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Title: L'Uomo di Fuoco
Author: Salgari, Emilio
Language: Italian
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*** Start of this LibraryBlog Digital Book "L'Uomo di Fuoco" ***


                             Emilio Salgari


                            L’Uomo di Fuoco


                               AVVENTURE

               illustrate da 20 disegni di A. Della Valle

                       E CON RITRATTO DELL’AUTORE



                                 GENOVA
                           A. DONATH, Editore
                                  1904



                   _Proprietà letteraria ed artistica
                della Casa Editrice_ A. DONATH, _Genova_

             Rocca S. Casciano 1904 — Stab. Tip. Cappelli.



   [Illustrazione: — Signor di Correa, v’è il mozzo a bordo,
   occupatevi di lui. — (CAP. I).]



CAPITOLO I.

Sulle coste del Brasile.


— Terra dinanzi a noi! Scogliere a babordo! —

A quel grido, lanciato con voce tuonante da un gabbiere, che era
salito fino alla coffa, nonostante le spaventevoli scosse che subiva la
caravella, i volti dei marinai si erano fatti pallidi.

Una costa, in quel momento, fra quelle onde formidabili che incalzavano
e sbattevano in tutti i sensi la piccola nave, invece della salvezza,
rappresentava più che un pericolo, anzi una morte sicura.

Nessuna speranza di sfuggire ad una triste sorte rimaneva a quei
disgraziati. Anche se le onde li avessero risparmiati, la terra contro
cui li trascinava la tempesta era più da sfuggirsi che da cercarsi,
perchè sotto i suoi immensi boschi vivevano ancora i formidabili
antropofagi, che già tanti equipaggi avevano massacrati e poi divorati.

Tutti i marinai si erano slanciati, come un solo uomo, verso l’alto
castello di prora, interrogando ansiosamente il tenebroso orizzonte.

— Dov’è la terra che hai veduta? — gridò un vecchio marinaio,
alzando il capo verso il gabbiere che si teneva stretto all’albero di
trinchetto onde resistere alle furiose raffiche che lo investivano.

— Là!... dinanzi a noi... una costa... delle isole... delle scogliere...

— Camerati, — disse il vecchio con voce commossa. — Preparatevi a
comparire dinanzi a Dio.

La caravella non governa più, e le vele vanno a brandelli.

— Si è spezzato anche il timone? — chiese un giovane alto e muscoloso,
dai lineamenti fieri e dall’aspetto signorile, che contrastava
vivamente coi volti ruvidi e abbronzati dei marinai.

— Sì, signor Alvaro; un’onda l’ha portato via un momento fa.

— E non potete sostituirlo?

— Con questi cavalloni? No, signore, sarebbe una fatica inutile.

— E come ci troviamo già dinanzi ad una costa?

— Non lo so; la tempesta ci trascina da tre giorni e sempre verso il
sud.

— Sapreste almeno dirmi quale terra abbiamo dinanzi?

— Suppongo che sia il Brasile. —

Il giovane fece una smorfia assai significante.

— Non era la mia destinazione, — disse con vivo malumore. — Il Brasile
non è Portorico, nè S. Salvador, nè il Darien, signor pilota.

Mi si aspettava nel golfo del Messico e non qui. Non ho affari con
questi selvaggi, che hanno la pessima abitudine di mettere allo spiedo
gli uomini di razza bianca.

— Temo, signor Alvaro de Correa, che coloro che vi aspettavano non vi
vedano mai più a giungere.

— Eh! Non siamo ancora naufragati nè mangiati. Cercate almeno che la
caravella non si fracassi completamente.

— È quello che tenteremo di fare, quantunque dubiti assai di
riuscirvi. —

Il vecchio pilota aveva ben ragione di non avere molta fiducia di
salvare la piccola nave.

Un mare spaventevole s’offriva agli sguardi dei disgraziati, che
parevano ormai votati ad una morte certa ed erano tre giorni che la
durava a quel modo.

Montagne d’acqua si rovesciavano le une addosso alle altre con muggiti
assordanti, muovendo tutte all’assalto del povero legno che non poteva
più offrire, a quegli urti incessanti, dei fianchi solidi.

Non si creda già d’altronde che fosse una grossa nave, anzi tutt’altro.
Nel 1535, epoca in cui si svolge questa veridica istoria, tutte le navi
mercantili, eccettuati i galeoni, avevano proporzioni modestissime.

L’enorme tonnellaggio delle navi moderne era affatto sconosciuto.
Quando una ne stazzava trecento era già molto e quelle da cento non
esitavano ad intraprendere viaggi immensi, spingendosi fino in America
e anche nell’India orientale.

Quella che la tempesta stava per scagliare contro le coste del Brasile,
terra allora poco nota, perchè scoperta solamente un trentacinque
anni prima e per pura combinazione, da Cabral, era una modestissima
caravella portoghese di novanta tonnellate, col castello di prora
ed il cassero molto alti, il ponte invece assai basso, che le onde
spazzavano facilmente, con due alberi sostenenti vele latine e vele
quadre e che ormai il vento aveva sbrindellate in tale modo da renderle
assolutamente inservibili.

Da tre mesi aveva lasciate le coste del Portogallo diretta alle Indie
Occidentali, con ventisette uomini d’equipaggio ed un passeggiero,
ma come accadeva purtroppo sovente in quell’epoca lontana, in cui
la navigazione era molto indietro nonostante l’audacia dei marinai
spagnuoli, portoghesi ed italiani, aveva deviato molto al sud, muovendo
incontro alle spiagge brasiliane.

La sorte della povera nave, che la tempesta aveva ridotta in
tristissima condizione, sgangherandola completamente, ormai non pareva
più dubbia, malgrado l’ottimismo del giovane Alvaro de Correa.

Senza timone, senza velatura, col ponte fracassato, le murate
strappate, il cassero sfondato, non era più in grado di resistere alla
furia delle onde e dei venti, i quali la spingevano inesorabilmente
verso la costa segnalata dal gabbiere.

Quella terra nessun altro l’aveva veduta, poichè i lampi erano cessati
ed una oscurità profondissima avvolgeva il mare, rendendo l’orizzonte
impenetrabile agli sguardi dei marinai. Poteva darsi che il gabbiere
si fosse ingannato, nondimeno la situazione non poteva migliorare. Le
ore della caravella erano ormai contate: se non la sfracellavano le
scogliere, il mare non doveva tardare ad inghiottirla.

Il pilota, vecchio marinaio che aveva già attraversato più volte
l’Atlantico, non si faceva soverchia illusione sulla fine del legno.
Nondimeno, essendo uomo esperimentato, s’era affrettato a prendere le
disposizioni necessarie per rendere il naufragio meno disastroso.

Aveva fatto armare le due scialuppe, mettendovi dentro dei viveri
e sopratutto delle armi, non ignorando che in quell’epoca le coste
brasiliane erano abitate da tribù bellicose e antropofaghe, poi aveva
fatto abbattere i due alberi onde rendere la caravella più leggiera e
per servirsi d’uno di essi da timone o meglio da remo.

Tuttociò era stato fatto precipitosamente, temendo che l’urto dovesse
accadere da un momento all’altro, fra un trambusto, un gridìo, una
confusione indescrivibile perchè pareva che più nessuno avesse la testa
a posto. Cioè tutti no: Alvaro de Correa, malgrado la sua giovane età,
non aveva perduta la sua calma ed aveva assistito a quei preparativi
senza che il suo viso dimostrasse troppe apprensioni.

— Siamo pronti, pilota? — chiese con tono scherzevole, quando le due
scialuppe furono armate.

— Sì, signore, — rispose il vecchio marinaio il quale, appoggiato alla
murata prodiera, cercava di discernere la costa.

— Suppongo che non le getterete ora.

— Non abbiamo ancora toccato.

— Che non vi sia proprio alcun mezzo per salvare la caravella?

— Nessuno, signore: ormai è irremissibilmente condannata.

— Splendida prospettiva! Meno male che dovremo menare le mani contro i
selvaggi! Ciò sarà divertente.

— Ah! Non scherzate, signor Alvaro, disse il pilota. Non è il momento
questo.

— Volete che pianga?

— Ci dibattiamo fra le strette della morte.

— Quella signora la prenderemo pel collo e la strozzeremo prima che ci
porti via, — rispose il giovane, ridendo.

Il vecchio pilota lo guardò di traverso.

— Brutti scherzi, — brontolò. — Vedremo se riderà quando il mare lo
travolgerà od i brasiliani lo metteranno allo spiedo. —

La caravella, spinta da quelle montagne d’acqua che l’Atlantico
scagliava, con impeto formidabile, contro la costa brasiliana,
s’avanzava sempre verso le scogliere che il gabbiere asseriva d’aver
scorte. L’oscurità però si manteneva sempre così fitta, da non poter
ancora sapere se erano lontane o vicine, raddoppiando in tale modo le
ansietà dell’equipaggio.

Ormai non vi era più nulla da tentare per rendere il naufragio meno
disastroso. L’albero calato a poppa onde potesse servire, in qualche
modo, da remo, era stato quasi subito portato via, le vele non
esistevano più dopo che l’alberatura era stata abbattuta, sicchè la
caravella non aveva più alcuna direzione.

Balzava e rimbalzava come una palla di gomma, imbarcando acqua da
tutte le parti, girava su sè stessa come una trottola, si rovesciava
impetuosamente ora sul babordo ed ora sul tribordo, faticando assai a
risollevarsi e ad ogni istante si lasciava indietro qualche pezzo. Ora
era un lembo di murata che i marosi si portavano via; ora un attrezzo
della coperta oppure un pezzo del cassero.

I marinai, terrorizzati, si tenevano aggrappati ai tronconi degli
alberi o alle sartìe che giacevano in coperta, aspettando con angoscia
il momento terribile dell’ultimo urto.

Avevano gli occhi dilatati dello spavento, i visi alterati e
pallidissimi e dalle loro labbra sfuggivano invocazioni disperate.
Facevano voti di portare ceri a tutti i santuarii del Portogallo, di
visitare la Terrasanta, di andare a combattere i Mori dell’Africa, di
andare in pellegrinaggio e scalzi a Roma, tutte promesse che facevano
sorridere l’impassibile giovane, il quale conosceva troppo bene i
marinai per prestarvi fede.

Un’altra mezz’ora era trascorsa così, quando un lampo abbagliante solcò
il tempestoso cielo, mostrando a quei disgraziati l’orrore della loro
situazione.

Quantunque quella luce livida non avesse avuta la durata che di quattro
o cinque secondi, tutti avevano potuto accertarsi che il gabbiere non
si era ingannato.

La caravella era stata spinta entro una profonda baia, cosparsa
d’isolotti e circondata da rupi altissime e da colline coperte da folte
foreste. A destra ed a sinistra erano state scorte delle scogliere le
cui punte aguzze apparivano fuori dalle onde, pronte a sventrare d’un
colpo solo la povera nave[1].

Non ostante il suo coraggio, Alvaro de Correa non aveva potuto
trattenere un’esclamazione di malumore.

— Mio caro pilota, — disse, volgendosi verso il vecchio marinaio. — Mi
pare che questa volta la sia proprio finita e che nessuno dei nostri
andrà a combattere i Mori dell’Africa e tanto meno in pellegrinaggio a
Gerusalemme.

Possiamo preparare i nostri bagagli pel viaggio all’altro mondo.

— Cominciate voi, signore.

— Mi accontento d’una piastra per pagare il passaggio a Caronte e l’ho
già messa in tasca. Badiamo almeno che non sia falsa onde non rimanga
fermo sulle rive dello Stige.

— Scherzate pure... vedremo... Eh! Udite?

— Per bacco! Non sono ancora diventato sordo. Sono le onde che si
rompono contro le scogliere.

— È un colpo di tallone, signore. La chiglia ha toccato.

— Brutto affare; questo povero legno è così sconquassato che andrà in
cento pezzi al secondo urto. —

Il pilota si era slanciato sulla tolda gridando:

— Preparate la scialuppa! Stiamo per fracassarci!

— La paura gli ha sconvolto il cervello, — disse Alvaro. — Non può
resistere la caravella e vuole sfidare le onde con una barca.

Non sarò certamente io che m’imbarcherò. —

A bordo della caravella la confusione era giunta al colmo. I ventisette
marinai che ne formavano l’equipaggio, completamente impazziti, si
erano precipitati addosso alla scialuppa, azzuffandosi ferocemente per
disputarsi i posti, non potendo contenerli tutti.

Vi era bensì anche un canotto, ma era così piccolo da non poter pensare
a metterlo in acqua con quelle ondate furiose che irrompevano nella
baia con muggiti assordanti.

Il giovane Correa si era tenuto da parte. Aveva attraversato la tolda
e si era rifugiato sul cassero, il quale essendo molto alto, non era
spazzato dai marosi.

Di là cercava di rendersi conto della situazione e di trovare un
mezzo qualunque di salvarsi poichè, quantunque si fosse messo in
tasca la piastra per pagare Caronte, non aveva però alcun desiderio di
intraprendere il lungo viaggio senza disputare prima la vita.

Cominciava a distinguersi già qualche cosa, essendo l’alba prossima.
Vagamente si delineavano i dintorni di quell’ampia baia, che aveva
una circonferenza di parecchie leghe e cosparsa di numerose isolette,
disseminate capricciosamente qua e là intorno ad una più vasta coperta
di folte boscaglie.

I marinai, nel frattempo, erano già riusciti a calare la scialuppa la
quale minacciava di venir spinta contro la caravella e fracassata.

Alcuni, temendo che la nave fosse lì lì per inabissarsi, si erano
slanciati dall’alto delle murate, senza pensare che quel salto poteva
avere funeste conseguenze.

Qualche fortunato era infatti caduto dentro, ma parecchi erano invece
precipitati fra le onde, scomparendo quasi subito, una vera fortuna
d’altronde per gli altri, non potendo la scialuppa contenerli tutti.

Servendosi delle corde gli ultimi erano però riusciti ad imbarcarsi.
Avevano appena presi i remi, quando Alvaro vide un’onda sollevarli e
scagliarli dall’altra parte della scogliera.

Per un momento credette che fossero stati tutti inghiottiti o
sfracellati contro le punte aguzze delle rocce, invece vide la
scialuppa ricomparire sulla cresta dell’onda e udì anche, fra i muggiti
delle acque e le urla del vento, la voce del pilota a gridare:

— Signor Correa, vi è il mozzo a bordo!... Se lo potete, occupatevi di
lui!...

— Il mozzo! — esclamò il giovane, guardando da poppa a prora. — Dov’è
che non lo vedo? Che si sia nascosto in qualche luogo? Più tardi lo
scoverò. —

Aveva concentrata tutta la sua attenzione sulla scialuppa, aspettandosi
di vederla scomparire da un momento all’altro. Pareva invece che
la fortuna la proteggesse. Non ostante la rabbia delle onde, la
vedeva sempre scendere negli avvallamenti e poi rimontare le creste,
galleggiando come un sughero.

Aveva già superata felicemente una seconda scogliera senza toccare ed
ora s’avvicinava alla costa spinta dai remi e anche dai cavalloni.
I marinai non potevano tuttavia credersi salvi; la spiaggia era
tutt’altro che buona per un approdo, essendo tagliata dovunque a picco
e cinta da scoglietti a fior d’acqua.

— Verrà sfracellata, — mormorò il giovane. — Mi trovo meglio io qui, su
questo rottame, che essi sulla scialuppa.

La caravella, quantunque sventrata, resiste meravigliosamente e pel
momento non mi pare che corra il pericolo di venire sfasciata.

Penserò anch’io poi a mettermi in salvo. —

La luce aumentava di momento in momento, permettendogli di non perdere
di vista la scialuppa.

Fra le masse di vapori era avvenuto qualche strappo e quantunque
piovesse sempre a dirotto, di quando in quando un debole raggio di sole
si proiettava sulle acque e sulle spiagge.

L’uragano non accennava però a calmarsi. Il vento ruggiva sempre
tremendo, sollevando vere cortine di spuma che subito polverizzava e
dall’Atlantico le onde continuavano a giungere con foga straordinaria,
accavallandosi rabbiosamente entro la baia.

Nondimeno la scialuppa guadagnava sempre via e s’accostava alla
spiaggia. Il giovane Correa, che non aveva lasciato l’altissimo
cassero, la seguiva sempre collo sguardo, chiedendosi, con crescente
angoscia, se i cavalloni non avrebbero sfracellati di colpo tutti quei
disgraziati, scaraventandoli contro le rupi.

— Ho fatto male a lasciarli imbarcare — si diceva. — E d’altronde non
mi avrebbero obbedito e si sarebbero ribellati. Speriamo che almeno
alcuni riescano a salvarsi. —

L’imbarcazione era giunta a soli trenta passi dalla spiaggia la quale
in quel posto non offriva alcun approdo. I marinai facevano sforzi
disperati, arrancando all’indietro, per attenuare l’urto e senza alcun
successo perchè le onde la incalzavano senza tregua.

Alvaro la vide per alcuni istanti dondolarsi sulla cresta d’un
cavallone mostruoso, poi scomparire improvvisamente fra una cortina di
spuma.

Fra i muggiti della risacca e le urla del vento gli parve di udire
delle grida lontane, poi vide dibattersi dei corpi umani a fior
d’acqua, indi più nulla, poichè proprio in quel momento la poppa della
caravella si era abbassata bruscamente, come se l’intera carena si
fosse spezzata in due.

— Che stia per suonare l’ultima ora anche per me? — si chiese. — Pare
che anche la nave voglia andarsene.

Cerchiamo di rifugiarci sulla scogliera. —

Stava per ridiscendere sulla tolda, quando nella camera sottostante gli
sembrò di udire dei gemiti soffocati.

— Che sia il mozzo? — si domandò. — Deve essere mezzo morto di paura.

Scese la scala, tenendosi stretto alle traverse per non venire portato
via dai colpi di mare che spazzavano incessantemente la coperta ed
entrò nel quadro che era già stato invaso dalle acque.

— Chi si lamenta? — gridò. — Vi è qualcuno qui?

— Aprite signore, — rispose una voce.

— Dove siete?

— Chiuso nella cabina.

— Chi può averlo cacciato qui dentro? Bel caso! —

Vedendo a terra una scure l’afferrò e con due colpi ben applicati
sfondò la porta, strappandola dai gangheri.

Un ragazzo di quattordici o quindici anni si era precipitato fuori,
gridando.

— Affondiamo! Fuggite signore! Stavo per affogare! —

Era un bel giovanetto, bruno come un meticcio, coi capelli nerissimi e
crespi; gli occhi intelligenti e molto aperti, la pelle vellutata come
l’hanno la maggior parte dei portoghesi delle regioni meridionali, e
molto sviluppato per la sua età.

Vedendo solo il signor di Correa, si era fermato aggrappandosi ad una
delle colonnette del quadro.

— E gli altri? — chiese impallidendo.

— Se ne sono andati, mio piccolo Garcia, — rispose Alvaro.

— Siamo soli?

— Affatto soli.

— Ora comprendo perchè quel cattivo Fedro mi aveva chiuso qui dentro.
Temeva che io sovraccaricassi la scialuppa, occupando un posto.

— In tal caso, ragazzo mio, non ha guadagnato niente, perchè l’ho
veduto cadere sulla scogliera e spaccarsi il cranio.

— Sono partiti tutti?

— Non ne è rimasto uno qui.

— Sono già sbarcati, signor Correa?

— Non lo so, ma io non vorrei cambiare il mio posto con essi. Se sono
riusciti ad approdare, devono essere stati assai malmenati dalle onde.

— E lo saremo fra breve anche noi, signore.

— Lo credi, Garcia?

— L’acqua sale e le cabine del quadro ne hanno già per due piedi.

— Ve ne sono altri dodici prima di giungere sul cassero e poi non mi
pare che la caravella affondi ancora, — disse Alvaro. — Hai paura?

— Con voi no, signor Correa.

— Allora andiamo a vedere se possiamo tentare anche noi la traversata.

— Ci deve essere il piccolo canotto.

— Che lascieremo da parte, ragazzo mio, almeno fino quando le onde si
saranno calmate. E poi non so se vi sia ancora, con questi colpi di
mare che spazzano la coperta.

Vieni Garcia e speriamo di essere più fortunati degli altri. —



CAPITOLO II.

Gli antropofagi.


Diego Alvaro Viana de Correa[2] che doveva aver più tardi tanta
parte nella colonizzazione del Brasile e suscitare colle sue imprese
avventurose tanta curiosità alla corte portoghese e anche a quella
di Enrico II di Francia, era nato a Viana, nell’epoca in cui tutta
l’Europa era in subbuglio per le prodigiose scoperte americane e per le
audaci imprese dei portoghesi nelle Indie Orientali.

Spirito avventuroso ed infiammato fino dalla prima giovinezza dalle
gesta eroiche dei _conquistadores_, aveva cominciato per tempo ad
intraprendere dei viaggi lungo le coste africane dapprima, combattendo
con varia fortuna contro i corsari marocchini, assai numerosi e potenti
in quell’epoca, mostrandosi destro, valoroso e sprezzante del pericolo,
ma sospirando il momento opportuno di trovare un’occasione per
recarsi in America o per lo meno nelle Indie dove i suoi compatriotti
rovesciavano e conquistavano regni, coprendosi di gloria e accumulando
ricchezze favolose.

Quell’occasione, così lungamente attesa, si era finalmente
presentata. Una caravella, completato il carico e guidata da un pilota
esperimentato, stava per salpare per le Antille.

Era una nave piccola, ma a quei tempi non si badava al tonnellaggio e
nemmeno all’armamento. Un viaggio di cinque o sei mesi non spaventava
nè i marinai portoghesi, nè gli spagnuoli, ormai abituati a recarsi in
Asia ed in America su legni che appena potevano tenere il mare e che
oggi non oserebbero uscire nemmeno dal Mediterraneo.

Alvaro Correa, che da tanto tempo si era entusiasmato ai meravigliosi
racconti dei vecchi marinai che avevano seguito Albuquerque nell’India
e Cabral nel Brasile, s’imbarcò, certo di giungere a destinazione e
sognando già, a sua volta, di conquistare qualche regno come i Pizarro
e Cortez.

Disgraziatamente e come succedeva allora sovente, le navi che si
recavano in America, per sfuggire le pericolose calme della zona
torrida, si spingevano molto al sud, più di quanto avrebbero dovuto.
Già Cabral, trentacinque anni prima, nel recarsi alle Indie orientali
era andato a finire in America, scoprendo per puro caso il Brasile la
cui esistenza fino allora era stata ignorata.

Alla caravella di Correa era toccata l’egual sorte. Spinta sempre più
al sud dai venti alisei, si era tanto allontanata dalla sua rotta da
smarrire completamente la via che doveva condurla alle Antille.

Una burrasca l’aveva poi sorpresa e malgrado tutti gli sforzi
dell’equipaggio, come abbiamo veduto la povera nave era andata a
fracassarsi sulle scogliere che circondavano quella baia sconosciuta.

                             . . . . . . .

Quando Alvaro ed il mozzo uscirono dal quadro, la caravella si era
nuovamente abbassata sulla scogliera, minacciando di sfasciarsi
completamente da un momento all’altro.

Ormai non era altro che un rottame tutto sconquassato dai continui e
sempre più poderosi assalti delle onde, che non accennavano ancora a
cessare quantunque il vento fosse già diminuito e le nubi si fossero
spezzate in varii luoghi. Però Alvaro aveva ancora la speranza che
potesse resistere, essendo la nave trattenuta dalle punte degli
scoglietti entrati ormai attraverso la carena.

— Forse potremo aspettare qui che la tempesta cessi, — disse a Garcia,
che lo interrogava. — Qualche cosa rimarrà di questa povera nave e più
tardi ce ne serviremo per costrurre una zattera o qualche galleggiante
che ci permetta di attraversare questo bacino.

— Io sono un buon nuotatore, signor Correa, — disse il ragazzo.

— Anch’io, ma non ho alcun desiderio di venire mangiato, almeno pel
momento. Mi hanno narrato che sulle coste del Brasile i pesci-cani
abbondano e tu sai quanto sono voraci quei terribili squali.

— Ed i nostri compagni?

— Stavo appunto cercandoli e finora non vedo alcuno.

— Che siano morti tutti, signore?

— Non credo. Si saranno rifugiati sotto quelle foreste per non farsi
scoprire dai selvaggi.

— Che sono cattivi, è vero signore?

— Mangiano i naufraghi che l’Oceano spinge sulle loro spiagge. —

Il mozzo ebbe un brivido così forte, che il portoghese se ne accorse.

— Ti fanno paura, mio piccolo Garcia?

— Sì, signore, molta paura. Un mio zio, che era marinaio di Cabral, è
stato divorato da quegl’indiani a Porto Seguro, trentacinque anni or
sono.

— Hai ragione di rabbrividire, mio povero Garcia. I selvaggi però
non ci hanno ancora nelle loro mani e poi non sbarcheremo senz’armi.
A bordo vi sono ancora dei moschetti e anche parecchi barilotti di
polvere.

Vediamo dove questa caravella è naufragata. —

Lasciò il mozzo e risalì la scala che conduceva sul cassero e che
le onde avevano fino allora risparmiata, e tenendosi aggrappato alle
murate si spinse verso poppa, salendo su una cassa per poter meglio
dominare la baia.

Un vero grido di meraviglia gli sfuggì, allo spettacolo che si offriva
dinanzi ai suoi occhi. La tempesta aveva spinto la caravella in una
specie di golfo così splendido, che Correa non ne aveva mai veduto
prima uno più pittoresco.

Era un immenso bacino di trenta e più miglia di circonferenza,
contornato da colline coperte di alberi superbi d’un verde magnifico,
che scendevano dolcemente, formando poi, alla loro base, centinaia e
centinaia di seni graziosi, pure ombreggiati da piante.

A destra serviva di sponda il continente; a sinistra invece una grande
isola[3] tutta coperta di palme e di noci di cocco; nel mezzo invece
s’alzavano numerose isolette le une più pittoresche delle altre, veri
giardini disseminati su quel golfo.

Dei fiumi, cinque o sei, dalla foce molto ampia, si versavano in mare
lottando furiosamente contro le onde che tentavano di respingere le
loro acque.

— Che paese meraviglioso! — esclamò Alvaro, entusiasmato. Non l’avevo
prima osservato; peccato però che queste spiagge siano abitate da
antropofagi ributtanti, che si dice abbiano sopratutto una passione
spiccata per la carne degli uomini bianchi. Già è un piatto piuttosto
raro che non abbonda in queste regioni, almeno per ora.

Saliamo più in alto e vediamo se qualche marinaio è riuscito a salvarsi.

Era ancora rimasto ritto un troncone dell’albero maestro, che sosteneva
la coffa.

Il signor Viana s’aggrappò ad una delle funi e s’inerpicò fino lassù
con un’agilità da far stupire anche il mozzo.

Da quell’altezza si poteva dominare tutta la baia e scorgere anche
distintamente la costa più prossima, la quale non distava più di sette
od ottocento passi.

Un fuoco brillava su quella spiaggia, alla base di un alto scoglio e
seduti intorno vi erano degli uomini quasi nudi, occupati ad asciugare
le loro vesti.

— I marinai della caravella! — esclamò Alvaro, con voce lieta. —
Sono ben felice che quei disgraziati si siano salvati in buon numero,
giacchè ero più che persuaso che le onde li avessero sbricciolati.

Riunì le mani a mo’ di porta-voce, le accostò alle labbra e lanciò per
tre volte un «ohe!» prolungato.

Udendo quelle chiamate, i naufraghi si erano alzati spingendosi
verso la spiaggia, che le onde, sempre altissime, di quando in quando
spazzavano con un rombo continuo.

Erano una dozzina e parecchi zoppicavano. Il vecchio pilota si trovava
fra loro, anzi pareva il meno maltrattato di tutti.

— Signor Correa! — gridò, dopo aver atteso che l’onda si fosse
sfasciata. — Affonda sempre la nave?

— Non si muove più.

— Gettatevi in acqua e cercate di raggiungerci.

— Pel momento mi trovo troppo bene qui e non sbarcherò finchè la
tempesta non sarà cessata, — rispose il giovane.

— Badate che le onde non vi spazzino via. È sempre furioso l’Atlantico.

— Mi guarderò dai colpi di mare.

— Se potete, preparatevi almeno una zattera.

— È quello che farò. Addio pilota e non fatevi sorprendere dai
selvaggi. —

Ridiscese sulla tolda della caravella, dove il mozzo lo aspettava con
ansietà.

— Tutto va bene, finora, — disse Correa. — Cerca una scure e prepariamo
la zattera. L’uragano accenna a calmarsi e forse questa sera potremo
anche noi approdare, senza correre alcun rischio.

— Ve ne sono parecchie di scuri nella cabina del pilota, — rispose
Garcia.

— Ed il legname ed i cordami non mancano qui. Ma mi pare che sarebbe il
momento di stritolare un biscotto.

Spero che troveremo qualche cosa da porre sotto i denti.

— So dove si trova la dispensa, signore. —

Mentre il mozzo discendeva nel quadro, Alvaro fece il giro del ponte
per accertarsi se la caravella si trovava in grado di resistere a quei
continui cavalloni che la urtavano poderosamente e senza tregua.

La sua immersione si era arrestata e pareva che si fosse incagliata
così bene da non temere che venisse nuovamente spostata. Che potesse
però opporre una lunga resistenza alle onde, vi era da dubitare.

I suoi fianchi, sconquassati, a poco a poco cedevano ed i madieri
si spostavano sempre. Anche i corbetti dovevano essersi infranti in
parecchi luoghi.

Degli squarci si erano aperti specialmente sul tribordo e le acque,
volta a volta vi penetravano con un cupo rimbombo riempiendo la stiva
e rimuovendo il carico, per uscire poi, in forma di cascate, dalle
aperture di prora.

— È destinata a sparire, — disse Alvaro. — Sarà questione di qualche
giorno se non di ore.

Peccato! Coi suoi rottami si sarebbe potuto ricostruire una grossa
scialuppa e guadagnare le Antille.

Che cosa faremo noi su queste spiaggie così lontane da quelle abitate
dagli uomini della nostra razza? Vorrei sapere come finirà, tutto
ciò. —

Scrollò le spalle e fece buon viso al mozzo che risaliva in quel
momento portando un canestro contenente dei biscotti e del lardo.

— È tutto quello che ho potuto trovare, signor Alvaro, — disse il
ragazzo.

— I tuoi camerati sarebbero felici di poter avere altrettanto, —
rispose Viana, — quantunque le piante da frutto non manchino sulle
coste brasiliane. —

Stavano per sedersi su un barile, quando verso la spiaggia udirono il
pilota a urlare.

— Signor Correa! Signor Correa! —

La voce del vecchio marinaio era improntata al più vivo terrore.

Alvaro era balzato in piedi, slanciandosi verso la murata di babordo,
da cui poteva distinguere la spiaggia senza risalire fino alla coffa.

In quel medesimo istante, urla terribili s’alzarono fra le piante che
ingombravano la costa. Erano ululati che parevano uscire da gole di
belve, poi urla acutissime che terminavano in veri ruggiti.

Alvaro, pallido, angosciato, aveva volti gli sguardi verso lo scoglio
alla cui base poco prima aveva scorto i naufraghi attorno al fuoco.

Non vi erano più. Fuggivano disordinatamente lungo la spiaggia,
gridando a squarciagola:

— Aiuto!

— I selvaggi!

— Signor Alvaro!

— Stanno per piombarci addosso! —

Delle freccie si vedevano volare per l’aria e piantarsi nei dorsi o nei
fianchi dei fuggiaschi.

— Signore! — gridò il mozzo che era diventato pallido come un cencio di
bucato. — Uccidono i nostri compagni!

   [Illustrazione: Alvaro, sul cassero di prua, tagliò con lo
   spadone la miccia e l’accese. (CAP. III).]

Una torma di uomini semi-nudi coi capelli lunghi, sciolti sulle spalle
e adorni di mazzi di penne variopinte, era sbucata sulla spiaggia
continuando a urlare spaventosamente.

Quegli uomini, una cinquantina per lo meno, erano di statura superiore
alla media e ben complessi, colla pelle color del mattone a striscie
rosse e nere che davano loro un aspetto pauroso, ed il viso ornato
di penne disposte come baffi, trattenute da qualche mastice ed
erano armati di clave lunghe sei piedi e larghe uno, colle coste
frastagliate a guisa di denti di sega, armi certamente formidabili
che dovevano ammazzare un nemico con un colpo solo. Altri invece
tenevano certe specie di bastoni entro i quali soffiavano lanciando
delle sottilissime freccie, intinte forse in qualche sostanza velenosa,
poichè ogni marinaio che veniva colpito cadeva al suolo contorcendosi
disperatamente e per non più rialzarsi.

I brasiliani, vedendo i naufraghi a fuggire, si erano slanciati a loro
volta a corsa sfrenata, temendo forse che cercassero d’imbarcarsi.

Con un tremendo colpo delle loro mazze fulminavano i feriti dalle
freccie, fracassando loro il cranio, poi continuavano la corsa per
dare addosso agli altri che tentavano di trovare un rifugio fra le
scogliere.

Il signor de Correa, assisteva inorridito al massacro, senza nulla
poter tentare. Vi erano bensì a bordo dei fucili ma a nulla avrebbero
potuto giovare, avendo le armi da fuoco in quell’epoca una portata
limitatissima.

Anche se si fosse precipitato in acqua a rischio di venire scagliato
fra le scogliere, il suo soccorso sarebbe stato assolutamente inutile,
anzi i brasiliani avrebbero potuto contare una vittima di più da porre
poi sui carboni.

Invano urlava e minacciava. Le grida dei selvaggi ed il fragore delle
onde coprivano la sua voce.

— Fermatevi, canaglie! — gridava. — Fermatevi o quando approderò vi
ucciderò tutti! —

I brasiliani non si erano nemmeno accorti della presenza del portoghese
e del suo giovane compagno, anzi pareva che non avessero nemmeno notata
la vicinanza della caravella, tanto erano accaniti nel perseguitare gli
ultimi superstiti.

La caccia alla preda umana non doveva durare a lungo con quei veloci
selvaggi che correvano più lesti dei daini.

Di dodici marinai non ne erano rimasti che cinque i quali si erano
rifugiati sulla cima d’una scogliera, tentando di respingere gli
assalitori a colpi di pietra. Fra essi vi era ancora il pilota, a cui
l’imminenza del pericolo aveva messo le ali alle gambe.

Con una bordata di freccie i brasiliani ne fecero cadere tre, poi si
scagliarono sugli altri due colle mazze alzate e li fracassarono con
pochi colpi, riducendoli in un ammasso di carni sanguinolenti e di
ossa spezzate. Un clamore assordante salutò la caduta dei due ultimi
portoghesi.

— Miserabili! — gridò Alvaro, inorridito. — Sono belve feroci costoro e
non uomini.

— Signore, — disse il mozzo, con voce tremante. — Verranno a trucidare
anche noi ora?

— Mi pare che non si siano nemmeno accorti della nostra presenza.

— Non facciamoci vedere, signore.

— Vorrei anzi che venissero, — rispose Alvaro. — Ci sono dei fucili, ci
difenderemo e anche vendicheremo i tuoi poveri compagni.

— Non chiamateli, signor Alvaro.

— Eppur darei qualche cosa per fucilarli.

— Che cosa faranno ora dei cadaveri dei nostri camerati?

— Li mangeranno: guarda! —

I brasiliani, raccolti i corpi dei marinai, erano tornati verso lo
scoglio, alla cui base ardeva ancora il fuoco acceso dal pilota.

Mentre alcuni abbattevano delle foglie di cocco, altri raccoglievano
nella vicina foresta rami d’alberi secchi che accumulavano con un certo
ordine intorno alla fiamma.

Avevano allineati i dodici cadaveri presso le cataste, strappando
loro lestamente le poche vesti che indossavano, i capelli e le barbe,
servendosi di certi coltelli formati con pezzi di conchiglie che
dovevano essere taglienti.

Lavati i corpi con acqua marina, costruirono una specie di graticola di
proporzioni gigantesche, adoperando rami verdi, poi vi stesero sopra i
dodici sciagurati, alimentando i fuochi.

Quando videro le fiamme alzarsi intorno agli arrosti, quei ributtanti
mangiatori di carne umana si afferrarono per le mani eseguendo una
danza scapigliata.

Saltavano come capretti, dimenando la testa ed il dorso e urlavano a
piena gola, mentre due o tre, accoccolati presso i falò soffiavano
disperatamente entro certi pifferi che parevano formati con tibie
umane.

— Sembrano demoni, — disse il mozzo stringendosi al fianco di Alvaro,
il quale osservava con un profondo senso di disgusto quei ributtanti
selvaggi.

— Sì, demoni che io sarei ben contento di ricacciare all’inferno a
colpi di cannone, — rispose il giovane. — Io mi domando se anche a noi
toccherà l’eguale sorte.

— Sbarcheremo, signore?

— Ci saremo costretti, se non vorremo morire di fame e di sete o venire
spazzati via dal mare.

— Non potremo noi costeggiare il Brasile fino al golfo del Messico?

— Con una zattera? Eh, ragazzo mio, non si andrebbe molto lungi. E poi
saremmo costretti a sbarcare di quando in quando e ci troveremmo sempre
alle prese cogli antropofagi.

— Sono tutti mangiatori di carne umana, gli abitanti di queste terre?

— Quasi tutti, ragazzo mio.

— Che cosa sarà allora di noi, signore?

— Non lo so di certo, — rispose Alvaro. — Tuttavia possedendo noi dei
fucili, ti prometto che non ti lascierò massacrare senza difenderti.

So che tutti i selvaggi hanno sempre avuto una gran paura delle armi
da fuoco, non riuscendo a spiegare il tuono che producono; può darsi
quindi che anche questi si sgomentino.

— Non sbarcheremo però se non quando quei bruti si saranno allontanati.

— Non sarò così sciocco di andare ad espormi ai loro colpi. M’immagino
che non rimarranno eternamente accampati sulla spiaggia e che
torneranno al loro villaggio. —

Degli ululati spaventevoli interruppero il loro dialogo. I cuochi
incaricati della cottura degli arrosti umani, dovevano aver avvertiti
i loro compagni che gli uomini bianchi erano pronti a servire da
colazione, giacchè si videro tutti quei ballerini interrompere
bruscamente i loro salti disordinati e rovesciarsi verso i bracieri,
con manifestazioni di gioia frenetica.

I marinai vennero levati dalle graticole semi-consunte mediante
delle lunghe aste munite all’estremità di punte di selce e deposti su
gigantesche foglie.

Un vecchio indiano che aveva sul petto molteplici file di denti di
animali feroci e dei braccialetti d’oro, fece un piccolo discorso
d’occasione, poi brandita una scure di pietra si mise a spaccare gli
arrosti, gittando a quei mostruosi convitati a chi una testa, a chi una
coscia, o una gamba od una natica o un polmone od ammasso di costole.

— Canaglie! — esclamò Alvaro che non poteva reggere a quell’atroce
spettacolo. — E non poter impedire simili barbarie! Non guardarli,
Garcia! Vomiterai la colazione. —

Si ritrassero verso la murata di babordo, guardando le onde che
continuavano ad irrompere attraverso la baia, scuotendo sempre
fortemente la caravella, tuttavia di quando in quando non sapevano
frenare la loro curiosità per quanto quella scena di cannibalismo
ispirasse ad entrambi un orrore invincibile.

I selvaggi si erano gettati sulle carni dei marinai coll’avidità di
belve feroci a digiuno da una settimana. Lavoravano così bene di denti,
che dopo qualche ora dei poveri naufraghi non ne rimanevano che i
teschi già vuoti dei cervelli, delle costole spolpate e le ossa delle
braccia e delle gambe.

Gonfi da scoppiare, i banchettanti si erano stesi beatamente, sulla
rena della spiaggia, sotto l’ombra proiettata dalle palme per digerire
pacificamente quella copiosa scorpacciata di carne bianca.

Solamente due o tre, per eccesso di precauzione, si erano seduti sulla
cima dello scoglio guardando più verso la foresta che verso la baia.
Eppure non doveva essere sfuggita ai loro sguardi la caravella, ancora
abbastanza alta per poterla scorgere, malgrado che frequenti ondate la
coprissero.

Era anzi quella tranquillità che non rassicurava affatto Alvaro, il
quale invece avrebbe preferito un assalto. Cinquanta erano molti, ma
con delle buone scariche si potevano tenere lontani o spaventarli in
modo da rinunciare per sempre ad inquietare un uomo che possedeva delle
armi così formidabili.

Egli temeva invece che aspettassero dei rinforzi per cercare di
procurarsi degli altri arrosti.

— Mio povero ragazzo, — disse al mozzo che lo interrogava. —
Guardiamoci dal chiudere gli occhi. Quei furfanti non ci lascieranno
tranquilli.

— Che si siano accorti che ci sono delle persone su questa caravella.

— Non ne ho dubbio.

— E che cosa aspettano per assalirci?

— Probabilmente dei canotti. Il pilota mi aveva narrato che tutti i
costieri brasiliani posseggono delle scialuppe scavate nei tronchi
degli alberi e di cui se ne servono con abilità meravigliosa.

— Ah! Signore! Io mi sento gelare il sangue, pensando che anche noi
dovremo misurarci con quei selvaggi.

— Non è questo il momento di perdersi d’animo, ragazzo mio, — disse
Alvaro. — Se ti preme salvare la pelle, dovrai aiutarmi con tutte le
tue forze. Sai maneggiare un fucile?

— Sì signore, — rispose Garcia. — Sono figlio d’un soldato.

— Allora va a prendere tutte le armi che potrai trovare e prepariamo la
difesa. —

Finchè queste onde non si calmano, per quanto i brasiliani possano
essere valenti canottieri, non oseranno spingersi fino a noi.

Se il mare è cattivo per noi, lo sarà anche per loro. —

Garcia, un po’ rinfrancato dalle parole del valoroso giovane, scese
nel quadro frugando tutte le cabine! Ahimè! L’arsenale della caravella
era ben poco provvisto, almeno quello poppiero. Forse ve n’erano altre
delle armi nella camera comune di prora, ma non si poteva pensare ad
andarle a cercare, avendo ormai l’acqua invasa tutta quella parte.

Tutto l’armamento consisteva in cinque archibugi di cui tre
inservibili, in un paio di spadoni irruginiti ed in alcune scuri.
Viceversa vi era abbastanza di munizioni, avendo scoperto quattro
barilotti di polvere, destinati forse a qualche cacico indiano e molti
sacchetti di palle.

Il mozzo si caricò di tutte quelle armi, sufficienti del resto per due
persone e le portò in coperta, deponendole dinanzi ad Alvaro.

Il giovane esaminò, da persona che se ne intende, gli archibugi e gettò
da una parte quelli inservibili.

— Ne abbiamo abbastanza per noi, — disse. — Temevo che le munizioni
fossero rimaste sott’acqua; giacchè tu mi dici che abbondano, daremo
una dura lezione a quei mangiatori di carne umana se vorranno tentare
di abbordare la caravella.

Caricò i due archibugi, poi guardò che cosa facevano i selvaggi.

Quei furfanti non si erano ancora mossi e continuavano a sonnecchiare
sotto i palmizi, senza preoccuparsi della caravella. Solamente le loro
sentinelle avevano abbandonato lo scoglio per passare sopra un altro
più alto, da cui potevano dominare tutta la baia.

Non guardavano però verso la caravella, bensì verso la foce del fiume
vicino, come se attendessero da quella parte qualche cosa.

— Aspettano delle piroghe, ne sono certo, — disse Alvaro con un accento
che tradiva una viva inquietudine.

Non la passeremo liscia. È impossibile che si ritirino prima di aver
fatta una visita alla caravella. —

Quindi rivolgendosi al mozzo, continuò:

— Ragazzo mio, non perdiamo tempo e se l’Oceano questa sera sarà più
calmo, ce ne andremo.

— Che cosa dobbiamo fare?

— Costruirci una zattera.

— Sono pronto ad aiutarvi, signor Alvaro.

— All’opera, mio piccolo Garcia. Giacchè abbiamo tempo ed i selvaggi ci
accordano un po’ di tregua, approfittiamone. —



CAPITOLO III.

L’assalto degli antropofagi.


La costruzione d’una zattera, sufficiente per due persone, con
tutti quei rottami e quei cordami, non era cosa difficile, nè doveva
richiedere molto tempo.

Il più era a lanciarla in mare, però Alvaro contava di servirsi del
troncone dell’albero maestro per issarla, mediante qualche puleggia
appesa alla coffa, fino sulla murata, per poi calarla appena le onde si
fossero un po’ calmate.

Servendosi della scure i due naufraghi spaccarono le antenne
lunghissime delle vele latine, che poi legarono in quadro per formare
il telaio del galleggiante, quindi si misero a demolire il casotto di
poppa e parte delle murate per formare la piattaforma.

Onde renderla poi più leggiera, vi legarono ai quattro angoli alcuni
carratelli vuoti, trovati nella stiva.

Avevano appena terminata la costruzione che aveva richiesto parecchie
ore, non essendo nè l’uno nè l’altro troppo pratici, quando delle grida
lontane attrassero la loro attenzione.

— Che siano altri selvaggi che giungono? — si chiese Alvaro, con una
certa ansietà.

Guardò verso la spiaggia e vide i mangiatori di carne umana tutti in
piedi, radunati intorno alla scogliera, sulla cui cima vegliavano le
sentinelle.

Gesticolavano animatamente e guardavano verso il sud.

Alvaro osservò da quella parte e scorse, non senza una profonda
ansietà, alcune lunghe piroghe che stavano per lasciare la foce d’uno
dei cinque fiumi.

Erano quattro, scavate in giganteschi tronchi d’alberi, lunghe una
trentina di piedi e larghe non meno di quattro, colle prore assai
rialzate che raffiguravano rozzamente delle mostruose teste di caimano
e montate ognuna da una decina di canottieri quasi interamente nudi.

Quantunque anche su quella costa le onde si rompessero con estrema
violenza, le piroghe erano riuscite ad entrare nelle acque della baia
e stavano radendo le scogliere coll’evidente intenzione di approdare là
dove si trovavano radunati i mangiatori di carne umana.

— Mio caro Garcia, — disse Alvaro, — la va male per noi. Quelle
scialuppe serviranno ai selvaggi per fare una visita alla nostra
caravella.

Non ne hanno avuto abbastanza dei marinai che hanno divorati e contano
di regalarsi un altro banchetto colle nostre carni.

— E noi? — chiese il mozzo.

— Porteremo in coperta un paio di barilotti di polvere e vi metteremo
due buone miccie, — rispose il giovane freddamente.

— E salteremo?

— Assieme a quei bricconi, se non riusciremo a respingerli.

— Ah! Signore!

— Se preferisci la graticola, io non mi opporrò. Io ci tengo meglio
alla morte dei soldati.

Tuttavia penso che noi potremo risparmiare le nostre pelli..... oh, si!
una buona mina sotto il castello di prora, potrebbe dare uno splendido
risultato. —

Misurò collo sguardo la lunghezza della caravella.

— Diciotto metri su per giù, — disse poi, come parlando fra se. — Potrà
bastare questa distanza.

Tutt’al più verremo scaraventati in mare.

Dove sono i barili?

— Nella cabina del pilota. Ma che cosa volete fare signore?

— Che ci siano delle miccie a bordo? — chiese invece Alvaro.

— Un gherlino ben incatramato può sostituirle.

— Sei intelligente, ragazzo mio, — disse il giovane sorridendo.

Scese nel quadro e s’introdusse nella cabina del pilota, un bugigattolo
ingombro di casse, di barili e di attrezzi d’ogni specie.

Non gli riuscì difficile a scoprire le munizioni che erano chiuse entro
quattro barilotti cerchiati di ferro e coperti da velacci ancora umidi
per preservarli da uno scoppio.

Alvaro ne prese uno, risalì sul ponte e si diresse verso il castello
di prora che le onde avevano risparmiato, quantunque l’urto contro lo
scoglio l’avesse sconquassato.

Anche là sotto vi erano casse e cassette appartenenti all’equipaggio,
carratelli, ammassi di cordami e di catene e velacci sdrusciti.

— Ecco quanto mi occorre per preparare la mina, — disse Alvaro. —
L’esplosione fracasserà la prora; a noi poco importa ora che questa
caravella è diventata inservibile.

Prese una cassa, la sgombrò delle vesti, poi svitò con precauzione
il barilotto e lasciò cadere tre o quattro libbre di polvere entro un
cartoccio prima preparato.

— Basteranno, — disse. — D’altronde conto più sul fragore
dell’esplosione per spaventare i selvaggi che sui danni che produrrà lo
scoppio.

Prese una sagola incatramata che poteva sostituire benissimo una
miccia, ne tagliò un paio di metri, introdusse una estremità nel
cartoccio che poi legò strettamente.

— Ecco la mina pronta, — disse, accumulando sulla cassa barili, cordami
e catene. —

Rinchiuse il barile e lo riportò nella cabina, coprendolo con un pezzo
di vela ben bagnata, quindi tornò sul ponte.

Le quattro piroghe, abilmente manovrate dai battellieri, erano
riuscite, dopo una viva lotta contro le onde, a porsi al riparo dietro
la scogliera.

Tutti gli sguardi dei brasiliani si erano volti verso la caravella e
la osservavano attentamente. Dovevano aver compreso che era su quel
gigantesco canotto che gli uomini bianchi erano giunti nella baia e
fors’anche avevano già notata la presenza del portoghese e del mozzo.

L’Oceano però era ancora troppo agitato per deciderli a intraprendere
la traversata di quel vasto bacino d’acqua.

Quantunque il vento fosse scemato ed una calma relativa regnasse
in aria, l’Atlantico rovesciava ancora entro la baia dei cavalloni
tremendi i quali, sfasciandosi contro gli isolotti e le scogliere
causavano delle contro-ondate che sarebbero state pericolose anche per
delle grosse scialuppe.

E poi cominciava anche ad annottare e non era prudente impegnarsi
coll’oscurità, fra tutti quegli scogli a fior d’acqua ed i banchi di
sabbia.

— Non si decidono ancora, signore? — chiese Garcia ad Alvaro.

— Sono sicuri di tenerci e fors’anche di prenderci, — rispose il
giovane Correa. — Aspetteranno che l’oceano si calmi un po’.

Tuttavia noi non dormiremo che uno alla volta. Tu che sei il più
giovane, va a riposare.

— Appena sentirete i vostri occhi a chiudersi, chiamatemi.

— Non temere, ragazzo mio. —

Alvaro prese i due moschetti e salì sul cassero, dove le onde non
potevano giungere e si sedette su un cumulo di cordami, tenendo gli
sguardi fissi sulla spiaggia.

La notte era calata rapidamente, una notte tenebrosissima essendosi il
cielo nuovamente coperto di pesanti nuvoloni gravidi di pioggia.

I brasiliani avevano accesi numerosi fuochi sulla riva e vi si erano
accoccolati intorno.

Alvaro dall’alto del suo osservatorio li vedeva gesticolare e indicarsi
lo scoglio contro cui si era infranta la caravella.

Certo facevano i loro progetti per impadronirsene e saccheggiarla. Di
quando in quando qualcuno si alzava e mandava delle grida mentre faceva
volteggiare in aria la sua mazza come se fosse dietro a massacrare
qualcuno, poi lo si vedeva spiccare dei salti innanzi ed indietro come
se combattesse contro un invisibile nemico.

Verso la mezzanotte però tutti si stesero ed i fuochi a poco a poco
furono lasciati spegnere.

Correa, in preda a tristi pensieri non osava chiudere gli occhi e
nemmeno affidare la vigilanza della caravella al mozzo, per paura che
quel ragazzo si addormentasse nuovamente.

Di tratto in tratto s’alzava e si spingeva fino al castello di prora,
scrutando attentamente la acque della baia, parendogli sempre di veder
apparire improvvisamente le quattro piroghe, poi tornava sul cassero
per guardare l’oceano.

Avrebbe desiderato che un nuovo uragano scoppiasse, quantunque la
caravella si trovasse in tali condizioni da non poter resistere ad un
nuovo assalto delle onde.

Invece l’oceano si calmava e anche i nuvoloni che avevano ingombrato il
cielo, cominciavano a rompersi mostrando qualche stella.

I cavalloni giungevano sempre più radi e meno violenti. L’intervallo
fra l’uno e l’altro aumentava, segno infallibile che l’uragano che
aveva sconvolto l’Atlantico stava per cessare.

— Se potessimo gettare la zattera, — disse Alvaro. — Credo invece
che noi dovremo aspettare che la calma sia completa onde non vederla
sfasciarsi sotto i nostri occhi.

E poi, dove fuggire? Le piroghe non tarderebbero a raggiungerci e
preferisco difendermi qui. —

La notte trascorse in continue ansie. Il mozzo si era svegliato e
lo aveva raggiunto poco dopo la mezzanotte, non essendosi potuto più
riaddormentare.

Quando spuntò il sole la situazione non era cambiata. Vi erano sempre
ondate entro la baia, però molto meno violente del giorno innanzi.

Gl’indiani si erano già alzati e stavano osservando la caravella dalla
cima delle scogliere, mentre i battellieri stavano spingendo in acqua
le piroghe che la bassa marea aveva lasciato a secco fra le sabbie.

— Si preparano ad assalirci, — disse Alvaro al mozzo. — Non spaventarti
se li vedi venire e cerca di sparare meglio che puoi.

— Non sono un cattivo bersagliere, signore, — rispose Garcia. — Mio
padre, che era sergente nel reggimento di Castiglia, mi ha insegnato
per tempo a far uso delle armi.

— Allora tutto andrà bene. Eccoli che si radunano; armiamoci e
cerchiamo di maltrattarli più che potremo.

Quegli antropofagi non meritano alcuna pietà e poi si tratta di salvare
le nostre bistecche. —

Gl’indiani avevano lasciate le scogliere e cominciavano ad affollarsi
confusamente nelle quattro lunghe piroghe, fra un gridìo assordante.

Pareva che tutto d’un tratto fossero diventati furibondi. Alzavano
le mazze maneggiandole con supremo vigore e somma abilità e le loro
cerbottane già pronte a scagliare le freccie intinte nel velenosissimo
_curaro_, quella terribile miscela formata col succo di varie piante e
che non aveva, in quell’epoca, alcun rimedio.

Ordinatisi alla meglio fra i banchi, i guerrieri girarono intorno allo
scoglio che aveva protetto le loro piroghe dalle ondate e si spinsero
al largo puntando sulla caravella.

Abituati ad eccitarsi con urla acutissime, ululavamo come belve,
credendo di spaventare i naufraghi.

Il signor di Correa invece non si atterriva affatto. Esaminata la mina
e trovata la sagola incatramata asciuttissima, aveva, con alcune casse
e con alcuni barili, improvvisata una barricata sul cassero e vi si
era nascosto dietro assieme al mozzo, mettendosi dinanzi gli archibugi
ed i due spadoni arruginiti che potevano servire efficacemente in un
combattimento corpo a corpo.

— Garcia, — disse Alvaro. — Abbiamo un sorso di vino di Porto, nel
canestro, mi pare.

— Sì, signore.

— Trangugia un sorso prima che cominci la battaglia. Ti darà coraggio.

Il mozzo non si fece pregare a prendere la bottiglia che passò prima ad
Alvaro.

— Così le nostre bistecche saranno più gustose, se dovremo finire sulla
graticola, — ebbe l’audacia di dire il valoroso giovane.

— Giù un buon sorso, Garcia! I selvaggi sono a buon tiro. —

Le quattro piroghe, che s’avanzavano frettolosamente salendo e
discendendo i cavalloni, si trovavano allora a soli trecento passi
dallo scoglio contro cui si era infranta la caravella.

Alvaro prese uno dei due moschetti, si appoggiò contro una cassa e
mirò qualche istante un gran diavolo di selvaggio che si dimenava sulla
prora della prima scialuppa, avventando all’aria colpi formidabili di
mazza e che urlava più alto di tutti.

Aveva appena tirato il grilletto, che già l’indiano cadeva in acqua,
fulminato in pieno petto da una palla di un’oncia.

Udendo quello sparo, che dovevano scambiare per lo scoppio d’una
folgore, gl’indiani si erano fermati guardando in alto invece che verso
la caravella.

Nessuno si era occupato del loro compagno, già inabissatosi nelle
profonde acque della baia.

Un altro colpo di moschetto, sparato dal mozzo e che fracassò un
braccio ad un remigante, li avvertì finalmente che quei misteriosi
messaggeri di morte non cadevano giù dal cielo che era tornato limpido,
ma che partivano invece dalla nave.

Avevano scorto il lampo a balenare sul cassero e anche la nuvola di
fumo che la brezza mattutina non aveva ancora dissipata.

Uno stupore impossibile a descriversi si era impadronito di quegli
ingenui, per quanto feroci figli delle vergini foreste americane.

Muti pel terrore, guardavano la caravella senza osare più a toccare i
remi. Quale bestia doveva essere quella che lanciava fuoco e fiamme e
che ad una così grande distanza ammazzava o mutilava gli uomini?

Nondimeno lo stupore non durò molto in quei selvaggi abituati a vivere
in continua guerra fra tribù e tribù. L’avidità fu più forte della
paura e ripresero ben presto i remi spingendo rapidamente innanzi le
loro piroghe per giungere presto sotto la caravella.

Ormai avevano scorti i due naufraghi e contavano di vincerli facilmente
e anche di mangiarseli presto.

— Signor Alvaro, — disse il mozzo. — Continuano ad avanzarsi
egualmente. Il tuono non basta a fermarli e nemmeno le nostre palle.

— Vi è la mina pronta e vedrai come salteranno. Aspetta che giungano
sotto la prora.

— E noi?

— Ci rifugieremo nel quadro. Lo scoppio non farà troppi guasti. Hai
finito di caricare?

— Sì, signore.

— Mira la seconda piroga; io m’incarico della prima.

Due altri spari rimbombarono a breve tratto l’uno dall’altro e altri
due indiani caddero sui loro banchi, uno morto sul colpo e l’altro
ferito.

Urla acutissime risposero a quella seconda scarica, poi una voce
tuonante s’alzò sola, gridando replicatamente:

— _Caramurà!... Caramurà!_... —

Era una maledizione scagliata contro i possessori del fuoco celeste o
voleva significare qualche cosa d’altro? Alvaro non ebbe il tempo di
cercarne la spiegazione.

Le quattro piroghe con un ultimo sforzo erano già giunte sotto la prora
della caravella che era la parte più bassa e che meglio si prestava ad
un abbordaggio.

Il signor di Correa si era impadronito d’un pezzo di scotta che aveva
accesa ancora prima che cominciasse il combattimento e che bruciava
sulla murata.

— Nel quadro, Garcia! — gridò.

— No, signore, — rispose il ragazzo con voce risoluta. — Vi difenderò
giacchè il mio archibugio è già carico.

— Grazie, — rispose Alvaro, impugnando uno dei due spadoni.

Mentre gl’indiani, certi di impadronirsi facilmente della nave,
cercavano di arrampicarsi servendosi dei cordami del bompresso, il
portoghese si slanciò attraverso la tolda cacciandosi sotto il castello
di prora.

Con un colpo di spada tagliò parte della sagola, diede fuoco a quella
che s’univa alla cassa, poi scappò a tutte gambe.

In quel momento il primo selvaggio saliva aggrappandosi alla polena.
Stava per mettere i piedi sul castello, quando il mozzo lo abbattè con
un buon colpo di archibugio, facendolo stramazzare addosso ai compagni
che stavano pure arrampicandosi sulle funi della dolfiniera.

— Bravo Garcia! — gridò Alvaro salendo precipitosamente sul cassero. —
Presto, nel quadro, ragazzo mio! La mina sta per scoppiare! —

I brasiliani, il cui coraggio cominciava a vacillare non già per le
perdite subite, bensì in causa di quelle detonazioni che non riuscivano
a spiegarsi, erano ridiscesi nei loro canotti non osando più issarsi
sul rottame.

Si udivano però a gridare sempre, con accento di terrore:

— _Caramurà!... Caramurà!_... —

Ad un tratto una detonazione formidabile soffocò i loro clamori.

La mina era scoppiata gettando in aria casse, barili e gomene e
disarticolando d’un colpo solo tutto la prora della caravella.

La spinta era stata così forte, che Alvaro ed il mozzo furono
rovesciati al suolo, l’uno sull’altro e che tutti i quadri e gli
attrezzi marinareschi che si trovavano appesi alle pareti, caddero con
un fracasso indiavolato. Anche le porte delle cabine furono spalancate
di colpo, sbattacchiando replicatamente.

— Perdinci, che cannonata! — esclamò Alvaro, rialzandosi e tastandosi
le costole. — Se avessi versato nella cassa mezzo barile di polvere noi
saremmo saltati.

Ehi, ragazzo, nulla di guasto?

— Il naso un po’ schiacciato, signore, — rispose il mozzo.

— Saltiamo fuori! —

Afferrarono i moschetti e gli spadoni e salirono sul ponte. Un denso
fumo ondeggiava ancora sulla prora squarciata e delle lingue di fuoco
serpeggiavano sotto i rottami del castello.

Le gomene incatramate e le vesti dei marinai rinchiuse nelle casse si
erano incendiate.

— Ah! Diavolo! — esclamò Alvaro, aggrottando la fronte. — Non aveva
previsto questo pericolo.

Saltò sulla murata aggrappandosi ai paterassi ancora sospesi al
troncone dell’albero maestro e guardò verso prora.

La disfatta degl’indiani era stata completa. Delle quattro piroghe una
era colata subito a fondo e le altre tre fuggivano disordinatamente
verso la riva.

— Un bel colpo in fede mia, — disse il bravo giovane, ridendo. — Quei
maledetti mangiatori di carne umana non torneranno più a rinnovare
l’attacco.

Guardò verso lo scoglio contro cui si era arenata la caravella. Dei
cadaveri, orrendamente mutilati, ondeggiavano fra la spuma che le onde
avventavano sulle rocce insieme a frammenti di remi e di banchi.

— Se ne sono andati, signor Alvaro? — chiese il mozzo.

— Filano verso la costa come un’orca che ha il vento in poppa, —
rispose Correa. — Giurerei che non hanno più una goccia di sangue nelle
vene.

— Come arrancano! — esclamò il ragazzo che si era issato, a sua volta,
sulla murata. — Devono aver provata una terribile paura.

— E parecchi di essi sono morti.

— Ed i pesci cani stanno divorandoli, signore. Oh! Le brutte bestie!
Guardate quante ve ne sono! Aho! Che bocconi! Tagliano in due un corpo
come se avessero fra i denti una immensa forbice! —

Correa guardò verso la prora e rabbrividì. Sette od otto mostruosi
squali, di quelli che hanno la testa foggiata a martello e che si
chiamano zigaene, si agitavano presso la scogliera mostrando le loro
enormi bocche semi-circolari, armate di formidabili denti.

Si voltavano sul dorso, non potendo afferrare le prede d’un colpo, in
causa della disposizione della loro bocca che si trova al di sotto dei
due capi del martello, poi con un crac che metteva i brividi tagliavano
in due i cadaveri, afferravano la parte più grossa e scomparivano fra
un cerchio di sangue.

— Oh! gli orribili pesci! — esclamò Correa. — Se l’esplosione ci
scaraventava in mare, ci toccava una bella fine! —

Una folata di fumo nero e fetente, impregnato dell’odor del catrame, lo
avvertì che il pericolo non stava dalla parte degli squali.

— Perdinci! — esclamò. — Noi dimenticavamo che la prora della caravella
sta tramutandosi in una fornace.

   [Illustrazione: Poi, con una spinta più vigorosa, la catena
   attraversò.... (CAP. IV).]

Ragazzo mio, se gl’indiani se ne sono andati, non possiamo dire di
essere ancora salvi. Bisogna sgombrare e senza perdere tempo.

— È vero signore ma.... e quei pesci cani?

— Hanno ben altro da fare in questo momento per occuparsi di noi. E poi
abbiamo delle armi e se cercheranno di assalire la nostra zattera ci
difenderemo. —

Diede un ultimo sguardo verso la costa. Le tre piroghe avevano
imboccato uno dei cinque fiumi e stavano scomparendo sotto le vôlte di
verzura che coprivano quei corsi d’acqua.

— Alla zattera, Garcia, — disse. — Porta in coperta un barilotto di
polvere e del piombo.

Ci sono più viveri nel quadro?

— La dispensa è sott’acqua, signore. Ve lo dissi già.

— Andremo a guadagnarci la colazione alla costa. Vedo un gran numero di
uccelli a volare fra gli alberi e non siamo cattivi tiratori. —

Si issò fino alla coffa portando con se una gomena che passò in una
delle puleggie, poi legò un capo ad un angolo della zattera e avvolse
l’altro intorno all’argano di poppa, che il mozzo aveva già provvisto
di manovelle.

Bisognava spicciarsi. Le fiamme, trovando facile alimento nelle pareti
incatramate della caravella, guadagnavano rapidamente.

Lingue smisurate s’alzavano fra i rottami del castello di prora, mentre
fitti nuvoloni di fumo acre e pesante, avvolgevano tutta la nave.

Correa ed il mozzo si curvarono sulle aspe e fecero girare l’argano
spingendo a tutta forza.

Essendo la zattera piccola e non troppo pesante, non fu difficile
issarla e spingerla al di fuori della murata.

D’altronde lo stato del mare favoriva quell’operazione che sarebbe
stata difficilissima a compiersi con delle forti ondate.

L’Atlantico si era calmato e solo di quando in quando qualche
cavallone, poco alto, si distendeva nella baia, andando ad infrangersi
contro le scogliere e gli isolotti.

La zattera appena toccata l’acqua si raddrizzò, rollando vivamente e
beccheggiando e urtando contro il fianco della caravella.

Correa ed il mozzo, assicuratisi che galleggiava perfettamente,
calarono i due barilotti contenenti le munizioni e qualche vestito di
ricambio trovato nella cabina del pilota, presero i loro spadoni, la
scure e gli archibugi e scesero sul galleggiante troncando le funi.

— Dove ci dirigeremo, signore? — chiese il mozzo, disponendosi a
prendere i remi.

Correa lanciò un lungo sguardo verso la costa, poi indicando un fiume
che si versava nella vasta baia, disse:

— Approderemo là; saremo abbastanza lontani da quello che hanno
risalito i brasiliani. —



CAPITOLO IV.

Alla costa.


La zattera galleggiava perfettamente, mercè anche i quattro carratelli
legati ai suoi angoli e manteneva fuori d’acqua la sua piattaforma
malgrado le ondate che rumoreggiavano nella baia.

Il signor di Correa ed il ragazzo, dopo essersi orizzontati, si erano
messi ad arrancare con lena, tenendo però gli sguardi quasi sempre
volti alla foce del fiume entro la quale si erano cacciate le tre
piroghe dei brasiliani.

Temevano che quei bricconi si fossero nascosti fra le piante che
coprivano le due rive e che da un istante all’altro facessero la loro
comparsa.

Nella baia non si scorgevano che degli uccelli marini d’una specie
assolutamente ignota ad Alvaro ed al suo compagno e che si tuffavano
nelle acque per dare la caccia ai pesci. Nessuna piroga solcava
quell’immenso specchio d’acqua disseminato di superbi isolotti coperti
di palmizi di varie specie, che davano loro un aspetto assai grazioso.

Nessun rumore sospetto turbava il silenzio che regnava entro quella
specie di golfo che doveva diventare un giorno sede di una delle più
opulente città dell’America meridionale e uno dei porti più ampii e più
sicuri del mondo.

Solamente si udivano sempre a rumoreggiare e tuonare i marosi,
arrestati nella loro corsa dalle scogliere.

La zattera, ora affondando pesantemente nelle pieghe dei cavalloni ed
ora librandosi sulle creste, si era già allontanata dalla caravella
sempre fiammeggiante, d’un centinaio di metri, quando alcune teste
apparvero a babordo ed a tribordo, strappando al mozzo un grido di
terrore.

— Signor Correa!

— Gl’indiani? — chiese Alvaro, che non si era ancora accorto della
presenza di quei nuovi nemici, non meno formidabili dei mangiatori di
carne umana delle selve brasiliane.

— No, gli squali, signore.

— Che siano tutti accaniti contro le nostre polpe e affamati di carne
bianca in questo maledetto paese! La cosa comincia a diventare un po’
noiosa.

— Ci hanno circondati, signore. —

Alvaro ritirò il remo e si guardò intorno. Il mozzo non aveva esagerato
il pericolo.

Sette od otto enormi pesci-martello, mostravano le loro orribili teste
a pochi passi dalla zattera, aprendo e rinchiudendo le loro mascelle
con uno scricchiolío per nulla rassicurante.

I loro occhi, bruttissimi, collocati alle due estremità del martello,
dall’iride azzurro cupo, si tenevano ostinatamente fissi sui due
naufraghi come se cercassero di affascinarli.

— Non sono meno pericolosi degl’indiani questi, — disse il giovane
portoghese. — Non sarà però cosa facile per loro di inerpicarsi sulla
zattera, giacchè la natura non li ha, fortunatamente, provvisti di
zampe e di artigli.

Che boccaccie! Non ti senti gelare il sangue, mio piccolo Garcia?

— E anche girare la testa signore, — rispose il mozzo.

— Prendi uno spadone e picchia sodo se si avvicinano.

— Sarebbe meglio fucilarli.

— Degli spari! No, Garcia, non facciamo tornare gl’indiani o accorrere
degli altri.

Ve ne possono essere ancora sotto quelle boscaglie. —

Gli squali si erano messi a girare intorno alla zattera, tenendosi
ad una certa distanza, mostrando ora i loro dorsi potenti ed ora le
loro code che sono così robuste da poter rovesciare d’un sol colpo un
canotto di media lunghezza.

Di tratto in tratto qualcuno si inabissava fragorosamente ed i due
naufraghi sentivano la sua pelle rugosa strisciare sul fondo della
zattera.

— Si provano ad alzarla, — disse Correa il quale era meno spaventato
di quanto avrebbe dovuto esserlo. Ritengo però che non ne avranno la
forza. Anche noi pesiamo qualche cosa. —

Aveva afferrato il suo spadone e con un coraggio temerario si era
accostato al margine di tribordo della zattera, tirando gran colpi che
ricadevano sempre nel vuoto. Quei maledetti squali, furbi come pesci,
appena vedevano l’atto si tuffavano rapidamente per ricomparire poco
dopo dall’altra parte del galleggiante.

Parve però che uno perdesse la pazienza. Era un mostro di sei o sette
metri di lunghezza, uno dei più enormi della specie, con una bocca così
ampia che Garcia non avrebbe trovato alcuna difficoltà a starvi dentro
ripiegato in due.

Sicuro della sua forza e fors’anche più affamato degli altri, con un
poderoso colpo di coda si rovesciò sulla zattera urtandola in così malo
modo da farla piegare sul tribordo d’un buon piede.

La scossa era stata così improvvisa che Correa per poco non cadde entro
quella bocca spalancata che si teneva pronta a rinchiudersi.

— Ah per Bacco Baccone! — esclamò il portoghese, riprendendo subito il
suo ammirabile sangue freddo. La faccenda comincia a farsi seria. — Se
tutti ci piombano addosso ci faranno a pezzi. —

Vedendo il vorace mostro ritornare all’assalto, impugnò lo spadone con
ambe le mani e gli tirò contro una tale botta, da tagliargli netto uno
dei due capi del martello.

Lo squalo, così atrocemente mutilato, mandò un rauco sospiro che parve
un colpo di tuono udito in lontananza, e s’inabissò subito lasciando
alla superficie una larga macchia di sangue ed il suo pezzo di testa il
cui occhio conservava ancora un terribile sguardo.

— Credo che quel briccone ne avrà abbastanza, — disse il portoghese.

— Ed anche il mio, — rispose il mozzo.

Il ragazzo incoraggiato dal felice esito del compagno, vedendo un
altro squalo passare a buon tiro, gli aveva spaccata la testa con una
destrezza sorprendente.

Disgraziatamente avevano ottenuto l’effetto opposto. Gli altri, invece
di spaventarsi per quella brusca accoglienza, eccitati forse dall’odore
del sangue erano diventati d’un colpo furibondi.

Urtavano la zattera da tutte le parti, ora spingendola da una parte
ed ora dall’altra, facendola piegare a babordo od a tribordo e
avventavano colpi di coda così tremendi che i carratelli si sfasciavano
compromettendo la stabilità del galleggiante.

Quell’assalto stava per finire tragicamente non ostante i colpi di
spadone dei due naufraghi, quando un rimbombo spaventevole echeggiò
nella baia e un’ondata altissima si rovesciò addosso ai combattenti,
portando la zattera verso la costa.

Era la caravella che saltava. Le fiamme, non combattute, avevano
raggiunto il quadro ed i barili di polvere del pilota erano scoppiati
con un fragore assordante, sventrando letteralmente il povero legno.

Quello scoppio era stato più efficace che i colpi di spadone di Alvaro
e del mozzo.

Gli squali, atterriti, si erano subito inabissati rifugiandosi
probabilmente nelle caverne sottomarine che servono ordinariamente di
asilo a quei pericolosi abitanti delle baie americane.

Per qualche minuto una immensa nuvola biancastra si distese sopra la
baia tutto oscurando, poi, quando si fu dissipata, Correa ed il mozzo
scorsero fra le scogliere lo scafo della caravella tutto disarticolato
ed infiammato.

— Povero veliero, — disse il portoghese, con una certa commozione. —
Quale triste sorte doveva essere la tua. —

Una scossa che per poco non lo fece cadere in acqua, lo costrinse a
voltarsi.

— Ancora gli squali? — chiese.

— No, signore, — rispose il mozzo, — ci siamo arenati sopra un banco e
la spiaggia non è che a cinquanta passi da noi.

L’onda prodotta dall’esplosione ci ha portati meglio che una vela con
buon vento.

— È profonda l’acqua?

— Appena un piede.

— Lasciamo il nostro galleggiante e andiamo a cercarci la
colazione. —

Si caricarono dei due barilotti che non pesavano più di venti libbre
ciascuno, raccolsero le vesti e le armi e saltarono sul banco che
attraversarono senza difficoltà.

La boscaglia che si estendeva tutta intorno alla baia, finiva sulle
sabbie, anzi talune piante bagnavano le loro radici nell’acqua del
mare.

Era l’ultimo lembo di quella immensa foresta che anche oggidì copre
buona parte dell’interno del Brasile non ostante gli sforzi continui
degli emigranti e degli indigeni e che presenta ancora tutti i
caratteri del suo stato primitivo, poichè i suoi alberi sono stretti
da arbusti, da cespugli e da liane parassite d’ogni specie che si
arrampicano intorno ai tronchi, che salgono fino ai più alti rami e
che ridiscese a terra mettono nuove radici moltiplicandosi in modo
spaventevole.

Dinanzi agli sguardi meravigliati di Correa e del mozzo si alzavano
a perdita d’occhio piante superbe e svariate, strette da liane che
ricadevano in enormi festoni formando in certi luoghi delle reti così
fitte da rendere impossibile il passaggio non solo agli uomini ma ben
anco agli animali.

Era un caos indescrivibile di mirti dalla scorza lucentissima; di
cocchi più alti e più splendidi di quelli delle Indie orientali; di
pekie che si direbbero produrre delle palle di cannone anzichè delle
frutta e che mostravano i loro enormi calici ed i loro larghi petali
dalle tinte svariate; di acacie, di cedri e di palmizi d’ogni specie.

Splendidi volatili, dalle penne variopinte, cicalavano in mezzo alle
fronde, senza manifestare alcun timore per la vicinanza di quelle due
persone.

Erano dei superbi _canindè_, somiglianti ai cacatoa australiani
e grossi come pappagalli, colle ali d’un turchino brillante e le
penne del petto gialle; degli _uruponga_ candidissimi, il cui canto
fortissimo odesi, fra il maestoso silenzio delle foreste vergini, a
ben tre miglia di distanza, all’alba, al mezzodì ed al tramonto e che
squilla come una campana; delle arà tutte rosse che lanciavano, con
una insistenza noiosa, il loro eterno _arà, arà_; poi degli _aracari_,
specie di tucani non più grossi d’un merlo e col becco cartilaginoso
grosso quanto l’intero corpo e che stridevano come ruote male unte.

— Che cosa ne dici di tuttociò, Garcia? — chiese Alvaro che guardava
con stupore tutti quei volatili che scherzavano fra i raggi del sole,
facendo brillare vivamente le tinte svariate delle loro penne.

— Che noi dobbiamo essere sbarcati sulle rive del paradiso terrestre, —
rispose il mozzo.

— Bel paradiso dove gli abitanti a due gambe sono più feroci dei
leoni e delle tigri che popolano le selve ed i deserti dell’Asia e
dell’Africa.

— Non potete dire però che questa foresta non sia superba, signor
Alvaro.

— Anzi splendida; quello che non trovo però è la colazione.

— Vi sono centinaia di uccelli.

— Che bramerei anch’io mettere sui carboni se la paura di attirare
l’attenzione dei selvaggi non mi trattenesse.

— Ah! Signor Alvaro!

— Che cosa hai scoperto?

— Guardate là quei giganteschi alberi che sono carichi di frutta. Se
provassimo ad assaggiarne qualcuna? —

Alvaro alzò gli occhi e scorse, a breve distanza dal luogo ove erano
sbarcati, parecchi alberi immensi adorni di fronde foltissime e che
portavano delle frutta somiglianti alle pere; ma un po’ più allungate e
brillanti dei più vivi e svariati colori.

I loro tronchi poi erano letteralmente coperti da grosse goccie
trasparenti che parevano formate d’acqua solidificata e che spandevano
un aroma acutissimo.

Erano _acajaba_, gli alberi forse più belli e più preziosi dell’America
del sud, così pregiati dalle tribù indiane che per possedere i
terreni su cui crescono, se li disputavano accanitamente con guerre
sanguinosissime che costavano talvolta centinaia e centinaia di vite
umane.

Alvaro che non li conosceva, non essendo mai stato prima d’allora
nel Brasile, era rimasto perplesso dubitando che quelle frutta così
colorite potessero servire al loro stomaco e racchiudessero invece
qualche succo pericoloso.

— Si può provare, Garcia, — disse finalmente. — Sono così belle quelle
frutta che tenterebbero delle persone meno affamate di noi.

Puoi salire?

— Per un mozzo la cosa non sarà difficile, — rispose il ragazzo.

Stava per aggrapparsi ad alcune liane che si erano avviticchiate
strettamente al tronco d’uno di quegli alberi, quando gli sfuggì un
gran scoppio di risa.

— Ah! Signor Alvaro! — esclamò. — Come sono buffe! E che magrezza
spaventosa!

— Chi? — domandò il portoghese.

— Guardate dunque lassù; in mezzo al fogliame! Quelle frutta devono
essere ben squisite, se le divorano così avidamente! —

Alvaro si fece sotto la pianta e guardò in alto, in mezzo al fogliame
che come si disse, era foltissimo.

Degli esseri strani si agitavano fra i rami, spiccando di quando in
quando dei salti sorprendenti per raggiungere i grappoli di frutta che
saccheggiavano con una rapidità prodigiosa.

— Toh! — esclamò. — Delle scimmie!

— Delle scimmie! — rispose il mozzo. — Si direbbero giganteschi ragni,
signore. —

Il ragazzo, senza saperlo, dava a quei quadrumani il loro vero nome
perchè si trattava veramente d’una piccola banda di ateli, meglio
conosciuti sotto il nomignolo di scimmie-ragni.

Ed infatti per la loro spaventevole magrezza e per la lunghezza
eccessiva delle loro braccia e delle loro gambe, quelle abitatrici
delle foreste americane, vedute ad una certa distanza rassomigliano a
dei ragni enormi, o meglio ai migali che hanno il corpo peloso.

Vedendo i due naufraghi, una improvvisa emozione si era impadronita dei
quadrumani i quali si erano subito rifugiati all’estremità d’un grosso
ramo che si prolungava al di sopra d’un fiumicello.

Strillavano rabbiosamente, mostrando i loro bianchi canini
e arruffavano il pelame come se si preparassero a respingere
vigorosamente il mozzo che si era bravamente aggrappato ad un festone
di liane per raggiungere quelle belle frutta che promettevano una
colazione squisita.

— Guardati, Garcia, — disse Alvaro, preparando l’archibugio. Mi sembra
che quelle scimmie siano molto bellicose.

— Ho la scure, signore, — rispose il bravo ragazzo, che continuava
a salire. — Non saranno quelle bestie che mi faranno rinunciare alla
colazione. —

Le urla delle scimmie raddoppiavano, credendo di spaventare il
ragazzo, ma invece di prepararsi ad assalirlo continuavano invece
ad indietreggiare facendo oscillare il ramo il quale pareva che da
un momento all’altro dovesse cedere sotto il peso di quei dodici o
quindici corpi per quanto fossero magrissimi.

Vedendo finalmente il mozzo lasciare le liane e slanciarsi fra la
biforcazione dei rami, le loro grida di furore si tramutarono in
lamenti così strazianti da far scoppiare dalle risa il signor di
Correa.

— Non sono molto coraggiosi quei quadrumani, — disse.

— Signor Alvaro!

— Cos’hai?

— Che cosa fanno quelle scimmie? Pare che vogliano piombarvi
addosso. —

Le ateli stavano in quel momento eseguendo una manovra misteriosa.

Ritiratesi all’estremità del ramo, una di esse si era lasciata
penzolare nel vuoto, trattenuta dalle compagne per la coda.

Una seconda eseguì la stessa manovra, poi una terza formando in tal
modo una specie di catena che si allungava rapidamente verso il suolo.

Si tenevano le une le altre per la coda lunghissima imprimendo, con
dalle spinte poderose, all’intera catena, un movimento ondulatorio fra
il tronco dell’albero e la riva del fiume.

Alvaro ed il mozzo, molto sorpresi, le osservavano curiosamente non
sapendo, nè riuscendo ad indovinare dove le scimmie miravano. Le
ondulazioni aumentavano sempre. L’ultima scimmia, che si trovava a soli
cinque o sei metri dal suolo, coi suoi slanci giungeva talvolta fino in
mezzo al fiumicello.

Ad un tratto con un’ultima e più vigorosa spinta la catena attraversò
tutto il corso d’acqua e la scimmia che formava l’estremità s’aggrappò
al ramo d’un acajero che cresceva sulla riva opposta, tenendosi ben
stretta, mentre le compagne allungavano le gambe, appoggiandole sulle
spalle o sulle teste delle vicine, formando in tal modo un ponte
sospeso del più strano effetto.

— Ah! Le furbe! — esclamò Alvaro. — Ora ho compreso! —

Le scimmie che erano rimaste sul ramo, quasi tutte femmine, che
portavano a cavalcioni fra le spalle dei piccini, s’erano slanciate
senza esitare su quel ponte peloso, gridando a piena gola.

Raggiunta la riva opposta, issarono l’ultima scimmia fino ai rami
più alti, poi quella che si teneva aggrappata all’_acajaba_ si lasciò
andare.

La catena, per la spinta, attraversò di volata il fiume e tutta la
banda in un momento si trovò riunita sull’acaja manifestando la sua
gioia con inestinguibili scoppi di risa e salti disordinati.

— Buon viaggio! — gridò il mozzo, vedendole slanciarsi da un albero
all’altro per guadagnare il folto della foresta.

Salì su un ramo che si piegava sotto il peso delle frutta e fece cadere
al suolo una pioggia di quelle bellissime pere.

Alvaro ne raccolse alcune e le spaccò a metà. La loro polpa era
diafana, quasi trasparente ed esalava un profumo squisito.

— Se le scimmie le mangiano vuol dire che non contengono alcun veleno —
disse, addentandone una. — Perdinci! Come sono deliziose! Altro che le
nostre pere d’Europa.

Il mozzo, a cavalcioni d’un ramo, le divorava a due palmenti dividendo
pienamente il parere del signor Correa.

Ed infatti non avevano torto. Anche gl’indiani ne sono ghiottissimi e
ne raccolgono in quantità enormi che poi seccano e riducono in farina,
formando poscia delle focaccie che nulla hanno da invidiare a quelle
composte col miglior frumento d’Europa.

Avevano fatto già un’abbondante scorpacciata, quando Correa che si
era sdraiato fra le fresche erbe per riposarsi un po’, vide il mozzo
lasciare rapidamente il ramo, aggrapparsi alle liane e lasciarsi
scivolare fino al suolo con rapidità fulminea.

— Cos’hai, ragazzo? — chiese il portoghese, afferrando i due archibugi.

— Silenzio, signore! — rispose il mozzo con voce alterata.

— Spiegati: chi hai veduto?

— Gl’indiani, signore!

— Ancora quei bricconi? — si chiese Alvaro, lanciando all’intorno un
rapido sguardo. — Dove sono?

— Seguono la spiaggia.

— Molti?

— Non ne ho veduti che due.

— Vieni! —

Avendo scorto a breve distanza dei folti cespugli di passiflore, vi
si slanciò in mezzo, seguito prontamente dal ragazzo. Da quel posto
potevano vedere un lungo tratto di spiaggia, senza correre il pericolo
di poter essere scoperti.

Degl’indiani dovevano avanzarsi verso la foce del fiumicello, giacchè
se non si scorgevano ancora si udivano però le loro voci.

— Non mi sembra che siano molti, — disse Alvaro che ascoltava
attentamente.

— Che siano due esploratori degl’indiani che sono fuggiti? — chiese
Garcia.

— Può darsi, — rispose Correa. — Se sono due soli non c’è da
spaventarsi.

— Che ci scoprano? Possono trovare le nostre orme che abbiamo lasciate
sulle sabbie e anche la zattera.

— Se si accosteranno non li risparmieremo. —

In quel momento due indiani sbucarono dal folto della boscaglia
avanzandosi verso la spiaggia.

Erano entrambi di statura alta, un po’ magri, coi lineamenti regolari,
colla pelle d’un rosso mattone e quasi interamente nudi, non avendo
che un piccolo perizoma formato di nervature di foglie grossolanamente
intrecciate.

Avevano invece i corpi dipinti di ocra rossa e nera, delle penne
attaccate alle gote e altre infisse nei lunghi e ruvidi capelli che
portavano sciolti sulle spalle.

La loro bocca aveva però un aspetto ripugnante, avendo il labbro
superiore assai sporgente, come in forma d’un cucchiaio, prolungamento
dovuto ad un pezzo di diaspro, di forma rotonda, incastrato un po’
sopra al mento e che pareva un vero stoppaccio cacciato a forza nella
carne viva.

Quello strano ornamento che è in uso anche oggidì fra gl’indiani delle
regioni interne del Brasile e che chiamasi il _barbotto_, dà alle loro
fisonomie un aspetto ripugnantissimo.

Per averlo, si forano il labbro inferiore e vi cacciano dapprima dentro
un dischetto di legno per tenere aperta la ferita finchè si siano
rimarginati gli orli, poi uno più grande e continuano finchè abbiano
raggiunto una sporgenza enorme. È da quel foro che sfugge la saliva che
li imbratta in modo schifoso.

Anche negli orecchi fanno altrettanto, cacciandosi nel lobo dei dischi
in modo che le estremità inferiori toccano sovente le spalle!

I due indiani che erano armati di lunghi archi di legno del ferro, e
di certe specie di pugnali pure di legno, assai acuminati d’ambe le
parti, si erano arrestati sulla spiaggia che in quel luogo scendeva
ripidissima, guardando attentamente le acque.

— Pare che non l’abbiano con noi, — disse Alvaro al mozzo. — Si direbbe
che si preparano a pescare.

— Colle frecce?

— Stiamo a vedere.

— Non se ne sono ancora accorti della zattera.

— È arenata dietro alla scogliera, dove il flusso l’ha spinta. —

I due indiani dopo d’aver percorso un tratto di spiaggia erano
tornati indietro strappando da una pianta alcune liane che rapidamente
annodarono, formando una corda resistentissima, della lunghezza d’un
centinaio di piedi.

Ciò fatto si stesero sotto l’ombra d’un palmizio e tratto da un piccolo
recipiente formato da una conchiglia una manata di polvere nerastra,
si collocarono l’uno di fronte all’altro, tenendo in mano un bizzarro
istrumento che pareva formato da due ossa incrociate in forma d’un X.

— Che cosa fanno? — chiese il mozzo stupito.

— Non ne so più di te, — rispose Alvaro che seguiva attentamente quella
singolare operazione senza riuscire a comprendere molto. —

I due indiani versarono la polvere levata dalla conchiglia nelle ossa
che dovevano essere forate in tutta la loro lunghezza, accostarono
poi i loro volti introducendo fra le labbra uno dei rami inferiori e
l’altro nelle narici, poi si misero a soffiarci con forza starnutando
rumorosamente.

Quell’operazione inesplicabile pei due naufraghi, vissuti in un’epoca
in cui il tabacco cominciava a essere appena noto ai popoli d’Europa,
era invece spiegabilissima.

I due indiani fiutavano semplicemente un po’ di tabacco polverizzato
nè più nè meno come lo prendevano i nostri nonni. Solamente lo
fiutavano in modo un po’ diverso e con maggior vigore, soffiandoselo
reciprocamente nel naso mediante quello strano istrumento formato da
due ossa alari d’uccello, incrociate a quel modo.

Dopo d’aver sternutato abbondantemente, fino ad avere le lagrime agli
occhi, i due selvaggi, felicissimi del successo di quella operazione,
tornarono a sdraiarsi fra le erbe, tenendo gli sguardi sempre fissi
sulle acque che in quel luogo parevano assai profonde.

Che cosa aspettavano? La risposta fu più pronta di quello che i due
naufraghi credevano.

Non erano trascorsi quindici minuti, quando videro i selvaggi balzare
rapidamente in piedi, uno tenendo in mano uno di quei pugnali di legno,
aguzzo d’ambo le estremità e l’altro la corda di liane.

Quello armato del pugnale che sembrava il più robusto e anche il
più attempato, si slanciò su una piccola rupe che s’alzava presso la
spiaggia, scrutò, con estrema attenzione le acque, poi si cacciò il
pugnale fra i denti e con un magnifico salto di testa s’immerse.

— Sono pescatori, — disse Alvaro al mozzo. — Sarei però curioso di
sapere quale specie di pesce andrà a pugnalare.

— Dubito che possa riuscirvi, — rispose il ragazzo. — Sono troppo lesti
gli abitanti delle acque.

— Ah! Diavolo!

— Che cosa avete, signore?

— Guarda! Perdinci! Che fegato hanno questi selvaggi. —

Una testa enorme si era mostrata improvvisamente alla superficie,
a pochi passi dal luogo ove l’indiano si era immerso, la testa d’un
pesce-martello.

— Il pescatore è perduto! — esclamò il mozzo.

— Ma no, — rispose Alvaro. — Egli si è immerso per assalire lo squalo.

— Che abbiano tanto coraggio questi selvaggi?

— Apri bene gli occhi, Garcia. —

Il pescatore era ricomparso a galla tenendo sempre fra i denti il
lungo pugnale di legno e muoveva risolutamente verso lo squalo che
giuocherellava fra la spuma.

L’indiano rimasto a terra, seguiva attentamente quella caccia
emozionante, senza manifestare, a quanto sembrava, alcuna apprensione
pel compagno.

Teneva sempre in mano il rotolo di liane come se fosse pronto a
lanciarlo in acqua.

Il formidabile pesce-martello, accortosi della presenza dell’uomo, si
era arrestato, come se fosse stato sorpreso dell’audacia di quel nemico
che osava assalirlo, poi con un movimento fulmineo si era rovesciato
sul dorso, aprendo le enormi mascelle.

L’indiano con un coraggio incredibile invece di sfuggire il pericolo,
lo affrontò risolutamente. Afferrò il pugnale e con colpo di tallone
fu addosso allo squalo, cacciandogli l’arma fra le mascelle spalancate,
poi s’inabissò[4].

Il pesce-martello, sicuro di stritolare d’un colpo il braccio del
nemico, aveva rinchiusa violentemente la bocca, ma in quell’atto le due
punte del pugnale gli erano penetrate nel palato producendogli delle
ferite che dovevano avere ben gravi conseguenze pel vorace abitatore
delle acque.

Ed infatti Alvaro ed il mozzo lo videro subito balzare come se avesse
il diavolo in corpo, contorcersi rabbiosamente ed avventare in tutte le
direzioni furiosi colpi di coda.

Rauchi sospiri uscivano dalla sua gola gorgogliante d’acqua e di
sangue, mentre i suoi brutti occhi, dal lampo giallastro, parevano che
dovessero uscirgli dalle orbite.

L’audace pescatore, nuotando fra due acque, era frattanto giunto
felicemente alla riva ed a fianco del compagno guardava, con visibile
soddisfazione, i salti disordinati del mostro già agonizzante,
aspettando che spirasse per impadronirsene.

— Garcia, amico mio, — disse il signor di Correa, — se noi avremo da
affrontare di quei selvaggi non so come potremo cavarcela. Gli uomini
che sfidano simili pericoli, devono avere del coraggio da vendere anche
a noi.

Hai mai veduto tu i nostri marinai dare la caccia ad uno squalo armati
di pugnale e sopratutto d’un pugnale di legno?

— Mai, signore, — rispose il mozzo.

— Se Pizzarro ed Almagro, fossero sbarcati qui invece che nel Perù, non
avrebbero così facilmente conquistate tante regioni.

Gli Inchi, in paragone di questi selvaggi, erano dei conigli se non
peggio. Ma che cosa fanno ora i due pescatori?

— Non so, guardano le sabbie, signore, — rispose il mozzo.

I due indiani infatti osservavano l’arena sottilissima che copriva
la spiaggia facendo di quando in quando dei gesti che dinotavano un
profondo stupore.

— Sai che cosa guardano, Garcia? — chiese Alvaro con accento inquieto.

— No, signore.

— Le nostre orme, ne sono certo.

— Allora verranno qui.

— Sì, se le seguiranno. Devono essere tuttavia ben imbarazzati non
avendo mai veduto delle tracce lasciate impresse da uno stivale.

Le crederanno di qualche animale straordinario. Eh! Guardano dalla
nostra parte e preparano gli archi.

— Signore, fuggiamo, — disse il mozzo.

— Possiamo abbatterli con una scarica.

— E le detonazioni? Potrebbero far accorrere altri selvaggi. È
impossibile che quegli uomini siano soli.

— Battiamocela, — concluse Alvaro.

I cespugli di passiflora entro cui si erano nascosti, permettevano di
sgattaiolare senza farsi scorgere.

Si caricarono dei due barilotti, assicurandoseli sulle spalle con delle
sagole e smuovendo con precauzione le fronde si cacciarono nel folto
della foresta.

Avevano percorsi una ventina di passi, quando udirono dietro di loro
dei rami a spezzarsi, poi un sibilo leggiero e videro una freccia
lunghissima piantarsi nel tronco d’un albero, all’altezza d’un uomo.

Alvaro si era subito voltato col fucile pronto e già imbracciato,
deciso a vendere ben cara la vita ed a far fuoco, checchè dovesse
succedere.

I due indiani erano comparsi improvvisamente fra le passiflore che i
due naufraghi avevano appena lasciate, coi loro immensi archi tesi e le
freccie incoccate.

Scorgendo quei due bianchi, che certo mai ne avevano veduti di simili
fino allora, un grido di stupore era sfuggito dalle loro labbra.

Certo si domandavano se quei due esseri appartenevano alla razza umana
o se erano bestie d’una specie sconosciuta.

   [Illustrazione: — _Caramba!_ — esclamò Alvaro, puntando
   rapidamente.... (CAP. VII).]

Nondimeno non osavano scoccare le loro frecce. Volgevano la punta ora
in alto ed ora in basso come se fossero indecisi sul punto da colpire.

Ad un tratto, presi forse da un superstizioso terrore o spaventati dal
luccichío delle canne dei moschetti, volsero improvvisamente le spalle
fuggendo con tale velocità che un cavallo non avrebbe potuto facilmente
raggiungerli.

— Stavo per far fuoco, — disse Alvaro. — È meglio che se ne siano
andati.

— Fuggiamo signore, — disse il mozzo. — Possono tornare in maggior
numero.

— Mi arrendo alle tue ragioni, Garcia. Alziamo i tacchi e cerchiamo un
nascondiglio in questa foresta. —

Volsero le spalle alla spiaggia e si misero a correre, cacciandosi
sempre più nella boscaglia la quale diventava di momento in momento più
fitta.



CAPITOLO V.

Nelle foreste brasiliane.


La loro corsa non durò più di un quarto d’ora, poichè ben presto si
videro costretti a rallentarla in causa delle innumerevoli difficoltà
che presentava quella foresta, diventata da un momento all’altro un
vero caos di cespugli, di tronchi, di liane e di radici smisurate.

Era la vera foresta vergine, che in quell’epoca copriva la maggior
parte del Brasile, stendendosi quasi senza interruzione fra le rive
dell’Atlantico e la gigantesca catena delle Cordigliere.

Graziose _bactris_, superbe massimiliane regie, gigantesche palme
maurizie dalle larghe foglie disposte a ventaglio, le foltissime
_curgia_ che s’incurvano verso terra e che sono quasi prive di fusto
e spinosi _javary_ s’intrecciavano in tutti i sensi colle _passiflore
maraniga_, colle liane _sipò_ color giallastro che formano delle
sottilissime reti entro le quali gli stessi indiani si trovano
imbarazzati a uscirne e alle _carica papaia_, specie di piante da
zucche che producono certi cucurbitacei grossissimi quantunque di
sapore poco delicato.

Alvaro ed il mozzo, imbarazzatissimi, si erano arrestati, cercando il
modo di forzare quella vera parete di verzura, che pareva non offrisse
passaggi.

— Sarà un po’ difficile a cacciarsi lì dentro, — disse Alvaro. — Non ho
mai veduto una simile boscaglia.

— Eppure siamo ancora troppo vicini alla costa per fermarci qui, —
disse il mozzo. — Facciamo come le scimmie, signore, se non vi spiace.

Così almeno non lascieremo tracce visibili se gl’indiani vorranno
inseguirci.

— Il tuo consiglio è buono, ragazzo. Imitiamo dunque i
quadrumani. —

Vedendo che a terra non potevano sperare d’avanzarsi, s’aggrapparono
ai festoni delle liane e cominciarono bravamente la loro marcia aerea
quantunque non poco imbarazzati dalle munizioni e dalle armi.

Passando fra un ramo e l’altro e scivolando fra le innumerevoli maglie
delle liane, avevano guadagnato un centinaio di metri, quando un
improvviso baccano li arrestò.

Delle urla orribili e acutissime si erano improvvisamente alzate in
mezzo alla foresta, rompendo bruscamente il silenzio che vi regnava
poco prima.

Pareva che si scannassero delle persone o che si sottoponessero a delle
torture atroci, giacchè quegli esseri mandavano tali lamenti da far
rabbrividire.

— Signore! — esclamò il mozzo che si era fermato a cavalcioni d’un
ramo. — Si massacra qualcuno!

— Qualcuno! Mi pare che si sgozzino o che si martirizzino parecchie
persone.

— Che vi sia qualche tribù di indiani in questa foresta?

— È quello che sospetto, Garcia.

— Occupati forse a torturare dei prigionieri prima di metterli sulla
graticola?

— Ma.... ora cantano quei prigionieri! — esclamò Alvaro che ascoltava
attentamente.

Le urla lamentevoli erano improvvisamente cessate e si udiva invece un
salmodiare strano come se in quella foresta si fossero radunati un paio
di dozzine di frati.

Alvaro guardò il mozzo.

— Cantano o m’inganno io?

— Si direbbe, signore, che gl’indiani stanno pregando.

— E questo rumore, che cos’è? —

Anche quei borbottamenti erano cessati e si udivano dei colpi sonori
come se una turba di spaccalegna fosse occupata a spezzare dei tronchi
d’albero, interrotti da certi gorgoglii che parevano prodotti da
torrenti.

— È impossibile che siano indiani gli autori di questi scherzi, — disse
Alvaro. — To’! Ora riprendono le urla lamentevoli ed i canti. Voglio
scoprire questi concertisti.

— Chi credete che siano?

— Non saprei, non degli uomini di certo. Andiamo a vedere. —

Convinti di non aver da fare con dei selvaggi, ripresero la loro marcia
aerea, mentre la foresta rintronava con un crescendo formidabile di
urla, di borbottamenti, di gorgoglii e di colpi sonori.

Gli autori di quello strano concerto non dovevano essere lontani.

Nondimeno i due naufraghi procedevano lentamente, con infinite
precauzioni, non sapendo ancora se gli esecutori di quello spaventevole
fracasso fossero indiani od animali.

Dopo aver percorso un duecento metri, si arrestarono.

Sulla cima di un albero enorme, che cresceva in mezzo ad una piccola
radura, si trovavano radunati i concertisti. Quella pianta era un
superbo _summameira_, uno dei più colossali che s’incontrano nelle
foreste brasiliane, dalla corteccia bianchissima ed i rami assai
nodosi, disposti simmetricamente ed il tronco sorretto alla base da
grosse radici, specie di sproni naturali che si elevano fino ad otto
ed anche a dieci piedi dal suolo formando una serie di scompartimenti
entro i quali possono trovare comodamente rifugio due e anche più
persone.

Uno scoppio di risa sfuggito ad Alvaro, aveva fatto cessare
improvvisamente quello strano concerto.

Gli esecutori, spaventati, avevano abbandonato il tronco del gigantesco
vegetale, rifugiandosi sui rami.

— Delle scimmie! — aveva esclamato il giovane. — Che gola hanno dunque
quei quadrumani per imitare così bene i frati o gli ebrei quando
cantano nelle loro sinagoghe? —

I concertisti erano veramente delle scimmie, delle _barbado_ chiamate
anche _guariba buio_, col pelame bruno e le mani, la testa e la coda
nerissime.

Scorgendo i due naufraghi, si erano affrettate a disperdersi fra
i rami della pianta, manifestando la loro collera con dei rauchi
borbottamenti, poi tutto d’un tratto si misero, dietro ad un vecchio
maschio, il direttore del coro con un’agilità sorprendente su una
pianta vicina, scomparendo rapidamente fra i festoni delle liane e le
fronde.

— Possono vantarsi di averci fatto passare un brutto quarto d’ora, —
disse Garcia, ridendo. — Bel modo di spaventare la gente che passeggia
nelle foreste.

Io avrei giurato che si martirizzavano dei prigionieri.

— Ed anch’io, Garcia, — rispose Alvaro. — Se saremo costretti a
fermarci molto tempo in queste foreste ne vedremo delle belle. To’!
Guarda come ha degli incavi quell’albero.

Prenderemo possesso di una di quelle celle per passare la notte,
giacchè il sole sta per tramontare.

— E la cena, signore? Quelle pere erano squisite però mi sento lo
stomaco vuoto.

— Cerchiamo delle frutta.

— Preferirei una bistecca, signore.

— Oh! Il ghiottone! Sei un po’ esigente, ragazzo.

— Ma sono certo che non la sdegnereste, signor Correa.

— Non oserei affermare il contrario; disgraziatamente le nostre
costolette devono essere ancora ben lontane e saremo costretti ad
accontentarci di qualche frutto.

— Ecco là una pianta che ci fornirà la cena. —

Si lasciò scendere, servendosi d’una liana. Aveva già toccato il suolo
quando Garcia lo vide balzare rapidamente indietro, facendo un gesto di
ribrezzo.

— Signor Alvaro! — gridò il mozzo. — Ah! l’orribile bestia!

— Qualche serpente!

— Lo si direbbe un rospo.... ma che rospo! —

Una schifosa bestia che saltellava fra le foglie secche era sfuggita
sotto i piedi del naufrago. Era uno di quei sapos de minas che sono
così abbondanti nelle foreste umide del Brasile, un rospo grosso quanto
un cappello, colla pelle a chiazze gialle e nere e colle appendici
cornute.

— Che bestiaccia! — esclamò Garcia, saltando da una parte. — Non ne ho
mai vista una più ributtante, signore.

— Ti credo, — rispose Alvaro, allungandole un calcio per farla fuggire
più presto.

— E quelle bestie che saltano come se avessero le molle sotto le gambe?
Non le vedete signore? Ah! Per bacco! Non si sono mai vedute delle rane
di questa specie.

— Delle rane!

— Ma, signor Alvaro!... Hip! Hep! Che salti! Come sono comiche! —

Una banda di rane tutte nere, che avevano le gambe posteriori
lunghissime, aveva invasa la radura spiccando dei salti altissimi.

Erano delle _parraneca_, che si divertivano a gareggiare fra di loro,
innalzandosi fino ai rami della _summameira_.

Sono così agili e svelte che riescono sovente ad introdursi perfino
nelle case, entrando per le finestre.

La truppa, sempre saltando disordinatamente, attraversò la radura e
scomparve nel folto della boscaglia.

— Ci deve essere qualche palude o qualche laguna qui presso, —
disse Alvaro. — Domani andremo a cercarla e tenteremo di procurarci
del pesce. Ho portato con me degli ami e non sono un cattivo
pescatore. —

Si diressero verso la pianta che avevano già adocchiata, i cui rami si
piegavano sotto il peso di certe frutta che somigliavano a pigne, color
verde.

Non avevano scelto male. Avevano messo le mani su un _pinha_, pianta
preziosissima e tenuta in molta considerazione anche dagl’indiani
essendo le sue frutta squisitissime, anzi le migliori che si raccolgano
nei climi equatoriali.

Le pigne che produce in grande quantità, contengono infatti nelle loro
squame interne una specie di crema biancastra, delicatissima e che non
ha nulla da invidiare a quella dei _durion_ della Malesia.

I due naufraghi in mancanza d’un cibo più solido ne fecero una
scorpacciata, poi si rannicchiarono in una cella del _summameira_
che poteva contenerli comodamente, ed anche ripararli benissimo
dall’umidità della notte.

Il sole era tramontato e le tenebre calavano rapidamente, oscurando
la foresta già poco chiara anche in pieno giorno, in causa della
impenetrabile vôlta di verzura che la copriva.

Mille strani rumori, che facevano sobbalzare il mozzo e trepidare anche
Alvaro, cominciavano a udirsi sotto il cupo fogliame ed in mezzo ai
foltissimi cespugli che formavano come una seconda foresta sotto le
piante d’alto fusto.

Ora erano dei fischi acutissimi, interminabili, che parevano lanciati
da fischietti e che rompevano improvvisamente il maestoso silenzio che
regnava nella immensa foresta, come se centinaia di mastri di marina
comandassero delle manovre; ora invece erano dei muggiti formidabili
come se delle mandrie di buoi pascolassero sotto gli alberi; talvolta
invece erano lunghi gemiti che diventavano strazianti oppure tocchi di
campana o tintinnare di ferri.

Ad un tratto a tutti quei clamori misteriosi succedeva un breve
silenzio, poi i fischi ricominciavano, i sibili si ripetevano ed in
lontananza si udivano nuovi muggiti ed un assordante gracidare di rane
e di rospi.

Alvaro ed il mozzo, assai inquieti, non sapendo a chi attribuire tutto
quel frastuono, se ad animali pericolosi od a semplici esseri affatto
inoffensivi, non osavano chiudere gli occhi, quantunque si sentissero
stanchissimi.

Avevano udito a parlare vagamente di belve ferocissime che vivevano
nelle foreste americane, di giaguari e di coguari, e temendo di venire
da un istante all’altro assaliti da quei carnivori, si tenevano stretti
l’un l’altro, tenendo gli archibugi puntati per essere più pronti a far
fuoco.

Di quando in quando infiniti punti luminosi, che proiettavano dei lampi
d’uno straordinario splendore, piombavano sulla radura volteggiando
capricciosamente ora fra le alte erbe ed ora in mezzo alle fronde degli
alberi.

Erano battaglioni di _cucujos_ o meglio di _moscas de luz_, splendidi
insetti somiglianti alle nostre lucciole, assai più grandi e che
tramandano una luce vivissima dagli ultimi anelli addominali.

Lo sprazzo luminoso è così intenso, che con uno di quegli insetti si
può leggere comodamente e anche illuminare una piccola stanza, anzi
gl’indiani se ne servono ancora oggidì, per pescare, legandone alcuni
ad un bastone che fissano, alla sera, sulle prore delle loro piroghe.

Erano già trascorse due ore da che i naufraghi si trovavano
accovacciati entro il cavo dell’albero, quando udirono a breve distanza
un rumore strano che pareva prodotto dal sollevarsi e dal rompersi di
un’ondata, seguito subito da sibili acutissimi.

Il mozzo che già da qualche po’ si sentiva tremare le gambe, guardò il
signor di Correa, chiedendogli:

— È qualche grosso animale questo, signore?...

— Non te lo saprei dire giacchè io non riesco a scorgere nulla al di là
della punta del mio naso, — rispose Alvaro. — Quello che potrei dirti
è che comincio ad averne fino sopra i capelli delle foreste brasiliane
e che vorrei conoscere un po’ da vicino questi animali che fischiano,
che battono l’incudine, che suonano le campane e che rompono il sonno a
tutti.

Io mi domando come gli abitanti di queste regioni possono dormire con
tutto questo fracasso.

— Udite signore questo sibilo?

— Sì, Garcia. Che ci sia qualche gigantesco serpente qui presso?

— Io ho paura di quegli orribili rettili. Preferirei affrontare una
bestia feroce, signor Alvaro.

— Dovremo abituarci alla loro vista, mio povero ragazzo. Il pilota mi
ha narrato che nelle selve americane se ne trovano in gran numero e di
quelli mostruosi.

— Quando finirà questa notte? Mi pare interminabile.

— Chiudi gli occhi e cerca di dormire, — disse Alvaro. — Veglierò
io. —

Dormire? Non vi era da pensarvi! Il mozzo aveva appena abbassate le
palpebre che un’orchestra infernale fece rintronare l’immensa foresta
da una estremità all’altra.

Migliaia e migliaia di rane, come se avessero atteso un segnale, si
erano messe a gracidare formando una cacofonia spaventevole che avrebbe
svegliato anche un morto.

I batraci, come abbiamo detto, infestano a milioni e milioni le foreste
umide e alla notte gareggiano con zelo invidiabile. Ve ne sono varie
specie e non tutte si accontentano di gracidare. Vi sono batraci
che muggiscono come buoi, rospi che abbaiano come cani, ranocchi che
sembra si gargarizzino, altri che martellano come se avessero a loro
disposizione migliaia di caldaie da accomodare e altri ancora che
vivono sugli alberi, che fischiano come locomotive o che stridono come
ruote malamente ingrassate.

Immaginarsi che baccano! I timpani meglio conformati non possono
resistere.

— Signore! — esclamò il mozzo spaventato. — Che cosa succede? La fine
del mondo?

— Non spaventarti, sono rospi, — rispose Alvaro.

— Si direbbe che vi sono fra loro cani, bufali, calderai e ubbriachi
che cantano.

— Ci abitueremo anche noi a questi concerti, se vorremo dormire.

— Spero che non rimarremo a lungo in questo paese e che cercheremo un
mezzo qualunque per andarcene.

— Era quello che mi chiedevo poco fa, — rispose Alvaro.

— Dove andremo noi e quando potremo andarcene? Suppongo che non avrete
il desiderio di finire la vostra vita fra queste foreste.

— Anzi, nemmeno di terminare la mia esistenza su una graticola con un
contorno di banani e di pere cotte.

— Non vi sono stabilimenti di Europei su queste coste?

— Nemmeno uno, Garcia. Finora nessuno ha pensato a occupare il Brasile,
quantunque appartenga a noi dopo che il nostro compatriota Cabral ne ha
preso, pel primo, il possesso.

— Ho udito però raccontare che gli spagnuoli si sono impadroniti di
territorii immensi.

— È vero, Garcia, però sono molto lontani da noi i posti spagnuoli
e dovremmo attraversare quasi tutta l’America meridionale prima di
giungere al Perù.

— Un viaggio immenso?

— Di migliaia e migliaia di miglia attraverso foreste vergini abitate
da tribù di antropofagi e da belve d’ogni specie.

Non mi sentirei l’animo abbastanza forte per tentare un simile viaggio.

Ho udito a parlare invece di alcuni stabilimenti francesi che devono
trovarsi al sud del Brasile, presso la foce d’un fiume immenso che si
chiama la Plata.

Si potrebbe tentare di raggiungerli.

— Saranno pure lontani.

— So che quel fiume si trova al sud, non saprei dirti a quale distanza
da noi, — disse Alvaro.

— Ah! Signore! Credo che noi non usciremo più mai da queste selve e che
non vedremo più mai nè il nostro Tago nè il viso d’un uomo bianco, —
disse il mozzo sospirando.

— Non dispero. So che delle navi armate da negozianti dell’Havre, sono
più volte giunte sulle spiaggie del Brasile a caricare un certo legno
chiamato verzino da cui si trae una tintura bellissima, rossa come la
lacca.

Chi sa che non possiamo vederne qualcuna a giungere nella baia.

— Allora, signore, non allontaniamoci da queste coste.

— Anzi non le perderemo di vista e faremo delle frequenti escursioni al
sud ed al nord di quel magnifico porto.

Ecco che i batraci cominciano a mostrarsi stanchi. Approfittiamo per
gustare un po’ di riposo.

— E se qualche fiera approfittasse del nostro sonno per assalirci?

— Finora io non ho veduto altro che rane ed uccelli. E poi forse i
pochi naviganti che sono approdati su queste coste, hanno esagerata la
ferocia delle belve americane.

Teniamo il fucile fra le ginocchia e gli spadoni a fianco e
dormiamo. —

Si rannicchiarono nel cavo della _summameira_, l’uno presso l’altro e
non tardarono ad addormentarsi, malgrado le loro apprensioni.

I batraci dopo essersi sfiatati per un paio d’ore, a poco a poco
zittivano. Si udiva ancora che qualche salva di fischi o di muggiti,
poi la foresta tornava silenziosa.

Al mattino i due naufraghi, che avevano dormito tranquillamente tre
o quattro ore, furono svegliati da un altro concerto, meno assordante
però, che si eseguiva fra i rami del gigantesco albero.

Era una banda di _mahitaco_, piccoli pappagalli dalla testa turchina e
le penne verdi, incorreggibili chiacchieroni che gridano a piena gola
per delle intiere ore, senza mai un istante di tregua.

— In piedi, Garcia, — disse Alvaro stiracchiandosi le membra. — Il sole
è già alto e la colazione forse ancora lontana mentre l’appetito è in
aumento.

Non dimentichiamo che il cuoco della caravella si trova nel ventricolo
dei selvaggi.

— Dove andremo a cercarla, signore? — chiese il mozzo.

— Ci deve essere qualche stagno o qualche palude in questi dintorni, —
rispose Alvaro. — Andiamo a esplorare verso il luogo ove le rane ed i
rospi cantavano.

In mancanza di selvaggina ci accontenteremo di un buon arrosto di
pesci. —

Raccolsero e divorarono alcune _pinha_, cambiarono la carica agli
archibugi per tema che l’umidità della notte avesse guastata la polvere
e appesisi i due barilotti si cacciarono in mezzo agli alberi.

In quel luogo la foresta non era più folta come nel tratto che avevano
percorso il giorno precedente, essendo formata d’alberi d’alto fusto
e di grossezza enorme che non potevano crescere gli uni accanto agli
altri.

Erano palme gigantesche, alte più di sessanta metri, appartenenti a
quella specie detta della cera perchè dal tronco e anche dalle foglie
si estrae una materia grassa che serve benissimo alla fabbricazione
delle candele.

Se ne trovano in gran numero nelle foreste brasiliane e anche sulle
sierre dell’interno, potendo crescere fino ad un’altitudine di tremila
metri, quindi anche sulla grande catena delle Cordigliere.

A quell’epoca gl’indiani non utilizzavano che le sue frutta, o meglio
il germoglio, che è un cibo abbondante e sano, con un gusto delizioso
che rammenta quello del carciofo e anche dello sparago e che essi
trituravano e torrefacevano mescolandolo col latte estratto dal _pao de
vaca_.

Oggi invece forma la ricchezza delle tribù che posseggono i terreni su
cui quelle piante preziose crescono, estraendosi molte cose di somma
utilità da quei superbi vegetali. Si può anzi dire che tronco, foglie,
radici, tutto serve ed è utile.

Nella sola provincia di Ceara, i fazenderi che hanno piantagioni di
palme andicole, ricavano ogni anno non meno di novantamila _arrobas_ di
cera, ossia un milione e trecento ventidue chilogrammi, raccogliendola
parte sulle foglie e parte nel tronco.

E non è il solo prodotto, come abbiamo detto. Si impiegano le foglie,
che si prestano per un infinito genere di lavori, per fabbricare
panieri, ceste, stuoie solidissime, cappelli, cordami e perfino delle
stoffe grossolane e bruciandole ottengono anche un sale che è adoperato
nella fabbricazione dei saponi.

E perfino dalle radici si ottiene un medicinale impiegato con buon
successo nella guarigione delle malattie cutanee.

Alvaro ed il mozzo che non sospettavano nemmeno lontanamente la
preziosità di quelle piante, solo occupati a cercarsi la colazione che
sembrava molto lontana ancora, procedendo rapidamente giunsero ben
presto su un terreno assai umido che cedeva facilmente sotto i loro
piedi.

Canne smisurate cominciavano a prendere il posto delle palme, a ciuffi
enormi, mescolate ad ammassi di _cipò chumbo_, specie di convolvulacee
di color giallo e di _cumarù_ dai fiori porporini e nelle cui bacche
si trova chiusa la così detta _fava tonka_, usata dagl’indiani per
profumare il tabacco.

Un numero infinito di uccelli garriva fra quei vegetali; ed in mezzo ai
ceppi delle convolvulacee svolazzavano miriadi di quei vaghi uccellini
chiamati _beja flores_, i famosi uccelli mosca o colibrì, colle penne
superbe che riflettevano tutti i colori dell’arco baleno: verdi,
turchine, porporine e gialle a riflessi d’oro.

— Ci sarebbe da fare una frittata deliziosa, — disse il mozzo che
osservava con vivo interesse quei minuscoli volatili che scomparivano
interamente entro calici purpurei delle _cumarù_. — Come sono belli,
signor Alvaro! Sembrano incrostati di perle preziose.

— Ammirabili davvero ma non valgono un buon pappagallo, — rispose il
signor di Correa.

— Non ne mancano qui. Guardate su quell’albero quanti ve ne sono.

— E vedo anche delle bestiaccie che fanno ribrezzo, fuggire attraverso
i rami. Ah! Perdinci, come sono brutte! Che cosa saranno mai? —

Quelle che chiamava bestiaccie, erano dei lagarti, orribili lucertoloni
lunghi un buon metro, di color verde cupo, ma la cui pelle cambia
sovente di tinta quando sono specialmente irritati, al pari dei
camaleonti africani e che si tengono per lo più sugli alberi.

Sono velenosi, non però come le serpi e nondimeno la loro carne è
mangiabile, anzi è ricercatissima essendo bianca e gustosa come quella
dei polli e le coscie dei ranocchi.

Però anche se Alvaro l’avesse saputo, non avrebbe certamente avuto
il coraggio di regalarsi per colazione una di quelle bestiacce, anzi
temendo che fossero pericolose s’affrettò ad allontanarsi, facendo un
gesto di disgusto.

La palude o lo stagno dovevano essere vicinissimi. Il terreno era
saturo d’acqua e le canne aumentavano di passo in passo, mentre gli
alberi diventano sempre più radi.

— Ecco laggiù l’acqua, — disse il mozzo che precedeva Alvaro. — Si
direbbe che noi stiamo per giungere sulle rive d’un lago. —

Affrettarono il passo e si arrestarono dinanzi ad una vasta palude
ingombra di piante palustri e di foglie immense che parevano piccole
zattere, sulle quali passeggiavano gravemente numerosi trampolieri.

Più che una palude, doveva essere qualche savana sommersa, dal fondo
forse pericolosissimo, senza consistenza veruna.

Aveva un circuito di parecchie miglia ed a malapena si potevano
scorgere le piante che crescevano sulla riva opposta.

Qua e là si vedevano dei minuscoli isolotti coperti da palme e abitati
da un numero infinito di uccelli, di _tui_ di _japì_ e di _choradeira_
che lanciavano le loro grida lamentevoli piene d’infinita tristezza.

— Che acque nere, — disse il mozzo. — Si direbbe che vi hanno versato
dentro delle centinaia di botti d’inchiostro.

Che vi possano vivere qui i pesci? —

Alvaro non rispose. Guardava con inquietudine un minuscolo isolotto
coperto di canne che scivolava a fior d’acqua come se qualcuno lo
spingesse e che stava eseguendo delle strane evoluzioni.

— Un isolotto galleggiante che cammina, — disse, additandolo al mozzo.
— Eppure l’acqua è immobile e non soffia un alito d’aria.

— È vero, signore, — rispose il mozzo, — L’ho osservato anch’io.

— Che cosa possa essere?

— Che sia qualche indiano, signore?

— Sì, con una coda che potrebbe fracassarti le gambe, — disse Alvaro. —
È un altro brutto bestione.

— Una bestia?...

— Un caimano od un alligatore,

— Con tutte quelle piante sul dorso?

— So che quei rettili di quando in quando si seppelliscono nel fango e
che vi rimangono parecchio tempo in una specie di torpore profondissimo
sicchè la piante che coprono il fondo delle paludi crescono anche fra
le scaglie di quegli anfibi.

— Sono pericolosi?

— Talvolta, ma non dobbiamo spaventarci, Garcia. Eppoi non vedi che
gira al largo senza fare attenzione a noi?

Ah! I begli uccelli! Se provassi a fare un buon colpo?

— E la detonazione?

— Non abbiamo veduto finora altri indiani, quindi possiamo
provare. —

Una nuvola di tucani con becco quanto come l’intero corpo, passava a
cinquanta passi dai naufraghi.

Alvaro che aveva già al mattino caricato il fucile a pallottoni, mirò
in mezzo al gruppo e fece fuoco.

Cinque o sei volatili caddero morti o feriti sopra un isolotto che si
trovava a pochi passi dalla riva.

Il mozzo si era slanciato risolutamente in acqua, avendo osservato che
il fondo si trovava solamente a qualche metro.

Ci teneva troppo all’arrosto per lasciarselo sfuggire.

Si era appena immerso e aveva percorsi una diecina di metri, quando un
grido gli sfuggì, un grido che fece gelare il sangue ad Alvaro.

— Signore, aiuto! —



CAPITOLO VI.

Il giboia delle paludi.


Le savane dell’America meridionale sono pericolosissime e lo sanno bene
gl’indiani i quali prima di attraversarle si assicurano prudentemente
della natura del fondo per non farsi inghiottire.

Un fango molle, costituito da sabbie mobili, che cedono facilmente
sotto il peso d’un uomo o d’un animale qualsiasi che abbia la disgrazia
di cadere entro quelle paludi, forma il fondo. E non si creda già che
abbia uno spessore di qualche metro, anzi certe savane si può dire che
non abbiano un vero strato solido che possa arrestare gli esseri che
posano incautamente i piedi su quella fanghiglia.

Sono veri baratri spaventosi, che tutto inghiottono e che più non
rendono, nemmeno gli scheletri che rimangono sepolti in quel fango fino
alla loro totale consumazione.

Il mozzo, che non aveva mai udito a parlare nè di sabbie nè di
savane, era caduto su uno di quegli strati cedevoli, e si era sentito
sprofondare d’un colpo solo fino alle ginocchia.

Alvaro credendo che fosse stato assalito da qualche caimano, stava per
slanciarsi a sua volta nella palude, quando il mozzo lo trattenne con
un secondo grido.

— No... no... signore... sprofonderete anche voi!...

Alvaro aveva subito compreso il pericolo, sentendo il fondo sfuggirgli
sotto i piedi. Non voleva però lasciare il mozzo il quale continuava a
sprofondare a vista d’occhio.

Il disgraziato nel dibattersi disperatamente, anzichè ritardare
l’inghiottimento lo affrettava.

— Non muoverti Garcia, — gridò.

Teneva annodata attorno ai fianchi una di quelle lunghe e solide fascie
di lana rossa che usano i marinai. La svolse rapidamente, salì sul
punto più alto della riva e gettò un capo verso il povero ragazzo che
si era nel frattempo immerso fino al petto gridandogli:

— Afferra e tieni stretto! —

La estremità della fascia lanciata da una mano sicura era caduta
sulle spalle di Garcia, essendo sufficientemente lunga. Serrarsi quel
capo attorno al corpo e annodarlo solidamente, fu un momento solo pel
ragazzo che non aveva perduta la testa.

— Lasciati trascinare! — disse Alvaro.

Afferrò la fascia e operò una energica trazione, strappando il giovane
marinaio da quell’orribile tomba che stava per rinchiudersi sopra di
lui.

Il mozzo non osava dibattersi nè aiutarsi per paura che le sabbie
tornassero ad aprirsi sotto i suoi piedi. Già stava per toccare la riva
quando un turbine d’acqua e di fango si sollevò dal fondo, coprendolo e
acciecandolo, seguito subito da un sibilo acutissimo.

— Signor Alvaro! — gridò, riparandosi gli occhi. — Il terremoto! —

Altro che terremoto! Un serpente enorme, un _giboia_ o boa constrictor,
di lunghezza smisurata, grosso quanto il corpo d’un ragazzo di dieci
anni, era improvvisamente sorto fra le canne e le piante acquatiche,
sollevando colla possente coda un uragano di fango e di acqua.

Era uno dei più spaventevoli rettili che vivono nelle savane
brasiliane, quantunque uno dei meno pericolosi non essendo velenoso
come i crotali o come i cobra capelo.

Interrotto dal suo sonno dal mozzo che rimuoveva il fondo, si era
raddrizzato di colpo, sibilando rabbiosamente e dardeggiando sui due
naufraghi uno sguardo ardente e affascinante.

Il signor di Correa, senza perdersi d’animo, con un’ultima strappata
tirò alla riva Garcia, poi afferrò l’archibugio.

Il rettile, che doveva essere non solo irritato, ma anche affamato,
si era diretto verso i due naufraghi percuotendo furiosamente le acque
colla coda, come se fosse deciso ad assalirli.

— Fuoco, signor Alvaro! — gridò il mozzo, slanciandosi verso il suo
fucile. — Ci divorerà tutti due. —

Alvaro mirò qualche istante, poi lasciò partire il colpo.

Il rettile, colpito un po’ sotto la gola da quella scarica di
pallottoni, si contorse impetuosamente soffiando orrendamente e
vomitando ad un tempo bava e sangue e agitò furiosamente la coda
lanciando a destra ed a sinistra spruzzi di fango liquido, poi con
uno sforzo supremo si slanciò sulla riva cadendo a pochi passi dal
portoghese.

— Il tuo archibugio, Garcia! — gridò il giovane.

Il mozzo che l’aveva già armato, glielo porse prontamente.

Il serpente che si era aggomitolato su se stesso, stava per cacciare
la sua coda fra le gambe del portoghese onde rovesciarlo e quindi
avvolgerlo fra le sue potenti spire.

Alvaro però si era accorto a tempo del pericolo. Con un salto si gettò
da una parte, poi puntato rapidamente l’archibugio glielo scaricò a
brucia pelo fra le fauci spalancate fracassandogli la testa.

Quella seconda ferita era mortale.

Il boa nondimeno per la seconda volta si rizzò, toccando col cranio
mutilato la cima d’una palma che cresceva a breve distanza, poi ricadde
come un pacco di stracci bagnati e rimase immobile.

   [Illustrazione: I _pecari_ giunsero in un lampo addosso
   all’albero che presto circondarono. (CAP. IX).]

— Perdinci! — esclamò Alvaro che era diventato pallidissimo. — Credevo
proprio che questo serpente ci stritolasse come due biscotti. Non avevo
mai creduto che potessero esistere sulla terra dei rettili d’una mole
così enorme!... sì spaventevole! —

Quel boa, che è realmente uno dei più enormi che vivono nelle savane
brasiliane, misurava non meno di dodici metri di lunghezza ed era
grosso quanto il corpo d’un uomo di media statura.

Il secondo colpo di fucile lo aveva quasi decapitato, mentre il primo
gli aveva prodotto una ferita orribile dalla quale usciva il sangue in
gran copia.

— È enorme! — esclamò il mozzo, che tremava ancora pel doppio pericolo
che lo aveva minacciato.

— Questi rettili devono inghiottire un uomo senza soffrire nella
digestione. Che fosse quello che la notte scorsa sibilava e che
sollevava delle ondate?

— Non ne dubito, — rispose Alvaro. — Ecco due buoni colpi di fucile ma
che non ci compenseranno della colazione perduta.

— Non oserò più andarla a raccogliere, signore, — rispose il mozzo, che
rabbrividiva ancora. — Non so quale fondo abbia questa palude.

— Cercheremo d’altro, Garcia, — rispose Alvaro. — Toh! dimenticavamo
che noi eravamo venuti qui per pescare.

— Ah! Signore!

— Cos’hai?

— Non l’avete ancora veduto?

— Chi?

— Ma sì, non m’inganno! È un canotto, signore!

— Dove lo vedi?

— Laggiù, abbandonato sulla riva, in mezzo a quel gruppo di piante
acquatiche.

— Che i dintorni di questa palude siano frequentati dagli indiani? —
si chiese Alvaro, lanciando uno sguardo sospettoso verso le canne e la
foresta. — Se vi è una imbarcazione, ciò vuol dire che qualche volta
vengono qui a pescare.

Che cosa dici, Garcia?

— Che il vostro ragionamento non fa una grinza, signore, — rispose il
mozzo — e che noi dovremmo approfittare di quel canotto per andare a
raccogliere gli uccelli che voi avete uccisi.

— E arrostirli, è vero Garcia?

— E su uno di quegli isolotti per non farci sorprendere dagl’indiani.

— Al canotto, — disse Alvaro, a cui sorrideva l’idea di attraversare
quella palude per allontanarsi maggiormente dalle sponde meridionali
della baia che ormai sapeva frequentate dai mangiatori di carne umana.

Attraversarono cautamente la distanza che li separava da quell’ammasso
di piante palustri, guardandosi intorno per paura che vi fossero dei
selvaggi nascosti fra le macchie, e giunsero presso il canotto il quale
si trovava arenato all’estremità di un banco di fango.

Era una piccola imbarcazione scavata nel tronco d’un albero spugnoso,
assai vecchia e tarlata, e pressochè inservibile. Infatti vi era un
buon piede d’acqua nel fondo.

— Credi che potremo ripararla? — chiese Alvaro al mozzo.

— È in cattivo stato, signore; ci occorrebbe del canape e della resina.
Mi pare che il fondo sia come un crivello.

— Nella foresta troveremo l’uno e l’altra, — disse Alvaro. — Ho veduto
delle piante che avevano attorno ai tronchi dei filamenti che potranno
bene o male surrogare il canape.

— Ci vorrà però del tempo prima di renderla navigabile.

— La pazienza non ci fa difetto.

— E la nostra famosa colazione, signore? — chiese il mozzo ridendo.

— Ci accontenteremo anche oggi di frutta o farò una nuova scarica
contro qualche stormo di pappagalli.

Ritorniamo nella foresta, Garcia. —

Stavano per lasciare la riva quando a breve distanza udirono risuonare
per l’aria un lamento che si ripetè parecchie volte di seguito:

— A... ih!... A... ih!...

— Chi è che si lagna? — chiese Alvaro, guardandosi intorno.

— Non vedo nessuno signore, — rispose il mozzo.

— Che sia qualche scimmia che si diverte a spaventarci? Non mi
stupirei. Hanno delle grida così strane i quadrumani che abitano queste
foreste! —

Un altro grido più lamentevole, più lugubre si udì e questa volta non
pareva che risuonasse verso il suolo bensì in aria.

Alvaro ed il mozzo alzarono gli occhi e scorsero fra i rami d’un
nespolo che cresceva isolato, e già privo delle sue frutta che sono
grosse come le mele e assai gustose, una massa informe di peli lunghi
e grigiastri che si teneva aggomitolata all’estremità d’un ramo,
lasciando pendere una coda lunga più di mezzo metro.

— Ecco le costolette! — esclamò Alvaro. — A qualunque specie
appartenga, quell’animale non lo lascierò sfuggire e lo metteremo sui
carboni.

Badiamo che non ci sfugga, Garcia.

— Mi pare che non ne abbia il desiderio signore. —

Si accostarono alla pianta tenendo gli archibugi puntati su quello
strano animale il quale continuava a lamentarsi con degli _a-ih!_
sempre più lugubri.

Vedendo avvicinarsi i cacciatori non faceva alcun tentativo per
evitarli. Si manteneva ostinatamente aggrappato al ramo, muovendo
appena appena e quasi a fatica, la coda.

— Che abbia le zampe rotte? — chiese il mozzo. — Una scimmia non
rimarrebbe lì ad aspettare i nemici, anzi.

— È poi una scimmia? — disse Alvaro.

— Sia una scimmia o no, quell’animale si lascierà ammazzare colla
miglior buona grazia. Sarà forse contento di offrire a due uomini
affamati le sue bistecche. —

Erano giunti sotto la pianta che era pochissimo alta, e quello strano
essere non aveva fatto ancora alcuna mossa per rifugiarsi almeno sui
rami superiori.

Assai sorpreso Alvaro si era messo a osservarlo curiosamente, credendo
che qualche grave ferita gl’impedisse di fuggire.

Sembrava una scimmia, ma aveva anche molto del tasso ed un po’ anche
del gatto.

Non era più alto di mezzo metro, colle membra sproporzionate, la
testa rotonda traforata da due occhietti neri e malinconici ed il
corpo avvolto in un pelame fitto, lungo, grigiastro e assai ruvido. I
suoi piedi erano armati di tre sole unghie, larghe e ricurve al pari
d’uncini e così anche le dita delle mani.

— Non ha alcuna ferita e non fugge! — esclamò Alvaro. — Proviamo a
farlo cadere. —

Afferrò il tronco del nespolo che non era più grosso del braccio
d’un uomo e lo scosse vigorosamente. Fatica inutile! Il quadrumane
non voleva saperne di lasciare quel ramo a cui pareva incollato e
manifestava solamente la sua collera con degli _a-ih!_ sempre più
lamentevoli.

— Non vuole scendere, signore, — disse il mozzo.

— Andrò a gettarlo giù io, — rispose Alvaro. — Deve essere un gran
poltrone questo quadrumane.

— Badate che ha delle unghie assai lunghe.

— Non s’incomoderà ad adoperarle.

Salì lestamente sull’albero e si spinse sul ramo tenendo in pugno la
scure. Il quadrumane vedendolo accostarsi si mise a soffiare come un
gatto in collera e ad arruffare i peli senza però staccare gli artigli.

Alvaro che sentiva l’odore delle costolette con un colpo della sua
piccola scure gli spaccò il cranio e lo gettò al suolo, dicendo:

— Pigraccio, va!

Pigraccio! era il suo vero nome poichè quel quadrumane è il più grande
poltrone che esista sulla terra.

Era un bradipo, meglio conosciuto dai brasiliani sotto il nome di _ay_,
così chiamato dagl’indiani pel suo grido. Sembra che quegli animali
formino l’ultimo anello delle vere scimmie coi tassi e anche coi
gatti, quantunque sia ben lungi dal possedere neanche in minima parte
l’agilità degli uni e degli altri.

Vivono per lo più fra i rami delle _palme ambuibe_ delle cui foglie
sono ghiotti e anche fra i mazzi di bambù della cui polpa si cibano, ma
quanta fatica costa a loro salire su quelle piante! Prima di issarsi
lassù, impiegano delle giornate, non muovendo le loro zampe e le loro
braccia che dopo un lungo riposo.

Raggiunti i rami d’un albero non li lasciano più finchè non hanno
divorata l’ultima foglia, poi, per risparmiarsi la fatica di
ridiscendere, quei pigroni si lasciano cadere al suolo da qualunque
altezza si trovino.

Anche a terra sono d’una lentezza incredibile e malgrado tutti i loro
sforzi, anche se tormentati, non riescono a percorrere più di quattro o
cinque metri all’ora.

Alvaro ed il mozzo, quantunque avessero desiderato qualche cosa
di meglio d’un quadrumane, s’affrettarono a scannare l’animale che
era ancora agonizzante malgrado quella spaventevole ferita, avendo
l’esistenza tenacissima, lo infilzarono nella bacchetta di ferro
d’uno degli archibugi che appoggiarono su due rami infissi nel suolo e
accesero il fuoco.

— Mentre sorvegli l’arrosto, io andrò a far provvista di frutta ed
a cercare del canape o qualche cosa che possa surrogarlo, — disse il
signor di Correa. — Non avrai paura a rimanere solo!

— Oh no, signore, — rispose il mozzo. — Il mio archibugio è
carico. —

Alvaro s’allontanò dirigendosi verso la foresta il cui margine si
trovava a più di cinquecento passi.

Dei bellissimi alberi che crescevano a gruppi, e che prima di allora il
portoghese non aveva mai veduti, ingombravano il suolo che si estendeva
fra le rive della palude e la foresta vergine. Erano di forme eleganti,
non più alti di sei o sette metri, col fogliame d’un bel verde cupo e
carichi di frutta gialle, grosse e lucenti come zucche e che per una
strana particolarità invece di pendere dai rami uscivano dai tronchi
delle piante.

Erano delle _jabuti cabeira_, comunissime nelle foreste brasiliane e
assai apprezzate per le loro frutta le quali, attorno ad un nocciuolo
grossissimo, hanno una polpa carnosa, delicata e assai saporita.

Il portoghese avendone assaggiate alcune che erano cadute al suolo e
avendole trovate eccellenti, ne fece una buona raccolta, poi proseguì
la via facendo fuggire immensi stormi di _tico-tico_, specie di
passere che non sono meno ciarliere delle nostre e di _azulae_ dalle
belle penne azzurre. Attraverso le foglie secche, ancora imperlate
della rugiada notturna, Alvaro vedeva ancora saltellare quelle brutte
_parraneca_, dalle lunghe gambe, che la sera prima avevano invaso la
radura della _summameira_ e anche, non senza un profondo ribbrezzo,
certe serpi color verde, sottili come liane e appunto perciò chiamate
dai brasiliani _cobra cipo_ ossia serpi liane, che è facile confonderle
fra il caos di vegetali che ingombrano le foreste vergini.

Aveva già raggiunto l’orlo della foresta sempre cercando qualche pianta
che gli potesse dare qualche materia fibrosa da surrogare il canape
necessario alla riparazione del canotto, quando la sua attenzione fu
attirata da un crepitìo incessante come se delle palle o delle zucche
cadessero al suolo spaccandosi.

— Che vi siano degl’indiani qui? — si chiese, appiattandosi dietro un
cespuglio.

Guardò attentamente verso il luogo ove si udivano quei crepitìi e vide
cadere da un albero colossale che si ergeva venti passi più innanzi,
delle frutta enormi che nello spaccarsi lanciavano intorno certe specie
di mandorle.

— Chi può farle cadere? — si domandò. — Vengono lanciate con troppa
forza e non piombano verticalmente. —

Alzò gli occhi verso quel colosso e scorse fra le fronde delle
bruttissime scimmie che staccavano destramente le frutta e che le
lanciavano a terra a tutta forza onde si spaccassero.

Era una truppa di brachieri calvi, i più brutti quadrumani che forse
esistono, colla testa completamente calva, il muso rosso come quello
degli ubbriaconi impenitenti e raggrinzato, che dava loro un aspetto
decrepito ed il pelame lunghissimo giallo rossastro.

Gettata al suolo una grande quantità di frutta, le scimmie scesero
lestamente e sedutesi attorno all’albero si misero a divorare
avidamente le mandorle che erano balzate fuori da quelle noci enormi.

Un movimento del portoghese le avvertì della presenza d’un nemico.
Raccolsero frettolosamente le frutta e fuggirono come frecce,
cacciandosi in mezzo ai festoni foltissimi delle liane, entro i quali
non tardarono a scomparire.

Alvaro si era avanzato verso l’albero, raccogliendo alcune di quelle
noci enormi le quali, dalle fessure mostravano certi filamenti che se
non valevano un buon canape, potevano in qualche modo essere utili.

— Ho trovato quello che cercavo, — disse. — Singolare caso!... delle
scimmie che indicano a degli uomini ignoranti come me, dove posso
trovare quello che mi occorre. —

Spaccò una di quelle noci e fra il guscio e le mandorle vide che vi
era uno strato di filamenta. Se avesse meglio conosciuto l’albero ne
avrebbe potuto trovare ben di più sotto la scorza, ma il portoghese
ignorava completamente le ricchezze delle piante brasiliane.

Soddisfatto di aver del canape fece ritorno alla palude, giungendovi
nel momento in cui il mozzo stava levando dal fuoco il bradipo.

— Cotto appuntino? — chiese Alvaro che fiutava il profumo squisito che
esalava quella carne.

— Il cuoco della caravella non avrebbe potuto far di meglio, modestia
a parte, — disse Garcia, ridendo. — Ho sorvegliato l’arrosto come un
cuciniere perfetto.

— Bravo, ragazzo.

— Gli è che...

— Che cosa vuoi dire?

— Non vi pare che questa scimmia rassomigli ad un fanciullo cucinato al
forno?

— Può essere, Garcia, — rispose Alvaro, colpito dalla giusta
osservazione del mozzo. — Trovandoci però noi in un paese abitato
da mangiatori di carne umana, cerchiamo di non mostrarci troppo
schizzinosi.

E poi non abbiamo, almeno per ora, di meglio. —

Levò l’arrosto, lo depose su una foglia d’un banano selvatico e con
pochi colpi di scure lo spaccò in varii pezzi.

— L’odore è squisito, — disse. — Proveremo a piantarvi i denti.

— Eh! Mi pare che non valga un pappagallo, signore, — disse Garcia
che aveva addentato una coscia e che faceva sforzi sovrumani per
inghiottire qualche boccone.

— Infatti è detestabile, — rispose il portoghese che si accaniva contro
un polpaccio. Questa carne è più coriacea di quello d’un vecchio mulo.

— È carne pigra, signore.

— Ma che bene o male andrà giù. —

Il loro appetito, fece davvero miracoli. Il povero _a-y_ in buona parte
passò, quantunque fosse durissimo come un merluzzo secco e avesse un
sapore tutt’altro che gradevole.

Calmati gli stiracchiamenti delle stomaco, i due naufraghi s’avviarono
per accomodare il canotto con cui volevano attraversare la palude e
provarsi anche a pescare, supponendo che in quelle acque, quantunque
nere, i pesci non dovessero mancare.

Avevano già vuotata la scialuppa e turati i fori che crivellavano
il fondo, quando d’improvviso udirono verso la boscaglia delle urla
terribili che non dovevano essere mandate da delle scimmie.

Si avrebbe detto che sotto gli alberi una terribile lotta si era
impegnata fra due tribù rivali. Si udivano colpi formidabili come se
delle mazze sfondassero degli scudi o si percuotessero reciprocamente,
sibili di frecce e ululati spaventevoli, quegli ululati che già i due
naufraghi conoscevano così bene.

Alvaro istintivamente s’era precipitato verso il canotto, temendo che i
combattenti si inseguissero verso la palude.

— Signore ed i remi? — gridò Garcia.

Alvaro si guardò intorno e vedendo un piccolo albero che cresceva a
breve distanza e che aveva delle fronde foltissime, con pochi colpi di
scure lo abbattè.

— Ci basterà, — disse.

Troncò due rami e fuggì verso il canotto dove già il mozzo lo aveva
preceduto, trascinandoli con se!

— Al largo, Garcia, — gridò. —

Senza assicurarsi se la scialuppa era ben riparata, tuffarono in
acqua i rami e servendosene come di pagaie si scostarono rapidamente,
scomparendo in mezzo agli isolotti che ingombravano la savana.



CAPITOLO VII.

L’assalto del «jacarè».


Il canotto, quantunque fosse in pessimo stato ed il suo legno spugnoso
fosse inzuppato d’acqua, filava abbastanza bene sotto la spinta di
quelle pagaie improvvisate.

I due naufraghi che temevano di veder comparire da un momento all’altro
i combattenti, le cui grida echeggiavano sempre verso il margine della
foresta, passarono senza arrestarsi dinanzi all’isolotto sul quale
erano caduti i tucani, inoltrandosi risolutamente nel mezzo della vasta
palude.

Procedevano però a stento, essendo il fondo ingombro di erbe acquatiche
assai resistenti che erano costretti a lacerare o sfondare.

L’ostacolo maggiore era costituito da certe foglie smisurate, le quali
opponevano una resistenza tenace, e che non si lasciavano lacerare se
non dopo lunghi sforzi.

Erano le splendide _victoria regia_, piante acquatiche che ingombrano
la maggior parte dei fiumi e delle savane dell’America meridionale, le
cui foglie non hanno mai meno d’una circonferenza di un metro e mezzo
con margini rialzati.

Sembrano vere zattere, dove gli uccelli acquatici nidificano
volentieri, potendone sostenerne, senza affondare, parecchie dozzine.

Sono sopratutto ammirabili pei loro fiori, d’una tinta bianca
vellutata, attraversata da leggiere sfumature rosee e purpuree del più
splendido effetto e per le loro armature spinose le quali producono
sovente delle ferite inguaribili.

Aprendosi il passo a colpi di remi ed a colpi di spadone, i due
naufraghi non tardarono a giungere presso un isolotto di cinquanta
o sessanta metri di circuito, coperto da splendide _bananiere_ che
reggevano a fatica degli enormi grappoli di frutta squisite, che già
Alvaro aveva assaggiate in Africa e che stimava assai.

— Ci nasconderemo sotto quelle foglie enormi, — disse al mozzo che
cominciava a dar segni di stanchezza.

— Credo che sia tempo di prendere terra signore, — rispose Garcia. —
O che il canotto è assolutamente inservibile o che lo abbiamo riparato
male, fa acqua da tutte le parti e le mie scarpe cominciano a nuotare.

— Abbiamo dell’altro canape e lo calafateremo meglio. Perdinci! Questo
isolotto è un vero paradiso e faremo una indigestione di banani.
M’immagino che quelli americani non saranno meno gustosi di quelli
africani e di quelli asiatici.

— E vi sono anche degli uccelli signore, se vorremo regalarci un
arrosto più saporito di quello di stamane.

— E gl’indiani, te li sei dimenticati? Se udissero in questo momento
uno sparo non tarderebbero ad accorrere.

Hanno troppa passione per la carne bianca.

— Già, la crederanno di pollo. — rispose il mozzo, sforzandosi di
celiare.

Legarono il canotto sulla riva e sbarcarono portando con loro le armi e
le munizioni.

L’isolotto era coperto d’erbe foltissime e da gruppi d’alberi sotto
i quali regnava un’ombra deliziosa. Bande di leggiadri _trochilus
minimus_, i più piccoli degli uccelli mosca, svolazzavano sopra i loro
nidi in forma di cono rovesciato, trillando e battagliando con grande
ardore, poichè per quanto siano piccoli non sono meno bellicosi degli
altri volatili.

— Ci staremo bene qui, — disse Alvaro, — e potremo aspettare, senza
troppo annoiarci, che gl’indiani se ne siano andati.

— Avremo però da risolvere l’eterna questione della colazione o del
pranzo, signore, — disse il mozzo, — e mi pare che non sarà facile su
questo pezzetto di terra.

— E non pensi che io ho degli ami?

— Ah! È vero, me n’ero dimenticato, signore.

— Facciamo il giro della nostra possessione e poi getteremo gli ami.
Troveremo qualche vermiciattolo fra queste erbe.

Seguirono le rive dell’isolotto, battendo i cespugli coi calci
degli archibusi, onde accertarsi che non vi fossero serpenti, poi si
fermarono presso un gruppo di canne palustri osservando attentamente
l’acqua.

— Ho veduto delle ombre a scivolare fra le foglie delle piante
acquatiche, — disse Alvaro. — I pesci non devono mancare in questa
palude.

Il mozzo aveva già raccolto parecchie larve e sfilacciata una
sagola che gli serviva a sostenersi i calzoni. Tagliarono due canne,
prepararono gli ami e si provarono a lanciarli in mezzo alle larghe
foglie delle _victoria_ che proiettavano un’ombra sufficiente ad
ingannare i pesci.

Due scosse li avvertirono ben presto che la cena era assicurata.
Ritirarono con precauzione le lenze e s’impadronirono di due grossi
_traira_, pesci che abitano le paludi e le savane, colla bocca
larghissima armata di denti acutissimi ed il groppone nero.

Incoraggiati da quel primo successo avevano tornato a lanciare gli ami,
quando con loro grande sorpresa udirono, sotto le acque, un ruggito
strano e prolungato, come se fosse uscito dalla gola d’un leone.

— Avete udito signor Alvaro? — chiese il mozzo.

— Per bacco! Non sono sordo.

— Era un ruggito, è vero?

— Sì, Garcia.

— E veniva dal fondo della palude.

— Dall’alto no di certo.

— Chi può averlo mandato?

— Qualche pesce di nuova specie, forse.

— Deve essere ben grosso.

— Piccolo no di certo, ragazzo mio.

— Se fosse invece qualcuno di quegli enormi serpenti?

— Era venuto anche a me questo sospetto.

— Oppure un caimano?

— Sarebbe tornato a galla a respirare, mentre non ne vedo. —

In quel momento il mozzo provò una scossa così vigorosa, che per poco
non fu trascinato nella palude.

Qualche pesce enorme doveva aver inghiottito l’amo e nel tentare di
fuggire, aveva dato quello strappo.

Alvaro aveva appena avuto il tempo di trattenere il mozzo.

— Lascia andare le lenza! — gridò.

La funicella e la canna scomparvero subito sott’acqua, mentre una
tromba d’acqua e di fango si sollevava dalla palude, rovesciandosi
addosso ai due naufraghi, seguita da un ruggito più formidabile del
primo.

— Perdinci!... — esclamò Alvaro, saltando rapidamente indietro. — È
scoppiata una mina in fondo alla palude?

— Altro che una mina, signore, — disse Garcia. — Ho veduto, in mezzo al
fango agitarsi una coda grossa come le vostre coscie. —

Era una di quelle bestiaccie che avete ucciso sulle rive dello stagno e
che per poco non mi divorava.

— Un altro di quei serpenti?

— Ma sì, signore.

— Strano paese dove i serpenti invece di strisciare fra le erbe vivono
nell’acqua come le anguille!

— Devono essere parenti stretti.

— Non disturbiamo oltre quel messere che deve essere molto irritato per
aver inghiottito il tuo amo. D’altronde la cena è ormai assicurata e
abbondantemente.

— Quando lascieremo l’isolotto?

— Ci fermeremo qui questa sera. Siamo più al sicuro in mezzo alla
palude che nei boschi.

— Che gl’indiani abbiano terminata la battaglia?

— Non si ode più nulla.

— Saranno probabilmente occupati ad arrostire i morti.

— E anche i prigionieri, Garcia, — disse Alvaro.

— Che canaglie! Eppure la selvaggina e le frutta non mancano nelle loro
foreste.

— Questione di gusti, ragazzo mio. Orsù, accendiamo il fuoco e
prepariamoci la cena.

Il sole si abbassa rapidamente. —

Temendo che gl’indiani potessero scorgere la fiamma, dubitando che
avessero già lasciata la foresta, scelsero un luogo riparato dalle
piante.

Raccolsero delle canne secche e dei rami morti e si sedettero intorno
al piccolo falò sorvegliando la cottura dei pesci.

Le tenebre cominciavano a calare e dalle acque si alzava una nebbiola
carica di esalazioni pestifere, quella nebbia pericolosissima che
produce febbri mortali e anche la terribile febbre gialla.

Miriadi di zanzaroni volteggiavano fra le canne, mentre in alto
svolazzavano a zig-zag certi grossi pipistrelli che avevano delle
ali di quasi mezzo metro, forse quei pericolosissimi vampiri rossi
che succhiano il sangue alle persone e agli animali che sorprendono
addormentati.

Sulle larghe foglie delle _victorie_, passeggiavano invece gravemente,
sui loro lunghissimi trampoli i _piassoca_, lasciandosi trasportare
dal venticello che spingeva quelle zattere verdeggianti, attraverso
la palude, mentre i _bentivi_, ritti sulle canne, lanciavano il loro
monotono e melanconico grido: _ben-ti-vi... ben-ti-vi_... ed i bianchi
_uroponga_ nascosti fra i cespugli degli isolotti lanciavano in aria,
rompendo bruscamente il silenzio, le loro note acute che somigliano
allo squillo d’una campana od al battere d’un martello su un’incudine.

— Come è tetra questa palude, — disse Alvaro che sorvegliava la cottura
dei due _traira_. — Mi mette indosso una tristezza infinita.

— E anche a me, signore, — rispose il mozzo, — e amerei meglio trovarmi
sulle sponde della baia.

— Vi torneremo presto, ragazzo mio. Domani attraverseremo questa palude
e marcieremo verso oriente fino a che l’avremo ritrovata.

Non dobbiamo essere lontani più d’un paio di miglia. Ah!

— Che cosa avete, signore?

— Hai assaggiata l’acqua di questa palude?

— Non ancora.

— Se fosse invece una laguna comunicante col mare?

— Faremo presto a saperlo. Finchè voi levate dal fuoco i pesci, io vado
a bere una sorsata d’acqua, quantunque sia così nera da non far gola
nemmeno ad un assetato. —

Il mozzo si alzò e s’avvicinò alla riva immergendovi una mano.

— È salmastra, — disse. — Che questa palude abbia qualche comunicazione
col mare non v’è dubbio. —

Stava per rialzarsi quando vide passare, a dieci o dodici passi dalla
riva una massa oscura che pareva formata da un ammasso di piante
acquatiche e gli pervenne agli orecchi un vagito.

— Un isolotto che cammina e che piange come un bambino, — esclamò.

Un rumor sordo, come quello che produce una cassa nel rinchiudersi lo
avvertì di guardarsi da quell’isolotto.

— Che sia un caimano? — si chiese rabbrividendo.

Anche Alvaro aveva udito quei rumori e si era affrettato ad accorrere,
portando i due archibugi.

— Che cosa fai Garcia? — chiese vedendo che il mozzo non si muoveva.

— Quella brutta bestia deve spiarci, signore, — rispose il ragazzo,
— ammesso se sia veramente una bestia non vedendo io altro che delle
canne che passeggiano sull’acqua.

— Non vorrei trovarmi nella bocca che si nasconde sotto quelle piante
acquatiche, — disse Alvaro. — Non sono i caimani nè così enormi nè così
feroci come i coccodrilli africani, tuttavia sono sempre pericolosi e
non sdegnano la carne umana, anzi.

— Degni vicini dei selvaggi. In questo paese sono tutti divoratori
d’uomini. Il soggiorno nel Brasile non riuscirà mai gradevole agli
europei.

— Eh! Lo vedi? Cerca d’accostarsi inosservato al nostro isolotto.

Lasciamolo venire e andiamo a cenare prima che l’arrosto diventi freddo.

— Terrò gli occhi ben aperti, signore.

— Ed io gli archibugi pronti. —

Il signor di Correa che non sembrava molto inquietarsi della vicinanza
del pericoloso rettile, il quale d’altronde si era fermato ad una
quarantina di metri, celandosi in mezzo alle immense foglie delle
_victoria_, tornò tranquillamente all’accampamento improvvisato fra le
piante e si mise, per modo di dire, a tavola, squartando sgozzando i
due _traira_. —

Quantunque mancasse il sale e non avessero nulla da sostituire il pane,
fecero scomparire ben presto i due pesci, la cui carne fu giudicata da
entrambi deliziosissima.

Avevano appena terminato, quando udirono fra le canne che crescevano
sulle rive dell’isolotto dei fruscii sospetti.

— È il caimano che cerca di issarsi sulla sponda, — disse Alvaro
sottovoce, armando rapidamente il suo archibugio.

Si gettò bocconi fra le erbe che erano alte e si mise a strisciare
verso la riva, fiancheggiato dal mozzo che si era armato anche della
scure.

Il fruscio continuava e si scorgevano le cime delle canne a ondeggiare,
come se un grosso corpo cercasse di aprirsi il passaggio.

— Che sia proprio il caimano? — chiese Garcia con un filo di voce.

— Non ne dubito, — rispose Alvaro.

— L’affronterete?

— Gli scaricherò fra le mascelle l’archibugio. Vedremo se con una
pillola di piombo che pesa due oncie sarà ancora in grado di tornarsene
in acqua. —

Erano giunti presso la riva ma ogni rumore era cessato. Eppure il
caimano non doveva essere lontano. Il venticello notturno portava fino
ai due naufraghi un acuto odore di muschio, profumo che esalano quei
brutti rettili delle savane americane.

— Che sia tornato nella palude? — si chiese Alvaro.

Stava per alzarsi sulle ginocchia, quando le canne che stavano dinanzi
a lui si schiusero bruscamente e due mostruose mascelle, armate di una
vera rastrelliera d’avorio, si spalancarono sprigionando quel fetore
nauseante di carni corrotte che esalano le gole sanguinose delle belve.

— _Carraco!_ — esclamò Alvaro, puntando rapidamente l’archibugio già
armato e cacciando la canna entro l’enorme gola del rettile. —

Risuonò una detonazione soffocata, giacchè le due formidabili mascelle
si erano subito rinchiuse, credendo di stritolare come un fuscello la
grossa canna del fucile.

Il caimano, che aveva inghiottita la carica, bruciandosi e
fracassandosi la gola, si rizzò tutto d’un colpo sulla coda come un
serpente che sta per scagliarsi sulla preda, lanciando un profondo
muggito, poi cadde all’indietro agitando pazzamente le zampe larghe e
palmate.

— Pare che abbia trangugiato malamente il confetto di piombo, — disse
Alvaro. — Deve essergli rimasto in gola.

Troppo goloso, mio caro! Dovevi prima masticarlo bene! —

Si era alzato per spingersi innanzi, ma ad un tratto si sentì atterrare
e scaraventare dieci passi lontano, in mezzo ad un fitto cespuglio che
per sua fortuna gli attutì la violenza del colpo.

Il sauriano non era ancora morto non ostante la spaventevole ferita,
e furioso aveva vibrato un colpo di coda colla speranza di abbattere
ancora i suoi nemici. Se fosse stato ancora nella pienezza delle sue
forze, Alvaro sarebbe stato certamente colpito a morte, possedendo
quei rettili una tale potenza nella loro coda da fracassare perfino
i fianchi delle scialuppe. Fortunatamente quel colpo non era stato
vibrato che debolmente.

Il mozzo, vedendo il portoghese a cadere ed il caimano rivoltarsi
ancora come se si preparasse a caricare, gli sparò precipitosamente
una seconda archibugiata senza ottenere alcun successo. Ignorando la
incredibile resistenza che offrono le scaglie ossee che ricoprono il
dorso di quei mostri, aveva mandato il proiettile un po’ dietro le
spalle e la palla si era schiacciata senza produrre alcuna lesione
grave.

— Signor Alvaro! — urlò, atterrito, vedendo il sauriano riaprire le
mascelle.

Il signor di Correa, quantunque intontito da quella volata
assolutamente inaspettata, non aveva perduta la sua presenza di
spirito.

   [Illustrazione: Un serpente enorme lo aveva avvolto fra le sue
   spire. (CAP. X).]

Udendo il secondo sparo, aveva compreso che il ragazzo si trovava in
pericolo. Si sbarazzò d’un colpo solo dei rami che lo tenevano in certo
modo prigioniero e si slanciò, quantunque zoppicante, verso la riva,
frapponendosi fra il mozzo ed il caimano.

Questi non aveva ancora assalito il ragazzo e d’altronde non poteva
più servirsi delle sue mascelle una delle quali, la superiore,
completamente fracassata presso la gola, gli pendeva in parte come una
enorme suola da scarpe.

Poteva però voltarsi e far ancora uso della sua formidabile coda.

— Ah! Canaglia! — gridò Alvaro. — Hai la pelle ben dura tu!

— Prendete signore! — disse il mozzo, porgendogli la scure.

Il portoghese con una temerità straordinaria in un lampo fu addosso
al rettile, tempestandogli il cranio di colpi così terribili da farlo
risuonare come una gran cassa.

Al terzo colpo l’ossatura cedette e la scure rimase infitta nella
materia cerebrale.

Questa volta il rettile aveva avuto davvero il suo conto. Si distese
quanto era lungo, abbassò il muso cacciandolo in mezzo alle erbe, un
lungo brivido scosse tutto il suo corpo, poi cadde bruscamente mandando
un lungo sospiro che parve un gorgoglío soffocato.

— Sono ben duri da ammazzare questi bestioni! — esclamò Alvaro,
guardando con vivo interesse il rettile. — Hanno una vitalità
incredibile che è quasi pari a quella dei pesci-cani!

— Signor di Correa, non vi ha ferito questo mostro? Credevo che con
quel colpo di coda vi avesse ucciso.

— Ho le costole ancora tutte indolenzite, ma mi pare che non vi sia
nulla di guasto nella mia macchina, — rispose il portoghese sorridendo.
— Mi ha fatto fare una volata magnifica senza conseguenze. Se non
fosse stato però gravemente ferito, non so se sarei ancora qui a
raccontartela. Sai che questo caimano misura almeno sette metri?

— Che sia uno dei più grossi?

— Lo suppongo.

— È almeno buono a mangiarsi?

— Puah! Mangiare della carne di caimano? Non senti come puzza di
muschio?

— Allora non ci servirà a nulla.

— Si potrebbe utilizzare la sua pelle per fare delle scarpe; siccome
però le nostre sono ancora in ottimo stato lo lascieremo ai serpenti se
ve ne sono.

Mio caro Garcia, andiamo a dormire.

— E se ne vengono degli altri? — chiese il mozzo.

— Veglieremo per turno. —

Lasciarono il caimano che non dava più segno di vita e tornarono
all’accampamento.

Colla scure falciarono delle erbe formando due soffici giacigli e si
coricarono lasciando che il fuoco si spegnesse.

Alvaro s’incaricò del primo quarto di guardia.

Contrariamente alle loro previsioni, la notte trascorse
tranquillissima, senza allarmi, solamente dopo la mezzanotte udirono
a più riprese quell’inesplicabile muggito che li aveva tanto sorpresi,
risuonare sotto le nere acque della palude.



CAPITOLO VIII.

La zattera vivente.


L’indomani una brutta sorpresa, che poteva avere gravissime
conseguenze, attendeva i due naufraghi. Il mozzo che si era recato
sulla riva per ricaricare la _canoa_, non l’aveva più ritrovata al suo
solito posto.

Spaventato per quell’inaspettata scoperta, il ragazzo si era slanciato
verso l’accampamento dove Alvaro, che aveva fatto l’ultimo quarto,
sonnecchiava ancora.

— Signore! — esclamò, con accento di terrore. — Non avete veduto alcuno
avvicinarsi all’isolotto durante la notte?

— Perchè mi chiedi questo, Garcia? — chiese il portoghese, sorpreso
vivamente da quella domanda.

— Hanno rubata la nostra scialuppa, signore.

— Rubata! E chi?

— Che ne so io? Forse gl’indiani.

— Non è credibile, Garcia, — rispose Alvaro. — Durante i miei quarti di
guardia ho fatto parecchie volte il giro dell’isolotto e se gl’indiani
si fossero avvicinati li avrei certamente veduti.

— Eppure non c’è più signore. Venite e ve ne accerterete. —

Il signor di Correa, assai impressionato da quella cattiva notizia, si
era vivamente alzato seguendo il mozzo.

Purtroppo dovette convincersi coi propri occhi che la _canoa_ non si
trovava più fra il gruppo di canne dove l’avevano lasciata il giorno
innanzi.

— La cosa è grave, — disse.

— Che l’abbiano rubata?

— Non lo credo. La è riva fangosa in questo luogo e se degli uomini
fossero sbarcati avrebbero lasciate le loro impronte. Io credo che sia
affondata.

— Ed infatti signore, faceva acqua.

— Abbiamo commesso una grave imprudenza Garcia, — disse Alvaro. —
Invece di legarla a queste canne dovevamo tirarla in secco.

— Come faremo ora a lasciare questo isolotto e attraversare la palude?
La riva più prossima si trova a non meno di tre miglia da noi.

— Siamo prigionieri, ragazzo mio.

— Se tentassimo la traversata a nuoto? Tre miglia non mi fanno paura, —
disse il mozzo.

— Ed a me neanche cinque, ma io non oserò mai tuffarmi in queste acque
che sono popolate da caimani e da serpenti giganteschi.

— È vero signore, mi dimenticavo che vi sono anche qui i mangiatori
d’uomini.

Eppure non possiamo rimanere qui per sempre. Non abbiamo nè viveri nè
acqua bevibile.

Alvaro non rispose, guardava i pochi alberi che crescevano
sull’isolotto, chiedendosi se sarebbero stati bastanti per costruire
almeno una zattera sufficiente a portarli fino alla sponda più
prossima.

Erano cinque o sei alberetti, alti una mezza dozzina di metri, dal
fusto piuttosto esile coperto da una corteccia molto bruna. Vi erano
anche numerosi cespugli e molte liane, ma i primi a ben poco avrebbero
potuto servire.

— Proviamo, — disse al mozzo, indicandoglieli.

— Volete costruire una zattera, è vero signore?

— Se avremo materiale sufficiente, — rispose Alvaro.

— Basterà che ce ne sia tanto da fare lo scheletro. Per la piattaforma
utilizzeremo le canne.

— Ecco un’idea che non mi era venuta, Garcia, — disse Alvaro. — Dammi
la scure e andiamo a distruggere la nostra piccola foresta.

Impugnò l’ascia e assalì vigorosamente la pianta più alta, ma al primo
colpo che vibrò il filo della scure si guastò senza aver potuto nemmeno
intaccare la corteccia.

— Ah! diavolo! — esclamò il portoghese, stupito. — Come va questa
faccenda! Eppure le mie braccia sono ancora solide e la lama della
scure era ben affilata.

— Che legno hanno queste piante? — si chiese il mozzo, non meno
sorpreso.

Alvaro rinnovò il colpo e l’arma, invece di conficcarsi, rimbalzò come
se avesse percosso una rupe di quarzo o un palo di ferro.

— È incredibile! — esclamò Alvaro.

— Vediamo, — disse il mozzo.

Si levò il coltello e si provò a piantarlo a tutta forza nel tronco
della pianta. La lama lunga e piuttosto sottile, anzichè penetrare nel
tronco, si spezzò come fosse stata di vetro.

— Ebbene, Garcia? — chiese il portoghese.

— Io dico signore, che queste piante sono di ferro e che non riusciremo
mai ad abbatterle.

Alvaro passò ad un altro albero e si diede a menare colpi furiosi non
riuscendo ad altro che ad intaccare a malapena la corteccia.

— Io ho udito parlare vagamente di certi alberi duri come rocce che
crescono in America, — disse, asciugandosi il sudore che gli colava
abbondantemente in seguito a quegli sforzi erculei. — Che questi
appartengano a quella specie?

Non si era ingannato. Le poche piante che erano spuntate sull’isolotto
erano quei famosi _pao de ferro_ che hanno reso celebri certe foreste
del Brasile e dell’Amazzonia, duri come se le loro fibre fossero di
ferro, che sfidano le scuri meglio affilate e che sono così pesanti da
non poter galleggiare.

Anche se i naufraghi fossero riusciti ad abbatterli, non ne avrebbero
cavato alcun vantaggio e avrebbero perduto inutilmente il loro tempo.

— Signore, — disse il mozzo, — non se ne farà nulla. È inutile che
guastate la nostra scure e che sprecate le vostre forze.

— Dovremo dunque rimanere prigionieri su questo pezzo di terra? — si
chiese Alvaro.

— Se potessimo ripescare la nostra scialuppa?

— Chissà dove sarà andata a finire. Queste acque non sono assolutamente
immobili.

— Che cosa fare, signor Alvaro?

— Non lo so, — rispose il portoghese, con un gesto scoraggiato.

Assai tristi e molto preoccupati fecero il giro dell’isolotto, colla
speranza di trovare qualche tronco d’albero arenato sulle sue rive
o qualche cosa che potesse servire ad attraversare quella maledetta
palude, poi scoraggiati dalla inutilità delle loro ricerche fecero
ritorno al loro accampamento. Erano entrambi assai abbattuti e ne
avevano ben il motivo. Come sarebbero usciti da quella situazione
imbarazzante? Era bensì vero che, almeno pel momento, nessun pericolo
li minacciava, tuttavia non si sentivano affatto disposti a finire i
loro giorni su quel brano di terra che non offriva alcuna risorsa.

Alvaro invano frugava e rifrugava il suo cervello, non trovava
alcuna via d’uscita. Senza una scialuppa o del legname, non vedeva la
possibilità di sfuggire a quella prigionìa.

Le ore passavano senza che la loro situazione si modificasse.

Un calore estremo regnava sulla vasta palude le cui acque fumavano come
se il loro fondo ribollisse. Il sole dardeggiava i suoi raggi quasi
a piombo rifrangendo la luce con tale intensità che gli occhi dei due
naufraghi ne venivano dolorosamente feriti.

Di quando in quando il silenzio che regnava nella palude, veniva
improvvisamente rotto da una volata di _gallinago_ che sono una
specie di beccaccini o di _pissoca_, uccelli che hanno le ali munite
di lunghe dita e che si posano volontieri sulle larghe foglie delle
piante palustri o da qualche banda di gallinelle acquatiche dalle penne
turchino cupe.

Talora invece era un caimano che turbava la tranquillità della savana.
Lo si vedeva avanzarsi pigramente attraverso le foglie delle victorie,
col dorso ricoperto di piante e poi scomparire dietro gli isolotti
sulle cui rive probabilmente andava a sdraiarsi per godersi un po’ di
sole.

Il mezzodì doveva già essere trascorso, quando il mozzo che fino allora
era rimasto sdraiato all’ombra dei _pao de ferro_ ruminando inutilmente
progetti impossibili, si alzò dicendo:

— Signor Alvaro, noi non abbiamo pensato ad un grave pericolo che ci
minaccia peggio della fame. Ho sete, brucio, signore e non posso più
resistere. —

Il portoghese si era pure alzato, guardandolo con angoscia. Era vero:
fino allora si era scordato che le acque della palude erano salmastre.

— Ma allora noi siamo perduti! — esclamò.

— Sì, se non troviamo un mezzo qualunque per andarcene, — rispose il
mozzo.

— Ma quale? Invano ho tormentato il mio cervello.

— Signore, credete che vi siano degl’indiani intorno a questa palude?

— Può darsi.

— Se noi facessimo dei segnali accendendo le canne ed i cespugli che
crescono qui e sparando di quando in quando dei colpi di fucile?

— Per farli accorrere?

— Sì, signor Alvaro.

— E farci prendere per poi finire sulla graticola? No, Garcia,
preferisco morire di fame e di sete piuttosto che il mio corpo serva di
cibo a quelle canaglie.

— Signor Alvaro.... —

Il portoghese aveva fatto un salto senza ascoltare la fine della frase
e si era gettato dietro una macchia di cespugli, guardando attentamente
verso la riva.

— Un altro caimano, signore? — gli chiese Garcia che lo aveva
prontamente raggiunto.

— Pare che si tratti di qualche altro animale, — rispose il portoghese.
— Ho veduto le canne aprirsi violentemente.

— Uno di quei grossi serpenti?

— Taci! —

Una forma ancora indecisa, assai larga e molto bassa, si sforzava di
aprirsi il passo fra i canneti rompendoli a destra ed a sinistra.

— Che animale sarà? — si chiese il portoghese. — Giurerei che si tratta
d’una tartaruga. —

Era infatti una testuggine della specie delle mydas che sono le più
gigantesche che abitino le paludi ed i fiumi del Brasile. Non sono
pregiate come le _careto_, dalle quali si estrae la tartaruga che si
mette in commercio; sono invece ricercate per la mole dei loro gusci e
per l’abbondanza delle loro carni.

Ordinariamente i loro gusci, che sono d’un color verdastro marmorizzato
a squame esagonali, sono lunghi più di due metri e larghi cinquanta
centimetri. Quella però che era approdata sull’isolotto era una delle
più gigantesche della specie, lunga quasi otto piedi e larga almeno la
metà, una zattera in miniatura.

— Garcia, non muoverti, — disse Alvaro, rapidamente. — Vi è là da
cenare e da pranzare abbondantemente per una settimana.

La testuggine, apertosi il passo fra le canne, si era fermata sulla
riva che in quel luogo era sabbiosa e sgombra d’erbe, mettendosi in
ascolto.

Stette ferma qualche minuto poi proseguì la sua marcia con passo rapido
e l’andatura inquieta, camminando sulla punta delle zampe, quindi si
mise a scavare la sabbia.

— Si prepara a deporre le uova, — mormorò Alvaro. — A me Garcia! —

Entrambi si erano slanciati al di sopra del cespuglio, piombando
addosso al rettile il quale si era accovacciato in fondo alla buca.

Afferrarlo e rovesciarlo violentemente sul dorso, fu un momento solo.

— È nostra! — gridò il mozzo con voce trionfante. — A voi la scure,
signore!

Alvaro aveva impugnata l’arma e si preparava a vibrare un colpo sulla
testa del rettile, quando un pensiero improvviso lo trattenne.

— No! — esclamò. — Stavo per commettere una grossa bestialità!

— Non l’uccidete signore? — chiese il mozzo.

— Ucciderla! Penso che questo rettile ci potrà essere più utile vivo
che morto, mio caro.

— Ed in qual modo signore?

— Sarà quello che mi condurrà alla riva.

— Questa bestia?

— Credi che non possa servire da zattera ad uno di noi? Guarda come è
largo il suo guscio.

— Ah! Signore! — esclamò il mozzo, scoppiando in una risata.

— Ridi! Ebbene, io ti proverò che non ho detto una sciocchezza.

— Ma, signore, se la rigettate in acqua affonderà subito e vi lascierà
alla superficie.

— Tu lo credi?... Io no, perchè le impedirò di sommergersi. Quel
caimano che è venuto a farsi uccidere fra i nostri piedi, ha avuto una
gran buona idea.

— Non vi capisco, signor Alvaro.

— Vieni con me.

— E non fuggirà la testuggine?

— Non temere; quando questi rettili si trovano rovesciati sul dorso non
sono più capaci di raddrizzarsi.

La ritroveremo ancora al suo posto.

Il mozzo lo seguì domandandosi che cosa potesse entrarci il caimano
colla testuggine e colla traversata della palude.

L’_jacarè_ — tale è il nome che danno gl’indiani a quei pericolosi
abitanti delle savane e dei fiumi — si trovava sempre disteso fra
le canne. Il calore solare, sviluppando i gaz interni, l’aveva
prodigiosamente ingrossato e pareva che il suo ventre giallastro fosse
lì lì per iscoppiare.

— Com’è brutto! — esclamò il mozzo. — Già non era bello neanche prima,
ma ora fa paura. —

Alvaro vibrò un colpo di scure sul fianco del rettile, balzando poi
rapidamente da una parte. Gli intestini proiettati dai gaz interni, si
contorsero sull’erba.

— Ecco quello che mi occorre, — disse.

— Le budella di questa brutta bestiaccia?

— Sì, Garcia.

— Vorresti fare dei salami di tartaruga, signore.

— No, d’aria.

Quella parola fu una rivelazione per l’intelligente ragazzo.

— Ah! Ora vi ho compreso! — esclamò. — Che superba idea, signore!

— Giacchè mi hai capito, aiutami. —

Con pochi colpi di coltello staccò gl’intestini e li trascinò sulla
riva dove si mise a vuotarli ed a pulirli aiutato efficacemente dal
mozzo.

La faccenda non fu lunga.

— Un pezzo di canna ora ed un po’ di spago, — disse Alvaro.

— Un marinaio non manca mai di corda, — rispose il mozzo.

Legarono solidamente l’estremità del budello, introdussero un pezzo di
canna traforata nell’altro e Alvaro cominciò a soffiare a tutta forza.

Ci volle un buon quarto d’ora prima che l’intestino che era lungo ben
dodici metri, fosse completamente pieno d’aria.

— Ora andiamo a legarlo intorno alla testuggine, — disse Alvaro quando
ebbe chiusa l’altra estremità. Vedremo se il rettile sarà capace di
lasciarsi affondare.

Alzarono con precauzione il budello onde i rami spinosi dei cespugli
non lo guastassero e riattraversarono l’isolotto.

La povera _mydas_, non ostante i suoi sforzi disperati, si trovava
ancora rovesciata sul dorso. Agitava pazzamente le larghe zampaccie
e allungava ed accorciava comicamente il collo senza però riuscire
nemmeno a scuotere il pesante guscio.

Alvaro ed il mozzo la circondarono col budello, assicurandolo
solidamente sui margini della corazza ossea indi per meglio impedire
al rettile di sommergersi e anche per riparare il leggiero galleggiante
che poteva venire offeso dalle spine delle _victorie_, e scoppiare sul
momento, legarono come meglio poterono alcuni fasci di canne, formando
una specie d’armatura.

— Come si troverà male questa povera tartaruga, quando sarà in acqua, —
disse il mozzo ridendo.

— Specialmente quando la cavalcheremo, — rispose Alvaro.

— E come farete a guidarla, signore?

— A colpi di bastone, mio caro che le applicherai a destra od a
sinistra.

— Voi però avete dimenticato una cosa importantissima.

— E quale, mio buon Garcia?

— Io dovrò rimanere sull’isolotto, giacchè due saremmo troppi per la
testuggine.

— Sarò io invece che aspetterò il tuo ritorno. Tu sei molto meno
pesante di me e riuscirai meglio nell’impresa.

— E voi come attraverserete la palude?

— Con una zattera che costruirai. Vorresti tu che la testuggine fosse
così sciocca da tornare da sola qui per prendermi?

— Trovate risposta a tutto, signore.

— Hai paura?

— Monterei anche un serpente purchè mi conducesse alla riva, — rispose
il coraggioso ragazzo, senza esitare.

— Allora mettiti in viaggio. Porterai con te l’archibugio e la scure.

Bada di tenere le gambe ben raccolte sul guscio e se vedi qualche
caimano accostarsi, spara senza far economia di palle e di polvere.
D’altronde credo che nessuno oserà importunarti e sono certo che tu
approderai alla riva senza incidenti.

— Sarò un cavaliere ben comico, signore. Cavalcare una tartaruga! Non
me lo sarei mai immaginato.

— Sbrighiamoci, Garcia. Ho sete e anche molta fame e tu non devi averne
meno. Questa sera però prenderemo una bella rivincita.

— Cucinando la mia cavalcatura?

— Dentro il suo guscio, — rispose Alvaro, ridendo.

Rovesciarono con precauzione la testuggine spingendola verso la riva.
Il povero rettile, imbarazzato dalle canne che gli pendevano dai
fianchi, pareva smarrito e tentava ad ogni istante di girare su sè
stesso, ma una poderosa randellata lo costringeva a tirare innanzi.

Appena vide l’acqua vi si precipitò con impeto, sperando di sbarazzarsi
delle canne e di scomparire sotto. Il mozzo lesto come un gatto si era
già appollaiato sul largo guscio, incrociando le gambe come i turchi.

Sentendo quel peso gravitargli addosso e sentendosi trattenere a galla
non ostante i suoi sforzi per lasciarsi colare a picco, il rettile
parve che impazzisse.

Girava su sè stesso, battendo furiosamente le zampacce, allungava più
che poteva il collo e dimenava la testa e la coda in tutti i sensi.

Vani sforzi. L’intestino, ben gonfio e le canne la mantenevano
ostinatamente alla superficie.

— Ah! La bella trovata! — gridava il mozzo, lavorando vigorosamente di
randello. — Signor Alvaro! Che superba zattera! Filerà come se avessi
il vento in poppa! —

Il portoghese rideva a crepapelle vedendo gli sforzi disperati che
faceva il rettile per sbarazzarsi del suo strano cavaliere.

Porse al mozzo il moschetto e la scure e gli diede il segnale della
partenza con un «buon viaggio, amico.»

— Tornerò più presto che potrò, signore, — rispose il mozzo. — Orsù,
cammina bestiolina! —

La testuggine ormai convinta della inutilità dei suoi sforzi, si era
scostata dall’isolotto avanzando velocemente in mezzo alla palude.

Di quando in quando tentava di gettarsi in mezzo alle larghe foglie
delle victorie o fra i gruppi di canne, ma Garcia con due o tre
randellate, applicate senza misericordia, la costringeva a mantenere
una linea pressochè diretta.

La povera bestia, pazza di paura, nuotava rapidissima. Una buona
scialuppa montata da due rematori non sarebbe andata più lestamente.

— Va a meraviglia, — disse Garcia, dopo d’aver dato uno sguardo alla
riva, più prossima che come si disse, distava dall’isolotto almeno tre
miglia. — Se continua così fra una mezzora e anche meno, approderò.

Ritirò le gambe, accomodandosi meglio che potè sul largo guscio, si
mise l’archibugio armato sulle ginocchia, la scure dinanzi e guardò
verso l’isolotto.

Alvaro, ritto sulla riva col fucile in mano, lo seguiva cogli sguardi,
evidentemente soddisfatto della sua trovata.

— Andrò a prenderlo presto, — si disse il mozzo. — Una zattera non è
difficile a costruirsi quando si ha una buona scure e del legname in
abbondanza, e vedo che gli alberi non mancano sulle rive della palude.

La testuggine continuava la sua corsa, sbuffando. Non cercava più di
cacciarsi in mezzo alle _victoria_ e alle canne temendo probabilmente
di provocare da parte del suo strano cavaliere una tempesta di legnate.

Già un buon miglio era stato attraversato, quando il mozzo s’accorse di
essere seguito da un paio di caimani.

Le brutte bestiaccie si tenevano quasi interamente sommerse, non
mostrando che l’estremità del muso e le piante acquatiche che erano
cresciute sul loro dorso, sperando di avvicinarsi inosservati, ma il
mozzo che guardava anche alle spalle si era subito accorto della loro
presenza dalla scìa che si lasciavano indietro.

Si tenevano però ad una distanza di quaranta o cinquanta passi e
pareva, che almeno pel momento, non avessero alcuna intenzione di
assalirlo. Probabilmente erano molto sorpresi e fors’anche inquieti e
non riuscivano a rendersi un conto esatto che cosa fosse quello strano
cavaliere che pareva galoppasse sulle acque della savana.

— Ecco una scorta pericolosa che rimanderei volentieri, — disse Garcia
più seccato che atterrito. — Che vogliano mangiare le zampe al mio
cavallo? Fortunatamente ci sono qui io a difenderlo.

Ritirò più che potè i piedi e armò l’archibugio, risoluto a servirsene
se i due rettili avessero dato segno di intenzioni aggressive.

La testuggine, come se si fosse accorta del pericolo, aveva raddoppiata
la corsa. Anzi di quando in quando volgeva il capo verso il mozzo come
per chiedergli protezione.

I due _jacarè_ non pareva che avessero fretta ad assalire. Seguivano
però sempre la testuggine nella sua corsa disordinata, mostrando
talvolta le loro mascelle armate di formidabili denti. Garcia
cominciava ad inquietarsi ed a trovarsi anche a disagio. La riva era
ancora lontana più d’un miglio e mezzo ed in quella parte della savana
non si scorgeva alcun isolotto su cui rifugiarsi nel caso che la povera
testuggine venisse assalita e privata delle sue zampe.

— Come la finirà? — si chiedeva il ragazzo che cominciava a
spaventarsi. — Quelle due bestiaccie non mi sembrano disposte a
lasciarci. Se con un colpo di coda mi gettassero giù?

Si volse e vide con terrore che uno dei due _jacarè_, il più grosso,
cominciava ad affrettare la corsa e mostrare il rugoso dorso. Certo si
preparava per l’attacco.

— Proviamo ad arrestarlo, — disse il mozzo.

Prese l’archibugio, versò alcuni granelli di polvere nello scodellino
onde essere più sicuro del colpo e alzatosi sulle ginocchia mirò il
caimano il quale non si trovava ormai che a quindici passi e che teneva
le mascelle aperte.

— Imiterò il signor Alvaro, — disse il coraggioso ragazzo.

E fece fuoco nella gola spalancata del mostro.

Udendo lo sparo la testuggine fece un soprassalto così brusco, che
per poco il mozzo non fu precipitato in acqua. Ebbe appena il tempo
di appoggiarsi sulle canne e di riafferrare l’archibugio che gli era
sfuggito dalle mani.

L’_jacarè_ che aveva ricevuta la scarica in piena gola, aveva fatto
un salto enorme, slanciandosi quasi tutto fuori dall’acqua, poi era
ricaduto contorcendosi furiosamente e avventando a destra ed a manca
formidabili colpi di coda.

Dalla gola, che doveva essere stata attraversata dal grosso proiettile,
il sangue gli usciva a fiotti arrossando le acque.

Il suo compagno, spaventato certo dallo sparo, si era subito inabissato
scomparendo in mezzo ad un gruppo di _victorie regie_.

— Al galoppo! — gridò il mozzo con voce lieta, tempestando il guscio
della testuggine.

La _mydas_ non aveva bisogno di essere incoraggiata. Pazza di terrore
fuggiva disordinatamente dirigendosi verso la riva la quale si
delineava ormai nettamente colle sue altissime piante.

In meno di dieci minuti attraversò l’ultimo tratto della savana e
salì la spiaggia arrestandosi, completamente esausta, dinanzi ai primi
alberi.



CAPITOLO IX.

Assediato dai pecari.


Il luogo ove il mozzo era così miracolosamente sbarcato, era ingombro
di piante le quali probabilmente formavano il margine di quella immensa
foresta, che si estendeva fino sulla sponda della baia.

Splendidi palmizi, dal tronco esilissimo, che si slanciavano in alto
per quindici o venti metri, crescevano accanto alle _tocuma_ dalle
lunghe spine, alle _jacatara_ che quantunque appartengano alla grande
famiglia delle palme diventano liane, avvitichiandosi ai tronchi degli
alberi, mentre sotto quella folta cupola di verzura che impediva
ai raggi solari di giungere fino al suolo, s’intrecciavano in una
confusione indicibile, superbe bromelie dai ricchi racemi a fiori
scarlatti, orchidee meravigliose, passiflore felci epifite e sipo
grossissime ed interminabili.

Numerosi volatili schiamazzavano e garrivano fra i rami, specialmente
dei bellissimi cardinali dalla testa rossa e dei _casarito_, specie di
tordi che invece di nidificare sugli alberi come quasi tutti gli altri
uccelli, costruiscono sul suolo una specie di cupola coll’entrata a
laberinto.

Il mozzo dopo aver legata la testuggine al tronco d’un albero, si era
inoltrato sotto la foresta per cercare innanzi a tutto un po’ d’acqua o
per lo meno delle frutta che potessero spegnergli l’ardente sete che lo
tormentava.

Trovare delle frutta era forse più facile che un torrente, essendo
quel terreno assai secco, quantunque protetto dal quel caos di foglie
immense e di festoni di liane, sicchè il mozzo che non osava spingersi
molto lontano e che aveva anche molta fretta di costruire la zattera,
si mise a esaminare le piante.

Aveva percorso due o trecento metri, quando si arrestò dinanzi ad un
albero enorme, ricco di rami e di foglie e carico di frutta enormi,
grosse come zucche, colla corteccia giallastra e irta di protuberanze.

— Speriamo che quelle frutta siano commestibili, mormorò il mozzo.

Si era aggrappato ad una liana che scendeva da un ramo, quando un
rumore strano che veniva da un folto gruppo di cespugli, lo arrestò
perplesso.

— Che vi siano degl’indiani qui? — si chiese con ansietà.

Il rumore aumentava. Pareva che piuttosto che un uomo, qualche animale
stridesse i denti o li battesse fortemente gli uni contro gli altri.
Garcia, lo abbiamo già veduto alla prova, possedeva un coraggio
veramente eccezionale in un ragazzo della sua età, tuttavia si sentiva
il cuore battere precipitosamente come se volesse uscirgli dal petto.

D’altronde anche un uomo che si fosse trovato solo, in mezzo a quella
foresta che poteva nascondere mille pericoli, abitata oltre che da
mangiatori di carne umana anche da belve non meno sanguinarie dei
selvaggi, non si sarebbe certamente mantenuto tranquillo.

Con una mano stretta alla liana e coll’altra armata dell’archibugio,
Garcia ascoltava attentamente cercando di spiegarsi le cause di quei
rumori.

Ad un tratto udì dei grugniti, poi uno scricchiolare di rami.

— Che vi siano dei cinghiali qui? — si domandò, cominciando a
tranquillizzarsi. — E perchè no? Ve ne sono anche da noi e mi hanno
anche detto che valgono quanto i maiali.

Che bella sorpresa pel signor di Correa se gliene portassi uno! —

Un po’ rassicurato, si nascose dietro il tronco dell’albero, tenendo il
dito sul grilletto dell’archibugio.

La sua attesa non fu lunga. I folti cespugli si erano aperti per
lasciare il passo ad un animale che rassomigliava e che aveva anche la
statura d’un cinghiale.

Se Garcia avesse avuto qualche conoscenza sugli animali che infestavano
le immense foreste del Brasile, si sarebbe ben guardato dall’affrontare
quel cinghiale.

Era un _pecari tajasou_, un porco selvatico, dei più pericolosi e che
non teme di assalire l’uomo anche se non viene importunato.

Questi animali che in quell’epoca erano numerosissimi e che ora
s’incontrano solamente nelle selve dell’interno, non vanno mai soli.
Emigrano a branchi che sovente si compongono di cinquanta e perfino
di cento capi, e guai a chi osa assalirli o anche semplicemente
attraversare loro la via.

Piombano sull’imprudente con furore indescrivibile e servendosi delle
loro lunghe e solidissime zanne in un momento lo fanno a pezzi.

Garcia che credeva di aver dinanzi un semplice cinghiale e che voleva
assicurarsi una succolenta cena, senza sacrificare la testuggine, che
poteva costituire una preziosa riserva, non esitò più.

Puntò l’archibugio e fece fuoco sul pecari che si era arrestato a
quindici passi, per dissotterrare una radice.

L’animale, attraversato da parte a parte dal proiettile, stramazzò
in mezzo ai cespugli mandando un urlo acutissimo che si ripercosse
lungamente sotto le folte vôlte di verzura.

   [Illustrazione: Un uomo era comparso fra due macchie di
   arbusti, e li guardava, sorridendo.... (CAP. XI).]

Il mozzo, felice di quel successo, stava per slanciarsi onde finirlo a
colpi di scure, quando udì un fracasso indiavolato. I rami dei cespugli
cadevano falciati come se cento coltelli li tagliassero, le foglie
volavano in aria, mentre da tutte le parti echeggiavano grugniti e urla
furiose.

— Che abbia commesso una corbelleria? — si chiese il mozzo.

Si gettò l’archibugio sulle spalle e s’aggrappò lestamente alla liana
per mettersi in salvo sull’albero.

Si era appena innalzato di tre o quattro metri quando vide irrompere,
colla velocità d’una tromba, una cinquantina di cinghiali.

Parevano in preda ad una collera terribile. Avevano le setole irte, i
codini alzati che dimenavano disordinatamente e gli occhi accesi.

Giunsero in un lampo addosso all’albero, che subito circondarono ed
i più vicini s’alzarono sulle zampe deretane, mordendo ferocemente la
corteccia e la liana che aveva servito al ragazzo per innalzarsi.

Gli altri invece saltavano come se fossero indemoniati, ora correndo
verso il loro compagno che era già spirato ed ora tornando verso
l’albero coi segni della più viva irritazione.

Guardavano ferocemente il mozzo, coi loro occhietti neri che la collera
rendeva scintillanti e battevano le loro lunghe zanne le une contro
le altre, producendo un fracasso impossibile a descriversi. Garcia
che si era messo al sicuro su un grosso ramo e che aveva avuto il
tempo di portare con sè l’archibugio, non si era molto spaventato per
quell’improvvisa aggressione. Infine quei cinghiali non avevano unghie
per potersi arrampicare e di lassù poteva ridersene della loro collera.

— Quando si saranno persuasi dell’inutilità dei loro sforzi, se ne
andranno, — si era detto il bravo ragazzo.

S’ingannava e quanto! Se vi sono degli animali testardi e vendicativi
all’eccesso, sono appunto i pecari brasiliani.

Dopo i primi sfoghi di collera, avevano lasciata in pace la corteccia
dell’albero, convinti che non sarebbero mai riusciti a rodere quel
tronco enorme, ma si erano sdraiati a breve distanza coll’evidente
intenzione di assediare il ragazzo.

— Eccomi in un bell’impiccio — mormorò Garcia, che cominciava ad
inquietarsi. — Che cosa penserà il signor Alvaro non vedendomi
comparire? Se questo assedio si prolungasse? E quel bravo signore non è
meno assetato di me?

Vivaddio! Ho il fucile e le munizioni non mi fanno difetto.

Proviamo a disperdere questi noiosi porci. Quando ne avrò ammazzati
quattro o cinque, spero che si decideranno ad andarsene e lasciarmi
costruire la zattera. —

Ricaricò l’archibugio, si mise a cavalcioni del ramo e fece fuoco
contro un vecchio maschio che pareva il più furibondo di tutti e che
saltellava attorno al tronco, strappando di quando in quando larghi
pezzi di corteccia.

Vedendolo cadere, tutta la banda, anzichè fuggire spaventata, balzò
verso l’albero con un urlìo spaventevole piantando le zanne nel legno.

Il mozzo con una terza archibugiata fece scoppiare la testa ad un
altro pecari non ottenendo altro che di far raddoppiare il furore dei
superstiti.

Stava per continuare le fucilate, quando un pensiero lo trattenne.

— E se questi spari venissero uditi dai selvaggi? Preferisco sostenere
l’assedio di questi cinghiali piuttosto che di veder accorrere i
mangiatori di carne umana.

Povero signor Alvaro! Come sarà inquieto udendo queste fucilate! Alla
malora questi animalacci e la loro cocciutaggine. Orsù, armiamoci di
pazienza e aspettiamo la notte. Quando dormiranno tenterò di andarmene
alla chetichella.

Intanto proviamo queste frutta. —

Si spinse verso l’estremità del ramo dove ne penzolavano parecchie,
grosse come la testa d’un bambino e con un colpo di scure ne spaccò
una.

Nell’interno conteneva una polpa giallastra, somigliante a quella delle
zucche, ma più tenera e un po’ acquosa.

— Se queste non sono zucche, saranno qualche cosa di simile, — disse. —
Spero che calmeranno la mia sete e anche la fame.

Si provò a trangugiare un boccone di quella polpa e la trovò
dolciastra e tutt’altro che cattiva. Se avesse avuto un po’ di
fuoco per arrostirla l’avrebbe gradita ben di più, poichè il caso lo
aveva condotto su un _fructa de pao_ o meglio su un albero del pane.
Ignorando però che specie di frutta fossero, si accontentò di fare una
scorpacciata di polpa cruda, calmando ad un tempo la sete e anche la
fame che cominciava a tormentarlo.

Durante quel pasto i pecari non avevano cessate le loro dimostrazioni
ostili e non solo verso il mozzo, bensì anche verso i loro compagni
morti i quali erano stati ridotti a brani.

Sfogatisi un po’ erano tornati a disperdersi, senza però allontanarsi
troppo dal _fructa de pao_ onde essere pronti ad impedire la fuga
all’assediato.

Anzi di quando in quando tornavano furibondi, galoppavano intorno alla
pianta, urlando come se venissero scannati, poi tornavano in mezzo ai
cespugli cercando bacche e radici.

Il mozzo cominciava ad averne fino sopra i capelli di quell’assedio che
minacciava di prolungarsi indefinitamente. Non già che fosse inquieto
per sè stesso, ma pel povero Alvaro che doveva trovarsi alle prese
colla sete e colla fame.

Già due o tre volte si era provato a scendere, credendo che i pecari
si fossero allontanati, ma appena si aggrappava alla liana li vedeva
subito tornare al galoppo. Anche cercando le bacche e le radici lo
sorvegliavano attentamente.

La giornata trascorse così in continue ansie pel povero ragazzo, il
quale trovava le ore eternamente lunghe ed il sole molto pigro. Il
suo pensiero era sempre rivolto al signor di Correa che doveva ben
impazientirsi di quell’inesplicabile ritardo, e crederlo fors’anche
morto.

Finalmente anche il sole tramontò e le tenebre invasero bruscamente la
foresta.

Il mozzo vide con gioia che i pecari cominciavano a coricarsi fra i
cespugli che circondavano l’albero. Quei testardi non volevano però
ancora levare l’assedio, più che mai risoluti a vendicare i loro
compagni.

— Pare impossibile! — esclamò il mozzo. — Se fossero uomini
comprenderei la loro cocciutaggine, ma delle bestie! Il signor Alvaro
stenterà a credere che io sia rimasto assediato per tanto tempo.

Attese un paio d’ore prima di osare di muoversi, temendo che quei
maledetti animali avessero collocato delle sentinelle presso l’albero,
poi caricò l’archibugio, si appese alla cintura un paio di frutta
dell’albero del pane e la scure e lasciò silenziosamente il ramo,
aggrappandosi a delle liane che giungevano fin presso il suolo.

Al di sotto tutto era silenzioso. Non udiva che in lontananza i fischi
e gli stridi prolungati delle _parraneca_ che dovevano essere numerose
nell’immensa palude.

Si lasciò scivolare dolcemente lungo la liana, soffermandosi di quando
in quando per ascoltare, poi rassicurato dal silenzio, continuò la
discesa finchè toccò il suolo.

I pecari non si erano svegliati; russavano tranquillamente in mezzo ai
cespugli.

Impugnò l’archibugio per la canna e si allontanò adagio adagio,
dirigendosi verso la palude. Appena fu ad un due o trecento passi,
abbandonò ogni precauzione e partì a corsa disperata.

In pochi minuti giunse là dove aveva lasciata la tartaruga. Anche il
rettile dormiva colla testa affondata entro il guscio.

— Lasciamola qui per ora; la imbarcherò più tardi onde impedire alle
belve, che qui non devono mancare, di divorarmela.

Temendo di essere ancora troppo vicino ai pecari, continuò la corsa
per un quarto d’ora, arrestandosi sulle rive di una caletta circondata
d’alberi.

— Sbrighiamoci, — disse il bravo ragazzo. — Il legname qui non manca e
la luna comincia ad alzarsi.

Appoggiò il fucile al tronco d’un albero e cercò innanzi a tutto delle
liane che gli erano necessarie per la costruzione della zattera.

Non aveva che da scegliere, essendo tutti gli alberi circondati da
sipos. Ne fece una buona provvista, poi avendo scorto a breve distanza
dalla riva un gruppo di quegli altissimi bambù chiamati dai brasiliani
_taquara_, che sono grossi quanto la coscia d’un uomo e leggierissimi,
ottimi sopratutto per servire alla costruzione dei galleggianti, li
assalì vigorosamente abbattendone una dozzina.

Il materiale era più che sufficiente per una zattera capace di reggere
due persone.

Li trasportò senza fatica sulla spiaggia e li mise in acqua, legandoli
con liane. Lavorava così destramente e così rapidamente che mezz’ora
dopo il galleggiante era pronto a prendere il largo.

Con due lunghi rami improvvisò due remi e puntando con tutte le sue
forze si diresse innanzi a tutto là dove si trovava la testuggine. Con
quattro poderose randellate la svegliò e un po’ spingendola ed un po’
trascinandola, la costrinse ad imbarcarsi.

— Ci teneva troppo il signor Alvaro a questa bestia o meglio alla sua
carne, per abbandonarla alle belve od agl’indiani. Avremo il pranzo
assicurato per tre o quattro giorni. —

Poi si spinse risolutamente al largo, ansioso di giungere all’isolotto.

La luna che era allora sorta e che brillava in un cielo purissimo,
riflettendo i suoi raggi sulle acque della palude, gli permetteva di
dirigersi facilmente.

Gl’isolotti spiccavano nettamente sulla superficie argentea formando
delle enormi macchie brune che si potevano distinguere senza bisogno di
cannocchiali.

Il mozzo, approfittando della poca profondità delle acque, verso la
mezzanotte giungeva in mezzo alla palude.

In quel momento su uno degli isolotti vide un grosso punto luminoso
brillare fra le piante che lo coprivano.

— Deve essere il signor Alvaro, — pensò.

Ad un tratto cessò di remare e fece un gesto di sorpresa e anche di
spavento.

— Ma no, — disse. — Quel fuoco non arde sull’isolotto che ci serviva
di rifugio. No, brucia su un altro. Il nostro si trova laggiù, più
all’ovest, se non m’inganno; lo scorgo benissimo ed era il solo che
avesse quella forma allungata. —

Un sudore freddo gli bagnò il viso mentre un’angoscia profonda gli
stringeva il cuore.

— Che i selvaggi siano giunti qui, che abbiano sorpreso il signor
Alvaro? Quegli isolotti non erano abitati che da volatili e che io
sappia gli uccelli non hanno mai imparato ad accendere il fuoco. —

I terrori del povero ragazzo erano giustificati. Chi poteva aver
approdato su quell’isolotto se non dei selvaggi? Il signor Alvaro
non doveva aver lasciato il suo non avendo a sua disposizione legname
sufficiente per costruire una zattera, anche minuscola.

— Che vi si sia recato a nuoto? — si chiese Garcia. — No, non credo che
abbia avuto l’audacia di commettere una simile imprudenza sapendo che
la palude è abitata da caimani e anche da enormi serpenti. —

Rimase parecchi minuti perplesso, poi prese risolutamente il suo
partito.

— Andiamo all’isolotto, innanzi a tutto, — disse. — Se non troverò colà
il signor Alvaro, mi accosterò cautamente all’altro e vedrò chi avrà
acceso quel fuoco. —

Girò al largo per non farsi scorgere e si diresse verso l’altro il
quale si trovava a circa cinquecento metri dal primo, un po’ verso
l’ovest.

In dieci minuti attraversò la distanza e s’accostò prudentemente
alla riva. Era certo di non essersi ingannato perchè aveva subito
riconosciute quelle tenacissime piante che avevano guastato il filo
della scure.

Affondò una pertica nel fango, legò la zattera, armò l’archibugio e
salì silenziosamente la riva, aprendosi il passo fra le canne

Giunse in mezzo ai _pao de ferro_, dove il giorno innanzi avevano
acceso il fuoco e cucinate le traira e non vide nessuno.

Il fuoco era spento, forse da molte ore poichè la cenere era ormai
fredda. Garcia provò una stretta al cuore e impallidì.

— Che cosa è dunque successo al signor Alvaro? — si chiese, con
crescente angoscia. — Ah! Mio Dio che cosa farò io solo, perduto nelle
foreste americane? —



CAPITOLO X.

Un dramma nella foresta.


Il povero ragazzo stava per abbandonarsi alla disperazione quando un
improvviso pensiero venne a risollevare il suo coraggio.

Era ammissibile che Alvaro, uomo valorosissimo e anche vigoroso,
quantunque giovane, si fosse lasciato prendere dai selvaggi senza
opporre la menoma resistenza? No, Garcia non poteva crederlo.

In tal caso avrebbe subito trovato le tracce d’una lotta a tutta
oltranza, mentre invece mancavano assolutamente sull’isolotto. I
cespugli erano intatti, gli avanzi del fuoco non erano stati sconvolti
e nè sui tronchi nè sulle foglie degli alberi si scorgeva alcuna
freccia.

Il portoghese, probabilmente molto inquieto per la lunga assenza
del mozzo, doveva aver lasciato quel rifugio colla speranza di poter
attraversare felicemente la laguna, cosa tutt’altro che impossibile per
un nuotatore della sua forza.

Garcia un po’ rassicurato attraversò l’isolotto e ebbe subito la prova
di non essersi ingannato sulle sue congetture.

Sulla riva opposta, là dove avevano sorpresa la testuggine, scorse a
terra numerose canne che parevano tagliate di recente stillando ancora
un po’ di linfa.

— Deve aver costruito un galleggiante con queste piante, rinforzandolo
forse con quelle immense foglie che da sole costituiscono delle piccole
zattere.

Minacciato dai caimani o dai serpenti d’acqua si sarà fermato su
quell’isoletta dove ho veduto brillare quel fuoco.

Andiamo ad assicurarcene. —

Pienamente tranquillizzato, il mozzo tornò alla zattera e riprese
il largo. Quantunque si sentisse completamente sfinito da tanti
sforzi troppo gravosi per un ragazzo della sua età e le sue palpebre
involontariamente si chiudessero, puntando vigorosamente spinse la
zattera verso l’isolotto fra le cui piante vedeva sempre brillare il
fuoco ed innalzarsi una nuvoletta di fumo.

Non impiegò più di un quarto d’ora ad attraversare i quattro o
cinquecento metri che lo separavano e andò ad arenarsi su un banco di
sabbia coperto in parte di canne.

Lì presso scorse subito un galleggiante formato da fasci di canne e da
foglie di _victoria_, capace di reggere bene o male una persona.

— È il signor Alvaro che l’ha costruito! — esclamò con voce giuliva.

Si slanciò sul banco e raggiunse l’isolotto facendo fuggire alcuni
uccelli acquatici che sonnecchiavano fra le erbe, tenendosi ritti sui
loro lunghi trampoli.

In mezzo ad un gruppo di alberi scorse, assiso dinanzi ad alcuni rami
che stavano già per spegnersi, un uomo il quale pareva che dormisse o
meditasse, tenendosi la testa fra le mani.

Un grido di gioia gli sfuggì.

— Signor Alvaro! —

Il portoghese che forse sonnecchiava, udendo quella voce ben nota,
aveva alzata la testa guardando cogli occhi semi-chiusi il mozzo, poi
con una rapida mossa si era levato, allargando le braccia.

— Ah! Mio bravo ragazzo! — esclamò, stringendoselo al petto. — Per
centomila caimani, da dove vieni? Quante ansie e quante paure in queste
dodici ore! Briccone! Puoi vantarti d’avermi fatto pur tremare!

— Mi credevate morto, signor Alvaro?

— E anche mangiato — disse il giovane. — Credi che non abbia udito i
tuoi colpi d’archibugio? Non ti difendevi contro gl’indiani?

— Ma no, signore, sparavo contro certi cignali ferocissimi che mi
avevano assediato su un albero.

— Spero che me ne avrai portato almeno uno. Muoio di fame, se non di
sete.

— Mi è stato impossibile signore, ma vi ho imbarcata la tartaruga e non
sarà meno gustosa della carne dei cinghiali.

— Tu sei un ragazzo previdente, mio buon Garcia.

— E anche delle frutta per dissetarvi.

— Non ne ho bisogno. Ho trovato su quest’isolotto di quelle certe pere
che abbiamo già assaggiate e che hanno calmata la mia sete.

— Ma perchè avete lasciato l’isolotto, signore?

— Per venirti a raggiungere e soccorrere. Non hai udito i miei spari?

— No, signore.

— Ho scaricato più di dieci volte il mio archibugio, poi non udendo
alcuna risposta da parte tua, mi ero deciso di tentare la traversata
della laguna e forse vi sarei riuscito se i caimani non mi avessero
costretto a rifugiarmi più che presto su questo isolotto. —

Il mio galleggiante, formato da sole canne e da foglie mi reggeva a
malapena e avevo le gambe sempre in acqua.

— Ho trovato la vostra zattera.

— Basta colle chiacchiere, Garcia e pensiamo alla cena. Mi racconterai
le tue avventure quando avremo riempito il ventre. —

Gettò sul fuoco che stava per spegnersi, dei rami secchi che aveva
raccolti sotto le piante e delle canne, ravvivandolo e si fece condurre
alla zattera dove la testuggine, inconscia della triste sorte che
l’aspettava, dormiva profondamente.

La sollevarono con grande fatica, essendo pesantissima, la decapitarono
per non farla soffrire troppo e la gettarono, rovesciata sul dorso, in
mezzo alla brace.

— Povera bestia! — esclamò Garcia, udendo le carni a friggere. — Quale
ingratitudine da parte nostra, signore!

— Il ventre non ragiona, amico mio, — rispose Alvaro che fiutava
avidamente il profumo squisito che esalava il gigantesco arrosto.

— Ah! Dimenticavo le mie zucche! —

Andò a prendere le due grosse frutta e le gettò ai piedi di Alvaro.

— E tu le chiami zucche queste, — disse il portoghese. — Sono frutta
degli alberi del pane, mio caro, che surrogheranno i biscotti che ci
mancano.

Ne ho assaggiate ancora e ti posso dire che arrostite sui carboni sono
squisite.

— To’! Vi sono anche delle piante che producono dei pani! — esclamò il
mozzo. — Fortunato paese dove si può fare a meno dei fornai. —

Alvaro levò la corteccia e tagliò la polpa in larghe fette che depose
sui carboni.

La tartaruga, che doveva essere ben grassa, friggeva intanto
allegramente entro il suo guscio che a poco a poco si carbonizzava,
senza però lasciar perdere il succo dell’animale che è squisitissimo.
Perfino il mozzo, con tutto il suo rincrescimento, si sentiva venire
l’acquolina in bocca e aspirava non meno avidamente del famelico
compagno, l’odore delizioso che tramandava l’arrosto.

Quando Alvaro credette la testuggine sufficientemente cotta, con pochi
colpi di scure ben applicati sui fianchi, levò il guscio inferiore che
era quasi piatto, e agli occhi stupefatti del mozzo apparve il corpo
del disgraziato rettile splendidamente arrosolato e nuotante in un
succo giallastro che esalava un profumo più che squisito.

— Bagna e mangia senza economia, — disse Alvaro levando dal fuoco le
fette delle frutta del pane.

Non avrai mai fatto una cena così deliziosa, te lo assicuro.

— Signore, — disse il mozzo, dopo alcuni bocconi, — se questo non è
veramente pane, per bontà e per gusto non è certo inferiore. Ha del
carciofo e della zucca marina.

— Trovi che possa surrogare i biscotti?

— Sì, signore.

— Allora quando giungeremo alla costa mi condurrai dove si trova
quell’albero e faremo una grossa provvista di quelle frutta. —

Quando furono ben sazii, i due naufraghi si stesero in mezzo alle erbe,
coi piedi rivolti verso il fuoco e senza preoccuparsi nè dei caimani,
nè dei serpenti d’acqua chiusero gli occhi coll’intenzione di fare una
lunga dormita.

Già nè l’uno nè l’altro potevano più tenere aperti gli occhi.

Anche quella seconda notte passata in mezzo alla laguna, trascorse
senza allarmi. Dormirono tutte di fila ben dodici ore e quando si
svegliarono il sole era ben alto sull’orizzonte.

La zattera si trovava ancora al medesimo posto. Imbarcarono gli
avanzi della tartaruga che potevano servire ancora per un paio di
giorni e fecero innanzi a tutto ritorno all’isolotto per prendere i
due bariletti di munizioni, che Alvaro aveva ben nascosti in mezzo
ad un folto cespuglio, non avendo osato imbarcarli sul suo fragile
galleggiante.

Assicuratisi che sulla laguna non si scorgeva alcuna piroga, verso le
due del meriggio si rimettevano in viaggio verso la costa.

Ne avevano provate già perfino troppe delle avventure su quelle
isolette e desideravano ardentemente tornare sotto le grandi foreste,
dove almeno erano certi di trovare dell’acqua e anche della selvaggina.
E poi volevano tornare al più presto alla baia, colla speranza che
qualche nave o spinta dalle correnti o collo scopo di esplorare le
coste che si estendevano verso il sud, durante la loro assenza avesse
gettata l’ancora in quel magnifico bacino che doveva essere uno dei più
vasti dell’America meridionale.

Impiegarono due ore a compiere quella traversata, avendo il vento e
anche la corrente contrarii e discesero là dove il mozzo era approdato
insieme alla povera testuggine.

— Conducimi innanzi tutto a quell’albero, — disse Alvaro, dopo di
essersi caricati di tutte le loro cose e di aver impacchettati in
alcune larghe foglie, gli avanzi del rettile.

— E se i cinghiali ci fossero ancora? — chiese il mozzo.

— Siamo in due ora e daremo battaglia, — rispose il portoghese. —
Vedremo se oseranno assalirci. —

S’inoltrarono sotto la foresta e giunsero ben presto sotto l’albero
del pane, ma i pecari, accortisi forse della fuga del prigioniero e
giudicando inutile prolungare l’assedio, se n’erano andati.

Non rimanevano che tre scheletri ben ripuliti, quelli degli animali
uccisi dal mozzo. Dei carnivori dovevano essere sopraggiunti dopo la
partenza degli assedianti e avevano spolpati per bene i morti.

— Bah! Ci accontenteremo della testuggine per ora, — disse Alvaro.

Raccolsero una mezza dozzina di frutta dell’albero del pane, essendo
perfino troppo carichi per fare un’ampia provvista, e dopo qualche ora
di riposo, orizzontatisi col sole, si rimisero in cammino per cercare
innanzi tutto qualche stagno d’acqua dolce e poi proseguire verso la
baia dalla quale supponevano non essere molto lontani.

— Domani vi giungeremo di certo, — aveva detto Alvaro, per incoraggiare
il mozzo.

La foresta, di passo in passo che s’avanzavano verso l’est, accennava
a diventare più fitta che mai, rendendo estremamente difficile non
solo la marcia, ma anche il mantenimento della buona direzione, non
potendosi più scorgere il sole.

Una oscurità quasi completa regnava sotto quei vegetali e anche una
temperatura soffocante, che rendeva la respirazione difficile come
se l’aria non potesse più circolare fra quegli ammassi di foglie
gigantesche.

Era una foresta di _cuiera_, piante enormi che producono delle zucche
mostruose, lucentissime, d’un verde pallido, contenenti una polpa
biancastra e molle che non serve a nulla ma che pure sono molto
pregiate dagl’indiani dei cui gusci si servono come di recipienti.

Le loro larghe foglie s’incrociavano in mille guise, formando delle
vôlte assolutamente impenetrabili, mentre i tronchi scomparivano sotto
ammassi di muschi e di piante parassite.

Non erano però i soli colossi che si presentavano agli occhi dei due
naufraghi. Altri, non meno enormi, di quando in quando sorgevano fra
quelle migliaia e migliaia di _cuiera_, arrestandoli e costringendoli a
fare dei lunghi giri per trovare un passaggio.

Erano delle _jupati_ dal tronco brevissimo ma che sviluppavano delle
foglie che avevano otto o nove metri di lunghezza e delle _miriti_,
palme superbe di dimensioni esagerate, colle foglie disposte a
ventaglio e frastagliate a nastri e non meno immense di quelle delle
_jupati_ anzi di più, bastandone una sola per caricare un uomo robusto.

I volatili mancavano, non trovandosi a loro agio fra quelle
semi-oscurità; abbondavano invece le splendide e grosse _morpho_, le
più belle farfalle dell’America meridionale e fra le foglie secche si
vedevano fuggire in buon numero certi serpenti color del tabacco, colla
testa triangolare, agilissimi e anche pericolosissimi, dei _mapanari_,
chiamati dagl’indiani «i maledetti», tanto sono velenosissimi.

I due naufraghi marciavano o meglio si trascinavano da tre ore,
chiedendosi ansiosamente quando avrebbero potuto trovare un po’ di
largo che permettesse loro di respirare un po’ d’aria pura, quando si
trovarono improvvisamente dinanzi ad un corso d’acqua largo una ventina
di metri e che pareva si dirigesse verso il sud anzichè all’est, ossia
verso la baia.

— Fermiamoci, signore, — disse Garcia. — Non mi reggo più.

— Ed io non sono in miglior stato, ragazzo mio, — rispose Alvaro. — E
sopratutto dissetiamoci. —

Stava per aprire le piante acquatiche che ingombravano la riva, quando
il mozzo gli mise una mano sulla spalla, dicendogli rapidamente.

— No, signore!

— Che cos’hai? — chiese Alvaro, volgendosi rapidamente.

— Là! Guardate!

— Dove?

— Su quell’albero che s’incurva sul fiume. —

Un fischio acuto che risuonò in aria gli fece alzare la testa.

— To’! Una scimmia! — esclamò.

— Ma l’altro non è un quadrumane. —

Alvaro aprì con precauzione le piante e guardò verso la direzione che
il mozzo gl’indicava.

A venti passi dal posto che occupava, si stendeva orizzontalmente, fino
quasi in mezzo al fiume, una di quelle piante chiamate dai brasiliani
_paiva_ che hanno il tronco coperto di bitorzoli spinosi e dalle cui
frutta si ricava una specie di bambagia finissima, assai soffice ma
troppo corta per poter essere filata.

Sui rami di quell’albero si era rifugiata una scimmia, un cebo
fischiante, una delle meno attraenti della specie, avendo le guancie
coperte di peli bianchi, la faccia incorniciata da una barba nera
che dà loro un aspetto poco piacevole, il capo adorno di due lunghi
ciuffi che rassomigliano a due vere corna ed il mantello invece bruno
giallognolo.

Doveva essere una femmina giacchè stringeva fra le braccia un piccino
che strillava disperatamente non ostante le carezze amorose della
madre.

Sul tronco invece strisciava con precauzione, badando attentamente dove
metteva le zampe per non ferirsi contro i bitorzoli spinosi, un superbo
animale che fece tuttavia battere fortemente il cuore del portoghese,
avendolo creduto di primo occhio una tigre o qualche cosa di simile.

Se non era una vera tigre, poteva sostenerne il paragone sia per la
statura, sia per la ferocia e la forza.

Il giaguaro americano infatti non è meno sanguinario nè meno audace
dell’abitatrice delle jungle indiane e viene annoverato, a buon
diritto, come il più terribile carnivoro dell’America del sud, non
essendovi nessun altro che possa tenergli testa.

Quantunque veramente sia un po’ più piccolo della tigre reale, se non
di quelle che abitano le isole della Sonda, raggiungendo di rado una
lunghezza di due metri, è un predone temuto dagli stessi indiani i
quali non osano affrontarlo se non sono in buon numero.

Non ha l’elegante rigatura della tigre, tuttavia la sua pelliccia è
magnifica e si paga anche oggidì assai cara. Il suo pelame è corto,
fitto, morbido, di tinta giallo rossiccia, cosparso di bellissime
macchie nere e di punti orlati di rosso del più grazioso effetto.

Ve ne sono anche di neri con macchie più cupe, come vi sono le pantere
nere di Giava e di Sumatra e sono del pari più terribili degli altri,
ma fortunatamente sono rari.

Quello che si trovava sull’albero, doveva essere uno dei più grossi
della famiglia, toccando in lunghezza i due metri, e certamente uno dei
più formidabili.

Doveva aver sorpresa la povera scimmia, divisasi forse dalle sue
compagne per cercare a terra delle frutta, e con un’abilissima manovra
l’aveva costretta a rifugiarsi su quella pianta per impedire di tornare
nella foresta dove la caccia sarebbe stata ben più difficile, essendo i
cebi schianti così agili da potersi slanciare, senza tema di cadere, da
un albero all’altro.

La disgraziata madre, comprendendo la gravità del pericolo, fischiava
disperatamente per chiamare l’attenzione delle compagne che dovevano
trovarsi nei dintorni, ma nessuna rispondeva al suo appello.

D’altronde nulla avrebbero potuto fare contro quel terribile carnivoro,
anzi probabilmente erano subito fuggite per non incorrere in egual
sorte.

— Che splendido animale! — mormorò Alvaro, tenendosi prudentemente
nascosto fra le piante e tirandosi presso il mozzo come se avesse avuto
paura che il giaguaro glielo rapisse.

— Non è una tigre, signore, quella là? — chiese Garcia che non pareva
troppo spaventato.

— Somiglia più ad una pantera, — rispose Alvaro, che fino allora non
aveva mai veduti dei giaguari, animali ancora sconosciuti agli europei.

— Sarà pericoloso?

— Non vorrei provare le sue unghie, mio caro.

— Che riesca a divorare quella povera scimmia?

— Lo vedremo, Garcia. Mi pare però che quella belva non faticherà
troppo a raggiungerla, quantunque il quadrumane si sia rifugiato sugli
ultimi rami.

— E lo lascieremo fare, signore?

— Ti rincresce per la scimmia?

— Sì, signor Alvaro.

— Lasciamolo avanzarsi per ora; al momento opportuno interverremo,
quantunque nulla vi sia da guadagnare per noi affrontando quella belva
che mi ha l’aria d’essere assai pericolosa. —

Il giaguaro continuava ad inoltrarsi senza dimostrare troppa premura.

D’altronde le spine che coprivano il tronco della _paiva_ che erano
assai acute, gl’impedivano di procedere rapidamente.

Alzava con precauzione le zampe, guardava bene dove le appoggiava per
non ferirsi, manifestando il suo malumore con dei sordi miagolii che
terminavano in una specie di ululato rauco.

La scimmia che lo vedeva avvicinarsi sempre, quantunque lentamente,
raddoppiava i suoi fischi e continuava ad innalzarsi, tenendosi ben
stretto, con una mano, il piccino, il quale, conscio del pericolo che
correva la madre, mandava delle grida lamentevoli.

A poco a poco aveva raggiunto uno degli ultimi rami, ma là giunta aveva
dovuto arrestarsi giacchè il suo peso minacciava di farlo rompere.

Si trovava proprio al di sopra del fiume e non aveva ormai nessun
scampo. Anche se si fosse lasciata cadere in acqua non sarebbe sfuggita
alle terribili unghie del giaguaro, essendo queste belve abilissime
nuotatrici.

Il giaguaro giunto a metà del tronco, desideroso di finirla, si
raccolse su se stesso, poi con un salto fulmineo balzò su uno dei più
grossi rami dove non vi erano più spine.

— La scimmia è perduta, — disse Alvaro che seguiva con viva curiosità
la manovra del carnivoro.

Ed infatti la sorte del cebo era ormai decisa. Fra pochi istanti doveva
terminare fra i denti e le unghie del carnivoro.

Il giaguaro salì rapidamente il ramo, lesto come un gatto, però giunto
ad un certo punto dovette fermarsi. Un crepitio si era fatto udire ed
il prudente ed astuto carnivoro aveva subito compreso che non poteva
andare più innanzi senza esporsi al pericolo di capitombolare nel
fiume, nel qual caso la scimmia non avrebbe mancato di approfittare per
fuggire nella foresta.

— La va male per la belva, — disse Alvaro. — Comincio a credere che la
scimmia sia ben lontana dal farsi divorare. —

Il carnivoro si era messo a soffiare come un gatto in collera e sfogava
il suo malumore, maltrattando la corteccia dell’albero da cui staccava
larghi pezzi.

La scimmia, pazza di terrore e sentendosi ormai perduta, si penzolava
all’estremità del ramo, tenendosi appesa colla destra mentre colla
sinistra si stringeva sempre, con vera frenesia, il piccino che non
voleva lasciare.

In quel momento, trasportate dalla corrente, passavano sotto l’albero
delle immense foglie di victoria regia, coi margini assai rialzati e
che potevano sostenere ben altro che una scimmia di così piccola mole.

— Ah! La furba! — esclamò Alvaro. —

   [Illustrazione: .... poi, uno di essi, attraversò, come un
   lupo, la radura, mentre.... (CAP. XIII).]

In quel momento il cebo si lasciò cadere a piombo su una delle più
larghe foglie, senza abbandonare il piccino. La piccola zattera si
sommerse un po’ sotto l’urto, poi risalì a galla mentre la scimmia
festeggiava la sua vittoria con un lungo fischio.

La corrente che era piuttosto rapida la trasportava verso la riva
opposta.

Il giaguaro che vedeva sfuggirsi la preda aveva mandato un furioso
miagolio. Staccò le unghie dalla corteccia poi si slanciò risolutamente
in acqua.

Aveva calcolato male la distanza che lo separava dal cebo. Invece
di piombare sulla piccola zattera cadde due passi più indietro e si
sommerse sollevando un largo sprazzo di spuma.

— È rimasto burlato il ghiottone! — esclamò Garcia, felice di
quell’inaspettato scioglimento.

— Adagio, mio caro, — rispose Alvaro. — Se quell’animale si è gettato
in acqua, vuol dire che è un nuotatore e la scimmia non è ancora giunta
alla riva. —

In quel momento alla superficie del fiume si produsse un rigonfiamento
di spuma, poi si udirono risuonare, strozzati, gli ululati della belva
misti a dei muggiti stridenti che parevano lanciati da qualche altro
animale.

— Pare che la belva sia alle prese con qualcuno, — disse Alvaro,
chinandosi sulla riva per meglio osservare.

Ad un tratto una coda, o meglio un cilindro nerastro, emerse dalle
acque, ripiegandosi tosto, quindi apparve il giaguaro ma non era più
libero.

Un serpente enorme lo aveva avvolto fra le sue spire e così
strettamente da soffocarlo.

Era un _sucuriù_ chiamato anche _boa anaconda_, il più enorme dei
rettili brasiliani, raggiungendo talvolta una lunghezza di tredici a
quattordici metri e che vive in fondo ai fiumi.

Quantunque non sia velenoso, possiede al pari dei pitoni, una tale
forza da soffocare facilmente anche un bue fra le sue spire.

Sentendosi forse urtare dal giaguaro che nel salto doveva essere sceso
fino in fondo al fiume, lo aveva prontamente afferrato.

Il rettile ed il carnivoro, entrambi formidabili, lottavano con furore
ora salendo a galla ed ora sommergendosi.

Il primo continuava a stringere la preda cercando di fracassarle
le costole e la spina dorsale; il secondo, pazzo di dolore lavorava
ferocemente di denti e d’artigli lacerando la pelle dell’avversario.

Il sangue arrossava l’acqua, ma il boa non allargava i suoi anelli,
certo della vittoria finale.

Per alcuni istanti furono veduti dibattersi alla superficie e
furono uditi i miagolii disperati dell’uno ed i fischi dell’altro,
poi entrambi scomparvero in un largo cerchio di sangue per non più
riapparire.

— Perdinci! — esclamò Alvaro. — Ecco dei nemici dai quali noi dovremo,
d’ora innanzi, ben guardarci.

— Che sia morta quella tigre, signore? — chiese Garcia che era assai
pallido.

— Lo suppongo, e anche quel serpentaccio non deve trovarsi troppo
bene, ammesso che sia riuscito a soffocare l’avversario e dovremo
approfittare per attraversare subito il fiume.

— E se ve ne fossero degli altri?

— Sarebbero accorsi a prendere parte alla lotta. Ah! E la scimmia?

— Ha preso terra ed è scomparsa nella foresta.

— Sbrighiamoci finchè il boa è occupato a divorarsi il carnivoro o sta
spirando. —

Tagliarono frettolosamente alcuni bambù, li legarono alla meglio con
delle liane e una mezz’ora d’ora dopo si trovarono sull’altra riva,
sbarcando nel medesimo luogo ove la scimmia si era messa in salvo.



CAPITOLO XI.

Nella foresta vergine.


Anche sulla riva opposta la foresta continuava e non meno folta di
quella che i naufraghi avevano attraversata poco prima con tanta
fatica.

Era anzi più intrecciata essendo composta d’una infinita varietà di
piante che crescevano confusamente le une accanto alle altre, strette
da liane smisurate e da arbusti e da radici enormi che sorgevano da
tutte le parti non trovando più posto nel sottosuolo, convertito ormai
in una massa fibrosa che doveva avergli dato la consistenza quasi della
pietra.

Allacciati gli uni agli altri dalle _sipo_, dalle _jacitara_, dalle
_barbe dei pao_ e da quelle strane aroidee che hanno le radici in aria
e che poi lasciano pendere fino al suolo, vi erano cedri brasiliani che
danno quel legno ricercato chiamato _jacarandò_, palme regie che hanno
il tronco altissimo e così perfetto che sembra opera di tornitori;
ficus che somministrano la preziosa guttaperca incidendo i loro
tronchi; bombonasse delle cui foglie oggidì si fabbricano i pregiati
cappelli chiamati di panama e palme quaresine dai fiori purpurei che
s’intrecciavano con quelli profumati delle _laranazias_.

Una umidità penetrante regnava sotto quei vegetali sprigionando un
intenso odore di muffa che faceva arricciare il naso ai due naufraghi.

— È una foresta vergine questa, — disse Alvaro che avrebbe desiderato
meglio trovarsi in una prateria. — Come faremo noi a dirigerci sotto
queste piante che non lasciano filtrare nemmeno un raggio di sole?
Comincio a credere che non ci sarà facile ritrovare la baia.

— Che ci siamo smarriti? — chiese il mozzo.

— Lo temo.

— Che queste maledette foreste coprano tutto il Brasile?

— Sembra che gl’indiani non si prendano alcuna cura di atterrarle. Per
essi l’agricoltura è lettera morta.

— Sfido io! Si mangiano fra di loro! E poi le frutta non sono rare
nelle loro foreste.

— E anche la selvaggina non manca. Odi questo fracasso? —

Uno scoppio d’urla acutissime era rimbombato improvvisamente sotto le
piante facendo tacere di colpo una banda di pappagalli che cicalava fra
i rami d’un cedro. Erano così assordanti che il mozzo fu costretto a
turarsi gli orecchi.

— Chi sono gli autori di questo spaventevole concerto? — chiese. —
Delle belve forse.

— Saranno delle scimmie, — rispose Alvaro.

— Che gole hanno? foderate di ottone o di rame? Si direbbe che hanno
dei tromboni e dei bombardoni in corpo.

— Ma che! Un’orchestra intera, — disse il mozzo ridendo.

Le urla erano diventate così acute che tutta la foresta rintronava.
Pareva che si pelassero vivi mille maiali.

— Andiamo a far tacere questi importuni, — disse Alvaro. — Se potremo,
faremo qualche colpo per procurarci un arrosto.

Il calore ha guastato già la nostra riserva e la carne della testuggine
puzza orrendamente.

— Avreste il coraggio di mangiare una scimmia?

— E perchè no, Garcia. È una selvaggina che vale quanto un’altra. —

Guidati da quei clamori che non cessavano un solo istante, i due
naufraghi s’avanzarono sotto gli alberi, tenendo gli archibugi sotto il
braccio. Dopo l’incontro fatto col giaguaro, avevano compreso che non
dovevano lasciare da parte ogni prudenza.

Girando e rigirando intorno alle piante e dibattendosi fra le reti
delle _sipo_ e delle radici, percorsero dopo una lunga ora, cinque
o seicento passi, giungendo là dove i concertisti si sgolavano per
raddoppiare il fracasso, diventato già assolutamente spaventevole.

Come Alvaro aveva previsto, quegli arrabbiati fracassoni erano dei
quadrumani e non più di sei o sette, quantunque facessero un baccano
come fossero in cento.

Era una piccola truppa di _caraja_ appollaiata fra i rami enormi di
una _summameira_, quadrumani che se sono relativamente di piccola
statura posseggono degli organi vocali d’una resistenza incredibile che
sfondano gli orecchi meglio conformati. Anche un sordo udrebbe senza
fatica le loro urla formidabili.

Si chiamano anche miceti neri avendo il pelame oscuro con certi
riflessi rossicci e che nelle femmine diventa un po’ giallognolo, con
barba alle gote e coda lunga quanto l’intero corpo, che non oltrepassa
ordinariamente i settanta centimetri.

Avendo un gozzo che si potrebbe chiamare anche un tamburo, assai
considerevole, diviso in sei scompartimenti, la loro voce acquista una
intensità tale da propagarsi a distanze infinite.

Il loro grido usuale è una specie di _rocku-rocku_ che si ode a
parecchi chilometri, ma che variano a piacere. Ora infatti grugniscono
come i maiali, ruggiscono e miagolano come i giaguari, ora urlano come
se si torturassero degli esseri umani.

Seduti in circolo sulla biforcazione dei rami ed ignari della presenza
dei due naufraghi, quei sei o sette cantori gonfiavano enormemente i
loro gozzi lanciando note sempre più acute, poi tacevano bruscamente
per attendere dal maestro, che stava nel mezzo e che era il più smilzo
della truppa ma che aveva la voce più potente, la nota giusta.

Quando qualcuno usciva di tôno, un sonoro scapaccione somministrato dal
direttore, lo faceva subito tacere.

— Finitela! — gridò il mozzo che era già giunto sotto all’albero e che
aveva gli orecchi intronati da quel concerto indemoniato. — Abbasso il
maestro! —

Era fiato sprecato. Le _caraja_ erano tanto occupate nell’eseguire quel
coro infernale che non avevano nemmeno udita l’intimazione del ragazzo.

— Perderai inutilmente il tuo tempo, — disse Alvaro. — La tua voce non
si ode fra questo baccano assordante.

— Ci vorrebbe un cannone, signore.

— Un buon colpo di fucile otterrà buon successo. Facciamo cadere giù il
maestro. —

Il signor Viana, che come già sappiamo era un valente bersagliere,
puntò il fucile e dopo d’aver mirato qualche istante fece fuoco in
mezzo ai cantori.

Il maestro che stava urlando a piena gola chissà quale pezzo di musica
scimmiesca, rimase colla bocca aperta strozzando di colpo la voce, poi
si rizzò allargando le braccia, piroettò su se stesso strambuzzando gli
occhi e precipitò al suolo con fracasso, rimanendo inerte.

I suoi compagni, terrorizzati, salirono sui rami più alti dell’albero
urlando disperatamente.

Alvaro stava per slanciarsi verso il povero _caraja_ quando udì una
voce a esclamare in lingua castigliana:

— _Carramba!_ Che bel colpo! —

Il portoghese ed il mozzo, profondamente stupiti si erano vivamente
voltati, credendo di essersi ingannati. Entrambi conoscevano abbastanza
correntemente il castigliano, lingua già assai diffusa in quell’epoca
come lo è oggi quella francese e avevano perfettamente compresa quella
frase.

Un uomo era comparso fra due macchie d’arbusti e li guardava
sorridendo, colle braccia incrociate sul petto.

Era un individuo sulla quarantina, di bella statura, che portava
una lunga barba nera ed i capelli pure lunghi che gli cadevano sulle
robuste spalle.

Quantunque la sua pelle fosse assai bruna, dai lineamenti
regolarissimi, dalla taglia, dalla disposizione degli occhi che
sono ordinariamente piccoli e anche un po’ obliqui negl’indiani, non
sembrava che appartenesse alla razza brasiliana.

Eppure ne indossava il costume. Aveva un diadema di penne di tucano
fissato sul capo, una sottanina di fibre vegetali, lucenti come la
seta, poi un gran numero di collane e di braccialetti formati di denti
di caimani e di belve feroci e sul petto uno strano trofeo che pareva
composto di vertebre di serpenti.

— Un indiano od uno spagnuolo? — si chiese Alvaro, mettendosi sulla
difensiva e facendo cenno a Garcia di preparare il fucile.

Lo sconosciuto non si era mosso. Li guardava con una profonda emozione,
sorridendo sempre, senza toccare la pesante mazza che gli pendeva dal
fianco nè una specie di corta lancia che portava dietro le spalle.

— Amico o nemico? — chiese finalmente Alvaro, in castigliano, vedendo
che lo sconosciuto non si decideva ad aprire bocca.

— Da quando gli uomini bianchi, smarriti fra le selve delle terre
lontane, si sono dichiarati nemici? — chiese quell’uomo con voce quasi
tremante. — Quantunque vi possa sembrare un indiano sono un bianco come
voi, un europeo anch’io. —

Alvaro, non meno commosso dello sconosciuto, aveva gettato il fucile in
ispalla e si era fatto innanzi.

— Un naufrago anche voi? — gli chiese.

— Un vecchio naufrago.

— Che cosa fate qui, in mezzo alle foreste del Brasile?

— È la istessa domanda che poco fa volevo rivolgervi anch’io. Siete
anche voi spagnuoli?

— No, portoghesi.

— Siamo dunque quasi compatriotti. Voi non potete immaginare, quale
immensa emozione mi ha cagionato questo incontro.

Oramai mi ero già rassegnato a non veder più mai un uomo della mia
razza, nè alcun volto di europeo.

— Sono molti anni che vi trovate qui?

— Dal 1516.

— Con chi siete giunto?

— Colla spedizione spagnuola comandata da Amerigo Vespucci, il
fiorentino, da Giovanni di Pinzon e da Diaz Solis. Facevo parte
dell’equipaggio di quest’ultimo.

— Che cosa sia accaduto di quella spedizione organizzata dall’audace
fiorentino lo si sa, ma quello che si è sempre ignorato è la sorte
toccata a Solis.

— È stato massacrato dagli indiani Charruà. Ah! Che istoria dolorosa,
signore.

— E voi siete sfuggito alla strage? — chiese Alvaro.

— Il solo.

— Ed ora che cosa fate? —

Il castigliano arrossì e parve confuso, poi mormorò quasi sottovoce:

— Sono lo stregone della tribù dei Tupinambi. —

In altro momento Alvaro non avrebbe potuto trattenere una risata, ma
vedendo la confusione e la tristezza del povero uomo, si frenò.

— Una bella carica, almeno? — chiese.

— Oh! Signore!

— Eh signor.....

— Diaz Cartego.....

— Con quella carica almeno avete salvata la pelle.

— È vero, signor....

— Alvaro de Viana. Avete fame?

— Sono quattordici ore che marcio senza interruzione per non farmi
prendere dagli Eimuri che hanno invaso tutto il territorio, disperdendo
le tribù dei Tupinambi e dei Tamoi.

— Sono lontani? — chiese Alvaro.

— Molto, per ora.

— Non vi è pericolo che ci sorprendano?

— Pel momento, no.

— Allora approfittiamo per prepararci la colazione. Abbiamo uccisa una
scimmia.

— Le _caraja_ hanno la carne delicata, signor Viana. Non è la prima che
mangio.

— Aiutateci. —

Il castigliano non se lo fece dire due volte. Vedendo che il mozzo
teneva un coltello nella fascia se lo fece dare ed in pochi minuti
scuoiò la scimmia e la ripulì per bene delle interiora, gettando via
anche la testa.

Alvaro e Garcia accesero il fuoco, infilarono il quadrumane nella
bacchetta di ferro di uno dei fucili e lo misero ad arrostire.

Il castigliano intanto aveva fatto un giro attorno alle macchie ed era
tornato recando due cornetti formati con foglie di banano, pieni d’un
certo liquido che pareva vino bianco.

— _Assahy_, — disse, invitando Alvaro ad assaggiarlo. — Non vi farà
male, anzi!

— Da dove lo avete tratto?

— Da un albero dalla palma _assahy_. Può, questo liquido, surrogare il
vino.

— Arrosto e vino! Peccato che manchi il pane!

— Ne troveremo, ve lo prometto, — disse il marinaio. — Se qui non ho
veduto le piante che cercavo, in altro luogo non mancheranno.

La vita è facile nel Brasile e basta curvarsi per trovare di che
cibarsi e di che dissetarsi.

Ho imparato molte cose dagl’indiani che prima ignoravo assolutamente.

— Paese felice! — esclamò Alvaro.

— È poco che voi siete naufragati?

— Pochi giorni, signor Diaz. Vi narrerò la nostra istoria in attesa di
udire poi la vostra che deve essere meravigliosa.

— E anche dolorosa, signore, — rispose il marinaio.

Mentre sorvegliavano l’arrosto, Alvaro lo informò delle avventure
toccategli dopo il naufragio della caravella e della grande paura che
li aveva fino allora perseguitati, la paura di venire da un momento
all’altro presi e di dover subire l’orrenda sorte toccata ai loro
compagni.

— Dovevano essere Eimuri, quelli che hanno trucidato e mangiato i
vostri marinai, — disse Diaz. — Sono i più feroci indiani che abitano
le selve del Brasile e non risparmiano nessuno.

— L’arrosto è pronto, — disse in quel momento Garcia.

Levarono la scimmia la cui pelle era diventata lucente e croccante come
quella d’un giovane capretto e la deposero su una foglia di banano,
facendola a pezzi.

Dobbiamo confessare che i due portoghesi, quantunque la fame li
spronasse, esitarono parecchio prima di decidersi ad assaggiare quel
piatto che rassomigliava troppo..... ad un bambino arrostito.

Il marinaio invece, abituato alla vita selvaggia e che doveva aver
divorato un bel numero di quadrumani, si era messo a mangiare con un
appetito da caimano, invitandoli ad imitarlo.

La fame finalmente la vinse sulle loro esitazioni e con loro stupore
fecero molto onore a quell’arrosto che d’altronde era eccellente.

Vuotarono i due cornetti pieni d’un vino gradevolissimo, che
rassomigliava un po’ al sidro, poi si sdraiarono sotto l’albero,
mettendosi a fianco le armi.

— Possiamo riposare un paio d’ore senza correre il pericolo di venire
disturbati? — chiese Alvaro al castigliano.

— Gli Eimuri di rado si muovono quando il sole è troppo caldo, — disse.
— E poi ho prese le mie precauzioni per far perdere loro le mie tracce.

Saranno ben bravi se sapranno trovarle.

— Dunque v’inseguivano?

— Da quattro giorni.

— Allora venite molto da lontano.

— Il villaggio che mi ha ospitato si trova a sette giorni di marcia da
qui, in mezzo alle foreste.

— E non vi tornerete più?

— Sì, ma attendo che gli Eimuri si siano ritirati più al sud. Spero che
verrete anche voi. I Tupinambi vi accoglieranno bene, se presentati da
me che sono un _pyaie_ ossia lo stregone della tribù.

Che cosa vorreste fare qui soli, in queste immense foreste? Un giorno
o l’altro finireste sulla graticola dei Tamuri o dei Tupi che non sono
meno antropofagi degli Eimuri.

— Ed i Tupinambi non divorano i loro simili?

— Non meno degli altri ma... con me, nulla avrete da temere.

— La vostra istoria, signor Diaz. Mi avete messo indosso una viva
curiosità.

— Ai vostri ordini, signor Viana. —



CAPITOLO XII.

Il marinaio di Solis.


Tredici anni or sono — disse il marinaio, dopo essere rimasto qualche
minuto silenzioso, come per riordinare i suoi ricordi, — e precisamente
nel 1516, il governo di Castiglia che già da tempo aveva formato il
disegno di strappare al Portogallo questa immensa regione, per diritto
spettante a Cabral, che fu il primo a scoprirla, inviava una flottiglia
al comando di Vespucci, di Pinzon e di Solis, coll’ordine di fondare
delle città lungo la costa.

Fino già dai primi momenti, si era manifestata una profonda rivalità
fra i comandanti, ognuno dei quali pretendeva assumere la direzione
dell’impresa.

Amerigo Vespucci, che aveva già visitato il Brasile per conto del
Portogallo e che aveva già avuto una parte così importante nella
scoperta del continente americano, poteva vantare maggiori diritti
degli altri, pure si nutriva contro di lui una certa diffidenza essendo
stato prima ai servizi della corte di Lisbona.

Comunque sia la traversata fu compiuta e la flottiglia, dopo tre mesi,
approdava felicemente nella baia sulle cui rocce si è infranta la
nostra caravella[5].

Dopo aver rinnovate le provviste d’acqua e fatti alcuni scambi
cogl’indiani che non si erano mostrati così feroci come ai tempi
di Cabral, a cui, come saprete, avevano divorati alcuni marinai, la
flotta ripartì verso il sud. Esplorò un lungo tratto di costa, facendo
frequenti sbarchi per piantare croci in segno di sovranità castigliana,
finchè giunse all’imboccatura d’un fiume immenso che tutti noi dapprima
scambiammo per un braccio di mare.

Era invece il Rio de Plata, ma quando fummo giunti colà, le rivalità
tornarono nuovamente a scoppiare fra i comandanti.

Vespucci e Pinzon si rifiutarono di accompagnare il mio capitano e lo
abbandonarono per tentare altre scoperte.

Che cosa sia accaduto di loro, io non l’ho più saputo, poichè da
quell’epoca non ho più veduto nessun uomo bianco sbarcare qui.

— Rassicuratevi sulla loro sorte, — disse Alvaro. — Essi sono tornati
felicemente in Spagna.

— Solis, — riprese il marinaio, — non voleva riattraversare l’Atlantico
senza aver prima compiuta qualche impresa gloriosa e imbarcatosi su
una scialuppa s’inoltrò audacemente nell’immenso fiume. Io facevo
parte della spedizione godendo fama di buon pilota e anche di buon
archibugiere.

Seguimmo per parecchi giorni il fiume, accompagnati sulla riva più
prossima da torme d’indiani che ci invitavano a sbarcare.

Essendo però tutti armati di freccie e di giavatane, Solis che ad un
grande coraggio accoppiava una certa prudenza, si era sempre rifiutato
e sarebbe stato meglio che non avesse mai preso terra.

Quei selvaggi erano i _Charruà_, indiani audacissimi e anche
ferocissimi che altro non attendevano se non che noi scendessimo sulla
spiaggia per massacrarci e poi divorarci.

Avevamo esplorato un tratto rilevante di fiume, quando un giorno,
essendo gl’indiani scomparsi, Solis ebbe la malaugurata idea di volersi
internare nel paese.

Prese terra sul margine d’una foresta, lasciando a guardia della
scialuppa me con altri sei. Prima però che scomparisse mi nacque un
sospetto.

— Signor Solis, — gli gridai, — guardatevi dalle imboscate. —

Egli mi fece colla mano un gesto d’addio, e s’inoltrò sotto la foresta
colla sua minuscola truppa.

Noi eravamo in grande ansietà; io specialmente avevo indosso una
inquietudine tale da non poter star fermo.

La scomparsa dei selvaggi, che fino allora ci avevano sempre seguiti,
non mi pareva naturale. Presentivo un tradimento ed una catastrofe.

Era troppo tardi per poter arrestare Solis. Eppoi quell’uomo che non
aveva paura di nessuno e che maneggiava la spada come un guascone, non
mi avrebbe dato retta e avrebbe riso dei miei timori.

Mancava poco al tramonto, quando udimmo improvvisamente rimbombare
alcuni colpi di archibugio, seguiti da un clamore così spaventevole che
per parecchi giorni mi rintronò negli orecchi.

Nessun urlo di belva potrebbe darvi l’idea dell’urlo di guerra dei
selvaggi dell’America meridionale.

Io ero balzato in piedi, gridando ai miei uomini:

— Assalgono il capitano! Accorriamo in suo aiuto! —

Mi guardarono senza rispondere. Erano annichiliti dallo spavento.

Compresi che mai sarei riuscito a deciderli e d’altronde che cosa
avremmo potuto fare noi, che non sapevamo nemmeno da qual parte
dirigerci? Per parecchi minuti udimmo gli archibugi a sparare e le urla
dei _Charruà_, poi subentrò un silenzio assoluto.

Tutto doveva essere finito. Solis e la sua gente, sorpresi in qualche
imboscata abilmente preparata dagl’indiani, dovevano essere stati
massacrati.

I miei compagni mi pregarono di tagliare la corda dell’ancora e di
raggiungere al più presto la nave che ci aspettava all’imboccatura
del fiume; mi rifiutai recisamente di lasciare il posto almeno fino
all’alba dell’indomani.

Avevo la speranza che qualcuno fosse riuscito a sfuggire alla strage e
che giungesse da un momento all’altro sulla riva.

Quando la notte discese, vedemmo dei fuochi giganteschi ardere sotto i
boschi.

Impaziente di sapere qualche cosa sulla sorte toccata al mio sventurato
capitano, mi decisi a scendere a terra.

Essendosi i miei compagni rifiutati di accompagnarmi, sbarcai solo
portando con me un archibugio ed uno spadone.

I fuochi che continuavano ad ardere sul fianco d’una collina boscosa,
mi servivano di guida. Mi gettai sotto gli alberi e procedendo
guardingo e silenzioso, mi avanzai nella boscaglia, col cuore
trepidante, credendo ad ogni passo di sentirmi trapassare le carni da
qualche lancia o di sentirmi fracassare il cranio da quelle terribili
mazze di legno del ferro che già avevo veduto nelle mani dei selvaggi.

I _Charruà_ invece, convinti di averci tutti distrutti, non avevano
lasciato il luogo ove era caduto Solis, sicchè dopo una mezz’ora
d’angoscie inenarrabili e di incessanti terrori, potei giungere a soli
centocinquanta passi dall’accampamento dei selvaggi.

Uno spettacolo atroce, che non dimenticherò mai, anche se dovessi
vivere mille anni, s’offerse ai miei occhi.

Su un braciere immenso, disposti su una specie di graticola formata
da grossi rami verdi, arrostivano nove dei miei disgraziati compagni,
imbrattati di sangue dal capo alle piante.

Quasi tutti avevano il cranio sfracellato, senza dubbio dalle
pesantissime mazze dagl’indiani.

— Canaglie! — esclamò Alvaro facendo un gesto di disgusto.

— In mezzo a quei miseri, le cui carni crepitavano al contatto delle
fiamme, spandendo all’intorno un odore nauseante, distinsi Solis.

Aveva la gola aperta e la testa schiacciata.

Intorno, più di duecento _Charruà_, nudi come vermi, ma adorni di
collane formate da denti di caribbi, quei piccoli pesci voraci di carne
umana che infestano i fiumi di questi paesi, parevano aspettassero
qualche cosa. Erano, tutti armati di lancie e di mazze e di archi
grandissimi.

Ad un tratto un urlo straziante giunse ai miei orecchi.

— Grazia! Grazia! —

Quattro indiani di statura gigantesca trascinavano un marinaio, il
quale si dibatteva disperatamente tirando calci nelle gambe dei suoi
guardiani.

L’avevano preso vivo, ma la sorte di quel disgraziato non doveva essere
migliore degli altri che erano caduti colle armi in pugno.

Vidi i _Charruà_ trascinarlo verso una enorme pietra, sulla cui
superficie era stato tracciato una specie di canaletto e gettarvelo
sopra dopo averlo legato in modo da impedirgli di fare il menomo
movimento.

Io, inorridito, non osavo fiatare. D’altronde che cosa avrei potuto
fare contro quei duecento e più indiani?

Quando il mio sfortunato camerata fu legato, vidi uscire dalle file dei
_Charruà_ un indiano dipinto metà in azzurro e metà di nero, carico di
collane e di braccialetti formati di denti di caimani, di giaguari e di
vertebre di serpenti e col capo adorno d’un enorme ciuffo di penne di
pappagallo.

In una mano teneva una specie di coltello formato con una conchiglia
affilatissima e nell’altra una ciotola di terra cotta.

Il mostro s’avvicinò alla vittima che urlava in modo straziante e con
un colpo rapido lo scannò lasciando scorrere il sangue nel canaletto e
che subito raccolse nella ciotola.

Stava per accostarsela alle labbra, quando stramazzò al suolo colpito
da una palla.

Avevo fatto fuoco sul miserabile senza pensare al pericolo a cui mi
esponevo.

Udendo questo sparo e vedendo cadere lo stregone della tribù, i Charruà
erano rimasti come inebetiti.

— E avete approfittato del loro stupore per fuggire, — disse Alvaro.

— Sì, signor Viana. Mi precipitai giù per la collina, correndo
all’impazzata e quando udii le urla di rabbia degl’indiani e m’accorsi
che si preparavano a darmi la caccia, ero già ben lontano.

In pochi minuti attraversai lo spazio che mi separava dal fiume. E una
terribile sorpresa mi aspettava.

I miei compagni, credendomi ormai perduto, erano fuggiti lasciandomi
solo fra quelle foreste e coi Charruà alle spalle!

— I vili! — esclamarono ad una voce Alvaro e Garcia.

— Mi credetti perduto, — proseguì il castigliano. — Udivo le urla
furiose dei Charruà avvicinarsi con fantastica rapidità.

In quel momento ebbi una ispirazione. Non avevo veduto nessuna _canoa_
indiana sul fiume quindi supposi che i Charruà non ne possedessero.

Essendo un buon nuotatore, decisi di gettarmi in acqua. Era d’altronde
la sola via di scampo che mi rimaneva.

Se fossi tornato nella foresta, quei demoni non avrebbero tardato a
scoprirmi e gettarmi più tardi sulla graticola sulla quale stavano
cucinando il capitano ed i suoi marinai.

Confidando nelle mie forze e nella mia abilità, mi gettai il fucile in
ispalla, mi spogliai rapidamente delle vesti e balzai nel Plata, che in
quel luogo era largo non meno di sei o sette chilometri.

Quando i Charruà giunsero sulla riva io mi trovavo già in mezzo al
fiume.

Nuotavo vigorosamente guardandomi alle spalle, paventando sempre di
vedermi dietro qualche selvaggio.

A mezzanotte mi trovavo a due o trecento passi dalla riva opposta.
Cominciavo a rallegrarmi, quando provai ad una gamba un dolore così
intenso che mi strappò un grido.

Mi pareva che qualche pesce mi avesse cacciato nella carne un ago e che
mi avesse levato di colpo un brandello di carne.

Spaventato, non sapendo veramente a che cosa attribuire quel dolore,
affrettai il nuoto. Un momento dopo un altro morso, non meno doloroso
del primo, mi strappava un secondo urlo, poi mi sentii scivolare fra le
gambe e le braccia miriadi di pesci i quali mi assalivano da tutte le
parti con furore, piantandomi i denti dappertutto.

— Che cos’erano? — chiese Alvaro che s’interessava grandemente a quel
racconto emozionante.

— Ero caduto in mezzo ad una banda di _caribi_.

— Non so che cosa siano.

— Ve lo dirò poi. Fortunatamente, come vi dissi, la riva era vicina.
Nuotando disperatamente la raggiunsi e mi issai faticosamente fra le
piante che la coprivano.

In quale stato mi avevano ridotto quei piccoli mostri! Il sangue mi
usciva da cento fôri e la mia pelle era bucherellata peggio che una
schiumarola.

— Quei pesci erano molto grossi dunque? — chiese Alvaro.

— Sì, come la mano del vostro mozzo o tutto al più come la vostra, —
rispose Diaz, ridendo. — I _caribi_ sono peggiori degli _jacarè_ ossia
dei caimani e sono così avidi della carne umana che quando s’imbattono
in un nuotatore in pochi minuti se lo divorano vivo non lasciando
intatto che lo scheletro.

Oh farete anche voi, una volta o l’altra la loro conoscenza, non
ne dubitate e allora mi saprete dire che denti posseggono quei
mostriciattoli che a ragione si considerano come un vero flagello dei
fiumi sud-americani.

— Li lascio ben volentieri agl’indiani, — disse il portoghese. —
Proseguite, mio caro Diaz.

— Rimasi quasi una settimana nascosto nelle foreste, prima di essere
in grado di mettermi in marcia, vivendo di frutta, di radici e qualche
volta di caccia, poi mi accinsi alla grande impresa che avevo meditato.

   [Illustrazione: Un vecchio indiano si mise a spaccare gli
   arrosti.... (CAP. II).]

Sapevo che gli spagnuoli avevano fondato degli stabilimenti nel
Venezuela e mi ero fisso in capo di raggiungerli.

Si trattava d’un viaggio che poteva durare qualche anno se non di più,
d’altronde era l’unica via di salvezza che mi si presentava.

Camminai settimane e settimane attraverso boschi immensi che non
finivano più, evitando i villaggi indiani per non terminare sulla
graticola, ed addentrandomi sempre più nel Brasile, finchè un giorno
caddi in mezzo ad un accampamento di Tupinambi. Sia che il colore della
mia pelle, o la mia lunga barba o le vesti formate di pelliccie di
giaguaro imponessero a quei selvaggi non so quale rispetto o per altra
causa, essi, invece di uccidermi e di mangiarmi, mi accolsero come un
amico. Essendo morto qualche settimana prima il loro stregone, dopo
essere stato mutilato da un _jacarè_, mi nominarono al suo posto ed
ecco come divenni un _pyaie_.

Erano trascorsi molti anni ed avevo ormai rinunciato all’idea di poter
rivedere un volto europeo, quando gli Eimuri piombarono sui nostri
villaggi, disperdendo la tribù.

Vinti dappertutto, fuggimmo nelle foreste, ognuno per proprio conto
e, smarritomi, venni qui. Non benedirò le devastazioni commesse dagli
Eimuri ma penso che senza il loro assalto, non avrei forse più mai
potuto vedere un uomo della mia razza.

Signor Viana, questo è il più bel giorno della mia vita, ve lo assicuro.

— E contate tornare presso i Tupinambi?

— E spero che verrete anche voi. Ho ormai capito che voler raggiungere
gli stabilimenti spagnuoli del Venezuela sarebbe una pazzia e vi ho
rinunciato.

— Ebbene, andiamo a vedere questi Tupinambi, — disse Alvaro, — purchè
non ci mettano sulla graticola.

— Oh! I fratelli dello stregone! Hanno troppa paura di me che godo fama
di essere il più potente _pyaie_ della regione.

— Quando partiremo?

— È troppo tardi per metterci in viaggio, signore. Questa notte
fermiamoci qui, domani vedremo se la via è sgombra e allora
c’incammineremo verso l’ovest.

Gli Eimuri non usano fermarsi molto e ritornano, dopo un certo tempo,
nelle loro selve.

— Prepariamoci allora un buon letto e chiudiamo un occhio, ma uno solo,
— disse Alvaro.

— Sì, come i marinai di guardia, — aggiunse il castigliano.



CAPITOLO XIII.

Gli Eimuri.


Rassicurati dalla tranquillità che regnava, almeno pel momento, nella
immensa foresta, Alvaro, il castigliano ed il mozzo, avevano chiusi gli
occhi.

Erano tutti stanchi dalle lunghe marce dei giorni precedenti ed una
buona dormita era più che necessaria per prepararli al lungo viaggio
che contavano riprendere l’indomani onde mettersi in cerca della tribù
dei Tupinambi, che forse era tornata ai suoi villaggi.

Dormivano però, come aveva detto il castigliano, con un solo occhio,
come i marinai di guardia. Ed infatti or l’uno o l’altro, temendo
sempre una sorpresa da parte degli Eimuri che scorazzavano tutti i
dintorni della baia, si svegliava per ascoltare.

Per parecchie ore ai loro orecchi non erano giunti che i fischi
stridenti delle _parraneca_ ed i muggiti rauchi dei rospi, ma poco dopo
la mezzanotte, al castigliano, che aveva l’udito più acuto degli altri
parve di udire un sussurrio che non si poteva confondere colla atroce
cacofonia dei batraci.

Abituato da tanti anni ai rumori delle foreste, non si poteva
ingannare. Non volendo però rompere il sonno dei suoi compagni, che
russavano beatamente, con un falso allarme, si rizzò ascoltando meglio.

In lontananza si udiva un brusìo che a qualunque altro orecchio meno
esercitato sarebbe sfuggito. Pareva che degli uomini marciassero in
gran numero in mezzo alla sterminata foresta.

Mise una mano sulla testa di Alvaro, scuotendola leggermente e
dicendogli:

— Svegliatevi, signor Viana! —

Il portoghese che non aveva già il sonno troppo duro, aprì subito gli
occhi e si alzò a sedere guardando il marinaio di Solis.

— Che cosa avete? — gli chiese.

— Si avanzano.

— Chi?

— Io non so se siano gli Eimuri od altri che fuggono dinanzi
all’invasione.

Degli uomini e molti, a quanto mi sembra, s’avanzano attraverso
la foresta e mi pare che non sarebbe prudente rimanere più a lungo
coricati:

— Ah! Diavolo! Dormivo così bene!

— In questi paesi bisogna essere sempre pronti a fuggire. La
tranquillità qui non è mai esistita.

— Dobbiamo andarcene?

— No, — rispose il castigliano.

Alvaro lo guardò con stupore.

— Allora perchè mi avete svegliato?

— Per cercare un asilo più sicuro.

— Senza fuggire?

— Non vi è bisogno. Io ho sovente ingannati gl’indiani che mi davano la
caccia per mettermi allo spiedo o alla graticola, facendo appena pochi
passi.

Guardate, vi è qui quest’albero che ci servirà a meraviglia e che
imbroglierà maledettamente gl’indiani i quali si romperanno invano la
testa per cercare le nostre tracce.

Svegliate il mozzo e non perdiamo il tempo. —

Garcia, udendoli a parlare, erasi già alzato. Informato rapidamente del
pericolo che li minacciava, il bravo ragazzo si limitò a dire:

— Bah! abbiamo gli archibugi e sapremo bene accogliere quei mangiatori
di carne umana.

— E gli avanzi del fuoco? — chiese ad un tratto Alvaro, mentre si
disponevano a dare la scalata all’enorme _summameira_.

— Lasciate le ceneri e anche i tizzoni, — rispose Diaz. — Anzi
serviranno ad imbrogliare maggiormente i selvaggi. —

Vi erano delle liane, delle _sipò_ che pendevano dalla pianta e che
potevano servire a meraviglia per salire sull’albero, il cui tronco,
troppo enorme, non si poteva abbracciare.

I due portoghesi ed il castigliano ne approfittarono per raggiungere
i rami della pianta, poi le tagliarono per impedire ai selvaggi di
servirsene, ma si guardarono bene dal lasciarle cadere al suolo onde
non tradire la loro presenza.

— Vedrete che non verranno a cercarci quassù, — disse il marinaio
di Solis. — Pare impossibile, eppure i selvaggi, allorquando
sono inseguiti, non hanno mai pensato a cercare un rifugio sugli
alberi. —

Salirono più in alto, dove i rami erano più grossi e la vegetazione più
folta e attesero, con una inquietudine facile a supporsi, l’arrivo di
quella truppa che marciava attraverso la foresta.

Fossero Eimuri, Tupy od altri selvaggi, il pericolo era eguale giacchè
tutti erano nemici dei Tupinambi e terribili divoratori di carne umana.

Erano insomma, come diceva il marinaio di Solis, uomini che dovevano
assolutamente evitare, per non correre il pericolo di finire, in un
modo o nell’altro sulla graticola o allo spiedo.

Il rumore avvertito da Diaz continuava. Una banda e molto
considerevole, a quanto pareva, attraversava la foresta, e sia che
seguisse qualche traccia od a caso, si dirigeva appunto verso quella
radura di cui il colossale _summameira_ formava il centro.

— Che siano i vostri nemici che vi davano la caccia? — chiese Alvaro
che aveva preparate le sue armi.

— Lo sapremo presto, — rispose Diaz che ascoltava attentamente.

— Che possano essere i vostri?

— I Tupinambi? No, è impossibile! Ancora ieri gli Eimuri mi davano
la caccia, dunque finchè non si ritireranno nelle loro selve, nessun
indiano della mia tribù avrà osato tornare.

E poi so che sono fuggiti verso l’ovest e non già verso il mare.

— Così terribili sono questi Eimuri?

— Somigliano più alle belve che agli uomini e nulla risparmiano sul
loro passaggio.

— Da dove vengono?

— Dalle regioni meridionali. Spinti chissà da quali bisogni, di quando
in quando emigrano verso i paesi più ricchi, tutto distruggendo e
nessuno ha mai saputo vincerli. Il loro solo nome sparge un tale
terrore, che anche le tribù più valorose piuttosto che affrontarli
preferiscono fuggire, lasciando i villaggi e le piantagioni indifese.

— Eppure sono uomini.

— Chi lo sa? — rispose il marinaio di Solis. — So che camminano come le
belve, colle mani e coi piedi.

Sono scimmie od uomini? Io non lo so, signor Viana.

— Allora li giudicheremo meglio, se sono veramente gli Eimuri quelli
che stanno avanzandosi. —

— Non devono essere lontani.

— Anzi ecco i loro esploratori, — mormorò Diaz. — Li vedete? —

Quantunque l’ombra proiettata dalle piante aumentasse considerevolmente
l’oscurità, il signor Viana ed il mozzo, scorsero due forme che
parevano più animalesche che umane, sbucare dai cespugli e avanzarsi
cautamente nella radura.

Camminavano come le belve, colle mani e coi piedi e senza produrre il
più lieve rumore.

— Eimuri? — chiese sottovoce Alvaro.

— Sì, — rispose il marinaio.

— Li avrei presi per due giaguari.

— Ne hanno infatti l’andatura.

— Che si arrestino qui o che proseguano?

— Se seguivano le mie tracce si arresteranno qui per cercarle. —

I due selvaggi attraversarono la radura, poi si fermarono entrambi
mandando un grido rauco.

— Hanno scoperto gli avanzi del nostro fuoco e della cena, — disse Diaz.

— Che cosa faranno ora?

— Aspetteranno i compagni per consigliarsi.

— Purchè non venga a loro il sospetto che noi ci troviamo quassù.

— Non temete, — rispose Diaz. — E poi questi antropofagi non hanno mai
conosciute le armi da fuoco e un paio di moschettate non mancheranno di
spargere un terrore invincibile fra le loro file. —

I due selvaggi si erano messi a rovistare la cenere, per vedere se vi
era ancora qualche scintilla ed accertarsi se la fuga dello stregone
dei Tupinambi datava da pochi minuti o da parecchie ore.

Furono uditi a mormorare, poi uno di loro riattraversò la radura
correndo come un lupo rosso e rientrò nella foresta, mentre l’altro si
sedeva accanto alle ceneri.

Qualche minuto dopo Alvaro ed i suoi compagni udivano i rami e le
foglie a muoversi nuovamente nella foresta. La banda che doveva essersi
arrestata in attesa dei suoi esploratori, aveva ripresa la marcia.

Infatti cinque minuti più tardi, una trentina di selvaggi invadeva la
radura, fermandosi a breve distanza del _summameira_.

— Sono in buon numero, — mormorò Alvaro che non si sentiva troppo
tranquillo, non ostante le continue assicurazioni del marinaio di
Solis. —

I selvaggi si sedettero in circolo mentre tre o quattro radunavano dei
rami secchi e fregavano su dei piccoli bastoni d’un legno speciale di
cui i brasiliani si servivano per accendere il fuoco, essendo a loro
affatto sconosciuto l’uso dell’acciarino e delle selci.

Bentosto una fiamma brillò e la legna, ben secca, prese fuoco
illuminando la radura.

— Come sono brutti! — non potè trattenersi dal mormorare il mozzo.

Ed infatti quei selvaggi erano davvero orribili. Avevano i lineamenti
assolutamente scimmieschi, angolosi, la fronte bassissima, gli occhi
cisposi, i capelli lunghi, neri e grossolani che somigliavano a crini
di cavallo, i corpi magrissimi, coperti per la maggior parte di strati
di colori e di sudiciume.

Intorno ai fianchi non avevano che qualche brandello d’una stoffa
grossolana, presa probabilmente ai nemici vinti od un fascio di foglie
secche.

Sopra il mento poi portavano tutti l’orribile _barbotto_ costituito
da un pezzo di legno più o meno rotondo, incastrato nella carne e che
rialzava schifosamente il labbro inferiore.

Le loro armi consistevano in mazze pesantissime di legno del ferro ed
in bastoni appuntiti ed induriti col fuoco e in pochi archi con frecce
lunghissime formate con bambù e munite sulla punta di pungiglioni delle
acacie.

I selvaggi dopo essersi disputati accanitamente gli avanzi della
cena e d’aver divorata cruda la testa della scimmia, tennero un breve
consiglio, poi si dispersero per la radura esaminando le erbe.

Come già Alvaro aveva osservato, invece di tenersi ritti, camminavano
come le fiere, posizione che a quanto pare preferivano a quella
verticale.

Da dove venivano quei selvaggi che di quando in quando, ad epoche mai
fisse, si rovesciavano in numero strabocchevole sulle immense selve
del Brasile, devastando tutti i villaggi e divorando quanti prigionieri
cadevano nelle loro mani?

Gli storici americani non sono mai riusciti a saperlo con precisione.

I brasiliani affermavano che venivano dalle regioni australi e poteva
anche essere vero, essendo quei formidabili invasori molto più alti di
statura degli altri indiani e può darsi che fossero gli avi dei Pampas
e dei Patagoni.

Avevano però più somiglianza colle belve che cogli esseri umani anche
pel loro modo di vivere.

La loro lingua, se si può veramente chiamarla tale, non era che un
confuso e rauco suono da nessuno compreso, che pareva uscisse più dalle
cavità del petto che dagli organi della gola.

La sola cosa che li distingueva dalle belve era quella di strapparsi
tutti i peli del corpo, perfino le ciglia, e di tagliarsi di quando in
quando i capelli.

Del resto andavano completamente nudi, non sapevano costruirsi capanne,
dormivano nei boschi come i giaguari ed i coguari, limitandosi a
ritirarsi sotto le piante più fitte quando sopraggiungeva la stagione
delle grandi pioggie e preferivano camminare colle mani e coi piedi,
correndo con tale velocità da non poterli raggiungere nemmeno coi
cavalli.

Erano poi terribili divoratori di carne umana. Mentre i brasiliani
mangiavano i loro nemici più per soddisfare le loro vendette che
per altro, gli Eimuri li mangiavano invece per abitudine, come se si
trattasse d’una selvaggina qualunque e quello che è più orribile, il
più delle volte li divoravano crudi.

Il loro modo di guerreggiare, li rendeva estremamente pericolosi. Non
correvano mai all’assalto; ma attendevano invece i nemici in mezzo alle
foreste, sorprendendoli a tradimento e non avevano paura che d’una sola
cosa: dell’acqua! Un fiumicello qualunque bastava ad arrestarli.

Anche quando i Portoghesi, alcuni anni più tardi, si furono solidamente
stabiliti sulle coste brasiliane, innalzando opulente città, gli Eimuri
fecero le loro periodiche invasioni e vi fu un’epoca che misero in
grave pericolo le colonie, minacciando la rovina di Porto Seguro e di
Os-Ilhèos.

Erano comparsi in masse enormi, assalendo fieramente i villaggi dei
Tupinambi e dei Tupinichini, poi si erano rovesciati sulle capitanerie
di Porto Seguro e d’Os-Ilhèos che erano popolatissime di portoghesi.

Questi, credendo che quei selvaggi non avessero l’audacia di assalire
le città costiere, non se n’erano dati gran pensiero. Solamente il
governatore, che era Men di Sa, un vero valoroso, era prontamente
accorso con un buon nerbo di truppe, credendo di aver facilmente
ragione di quei selvaggi.

Infatti attaccata una delle loro colonne, mentre questa era intenta a
costruirsi dei ponti con dei tronchi d’albero, l’aveva, dopo un aspro
combattimento, spinta verso il mare e sterminata, cacciando in acqua i
superstiti.

Credeva di aver arrestata l’invasione, quando pochi giorni dopo i
portoghesi, con grande stupore e anche spavento, videro le coste e le
alture dominanti Porto Seguro coprirsi di selvaggi!

Men di Sa uscì coraggiosamente ad incontrarli e riuscì a respingerli
dopo una lunga serie di battaglie sanguinosissime, ma la capitaneria
d’Os-Ilhèos era stata già distrutta da quei formidabili selvaggi.

Ci vollero parecchi anni prima di sbarazzare il Brasile dagli Eimuri i
quali furono finalmente quasi interamente distrutti.

Solo poche centinaia furono risparmiati e confinati a sessanta leghe
dalle coste, coll’obbligo di non più mai avanzarsi. Altri furono
condotti in schiavitù, ma erano quegli antropofagi così insoffribili
d’ogni servitù, che morirono poco dopo quasi tutti di fame, preferendo
la morte alla privazione della libertà.



CAPITOLO XIV.

La caccia agli uomini bianchi.


Gli Eimuri che avevano invasa la radura, dovevano aver seguite le
tracce lasciate dal marinaio castigliano durante la sua fuga attraverso
le foreste.

Quell’accanimento contro un uomo solo, era derivato dal desiderio
di assaggiare le carni di quell’individuo di colore così diverso dai
selvaggi brasiliani o da altro? Se si fosse trattato d’una tribù, i cui
membri potevano fornire carne umana in abbondanza, quella caccia era
spiegabile, ma ad Alvaro e fors’anche a Diaz non pareva naturale.

Gli Eimuri parevano furiosi di non ritrovare le tracce del fuggitivo
che da parecchi giorni, con una costanza incredibile, seguivano
risoluti, a quanto pareva, d’impadronirsene.

Dopo d’aver percorsa in tutti i sensi la piccola radura, erano tornati
a radunarsi intorno al fuoco, manifestando il loro malumore con una
serie di ruggiti e di urla rauche, che ben poco avevano di umano.

Certo la mancanza improvvisa di tracce, che il suolo umido della
foresta avrebbe dovuto rendere facilmente visibili, doveva averli
scombussolati e anche assai imbarazzati.

Gesticolavano animatamente, scambiandosi le loro idee ed impugnavano le
loro pesanti mazze, agitandole forsennatamente.

Per fortuna nessuno di essi aveva rivolto uno sguardo al _summameira_.
Il sospetto che l’uomo bianco potesse essersi nascosto fra le folte
fronde dell’albero, almeno fino allora, non era ancora passato nei loro
cervelli.

Per qualche ora tennero consiglio, poi Alvaro ed i suoi compagni li
videro riprendere le armi e scomparire nuovamente nella foresta, divisi
in parecchi drappelli.

— Cercano le mie orme, — disse Diaz, quando non li vide più, e ogni
rumore cessò.

— Come spiegate tanto accanimento? — chiese Alvaro. — Forse pel
desiderio di assaggiare della carne che ha la pelle bianca?

— No, rispose il marinaio. — Io credo che anche cadendo nelle loro
mani, la mia vita non correrebbe pericolo alcuno.

— Spiegatevi meglio.

— Dai Tupinambi che hanno affrontato quelle orde, ho saputo che il loro
_pyaie_ in un accanito combattimento è stato ucciso da una freccia.

Io suppongo che mi abbiano inseguito per tanti giorni, per fare di me
lo stregone delle loro tribù.

Chissà, la fama che i Tupinambi possedessero un _pyaie_ dalla pelle
bianca, può essere giunta fino a loro e mi hanno così ostinatamente
inseguito, pel desiderio di avermi.

Non saprei spiegarmi altrimenti questa caccia. Che cosa
rappresenterebbe per loro un uomo? Appena una colazione.

— Comincio a crederlo anch’io, Diaz, — rispose Alvaro. — Che ritornino?

— Non ne dubito. Quando si persuaderanno che le mie tracce non si
trovano nella foresta, noi li vedremo ricomparire.

— Se ci scoprissero?

— Non sospetteranno mai che noi ci troviamo così vicini. Ah! I
maledetti! Non avevamo pensato alle _caraja_ e saranno queste che
tradiranno la nostra presenza. —

I quadrumani, quantunque privi del loro maestro concertatore, già
digerito dai tre europei, avevano improvvisamente incominciato il loro
assordante concerto notturno.

Non vedendosi più inquietati, si erano ritirati sui più alti rami
dell’enorme albero e di lassù lanciavano le loro grida strepitose,
gonfiando enormemente i loro gozzi per sviluppare maggior forza.

— Mille demoni! — esclamò Alvaro. — Non mi ricordavo più di queste
noiosissime scimmie.

— Le quali costituiranno per noi un gravissimo pericolo, signor Alvaro,
— disse Diaz.

— Per quale motivo?

— Se gli Eimuri tornano, udendo le urla di queste scimmie, cercheranno
d’ammazzarle e allora ci scopriranno.

— Dobbiamo uccidere quelle ciarlone prima che i selvaggi siano qui.

— Bisognerebbe salire fino sui più alti rami e finirle a colpi di
coltello, impresa difficile e sommamente pericolosa. Io non oserei
giammai servirmi dei nostri fucili.

— E le mie armi, non le contate? — chiese Diaz.

— Le vostre armi! — esclamò Alvaro. — Non avete che un tubo che non mi
pare possa nemmeno servire come un bastone.

— Allora vi farò vedere quanto possa diventare pericoloso questo tubo,
specialmente quando vi metto entro una buona freccia intinta nel sugo
mortale del _vulrali_.

— _Vulrali!_ che cos’è?

— Un veleno potentissimo che uccide un uomo in meno d’un quarto di
minuto e che fulmina le scimmie. Mi volete vedere alla prova?

— E le scimmie cadranno a terra? In tale caso ci tradiranno egualmente.

— No, — disse il marinaio. — Rimarranno sospese alla loro coda. —

Le caraja non si lasciano cadere, anche se sono morte.

Ora vedrete. —

Diaz si tolse dalle spalle quella specie di tubo che fino allora
Alvaro aveva scambiato per un bastone o tutt’al più per un giavellotto,
quantunque non avesse alcuna punta atta a ferire.

Era la famosa _gravatana_ dei brasiliani, ossia una cerbottana, formata
con due pezzi di legno scavati accuratamente e riuniti perfettamente
con una fibra di _jacitura_, assai pesante e lunga un paio di metri.

Nella parte inferiore vi era una specie di mirino formato da una tacca
di legno, appiccicata con della resina.

Diaz vi soffiò dentro, poi svolse un pezzo di pelle che portava appeso
alla cintura e levò una piccola freccia formata colla nervatura d’una
foglia, munita da una parte d’una spina acutissima coperta d’una
sostanza bruna e dall’altra fasciata d’un batuffolo di cotone, preso
probabilmente dal _bombax coiba_, albero comunissimo nel Brasile.

— Avvelenata? — chiese Alvaro.

— E con quale veleno! — rispose il marinaio. — I Tupinambi sono
possessori del segreto del _curaro_ o meglio del _vulrali_ e perciò
sono assai temuti, giacchè non tutte le tribù brasiliane sanno
distillarlo.

— Sicchè le scimmie, se mangiate, avveleneranno i loro mangiatori.

— No, signore, — rispose il marinaio. — Il _vulrali_ può essere
assorbito senza che la persona ne risenta alcun disturbo.

Per le vie digestive è affatto inoffensivo e voi potete mangiare
tranquillamente la bestia uccisa da queste minuscole frecce.

Ecco le _caraja_ che si dispongono in cerchio per urlare. Le farò star
zitte subito. —

Diaz introdusse nella cerbottana una delle sue freccie, badando che il
batuffolo di cotone combaciasse perfettamente, poi accostò l’arma alle
labbra e l’alzò verso i rami più alti del _summameira_.

Si udì un leggiero fischio, appena percettibile e si vide subito
uno dei cantori fare un gesto come se volesse scacciare un insetto
importuno e grattarsi.

La piccola freccia, lanciata con abilità straordinaria dal marinaio,
gli si era conficcata nel dorso.

— State attento, — disse Diaz mentre introduceva nel tubo una seconda
freccia.

Il quadrumane era rimasto colla bocca aperta, ma non urlava più.
Sbadigliò spalancando le mascelle, poi come fosse stato scosso da una
scarica elettrica s’alzò, brancolando a casaccio, arrotolò rapidamente
la coda attorno ad un ramo e cadde dondolandosi comicamente a trenta
metri dal suolo.

— Mille demoni! — esclamò Alvaro. — È morte fulminante questa!

— Il _vulrali_ non perdona, — rispose il marinaio. — Ve ne sono altre
sette lassù e ho una ventina di freccie. Spicciamoci prima che gli
Eimuri tornino.

Lanciò una seconda freccia, poi una terza, quindi altre ancora senza
mai mancare al bersaglio.

Due minuti dopo i poveri quadrumani non urlavano più. Pendevano come
grappoli alle estremità dei rami, senza dare il menomo segno di vita.

— Ebbene, che cosa ne dite del mio tubo che a voi sembrava un semplice
bastone? — chiese Diaz al portoghese.

— Che vale meglio dei nostri archibugi, — rispose Alvaro che non si era
ancora rimesso dallo stupore.

— Uccide senza far rumore, — disse il marinaio. — Peccato che io non
abbia che pochissime freccie, ma conosco il segreto di fabbricare il
_vulrali_ ed a suo tempo provvederò anche voi di gravatane.

Non è cosa difficile distillare quel veleno, quando si conoscono le
piante che lo forniscono.

— Chi ve lo ha insegnato? —

— Un vecchio capo dei Tupinambi. È un segreto che si trasmette
solamente ai _pyaie_ e che tutti gli altri ignorano.

Ecco il perchè quegli indiani non potrebbero fare senza di me.

— Ditemi, Diaz, che gli Eimuri abbiano saputo che voi siete il
possessore di tale segreto?

— Può darsi, — rispose il marinaio. — Ah! Ecco che ritornano! Li odo
attraversare la foresta. Non desidererei che ci scoprissero.

— Bah!.. Non sospettano nemmeno che noi siamo così vicini.

— E le scimmie? — chiese Garcia che conosceva abbastanza lo spagnuolo
per comprendere qualche frase.

— Pendono fra le foglie e nessuno le scoprirà, — rispose il marinaio.

Gli Eimuri tornavano verso la radura e parevano furiosi per non aver
ritrovato le traccie del _pyaie_ dalla pelle bianca.

I drappelli giungevano uno dietro all’altro, radunandosi attorno al
fuoco che non si era ancora spento.

Mugolavano come belve e manifestavano la loro rabbia impugnando le
loro mazze e agitandole minacciosamente come se si preparassero ad un
combattimento.

— Sono furibondi, — disse il marinaio. — Cercate pure, le mie orme non
le troverete di certo.

— Che non si decidano ad andarsene? — chiese Alvaro.

— Quassù non stiamo mica male, signore. Le foglie sono foltissime e non
ci scorgeranno.

— Preferirei però che se ne andassero prima che spunti il sole, — disse
Alvaro.

— Non rimarranno qui eternamente. —

Gli Eimuri tennero un nuovo consiglio e poi si alzarono e ritornarono
nella foresta tutti in gruppo.

Il marinaio attese che ogni rumore fosse cessato, poi disse ad Alvaro.

— Credo che sia giunto il momento di andarcene. Non torneranno più qui.

— Che cerchino le nostre traccie nella foresta? —

— Può darsi, ma perderanno inutilmente il loro tempo e noi
approfitteremo per fuggire verso l’ovest. —

— Scendiamo, — disse Alvaro. — Ne ho abbastanza di quest’albero.

— Aspettate un momento. Possono tornare improvvisamente colla speranza
di sorprenderci. —

Rimasero immobili parecchi minuti, ascoltando attentamente, poi
rassicurati dal profondo silenzio che regnava nella immensa foresta
calarono le liane che avevano ritirate e si lasciarono scivolare fino
al suolo.

— Si sono diretti verso il settentrione, — disse il marinaio, — e noi
ci dirigeremo verso occidente invece.

I villaggi dei Tupinambi si trovano verso il mezzodì, ma a noi non
conviene prendere quella direzione. Incontreremmo sulla nostra via il
grosso o le retroguardie degli Eimuri.

Andiamo, signor Viana e giuochiamo bene di gambe, come diciamo noi
marinai. —

Pochi istanti dopo i due naufraghi ed il castigliano abbandonavano la
radura scomparendo rapidamente nella foresta immensa.



CAPITOLO XV.

Le anguille tremanti.


Per cinque lunghissime ore il piccolo drappello marciò senza
interruzione in quella gigantesca boscaglia, passando di macchia in
macchia e non facendo che qualche brevissima sosta per ascoltare se
udivasi qualche rumore che annunciasse un inseguimento da parte di quei
formidabili mangiatori di carne umana.

Alle nove del mattino, completamente esausti e anche molto affamati,
si arrestavano sulle rive d’un fiume largo una quarantina di metri ed
ingombro di piante acquatiche sotto le quali potevano benissimo celarsi
degli anfibi e anche dei pesci, tutt’altro che inoffensivi.

— Eccoci già a buon punto, — disse il marinaio scendendo la riva. —
Se possiamo trovare un guado e nessuno ci ostacolerà il passaggio, non
avremo più nulla da temere da parte degli Eimuri che mi cercavano.

Quei selvaggi hanno troppa paura dell’acqua e per costruire un ponte
con tronchi d’albero ci vuole del tempo.

— Gettiamoci a nuoto, — disse Alvaro. — L’acqua non mi sembra profonda
e la corrente è poco rapida.

— Alto là, signore, — rispose il marinaio. — I fiumi del Brasile non
sono quelli del vostro paese e nemmeno quelli del mio.

Sono forse più pericolosi delle foreste.

— Non scorgo nessun _jacarè_.

— Se vi fossero solamente dei caimani, non mi preoccuperei tanto, mio
signore. Non sono sempre affamati e poi non sempre assaltano l’uomo.

— Allora temete i _caribi_.

— No, non ve ne devono essere qui. Quei mostriciattoli preferiscono le
acque profonde e limpide.

— Che cosa dunque può spaventarvi tanto?

— Il _sucuriù_.

— Eh! Dite?

— Il boa dei fiumi, un rettile di dimensioni enormi che talvolta
raggiunge i dodici metri.

— Ah! Ne abbiamo veduto anche noi di quei boa e ne abbiamo ucciso anzi
qualcuno.

— Ora ci accerteremo, prima di mettere le gambe in acqua, se ve ne sono
qui, — disse il marinaio.

— In qual modo? — chiese Alvaro.

— Guardate e sopratutto tendete gli orecchi. È un metodo infallibile
insegnatomi dai Tupinambi. —

Il marinaio di Solis con un bastone attirò verso la riva una foglia
di _victoria_ che andava lentamente alla deriva e si mise a batterla
mentre mandava dei ruggiti rauchi che somigliavano un po’ a quelli
che emettono i giaguari allorquando si preparano a piombare sulla
selvaggina.

Dopo alcuni istanti in fondo al fiume si udì un rumore sordo che a poco
a poco aumentava d’intensità.

— È il _sucuriù_ che risponde, — disse Diaz, risalendo rapidamente la
riva. — Se ci gettavamo a nuoto facevamo un bell’affare!

— È sott’acqua il boa? — chiese Alvaro.

— È nascosto in mezzo alle erbe, — rispose il marinaio.

— Rispondono sempre?

— Tutti i serpenti, quando si riesce a imitare bene il loro sibilo.

— È incredibile!

— Quando gl’indiani vogliono impadronirsi dei rettili che infestano le
foreste, li chiamano con dei sibili più o meno dolci, ne ho fatto più
volte la prova con successo.

   [Illustrazione: .... quando i suoi compagni lo videro
   improvvisamente contorcersi... (CAP. XV).]

Una sera ho attirato fino sulla porta della mia capanna due _sucuriù_
che da qualche tempo divoravano i miei pappagalli.

Signor Viana, risaliamo il fiume e cerchiamo un altro guado meno
pericoloso.

— E la colazione, a quando? Non dimenticate che marciamo da cinque o
sei ore, e che è dal pomeriggio di ieri che non entra una bricciola di
carne nel nostro stomaco.

— A più tardi, quando avremo varcato il fiume. Le foreste del Brasile
non difettano di selvaggina per gli uomini che hanno delle armi. —

Si misero a costeggiare il fiume, guardando attentamente dove
posavano i piedi, essendovi in quel luogo parecchi tronchi atterrati
che potevano servire di asilo ai pericolosissimi _jararacà_, quei
serpentelli color delle foglie secche che s’attaccano subito alle gambe
e che uccidono l’uomo più robusto in pochi minuti.

Lungo la riva s’alzavano delle bellissime palme, alte otto o dieci
metri sui cui tronchi si vedevano dei grossi grani d’una materia bruna
che il marinaio staccava mettendosela nel piccolo sacco di pelle che
portava alla cintura.

— Che cosa raccogliete? — chiese Alvaro che non comprendeva a che
potessero servire quelle pallottole.

— Il pane per la colazione, — rispose il marinaio, sorridendo. — Le
_carnahuba_ sono piante preziose e se avessimo del tempo potrei anche
darvi dei biscotti.

Non potendo noi fermarci qui, per ora mi accontento della gomma che
queste piante trasudano e che costituisce un eccellente commestibile.

— Io sarei passato mille volte dinanzi a questi alberi senza
immaginarmi che mi avrebbero potuto dare del cibo.

— Avete mai udito a parlare delle piante _sagù?_

— Di quelle che contengono, racchiusa nel tronco, una fecola buonissima
che serve a fare una specie di pane?

— Sì, signor Viana. E queste _carnahuba_ al pari di quelle preziose
piante che crescono nelle isole dell’oceano Indiano, contengono pure
una farina simile e non meno nutritiva.

— Sicchè qui si potrebbe fare a meno del frumento?

— Che d’altronde crescerebbe enormemente senza dare chicchi, — disse
Diaz. — Ma oltre la gomma e la fecola dà altre cose la _carnahuba_.

— Delle vesti forse?

— Delle candele signore.

— Scherzate, Diaz?

— No signore e me ne sono fabbricate molte anch’io. Si raccolgono le
foglie, si seccano e si trova allora su di esse una specie di cera che
unita con un po’ di grasso animale, serve benissimo alla illuminazione.

Perfino le radici di queste piante sono utili, ricavandosi una tisana
che serve ottimamente per purgare il sangue. Ah! Ecco un altro guado e
migliore dell’altro. Non v’è che un metro d’acqua.

— Niente serpenti qui?

— Proviamo. —

Si mise, come prima, a battere una foglia, imitando il muggito del
_sucuriù_ e non ottenne risposta.

— Siamo, almeno pel momento, salvi, — disse, — gli Eimuri non ci
prenderanno più, spero.

— Avete parlato di ponti prima.

— È vero e con quelli quei selvaggi osano attraversare fiumi e
anche paludi, ma occorrono dei giorni, e noi non rimarremo fermi ad
aspettarli, ve lo accerto. —

Colla _gravatana_ tastò il fondo per paura che fosse composto di sabbie
mobili e assicuratosi che era abbastanza resistente, si avventurò
nel fiume guardando le piante acquatiche che spuntavano a destra ed a
manca, formando cespi immensi.

Alvaro ed il mozzo l’avevano seguito tenendo le armi puntate da una
parte e dall’altra del guado, per non farsi sorprendere da qualche
caimano.

Avevano attraversato quasi tutto il corso d’acqua e Diaz stava per
porre i piedi sulla riva opposta, quando i suoi compagni lo videro
improvvisamente contorcersi, poi cadere di colpo fra le erbe palustri,
mandando grida di dolore.

Una forma oscura, allungata, era guizzata rapidamente dinanzi ad
Alvaro, nascondendosi nel fango del fondo, prima che il portoghese
avesse avuto il tempo di far fuoco.

— Diaz! — gridarono i due naufraghi, vedendo che il marinaio si
rotolava fra le erbe della riva sempre contorcendosi.

— Ah! È nulla.... una scarica.... un’anguilla tremante.... che colpo!

— Vi ha morso un serpente? — chiese Alvaro, spaventato.

— Ma che serpente! Un’anguilla tremante... che mi ha intorpidito
come se avessi ricevuto una poderosa scarica elettrica in pieno
corpo. —

Non credevo che ve ne fossero qui.

— Non bastano i _caribi_ per rendere pericolosi questi fiumi?

— No, signor Viana, — rispose Diaz, sforzandosi a sorridere. — Vi sono
anche certe anguille chiamate dagl’indiani _tremanti_[6] che lanciano
delle scariche elettriche al pari dei pesci torpedine dei nostri mari
d’Europa.

Fortunatamente non ve n’era che una sola.

— Possono uccidere talvolta?

— No, ma per qualche giorno riducono un uomo a malpartito. Bah! Il
dolore è già passato e le mie gambe a poco a poco riprenderanno il loro
primiero vigore.

— Mi sarebbe assai rincresciuto per voi e anche un po’ per la colazione.

— Ah! È vero, me l’ero dimenticata.... To’! La bella fortuna!

Ma se non avete da far altro che di chinarvi per raccoglierla.

Ecco qui una radura che un tempo deve essere stata coltivata. —

Alvaro si guardò intorno. Dietro la prima fila di palme gommifere,
si estendeva un piccolo spazio scoperto su cui crescevano degli steli
isolati con poche foglie palmate verso la cima, non più alti di dieci
o dodici centimetri, ma della colazione promessa non si vedeva traccia
alcuna.

— Ehi, Garcia, — disse Alvaro. — Tu che hai buoni occhi, fammi il
piacere di raccogliere la colazione che io non riesco a scoprire.
Eppure non mi pare di essere diventato cieco.

— Se non mi date un paio d’occhiali, non la vedrò nemmeno io, signor
Alvaro, — rispose il mozzo.

— Prendi il tuo coltello e scava il terreno intorno a uno di quegli
steli, — disse il marinaio a Garcia.

— Ah! Si trova sotto terra? — Speriamo di trovare almeno delle lumache.

— Qualche cosa di meglio, — disse Diaz. — Prova. —

Il mozzo obbedì. Sollevò la terra e pochi centimetri più sotto trovò
cinque tuberi di forme irregolari, lunghi circa cinquanta centimetri.

— Che cosa sono? — chiese il ragazzo.

— Delle frutta di terra squisitissime che imparerai ad apprezzare, —
rispose il marinaio.

— Allora assaggiamo. —

Garcia stava per addentarne una che aveva già ben ripulita col lembo
della sua giacca, quando un gesto imperioso del marinaio lo arrestò.

— Alto là! Imprudente! — gridò il castigliano. — Vuoi morire? —

I due portoghesi lo guardarono come per chiedergli se per caso era
diventato improvvisamente pazzo. Vantava la squisitezza di quei tuberi
e proibiva che li assaggiassero minacciandoli di morte immediata.

— È _manioca_, — disse Diaz.

— Ne sappiamo meno di prima, — disse Alvaro. — _Manioca!_ Che cos’è?

— Stupido che sono! — esclamò il marinaio. — Mi dimenticavo che in
Europa non si conosce ancora questo prezioso tubero.

Ora v’insegnerò come dovrete fare per mangiarlo, senza correre il
pericolo di avvelenarvi giacchè queste frutta della terra contengono un
succo estremamente pericoloso.

Tu Garcia cercane altri mentre io mi metto al lavoro. Vi offrirò delle
gallette che nulla perderanno nel confronto con quelle di granturco.

Anzi giacchè per ora nulla abbiamo da paventare dagli Eimuri, ce ne
faremo una piccola provvista.

— Sono impaziente di assaggiare le vostre gallette, — disse Alvaro. —
Sono già molti giorni che abbiamo dimenticato il sapore del buon pane.

— Non posso disporre che di mezzi limitati ma basteranno per noi, —
disse il marinaio. — Quando saremo giunti nei villaggi dei Tupinambi vi
mostrerò la fabbricazione delle gallette in grande. —

Frugò nel suo sacco da viaggio e levò una spina di pesce dentellata,
che fino ad un certo punto rassomigliava ad una raspa, poi una piastra
d’argilla cotta e ben levigata, quindi una specie di budello formato di
nervature di foglie intrecciate.

— Signor Alvaro, accendete intanto del fuoco, là, dietro quel grosso
tronco, così non lo si vedrà stando sull’altra riva. —

Poi prese i tuberi uno ad uno, stese al suolo una immensa foglia di
banano e servendosi della spina di pesce dentellata, rapidamente li
sbriciolò ottenendo una pasta molle satura d’una materia lattiginosa.

— Ecco il veleno, — disse ad Alvaro, mostrando quel succo. — Uccide
ma serve anche di antidoto contro il morso di certi rettili e pulisce
meravigliosamente il ferro. Bisogna quindi eliminarlo. —

Prese quindi il budello di nervature di foglie, il _tupi_ come lo
chiamano i selvaggi brasiliani, lo riempì di quella sostanza farinacea
e lo torse con forza facendo colare al suolo tutto il succo che ancora
rimaneva.

Ciò fatto, col residuo rimasto nel _tupi_, formò una bella focaccia che
depose sulla piastra d’argilla, mettendola poi sulle brace.

— Ecco fatto, — disse.

Quando vide la pasta assumere una bella tinta dorata, la tolse dalla
piastra e la offrì ai due portoghesi, dicendo:

— Potete mangiarla senza timore. Quel po’ di veleno che ancora
rimaneva, si è volatilizzato col calore.

— Squisita! — esclamò Alvaro colla bocca piena.

— Cento volte migliore delle gallette di mare! — esclamò il mozzo che
divorava ingordamente. — È una torta questa! Peccato che non ci sia un
bicchierino di Porto o di Malaga per bagnarla.

— Se avessi del tempo e qualche vaso, potrei offrire se non del rosolio
almeno del liquore forte e buonissimo, disse il marinaio. — Io so fare
il _taroba_ e senza ricorrere ai denti delle vecchie.

— Il _taroba!_ — esclamò Alvaro.

— Ricavato da questi tuberi, signore. Disgraziatamente non ho una
pentola.

— E che cosa c’entrano i denti delle vecchie? —

Diaz stava per rispondere, quando i suoi orecchi furono colpiti da un
rumore che veniva dalla parte del fiume.

— Gli Eimuri? — chiesero ad una voce i due portoghesi, preparandosi a
spegnere il fuoco.

— No, — disse il marinaio. — Ho udito un grugnito e uno sbattere
d’acqua.

— Un caimano allora? — chiese Alvaro.

Il marinaio scosse la testa, poi disse sottovoce.

— Seguitemi senza far rumore. È forse il companatico che sta per cadere
sulle nostre gallette. —

Si gettarono in mezzo alla macchia più vicina per giungere inosservati
presso il fiume e giunti presso la riva scostarono silenziosamente i
cespugli, curvandosi sull’acqua.

A trenta o quaranta passi da loro un animale, che rassomigliava ad
un piccolo cinghiale, pesante almeno una cinquantina di chilogrammi,
guazzava nel fiume grugnendo e cercando le radici delle piante
acquatiche.

— Un _charpincho!_[7] — esclamò il marinaio facendo una smorfia.

— Mandategli una freccia, — disse Alvaro.

— Non vale la pena. La carne di quei roditori è così detestabile che
perfino gl’indiani la sdegnano e talvolta perfino i giaguari... ah!
Eccolo il companatico! —

Un po’ più lontano, un altro animale, di forme stranissime, stava
salendo la riva dopo d’aver attraversato il fiume su un grosso tronco
d’albero che la corrente aveva, per un caso straordinario, spinto
contro le piante acquatiche in modo che le due estremità toccavano le
due sponde.

Non somigliava affatto al primo.

Era un animale, come abbiamo detto, di forme stranissime, grosso quanto
un cane di Terranova, assai basso però di gambe, invece più lungo di
corpo, con una coda bellissima d’un buon metro e ricchissima di peli,
che teneva ben rialzata.

Anche il corpo era fornito di peli lunghi e quasi setolosi, di color
brunastro, con una lunga striscia nera orlata di bianco che seguiva la
colonna vertebrale in tutta la sua lunghezza.

Quella però che destava una viva curiosità era la testa di forma
sottile, assai appuntita e, cosa davvero singolare, priva di bocca!
Ossia, veramente priva no, ma perchè al suo posto si vedeva un piccolo
buco da cui pendeva una lingua lunghissima terminante in uno strale
acuto e che pareva fosse spalmata d’una sostanza estremamente viscosa.

— Si è mai veduta una bestia simile! — esclamò Alvaro a mezza voce. —
Un animale che non ha bocca non avrà nemmeno denti. Come fa a vivere
quel disgraziato?

— Eppure, come vedete, è ben grasso, — rispose Diaz.

— Che cos’è infine quell’animale?

— Un _tamanduà_[8].

— È mangiabile almeno quello?

— Lo assaggerete e poi me ne direte qualche cosa. Un boccone da re,
signor Viana, quantunque abbia un gusto un po’ acidulo dovuto al suo
genere di cibo.

— Che sarebbe quel cibo? Non saprei indovinarlo, visto che
quell’animale non ha bocca.

— Non gli è necessaria. A lui basta la lingua.

— Che viva leccando le piante? — chiese Garcia.

— Mangia e non meno di noi. Lo vedrete all’opera.

— Come, non lo uccidete? — chiese Alvaro.

— No perchè ci procurerà una frittura superba.

— Eh! Dite.

— Di formiche.

— Puah!

— Adagio, signor Viana. Vedremo se farete le smorfie quando vi
presenterò un bel piatto di termiti fritte nel grasso del tamandù. Oh!
Vi leccherete le dita.

Silenzio ora e seguiamolo. —



CAPITOLO XVI.

Una sorpresa dei selvaggi.


Il _tamanduà_ continuava a salire la riva senza affrettarsi e siccome
in quel luogo il margine della foresta scendeva rapidissimo, l’animale
si aiutava poderosamente colle zampe posteriori che sono assai più
robuste delle anteriori e per di più armate di artigli lunghissimi e
duri come l’acciaio.

Seguirlo era cosa facilissima, poichè i _tamanduà_ sono piuttosto lenti
nelle loro mosse e non conoscono affatto la corsa nè il passo rapido.

Il marinaio di Solis dopo aver osservata e rilevata la direzione che
prendeva l’animale, condusse i suoi compagni attraverso un macchione
e ne raggiunse il margine nel momento in cui il _tamanduà_ stava per
inoltrarsi nella grande foresta.

— Ditemi, Diaz, — disse Alvaro fermandolo. — Sono pericolosi quegli
animali? Quello che ci sta dinanzi se non ha bocca possiede certe
unghie da sventrare facilmente anche un uomo.

— Assaliti si difendono coraggiosamente e non è raro il caso che
riescano a porre fuori di combattimento anche i giaguari che sono i
loro più mortali nemici e anche i coguari, o che almeno li costringano
a rinunciare all’assalto.

Contro un uomo, anche se armato di una semplice mazza, nulla possono.
Potete gettarvi in ispalla l’archibugio. Non vi sarà necessario.

— E dove va ora quella bestia?

— In cerca d’un formicaio. Oh! Non andrà molto lontano! Le termiti
abbondano nelle foreste brasiliane.

— Ah! Guardate! Il _tamanduà_ rallenta la marcia e fiuta l’aria. Sente
la vicinanza del pranzo.

— E noi lo lascieremo pranzare?

— Aspetteremo che demolisca la cittadella delle termiti. Ehi, Garcia!
Se tu tornassi al nostro accampamento intanto, a prepararci del pane?
Hai veduto come si fabbrica e poi sorveglierai nel frattempo anche il
fiume.

— Vado a fare il panettiere, — rispose il mozzo. — La mia presenza qui
è inutile. —

Mentre il bravo ragazzo si allontanava, il _tamanduà_ continuava ad
avanzarsi con una certa precauzione verso un gruppo d’alberi sotto i
quali si scorgevano parecchi coni di terra biancastra, alti poco più
d’un metro e situati, un po’ a casaccio, gli uni accanto agli altri.

— Il formicaio! — esclamò Diaz che pel primo li aveva scorti.

— Ah! Sono là dentro le formiche? — disse Alvaro. — Non farà troppa
fatica a demolirlo, il nostro animale.

— Quei coni sono duri come la pietra, signore, — rispose il
castigliano. — Senza un buon piccone non si sventrano.

— Pare impossibile che delle formiche possano costruire simili
cittadelle.

— Dei formiconi signori e della specie più terribile. Gli abitatori di
quel formicaio devono essere dei _tanajura_, ne sono certo.

— Assai grossi?

— Sono lunghi un pollice ed un quarto.

— Quasi quattro centimetri! Altro che le nostre formiche d’Europa.

— E come pungono o meglio come mordono e come sono voraci di carne
umana! Che sorprendano un uomo addormentato e quel disgraziato se non
si alza subito è perduto.

Miriadi di mandibole lo intaccano da tutte le parti e in dieci minuti
ve lo riducono in un bellissimo scheletro.

— Formiche assassine!

— Dite antropofaghe, signore.

— Sfido io! Sono nel paese dei mangiatori di carne umana! — disse
Alvaro.

— Ecco il _tamanduà_ che attacca la cittadella. —

L’animale si era rizzato sulle zampe deretane e aveva cominciato a
sgretolare il primo cono.

Le sue unghie, più affilate di quelle dei giaguari, strappavano pezzi
grossi come ciottoli, aprendo abbastanza rapidamente un foro di forma
quasi circolare.

Già qualche formicone, inquietato da quel rumore sospetto, cominciava a
mostrarsi, quando il _tamanduà_ interruppe bruscamente il suo lavoro,
guardandosi intorno e alzando dinanzi a sè la sua magnifica coda, a
guisa di scudo.

— Si è accorto della nostra vicinanza, — mormorò Diaz agli orecchi di
Alvaro.

— Allora affrettiamoci ad accopparlo prima che ci scappi, — rispose il
portoghese.

— Avete veduto che non è lesto e potremo subito raggiungerlo. E poi,
non voglio rinunciare alla mia frittura, un manicaretto delizioso, ve
lo assicuro. Aspettiamo ancora un po’.

Il _tamanduà_ stette alcuni istanti in ascolto, manifestando la propria
inquietudine con un incessante agitare della sua magnifica coda,
poi non vedendo comparire alcun nemico e credendo forse di essersi
ingannato, riprese la sua opera di demolizione, allargando il foro.

Le termiti, furiose di essere disturbate, si presentavano minacciose,
affollandosi dinanzi all’apertura e muovendo rapidamente le loro
tenaglie, pronte a mordere.

Il _tamanduà_ punto spaventato, allungava prontamente la sua lingua
vischiosa e assorbiva tranquillamente le combattenti le quali
scomparivano rapidamente entro quello strano tubo che serviva da bocca.

Quantunque l’animale operasse con una velocità sorprendente, non
riusciva però a tener testa alle falangi che accorrevano alla difesa
della cittadella.

Un gran numero di _tanajura_ riusciva a fuggire, disperdendosi per la
foresta.

— Ecco il momento buono, — disse il marinaio.

Imboccò la _gravatana_ entro la quale aveva già cacciata una freccia
avvelenata col _vulrali_, mirò per qualche istante, poi soffiò con
forza.

Il sottile e terribile cannello partì senza rumore e andò a piantarsi
in una delle zampe deretane del _tamanduà_ e così delicatamente che
il ghiottone, completamente assorto nel riempirsi il ventre, non si
accorse nemmeno di essere stato colpito.

Non erano però trascorsi cinque secondi, tanto è rapida l’azione
prodotta da quel potente veleno, quando lo si vide alzare bruscamente
la testa e tremare in tutte le parti del corpo.

Spazzò due o tre volte il suolo colla coda, poi cadde fulminato in
mezzo ai battaglioni delle termiti.

— Occupatevi del _tamanduà_ e fuggite subito se non volete provare i
morsi delle formiche, — disse il marinaio.

Balzò rapidamente innanzi, tenendo in una mano un pezzo di foglia secca
di palma che poteva servire da spatola e nell’altra il sacco di pelle e
saltò in mezzo alle termiti.

Con pochi colpi ne raccolse parecchie dozzine che rinchiuse subito nel
sacco poi fuggì a tutte gambe seguito da Alvaro che si era gettato in
ispalla il _tamanduà_.

— All’accampamento e presto, — disse il marinaio. — Le tanajura possono
prendersela con noi e seguirci. —

Si slanciarono a corsa sfrenata attraverso la foresta e un quarto d’ora
più tardi giungevano all’accampamento.

— Le gallette? — chiese Alvaro, vedendo il mozzo affaccendato dinanzi
al fuoco.

— Vanno a meraviglia, signore, — rispose Garcia che sudava. — Sono
diventato un panattiere di prima forza, ve l’assicuro. Ne ho già
preparate una quindicina.

— E gli Eimuri? — chiese Diaz.

— Non ho veduto nessuno apparire sulla riva opposta.

— Allora prepariamoci il pranzo. —

— Ah! E la pentola? Mi ero dimenticato che quella che avevo si è rotta.
Bah! La surrogheranno con altra cosa.

Signor Viana, scuoiate il _tamanduà_ finchè vado a cercarne una.
Prenderò due piccioni ad una fava.

— Che uomo meraviglioso! — esclamò Alvaro, guardandolo mentre si
dirigeva verso il fiume. — Ha fatto una bella scuola sotto i selvaggi!
I selvaggi! Eh! Ne sanno più di noi e possiamo, per ora, chiamarli
maestri.... degli europei. —

Aveva terminato il scuoiare il _tamanduà_ che era coperto da un
vero strato di grasso come un piccolo maiale od un orsacchiotto ben
pasciuto, quando vide il marinaio tornare portando fra le braccia
una testuggine lunga quasi mezzo metro, col guscio color brunastro,
chiazzato di macchie rossastre ed irregolari, composto di tredici
lamine poste superiormente.

— Ma dunque non finirete più di arricchire la nostra dispensa? — chiese
Alvaro.

— Oh! L’avrei lasciata andare se avessi avuto una pentola che potesse
servire per la nostra frittura. — Rispose il marinaio. — L’avevo
adocchiata quando noi spiavamo, sulle rive del fiume, le mosse del
_tamanduà_.

— E come potrà servirvi da pentola?

— Il guscio surrogherà quella che mi manca.

All’opera, cuochi! Nemmeno gli imperatori romani avranno mangiato così
bene. Me lo direte poi. —

Mentre Garcia continuava a cuocere gallette di mandioca e Alvaro si
occupava dell’arrosto, sorvegliando una superba coscia del _tamanduà_
che arrosolava lentamente, il marinaio aveva spaccata, dopo molti colpi
formidabili, la testuggine.

Mise da una parte la carne della povera bestia che doveva offrire più
tardi un altro arrosto gustosissimo, pulì il guscio superiore e lo mise
sulla cenere calda gettandovi dentro dei grossi pezzi di grasso del
_tamanduà_ affinchè si sciogliessero.

Quella coppa che resiste anche alla fiamma per un certo tempo, serviva
a meraviglia, senza bruciarsi.

Quando il marinaio vide che l’arrosto era quasi pronto e che il grasso
si era già ben liquefatto, disse:

— Preparatevi per la frittura che formerà il primo piatto. Il
_tamanduà_ verrà poi. —

Aprì il sacco e lo vuotò nel guscio. Le povere termiti, che erano delle
belle e grosse formiche, più lunghe d’un pollice, caddero nel grasso
bollente, dibattendosi per qualche istante disperatamente.

Un profumo squisito, come di pesce fritto, si sparse per l’aria.

Quando il marinaio le giudicò ben cotte, le ritirò servendosi d’una
spatola di legno che aveva lì per lì fabbricata e le depose su una
bella e profumata foglia di palma.

— Ecco la frittura! — gridò allegramente. — Servitevi, signori! —

Si erano seduti tutti tre intorno alla foglia, ma Garcia ed Alvaro
esitavano.

Quel fritto di formiche non li tentava affatto.

— Assaggiate dunque, signor Viana, — disse il marinaio.

Alvaro, quantunque arricciasse il naso, finalmente si decise.

— Corpo d’un elefante! — esclamò quando ne ebbe mangiate alcune. — Sono
più delicate e più gustose dei gamberetti di mare![9] Mangia Garcia ed
impara ad apprezzare la cucina dei selvaggi brasiliani. —

La frittura scomparve in pochi minuti.

— Avanti l’ar..... — stava per gridare il marinaio. Ma l’ultima parola
gli morì fra le labbra.

Una freccia aveva silenziosamente attraversata la piccola radura,
piantandosi nel tronco d’un albero che cresceva vicino ad Alvaro.

— _Carracho!_ — esclamò il marinaio, che si era alzato
precipitosamente. — Gli Eimuri! Gambe! Gambe! —

Sull’opposta riva del fiume erano improvvisamente comparsi alcuni
selvaggi che il marinaio aveva subito riconosciuto pei suoi accaniti
persecutori.

Quei bricconi che dovevano aver finalmente trovate le tracce dei
fuggiaschi, si preparavano a tempestarli di frecce.

Alvaro che non voleva abbandonare tutto, d’un balzo prese l’arrosto
e si slanciò dietro al marinaio che filava come un cavallo, seguito
a breve distanza da Garcia che si era impadronito della carne della
testuggine.

Gli Eimuri, fortunatamente pei naufraghi, si trovavano
nell’impossibilità d’inseguirli.

Quel fiume, quantunque guadabile, era per essi un ostacolo enorme ed
un ponte non era facile a costruirsi in pochi minuti, specialmente per
uomini che non possedevano che delle scuri informi fatte con grosse
conchiglie o con pezzi di selce.

— Rallentate un po’, marinaio, — gridò Alvaro, vedendo che gli Eimuri
non osavano mettere i piedi in acqua. — Volete farmi scoppiare? E poi
non siamo inermi, ringraziando Iddio e le munizioni non ci mancano.

— Non fermiamoci, signore, — rispose Diaz. — Approfittiamo per
frapporre fra noi e quelle canaglie il maggior spazio possibile.

Corrono come cervi e quando avranno costruito un ponte, ci daranno una
caccia furiosa, senza lasciarci un momento di tregua.

— Il ponte non l’hanno ancora costruito.

— Lo faranno, non dubitate. Si sono cacciati in testa di prendermi e
non mi lascieranno, ve lo assicuro.

Gambe, signore e avanti finchè avremo forza.

— Briganti! — esclamò Alvaro che era di assai cattivo umore. — Potevano
giungere a pranzo finito! —

Ripresero la corsa, inoltrandosi sempre più nell’interminabile foresta
la quale diventava sempre più folta e più selvaggia e la continuarono
fino a che si sentirono incapaci di fare un passo più innanzi.

Tutti tre, specialmente il mozzo, erano completamente esausti.

— Prendiamo un po’ di riposo e consigliamoci, — disse Alvaro. — Abbiamo
percorso una mezza dozzina di miglia e forse gli Eimuri non sono ancora
riusciti a costruirsi il ponte ed a valicare il fiume.

Non devono essere troppo abili in simili costruzioni quei bruti. Che
cosa ne dite, Diaz?

— Che pel momento siamo al sicuro, — rispose il marinaio. — Il fiume
è largo e un albero di quaranta o cinquanta metri non si abbatte
facilmente con delle scuri di pietra o di conchiglia.

Però domani o questa sera saranno qui di certo.

— E siamo ancora lontani dai villaggi dei Tupinambi?

— Almeno sei o sette giorni di marcia, dovendo noi descrivere un lungo
giro per evitare l’incontro col grosso degli Eimuri.

— Diavolo! — esclamò Alvaro. — Sette giorni e di fuga continua! Potremo
noi resistere?

— Sarà necessario, se non amate meglio farvi divorare, — disse il
marinaio.

— Non potete trovare qualche altro rifugio?

— Un rifugio! Uhm! Sarà un po’ difficile e poi, sarebbe sicuro? Quei
dannati selvaggi, quando si attaccano ad una pista, non la lasciano
più.

Sono più abili dei cani. Bisognerebbe trovare un altro fiume o meglio
ancora una palude od una savana sommersa.

Io non conosco il paese che ora percorriamo o meglio la foresta, ma può
darsi che da un momento all’altro ci troviamo dinanzi a dell’acqua.

Signor Viana, ripartiamo.

— Mille bombe! Ancora?

— Ho corso per undici giorni e con pochissimi riposi, sempre inseguito.
Se le mie gambe avessero ceduto o sarei a quest’ora un pyaie degli
Eimuri o già digerito dopo d’essere stato più o meno arrosolato su una
graticola.

— Diaz! Mi fate venire i brividi! — esclamò Alvaro.

— Che vi daranno la forza di fuggire, — rispose il marinaio, sorridendo.

— Lasciateci almeno il tempo di assaggiare il nostro arrosto. Mi
libererò almeno d’un peso inutile.

— E la mia testuggine? — chiese il mozzo.

— Serbiamola per domani, — rispose Diaz. — Non avremo più il tempo di
cacciare.

— Su, sbrighiamoci! La frittura di formiche non è già un piatto forte
per degli uomini che sono costretti a far lavorare le gambe. —

Affamati come erano, essendo stati costretti ad interrompere il pranzo
in sul principio, non impiegarono molto a far scomparire l’arrosto e le
tre o quattro gallette che avevano avuto il tempo di raccogliere.

Ringagliarditi da quel pasto assai sostanzioso e abbondante se non
variato, i tre europei ripresero le mosse, spronati dal pensiero che
gli Eimuri avessero già trovato il modo di varcare il fiume e che
seguissero già le loro orme.

La foresta era sempre foltissima e costituita da poche varietà di
piante per la maggior parte senza frutta.

Erano macchioni enormi di _isonandra_, di alberi da cui si ricava
oggidì la guttaperca; di _bombonax_ colle cui foglie si fabbricano
degli splendidi cappelli di paglia che poco hanno da invidiare a
quelli famosi di Panama; di _laranjus_ i cui fiori profumavano l’aria
e di persee piante bellissime queste, alte come i nostri peri e che
producono delle frutta grosse come limoni, che intorno al nocciuolo
hanno una polpa verdastra, di sapore nauseante, che sembra burro e
che si mangia, da taluni, volentieri specialmente se condita con sale,
zucchero e vino di Xeres.

   [Illustrazione: Il vampiro aspirava pian piano, senza cessare
   di muovere le ali. (CAP. XVII).]

Pochi uccelli abitavano quella boscaglia, quasi tenebrosa per la
foltezza delle foglie e umidissima: dei _tanagra_, colle penne azzurre
ed il ventre aranciato; qualche cardinale colla testa rossa e qualche
grosso pappagallo che cicalava a piena gola, noioso come tutti i suoi
simili.

Il marinaio che sapeva dirigersi anche senza bussola e che aveva le
gambe solide, camminava velocemente senza mai deviare, nè esitare,
mettendo a dura prova le forze dei due naufraghi.

— Avanti sempre, senza fermate, se volete sfuggire agli Eimuri,
— diceva sempre. — È così che io sono riuscito a tenerli sempre a
distanza.

— Noi non possediamo dei garretti d’acciaio, — brontolava Alvaro. — Non
siamo vissuti quindici anni fra i selvaggi. —

— È necessario, — ribatteva il marinaio. — Chi rimane indietro è uomo
morto.

E sempre spronati da quella paura, continuavano ad avanzarsi
nell’immensa foresta, passando da un macchione all’altro, sovente
strisciando come rettili, quando non riuscivano a trovare un passaggio
fra quell’immenso caos di alberi, di cespugli e di liane.

Alla sera, esausti ed affamati, si arrestavano sulla riva d’un
torrentello.

— Basta, — disse il marinaio. — Abbiamo marciato come selvaggi
brasiliani, riposiamoci qui.

Anche gli Eimuri dormono; possiamo quindi fare anche noi altrettanto.

Cenarono con alcuni banani, poi si lasciarono cadere al suolo, sotto un
albero immenso che stendeva i suoi rami in tutte le direzioni.

— Dormite pure, — disse il marinaio che era il meno stanco. — Io monto
il primo quarto di guardia. —



CAPITOLO XVII.

La savana sommersa.


Fu una notte di continue angoscie per tutti. L’idea che quei
ferocissimi selvaggi fossero già vicini e che potessero, da un momento
all’altro, sorprenderli per divorarli, impedì a tutti tre di dormire.

I loro timori però non si avverarono e la notte passò tranquilla,
senza allarmi. Tuttavia salutarono con gioia lo spuntare del sole, il
quale almeno permetteva loro di poter scorgere i nemici ed impedire una
possibile sorpresa.

— Preferisco camminare, quantunque non mi sia riposato
sufficientemente, — disse Alvaro. — Quei dannati selvaggi mi hanno
messo indosso una paura indiavolata che non riesco a scacciare.

— Camminiamo, signore, — rispose il marinaio che pareva avesse perduto
il suo solito buon umore. — Ci procureremo la colazione più tardi.

— C’è ancora la testuggine, — disse il mozzo.

— Che non ci servirà a nulla a menochè tu non preferisci divorarla
cruda, giacchè io non permetterò di accendere il fuoco.

I selvaggi fiutano il fumo a delle distanze incredibili ed il fuoco
tradirebbe la nostra presenza.

— Brutto affare, — disse Alvaro. — Dovremo noi galoppare come cavalli e
ristorarci poi con delle sole frutta? Non resisteremo a lungo, mio caro
marinaio.

— Chissà che non troviamo qualche cosa di meglio delle frutta,
— rispose Diaz. — Le foreste brasiliane offrono delle risorse
sorprendenti.

Su, gambe in ispalla e riprendiamo la corsa.

— Che ci siano già vicini quei maledetti antropofagi?

— Sulla nostra pista di certo.

— Quand’è che troveremo un altro fiume che ci permetta di fare una
buona sosta?

— Lo ignoro, — rispose il marinaio. — Non conosco queste foreste.

Non sono però rari i corsi d’acqua nel Brasile, anzi può darsi che da
un momento all’altro ne incontriamo qualcuno. —

Ripartirono, dapprima con passo un po’ lento, poi riscaldatesi le
gambe, non tardarono ad affrettarlo quantunque molto sovente fossero
costretti ad arrestarsi dinanzi a degli ammassi mostruosi di _cipò
chumbo_, piante convolvolacee di color giallo, somiglianti alle liane,
che formano delle reti assolutamente impenetrabili.

Essendo le piante altissime in quel luogo, stormi innumerevoli di
uccelli fuggivano da tutte le parti all’avvicinarsi dei fuggiaschi,
facendo un baccano assordante.

Dei tucani dal becco rosso e giallo e gigantesco, gli occhi azzurri
e le penne scarlatte; grossi arà, piccoli _maitaco_ dalla testa
turchina, azulee azzurre e _japu_ che facevano un baccano indiavolato
e sgradevolissimo, s’alzavano fra i cespugli e le macchie empiendo la
foresta di grida, di cinguettii, di schiamazzi.

Sotto le _sipo_ invece saltellavano a miriadi le schifose _barata_,
sorta di piattole puzzolenti, di color bruno, che sono la disperazione
dei poveri indiani perchè quando riescono ad introdursi in una capanna,
in una sola notte divorano provviste, veste, pelli, amache, lacci.

La foresta a poco a poco diventava umidissima. Il suolo cedeva
facilmente sotto i piedi dei fuggiaschi, conservando le orme che
gli Eimuri potevano seguire senza fatica e dalle piante cadevano
goccioloni. La marcia, già tanto faticosa, diventava in tal modo sempre
più difficile mettendo ben a dura prova Alvaro ed il mozzo i quali
penavano a trascinarsi dietro al marinaio che, abituato alle lunghe e
velocissime marce degl’indiani, pareva infaticabile.

Verso le dieci Diaz, accortosi dello stato compassionevole dei
compagni, si decise ad accordare loro un po’ di riposo. Capiva che non
si poteva chiedere di più alle loro forze già estremamente esauste e
poi l’appetito cominciava a farsi sentire colla magrissima cena della
sera innanzi.

— Fermiamoci qualche ora e cerchiamo qualche cosa da porre sotto i
denti, — disse.

— Era tempo, — rispose Alvaro. — Se la corsa continuava ancora un po’
mi lasciavo cadere al suolo.

E poi stomaco vuoto non sta diritto. Ah! Se avessimo ancora le nostre
gallette!

— Sono già state digerite dagli Eimuri; non pensateci quindi più. Vi
rifarete nei villaggi dei Tupinambi, se riusciremo a raggiungerli.

— Dubitate che noi possiamo sfuggire all’inseguimento degli Eimuri? —
chiese Alvaro con inquietudine.

— Sì, se non troviamo qualche rifugio inaccessibile od un altro fiume
che li arresti e che permetta a noi di guadagnare via.

Ve lo dissi già, quei selvaggi corrono velocemente e voi non potete
gareggiare colle loro gambe.

Tuttavia non disperiamo e poi voi avete dei fucili e le armi da fuoco
producono sempre una tremenda impressione sugl’indiani.

Ah! Ma noi dimentichiamo la colazione. Eh! —

Aveva alzato il capo guardando un albero, alto trentacinque o quaranta
metri, col tronco coperto da una corteccia tutta irta di bitorzoli
spinosi.

Era un _paiva_, o albero cotonifero, di dimensioni enormi.

Non erano già le frutta fusiformi della pianta che avevano attratta
la sua attenzione, frutta d’altronde non mangiabili, bensì una specie
di piattaforma, lunga tre o quattro metri e larga quasi altrettanto,
costruita su due solidi rami e sopra la quale svolazzavano cinguettando
numerosi uccelli, grossi tutt’al più come un pivione.

— Ci sarebbe lassù da fare una superba frittata, — disse — se la
paura di accendere il fuoco non ci costringesse a rinunciarvi. Bah! Ci
accontenteremo di sorbire le uova se non saranno troppo passate.

— Che cos’è quella piattaforma? — chiese Alvaro.

— Un nido di tordi tessitori, — rispose il marinaio. — Sono uccelli
singolari che al pari delle passere repubblicane, amano vivere in
società.

Lassù potremo raccogliere parecchie centinaia di uova.

— È solido quel nido?

— Può reggere anche un uomo, tanto sono abili costruttori quegli
uccelli. Eh, Garcia, saresti capace di dare la scalata a questo
_paiva_? I bitorzoli del tronco ti serviranno benissimo di appoggio
purchè tu faccia attenzione alle spine.

— Pronto, marinaio, — rispose il mozzo. — È un affare spiccio.

— Adagio, mio caro, non tanta furia anzi sii cauto quando sarai lassù.

— Che mi cavino gli occhi quegli uccelli?

— No, sono le vespe che pungeranno atrocemente. —

I tordi tessitori costruiscono i loro nidi sulle piante che servono
d’asilo alle mosche cartone per non essere disturbati dai ghiottoni che
mirano alle loro uova.

— E stringono alleanza? — chiese Alvaro.

— Difensiva e offensiva, — rispose il marinaio — Quando i ratti
palmisti od altri minacciano di assalire il nido dei tordi per
saccheggiare le uova, le vespe accorrono in difesa dei loro alleati;
viceversa gli uccelli danno addosso a quei volatili che tentano di
rimpinzarsi di vespe.

— È strana!

— Su Garcia, spicciati e come ti ho detto, fa attenzione alle
mosche cartone. Appena ti sei riempite le tasche di uova, scendi
subito. —

Il mozzo che era un abile arrampicatore, s’aggrappò ai bitorzoli del
_paiva_ ed in pochi momenti giunse sotto il nido.

I tordi, vedendo quell’intruso e sospettando forse le sue intenzioni,
avevano cominciato a schiamazzare per attirare l’attenzione delle loro
alleate ed a volare cercando di beccarlo.

Garcia, che non ascoltava che i brontolî dei suoi intestini quasi
vuoti, con un ultimo slancio si issò sulla piattaforma che era formata
da un numero infinito di buche, ognuna delle quali conteneva un uovo.

Si riempì precipitosamente le tasche, con quattro scappellotti fugò la
banda ciarliera e si lasciò scivolare di ramo in ramo.

Le mosche cartone, udendo i loro alleati a schiamazzare, giungevano in
gran numero, pronte a punire l’audace, ma era troppo tardi.

Il mozzo si era lasciato cadere fra le erbe, restando fortunatamente in
piedi.

Aveva nelle tasche più di sei dozzine d’uova.

Il marinaio ne prese uno e lo guardò attraverso un raggio di sole.

— Sono fresche, — disse, — Garcia ha avuto buona mano nella
scelta. —

S’affrettarono a vuotarle. Non era veramente una colazione capace
di empirli, essendo quelle uova piccolissime, però dovettero
accontentarsi.

Si dissetarono in una pozza, poi ripresero l’interminabile marcia
dirigendosi costantemente verso l’ovest.

Di quando in quando facevano una brevissima fermata per raccogliere
qualche frutto o per prendere un po’ di riposo, poi tornavano a
galoppare spinti dalla speranza di trovare qualche altro fiume.

Tutto d’altronde indicava la vicinanza o d’un corso d’acqua o d’una
savana sommersa: l’umidità crescente del suolo e la presenza di alcuni
trampolieri, dei _gallinago_ che somigliano ai nostri beccaccini, di
_pisoca_ dalle gambe lunghissime e di gallinelle acquatiche dalle penne
turchine a riflessi dorati.

Anche le piante a poco a poco cambiavano. I grossi vegetali
scomparivano e si succedevano invece delle _cuiera_, quelle enormi
piante di zucca che occupano degli spazii immensi e delle _iriartree
panciute_, piante bizzarre che sono sorrette da un gran numero di
radici le quali escono dal suolo per parecchi metri.

Mancava qualche ora al tramonto del sole, quando finalmente scorsero,
attraverso i tronchi degli alberi ed i cespugli, una superficie
luccicante.

— Una savana sommersa! — esclamò allegramente il marinaio. — Ecco una
vera fortuna! Signor Viana, noi potremo finalmente riposarci e anche
cacciare. —

Affrettarono il passo e giunsero poco dopo sulle rive d’una vasta
palude, dalle acque nere ed ingombre di piante palustri e di minuscoli
isolotti che altro non dovevano essere se non banchi melmosi coperti di
erbaccie grasse.

Ad una grande distanza si scorgeva la foresta che si stendeva sulla
riva opposta.

— Che cosa contate di fare ora? — chiese Alvaro al marinaio, il quale
osservava attentamente gli isolotti che emergevano in gran numero.

— Rifugiarci su una di quelle terre e attendere colà che gli Eimuri si
siano allontanati, — rispose Diaz.

— E chi ci condurrà? Non vedo alcuna barca io.

— Una zattera si costruisce presto. Non è ciò che mi preoccupa. Dubito
della solidità di quegli isolotti. Temo che non abbiano consistenza
e vorrei accertarmene presto. Costruiamo per ora una piccola zattera,
capace di sostenermi e lasciate che vada ad esplorare la palude.

Il sole sta per tramontare e gli Eimuri si saranno anche essi arrestati
e prima di domani non giungeranno qui.

— Temete che non possiamo trovare un palmo di terra solida? — chiese
Alvaro.

— È un po’ difficile scoprirne nelle savane sommerse. Ve ne sono molti
però degli isolotti e non dispero.

Se tardassi a tornare, non inquietatevi per me. Dormite tranquilli
senza preoccupazioni. Conosco le savane e i _jacarè_ non mi fanno
paura.

— Vi daremo uno dei nostri fucili e munizioni sufficienti, — disse
Alvaro.

— Grazie, non rifiuto un’arma da fuoco. —

Approfittando del brevissimo crepuscolo, tagliarono un certo numero
di grossi rami ed un paio di giovani alberi e servendosi delle liane
costruirono alla meglio un galleggiante, sufficiente a sostenere un
uomo.

Prima però d’imbarcarsi, il marinaio, che era veramente instancabile,
provvide un po’ di cena ai suoi compagni, raccogliendo nella foresta
parecchi grappoli di _pupunha_, portanti delle frutta grosse come
pesche, di sapore eccellente e delle _araca_, somiglianti alle susine e
più acidule.

— Mentre vi riposate io cercherò il rifugio, — disse, nel momento
d’imbarcarsi. — L’esplorazione sarà lunga però come vi dissi, anche se
non tornassi prima dell’alba, non pensate male di me. —

Prese il fucile del mozzo, balzò sulla leggera zattera e si spinse al
largo, scomparendo ben presto fra le tenebre.

— Ecco un brav’uomo! — esclamò Alvaro, quando non lo vide più. — Lascia
noi pigroni a riposare, mentre va a rischiare la pelle per trarci in
salvo. Che resistenza ha quel diavolo di marinaio!

— Che torni presto? — chiese Garcia. — Che cosa volete? Presso quel
mezzo selvaggio che sa tutto e che indovina tutto, mi sento più sicuro.

— Ed io non meno di te, ragazzo mio, — rispose Alvaro. — Speriamo che
la sua esplorazione non duri molto e che possa trovare un isolotto che
ci regga.

— Lo aspetteremo svegli?

— Approfittiamo per dormire invece, — rispose Alvaro. — Tu non devi
essere meno stanco di me.

— Non posso tenere quasi più gli occhi aperti.

— Gli Eimuri non ci inquieteranno, almeno per questa notte. Coricati
presso di me e dormi. —

Alvaro stava per imitarlo quando la sua attenzione fu attirata da
alcuni grossi volatili che venivano dalla parte della savana e che
svolazzavano intorno all’albero sotto il cui fogliame si era sdraiato.

Che razza di volatili sono? — si chiese. — Non ne ho mai veduti di così
grossi eppure devono essere dei pipistrelli. —

Ne avevano infatti le forme, ma erano ben più grossi di quelli europei.
Le loro ali, riunite, non dovevano misurare meno di ottanta centimetri
ed il loro corpo per lo meno venti.

Se il portoghese avesse conosciuto un po’ meglio il Brasile, si sarebbe
ben guardato dall’addormentarsi, malgrado la sua estrema stanchezza.

Non sapendo quanto erano pericolosi quei volatili, non ci fece caso e
si appoggiò al tronco dell’albero socchiudendo gli occhi.

Garcia già russava beatamente, segno evidente che gli Eimuri se li era
affatto dimenticati.

Per qualche po’ Alvaro lottò col sonno, poi vinto dall’eccessiva
stanchezza si abbandonò.

Non erano trascorsi dieci minuti quando uno di quei grossi pipistrelli
che svolazzavano intorno all’albero, sotto cui dormivano i due
naufraghi, si abbassò silenziosamente volando per qualche po’ sopra la
testa di Alvaro.

Non era un semplice pipistrello, bensì un _vampiro morugo_, dalla testa
grossa e sporgente che terminava in una specie di trombetta, dal pelame
fitto e morbido d’una tinta bruna.

Pareva che cercasse il punto migliore su cui posarsi.

Ad un tratto calò dolcemente su una spalla dell’addormentato, agitando
lentamente le ali e applicò l’estremità del muso dietro l’orecchio
destro di Alvaro.

Aspirava pian piano, senza cessare di muovere le ali per mantenere un
po’ di frescura attorno al povero portoghese del cui sangue si nutriva.

Lo schifoso volatile rimase lì parecchi minuti, ingrossandosi a vista
d’occhio, poi quando fu ben sazio riprese il volo senza che Alvaro si
fosse svegliato.

Da un forellino appena visibile, aperto dagli acutissimi denti del
_morugo_, usciva lentamente un filo di sangue.

Mentre il vampiro s’allontanava un altro era calato sul mozzo.

Aveva già cominciato a succhiare il sangue, quando un lieve rumore
che proveniva dalla parte della foresta lo costrinse ad interrompere
bruscamente il pasto.

Degli uomini s’avanzavano camminando come i lupi, scivolando
dolcemente fra i rami, le radici e le liane, senza che le foglie secche
scrosciassero sotto i loro piedi.

Il _morugo_, spaventato, erasi già alzato precipitosamente scomparendo
in direzione della savana sommersa.

Il drappello che era composto di una dozzina d’uomini, nudi come vermi,
e ricchi di pitture, s’avanzò verso l’albero sotto cui, ignari del
grave pericolo che li minacciava, dormivano i due naufraghi.

Un urlo rauco che pareva uscisse più da gole canine che umane, scoppiò
fra quei selvaggi.

Avevano finalmente raggiunta la preda che avevano inseguita con tanta
ostinazione.

Nessuno però aveva alzata la mazza contro i due addormentati, anzi
tutti si erano fermati guardando Alvaro ed il mozzo con un certo
rispetto.

Si scambiarono rapidamente alcune parole, poi improvvisarono con dei
rami due barelle e vi posero sopra i due naufraghi senza che questi,
sfiniti dalle eccessive fatiche e dalla perdita del sangue, si fossero
svegliati.

Raccolsero le armi ed il barilotto delle munizioni che posero su una
terza barella, poi rientrarono nella foresta, correndo a precipizio.

                             . . . . . . .

Quando Alvaro si svegliò, con suo immenso stupore non si trovò più
sotto l’albero che gli aveva servito d’asilo, nè sulla riva della
savana sommersa.

Era coricato su un soffice e fresco strato di foglie di palma e chiuso
entro una capannuccia formata di grossi tronchi d’albero e senza alcuna
apertura.

La luce però entrava a sufficienza dalle fessure delle pareti sicchè
poteva vedere ciò che si trovava in quella umile dimora.

D’un balzo si era rizzato in piedi, chiedendosi se era in preda ad un
sogno, non potendo ammettere che il marinaio durante la notte e da solo
avesse potuto costruire quel ricovero.

Un grido gli sfuggì tosto scorgendo in un angolo il mozzo, disteso su
un altro strato di foglie e col viso imbrattato di sangue.

— Garcia! Garcia! — gridò, precipitandosi verso di lui. — Che cosa è
avvenuto? Dove siamo noi? Perchè hai il viso insanguinato?

Il ragazzo udendo quelle grida aveva aperti gli occhi e si era alzato a
sedere sbadigliando è stiracchiandosi.

— Ah! Buon giorno, signor Alvaro, — disse. — È tornato il marinaio.

— Ma che marinaio! — gridò Alvaro. — Guarda dove siamo!

— Oh! In una casa! Chi l’ha costruita e vo...... Mio Dio, signore!
Avete del sangue dietro l’orecchio destro e tutta la spalla è lorda.
Chi vi ha ferito?

— Anch’io sono lordo di sangue! E anche tu! —

Si portò una mano dietro l’orecchio e la ritrasse bagnata.

— Chi ci ha conciati in questo modo? — si chiese.

— Che qualche bestia vi abbia punto, signore? Quei formiconi che
abbiamo mangiati fritti, per esempio.

— Io non lo so; il fatto è che mi trovo debolissimo. Quella bestia deve
avermi fatto perdere molto sangue.

— Ed anch’io signore mi sento sfinito, — rispose il mozzo. — E Diaz? E
chi ci ha condotti in questa capanna? Che ci abbia portati lui mentre
dormivamo? —

Alvaro stava per rispondere, quando un urlìo selvaggio, spaventevole
gli giunse agli orecchi.

Quell’urlìo l’aveva udito ancora, sulle rive del fiume, quando gli
Eimuri erano comparsi interrompendo bruscamente il pranzo.

Impallidì e si sentì la fronte bagnarsi prima d’un sudore caldo, poi
freddo.

— Ci hanno presi! — esclamò con voce soffocata, guardando Garcia con
ispavento. — Ora comprendo tutto. Noi siamo prigionieri degli Eimuri!

In quel momento la porta della capanna si aperse e comparve un indiano
armato d’una pesantissima clava.



CAPITOLO XVIII.

I _Pyaie_ bianchi.


Quel selvaggio era un uomo di alta statura, senza alcun pelo sul viso,
anzi privo perfino delle sopracciglia, ed invece portava i capelli
lunghissimi, neri, grossolani ed arruffati.

Aveva il corpo quasi nudo, dipinto in rosso con striscie nere ed
azzurre alternate e sulla fronte e sulle gote portava parecchie penne
di tucano appiccicate con qualche mastice o con del miele selvatico e
che gli davano un aspetto stranissimo.

Sotto il mento portava il barbotto, formato d’un pezzo di diaspro verde
e sul petto gli pendeva una collana formata di conchigliette bianche,
distintivo dei capi tribù brasiliani.

Appena entrato si era abbassato fino a terra, sporgendo la lingua
e dando segni evidenti d’un profondo rispetto, poi si era rialzato
pronunciando alcune parole rauche, affatto incomprensibili, che
parevano suoni gutturali usciti dalle profondità del petto piuttosto
che dalla gola.

Alvaro, che non si era rimesso ancora dal suo spavento, era rimasto
immobile, guardando con inquietudine la pesante mazza del selvaggio
credendo di sentirsela da un momento all’altro piombare sul cranio.

L’Eimuro, che doveva aver formulata qualche domanda, vedendo che
il portoghese rimaneva silenzioso, si volse verso Garcia che si era
rifugiato in un angolo e pronunciò altre parole che non potevano essere
comprese meglio delle prime.

Vedendo che anche il ragazzo non apriva la bocca, fece un gesto
d’impazienza, poi affacciatosi alla porta mandò un grido che pareva
piuttosto un urlo di belva.

Un momento dopo un ragazzo indiano, che non doveva avere maggior età
del mozzo, entrava fermandosi dinanzi al capo.

Era un bel giovanotto, dall’aspetto svegliato, cogli occhi nerissimi ed
intelligenti e che sembrava appartenesse ad un altra razza.

Ed infatti aveva la pelle assai più chiara di quella del capo, i
lineamenti più fini, i capelli più morbidi ed i tratti del viso più
regolari.

Il capo gli rivolse alcune parole aggrottando parecchie volte la fronte
e facendo qualche gesto di minaccia, poi gli indicò Alvaro.

Con grande stupore, il portoghese udì il ragazzo a dire:

— _Señor_.....

Alvaro e Garcia si erano guardati l’un l’altro, domandandosi per la
seconda volta se sognavano o se erano veramente desti.

Un selvaggio brasiliano che parlava lo spagnuolo, mentre gli spagnuoli
non avevano mai messo piede su quell’immenso territorio, era una cosa
strabiliante, assolutamente incredibile.

— Signore, — riprese il ragazzo. — Il capo degli Eimuri vi ha parlato e
si mostra adirato perchè voi non avete risposto alle sue domande.

— Chi ti ha insegnato a parlare la lingua degli uomini bianchi? —
chiese Alvaro che non si era ancora rimesso dalla sorpresa.

— Il _pyaie_ della mia tribù.

— Diaz!

— Sì, si chiamava così il mio padrone, — rispose il ragazzo. — Mi
ricordo d’averlo udito più volte a dire: Ah! Povero Diaz!

— Dunque tu sei un tupinambo.

— Sì, signore.

— Ti hanno fatto prigioniero gli Eimuri?

— E m’ingrasseranno per mangiarmi, — disse il ragazzo senza manifestare
alcuna apprensione.

— E noi? Che cosa ne faranno di noi?

— Siete fortunati voi, signore. Gli Eimuri non hanno per ora alcuna
intenzione di divorarvi.

— Sai perchè inseguivano il tuo padrone?

— Sì, per farne un _pyaie_. Quello degli Eimuri è morto e bisogna
surrogarlo. —

Una tribù senza _pyaie_ è come un uomo senza testa.

L’avete veduto il mio padrone?

— Sì e l’abbiamo lasciato ieri sera.... —

Un rauco muggito del capo lo interruppe. L’Eimuro cominciava ad
impazientirsi di quel lungo colloquio di cui non riusciva a comprendere
una sola parola e cominciava a guardare minacciosamente il ragazzo.

Gli rivolse alcune parole battendo furiosamente contro il suolo la sua
pesantissima mazza.

— Il capo desidera sapere se siete anche voi dei _pyaie_ nel vostro
paese.

— Tutti gli uomini bianchi lo sono, — rispose Alvaro.

— Egli promette di risparmiarvi a condizione che diventate i _pyaie_
della sua tribù. Se vi preme salvare la vita, non rifiutate.

— Noi stregoni degli Eimuri, di questi ributtanti selvaggi!. — esclamò
Alvaro. — Che cosa ne dici, Garcia.

— Che è meglio diventare maghi piuttosto di finire sulla graticola,
signor Alvaro, — rispose il mozzo. — Intanto guadagniamo tempo.

Se il marinaio sfugge all’inseguimento, sono certo che non ci
abbandonerà.

— Hai ragione, Garcia, — disse il signor Viana dopo un momento di
riflessione. — Sì, Diaz non ci lascierà nelle mani di questi mangiatori
di carne umana. —

Quindi volgendosi al ragazzo, disse:

— Avverti il capo che noi accettiamo. —

Quando l’Eimuro fu informato della loro decisione una gioia pazza
si dipinse nel suo viso ed i suoi occhi nerissimi, dal lampo cupo,
fiammeggiarono.

Gettò lungi da sè la clava e pronunciò alcune parole volgendosi prima
verso Alvaro e quindi verso il mozzo.

— Che cosa dice? — chiese il primo, al giovanetto.

— Che voi sarete il grande _pyaie_ ed il vostro compagno il piccolo
_pyaie_ e che con stregoni così potenti la sua tribù diverrà
invincibile e non mancherà più di carne umana.

— La canaglia! — esclamò Alvaro. Il capo s’abbassò ancora toccando
colla punta della lingua la terra poi uscì accompagnato dal ragazzo.

— Ebbene Garcia? — chiese Alvaro, quando furono soli. — Ti senti in
grado di disimpegnare le funzioni di piccolo _pyaie_?

— Io non so che cosa esigeranno da me questi selvaggi; penso che per
ora la graticola non ci aspetta e questo è l’importante. —

Vi confesso che non sapevo rassegnarmi all’idea di dover avere per
sepoltura il ventre d’un selvaggio.

— E nemmeno io, ragazzo mio.

— Ci lascieranno in questa capanna o ci offriranno qualche cosa di
meglio?

— Non so nulla. Questi selvaggi sono poco noti anche a Diaz che pure
conosce moltissime tribù.

— M’immagino che....

La frase gli fu interrotta dall’improvviso ritorno del ragazzo
indiano. Non era però solo, l’accompagnavano quattro selvaggi d’aspetto
orribile, tutti impiastricciati di colori e di penne di pappagalli e
che portavano due ceste voluminose.

— Che cosa vogliono costoro? — chiese Alvaro.

— Vi portano le vesti e gli ornamenti del defunto _pyaie_. Era ben
provvisto quello stregone e godeva anche molta fama.

Dovrete assistere ai suoi funerali onde una parte della sua anima passi
nella vostra.

— Come! Se mi hai detto che è morto otto giorni fa?

— Non si poteva spolparlo prima d’avergli trovato il successore.

— Spolparlo! Che questi Eimuri spingano la loro adorazione pel morto
fino a mangiarlo?

— Oh no! Non divorano che i prigionieri di guerra e solamente nelle
carestie troppo lunghe mangiano i cadaveri dei parenti.

Presto signore, il capo vi attende. —

I quattro indiani avevano scoperte le ceste levando successivamente
dei diademi di penne di tucano trattenute da fibre vegetali intrecciate
con pezzetti d’oro, collane e braccialetti formati da denti di caimano,
di giaguaro e di vertebre di serpenti, dei perizomi di pelle di tapiro
frastagliata con un certo gusto e una infinità di sacchetti contenenti
certo dei preziosi amuleti o delle medicine meravigliose.

Gl’indiani, ad un cenno del ragazzo misero le collane ed i braccialetti
al collo ed ai polsi dei due _pyaie_, cinsero loro le sottanine, misero
sulla loro testa un diadema di penne scelte fra le più belle, poi li
invitarono ad uscire.

— Sii serio, — disse Alvaro al mozzo — Un gran sacerdote non deve
ridere, ricordatelo.

— Farò il possibile, signore, — rispose il mozzo.

Una piazza vastissima, circondata da capanne che dovevano aver
appartenuto a qualche tribù vinta, si estendeva dinanzi a loro.

Quattro o cinquecento selvaggi, tutti maschi, quasi nudi o nudi
affatto, ma armati di archi, di gravatane, di mazze e di scuri di
pietra, stavano raggruppati, senza ordine alcuno, tenendosi in piedi od
accovacciati come belve in agguato.

Erano tutti bruttissimi, colle membra secche, le capigliature
lunghissime e arruffate e dipinti in modo spaventevole per incutere
maggior terrore al nemico.

Il capo invece si trovava in mezzo alla piazza circondato da alcuni
sotto-capi i quali pareva che formassero una guardia d’onore intorno ad
un pacco voluminoso e assai lungo.

Vedendo apparire i due _pyaie_ dalla pelle bianca, un clamore
spaventevole che pareva mandato da centinaia e centinaia di belve,
rimbombò nella piazza ma fu subito represso da un grido del capo.

— Che bella compagnia! — esclamò il mozzo. — Che siano uomini o bestie?
Io non so decidermi a crederli esseri umani. Urlano come le belve dei
deserti.

— E camminano come i lupi, — disse Alvaro, vedendo tutti quelli posare
le mani a terra.

— Signor Alvaro, ho il cuore che mi trema. Se quei bruti ci mettessero
invece sulla graticola?

— Non temere: ormai siamo uomini sacri.

— E che cosa guardano quei selvaggi impennacchiati?

— Suppongo che in quel pacco si trovi il cadavere del defunto _pyaie_.

— Che ce lo facciano mangiare per far meglio entrare nei nostri corpi
la sua anima!

— Non rivoltarmi lo stomaco, Garcia. —

Il capo si avanzò verso i due _pyaie_ con dimostrazioni di rispetto
profondo e con un gesto li invitò a seguirlo.

   [Illustrazione: La mazza del capo gli aveva fracassato il
   cranio.... (CAP. XIX).]

I sotto-capi si erano già messi sulle spalle quel pacco che era involto
in una stoffa ruvida formata probabilmente colla corteccia fibrosa
di qualche pianta e si erano messi in cammino dirigendosi verso la
foresta.

Anche i guerrieri avevano strette le loro file e cominciavano
a muoversi, chi camminando diritti, chi colle mani e coi piedi.
Mugulavano come giaguari o lanciavano di quando in quando delle grida
gutturali assolutamente incomprensibili, strappandosi poi manate di
capelli e percuotendosi il corpo coi pugni.

— Che vadano a seppellire il morto? — chiese Garcia.

— Certo, — rispose Alvaro, — se hanno poi l’abitudine di seppellire i
loro cadaveri! Io ne dubito. —

Sempre mugolando e urlando e picchiandosi maledettamente anche
a vicenda, gli Eimuri si cacciarono sotto i boschi, marciando
disordinatamente.

Un quarto d’ora dopo i sotto-capi si arrestavano sulle rive di un fiume
che in quel luogo misurava almeno mezzo chilometro di larghezza e che
pareva fosse profondissimo.

Il capo si diresse verso una roccia che scendeva quasi a picco sul
fiume e guardò per parecchi minuti le acque.

Alvaro e Garcia, che lo avevano seguito, si provarono ad interrogarlo.

— _Caribi_, — rispose l’Eimuro.

— _Caribi!_ — esclamò Alvaro. — Ah! Devono essere quei certi pesciolini
che per poco non divorarono Diaz. Te ne ricordi, Garcia?

— Sì, il marinaio ci ha parlato dei _caribi_. Che siano venuti qui per
pescarli?

— Ora vedremo, — rispose Alvaro.

Il capo in quel frattempo si era fatto portare un paniere e aveva
levate..... delle membra umane che parevano fossero state recise da
poco, essendo ancora sanguinanti.

Prese un braccio che aveva ancora, intorno al polso, un braccialetto di
conchiglie e lo gettò nel fiume, poi una gamba e una testa che sembrava
avessero appartenuto ad un ragazzo.

— Birbanti! — esclamò Alvaro, facendo un gesto di ribrezzo. — Questi
selvaggi mi fanno paura!

— Andiamocene, signore, — disse Garcia. — Non posso resistere.

— Ti comprometteresti, ragazzo mio. No, dobbiamo rimanere se vogliamo
salvare la pelle.

— _Caribi!_ — disse ancora il capo, indicando ad Alvaro il fiume.

Il portoghese si curvò sull’orlo della rupe e vide sotto, guizzare fra
le acque che erano limpidissime, miriadi di pesciolini lunghi quanto
una mano, coi dorsi oscuri ed i ventri argentati che battagliavano
furiosamente fra di loro, divorandosi a vicenda.

— È la carne umana che ha gettata il capo che li ha fatti accorrere in
così gran numero, — disse Alvaro a Garcia.

— E perchè li ha fatti venire a galla? —

In quel momento un odore nauseabondo, orribile, si sparse sulla riva
del fiume. —

I sotto-capi avevano tolta la ruvida tela che avvolgeva quel pacco
misterioso ed avevano scoperto il cadavere d’un vecchio indiano già
putrefatto.

— Ci appesta quel morto! — esclamò Garcia, turandosi il naso.
All’inferno tutti gli Eimuri ed il loro stregone!

I sotto-capi passarono sotto le braccia del cadavere due lunghe
liane ben secche, lo trascinarono fino sull’orlo della roccia, poi
lo calarono dolcemente nel fiume, là dove i _caribi_ continuavano a
battagliare.

— Lo danno da mangiare ai pesci, — disse Alvaro.

I _caribi_ si erano gettati furiosamente sul _pyaie_ assalendolo da
tutte le parti con un accanimento impossibile a descriversi.

I loro denti aguzzi e solidi come se fossero d’acciaio, strappavano ad
un tempo lembi di pelle e di carne.

Alcuni erano già scomparsi nel ventre del morto e divoravano i polmoni,
il cuore, il fegato e le budella.

La carne scompariva con rapidità prodigiosa. I muscoli se ne andavano,
triturati da quelle migliaia di bocche e le ossa cominciavano a
comparire.

La distruzione di quel povero corpo non fu lunga. Non erano trascorsi
dieci minuti che non rimaneva nemmeno un brandello di carne su quello
scheletro.

— Altro che gli anatomici! — esclamò Alvaro. — Questi pesci valgono
molto di più.

Ecco un magnifico scheletro, accuratamente spogliato, che farebbe una
superba figura nella vetrina d’un museo. —

1 sotto-capi ritirarono dolcemente lo scheletro del _pyaie_ e lo
avvolsero accuratamente in un’ampia stuoia che poi legarono con
numerose liane e lo deposero su una specie di palanchino costruito
rozzamente con rami intrecciati.

— La cerimonia è finita, — disse una voce.

Alvaro si volse e si vide accanto il ragazzo indiano.

— I _pyaie_ dalla pelle bianca possono ora prendere possesso della
capanna che apparteneva al defunto.

— E delle ossa del morto che cosa ne faranno? — chiese Alvaro.

— Si sospendono ad un albero e si lasciano là finchè cadono. —

Gli Eimuri si erano rimessi in cammino senza dare più alcun segno di
dolore.

Anzi parevano lietissimi e saltellavano agitando le loro pesanti mazze
fingendo di combattere contro dei nemici invisibili.

Talora si scagliavano colla furia d’un uragano come se avessero avuto
dinanzi qualche tribù avversaria, mandando urla spaventevoli e vibrando
all’impazzata colpi disperati, poi si arrestavano di colpo e simulavano
una fulminea fuga, tornando verso i capi.

L’aspetto che assumevano allora i visi di quei selvaggi era orribile.
Non avevano più sembianze umane; parevano piuttosto musi di giaguari o
di coguari.

I loro occhi mandavano baleni, dimenavano le mascelle come se
pregustassero la carne dei vinti e mandavano ruggiti da fiere.

Quando giunsero al villaggio, i guerrieri si dispersero per le vicine
foreste non potendo le capanne bastare per tutti. Solamente poche
dozzine si erano fermate intorno ad una abitazione più vasta delle
altre, che sorgeva nel centro della piazza e che era adorna di pelli
di serpenti appesi alle pareti e di teste di caimano collocate intorno
alla punta del tetto.

— Che cosa c’è in quella capanna? — chiese Alvaro al ragazzo indiano.

— Era la dimora del defunto _pyaie_, — rispose. — Ora sarà la vostra
finchè gli Eimuri si fermeranno qui.

Ho ricevuto l’ordine di condurvi là dentro e di mettermi a vostra
disposizione finchè avrete imparata la lingua di questi uomini.

— E non si potrebbe avere qualche cosa da porre sotto i denti?

— Fra poco si sacrificherà un mio compatriota che è stato giudicato
abbastanza grasso e voi avrete la parte migliore.

— Che mangerai tu, mostro! — esclamò Alvaro indignato.

Il ragazzo lo guardò con stupore, poi disse:

— Ah! Sì, gli uomini bianchi non amano che la carne bianca.
Disgraziatamente qui tutti sono rossi, e non si saprebbe come fare a
procurarvene.

— Noi non mangiamo che carne d’animali e frutta, mi hai capito? La
carne umana ci ispira orrore.

— Avrete del tapiro della testuggine e del mandioca. Entrate e non
uscite finchè non ricevete l’ordine del capo. I _pyaie_ non devono
mostrarsi troppo sovente in pubblico. —

Alvaro e Garcia, dopo una breve titubanza, varcarono la soglia,
prendendo possesso della dimora del defunto _pyaie_.



CAPITOLO XIX.

Le vittime della guerra.


Quell’abitazione, che aveva forse prima servito di dimora al _pyaie_
della tribù distrutta o fugata dagli Eimuri, era molto più spaziosa
dell’altra, e molto più oscura non avendo che un piccolo pertugio
aperto nel tetto e le pareti senza fessure.

Anche a prima vista si capiva che doveva essere stata abitata da
qualche stregone pel numero infinito di amuleti appesi alle travi del
tetto, di collane d’ogni specie formate per lo più di denti d’animali
e di vertebre di serpenti che s’incrociavano bizzarramente, formando
degli strani trofei.

Quello però che aveva subito attratto l’attenzione dei due naufraghi
era stata una collezione di teste umane che ornava la parete trovantesi
di fronte alla porta e che erano meravigliosamente conservate.

Al pari dei maori della Nuova Zelanda, i selvaggi brasiliani ci
tenevano ad avere le teste dei capi nemici che erano caduti sul campo
di battaglia o che avevano divorati.

Per conservarle non ricorrevano, come gl’isolani del grand’oceano
Pacifico al fuoco ed al vapore acqueo.

Ne levavano prima il cervello, che come si può ben immaginare non
gettavano via, essendo un boccone troppo squisito e troppo ricercato da
quei ributtanti mangiatori di carne umana, poi immergevano la testa in
una pentola ripiena d’olio amaro vegetale, conosciuto sotto il nome di
_antiroba_, quindi la esponevano per qualche tempo al fumo.

In seguito levavano gli occhi mettendo invece al loro posto due denti
incisivi d’un roditore, cucivano le labbra e ornavano gli orecchi con
fiocchetti formati da ciuffi di penne gialle o nere.

La collezione del defunto _pyaie_ era abbastanza ricca, componendosi di
una ventina di teste e tutte benissimo conservate.

Quello invece che difettava era il mobilio. Non vi erano che delle
amache di cotone filato grossolanamente, delle zucche vuote, delle
noci di cocco che dovevano servire da vasi, e tre o quattro coppe
che trasudavano acqua in quantità, lasciandola raccogliersi entro un
recipiente d’argilla di dimensione enormi.

Sembrerà strano eppure quasi tutti i selvaggi brasiliani avevano una
cura estrema nella scelta dell’acqua e per ottenerla leggiera e pura
da ogni sedimento, facevano uso di certi vasi porosi che servivano
ottimamente da filtri.

— Come la trovi la nostra casa? — chiese Alvaro al mozzo, dopo aver
visitato tutti gli angoli.

— È un po’ oscura, signore e poi, quelle teste che pare ci sogghignino
non la rendono troppo allegra. A chi apparterranno?

— A gente divorata, suppongo.

— Potevano mangiare anche quelle teste senza mettercele qui. Ma, dite
signor Alvaro, spero che non avrete già l’idea di prolungare per molto
tempo il vostro ufficio di stregone.

Io ne ho già abbastanza e vorrei tornarmene nei grandi boschi.

— Provati, ragazzo mio, — rispose il portoghese. — Io non te lo
impedirò.

— Se potessi non me lo farei dire due volte, signore.

— Per ora accontentiamoci di essere _pyaie_, mio povero Garcia. Anch’io
non ho già il desiderio di rimanere sempre fra questi antropofagi che
non m’ispirano fiducia alcuna.

Diaz ci farà avere, in qualche modo, sue notizie. A quest’ora deve
essersi immaginato che noi ci troviamo nelle mani degli Eimuri.

— Che ci sorveglino anche di notte, questi selvaggi?

— Non ne dubito. Non si fideranno di noi e terranno un occhio aperto.

E poi anche fuggendo, che cosa potremmo fare ora che siamo senza fucili.

Se potessi riavere il mio e anche le munizioni! E perchè no?

Qui le armi da fuoco sono sconosciute e forse potremo farci consegnare
l’uno e le altre.

Ah! La bell’idea! Daremo ad intendere a questi bricconi che sono
amuleti potenti per vincere i nemici.

In quell’istante udirono al di fuori echeggiare dei suoni acuti che
parevano mandati da alcuni pifferi e un fragor strano come se migliaia
di sassolini sbattessero contro le pareti sonore di qualche istrumento.

— La musica! — esclamò Garcia. — Che gli Eimuri vengano a offrirci un
concerto? Veramente io avrei preferita una colazione. —

Si affacciarono alla porta e videro una dozzina di selvaggi dirigersi
verso la loro capanna, preceduti dal giovane tupinambi che serviva
d’interprete.

Quattro suonavano certi flauti che parevano formati con tibie umane
e due altri agitavano certe frutta legnose che dovevano essere state
quasi riempite di sassolini.

Un settimo invece portava una specie di astuccio di pelle, abbellito da
grani d’oro e da conchigliette e gli altri dei cesti che parevano assai
pesanti.

— Che cosa vogliono questi uomini? — chiese Alvaro al ragazzo indiano.

— Consegnarti innanzi a tutto il _tushana_ del capo e affidarlo alla
tua vigilanza....

— Il _tushana_! Che cos’è?

— Lo scettro della tribù. Gli altri ti portano la colazione e anche
dell’eccellente _taroba_ che era stato preparato appositamente dalle
più vecchie donne degli Eimuri, pel defunto _pyaie_.

— Metti in un canto il tuo _tushana_ che per ora non c’interessa e fa
posare la colazione. I _pyaie_ bianchi non vivono già d’aria. —

Il ragazzo lo guardò un po’ sorpreso, prese poi il tubo contenente lo
scettro che depose sotto le teste conservate, poi fece mettere a terra
i canestri.

Alvaro con un gesto congedò musicanti e portatori e si mise a levare
ciò che contenevano i _pagara_, paventando che potesse trovarsi dentro
qualche pezzo d’arrosto umano.

I cuochi del capo, avvertiti che i pyaie dalla pelle bianca non
potevano mangiare che nemici della loro razza, avevano surrogata la
carne umana con una magnifica _traira_, un pesce che abbonda nelle
savane sommerse, con delle gallette di mandioca e con dei banani
cucinati sotto la cenere.

Vi avevano poi aggiunti due grossi vasi pieni di un liquido lattiginoso
che esalava un acuto odore d’alcool.

— All’attacco, Garcia, — disse, con voce allegra. — L’arrosto umano non
figura nella minuta, nè bianco, nè nero, nè rosso. —

Per nulla inquietati dalla presenza del ragazzo, si misero a mangiare
con appetito invidiabile, poi servendosi di due cornetti fatti con
foglie di palma si provarono ad assaggiare il _taroba_.

— Non c’è male, — disse Alvaro. — Non credevo che questi antropofagi
fossero capaci di fabbricare dei liquori.

Ma, ora che mi rammento, aveva già parlato dal _taroba_ e....

— E anche di denti di vecchie, signore, — disse il Garcia.

— _Characo!_.... Sì, di denti.... — rispose Alvaro, lasciando cadere
il cornetto. — Ehi, ragazzo, si può conoscere la ricetta usata per
fabbricare questo liquore?

— Non vi piace? — chiese il giovane indiano.

— Ti domando da che cosa lo ricavano.

— Dai tuberi di mandioca, signore, — rispose l’indiano. — Si fanno
prima bollire, poi si danno a masticare alle donne più vecchie della
tribù....

— Dici! — esclamò Alvaro, che si sentiva rivoltare le budelle.

— Poi quando li hanno bene triturati, si fanno nuovamente ribollire, si
mettono entro vasi e si lasciano fermentare sepolti nella terra umida.

— Puah! È questa porcheria la bevete? Garcia, butta fuori questi vasi!
Alla malora il _taroba_! Questi indiani sono dei veri porci!

— Perchè dite ciò? — chiese l’indiano.

— Io bere questa porcheria, masticata prima dalle vecchie!

— Ma signore, se i tuberi non venissero masticati, il _taroba_ non
riuscirebbe eccellente[10].

— Porta via quei vasi o li scaravento sulla testa del primo indiano che
passa. I _pyaie_ dalla pelle bianca non bevono di questi liquori.

Ecco guastata la digestione!

— Signore, — disse il mozzo che rideva a crepapelle. — Non vale la pena
di scaldarsi tanto. Dopo tutto quel liquore non era poi cattivo. —

L’indiano, un po’ mortificato per la cattiva accoglienza fatta dal gran
_pyaie_ al più squisito dei liquori brasiliani, prese i due vasi e li
portò fuori, chiedendosi quali bevande spiritose usavano quegli uomini
dalla pelle bianca, per disprezzare quel _taroba_ che era stato ben
preparato dalle vecchie della tribù.

— Vediamo ora questo _tushana_ che hanno affidato alla nostra
sorveglianza, — disse Alvaro. — Deve essere qualche cosa d’importante,
come un sigillo reale o giù di lì. —

Prese il cilindro che era formato da una grossa canna di bambù, alta
quasi un metro e come abbiamo detto, adorna di collane e di grani d’oro
e l’aprì.

Conteneva un bastone di legno pesantissimo, probabilmente _pao de
fero_, alto sessanta centimetri, con un ciuffo formato di penne di
tucano da una parte e dall’altra con un ciuffo di penne d’arà rossa.

— Lo si direbbe un bastone di comando, — disse Alvaro, osservandolo
curiosamente. — Se affidano a noi il _tushana_ della tribù, vuol dire
che noi siamo diventati personaggi importantissimi. Diaz mi ha narrato
che non si affidava che a gente d’alto bordo. Ciò mi tranquillizza.

— E perchè signore?

— Perchè avevo paura che questi bruti aspettassero che fossimo
ben grassi per mangiarci. Eh! La carne bianca poteva tentare quei
mangiatori di carne umana.

— E dovremo continuare molto a rappresentare la parte di stregoni?

— Di che cosa ti lagni, ragazzo incontentabile? Siamo diventati di
punto in bianco grandi dignitari e grandi sacerdoti, mentre avremmo
dovuto finire su una graticola e non sei ancora contento?

— Preferirei la libertà nei grandi boschi, insieme al marinaio.

— Pazienza per ora, Garcia. Nemmeno io ho il desiderio di finire
la mia vita fra questi selvaggi. Per ora restiamo stregoni, poi
vedremo. —

In quel momento il ragazzo indiano rientrò, dicendo:

— Gran _pyaie_ il capo vi prega di assistere alla morte del prigioniero
che dovrà servire questa sera per cena dei sotto-capi e dei più valenti
guerrieri.

Dice che la carne, guardata dai vostri occhi, diventerà più eccellente.

— Se ci lasciasse tranquilli sarei più contento. Non amo veder
assassinare un povero diavolo e tanto meno a mangiarlo.

— È l’uso della tribù e voi non potete sottrarvi agli obblighi
spettanti ai _pyaie_.

— È un tuo compatriotta il condannato?

— No, un _tupy_.

— Se mi provassi a salvarlo?

— Non fatelo, gran _pyaie_. Anche il mio padrone si era provato da
principio e per poco non venne mangiato assieme alla vittima.

— Non opponetevi alle usanze della tribù se volete salvare la pelle.
Ecco il prigioniero che ha cominciata la sua danza guerresca. Udite?
Egli non tremerà quando la mazza gli sfracellerà il cranio e si
difenderà vigorosamente. —

Sulla piazza si udivano a suonare i pifferi e strepitare le maraca che
venivano agitate furiosamente per accrescere il baccano e tratto tratto
una voce umana, poderosa, echeggiava coprendo quei suoni.

— Giacchè non possiamo farne a meno senza screditarci, andiamo, —
disse Alvaro. — Anche la carica di _pyaie_ più o meno grande, ha le sue
spine. —

Uscirono preceduti dal ragazzo indiano.

La piazza era già stata occupata da parecchie centinaia di selvaggi,
fra i quali si vedevano anche parecchie donne, miserabili creature dai
lineamenti non meno bestiali di quelli degli uomini, colle capigliature
arruffate, l’orribile barbotto e gli orecchi prodigiosamente allungati
e adorni di piccole file di ossicini bianchi, probabilmente di falangi
umane e di pietre colorate che ricadevano fino sulle spalle.

Il _tupy_ che doveva servire da cena al capo ed ai sotto-capi, era già
giunto sulla piazza e s’avanzava scortato da un gruppo di suonatori,
ballando e cantando per dimostrare il suo coraggio e la nessuna
paura che aveva della morte. Era un bel giovane guerriero, di forse
venticinque anni, colle membra ben tornite e tatuato in varii luoghi,
coi lineamenti più fini e più regolari di quelli degli Eimuri.

Dietro di lui, una vecchia megera, orribilmente dipinta, portava la
_liwara-pemme_, ossia la terribile mazza che i brasiliani usavano
adoperare per uccidere i loro prigionieri.

Presso tutte le tribù brasiliane, i nemici che cadevano vivi nelle mani
dei vincitori, fino al giorno del supplizio venivano trattati coi più
grandi riguardi, come persone quasi sacre.

Invece di tenerli rinchiusi e legati, accordavano a loro la massima
libertà, non cessando però di sorvegliarli onde impedire che
fuggissero.

Li nutrivano abbondantemente, onde facessero degna figura alla tavola
dei capi, li fornivano di liquori e di tabacco in abbondanza.

Due giorni prima dell’epoca fissata pel supplizio, usavano dare delle
feste e banchetti in onore della vittima, la quale vi prendeva parte
attiva, sforzandosi di mostrarsi il più intrepido ballerino ed il più
allegro di tutti.

Le donne intanto filavano espressamente le corde che dovevano legarlo,
fabbricavano i vasi per cucinare le carni oppure la graticola ed i
liquori che dovevano inaffiare il banchetto.

Il _tupy_ si mostrava degno del coraggio tradizionale dei suoi
compatriotti, i quali godevano fama di essere i più intrepidi guerrieri
del Brasile.

Ballava con lena crescente, ridendo e scherzando cogli Eimuri che
lo circondavano, fingendo di non udire il canto di morte che aveva
intuonato la vecchia megera che portava la mazza fatale.

— Noi teniamo l’uccello pel collo, — cantava la vecchia, tentando
di gettare sulle spalle del prigioniero una corda fatta a laccio. —
Se tu fosti stato invece un pappagallo venuto a beccare nelle nostre
campagne, saresti volato via.

Ma noi ti abbiamo ora recise le ali e ti mangeremo! —

Il guerriero allora s’interrompeva come preso da improvviso furore e
rispondeva con voce tuonante:

— Voi mi mangerete, ma io ho ucciso il padre di quel guerriero che sta
presso il capo e gli ho divorato il cuore.

Io ho pure ucciso un capo vostro e ferito a morte suo figlio e anche
quelli li abbiamo divorati. —

Era giunto nel centro della piazza, dove ardeva un gran fuoco e dove
era stata già rizzata una enorme graticola formata con rami di alberi
del ferro.

Il capo degli Eimuri, tutto adorno di collane e di penne di varii
uccelli si avanzò verso il prigioniero, seguito da una dozzina di
guerrieri e secondo l’uso lo invitò a guardare per l’ultima volta il
sole, poi impugnò la mazza facendola volteggiare parecchie volte in
aria per dare un saggio della sua forza e della sua abilità.

Quindi fissando sul _tupy_ uno sguardo feroce, gli disse:

— Nega che tu hai divorato il padre di quel guerriero, il capo e suo
figlio.

— Fammi libero e mangerò te e tutti i tuoi, — rispose fieramente il
_tupy_.

— Noi ti proveremo ed io mi preparo a darti il colpo mortale, giacchè
tu affermi di aver ammazzati i miei guerrieri e tu sarai divorato in
questo giorno istesso.

— Questi sono i casi della vita, — rispose il prigioniere scrollando le
spalle. I miei amici sono numerosi e un giorno mi vendicheranno.

— Ha del coraggio quel giovane, — disse Alvaro al ragazzo indiano che
gli aveva tradotte le risposte del prigioniero.

— Era un valoroso, signore, figlio d’un grande guerriero.

— Peccato che noi non possiamo far nulla per salvarlo.

— Gli Eimuri diverrebbero furibondi. Lasciateli fare. —

Due selvaggi avevano legato al prigioniero le gambe, lasciandogli però
libere le braccia.

Il _tupy_ si mise allora a dimenarsi come un forsennato sfidando tutti
ad assalirlo, essendo concesso ai prigionieri il diritto della difesa.

Vedendo i guerrieri del capo avanzarsi, raccolse quanti sassi si
trovavano presso di lui, scagliandoli contro i nemici. Ruggiva come una
belva e quantunque avesse le gambe legate balzava coll’agilità d’una
gazzella.

Il cerchio però si stringeva sempre più attorno a lui ed il capo aveva
alzata la mazza.

Per qualche istante lo si vide roteare e tempestare di pugni gli
avversarii, poi risuonò un colpo secco.

La _liwara pemme_ del capo gli aveva fracassato il cranio, facendolo
stramazzare al suolo fulminato.

— Andiamocene, — disse Alvaro, nauseato, mentre gli Eimuri si
scagliavano, ruggendo come fiere, sul cadavere ancor caldo del _tupy_.
— Questi assassini mi ributtano. —

E preso il mozzo per una mano lo trasse verso la capanna, mentre il
disgraziato guerriero veniva gettato sulla graticola.



CAPITOLO XX.

L’Uomo di fuoco.


Cominciavano ad averne fino sopra i capelli della loro carica ed a
sentire un intenso desiderio di libertà.

Erano già sei giorni che si trovavano nelle mani di quei ributtanti
selvaggi, confinati nella loro capanna, dalla quale non potevano uscire
che per assistere a banchetti di carne umana, avendo fatto gli Eimuri,
nelle loro ultime scorrerie, buon numero di prigionieri Tamoi, Tupy e
Tupinambi, e non ne potevano più di quella esistenza.

Avevano dapprima sperato nel marinaio, ma invece non avevano avuto
più nessuna nuova di lui. Era stato ucciso e divorato da qualche altra
colonna di Eimuri, o disperando di poterli salvare, aveva continuata la
sua fuga per raggiungere le orde dei Tupinambi? Mistero.

— Andiamocene, signore, — ripeteva da mane a sera il mozzo.

— Sì, andiamocene, — rispondeva invariabilmente Alvaro.

Ma il mezzo non si era mai presentato. I selvaggi, che dovevano
diffidare, non avevano mai cessato di sorvegliarli e tutte le sere un
certo numero di guerrieri si sdraiava intorno alla capanna per impedire
qualsiasi evasione.

Eppure i due naufraghi erano convinti che così non la potesse durare a
lungo.

Quella carica di celebri stregoni, non andava troppo a sangue a loro e
ne avevano perfino di troppo.

Il settimo giorno stava per passare non meno allegro degli altri,
quando dopo il mezzodì videro improvvisamente entrare il capo degli
Eimuri, seguito dal ragazzo che serviva da interprete.

— Ci deve essere qualche novità, — disse Alvaro al mozzo. — Dopo
l’uccisione del _tupy_ è la prima volta che l’Eimuro si degna di farci
una visita. —

Il capo pareva assai preoccupato e di cattivo umore. Salutò nondimeno i
due _pyaie_ toccando il suolo colla punta della lingua, poi fece cenno
al ragazzo di parlare.

— Che cosa vuole il capo? — chiese Alvaro.

— Egli si lamenta che i due _pyaie_ non proteggono, come dovrebbero,
la tribù, — rispose il ragazzo. — E mi dice di avvertirvi che se non
ucciderete quel terribile serpente, vi mangerà.

— Diavolo! — esclamò Alvaro, un po’ impressionato. — Che la carne
bianca lo tenti? Già non mi tenevo molto sicuro anche colla carica
impostaci.

Di che cosa si tratta dunque?

— D’un terribile serpente che ha già divorato cinque guerrieri della
tribù, — rispose il ragazzo.

— E che cosa si vorrebbe da noi?

— Di fare degli scongiuri onde il rettile ritorni nella savana da cui è
uscito o che lo uccidiate.

— Una cosa molto facile a farsi, — rispose Alvaro. — Gli è che ci
mancano i nostri amuleti.

— Quali? — chiese il ragazzo, dopo d’aver scambiato alcune parole col
capo.

— Quando ci hanno fatti prigionieri noi avevamo degli amuleti possenti
che gli Eimuri non ci hanno più restituiti.

Che ce li portino e noi andremo a uccidere quel terribile serpente che
minaccia la distruzione della tribù.

— Li avrete, — rispose il ragazzo. — Il capo li ha conservati e ve li
consegnerà.

— Quando dovremo andare ad uccidere il serpente?

— Questa sera, non mostrandosi mai di giorno.

— Dirai al capo che i _pyaie_ saranno pronti e che il serpente non
divorerà più gli uomini della sua orda. —

L’Eimuro, visibilmente soddisfatto per quelle risposte, si ritirò
assieme al ragazzo, facendo un inchino più profondo di prima e leccando
il pavimento della capanna.

— Garcia! — disse Alvaro, quando furono soli. — L’occasione che
aspettavamo è venuta, e, se non saremo capaci di approfittarne, dovremo
rinunciare per sempre a riacquistare la libertà.

Io sono pronto a tentare la sorte od a fare un gran colpo. Non sarà il
serpente che cadrà, bensì il capo di questi mangiatori di carne umana,
dovesse poi farmi inseguire attraverso tutto il Brasile.

— Che ci restituiscano il fucile?

— Me l’hanno promesso e poi non s’immaginano di certo che sia un’arma
ben più terribile delle loro mazze e delle loro frecce.

— Ed il serpente?

— Se lo ammazzino loro, se ne avranno il coraggio.

— E dopo, signore?

— Fuggiremo e riprenderemo la nostra vita randagia, finchè avremo
ritrovato il marinaio o la sua tribù.

— Signor Alvaro, mi trema il cuore.

— Se rimanessimo qui, un dì o l’altro questi selvaggi finirebbero per
divorarci. Un arrosto di carne bianca li tenta e mi stupisco che ci
abbiano finora risparmiati.

Non lasciamoci illudere dalla nostra carica che non ci offre alcuna
sicurezza.

— Che cosa avete intenzione di fare?

— Non lo so ancora, ma qualche cosa accadrà ed il capo non tornerà più
vivo fra i suoi.

Sono deciso a tutto o.... —

Una detonazione improvvisa, che rimbombò sulla piazza, lo fece
sobbalzare. Grida selvagge, improntate del più profondo terrore,
echeggiavano da tutte le parti.

Alvaro e Garcia si erano precipitati verso la porta.

Dei guerrieri fuggivano a rompicollo nascondendosi entro le capanne
o rifugiandosi nella foresta, mentre in mezzo alla piazza, ancora
circondato da una nuvola di fumo, giaceva un cadavere.

— Hanno scaricato il fucile! — esclamò Alvaro. — Vi è un morto laggiù.

— Che incolpino ora noi della disgrazia, signore? — chiese Garcia.

— Vedo il fucile presso quel morto e anche il bariletto delle munizioni
ed i sacchetti delle palle. Approfittiamo della fuga dei selvaggi per
impadronircene.

Con un’arma da fuoco nelle mani, potremo tener testa a questi
bruti. —

Seguito dal mozzo si diresse verso il centro della piazza dove giaceva
il cadavere e s’impadronì del fucile caricandolo precipitosamente.

L’indiano che aveva fatto partire la scarica, era stato ucciso sul
colpo. Aveva ricevuto la palla in un occhio e la scatola ossea era
stata attraversata dal grosso proiettile, uscendo dietro la nuca.

Vedendo comparire i due _pyaie_, alcune teste cominciavano a mostrarsi,
ma nessuno osava ancora uscire.

   [Illustrazione: Si era trovato avvolto fra le spire del
   serpente.... (CAP. XXI).]

Quello sparo e la morte fulminante del selvaggio, dovevano aver
prodotta una immensa impressione su quegl’indiani che in quell’epoca
non conoscevano le armi da fuoco e che come tutti i popoli primitivi,
avevano una grande paura del tuono.

— Signor Alvaro, — disse il mozzo. — Se noi approfittassimo dello
spavento che ha invaso questi selvaggi per mettere in moto le nostre
gambe?

— Non ci lascierebbero andare, ragazzo mio, e ben presto li avremmo
tutti addosso. No, questo non è il momento di fuggire nè di commettere
imprudenze.

Ah! Ecco il giovane indiano che viene verso di noi. Non è meno
spaventato degli altri, quel povero diavolo. —

L’interprete era uscito da una capanna e s’avanzava timidamente verso
di loro, mentre dietro di lui tuonava la voce rauca del capo.

Era pallidissimo e tremava come una foglia mossa dal venticello.

— Non aver paura, — gli disse Alvaro, sorridendo. — Nessuno ti ucciderà.

— Signore, — balbettò il ragazzo che guardava con uno spavento
impossibile a descriversi il fucile che Alvaro teneva fra le mani. —
Il capo mi manda a chiedervi chi è che ha cagionata la morte di quel
guerriero.

— Quell’uomo ha voluto toccare il potente amuleto dato dal grande
Manitou ai _pyaie_ bianchi ed è morto.

Gli uomini rossi non posseggono il fuoco del cielo.

— Quel tuono e quel getto di fuoco stanno rinchiusi nella _gravatana_
che tenete fra le mani?

— Sì, sono qui dentro.

— E uccidono?

— Lo hai veduto. Che cosa aveva fatto quel guerriero?

— Voleva vedere ciò che conteneva la vostra _gravatana_ ed è subito
caduto fra una nube di polvere, mentre scoppiava un tuono spaventevole
simile a quello che si vede quando infuriano le tempeste.

— È stato un imprudente ed il grande Manitou lo ha punito. Egli non
doveva vedere ciò che conteneva l’amuleto dei _pyaie_ dalla pelle
bianca.

Va a dire al capo che venga ed io gli mostrerò la potenza di questa
_gravatana_, se ti piace chiamarla così.

— Non ucciderà più nessuno?

— Sì, il serpente che ha divorato i guerrieri del capo, — rispose
Alvaro.

Il ragazzo si era diretto, correndo, verso la capanna da cui era
uscito e poco dopo tornava seguito dal capo e da parecchi guerrieri.
Erano però anche essi in preda ad un vivissimo spavento e guardavano
sospettosamente i due _pyaie_ e sopratutto quella terribile arma che
ispirava ormai un terrore superstizioso, ed invincibile.

Incoraggiati però dalla immobilità e dai sorrisi di Alvaro, a poco a
poco formarono attorno a lui un circolo, tenendosi tuttavia sempre a
rispettosa distanza.

— Di’ al capo di condurre qui qualche animale, se ne ha qualcuno, —
disse Alvaro al ragazzo.

— Che cosa vuoi fare?

— Mostrare al capo come si uccide. —

Il ragazzo scambiò alcune parole coll’Eimuro, poi disse:

— Il capo ti offre uno dei suoi prigionieri. Ne ha ancora una dozzina.

— Mi conduca un animale o non vedrà nulla. Sono i _pyaie_ che comandano
in questo momento. —

Alcuni indiani, ai quali il ragazzo aveva tradotta la risposta del
portoghese, si diressero verso la foresta dove, forse in qualche
recinto, tenevano degli animali destinati a surrogare i prigionieri di
guerra quando questi mancavano.

Pochi minuti dopo Alvaro li vide ritornare spingendo innanzi a loro
uno strano animale che rassomigliava ad un porco, grosso però più del
doppio, con una testa assai accuminata che terminava in una piccola
proboscite mobilissima.

Se Alvaro avesse avuto miglior conoscenza cogli animali che abitavano
le foreste brasiliane, avrebbe subito riconosciuto in quella specie di
porco un tapiro, un essere affatto inoffensivo, che vive per lo più
nelle foreste umide o nei pressi delle savane, essendo amante delle
canne palustri e delle radici delle piante acquatiche.

Il povero animale, come fosse consapevole della sorte che lo attendeva,
cercava di ribellarsi e ricalcitrava, ma gl’indiani a furia di
legnate e di calci lo spinsero verso il tronco d’una palma legandovelo
solidamente con delle liane.

Alvaro fece cenno ai selvaggi di ritirarsi, si avanzò fino a cinquanta
passi della pianta e dopo d’aver pronunciato alcune parole misteriose e
d’aver alzato replicatamente le mani verso il cielo come se invocasse
l’assistenza del gran Manitou, signore della terra e del fuoco, puntò
il fucile mirando attentamente.

Un profondo silenzio regnava fra gli Eimuri, il cui numero era
triplicato. Sui loro visi si leggeva una estrema ansietà.

Anche il capo pareva profondamente impressionato e guardava con un
misto di spavento e d’ammirazione superstiziosa quell’arma che mandava
fumo, fuoco e tuono.

Ad un tratto una detonazione rimbombò, strappando ai selvaggi un urlo
di spavento.

Alcuni si erano dati a fuga precipitosa, turandosi gli orecchi, altri
si erano lasciati cadere al suolo e si rotolavano fra la polvere.

Il capo però ed alcuni altri coraggiosi si erano invece slanciati verso
l’albero alla cui base si dibatteva, fra le ultime convulsioni della
morte, il disgraziato tapiro.

Quando lo videro esalare l’ultimo sospiro e si furono ben convinti
che nessuna freccia lo aveva colpito, tesero le braccia verso Alvaro,
gridando a squarciagola:

— _Caramurà! Caramurà!_

— _Caramurà!_ — esclamò Alvaro. — Io ho udito ancora questo
grido. —

Si volse verso il ragazzo indiano che gli stava presso, guardandolo con
due occhi strambuzzati, pieni di terrore.

— Che cosa vuol dire _Caramurà?_ — gli chiese.

— _L’uomo di fuoco_, signore, — balbettò il ragazzo. — Forse che voi
non siete il padrone del fuoco?

— Ecco un titolo che mi renderà temuto fra tutte le tribù brasiliane. —
disse Alvaro ridendo. — La mia fama è ormai assicurata.

Va ora a dire al capo, che il signor _Caramurà_ è pronto a uccidere
il serpente che divora i suoi guerrieri e che.... — continuò poi,
curvandosi verso Garcia e abbassando la voce, — giuocherà anche di
gambe. —

Il capo, seguito da alcuni guerrieri, si era accostato a poco a poco ad
Alvaro, tutto umile e tremante.

— Tu sei il _pyaie_ più possente di quanti ne esistono, — gli fece dire
dall’interprete. — Quello che possedevano i Tupinambi — che io avevo
fatto inseguire per averlo come mio _pyaie_, non è nulla a paragone di
te.

D’ora innanzi tu rimarrai sempre con noi e comanderai come un capo.

Coll’_Uomo di fuoco_, noi saremo invincibili e non ci mancheranno più
prigionieri da divorare.

— Il birbante, — disse Alvaro a Garcia, quando il giovane indiano ebbe
tradotte le parole del capo. — Ci nomina provveditori di carne umana!
Aspetta questa sera e vedremo se domani avrai ancora i due _pyaie_
dalla pelle bianca.

— Fuggiremo dunque questa sera, signore? — chiese il mozzo.

— Sono deciso. Approfittiamo dello spavento che ha prodotto il nostro
fucile.

— E andremo in cerca del marinaio?

— Quell’uomo ci è più che mai necessario e poi ha il tuo fucile.
Con due armi da fuoco noi diverremo invincibili e tenteremo anche la
traversata dell’America fino agli stabilimenti spagnuoli.

Non ho alcun desiderio di finire la mia vita fra questi ributtanti
antropofagi.

Andiamo a cenare, per ora, poi penseremo al serpente. —

Al capo ed ai suoi guerrieri che si curvavano fino a terra, fece un
superbo gesto d’addio e tornò nella capanna, dopo aver avvertito il
ragazzo che aspettava la cena prima di mettersi in caccia.

Il rispetto e la paura avevano fatto diventare gli Eimuri
straordinariamente generosi. Pesci di ogni specie, pappagalli e tucani
arrostiti e aromatizzati con certe erbe, ceste ricolme di gallette
di mandioca, tuberi cucinati sotto la cenere e frutta d’ogni sorta,
coprirono ben presto tutto il pavimento della capanna.

Tutti i più famosi guerrieri correvano a offrire qualche cosa al
terribile _pyaie_ possessore della folgore celeste.

— Che vogliano ingrassarci per poi divorarci? — disse Alvaro, ridendo.
— Questa improvvisa abbondanza non mi garba troppo.

— Non oserebbero, signore, — disse Garcia. — Ora devono essere convinti
che noi siamo due veri _pyaie_ e ci adorano come due divinità.

— Eh! Conta tu sull’adorazione di questa gente! Non mi stupirei se
giungesse al punto da mettere indosso a loro il desiderio di provare la
carne degli dei.

No, è meglio andarsene, mio caro ragazzo, e rinunciare a tutta questa
abbondanza.

Orsù, pranziamo e poi andremo a fare il nostro giuoco. Il serpente se
lo ammazzeranno loro.



CAPITOLO XXI.

La fuga.


Un’ora prima del tramonto i due _pyaie_ lasciavano il villaggio
scortati dal capo, dal ragazzo indiano e da un drappello di dieci
guerrieri scelti fra i più valenti e si avviarono verso la foresta per
sorprendere il terribile serpente.

Alvaro che aveva già architettato il suo piano, si era recisamente
opposto al desiderio del capo, di condurre un gran numero di sudditi
per circondare tutta quella parte di foresta che si riteneva abitata
dal rettile, assicurandolo che sarebbe bastato anche da solo.

L’Eimuro però che forse non era ancora completamente sicuro della
fedeltà dei suoi _pyaie_, aveva scelto quel drappello, che asseriva
essere assolutamente necessario per aprire una via attraverso la
foresta, essendo quella foltissima.

Alvaro avrebbe ben fatto a meno anche di quei pochi, ma per non destare
le diffidenze del capo, aveva finito per accettarli.

D’altronde quegli undici uomini non lo inquietavano molto. Col fucile
non aveva più alcuna paura ed era certo di avere subito il sopravvento
e di metterli in piena rotta con poche scariche.

La foresta che si estendeva a settentrione del villaggio, era davvero
una delle più folte che Alvaro avesse fino allora vedute.

Era un caos di palme d’ogni specie, di _jatolà_ enormi, di _summameira_
colossali; di _bombardasse_, di _massarandube_ ecc. che crescevano
le une addosso alle altre e avvolte fra un numero infinito di liane
serpeggianti in tutte le direzioni.

Un uomo bianco, senza l’aiuto di qualche indiano, difficilmente avrebbe
potuto andare molto lontano.

I guerrieri del capo si erano però subito messi al lavoro per aprire
un passaggio ai due _pyaie_ che non erano abituati a camminare come i
gatti e tanto meno a strisciare come i rettili.

Adoperando con vigore e con destrezza le loro pesanti mazze di _paò
de fero_, sfrondavano rami e cespugli e spaccavano le liane, facendole
cadere a festoni interminabili, che poi dovevano spingere da una parte
o dall’altra.

— Il serpente si è scelto un bel rifugio, — disse Alvaro al ragazzo
indiano che gli camminava dinanzi. — Siete sicuri che si trovi qui?

— È stato veduto anche ieri, signore, — rispose l’interprete.

— È molto grosso?

— Quanto il vostro corpo.

— È lungo molto?

— Il doppio d’un _sucuriù_ e d’una voracità estrema. È già il sesto
indiano che divora.

— Che cosa sarà dunque?

— Un _liboia_, signore.

— Ha qualche tana in questa foresta?

— Si tiene sempre sugli alberi, anzi quando saremo più innanzi, vi
consiglio di guardare sempre in aria. —

Ha l’abitudine di attortigliarsi intorno a qualche grosso ramo e di
lasciarsi cadere di colpo addosso alla preda.

— Mi guarderò, — disse Alvaro. — E tu Garcia, sta sempre presso di
me giacchè sono più che convinto che nel momento del pericolo questi
valorosi scapperanno come un branco di conigli.

— E noi ne approfitteremo, è vero signor Alvaro?

— Per fuggire dalla parte opposta, — rispose il portoghese. — Non ci
lascieremo sfuggire una così bella occasione. —

In quell’istante il capo, che seguiva quattro dei suoi incaricati ad
aprire il passaggio, fece un cenno colla mano.

— Che cosa c’è? — chiese Alvaro al ragazzo indiano.

— Il capo vi avverte che siamo sul luogo ove il rettile è stato veduto
e vi consiglia di guardare attentamente gli alberi sotto i quali
passerete.

— I miei occhi sono buoni e un serpente di tale mole si scorgerà
facilmente.

— Non sempre, signore, potendosi scambiare facilmente per un ramo, in
causa della tinta verde cupa del suo dorso. —

Gl’indiani avevano rallentato il passo e non abbattevano più le liane
onde il rettile non si spaventasse e fuggisse passando d’albero in
albero.

Le scostavano con precauzione o le alzavano finchè i due _pyaie_ erano
passati, lasciandole poi ricadere.

Ogni dieci o dodici passi poi si fermavano, guardando attentamente fra
le foglie immense delle piante e mettendosi poi in ascolto.

Un profondo terrore si leggeva sui loro volti e anche la voce del capo
aveva un leggier tremito che tradiva la sua paura.

Doveva essere ben terribile quel rettile per impressionare quegli
uomini che godevano fama di essere i più audaci di tutti gli abitanti
del Brasile.

— Hanno paura e che paura! — mormorò Alvaro che se n’era accorto e
che li vedeva avanzare sempre più lentamente. — Che abbiano perduta la
loro fiducia in me? Eppure il fucile l’ho in mano e hanno veduto come
uccide.

Che razza di bestione sarà questo _liboia_ per atterrire questi uomini?
Comincio a essere inquieto anch’io. —

Si erano avanzati di altri cinquanta passi, quando fra le folte foglie
delle palme si udì a echeggiare un grido stridente che fece tacere di
colpo i pappagalli che schiamazzavano sulle più alte cime d’un enorme
_paiva_.

Gl’indiani s’erano arrestati guardandosi intorno e dando segni d’una
profonda agitazione.

— Che cos’è? — chiese Alvaro al ragazzo. — Il grido del serpente?

— No signore, dell’_anhima_.

— Una bestia?

— Un uccello che si tiene sempre presso i luoghi frequentati dai
serpenti delle cui carni si nutre.

Quell’uccello deve aver scorto il _liboia_ ma non oserà assalirlo. È
troppo piccolo per provarcisi e avrebbe subito la peggio.

Un _liboia_ non è già un _ibiboca_.

— Tanto coraggio ha un uccello per affrontare i serpenti?

— È bene armato signore e coraggioso. Eccolo lassù, fra le foglie di
quel _paiva_: guardatelo. —

Alvaro alzò la testa e scorse, appollaiato su una foglia, un
bell’uccello, grosso quanto una ottarda, che aveva sul capo un corno
aguzzo e alle estremità delle ali due specie di uncini.

Sbatteva le ali e gridava a piena gola come se avesse voluto chiamare
l’attenzione degl’indiani e mostrare loro il luogo dove si teneva
celato il formidabile rettile.

— Se è vicino andiamo a cercarlo, — disse Alvaro. — Sono curioso di
vedere questo serpente.

Gl’indiani però parevano invece poco disposti a farsi innanzi e
guardavano i loro _pyaie_ con visibile inquetudine, come se non
sapessero decidersi ad avanzare.

— Dì a loro che mi precedano, — disse Alvaro al ragazzo indiano — o
che se ne tornino se non si sentono in grado di condurmi là dove il
_liboia_ si nasconde. Non sono già venuto qui per guardare le piante.

D’altronde che cosa temono? Non possiedo io il fuoco celeste o non sono
più _Caramurà?_

I _pyaie_ dalla pelle bianca hanno promesso di uccidere il rettile e
manterranno la parola. —

Quando il ragazzo ebbe tradotte quelle parole, il capo fece un segno
ed i suoi uomini si rimisero in cammino tenendo le mazze alzate e le
gravatane pronte.

Non avanzavano che con estrema lentezza, guardando ora in alto ed ora
al suolo e muovevano le liane ed i rami con molta precauzione, come se
il rettile dovesse comparire da un momento all’altro, mentre invece si
manteneva sempre invisibile.

— Che questi selvaggi l’abbiano già fiutato? — si chiese Alvaro.

Se camminano a quattro gambe come i cani può darsi che abbiano il
fiuto come quegli animali. Teniamoci pronti ad approfittare del loro
spavento. Garcia!

— Signore, — rispose il mozzo.

— Hai paura?

— Con voi mai, signor Alvaro.

— Pare che il rettile sia assai vicino. Sta sempre presso di me e
preparati a prendere il largo se.... —

Un urlo spaventevole gli aveva interrotta la frase. Una specie di
cilindro, grosso come il corpo d’un uomo e lungo almeno una quindicina
di metri, colla pelle verde cupa sopra e gialla sotto, a grosse scaglie
irregolari e la testa quasi gialla, era improvvisamente caduto da un
albero, piombando addosso al capo degli Eimuri che precedeva di qualche
passo il drappello.

Il disgraziato indiano era caduto sotto il peso del rettile e prima che
avesse avuto il tempo di rialzarsi si era trovato avvolto fra le spire
dell’enorme _liboia_.

Alvaro non badando che al proprio coraggio e dimenticando che
quello era il momento migliore per fuggire, s’era slanciato innanzi,
mentre i guerrieri invece fuggivano in tutte le direzioni urlando a
squarciagola.

— Signore! — gridò il mozzo, cercando di trattenerlo. — Che cosa fate!
Fuggiamo anche noi!

— Sì ma dopo, — rispose l’animoso giovane, alzando il fucile.

Il _liboia_ era spaventevole a vedersi. Quel serpente, che è il più
enorme che esista, superando per mole tutti gli altri conosciuti, aveva
stretto il disgraziato capo così bene, da non potersi più vedere.

Sibilava rabbiosamente, agitando senza posa la sua lingua biforcuta e
vomitava dalla larga bocca armata di due file di denti aguzzi, getti di
bava. La sua coda poi, spazzava il suolo con violenza, spezzando liane
e cespugli, per impedire che qualcuno si avvicinasse e cercasse di
strappargli la preda.

Alvaro aveva alzato il fucile, mirando la testa che si agitava a venti
piedi dal suolo.

— Prendi, — gridò, facendo fuoco.

Il rettile, acciecato dal fumo si ripiegò su sè stesso, svolgendo le
spire e lasciando cadere l’indiano che non dava più segno di vita, poi
cominciò a dibattersi con estremo furore e con soprassalti convulsi.

La palla gli aveva fracassata la testa, pure non pareva che ne avesse
ancora abbastanza.

— Fuggite, signor Alvaro! — gridò il mozzo che era diventato
pallido come un cencio lavato. — Il serpente vi assale ed il capo è
morto. —

Il portoghese aveva già spiccati tre o quattro salti per sottrarsi
ai colpi di coda che il mostro non cessava di vibrare, fracassando i
cespugli e sollevando una grandine di foglie secche e di frammenti di
rami.

Si guardò intorno. Tutti erano fuggiti, perfino il ragazzo che gli
serviva da interprete.

— Bah! — disse. — Se il capo non è morto, se la caverà come potrà.
Andiamocene prima che gl’indiani ritornino. Di corsa, Garcia e cerca di
resistere più che potrai. —

Senza più occuparsi del rettile il quale non cessava di dibattersi, i
due naufraghi si slanciarono innanzi correndo come lepri.

La foresta d’altronde favoriva la loro fuga. Non era più ingombra di
liane e d’altre piante parassite e gli alberi lasciavano qua e là degli
spazi sufficienti per permettere il passaggio ad un uomo.

E poi le tenebre calavano rapidamente, essendo il sole già tramontato,
quindi un inseguimento, almeno pel momento, collo spavento che doveva
aver invaso i guerrieri per la morte del capo, non era da temersi.

Non volevano però i due fuggiaschi allontanarsi di troppo per non
smarrirsi in quella immensa foresta che non avevano mai percorsa,
sicchè dopo qualche migliaio di metri si arrestarono alla base di uno
di quegli immensi alberi che si trovano di frequente nelle foreste
brasiliane, alti non meno di ottanta metri e le cui radici uscendo da
terra, formano una specie di tripode che sostiene l’enorme tronco e che
possono facilmente servire come di travatura ad una capanna.

— Non andiamo più oltre, — disse Alvaro con voce affannosa. — Questa
impenetrabile vòlta di verzura che ci nasconde le stelle, non ci
permette di guidarci mentre noi dobbiamo dirigerci verso ponente se
vogliamo raggiungere la savana sommersa.

La nostra salvezza sta nelle mani di Diaz e dobbiamo assolutamente
trovare quell’uomo.

— Sarà ancora vivo?

— Non ne dubito, Garcia, — rispose Alvaro. — Ha il tuo fucile e
munizioni abbondanti e con una tale arma si vincono anche le fiere.

— Se ci avesse abbandonati?

— Lui! No, è impossibile, non lo crederei mai.

— Che possa essersi accorto che gli Eimuri ci hanno sorpresi e rapiti?

— Ne ho la persuasione. Diaz non ha nulla da invidiare ai selvaggi,
anzi io credo valga bene più di loro. Scommetterei che sta cercandoci o
che sta studiando il mezzo di liberarci.

— E gli Eimuri non ci daranno nuovamente la caccia? — chiese il mozzo
che non condivideva l’ottimismo del compagno.

— Probabilmente ci crederanno morti come il loro capo.

— Ditemi, signor Alvaro, era proprio morto il capo? Mi parve che
respirasse ancora.

— Andremo ad assicurarcene.

— Vorreste tornare là dove avete ferito o ucciso quel terribile rettile?

— Certo, Garcia. Mi preme assai accertarmi se il capo è vivo o morto.

Se il _liboia_, come spero, lo ha stritolato, per un po’ di tempo nulla
avremo da temere da parte della tribù.

Diaz mi ha narrato che i selvaggi privi del loro capo nulla sanno
intraprendere finchè non ne nominano un altro e che la scelta va per le
lunghe. Se l’Eimuro è sfuggito incolume alla stretta del _liboia_ non
si ammetterà facilmente la nostra morte.

Era eccessivamente sospettoso quell’uomo e ci teneva troppo ad avere
due _pyaie_ bianchi e sopratutto all’_Uomo di fuoco_.

— Quando torneremo?

— Aspettiamo che la luna si alzi e che rischiari un po’ questa foresta.

Se non m’inganno deve spuntare verso la mezzanotte, abbiamo quindi
tempo per riposarci.

Se vuoi dormire qualche ora approfitta, ragazzo mio; alla tua età si
ama sempre il sonno.

— Grazie, signore, — rispose Garcia sdraiandosi dietro una di quelle
enormi radici. — Poi vi surrogherò nella guardia. —

Mentre il mozzo chiudeva gli occhi, Alvaro s’appoggiò col dorso ad
un’altra radice, mettendosi il fucile fra le gambe.

Un silenzio profondo regnava nella foresta. Non si udivano nè batraci,
nè _parraneca_, nè _sapo_; invece fra le foglie immense delle palme
piumate volavano a battaglioni le splendide e scintillanti _vago lume_,
quelle graziose lucciole che tramandano una luce così intensa da poter
leggere, senza fatica alcuna, il carattere più minuto.

Pareva che quella parte della boscaglia non fosse abitata da alcun
animale e già Alvaro, rassicurato da quella calma stava, a sua volta,
per socchiudere gli occhi, quando un fruscìo di foglie lo fece balzare
in piedi col fucile in mano.

— Calma traditrice, — mormorò. — E stavo per addormentarmi! Quale
imprudenza commettevo! —

Il fruscìo continuava e proveniva da una macchia foltissima di
_jupati_, superbe palme che hanno un tronco appena visibile mentre le
loro foglie raggiungono sovente l’incredibile lunghezza di quaranta e
anche più piedi.

— Chi sarà che muove quelle foglie? — si chiese Alvaro.

Si spinse innanzi per cercare di scoprire quell’essere misterioso che
s’avanzava con precauzione, ma l’oscurità era ancora troppo fitta,
cominciando appena allora la luna a diffondere un po’ di luce nel
cielo.

— Che sia qualche Eimuro che ci cerca? — si domandò nuovamente
Alvaro. —

Stava per svegliare il mozzo, quando scorse, sotto una di quelle
immense foglie, due punti fosforescenti a luce verdastra.

— Ah! diavolo! — brontolò Alvaro — È un animale che ha gli occhi d’un
gatto. Sarà qualche felino e chissà, una di quelle bestie che abbiamo
veduto presso quel fiume.

Cattivo vicino, se è affamato. —

Senza voltarsi e senza lasciare il fucile che aveva già puntato verso
quei due punti luminosi, con un piede urtò il mozzo dicendogli:

— Su, Garcia.... svegliati. —

Il ragazzo che dormiva con un solo occhio, da vero marinaio, fu pronto
ad alzarsi.

— Che cosa c’è signore? — chiese. — Un altro _liboia?_

— Pare che sia un grosso gattone. — rispose Alvaro.

— Ah! I brutti occhi! — esclamò il mozzo. — E sono fissi su di noi,
signore.

— Ma non osano avanzarsi.

— Voi che siete un valente tiratore, mandate una buona palla a quella
bestia.

— Per attirare l’attenzione degli Eimuri? E chi mi assicura che non
stiano cercandoci? No, almeno fino a che quella bestiaccia non ci
assale. —

La belva, giacchè doveva essere tale, conservava una immobilità
assoluta, senza stornare gli sguardi dai due naufraghi.

Passarono così parecchi minuti, poi i due punti luminosi
improvvisamente scomparvero e nel silenzio della notte s’udì a
echeggiare sinistramente un rauco miagolìo che terminò in una specie di
ululato che fece raggrinzare la pelle al mozzo.

Per alcuni istanti si udirono le foglie a scrosciare, poi ogni rumore
cessò.

— Che abbia avuto paura del vostro fucile, signore? — chiese Garcia.

— Certo, qualcuno lo avrà avvertito che io sono l’_Uomo di fuoco_. —
rispose Alvaro, ridendo. — La mia fama è giunta perfino agli orecchi
delle belve.

— Il fatto è che quell’animale se n’è andato.

— Purchè non cerchi invece di sorprenderci? Noi però non passeremo
accanto a quel macchione, anzi volgeremo le spalle.

La luna s’innalza. Andiamo, Garcia. Mi preme sapere che cosa è avvenuto
del capo degli Eimuri. —

Stettero qualche istante in ascolto e non udendo più alcun rumore,
lasciarono l’albero, avviandosi lentamente verso il luogo dove il
_liboia_ aveva assalito il capo.

Si fermavano però di frequente per guardarsi alle spalle, temendo di
essere seguiti da quella belva che poteva essere pericolosissima e
capace di assalirli.

Dopo un quarto d’ora notarono alcune grosse piante che avevano già
osservate quando stavano per affrontare il _liboia_.

— Se non m’inganno dobbiamo trovarci presso la radura, — disse Alvaro.

— È vero, signore, — rispose Garcia. — Ecco qui quella pianta carica di
zucche che avevo ben guardata.

— Sì, una _cuiera_, come ho udito a chiamare questi alberi dal marinaio.

— Ed ecco la radura.

— Avanziamoci con precauzione, Garcia. Gli Eimuri possono essere
tornati.

— Non odo nulla, signore. —

Si spinsero innanzi, tendendo gli orecchi e guardandosi d’attorno,
timorosi d’una sorpresa e raggiunsero la radura che la luna illuminava
sufficientemente, essendosi già ben alzata in cielo.

Scorsero subito, disteso fra un ammasso di cespugli fracassati e
sradicati, l’enorme serpente.

Era perfettamente immobile e giaceva tutto allungato come un immenso
cilindro.

— È morto, — disse Alvaro, avvicinandosi con precauzione. — La mia
palla doveva avergli attraversato il cervello.

— E manca della testa, signore, — disse Garcia. — È stata troncata con
qualche scure di pietra.

— Allora gl’indiani sono tornati qui: ed il capo? L’hanno raccolto
morto o ferito? Diavolo! Sarei più contento se non fosse più nel numero
dei viventi. Come faremo a saperlo? Eccoci in un bell’impiccio. —

Si era appena rivolte quelle domande, quando a breve distanza, udì
improvvisamente a risuonare quel rauco miagolìo e l’ululato, poi subito
dopo una voce umana che gridava.

— Dios! Dios! —

Alvaro aveva fatto un salto innanzi esclamando:

— Il marinaio! Garcia, seguimi! La belva lo ha assalito!



CAPITOLO XXII.

Ancora il marinaio di Solis.


Quel grido era partito dal mezzo d’un gruppo di _sapucaia_, piante che
formano sovente delle macchie colossali di cui sono ghiottissime tutte
le scimmie.

Alvaro che era certo di non essersi ingannato, in quattro salti si era
slanciato in mezzo ai tronchi, sfondando impetuosamente dei cespi di
ortensie che crescevano negli spazi lasciati dagli alberi.

Aveva afferrato il fucile per la canna, onde servirsene come d’una
mazza, non osando far fuoco per paura di attirare l’attenzione degli
Eimuri, i quali potevano trovarsi ancora nelle vicinanze della radura.

In mezzo a due alberi scorse vagamente un uomo che si dibatteva
disperatamente contro un animale grosso quanto una pantera e che aveva
il mantello d’un nero intenso.

Senza badare al pericolo a cui inconsideratamente si esponeva, il
portoghese alzò il fucile e lasciò cadere il calcio dell’archibugio,
che era pesantissimo, sul cranio della fiera, il quale risuonò come una
campana fessa.

Il colpo era stato così violento, che la belva era rimasta per un
momento stordita, colla testa appoggiata contro l’uomo che aveva
assalito.

— Ecco il secondo! — gridò Alvaro, calando un nuovo colpo con tutta la
forza di cui era capace.

Prima però che il calcio si fosse nuovamente abbassato, la fiera con un
fulmineo salto di fianco si era sottratta a quella tremenda mazzata che
avrebbe dovuto, se non ucciderla, almeno ferirla gravemente.

Pazza di rabbia e di dolore, si era subito voltata contro l’assalitore
mugolando spaventosamente e raccogliendosi su sè stessa per scagliarsi.

— Fate fuoco! — gridò l’uomo che giaceva a terra. — Sta per sbranarvi!
Presto! —

   [Illustrazione: L’adagiarono sulla barella e si misero in
   cammino.... (CAP. XXII).]

La belva stava per saltare. Alvaro, che non perdeva mai la testa, si
gettò dietro un albero per non venire atterrato e abbassò prontamente
il fucile, voltandolo. Uno sparo rintronò un istante dopo.

L’animale, arrestato di colpo, nel momento in cui stava per scagliarsi,
fece un salto in aria girando su sè stesso due o tre volte, poi ricadde
miagolando e ululando spaventosamente.

In quell’istante un altro sparo echeggiò nella macchia.

L’uomo che giaceva al suolo a sua volta aveva fatto fuoco, quasi a
brucia-pelo, fracassando il muso alla fiera.

— Diaz? — gridò Alvaro, precipitandosi verso il marinaio che aveva
lasciato cadere il fucile.

— Signor Viana, — rispose il castigliano con voce commossa. — Voi qui,
ed in così buon momento? E Garcia?

— Siete ferito?

— Mi sembra che una gamba sia stata sfracellata, signore. Era un
giaguaro nero, una delle belve più terribili che infestano le selve
brasiliane e m’aveva assalito alle spalle..... Grazie..... vi devo la
vita..... Ah! che dolore! Mi ha strappata mezza coscia, ne sono certo.

— Ah! Povero signor Diaz! — esclamò Garcia che si era avvicinato. — In
quale stato vi troviamo!

— Cose che toccano ai vivi, — rispose il marinaio di Solis, tentando di
sorridere. — _Carracho!_ Mi è impossibile alzarmi!

— Aspettate che vi porti nella radura vicina, che è assai più
illuminata di questa macchia, — disse Alvaro. — Visiteremo la vostra
ferita e cercheremo di medicarla.

Speriamo che non sia troppo grave. —

Si assicurò prima che la belva fosse proprio morta, poi prese fra
le braccia il marinaio che non era troppo pesante e lo portò fuori
dalla macchia, raggiungendo in pochi istanti la radura che la luna
rischiarava come in pieno giorno.

Lo depose su uno strato di foglie già preparato dal mozzo e si curvò
sul disgraziato marinaio.

Una smorfia molto significante, gli contorse la bocca.

— Diamine! — brontolò. — Che colpo d’artiglio! —

La ferita del marinaio era orribile. Le unghie della belva avevano
aperto un solco profondissimo nella coscia destra strappando dei
brandelli di carne ed intaccando fors’anche l’osso.

Da quello squarcio che misurava non meno di dieci centimetri, il
sangue sfuggiva in tale quantità da temere che il marinaio morisse per
emorragia,

— Ebbene? — chiese Diaz che conservava una calma ammirabile e che
pareva non sentisse più alcun dolore.

— Bisogna arrestare il sangue, — disse Alvaro.

— Nulla di più facile, — rispose il marinaio. Sono diventato un buon
medico sotto i brasiliani che se ne intendono di ferite.

Scavate un po’ la terra; troverete a qualche piede dell’argilla. La
foresta è umida e non ne mancherà. A voi, prendete il mio coltello.

— Garcia ha il suo.

— Il mio vi servirà per altra cosa. Ecco là un bambù che è grosso come
la mia coscia. Tagliatene un pezzo lungo una ventina di centimetri,
spaccatelo a metà e recidete qualche liana.

Presto signor Viana; la debolezza mi prende. —

Alvaro e Garcia erano già all’opera. Il marinaio, che conosceva
le foreste e anche il loro suolo, non si era ingannato. A quindici
centimetri di profondità il mozzo aveva già trovato un denso strato
d’argilla, bigiastra e grassa.

Ne fece una palla e corse presso il ferito; Alvaro vi era di già col
bambù.

— Formate con quella terra un manicotto e coprite per bene la mia
ferita, disse Diaz. Poi applicate il cilindro di bambù e legatelo con
la liana.

Il sangue si arresterà subito. —

Alvaro ed il mozzo, che temevano di vederlo svenire, s’affrettarono a
obbedirlo.

— Ed ora? — chiese Alvaro.

— Ci vorrebbe del cotone o del canape per avvolgere l’argilla ed il
bambù. Là, nella macchia dove avete ucciso il jaguaro nero..... le
_sapucaia_ sotto la corteccia hanno..... una specie di stoppa.....
servirà bene..... Signor Viana..... non ci vedo più..... Maledetto
animale!

Non sarà nulla..... il sangue perduto...... mi rimetterò più
tardi..... —

Il marinaio, vinto dall’estrema debolezza, era caduto sullo strato di
foglie, smarrendo i sensi.

— Signore, è morto! — gridò Garcia che aveva le lagrime agli occhi.

— Non spaventarti, — disse Alvaro. — La ferita è grave, ma non
pericolosa e quest’uomo guarirà, non dubitare.

Andiamo a cercare il canape. Temo che il sangue filtri anche attraverso
lo strato d’argilla e allora la cosa potrebbe diventare seria.

Sotto la corteccia ha detto; andiamo a provare se ne esiste
realmente. —

Si curvò sul marinaio e gli mise una mano sul cuore.

— Batte sempre e regolarmente, — disse. — Buon segno, d’altronde
quest’uomo è robusto. — Lo coprì con un altro strato di foglie e si
diresse verso la macchia delle _sapucaia_.

Non vi era che da scegliere, essendovi parecchie dozzine di quelle
piante e tutte cariche di noci enormi.

Alvaro sollevò la corteccia colla punta del coltello e scoprì infatti
al di sotto dei filamenti lucentissimi e fitti che potevano surrogare
vantaggiosamente il canape.

— Quante cose sa quell’uomo, — disse. — Con queste fibre si potrebbero
anche tessere delle vesti e assai resistenti. —

Ne fece un’abbondante raccolta e tornò presso il ferito sollecitamente.

Diaz pareva che si fosse addormentato o che fosse caduto in un profondo
torpore. Nondimeno il suo respiro non era affatto affannoso e la febbre
non era ancora sopraggiunta. Alvaro fasciò più volte il manicotto di
bambù, specialmente verso i margini per impedire qualsiasi filtrazione,
poi si sedette accanto al ferito, dicendo al mozzo:

— Che cosa faremo ora? Che cosa accadrebbe di noi se gli Eimuri
tornassero qui per impadronirsi del corpo del _liboia_? E questo è il
più grave pericolo che temo.

— Signore, — rispose il ragazzo. — Se trasportassimo il ferito altrove?
I selvaggi potrebbero giungere domani.

Se costruissimo una barella con dei rami?

— Non potresti resistere a lungo, mio povero Garcia.

— Eppure non dobbiamo fermarci qui. È necessario raggiungere la savana
sommersa.

Non sono un uomo ma le mie braccia non sono nemmeno deboli.

— Proviamo, — disse Alvaro. — Ci avanzeremo adagio adagio e faremo
delle frequenti fermate per lasciarti riposare.

Qui non mi sento sicuro quantunque ora possiamo disporre di due fucili.

Fra i cespugli fracassati dalla possente coda del rettile presero
alcuni rami e formarono una specie di barella legandola con delle liane
e coprendola con uno strato di foglie di palma.

Il marinaio non aveva ancora aperti gli occhi, tuttavia non vi era da
inquietarsi essendo il suo sonno abbastanza tranquillo.

La febbre però era sopraggiunta ed un intenso rossore coloriva la sua
faccia.

Alvaro lo sollevò dolcemente e lo depose sulla barella, poi si misero
in cammino avanzando lentamente.

Il mozzo resisteva tenacemente, dando prova d’una forza poco comune per
un ragazzo della sua età; era ben vero però che aveva temprati i suoi
muscoli nell’acqua marina e nel catrame dei paterazzi e delle sartie
delle caravelle.

Procedettero per una mezz’ora, attraversando macchie e macchioni,
senza incontrare nessun animale, poi fecero una breve sosta quindi
ripartirono cercando di dirigersi verso l’ovest, trovandosi la savana
sommersa in quella direzione.

Continuarono così tutta la notte con frequenti fermate e all’alba,
entrambi sfiniti, s’arrestavano sul margine d’un colossale gruppo di
piante cariche di frutta grosse come mele e di color bruno oscuro, che
aveano già altre volte vedute e anche assaggiate.

Avevano appena deposto a terra il ferito e si preparavano a
saccheggiare qualche pianta, quando lo udirono a mormorare con voce
debole:

— Acqua..... signor Viana.....

— Come vi sentite Diaz? — chiese Alvaro, mentre il mozzo si cacciava
nella macchia per cercare qualche fossatello.

— Ho la febbre, signore e assai forte e mi sento debolissimo. Quel
jaguaro mi ha conciato per bene. —

Aveva aperti gli occhi e si guardava intorno.

— Delle _sapota!_ — sclamò ad un tratto, cercando di alzarsi. — Ecco un
buon rimedio contro la febbre.

— Che cosa sono queste _sapota?_ — chiese Alvaro.

— Delle piante preziose. Le frutta sono eccellenti e la linfa è un
ottimo, anzi miracoloso febbrifrugo. È una vera fortuna che voi vi
siate fermati qui.

Tutti gl’indiani conoscono quel rimedio. Tagliate alcuni rami e
portatemeli.

Fra qualche ora la febbre diminuirà. —

Mentre il mozzo tornava con una foglia di palma arrotolata in forma di
cornetto e piena d’acqua, Alvaro si recò sotto una di quelle piante e
recise parecchi rami.

Vide subito cadere una linfa biancastra e vischiosa che s’affrettò a
raccogliere entro la foglia d’una _cuiera_.

Quando ne ebbe qualche bicchiere la portò al ferito il quale trangugiò
d’un fiato quel liquido, non senza fare una brutta smorfia.

— Non deve essere eccellente, — disse Alvaro.

— Ma mi salverà la vita, — rispose il marinaio il quale a poco a poco
riacquistava un po’ di forza. — Le febbri qui sono sovente mortali.

— Vi addolora la ferita?

— Assai, signor Viana. Se potessimo trovare una _almesegueira_ si
cicatrizzerebbe più presto.

Gl’indiani non vanno mai alla guerra o alla caccia senza averne qualche
po’ nella loro borsa.

— È un’altra pianta?

— Sì e che produce un succo resinoso che arde con molto profumo e che
serve ottimamente di balsamo alle ferite.

Oh! Ne troveremo, non essendo quelle piante rare, anzi tutt’altro.

— Non credevo che questi antropofagi si occupassero di medicina.

— Signor Alvaro, — disse il marinaio, che si era alzato a sedere. — Mi
avete trasportato lontano dalla radura dove il capo degli Eimuri era
stato preso dal _liboia?_

— Che cosa ne sapete voi, Diaz? — chiese Alvaro stupito.

— Ho assistito a quella scena, dall’alto d’un albero ed ho anche
ammirato assai il vostro coraggio, — rispose Diaz sorridendo. — Senza
di voi il capo poteva considerarsi un uomo morto.

— Ma voi dunque.....

— Non vi avevo abbandonato, anzi cercavo l’occasione propizia per
strapparvi agli Eimuri.

Non trovandovi più, al ritorno dalla mia esplorazione, sulle rive della
savana sommersa, m’immaginai subito che gli Eimuri vi avessero sorpresi
e rapiti.

Mi riuscì facile scoprire le tracce dei selvaggi e le seguii fino nei
pressi del villaggio, nondimeno l’occasione per farvi fuggire non si
presentava.

Mi ero nascosto su un albero quando vi vidi giungere col capo degli
Eimuri ed i suoi guerrieri e assistetti alla terribile scena col
gigantesco _liboia_.

— È morto il capo?

— No e può ringraziarvi del vostro colpo di fucile. Il rettile, ferito
mortalmente, aveva subito svolte le spire prima di aver avuto il tempo
di stritolarlo.

— Ed è fuggito?

— Sì, dopo d’aver tagliata la testa al _liboia_.

— Sarebbe stato meglio per noi che fosse morto. Quell’uomo si metterà
in cerca dei suoi _pyaie_.

— È qui che sta il pericolo, — disse il marinaio. — Noi dobbiamo
raggiungere assolutamente la savana sommersa e rifugiarci sull’isolotto
che ho scoperto.

— E attendere colà la vostra guarigione, — disse Alvaro. — Ne avrete
per un paio di settimane se non di più.

È lontana la savana?

— Fra un paio d’ore vi potremo giungere.

— Allora ripartiamo senza indugio. Forse a quest’ora gli Eimuri hanno
scoperte le nostre traccia.

— Potrete resistere?

— Garcia è più robusto di quello che supponevo. Lasciateci mangiare un
po’ di quelle frutta e poi partiremo. —

Il mozzo tornava appunto in quel momento portando alcune dozzine di
quella specie di mele ed un bel grappolo di quelle piccole banane
gialle chiamate d’oro, assai più gustose delle _banane de plata_ che si
usa mangiarle fritte.

Ne divorarono alcune, poi rialzarono la barella e si riposero in
marcia, seguendo le indicazioni che dava il marinaio, il quale al pari
degl’indiani aveva imparato a dirigersi anche in mezzo alle più folte
foreste, senza bisogno della bussola.

Quando trovavano qualche pianta carica di frutta mangiabili,
s’arrestavano per fare una buona raccolta, non potendo pel momento
contare sulla selvaggina che si ostinava a non mostrarsi in quella
parte della foresta, quantunque fosse da tutti desiderato un pezzo
d’arrosto.

— Ne troveremo sulle rive della palude, — rispondeva il marinaio
vedendo Alvaro arrabbiarsi.

— Non è già per me bensì per voi che non potrete rinforzarvi con delle
frutta. Ci vorrebbe un po’ di brodo.

— Voi dimenticate signore che non abbiamo alcuna pentola, — disse il
mozzo. — Anch’io ci terrei a un bel pezzo di bollito. È molto tempo che
non ne assaggiamo più.

— Verrà anche la pentola, — disse il marinaio. — Ho veduto sulle riva
della savana due alberi delle stoviglie.

— Come! — esclamò Alvaro. — Vi sono in questo paese delle piante che
producono dei tondi e delle pentole? La sarebbe curiosa.

— No ma che ci procureranno la materia per fabbricare gli uni e le
altre e che resisteranno al calore più intenso.

— Meraviglioso paese! —

Così chiacchierando continuavano ad inoltrarsi, passando sotto piante
splendide che avevano delle foglie immense che impedivano ai raggi
del sole di penetrare. Superbe bananiere si succedevano senza posa,
mescolate sovente a gruppi di palme appartenenti per lo più alla specie
chiamata _palmite_, altissime, slanciate, che diventano pericolosissime
quando vengono abbattute per la singolarità che hanno di dare il così
detto _conce_, ossia calcio del palmito, perchè appena toccato il suolo
rimbalzano dalla parte opposta causando sovente gravi disgrazie.

Talvolta invece incontravano gruppi di piante che producono delle
frutta somiglianti a palle di cannone, assai pericolose quando,
giunte a maturanza, si staccano; o macchie di _verzino_, i famosi
alberi che danno il prezioso legno del Brasile, chiamato dagl’indiani
_ibiripitanga_.

Queste piante, delle quali oggi se ne fa una esportazione immensa,
traendosi dai loro tronchi una superba tinta rossa che serve alla
fabbricazione della lacca e del carmino, non sono più alte dei nostri
roveri e all’aspetto non compariscono troppo belle, avendo i rami
disposti senza alcun ordine e portano foglie che somigliano a quelle
dei mughetti; i fiori sono d’una superba tinta rossa e la scorza assai
ruvida.

Alle nove del mattino dopo parecchie fermate, i due portoghesi ed il
castigliano giungevano finalmente sulla riva della savana sommersa e
precisamente là dove il marinaio aveva abbandonata la zattera di cui si
era servito per compiere l’esplorazione.



CAPITOLO XXIII.

Ritorno alla Savana.


La savana era deserta. Solamente dei trampolieri sonnecchiavano
sulle foglie acquatiche delle victoria e qualche coppia di pappagalli
chiacchierava sulla cima degli alberi che circondavano quell’immenso
stagno dalle acque putride e nauseabonde.

Non si vedeva nemmeno un _jacarè_, quegli assidui frequentatori delle
acque stagnanti e delle paludi.

— Gli Eimuri non devono essere ancora giunti fino qui, — disse Alvaro.
— Avremo il tempo di rifugiarci sull’isolotto che abbiamo scoperto.

— Non prima d’aver fabbricata la pentola promessa dal signor Diaz, —
disse il mozzo.

— Ah! È vero, — rispose il marinaio sorridendo. — Ci tieni ad averla.

— Senza avere poi nulla da metterci dentro, — osservò Alvaro.

— I trampolieri abbondano sull’isolotto, — disse il marinaio. — Ho anzi
veduto anche dei _tatù_ che ci daranno un brodo squisito, se saremo
lesti a prenderli.

— E delle testuggini? — chiese Garcia.

— Sì, qualche _careto_ mi pare d’averla scorta. Ah! Là, guardate, ecco
l’albero delle stoviglie. —

La pianta che indicava era magnifica, alta più di trenta metri, dal
tronco slanciato e piuttosto esile.

La _moquilea utilis_, tale è il nome dato a quegli utilissimi alberi
dai botanici, s’incontra sovente nelle foreste brasiliane dove è assai
ricercata dagl’indiani per fabbricare delle ottime stoviglie.

Essendo i terreni brasiliani piuttosto poveri di silici, materia
necessaria per rendere più consistenti i vasi, gl’indiani ricorrono
alla _moquilea_.

Senza abbattere l’albero, il quale d’altronde ha delle fibre
tenacissime, impregnate d’una quantità straordinaria di silice che
guasta le scuri meglio temprate, staccano semplicemente la corteccia.

La carbonizzano, poi la polverizzano servendosi d’un mortaio o d’un
semplice sasso, quindi la mescolano in date proporzioni all’argilla,
materia questa che si trova dovunque nelle foreste.

Alvaro e Garcia, informati rapidamente dal marinaio di ciò che dovevano
fare per guadagnarsi la pentola, si misero subito all’opera, temendo di
venire, da un istante all’altro, sorpresi dagli antropofagi.

Mentre il primo tagliava parecchi pezzi di corteccia i cui grani di
silice che la impregnavano, scricchiolavano sotto la lama del coltello,
il secondo scavava il suolo per raggiungere lo strato argilloso.

Avute le une e l’altra stavano per accendere il fuoco, quando il
marinaio con un gesto li arrestò.

— No, — disse. — Finiremo l’operazione sull’isolotto.

Costruite invece la zattera, accendere qui del fuoco, sarebbe
pericoloso.

— Io stavo per commettere una imprudenza imperdonabile, — disse Alvaro.
— Sì, pensiamo prima alla zattera. —

Avevano già abbattuti parecchi grossi bambù che crescevano sulla riva
della savana e raccolte parecchie liane, quando un ululato che aveva un
non so che di triste echeggiò a breve distanza.

Il marinaio udendolo aveva alzato il capo.

— Una belva? — chiese Alvaro che si preparava ad armare il fucile.

— Un _guarà_, — rispose il marinaio.

— Che cos’è.

— Una specie di lupo.

— Pericoloso?

— Non per gli uomini.

— Eppure mi sembrate inquieto.

— È vero. I _guarà_ non escono che di notte dalle loro tane e se fugge
vuol dire che qualcuno lo ha scovato.

— Guardatelo: fugge a tutte gambe. —

Un animale che aveva la statura d’un lupo siberiano, colla testa
lunghissima, le gambe altissime, col pelame rossiccio ed il dorso
coperto da una fitta criniera lunga tre o quattro pollici, si era
slanciato fuori dalla foresta spiccando salti immensi.

Vedendo quei tre uomini, si fermò un momento guardandoli con viva
curiosità, poi riprese la fuga balzando come se il suolo fosse tutto
coperto di molle.

— Non era troppo bello, — disse Alvaro. — I nostri lupi d’Europa sono
più graziosi.

— Affrettatevi, signor Viana, — disse Diaz. — Se quel _guarà_ non ha
più osato ricacciarsi nella foresta, è segno che sotto le piante si
nasconde qualche vicino pericoloso.

— Che gli Eimuri non ci lascino mai in pace? Comincio ad averne perfino
troppo di quegli antropofagi.

È ora di finirla!

— Pensate che io non sono capace di aiutarvi, anzi che vi sarei
d’imbarazzo.

— Se quell’animalaccio non vi avesse ferito vorrei un po’ mostrare a
quelle canaglie che io sono veramente l’_Uomo di fuoco_.

— Sì, _Caramurà_, — disse il marinaio, sorridendo. — Un nome terribile,
signore, che vi renderà temuto presso tutte le tribù brasiliane.

Ecco un altro animale che fugge e anche questo un notturno! Brutto
indizio!

— Oh! Il bel gatto! — esclamò Alvaro.

Un altro animale si era slanciato fuori dalla foresta fuggendo
velocemente.

Era un bell’animale, dal corpo esile, dal pelame giallognolo con
sfumature rosse e bianche, colla testa piccola assai, più grosso d’un
gatto comune essendo lungo almeno mezzo metro.

— Un _vermelho_, — disse il marinaio, — e anche questo mi sembra
spaventato.

— Ancora cinque minuti e la zattera sarà pronta. —

In quel momento un grido di gioia mandato dal mozzo, gli fece alzare la
testa.

— I furbi! — aveva esclamato il ragazzo. — E noi non l’avevamo ancora
scorta.

— Che cosa, Garcia? — chiese Alvaro.

— Vi è una scialuppa affondata, nascosta fra le piante acquatiche e
legata al bambù che stavo per recidere. —

Alvaro in pochi salti aveva già raggiunta la riva.

In mezzo alle immense foglie delle _victoria_, che la nascondevano
quasi completamente, si scorgeva una bella scialuppa affondata fino ai
bordi superiori e trattenuta da una solida liana.

— Tira, Garcia. Con due foglie di banano la vuoteremo, — disse Alvaro.

— O meglio con una _cuia_ — disse il marinaio. — Ecco là una pianta che
vi servirà per fabbricarvi dei mastelli. —

Venti passi lontano, quasi sul margine della foresta, si stendeva
una pianta immensa, con foglie larghissime e di rami coperti da una
infinità di piante parassite, che reggevano a malapena delle frutta
d’un verde pallido, di forma sferica e grosse più dei poponi.

— Tirate prima verso la riva la piroga, signore, — disse il marinaio. —
Poi penserete a vuotarla, ma fate presto. —

Alvaro ed il mozzo, unendo le loro forze la trassero fuori dalle foglie
e siccome, quantunque piena d’acqua, galleggiasse essendo scavata nel
tronco d’un enorme albero, non riuscì a loro difficile di arenarla su
un bassofondo.

— Prendete un paio di quelle zucche ora e tagliatele a metà, — disse
Diaz.

Il mozzo si era già arrampicato sulle piante parassite che avvolgevano
interamente il tronco grosso e basso della _cuiera_, gettando fra le
erbe una mezza dozzina di quelle zucche.

Alvaro piantò la punta del coltello in una credendo di spaccarla per
metà, ma il frutto si crepò in tutte le direzioni.

Ne provò un secondo senza miglior risultato.

— Oh non così, signore, — disse il marinaio. — Non riuscirete a nulla.
Prendete una liana sottile, legate la zucca e stringete forte.

È così che fanno gl’indiani. Il vostro coltello non servirebbe a
nulla. —

Oh meraviglia! Quelle zucche che pure parevano durissime, appena
strette dalla liana si spaccavano per metà, come fossero state segate.

Le _cuia_, così si chiamano le frutta della _cuiera_ (_crescentia
cajeput_) sono pregiatissime dagli indiani. Ben seccate servono da vasi
ed in tutte le capanne brasiliane o venezuelane se ne trovano in gran
numero, abbellite sovente con disegni a colori, assai originali.

Vuotatele della loro polpa biancastra e ottenuti quattro bei
recipienti, Alvaro ed il mozzo vuotarono rapidamente la piroga,
facendola rimontare interamente a galla.

Era una bella _canoa_ scavata col fuoco più che colle scuri di pietra,
nel tronco d’un cedro, lunga dieci metri e larga uno e fornita di
quattro pagaie di forma lancellata ed a manico corto.

È incredibile l’abilità degli indiani nella fabbricazione delle loro
piroghe. Quantunque privi completamente di istrumenti adatti, sanno
dare alle loro imbarcazioni delle forme stupende senza comprometterne
la stabilità e non di rado le adornano di sculture che rappresentano
bene o male teste di caimano, di giaguaro o di serpenti.

La _canoa_ era già stata interamente vuotata e sbarazzata delle
piante acquatiche che avevano cominciato a spuntare, segno non dubbio
della sua lunga immersione, quando un secondo lupo _guarà_ uscì dalla
foresta, fuggendo a precipizio.

— Qualcuno sta per giungere, — disse Alvaro. — Sbrighiamoci. —

Prese fra le braccia Diaz e lo portò nella _canoa_ dove già il mozzo
aveva preparato un letto formato con foglie di palma.

Ve lo adagiarono delicatamente, imbarcarono le frutta raccolte, le
corteccie dell’albero delle stoviglie e l’argilla e presero le pagaie
spingendosi rapidamente al largo.

— In mezzo alla savana, un po’ a mezzodì, — disse Diaz ad Alvaro. — È
là che ho scoperta l’isola che ci servirà di rifugio. —

Si erano allontanati di cinquanta o sessanta passi, quando alcuni
selvaggi, spaventosamente dipinti e colle teste adorne di piume,
irruppero dalla foresta gettando clamori assordanti.

— I Caheti! — esclamò Diaz, facendosi smorto. — Guardiamoci da loro!
Sono ben peggiori degli Eimuri costoro!

— Forza, Garcia! — gridò Alvaro.

I selvaggi vedendo la _canoa_ allontanarsi, avevano cominciato a
soffiar dentro le _gravatane_, colla speranza di abbattere i remiganti
i quali, per buona fortuna, avevano avuto il tempo di mettersi fuori di
portata da quelle frecce probabilmente avvelenate col succo mortale del
curaro.

Vedendo che la _canoa_ guadagnava rapidamente via, alcuni selvaggi si
gettarono coraggiosamente in acqua; non avevano però percorsi dieci
metri, quando urla di terrore s’alzarono.

Due enormi _jacarè_ che sonnecchiavano forse sotto le larghe foglie
delle _victoria_, irritati di essere stati disturbati, si erano
improvvisamente scagliati sui nuotatori, portandosene via uno.

Gli altri, spaventati, erano tornati precipitosamente alla riva dove i
loro compagni gridavano a piena gola senza però osare di assalire i due
caimani.

— Eccoli arrestati di colpo, — disse Diaz. — Dove vi sono gli _jacarè_
l’indiano non si tuffa e se non trovano dei canotti non ci prenderanno.

— E se costruissero delle zattere? — disse Alvaro, senza cessare di dar
dentro a tutta forza, nelle pagaie.

— Non so se sappiano fabbricarle, quantunque i Caheti siano degli
abilissimi canottieri.

— Mi avete detto che sono formidabili quei selvaggi.

— I più valorosi di quanti abitano le foreste brasiliane,
signore. —

Diaz, che conosceva da molti anni le tribù brasiliane, diceva il vero.
Se gli Eimuri erano temibili, i Caheti godevano fama di essere i più
coraggiosi ed i più temibili.

Formavano allora una tribù potentissima, che aveva villaggi sia
nell’interno che sulle rive del mare e che disponeva di moltissime
canoe capaci di contenere perfino quindici persone.

I Portoghesi dovevano più tardi provare l’audacia di quei selvaggi i
quali si erano alleati coi Francesi che tentavano di prendere possesso
d’una parte del Brasile e sopratutto d’impadronirsi della magnifica
baia di Rio Janeiro.

Ed infatti fu un vero miracolo se Pereira che si può considerare come
il fondatore delle colonie portoghesi, riuscì a sfuggire agli assalti
di quei valorosi selvaggi che lo avevano già circondato, ammazzandogli
un gran numero di soldati.

Arrancando con lena affannosa, la _canoa_ giunse ben presto presso
le prime isolette che erano coperte d’una vegetazione foltissima che
impediva ai selvaggi di poter seguire cogli sguardi la direzione presa
dai fuggiaschi.

— Tenetevi sempre dietro queste terre, — disse il marinaio. — Mi preme
che i Caheti non vedano dove noi ci arresteremo.

— È lontano ancora l’isolotto che avete scoperto? — chiese Alvaro.

— Ci giungeremo fra qualche ora.

— È dunque immensa questa savana?

— Vastissima signore. Non sono riuscito a scoprire la sponda opposta.

— Animo dunque, Garcia, — disse Alvaro. — Dopo ci riposeremo. —

Le isolette si succedevano alle isolette, ingombre di paletuvieri rossi
e di altre piante acquatiche, non erano però altro che banchi di fango,
appena emersi, sui quali un uomo non avrebbe potuto posare i piedi
senza correre il pericolo di sprofondare.

Erano banchi traditori, formati da sabbie mobili senza fondo, pronte ad
inghiottire l’imprudente che avesse osato calpestarle.

Nubi di uccelli acquatici s’alzavano dai paletuvieri all’accostarsi
della scialuppa e fuggivano via schiamazzando. Erano _tanagri_ dalle
penne azzurre ed il ventre aranciato; delle gallinelle turchine; dei
mariapreta, graziosi uccellini tutti neri e la testa bianca e anche dei
bellissimi _ciganas_ i fagiani delle paludi e dei corsi d’acqua.

Per più di un’ora i due portoghesi continuarono a maneggiare le pagaie,
non ostante il caldo intenso che regnava sull’immensa savana, passando
in mezzo ad una moltitudine di banchi e di piante acquatiche, finchè si
trovarono dinanzi ad un’isola coperta di alberi bellissimi e svariati
che non potevano crescere che su un suolo consistente.

— Siamo giunti, — disse il marinaio.

— Cominciavo a rallentare, — rispose Alvaro che aveva le vesti
inzuppate di sudore.

— Ed anch’io non ne potevo più, signore, — disse il mozzo.

Spinsero la _canoa_ verso la riva e dopo d’averla legata al tronco d’un
albero, sbarcarono portando con loro il ferito.

   [Illustrazione: In quel punto due jacarè si erano scagliati
   sui nuotatori.... (CAP. XXIII).]



CAPITOLO XXIV.

L’isolotto.


Quell’isola, l’unica forse che era emersa nella savana, era ben più
vasta di quella che aveva servito di rifugio ai due portoghesi, dopo
la loro fuga dalla costa. Aveva una maggior estensione ed era coperta
da bellissime piante che dovevano più tardi far accorrere nel Brasile
delle flotte intere per imbarcarne i tronchi preziosissimi.

Erano _acagiù_, piante che allora non avevano alcun pregio nemmeno
per gl’indiani e che non dovevano venire apprezzati che tre secoli più
tardi e anche per una mera combinazione.

Ed infatti non fu che verso la fine del secolo XVII che presero il loro
posto fra i legnami più preziosi dell’ebanisteria.

Una nave, di ritorno dall’America, aveva caricato un certo numero
di quei tronchi, come zavorra, non avendo trovato alcun articolo da
trasportare in Europa.

Giunta in Inghilterra, si era sbarazzata di quel peso inutile,
ignorandone il capitano il valore che poteva avere e lo aveva
abbandonato sulla spiaggia.

Erano già molti mesi che si trovavano in quel luogo, quando un giorno
un falegname, che non aveva denaro per comperare del legno, ebbe
la felice ispirazione di servirsi di quelle travi per fabbricare un
cofano.

Si può immaginare quale fu la sua meraviglia, quando lavorando quei
tronchi scoprì le vene meravigliose e le tinte strane di quel legno! Fu
una vera rivelazione che rese d’un colpo solo celebre l’_acagiù_.

L’anno seguente numerose navi partivano per l’America onde imbarcare
quei tronchi preziosi che alla finezza e alla durezza della loro grana
univano lo splendore delle loro tinte.

E quasi nell’istessa epoca, uno dei più famosi filibustieri, il
francese De Grammont, dopo la presa di Campeche, e per celebrare la sua
vittoria bruciava tutte le travi di acagiù che si trovavano nei forti
spagnuoli, ignorando che gettava alle fiamme del legno che valeva dei
milioni!....

Numerosi uccelli, vedendo quegli uomini a sbarcare, si erano alzati fra
i canneti della riva e fra le piante, fuggendo in tutte le direzioni.

Non erano solamente acquatici. Vi erano, frammisti fra i beccaccini
e le gallinelle dei bea _mahitaco_ dalla testa turchina, degli _arà_
tutti rossi, dei _canindè_ somiglianti ai cacatoa australiani e degli
_aracari_ quei piccoli _tucani_ che non sono più grossi d’uno dei
nostri merli e che pure hanno il becco che ha quasi le dimensioni
dell’intero corpo di quegli strani volatili.

— Questo è un vero paradiso! — esclamò Alvaro, che era entusiasmato
di quell’isolotto. — Voi, mio caro Diaz, potrete completare
tranquillamente la vostra guarigione.

— Se i Caheti non verranno a disturbarci, — rispose il marinaio.

— Sono l’_Uomo di fuoco_, e farò tremare anche quei selvaggi, come ho
fatto impallidire i ferocissimi Eimuri.

— È vero: abbiamo i fucili e riusciremo a respingerli se verranno ad
assalirci. Badiamo però che non ci sorprendano.

— Veglieremo, — disse Alvaro. — Ehi, Garcia se tu accendessi il fuoco e
fabbricassimo le pentole?

— E la selvaggina da far cuocere, signore? — chiese il mozzo.

— Dannato paese! Si deve pensare sempre al ventre!

— Non abbiamo ancora fatto colazione, signore!

— Me ne accorgo da certi brontolii dei miei intestini.

— Accendi il fuoco mentre io mi proverò a fabbricare un vaso.

Non sono mai stato un pentolaio, ma qualche cosa otterremo.

— Se quel maledetto giaguaro non mi avesse ridotto in questo stato, vi
mostrerei io come fanno gl’indiani, — disse Diaz.

— Ne farete altre più tardi, — rispose Alvaro. — Anche in un catino si
può cuocere un pezzo di selvaggina e noi non siamo persone da badare
alle forme più o meno perfette. —

Il mozzo aveva già raccolta della legna secca ed aveva improvvisato
un fornello con due pezzi d’arenaria trovati in mezzo agli _acagiù_.
Affastellò le scorze dell’albero delle stoviglie e dopo non pochi
tentativi vi diede fuoco.

Alvaro il quale pensava che anche avendo la pentola mancava lo stufato,
aveva preso il proprio fucile per cercare di abbattere qualche arà o
meglio ancora uno di quei _tatù_ che il marinaio asseriva d’aver già
veduti, quantunque non sapesse affatto che razza di animali potessero
essere, non avendo mai, prima di allora, udito a parlarne.

— M’immagino che avranno quattro gambe e del pelo, — s’era detto,
Alvaro, cacciandosi sotto le piante.

Farò fuoco sul primo che incontrerò. —

Quel povero Diaz, dopo tanto sangue perduto, ha bisogno del buon brodo
per rimettersi un po’ in gambe. —

L’isola che pareva avesse qualche miglio di circonferenza, era
tutta coperta d’alberi e di cespugli foltissimi in mezzo ai quali
svolazzavano miriadi di _beia flores_, quei microscopici uccelletti
chiamati colibrì, dalle penne dorate, azzurre, verdi e nere e di
_trochilus minimus_ i più piccoli volatili conosciuti non essendo più
grandi di un tafano.

Quella piccola foresta non era però esclusivamente formata di _acagiù_.
Parecchie piante fruttifere che potevano somministrare delle frutta
squisite, crescevano qua e là a gruppi e anche le palme e le liane non
mancavano.

Vi erano dei superbi _acajaba_ già carichi di quelle deliziose pere che
Alvaro aveva già assaggiate ed i tronchi coperti di grosse gocciole di
gomma profumata; dei _manzamba_, piante che possono supplire la vite,
ricavandosi dalle loro frutta una specie di vino assai gustoso; delle
_maraninga_ che danno delle frutta grosse come un uovo di anitra, assai
stimate, ripiene di semi che sono avvolti in una sostanza gelatinosa e
poi molte altre che Alvaro non aveva mai vedute.

— Le frutta non ci mancheranno a tavola, — disse il portoghese, — sarà
forse la selvaggina che si farà desiderare giacchè finora non vedo
altro che degli uccelletti, dei quali ce ne vorrebbero almeno duecento
per fare un arrosto modestissimo, appena capace per una persona. —

Così monologando si era spinto fino quasi nel centro dell’isolotto,
quando vide fuggire dinanzi a sè alcuni strani animaletti che fino ad
un certo punto si potevano scambiare per testuggini, essendo avvolti in
una vera corazza ossea formata da un gran numero di piastre.

— Che siano i _tatù_? — si chiese Alvaro. — _Tatù_ o no, non me li
lascierò scappare. —

Gli animaletti avevano cominciato a scavare rapidamente il suolo
coll’evidente intenzione di aprirsi una galleria e operavano con tale
velocità, che quando Alvaro piombò a loro addosso, col calcio del
fucile alzato, quasi tutti erano scomparsi.

Con un paio di calciate, bene appioppate, ne abbattè due, gli ultimi
che non avevano avuto il tempo di scavarsi la tana.

— Che animali curiosi! — esclamò Alvaro, raccogliendoli. — Non ne ho
mai veduti di simili! Saranno poi mangiabili? —

I _tatù_ giacchè erano veramente tali, sono in realtà dei rosicchianti
singolarissimi, tanto per le loro abitudini quanto per la loro
struttura.

Ordinariamente non sono più grossi d’un coniglio, e hanno il corpo
inviluppato in una corazza ossia formata da piastre trasversali nella
direzione dei fianchi e la testa difesa da una specie di visiera
scagliosa e durissima che dà a loro un aspetto curiosissimo e strano.

Al pari delle talpe, si tengono per lo più celati sotto il suolo, e
sono così lesti nello scavare la terra coi loro solidi artigli, che da
un momento all’altro scompaiono sotto gli occhi del cacciatore. Volerli
cacciare sotto il suolo sarebbe una fatica inutile perchè in pochi
minuti sanno scavarsi delle gallerie interminabili.

— Ritorniamo, — disse Alvaro. —

Strappò da un albero un ramo, appese all’estremità i due _tatù_ e si
rimise in cammino, lietissimo di poter fornire al povero marinaio un
po’ di brodo.

Quando giunse all’accampamento, vide il mozzo accanto al fuoco,
occupato a sorvegliare due vasi informi che cucinavano fra i carboni.

— Le pentole! — esclamò allegramente.

— Se possono chiamarsi tali, signore. — rispose il bravo ragazzo. —
Sembrano più due catini che delle pentole.

— Serviranno ugualmente, — disse il marinaio, che si riposava
all’ombra, d’un banano. — Ah! signor Viana avete fatto buona caccia! Ve
lo avevo detto che avevo veduto dei _tatù_ su questo isolotto.

— Ah! sono questi i vostri _tatù_. Possono servire per fare un buon
stufato?

— La loro carne vale quella delle tartarughe, signore. Ah!

— Che cosa avete?

— Dove avete tagliato quel ramo?

— Da un albero che si trovava presso il luogo dove ho uccisi questi
animali.

— È _matè_.

— _Matè!_ che cos’è?

— Le foglie di quell’albero ci forniranno una bevanda deliziosa che
tutti gl’indiani apprezzano assai.

Se non vi rincresce, finchè le pentole si cucinano, andate a
raccoglierne e seccatele presso il fuoco.

— È una passeggiata di cinque minuti.

— E tu Garcia, sventra questi animali e sbarazzali delle loro scaglie,
disse Diaz. — Il tuo coltello ha la lama solida.

— E le pentole?

— Dieci minuti ancora e saranno pronte. Rallenta il fuoco onde non si
crepino. —

Un quarto d’ora dopo Alvaro tornava con un carico di rami coperti di
foglie. Aveva trovati parecchi di quegli alberi mescolati alle palme e
agli _acagiù_, quindi non aveva avuta alcuna difficoltà a fare un’ampia
provvista.

Il _matè_, quella bevanda che oggi è così largamente usata in tutta
l’America meridionale, in quell’epoca non era conosciuta che da alcune
tribù brasiliane e paraguaiane. In Europa non si sapeva che cosa fosse.

L’albero che produce quelle foglie che non sono meno pregiate di
quelle fornite dal the, cresce spontaneamente nelle foreste americane
senza bisogno di coltura alcuna ed è una bella pianta di varii metri
d’altezza con foglie sempre verdi, che si possono raccogliere in
qualunque stagione.

Seccate semplicemente al sole o meglio ancora a fuoco lento poi messe
in infusione nell’acqua bollente, forniscono una bevanda alimentare di
primo ordine meno eccitante del _the_ e del caffè e soprattutto meno
cara e che dovrebbe venire usata anche dalle popolazioni meno agiate
dell’Europa perchè un _arroba_ di erba mate, che è sufficiente ad una
persona per ben sei mesi, non costa più di nove lire e usandone anche
tre volte al giorno, ciò importerebbe una spesa massima di venti lire
all’anno mentre il caffè, preso nell’istessa misura, non costerebbe
meno d’ottanta lire ed il _the_ duecento e anche di più.

E si noti che il _matè_ contiene meno olio essenziale del the, sia
nero che verde, cosicchè anche abusandone non può riuscire nocivo; che
possiede maggior quantità di resine e che è più diuretico del caffè che
fornisce una bevanda aromatica di gusto piacevole, che calma la sete
e che inganna la fame sostenendo le forze dell’uomo anche per parecchi
giorni.

— Ne avremo per parecchie settimane, — disse il marinaio di Solis, che
si mostrava contentissimo di quella raccolta. — Non speravo di trovare
su questo isolotto delle piante così preziose.

Ah! se si potesse trovare anche del tabacco! È parecchio tempo che io
non ne fumo.

— Che cos’è? — chiese Alvaro.

— Già, mi dimenticavo che in Europa non lo si conosce ancora.

— Quando torneremo fra i Tupinambi ve lo farò provare e ci prenderete
gusto ad aspirare il fumo aromatico di quelle foglie.

Signor Viana, le pentole sono già raffreddate e altro non chiedono che
di essere riempite d’acqua.

— Coi _tatù_ insieme, — rispose il mozzo.

— Gettali dentro dunque, — disse Alvaro. — Un sorso di brodo farà bene
a Diaz.

— Ed il matè mi rinforzerà meglio, — disse Diaz. — Ah! occorre una
_cuia_. Ne avete veduto nella vostra escursione.

— Delle zucche, vorrete dire? — chiese Alvaro.

— Sì e anche un cannuccio di bambù.

— Posso trovare la _cuia_ e anche i bambù.

— Oh!

— Che cosa volete ancora?

— Là, guardate quelle foglie.

— Vedo.

— Strappatele e scavate.

— Che cosa si troverà sotto?

— Dei tuberi eccellenti che non sono velenosi come la mandioca.

— E sarebbero?

— Ma... gl’indiani li chiamano _manihot_. So che sono buonissimi
specialmente cucinati nel brodo.

— Quest’isola è un paradiso terrestre!

— Meglio per noi, signor Viana.

— Felice paese dove basta abbassarsi per avere tutto il necessario per
vivere. Ed io che lo aveva chiamato ingrato! —

Garcia che aveva ascoltate quelle parole, in quattro salti si era
slanciato verso quelle foglie che crescevano quasi a fior di terra e si
era messo a scavare il suolo servendosi del coltello.

Non tardò molto a mettere allo scoperto parecchi tuberi grossi come le
nostre patate, che portò subito presso il fuoco.

— Leva la buccia e gettali nella pentola, — disse il marinaio. — Il
brodo riuscirà più gustoso. —

I _tatù_ già bollivano ed il vaso grillettava rumorosamente spandendo
all’intorno un profumo squisito che sarebbe stato ben migliore se i
naufraghi avessero avuto a loro disposizione un po’ di sale.

— Peccato, — diceva Alvaro, che sorvegliava la cottura dei due
rosicchianti. — È il sale che manca.

— Se si potessero trovare dei _mollè_, ne potremmo ricavare dalle loro
ceneri, — rispose il marinaio. — Ma tutto non si può trovare su un
isolotto e avremmo torto a lamentarci, signor Viana.

Vi abituerete anche voi alla mancanza di quella derrata preziosa.

— Vi sono perfino degli alberi che forniscono il sale?

— Tutto si ricava dalle piante in questo fortunato paese. Il vino ed il
latte, la cera per fabbricare le candele, balsami per le ferite, succhi
d’ogni specie e perfino veleni terribili per ammazzare le persone.

Le foreste brasiliane tutto possono fornire, perfino le armi per
difendersi contro le belve.

— E anche il pranzo tutti i giorni — disse Garcia.

— E senza affaticarsi, — aggiunse il marinaio.

— Il paese della cuccagna, — disse Alvaro sorridendo.

— Sì per coloro che sanno sfruttarlo, signor Viana.

— E dove si corre anche il pericolo di venire mangiati come polli.

— Questione di abitudini e di costumi signore, — rispose Diaz.

Da noi si mangiano i buoi ed i vitelli, qui si divorano gli uomini
come fossero bistecche. Ah! Diavolo! Noi scherziamo e dimentichiamo gli
Eimuri ed i Caheti!

— A tavola! — gridò in quel momento il mozzo, levando il vaso dal
fuoco. — Finchè gl’indiani mangiano i loro simili noi diamo un colpo di
dente ai _tatù_.

Io credo che valgano meglio della carne umana. —



CAPITOLO XXV.

Un combattimento fra antropofagi.


Una settimana era trascorsa dal loro approdo in quell’isoletta, senza
che nessun avvenimento avesse turbata la loro esistenza.

La ferita del marinaio si cicatrizzava rapidamente, mercè frequenti
unzioni di succo resinoso dell’_almescegueira_, pianta che era stata
trovata su un’isoletta poco discosta e dei Caheti non avevano avuto
fino allora più alcuna notizia.

Non avevano fatto altro che mangiare e dormire beatamente e bere _matè_
in quantità, avendolo trovato di loro gusto anche i due portoghesi.

Alvaro però cominciava ad affermare che la noia a poco a poco lo
prendeva e che ne aveva un po’ troppo di questa vita così calma e che
avrebbe desiderato tornarsene nei grandi boschi anche per variare un
po’ i loro pasti che ormai si erano ridotti a uccelli acquatici ed a
frutta.

_Tatù_ non se ne trovavano altri su quell’isolotto; altri animali non
ne avevano veduti; i tuberi erano pure finiti e se delle testuggini
si erano mostrate fra le acque melmose della savana, non si erano però
lasciate prendere malgrado i pazienti tentativi del mozzo.

— Io non sono nato per vivere eternamente su un isolotto, — ripeteva
ogni mattina ed ogni sera. — Mi sembra di essere un topo in trappola.
Torniamo nella foresta.

— Aspettate che io sia completamente guarito, — rispondeva il marinaio,
— poi ci metteremo in cerca dei Tupinambi.

— Lasciatemi fare una sola corsa per variare la nostra tavola.

— Non commettete imprudenze, signore. I Caheti possono sorprendervi.

— Se non si sono più mostrati vuol dire che se ne sono andati.

— Non fidatevi: conosco quei selvaggi, e so quanto sono pazienti.

Sono certo che ci spiano. —

Il giorno seguente erano le medesime frasi che si scambiavano, ma tutti
i buoni argomenti del marinaio non riuscivano a sradicare interamente
il desiderio che tormentava Alvaro, cioè di fare una corsa nelle
foreste.

L’ottavo giorno il portoghese che si annoiava mortalmente e non ne
poteva più di quella monotona esistenza, armò la canoa, risoluto a fare
una gita fino alla costa più vicina per provvedersi di viveri.

Gli uccelli già da qualche giorno avevano disertato l’isolotto,
spaventati dagli spari dei due archibugi e la cena della sera innanzi
era stata magrissima non avendo potuto trovare che un paio di tuberi e
poche frutta già quasi guaste.

— Tornerò presto, — disse Alvaro al marinaio, — e se vedrò che i Caheti
sono scomparsi, domani andremo tutti nella foresta.

Ormai quest’isolotto non può fornirci altro che delle foglie e della
fame in quantità.

— Conducete con voi il mozzo, — disse Diaz. — Io non ho più bisogno di
cure e anche stamane ho potuto alzarmi e girare intorno all’albero.

Due fucili valgono meglio d’uno.

— Mi rincresce lasciarvi solo.

— Non preoccupatevi, signor Viana. Impiegherò il tempo a intrecciare
due cappelli di paglia che vi ripareranno meglio dei vostri berretti,
già sdrusciti.

Ma siate prudenti e non accostatevi alla riva se prima non siete ben
convinti che sia deserta.

— Ve lo prometto. D’altronde torneremo prima che il sole tramonti e con
qualche capo di selvaggina, almeno così spero. —

Presero i due archibugi lasciando al marinaio la gravatana di cui
sapeva servirsi abilmente, come abbiamo già veduto, e balzarono nella
canoa.

— Prudenza! — gridò un ultima volta Diaz, il quale si era coricato
sotto l’ombra di una _bananeira_ che lanciava le sue immense foglie in
tutte le direzioni.

Alvaro rispose con un gesto della mano e la _canoa_ si allontanò
velocemente, scivolando sulle acque nerastre della savana sommersa.

— Non allentiamo, Garcia, — disse Alvaro. — In un’ora noi saremo nella
foresta.

— La rivedrò anch’io volentieri, — disse il mozzo. — L’isola era
diventata ormai troppo piccina anche per me e mi annoiavo al pari di
voi.

— Fra quattro o cinque giorni ci metteremo in cerca dei Tupinambi, se
gli Eimuri ne hanno lasciati ancora di vivi.

Non so ma anche Diaz non è tranquillo sulla sorte che può essere
toccata alla tribù.

Prima gli Eimuri e poi i Caheti, e gli uni e gli altri sono grandi
consumatori di carne umana.

— E se non ne trovassimo più di vivi?

— Allora mio caro, andremo verso la costa e con qualche scialuppa
saliremo al nord fino a trovare gli stabilimenti spagnuoli del
Venezuela.

Diaz s’è pure deciso a tentare il lungo viaggio. —

Pur chiacchierando non arrestavano di remare vigorosamente, girando e
rigirando intorno agli isolotti ed ai banchi che ingombravano la savana
e mettendo in fuga nuvole di volatili i quali s’affrettavano a fuggire
avendo ormai provato gli effetti delle armi da fuoco.

Alle otto del mattino la _canoa_ usciva finalmente da quel dedalo
di terreni emersi e da quei gruppi enormi di paletuvieri rossi,
raggiungendo le acque libere.

La riva appariva a meno d’un miglio colla sua imponente linea di alberi
maestosi fra i quali torreggiavano sopratutto gli enormi _summameira_ e
le cupole ondeggianti delle _iriastree_, capricciosamente dentellate.

Alvaro abbandonò per un momento le pagaie e riparatisi gli occhi colle
mani esaminò attentamente la spiaggia.

— Non vedo alcun canotto nè alcuna zattera, — disse poi — e nessuna
colonna di fumo alzarsi fra le piante.

I Caheti devono essere tornati ai loro villaggi.

— E noi approfitteremo per fare una battuta nella foresta, — disse
Garcia.

— E anche una buona raccolta di frutta, — aggiunse Alvaro.

Vedo laggiù e per la prima volta delle piante che mi sembrano cocchi.

Se le frutta non sono troppo mature ti offrirò un buon bicchiere di
latte alla crema.

Animo, Garcia. Ancora dieci minuti e sbarcheremo. —

Attraversarono velocemente l’ultimo tratto della savana e giunsero in
una cala minuscola che era cinta da bellissime piante chiamate _pequià_
e anche _morfim_ ossia dell’avorio, essendo il legno che se ne ricava
d’una trasparenza e chiarezza meravigliosa.

Prima di sbarcare, i due portoghesi armarono i due archibugi e stettero
in ascolto qualche minuto, temendo di vedere sorgere dietro le piante i
terribili Caheti.

Udendo solamente le grida monotone d’uno stormo di arà rosse, si
decisero a lasciare la canoa.

— Siamo soli, — disse Alvaro. — Andiamo innanzi a tutto a fare una
visita a quei cocchi.

Mi pare che siano ben carichi di frutta. —

Si erano appena cacciati sotto le _pequià_ quando grida acutissime
echeggiarono in mezzo alle palme che formavano la prima linea della
grande foresta.

— _Eske! Eske!_ —

— Gl’indiani? — disse Garcia preparandosi a tornare verso la scialuppa.

— Mi pare che queste grida siano mandate da una truppa di scimmie.

— Che battaglino fra di loro?

— Andiamo a vedere, Garcia. Tu sai che la carne delle scimmie non è poi
cattiva. —

Le grida continuavano sempre più stridenti, coprendo gli schiamazzi dei
pappagalli e le note squillanti delle arà.

— _Eske! Eske!_

— Sì, sono scimmie, — disse Alvaro che aveva già raggiunto il margine
della foresta. — Le vedi lassù, su quella pianta che lancia i suoi rami
quasi orizzontalmente.

— Sì, le vedo.

— Sarei curioso di sapere perchè urlano tanto. Non ti sembrano
spaventate?

— Sì, signor Alvaro. Non vedete come guardano abbasso e come cercano di
spingersi verso i rami più alti? Qualcuno deve minacciarle.

— Il dito sul grilletto del fucile, — ragazzo mio. — L’animale che
minaccia quelle scimmie potrebbe prendersela anche con noi.

Avanziamoci adagio ed in silenzio. —

Fra i rami d’una _massaranduba_, cinque scimmie si agitavano
freneticamente balzando ora da una parte ed ora dall’altra, urlando a
squarciagola e scagliando frutta e foglie contro qualche nemico che non
si poteva ancora scorgere, essendo il tronco di quella pianta avvolto
fra un caos di liane.

Erano delle _barrigudo_, scimmie che non raggiungono mai l’altezza
d’un metro, che hanno il pelame morbido, quasi lanoso, di tinta quasi
nerastra con striature grigie e una specie di criniera che scende fino
sulle spalle.

— Alt, Garcia, — mormorò Alvaro che si era nuovamente avanzato,
aprendosi il passo fra un folto cespuglio. — Eccolo il loro nemico! Lo
vedi arrampicarsi su pel tronco? —

Un bellissimo animale, grande quanto un cane di Terranuova, ma molto
più snello, saliva aggrappandosi alle liane ed altre piante parassite
che cingevano l’albero, con quelle mosse leggere e prudenti che si
osservano nei gatti.

Aveva il pelame folto, corto e morbido, rosso giallastro sul dorso
e bianco arricciato sui fianchi e sotto il ventre; la testa rotonda
adorna di lunghi baffi con due occhi scintillanti; due veri occhi da
carnivoro; la coda lunga più di mezzo metro e le zampe nervose, secche,
armate all’estremità di lunghi artigli che laceravano con estrema
facilità le liane anche le più dure.

Se Alvaro fosse stato un brasiliano, avrebbe subito riconosciuto in
quell’animale un _onça parda_, chiamato anche _puma_ o _coguar_ e anche
leone d’America, una belva meno pericolosa dei giaguari ma tuttavia
sempre temibilissima.

Ed infatti i coguari, pur essendo relativamente piccoli, non avendo mai
più di un metro e venti centimetri di lunghezza, compresa la coda, nè
un’altezza superiore ai settanta, hanno una forza straordinaria e sono
dotati d’un coraggio a tutta prova.

Vivono per lo più nei boschi dove inseguono accanitamente le scimmie,
perseguitandole fino sui più alti rami essendo estremamente agili
e potendo spiccare dei salti di cinque e perfino di sei metri.
S’incontrano però sovente anche nelle praterie, specialmente là dove
oggidì si allevano i montoni, dei quali fanno strage quando riescono ad
entrare nei _ranchi_ ossia nei recinti costruiti dai pastori.

Ordinariamente sfuggono l’uomo, ma se la fame li tormenta, piombano
anche sugl’indiani con rapidità fulminea, sgozzandoli con un buon colpo
d’artiglio alla gola.

Assaliti poi, si difendono con coraggio disperato e tengono lungamente
testa ai cacciatori i quali non sempre escono vittoriosi da quelle
lotte.

Il puma, che doveva essere affamato e che non si era ancora accorto
della presenza dei due naufraghi, continuava ad arrampicarsi senza
però dimostrare eccessiva fretta, punto preoccupato delle grida delle
scimmie e dei rami che gli venivano scagliati addosso.

Di quando in quando anzi si fermava e guardava sotto di sè mandando un
_eù-uu_..... rauco che ripeteva più volte.

— Non vorrei trovarmi al posto delle scimmie, — mormorò Alvaro
curvandosi verso il mozzo, il quale seguiva con vivo interesse la
manovra della belva. —

— Che riesca a raggiungerle?

— S’arrampica meglio d’un gatto. Fra qualche minuto avrà la sua preda.

— E noi lo lascieremo commettere quell’assassinio?

— T’interessi per quelle scimmie?

Farò fuoco sull’animale ma dopo, quando si sarà impadronito della preda.

Così d’un colpo solo prenderemo l’una e l’altra. —

Il coguaro aveva raggiunto la cima del tronco e con un salto immenso si
era slanciato fra i rami, cadendo così leggermente da non far nemmeno
oscillare le foglie più vicine.

Le scimmie vedendolo così vicino si erano date alla fuga, cercando di
raggiungere le cime più elevate, quando il coguaro, che non ci teneva
a spingersi più su, con un secondo salto piombò sulla meno lesta
spezzandole di colpo la colonna vertebrale prima e squarciandole poi il
collo.

Con una zampa la rovesciò sul ramo per impedirle di cadere, poi applicò
le labbra sulla ferita della gola, succhiando avidamente il sangue che
sgorgava in abbondanza.

— A me ora, disse Alvaro.

Aveva puntato l’archibugio e stava mirando, quando udì un leggiero
sibilo e vide un sottile cannello attraversare l’aria e piantarsi nel
fianco sinistro del coguaro.

Questi aveva subito interrotto il suo pasto, guardandosi intorno.

Vedendo il cannello lo spezzò coi denti, poi si rimise a succhiare come
se fosse stato punto da qualche mosca importuna.

Alvaro aveva abbassato prontamente il fucile.

— Una freccia, — mormorò agli orecchi del mozzo.

— L’ho veduta signore.

— Chi può averla lanciata? Un indiano di certo.

— Fuggiamo signore.

— No, l’uomo che l’ha gettata potrebbe udirci e noi non sappiamo se è
solo od accompagnato.

Restiamo qui e non moviamoci. Il cespuglio che ci ripara è folto e
nessuno può sospettare la nostra presenza.

— Ed io che stavo per far fuoco!

Un fracasso di rami schiantati seguito da un _ou-uu_ rabbioso si fece
udire in alto.

Il coguaro che doveva essere stato ferito da una freccia avvelenata,
era precipitato giù dall’albero assieme alla sua vittima, sfondando col
proprio peso le liane ed i rami.

— Non muoverti, — mormorò Alvaro, trattenendo Garcia che spinto da una
imprudente curiosità stava per farsi innanzi. — Accovacciati presso di
me e non fiatare. —

Scostò adagio adagio i rami e cercò di scoprire il cadavere del
coguaro. Lo vide infatti, dieci metri più innanzi, sdraiato alla base
dell’albero, presso la scimmia.

— Vedremo chi andrà a raccoglierlo, — mormorò Alvaro.

Erano trascorsi appena due minuti quando udì un fruscìo di foglie
e dei rami a crepitare. Una o più persone s’aprivano il passo fra i
fitti cespugli che formavano come una seconda foresta sotto la prima,
costituita invece dalle palme e dalle immense _summameire_ dalle
_pekie_ ecc.

Ad un tratto due persone sbucarono fra le foglie d’una bananeira e si
diressero sollecitamente verso il coguaro il quale non dava ormai più
segno di vita.

Alvaro aveva fatto uno sforzo supremo per non lasciarsi sfuggire un
grido di sorpresa.

In quei due selvaggi aveva riconosciuto il capo degli Eimuri ed il
ragazzo indiano che gli aveva servito d’interprete.

Come si trovava là quel maledetto antropofago? Aveva seguite le
tracce dei due fuggiaschi smanioso di vendicarsi d’essere stato così
destramente giuocato? Oppure era giunto presso la savana sommersa per
puro caso, guidando qualche partita di cacciatori?

— Non muoverti, Garcia, — sussurrò Alvaro. — Corriamo il pericolo di
venire mangiati.

   [Illustrazione: Era uno spettacolo bellissimo. I guerrieri che
   venivano colpiti.... (CAP. XXV).]

— Chi sono?

— Gli Eimuri.

— Ancora?

— Silenzio se ti preme la vita. —

Il capo ed il ragazzo strapparono al coguaro la punta della freccia,
poi il primo mandò un fischio stridente.

Un momento dopo quattro altri indiani armati di _gravatane_ che fino
allora dovevano essersi tenuti imboscati nelle vicinanze, si fecero
innanzi e si caricarono del coguaro e della scimmia.

Il capo fece il giro dell’albero come se cercasse se vi fosse altra
selvaggina da abbattere, ma le scimmie che poco prima si trovavano
sulla cima erano ormai scomparse, slanciandosi di pianta in pianta.

Un momento dopo il piccolo drappello tornava a scomparire in mezzo ai
cespugli.

Per alcuni istanti si udirono le fronde ad agitarsi, poi ogni rumore
cessò e le arà, tranquillizzate, ripresero la loro monotona cantilena
mentre i pappagalli cicalavano a piena gola.

— Siamo sfuggiti ad un grave pericolo per puro caso, — disse Alvaro
che era ancora pallido. — Se io non m’indugiavo un poco a far fuoco a
quest’ora noi avremmo addosso chissà quanti Eimuri.

— Era proprio il capo?

— L’ho riconosciuto subito, ragazzo mio.

— Che ci cerchi o che cacci?

— Cacciare così lontano dal villaggio non mi sembra ammissibile.

— Che cosa facciamo signore?

— Rimanere nascosti qui per ora e questa sera ritornare alla nostra
isola. Non mi fido imbarcarmi; gli Eimuri ci potrebbero scorgere.

— Il marinaio aveva ragione a sconsigliarvi, — disse il mozzo.

— I selvaggi non ci hanno ancora presi.

— Ma torneremo a mani vuote.

— Attraverseremo la savana e andremo a cacciare su qualche altra riva.
Non sarà già un oceano quel bacino paludoso.

Taci! —

Il silenzio era stato improvvisamente rotto da urla formidabili che
aumentavano rapidamente d’intensità, accompagnate da suoni stridenti
che pareva uscissero da quella specie di flauti formati con tibie umane
e che usavano in quell’epoca quei terribili antropofagi.

Quelle urla echeggiavano in due diverse direzioni.

— Che due tribù siano alle prese? — chiese Alvaro.

— Signore, vi ricordate dei Caheti comparsi sulle rive della savana? —
chiese Garcia.

— Andiamo a vedere, — disse Alvaro. — Se succede un combattimento
nessuno avrà il tempo di occuparsi di noi. —

Uscirono dalla macchia e s’avanzarono verso il luogo dove le urla
risuonavano sempre, tenendosi però prudentemente nascosti fra le piante
più folte e scivolando di preferenza fra i cespugli.

Non avevano percorsi duecento metri, quando si trovarono sul margine
d’una immensa radura, in mezzo alla quale non crescevano che pochissimi
gruppetti di palme.

Alvaro non si era ingannato: due tribù, entrambe numerose, stavano per
venire alle mani.

— Gli Eimuri alle prese con una tribù nemica! — esclamò il portoghese,
gettandosi in mezzo ad un cespuglio.

Sei o settecento indiani, spaventosamente dipinti in nero, in azzurro
ed in rosso, coi volti adorni di penne di pappagallo disposte in modo
da figurare baffi, barbe e corna e divisi in due colonne, marciavano
lentamente agitando furiosamente le mazze, le cerbottane, le lancie e
le scuri di conchiglia.

La battaglia che doveva diventare ben presto sanguinosissima, essendo
tutti i selvaggi brasiliani valorosissimi, non era ancora cominciata.

Prima di assalirsi, i brasiliani usavano provocarsi da lontano per
eccitarsi.

S’avanzavano gli uni contro gli altri a passo cadenzato, fermandosi di
quando in quando per ascoltare le arringhe infuocate dei capi che li
mettevano in un incredibile furore.

Davan fiato poi ai pifferi ed ai flauti, stendevano le braccia
mostrando gli archi e le mazze o le gravatane, provocandosi con urla
spaventevoli e alzando sulle picche dalla punta di selce o di spine di
pesce, le ossa dei prigionieri che avevano divorati.

Gli Eimuri erano assai più superiori di numero, ma i loro avversari
parevano meglio armati e poi più alti e più sviluppati dei primi.

— Se si distruggessero almeno reciprocamente, — disse Alvaro che si
teneva ben celato a fianco di Garcia. — Questi sono demoni piuttosto
che esseri umani.

— Chi vincerà? — chiese Garcia.

— Lo sapremo presto, — rispose Alvaro. — Simili battaglie con attacchi
a corpo a corpo non devono durare molto.

Le due tribù che procedevano senza ordine alcuno ma in ranghi serrati,
giunte a cento metri l’una dall’altra, posero mano agli archi e alle
gravatane saettandosi reciprocamente.

Era uno spettacolo bellissimo il vedere tutte quelle freccie che
terminavano in penne variopinte e che percosse dal sole riflettevano
tutte le varietà delle loro tinte, volare in tutte le direzioni.

I guerrieri che ne venivano colpiti, se le strappavano dalle carni
rabbiosamente, le mordevano e le spezzavano, senza dare indietro un
passo nè volgere le spalle e rispondevano fino a che il _vulrali_, quel
veleno che non perdona, produceva il suo mortale effetto.

Esaurite le freccie le due tribù si slanciarono l’una contro l’altra
con un clamore assordante e le mazze alzate.



CAPITOLO XXVI.

La scomparsa del mozzo.


Una mischia terribile si era impegnata fra gli Eimuri ed i loro
avversari.

Quei selvaggi, che Alvaro aveva giustamente paragonati più a fiere che
a esseri umani, combattevano con furore estremo scambiandosi colpi di
mazza che di rado cadevano a vuoto.

L’abilità con cui adoperavano quell’arma pericolosissima, preferita dai
guerrieri alle _gravatane_ dalla freccia mortale e anche alle scuri di
conchiglia che d’altronde si spezzavano facilmente, era straordinaria.

Quantunque quelle mazze, formate di legno del ferro, fossero
pesantissime, tali anzi che gli Europei non riuscivano ad alzarle e
farle girare con una sola mano e avessero sovente una lunghezza di due
metri, le maneggiavano con destrezza facendole volteggiare in aria con
velocità prodigiosa.

Ogni colpo faceva una vittima, giacchè miravano sempre alla testa che
fendevano nettamente per metà, essendo sottili sui due lati.

Per parecchi minuti Alvaro ed il mozzo non videro che un rimescolamento
orribile di corpi nudi e sanguinanti che si dibattevano fra un urlìo
incessante, poi i combattenti si separarono in varii gruppi continuando
la lotta con crescente furore.

Un gran numero di guerrieri giacevano al suolo coi crani spaccati ed
i petti sfondati dai colpi formidabili delle mazze, ma gli altri, per
nulla atterriti non cedevano ancora il campo, spinti dal desiderio di
fare dei prigionieri poichè non usavano i brasiliani, chissà per quali
inesplicabili cause, divorare i morti caduti sul campo di battaglia.

Gli Eimuri però più numerosi quantunque meno armati, avevano
avuto subito un notevole vantaggio sui loro avversari, decimandone
crudelmente le file.

Il loro capo, che ruggiva come un giaguaro e che aveva la mazza lorda
di sangue fino al manico, si sforzava a raccogliere le file per dare
l’ultimo colpo.

Gli avversarii invece cominciavano a tentennare quantunque opponessero
ancora una ostinata resistenza. Anche il loro capo faceva sforzi
sovrumani per stringerseli intorno, senza però riuscire nell’intento.

Ad un tratto fu veduto scagliarsi contro il capo degli Eimuri con
slancio disperato ed investirlo a colpi di mazza.

Era un bel selvaggio di alta statura, adorno di collana e di piume
variopinte e di ossa che dovevano essere umane e che gli pendevano
lungo i fianchi.

L’Eimuro che forse si aspettava quell’attacco, si volse di colpo
e siccome nella destra teneva la _gravatana_ gli soffiò contro una
freccia, colpendolo con precisione matematica nel pomo d’Adamo, ossia
nel centro della gola.

Il guerriero, quantunque non dovesse ignorare che la morte ormai
doveva sorprenderlo, si gettò sull’avversario a corpo perduto, sperando
ancora di fracassargli il cranio con un colpo di mazza, ma le forze lo
tradirono.

Il _curaro_ aveva agito istantaneamente ed il sangue era stato subito
avvelenato.

Lasciò sfuggire l’arma che impugnava e cadde sulle ginocchia; un
colpo di mazza dell’Eimuro lo finì, rovesciandolo al suolo col cranio
fracassato.

I guerrieri, vedendo cadere il capo e gli Eimuri slanciarsi nuovamente
all’assalto, scoraggiati e già ridotti alla metà, volsero le spalle
dirigendosi verso la savana e precisamente là dove Alvaro ed il mozzo
si tenevano nascosti.

— Maledizione! — esclamò il signor Viana, alzandosi precipitosamente. —
Gambe, Garcia! —

I fuggenti, che correvano come daini, erano ormai troppo vicini per
permettere ai due naufraghi di ritornare nel folto della foresta prima
di venire scorti.

In quel supremo frangente, Alvaro si rammentò di essere il temuto
_Uomo di fuoco_. Alzò rapidamente il fucile contro i selvaggi che si
trovavano già a pochi passi di distanza.

L’effetto prodotto da quel colpo fu incredibile. Vinti e vincitori,
presi da un subitaneo terrore si erano arrestati lasciandosi cadere al
suolo, come se sopra le loro teste fosse scoppiata la folgore.

— Fuggi! Alla scialuppa, Garcia! — gridò Alvaro, slanciandosi a corsa
disperata in direzione della savana.

Al di là degli alberi, delle grida echeggiavano;

— _Caramurà! Caramurà!_ —

Dovevano essere gli Eimuri i quali avevano certamente riconosciuto il
loro _pyaie_.

Alvaro, che correva a rotta di collo, credendosi sempre seguito dal
mozzo, in meno di cinque minuti si trovò sulla riva della minuscola
cala, presso cui trovavasi la scialuppa.

Si volse gridando:

— Presto Garcia! —

Invece udì in quel momento uno sparo, poi un grido:

— Signor Alvaro! —

Poi vide una torma di selvaggi passare come un uragano fra gli alberi e
scomparire in mezzo ai cespugli con fantastica rapidità.

Erano gli sconfitti che fuggivano.

— Aiuto.... — signore! — udì ancora in lontananza.

Ma i selvaggi che erano stati sopraffatti erano ormai scomparsi e
giungevano invece a corsa disperata gli Eimuri preceduti dal loro capo.

Alvaro mandò un urlo.

— Mio povero ragazzo! —

Per un momento, non badando che al proprio coraggio e alla propria
generosità, ebbe l’idea di scagliarsi dietro ai fuggenti.

Fortunatamente s’accorse subito che non sarebbe mai riuscito a
raggiungere quegli uomini che correvano meglio dei cavalli e che
avrebbe dovuto misurarsi contro l’intera orda vincitrice. Per di più
l’archibugio era scarico e non aveva il tempo di ricaricarlo.

Balzò nella scialuppa, afferrò le pagaie e frenando le lagrime che gli
empivano gli occhi, si spinse rapidamente al largo, salutato da una
pioggia di frecce, di cui alcune si infissero, malgrado la distanza,
nella poppa della canoa.

Invece di avanzarsi nel mezzo della savana, piegò verso la riva
meridionale, tenendosi a sufficiente distanza per mettersi fuori di
portata dalle _gravatane_ e dagli archi.

I selvaggi che avevano avuto la peggio erano fuggiti in quella
direzione e sperava di ritrovarli al di là d’una lunga penisola che si
spingeva nella savana per parecchie centinaia di metri.

Delle grida echeggiavano in quella direzione e si vedevano gli Eimuri a
dirigersi velocemente da quella parte. Pareva che sotto le alte piante
si fosse impegnata un’altra battaglia perchè si udivano a squillare i
pifferi di guerra e risuonare cupamente le mazze.

— Mio povero Garcia! — ripeteva Alvaro senza cessare di remare con
suprema energia. — È perduto! —

Le grida si allontanavano e non già lungo le rive della savana bensì
nell’interno della foresta diventando rapidamente fioche.

Certo i vinti, dopo un tentativo di resistenza, si erano dati
nuovamente alla fuga, salvandosi nell’immensa boscaglia che offriva dei
rifugi ben più sicuri che le macchie di bambù che sorgevano lungo le
rive.

Alvaro si era arrestato, giudicando inutile continuare la corsa in
quella direzione. Era meglio tornare prontamente all’isolotto ed
informare il marinaio, l’unico che potesse dare qualche prezioso
consiglio sul da farsi.

— Non abbandoneremo quel caro ragazzo, — disse Alvaro, riprendendo
i remi. — Se ha avuto il tempo di scaricare il suo fucile verrà
considerato come un uomo superiore, ne faranno forse un _pyaie_ e non
lo mangeranno.

Quei selvaggi che sono stati vinti non saranno più feroci degli Eimuri.

Un po’ tranquillizzato da quelle riflessioni, si mise ad arrancare
affannosamente, ansioso di giungere all’isolotto.

La battaglia doveva essere finita, giacchè non si udiva ormai più nulla
e se continuava, i guerrieri dovevano trovarsi ormai ben lontani dalle
rive della savana sommersa.

Era quasi mezzodì quando Alvaro, assai triste, approdò sulla riva
dell’isolotto.

Il marinaio, stanco forse di aspettarli e non sperando che tornassero
prima del tramonto, sonnecchiava all’ombra d’una pianta, colla
_gravatana_ a portata della mano.

Udendo la voce di Alvaro, aprì subito gli occhi alzandosi a sedere.

— Solo! — esclamò, non scorgendo il mozzo e facendosi smorto. — Gran
Dio! Che cosa vi è toccato signor Viana? Mi sembrate sconvolto.

— Perduto, — rispose Alvaro con voce spezzata.

— Garcia!

— Rapito dai selvaggi.

— Dai Caheti?

— Non so.... vi erano anche gli Eimuri.... combattevano.

— Calmatevi, signor Viana e narratemi tutto. —

Alvaro quantunque fosse in preda ad un vero accesso di disperazione, lo
mise subito al corrente di quanto era avvenuto.

— Ditemi, Diaz, riusciremo noi a salvarlo? — chiese Alvaro.

Il marinaio aveva ascoltato il racconto in silenzio, corrugando più
volte la fronte.

— Siete certo che non siano stati gli Eimuri a portarlo via? — chiese.

— Quei selvaggi non erano ancora giunti.

— Dunque sono stati gli altri?

— Sì, Diaz.

— Ditemi come erano quegl’indiani.

— Erano di statura più alta degli Eimuri, avevano i capelli lunghi e
neri ed il colorito bruno fosco.

— Avete notato se avevano delle incisioni sulle braccia e sulle coscie?

— Sì, dei tagli abbastanza profondi, delle vecchie cicatrici.

— E delle penne appiccicate agli angoli degli occhi? — chiese ancora
Diaz.

— Anche quelle.

— Erano indiani Tupy, i nemici più accaniti e più formidabili dei
Tupinambi. Sono lieto che le abbiano prese dagli Eimuri, quantunque sì
gli uni che gli altri siano del pari crudeli.

— Potremo noi ritrovarli?

— So dove hanno il loro villaggio principale e mi immagino che avranno
condotto Garcia dal loro gran capo Piragibe, che vuol dire _Braccio di
pesce_.

— Che lo mangino?

— Forse, se non preferiranno farne uno stregone. Non avranno però
fretta essendo Garcia, per sua fortuna, troppo magro per costituire un
buon arrosto e prima che lo abbiano ingrassato, passeranno parecchie
settimane e fors’anche dei mesi.

— Sicchè voi non disperate di salvarlo.

— La cosa non sarà facile, tuttavia ci proveremo. Se vedremo che
l’impresa sarà troppo difficile, chiameremo in nostro aiuto i Tupinambi
i quali a quest’ora saranno certo tornati ai loro villaggi.

— Vi sentite di poter camminare?

— Fra un paio di giorni io sarò completamente ristabilito.

— Due giorni! Sono lunghi, Diaz, — disse Alvaro.

— Non perderemo egualmente il nostro tempo, — disse il marinaio, — anzi
sloggeremo subito.

Ho osservata attentamente questa savana e mi sono ormai già convinto
che dirigendoci verso il sud, noi ci avvicineremo considerevolmente al
territorio dei Tupy.

Abbiamo la canoa e ne approfitteremo.

— È anche necessario abbandonare l’isola per non morire di fame, —
disse Alvaro, — non avendo io potuto portare nulla dalla foresta.

— Sì, partiamo, — disse il marinaio.

Si alzò senza l’aiuto di Alvaro e si diresse verso la canoa con passo
abbastanza sicuro.

— La gamba funziona benissimo, — disse. — Sotto questo clima le
guarigioni sono più rapide che in altri paesi. —

S’imbarcarono portando con loro la gravatana ed il fucile e presero le
pagaie.

— Conducetemi innanzi a tutto là dove è avvenuto lo scontro, — disse
il marinaio. — Voglio accertarmi coi miei occhi se gl’indiani sconfitti
dagli Eimuri erano veramente dei Tupy.

— Che vi siano ancora gli Eimuri?

— Saranno occupati ad inseguire i loro avversarii e poi non sbarcheremo
che dopo il tramonto del sole. —

Si misero a remare senza affrettarsi, avendo più di tre ore di tempo,
procurando di tenersi sempre dietro le isolette onde non farsi scorgere
dagli abitanti delle rive, dato il caso che ve ne fossero ancora.

Il sole tramontava dietro le alte piante dell’occidente quando giunsero
nella piccola cala.

Sulle rive regnava un profondo silenzio. Nell’interno invece della
foresta si udivano a echeggiare le urla acute e tristissime dei
_guarà_.

— Buon segno, — disse il marinaio sbarcando.

— Perchè dite ciò? — chiese Alvaro.

— Se i lupi rossi pasteggiano coi cadaveri dei morti, è segno che i
combattenti si sono allontanati.

Quegli animali si tengono lontani dall’uomo.

Siete capace di guidarmi fino sul campo di battaglia?

— Mi rammento benissimo la via percorsa, — rispose Alvaro.

Presero le loro armi e s’inoltrarono sotto gli alberi, spiccando qua e
là qualche frutto, non avendo mangiato dal mattino.

Le urla dei _guarà_ o lupi rossi diventavano sempre più acute. Quei
lupi ingordi dovevano essersi gettati avidamente sui cadaveri e
dovevano farne scempio.

Un quarto d’ora dopo il marinaio ed Alvaro giungevano sul margine della
vasta radura.

Vi erano là, disseminati o distesi a gruppi, non meno di duecento
guerrieri fra Tupy ed Eimuri, parte trafitti da frecce ed i più colle
teste orrendamente fracassate dalle terribili mazze.

Numerosi _guarà_ giravano fra quei poveri morti, azzannando or questi
ed or quelli, urlando e mugolando, e stormi di avvoltoi reali, di
_caracari_, di _gaviaos_ che sono specie di sparvieri e di _urubu_,
quegli insaziabili divoratori di carogne, calavano a prendere parte a
quel colossale banchetto.

Diaz senza preoccuparsi dei lupi rossi, si avvicinò ad un gruppo di
cadaveri e li osservò per qualche istante.

Vi erano mescolati insieme Tupy ed Eimuri, ancora strettamente
abbracciati, come se anche dopo morti cercassero di lottare.

— Sì, — disse poi. — Sono Tupy quelli che sono stati sconfitti dagli
Eimuri. Li conosco benissimo dalle loro collane e dalle loro cicatrici.

Non vedete questo indiano che ha dei profondi intagli sulle braccia?
Sette! Doveva essere un famoso guerriero.

— Perchè? — chiese Alvaro.

— Ogni cicatrice segna un nemico ucciso.

— Sono terribili dunque questi indiani?

— Guerrieri formidabili.

— Povero Garcia, — disse Alvaro con un sospiro. — Potremo noi giungere
in tempo per salvarlo?

— Vi ho dettò che finchè non l’avranno ingrassato non correrà pericolo
alcuno. Torniamo alla canoa, signor Viana.

Non sono ancora abbastanza forte per resistere alle marce.

— Dove dormiremo?

— Nella canoa; almeno saremo al sicuro da qualunque sorpresa. —

Tornarono lentamente verso la savana, facendo raccolta di banani e
anche di cocchi e s’imbarcarono spingendosi sempre verso il sud.

Verso la mezzanotte arenarono la _canoa_ su un banco che sorgeva
a cinquecento metri dalla riva, distanza sufficiente per evitare
una sorpresa, e si addormentarono non ostante i muggiti, i fischi,
i martellamenti, i latrati dei rospi, delle _parrancia_, dei _sapo
de minas_ e di tutte le altre varietà di batraci che popolavano le
isolette della savana.

L’indomani, dopo d’aver vuotate due o tre noci di cocco, riprendevano
la corsa, mantenendosi sempre ad una considerevole distanza dalla riva.

Quella immensa palude non accennava a restringersi, nè a finire.
La riva meridionale non si delineava e nemmeno quella occidentale
appariva.

Doveva avere una immensa estensione e chissà, fors’anche si prolungava
verso il mare essendo le sue acque leggermente salmastre.

Il marinaio ed Alvaro arrancarono fino al mezzodì senza prendere un
momento di riposo, poi vedendo che sulla riva non si mostrava nessun
essere umano, presero terra per cercarsi la colazione.

Tutta la sponda era coperta da bellissime _jabuticabeire_, piante alte
non più di sei o sette metri, dal fogliame foltissimo ed i tronchi
carichi di frutta grosse come i nostri mandarini, d’un giallo lucente,
che spuntano sulle corteccie degli alberi e che forniscono una polpa
assai delicata e molto apprezzata anche dagli indiani.

Stormi di ani, uccelli bianchi e neri, grossi come merli, dalla
coda lunghissima, che vivono di buon accordo con tutti gli animali,
anche quelli feroci, perchè hanno la strana abitudine di sbarazzarli
delle pulci e di tutti gli altri insetti che si nascondono fra i
peli, svolazzavano fra i rami più bassi, mentre su quelli più alti
cinguettavano senza posa gli _japu_, i più noiosi di tutti i volatili,
avendo una voce sgradevolissima.

— Un arrosto di uccelli? — chiese Alvaro, vedendo il marinaio
introdurre una freccia avvelenata nella _gravatana_.

— Penso di offrirvi qualcosa di meglio, — rispose Diaz che guardava
invece fra le macchie di ortensie che crescevano intorno ai tronchi
delle _jabuticabeire_.

Eccolo che si preparava a sorprendere gli ani. Lo vedete? —

Un animale che rassomigliava un po’ ad un gatto, col corpo esile lungo
circa mezzo metro, dal pelame fitto, nero e bruno, la testa piuttosto
grossa, con occhi grandi e gli orecchi pendenti, si era slanciato sul
tronco d’un albero, arrampicandosi silenziosamente per raggiungere i
rami sui quali strillavano noiosamente parecchi ani.

— Che cos’è? — chiese Alvaro.

— Un _tayra_, un vero predone che distrugge uccelli, rosicchianti e
che non teme di assalire perfino i _capibara_ che sono i più grossi
roditori conosciuti. Eh! Un altro concorrente!

— Oh! Il bellissimo gatto! — esclamò Alvaro.

Un altro animale che fino allora si era tenuto nascosto fra le ortensie
e che, come il primo, spiava gli _ani_ colla speranza di sorprenderli,
si era slanciato sul medesimo tronco.

Era un gatto pardino, animale comunissimo nelle selve brasiliane,
dove al pari del _tayra_ commette stragi immense di volatili e spinge
la sua audacia fino a dare la caccia anche alle scimmie, che vince
facilmente essendo armato di artigli solidissimi e dotato d’una agilità
straordinaria.

Un bel gattone d’altronde, lungo quasi un metro, alto mezzo dalla
spalla, col corpo robusto, coperto d’un pelo fittissimo, morbido, a
macchie ed a striscie bianche, brune, gialle, grigie e nere.

— Pare una piccola tigre, — disse Alvaro, che si era nascosto dietro il
tronco d’un albero.

— E assalito si difende tenacemente anche contro gli uomini, — rispose
il marinaio. — È il più grosso di tutti i gatti selvaggi e anche il più
audace.

Vedrete che assalirà anche il _tayra_ se riesce a sorprenderlo.

Il _tayra_ però, quantunque fosse ben in alto, si era subito accorto
della presenza del suo pericoloso vicino e abbandonò frettolosamente il
posto, slanciandosi, con un salto immenso, su un albero vicino e quindi
nel fitto delle macchie.

— Non lasciamoci sfuggire almeno il secondo, — mormorò il marinaio che
non aveva prevista quella rapida fuga.

Soffiò nella cerbottana e la sua freccia infallibile andò a piantarsi
nel fianco del pardino e così delicatamente che questi parve non se ne
fosse nemmeno accorto, poichè continuò ad arrampicarsi dolcemente sul
tronco, tenendosi celato fra i festoni di liane.

Già si trovava a qualche metro dal ramo occupato dagli ani i quali non
si erano per anco accorti del pericolo che li minacciava e si preparava
a spiccare il salto, quando piombò improvvisamente a terra.

— Il mio _vulrali_ è di prima qualità,. — disse Diaz, ridendo.

Raccolsero il gatto e tornarono nella _canoa_, contando di arrostirlo
su una isoletta che sorgeva a due o trecento metri dalla spiaggia e
dove almeno non correvano alcun pericolo di venire disturbati.

Attraversarono rapidamente quel braccio d’acqua che li separava da
quella piccola terra e tirarono la _canoa_ sulla riva.

— Prendete una pentola. — disse il marinaio. — Lo metteremo in stufato.

— Sarà almeno buono? — chiese Alvaro. — Non ho mai avuta alcuna fiducia
nella carne dei gatti.

— Tutti gl’indiani li mangiano: d’altronde non abbiamo di meglio
e..... —

Si era interrotto guardando con una certa inquietudine fra le piante
che coprivano l’isoletta.

— Che cosa avete? — chiese Alvaro, vedendolo cacciare rapidamente una
freccia nella _gravatana_.

— Vedo la punta d’una capanna, — rispose il marinaio.

— Che sia abitato quest’isolotto?

— Vi dovrebbe essere allora qualche piroga ed io non ne ho veduta
alcuna.

Armate il fucile e andiamo a vedere. —

Si aprirono il passo fra le piante che ingombravano l’isolotto e
giunsero ben presto presso una tettoia formata da pochi bastoni
incrociati alla meglio e coperta da uno strato di foglie di banano.

— Non vedo nessuno, — disse il marinaio.

Si avanzò tenendo la _gravatana_ all’altezza del mento per essere più
pronto a soffiarvi dentro e si cacciò sotto la tettoia.

Non vi era alcuno, ma il suo proprietario non doveva averla lasciata da
molto tempo, perchè in un canto, fra due sassi, si vedeva una pentola
che conteneva ancora dei tuberi quasi freschi e delle _cuie_, ossia dei
vasi formati con zucche, che sembravano pulite di recente.

Sospesa ad una traversa vi era un’amaca di grosso filo di cotone a
varie tinte che serviva da letto, poi dei vasi di terra porosa per
depurare l’acqua ed altri oggetti dei quali Alvaro ignorava l’uso.

— Prendiamone possesso, — disse il marinaio che pareva lietissimo di
quella scoperta.

— Dove sarà andato il suo proprietario? — chiese Alvaro.

— Si sarà recato a cacciare sulla riva.

— Chi può essere?

— Un Tupinambo, ne sono certo.

Solo le indiane di quella tribù sono capaci di filare queste belle e
comode amache.

— Uno dei vostri amici?

— Almeno lo suppongo.

— Che si sia rifugiato qui per sfuggire all’invasione degli Eimuri?

— Può darsi, signore. Se l’abitatore di questa bicocca è veramente
un Tupinambo possiamo essere ben lieti. Egli ci servirà di guida per
giungere al villaggio dei Tupy ed aiutarci validamente.

Ecco là della legna secca ed ecco qui il fornello. Prepariamoci
la colazione e uniamo al gatto questi tuberi che sono eccellenti a
mangiarsi. —

Accesero il fuoco e misero la pentola a bollire. Il gatto, già
scorticato e ben pulito fu fatto a pezzi e gettato dentro.

— To! — esclamò il marinaio che frugava le _cuie_ che erano numerose e
coperte da foglie. — L’indiano si divertiva.

— Che cosa avete scoperto?

— Una _cuia_ colma di _paricà_!

— Che cos’è?

— Una polvere assai inebbriante che gl’indiani estraggono dal seme
d’una pianta leguminosa, l’_inga_, e che aspirano attraverso due penne
d’avvoltoio.

— Ed a che cosa serve quella polvere?

— Fa diventare allegri come il buon vino. —

Ad un tratto mandò un grido di trionfo:

— Del tabacco! Era un bel pezzo che non ne fumavo!

— Del tabacco! — esclamò Alvaro che non capiva nulla.

— Ah! già, mi scordavo che in Europa non si sa ancora che cosa sia.

Mandiamo giù la colazione poi faremo una pipata, giacchè vedo che il
proprietario di questa tettoia ha una collezione di pipe. —

   [Illustrazione: Diaz, senza preoccupazione, si avvicinò ad un
   gruppo di cadaveri.... (CAP. XXVI).]



CAPITOLO XXVII.

Rospo Enfiato.


Non era da stupirsi che Alvaro si fosse mostrato altamente sorpreso a
udir parlare di tabacco, foglia che in quell’epoca era assolutamente
sconosciuta a tutti gli europei e anche agli asiatici.

Anche Cristoforo Colombo era rimasto assai stupito vedendo gl’indiani
delle terre da lui scoperte, gettar fumo dalla bocca, ciò che gli aveva
fatto supporre dapprima che quegli uomini mangiassero il fuoco.

Quantunque i suoi marinai a più riprese e anche i navigatori spagnuoli
che continuarono più tardi le scoperte, l’avessero provato, pure il
tabacco rimase sconosciuto in Europa fino al 1580, epoca in cui Nicoti,
ambasciatore di Francia alla corte del Portogallo, lo rese popolare,
introducendolo alla corte francese dove fu subito apprezzato non per
fumarlo bensì per fiutarlo.

Fu Caterina dei Medici, regina di Francia, che per la prima diede
a quell’aromatica foglia una certa celebrità che divenne ben presto
mondiale.

Sir Walter Raleigh, l’esploratore dell’Orenoco, l’aveva però già fatta
conoscere in Inghilterra.

Vedendo gli indiani a fumare quelle foglie si provò ad imitarli e ne
contrasse presto l’abitudine.

Si narra anzi un grazioso aneddoto che dimostra la sorpresa che
provarono i primi europei nel vedere del fumo a uscire dalla bocca d’un
uomo.

Tornato Raleigh in Inghilterra, stava un giorno seduto nella sua sala
da pranzo, dinanzi al caminetto, fumando in una pipa regalatagli da
un capo indiano, quando entrò improvvisamente un suo vecchio e devoto
servo.

In vita sua, ed era da credervi, il brav’uomo non aveva mai veduto una
cosa simile ed attribuendo quel fumo che usciva dalla bocca del suo
padrone, ad un fuoco interno, corse nella camera vicina, afferrò una
brocca d’argento piena d’acqua e gliela rovesciò addosso gridando:

— Al fuoco! Al fuoco! —

Chi avrebbe detto che cent’anni più tardi quella pianta, ignorata dal
mondo intero e nota solo agl’indiani dell’America del sud, avrebbe
portata una vera rivoluzione nei costumi e nelle abitudini di milioni
e milioni d’uomini e che tutti i governi ne avrebbero approfittato per
arricchire le casse dello Stato?

Alvaro e Diaz avevano già divorata la colazione e stavano provando il
tabacco dell’indiano, quando verso la riva udirono un cozzo come se due
barche si fossero urtate.

Entrambi si erano alzati, balzando sulle loro armi.

— Che sia il proprietario della tettoia che torna? — chiese Alvaro,
armando per precauzione il fucile.

— Deve essere lui, — rispose il marinaio. — Aspettate: se risponde al
richiamo è un Tupinambi. —

Accostò alla bocca un pezzo di foglia piegata in due e cavò due o tre
sibili stridenti che si potevano udire a grande distanza, poi attese.

Un momento dopo tre suoni consimili echeggiarono sotto le palme nane
che coprivano la riva.

— È un amico, — disse il marinaio.

Si udiva fra le fronde un fruscìo che aumentava rapidamente, poi le
foglie d’una bananiera s’aprirono ed un indiano balzò sulla piccola
spianata su cui si ergeva la tettoia.

Era un uomo di mezza età, alto, slanciato, dai lineamenti un po’
angolosi, cogli occhi piccoli, neri e mobilissimi ed i capelli
lunghissimi e piuttosto grossolani.

La sua pelle, come tutti quelli della sua tribù, invece di essere
rossastra era verdognola, tinta dovuta al soverchio uso che facevano
d’olio di cocco e di grasso pei tatuaggi sul petto e sulle braccia
rappresentanti degli orribili batraci colle bocche aperte.

Era interamente nudo; aveva solo una collana di denti umani,
probabilmente strappati ai vinti nemici e nella destra una gravatana.

— Mi riconosci Cururupebo (Rospo enfiato)? — chiese il marinaio
facendosi innanzi.

— Il gran _pyaie_ di Zoma! — esclamò l’indiano, facendo un gesto di
stupore.

Poi guardando con viva curiosità Alvaro, proseguì:

— È tuo figlio?

— Che ho ritrovato dopo tanti anni. Dove sono i Tupinambi? E tu che
cosa fai qui?

— Mi sono rifugiato su quest’isolotto dopo la distruzione della mia
_aldèe_[11], — rispose l’indiano.

— Sono sempre in fuga le tribù?

— Lo ignoro, ma so che gli Eimuri, dopo d’aver devastati i villaggi dei
Tupy sono in ritirata dovunque, perseguitati dai Caheti, dai Tamoi e
dai Guaitacazi.

Fra pochi giorni quei predoni saranno ricacciati nei loro deserti.
Tutte le loro colonne sono in fuga e non resistono più.

— Eppure ieri hanno dato battaglia ai Tupy.

— Lo so, ma mentre li inseguivano, a loro volta sono stati sorpresi e
battuti. Ed il gran _pyaie_ di Zoma che cosa fa qui?

— Ero in viaggio per cercare l’altro mio figlio che è stato preso dai
Tupy. —

Gli occhi dell’indiano si accesero d’una luce sinistra.

— Sempre quei lupi immondi, — disse. — Sono peggiori degli Eimuri
costoro e non rispettano nemmeno i nostri _pyaie_ dalla pelle bianca.

— Lo hanno divorato?

— Non ancora.

— Perchè ti sei fermato qui?

— Zoma, il padrone dei venti e delle acque, della terra e del sole, che
insegnò ai figli rossi delle foreste a coltivare la mandioca, mi aveva
suggerito di venir a trovare Rospo Enfiato onde mi aiutasse a salvare
mio figlio. —

L’indiano si rizzò quanto era lungo e prese un atteggiamento fiero.

— Dunque Zoma mi reputa un grande guerriero? — chiese.

— Sì e te ne dà una prova mandandomi qui.

— La mia carne, il mio sangue e la mia gravatana appartengono al gran
_pyaie_ bianco, — disse l’indiano. — Che cosa devo fare?

— Guidarmi al villaggio dei Tupy ed aiutarmi a liberare mio figlio.

— Cururupebo è pronto a partire: egli è un grande guerriero e non ha
paura di quei lupi maledetti.

— Prendi quello che ti può essere utile e partiamo. —

Mentre l’indiano entrava nella tettoia per staccare la sua amaca e
prendere i suoi vasi, il marinaio che era lietissimo dell’esito di quel
colloquio condusse Alvaro verso la riva, dicendo:

— Tutto va bene. Rospo Enfiato ci condurrà sul territorio dei Tupy e ci
aiuterà con tutte le sue forze nella difficile impresa.

Sarà un compagno preziosissimo.

— È un valente guerriero?

— Uno dei più indemoniati, che ha ucciso più di quattordici nemici e
mangiati non so quanti.

— Essendo la _canoa_ dell’indiano troppo piccola e anche assai
avariata, decisero d’imbarcarsi sull’altra che era più comoda e anche
meglio tagliata.

— Dove approderemo? — chiese Diaz all’indiano.

— Vi è un fiume più al sud, che conduce nel territorio dei Tupy, —
rispose l’indiano. — Se sarà libero lo saliremo.

— È lontano? —

Rospo Enfiato guardò il sole, poi disse:

— Dopo il tramonto vi giungeremo. —

Avendo tre paia di pagaie, ed essendo l’indiano, al pari della maggior
parte dei suoi compatriotti, un battelliere inarrivabile, la _canoa_
partì rapidissima, tenendosi a mezzo chilometro dalla costa.

La savana era sempre cosparsa di banchi, coperti ora di paletuvieri
rossi ed ora da enormi mazzi di _taquara_, bambù altissimi di cui
gl’indiani si servono per fabbricare le loro frecce.

Gli uccelli acquatici vi svolazzavano sopra a migliaia e migliaia,
senza troppo spaventarsi della presenza della _canoa_.

Eppure l’indiano, remando, approfittava sovente per mandare una
freccia, con abilità prodigiosa ora a qualche _piassoie_ ed ora a
qualche bel _mahilaco_ od a qualche _canindè_ che schiamazzavano sulle
cime dei bambù.

Da uomo previdente pensava alla cena e anche alla colazione
dell’indomani.

Qualche altra volta invece, mandava le sue freccie a fior d’acqua
arrestando qualche _traira_, quei grossi pesci che popolano le paludi
o qualche _rascudo_ dalle squame durissime, ma non sufficienti a
ripararlo dalla sottilissima punta di quei dardi.

— Come sono destri questi selvaggi, — diceva Alvaro che ammirava la
bravura di Rospo Enfiato. — Se i miei compatriotti vorranno occupare
questo paese colla violenza avranno ben da fare a tener testa a questi
indiani. —

Verso sera la _canoa_ che non aveva cessato d’avanzarsi sotto la
spinta delle sei pagaie, giungeva all’imboccatura d’un fiume largo
un centinaio di metri e che pareva fendesse per un tratto immenso la
gigantesca foresta, a giudicarlo dal volume delle sue acque.

— L’Ibira, — disse Rospo Enfiato, volgendosi verso il marinaio. —
Salendolo noi giungeremo in un paio di giorni nel paese dei Tupy.

— Sono abitate le sue rive?

— Lo sospetto, — rispose l’indiano.

— Dai Tupy?

— Sì.

— Allora ci scopriranno.

— Navigheremo solamente di notte.

— Se si accorgono della nostra presenza ci chiuderanno il passo.

— Lo so ed i Tupy non mancano di _canoe_. Saliremo fin che potremo, poi
ci getteremo nella foresta. Là almeno saremo al sicuro e ci sarà più
facile accostarci ai villaggi dei Tupy.

Riposiamoci un po’ e ceniamo. —

Si spinsero verso la riva sinistra la quale era coperta da enormi palme
maurizie, piante preziosissime perchè, prima che mettano i fiori, dai
loro tronchi si può estrarre una certa sostanza farinosa che disseccata
ed impastata può benissimo surrogare le gallette di mandioca, e col
succo fermentato, che cola abbondante incidendo la corteccia, si può
ottenere una specie di vino dolce ed inebbriante che è assai gustato
anche dagl’indiani.

Rospo Enfiato battè la riva per cinque o seicento metri onde
assicurarsi che non vi fosse nei dintorni alcuna abitazione, poi accese
il fuoco e preparò rapidamente la cena, mettendo sui carboni una bella
_traira_ e nella pentola un paio di uccelli acquatici e due tuberi
lunghi quasi un piede, grossi come il polpaccio d’un uomo e dolcissimi,
che aveva raccolti durante la sua breve esplorazione.

Quando tutto fu pronto, si trasse in disparte, non usando gl’indiani
brasiliani mangiare l’un presso l’altro, nemmeno in famiglia e vuotò
destramente la sua pentola colma di brodo, servendosi non già del
cucchiaio, bensì del dito indice e medio e con tale rapidità da
terminare prima dei due europei.

Anche la _traira_ fu divorata senza che perdesse tempo a pulirla delle
spine e delle scaglie. Di boccone in boccone separava le une e le altre
servendosi della lingua al pari delle scimmie, cacciandole in un angolo
della bocca, per rigettarle poi tutte insieme a pasto finito.

Durante i loro pasti gl’indiani non usavano nè parlare, nè bere. Dopo
però amavano chiacchierare come pappagalli per delle ore intere e bere
in abbondanza, specialmente _casciri_ e altri liquori forti fino a
ubbriacarsi.

Mancando però dell’uno e degli altri, Rospo Enfiato dovette
accontentarsi dell’acqua del fiume e d’una presa di _paricà_ che aspirò
attraverso un doppio tubetto formato con due ossa alari d’avoltoio e
che lo mise subito di buon umore, essendo quella polvere inebbriante.

Quella fermata, necessaria per dare un po’ di riposo alle loro membra,
si prolungò fino alla mezzanotte, poi tornarono ad imbarcarsi volendo
approfittare delle tenebre per guadagnare via, senza correre il
pericolo di venire notati e disturbati dagli abitanti delle rive.

Da una parte e dall’altra del fiume, dei superbi palmizî proiettavano
un’ombra così fitta da rendere la _canoa_ quasi invisibile.

Erano palme da cera, le più belle e le più eleganti della numerosa
famiglia delle _palmares_, dal tronco altissimo, esile, bianchissimo e
coronato sulla cima da un elegantissimo ciuffo di foglie lunghe cinque
o sei metri.

Di quando in quando, in mezzo ai folti cespugli che avvolgevano i
tronchi di quelle palme si vedevano vagare delle ombre e luccicare
dei punti giallo-verdastri e si udivano dei miagolii soffocati e delle
urla rauche che si ripercuotevano lungamente sotto le infinite vôlte di
verzura.

Erano giaguari e coguari, lupi rossi e gattoni pardini che vagavano sui
margini della foresta cercando la cena.

Rospo Enfiato, appena s’accorse della loro presenza, s’affrettò a
spingere la _canoa_ in mezzo al fiume. Conosceva per prova lo slancio e
l’audacia dei giaguari e dei puma per non prendere le sue precauzioni.

— Che abbondanza di belve! — disse Alvaro, vedendo due grosse ombre
spingersi rapidamente verso una lingua di terra che si prolungava fino
quasi in mezzo al fiume.

— Tutte le rive dei corsi d’acqua sono così popolate di carnivori,
— rispose Diaz. — La grande foresta è poco frequentata dai tapiri,
dalle scimmie, dai pecari e dai _caspybara_, le vittime ordinarie dei
giaguari e dei coguari, essendo scarsa di stagni e di ruscelli.

— Silenzio gran _pyaie_, — disse in quel momento Rospo Enfiato,
ritirando le pagaie.

— Che cosa c’è? — chiese il marinaio.

— _Aldèe!_....

— Dove?

— Lassù, verso quella punta.

— Dei Tupy?

— Certo, — rispose l’indiano.

— Potremo passarvi dinanzi senza destare l’attenzione degli abitanti? A
quest’ora devono dormire come i _sucuriù_ durante la stagione secca.

— Se gli Eimuri non sono stati completamente scacciati dal territorio,
nell’_aldèe_ si veglierà.

— Già, è vero. Che cosa ci consigli di fare?

— Lasciare la canoa e gettarci nella foresta. Marcieremo con maggior
sicurezza e potremo avvicinarci, senza venire facilmente scoperti, alla
grande _aldèe_ dei Tupy.

Tuo figlio deve trovarsi colà, ne sono sicuro.

— Mi spiace abbandonare la _canoa_.

— L’affonderemo, così potremo ritrovarla nel ritorno e rifugiarci
ancora nella savana sommersa.

— Che cos’ha dunque l’indiano? — chiese Alvaro che s’impazientiva.

— Vi è un _aldèe_ dinanzi a noi, ossia un villaggio di Tupy, — rispose
Diaz. — Rospo Enfiato non osa passarvi dinanzi e ci consiglia di
gettarci nella grande foresta.

— Possiamo fidarci di lui?

— Interamente.

— Allora andiamo alla riva. —

Attraversarono il fiume approdando sulla riva destra e sbarcarono.

L’indiano legò la _canoa_ al tronco d’un albero, servendosi d’una liana
molto lunga, mise a terra le sue provviste, la sua amaca ed un paio di
pentole, poi riempì d’acqua la scialuppa, facendola affondare in mezzo
ad un gruppo di enormi foglie di _victoria regia_ onde nessuno potesse
scorgerla.

Stavano per salire la riva e coricarsi sotto i palmizi, quando
l’indiano tese un braccio verso l’alto corso del fiume, dicendo al
marinaio.

— Vede il gran _pyaie?_ —

Una forma allungata e nera si era staccata dalla penisoletta sulla
quale sorgeva il villaggio e scendeva rapidamente il fiume.

— Una canoa, — disse Diaz.

— Vegliavano nei _carbet_, — rispose l’indiano. — Vengono ad
assicurarsi se noi siamo sbarcati.

— Sì, ci avevano già scoperti.

Presto, nel bosco e marciamo con lena. —

Si cacciarono sotto le palme che s’intrecciavano con rigogliose
felci arborescenti, con liane, con piante di vaniglia selvatica e con
gruppi d’orchidee, che cadevano dai rami in festoni olezzanti di soave
profumo e partirono con passo veloce, temendo di venire inseguiti dai
canottieri della _piroga_.

L’indiano i cui sensi e specialmente l’udito erano acutissimi, di
quando in quando si fermava ad ascoltare, poi riprendeva la marcia con
maggior velocità, addentrandosi sempre più nella tenebrosa foresta.

Il marinaio, abituato alle rapidissime marce degl’indiani, i quali in
una sola notte attraversavano delle distanze incredibili, non aveva
difficoltà a seguirlo, ma Alvaro invece doveva fare degli sforzi
disperati per non rimanere indietro.

E, poi da quando era sbarcato aveva cominciato a provare dei dolori
acuti alle dita dei piedi, come se delle spine vi si fossero confitte.

Dopo due ore di corsa indemoniata fu costretto a confessarsi vinto.

— Arrestiamoci, Diaz, — disse. — Non posso più seguirvi e mi sembra
d’altronde che nessun pericolo ci minacci.

— Sì, fermiamoci, — rispose il marinaio. — Voi non siete abituato alle
lunghe corse dei selvaggi brasiliani.

— E poi non so che cosa abbia, mi pare che le dita dei piedi siano in
cattivo stato.

— Ah! — disse Diaz, ridendo. — So che cosa avete. La bestia maligna vi
mangia.

Bisogna sbarazzarvene subito o vi rovinerà i piedi.

— Una bestia!

— Veramente è una specie di pulce: la _chique_[12]. Rospo Enfiato ve
la leverà. Aspettate fino all’alba perchè se il sacco non viene levato
intero e si rompe si svilupperà un’ulcera maligna che vi rovinerà i
piedi per parecchie settimane.

— Una pulce avete detto?

— Che è comunissima qui e che non risparmia nemmeno i piedi
degl’indiani. Non si sa il perchè si caccia di preferenza nelle dita
e se è una femmina vi si annida, formando entro la carne un minuscolo
sacchetto che raggiunge le dimensioni d’un pisello entro cui deposita
le uova.

Guai se non si leva a tempo; come vi dissi il piede corre il pericolo
di venire rovinato.

Accampiamoci sotto questa pianta e aspettiamo che il sole si alzi.

— Che i battellieri della piroga ci abbiano inseguiti?

— Se Rospo Enfiato è tranquillo, vuol dire che nessuno ci
minaccia. —

Infatti l’indiano non dava alcun segno di essere inquieto. Appoggiato
al tronco d’una palma aspirava beatamente un pizzico di _paricà_,
guardando distrattamente le splendide _vaga lume_, quelle superbe
lucciole dei boschi brasiliani, che volavano a ondate fosforescenti,
ora abbassandosi verso il suolo ed ora innalzandosi fino alla
impenetrabile vôlta di verzura.

Quando l’aurora spuntò, diffondendo sotto gli alberi una dolcissima
luce rosea, Rospo Enfiato che era già stato avvertito dal _pyaie_
bianco dell’inconveniente che aveva colpito Alvaro, andò a levare
alcune spine da una palma carà scegliendo con cura quelle che avevano
la punta più sottile.

Il marinaio fece cenno al portoghese di levarsi le scarpe e di denudare
i piedi.

— L’operazione sarà rapida e niente dolorosa, — disse poi. — Levato il
nido della _chique_ potrete riprendere la marcia senza provare disturbo
alcuno. —

L’indiano esaminò i piedi d’Alvaro e mostrò su entrambi due
piccolissime rigonfiature.

Prese una delle spine e con destrezza meravigliosa e senza che il
portoghese provasse quasi dolore, strappò una dietro l’altro tre
granelli grossi come piselli che gettò via.

— Le pulci avevano trovati i vostri piedi più adatti per deporre le
loro uova, — disse Diaz, sorridendo. — Il sangue bianco conviene forse
meglio ai piccini. Eccovi sbarazzato da quei pericolosi ospiti. —

L’indiano mise sulle punture fatte un pizzico di _paricà_, poi disse al
marinaio:

— Andiamo.

— Che siamo inseguiti? — chiese Diaz.

— Rospo Enfiato non ha ancora udito alcun rumore sospetto, ma è meglio
allontanarsi presto dal fiume.

— Quando giungeremo all’_aldèe_ dei Tupy?

— Questa sera, se cammineremo bene. —

Si orientò col sole, poi si mise in cammino, seguendo un sentiero che
pareva fosse stato aperto da qualche grosso animale a giudicarlo dal
gran numero di cespugli calpestati.

— La strada d’un _anta_ (tapiro) — disse il marinaio ad Alvaro.

— D’uno di quegli animali che somigliano un po’ ai porci e che hanno
una specie di tromba mobile all’estremità del muso? — chiese il
portoghese.

— Sì, signor Viana e questo sentiero indica che noi siamo presso
a qualche palude. Quegli animali non possono vivere senza l’acqua
nutrendosi delle radici delle piante palustri.

— E perchè aprono questi sentieri che sembrano fatti dalla mano
dell’uomo?

— Perchè hanno l’abitudine di percorrere sempre la medesima via che
mette dal loro rifugio alla palude. Così a poco a poco aprono delle
vere stradicciuole anche in mezzo alle più folte foreste.

— Uhao! — esclamò in quel momento Rospo Enfiato, fermandosi di colpo.

— Cos’hai? — chiese Diaz facendosi innanzi.

— Tupy passati per di qua, — rispose il selvaggio. — Correvano.

In quel luogo si vedevano cespugli strappati, felci arborescenti
rovesciate, liane spezzate, orchidee calpestate come se un torrente
umano fosse passato attraverso la foresta a guisa di un uragano.

Sul suolo umido della foresta si vedevano numerose orme di piedi nudi,
mentre sui tronchi degli alberi si scorgevano delle freccie infisse
nelle corteccie.

L’indiano ne prese una e la guardò attentamente.

— Freccia dei Tupy, — disse.

— Come la riconosci? — chiese Diaz.

— Dalla punta uncinata.

— E questa è degli Eimuri, — proseguì, staccandone un’altra. — La punta
è spina di palmizio.

— Che i Tupy battuti sulle rive della savana sommersa siano passati per
di qui?

— Sì, — rispose Rospo Enfiato.

Ad un tratto alzò la testa fiutando a più riprese l’aria.

— Cammina gran _pyaie_, — disse.

— Che cosa c’è ancora?

— Morti... laggiù....

— Che i Tupy siano stati raggiunti dagli Eimuri e distrutti fino
all’ultimo? — si chiese il marinaio con angoscia. — Allora Garcia non
avrebbe potuto sfuggire alla morte. —

Seguì l’indiano, col cuore stretto da una profonda ansietà, senza nulla
dire ad Alvaro e dopo tre o quattrocento passi giungevano sulle rive di
un ampio stagno, le cui rive erano quasi sgombre d’alberi.

Un terribile combattimento doveva essere avvenuto anche in quel luogo.
Parecchie centinaia di cadaveri, già in via di putrefarsi, giacevano
intorno allo stagno fra una confusione indicibile di archi, di
gravatane e di mazze.

Pozze di sangue già coagulato si scorgevano dovunque nelle depressioni
del suolo.

— Eimuri, — disse Rospo Enfiato, con un sorriso di crudele
soddisfazione. — I Tupinambi sono stati vendicati.

— Che siano stati vinti a loro volta dai Tupy? — chiese Diaz.

— Sì, e sono caduti tutti o quasi tutti. Guarda la testa del loro
capo. —

In mezzo ad un mucchio di cadaveri, infissa in una pertica, una testa
umana semi-sfracellata da un terribile colpo di mazza, adorna ancora
d’una corona di penne lorde di sangue e priva d’occhi, si ergeva.

Scorgendola Alvaro aveva mandato un grido.

— Il capo degli Eimuri, — disse. — Lo riconosco anche se così
atrocemente conciato.

— Meglio per noi, — rispose Diaz. — Almeno quello non ci darà più alcun
fastidio. —

L’indiano che percorreva il campo di battaglia rimovendo i cadaveri
come se cercasse qualche cosa, ad un tratto si curvò e raccolse qualche
cosa.

— Il figlio del gran _pyaie_ bianco è passato pure per di qua, — disse,
volgendosi verso Diaz. — Ora siamo sicuri che si trova nelle mani dei
Tupy.

— Che cos’hai trovato?

— La polvere che tuona. —

Rospo Enfiato così dicendo mostrava una borsa di pelle dalla quale
aveva fatto uscire alcuni granelli neri, raccogliendoli nel palmo della
destra.

— Me ne ricordo ancora, — disse. — Il gran _pyaie_ con questa provocava
il lampo ed il tuono. —

Diaz si era slanciato verso di lui, strappandogli la borsa dalle mani.

— La riconoscete? — chiese, mostrandola ad Alvaro.

— La provvista di polvere da sparo di Garcia! — esclamò il portoghese
con viva commozione.

— Sì, la sua, — disse Diaz.

— Sicchè voi credete?

— Questa è una prova che Garcia è stato rapito dai Tupy.

— Che sia ancora vivo?

— Non ne dubito.

— Ah! Povero ragazzo!

— Oh! Noi lo salveremo, dovessimo raccogliere tutte le tribù dei
Tupinambi e piombare sui rapitori.

Signor Viana ecco della polvere che può diventare preziosa.

— E che non lascierò a questi morti, — rispose Alvaro. — La mia
provvista comincia già a scarseggiare.

— Il gran _pyaie_ bianco mi segua, — disse in quel momento Rospo
Enfiato. — Ormai siamo sul sentiero di guerra dei Tupy e lo seguiremo
fino alla grande _aldèe_ dove tuo figlio si trova prigioniero. —



CAPITOLO XXVIII.

L’aldèe dei Tupy.


Alla sera, dopo una marcia lunghissima attraverso foreste quasi
vergini, i due europei e l’indiano giungevano sulle rive d’un altro
stagno amplissimo, un’altra savana sommersa che non aveva però le
dimensioni di quella che avevano attraversata due giorni prima e sulle
cui isole avevano soggiornato tanto tempo.

Agli ultimi raggi del sole morente avevano già scorto, sulla riva
opposta, delle immense costruzioni circondate da palizzate altissime
che formavano dei bastioni tutt’altro che facili da espugnarsi, anche
da parte d’un nemico numerosissimo.

Quasi tutti gl’indiani del Brasile, che vivevano in perpetua guerra
onde procurarsi dei prigionieri da divorare, costruivano i loro
villaggi in modo da rendere impossibile una sorpresa da parte dei loro
nemici.

A differenza dei negri dell’Africa, non usavano rizzare delle capanne
appena sufficienti per una famiglia, bensì delle case immense,
costruite con tronchi d’alberi, che chiamavano _carbets_, lunghe oltre
cento metri, larghe cinque e alte quasi altrettanto, coperte con foglie
di bananeire e con tre porte di cui una metteva sulla piazza destinata
al macello dei prigionieri di guerra.

Ognuna di quelle abitazioni serviva ordinariamente d’asilo a venti
famiglie, ma non avevano alcuna divisione che separasse una famiglia
dall’altra, sicchè vivevano in comune.

Ogni villaggio poi, piccolo o grosso che fosse, come dicemmo aveva la
sua cinta formata da una doppia palizzata sulla quale venivano esposte
le teste dei nemici divorati, prive del cervello ed immerse nell’olio
vegetale dell’_andiroba_, onde si conservassero lungamente.

In quelle _aldèe_ non vi restavano più di cinque o sei anni, ossia
fino a quando avevano sfruttati gli alberi ed il terreno, poi col fuoco
distruggevano cinte e abitazioni e andavano a fondare in altre località
più ricche di frutta e di selvaggina un nuovo villaggio.

L’_aldèe_ dei Tupy scoperta da Rospo Enfiato, doveva essere una delle
più importanti della tribù, a giudicarla dallo spazio racchiuso dalla
doppia cinta e dal numero considerevole di abitazioni che sorgevano nel
suo interno.

— È là che risiede il gran capo dei Tupy, — disse l’indiano. — È una
vera fortezza che i guerrieri della mia tribù non hanno mai osato
assalire.

— E noi? — chiese Diaz.

— Noi?.... Tre uomini possono passare là dove centinaia e centinaia di
guerrieri non riuscirebbero ad aprirsi un passaggio, anche usando la
forza.

— Ma noi non sappiamo dove i Tupy custodiscono mio figlio, il piccolo
_pyaie_, — disse il marinaio. — Conosci tu la disposizione interna
dell’_aldèe_?

— No.

— Hai qualche piano nel tuo cervello?

— Sì.

— Parla dunque.

— Abbiamo bisogno d’un prigioniero.

— Per interrogarlo?

— E perchè ci guidi al _carbet_ dei prigionieri destinati ai banchetti
dei guerrieri.

— Dove prenderlo?

— Tutte le mattine i ragazzi e le donne delle tribù lasciano l’_aldèe_
per recarsi a prendere acqua.

Cerchiamo lo stagno od il ruscello che alimenta la popolazione del
villaggio. Non sarà difficile trovarlo.

— Ed il primo che giunge noi lo assaliamo.

— Il gran _pyaie_ bianco sa leggere i miei pensieri, — disse Rospo
Enfiato.

— Cerchiamo dunque lo stagno od il ruscello ed un posto adatto per
imboscarci.

— I _pyaie_ bianchi mi seguano. —

L’indiano, guidato dal suo istinto meraviglioso, rientrò nella foresta
volgendo le spalle all’_aldèe_ dei Tupy, e mettendosi in cerca
della fonte e del ruscello, poichè i brasiliani hanno l’abitudine
di innalzare i loro villaggi in prossimità d’una palude o d’un corso
d’acqua.

   [Illustrazione: I tre uomini, preceduti dal ragazzo avanzavano
   lentamente.... (CAP. XXVIII).]

Vagò attraverso la foresta per qualche ora, soffermandosi di quando
in quando per osservare il terreno, fino a che giunse sulle rive d’uno
stagno quasi circolare che si trovava dalla parte opposta dell’_aldèe_.

Essendo circondato da macchioni e da mazzi immensi di bambù che
raggiungevano delle altezze inverosimili era facile a nascondersi.

— Che sia questo che provvede l’acqua ai Tupy? — chiese il marinaio.

— Sì, — rispose l’indiano. — Vedo sul suolo numerose impronte di piedi
umani.

— Accampiamoci qui dunque e aspettiamo che la notte passi, — disse il
marinaio.

Non osando accendere il fuoco per paura che i Tupy si accorgessero
della loro presenza, si accontentarono per cena di alcune _maraninga_,
quelle frutta squisite che somigliano a delle uova, poi si cacciarono
in mezzo ai bambù, sdraiandosi su uno strato di foglie di _jupati_
recise dall’indiano. Rassicurati dal silenzio che regnava nella foresta
e certi d’altronde di non correre alcun pericolo, non tardarono ad
addormentarsi.

D’altronde Alvaro ed il marinaio potevano fidarsi interamente
dell’acutezza dei sensi dell’indiano. Quell’uomo, anche dormendo,
non si sarebbe lasciato sorprendere e si sarebbe subito accorto
dell’avvicinarsi d’un nemico.

Il loro sonno non fu interrotto che da qualche urlo dei _guarà_,
ronzanti intorno all’_aldèe_ dei Tupy. Nè giaguari nè coguari, che
pur allora erano numerosissimi e così audaci da slanciarsi perfino
al di sopra delle palizzate e di entrare nei _carbet_ per rapire i
fanciulli degl’indiani, si fecero udire. Si erano appena svegliati,
quando udirono in lontananza, in direzione dell’_aldèe_, una voce che
canticchiava e a poco a poco diventava sempre più distinta.

Rospo Enfiato si era rizzato, colla _gravatana_ in mano, dicendo al
marinaio.

— Vengono a far acqua.

— Ed è la voce d’un fanciullo, — rispose Diaz che ascoltava
attentamente.

— E non Tupy, — disse l’indiano che si era lasciato sfuggire un gesto
di stupore. — È una canzone dei Tupinambi.

«Teniamo l’uccello pel collo e se tu fossi un tucano venuto a beccare
nelle nostre campagne saresti volato via.» È così che cantano i nostri
guerrieri quando legano i prigionieri destinati a essere macellati.

L’odi gran _pyaie_ bianco?

— E aggiungerei che io ho ancora udita questa voce, — disse il marinaio
il cui stupore non era meno profondo di quello dell’indiano.

— Sì è la voce di Japy, non posso ingannarmi.

— Il fanciullo che noi ti avevamo affidato perchè lo istruissi nei
misteri dei _pyaie_, è vero? — chiese Rospo Enfiato.

— E che gli Eimuri m’avevano rapito. —

Alvaro non comprendeva ciò che il marinaio e l’indiano si dicevano,
ma anch’egli era convinto di aver udito altre volte quella voce ed il
suo pensiero correva al fanciullo che gli aveva servito d’interprete
quand’era _pyaie_ degli Eimuri.

Il canto era cessato, ma si udivano a breve distanza le foglie secche a
scrosciare e le larghe foglie delle piante basse a sussurrare.

Colui che veniva pel primo a far la provvista d’acqua doveva essere
ormai vicinissimo.

Rospo Enfiato si era raccolto su sè stesso come una tigre, pronto a
slanciarsi.

Un ragazzo era comparso portando sul capo uno di quei vasi di terra
porosa di cui si servivano gl’indiani per filtrare l’acqua.

Rospo Enfiato stava per percuoterlo colla _gravatana_ onde stordirlo,
quando Alvaro e Diaz si gettarono fra lui ed il ragazzo.

— L’interprete del capo degli Eimuri! — aveva esclamato il primo.

— Japy! — aveva gridato il secondo.

Il giovane indiano era rimasto muto, guardando ora l’uno ed ora
l’altro, poi si era precipitato verso Diaz, — esclamando:

— Il padrone! Il _pyaie_ degli Eimuri! Ah! Come sono felice di
rivedervi ancora vivi!

— Sei solo? — chiese Diaz.

— Precedo le donne che vengono a fare la provvista d’acqua. Fuggite o
verrete scoperti.

— Seguici! —

Il ragazzo gettò il vaso nello stagno e si mise dietro ai tre uomini
che fuggivano a tutte gambe attraverso la foresta.

Non si arrestarono che un chilometro più lontano, in mezzo ad un gruppo
di _bananeire_ le cui immense foglie erano più che sufficienti per
nasconderli.

— Parla, Japy, — disse il marinaio quand’ebbe ripreso fiato. — È
nell’_aldèe_ dei Tupy il fanciullo bianco?

— Sì, — rispose il giovane. — L’hanno condotto prigioniero due giorni
or sono, prima della seconda battaglia data agli Eimuri.

— Temevo che lo avessero divorato.

— No, ma stanno ingrassandolo.

— L’hai avvicinato? — chiese Alvaro che era in preda ad una viva
emozione.

— Non è permesso a nessuno di entrare nel _carbet_ che gli fu assegnato.

— L’hai almeno veduto?

— Sì, ieri sera, mi parve rassegnato alla sua triste sorte.

— Noi siamo venuti qui per salvarlo, — disse Diaz. — Credi possibile
sottrarlo senza che i Tupy se ne accorgano?

— I Tupy sono numerosi e vegliano, — rispose Japy.

— Tu puoi aiutarci. Perchè ti hanno risparmiato pur sapendoti un
Tupinambi?

— Un capo mi ha adottato, avendo saputo che io era ai servigi del gran
_pyaie_ bianco.

— Godi dunque d’una certa libertà.

— Sì, padrone.

— Puoi lasciare il tuo _carbet_ di notte?

— È possibile farlo.

— Saresti capace di aprire una porta della palizzata?

— Basta levare le traverse interne, operazione che può compiere anche
un bambino, — rispose Japy.

— Quanti indiani vegliano attorno al _carbet_ del prigioniero?

— Una dozzina.

— Dormono alla notte? — chiese Alvaro.

— Sì, attorno al fuoco che brucia dinanzi la porta del carbet. —
rispose Japy.

— Avresti il coraggio questa sera, prima che la luna sorga, di aprirci
una porta e di guidarci fino al _carbet?_ Non preoccuparti del resto.
Sapremo noi entrare nella capanna ed involare il ragazzo.

— Sono un Tupinambi e non già un Tupy, — rispose il ragazzo con
fierezza — e tu sei il mio padrone.

Io farò tutto ciò che vorrai gran _pyaie_, purchè mi riconduci nella
mia tribù.

— Qual è la porta più prossima al _carbet_ del prigioniero?

— Quella che guarda verso il sole che tramonta.

— Noi vi saremo, — disse il marinaio. — Quando udrai il sibilo del
_cobra cipo_ (serpe liana) tu l’aprirai e noi entreremo nell’_aldèe_.

— Puoi accostare Garcia ed avvertirlo di tenersi pronto? — chiese
Alvaro.

— Glielo griderò passando dinanzi al _carbet_. I Tupy non conoscono la
lingua degli uomini bianchi ed il piccolo _pyaie_ mi comprenderà.

— Va, onde le donne non si impressionino della tua scomparsa, — disse
il marinaio, — e facciano sorgere dei sospetti nei Tupy.

Quando l’astro rosso tramonta, — disse il ragazzo, — io sarò al mio
posto e aspetterò il segnale. —

E partì rapido come una freccia, scomparendo in mezzo alle piante.

— Sperate? — chiese Alvaro guardando il marinaio la cui fronte si era
oscurata.

— O lo salveremo o ci divoreranno tutti, — rispose Diaz.

— Ah! Se potessi avvertire i Tupinambi! Ma sono troppo lontani e
giungerebbero forse troppo tardi. —

Rospo Enfiato che non sapeva una parola di spagnuolo nè di portoghese,
e che perciò nulla aveva potuto comprendere, fu informato dell’esito di
quel colloquio e parve soddisfatto dell’audace progetto.

— A questa sera, — disse. — Domani i Tupy o saranno malcontenti o
troppo contenti. —

Scrollò le spalle e si mise in cerca della colazione, frugando le
macchie vicine colla speranza di poter sorprendere qualche _coati_
o qualche _tatù_. Pareva che non si preoccupasse troppo del pericolo
a cui stava per esporsi, di venire preso e cioè mangiato dai nemici
secolari della sua tribù.

La giornata trascorse in continue ansie per Alvaro e per Diaz.
Quantunque fossero ben decisi a tentare qualunque sforzo e ad
affrontare qualsiasi pericolo, pur di strappare quel bravo ragazzo alla
graticola, si sentivano tremare l’anima al pensiero di dover servire
da pasto a quegli abbominevoli antropofagi, nel caso, molto probabile,
d’un insuccesso.

A sfidare la morte erano abituati ormai, ma finire divorati ed avere
per tomba lo stomaco di quei selvaggi ferocissimi, produceva su
entrambi una impressione che non riuscivano a vincere.

Alla sera Rospo Enfiato, che durante quelle dodici ore non aveva mai
smentito un solo istante il suo sangue freddo, unicamente preoccupato a
procacciarsi da mangiare, fece cenno ai due bianchi di seguirlo.

Si trovavano verso il lato meridionale del villaggio, mentre dovevano
raggiungere la porta che guardava verso il sole che tramonta, ossia
verso ponente.

L’indiano con un lungo giro li condusse verso l’altro lato
dell’_aldèe_, marciando sempre attraverso la foresta, e verso la
mezzanotte raggiungeva il margine della pianura su cui sorgeva il
grosso villaggio dei Tupy.

Asciugò ad una ad una le sue frecce intinte nel succo mortale del
_vulrali_, per essere più sicuro della loro pronta efficacia, ne cacciò
una nella _gravatana_ poi disse con voce sempre tranquilla:

— Andiamo: Rospo Enfiato è pronto. —

La notte era tenebrosa essendo il cielo coperto di nubi. Solo le _vaga
lume_ e le _perilampo_ rompevano, coi loro lampi, la profonda oscurità
che regnava nelle foreste e sulla pianura.

Fra le alte erbe ed in mezzo ai cespugli, le _parraneca_, le _sapos de
mina_ ed altri batraci muggivano, fischiavano e si gargarizzavano con
frastuono indemoniato, coprendo tutti gli altri rumori.

I tre uomini s’avanzavano cautamente, tenendo gli sguardi fissi sulle
palizzate del villaggio che si delineavano vagamente fra l’oscurità.

L’indiano di quando in quando si fermava, alzandosi quanto più poteva
per esplorare i dintorni, poi riprendeva la marcia strisciando come un
serpente.

Un quarto d’ora dopo il minuscolo drappello, senza essere stato
scoperto, giungeva sotto la palizzata.

Pareva che nell’_aldèe_ dei Tupy tutti dormissero non udendosi alcun
rumore e che perfino il fuoco che ardeva dinanzi al _carbet_ dei
prigionieri si fosse spento.

Seguirono la cinta procedendo carponi, finchè giunsero dinanzi alla
porta dietro la quale doveva trovarsi il giovane Japy.

— Che ci sia? — chiese Alvaro sottovoce al marinaio.

— Conosco quel ragazzo da parecchi anni e so quanto vale, — rispose
Diaz.

Strappò un filo d’erba, se lo mise fra le labbra e imitò il sibilo
del serpente liana, così bene che Rospo Enfiato si guardò d’intorno
credendo di aver realmente vicino uno di quei pericolosissimi rettili.

Un sibilo eguale rispose poco dopo dietro la palizzata, quindi si
udirono dei crepitii ed una larga tavola fu alzata lasciando un varco
appena sufficiente a lasciar passare un uomo.

Rospo Enfiato, colla _gravatana_ appoggiata alle labbra entrò
pel primo, seguìto da Alvaro che teneva il dito sul grilletto
dell’archibuso e quindi dal marinaio.

Japy era sorto dall’ombra facendosi innanzi. Un rapido scambio di
parole s’impegnò fra Diaz ed il ragazzo.

— Si sono accorti di nulla?

— No.

— Dormono tutti?

— Tutti.

— Anche i guerrieri che vegliano sul _carbet_ di Garcia?

— Hanno lasciato spegnere il fuoco.

— Lo sa Garcia che noi siamo qui?

— Ho potuto avvertirlo.

— Benissimo: avanti, — disse il marinaio.

A destra ed a sinistra della porta s’alzavano delle enormi abitazioni
rettangolari le quali proiettavano un’ombra fittissima.

I tre uomini, preceduti dal ragazzo, col cuore trepidante, la fronte
bagnata di sudore, s’avanzavano lentamente, sulle punte dei piedi,
tenendosi contro le pareti dei _carbet_.

Attraverso le cinte d’altronde mal connesse e difese da semplici stuoie
di foglie di palmizi, si udivano gli abitanti a russare.

Avevano già oltrepassati quattro o cinque _carbet_ e stavano per
giungere sulla piazza sulla quale si macellavano e si arrostivano i
prigionieri, quando Japy si arrestò serrandosi contro una parete e
rannicchiandosi su sè stesso.

— Che cosa c’è? — chiese Diaz che lo aveva raggiunto.

— Mi è sembrato d’aver veduta un’ombra umana svoltare l’angolo dei
_carbet_ che ci sta di fronte.

— _Carrache!_ che tu sii stato seguito?

— Eppure quando io ho lasciato il mio _carbet_ tutte le famiglie
dormivano.

— Hai lasciata aperta la porta della cinta?

— Sì, padrone. —

Stettero parecchi minuti rannicchiati addosso alla parete, ascoltando
attentamente e guardando in tutte le direzioni, poi si alzarono.

— Devi esserti ingannato, — disse il marinaio.

Interrogò Rospo Enfiato che pareva ascoltasse ancora.

— Hai veduto nulla? — gli chiese.

— No, — rispose l’indiano, — ma Rospo Enfiato ha udito.

— Che cosa?

— La sabbia dell’_aldèe_ a stridere.

— Io nulla ho udito.

— L’indiano delle foreste percepisce i menomi rumori, — rispose il
Rospo. — Anche il serpente che striscia non sfugge ai suoi orecchi.

— Che cosa fare?

— Non siamo qui venuti per passeggiare, — disse l’indiano. — La mia
_gravatana_ ha la sua freccia avvelenata e volerà silenziosamente verso
il Tupy che ci spia. —

Con un gesto imperioso fece cenno al marinaio di non muoversi e si
allontanò senza produrre il menomo rumore.

Attraversò lo spazio che separava i due _carbet_ poi scomparve dietro
un angolo.

Passarono alcuni istanti d’angosciosa attesa, poi un grido rauco
e selvaggio ruppe improvvisamente il profondo silenzio che regnava
nell’_aldèe_ dei Tupy.

Un uomo, un indiano, si era slanciato verso la piazza, tenendosi
ambo le mani strette alla gola. Fu veduto barcollare poi stramazzare
pesantemente al suolo, mentre dai _carbet_ uscivano vociferando
spaventosamente i guerrieri del villaggio.

— Fuggiamo! — gridò il marinaio.

Rospo Enfiato tornava verso di loro correndo come un cervo. Dei Tupy lo
inseguivano agitando le mazze.

— L’ho colpito troppo basso, — ebbe appena il tempo di dire a Diaz.

Si erano slanciati tutti tre attraverso i _carbet_, preceduti dal
ragazzo, ma i Tupy accorrevano da tutte le parti, dalla piazza e dalle
capanne che s’appoggiavano alla cinta.

— Signor Viana, fate fuoco o siamo perduti! — gridò Diaz.

Sì, un colpo di archibugio solo poteva arrestare l’orda che stava per
piombare su di loro e opprimerli.

Alvaro si volse e fece fuoco in mezzo ai Tupy che irrompevano dalla
piazza.

Vedendo quel lampo e udendo quel rombo, i selvaggi si erano arrestati,
poi presi da un improvviso terrore si erano dispersi urlando
spaventosamente.

Disgraziatamente i guerrieri che venivano dalla parte della cinta e
che avevano udito solamente quel tuono senza aver veduto chi lo aveva
prodotto, nella loro corsa disordinata si erano gettati fra Rospo
Enfiato, Diaz e Japy tagliando fuori Alvaro il quale si era trovato
come chiuso fra i fuggenti.

Accortosi del pericolo che correva di venire preso e fors’anche ucciso
da qualche colpo di mazza e vista l’impossibilità di raggiungere ormai
i suoi compagni, si gettò istintivamente verso la piazza, spinto dalla
speranza di attraversare l’_aldèe_ e di poter giungere a qualche altra
porta.

Approfittando dello spavento e della confusione che regnava fra i Tupy
e anche delle tenebre, potè infatti giungere sulla piazza in mezzo alla
quale sorgeva il _carbet_ dei prigionieri, ma colà, con suo terrore
s’accorse che il passo gli veniva chiuso dai guerrieri che venivano
dalla cinta opposta.

Per un momento ebbe l’idea di afferrare il fucile per la canna e di
scagliarsi a corpo perduto fra le file degl’indiani. Comprese però
subito che sarebbe stata una follia impegnare la lotta contro quegli
uomini che sapevano servirsi così abilmente delle loro terribili mazze.

— Sono preso, — mormorò con angoscia.

Era presso il _carbet_ dei prigionieri e le sentinelle che guardavano
la porta, chiusa da una semplice stuoia, erano fuggite.

Un lampo gli attraversò il cervello.

— Garcia è qui, — disse.

Si gettò dentro il fabbricato procedendo a tentoni, tanta era
l’oscurità che regnava nella immensa capanna.

— Garcia! Garcia! — gridò.

Un’ombra si era alzata in un canto e brancolava nel buio.

— Chi mi chiama? — chiese una voce.

— Sei tu, Garcia?

— Il signor Alvaro! — esclamò il mozzo.

— Silenzio... tutto è perduto... siamo stati sorpresi...

— Ed il marinaio? — chiese il ragazzo con voce strozzata.

— Non so... fuggito... forse morto o preso vivo... lascia che carichi
l’archibugio. Maledizione! Il cuore me lo diceva che tutto sarebbe
finito male. —

Al di fuori i selvaggi continuavano ad urlare spaventosamente

Turbe di uomini, muniti di rami accesi, correvano in tutte le direzioni
agitando le mazze e cacciandosi nelle stradicciuole che separavano i
_carbet_.

Parevano furiosi di non trovare i nemici che li avevano così
audacemente sorpresi.

Anche in lontananza si udivano a echeggiare delle urla che diventavano
rapidamente fioche.

— Che Diaz e Rospo Enfiato siano riusciti a fuggire? — si chiese Alvaro
che ascoltava con angoscia quelle grida.

Aveva caricato il fucile e si era collocato dietro la porta, risoluto
a vendere cara la vita ed a fucilare quanti Tupy avessero osato
inoltrarsi.

Garcia che non era legato, non avendo i brasiliani l’abitudine di
tenere i loro prigionieri immobilizzati nei _carbet_ a loro destinati,
si era messo dietro di lui armato d’un bastone che aveva trovato in un
angolo della prigione, pronto ad aiutarlo.

I Tupy si erano forse accorti che il terribile Uomo di fuoco si era
riparato nel _carbet_ dei prigioniero, ma non osavano avanzarsi per
impadronirsene.

Certo, la fama di quel _Caramurà_ che era possessore del fuoco celeste,
era giunta fino ai loro orecchi e si sentivano venir meno il coraggio
di affrontarlo.

Si vedevano ronzare per la vasta piazza, a gruppi, chiaccherando
sommessamente fra di loro e facendo gesti minacciosi colle loro mazze,
senza osare fare un passo innanzi.

— Si sono accorti che io sono qui, — disse Alvaro.

— E hanno paura, signore, — disse Garcia. — Il ragazzo indiano deve
aver raccontato a quei Tupy che voi avete rapito il fuoco celeste e che
uccidete meglio delle loro frecce.

— Durerà a lungo la loro paura?

— Avete molte munizioni?

— Almeno cinquecento colpi.

— Tanto da poter sostenere un lungo assedio.

— È solida la capanna?

— È formata di grossi tronchi d’albero, signore.

— Si può salire sul tetto?

— Ho veduto delle pertiche in un angolo e vi è lassù un buco che serve
a dar luce alla prigione.

— Se potessimo barricare la porta?

— Vi sono qui dei vasi enormi destinati forse a cuocere i prigionieri e
che potrebbero servirci.

— Prendi il fucile e appena vedi qualcuno avvicinarsi fa fuoco. Io vado
a cercarli.

— In quell’angolo oscuro, signor Alvaro. Ve ne sono almeno dodici e
tutti di dimensioni straordinarie.

Chissà quanti poveri diavoli sono stati cucinati là dentro. —

Alvaro si diresse verso l’angolo indicato da Garcia e alla luce
proiettata dalle torcie dei selvaggi e che filtrava fra le fessure
delle pareti, scorse infatti una diecina di vasi di terra, alti un
metro e mezzo e così vasti da poter contenere due uomini interi.

— Le pentole degli antropofagi — mormorò, facendo una smorfia. —
Canaglie! E forse noi dovremo finire qui dentro e cuocere come polli o
come quarti di vitello. —

Trascinò, con non lievi sforzi, un vaso che appoggiò contro la porta,
poi uno ad uno tutti gli altri, formando in tal modo una doppia
barricata che non era facile a sfondarsi, dato il peso considerevole e
lo spessore enorme di quelle pentole.

I selvaggi avevano lasciato fare, tenuti in rispetto dalla canna
dell’archibugio che il mozzo di quando in quando mostrava al di sopra
dei vasi.

— Ora cerchiamo di salire sul tetto, — disse Alvaro. — Da lassù potremo
meglio osservare le mosse degli assedianti e sparare con maggior
successo.

— Signore, badate alle frecce! Anche i Tupy conoscono il _vulrali_.

— Ci guarderemo, — rispose Alvaro. — E poi la piazza è vasta e le
_gravatane_ hanno una portata limitata, mentre il mio archibugio può
abbattere un uomo alla distanza di cinquecento metri.

Frugando negli angoli della immensa capanna riuscirono ben presto a
trovare parecchie grosse pertiche che avevano alla distanza d’un piede
delle profonde tacche.

— Che siano queste le scale dei brasiliani? — si chiese Alvaro.

— Lo siano o no, possono servire per scalare il tetto. —

Nel centro del _carbet_ s’apriva un foro circolare che dava luce
all’abitazione. Appoggiarono due pertiche ai margini e raggiunsero
senza fatica il tetto formato da robuste traverse coperte da un fitto
strato di _bananeira_.

I selvaggi non avevano lasciata la piazza. Anzi avevano formato un
immenso circolo attorno al _carbet_ pur tenendosi ad una notevole
distanza ed avevano accesi qua e là dei fuochi per meglio sorvegliare
gli assediati.

— Ve ne sono almeno duecento, — disse Alvaro, — senza contare quelli
che si sono slanciati dietro Diaz e Rospo Enfiato.

Se potessimo resistere fino all’arrivo dei Tupinambi! —

— Che quei selvaggi vengano in nostro soccorso, signore? — chiese il
mozzo.

— Non ne dubito, purchè Diaz ed il Rospo riescano a sfuggire
all’inseguimento. No, il marinaio non ci lascierà divorare da questi
antropofagi e lo vedremo tornare alla testa dei Tupinambi.

— Ah! Se potessimo avere anche il tuo fucile!

— Mi hanno detto che si trova nella capanna del _pyaie_ della tribù.

— Chi te lo disse?

— Il ragazzo indiano.

— Come sei caduto nelle zampe di questi furfanti? Se tu mi avessi
subito seguito non ti troveresti in questa brutta situazione e nemmeno
io.

— Avevo ben cercato di fuggire anch’io verso la savana, signor Alvaro,
— rispose Garcia, — quando mi vidi piombare addosso i fuggiaschi.

Feci fuoco sperando di arrestarli e mancai, per mia disgrazia, il colpo.

Un indiano gigantesco mi prese fra le braccia e mi portò via correndo
all’impazzata, poi fui chiuso in una rete e trasportato nella foresta.

Gli Eimuri ci inseguivano con accanimento cercando di fare dei
prigionieri per poi divorarli.

I Tupy si credevano ormai perduti, quando un’orda dei loro
compatriotti, gli abitanti di questo villaggio, piombarono sui
vincitori facendo una strage orrenda.

Credo che nessun Eimuro sia sfuggito al massacro.

— Abbiamo veduto i loro cadaveri, — disse Alvaro. — E poi?

— Mi cacciarono in questa capanna facendomi comprendere che mi
avrebbero divorato.

— Ti trattavano male?

— Anzi, signore. Mi mandavano perfino delle fanciulle per farmi danzare
e mi rimpinzavano di cibi scelti.

— Premeva a loro che t’ingrassassi presto.

— E quando ero pieno da soffocare ricorrevano alla violenza per
farmi trangugiare radici dolci. Non so come le mie budelle non siano
scoppiate.

— Povero Garcia, — disse Alvaro che non potè trattenere un sorriso. —
Ti trattavano come un’oca di Strasburgo!

Non mi pare però che tu abbia fatto notevoli progressi.

— Se avessi continuato qualche mese sarei diventato una botte, signore.

— Ah!

— Che cosa avete signore?

— E come stiamo di viveri?

— Ci sarà ancora qualche tubero avanzato dalla cena o qualche galletta
di mandioca.

— Ben poca cosa, — disse Alvaro che era diventato pensieroso. — Come
potremo resistere fino all’arrivo dei Tupinambi con qualche galletta?

— Vi sono invece parecchi vasi porosi che filtrano acqua nelle
catinelle.

— Bah! Non disperiamo, — disse Alvaro. — Ne faremo a meno. —



CAPITOLO XXIX.

Assediati nel carbet dei prigionieri.


Cominciava allora a diffondersi pel cielo un po’ di luce. L’aurora
faceva la sua comparsa tingendo di rosso l’orizzonte orientale.

I selvaggi non avevano ancora rotto il circolo, anzi si erano seduti a
terra, presso il _carbet_, e guardavano i due assediati appollaiati sul
tetto della prigione.

Che cosa aspettavano per cominciare le ostilità? Eppure erano in numero
sufficienti per tentare l’assalto della capanna.

Di quando in quando qualcuno si alzava e tendendo il pugno verso
Alvaro, gridava a pieni polmoni:

— _Caramurà! Caramurà!_

— Sì, sono l’Uomo di fuoco, — rispondeva Alvaro mostrando il fucile, —
e sono pronto a fulminarvi.

— _Caramurà! Caramurà!_ — rispondevano allora in coro i selvaggi
alzando minacciosamente le mazze e dimenando poscia le mascelle, come
per far comprendere agli assediati che aspettavano la loro resa per poi
mangiarli.

Nessuno però osava muoversi. Erano spaventati dal fucile che brillava
sempre nelle mani dell’Uomo di fuoco.

Anzi, ogni volta che vedevano la canna puntarsi orizzontalmente, i meno
coraggiosi si affrettavano a precipitarsi dentro i _carbet_ dove le
donne ed i fanciulli della tribù strillavano, come se quella terribile
arma da fuoco avesse avuto la potenza di distruggere d’un colpo solo
l’intero villaggio.

Qualche guerriero però, più temerario degli altri, lanciava talora
qualche freccia, che di rado giungeva fino al tetto e che non
poteva offendere efficacemente gli assediati. Fatto il colpo fuggiva
disperatamente, temendo che l’_Uomo di fuoco_ gli scagliasse dietro la
folgore celeste e correva a rintanarsi nei _carbets_ senza più osare
mostrarsi.

Quell’assedio pacifico, cominciava però ad inquietare assai Alvaro, il
quale avrebbe preferito un attacco violento per giudicare l’effetto
che avrebbe prodotto l’archibugio su quegli uomini estremamente
superstiziosi.

Nondimeno non voleva essere il primo ad aprire le ostilità per non
inasprire quei formidabili antropofagi.

— Comincio ad annoiarmi, — disse a Garcia che stava coricato presso di
lui per non esporsi alle frecce. — Quando finirà questo blocco?

— Mi viene un sospetto signore, — disse il mozzo.

— Quale?

— Che questi selvaggi aspettino il ritorno dei loro compagni per
tentare un assalto.

— Non li vedo comparire. Devono aver continuato l’inseguimento colla
speranza di riuscire a catturare Rospo Enfiato e Diaz.

— Se li prendono, saremo perduti, signore. Non possiamo ormai contare
che sull’arrivo dei Tupinambi.

— Il marinaio è un furbo e se è riuscito a sfuggire per tanti giorni
all’inseguimento accanito degli Eimuri, non si lascierà cogliere
neanche dai Tupy. E poi ha con sè Rospo Enfiato, uno dei più valenti
guerrieri della tribù.

— Quanto tempo impiegheranno a tornare? La quistione sta tutta qui.

— Gl’indiani sono camminatori infaticabili, — rispose Alvaro.

— Ed i nostri viveri sono scarsi, signore. Non so se ne avremo
abbastanza per fare la colazione.

— Ne serberemo una parte pel pranzo.

— E domani?

— Guarderemo il sole. Scendi e va a fare una visita alla dispensa.

— Ahi Se avessi saputo che ci avrebbero assediati, avrei fatto economia.

— Tardi rimpianti, mio povero Garcia. Orsù scendi, mentre io sorveglio
questi bricconi che mirano ai nostri polpacci. —

Il mozzo scomparve. La sua assenza non durò che qualche minuto e quando
tornò sul tetto la sua faccia era più oscura del solito.

— E dunque, ragazzo? — chiese Alvaro.

— La nostra dispensa signore è ben misera.

— Cos’hai trovato?

— Tre gallette di mandioca e due tuberi.

— Sono almeno grossi?

— Come la testa d’un fanciullo.

   [Illustrazione: Uno sparo rintronò, e l’arma, spezzata a metà,
   cadde sulla testa del selvaggio.... (CAP. XXIX).]

— Ne avremo abbastanza per fare tre pasti.... Oh! Japy! Da dove è
sbucato costui! Io credevo che fosse fuggito con Diaz e Rospo Enfiato.

Il giovane indiano era comparso sulla soglia d’un _carbet_ che si
trovava proprio di fronte alla prigione.

Pareva assai triste quel bravo ragazzo e aveva le lagrime agli occhi.
Fece di nascosto alcuni segni ai due assediati, poi scomparve entro il
_carbet_.

— Sono lieto doverlo veduto, — disse Alvaro al mozzo.

— Non potrà fare nulla per noi, signore, — rispose Garcia. — Se si
provasse a salvarci lo mangerebbero senza troppi scrupoli quantunque
sia stato adottato dalla tribù!

— Chissà, — disse Alvaro. — Eh! Che gl’indiani tentino qualche
cosa? —

Il cerchio si era spezzato ed i guerrieri entravano in un immenso
_carbet_, il più vasto che esisteva nel villaggio e dove già Alvaro
aveva veduto ritirarsi poco prima dei capi e sotto-capi, riconoscibili
pei loro diademi di penne di tucano.

— Si radunano a consiglio, — disse al mozzo. — Avremo presto qualche
novità.

— Che si risolvano ad assalirci?

— Si proveranno, forse.

— Preveniteli, signore.

— Sì, facendo fuoco sul _carbet_, — rispose Alvaro. — Quando
conosceranno meglio la potenza del mio archibugio forse non oseranno
tentare l’attacco. —

Il _carbet_ dove si erano radunati i capi ed i guerrieri si trovava
all’estremità della piazza, ad una distanza di trecento passi.

Alvaro che voleva impressionare quei selvaggi e persuaderli che l’_Uomo
di Fuoco_ era invincibile e che possedeva realmente il fuoco celeste,
mirò la porta della capanna e sparò.

Urla spaventevoli scoppiarono in tutto il villaggio.

Uomini, donne e fanciulli si precipitavano fuori dalle capanne fuggendo
all’impazzata verso le cinte; come se l’intera _aldèe_ fosse lì lì per
saltare in aria o prendere fuoco.

Nel _carbet_ poi dove si trovavano radunati i guerrieri, il tumulto era
spaventevole. Pareva che tutti quei selvaggi fossero stati tramutati in
belve feroci, perchè ululavano come lupi e ruggivano come giaguari.

— Che abbia ammazzato qualcuno? — si chiese Alvaro, ricaricando
precipitosamente l’archibugio.

Dieci o dodici guerrieri si erano precipitati fuori dal _carbet_
urlando:

— _Caramurà! Caramurà! Paraguazu!_ —

Erano in preda alla più violenta eccitazione. Dimenavano furiosamente
le mazze percuotendo il suolo, balzavano come tigri, roteando su sè
stessi e si graffiavano le gote facendo zampillare il sangue, ripetendo
sempre:

— _Caramurà paraguazu!.... Paraguazu!_

— Che cosa vorrà dire _paraguazu_? — si chiese Alvaro.

— Ho udito a pronunciare ancora questa parola quando mi condussero qui,
— disse Garcia. — Sarà qualche imprecazione. —

Altri guerrieri erano usciti portando sulle loro mazze, incrociate a
guisa di barella, un uomo che non dava più segno di vita e che aveva
ancora, infisso nei capelli, un diadema di penne di tucano.

— Ho ucciso qualche capo, — disse Alvaro.

I guerrieri deposero a terra il cadavere, poi cominciarono attorno a
lui una fantasia indemoniata, ululando come _guarà_.

Spiccavano salti, percuotevano con fracasso assordante le mazze,
soffiavano entro flauti di guerra formati con tibie umane, poi
tendevano le pugna verso Alvaro con gesto minaccioso.

Altri guerrieri erano sopraggiunti e altri ancora ne venivano dai
_carbet_ vicini e tutti armati di mazze, di gravatane, di archi lunghi
quasi due metri e di scuri di pietra o di conchiglia.

Ad un tratto una fitta tempesta di freccie attraversa l’aria. Archi
e gravatane lanciano dardi verso il tetto della prigione con rapidità
prodigiosa, contro le pareti e contro i vasi che barricano la porta.

— Ci assalgono, — disse Alvaro, sdraiandosi sul tetto, subito imitato
da Garcia.

Le frecce però non giungevano fino a loro, giacchè i selvaggi si
tenevano prudentemente a debita distanza. La paura li tratteneva
ancora, quantunque in meno di due minuti il loro numero si fosse
raddoppiato.

Erano almeno quattrocento e guai se in quel momento si fossero
scagliati tutti insieme all’assalto del _carbet_.

Alvaro ben poco danno avrebbe potuto fare con un solo fucile e che per
ricaricarlo richiedeva un certo tempo. Avesse almeno avuto anche quello
del mozzo!

Quel grandinare di freccie, e probabilmente avvelenate, durò alcuni
minuti, fra un frastuono impossibile a descriversi, poichè i selvaggi
per eccitarsi non cessavano di urlare e di percuotere le une contro
le altre le mazze; poi alcuni guerrieri, i più valenti della tribù, si
staccarono dal grosso dirigendosi verso la porta del _carbet_.

— Signor Alvaro, — disse il mozzo che cominciava a perdere un po’ della
sua sicurezza. — Vanno a sfondare i vasi che barricano la porta.

— La vedremo, — rispose il signor Viana, alzandosi.

Un capo precedeva il drappello, facendo eseguire alla sua mazza dei
mulinelli vertiginosi.

— Voglio provare a spaccargliela fra le mani, — mormorò Alvaro.
— Se vi riesco si persuaderanno che nulla resiste al fuoco di
_Caramurà_. —

Si inginocchiò appoggiando il gomito sinistro sulla gamba e mirò con
profonda attenzione.

Il capo aveva cessato di far roteare la mazza e la teneva ritta e ben
alta, come fosse una bandiera.

Uno sparo rintronò e l’arma, spezzata a metà, cadde sulla testa del
selvaggio che si piegò sotto l’urto.

È impossibile a descrivere l’effetto prodotto da quel colpo che avrebbe
sorpreso anche i più destri bersaglieri d’Europa.

Le grida erano cessate istantaneamente, come se uno spavento indicibile
avesse paralizzate tutte quelle gole.

Poi lo stupore si tramutò in terrore. I selvaggi, con un insieme
sorprendente avevano voltato i dorsi fuggendo a tutte gambe attraverso
le viuzze del villaggio, chi rifugiandosi nei _carbets_, chi
nascondendosi dietro la cinta dove già si erano raccolte le donne ed i
fanciulli.

Il capo si era invece lasciato cadere al suolo come se la palla
dell’_Uomo di Fuoco_ lo avesse colpito insieme alla mazza.

— Che sia morto di paura o che l’abbia veramente ucciso? — disse Alvaro
che rideva a crepapelle, vedendo i selvaggi a fuggire come lepri.

— Ma no, signore, vedo che agita le gambe, — rispose Garcia che si era
spinto fino all’orlo del tetto.

Ed infatti l’indiano non pareva che fosse morto, perchè continuava a
muovere le braccia e le mani.

Ad un tratto fu veduto balzare in piedi e precipitarsi come un fulmine
dentro il _carbet_ più vicino senza osare raccogliere i pezzi della sua
mazza.

— Credo che ne abbiano abbastanza per ora e che lascieranno in pace
l’_Uomo di Fuoco_, — disse Alvaro. — Non oseranno più tornare.

— E noi approfitteremo per fare colazione, signore, — disse Garcia. —
Credevo che dovessero guastarmi l’appetito.

— Adagio coll’appetito, ragazzo. Non è permesso soddisfarlo
interamente, ghiottone. Dovrai accontentarti d’una mezza galletta e
d’un pezzo di tubero.

Dobbiamo essere strettamente economici. —

Si sedettero presso il foro, lasciando penzolare le gambe nel vuoto
e sicuri di non venire, almeno pel momento, disturbati, si divisero
fraternamente una delle gallette ed un tubero.

Un’abbondante sorsata d’acqua filtrata attraverso i vasi porosi,
surrogò il vino di palma che non potevano procurarsi.

I selvaggi si erano tenuti lontani, accontentandosi di sorvegliarli
per impedire che fuggissero, cosa impossibile a tentarsi d’altronde con
quelle cinte così alte che non si potevano superare e con tanti nemici
da affrontare e armati di frecce intinte nel _vulrali_.

Alvaro non vi pensava affatto, non desiderando provare gli effetti di
quel veleno che abbatteva così prontamente anche le più feroci belve.
Preferiva rimanere assediato e aspettare i Tupinambi.

La giornata trascorse tranquilla, senza allarmi, tanto che Alvaro potè
dormire un paio d’ore, mentre il mozzo vegliava, prevedendo che la
notte non sarebbe trascorsa così calma.

Qualche ora prima che il sole tramontasse, dall’alto del loro
osservatorio videro entrare nel villaggio numerosi drappelli di
selvaggi, lordi di fango dalla testa alle piante.

— Devono essere quelli che si erano slanciati dietro i nostri compagni,
— disse Alvaro che li osservava attentamente.

— Vedete Diaz fra loro?

— No, Garcia e nemmeno Rospo Enfiato.

— Allora sono riusciti a sfuggire all’inseguimento.

— Te lo aveva detto che quelli erano due furbi.

— Che marcino verso i villaggi dei Tupinambi?

— Non ne dubito, — rispose Alvaro. — Il marinaio tenterà tutto pur di
salvarci.

— E se i Tupinambi si rifiutassero di seguirlo?

— Allora, mio povero Garcia, non ci rimarrà altro che di lasciarci
cucinare e divorare.

— Mi ucciderò con un colpo d’archibugio, signore, — disse il mozzo.

— Non sfuggiresti egualmente alla pentola o alla graticola. Anzi sarà
meglio che tu ti uccida in uno di quei vasi per risparmiare a loro la
fatica di metterti dentro.

— Oh! Signore! Non scherzate così!

— Bah! Morire ridendo o piangendo è tutt’uno, — disse Alvaro. — Oh!
Ma non corriamo troppo. Non è ancora venuto il momento di perdere ogni
speranza.

— E anche di prepararci a battagliare, signore. Vedo i selvaggi
abbandonare le cinte e strisciare lungo le pareti dei _carbet_.

— Stringeranno il cordone d’assedio per impedirci la fuga. Apriamo gli
occhi e non lasciamoci sorprendere.

Ceniamo Garcia, finchè abbiamo tempo. La colazione è stata ben magra e
l’appetito invece è terribile.

— E domani?

— Ci rimane ancora una galletta e ci accontenteremo. —

E anche la cena scomparve in pochi minuti, senza riuscire a calmare la
fame che tormentava specialmente Alvaro.

Come la sera innanzi, il cielo a poco a poco si era coperto, sicchè
l’oscurità era scesa fittissima. Anzi delle larghe gocce di pioggia
quasi tiepida, cadevano con un sordo crepitìo sui tetti dei _carbets_.

Gl’indiani pareva che fossero scomparsi o che si fossero rifugiati
nelle capanne e nessun fuoco era stato acceso nei dintorni della
piazza.

Quella calma e quell’oscurità non rassicuravano Alvaro, anzi lo
rendevano più inquieto.

— Che cerchino di sorprenderci approfittando delle tenebre? — si
domandava ad ogni istante.

— Signor Alvaro, — disse Garcia, — se noi tentassimo di andarcene? Non
vedo più i selvaggi.

— Non fidarti, ragazzo. Io sono certo che ci spiano e che aspettano
forse il momento di assalirci.

Sdraiati presso di me e teniamoci pronti a rispondere. —

Si rannicchiarono sulla cima più alta del _carbet_, l’uno accanto
all’altro, coprendosi con alcune foglie strappate dal tetto e che
avevano delle dimensioni mostruose.

I goccioloni continuavano a cadere, crepitando, ed in lontananza si
udiva di tratto in tratto a rumoreggiare il tuono. Nessun lampo però
rompeva la profonda oscurità che regnava sull’_aldèe_ e sopra le
mensime foreste che la circondavano.

Alvaro che teneva la batteria dell’archibugio nascosta sotto la casacca
onde la polvere dello scodellino non si bagnasse, ascoltava trattenendo
il respiro.

Gli pareva di udire degli strani fruscii e perfino di sentire il tetto
a tremare, come se degli uomini lo avessero già scalato.

Erano trascorse tre o quattro ore, quando udì a breve distanza un colpo
secco come se un dardo o qualche cosa di simile si fosse piantato in
una trave del tetto.

— Avete udito signore? — chiese Garcia che vegliava, facendo sforzi
supremi per non lasciarsi vincere dal sonno.

— Sì, — rispose Alvaro.

— Devono averci lanciata addosso una freccia colla speranza di colpirci.

— Non certo colla _gravatana_, — rispose Alvaro. — Quelle cannuccie non
fanno rumore.

— Mi sembra di scorgere un’asta verso l’orlo del tetto.

— Andiamo a vedere, Garcia.

— Badate, signore. Potreste riceverne una nei fianchi e voi sapete che
il _vulrali_ non risparmia nessuno.

— Con questa oscurità non si può mirare. —

Si coricò sul ventre e si mise a strisciare verso il margine del tetto.
I suoi occhi, abituati già alle tenebre, avevano scorta un’asta che non
doveva essere una freccia comune.

La raggiunse e un lieve grido di stupore gli sfuggì.

Era una canna di bambù lunga quasi un metro, foggiata a freccia, che
doveva essere stata lanciata da uno di quei grandi archi che aveva già
veduto nelle mani di alcuni selvaggi ed a metà vi era attaccata una
sottile corda che sembrava formata con tendini intrecciati.

Quella corda si prolungava fuori dell’orlo del tetto. Alvaro si provò a
tirare e trovò della resistenza come se all’opposta estremità vi fosse
appeso qualche oggetto.

— Che cosa sarà, — si chiese. — E perchè hanno lanciata questa
freccia? —

Tirò a se con tutte le forze e udì un urto contro la parete inferiore
del _carbet_.

— Signore? — chiese Garcia che lo aveva raggiunto. — Che cosa issate?

— Non lo so.

— Qualche selvaggio?

— Peserebbe ben di più. —

Ritirò rapidamente la cordicella e mise le mani su un _pagara_, uno di
quei canestri usati dagl’indiani per porvi le loro provviste.

Lo afferrò pel manico e lo trasse a sè, aiutato da Garcia.

— Che mistero è questo? Ah! Garcia!... Il tuo archibugio! —

Per quanto la cosa potesse sembrare inverosimile, Alvaro non si era
ingannato. Quel _pagara_ che era lungo quasi due metri, sotto le foglie
che lo coprivano nascondeva l’archibugio che i Tupy avevano preso al
ragazzo e avevano affidato al _pyaie_ della tribù.

E non era tutto. Quel misterioso protettore degli assediati non aveva
solamente pensato a fornirli d’un terribile istrumento di difesa, bensì
anche di viveri, onde potessero prolungare la resistenza.

Ed infatti il _pagara_, oltre quell’arma preziosissima, conteneva due
dozzine di gallette di mandioca, dei tuberi simili a quelli che avevano
mangiati a colazione, ed un uccello grosso come un tacchino e già
arrostito e perfino una zucca piena di un liquido forte, probabilmente
del _casciri_.

— Signore, — disse il mozzo, — chi può averci mandate tutte queste cose
che per noi sono preziose più delle munizioni?

— Chi?

— Ah! Sì, non può essere stato altri che quel bravo ragazzo.

— Si, Garcia, — disse Alvaro, — Japy, l’amico fedele del marinaio.

Ora sfido i Tupy a prenderci. Due fucili e viveri per una settimana!
Possiamo aspettare, senza angoscie e senza paure, l’arrivo dei
Tupinambi. —



CAPITOLO XXX.

Fra il fuoco e le freccie.


Sì, solo Japy, quel bravo ragazzo che aveva già date ai due _pyaie_
bianchi tante prove di amicizia quando si trovavano prigionieri degli
Eimuri, aveva potuto interessarsi della loro critica situazione.

Approfittando della confusione che regnava nell’_aldèe_ e
dell’oscurità, doveva prima aver rubato il fucile che custodiva lo
stregone della tribù e quindi far raccolta di viveri, poichè non doveva
ignorare che nel _carbet_ non poteva regnare certo l’abbondanza.

Quel soccorso inaspettato e preziosissimo, aveva ridato animo ai due
assediati i quali già cominciavano a disperare sull’esito finale di
quel blocco. Padroni ormai di due archibugi, ben forniti di munizioni e
di viveri, si sentivano capaci di tener testa a qualsiasi assalto, e di
attendere, senza troppo inquietarsi, la fine di quell’avventura.

Forse in quel momento i Tupinambi erano già in cammino e s’avanzavano
a marcie forzate verso l’_aldèe_ dei Tupy, i loro secolari nemici che
inquietavano incessantemente le loro tribù per provvedersi di carne
umana.

— Eccoci diventati invincibili, — disse Alvaro, dopo essersi assicurato
che l’archibugio di Garcia non era stato guastato. — Quando i Tupy ci
vedranno entrambi armati, mancherà loro il coraggio di ritentare un
nuovo attacco. —

Mio caro ragazzo, non credevo di avere tanta fortuna. Decisamente noi
siamo nati sotto una buona stella e comincio a credere che i brasiliani
non riusciranno mai a piantare i loro denti nelle nostre carni.

— Quale sorpresa per quei selvaggi quando s’accorgeranno che il fucile
è scomparso dalla capanna del loro stregone e che è volato nelle nostre
mani! — disse il mozzo.

— Acquisteremo fama di essere dei _pyaie_ insuperabili e non mi
sorprenderei se mangiassero il loro stregone.

— Povero diavolo!

— Ma che cosa fanno quei selvaggi? Mi sembra impossibile che non
approfittino di questa oscurità per tentare qualche cosa.

Questa calma non mi rassicura.

— Eppure, signore, non vedo alcuna ombra umana aggirarsi per la piazza
e non odo alcun rumore.

— Nondimeno non lasciamoci cogliere dal sonno; anzi raddoppiamo la
vigilanza.

To’! Non hai udito questo colpo sordo? Si direbbe che è caduto qualche
albero.

— Avranno chiusa la porta di qualche _carbet_ o della cinta.

— Uhm! Ti dico che i selvaggi non dormono.

— Abbiamo due archibugi, signore.

— E li faremo tuonare, Garcia, — disse Alvaro. — Tu veglia da quella
parte, mentre io sorveglio la piazza da questa.

Al primo allarme fa fuoco, senza attendere il mio comando.

Non tiri già troppo male. —

Scesero i due versanti opposti del tetto, accostandosi ai margini per
meglio dominare la piazza e attesero pazientemente l’alba.

I Tupy dovevano essere occupati in qualche operazione misteriosa.

Di quando in quando agli orecchi degli assediati giungevano dei colpi
sordi come se dei tronchi d’albero venissero rotolati per la piazza
e si udivano anche dei bisbigli sommessi, come se venissero impartiti
degli ordini a bassa voce.

Qualche volta delle ombre umane attraversavano velocemente l’_aldèe_
senza produrre alcun rumore e scomparivano dietro i _carbets_ che
sorgevano intorno alla piazza.

Alvaro si sforzava invano di comprendere quale lavoro stavano eseguendo
gli assedianti. L’oscurità e anche la pioggia che non aveva cessato
di cadere, gl’impedivano di discernere ciò che accadeva alle estremità
della piazza.

— Che si preparino a stringere il blocco? — si domandava. — Sapremo
resistere egualmente e tener duro fino all’arrivo di Diaz. —

Finalmente le tenebre si diradarono e anche i goccioloni cessarono di
cadere.

I suoi timori si erano avverati.

I Tupy per non esporsi al fuoco degli assedianti, fuoco che temevano
così immensamente, durante la notte avevano circondata la piazza con
grossi tronchi d’albero, perfettamente rotondi e privi di rami e che si
potevano, anche senza troppo fatica, far rotolare e spingere verso il
_carbet_.

Dietro a quelle barricate mobili si erano già nascosti numerosi
guerrieri armati di archi e di _gravatane_, pronti a saettare gli
assedianti.

— È un assedio in piena regola, — disse Alvaro, che si era ritirato
precipitosamente verso il buco che serviva da finestra alla capanna,
onde evitare quelle pericolose frecce. — Mio caro Garcia saremo
costretti a sloggiare se quei tronchi d’alberi verranno spinti
attraverso la piazza.

Non credevo che questi selvaggi fossero così astuti.

— Che finiscano per prenderci, signore? — chiese il mozzo con qualche
apprensione.

— Potremo opporre una lunga resistenza dentro il _carbet_. Se sarà
necessario apriremo delle feritoie e non faremo risparmio di munizioni.

Ne siamo già ben provvisti.

Cala i viveri intanto.

— Oh! Il bel tacchino, signore!

— Se non sarà precisamente un tacchino, non avendone io mai veduti
in queste foreste, l’uccello è ben grosso e ne avremo per un paio di
giorni.

— Sgombrate anche voi?

— No, anzi faremo prima alcune scariche per far capire agli assediati
che abbiamo ora due archibugi invece d’uno.

Ciò produrrà un certo effetto su quei cannibali. —

I Tupy, che parevano decisi a farla finita coi due europei, avevano
cominciato a far rotolare i tronchi, cercando di tenersi ben nascosti
per non esporsi ai colpi d’archibugio d’Alvaro.

— Sali, Garcia! — gridò il signor Viana che cominciava a diventare
inquieto. — Non lasciamoli avvicinarsi fino alle pareti del _carbet_.

Il mozzo che aveva già messe in salvo le provviste, saliva
precipitosamente.

— Un colpo a destra ed un colpo a sinistra, — disse Alvaro. — Cerca di
far scoppiare qualche testa, se lo puoi. —

I selvaggi, quantunque non fossero ancora giunti a buona portata,
avevano già cominciato a scagliare delle freccie servendosi di
preferenza dei loro archi e qualcuna era già giunta fino al _carbet_
piantandosi nelle pareti.

Garcia ed Alvaro fecero fuoco uno dopo l’altro.

Udendo quelle due detonazioni, i Tupy alzarono grida altissime e
abbandonarono precipitosamente le barricate salvandosi nei _carbets_
vicini.

La loro sorpresa doveva essere ben grande nel vedere entrambi gli
assediati armati di quei terribili istrumenti di distruzione, mentre il
giorno innanzi il solo Alvaro ne era provvisto.

Quale potenza avevano dunque quei _pyaie_ dalla pelle bianca per rapire
così facilmente al cielo il fuoco che fulminava?

I due colpi d’archibugio erano andati a vuoto; tuttavia lo spavento dei
selvaggi era stato egualmente intenso.

La collera non doveva però tardare ad avere la prevalenza e vincere
quel momento di terrore.

Ed infatti non erano trascorsi dieci minuti quando si videro i selvaggi
precipitarsi nuovamente fuori dai _carbets_ e raggiungere le barricate.

Ululavano spaventosamente, lanciando nuvoli di freccie; mentre i loro
capi pronunciavano arringhe infuocate per incoraggiarli e spingerli
all’attacco.

Due uomini soli che da ventiquattro ore tenevano in iscacco una intera
tribù che godeva fama di essere invincibile, era cosa inaudita e anche
vergognosa.

— Garcia, — disse Alvaro. — Non perdiamoci d’animo o verremo presi.

I selvaggi si preparano per un tentativo supremo.

Se non riusciamo a respingerli, domani verremo mangiati.

— Ah! Signore! Comincio ad aver paura.

— Orsù fuoco e non risparmiar nessuno. —

I tronchi d’albero, spinti da decine e decine di braccia, rotolavano,
mentre numerosi arcieri mandavano frecce verso il tetto facendo uso di
archi e di gravatane.

Alvaro e Garcia, inginocchiati l’uno presso l’altro, aprirono il fuoco
abbattendo due arcieri che avevano commessa l’imprudenza di mostrarsi.

Quel doppio colpo rallentò per un momento lo slancio degli assalitori.
Quelle detonazioni producevano sempre su di loro un effetto disastroso
che non riuscivano a vincere.

— Garcia, — disse Alvaro che non aveva troppa fiducia nell’abilità
del ragazzo. — Carica gli archibugi e lascia a me la cura di abbattere
quelle canaglie.

Non puoi essere sempre fortunato nei tuoi tiri.

— Sì, signore e poi le mie braccia tremano.

— Non temere; riusciremo a respingerli. —

E riprese il fuoco, mentre il mozzo ricaricava precipitosamente gli
archibugi.

I colpi spesseggiavano e non risparmiavano gli assalitori.

Ogni palla abbatteva un uomo ora a destra, ora a sinistra, ora dinanzi
ed ora di dietro, giacchè gl’indiani s’avanzavano da tutte le parti.

Ad ogni indiano che cadeva, i suoi compagni s’arrestavano un momento
vociferando spaventosamente, ma poi riprendevano l’avanzata fino a
quando un altro stramazzava.

Già le freccie cominciavano a cadere intorno ad Alvaro e la posizione
diventava ormai insostenibile, quando un avvenimento fortunato arrestò
l’attacco.

Già da qualche minuto il portoghese aveva notato fra gli assedianti,
la presenza d’un indiano di alta statura, che portava sulla testa un
diadema di penne di tucano e che aveva il petto e le braccia adorne
di numerose collane formate da granelli d’oro e da certe pietre
risplendenti che erano forse dei diamanti greggi[13].

Immaginandosi che potesse essere il capo della tribù, non avendone
veduti altri così riccamente adorni, gli aveva fatto fuoco addosso per
ben tre volte senza riuscire mai a colpirlo.

Avendolo veduto slanciarsi sulla cima d’uno di quei tronchi che
gl’indiani facevano rotolare, forse per meglio osservare la posizione
occupata dagli assedianti o per colpirli con qualche freccia, Alvaro
che già lo spiava e che aveva appena ricevuto da Garcia un archibugio
carico, aveva sparato precipitosamente.

La palla era giunta a destinazione.

Il capo, ferito in mezzo al petto, era stramazzato dietro al tronco,
dopo aver spiccato un salto in aria.

La caduta di quel guerriero aveva sparso fra gli assedianti un panico
indicibile.

Tutti i selvaggi erano fuggiti a gambe levate, come se una
mitragliatrice avesse sparsa la morte fra le loro file, gettando archi,
_gravatane_ e mazze per essere più lesti.

Mai fuga era stata più completa, nè più rapida.

— Signore, — disse il mozzo, sorpreso da quella improvvisa ritirata. —
Che colpo maestro avete fatto voi?

— Credo di aver ucciso il capo della tribù, — rispose Alvaro. — Erano
già parecchi minuti che lo spiavo per mandarlo all’altro mondo con una
palla nel petto o nel cervello.

— Che ne abbiano abbastanza?

— È quello che vedremo, mio caro Garcia.

— Non si scorgono più.

— Se quello che ho ucciso è veramente un capo non lo lascieranno lì.
Ah! Ecco, li vedi avanzarsi strisciando dietro i tronchi degli alberi?
Vanno a raccogliere il cadavere.

— Li vedo, signore.

— Quel selvaggio doveva essere un personaggio importantissimo. —

Degl’indiani usciti dal _carbet_ più vicino, strisciavano in mezzo ai
tronchi d’albero, cercando di avvicinarsi al cadavere del capo.

Alvaro avrebbe potuto fucilarli con tutta facilità, giacchè dall’alto
del tetto li scorgeva distintamente, invece li lasciò fare. Non voleva
inasprirli maggiormente, dopo il furioso assalto tentato pochi minuti
prima e che per poco non aveva avuto terribili conseguenze.

Vide raccogliere il cadavere del guerriero e trasportarlo in uno dei
_carbets_ più prossimi.

— Sì, — disse al mozzo che lo interrogava. — Devo aver ucciso uno dei
più famosi guerrieri.

— Mi stupisco che non cerchino di vendicarlo, — rispose Garcia.

— Rimanderanno la vendetta a momento più opportuno. Mio caro ragazzo,
difendiamoci disperatamente perchè se cadiamo vivi nelle mani di quegli
antropofagi, chissà a quali spaventevoli torture ci sottoporranno,
prima di metterci sulla graticola.

— Signor Alvaro, comincio a disperare.

— Io non ancora, — rispose il signor Viana. — Finchè avremo palle,
polvere e viveri non dobbiamo perderci d’animo.

— Sperate sempre nei Tupinambi?

— Sempre, Garcia.

— Se giungessero prima di domani!

— Lasciamo i selvaggi e mangiamo un boccone giacchè ci lasciano
tranquilli. —

I Tupy si erano tutti ritirati trasportando il cadavere del capo e
degli altri caduti durante quel breve, ma terribile combattimento,
senza più occuparsi delle barricate.

Solamente alcuni guerrieri erano rimasti nascosti dietro gli angoli dei
_carbets_ per impedire la fuga agli assediati.

Delle grida lamentevoli echeggiavano nelle ultime capanne che si
addossavano alle cinte, grida e pianti di uomini, di donne e di
fanciulli.

Pareva che la tribù intera piangesse la morte del capo.

Alvaro, profondamente impressionato, aveva ingollato a stento pochi
bocconi, poi si era rimesso in osservazione sulla cima del _carbet_.

Sentiva per istinto che qualche tremendo pericolo lo minacciava e che
quei selvaggi non avrebbero tardato a vendicare la morte del valoroso
guerriero e dei suoi compagni.

Garcia poi era in preda ad un vero spavento e guardava con orrore le
gigantesche pentole che barricavano la porta della capanna, entro una
delle quali, presto o tardi, avrebbe dovuto cucinare.

Tuttavia anche quella giornata trascorse senza allarmi. Gl’indiani non
avevano cessato di urlare lugubramente e di suonare i loro pifferi di
guerra.

Quando il sole scomparve e le tenebre invasero l’_aldèe_, grida e suoni
cessarono improvvisamente.

Alvaro, assai preoccupato, guardò il mozzo che di quando in quando era
scosso da un tremito.

— Hai paura è vero, mio povero Garcia? — gli chiese.

— Mi pare che la morte mi sfiori, — rispose il mozzo. — Che domani
siamo ancora vivi? —

Alvaro non ebbe il coraggio di rispondere. Si rizzò portandosi verso
la parte più alta del _carbet_ ed interrogò ansiosamente l’orizzonte,
spingendo gli sguardi verso ponente dove il cielo ancora rosseggiava.

— Ancora nulla, — mormorò. — Che giungano troppo tardi?

Si lasciò cadere sul tetto mettendosi il fucile fra le ginocchia.

Le tenebre cadevano rapidissime anche verso ponente, coprendo la
striscia rossastra la quale si dileguava con fantastica velocità e
nel villaggio regnava il più profondo silenzio. Si avrebbe detto che
gl’indiani avevano abbandonate le loro capanne.

— Che cosa fanno? Che cosa preparano? — si chiedeva con angoscia
Alvaro. — Questo silenzio mi fa paura! —

   [Illustrazione: Ora appariva in mezzo alle fiamme, ora
   scompariva in mezzo ai turbini.... (CAP. XXX).]

Ad un tratto un punto luminoso attraversò velocemente la piazza e cadde
sul tetto.

Alvaro era balzato in piedi mandando un grido d’angoscia.

— Siamo perduti! —

Aveva capito il piano infernale dei Tupy.

Quei terribili antropofagi, disperando ormai di riuscire ad
impadronirsi dei due europei vivi, si preparavano a bruciarli dentro la
loro fortezza come belve feroci.

Rinunciavano all’arrosto, forse lungamente sospirato, pur di vendicare
la morte del loro capo.

— Garcia! — gridò Alvaro. — Non cessare il fuoco e preparati a seguirmi
quando te ne darò il segnale.

— Signore, — balbettò il povero ragazzo. — Ci arrostiranno.

— Sì, col fuoco vogliono vincere l’_Uomo di fuoco_, — rispose Alvaro
con ira. — Ebbene daremo battaglia e resisteremo finchè avremo una
palla e un granello di polvere. —

Le freccie incendiarie, che erano munite verso la punta d’un
batuffolo di cotone impregnato di resina, giungevano da tutte le parti
piantandosi nel tetto e contro le pareti.

Gli strati di foglie cominciavano a fumare, essendo ancora un po’ umidi
ma già qualche fiammella serpeggiava sull’orlo del tetto.

Alvaro e Garcia sparavano all’impazzata ora a destra, ora a sinistra,
ora dinanzi ed ora di dietro.

Le loro detonazioni si confondevano colle urla furibonde dei selvaggi.

Gli spari si succedevano agli spari, ma con ben poco successo, perchè
dalla parte degli assedianti regnava oscurità completa.

Non si vedevano che le freccie partire senza riuscire a scorgere gli
arcieri che si tenevano ben nascosti dietro ai tronchi degli alberi.

Il fumo già avvolgeva i due portoghesi e le fiamme continuavano a
divorare l’orlo del tetto, spargendo all’intorno una luce sinistra.

L’_Uomo di fuoco_, ritto sul culmine del _carbet_ continuava a sparare,
sordo alle preghiere di Garcia il quale lo consigliava di abbandonare
quel punto pericoloso, ormai battuto dalle freccie incendiarie.

— Prendete! — urlava, in preda ad una viva esaltazione, ogni volta
che scaricava l’archibugio. — Ecco la risposta di _Caramurà_! Venite a
prendermi se l’osate! —

Ora scompariva in mezzo ai turbini di fumo che il vento spingeva
verso ponente ed ora appariva alla luce delle fiamme come un dio della
guerra, tuonando furiosamente contro quelle centinaia e centinaia di
nemici.

Ma il fuoco guadagnava rapidamente. Le travi cominciavano a cadere
e gli strati di foglie fiammeggiavano su tutti i punti. Il tetto
minacciava di cadere seco trascinando i difensori.

— In ritirata, Garcia! — gridò ad un tratto Alvaro, che aveva
finalmente compreso il pericolo che lo minacciava.

Si slanciò in mezzo ai turbini di fumo e si lasciò scivolare
nell’interno del _carbet_.

Anche le pareti cominciavano a bruciare e nella capanna regnava già un
calore insopportabile, un calore da forno.

Alvaro gettò intorno a se uno sguardo disperato.

— È finita, — ruggì. — Ebbene, sia; ma morremo coll’arme in
pugno. —

Spostò alcuni vasi e si slanciò sulla piazza gridando a Garcia:

— Carichiamo a fondo! Mostreremo a questi antropofagi come sanno morire
gli uomini dalla pelle bianca! —



CAPITOLO XXXI.

La ritirata di Diaz.


Il marinaio e Rospo Enfiato, più fortunati di Alvaro, avevano
rapidamente approfittato del terrore che aveva invasi i Tupy dopo quel
primo colpo d’archibugio.

Mentre i selvaggi si sbandavano da tutte le parti, si erano slanciati
in un viottolo laterale che serpeggiava fra i _carbets_ fuggendo
disperatamente verso la cinta, credendo in buona fede di aver alle
spalle anche Alvaro.

Giunti dietro la palizzata, in prossimità della porta che Japy non
aveva ancora chiusa, con loro stupore si erano accorti di essere soli.

— Il disgraziato si è smarrito! — aveva esclamato Diaz, facendo un
gesto di disperazione. — Invece di fuggire verso le cinte si è diretto
verso il centro dell’_aldèe_.

Rospo Enfiato, torniamo e cerchiamo di salvarlo! —

Il Tupinambi lo afferrò invece strettamente per un braccio dicendogli:

— La pelle pesa indosso al _pyaie_ bianco? Eccoli che arrivano i Tupy.
Fuggi se vuoi salvare la vita.

I Tupinambi vendicheranno la morte degli uomini dalla pelle
bianca. —

I Tupy, rimessisi dalla sorpresa e dal terrore, avevano ripresa la
corsa.

Avendo scorti quei due uomini fuggire verso la cinta, si erano subito
immaginati che potessero essere dei nemici e si erano scagliati sulle
loro traccie agitando furiosamente le mazze.

Erano un centinaio per lo meno. Volerli affrontare sarebbe stato come
correre incontro ad una morte più che certa, specialmente colle povere
armi di cui disponevano Diaz e l’indiano.

Avessero avuto degli archibugi, avrebbero forse avuta qualche speranza
di arrestarli e anche di sgominarli; colle _gravatane_ c’era ben poco
da sperare.

Diaz aveva subito capito che la partita era ormai irreparabilmente
perduta e che non era il momento di occuparsi del disgraziato Alvaro.

Rospo Enfiato aveva già varcata la porta e correva come un cervo
attraverso la tenebrosa prateria, dirigendosi verso la foresta, la cui
massa imponente giganteggiava cinquecento passi più innanzi.

Con uno sforzo disperato lo raggiunse, mentre i Tupy si disperdevano
per la pianura ululando ferocemente.

— Verso il fiume, — disse Diaz. — È necessario raggiungere la barca, se
non ce l’hanno portata via.

— Sì, al fiume, — rispose il Rospo. — La nostra salvezza sta nella
savana sommersa. —

Avevano raggiunta la immensa foresta.

Il Tupinambi si orizzontò rapidamente, poi riprese la fuga seguito da
Diaz il quale ormai già abituato alle lunghe corse degl’indiani, aveva
acquistata un’agilità straordinaria.

I Tupy continuavano ad inseguirli con accanimento, ma costretti a
cercare le tracce, dovevano di frequente arrestarsi, e come si può ben
immaginare, i due fuggiaschi ne approfittavano per guadagnare sempre
via.

Rospo Enfiato teneva una via quasi diritta, essendo quella parte della
macchia formata da sole palme della cera, alberi che non crescono
l’uno a fianco dell’altro e che essendo altissimi spingono molto in
alto le liane e tutte le piante parassite che ingombrano le boscaglie
brasiliane. Ogni mezz’ora concedeva al compagno un breve riposo, poi
ripartiva spronato dalle grida dei Tupy che non cessavano di echeggiare
in lontananza.

Verso le tre del mattino, entrambi esausti, giungevano sulle rive del
fiume.

Rospo Enfiato diede uno sguardo alla riva e scorgendo verso levante
il promontorio su cui si ergeva il villaggio che già avevano notato,
ridiscese verso ponente.

Percorsi sette od ottocento passi, si arrestò presso un albero che
bagnava nel fiume le sue radici, esclamando con accento giulivo:

— La _canoa_! Il gran _pyaie_ bianco mi aiuti. —

La liana che tratteneva la scialuppa non era stata scoperta dai
selvaggi del villaggio.

Unendo i loro sforzi, l’indiano e Diaz trassero a galla la _canoa_
scostando le enormi foglie delle _victorie_ che la coprivano,
poi servendosi dei due vasi che vi stavano dentro, rapidamente la
vuotarono.

— Alla savana, — disse il Rospo, prendendo le pagaie.

La corrente era piuttosto rapida e aiutava potentemente la canoa,
spinta anche dalle quattro _pagaie_; in meno di tre ore raggiunse la
savana sommersa, senza aver fatto alcun cattivo incontro.

Già i Tupy da parecchio tempo non si udivano più. Dovevano essersi
fermati nella foresta, credendo forse che i fuggiaschi avessero trovato
qualche nascondiglio.

— Dove potremo trovare i Tupinambi? — chiese Diaz, quando ebbero
lasciata la foce del fiume.

— Andiamo alla grande _aldèe_ di Tulipa, — rispose il Rospo. — Sono
certo di trovarvi già i miei compatriotti. Le orde degli Eimuri si sono
ritirate ormai ed altre sono state distrutte.

— Quando vi potremo giungere?

— Prima del tramonto.

— Sicchè ci saranno necessarii almeno due giorni prima di giungere
addosso all’_aldèe_ dei Tupy.

Potrà resistere Alvaro, ammesso che si sia barricato in qualche capanna?

— Anche se l’avranno preso, non lo mangeranno subito, — disse il Rospo.
— I prigionieri vengono serbati per le grandi solennità, tu lo sai.

— Che vengano i tuoi compatriotti?

— L’_Uomo di fuoco_ è troppo prezioso per lasciarlo nelle mani dei
Tupy. Pensa quale potenza acquisterebbe la nostra tribù con un _pyaie_
così potente che possiede il fuoco celeste che tuona e uccide ad una
così grande distanza.

— È vero, — disse Diaz.

— Tutti sarebbero orgogliosi di avere un tale uomo. Io anzi sono quasi
certo che anche i suoi nemici non oserebbero divorarlo.

— Nondimeno non sono affatto tranquillo sulla sua sorte e vorrei
già..... —

Diaz si era bruscamente alzato deponendo la pagaia e guardava verso
la riva vicina che era spaccata da un piccolo corso d’acqua ingombro
d’isolotti.

— Che cosa guardi? — chiese il Rospo.

— Ho udito un sibilo echeggiare laggiù, fra quelle canne palustri.

— Sarà stato qualche tapiro, — disse il Rospo. — Quegli animali
abbondano sulle rive delle savane.

— A me parve il sibilo d’una freccia.

— Che i Tupy immaginandosi che noi ci saremmo rifugiati nella savana,
siano scesi lungo le rive di quel fiumicello? — si chiese il Tupinambi
con una certa inquietudine. — È bensì vero che noi abbiamo la _canoa_ e
che non saremo così sciocchi d’approdare.

— Tu sai che ne posseggono anche loro, — disse Diaz.

— Purtroppo, — rispose l’indiano.

Lanciò un rapido sguardo sulla savana e vedendo a breve distanza un
gruppo d’isolotti boscosi, aggiunse:

— Se noi prendessimo terra fino a che spunta il sole? Desidererei
sapere se i Tupy si preparano a darci la caccia anche sulle acque della
savana, prima d’intraprenderne la traversata.

— Condivido pienamente la tua idea, — rispose il marinaio di Solis. —
Saremo più sicuri in mezzo a quelle piante che su questa _canoa_ che è
scoperta.

— Diamo dentro ai remi, uomo bianco. —

Volsero le spalle alla sponda e si diressero frettolosamente verso
una di quelle isole, approdando sulla più vasta che era coperta da una
vegetazione foltissima.

Essendo la riva ingombra di paletuvieri, nascosero la canoa sotto
i rami contorti di quelle piante, poi passando di tronco in tronco
giunsero a terra.

— Aspettami, — disse Rospo Enfiato, accostandosi ad una palma
altissima, dal tronco diritto ed esile. — Di lassù potrò vedere se i
Tupy ci hanno seguiti sulla savana. —

S’arrampicò lestamente sulla pianta fino a raggiungere le immense
foglie piumate, ma vi era appena giunto che il marinaio di Solis lo
vide ridiscendere precipitosamente.

— S’accostano? — gli chiese.

— No, — rispose l’indiano.

— Allora perchè sei subito sceso?

— Ho veduto un fuoco ardere sulla riva.

— Verso la foce di quel fiumicello?

— Sì, — confermò l’indiano — ed ho veduto anche delle ombre umane
agitarsi presso la savana.

— Chi credi che siano? — chiese Diaz dopo qualche istante di silenzio.

— Non certo i tuoi amici.

— Dei Tupy?

— Od altri che non saranno meno pericolosi per noi. I Caheti hanno
emigrato verso l’interno e quelli non sono migliori dei Tupy.

— Ecco della gente che ci farà perdere del tempo troppo prezioso. Se
ripartissimo?

— Non ti consiglierei. La notte è ancora oscura e potremmo trovare
sulla nostra rotta delle _canoe_.

Attraversiamo l’isola e andiamo a vedere se sulla riva opposta si
scorgono delle scialuppe. Io comincio a non essere tranquillo.

— Andiamo, — disse Diaz.

Presero le _gravatane_ e s’inoltrarono attraverso le piante, scostando
con precauzione le liane, non ignorando che le isole delle savane
prossime alle rive, servivano sovente di rifugio ad animali pericolosi.

Un quarto d’ora dopo giungevano sull’opposta riva dell’isola.
Guardarono attentamente sulle acque della laguna, senza scoprire nulla
di sospetto.

— Finora non scorgo alcuna canoa, — disse Rospo Enfiato. — Possiamo
prendere il largo da questa parte.

— Torniamo alla scialuppa dunque, — disse il marinaio. — È meglio che
l’alba ci sorprenda lontani da quel fiumicello. —

Stavano per ricacciarsi sotto le piante, quando Diaz si arrestò
afferrando la _gravatana_.

— Cos’hai veduto? — chiese Rospo Enfiato, che gli veniva dietro.

— Un’ombra a scivolare silenziosamente verso quel gruppo di palme, —
rispose il marinaio.

— Un uomo?

— Mi parve piuttosto un animale.

— Grosso?

— Quanto un giaguaro.

— Brutte bestie, — brontolò l’indiano facendo una smorfia.

In quell’istante udirono dietro le loro spalle un rauco miagolìo che
terminò in un soffio poderoso.

— Siamo minacciati dinanzi e di dietro, — disse il marinaio, il quale
cominciava ad inquietarsi. Che quest’isola pulluli di belve? Era ben un
giaguaro quello che ha miagolato?

— Sì, — rispose Rospo Enfiato.

— Che brutta idea abbiamo avuto di lasciare la _canoa_. Che cosa fare?

— Rimani qui e fa fronte a quello che hai veduto scivolare verso quelle
palme, — disse l’indiano. — Non occuparti di me, per ora.

— Dove vai?

— Ad accertarmi se siamo minacciati anche alle spalle.

— Vuoi farti divorare?

— La freccia del Rospo Enfiato è tinta nel _vulrali_ e io non sbaglio
mai. D’altronde non soffierò nella gravatana se non quando sarò ben
sicuro della distanza.

Tornerò presto. —

Fece cenno a Diaz di guardare verso le palme per non farsi sorprendere
dall’animale che aveva veduto e che poteva essere anche quello un
giaguaro e s’allontanò silenziosamente tenendosi nascosto dietro i
tronchi degli alberi ed i cespugli che in quel luogo erano foltissimi.

La belva che aveva fatto udire quel miagolìo minaccioso, doveva essersi
nascosta fra i paletuvieri che ingombravano la riva dell’isoletta.

Rospo Enfiato, aveva introdotto un cannello nella _gravatana_, quando
si trovò fuori dalle macchie. Si diresse coraggiosamente là dove era
partito quel miagolìo e non s’arrestò che quando giunse a una trentina
di passi dalla prima linea dei paletuvieri.

Essendovi fra le ultime macchie e quelle piante acquatiche uno spazio
scoperto, se l’animale lasciava il suo rifugio non poteva sfuggire agli
sguardi vigilanti dell’indiano.

Trascorsero alcuni istanti d’attesa angosciosa.

Un profondo silenzio regnava sia sulla riva sia in mezzo alle piante,
nè alcun altro miagolìo si era fatto udire.

Solo di quando in quando si udiva l’acqua della laguna, che la brezza
mattutina agitava, rompersi con un gorgoglìo monotono contro la riva.

Ad un tratto un buffo d’aria portò fino alle nari dell’indiano un acuto
odore di selvatico, quell’odore speciale che tramandano le fiere e che
si espande anche a non breve distanza.

— Si trova dinanzi a me, — barbottò l’indiano.

Si volse lanciando un rapido sguardo verso le macchie e vide il
marinaio di Solis rannicchiato dietro il tronco d’un _simaruba_, colla
_gravatana_ accostata alle labbra.

— Devono essere due i giaguari, — mormorò — maschio e femmina forse e
hanno manovrato in modo da prenderci in mezzo.

Ciò non deve durare molto; la pazienza non è il forte di quelle belve,
specialmente se è la fame che le spinge. —

Fece ancora qualche passo sperando che il giaguaro si decidesse a
mostrarsi. Non riuscendo a scorgerlo e temendo pel compagno, stava
per retrocedere verso le macchie, quando vide slanciarsi fuori dai
paletuvieri, con un salto fulmineo, la belva.

Era un superbo giaguaro, grosso quasi quanto una tigre malese, dal
pelame splendido e dalle forme eleganti ed insieme vigorose.

I suoi occhi, che mandavano bagliori fosforescenti, si erano subito
fissati sull’indiano.

Per alcuni istanti l’uomo e l’animale si guardarono, come se fossero
sorpresi di trovarsi l’uno di fronte all’altro, a così breve distanza,
poi la belva aprì le mascelle formidabilmente armate e si lasciò
sfuggire un rauco brontolìo che non era certo di buon augurio.

Pareva che si preparasse a prendere lo slancio. Un momento di
esitazione e l’uomo poteva essere perduto.

Rospo Enfiato non era però alle sue prime armi e ben altre volte si era
misurato con quei pericolosi felini.

Imboccò rapidamente la _gravatana_ e soffiò con forza. Il sottile
cannello partì sibilando dolcemente e andò a piantarsi nella gola della
belva.

Sentendosi ferita, fece un balzo di fianco, mordendo rabbiosamente la
freccia e spezzandola, poi fece per avventarsi contro l’indiano che si
era prudentemente gettato dietro il tronco d’un albero, le forze però
bruscamente le mancarono e cadde agitando pazzamente le zampe.

Nell’istesso momento si udì il marinaio di Solis a gridare:

— Aiuto! —

Rospo Enfiato senza più preoccuparsi della belva che si rotolava fra le
erbe e le foglie secche, si era slanciato fra le macchie introducendo
rapidamente una nuova freccia nella gravatana.

Dinanzi a Diaz due altri giaguari, non meno grossi del primo,
volteggiavano con slanci fulminei sopra i cespugli, miagolando e
ruggendo.

Per qualche istante furono veduti slanciarsi or qua ed or là come se
fossero impazziti, poi scomparvero di nuovo fra le piante prima ancora
che Rospo Enfiato potesse lanciare su di loro la seconda freccia.

Si udì ancora qualche rauco brontolìo, poi il silenzio tornò.

— Hai colpito qualcuno? — chiese Rospo Enfiato.

— Lo dubito, — rispose Diaz. — Saltavano come se il suolo fosse
cosparso di molle.

Ed il tuo?

— È morto, — rispose l’indiano.

— Che ritornino?

— Sono certo che ci spiano. Devono essere affamati, non abbondando qui
la selvaggina.

— Se mi balzavano addosso entrambi, non so come la sarebbe finita per
me. Come mai si sono radunate tante fiere su questa lingua di terra?

— Sono le inondazioni che le cacciano dalle rive, — rispose l’indiano.

— Proviamo a ritirarci verso la _canoa_.

— Non oso riattraversare le macchie.

— Seguiamo la riva.

— Sia, — rispose il Rospo.

Avevano però percorsi appena una trentina di passi, quando udirono
ancora le due belve a mugolare. Pareva che non si trovassero più
insieme, perchè le urla risuonavano in due diverse direzioni.

— Odi? — chiese Diaz. — Che chiamino dei compagni?

— Temo che ve ne siano altri, — rispose l’indiano. — Si direbbe che qui
i giaguari pullulano come gli _jacarè_ nelle savane sommerse.

Sfuggire i Tupy per cadere sotto le unghie dei carnivori! È una vera
disdetta, uomo bianco.

— E quest’altro urlo?

— Sono tre dunque?

— Affrettiamo il passo o non torneremo vivi nella canoa. —

Si erano rimessi in marcia, seguendo lo spazio compreso fra le ultime
macchie ed i paletuvieri.

Di tratto in tratto però si fermavano per scrutare le piante, poi
ripartivano a passo di corsa. La paura cominciava ad invaderli,
quantunque fossero ancora ben forniti di frecce intinte nel _vulrali_.

Non camminavano più, correvano lungo la riva eppure non si sentivano
ancora sicuri, anzi tutt’altro! Ogni volta che si fermavano udivano
verso le macchie scrosciare le foglie secche e stormire i rami.

I due giaguari o tre che fossero, non li avevano ancora abbandonati
e aspettavano certo l’occasione propizia per slanciarsi su di loro e
divorarli.

L’assalto, fortunatamente, ritardava e forse in causa della zona
scoperta che essi percorrevano e che impediva alle belve di piombare
addosso a loro di sorpresa.

Correvano da venti minuti, quando Rospo Enfiato si gettò
improvvisamente fra i paletuvieri gridando a Diaz:

— Seguimi senza ritardo.

— Vuoi cacciarti in acqua?

— No la _canoa_ è nascosta qui presso.

— L’hai veduta?

— Un indiano non s’inganna mai. —

Si erano issati sui rami contorti delle piante e s’avanzavano verso
l’acqua, quando una forma oscura piombò a pochi passi da loro,
sprofondando fra le foglie.

— Guardati! — gridò Rospo Enfiato.

— _Carrachà!_ — gridò Diaz. Un po’ più innanzi e mi piombava
addosso. —

S’appoggiò fra due rami e si volse tenendo la _gravatana_ accostata
alle labbra.

Il giaguaro che aveva tentato quel salto, pareva che non si trovasse
troppo bene fra i paletuvieri sui quali non poteva trovare l’appoggio
che gli era necessario. Lo si udiva a dibattersi ed a brontolare.

Saliva, poi ricadeva e probabilmente non gli piaceva affatto di
sentirsi bagnare la coda e le zampe deretane.

Diaz aspettò che mostrasse la testa a livello delle foglie e gli lanciò
una freccia che lo colpì fra i due occhi.

L’animale non parve nemmeno accorgersi di essere stato colpito a morte
anzi con uno sforzo supremo si issò su un ramo più robusto degli altri,
tentando di avventarsi sulle prede che stavano per sfuggirgli.

Il terribile veleno faceva però il suo effetto, con rapidità fulminea.
Si era appena alzato, quando fu veduto ricadere.

Si udì un mugolìo soffocato poi un tonfo. L’acqua lo aveva inghiottito.

— È morto! — gridò Diaz che aveva cacciata un’altra freccia nella
_gravatana_.

— E gli altri? — chiese Rospo Enfiato che continuava a passare di ramo
in ramo.

— Non li vedo più.

— Ed io sono presso la piroga.

— Ti seguo! —

Ad un tratto l’indiano si lasciò sfuggire una sorda imprecazione.

— Ecco quello che temevo!

— Che cos’hai?

— Vengono.

— Chi?

— Non lo so; i Tamoi od i Caheti. Canaglie! Non hanno perduto il loro
tempo. Guarda, uomo bianco! —



CAPITOLO XXXII.

L’assalto dei Tupinambi.


Diaz si era rapidamente voltato, guardando verso la savana sommersa.

Se l’indiano che sapeva non essere facile ad impressionarsi, aveva
pronunciate quelle parole, la cosa doveva essere ben seria e realmente
era molto grave.

Quattro punti luminosi, forse delle fiaccole, solcavano silenziosamente
le nere acque della savana sommersa e quello che era peggio, pareva
che si dirigessero verso l’isoletta sulla quale il marinaio di Solis e
l’indiano avevano cercato un momentaneo rifugio.

Si distinguevano abbastanza nettamente le prore di quattro canoe che
parevano assai più grosse di quella dei fuggiaschi e si vedevano anche
ad agitarsi delle forme umane quasi nude.

— Bella notte! — mormorò Diaz, — Prima i giaguari, ora i Tupy od i
Caheti! Come finirà?

— Li vedi? — chiese Rospo Enfiato.

— Non sono cieco.

— Vengono qui.

— Me ne sono accorto.

— Ci spiavano dalla foce del fiumicello. Tu non ti eri ingannato quando
hai udito quel fischio.

— Vorrei sapere chi sono.

— Tupinambi no di certo, — rispose l’indiano — I miei non devono essere
giunti sulle rive di questa savana.

— Allora sono Tupy.

— Od altri non meno pericolosi.

— Che cosa dobbiamo fare?

— Tenerci nascosti nella _canoa_, per ora, — disse l’indiano.

— Vorresti, in caso di pericolo, rifugiarti ancora a terra? La nostra
situazione non potrebbe allora diventare peggiore?

— È vero avremmo da misurarci anche coi giaguari.

— Trova qualche cosa d’altro.

— Lasciamoli sbarcare, poi filiamo a tutta forza di remi verso il sud.
L’alba non comparirà prima di due ore e protetti da questa oscurità
forse potremo sfuggire ancora ai nostri nemici.

Coricati presso di me e aspettiamo. —

Si sdraiarono sul fondo della _canoa_, appoggiando le _gravatane_ sulla
prora, decisi a far uso delle loro terribili freccie.

Le quattro scialuppe s’accostavano con precauzione, su una sola fronte,
mantenendo una distanza di trenta a quaranta passi l’una dall’altra.

Erano più lunghe e più larghe di quella montata dai fuggiaschi e ognuna
portava non meno di una dozzina di selvaggi.

Sulle panche si vedevano _gravatane_ e mazze da guerra.

— Chi sono? — chiese sottovoce Diaz.

— Tupy, — rispose Rospo Enfiato.

— Come mai quei cani si trovano qui?

— Ci hanno seguiti lungo il fiume senza che noi ce ne accorgessimo.

— Sono ben furbi quei bricconi.

— Vedremo se saranno capaci di prenderci.

— Non mi lascierò divorare senza aver prima consumate tutte le mie
freccie e ne ho almeno una quindicina.

— Ed io altrettanto, — rispose l’indiano.

Le _canoe_ erano giunte dinanzi ai paletuvieri, e si erano riunite,
ad una sessantina di passi dal luogo ove si trovavano nascosti i due
fuggiaschi.

— Sbarchiamo qui? — aveva domandato un indiano.

— Sì, — aveva risposto un altro che doveva essere il capo della
spedizione a giudicarlo dal diadema di penne di tucano che portava
sulla testa. — Devono aver preso terra su questo isolotto.

Dividiamoci in due drappelli e lasciate uno di noi a guardia delle
_canoe_. —

Legarono i legnetti ad un tronco d’un _paletuviero_, poi, passando di
ramo in ramo, i quaranta o cinquanta guerrieri scesero sull’isolotto.

— Preparerò loro un bel tiro, — mormorò Rospo Enfiato agli orecchi di
Diaz.

— Che cosa vuoi fare?

— Impedire loro di seguirci.

— In quale modo?

— Lo vedrai. —

L’indiano si era alzato scostando con infinite cautele i rami e le
foglie che coprivano la _canoa_.

I due drappelli, preceduti da alcuni uomini che portavano dei rami
resinosi accesi, stavano per scomparire fra le macchie.

— Eccoli lontani, — mormorò.

Prese una pagaia e tastò il fondo della savana.

— L’acqua è profonda assai, — disse. — Non sento le sabbie.

— Dimmi dunque che cosa vuoi fare? — chiese il marinaio un po’
impazientito.

— Vado a uccidere l’uomo che hanno lasciato a guardia delle _canoe_,
— rispose l’indiano. — Un soffio nella _gravatana_ e lo spaccio in un
attimo.

— A quale scopo? Se l’uomo riesce a mandare un grido i suoi compagni
accorreranno e li avremo tutti addosso.

— Non camminano sull’acqua.

— Non comprendo.

— Ucciso l’uomo affondo le _canoe_. Come potranno inseguirci poi?

— Sei più furbo di loro, tu.

— Aspettami, uomo bianco.

— E gli _jacarè_? Credi che non ve ne siano qui?

— Rospo Enfiato non li teme, — disse l’indiano levandosi dalla cintola,
un bastoncino lungo un piede ed aguzzo d’ambo le parti.

— È di _pao de fero_, — aggiunse. — Sai a che cosa serve. —

Si calò silenziosamente in acqua tenendo fra i denti la _gravatana_,
fece cenno a Diaz di non muoversi e si mise a nuotare lentamente
tenendosi sotto i rami arcuati delle piante da febbre.

Manovrava così agilmente da non produrre il più lieve rumore. Pareva,
anzichè nuotasse, che scivolasse sulle nere acque come un vero pesce.

Le quattro _canoe_, come abbiamo detto, si erano arrestate ad una
sessantina di passi.

Sulla più vicina si trovava l’indiano incaricato dì guardarle. Stava
seduto sulla prora, accanto ad un lungo ramo resinoso infisso in una
fessura del banco e s’appoggiava alla mazza da guerra.

Rospo Enfiato si era arrestato a quindici passi, fuori dal cerchio di
luce proiettato dai rami resinosi.

Con una mano s’aggrappò alla radice d’un paletuviero, accostò la
_gravatana_ alla bocca, mirò per qualche istante con grande attenzione,
poi si udì in aria un sibilo appena percettibile.

Il Tupy era balzato prontamente in piedi portando ambo le mani alla
gola. La terribile freccia gli si era conficcata, con matematica
precisione, nel pomo d’Adamo.

Strappò il cannello mandando un urlo rauco, poi s’abbassò cercando di
afferrare la mazza.

Ad un tratto però vacillò, alzò le braccia tentando di aggrapparsi a
qualche cosa, poi cadde nelle nere acque della savana sommersa con un
tonfo lugubre.

— Buono per gli _jacarè_, — mormorò Rospo Enfiato.

Si rimise la _gravatana_ fra i denti, raggiunse con poche bracciate
la prima _canoa_, si aggrappò al bordo e con una scossa la rovesciò,
lasciandola empirsi d’acqua.

Passò poi alle altre alle quali fece subire l’eguale sorte.

Quando furono scomparse sotto le tenebrose acque, il bravo indiano salì
sui rami d’un paletuviero e lanciò uno sguardo sulla riva.

I due drappelli non si scorgevano più.

— Non se ne sono accorti, — disse, gettandosi la _gravatana_
a bandoliera. — Ora possiamo andarcene senza temere che
c’inseguano. —

Si rituffò senza far rumore e nuotò verso il nascondiglio.

Già non distava che qualche decina di passi, quando un corpo rugoso lo
urtò rigettandolo da una parte.

Quasi nel medesimo istante un acuto odore di muschio si sparse sulla
superficie dell’acqua.

— Un _jacarè_! — esclamò, facendo rapidamente tre o quattro bracciate
per allontanarsi. — Che lo abbia svegliato? —

Si rovesciò sul dorso e si guardò intorno, tenendo nella destra quella
specie di pugnale di _pao de fero_ a due punte.

Un leggiero risucchio lo avvertì che il caimano lo aveva seguito
nuotando sott’acqua.

Riprese l’appiombo spingendo innanzi la mano. Con un grido avrebbe
potuto far accorrere in suo aiuto Diaz, ma non osò farlo per tema di
attirare l’attenzione dei selvaggi che si trovavano forse più vicini di
quanto supponeva.

Preferì far fronte al pericolo da solo. D’altronde non era la prima
volta che si provava a misurarsi con quei mostri acquatici e sapeva
come difendersi.

Non erano trascorsi cinque secondi che vide l’_jacarè_ rimontare alla
superficie.

Il rettile aveva aperte le sue formidabili mascelle, irte di denti
triangolari e acutissimi, e moveva verso la preda colla speranza di
tagliarla in due.

Rospo Enfiato non si era mosso. Agitava solamente le gambe per
mantenersi a galla e conservare la sua posizione orizzontale.

Con un ultimo slancio il rettile gli fu addosso. Pronto come un
lampo, l’indiano cacciò audacemente la mano armata del pugnale fra le
mascelle, in modo che le due punte si appoggiassero contemporaneamente
sulla lingua e sul palato.

Il mostro, credendo di stritolare il braccio, le aveva chiuse
precipitosamente.

Ad un tratto fece un balzo indietro mandando un soffio poderoso
accompagnato da un sordo muggito e si mise a dibattersi con furore
spaventevole.

Le due punte del _pao de fero_ gli si erano conficcate profondamente
nelle mascelle, senza poter più nè riaprirle, nè rinchiuderle. La sua
morte non era ormai che questione di minuti. L’asfissia non doveva
tardare a manifestarsi in causa dell’acqua che gli entrava già in gola.

Rospo Enfiato si era allontanato precipitosamente nuotando fra due
acque, per non ricevere qualche colpo di coda.

Descrisse un largo giro intorno al rettile che non cessava di
dibattersi, sollevando delle ondate e si cacciò sotto i paletuvieri
dove Diaz, udendo quei fragori che non riusciva a spiegarsi, lo
aspettava con angoscia.

— Partiamo subito, — disse l’indiano.

— Le _canoe_?

— Affondate.

— Ed il Tupy?

— Morto.

— Chi produce queste ondate?

— Un _jacarè_ che mi aveva assalito e che sta per spirare.

— Sei un valoroso. —

L’indiano sorrise e prese le pagaie, ripetendo:

— Partiamo subito.

— Non ci scorgeranno gli altri? — chiese Diaz.

— Si provino ad inseguirci ora che sono senza canotti. —

Lasciarono il loro rifugio e si spinsero fuori dalle piante, senza però
troppo allontanarsi dalla riva.

— Ci scosteremo quando avremo raggiunta la punta meridionale, — disse
l’indiano. — Queste piante ci nascondono e anche ci riparano dalle
frecce.

— Dove ci cercheranno?

— Certo fra le macchie.

— Non credevo che questa avventura finisse così bene.

— Andiamo, forza, uomo bianco. —

Continuarono ad avanzarsi radendo i paletuvieri e cercando di fare
meno rumore che era possibile, finchè raggiunsero felicemente la punta
estrema dell’isola.

L’avevano già superata oltrepassandola d’una cinquantina di metri,
quando udirono una voce a gridare:

— Là! Là! Eccoli che fuggono!

— Maledizione! — esclamò Diaz.

Alcune ombre umane si erano precipitate fuori da una macchia,
slanciandosi verso la riva.

— Abbassati! — gridò Rospo Enfiato, udendo sibilare in aria delle
freccie.

Il marinaio di Solis si era già gettato nel fondo del canotto, quando
udì parecchi tonfi.

— Ci assalgono a nuoto! — gridò.

— Ho la mazza, — rispose Rospo Enfiato.

— Afferra le pagaie!

— Le freccie volano e sono certo tinte nel _vulrali_. —

Diaz, a rischio di riceverne qualcuna alzò la testa riparandola dietro
la parte larga e piatta del remo che poteva, fino ad un certo punto,
servire da scudo e guardò verso la riva.

Otto o dieci indiani balzavano come se fossero indemoniati, lanciando
di quando in quando qualche freccia che si piantava sui bordi della
_canoa_ quantunque la distanza fosse già considerevole.

Altri sei o sette si erano gettati in acqua e nuotavano vigorosamente
per assalire l’imbarcazione.

Si servivano d’una sola mano poichè nell’altra tenevano le mazze.

— Ah! Canaglie! — gridò Diaz.

— Vengono? — chiese il Rospo.

— Sono a breve distanza.

— Fuggiamo! —

Afferrarono le pagaie e approfittando del momento in cui gl’indiani
rimasti sulla riva s’aprivano un varco fra i paletuvieri per
diminuire la distanza e rendere più efficaci i tiri delle frecce, si
allontanarono d’una trentina di passi, distanza sufficiente per essere
fuori di portata.

Tre Tupy però, più lesti degli altri, li avevano seguiti da vicino,
anzi uno con un ultimo slancio aveva posata una mano sulla poppa
tentando di issarsi nella _canoa_. Diaz che lo aveva veduto, afferrò la
mazza del compagno e gli assestò sul cranio un tale colpo da cacciarlo
sott’acqua per sempre.

Nel medesimo tempo il Rospo lanciava una freccia contro il secondo,
colpendolo in mezzo al petto.

Il terzo, spaventato, s’immerse, imitato tosto anche dagli altri che si
trovavano più lontani.

— Voga! Voga! — gridò il marinaio, — Ora non ci prendono più! —

Senza occuparsi delle urla furibonde degl’indiani rimasti a terra e
che avevano assistito, senza nulla poter fare, alla sconfitta dei loro
compagni, diedero dentro ai remi allontanandosi velocemente verso il
sud-est.

Cominciava allora a spuntare l’alba. Le tenebre si diradavano
rapidamente ed il cielo si tingeva d’un rosso vivissimo, annunciando
l’imminente comparsa del sole.

Le acque della savana sommersa, poco prima nere come l’inchiostro,
cominciavano a scintillare con striature d’oro, mentre la brezza
mattutina le increspava lievemente.

La _canoa_, sotto la spinta delle due pagaie, volava sulla superficie
della immensa laguna, lasciandosi a poppa una bianca scìa.

Gli uccelli acquatici cominciavano a risvegliarsi, alzandosi
rumorosamente dagli isolotti e dai banchi pantanosi e salutando con
grida gioconde il ritorno del sole.

— Rospo Enfiato, — disse il marinaio di Solis. — Siamo sulla buona via?

— Non temere, uomo bianco, — rispose l’indiano.

— Verremo ancora inseguiti?

— Con quali scialuppe? Le ho affondate tutte.

— Che lo spirito malvagio si porti nella notte eterna quei Tupy.

— Taci e voga. Siamo ancora lontani ed i tuoi compagni sono
forse in pericolo. Ogni colpo di remo aumenterà la probabilità di
salvarli. —

Rospo Enfiato che conosceva la savana e che sapeva orientarsi senza
difficoltà, mise la prora della _canoa_ verso il sud, arrancando con
gran lena.

A mezzodì giungevano all’estremità meridionale della savana, di fronte
ad un secondo fiume, più largo del primo, che pareva scendesse da
levante.

Si riposarono qualche ora mangiando qualche frutto raccolto sugli
alberi che coprivano le rive, quindi imboccarono il fiume salendo
contro-corrente.

Anche Diaz cominciava a riconoscere quei luoghi che aveva percorsi per
lunghi anni. Si trovavano sul territorio dei Tupinambi, territorio che
egli non aveva creduto si trovasse così vicino avendo perduto, nelle
sue lunghe fughe attraverso le foreste, ogni direzione.

Verso sera la _canoa_ giungeva dinanzi ad un grosso villaggio formato
da parecchie centinaia di _carbets_ vastissimi, capaci di contenere
ognuno venti famiglie. Era la grande _aldèe_ di Tulipa, la più grossa
che possedevano i Tupinambi, capace di mettere in arme non meno di
cinquecento guerrieri.

In quell’epoca i Tupinambi erano ancora potentissimi ed estendevano il
loro territorio fino sulle rive dell’oceano, là dove oggidì sorge la
città di Bahia.

Avevano numerosi villaggi ben popolati e godevano fama di essere
valorosissimi. Ed infatti il loro nome equivaleva a quello di bravi e
valenti, e veramente lo erano, essendo quasi sempre in guerra con tutte
le tribù vicine, specialmente coi Tupy, loro secolari nemici.

La improvvisa emigrazione dei ferocissimi Eimuri, calati nelle selve a
turbe immense, dopo sanguinosissimi combattimenti e lunghe resistenze,
li aveva costretti ad abbandonare le loro _aldèe_ e cercare un rifugio
momentaneo nelle foreste.

Passata però quella tremenda burrasca che aveva travolte un gran
numero di tribù meno resistenti, a poco a poco erano ritornati ai
loro villaggi riedificando quelli che erano stati distrutti, ma erano
tornati ben decimati dai lunghi combattimenti e per di più senza capo,
preso, ferito e divorato dagli Eimuri.

Si può immaginare lo stupore degli abitanti e anche la loro gioia nel
veder sbarcare dinanzi all’_aldèe_ il gran _pyaie_ bianco che era il
personaggio più importante della tribù dopo il capo e che avevano ormai
creduto morto.

Il marinaio, durante i lunghi anni che era vissuto fra quei fieri
selvaggi, aveva saputo acquistarsi la loro stima, insegnando a loro
molte cose utilissime.

Fu quindi con una vera esplosione di gioia che venne ricevuto dai
sotto-capi e dalla popolazione. Fu collocato in un palanchino e
trasportato nella sua abitazione, una casetta di stile spagnuolo che
faceva bella pompa in mezzo all’_aldèe_.

Diaz, che pensava sempre con angoscia ad Alvaro, fece radunare i
sotto-capi ed i vecchi della tribù ed espose senz’altro il motivo che
lo aveva indotto a tornare precipitosamente assieme a Rospo Enfiato.

Con suo stupore s’accorse subito che _Caramurà_ non era sconosciuto
ai Tupinambi. Tutti avevano udito a parlare di quel terribile _Uomo di
fuoco_ possessore del fuoco celeste che tuonava e fulminava; anche le
tribù loro alleate che abitavano al nord del territorio. Il desiderio
di poter avere un _pyaie_ così potente, così invincibile, fece subito
breccia nel cuore dei sotto-capi e dei vecchi.

Coll’_Uomo di fuoco_ i Tupinambi acquistavano una forza straordinaria e
dovevano diventare invincibili.

La spedizione fu subito decisa, tanto più che si trattava di dare un
colpo mortale alla potenza dei Tupy, quegli insaziabili divoratori di
carne umana che tanto male facevano alla tribù.

La stessa sera, quaranta grosse _canoe_, montate da cinquecento
guerrieri armati di mazze, di scuri di selce, di archi e di gravatane
e ben forniti di frecce tinte nel _vulrali_, lasciavano il villaggio
scendendo rapidamente il fiume.

Diaz ne aveva assunto il comando, innalzando Rospo Enfiato alla carica
di aiutante di campo. Non fu che l’indomani sera che la flottiglia
giunse nel secondo fiume, là dove il marinaio ed il Rospo avevano
tratta a galla la _canoa_.

Lasciarono cinquanta uomini a guardia delle scialuppe, poi il
grosso, sotto la guida del Rospo, si spinse attraverso le foreste per
sorprendere l’_aldèe_ dei Tupy.

Erano già giunti presso i margini dei grandi boschi, quando Diaz che
marciava alla testa della spedizione assieme ai sotto-capi, udì in
lontananza a rimbombare degli spari.

— È Alvaro, l’_Uomo di fuoco_! — gridò al Rospo. — Si difende ancora!
Di corsa e armi in mano.

Attraverso le fronde si vedeva un intenso chiarore che rapidamente
aumentava e saliva in aria una nuvola di fumo coi margini rosseggianti.

Urla acute si alzavano nel villaggio dei Tupy miste a spari. Era
il momento in cui Alvaro stava abbandonando il _carbet_ ormai
fiammeggiante.

Diaz, col cuore stretto da una profonda angoscia, incoraggiava i
Tupinambi ad affrettarsi.

Correvano come cervi, colle mazze in pugno, anelanti di carneficina,
assetati di sangue. Il nemico secolare era là e stava forse per
opprimere quel terribile _Uomo di fuoco_, quel semi-dio che possedeva
la folgore celeste.

Attraversano la pianura con slancio irresistibile e piombano sulle
porte delle cinte, non più guardate dai Tupy, che si sono tutti
rovesciati sulla piazza dell’_aldèe_, per opprimere i _pyaie_ dalla
pelle bianca che hanno ucciso il capo della tribù.

Le porte, fracassate, scardinate dalle pesanti mazze dei Tupinambi
cadono sfasciate e Diaz alla testa delle prime squadre irrompe
attraverso i _carbets_ fra un urlìo furioso ed incessante.

L’assalto è così improvviso e così rapido, che quando i Tupy
s’accorgono della presenza dei loro avversarii, questi sono già entrati
nel villaggio.

Un combattimento furioso s’impegna nelle viuzze dell’_aldèe_. I Tupy
accorrono da tutte le parti in difesa dei loro _carbets_, travolgendo
le donne ed i fanciulli fuggenti, mentre altri tengono testa all’_Uomo
di fuoco_ ed al mozzo che sparano all’impazzata presso la capanna
fiammeggiante.

Da tutte le parti si combatte a colpi di mazza e di scure fra un
fracasso infernale. I Tupy, quantunque inferiori di numero e già
demoralizzati dalle fucilate dell’_Uomo di fuoco_, si difendono
coll’energia che infonde la disperazione; ma perdono terreno, dinanzi
agli attacchi fulminei dei Tupinambi.

Diaz che ha udito le fucilate rimbombare sulla piazza, raccoglie un
pugno di valorosi e con Rospo Enfiato si slancia in quella direzione
dove il _carbet_ dei prigionieri fiammeggia sempre come una torcia
colossale spandendo intorno bagliori sanguigni.

Sfondano le linee dei Tupy già sconnesse e si scagliano verso
l’_aldèe_, tutto rovesciando sul loro passaggio.

Un uomo, con a fianco un ragazzo, spara fra i vortici di fumo ed i
tizzoni infiammati che cadono da tutte le parti.

— Alvaro! — urla Diaz. — I Tupinambi! —

Il signor Viana, nero di fumo e di polvere, lascia cadere l’archibugio
e si getta nelle braccia di Diaz.

In quel momento una freccia colpisce il marinaio in un fianco.

— Sono morto! — grida. — Il _vulrali_! —

Si strappa rabbiosamente la freccia, ma cade subito fra le braccia del
portoghese e di Rospo Enfiato.

— Mio povero amico! — esclamò Alvaro colle lagrime agli occhi.

Il marinaio fece un gesto d’addio, poi mormorò:

— I sotto-capi! A me! _Caramurà!_ —

I Tupinambi giungevano da tutte le parti. I Tupy, completamente
sconfitti avevano già evacuato il villaggio fuggendo nei boschi vicini.

Un grido di furore era sfuggito da tutti i petti vedendo il gran
_pyaie_ della tribù a terra. Il disgraziato aveva alle labbra una
schiuma sanguigna e guardava Alvaro cogli occhi semi-spenti.

Colla mano fece cenno ai sotto-capi di accostarsi e additando Alvaro
che piangeva come un fanciullo al suo fianco.

— L’Uomo di fuoco, — balbettò. — Il capo dei Tupinambi...
l’invincibile. —

Prese le mani d’Alvaro e di Garcia e cercò di sorridere un’ultima volta.

— Addio, — mormorò con voce appena distinta. — Il _vulrali_ non
perdona. —

Cercò di rialzarsi poi d’un tratto ricadde.

Diaz, il gran _pyaie_ dalla pelle bianca, era morto!



Conclusione.


Dieci giorni dopo _Caramurà_ veniva nominato gran capo dei Tupinambi e
fondava un nuovo villaggio all’estremità della baia di Reconcavo, nel
luogo ove sorge la città di Bahia.

Per lunghi anni rimase fra i selvaggi che avevano imparato ad
apprezzarlo grandemente, difendendoli contro gli assalti di tutte le
tribù indiane e rendendosi temuto in tutto il Brasile meridionale.

Sposo di parecchie figlie di capi celebri, aveva già fondata una
numerosa famiglia e si era rassegnato a terminare i suoi giorni fra le
foreste del Brasile, quando un giorno una nave normanna andò a gettare
l’àncora nella baia di Reconcavo.

Il desiderio di rivedere il suo paese e gli uomini della sua razza era
diventato tale, che non potè rifiutare le offerte fattegli dal capitano
di ricondurlo in Europa.

Dopo aver promesso solennemente alle sue orde di tornare un giorno,
s’imbarcò conducendo con se Paraguazu, la preferita delle sue mogli,
non osando mostrarsi fra i suoi con una famiglia così numerosa.

Si narra che le altre mogli, vedendolo abbandonare la costa del
Brasile, si gettarono in acqua supplicandolo di condurle con loro e che
parecchie preferirono annegarsi piuttosto che dimenticare l’_Uomo di
fuoco_ che tutti riguardavano come un semi-dio.

Il normanno però, invece di sbarcarlo a Lisbona, come era stato
pattuito, lo condusse in Normandia, mandandolo alla corte di Francia
dove Paraguazu, la bella brasiliana, fece furore e fu accolta con
grandi onori da Enrico II e da Caterina de’ Medici.

Fu anzi battezzata ed ebbe per padrini il re e la regina che la
colmarono di regali.

Se tutte quelle cose lusingavano l’amor proprio di _Caramurà_, sopra
tutto però gli stava a cuore il desiderio di tornare in patria, ciò
che invece non garbava ai reali di Francia i quali avevano formato il
progetto di valersi di lui per tentare la conquista del Brasile.

Trovato però il modo d’informare il re Giovanni del Portogallo e
accordatosi con un ricco armatore francese, riusciva alcuni mesi dopo a
lasciare di soppiatto la corte e fuggirsene a Lisbona.

Qualche anno dopo _Caramurà_, che non aveva dimenticata la sua
tribù e che non voleva mancare alla promessa fatta, s’imbarcava alla
volta del Brasile guidando una grossa spedizione armata da Francesco
Pereira Coutinho a cui il re Giovanni aveva concesso in feudo la vasta
provincia marittima compresa fra il fiume S. Francesco e la Punta
Padram di Bahia.

Era però quel Coutinho un avventuriero senza scrupoli che essendo stato
molti anni nelle Indie orientali, aveva contratto l’orgoglio della
prepotenza e la crudeltà del conquistatore.

Sbarcato nel Brasile invece di seguire i consigli di Caramurà, aveva
cominciato a incrudelire contro gli stessi Tupinambi, senza pensare che
quegli indiani erano i più formidabili guerrieri del Brasile.

Che più? Spinse la sua audacia fino ad arrestare l’_Uomo di fuoco_ e
tradurlo prigioniero su una nave, per fare dispetto ai selvaggi.

Invece si sparse la voce che _Caramurà_ era stato assassinato.

Paraguazu, la bella brasiliana, arma i suoi sudditi ed invoca anche il
soccorso dei Tamoie, altri formidabili guerrieri.

I brasiliani mettono tutto il paese a ferro ed a fuoco. Bruciano i
villaggi portoghesi e le fabbriche di zucchero, trucidano i coloni
e lo stesso figlio di Coutinho e dovunque fanno fronte, con rara
intrepidezza agli avventurieri europei.

Quella guerra durò parecchi anni finchè Coutinho, disperando ormai di
vincerli e perdute tutte le fortezze si vide costretto a salvarsi sulla
nave e fuggire vergognosamente nella vicina capitaneria d’Os-Ilhèos
che cominciava già a prosperare sotto la saggia amministrazione del
portoghese Figuredo.

Aveva però condotto con se Alvaro. Fosse l’influenza di quell’uomo,
fosse il desiderio di vivere in pace dopo tanta guerra, fra gli
emissari di Coutinho ed alcuni capi dei Tupinambi fu fatto un accordo
il quale doveva conciliare l’interesse dei due popoli.

Già stavano per sottoscrivere il trattato, quando l’irascibile Coutinho
avendo ricevuto rinforzi, ruppe le trattative e veleggiò nuovamente
verso Bahia per punire i Tupinambi.

Aveva già imboccata la baia quando una orribile tempesta lo sorprese e
la sua nave si ruppe sulle scogliere di Itaporica.

I Tupinambi che sapevano esservi a bordo _Caramurà_ si armano, salgono
sulle loro piroghe e assaltano la nave dell’ammiraglio e le altre
caravelle.

Coutinho cade sotto le loro mazze ed il suo tronco, privo della testa,
viene portato in trionfo ed i portoghesi caduti vivi nelle mani di quei
fieri e vendicativi selvaggi vengono divorati per celebrare la vittoria
non ostante la presenza di _Caramurà_.

Fu quella l’ultima battaglia.

Alvaro ritornato capo dalle orde dei Tupinambi, non tardò a riprendere
coi suoi compatriotti buone relazioni che non furono mai rotte, nemmeno
all’arrivo della grande spedizione capitanata da Tommaso de Souza che
fu, si può dire, il più grande colonizzatore del Brasile.

_Caramurà_ si spense assai vecchio, lasciando un gran numero di
figli e le famiglie più cospicue di Bahia anche oggi vanno superbe di
discendere da quel fortunato avventuriero.


  FINE



INDICE


  CAP.

       I.  Sulle coste del Brasile                    3
      II.  Gli antropofagi                           11
     III.  L’assalto degli antropofagi               24
      IV.  Alla costa                                36
       V.  Nelle foreste brasiliane                  51
      VI.  Il giboia delle paludi                    62
     VII.  L’assalto del «jacarè»                    74
    VIII.  La zattera vivente                        84
      IX.  Assediato dai pecari                      94
       X.  Un dramma nella foresta                  104
      XI.  Nella foresta vergine                    116
     XII.  Il marinaio di Solis                     123
    XIII.  Gli Eimuri                               132
     XIV.  La caccia agli uomini bianchi            138
      XV.  Le anguille tremanti                     143
     XVI.  Una sorpresa dei selvaggi                153
    XVII.  La savana sommersa                       163
   XVIII.  I _Pyaie_ bianchi                        172
     XIX.  Le vittime della guerra                  182
      XX.  L’Uomo di fuoco                          190
     XXI.  La fuga                                  199
    XXII.  Ancora il marinaio di Solis              208
   XXIII.  Ritorno alla Savana                      218
    XXIV.  L’isolotto                               227
     XXV.  Un combattimento fra antropofagi         234
    XXVI.  La scomparsa del mozzo                   246
   XXVII.  Rospo Enfiato                            259
  XXVIII.  L’aldèe dei Tupy                         271
    XXIX.  Assediati nel carbet dei prigionieri     287
     XXX.  Fra il fuoco e le freccie                298
    XXXI.  La ritirata di Diaz                      309
   XXXII.  L’assalto dei Tupinambi                  319
           Conclusione                              331



NOTE:


[1] Era la baia di Reconcavo, una dalle più belle dell’America del sud
e dove più tardi sorgeva Bahia, una delle più ricche città del Brasile.

[2] Le più cospicue famiglie brasiliane di Bahia, si vantano di
discendere da questo audace e fortunato avventuriero.

[3] Quell’isola si chiama oggi Staporica.

[4] In quella pericolosissima caccia, che certo nessun marinaio
o pescatore europeo oserebbe tentare, erano specialmente famosi
gl’indiani delle tribù dei Guaitacazi.

[5] Baia di Rio Janeiro.

[6] I gimnoti.

[7] È il più grosso dei roditori conosciuti.

[8] Orso formichiere.

[9] Anche oggidì nel Brasile si fa un gran consumo di tali formiche e
anche gli europei le trovano squisite, superiori ai gamberetti.

[10] Gl’indiani sono convinti che se i tuberi non sono masticati dalle
vecchie, il _taroba_ perderebbe le sue proprietà.

[11] Villaggio.

[12] I brasiliani lo chiamano _Beco do piè_ bestia del piede.

[13] Duecento anni più tardi e precisamente nel 1727 si scoprivano nel
Brasile le prime famose miniere di diamanti.



Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici. Il ritratto dell'autore,
menzionato nel frontespizio, non è presente nelle scansioni originali
da cui è stato trascritto il libro.



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