e tratto a terra, per racconciarlo, o fabbricarne uno di rispetto.

Così la spiaggia erasi mutata in arsenale, tutta sparsa com’era di
travi squadrate a fil di sinopia, di seghe, accette, seste, martelli e
quanti altri strumenti occorrono a mastri d’ascia e calafati. Anche la
ciurma, dandosi la muta, era stesa a terra per aiutare i marinai nelle
loro svariate bisogne, tra le quali non ultima era la costruzione di
una tettoia, per raccogliervi tanti arnesi diversi e tenerli al riparo
la notte. In ventiquattr’ore, l’isola aveva pigliato l’aspetto d’una
colonia nascente.

Io rimasi fuori fin oltre il meriggio, correndo per ogni verso la parte
settentrionale dell’isola. La caccia era stata felice oltremodo, e
noi recammo selvaggina in gran copia, della quale io feci distribuire
la maggior parte alla spiaggia, tra quella moltitudine di operosi
compagni. L’omerico banchetto incominciò col tramonto e durò fino a
tarda sera; dopo di che, marinaresca e ciurma risalirono a bordo, e
Lanzerotto, dato sesto ad ogni cosa, fece ritorno al prato, dove noi
avevamo posto dimora.

Il giorno appresso, volle andar Macham alla sua volta. Egli mi dava il
contraccambio, ed io, tacendo, accettai. Fu quello un giorno felice per
me, e il cuore mi balzava per giubilo, quando vidi Roberto allontanarsi
colla brigata dei cacciatori e sparire tra i lauri.

— Noi andremo, se non vi spiace, a diporto fino a quella cascata; — mi
disse Anna, poichè fummo soli.

Ella ricusò il braccio che io le profferivo per aiutarla a salire.

— Oh, non son più così spossata, come ier l’altro — gridò, sorridendo —
e vedrete chi di noi due correrà più leggiero.

E invero, nonchè correre, ella pareva sfiorare il suolo, come una ninfa
dei boschi. Avea rialzati e, la mercè di un ardiglione, fermati alla
cintura i lembi della cotta da cavalcare, con cui era salita in nave
dalla spiaggia di Bristol, e il suo piedino snello lasciava a mala
pena l’impronta sul pulvinare vellutato dei muschi verdeggianti che
tappezzavano il dolce pendìo.

I colombi, già conoscendola, le passavano con ali stese d’intorno, e,
poco lunge da lei, come per aspettarla, rattenevano il volo.

— Cari! non bisognerà ucciderli mai! — esclamò ella invitandoli colle
mani a raggiungerla.

— Avete pur veduto ieri, madonna! — risposi. — Larga preda abbiam
fatto, ma quei candidi volatori furono rispettati dalle nostre freccie;
che non mi fosse accaduto di ferir quello che vi posò l’altra mattina
sull’omero!...

Eran questi i nostri ragionari, nel salir la collina, dietro la selva
dei lauri. Indi a non molto, afferrato il ciglione, ci apparve la
cascata in tutta la sua orrida bellezza. La era una stupenda veduta,
non già pel volume delle acque, che non era smisurato, sibbene per
la forma della rupe, stagliata a due piani e tutta irta di punte
scogliose, che la facea parere i due cotanti del vero. Rotta tra i
massi muscosi, che erano ornati qua e là di felci pendenti, l’argentea
vena si spandeva in lucenti zampilli, gorgogliava, spumeggiava,
ribolliva, per indi tornare a scorrer veloce, impaziente come saetta
dall’arco, in un cavo letto di pietra, e giunta sull’orlo del secondo
ripiano ove noi eravamo, infuriava, superava gli ostacoli, precipitando
fragorosa da una ragguardevole altezza. Il rumore incessante della
caduta non tornava molesto a noi, che stavamo più in alto; il romper
dell’onda lì presso, il suo risalire e lo spargersi in finissima
pioggia, dava all’aria tutt’intorno un senso di dolce frescura.

Sedemmo sul verde tappeto, quasi al margine della cascata. Anna
rimase lunga pezza estatica a contemplare quel lavorio d’acque
frettolose, che, spartite al sommo della rupe in rivolini e zampilli,
si raccoglievano tosto in un fascio, per correre un tratto pianamente
sotto i suoi occhi, indi spartirsi da capo, innalzarsi, flottare, e
rovesciarsi in larga piena nella valle di sotto.

Ella mi accennò poscia, là in mezzo a quel corso d’acqua, un picciol
masso sporgente ed una pianticella che, tratto tratto percossa dalle
onde soverchianti, agitava tremando le sue larghe foglie frastagliate.

— Vedete la poverina, come risica ad ogni istante d’esser travolta!
Così — soggiunse ella con accento di mestizia — la nostra nave sui
flutti!

— Ma Dio — risposi — ha salvata la nave e salverà quella pianta.

— Sì, ben dite — ripigliò. — Perchè l’avrebbe egli posta colà, tra
que’ due rabbiosi, che vanno a gara scuotendone il gambo sottile? Nel
piegarsi ad ogni urto sta la sua forza. E vedete, messer Gentile, come
anche ella, in mezzo alle tribolazioni, ci ha le sue gioie? Ha messo un
fiore.

— Lo volete? — diss’io, balzando in piedi ad un punto.

— No, no! mio Dio! mi fate paura.... — gridò ella trattenendomi. —
Andate piuttosto laggiù, sotto quella rupe, donde spenzola quel fascio
di candidi fiori stellati, e portateli a me. Neppur quella è facile
impresa! — soggiunse, per farmi parer più dolce l’andare.

Quello che Anna chiedeva era il fiore immortale. Cresce ad arbusto e
le corolle son bianche e stellate, siccome la margheritina dei nostri
campi, ma molto più grandi, e durano per mesi ed anni senza avvizzire;
donde il nome che portano. Sollecito io corsi, mi inerpicai tra’ sassi,
colsi quanti più mi venne dato di que’ candidi fiori, e tornato a lei,
mi feci ad intrecciarne una corona, mentre venivo dicendole il nome di
essi e i pensieri che quel nome mi destava nell’animo.

— Immortali, sì veramente, madonna! Sbocciati al tiepido soffio di
questa primavera, essi vivranno più a lungo della mia memoria in cuor
vostro.

— Perchè dite voi ciò? Credete voi così fugace la gratitudine in cuore
di donna? Io mi ricorderò sempre di voi, come del più nobile cavaliero
che meritasse mai la mia stima!

— Ah! sì; — proruppi — e frattanto, partiti da quest’isola, il che
avverrà troppo più presto che io non desideri, la _Ventura_ vi metterà
ai lidi di Spagna, e voi sparirete, sparirete per sempre dai miei
occhi, leggiadra visione, che mi avete fatto parer bella la vita.

Ella rimase un tal poco sovra pensiero; io muto, ansante, in attesa.

— Giovine siete ancora — mi disse finalmente, con voce impressa di
soave malinconia — e molte gentildonne ha la cristianità, fiorenti
di bellezza e di gran pregi ornate, le quali andrebbero superbe di
appartenervi. Amate, messer Gentile, scegliete tra quelle; io non
merito l’amor vostro. Non mi dite nulla, ve ne prego! So quello che ne
pensate, cortese come siete, e vi ripeterei sempre: non sono degna di
voi; ad altra donna ha da profferirsi il vostro gran cuore.

— No, nessun’altra! — gridai! — Badate, Anna, vi parlo così
schiettamente come parlerei al cospetto di Dio, che mi legge nel
profondo dell’anima. Io non vi contenderò a quell’uomo; ma sento qui
dentro che non amerò più donna al mondo, e che morrò di affanno lontano
da voi. Ciò vi duole? Non ne parliamo più oltre. Vedete, io sono pur
lieto nella mia tristezza. Anche quella povera pianta, dicevate, in
mezzo alle tribolazioni ci ha le sue gioie. Ora, la mia gioia è di
vedervi salva. Il fiore non sarà mio, pur troppo; ma almeno e’ non sarà
dannato a perire.

Commossa, ella mi porse la mano, che io afferrai e, tratto da un
impeto irresistibile di tenerezza, vi posi le labbra. Il bacio fu così
ardente, che Anna ritrasse sbigottita la mano.

— Perchè? — le chiesi tremante.

— Ah! — sclamò, con accento di mortale angoscia. — Non mi fate
doppiamente colpevole!

Io m’ero accasciato singhiozzando, colla fronte tra le palme.

— Suvvia, ve ne supplico, messer Gentile, amico mio, siate più forte,
se volete che io del pari lo sia. Vedete? io sono nel vostro medesimo
stato. Sì, anche la mia vita è condannata.

Più che alle sue preghiere e al dolce nome d’amico, rizzai la fronte
a quelle ultime parole ed attonito affissai lo sguardo nel suo volto
pallido. Ella proseguì.

— Questo tragitto fortunoso fu un alto insegnamento per me. Non so, nè
mi curo di sapere che penserà l’uomo da me abbandonato. Non è tutta
mia la colpa di ciò che è avvenuto, ed io potrei aggiungere che non
ne ho alcuna davanti a quell’uomo. Ma davanti al cielo?.... La donna
che infrange il patto, qualunque ei sia, giurato a piè dell’altare,
nel santo nome di Dio, non ha speranza di perdono. Perchè?... Lo
ignoro. La legge è dura, ma è legge, e sebbene lo spirito d’una misera
donna si ribelli al vincolo che la fa schiava contro sua voglia, ella
ha gravemente peccato, ella che poteva resistere da prima, ella che
poteva morire, e non seppe. Ma io espierò questa colpa; l’ho giurato
e non infrangerò quest’altro giuramento, che fu pronunziato con libere
labbra.

— E che farete?

— Se il cielo ne consentirà di approdare in terra di cristiani, andrò a
chiudermi in un monastero.

— Dio santo! — sclamai, perduto dell’intelletto, nè sapendo se
quell’annunzio dovesse farmi più lieto, o più triste. — E sa Macham del
vostro proposito?

— No; egli ne morrebbe forse. Ma che fare, se ad ogni uomo che
m’avvicina io porto sventura? Cercherò io di disporlo a questo fine,
con mezze parole che lo avvezzino al pensiero di separarsi da me?
Gliene darò d’un tratto l’annunzio? Questo non so dirvi ora; mi
avverrà forse come oggi con voi, innanzi di uscire da quest’isola,
o più tardi, quando avremo toccato un lido ospitale. Comunque sia,
il mio voto è irrevocabile. E’ fu in mezzo alla tempesta, dopo tanti
giorni che la rabbia del mare pareva dovesse inghiottirci ad ogni ora.
Iddio ti punisce! mi bisbigliava una voce arcana, che mi fa tuttavia
rabbrividire di spavento e di orrore. E allora giurai; giurai che,
se la nave fosse uscita salva dal turbine, avrei battuto alla porta
d’un chiostro e consacrata al Signore questa misera vita. Sul mattino
cadde il vento, si chetò la furia delle onde; il cielo aveva accolto il
mio voto. Ditemi ora, messer Gentile, non sono io nel vostro medesimo
stato? Io, voi, tutti, siamo condannati a soffrire; eppure, vedete,
anche l’affanno ha i suoi momenti di sosta. Quest’isola benedetta mi
è apparsa come l’òasi nel deserto allo stanco pellegrino; un lampo di
contentezza mi ha rischiarata la fronte. È breve riposo; che importa?
Non dobbiamo accogliere con lieto animo le consolazioni che il cielo ne
manda, per ripigliare più forti la via del dolore?

Io la guardavo trasognato, così nuove erano quelle parole per me.

— E siete rassegnata? — le chiesi.

Anna mi rispose con un cenno del capo.

Un demone allora mi soffiò un acerbo dubbio nel cuore.

— Amate voi sempre Macham?.... — incalzai; ma già pentito di
quell’ardimento — Ah! no, non mi rispondete! — gridai. — Non mi dite
nulla, non vo’ saper nulla; vi ho fatto una stolta dimanda!

E per non udire più altro, balzai in piedi, lasciandola sola e correndo
a passi concitati lunghesso il margine dell’onda. La mia fronte ardeva,
e, per virtù d’istinto, non già per meditato consiglio, mi feci a’ pie’
della rupe, per sentirmi sul volto gli spruzzi della cascata. Se Macham
fosse giunto in quel momento tra noi, ben si sarebbe avveduto del mio
turbamento, chè non venni a capo di padroneggiarmi sì tosto.

Ella era rimasta seduta, guardando mestamente la ghirlanda di fiori
immortali, da me intrecciata pur dianzi, che le posava in grembo.
Stetti a contemplarla da lunge, bella nel suo dolore, siccome era bella
nei lampi di gioia, ahi! troppo fugaci, che io vidi trasparirle dagli
occhi. E mi struggevo, guardandola; mi struggevo, pensando che non era
per me l’amor suo.

Insaziabile è l’uomo; ottenuta tal cosa che egli anelava, pur non si
cheta e vorrebbe mai sempre di più. Io volli farla tacere, ed avrei
voluto che ella, non curando le mie preghiere, avesse pure parlato. Ero
profondamente, ferocemente lieto di quel voto, che la toglieva ai baci
del mio rivale, e già volevo regnar io, sapere la mia immagine scolpita
nel suo cuore, rivaleggiare, anco lontano, col cielo, nella dolorosa
solitudine del chiostro.

Appena mi si fu chetata alquanto quella tempesta nell’anima, tornai al
suo fianco.

— Povero amico! — mi disse ella, alzandosi. — Venite e datemi il vostro
braccio.

E si appoggiò sopra di me, fidente come una sorella. Io, pur di sentire
il suo braccio sul mio, avrei mentito a me stesso. Balenavo, inoltrando
il passo; e nondimeno, vacillante, confuso, acciecato, sorreggevo lei
nella discesa.

— Non parliamo più di cosiffatte mestizie! — mi disse ella, quando
fummo giunti sul prato. — Vedete questo bel cielo? Esso ne incuora ad
esser forti, mostrandoci il sereno che ci attende lassù.



X.


Quel colloquio gittò il mio intelletto in una specie di torpore, che
era vigilia e sonno ad un tempo. Nè mia, nè d’altri! Questo pensiero
mi mostrò lo stato nostro sotto un aspetto che io non aveva meditato
ancora; laonde restai come smarrito, vedendo la mia sventura, senza
sentirla, e soffrendo, senza saper di che cosa. Cotesto ha somiglianza
colla follia, e veramente mi pareva che il lume della ragione entro di
me vacillasse.

Cansai frattanto le occasioni di trovarmi solo con Anna. Il forte amore
ha talvolta di cosiffatte lacune. Non amiamo noi forse con tutte le
potenze dell’anima? Or bene, dove una di esse, la speranza, s’involi,
il suo luogo rimane, e guai, se la bella consolatrice non torna a
colmare quel vuoto; imperocchè esso man mano si allarga, t’invade e ti
piomba inesorato nel nulla.

Il mio proposito, se tale fu veramente e non piuttosto un inerte mancar
di propositi, mi tornò agevolissimo, dappoichè Roberto Macham era
pronto mai sempre a restare, e per tal guisa accadde che tre giorni
alla fila andassi io cogli uomini della scorta a correre i boschi.

Nell’ultima di quelle caccie eravamo andati alla posta del cinghiale,
sendo le foreste abbondavano di questi animali, in tutto simili a
quelli delle spiaggie africane, dal grifo e dalle orecchie più aguzze,
e dalle setole più sottili e lucenti che non gli altri d’Europa. Senza
una muta di bracchi da sangue, tornava assai malagevole rincorrerli per
le fratte; ma gli uomini miei, già usati a tal caccia, me ne avevano
fatto ressa, e questa parendo a me più acre bisogna che non fosse il
saettar capre pascenti, e pavoni appolaiati sulle rupi, mi ero piegato
a’ lor desiderî.

Ci addentrammo in un salvatico, che già si era da noi costeggiato per
due o tre miglia all’intorno, e ci mettemmo in caccia, procedendo alla
spartita, ma non così l’uno dall’altro discosti, da non poter tutti
all’occorrenza volare in aiuto a quello di noi, che dèsse la levata
al cignale. A me per l’appunto venne fatto di scovarne uno, gagliardo
di membra e armato di due zanne lucenti ed acute, che prometteano
una terribil difesa. A mala pena m’ebbe udito allo sfrusciar delle
foglie, la fiera si volse, mi guatò grufolando e balzò da un lato per
mettersi in fuga; ma indarno, chè io già avevo tolta la mira e il mio
verrettone, sibilando veloce per aria, le si ficcava nel dorso.

Diedi incontanente un grido ai compagni, perchè fossero pronti ad
accorrere; intanto il cignale guaì, dolorosamente storcendosi, e di
fuggente divenuto assalitore, mi si scagliò addosso con furia. Io
non feci in tempo ad aggiustare un’altra volta la mira; laonde, senza
gittar la balestra, che poteva giovarmi contro il primo impeto della
belva, cacciai fuori il coltello, e tosto, sentendo l’urto del nemico,
gli piantai sottomano la lama nel petto. Ma caddi in pari tempo sotto
quella rovina, e mi era tolto ogni scampo, se Lanzerotto non giungea
pronto al soccorso. Balzò egli da un folto cespuglio e, avventatosi
alla groppa del cinghiale, che già m’aveva malconcio, lo finì d’un
rapido colpo alla gola. Soppraggiungevano intanto gli altri quattro
compagni e mi traevano d’addosso l’immane fiera sanguinolente, il cui
morso disperato m’avea colto poco sopra al ginocchio.

Mi alzai, aiutato da quegli amorevoli, ma a stento mi reggevo sui
piedi; però egli fu mestieri portarci, vittima ed uccisore, a gran
forza di braccia. Quando giunsi, disteso su di una informe lettiga di
frasche, alla nostra capanna, fu una mestizia da non si poter dire a
parole. Tutta piangente, come quella che in sulle prime avea temuto
di peggio, Anna si avvicinò al mio giaciglio, volendo ella stessa
asterger la piaga. Lanzerotto, a sua volta, diventato di punto in
bianco cerusico, la spalmò alla marinaresca con una sua colla di pesce,
utilmente sperimentata in moltissimi casi. Per ventura, lo squarcio
era assai più largo che profondo, e il maggior guaio era stato lo
spargimento copioso del sangue.

Rimasi a giacere tutto quel dì, e il vegnente eziandio. Macham, non
potendo altrimente, andò egli co’ marinai per le nostre quotidiane
provvigioni di selvaggina, ed io gli chiesi, in grazia, che non si
dèsse più oltre levata a cinghiali. Promise egli, dopo che Anna ne
lo ebbe scongiurato a sua volta; ma si mostrò corrucciato, come se io
avessi voluto serbare per me il privilegio dei corsi pericoli. Io non
posi mente a cotesto, e feci anzi che Lanzerotto lo accompagnasse,
quantunque la presenza del mio còmito fosse per avventura più utile in
quel giorno alla spiaggia.

Ella mi tenne compagnia, in quelle lunghe ore di riposo, tutta soave
ed amorevole in vista, vegliandomi con materna cura, nè consentendo
che io facessi lunghe parole. Forse temeva per me, fors’anco prevedeva
nell’animo dove sarebbe andato a parare il discorso. E mi tacqui,
contento a guardarla, a sorbir da quegli occhi il dolce veleno.
Intanto la natura riparatrice operava dentro di me, e due giorni dopo,
rammarginata la piaga, cessati gli spasimi, io potei dirmi risanato
senz’altro. Ero già uscito fuori con Anna, passeggiando lentamente sul
prato, allorquando ci vennero udite le liete grida dei cacciatori che
tornavano a noi. Mi volsi, e vidi Macham da lunge, piantato sulla rupe
della cascata, colle braccia conserte al seno, in atto di guardarci.
Poco stante si mosse e, seguitando i compagni, giunse a noi, più
accigliato, più fosco, più taciturno che mai.

Il pasto fu malinconico e grave, come di gente impacciata, o pensosa.
Nè egli disse parola, nè io, e, levata la mensa, uscimmo all’aperto.
Volevo lasciarlo solo con lei, e mi disponevo ad uscire dal prato;
senonchè, fatti appena pochi passi tra gli alberi, mi accôrsi che egli
mi veniva da tergo.

— Come va, Adone? — mi chiese egli, accostandosi.

— Adone! — sclamai, trasognato. — Perchè Adone, e che volete voi dire?

— Sì; invero egli corre una certa differenza tra i due — disse egli
di rimando con sarcastico piglio. — Adone, il prediletto di Venere, fu
ucciso a dirittura dal cignale e pianto amaramente da lei, che mutollo
in anèmone. Voi, più felice, vivete, e la dea vi sparge i pietosi
balsami sulle innocenti ferite.

— Ma, in nome del cielo, che dite voi mai?

— Dico — tuonò Macham, con accento mutato — che avete fallito al vostro
giuramento.

— Messere, per l’anima mia...

— No, voi mentite!

Gli era troppo, e a me parve d’essermi contenuto abbastanza.

— Roberto Macham — risposi, con voce soffocata dall’ira — debbo
compiangervi. Dar del mentitore a me, voi? Siete un pazzo. Sospettare
di Anna? Siete un codardo.

— Ah, non parlate di lei, se vi è cara la vita! Io potrei invogliarmi
di sperimentare se quel vostro coltello vi trema nel pugno al cospetto
dell’uomo, come davanti al cignale.

— Abbiatevi questo sollazzo! — gridai, accennandogli di seguirmi.

Così fece egli, e con rapidi passi m’entrò innanzi alla volta del
bosco. Io zoppicavo un tal poco, ma che m’importava? Da lungo tempo io
m’aggiravo in un ginepraio, senza trovarne l’uscita. Ora, l’uscita era
là, pronta, onorata e sicura.

Il cielo rannuvolato e il tuono che brontolava da lunge, pareano
rispondere al sordo rumoreggiare delle nostre collere. Andavamo per
quella medesima via che io avevo già fatta pochi dì prima con Anna, e,
così frettolosi, spronati da un pari desiderio di sangue, giungemmo in
breve a quel ripiano verdeggiante di muschio, che si stendeva ai piè
della rupe.

— Qui! — mi disse egli, fermandosi.

— E sia! — risposi.

Egli furente, io non meno di lui, avevamo sguainati i coltelli.
Squadratici per pochi istanti nel viso, eravamo per serrarci l’uno
sull’altro, quando un grido acuto s’intese, e tosto un mutar di passi
tra gli alberi che vestian la collina. Era Anna con Lanzerotto, e
questi, che la precedeva, sbucò veloce dal folto dei rami.

— Fermatevi! — gridò egli, agitato. — Madonna vi chiede in grazia di
attenderla.

Ed Anna giunse, che appena egli aveva finito di parlare. Scomposta,
ansante, pallida come persona morta, si gittò in mezzo a noi.

— Dio santo! Vorrete farmi morire dannata? Ma che è ciò, uomini feroci,
che è ciò? Quale rispetto è questo, non dirò di me, che pel mio fallo
son degna di cosiffatti dispregi, ma del nostro medesimo stato? È
egli qui che rimarremo tutti sepolti, senza speranza del perdono di
Dio? E cotesto doveva io aspettarmi da’ pari vostri? Ah, messeri, que’
coltelli branditi.... Ve ne supplico, abbiate pietà d’una misera donna!

E svenne. Gittato il coltello, fui pronto a sorreggerla, ma lasciai
tosto nelle braccia di Lanzerotto e di Macham il dolcissimo peso, e
corsi alla cascata lì presso, donde tornai recando acqua nel cavo della
mano, a spruzzargliene il viso. Ciò non bastando, eglino la trassero,
guidati dal mio cenno, al margine dell’onda scorrente, dove le cure
nostre e la frescura del luogo le fecero finalmente ricuperare gli
spiriti.

— Ah! — mormorò ella, riaprendo gli occhi. — Roberto! Messer Gentile!
Ho io dunque sognato?

— Perdono! — balbettò Macham, buttandosi ginocchioni al suo fianco.

Il tuono rumoreggiava più da vicino, il cielo si era fatto più fosco
e larghe goccie di nembo cominciavano a cadere; però ci disponemmo a
partire di là. Anna non poteva muoversi, tanto era rifinita da quella
scossa violenta, e fu mestieri portarla sulle braccia; malagevole
uffizio in quel colmo di piante; onde il viaggio fu lungo, e già
eravamo molli di sudore e di pioggia, quando giungemmo al riparo.

Il temporale ingrossò via via con rapidità spaventosa; ma noi non si
pose mente nè alla pioggia dirotta, che scrosciava sulla impavesata del
tetto, nè ai fulmini che spesseggiavano con orrido schianto dintorno,
mettendo sinistri bagliori attraverso le frasche della capanna. Di lei
ci davamo pensiero, di lei che malviva giaceva sul casto letticciuolo,
portando innocente la pena de’ nostri odii feroci. Senonchè, sul
far della notte, il vento, che aveva preso a soffiare con forza,
scuotendo gli alberi della selva vicina, ci fe’ pensare alla _Ventura_,
ormeggiata nella rada.

— Siamo su due àncore e saldo è il provese — mi dicea Lanzerotto, al
quale avevo toccato delle mie apprensioni.

Ma neppur egli viveva al tutto sicuro, imperocchè soggiunse più tardi,
come parlando a sè stesso: — Per altro, e’ non sarebbe male assicurarsi
con un cavo di giunta. — E veduto come il vento, anzi che scemare,
rinforzasse, pigliò una pronta deliberazione; indossato il suo gabbano
col cappuccio di tela incerata, non guidato da altra luce fuor quella
de’ lampi, uscì fuori speditamente, per condursi alla spiaggia.

Lo aspettai lunga pezza in silenzio, lo aspettai pazientemente fino a
notte colma, mentre la bufèra scatenata imperversava sempre più forte;
da ultimo, parendomi soverchio l’attendere, mi risolsi d’andare io
medesimo sull’orme del còmito. La povera bella, vinta dalla stanchezza,
dormiva, sebbene d’un lieve sonno, interrotto da subitanei sussulti
ad ogni scoppio di tuono; Macham vegliava, seduto in sul limitare,
col mento sul petto, gli occhi fisi in quel pallido volto adorato. Col
gesto, più che colle parole, gli accennai dove andavo, e mi mossi. Uno
de’ marinai volle venirmi compagno.

Uscito all’aperto, sotto quella tempesta, che mi faceva piegare mio
malgrado le spalle, intesi il perchè Lanzerotto potesse tardare così
lungamente al ritorno. Il prato, pel gran rovinìo della pioggia,
erasi mutato in un vasto padùle e ci s’andava a guazzo, affondando i
piedi nel fradicio terreno. Peggio fu, quando ci bisognò entrar nella
macchia, la quale per larga lista ci divideva dal lido. C’inoltravamo
brancolando come ciechi in quell’orrore notturno; ogni traccia di
sentiero perduta; i lampi non rischiaravano davanti a noi che irti
ammassi di fronde, e il vento ce li batteva rabbiosamente sul volto.
Dopo molte fatiche durate in quell’andirivieni, io m’avvidi che, in
cambio di scendere, prendevamo a salire. Certo era smarrita la via. Che
fare? Il meglio era di dar volta verso la discesa, sperando di udire
indi a poco il mormorio del fiumicello, che avrebbe potuto guidarci.
Ma in mezzo a quell’alto frastuono niente si udiva; solo il bagliore
della fòlgore venne più tardi a mostrarci la correntìa vorticosa d’un
torrente gonfiato, che già eravamo sul punto di mettervi il piede.
Balzammo indietro atterriti, tentando di andar oltre, lunghesso la
sponda: ma indarno, chè laggiù il rigoglio delle male erbe, il viluppo
dei rami, eran più folti a gran pezza.

Errammo per tal modo alla ventura, fino a tanto il fragore dell’onde
non ci mostrò essere noi pervenuti alla meta. Ah finalmente! ecco il
mare! Ma la galera dov’è? Forse abbiamo di soverchio piegato e siam
giunti ad un’altra cala dell’isola? Ma no; un lampo schiara lo spazio;
è ben questo il lido; ecco il palischermo tirato sull’arenaio; ecco
la casupola de’ nostri artieri; ecco le travi squadrate. E la nave?
Un brivido mi corse per l’ossa; gettai un grido altissimo a cui non
rispose che il vento co’ suoi sibili acuti e il flutto co’ suoi cupi
fragori. La rada era deserta. M’aggirai tutto intorno, cercando il
tronco d’albero a cui sapevo esser raccomandato il provese, e lo trovai
finalmente. Il nodo era intatto, ma la fune giaceva lenta sulla rena,
spezzata poche braccia più innanzi. Questo mi rimaneva, e non altro
della mia povera nave.

Fieramente percosso da quella sciagura, rimasi a lungo inerte sul
lido. I primi barlumi dell’alba comparvero sul mare in tempesta, e
ben vidi allora come noi fossimo soli. La galera non si scorgeva in
nessuna parte di quelle onde sconvolte, che già il turbine l’aveva
sbalestrata assai lunge. Forse più tardi i marinai avrebbero rimesso la
prora sull’isola; ma come potrebbero governare? Il timone, rifatto pur
dianzi, giaceva ancor sulla spiaggia.

E Lanzerotto? Udii poco stante la sua voce da tergo. Il poveretto, già
tornato alla capanna, aveva ripreso cammino per venire in traccia di
me. Volò alle mia grida, e m’abbracciò singhiozzando; indi si fece a
raccontarmi tutto ciò che sapeva.

Egli era giunto sul lido in tempo per veder la catastrofe. Spezzati
gli ormeggi e il provese dalle incalzanti folate, la galera aveva
preso a correre, trabalzata sui flutti, e a lui erano giunte le strida
compassionevoli dei compagni perduti. Gittare una gomena a terra
non aveano potuto, poichè la nave in un batter d’occhi era stata
sospinta al largo e così tratta in balìa del turbine, che egli, pochi
istanti più tardi, non aveva scorto, nè udito, più nulla. Dov’era
ella travolta? Il vento soffiava da ponente maestro, e, prima che si
chetasse quella sua foga, la _Ventura_, se pure non le si schiudevano
inesorabilmente sulla tolda i gorghi del mare, avrebbe fatto così
lungo cammino da non osar più dar volta, senza governo com’era. Ed
egli, povero Lanzerotto, era tornato in furia ad avvisarmene; ma,
pur troppo, non aveva fatto altro che accrescer travaglio ai rimasti.
Anna, all’udire il tristissimo annunzio, era stata colta da una febbre
ardente; Macham si struggeva di dolore e di rabbia, non sapendo come
darle sollievo.

Questo era il colpo di grazia per me. Senza darmi pensiero più oltre
della galera perduta, senza badare all’acqua che mi scorrea gelida per
tutte le membra, presi la via della macchia, e corsi, volai alla nostra
capanna.

Tristo spettacolo mi si offerse allo sguardo, come fui giunto colà.
Anna era in uno stato, che non saprei dirvi il peggiore. Scomposte pei
tremiti convulsi della persona, le nere chiome si spargeano sul petto;
le guancie ardevano, come divenute di fuoco; gli occhi scintillavano
nelle orbite incavate, tanto guasto avea menato il male in brev’ora!
Allo sguardo smarrito che volse su me, mi addiedi com’ella non mi
conoscesse già più. Colta da delirio, usciva in parole rotte, confuse,
piene di arcani terrori. M’ingegnai di calmarla; ma ciò non le avvenne
che assai tardi nel giorno, e non già pe’ miei grami conforti, sibbene
perchè, ridotta allo stremo, si accasciò sul guanciale, raffermando le
ciglia stanche, mentre i moti affannosi del seno e il lento rammarichìo
delle labbra socchiuse, mostravano esser di poco scemato il patire.

Per due dì il povero Lanzerotto si pigliò cura d’ogni cosa per noi.
Egli mandava or l’uno or l’altro de’ quattro marinai in vedetta sui
greppi, nella speranza che avesse a scorgersi in alto la nave; egli
badava al còmpito di rifornire di vettovaglie l’assottigliata colonia;
egli intendeva operoso, amorevole e provvido, a tutte le faccende
di casa. E per due giorni si visse così, muti, inviliti, sospesi
tra dubbio e timore. La tempesta era cessata, ma il vento durava
gagliardo, nè la _Ventura_ si vedeva apparire. Orrido luogo, pauroso
deserto, quell’isola, a cui pochi dì prima eravamo approdati con tanta
allegrezza! Anna inferma e forse in fin di vita; noi soli, chiusi,
separati dal mondo, senza poterla soccorrere che colla rozza arte e
i manchevoli accorgimenti del marinaio! Macham, triste, abbattuto,
divorato dai rimorsi, facea compassione a guardarlo. Di me non so,
quale apparissi ai compagni; ma il pensiero di quella solitudine,
di quella impotenza nostra, mi pungeva ad ogni ora, mi lacerava, mi
struggeva nel profondo del cuore.

La mattina del terzo giorno, Macham era stato colto dal sonno ai piedi
del letto di Anna. Ella s’era desta pur dianzi, e mi venìa guardando
coi suoi grandi occhi accesi dalla febbre, come se volesse indagare i
miei più riposti pensieri.

— Risanerete tra breve! — le dissi, componendo le labbra a sorriso.

— No, amico mio, questo è giudizio del cielo! — mi rispose ella,
crollando mestamente il capo. — Eccoci qui, chiusi per sempre, sepolti
vivi in questa solitudine.

— Oh, v’ingannate! la _Ventura_ tornerà. E poi, ci rimane il
palischermo; nol sapevate? Possiamo adattargli una vela, e, se un
tragitto di alcuni giorni in così piccola barca vi spaventa, andrò io,
con due marinai, fino a Cadice, donde, noleggiata una nave, torneremo
a questa volta. Conosco il mare, non temete, e vi condurrò in salvo a
quel porto che vi piaccia di eleggere. Ma state di buon animo, ora, e
badate a rifarvi.

A queste mie parole ella parve chetarsi; indi a poco, soavemente
rinchiuse le palpebre, s’addormentò in un placido sonno, che durò
parecchie ore del giorno. Ma verso sera, chiamatomi al suo capezzale,
quasi proseguendo il colloquio della mattina, mi disse:

— No, messer Gentile, non tornereste più in tempo. Rimanete, amico mio;
mi sento morire.



XI.


Morire! Morire in sul fiore della gioventù, nello splendore della
bellezza! Ma perchè, grande Iddio, perchè allora vestir la creatura
di tanta luce e porre questo miracolo di leggiadria sulla terra?
Imperscrutabile arcano! E nondimanco, è in noi qualche cosa che si
ribella e pugna e fa forza, quantunque invano, contro il pensiero
della morte di una persona diletta. Egli sembra di lottare colle livide
immagini d’un orrido sogno; non è, non può, non deve esser vero ciò che
avviene di noi; pure, eccoci stretti, soffocati, nelle braccia poderose
dell’incubo. E che! Si spegneranno quelle luci che così soavemente ci
guardano, da cui traspare l’angelico riso dell’anima? Quelle dolci
labbra che ci parlano, che ci dicono le gioie e gli affanni, che ci
rendono ancora le più lievi sfumature dell’ascoso pensiero, quelle
delicate sembianze che tanta impronta pur serbano del nume creatore,
non le vedremo noi più, si scomporranno, cesseranno di essere?
Agonia senza fine dolorosa! Preghiere, scongiuri, minaccie, tutto si
tenterebbe in quell’ora, per rattenere la spietata mano del Tempo. Ma
che valgono le tue lagrime, che valgono i tuoi furori, povero stolto!
La Parca prosegue lenta, sicura, inflessibile, il suo ultimo uffizio.
La clessidra del vecchio è all’ultima goccia; nelle mani della Parca,
ecco, il filo è reciso; gli occhi si chiudono, le labbra son mute, il
freddo della morte irrigidisce quelle membra adorate. E il tuo cuore
in quel punto si spezza; ma tu non muori già, come pure sarebbe pietà
consentirti; tu vivi, perchè devi soffrire; senti e vedi, perchè devi
rimanerti spettatore della tua stessa rovina.

A me quelle parole di Anna aveano recato un colpo fatale. Non piansi,
impietrai. Non più un concetto, poichè quella luce dell’anima mia
era sul punto di spegnersi; non più un disegno formato, poichè la mia
speranza moriva. A che mi sarei adoperato? Perchè avrei quind’innanzi
pensato? Tutto ciò era vano oramai.

Il suo stato andò peggiorando quella notte, e più ancora nel giorno
appresso. La febbre, acuta, intensa, la consumava ad occhi veggenti; nè
la grama sapienza di Lanzerotto valeva ad arrestare quello struggimento
continuo di forze. Qual nuova virtù di stillati poteva egli scoprire,
che temperasse gli ardori di quel sangue infuocato? E come fidarsi,
egli, ignaro di tanti partiti e sottigliezze dell’arte, all’uso d’erbe
mal note, onde abbondava quell’isola? Senonchè, pur troppo, nessun
farmaco avrebbe giovato, ed io pensai che tutti gli elettuari della
scuola Salernitana e i succhi decantati degli Arabi infedeli avrieno
fatto mala prova contro un male che risiedeva nello spirito.

La notte sopra il terzo giorno, essendosi ella assopita, ero andato a
buttarmi sul mio giaciglio, intirizzito dal freddo, colto da brividi
frequenti, sebbene la calda stagione regnasse e l’aria fosse tutta una
vampa. Le mie membra affralite aveano anch’esse ceduto alla stanchezza
delle prolungate vigilie e un lieve sopore m’era disceso finalmente
sugli occhi, non già nella mente, poichè il sogno mi raffigurava la
moribonda che colla voce spenta e col gesto faticoso mi chiamava al
suo capezzale. Mi destai in sussulto, balzai sgomentito in piedi,
temendo di aver troppo a lungo riposato e di non giungere in tempo a
raccogliere il suo ultimo sospiro. Macham era presso di me; egli stesso
mi aveva destato.

— Venite, messere; — mi disse egli tristamente. — Anna ha chiesto di
voi.

Lo seguii tremante nella camera attigua, che era rischiarata dal
fioco lume di una lucernina di creta. A mala pena mi vide, la povera
bella tentò di sollevare il capo, salutandomi con un filo di voce;
io mi precipitai alla proda del suo letticciuolo, rompendo in amaro
singhiozzo.

— No, sedete qui presso; — mormorò ella. — Tristi cose ho a dirvi, e
tali che strazieranno il cuore d’un amico. Ma così è, messer Gentile;
siate paziente anche voi. Il cielo mi concede un po’ di forza, perchè
io ne usi a metter l’anima in pace. Desidero confessarmi a voi;
accoglierete la mia confessione?

Fui per ricusare, ma la solennità della preghiera mi vinse. Levati
gli occhi al cielo, come per implorare la forza di subire quel nuovo
martirio, mi assisi al capezzale della cara morente. Macham si era
ritirato nella camera vicina.

Con voce fioca, ma sicura, chè il desiderio di morir perdonata le facea
raccogliere tutte in quell’opera le forze stremate, Anna si fece allora
a raccontarmi partitamente la sua vita. Dio santo! Fu quella un’ora di
acerbi patimenti per me.

Ella nasceva dai Dorset, nobile e facoltoso casato d’Inghilterra. Uno
de’ suoi maggiori aveva seguìto Riccardo Plantageneto, nominato Cuor
di Leone, all’impresa di Terra Santa. Il padre suo, già scudiero della
regina Isabella, da lui accompagnata in Francia, allorquando ella andò
a comporvi certo litigio rispetto al suo dominio di Guienna, per aver
favorito i maneggi della regina e del suo diletto Mortimero, era caduto
in disgrazia presso il figlio di lei, Edoardo III, che, vendicato
il padre colla uccisione del drudo nel castello di Nottingham, e
sbrigatosi del consiglio di reggenza, imprendeva a regnare da solo.
Perduta la sua carica a corte, il Dorset erasi ridotto a vivere,
quantunque di mala voglia, nelle sue terre di Bristol, insieme colla
moglie e due figli, Enrico ed Anna, già cresciuti in età. Costei,
tredicenne fanciulla, miracolo di avvenenza e di grazia, era per
diventare la più celebrata bellezza della contea. Ma le soavi gioie
della famiglia poco potevano sull’animo del signore di Dorset. Gli
occhi dell’ambizioso uomo erano sempre rivolti alla corte, e se per
avventura si affissavano nella beltà incomparabile della figliuola,
e’ non ci vedeva che uno strumento a riedificar sue fortune e
rimettersi, la mercè di un alto parentado, nelle mutevoli grazie del re
d’Inghilterra.

Senonchè i giovani cuori, desiderosi di felicità, alieni ancora
dalle lusinghe della vanità cortigiana, non seguono così facilmente
l’indirizzo delle paterne ambizioni. E il cuore della giovinetta, a
mala pena ebbe fatto sentire i suoi palpiti, si diede a tale affetto,
che certo non avrebbe colorito i disegni del padre. Roberto Macham,
povero gentiluomo, ma prode e bello come il barone san Giorgio, avea
guadagnato quel cuore, insieme col premio che la giovine Anna aveva
dato a lui, vincitore di una giostra, la quale era stata tenuta a
Bristol tra i più animosi cavalieri della contea.

I giovani si amarono; ma egli, povero, secondogenito d’una famiglia
di mezzana nobiltà, non ardì chiederla in moglie, se prima non avesse
illustrato le sue armi con alte imprese di guerra. Nè gli fallian le
occasioni. Mancata la prole maschile di Filippo il Bello, la corona
di Francia era passata ai collaterali, toccando in ultimo a Filippo
di Valois. Edoardo III, non curando la legge salica, asseriva che,
quantunque sua madre Isabella, figlia all’estinto sire di Francia, non
potesse succedere al padre, egli erede di lei non andava altrimenti
soggetto a quella incapacità; epperò, cominciato ad intrecciare ne’
suoi suggelli ed insegne gli stemmi di Francia con que’ d’Inghilterra,
a stringer leghe, a chieder sussidii per la guerra al Parlamento, si
disponeva a sostenere sue pretensioni coll’armi.

Un naviglio fu tosto allestito, e fu quello che, forte appena di
dugento quaranta legni, sbaragliava quattrocento navi nemiche nelle
acque della Schiusa, sulle coste di Fiandra. Macham, imbarcato sulla
galera patrona, avea fatto prodezze all’arrembata, sotto gli occhi
dell’ammiraglio; e già salito in fama tra i più chiari gentiluomini
del regno, sperava di ottener posto onorevole, nella imminente calata
sui lidi francesi, al fianco dello stesso figliuol di Edoardo, che era
il principe di Galles, duca di Cornovaglia, detto il principe Nero;
e cotesto la mercè d’un potentissimo conte, amico suo e favorito del
principe.

Costui, che io non mi farò a nominare, ebbe il segreto degli amori
e delle speranze di Macham. E andato con esso lui a Bristol, mentre
si tiravano in lungo gli apprestamenti di guerra, vide Anna Dorset
e s’innamorò perdutamente di lei. Strapotente com’era per grandezza
di natali e per regio favore, non istette guari a riuscire, non pure
accetto, ma in singolar modo desiderato dal padre della fanciulla; il
quale scorgeva nell’amico del principe Nero l’atteso ristoratore di sua
possanza perduta.

Anna ricusò il nodo proffertole, pianse, pregò, ma senza smuovere
il padre dal concepito disegno. E Macham, il quale avea notato di
slealtà e disfidato a tutta oltranza colui che reputava amico e sperava
protettore, fu colto una notte per comando del re e sostenuto in
prigione, donde non sarebbe uscito, se non dopo le nozze del prescelto
rivale.

Egli avvenne allora ciò che sempre in tali distrette; obbedienza di
figlia e desiderio di salvare Macham da una prigionia che poteva
recarlo a mal punto, condussero all’altare la vittima. Roberto
Macham fu libero allora, ma sbandeggiato da Bristol, fino a tanto vi
rimanessero gli sposi, innanzi di andarne in Cornovaglia, dove in quel
mezzo tenea corte il principe Nero.

Triste alba ebbero le nozze del conte. Marito al cospetto de’ suoi,
non lo era altrimenti per sè; nè gli venia fatto di piegare a più
amorevoli consigli la donna. — Vi ho obbedito, messere, son vostra; —
diceva ella piangendo — lasciatemi portare in pace il lutto delle mie
morte speranze; aspettate dal tempo ch’io possa avvezzarmi a questa
profanazione dell’amicizia, a questo mal uso della vostra potenza.
— E il conte, a stento raffrenando l’ira, ma sorridente e tranquillo
alla vista di tutti, si rimaneva, deliberando di vincere quella sua
riluttanza ad altr’ora.

Ma in que’ giorni, la contessa, tra i famigli della nuova sua casa,
aveane scorto uno, che più attento d’ogni altro, la veniva osservando
e quantunque volte gli tornasse di farlo copertamente, s’ingegnava di
darle negli occhi. A tutta prima, reputandolo artifizio disdicevole di
pazzo amatore, se n’era ella adontata; ma il dì seguente, recandosi la
gentildonna alla chiesa, il giovine le si era avvicinato più assai che
le nobili usanze non consentissero a donzello, e le avea bisbigliato
rapidamente all’orecchio: — Messer Roberto è qui, celato in Bristol; io
sono amico suo; volete seguirlo?

Il cuore le avea dato un sobbalzo a quelle inaspettate parole, ma tosto
erasi fatta a reprimere quel moto d’allegrezza, temendo di qualche
inganno nascosto.

— Come v’argomentate ch’io possa, non che credervi, udirvi? — disse
ella poscia, mentre poneva il piede sulla gradinata del tempio.

— Di me avverrà ciò che a voi piace, madonna; eccovi intanto il vostro
uffiziuolo, — rispose il giovine, inchinandosi in atto reverente e
sporgendole il suo libro di preghiere; — qui dentro è una lettera del
mio povero amico.

In chiesa, tra le carte del libro, Anna avea letto il foglio di Macham.
Il giovine non era altrimenti un famiglio, sibbene un fidatissimo
amico, il cavaliere di Blackstone, che, arrisicato com’era e cortese,
mentiva nome e stato per fargli servizio. Sentisse ella compassione,
aggiungeva Roberto; egli non poter vivere senza di lei ed esser
pronto a morire, se ella non infrangesse quel nodo abborrito. E qui
ricordava le arti sleali, i brutti maneggi del conte, negando che il
cielo potesse aver benedette le nozze, santificato un giuramento in
tal guisa carpito. Che dirle di più? Ella giudice tra il conte e lui;
ella arbitra, con una parola, della sua vita e della sua morte. Che se
l’antica fede non era spenta nel cuore di lei, se ella accoglieva il
suo disegno di fuga, il cavaliere di Blackstone l’avrebbe indettata del
giorno e del modo.

Cotesto occorreva nei primi dì dell’aprile. Anna ascoltò il tentatore.
La sua colpa fu quella; ma invero, piegarsi ai voleri del conte,
profanare quel suo grande affetto per Macham, era assai più di quello
che potessero le forze sue sostenere; il sacrifizio di tutta la sua
esistenza, veduto allora da presso, le parve orrendo; la paura, il
ribrezzo, ebbero facil vittoria del suo giuramento; vittoria che da
solo non avrebbe ottenuta l’amore.

Fu per tal modo concertata la fuga. E un giorno ch’ella era uscita
a cavalcare, seguìta dall’infinto donzello, avea messo a galoppo il
palafreno sulla riva degli Ontàni. Il rimanente era noto al pietoso
amico, al padrone della galera, che inconscio aveva dato mano alla
impresa, così meditata da Roberto Macham e condotta a fine dal
cavaliere di Blackstone. Il pentimento aveva tenuto dietro alla colpa;
dalla prima mattina che s’era veduta in alto mare per infino a quel dì
che doveva esser l’ultimo dei suoi patimenti, ella non aveva fatto che
piangere il suo fallo, ed implorava ora il perdono di Dio, ella che,
sulla riva degli Ontàni, dinanzi a Lanzerotto, per la prima volta dopo
le sue nozze col conte, aveva stretto la mano di Macham.

Ella era pura come un angiolo del Signore, quella bellissima
peccatrice; ben più colpevoli noi, che l’avevamo fatta segno alle
nostre bieche gelosie, ai nostri desiderii profani. E noi vivevamo;
ella moriva.

Trassi di sotto al giustacuore un piccolo crocifisso d’argento, eredità
dei miei maggiori. Mia madre morente me lo aveva donato, e quest’altra
morente dovea stringerlo alle sue labbra; doppiamente caro, scenderà
meco nel sepolcro, insieme col ricordo dei due soli amori di mia vita.
Questo spiccai allora dal collo e lo posi tra le sue mani tremanti.

— È dentro di questa croce una scheggia del santo legno; — le dissi,
alzando solennemente la voce. — Ella vi darà forza a superare questo
affannoso momento, e quella benedizione che il mio labbro non è
abbastanza puro per darvi, mia povera martire!

Un raggio di celeste allegrezza balenò dalle sue pupille semispente; le
labbra, accostandosi avidamente al segno del perdono, mormorarono una
parola di gratitudine.

Macham frattanto, poichè il pietoso ufficio era compiuto, veniva ad
inginocchiarsi all’altra proda del letto.

— Ed ora, sorella mia — soggiunsi — udite la mia confessione. Vi ho
amata e vi amerò fino a tanto ch’io viva. Questa, sebbene manchevole,
è la mia sola discolpa. Da quest’isola noi potevamo partire il dì dopo
l’approdo. Se l’avessi fatto, nulla sarebbe avvenuto di ciò che ora ne
strazia. Nol feci, geloso della ventura altrui, e n’ho acerbo rimorso
nell’anima. Mi perdonate voi!

— Si, a voi, a tutti... — rispose. — Così era scritto! Io fui più
amata che non accadesse mai a creatura mortale, e forse era effetto
di qualche malìa. Il Signore mi usi misericordia e mi accolga nella
sua pace. Udite ora, messer Gentile, e voi Roberto; di una grazia vi
prego...

— Dite! — le gridammo ansiosi ad un tempo, già temendo non fosse per
mancarle la voce.

— Qui, dove io muoio.... un altare!

— Sì, non dubitate! — mi affrettai a dirle io, dando in uno scoppio di
pianto.

— Grazie! — ripigliò la morente, sollevata da quella nostra promessa. —
Qua le vostre mani, poveri amici che io lascio. Ma non vi accorate, non
piangete così; ci vedremo ancora, ci vedremo lassù.

Furono queste le sue ultime voci. Le seguì un respiro affannoso, che
parve poco stante calmarsi, nè più altro s’udìa nella camera, fuorchè
il suono dei nostri mal rattenuti singhiozzi. Inginocchiati d’intorno
a lei, strette le sue mani nelle nostre, rimanemmo tutta la notte in
quella muta agonia. Io, non so quando, sentii la sua mano farsi di
gelo; tuttavia non mi mossi, nè apersi le ciglia, intormentito com’ero,
non potendo credere a ciò che pur troppo in quell’istante accadeva.



XII.


Il sole ci vide in quella postura, l’uno di rincontro all’altro, ispide
le chiome, gli sguardi stravolti e non mutati in cuore da quelli di
prima. Tratto un lembo del lenzuolo sul viso della morta, quasi temendo
non avesse ella a scorgere ciò che stava per accadere, Macham piantò i
suoi occhi torvi ne’ miei. Intesi che volesse dir quello sguardo, e mi
alzai per uscir dalla camera; egli fu pronto a seguirmi.

Stanchi della notte vegliata, i miei uomini dormivano sui loro
giacigli. Uscimmo all’aperto, io innanzi, egli sempre dietro di me,
muti ambidue. Non so per qual tacito patto avvenisse; egli fu per
avventura un memore istinto che ci guidava alla collina, e poco dopo
giungevamo a quel medesimo luogo dove Anna mi aveva narrato de’ suoi
voti, ahimè! dispersi dall’implacabile destino, e dove poscia ella era
giunta, infelice creatura, a ricevere quell’ultimo colpo, che la sua
pietà voleva risparmiato ad uno di noi.

Colà giunto, mi volsi. Macham del pari fe’ sosta.

— Che volete voi dunque? — gli chiesi.

— La vostra vita per quella di lei! — rugghiò egli feroce. — Lo avete
confessato stanotte; potevate, senza danno, nè pericolo, rimettere alla
vela il giorno dopo l’approdo, e quella donna era salva da morte. Ella
vi ha perdonato, Gentile Vivaldi; io no. Voi morrete di mia mano; indi
i vostri scherani mi sbranino pure, a me non importa.

— Ah non sarà, messere; aspettate!

Ed affacciatomi al ciglio della rupe, misi un fischio acutissimo.
Lanzerotto non istette guari ad uscire dalla capanna, che si scorgeva
nel prato sottostante. Ad un mio grido si volse, ci vide, e tosto si
mosse alla volta del bosco, per inerpicarsi al luogo ove noi eravamo.

— Che fate voi ora? — mi chiese il mio avversario.

— Nulla che guasti il vostro disegno; tra poco il vedrete.

Macham non disse più altro, e per chetare la sua impazienza, come
leone cruccioso nella sua gabbia ferrata, si diede a misurare con
rapidi passi il breve spazio che correva tra noi, lunghesso il margine
dell’onda.

Lanzerotto giunse e indovinò tosto ogni cosa. Un grido disperato gli
ruppe dal petto.

— Calmati, Lanzerotto! È guerra leale questa che or ora si combatterà
tra di noi. Nè t’ho chiamato a piacere, nè a giudice, sibbene per
dirti ciò che io voglio da te. Bada — soggiunsi con accento solenne —
chiunque dei due abbia a morire, tu obbedirai al superstite. Giuralo!

— Lo giuro, messere! — rispose egli inchinandosi.

— Per l’anima di tua madre?

— Per l’anima mia e per la mia salvazione!

— E promettimi che tu darai contro a chiunque de’ miei si ribellasse a
Roberto Macham, se a lui toccasse in ventura di uccidermi; giura che
gli farai scudo del tuo petto, se alcuno, per amore soverchio di me,
volesse farmi sleale dopo morto contro il mio ospite.

— Ah, molto mi chiedete, messere; — gridò Lanzerotto, straziato. — Ma
lo volete; lo farò. Così il cielo vi assista, come io vi obbedirò in
ogni caso peggiore.

— Or bene, ho il tuo giuramento. Qua la mano e vattene! Ma non temere
— soggiunsi per confortarlo — ucciderò, non sarò ucciso. Or vanne
laggiù, dove una povera morta attende gli ultimi uffizi dalla pietà dei
superstiti.

Lanzerotto si allontanò obbediente da noi.

— Siete un leal cavaliere! — esclamò Macham, poichè fummo soli. — Ma
tutto ciò era inutile. M’è di peso la vita.

Ciò detto, si piantò al suo posto e tolse dalla cintola il lungo
ed affilato coltello, che era parte necessaria de’ suoi arnesi
marinareschi. Io trassi del pari il mio e rimanemmo un pezzo, in atto
di difesa e di aspettazione, taciturni, immoti, l’uno spiando negli
occhi dell’altro i moti, i disegni, il punto propizio all’attacco.
Nessuno aveva a giungere questa volta per trattenerci la mano. Ah! la
voce di Anna accorrente lassù mi risuonava ancora all’orecchio, e lunge
dallo intenerirmi, rinfiammava il mio odio, la mia voluttà di ferire.

Cominciò allora tra noi un combattimento alla guisa dei Catalani. L’ira
chiusa, concentrata nel profondo, non turbava, soccorreva gli assalti,
confortava la vigilanza, guidava gli infingimenti, assicurava gl’impeti
nostri. Volendo ognuno di noi la vita dell’avversario, non uscimmo
in colpi frequenti; solo mirammo a recarli mortali. Egli fu primo
a muovermi incontro, ma il suo braccio diede nel mio e le coltella
s’incrociarono; donde avvenne che egli spiccò un salto indietro per
rimettersi in guardia. Assalii a mia volta e, finti due colpi ai
fianchi, ne vibrai uno di sopra mano, che avesse a trovargli il sommo
del petto; ma il suo braccio fu abbastanza sollecito al riparo, e
la mia lama si piantò nel lacerto lussureggiante di muscoli. Io la
ritrassi intinta di sangue.

— Non è nulla, non è nulla! — mi disse egli, raccogliendosi. — Or ora
avrò il tuo!

E balzò furibondo sopra di me. Io già avevo fatto il mio proposito; ma
egli non se ne addiede, acciecato dall’ira. In cambio di parare, cansai
l’urto, traendomi rapidamente da banda, e, come mi fu giunto a paro,
me gli avvinghiai alla vita, cacciandogli il ferro nel fianco. Egli
stramazzò, non so bene se svigorito dal mio colpo, o tratto dall’impeto
del suo medesimo assalto; ed io gli fui sopra, puntellandogli nelle
reni il ginocchio e correndogli colla manca alla gola. Bene tentò
egli di ferirmi, e sentii la punta del suo coltello sfiorarmi al
basso dell’omero; senonchè, così inchiodato a terra, gli venian meno
le forze. Egli fu un istante che io avrei voluto risparmiarlo; ma un
pensiero orrendo, sacrilego, mi corse allora alla mente, come di farlo
morire dannato, e senza più gl’immersi il coltello nel cuore.

— Grazie! — mormorò egli. — Che Iddio mi perdoni!

Ah! lo rammento, lo vedo ancora, lo sento corrermi per tutte le
fibre, lo sguardo che egli mi volse in quel punto. Tutto il mio sangue
intorpidito, già presso a congelarsi, riarde e si rimescola; sdegno
e pietà, rabbia e rimorso, mi combattono insieme. Fu egli perdonato?
E lo sarò io? Macham, mio animoso nemico, il tuo fu peccato d’amore.
Mi odiavi, come io te; ma se io fossi caduto sotto il tuo ginocchio,
se il tuo ferro m’avesse trovate e distrutte le fonti della vita (che
certo sarìa stato miglior fine a’ miei mali) avrei io avuto la virtù di
ringraziarti e di volger l’anima al cielo? Non so.

Un flotto di sangue uscì gorgogliando dalle sue fauci; gli occhi
errarono incerti, smarriti, nuotanti tra vita e morte; indi si
arrovesciarono e il lume delle pupille si spense; un rantolo si udì,
s’irrigidirono ad un tratto le membra; era morto.

Inorridii a quella vista e forsennato mi diedi a fuggire. Strani
terrori mi assalsero; sentii da principio come un vuoto dintorno
e dentro di me, un gran vuoto, un terribile vuoto; indi presero a
rombarmi le orecchie, ed il suono, fioco da prima, crebbe, incalzò,
sorse a fragor di tempesta. Nè manco tormento mi veniva per gli occhi,
innanzi a cui si rappicciolivano le cose, si sformavano tutte parvenze,
si sprolungava a dismisura la via. Da un albero all’altro correa tale
distanza, che il varcarla mi pareva da più di mie forze, e, sebbene io
n’andassi a furia giù per la china, sentivo rattrappirsi le ginocchia
e i piedi restarsi inchiodati. Orribil visione! Ogni tronco che mi
si parasse davanti era un insuperabile ostacolo; ogni ramo che mi
sfiorasse era un braccio proteso per arrestarmi. E dietro a me la
cascata mettea voci di maledizione; la selva tutta mi si stringeva,
mi ruinava sul capo, e fremiti, e sibili, ed ululati senza posa, mi
gridavano alle spalle: Caino!

Un’ombra mi venne incontro, misi un grido, tentai di fuggire, ma
invano. Era Lanzerotto, e le sue parole amorevoli mi ricondussero
in me. Egli aveva tutto indovinato, però non mi fece domanda, e,
toltomi il coltello intriso di sangue che ancora stringevo nel pugno,
rasciugato il sudor freddo che mi grondava dalla fronte, mi sorresse
tra le sue braccia e mi guidò alla capanna. Il luogo era deserto,
imperocchè, temendo contraria la sorte del combattimento, egli aveva
mandato i miei uomini, non so con quale pretesto, alla spiaggia.

Giunto colà, mi tornò in mente la morta. Svincolatomi dalle braccia
del mio còmito, corsi là dentro. La camera era triste, muta, solenne
come un santuario. La spera del sole penetrava dubitosa dal secco
fogliame delle pareti, dipingendosi in malinconici riflessi su quel
letto funereo, dal cui capo pendeva la ghirlanda di fiori immortali che
io avevo intessuta pochi giorni innanzi per lei. Ahimè! i fiori erano
freschi tuttavia, ed ella era là, morta, sotto quel bianco lenzuolo.

Tremante mi prostrai, stesi la mano e rimossi il lembo geloso che
quegli, spento a sua volta, aveva tratto in alto a coprirla. Il viso
dell’amata mi riapparve allora bianco, freddo, inanimato, ma bello.
Così m’era apparsa leggiadra, due mesi prima, nella sua città natale,
sotto l’arco della chiesa, ov’io non avevo veduto che lei. Erano chiusi
que’ grandi occhi neri, che guardavano lunge, come anelanti a più
lontane regioni, perduti nella contemplazione d’un mondo invisibile.
Ah, in quel mondo posavano essi oramai! Su quella fronte ampia, nitida,
perlata, non scintillava più lo smeraldo, ma il sole scendeva ancora
co’ raggi amorosi a baciarla, scherzava pur sempre nelle brune trecce
disciolte. La morte aveva suggellata in quel viso e in tutti i riposati
contorni della persona quella forma di bellezza marmorea, che tiene lo
sguardo e commuove di arcani desiderii lo spirito. Nè morta pareva,
bensì dormente; ond’io stetti a contemplarla immoto, trepidante,
frenando il respiro, quasi per tema di turbarle quel suo placido sonno.

Dov’era in quel punto l’anima tua, o Anna, o unica e sola donna che
amai, divina immagine che la mia mente ha ritenuta, per inebriarmi
le lunghe e dolorose vigilie? Errava essa intorno alla sua spoglia
mortale? E mi vide allora, mi lesse qui dentro gli affanni, i rimorsi,
le angoscie d’un amor disperato? Mi udì essa, quand’io, tratto fuor
di me dall’acerbità dello spasimo, presi a favellarle come a persona
viva, a chiederle una parola, una sola parola di perdono e d’affetto?
A me parve che que’ severi lineamenti acquistassero moto, che quelle
sopracciglia si corrugassero, che quelle labbra si atteggiassero a
rimprovero. Nè più potendo resistere alla piena del dolore, mi strinsi
al capezzale, posi le labbra affannose su quelle mani fredde, su quelle
labbra smorte, su quel seno, ahimè, senza battiti. Un brivido mi corse
per l’ossa; una voce arcana mi disse sacrilego, e balzai indietro
atterrito. Il bel viso era macchiato di sangue; intriso di sangue era
il lenzuolo funereo; del sangue di Macham che io le avevo recato,
estremo bacio del suo misero amante. Io li avevo divisi in vita;
io stesso li ricongiungevo nella morte. M’investì un freddo acuto;
vacillai gridando e caddi come corpo morto; stramazzai sul terreno.

Ciò che avvenisse poscia, m’è oscuro. Ben parmi di ricordare alcune
cose, ma interrotte e sbiadite, come ombre di sogno. Vedo una fossa
scavata ai piedi dell’albero e due corpi sepolti l’uno al fianco
dell’altro. Vedo me stesso, ginocchioni, in atto di guardare istupidito
i marinai che gettavano terra in quel vano, e di balbettar preci
confuse; indi la capanna disfatta, un tumulo eretto a guisa di rustico
altare, due tronchi foggiati a croce sovr’esso, ed una pietra che reca
scolpiti due nomi, con una breve preghiera ai venturi. Sì, questa io la
vedo ancora; ella dice così: «Pregate per essi, e per chi sopravvive.»

Più oltre non so, non ricordo più nulla di quel luogo e di que’ giorni,
più nulla! Altro non vidi, o più non conobbi. Una gran notte, siccome
nebbia sul mare, era discesa su me.



XIII.


Che fu del mio senno? Quanto durarono in me quelle tenebre? Tra esse,
un fioco raggio, un barlume fuggevole, mi lascia scorgere una immensa
distesa d’oceano, cielo e mare in tempesta, uno schifo trabalzato di
continuo sui flutti e null’altro.

Quando finalmente tornai in me stesso, fu uno stupore che mal saprei
ora descrivere. Non ravvisavo alcuna cosa dintorno; riviveva il
concetto del presente, non la memoria del passato, nell’animo mio;
però mi stetti lunga pezza trasognato a guardare quella caligine che
man mano si venìa dissipando davanti ai miei occhi, e la nuova scena
mirabile che ne era, come per incantesimo, emersa.

Vidi anzitutto un cortile, aperto nel fondo e spazioso, ricinto sui
tre lati da lunghe file di svelte colonne intrecciate a spire, sulle
quali si giravano archi eleganti, rigonfiati al basso, rotondati agli
spigoli da marmorei cordoni, raggentiliti da bei trafori interposti, da
fregi condotti in capricciosi meandri di fiori e fogliami, di animali
stranissimi e di leggende scolpite in caratteri ignoti. Sotto uno di
quegli archi io stavo seduto, e di rincontro a me, nell’ampio cortile,
nel mezzo d’un pavimento fatto a musaico, poggiata sul dorso di
quattro leoni, s’innalzava una vasca, donde spicciava un lieto zampillo
d’acqua, vagamente ricadendo in pioggia minuta. Più oltre scorgevasi un
folto aranceto, dietro il quale una ricca famiglia di palme spingeva in
alto i fusti ronchiosi, agitando mollemente i verdeggianti fiabelli;
più oltre ancora, ricise e spiccate su d’una lista d’azzurro sbiadato
e di porpora, tondeggiavano cupole scintillanti d’oro, si rizzavano
guglie di minareti, correano merlature, biancheggiavano torri e tetti
sovrapposti di vicine città.

Da quello spettacolo, che m’avea colmo di meraviglia, ritrassi gli
occhi a guardarmi dintorno. Un uomo sedeva al mio fianco, Lanzerotto,
il mio còmito, il mio compagno di sventura. Alla sua vista sentii per
gran tenerezza stemprarmisi il cuore; volli parlare, ma non mi venne
fatto, e caddi nelle sue braccia, dando in uno scoppio di pianto.

— Ah! — gridò egli giubilante. — Mi ravvisate finalmente, messere?

— Sì, mio buon Lanzerotto. Ma che è egli ciò ch’io vedo? Ho forse
sognato? Bristol, la tempesta, l’isola malaugurata.... Ah, vero pur
troppo! — esclamai, notando l’aria dolente del mio vecchio compagno. —
Ma che avvenne egli poscia? Dove siamo noi ora?

— A Tangia, messere, nella casba dello sceicco Abderaman, detto l’Emiro
del mare.

— Prigionieri! ma come?

— Sì, prigionieri! — rispose. — Ci eravamo imbarcati sul palischermo
rimastoci. Io volevo afferrare il capo di San Vincenzo, e voi, messer
Gentile, sebbene assai giù dell’animo, avevate assentito. Ma, dopo due
giorni di navigazione, il mare ci ha traditi, si è voltato a burrasca,
con un vento di traverso che ci ha spazzato via la nostra unica vela.
Così in balìa de’ marosi, siam venuti in deriva a dar nella costa de’
Mori, e da due mesi siam qui prigioni a Tangia, costretti a lavorare la
terra, come servi di pena. Ah, messere! Io non mi dolsi tanto di questa
sciagura, quanto di veder voi così fuori di senno, che ad ogni istante
ho temuto non vi si vendesse al mercato, come uno schiavo disutile.
Egli è vero bensì che ho faticato per due e che la nostra sorte non fu
la peggiore che potesse toccare a cristiani, tra questa gente infedele.

— E i nostri compagni?... Rubaldo, Ogerio, Ingone, Buonvassallo, ove
sono?

— Venduti, condotti a Mequina. A noi due è giovata la pietà d’una donna.

— Ahi — esclamai, sentendo a quel nome di donna rimescolarmisi il
sangue.

— Sì, — continuò Lanzerotto — la compassione ha parlato al cuore di
Fatimè, della leggiadra figliuola di Abderaman, la quale ci ha voluti
a’ suoi servigi, e ogni giorno ci è larga di cortesi parole, che ci
fanno parer meno grave il peso della nostra catena. Ma venite, messer
Gentile; sebbene la sferza dell’aguzzino non sia fatta per noi, ci
bisogna pur sempre mostrarci volonterosi al lavoro.

Seguii Lanzerotto nel contiguo giardino, ov’egli, di marinaio diventato
giardiniere, attendeva alle sue cure campestri. Egli era lieto, il
mio buon Lanzerotto, lieto come se avesse in quel giorno ricuperata
la libertà. Ma questa, secondo lui, non poteva indugiar molto,
poichè io avevo ricuperata la ragione. Ancora non sapeva in che modo
saremmo usciti di là, ma non gli pareva più tanto malagevole impresa.
Frattanto mi veniva informando delle consuetudini del luogo e di tutte
quelle notizie che aveva potuto raccogliere; tra l’altre, della sorte
toccata alla mia galèra, che aveva naufragato sulle coste vicine e la
marinaresca era stata ridotta in servitù dallo sceicco di Màmora.

Sull’ora del tramonto, mentre io mi disponevo ad inaffiare alcune
piante che il mio compagno m’aveva additate, s’udì poco lunge un
fruscio di vesti e un suono confuso di voci donnesche.

— Ecco la figlia di Abderaman! — mi bisbigliò Lanzerotto.

Ella scendeva, seguìta dalle sue schiave, a diporto in giardino, ed
io la vidi allora, snella e leggiera, comparire fuor da una siepe di
gelsomini. Mi parve, anzichè donna, un indistinto di zendado e di seta,
d’oro, d’argento e di monili. Infatti, giusta la foggia delle donne
moresche, ella indossava un luogo guarnello bianco, da cui traspariva
la gonna di seta porporina, e sovr’essi una tunica azzurra, aperta a
largo scollo sul petto, che tutto era celato da una collana a più filze
di perle. Ampie e diffuse le ricadeano a mezzo il braccio le maniche di
tòcca bianca, intessuta di argento; un rosso cintiglio sprangato d’oro
si girava mollemente attorno ai fianchi e un gran velo candido e lieve
involgevale il sommo della persona, ma senza nascondere i contorni del
viso e il nereggiar delle ciglia.

Lanzerotto le era andato incontro, ad offerirle umilmente un mazzo
di fiori che egli aveva raccolti. Io non intesi ciò che egli dicesse
nel breve colloquio che ebbe con lei; ma al certo ei ragionava del
suo compagno di sventura, imperocchè la giovinetta, dopo averlo
attentamente ascoltato, s’inoltrò verso di me e, guardatomi con occhi
amorevoli, mi rivolse la parola in quel mescolato idioma, che serve
agli accontamenti del cristiano coll’arabo e col giudeo, in tutti gli
scali d’Africa e d’Asia.

— Gentile lavora? — mi chiese ella sorridendo.

Io m’inchinai confuso, in atto d’ossequio.

— So il tuo nome, — soggiunse, — e il tuo stato tra’ cristiani. Non
ti logorare in questi umili uffizi; le tue mani son fatte per trattare
la spada, e nella casa di Abderaman, l’Emiro del mare, non è ignota la
pietà, nè il rispetto, pe’ cavalieri tuoi pari.

— Che il cielo dia allegrezza alla sua nobil figliuola! — risposi,
ponendo la mano sul petto e chinando la fronte.

Il mio augurio al certo non le spiacque, imperocchè ella, sollevando
cortesemente un lembo del velo, mi lasciò scorgere la guancia, che
s’era tinta del color della porpora; indi si allontanò, proseguendo
il suo cammino, leggiera e graziosa come una gazzella. Io rimasi
impensierito al mio posto.

Ogni giorno, sul tramonto, ella veniva così pel giardino e, nel
passarmi daccanto, mi dicea sempre qualche leggiadra parola, ora per
rallegrarsi con me della ricuperata salute, ora per ringraziarmi de’
fiori diligentemente scelti e foggiati ad eloquente idioma d’amore
(io nol seppi allora per fermo) che Lanzerotto commetteva a me di
offerirle.

— Se voi volete, messere, noi fuggiremo; — mi disse un giorno il mio
còmito.

— E come? troppo alte sono le mura e ben salde le porte.

— Sì, ma l’amore ha scale d’ogni misura e magiche parole per gli usci
ferrati.

— Che dici tu ora! — esclamai stupefatto.

— Dico, messere, che voi siete amato.

— E da chi?

— Dalla figliuola di Abderaman, e l’Emiro del mare ha troppo gli occhi
altrove, mentre ella li ha sempre rivolti su voi.

Inorridii a quell’annunzio inaspettato, come alla vista d’un abisso
che repente ci si schiuda dinanzi. Nè a me quei giornalieri colloquî,
quelle amorevolezze, quegli sguardi fiammanti, aveano recato pur
l’ombra d’un lontano sospetto! Triste, accorato, già pieno d’un disegno
che mi si maturava nell’animo, io mi ero avvezzo frattanto a veder
quella donna, a parlarle senza ripugnanza, con ossequio di schiavo,
con gratitudine di cavaliero. Ella si dimostrava compassionevole a
noi, e quella pietà m’avea tocco, siccome un immeritato favore del
cielo. Era bella, ma io non la vedevo tale per me; amarla, essere
amato da lei, mi sarebbe parso sacrilegio, profanazione d’un affetto
che ardeva gagliardo nel mio cuore e che io speravo avesse in breve a
distruggermi.

— Badate, messer Gentile; — soggiungeva Lanzerotto — l’occasione ha
tre capegli soltanto. Morremo adunque noi qui? E se ricuserete di
acciuffarla al varco, chi vi assicura che questa sorte nostra non abbia
a farsi anco peggiore? Il vino più generoso inacetisce e l’amore più
ardente può mutarsi in odio profondo.

— E avvenga che vuole! — proruppi. — Ma, in nome di Dio, che vuoi tu
da me? Credi tu che sia egli possibile?... Lanzerotto, amico mio, ti
so d’animo generoso e di cuore. Or dimmi, se tu avessi amato un giorno
come io, e se alcuno venisse a profferirti di fare ciò che ora tu a
me, di tradir la tua fede, di contaminare la santità del tuo dolore,
di aggiungere rimorso a rimorso (non mentire, sai, non mentire!), che
faresti? rispondimi!

Egli chinò la fronte confuso e rimase a lungo in silenzio, combattuto
da opposti pensieri. Indi, scuotendosi, a guisa di chi debba pur
prendere un partito reciso, uscì in queste parole:

— Suvvia, che vale il tacerlo? Codesto non ho fatto io, sibbene il
destino, che è più forte di noi. Ella vi ama, follemente vi ama....
Lo so di buon luogo e ponete ch’io l’abbia dalla più fida delle sue
schiave. Da otto giorni ho mentito, facendovi credere tutto suo, non
d’altro desideroso che di piacerle e di mostrarvi grato a’ suoi doni.
Ieri ancora, inconsapevole, avete profferto un ramoscello di mirto, che
le ha dato la posta per questa sera. Ogni cosa è disposta per la fuga,
ed ella vi seguirà. Abderaman è partito ieri con gran gente alla volta
di Melilla, e qui pochi rimangono a custodire la casba. Sull’imbrunire
ella sarà qui; la porta che mette al mare è nostra; una fusta attende
alla spiaggia.

— Ah, disgraziato! — urlai; — che hai tu macchinato, uomo sleale? T’ha
egli sovvenuto de’ suoi consigli lo inferno?

— È fatta, messere; io ho tutto ordito, io ho tutto accettato. Ella
è pronta ne’ suoi propositi, ardente come il suo cielo, bollente
come l’affetto ond’è pieno il suo cuore. Quella donna si struggerà
di vergogna e di rabbia, se voi mi tradite, e noi andremo a finire
sui banchi d’una galèra barbaresca, intenti a dar ne’ remi contro
navi cristiane, condannati a preparare colle nostre mani lo scempio
della gente battezzata. Or via, messere, tornate in voi! Per darvi la
libertà, il cielo ha invaghito di voi il cuore della fanciulla moresca;
vi ha tolto il senno, perchè ella impietosisse di voi; vi ha lasciato
il fiore della bellezza e della gioventù, perchè ella, vedendovi ogni
dì, sempre più s’infiammasse. Donna possente, conscia de’ suoi vezzi,
non è preparata a ripulse. I fiori che le porgevate umilmente ogni
sera, non le dicevano che eravate suo? Uccidetemi, messer Gentile; io
ho inteso i suoi sguardi, ho eccitato le confidenze della sua schiava,
ho parlato, operato per voi; uccidetemi, non mi tradite, non fate
contro agli accorgimenti che debbono restituirci alle case nostre, e
dare, se vi giova pur rammentarlo, un’altr’anima alla fede di Cristo.

Così parlava Lanzerotto, empiendomi la mente di sdegno, ma più assai
di stupore. Tutto ciò mi riusciva così nuovo! Sì, vedevo allora
finalmente, mi chiarivo ogni cosa, ogni atto di quella donna, e i suoi
cortesi parlari, e le occhiate furtive, e i rossori, e le audacie.
In tal guisa, mentre il mio intelletto, ravvolto nelle tenebre della
follia, non ravvisava nulla dintorno, nel cuore di quella infelice era
divampato un incendio? E per me? Il dolore non m’aveva dunque disfatto?
Orribile cosa, questo fiore di gioventù, sopravvissuto a quella divina,
che giaceva sformata sotto le umide glebe d’un’isola deserta! O Anna, o
triste e cara ricordanza del mio cuore, io ti aveva dunque uccisa, per
darmi all’amore di un’altra? ed era egli possibile? e il mio cuore non
si sarebbe egli spezzato?

Quella sera giunse troppo rapida per me, senza che io avessi
nulla risolto. Due ombre scesero in giardino; tacite e guardinghe,
s’inoltrarono dal folto degli aranci, e Lanzerotto mosse incontro ad
esse sollecito, mentre io, ansante, esterrefatto, presso a smarrir la
ragione da capo, era rimasto immobile ad aspettare quella nuova forma
di pericolo.

Ciò che io dicessi a quella donna, allorquando commossa, anelante, mi
s’accostò e mi cadde nelle braccia, non ricordo partitamente, nè tutto
ripeterò ora. Egli fu un doloroso colloquio, nel quale io stillai
l’amarezza ed il tedio in un giovane cuore, che si schiudeva alla
speranza, alla vita. E dirò io l’angoscia del suo disinganno, gl’impeti
del dolore, i fremiti della vergogna, immeritate afflizioni che
contristarono la poveretta in quella lunga ora di prova?

— Nobile fanciulla, io non t’ingannerò. Tu sei bella come gli uomini
della tua gente sognano esser leggiadre le figlie del Profeta, nel
loro giardino di delizie. Ma l’amarti non è più in poter mio. Hai tu
veduto le mie labbra pallide? Le ha scolorate il bacio d’una estinta;
nè più si poseranno esse su altra bocca, su altro seno, a bere una vita
da cui la mia anima abborre. Perdonami e compiangimi; tu, giovinetta,
rinascerai all’amore; io, se pure andrò libero mercè tua, non sarò già
più felice.

Ella piangeva, e le sue lagrime mi spezzavano il cuore.

— Vuoi tu seguirmi? — le dissi. — Forse è Iddio che t’inspira. Vieni
onorata tra’ miei, ed accogli la nostra fede.

Ella aveva levata la fronte a quelle parole e d’improvviso era cessato
il suo pianto.

— Sarò tua, allora? — mi chiese, figgendo ansiosa i suoi grand’occhi
neri ne’ miei.

— No, te lo dissi; perdonami, io sarò fedele alla morte. Ma la nostra
fede ha sublimi conforti; essa è l’unica vera, la sola che guidi a
salvezza.

— E che m’importa della tua fede, senza di te? Va, cristiano; ho paura
di odiarti. Va; Fatimè non terrà schiavo colui ch’ella ha amato una
volta. Quell’uscio si schiuderà innanzi a te, e la barca che attende
ti condurrà alle tue spiaggie. Va; tu hai lasciato una morta laggiù,
sull’oceano; non rimaner qui, per udire di un’altra!

Si ritrasse, così parlando, da me. Lanzerotto mi trascinò a forza verso
l’uscio additato, mentre ella cadea singhiozzando nelle braccia della
schiava, accanto a quella siepe di gelsomini, dond’io l’avevo veduta
per la prima volta apparire.

Misera donna! Iddio avrà udite le sue lagrime e ridonata la calma a
quel vergine cuore.

                             . . . . . . .

Eccomi giunto alla meta. Non ho nulla taciuto, nulla dissimulato; mi
sono nutrito, inebriato del mio dolore; a goccia a goccia ho bevuto il
mio calice d’amarezza.

Cinque anni sono trascorsi dopo la morte dell’amata, cinque anni, e i
miei capegli si sono incanutiti, le mie guancie si sono fatte scarne,
il passo tremante, il sangue povero e lento. Grazie, o Signore! Il
chiostro non mi ha dato la pace, ma esso mi ha affrettato l’ora finale,
in cui sarà suggellato, col vostro, il perdono d’Anna.

Stanotte avevo finito di raccontare al vostro cospetto le mie colpe,
di svelare tutto me stesso. Ella mi apparve, splendida della sua
eterna bellezza, irradiata la fronte dell’aureola de’ santi. Non era
più crucciosa in vista, siccome le altre volte che scendeva a visitare
la mia squallida stanza. Ella mi ha sorriso, ha posto la mano su
queste carte e mi ha favellato in tal guisa: «Sta bene; qui deponi
la penna. Troppo rivive Gentile Vivaldi in queste pagine di frate
Gualberto; troppo ardenti battiti dà il memore cuore sotto il cilicio
del penitente. Ma Gualberto ha scritto il vero, e a chi molto amò molto
sarà perdonato. A domani!»


Ciò detto, è svanita. Ma ella tornerà, siccome ha promesso. Oggi
adunque è l’ultimo mio giorno di tristezza; e domani, domani saremo
uniti finalmente, prostrati a’ vostri piedi, assorti nella vostra luce,
o Signore.


  FINE.



DELLO STESSO AUTORE:


  =I Rossi e i Neri=, romanzo. 2 grossi vol. in-16        L. 7 —
  =Val d’Olivi=, romanzo. 1 vol. in-16                    »  2 —
  =Racconti e Novelle= — Vol. 1: =Capitan Dodero, Santa
    Cecilia, Una notte bizzarra.= 1 vol. in-16            »  2 —
  =Capitan Dodero.= 1 vol. in-32                          »  — 50
  =Santa Cecilia.= 2 vol. in-32                           »  1 —
  =L’Olmo e l’Edera.= 2 vol. in-32                        »  1 —
  =Il libro nero.= 2 vol. in-32                           »  1 —

  D’imminente pubblicazione:

  =Racconti e Novelle= — Vol. II: =L’Olmo e l’Edera, Il libro
    nero, Una ogni mille.=



NOTE:


[1] Traduco letteralmente l’_artiliarias_ del testo. Artiglieria è nome
collettivo d’ogni macchina da trarre e d’ogni ingegno da guerra, che si
usavano nei secoli di mezzo e prima della invenzione della polvere.



Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici.



*** End of this LibraryBlog Digital Book "Le confessioni di fra Gualberto : Storia del Secolo XIV" ***


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