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Title: La falce - Punizione - L'enigma
Author: Calandra, Edoardo
Language: Italian
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*** Start of this LibraryBlog Digital Book "La falce - Punizione - L'enigma" ***
L'ENIGMA ***


                            EDOARDO CALANDRA


                                LA FALCE

                          PUNIZIONE — L’ENIGMA



                              TORINO-ROMA
                        CASA EDITRICE NAZIONALE
                            ROUX E VIARENGO
                                  1902



                          PROPRIETÀ LETTERARIA

                                 (2457)



LA FALCE


I.

Giuseppe si accostò in punta di piedi all’uscio che metteva nella
stanza del padrone, e stette in ascolto.

— Dorme — susurrò poi.

— Dorme? — disse Rocco Fea, ritto in mezzo all’anticamera, col cappello
tra le mani. — Pazienza, aspetterò.

— Ve l’avevo detto — riprese il servitore. — Dopo mezzogiorno dorme
sempre un paio d’ore.

— Un paio d’ore? Oh povero me! Allora non potrò ripartire che a sera...
Un paio d’ore! Come si fa?...

— Zitto! Si muove, cammina... Sì, sì, cammina. Adesso posso picchiare.

Ma in quella l’uscio si aprì.

— Cosa c’è? — domandò Roberto Duc, affacciandosi appena.

— C’è il suo fittaiuolo che vorrebbe parlarle — rispose Giuseppe. —
Dice che ha fretta.

— Fretta no! — esclamò Rocco. — Non ho mai detto questo!

— Avanti! — interruppe Roberto, rientrando subito ed avanzandosi verso
la sua scrivania.

Rocco diede un’ultima pulita al cappello, una ultima occhiata agli
scarponi inverosimilmente lucidi, e seguì il padrone.

Come furono di fronte, durarono un tratto a guardarsi, immobili e
sorridenti: il signore, alto e ben formato, con il viso delicato
e piacente, reso singolarmente espressivo dal contrasto fra la
capigliatura folta ma già brizzolata, e le sopracciglia e i baffi d’una
nerezza corvina; il contadino, basso, tarchiato, con la faccia tutta
rasa ed abbronzata, mansueta insieme e gioconda.

— Lei riposava, eh? — disse Rocco. — Ed io, bestia, l’ho disturbata.

— M’ero appena appisolato — rispose Roberto, sedendo. — E così, tutti
bene al Fortino?

— Tutti bene; il più malato sono io.

— E la campagna? Come va la campagna?

— È un po’ indietro, ma promette bene.

— Come vanno gli affari a Casaletto?

— Non c’è malaccio. La gente mormora forte del sindaco, ed anche un po’
del parroco. Cose solite. Adesso le darò nuove di tutti.

E cominciò subito a parlare di quel che era accaduto nel paese in
quegli ultimi mesi: il tale è morto, il tale altro ha preso moglie,
quello ha una lite, quell’altro ha vinto una causa...

Roberto lo ascoltava distrattamente, sfiorandosi con una mano la fronte
e indicando con l’altra, a quando a quando, una seggiola. Ma Rocco,
tutto infatuato nel suo discorso, non ci badava.

— Ma non hai camminato? — gli domandò il padrone, un po’ impazientito.
— Non sei stanco?

— Stanco? No, signore. Niente affatto. Ma non gliel’ho ancor detto?
Noialtri abbiamo licenziato il procaccino e messa su carrozza. Sicuro!
la carrozza da Casaletto a Bornengo, tutti i giorni; e passa proprio
davanti al Fortino. Da Bornengo a Torino c’è il vapore, sicchè vede...
Ma io le dico tante cose, e lei le nuove della città non me le dà.

— Che nuove vuoi che io ti dia?

— Giusto! E poi già non capirei niente...

Tacque, aggrottò le ciglia, si levò di tasca un pacchetto e lo mise
garbatamente davanti al padrone.

Questi chiese:

— Quanto mi dai?

— Giuraddiana! — esclamò Rocco. — Quel che le è dovuto.

Roberto prese un foglietto, vi scrisse due righe, firmò e lo porse al
contadino.

— Eccoti la ricevuta.

— Così, senza riscontrare la moneta?

— Eh diavolo! ti conosco.

— Il conto l’ho fatto e tornava esattamente. Guardi: ci devono essere
due biglietti da mille, quattro da cinquecento, sei da...

— Va bene, va bene; vedrò più tardi. Se mai ti scriverò.

Così dicendo, Roberto tirò a sè un cassetto, vi lasciò cadere il pacco,
richiuse e si alzò.

— Comandi — disse Rocco, ripigliando il cappello, che aveva posato
sull’angolo della scrivania.

Il giovane signore riflettè un poco.

— No — mormorò poi; — niente per ora. State sani, state allegri, e...
pensate qualche volta al vostro padrone.

Rocco alzò bruscamente le braccia.

— Si figuri! — esclamò. — Si figuri se non ci pensiamo! Non passa
giorno che non si parli di lei. Di lei e dei suoi. Alla sera la mia
donna prega sempre per quelli che non ci sono più: il babbo, la mamma,
lo zio Alfredo, la zia Felicita, i nonni... Prega per tutti, insomma.
Del resto è sempre stato così; i miei vengono al mondo già bell’e
affezionati alla casa. Non so se lei sappia che il padre di mio padre è
nato al Fortino, e forse forse...

S’interruppe per prendere con le sue la mano che il padrone gli porgeva.

Vi fu un silenzio. Roberto sorrideva benevolmente. Rocco lo guardava
fisso, tentennando il capo, stringendo le labbra; a un tratto esclamò
con una voce che sarebbe parsa ruvida, se non fosse venuta come un
gemito di fondo al cuore:

— Giuraddiana! Perchè non viene mai a trovarci?

— Ci verrei volentieri — rispose Roberto. — Ma, santo Dio!... Già,
voialtri mi credete libero, disoccupato; credete ch’io non sappia come
passar la giornata? Invece sono sempre in faccende... Sicuro, sempre
in faccende... Ma sta tranquillo: una bella mattina capito laggiù,
quando meno ve lo pensate, e allora... Guai a voi se non trovo tutto in
ordine!

— Senta — ripigliò il contadino, con un sorriso tra timido e fine: — il
suo babbo, buon’anima, veniva a Casaletto tre o quattro volte al mese,
in qualunque stagione, piovesse o nevicasse. Era nostro consigliere,
e son certo che non ha mancato a una seduta in quindici anni. Morto
lui, abbiamo nominato lei, come era naturale. Ma lei... lei non s’è
mai fatto vivo. Io ho sempre detto e sostenuto che la lettera di
partecipazione era andata perduta; ma gli altri... a dirla schietta...
Parlo dei più insolenti, dei più screanzati...

Roberto si sentì venire le fiamme al viso.

— No, no — diss’egli — ho ricevuta la lettera, l’ho ricevuta subito.
Prima di accettare la carica, volevo pensarci su... E poi speravo
anche di poter dare una scappata e ringraziare a voce. Ho indugiato,
ho indugiato, e alla fine... Insomma ho torto; è stata una dimenticanza
imperdonabile. Tu hai difeso una causa sballata, caro il mio Rocco! Ti
ringrazio e t’incarico formalmente di far le mie scuse.

— Volentieri. E a chi le devo fare?

— Al sindaco, ai consiglieri, so assai!

— Il nostro sindaco è Tonio Luvotto, assessori Rattonero e Garzino.

— Benissimo. Farai le mie scuse a questi bravi signori.

— Se avrò occasione di vederli, eh?

— Naturalmente.

— Torniamo a noi: quando ci onorerà di una sua visita? Risoluzione!

— Presto, va tranquillo.

— Oh badi che la prendo in parola! Posso dirlo alla mia donna, ai miei
figliuoli? Sì! Son contento. Ah, se lei volesse venire di festa, ed
avvertirci anche un po’ prima!

— Perchè?

— Per poterla ricevere come si merita.

— Vale a dire a torsolate?

— Gesù e Maria! Con la banda, signor Roberto! Con la banda e coi
mortaletti!

— Siamo intesi: vi avvertirò otto giorni prima. Va bene così? Adesso va
a mangiare, mio buon Rocco, che ne devi aver bisogno.

— Eh, non dico di no: sono tuttavia digiuno!

— Giuseppe penserà a cavarti la fame.

Rocco si avviò verso l’uscio. Giunto su la soglia, si voltò indietro
verso il padrone, alzò il braccio e disse con tono lento e solenne:

— Si ricordi!... l’ho preso in parola.


II.

Rimasto solo, Roberto si riadagiò sul canapè, si mise a leggere, e dopo
un poco cominciò a velare gli occhi. Di repente ebbe uno scotimento
in tutta la persona, come se avesse accostato un dito alla macchina
elettrica e ricevuta una gagliarda scintilla. Si rizzò a sedere: chi
l’aveva toccato? chi aveva parlato? Egli stesso inconsciamente; o si
trattava d’una di quelle allucinazioni fugaci e confuse che precedono
od accompagnano il sonno?

«Bisogna mutar vita.» — Ecco le parole che gli ronzavano ancora
all’orecchio. Ecco l’idea che da qualche giorno oscillava nel suo
cervello.

In addietro, quando era preso dall’uggia, congiunta a un principio di
tristezza e d’avversione alle persone ed alle cose che gli stavano
intorno, faceva le valigie e se ne andava. Ma allora si sentiva
stimolato a moversi da una sovrabbondanza di vita interiore quasi
tormentosa; dal bisogno di raccapezzarsi, d’indagare se il mondo era
veramente quale lo immaginava.

Credendosi ingenuamente destinato a un grande e luminoso avvenire,
viaggiava come per farglisi incontro. Credendosi atto a compiere
eccellenti e memorabili cose, e non bastandogli la pazienza di
attendere le occasioni, andava come i cavalieri del buon tempo antico,
a cercarle in paesi lontani. Trascorreva di luogo in luogo, finchè
gli duravano la voglia e i quattrini, poi ritornava. Ritornava e si
ritrovava quello di prima, non migliorato nè ritemprato: aveva mirato
troppo in alto per poter cogliere giusto; aveva aspirato al sublime e
disprezzato il buono e il proficuo.

Poi, pur continuando a stimarsi fornito di non comune ingegno e di
molto cuore, aveva tenuto per fermo di essere stato trascurato dai
suoi e troppo mal diretto nella prima educazione. Le cose non riescono
mai secondo l’intenzione o il desiderio, dunque perchè lottare, perchè
affaticarsi? E si era scoraggito e dato senza ritegno ad una vita vana
e scapestrata, consumando rapidamente e scioccamente la miglior parte
della sua fortuna.

Così addio nobili ardori, lieti presentimenti, lusinghiere speranze!
Egli era venuto perdendo l’una dopo l’altra tutte le sue illusioni;
aveva sentito crescere e inasprirsi la sfiducia nel proprio destino;
e nascere una fiacchezza, un mal essere, che attribuiva ad una lenta
diminuzione delle forze vitali, ad una malattia di languore insidiosa
ed inevitabile.

— Diavolo! — diceva tra sè — possibile ch’io debba finire così?

Ed ecco che, quando meno se lo aspettava, tornava a provare confuse
ripercussioni di sentimenti già avuti. Sentiva come allentarsi mille
piccoli ed occulti legami; le abitudini di cui era schiavo perdevano
del loro vigore; gli entrava addosso un’attività sana e gioconda,
l’attività di chi sta per riacquistare una libertà se non perduta,
gravemente e da lungo tempo menomata; gli pareva sopratutto d’essere
giunto ad un punto determinato, decisivo: ad una voltata, per dir così,
nel cammino della vita, passata la quale, avrebbe perduto di vista il
tratto percorso, e scoperto un nuovo e più ampio orizzonte.


III.

Come fu stufo di passeggiare, si rivestì e uscì di casa. Era l’ora in
cui soleva andare al Club, ove s’ingegnava di uccidere quanto più tempo
poteva, scorrendo i giornali o chiacchierando cogli amici. Quel giorno
non aveva voglia di veder nessuno, ma di star sopra sè, raccolto nei
suoi pensieri.

Si avviò a lenti passi verso il Valentino. Continuava a riandare i vari
casi della sua vita e pigliava materia a umiliarsi; di tanto in tanto
scoteva la testa, e, come per giustificarsi, diceva tra sè: — La mia
sola colpa è d’aver fatto troppi disegni che non miravano a un fine
determinato, di non essermi prefisso uno scopo chiaro e preciso. Santo
Dio! non è dato a tutti di salvare la patria, di scoprire l’America,
di innamorare una regina... Era destinato ch’io vivessi mondanamente
e anche un po’ scioperatamente. Più ci penso e più mi persuado che
i fatalisti hanno ragione. Infatti io ho sempre creduto a una forza
ignota e irresistibile che agisce sugli uomini e sugli avvenimenti...

Una voce aspra e misteriosa lo smentiva sull’atto: — Che! tu non hai
mai creduto a niente. Pensare, per te è sempre stata la più inutile e
la più ingrata delle fatiche. Bada però che d’ora in poi non sarà più
così...

Giunto al Valentino, entrò nel parco, vagò per i viali, poi si lasciò
andar seduto sopra una panca, sulla riva del Po. La giornata era
bellissima, la scena grandiosa e ridente. Egli prima rimase come
incantato, poi si sentì come avvolto in una nebbia di reminiscenze
confuse. Non gli pareva più di essere nè a Torino nè in Italia, bensì
in qualche luogo lontano. Ma dove? Sulle rive del Reno? No. Le colline
che aveva davanti gli rammentavano, con le loro curve armoniose e
gentili, con il loro verde variato e pomposo, un assai lungo soggiorno
ch’egli aveva fatto in un piccolo villaggio del Bosforo; e cominciò a
frugar nei ripostigli della memoria per ritrovarne il nome. Vanamente
però; intanto continuava a girar lo sguardo sulla magnifica veduta,
fermandolo ora sur un punto, or sur un altro.

Come la vista doveva spaziare da quella cima che signoreggiava
alteramente su tutte le altre! Come doveva esser dolce mettersi pian
pianino per quella stradicciuola appena visibile, che voltava sul
declivio e spariva in una valletta riposta! Che quiete, che pace, in
quella minuscola villa, tutta bianca di sole, eretta sul fianco d’un
ameno ed erboso pendìo! Chi sa che vita placida e riposata conducevano
coloro che l’abitavano! Ci sono pure quaggiù anime buone che sanno
accontentarsi del poco e del semplice. Mirando le molli e fresche forme
d’un bosco, che rivestiva da solo tutto un poggio, Roberto sentiva
un’intensa bramosia d’immergersi in quella morbidezza verde, come in
una dolce acqua tranquilla. Non poteva più staccar l’occhio dal grande
spettacolo, e non si saziava di goderne, quasi fosse la prima volta
che vi faceva attenzione; comprendeva alla fine che le bellezze create
dalla natura non possono, ad un animo nato a sentirle, divenir mai per
abitudine indifferenti.

Intanto il sol cadente lo feriva alle spalle, lo inondava di luce,
ma invece di abbattere per troppo calore le membra, pareva che vi
infondesse novello vigore. Davanti a lui, le ville grandiose di vetusto
aspetto e di storiche ricordanze, le eleganti casine apparecchiate
all’ozio e al riposo dei cittadini, le umili casupole, le pendici
coperte di viti, e i campi e i giardini e i boschetti, tutto si veniva
velando d’un pulviscolo d’oro, fra il quale i vetri avevano lampi e
bagliori.

Al basso, le acque del fiume qua riflettevano l’azzurro limpido dei
cielo, là si tingevano di smeraldo e di porpora, o si rompevano in
larghe, lucidissime squame d’argento. La vaghezza del luogo e dell’ora
vinceva veramente ogni aspettativa, superava ogni eloquenza di
descrizione.

Scomparso il sole, Roberto si alzò e tornò verso casa. Ora si sentiva
addosso un’irrequietezza acuta e molesta. Andava cercando col pensiero
qualche cosa importante per applicarvelo subito, e non la trovava; più
nulla stimolava i suoi desideri, più nulla lo allettava con lusinghe
e speranze di piacer vivo. L’idea di ritrovarsi con gli amici, con
le amiche lo seccava, lo infastidiva. Tutto gli appariva moralmente e
materialmente cambiato. Da quando? Perchè? Che importava! La cosa stava
così; era inutile stillarsi il cervello per saperne di più. Tutto gli
appariva cambiato: la strada, la casa, la porta, le scale che conosceva
da anni, avevano preso un nuovo aspetto, l’aspetto straniero e sbiadito
di ciò che si sta per lasciare.

Rientrato in casa, sedette alla scrivania e si ammucchiò dinanzi tutto
il denaro di cui poteva disporre. Ahimè! vide subito che c’era poco da
stare allegro.

L’idea di dare semplicemente una scappata a Parigi o a Berlino non lo
invogliava; avrebbe voluto andar più lontano di quel che non fosse mai
andato, e per maggior tempo. E allora?... A un tratto gli tornarono
in mente le parole di Rocco: — Perchè non viene mai a trovarci? — Vi
rispose con una spallucciata. Ma le parole tornarono ancora, e non già
con quell’accento di rustica preghiera con cui erano state proferite,
ma con un suono persuasivo e gentile, che induceva una certa speranza
di pace.

Roberto fantasticò assai la sera e la notte. La mattina dopo si levò di
buon’ora; dispose le cose sue in modo da poter prolungare l’assenza a
piacimento; prese con sè Giuseppe, cameriere, cocchiere e all’occasione
anche cuoco, e partì per il Fortino.


IV.

La villa detta il Fortino sorge in mezzo alla pianura, discosta un
miglio da Casaletto e forse tre da Bornengo. Essa può aver preso il suo
nome da un’antica opera di fortificazione campale di cui non è rimasto
vestigio, o semplicemente- dall’aspetto saldo e disadorno del piccolo
palazzo, assai bene elevato sulla casa rustica che lo fiancheggia
a destra, e sugli alberi del giardino affollati a sinistra. Questo
giardino non è molto grande nè molto signorile, ma è quieto ed ombroso;
al di là del muro di cinta si estendono, fin dove arriva lo sguardo, i
campi ed i prati.

Roberto, partito da Torino col treno delle nove e quaranta, arrivò a
Bornengo verso le undici, e continuò il suo viaggetto in calesse. In
quell’ora Rocco stava in un campo, a un tiro di schioppo da casa, e
badava agli opranti che mietevano. A un tratto sente un legno che si
viene avvicinando, si volta a guardar sulla strada, crede di travedere,
poi grida:

— È lui! Il padrone! Il nostro padrone!

E gli corre incontro con l’agilità e la leggerezza d’un bufalo.

— Piano! — diceva Roberto, ridendo. — Son qui. Sta tranquillo. Non
torno mica indietro, sai...

Il fittaiuolo si mise di fianco al calesse, che seguitò più adagio.

— Giuraddiana! Chi poteva immaginare... Son proprio contento... Ma
perchè non dir niente? Perchè non dir niente?

— T’ho fatto un’improvvisata.

— Eh sì, un’improvvisata... un’improvvisata...

E continuò ora a rallegrarsi, ora a rammaricarsi, soffiando come un
mantice, finchè non giunsero al cancello dell’ombroso ed angusto viale,
che conduce con breve tratto al palazzetto. Il cancello era serrato.

— Vede! — esclamò Rocco. — Se m’avesse avvisato, avrebbe trovato
aperto! La chiave è in casa, appiccata al chiodetto. Adesso le
tocca fare il giro per il cortile... che non è spazzato, ch’è pieno
d’ingombri.

— Non ti confondere — rispose il padrone, accennando al vetturino di
tirare avanti e di voltar nel portone. — Non ti confondere; sbarcherò
dove potrò.

Mentre Roberto saltava dal calesse a terra, Giovanna, la moglie
di Rocco, sbucò di casa col riso sulle labbra e strofinandosi
gagliardamente le mani col grembiale. I suoi due figliuoli, Giacomo
e Felice, balzarono fuor della stalla con dipinta sul viso una viva e
sincera premura.

Tutti, giovani e vecchi, corsero al palazzetto, e si diedero con fretta
grandissima a spalancare usci e finestre, a sgombrare, sbrattare,
ripulire.

Intanto Roberto faceva un giro intorno alla vecchia abitazione, che
non aveva più visto da anni. La prima impressione, entrando in cortile,
era stata sgradevole; la seconda fu dolorosa. I muri erano largamente
anneriti dall’umido, chiazzati d’un verde viscido e cupo, pieni da cima
a fondo di scrostature e di crepe. La cinta pareva avesse sofferto un
assalto, e che in questo si fossero rimessi in uso gli antichissimi
arieti, tante erano le spaccature e le breccie, tanto minacciava rovina
in ogni sua parte.

Roberto voltò le spalle e s’inoltrò nel giardino. Peggio che peggio!
Nei viali non si vedeva più che qualche rimasuglio di ghiaia; le
panchine erano tutte sconquassate e muscose; i vasi dei fiori sbreccati
od infranti. Mancavano parecchi degli alberi più annosi; altri si
mostravano ridotti a poveri tronchi inclinati, spogli di ramoscelli e
di foglie, invasi dalla borraccina, consunti dal tempo, dall’umido, da
migliaia d’insetti. Ben presto, se nessuno pensava ad abbatterli e a
farne suo pro, avrebbero finito col distendersi in terra e infracidire,
trasformandosi a poco a poco in una semplice gibbosità del terreno,
destinata a rifondersi nell’immenso crogiuolo.

— Ohimè! — diceva Roberto tra sè, — invecchiano e muoiono anche le
cose. Quella è una stamberga, non più una casa; questo è un prunaio,
non più un giardino. Bisogna riparare, bisogna ripiantare... Ho
fatto bene a venire, ma avrò poi la pazienza di rimanere finchè sarà
necessario?

Mentre tornava a passo lento verso il cortile, sentì arrivarsi
all’orecchio un’onda di suono confuso, indistinto, ma che pure aveva
un non so che di festoso. Guardò l’orologio. — Mezzo giorno! Già
così tardi? La mattina era passata in un attimo. E gli pareva anche
d’avere appetito. Un bel caso! A Torino andava sempre a tavola così
malvolentieri!

Giovanna usciva dal palazzetto, cacciando fuori un mucchio di pattume.

— Guardi — diss’ella, agitando la granata, — si direbbe che non abbiamo
spazzato da un anno! Eppure creda che tutte le settimane...

Il padrone la chetò con un gesto.

— Senti, Giovanna, io vorrei mangiare un boccone. M’immagino che a
Casaletto ci sarà un albergo, un’osteria...

— Sì, signore; c’è il _Cavallo Grigio_. Ma l’avverto che oggi non
troverà carne.

— Be’, non importa; troverò uova, burro, formaggio...

— Se si contenta... senza correre fin là...

— Brava! Dammi tu qualche cosa.

— Resti servito.


V.

Roberto mangiò gustosamente, in una stanza pulita ed ariosa, dov’era
un grande armadio, un focolare all’antica, e dove gli utensili di rame,
disposti con bell’ordine, tappezzavano una intera parete. Dall’uscio e
dalle finestre aperte entravano frequenti folate d’aria calda ma pura.
Non s’udiva altro che il rumore dei piatti messi o levati dalla donna,
e quello che faceva una gatta, la quale allattava i suoi miccini in una
cesta presso all’armadio.

Quando si fu rifocillato, diede un’occhiata alla stalla, al granaio,
al fienile, e prese nota delle riparazioni più urgenti. Alla fine entrò
nel palazzetto e visitò bel bello tutte le stanze. Trovò presso a poco
quello che si aspettava: i parati pendevano a brandelli rasente ai
muri, le imposte non combaciavano, gli usci non andavano più a modo,
mancavano alcune suppellettili quasi necessarie, v’era copia d’altre
inutili od ingombranti. Egli decise di occupare una stanza assai
grande, la sola ancor fornita di tutto l’occorrente, e nella quale il
puzzo di muffa e di rinserrato pareva men grave che nelle altre.

Quella era stata la camera da sposi di suo padre e di sua madre; egli
pure vi aveva dormito, prima in una culla, poi in un lettino posto
accanto al gran letto matrimoniale. Ed ecco che gli tornò alla memoria
l’età innocente passata coi suoi, le dolcezze di studi graditi, i
lavori geniali, i colloqui amorevoli: tante stelle splendenti in un bel
cielo puro e sereno.

Poi era rimasto solo del tutto, libero di sè, esposto ai mille
pericoli che sogliono circondare la gioventù nelle città. E allora...
Ma no! non voleva pensar più al passato; non voleva nè commuoversi nè
rattristarsi.

Chiuse l’uscio e si affacciò al terrazzino. Aveva sotto il piccolo
giardino cupo, selvatico, e già pieno d’ombra; sopra un bell’azzurro
glorioso e infinito; davanti l’ampiezza ubertosa ed irrigua del piano,
non limitata che dalla catena delle Alpi.

Quante volte non si era trovato in quel luogo, a quell’ora, in
compagnia del babbo e della mamma!

Chiuse gli occhi per immaginare liberamente, fortemente; sperando quasi
di ravvivare la sensazione della loro presenza. Fu invano. Non sentì
risuscitare nulla intorno a sè, ma gli entrò in cuore una tenerezza
così soave, così ricreatrice, ch’egli disse quasi a voce alta:

— Dio! come sono contento d’essere venuto!


VI.

L’osteria del _Cavallo Grigio_ è posta nella più bella strada di
Casaletto; l’architettura è molto semplice, anzi semplicissima, ma nel
mezzo della facciata, tra l’uscio e il portone, si vede effigiato una
specie d’ippopotamo di color ferrigno, pomellato di bianco, focosamente
eretto di contro a un esile stalliere, tutto giallo; il quale, alzando
enfaticamente le braccia, par che esclami le parole scritte per
l’appunto al di sopra: «_Oh berechen caval_».

Entrando, si trova prima una stanzuccia nera e affumicata: la cucina;
poi uno stanzone assai sfogato, nel quale si mangia, si giuoca e
sopratutto si beve; v’è un uscio a vetri, che mette in cortile, una
grossa stufa, tre o quattro fra tavole e tavolini, e un vecchio curioso
biliardo, una cosa da museo, che i frequentatori sono assuefatti a
veder sempre coperto, e spesso ingombro di ceste, fagotti, ciarpe od
attrezzi.

Ora avvenne che sul principio d’una bella sera, il maestro Ponzio
Tomatis entrò nell’osteria, certo di trovarvi già il segretario Pietro
Galosso, col quale soleva bere un bicchiere e far la partita alle
carte. Dalla soglia della cucina dava un’occhiata per vedere se vi
fosse l’oste o l’ostessa, quando sentì il tac tac secco di due palle
d’avorio che cozzavano insieme.

— Ehi, ehi! — fece egli a tutta voce, come quando coglieva i ragazzi
a manomettere qualche masserizia scolastica. — Chi è che tocca il
biliardo? Aspettate, che vi accomodo io!

Entrò nello stanzone, atteggiato comicamente a minaccia, ma invece di
vedere quel fatticcione d’un sor segretario, seduto a un tavolino col
bicchiere dinanzi, vide un bel signore che si divertiva a far correre
le palle.

Tomatis rimase a bocca aperta; lo sconosciuto alzò la testa, guardò,
poi sorrise: il buon maestro aveva una di quelle facce fresche e
ridenti che piaciono alla prima e mettono di buon umore.

— Caldo eh? — osservò Tomatis, dopo un poco, e tanto per dir qualche
cosa.

— Caldo molto.

— Qui però si sta bene.

— Si sta benissimo.

— Non c’è riverbero, ecco; nel cortile il sole non batte che un po’
dopo pranzo; di là da quel murettino, c’è l’orto, la gora del mulino,
poi subito le praterie del sindaco. Sicuro... A quel che vedo lei
giuoca anche da solo?

— Mi trastullavo... Vuol fare la partita con me?

— Io? Si figuri! Ma c’è un guaio: non so fare.

— Davvero?

— Non so fare; non giuoco che alle carte e un poco ai tarocchi.

Il maestro parlava con la voce e col contegno di uno che per cedere,
aspetta e desidera di esser pregato.

— Imparerà — ripigliò lo sconosciuto con brio. Gli mise la stecca
in mano e cominciò a insegnargli: — Così: il pollice alto, le altre
dita stese; faccia il ponte per bene; e poi miri, miri diritto, miri
giusto... Bravo! al primo tiro ha preso la palla. Riesce benissimo,
basta che si eserciti.

Intanto il segretario Galosso era comparso sull’uscio, e girava sui
giuocatori uno sguardo in cui erano misti la curiosità, la maraviglia
e il dispetto. Dopo un poco, vedendo che non si badava a lui, traversò
lo stanzone, uscì nel cortile e prese a cercar l’oste e a chiamarlo con
voce stentorea.

Baldassarre Baino attendeva a irrigar l’orto, aiutato dalla moglie, un
vero gendarme, e frastornato da un suo ragazzetto, vispo assai più del
bisogno.

— Presto! — disse il segretario accostandosi. — Che roba è quel signore
che giuoca con Tomatis?

— Non so niente, — rispose l’oste; — mi è capitato in casa mezz’ora fa,
ha chiesto un bicchier di birra, ha dato un’occhiata alla _Gazzetta di
Bornengo_, poi...

— Ehm, pare impossibile!

— Cosa?

— Che non sappiate il suo nome.

— V’ho già detto di no!

— Ma il vostro dovere...

L’oste fece un gesto che voleva dire così chiaramente: — non rompetemi
l’anima — che Galosso si crucciò.

— Creanza da mulattiere, — mormorò tra i denti.

— Non vedete che devo badare all’acqua?

— Sì, sì, all’acqua... all’acqua... all’acqua, come se non bastasse
quella che mettete nel vino.

Baino fece una spallucciata e tornò ai suoi rigagnoletti.

— A voi — disse Galosso all’ostessa. — Venite via.

— Cosa volete? — chiese ruvidamente colei.

— Eh, per bacco! voglio bere.

Voltò le spalle, tornò nello stanzone, e si pose a sedere in fondo a
una tavola, nell’angolo più lontano dal biliardo. L’ostessa lo seguì
senza troppa fretta, e gli mise dinanzi una bottiglia e un bicchiere.

Il forestiero e il maestro continuavano la loro partita; il primo
largheggiava di norme, di consigli, di esempi; il secondo s’ingegnava
di conformarsi, dandosi gagliardamente dell’asino quando sbagliava,
facendo un modesto scambietto quando l’azzeccava.

Galosso sogguardava l’uno e l’altro, nero come un calabrone. Gli pareva
agro a sopportare che un ignoto, un intruso, il quale nè si era degnato
di salutarlo nè mostrava d’accorgersi della sua presenza, gli rubasse
il compagno, l’amico indivisibile, forse forse per l’intera serata. Un
bell’amico però, che lo lasciava a consumarsi di noia in un canto, per
lo stolido gusto di strofinarsi a un damerino.

— Stecca falla! — esclamò a un tratto l’incognito. — Si dice così
quando non si batte in pieno la palla, e questa dà un suono come se si
scheggiasse. Ha visto come andava torta? Daccapo: prenda bene la mira.

— Non ci vedo più — disse Tomatis con voce compunta. — L’anno passato
gli occhi mi servivano ancora benissimo, ma adesso... Facciamo
accendere?

Il signore guardò verso il cortile, vide che si faceva buio, e andò a
prendere il cappello e il bastone che aveva posati sur una sedia.

— Lei viene qui molto spesso? — domandò poi al maestro.

— Tutte le sere.

— Benissimo! Dunque a buon rivederci.

Si voltò verso l’angolo ov’era Galosso, accennò col capo, e se ne andò.

Tomatis posò la stecca, si diede una fregatina di mani e si mise a
sedere dirimpetto all’amico. Questi non parlò nè si mosse. Il maestro
tirò fuori un mezzo sigaro e lo accese adagino.

— Buttate via quella cicca — brontolò il segretario.

— Me ne date uno intero? — domandò placidamente Tomatis.

— Un corno che v’infili!

— Oh oh! marina torba, stasera!

Galosso battè il pugno sulla tavola.

— Mare in burrasca! — ripetè il maestro, scattando in piedi. — Io vi do
la buona notte, sapete.

Il segretario lo agguantò per la giacchetta, tirò forte, lo fece seder
di nuovo.

— Fermo! — gridò. — Chi è colui? Come ha nome?

— Come _colui_? — rispose Tomatis, severo. — Volete dire quel signore?

— Alle corte: come si chiama?

— Non lo so.

— Eh bravo! Me ne rallegro moltissimo. Mi rallegro con voi che avete la
baldanza di giuocare con... con chi che sia, con un non so chi. State
all’erta, sapete, perchè...

— Ma non avete visto com’era ben vestito?

— Appunto! L’abito non fa il monaco, anzi... I birbanti è il loro
mestiere di cambiar vestimento. Vestimento e travestimento. Mio padre,
buon’anima, raccontava un monte di cose...

Il maestro fece con la bocca un certo atto, come di chi vuol parlare e
non trova il verso o pensa ad altro, poi si alzò, balzò fuori e chiamò
il figliuoletto dell’oste, che vociava e scavallava in cortile.

— Presto, Gigino, corri, fa di raggiungere quel signore che hai visto
qui; guarda che strada prende nell’uscir dal paese. Un bel soldo per
te, quando sarai di ritorno. Non ti sviare, sai!...

Gigino scomparve in un lampo.

— Una buona idea, eh? — disse poi Tomatis, rimettendosi a sedere.

— Uhm! cosa volete che sappia far quel bamboccio? — brontolò Galosso.

— È sveglio la sua parte.

— Si farà scorgere.

— Non credo.

— Si farà pigliare a scapaccioni.

— È avvezzo a tutto.

— Dunque, tornando a quel che si diceva, mio padre raccontava d’aver
incontrato una volta Rodino, il famoso Rodino, trasfigurato in modo che
non l’avrebbe mai riconosciuto, se...

— Eccomi — disse l’oste entrando e buttandosi a sedere sur una panca
vicino all’uscio. — E il forestiero?

— Se n’è andato — rispose Tomatis.

— Me l’aspettavo — mormorò Baino.

— Perchè? — chiese Galosso.

— E gli ordini? E la consegna? Possibile che non abbiate indovinato?
Ma è un ufficiale, per diana! Uno di quelli che girano l’Italia in
borghese per impratichirsi delle strade, dei passaggi, dei ponti, dei
fiumi...

— Le zucche! — esclamò Galosso. — Non credo niente. L’avrei capito
subito. E poi, di qui alla frontiera c’è un bel tratto...

— Sicuro! — aggiunse Tomatis. — Siamo nel cuore della pianura!

— Bravi! — gridò Baino. — Come se le battaglie si facessero solamente
in pianura! Ed è a me che venite a dir questo? A me che sono stato
soldato!

— Tornando al forestiero — riprese Tomatis, — più ci penso e più mi par
che ricordi qualcuno.

— E chi mai? — domandò Galosso.

— Qui sta il busillis!... Sentite: e non potrebbe essere semplicemente
lo sposo della signorina Luvotto?

— Ouf! — fece l’ostessa, che entrava col lume. — Questo poi no!

— Perchè no?

— Non sarebbe una persona adatta: troppo bello, troppo garbato...

— Bello non vuol dir ricco — osservò Baino. — Tonio Luvotto è il primo
proprietario del paese.

— Lo era! — esclamò Galosso. — Adesso non lo è più.

— Quattrini e sanità metà della metà — susurrò Tomatis.

Si cominciò a discutere: l’oste e sua moglie sapevano da buona fonte
che ultimamente Antonio Luvotto aveva guadagnato forte in un’impresa,
di modo che poteva dare una dote da principessa alla figlia; il maestro
e il segretario avevano da fonte sicura che il sindaco scapitava ogni
dì più, anche perchè voleva trionfare alla splendida e passare per il
re di Casaletto.

In questo mentre Gigino rientrò saltabeccando.

— E dunque? — chiese il maestro.

— Oh l’ho acchiappato! — rispose il monello. — L’ho acchiappato mentre
entrava dalla tabaccaia.

— Per comprare dei sigari, eh?

— No.

— Come no?

— Per comprare delle sigarette.

— E poi?

— Poi è uscito. Arrivato in fondo al paese ha preso a destra. Io
gli tenni dietro pian piano, come faccio quando voglio appioppare un
cazzotto a un compagno; ma quando ho capito che andava al Fortino...

Il segretario, l’oste, l’ostessa dettero in un oh! di gran maraviglia.

— Ma guarda! — esclamò il maestro. — È il signor Duc, il signor Roberto
Duc! L’avevo detto io che mi ricordava qualcuno! Somiglia a suo padre,
per bacco! Somiglia al babbo in tutto e per tutto.


VII.

Roberto tornava bel bello verso casa. Appena uscito di Casaletto, aveva
provato un certo ribrezzo a inoltrarsi nella strada fosca e tortuosa;
ma ben presto i suoi occhi s’erano assuefatti all’oscurità. Ci vide
meglio e si rassicurò; un calpestìo, che si sentì dietro le spalle, lo
rallegrò. I passi erano piccoli e presti: voltandosi non discerneva che
un’ombra. Un fanciullo, forse? Amava meglio immaginare una fanciulla,
anzi una bella fanciulla, alla cui difesa si sarebbe slanciato in caso
di pericolo. Che pericolo?

Fantasticò un poco, poi rise di sè. Che balordaggini! Che
romanticherie! Come in certe cose era rimasto ragazzo! Cacciò da sè
cotesti vani pensieri, alzò gli occhi verso tramontana, verso Torino,
e si maravigliò quasi di non scorgere nessun chiarore, nessun riflesso
dei lumi sparsi a centinaia per le strade e per le piazze. — Ecco —
disse tra sè: — non vedo più nulla, non so più nulla, sono come in
capo al mondo, agli ultimi confini della terra!... A quest’ora Dompè e
Di Pagno sono già al Club; Pradis è al caffè di Parigi che finisce di
desinare; e Lorenzati?... Con Domitilla, naturalmente. Non li invidio.
Cosa avranno detto di me, della mia partenza improvvisa? Niente forse.
Crederanno di vedermi tornar domani, o doman l’altro. Invece... Adagio
un po’: oggi è martedì, sono io certo di rimanere fino a sabato?...

Per il momento era pago di aver saputo fare un atto energico, pronto,
di cui non si credeva più capace, tanto si sentiva svogliato e
infiacchito. Prima di arrivare a casa si confermò ancora nel proposito
di resistere gagliardamente alla noia, che prima o poi l’avrebbe
assalito; e di prolungare quanto poteva la sua dimora in campagna.

Come fu in camera, l’idea di spogliarsi e d’entrare nel gran letto a
padiglione (che gli pareva aver qualche cosa d’un catafalco) destò in
lui un nuovo senso di freddo e d’avversione: ma fece uno sforzo sopra
sè stesso, si vinse, si coricò.

Tornò la luce. L’aura mattutina agitava leggermente le cime degli
alberi, susurrava fra il fogliame. Le passere saltellavano sui rami,
svolazzavano sul tetto, s’inseguivano in giro, si posavano in terra per
azzuffarsi o per accoppiarsi. Un bel maschio ardente e sbadato, andò a
cacciarsi dentro una persiana, e, non potendo riscappare sul momento,
prese a frullare e a stridire alla disperata. Roberto, svegliato di
colpo, alzò il capo dal guanciale e si mirò dattorno: sul palco v’era
come una sfumatura di giallo, sul pavimento una sfumatura d’azzurro;
s’indovinava il cielo sereno, il sole possente. Si rammentò che la
sera prima aveva fatto dire al capo maestro di Casaletto che venisse di
buon’ora; si vestì in fretta, e discese.

L’uomo aspettava in cortile, discorrendo con Rocco. Stabilirono subito
di restaurar bene il palazzetto; non penarono molto a convenire
nel prezzo e nelle altre condizioni del lavoro; ma discutendo i
miglioramenti che si potevano fare al resto del fabbricato, non
trovarono più la via d’intendersi. La mattinata passò senza che Roberto
se ne accorgesse: egli sentì suonar mezzogiorno quando credeva fossero
appena le dieci.

Dopo desinare, entrò nel vecchio studio di suo padre: un’assai bella
stanza circondata torno torno di scaffali, alti fin quasi al palco e
pieni di libri; ne prese uno a caso: era _Le Progrès_ di Edmond About.
Non lo conosceva. Andò a distendersi sopra una poltrona a sdraio,
ricoperta di tela d’America, ampia e comoda come un letto; aprì il
libro al capitolo nono: _Les villes et les campagnes_, dov’era un
pezzetto di carta, un segno posto forse del babbo; lesse attentamente
una dozzina di pagine, ne saltò altre venti, trovò le parole:
«_Désirez-vous vivre longtemps? Vivez à la campagne. Vous plaît-il vous
marier pour vous? La campagne! Avoir des enfants sains et robustes? La
campagne! Suivre sans distraction dans les livres, les revues et les
journaux, le mouvement de l’esprit humain? La campagne!_»

Chiuse gli occhi per meditare... e non li riaprì che dopo un’ora buona.

Si sentiva bisogno di aria e di moto; prese il cappello, il bastone e
uscì.

— Vorrei andare un po’ a spasso — disse a Giacomo, che incontrò nel
cortile. — Quanto c’è di qui alla Baraschia?

— Vuol andare al ponte nuovo, alla chiatta di sant’Antonio, o alla
palancola lunga?

— Dove si sia.

— Il ponte è lontano; di qui al ponte ci saranno tre miglia. La chiatta
e la palancola invece... Eh sì, faccia conto, che tanto all’una come
all’altra, poco più poco meno, ci sarà... ci sarà...

— Non importa; domando così per curiosità.

— Vengo a mostrarle la strada...

— No, no, voglio vedere se so ritrovarla. Non dirmi niente.

Il giovinotto girò l’occhio intorno, poi fece un fischio.

Un grosso cane, che stava accucciato a piè del pagliaio, balzò fuori e
si scosse; aveva un testone arruffato e barbuto; gli occhi nascosti tra
il pelo lungo, ruvido, misto di bruno e di grigio.

Giacomo gli andò incontro e lo afferrò per il collare.

— Prenda almeno Tadò per compagnia — diss’egli, con l’accento d’un
padre che chiede un impiego per il suo figliuolo. — È una buona bestia.

— Ma è brutto assai.

— Brutto sì, e anche testardo. Accidenti! se è testardo! Ma se vedesse
come si ficca nei pruni, come si butta nell’acqua, e come sente la
passata della lepre! Adesso non si può, la caccia è proibita, ma quando
sarà aperta... Ah! quando sarà aperta...

— È vero — pensò Roberto, — potrò anche andare a caccia... Se mi
fermerò...

— Dunque non vuole il mio cane?

— Sì, sì. Come si chiama? Cadeau?

— Tadò, signore. Su, Tadò, va col signore.

Il cane ubbidì al gesto imperioso del contadino, seguì Roberto adagio
adagio, quasi sospettosamente, fino alla strada; là si fermò, levò il
muso, fiutò l’aria, e scappò indietro verso il pagliaio.

Giacomo lo sgridò, lo minacciò, finse di volerlo pigliare a sassate.

— No, no! — diceva Roberto. — Povera bestia! lascialo stare, lascialo
stare...

— Vede! — esclamò Giacomo, alla fine, — adesso ha capito. Se lo dico!
Non gli manca che la parola. Su, Tadò, va col signore.

Tadò rimase ancora un momento a guatare il giovane, con una zampa
sospesa e dimenando timidamente la coda, poi si mosse, raggiunse
Roberto, e gli si mise alle calcagna.

— Povero Tadò — diceva rincamminandosi il nuovo padrone, — abbi
pazienza; la pace, la felicità non sono cose di questo mondo. Ma
noi faremo conoscenza, diventeremo amici. Per cominciare, stasera ti
farò servire una zuppa coi fiocchi; nessun cane dei dintorni potrà
vantarsi d’aver assaggiata l’eguale. Insomma t’invito a cena, ecco. Sei
contento?

Tadò si fermava ancora ogni tanto e girava la testa verso il Fortino;
dopo un poco cominciò a trotterellare, a balzellare; alla fine lasciò
la strada e prese a scorrere un campo di stoppie.

Invece di richiamarlo, Roberto lo seguì; si sentiva nelle membra un
vigore, una pieghevolezza veramente giovanili; andava franco, saltando
i fossi senza considerar la larghezza, passando tra i rovi senza badare
alle spine, contento quando si presentava l’opportunità di mettere
alla prova la sua forza o la sua destrezza. Era in una di quelle
ore, anzi di quelle giornate felici, in cui la vita è insolitamente
facile e lieta, lo spirito aperto alle impressioni più pure, l’occhio
acuto, l’orecchio fine; una di quelle giornate in cui pare che una
mano onnipotente vada ravvivando intorno tutti i colori, svegliando
tutte le armonie, rianimando gli esseri, abbellendo le cose, spargendo
abbondantemente la gioia e la pace.

— Ecco — pensava: — l’altro ieri avevo dentro un disgusto, una molestia
che nessuna cosa bastava a calmare; oggi mi par di rinascere! Perchè
non potrei tirar avanti così, godendo giorno per giorno quel po’ di
bene che mi è dato godere, senza rodermi l’anima, senza pascermi più
oltre d’illusioni e di sogni?

Cammina, cammina, si trovò finalmente dove la campagna cominciava
a imboschirsi; e il terreno diventando arido, disuguale, sabbioso,
mostrava non lontano il torrente che egli voleva rivedere.

Seguendo un sentieruolo, che serpeggiava tra alte macchie spinose,
giunse sul greto e vide, in mezzo a un largo letto di ghiaia e di rena,
scorrer rapida e limpida l’onda della Baraschia.

Egli andò a sedere sur un isolotto, una piccola oasi vestita d’un’erba
fine, fitta, morbida come il velluto; e di là alzò gli occhi verso
l’occidente, al sole che già già toccava le cime degli alberi ond’era
coperta la riva opposta.

Sì, quelli erano realmente i luoghi che aveva amato nella sua infanzia
e nella sua adolescenza, al tempo delle gioie più sane e più pure.
Egli li aveva abbandonati per vivere laggiù nella gran città, triste
e caliginosa d’inverno, afosa e puzzolente d’estate, uggiosa in ogni
tempo per il frastuono assordante dei tranvai e delle carrozze, per
l’andirivieni affollato, per il contatto quotidiano e inevitabile con
ogni sorta di gente.

Tadò, accovacciato in una positura da sfinge, guardava fissamente il
padrone, movendo appena appena la coda.

— To’! — fece Roberto, chiamandolo e cominciando ad accarezzarlo. — Sei
brutto, sai, proprio brutto... ma simpatico. In città ti avrei forse a
schifo, qui ti voglio bene. Ti voglio bene come a tutto ciò che mi sta
intorno. Ho buttata via la mia boria di cittadino; mai ai miei giorni
non mi sono sentito così semplice e buono... E le zanzare lo sanno:
guarda come mi succhiano, guarda come accorrono da tutte le parti! Che
importa a loro che io appartenga al Club, alla Società delle corse,
al Circolo degli artisti? Ch’io abbia gusti aristocratici e viva dei
miei redditi? Non vedono in me che una creatura mortale, destinata
a provveder loro la cena. Non vedono che questo, e hanno ragione.
In realtà che cosa conto io nell’universo mondo? Nulla più di quella
povera talpa che dianzi tu hai stritolata coi denti. Parlo sempre a te,
animal quadrupede, perchè m’hai tutta l’aria d’intendere. Un giorno me
n’andrò anch’io... Ehi! ehi! Adesso basta! Giù... cuccia giù!

Respinse il cane, che si andava facendo indiscreto, si mise supino, e
continuò a pensare alla morte, ma senza alcun raccapriccio.

— Me ne andrò anch’io... Verrà un giorno in cui, o repentinamente
o gradatamente, gli spiriti vitali mi abbandoneranno; il mio corpo
sarà subito preda delle forze chimiche che avrà intorno; queste,
senza il mio permesso, anzi senza ch’io c’entri più per nulla, me lo
trasformeranno adagino adagino in gas acido carbonico, in azoto, in
ammoniaca, in chi sa quante altre sostanze solide, liquide o aeriformi.
Questa roba, salvo il vero, si diffonderà nell’aria, per comodo di chi
vorrà respirarla; o s’infiltrerà nel terreno e nutrirà le radici. Tutto
andrà disperso, nulla andrà perduto. Tutto cambia nel mondo, cambierò
anch’io; finirò come un animale, una pianta, una cosa qualunque; finirò
come il lenzuolo in cui sarò avvolto, come la cassa in cui sarò chiuso.
E così sia... ma il più tardi possibile!


VIII.

Fra occupazioni leggiere, fra semplici svaghi, in uno stato di quiete
e di abituale serenità, Roberto vide finire la prima settimana.
Cominciò non solo ad avvezzarsi a quella vita, ma ad assaporarne i
piaceri. Si levava di buon’ora, faceva colazione nel salotto terreno,
con l’uscio e le finestre spalancate. Entrava l’aria fresca, entrava
il sole vivificante, entrava il cane, entrava la gatta; le galline si
affollavano chiocciando e brontolando sulla soglia, poi sguizzavan
dentro alla spicciolata. Il padrone distribuiva pane inzuppato nel
latte ai quadrupedi, briciole ai volatili; con pochissimo gusto del
buon Giuseppe, a cui toccava far scomparire le traccie dell’invasione.

Data una guardata a quanto si andava facendo per risarcire il
palazzetto e la cascina, Roberto passeggiava lungamente in giardino,
leggendo il giornale, e soffermandosi di quando in quando per odorare
un fiore o per osservare una pianta, una chiocciola, un insetto.
Desinava a mezzogiorno, faceva un sonnellino, un po’ di merenda, poi
vagolava per la campagna fin dopo il tramonto.

Passata così la giornata nella massima pace, la sera andava a veglia al
_Cavallo Grigio_. Vi trovava infallibilmente Galosso e Tomatis, i quali
stavano insieme più che potevano, come amici confidentissimi, ma non
facevano altro che bisticciarsi.

Il comico ripetersi dei loro contrasti, l’arguzia saporita di certi
ragionamenti, la novità stessa del gergo paesano, divertivano molto il
giovane signore, a cui spesso pareva d’assistere a una commediola o ad
una farsa del buon tempo antico.

Verso la fine della seconda settimana, Roberto mandò Giuseppe in
città, con l’ordine di portargli lo schioppo e gli attrezzi venatori,
l’occorrente per dipingere all’acquerello, un ottimo violino, che non
aveva toccato da anni, e alcune altre cose lasciate nella fretta della
partenza e per l’incertezza dell’avvenire.

Desiderando anche di ampliare le sue cognizioni corografiche, comprò
un buon cavallino alla fiera di Bornengo; fece rimettere a nuovo un
calessino, che aveva appartenuto a suo padre, e cominciò ad andare a
diporto per i villaggi e per le cittadelle circonvicine.

Un giorno, fatto attaccare subito dopo il sonnello pomeridiano,
trottò allegramente fino a Riverasco, e vi arrivò così accaldato e
così impolverato, che decise di non tornare al Fortino per la strada
maestra, ma per un’altra meno battuta e assai più ombrosa, che egli
credeva di conoscere. Aveva passata la Baraschia sul ponte nuovo,
l’avrebbe ripassata sulla chiatta di sant’Antonio, oppure anche a
guado.

Ma l’uomo propone e Dio dispone: egli non s’era forse allontanato un
mezzo miglio dalla antica cittaduccia, quando si vide impigliato in
una rete di straducole tutte strette, dubbie e intricate così che non
trovava più la via di uscirne.

Alla fine, dopo una quantità di giri e di rigiri, potè sgusciar fuori
da quel laberinto; ma il sole era scomparso, e dopo l’afa e l’ardore
insopportabile della giornata, s’ammontavano per aria nuvoloni densi e
cenerognoli, che s’infuocavano e si spegnevano ad ogni momento. Sotto
quel cielo, la campagna deserta aveva un non so che di lugubre e di
sinistro.

Roberto non sentiva un alito all’intorno; per rinfrancarsi, per
scacciare certe fantasie che cominciavano a molestarlo, dava ogni poco
una forte frustata al cavallo. A un tratto si ricordò, si riscosse:
— Perdio! Mauro Venturino, detto il _Calabrese_, si aggirava per
l’appunto in quei luoghi...


IX.

La notizia della ricomparsa del _Calabrese_ (che tutti credevano
rifugiato in Francia da più di un mese) era stata portata al _Cavallo
Grigio_ la sera prima da un barocciaio venuto ad albergare.

L’oste, il segretario, il maestro, avevano poi fatto a gara nel dare a
Roberto le informazioni più curiose e più truci.

Mauro Venturino, nato fuori di legittimo matrimonio, e abbandonato
dai suoi, aveva cominciato a rubare di quando in quando e poco per
volta ai possidenti di Riverasco, di Casaletto, di Bornengo e d’altre
terre vicine, facendosi via via sempre più audace, finchè, colto in
flagrante mentre tentava un furto assai grave, era stato bastonato e
lasciato per morto. Appena guarito, il giorno stesso il cui era uscito
dall’ospedale, aveva trovato il modo di freddare con una coltellata il
suo percussore.

Dopo s’era buttato alla campagna, continuando a infamarsi di ladronecci
e di omicidi. In due anni aveva ucciso quattro persone; fra queste
una bellissima ragazza di Riverasco (sua innamorata d’un tempo),
ch’egli credeva inclinata a tradirlo. Cercato, ricercato, inseguito,
trovava scampo nei boschi, o ricovero presso i contadini, i quali tutti
sapevano come non minacciasse mai invano e sempre pagasse a misura di
carbone.

Baino e Galosso, secondati dal barocciaio e da due oziosi del paese
venuti a bere un bicchiere, avevano poi cominciato ad andar per le
lunghe, a diffondersi intorno a certe minuzie oscene e crudeli, e ciò
forse a malizia, col fine di sbigottire Roberto; però non avevano fatto
altro che noiarlo e spingerlo a ritirarsi un po’ prima del solito.

— Ma come mai ho potuto dimenticar tutto questo! — diceva tra sè, ora
che le cose udite gli tornavano in mente fosche e fastidiose.

Ben presto lo assalì la paura d’aver paura: cessò di far schioccare
la frusta, e prese a guardare intorno se apparisse qualche figura
sospetta, qualche faccia proibita, qualcheduno che rassomigliasse al
ritratto di Venturino fatto da Galosso: un giovinastro membruto, di
colore ulivigno, con occhi vivi, furbi, feroci, barba e capelli crespi
e nerissimi... Un calabrese, anzi un brigante delle Calabrie in tutto e
per tutto.

E che fare quando questo accadesse, quando lo vedesse sbucar da una
siepe o saltar fuori da un fosso, in carne e ossa, armato fino ai
denti?

Che fare, Dio santo?

Frustare il cavallo alla disperata e cercar di fuggire?... Ma, e se
colui trovava il modo di contrastargli, d’impedirgli la fuga?

Cedere senz’altro e consegnare quanto avea nelle tasche?... Ah no!
Questo no! Anche perchè la sua sommissione, per non dire vigliaccheria,
forse non gli avrebbe nemmeno salvata la vita.

Dunque?... Dunque meglio portarsi da uomo, resistere, difendersi,
cercar di respingere l’assassino. Respingerlo e sopraffarlo, perdinci!
Non aveva forse sentito dire più d’una volta che l’aggredito ha sempre
un certo vantaggio sull’aggressore? Quale vantaggio? Non ricordava più,
ma questo non era il momento di raziocinare, di beccarsi il cervello:
bisognava star sull’avviso e prepararsi a battaglia.

Ecco l’uomo: — O la borsa o la vita! — Finger subito di spaurirsi.
Fingere di ubbidire all’intimazione, e lasciarlo venire. Appena a
tiro, giù una frustata sul viso, sugli occhi... poi addosso. Coraggio,
avanti, a corpo a corpo, alla gagliarda! L’uomo è in terra, disarmato,
domato, legato... Sì, anche legato, e perchè no? Con un po’ di
fortuna...

La notizia della cattura si sarebbe sparsa in poche ore. I giornali
avrebbero riferito il fatto, encomiando il suo ardimento. Immaginava
le interpretazioni, le chiacchiere degli amici: la maraviglia e la
contentezza dei veri, l’incredulità e il dispetto dei falsi...

Però che imprudenza avventurarsi solo e inerme in luoghi così
disabitati! Perchè non aveva condotto Giacomo? Perchè non aveva presa
la sua buona rivoltella?

Andava avanti di trotto serrato, sbirciando i tronchi, le macchie, i
cespugli; e alla fine si accorse d’entrare in un bosco.

— Ci siamo! — pensò, con un rimescolamento più vivo e più forte.

L’incontro, o per dir meglio, lo scontro, gli parve in quel momento
così prossimo, così inevitabile, ch’egli si eresse, strinse i denti,
spalancò gli occhi, cercò di tener ferme ed unite tutte le potenze
dell’animo.

Traversò una piantata di pioppi, passò sotto un’oscura volta frondosa,
sboccò in una larga radura; e, quando meno se l’aspettava, si trovò di
contro la chiatta di sant’Antonio, nera ed immobile sull’acqua pallida
e tremula.


X.

Durante l’estate, la corrente della Baraschia si riduce quasi sempre
così umile e bassa, che i barconi posano sul fondo, il tavolato
congiunge le rive, e la chiatta fa semplicemente da ponte.

La strada vi corre diritta, ma tanto o quanto in pendenza. Roberto
ritenne le redini e guardò attorno: così al barlume, vide là a destra
un poco di rialto, e su quello, circondata da un riparo fatto con
fascine e prunami, una scura casupola, con la scaletta di fuori e tutta
addobbata di pampani.

Il chiattaiuolo si avvicinava lentamente, portando una lanterna. Era
sulla sessantina, alquanto curvo dalle fatiche e dagli anni, ma vegeto,
franco e robusto; aveva gli occhi fortemente incassati, sopracciglia
folte e aggrottate, lunghi mustacchi pendenti: una fisonomia austera,
ma nel tempo stesso piacente e affettuosa.

— Lei vuol passare? — diss’egli.

— Naturalmente — rispose Roberto.

— Hm!...

— Non si può?

— Altro.

— E dunque?

— Passi, ma stia all’erta.

— Cosa c’è?

— Non ha mai sentito nominare il _Calabrese_?

Roberto saltò a terra.

— L’avete visto?

— Mezz’ora fa era lì, proprio dove lei mette i piedi.

— E adesso?

— E adesso... adesso... Chi sa? forse si sarà rintanato nel macchione...

— Che macchione?

— Il macchione della Vernea, che è folto e profondo. La strada di
Casaletto lo rasenta quant’è lungo.

— Ho capito. E allora... Sentiamo: che mi consigliate?

Il chiattaiuolo indugiò un poco a rispondere; intanto il tuono brontolò
fioco, indistinto.

— Un consiglio? — riprese poi. — Hm! Dirò... così subito... Insomma
Venturino è un diavolo scatenato, un vero Satanasso. Quando lo vedo,
penso a quegli altri che ci facevano dannar l’anima laggiù nell’Italia,
al tempo del brigantaggio: Ninco Nanco, Crocco, Caruso... tutta
una maledetta progenie da capestro... Ero nei cavalleggieri, io...
Venturino non mi ha mai dato noia, anzi mi fa l’amico. Mi chiamo
Michele Masino: lui mi chiama Michelino. Ma certi amici è meglio
perderli che trovarli... Stasera mi diceva: — Guarda, Michelino, sono
sprovvisto di tutto, non ho più un soldo; così guai a chi mi dà nelle
unghie! — Precise parole. Perciò, quando ho visto lei, ho detto subito:
— Qui bisogna dir tutto, in buona coscienza: uomo avvisato, mezzo
salvato. E adesso vuol essere accompagnato? Son qua io. Vuol rimanere?
Là c’è il mio tugurio; in questa stagione una notte è presto passata.

Roberto si voltò macchinalmente verso la casupola: l’uscio era aperto;
una donna andava e veniva in una mezza luce sanguigna.

— Vostra moglie? — chiese a Michele.

— Oh! mia moglie! Sarebbe bene che l’avessi! Ma... è morta quattr’anni
fa. Quella è mia figlia che prepara la cena.

Dal luogo dov’era, Roberto non discerneva nè i lineamenti del viso nè
la forma del corpo: la figlia del chiattaiuolo poteva essere attempata,
contraffatta, brutta come la versiera; egli se la figurò invece giovane
e bella; subito, come per incanto, si sentì rinvigorito, rimbaldanzito,
novamente pronto ad affrontare il pericolo.

— Animo! — esclamò sorridendo: — qui ci vuol risoluzione e non perdersi
in tanti dubbi.

— Cosa pensa di fare? — chiese Michele.

— Tirare avanti.

— Solo?

— Solo e inerme... Cioè no! Fatemi il piacere: imprestatemi un
falcetto, un’accetta, un randello...

Michele corrugò la fronte, pensò; poi, appesa la lanterna a un palo, si
avviò verso casa.

Tornò di lì a un momento, maneggiando un lungo schioppo.

— Ecco — diss’egli, — è ancor quello che mi ha lasciato mio padre. Una
buon’arma. Per diana se è buona! Non fa cecca mai, neanche d’inverno.
La canna è di quelle che si chiamavano _Lazarine_; è tutto dire. Adesso
non se ne vedono più. Non l’ho mai voluto imprestare a nessuno... ma
a lei... in questo frangente... Insomma lo tenga, se ne serva a suo
piacere.

— Ve lo riporterò domani...

— A suo comodo.

— Domani, domani... Se però quel demonio non mi prende a tradimento.

— Stia in guardia.

— In ogni caso vi lascio in pegno il mio orologio, il portafogli...

— No in pegno, in custodia.

In quel momento l’ombra femminile comparve sull’uscio. Roberto disse
forte:

— Buona sera! — e risalì speditamente nel legno.

Il cavallino brioso balzò avanti, la ghiaia sgrigliolò sotto le ruote,
il tavolato risonò cupamente; poi una viva folata di tramontana portò
via ogni rumore.

— Attenzione! — mormorò tra i denti Michele, piantandosi in mezzo alla
chiatta.

Il tuono minacciò ancora, da lontano... Il vento agitò di nuovo le
frasche... Un ciottolo si staccò dalla riva, rotolò, diede un tonfo...
Un uccellino, ghermito nel sonno da un rapace notturno, si dolse e
tacque...

Il chiattaiuolo ascoltava senza fiatare, senza batter occhio.

Dopo qualche tempo crollò il capo, fece un gran respirone, e tornò
passo passo verso la casa.

Dalla soglia, al lume d’una lucerna che ardeva sul desco, vide sua
figlia in ginocchio, col capo devotamente chino sul petto.

— Ah! — fec’egli — bene, bene, prega pure... Non so chi sia, ma mi ha
l’aria d’un bravo signore. Non è stato affrontato finora, e, se Dio
vuole, non lo sarà più; oltre il macchione la strada è libera... Adesso
vediamo: cosa mi dai da mangiare?


XI.

La mattina dopo, Roberto si svegliò assai presto, ma invece di alzarsi,
stette ancora un poco in letto a rimuginare su ciò che gli era successo
la sera innanzi. Che sera strana! Che moltiplicità di sensazioni!
Che matta alternativa di audacie e di timori! No, non si sarebbe
mai creduto così instabile, così leggiero! Se il buon chiattaiuolo
non gli avesse dato il modo di difendersi, chi sa per qual trafila
d’impressioni sarebbe ancora passato prima di giungere a casa! Invece,
appena voltate le spalle alla chiatta, s’era sentito pienamente
rassicurato e rasserenato. Che galantuomo quel Michele Masino! S’era
esibito d’accompagnarlo con tanta spontaneità! Gli aveva offerto così
bonariamente di alloggiarlo nella sua casetta! In contraccambio egli
non l’aveva neppure ringraziato! Era però sempre a tempo. Quel giorno
stesso, riportandogli l’arma, avrebbe cercato di rimediare al mal fatto
con l’offerta d’un dono.

Che dono?... Uno schioppo a due canne nuovo e moderno? Ehm! Michele
pareva così innamorato del suo vecchio archibuso, che forse non
l’avrebbe nemmeno gradito. Un orologio d’argento? Un bel cappello? Dei
panni da inverno?... Ma che cappello! Che panni! Denaro. Sicuro, era
molto più semplice e più opportuno soccorrerlo di denari sì ch’egli
potesse procacciarsi quanto gli mancava.

Ma qui si trovò in un altro imbarazzo: non doveva far le cose con
gretteria, ma non voleva neppure mostrarsi troppo largo ed esagerato
donatore. Vedeva il chiattaiuolo intascare la sommerella, ridendo
sotto i baffi; e, partito lui, dire poi alla figlia: — Poh! quel buon
signore deve avere avuto una bella paura! — E magari si fosse limitato
a far questa osservazione in famiglia, ma chi sa se non l’avrebbe poi
ripetuta ad altre persone, spargendo a suo carico voci punto gloriose.
Bisognava andar cauto, e far sì che il compenso fosse adeguato al
servizio.

Mentre si vestiva, gli venne un pensiero: — Interrogherò destramente il
mio uomo, e mi regolerò secondo le sue risposte.

Scese nel salotto per far colazione.

La posta era arrivata, il giornale era già sulla tavola. Giuseppe entrò
col vassoio, e gli domandò come avesse passata la notte.

— Bene — rispose Roberto, servendosi.

— Son contento, ma n’ero sicuro; infatti così ho risposto a chi mi ha
chiesto di lei.

— Se c’è stato qualcuno a cercare di me, hai fatto male a non
avvertirmi.

— No, non a cercar di lei, ma a domandar sue nuove. Era ancor presto.
E poi, si tratta d’una persona che lei non conosce. Perchè qui è un po’
come a Torino: tutti conosciamo il Re e la Corte, ma essi non conoscono
noi. I contadini e le contadine...

— Ma com’è possibile che una persona che non ho mai visto...

— Non dico questo: l’avrà vista e anche guardata, perchè merita la
pena. E come! L’avrà anche guardata, ma non al Fortino, ch’io sappia.
Quand’essa viene, lei è ancor sempre a letto.

— Ma insomma si può saper chi è?

— Sì signore. È una bella ragazza, fresca come una rosa, bianca e linda
come il bucato. Infatti la chiamano la _Marchesina_. Però è figlia d’un
pover’uomo, che fa il pescatore e traghetta la gente dall’una all’altra
riva di non so più che acqua.

— La Baraschia forse?

— Sarà benissimo.

— E viene qui spesso?

— L’uomo? No signore.

— La ragazza, la ragazza!

— La ragazza sì, di tanto in tanto, a vendere le trote.

— Basta, va pure.

Il servitore ritornò in cucina. Roberto continuò a centellare il suo
caffè e latte con gli occhi sul giornale. — Dunque la figlia di Michele
veniva al Fortino? Be’, questa era una cosa semplice e ovvia, non c’era
da farsene maraviglia... Quella mattina aveva domandato di lui? Sì, ma
come? Incidentalmente, mentre spacciava i suoi pesci? Oppure era venuta
apposta per sapere com’egli avesse compiuta la gita?... E se mai, era
il padre che l’aveva mandata? O non aveva invece ubbidito a un impulso
pietoso e gentile?

Giuseppe poi l’aveva chiamata _bella_. Così per modo di parlare? O
perchè era tale davvero?

Tutto questo avrebbe voluto sapere, ma non parendogli conveniente
richiamare e interrogare il servitore, guardava fissamente in un punto,
e or sorrideva, ora aggrottava le ciglia e increspava la fronte, come
chi agita nella mente diversi pensieri.

Intanto Tadò ustolava a destra; la gatta miagolava a sinistra; le
galline giravano intorno irrequiete, allungando il collo e arruffando
le piume.

Dopo un poco, Roberto s’impazientì, si alzò e, attraversando un altro
salotto, si affacciò all’uscio che metteva in giardino. Le rondini, che
avevano i nidi sotto il terrazzino, andavano e venivano senza posa, e
così vicine ch’egli sentiva nel viso il ventolino delle loro ali.

Si ritrasse subito perchè lo seccavano anche le rondini.

— Sicuro — pensava, risalendo in camera, — compenserò il padre, ma
perchè non offrirei un piccolo pegno di gratitudine anche alla figlia?
Essa si è pur disturbata per venir a veder se ero incolume!

Frugò in una cassettina ove teneva gli spilloni da cravatta, i bottoni
gemelli, gioie e gingilli: vi prese un anellino d’oro, che portava
qualche volta nel mignolo, e lo ripose in una scatoletta, fra un po’
di cotone, dicendo tra sè: — È poco, ma pregherò la _Marchesina_ di
accettare il buon cuore...

L’idea gli parve così bella e gentile, che per metterla più presto a
effetto volle desinar prima del solito.

Quando fu attaccato, montò nel calessino, e non solamente si mise
accanto lo schioppo che doveva riportare, ma nascose sotto il cuscino
la sua rivoltella, per non trovarsi disarmato al ritorno.

Dal Fortino alla chiatta di sant’Antonio la strada scorre facile e
piana in un aperto e benedetto terreno, nel quale i campi e i prati
paiono orti e giardini.

Il vago spettacolo campestre, illuminato da un limpido sole, il profumo
di verdura e di fiori, la quiete solenne componevano a soave mestizia
il cuore di Roberto. Perfino il macchione della Vernea aveva in
quell’ora qualche cosa di lieto e di ameno: pareva più fatto per servir
di momentaneo nido agli amanti, che per dar ricetto ai banditi.

Arrivato alla chiatta, Roberto smontò. Michele uscì tosto dalla
casupola e gli si fece incontro salutando garbatamente, ma senz’ombra
di servilità o d’affettazione.

— Ecco — diss’egli, porgendo a Roberto l’orologio e il portafogli: —
qui c’è quanto mi ha consegnato ieri sera.

Roberto, a sua volta, gli restituì lo schioppo: poi si guardarono in
viso sorridendo, come per confermare la conoscenza.

— Dunque è andata bene? — riprese il chiattaiuolo. — Nessun affronto,
nessun dispiacere...

— Niente! — esclamò Roberto. — Non ho visto un’anima. Del resto ero
pronto. In grazia vostra...

— Stamattina — interruppe Michele, dopo aver appoggiato lo schioppo
a un tronco, — sono passati di qui i carabinieri. Non erano ancora le
sei. Io ero seduto là su quell’arginetto e rassettavo un bertovello. Il
maresciallo mi vede e mi dice: — Notizie? — Rispondo: — Dove volete che
vada a pescarle? Datemene voi, se ne avete. — Ma che le pare? Faccio
il chiattaiuolo, io; non la spia e neanche lo sbirro. I birboni tocca a
loro a scovarli, che Sua Maestà li paga proprio per questo.

Roberto squadrava il chiattaiuolo e diceva tra sè: — Veste pulitamente,
ma nè più nè meno come gli altri campagnuoli: posso, senza soggezione,
offrirgli denaro per comprar reti da pesca, munizione da caccia o che
altro gli sarà più di piacere.

— Ora — — continuò forte, — mi dovete dire se posso far qualche cosa
per voi, qualche cosetta. Parlate pure.

Michele lo considerò un momento e tentennò il capo.

— Scusate — soggiunse Roberto, — ma non avreste per caso un impegno,
un debituccio che vi scomoda pagare? Convengo che la domanda è un poco
indiscreta...

— Dovevo quindici lire allo speziale di Casaletto e gliele ho date ieri
mattina.

— Bene, tanto meglio. Io però non posso dir così. Io ho un obbligo con
voi; un obbligo grosso... Posso quasi dire che vi devo la vita.

A queste parole Michele dette in una gran risata.

— Ci vuol altro! Ci vuol altro! Tiri via, non dica fandonie, per
carità... La ringrazio tanto, ma... Hm! con l’aiuto di Dio mi guadagno
il pane lavorando, e non ho mai chiesto un soldo a nessuno.

Roberto, un po’ sconcertato, volle scusarsi dicendo che non pretendeva
di fargli l’elemosina, nè voleva sapere dei fatti suoi, ma il
chiattaiuolo alzò la voce:

— Finiamola con queste storie! Sì signore, vivo nei boschi come un
orso, ma conosco i miei doveri verso Dio, verso il prossimo e verso me
stesso. Dunque non occorre altro.

Vi fu un silenzio. Roberto teneva la mano in tasca e palpava la
scatoletta destinata alla ragazza.

— E vostra figlia? — diss’egli finalmente. — Che fa di bello vostra
figlia?

— È andata a Riverasco a far le provviste. Qui, come lei vede, non ci
sono botteghe e mangiare bisogna.

— Non avete paura che s’incontri nel _Calabrese_?

Michele pensò un poco, poi contrasse le sopracciglia, dando ai suoi
occhi chiari una molto fiera guardatura.

— Il _Calabrese_ sa che Susanna è mia figlia — diss’egli, — e che con
me non si scherza.

— Dunque a rivederci — mormorò Roberto, rimontando nel legno e
ripigliando le redini.

— A rivederla... Ah, un momento! Scusi tanto, ma lei mi deve ancor
cinque soldi: i soldi del passo che non ha pagato ier sera.


XII.

Tre giorni dopo, aprendo il giornale, Roberto cadde inaspettatamente su
queste parole:

               _I particolari dell’arresto e della morte
                     del bandito Venturino Mauro._

Come! Il _Calabrese_ arrestato? Il _Calabrese_ morto? Ma dove? Ma
quando?

E lesse avidamente.

                                                Riverasco, 20 luglio.

«Verso le ore 14,30 arrivava in Riverasco la notizia che il famigerato
Venturino Mauro era stato arrestato. Chi sia Venturino Mauro lo sanno
già i lettori della nostra gazzetta. È un assassino che...»

Roberto saltò senz’altro una trentina di righe, tutta la biografia, e
venne al fatto.

«Il suo arresto fu operato oggi in circostanze tragiche. La Polizia
aveva avuto sentore che egli, lasciato il piano, si aggirava nel
Morsetto, luogo alpestre a un’oretta da Riverasco; sei carabinieri,
quattro in divisa e due in borghese, furono spediti in perlustrazione.
Pare che il Venturino, che si trovava realmente in un’osteriuccia,
avvisato dell’arrivo dei carabinieri, si desse alla fuga. I
carabinieri si posero sulle sue orme e lo scoprirono nel fondo di
una piccola valle; allora un carabiniere, l’appuntato Tamietti, a
gran corsa si slanciò su di lui tagliandogli la strada. Il bandito,
senza scomporsi, estrasse la rivoltella e ne sparò due colpi sul
bravo agente. I colpi andarono a vuoto, e mentre il carabiniere si
slanciava su di lui, incespicò e cadde a terra presso il bandito. Fu
fortuna che sopraggiungessero gli altri carabinieri, contro i quali
il Venturino rivolse i suoi colpi, seguitando a sparare altre quattro
rivoltellate. A questo punto i carabinieri, vistisi in pericolo,
puntarono il Venturino alla loro volta e spararono. Il Venturino fu
ferito alle braccia e al volto, e prima di darsi vinto cercò ancora
di salvarsi fuggendo. Mentre fuggiva, brandendo lo stile, cadde a
terra mandando urli di dolore. Fu raccolto, adagiato sopra una scala e
portato all’ospedale. Qui lo ricevettero e curarono i dottori Ciaudano
e Vegetti, ma subito ne presagirono la morte vicina. Una palla di
vetterly gli aveva perforato il torace, entrando dalla schiena ed
uscendogli dal petto. Non parlò e non volle parlare; domandava solo
agli astanti che lo finissero in fretta.

«Si recarono al suo letto il giudice istruttore, il procuratore del Re,
ma non fu possibile strappargli una sola parola; alle 20,30 moriva in
seguito alla ferita toccata nel petto.

«Spogliatolo, gli si rinvennero indosso, negli abiti sanguinolenti, L.
7,80, un piccolo coltello, un taccuino con un nome e un grosso rosario.

«Era vestito di frustagno; intorno alla vita aveva una cintura di
cuoio, da cui pendevano uno stile, un coltello e la rivoltella.

«L’arresto ha prodotto in Riverasco un’ottima impressione; la
popolazione resta ora tranquillata, ed è entusiasta verso i
carabinieri, i quali si meritano davvero un bravo».

Roberto passò oltre e percorse tutto il giornale; ma la lettera del
corrispondente di Riverasco aveva fermata la sua fantasia: vi tornò,
la rilesse e fu assalito da mille pensieri. Non aveva conosciuto
il bandito, solo paventato di conoscerlo, eppure bastava perchè non
potesse più considerarlo come un estraneo. Dimenticava l’ansietà, il
turbamento, l’apprensione di quella tal sera, e rammentava soltanto che
aveva desiderato di fare quello che avevano poi fatto i carabinieri.
Bel gusto! Bel vanto! Sempre fanciullo! Sempre incorreggibilmente
romantico e fanciullo!

Immaginava. — Vedeva lo sciagurato andar qua e là fuggiascamente,
senza modo di vivere, ridotto alla disperazione. Lo vedeva scendere
per un viottolo scosceso, in un luogo ombroso e celato, e buttarsi
sull’erba molle ancor di rugiada. — Qui non sarò visto... qui potrò
riposarmi, ripigliar fiato. — No! Ecco là i carabinieri! Due, quattro,
sei... Egli è in piedi, pronto a vender cara una vita divenuta oramai
insopportabile. Un ultimo sforzo, un tentativo disperato di fuga: e
tosto grida, spari, bestemmie, polvere e fumo. Il _Calabrese_ è in
terra, ferito e vinto. Lo portano via sur una scala, una ruvida scala a
piuoli (perchè, Dio santo! non procurargli un carretto, una barella?);
ogni passo è un gemito, un’imprecazione, un lamento; ogni sosta una
pozza di sangue.

Lo rivedeva all’ospedale, che brancicava convulsamente il lenzuolo;
faceva la bava come un cane arrabbiato; implorava, con un filo di voce,
il colpo di grazia...

Tutto il giorno si funestò con questi tristi pensieri; tutto il giorno
lo squallido spettro passò e ripassò davanti ai suoi occhi; verso sera,
preso dall’uggia, si mise in tasca il giornale e si avviò verso la
chiatta.

Arrivato al torrente, travide fra gli alberi, a diritta, un non so che
bianco che veniva lentamente alla volta sua. Fissò gli occhi da quella
parte e distinse il chiattaiuolo scamiciato, con una vanga in spalla.
Gli diede una voce. Michele si toccò il cappello, allungò il passo, e,
quando fu vicino, piantò rabbiosamente la vanga in un mucchio di rena.

— Cosa c’è? — chiese Roberto. — Siete di cattivo umore?

— Eh altro! S’immagini che ho dovuto fare il becchino!

— Come mai?

— Boh, porcheria! Erano due giorni che sentivo l’aria ammorbata, e non
sapevo che fosse; creda, un fetor di cadavere. Mezz’ora fa mi viene
in mente di frugar sotto i barconi. Sa cos’ho trovato? Un cagnaccio
morto da chi sa che tempo. L’ho sotterrato laggiù appiè d’un pioppo.
Ma non è un’infamità? Ogni tanto ricevo di questi regali: cani, gatti,
porci, galline, conigli... tutte le bestie che muoiono di malattia da
Riverasco ad andar su su fino al Morsetto, fino a Montalto, vengono
a sbarcar qui gonfie e marciose. Accidenti a chi le getta! Ci vuol
tanto a fare una buca e a buttarci dentro le vostre carogne? Razza
di sporcaccioni, non sapete che prima di tutto è proibito, e poi che
l’acqua va rispettata?

Dibattè i pugni in aria, verso gli inquinatori lontani, si rasciugò il
sudore e si chetò.

Allora Roberto gli raccontò estesamente la morte del _Calabrese_, non
trascurando i particolari più rilevanti.

Michele stette a sentire con molta attenzione e come curioso di simili
storie, poi diede una scrollata di testa e mormorò tra i denti:

— Insomma morì come visse, cioè da bestia. Tal sia di lui.

Come a conferma di quanto aveva narrato, Roberto gli porse il foglio.
Il chiattaiuolo prima fece un gesto che voleva dire: — Oh che ne devo
fare? — Poi lo prese, lo ripiegò con cura e lo mise nel taschino dei
calzoni.

— Lo darò a mia figlia — diss’egli. — Susanna legge che è un piacere a
sentirla; sa decifrare qualunque rabesco.

— Davvero? — esclamò Roberto.

— Cosa crede? — replicò Michele quasi duramente. — Susanna è una
ragazza educata, una ragazza che... Mi dica un po’: lei avrà conosciuta
la marchesa Emilia Leonardi di Riverasco?

Per verità Roberto non l’aveva mai sentita mentovare.

— Peccato! — proseguì Michele — lei non ha conosciuto una santa!...
Dunque ecco qui: la signora marchesa si rammaricava molto di non aver
avuto prole. Ogni volta che incontrava Susanna, sempre la chiamava a
sè e la tratteneva con paroline e carezze. Quando poi seppe che mia
moglie era andata in paradiso, subito si esibì di prendere Susanna
con sè, non come serva, ma per tenerle compagnia in casa e fuori.
Accettai senza far complimenti, chè non conveniva privarla di tanta
fortuna... Accettai e me ne venni a star qui, solo come un romito. Così
mia figlia imparò a leggere, a scrivere, a far di conto, e tant’altre
cose. Acquistò delle cognizioni, perchè la sua benefattrice gradiva
così. Bisogna anche dire che è piena di giudizio, d’un naturale buono,
rispettosa e sottomessa, sicchè l’educarla fu cosa facilissima. In
pochi mesi diventò la compagna, direi quasi l’amica della signora
marchesa; si volevano bene, vivevano insieme proprio felici... A un
tratto, due giorni avanti Natale, la marchesa, che pareva il ritratto
della sanità, dovette soccombere a un fiero colpo d’apoplessia; e
non aveva ancora pensato a distendere il suo testamento! L’eredità se
la pappò tutta un parente alla lontana, che la defunta non aveva mai
potuto soffrire. E così buona notte: a mia figlia neanche un legato,
neanche un regalo, neanche un ricordo. Del resto...

S’interruppe e si voltò verso l’altra riva: si udivano voci confuse,
risa sgangherate, schiocchi insistenti.

— Eccomi! — gridò il chiattaiuolo. — Son qua, sono al mio posto.

— Cosa c’è? — domandò Roberto, che non vedeva ancor niente.

— È il baroccio dei coscritti che tornano dal capoluogo; tutti briachi,
già... Dunque dicevo... Hm! Insomma chi è disgraziato lo mordono anche
le pecore. Felice notte, signore.

E andò incontro al baroccio che scendeva alla chiatta.

Roberto s’incamminò verso casa. Cominciava appena a farsi notte, ma
una civetta capricciosa e impaziente svolazzava da un albero all’altro,
battendo e ribattendo il suo fischio.

— Non pare che si beffi di me? — pensava il giovane signore. —
Infatti... neanche questa volta la bella Susanna non s’è fatta
vedere... È la fenice costei! l’araba fenice.

    Che vi sia ciascun lo dice
      Dove sia nessun lo sa.


XIII.

Verso la fine di luglio il caldo divenne proprio canicolare; in casa
si affogava, fuori si avvampava. I contadini bramavano l’acqua da lungo
tempo, e l’acqua non veniva. L’aria era tutta un tremolìo abbagliante.
La terra aveva perduto ogni alimento, si fendeva largamente nei campi
e nei prati, cominciava a screpolare fin nei pantani. L’erbe buone
inaridivano, le cattive pullulavano. Le strade e i sentieri erano pieni
di polvere. I ramarri e le lucertole godevano gioie ineffabili; le
cicale frinivano a distesa, dalla mattina alla sera.

Roberto passava molte ore nello studio: il luogo più fresco della casa;
leggeva, dormicchiava, suonava, acquerellava, e non usciva più che
sul tardi, per fumare un sigaro o per andare a far due chiacchiere al
Cavallo Grigio.

Un giorno, mentre si provava a copiare un bel grappolo d’uva lugliola,
Tadò, ch’era nella stanza, gli montò a un tratto dietro la seggiola e
gli fece dare un urto nel tavolino.

— Ah Tadò! — gridò Roberto. — Giù cattivo! Animo giù!... Ecco, così va
bene... E daccapo! Un urtone nel gomito. Vuoi finirla?

E qui bisognò mettersi a tu per tu col bestione. Roberto faceva forza
per allontanarlo, per cacciarlo indietro; Tadò contrastava, annaspava,
s’appuntellava con le zampe davanti al tavolino, e buttava all’aria
ogni cosa.

Seccato, impazientito, Roberto si levò in piedi e, steso il braccio e
appuntato l’indice all’uscio, disse imperiosamente:

— Passa via!

Ma Tadò, attribuendo a quel gesto un significato più conforme ai suoi
desideri, prese a spiccar salti smisurati, abbaiando e scodinzolando.

— Ho capito, ho capito — disse allora il padrone: — Tu vuoi andare a
spasso? Anch’io sono stufo di stare in casa, ma non senti che caldo?
Il sole è in leone, caro te. Se si aspettasse più tardi? No! Non sei
persuaso? Animo! fa valer le tue ragioni.

Tadò, che ascoltava seduto sulle zampe di dietro, rispose subito con un
rantolo lungo e sommesso.

— Bene — riprese Roberto; — ma se tu potessi parlare, eh? Chi sa che
cos’hai nella testa! Sei un animale pieno d’intendimento, tu... Del
resto voialtri cani la sapete lunga. Ho letto e sentito raccontare cose
da far strabiliare... Eh già, avete l’istinto. L’istinto che v’insegna
a procacciarvi ciò che vi giova, a fuggir ciò che vi nuoce. È una gran
cosa, sapete. Dunque sentiamo. T’è saltato semplicemente il grillo
di scorazzare un pochino nei campi, o sei venuto ad avvertirmi che il
terremoto sta per mandare in fascio la casa?

Così dicendo Roberto lavava i pennelli, chiudeva la scatola delle
tinte, e riordinava i fogli. Com’ebbe finito, uscì piluccando il
bel grappolo. Prese da prima la strada maestra, poi voltò in una
straducola, che gli parve più fresca; e andò avanti passo passo, senza
direzione certa e senza scopo.

Dopo un po’ di tempo, Tadò, che precedeva sbrigliatamente, brandendo
la coda, cacciò fuori un palmo di lingua, rallentò il corso, prese a
fiutare intorno intorno e a frugacchiare nei fossi.

— Fa caldo, eh? — gli diceva il padrone. — Tant’è, non torno più
indietro. Hai voluto fare a modo tuo: questo ti servirà di lezione.

Ben presto anche lui cominciò a provare alla gola una sensazione di
asciutto, che si fece prima molesta, poi penosa. Si fermò e cercò di
raccapezzarsi. Ecco che, senza accorgersene, era sempre andato verso
ponente. Dunque?... Eh per bacco! egli li conosceva quei pioppi che
sorgevano là a mancina: la Baraschia passava ai loro piedi, e la
chiatta di sant’Antonio era a destra, un duecento passi più in giù.

Roberto fece un atto d’impazienza e di stizza.

— Bisogna che ci sia la calamita da questa parte! — disse tra sè. —
Gira di qua, gira di là, vengo sempre a finir qui... Oggi però lascierò
stare Michele; non mi avvicinerò nemmeno alla chiatta; cercherò solo un
po’ d’acqua chiara...

E andò verso i pioppi.

Vi arrivò tutto molle di sudore. Tadò, che era corso avanti, si tuffò,
traversò, s’arrampicò sull’altra riva; e, sentendo la passata di
qualche animale, s’allontanò frugolando tra i cespugli.

— E perchè non farei anch’io un buon bagno? — pensò Roberto. — Come mai
non mi è venuto in mente di mandare al diavolo la tinozza di latta e
procurarmi tutti i giorni questo igienico ed onesto piacere?... Oggi
però non mi sento ben disposto, comincierò domani. Domani provvederò
le cose occorrenti, e cercherò un altro luogo: qui c’è poco fondo e
troppi ciottoli... Un altro luogo anche più riposto e solitario: vedo
lì un viottolino che mi pare assai ben battuto, e non vorrei essere
disturbato durante i miei diguazzamenti.

Il viottolino faceva capo a una pozza, nel cui fondo si vedeva scappar
fuori, lateralmente dal terreno, una pura e vigorosa scaturigine; la
quale, nascondendosi prima sotto un fitto tappeto di crescione, poi
riversandosi per un fossatello, andava a sgorgare nel torrente.

Roberto s’ingegnò di attinger l’acqua con una vecchia busta che aveva
in tasca: la busta s’immollò e si ruppe; cercò di raccoglierla nella
mano: l’acqua spariva tra le dita; volle gettarsene in bocca, come
aveva visto fare ai contadini: non riuscì che a inumidirsi scarsamente
le labbra e ad annaffiare copiosamente il panciotto.

Perduta ogni speranza di spegnere interamente la sete, andò a gettarsi
nell’erba alta e folta, là dove l’ombra gli pareva più opaca. Il sito
era ameno e quieto; dalla corrente saliva come un alito refrigerante;
egli respirava e si riaveva.

Due cutrettole, che seguivano a sbalzi il filo dell’acqua, si posarono
sur una lunga lingua arenosa, e cominciarono a correre su e giù agili e
vispe.

Ma dopo un momento, appena preso possesso del luogo, cessarono di mover
la coda, rimasero immobili e come imbalsamate, poi: gui gui guit, si
dileguarono in un battibaleno.

Roberto voltò la testa per conoscere la cagione del loro spavento, e
vide che non era più solo.

Una fanciulla di diciannove o venti anni, piuttosto più che meno,
si avanzava verso la fonte con passo franco, con mosse onestamente
leggiadre. Vi giunse, empì la brocca, poi si mise a sedere sulla
sponda, come per riposare un momento. Ella aveva i capelli castagni,
uniti in trecce avvolte e fermate dietro il capo; i contorni del viso,
del collo, delle braccia erano quanto mai graziosi e delicati; la
veste schietta, alquanto scarsa e d’una foggia che casualmente aveva
dell’antico, svelava forme degne d’essere scolpite.

— È Susanna! — pensò Roberto. — Questa è Susanna!

E subitamente il suo cuore si mise a battere come al tempo dei primi
convegni d’amore. Il cuore batteva e la mente si oscurava, e in
quell’oscurità balenavano immagini e desideri ch’egli avrebbe dovuto
cacciare senza più. La fanciulla non s’era avveduta di lui, non lo
sapeva presente: giovandosi della sua ignoranza per contemplarla a
tutt’agio, egli commetteva forse un’azione indegna d’un uomo onesto.

— Sicuro, eccomi qui appiattato nell’erba, a occhieggiare le gambe
d’una bella ragazza come un giovinastro cupido e licenzioso...
Vergogna!

Ma non si risolveva a nulla, e continuava a mirare e ad ammirare, cheto
cheto, rattenendo il respiro. Dopo un po’ di tempo gli parve di aver
troppo indugiato: oramai non poteva più mostrarsi senza far brutta
figura. Bisognava star ben nascosto finchè Susanna restava in quel
luogo, e, quando si fosse rimessa in cammino, raggiungerla e parlarle.

Eh sì, parlarle, poichè era ben deliberato a non lasciarsi sfuggire
l’occasione di far conoscenza.

Cominciava a disporsi, a preparare le prime parole, quando udì
frascheggiare sull’altra riva. Era Tadò che tornava. Per bacco, egli
non aveva pensato a Tadò! Scoperto il nascondiglio in un attimo, il
cane gli sarebbe corso addosso latrando e menando la coda... Non pose
tempo in mezzo e balzò in piedi.

La fanciulla non fiatò e non si mosse, ma il bell’incarnato del suo
viso divenne istantaneamente più vivo.

Roberto si levò il cappello.

Ella chinò la faccia sul busto e aprì la bocca al sorriso.

— Scusate — disse il giovane signore: — potete darmi un po’ d’acqua? Ho
un’arsione che non ne posso più.

— Vuol bere a garganella? — chiese la fanciulla, alzandosi e tirando su
la brocca. — L’acqua pare più fresca e leva meglio la sete.

— Ah sì! E come si fa? Io non sono pratico.

Ella rispose che bere a garganella voleva dir bere senza accostare il
vaso alle labbra, ma sostenendolo in aria e versando l’acqua in bocca
senza ripigliare il respiro.

— Per bacco! — esclamò Roberto, ridendo. — Ma è un affar serio, un
affar complicato; io non ci arriverò mai. Da brava, lasciatemi bere...
come ho sempre bevuto.

— Ecco — diss’ella porgendogli la brocca e dando un passo addietro: —
si serva pure.

Quando Roberto si fu dissetato, mormorò galantemente alcune parole,
ch’ella troncò incamminandosi.

— Susanna...

Ella si voltò senza scomporsi, punto maravigliata di sentirsi chiamare
per nome.

— Susanna... ancora una parola...

— Dica; ma badi che mio padre mi aspetta.

— Lo sapete eh, che sono stato più volte alla chiatta?... Ho sempre
domandato di voi. Non vi avevo mai vista nè conosciuta, eppure... Ma
d’ora in poi, quando verrete al Fortino...

— Non verrò più al Fortino.

— Diavolo! E perchè?

— La Baraschia non mena più pesci.

— Peccato! Allora... Sentite, Susanna, sentite!

— Felice notte, signore.


XIV.

— Buona sera — disse garbatamente Tomatis.

— Buona sera — rispose seccamente Galosso.

Giungevano l’uno dalla destra, l’altro dalla sinistra, e s’incontravano
proprio davanti all’uscio del Cavallo Grigio. Il segretario entrò il
primo, traversò la cucina senza aprir bocca, e passò nello stanzone.
Il maestro invece si accostò all’oste, che stava strofinando il suo
schioppo nel vano della finestra.

— Ci prepariamo, ci prepariamo — diss’egli. — È domani che si apre la
caccia, eh?

— Domani, domani — rispose Baino.

— E... da che parte contate d’andare?

— Non so ancora. Un’annata cattiva come questa neanche i vecchi se la
ricordano: nè quaglie, nè lepri, niente di niente. E poi... ve l’ho
detto eh, che m’hanno rubato Drapò? Se trovo il ladro!... Ma intanto
sono senza cane... Nel Campaccio però ci son molte tortore, e si
raccolgono tutte sui noci che stanno in fondo, verso il boschetto.
Finirò per andar lì. Monterò sur un gelso, che sia a tiro; mi
nasconderò tra le foglie, e... pan! pan!

Galosso, stufo di star solo, si agitava, sbuffava e batteva il pugno
sulla tavola.

— Vengooo! — gridarono contemporaneamente Tomatis dalla cucina e
l’ostessa dal cortile.

Il maestro entrò nello stanzone, fece un inchino, spiccò un saltetto, e
si mise a sedere di fronte all’amico.

L’ostessa venne più adagio, strascicando le ciabatte e ravviandosi il
fazzoletto sul seno.

— Cosa comandano? Carte o tarocchi?

— Le carte — rispose Tomatis.

— I tarocchi — vociò Galosso.

— Volete i tarocchi? — riprese il maestro. — E va bene. Lucia, portate
pure i tarocchi.

— Niente — replicò il segretario. — Nè una cosa nè l’altra. Lasciate
stare. Non ho voglia di rompermi la testa, stasera. Lasciate stare.

Lucia voltò bruscamente le spalle e se ne andò in cucina. Il segretario
cacciò fuori la pipa come avrebbe cacciato fuori una pistola, e
cominciò a calcarvi dentro il tabacco.

— Ehi! — disse il maestro dopo un poco, ponendo il pollice della destra
sulle labbra con la mano e il gomito sollevati. — Ma questo sì?

— Questo sì — rispose Galosso. — Arrabbio di sete.

E tornò a tempestar sulla tavola.

S’udì un brontolìo aspro e minaccioso, poi l’ostessa rientrò come una
molla scoccata, attenendosi all’uscio; si capì che aveva scansato un
calcio o un pugno mandatole dietro dal dolce marito.

— Se vi coglieva, poveretta voi! — disse benevolmente Tomatis. — Cosa
c’è? Tempo brutto anche di là, no?

— E come! — rispose Lucia. — Questo è il secondo: prima di cena m’ha
già dato un punzone che mi ha fatto perdere il fiato.

— Ma anche voi, vedete, anche voi... Dalla mattina alla sera la voce in
aria, e qualche volta le mani.

— Non è vero. Dunque cosa comandano?

— Birra — rispose Tomatis.

— Vino — grugnì Galosso.

— Come si fa? — disse Lucia. — Su, da bravi, si mettano d’accordo.

— Oh Dio! — esclamò Tomatis. — Non c’è bisogno: birra a me, vino a lui.
Ecco tutto.

— Io non posso soffrirla la birra — borbottò Galosso. — Mi fa nausea
perfino l’odore.

— Non è che questo? Andrò a bere sotto la pergola.

— Vi farete pungere...

— Da chi?

— Dalle vespe.

— Meglio cento vespe che un sol calabrone!

— Ah sì! E chi sarebbe sto calabrone? Io, eh? E voi, sapete cosa siete
voi?

— Chetatevi! Sempre le furie...

— Sapete cosa siete?

— Andiamo, andiamo; non capite che parlo per celia?

— Siete un... un... un...

E chi sa qual epiteto avrebbe inventato l’iracondo Galosso, se proprio
in quel punto non fossero entrati l’oste col lume, e Roberto Duc
seguito dal suo servitore.

Roberto ricambiò con disinvoltura il saluto ossequioso dei presenti,
poi tolse dalle mani di Giuseppe due bottiglie e le posò sulla tavola.
Tomatis e Galosso si chinarono a esaminarle: erano singolarmente grosse
e panciute, coperte di ragnateli e di terriccia.

— Dunque? — disse Roberto, dopo aver fatto cenno al servitore che se ne
andasse. — Cosa vi pare?

— Roba vecchia — mormorò il maestro, — roba veneranda.

— Il turacciolo è sano — osservò l’oste.

— Sanissimo — confermò il segretario. — Ma non si può giudicare senza
assaggiare. Un cavatappi, presto!

— Un momento, un momento! — esclamò Roberto, mettendosi a sedere. — La
provenienza, per bacco! Non volete sapere donde provengono? È una cosa
curiosa. State a sentire. Stamane, uno degli uomini che adesso stanno
riattando la mia cantina, mi venne ad avvisare che in un certo punto il
muro pareva molto leggiero. Andai a vedere. Infatti i colpi di martello
suonavano come su corpo vuoto. Io pensavo: che sarà? Il capomaestro, il
fittaiuolo, i muratori, i contadini, chi diceva una cosa, chi ne diceva
un’altra. Alla fine cadde un mattone, si trovò un vano, e in fondo al
vano queste due vecchiette.

Galosso e Tomatis guardavano intentamente Baino, che lavorava col
cavatappi. Lucia aveva già portato i bicchieri.

— Attenti! — disse Tomatis, tenendo una mano in aria con le dita tese e
allargate, — Adesso vedremo con chi abbiamo da fare...

L’oste mescè bellamente un liquido chiaro e scolorito, che parve anche
privo d’ogni forza e d’ogni aroma.

— Ehm! — fece Galosso, dopo averlo odorato. — Ma sarà poi vino?

— E cosa volete che sia? — disse Baino.

— Cosa volete che sia? — ripetè con maggior forza Tomatis.

— Così a prima vista si direbbe gazosa — susurrò l’ostessa.

— Non dite sciocchezze — bofonchiò Galosso. — La gazosa a quel tempo
non era ancora inventata.

— Di grazia, a che tempo? — domandò il maestro.

— Al tempo... dei tempi.

— Già. Oh già, già. Ma precisate un po’ se potete.

— Potrei, potrei... ma non voglio.

Discutevano così vanamente, puerilmente, combattuti dalla bramosia di
gustare il liquore misterioso e dall’apprensione d’un possibile errore.

Vedendo che nessuno si serviva, Roberto prese un bicchiere, gustò, fece
col capo un atto di consenso e lo vuotò in due sorsi.

— Ebbene, ebbene, ebbene? — chiesero tutti con gran curiosità.

— Poh! non c’è male — rispose Roberto.

— Davvero? — disse Tomatis. — E che vino è?

— Chi lo sa!

Baino assaggiò, meditò, sentenziò:

— Vin di Sardegna.

— Sicilia, Sicilia — mormorò Galosso, annusando più che assaggiando.

— Spagna! Io dico Spagna! — esclamò Tomatis, dopo aver sentito il
sapore. — Oh mi ricordo benissimo! Ne ho bevuto l’anno passato,
quando monsignor Bodrero, per sua bontà, m’invitò a pranzo. Mi ricordo
benissimo: alle frutta egli si voltò a un servitore e gli accennò che
portasse una certa bottiglia, e...

— Era vin di Sicilia — interruppe il segretario.

— O questa è curiosa! Cosa volete sapere voi che non eravate presente?

— Me l’ha detto il sindaco.

— Ma se non c’era neanche lui!

— Sì che c’era.

— No che non c’era!

— Basta, basta! — esclamò Roberto, imponendo silenzio. — Cosa andate a
cercare? Spagna o Sicilia o Sardegna, fatto sta che è bevibile.

— Dunque beviamolo — disse Tomatis, sorbendo adagino adagino.

— L’importante è che non sia veleno — barbugliò Galosso.

A queste parole, Roberto, Tomatis e Baino dettero in una gran risata.

— Heheh! — fece il segretario impermalito. — Non c’è da fidarsi. Alla
fin dei conti questo è un liquido molto... molto stagionato; e scoperto
in una casa antica. In fatto di veleni gli antichi non scherzavano,
ne avevano dei potentissimi. Queste sono cose conosciute, cose che si
leggono nei libri...

— Ma io — gridò il maestro, — non ho mai letto che i veleni
s’imbottigliassero come il vin santo, nè che si tenessero al fresco in
cantina!

— Eh diavolo! — soggiunse Roberto, fingendosi offeso. — E poi non
discendo mica dai Borgia, per quanto io sappia!

Galosso protestò subito calorosamente che non aveva nessuna intenzione
di far ingiuria nè al signor Duc nè alla sua spettabile famiglia. E, a
conferma, buttò giù due bicchieri l’un dietro l’altro.

L’oste e il maestro seguirono coraggiosamente e reiteratamente il suo
esempio.

D’improvviso Tomatis balzò nel mezzo della stanza, alzò prima un
ginocchio, poi l’altro, fino al mento, e tornò al suo posto dandosi una
fregatina di mani.

— Cosa c’è? — chiese Galosso.

— Eh niente, niente.

— Dite su: v’ha già dato alla testa?

— No, ma non vorrei abusare, non vorrei eccedere...

— Oh oh oh! Un bevitore esercitato, un beone...

— Un beone io? Dite un ubbriacone, addirittura! No, no, sto sempre
nei limiti, io. Ed è appunto per questo che... Sentite, supponiamo
che questa roba così buona, invece che a bicchieri si dovesse bere a
bicchierini, a bicchierini da rosolio, per esempio, e capirete che...

— Quante storie! — interruppe Galosso. — Io non mi sono mai sentito
così bene.

— Anch’io, per diana! — gridò l’oste, servendo intorno.

Quando la prima bottiglia fu vuota, Roberto accennò a Baino di sturare
la seconda. E seguitarono a mescere e rimescere senza verun riguardo.
Parlavano tutti insieme; andavano tutti d’accordo nel lodare il buon
liquore; e tutti, chi più chi meno, cominciavano ad avvertire i primi
sintomi dell’ebrietà. Ma era una ebrietà lene e gentile. Il liquido
sottile mordeva e blandiva il palato; bruciava e lusingava la gola;
ungeva, a guisa d’olio finissimo, i perni e le girelle del pensiero;
moveva il meccanismo della parola; diffondeva per tutte le fibre uno
spirito arcano. E l’anima anch’essa godeva come il corpo: partecipando
ai suoi moti, alle sue vibrazioni, ai suoi scatti; si alleggeriva,
si aggrandiva, s’infervorava; e tutto questo era delizioso oltre ogni
dire.

Tomatis, di sua natura assai posato e flemmatico, si ringalluzzì tutto
e acquistò una parlantina viva e simpatica.

Galosso, di maniere così bisbetiche e d’indole tanto burbera che in
paese gli avevano messo il soprannome di Pietro-Muso, si addolcì, si
esilarò, e cominciò anche lui a chiacchierare come una donnicciuola e a
gesticolare come un burattino.

Baino, un omaccio con cui non sempre si poteva discorrere, cianciava,
gestiva, beveva con un garbo molle e riposato, che aveva un non so che
d’infantile.

Roberto, alla cortesia e benignità naturali, aggiungeva quella sera
una longanimità, una pazienza mirabile: dava retta a tutti, sorrideva
di tutto, tollerava modi insolitamente famigliari; e non mostrava
d’accorgersi che mani indiscrete e d’una nettezza un po’ dubbia si
posavano a ogni momento sulle sue, e gli palpavano le braccia, e gli
brancicavano i panni.

— Viva il signor Duc! — esclamava Baino, ex-soldato e patriotta. — E
viva l’Italia!

— Viva il signor Duc e viva il suo vino! — diceva invece Galosso, con
gli occhi scintillanti e la faccia piena di contrazioni gioiose.

— Ecco — così ragionava Tomatis, alzando il bicchiere e opponendolo al
lume: — chi volesse parlare un po’ bene, dovrebbe dire che il signor
Duc ha ritrovato il nettare, cioè il vino scelto, il vino di bottiglia,
lo sciampagna di Giove e degli altri Dei!... Ma più che un vino, io
credo che noi stiamo bevendo un... un... Eh, giurabbacco, aiutatemi
voi! Signor Duc, mi raccomando: lei le sa queste cose. Noi stiamo
bevendo un...?

Roberto si strinse nelle spalle.

Il buon maestro raggrinzò la fronte, torse gli occhi, battè le nocche
sulla tavola, e poi ripigliò trionfante:

— Io credo che noi stiamo bevendo un liquor magico, propriamente
magico; ciò che i pagani chiamavano un filtro... anzi, un elisire...

— L’Elisir di lunga vita — suggerì Baino.

— L’Elisir d’amore — disse Roberto.

— L’Elisir d’amicizia! — esclamò Tomatis, che brillava tutto. — Poichè
noi siamo amici, noi. Viva l’Elisir degli amici! Peccato non averne una
brenta.

— Bravo! — gridarono tutti. — Bravissimo!

— Io spero — disse Baino, commosso — che continuerete a onorarmi, a
onorarmi sempre... di giorno e di notte.

— Ma sempre, ma sempre! — rispose Tomatis, levandosi in piedi. — Questo
d’ora in poi sarà il luogo sacro, il tempio dell’amicizia.

— L’amicizia è una cosa veramente straordinaria — osservò Galosso.

— E divina — aggiunse Tomatis, porgendo la mano al suo intrinseco.
— Dunque siamo intesi? Ci raccoglieremo sempre qui, tutti qui... Che
bella cosa! Che Cavallo Grigio d’Egitto! Questa diventerà l’osteria dei
Quattro amici. Quattro, sempre quattro, cioè tre più uno. Quest’uno è
lei, signor Duc. L’ultimo arrivato. Ehi, ehi! ma non sarà mica il primo
a partire? Non gli verrà mica lo sghiribizzo d’andarsene via? Vorrei
veder questa!

Roberto tentennò mollemente il capo, e fu applaudito come per un bel
discorso.

— Ah no! — seguitava a cantare il maestro. — Lasciarci in asso poi no!
Lei non è degno di stare in città... Voglio dire: la città non è degna
d’averlo. Lei è una brava persona. Ha un cuor tanto fatto... un cuore
di Cesare... di Pompeo il Grande. Un gran cuore e una bella mente.
Sicuro, una mente lucida, osservatrice. Resti con noi. Qui troverà da
studiare e da divertirsi. Lei ha viaggiato... Oh! Creda a me: non fa
niente bisogno di andare fin

    Nelle orientali Indie felici,
    Poste di Persia ne’ liti amici

come dice un nostro poeta, per... Dov’ero arrivato?... Ah sì! Lei è un
uomo superiore a ogni eccezione; resti con noi, e un bel giorno noi,
tutti d’accordo, le procureremo una bella soddisfazione.

— Scommetto che ha già indovinato — disse Galosso.

— Oibò! — esclamò Tomatis. — Come volete che faccia a indovinare? È
troppo modesto. Santa Caterina da Siena diceva: «_Quando si parla bene
di voi, non si parla di voi_».

— E cosa significa? — chiese Roberto.

— Significa... Ma non gli state tanto a ridosso! Lasciatelo dire.

— Ma cosa volete che io dica? Se non ho ancora capito...

— Faccia un po’ il piacere — ripigliò il segretario. — Com’è possibile
che non si sia accorto... Insomma oramai l’abbiamo tutti in tasca, caro
lei.

— Ma cosa? Ma chi?

— O bella! Il sindaco presente. E appena sarà andato al diavolo...
Lasci fare a noi... Qui in paese tutti ricordano ancora che il suo
signor padre è stato nostro consigliere per quattordici anni...

— Tredici più uno — mormorò il maestro.

— Per quattordici o quindici anni, e quindi...

— Giusto, giustissimo! — interruppe l’oste.

— E noti, signor Roberto, che dopo il consiglio sempre veniva a far
colazione qui. Sedeva a questa tavola, domandava un brodo caldo, due
uova al tegame, vino, frutta e formaggio. Mi pare ancora di vederlo...
Povero signore! Non poteva soffrire le mosche, lui. Quando ne trovava
nel piatto, non diceva verbo, faceva una smorfia e dava tutto al cane.

— Bei tempi quelli! — sospirò Tomatis. — Bei tempi! Patriottismo,
aspirazioni, cose grandi e sublimi. L’indipendenza d’Italia si chiamava
un sogno, eppure s’è avverata. Bei tempi.

— Tempi che non torneranno più — gemette Galosso, con le lagrime agli
occhi, — mai più, mai più...

— Torneranno, torneranno — disse Baino, con la voce alterata anche lui.
— Li faremo tornare noi, noi quattro. Ma bisogna tenersi uniti.

— Viva l’unità! — gridò Tomatis, rianimandosi.

— L’unità è fatta — disse Galosso; — e cosa fatta capo ha. Pensiamo a
noi, pensiamo all’avvenire e... e concludiamo.

Baino diè di piglio alle due bottiglie, le pesò, le scrollò, le depose.

— Vuote — diss’egli. — Farò portare del mio...

— Niente, niente, niente! — gridarono, a una voce, Galosso e Tomatis. —
Concludiamo.

— È fatto — disse Baino. — Siamo uniti.

— Per sempre? — domandò Tomatis.

— Per l’eternità — rispose l’oste.

— Per l’eternità? Cosa diavolo?

— Avete paura di morire?

— Che! Niente paura... Solo vorrei sapere, vorrei essere proprio
sicuro...

— Che c’è un’altra vita? — susurrò Galosso.

— Questo me l’hanno detto e ripetuto quando ero ragazzo; i preti
ne parlano sempre; e i galantuomini ci credono, o fanno come se ci
credessero. No, no, lasciamo andare.

— E dunque? — disse Roberto.

— Vorrei esser sicuro di ritrovarvi...

— Nella valle di Giosafatte, il dì del giudizio? E perchè no? Fisseremo
l’ora e il punto, tutto.

L’oste pigliò il maestro per una manica, lo tirò a sè:

— Sentite, Tomatis, voi siete il più vecchio, voi partirete il primo...

— Gli anni non contano — interruppe Tomatis, liberandosi con una
stratta. — Oggi a me, domani a te, o viceversa. Storie! Ricordatevi
bene: non bisogna mai far pronostici, mai e poi mai!... Or via...
Torniamo da capo. Dunque ecco qui: noi dobbiamo promettere...

— Noi dobbiamo giurare — corresse Galosso.

— Noi dobbiamo giurare di non dividerci più. Ora supponiamo che uno di
noi se ne vada al mondo di là, gli altri, nel termine di...

— Adagio — esclamò Baino. — Prima d’impegnarsi, sarà bene stabilire
esattamente tutte le condizioni.

— Avanti, avanti! — disse Galosso. — Nel termine di quindici giorni, va
bene?

— Diavolo! mi pare un po’ poco! — osservò Roberto, ridendo.

— E la famiglia? E gli affari? — disse Baino, impensierito.

— Un mese? — ripigliò Galosso. — Quaranta giorni?

— Tre mesi — rispose Roberto; — mettiamo tre mesi. State tranquilli,
quello che arriverà prima in paradiso, non si annoierà di certo: tante
cose da vedere, tanta gente da salutare, tanti santi da riverire...

— Bene — disse Tomatis; — ora gioverà il ricapitolare brevemente ciò
che dicemmo sin qui.

— Perchè? — esclamò Galosso. — È una cosa tanto semplice, tanto
naturale...

— Ho detto: brevemente, ricapitolare brevemente. Non volete? Tiriamo
via... Dunque siamo intesi? Se uno di noi muore, gli altri non lo
lascieranno solo lassù, o laggiù, più di tre mesi. È chiaro?

— Come la luce del sole — rispose Roberto.

— Non occorre altro — aggiunse Galosso.

— E birba chi manca! — gridò Baino, stendendo la destra.

Una delle bottiglie, urtata nel collo, cadde sulla tavola, e rotolò
verso l’orlo; Galosso allungò le mani per fermarla e buttò giù anche
l’altra: tutte e due scoppiarono in terra.

— Ecco — disse Roberto: — unite in vita, unite in morte!

Ma Galosso, Tomatis e Baino si guardavano in viso l’un con l’altro,
pallidi e sbalorditi. In quel silenzio mortale, s’udiva russar
l’ostessa, addormentata sur un panchetto in cucina. I minuti volavano.
Alla fine il maestro alzò lentamente il capo, fissò gli occhi sulla
parete di fronte e, senza saper più quel che si dicesse, articolò:

— _Mane, Techel, Phares._


XV.

Il cielo si veniva rischiarando languidamente; la nebbietta cenerognola
che ricopriva la pianura, mossa da una leggiera brezza che alitava da
levante, cominciava a dileguarsi: ma il silenzio era ancor vasto, la
quiete solenne.

A un tratto si sentì un colpo, poi un altro; e, dopo un breve
intervallo, altri ancora, vicini, lontani, da ogni parte.

La caccia era aperta.

In alto passavano ad ali tese piccole ombre spaventate e fuggenti;
altre si spiccavano dagli alberi, frullavano dai cespugli, schizzavano
fuori dai solchi.

I cacciatori, a brigatelle, a coppie, o soli, tenevano dietro
studiosamente ai loro bracchi, con gli schioppi in pronto.

Il chiarore andava gradatamente crescendo; e alla fine il sole si
affacciò all’orizzonte, sfavillante e maestoso, e prese a salire
nell’aria pura, sulla distesa dei campi luccicanti di rugiada. La piena
luce raddoppiò l’alacrità degli uomini, l’ardore e la ferocia dei cani:
si udivano chiamate, fischi, latrati, guaiti, mille voci confuse e
indistinte; le schioppettate spesseggiavano, il selvaggiume cadeva o
s’involava.

Ma il cielo si faceva smagliante, i raggi cocenti. Via via che il caldo
diveniva più intenso, i cacciatori s’inoltravano nei boschi, entravano
nelle cascine, nei casolari, cercavano le osterie.

Gli spari diradarono, e verso mezzogiorno cessarono affatto.

I poveri animali che vagolavano sgominati nei campi di stoppie, di
trifoglio, di granturco, si posavano, si raccoglievano, si rintanavano;
credevano ritornata la pace, e quella non era che un’effimera tregua;
credevano l’aspra persecuzione finita, e, ahimè, non faceva che
incominciare!

Roberto, uscito di buonissima ora con Giacomo e Tadò, tornò a casa
verso le undici con due misere quaglie nella carniera, affamato,
assetato e tutto molle di sudore e di guazza.

— Grazie tante — rispose a Giacomo, che gli domandava se volesse
cacciare ancora dopo pranzo; — ne ho avuto abbastanza. Va tu, se vuoi,
e buon divertimento.

A vero dire egli non aveva mai sentita una gran passione per la caccia:
buon esercizio, bel passatempo, ma che non meritava nè diligenza
nè fatica. Eh no, non metteva conto di alzarsi sulla prim’alba, e
camminare ore ed ore attraverso i solchi, sotto la sferza del sole,
per far barbaramente la guerra alle più timide ed innocue bestiole di
questo mondo! Innocue? Utili, utili, anzi utilissime, perchè assidue
distruggitrici d’insetti. Sicuro! Si ricordava di aver letto, non
sapeva più se in un libro o in un giornale, che l’autorità avrebbe
dovuto proibire assolutamente la caccia delle quaglie, poichè ognuna di
esse vale non meno di cinquanta lire, chè appunto di tanto fa aumentar
la raccolta con la sua presenza nei campi. Egli ne aveva preso una
coppia, dato all’agricoltura un danno di cento lire: per quel giorno
bastava.

E poi voleva anche esser libero di sè; desinare, riposare, e fare una
passeggiatina per il fresco fino alla chiatta.

Egli continuava ad andarvi di frequente, vale a dire quasi tutti i
giorni; si poneva a sedere accanto a Michele, or sur un arginetto,
ora sur un tronco rovesciato, cominciava a parlare di cose diverse e
leggiere, faceva cadere il discorso sulle guerre dell’Indipendenza
o sulle campagne contro i briganti, e mentre il veterano narrava,
contemplava Susanna.

Era un piacere intenso e soave il vedere quella cara e forte creatura
andare e venire dalla casupola all’orticello. Ella rispondeva ai suoi
saluti, alle sue parole, ma però sempre un po’ alla lontana. Di tanto
in tanto volgeva pure gli occhi verso di lui, e lo guardava quasi
furtivamente, aggrottando le ciglia. Era compiacimento o era fastidio?
Gioiva di vedersi vagheggiata o se ne adontava? Come chiarirsi?...
Roberto sentiva in lei qualche cosa che non sapeva spiegare; ma che ora
gli piaceva, ora lo indispettiva, e talvolta gli incuteva perfino una
certa temenza. Egli l’ammirava per lo più serenamente, come avrebbe
ammirato una bella pianta, un bel fiore, ma a volte soffriva nel
vederla così franca, così indifferente; avrebbe voluto avere su di lei
qualche autorità, qualche potere, e chiamarla, parlarle, tenerla lì non
fosse che un momento... Allora, preso da un’impazienza vana e puerile,
alzava subitamente la voce, accentuava le parole, ampliava o rafforzava
i suoi gesti, s’ingegnava di attirare e di fermare la sua attenzione.
Ma Susanna, senza pur mostrarlo, non si lasciava pigliare in nessun
modo.

Egli cercava bensì di piacerle, d’entrarle in grazia, di farsela amica,
ma ripeteva continuamente a sè stesso che tra loro non ci poteva nè ci
doveva essere alcun legame. No, no, invaghirsi di Susanna significava
rinunziare alla tranquillità, alla pace di cui godeva in quei giorni, e
gettarsi deliberatamente in un pelago d’inquietudini, di delusioni, di
arrabbiature, e fors’anche di rimorsi. L’idea di parlarle volgarmente
d’amore, destava in lui un senso di viva e sincera ripugnanza, tanto
ella pareva riguardata in tutto e di condotta irreprensibile, tanto il
suo aspetto attestava il candore dell’animo, un’alta e pacata stima di
sè.

— Ma! — pensava pur talora. — Chi sa? L’apparenza inganna. Può darsi
benissimo che a Casaletto, a Riverasco, o altrove viva qualche bel
giovinotto, padrone del suo cuore e destinato a diventare o prima o poi
suo marito. E allora?... Così sia.

E invece di combattere e di respingere il dubbio, lo accoglieva;
cercava, raziocinando, di mutarlo in certezza, poi concludeva: — Ecco,
così sarebbe finita, e finita nel miglior modo possibile, cioè prima
d’incominciare.

Quand’egli, asciugato e rivestito, discese nel salotto da pranzo, trovò
sulla tavola, oltre al solito giornale, anche una lettera.

Era quel capo scarico di Renzo Lorenzati che gli chiedeva se non avesse
ancor finito di piantar cavoli, e minacciava di capitargli addosso fra
breve tempo, con una numerosa, bizzarra e sollazzevole compagnia.

— Già — pensò Roberto, mettendosi subito di cattivo umore, —
capacissimo, lui, di arrivarsene qui con Dompè, con Di Pagno, con
Domitilla e compagnia bella. Una cara improvvisata. Non ci mancherebbe
altro! Non ho nessuna, nessunissima premura di rivederli e di
riabbracciarli. Dunque... dunque bisogna risponder subito e in modo da
tenerli lontani. Non voglio seccatori, io...

Ci pensò su durante tutto il desinare, e prima e dopo il sonno.
Sdegnando ogni menzogna e ogni sotterfugio, e non avendo ragioni da
mettere innanzi, decise di manifestare semplicemente e fermamente il
suo vivo desiderio di essere lasciato in pace. Andò nello studio e si
pose a tavolino.

Scriveva da pochi minuti, quando udì Giovanna chiamar Giacomo, prima a
voce alta, poi strillente, poi angosciata.

Si alzò conturbato e si affacciò alla finestra che dava sul cortile. La
donna continuava a scalmanarsi; Rocco, Giuseppe, Felice accorrevano per
sapere che diavolo avesse.

— Cosa c’è? Cosa c’è? — esclamò anche il padrone. E discese senza
aspettar risposta.

Ma come fu in basso, vide Giovanna alzare le braccia e andare incontro
al figlio, che veniva dal frutteto, senza troppa fretta, dando dei bei
morsi a una mela.

— Cosa fai? — gridò la madre. — Perchè non rispondi?

— Faccio merenda — rispose il giovane. — M’avete chiamato?

— È un’ora che ti chiamo, gnocco! Guarda, guarda come siamo tutti
spaventati.

— Per me no! — disse Rocco. — Cos’è stato?

— Ma non hai capito?

— Niente! Nessuno ha capito niente, non è vero, sor Roberto?

— Stavo in pena per lui, ecco — ripigliò Giovanna. — Stavo in pena per
questo mammalucco. Adesso mi passa, ma che spavento!... Sapete che son
dovuta andare a Casaletto per parlare al mugnaio? Bene; dopo sbrigata
la faccenda, mi sono fermata un momentino in piazza con la Marconetta,
la Boscarina e Menica Gorla. È così che ho visto passare prima il
medico tutto frettoloso, poi il parroco tutto scombussolato. Si seppe
subito che correvano ad assistere un cacciatore che si era fatto male
in mezzo alla campagna. Lì su quel subito non pensai a niente, ma
appena per istrada mi ricordai... Ohi! ohi! quando sono uscita Giacomo
voleva andare all’aspetto dei colombacci nel boschetto del Bricco. Sarà
andato? Se il moribondo fosse lui? Il dottore e il prete correvano
giust’appunto da quella parte... Maria Santissima! Che spavento ho
avuto!

— Ma no! — disse Giacomo con un’alzata di spalla. — Prima di tutto
ho cambiato idea, e poi... e poi non bisogna aver paura. Certe cose
accadono solamente a chi non sa maneggiar l’arma.

— Ma cosa vai cercando? — esclamò Rocco. — Se non sai ancora chi sia il
ferito. Giuraddiana!

— Eh, lo immagino! Qualche cacciatore di fuorivia. Tutta gente
malpratica...

— E batti lì! Se ti dico... aspetta almeno d’aver sentito il nome...

Allora Felice si offrì di dare una corsa fino al paese per raccogliere
informazioni, ma suo padre lo mandò invece a condurre le bestie alla
pastura.

Roberto tornò nello studio. Quand’ebbe finito di scrivere, alzò gli
occhi verso l’occidente e vide ch’era ormai tardi per andare alla
chiatta. Aspettò con impazienza che la cena fosse all’ordine, poi
mangiò svogliatamente, rifiutò il caffè, e uscì in fretta e in furia,
quasi temesse di mancare ad un appuntamento.

Camminando verso Casaletto, sentiva le ossa gravi e fiaccate dallo
strapazzo di quella mattina, e per giunta un fastidio, un’inquietudine,
un’apprensione ch’egli attribuiva semplicemente alla lettera di
Lorenzati.

— Che rompiscatole! Mi ha guastata tutta la giornata. Eh, ma gli ho
scritto di buon inchiostro... E se non basta, riscriverò.

Il vecchio castello di Casaletto torreggiava là a sinistra, tramezzo
agli alberi frondosi. La spera del sole rimaneva già dietro: così era
tutto contornato da una gran luce vaporosa, che talora con vivissimi
raggi penetrava per le feritoie e per le fessure dei muri diruti.

Roberto guardava con la testa per aria, e non si accorgeva che Galosso
e Tomatis gli venivano incontro parlando e gesticolando. Quando furono
poco distanti, si fermarono e lo salutarono con voce sommessa e in aria
compunta.

— Lei sa già tutto? — disse poi il maestro, accostandosi.

— Vi ripeto che non sa niente! — brontolò il segretario.

— Sa già tutto, vi dico; io giudico dalla cera.

— So che è accaduta una disgrazia — disse Roberto.

— Vedete! — esclamò Tomatis trionfante, rivolgendosi all’amico.

— Ma non so chi sia il ferito — soggiunse Roberto.

— Il ferito? — gridò Tomatis. — Poveri noi! Dica pure il morto. Da
prima era corsa voce che Baino fosse soltanto ferito, ma poi...

— Baino!? — esclamò Roberto colpito. — L’oste del _Cavallo Grigio_? Dio
santo! ma come mai...

— Baino, Baino, Baino — ripeteva il maestro. — Il nostro povero
Baldassare... stamattina... s’è ammazzato stamattina...

Roberto frantese:

— Come! — disse egli. — Un suicidio?

— No, signore — rispose Tomatis: — un caso, un accidente...

— E perchè no? — interruppe Galosso. — Si è ucciso da sè, l’uccisione
di sè stesso si chiama suicidio.

— Per amor del cielo! — replicò il maestro. — Suicidio è la morte
volontaria che l’uomo dà al proprio corpo. Volontaria, capite! Ora noi
sappiamo benissimo che Baino non aveva nessuna, nessunissima volontà di
morire.

— Questo lo dite voi, ma... ma in sostanza io non ci vedo chiaro.

— Siamo alle solite! Sospettate sempre di tutto.

— Oh, oh! Come c’entra ora questo discorso? Siete voi che...

— Chetatevi! Finitela! — gridò Roberto con tono autorevole, battendo a
terra il bastone.

Il maestro e il segretario si scostarono un poco, mortificati.
Continuarono però ad accompagnare il giovane signore, che tornava
lentamente a casa.

— Via — disse Roberto dopo un momento, — raccontatemi un po’ meglio
come andò il fatto. Ancora non mi è riuscito di raccapezzar niente.

Tomatis fece ancora due passi e mormorò:

— Se vuol sentire quello che so, eccomi pronto a dirglielo.

— Sentiamo.

— Lei sa chi è Stefano Pron?

— No davvero.

— È la guardia campestre. Dunque oggi, un po’ prima del tocco, Stefano
Pron traversava il Campaccio; quand’è nel mezzo, vede a poca distanza,
a piè d’un gelso, un uomo immobile, in una positura stranissima. Va
più direttamente verso di lui, lo riconosce, lo chiama: — Ohe Baino! —
Niente. Si accosta, lo tocca: è freddo!... La guardia e tutti quelli
che hanno poi visto il cadavere argomentano così: Baino ha voluto
arrampicarsi sul gelso, attaccandosi a un certo ramo che gli pendeva
sulla testa; non lo potendo arrivare con le mani, ha capovolto lo
schioppo e cercato di piegarlo col calcio; i cani erano alzati; un
ramoscello si ficcò tra i grilletti, e boum!... Guardi, sor Roberto,
la botta è entrata nella fontanella della gola ed è corsa giù fin nel
basso ventre; palpando si sente il piombo raccolto, chiuso come in un
sacchetto. Brrr! sudo freddo a pensarci...

Non parlarono più per un tratto, fin davanti al portone del Fortino.

— Sentite — disse Roberto, — l’osteria è chiusa; forse non sapete dove
passar la serata: volete favorirmi?

Galosso e Tomatis si voltarono subito a lui con quel ringraziare che
accetta, e lo seguirono nel salotto terreno.

— Cosa posso offrirvi? — riprese Roberto. — Vino? Liquori?

— Vino no! — esclamò il maestro.

— E neanche liquori! — aggiunse il segretario.

— Prenderemo il caffè; una buona tazza di caffè rimette lo stomaco.

Vi fu un altro silenzio. Tomatis e Galosso giravano gli occhi in qua e
in là, fregandosi le ginocchia.

Giuseppe entrò col lume, lo posò sulla tavola e si ritirò.

— Mah! — sospirò Tomatis.

— Povero diavolo! — disse Roberto.

— Ma che sventato, però! — saltò su Galosso. — Che imprudente! Patrito,
il più vecchio cacciatore del paese, mi diceva quest’oggi che Baino è
sempre stato così; e guai ammonirlo, guai aprir bocca! Dava sulla voce,
entrava in bestia...

— Eh via! — fece Tomatis. — Adesso è morto...

— Chi l’avrebbe detto ieri sera? — esclamò Roberto. — Era tranquillo,
era allegro... Poveri noi, cos’è mai la vita!

A quelle parole Galosso fece un viso così arcigno e increspò tanto le
ciglia che le lagrime, già in pelle in pelle, sgorgarono giù per le
gote.

Allora Tomatis si mise a ridere, a ridere d’un riso convulso, d’un riso
a scosse che gli faceva saltellare la pancetta come fosse andato di
trotto.

— Eh, eh, eh! sor Roberto, lei forse non ricorda più il patto
d’amicizia, il patto solenne? Non ricorda più quello che abbiamo
giurato? Se uno di noi manca ai vivi, gli altri... eccetera, eccetera.
Se fossimo superstiziosi, eh? Dica un po’, se fossimo superstiziosi?...


XVI.

L’ora della messa grande a Casaletto; i cristiani sono tutti in chiesa,
sulla piazza non son rimasti che i cani: tre o quattro cagnuzzi da
pagliaio che balzellano e si rincorrono con la coda in aria, e un
cane da caccia, di razza non troppo fine, ma dall’aspetto serio e
mansueto. Questo, sdraiato nell’ombra del murettino che separa la
piazza dall’orto della canonica, fissa gli occhi lucenti sulla gran
porta nera che si è chiusa dietro al padrone, e rizza le orecchie ogni
volta che la vede riaprirsi. Ma può ben aspettare: la messa è appena in
principio, e il padrone non uscirà certo prima della fine.

Entrando, Roberto s’è fermato a destra, presso la pila dell’acqua
benedetta. Susanna è in ginocchio a sinistra; il viso, per essere
abbassato e la chiesa un po’ buia, è in ombra, ma i lineamenti
generali e l’atteggiamento la distinguono da tutte le donne che stanno
all’intorno.

Il giovane signore non volge mai il capo per quel verso, ma solo
l’occhio o la coda dell’occhio: bada a non farsi scorgere dai contadini
che ha ai fianchi e alle spalle, poichè la sola idea che qualcuno possa
attribuirgli intenzioni men che oneste, lo muove a sdegno. Dà pure, di
quando in quando, qualche occhiata obliqua ai suoi vicini, studiandosi
di indovinare i loro pensieri. Alcuni guardano in aria, balordi,
melensi, come se ignorassero perfino d’essere al mondo; altri parlano
sommessamente dei loro affari; i più bisbigliano le preghiere che
sono stati ammaestrati a recitar da bambini, colla mente alla siccità
ostinata, alla moglie infermiccia, alla mucca pregna, alla zappa cui
bisogna cambiare il manico. Nessuno occhieggia Susanna.

La messa fu eterna. Roberto impaziente, nervoso, uscì il primo. Tadò
gli corse subito alle gambe, poi via festosamente attraverso la piazza.
Ma il padrone lo richiamò, e ristette per veder passare la gente.

Uscirono prima gli uomini, poi più lentamente le donne. Susanna venne
tra le ultime, ma non sola, come Roberto s’immaginava e sperava. Ella
aveva a diritta una ragazza bianca, rossa e pienotta, a sinistra un
giovane vestito con semplicità e con decenza. Alto di persona e largo
di spalle, non aveva nel portamento e nei movimenti quella lentezza
pesante che è propria delle persone avvezze alle fatiche di campagna.
I contadini lo salutavano, ed egli rispondeva, ora portando la destra
alla fronte, ora con un semplice chinar di testa e un sorriso. Arrivato
a una casuccia piccola, ma pulita, posta quasi dirimpetto alla chiesa,
aprì l’uscio e condusse dentro le donne.

— Lo dicevo io! — pensava Roberto. — C’era da aspettarsela. Siamo
giusti, perchè non dovrebbe aver un... L’hanno tutte. Adesso mi spiego
quel suo fare riguardoso, contegnoso... Sfido! L’amico era andato
a fare il soldato. L’amico o lo sposo? Sarà tutt’uno, m’immagino.
Benissimo. Evviva! Affretteremo le nozze...

Provava un’amarezza viva, profonda, affatto inattesa; avrebbe voluto
andar via subito, andar lontano, e stava lì inchiodato, solo ed
astratto, in mezzo ai gruppetti e ai capannelli di cui era piena la
piazza.

— Salve! — disse Tomatis, sopravvenendogli alle spalle. — Cosa fa?
Contempla le facce dei nostri contadini? Eh poveretti!... La campagna
non mantiene quello che prometteva. La raccolta del granturco vuol
essere scarsa. Quelli che speravano di ringambarsi, si troveranno
invece ridotti quasi alla miseria. Ha visto? L’altra sera s’è levato un
temporale che pareva il finimondo: lampi, tuoni, saette da sbalordire;
a Bornengo, al Cerreto, a Vernasca l’acqua pioveva giù a bocca di
barile, qui non ha neanche bagnata la polvere. Stiamo freschi... Dico
_freschi_ per modo di dire... Va già a casa? Bene; vengo un tratto
anch’io.

Traversarono la piazza e s’incamminarono di buon passo per la strada
maestra. Tomatis ogni poco guardava sottecchi il compagno, e non
sapendo come riattaccare il discorso, aggrinzava il naso e storceva la
bocca.

— Già — ripigliò poi, — tanto tempo che non piove... Son due giorni che
tira vento, e ci si acceca dal polverone... Eppure, per star bene, io
ho bisogno di camminare, di stancarmi. E Galosso non vuol più saperne
d’andare a spasso: girare il paese par che gli soffochi il petto, la
veduta della campagna lo rattrista per un altro riguardo... È proprio
così; senza che se ne sappia la ragione, s’è appartato da tutti... Cosa
crede, lei?

Roberto si strinse nelle spalle.

— Non se n’è ancora accorto? — chiese il maestro. — Ebbene se ne
accorgerà. Un po’ falotico, un po’ fantastico lo è sempre stato, quel
buon Galosso, ma ora passa i limiti. Senta questo. Giovedì scorso gli
stetti tanto alle costole, che alla fine lo indussi a venir con me alla
fiera di Riverasco. Eravamo appena arrivati, che già voleva tornar via.
Una fiera è una fiera, si sa: bestiami, granaglie, mercerie, strumenti
agrari, tavole apparecchiate, giuocatori di bussolotti, cavadenti,
saltimbanchi... Galosso cominciò subito a lagnarsi del frastuono, del
via vai, delle gomitate, delle pestature di piedi. Io ridevo. Ecco
che sulla piazza del duomo incontriamo il mio collega Tortalla, il
quale ci dice: — Venite, venite, qui a mancina c’è un ciarlatano che
ha un cane proprio straordinario. — Infatti la gente faceva cerchio
e guardava a bocca aperta. In quel momento il ciarlatano annunziava
al pubblico che il suo barbone, oltre al ballar la monferina, al far
capriole e giuochi d’ogni maniera, conosceva anche tutte le carte da
tarocchi. Mentre parlava, gesticolava, faceva lazzi e alzava per aria
il mazzo, già bell’e pronto... Che è che non è, questo gli scappa di
mano, si sparpaglia in terra, e una carta, una sola, vola diritto sui
piedi a Galosso. Galosso si china e la raccatta. Era la _Morte_! Creda,
due occhi simili non li ho mai visti; in un mezzo secondo è diventato
di mille colori. L’ho preso a braccetto subito e l’ho trascinato via:
temevo afferrasse per il collo il ciarlatano, e... Poveraccio, come
se l’avesse fatto apposta! Non m’ero mai accorto che Galosso credesse
nè al buono nè al cattivo augurio. Per istrada mi domandava se sapevo
chi avesse inventato i tarocchi, perchè tra le figure ci fosse anche
la _Morte_, perchè questa avesse in mano una falce fienaia, e tante
e tante altre cose: sicchè mi pareva proprio di aver con me uno dei
miei scolaretti... Mah! Non c’è dubbio, la fine di Baino gli ha fatto
una grande impressione. Può darsi che pensi anche un po’ troppo a
quel certo patto, a quel certo accordo fatto tra noi... Santo cielo!
non so come si fa a prender sul serio quelle scioccherie... Sì, sì,
scioccherie, fanciullaggini, asinate, cose senza costrutto e che non
valgono niente... perchè se valessero, non si farebbero. Non è vero?

Roberto fece col capo un atto che significava grandissima affermazione,
ma aveva il pensiero rivolto a tutt’altra cosa.


XVII.

Mancava un’ora al tramonto; Roberto staccò dalla parete il suo
schioppo, prese il cappello, uscì di camera. Tadò, che sonnecchiava
sotto un tavolino, si slanciò avanti, tempestò giù per la scala, corse
latrando per tutto il cortile; ma poi, quando vide che il padrone
s’avviava a gran passi verso la Baraschia, tornò indietro mogio mogio
e andò ad accucciarsi a piè del pagliaio. L’esperienza è maestra anche
dei cani: quando il padrone si metteva per quella strada, ogni speranza
di cacciare era perduta.

Roberto non andò fino alla chiatta; giunto al macchione della Vernea,
vi entrò, e si sdraiò sull’erba.

Gli pareva d’aver la mente tutta ingombra di pensieri arruffati e
confusi, ma quando si provava, per dir così, a strigarli, non ne
trovava più che uno solo, indicibilmente grave e molesto: Susanna amava
ed era riamata.

L’immagine di lei gli si presentava a ogni momento: la vedeva prima
in chiesa, nel suo atteggiamento umile, fermo, sereno; poi tosto
fuori, avvenente, attraente, col giovane a fianco, che le parlava e le
sorrideva. Aveva un bel scuotere il capo, un bel fregarsi la fronte, la
visione durava, si prolungava, e non svaniva che per rinnovarsi. Egli
ripeteva tra sè, con insistenza infaticabile, sempre le stesse parole:
— Perchè non dovrebbe avere un innamorato? L’hanno tutte! Alla fin dei
conti è in età da marito...

Con quella certa malafede che spesso usa l’uomo con sè medesimo, quando
è tribolato da un dubbio importuno, voleva pure indursi a credere
ciò che nel fondo del suo cuore non credeva già più: cioè che Susanna
era libera, non dava retta affatto al nuovo arrivato, e tutto quello
ch’egli scorgeva in questa faccenda non era che apparenza e fantasia.

E mentre appunto durava la fatica d’ingannare sè stesso, sentiva farsi
più vivo e più acuto il desiderio di chiarirsi senza indugio.

— Eh già, bisogna che io sappia, bisogna ch’io m’informi... Sì, ma
come? E da chi? Devo parlare direttamente a Susanna? Devo rivolgermi
al padre? Tutti e due possono dirmi in faccia: — Scusi tanto, ma come
c’entra lei? Lei non ha nessun diritto di occuparsi dei fatti nostri.
— E supponiamo che non ci sia niente di vero, che la cosa non sia come
la immagino, che direi poi per giustificare il mio intervento? Ecco:
— Io non ho nessuna, nessunissima intenzione di prender moglie, e mi
piacerebbe che anche Susanna non pensasse a prendere marito. — Che
bella risposta sarebbe mai questa, e garbata, e generosa! Ragioniamo:
credo di abbassarmi, di rendermi ridicolo cedendo a questo impulso?
E allora perchè non me ne vado subito, mentre sono ancor in tempo?
Il cuore invece mi consiglia di... di fare il contrario? E allora...
Adagio. Ho amato non so quante donne, e non ho mai provato il bisogno
di sposarne nessuna. È vero però che, o non erano libere o non erano
degne. Dunque... dunque niente; non c’è conclusione. Oh è un gran
destino che alla mia età... La mia età? Eh via, non sono più uno
sbarbatello, ecco tutto. Del resto non mi sono mai sentito così bene.
Il mio mal essere è tutto morale. Soffro, è vero, ma non farei il
minimo sforzo per sottrarmi al tormento. Gli è come se fossi seduto
troppo vicino a un gran fuoco: non mi riscaldo, abbrucio, ma non mi
risolvo a tirar indietro la seggiola.

Trovata quest’arguta similitudine, si alzò, fece alcuni passi e si
fermò di nuovo. Doveva andar fino alla chiatta? Doveva tornarsene
a casa? E pensando che da un piccolo atto possono derivare grandi
conseguenze, stava lì con gli occhi a terra, dubbioso e perplesso.
A un tratto cominciò a sentire come un mormorìo di voci, ma era così
debole, che gli pareva e non gli pareva; intorno intorno non vedeva che
frasche; si avanzò, separandole con le mani e con le braccia, finchè
scorse la strada.

Susanna era là, a una cinquantina di passi, che discorreva col bel
compagno di quella mattina.

— Ancora insieme! — pensò Roberto, mordendosi il labbro. — Dunque non
si sono più lasciati? Dove possono aver passate tutte queste ore? Eh
diamine! nella casa dove li ho visti entrare. Questo è grave. E adesso
cosa fanno? Perchè quel bel mobile non l’accompagna fino alla chiatta?
Per non essere veduto dal padre? Dunque c’è un intrigo...

Guardando minutamente il giovane, vedeva che non solo la condizione,
ma anche l’età e le forme lo avvicinavano maravigliosamente a Susanna:
sì, parevano proprio fatti l’uno per l’altra; questa considerazione gli
empiva l’animo di cruccio, di gelosia, e lo spingeva a mostrarsi per
troncare in qualche modo il colloquio.

Si gettava già avanti, quando vide Susanna porgere la mano al giovane,
ritirarla quasi senza dargli il tempo di stringerla, e staccarsi
bruscamente.

Quegli, fatta una spallucciata, girò sui talloni e in un momento fu
alla svolta.

La fanciulla scese verso la Baraschia con passo fermo e veloce,
guardando diritto davanti a sè.

— Susanna! — disse Roberto, presentandosi.

Ella si fermò su due piedi e lo squadrò come se penasse a raffigurarlo.

— Sono io — proseguì il giovane signore, — sono io in carne e ossa. Ero
lì che mi godevo l’ombra, quando vi ho vista arrivare. Figuratevi se ho
voluto perdere l’occasione di...

— Scusi — diss’ella, scostandosi alquanto, — ho fatto tardi e mio padre
mi aspetta.

— Tardi! Il sole non è ancora andato sotto, e la vostra casa è lì...
Siete stata fuori tutto il giorno, eh? Per questo avete fretta?

Si accorgeva al colore del volto, all’espressione degli occhi, che un
qualche nascosto pensiero la travagliava; e ciò invece di rabbonirlo,
lo irritò.

— Del resto — ripigliò poi, volgendosi indietro, — anche l’altro aveva
fretta. Guardate: non si vede più.

— _L’altro?_ — diss’ella alzando il viso.

— Sì, colui ch’era con voi.

— Bastiano.

— Si chiama Bastiano?

— Bastiano Millo.

— Bel giovane... Brava! la scelta è buona.

Susanna si strinse nelle spalle e soggiunse pacatamente:

— Bastiano è mio cugino.

— Ah ah! Importa poco, però. Anzi...

— Senta, se vuol malignare...

— Malignare? No che non voglio malignare. Perchè dovrei... Anzi mi
rallegro. Mi rallegro con voi della buona scelta, e... delle prossime
nozze.

Susanna si scosse, gli piantò gli occhi in viso.

— Prossime! Che ne sa lei? Prossime no.

— Ma sicure, eh, ma sicure?

Michele Masino, piantato sulle gambe un poco aperte, con le mani
congiunte tra la schiena e la cacciatora, guardava da lontano
fissamente, severamente sua figlia.

Ella si mosse senza affrettare il passo, senza punto scomporsi.

Quando l’ebbe vicina, Michele le ingiunse di passare avanti con un atto
brusco, ruvido, quasi minaccioso.


XVIII.

— È permesso? — disse Giovanna, fermandosi sulla soglia.

— Avanti, avanti — rispose Giuseppe, che stava apparecchiando la tavola
per la colazione.

— Ecco il latte.

— Date qui. Il padrone si veste; abbiamo tempo a far due chiacchiere.

Mise la lattiera sulla tavola, al luogo solito, poi si lasciò andar sur
una seggiola e si asciugò il viso.

— Pare impossibile, eh? — mormorò Giovanna.

— Ouf! Non sono ancora le otto, e fa già caldo come a mezzodì. Siamo
alla fine di settembre e par d’essere ancora in principio di luglio.

— Ma il tempo adesso si butta alla pioggia.

— Alla pioggia? Ma non vedete che cielo?

— Domani, domani...

— Come fate a prognosticare?... Dal canto del gallo forse?

— Non sa niente? Stasera finisce il triduo.

— Oh allora non dubito più! A quest’ora angeli e santi lavorano già
tutti a riempire le secchie; mi par di vederli!

— Andiamo, via, sor Giuseppe, non dica bestemmie.

— Ma queste non sono mica bestemmie.

— Sono eresie; peggio che peggio! Il Signore ha ragione di mandarci i
castighi...

Roberto chiamò dall’alto:

— Giuseppe! Giuseppe!

— Comandi — rispose il servitore, correndo a piè della scala.

— Attacca, che ho fretta.

— Sì signore. Ma... scusi, perchè non mi ha avvertito? A quest’ora...

Il padrone non gli badò, rientrò in camera.

— Dove vorrà andare? — brontolò Giuseppe, ritornando nel salotto. —
Forse a Riverasco?

— O piuttosto a Bornengo — osservò Giovanna; — oggi c’è mercato.

— E cosa volete che vada a fare al mercato? Non è mica un mercante!

Si udì un’usciata, poi di nuovo la voce di Roberto:

— Giuseppe?... Lesto, per Dio!

— Lo ha morso la tarantola! — susurrò Giuseppe accorrendo.

Ma non aveva ancora toccato il pianerottolo, che si trovò a fronte a
fronte col padrone.

— Ma come! Non sei pronto? Non sei vestito? Cosa fai? Cosa aspetti?

— Ma, santo Dio, se non mi ha detto niente!...

— Te lo dico adesso. E bada, tu vieni con me...

— Dove?

— Oh bella! Dove voglio io.

— Vado ad attaccare...

— Va a rivestirti. Attaccherà Rocco o Giacomo o Felice. Spicciati!

— Non vuol far colazione?

— Spicciati, dico!

Giuseppe scivolò via, mormorando ancora tra i denti:

— Ih, c’è il fuoco nel pozzo!

Giovanna corse a portar l’ordine al marito. Roberto uscì, e prese
a misurare a gran passi il cortile. Innanzi e indietro, innanzi e
indietro, innanzi e indietro... Anche la sera prima non aveva fatto
altro quasi fino a mezzanotte, sempre pensando:

— Cosa può volere Susanna, oggi com’oggi? Cosa può sentire?

E quanto più pensava, tanto più scorgeva che non era facile trovar la
risposta. La conoscenza del cuore femminino che aveva, o credeva di
avere acquistata in città, non gli serviva più a nulla in campagna.
Diceva pure:

— Di chi mi potrei dolere se non di me stesso? S’io mi fossi condotto
come dovevo, e non come uno studentello qualunque, ora non sarei
nell’incertezza. E che incertezza!... C’è un’attenuante però: non
ho ancora dedicato dei versi a «_colei che mi invaghì_;» ma chi mi
garantisce che non ne dedicherò in avvenire? Oh insomma bisogna ch’io
trovi una via per uscire da questo laberinto. Bisogna assolutamente
ch’io la trovi...

Ed era andato a letto concludendo:

— Chi sa che la notte non mi porti consiglio!

La notte gli aveva portato il solito, il vieto consiglio di partire.

— Ecco! Me ne vo e la fo finita. Prendo il treno delle dieci e
cinquantatre; appena a Torino vado a trovare gli amici; passo con loro
il resto della giornata, la sera, la notte... cercando naturalmente di
svagarmi, di divertirmi. Gente allegra Iddio l’aiuta. Le cose prendono
una buona piega? Spedisco un telegramma a Giuseppe che faccia i bauli e
venga in città. Non posso aver pace? Non trovo la forza di svincolarmi
da questa stretta indiavolata? E allora... Niente! Adesso è inutile che
io mi stilli il cervello.

Il servitore venne ad avvertire che il calessino era pronto.

— Lodato Dio! — esclamò il padrone. — Su, va a pigliar la valigia...

— La valigia?!

— Sì, la valigia, la mia valigetta. La troverai in camera, sul letto o
sul sofà... Fa presto!

— Ma come! Parte? Va lontano?

— Può darsi ch’io debba andare a Torino... Dico: _può darsi_. Non so
ancor niente. Vedrò quando sarò a Bornengo... Fa presto, sbrigati!

Giuseppe andò, tornò in un battibaleno, e prese posto accanto al
padrone.

La strada era spietatamente inondata dal sole; a ogni buffo di vento la
polvere si sollevava in nuvoli enormi. A quell’ora più nessuno andava
al mercato; qualcuno già ne tornava. Per la vasta campagna si udivano
a tratti voci lontane lontane e onde di suoni non bene espressi, che
per Roberto non avevano nulla d’allegro. Egli si sentiva fortemente
inclinato a veder tutto nero. Gli pareva che la vita sana, florida,
lieta dei primi giorni, si fosse oramai cambiata in una inerte e
noiosa vegetazione. Folate di memorie confuse, strani fantasmi pieni di
malizia e di lusinghe, passavano per il suo spirito, glielo turbavano,
gliel’accendevano, suscitando mille desideri torbidi e indeterminati.
Oh! non vedeva il momento di lasciare quei luoghi!

Toccava spesso e stizzosamente il cavallo, ma entrando nell’abitato e
tra la folla, gli convenne metterlo al passo.

Andando avanti, crebbe ancora l’incomodo, la strettezza della gente
adunata: talchè, arrivato sulla piazza dov’era il mercato delle
granaglie, gli bisognò tirarsi da parte e fermare, per lasciar passare
quattro carri pieni di sacchi.

Dietro ai carri, a qualche distanza, si avanzava un baroccio guidato da
un vecchio; vi erano dentro alcune donne, tra queste Susanna.

Roberto la ravvisò, la salutò. La fanciulla rispose in fretta,
arrossendo leggermente, poi continuò a dare ascolto a una delle sue
compagne. Ma nel vero momento in cui il baroccio passava rasente al
calessino, ella si voltò ancora, scorse la valigetta sulle ginocchia di
Giuseppe, e il colore le fuggì dal viso.

Roberto se ne avvide, notò pure la rapida espressione di pena che
accompagnava quella pallidezza, comprese o credette di comprendere, e
si sentì balzare il cuore.

— Ah! ah! — fece egli tra sè. — Dunque ti dispiace ch’io vada via?
Bene, bene... Ma oramai è troppo tardi. È deciso che la cosa debba
esser così... Penso ai casi miei, io.

E toccò il cavallo. Il legnetto seguitò, ma sempre adagio e non senza
qualche altra fermata più o meno lunga. Roberto tornava a riflettere
alle conseguenze di ciò che stava per fare, ma gl’incagli materiali da
cui era attorniato, ora rallentavano, ora interrompevano addirittura il
corso delle sue riflessioni.

Attraversato il mercato delle uova e degli erbaggi, prima di cacciarsi
tra il bestiame grosso e minuto, consegnò le redini al servitore e
saltò a terra.

— Tira avanti come puoi — diss’egli, — io mi fermo un momentino al
_Caffè Piemonte_.

— Devo andare alla _Corona Grossa_? — chiese Giuseppe. — Devo staccare?

— Niente, niente: mi aspetterai alla stazione.

— Alla stazione? Ma vuol proprio partire? Non arriverà in tempo, sa.
Abbiamo fatto tardi, molto tardi.

Roberto non rispose, attraversò obliquamente la strada, entrò nel caffè
e si mise a sedere vicino all’uscio.

Un vecchio con una papalina bisunta in capo, vestito d’una giubba
verdiccia non fatta al suo dosso, posò sul tavolino un vassoio, poi
versò nella chicchera, sbreccata e punteggiata di nero, una certa
broda, che al colore e all’odore ricordava lontanamente la cioccolata.

Il luogo era pieno di donne, di mosche e di fumo. Due contadine, sedute
a un tavolino in faccia a quello occupato da Roberto, ora annusavano la
bevanda che avevano pronta davanti, or brancicavano le paste per vedere
quali fossero le più fresche e da scegliere: negli atti della bocca,
degli occhi, delle mani, parevano veramente due sconcie ed ingorde
bertuccie.

Il giovane signore, stomacato, pagò e si alzò senza assaggiare nulla.
Prima d’uscire, diede per caso un’occhiata a un antico orologio da
muro, ritto accanto al banco: erano le dieci e cinquanta!

— Possibile! Ma dunque non ho più che tre minuti per arrivare fino alla
stazione? E ce ne vogliono almeno dieci! Giuseppe aveva ragione. Ormai
è inutile che io mi affretti... Ebbene, non mi affretterò...

Dianzi gli pareva d’avere tutto il mondo addosso; ora sentiva il sangue
scorrere tepido e vivo per tutte le vene, rinascere e ricrescere la
fiducia nel suo destino. Perchè?

— Alla fin dei conti, cosa andavo a fare in città? Niente. Sarei
riscappato via subito. Fa ancor troppo caldo; non c’è ancora nessuno...
Perchè non me ne andrei invece un po’ al fresco? Perchè non farei un
giretto in montagna? Dal Fortino a Riverasco, da Riverasco al Morsetto,
dal Morsetto alla Badia di san Magno, al Pian del Lupo, alla sorgente
della Baraschia... Solo però: non voglio importuni, voglio poter andare
avanti o tornare indietro a mio piacimento... Il proposito è buono,
ma avrò la forza di mandarlo ad effetto? Santo Dio! i miei propositi,
le mie risoluzioni non reggono più alla voltata d’occhi d’una bella
ragazza... Dunque a che pro ostinarsi?... Ostinarsi no, ma nemmeno
darsi per vinto... Ragioniamo. Ah no! Basta. Ho già arzigogolato anche
troppo.

E allungò il passo, non pensando più che a risalire nel suo calessino e
a tornarsene a casa.

Arrivato al palazzo Grondana, vide attaccato alla cantonata un gran
cartello bigiognolo, sul quale erano goffamente dipinte certe figure
armate e barbute, in atto di dar la scalata alle mura turrite e merlate
di una nobile città. Sotto si leggeva a caratteri gialli e turchini:

                             TEATRO GRANDE
                  QUESTA SERA GIOVEDÌ, ORE 8 1/2
                    LA DRAMMATICA COMPAGNIA ITALIANA
                          AMILCARE FUGIGLANDO
                             RAPPRESENTERÀ
                            ~L’IRA D’IDDIO~
                                 OVVERO
                  FACINO CANE ALL’ASSEDIO DI BORNENGO
                          MONDIALE-CAPOLAVORO
                            IN QUATTRO ATTI

            _Primi posti cent. 30 — Secondi posti cent. 20._

Roberto fece tre o quattro passi con la testa per aria, e
improvvisamente si trovò a ridosso a un tale che guardava pure in su.
Volle scansarsi, abbassò gli occhi e riconobbe Tomatis.

— Oh, oh, oh! — fece il maestro. — Anche lei qui? Anche lei
magnetizzato da quella robaccia? Il cartellone vale i teatranti, sa.
Un branco di vagabondi che hanno oramai girata tutta la provincia. Il
capo però dev’essere un furbo bollato. Credo che nel suo repertorio
non abbia altro che questo dramma, ma come sa variare il titolo! Io ho
già visto _La presa di Riverasco_ e _La difesa di Casaletto_; non mi
fermerò certo a vedere _L’assedio di Bornengo_. E neanche lei, eh?

— No davvero — rispose Roberto. — Mi trovo qui per combinazione... e
torno indietro subito.

— Ha lasciato il calessino all’albergo?

— No, l’ho mandato alla stazione.

— Oh guardi! vengo anch’io alla stazione; vengo incontro a Galosso,
che è andato a Torino ieri, e deve tornar oggi col treno delle undici e
venti... È un pezzo che non l’ha più visto?

— Sono parecchi giorni.

— Sa perchè è andato a Torino?

— Qualche affare?

— No.

— Per divertirsi?

— No.

— E allora?

— Glielo do a indovinare...

— Insomma?

— Insomma è andato per consultare un medico, un medico di grido. Cosa
vuole? il nostro non gli basta più; nè il nostro nè quei del contorno.
Hanno un bel dirgli: — Stia di buon animo, non c’è niente di serio. —
Lui non vuol credere, lui non si fida più di nessuno.

— Ma cos’ha? Cosa si sente?

— Che so io? Un malessere, una mala voglia... Prostrazione di forze,
prostrazione di spirito...

— Patirà d’ipocondria.

— Sarà ipocondria... Fatto sta che fa pena vederlo. Da un mese a questa
parte ha fatto un tal mutamento che non si riconosce più. Un mutamento
anche morale. Si ricorda, eh, quant’era ruvido, lunatico, stravagante?
Una vera bestia... Adesso è diventato un agnello, un agnellino. Si
ricorda come mi trattava, come mi strapazzava? Cose da pigliarlo a
calci nel sedere sei volte al giorno. Adesso invece... S’immagini che
ieri, partendo, mi ha perfino baciato!

Il buon maestro si fermò su due piedi, si soffiò il naso, si asciugò
gli occhi, e soggiunse con voce affievolita:

— Non gli dica niente, per carità!

Il treno entrò nella stazione rombando e fumicando; un dopo l’altro
gli sportelli furono aperti; si vide un andare e venire di gente
affaccendata e frettolosa, un discendere, un salire, un caricare e uno
scaricar di sacchi, di gabbie, di ceste.

Roberto e Tomatis aspettavano in silenzio, ritti accanto al cancello
dell’uscita. Passarono alcuni contadini, un bersagliere in congedo,
una balia, due domenicani; poi comparve Galosso sudato, rabbuffato, col
cappello sulla nuca e la sottoveste sbottonata e aperta.

Tomatis gli corse incontro per alleggerirlo della sacca da viaggio; e
intanto gli domandava ansiosamente:

— E dunque? Com’è andata? Com’è andata?

— Com’è andata? — rispose Galosso. — Ho consultato il dottor Roggiapane.

— Nientemeno!

— Nientemeno.

— E... cosa vi ha detto?

— Cosa mi ha detto? Che non ho un cavolo: parole testuali.

— E poi?

— E poi... e poi gli ho dovuto snocciolar venti lire.


XIX.

Il maestro Tomatis entrò nel cortile, lo traversò rapidamente e bussò
alla porta del palazzetto.

— Vengo! — gridò Giuseppe dalla cucina.

Tomatis si levò il cappello, si asciugò il cranio col fazzoletto, diede
una lunga, una gagliarda soffiata.

— Lei qui? — disse il servitore affacciandosi. — A quest’ora bruciata!

— Vorrei dire una parola al padrone.

— Dunque sa già che è arrivato?

— Non sapevo nemmeno che fosse partito.

— Davvero? Ebbene sì. Domenica mattina gli è venuto lo schiribizzo di
andar a passare una settimana in montagna. Dunque non lo aspettavo che
sabato sera, invece... Oggi è mercoledì, non è vero?

— Mercoledì o giovedì... Non so più niente; non ho più testa... Basta,
son contento che sia tornato. Posso vederlo?

— Credo di sì. È arrivato a mezzodì, si è mutato da capo a piedi, ha
desinato, poi è andato un po’ a riposare; ma a quest’ora deve aver
fatto il suo sonno. Ehee!... Sente? Vien giù adesso. Ecco qui il suo
battistrada.

Tomatis si voltò verso la scala. Tadò scendeva a precipizio, fremendo
d’impazienza come al solito. Roberto comparve sul pianerottolo, vide il
maestro e gli fece un grazioso saluto.

— Oh, sor Tomatis, che buon vento...

— Buono no! buono no! — brontolò Tomatis, con una crollata di capo.

— Cosa c’è?

— Galosso è a letto, e desidera una sua visita.

— Galosso a letto?!

— Già, da due giorni; ci si è messo dopo una mancanza, una specie di
svenimento che lo ha fatto cadere lungo e disteso davanti alla bottega
dello speziale. La prima notte è stata cattiva, la seconda pessima;
si buttava giù, voleva fuggire, e diceva cose di fuoco, cose da
indemoniato, cose che io...

— E che dice il medico?

— Febbre tifoidea benigna.

— E dunque!

— Oh se lei volesse aver la bontà... Scusi, eh! Ambasciator non porta
pena...

— Ho capito... Tadò, a casa! Indietro! A cuccia subito!

Tadò faceva il sordo e tirava innanzi, ma Giuseppe lo inseguì nel
cortile e lo afferrò per il collare. Roberto e Tomatis si avviarono in
fretta in fretta verso Casaletto.

Il buon maestro, tutto trafelato e grondante di sudore, soffiava,
gemeva, e di tanto in tanto restava per riprendere e il fiato e il
discorso.

— Già, noi corriamo, noi voliamo, ma grazie a Dio non c’è urgenza...
Non è un male che il prete ne goda... Tifoidea, non tifo. Questo è il
parere del medico... Il qual medico, a dirla schietta, è un vero...
veterinario. Del resto Galosso è robusto, forte come un cannone... Ciò
che mi spaventa è il delirio. Se lo vedesse! urla come uno spiritato
e fa cose fuor d’ogni regola. Alienazione di mente cagionata dalla
malattia, si sa, ma pure... Povero diavolo! non ci mancava che
questa... Può essere, anzi è probabile che le mie apprensioni siano
esagerate... Che se nol fossero... Oh misericordia! Basta, lei vedrà,
sentirà...

E Roberto, non sapendo nè che credere nè che pensare, aspettava di
vedere e di sentire.

La casa del segretario era nel mezzo del villaggio, e si distingueva
tra l’altre per una certa tinta cupa e fantastica: immagine visibile
del fantastico umor del padrone.

Mentre Roberto e Tomatis si venivano accostando, la porta si aprì e ne
uscì un giovinetto biondo, grasso, impettito; tutto vestito di panno
scuriccio, ma senza garbo nè grazia.

— Il medico! — esclamò Tomatis. — Arriviamo proprio a tempo. Dottore,
dottore, ci dia le notizie.

— Ammalati ce ne sono parecchi in paese — rispose il dottore, puntando
in terra il suo bastoncino; — e tutti piuttosto... ehm!

— Sì, sì, lo sappiamo... Ma Galosso... Come ha trovato il signor
Galosso?

— Assai migliora, chi non peggiora.

— Scusi, ma io direi che oggi è meno, molto meno aggravato di ieri.

— La malattia vuol fare il suo corso.

— Ma benignamente, eh? Mantenendosi benigna, come lei mi ha detto e
ripetuto.

— Sicuro. Ma badi che la cosa va intesa nel significato relativo non
assoluto.

— Come sarebbe a dire?

— Che finchè c’è fiato c’è vita. Riverisco.

Il dottore aveva già scantonato da un poco, che Tomatis guardava ancora
da quella parte rodendosi le unghie.

— Ah! — fece poi rabbiosamente — se tu mi ammazzi Galosso... ci
riparleremo. E adesso andiamo su, andiamo a fare un po’ di coraggio
a quei poverino. Mi raccomando, a volte una parola fa meglio che una
medicina.

Pietro Galosso giaceva sulla schiena, in un letto bastardo, in una
camera assai sfogata, ma disadorna. Una donnetta smorta e mingherlina,
con la gonnella di un colore e la vita di un altro, andava e veniva
senza posa, non facendo più rumore di un topolino. Vedendo entrare i
due visitatori, rimase un momento come estatica, poi si scosse, avanzò
due sedie e sparì.

— Ecco l’illustre infermo! — esclamò Tomatis con un’allegria, una
baldanza affatto intempestive. — Ecco l’illustre infermo! Sempre lui,
eh! Niente cambiato, niente alterato. Un faccione che pare una luna in
quintadecima. Se non fosse il berretto da notte chi direbbe che... Chi
direbbe che ha avuta la febbre?

— Se l’ho avuta! — mormorò il povero segretario. — Una febbre da
cavallo, a quarantun grado; a quarantadue si crepa...

— Sì, sì, ma adesso è passata — soggiunse Tomatis, mettendosi a sedere.
— È passata e non tornerà più. Parliamo d’altro. Che novità?

— Sanguisughe al capo.

— Quando?

— Stasera o domattina.

— Lodato Dio! L’ho detto subito al medico: — O le sanguisughe o un buon
salasso. — Ma per persuadere colui ce ne vuole! Speriamo che non sia
tardi. Vo’ dire: fortuna che siamo in tempo! La malattia attacca il
cervello e ne altera le funzioni, dunque bisogna cercare di sollevare
il sistema nervoso e combattere il parossismo. È chiaro come il sole.
L’ho detto anche a voi, quando avete cominciato a sentirvi di mala
voglia: — Presto un salasso, un emetico, un pediluvio, metodo antico! —
Avete voluto fare a modo vostro ed eccovi lì in un fondo di letto.

Galosso ascoltava in silenzio, ma ogni poco chiudeva e riapriva
istantaneamente l’occhio sinistro, poi sorrideva con un misto insolito
e incomprensibile di mestizia, di rassegnazione, d’ironia. Roberto lo
guardava, lo riguardava, e non lo riconosceva più.

La donnetta rientrò pian pianino, in punta di piedi, diede da bere al
malato e scivolò via.

— Che roba è?. — ripigliò ruvidamente Tomatis, indicando la tazza
rimasta sul comodino. — Limonata? Decotto? Puah! Ecco lì: se mi aveste
dato retta quand’era tempo, ora non sareste obbligato a ingollare
queste porcherie. Ma non mi vo’ confondere più... siete un testone!

— Oh! — esclamò Roberto, indignato, — ma voi gli parlate in un certo
tono...

Il maestro balzò in piedi e andò a guardar dalla finestra; dopo un
momento si soffiò il naso una, due, tre volte con un crescendo da far
tremare i vetri.

Galosso l’udì, strinse le labbra e ne fece uscire una lunga voce tra il
gemito e il grugnito.

— Basta — disse Roberto, — la malattia è superata, presto entrerete in
convalescenza...

— Dica in agonia.

— Andiamo, non dite fandonie!

— Ma non me ne importa niente... Oggi a me, domani a te.

Tomatis si riscosse, si riavvicinò prestamente.

— Niente, niente — proseguì il segretario. — Non parlo con voi, parlo
col signor Duc. Dicevo?... Ah sì! Dicevo che son bell’e andato.
Pazienza!... Facevo il mio bravo conto di vivere ancora qualche
annetto, e invece... Facevo il conto senza l’oste, ecco tutto.

Parve colpito dal suono delle ultime parole che gli erano uscite
di bocca, guardò con faccia curiosa alle facce degli altri, strizzò
l’occhio e susurrò:

— Non parlo mica di Baino...

— Zitto! — interruppe Tomatis angustiato. — Siamo alle solite! Non
cominciate a snocciolare scioccherie. Vi potrebbe tornar l’agitazione.

— Che ore sono?

— Cosa v’importa dell’ora? State buono, state quieto...

— Avete un bel dire voi che siete lì, sano come un pesce. Ma... oggi
a me, domani a te. Con certe cose non bisogna scherzare. Non scherzar
coll’orso, se non vuoi esser morso. Non scherzar con la morte, se non
vuoi... se non vuoi... se non vuoi...

Tomatis si voltò a Roberto e gli fece un cenno che voleva dire: — Su,
da bravo, mi aiuti un pochino. — Poi esclamò: — A proposito! Non ve
l’ho ancor detto? Sor Roberto è stato in montagna.

— In montagna? — ripetè il malato, corrugando la fronte, quasi
ignorasse il significato di questa parola. — Perchè in montagna?

— Per divertimento, per mutar aria, non è vero, sor Roberto? Dica
cos’ha fatto. Dica dov’è stato.

E Roberto prese a raccontare pianamente la sua gita nella fresca e
amena valle della Baraschia; interrotto a ogni poco dal buon Tomatis,
che domandava schiarimenti sulle strade, sui villaggi, sugli alberghi,
e soggiungeva con studiato entusiasmo:

— Per bacco! Se le strade sono comode, se gli alberghi son buoni, ci
voglio andare anche io. Ohe, Galosso, volete che ci andiamo insieme? Vi
pago il viaggio... Non tutto, eh, perchè non posso. L’andata, ecco; al
ritorno ci penserete voi.

Galosso non rispondeva, ma atteggiava la bocca al sorriso; un sorriso
non accompagnato da alcun’altra dimostrazione di letizia, e perciò
stranamente gelido e sinistro. Dopo un poco cominciò ad accendersi in
viso, a rabbruscarsi, a rabbrividire; a un tratto sobbalzò e si rizzò a
sedere sul letto.

— Fermo! — gridò Tomatis. — Cosa c’è adesso? No, no, bisogna star
caldo, vedere di non scoprirsi... Tornate sotto, da bravo.

Il malato si mirò dattorno lungamente, smarritamente, poi lasciò
ricader la testa sul guanciale e sospirò:

— Ah! me lo creda, signor Duc, sto male, molto male.

— Coraggio! — susurrò Roberto. — Domani andrà meglio.

— Domani, domani, domani!... Intanto oggi tocca a me!... Però l’è
dura, alla mia età... Poco fa era qui il parroco... Una predica coi
fiocchi: — Bisogna rassegnarsi ai voleri di Dio. Questo in cui viviamo
è un gran mondaccio, una valle di lagrime. Ah il paradiso! Oh il
paradiso! Uh il paradiso! — L’ho lasciato dire e dire e dire, poi gli
ho fatta una domanda, ma una domanda!... Adesso non la ricordo più,
ma credete voi che abbia saputo rispondere? Storie! Le cose come non
le vedo, non le credo. L’uomo crede quello che può, non quello che
vuole... L’eternità!? Ah! reverendo, come vuol che faccia a immaginare
una cosa che non ha principio nè fine? Questo gli ho detto, e poi ho
fatta la mia domanda, ma che domanda! Va là, t’insegno io a canzonare
i moribondi!... Senza peccati no, ma senza birbonate sì. Dunque che
inferno! Che paradiso! In purgatorio, se mai... Ricordatevi bene...
Candida, Candida!... Porta da bere.

La donna si affacciò subito, sgranando tanto d’occhi.

— Badiamo di non fare imprudenze — disse Roberto.

— Per amor del cielo! — esclamò Tomatis.

— Che imprudenze! — gridò Galosso, dimenandosi come un ossesso.
— Niente imprudenze! Io non ho più assaggiato il vino da... da un
secolo... Vo’ dire da un mese. E non lo assaggierò mai più. Mai più
vino, mai più birra, mai più liquori! Però voglio vedervi ancora una
volta col bicchiere in mano. Un’ultima volta! È un piacere, è una
carità che mi fate!

— Amen! — disse Tomatis, cedendo. — Accettiamo, ma a patto che il vino
sia leggiero: un dito d’un vinetto qualunque, tanto per spegnere la
sete...

Quando si vide esaudito, il povero segretario agguantò la sua tazza di
decotto, l’alzò, e gridando: — Viva noi! — si sbrodolò allegramente la
faccia e la camicia.

Dopo ciò, prese a vociare, a smaniare, ad agitarsi. Ora si rasserenava,
gongolava, mostrava di riconoscere gli amici, il luogo dove era; ora si
rannuvolava, imprecava e diceva cose vane e contro ragione. Di quando
in quando buttava le gambe fuor del letto, come per alzarsi, e i due
uomini duravano fatica a rattenerlo.

Candida lo guardava con occhi pieni di tenerezza e di dolore, e non
si discostava più: a ogni momento bisognava accomodare il guanciale,
rassettare le lenzuola, riadagiare e rinvoltare il delirante, bagnargli
la bocca.

La luce veniva mancando. Era l’ora che infiacchisce l’animo ai sani;
accora, sbigottisce e abbatte gli infermi.

— Lume! — disse Galosso.

Candida accese una candela ch’era sul cassettone.

— Via! — ripigliò il malato. — Levala via. Non vedi che la combatte il
vento? Mettila sul tavolino... Così. E adesso dammi da bere. Mi sento
ardere; non ne posso più.

La donna si riaccostò e reggendogli la nuca con una mano, gli mise la
tazza alla bocca.

Nella strada passò un branco di bestie scalpitanti; passò un vaccaro
che cantava a squarciagola. La campana annunziò solennemente il finire
del giorno, e tutta la stanza si empì di onde sonore.

Poi vi fu un silenzio quasi sepolcrale.

Galosso supino, col capo abbandonato, con le ginocchia un po’
sollevate, brancicava nel vuoto e stravolgeva in qua e in là gli occhi
spalancati; dopo un poco li fissò sull’uscio semiaperto e disse prima
piano, poi forte:

— Avanti!... Avanti!

Gli astanti si voltarono e non videro alcuno.

In un subito il misero balzò a sedere con un viso lieto e premuroso,
con le braccia aperte, come a una persona aspettata e desiderata; poi
fece cenno a Candida di approssimare una sedia, l’offrì garbatamente
all’amico invisibile, e prese a interrogare e a rispondere brevemente,
ma sempre con molta significazione di affetto.

A notte chiusa, Roberto e Tomatis si alzarono, offrirono i loro
servigi alla donna, e si ingegnarono ancora d’infonder coraggio nel
malato con parole di speranza e con atti amorevoli. Galosso continuava
a farneticare, dimenando le mani come un predicatore; ma quando li
vide avviati, li richiamò e additò loro la sedia con la quale stava
parlando.

— Come! — diss’egli con voce ferma e severa. — E a Baino niente?
Neanche un saluto al nostro buon Baino, che è venuto a pigliarmi?


XX.

La mattina di poi, appena alzato, Roberto chiamò il servitore e gli
ordinò d’andar subito a prendere notizie dal signor segretario. Ma dopo
un momento cambiò idea: — Perchè non farei una passeggiatina fino a
Casaletto? — Si fece dare un bicchiere di latte, e s’incamminò passo
innanzi passo.

S’era destato con la mente riposata e serena. I tristi pensieri che
gliel’avevano ingombrata e funestata la sera prima, dopo la visita
fatta al povero Galosso, erano svaniti coi sogni della notte.

Considerando l’età, la robustezza dell’infermo si sentiva pieno di
sicurtà e di fiducia. S’immaginava di rivedere il medico per l’appunto
dove l’aveva veduto il giorno prima; lo interrogava, e quello gli
rispondeva:

— Buone nuove, il pericolo è passato, abbiamo un miglioramento
insperato, inesplicabile.

Egli saliva, si rallegrava col malato, con la donna, con Tomatis e
poi...

La giornata era così bella! Una di quelle giornate in cui si campa
volentieri, in cui il cuore si allarga alla speranza, a mille speranze,
e l’avvenire si dischiude ampio, color di rosa, tutto popolato di larve
ridenti.

— E poi farò un bel giro pei campi — pensava Roberto. — Una piccola
perlustrazione fino alla chiatta. È un secolo che non vedo nessuno. Non
so più niente di niente...

E in pochi momenti il desiderio di sapere si fece vivo, intenso,
divenne bramosia: di modo che, giunto dove una viottola corre a destra
le praterie verso la Baraschia, fu lì lì per svoltare. Si raffrenò e si
contentò di allungare il passo.

Il villaggio aveva il suo aspetto ordinario: s’udiva lo strepito del
mulino e il martellamento del fabbro; il custode della scuola metteva
un affisso alla cantonata; sotto il portico del comune vi era il solito
crocchio in cui si commentava il giornale.

Passando davanti al forno, Roberto sentì l’odore appetitoso del pan
fresco; odore, che si cambiò in lezzo di marmitta e in puzzo d’olio
fritto nella vicinanza d’altre botteghe. Arrivato presso la casa del
segretario, alzò gli occhi alla finestra, e la vide aperta.

— Ecco — disse tra sè, — si muta l’aria alla camera, segno che il
malato sta meglio.

Ma non appena ebbe pensate queste parole, ne risentì come uno spavento.

— E se invece... Oh, non è possibile! Diavolo! da ieri sera... Non è
possibile, non è possibile.

Combattè, respinse l’idea nera che s’affacciava alla mente, e si
accostò alla porta.

Era chiusa.

Picchiò prima con le nocche delle dita, poi col martello. A quel suono
risposero di dentro pianti e lamenti, e dopo un poco giunse Tomatis
disfatto, stravolto, verde come un ramarro.

— Ah! — singhiozzò con voce soffocata. — Però ha sentito anche lei,
eh? Tifoidea benigna. Un corno! Fulminante doveva dire quell’asino
birbone!... E adesso venga su, venga a vedere, venga a vedere.


XXI.

Quattro interminabili giorni di pioggia dirotta e continua.

Roberto leggeva o disegnava nel suo studio; passeggiava nelle stanze
terrene; saliva a strologare il tempo da un abbaino, di dove non
scorgeva che aria torba, solcata da miriadi di piccole strie inclinate
e lucenti; e di quando in quando scendeva pure a sentir le chiacchiere
dei contadini raccolti sotto la tettoia.

Correvano brutte notizie. La pioggia cadeva strabocchevole specialmente
dalla parte delle montagne; i fossati e i torrentelli recavano troppo
ampio tributo di acque alla Baraschia e ne accrescevano spaventosamente
la furia. La corrente scendeva a precipizio dall’alta valle, devastando
i coltivati, portando via le piante e gli armenti, rapinando per ogni
dove. Venendo su Riverasco con potentissimo urto, aveva abbattuta
la porta detta della Maghelona e gran parte delle mura; il ponte
minacciava rovina; il sobborgo della Madonna era allagato, e l’antica
chiesa aveva l’acqua fin sopra gli altari.

Anche il lento, il placido Gamberetto aveva rotto in più luoghi,
inondando largamente i campi tra Casaletto e Bornengo: il servizio
postale era sospeso, e non si sapeva più nulla degli abitanti della
cascina La Torrazza, con i quali non si poteva più comunicare.

— Ecco — diceva Giovanna, — la Baraschia è sempre in bestia, il
Gamberetto non ha finito d’alzare; questo è proprio un secondo diluvio.

— Niente paura — brontolava Rocco, da buon filosofo, — dopo un tempo ne
viene un altro. Giuraddiana!

— Già, già — ripigliava la moglie, — vedrete che la Baraschia e il
Gamberetto si congiungeranno qui al Fortino, dove siamo noi.

— E noi andremo in barca! — esclamava Giacomo.

— Bisognerebbe averla la barca! — osservava Felice.

— Abbiamo il tinone che è grosso come un bastimento.

— Zitto, zitto, mammalucco — susurrava la madre. — Con l’acqua non si
scherza; strascina via tutto: case, bestie, cristiani... Menica Gorla
ha visto passare tre vacche e due buoi ancora legati alla mangiatoia.

— Ma Stefano Pron ha visto ben altro! — gridava Felice. — Ha visto
una culla con dentro un bambino; un bambino che gemeva, vagiva,
strillava...

— L’ha detto a te? — chiedeva Giacomo.

— L’ha detto a me.

— Quando?

— Ieri sera.

— To’, e ieri mattina parlava d’un gatto!

— E ci sarà stato anche un gatto! Un gatto e un bambino. Non è mica
impossibile? Dica lei, sor padrone...

Il padrone ascoltava, taceva e pensava.

Pensava quasi continuamente al chiattaiuolo e a sua figlia. Durante
il giorno, sempre li immaginava sani e salvi, rifugiati in luogo
sicuro; ma sul far della notte cominciava a turbarsi, sentiva vergogna
di trovarsi così fidatamente, così mollemente ricoverato, mentre la
fantasia gli rappresentava Michele e Susanna ora derelitti nella loro
casuccia assediata dai cavalloni spumanti che minacciavano d’ingoiarla,
ora ritti come due spettri in mezzo alla chiatta sconquassata,
abbandonati alla commossa superficie dell’acqua.

Quando era a letto, i vari rumori della notte tempestosa aggravavano
la sua inquietezza, rendevano anche più tetri tutti i suoi pensieri. Si
rivoltolava lungamente prima di prender sonno, poi non aveva altro che
sogni stravaganti e paurosi; si destava di sobbalzo, come all’annunzio
di una sciagura imminente, inevitabile, e gli pareva davvero di sentire
la romba delle acque irrompenti, strida e urli di morte in lontananza.

Venuto il giorno chiaro, si quietava di nuovo, si rinfrancava, tornava
a fare assegnamento certo sull’avvedutezza, sulla prudenza e sul
coraggio del chiattaiuolo:

— Eh, diavolo! Michele non è uomo da lasciarsi cogliere dalla
piena. D’ora in poi non mi voglio più confondere, non mi voglio più
angustiare...

La mattina del quinto giorno il diluvio divenne pioggia, una
pioggerella cheta e minuta, che verso il tocco cessò. I nuvoli
cominciarono ad alzarsi e a diradare, lasciando più qua e più là
trasparire il sereno sbiadito e sfumato, e la spera del sole velata,
offuscata, priva di ogni possanza.

Roberto prese il cappello, il bastone e s’avviò verso la Baraschia. Si
avviò in fretta, ma ben presto gli convenne rallentare il passo.

Dai prati e dai campi allagati sgorgavano sulla strada innumerabili
rigagnoli, che empiendola di fango e di pozzanghere, la rendevano tutta
malagevole e, in certe parti più basse, pressochè impraticabile. A
tendere l’orecchio, si sentiva un rumorìo ampio e incessante, prodotto
da tutte le acque che gorgogliando, strosciando, sbraitando fuggivano
alla china per l’estesa campagna. Le rondini erano tutte fuggite.
Le passere, posate con l’ali basse sulle vette degli alberi e sui
ramoscelli spogliati, aspettavano bisbigliando che l’aria asciugasse
loro le piume. L’erbe piegate o coricate, le fronde impregnate e
pendenti, parevano stanche, spossate dall’aspra lotta sostenuta in quei
giorni.

Piede innanzi piede, affondando spesso a mezza gamba, Roberto arrivò
ad una specie di lago giallastro e melmoso, fatto dalla Baraschia, che
traboccava da quella parte con abbondanza e con impeto; a due tiri di
schioppo, nel filone della corrente, passavano tronchi travolti, rami
schiantati, mucchi di foglie e di strame, mille cose morte ed informi.
La chiatta era sull’altra riva, vuota ed inoperosa; dalla casupola,
biancheggiante tra gli alberi, si alzava una colonnetta di fumo cerulo.

Contemplando quel tenue indizio di vita sotto quel cielo mesto,
in mezzo a quella campagna stranamente disertata, Roberto si sentì
immalinconire l’anima così amaramente, che durò fatica a tenere le
lacrime. Ah! gli pareva una cosa tanto ingiusta, tanto crudele che
Susanna, nata forse per vivere agiatamente, signorilmente, dovesse
abitare quella meschina catapecchia!... Di chi era la colpa? Di
nessuno. Il destino voleva così, e bisognava rassegnarsi... Intanto
essa era là, dall’altra parte di quel torbido pelago, simbolo di tutti
gli ostacoli reali o immaginari che separavano le loro esistenze...
Quando l’avrebbe riveduta? Chi sa! Forse mai più. Perchè? Non sapeva.
Una voce gli susurrava dentro: — Tu non avrai mai la facoltà d’operare
secondo che ti detta la ragione, secondo che ti detta il cuore. Volere
è potere. Ma tu non potrai mai. La tua volontà è volubile, variabile,
stanca, e si piega al più leggiero soffio di vento...

Laggiù, sul tetto della casupola, la piccola colonna di fumo
ondeggiava, vacillava, si torceva, come se anch’essa fosse alle prese
con una forza occulta e nemica.


XXII.

Avanzava un’ora circa di giorno; e Roberto invece di tornare
direttamente al Fortino volle passare dal villaggio; aveva bisogno di
veder gente, bisogno di parlare con qualcheduno, quasi per persuadersi
che non era circondato da una solitudine desolata e senza limiti, che
non era rimasto unico superstite sulla terra.

Dietro le sue spalle il cielo si veniva sgombrando pigramente; di
fronte, la nuvolaglia biancobigia si spandeva, si riuniva, girava per
il campo immenso, trasfigurandosi in mille maniere.

Arrivato al piccolo camposanto di Casaletto, dove riposavano le spoglie
mortali di Baino e di Galosso, prima si soffermò, poi si avvicinò
pianamente al cancello; questo pareva chiuso e non era; mentre egli
vi si appoggiava, come per concentrarsi in sè stesso ed evocare
pietosamente le immagini dei suoi due conoscenti, girò, cigolando, sui
cardini e si aprì.

— Grazie tante, la non s’incomodi — mormorò Roberto, indietreggiando
con un certo ribrezzo. — Un’altra volta se mai... Oggi non rispondo
ancora all’invito.

E tirò di lungo.

Sotto il portico del comune, stavano a crocchio le persone più
ragguardevoli del paese. Vedendo passare Roberto, lo salutarono
garbatamente; e il sindaco gli domandò se veniva per prendere la posta.
Il giovane signore crollò il capo.

— Meno male — ripigliò Antonio Luvotto; — perchè manca anche
quest’oggi. Niente lettere, niente giornali. Siamo assolutamente al
buio di tutto quel che avviene in Italia. Anzi nel mondo. È una cosa
incredibile. Il papa potrebbe essere andato tra’ più, e noi...

— E perchè il papa? — interruppe il parroco. — Perchè proprio il papa e
non qualche altro? Sì, dico, qualche altro gran potentato?

— Oh bella! Perchè il papa è vecchio.

— Caro mio, la morte non guarda in bocca.

— Vero — osservò un altro; — oggi in figura, domani in sepoltura.

— Evviva l’allegria! — pensò Roberto; e traversata la strada, entrò
nella bottega dirimpetto.

Il maestro Tomatis, che stava a chiacchera con la tabaccaina, gli balzò
incontro facendogli festa.

— Oh come sono mai contento di rivederla! È un secolo... Bravo! Ma
bravo? Cosa desidera? Sigari toscani, romani, Virginia, Cavour...
Chieda e domandi, c’è d’ogni ben di Dio. Non è vero, Vittoria? D’ogni
ben di Dio. Eh, ma lei non fuma che sigarette! Ciascuno ha i suoi
gusti. Bene, bene, faccia la sua compra, poi discorreremo.

E infatti ricominciò appena furono in istrada.

— È venuto a piedi? Oh si vede! Madonna santa, com’è conciato! Deve
avere camminato di molto. È stato alla Baraschia? Un mezzo mare,
eh? Ha visto la chiatta? Sarà sfasciata, distrutta? No! Meno male,
temevo... Sarà armata in va e viene? Nemmeno? Si capisce. Questa è una
inondazione; una vera inondazione.

Tacque un momento, poi soggiunse tristamente:

— Ah! se Baino e Galosso avessero almeno potuto veder questo!

— Buona notte — disse Roberto, porgendogli la mano.

— Come? — esclamò il maestro, trattenendolo. — Mi pianta così? È
ancor tanto presto. Non ha mica fretta? E dunque? Animo, gradisca un
bicchierino. Non sto lontano, sa. Lei vede il _Cavallo Grigio_?...
Bene, un trar di pietra più in là, in faccia alla casa della levatrice.

— Grazie, grazie — ripeteva Roberto, nervoso; — vi prego a dispensarmi.
Oggi non me la sento... Oggi è giornataccia.

— Amen! — mormorò Tomatis, non senza un po’ di stizza; — mi permetta
almeno d’accompagnarla fino in fondo al paese...

Passata l’ultima casa, il maestro si arrestò e guardò in su.

— Ecco! — esclamò. — A poco a poco il cielo torna sereno.

— Hm! — fece Roberto — mi pare invece che ricominci a spruzzolare.

— Niente, niente! Vedrà domattina. Stia tranquillo... L’inverno è
ancora lontano... Lei non pensa mica a partire?

— Per ora no.

— Bene! Lei ha da restar con noi fin dopo l’estate di san Martino.

— Vale a dire?

— Eh! L’estate di san Martino dura tre giorni e un pochino.

— Dunque dovrei restar qui fino alla metà di novembre?

— Bravo! Lei mi capisce per aria, lei! Il nostro affare scade appunto
il 14 a sera.

— Il nostro affare?

— Il nostro affare... Cioè il patto, la convenzione...

Nel proferir queste parole la voce del maestro tremava sensibilmente.

Roberto gettò le braccia in aria.

— Oh santo Dio! — gridò. — Ma finiamola una volta. Come fa a prender
sul serio queste baggianate? Vergogna! Una persona istruita, un uomo
colto, un maestro!

Tomatis aveva fatto un passo addietro, sbarrando tanto d’occhi.

— Oh oh! — fece poi. — Misericordia! Lei piglia fuoco come uno zolfino.
Parlo per celia, io, non per davvero. Galosso sì... Galosso aveva
perduto tutto il suo spirito, era stato assalito da una fissazione
mortale... tanto che Baino gli appariva in visione. Ma io... Oibò! Del
resto altro è il parlar di morte, altro è il morire. Diamine! E poi non
creda che io provi un gran gusto a rinvangar certe cose. È un discorso
che mi va poco a genio, sa.

— E dunque non facciamolo più.

— Non facciamolo più. Così l’intendo. Birba chi manca...

Roberto fece un rapido gesto di saluto, e voltò le spalle.

Tomatis, tacque un momento, poi riaperse la bocca con impeto:

— Sor Roberto...

— Cosa c’è?

— Caso mai non si sentisse bene...

— Grazie a Dio...

— In caso dei casi, mandi a chiamar il dottor Fumero.

— Bene!

— A Bornengo.

— Benissimo!!

— Via del Quartiere, numero 7, piano nobile.

— Ottimamente!!!


XXIII.

                    _All’Ill.mo signor Roberto Duc._

                                                                S. M.

                                             _Casaletto, 15 ottobre._

  _Ill.mo Signore_,

L’altra sera ci siamo separati in un modo un po’ diverso dal solito;
temo ch’Ella mi abbia preso a noia, e non oso più venire al Fortino.

Eppure non può credere quanto io desideri di ritrovarmi con Lei! Non mi
vergogno a dirlo, dal giorno in cui Galosso è passato all’altra vita,
non ho più avuto un momento di vera allegria. Quando la S. V. Ill.ma
tornerà in città, io resterò solo come un cane. Pensando a questo,
mi ricordo della sensazione che provavo da bambino, quando mia madre,
dopo avermi coricato, se ne andava col lume. Ora mi rannicchiavo, ora
balzavo a sedere sul letto; tendevo gli orecchi, e tutt’a un tratto
vi mettevo dentro le punte dei due indici; chiudevo gli occhi per non
vedere il lupo, il babau o le streghe, e li spalancavo subito perchè mi
si gelava il sangue.

L’idea della sua partenza risveglia in me non solo la memoria
delle mie paure infantili, e di certi terrori che mi assalirono
in circostanze speciali, ma anche tristi presentimenti e pensieri
penosi, che mi ronzano intorno come uno sciame di mosconi arrabbiati.
Qui lei potrebbe, dire: — Che allocco! Cosa importa a me delle sue
fantasticaggini! Voglio spendere il mio tempo dove e come mi piace. — E
avrebbe non una, ma diecimila ragioni.

Contuttociò io faccio un cuor risoluto, e la prego e la riprego di
rimanere al Fortino fino alla metà del mese venturo. Ouf! Ecco fatto!
Lo scrivere questo mi ha proprio sollevato: mi pare d’aver dato sfogo
a un affare di grande, di suprema importanza. Qui lei fa una spallata
e pensa: — Ma è matto! — Ebbene no, non ho mai avuta la mente tanto
lucida come in questi giorni; e non sono niente contento, stavo meglio
quando l’avevo più ottusa. Torniamo all’argomento.

Oramai il caldo se n’è andato, il freddo non è ancora venuto: cosa
vuole di più? Questa è la vera stagione di stare in campagna. A mio
parere Ella è nata per viverci tutto l’anno. Ho notato che contempla
spesso e volentieri la infinita grandezza della natura. In città vi
sono troppe case e troppe cose fra la natura e noi, non le pare?

Lei ha la mente osservatrice, e questo è il più gran baluardo contro
alla noia. E se mai l’aiuterò anch’io a combatterla, nella misura
delle mie deboli forze. Metterò a sua disposizione la mia conoscenza
delle cose di questo paese, acquistata gradatamente e non senza fatica.
Prometto di divertirla. Vi saranno giorni in cui le parrà d’aver letto,
che so io? una novella del buon tempo antico; sere in cui le parrà di
essere stato al teatro.

Tempo fa anch’io andavo a caccia; ho poi lasciato, perchè mi si era
intenerito il cuore in modo straordinario.

Se l’animale, a cui sparavo, restava lì sul colpo, lo raccoglievo,
lo intascavo e tiravo via tranquillo; ma se lo vedevo svolazzare,
dibattersi, soffrire, ahimè! non mi bastava più l’animo nè di
pigliarlo, nè di finirlo, e cominciavo a imprecare contro a me stesso,
a far atti di compassione, a dire parole di scusa. Così non porto più
che l’ombrello od il bastone.

Torniamo a bomba, torniamo agli anni in cui ero appassionato per questo
barbaro spasso. Al presente ci sono cinque cacciatori a Casaletto,
allora erano almeno una dozzina. Spesse volte si usciva tutti insieme.
Trovato un bel campo di stoppie o di trifoglio, si cominciava a
cacciare. I miei compagni si mettevano a girellare, fischiavano una
schioppettata qui, un’altra là, e passavano oltre.

— To’ to’ — dicevo io alla mia fida cagnetta — hai visto che bel
lavoro? Ora tocca a noi. Rifacciamoci da capo, e attenzione. — E mi
rimettevo in cerca, adagino adagino, calcando e ricalcando tutte le
orme, passando e ripassando in tutti i solchi, senza tralasciare nè
un cespuglietto nè una piota. Frugato diligentemente il primo campo,
entravo in un altro; e a farla corta, e senza vantarmi, empivo quasi
sempre la carniera proprio là dove i miei amici credevano di non aver
lasciato più nulla.

Questo per dire che anche nei luoghi più esplorati, c’è sempre da
riesplorare.

Io per me non credo sia necessario andare oltremonte od oltremare,
navigare sotto l’ardente linea o verso il freddo polo, per vedere cose
nuove.

Chi piglia diletto nell’informarsi dei costumi della gente e nel
filosofare sulla virtù e sui vizi, e gode indagarne le cause e gli
effetti, troverà dappertutto pascolo abbondante alla sua curiosità.

Chi volesse conoscere minutamente due miglia (per lungo e per largo)
del proprio paese, dovrebbe mettere la mente in moto assai più di tanti
statisti, economisti, letterati, scienziati, filosofi che vanno di qua
e di là con la persona, per vedere come si governa, si traffica, si
studia e si passa questa grama vita in molte parti dell’orbe sublunare.

Casaletto non è che un villaggio, un povero villaggetto, ma chi potesse
penetrare in certe case e in certi cuori, scoprirebbe strani segreti, e
troverebbe materia per più d’un volume.

A che cercar lontano, quando ogni palmo della terra che abbiamo sotto
i piedi è un piccolo mondo? Ma bisogna aprir bene gli occhi, imparare
a vedere, a osservare. Dico bene? Non è questo un ragionare a filo di
logica? Non è parlare in punta di forchetta?

I sette savi della Grecia...

Madonna santa, che pappolata!

Mi abbia per iscusato, e mi creda sempre, con profondo ossequio

                                               _Suo dev.mo e umil.mo_
                                              maestro PONZIO TOMATIS.

                _Al maestro Ponzio Tomatis a Casaletto._

                                           _Dal Fortino, 16 ottobre._

  _Caro Tomatis_,

Il figlio del mio fittaiuolo ha preso una beccaccia grossa come una
gallina. Spero che la compassione non v’impedirà di venirla a mangiare
domani a mezzodì. Vi stringe cordialmente la mano

                                                   _Il vostro dev.mo_

                                                              R. DUC.


XXIV.

— Il caffè — disse Roberto al servitore; poi soggiunse, rivolgendosi a
Tomatis. — Mi pare che si potrebbe prenderlo in giardino, non è vero?

Uscirono e si avviarono verso la tavola e i sedili alla rustica, posti
al piede d’un gran platano decrepito. Intorno intorno piovevano le
foglie gialle, spiccate dai rami come da migliaia di piccole mani
invisibili.

— Dica un po’ — esclamò il maestro, quando si furono messi a sedere:
— quei tre o quattro fatterelli che le ho raccontato pranzando, non
ricordano forse le burle e le piacevolezze che si leggono nei libri
del Boccaccio, e di altri antichi novellieri?... Lei non è mai stato
a veglia (scusi) in una stalla? Ah! lì sì che c’è da divertirsi! Sopra
tutto se il luogo è grande, e se vi sono giovinotti e ragazze in buon
numero. Si canta, si salta, si balla... e, quando c’è qualcuno che sa
parlare e dir le novelle, si ride o si piange. Alle volte è un soldato
in congedo, ma più spesso un vecchio o una vecchia. Simone Falco, che
è morto l’anno passato di ottantotto anni e sette mesi, era famoso.
Bisognava, per esempio, sentirgli raccontare la storia di Giulio e
Giulietta, che aveva appresa dal suo nonno, grande di età...

Giuseppe venne a posare il vassoio sulla tavola; e Roberto domandò al
maestro se il caffè gli piaceva dolce o amaro.

— Piuttosto dolce — rispose Tomatis. — Ecco, così va bene; tante
grazie... Lei non la conosce, eh?

— Cosa?

— La storia di Giulio e Giulietta?

Roberto crollò il capo.

Tomatis vuotò e posò la chicchera, poi ripigliò:

— Una cosa da far spiritare i cani e piangere le pietre.

— Sentiamo.

— Non voglio noiarla, non voglio empirle la testa con altre
chiacchiere...

— Ma che! Avanti, avanti.

Il maestro chinò il viso per raccogliere un poco i pensieri, poi
cominciò:

— Oh! deve dunque sapere che un pezzo fa, Giulio Cesa, gran cavaliere,
teneva molti poderi a Casaletto; anche il castello era suo. Essendo
in età di venticinque anni e avendo veduta a una festa una damigella
di casa Raynaldi (casa onorata), e piaciutagli sommamente, la domandò
in matrimonio. La damigella si chiamava Giulietta: aveva quindici
anni manco finiti, capelli biondi come oro filato, occhi neri neri
che pareano more, gote fiorite di colore rosato, voce dolce come
quella dell’usignuolo... E pare che fosse anche vispa la sua parte.
Appena concluso il parentado, Giulio fece avvertire i congiunti
e gli amici che all’indomani a mezzogiorno, restassero serviti di
venire al castello, a far conoscenza con la sposa. A mezzogiorno gli
invitati c’erano tutti; e, quando comparve Giulietta, s’alzò un vero
frastuono di congratulazioni e di acclamazioni; poi mentre si aspettava
l’ora di andare a tavola, gli uni facevano a rubarsela, gli altri
complimentavano calorosamente i genitori che avevano dato al mondo
quel fior di bellezza. Dopo pranzo, giacchè la stagione era buona e
la giornata splendida, si uscì all’aperto. Le persone mature di anni
e di senno si raccolsero a confabulare sotto la pergola; i giovanotti
e le ragazze cominciarono a giuocare a mosca cieca, poi a fare a
rimpiattino, poi a fare ad acchiapparsi, correndo in qua e in là alla
fanciullesca, all’impazzata. Giulio teneva a fianco la sua fidanzata,
e sognava tutti i beni e tutte le grazie che possono fare l’uomo felice
in questo mondo, e beato nell’altro. Che è che non è, Giulietta, preso
il contrattempo in cui lo sposo coglieva una rosa, spiccò un salto e
fuggì verso il castello. Giulio la inseguì, la raggiunse; ma ella gli
sguizzò di mano e, trovando la porta spalancata, entrò e volò su per lo
scalone.

«Il giovane le gridò dietro: — Oh la cattiva! Aspetta aspetta, che ti
accomodo io! — E lesto come un gatto, per una scaletta segreta e per
certi andirivieni, giunse alla stanza ove credeva si fosse serrata.
La stanza era vuota. Mentre si mirava dattorno, gli parve di sentir
sbattere un uscio su in alto. Salì al secondo piano, guardò da per
tutto, non vide anima viva: — Be’, lasciamola stare, sbucherà fuori
quando ne avrà voglia. Donna pregata nega, ma trascurata prega. —
E scese senza più. I signori Raynaldi cercavano giusto di lui per
prendere commiato: il sole già baciava la cima del monte, rimaneva ben
poco del giorno, e le strade erano malagevoli, fangose, niente affatto
sicure. Non c’era che ridire, ma bisognava scovare quella cervellina.
Il babbo e la mamma la chiamano ad alta voce; non risponde. Dice
Giulio: — Sapete com’è? Ella è scesa per lo scalone, mentr’io salivo
per la scaletta. — Sì, sì, ma e poi? — domandano gli altri. — Eh! sarà
uscita sulla spianata dalla porta di ponente. — Ma e poi? ma e poi? E
si fanno congetture, s’interrogano i servitori, il giardiniere, si va
a vedere nelle case vicine; cerca di qua, cerca di là, gira e rigira:
Giulietta non c’è in nessun luogo. La gente si guardava l’un l’altro,
senza saper che si dire, quando arriva il maestro di casa, tutto
affannato, che era corso a cercar nuove intorno: — Gli zingari! gli
zingari! — Che? — Che? Che? — Sì signori, una carovana di zingari ha
traversato Casaletto mezz’ora fa. — Gli uomini si armano in fretta e in
furia; gli zingari sono inseguiti, acchiappati, malmenati, perquisiti:
Giulietta non si trova. A farla corta, le ricerche furono continuate
tutta la notte, in tutto il villaggio, alla disperata; il giorno dopo
si esplorarono i contorni; alla fine si scrisse in varie parti, ma
non se n’ebbe mai la più piccola notizia. Pensi quale dovette essere
il crepacuore di quei poveri genitori! Giulio Cesa, consumato dentro,
fuggì dal castello e non tornò più.

Tomatis si fermò, pensò ancora; quindi riprese abbassando e allentando
la voce:

— In processo di tempo i beni di Casaletto passarono in proprietà del
conte Filippo d’Ariè, il quale prendeva quel tanto che fruttavano
i terreni, ma non si faceva vedere nè punto nè poco. Il castello,
un pezzo d’antichità che avrebbe avuto bisogno di grandi e continue
riparazioni, in pochi anni si guastò per modo che non teneva più
insieme, e non rimaneva saldo altro che quella muraglia che si vede
ritta sino ad oggi. Il custode informò il conte; e un bel giorno il
conte incaricò il suo segretario di scegliere e far trasportare in
città le suppellettili di valore, e mettere il resto sotto una tettoia,
per venderlo al maggiore e migliore offerente. Antiquari, rigattieri,
ebrei, sfaccendati piovvero al castello da tutte le parti. La vendita
andava a vele gonfie; il monte delle masserizie diminuiva rapidamente;
ogni cosa trovava issofatto il suo compratore. Una cassa di legno,
di forma assai elegante e tutta intagliata a basso rilievo, ferì la
fantasia d’un ricco signore di Bornengo, che la volle e ne sborsò il
prezzo. Ma mentre la sollevavano per porla sopra un carro, colui che
faceva gli interessi del conte vide ch’era serrata, e ben serrata,
e diede l’ordine di cercare la chiave. Vattel’a pesca! Quella cassa
era sempre stata in una stanzaccia disabitata dell’ultimo piano, e il
custode non s’era mai curato di sapere che cosa contenesse. I presenti
si strinsero intorno; chi aveva un’idea e chi un’altra; finalmente si
pensò di mandare per il fabbro. Il fabbro venne, guardò, riguardò, e
incominciò ad adoperare i suoi ferruzzi; di tanto in tanto tentennava
il capo, e diceva: — C’è il segreto, c’è il segreto. — Infatti, dal
vedere al non vedere: cricch! s’udì lo scatto d’una molla, e alzato il
coperchio, guarnito internamente di lamine e spranghe, si trovò... Eh,
lei ha già capito!

— Ci vuol poco — disse Roberto.

— Si trovò Giulietta rigida, secca, stirata... come le mummie del museo
di Torino. Sicchè dunque ella aveva pagato con la vita una bambinata,
un capriccio innocente. Che vuole? io immagino, io vedo quella
poverina, accesa, ilare in viso, salire lesta lesta, balzare nella
stanzaccia, correre alla cassa, aprirla, adagiarsi. Chi mi ritrova è
bravo! Ma il piombar del coperchio, l’urto del gomito (o la necessità
del destino) fanno giuocare il serrame, e l’arnese che un giorno ha
contenuto il corredo d’una giovane sposa, diventa istantaneamente la
tomba di un’altra.

— Bravo! ma bravo! — esclamò Roberto. — Ma sono tutte di questo gusto
le storielle che mi volete narrare?

— Eh, questo è un mondo di miserie, caro lei; le disgrazie sono più
frequenti che le fortune. Io giudico da quel che vedo. A Casaletto,
per modo d’esempio, nessuno è felice, nessuno è contento, nessuno vive
in pace. Il sindaco è dissestato, l’assessore Rattonero ha perduto
il figlio in Africa, l’assessore Garzino ha un braccio paralitico, il
conciliatore giorni sono è stato bastonato di santa ragione; perfino
Michele Masino, che vive nei boschi...

— Ebbene?

— Non voglio andar per le lunghe.

— Sentiamo: cos’ha Michele Masino?

— Ha i suoi fastidi anche lui.

— Che fastidi?

— Come? Non sa niente? Michele vorrebbe dar la sua figliuola a un
giovanotto qui del paese, ma la figliuola non vuole...

— E perchè?

— Euh! a star dietro a tutti i _si dice_ c’è da perdere la testa.

— Già.

— Può aver dato il suo cuore a un altro... Oppure, avendo ricevuto
una buona educazione, non se la sente di sposare un contadino;
l’educazione, si sa, è una seconda natura. Comunque sia, io li
compiango tutti: padre, figlia e spasimante. L’altra sera sono stato
casualmente presente a una scena, che mi ha fatto paura e pietà.
Dubito che la faccenda voglia andare a finir male. Miserie, caro signor
Roberto, miserie umane.

Roberto accese una sigaretta e buttò lontano il fiammifero. Tomatis
guardò l’orologio.

— Basta — diss’egli, — lei mi ha fatto passare una giornata deliziosa,
indimenticabile...

Roberto fumava, guardando le nuvole. Una frondicella appassita venne
a cadere sulla tavola. Il maestro la prese e scorse un bruco tanto
somigliante alla foglia sulla quale era posato, che ci volevano proprio
i suoi occhi per distinguerlo; e vi era poi tanto appiccicato sopra,
che non si smuoveva neanche a scuoterla.

— Ecco — osservò Tomatis, tanto per dir qualche cosa: — se
quest’insetto fosse morto o dormisse della grossa, sarebbe caduto
senz’altro... Dunque è vivo, è desto, ma assorto... così assorto in
qualche dolce pensiero, che nulla vede e nulla sente attorno di sè.


XXV.

Vi fu un seguito di giornate temperate ed uguali. La terra si estendeva
libera e bruna, sotto un bel cielo d’un azzurro lucente e gentile,
corso di vene come un marmo; gli alberi rosseggianti e gialleggianti a
varie tinte, si alleggerivano dolcemente, continuamente. Lo spettacolo
dei lavoratori sparsi nei campi aveva qualche cosa di forte e di
antico; i mucchi di gramigna, che bruciavano e fumicavano più qua e più
là, animavano i luoghi dove pure non si vedeva nessuno.

Roberto usciva subito dopo il desinare, ora a piedi ora nel calessino,
e si avviava verso Casaletto; a un certo punto trovava infallibilmente
Tomatis, e lo prendeva con sè.

Il buon maestro si lasciava guidare dal compagno, senza fare
osservazioni avventate o domande indiscrete; senza cercare perchè non
voltasse mai a man destra, cioè verso ponente, cioè verso la Baraschia.
Dava le notizie che aveva pescate in paese, poi soggiungeva a mezza
voce, tranquillamente:

— La barca è sempre arenata. Lei sa cosa voglio dire?... Stamattina ho
incontrato Bastiano: pareva un cane bastonato... Michele ha la luna a
rovescio: fa paura... Susanna fa pena: non viene neanche più a messa.
Miserie! miserie!

Roberto aggrottava le ciglia, tentennava il capo, ma non articolava
sillaba.

Più tardi, arrivato a casa, cominciava a rimuginare sopra quel che
aveva inteso:

— Cosa diavolo vuole da me costui? Perchè insiste? Perchè fa sempre
la medesima storia? Che abbia indovinato i miei sentimenti? Se non
mi ci raccapezzo nemmeno io! Che la ragazza gli abbia fatto qualche
confidenza? Non è possibile, a quest’ora sarebbe già uscito dalle
generali, sarebbe già venuto a qualche conclusione. Non credo che
voglia fare nè il politico nè il mezzano... Oh! io l’ho per un
galantomone, questo rustico pedagogo; lo stimo, gli voglio bene... Però
che direbbero i miei antichi amici, se vedessero come vivo, e con chi!
Tant’è, li lascierei dire. Non invidio più i loro passatempi. Ah no,
per Dio!... Ma perchè Susanna non vuole sposar quel Bastiano?

Ben presto scoprì un non so che di nuovo nelle maniere del maestro: una
giocondità pensata, raccolta, diversa dalla solita; un fare di chi si è
prefisso uno scopo, e sa che per conseguirlo ci vuol tatto e finezza.
Lo vedeva atteggiare spesso e volentieri la bocca al sorriso, e far
gesti ora con una mano ora con l’altra, come se ragionasse tra sè.

— Cose grosse? — gli chiedeva, voltandosi.

— Eh!? — faceva Tomatis sorpreso, per prendere tempo a rispondere.

— Cose grosse? Cose serie?

— Niente, niente; faloticherie, idee gotiche, sciocchezze che passano
per la testa...

Un giorno però, mentre correvamo nel calessino sulla via di Vernasca,
il maestro scappò a dire:

— Poh! Non sarebbe più naturale che invece di questo vecchio macacco,
lei avesse accanto una bella moglietta?

Un’altra volta poi pregò Roberto di mostrargli il palazzetto, di
cui non conosceva che il terreno. Vide tutto dalla cima al fondo,
mormorando di continuo: — Che peccato! che peccato! — Finchè il
padrone, impazientito, gli chiese cosa volesse dire.

— Voglio dire che questa è una reggia, caro signor Roberto; gran
peccato che manchi ancor la regina!


XXVI.

Era sull’abbuiare; Roberto e Tomatis tornavano dalla passeggiata, l’un
dinanzi e l’altro dietro per la strettezza e la mala condizione del
viottolino. Tutti e due stavano sopra pensiero: ma a un certo punto,
alzando il viso, il maestro vide a poca distanza il crocicchio dove
avevano a dividersi.

— Sor Roberto! — esclamò, con l’accento di chi prende una pronta
risoluzione: — Lei mi deve fare un piacere.

— Sentiamo — rispose Roberto, senza voltarsi.

— Gradisca... Accetti... Venga domani sera a celebrare, a festeggiare
l’Ognissanti con me.

— Volentieri.

— Oh bravo! sarà un grandissimo favore. Senta... non le farò nè un
pranzo nè una cena, ma un piatto di buon cuore non le mancherà di
sicuro. In casa di noi povera gente quando c’è un piatto di buon cuore,
c’è tutto, eh?

Infatti, la sera dopo, Roberto trovò in casa del maestro un’accoglienza
non solo cordiale, ma rumorosa.

Lo speziale Forastelli, il misuratore e geometra Roccavilla, venuti per
fargli onore e compagnia, lo acclamarono lungamente, indiscretamente
all’arrivo. Il giovane signore, che non aveva l’animo agli scherzi e
all’allegria, quasi quasi si dolse d’aver accettato l’invito: ma poi,
quando costoro si furono chetati, quando fu messa in tavola la cena, ed
ebbe gustato il limpido vino bianco che Tomatis aveva cavato fuori in
quell’occasione, si riconfortò e si rasserenò.

La stanzetta era assai bene illuminata dalla gran lucerna posta in
mezzo alla tavola, e dal buon fuoco che ardeva nel caminetto; la fiamma
guizzava e riluceva sur una vetrina di contro, tutta piena di uccelli
impagliati, dando loro una strana parvenza di vita.

Invitante e convitati cominciarono a godere le vivande con tutto
loro comodo, e a discorrere assai pacatamente, senza interrompersi o
soverchiarsi a vicenda.

Il misuratore e geometra (un giovanotto tarchiato, dalla faccia barbuta
e abbronzita), andato a cercar ventura in America, vi aveva trovato
povertà, onde era stato costretto a tornarsi in Piemonte.

— Ecco — diceva, dopo aver raccontato in succinto i suoi casi; — adesso
lavoro dalla mattina alla sera: quando avrò raggranellato qualche
migliaio di lire, m’imbarcherò di nuovo, e questa volta...

E faceva l’atto di chi afferra checchessia con molta violenza.

— Bravo! — esclamava Tomatis. — Volete acciuffare la fortuna a ogni
costo?

Lo speziale (una zucca pelata, con due occhietti come grani di pepe e
un bel naso adunco) se la rideva sotto i baffi biondicci.

— Questo si chiama sprecare il tempo, le forze, l’ingegno, i denari,
mio buon Roccavilla. La fortuna è femmina; e le femmine sono come i
gatti: a chiamarli non vi degnano, a lasciarli stare fanno: gnao! e si
fregano intorno... Già, la fortuna è femmina. Anch’io vorrei pigliarla
per il ciuffo, come dice il nostro buon Tomatis, ma credo inutile
correrle dietro. Tengo gli occhi aperti e aspetto. Ma aspettare non
vuol mica dire star lì a grattarsi la pancia! Bisogna ingegnarsi,
industriarsi, trovar cose nuove. Io, per esempio, penso ad arricchire
la... la...

— La farmacopea — suggerì il maestro.

— La farmacia. Io penso ad arricchire la farmacia di un’utile
invenzione. Ecco perchè sto con gli occhi aperti. I segreti della
natura sono infiniti, miei buoni signori. Scoprirne uno, qui sta
il punto! Scoprirne uno, in uno dei tre regni: animale, vegetale e
geologico.

— Minerale — corresse Tomatis.

— Mineralogico. Intanto volete sapere come mi preparo? Studiando lo
scibile far... far... farmaceutico dei nostri vecchi. E investigo anche
gli errori, i pregiudizi, le superstizioni. Chi sa che io non faccia
qualche bella scoperta chimica! Ch’io non ritrovi qualche applicazione
nuova di cosa già conosciuta! Certi rimedi non si adoperano più,
semplicemente perchè sono usciti di moda. Codesto è un assurdo.
Non voglio tornare al brodo di vipera, alla polvere di lucertola, e
tanto meno agli amuleti, ma vi faccio osservare che molte sostanze
furono prese, lasciate, denigrate, riprese. Lo zucchero, per esempio:
prima fu portato alle stelle, poi accusato di produrre lo scorbuto,
la malinconia e più specialmente di sciogliere il sangue: ora tutti
sappiamo che fa soltanto male alla borsa. Dico bene?

Roberto sorrise; Tomatis diede in una gran risata; ma Roccavilla, che
macinava a due palmenti, alzò e scosse le spalle.

— Tutti i gusti son gusti — diss’egli. — Quando non mi sento bene,
niente medico e niente medicine: una bella camminata o una buona
dormita, vino puro e uova sode, molto vino e molte uova. Disordine
tiene il corpo in ordine. Ecco.

— Eh, dille grosse! — esclamò Tomatis.

— Il nostro buon geometra è l’assurdo personificato — susurrò
Forastelli.

— Basta girare il mondo — ripigliò Roccavilla, asciugandosi
energicamente la barba col tovagliuolo, — basta girare il mondo per
vedere a che cosa servono i medici e le medicine. Negli Stati Uniti
s’insegna non solo a non cedere, ma a non credere alle malattie: non ci
sono malattie, non ci sono mali, non c’è niente. Ecco. Così si finirà
per abolire addirittura il dolore.

— Oh! — fece lo speziale — quest’uomo va di assurdità in assurdità!

— Cose che si dicono — osservò malinconicamente il maestro, — cose
che si dicono quando si è giovani e in buono stato. Io non posso più
ragionare in questo modo...

— Perchè? — disse Roberto. — Avete una cera che incanta.

— Eh sì, ma mi sento debole, stracco... Stamattina mi venne un capogiro
ch’ebbi a cadere in terra.

— Mezza dozzina d’uova e due litri, subito — gridò Roccavilla.

— O una revolverata nella testa, che mi pare un mezzo anche più
spicciativo.

— Parlo sul serio.

— Anch’io, per bacco! Tanto che domani voglio andare a consultare
Fumero.

— A Bornengo? — chiese amichevolmente Roberto. — Bene; vi condurrò io.

Tomatis abbassò la testa e stette un poco sopra sè; poi mise un sospiro
e guardò il giovane signore con due occhi languidi, inumiditi.

— Grazie — diss’egli con dolcezza, — tante grazie... Un altro poco di
crema? No? Un biscottino? Allora beva alla mia salute. Stasera sono
proprio felice. Dica la verità: lei mi ha sempre creduto un insigne
babbuino? E lo sono. Ma un babbuino di cuore, un babbuino che le vuole
un ben dell’anima. Vedrà... Ho qui un’idea... Un’idea che mi martella,
mi martella...

E si picchiava la fronte con la punta dell’indice.

— Avanti! — susurrò Roberto.

— Oibò! Non ci mancherebbe altro!

— Via, ditemi almeno...

— Non posso dir niente, perchè... non so ancor niente. Bisogna dar
tempo al tempo, non precipitare le cose. Vedrà vedrà!

S’era oramai alle frutta. Roccavilla aveva tirato a sè un piatto
di noci e di nocciuole, e lavorava gagliardamente con le dita e le
mascelle; Forastelli si beccava una caciuola fresca e delicata, e
parlava parlava, senza accorgersi che nessuno gli dava retta. Tomatis
scelse una mela, l’offrì a Roberto, poi ripigliò sotto voce:

— Del resto io non credo niente affatto che sia necessario esser ricchi
per vivere felici. Niente vale la pace d’un asilo campestre. La pace,
non la solitudine. La solitudine non è buona per nessuno.

— Oh! — fece Roberto. — E il proverbio?

— Che proverbio?

— Meglio soli che mal accompagnati.

— Bravo! E io le rispondo: donna buona vale una corona... Cosa c’è?

La serva, ferma a una certa distanza, accennava che desiderava
parlargli. Tomatis si alzò brontolando, si accostò e prese a ripetere
forte ciò che l’altra diceva piano.

— Ehee! Rovesciato il bricco! Versato il caffè! Tutto? Oh la sbadata!
la sbadatona!... Cosa?... Veder di far senza? Ah questo no! Questo poi
no!

E voltate le spalle alla donna, tornò verso la tavola.

— Avete inteso? Questa sbadataccia ha mandato a male il caffè. Be’;
anderemo a prenderlo al _Cavallo Grigio_. Volete? Non abbiamo che da
traversare diagonalmente la strada. Caffè e liquori; pago io. Poi
giuocheremo alle carte, ai tarocchi, al biliardo. Daremo profitto
alla vedova, e sarà una carità fiorita. I guadagni scemano, i bisogni
crescono. Poveretta! vi so dire che ha proprio l’acqua alla gola.

Così detto, si mosse; e Roberto gli andò dietro. Prima di alzarsi,
Forastelli riempì e rivotò ancora una volta il bicchiere; e Roccavilla,
che non aveva assaggiati gli amaretti, ne intascò una buona manciata.


XXVII.

La vedova di Baino era in cucina, seduta vicino alla tavola, sotto
una lucerna attaccata a una pertichetta pendente dal palco. I
capelli scuri, fitti e scarmigliati, i grossi orecchini, involti
in due brandelli di stoffa nera (come usano le contadine in lutto),
facevano apparire ancora più gialla quella faccia annuvolata. Diceva
sommessamente le sue divozioni; e di tanto in tanto volgeva sul
figliuoletto, accoccolato presso al focolare, uno sguardo esprimente
un dolore aspro e dispettoso, e tosto le sillabe sacre morivano tra le
labbra come in un sibilo.

Tutt’a un tratto si sentì un calpestìo e un chiasso di voci maschili.
La donna si scosse e si alzò in piedi. Tomatis balzò dentro franco e
rubizzo; Roberto, Roccavilla e Forastelli entrarono poi con passo più
misurato.

— Presto — gridò il maestro — presto, sora Lucia, quattro tazze di
caffè: di Moka, di Portorico, di san Domingo... o della Guadalupa, non
importa, purchè sia di prima qualità. Facciamoci onore. Intanto noi
illumineremo a giorno il _salone_. Ohe, e il biliardo? In che stato è
il biliardo?

— Sgombro e pulito — rispose l’ostessa, già tutta affaccendata. — Ieri
sera, non avendo più letti, ci ho messo a dormire Rogna, il vetturale.

— Ah! bene bene — ripigliò Tomatis. — Animo! Chi vuol fare una partita?

Passarono nello stanzone. Il maestro corse al biliardo, accese i lumi a
bilancia, dispose le palle sul piano; poi, dato di piglio a una stecca,
si rivolse a Roberto:

— Ah, le rammento ancora le sue lezioni! Stia attento: uno... due... e
tre!

Forastelli e Roccavilla gli fecero l’urlata.

— Cosa c’è? cosa c’è? — domandò Tomatis.

— Avete fatto steccaccia — rispose Roberto.

— Davvero? Come mai? Come sarebbe a dire?... Ah! ho capito, ho capito...

Guardava fissamente le palle bianche e brillanti sul panno stinto e
opaco. La sua faccia si fece da prima attonita e seria; poi si compose
a una commozione ingenua e profonda... Di subito impallidì, piegò il
capo, si abbandonò.

Roccavilla, credendo facesse per celia, ruppe in una sghignazzata. Ma
Roberto e Forastelli, grandemente impauriti, accorsero, lo sollevarono;
e vedendo che proprio non si reggeva, lo adagiarono sul biliardo.

— Coraggio, coraggio! — diceva lo speziale, sbottonandogli il
panciotto, sciogliendogli la cravatta. — Niente! Scherzi del vino.
Avete bevuto un po’ troppo... Sono tempacci, mio buon Tomatis; e ci
vuol giudizio. Passa, eh? Vi sentite già meglio?

— Mi pare un deliquio, uno svenimento — susurrò Roberto.

— Un deliquio... senza dubbio — rispose Forastelli. — Adesso proveremo
a spruzzargli la faccia.

L’ostessa, che entrava col vassoio del caffè, si fermò su due piedi,
esterrefatta.

— Acqua! acqua! — gridò più d’uno.

La donna andò e tornò in un lampo.

— Date qui, date qui — disse lo speziale, prendendole il bicchiere. —
Avete l’aceto dei quattro ladri? Un po’ d’ammoniaca?

— Ho rhum e marsala — rispose l’ostessa.

— Ecco! — esclamò Roccavilla. — Un bicchierino di rhum, subito. In
America...

— Niente — interruppe lo speziale, — niente senza il parere del medico.
Andate a chiamarlo.

— Mando Gigino — disse la vedova.

— Vado io! — esclamò Roberto.

— Suole andare a veglia in casa Luvotto... Se mai, troverà anche il
parroco...

Il povero Tomatis, disfatto, colore di morte, ansava ansava, e faceva
la spuma dalla bocca.

— Ssss! — fece Forastelli, chinandosi e posandogli una mano sul cuore.
— A voi, raccomandategli l’anima.


XXVIII.

La mattina dopo, alle otto e tre quarti, il sindaco, accompagnato
dagli assessori e seguìto da un codazzo di curiosi, entrò al _Cavallo
Grigio_, girellò da per tutto, guardò e riguardò il biliardo, poi
prese a interrogare l’ostessa. Costei per un buon poco rispose con voce
fiacca, come sonnolenta, e facendo spallucce; ma a un tratto aprì la
bocca e lasciò andare:

— Ah! lei crede proprio che il maestro sia morto d’un colpo
d’accidente? Ma niente affatto! È morto perchè doveva morire, perchè
non poteva farne a meno. Quello che è scritto lassù non si scancella,
non c’è modo di scansarlo. E lui, Tomatis, aveva l’appuntamento. Non
capisce? Sì signore: l’appuntamento. Voglio dire così che il mio uomo,
buon’anima, e Galosso e Tomatis e il signor Duc, qui in questa stanza,
a dì tanti del mese di agosto, hanno fatto l’accordo, si son data la
gran promessa di trovarsi tutti insieme nell’altro mondo.

Vi furono degli Ah! degli Oh! degli Uh! I presenti si guardavano l’un
con l’altro maravigliati.

— Una scommessa, eh? — No, non una scommessa, come dire una
convenzione. — Euh! ma è grossa! — Cose da matti. — Io già non la bevo.
— Neanche io. — Come volete che quattro persone sensate, giudiziose...
Oibò! — Eh, caro mio, dove entra il bere, esce il sapere. — Diavolo!
volete dire che fossero in cimberli? — E perchè no? — Ha ragione la
vedova: quello che si scrive in cielo non si scansa. — Bisogna star
preparati. — A chi tocca, tocca. — Zitti! sentiamo cosa dice il vecchio
Lardone. — Oh Dio, racconta un caso simile accaduto cinquant’anni fa. —
E il sindaco? — Strapazza la vedova, che vuol dare a intender fandonie.

Queste e molte altre consimili parole formavano un susurro, un brusìo,
che, uscendo dall’osteria, si propagava prestamente e largamente
all’intorno.

Un’ora dopo, la piazza e le strade erano seminate di crocchi: il fatto
andava per le bocche di tutti, esagerato e aggravato in cento maniere.

Il giorno seguente, durante l’accompagnamento del defunto alla chiesa e
al luogo del suo ultimo riposo, la gente non guardava che Roberto, non
parlava che di lui.

Era un uomo destinato a sparire fra pochi giorni o fra poche ore o fra
pochi minuti. Poveretto, chi sa che tremarella! Che batticuore!

Il venerando Lardone diceva a Roccavilla, che marciava al suo fianco:

— Quel signore lì mi fa ritornar giovane; mi ricorda il tempo in cui
s’impiccava ancora al capoluogo. Già. Si vedeva la carretta venire
avanti adagio adagio, come dire col passo della morte; e dentro, tra
il prete e il boia, un poveraccio scamiciato, color della cenere, che
stralunava, e chiudendo le sue manacce, faceva Gesù, Gesù, Gesù. Ma a
quei tempi, chi ammazzava doveva essere ammazzato. Il castigo di uno
serviva d’esempio a tutti. Già. Ma per adesso...

— Per adesso — rispondeva Roccavilla: — chi vuol giustizia, bisogna che
vada in America. Ecco.

A parlar veramente, Roberto non aveva affatto l’aspetto d’un uomo
condotto all’estremo supplizio, ma bensì di chi segue il feretro di
una persona amata e stimata, d’un caro amico. Un amico sì, povero
Tomatis, forse il più leale, il più disinteressato che avesse avuto
mai. Ne restava privo proprio nel momento in cui, avendolo finalmente
conosciuto, si disponeva ad affidarsi a lui, a lasciarsi guidare da
lui.

Aveva ancora la sua immagine negli occhi, la sua voce negli orecchi:
l’immagine aggrandita, nobilitata, gli incuteva rispetto; la voce
suonava dolce e armoniosa nell’intimo del cuore.

Venuto il momento supremo, la gente si raffittì, si serrò intorno alla
fossa e al gruppo che vi stava vicino, gruppo composto delle persone
più ragguardevoli del paese e dei più stretti parenti del morto.

Calata la cassa nel fondo, il sindaco gittò la prima terra, e diede la
vanga a Roberto. Questi rifece quello che aveva veduto fare, poi piegò
la fronte, affissò lo sguardo nella buca, che si veniva empiendo, e
rimase immobile.

Quando tutto fu finito, la folla uscì dal camposanto, ma invece di
sciogliersi, di tornare verso il paese, indugiava ronzando e fremendo,
come quando spera o desidera di essere scossa da qualche cosa di
straordinario.

Luvotto, Forastelli, Lardone, Roccavilla, fermi presso al cancello,
guardavano curiosamente Roberto, sempre curvo sulla terra bruna che
copriva l’amico.

— Cosa diavolo fa? — diceva Luvotto. — Piange? Prega?

— Pare una statua — osservava Forastelli.

— Già, la statua d’un santo — aggiungeva Lardone; — un santo guerriero,
un martire della Legione Tebea. Però non vorrei trovarmi nei suoi
piedi. Già. E vi dico che non bisogna lasciarlo solo. Non si sa mai.

— Giusta, giusta! — esclamò Roccavilla. — Non si sa mai. La
disperazione manda il cervello a processione. In tutti i naufragi c’è
chi si ammazza per paura di morire. Ecco. Mi ricordo che, trovandomi
sul... sul... sur un bastimento americano...

— Ma io non voglio grattacapi — interruppe il sindaco, — non voglio
scandali. Storie! Stasera arriva il cavaliere Cucchietti, lo sposo di
mia figlia. Non voglio seccature, non voglio malinconie. Adesso glielo
dico: — Signor Duc, faccia tanto il piacere, non rompa le tasche.

— Oh glielo dico fuori dei denti!... Fermi tutti. Zitti. Parlo io.

E andò bravamente incontro a Roberto, che veniva avanti a passo lento,
guardando le lapidi e le croci.

— Signor Duc, bramerei di parlarle da solo a solo; con suo comodo,
però, con suo comodo.

— In che posso servirla? — chiese Roberto, facendosi scorrere la mano
sugli occhi, come per rimuovere una nebbia, una scurità che gli stava
dinanzi.

— Signor Duc...

— Eccomi qui, dica pure.

— Eh, corpo della luna!... Si faccia coraggio.

Passata la soglia del camposanto, Roberto prese a sinistra, per cercare
la scorciatoia che taglia diritto alla strada di Bornengo e quindi al
Fortino.

L’aveva appena trovata, quando si sentì dietro le spalle un — ohohopp!
— che pareva diretto a lui. Si voltò e vide, a una certa distanza, lo
speziale che trottava trottava per raggiungerlo.

— Come mi seccano tutti costoro! — pensò Roberto, fermandosi
malvolentieri.

— Un momento! un momento! un momentino! — diceva Forastelli,
accostandosi. — Amerei dirle una parola.

— Anche lei?

— Anch’io, sì signore. Cosa vuole? Casaletto è il paese delle
chiacchiere. Assurdità e superstizione. Ma la superstizione non mi
spaventa. Me ne valgo, la metto a profitto. Lei faccia lo stesso..
Diamine! è giovane, di complessione robusta... E poi lasci fare a me.
Stamattina, sfogliando un libro antico, ho trovato l’indicazione di
certi ingredienti e delle loro dosi per fare un composto contro l’umor
nero; un composto, direi quasi, esilarante. Senta, lo vuol provare? Una
cucchiaiata ogni due ore. Non può far male e può far bene. Sarebbe una
scoperta, sa. Su via! Coraggio! Io non credo niente, parola d’onore.
Tant’è, adesso vado a casa e apro una sottoscrizione per un banchetto
da offrirsi _All’egregio signor Roberto Duc_, appena... appena passato
il pericolo. Va bene così?

— A meraviglia — rispose Roberto che non aveva capito, nè si curava di
capire.

— Vada franco, eh! Niente paura.

E si separarono.

Roberto aveva già fatto non so quanta strada, quando tutt’a un tratto
gli tornarono in mente le parole: — Niente paura. — Voltò indietro il
viso: lo speziale non si vedeva più.

— Niente paura!? E come c’entra la paura? Cos’ha voluto dire quello
stivale?... Oh santo Dio! Ora che ci ripenso, è la storia del patto
che si è divulgata. Questi signori mi vedono spacciato. Che imbecilli!
Però, bisogna dire che la faccenda prende un aspetto curioso. Caspita!
prima Baino, poi Galosso, poi Tomatis... E va bene. Io farò il
possibile per non seguirli. Della campagna ne ho fino ai capelli, e
perciò domani... Adagio. Non vorrei che si credesse, che si dicesse...
No! Non tornerò in città che alla fine del mese... Niente paura, eh? Vi
farò veder io se ho paura!

Arrivando a casa, scorse Giuseppe, Giovanna e Felice in un canto del
cortile, stretti insieme in gran colloquio: comprese subito che al
Fortino si ripeteva segretamente quanto si diceva già apertamente in
paese.

Ben presto poi si avvide che il servitore lo guardava sottecchi, con
un misto di curiosità, di compassione, d’ironia; ma però lo serviva con
una puntualità e con uno zelo affatto insoliti in lui.

— Eh già — diceva Roberto tra sè, — mi vede finito, perduto, e non
vuole amareggiarmi questi ultimi giorni. Per di più egli pensa che,
invece di morire in sul colpo come Baino e Tomatis, posso ammalare come
Galosso, e aver agio a ricompensare chi mi avrà assistito.

Rocco e Giovanna lo scansavano, temendo forse di non poter celare
la loro angustia. Giacomo invece andava a caccia quasi ogni giorno,
e nell’uscire chiamava sempre Tadò con voce fortissima, o con certi
fischi che bucavano gli orecchi.

Una mattina, Roberto si affacciò alla finestra.

— Giacomo!

— Signore?

— Dove vai?

— Contavo d’andare fino agli stagni di Vernasca.

— Aspetta. Vengo anch’io.

— Bravo, sor Roberto! Stavolta mi ha capito... Perchè se ne sta sempre
lì ad ammuffire?... Mi fa pena. E poi a che serve? Bisogna muoversi,
bisogna distrarsi...

E così cominciarono a far camminate lunghe, strapazzose, stando fuori
dalla mattina alla sera. Più che a dar dietro alle beccacce e ai
beccaccini, Roberto si divertiva a scrutare il cuore del suo giovane
compagno. Giacomo ora entrava in apprensione, pareva temer del tempo,
dei luoghi, di tutto, e abbondava in cautele e in riguardi; ora invece
ficcava addosso al padrone due occhi bramosi, esprimenti una cupidigia
contenuta ed ardente, e diceva parole o faceva atti di maraviglia,
considerando la portata dello schioppo, la comodità del cartucciere,
l’utilità degli stivaloni da padule.

— Ho capito — pensava Roberto, filosoficamente. — Tu mi vedi già
agli estremi, eh? E vuoi una memoria? Va pur là che sei un solenne
frecciatore anche tu!

Una sera, rientrando in casa, trovò il parroco che lo spettava. —
Eh! eh! era uscito col breviario, come al solito, ed ecco che, quasi
senza accorgersene, gettando piede innanzi a piede, era venuto fino
al Fortino. Cospetto! Allora non aveva potuto resistere al desiderio
di fare una visitina al signor Duc, una così brava persona, figlio del
primo benefattore della parrocchia di Casaletto!

Il prete si fermò pochi minuti: accettò il vermut, offrì una presa,
ammirò il luogo, ringraziò e promise di ritornare. — Cospetto! Adesso
poi che aveva rotto il ghiaccio...

E tornò infatti, due giorni dopo, alla medesima ora.

Anche questa volta parlò di cose diverse e leggiere, come per atto di
semplice conversazione; ma Roberto sentiva ch’era venuto con deliberato
proposito, per fargli un discorso serio e lungamente pensato, che poi
non gli bastava l’animo d’incominciare.

— Ecco — diceva tra sè, quando colui se ne fu andato, — ecco un altro
che vede in me un condannato, un moribondo; e viene per iscarico di
coscienza, per ispirarmi qualche santo pensiero... E sopra tutto perchè
al momento opportuno io mi ricordi di lui e della sua parrocchia.

Intanto un’idea, che stava appiattata cheta cheta in un cantuccio della
mente, cominciava a levarsi di tanto in tanto, a farsi innanzi nera
e sgarbata: — E se fosse vero? Se costoro pronosticassero giusto? Eh,
tutto è possibile al mondo!


XXIX.

Uno stormo di corvi passava sopra il palazzetto, gracchiando
sgangheratamente.

Roberto si svegliò, aprì gli occhi, riconobbe il suo letto, la sua
camera, ma sentì pure come una scossa al cuore, una chiamata interna
che gli disse: — Bada a te! Pensa ai casi tuoi!

— Eh, lo so — mormorò fra i denti, — lo so che la scadenza è vicina...
Quanti ne abbiamo quest’oggi? Non voglio saperlo. Non voglio pensare.
Non voglio seccarmi. Oh per Dio!

E voltò il viso al muro.

Ma non si potè più riaddormentare. Aveva dei brividi, dei dolori per
tutta la persona. Si rimise supino, e cominciò a palpeggiarsi il viso,
il petto, i fianchi; cercando e ricercando le ossa sotto la pelle e
sotto i muscoli; immaginando il suo corpo prima sformato, disfatto,
brulicante di animaluzzi, poi consunto a poco a poco e ridotto uno
scheletro. Brr! che raccapriccio!

Queste idee lo assalivano ogni mattina, e per un buon poco lo
occupavano tutto, lasciandogli addosso, per il resto della giornata,
come il terrore di qualche cosa d’oscuro e di minaccioso che gli stesse
sopra.

La gracchiata malaugurosa continuava: i corvi si erano buttati nel
giardino.

Roberto saltò dal letto, e vestitosi a mezzo, andò a guardarsi nello
specchio. — Non c’era dubbio: la campagna, l’aria salubre, la vita
regolata tenuta in quei mesi l’avevano effettivamente ringiovanito.

— Sicuro! — pensò. — Ma a che serve? Anche il povero Tomatis pareva
sano come un pesce, e poi... servitor suo! È il caso del compianto La
Palisse:

    Un quart d’heure avant sa mort
    Il était encore en vie.

Due picchiettini all’uscio.

— Avanti!

Giuseppe entrò, squadrò ben bene il padrone per accertarsi che si
reggeva, poi susurrò:

— Giacomo è all’ordine.

— Può andarsene in pace. Oggi sto a casa. Oggi mi riposo... Cosa fai lì
sull’uscio? Perchè mi guardi così?

— Lei ha mal di capo, eh?

— Niente affatto! Un reuma, se mai; un reuma alla schiena che non mi
lascia vivere.

— Ahi!

— Cosa?

— Niente. Scusi... Vuole il caffè?

— No.

— Un po’ di brodo?

— Noo!

— Una limonata?

— Nooo!

— Un fomento di camomilla?

— Va via, va via, non mi seccare!

Giuseppe disparve.

Giovanna, ritta in mezzo al cortile, teneva con la sinistra il manico
d’un paiuolo e spargeva con la destra dell’intriso di crusca, gridando
con voce acuta:

— Ani ani ani...

Subitamente lasciò star le anitre e si accostò a Giuseppe; il
quale, ponendosi l’indice in croce sulle labbra e con una grande
significazione di tutto il volto, le accennava di tacere.

— Ohimè! — esclamò la donna. — Cos’è stato?

— Il padrone non si sente bene — rispose il servitore, — il padrone ha
il reumatico dalla testa ai piedi.

— Oh Vergine!

— Rifiata a stento, casca da tutte le parti... Ma sia per non detto, eh!

Giovanna fece gli occhi rossi:

— Ohi! ohi! Questo è un pensiero che mi pesa proprio sull’anima...
Adesso capisco perchè ieri sera mi è parso di vedere la Morte secca che
si nascondeva dietro il pagliaio! Povero signore! così buono, così...

— Oh! non dico mica che sia spedito!

— E a giorno, un corvaccio nero come il carbone ha fatto tre giri sopra
il giardino, poi si è posato in vetta al platano, e chiamava gli altri,
come sentisse già l’odore del...

— Zitta! — fece Giuseppe, stando in orecchi. — Ecco il padrone. Sì, sì,
è lui che discende... Ah! dimenticavo di dirvi che Giacomo può andar
dove vuole...

Roberto si affacciò alla porta:

— E dunque? E questo thè?

— È pronto... Cioè no! Scusi, non mi aveva detto niente. Anzi...

— Tientelo! Dammi... dammi due ciliege in guazzo; poi vado a far due
passi. Spicciati, chiappamosche!

Rocco, che non stava mai con le mani in mano, spazzava le foglie
presso i sedili alla rustica. Vedendo spuntare il padrone di dietro al
palazzetto, si turbò e cercò di svignarsela.

— Alto là! Fermo! — gridò Roberto. — Perchè mi sfuggi? È una bella
storia, questa!

— Abbia pazienza. In questi giorni affoghiamo nelle faccende...

— Rocco, le bugie hanno le gambe corte.

— Ma no, creda che...

— Lasciamo andare. Bel tempo, eh?

— San Martino.

— Si vive bene.

— Sì signore. Sul buon del giorno. Ma la mattina!... Ma la sera!... E
tra poco la stagione si farà cruda, avremo il gelo, avremo la neve. La
campagna è bella d’estate. S’io fossi un signore me ne andrei sempre
alla fine d’ottobre.

— Se lo dico! Tu non vedi il momento di rimandarmi a Torino.

Rocco strinse i pugni, tirò giù una filza di imprecazioni contro il
destino, contro sè stesso.

— Non ti confondere — ripigliò Roberto, — non c’è nulla di male, ho
parlato per celia.

— Lei è troppo buono, non si ricorda più che... Giuraddiana! Mi
pentissi tanto dei miei peccati quanto d’averla pregata di venire
al Fortino. Ormai è fatta. Ormai è tardi. Lei è qui: e io ho una
pena continua al petto... Mi par d’avere un mattone che mi sfonda lo
stomaco.

— Eh, ma non mette conto di pigliarla calda!

— Sì signore, lei ragiona benissimo. Una bestialità, una fagiolata, uno
sproposito dei più massicci. Eppure non si parla più d’altro. Il paese
è sottosopra; diviso in due partiti. Gli uni dicono e sostengono che
lei la passerà liscia, gli altri invece che se n’andrà... a rivedere il
nonno. Ha capito?

— Figurati!

— E non si parla più d’altro; si fanno perfino scommesse. Queste poi
sono porcherie che il sindaco non dovrebbe permettere. Ma a Casaletto
non si sa chi comandi. Domenica, in pieno consiglio, Rattonero saltò su
a dire che... se mai (scusi, eh!) bisognava poi fare le cose in regola,
come devono essere fatte, cioè con onoranza, con cerimonia...

— Ho capito: un mortorio coi fiocchi?

— Gesù e Maria! Ma Garzino gli rispose fuori dei denti; gli disse in
faccia ch’era uno sventato, un imprudente, e propose di mandare la
banda a fare la serenata dinanzi al Fortino la sera del 15... Insomma
si volevano mangiar vivi; cose che a memoria d’uomo in consiglio non
erano mai accadute.

Roberto riflettè un poco.

— Non so perchè l’abbiano con me — disse poi: — credo di non aver mai
dato dei dispiaceri a nessuno.

— Questo non c’entra! — esclamò Rocco. — Nessuno le vuol male; tutti le
vogliono bene, tutti, all’infuori di... Si, dico, eccetto forse...

— Sentiamo.

Rocco si morse la lingua.

— Eccetto pochi, anzi pochissimi. Il paese conta circa mille anime.
Ciascuno è padrone di pensarla come crede, non è vero? Dunque
supponiamo...

— Presto! Chi sono i miei nemici?

— Non si riscaldi. Non merita la pena. Creda che a conti fatti è meglio
lasciar correre.

— Rocco!

— Io non ne conosco che due. Due! E il paese fa più di mille anime.

— Due uomini o due donne?

— Oh le donne! Le donne sono tutte per lei. Specialmente le giovani:
pregano, piangono, sospirano, vengono qui a prendere notizie...

— Ah sì? E chi sono queste mie amiche?

— Personalmente non ne conosco che una.

— E chi è?

— È la più bella ragazza del paese.

— Non la vedo mai!

— Perchè viene di buon’ora.

— Tutti i giorni?

— Magari, se potesse! Ma non può. Non può perchè: ehm, c’è chi vigila,
chi sta all’erta. E con ragione. A Casaletto e nei contorni tutti sanno
che si è incapricciata di lei.

— Di me? Che sciocchezza!

— Eh sì! Ma poverina... Io la compatisco; dice bene il proverbio: amor
non ha sapienza.

— Voglio dire: che favola! che fanfaluca!

— Senta, se fosse una fanfaluca, Michele Masino e Bastiano Millo non
avrebbero dell’amaro in corpo contro di lei.

Qui Rocco dovette vedere qualche cosa di molto strano negli occhi del
padrone, perchè soggiunse subito:

— Per carità! Mi raccomando... Non è il caso di far risentimento, di
far provvedimenti. Bastiano è un giovane quieto, un giovane prudente,
che o presto o tardi metterà il cuore in pace. Michele è un uomo
tutto d’un pezzo, un uomo mezzo salvatico, come dire un africano, ma
incapace di torcere un capello a nessuno. Già non bisogna pretendere
di pigliarlo pel naso! Non bisogna capitargli innanzi in un cattivo
momento, in uno di quei momenti in cui non si scerne più il bianco dal
nero...

— Ho capito — disse Roberto, distratto: — starò in guardia.

— Ecco! Bravo! Stia in guardia. Anzi, sa cosa dovrebbe fare? Le parlo
col cuore in mano. Sa cosa dovrebbe fare? Ritirarsi in città. Torino è
un porto sicuro. Così, mettiamo che in questo paese ci sia un pianeta,
un influsso cattivo, lei se ne va fuori tiro. Intanto noi pregheremo il
Signore per lei. Penseremo a lei, come se fosse presente...

— Piangi?

— Oibò!... Tutt’altro! Non piango mai, io.

— Francamente: ti pare che io abbia la faccia d’un moribondo?

— Giuraddiana!

— Sì o no?

— Dico che ha una faccia che consola. È tutto bello. Bello, sano e
prospero che è un piacere.

— E dunque! — esclamò Roberto, gettando le braccia in aria.

Con questo si mosse rapidamente, entrò in casa, salì e si chiuse nello
studio. Sentiva di dover fare qualche cosa e non sapeva che. Aggrottò
le ciglia, come chi raccoglie i propri pensieri. — Bada a te! bada
a te! — gridò subito la voce interiore. Tutti lo vedevano in brutti
termini, quasi in pericolo. Rocco aveva parlato di un pianeta, d’un
influsso; dunque credeva anche lui che certi effetti dipendessero da
occulte cagioni? Credeva anche lui all’esistenza d’influenze recondite,
di forze misteriose, talvolta benigne e propizie, più spesso avverse e
maligne?

— Se fosse vero? — pensava. — Se fossimo realmente soggetti ad una
turba sterminata di satraponi invisibili, che possono trattarci
come noi trattiamo certi piccolissimi insetti? Chi può sapere che
idea si fanno di noi le zanzare e le pulci? Non può darsi che per
un bacherozzolo, un lombrico, una formica il mio piede rappresenti
semplicemente il fato, il destino?... Via, smettiamo di filosofare, e
ragioniamo. Che cosa dovrei fare, dato ch’io fossi davvero sull’orlo
della fossa?... Eh, potrei far testamento!

La parola gli parve comica, e si cacciò a ridere; ma il suo riso suonò
così stonato, che si chetò subito, e guardò intorno con un senso di
terror vago.

— Ragioniamo, ragioniamo. In tutti i momenti della vita la morte è
possibile... Il far testamento non l’ha mai affrettata a nessuno. Per
conseguenza...

Sedette al tavolino e si mise a riflettere, stringendosi con le mani
la fronte e le tempia. Non aveva parenti prossimi, nè amici bisognosi:
poteva disporre delle cose sue come gli pareva e piaceva.

Prese un foglio e si mise a scrivere velocemente. S’infervorò via via,
e venne in una sorta d’ebrietà intellettuale.

Ecco sì, bisognava far presto; correva ineluttabilmente alla fine;
si sentiva come incamminato sopra una china dove non riuscirebbe a
fermarsi. Non rimpiangeva il passato. Sperava di lasciar desiderio di
sè. In grazia sua, per volontà sua, Michele e Susanna divenivano non
ricchi, ma agiati...

Cessò di scrivere. Delle visioni passavano e svanivano senza
interruzione.

Egli se n’era andato, egli era morto. Padre e figlia venivano ad
abitare il Fortino. Giravano in qua e in là, in su e in giù, da
per tutto. Immaginava la maraviglia, la gioia, la commozione, la
gratitudine. Susanna prendeva a tavola il posto già occupato da lui;
prendeva la camera; prendeva il letto...

A questo punto gli parve che il sangue piombasse d’un tratto al cuore
e d’un tratto risalisse al cervello: gli si annebbiò la mente, gli si
annebbiò la vista.

Si scosse e stracciò il foglio.


XXX.

«... _Je m’imagine que tous les étages de la maison terrestre sont
occupés: sous l’eau les poissons, l’homme sur le pont du navire,
au-dessus des voiles les oiseaux, au-dessus des ailes les morts._

«_Les poissons ne voient l’homme que lorsque l’hameçon du pêcheur
les tire hors de l’eau; pour eux, voir l’homme, c’est mourir. Nous
aussi, c’est en mourant que nous voyons les morts. — Et qui sait si,
quand nous mourons, ce ne sont pas les morts qui nous pêchent, si
les maladies, les passions, les suicides ne sont pas les hameçons des
habitants d’une zone supérieure, si une bataille n’est pas un bon coup
de filet?_

«_En attendant_...».

Roberto sbadigliò, chiuse l’opuscolo e lo posò sul tavolino che stava
accanto al letto.

— Sicuro! _Les manifestations des esprits_, bel titolo, attraente,
promettente... Ma continuerò domani... Se sarò vivo. Ehi! oggi ne
abbiamo 13! Siam lì!...

Spense il lume e si cacciò sotto le coperte. Cominciò a velar l’occhio,
si smarrì in un breve sopore, ma tutt’a un tratto si risentì e riebbe
il pensiero:

— Ne abbiamo 13... Se domattina Giuseppe mi trovasse qui stecchito,
freddo come un marmo?! Una sincope, un vizio organico, un accidente
qualunque... Perchè no? E posso anche cadere in letargo!

Si sentì correre un brivido nella persona, pensando alla possibilità di
essere creduto morto, chiuso nella cassa, portato al camposanto.

— Ecco quel che avrei dovuto fare! Lasciare qualche ordine, qualche
prescrizione per la mia sepoltura. Bastava una riga. Non ho saputo nè
prevedere nè provvedere. Se muoio, i Degioanni si pappano tutto il
mio. E siamo appena parenti! E non li ho mai potuti soffrire!... E
a Susanna? A Susanna niente, e per tante ragioni. Non credo affatto
affatto ch’ella pensi a me. Ciance! Mi hanno veduto andare alla
chiatta, l’hanno veduta venire al Fortino, ed ecco fatto! Succede qui
come in città: un giovinotto ed una signora si fanno vedere insieme un
paio di volte, e tutto il bel mondo parla, e tutto il bel mondo ride.
Cretini!

«Ma guarda, non ci pensavo! Farei un bel servizio a quella poverina,
lasciandole anche solo un legato, un ricordo! Dio santo, parrebbe una
rimunerazione, un compenso! Mi figuro le chiacchiere, le infamità...
No! Io non devo macchiare la sua riputazione, fare fango del suo onore.
Fortuna che non ho ancora scritto niente! E son pur pazzo a tormentarmi
con queste ideacce! Comincio ad abusar eccessivamente della mia
fantasia. Che dappoco! Che pulcin bagnato! Sicuro: un pulcin bagnato,
_une poule mouillée_. Dormiamo, dormiamo, dormiamo.

Stese le membra, e si sforzò di star quieto nella giacitura in cui si
trovava.

A poco a poco le immagini si offuscarono, presero ad apparire e sparire
a vicenda; le palpebre gli si fecero gravi, le chiuse, si addormentò.

Ma nel sonno le idee seguirono la medesima via. Ecco che gli pareva
di trovarsi in un luogo orrido e deserto, sotto un balenìo da fine
del mondo. Laggiù laggiù il vento mulinava la sabbia, e la sabbia si
agglomerava, diventava una donna. Susanna! Egli le correva dietro come
un disperato, e inciampava in una pietra sepolcrale, poi in un’altra,
in un’altra. Finalmente, quando meno se lo aspettava, si trovava a
fronte a fronte con la forma fuggente.

Essa era tutta d’un bianco di neve.

Le parlava e non rispondeva; le porgeva un foglio (il suo testamento) e
non levava la mano a pigliarlo. Però la mano era sempre lì. Si chinava
per baciarla, e non c’era verso di poterla afferrare.

Voleva gridare; ma dal vedere al non vedere Susanna s’era già
trasformata. Il sognante si figurava d’indietreggiare dinanzi a tre
fratelli della Misericordia, coperti di loro cappe nere, colla buffa
calata sul viso, del quale solo gli occhi apparivano per due buchi
tondi. A quegli occhi riconosceva Baino, Galosso e Tomatis. I tre
spettri mettevano la destra sull’anca e alzavano la sinistra con
l’indice teso verso il cielo.

Solo allora egli si accorgeva d’essere in fondo a un’acqua morta e
melmosa. Un amo penzolava a quattro dita dal suo viso. Voleva chiuder
la bocca, ed invece l’apriva: l’uncinetto di acciaio scorreva giù giù
per la gola e gli si ficcava nel cuore. Si storceva per liberarsi, ma
poi si abbandonava e si lasciava tirar su, follemente desideroso di
veder chi l’aveva preso. E l’ascensione si prolungava nel tempo, nel
vacuo, nel buio...

Alle sette e mezzo, Giuseppe salì pian pianino, si accostò trepidando
all’uscio del padrone, stette a sentire, e poi ridiscese.

Il fittaiuolo e la sua famiglia aspettavano a piè della scala.

— È vivo — disse il servitore: — va, viene e canta come un rosignuolo.

Rocco fece un gran respirone e uscì coi figliuoli; Giovanna rimase e si
lasciò andare sur una cassapanca, ch’era lì presso.

— Eh, poveri noi!...

— Non avete capito? — esclamò Giuseppe. — Ho detto che sta benone.

— Per adesso. Ma io non son niente tranquilla. Tadò ha mugolato tutta
la notte.

— Abbaiava alla luna.

— Le bestie la sanno più lunga di noi.

— Eh via! Non fate l’uccello del malaugurio.

— Io non faccio niente, io. Ma ho un batticuore, un batticuore. Darei
la Mora, che è la più bella vacca della nostra stalla, perchè oggi
fosse già domani.

— Bisogna armarsi di pazienza e aspettare. Questo è un affare
commerciale, sto per dire un pagamento, una cambiale che scade a una
cert’ora. Passata la mezzanotte, possiamo cantare vittoria. Ma prima
no. Io per me, se fossi il padrone, oggi non mi esporrei in nessun
modo. Starei in casa, starei a letto, ben coperto, quieto quieto; e non
prenderei altro che uova. Come Napoleone. In tutto il mangiativo ci può
essere veleno, ma nelle uova no.

— Giusta! E perchè non ha mandato a chiamare il medico? Tenerlo qui, in
una giornata come questa! Io pregherei; io avrei la corona in mano; io
farei un bel voto...

— Cosa volete? Io dico così che il mio padrone ha un coraggio da mille
lire. Pacifico lui! Canta da tenore. Sentite sentite!

Stettero un momento in attenzione, poi la donna si alzò e si fece
all’uscio.

— Ecco la Boscarina — diss’ella, — che viene a veder cosa c’è di nuovo;
ecco anche Pron. Quello è mandato dal sindaco. In paese sono tutti
curiosi di sapere come va a finire la faccenda. Oggi sarà una vera
processione; e domani...

— Via! — susurrò Giuseppe, voltandosi verso la scala. — Ecco il padrone.

Roberto si era svegliato a giorno chiaro, e aveva penato alcun poco a
separare le vane e fugaci visioni del sonno dalle memorie della realtà
e dalle sensazioni esistenti; ma passati quei primi momenti, strigate e
riordinate le idee, aveva provato un misto di sentimenti indefinibili
e nuovi. Non voleva cercare donde ciò provenisse, nè trarne alcuna
conclusione.

— Illusione? Presentimento? Speranza? Non fa niente. Sarà quel che Dio
vorrà. La mia vita è tutta piena di contradizioni: ieri ero un uomo
finito, oggi mi par di rinascere. La giornata è splendida: dunque

    Non curiamo l’incerto domani
    Se quest’oggi ci è dato goder.

Giuseppe lo aspettava da basso, insolitamente pronto e cerimonioso.

— Oh oh! Alzato presto stamattina, il signor Roberto! Mi rallegro, buon
segno...

— Orsù! — disse il padrone, — dammi da colazione e corri ad
attaccare... Che hai? Cosa c’è?

— Per me... Son qui per ubbidire, io. Ma non le pare che... Sì, dico,
oggi, proprio oggi!

— Spiegati.

— Uomo a cavallo (scusi, neh!) sepoltura aperta.

— T’ho detto d’attaccare, non d’insellare.

— Eh, sì signore, ma...

— Basta.

Roberto fece una bella trottata fino a Bornengo, e tornò a casa sano e
salvo, verso mezzodì.

Dopo desinare uscì in cortile. Si sentiva rifocillato e tranquillo,
disposto alla confidenza e all’abbandono.

Chiamò il fittaiuolo, i due giovani, e volle giuocare allegramente alle
bocce.

Uomini, donne, ragazzi, a due, a tre per volta, passavano davanti al
portone, rallentando il passo, guardando sott’occhio nel cortile, come
chi vuol vedere senza dare sospetto.

Alcuni venivano avanti pian piano, con fare sbadato, gettando piede
innanzi a piede, e andavano a confabulare con Giovanna, seduta
sull’uscio. Altri, più sfrontati e indiscreti, si avvicinavano con
passo franco ai giuocatori, si piantavano lì come per assistere alla
giuocata, e intanto andavano occhiando e sbirciando il giovane signore.

Ma Roberto si divertiva sinceramente, e non badava a loro nè punto nè
poco.

Fatte diverse partite, salutò in giro ed entrò in casa. Salito in
camera, si spolverò, si lavò, e, non sapendo che fare, si distese sul
letto. Lo trovò singolarmente morbido e soffice.

Provava sempre in sè stesso un contento che non sapeva spiegare, si
sentiva in un ben essere pieno e perfetto.

— Insomma — diceva tra sè, — non mi riconosco più. Sono quasi felice,
ed è un gran dire. Purchè non sia un bagliore che poi mi lasci più al
buio di prima...

Chiuse gli occhi, ebbe un ribollimento di pensieri, e istantaneamente
si ricordò d’una conferenza sentita parecchi anni prima a Parigi.
L’oratore era un illustre medico inglese; il tema: _«La morte è sì o
no dolorosa?»_ Non vi aveva mai più pensato, e adesso gli tornavano in
mente, per ordine, i punti principali.

— La morte — aveva detto il medico — non è che un semplice atto
vegetativo. L’inaridirsi delle correnti nervose equivale a un vero
appassimento: l’uomo finisce come una pianta, come un fiore. Il momento
supremo è preparato da una sequenza, da un’infinità di altri momenti
coordinati e cooperanti. L’ammalato entra, nel maggior numero dei
casi, in uno stato affatto sconosciuto a chi è sano: è un languore, un
assopimento, un annientamento graduale di ogni sensibilità e di ogni
forza, che lo rende ora inconscio, ora indifferente. Tutti coloro che
fanno professione di assistere i moribondi: medici, preti, monache,
infermieri, sanno che in generale le agonie sono placide e serene.
La morte non solo non è per niente più penosa della nascita, ma può
essere anche piacevole. Sì, anche piacevole: tutti i pseudomorti, vale
a dire tutti coloro che avventuratamente hanno potuto far ritorno dagli
estremi confini della vita, sono concordi nell’affermare che l’andata è
piana, comoda, facile: un viaggetto di piacere e nulla più.

L’inglese, ottimista e umorista, aveva rallegrato l’uditorio,
raccontando come un suo connazionale, salvato mentre annegava, fosse
poi diventato acerrimo nemico di colui ch’era venuto a rompergli il
corso delle sensazioni paradisiache.

Esaminate partitamente, diligentemente le varie forme dell’asfissia,
dichiarandole tutte amabili o dilettevoli o voluttuose, il medico
aveva concluso citando due versi latini, il cui senso press’a poco era
questo: «Gli Dei hanno nascosto agli uomini le delizie della morte,
affinchè continuino a sopportare pazientemente la vita»; e con due
altri versi d’un vecchio poeta francese:

    Agoniser est un plaisir extrême
    Et rendre l’âme est la volupté même.

— Oh! guarda — pensò Roberto, — me la sono rammentata tutta la
dissertazione, punto per punto, perfino i versi! Come mai ho fatto
a ritenere tanta roba? Dove l’avevo riposta? Non sapevo, non mi ero
mai accorto d’avere una memoria così tenace, una memoria di ferro. Il
cervello è un magazzino maraviglioso... Ohe! E se questa lucidità di
mente, questo fermento di vigore fossero poi fenomeni morbosi, sintomi
di mal augurio!... Già: il canto del cigno. Ch’io sia proprio tanto
vicino a gustare _le plaisir extrême_?

Saltò giù dal letto e si trovò all’oscuro: anche quel giorno era
passato. Andò nello studio, prese un volume al tasto, e discese nei
salotto. Trovò il lume, trovò il fuoco acceso. Giuseppe mise in tavola
e gli augurò sommessamente buon appetito.

Roberto mangiò di voglia, lasciò sparecchiare, poi riprese il libro.
Era la _Storia di Napoleone_ di P. M. Laurent de l’Ardèche, illustrata
da Orazio Vernet. Una mano, tanto ardita quanto inesperta, aveva
colorito alla maledetta le principali battaglie: fuoco, fumo, sangue, e
un guazzabuglio di divise gialle, rosse, verdi, turchine.

Egli si crucciò, poi si ricordò: con quel libro s’era baloccato per
anni, gli anni della sua infanzia e della sua fanciullezza; l’aveva
maneggiato, scartabellato, deturpato, e non ne conosceva una riga!
Cominciò a sfogliarlo, poi a leggere continuatamente, con crescente
attenzione.

Il tempo passava.

Giuseppe girava per la cucina, mettendo le mani qua e là, armeggiando
senza proposito. Di quando in quando apriva pianamente l’uscio
del salotto, e dava una guardata. Come vide che il fuoco s’andava
spegnendo, entrò, avvicinò i tizzi, ravviò i carboni e aggiunse due
pezzi di legno.

Vi fu un silenzio.

A un tratto Roberto alzò gli occhi: Giuseppe pallido e tutto sgomento,
guardava fissamente la finestra che risponde in cortile.

— Cosa c’è? Cos’è stato?

— Ho intravvisto una faccia — disse il servitore con voce tremante. —
Lì fuori c’è qualcuno che ci guarda; qualcuno che aspetta.

— Rocco forse, o Giacomo, o Giovanna.

— Eh! no signore... Piuttosto... ecco... dico... m’è parso il maestro.

— Ah ah ah! Nientemeno!

— Lei ride, lei se la ride, ma io...

— Figurati! Lo credo, lo credo perchè me lo dici tu.

Qui Roberto chiuse il libro, accese una sigaretta e si alzò.

— Cosa fa? cosa fa? — domandò Giuseppe ansiosamente.

— Oh bella! — rispose il padrone, andando all’uscio. — Mi voglio
sincerare.

— Posso aver traveduto, sa; sono certo di aver traveduto... Perchè
poi... Misericordia!

— Va bene, non importa, prendo una boccata d’aria.

— Senta — balbettava il buon Giuseppe, inchiodato presso al camino:
— vado io, se mai... Che diavolo! Però si guardi, neh! Sor padrone?
Signor Roberto? Aspetti un momento; mi faccia il piacere... Oh santo
Dio!

La notte era serena, l’aria sottile; dove batteva la luna, ogni cosa si
poteva distinguere quasi come di giorno.

Una forma femminile andava lentamente verso il portone.

Roberto chiamò due volte: — Giovanna? Giovanna? — benchè non
riconoscesse nè il portamento nè la statura.

Invece di rispondere o di fermarsi, la figura affrettò il passo, entrò
nell’ombra, disparve sotto la tettoia.

Passarono alcuni momenti.

— Tadò, qua! — disse Roberto.

Il cane gli corse alle gambe con un mugolio flebile, che somigliava al
gemere d’una persona.

— Su! Vieni, andiamo dietro al fantasma... Vieni, Tadò, vieni...

Così dicendo attraversò il cortile, si affacciò al portone, guardò a
destra e a sinistra. Di repente sentì una vampa nel petto.

— Susanna! Siete voi?

La fanciulla si ritirava pian piano lunghesso il muro, come per non
essere veduta.

— Susanna! — ripetè Roberto avvicinandosi. — Siete voi? Siete proprio
voi?

Ella si fermò e rispose:

— Sì signore... Sono venuta a trovare Giovanna.

— A quest’ora! E come mai?

— Eh, lo so che è tardi!

— Non volete favorirmi? Non volete prendere qualche cosa? So che venite
qui di tanto in tanto. Non ho mai avuto la fortuna di...

— Grazie! Felice notte.

— Mi permetterete almeno di accompagnarvi?

— No no no! Non permetto ch’ella s’incomodi.

— Ma io non posso, non voglio lasciarvi andar via così. Diavolo! Non
è più ora da cristiani questa. Potete far qualche brutto incontro:
imbattervi in un vagabondo, in un disertore, in un bandito. So che
siete coraggiosa, molto coraggiosa, ma...

— Torni indietro, torni indietro.

— Ebbene farò come volete, ma... vi seguirò da lontano. Ecco, mi terrò
a rispettosa distanza...

— Torni indietro, mi faccia la carità!

E si scostò impetuosamente.

Roberto si risentì.

— E va bene! — esclamò. — Fate come vi piace. Non voglio noiarvi, io.
Non voglio imporvi la mia compagnia. Fate pure come vi piace.

— Signor Duc — mormorò la fanciulla, voltandosi, — non si offenda per
così poco.

— Più che il fatto mi offende il modo, vedete.

— Una parola scappata...

— Una parola?! Grazie tante!

— Mi perdoni. Pensi che sono una poveretta di campagna, un’ignorante...

— Ma sì! ma sì! Perdono sempre, io. Sono la bontà, la clemenza in
persona. Oggi poi... che può essere l’ultimo giorno della mia vita! Lo
sapete anche voi, eh? Non si discorre di altro. — Trasse l’orologio, lo
guardò al limpido lume della luna, e soggiunse: — C’è tempo, c’è tempo;
posso ancora morire e... rimorire!

Susanna si mosse come chi non ha più altro da dire, nè vuol sentir
altro; e Roberto le si mise a fianco. Non parlarono per un buon tratto;
poi, per un tacito consenso, allentarono il passo.

— Adesso vi ringrazio — disse Roberto, con gran dolcezza.

— Di che cosa?

— Vi siete acquietata, vi siete abbonita, non mi mandate più via. Era
tempo, per bacco! Vi ho sempre trovata così fredda, così indifferente,
così armata di spine! Mi avete sempre trattato tanto male!

— Questo è troppo! — disse Susanna, quasi parlando a sè stessa.

Roberto la interrogò con lo sguardo.

— È troppo! — ripigliò la fanciulla. — Come parla! L’ho già detto: sono
una campagnuola, una povera creatura. Che colpa ne ho io, se...

Le mancò la voce o non osò proseguire.

— Ho parlato per celia — disse Roberto. — Che diavolo!

— Ah lei parla per celia? Se provasse a patir certe pene!

— Che pene?

— Pene di morte, pene che fanno andare il cervello in aria.

— Dite dunque, dite. Su via! Coraggio! Confidatevi in me.

Ella non diè segno d’aver inteso, fece ancora tre o quattro passi, poi
si fermò e lo guardò con gli occhi scintillanti.

— Oggi — susurrò, — è stata una giornata trista, terribile. Ho contate
le ore a goccie di sangue.

— Che vi è accaduto?

— Si ha un bel dire: non credo, non credo, non voglio credere! Ma
quando tutti ripetono la stessa cosa, quando tutti sembrano persuasi...
Stasera, in sul vespro, s’è sparsa la voce che lei fosse malato, molto
malato. Allora...

— Allora?

— A che serve che lei mi tormenti con tante domande? Sono una
sfacciata, ecco tutto.

— Susanna!

— Ero in paese: invece di tornare a casa, son venuta al Fortino. E mi
ci sono trattenuta. Perchè... perchè non so più dove io abbia la testa.
Ora mio padre mi aspetta, mi cerca, si affanna...

— Non pensate a questo, non temete di nulla: gli parlerò io.

— Lei? Oh Vergine santa!

— E perchè no?

— Non sa niente?

— So che vuol farvi sposare un uomo a cui non volete bene.

— Non basta, non basta!

— E che l’ha maledettamente con me.

— Ecco.

— Ci parleremo, ci spiegheremo.

— Dio faccia che non s’incontri con lui!

— Diamine, che cosa mi dite!

— Parlo sul serio. Voglia Dio che non si vedano più! Mio padre è buono,
ha buon cuore, ma è fisso fisso nelle sue idee. Ora poi si è scaldata
la testa. Anime nere, maldicenti ce n’è da per tutto. Un non so chi gli
ha dato a intendere che io... e che lei... Non posso dirlo, non posso
dirlo! Ho già dette tante cose inutili, tante cose cattive, che forse
sono peccati. Ho parlato troppo: si vede che non ho più senso di nulla.
È uno sgomento. È una gran tribolazione. Mi lasci qui. Torni indietro.
Vada via, vada via, vada via, per amore del cielo!

Così detto, si lasciò andare sul ciglione della strada, accanto a un
grosso tronco; e, appoggiata a quello la testa, cominciò a piangere a
calde lagrime.

Roberto aveva provato un’insolita e fortissima commozione, credendo
riconoscere in quella voce, piena d’angoscia e di smarrimento, il
suono vero della passione. E adesso che doveva fare? Rispondere
abbandonatamente, lì per lì?... Differire, temporeggiare?... Prese
a lottare, a lottare per riacquistare la calma, il raziocinio, per
trovare quei capi, quei punti che potevano guidarlo a ben giudicare
quanto avveniva.

— Susanna! Non v’accorate; a tutto si trova rimedio, a tutto...

Ella si riscosse e alzò la faccia: non discerneva nulla per la velatura
del pianto.

— Susanna! Parlate ancora. Dite su... Quando avete cominciato a pensare
a me?

— Subito.

— Subito? Cioè?

— Subito dopo il suo arrivo.

— Oh!... Ditemi tutto.

— Non posso, ora non posso!

— Perchè?... Mentre siamo soli, mentre siamo tranquilli... Fatevi
animo, fatevi forza.

— Dunque sì... dopo il suo arrivo. Una mattina lei è venuto in paese.
Ero in casa di mia cugina: l’ho visto passare e ripassare sotto le
finestre... Non si è accorto di nulla, ma io... E basta. Oggi com’oggi
non capisco ancora bene quello che mi è accaduto. Una disgrazia, una
pazzia, una vergogna... il più gran castigo che Dio possa dare a una
povera ragazza. Ecco. E basta, e basta. Adesso mi trovo persa. Vede?
Parlo senza rispetto, senza ritegno. È così. Oramai è bell’e finita,
non si torna addietro... Sicchè dunque... E lei non pensi più a me...
Voglio dire: dimentichi tutto, dimentichi tutto, per i suoi poveri
morti!

— Ancora una parola!

— Oh Signore!... Con questo coltello che ho nell’anima! E poi, se non
la trovo la parola che significa quello che sento! Se non la trovo!

Questo fu detto con un accento quasi disperato. Roberto, vinto, tacque
e le sedette accanto.

Tadò, ch’era corso avanti, tornò e si coricò ai loro piedi.

L’ora era tarda; la notte quieta; la pace delle cose sacra e profonda.

Roberto si sentiva come tramutato in un mondo diverso; non aveva più
nessuna memoria del passato, più nessuna idea dell’avvenire.

Ma come gli si snebbiò la mente, ricominciò a parlare a Susanna, ora
a modo di chi supplica, ora con frasi tronche, veementi, frammettendo
dolcissimi nomi di amore; e alla fine, smarrito di nuovo ogni lume, le
cinse la vita con un braccio e appressò le labbra al suo viso.

L’atto fu pronto, ma non colse il segno: poichè essa si voltò ratta, ed
egli non sfiorò che i capelli...

Nè l’uno nè l’altra badavano al cane che ringhiava stizzosamente.

— Bravi! — disse tutt’a un tratto una voce secca e vibrata.

Un uomo era là, ritto nel mezzo della strada, come fosse balzato di
sotterra.

Roberto e Susanna si levarono in piedi.

— Ho visto — ripigliò l’uomo, senza muoversi, senza fare alcun atto di
minaccia. — Ho visto. Per Dio! stavolta vi ci ho chiappati!

— Sentite, Michele, sentite! — cominciò Roberto, alzando la mano verso
di lui.

— Niente! Stia indietro, lei! Regolerò poi i conti anche con lei.
Adesso voglio mia figlia. Vieni qui, tu. Animo! A chi dico?

Fece un gesto violento; e Roberto vide luccicare lo schioppo.

— Ohe! ohe! — esclamò. — Calma. Non perdiamo la bussola. Adesso vi
racconterò... vi dirò tutto.

Il chiattaiuolo proruppe improvvisamente nei più alti, nei più orrendi
vituperii.

— Basta! — gridò il giovane signore, indignato. — Vergogna! Contro
vostra figlia. Voi che avete i capelli bianchi. Vergogna!

— Oh! — fece dolorosamente Susanna, giungendo le mani. — Non mi fa
caso: ci sono avvezza oramai.

Il padre l’udì, fu preso da un tremito convulso, che gli tolse di
continuare.

Intanto Roberto era tornato padrone di sè.

— A noi — diss’egli; — facciamola finita. Ho bisogno di parlarvi, ecco.

— Indietro! Non voglio saper niente, non me n’importa niente.

— Vi prego!

— Non scherzo, sa! Ho fatto il soldato... Il mio dovere... e l’onore...
l’onore...

— Fermo!

— Faccio uno sproposito! Faccio uno sproposito!

Qui Michele spianò lo schioppo e mirò a mezza vita. L’atto fu così
furioso, così istantaneo, che Roberto sentì il freddo della morte;
e, per un attimo, vide come protese a sè le larve sinistre dei tre
trapassati.

Susanna mise uno strido, si gettò avanti, gli fece scudo con la propria
persona.

— Scansati — urlò il chiattaiuolo, fuori di sè, — scansati, o tiro nel
mucchio!

Ma mentre indugiava a dar la stretta al grilletto, Roberto, respinta la
ragazza, gli si avventò addosso e abbrancò l’arma.

— Sei matto! — diss’egli a tutta voce. — Voglio tua figlia, io. La
sposo, capisci, la sposo.

Michele rimase un momento immobile, come impietrato, poi scagliò
lontano lo schioppo, e si levò rispettosamente il cappello. Susanna
vacillava con le mani sugli occhi, trasognata, abbagliata...

Nel silenzio ampio, solenne, rimbombavano i tocchi d’un orologio: la
prima metà della notte terminava in quel punto.



PUNIZIONE


Gustavo Caimi posò la tavolozza, si alzò, indietreggiò lentamente con
gli occhi fissi sul suo dipinto.

— Mi par finito — diceva tra sè, — mi par proprio finito... Ma sarà
poi vero? Non ci vedo più, non capisco più niente. Bisognerebbe che
io avessi la forza di stare una settimana senza mettere i piedi qui
dentro, almeno una settimana...

Il quadro rappresentava al naturale un giovane gentiluomo vestito alla
foggia del 1650: farsetto nero, calzoni neri, calze e scarpe pur nere,
tutto quanto guernito di merletti stupendi. Appoggiato al davanzale
d’una finestra, guardava nella strada; l’atteggiamento significava il
concetto dell’artista; lo significava ancor più chiaramente l’aria del
volto, in cui si leggeva un’aspettazione appassionata, speranzosa,
dolcissima. Il fondo era una camera con alcova, piena d’ombra e di
mistero. Il disegno, franco e corretto, appariva assai diverso da
quello comune a molti artisti del giorno d’oggi: disegno timido a un
tempo e sprezzato, incerto insieme e angoloso. Il colore era condotto
sapientemente, largamente; ogni cosa eseguita secondo la sua natura e
la sua importanza: la carne, fresca e soda, pareva veramente vivificata
dal sangue; i capelli sembravano morbidi e lisci; le stoffe pieghevoli
e cedevoli al tatto. L’aria diafana, fine, avvolgeva la figura,
circolava per tutta la stanza.

I pittori Landi e Guabelli, lo scultore Ricolfi, amici intimi di Caimi,
avevano già pronunziato scolpitamente la parola: «_Capolavoro_».

— Non hai mai fatto una cosa più bella, più nobile — diceva Landi: —
è fino e forte, è chiaro e intonato, è antico ed è moderno. Non c’è un
neo a pagarlo un milione...

— C’è qualche cosa che annunzia il caposcuola — aggiungeva Guabelli. —
E tant’è, l’hai da mandare a Parigi, questo quadro, l’hai da mandare.
Farà onore all’arte italiana. Manderò anch’io; manderemo insieme.

— Velasquez, Velasquez — sentenziava lo scultore, lisciandosi la
barbetta caprina. — Ma un Velasquez raccolto, misurato, ponderato...
come dire un Velasquez olandese.

Caimi credeva, assaporava gli encomi; ma un po’ per vero amor del
perfetto e per isquisitezza di gusto, un po’ per ostentazione, si
mostrava sempre incontentabile, e continuava a rifinire, ad accarezzare
l’opera sua.

Ma quel giorno era sazio, stufo, ne aveva veramente fino ai capelli.

Pulì la tavolozza, lavò i pennelli, cominciò ad assestare lo studio,
ch’era tutto sottosopra. Assestare significava anche abbellire, poichè
veniva via via cacciando in uno stanzino attiguo molte cose utili sì,
ma disadorne; mettendone in mostra altre inutili, ma decorative.

Di tanto in tanto girava l’occhio intorno con vivo compiacimento; o
andava a porsi davanti a un grande specchio incorniciato d’ebano, e
contemplava sorridendo la sua bella testa ricciuta, la strana fisonomia
improntata di sensualità e di gaiezza, che tanto ricorda quella d’un
giovane fauno.

Aveva cavato da una vecchia cassapanca un bel piviale di raso bianco,
ricamato a fioroni di vaghissimi colori, e stava cercando il modo di
farlo figurare, quando il campanello tintinnì timidamente.

Il pittore andò ad aprire. Si trovò davanti un giovane pallido,
magretto, di statura traente al piccolo, ma ben disposto della persona
e molto elegantemente vestito.

— Disturbo? — susurrò, togliendosi cortesemente il cappello.

— No no, niente affatto — rispose Caimi. — Oggi non ho modello. Vieni
avanti.

— Passavo qui sotto e mi prese il desiderio di salire... Ho sentito
tanto a parlare del tuo bel quadro! Temevo che tu l’avessi già
spedito...

— No, guarda, è ancor lì.

Enrico Raimondi si avvicinò al cavalletto.

— Bello! — esclamò. — Bellissimo! Per quel poco che me ne intendo, mi
pare una gran cosa.

Caimi rispose con un brontolìo inarticolato, che si poteva prendere
per un ringraziamento, ma che significava invece impazienza repressa e
sazietà di lodi. Soggiunse poi, dopo un momento:

— E tu... che cosa fai? Scherma e cavallo, eh?

— Scherma e cavallo — rispose Raimondi.

— E la sera in società?

— E la sera in società.

— Stanotte ti sarai divertito?

— All’Accademia?... No.

— Come no? È stato un gran bel ballo! Io sono rimasto quasi sino alla
fine. E anche tu, se non isbaglio?

Raimondi non rispose: guardava fissamente Caimi, come per leggergli
nel pensiero. Questi non badava a lui: aveva raccolto fogli, stampe,
disegni sparsi sulla tavola e li ordinava dentro una cartella. Vi fu
un silenzio che si prolungò, divenne fastidioso. Il giovane signore si
accostò all’artista in atto di prender congedo.

— Te ne vai? — disse Caimi, tiepidamente.

— Me ne vado.

— Dunque... a rivederci.

E si strinsero la mano. Raimondi fece alcuni passi, poi si fermò.

— Ero venuto per chiederti un favore — diss’egli piano; — ma vedo che
non è il momento.

Caimi, rivolto a lui, aspettava che si spiegasse. Raimondi aperse le
labbra, poi accennò che non poteva, e barcollò leggermente.

— Tu non ti senti bene — esclamò il pittore. — Che cos’hai?

Il giovane oppose all’abbattimento che lo invadeva un impeto palese
di volontà: stette un istante con i denti stretti, le sopracciglia
aggrottate, poi mormorò:

— Niente, niente... È il solito dolore. C’è della intermittenza nelle
pulsazioni del cuore. Mi passa, mi passa subito...

— Dicevi?

— Dicevo ch’ero venuto per chiederti un favore.

— Parla, parla pure liberamente. Se posso, figurati! Solamente ti
avverto che in questi giorni sono anch’io un po’... un poco alle
strette. Capisci?

— Non si tratta di denaro — disse Raimondi, sorridendo lievemente.

— Se non si tratta di denaro, la va benone.

— No no, ne ho assai più di quanto mi bisogna. Vorrei non aver un
soldo, vorrei esser povero, e non trovarmi... nello stato in cui mi
trovo.

— Ma guarda! chi l’avrebbe detto!... Però, se non ti spieghi...

— Mi spiegherò, mi spiegherò... Ma non è facile. Ti assicuro che non è
facile. Prima di tutto ti devo fare una domanda. Una domanda che forse
ti farà ridere. Non importa. Me lo auguro, anzi. Ridi, ridi pure di me:
ti ringrazio e vado via contento.

— Calma, calma! Sei un poco agitato, un poco nervoso. Mettiti a sedere
e raccontami tutto. Hai avuto che dire con qualcheduno? C’è un duello
per aria?

Raimondi arrossì, poi ridiventò pallido come un morto, e rispose con
voce appena intelligibile:

— No no, niente di tutto questo, niente di tutto questo.

— E dunque?

— Dimmi la verità: tu sei... tu vuoi bene alla signora Spinelli?

Caimi, stupefatto, restò a bocca aperta. Raimondi gli afferrò la mano,
ripetè con forza:

— Dimmi la verità, dimmi la verità.

— La verità, soltanto la verità, tutta la verità?

— Parlo sul serio, sai.

— Oh santo Dio! Cosa vuoi che ti dica? Distinguo, ecco, distinguo:
se intendi dire che mi è simpatica, che mi piace, sta bene; ma se
intendi...

— Ti domando se ne sei innamorato.

— Innamorato? Per tua regola, non lo sono stato mai.

— Però le fai la corte.

— Questo non vuol dir niente.

Il viso di Raimondi cambiò ancora.

— Come? — esclamò. — Non vuol dir niente? Ma vuol dir tutto! Perdonami
se ti parlo a questo modo, in questo tono, ma non misuro più le cose.
Lo vedi, eh, che non misuro più le cose? Ma poichè ho cominciato,
lasciami finire. Ti dico ciò che mi pesa, ciò che mi punge. Sarà quel
che sarà. Ci conosciamo da tanto tempo! Siamo stati a scuola insieme;
allora eravamo amici, molto amici, poi a poco a poco il destino ci ha
separati. Separati no, dico male, ci siamo sempre veduti, ma... Via, la
vita è la vita. Però non c’è stato nulla di violento tra di noi, nulla
d’amaro. Tu ti sei messo a lavorare; io sono rimasto uno sfaccendato.
Tu sei celebre, oramai; io invece... Lasciami dire, lasciami dire.
È la pura verità. E non mi hai in nessuna considerazione. Voi altri
uomini di ingegno siete tutti così: disprezzate i mediocri, perchè la
natura non li ha favoriti. Non ridete d’un guercio, d’un gobbo, d’uno
sciancato, e ridete spesso spietatamente di noi! Ma non è colpa nostra
se... Lasciami parlare, lasciami sfogare: dopo sarò più tranquillo...
Vedi, io sento la mia disgrazia, e questo è terribile. Dio sa se vorrei
distinguermi, segnalarmi, levarmi a volo... ma ho le ali spennate. E
l’è dura. In conclusione: tu sei infinitamente più ricco e più felice
di me.

— Non capisco.

— Tu hai tante cose, io non ne ho che una, una sola, e vivo torturato
dal timore di perderla. Se la perdessi...

Gli mancò la voce. Si mise a camminare nervosamente su e giù, a capo
chino; a un tratto andò a guardare uno studio a pastello appiccato al
muro, e rimase immobile.

Caimi, sdraiato sul divano, tentennava il capo con un misto di
compassione, di rammarico, di tedio. Alla fine si alzò, e andò a
mettere una mano sulla spalla del giovane.

— Cos’hai? Piangi?

Non ho che un sentimento — mormorò Raimondi con voce spenta; — non ho
che il mio amore per la signora Spinelli. Questo solo mi attacca alla
vita, questo solo... Se io vi dovessi rinunziare, non so cosa farei...

— Andiamo, andiamo! Adesso basta, diavolo! Bisogna essere uomini...
sopra tutto quando si tratta di donne. Credi a me, non mette conto di
perdere la testa. No, per bacco! E poi... poichè ti dico che non sono
innamorato...

— La tua parola, che non sei innamorato!

— La mia parola.

Raimondi si voltò, stese le braccia al collo dell’amico.

— Grazie! — esclamò poi, con tale effusione, che il pittore, per
un momento, si sentì sinceramente commosso. — Grazie! Hai ragione;
adesso basta. Cosa vuoi? Sono un bambino, un pazzo, un imbecille. Sei
anni, vedi: le voglio bene da sei anni! Non ho mai avuto la forza di
allontanarmi, mai. Sono d’una debolezza indegna, umiliante: una vera
vigliaccheria. E la signora lo sa: sa che può far di me tutto quel
che vuole, e naturalmente... Non ch’ella sia cattiva, ma è donna,
terribilmente donna; e quando ha qualcun altro vicino, se la gode nel
vedermi patire. Ieri sera, per esempio, c’eri tu; e mi ha fatto dannar
l’anima. È per questo che sono venuto. Sono qui per pregarti di non
secondarla nei suoi capricci...

— Ma sì, ma sì, ma se ho capita! E sta bene, farò quel che potrò. Non
posso promettere di più. È chiaro, eh? O non andarci nel mondo, o far
quel che fanno tutti; non c’è via di mezzo. Se avessi saputo, se avessi
potuto prevedere, non mi sarei lasciato presentare... Quel che è fatto
è fatto; adesso non posso sfuggirla senza passar per ineducato.

— Ma certo, ma certo! Ed io non voglio questo, non lo voglio per nessun
conto. E poi non sei già solo: sono parecchi quelli che le ronzano
d’intorno. Però mi pareva che ultimamente tu ti fossi fatto più assiduo
con lei... Insomma basta, basta, basta! Scusami, perdonami e... e non
dimenticare quello che ti ho detto.

— E come vuoi ch’io dimentichi...

— Siamo intesi, siamo intesi. E stasera che fai? Vieni al Regio?

— Forse sì, forse no. Vedrò più tardi.

— Ci rivedremo presto, eh? Vuoi?

— Figurati!

                                   *
                                  * *

Rimasto solo, il pittore aprì un armadietto, prese una boccia, si versò
un bicchierino di rhum e lo vuotò in un sorso. Questo lo disponeva a
riflettere. Dopo di che si buttò di nuovo a giacere sul divano, con le
mani dietro la nuca.

— Ouf! — fece egli, gonfiando le gote e mettendo un lungo soffio. — Che
parole, che gesti, che scena! Non mi ha lasciato quasi aprir bocca, ed
è andato via contento. _Siamo intesi, siamo intesi_... No, caro; non si
può, così da un momento all’altro, voltar le spalle a una donna, perchè
salta il ticchio a un amico di dichiararsi cotto di lei. Non si può,
non si può, non si può!... Voltar le spalle alla signora Emma Spinelli?
Fossi matto!

Il nome chiamò, suscitò l’immagine. La signora Emma gli apparve
subito, gli apparve tutta, colle attrattive sue proprie, dolcemente ed
ardentemente inclinata ad amare...

E dire che v’era stato un tempo in cui usava rispondere a chi gli
domandava il suo parere: — Peuh, sì, è una bella signora... come ce ne
sono tante! — Ed ecco che un giorno, essendosi per caso imbattuto in
lei a una svolta, s’era sentito subitamente sopraffare da un intenso
desiderio di occuparsi di lei e di occupare lei di sè. Allora aveva
incominciato a frequentare i luoghi ove sapeva di trovarla, studiandosi
di farle intendere perchè vi andava, ma senza avvicinarsi, senza
attaccar corrispondenza di sorta. Egli, che non aveva suggezione di
alcuno, spesso si compiaceva nel parer rattenuto, timido, riguardoso.
Una tal sera, la sala della casa Morelli d’Iviglio era piena di persone
e lieta di svariati ragionamenti. La signora Spinelli osservava il
ritratto della padrona di casa, opera novella di Giacomo Grosso; vari
signori le facevano corona, e discutevano intorno alla rassomiglianza
senza trovar la via d’intendersi. Ad un punto ella si spiccò da loro,
andò dritta dritta a Caimi, che la stava contemplando a distanza, e lo
pregò di dare il suo giudizio.

La conoscenza personale era fatta.

Presto fu fissato che l’artista potesse andare in casa Spinelli una
volta la settimana, non di più; ma siccome vivevano mondanamente tutti
e due, ed appartenevano alla stessa società, avevano agio di trovarsi
al passeggio, al teatro, ai balli, ai pranzi, alle conversazioni,
in visita, nelle chiese... e talora nei musei. Caimi faceva la sua
corte regolarmente, pacatamente, senza furia, senza gelosie, senza
abbandonarsi mai. Egli girava intorno al paradiso terrestre pian
pianino, con le mani in tasca, dando di tempo in tempo un’occhiatina
sopra la siepe per vagheggiare i bei fiori e le bellissime frutta,
ma senza indagare se la porta fosse chiusa o soltanto accostata. Era
temenza, calcolo, astuzia, capriccio? Un po’ di tutto, forse. Egli non
sapeva ancora fino a che punto l’amabile signora potesse confermare
la sua riputazione di donna leggiera, capace di singolari ed ardite
fantasie; di più era di quei tali che — beati loro! — non dubitano mai
di sè stessi, sanno padroneggiarsi, e trovar nell’attesa un misto di
dolce e di amaro che stimola ed accende i loro appetiti.

                                   *
                                  * *

Però, da qualche giorno, pareva a Caimi ch’ella si venisse cambiando:
si mostrava nervosa, irritabile; parlando con lui, passava da un tono
dolce ad un tono brusco senza ragione, senza transizioni; aveva certi
scatti curiosi, certi alti e bassi che si potevano attribuire tanto ad
una natura stravagante e bisbetica, quanto ad un pensiero nascosto, ad
un dispetto che la rodesse. Chi sa? Questo significava forse ch’ella
cominciava ad annoiarsi, e ch’era venuto il momento di mutar registro.
Alla festa di ballo della notte passata, ella lo aveva accolto e
trattato freddamente fino a una cert’ora; poi lo aveva chiamato
a sè, e lo aveva voluto vicino, come se la sua presenza le fosse
divenuta subitamente indispensabile. Al momento di separarsi (a piè
dello scalone, mentre i servitori chiamavano le carrozze, e i cavalli
entravano nell’atrio scalpitando, impennandosi, facendo un fracasso
indiavolato), egli le aveva domandato come al solito: — Quando ci
rivedremo? — Non aveva ricevuta altra risposta che una stretta di mano,
ma così significativa, così elettrica, così promettente, che gli si era
come propagata dal braccio a tutta la persona, mettendogli un brivido
fin nei capelli.

— Che donna, che donna! — pensava egli, sempre lungo disteso sul
suo divano; e, chiudendo gli occhi, sentiva ancora il busto tepido e
flessuoso stringersi e dilatarsi sotto il suo braccio; poi, astraendosi
dai ricordi del ballo, immaginava di tener avvinghiata la bella
persona, tutta libera e tutta sua, e susurrava parole d’amore, e
porgeva le labbra...

Ma... e Raimondi?

Appena questo nome si fu gettato a traverso di quelle cupide fantasie,
i pensieri molesti arrivarono a furia. Caimi si rizzò bruscamente a
sedere: — Eh sì, ora che ci penso, quel poveretto si è sempre mostrato
sommesso, devoto alla signora... fino all’avvilimento. E molte volte
mi sono anche accorto che soffriva sul serio. Ma, santo Dio, il mondo
è pieno di gente che soffre! Siamo nati per questo! Lui poi non ha
ragione di lagnarsi. Quando uno vuol vivere tranquillo, non si dà anima
e corpo alla signora Spinelli. Basta guardarla negli occhi, diamine! È
una di quelle donne che quando hanno nelle mani un cuore lo voltano, lo
rivoltano e lo fanno girare come una trottola. Dovevi stare in guardia,
caro. La colpa è tua, tutta tua. Non hai ragione di lagnarti, e tanto
meno di pigliartela con me. Vediamo un po’: — Ti piace la signora
Emma?... Ebbene, piace anche a me. — Dunque avanti! passo di carica.
E chi ha più filo, farà più tela... Però, al vederlo così, pativo per
lui. È per questo che ho promesso... Adagio un poco: promesso che? Non
lo so neppur io. Ho promesso perchè bisognava pur dir qualche cosa. Ho
promesso in astratto, perchè se dovevo venire al concreto, eh eh!...
Insomma, sgarbatezze non ne ho mai fatte e non ne farò mai. Starò
passivo, inerte, fingerò di dormire. Non posso fare altro, amico caro,
e tu non puoi pretendere di più. Bada però che con questo potrebbe
darsi che io versassi petrolio sul fuoco, e allora... oh allora...

S’era rimesso supino ed aveva già sbadigliato più volte; sbadigliò
ancora e poi si addormentò.

                                   *
                                  * *

Una scampanellata; un’altra subito più aspra e vibrante. Caimi
sobbalzò, si fregò gli occhi, corse ad aprire.

La signora Emma Spinelli era lì, con la mano alzata, pronta a suonare
una terza volta.

— Presto! — diss’ella, pestando i piedini. — Cosa faceva? lavorava?
dormiva?

E perchè il pittore, ancora trasognato, indugiava a rispondere, ella
diede un passo indietro e soggiunse abbassando la voce:

— Lei non è solo!

— Altro! — esclamò Caimi, riscotendosi. — Solo, solissimo. Venga
avanti, mi faccia il favore.

La signora scivolò nello studio, fece un largo giro, voltando la
testina a destra e a sinistra come un vispo uccellino curioso, poi si
lasciò andare sopra una sedia a bracciuoli.

— Bene — diss’ella, guardando sempre intorno. — È bello qui, è
elegante; mi piace.... Senta un po’: dunque lei non mi aspettava?

— Oh! siate mille volte benedetta! — mormorò il pittore accostandosi.

— Lei non mi aspettava? Risponda.

— Veramente...

— Bravo!

— Scusi, ma non potevo sapere...

— Doveva indovinare. E il cuore? Non le diceva niente il cuore?

— Sì sì, ma non osavo crederci...

— Meno male: questo l’ha detto bene. Adesso bisogna che io mi
giustifichi. Cioè, ch’io giustifichi la mia venuta. Taccia!... Lei sa
ch’io dovevo condurre con me mia sorella?

— Io?!

— Eravamo rimasti intesi così.

— Quando?

— Non andiamo a cercar quando. Il fatto è questo: io dovevo venir qui
con Elvira. Infatti sono passata per prenderla; ma essa era già uscita
con suo marito. Confesso che mi ero dimenticata di avvertirla. Allora
ho pensato: Caimi mi aspetta. Perchè credevo ingenuamente che lei mi...
che lei ci aspettasse.

— Infatti avevo come un presentimento.

— Zitto! Non dica bugie: io le detesto. E sarei arrivata prima, se
sotto i portici (cosa mai mi è venuto in mente di passar sotto i
portici!) non mi fossi intoppata in un amico, un amico di casa, che
m’ha voluto accompagnare ad ogni costo.

— Enrico Raimondi — disse Caimi, spensieratamente.

La signora Emma si voltò di schianto, gli piantò gli occhi in viso.

— Toh! — esclamò. — Come fa a saperlo?

— Eheh! lo immagino.

— Ebbene lei sbaglia. Raimondi non c’entra, non c’entra proprio. Ho
detto un amico di casa. In casa nostra non ci viene solamente Raimondi.
Potrei aver incontrato Bianchini, o Perlasca, o il tenente Scarano. Che
ne sa lei?

— Io non so niente...

— Dunque taccia. Andiamo avanti. Sa come ho fatto per levarmi d’attorno
quell’importuno? Sono andata dalla mia sarta. L’altro insisteva; voleva
aspettar sotto. Gli dichiarai che avevo da provar tanta roba, e che mi
sarei trattenuta Dio sa fino a quando. Non ho fatto altro che salire
e discendere. Non l’ho più visto, ma mi rimane tuttavia qualche dubbio
che invece d’allontanarsi non m’abbia seguìta!

Caimi tacque; aveva sempre l’immagine di Raimondi fissa nel pensiero.

— Adesso vado via — ripigliò la signora, dopo un momento.

— Oh! — fece il pittore. — E perchè?

— Non sono tranquilla, non sono punto tranquilla.

— Diavolo!...

Ella si alzò, fece alcuni passi verso l’uscio, poi tornò bruscamente
indietro.

— Ma guardi! — esclamò. — Me ne andavo senza vedere il suo quadro; il
suo capolavoro!

Lo chiamava anch’essa così!

Il pittore la fece sedere sul divano, e girò premurosamente la tela, in
modo ch’ella potesse considerarla a tutto suo agio.

La signora diede in una esclamazione di schietta maraviglia; quindi,
dopo essere rimasta alquanto assorta nella contemplazione dell’opera,
accennò al pittore di sederle vicino e gli fece animatamente alcune
osservazioni, le quali provavano ch’ella non difettava affatto nè di
sentimento nè di vero gusto d’arte. Caimi beveva la lode; e intanto
l’emanazione sottile, soave, fragrante del bellissimo corpo gli
penetrava nel cervello insidiosamente, e glielo infocava.

— Dio! — continuava la signora, con sempre maggior entusiasmo. — Che
bellezza! Siete un grande artista, Caimi, siete un grande artista. Vi
farete onore, ed io ne sarò felice, tanto felice! Lo credete, eh? Come
son contenta d’essere venuta! Come son contenta d’essere qui! — La sua
voce divenne languida, piena di espressione: — Oh! — mormorò ancora,
affissandosi nel giovinetto dipinto. — Com’è bello! Troppo bello!
Par vivo. Adesso basta. Lo volti dall’altra parte, lo volti. Ne ho
suggezione...

                                   *
                                  * *

La mattina dopo, Caimi si svegliò all’ora solita, ma non coi soliti
pensieri. L’immagine della signora Spinelli gli tornò subito viva
nella mente, non accompagnata però da alcun senso di affetto o
di gratitudine: non la odiava nè la disprezzava, gli era divenuta
indifferente, affatto indifferente, come non ci fosse tra loro nessuna
specie di legame. Anche la faccia smorta di Raimondi fu tosto presente;
le sue parole gli risonarono novamente all’orecchio, confuse sì, ma con
un significato grave, profondo, quasi minaccioso.

— Oh! — diceva tra sè il pittore, combattendo rabbiosamente l’uggia che
lo stringeva. — Alla fin dei conti che diritto ha colui d’occuparsi
dei fatti miei? Che cos’è per me? Un compagno di scuola e nulla più.
Che cos’è per la signora Spinelli? Un amante? Forse sì, forse no. E
poi cosa importa? Perchè mi tormento? Ho avuto ben altre fortune e...
Ma non mi sono mai sentito così. Cioè cioè, chi sa? Può darsi che
queste fanciullaggini mi siano già passate per la mente altre volte, e
che io ne abbia perduto totalmente il ricordo; vero segno che... che
sono fanciullaggini. Non voglio rompermi il capo: no, perdio! Quello
che è stato è stato: non pensiamoci più... Non pensiamoci più? Presto
detto! E se qualcuno volontariamente o involontariamente mi ci facesse
pensare?

Questo _qualcuno_ era naturalmente Raimondi, il quale poteva benissimo
aver concepito qualche nuovo sospetto, poteva addirittura aver spiato,
o fatto spiare, la signora Spinelli e, chi sa? fors’anche sapere
ch’ella avea passata un’oretta nel suo studio.

— Capaci di tutto, questi amanti sentimentali, questi spasimanti
sdilinquiti, capaci di tutto!... Battista! Battista!

Il servitore venne e si fermò sulla soglia.

— Stamattina non vado allo studio — soggiunse il pittore; — forse non
esco di casa; però non ci sono per nessuno, ricordati, venisse il Padre
Eterno in persona.

— Sì signore.

— E... adesso portami qui la valigia.

— Quale? La piccola o la grossa?

— La piccola, la piccola, diavolo! Vado a Milano. Starò fuori tre o
quattro giorni... cinque o sei al più... Senti, portale qui tutt’e due.

Battista uscì, e Caimi si diede una fregatina di mani. L’idea di
andarsene, nata lì per lì, accomodava tutto, conciliava il gran bisogno
ch’egli sentiva di svago e di riposo, con la necessità di non lasciarsi
trovare.

                                   *
                                  * *

Durante i preparativi della partenza, Caimi cambiò pensiero.

— Che Milano d’Egitto! Troppo vicino, troppo vicino: non mette conto di
muoversi. Perchè non andrei a Parigi? Una diecina di giorni a Parigi?
L’amico Rosati mi vedrebbe con tanto piacere!...

E partì per Parigi.

Vi restò due settimane; visitò gli studi di parecchi artisti, frequentò
i musei, andò attorno per la città di giorno e di notte, ora solo,
ora in allegra compagnia, dimenticò Raimondi, e dimenticò anche più
presto e più facilmente la signora Spinelli. (Parigi gli parve pieno di
signore Spinelli...). Poi un bel giorno si sentì risvegliar dentro il
diavolo dell’arte, e provò una gran bramosia di rivedere il suo quadro
e confrontarlo mentalmente con quelli che aveva ammirati e studiati.

Prese congedo da Rosati, dalle nuove conoscenze maschili e femminili, e
si rimise in viaggio.

Arrivò a Torino nel pomeriggio di una tepida e chiara giornata di
febbraio; trovò il fido Battista che, avvisato da un telegramma, lo
aspettava alla stazione.

— Niente di nuovo? — domandò quasi ansiosamente, dandogli la coperta e
la valigia.

— Niente, no, signore.

— Sei stato allo studio?

— Sì signore: tutto in regola, tutto all’ordine.

— Venuto nessuno?

— Nessuno.

— Molte lettere?

— Gliele ho spedite a mano a mano che arrivavano.

Benissimo: meglio di così non poteva andare.

Giunto a casa, Caimi si lavò, si mutò e stava per uscire, quando
Battista gli porse alcune carte.

— Cosa sono? — chiese il pittore.

— Lei mi aveva detto di non mandar che le lettere, le sole lettere:
questa è tutta roba a stampa.

Caimi prese le carte e cominciò a guardarle distrattamente l’una dopo
l’altra: erano annunzi, partecipazioni, circolari scadute e senza
importanza; alla fine non restò più che una grossa busta listata di
nero. Aperse anche quella e lesse:

                           =Enrico Raimondi=
              _cessava improvvisamente di vivere oggi..._

Sentì come un vuoto nel capo, un subito mancar del pensiero; sgranò
tanto d’occhi in faccia a Battista.

— Già — mormorò il servitore, — questa è arrivata il giorno dopo la sua
partenza. Avrei fatto bene a mandargliela, eh?

— Basta; va via.

Battista scomparve.

Caimi cadde sopra una sedia, incrociò le braccia, chinò il capo sul
petto. Quanto tempo sia rimasto così, non lo seppe mai. Repentinamente
il bisogno di prendere ragguagli, di acquistare notizie, lo punse, lo
saettò; diede ancora un’occhiata al foglio funereo, e discese le scale.
Mentre usciva in istrada, passava una vettura vuota. L’arrestò con un
gran gesto furioso, e vi si cacciò, gettando al vetturino l’indirizzo
di Enrico Raimondi.

La giornata finiva quieta e serena; le strade erano piene di gente che
andava e veniva. Cammin facendo Caimi guardava a destra, guardava a
sinistra, febbrilmente, smarritamente, cercando di mettere in sesto i
pensieri.

— Raimondi è morto — diceva tra sè; — questo è certo, non posso aver
dubbio, non posso credere a un errore, è impossibile che si tratti d’un
altro, che si tratti d’un omonimo. È finita, è morto... Sì, ma come? È
questo ch’io voglio sapere, è questo, è questo!

La vettura rallentò il corso, si fermò. Il pittore saltò a terra, entrò
sotto il portone, andò rapidamente fino al cortile e tornò indietro
pian piano. Che fare adesso, che fare? Rivolgersi al portinaio? Salire
addirittura al quartierino abitato dal defunto? Gli pareva di dover
prendere una decisione d’un’estrema gravità.

— Scusi — disse accostandosi un vecchio, che aveva sulla schiena un
vistoso rilievo: — chi cerca? Il portinaio sono io.

— Cerco... cerco il signor Enrico Raimondi.

— Ah!... Ma il signor Raimondi non sta più qui. È al camposanto da
quindici giorni. Non lo sapeva? Possibile che non lo sapesse? Oh questa
è bella! Eppure l’hanno messo sulla gazzetta. Si figuri un po’ se
non l’hanno messo! Mettono tutti quelli che muoiono, ricchi e poveri,
grandi e piccini... — S’interruppe per rivolgersi ad una donnetta di
mezza età, che passava con una sporta. — Sora Zita, ha sentito? Questo
signore vorrebbe parlare col signor Raimondi!

— Oh! — fece colei, fermandosi su due piedi. — Ma guardi! Vorrebbe
parlargli, e lui non c’è più. Se n’è proprio andato, sa. La mattina
del 5, entrando nella stanza per svegliarlo, Tom l’ha trovato freddo.
Tom era il suo domestico. Lo chiamano tutti così, ma il suo vero nome è
Tomaso, Tomaso Poirino...

— E poi? — disse Caimi, che avrebbe voluto incalzare di domande quei
due e non poteva quasi fiatare.

— Eh! — riprese il portinaio. — Tom è uscito sulla scala ed ha chiesto
aiuto. Io sono salito subito...

— E che cosa avete visto?

— Ho visto... quello che aveva già visto Tom. Dopo sono corso in
farmacia a cercare un medico.

— E il medico?

— Ha trovato che non c’era più niente da fare.

— Ma avrà visitato il corpo, avrà scoperta la causa...

— La causa? — gridò la donna. — La causa della morte? La rottura d’una
vena dentro lo stomaco. Il medico l’ha detto chiaro e tondo con me; ed
io sono stata contenta. Sa perchè? Perchè così ho potuto sbugiardare
quelli che assicuravano che si era avvelenato, che si era tirato un
colpo nella testa...

— Grazie! — susurrò Caimi, voltando le spalle e tornando prestamente
alla vettura. Comprendeva adesso quanto dianzi avesse paventato di
sentirsi dire: — Il signor Raimondi non è morto, si è ammazzato. — E
non avrebbe avuto bisogno di chieder altro: che mai poteva spingere
quell’infelice a togliersi la vita, se non la certezza del tradimento
di colei ch’egli idolatrava? Ma invece la morte era avvenuta per legge
di natura: dunque rimpianto sì, ma non rimorso; l’affanno, che lo
stringeva alla gola, scemava e svaniva.

La donnetta gli si era messa al fianco.

— Povero signor Raimondi! — diceva con la sua voce strillente. — Ma
non stava bene da un pezzo, sa. Senta, la sera prima io l’ho incontrato
proprio qui dove siamo. Era giallo come un limone e pareva non potesse
reggersi in piedi. Oh come m’ha fatto pena! Avrà avuto anche i suoi
fastidi, i suoi dispiaceri... Però se c’era uno al mondo che potesse
vivere tranquillo, quello era lui: lui ricco, lui giovane e bel
giovane. Mica tanto bello, simpatico. Guardi: questa casa è grande, sa,
è un vero paese; e ce ne sono delle donne, vecchie e giovani, padrone e
serve: ebbene, non ne conosco una che non si sentisse grillare il cuore
quando lo vedeva; non una, signore!

                                   *
                                  * *

Caimi rivide il suo quadro e ne fu contentissimo: c’era disegno,
colore, rilievo, era veramente l’opera vigorosa e gentile, l’opera
di prim’ordine che aveva immaginata; ma non gli andava più a genio
l’espressione del viso, troppo leziosa, troppo lasciva. Diavolo,
contrastava così stranamente con l’austerità dell’abito, con
l’ombrosità misteriosa del fondo! Come mai non se n’era accorto?

Non pensò d’attribuire il fatto ad un mutamento avvenuto nel suo
intimo, credette d’aver commesso un’incongruenza, uno sbaglio a cui
si poteva rimediare in poco d’ora. Non si trattava che di modificare
pianamente, destramente, qualche linea. Incominciò con animo pacato e
tranquillo. Incontrò difficoltà che non aveva previste. S’imbrogliò,
cancellò, poi si arrapinò lungamente per rimettere le cose nello
stato di prima. Il giorno appresso continuò a guastare per modo, che
alla fine dovette raschiar via tutta quanta la testa. Mandò Battista
a cercare il giovanotto che gli aveva servito da modello. Questi era
stato condannato per furto la settimana avanti. Che fare? Si circondò
di studi e di disegni cavati dal naturale, e si rimise al lavoro.

La forma prima, l’abbozzo era sempre mirabile; sciupava tutto appena
cominciava a cercar l’espressione. Sulla tela, a un viso arcigno
succedeva un viso torvo, poi uno convulso, e uno spiritato, e quello
d’un uomo condotto al patibolo: mai mai il viso bello, mestamente
sereno sul quale aveva fermato il pensiero. Che fare? Che fare? Pregare
un amico di lasciarsi ritrarre? Altre volte, per altre figure, aveva
ricorso a tale espediente con somma utilità; ma ora non sapeva a chi
rivolgersi, non conosceva nessuno i cui lineamenti rispondessero neppur
alla lontana a quelli ideati. Caimi crollava il capo e sospirava: — Ah
se Raimondi fosse ancor vivo!

Raimondi, Raimondi!... Pensava spesso e volentieri a lui; sentiva come
palpitare in fondo al cuore qualche cosa di lui, penetrata non sapeva
come. Era una commozione acuta ed intensa, una commozione non provata
da gran tempo, non provata forse mai. Gli pareva talora che un’essenza
arcana e vibrante palesasse la presenza dell’amico in quel luogo: era
un’impressione da prima blanda e leggiera, che lo occupava tutto a poco
a poco, che lo infiammava e si mutava in tormento. Era lì, era lì, lo
sentiva, ma non lo vedeva; e non solo non riusciva a rappresentarlo,
a effigiarlo, ma neppure a immaginarlo vivo, in atto di agire e di
parlare...

E lavorava indefessamente, duramente, tutto il giorno, tutti i giorni,
levandosi dal cavalletto soltanto per prender un boccone, o quando
non ci vedeva proprio più. La sera andava a letto presto e non gli
si faceva mai giorno per l’impazienza di ritrovarsi davanti al suo
quadro. Le gioie del lavoro hanno del divino; però egli non provava
alcun gaudio: dipingendo gemeva, imprecava, si rammaricava quasi
incessantemente. In certi momenti si cacciava le mani nei capelli e
dava una giravolta, non sapendo più che si fare. I dubbi crescevano,
lo travagliavano crudelmente. Avrebbe potuto mostrare l’opera sua
a qualche collega, ma l’idea sola di scegliere un consigliere, un
censore, gli metteva spavento. Così se la passava tutto il tempo da sè,
chiuso nel suo studio, senza aprire a chi picchiava o suonava.

                                   *
                                  * *

Una mattina, mentre saliva le scale, si sentì chiamare dal basso; si
sporse: Landi e Ricolfi gli accennavano di aspettare.

— Insomma non ti si vede più! — gridò il primo, arrivandogli accanto.

— Si può sapere che cos’è successo? — domandò l’altro, raggiungendoli
sull’ultima branca.

Caimi rispose che non era successo niente, che non aveva niente,
assolutamente niente. I due artisti entrarono con lui nello studio,
andarono diviato al cavalletto.

Il pittore li vide restar come pietrificati; ma invece di accostarsi,
voltò loro le spalle, trasse il temperino e si mise a scrostare una
vecchia tavolozza, fischiettando fra’ denti.

Vi fu un lungo silenzio. Poi Landi susurrò:

— Hai fatto qualche cambiamento, eh?

— Già — rispose Caimi, laconico.

— Mi pare che n’abbia fatti parecchi — soggiunse Ricolfi. — Bene,
bene...

Lo guardavano tutti e due fissamente, sbalorditi e contristati. Dopo
qualche altra fredda parola lo lasciarono solo. Allora Caimi si mosse.
girellò un momento qua e là, giunse davanti al quadro. Come l’aveva
ridotto! Perchè? Non sapeva. Non sapeva più nulla, adesso. Una voce
gli diceva nel cuore: — Ecco, questa era l’opera tua più eccellente...
Tu non salirai mai più a simile altezza, mai più! — A un tratto grosse
lagrime amare gli oscurarono davanti ed intorno ogni cosa; e poichè
aveva ancora in mano la piccola lama appuntata, stese il braccio, la
piantò nella tela e cominciò a squarciare senza pietà.



L’ENIGMA


Ero al Circolo, nella sala detta degli Artisti; stavo sfogliando
l’ultimo volume dell’_Art pour tous_, e prendevo di tanto in tanto
qualche noterella.

L’amico Palmieri entrò e mi venne accanto.

— Cosa guardi di bello? Ah! l’_Art_. Un’ottima pubblicazione, non è
vero? Sono abbonato da anni.

Si mise a sedere vicino a me, in capo alla tavola, e sbadigliò
mollemente.

— E dunque, — gli dissi, — hai fatto qualche nuovo acquisto?

— No — rispose Palmieri freddamente: — per il momento non faccio
acquisti.

— E come mai?

— Non faccio acquisti; non compro più arazzi, nè quadri, nè stampe...
sopra tutto non voglio più mobili.

— Oh! e perchè?

— Perchè non ho più chi sappia nè riparare nè restaurare.

Carlo Palmieri è un signore molto per bene, di antica e ricca famiglia,
amantissimo delle Belle Arti; tutto ciò che ad esse si riferisce gli
sta tanto a cuore che la sua palazzina è un modello di buon gusto;
ma... è pure un raccoglitore; a mio parere, il tipo del raccoglitore
di anticaglie, vale a dire l’uomo più geloso, ombroso e mutabile
del mondo: ora gioviale, espansivo, ora nero come un calabrone; oggi
disposto a mostrare tutti i suoi tesori a chiunque ne lo richieda,
domani pronto a negare l’adito in casa sua a un potentato, a un
imperatore.

Restò pensoso un momento, poi ripigliò:

— Si ripara una cosa raccomodandola, ridandole alla meglio l’apparenza
di prima; si restaura rinnovandola in parte, rendendole lustro, forza e
vita... Senti, tu non hai conosciuto Marco Bonadeo?

Accennai di no.

— Volevo ben dire! Tu non vieni mai a trovarmi e quindi non sai...
Quello era un bravo restauratore! Rispettava sempre religiosamente
le parti sane, prendeva tutte le cautele per rifare le guaste: legno
vecchio, ma non tarlato, per poter intagliare con finezza figure,
ornati, caratteri, qualunque sia disegno; quando il lavoro era
compiuto, simulava qua e là qualche bucherello, ristuccato con cura,
ma in modo che si vedesse; lasciava che i metalli si ossidassero,
acquistassero quel velamento naturale che il tempo imprime sulle
pitture, sulle medaglie, su tante altre cose, e che chiamasi patina;
poi li ripuliva o non li ripuliva, secondo i casi. Insomma, nelle
sue mani ogni rifacimento prendeva subito magicamente l’antico. E che
imitatore prodigioso! Sto per dire che avrebbe potuto emulare il sarto
cinese.

Mi lesse in viso ch’io non sapevo la storia del sarto cinese, e
proseguì piacevolmente:

— Un ufficiale della nostra marina, trovandosi in non so che porto del
Celeste Impero, macchiò d’olio o d’untume certi calzoni che gli stavano
a pennello, e questo proprio alla vigilia d’un ricevimento solenne o
d’una parata. Che fare? Manda in tutta fretta per un sarto e glie ne
commette un altro paio, raccomandando _la più scrupolosa esattezza_.
Il buon cinese si mette una mano al petto, fa un profondo inchino,
e se ne va. La mattina dopo, l’ufficiale aveva due paia di calzoni
talmente uguali che non distingueva più i vecchi dai nuovi: la stoffa,
il taglio, la misura, le macchie, tutto a puntino. Era uno stupore a
vedersi!

Qui l’amico accese una sigaretta, fumò un poco, e intanto si rannuvolò.

— Mah! povero Bonadeo! Era un giovane svelto, pulito, educatissimo,
con una fisonomia tutt’altro che volgare; aveva la parola facile e
ornata, e l’ascoltavo sempre con attenzione. Bisognava vedere come
ardeva, come brillava tutto quando gli mettevo davanti qualche bella
anticaglia, qualche buona _trouvaille_. E mai una parola, uno sguardo,
il più lieve segno d’invidia. Nessuno spirito di gelosia. Nessuna idea
meschina. Non era _cantonné dans sa spécialité_; comprendeva e ammirava
tutto ciò che gli pareva insigne per eccellenza d’arte, per rarità o
per antichità: statuette di bronzo, terre cotte, vetri, piatti, smalti,
armi, merletti... Egli era intagliatore in legno di figura e d’ornato,
ma io l’avevo consigliato a impratichirsi anche sul marmo, materia meno
tenera, ma meno ingrata e scabrosa del legno. Non so se vagheggiasse
l’idea di far propriamente l’artista... Basta, tiriamo via. Fatto sta
che gli volevo bene; lo conducevo con me nei musei, gl’imprestavo i
miei libri, le mie cartelle piene di stampe e di disegni. Nei primi
tempi io mandavo le cose che avevano bisogno dell’opera sua alla
sua bottega, in via dei Fiori; poi, fatto disporre convenientemente
lo stanzone che sta in fondo al mio giardino, con fornello, banco e
arnesi acconci, diedi a Bonadeo la chiave della porticina che risponde
sulla strada: così egli poteva entrare a tutte le ore, senza passare
dal cancello; e io andavo a far due ciarle e vederlo lavorare a mio
piacimento. Là, s’era come in capo al mondo, e ti so dire...

Palmieri s’interruppe, si alzò, suonò per il domestico, ordinò il caffè.

Ricominciai a scartabellare il mio libro. L’amico pareva assorto nella
contemplazione della tazza che gli fumicava davanti; d’improvviso mi
posò una mano sul braccio:

— Senti; tu credi al maraviglioso, al soprannaturale?

— Io?... Nemmen per sogno.

— Allora, sia per non detto.

— Ho però un’idea, antiquata sì, ma grandiosa... Su via, tira avanti,
raccontami tutto.

Carlo Palmieri vuotò la tazza in una sorsata, poi si lisciò la barba e
ripigliò:

— Quest’estate, girondolando per le montagne, capitai in una valletta
oscura, ignota ai viaggiatori, e quel che più importa, ai cercatori
di antichità. Nella cucina d’un’osteria da cani, ebbi la fortuna di
scoprire una cassa di quercia, una specie di cofano, di forziere...
Prima metà del trecento, caro te!... È di forma rettangolare, ben
proporzionato, molto nobilmente intagliato; ha il coperchio piano,
con bellissimi fregi e dodici scompartimenti o medaglioni, in cui sono
rappresentati soggetti erotici e cavallereschi; nella parte anteriore
si vedono dodici guerrieri, diversi d’impostatura, di armi e di
vestimento, collocati dentro altrettante nicchiette ogivali; nella base
si fanno riscontro due mostri con le facce di toro e le ali di drago;
sono ben rabescati anche i fianchi; la serratura è antica, i gangheri
sono antichi... Quando l’ho comprato, mancavano qua e là braccini
e gambette, il fondo era spaccato, il tutto deturpato da una crosta
secolare, fatta di polvere appiastricciata e di lordume risecchito.

Come l’ebbi a Torino, nello stanzone, mandai a chiamare Bonadeo. Egli
venne e andò in estasi: — Oh Signore! Che roba, che roba, che fior
di roba! — E girava intorno pian pianino, considerandolo ora da una
parte, ora dall’altra, battendo dolcemente le nocche sul coperchio,
palpando i fianchi, tastando gli spigoli: pareva un medico che
esaminasse pazientemente e amorevolmente un infermo. Poi mi dichiarò
che non vedeva il momento di por mano al restauro; e stavolta voleva
superare sè stesso, voleva farmi strabiliare; per questo mi supplicava
e scongiurava di non entrare nello stanzone per qualche tempo, di non
cercar di rivedere il cofano finchè non fosse addirittura ultimato.

Parlava tanto di cuore, con una forza così persuasiva, che io mi
cacciai a ridere e promisi di contentarlo.

Pochi giorni dopo m’imbattei in lui, mentre uscivo di casa; mi
disse subito, schiettamente, che il lavoro andava adagio, perchè più
difficoltoso e delicato di quanto avesse creduto; oltre a ciò, qual che
si fosse la cagione, gli si era messo addosso un mal essere generale,
una prostrazione di forze, accompagnata da affanno e da una sensazione
dolorosa che nasceva nel petto, dal lato manco, e scorreva acutamente
per il collo, per tutto il braccio, fino all’estremità delle dita.
Questo gl’impediva di fare, e talvolta persin di pensare. Un medico,
che abitava nella stessa casa, affermava trattarsi di cosa nervosa e di
poco momento; un altro, consultato più seriamente, aveva consigliato
il moto, cibo carneo e vino buono. — Al vino buono ci penso io — gli
dissi. — Conto di andar a passare sette od otto giorni con mia sorella,
che sta in villa, nel cuore dell’Astigiano. Parto domani o doman
l’altro. Lascia fare a me.

Gli mandai un bel barilotto di quel sincero e stagionato. Ricevetti una
lettera, nella quale, dopo di avermi ringraziato con calore e premura,
prendeva a parlarmi del cofano, promettendo cose grandi, impegnandosi
di darmelo finito per il mio ritorno; e tutto questo con parole così
appassionate e di tanta espressione, che ne rimasi colpito. Vidi chiaro
che l’intensa applicazione della mente a quel lavoro sviava la sua
attenzione da ogni altra cosa. M’impensierii un pochino, e quantunque
conoscessi il mio uomo, quantunque sapessi che nulla l’avrebbe
rimosso dalla sua fissazione, gli scrissi di andare adagio e di aversi
riguardo.

La stagione era ancor buona, l’aspetto della campagna dilettava la
vista e confortava l’animo: invece di una settimana restai fuori due.

Tornai a Torino un sabato sera, con l’ultimo treno, in ritardo di
un’ora. Appena fui a casa, nel salotto terreno, domandai nuove di
Bonadeo al vecchio Eusebio, il mio servitore _factotum_.

Eusebio pensò un poco. Eh sì, era un pezzo che non gli parlava: non
passava mai dal cancello! Però, l’aveva visto entrar dalla porticina
sull’imbrunire. Ma non sapeva più quando: gli pareva e non gli
pareva...

In quel mentre io mi ero affacciato alla porta che mette in giardino
e guardavo attonitamente verso il fondo: non sbagliavo, non travedevo,
laggiù c’era un lume!

Mi venne in idea di fare una visita al mio infaticabile lavoratore;
di lodarlo prima, sgridarlo dopo, e in conclusione mandarlo a dormire.
Ma a pochi passi dallo stanzone mutai proposito; mi ricordai che avevo
promesso di non entrare se non dietro invito, pensai alla sensibilità
infantile, morbosa del giovane; e, invece di arrivare all’uscio, mi
fermai alla finestra a mancina, che era semiaperta... (Per carità,
non interrompermi: se mai, mi farai le tue obbiezioni quando avrò
finito...) Dianzi ti ho detto che c’era lume? Sì, un chiaror strano,
fioco, cinereo; una luce che appariva, spariva, e quasi non lasciava
prender forma e colore agli oggetti. Bonadeo era lì, in mezzo alla
stanza, a capo alto, diritto colla vita, le braccia distese lungo i
fianchi, i piedi uniti; guardava fissamente il cofano posato sul banco,
meditando qualche ritocco, e non si moveva. Non si moveva affatto
affatto; e per di più mi pareva di scorgere nel suo atteggiamento
qualche cosa di rigido, di marmoreo, di troppo composto. Che diavolo
aveva? Due volte aprii la bocca per chiamarlo, per parlargli, e non
ebbi fiato. Che diavolo aveva? Dormiva in piedi? Era in letargo, in
catalessi, ipnotizzato? E la luce tremola, la luce palpitante di donde
veniva? Mi rammentai in confuso d’aver letto, o inteso dire, che certe
persone, per dono di natura o per effetto d’un regime di vita... da
spirito celeste, acquistano una potenza quasi sovrumana, e la facoltà
di manifestarla in diversi modi, fra cui quello di emanare un fluido
luminoso, non so se elettrico o fosforico. Cose che fanno rizzare i
capelli! Ma tutto è possibile al mondo: vedevo dunque col fatto ciò che
mai non avevo voluto creder vero? E Bonadeo, che pareva non potesse o
non volesse muoversi più!

Sentii come un gelo tra i panni e le carni; scorreva, stringeva,
penetrava nel midollo dell’ossa. Era la paura, la paura pazza e balorda
che ora stronca i nervi, ora mette in fuga, e può diventar tanta e tale
da torre la ragione e la vita.

Attraversai il giardino in tre salti, e rientrai nel salotto; la fosca
impressione svanì come per incanto. Presi una buona tazza di camomilla,
diedi una scorsa ai giornali arrivati nella mia assenza, e andai a
letto.

Dormii d’un sonno profondo e continuo fin verso le otto; appena
svegliato, ricordai quello che mi era accaduto, e le prime parole
che si formarono nella mia mente furono: «Come si fa a essere così
bestia?!»

Mi alzai e corsi subito allo stanzone. Era quale l’avevo sempre veduto:
le pareti coperte d’impronte e di modelli in gesso, trucioli a terra,
ferri sul banco. Sul banco c’era pure il cofano, ritornato sano ed
intero. Rimasi sbalordito; mi maravigliai di non essermi avvisto prima
che somigliava in tutto e per tutto a un certo _bahut_ lorenese,
che io avevo infinitamente ammirato e invidiato al Musée de Cluny.
Non mi stancavo di pascer l’occhio nella contemplazione di quella,
che ora poteva dirsi una vera opera d’arte; e intanto aspettavo che
giungesse Bonadeo, al quale volevo fare di grandi elogi. A un tratto
mi raccapezzai. Per bacco! Era domenica, giorno di riposo! Toh, e poi
egli aveva terminato il suo lavoro! E ancora: egli non sapeva ch’io ero
tornato. Potevo ben aspettare!

Pochi minuti dopo trottavo allegramente verso via dei Fiori. Arrivato
alla cantonata, vidi venire avanti un carro funebre, seguìto da tre
o quattro persone: il carro e l’accompagnamento dei poveri. Un uomo,
ritto a gambe larghe sulla soglia della sua bottega, rispondeva a una
vecchia, che si era soffermata: — Già, portano via il legnaiuolo che
stava su al numero 52. Un mingherlino coi capelli lunghi e la barba
corta: lo chiamavano _l’artista_. Si figuri, ventisette anni! E lascia
la madre, ch’è paralitica!

Il sangue mi diede un tuffo, le ginocchia mi mancarono sotto; fu un
primo momento; al secondo, mi levai il cappello e mi unii al convoglio.

Quando tutto fu finito, tornai in via dei Fiori. Volevo sapere. La
madre non aveva più senso di nulla: era una vista che strappava il
pianto dal cuore. Interrogai una vicina. Bonadeo si era sentito male,
aveva delirato un giorno e una notte, e poi addio! — Bisognava vedere
come smaniava — mi diceva colei, — come si disperava per non poter dar
l’ultima mano a un certo lavoro!...

Una parola, e finisco. Ho pigliato un abbaglio? È stata
un’allucinazione?... Così sia. Intanto il cofano è ancora nello
stanzone, e non so quando avrò il coraggio di farlo tramutare in casa.
Di giorno, rimugino continuamente sovra questa faccenda: è un pensiero
scuro, stizzoso, impotente, un vero martello. Di notte, mi desto di
sobbalzo, salto giù dal letto e mi affaccio alla finestra, ansioso
e timoroso di vedere il lume, quel tal lume. Qui sta l’affare. Hai
capito? Animo, di’ su la tua.

Parlava come un uomo seriamente angustiato. Gli dissi:

— Ti risponderò con le parole di Amleto.

— Come c’entra Amleto?

— «Vi sono, Orazio, nel cielo e nella terra più cose che la vostra
filosofia non possa sognare...». E questo è quanto.



INDICE


  La falce          Pag.   3
  Punizione          »   223
  L’enigma           »   257



DELLO STESSO AUTORE

F. CASANOVA, Editore


  =La Bell’Alda.= Leggenda. — 1 vol. in-8º,
    con 70 disegni dell’Autore, 1885                            L. 2 —
  =I Lancia di Faliceto.= Racconti. Con prefazione
    di G. Giacosa e disegni dell’Autore. — 1
    vol. in-12º, 1886                                           »  4 —
  =Pifferi di Montagna — Un Paladino.= Racconti. — 1
    vol. in-12º, 1891                                           »  2 50
  =La contessa Irene.= Romanzo. — Un volume
    in-12º, 1892                                                »  3 —
  =Vecchio Piemonte.= — (_Reliquie — Masse
    cristiane_). Racconti. Con disegni dell’Autore. — 1
    vol. in-12º, 1890                                           »  2 —
  =La Bufera.= Romanzo. — 1 volume in-12º,
    1899                                                        »  3 50
  =Ad oltranza.= Commedia in 3 atti. — 1 volume
    in-12º, 1890                                                »  1 —
  _E. Calandra_ e _S. Lopez_. — =Disciplina.= Scene
    militari in 4 atti. 1 vol. in-12º, 1892                     »  0 75

  IN PREPARAZIONE:

  =Vecchio Piemonte.= — Seconda ediz. con aggiunte. — 1
    vol. in-12º (_Il coraggio della paura — Presentimento — Il
    tesoro — L’occasione — La
    banda Becurio — Li 23 fiorile, anno 7º — Telepatia_).



Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici.



*** End of this LibraryBlog Digital Book "La falce - Punizione - L'enigma" ***


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