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Title: Sorrisi di gioventù : Ricordi e note Author: Barrili, Anton Giulio Language: Italian As this book started as an ASCII text book there are no pictures available. *** Start of this LibraryBlog Digital Book "Sorrisi di gioventù : Ricordi e note" *** SORRISI DI GIOVENTÙ RICORDI E NOTE DI ANTON GIULIO BARRILI MILANO FRATELLI TREVES, EDITORI 1912 Nuova edizione economica. PROPRIETÀ LETTERARIA. _I diritti di riproduzione e di traduzione sono riservati per tutti i paesi, compresi la Svezia, la Norvegia e l’Olanda._ Milano. — Tip. Treves. PREFAZIO. _Se avete viaggiato molto in istrada ferrata, amici lettori, questo libro è per voi. Entrando in una vettura di prima (mi figuro almeno che sia questa la vostra classe preferita) sicuramente non avete potuto scegliere i vostri compagni di viaggio. Il ministro anglicano con le figliuole bionde, il vescovo francese col suo segretario_ ad latus, _il grosso banchiere dalla faccia rasa e contenta, il triste merlo spennacchiato reduce da Montecarlo, il vecchio bellimbusto ripicchiato che va a cercar salute e conquiste a Vichy, i due sposini che fanno vendetta di voi, terzo incomodo, dandovi lo spettacolo di star due ore stringendosi per mano (gran prova di costanza, che per solito non dura oltre il viaggio di nozze), tutti costoro, ed altri che ommetto per brevità, vi sono stati dati compagni dal caso. Padrone di scegliere, non avreste voluto nessuno in carrozza; obbligato a goderveli tutti, fate a mala fortuna buon viso, mettete il pioppino sulla rete, accanto alla valigetta, calzate in testa il vostro berretto di seta, che auguro non abbia a vestire una palla di biliardo; aprite un giornale, e leggete quel che vi càpita sott’occhio; anche qui servitori umilissimi del casa, che tende, intreccia, e qualche volta imbroglia le fila._ _Così sono, così vengono, portati dal caso i ricordi, questi compagni di viaggio della vita vissuta. Siete partiti di qua, piuttosto che di là, senza averne merito, o colpa: vostro padre era in sua gioventù nel tal luogo, dove incontrò la donna che doveva esservi madre: siete nati di qua per una ragione, siete andati di là per un’altra: la rete adriatica o mediterranea della vita vi ha presi, vi ha sballottati nel suo treno misto, introdotti nelle gallerie, librati sui viadotti, rallentati sui passaggi a livello, trattenuti agli scambi, addormentati sui binarii morti. Per temperamento o per affari, per divertimento o per seccatura, per amore o per forza, avete corsa la vostra parte di mondo anche voi, tristi o lieti, accesi di desiderio, illuminati di speranza, soffocati di rabbia, abbeverati di fiele. E spesso, di tante cose belle o non belle, vi torna in mente il ricordo. Son dolorosi, i ricordi? Sì, qualche volta; ma di un dolore sordo, lontano, attutito, trasformato, quasi piacevole, se riesce a spremervi dagli occhi una lagrima artistica. Acqua passata non màcina; le immagini dei tempi trascorsi son grate, come attraverso le pagine di un libro hanno buon odore anche i morti. Pensate ai giorni vissuti, che non avete più da faticare per viverli; richiamate le vecchie pene, che non vi fan più soffrire, le gioie antiche, sempre nuove all’aspetto, che vi recano perfino la sensazione di svanite fragranze. Sono i sorrisi della vostra gioventù, senza le lagrime. Vi annoiano? Sarebbe da ingrati; ma io non ci ho che vedere: voi potete liberarvene ad ogni modo, richiudendo il libro della memoria, e provando a dormire._ _Così, come il vostro libro, all’ora fatale della noia, potete richiudere il mio. Apritelo, intanto: anch’io l’ho scritto, come voi avete meditato il vostro, toccando qua e là, come portava il caso e l’umore. Statemi sani._ _Villa Maura, 16 luglio 1898._ L’AUTORE. Figure femminili. All’alba dei miei ricordi, bella, rosea, bionda immagine di costante giovinezza, arride la mia nonna dolce. Dico la nonna da parte di padre; che l’altra non l’ho conosciuta, essendo ella morta prima ch’io venissi alla luce. Intorno al quale evento modesto sarà bene che io dica qui il mio pensiero una volta per tutte. È stata una buona cosa il capitare da queste parti, per le belle curiosità che il mio spirito ha potuto appagare, per le utili lezioni che il mio intelletto ha potuto ricevere, e per la calma serena con cui l’anima mia è disposta a vedere un altro pianeta, ora che è stata sufficientemente istruita di questo. Io sono dunque riconoscente del dono, quantunque non ne abbia fatto il miglior uso del mondo; specie negli anni più giovani. Ma questo succede il più delle volte dei doni ottenuti, che subito lavoriamo a sciuparli, per la inconcepibile manìa del vederci dentro. Ma queste sono inezie, da non guastarcisi più il sangue, oramai. Non solamente son grato al babbo e alla mamma, che mi han fatto quel dono; ma ancora alla nonna, che me ne ha confermato il possesso, in un brutto quarto d’ora, e me ne ha reso il godimento più ameno. Com’era buona, la nonna! Babbo e mamma mi sgridavano qualche volta; lei non mi sgridava mai, me le passava tutte, non riuscendo con quelle care luminose pupille azzurrine a farmi gli occhiacci. Mamma e babbo mi stavano sempre addosso per farmi studiare; lei non mi pose mai un libro tra le mani. Provvida, forse! Ma fors’anche è da credere che non lo facesse lei, perchè a questo ci pensavano gli altri. A buon conto, poichè da bambino dormivo nella sua camera bella, era lei che mi faceva ogni mattina star su di buon’ora. Ma questo lo faceva con una frottola in versi, mezzo italiani e mezzo genovesi; ond’io, per virtù sua, incominciavo sempre le mie giornate ridendo. L’amavo molto, vi ho detto, anzi, per confessarvi ogni cosa, l’amavo sul principio anche più della mamma. Ancora non sapevo che il dar vita costasse dolori. Per sentito dire, io ero venuto dall’India e stato ritrovato al piè d’un olivo: gran fatica, farmi prendere in collo da una levatrice e portare a casa per erede del trono! Sapevo invece che un anno dopo il mio arrivo dall’India, la mia piccola vita era stata in pericolo grande, e che dal pericolo mi aveva scampato la nonna. Questo si ricordava ad ogni tanto in famiglia; ed era anzi questa la ragione per cui la mia mamma lasciava correre spesso e volentieri qualche parola acerba della nonna. Si sa, nelle famiglie, tra suocera e nuora tempesta e gragnuola; ma in casa nostra non erano altro che scosse di pioggia; le nubi, così facili a sorgere sull’orizzonte domestico, erano ancor più facilmente dissipate dal grato episodio della mia salvazione miracolosa. Sicuro, accanto al sostantivo c’era sempre l’epiteto. Figuratevi, ero stato messo a balia, contrariamente ai precetti di Gian Giacomo; e mi avevano mandato a vivere nell’alta valle di Albisola, un po’ più su del convento della Pace, in una casa colonica detta la Vedrera, piantata assai pittorescamente, ma non troppo saldamente, tra la via della Stella e il torrente Riobasco. La mia balia era bellissima, per quanto ne ho udito dire più tardi (allora, per ragioni facili ad intendersi, ad onta di tutta la confidenza che ci avevo, non feci attenzione alla cosa); ma era anche giovanissima, e sbadata parecchio. Mi trascurava, a quanto pare, lasciandomi solo per ore ed ore di seguito, a strillare in una cesta da cavoli; per giunta, dopo qualche mese di pensione, prese a darmi il latte cattivo. La nonna capitava spesso lassù; da principio per sincerarsi che non pericolasse la casa, così fuor di squadra come era; poi per vedere se fossi ben governato. Una volta, giungendo fuor d’ora, mi aveva trovato solo a strillare; e la balia, tutta confusa, quando, finalmente arrivò, aveva balbettata una scusa. Ma di questi casi ne seguirono parecchi; e le scuse, sempre tutte d’un colore, contentavano poco la nonna. S’aggiunse il latte cattivo; ma di questo non si sospettò a tutta prima, attribuendosi il mio deperimento a tante piccole cause passeggiere, ora al caldo, ora ai bachi, ora allo sforzo del primo dente. Per altro, il primo dente non accennava a spuntare; non potevo avere i bachi ogni settimana; il mio sfiorire così a vista d’occhio non poteva essere effetto del caldo. La nonna ebbe presto un sospetto del vero, e corse tosto agli estremi rimedii; capitò una mattina con la vettura fino all’ingresso della Vedrera; mi fece prendere in collo dalla balia, e mi portò di volo a Savona, nella nostra villetta del Bricco, sulla rocca di Lègino, consegnandomi al seno meglio provveduto di una nostra massaia; donna matura, che aveva avuta una tarda ripresa di maternità, e che, svezzato di quei giorni il suo ultimo rampollo, aveva ancor latte per un succedaneo. Passavo da una ventenne a una quadragenaria; tanto per cambiare, ma anche per cavar profitto di una differenza che non pensavo a studiare, Lauretta Sambarino, che tale era il nome della mia nuova balia, lavorò di buzzo buono a ristorarmi; e prima di tutto mi fece rialzare la testa, una gran testa, Dio santo! che già cominciava a spenzolare come un fico brogiotto quando è maturo, e il picciuolo vizzo non basta più a reggerlo. Ma essa non mi rimise in gambe egualmente; anche levato da balia e ricondotto in città, ne strascicavo una, toccando terra con la noce del piede; tanto che si temette non avessi a restarne storpio per tutta la vita. Sia lode al cielo, che non si è avverato il presagio, e respirino le ombre di lord Byron e di Walter Scott. Ma c’è scattato di poco, che quei due zoppi non avessero un famoso rivale. Questi sono ricordi, per così dire, di mattonella. I miei proprii, quelli che mi dànno la sensazione della cosa veduta, sono dell’età di due anni e mezzo. Mi ricordo ancor oggi, come ero allora, sul lastrico della piazza del Duomo, tenuto per le falde di una buona donna, chiamata Angelina, il cui nome, e più il vezzeggiativo, si adattava male alla sua gran mole carnosa. Era alta come un corazziere, e stentava a piegarsi nella vita; grossa, tonda di fianchi come un’orca olandese; e si dondolava sulle anche, facendomi muovere davanti a sè, come un povero burattino dalle gambe cedevoli. Ma aveva un bel sorriso, quella barcaccia di donna; ed anche una bella voce, di buon metallo, non estesa di registro, ma pastosa e flessibile, quasi lisciata, inumidita da quell’ammasso di sugna ond’era costretta ad uscire, e in cui mi pareva sempre di affondare, quando ero stanco di ciampicare e l’orca olandese m’issava benignamente in coperta. Davanti a me, camminando a ritroso come i gamberi, per invitarmi al passo, era sempre una fanciullina di quattro o cinque anni. La conoscevo per Gigina, ed era invece Filippina. In casa nostra la chiamavano anche «la figlia della Graziosa» perchè questo era infatti il nome della madre, moglie ad un tal Giribone, cuoco, o maestro di casa che fosse, certamente _factotum_ dei signori Multedo, gente nobile e ricca di Savona. Gigina, anzi «Gigin Patata Poton» come la grossa bambinaia m’insegnava a dire, per aiutarmi a rincorrerla, era bionda, gentile, gracilina a quel modo, ma ritta se Dio vuole; io mezzo storpio, e in procinto di rimaner tale per tutta la vita. Capricci della sorte! io mi raddrizzai, rincorrendola; ella si raggrinzò, crebbe a stento rachitica, e qualche anno più tardi, morti i parenti suoi, mentre io facevo le capriole sulle rive del Paglione, a Nizza, dove i miei erano andati a metter dimora, fu ricoverata tra i Madonnini. Così chiamano a Savona i poverelli, ricoverati nell’ospizio della Madonna, attiguo al santuario suburbano di Nostra Donna della Misericordia. Anche lontano, e nell’età in cui più facilmente si dimentica, ebbi sempre la buona Filippina nell’anima. All’età di cinque anni, o poco meno, ritornato con la famiglia a Savona, chiedevo ancora di «Gigin Patata Poton». Quando mi dissero che era stata messa tra i Madonnini, non capii nulla; ma istintivamente piansi molto, tanto che fu necessario condurmi a vederla. Abitava in un bel palazzone, sopra una gran piazza alberata, la mia buona Filippina; e l’ingresso del portone era fiancheggiato da statue di gran personaggi, che gettavano monete a bizzeffe, avendone dei mucchi da’ piedi, che si potevano toccare con mano, ma non altrimenti levar di là per metterle in tasca. L’ingresso, il vestibolo, lo scalone, tutte le bellezze monumentali del palazzo, mi diedero un’idea maravigliosa dell’alloggio di Filippina. Ed anche lei, quando la vidi, mi parve contenta. Povera piccina! lavorava di cucito, come avrebbe fatto a casa sua; ma anche mangiava e dormiva alle sue ore, come a casa sua non avrebbe potuto più fare. Vestita di bordato turchino, con un grembiulino bianco, mi parve che stesse anche bene. E così la vedevo ogni anno, nelle grandi solennità, come quella del Corpus Domini, quando i Madonnini, uomini e donne, vecchi e giovani, venivano in processione a Savona. Bella festa, con quei parati di damasco rosso e verde a tutte le finestre, con quei nembi di fiori di ginestra che cadevano a far tappeto lungo le strade, con gl’incensi che fumavano, con la musica che suonava, seguitando il Santissimo! Ma io avevo occhi soltanto per i miei Madonnini, e tra essi non distinguevo altro che Filippina. Tre, quattro volte, quante ne permettevano i giri lunghi della processione, ora da un crocicchio, ora da un altro, vedevo passar Filippina: e tutte le volte, vedendomi, Filippina mi sorrideva, facendosi rossa. Perchè quel sorriso m’inteneriva, destandomi dentro una gran voglia di piangere? Non lo intendevo, allora; non conoscevo ancora il segreto del riso malinconico, del riso che nasconde le lagrime. Più facilmente notavo il color di fiamma che le tingeva le guance, rendendo più bello il suo visino smunto. Sicuramente, quelle vampate di sangue erano le uniche di cui si rifiorisse un poco, durante l’anno, il suo involucro di cera. Poi venne per lei l’età giovanile, quando la fanciulla incomincia a sentirsi donna. A quell’età il povero involucro di cera si disfece; Filippina morì. Povera bambina, che della vita ha conosciuto solamente il dolore! Ma se Dio è giusto, quella povera carne gli sarà molto vicina, perchè ha molto sofferto. Per me, se mi avverrà mai di andare lassù, e di trovarmi faccia a faccia con quello che i nostri dotti nei loro momenti di bontà si degnano di chiamare l’Inconoscibile, gli domanderò per la prima cosa: — Padre nostro, dov’è Filippina? — Ritorno alla nonna. Ero il suo nipotino; mi aveva salvata la vita: naturalissimo adunque che io fossi due volte il suo idolo. Veramente, nella sua idolatria non mancava un po’ di amarezza. A quattro anni, o giù di lì, non avevo più i bei capelli biondi ricciuti, che erano la sua delizia. E se la prendeva spesso con mia madre, con le serve, con tutte le persone di casa, che accusava formalmente di avermi rovinati i capelli con l’unto, facendoli diventar neri e stecchiti. Aveva delle idee tutte sue, in materia di chimica. «Ed era nato coi capelli d’oro come i miei!» gridava ella, stizzita. «Vedete un po’ come me l’hanno assassinato!» La nonna si teneva molto dei suoi capelli d’oro. Quando io giunsi dall’India, ella aveva già cinquantanove anni, ed io me la ricordo appena dai sessantadue in giù; ma io la vidi sempre coi suoi bei capelli dorati, coi riflessi di zecchino, come quelli delle dame del Cinquecento, eternati dai pennelli di Tiziano e di Paris Bordone. Ed erano suoi, ben suoi, quantunque posticci; poichè il suo frontino, fatto di due larghe staffe, spartite nel mezzo e rigirate sopra gli orecchi, era tutto di capelli nati sulla sua testa, raccolti diligentemente a mano a mano che restavano impigliati nel pettine, e messi insieme da un parrucchiere artista. Quel frontino poteva dirsi il suo richiamo di gioventù, del tempo felice in cui era stata bellissima. Ed era ancor bella in vecchiaia, colla sua faccia ovale di perfetti contorni; la fronte bianca senza una ruga, sotto quelle due staffe dorate; il naso diritto e fine; stupenda la bocca vermiglia, che non aveva ancor l’aria di succhiarsi le labbra, quantunque i denti fossero andati via tutti; rosea la carnagione, quasi perlata nei suoi dolci riflessi; gli occhi azzurri e limpidi, che brillavano lietamente ad ogni sorriso del volto. A ottant’anni, la sue mani, le braccia, le spalle, apparivano ancora una maraviglia di conservazione. Era nata dei Bosco; una famiglia genovese, forse discesa da Bosco Marengo, certamente illustrata nel Quattrocento da quel Bartolomeo Bosco, famoso giureconsulto, che le sue molte ricchezze aveva lasciate per testamento alla fondazione dell’ospedale di Pammatone. Impoveriti (e non se ne dolsero) da questa grande liberalità, gli eredi del suo nome non avevano più raggiunta l’altezza di lui sull’altalena della cieca fortuna; ma parecchie generazioni di onesti mercanti e banchieri fecero testimonianza di operosità non mediocre. Le vicende politiche e commerciali, nella seconda metà del Settecento, ne avevano tratto un ramo a Savona, donde assai più tardi alcuni rampolli dovevano ancora restituirsi a Genova, ma lasciandone altri nella lor sede temporanea. Tra questi la signorina Francesca, andata sposa al mio nonno paterno. Di un altro parente lontano ho ricordo, che per tale me lo dava il casato dei Bosco, e lo stesso nome di Giulio, comune in quella famiglia. Caduto in bassa fortuna, non era altrimenti precipitato in umile condizione: io lo conobbi e lo amai, distributore di libri, nella civica biblioteca della mia terra natale. La nonna bella non sapeva stare senza di me. Piombata un giorno improvvisamente a Nizza, dove come ho detto, si era ridotto mio padre per invigilar da vicino certi interessi di famiglia, tanto disse e tanto fece, che persuase il figliuolo a ritornare in Savona. Durante il soggiorno di lei a Nizza io imparai, fanciullino, a smontare orologi. La nonna ne aveva uno bellissimo, di stile antico, tra il Consolato e l’Impero, col quadrante a giorno, contornato d’una fila di perle orientali, e il coperchio posteriore tutto di smalto turchino, con una gran cappellina di paglia dipinta nel centro, e nella cappellina un amorino mezzo nascosto tra le tese allargate. Quell’orologio era il mio sogno: che cosa non avrei fatto, per possederlo! almeno almeno per brancicarlo un poco! Ma il caso venne presto in aiuto al mio desiderio. Andando una domenica a messa in Santa Reparata, la nonna lo aveva dimenticato sulla lastra di un cassettone. Adocchiata la preda, mi arrampicai su d’una seggiola; abbrancai l’orologio; lo guardai per tutti i versi; trovai il modo di aprirlo, e, non so come, anche di smontarne la cassa. Niente atavismo, badate; non ci sono mai stati orologiai in famiglia: del resto, io non venni a capo di ricomporre ciò che avevo così bene disfatto, e la mia precocità nella orologeria fece in quella occasione la sua unica prova. Di molti orologi posseduti in processo di tempo feci sempre un uso più saggio. Per ritornare a quello, ecco che cosa intervenne. Rientra la nonna, e cerca il suo orologio. Ahimè! l’orologio non si trova. Chi lo ha preso? Tempestano di domande la gente di servizio, ma invano; la coscienza offesa freme nelle risposte; l’innocenza traluce dagli occhi. Ma non dai miei, pur troppo, quando sono interrogato a mia volta. Nego, nondimeno, e si è già sul punto di credermi; allorquando, oh confusione! rovistando febbrilmente da per tutto, la mamma trova il corpo del reato, nascosto nel mio tettuccio, tra la materassa e il saccone. Avrei dovuto ricevere una correzione, tanto salutare quanto sollecita. La giustizia era pronta; ma la parte lesa si oppose, domandò grazia per me. Cara nonnina bella, come ti ho abbracciata quel giorno! Quando si ritornò sulle rive del Letimbro, feci la strada accanto a lei sul davanti della diligenza. Rammento, di quel poetico viaggio tra il verde e l’azzurro, una fermata di poche ore a San Remo, e certe ova sode sgranocchiate in un giardino, a colazione, dal canonico Bonetti, vecchio amico di casa. Quel giorno mi innamorai d’un calice con la sua patena d’argento dorato, e dichiarai solennemente di voler fare il canonico. Anzi, dirò di più, quella passione mi durò qualche anno: ma quando poi mi fu detto che per diventar canonico dovevo incominciare dal farmi prete, mi passò tosto la voglia; e il canonicato finì, come era finita l’orologeria. A Savona venne presto il tempo di mettermi a scuola. Mi piaceva lo studio, ma non eccessivamente; piuttosto il giocare alla palla, e il far la sassaiola. Pure, bisognava studiare, far bene i còmpiti e saper la lezione, per vincere. Infatti, era una battaglia anche quella. Ma io trovavo il modo di aver qualche oretta per me, tenendo compagnia alla nonna. Dormivo nel suo quartierino, che era un piano sotto a quello dei miei. La nonna andava spesso e volentieri a passare le belle giornate in villa, anche nelle mezze stagioni; ed io, allora, non che dormire, pranzavo e cenavo da lei. Quando in villa ci si veniva tutti, per l’estate e l’autunno, anche la nonna abitava nel palazzotto, sul colmo del Bricco, dugento passi più indietro da quel gran pino ad ombrello che vigila ancora la mia dolce Savona. Ma quando ci andava per conto suo, la nonna si recava ad abitare presso certi suoi fittaiuoli; non dai Sambarino, che avevano il podere in alto, ma dai Cheti, che tenevano quello più al basso della collina, verso ponente. In quella casa colonica si era fatte aggiustare un paio di camerette, con un terrazzino; ed io, naturalmente, ero sempre con lei. Che giorni felici! Mi alzavo a bruzzico, per ripassar la lezione e fare in fretta il mio còmpito; poi, alle sette e mezzo, con una galoppata di venti minuti, ero alla scuola in città. Alle undici, altra galoppata in su, per far colazione: al tocco da capo in iscuola, per risalire, dopo le cinque, e sempre galoppando, in collina, e per cenare alle sette, ma dopo aver scalati tutti i ciliegi, tutti i peri, secondo le stagioni, o i fichi, i peschi, gli albicocchi della villa. E ciò senza far torto alle siepi, ai roveti, ai corbezzoli, per levare il pane quotidiano ai tordi, ai pettirossi, ai cardellini, agli scriccioli. Quella vita di parecchi anni in moto continuo era la mia gioia, e fu anche la mia fortuna. Non c’era fossato, non fratta, non angolo di bosco, che io non conoscessi. E conoscevo ancora tutte le serpi del vicinato, che andavo a disturbare, con la mia mania di raccogliere gli sparagi selvatici per ripe e ciglioni. Anch’esse mi conoscevano; probabilmente si erano avvezzate a me, perchè mi lasciavano fare. Un giorno ne vidi due, artisticamente avviticchiate, e stetti lungamente immobile ad ammirarle, immaginando che dèssero spettacolo per me, credendomi il dio Mercurio. Ero fresco di mitologia, capirete; ma non giunsi fino al capriccio di fabbricarmi un caducèo, quantunque avessi in pugno una bella verghetta di frassino, che pareva fatta a posta per ciò. Quella stupenda maniera di vivere non poteva durare eternamente. Finiti gli studi classici, dovevo passare a Genova. La famiglia mi mandò solo; ma poi si risolse di tenermi dietro. La nonna, già avanti negli anni, e naturalmente ligia alle sue consuetudini, non seppe adattarsi a quell’èsodo. Ma io partivo spesso da Genova per andarla a trovare. Cara nonnina bella! ora che ci penso, debbo confessare a mia vergogna eterna, che accanto al piacere di rivederla si muoveva in me il vile desiderio di toccare qualche genovina, o qualche doppia di Savoia, in aggiunta agli scudi che di tanto in tanto venivano a trovarmi, nascosti nel fondo di qualche paio di calze. Ero la speranza di quella donna; a contentarla, a pagarla di tutti i suoi sacrifizi, bastava che io diventassi un grande avvocato. Non l’ho contentata, pur troppo; ma per contro non le ho fatto il torto di diventare un avvocato piccolo, un mezzorecchio, un cavalocchio, un paglietta. Le ho dato in quella vece un dolore, senza volerlo, e grandissimo, nel ’59, arruolandomi soldato nell’esercito piemontese. La mia cara nonnina si era formato in testa un suo particolare concetto della vita militare. Ne aveva veduti dei soldati; ne aveva veduti a centinaia di migliaia, dal Bonaparte in giù; perchè il marito suo era stato fornitore di truppe in tutta la lunga zona della Riviera occidentale, da Nizza a Genova, prima sotto i Francesi repubblicani e l’Impero che ne seguì, poi sotto i Reali di Sardegna, lasciando nel ’31 in quell’ufficio gli eredi. Forse per ciò, non vedendo i soldati sott’altro aspetto fuor quello dei tempi andati, ella non poteva immaginarseli nel ’59 altrimenti che come povera carne destinata a servire, a soffrire. Ed ancora; si mise forse in mente che io, morto da pochi anni il babbo, mi fossi fatto soldato per bisogno? La poesia dei volontarii non era fatta per entrar più nel suo capo? Avrei dovuto correr da lei, prima di avviarmi in caserma, e tentare almeno di spiegargliela io. Non lo feci, e me ne chiamo in colpa; perchè ella si accorò di una risoluzione che le giungeva così nuova e così inesplicabile, me lo scrisse, e si ammalò subito dopo. Ebbi notizia della gravità del suo stato, quasi nel medesimo tempo che aveva ricevuto la sua lettera di amoroso rimprovero. Disperato, temendo di non veder più quella cara vecchina, che era entrata allora nel suo ottantaduesimo anno, mi feci presentare al generale comandante la divisione di Genova, che era il conte Biscaretti di Ruffia; gli esposi il mio caso tristissimo, ed ottenni da quel degno gentiluomo una licenza di tre giorni; rarissimo favore, in quei momenti di preparazione febbrile. Rubavo tre giorni alle esercitazioni frettolose, che in due settimane dovevano farci soldati, e mandarci utilmente al fuoco. Ma erano così facili, quelle esercitazioni! specie per me, che già, precoce guerriero, avevo impugnato il fucile della guardia nazionale e fatte le mie ore di sentinella al palazzo municipale di Genova. Montai in diligenza la mattina seguente; dopo cinque ore di viaggio ero a Savona; corsi a casa, trafelato; troppo tardi! troppo tardi! Era spirata da pochi minuti, e non potè vedermi al suo letto di morte, la mia cara nonnina. Ma se ella non mi vide più con gli occhi azzurri, mi sentì certamente con ciò che sopravvive di noi più sereno e più puro. E così mi sente ella sempre; perchè non passa giorno che io non pensi a lei. E un certo che vaporoso e gentile, profumato ed arcano, mi accarezza le tempia, mentre rivedo il volto roseo di lei, le labbra vermiglie, i begli occhi azzurri, i capelli biondi, ben suoi, sotto la cuffiettina di tulle e sotto il lembo del pezzotto di mussolina, l’antica e graziosa foggia delle donne genovesi. Cara nonnina dolce, quanti anni son passati oramai! Pure, sei sempre qui, sempre qui. Non son diventato niente di ciò che volevi tu, niente di ciò che io medesimo sperai, ne’ miei giorni migliori. Ma se tu vedessi almeno che bella novità! Non ho più, sai? non ho più quei capelli così neri, che ti spiacevano tanto. Il maestro Segni. Era l’anno.... Ma no, non me lo fate dire. Quando penso ai fatti della mia prima età, li vedo tanto lontani nel tempo, attraverso una varietà così inviluppata di eventi, che davvero mi sembra di aver raggiunta l’età di Matusalem. Lasciatemi usare piuttosto di un prudente eufemismo. Era l’anno che imparai a leggere; e il mio maestro in quell’arte era il signor Segni, il nobile signor Luigi Segni, datosi per disperato al più nobile tra tutti i mestieri, ma sempre un mestiere, ed ingrato, che è quello d’insegnare l’abbicì alle nuove generazioni. C’è della gente che nei più umili uffizi reca una dignità così semplice, o una semplicità così dignitosa, da far pensare al prete, quando dice la messa. E infine, che cosa fa il prete, all’altare, se non l’offerta a Dio di tutte le miserie dell’umanità? Quella gente offre le sue, e tutte quelle de’ suoi pari, senza dolersi, senza imprecare, senza far paragoni. Pure, se si fosse lagnato, il nobil uomo ne avrebbe avuto, non una, ma parecchie ragioni. Il casato doveva ricordargli ben altare promesse della vita; e la sua gioventù meglio ancora. Egli aveva vissuto, da giovane, un bel sogno glorioso; era stato soldato di Napoleone, e col grande guerriero aveva passeggiata rumorosamente l’Europa. Fantaccino? cavaliere? artigliere? Non so. Da bambini, si osservano molto i particolari, ma non si ha ancora la curiosità, nè l’usanza di chiederli. Comunque avesse viaggiato e combattuto, il nobile Segni poteva compiacersi delle sue grandi memorie. È una bella cosa avere nella propria vita qualche pagina eroica; serve, se non altro, a consolarci di tante pagine volgari, che ci dobbiamo leggere, o scrivere. Ora che ci penso, mi pare di poter dire che avesse servito in cavalleria. Rimpicciolito, ai miei tempi, quasi raggranchito dall’età, sicuramente era stato più alto; e quelle sue spalle curve indicavano l’uomo che è vissuto lungamente in arcione, all’eterno sbatacchio della cavalcatura. Su quelle spalle pareva che il poveraccio portasse il peso della campagna di Russia. Ma nel fatto ci portava ancora un ferraiuolo di panno turchino, spelacchiato, sì, ma senza una macchia, sormontato da un gran, bavero di velluto, non più nero da un pezzo, ma senza traccia da untume, o di forfora. Di mezzo agli orecchioni di quel bavero appariva un fazzoletto di tela batista, girato due volte intorno al collo e annodato sotto la gola con un nodettino minuscolo; e sopra quel bavero, sopra quel fazzoletto, tondeggiava una faccia di mela carla, già vizza, ma rosea, ravvivata da due occhietti neri, luccicanti nelle palpebre rossicce, e contornata da un’aureola di capegli bianchi dorati, che sbucavano a ciocche da una berretta di panno nero, con la visiera di cuoio lucido, molto somigliante a quella dei generali russi e prussiani. Berrettacce antipatiche! preferisco l’elmo, nei militari; nei borghesi, Dio mi perdoni, mi adatterei piuttosto alla tuba. Era dunque pulitino a quel modo, il signor Segni; e non aveva da vivere! Non pensione di riposo, se ben ricordo; non parenti ricchi, non famiglia, nè persone di servizio. Nella via Quarda Superiore della mia città natale, è una casa, a man destra, detta la Torre; quella casa ha un pianterreno, sollevato di parecchi gradini dal piano della strada; a quel piano terreno, di contro all’ingresso, si apre un uscio che mette in uno stanzone, non so bene se solo, o accompagnato da qualche bugigattolo. Là dentro abitava il signor Segni, e c’insegnava a leggere ad una ventina di ragazzi, che gli pagavano, per cotanto uffizio, chi una e chi due lire al mese. Non rammento più se insegnasse anche a scrivere; mi pare di no. Era un digrossatore d’intelligenze; preparava la materia prima, per gli sbozzatori di seconda mano. I babbi e le mamme che avevano troppa molestia in casa dai loro folletti, e ancora non potevano farli ricevere alle scuole elementari, li mandavano volentieri dal signor Segni. Quei folletti ci andavano la mattina, intorno alle otto; ne uscivano al mezzodì, per rientrarci al tocco e restarci fino alle quattro, o alle cinque, secondo le stagioni. Di libri non c’era di bisogno; si portava la colazione, o la merenda, in un canestrino, come fanno ora i ragazzi degli asili infantili. Con noi viveva, e di noi, il povero vecchio, avanzo delle guerre napoleoniche. L’insegnamento suo non aveva mestieri di lavagna, nè di abbecedario; consisteva nella esposizione di tanti quadratini di legno bianco, sui quali erano scritte le ventiquattro lettere dell’alfabeto, nella loro doppia forma, maiuscola e minuscola. Scompigliava i suoi pezzetti; poi ne prendeva uno a caso, lo alzava alla vista di tutti, e domandava: che cos’è questo? Tutti ad una voce si doveva rispondere. Se qualcheduno sbagliava, egli con una facilità meravigliosa distingueva nel concerto delle voci l’autore dello sbaglio; e allora si fermava a fargli osservare le particolarità della lettera mal conosciuta, aiutando la nostra memoria con gli esempi, le somiglianze ed altri artifizi mnemonici. Dovevamo ricordare che la S somigliava al serpente; la X alla croce di Sant’Andrea; il B a due gobbe sovrapposte, e via discorrendo. Poi ripigliava a far leggere; e quando metteva due legnetti di costa, dovevamo leggere la sillaba. Così mi sono io impratichito nelle lettere; coi legnetti! Il mio critico inglese, che anco attraverso agli esercizi traditori di qualche graziosa _blue stocking_ ha saputo riconoscere il mio «stile legnoso», saprà ora dond’esso mi viene, per trasmissione ereditaria; e vada superbo della sua perspicacia. Finita la scuola, capitavano le fantesche a ripigliarsi i folletti. Il signor Segni, immancabilmente ogni giorno, accompagnava lo sciame all’ingresso, raccomandando di non ruzzolane per la gradinata e di non far chiasso per via. Ma era più facile non ruzzolare, che astenersi dal far chiasso. Regolarmente ogni giorno si faceva la ridda sull’uscio, attaccando la cantilena beffarda: Signor Segni Mostra legni! ripetuta un centinaio di volte, dal portone della Torre, fino alla svolta della strada. Ed anche regolarmente ogni giorno il signor Segni andava in collera, minacciando con la mano distesa uno scappellotto, che, ad onor suo debbo dirlo, non dètte mai a nessuno. Ci voleva bene, quel vecchio solitario; e quand’anche non ci avesse voluto bene per noi, doveva volercelo per quelle due lire, per quella liretta mensile. Povero naufrago della vita! Era ancora una fortuna per lui, aver trovata l’annua sequela di quei venti o trenta folletti, che gli assicuravano il pane quotidiano, e l’alloggio nella Torre. Come mangiava, il nobile signor Segni? Già ero uscito dalla sua scuola per innalzarmi a cose maggiori, e ancora, non sapevo nulla dei suoi pasti. Noi gli avevamo sbocconcellato sotto gli occhi ogni ben di Dio, pan francese, frutta, ciambelle, dolciumi, non offrendogli mai nulla, non pensando neppure che gliene potesse correr l’acquolina alla bocca. E il giorno di Natale, il gran giorno delle allegrezze di tavola, dove lo faceva egli? Ci pensai una volta, e proprio un mattino di Natale, quando la mamma mi disse: «Senti? saresti capace di fare un’imbasciata, ma per benino, senza perderti tre ore in istrada, secondo il tuo solito? Dovresti andare fino al porto, a bordo del «Lazio», e invitare da parte nostra il cugino Francesco a far Ceppo con noi. È un giorno che va fatto in famiglia; e chi non ci ha la famiglia, deve farlo dai parenti.» Promisi di far presto e bene, tanto mi piaceva di andare a bordo del «Lazio», che era un bastimento del mio nonno paterno, e dal mio cugino Francesco, che ne era il capitano. Ma prima di correre, avevo domandato a mia madre: «E chi non ha parenti dove lo fa?» — Dagli amici; — mi rispose mia madre. — E chi non ha amici? — incalzai. — Tristo chi non ne ha, perchè non ha meritato di averne, o è stato tanto disgraziato da non trovarne! — Così aveva replicato la mamma; ed io, parendomi di aver mascherata abbastanza con quei discorsi la mia voglia di scappar fuori, insaccai le scale per correre al porto. Dalla piazza della Maddalena al porto non era un gran tratto. Si rasentava il palazzo dei Multedo, si lasciava la via degli Orefici a destra e la Quarda Superiore a sinistra; s’infilava un archivolto, si riusciva in piazza Colombo, e la calata era là, in fondo alla piazza, coi suoi bastimenti accostati. Era un affar di due minuti, con le gambe di sette anni che avevo. Ma alla svolta di via Quarda mi tornarono a mente le parole della mamma. E dissi tra me: «Povero signor Segni, quest’oggi! Non ha famiglia, non parenti, nè amici.» Non amici! Ah, questo, poi! E mi avvenne, così pensando, di non infilar l’archivolto, ma di svoltare a mancina, verso la Torre. Dove sarà il signor Segni, a quest’ora? Lo troverò in casa? Casa, per modo di dire; sapete già che era uno stanzone, d’aspetto così così, tra la cantina e il granaio. L’uscio era chiuso; bussai. Venne il signor Segni ad aprirmi, il signor Segni senza il peso del ferraiuolo sulle spalle, ma sempre con quello della campagna di Russia. E doveva anche, così, in maniche di camicia, aver freddo come al passo della Beresina, quantunque in mezzo alla camera ci fosse un caldano acceso, su cui il nobile vecchio aveva messo a bollire un pentolino, donde, insieme col fumo, saliva alle nari odor d’aglio e cipolle. — Vedi? — mi disse il mio antico maestro. — Si fa Natale anche noi, col pan cotto. — No, signor Segni, — balbettai, — mia madre.... — Ebbene, che cosa vuole tua madre? — Che lei venga a far Natale da noi. Si pranza al tocco, sa? — Ma io.... — Badi, l’aspettano. Io ora debbo correre al porto, per avvisare il cugino Francesco.... il capitano del «Lazio»... Anche lui, qua di passaggio, è senza famiglia; fa Natale con noi. — Il signor Segni voleva aggiungere qualche cosa; ma io gli guizzai dalle mani, per timore che mi dicesse ancora di no. Corsi al porto; montai a bordo del «Lazio»; feci l’imbasciata dei miei al cugino Francesco; trovai ancora il tempo d’inerpicarmi sulle sartie, facendomi abbaiare dietro dal cane di bordo e rincorrere dal nostromo fin sopra alla crocetta dell’albero di mezzana; dopo di che, ricevuto un amorevole scapaccione dal capitano e il biscotto dell’ospitalità dal dispensiere, balzai sulla calata, e due minuti dopo ero a casa. — L’hai fatte le cose per bene? — domandò mia madre. — Sì, e verranno tutti e due. — Tutti e due? C’è qualcun altro, dei nostri parenti? Il Domenichino forse? — No, nessun parente. — Allora?.... Allora, bisognò raccontare ogni cosa. E mi esciva male, dalla gola, il racconto della mia duplice impresa. — Infine, — conchiusi, — non mi hai detto che chi non ha famiglia, o ne è lontano, va oggi dai parenti? e che chi non ha parenti, va dagli amici? Il signor Segni non n’ha neanche di questi, e non se l’è meritato. — Mamma non mi rispose nulla, e non mi lasciò neanche veder la sua faccia; andò nella camera del babbo, probabilmente a raccontargli la mia alzata d’ingegno, ed io andai a nascondermi nel canto più lontano della casa. Ora viene la musica! pensavo. Ma non venne nulla. Cioè, correggiamo: venne alla sua ora il cugino Francesco, e dopo di lui il nobile Segni, con la sua campagna di Russia sul groppone e col suo ferraiuolo di panno turchino sulla campagna di Russia. Il pover’uomo si confondeva ancora in complimenti, quando mi chiamarono a tavola. Egli era là, seduto alla destra di mamma, che seguitò a non dirmi nulla. Neanche babbo mi parlò, se non per domandarmi se volevo ancora della tal cosa o della tal altra. Ma finito il pasto, mi diede qualche cosa che non avevo domandato; uno scappellotto, nel quale mi parve di sentire una intenzione sommamente benevola. Il signor Segni, quella sera, prima di congedarsi, mi prese una guancia tra l’indice e il medio. — Folletto! — mi diceva frattanto. — Ti perdono, sai? — Mi perdona?... — balbettai. — Che cosa? Ed egli allora, rifacendo la cantilena infantile de’ suoi scolaretti, mi mormorò all’orecchio: Signor Segni Mostra legni! Capii finalmente; ma non mi parve giusto, neanche col perdono, il rimprovero. — Ma la cantavano tutti; — osservai. — Sicuro; ma tu l’avevi inventata, briccone! Ed era vero, pur troppo; era stato quello il mio primo saggio di rime. — Va là! — soggiunse il nobile signor Luigi Segni. — Ti perdono egualmente i tuoi versi. — E così siano perdonati i vostri, o lettori, dovunque li abbiate perpetrati, comunque vi siano riesciti, a qualunque scuola appartengano. La prima capannuccia. Le mie tenerezze per il Natale non hanno preso argomento dai confetti, nè dal panettone, bensì dalla capannuccia e da Gesù bambino. Milano, vecchia ed illustre città, che fu bambina anche lei, custodisce in Sant’Eustorgio l’area sepolcrale dei tre Re; io, mezzo vecchio e niente illustre, conservo con egual religione un pecoraio della mia prima capannuccia. Avevo anche serbato Gesù bambino, quantunque un po’ sbreccato e con la raggiera di meno; ma ora non so più dove sia. Forse non mi ha creduto degno, ed è passato in mani migliori. Pure, io l’ho amato molto, quel Dio così dolce e così mite, nato povero, vissuto d’amore per gli uomini, morto in croce per compenso dell’amor suo, ma fatto solenne esempio a tanti animosi, che lieti morirono, confessando il suo nome. Sentite.... Ma no, basta così: vo’ darvi un racconto, non farvi una predica. Avevo otto anni e dieci giorni, quando ebbi in casa mia la prima capannuccia. In casa mia, capite? e tutti i miei compagni sarebbero venuti a vederla, a recitarle il discorsetto in versi. Da due anni mio padre me la prometteva; ma un po’ per questa ragione, un po’ per quest’altra, non aveva mantenuta la promessa. Finalmente, al terzo anno, mi disse, ed io ripetei tosto ai compagni: — questa volta, si fa. Venne il giorno di Santa Lucia, e mio padre non parlò punto di comperare i pastorelli, nè il resto. Debbo dirvi qui che il giorno di Santa Lucia, a Savona, c’è mercato di figurine da presepio, tutte di terra cotta, dipinte ad olio, d’ogni forma e misura. I miei compagni, coi quali avevo fatta la scappata sulla via di San Giacomo, per ammirare le mostre dei figurinai, mi dissero: — come? non comperi nulla? — Ci pensa mio padre; — risposi con gran sicurezza. Ma dentro di me non ne avevo poi tanta. Si andò al 23 di dicembre, cioè alla vigilia dell’Avvento, senza che ci fossero le figurine in casa. Che figuraccia, coi compagni! Ma proprio quel dì, ritornando da scuola, vidi nell’anticamera, presso la finestra, un gran fascio di verde. Lo aveva portato dal podere il vecchio Menico, un nostro fittaiuolo. Mi buttai su quel prezioso fastello, e contai quattro bei tronchi d’alloro, vestiti di lunghi e folti rami, due tronchi di corbezzolo, due di ginepro, da dieci a dodici cespi di pugnitopo, e musco e borraccina a tutto pasto. Ballai davanti a quel fascio di verde, come il re David davanti all’Arca del Signore. — E i pastori? — chiesi a mio padre, quando fu l’ora del pranzo. — I pastori.... sono in Betlemme. Aspetta che scendano. — Non ne ero persuaso, ma dovetti aspettare egualmente. La mattina appresso, mio padre mi diede quaranta soldi e mi disse: — va dal Bianco a provvederti d’ogni cosa. Quaranta soldi, era una gran somma, allora! Strinsi forte, per paura che mi fuggisse, e corsi dal Bianco: un uomo alto, tarchiato, barbuto e butterato, che formava le figurine da presepio in una botteguccia della salita di Monticello, sul canto dei Pico. Allora i pastori dei due sessi, con capretti, polli, canestri d’uova e simili sulle braccia, costavano un soldo l’uno. Un pecoraio, perchè seduto contro un ceppo d’albero, con un ramo sulla testa e la piva sulle ginocchia, costava due soldi, come l’asino e il bue. Giuseppe e Maria, perchè più alti, e perchè decorati, questa di raggiera indorata, e quello di bastone fiorito, costavano tre soldi ciascheduno. Il bambino, piccolissimo, ma con la raggiera dorata anche lui, scendeva solamente a due soldi. Il conto fu presto fatto: dodici soldi per i personaggi principali e per i loro due complementi; due per un pecoraio, quattordici; uno per cinque pecore, quindici: mi avanzavano quattrini per venticinque pastori dei due sessi. Il Bianco mi diede l’angiolo soprammercato. Mancava la scritta; ma a questa avrei pensato io, calligrafo insigne. L’essenziale era che il babbo mi facesse la capannuccia. — Questa sera, dopo cena; — mi disse egli, prendendo il cappello per andarsene. Ah, quella sera, come fu lunga! E come noiosi quei parenti, quegli amici, venuti a far la vigilia con noi, e che non dicevano mai di andarsene! Cosa inaudita in una cena savonese di quei tempi, alle dieci erano ancora a tavola. Li avrei strozzati con le mie mani, se essi fossero stati serpenti, ed io Ercole. Finalmente partirono. Alle undici mio padre si decise. — Contentiamo questo impaziente! — esclamò. — Hai carta straccia? Ne avevo, e molti fogli, già incollati insieme, poi spruzzati di rosso, di nero, di bianco, perchè simulassero il granito. Mio padre aveva preso l’uno dopo l’altro i quattro bei tronchi di alloro; li aveva legati saldamente con certe funicelle ai quattro piedi di un tavolino; quindi ne aveva ripiegate ad arco le vette, e congiunte e legate, perchè facessero cornice. Sulla lastra del tavolino pose due scatole da cappelli, generosa offerta di mamma, che dovevano formare il nocciolo di due montagne; le congiunse con una lista di legno, che faceva ponte nel mezzo; vi stese sopra la carta straccia, un po’ stazzonata, acciaccata e ripiegata come veniva, affinchè simulasse meglio le anfrattuosità della roccia; poi musco e borraccina da per tutto: ginepri, corbezzoli e pugnitopi a incoronare i greppi, lungo la parete, per far da boscaglia; lì sotto al ponte, diventato un arco naturale della rupe, un pezzo di specchio per fare la lontananza; e così il paese in tre quarti d’ora era fatto. — Mancherà Betlemme! — disse mio padre. — Oh no, eccola qui; — gridai, tirando fuori un ceppo di case di cartone, che m’era costato una settimana di lavoro. L’opera era condotta secondo certe leggi statiche e norme prospettiche tutte mie; i colori stridevano, ma ridevano anche; le torri pendevano in istile bolognese; i merli non fischiavano, aspettando forse d’esser fischiati. Ma che importava ciò? C’era anche la capanna per il divino Infante, e così alta, che raggiungeva quasi il colmo della montagna. Ma mio padre non badò a queste inezie; collocò Betlemme sovra l’eminenza più lontana, mascherandola a mezzo tra i pugnitopi, che facevano da abeti; piantò la capanna dall’altro lato, celandola un pochettino nella frappa degli allori; poi seminò pastori e pastore da per tutto, sul piano e sul declivio dei monti. Il pecoraio ebbe alloggio in una cavità, naturalmente offerta da una piega della carta straccia; le cinque pecore gli si ammucchiarono da’ piedi, contendendosi la stessa zolla di borraccina; l’angiolo spenzolò da un fil di seta, davanti alla capanna fortunata, levando in alto la scritta: «Gloria in excelsis Deo et in terra pax hominibus bonæ voluntatis.» Ci avevo fatto capir tutto, io; per contro, era così fitto il carattere, che non ci avrebbero capito nulla i visitatori. Giuseppe e Maria furono posti ai due lati dell’ingresso; l’asino e il bue ai loro piedi; ma l’orologio del Duomo scoccò le dodici ore, e il bambino Gesù non era ancora deposto sul pannilino di raso bianco, guarnito di trine, che aveva preparato per quella occasione mia madre. — Ahimè! — gridai. — Mezzanotte! — Ebbene? — disse il babbo; — aspetta che suoni da capo; il punto giusto è nel mezzo. — Infatti, non erano ancora ribattute le ore, e il bambino era messo a posto, tra i due animali accoccolati. Io mi accostai col lumino, che posi nel mezzo a rischiarare la scena, e recitai il complimento: De’ puri affetti miei, O pargoletto Iddio, Darti un pegno vorrei.... Ma son fanciullo anch’io. Non ho capretti, agnelli, Nè fior’ nè pomi belli; Ho un cor che tutto è mio, Tutto tel dono, o pargoletto Iddio. Il pargoletto Iddio mi sorrideva. Sicuramente egli accettò il dono del mio cuore, ma non lo prese; me lo lasciò in deposito, e quel suo sorrisetto aveva l’aria di dirmi: — Va, me lo riporterai più tardi, a quella tal ora. — Ahimè, povero cuore, in che stato glielo riporterò io! O non era meglio che me lo accettasse subito? Era un cuoricino di otto anni, tenero, vermiglio, senza la più piccola tacca; mentre ora, tra lividi, incisioni e graffiature.... Io, già, sentite, da un pezzo non lo guardo più. Mi cascherebbero le braccia. La mia presa di Peschiera. La mattina del 5 giugno 1848 uscivo di casa coi miei libri e quaderni sotto il braccio, ma non per andare alla scuola. C’era tempo, per questo, ed io volevo dar prima una capatina sul Fosso. Si chiamava a Savona con questo nome una spianata fuor delle mura, non ancora intieramente abbattute, davanti alla porta di San Giovanni: più tardi, fabbricatovi il teatro Chiabrera, si chiamò piazza del Teatro: da ultimo, per essere smontato un giorno il generale Garibaldi ad alloggio nell’albergo Svizzero che la fiancheggia da tramontana, si chiamò piazza Garibaldi. Sul Fosso facevano capo le tre vie nazionali, di Torino, di Nizza e di Genova; sul Fosso venivano per conseguenza a fermarsi le diligenze, e tutte le vetture da nolo; veicolo d’ogni forma, cavalli d’ogni pelo, ed anche senza pelo, vetturini d’ogni risma, tafani, mosche d’ogni razza, concorrevano a dargli anima e vita. Con le vetture capitavano sempre forestieri, e notizie del mondo circostante: quell’anno, poi, fioccavano le novità, e il Fosso ne era diventato quasi una fiera. La politica primeggiava; anzi, diciamo pure che era tutta politica. E il fiore delle notizie ci veniva da Genova, a cui si era più vicini, con cui erano più frequenti gli scambi. Tre, quattro volte al giorno, come mi permettevano le ore di scuola, io solevo capitare sul Fosso, in busca di novità; ed anche sul porto, alla calata della Marinella, quando era avvistato il «Giulio II», vaporino a ruote, che faceva ogni giorno il suo viaggio da Savona a Genova, e da Genova a Savona. Povero «Giulio II», piccolo pontefice messaggero, che teneva la nostra quieta città, sua terra natale, in comunione di pensieri col maggior centro dell’agitazione ligustica! Non si rideva ancora, a vedere quel guscio di noce, che giungeva ansando, sbuffando e sparnazzando l’acqua salsa con le sue pale rosse, in tre ore di tragitto, spesso perdendo la scommessa con certi diavoli di calessini, partiti da Genova, e dalla piazza dell’Annunziata, nella stessa ora ch’egli sferrava dal porto della città sullodata. Quella mattina, giungevo in buon punto sul Fosso, mentre di sotto alla galleria sbucava un calesse, venuto a furia da Genova, col vetturino a cassetta, che seguitava a frustare senza misericordia i cavalli, e gridava come un ossesso, agitando certi foglietti spiegazzati con la stessa mano che teneva la frusta. Bollettini del campo! bollettini del campo! Io conoscevo il vetturino; egli conosceva me, per ragione del mio babbo, che spesso si serviva del suo trespolo; ebbi perciò facilmente uno di quei bollettini, e senza costo di spesa. Lo lessi, o per dir meglio lo divorai; e via di corsa alla mia volta, per il viale della Passeggiata, fino a piazza Castello, dove, in fondo ad una lunga piantata di acacie, sorgeva il collegio delle Scuole Pie. Volevo essere il primo a portare la grande notizia: non alla scuola, per altro; ai compagni, che in quell’ora si trovavano ancora di fuori, giuocando alle palline, alle piastrelle, ai puntoni, in attesa del _sero_. Il _sero_, chi nol sapesse, era lo spazio di tempo, mezz’ora all’incirca, tra le due scampanate che ci chiamavano a scuola. Suonava la prima, ed eravamo tutti nei pressi del collegio, a giuocare, a saltare, a rincorrerci: suonava la seconda, segnando l’estremo limite della tolleranza magistrale, e tutti, lasciati i giuochi in tronco, levati i nostri libri di sopra il parapetto, di sopra i piuoli e i sedili della passeggiata, correvamo allo studio. Quell’anno io facevo grammatica. Per grammatica, intendete la latina. Le scuole d’allora non conoscevano la divisione odierna di ginnasio e liceo: dalle classi elementari si passava il primo anno in lingua italiana, e il secondo in prima grammatica latina, detta comunemente grammatichetta, dove c’insegnavano gli elementi del latino e ci facevano tradurre l’«Epitome Historiae Sacrae, auctore Lhomond». Seguiva l’anno della seconda grammatica, detta grammatica senz’altro, in forma antonomastica, dove, fortificandoci nelle regole, incominciavamo a battagliane col «De Viris illustribus» e finivamo misurandoci con Cornelio Nipote. Poi c’erano i due anni di umanità, minore e maggiore, dove si attaccava Ovidio e qualche poeta italiano; quegli e questi servivano per addestrarci al magistero del distico latino e della strofa italiana. Il doppio esercizio si faceva coi «versi rotti» che parevano prosa, e che noi dovevamo ricostruire, in latino secondo le leggi della prosodia, in italiano secondo quelle del ritmo. In umanità non erano d’obbligo i due anni; si poteva saltarne uno, mostrando di avere approfittato abbastanza nel primo, entrando a fin d’anno in gara cogli alunni del secondo e superando com’essi l’esame. Erano invece obbligatorii i due anni di rettorica, dove tra parecchi poeti e prosatori latini, Virgilio, Cicerone, Orazio, Giulio Cesare e Tacito, tra parecchi poeti e prosatori italiani, Dante e Dino Compagni, l’Ariosto e il Machiavelli, il Tasso, l’Alfieri, il Monti, il Leopardi, si diventava poeti e prosatori per nostro conto, più o meno terribili. L’uso delle lezioni libere, cioè dei passi recitati a memoria, ma scelti da noi, ci portava a conoscere assai più autori che non richiedesse l’insegnamento; e noi a questo modo ci prendevamo anche una satolla di scrittori moderni, anche viventi. L’altro uso dei lavori liberi, cioè di soggetto a scelta nostra, senza pregiudizio dei soliti temi di scuola, esercitava la vena dei più valenti. Lo spirito di emulazione era anche più esaltato dalle «provoche», sfide e giostre poetiche, italiane e latine. Di queste se ne facevano quante si voleva; bastando che uno si levasse a provocare in nome della sua banda la banda avversaria, perchè s’interrompesse la lezione, il maestro dettasse un tema, e tutti ci mettessimo all’opera per guadagnare il maggior numero di punti alla nostra banda e a noi stessi. Venivano ultimi due anni di filosofia; nei quali si imparava algebra, geometria piana, qualche po’ di fisica, logica, etica, e metafisica per giunta alla derrata. Sento il bisogno di dire che storia e geografia, convenientemente graduate, accompagnavano tutte le classi. E sento anche quello di soggiungere che di aritmetica, fondamento e istradamento all’algebra, ci davano lezioni in rettorica. Se vi parrà che per l’aritmetica fosse un po’ tardi, pensate che eravamo almeno più maturi per la soluzione di tanti problemi complicati, che oggi ammazzano i cervellini neonati delle classi elementari; pensate inoltre che tutti i vecchi finanzieri d’Italia hanno studiata l’aritmetica come noi, non apparendo alla prova più ignoranti dei nuovi. Quanto allo studio della fisica, certamente era ristretto a quel modo; e questo per difetto di strumenti da ciò; ma si sarebbe potuto rimediare. A buon conto non avevamo la storia naturale, che imparare a fondo nei licei non si può, e imparare per iscarsi elementi non giova. Nè c’era la geometria solida a far girare la testa dei futuri medici, avvocati, procuratori e notai; non c’era il metodo euclidèo per funestare le anime adolescenti, rallegrando i traduttori del famoso maestro di Tolomeo Filadelfo e i rispettivi editori; a benefizio dei quali, oramai, sembrano fatte le scuole del «bello italo regno». Per contro, e in rettorica, tra una lezione e l’altra, il maestro c’insegnava il greco; studio libero, che non portava obbligo d’esame, ma a cui per emulazione attendevamo tutti, e non c’era caso che uno mancasse. Dio benedica quelle scuole classiche, di cui oggi si dice tanto male, ed anche quei programmi, che nessuno oggi ricorda. Erano scuole classiche, e la cultura classica ci aveva il sopravvento. Se ne usciva sapendo il greco quanto ora, cioè poco, ma quel poco non inutile ora nè allora; di latino e d’italiano s’imparava assai più che non si faccia adesso, e per usarne largamente, così in verso come in prosa. Dell’uno e dell’altro si saprà certamente un po’ meglio, e non sarà più il caso di annuali piagnistei sullo studio insufficiente della lingua patria, quando si sfolleranno davvero i nostri licei, non già del latino e del greco, o solamente di questo, ma di tutta la congerie di studi particolari, farraginosamente e perciò scarsamente scientifici, onde sono ingombrati gli orarii e aggravati i cervelli. Perchè le scabrosità della brattea e le finezze della stipula, gli arcani del pòlline e i misteri delle generazioni alternanti non si mandano al luogo loro, nei primi corsi di medicina e di scienze naturali? Perchè le bellezze delle figure piane, delle proporzioni e delle loro mirabili proprietà, non si rimandano, insieme con le quantità incommensurabili e col metodo di esaustione, ai primi corsi di matematiche, dove hanno a cavarne profitto i futuri ingegneri? Ci vuol coraggio, capisco, molto coraggio; e nessuno l’avrà. Ma allora, non ci lagniamo di quel che avviene; e sullo scadimento della cultura letteraria, in Italia, si lascino piangere i coccodrilli, in Egitto. Dove mi ha condotto il tema delle scuole! Ma che farci? questo è un cavallo, che appena inforcato vi piglia la mano e vi porta dove vuol lui. Per fortuna, si è stancato, si rifà maneggevole, e mi riconduce al mio ’48. Ero in grammatica, vi ho detto; abbastanza avanti, per gli anni che avevo. E già facevo assai volentieri il chiasso per le strade, partecipando a tutte le dimostrazioni di piazza, che veramente erano all’ordine del giorno, e perfino a quel della notte. Si gridava abbasso i Gesuiti; si correva per la città «con l’azzurra coccarda sul petto, con italici palpiti in core» e con tutti gl’inni di quel tempo sulle labbra; a lume di fiaccole si andava attorno con musiche, portando in processione grand’uomini litografati, e principi riformatori di gesso. Giornali se ne avevano pochi; io, poi, a quell’età, non ne leggevo affatto. Non c’era il telegrafo elettrico, e le notizie venivano sempre con un po’ di ritardo, ordinariamente in certi bollettini, foglietti volanti stampati a Genova, ed oramai quotidiani, che per lo più sentivamo leggere ad alta voce in piazza Colombo, da qualche negoziante, armatore o spedizioniere infervorato, ritto in piedi su d’una seggiola, per dominare le turbe. Momenti solenni! rivedo i noti aspetti; sento ancora le voci. Ma quella mattina.... quella mattina ero io il portatore della lieta novella; quella mattina lo avrei letto io il bollettino. I compagni, non sapendo nulla, non indovinando le grandi cose che m’infiammavano il viso, credettero che io venissi a loro con tanta furia per fare ai puntoni. Quello era il mio giuoco prediletto: anche oggi, quando vedo fare ai puntoni, dovunque io sia, qualunque cura mi frastorni, mi fermo a guardare. Sapete come si fa? Ci vuole anzitutto una coppia di ragazzi: uno sotto, per far da cavallo, l’altro sopra, per far da cavaliere, coi ginocchi nei fianchi al compagno. Quello di sotto stende le braccia avanti ed incrocicchia le dita; quello di sopra fa altrettanto, ma calzando delle sue braccia e delle sue mani incrocicchiate le braccia e le mani del compagno. Il puntone è fatto; il cavallo si muove, carico di quel peso, e con la forza che gli viene dal peso cresciuto si avventa sopra un’altra coppia, egualmente formata a puntone. Di queste coppie in battaglia ce ne possono esser molte, tutte libere di colpir dove vogliono, ed esposte ad esser colpite d’ogni banda. È battaglia sparsa, come di navi che vengano ai cozzi, ed una di loro riesca a mandarne sotto parecchie, magari tutte, se forza, destrezza e fortuna l’aiutano. Bella cosa, i puntoni, non è vero? Ma che puntoni, quel giorno? C’era ben altro in aria. Bollettini del campo! bollettini del campo! I nostri.... i nostri soldati avevano.... avevano presa Peschiera. E lì, col rantolo in gola, con la voce soffocata dalla commozione, leggevo il famoso bollettino che m’aveva fatto correr tanto, dalla piazza del Fosso a quella del Castello. — «Milano, 2 giugno, mezzodì. Il giorno 30, alle ore 11 di notte Peschiera capitolò. Conchiusi i patti, entrarono nel forte per la porta di Verona parecchi ufficiali italiani, con una compagnia di artiglieri, una di bersaglieri, ed una del 13.º di Pinerolo. Sul far del giorno del 31, al suono dell’inno nazionale, ci entrarono, tutto il suddetto reggimento ed il corpo Parmense. Al mezzodì gli Austriaci, difilando innanzi ai nostri lungo la caserma, uscirono da porta di Brescia con le loro armi, le quali deposero poi e cessero in mano dei Piemontesi sul ciglio della ripa, alla presenza del Duca di Genova, di un eletto stato maggiore e del 14.º reggimento. I soli ufficiali ebbero licenza di conservare la spada. La guarnigione uscita, composta di 1600 Croati, continuò sotto buona scorta la via per Desenzano e giunse ieri a Brescia. I nostri rinvennero nel forte gran quantità di materiale da guerra, palle da cannone ammucchiate, bombe, mortai d’ogni calibro. Le cose nell’interno presentano uno spettacolo di rovina. Il nemico volle resistere fino all’estremo, ed aveva consunto quasi del tutto le provvigioni. Ogni cannoniere era costretto al servizio di due cannoni: guasti i mulini, s’adopravano macine a mano: si erano mangiati pressochè tutti i cavalli: non c’era più sale, e si faceva uso di salnitro: i soldati mettevano a ruba le case, che le bombe del nemico incendiavano.... La resa di Peschiera e la vittoria, o piuttosto le tre vittorie degli ultimi dì di maggio, sembrano far sicura la riuscita della guerra dell’indipendenza. — Semplice il racconto, senza inutili vanti la chiusa. Il bollettino era del Governo provvisorio della Lombardia: estensore, per incarico del segretario generale, era Giulio Carcano, segretario, il cui nome si leggeva stampato in fondo alla pagina. La mia lettura aveva sortito un effetto maraviglioso. Tutti s’affollavano intorno a me, pendendo dalle mie labbra, fremendo, giubilando, gridando evviva; tanto che per un momento credetti di aver preso io Peschiera, io in persona, non il Duca di Genova. Anch’io, del resto, avevo toccato l’apice della gloria, leggendo un bollettino alle turbe, come facevano ogni giorno i pezzi grossi di piazza Colombo. Ah, la gioia di un popolo, come è bella, come è dolce, quando è destata e nutrita dalle vostre parole! Ma la gioia d’un popolo si suol dimostrare con qualche novità. Che cosa avremmo fatto noi, popolo minuscolo delle classi di grammatichetta, di grammatica, di umanità e di rettorica? Passavano i filosofi, così detti perchè erano gli alunni della classe di filosofia, perchè stavano da soli, oramai, non prendendo parte ai nostri giuochi, e ragionando sempre tra loro di Gioberti e di Rosmini. Quella volta, vedendo la calca dei compagni minori, anche i filosofi dovettero accostarsi, obbedendo ad un sentimento di curiosità naturale ed umana; accostatisi, dovettero anche sentire di che si trattava, e partecipare alla nostra allegrezza. Ma quando io ebbi finito di leggere, niente li trattenne più nel consorzio dei «piccoli». Si allontanarono, dunque; ma io potei sentire uno di loro, che diceva ai suoi compagni di Peripàto: — Con una notizia simile, bisognerebbe far vacanza, quest’oggi. — Non aveva detto a sordo. Fatto mio il pensiero del peripatetico, mi volsi conchiudendo ai compagni: — Si fa vacanza? — L’idea era nuova, e strana, come tutte le idee nuove. — Perchè? — mi chiese uno di loro. — Perchè? me lo domandate? Siamo entrati in Peschiera. È una gran vittoria degli Italiani. Chi siamo noi? non forse Italiani? «Res nostra agitur». Come staremmo noi in iscuola, quest’oggi, se già non possiamo più star nella pelle? — Dici bene, dici bene. Ma come la vedrà il padre Escrìu? — Oh bella, come noi. È spagnuolo; ma vive da tanti anni in Italia. Gli si dice la cosa, e non potrà far altro che approvarci. — Ti senti di parlargliene tu? — Sicuramente; — gridai, parendomi lì per lì la cosa più naturale del mondo. La turba si mosse, acclamando; ed io alla sua testa, che parevo un colonnello in piazza d’armi. Si andava verso il collegio. Ma giunto all’ingresso, e nell’atto di montare i tre scalini di marmo del portone, incominciavo a non essere tanto sicuro del fatto mio. Posto il piede nel corridoio delle scuole, mi trovai anche solo, o quasi. I miei compagni si fermavano fuori, aspettando l’esito dei negoziati. Ma che paura avevano? Il padre Escrìu era un brav’uomo, finalmente. Sapeva bene il latino, e ce lo insegnava bene. Con un metodo severo, per altro! Quando si fallava la desinenza di un caso, o la concordanza di un adiettivo col suo sostantivo, faceva certi occhiacci! Nè sempre si contentava di far gli occhiacci; specie quando non si sapeva la lezione, o si faceva qualche grosso solecismo, lasciava correre anche scappellotti. Non ne abusava, no; bisognava avergli fatto scappar la pazienza. Ma qualche volta gli era scappata, e i ricordi ne duravano in classe. Ci pensai ancor io, inoltrandomi nel corridoio. E rammentai che proprio allora avevo un grave torto agli occhi del maestro. Il padre Escrìu aveva portata nella sua scuola una gran novità, che prima di lui si usava soltanto nelle scuole dei Gesuiti. Da noi la classe si divideva in due bande: ogni alunno, guadagnando punti, o perdendoli, guadagnava o perdeva per sè e per la banda a cui era ascritto. Il padre Escrìu aveva aggiunta la novità di dare un nome alle bande: da una parte si era Romani, e Cartaginesi dall’altra. Mercè questa trovata, non so come, certo senza merito mio, avevo conseguita la dignità d’Imperatore Romano. Se poi alla mia effigie non si coniarono monete, incolpatene i tempi grossi, e la brevità del mio regno. Un giorno, di fatti, per una mia marachella (non la ricordo più bene; mi pare si trattasse di ciliege che io mangiavo sul mio trono, facendone tra il pollice e l’indice schizzare i noccioli su teste di amici e nemici) il padre Escrìu mi degradò issofatto da Imperator dei Romani, mandandomi per gran degnazione legato dei Cartaginesi. Immaginate il mio dolore, e l’ira dei Romani, che perdevano un campione per le battaglie dei punti, e l’odio dei Cartaginesi, che alle future vittorie non pensavano ancora, ma sentivano la presente vergogna dell’esser considerati come una compagnia di disciplina. E le ciliege erano ancor troppo fresche: non era ancor venuta per me l’occasione di riconquistare il mio seggio in Roma: alla presa di Peschiera io ero ancora Cartaginese; e non Suffèta, che era il primo grado; legato, semplicemente legato. Come si fa? pensavo tra me, inoltrandomi nel gran corridoio. Come si fa, a persuadere il padre Escrìu di questa vacanza in lunedì? Pensando, mi veniva meno il coraggio; ma anche mi veniva incontro, col suo passo risoluto, il padre prefetto. Un lampo balenò allora alla mia mente; e quel lampo era un’idea. — Padre, — gli dissi, avanzandomi, — padre prefetto.... — Ebbene? Che cosa vuoi tu? — Peschiera.... — risposi, con la mia voce soffocata dalla commozione; — Peschiera è in mano dei nostri. — Ah! — gridò egli fermandosi e facendosi rosso in volto come un rosolaccio dei campi. — Come lo sai? — Qui.... qui.... il bollettino; legga. — Il padre prefetto me lo aveva già strappato di mano. Leggeva, e gli sfavillavano gli occhi; leggeva a mezza voce, profondamente commosso, balbettando. Con lui mi venne il coraggio che temevo di non aver più col padre maestro. — E noi, padre, per questa vittoria, vogliamo prender parte alla dimostrazione che si farà in piazza di Càneva.... — Si chiamava solamente di Càneva, cioè della Canapa, la piazza Colombo, in vicinanza del porto, dove erano a quel tempo i banchi degli spedizionieri, degli armatori, dei cambiavalute, ma dove probabilmente in un tempo anteriore erano state botteghe di canapini, venditori di tela di canapa per le vele dei bastimenti. — Sì, — proseguivo, pigliando la rincorsa, mentre egli continuava a leggere rottamente. — sarà una dimostrazione di tutta la città. Che entusiasmo vuol essere! Faremo vacanza, non le pare? La notizia è troppo bella.... importante.... strepitosa.... — Strepitosa davvero; — rispose il padre prefetto. — Mi lasci il tuo bollettino, che lo faccio leggere ai Padri? — Sì, lo tenga, lo tenga; io lo so già tutto a memoria. — Era dunque il permesso di far vacanza. Non lo dava il maestro di grammatica, veramente: lo dava il prefetto, «studiorum praefectus», che aveva per le scuole un’autorità superiore, e che a buon conto poteva conceder vacanza, non ad una sola classe, ma a tutte. Forte di questa argomentazione interiore, salutai il frate e corsi a gambe levate verso l’ingresso. I compagni mi aspettavano là, parte sulla gradinata, parte in istrada, come in agguato. — Vacanza! — gridai. Vacanza! vacanza! risposero venti o trenta voci. Vacanza! vacanza! echeggiarono quaranta o cinquanta, di scolari e scolaretti accorrenti. E via tutti, allegra torma di pecchie quando prendono a sciamare; via tutti, verso la piazza, raccogliendo per cammino i più tardi, informando della vittoria dei nostri soldati, e della nostra ad un tempo. Peschiera vinta! Peschiera italiana, finalmente! Che bella cosa, che grande notizia, da far ribollire il sangue nelle vene! Così riscaldati, esaltati, pazzi dalla gioia, avevamo intuonata la canzone del tempo: Sorgete Italiani A vita novella; D’Alberto la stella Risplende nel ciel. La prima idea era d’incominciarla noi, la dimostrazione, voltando a sinistra verso il Molo, e andando per le calate del porto fino a piazza di Càneva. Ma io ebbi il torto di lasciarmi tirare a destra, sulla passeggiata, per giuocare da capo ai puntoni. Prevalevano gl’istinti guerrieri, quel giorno. E poi, stanchi di fare ai puntoni, accettammo l’idea di andare nei fossi della Fortezza, per giuocare a rimpiattino, alla barra, al tabarro. Eravamo nel più bello delle nostre prodezze, quando fu dato il segno d’allarme. Lassù, dall’orlo dello spalto, si affacciava il cappello del padre prefetto; solita e molesta apparizione per tutti coloro che avevano salata la scuola. — Che cosa vuole, il padre prefetto, quest’oggi? — domandarono a me i compagni di giuoco. — Non glielo avevi detto tu, che si faceva vacanza? — Gliel ho detto, sì. — E allora perchè vien qua, minacciando con la mano? Senti, ci chiama anche. — Ma.... che ne so io? — Avrà cambiato opinione; — disse un altro. L’idea di ribellarci fuggendo, non venne a nessuno di noi. Eravamo diavoli scatenati, alle nostre ore; ma bastava un nulla per richiamarci al sentimento della disciplina. Mogi mogi, ci avviammo tutti verso una gradinata a scarpa, che metteva dal fosso allo spalto. — Perchè avete salata la scuola? — tuonò il padre prefetto, quando fummo a portata di voce. — Padre.... non lo sa?... Le è pur rimasto il bollettino!... I nostri hanno preso Peschiera. — Ebbene? c’è forse bisogno di lasciare la scuola, perchè è stata presa Peschiera? — Ma io.... se si rammenta.... Le avevo anche detto.... — Che cosa? — Che era festa nazionale, oggi.... e si poteva far vacanza.... — Si poteva.... si poteva fare anche questo; — borbottò il padre prefetto. — Ma bisognava prima di tutto domandarne licenza ai maestri. — Credevamo che dicendo a Lei.... — Non so cosa abbiate detto a me.... La notizia era tanto strepitosa!... — Già, lo dicevo infatti, strepitosa. E noi allora Le abbiamo soggiunto che si sarebbe fatta una grande dimostrazione. — Nel fosso della Fortezza, non è vero? Mariuoli! Pigliatemi il portante, e via. Per la scuola del mattino è tardi; andate a casa, a studiare. Chi mancherà alla lezione pomeridiana, faccia conto di venir domani accompagnato dai suoi parenti. — La minaccia era grave. Dispiaceva a tutti d’esser mandati a casa con l’obbligo di farci riaccompagnare alla scuola dal babbo o dalla mamma. Al tempo nostro queste due autorità non ischerzavano. Bisognava avvertirle dell’incomodo che si cagionava loro, e confessar le ragioni del fatto; donde avveniva che ricevessimo una salutar correzione anche prima di esser condotti al collegio. Perciò, immaginate che tutti, «nemine excepto», si fosse nel pomeriggio alla scuola. Quando noi grammatici entrammo in classe, il padre Escrìu era là in piedi, davanti alla cattedra, duro, accigliato, con la sua riga tra mani, che pareva un bastone di comando. — Perchè non siete venuti a scuola, stamane? — chiese egli, dopo un lungo silenzio, quando noi fummo tutti seduti nelle nostre panche. — Parlate; lo voglio! — incalzò, vedendo che nessuno di noi si alzava per rispondere. E il bastone di comando, che da principio ballava, incominciò ad agitarsi convulsamente tra le sue dita. — Mi avete capito? — riprese. — Vuol finir male, quest’oggi; molto male per qualcheduno.... e per tutti i suoi complici. — Eravamo esterrefatti. Lo intendevamo benissimo, che qualcheduno, l’istigatore, sarebbe stato mandato via, «nec sine colaphis», cioè a dire non senza scappellotti, e che a tutta la classe sarebbe toccato un «pensum» da doverci perdere le ore di ricreazione per un mese. — L’hai presa Peschiera! — mi mormorava intanto sottovoce un compagno. La crudeltà del sarcasmo mi rivoltò il sangue, e fece quello che non aveva ancora potuto su di noi la sgridata del frate. Mi alzai in piedi e stesi la mano, quantunque non ce ne fosse bisogno, poichè egli stesso m’invitava a parlare. — Padre, non castighi nessuno dei miei compagni; — gli dissi. — Sono io, il colpevole; io che ho letto questa mattina, uscendo da casa, il bollettino della presa di Peschiera. Mi pareva che con una notizia simile.... Capirà; siamo italiani.... L’avevo detto anche al padre prefetto.... che si era commosso anche lui. Forse, nella commozione, non ha sentito quando gli dicevo della vacanza.... Ora sa tutto, padre maestro.... punisca me, ma non altri. — Non altri! non altri! — ripetè il maestro imbizzito. — Farò quello che mi parrà conveniente. E voi, frattanto, in ginocchio! — In ginocchio! Era grossa, e tutti i miei sentimenti si rivoltarono. In ginocchio! Da tre anni che ero alunno delle Scuole Pie, non c’ero mai stato messo; nè dal padre Sanguineti, nè dal padre Conio, nè dal padre Cigliuti. Qualche volta in castigo nei corridoi, non lo nego; ma in piedi. E in ginocchio, allora! in ginocchio! era grossa, era orribile; non potevo mandarla giù; non mi ci sarei adattato, no davvero; piuttosto a casa, e ritornar magari coi miei parenti, dopo aver preso un paio di ceffoni _a priori_, o di calci _a posteriori_, dal babbo. Quell’altro intanto ripeteva il comando; ed anche accennava di muoversi, certamente per cavarmi a forza dal posto. Precorsi l’offesa; mi mossi, scesi dalla panca (la seconda dei Cartaginesi, ahimè!) per calare in mezzo alla scuola; ma come fui giunto là, scambio d’inginocchiarmi, voltai verso l’uscio, colla ferma intenzione di andarmene. Ma quell’altro, che forse mi aveva letto negli occhi il proposito ribelle, mi fu addosso d’un salto, mi gravò la sua larga mano sulle spalle, facendomi andar giù, se non proprio come voleva lui, sulle ginocchia pur troppo. — Hai dato cattivo consiglio; — soggiunse poscia, mentre ancor lavorava per farmi inginocchiare davvero; — lo confessi, e vuoi sfuggire la pena? In ginocchio, ti dico. Tanto meglio, se ti dispiace. E qui, — riprese, dopo un istante di pausa, sentendomi dare in uno scoppio di pianto, — ci hai la posizione più conveniente per pregare. Prega Dio, — conchiuse, — prega Dio fervidamente, per tutti quelli che han preso Peschiera; prega Dio che riescano a prender Verona! Il primo errore. Giunto dalla sua natale Germania a Parigi, e prendendo da viaggiatore coscienzioso a visitarne i monumenti, Enrico Heine non tralasciò di dare una capatina nei dintorni, fino alla celebre abbazia di San Dionigi. Colà, osservando il luogo dove il santo era stato decapitato, e meravigliandosi forte al racconto dello scaccino, che il santo sullodato avesse fatto ancora una ventina di passi dopo aver perduta la testa, si sentì soggiungere, quasi a spiegazione del miracolo: «Vous savez bien, monsieur, il n’y a que le premier pas qui coûte». Quello scaccino aveva ragione, ed io lo so per prova, che senza testa, o senza cervello, che negli effetti è tutt’uno, ho fatto il mio primo passo; donde avvenne che facessi poi tutti gli altri, ahimè, sulla via del Parnaso. Avevo io otto anni? nove? dieci? Non so più bene. Potrei forse orientarmi chiedendo ai miei concittadini in che anno monsignore Riccardi di Netro fosse stato nominato vescovo di Savona e avesse fatta la sua visita pastorale per tutti i borghi della sua diocesi. E forse il saperlo mi gioverebbe poco, essendo anche possibile che il degno uomo fosse andato parecchie volte in volta, e più d’una, a buon conto, fino al monastero della Pace, sopra Albisola, dov’io ragazzo ebbi l’onore di avvicinarlo; e fu quello il giorno fatale del primo errore, del primo peccato letterario, che portò poi tutti gli altri, onde sovente Di me medesmo meco mi vergogno. Mi confesserò di quel primo, e voi mi darete la penitenza; se pure non crederete che io n’abbia già fatte abbastanza. Ma raccontiamo con ordine, e premettiamo quanto è da premettere. Il mio babbo era un gran filarmonico nel cospetto di Dio e degli uomini; tanto che, non contento di suonare per suo conto e diletto parecchi istrumenti, aveva formato un concerto musicale, e diciamo pure una banda, provvedendo del suo gli arnesi sonori alla più parte dei soci dilettanti. Io, naturalmente, partecipavo a tutte le comparse della Banda Nuova (era questo infatti il suo nome, per contrapposto alla Musica Vecchia), andavo a tutte le feste cittadine, a tutte le funzioni di chiesa, a tutte le sagre dei dintorni, a Lavagnola, a Zinola, ad Albisola, sempre affidato al braccio amico (vedete come mi fiorivano fin d’allora le rime) di Ninetto Cerisola. Il Ninetto, come più comunemente lo chiamavano, tralasciando il cognome, era un ometto (e dàlli con le rime!) piccoletto, ma forzuto e barbuto, che appunto per quella sua barba folta e nera, aveva meritato il posto di zappatore nelle gloriose legioni della guardia civica. Di professione era staderaio, cioè a dire fabbricava, vendeva, aggiustava bilance; a tempo avanzato suonava il trombone, quel bel trombone antico, senza chiavette, che dava le note secondo l’allungarsi e il raccorciarsi delle sue canne di ottone. Ricordo che il giorno della festa solenne al convento della Pace, dovendo suonare sull’orchestra della chiesa, io avevo trovato il modo di ficcare nel tronco interno di quelle canne mobili un turaccioletto di sughero; onde l’amico Ninetto, per soffiar che facesse, non riusciva a mandar fuori una nota. E non protestava neanche, il poverino; che anzi faceva le viste di non avvertire l’impedimento. S’era fatta, prima della Messa cantata, una colazione desinatoria; ed egli forse dubitava di aver alzato un po’ il gomito, di esser brillo, insomma, e di averne impacciate le labbra; cose che càpitano ai suonatori, che sono uomini come tutti gli altri del seme d’Adamo, e sanno che il buon vino non rispetta nessuno. Fors’anche, un po’ alticcio davvero, non aveva badato più che tanto se il suo trombone suonasse o non suonasse? Certo è che quando gli amici, avvisati della burla, gli fecero complimenti per la sua cavata, che quel giorno era stata magnifica, egli subito, con bella modestia, rannicchiando le labbra tra i peli della barba, rispose: — Si fa quel che si può. — Solo più tardi, levando dalla ritorta le canne dello strumento, ne visitò le due bocche. — Ah birichino! Siete stato voi? — mi gridò, mentre si disponeva a levare da una di quelle il turacciolo traditore. Ma egli mi voleva tanto bene, che quella mia burla atroce gli parve la trovata più bella e più spiritosa del mondo. Monsignore aveva pontificato, e dopo il vespro era sceso in refettorio coi frati. La banda, allineata nel corridoio, aveva rallegrati i principii, la zuppa e credo anche il fritto, col coro dei «Lombardi» e con l’altro del «Nabucco», non dimenticando la preghiera dei «Foscari» per assòlo di trombone. Non c’era più turacciolo, e il Cerisola aveva fatto prodigi. Inorgoglito del suo trionfo, si era levato a più superbi voli; aveva intravveduto un’idea, l’aveva inseguita, afferrata al varco, e la presentava calda calda ai compagni. — Non si può mica suonar sempre! — diss’egli. — Se alle frutta tutto il corpo filarmonico si presentasse in refettorio per cantare un complimento al vescovo?... — Un complimento! — si gridò, colti all’impensata. — E cantarlo! Che cosa sarà? — Un coro, un coro d’opera conosciuta, con parole adattate; — riprese il Cerisola. — Allora ci vogliono i versi. E chi li fa i versi? — Eh, se il signor Luigi volesse.... Così dicendo, il Cerisola s’era rivolto al mio babbo. Ma il mio babbo accoglieva la proposta con un’alzata di spalle, che mandava il Cerisola a farsi benedire. E il Cerisola, scambio di andarci, si rivolse a me, che gli stavo vicino. — Li farete voi, allora; — soggiunse. Ninetto Cerisola mi sapeva studioso, e mi credeva capace di tutto. Infatti, dopo il turacciolo!.... — E perchè no? — risposi. — Se mi date la musica.... Era fresca la memoria della «Lucia di Lammermoor», cantata al teatro Sacco, allora il primo di Savona, essendo anche l’unico. Un coretto del second’atto di quell’opera parve la man di Dio. Lo sapevano tutti a mente; e non domandava altro al poeta che una strofetta di quattro settenarii. Anch’io, per bacco baccone, mi sentivo capace di tutto. Cavai la matita, e sul primo pezzetto di carta che mi venne alle mani scrissi i miei versi, senza pur dimandare la necessaria ispirazione ad Apollo. Ninetto Cerisola li lesse, li trovò sublimi, e li portò a leggere al mio babbo, che fece un gesto di orrore, e poi, rivolgendosi a me, accennò con la palma levata la voglia imperiosa d’un solennissimo scapaccione. Ma egli era abbastanza lontano, ed io stetti a grinta dura, mentre Ninetto Cerisola, il primo e credo anche l’ultimo predicatore della mia gloria, rileggeva ad alta voce i maravigliosi miei versi al corpo filarmonico, che in atto di curiosità, gli si stringeva d’attorno. «Salve, pastor Sabazio, Nostro sostegno e onore; I palpiti del core Noi consacriamo a Te.» Di peggiori non si poteva farne, lo riconosco: ma allora pensavo come Ninetto Cerisola; li trovavo anch’io maravigliosi, sublimi, specie rivestendoli già nella mia mente con le note del Donizetti. Erano, dopo tutto, cantabili a quel dio; e il Ninetto li attaccò bravamente con la sua vocina di tenore bari.... stonato. Il Forzani, il Ghisolfi, il Lanza, il Casella, il Bibolini, tutti insomma quanti erano i nostri filarmonici, si affrettarono a ricopiarli. Ed aiutavo anch’io (vedete degnazione d’autore!); sicchè in pochi minuti ne tirammo giù una ventina di copie. E quando si videro uscire dal refettorio gli avanzi dell’arrosto cogli avanzi dell’insalata, segno evidente che là dentro si passava alle frutta e al formaggio, fatta giungere discretamente all’orecchio del padre guardiano la voce che i suonatori della banda volevano cantare un complimento a Monsignore, si spalancarono i battenti dell’uscio, e la banda penetrò, fortunatamente inerme, nella sala dei banchettanti; ma ognuno degl’irrompenti avea tra mani spiegato il suo pezzetto di carta, da farli parer tutti camerieri che portassero il conto. Al rumore di quella entrata improvvisa, Monsignore alzò la sua bella faccia petrarchesca, che m’è rimasta impressa nella memoria, tanto che mi pare di averla sempre negli occhi. Ci fu un momento di silenzio: i filarmonici si erano messi in fila. Poi, apriti cielo, venti bocche si schiusero ad un cenno, e fu un grido allora, un urlo solo: «Salve, pastor Sabazio, Nostro sostegno....» e il resto, che per amore di brevità si omette, ma che laggiù, in quell’ora solenne, fu cantato a squarciagola, bissato, rinterzato, se ben ricordo, senza richiesta, ma non senza una benevola rassegnazione dei commensali assordati. Qualcuno, di certo, si sarà doluto in cuor suo; ma, da buon cristiano, n’avrà fatto, come si usa di tutti i dolori, un’offerta al Dio degli afflitti. Monsignore di Netro non aveva da liberarsi in quel modo da nessuna afflizione. Appariva dolcemente commosso da quella dimostrazione, tanto più affettuosa quanto più rumorosa. Certamente per modestia s’era fatto rosso in volto come una fravola montanina, e tratto tratto dondolava il capo, così in atto di ringraziare, come di nascondere la sua confusione. Finito il canto, lodò con belle parole i cantori del cortese pensiero che li aveva mossi; ma voleva anche lodare il poeta, e per lodarlo, per ringraziarlo particolarmente, gli bisognava conoscerlo. Io, veramente, non avevo preveduto quel desiderio episcopale. Ero così lontano dal credere che in quella dimostrazione canora ci potessi entrar io per qualche verso, che non avevo dubitato di ficcarmi ancor io tra i cantori, prendendo sbadatamente il mio posto in fila, tra il Ninetto, ch’era un cosettino tant’alto, e il Casella, che era un mezzo gigante. Il Casella, per l’appunto, sentito il desiderio di Monsignore, mi afferrò amorevolmente pel colletto, e mi cacciò avanti, dicendo: — Signor vescovo, eccolo qui il poeta. Monsignore sorrise al «signor vescovo» e poi volle veder da vicino il poeta. Non c’era più modo di scapolarla: ci andai, come la biscia all’incanto: ci andai, confuso e tremante, girando dietro a dieci o dodici schiene. Alla sinistra del vescovo una sedia si trasse un pochettino da lato, tanto che v’ebbi un po’ di spazio per accostarmi al mio «pastor Sabazio» e per baciargli l’anello pastorale, che s’era benignamente sollevato all’altezza delle mie labbra. Beata età, che la bocca dell’uomo può ancora esser fatta per baciare anelli di vescovi e destre di nonni! Ma il mio «pastor Sabazio» voleva anche discorrere, sapere dei miei studi, della classe, del collegio, dei maestri, dei libri prediletti, perfino della via che mi proponevo di scegliere quando fossi entrato nel mondo. — Studia sempre, ragazzo; questo serve per ogni via; — mi disse, quando gli ebbi tra male e peggio barbugliate quattro o cinque risposte. — E dimmi, intanto, sai già bene il latino? — Sì, Monsignore, un poco; — risposi a faccia fresca. Infatti, perchè no? Ero già uscito dai latinucci, sfranchito dalle concordanze, e poteva parermi che non ci fosse più altro da spartire tra me e la difficoltà della lingua di Cesare. — Bene; — ripigliò Monsignore; — conoscerai dunque il proverbio: «Carmina non dant panem....» — «Sed aliquando famem;» — soggiunsi io inanimito, compiendo il pentametro. — Lo sai tutto? Me ne compiaccio. Ma sappi ancora, che quel proverbio è falso; ed io mi sento di fartene la dimostrazione. — Così dicendo, il mio bel Petrarca in mezzetta si levò da sedere, prese un coltello, stese la sua bella mano bianca e morbida verso una gran torta dolce che stava davanti a lui, ancora intatta, nel mezzo della tavola; e colla punta del coltello ne tagliò a fondo il cuore, che portava il suo nome in lettere di rilievo e di zucchero. Ciò fatto, ficcò sotto quel rocchio la punta del coltello, e d’un colpo lo fece balzare nel suo piatto, che con l’altra mano era stato pronto ad accostare. — Vedi? — riprese allora, porgendomi il piatto. — I carmi dan pane; ed è pan di Spagna, salvo errore, o qualche cosa di simile. — Poi, col rovescio della mano, anzi diciamo col sommo delle dita affusolate, mi diede un colpettino sulle guance. Era il commiato; ed io, fatto un mezzo inchino, mi affrettai a prendere il largo. Cioè, dico male; non potei affrettarmi, poichè ero allo stretto, fra la parete e quella fila di sedie, che s’erano tutte un po’ mosse, per dar modo ai sacri commensali di voltarsi sul fianco e di farmi anch’essi il loro complimento. Il padre guardiano, prima di tutto, m’aveva fatto un sorriso di vecchio conoscente; ed io lo sentii, mentre uscivo dalla stretta, che diceva a Monsignore com’io fossi stato a balia poco distante di là. Insomma, un primo trionfo, un trionfo inaudito; ed io non ne portai le spoglie opime a Giove Feretrio, perchè facevo conto di sgranocchiarmele, appena fossi giunto nel corridoio. Il mio babbo era là, non troppo scontento, a dir vero, ma ancora un po’ buzzo, come fa il tempo quando non vuol mettersi d’un tratto al sereno. — È dolce il primo pane che guadagni coi versi; — mi diss’egli, con accento canzonatorio. — Ma non t’ingannare; potrebbe anco esser l’ultimo. — Io non volevo scapaccioni, cose che in verità non sarebbero state da trionfatori. Chinai il capo sotto la ràffica, e scappai all’aperto col mio buon rocchio di pan di Spagna. Laggiù, mentre lo sgretolavo allegramente, mi venivano certi pensieri di gloria, che me lo facevano parere anche più dolce. «Per una strofetta di quattro settenarii!» dicevo tra me. «Che sarà mai quando farò i quattordici endecasillabi d’un sonetto? o le sei stanze, le otto, le dieci d’una canzone?» Sonetto e canzone mi ronzarono nel cervello un bel pezzo; ed anche mi provai quell’anno a farne su parecchi argomenti; ma mi riuscivano troppo difficili per la giusta collocazione delle rime. Quanto ai versi, niente paura; ne avevo le sillabe sulla punta delle dita, dove potevo contarle nei casi dubbi; e già avevo messa in endecasillabi sciolti l’Epitome della Storia Sacra. Ne ricordo un verso per l’appunto: Qui venne a morte Giosìa il gran rege; un verso cane, anzi un verso da cani, che meritava d’esser legato. Infatti lo sciolto era ancora un osso duro per me. Ma dal giorno del pan di Spagna in poi, quanto durarono i miei studi classici alle Scuole Pie di Savona, feci versi a tutto spiano, di tutte le misure, ogni giorno. Mi fortificavano nel proposito le cortesie episcopali, che non s’erano mica fermate a quella vistosa rotella di torta dolce. Figuratevi che una volta per settimana, e magari due volte, mentre io giuocavo alla palla, e mi era stadio la piazzetta del Vescovato, capitava il buon Tommaso, il vecchio servitore di Sua Eccellenza (mi par di vederlo ancora, con le sue brache corte, le calze nere, le fibbie d’argento alle scarpe e la sua smilza faccia incartapecorita sotto i ciuffetti della parrucca biondiccia), e passandomi rasente mi faceva scivolare tra le mani una palla, spesso nuova, fiammante, ora di cuoio d’una tinta, ora a spicchi di pelle variamente colorata. Monsignore non le faceva fare a bella posta per me, intendiamoci bene. Erano palle sperse, che da una parte o dall’altra, ma più frequentemente dalle spalle del Duomo, in certe volate di giuocatori mal destri, andavano a cascare entro i giardini dell’episcopio. Rimaste là senza padrone, era giusto che si regalassero a me, dopo la scena della Pace. Ma quei regali, che mi riempivano il cuore d’allegrezza, mi procacciarono invidie non poche; ed ebbi allora i miei primi Zoili, e Mevii e Bavii «sine fine dicentes». Nè voglio tacere un’altra cortesia di Monsignore, che quante volte, uscendo a passeggio, m’incontrava per via coi miei libri ad armacollo, mi fermava amabilmente per domandarmi notizia delle mie «dotte fatiche» e con un «da bravo, continua a studiare,» mi dava il piacevol commiato del suo colpettino sulla guancia; specie di cresima transitoria, che non aveva più da imprimer carattere, ma che valeva a confermarmi la sua benevolenza. Povero mio «pastor Sabazio!» Egli era certamente animato da una buona intenzione, usando cortesia al suo piccolo poeta. Ma se io non mi fossi inuzzolito per quel troppo dolce premio al primo saggio della mia Musa in fasce, tutt’altri guai non sarebbero mica avvenuti; il babbo m’avrebbe avviato al commercio, e magari ci sarei diventato milionario. Dicono che sia così facile! E onestamente, badate, onestissimamente. Si comincia a trafficare; si tiara avanti un bel poco; poi si fallisce, offrendo ai creditori l’ottanta per cento. Abboccano tutti, e promettono a sè medesimi, tanta è la loro maraviglia, di farvi fido per un’altra volta. Voi ripetete il giuoco, s’intende; lo ripetete magari una diecina di volte, sempre col medesimo frutto, del venti per cento in tasca. «Poveraccio!» gridano a gara; «è disgraziato, ma galantuomo. Che si canzona? l’ottanta per cento! chi è che lo dà più, a questi lumi di luna?» Il mio racconto ha un’altra morale; ed è questa. Ragazzi, studiate, se vi pare; lo studio ha qualche utilità nella vita, e non bisogna poi fidarsi tanto di certi esempi fortunati. L’essenziale è che studiando non vi pigli la manìa di far versi. Guardatevi bene dal primo errore; si sa come si comincia e non si sa.... Cioè, mi spiego, si sa pur troppo dove si vada a finire. Ceppo in famiglia. «Ricòrdati che Ceppo si fa in famiglia» mi scriveva mia madre. «E dove mai si è più in famiglia che dal nonno?» Mia madre ha sempre ragione; ma quel giorno l’aveva due volte. Sicuro, si è più in famiglia nella casa del nonno, quando ci sono intorno a lui le due generazioni, raccolte alla sua mensa. Ceppo è una gran gioia domestica, in cui si associano e si compenetrano due religioni; quella dell’acqua che ci ha battezzati, e quella del fuoco intorno a cui siamo cresciuti. Aggiungete che sotto Natale fa freddo, e quando fa freddo ci si stringe volentieri gli uni di costa agli altri, e volentieri ci si scalda a quel ceppo, che è simbolico quanto si vuole, ma che arde davvero; e si mangia di buon appetito a quella tavolata, dove si è tutti congiunti di sangue, e per un’ora, se Dio vuole, anche d’idee. Quello è il giorno che niente rimane sullo stomaco, neanche il panforte di Siena, e niente dà al capo, neanche la malvasìa di Sardegna. La mensa del mio nonno materno era celebre per un certo vino del Sinai, dorato come il Cipro, ma anche più asciutto. Gliene ho assaggiato tanto, di quel vino! e non ho date le tavole della Legge sulle corna di nessuno. È vero, per altro, che non mi era mai stato affidato l’incarico di far sentire a nessuno che la legge è dura. Ma per quella volta, ricevuta la lettera della mamma, non pensai punto al vino del Sinai. Mi si offerse in quella vece agli occhi della mente la vecchia casa del nonno, là sulla marina di Finale, tra la mole giallognola del palazzo Buraggi, che cresceva da levante, e lo smisurato masso ferrigno della Caprazoppa che cresceva da ponente, con la distesa del mare davanti, e con la riva sonante, dove io bambino avevo edificati tanti castelli, contornati di fosso, protetti da sproni, cavalieri e palizzate di ciottoli. Perchè io, grazie al cielo, non ho mai fatto castelli in aria, e sempre ho fabbricato sul sodo. Ma, ohimè, veniva la sera; il mare cresceva, e un maroso più lungo incominciava a seppellirmi la palizzata; un altro, anche più lungo, mi spazzava lo sprone; un terzo mi colmava il fosso; un quarto, più lungo di tutti, mi entrava dai merli, e mi mandava a casa mogio mogio come un pulcin bagnato. Ed anche il viaggio a Finale, che gioia! Si partiva ogni anno due volte da Savona, con la vettura di Belloro (così chiamato, perchè il suo vero nome era Podestà, e nei nostri paesi non c’era caso che uno fosse chiamato col suo vero nome); si vedeva Zinola, colla sua esposizione di pentole al sole; Vado, coi suoi fortini e la sua rada sicura («statio bene fida carinis», dicevo già io, peccatore precoce di citazioni latine); Spotorno con le sue fornaci di calci e col suo parroco, che pretendeva essere stato là per rifugio il re dei Rutuli vinto da Enea, tanto che rimase alla terra il suo nome: «ultima spes Turni;» e davanti a Spotorno la verde isoletta di Bergeggi, con le rovine del famoso convento di Sant’Eugenio e col suo misterioso tumulo preromano sulla vetta; poi Noli turrita, davanti a cui si suol recitare un verso di Dante, e sulla cui spiaggia io ricorderò sempre di aver salvata la vita ad un pesce. Passavo un giorno di là, nella solita carrozza, mentre alla spiaggia si tiravan le reti. Smontai, curioso, per andare a vedere la pesca miracolosa. Furono magri affari, poichè in fondo alla rete non era rimasto altro che un pesce. Lo comperai. Era una triglia adolescente. «Va» le dissi, gettandola in acqua «cresci e moltiplica». Non so se abbia principio da quella mia liberalità l’abbondanza di pesce sulla spiaggia di Noli. E poi, dopo Noli e il suo rosso promontorio, la penisola grigia di Varigotti, della rupestre Varigotti, che piace tanto a me, quanto spiacque a Rotari, e alla amministrazione delle strade ferrate italiane. Il primo la distrusse; e questa per molti anni non volle considerarla come rifabbricata. Poi Final Pia, con la sua valle di mandorli, che la fanno parere un paesaggio giapponese alla stagione dei fiori, e col suo bel ponte su cui si faceva la fiera, il giorno dell’Assunzione. Insomma, che dirvi di più? Tutte le gioie di tanti viaggi, concentrate in uno, che io avrei fatto, dopo molti anni d’assenza dalle rive beate della beatissima età. E lo avrei fatto come per l’addietro, quel viaggio, cioè a dire in carrozza; perchè in quell’anno, che fu il 1870, la strada ferrata da Genova a Ventimiglia non era compiuta, e giungeva solamente a Savona. Avrei sentito l’odore dell’argilla fresca sulla riva di Zinola; quello dei rami di pino davanti alle fornaci di Spotorno; quello delle alghe rigettate dal mare alla spiaggia di Varigotti; a farla breve, tutte le fragranze del buon tempo antico. E avrei sorriso per giunta davanti a quell’«Ultima necat» di una certa meridiana di Spotorno, che m’aveva dato tanto da pensare nel mio primo anno di latinità, volendo io tradurre da me, senza chiedere aiuto a nessuno. Con queste promesse di gioia, partii la mattina istessa del Natale, da Genova, dopo aver dato licenza alla cuoca di andarsene per i fatti suoi. La brava donna mi aveva ringraziato, lieta di far Natale col suo maritino. «Benissimo!» le dissi. «Anche voi farete Ceppo in famiglia. Statemi allegra.» E m’avviavo alla stazione, con una splendida aurora. Il cielo era di cobalto; l’aria niente fredda; pareva un bel mattino d’autunno. E a nessuno veniva la voglia di viaggiare, quel giorno! Ma già, si capiva, era Natale; e ognuno stava più volentieri a casa sua. Quelli che dovevano andarla a cercare per quella occasione solenne, già l’avevano trovata, essendo partiti la vigilia. Così avvenne che quella mattina, al primo treno, io non avessi altri compagni che cinque o sei viaggiatori di terza classe, due o tre di seconda, e nessuno di prima. Tanto meglio, infine! regnavo da solo nel mio scompartimento «per fumatori». E non si partiva mai! Chi aspettavano ancora? Io, prima che il treno si movesse, avevo già letto i pochissimi giornali usciti quella mattina, pieni zeppi di fatti varii con tanto di barba, scarsi di notizie politiche e senza ombra di telegrammi. Nei giorni di festa, si sa, e nelle vigilie dei giorni solenni, non accade mai nulla nel mondo, o l’Agenzia Stefani non permette che accada. Finalmente il treno si mosse. E usciti di sotto alla tettoia, povero cobalto dei cieli! s’era fatto grigio; mistura di bianco e nero fumo, per mezzo a cui tremolava cadendo qualche fiocco di neve. — Ah bene! — esclamai. — È natalizia in sommo grado, la neve; ben venga! E venne, a mano a mano più fitta. A Sampierdarena i fiocchi apparivano più grossi; a Sestri non eran più fiocchi, ma falde, a Voltri, dov’è tanta fuliggine di camini per la frequenza degli opifici, non si vedeva altro che bianco; ad Arenzano, non so come, la neve mi entrava nella carrozza. L’ebbi per un miracolo, poichè i finestrini erano tutti chiusi, con quel tanto d’impenetrabilità che l’amministrazione delle strade ferrate assicura al suo materiale viaggiante. Miracolo, adunque, e miracolo noioso. Ma infine, ero solo, e potevo sedermi su d’uno dei bracciuoli di mezzo, poichè già dai due lati mi si erano formati dentro lo scompartimento due bei poggi di neve. Ridevo, alla stranezza del caso, e fumavo; fumavo, come un altro Mongibello, con la neve da’ piedi. Di fuori non si vedeva una spanna più in là, tanta era la furia del nembo. Come si giunse a Savona, calai prontamente, e fuggii dalla stazione, senza fermarmi neanche a domandare per qual ragione mi fosse nevicato in carrozza. Arrivai sulla piazza del Fosso, come si diceva anticamente, con la neve a mezza gamba; e là, senza perder tempo a salutare il mio illustre concittadino Chiabrera, scolpito sul timpano del teatro che porta il suo nome, entrai nell’ufficio dei signori Botta e Passeggi, per ordinare una vettura. Niente vetture. — O come! — Scusi, ma è Natale. — Ebbene, non è dunque possibile viaggiare, nel dì di Natale? Se ci fossero degli ammalati, e il bisogno urgente di un medico? — Verissimo; e si potrebbe anche attaccare per lei, che non è medico; ma con questo tempo? Sarebbe da matti. — Mettete che io sia matto, e fate attaccare; a qualunque prezzo. Venti, vi bastano? — No. — Trenta.... quaranta.... sessanta? — No, neanche per cento. — Ah, per tutti i settecento.... settantasette mila diavoli! come si fa? — Mi rivolsi ad un crocchio di vetturini, che stavano chiusi nei loro mantelli, su d’un portone, fumando la pipa e meditando sulla tristizia dei tempi. C’era tra essi il vecchio Piuma (così detto perchè veramente di cognome si chiamava Cerisola), il vecchio Piuma, amico mio, che m’aveva conosciuto bambino, e tante volte mi aveva portato, studentello in vacanza, da Genova a Savona, e viceversa. — O Piuma, gli dissi, se dura in cuor vostro una favilla dell’amor primiero, portatemi voi a far Ceppo in famiglia. Anche la mamma, per cui avete tanta divozione, ve ne sarà molto grata. — Impossibile, — mi rispose. — Non vede che tempo? I cavalli non ce lo farebbero. E poi, dove s’andrebbe? Giù da una balza, di sicuro, a far Natale coi pesci. Una cosa posso fare, e la faccio di cuore.... invitandola a venire a far Ceppo da me. — Ringraziai, non intenerito, e andai a rifugio sotto i portici della via Paleòcapa. Non mi piaceva restare sul Fosso, dove ero già la favola di tutti i vetturini. Ma là, sotto i portici, diventai presto la favola di cento amici d’infanzia. — Come tu qui, oggi? che buon vento? Ah sì, cattivo, non è vero? Poveraccio! e volevi andare a far Ceppo in famiglia? Abbi pazienza. Un’altra volta partirai la vigilia. Vieni da me, a far Natale. Da me! da me! Si vuol ridere! — Ah, sì? ridere? niente affatto; riderete da soli. E liberatomi da tutti gli inviti, da tutte le canzonature, andai alla stazione, dove aspettai il treno delle quattro, che doveva riportarmi a Genova. Al nonno e alla mamma avevo mandato un telegramma, raccontando la mia disgrazia. Quello partiva, almeno; quello andava a far Ceppo in famiglia. Alle quattro, santa puntualità, il treno si mosse. Anche quella volta fui solo. Il ritorno fu peggiore dell’andata. La neve continuava a penetrare nello scompartimento, e faceva i suoi mucchi; ma io non fumavo più, perchè avevo oramai consumata la provvista dei sigari; e i tabaccai di Savona, come quelli di ogni altra terra italiana, facevano Ceppo in famiglia; donde la necessità di tener chiuso l’appalto, più ermeticamente d’una carrozza di prima classe. Ah, il mio ritorno! Se io son pure arrivato a Genova, n’ho debito alla cortesia del tempo, che fece strada con me. Giunsi intorno alle sei. E là, sul lenzuolo bianco della piazza Acquaverde, non c’era altri che Cristoforo Colombo, occupato con una mano a scoprire l’America, e coll’altra a reggere un’áncora. Non poteva, per conseguenza, indicarmi una vettura di piazza. Non ce n’erano, del resto; ed io, per la strada più corta, in un’ora di stenti inauditi, mi trascinai fino a casa, con la neve fin sopra al ginocchio. Abitavo nella via di San Luca, figuratevi! Pure, poichè volere è potere, ci giunsi, e indovinai anche il portone, ma senza toccare la bella soglia di rosso antico, che due palmi di neve sottraevano alla vista e alla cupidigia degli inglesi. Gli inglesi, si sa, voglion comperare tutto a peso d’oro; e sono i ciceroni che lo affermano. E a Genova, tra le cose che gli inglesi vogliono sempre comperare a peso d’oro, ci sono i leoni dell’Università, il portale del palazzo di Andrea Doria in piazza di San Matteo, e la soglia del mio portone in via San Luca. Dico mio, così per dire; ma qui l’aggettivo non è, a rigor di termine, possessivo; non indica o piuttosto non indicava altro che l’uso, il diritto di passaggio. Quando fui alle scale non ne potevo più dalla fatica, e fu miracolo davvero se mi arrampicai fino al terzo piano, dov’era il mio quartierino. E là, niente cuoca; niente cucina; niente sotto la mano, da mettere sotto il dente. La cuoca io l’avevo mandata a far Ceppo in famiglia; nè mai avevo posto piede in cucina, e non sapevo dove la brava donna tenesse in serbo la roba. Mi sarei contentato di così poco! Una crosta di pane, a quell’ora, mi sarebbe parsa la man di Dio. Potevo escire, e andare alla ventura, o in qualche osteria, o da qualche famiglia d’amici. Ma con quel metro di neve! conciato com’era! e come mi avrebbe conciato dell’altro quella bianca poltiglia, se pure avessi avuta la forza di mutar abiti! E poi, non avrei fatto ridere a Genova, come avevo fatto ridere a Savona? Ceppo in famiglia! Sì, ancora una volta, Ceppo in famiglia. Dovevo starci, e ci stetti. E digiunai, per conseguenza. Solo il mio spirito si era nutrito, quel giorno; solo il mio intelletto si era arricchito di una cognizione utile, raccolta dai frenatori, alla stazione di Genova. Quando nevica così fitto, non basta tener chiusi i finestrini; bisogna chiudere ancora gli sfiatatoi. Ma tutto ciò non fece tacere gli stimoli di una fame da lupi. Ed anche ora, quando ci penso, quella fame io la vedo; e riconosco facilmente di non avere nessuna disposizione per seguire l’esempio del Succi. Camene ligustiche. I miei genovesi della nuova generazione respirano bene, quando vanno passeggiando sui larghi marciapiedi della via Roma, aperta per essi in una collina di tufo, attraverso alle viottole di Piccapietra e delle Fucine. Respirano meglio, quando giungono sulla gran piazza, a cui non si è ancora pensato di dare un gran nome; nella gran piazza, io dico, inquadrata nel verde di due colline in declivio, dove hanno da ammirare tanta ricchezza di piante, tanti bei giuochi di luce, mentre Vittorio Emanuele li saluta cortesemente dall’alto del suo cavallo di bronzo, avendo l’aria di dire: «Avanti, signori, senza cerimonie, vadano dove vogliono. Dietro a me si aprono a ventaglio tre vie, anzi quattro, anzi cinque, tutte signorili ed ariose. Possono anche salire di qua, sulla loro diritta per andare all’Acquasola; ma io, se permettono, consiglierei di prendere a mancina, per di qua, dove si sale alla Villetta, dietro al mio amico Mazzini». Respiro anch’io, accettando il consiglio, e volgendomi alla Villetta; ma cambio facilmente il respiro in un sospiro tanto fatto. Quei viali, quei sentieri, quelle redole che si vanno inerpicando lassù, erano campo, anzi labirinto, alle passeggiate romantiche d’un tempo che fu; del tempo in cui le signore genovesi amavano ancora portare il pezzotto, quel velo d’aria tessuta che le rendeva così belle, come si può vedere e giudicare dall’ultima che si ostina nobilmente a portarlo, lassù, nella chiesa dell’Immacolata, e in un quadro di Nicolò Barabino. Sui giardinetti dell’Acquasola, come allora si chiamava quel poggio, incombeva lo sprone di una fortezza; quello sprone oggi mutato in una rupe artificiale, dove l’acqua della Scrivia è salita per darci l’illusione di una cascata, e far prendere, dicono, una boccata d’aria sana ai suoi dolci microbii. La fortezza è sparita; la Villetta che c’era dentro s’è trasformata in un parco di piante esotiche; il palazzo che era fabbricato nella Villetta, e che offriva un nobile asilo alle Muse nella prima metà di questo secolo morente, non ha più il suo cultore, il suo poeta, «Musarum sacerdos»; ma non si può dire che abbia mutata del tutto la sua destinazione, se si è trasformato in Museo. In mezzo alle palme, che lo nascondono agli occhi della gente, il civico Museo di Storia Naturale è sempre, e forse più di prima, una bella cosa; è l’oasi scientifica della prima città commerciale del regno. Quanto intelletto d’amore ha presieduto alla fondazione di questo Museo! Tutti coloro che ci hanno lavorato, e hanno dovuto lasciarlo, ne sentono la nostalgia: ci pensano vivendo, se ne ricordano morendo. Perchè ivi è una sola colonia felice di studiosi, capitanata dal marchese Giacomo Doria, uno scienziato valente e modesto, diventato celebre a suo mal grado, che un bel giorno il Senato e la presidenza della Società Geografica sono venuti quasi contemporaneamente a sequestrarci, come gloria italiana, e non solamente di Genova. Io non racconterò la vita di Giacomo Doria. Dal viaggio in Persia ad oggi sono passati circa trent’anni, tutti spesi ad esplorare, a raccogliere, a studiare, a classificare le men conosciute specie zoologiche, a trovarne di sconosciute, a dar notevoli contributi alla scienza, fuor d’ogni aiuto governativo e quasi d’ogni plauso del pubblico. Il Museo, che finalmente col concorso del Municipio genovese il Doria era riuscito a fondare, dopo averci speso oltre a centomila lire del proprio, è il deposito ordinato di veri tesori scientifici; gli «Annali del Museo Civico di Storia Naturale» di Genova, diventati per tipi, tavole e importanza di memorie, una delle prime pubblicazioni zoologiche d’Europa, ne sono la illustrazione continua. Il dotto e benemerito uomo è stato fatto anche consigliere, assessore municipale, poi sindaco della sua città natale. Da tutti questi uffici egli è uscito, per sua grande fortuna. Così almeno mi pare. Alla patria, finalmente, si può servire in più modi; e il migliore, per mio avviso, è quello che non dipende dal voto di qualche milione d’elettori. Eletti, rieletti, non più eletti, siete in balìa delle turbe e dei loro mutevoli criterii. L’ingegno, se ne avete, non ve lo levano le urne; non ve lo dànno, se ne patite difetto. Io anzi porto opinione (e non soffro osservazioni, soggiungeva quel tale) che più un uomo vale per sè medesimo, e più sia disadatto agli uffici elettivi. C’è dissidio mortale tra il valore intrinseco di un uomo e i criterii estrinseci di mediocrità tollerata, per cui si mandano gli uomini alle sommità del potere. E questo sia detto senza intenzione di offender nessuno. Perchè infatti, lo riconosco ancor io, qualche volta gli elettori s’ingannano; e allora scambio di scegliere i lor soliti mediocri, che è che non è, vi mandano alle assemblee deliberanti (crepi l’avarizia!) un certo numero d’uomini d’ingegno. Su questo errore è fondata anzi la maggior fortuna che in certi periodi storici sembra assistere la politica, la finanza e la coltura intellettuale di un popolo. Giacomo Doria ha fatto miracoli, lassù, nel museo della Villetta. Si dice elitticamente la Villetta, e si sottintende la Villetta Di Negro. Da principio, come vi ho detto, non era neanche una villetta, ma un fortilizio eretto dalla eccelsa Repubblica a proteggere uno degli angoli settentrionali delle mura di Genova; quelle, io dico, della penultima cinta, che fu del secolo XV. Il forte, se ben ricordo, si chiamava di San Giorgio. Era fuori dalla città; ora c’è proprio nel cuore, poichè, senza contare l’ultima cinta, condotta nel Secento sulla vetta dei monti, l’abitato della città si è esteso anche in alto, e molte strade s’inerpicano alle spalle della Villetta; prima tra le quali la bellissima via di circonvallazione a Monte. Gl’inutili avanzi del forte furono nel 1805 comperati dal marchese Gian Carlo Di Negro. Il quale mutò la piattaforma del castello in un belvedere; e più giù, in mezzo al verde, alla vista del mare e dei diecimila tetti di lavagna della sottoposta città, edificò la sua palazzina, «ospizio delle Muse». Lui morto, il Municipio comperò la Villetta; e l’ospizio delle Muse, lasciate solamente in piedi le mura maestre, ridotto di dentro a più ordini di gallerie, fu tramutato in Museo. Come vedete, siamo sempre lì con le Muse. Quando io vado lassù, pei viali aperti a pubblico passeggio, penso sempre a Gian Carlo, mia conoscenza di quaranta e più anni fa. Io ero giovinetto, ed egli stravecchio, quando andai la prima volta in casa sua. Ignoto ed infelice cultore delle Camene, volli conoscerlo anch’io, facendomi presentare da Enea Gardana, un esule bresciano, famoso dilettante di chitarra. Così il buon vecchio patrizio potè credermi un seguace d’Euterpe, anzi che di Calliope, o d’altra delle vergini Castalie. Gli bastò forse il sospetto, e non mi chiese nulla delle mie occupazioni. Alla mia età, che cosa potevo aver fatto, che meritasse di ragionarne? Sapevo ascoltare, e fui bene accolto. M’invitò anche a pranzo; ma seppi schermirmene, per gran paura che avevo. Ai pranzi del marchese Gian Carlo andavano letterati magni; ad ognuno dei quali, via via che morivano, egli faceva erigere un busto di marmo, su pei viali del suo piccolo Pincio. Il marchese Gian Carlo di Negro era un curioso tipo di gentiluomo, poeta e protettor di poeti. La protezione, intendiamoci, non andava oltre i pranzi, che avevano principio e prendevano il nome dal solito «piatto di ravioli», un piatto che il suo cuoco aveva fama di preparare assai bene. La sala da pranzo non era vasta: i commensali erano pochi ma scelti. D’italiani ci passarono, nel corso di mezzo secolo, il Monti, il Perticali, il Giordani, il Gagliuffi e tant’altri, tra i quali anche Luigi Biondi, oggi dimenticato, forse a’ suoi tempi famoso verseggiatore. Di stranieri, poi, quanti illustri ne capitavano a Genova: noto, dei francesi, il Méry e Paul de Musset, fratello ad Alfredo: ma la serie incominciava con nomi di maggior levatura; per esempio con quello della signora di Staël. Gian Carlo faceva versi, a tutto spiano, e li leggeva volentieri a’ suoi ospiti. Da giovane aveva scritto molto in francese, ed amava spesso citare un suo «petit Carême» che non m’è mai avvenuto di ritrovare dai librai, e neanche sui muricciuoli. Di versi italiani ne aveva moltissimi, per ogni occasione; ma più specialmente epigrammi. «Epiglammi» diceva lui, che, o fosse per vizio naturale o per la perdita dei denti, non riusciva a proferir l’erre. Ne aveva scritti ottomila, tutti rimasti inediti, nè so dove siano andati a finire. Parecchi erano felici, ma tutti innocui: così poche punte aveva lo spirito del benigno signore! Vissuto coi cigni, con le aquile, e magari coi passerotti, volava come poteva. Ho detto ch’egli leggeva volentieri i suoi versi; ma, cortese com’era, convitava spesso gli amici per sentir leggere gli altrui. Un giorno, dopo il ’40, si era sparsa la voce che Lorenzo Costa da Beverino avesse data l’ultima mano al suo aspettato poema in dieci canti, il «Colombo». Ma qui, prima di andare avanti, bisognerà fare una lunga parentesi, e dirvi qualche cosa dell’autore del «Colombo». Era un altro bel tipo, quel Lorenzo Costa, da Beverino, com’egli usava firmarsi, prendendo nome dalla terra dov’era nato, nel 1798, e donde era venuto a vivere in Genova. A vederlo passare per via, alto, di grandi spalle, tutto d’un pezzo, incravattato, accigliato, si sarebbe detto un presidente dell’eccellentissimo Senato. Non guardava nessuno, e non si avvedeva di essere guardato; aveva quasi sempre qualcheduno in compagnia, o prete o secolare, con cui parlava rado, a parole pesate, senza volgere il collo intirizzito. Gran galantuomo, cattolico osservante, sacrificava tutto il santo giorno alle Muse; anche per istrada pareva intento ad ascoltare quello che gli bisbigliavano le Pimplee nelle orecchie, ispide di peli come le grandi sopracciglia olimpiche. Le Pimplee potevano dettargli in greco, poichè egli aveva bene imparata la lingua dell’Ellade; ma più volentieri le faceva cantare in latino: testimoni un «Theatrum Genuense», carme esametro ispirato dalla apertura del nuovo teatro Carlo Felice, e un poema sulle gesta di Andrea Doria, che poi non condusse a compimento. Ma presto alle Muse latine sottentrarono ispiratrici le italiche, facendone fede un «Inno» a Nicolò Paganini, di cui mi par utile riferirvi la descrizione di una serata musicale del grande violinista, col pubblico che fa silenzio nell’apparire di lui. . . . . . . . attesi Stanno gli sguardi nella man, che impugna Il magico istrumento, e innamorato L’animo corre degli orecchi al varco. Ei, dagli atti spirando e dal sembiante Tutta l’aura del Dio che lo governa, Procede a mezzo della scena e rompe L’alta quiete. All’arduo tocco impresso Dalle dita versatili, guizzanti Dal collo della cetra in fin là dove S’inizia un suono di più acuta tempra; All’atteggiarsi del pieghevol braccio, Ch’or dolce dolce i ben protesi nervi Liba volando, or li affatica e morde Subito e spesso, inusitato intorno Melodïoso fremito percote L’aer tremante. Egli talor d’un solo Tratto dell’arco le tre corde avvinghia; Talora in sulla grave egli s’appunta, E l’intima e l’estrema abbandonando, Il vario suono delle quattro in una Raccoglie intero. Con alterna vece Spesso adopra la manca, e alle soavi Liquide note fa seguire, in tempra Di giga o d’arpa, armonizzar concorde, E voci d’eco, e dei pennuti un canto, E umani accenti, ed un fragor di tesi Timpani, ed un sottil dolce tintinno D’argentee squille; nè mai cade in fallo Tenor d’accordi; e, sian veloci o lente, Acute o gravi, dal sonoro legno Volan le note ad incolpabil metro, Obbediente sì, ch’ognuno a tanto Poter di sovrumana arte impaura! La citazione m’è venuta lunga: ma era necessaria, per dimostrarvi l’arte squisita fin troppo, anche un po’ faticosa, che non vi lascia modo di respirare, specie quando tutto, da capo a fondo, sia del medesimo tono, della medesima squisitezza. Lorenzo Costa aveva il difetto di far bello, ricercato, sublime, come altri ha quello di far triviale, sbrodolato e bruttino parecchio. Su quel tono aveva anche sentito un «Cosmo», poema in terza rima «ove la Creazione, la Redenzione e la Glorificazione del Cristianesimo doveano mostrare i tre regni temporali della grandezza di Dio, correnti ad unità verso l’eterna beatitudine». Uso le parole del cardinale Alimonda, non avendo io letto i pochi canti che del «Cosmo» furono pubblicati a suo tempo. Dovevano essere trentadue, i canti; ma il poeta lasciò l’opera in tronco, addolorato per avere inavvedutamente gittati ben dieci di quei canti alle fiamme. Gran fatica davvero sarebbe stata a rifarli. Riuscì in dieci canti il «Colombo». E quando Lorenzo Costa ebbe finito il poema, fu una grande aspettazione sul Ligure Parnaso, o, per parlare in lingua povera, alla Villetta Di Negro. Lorenzo era un ospite, un assiduo; ci voleva un invito alla lettura solenne. Lorenzo si adattò, giunse col suo scartabello, e lesse. Ma la lettura, era lunga (dieci canti, che si canzona?) e Gian Carlo, sempre desto per leggere i suoi, non era tale egualmente per sentir leggere i versi degli altri; perciò si appisolava spesso e volentieri. Lorenzo, quando vedeva l’anfitrione chinar la testa insonnolita sul petto, usava l’artificio di spinger la voce; con che riusciva a fargli levar la fronte e aprir gli occhi. Ma il povero Gian Carlo non reggeva alla fatica. Ad un certo punto, non so bene se al sesto o al settimo canto, si addormentò senz’altro. Se ne avvide Lorenzo, e calcò più che mai nella lettura, gridando tra gli altri l’emistichio finale di un verso — «e dall’occaso all’orto» — con voce che pareva di tuono; tanto che l’altro si svegliò di soprassalto, e colte le ultime parole a volo, come per mostrare all’amico di essere stato attentissimo gli disse: — Scusate, Lo_l_enzo, scusate; in questo caso di_l_ei.... gia_l_dino. — Il buon marchese, nei suoi verd’anni, aveva imparato a pizzicar l’arpa, ed amava accompagnare i suoi versi col suono dell’istrumento davidico. Era spesso ripetuta in Genova la sua frase, diretta al servitore: — F_l_ancesco, _l_ecami l’a_l_pa, che mi viene l’est_l_o. — L’arpa era d’un celebre artefice, dello Stradivarius, niente di meno. La teneva appesa alla parete, nel suo salotto; e qualche volta, vecchissimo, la spiccava dal chiodo, per trarne qualche accordo. Ma da parecchi lustri l’istrumento era scordato; uno strazio a sentirlo! E come si animava, ai ricordi del buon tempo antico! Era anche stato valente ballerino e saltatore agilissimo. Si raccontava che una volta, presentatosi in maschera d’arlecchino alla signora di Staël, dopo molti saluti e capriole che aveva fatto in onore della bella Corinna, si fosse sentito dire da lei: — Ah, marquis, c’est vraiment ce que vous faites le mieux!» — Ma l’aneddoto doveva essere inventato di sana pianta. Corinna non era certamente così crudele nei suoi complimenti. Autentico, invece, perchè lo ebbi dalla stessa bocca di lui, l’aneddoto del viaggio con Corinna a Venezia, intorno al primo decennio del secolo. La baronessa di Staël voleva vedere il teatro della Fenice. Ci andarono di giorno, poichè quella sera si faceva riposo. Entrarono nella platea, al buio, mentre in orchestra si vedeva illuminato un leggìo, e davanti al leggìo, con la sua musica squadernata, sedeva un suonatore di violino. Il palcoscenico, essendo gli scenarii alzati, prendeva luce, ma una luce scialba e scarsa, da certi finestroni di fondo; e su quel palcoscenico si vedeva un uomo, succintamente vestito, in calze di maglia e scarpini.... Era un ballerino; ma qual ballerino! Figuratevi, il famoso Duprè, il dio della danza, che, facendosi dare lo spunto dal violino in orchestra, provava un suo passo, chiuso e coronato da una _pirouette_ difficilissima. I due nobili visitatori, fermatisi a mezzo il recinto, ascosi nell’ombra guardavano attentamente la scena. Il Duprè andava alla quinta, prendeva lo spunto dal violino, veniva di volo alla ribalta, ed attaccava la sua giravolta. Ma questa non gli riusciva mai, e il povero Duprè se ne disperava; anzi incominciava, oltre la solita _pirouette_, ad attaccar qualche moccolo. — Un’idea mi passò pe_l_ la mente, — continuava, il marchese. — Aspettate, Co_l_inna, dissi allo_l_a alla ba_l_onessa, e ved_l_ete un bel giuoco. — Che fa allora il nostro gentiluomo? Con passi guardinghi si avvicina all’orchestra, vi penetra da una estremità, si arrampica sul proscenio, scavalca la ribalta, e mentre il Duprè ritornava per la sesta o per la settima volta da sbagliare la sua _pirouette_, lo precede egli d’un balzo alla quinta, chiama lo spunto dal violino, spicca il volo al proscenio, e fa lui, con ritmica esattezza, la lunga giravolta che ancora non era riuscita al gran ballerino francese. Il Duprè, a tutta prima, vedendo comparire sulla scena l’intruso, e non pensando ancora di avere davanti un rivale, era rimasto come interdetto a guardarlo. Lo aveva veduto andare alla quinta, chieder lo spunto musicale per lanciarsi alla ribalta, e aveva spalancato ad un tempo gli occhi e la bocca, in atto di grande stupore. Ma quando ebbe veduta la giravolta, eseguita con tanta perfezione dall’emulo, fu per uscir di senno a dirittura. E bisognava pur credere alla vista, arrendersi all’evidenza, riconoscere la superiorità dell’ignoto ballerino. Era un grande artista, il Duprè, ed anche un gran galantuomo. Perciò, dopo un istante di pausa, che bisognava pur concedere allo stupore ond’era stato assalito, fece due passi di scuola verso il nuovo venuto, inarcò il braccio, tese l’indice con la sua grazia consueta, e gli disse; cioè, _mi disse_, poichè dobbiamo lasciar la parola al narratore: — O voi siete un angelo disceso dal cielo.... o siete il ma_l_chese Gian Ca_l_lo Di Neg_l_o di Genova. Pe_l_chè non c’è che lui, in Eu_l_opa, non c’è che lui che possa fa_l_ tanto. — Bisognava esserci, bisognava sentirlo, il buon vecchio, mentre proferiva e ripeteva con enfatica progressione di accento il suo «non c’è che lui». Ed anche volle mostrarmi come avesse fatto a vincere il Duprè, tentando di ripetere per mia edificazione la splendida giravolta di mezzo secolo innanzi. Con quel mezzo secolo, pur troppo, cascò addosso a me, che stavo seduto sul divano. Io ero mingherlino, allora; egli potente di forme. Altro che edificazione! Immaginate che stiacciata, se non ero pronto a tender le braccia, un po’ per sorreggerlo, ma più per ripararmi dal peso. Povero marchese Di Negro, discendente dal famoso Andalò, gran viaggiatore dell’orbe terracqueo e maestro di astronomia a Giovanni Boccacci! Un anno dopo, nel 1858, mi pare, era morto. Ebbe un notevole accompagnamento funebre, come non si era veduto mai fino allora, per concorso d’illustri personaggi. Tra questi si vedeva uno degli ultimi visitatori del marchese Gian Carlo, se non uno dei più assidui alle conversazioni della Villetta; al che le sue consuetudini di lavoratore e il vivere sulla collina di San Francesco di Paola, al capo opposto della città, avrebbero fatto impedimento: dico Francesco Domenico Guerrazzi, allora esule in Genova, dopo la sua fuga di Corsica. Ascoso nella folla, al ritorno dalla camera mortuaria dov’era stata accompagnata la salma, udii il grande livornese dire a Ippolito d’Aste e ad Emanuele Celesia, che gli venivano da lato: — E dopo tutto, un uomo d’oro. Ha fatto del bene a qualcheduno, del male a nessuno. Trovatemi dieci persone, delle quali si possa dire altrettanto. — Non vi paiano gravi alla memoria del Di Negro queste sue pretese alla fama di ballerino, sulle quali mi son trattenuto a discorrere. Egli era un divoto cultore delle Muse; ed anche una Musa, Tersicore, presiede all’arte del ballo. Nè il ballar bene parve piccolo vanto ad Ippolito Pindemonte, cavaliere gerosolimitano, traduttore dell’«Odissea» e compagno al Foscolo nel malinconico duetto dei «Sepolcri». Del cavaliere Ippolito narra per l’appunto il Camerini: «Amò sopra tutto la danza, e si mescolava sul palcoscenico ai ballerini, ed era tanto infatuato di quel _brillante danzator Narcisso_ del Parini, che veniva piacevolmente ribattezzato col suo nome di _Monsieur Pic_». Se poi il marchese Gian Carlo Di Negro non lasciò nell’arringo poetico orme profonde come il cavalier Pindemonte, la colpa non è tutta sua. Fu ad ogni modo l’ultimo gran signore che credesse alla poesia; e l’amò per sè stessa, come un vecchio cicisbeo, di platonico amore. Don Alessandro. Milano ha una gran bella cosa, in vista e per tutti, il suo Duomo. Ma questo, ce lo hanno tanto decantato, descritto tanto e servito perfino in litografia sulle scatole dei panettoni, che oramai lo accettiamo senza pensarci su, e c’inchiniamo al miracolo d’arte; ma non ci riscaldiamo più il sangue, ammirandolo; non riceviamo più la scossa, vedendolo. A Milano io sento più profondamente Brera, col suo cortile così pieno di storia, e col Napoleone del Canova che ci hanno nascosto. Bella trovata, sia pure effetto di necessità, aver messa là dentro quella gran statua di bronzo: vi giganteggia, più che non farebbe su d’una piazza; l’atteggiamento del colosso che va, con la sua Vittoria alata nel cavo della mano protesa, è più gagliardo, più vivo, più efficace; mi par meglio che sia in atto di trascorrere il mondo, se in due di quei passi che accenna di fare, può rompere il loggiato davanti a sè, invader le sale, sfondare ogni ostacolo, dal tetto all’androne. Bene, adunque, si trova egli là dentro. E bene, anzi meglio il nipote di lui, nel cortile dell’antico Senato. Io non so intendere come ci sia della gente a cui quella specie di relegazione dispiace. L’ira politica è veramente benedetta, se riesce a queste concentrazioni della gloria, per chi la riconosce, e della gratitudine, per chi la sente ancora. Così, mentre per essere umani con Napoleone III dovete perdonar molte cose; per ritrovarlo a Milano, per pagargli un tributo di riconoscenza in cambio del piccolo aiuto di duecentomila uomini ch’egli ci ha dato in un giorno di bisogno, vi è necessario andarlo a cercare col lumicino. Ma un gusto particolare, penetrante, soave nella novità, vi compensa della vostra ricerca. Trovate un signore che vi saluta, e per allora non saluta altri che voi; donde la cortesia par che acquisti un pregio maggiore. Più concentrati, ricordate anche meglio tutto ciò che per la patria nostra ha fatto quell’uomo, un po’ misterioso, un po’ incerto nelle orientazioni successive della sua politica, ma condotto a giuocare per noi la sua fortuna, le aquile, la porpora e la corona imperiale. Noi siamo severi col Due Dicembre, in cui, dopo tutto, come italiani, non abbiamo nulla a vedere; con più giustizia ce la prendiamo coi suoi _chassepots_. Ma anche qui non bisogna esagerare, e ad un soldato di Mentana sia lecito il dirlo. Assai più male degli _chassepots_ ci ha fatto in quei giorni il difetto di energia nelle coscienze, di unità nei voleri della patria. Ma basta: se no volgiamo alla predica; e ritorniamo in Brera. Quel cortile mi è caro per antichi ricordi: quel cortile è un po’ mio. Molti ci passano, per salire alla ricca biblioteca e alla preziosa pinacoteca; molti lo costeggiano, per andare di qua o di là nelle sale del pian terreno, a far lezioni o a sentirle; io ci sono stato di casa, ci ho dormito una notte a ciel sereno, e sognato, come nel letto più soffice. Spesso vado a visitarlo, per riconoscere il posto del mio giaciglio, là, sulla destra, a’ piedi della statua dell’architetto Luigi Cagnola, che mi richiama sempre agli occhi la visione di un bel giorno e alle nari una buona fragranza di paglia fresca. Non fate associazioni d’idee, ve ne prego; l’ho fatte già io tante volte! «Sursum corda», piuttosto, ed anche le gambe. Si passa ora da quel cortile per un’altra ragione nobilissima, che è quella di andare a vedere la sala Manzoniana. Anch’io, parecchi anni fa, quando seppi che l’avevano inaugurata, ci corsi divotamente, per pagare il mio tributo di ammirazione al Manzoni. Più che i molti libri ed opuscoli scritti su lui e sulle opere sue, volevo osservare i suoi manoscritti; tra tutti i suoi manoscritti desideravo di considerare quello dell’«Adelchi»; tra tutte le pagine dell’«Adelchi» mi premeva di sfogliare quella del coro «La morte di Ermengarda» per vedere se ci fossero stati pentimenti in quelle strofe maravigliose, segnatamente in quelle due che vorrei aver scritte, e, per averle scritte io, darei volentieri tutte le glorie che ho sperate; se pure, dopo averle sperate, fossero venute a rallegrarmi la vita. Te, dalla rea progenie Degli oppressor discesa, Cui fu prodezza il numero, Cui fu ragion l’offesa, E dritto il sangue, e gloria Il non aver pietà; Te collocò la provvida Sventura in fra gli oppressi; Muori compianta e placida, Scendi a dormir con essi; Alle incolpate ceneri Nessuno insulterà. Bellissime le due strofe, e tutto bello, quel coro, in cui sentimento e passione, tanto più viva quanto più contenuta; in cui forma e pensiero, virtù d’amor patrio ed alito di umana pietà, si fondono mirabilmente, nuovo metallo di Corinto, ma ancora e sempre caldo, come non ebbe a rimanere l’antico. Capisco, leggendo l’«Adelchi», come Vincenzo Monti esclamasse: «Vorrei averlo fatto io». Poteva parere degnazione in lui, glorioso da tanti anni, mentre il giovine autore, che egli chiamava, scrivendogli, il suo «smemorato amico» era tuttavia poco più d’un ignoto. Ma quella degnazione doveva presto apparire l’omaggio di un grande ingegno ad un genio. Perchè questa distinzione è necessaria, e se il vocabolario della Crusca non la consentisse, bisognerebbe rinunziare al vocabolario della Crusca. La poesia del Manzoni non è solamente di parole musicali e d’immagini alate: spesso le parole sono comuni, e dalla loro ripetizione frequente traspare qualche volta la povertà. Quanto alle immagini, son quelle di tutti i giorni, e se ne trovano nei suoi canti più celebrati (nel «Cinque Maggio», ad esempio), di quelle che erano usate a’ suoi tempi da scrittori di giornali italiani sulla falsariga francese. Ma che per ciò? la visione è chiara, piena, efficace, perfetta; il senso intimo delle cose vien fuori dalla stessa collocazione sapiente e pure spontanea di quelle parole comuni, di quelle immagini conosciute; vi fa pensare e fremere, cercando i più riposti penetrali dell’anima, scuotendo le più arcane fibre del cuore. Chi si occupa, dopo ciò, delle scorie del metallo, delle sbavature della statua? È tutto fior di poesia, nel complesso; frutto di fantasia largamente comprensiva, che lo studio e la meditazione hanno fortificata dei loro succhi vitali. Non dimentichiamo gl’intenti civili, spontaneamente manifestati, che distinguono questa poesia da tant’altra che l’ha preceduta e seguita. Come, ad esempio, in quel compianto non imbelle nè vuoto sulla morte d’una povera Longobarda, ripudiata da Carlomagno, si sentano, sto per dire, le Cinque Giornate, trent’anni prima che fossero date alla storia! e non tirate dentro con gli argani, se Dio vuole; venute naturalmente, sgorgate dal fatto osservato, insieme con la pietà pensosa e le lagrime. Così la poesia diventa anima e voce, non che d’un poeta, d’un popolo. La «Basvilliana» è la poesia del Monti in un suo momento psicologico, come la «Mascheroniana» in un altro, e in altri ancora la «Jerogamìa di Creta» e il «Ritorno di Astrea»; mentre quella del Manzoni, dagli «Inni Sacri» al «Carmagnola», dall’«Adelchi» al «Cinque Maggio», è la poesia della nazione. Io non nacqui manzoniano; non fui tale per un pezzo, e mi piace confessarlo. Ai tempi beati della scuola di rettorica, non ero neanche foscoliano, figuratevi! Avevo Leopardi e Monti, Monti e Leopardi a tutto pasto; l’uno per la «Basvilliana», s’intende, per la «Mascheroniana», per il «Prometeo», per il «Bardo della Selva Nera» e per la versione dell’Iliade, insomma per quasi tutte le cose sue; l’altro per una minor parte, come a dire per le canzoni all’Italia, ad Angelo Mai, alla sorella Paolina, che erano le più lette e le più commentate in iscuola. Leggevamo anche per questo uffizio «La sera del dì di festa», «Il sabato del villaggio» ed altri componimenti di tal genere; ma più per nostro conto divoravamo «le Ricordanze», «Aspasia», e sopra tutto «Consalvo» a cagione del bacio di quella Per divina beltà famosa Elvira. La «Ginestra», i «Patriarchi», «Amore e morte», ed altri consimili, si leggevano ancora, ma s’intendevano poco; cioè, s’intendevano letteralmente, ma non si sentivano troppo, che tornava lo stesso come non capirli abbastanza. Eravamo una generazione piena di salute, di fede in Dio e nella libertà; il sangue ci scorreva rapido e franco nelle arterie, e tra una lezione e l’altra, come per addestrarci alle presentite battaglie, correvamo a picchiarci di buona voglia nei fossi della vicina Fortezza, e a sfrombolarci di sassate sulla duna di Sant’Elmo. La filosofia disperata non era il fatto nostro; delle «due cose belle» che la poesia leopardiana ha trovate nel mondo, sentivamo dentro di noi confusamente la prima, come una dolce promessa di giorni vicini; l’altra la vedevamo così lontana, che non credevamo ancor necessario di darcene pensiero. E la ferrea necessità del dolore non era certamente fatta per noi, diavoli scatenati, che andavamo nelle ore d’ozio a strappare i sèdani nell’orto dei Cappuccini. Abbiamo noi trovato lassù un Fra Cristoforo? Sicuramente, e per farci perdonare da un Fra Galdino, che voleva prenderci poco cristianamente a legnate. Dei «Promessi Sposi», che a quel tempo non erano ancora un libro di testo scolastico, ci piacquero le macchiette assai più dei personaggi principali. A me poi non piaceva affatto nè «Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno tra due catene non interrotte di monti», nè il Resegone, coi «molti suoi cocuzzoli in fila, che in vero lo fanno somigliare a una sega», nè la descrizione della peste, così lunga che non voleva finire mai più, nè il cardinal Federigo, nè quei rimorsi dell’Innominato, che mi pareva un birbante di mezza vigogna, troppo presto pentito d’una troppo piccola, o non abbastanza descritta, sequela di bricconate. E mi lasciava freddo Lucia Mondella, e mi seccava quell’aggirarsi di brutali concupiscenze intorno ad una contadinotta neppur bella, che per cagione degli spilli d’argento doveva pettinarsi di rado, e che certamente non conosceva le virtù detersive dell’acqua di Felsina. Ognuno reca nell’arte i suoi gusti naturali. Questo è un diritto, mi pare, e il confessarlo è un debito di sincerità. Ma ciò, a breve andare, finì col rendermi cieco alle altre bellezze del libro, e per conseguenza solennemente ingiusto. Amavo in quella vece il Guerrazzi. Sapevo a mente l’«Assedio di Firenze»; tranne, s’intende, gli amori fiacchi di Vico e d’Annalena, e la inutile storia afflittiva di messer Lucantonio. Michelangelo e la sua statua; il Ferruccio a Volterra e a Gavinana; i rimorsi del Baglioni; il doppio combattimento del Bandini e del Martelli, di Dante da Castiglione e dell’Aldobrandini; gli spasimi di Maria de’ Ricci; quelle erano le mie delizie profonde. E come mi ha mandato a cercare con ansietà febbrile la storia, quel diavolo d’un Livornese, per trovarci i personaggi da lui messi in iscena, così vivi, caldi, vibranti di passione! Studiai l’autore, lo conobbi intero in tutto ciò ch’egli aveva scritto fino allora; amai ciò ch’egli amava, odiai ciò ch’egli odiava, senza risparmio. Presto conobbi lui di persona, in Genova, dopo averlo tempestato di lettere nel suo confino di Corsica, e mi piacque sommamente quell’anima dolce e buona. Vi parrà strano, ciò ch’io ne dico. Generalmente, si ha del Guerrazzi un’idea molto diversa; la durezza di cuore, la ferocia degli spiriti, lo sdegno persistente, la parola iraconda, lo scetticismo beffardo, il cinismo, sì, perfino il cinismo di quell’uomo, sembrano esser passati in leggenda. Ebbene, disingannatevi; il Guerrazzi non fu così, nè intorno, nè presso. L’uomo ebbe amarezze molte, ed ire politiche acerbe; aveva l’ingegno potente, e lasciava il segno dove toccava: i suoi nemici già potenti da prima, vittoriosi poi, gli hanno reso in calunnie tutto ciò ch’egli dava in frustate. Nelle relazioni sociali nessuno fu più nobilmente cortese; nelle intimità nessuno fu più squisitamente amorevole del Guerrazzi. Arguto quanto il Voltaire, non la perdonava certamente a nessuno; dotto in molte materie, pontificava qualche volta, nel salotto e nello studio; ma non dimenticando mai d’esser garbato nei modi, affabile nel commercio con ogni sorta di gente, buono con gli amici, ameno coi suoi pari, affettuoso coi minori, soave coi giovani, e in molte parti del suo pensiero, della sua conversazione, del suo fare, insomma, a dirittura femmineo: la qual cosa, in un uomo del suo genere, con quell’alta statura, con quell’aspetto severo, con quegli occhiali d’oro, quella parrucca a ciocche audacemente rivoltate, con quella gran pelliccia da baritono in viaggio, poteva parere, e certamente era un gran fatto. Non so che cosa fosse in gioventù: forse ne’ suoi scritti, dove parla di sè, ha caricate un po’ troppo le tinte: ma per quello che io ne vidi ne’ suoi anni maturi, egli era con tutti mirabilmente buono. Quell’odiatore, a buon conto, finì la vita nel suo podere di Maremma, insegnando a leggere e scrivere ad una contadina di diciott’anni. Se poi anche a sessantanove anni sentisse le trafitture del bendato arciero, io non vorrei mica difenderlo, come da un’ultima calunnia. Gli odiatori, per solito, non finiscono così. Ricorderò sempre di avere davanti a lui, nelle conversazioni pomeridiane della villa Giuseppina, parlato dell’arte Manzoniana con poca misura e con minor cognizione. Non lo facevo per entrargli nelle grazie; no davvero: dicevo quel che pensavo allora, esprimevo una opinione già manifestata qualche anno prima in un giornale di Genova, la prima volta che io, sfacciato diciottenne, mi ero fatto lecito di averne pubblicamente una. Quella volta, altro che soavità! il sor Francesco Domenico mi uscì proprio dai gangheri. Dal pensiero Manzoniano si poteva dissentire, sicuramente; egli stesso ne aveva data una prova chiarissima, facendo in molte cose diversamente dal grande Lombardo. Ma per l’arte, non c’era che da inchinarsi e da lodare ogni cosa, o giù di lì. Del resto, anche intorno al pensiero, non era tutto dissenso tra loro. Se il Manzoni aveva scritto gl’«Inni Sacri», egli, il Guerrazzi, non aveva scritto molte preghiere in prosa? — E poi, — mi diss’egli, conchiudendo, — leggete l’«Adelchi», figliuolo, e vedete se predichi soltanto rassegnazione. Quanto all’arte, m’è accaduto ancora stamane di rileggere il coro del «Carmagnola». È una bellezza. Direte che incomincio ad invecchiare e che mi faccio eremita. Infatti, anch’io debbo averli, i «casti pensieri della tomba» che, ritrovati in quel coro, mi son parsi una cosa nuova, quest’oggi. — Quella sera, tornato a casa, lessi il coro del «Carmagnola», per fare ancor io come il sor Francesco Domenico. E lessi anche tutta la tragedia, che non avevo mai guardata prima d’allora. Poi lessi l’«Adelchi», di cui solamente conoscevo qualche scena (anche questo a vergogna mia, debbo qui confessare), e da ultimo, lessi una seconda volta attentamente i «Promessi Sposi». Il Manzoni rivelato dal Guerrazzi! Non si crederebbe; eppure è andata così. I grandi, del resto, son buoni. Rilessi tutto, a breve andare, e parecchie volte sempre più persuadendomi del mio «giovanile errore». Amando più largamente intorno a me, imparai ad amare un po’ meglio. Ma ancora non potevo dirmi un Manzoniano sfegatato. Di certo, la poesia del grande Lombardo m’era entrata troppo tardi nel sangue. Tre anni dopo, vedevo per la prima volta Milano. C’entravo con molti compagni, non so bene se tre o quattro giorni dopo Magenta. Sbarcati alla stazione di Porta Nuova, fummo accolti anche noi con feste maravigliose da una popolazione plaudente; avemmo fiori, corone, baci, abbracciamenti, ed altri furori di quell’anno benedetto. La nostra compagnia, condotta per certe strade che non ho più ricordate, andò a fare i fasci d’armi nella via del Monte di Pietà, in attesa d’ordini superiori. Gli ordini vennero mezz’ora dopo: ci mandarono ad alloggio, come tanti scienziati, in Brera; nel cui cortile, per uso nostro, si erano distese molte carrettate di paglia. Che orgia di allegrezze intellettuali, quel giorno! Io potrò andare mille volte a Milano; la vedrò sempre a quel modo, con gli occhi d’allora. Anche oggi, mi avviene di passeggiarci come uno spirito, colle mie idee d’altri tempi. Che fretta di deporre il fucile e lo zaino, di darci una spazzolata e di correr fuori da capo, per goderci tutte le ore che ci lasciavano di libertà! Per conto mio, mossi subito a cercare il Duomo; e lì, trovato un alberguccio (il Dazio grande, mi pare) v’entrai, per darmi anche una risciacquata; ma ne uscii prontamente, per andarmi a comperare un paio di guanti paglierini. Che si canzona? volevo esser bello. Del resto, quella dei guanti paglierini era la debolezza di tutti i volontarii, nell’esercito piemontese: quei guanti davano un po’ di tono al grigio cappotto per cui il fantaccino italiano meritò a Firenze il nome di sorcino. Al Caffè Martini, in piazza della Scala, dov’ero riuscito non so come, m’imbattei in un tenore, Pietrino Stecchi, da me conosciuto un anno prima, a Genova. M’aveva ravvisato sotto le nuove spoglie, e mi faceva gran festa, offrendosi mio cicerone attraverso le vie di Milano, e per tutte le belle cose che si potevano vedere in una scarrozzata di due ore. Accettai, prendendo ora: pel momento, avevo un’altra idea, e volevo che passasse per la prima. — Se permette, — gli dissi, — vorrei far prima una visita. — Tra un’ora, dunque; le basta? — Sì, basterà certamente. Ma ella mi dica, — replicai con una certa solennità, — dove abita.... Alessandro Manzoni? Il mio primo passo, in Milano, dev’essere per lui. — Pietrino Stecchi m’indicò, sullo stesso marciapiede dove eravamo a discorso, ma qualche centinaio di passi più in là, il vicolo del Morone. — Entri di laggiù; — mi disse; — arriverà alla piazza Belgioioso. Proprio alla svolta, facendo angolo tra il vicolo e la piazza, è la casa di Don Alessandro. — Bene, grazie; — risposi. E mi avviai verso il vicolo del Morene. Com’era nata in me l’idea di andare dal Manzoni? Così, come tante cose nascono, di schianto, senza averci pensato prima. Ah, finalmente, l’avrei veduto, il grande Lombardo! Gliel’avrei fatta io, una bella improvvisata, mostrandogli in cappotto grigio e cinturino bianco, in giberna e cheppì, la sua nobile idea, segretamente e costantemente vagheggiata: quella idea che trapelava e traspariva da tante pagine, anzi da tutto il contesto dei suoi «Promessi Sposi»! Niente più obbedienza a padroni stranieri; tutti in armi, gli oppressi; tutti soldati, i giovani d’Italia, che la sua parola aveva educati, anche attraverso l’educazione dei padri loro; tanto che quella parola s’era fatta coscienza della nazione e vita della sua vita «O giornate del nostro riscatto! — Infelice per sempre colui....» Ma sì, infelice, anzi infelicissimo io! Li sapevo bene quei versi, per avere il coraggio di recitarglieli? E c’era poi bisogno di recitarglieli? Li sapeva a mente, lui, ed io non gli avrei detto nulla di nuovo, salvo gli spropositi. Che versi, dopo tutto? In prosa bisognava parlargli, ed anche in prosa corrente. — Vediamo; — seguitavo tra me; infilando il vicolo; — che cosa gli dirò? Da qual parte incomincierò? Come mi troverò io, prima di tutto, alla sua presenza? Ecco qua: sono introdotto in un salottino. Annunziano un soldato piemontese, un soldato in guanti gialli... Ciò gli fa capire subito che si tratta d’un volontario. La visita lo secca un pochino: ma sono certe seccature, queste, che non dispiacciono troppo. Si solleva una portiera; eccolo, è lui.... Ah povero me! Ci starò bene, davanti a lui, come davanti al mio signor colonnello? Con questo, c’è poco da pensare: so prima di tutto che non si parla se non per rispondere. Testa ritta, piedi accostati, la mano sinistra giù, bene appiccicata alla gamba, la destra, alzata, aperta, tesa davanti alla visiera del cheppì; e parla lui, non c’è che da starlo a sentire; se poi non è Demostene, tanto peggio per lui; anzi tanto meglio, perchè lui è vivo, e Demostene è morto. Qui invece, cheppì in mano e parlare! «Signor conte....» No, non lo vuole, quel titolo; se l’ha a male quando glielo dànno; protesta subito che non gli spetta. Perchè, poi? Basta, diciamo! «Signor Manzoni....» Ma che? questo è comune. Ce ne son tanti, dei signori Manzoni, e Manzini, e Manzotti! «Don Alessandro....» Sì, Don Alessandro; c’è una timida familiarità che non può dispiacergli. «Don Alessandro, se è lecito chiamarla così, voglia perdonare ad un giovine italiano, il quale.... il quale....» Il quale.... «il quale, a voler dir lo vero» incominciava a sentirsi ballar le gambe sotto. Ero giunto allora alla svolta; vedevo davanti a me la piazza Belgioioso, e con la coda dell’occhio destro notavo la sporgenza d’un portone. Con quella tremarella in corpo, non era il caso di voltare a destra, no davvero. Passeggiamo, dissi tra me, facciamo un giro su questa piazza, e vediamo intanto di raccogliere le idee. E feci il giro; andai a collocarmi più lontano che mi venisse fatto dalla casa di Don Alessandro, come per abbracciarla in una occhiata sola; ammirai anche certi fregi di cotto ond’era adornato il prospetto; ma le idee non si raccolsero, si sparpagliarono peggio che mai. — Che è ciò? — ripresi. — Che paura è la tua? Infine, non vorrà mica mangiarti. Gli dirai che volevi.... che desideravi.... che sentivi il prepotente bisogno di vederlo.... Ah sì, va bene il pensarle, queste cose; ma venuti al caso di dirle.... qui ti voglio. Con che coraggio gli parleresti del tuo desiderio, del tuo prepotente bisogno? Coraggio! si ha un bel dire coraggio! Ah, vile fantaccino! non l’hai tu dunque, il tuo cappotto grigio? il cappotto «del nostro riscatto»? Si va, per Dio santo, si va come in piazza d’armi; uno, due; uno, due; _alt!_ E qui, poi, «Don Alessandro, permetta ad un soldato volontario di venirle a rubare un quarto d’ora...» No, un quarto d’ora; sarebbe un pretender troppo. «.... Di venirle a rubare un minuto». E questo neanche; è troppo poco; pare uno scherzo, e di cattivo genere. In un minuto non si dice nulla; c’è appena il tempo di fare il saluto in due tempi, fronte indietro e via! Diciamo dunque «Di venirle a rubare pochi minuti, per dirle.... Sono un giovane che ha letto.... e meditato.... che nel suo «Adelchi».... Sa? anche il Guerrazzi mi diceva....» Ah sì, non ci mancherebbe altro che citargli il Guerrazzi! per impappinarmi, per mettermi in una via senza uscita. Ma se non gli parlo di questo, di che altro gli parlerò? E se non ho niente da dirgli, perchè ci vado? Per vederlo? per restar là come un villano alla fiera? Infatti, ora che ci penso.... Ma no, perdio, questa è viltà, ed io la travesto male. Gambe mie, facciamo ad intenderci. Volete andare, o ch’io vi piglio a piattonate? Senza sciabola, capisco; ma anche la baionetta può far servizio, perbacco! Animo, via! per fianco destro, e _marche!_ sia poi quel che vuol essere. — Mi ero mosso, come vedete; e andavo di buon passo incontro al portone. Ahi! proprio allora, nella penombra del corridoio, si affaccia qualcuno. È una donna. Le donne, grazia a Dio, non mi hanno mai fatto paura. Quella, per altro, non ha un aspetto da invitare all’abbordo. Dev’essere la portinaia, o una sua parente, di certo. Si ferma sulla soglia; mi guarda; non c’è più modo di far fronte indietro, nè conversione a destra; vado là come la biscia all’incanto. — Don Alessandro?... — le dico. Quell’altra mi sorride. Me l’aspettavo. Da qualche ora, a Milano, non vedevo far altro. — Cerca Don Alessandro Manzoni? — mi chiede essa, dopo avermi sorriso. — Sì, per l’appunto, se è in casa.... — Non c’è. — Ah! — esclamai io, sospirando, o respirando; che negli effetti è tutt’uno. — Ripasserò. — È inutile; — diss’ella. — Stavo per aggiungerle che non è a Milano; ma in villa, a Brusuglio. — Ah, già, Brusuglio.... sicuro, Brusuglio.... Dovevo immaginarmelo; — risposi io, che sentivo quel nome per la prima volta. — Grazie, signora. — Se prende una carrozza, non è mica lontano; — soggiunse ella, più graziosamente che mai. — Capisco, sì, capisco. Ma ho fretta, pur troppo; fra poche ore si riparte.... per andar più lontano. — Fino a Venezia! — diss’ella, commentando un mio gesto. — Dio l’assista, Lei e tutti i suoi bravi compagni. — Così ebbe fine il mio dialogo, sull’uscio di casa Manzoni; e andò a vuoto la mia visita a Don Alessandro. Che peccato! pensavo, allontanandomi da piazza Belgioioso. Me n’andrò da Milano senza aver visto il Manzoni! Che idea di andare a Brusuglio! in questi giorni di festa per la sua città liberata! Se c’era, mi accoglieva bene, di sicuro, a braccia aperte. Ed io gli avrei detto.... Ah sì, lo sappiamo, quel che gli avresti detto, impostore. Confessa piuttosto che ti pare d’averla scampata bella. Se proprio hai tanta pena come dici, perchè non prendi una vettura di piazza, e non ti fai condurre a Brusuglio? Animo, via, coraggioso! — Preferii di restare a Milano, quel giorno; e la mattina seguente ero in cammino con gli altri miei bravi compagni, per Gorgonzola, Treviglio, Coccaglio, Brescia, Lonato, correndo sulle orme di quel benedetto reggimento che andavamo ad ingrossare col nostro drappello, e non raggiungendolo che sotto il ponte di Desenzano. Io pensavo di tanto in tanto a Milano, e alla visita che avevo fatta ad Alessandro Manzoni. Ebbene, che c’è da ridere? Ciò che non si è fatto una volta, si farà un’altra. Non è colpa mia, se il grand’uomo era fuor di Milano. Andrò a cercarlo poi, quando ritornerò se gli _stutzen_ mi avranno risparmiata la pelle. Me la risparmiarono infatti, e la visita a Don Alessandro tornò all’ordine del giorno, dopo quel frettoloso armistizio che seguì la vittoria di Solferino e l’investimento di Peschiera. Triste giornata, quell’otto di luglio, in cui vedemmo andare avanti e indietro tra i gelsi e il grano turco i fazzoletti bianchi dei parlamentarii, e dopo qualche ora fu annunziata la tregua! Ricordo che nella mattina era piovuto, e che verso il mezzogiorno un grande arcobaleno si era disegnato sulle nostre teste, proprio nel mezzo del Quadrilatero; il quale spettacolo meteorologico, in tanta analogia col fatto politico, ispirò ad un mio intimo amico questi versi, scritti lì per lì su quel medesimo tamburo che gli serviva di scrittoio per mandare le espansioni dei commilitoni illetterati alle Dulcinèe di Fossano, di Saluzzo e di Cuneo: Su questi campi, che toccò di breve Argenteo spruzzo un nembo mattutino, Già del seguace arcobalen risplende La settemplice zona. Iddio la stese Simbol di pace sulla via de’ cieli; Onde, al suo comparir, l’orrida torma Delle nubi si frange, e per la china Del lontano orizzonte in fuga è volta, Siccome oste cui l’urto onnipossente Di non previso assalitor percosse. Ma non ride il colono, innanzi a questa Pace degli elementi. Ei le contrite Sotto la vampa dell’assiduo sole Aride glebe doloroso guata, Poi, volgendosi al cielo, ove il dipinge De’ suoi sette color di luce un raggio, Con un lungo sospir, «troppo» gli dice, «Troppo ratto venisti, arcobaleno!...» Scorati, avviliti dalla pace di Villafranca, ripassammo il Mincio. Io, dopo una fermata di qualche settimana a Brescia, ebbi modo di ritornarmene a casa in licenza. E ripassai da Milano. Ahimè! la città era piena di vita; ma niente fiori, per noi, niente corone, niente applausi, niente sorrisi. Sempre ben veduti e festeggiati i nostri compagni dai pantaloni rossi; lo meritavano del resto, e pel valore e per la grazia ond’erano esemplari; ma noi, poveracci, neanche ci guardavano; ci sembrava d’esser tollerati, come i cani in chiesa. Certo, non eravamo belli a vedere; ma più ancora che cani, dovevamo parere un po’ orsi. Ah, bene! pensai. Andrò a rifarmi la bocca con una visita a Don Alessandro. M’avevano detto che era a Milano; quattro salti, adunque, e capitavo in piazza Belgioioso. L’autore dell’«Adelchi», seguitavo a pensare, mi accoglierà con affetto paterno, egli che mostrò di non amare nè i Longobardi nè i Franchi. Andiamo, sarà una festa dell’animo. Di che temere? Non valgo oggi più di due mesi fa, quando non avevo ancora ricevuto il battesimo del fuoco? Il ragionamento filava dritto, come le mie gambe fino alla piazza Belgioioso. Ma laggiù mi fermai; un altro intoppo mi trattenne. Un mese prima, di là dal Mincio, il furiere mi aveva mandato a comperare una misura d’olio a Lazise. L’orciuolo era guasto; ne trapelava il liquido da un piccolo buco, e m’ero fatto, senza avvedermene, una bella macchia d’olio sulla falda del cappotto. Me ne avvidi dopo l’armistizio, alla prima rivista; o, per dire più esattamente la cosa, me ne aveva fatto avvedere con una ramanzina il tenente Parodi. Avevo lavata la falda contaminata, nell’acqua del Mincio, ma invano; quantunque ci logorassi un pezzo di sapone, la macchia traditora era comparsa da capo. Non ci avevo fatto attenzione in campagna: me n’ero dato pensiero a Milano; in piazza Belgioioso me n’ero spaventato senz’altro. Potevo io presentarmi così infrittellato ad Alessandro Manzoni? No, niente visita, e fronte indietro da capo. Cinque anni dopo tornai a Milano; e mi additarono il Manzoni per via. Mi balzò il cuore; seguitai un tratto quel vecchio un po’ curvo, che andava a passettini svelti lungo la corsìa del Giardino; ma non osai passargli avanti e dargli noia con una impertinente guardata in faccia. Così restai, senza averlo veduto altrimenti che per le spalle. Quella volta avevo anche un grave negozio per le mani, e le ore contate: non era tempo da visite. Più tardi ancora, intorno al ’70, trovandomi ancora a Milano, un amico che bazzicava in casa di Don Alessandro, mi disse: — È un grand’uomo cortese; vi riceverà benissimo; andateci. — A che fare? — risposi. — Allora che ne sentivo il desiderio così vivo, ero un soldatino; gli avrei portato, se non altro, un po’ di quella poesia che era in tutti noi, accorsi sotto «la santa vittrice bandiera» da ogni regione d’Italia. Che cosa gli porterei ora? Il diavolo porti me, s’io so «hic et nunc» che cosa potrei portargli, e che gli facesse piacere. No, no, niente visita, e lasciamolo tranquillo nella sua gloria. È una cosa fredda, la gloria; ma non l’ho fatta io. So, dopo tutto, che ce n’è un’altra, più fredda ancora e più uggiosa, la noia: e questa, che sarebbe in poter mio di cagionare alla gente, è sempre in poter mio di risparmiarla a un grand’uomo. — Così mi trattenni; così restai, poichè voglio dir tutto, a crogiolarmi lì tra i fondacci d’una strana viltà. Musicista e poeta. Erano amici, amicissimi; l’uno musicista, e l’altro poeta. L’uno e l’altro lasciarono poco di scritto, sebbene avessero ingegno da far molto, e vena e dottrina più di tanti che so io. Li vinse, li trattenne fra i dolci amplessi e le molli lusinghe la beata pigrizia? o non ebbero i tempi propizi alle meditazioni feconde, ai nobili ardimenti, alle belle volate? Non so, e non voglio cercare. Il primo ebbe discreto nome in gioventù per alcuni pezzi di musica sacra, rimasti sepolti a Genova nella cantorìa di Sant’Ambrogio, e maggior grido in tutta Italia per un valzer cantabile, ristampato più volte. Del secondo si citano tre drammi lirici, ed io rammento una coppia di versi senarii, dodici sillabe in tutto. Metto insieme i due personaggi, poichè, oltre il fatto dell’essere amici, nella cronaca genovese di venti e trent’anni fa andavano sempre appaiati in qualche grazioso aneddoto, e amavano di farsi a vicenda delle piacevolissime burlette; per esempio il chiapparello dell’invito a pranzo, in cui or l’uno or l’altro cascava, dando materia di riso alle brigate. Il poeta faceva i suoi pasti all’«Ussero», una vecchia trattoria, oggi sparita, nel vicoletto che dalla piazza delle Vigne mette in via degli Orefici. Sentendone decantar la cucina, il musicista si era lasciato invitare dal poeta; il quale, col pretesto delle porzioni abbondanti, ordinò il suo solito pranzo, per giunta abolendo la minestra, come una inutile risciacquatura di stomaco; e tre pietanze, il dolce e il formaggio spartì fraternamente coll’amico. Questi, che aveva sperato di pranzare «in Apolline», la fece per quel giorno magrissima. — Che ti pare? — gli disse il poeta, com’ebbero finito. — Non abbiamo assaggiato di più cose, con questo metodo, e non siamo stati benissimo? — A quel dio! — rispose il musicista, inarcando le ciglia ed allungando le labbra. — Ma se tu fai conto di pigliarmici un’altra volta!... — Un giorno il musicista invitò a pranzo il poeta. L’appuntamento era per le cinque, sotto l’orologio del teatro Carlo Felice; di quel teatro dove l’uno era professore nella famosa orchestra diretta dal Mariani, dal divino Mariani, e l’altro aveva ufficio di poeta; un ufficio nel quale non faceva niente, e per il quale gli davano altrettanto, coll’aggiunta dell’ingresso in palcoscenico e il diritto di offrir le pasticche al corpo di ballo. Giunto al ritrovo, il poeta trovò il musicista, più che puntuale, che lo stava aspettando. Si fecero quattro passi su e giù; se ne fecero quaranta; se ne fecero quattrocento, davanti al teatro, discorrendo di cento cose; e in questi discorsi, e in questi andirivieni, passò una mezz’ora. — Capisco; — disse il poeta tra sè. — Per andare a tavola è forse troppo presto, e un po’ d’aria con un po’ di moto aguzzerà l’appetito. — E passeggiavano sempre; passeggiarono tanto, che l’orologio del teatro suonò le sei. Ma il musicista non se ne diè per inteso: seguitava a passeggiare, a discorrere. — Aspetti qualcheduno? — gli chiese il poeta. — Sì, per l’appunto; — rispose quell’altro. Aspetta, aspetta, suonarono le sei e mezzo. Il poeta non ne poteva più dall’inedia. — Ma si può sapere chi aspetti? — domandò. — Vuoi saperlo? — Se ti piace di dirmelo.... poichè tanto abbiamo da ritrovarci insieme.... — Certo; — rispose il musicista. — È un personaggio senza del quale non si andrà a tavola. Aspetto uno che, com’io ho invitato te, c’inviti a pranzo tutt’e due. — Ma è tempo che si facciano i nomi. L’accenno al suo valzer, che si canta ancora come aria di bravura dalle prime donne d’antica scuola, vi avrà lasciato indovinare quello del musicista: il maestro Luigi Venzano. Era un omino tutto pelle e ossa, gentile d’aspetto, con un profilo che ricordava quello di Dante, dipinto a fresco da Giotto, in Firenze, nella cappella del Podestà. S’intende che bisognava tener conto degli anni, e dei danni che essi arrecano alle facce dei miseri mortali. I capelli erano pochi, neri, lucidi, ravviati in due cernecchi che venivano innanzi a carezzare i rosei pomelli delle guance: due baffettini neri neri, ma radi radi, gli ombreggiavano appena il labbro superiore. Luigi Venzano odiava i peli bianchi, e siccome odiava parimente le tinture, usava alla sua eterna giovinezza il cortese artifizio di strappare i peli bianchi via via che apparivano. Per tal modo i baffettini si andavano facendo più scarsi. Non era alto di statura, e aveva leggermente voltate ad arco le gambe, su cui camminava alquanto piegato nella vita. Abuso di violoncello, diceva lui. Infatti, era professore di violoncello al civico Istituto di Musica, e suonava magistralmente il suo patetico istrumento, così nell’orchestra del Carlo Felice come nella cantorìa di Sant’Ambrogio, avendo fama per la sua bella cavata, quanta ne aveva per il suo valzer cantabile. Ben voluto da tutti, era ricercato nella miglior società, dove portava la sua personcina eternamente giovane. Ma nella sua vera gioventù era stato sul punto di prender moglie, essendosi innamorato a buono. La ragazza era bella; il padre, senza, esser ricco, aveva abbastanza del suo per non far nulla e per assegnarle una dote, in attesa del resto che non le sarebbe mancato, essendo figlia unica. Quel babbo non volle saperne di Luigi Venzano, maestrino di musica, già noto per qualche graziosa composizione, ma ancora e più per certe sue scappatelle. Direttore d’orchestra del Carlo Felice era allora il maestro Serra, che morì ottuagenario poco dopo il 1860. Il maestro Serra, per fortuna, era amico del babbo tiranno. — Gli parlo io, non dubitare; — disse il vecchio maestro al suo giovane violoncello. — È un brav’uomo, mi vuol bene, mi sentirà; te lo cambio da così a così. — E faceva l’atto, con la mano, di rivoltare una cosa, come fosse una frittata. Luigi Venzano credette d’impazzir dalla gioia. Il maestro Serra andò dall’amico quel medesimo giorno, e parlò, fu eloquente nel tesser le lodi del giovane. Sì, buon Dio, qualche ragazzata; ma chi non ne ha fatte, a vent’anni? Del resto, un buon figliuolo, onesto nell’anima, di cuore eccellente; d’ingegno, poi, d’ingegno ne aveva a bizzeffe. Non era ancora abbastanza conosciuto; ma, infine, era un artista nato, aveva buona volontà, si sarebbe fatto un nome e uno stato. Il vecchio ascoltava; si sentiva scosso; ma voleva arrendersi a modo suo, con l’onore delle armi. — Sì, tutto bene; — rispose. — Ciò vuol dire che se voi aveste una figliuola, gliela dareste? — Io! — gridò sconcertato il maestro Serra. — neanche per sogno. — Così avvenne che Luigi Venzano rimanesse scapolo fino al 21 gennaio 1878, il giorno e l’anno della sua morte. Gaio, gentile e sempre giovane Venzano, ho già ricordato il tuo valzer cantabile, dedicato «in pectore» ad una gentile artista, Elisa Gassier, che ne fu la prima e valentissima interpetre sulla scena del Carlo Felice. Questo valzer ha avuto una coda, e questa coda non dev’essere perduta per le nuove generazioni. Ma innanzi di parlarne, bisognerà mettere in scena il poeta. Domenico Bancalari, di Chiavari, dove era nato nel 1808 e dove aveva fatto ottimi studi letterarii, era venuto assai giovane a metter dimora a Genova, seguendo così il vecchio costume di tanti suoi conterranei. Lontani diciotto miglia a levante dalla metropoli, i Chiavaresi si sentono assai più genovesi degli abitanti di Cogoleto, che ne sono distanti assai meno, a ponente. Il fatto morale ha la sua ragione storica evidentissima nella stessa fondazione di Chiavari per opera della Repubblica Genovese; laonde la vita di Chiavari, dal 1167 in poi, s’intreccia talmente con quella di Genova che noi vediamo nel corso di sette secoli intere famiglie tramutarsi dall’una all’altra città, andando e venendo, a guisa di spole: in mano al tessitore divino, bisognerebbe soggiungere, per far la metafora compiuta. Ma i Chiavaresi, ordinariamente, portano a Genova un tributo di operosità marinara e commerciale, Domenico Bancalari non portava altro con sè che un tributo di attitudini poetiche: magra scorta davvero, per venirci a fare fortuna. Ci fosse stata almeno la speranza della gloria! Ci sono anime ingenue che sanno contentarsene. Ma i tempi di Domenico Bancalari non erano da felici ardimenti, neanche in poesia; ed egli giungeva col suo bagaglio poetico a Genova, quando ne scappava Felice Romani col suo. Al nostro vecchio amico fu già grande fortuna poter dimostrare il proprio ingegno in un dramma lirico, «Virginia», musicato, se ben ricordo, dal Nini. La «Virginia» non gli fruttò quattrini; ebbe per effetto di accostarlo al teatro Carlo Felice, ov’ebbe titolo di «poeta». Era il caso più che mai, di scrivere per la scena lirica italiana. Infatti, seguì con un «Hernani», che, posto in musica dal Mazzuccato, non ebbe fortuna, e un «Malek Adel», vestito di note da un musicista dilettante, il principe Poniatowski. Il Bancalari meditò poscia un «Cromwell»; ma il suo melodramma, trattato con una larghezza di colorito onde aveva l’esempio nel dramma omonimo di Vittor Hugo, restò in mente del poeta, se pure non è più esatto il dire che restò _in mente Dei_. Il poeta si era dato in quel mezzo all’insegnamento, e al più penoso degli insegnamenti, che è l’insegnamento privato. Penoso per la materialità della cosa, s’intende, e per averne egli soverchiamente occupato l’orario quotidiano: nel fatto egli aveva conforto dalla scolaresca più graziosa che si potesse immaginare. Le belle Genovesi, che furono giovinette tra il ’40 e il ’78, e che non andarono in conservatorio a farsi inghebbiare la dolce arte del dire dalle monache, sono state quasi tutte scolare di Domenico Bancalari, per la storia, la lingua, e la letteratura italiana. Ed egli meritò la fiducia delle famiglie, candido dell’animo e dei costumi, garbato nel discorrere, misurato nei modi, serenamente amorevole, pieno di dottrina non pedantesca, dotato di finissimo gusto in ogni cosa. Era curioso il suo modo di esercitare le alunne alla composizione italiana. Tutte le mattine, uscendo dal suo quartierino di piazza delle Erbe, pagava il suo tributo alla politica, comperando un giornale. Leggiucchiava camminando: giunto alla prima stazione del suo quotidiano viaggio didattico, metteva il giornale sotto gli occhi alla gentile alunna, facendole leggere ad alta voce un articolo di fondo, una corrispondenza politica, una notizia cittadina, una cronaca d’arte, quel che gli capitava, o che per certe ragioni gli aveva fatto più senso. L’alunna doveva leggere a garbo, magari correggendo gli errori di stampa, ed anche quelli di interpunzione, che non erano tutti da imputarsi ai tipografi: doveva pronunziare italianamente, levandosi via via i difetti della pronunzia dialettale, dar con le pause, con le spinte di voce, con l’accento vibrato o dimesso, i giusti coloriti al discorso. Inoltre, e sopra tutto, doveva trovare in che punti lo scrittore avesse errato nelle proprietà della lingua, nella purità dei vocaboli e nella sincerità delle locuzioni, nel gusto delle frasi, nella proporzione dei periodi, nell’equilibrio delle parti; dove avesse detto troppo, dove troppo poco, e dove, anche in molte parole, un bel niente. Il professore, come potete immaginare, guidava lui questa diligente ricerca del pel nell’uovo, uscendo qua e là in certe sue volate di storia antica e moderna, d’arte, di scienza, d’usi e costumi, e di tutto ciò che gli paresse opportuno. E qualche cosa di tante lezioni svariate restava naturalmente nella memoria dell’alunna, a cui spesso pareva di aver trovato lei stessa ogni cosa; e questo era certamente il maggior frutto di un simile insegnamento. Ma il giornalista, poveraccio, era fatto il più delle volte a pezzetti. La cosa dev’essere capitata anche a me; tante volte mi son sentito fischiare gli orecchi! — Ti ho pagato il tributo! — mi gridava egli qualche mattina, da un marciapiede all’altro della strada, agitando comicamente in aria il giornale scritto da me. Povero amico! lo vedo ancora, amante del grigio nei calzoni, del bianco nella sottoveste, del lionato chiaro nel soprabito, colori che si confacevano alla tinta dei capelli tra il biondo antico e il bianco moderno, irremissibilmente tagliati fino alla cotenna. Era di bella statura, non regolare di lineamenti, ma piacente di aspetto, con quella sua faccia socratica, vivacissimi gli occhietti grigi sotto le sopracciglia foltissime, bianco rosata la carnagione, alta la fronte e nocchiuta, prominenti gli zigomi, un po’ ristrette le guance ai lati della bocca, che appariva assai bella per la candidezza dei denti e il vermiglio tenero delle labbra carnose, tra due baffettini ancora timidamente biondeggianti e una barbettina corta, ristretta alla curva del mento. Gaio compagnone, ma senza follìe, come si conveniva alla età matura, pronto alla celia, facile al garbato epigramma e disposto a gradirlo anche quando fosse rivolto contro di lui, era di tutte le feste, di tutte le scampagnate; amava la compagnia dei giovani, e per la freschezza dei sentimenti, per la giocondità delle idee, per l’amabilità del discorso, pareva sempre tra questi il più giovane. La mia amicizia con lui aveva avuto uno strano principio. Ci conoscevamo da un pezzo, per la frequentazione costante al teatro di musica, per la comune amicizia con Angelo Mariani; e ci salutavamo, barattavamo all’occorrenza qualche frase, ma senza intimità, e ci davamo del lei. Avvenne che io perpetrassi un delitto letterario, un sonetto, per la serata di una prima donna; l’unico, se la memoria non mi tradisce, certamente l’ultimo della mia vita. La prima donna era giovane, brava e promettente; ma credo che non abbia fatto carriera, perchè dopo uno o due anni non ne ho più sentito parlare. Bellissima com’era, mutò certamente la cara libertà del palcoscenico con una più cara servitù matrimoniale; viva la faccia sua, e siano stati figli maschi, com’è da augurare a tutte le donne belle, per il miglioramento della razza italiana. La diva era venuta a Genova con parecchie commendatizie, una fra l’altre per me. Avevo fatta la mia visita, e conosciuta in lei una rispettabilissima persona; l’avevo presto ammirata in due spartiti vecchi e in uno spartito nuovo, opera di un amico mio, che ebbe il torto di addormentarsi poi sugli allori. Tutti questi erano stati per me motivi sufficienti a delinquere. Il sonetto, debitamente stampato e distribuito in teatro col solito volo dei foglietti dalla piccionaia, aveva questa chiusa: «o ben nomata Angelica nel canto e nel sorriso». Non rammento altro, dei miei quattordici versi; ma rammento benissimo che non avevo firmato, stampando, e che non avevo creduto necessario di vantarmi dell’opera mia presso la gentile artista. Il Bancalari, poeta del teatro, fu creduto a bella prima l’autore, e ricevette quella medesima sera i ringraziamenti della diva. Lì per lì, non avendo ancor visto il sonetto, non aveva capito, nè saputo che rispondere; poi, letto il foglio, era rimasto più impacciato che mai, non osando correr da lei per dirle: badate che io non ci ho colpa. Lo disse, veramente, qualche giorno più tardi; ma per allora, fortemente turbato, sospettando che fossi stato io l’autore dei versi, era venuto da me per raccontarmi ogni cosa e scusarsi di non aver saputo chiarir subito la faccenda, di non aver dato a Cesare.... — Quel che è di Giulio! — diss’io, interrompendolo. — Senta, anzi, senti; poichè questo segreto ci fa complici, potremo darci del tu. Ho riletto il mio sonetto a mente fredda. È una birbonata, e tu certamente non puoi esser contento che si attribuisca a te. Quanto a me, son ben felice che non si sappia chi ha scritto quei versi. Così potessi esser io l’autore dei tuoi! — Quali? — esclamò, rizzando la testa e spalancando gli occhietti grigi. — «Elisa....» — incominciai. — «Elisa, ricorda....» — Fece l’atto di dar nelle furie; ma si trattenne tosto; finì anzi con ridere. — Anche tu! — diss’egli. — Anche tu li sai? — E chi non li sa, quei due versi maravigliosi? «Cui non dictus Hylas puer et Latonia Delos?» — Ecco la storia dei due versi di Domenico Bancalari. Questa si collega all’altra del valzer cantabile di Luigi Venzano; ne è veramente la coda, come ho già avuto l’onore di dirvi; e tralascio per lei di finirvi un dialogo che può avere la sua importanza per me, ma non ne avrebbe nessuna per voi. La stagione invernale del 1849-50 volgeva al suo termine: ancora un paio di settimane, ed Elisa Gassier, la vezzosa cantatrice, sarebbe partita da Genova. Luigi Venzano, il cui valzer ella aveva così deliziosamente cantato, voleva dimostrarle la sua gratitudine scrivendo qualche cosa sull’albo di lei: una romanza, una barcarola, un madrigale, od altro di somigliante, in cui potesse svolgere un pensierino musicale, che avrebbe certamente trovato nella sua giovane fantasia. Egli apparteneva ad una scuola artistica, per la quale «Musica e poesia son due sorelle Consolatrici delle afflitte genti» e credeva che quelle due sorelle non dovessero andar mai scompagnate, obbedendo in ciò al loro antico destino, che le aveva fatte nascere ad un parto. Così, appena gli fu venuta l’idea di scrivere il suo madrigale, od altro che fosse per riuscirgli, il maestro Venzano non ebbe più pace: voleva i versi: gli occorreva il poeta. Il poeta, per fortuna, lo aveva sotto la mano. Quella medesima sera lo avrebbe trovato in teatro, andando alla prova dell’opera con cui si chiudeva la stagione. Quando giunse in orchestra, vide infatti il Bancalari, che si aggirava tra i crocchi del palcoscenico, distribuendo le sue eterne pasticche. Anch’egli, il Venzano, lasciato il violoncello ancor nella cassa, scavalcò lesto la ribalta e salì sul proscenio; prese l’amico per un braccio, lo trasse in disparte, e con la sua aria più misteriosa gli disse: — Menico mio, tu dovresti farmi un piacere.... — Anche due, — rispose il poeta, — purchè si tratti di cosa che io possa fare. Capirai che se fossero quattrini.... — Potrai certamente; — ripigliò il musicista, lasciando cadere un discorso che sarebbe stato inutile proseguire. — Chiedo il piacere alla tua fantasia di poeta. — Ahi! si mette male; — disse l’altro, che a quell’uffizio era pigro. — Sai che ci ho fatta la ruggine? — Ti prego, non mi dir di no. Due versi per metterli in musica. — E qui il musicista narrò partitamente all’amico qual fosse il suo bisogno, a chi fosse destinato il componimento, e come fosse necessario far presto. Quell’altro non voleva saperne. Versi a lui, al poeta del teatro? Era come domandargli mille lire in imprestito. Nicchiò, si provò a ricusare, gridando di non voler essere seccato; e frattanto con gli occhi smarriti andava guardandosi intorno, quasi cercando qualcheduno che potesse e volesse liberarlo da quel passo difficile. Ma il musicista incalzava. Si era messo tra lui ed ogni via di salvezza; lo stringeva tra l’uscio e il muro, o per dire più esattamente, tra la prima quinta di sinistra e il gran pilastro della bocca d’opera. Il Venzano, finalmente, era un amico, il migliore degli amici, e chiedeva per la prima volta un servizio al poeta. Ma il bisogno dei versi era poi così urgente? Se almeno si fosse potuto rimandar la faccenda al giorno seguente! No, no, quella sera, per l’appunto quella sera. Il musicista era in vena; quella sera, appena finita la prova, contava di andarsene difilato a casa, di mettersi al piano, di trovare la melodia. Domenico Bancalari fece tutte le smorfie di Proteo, il dio dei pesci, costretto a dare il suo responso al disgraziato marito di Elena. Voleva guizzar di mano all’avversario; ma non c’era verso; quell’altro lo teneva più stretto che mai. — Ebbene, sia; — diss’egli, facendo di necessità virtù. — Infine, capisco, l’amicizia ha i suoi diritti. Sarai contentato, barbaro uomo. — Oh bravo! — gridò il musicista, levando le palme. — Credi che mi fai proprio una grazia, e mi togli da un grande impiccio. A te, del resto, che cosa costano due versi? Il tempo di scriverli. — E di pensarli; — replicò il poeta, rabbruscandosi. — Credi proprio che sia come aprire la bocca e lasciar correre il fiato? Ma sia, ho promesso; ed eccomi a servirti, qui sui due piedi. — Il musicista si allontanò, avendo ottenuta la promessa formale. Seduto sul suo sgabello in orchestra, e voltandosi di tratto in tratto a sbirciare con la coda dell’occhio di sopra la sua spalla sinistra, poteva vedere il poeta a lavoro. Domenico Bancalari aveva cavato di tasca il taccuino con la sua brava matita, e un po’ a capo basso, un po’ con gli occhi in aria, come è dei poeti, quando alternano i sorrisi dell’estro con le invocazioni alla Musa, cogliendo quelli al varco in quattro segni di scritto e rinnovando queste ad ogni triste pausa del soffio divino, faceva il debito suo, là, tra la prima quinta di sinistra e il gran pilastro della bocca d’opera, sui due piedi, come aveva promesso, anzi sopra un piede solo, poichè aveva posato l’altro sul piano impagliato di una seggiola, per farsi scrivanìa del ginocchio. La prova era incominciata; andò avanti, ora alla svelta, ora a riprese, come tutte le prove. Ad ogni pezzo, voltando la testa alla sua manca, il maestro Venzano vedeva il poeta, sempre al medesimo posto, col taccuino sul ginocchio, con la matita in pugno, alternare i suoi gesti, veramente di significato un po’ dubbio, tra l’ispirazione e la stizza. Si sa, non è sempre benigna la Musa, e non offre sempre facilmente la rima ai poeti. La prova finì, come finiscono tutte le cose di questo mondo; ed anche il poeta aveva finito, poichè, quando il musicista ritornò sul palcoscenico, egli stava per appunto levando il taccuino dal ginocchio e il piede dal piano impagliato della seggiola. — Eccoti i due versi; — diss’egli, con accento burbero, quasi ringhioso, porgendogli il foglietto, strappato allora allora dalle carte del suo taccuino. — Ah, bene! grazie! — rispose Luigi Venzano, dando una rifiatata di contentezza. E corse subito con gli occhi al foglietto che aveva preso tra mani; e l’aria di giubilo che gli si era dipinta sul viso andò subito dispersa in un gesto d’ingrata maraviglia. — Soltanto due! — esclamò. — Due, certamente; — disse il poeta. — Non me ne hai chiesti che due. — Dicevo due; ma potevano esser quattro, sei, anche otto; — replicò timidamente il musicista. — Un pensiero musicale ha bisogno di tutti i suoi svolgimenti. — E tu svolgilo, ripetendo i due versi. Quante volte non si è fatto ciò, in musica! — Capisco, sì, capisco. Si può andar molto lontano, con due versi. Ma io mi aspettavo tutt’altro. Sei stato qui tre ore ritto impalato a scriverli. — «In tenui labor;» — replicò sentenzioso il poeta. Il maestro Venzano, frattanto, accostatosi ai lumi della quinta che l’impresario non aveva ancora pensato a far spengere, mise gli occhi curiosi sul fresco parto dell’amico poeta. Ecco i versi, i due versi maravigliosi che lesse: «Elisa, ricorda L’amico Venzano». E nient’altro, Dei immortali, nient’altro. — Bella roba! — gridò il musicista, stizzito. — A far questo ero buono ancor io. — Il poeta era di ottima pasta; ma, come tutti gli uomini di ottima pasta, aveva i suoi momenti cattivi. Andò in collera, si rivoltò, come voi, come me, se fossimo poeti, o serpenti, e qualcheduno ci pestasse la coda. — Vedi? — proruppe egli, con voce sibilante di sdegno. — Vedi che non capisci niente? e quando te lo dice qualcheduno, non te ne vuoi persuadere. Andate a far servizio alla gente!... alla gente che non capisce! Già, sempre così; «A cui Natura non lo volle dire — Noi dirian mille Rome e mille Ateni». — L’altro seguitava a guardare il foglietto, e ripeteva a mezza voce, torcendo anche un tantino la bocca: «Elisa, ricorda L’amico Venzano». — Ignorante! — gridò il poeta inviperito. — Non sai neanche leggerli. — Io? e come van letti, di grazia, perchè sembrino un’altra cosa? — Tu l’hai detto: perchè sembrino un’altra cosa. E ci vuol poco, quel poco che manca al tuo raziocinio. Dammi qua; — proseguì il poeta, strappandogli il foglietto di mano. — Ecco in che modo van letti. Un po’ d’anima, per bacco; una scintilla del fuoco sacro, che non alligna nella tua testa di rapa. _Elisa!_... Questa, per tua norma è un’apostrofe. Non sai che cosa sia, l’apostrofe? È una figura rettorica, nobilissima figura, con la quale si rivolge il discorso a cosa animata, o inanimata, che abbia lì per lì colpita la mente. Qui è una cosa animata, è Elisa, Elisa a cui ti rivolgi, perchè essa ti ha colpito, perchè vuoi essere inteso da lei, e le domandi ascolto. L’apostrofe domanda, nella lettura, un accento gagliardo, d’invocazione sopra tutto, ed anche, come ne è qui il caso, di passione rattenuta; mettendoci tutta l’anima tua, _Eee.... lisa!_ E poi viene il _ricorda_; dopo l’invocazione la domanda, ciò che tu speri, ciò che tu implori da lei. Anche qui, dunque, un pochino di sentimento; _rii.... corda!_ Ma chi deve ella ricordare? l’amico. E qui, fàtti modesto, per indicare questo titolo che invecchi, per essere ricordato da lei. Questa parola «_amico_» tu devi proferirla con un accento più tenue, che vada smorzandosi, morendo nell’altra parola, nella parola finale: «_Venzano_». — Luigi Venzano stava ascoltando, ma niente persuaso da tutta quella cicalata. — Mi par sempre la medesima scioccheria; — osò dir egli, come l’altro ebbe finito. — Dov’è il pensiero poetico che io ti domandavo? Questa è prosa, finalmente. — Prosa! lo dici tu, ignorantissimo uomo. Se fosse prosa, potresti tu parlare alla signora in questa forma audacissima, dandole così liberamente del tu? Diresti, m’immagino, press’a poco così: «Signora Elisa, la prego, quando sarà lontana, di ricordarsi degli amici, tra i quali io non sono certamente il meno devoto». Oppure: «Signora Elisa, io spero che Lei, quando avrà lasciato la nostra città, voglia ricordarsi qualche volta della mia modesta persona: non merito tanto, lo so; ma infine, la sua squisita bontà....» E qui una dozzina delle solite stupidaggini, di cui è fatta la prosa corrente. In poesia vai più svelto, come vedi. — E non le dico niente; — ribattè Luigi Venzano. — Niente! e da capo! Quest’uomo è veramente diverso d’ogni costume. C’è tutto, per tua norma, qui dentro; c’è tutto il necessario, non una parola di meno, non una parola di più: il sommo dell’arte! Non dovrei vantarmi da me; ma sei tu che mi tiri pei capelli. Infine, ragioniamo. A chi ti volgi, col tuo pensiero musicale? A lei. Chi è lei? Elisa. Inutile che tu soggiunga il casato della signora, poichè scrivi nel suo albo, che non è quello di un’altra; ne convieni? — Ne convengo. — Dunque, dicevamo, _Elisa_. E non puoi dirle altro che Elisa; non puoi metterle di costa il più magro degli epiteti, che sarebbe sempre una libertà troppo grande, e ti farebbe passare per un fatuo, agli occhi suoi e dell’universo mondo; me convieni? — Ne convengo. — Oh, santa pace! e allora ci siamo. Che cosa le domandi tu, ad Elisa? Non già che ella ti ami. Queste cose si chiedono a voce, se mai, perchè ti rida lei sul muso; non si mettono in carta, perchè ti ridano gli altri alle spalle. Del resto, un cavaliere di garbo non domanda che un pensiero. È già molto, sai? Ora, poichè ella parte, questo pensiero è facilmente, naturalmente, un ricordo. Eccoti dunque giustificato il «_ricorda_». Ma chi deve ella ricordare? L’innamorato? — Eh via! chi ti ha detto che io ci abbia di queste intenzioni? — Ho piacere che tu stesso lo intenda. Del resto, non si potrebbe metter la parola in un albo, che può andare per tante mani. L’amico, dunque, l’amico. Ed eccoti per l’appunto questa parola necessaria: «_l’amico_». Ma chi è questo amico? Ce ne son tanti, di amici! Bisogna dunque specificare. Specifichiamo l’amico. Luigi, lo capisco benissimo; tu avresti voluto metter Luigi, ed anche con la sua brava dieresi: Lüigi. Ma sai che sarebbe stata un’audacia singolare, un’audacia strana, inaudita! In quella vece, il cognome, nient’altro che il cognome. È usuale; è di buon genere; Venzano! «Elisa, ricorda L’amico Venzano». C’è tutto; — conchiuse Domenico Bancalari con aria di trionfo; — non una parola di più, non una di meno; il sommo dell’arte, come ho l’onore di ripeterti, è sommo dell’arte. E tu dicevi che non c’è niente! Dillo ancora se l’osi. — Non l’oserò; — rispose rassegnato Luigi Venzano. — Ma ti giuro che andrò a farmi fare due versi da un altro. — Il poeta non ci vide più lume. — E vacci, in tua malora, — gridò, — e trovalo, che ti faccia un centone di frasi, in cui annegare il tuo pensierino musicale, povero pulcino tisico, sgusciato per carità! Io potrò sempre dire col profeta: «Curavimus Babylonem et non est sanata, derelinquamus eam». — In quel punto si accostò un inserviente. — Signori, se hanno finito, si spenge. — Sì, spegni pure, abbiamo finito; — brontolò Luigi Venzano. I due amici si avviarono all’uscio del palcoscenico, per infilare il corridoio dei palchi di prima fila. Ma quella sera, usciti dal teatro, non cenarono insieme. Domenico Bancalari svoltò da un canto, e Luigi Venzano dall’altro. Ritrovò questi il poeta che gli facesse il centone? Non ne ho raccolto memoria. Per saperlo, bisognerebbe vedere nell’albo di Elisa. Comunque sia, la eminente cantatrice partì da Genova, e uscì più tardi dall’arte, ignorando quell’episodio della sua gloriosa carriera, e come per lei, innocentissima causa, due vecchi amici restassero una settimana imbronciati. Poveri vecchi amici, andati via via dove andiamo tutti, a dormire il gran sonno! Quante volte non lo abbiamo perduto insieme, il sonno, facendo l’alba in un quartiere o nell’altro della città, per accompagnare a casa or l’uno or l’altro di noi! E quante volte, o Domenico Bancalari, o Luigi Venzano, non vi ho io tormentati con la storia dei versi ad Elisa! Ma niente di male, in fin dei conti; ridevate, e per un’ora almeno ridiventavate giovani anche voi. C’è nei lieti ricordi evocati una gioia che trabocca dall’anima dei ricordatori, per trasfondersi nell’anima di un’intiera brigata. Io, quando mi trovo in compagnia di vecchi che amino ricordarsi e raccontare, provo un gaudio estetico singolarissimo ad entrare nella memoria loro, a stuzzicarla, come si fa col fuoco in un camino, per vedere la gioconda fiammata di gioventù, che traluce dagli occhi, colora le guance, anima il gesto e l’accento. Perfino le carni riprendono il loro vigor giovanile, in questa specie di valle di Giosafat, dove le rimembranze avvizzite son pronte a risorgere, senza suono troppo fragoroso di trombe. E ne stuzzicavamo, dei fuochi illanguiditi, nelle notti dopo lo spettacolo, al secondo piano di quella trattoria del teatro Carlo Felice, intorno ad una gran tavola che aveva la fortuna di parer sempre troppo ristretta! Ci passarono tutti, là dentro, italiani e stranieri, artisti, poeti, scrittori, uomini politici ed amministrativi, soldati, mercanti e fannulloni emeriti, che sentivano il bisogno di un’ora di espansione amichevole. Ce n’era uno, per verità, che non voleva espandersi, ma concentrarsi: il povero Giuseppe Rota, il famoso autore dei «Bianchi e Neri», del «Giocatore» e di tante altre azioni coreografiche, rimaste nella memoria del mondo come vere opere d’arte. «Amici, concentriamoci» era il suo grido. Angelo Mariani, il musicista insigne, il celebrato direttore d’orchestra, ammetteva la concentrazione, ma non voleva si dicesse «amici», parola secondo lui abusata tra i popoli; pretendeva che si dicesse «amichi» perchè c’era l’idea, ma rinnovata, rinfrescata, rinvigorita da qualche cosa di più. Un’acca, sicuramente. E gli «amichi» in quelle ore ne trovavano delle carine. Luigi Venzano, ad esempio, inventò il trionfo di Luigi Saccomanno, dopo la serata di questo egregio cantante, che aveva creata in Genova la parte di Mefistofele nel «Faust» del Gounod. — Senti, — era andato a dirgli in camerino tra un atto e l’altro il Venzano, — gli «amichi» non hanno voluto darti fiori, che son riserbati alle prime donne; non allori, che stanno bene dai salumai; non bottoni di brillanti, che stanno meglio nelle vetrine dei gioiellieri. — Che! che! — gridò il Saccomanno. — La vostra «amichizia» mi basta. — No, questo no, è troppo poco; — riprese il Venzano. — Ma che ne diresti di una cena, preceduta dagli onori del trionfo? — Vada per la cena; — disse il baritono. — Tanto la faccio ad ogni modo, e sarà tanto di risparmiato: ma il trionfo.... Credi proprio che io l’abbia meritato? Basta, fate voi altri. — Vedrai, e ne sarai contento; — replicò il Venzano. — Finito lo spettacolo, spògliati con tutto il tuo comodo; ti aspetteremo sotto il pronao del teatro. — Ecco ora in che consisteva il trionfo. Un trionfo presuppone un carro. Luigi Venzano ne aveva adocchiato uno, nell’angolo della piazza, tra il colonnato del Carlo Felice e i portici dell’Accademia. Quando il Saccomanno, che era d’ultima scena, ebbe finito di spogliare le maglie rosse e di levarsi dal viso l’impiastricciatura diabolica, il teatro era sgombro da un pezzo, e sotto il pronào, partita l’ultima carrozza, non c’erano che gli «amichi» adunati in attesa, col loro carro, o, per dire più esattamente, con una certa carretta, che aveva la cassa protetta da un coperchio a due imposte, come un uscio a due battenti. Comparve il Saccomanno, vide lo strano arnese, riconobbe una carretta da spazzaturai, rise e ci saltò dentro, fra gli evviva di una trentina di «amichi». I quali, parte alla testa, parte ai fianchi, parte alla coda della carretta, si diedero a tirare, ad accompagnare, a spingere, gridando come ossessi, per via Carlo Felice e piazza Fontane Amorose. C’erano degli uomini gravi, nella compagnia trionfale; farei inorridire, se dicessi tutti i nomi; vi basti di sapere che erano del numero certuni, i quali dovevano poi tirare, magari portandolo un pochino sull’orlo dei fossi, il classico carro dello Stato. — Viva il grande, il sommo, l’eccelso baritono, il divo Luigi Saccomanno! — si andava gridando a squarciagola. — Onore all’impareggiabile merito del maraviglioso artista che sotto le spoglie di Mefistofele ha mandato in visibilio il rispettabile pubblico e l’inclita guarnigione! — E via di corsa, con gran fragore di ruote sul lastrico della strada; ma tosto con un lungo codazzo di guardie della questura, che volevano fermare il carro, e intanto, riconoscendo nella brigata alcuni personaggi che il nastro verde od altra ragione rendeva sacri ai loro occhi, si contentavano di seguire il cortèo trionfale, gridando: — signor cavaliere, per carità! signor marchese, di grazia! la smettano; lascino dormire in pace tanti buoni cittadini! — Che pace! che dormire! — si rispondeva. — Quando c’è il merito, bisogna riconoscerlo... ed onorarlo. Seguite anche voi, e gridate: «Io triumphe»! — E risate, frattanto, ed arringhe del trionfatore, che andava traballando ad ogni scossa del veicolo. Come Dio volle, si finì la gazzarra; il trionfo della carretta fu fermato sulla piazzetta della Meridiana, davanti ai Telamoni del palazzo Verde. Queste erano follìe. Ma quante belle conversazioni di musica, di letteratura, d’arti figurative, di economia politica, di commercio, d’industria, di nautica, perfino di astronomia! Ricordo una sera, in cui Camillo Flamarion, allora in peregrinazione scientifica per l’Italia, ci svolse la sua teorica della pluralità dei mondi abitati. Domenico Bancalari mancava di rado a quelle feste dell’ore «all’amicizia sacre» come le chiamava Tommaso Marchesani, il mio indimenticabile compagno di passeggiate notturne. Domenico Bancalari partecipava con l’anima a tutto, non riscaldandosi in nulla, sempre sereno, garbato, ilare e fine. Ed anche aveva finito a compiacersi di sentir ricordato l’albo di Elisa. — Ma sì, — mi diceva, — non ti pare? Avevo detto tutto quel che c’era da dine: Non una parola di più, non una di meno, è il sommo dell’arte. — Anch’io, senza sperar di raggiungere in ciò il sommo dell’arte, vorrei non dir più del bisogno. Ma direi certamente di meno, se non ricordassi che il mio povero amico mi ha ricordato nel suo testamento; l’unico testamento, ahimè, in cui sarà stato scritto il mio nome. Da qualche tempo non ci si ritrovava più che di rado. Con la morte del Mariani, avvenuta nel 1873, la società degli «amichi» si era quasi dispersa. Vedevo il mio Bancalari ad intervalli, ordinariamente di mattina, andando egli a qualche lezione, ed io all’ufficio del giornale. — Ti ho pagato il tributo! — mi gridava egli dall’opposto marciapiede di via Sellai, o di via Carlo Felice, agitando il foglio che aveva tra mani. — Grazie! tu sei la perla dei contribuenti; — rispondevo. E ognuno di noi tirava dritto per la sua strada. A mezzo il giugno del 1879 ammalò, ed io non seppi nulla. La malattia fu breve. Il 21 giugno venne da me il commendatore Paolo Papa, farmacista in piazza del Palazzo Ducale, egregio cittadino e mio compagno d’armi. — Il povero Bancalari, — mi diss’egli, con le lagrime agli occhi, — è morto. — Che? come?... — gridai. Ed anche a me si velarono gli occhi. Domenico Bancalari era uno di quegli amici che si possono materialmente trascurare per giorni e settimane, senza che essi siano perciò meno presenti al nostro spirito, o meno cari al nostro cuore. — Sì, questa mattina; — mi rispose Paolo Papa. — Ed ecco il suo testamento. — Il testamento era breve; Domenico Bancalari lo aveva scritto di suo pugno, in un foglietto di carta, a matita, come i due versi ad Elisa. Lasciava poco, l’amico mio, perchè poco aveva messo da parte. Tra i paragrafi del malinconico documento c’era questo, che risguardava la mia povera persona: «All’amico Anton Giulio Barrili lascio la Storia della Letteratura Italiana di P. L. Ginguené, in dodici volumi. Credo che egli non possieda quest’opera, perchè un giorno me ne ha chiesto un volume in imprestito. La tenga, ad ogni modo, per ricordanza del suo vecchio amico». Quel medesimo giorno la Storia del Ginguené (versione Italiana del Perotti, edizione milanese del 1825) venne ad arricchire la mia libreria. Non erano dodici, i volumi, ma undici. C’era il terzo, quello imprestato a me e da me restituito a suo tempo; mancava il quinto, sicuramente imprestato ad altri e non ritornato al suo padrone legittimo: onde l’opera mi rimane scompleta. Anche così, mi è cara; nè, comunque parecchi volumi siano rotti, sbrendolati dall’uso, osai farla rilegare, parendomi in quella veste primitiva di sentir meglio la presenza di lui. Bancalari, Venzano, inseparabili amici, siate uniti anche qui, nelle mie rimembranze giovanili. Viveste buoni, modesti ed utili. Se i fatti avessero consentito, avreste conseguita la fama. Le mie pagine non potranno darvene punto. I pochi che mi leggeranno, sappiano che meritavate di conseguirne moltissima; sappiano ancora che nessuno ebbe a sentirsi offeso dal vostro orgoglio, oppresso dalla vostra superiorità, schiacciato dalla vostra fortuna; sappiano infine che foste anime nobili, che siete vissuti amando, lasciando intorno a voi, nella generazione che vi conobbe, un dolce ricordo d’intelligente bontà, un «incognito indistinto» di gentilezza, di virtù, di sorrisi. Ciò forse val meglio che lasciare un nome nella storia. L’amico Bastiano. Ero a tavolino, scrivendo; con poca voglia, veramente, poichè dalla finestra si vedeva un bel cielo sereno, e tutto invitava ad uscire. Ma la necessità comandava; e la necessità, che fa l’uomo ladro, lo fa qualche volta anche scrittore. Scrivevo, adunque; e già incominciavo a rassegnarmi, a prenderci gusto, quando entrò la fantesca per dirmi: — Signor padrone, c’è un signore che domanda di Lei. — Oh Dio! — mormorai. — Gli hai dunque detto che c’ero? — Scusi, mi ha detto che era un amico, un vecchio amico, e che l’avrebbe incomodata soltanto per pochi minuti. — Sospirai, rassegnandomi alla visita, come già m’ero rassegnato al lavoro. — Dov’è? — ripigliai. — Nel salottino. — Bene, ora vengo. Ma no, — soggiunsi, pentendomi subito. — Se è un amico, puoi farlo entrar qua. — E dentro di me soggiungevo: — Non troverà una sedia libera, e capirà, vedendomi a tavolino, che non posso esser seccato con lunghi discorsi. Perchè io li conosco, questi messeri che hanno da incomodare soltanto per pochi minuti. Date loro un dito e vi pigliano la mano; una mano, e vi pigliano il braccio. — L’amico entrò. Non lo conoscevo neanche per prossimo. Era un signore alto e grosso, dalle spalle quadre, con una gran faccia larga e carnosa, senza peli alle labbra ed al mento, ma con due ventole lunghe e nere come l’ebano, in mezzo alle quali si dilatava un bel naso, la cui punta appariva filettata di vasi sanguigni. La fronte era bassa, ma prendeva una certa dignità dal cranio nitido e lustro come una palla di biliardo. Gli occhi erano piccini, ma lucenti di malizia, sotto due sopracciglia folte, ispide e pronte alla difesa. Il personaggio vestiva signorilmente, con eleganza forestiera, e portava bottoni di brillanti al petto della camicia. Probabilmente ne aveva anche ai polsini; a buon conto, ne osservai uno, senza volerlo, che luccicava al quarto dito della mano destra; un solitario che così ad occhio e croce poteva essere stimato a diecimila lire. S’intende che non ebbi modo di far subito il conto; dovevo guardare in faccia il personaggio, e guardandolo non venivo a capo d’indovinare chi fosse. Mi alzai, facendo di necessità virtù, e levai tre grossi volumi di sopra una seggiola, con intenzione di offrirgliela. Capirete, non si può far tutto ciò che si pensa. — Prego.... — dicevo frattanto. — In che posso servirla? Quell’altro mi guardava sorridendo, e ad ogni tratto ammiccando, socchiudendo gli occhi, spalancandoli, come se volesse vedermi bene, contemplarmi in più modi. Ma quella mimica non poteva durare eternamente; ed egli, come Dio volle, la smise. — Sei tu, non è vero? — incominciò. — Ma sì, ma sì, sei mutato di poco. Ingrassato, per altro! — E tu, caro, non canzoni; — gli risposi io, abbastanza, seccato. — Sei ingrassato tanto, che non ti riconosco affatto, e ti prego di dirmi il tuo riverito nome. — Non mi riconosci? — esclamò. — Egli non mi riconosce più! — proseguì, come parlando ad un suo spirito interiore. — Vedete che cosa fa la gloria. Ci ha i fumi alla testa, il nostro compagno di scuola. Ma davvero, non ti ricordi più dell’amico Bastiano? — Ci sono degli uomini che hanno di queste malinconie. Non li avete più visti da quarant’anni; erano piccini allora, mingherlini, senza un pelo sul viso; vi vengono davanti uomini fatti, strafatti, con tanto di basette, senza capelli in testa, e pretendono in quell’ultimo figurino li riconosciate «hic et nunc» per quelli di prima. Io, neanche al suo nome, riconobbi il mio Bastiano: mi fu necessario un esame interiore, una rassegna veloce, a ritroso, di tutte le fasi della mia adolescenza, della mia puerizia. Ah, finalmente, c’ero; ritrovavo, quantunque sbiadita, l’immagine dell’amico Bastiano. Ma erano passati mill’anni, a dir poco, dal giorno che l’avevo perduto di vista. Un cosino alto così, due soldini di cacio! Nondimeno, feci tutti i gesti di circostanza, e con quella buona grazia che salva tutto, mi precipitai nelle braccia che egli mi offriva spalancate. Dato quel piccolo sfogo ai sensi dell’amicizia, feci sedere accanto a me l’amico Bastiano. — Qua, qua, vecchio compagno; — gli dissi, battendogli anche la mano sulle ginocchia. — Ma chi poteva riconoscerti subito, dopo tanti anni, nella spoglia dell’uomo maturo? E da dove, se è lecito? — Da Parigi, da Berlino, da Vienna. — Un bel giro! — Ma prima di Parigi?... — Montevideo, Buenos-Aires, Rio de Janeiro. — Bravo! vai sempre per triple? — Aggiungi tre dozzine d’anni che manco dalla patria. — Appena? — mi sfuggì detto. — Mi pareva che ci fossimo perduti di vista da molto più tempo. — Già, ti ricordi? Eravamo stati compagni ancora in grammatica, e poi per due mesi di umanità. Io ho lasciato allora gli studi a mezz’anno. I versi mi allegavano i denti. Quelle regole della.... come diavolo si chiama quella storia.... per fare i versi in latino? — La prosodìa, caro. Rammenti il primo precetto? «Vocalem breviant, alia subeunte, Latini». — Neanche quello. Non me n’è entrato in testa neppur uno. Che follìa, del resto, voler dare una educazione eguale per tutti! — Colpa dei tempi, amico Bastiano. A quei tempi non facevano scuola che i frati; e gran mercè che una scuola ci fosse. Ora ci avresti da scegliere. Ce n’è per tutti i gusti, in Italia; la scuola tecnica, per esempio, dove il latino è proibito come le pistole corte. — E mi sarei anche adattato al latino; — riprese l’amico Bastiano. — Ma quando la testa non regge.... quando certe difficoltà non t’entrano, che ci vuoi fare? Tu, invece.... Lo dicevo sempre, io, che saresti diventato un pezzo grosso. Sempre il primo in iscuola.... Ma come ne eri orgoglioso! confessalo, via. — Se è per farti piacere, lo confesserò. — Quanto a me, poveraccio, piantata lì la Regìa.... la Regìa.... — «Regia Parnassi, seu Palatium Musarum». — Capisci che roba! — ripigliò con accento di comico terrore l’amico Bastiano. — Così, lasciato lo studio, non avevo da scegliere che tra le mezzine di mia madre e le doghe di mio padre. Ricorderai che mio padre faceva il bottaio, nella Quarda inferiore, e mia madre teneva osteria a dieci passi da lui. Non me ne vergogno, sai? E non mi sarei vergognato allora, nè di fare il bottaio, nè di fare il tavoleggiante. In America, dove sano andato, ne ho passate delle peggio. La vita è dura, pur troppo; e più dura a chi deve cominciarla da sè. — A chi lo dici? — esclamai. — E tu, perbacco, anche tu ci avrai avuti i tuoi momenti difficili, non è vero? La prima notizia che mi venne di te, a Montevideo, mi fece anzi un po’ di pena. — Che notizia? — Che ti eri messo a scrivere nei giornali. Brutto mestiere, ho subito detto tra me. — Brutto no, ma da cani; — replicai. — Figùrati che ho incominciato guadagnando cinquanta lire al mese. — Se lo dicevo io! se lo dicevo! Ma fortunatamente ti sei liberato; sei andato su su; sei volato; ti sei messo a scriver libri. E che libri, in edizioni di lusso, da innamorare. Ne ho comprato uno a Parigi, dal libraio della stazione dell’Est. Ah, vediamo un poco che cosa scrive l’amico, ho detto tra me. Voltata la prima pagina, ho veduto benissimo. «Opere dello stesso Autore». Mamma mia, quanta roba! ho contato fino a quarantaquattro volumi. — Aggiungine otto per il buon peso. Ne ho già pubblicati cinquantadue. — Diavolo! — Sì, meravigliati pure; cinquantadue. E fo conto di andare a cento. — Niente di meno! Ma come fai, domando io, come fai a scriver tanto? — Scrivendo, caro amico, scrivendo. È una infermità: i medici la chiamano grafomanìa; ed io la porterò fino alla fossa. Non mi pesa, del resto; anzi ti dirò che mi fa buon giuoco. Quando sono qui dentro a lavorare, non vedo quello che gli altri fanno, ed è già tanto di guadagnato. Ti capacita? — Capisco che vuoi scherzare. Ma sai che è una bella costanza, la tua? Già, quando si è tanto studiato da ragazzo!... Io, pur troppo, son rimasto un asino. — Eh via! — Sì, ti dico, un asino calzato e vestito. Lo scrivere mi ha sempre scorticate le dita. Con te, che alle scuole mi hai fatto tante volte il «lavoro» non devo e non voglio aver segreti. Figùrati che per la mia corrispondenza d’affari ancor oggi ho bisogno d’un segretario. Quanto alle lettere di complimento, c’è mia moglie che se ne incarica. Disgraziatamente non sa altro che spagnuolo e francese. Per questa ragione, caro mio, non ho mai scritto in patria agli amici. — Non scriverai; — gli dissi. — Ma leggi, se non altro. — Che! vorrei potere. Ma anche qui, non c’è verso: prendo un libro in mano colla migliore intenzione del mondo; uno dei tuoi, per esempio; leggo una pagina, e sbadiglio.... — Grazie della sincerità; non ne hanno neppur tanta i miei critici. — Oh, non dico per te: mi accade lo stesso per tutti. Alla prima pagina sbadiglio, alla seconda m’addormento. E me ne dispero, sai? ma è più forte di me. Credo che sia una malattia, come la tua che mi dicevi poc’anzi. Ma non sarà così di mio figlio. Ne ho da fare uno scienziato, ne ho da fare; specie se tu vorrai darmi un consiglio. Anche per questo son venuto da te. Ma a proposito, e tu, quanti ne hai? — Niente figliuoli, mio caro. — Ammogliato, almeno? — Niente moglie, e ne ringrazio il cielo; perchè se l’avessi presa, ci sarebbero su questo pianeta due infelici di più. Il matrimonio, amico Bastiano, è fatto pei ricchi, o pei poveri in canna. Hai capito, ora? Ma lasciamo questi discorsi. Come l’hai fatta tu, in America? — Ti ho detto che ne ho vedute di tutti i colori. Da principio sguattero d’osteria, poi soldato, disertore, _saladero_, minatore, _almacinero_, di tutto un po’, salvo il briccone. In capo a cinque anni la mia sorte cangiò; riuscii a mettere insieme un migliaio di patagoni. Era il difficile. Con quelli, entrai compagno d’un accorto connazionale; s’impiantò una _pulperìa_, che rimase poi a me tutta intiera. Vendevo di tutto, vino, olio, formaggio, salumi, cerini, refe, bottoni, calze, camicie, abiti fatti, stoviglie, tabacco, lucido da scarpe, penne, inchiostro, carta da scrivere, e via discorrendo. Così ho lavorato dieci anni; prosperando il commercio, ho messo di costa una somma discreta, con la quale mi sono buttato negli affari, comprando terreni, vendendone, e da ultimo facendo il banchiere. Così in venticinque anni di lavoro mentale (ridi, eh?) son venuto in capo di mettere insieme.... indovina un po’ quello che ho guadagnato? — Cinquecento mila lire? — Avanti! — Ottocento mila? — Avanti ancora! — Caro, nei grandi numeri mi ci trovo male. Dimmi tu quello che porti in Europa. — Eh, non porto mica tutto; — rispose l’amico Bastiano, traendo un sospiro. — Ci ho i terreni di Buenos-Aires, che ora non si vendono; e ne ho per due milioni al sole. Un milione l’ho poi alla Banca Argentina; ma per ora non mi conviene di ritirarlo. — Sicchè? — Sicchè, devo contentarmi dei cinque che ho portati a salvamento; tre alla Banca di Francia; due qui in Genova, tra la Banca Nazionale e la Cassa di sconto. — I miei complimenti. E tutto ciò senza scrivere! — Oh, per questo, che necessità? Gli affari non domandano mica di sapere il latino, e di conoscere la prosodìa. — Dici benissimo, amico Bastiano: e Dio benedica tutti coloro che non l’hanno studiata. — Ma sì! ma sì! — conchiuse l’amico Bastiano, ridendo a crepapelle. — Ora veniamo a noi. Con tutto quello che possiedo non ho ragione di chiamarmi contento. Ti parrà strano, ma è così; non sono contento, e non è contenta neanche la mia signora. C’è quel nostro figliuolo! unico, bada, unico! Figùrati che s’è messo in testa di rimanere un asino come suo padre. In America, passi; non c’era un collegio adatto. Laggiù, quando si è ricchi e si hanno figliuoli, si mandano a studiare in Europa. Andiamo in Europa, diss’io; lo metteremo a studiare in un buon collegio, e ne faranno un dottore, come vuole sua madre. Siamo venuti in Europa: mia moglie voleva passare una stagione a Parigi, e fu quella una buona occasione per collocarlo in una pensione laggiù, restandogli vicini, per invigilarlo un poco. Ma s’è dovuto levarlo di là, dove non imparava nulla, e dove, dopo tutto, lui, figlio di padre italiano, non era neanche conveniente che facesse gli studi classici. Dico bene? Si venne in Italia: si collocò il ragazzo a Torino, in quel Collegio Internazionale, che ha buona fama anche laggiù in America. Orbene? Non passa un mese, e a Berlino, dov’ero andato con la mia signora, ricevo una lettera che mi dice: «Caro signor Bastiano, il vostro signor figliuolo non vuol saperne di studio; è un refrattario; potete venire a riprenderlo». Immagina il dispiacere di mia moglie. Si scende a Torino, si ripiglia il ragazzo, e si porta a Vienna, per vedere di ammansarlo, di persuaderlo durante il viaggio. Pare pentito; dice che studierà; ma dice ancora che di collegio non vuol saperne a nessun patto. Bisognerebbe che qualche persona dotta lo prendesse con sè, per fargli da maestro e da padre. Non si baderà a spese, mi capisci? Ci vada quel che deve andarci; purchè se ne ottenga qualche cosa, purchè non rimanga un ignorante, e non faccia arrossire sua madre. Quanto a me, ci avrei fatto il callo; — soggiunse modestamente l’amico Bastiano. — Or dunque, eccoti qua il caso nostro. Siamo venuti a Genova, ed alloggiamo all’«Hôtel du Parc». Vieni a colazione da noi, «es regular». Ti presenterò a mia moglie. Le ho parlato tante volte di te! È una donna superiore. È anzi lei stessa che mi ha detto: va da quel tuo compagno d’infanzia; egli potrà darti un consiglio. Capirai; vorremmo che studiasse bene, poichè finalmente si decide ad entrare in una pensione. Non oso dire a te.... Nella tua alta posizione, certamente.... — Io lasciai passare le due sospensioni senza fiatare, come in una giornata di vento il pellegrino lascia passare due raffiche, continuando a capo chino la sua strada. — Ma tu, almeno, conoscerai, saprai quel che occorre al nostro bisogno. Vedrai, del resto, il ragazzo: non è cattivo, dopo tutto; è solamente un po’ sventato. Con la tua eloquenza, col tuo esempio, son certo che si persuaderà. Una buona paternale che tu gli faccia.... — Vuoi un parere? — interruppi. — Ero venuto per questo. — Ebbene, fa una cosa. Lascia stare la mia eloquenza, che non c’è; metti da banda il mio esempio, che non serve; prendi il tuo rampollo a quattr’occhi, e parlagli fuori dei denti, così: «Ah, non vuoi studiare, assassino? Ebbene, ti metterò nel commercio; là non ne avrai bisogno; guadagnerai, cane, guadagnerai quattrini a palate. Andrai magari in America, come c’è andato tuo padre; farai tutti i mestieri, combatterai onestamente ma virilmente le battaglie della vita; giungerai alla fortuna, prenderai moglie, avrai figliuoli anche tu; e se non vorranno studiare, se il latino allegherà loro i denti, se lo scrivere scorticherà loro le dita, andrai per consiglio da un amico, anche tu. Intanto si passa il tempo, ed una occupazione val l’altra». Perchè, vedi, amico Bastiano. Tu hai tre milioni in America e cinque in Europa. Io ne ho più di te, ma tutti in testa. Faresti a barattare? Io credo di no. Se tu avessi studiato come me, amico Bastiano, saresti l’autore di cinquantadue volumi, da far dormire cinquantadue generazioni di altri Bastiani; saresti un dottore, e tutto quell’altro che ti parrà di vedere in me; ma saresti anche un bello scampolo di disperato. Non hai voluto studiare, per tua fortuna; e torni da Parigi, da Berlino, da Vienna, potendo anche rimetterti in cammino, e andare a Pietroburgo, a Mosca, a Stoccolma. Io, frattanto, non posso neanche venire a colazione da te. — O come? perchè? — Perchè fra mezz’ora debbo prendere il tramvai, e andare a far lezione, ad insegnare a trenta o quaranta giovanotti il poco che so; e mi daranno in fin di mese novantasette lire e ventiquattro centesimi. — _Diablo mundo!_ ma io non starei mezz’ora al mio banco, per quella miseria. — Vedi? tu l’hai detto: al mio banco. Ma il mio non è un banco, è una cattedra! che ci vuoi fare? Amico Bastiano, questa è la vita, coi suoi bravi contrasti. Diglielo, a tuo figlio, che non studii. Non c’è bisogno di dottori in Italia; c’è bisogno di milionarii; e se amate il vostro paese.... — Ma sì; tanto è vero che ci si torna. — Orbene, se amate il vostro paese, arricchite. E al tuo figliuolo raccomandagli di non logorarsi il cervello con gli studi classici. Bella roba! avremmo in patria un disperato di più. Quando penso che tanti babbi si accorano e tanto mamme si disperano, perchè i loro figliuoli non vogliono studiare! Che pazzìa! che sciocchezza! Vedete l’amico Bastiano, vorrei dire a tutti quanti; non voleva studiare, neppur lui; piantò la «Regia Parnassi», il Porretti e il Mandosio; andò a far le vitacce in America; n’è uscito sano, fresco come una rosa, lucente come uno specchio, brillantato come lo Scià di Persia, onest’uomo sempre, e milionario per giunta. Che cosa domandereste di più, per i vostri rampolli? — Rideva, l’amico Bastiano; non so poi se verde o pavonazzo, ma certamente con gran rumore di fauci. — Se tu almeno volessi far intendere queste cose a mia moglie! È lei, che non si vuol persuadere. Ma tu non puoi neanche onorarci.... Hai da montare in cattedra.... — Sì, caro; ma prima di tutto in tramvai. — L’amico Bastiano si alzò finalmente. La visita era durata assai più dei cinque minuti promessi. Ma era anche colpa mia, che avevo chiacchierato tanto. Si alzò, dico, e mi offerse un sigaro, lungo, grosso, odoroso, con la fascia argentata. Sorrisi, accettando, e misi il prezioso dono sul mio tavolino. — Non fumi? — domandò. — Come un Mongibello; — risposi. — Ma questo lo terrò per memoria della tua bella visita. Caro mio, — soggiunsi, — per solito, io li fumo toscani, ed anche mezzi, come Dante. — Davvero? Li fumava toscani, Dante? — Sicuro, essendo toscano egli stesso. È vero, per altro, che il Ferruccio, quantunque toscano, non lo imitava. Ma quello era un soldato, che aveva fatta la pratica nelle Bande Nere: perciò fumava con la pipa di gesso. — Quante belle case sai tu! — Sì, che te ne pare? E tutte utili egualmente. Se avrai tempo da perdere, vieni da me, e te ne dirò delle altre. — Sono passati due anni oramai, e non ho più visto l’amico Bastiano. Dopo quella visita non si fece più vivo con me. Così non ho conosciuta neanche, e non ho avuto da persuadere quella «donna superiore» di sua moglie. Ma spero di persuaderne delle altre, anche più superiori di lei. Stimatevi felici, o mamme, quando i vostri rampolli non vogliono studiare. Sono sulla buona strada; non li sforzate a cambiarla. Il mio latino. Gli amici che mi leggono, buona gente e dotata d’una pazienza estrema, mi accusano del troppo slatinare ch’io faccio, quante volte, con una ragione o con l’altra, e magari senza ragione, mi riesce di tirare la mia prediletta lingua morta tra i fatti, le costumanze e le conversazioni dei vivi. L’accusa, non lo nego, è fondata: ma se per questa dovessi mai esser tratto in corte d’assise, potrei certo invocare a mio benefizio le circostanze attenuanti. La gratitudine mi ha fatto colpevole; e l’occasione del peccato, come della gratitudine, mi è venuta dal praticare cogli spiriti; con quelli, s’intende, che si presentano a noi in una tavoletta scrivente. Saprete, o non saprete, di che cosa si tratti: ond’io, nel dubbio, ne dirò brevemente quello che mi parrà necessario. Tanto, si fa per discorrere, e si passa mezz’ora. Figuratevi una tavoletta sottilina e minuscola, non più larga delle due vostre mani accostate, più lunga di poco, a tre canti arrotondati, poggiata su tre gambette smilze, due delle quali, le posteriori, finiscano in un piede emisferico assai levigato, e la terza, anteriore, sia munita d’un gessetto, o d’un cannellino di pietra de’ sarti. La tavoletta si colloca su d’una gran tavola, nel cui ripiano è incastrata una lastra di lavagna; due mani, quelle del _medium_, ossia del mediatore opportuno tra voi e gli spiriti, si posano sulla tavoletta, premendovi su leggermente: uno degli astanti invoca allora lo spirito di un trapassato, più o meno illustre, o per qualche ragione pregiato e caro, a cui gli prema far domande, ad alta voce, o mentali. Lo spirito invocato, o chi per lui (vedremo or ora il perchè di questa restrizione prudente) dà segno del suo arrivo con un fremito, con uno scricchiolìo, o addirittura con un balzo della tavoletta. Siete allora alla presenza sua; ad alta voce, o mentalmente, gli potete domandare quel che volete, ed egli vi risponde come e fino a tanto che gli pare. La tavoletta, seguita a stento dalle dita del mediatore, corre sulla lavagna, saltellando o scivolando sui piedi posteriori; e così correndo a sua posta, scrive coll’anteriore (scriver coi piedi non è poi una gran novità), dando alle vostre domande una serie di risposte, di cui potete contentarvi, sì e no, come di quelle d’ogni altro interlocutore. Di questo, e d’altri consimili, che non so dire se giuochi maravigliosi o fenomeni strani della misteriosa natura, non voglio dare un giudizio, che per la mia poca esperienza e per la mia pochissima dottrina dovrebbe apparir presuntuoso. Confesserò candidamente che qualche volta la tavoletta spiritata mi ha messo in pensiero, specie quando le domande erano fatte mentalmente, e le risposte tornavano. Ce n’erano di savie e di pazze, di profonde e di sciocche, ma sempre, o quasi sempre, calzanti. Una sera avevo commessa la imprudenza grande di scomodare lo spirito di Dante Alighieri, per chiedergli mentalmente se davvero la Beatrice della «Vita Nuova» e della «Commedia» fosse una donna vissuta, in carne ed ossa, e figliuola di messer Folco Portinari. Il divino Poeta ebbe la bontà di rispondermi: «Ah, tu non conoscesti quell’angelo! Ella fu il conforto della mia misera vita». Così, preso romanticamente l’aìre, mi si stemperò in una fuga di strofe settenarie, sul taglio dell’«Ei fu», ma per verità senza la forma composta e il fare serrato del Manzoni; tanto che non ne tenni un verso a memoria, e mi dolsi piuttosto che andasse sprecato in quel vaniloquio il gessetto. Ma non c’era da stupirsi, se lo spirito rispondeva in quel modo, mentendo così sfrontatamente all’arte sovrana dell’Alighieri. Non avevamo da fare con Dante, pur troppo; un ignoto spirito canzonatorio s’era fatto avanti in sua vece. È risaputo dagli intendenti di spiritismo che non sempre lo spirito chiamato viene egli in persona, e che spesso, essendo egli impegnato altrove, o sdegnando questa maniera di confabulazioni terrestri, uno spirito burlone o maligno occupa il suo posto nella sottile assicella, amando farsi passare per lui. Ci sono spiriti buoni e cattivi, nel mondo di là, puri ed impuri, serii e faceti; come nel mondo di qua, nè più nè meno: e quando nella tavoletta, scambio del puro spirito invocato, ve ne capita uno di quei tali che lavorano ad ingannarvi, c’è proprio da guastarcisi il sangue. Questo, per l’appunto, era stato il caso mio coll’apocrifo Dante. Ed io mi adattai alla spiegazione che lì per lì me n’era stata fornita dai pratici; me ne persuasi facilmente, tra perchè a far diverso avrei mancato alle buone creanze, e perchè sarei passato per più scettico che veramente non fossi, o non avessi il diritto di essere. Amai piuttosto lasciare quelle esercitazioni spiritiche, le quali finalmente mi turbavano un poco. E del resto, a che pro’ le avrei continuate? A trattare con ispiriti cattivi, impuri e burloni, non c’è niente più sugo che a barattar discorsi con troppi dei nostri amati contemporanei. Godiamoci questi, coi quali è viaggio obbligato: a conversare cogli spiriti eletti ci sarà sempre tempo; anzi, ne avremo tanto, da rifarci ad usura dei pochi lustri perduti «in hac lacry....» Ma no, vediamo di meritare il perdono, schivando per una volta tanto il peccato; e in povera lingua italiana raccontiamo il caso, per cui s’invocano le circostanze attenuanti. Il nostro evocatore di spiriti era un capitano in ritiro, brav’uomo, digiuno di studi, anzi diciamo pure incolto in ogni disciplina, che non fosse quella del reggimento. Sapeva un po’ d’inglese, per pratica fatta in una legione anglo-italiana, nella quale aveva militato quattro o cinque anni addietro; per contro, ignorava il latino, e parlava l’italiano con un gran miscuglio di parole e di frasi piemontesi. Brav’uomo, ho detto, buon padre di famiglia, di costumi esemplari e di maniere garbate, a cui dava più spicco il suo testone di mago sabino, incorniciato alla diavola da una selva di setole arruffate, d’un nero d’ebano già largamente brizzolato d’argento; colla fronte mezzo occupata da due ispide sopracciglia, sotto le quali scintillavano gli occhi mobilissimi; non lungo il naso, ma grosso, carnoso e sincero nel suo buon colorito vermiglio; nascoste le labbra sotto due baffoni che gli prendevano mezze le guance, andando a collegarsi colle fedine; e quel che restava di pelle alla vista era tutto un intreccio di solchi, da disgradarne un obelisco di Memfi, un cilindro di Babilonia, un mattone di Ninive. Da quanto tempo trattasse la tavoletta spiritica, e come e perchè gliene fosse saltato il ticchio, non saprei dirvi adesso, non avendo pensato allora a domandargliene. Certo, al tempo ch’io lo conobbi, la tavoletta e lui erano come pane e cacio: bastava ch’egli ci mettesse sopra le sue larghe mani callose, sfiorandola appena col sommo delle dita, perchè quella fremesse e scricchiolasse; poi, quando ci aveva dentro lo spirito chiamato, corresse, corresse, scrivendo con una velocità maravigliosa. Rammento ancora d’un fatto strano intervenuto al brav’uomo, e ch’egli raccontava con molta semplicità, senza dargli importanza. Una notte, essendo egli nel primo sonno, era stato svegliato dalla moglie sbigottita, che aveva sentito battere all’uscio della camera. Gatti, non ce n’erano, in casa. Che si trattasse d’un sorcio? Ma no; era un colpettino secco, che ad ogni tanto si ripeteva, con insistenza, e via via con frequenza maggiore. Saltò dal letto il buon capitano, andò ad aprir l’uscio e al lume della candela che vide egli mai sulla soglia? La tavoletta, la tavoletta spiritica, che ben ricordava di aver lasciata sulla lavagna, nella sala delle amichevoli adunanze serali. Ed anche ricordava allora di averla lasciata là, senza rimandare pei fatti suoi l’ultimo spirito chiamato: ond’era ben naturale che quel poveretto venisse a chiedergli in quel modo la sua liberazione. Sorrise allora, il buon capitano; fece gli atti necessarii per licenziare lo spirito prigioniero; quindi rimise la tavoletta al suo posto, dond’ella non ebbe più ragione di muoversi. Si andava in molti, ogni sera, nella casa ospitale del nostro evocatore di spiriti; in una delle vie più antiche e più strette di Genova, tra la piazzetta della Posta vecchia e la piazzetta di San Luca. La più parte dei frequentatori erano emigrati, poichè si era poco innanzi il 1859; siciliani, napoletani, romani e romagnoli, abbondavano; tutta gente per bene, che viveva con pochi quattrini ma anche con molta dignità, anteponendo lo svago temperato di una conversazione in qualche casa d’amici, alla vita scioperata del caffè, o peggio, alla vita oziosa d’una sala da giuoco. Io ci avevo particolarmente gradita la conoscenza di un Torricelli, napoletano, gentil cavaliere, mingherlino e aggraziato, dagli occhietti vivi e dalla barbetta nera e lucida, che si muoveva tutta d’un pezzo ad ogni sorriso delle labbra sottili, che mettevano in mostra due fila di candidissimi denti. Era stato alla difesa di Roma, ed uffiziale d’ordinanza di Garibaldi, nell’epica ritirata di San Marino, i cui particolari amavo farmi raccontare ad ogni tratto da lui. Da questo amico mio fu chiamato una sera lo spirito di Archimede. Venne questi, e diè segno d’esser lì, pronto a rispondere: ma alla domanda mentale del Torricelli non rispose poi altrimenti che con certo guazzabuglio di linee, segnate sulla lavagna con un bel numero di salti avanti e indietro, a destra e a sinistra, pari a quelli che può fare sulla scacchiera il cavallo. — Che roba è questa? — si chiedeva. — Ma questo non è rispondere. — Anzi, — notò gravemente il Torricelli, — lo spirito risponde benissimo. Gli ho chiesto di descrivermi la forma del porto di Siracusa. — Non c’era altro da replicare. Quei segni potevano benissimo rappresentare il porto di Siracusa, nell’anno 212 innanzi l’èra volgare, quando il console Claudio Marcello assediava la città, e Archimede la difendeva colle sue trovate scientifiche. Potevano, dico; se poi rispondessero al vero, non era da noi l’indagare. Anch’io fui invitato quella sera a chiamare uno spirito; ma avevo fresca la memoria del mio caso con Dante, e non volli procurarmi a così breve distanza di tempo una seconda canzonatura. Altri, in quella vece, chiamò Marco Tullio Cicerone. E qui, si capisce, grande curiosità, grande aspettazione di tutti i presenti, come quando in una brigata si annunzia l’arrivo di un personaggio eminente. Archimede poteva esser grande fin che voleva, come un insigne matematico, ma i più potevano anche ignorare i suoi meriti altissimi: nessuno poteva per contro ignorare la solenne figura storica di Cicerone, gran politico, gran filosofo, grande oratore, anzi l’oratore per eccellenza. Cicerone arriva; e subito l’invocatore, posando la mano su quelle del mediatore, gli volge la sua domanda mentale. La risposta non si fa aspettare; Marco Tullio entra in argomento _ex abrupto_, come aveva fatto a’ suoi tempi con Sergio Catalina, e scrive quella risposta in una sola parola: — _Utike_. — Si legge, si rilegge, è proprio _utike_; nè altro v’aggiunge lo spirito del grand’uomo, che ai tempi suoi certamente non aveva dato saggi di tale breviloquenza spartana. — _Utike_! — esclama uno degli astanti. — Che diavolo è? — Non è latino, a buon conto; — osserva un altro. — _Utique_ doveva dire; — commenta un terzo, che è fresco di studi. Fresco di studi ero ancor io, e magari di spropositi nella sacra lingua dei padri. Ridotto in un angolo della sala coll’amico Torricelli, notai a mia volta: — E se al tempo di Cicerone si fosse detto _utike_? È egli poi certo che gli antichi Romani, nelle sillabe _qua_, _que_, _qui_, _quo_, facessero sentire il suono dell’u? Non si cita egli come un bisticcio di Cicerone la frase «_tibi quoque placebo_» ch’egli disse ad un cuoco, da cui era stato richiesto d’una grazia? E sarebbe stato possibile il bisticcio, se nella pronunzia il _quoque_, che significa «pure, anche, eziandio», non si fosse confuso col vocativo di _coquus_, anzi diciamo pure di _cocus_? Maraviglia delle maraviglie! Parlavo a mezza voce, in un angolo della sala: ed ecco: sulla gran lastra dove stava posata, la tavoletta fa un salto, scappando quasi di mano al suo custode, e scrive a gran furia queste poche parole: — Barrili ha ragione. — Confesso che lì per lì, quando sentii rilevare la frase, n’ebbi una scossa; e una scossa niente piacevole, quantunque ci fosse da sentirsi lusingati dalla approvazione d’un tant’uomo. Me l’aspettavo così poco, se mai! D’altra parte, Marco Tullio avrebbe fatto meglio a darmi ragione in latino. Inoltre, quell’esser conosciuto io, proprio io, da un uomo di tanta levatura, e di tanta antichità, per giunta, non finiva di persuadermi. Va bene, pensavo, che gli spiriti acquistano, dopo la morte dei corpi, la conoscenza di moltissime cose; e magari, la conoscenza di tutte; ma che si pieghino.... ma che si degnino.... E qui, tra tanti dubbi, non finivo neanche il periodo. Il Torricelli, frattanto, mostrandomi tutti i suoi denti bianchissimi nel doppio arco delle labbra vermiglie, mi faceva un graziosissimo inchino. — Puoi esser contento; — diss’egli. — Cicerone ti conosce. — Taci, assassino! — brontolai, pizzicandolo forte in un braccio. Per quella sera sopportai con dignità la mia gloria, come si sopporta con perdonabile ostentazione una grande sventura. Ma d’allora in poi non ho più pensato a Marco Tullio senza un certo sentimento misto di tenerezza, di reverenza e di vergogna. Sì, anche di vergogna. Infatti, quel grand’uomo conosceva me, quasi ragazzo, uscito appena di collegio, ed io conoscevo lui così poco! Una Catilinaria, quella del _quousque tandem_, e mezza la Miloniana, era tutto quello che avevo scorticato dal suo stupendo latino. Ripigliai subito a leggerlo; lo lessi tutto, da capo a fondo, orazioni, opere di retorica, di politica, di morale, di storia, epistole, perfino i frammenti poetici; e tanto lessi e rilessi, che certe cose sue, come il «De Senectute», le ritenni in gran parte. Così m’è entrato in testa un po’ più di latino che non ne avessi voluto imparare a scuola: così m’è entrata nell’ossa la manìa delle citazioni latine. Chi l’ha nell’ossa, la porta alla fossa. Ed amo Cicerone; e vado in collera se qualcheduno ne dice male; e butterei il libro, fosse pure d’un erudito tedesco, in cui non gli vedessi resa la giustizia che merita. Che si canzona? Cicerone! Cicerone, che mi conosce!... Cioè, intendiamoci, mi conosceva allora. Ma con tant’anni passati, non c’è caso che il grand’uomo si sia dimenticato di me? Vorrei chiederne alla tavoletta, poichè di questi balocchi ne girano ancora pel mondo; ma non lo faccio, per parecchie ragioni, delle quali basterà dirne una. Quel grande amico mio è uno spirito puro; ci sarà tempo a domandargliene; laggiù per esempio, in quel nobile castello Sette volte cerchiato d’alte mura, Difeso intorno d’un bel fiumicello, che Dante, l’autentico, ha descritto così bene nel quarto canto dell’«Inferno». Laggiù, se mi sarà dato d’entrar di straforo, tra il chiaro e il fosco, andrò bene a tirare il mio grand’uomo pel lembo della toga. E già pregusto l’allegrezza d’una conversazione come questa: — Scusi, signor Marco Tullio degnissimo.... Se permette, io sarei quel tale.... Si rammenta? — Ah, sì, caro, mi rammento benissimo.... E come qua? Da quando? Siete sempre stato bene, m’immagino. Se voleste dirmi per intanto il vostro riverito nome.... Perchè, in verità, da poi che v’ho dato a balia.... capirete! — Oh, si figuri, e come! — All’osteria del Rettorica. I. Eravamo andati in parecchi, eruditi da strapazzo, per accompagnare sulla collina d’Albaro un dotto tedesco, il professore Rauchen, della università non ricordo più se di Tubinga, di Gottinga o di Croninga. Dite magari l’università di Meringa, che io non me l’ho per male; e chi l’ha per male si scinga. Anche senza il nome della università dove insegna, chi non conosce in Italia il Rauchen? Dire in Italia il Rauchen è lo stesso come dire in Germania il Vallapesca, il nostro valentuomo, insigne storico, filologo, critico, archeologo, paleografo e numismatico, i cui «contributi» già arrivati al numero di quarantadue, di sei in otto pagine l’uno, sono favorevolmente noti a tutti i Rauchen viventi e professanti dalle Alpi Rezie allo Jutland e dalla Mosa al Niemen. Al nostro insigne Vallapesca non si fa altro appunto, nella dotta Germania, che questo, di non portare gli occhiali fissi. Quelle sue lenti accavalciate sul naso, senza aiuto di staffe, gli dànno tropp’aria di pretensione, non lo fanno vecchio come dovrebbe essere; ond’egli resta antipatico, senza diventar venerando. E ci vorrebbe così poco! Il nostro professor Rauchen era afflitto da un dubbio, che tornerà sempre ad onore della sua probità scientifica. Egli aveva letta nella nostra università, dov’è gelosamente conservata, la lapide romana antica trovata in Albaro, nella chiesuola dei Santi Nazario e Celso. La ricordate? INTRA . CONSEPTVM MACERIA . LOCVS DEIS . MANIBVS CONSACRATVS. Quella iscrizione, a giudizio del padre Spotorno, che ne aveva ragionato da pari suo fin dal 1837 sul «Giornale Ligustico», indicava un’ustrina, ossia il luogo dove s’incineravano i cadaveri, secondo l’uso pagano. Ma, per acquetarsi al giudizio del dotto barnabita, bisognava vedere il luogo, se proprio era da ciò; bisognava assicurarsi che quel colle d’Albaro, tanto lontano dalla città, e rimasto ad ogni modo agreste fino a tempi relativamente moderni, offrisse pure qualche indizio d’essere stato abitato nei tempi romani. Certo, quel titolo pagano era stato rinvenuto nella chiesuola, detta antichissima dall’istesso culto dei due santi apostoli della Liguria. Ma non poteva esserci stata trasportata d’altrove, insieme coi primi materiali di fabbrica, come in tanti altri luoghi e per casi consimili? La congettura dello Spotorno era plausibile; ma era anche ragionevole il dubbio del Rauchen. Si andasse dunque sulla faccia del luogo: sarebbe stata anche una buona occasione per prendere una boccata d’aria sana, e una porzione di pesce fritto lì per lì in qualche osteria di lassù, dov’è sempre fresco, e dove anche gode d’una certa riputazione il vin bianco di Marassi; cose tutte da non dispiacere a nessuna classe di persone, dotte od ignoranti che siano. Saliti colle vetture un po’ più su del Paradiso (un palazzo, intendiamoci, che fu già dei Saluzzo), si smontò per prendere una viottola a destra, e di là riuscire al mare, ossia ad un piccolo promontorio sul mare. Laggiù, per l’appunto, era stata in altri tempi la chiesuola dei Santi Nazario e Celso, le cui mura maestre durarono fino al 1860, per esser poi ripigliate ad uso di abitazione. Poesia di rovine, sparita; ci fiorisce ora la prosa robusta degli utili affitti. Ad ogni modo, il luogo era sempre quello: sulla faccia del luogo il dotto archeologo poteva meditare. E meditò, e sentenziò in piena forma, dopo aver meditato. — Ammetto l’ustrina, ma non penso che fosse mai di notevole importanza. Il luogo è troppo lontano dalla città, che, come ora è accertato, nei tempi romani si restringeva al colle di Sarzano, e, se anche ne fosse uscita fuori, per allargarsi intorno alle falde di quello, sarebbe stata sempre separata da questo promontorio per il largo colle di Carignano, per la foce del Bisagno e per la collina di San Vito. Piuttosto, — e qui brillarono gli occhi del sommo archeologo, lampeggiando di sotto agli occhiali d’oro un’idea feconda di svolgimenti ulteriori; — piuttosto sarà stata l’ustrina di un _vicus_, ossia ceppo di case coloniche di un latifondo Albarense. Me lo Lascerebbe sospettare l’uso di villeggiare in queste eminenze, che mi dite essersi tanto diffuso tra il Cinquecento e il Secento. Già intorno al Mille vediamo apparire in documenti la chiesa di San Martino _de Hircis_, lassù a settentrione; mentire qui, a mezzogiorno, pare anche più antica la chiesa dei Santi Nazario e Celso. Di livellarii del Vescovo, sempre intorno al Mille, è prova larghissima su queste colline, nel Registro della Curia genovese, che ho sfogliato ieri per cortese condiscendenza del vostro arcivescovo. Tutti quei livelli erano evidentemente pezzi e bocconi d’un latifondo, caduto in potestà ecclesiastica. Il latifondo suppone il _vicus_ colla sua modesta ma pur sempre notevole agglomerazione di popolo, per cui utilità, quando esso fu convertito al cristianesimo, sorsero le due chiese, riconosciute infatti antichissime, di San Martino de Hircis e dei Santi Nazario e Celso. Quanto al latifondo, dal nome rimasto a questa eminenza sospetterei che appartenesse ad una gente Albia. Rifiuto, osservate, rifiuto l’_Albium_, che è pure ligustico, e che si vede preposto ad _Ingaunium_ e ad _Intemelium_, ma che, se avesse avuto qui lo stesso significato topografico, avrebbe pure avuto la stessa importanza demografica, e Strabone ce ne avrebbe lasciato un cenno, e ne avremmo nella tavola Peutingeriana o nell’Itinerario d’Antonino l’indizio onomastico. Rifiuto egualmente ogni accenno a luogo di delizie, per l’apparente e casuale somiglianza del nome coll’Albana, una delle due piazze di Capua, ov’era il luogo di delizie di Annibale. Spero poi non mi si deriverà Albaro da Albia, città vicina a Nicomedia, siccome abbiamo da Tolomeo. Altro non resta di plausibile, per mia opinione, che un f_undus Albius_, da una gente Albia, fiorente per ricchezze nei primi tempi dell’èra imperiale. Il nome _Albinius_, ed anche _Albidius_, apparisce di famiglie plebee fin dai primi secoli della Repubblica; ed anche _Albinus_, ma questo come cognome della gente Postumia. Solo più tardi vediamo la forma _Albius_, in quel Caio Albio Carinate, che fu dei tribuni del partito consolare ai tempi di Silla, e poi giunse ancora alla dignità di console. — Questo sacco di dottrina non fu vuotato tutto quanto sul promontorio dei Santi Nazario e Celso, che forse n’avrebbe sofferto la casa, edificata sull’orlo della rupe, col rischio di sdrucciolare nell’acqua. Fu in quella vece distribuito saviamente per tutto quel tratto di sentiero che dal promontorio discende alla piccola spiaggia tra San Nazario e San Vito. Laggiù c’invitava una frasca, insegna d’osteria; dove appunto la vicinanza del mare e lo spettacolo d’una comitiva di pescatori che traevan le reti, ci promettevano a gara la frittura di pesce, su cui avevamo fatto assegnamento. L’osteria aveva buon aspetto. Non ricordo più come s’intitolasse; e forse non ci ho neanche badato. Ricordo in quella vece che destò la mia attenzione una scritta burlesca, condotta frettolosamente a pennellate di rosso, accanto all’uscio dell’osteria, ad altezza d’uomo, o piuttosto di ragazzo, e certamente di ragazzo impertinente quanto sgrammaticato, poichè ci si leggeva abbastanza chiaro: «cuesta e losteria del retoricha.» Non era da badare all’ortografia più che tanto; piuttosto era da pensare che andasse scritto «della rettorica». Ma sconcordanza non è delitto; e certamente, dacchè l’uomo ha l’uso dello scrivere, se ne son viste di peggio. II. Entrammo, accolti con atti di giubilo dall’oste della Rettorica, uomo sulla trentina, atticciato e di buon umore a quel dio. Ordinammo, s’intende, pesce fritto in abbondanza; ed anche, accogliendo una sua sapientissima aggiunta, il pollo alla cacciatora, un piatto obbligato in chiave, che doveva costar la vita a due dei soliti infelici, ignari del fato, saltellanti e beccanti nel solito cortile annesso ad ogni osteria di campagna. Così la nostra colazione aveva doppio sostegno, la pesca e la caccia. E continuammo le nostre ciance erudite, mentre l’oste ci dava in tavola i soliti principii, salame, burro, sèdani, e l’eterna scatoletta di sardelle di Nantes. — «Nantes.... in oleo»; — ricordo che disse uno della brigata, il quale non aveva aperto bocca. Forse per questo egli meritò un sorriso probatorio del professore tedesco? Può darsi che lo ottenesse anche in grazia della freddura. Ho notato a questo proposito che i professori tedeschi gradiscono il bisticcio assai più dei professori italiani. Non tutti si conveniva col Rauchen nella ipotesi d’una _gens Albia_ e d’un f_undus Albius_, parendo a taluni che si dovesse pensare piuttosto ad un _fundus Albarius_, o per conseguenza ad una _gens Albaria_. Ma il Rauchen, pur non avendo forti ragioni di rifiutare il _fundus Albarius_, non ammetteva affatto una _gens Albaria_, di cui non era traccia nella epigrafia latina. A voler conceder molto, si poteva ammettere, secondo lui, che nel corso dell’èra imperiale, e nel tempo che si formavano tanti nuovi nomi senza più seguire le buone norme onomastiche, qualche personaggio d’origine straniera e servile avesse assunto il nome di _Albarius_; ma in questo caso non si poteva parlare di _gens_, cioè di vera e propria famiglia romana. E fosse pure così, od altrimenti; fortuna voleva che si fosse d’accordo sul punto capitale, che la lapide _Deis Manibus_ doveva essere stata trovata sul posto, od essere indizio della ustrina di un _vicus_; parendo la cosa ben dimostrata dal fatto d’un tempio cristiano eretto colà, per santificare, purificandolo, il luogo pagano, secondo l’uso costante dei primi secoli del Cristianesimo. Eravamo d’accordo, ho detto, parlando di tutti noi della brigata. Ma non era della nostra opinione l’oste degnissimo, che ci aveva servito il pesce, e lasciava alla sua dolce metà l’incarico di ammanirci i due polli in cazzaruola. — Se mi permettono, — incominciò egli, — vorrei dire la mia. — In materia archeologica? — domandai io, che gli ero più vicino. — Perchè no? Anche l’opinione d’un ignorante può stare, se contiene una buona indicazione. E una cosa è certa, signori miei, che sul promontorio d’onde sono venuti, c’era un’osteria tanto fatta. — Dove ne avete notizia? — Dai miei vecchi, che l’hanno avuta dai loro, e quelli a lor volta.... mi capisce? Abbiamo dunque una tradizione costante. Del resto, i due santi che son venuti da queste parti a predicare il vangelo, sono stati onorati d’una chiesa nel luogo dove hanno alloggiato. Se ci hanno alloggiato, è segno che c’era un’osteria. — Il ragionamento non fa una grinza; — risposi. — Ma si racconta ancora che un’altra chiesa fu dedicata ai due santi in città; ed è quella che si chiamò poi delle Grazie. — Eh via! s’ha da credere che una chiesa dedicata a due santi di quella fatta si sbattezzi con tanta facilità, mentre nessuno ha osato sbattezzare quell’altra, vicina alle Grazie, dei Santi Cosma e Damiano? Chi lo dice, poi, che il fatto sia andato così? Autori tardi e senza ombra di documenti. Aggiunga quest’altro argomento, che mi par decisivo; la chiesa dei Santi Nazario e Celso era qui, sul colle d’Albaro, non mai sbattezzata. E vorrebbe che ad una medesima coppia di santi ne avessero edificate due, come se essi avessero proprio alloggiato in due posti? Or dunque, conchiudo io, quella che ha portato sempre il loro nome è quella che conta, e l’altra è una fiaba. Poi ripeto, c’è la tradizione costante. — Dell’osteria? — Sicuro, dell’osteria; che cosa ci trova di strano? — Una cosa sola, mio caro; che smontassero ad alloggio così distante dalla città, due apostoli che in quella città volevano predicare la fede. — Ci avranno avute le lor buone ragioni; — rispose l’oste riscaldandosi nella sua tradizione, più che non facesse il professor Rauchen nel suo _vicus_ e nella sua _gens Albia_ — È probabilissimo che amassero il meglio vivere e il meno spendere. Io qui, per esempio, non faccio agli avventori i prezzi della Concordia e del caffè della Stazione Principe; e i miei pesci non sono men freschi per ciò. — Sfido io! li abbiamo visti trarre alla spiaggia; — replicai. — Vada dunque per la freschezza del pesce; e pei prezzi.... speriamo bene. Ma torniamo all’antica osteria. Se c’è una tradizione costante, come dite, vogliate anche dircene l’intero. — E con che gusto, signori! Correva l’anno sessantasei della fruttifera incarnazione.... — Ohè! — interruppe uno della brigata, facendo le meraviglie. — Donde ci viene quest’apparecchio solenne? — L’oste gli diede una guardata non scevra d’orgoglio, e sorrise. — Signor mio, deve sapere che sono stato alle scuole, ed ho fatto il corso classico. Mi son fatto bocciare, pur troppo, e per causa della matematica, in terza liceale. Se no, creda, non avrei seguitato il mestiere di mio padre. — E avreste avuto torto; — ripresi io. — Sareste professore di seconda o di terza ginnasiale, a mille quattrocento lire, ma con cento e più di ritenuta; un cento dieci lire al mese, da digiunarci in tre o quattro persone, secondo la prolifica virtù della sposina. Avreste fatto un bel negozio davvero! — Lei ha ragione da vendere. Ma io volevo dimostrare al signore che se non sono rimasto un dottore, la mia buona infarinatura l’ho avuta. — E non per andare a farvi friggere; meglio così. Per questo adunque v’hanno scritto accanto all’uscio: «Questa è l’osteria della Rettorica»? — No, non concordi al femminile; perchè tranne l’ortografia, non c’è niente da correggere. Mi chiamano il Rettorica, forse per la mia parlantina; — disse modestamente l’oste letterato. — Osteria del Rettorica ha voluto scrivere l’anonimo burlone, ed io ho lasciato scritto quello che mi si dice ogni giorno a voce. Io non me l’ho per male. Del resto, chi l’ha per male si scinga, come dicono i puristi. — Ho ben capito; — conchiuse quello delle maraviglie. — Siamo in casa d’un dottore. — Ci aggiunga fallito, e avrà detto giusto; — ribattè pronto quell’altro. — Ed ora, se vogliono sapere.... — Sì, per bacco, ne abbiamo una voglia matta. — L’oste incominciò, anzi diciamo pure ricominciò. Per non avere a tener conto d’altre interruzioni, ripiglio io il filo del suo discorso, che piacque a tutti abbastanza, ma che fu ascoltato con religiosa attenzione dal nostro dotto Alemanno. III. Reca adunque la «tradizione costante» che i due santi uomini Nazario e Celso venendo per l’Aurelia nuova in Liguria, nell’anno 66 dell’èra volgare, col savio e misericordioso intendimento di annunziare la buona novella al popolo Genoate, smontassero ad alloggio sul colle d’Albaro. Non volevano entrare così alla svelta in città sconosciuta, di cui sapevano solamente che aveva nome Genoa, che era municipio, che godeva diritto quiritario, che era ascritta alla tribù Galeria, una delle più antiche di Roma, e che i suoi cittadini votavano per l’appunto con quella tribù, quante volte si ritrovassero in Roma. E così, come in paese nuovo il prudente generale lascia sempre tra sè ed il nemico l’eminenza di un monte, o il corso di un fiume, per aver tempo ed agio ad esplorare tutto intorno il terreno, i due santi predicatori vollero rimanere un giorno e una notte sulla sinistra del Bisagno, o «Bisamnis», detto altresì Feritore, forse perchè terribilissimo fiume, che di solito sdegnando servirsi dell’acqua, dà fieramente nel mare coi sassi. Le intenzioni dei due apostoli erano chiare, e giudiziose del pari. Bisognava informarsi, prender lingua dei fatti e dei costumi di Genoa; sapere ad esempio se già ci fossero altri predicatori, nel qual caso non ci sarebbero entrati loro, non volendo fare un ridosso a nessuno; conoscere se là dentro avessero già fumo della nuova dottrina, di guisa che l’autorità stèsse all’erta e volesse chiuder le porte in faccia ai nuovi venuti. Per questo, e per tutto l’altro che via via potesse parere opportuno, era da interrogar con destrezza la gente del contado, più semplice, naturalmente, e più maneggevole. Insomnia, quando si è detto prender lingua, si è detto tutto, e non occorre più altro. Per fortuna giungevano i primi: di una nuova religione non si sapeva ancor nulla: i Genoati facevano i fatti loro, comprando e vendendo, caricando e scaricando, armando navi e mandandole attorno sul pelago, che con questo nome si chiamava allora il mar di Liguria. I nostri santi uomini sapevano quel che occorreva lì per lì, a incominciare il loro apostolato; perciò la mattina vegnente presero i loro bordoni in mano e la via tra le gambe: nell’ora buona erano in Genoa, e capitavano sulla piazza de’ Banchi; il luogo per l’appunto più frequentato della città, il suo centro d’affari, donde s’irradiava la vita economica e intellettuale a tutti i punti della periferia genovese. E là, subito, dall’alto d’una gradinata, incominciarono a predicare, il secondo sottentrando al primo, il primo ancora al secondo, quando il compagno era stanco. In qualche ritaglio di tempo, concesso dai fati benigni alla classe industriosa dei nostri mercanti, si affollavano molti ad ascoltare quei due forestieri. I quali parlavano di tante cose, nuovissime senza dubbio e bellissime, ma di nessuna utilità immediata, pur troppo. Onde avvenne che non facessero, come suol dirsi, nè caldo nè freddo, e che presto gli uditori seccati, ad uno ad uno spulezzando, lasciassero i poveri santi predicare al deserto. — Giorno perduto! — esclamarono i disgraziati, ritornandosene alla collina d’Albaro e riducendosi alla modesta locanda dov’erano smontati il giorno addietro, con ben altre speranze nell’anima — Giorno perduto, quest’oggi; e peggio vuol essere domani. — Si avvide l’oste della loro tristezza. Uomo di buon cuore e allegro per indole, non voleva veder musi lunghi in casa sua. Provò a spillarne un litro di prima qualità e del più vecchio che avesse; ma i due addolorati ricusarono perfino di assaggiarne. Doveva essere un affanno ben grave, il loro, se torcevano le labbra ad un bicchier di vino delle Cinque Terre. Chiese allora il perchè dei perchè; tanto li tormentò, che lo seppe; e allora, da quell’uomo savio e stagionato ch’egli era, diede un buon consiglio ai due forestieri. — Ah, signori, — diss’egli. — L’avete fatta bassa, e bisognerà rimediarci. Una nuova religione, che si canzona? Una nuova religione sta bene, specie quando l’antica è logora e non fa più andar in visibilio nessuno. Ma anche a un abito vecchio ci si fa l’uso; ci si bada poco, e si tira là. Per adattarci a prenderne uno nuovo, bisognerebbe che ci fosse guadagno evidente nel cambio. Vedete, è questo il tasto che va toccato, da noi. — I due santi non intesero a sordo. Diedero, prima di andarsene a letto, una ripassata ai testi, e quella notte dormirono più tranquilli che non avessero sperato, innanzi di avere quella conversazione tanto istruttiva coll’oste. La mattina seguente, rieccoli in piazza de’ Banchi. La gente li vede, e non si lascia adescare, pensando che canteranno le solite storie. Ma no, niente del giorno addietro. Ecco che l’un dei due cava, di sotto un lembo della toga un grosso scartafaccio, foderato di cartapecora. Pare un libro mastro, e concilia subito l’attenzione. Più ne conciliano le prime parole del santo, che, squadernandosi il libro sul braccio sinistro, e battendo con un gesto vittorioso della destra sulle pagine aperte, comincia in questa nuovissima forma: — Il Signore ha detto «chi seguirà il mio nome riceverà il cento per uno, ed anche erediterà la vita eterna». — Il cento per uno! — ripete un secondo, mettendosi sulle orme del primo. — E la vita eterna per il buon peso! — soggiunge un terzo, che già si tira dietro il quarto ed il quinto. — Dici tu il vero, o sant’uomo? — Non io lo dico, o fratelli, — risponde il santo del libro. — Lo dice san Matteo, al capitolo diciannovesimo, versetto ventesimo nono; lo conferma san Marco, al capitolo decimo, versetto trentesimo; e al versetto trentesimo del capitolo decimottavo lo ribadisce san Luca. Tre firme, come vedete, e di prima qualità. — E con la tua per avallo! — gridarono gli astanti infiammati, chiamando al prodigio tutta la piazza. — Aggiungete quella del mio compagno, qui presente ed accettante. — Benissimo! egregiamente! Non si è mai vista in piazza una cambiale più garantita di questa. — Quel giorno, senz’altri discorsi, tutta la piazza de’ Banchi si fece cristiana. Il giorno seguente non si sarebbe trovato un pagano, in tutta Genova, a pagarlo un marengo. IV. Si rise, e si fecero ancora le debite congratulazioni all’oste letterato, per la sua «tradizione costante». Ma il professor Rauchen era rimasto pensoso; e allora s’indovinò che il dotto uomo aveva una lezione in corpo, e tutti ci rivolgemmo a lui, in aria di grande aspettazione. L’archeologo insigne capì che si attendeva il suo verbo, e non volle farcelo sospirare. — La vostra storia è interessante; — diss’egli al Rettorica. — Ma io sto cercando dentro di me quando la tradizione sia nata. La crederei piuttosto recente, cioè del tempo tra il Novellino e il Decamerone, quando lo spirito allegro, ma non caustico, degli Italiani, immaginava le sue burle senza cattiva intenzione, non grossamente come ha fatto da noi la Riforma. — Ecco una bella occasione di studio per lei; — mi arrischiai a dir io. — Non per me; — rispose il Rauchen, rizzandosi sulla persona — Non sono per me queste gaie materie. Ma so ben io chi potrebbe gustare questa leggenda, e farne tema di una dotta monografia; il mio amico Laer, della università di Eidelberg, che è senza contrasto il più insigne folklorista d’Europa. Perchè questa — soggiunse gravemente il nostro archeologo — appartiene senza dubbio al _Folklore_, a questo mobile laboratorio di tradizioni, di leggende, di frottole, che si foggiano così volentieri in canzoni ed aneddoti. Per il tempo in cui essa si è formata, mi pare d’averci colto. Ma ho qualche incertezza rispetto al luogo. Avete dei popoli rivali, in queste vicinanze? Ordinariamente c’è una città che si diverte alle spese di un’altra. — Niente di ciò, da queste parti; — risposi. — Siamo popoli strani. Credo che la celia sia nata in casa. Anche il nostro Rettorica l’ha sentita in casa, come ci ha confessato. E i nostri concittadini, veda, son troppo fatti così, che sanno ridere, viva la faccia loro, e si mettono volentieri in burletta da sè. Noti ancora che quel «cento per uno» li solletica dolcemente nell’amor proprio: ma anche di questo si correggono, pensando con una certa amarezza che altri, e non di casa, hanno saputo offrir loro il «mille dell’uno»; ond’essi, abboccandovi, sono rimasti più d’una volta con un pugno di mosche. Effetto, questo, dell’aver trascurati i dettami della sana filosofia; di quella filosofia, dico, che raccomandava il signor Michele, mio onorevole amico. — Un altro saggio di Folk-lore? — domandò il professor Rauchen. — Eh, ne giudichi lei. È un’altra storia de’ Banchi, ed autentica, perchè vivono ancora gli attori. — Sentiamo. — Ecco qua. Le presento anzitutto il signor Pietro, di cui sopprimo il casato, ma non le doti eccellenti, di negoziante e di cittadino. Il signor Pietro era nel suo banco di granaiuolo, al pianterreno di quel gran palazzo che forma tutto un fianco della via al Ponte Reale, avendo il vico Denegri da un lato e Sottoripa dall’altro. Nel banco del signor Pietro usavano a ore bruciate parecchi amici, tutta gente d’affari, e qualche volta mi ci trovavo anch’io, che cogli affari ho sempre avuto guerra a coltello. Ora ecco che un giorno il signor Pietro, mentre noi eravamo seduti sui suoi divani verdi, riceve una lettera, che lo fa dare nei lumi. — «Che cosa avete?» gli domanda il signor Michele, un valentuomo, allora deputato al Parlamento, poi senatore del Regno, persona di garbo e che sa ridere alle sue ore come il primo venuto. «Cattive notizie?» — «Ma... quasi....» risponde il signor Pietro.... «C’è qui quel diavolo di mio figlio, che vorrei ritirare dal collegio, e che mi scrive di volerci restare dell’altro, per fare almeno un anno di filosofia. Lo sa lei, onorevole, che roba è la filosofia?» — «Non ne dite male, Pietro» replica il signor Michele, ripulendosi tranquillamente fra le dita i suoi occhiali d’oro. «È l’arte d’imbrogliare il prossimo». — «Davvero?» grida il sor Pietro. «Ed io che non la conoscevo! Quand’è così, gli scrivo caldo caldo che ne faccia almeno un paio d’annetti.» — Com’ella vede, professor Rauchen, questa è di Banchi, e fa ridere tutto Banchi. Nella loggetta del sor Pietro la sentì ricordare un giorno un celebre uomo politico, l’onorevole Depretis; e la portò perfino alla Camera, dove in una di quelle sedute stracche, in cui si fa volentieri la burletta, gli scappò detto dal banco dei ministri: «eh, qui ci vuol filosofia, ma di quella del sor Pietro; non è vero, onorevole Casaretto?» — Benissimo! — esclamò il professore. — I vostri concittadini si canzonano dunque da sè? — Spesso e volentieri; ed è una delle loro virtù. Pensi che non si hanno a male neanche l’invettiva di Dante: «Ahi Genovesi, uomini diversi» e non hanno mai tentato di darne una versione laudatoria, come fecero i Pisani col loro «O Pisa, vita e imperio delle genti». — E volevo continuare; ma non me ne diede licenza il Rettorica. — Se permette, — saltò su l’oste letterato, — io non sono della sua opinione. — E per che? sopra tutto su che? — Sui Pisani.... e sui Genovesi. I Pisani hanno un bel dirsi «vita e imperio delle genti» aggiustando a modo loro il «vituperio» del verso dantesco. Ma come hanno aggiustato quello, non hanno mica aggiustati i versi che seguono. Bella vita e bell’imperio di Pisa, se il Poeta può seguitare, augurandole una visita della Capraia e della Gorgona, che «faccian siepe all’Arno in sulla foce, sì ch’egli anneghi in _lei_ ogni persona!» Quanto a noi Genovesi, sta bene che Dante ci ha bollati d’un marchio rovente; ma per cosa di cui possiamo stimarci onorati. Parlava in lui, mi scusino, parlava in lui la gelosia di mestiere. Sicuro; non era un poeta, lui? Ora, i Genovesi, e per sua confessione, erano poeti al pari di lui. — Come lo provate? — domandò colla sua usata gravità il professor Rauchen. — Mi ricordo di avere ancor ieri fatto ricerche all’Archivio intorno ai primi saggi di poesia dei Genovesi nel Medio Evo, e di non aver potuto legger altro che questi due versi di una iscrizione funeraria trovata in San Giovanni di Prè. Era l’epigrafe di due coniugi, che dicevano in voce di marmo ai vivi: Tu ki ki ne trovi Per Dè, no ne movi. — Io non so niente di questo; — rispose il Rettorica, senza scomporsi per così poco. — So che Dante aveva i Genovesi per un popolo di verseggiatori; tanto che disse loro: Ahi Genovesi, uomini di versi D’ogni costume e pien d’ogni magagna, Perchè non siete voi dal mondo spersi? Uomini di versi, mi capiscono? di versi, come a dire versificatori, poeti. — Ah, così lo intendete voi il «diversi»? — gridai io. — Separando la prima sillaba dalle altre due? — Come l’ha separata evidentemente il Poeta. I copisti, come ella m’insegna, volevano far capire molta roba in un piccolo spazio. Così tutte le parole si trovavano sempre l’una all’altra accostate, come se tutte le undici sillabe del verso facessero un corpo solo. Il giorno che si cominciò a divider parola da parola, ne accaddero di belle e di brutte, secondo il senno e la scioccheria degli interpetri, separando dove andava unito, lasciando unito dove andava separato. Così nacque la lezione errata del «diversi» che dalla prima stampa della «Divina Commedia» passò facilmente, come passa l’errore, in tutte le stampe seguenti. — Ma il Poeta ha soggiunto: «d’ogni costume». — Appunto, d’ogni costume, cioè a dire di versi d’ogni stile, d’ogni maniera, d’ogni forma, d’ogni misura. Si vede di qui che i Genovesi facevano come i Provenzali, dei versi lunghi e dei corti, a rime baciate, alternate, intrecciate, incatenate e via discorrendo. Chi sa? avranno anche usato dei metri nuovi, di cui si fecero poi belli tanti altri poeti. Ma Dante ha detto ancora: «e pien d’ogni magagna». — Ed ecco il suo torto; gelosia di mestiere. E non importa che ne scapiti la memoria del Divino Poeta, la verità prima di tutto, anche prima di Dante. Ora la verità è questa, che se i Genovesi facevano versi d’ogni costume, cioè d’ogni forma e d’ogni metro, non si può asserir senza prova che li facessero «pien d’ogni magagna» cioè duri e fallati. Ne avran fatto dei buoni e dei cattivi, Dio misericordioso, come a tutti succede. Chi fa falla, e chi non fa sfarfalla. — V. Il professor Rauchen era rimasto un’altra volta pensoso. Ma egli non fece più una lezione. Solamente, tra il formaggio e le frutte, chinando la testa verso di me, mi disse all’orecchio: — Lo credete onesto? — Eh, — risposi, — lo vedremo al conto. — Dico..... incapace di dire una cosa per un’altra. — Crediamolo pure. Ma perchè questa domanda? — Perchè, — rispose il dotto uomo, — se non ci avesse detto di essere stato bocciato alla licenza liceale nella prova di matematica, ci sarebbe da credere che fosse stato bocciato per la interpretazione Dantesca. — _Folk-lore_, caro ed illustre signor Rauchen, — gli risposi, — _Folk-lore_ e nient’altro. Forse quel suo amico d’Eidelberg, di cui non ricordo più il nome, ne sarebbe soddisfatto. Lasci che il popolo rida; ordinariamente è indizio di buon umore. Il torto, veda, è dei popoli come degli individui che non sanno ridere. E noi siamo d’una gente che ha dato alla patria letteratura un gran poeta. Gabriello Chiabrera. Il quale rideva volentieri, specialmente a tavola; e quando gli capitava qualche contrarietà, soleva dire a mo’ di commento: «non per questo tralascerò di ber fresco». Ma senta, professore; vuol che domandiamo qualche altra cosa al Rettorica? È un uomo che la sa lunga. — Fate pure, mio caro amico; — mormorò rassegnato l’archeologo. — Ebbene, o Rettorica, — diss’io, alzando la voce, — come spieghereste voi l’epigrafe trovata nella chiesetta dei Santi Nazario e Celso?: «locus Deis Manibus consacratus»? — Mi par latino chiarissimo; — rispose l’oste letterato. — Il luogo era consacrato «Deis Manibus» perchè i «Deis Pedibus» ci si sarebbero trovati maluccio, e bisognava badar bene dove si mettessero; specie negli ultimi tempi, che il luogo restò in abbandono. — Rettorica! Vi paion discorsi?... — Eh sì; che cosa credono ch’io volessi dire? Luogo abbandonato; pavimento distrutto; una buca tanto fatta, donde c’era pericolo di scivolare alla spiaggia. Diciamo anzi che ci fosse da raccomandarsi «Manibus et Pedibus». — Ah, — si gridò, respirando. Hoa-tsien-ki. I. I cinesi nelle loro maravigliose scoperte.... A proposito, che cosa non hanno scoperto i Cinesi? Tralasciando le minuzie di cui sogliono lodarsi i tempi progressivamente mediocri, e solo parlando delle cose più importanti secondo i moderni criterii europei, la stampa, la polvere da cannone, la bussola, son tutte invenzioni cinesi. Su questo tema, oramai, la dotta Europa è tutta quanta d’accordo; e il senso commendevole di modestia con cui essa ha riconosciuto di non avere inventato niente, neanche la carta moneta, la renderà simpatica alle future generazioni. Ma l’Europa, nel suo impeto di sincerità, non ha voluto o saputo dir tutto. Essa non ha detto per esempio, che i Cinesi, dopo avere scoperte tante cose mirabili, le hanno prudentemente ricoperte, assai prima che a noi venisse in mente di scoprirle da capo. «Questo non è buono!» debbono aver sentenziato parecchie volte nel corso dei secoli i concittadini di Confucio; e in virtù di questa sentenza hanno accortamente seppellito tutto ciò che poteva bensì parer nuovo ai curiosi, ma che non si dimostrava egualmente utile alla educazione del popolo e alla prosperità dell’impero. Vedete infatti la polvere da cannone. L’avevano scoperta, a quanto sembra, fin da mille anni avanti Cristo; ma non se ne sono serviti nè allora, nè poi. Per difendere l’impero sulla terra e sul mare hanno preferito di far dipingere dei draghi, delle chimere, dei mostri fantasticamente terribili sui merli della Grande Muraglia e sul capo di banda delle loro navi da guerra. Così facendo, ricordarono evidentemente la bella massima di Fo-kien, uno dei loro filosofi più insigni: «Vuoi tu far male al nemico, quando è bastante il fargli paura?» Fedeli a questo concetto, i Cinesi hanno cercato di far paura al nemico, e per parecchie migliaia d’anni non hanno avuto ragione di pentirsene. Del resto, salvo qualche piccolo incidente transitorio, l’impero di mezzo è vivo ancora. Un po’ male in gambe, Dio buono! Ma vorrei veder voi, con una fede di nascita antica come la sua! E ci voleva un vicino, un concorrente in porcellane, per fargli il gambetto, esponendo alle difese interessate e alle curiosità insalubri dell’Europa civile. Dite lo stesso della bussola. I Cinesi la conobbero e non la usarono, viva la faccia loro. Perchè allontanarsi dai porti e dalle spiagge del felice Ciung-ko? Che necessità di vedere altri lidi? Tutto il mondo è paese. Ma nessun paese vale il Tin-scian (traducete Celeste Impero) dove gli alberi dànno fiori senza foglie, dove le donne hanno gli occhi tagliati a mandorla, e dove la bevanda del tè basta a conciliare un buon scorno, senza mestieri di libri, di giornali, di discorsi parlamentari e di tornate accademiche. Così la stampa; eccellente per imprimere sulle stoffe dei graziosi disegni bizzarramente intrecciati, che piacciono all’occhio con la loro novità e lo riposano con la regolarità delle loro ripetizioni: ma fermi li, e niente riproduzione del pensiero. Che bisogno c’è di fissare l’idea in una forma, che può di volta in volta migliorarsi? A che pro’ rendere comuni le sentenze dei dotti? Quanto più saranno esse comuni, tanto minore sarà il numero dei veri sapienti, perchè il fiotto della mediocrità affogherà tutti i più nobili ingegni. I Cinesi, chi non lo sa? hanno scoperto anche i biglietti di visita. Ma sia soggiunto, ad onor loro, che sono stati anche i primi ad abolirli. La cosa merita d’essere raccontata; e si può farlo facilmente ora, che il dottissimo professore Tiglat-Pileser, della università di Tubinga, ha data all’Europa la sua bella traduzione dall’«Hoa-tsien-ki», pubblicata lo scorso anno a Lipsia, coi tipi della Sterndeuter. L’«Hoa-tsien-ki» (in italiano: Storia della Carta a fiori d’oro) fu scritto in un tempo abbastanza recente, nel secolo XVII, poco dopo il rovesciamento dell’ultima dinastia dei Ming; ma sembra riferirsi ad un dettato anteriore di Pan-hoei-pan, sorella dello storico Pan-ku, vivente sotto Ho-ti, verso la fine del primo secolo dell’Era non a torto chiamata volgare. II. Chiunque ne sia stato l’autore, la storia risale al 213 innanzi Cristo, epoca memorabile nei fasti della letteratura cinese per la strana persecuzione dell’Imperatore Khi-hoang-ti contro i letterati del suo regno, avendone egli fatti sotterrar vivi quattrocento e sessanta. Si era creduto, fino a questi ultimi tempi, sulla fede del «San-ci-Hung-Kian» (specchio universale ad uso dei governanti), che l’Imperatore Khi-hoang-ti si fosse lasciato trascorrere a quella giustizia sommaria, per la ostinazione con cui i letterati dell’impero volevano salvar dalle fiamme i libri da lui condannati al fuoco nel maggior numero possibile, affinchè mancassero ai suoi avversarii politici le fonti a cui attingere gli argomenti per combattere le sue riforme. Ma il professore Tiglat-Pileser ha messo in chiaro che nessuna riforma essenziale era stata fatta da Khi-hoang-ti, e che lo «Specchio universale», opera di Ze-makuang, un abborracciatore del secolo XI, non meritava nessuna fede, altro non essendo che un corso frettoloso e sommario di storia, per un periodo di 1362 anni, compilato con poco soccorso di documenti autentici e senza alcun lume di critica; laddove la «Storia della carta a fiori d’oro», offre una spiegazione assai più ragionevole della giustizia sommaria di Khi-hoang-ti; e il riferirsi ch’ella fa ad un’opera di Pan-hoei-pan, quantunque ai dì nostri perduta, gli conferisce un’autorità senza pari. Narra adunque la «Storia della carta a fiori d’oro» che l’Imperatore Khi-hoang-ti fosse innamoratissimo dell’Imperatrice Khia-fu-ssè. La bella donna (il cui nome, secondo alcuni interpetri par che significhi «Vita sul verde» e secondo altri «Maraviglia del secolo») era oppressa, ad onta di questo grande amore del suo imperial consorte, da una profonda malinconia, e niente poteva distrarnela. I bonzi, invitati a pubbliche supplicazioni per la salute della eccelsa Khia-fu-ssè, altro non facevano da un anno che ardere carta dorata, nei plenilunii e nei novilunii, all’altare della Luna, detto «Yue-tan», e a quello del Sole, detto «Ge-tan», senza pregiudizio dei grandi olocausti di buoi, maiali, pecore e capre, nel massimo tempio del «Tien-tan», o Eminenza del cielo, e nell’altro del «Ti-tan», o Eminenza della terra. Ma niente facevano i sacrifizi, o non se ne vedeva ancora un costrutto. I medici, a lor volta, chiamati a consulto, non osando parlare di cambiamenti d’aria, interdetti dal cerimoniale di corte, avevano sentenziato: per guarire l’imperatrice, bisogna tenerla allegra, bisogna divertirla ad ogni costo. Il consiglio era savio; ma in che modo metterlo in pratica? Concerti di tam-tam, passeggiate dal palazzo della Luna a quello del Sole, pranzi solenni a cui partecipavano tutti i grandi dell’impero, si era provato ogni cosa. Finalmente un editto imperiale, apparso nella «Gazzetta di Sciunt-hyen-fu» (leggete Pekino) invitò i sudditi meglio forniti di studi e di fantasia ad escogitare qualche divertimento che valesse a dissipare la profonda malinconia della Figlia del cielo. Piovvero le proposte; ma parve più bella, più nuova, più utile fra tutte, quella di un giovane mandarino della provincia di Scian-tung, che tutti coloro i quali avevano uso di scrittura mandassero in segno di augurio i lor nomi alla imperatrice; la quale avrebbe, a questa prova di devozione, noverati i suoi sudditi, e in pari tempo avrebbe passate le ore della giornata osservando la varietà dei caratteri. Così, pochi giorni dopo la pubblicazione dell’editto, incominciarono a giungere nel palazzo della Luna piena, dove alloggiava l’imperatrice, i quadratini di carta d’ogni genere, coi nomi dei mandarini d’ogni grado e dei cittadini d’ogni classe, pennelleggiati di nero e di rosso, con bei svolazzi d’oro all’intorno. Khia-fu-ssè gradì molto l’omaggio, s’interessò alla lettura dei nomi, ammirò la bellezza dei caratteri e degli ornati, e incominciò a riacquistare il suo bel colore di zafferano. Tutti i giorni, sulle coltri di seta del letto imperiale erano monti di cartoncini. Che farne, dopo averli osservati? Khia-fu-ssè era donna di altissimo ingegno, e non istette molto ad immaginare che con l’aiuto d’un po’ di gomma e di qualche limbello di carta velina si sarebbe potuto foggiare con quei quadratini dei piccoli scrigni, scatole, ed altri gingilli di salotto. III. Ma i cartoncini crescevano; mensole, scaffali e cantoniere, tutto era ingombro di quei ninnoli graziosi. Khia-fu-ssè fu costretta a pensare dell’altro. La eccelsa donna inventò allora i paraventi di biglietti di visita: una vera trovata, che fece andare in visibilio tutta la corte e crescere nel cuore di Khi-hoang-ti la venerazione e l’affetto per la sua divina compagna. E i cartoncini crescevano, crescevano ancora, crescevano a migliaia ogni giorno; sicchè in breve spazio di tempo tutto il palazzo della Luna piena altro non fu che un laberinto di paraventi. Commossa, maravigliata, ma non ancora confusa, la bella Khia-fu-ssè smise di fax paraventi, e pensò di tappezzar le pareti. N’ebbero le sale, n’ebbero i corridoi, n’ebbero le scale, n’ebbero i porticati. Ma continuavano a venire i biglietti di visita: venivano a sporte, a sacca, a carrettate, d’ora in ora, quante erano le distribuzioni quotidiane delle poste imperiali. Non c’era più modo di collocarli al coperto: se ne fecero mucchi nei cortili del Palazzo. Per fortuna, la stagione piovosa non era ancora incominciata: altrimenti quelle montagne di carta si sarebbero convertite in poltiglia. L’imperatore guardava, e batteva le labbra. Ma di tanto in tanto esciva in esclamazioni, suggerite da quel continuo rovesciarsi di cartoncini e di augurii. «Il troppo stroppia» diceva egli, sospirando; «s’intende acqua e non tempesta». Queste ed altrettali massime, ugualmente profonde, uscivano dalle labbra del Figlio del cielo. Nè solamente sul palazzo imperiale si rovesciava tutta quella grazia di Dio. La moda della carta a fiori d’oro inondava d’ogni parte la capitale e le provincie tutte dell’impero. Tutti mandavano, tutti si ricambiavano il saluto del nome e l’augurio del cartoncino, con grande soddisfazione dei mercanti di carta e della nobilissima classe dei letterati, industri e solleciti pennelleggiatori dei nomi. Ma un giorno capitò a palazzo il gran maestro delle poste imperiali. — Figlio del cielo, — diss’egli a Khi-hoang-ti, dopo le genuflessioni di rito, — i tuoi cinquantamila ufficiali di posta non bastano più a tanta fatica. Una strana manìa ha colto i tuoi sudditi. Essi mandano biglietti di visita, a centinaia di migliaia, in tutte le direzioni. Sono vere montagne di carta che bisogna far viaggiare. I mezzi di trasporto non sono sufficienti, e quelli che abbiamo non reggono più. Ieri due giunche, cariche di cartoncini, si sono affondate nel fiume giallo. Cinque carri di bambù sono andati in pezzi, sotto il gran peso, ed ingombrano coi loro frantumi la strada. — IV. Il Figlio del cielo chiamò i suoi ministri a consiglio. Erano costernati. Anch’essi avevano le case piene zeppe di biglietti di visita. E il guaio più grave era questo, che, non essendo essi della famiglia imperiale, erano costretti a ricambiare la cortesia a tante migliaia e centinaia di migliaia. Nè più potevano bastare all’ufficio gl’impiegati in pianta, nè i centomila straordinarii addetti ad ogni ministero. Peggio ancora, non era sempre possibile ricambiare il cartoncino, non essendo chiaro nel timbro postale il nome del paese donde veniva l’augurio. L’imperatore ascoltò, poi diede fuori un editto: «Ben presto il filugello, onore della nostra dinastia, non basterà più a dar cascami, nè il bambù a dar fiori, quanto basti alla fabbricazione della carta. Similmente, non daranno tanto midollo le piante dell’ho-hiang e del kang-sung, nè tanta corteccia l’arbusto sciuhia-tsaoko, nè tanto succo lo zenzero, quanto basti alla distillazione dell’inchiostro. Popolo avvisato, mezzo salvato. D’ordine dell’imperatore si smetta l’usanza dei biglietti di visita.» Un grido d’angoscia si levò da tutte le quindici provincie dell’Impero di mezzo. — Figlio del cielo, — gridarono i mercanti di carta, — tu rovini con un editto la più fiorente tra le industrie cinesi. — Ma l’imperatore non diè retta alle lagnanze dei mercanti di carta. Khi-hoang-ti pensava al bene del popolo, e non isfuggiva alla sua perspicacia che la salute del popolo è legge suprema di un impero ben costituito. Del resto, una industria nata il giorno innanzi poteva morire il giorno dopo, senza troppo grave nocumento alle turbe. Allora si mossero i letterati, cioè a dire tutti coloro che vivevano pennelleggiando i caratteri. Costoro, mal consigliati, si avvisarono di congiurare per il rovesciamento della dinastia degli Han. Egli fu allora, che Khi-hoang-ti, pronto come la folgore, aggravò la sua mano imperiale sulla classe ribelle. E tanto per cominciare, ne fece seppellir vivi quattrocento sessanta, sotto i mucchi di cartoncini che essi avevano pennelleggiati. V. Si dubitò per un tratto nel celeste impero che la razza dei letterati fosse sul punto di spegnersi. Ma non ne fu nulla: i letterati hanno l’anima dura, molto più dei bottoni. Del resto, sono essi la gloria degli imperi; l’Eminenza del cielo, Tien-tan, si accorda con l’Eminenza della terra, Ti-tan, per non lasciarne sparire la semenza. Altri ha voluto (e se n’ha traccia nel «Pe-kuei-zi», ossia Tavoletta di diaspro giallo), che la giustizia sommaria di Khi-hoang-ti mirasse a colpire un ignoto, il quale aveva osato di scrivere in un biglietto di visita una dichiarazione d’amore, in versi, alla consorte del Figlio del cielo: delitto punito colla morte, come ogni altro di lesa maestà. Ma la cosa non ha ombra di probabilità. Se pure la dichiarazione d’amore fosse stata scritta da un letterato imprudente, come avrebbe potuto esser veduta e letta, fra cento cinquanta milioni di biglietti di visita, andati a far muro e spalto intorno ai palazzi imperiali? È opinione generale che con quella giustizia sommaria l’Imperatore Khi-hoang-ti abbia preservato da un grande flagello il suo popolo. E la Storia della carta a fiori d’oro molto opportunamente cita a questo proposito gli armoniosissimi versi di Kon-fu-tse: Hiven pien-King tan pi-tsciang Si siu-ki hao-Khiou-cinang; il che, tradotto in italiano, significa: «Lo stolto aperse il pozzo delle amarezze; Iddio sapiente si è affrettato a richiuderlo». Ahimè, solamente in Cina! Caso d’influenza. — È uno dei soliti; — conchiuse il dottore, dopo avermi sommariamente osservato, esaminato, ascoltato, tastato e tamburato qua e là per tutto il torace. — Ed ora, tanto per cominciare, antipirina. — Dottore, — osai domandare, — crede lei all’antipirina? — Eh, così così, come bisogna oramai credere a tutto, mentre non c’è più niente di sicuro nel mondo. Ma non dubiti, caro amico, vorrà anche il giro del chinino. — Ah, delizioso, il chinino! — esclamai. — Con quello, almeno, si sa dove si casca. — Per conto mio non ne sapevo nulla. Non avevo mai provato febbrifughi, non avendo avuto mai febbre. Dicevo così, per dire; volevo far l’uomo ancor io, adattandomi di buon animo al mio nuovo mestiere d’ammalato. Incominciavo bene, del resto; con un caso dei soliti. Eh, lo avevo ben capito io, che era dei soliti! Da due giorni ne portavo il sospetto, anzi più che il sospetto in corpo. La mattina dell’Avvento, uscendo di casa, e proprio sul punto di mettere il piede sulla soglia del portone, una cosettina da nulla, ma fredda, sottile come la punta di un ago, si era mossa dai portici dell’Accademia, venendo diritta diritta a colpirmi in bocca, sebbene tenessi chiuse le labbra, e scendendo giù giù fino alla laringe. A tutta prima avevo detto: ci siamo! Poi me n’ero dimenticato; tanto che l’umor nero ond’ero stato preso quel giorno, e più il giorno seguente, che fu quello di Natale, io non dubitai di attribuirlo alle strenne, vecchia lebbra delle razze indo-germaniche, a cui non si è ritrovato ancora un rimedio. Ma la sera del 26, mentre cercavo d’ingannare con qualche sana lettura una vaga inquietudine interna, ecco un tremito improvviso delle membra, un batter di denti, un sussultare di tutte le articolazioni; e bisognò correre a letto, urtando di qua e di là, battendo delle ginocchia a tutti gli ostacoli, rabbrividendo, traballando, stracciando lì per lì quel che non si poteva sbottonare. E subito roba addosso, coperte, scialli, guanciali, con acqua calda ai piedi, a mala pena fu possibile averla. Era un caso dei soliti, e domandò a gran furia il solito insaccamento dell’antipirina. Maledetta! debbo io lodarmene? Certo, se per mio bene o per mio male non so, il primo ufficio suo fu quello di abbattermi; e il secondo fu quello di scindere la mia unità in due persone, una delle quali vedeva nell’altra, e non aveva ragione di esserne contenta. Il midollo del mio cervello era così disgregato, e i suoi grumi così rappigliati, rassodati e sonori, che mi parevano manciate di pallini da caccia, saltellanti e risonanti sulla pelle tesa di un tamburo. Povero cervello, ridotto in gragnuola! Già io lo avevo sempre pensato, che non fosse da farne gran conto. Dirò di più: non avevo mai avuto una grande opinione del cervello, fisiologicamente parlando. Nei primi anni della mia giovinezza mi piaceva abbastanza fritto; ma poi, quando ebbi veduto nelle scuole di anatomia che per fibra, consistenza e colore non correva quasi divario tra quello del vitello e quello dell’uomo, rinunziai volentieri al cervello. Avrei per analoghe ragioni rinunziato anche alla carne, se i medici non mi avessero assicurato a gara che quella del bue è superiore di gran lunga alla nostra, checchè voglia indurre in contrario la filantropofagia moderna. Antipirina, antipirina, anche tu sei passata. Mi avevi abbattuto senza guarirmi, senza levarmi la febbre dalle ossa. Sentivo parlare intorno a me di certe linee del termometro, che erano sempre quattro o cinque più del bisogno; e allora mi ficcarono in gola dei bocconi a gran pezza più amari. Quei bocconi furono il viatico e il principio di uno strano viaggio. Per dove? non so; ma ricordo che andavo con una velocità spaventosa, avanti e indietro, a lunghi tratti, come una spola. Quante braccia di tela ho tessuto? Ecco un’altra notizia che mancherà alla statistica del lavoro in Italia. So bene che ad ogni tornata mi toccava di passare per una cruna, e di assottigliarmi maledettamente, per non cozzare contro le pareti di quella fessura metallica. Il giuoco fu lungo, assai lungo; non ebbe termine se non quando mi fui rassegnato. Ma non cessò altrimenti il viaggio: bensì dalla linea orizzontale che andavo descrivendo con tanta regolarità, passai a descrivere una parabola. Un altro bel gioco, per gli Dei immortali! Ero spinto come da un saltaleone, operante sotto ai miei piedi; spinto in aria a gran forza, e scaraventato verso la costa di una montagna brulla, arsiccia, di colore ferrigno. Quante volte non ho creduto di scavezzarmi il collo, battendo in quelle gibbosità rupestri! Ma no, proprio a fior di terra, combinavo sempre certe buche tondeggianti, profonde, bianche come gole di coccodrilli; c’entravo a tocca e non tocca, e andavo giù giù, per centinaia di metri, fino a tanto il restringersi del foro non mi facesse combaciare le spalle con la parete dell’imbuto. Come si respirasse là dentro non domandate a me, che avevo ben altri pensieri pel capo. Prima di tutto, come uscire di là? Rinunziavo, naturalmente ad ogni tentativo di spingermi indietro, specie dopo aver veduto che ogni movimento di ginocchia o di spalle non faceva altro che mandarmi più addentro. È nell’uomo una virtù maravigliosa di adattamento agli ambienti; ed io mi adattai a star là capofitto nell’imbuto. Ma proprio allora, salì come una effervescenza di vapori dal fondo; una forza repulsiva mi mandò fuori; mi sentii slanciato in aria, e ricollocato pari pari sul mio saltaleone. S’intende che il saltaleone mi risospinse in aria, facendomi descrivere la stessa parabola di prima; donde il rimbalzo alla montagna e il conseguente ingresso nella buca. Di questi giuochi avanti e indietro ne feci tanti, che incominciai a maravigliarmi di me stesso e della mia precisione parabolica. E mai uno scatto di qua o di là; andavo e tornavo ch’era un piacere a sentirmi. Se avessi potuto egualmente vedermi!... Ma ecco, ne feci bassa una, e non combinai più la mia buca. Istintivamente misi avanti le mani, per non ispezzarmi la fronte nel macigno; e così mi salvai da un pericolo, ma per dare in un altro, ugualmente terribile, se non forse di più. Sdrucciolavo per la costa del monte; e la costa scendeva giù ripida, senza offrirmi un appiglio. «Sire Iddio!» aveva potuto dire a’ suoi tempi Carlo d’Angiò «fate che il mio calare sia a petitti passi». Io calavo a sbalzi, a mezzi cerchi, a salti mortali. A un certo punto sentii mancarmi la terra sotto i piedi; con le mani convulse tentai di aggrapparmi a qualche cosa; afferrai un ramo di tamerice, o d’altro arbusto che fosse, restando là, sospeso sull’orlo dell’abisso, mentre sotto di me rumoreggiava cupamente il mare, mandando in alto larghi sprazzi di schiuma. Intanto sotto il mio pugno incominciava a cedere l’arbusto, e sotto il mio fianco si sgretolava il galestro. Che fare? Oh, al diavolo la smania di vivere! apersi le mani, e mi lasciai cadere nel vuoto. Che precipizio fu quello!... E non toccavo mai fondo. Per contro, mi toccava il polso l’amico dottore, chinando la faccia sorridente al mio capezzale: — Ebbene, come andiamo? — mi diss’egli, tanto per cominciare. — A grande velocità; — risposi. — Ma come è lungo il morire! — Che morire! chinino, chinino, chinino, e tutto andrà bene. Siamo già calati di tre linee. — Ah, quelle linee, come erano lente a decrescere! E quella fuliggine che involgeva tutte le cose, che morte! Manco male di giorno, con la luce imperiosa del sole, coll’andare e il venire delle persone di casa, con tutti i piccoli fatti della giornata domestica, che richiamavano qual più qual meno alle consuetudini della vita quotidiana. Ma di notte, con tante ombre addensate d’ogni parte; con tanti rumori strani, fatti a bella posta, per condurre il raziocinio fuori di strada; senza punti fissi a cui aggrapparmi; e tutta un’altra logica di eventi, con tutta un’altra concatenazione d’idee!... Tra gli episodi più stravaganti noterò il cane nero. Oh, un bel cane danese, dal pelo corto e lucente, che lasciava scorgere nel loro giusto rilievo le forane tutte dell’animale, la basaltica rigidità dei contorni, le ferree curve dei tendini, il bronzeo risalto dei muscoli. Doveva essere giovanissimo; lo dimostravano tale i suoi zamponi enormi, sproporzionati alla sottigliezza delle gambe; lo dimostrava quel muso, lungo quanto il collo, e quello squarcio di fauci, che nell’aprirsi pareva la bocca di un forno, quando incomincia ad arrossarlo la fiamma: lo dimostrava sopra tutto la smania amorosa del carezzare ad ogni costo. Che carezze, mio Dio! Non parlo di quelle zampe enormi, levate ad ogni tratto per benedirmi, ed anche per cavarmi gli occhi: dirò invece di quelle fauci aperte, che sotto colore di leccarmi la mano, me la ingoiarono in un batter d’occhio, amorosissimamente. «Azor, basta! Fedor, lascia andare!» gridavo io sentendo il solletico. Ma ben presto mi parve che quella brevità di nomi non fosse più in proporzione col crescere dell’animale affettuoso e vorace. «Belfegor, fermo! Almanzor, per tutti i diavoli!... Nabucodonosor!...» Ma sì, a farlo smettere con le buone parole! Seguitava imperterrito a mangiare, l’amorosissimo cane; inghiottiva, inghiottiva gradatamente il radio, l’ulna, il gomito, l’omero, l’articolazione e tutto l’apparato muscolare della spalla.... E perchè poi? Me ne avvidi finalmente: per giungere coi denti alla mia caramella, innocentissima caramella di cristallo, pendente dal suo cordoncino di seta sul petto. — Ah, figlio d’un cane, e cane tu stesso, perchè non dirlo prima? — Così dicendo, presi la caramella e la feci ballonzolare in aria, sugli occhi e sul naso di Nabucodonosor; il quale, bontà sua, tralasciò di mangiare, ed io ne approfittai subito per tirar fuori la spalla, l’omero, il radio e tutto il rimanente. La caramella volteggiava sempre sugli occhi dell’animale inuzzolito. «Ah, bene» dicevo intanto fra me, «ecco la mano, ecco le dita, non ci manca più nulla! A te, Almanzor, prendi la caramella; se essa può formare la tua felicità, io son ben lieto di regalartela.» Belfegor non se lo fece dire due volte; abboccò la caramella, e spiccò un salto dalla contentezza. Ma io, con quel braccio mangiucchiato e quella manica sbrodolata, come potevo andare in società! Perchè infatti, non ero mica ammalato. Che! anzi ero in falda, con la cravatta bianca e con un petto fiammante di porcellana, per andare in conversazione dalla marchesa Olgiati; una signora a cui domando perdono di averla citata, se ella esiste davvero. Ero in falda, vi ripeto.... Ma come andare dalla marchesa, con quella manica stazzonata, unta e bavosa? Una buona ripulita, sì, ed anche due colpi di ferro caldo, avrebbero potuto rimetterla in sesto. Ma.... e il polsino della camicia?... E la caramella? la fida caramella, senza la quale, a dieci passi di distanza, non distinguo più una donna da un prete? Mi vedevo già nel salotto della marchesa, impacciato come un pulcino nella stoppa, disposto a vedere in tutte le più vecchie dame la padrona di casa.... ed anche a sentir ridere e bisbigliare dietro i ventagli una dozzina di Aristofani in gonnella. Ah, la mia caramella, amor mio dolce e dei miei caricaturisti! Era laggiù, la mia caramella, anzi lassù, piantata nell’occhiaia destra del cane danese; il quale, per non avermela a restituire, era andato a collocarsi in atteggiamento monumentale sopra una mensola di giallo di Spagna, alta, alta, così alta, che le mie mani non giungevano ad afferrare la lastra. Omaggio ai tempi e a tutte le gravi cure che portano con sè, non mancò neppure il mio modesto contributo alle feste colombiane. Avevo una melarancia sul comodino, e la guardavo cupidamente con la coda dell’occhio. La melarancia si avvicinò a me, o io a lei? Comunque sia, ci unimmo; ella s’ingrossò in me, io mi raggomitolai in essa, e non fummo a breve andare che una cosa sola. Venne allora un cavalierino e mi prese fra le dita nervose. Che cosa voleva egli fare di me? Appena m’ebbe nel pugno, scavalcò un davanzale, e si mise a passeggiare sopra un trave sporgente fuor della casa. Ma che casa? Eravamo all’ultimo piano d’una torre, che riconobbi benissimo per la Giralda, la gran torre della cattedrale di Siviglia. Povero a me! stavo nel pugno del più matto tra i cavalieri d’Andalusia; di Alonzo d’Ojeda, niente di meno. E andava, il cavaliere, andava con passo misurato e sicuro sul trave sporgente, mostrandomi alle turbe, affollate sulla piazza, cento metri più sotto. «Don Alonzo, per carità, non facciamo sciocchezze! Che stravaganze son queste! Il valore è una bella cosa, ma non s’ha mica da dimostrare in queste prove da mattaccini! Vi prego, don Alonzo mio bello, torniamo indietro, e voglia il cielo che questo trave non sia fracido per tante stagioni di pioggia, nè lavorato da dieci, da venti, da trenta generazioni di tarli. Don Alonzo, per carità!...» E infatti, il trave incominciava a cantare, a gemere, a scricchiolare sotto i piedi del matto cavaliere. Siam fritti, pensai. E gli occhi mi corsero al basso, e mi parve di vedere i gesti di terrore della folla. Tra tutti, avendomi forse riconosciuto, pareva singolarmente commosso il maestro Antonelli!... Ma che significa ciò? Non sarei io dunque a Siviglia, sulla Giralda? a Bologna, invece, e sulla Garisenda? No, no, è stato uno sbaglio; effetto del non avere la mia caramella all’occhio. Non era il maestro Antonelli; era il conte d’Almaviva, o Esteban Murillo, o Antonio del Rincon, altre mie vecchie conoscenze di Spagna. Ah, ecco, se Dio vuole, don Alonzo d’Ojeda è ritornato indietro; scavalca il davanzale del finestrone; è dentro, oramai, e con atto grazioso getta la sua melarancia in grembo alla regina Isabella di Castiglia, che ammirata, ma anche più esterrefatta, contemplava la scena. Povera signora! Al tonfo della melarancia, che pesava i suoi (anzi miei) ottantasette chilogrammi compiti, ella non mise un grido, bensì diede il suono secco di qualche cosa che si crepi. Povera signora! Vedrete che per le feste colombiane non servirà più neanche lei! Quanto a me, non avevo più sugo. Rimbalzato dal grembo della virtuosa regina, andavo, andavo ruzzolando giù per le scale della Giralda, cercando.... cercando che cosa? il nesso logico, ahimè, il nesso logico miseramente perduto. Che triste cosa, perdere il nesso logico! E come ritrovarlo? Io l’ho chiesto per cinque giorni, per otto, per dieci, senza ritrovarlo mai, su nessuna lastra di specchio, su nessun filo di rasoio. Il medico dice che è effetto di debolezza. Ma quanto durerà questa debolezza? Eccomi al quattordicesimo giorno delle mie ricerche. Mi pare qualche volta di averlo trovato, e di tenerlo chiuso in una scatoletta di cartone, tra due falde di bambagia.... Povero nesso logico! Purchè Alonzo d’Ojeda non me lo scaraventi in piazza! Purchè Nabucodonosor non me lo abbocchi, come ha abboccata la mia caramella! purchè non mi ruzzoli giù dalla montagna nell’abisso, tra le schiume del mare in tempesta! Quattordici giorni d’influenza! E non son riuscito ad afferrare un portafoglio. Che razza d’influenza è mai questa, dove non c’è niente da guadagnare e tutto da perdere? Aggiungete che ho perduto per fino.... Ma no, questo va detto con una certa solennità di discorso. Annunziate, vi prego, al ministro del tesoro, ma con garbo, veh! che l’anno 1892 si chiuderà per fatto mio con un disavanzo di L. 576,46. Ed ecco in che modo. Un pacco di dieci sigari Virginia che buttavo regolarmente l’un dopo l’altro, perchè non tiravano, ma che comperavo regolarmente ogni giorno al prezzo di L. 1,20, moltiplicato per tutti i giorni dell’anno, che è bisestile, dà una somma di L. 439,20. Aggiungete ogni due giorni un mezzo ettogrammo di trinciato superiore forte, che mi si polverizzava regolarmente tra le dita e che regolarmente passavo al mio portinaio per tabacco da naso; donde l’annua spesa di L. 137,25. Tirate la somma; avrete un totale di L. 576,45. L’ho guadagnato io, in quattordici giorni d’influenza, avendo smesso di fumare. Ma lo ha perduto l’erario. È questo il mio caso; uno dei soliti, come diceva il dottore. Auguro che sia unico, per la gravità degli effetti. P. S. — Ed anche è rimasto unico, quasi fiore in deserto, nel corso delle mie consuetudini. L’anno seguente, non so come, forse per isbadataggine, son ricascato a fumare; onde le finanze dello Stato hanno avuto una bella rifioritura. Sia per compenso ai danni che ha recentemente patiti il Municipio genovese, usandomi la cortesia di atterrare la casa dove il mio caso d’influenza s’è svolto. Altri dirà che non per me fu decretata la spesa, ma piuttosto per assestare la piazza De Ferrari, dopo slargata via Giulia. Ciò non toglie che io ne attesti ai padri della patria la mia gratitudine. Trista casa, dove non furon sorrisi! e dove anche cessai d’esser giovine! COMMIATO. _I miei Sorrisi potevano essere, ed erano veramente di più. Ma questo avvenne, che appena avevo finito di raccoglierli, una parte ebbe fretta di uscire, foggiata in un volume da sè, per le nozze d’argento del Regno italiano con Roma.[1] Sarebbe stato ora il caso di aggiunger dell’altro, se non avessi pensato che nei libri è gran pregio, in mancanza di meglio, esser brevi, e che nelle relazioni civili non bisogna abusare di nulla, neppur di sorrisi. Infine, se a questi sarà fatto buon viso, chi sa? la materia non manca; e non sarò io certamente che mi lagnerò della vita. Oggi ancora, non sono senza sorrisi gli anni maturi: solo è da dire che il gaio sciame ha mutato luogo; stanchi della città, preferiscon la villa, anzi il folto dei boschi. Si son dati alla macchia, i briganti: castagni, faggi, abeti e querciole sono il fatto loro; e non hanno meno in grazia i pini, i ginepri, i corbezzoli. In fondo, pur che sia verde, la montagna mi piace: ho caro che tra eriche nane, sassi discreti e borraccina a tutto spiano, corra blandamente serpeggiando un’acqua viva e sussurrona; che ci sia quiete per me, poveraccio, e felicità per tutte le bestie, creature del buon Dio al pari di me, se anche, avendo studiato meno, ragionano in forma più grossa; ma tanto più sbrigativa. Son poi felici, le bestie? Su per giù come noi; con giorni buoni, e con giorni cattivi; e, diversamente da noi, si contentan di poco. Chiedetene alle lepri e ai rigogoli: non domanderebbero altro che l’abolizione delle licenze di caccia._ _Assistevo, son pochi giorni passati, all’odissea campestre d’un grosso scarabèo; un lucanus, se le mie cognizioni entomologiche non fallano, qui volgarmente chiamato il diavolo, per certe corna in guisa di tanaglie, che porta gloriosamente in capo, come un cavalier medievale avrebbe portato sull’elmo un trofeo di giostra. Il povero diavolo trascinava a fatica il suo corpo immane, reggendosi male su certe gambucce sottili, che parevano sempre lì lì per andarne scavezzate. Sotto il peso della gran corazza nera piegavano i fili d’erba, cedevano i fuscelli di paglia, si sfondavano le foglie secche, facendolo pencolare or da un lato, or dall’altro, ruzzolare, tombolare ad ogni tanto; ma senza levargli il coraggio, viva la faccia sua, perchè egli, rizzandosi alla meglio, si rimetteva tosto in cammino e tirava di lungo; non girando, ohibò, ma sormontando gli ostacoli, procedendo diritto davanti a sè, lento ma sicuro del fatto suo, come se avesse una meta da raggiungere, e tempo da fame scialo. Dove andasse, non so; forse non lo sapeva neppur lui chiaramente. «Ma è legge» avrà detto, da quel diavolo filosofo che mi pareva; «è legge l’andare, andiamo dunque; cadere, rialzarsi, andar capofitti, risalire, è tutta strada.» Lo seguitai per un’ora, a dir poco; e mi parve una occupazione più seria di tante e tant’altre, nelle quali ho per uso d’impiegare il mio tempo. Fu inutile, soggiungerò, come tante e tant’altre; perchè tutto ad un tratto, senza ch’io ne afferrassi la ragione, il mio diavolo s’impuntò sulle sei zampettine sottili; scosse le rigide falde coriacee del suo soprabito nero; ne trasse fuori, sciorinandole al sole, due paia d’ali membranose e trasparenti, in quella guisa che un buon cittadino all’uscire in istrada schiude solennemente l’ombrello; e via ronzando per l’aria, difilato e leggero, che non pareva più lui._ _Perchè non prima? Si era egli dunque seccato? O si rammentava soltanto allora di aver quegli arnesi in riserva? Forse pensò che dopo tanto terra terra un po’ di cielo agli scarabei fa bene. Anche noi, che pure non abbiamo un paio d’ali sotto le falde, anche noi, dopo esserci impietositi a freddo sulla grande miseria delle forme viventi e dopo aver meditato per uso dei salotti eleganti un dotto volume sull’eterno dolore, leviamo qualche volta lo sguardo al sereno dei cieli, donde il sole amico risplende per tutti, e ci adattiamo a riconoscere che tutto non è tenebre e gelo nel mondo. Bel mondo, se luce, azzurro e verde lo assistano! E la sera, poi, che buon fantasticare si fa, con quella dolce atmosfera turchina, su cui veleggia in così mutevoli aspetti, ma tutti cari, l’argentea luna; mentre dal fondo occhieggiano, palpitando luce d’amore, migliaia e migliaia di stelle, annunzio e promesse delle miriadi che andremo poi con altre ali visitando, per mezzo allo sterminato anello della Via lattea! Sarà un delizioso viaggio, per la conoscenza più intima del fiammante Aldebaran, della nitida Capra, del fulgido Sirio, delle due Orse vaganti, del membruto Orione, non più costretto in caccia malinconica sui prati d’asfodelo. Io mi son già fissato per la mite costellazione d’Andròmeda; non per disegno di arcani corteggiamenti, Dio guardi, ma per assister di là, spettatore dei primi posti, al brulichio luminoso di un altro mondo, che è in fabbricazione da quelle parti. Curiosità, questa, che è ragionevole in sè; com’è ragionevole che tutta quella roba non sia posta a caso, per far piacere a Democrito; com’è ragionevole che noi non siamo nati a caso intelligenti, per vederla di fuga, e non saperne più altro, quasi occhi dischiusi un istante, e poi subito richiusi, annientati nel buio. Sarà, dico, un delizioso viaggio; e il pensarci, e il dispormi, sia pur senza fretta, a prendere il biglietto d’andata senza ritorno, fa sì ch’io non mi guasti il sangue con anticipate querele; mentre non è senza gaudio ripensar qui tutte le cose che ho viste, intese, sentite, e sopra tutto conciliate nell’anima mia, dove si trovano bene._ _Tre cose belle ha il mondo: conoscere, amare, sperare. Sia tutto il resto per il buon peso. Anche la nostra vita, quant’è lunga, può dirsi una gioventù. Sorridiamo_. FINE. INDICE. _Prefazio_ Pag. V Figure femminili 1 Il maestro Segni 21 La prima capannuccia 33 La mia presa di Peschiera 43 Il primo errore 67 Ceppo in famiglia 83 Camene ligustiche 95 Don Alessandro 113 Musicista e poeta 139 L’amico Bastiano 171 Il mio latino 189 All’osteria del Rettorica 203 Hoa-tsien-ki 231 Caso d’influenza 245 _Commiato_ 261 NOTE: [1] _Con Garibaldi alle porte di Roma_. Milano, Fratelli Treves. L. 4. Nota del Trascrittore Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. *** End of this LibraryBlog Digital Book "Sorrisi di gioventù : Ricordi e note" *** Copyright 2023 LibraryBlog. All rights reserved.