Home
  By Author [ A  B  C  D  E  F  G  H  I  J  K  L  M  N  O  P  Q  R  S  T  U  V  W  X  Y  Z |  Other Symbols ]
  By Title [ A  B  C  D  E  F  G  H  I  J  K  L  M  N  O  P  Q  R  S  T  U  V  W  X  Y  Z |  Other Symbols ]
  By Language
all Classics books content using ISYS

Download this book: [ ASCII ]

Look for this book on Amazon


We have new books nearly every day.
If you would like a news letter once a week or once a month
fill out this form and we will give you a summary of the books for that week or month by email.

Title: Reliquie - Le masse cristiane
Author: Calandra, Edoardo
Language: Italian
As this book started as an ASCII text book there are no pictures available.


*** Start of this LibraryBlog Digital Book "Reliquie - Le masse cristiane" ***
***


                            VECCHIO PIEMONTE


                                RELIQUIE

                           LE MASSE CRISTIANE


                               _NOVELLE_

                                   DI
                            EDOARDO CALANDRA

                           _Seconda Edizione_



                                 TORINO
                          F. CASANOVA, Editore
                                  1889



                          PROPRIETÀ LETTERARIA

                 Torino — VINCENZO BONA, Tip. di S. M.



RELIQUIE


La ghiaia del viale scricchiolò sotto le ruote, la nostra vettura passò
lenta sotto l’androne, svoltò nel cortile e andò a fermarsi davanti
alla porta del fabbricato civile.

I due custodi, marito e moglie, sbucarono fuori dalla casetta rustica;
l’uno si diede attorno a scaricar le nostre robe, l’altra andò per
le chiavi, aprì larga la porta, salì le scale e comparve a spalancar
successivamente ciascuna delle finestre per rinnovare l’aria,
disperdere l’odore di rinchiuso, rinfrescare e spazzar dappertutto.

Il domani s’apriva la caccia.

Appena entrati in casa, Mario ed io, pensammo prima ai fucili, ai
pacchi di cartuccie, alle munizioni, che furono collocate in un armadio
al sicuro, fuori dell’umidità; poi alle nostre persone. Furono tratti
dalle valigie gli abiti di tela chiari e leggieri e sostituiti sui
nostri individui agli abiti di panno scuri e pesanti, i cappelli di
feltro furono cambiati in cappelli di paglia e si terminò l’operazione
con uno scrollamento generale di tutta la persona ed un sospiro
profondo di beatitudine, quasichè fossimo rimasti chiusi fino a quel
momento nell’arnese di acciaio d’un uomo d’arme del 1500.

Michelina cacciava giù per la scala a gran colpi di granata le mummie
delle mosche, i cadaveri stecchiti dei topi morti di fame, i ragni
malconci che agitavano le zampe nel pattume. La polvere s’alzava come
una nube.

Mario mi prese il braccio, mi tirò all’aperto in cortile, prima che il
nembo ci cogliesse.

Di fronte alla casa, sopra un tavolo in pietra all’ombra del grosso
pino, il custode avea collocati una bottiglia, due bicchieri ed un
canestro coperto di foglie.

Mario vi andò e levò le foglie. Oh le belle pesche rubiconde! le Reines
Claudes trasparenti come d’ambra! le grosse prugne color d’ametista!

Ne fu incominciata immediatamente la distruzione mentre si guardava la
casa. — In paese la chiamano il Palazzo — disse Mario, scegliendo nel
canestro la quinta pesca.

Non era un palazzo, ma una costruzione molto semplice invece: due piani
ed una galleria ad arcate sotto il tetto. Era d’una tinta generale
bigio caldo, aveva gli spigoli, le modanature, i contorni delle porte
e delle finestre segnati da striscie bianche a stucco, lavorate a
graffito.

Lungo tutto il primo piano correva un balcone in legno ingombro di
masserizie, di canestri lunghi e piatti, nei quali seccavano al sole
funghi, prugne e pesche dimezzate.

Quattro tralci di vite, che neri e contorti come serpenti,
s’inerpicavano lungo la muraglia, lo coprivano tutto di pampini, dai
quali usciva, in quell’ora, il ronzìo monotono, rabbioso, incessante
delle vespe, delle api e dei calabroni collegati all’assedio di certi
sacchetti di carta nei quali erano riparati i grappoli dell’uva.

In mezzo alla facciata era dipinto un orologio solare, quasi per intero
lavato via dalle pioggie, e sulla lunga sbarra in ferro destinata a
segnar coll’ombra le ore, si riposavano in fila cinguettando alcune
rondinelle.

— Adesso poi basta, osservò Mario a un tratto, ti consiglio a smettere
d’inghiottire e conservar l’appetito per la cena.

Bastava certo, restavano nel canestro poche prugne a metà consumate dai
calabroni.

— Ora, seguitò, se credi, andiamo in paese a veder le rarità; e,
spingendo un cancello che si apriva nel centro di un muricciuolo di
mattoni disposti a graticcio, mi introdusse nel giardino.

Un giardino qualunque: alberi nani da frutta, viali delineati da siepi
basse di mortella dominate a tratti da gran cespugli tagliati un tempo
a seggioloni, a confessionali, ora cresciuti ineguali e scarmigliati.
Lungo le siepi dalie, girasoli, begliomini; nel centro del giardino
una vasca piena di melma e d’erbaccie, un vero _club_ di rospi e di
salamandre.

Per una porticella praticata nel muro di cinta, mi fece uscir sul
sagrato.

Nella Chiesa parrocchiale, mi obbligò a veder tutto: organo, pulpito,
coro, sagrestia, un calice gotico, i frammenti d’antico affresco,
trasportati dietro suo consiglio da un’antica cappella demolita.

Mi fece scendere e guardare lungo la via Maestra, che il sole
tramontando avvolgeva in un pulvisculo luminoso ed abbagliante;
le montagne in fondo si perdevano sfumate nella nebbia d’oro, gli
spigoli delle finestre, dei balconi, i vetri dei lampioni mandavano
fulgori accecanti, come riflettori di luce elettrica, il ruscello che
scendeva nel mezzo della via, pareva la lama sfolgorante d’uno spadone
colossale. Le ombre serie e maestose del parroco e del sindaco, l’ombra
magra del maestro, avviati alla loro passeggiata di tutte le sere nel
viale degli Olmi, si allungavano smisuratamente sul selciato.

— Quella casa a destra color di rosa, colle persiane azzurre, è il
palazzo comunale; ti farò veder l’archivio, proseguì Mario, vi sono tre
o quattro documenti curiosi e sopratutto poi gli statuti del Comune,
anno Domini 1471, manoscritti su pergamena con iniziali in rosso; bel
margine, buona legatura in assicelle di legno e borchie di bronzo.

Non bisogna lasciar che Mario entri nè col pensiero, nè col discorso,
nell’antichità o nell’archeologia: se v’entra col discorso, parla
troppo, se col pensiero, non parla più affatto. Quando si cade
sull’argomento antichità, d’un salto egli è nelle nubi, rapito in
estasi dalla poesia delle cose passate, e senza far preferenze,
s’interessa tanto all’antichità romana, quanto al medioevo, all’epoca
preistorica come al milleottocentotrenta.

Dotato d’una memoria di ferro e d’una curiosità insaziabile, vuol
imparar tutto, tutto vedere, toccare, acquistare. Entra nelle botteghe,
si ficca nelle case, nei corridoi, nelle sacrestie, caccia la testa
nelle finestre a pian terreno, s’arrampica per le scale, copia le
iscrizioni, le date, disegna gli stemmi, si procura i calchi delle
pitture, cerca di comprar i mobili, le stoviglie, le lanterne, le
campanelle degli usci, e mette in tutte queste operazioni tanta
insistenza, e diciamolo pure, tanta indiscrezione, che più di una
volta ebbi a veder male interpretati certi suoi atti, sguardi od
apprezzamenti innocentissimi e mi toccò soffrir, per amor suo, in sua
compagnia, rimbrotti, impertinenze ed anche peggio.

Nessuno al mondo saprà mai quello che capitò a lui ed a me per
soverchio interesse dimostrato ai fregi in terra cotta di una certa
finestrina nel villaggio di... Lasciamo stare, è un segreto che deve
scendere nella tomba con noi.

Intanto rifiutai recisamente di veder l’archivio.

— Allora andiamo al castello, — mi disse Mario. — Peccato poi che è
tardi, se no, dopo t’avrei condotto a due miglia di qui, ad una certa
torre detta della Rea. Un marito vi tenne chiusa non so quanto tempo la
moglie. Su quel tema un parroco qui del paese ha scritto un dramma: Un
piccolo dramma, diceva lui, uso Shakspeare!

Si dice che sotto terra vi sia la solita strada che comunica col
castello. Una favola: qui c’è l’acqua ad ottanta centimetri di
profondità; altro che strade!

Al castello mi fece osservare, alla luce dubbia del crepuscolo, la
perfetta conservazione della torre, la coda di _rondine_ dei _merli_
(fenomeno che può parer strano ad un ornitologo, ma naturalissimo ad
un archeologo). Sopratutto poi: alcuni colpi di scure sulla porta e la
data 1618.

— Ecco una data che si riferisce ad una tradizione locale. Nei villaggi
vicini quei di Murello son detti i _testardi_.

— Poteva immaginarlo, — gli dissi.

— Non sono del paese, amico mio, sono nato a Torino. Nel 1618, dunque,
alcuni spagnuoli sbandati capitarono qui all’improvviso, e cominciarono
a dare il sacco. Era d’estate; in paese: vecchi, vecchie e bambini,
tutti gli altri alla campagna. Vi fu tuttavia qualcuno che corse al
campanile e cominciò a suonare a stormo.

I terrazzani così avvertiti accorsero a furia, piombarono sugli
spagnuoli, li cacciarono malconci, e quelli che lavoravano qui di scure
dovettero naturalmente lasciar l’impresa e ritirarsi cogli altri.

Un contadino, che aveva il campo lontano, arrivava tardi, tutto
trafelato, quando ad uno svolto della strada si trovò dinanzi uno
di quei ladroni che se ne andava col manicotto di sua madre. Egli lo
accostò pianamente, gli posò le mani sulle spalle e gli diede con sì
bel garbo del capo nel petto, che lo fece ruzzolar morto nel fossato.

Fu così luminosamente provato che i Murellesi avevano la testa dura:
di qui il soprannome glorioso di _testardi_. — Del resto, come vedi,
il paese e una miniera di tradizioni, e la sua storia non sarebbe forse
priva d’interesse se fosse conosciuta a fondo.

Allora entrò a gonfie vele nel mare della storia locale. Cominciò
proprio dalle origini, e seguitò; visitando la sua cascina, davanti
ai buoi premiati all’esposizione di Cuneo, al cospetto del majale la
cui dimensione era proverbiale nel circondario, nel vasto pollaio,
ove mi sentivo invader la persona dai pollini microscopici, seguitò
dissertando a provarmi che nella divisione legale dei beni di Bonifacio
marchese di Savona e del Vasto e Signore di Saluzzo tra i suoi sette
figli, nell’anno 1142, Murello fu compreso nella parte assegnata al
secondogenito Guglielmo, marchese di Busca, il quale, istituita una
Commenda, la godette pacificamente colla famiglia per molto tempo e
finì poi col venderla ai Templarii.

Quando finalmente, a notte, rientrammo in casa per la cena, i
Templari erano bensì soppressi, ma, Dio mio! la Commenda di Murello
veniva solamente allora aggiudicata ai cavalieri di San Giovanni di
Gerusalemme!



Si finiva di cenare; Mario accendeva il sigaro alla fiamma della
candela.

Fu urtato all’uscio.

— Avanti!

Entrò il vecchio Rocco, l’affittaiuolo, l’uomo di confidenza, il Griso
di Mario che veniva a prendere gli ordini pel domani.

Aveva fama in paese e nei dintorni di cacciatore abilissimo ed
ardentissimo, si narravano di lui colpi straordinarii, si diceva
dormisse, durante la stagione della caccia, col carniere e col fucile
ad armacollo.

Alto, magro, come disseccato dai continui sudori, Rocco aveva il viso
tutto grinze a forza di stare al sole, il naso da Calmucco, la bocca
come un gran taglio, — coi suoi occhi piccoli, grifagni, dotati di
gran potenza scorgeva un lepre appiattato nel solco ad una distanza
veramente straordinaria. Se poi è vero che gli animali vestono il
colore del luogo in cui sogliono dimorare, egli era tutto color di
terra, fuorchè il bavero della giubba, di velluto verde, che pareva
fatto col muschio dei boschi.

— Buona sera, signor Mario e la compagnia.

— Buona sera Rocco, — e così la salute c’è? — e Mario gli colmò un
bicchiere di vino.

— Grazie, alla sua, e vuotatolo si passò la mano sul muso, e scosse
subito melanconicamente il capo prevedendo la domanda di Mario.

— Come stiamo a selvaggina?

— Oh santo Dio! poco bene, — male anzi..... si va perdendo la razza di
tutto...

Se il Governo non piglia le misure, se la seguita ad andar così, fra
un paio d’anni quando si vorrà tirare una schioppettata, la sarà per le
cavallette, le lumache o gli scarafaggi.

— Potevi scrivere, e non si veniva.

— Eh! via, hanno fatto bene a venire, dico per dire, un giro si può
sempre fare con profitto; vi sono qua e là nel territorio, dei campi
freschi, nei quali le quaglie non possono mancare... poi lascino fare a
me che ho sempre in serbo qualche novità, oggi nei grani turchi, domani
nella macchia, saranno pernici, saranno fagiani... Gli altri in paese
non trovano perchè non san cercare. Infine se ce ne sarà per gli altri,
ce ne sarà anche per noi.

Poi entrò a discutere con Mario, se ci tornava di più fare il giro di
qua o di là dal fiume, per arrivar prima dei cacciatori di questo o di
quel villaggio ecc., e durante quella pioggia di frasi caratteristiche,
di vocaboli cinegetici, di nomi barbari di regioni note a me quanto
l’interno dell’Africa, mi addormentai senz’altro.

Mario mi svegliò che erano le dieci:

— Vedo che la tua conversazione con noi langue. Se invece di dormir
male sul tavolo, preferisci dormir bene nel letto, puoi quando tu
voglia, salir in camera..... Io esco in paese con Rocco, così, per
sentir dove vanno gli altri domani.

— Ti sono proprio riconoscente.

— Bisognerà uscir per tempo, sai, essere i primi in campagna se è
possibile. Però mi rincresce vederti così assonnato, speravo farti
ancora gustare una piccola sorpresa storica, archeologica.

— Ti ringrazio di cuore. Rimettiamola a domani, anzi a doman l’altro.

— No, no, ne godrai ugualmente stassera, ma non avrai la sensazione
così netta. Pensa che t’ho fatto apparecchiare la camera gialla, nella
quale nessuno ha più dormito dal... dal... ora ti faccio il conto...

Lo guardai subito di traverso.

— Senti, gli dissi, se per caso si tratta della solita camera gialla,
rossa, verde o pavonazza, nella quale nessuno vuol dormire, credo bene
di prevenirti che quando non dormo di notte, ho inesorabilmente mal di
capo al domani; perciò avrai tutta la mia riconoscenza se ti vorrai
risparmiare il disagio d’alzarti a mezzanotte più o meno precisa, e
venir avvolto in un lenzuolo bianco di bucato, a far lo spettro, a
scuoter le catene del pozzo, a cacciar urli, empir la camera col fumo
di colofonia, che puzza, e malsano e sciuperebbe i tuoi mobili... siamo
intesi. Mettimi a dormir dove vuoi, ma non seccarmi.

Mario scosse le spalle, inarcò le ciglia, accese un lume, s’avviò
precedendomi su per la scala, e giunto alla camera gialla sollevò alto
il candelliere acciocchè potessi in un sol colpo d’occhio abbracciarne
l’insieme.

— Vedi!... è o non è interessante anche senza spettri la camera gialla?
— Guarda, osserva, esamina, — dormi tranquillo, come farò anch’io, e fa
d’essere in piedi piuttosto prima che dopo le tre.



Mi trovai solo col cuore leggermente serrato da quel senso vago
d’ansietà, che accompagna ogni cambiamento un po’ importante nelle
nostre abitudini.

Guardai intorno sollevando in alto il lume e cercando, nella luce un
po’ dubbia, di farmi un’idea netta di tutta la camera.

L’aspetto n’era singolare; non ispiravano melanconia nè letizia;
trasportava, senza sforzo d’immaginazione, indietro di molti anni; e
l’ambiente del principio di questo secolo era così ben definito, che si
provava l’intuizione, direi quasi retrospettiva, d’avervi vissuto.

I mobili di maggior mole ed importanza, come i più piccoli arredi,
avevano tra loro come un’aria di famiglia. Erano tutti fabbricati nello
stesso carattere, involti e coperti d’una medesima patina, e dormivano
nell’ordine, nel luogo a loro destinato da chi aveva abitato un tempo
quella stanza; ordine e sonno rispettato poi dai successori, che, vuoi
per venerazione, vuoi per combinazione di speciali circostanze, non
avevano più portato in quel sito il movimento e l’agitazione della
vita.

Nel soffitto erano dipinte a chiaroscuro le quattro stagioni. V’era
un vecchio coperto d’una pelle di volpe, che raffigurava l’inverno.
La primavera era una giovinetta dalle forme sviluppate e le mani piene
di rose. Un giovane nudo con un covone al fianco ed una falce in mano,
una venditrice d’uva e di pomi, rappresentavano l’uno l’estate, l’altra
l’autunno.

Un gran letto di legno scolpito, ornato di piastre e trofei in bronzo,
s’avanzava fino nel mezzo della stanza.

Un canapè, due seggioloni ed alcune seggiole collocate lungo le pareti,
tese d’una tappezzeria gialla a mazzolini di rose, avevano, nel dorso
rigido e rettangolare, scolpita una lira colle sue corde.

Sul caminetto, v’era un orologio a pendolo a foggia di tempietto
d’alabastro e sotto al quadrante di questo, tra le colonnine, due
colombe posate sul margine d’una piccola vasca si dissetavano in un
pezzetto di specchio, che rappresentava l’onda cristallina.

Accompagnavano l’orologio, due vasi sottovetro, pieni di fiori di carta
scolorita.

Di fianco al letto, appiccata al muro, una rastrelliera reggeva un
fucile, due pistole a pietra, un gran carniere a reticella verde ed
una mazza il cui pomo tornito con una certa combinazione di giri,
rappresentava il profilo di Napoleone I.

Non sentivo più d’aver sonno: andavo e venivo lungo le pareti, me ne
scostavo ad un tratto, e fermo nel mezzo della camera, alzavo il lume
dirigendolo a destra, a sinistra, in alto, in basso per scoprir nuove
cose; poi mi avvicinavo ad osservar minutamente gli oggetti, attirato,
spinto a proseguir il mio inventario da fremito intenso di curiosità
rispettosa.

Al disopra del canapè era appeso un ritratto d’uomo.

Salii sul mobile ed attirandomi sulla persona un nuvolo di polvere e di
ragnatele, lo staccai per esaminarlo da vicino.

Era mediocremente dipinto, ma ben disegnato, in linguaggio accademico:
una bella _testa di espressione_.

I capelli tirati sulla fronte ed i pizzi corti che inquadravano le
guancie, interamente bianchi, contrastavano in modo singolare coi
lineamenti d’un viso giovane ancora. Le fattezze tutte del volto erano
pure, regolari, delicate e l’assenza completa di pelo alle labbra ed al
mento comunicava loro una apparenza alquanto femminile.

Nei suoi occhi traspariva poi un sentimento di così profonda mestizia,
che vi fermava lo sguardo, v’obbligava a pensarvi, v’interessava per
modo che avreste voluto aver lui vivo d’innanzi, saperne i casi, la
vita, ricevere le sue confidenze.

Incominciai a spogliarmi per pormi a letto.

Avendo l’abitudine di leggere prima di prender sonno, tolsi alla
biblioteca, appesa accanto al caminetto, alcuni piccoli volumi, tutti
insieme così per vederne i titoli.

Fatta la mia scelta volli riporre a luogo gli altri, ma pel vano aperto
mi apparve al di dietro, dove avrebbe potuto essere una seconda serie
di libri, una scatola rettangolare, che liberata e spolverata, venne in
luce sotto la forma d’un vecchio cofanetto in lacca del Giappone.

Inutile dire che pensai subito ad aprirlo, vi sentivo ballar dentro
degli oggetti, che dalla varietà dello strepito, giudicavo di diversa
natura.

La chiave mancava, non la trovai nel vano lasciato nella biblioteca nè
fra i libri rimasti.

Provai tutte quelle che aveva nel taschino; non entravano nella toppa o
giravano a vuoto.

Non potendolo aprire in via naturale, non volendo ricorrere alla
violenza, posai il mobiletto sull’ottomana e seguitai a spogliarmi non
senza volger lo sguardo di tanto in tanto, a quel bucolino scuro della
serratura che, col suo piccolo punto brillante nel centro, pareva un
occhio piccino piccino che mi guardasse insistente per eccitare la mia
curiosità.

Ero in letto, e tenevo fra le mani il libro scelto: _L’Abrégé portatif
de la chasse du cerf tiré des meilleurs auteurs qui ont traité de cette
matière et d’après la méthode pratiquée à la cour du roi de Sardaigne —
Turin 1782_.

No. Non potevo tardare a pigliar sonno.

Un cordoncino in seta rossa pendeva tra i fogli come un segno.

Aprii a quel punto per vedere a che quel segno si riferisse, un oggetto
racchiuso frusciò scorrendo tra i fogli, luccicò sfuggendone... cercai
fra le pieghe del lenzuolo... a capo del cordoncino rosso pendeva una
piccola chiave dorata.

Un momento dopo ero seduto in camicia sul canapè: dal cofanetto aperto
sulle ginocchia un profumo soave, sottile, sconosciuto, mi penetrava
per le nari nel cervello, maneggiavo adagio, con riverenza, un piccolo
portafoglio legato in avorio, un guanto lunghissimo ed una scatola
circolare.

Il guanto era di donna senza dubbio e contemporaneo dell’imperatrice
Giuseppina.

Nelle taschine di raso rosato del portafoglio vi erano su pagine di
carta velina, alcune note insignificanti; alcune massime:

  Souvenez vous de la faiblesse humaine, il est de notre nature de
  tomber et de faire des fautes. En avez vous commis? — ne craignez
  pas de les reparer.

  Votre âme est elle malade? Cherchez à la guérir.

  La vie est courte; ne portons pas trop loin nos espérances.

Erano d’una scrittura femminile finissima.

V’erano dei versi d’un altro carattere più probabilmente maschile:

    Mes yeux ont contemplé ce portrait enchanteur,
    Que me donna sa main dans mes jours de bonheur!
    Cet aspect consolant soutenait mon courage:
    Avec recueillement j’adorais son image.
    J’y retrouvais ce front, si noble sans fierté
    Trône de la pudeur et de la vérité;
    Cette bouche où souvent (oserai-je le dire?)
    Je vis, à mon approche, errer un doux sourire;
    Et cet œil qui, sévère et tendre tour-à-tour
    Imprimait le respect, en inspirant l’amour:
    Un jour, ce souvenir, m’occupera sans cesse,
    Parcourant ce portrait, si cher à ma tendresse,
    Au feu de mes regards il parut s’animer:
    Ce que je ressentais, il parut l’exprimer.
    Un voile de douleurs, s’étendit sur ses charmes;
    Il semblait me parler, frémir, verser des larmes,
    Et je crûs un moment, satisfait et trompé,
    Qu’il répandait les pleurs, dont je l’avais trempé.
        _Tiré de la lettre du comte de Comminges._

La scatola era in tartaruga cerchiata d’oro, tutta seminata di stelle
dello stesso metallo.

L’aprii era vuota.

Trovai strano lo spessore del coperchio in proporzione del fondo.

Girando e rigirando, provai a torcere con forza, sentii che si svitava
e lo ebbi fra mani diviso ancora in due.



Due occhi neri, pieni d’una straordinaria intensità di vita vennero,
se osassi dirlo, ad incontrare i miei. Mi trovai davanti un viso di
donna dai lineamenti così perfettamente regolari che, di primo tratto,
pensai fosse creazione d’una meravigliosa fantasia d’artista, e non mi
persuasi ch’era un ritratto se non dopo lungo esame, a certi dettagli
della bocca e degli occhi, appena percettibili ma assolutamente
personali.

Quegli occhi, brillanti d’amore, d’intelligenza, di comando,
avviluppati nell’ombra leggiera e misteriosa delle ciglia lunghe e
scurissime, il disegno puro delle sopracciglia e del naso, capriccioso
delle labbra, i capelli scendenti folti sulla fronte e sulle spalle
bianchissime, formavano un insieme di figura fantastico e delizioso che
inquietava ed affascinava.

Nella miniatura, come lavoro d’arte pregevolissima, non era raffigurata
che mezza la persona, ma colla mia fantasia eccitata dall’oscurità, dal
silenzio, da una certa disposizione particolarmente tenera dell’animo,
io scorgevo al di là dei confini di quel cerchiolino d’oro che serviva
di cornice e vedevo tutta la figura snella, altera, elegantissima.
Una di quelle donne che la natura si compiace di formar completamente
belle, che non possono passar nella via senza attirarsi uno sguardo
d’ammirazione anche dall’uomo più rozzo o più distratto; che hanno un
modo loro proprio di volgere il capo, di piegar la vita flessibile, di
levare in faccia il lampo splendido dei loro occhi.

Una di quelle donne infine, le quali trovate sul cammino della vostra
vita, al teatro, a passeggio, in viaggio, dovunque, senza aver
scambiata una parola, senza averne incontrata la pupilla, sentite
che colla perfezione delle forme, colla calma indolente, colla severa
misura del gesto, della parola, dello sguardo, si portano via nella
loro apparizione, forse fugacissima, una parte dell’anima vostra, vi
fanno anelare che la logica del caso vi rimetta alla loro presenza, vi
spiegano come un uomo possa in certe circostanze abbandonar per loro le
ricchezze, i parenti, la patria, la vita.

Provavo davanti a quel piccolo dipinto di sette centimetri,
un’impressione strana, come un senso di soggezione, quasichè avessi
commessa una grave indiscrezione a turbarne il riposo, e presentarmi a
lei così nell’aspetto sconveniente d’un uomo un po’ meno che in maniche
di camicia.

Fui sgradevolmente interrotto nel mio _tête à tête_ e richiamato alla
prosa.

Un gran pipistrello entrato in camera non so come, cominciò, radendo
la terra, rimontando al soffitto, a dar di cozzo nei mobili, ad agitar
la fiamma della candela, ad avvolgermi nei suoi giri cabalistici,
gettandomi l’aria delle sue ali nel viso.

Ho ribrezzo dei pipistrelli; se poi sono leggermente vestito, mi par di
sentirli appiccicarsi in un punto qualunque della persona, coi dentini
bianchi ed affilati e suggermi quel po’ di sangue che posso aver nelle
vene.

Posai tosto il ritratto, impugnai la canna dal profilo dell’_Uomo
fatale_, e dopo aspro combattimento, colto in aria il mostro alato, lo
vidi ai miei piedi sul pavimento con un’ala distesa e l’altra chiusa,
le fauci aperte e gli occhiolini neri, maligni, scintillanti.

Gettato il vinto fuor della finestra, mi toccò ancora scostare il letto
dalla muraglia per evitare che un grosso ragno che scendeva gravemente
dal soffitto, attraversasse nel suo viaggio il mio viso. Poi entrai
in letto, e stanco delle mie scoperte, meditazioni e battaglie, noiato
dalle mosche del soffitto che svegliate dal lume si aggiravano ronzando
e finivano per piover sui fogli del mio libro coll’ali bruciate,
soffiai la fiammella, e m’addormentai.



Ho domandato ad un sapientissimo amico che cosa siano le allucinazioni.

Mi rispose che le allucinazioni sono false sensazioni, spontaneamente
percepite dal sensorio, senza il concorso d’agenti esteriori, senza
partecipazione dei sensi; fenomeni cerebrali, che non dipendono da una
lesione propria di questi, non da associazione viziosa d’idee, non da
vizio dell’immaginazione, ma bensì da un turbamento encefalico d’ignota
natura.

Le allucinazioni, seguitò egli, nei loro effetti non differiscono dalle
sensazioni reali, se non per l’assenza di attuali impressioni.

Così si può ascoltare una voce che non venne emessa, udire una parola
non pronunciata, vedere un aggressore, un demonio, una donna bella,
un angelo, avvertire un profumo gradevole, un odor disgustoso, gustar
sapori fantastici, prender cibo, bevanda, ghermire un nemico, brandire
un’arma, tutto per allucinazione.

L’amico poi voleva dividere le allucinazioni in olfattiche, acustiche,
gustative e tattili, suddividere queste in viscerali e sensoriali,
ma mi dichiarai soddisfatto, lo ringraziai della lezione e preferii
pensare che nella notte dal 14 al 15 agosto ho semplicemente sognato.

Non potrei dire qual ora fosse della notte... sul canapè batteva un
raggio di luna, un raggio pallido che illuminava un piccolo disco
lucente: il ritratto in miniatura.

Io lo guardavo, e ne venivo raffigurando distintamente le linee come se
lo avessi nelle mani, sott’occhio.

A poco poco, per un lavorìo inesplicabile che certo si veniva compiendo
nella mia mente, i contorni divennero più fermi, presero proporzioni
maggiori, ed infine lentamente, insensibilmente, senza sforzo, la
figura si sviluppò al naturale e me la vidi dinanzi seduta sul canapè.

Era immobile nella posa del ritratto, pallida, lo sguardo fisso,
le braccia nude bianchissime, le mani raccolte l’una nell’altra,
abbandonate sulla veste chiara e sottile che disegnava le linee
purissime d’un corpo meraviglioso.

Ad un tratto venne come un soffio che le infuse la vita: il seno
cominciò a sollevarsi palpitante, il capo si piegò soavemente sulla
spalla, le pupille si mossero sotto le ciglia... l’occhio si aperse
limpido... si rivolse sfavillante d’una tenerezza indicibile al
ritratto dell’uomo appeso sul di lei capo.

Allora vidi balenar come in un lampo la cornice dorata che si staccò
dal muro, che scivolò senza strepito lungo la parete e l’uomo mi
apparve tutto, alto, elegante, nobilissimo, al fianco di lei, vivo e
palpitante.

Lo vidi cingerle col braccio la vita, baciarne a più riprese la mano
lunga e sottile e le sue labbra aprirsi e chiudersi come se parlasse un
linguaggio tenero, ardente, appassionato, accompagnato da gesti vivaci
ed eloquenti.

Ella si era scossa tutta in un tremito nervoso, poi aveva appoggiato,
come stanca, il capo sulla spalla di lui, ed ora, ad una parola di
fuoco mormoratale nell’orecchio gli aveva cinto il collo colle braccia,
come d’una candida sciarpa, ed avvicinando lentamente il viso al suo,
cercava colle pupille smarrite...

— Ohè!... sono le tre e cinque minuti... alzati marmotta!



Ero seduto sul letto ansante, sudato, col cuore che palpitava rabbioso,
nulla discernendo nella camera oscurissima.

— E così, rispondi o non rispondi? — gridava Mario fuor dell’uscio. Sei
sveglio? — Bene alzati e fa presto... non hai zolfanelli?

Ed entrato in camera accese col suo il mio lume.

— Sai che sei pallido come uno spettro! — Hai avuto male? Perchè non
hai chiamato? — Te lo voleva dire, ieri sera, di non mangiar tante
pesche.

— Ma no... grazie, sto bene sai, ho dormito benissimo.

— Quando è così, spicciati, non basta arrivar presto, bisogna arrivar
primi.

E sparve, impaziente ed affaccendato, giù per la scala.

Non potevo staccar gli occhi da quel punto.

Sogno, allucinazione, illusione dei sensi, fantasia;... siano pure...
le linee squisite di quel gruppo trepidante d’un amore sconfinato e
soprannaturale, mi sono incise nel cervello e ci andrà del tempo prima
ch’io le senta affievolirsi e confondersi.

M’avvicinai al lungo mobile. La piccola miniatura posava sui cuscini
accanto al ritratto d’uomo, appoggiato al bracciuolo; la muraglia in
alto era leggermente scalcinata, il chiodo giaceva sotto il canapè.

Eppure avrei giurato d’averlo la sera riappiccato al muro, quel
ritratto!



Eravamo armati ed in ordine. Mario aprì l’uscio verso il cortile, i
cani si precipitarono in casa e vedendo brillare i fucili, cominciarono
a latrare festosi: era venuto il tempo d’empire le nari, diguazzando
nella rugiada, cogli effluvii grassi della selvaggina, venuto il tempo
di piantar i denti nelle carni ancor vive e palpitanti degli animali
feriti, e sfogar l’istinto feroce assaporando tra le fauci il sangue
caldo e fumante, cogli occhi chiusi ed il corpo accosciato sotto i
ceffoni ed i calci largiti dai padroni troppo frettolosi di ritirar la
preda.

Un lampo abbagliante seguito immediatamente da fortissimo tuono,
ci arrestò sulla soglia; i goccioloni caddero larghi e violenti, si
fecero fitti, i lampi ed i rombi si succedettero, e così cominciò un
bell’acquazzone con tutti i sintomi di durata più dichiarati.

Rinunzio a descrivere l’ira di Mario. — Io guardavo alla finestra
volendo anche persuadere me, mentre cercavo persuadere lui: — Non può
durare, caro mio un temporale, più è violento meno dura; fra mezz’ora,
un’ora al più, saremo fuori.

L’acquazzone prolungandosi diminuì di violenza, si cambiò in una
pioggia fitta, cheta, perfettamente verticale. Il cielo si rischiarò
solo quanto bastava per provare che il giorno era venuto, vestì una
tinta unita color del piombo e parve disporsi a restar così tutta la
giornata.

Salii alla camera gialla. Volevo rivedere i due ritratti che si
volevano tanto bene.

Due fisonomie animate e pensanti, piene di rilievo e d’espressione
mi si disegnavano nella fantasia; i loro lineamenti si spiegavano, si
illuminavano a vicenda, il sogno m’aveva lasciata quasi l’impressione
d’un fatto reale.

Presi da una mano il ritratto grande, nell’altra il piccolo e scesi.

Mario saliva alla galleria per esaminar l’orizzonte. Veniva su
svogliato, dondolandosi ad ogni scalino, aveva le ciglia alte,
inarcate, teneva in mano un tozzo di pane, e vi mordeva tanto per
sfogarsi, quanto per far colazione.

— E così, disse fermandosi a guardar quel che portavo, non ti resta a
far di meglio che turbare il riposo ai miei avi?

— Tuoi avi?

— Sicuro, questo è il padre di mio padre, mio nonno Maurizio.

— E questa?

Mario mi tolse di mano la miniatura, la guardò, fece un atto di
ammirazione e di meraviglia, poi entrò nella camera gialla e andò
difilato alla finestra per osservarla in una luce chiara e decisa.

— È tua nonna, forse? gli domandai.

— Mia nonna no certo, questa signora non l’ho vista mai, non so niente,
non so chi sia... Ma, per Dio, è una splendida creatura!... Dove
diavolo sei andato a snidarla?

— Sono stato indiscreto?

— No... perchè forse non l’avrei trovata mai.

Allora gli dissi minutamente dove e come aveva scoperto la miniatura.

Egli mi ascoltò cogli occhi fissi sul ritratto.

Mentre parlavo vedendo che si mangiava cogli occhi quella figurina,
provavo un senso strano di gelosia e due o tre volte, stesi le mani
quasi cercando ritorgliela. Infine scorgendolo serio ed attento, mi
arrischiai a dirgli del sogno.

Or bene, non m’interruppe con impazienza, non rise, non l’attribuì come
mi aspettavo alle uova sode mangiate coll’insalata, all’essere andato
a letto subito dopo cena. Abbozzava probabilmente in quel punto un
idillio con quella donna vissuta settant’anni addietro.

Andò poi lentamente nell’altra stanza, tornò con un martello ed un
chiodo e rimise il ritratto del nonno a sito; quindi scostato, nella
parete in faccia, l’orologio sul caminetto, collocò la miniatura di
fronte, in modo che i due personaggi si potessero guardare.

Aperto infine il cofanetto giapponese fiutò, esaminò il guanto, lesse
le note e le massime contenute nel piccolo portafoglio.

Ho detto che, oltre alle massime scritte da mano certamente femminile,
vi erano alcuni versi di pugno più probabilmente maschile. Mario li
osservò attentamente, poi uscito, tornò tosto tenendo fra le mani
alcuni fogli manoscritti, confrontò i caratteri delle due scritture e
parve soddisfatto di trovarle identiche.

— Ecco, mi disse porgendomi quei fogli, qui c’è il romanzo, il
protagonista lo conoscevo, poichè ne avevo il ritratto, restava a
_chercher la femme_, e tu l’hai trovata. Tu sai, seguitò, che in questi
tempi si sono rinvenute, inventate, pubblicate lettere, memorie,
note senza fine. La scoperta più o meno vera d’un manoscritto, in
cui è narrata per filo e per segno tutta una storia, è un vecchio
artificio sul quale non abbiamo più molte illusioni; l’abbiamo
accettato dai romanzieri e novellieri vecchi, l’accettiamo dai moderni,
l’accetteremo, non potendone fare a meno, dai futuri. Eppure, eccoti
qui alcuni fogli, che nessuno certo si divertì ad inventare ed a
cacciar poi nel vecchio baule dove li ho trovati io.

L’anno scorso, quando in una dolorosa circostanza ho dovuto
mettere mano al baule tarlato, ai sacchi sdrusciti delle vecchie
carte di famiglia, e frugar a fondo nei testamenti, negli atti di
lite, nei vecchi titoli di proprietà, questi fogli sbucarono fuori
all’improvviso, pagine chiare e colorite, perdute fra i documenti serii
e tediosi, come fiori in un sacco di patate.

Il carattere è quello di mio nonno Maurizio, l’ho confrontato con altri
documenti che di lui mi rimangono. Come vedi sono fogli staccati,
diversi di dimensione e di colore, e contengono la storia un po’
sconnessa, d’una sua violentissima passione per una donna che gli
involò il cuore per modo che non lo riebbe mai più.

Nessuna data, nessuna cifra, salvo nell’ultimo, nel quale il carattere
è come invecchiato, e si capisce scritto dalla medesima persona ed
unito agli altri, molti anni dopo. Vedrai leggendo, al modo scucito,
incompleto e disordinato di scrivere che l’autore non era uomo di
lettere nè scrittore di professione, ma prendeva la penna così per
scrivere senza preoccupazione di forma o di dettato al momento in
cui gliene veniva la volontà, o l’idea. In molti punti le lettere
tradiscono l’emozione della mano che le ha tracciate; insomma queste
sono pagine di vita vissuta, evidentemente non scritte per essere
conservate, per formare un così detto giornale, ma buttate là per
sfogo, per calmare la febbre del cervello e dell’anima... cominciate,
interrotte, riprese, testimonii forse di molti sospiri, di lagrime
amare, di lotte tremende tra la ragione ed il cuore.

Quanto al personaggio, sono poco informato.

So però che egli nacque in Torino nel 1782, da parenti che non erano
nobili, appartenevano all’alta borghesia ma frequentavano la nobiltà,
ne avevano presi i modi e le opinioni, tantochè furono poi classificati
fra i così detti _aristocrates_.

Da giovanissimo egli era stato destinato alla carriera delle armi, e
tutti i suoi studi erano volti a questo scopo; ma poi uno zio, tornato
di non so dove, aveva voluto farlo entrar nel commercio. Così inviato
in Isvizzera ed in Francia, prima aveva imparato a volar sul ghiaccio
coi pattini, a traversar laghi e fiumi a nuoto; poi s’era perfezionato
nell’equitazione, nella scherma e nel tiro alla pistola.

Tornato a Torino, non aveva fatto il negoziante, e soldato lo diventò
solo più tardi, quando si guadagnò il titolo di barone dell’impero,
benchè semplice luogotenente, e la stella della Legion d’Onore.

Al tempo in cui probabilmente scrisse i primi di questi fogli,
avendo fama di elegante fra gli eleganti, lavorava ad accrescerla
e mantenerla, e lo immagino giovane, allegro, matto, disinvolto: in
quell’età in cui certi vapori offuscano il cervello, in cui si sogna
come felicità unica, intensa, suprema, essere pazzamente amato da una
donna altera e bellissima con tutto il raffinamento della eleganza,
della passione, della colpa.

Quanto al fisico, non so se fosse l’Antinoo coi muscoli d’Ercole, se
avesse _le torse d’airain, le poignet de fer, les muscles d’acier_. Mai
davanti agli occhi il ritratto a mezza figura, puoi immaginarti tutta
la persona: prolungar l’abito azzurro chiaro, veder le gambe fine e
nervose serrate nei calzoni color camoscio, ed i piedi aristocratici da
_ci-devant_, finamente calzati da stivali neri a ghiandina d’oro. Oltre
al ritratto, ci sono io suo discendente diretto, guardaci; e formati da
questi due documenti umani un ideale poetico quanto vuoi.



Ecco quei fogli in tutta la loro integrità:

_(Iº)_

                             . . . . . . .

Che non ci sia proprio modo di pigliar sonno stanotte?.... Ho provati
tutti i mezzi citati come infallibili: contati i numeri dall’uno
al mille, poi ricominciato... Ho cercato di fermar la mente su cose
noiose, sul libro di commercio che mi mandò ier sera lo zio... le idee
scappano a divertirsi altrove e non riesco a seccarmi tanto da far
venir il sonno.

Non potendo leggere, voglio provare a scrivere. È una occupazione quasi
nuova per me.

Scrivere a chi?

A nessuno.

Scrivere per metter fuori in qualche modo tutto quel trambusto che ho
nel cervello stanotte, poichè non ho sonno, non posso leggere, non
so che fare, ho bisogno di star solo, di sfogarmi da solo; tantochè
se avessi qui un amico, non gli direi quello che penso, lo pregherei
di andarsene perchè mi disturberebbe e mi riescirebbe assolutamente
importuno. Sento che sfuggirei la più piacevole compagnia per potermi
abbandonar liberamente ai miei pensieri.

E poi, ho questi bei fogli bianchi sul tavolo, mi sorride l’idea di
farci scorrere sopra la penna... di appoggiarne di tanto in tanto il
capo piumoso alla fronte, e quando mi par bene imbevuto, bene inzuppato
d’idee, lasciar colar giù tutto, i pensieri insieme coll’inchiostro.
Se mi annoierò verrà il sonno, nel caso contrario vuol dire che mi
divertirò, e non domando di meglio.

Anche dodici ore or sono mi annoiavo.

Un sole di fuoco nelle vie, e nessuna energia per ritrarmi all’ombra.

Visitati tutti gli antiquari senza trovar nulla[1]. Non una forma
femminile interessante, nella strada, alle finestre, ai balconi.

Nessun dolce pensiero da canticchiare fra i denti...

La noia è il gran male della mia vita; talvolta giungo a divertirmi
anche solo colle immagini appassionate o bizzarre che nascono nella
fantasia; ma oggi no, oggi avevo la mente intorpidita.

Se non fossi entrato nel cortile delle diligenze, forse avrei
continuato ad annoiarmi fino a sera.

In certi giorni tutto è distrazione.

Quando mi accade di veder arrivare una di quelle grandi macchine che
fanno traballar mobili e vetri con tutto quel fracasso di cavalli,
ruote, sonagli, colpi di frusta, mi assale una gran curiosità, un
desiderio irrequieto di sapere chi vi sta dentro.

Niente poi mi diverte quanto il trambusto della partenza, quando
vi assisto come spettatore: i viaggiatori che vanno e vengono, i
facchini che smuovono, portano, caricano sacchi, il conduttore,
sempre tal quale, col suo berretto di pelliccia, il foglio coi nomi
dei passeggieri in mano, rosso come un dindo, affannato a scalmanarsi
bestemmiando attorno alle ruote, ai finimenti, ai bagagli male
allogati.

Che sfilar di tipi. Quante figure curiose. _gotiche_ e strane che non
s’incontrano altrove! — Quel tale che oggi andava,... fino, a Vercelli
forse,... con un gran canestro di provvigioni, in una tasca una
bottiglia, nell’altra una gran pistola che gli tirava il pastrano fino
a terra.

Quei due poveri giovani cogli occhi fissi e rossi che non potevano nè
piangere, nè parlare, nè separarsi... A quante scene da romanzo, da
tragedia o da commedia non assisterebbe in un mese chi frequentasse
tutti i giorni il cortile della gran posta.

Quando arrivò la diligenza di Lione, se m’avessero proposto
d’indovinare chi vi era dentro... Elena! Proprio lei, dopo tanti anni,
qui in Torino!

Ed il caso che mi fa trovare presente all’arrivo, come incaricato di
riceverla, di farle gli onori!

Così avessi potuto avvicinarmi e parlarle!

Come ho presente tutto quello che mi accadde da quel momento fino a
ieri sera, quando sono rientrato in casa!

Tutti i pensieri di prima, tutte le cose passate, affari, amori,
piaceri antecedenti alla giornata di ieri, si fondono ora in una
sola circostanza, in una sola persona, in un solo finale,... e non ho
più potuto far altro stanotte che riandar colla mente tutti i minuti
particolari di quel che mi avvenne, raccontarli, ripeterli, commentarli
a me stesso.

Ecco perchè ho lo spirito tanto irritato, ecco perchè non mi è
possibile dormire.

Ricomincio sempre daccapo: rivedo la diligenza che si ferma, le
portiere fra le due ruote che si spalancano; incominciano a venir fuori
prima le _houppelandes_ ed i _bonnets à poils_ degli ufficiali, poi
quell’individuo grasso, col panciotto color fuoco a frangie verdi, il
più pacifico fra gli orologiai di ginevra, senza dubbio, poi quel calvo
alto, dalla _rédingote_ a sei pellegrine; poi ho visto quella manina
finamente inguantata uscir dallo sportello del coupè e posarsi sul
braccio dell’uomo già sceso prima e non ho più guardato altro.

Saltò a terra svelta e leggiera e non la conobbi, ma mi parve che il
cortile, la diligenza, le case, la gente intorno, tutto si illuminasse,
come quando il cielo è grigio e scuro, e sbuca fuori all’improvviso un
raggio di sole.

L’ho riconosciuta poi nella sala dell’amministrazione, allorchè
sentendosi guardata, si volse verso di me si fece tutta rossa ed andò
a passare il braccio in quello del marito senza rendersi, io credo,
ragione dell’atto.

Aveva, mi pare, le ciglia un po’ serrate, l’insistenza di
quell’individuo quasi nascosto in un angolo scuro, a divorarla cogli
occhi, le dovette parere una bella e buona indiscrezione.

Ma Dio mio! non mi saziavo di guardarla.

Era così bella in quella _douillette_ dall’orlo di pelliccia, vista
così di profilo, mentre batteva col piede leggermente il pavimento...
aspettando che colui,... il marito, avesse finito coi bagagli.

Non m’ero ancor riavuto dalla sorpresa di riconoscerla, ero ancora
intento a confermar la scoperta, che già sentivo nel cervello brulicare
migliaia di ricordi. Scappavano fuori dagli angoli in cui erano sopiti,
svegliandosi tutti ad un tempo come tanti freschi profumi, come avessi
odorato un mazzo composto di fiori svariati.

E anche adesso, in questo momento... quante cose a cui non ho
pensato più! Tutta quella splendida primavera, per esempio, passata
nell’Astigiano, alla campagna della cugina Irene, Elena ed io eravamo
sempre insieme.

Credo abbiamo tutti nel passato cotesti amori di fanciullo, vagiti del
cuore che si sveglia, l’alba che precede il sole.

Che bei momenti in quelle passeggiate verso sera cogli altri
villeggianti; le mamme indietro parlavano delle faccende di casa, e
i nonni, i papà e gli zii, si fermavano di tanto in tanto, perduti
in lunghi e interminabili discussioni, segnavano colle mazze, linee
intricate nella polvere gialla della strada; tanti piani di battaglie.

Non capivo nulla di quel che dicevano i grandi; noi, fanciulli e bimbi,
ci facevano camminare avanti.

Elena ed io serii e composti ci davamo la mano camminando, gli altri
strillavano, scorrazzavano nell’erba, entravano nei fossi a pigliar le
rane; ricordo i pugni che facevo piovere sul dorso del piccolo Luciano,
sgarbato come un carrettiere, quando buttava il fango sulla vestina di
lei. Quella veste di mussolina, all’_enfant_, la vedo ancora!

Quante memorie, quante memorie!

Quando le scrissi: _Cara ti voglio tanto bene e sono il tuo Maurizio_.

E posi la lettera nel cavo del melo, in giardino, dicendole d’andarla a
prendere e di farmi una risposta.

E quando andando a porre nel cavo un bigliettino, Elena fu punta da una
vespa nascosta. La sentii piangere, accorsi tutto sconvolto e piansi
anch’io, senza accorgermi che le lagrime lavavano via il fango fresco
che le applicavo sul ditino per calmare il dolore.

E la lettera perduta nel viale, e trovata dal giardiniere che per
fortuna non sapeva leggere, e non scoprì la trafila tenebrosa del
nostro intrigo.

Quanti anelli di perle infilate dati in cambio dei fiori che le
portavo, e come era divenuto gonfio il suo libro da messa col fermaglio
che non mordeva più, e i fiori che scappavano via da tutte le parti!

Come pianse quando ci separammo.

Io volevo far l’uomo. Sicuro! Bisognava essere calmi, forti, era
questione di tempo, sarei tornato di Svizzera, l’avrei sposata
senz’altro.

Ed invece!...

Un famoso biglietto di _faire part_, a Lione, anni dopo, colla sua
brava vignetta: due cuori che ardevano sull’ara, una colomba che vi
teneva col becco sospesa sopra una corona, l’arco e la faretra, un cane
simbolo di fedeltà ed il motto: _L’Amour nous unit!_ Annunzio di nozze
del cittadino Giacomo Miniuti colla cittadina Elena Moreni.

Quanti discorsi a quei giorni cogli amici sull’incostanza delle donne,
sui loro tradimenti, sulle illusioni perdute per sempre.

La sapevo col marito a Parigi... m’ero fatto all’idea di non vederla
più, ed oggi, d’un tratto, dopo tanti anni, me la trovo davanti e per
tutta una sera il destino ci colloca in presenza l’uno dell’altro, con
ostinazione incredibile... e benedetta sia l’ostinazione del destino!

Ero persuaso quando la vidi all’angolo della Place Impériale[2]
svoltare nella rue des Garde-Enfants[3] e scomparire nel portone
dell’Hôtel de la Bonne Femme, che stanca dal viaggio non sarebbe più
uscita nella giornata, ed invece, mentre al caffè del Rondeau parlavo
cogli amici, eccola, fresca come una rosa, a braccia del marito, entrar
nel viale di sinistra[4] e seguire al Po l’onda dei Torinesi, che vanno
ogni giorno a vedere, ai lavori del Ponte, i prigionieri spagnuoli che
fabbricano la palafitta.

Era bella quest’oggi la città; Ella deve averne riportato buona
impressione; molte donnine eleganti, nei viali pieni d’ombra, molti
bimbi che cercavano scarafaggi, empivano di ghiaia i carretti, facevano
galloria nell’erba. Un’allegria di sole meravigliosa sui prati, sulla
collina in fondo, enorme mosaico di verdi variati, di seni tranquilli,
di ville bianche e splendenti.

La vidi ritornar per l’altro viale, rimontar la via di Po, entrar
a riposare nel gabinetto letterario di Carlo Bocca, la rividi al
ristorante Dufour... al teatro Carignano.

È strano il fascino che esercita la donna bella ed onesta anche sui più
indiavolati.

Stassera si faceva un baccano d’inferno da Dufour. La conversazione
era quasi generale; un parlar alto, risate piene e sonore, frastuono di
bicchieri, di piatti, di forchette.

Quei quattro ufficiali del 7º corazzieri colla loro Volpianina,
cominciavano anche a passare il segno.

Quando comparve sulla soglia Elena col marito, ecco farsi la calma,
l’ordine, la modestia, il silenzio.

Mi ricordò la scuola, l’entrata del professore in mezzo al tafferuglio
della scolaresca.

Li vidi rimaner ambedue come imbarazzati da quel silenzio improvviso.
Ella poi si fece di fuoco in volto quando non trovando tavoli liberi in
nessuna delle sale, si videro soli ritti fra gente seduta, bersaglio a
tutti gli sguardi, nella situazione leggermente umiliante di chi non ha
potuto conseguire quel che bramava.

Ho fatto presto ad alzarmi ed offrire il mio posto... temevo che
qualcuno mi prevenisse.

Ella s’inchinò senza guardarmi... e Miniuti:

— Merci, monsieur, ecc. ecc...... Me ne andai a seguitar il pranzo col
mio vecchio amico dal dorso convesso.

Come era elegante stassera; i capelli all’_oiseau royal_, l’abito _bleu
céleste_ coi bottoni _histoire naturelle_, il cappello all’_écuyère_,
cravatta _en couleur_, occhialino, brillante nel dito, e catenelle
lunghe fino alle ginocchia.

Bel tipo costui.

Pensavo ai tipi che si incontrano nel cortile delle diligenze; anche da
Dufour, bisogna dire, ve n’è ogni sera bella collezione.

Quel signore, per esempio, seduto sempre al tavolo d’angolo in fondo,
vestito come sotto Luigi XVI, coll’abito di _bourracan_, calzoni corti,
calze _chinés_, scarpe a fibbia, e capelli incipriati. Egli è stato in
tutte le grandi capitali, conosce tutti i gran personaggi, non nomina
mai Roma senza far di cappello, ed ha scritto un libro misterioso sulle
rivoluzioni del Kamtschatka, pieno, a quel che si dice, d’allusioni
finissime alla nostra situazione politica.

Quell’altro che ci saluta tutte le sere, perchè il domani parte in
missione diplomatica e la sera dopo è ancor là, fresco al suo tavolo,
colla sua _julienne_ davanti e la metà di pollo al riso.

E il conte S...[5] non si lascia scappar proprio una parola.

Ma come originalità il mio gobbetto la vince su tutti[6], sempre
cerimonioso fino all’esagerazione.

Stassera, sedendomi, gli ho pestato maledettamente un piede. Sono certo
d’avergli dato un dolore atroce: Niente, prego!... colpa mia, tutta
mia, ho l’orribile abitudine di cacciar troppo avanti i piedi.

Poi subito un aneddoto di circostanza:

La signorina Alessi, che, danzando davanti a Napoleone, nel ballo
dato al Teatro dell’Opera, in occasione della sua venuta a Torino,
posò un piede su quello dell’Imperatore: _Eh! mademoiselle_, sclamò
l’imperatore, _vous me faites reculer_. E lei di scatto: _C’est donc la
première fois._

Come sa raccontar con brio ed ascoltar con garbo. Approva col capo,
leva gli occhi al cielo, prende una faccia grave, ridente, addolorata a
seconda del racconto... poi a discorso finito, se è una signora che ha
parlato, le bacia la mano, se è un uomo, glie la stringe calorosamente.

Conosce tutto il mondo. L’ho fatto parlare su Miniuti, sul marito di
Elena.

Lo ha conosciuto, anni addietro, prima del matrimonio, lo ha praticato
pochissimo, tuttavia, se a Parigi non s’è cambiato, può assicurare che
è uomo educato, ma freddo ed impassibile. Geloso poi senza fallo. — Non
di quelli certo che scherzano col pericolo e godono delle adorazioni
pioventi sulle mani, sul collo, sul seno, della loro moglie quando la
conducono in società. Lo crede insensibile e violento, uno di quei
certi caratteri pieni di contraddizioni, capace di battersi con chi
sparla d’un loro amico, e non trovar poi nè una parola di compianto, nè
una consolazione per questo medesimo amico caduto nella sventura.

Aggressivo e duellista ha un famoso colpo dritto, rapido come una
pistolettata, nessuno con lui arriva alla parata. A Torino, aveva
riputazione di un vero _bretteur_, anzi si diceva scherzando di lui
che aveva avuti tre duelli in un giorno, il primo con un francese che
l’aveva guardato in faccia, l’altro con un russo che l’aveva guardato
nel dorso, il terzo con un inglese che non l’aveva guardato!

E la rividi ancora al Teatro Carignano, alla: _Donna soldato_.

Ecco alla metà del 1º atto aprirsi l’uscio del palco, proprio di faccia
al mio e comparir lei ancora.

Sciolta dallo sciallo di cachemire; elegantissima nella sua semplice
veste di _levantine_ azzurrina, coi capelli rilevati dal pettine di
corallo, ed il suo solito giro di perle al collo... eccola posare,
con grazia tutta sua, il braccio tondo e bianchissimo sul davanzale di
velluto rosso del palco e rimaner subito tutta attenta, assorta dallo
spettacolo.

Non ci fu modo di trovarne gli occhi in tutta la sera; ho maledetta
anche la musica di Pavesi e la voce della Gafforini!

Si fermerà Essa in Torino? Lunedì ballo dal Principe, la vedrò?...
potrò parlarle?



_(2º)_

Rientrando dopo tante ore passate in mezzo al frastuono della festa,
sento nel silenzio profondo di questa camera i palpiti frequenti
del cuore, il sangue che scorre nelle arterie, tutto il congegno, il
meccanismo della vita.

Nello stesso tempo mi vibra ancora nelle orecchie il ritmo insistente
della musica, ed ho negli occhi tante immagini, in varia situazione,
in momenti diversi, d’una sola persona, circonfusa dall’atmosfera calda
della gran sala piena di raggi e di riflessi.

Provo un sentimento d’oppressione, d’ebbrezza al cervello,... lo direi
un magnetismo indefinibile e snervante.

Sono triste ed affaticato, e penso che se finora ai balli mi ero in
realtà raramente divertito, stanotte ho proprio sofferto.

Mi struggevo di vederla,... poi quando m’apparve tanto bella, là nel
cerchio delle signore, avrei voluto non vi fosse venuta.

Tutti quegli uomini, ritti in piedi dietro le dame, col cappello
sotto al braccio, lo spadino al fianco, tanti bruchi in un’assemblea
di farfalle,.. mi pareva guardassero tutti lei,... parlassero tutti
di lei, che colla sua veste color ortensia, i capelli alla greca e la
croce alla Jeannette sul petto, era la più bella.

La più semplicemente abbigliata, ma la più singolarmente bella!
Non saprei, come esprimermi, ma mi pare che quella forza occulta e
misteriosa dell’anima che imprime alle forme, ai movimenti del corpo,
un carattere speciale, che plasma e colorisce tutto quello che entra
nel circolo della nostra vita, debba agire, appiccicarsi anche alle
cose materiali, come il profumo all’ampolla che lo contiene; le vesti
per conseguenza devono, più d’ogni altra cosa, subirne l’impronta e
diventare come lo specchio dell’indole, dello spirito, delle abitudini
di chi le porta.

Invece no, l’abbigliamento d’Elena è stranamente e meravigliosamente
impersonale.

In questi tempi nei quali una donna non può far un passo senza rivelar
tutte le grazie della sua persona, la sua bellezza basta a se stessa.
Ella respinge ogni inutile ornamento, veste colla massima semplicità,
tantochè il suo vestire si direbbe dover essere quello delle donne
di tutti i tempi, di tutti i paesi, il vestimento femminino, logico
ed umano per eccellenza, in armonia con tutte le bellezze dell’arte
statuaria.

Copiata così da un artista non ne risulterebbe un ritratto, ma la
creazione d’un tipo.

Nelle altre dame invece, che sfarzo di vesti di seta, di raso,
di mussolina, guernite di nastri smaglianti, che busti a colori
vivacissimi, largamente aperti sul petto, orlati di merletti,
passamani, piuma di cigno!

Che profusione di larghe cinture a striscioline d’oro, a laminette
d’argento!

Che esuberanza di fermagli e spilloni d’oro, d’orecchini in brillanti,
di braccialetti, di pettini, d’ornamenti ricchissimi!

Non ricordo d’aver assistito ad altro ballo in cui lo spettacolo fosse
più completo, così meraviglioso, così affascinante.

Tutta quella luce che pioveva sulle capigliature bionde, brune,
nerissime, disposte alla greca, alla Cornelia, all’olandese... tutte
quelle testine che s’inchinavano le une verso le altre, che scattavano
a destra e a sinistra con parole pronunziate sottovoce, con sussulti
leggerissimi di riso... tutte quelle spalle che ondeggiavano, quelle
braccia tonde, quelle piccole mani continuamente occupate a battere
una piega gualcita, a fissare una ciocca ribelle, a ristabilire un
fermaglio spostato, un pettine di traverso...

E tutti quei piedini in giro come una ghirlanda di fiori sul pavimento
lucidissimo e pieno di riflessi, quella varietà di scarpine rosee,
bianche, dorate, ricamate, brillantissime, allacciate con nastri,
serrate con fibbie, legate alle gambe con cordoncini come i coturni
delle statue antiche...

Speravo d’avvicinarmi ad Elena subito dopo l’arrivo del Principe[7], ed
appena egli avesse aperto il ballo.

Egli entrò alle nove come al solito... e non parlai ad Elena che dopo
le due.

Quanto lavoro, quanta fatica per arrivare fino a lei! E come sono
noiosi gli amici in certe circostanze!

Ferdinando Balbo, e Luigi Ornato, che volevano persuadermi ad entrar
nell’Accademia Letteraria dei Concordi[8] mi avrebbero chiamato
l’Indorato!.. Li ringraziai di cuore.

E M.me Constant, che mi fermò per annunziarmi l’arrivo da Parigi
d’un gruppo in cotto di porcellana: _Une Patrouille d’amours_... mi
trattenne per descrivermelo,.. a me, secondo lei tanto intelligente di
cose d’arte e mi aspetta per farmelo ammirare domani, dalle tre alle
cinque a casa sua!

Domani, cioè oggi, dalle tre alle cinque farò invece di vedere Elena
alla passeggiata.

Le giunsi vicino, proprio mentre entrava a far parte d’una contraddanza.

Poi il ballerino la lasciò alla parte opposta del salone e bisognava
ricominciare a scivolar tra i gruppi, prima una spalla e poi l’altra,
pianamente, con garbo;.. mentre avrei voluto rovesciarli tutti o
saltarli a piè pari!

Poi venne la _gavotte_, la _monferrina_... persino l’antica
_périgourdine_, dei tempi di mia nonna, le hanno fatto ballare
stanotte! Però tanto mi aiutai, che anche la fortuna, mi aiutò!

M’ingegnai di essere vicino alla porta d’uno dei saloni quadrati quando
s’aprì per la cena, e potei entrar subito dietro lei e trovarmi in
piedi dietro la sedia.

Quando l’ebbi davanti, e sentii la fragranza sottile dei suoi capelli,
scorsi l’orecchio piccino, roseo, delicato, le spalle non magre,
non opulenti, bellissime, le braccia bianche, tonde, nascenti nella
trasparenza finissima delle trine,... provai come una vertigine, avrei
voluto posar le labbra sulla nuca bianchissima e... morire.

Come la sentivano bella anche le signore vicine come la esaminavano,
sott’occhio!

Teneva lo sguardo fisso sulla tavola, pareva abbagliata da tutto quel
scintillar di cristalli, di vasi d’argento.... e ne era forse col
pensiero molto lontana.

Non avrei osato parlarle per certo, se non l’avessi veduta allungar
lentamente la mano verso la gran coppa delle fragole e portar alle
labbra così rosse, un frutto rossissimo.

Sentii un ricordo sbocciar come un profumo nel cervello, un’ondata
calda di sangue avvolgermi il cuore.

Mi rividi solo con lei nei boschi di Costaombrata, ambedue fanciulli.

Eravamo arrampicati sul fianco della collina, un usignuolo cantava, ed
Elena voleva vederlo ad ogni costo:... non ne aveva veduti mai degli
usignuoli; erano piccoli augellini, non è vero?... color di rosa?
azzurri? gialli forse come i canarini?

Si sentivano diminuire le voci dei nostri parenti che camminavano nella
valle e si saliva pian piano, i piedi nell’erba, passando leggieri tra
le fronde; ma ad un punto ecco un tappeto di foglioline compatte, tutto
smaltato di globetti rossi.

Non si pensò più all’usignuolo... ella cominciò a spigolare... io
cercavo le più mature, le più rosse,... e godevo tanto nel vederle
sparir tra i bianchi dentini!

Se n’erano mangiate delle fragole quel giorno!

Ho cercata la frase un’eternità, poi mi sono chinato e le ho detto: Non
erano così belle, signora, le fragole di Costaombrata?

E lei con voce ferma, tranquilla, senza voltar il capo: No, non così
belle,... ma avevano maggior profumo.

Dunque anche lei si ricordava!... Che gioia, intensa, squisita,
trepidante,.. un istante che fu un secolo di voluttà.

Poi volevo proseguire, dire tante cose: Sapete ancora il mio nome?
Vi ricordate la nostra buona amicizia? Devo star lontano o vicino?
Siete per me ritrovata o perduta per sempre? E non potevo parlare,...
il cuore martellava, guardavo l’orecchio di lei che si era fatto più
roseo, il seno sollevato da un palpitare forte e frequente.

Poi apparve tra la folla un abito color pulce... un bavero violetto,
due occhi grigi, freddi, penetranti.

Quando penso che ora ella è moglie di colui, un rivale legittimo,
munito d’ogni diritto e d’ogni autorità... e se mi accadesse d’amarla,
una gelosia di tutti i giorni, di tutte le ore, di tutti i minuti...



_(3º)_

Ecco, questo foglio vorrei porlo sotto i suoi occhi, se per un miracolo
potessi farlo pervenire nelle sue mani.

Ero ben persuaso che le grandi felicità sono procurate dall’amore, e
lo cercavo in tutte le avventure possibili, ma ero scettico, volevo le
prove autentiche della sensazione;... ridevo dell’amor puro, dell’amor
platonico.

Ora più nulla cangierà l’idea che ha colpito l’anima: fortunata o
sventurata questa passione che aumenta ad ogni ora, che mi domina,
riempirà tutto il mio avvenire.

Ilo voluto nei giorni addietro ancora, rigettarmi nella vita... ho
trovato ogni piacere svanito; da quel lato l’orizzonte è chiuso.

Poi ho voluto analizzare le nuove sensazioni, ho spiato me stesso,
frugato a fondo nel cuore, esasperato di non trovarmi più quello di
prima. Ho combattuto, mi sono avvinghiato colla passione invadente,
cercando vincerla, tenerla palpitante sotto al ginocchio, dominarla e
non venirne dominato... ma i miei nervi sono rimasti scossi e vibranti,
il cervello si è infiammato, ogni sensibilità esacerbata, ed ecco a
furia arrivar le insonnie, le inquietudini allucinate e bizzarre, i
capricci morbosi, le pazze energie, le prostrazioni snervate, le mille
sofferenze indefinibili.

Ella vede la mia vita di tutti i giorni... al mattino quando passeggio
in Piazza Imperiale, quando li seguo alla lontana nella via Nuova,
quando mi fermo sull’angolo di via Santa Teresa ad aspettare che
abbiano presa la loro tazza di cioccolatte nella bottega d’Imoda
Dalmazzo; sa, ne son certo, che ritorno dietro loro, mentre il marito
l’accompagna all’albergo. Non mi vede mancar mai al dopo pranzo, alla
passeggiata sotto gli Olmi della Cittadella, al viale dei Platani,
al giardino Imperiale. Alla sera al teatro Carignano, al Sutera o al
D’Angennes!

Ma ella non può indovinare la febbre incessante del cuore, questo
intenerimento ostinato che mi rende impossibile ogni occupazione.

Ella non può sapere che ho perduta ogni speranza di vivere tranquillo
oramai, che passo i giorni coll’orecchio e l’occhio all’erta, che
vorrei sapere, vedere, scoprir tante cose... Non sa come le mie notti
scorrano agitate, nel dubbio, nell’inquietudine, occupato continuamente
a rendermi miserabile, ed a persuadermi d’esser tale.

La seguo umile, triste, rassegnato da tanti giorni, ed in tutto questo
tempo, mi parve d’essere stato due o tre volte da lei salutato con un
sorriso impercettibile... Se è un’illusione, il Cielo me la conservi!

L’altra sera a teatro la vidi contrarre le ciglia, forse m’era spinto
troppo avanti per vederla. Mi sentivo morir dalla smania e volevo
trovarne lo sguardo.

Eppure darei la vita piuttostochè venirle a fastidio.

A certe ore mi pare d’avere un istrumento di tortura nel cervello... Se
potessi riposare, di tanto in tanto e cessar di pensare!

Elena è con me dovunque io vada. Le parlo a lungo, combinando
col pensiero mille incidenti, mille incontri, e lavoro... lavoro
continuamente a fabbricar chimere, che alimento, accarezzo; che poi di
scatto si rivoltano e mi straziano l’anima con unghie di ferro.



_(4º)_

Sono due giorni che non la vedo.

Così volessero precipitare queste poche ore che mi separano dall’alba!

Fu il demonio che mi fece entrar da Dufour l’altra sera, che mi suggerì
d’immischiarmi nella questione insorta fra quei capi scarichi che
cenavano vicino alla mia tavola.

Ma nello stato d’animo in cui sono, compiango tutti coloro che amano
e che soffrono... E il povero Giorgio soffriva davvero ai motteggi dei
compagni sul suo amore per la contessa.

Detesto tutti coloro che scherzano sui sentimenti altrui, quando questi
siano serii e sinceri. Pochi individui singolarmente privilegiati o
profondamente imbecilli, possono vantarsi di non aver attraversate mai
certe crisi.

Quel rosso dal mal pelo, maresciallo d’alloggio della guardia del
Principe, appartiene certo alla categoria degli imbecilli malvagi... fu
lui che con pessimi scherzi avvelenò la questione.

Sentivo una gran smania di gettargli il mio piatto in faccia, ancorchè
la cosa non mi riguardasse,.... mi sarebbe toccata così la prima parte
nella tragedia, invece m’ebbi solo la seconda. Intanto ho provato
ancora una volta l’atroce emozione di veder un uomo che respira, pensa,
agisce nella pienezza delle facoltà fisiche e morali e che può fra un
momento non essere più che un cadavere.

La ferita di Giorgio non è grave.... ma non potevo abbandonarlo nelle
mani dei suoi che avevano perduta affatto la testa; più ci penso, più
sento d’aver agito bene continuandogli la mia assistenza anche nella
notte...

Stamane, quando lasciato il letto del ferito, invece di ritrarmi a
casa, corsi alla Place Impériale, proprio mi pareva di ritornare da un
lungo viaggio.

Era ancor così presto. Ma a casa, già, non sarei rimasto.

Non sapevo che il sole che si alzava lassù sopra le colline, mi
riportava ancora una brutta giornata.

Per due lunghe ore, ho spinto il tempo innanzi, come se avessi potuto
fargli violenza. L’ho rotto, sminuzzato in piccoli periodi, analizzato
per farlo riuscire più breve; così ho passeggiato or lentamente,
or concitato, ho letto i bandi, gli avvisi, appiccicati sui canti,
ascoltato i discorsi di chi passava, studiato il cielo polveroso, le
montagne violacee, annebbiate, le pozzanghere lasciate dal temporale di
ieri che seccavano al sole, osservate le rondini attorno al castello,
luccicanti sotto i raggi, il loro numero che pareva duplicato dalle
ombre guizzanti sulle muraglie...

Poi i loro trilli festosi m’infastidirono.

Sentii arrivare quel tedio che dà sensazione come d’un peso che poggia
sulla nuca e preme ed opprime.

Poi l’inquietudine mi morse al cuore ed andai rapidamente all’angolo
della piccola via.

Le finestre da loro occupate nell’albergo erano spalancate, vuote,
guardavano come occhi morti...

Erano già usciti dunque?

Mi allontanai per via Nuova, girai nella via Santa Teresa, tornai sui
miei passi, ripassai sotto le finestre...

Stassera, alla passeggiata l’aria era tepida, impregnata dell’odore
del fieno tagliato di fresco ed ammucchiato nei prati vicini. Una sera
stupenda per andare in giro sotto gli alberi.

Perchè dunque non è venuta? Eppure l’ho cercata tanto fra la gente a
piedi,... ho visto sfilar tutte le carrozze... finchè migliaia di punti
luminosi mi danzarono davanti agli occhi e mi offuscarono la vista.
Eppoi il cuore che legge, sente, indovina, mi gridò tutto il giorno nei
suoi battiti furiosi che mi rimbalzavano nelle orecchie, che ella non
c’era, non c’era, non c’era... ch’era inutile cercarla.

Così volessero precipitare queste ore ed appena sarà giorno mi
presenterò senz’altro all’albergo.



_(5º)_

Ecco quindici orribili giorni... la Dio mercè sono passati!... Rivedrò
Elena.

Quando all’albergo mi sentii rispondere: — Partiti... non so come ebbi
la forza di domandar ancora: per dove? — Per la campagna... e fu tutto,
nessuno sapeva di più. Non so che cosa io abbia fatto quel giorno, ma
al mattino di poi, allo svegliarmi dopo una notte di sonno febbrile,
quando sentii le idee schiarirsi e divenir nette, pensando ch’ella non
era più in città e che non sapevo dove rintracciarla, mi sentii come
una gran voglia di urlare, ricaddi sul letto mordendo l’origliere...
dopo mi sentii tutto intronato come avessi toccata una sassata al
capo... e mi si formò in gola un gruppo maledetto che non si sciolse
più. Mi aggirai, sfuggendo quanti conoscevo, per le vie, nei viali, nei
giardini, a capo chino, quasi cercando un’orma che pur sapevo di non
trovare... provando ad ogni passo come in certe condizioni dell’animo,
un sito, un atto, una parola, che so io, il mutar d’un raggio,
d’una nube, l’odor d’un fiore... possano risvegliar nella memoria la
reminiscenza viva di giorni che furono, la soavità d’un incontro, d’uno
sguardo, la speranza d’un amor lungo, lo spasimo acuto d’una perdita
dolorosa, un mondo d’impressioni violente, lancinanti, tristi da
morirne.

Mi sentii tante volte rimescolar il sangue all’apparir d’una forma
lontana... che inseguivo affrettando il passo, urtando i passanti, come
un pazzo od un ubbriaco, ed avvicinandola, nell’atto di raggiungerla mi
avvedevo, sentivo che non era lei, eppur mi piantavo davanti a guardar
stralunato quella figura sconosciuta.

Nelle ore terribili della sera... quando il cuore si turba col diminuir
della luce, si rattrista e si affonda nel pelago dei rimpianti,
dei lunghi struggimenti dolorosi, rifugge davanti all’incertezza
dell’avvenire, e si abbandona ai ricordi, troppo ineffabilmente dolci,
o troppo in quell’ora atrocemente pungenti, mi parve più volte d’aver a
perdere la ragione.

Un mattino mi svegliai col desiderio imperioso, cocente, irresistibile
di rivederla, invasato dalla frenesia del movimento, e subito mi gettai
alla campagna, percorrendo a piedi, a cavallo, in vettura, le ville, ed
i villaggi dei dintorni, senza ordine, senza norma, senza precauzione.

Rientravo affranto, colle membra rotte, coll’impazienza del domani
sconosciuto, e ripartivo all’alba quasi senza riposare, parendomi
ora che se avessi dovuto rimaner un giorno neghittoso, sarei morto od
impazzito.

Finalmente... ora lo so dove essa è andata!... Ho bisogno di
ripetermelo per respirare... per persuadermi che la rivedrò ad ogni
costo, contro qualunque pericolo.

Stamane non avrei saputo più dove andare, avevo percorsa a cavallo, via
Tilsitt...[9], via d’Arcole[10], la via San Filippo a capo chino senza
saper prendere una decisione.

Passando davanti alla chiesa avevo sentita una spina acutissima al
cuore; in un momento d’angoscia disperata m’ero ricordato di tutte le
domeniche di questa primavera, quando alla messa di mezzogiorno, in
piedi vicino alla porta, sentivo, avvertito da un brivido, ch’ella
s’avvicinava; indovinavo, senza voltarmi, il momento preciso in cui
sollevata la tenda, entrava, e passandomi vicina con un lieve fruscio
andava a prender posto nella serie dei banchi a destra.

Stamane l’interno della chiesa era buio come un sepolcro, il vano della
porta nel quale vedevo apparire all’uscita, tra le faccie volgari,
indifferenti o sconosciute, il suo volto adorato, era freddo e deserto.
Sui gradini ch’ella sfiorava col piede stava raggomitolata una cenciosa
vecchiaccia.

Esitai un momento, quasi mi sentivo spinto a por piede a terra ed
entrarvi, trascinato da un’amarissima avidità di soffrire.

In piazza Napoleone[11] non sapevo dove rivolgermi, il cavallo
attraversava la piazza a caso, abbandonato a sè... giunto nel mezzo,
raccolsi le redini e lo fermai per non urtar di traverso un calesse che
andava a precipizio.

Non so perchè in quel lampo guardai sotto il mantice.

Fu come un tuffo nel sangue!... V’era Miniuti.

L’ho lasciato entrar nella Rue Pauline[12] poi mi son mosso, ho
piantato gli occhi sul mantice, sulla cassa verde e non li ho distolti
più. Avevo il faro che mi guidava al porto.



_(6º)_

Eccomi presso al nido in cui ella è nascosta. Eccomi a due miglia,
nel villaggio più vicino a quello abitato da lei... sotto il medesimo
cielo... nel medesimo ambiente, s’ella si affaccia in questo momento
alla finestra, deve vedere, come la vedo io, quella nuvola d’oro così
bizzarramente rotta, travagliata dal vento....... Durante il temporale
di ieri sera, quando rimbombò quel terribile scoppio di tuono,
pensai che anche lei doveva averlo udito. L’aria mi pare piena di
profumi soavi e delicati; mi sorprendo di tanto in tanto ad aspirarla
avidamente cogli occhi socchiusi, come se avesse lambite le labbra di
Elena.

Fanciullaggini coteste, che mi fanno così bene!...

Dovendo star nascosto di giorno, non potendo fissare il pensiero sui
libri, scriverò.

Non ricordo come mi sia venuta l’idea di scrivere... non mi raccapezzo
con che scopo; comunque sia, e stata un’idea buona che mi aiuterà a far
passare i giorni, ed attendere con calma le sere, e sopratutto gioverà
forse a calmar la fantasia irritata del pensar sempre ad una cosa sola.

Stassera poi mi avvicinerò arditamente a lei, quanto mi sarà possibile.

Oggi ho percorso la strada che da Polonghera mette a Murello, per
impararla bene.

La strada è orribile, stretta, tortuosa, piena di rigagnoli, di
pozzanghere, corre per lunghi tratti fra i boschi che sorgono sulle
rive della Varaita.

Fin dove può spingersi lo sguardo, il terreno è paludoso, pieno di
melma, di giunchi alti e flessuosi, di cannuccie sottili a foglie
taglienti, di alte erbe acquatiche affilate come lame di Toledo; ne
spuntano fuori i tronchi gibbosi e contorti dei salici dalle grandi
chiome grigie e scapigliate: un paradiso per le rane, le gallinelle, le
anitre, i beccaccini.

Nei tratti ombrosi della strada il fango è perenne come la neve sulle
alte cime.



_(7º)_

Che strana vita è la mia. Tutto l’avvenire è avvolto nella nebbia,
nulla di certo, di positivo; vorrei sapere, movermi, agire, ed invece
devo aspettare.

Le facoltà attive, l’energia, il coraggio, mi sono inutili, bisogna che
io abbia _pazienza_, una virtù questa che ho sempre sdegnato conoscere.
Mi freno pensando alla mutabilità delle cose.

S’ella sapesse che io son qui durante queste tremende giornate di
luglio, soffocanti, monotone, noiosissime...

Ogni mattina prima che albeggi, l’ostiere, raccolti gli stivali davanti
alla mia porta, rientra in camera, e sento attraverso l’assito che
incomincia, nettandoli, una lunga diatriba colla moglie... contro il
_muscadin_, che sta tutto il giorno a legicchiar sul letto, per darsi
il gusto d’andare all’ora dei pipistrelli a scambiettare nel fango Dio
sa dove!

— Meno male che paga — è la sua conclusione.

Lo sento quando nella scuderia attacca l’asino e parte col carretto
per Racconigi, dove va a vendere i legumi e far le provviste. Poi la
sua donna si alza, veste i piccini che precipitano la scala con un
gran martellar di zoccoli, e dopo un momento, ecco nel cortile le voci
ingrate delle oche, delle anitre e delle galline, cui viene aperto
l’uscio del pollaio.

Nel pomeriggio, l’afa ed il silenzio, rotto a tratti dal ronzar
pesante delle mosche, dal chiocciar d’un pollo, dalla voce rauca d’un
carrettiere, che fermato il carro, entra sotto, nella sala a pian
terreno, a domandar del vino.

Ma quando il sole è tramontato, quando le donne smettono di filar
sulla soglia ed entrano in casa, e gli uomini, tornati dai campi,
accendono le pipe che brillano come lucciole nell’aria scura; esco
per una porticella di dietro dell’osteria, e giunto fuor del paese,
percorro rapidamente le due miglia che mi separano da Murello, giro
intorno al villaggio penetrando fra le siepi degli orti, di soppiatto
come un malvivente, finchè trovato un certo muro di cinta, una ben nota
scalcinatura fra i mattoni, v’introduco il piede, mi aggrappo colla
sinistra alla cresta del muro, e d’un balzo eccomi al di là, sull’erba
del giardino. Ed allora, coll’orecchio teso, la pupilla dilatata, tutti
i sensi eccitati dalla brama di vedere, striscio sotto gli alberi,
camminando sull’erba con cautele infinite, fino al punto nel quale
m’appare la casa.

Carpone nell’erba molle, colla fronte ardente tuffata nelle foglie
stillanti rugiada, coi grilli che trillano vicinissimi e le lucciole
che mi danzano sul capo, pianto gli occhi su quelle muraglie, seguito
le striscie di luce che passano dietro i vetri, che penetrano fra
le assicelle delle persiane, raccolgo avidamente ogni lieve rumor di
passo, ogni soffio percettibile di voce, ogni strepito indeciso, ogni
brivido di vita, che trapelando fra le salde pareti, pervenga fino a
me: È là... a pochi passi, potrebbe udir la mia voce!... Fermo nella
strozza un grido che proromperebbe violentissimo, e m’arriva al petto
uno stringimento nervoso, amaro come un singulto...



_(8º)_

Stassera ho dovuto tornare indietro... a quest’ora sarei nel giardino,
ne vedrei l’ombra sulle tende bianche della finestra e ne udrei
forse come ieri sera, per un momento, la voce; se stassera mi fossi
abbandonato al primo slancio mi sarei senza dubbio perduto.

Or dunque Miniuti s’allontana ogni tanto dalla sua villa?

Vedendo due lumi brillare nell’oscurità della strada, apparire e
sparire fra gli alberi, indovinai ch’era la sua vettura.

Tornava, ne son certo, da Torino, come la prima volta che l’ho
incontrato in Piazza Napoleone.

Saltai nel campo per non essere scoperto, e lo vidi passare, col
domestico a cassetta, che guidava.

Non lo vedo mai senza emozione, provo nel guardarlo come un piacer
pungente, un brivido furioso che mi serpeggia nelle vene, due
sentimenti opposti che si intrecciano, si accavallano nei labirinti
del cuore: egli mi interessa perchè le vive vicino, perchè la vede, le
parla, è compreso nel circolo della sua vita... e nello stesso tempo...

Ritornato alla strada, seguivo coll’occhio l’andatura a sbalzi di quel
legno, che s’inchinava or sull’uno or sull’altro fianco, sprofondando
nelle rotaie fangose. E sparita poi ad un punto la luna nelle masse
opache dei nuvoloni, non discernevo più che i lumi agitati, tremolanti,
lontani,... li accompagnavo coll’anima, sapendo dove si sarebbero
fermati... uno sciame d’idee strane mi volteggiava pel cervello...

Di scatto li vidi dar un balzo improvviso; l’uno sparir verso terra,
l’altro sollevato in alto, immobile, illuminar di sotto in su le fronde
vicine. Udii tosto alcune parole tronche di lamento, d’imprecazione,
poi una voce elevarsi alta e chieder soccorso.

La vettura era ribaltata. (Che io abbia per Miniuti il malocchio?).
Mi lanciai a quella volta con ottime intenzioni, poi m’arrestai...
Perdio!... Come avrei giustificato la mia presenza a quell’ora, su
quella strada? Eppure mi sapeva male lasciar così due cristiani a
guazzar come tinche nel pantano, mi pareva sentirli divincolare e far
forza per uscir di sotto al legno.

Mentre esitavo tuttavia, udii rispondere dalla cascina a destra, nei
campi, poi vidi dei lumi che si agitavano ed alcuni contadini uscir
correndo sulla strada, con sbarre e con funi.

Mi avvicinai quanto fu possibile senza essere scoperto. Volevo almeno
sapere se Miniuti s’era o no rotto il collo.

La vettura, non troppo fracassata, fu presto rimessa sulla strada.
Miniuti ed il servo alla luce delle lanterne, luccicavano, il tuffo
l’avevano fatto senza dubbio nell’acqua del fossato, ma parevano goder
l’uso completo e libero delle loro membra.

Il servo era già a cassetta, i contadini si allontanavano, quando lo
vidi frugar sotto i cuscini, richiamarli indietro e cercar a lungo con
loro tra le ruote, in terra, nel fossato.

Che cosa può aver egli perduto d’importante?



_(9º)_

Guardavo il sole che scendeva verso i monti lento, troppo lento, —
avrei voluto all’opposto di Giosuè, affrettarne il tramonto. — L’oste
bussò alla mia porta e mi annunziò che c’era chi voleva parlare col
signor ingegnere (non so perchè mi si chiami così). Rimasi molto
perplesso e sconcertato... non sapevo chi potesse cercar di me...
Entrò un villanello esile, pallido... età: dodici, come diciotto anni,
sucido, seminudo.

Un cane fulvo, dal muso di volpe come il padrone, entrò con lui e si
mise a fiutar dappertutto.

— Ebbene che cosa vuoi?

Si guardò intorno, chiuse l’uscio, cercò in seno e tirò fuori una
pistola lorda di fango e me la porse.

È montata in argento cesellato, calcio lavorato a squame molto
ripiegato, fabbrica francese. È un’arma fina, di prezzo, eccellente
senza dubbio, e deve avere una compagna.

— Dove l’hai tolta? — gli domandai subito.

— L’ho trovata, non tolta... — rispose il monello, e prese subito un
tono piagnucoloso — trovata, proprio trovata andando al pascolo.

— Così, si trovano delle pistole da queste parti, andando al pascolo?

— Non sempre, nossignore, anzi mai, ma questa che è qui l’ho proprio
raccolta colle mie mani. Ero giù da quella parte di là, a Robella alta,
in faccia alla cascina e mentre le bestie mangiavano, cercavo i gamberi
nel rio, sotto le pietre... poi sono entrato sotto al ponte che è in
traverso alla strada... Era scuro, scuro,... ho pensato di levar via un
asse già smosso per aver luce lì sotto, ed ho visto la pistola. E tutto
questo poi vero, come è vero che c’è la Madonna.

— E perchè non l’hai restituita subito a chi l’ha perduta?

— So io chi l’abbia perduta?

— Perchè non hai fatte ricerche, prese informazioni, in questo e nei
villaggi vicini? a Murello per esempio?

— Non vado a Murello... Hanno fatto le sassate domenica con noi di
Polonghera... e adesso stiamo tutti all’erta,... loro come noi, se
qualcuno passa il fosso di Robella, che è il confine, badi alle fionde!
Lei che è ricco, è _buono_ a comprarla lei la mia pistola, lei se
ne intende, sa quanto vale... Ed aspettava, girando tra le mani il
berretto e lanciando di sottocchio, sguardi cupidissimi sulla borsa che
io avevo estratta.

Ghermì la moneta, la chiuse nel pugno, salutò con un rapido cenno del
capo, e sparì volando giù per la scala.

Avendogli data una moneta d’oro, temeva forse mi fossi sbagliato.

Cominciai, rimasto solo, a nettar la canna della pistola dalle chiazze
rosse di ruggine che l’appannavano, poi con la pelle d’un guanto presi
a fregar gli ornamenti d’argento offuscati dall’umidità.

Sulla piastrella del calcio, sono incise due iniziali intrecciate, una
_J_ ed un _M_...: Jacques Miniuti;.... ho nelle mani l’oggetto da lui
perduto ieri sera.



_(10º)_

Finalmente ho trovato il modo di penetrare nell’antro dell’orso.

L’idea è certo arrischiata, ma voglio uscire dal mondo dei sogni ed
entrar nel campo dell’azione... la mia vita intera è diventata un
desiderio sconfinato, potente, insaziabile: vorrei gettare tutta la mia
gioventù, la mia forza, la mia intelligenza ai piedi d’Elena per averne
un sorriso, una parola, una speranza.

Una scintilla mi ha accennata una via; quel povero merciaio entrato
stamane nel cortile dell’osteria mi ha innocentemente posto fra le mani
un filo, che varrà a guidarmi... forse...

L’avevo già fatto venire in camera, l’avevo davanti col bicchiere colmo
di vino, e non sapevo ancora come entrar nell’argomento.

L’ho fatto ciarlare e bere, e mentre beveva e ciarlava, ho maturato
il progetto e studiato i suoi gesti, gli atti, i suoi modi di dire,
per sapermi immedesimar nel personaggio, senza tradir poi le mentite
spoglie.

Povero diavolo, se mi va bene ogni cosa, voglio farlo contento.

Caporale nell’88.mo, ha servito Napoleone fino al passato autunno, ed è
ritornato di Spagna con un _régiment d’écloppés_[13]. Conta otto ferite
e ne avrebbe ricevute delle altre se _le brutal_[14] non gli avesse
rotto una gamba e la carriera.

Strana esistenza d’uomini che vanno ove li conducono, senza ragionare,
attraversando paesi nuovi e lontani senza guardarsi intorno, senza
osservare, senza stupire.

Accolgono disagi, privazioni, pericoli, come le bestie da soma, senza
accettarli nè respingerli.

Marciando quando li fan marciare, digiunando quando non dànno loro di
che sfamarsi, si battono perchè li fanno battere, si ricordano delle
giornate più fredde, di quelle più calde, del compagno di destra, di
quel di sinistra nel dormitorio come nella battaglia.

Soldato, mi pare che non sarei così.

Infine lo vidi cogli occhi teneri di riconoscenza e lucidi per la
beatitudine del vino bevuto, entrar nel periodo d’intimità, gli lanciai
la proposta, l’accettò senza discutere.

Era tutto quel che desideravo da lui.

Dio me la mandi buona!



_(11º)_

Giorno da segnarsi con bianca pietra.

Tutto andò bene.

Ma Dio Santo, quando mi guardai nello specchio al ritorno!

Quando penso che le sono andato davanti con quella giubba che non
avrei osato, in altri tempi, sollevar pur colle molle, con quei calzoni
rattoppati in tanti punti, coi capelli nascosti in quel berretto unto,
sotto quel cappellaccio di paglia sfilacciato, coi piedi in quegli
scarponi aperti a bocca di pesce.

Eppure Miniuti mi conosce, ne sono certo, di nome ed anche d’aspetto...
Guai se non mi fossi perfettamente camuffato.

Quando entrai nel cortile, che momento!

Col volto, il collo e le mani annerite, sudate, impolverate, la cassa
che mi schiacciava le scapule, le cinghie che mi rodevano le spalle,
i due cavalletti infilati nel braccio che mi battevano sulle gambe; e
dover alzar la voce e gridar forte le parole imparate ieri a memoria.

— Chi vuol veder l’immagine miracolosa della Santissima Madonna degli
Orti!... bisogno di nulla dal _marsé_?..[15]. Aghi, spille, stringhe,
ditali, forbici, specchi, pettini, bottoni, lino, lana, stoffe, filo.

E quella faccia rossa, tonda, stupida del servo, che comparve
all’inferriata della cucina:

— No, no, bisogno di niente, andate, andate via.

— Domandate alla signora se nulla le occorre, vi prego!

Lo vidi rientrare, e senza darsi la pena di restar il tempo necessario
per far l’imbasciata, soggiungere: la signora non vuol niente... andate
in santa pace.

Come? avrei dovuto dunque ritirarmi così, dopo tanta fatica, davanti
alla volontà stupida e brutale d’un domestico!

— E il signore, non c’è il signore?... ho qualcosa di fino, di
_soigné_, da fargli vedere.

— È andato a caccia.

— Starà molto a tornare?

— Oh! Santo Dio... volete andare colle buone o vi faccio andar colle
brusche!... L’avete capita che il signore non vuol veder gente in
cortile.

Come sentii le orecchie diventar calde!...

Mi domando ora come sarebbe finita se egli si fosse avanzato e mi
avesse toccato.

Poi lo vidi ritrarsi mormorando e guardar verso la porticella della
strada. Mi volsi; un cane da caccia era entrato tutto bagnato, e col
pelo aggrommato dal fango.

Poi entrò Miniuti tutto elegante nel suo abito di velluto verde, colle
uose fin sopra il ginocchio; gran carniere, ricco fucile.

Il servo mi gettò ancora uno sguardo di sbieco, poi prese una faccia
tutta sorridente, ritirò il carniere dalle mani di Miniuti, fece le
viste di trovarlo pesante, palpò per di fuori l’ammasso confuso di peli
fulvi e di piume scure chiuso fra le maglie, e disse: Ah! il signore ha
fatto buona giornata... oggi..., come sempre.

— Asciuga il cane, Lafleur, e dagli subito la zuppa...

Udii un fruscio leggiero in alto... una bella testina si era affacciata
tra le foglie che coprono tutto il balcone.

Una ninfa tra i pampini.

Poi si ritrasse sorridendo e ricomparve nella penombra della scala
interna. Un momento dopo era sulla soglia.

Certo, mi sentivo orribilmente pallido sotto il nerume artificiale.

Miniuti mi vide, e disse a mezza voce al servo:

— Cosa vuole colui?

— È un merciaio, signore.

— Mi par d’aver detto che voglio la porta sempre chiusa.

— Sissignore... non sono stato io che l’ho lasciata aperta è stata
Fanchette, che è uscita per conto della signora, colui non voleva andar
via, stavo per gettarlo fuori, quando il signore è entrato. Del resto
dice che ha non so che cosa da farle vedere.

— A me?...

— Sissignore.

Elena di sulla soglia mi guardava.

Miniuti mi si avvicinò e disse, squadrandomi con quei suoi occhi grigi
indiavolati:

— Dunque... cosa hai detto di avere nel tuo tesoro che mi convenga?

Gli mostrai la pistola.

— Ma, perbacco, sclamò egli togliendomela, questa è mia!

Finsi, come meglio potei, d’essere sorpreso.

— Mia certo, e come! ho la compagna in casa. L’ho fatta cercar tanto,
promesso mancie, fatto mettere il ponte sottosopra, mandati tutti i
monelli del paese a sguazzar nel fango del rio di Robella. Come diavolo
hai fatto a trovarla?

— L’ho comperata da chi l’ha rinvenuta.

— Quanto debbo darvi?

Avrei voluto dire, alla presenza d’Elena: se è vostra, signor mio,
tenetevela senz’altro.

Ma bisognava star nei panni.

— Lei ha giudizio... faccia lei quello che crede.

Mi diede un napoleone e gridò a Lafleur di portarmi da bere.

Gli avrei stiacciato il bicchiere sul viso, a Lafleur, invece dovetti
tracannarmelo tutto, lì sotto gli occhi di Elena che si era avvicinata.

Ella voleva veder la cassa.

Aprii i cavalletti, vi posai la bottega, e spalancai gli sportelli,
ingegnandomi di rimaner al coperto da chi fosse comparso all’improvviso
sulla soglia.

Il servo era rientrato in casa.

Si sentiva la voce di Miniuti che canterellava riponendo nella
rastrelliera il fucile, la fiasca della polvere, le tasche del piombo.

Mentre ella s’inchinava a guardare, le presentai un biglietto...
l’ultimo dei cento scritti e stracciati stamane.

Mi guardò fissamente negli occhi, mutata e fatta di fiamma in viso...
poi mi conobbe e diventò eccessivamente pallida.

— Elena ne va la vita... lo giuro.

Dovette vedermi l’anima negli occhi in quel momento.

Miniuti tornava all’uscio. Il biglietto mi sparì dalle mani in un lampo.

S’egli mi avesse ucciso colla pistola che teneva fra le mani, sarei
morto contento.

Egli aveva ripulita l’arma e la stava caricando. Era in un momento di
buon umore e forse per lui di espansione, mostrava sorridendo i denti
bianchi ed acuti sotto le labbra pallide. Alzò la pistola e mi disse:
— Questa, vedi, e l’altra sua compagna, sono sempre con me, sul tavolo
in casa, in vettura se viaggio,.. perciò fa di non venirmi tra i piedi
in un cattivo momento, che saresti un uomo morto e mi tolse, così
scherzando, di mira.

Vidi trasalir Elena. Egli se ne accorse, rise e le disse: — Oh! non
temere che lo ammazzi, non potrei sparare, vedi manca la selce al cane.

— A proposito, non avresti per caso selci da pistola in bottega?

— Oggi no, signore, ne farò ricerca subito, e quando tornerò a portar
la lana grigia per la signora, porterò anche le selci.

M’aprivo così una via a tornare.

— Cosa vuoi fare della lana grigia?

— La signora vuol far calze pei bimbi poveri del paese.

— Quanta filantropia! — Dà loro dei soldi ai bimbi, compreranno i dolci
dello speziale, avranno dolor di ventre, ma si divertiranno di più.

Ora vieni in casa, che l’aria è umida.

E le cinse la vita col braccio per farle salire i tre gradini, che
mettevano alla soglia.

La gelosia mi morse al cuore, piegai le robe, serrai la cassa colle
mani che tremavano.

— Chiudi l’uscio, galantuomo, mi gridò dietro, chiudi l’uscio, chè non
entrino altri vagabondi.



_(12º)_

Sono ritornato a portar la lana grigia e le selci, ma non ho potuto
scambiare con lei neppure una parola.

La faccia ineffabilmente stupida di Lafleur non ha lasciato un momento
l’inferriata della cucina, in tutto il tempo che io rimasi in cortile.

Mi ricorderò di lui per una buona mancia, se verrà l’occasione.

Le ho data però, nel viluppo di lana, una lettera.



_(13º)_

Che mattino lungo, eterno!

Sono agitato, nervoso, muoio d’impazienza, d’ansietà.

Al diavolo la penna! Non posso fermare i miei pensieri... Ancor tre
ore, tre mortali ore da far le volte del lione, poi mi metterò in
cammino...

S’ella poi non venisse?



_(14º)_

Qual contrattempo cotesta pioggia! Oggi farei inutilmente la gita,
Miniuti deve essere rimasto in casa, ella certo non può uscire.

Ecco tre giorni trascorsi in Paradiso. Ora ci siamo di nuovo al dover
scrivere per passare questo periodo di febbre.

Penserò a lei, a questi tre giorni di ebbrezza nei quali l’ho veduta
e le ho parlato. Miniuti esce a caccia il mattino, non rientra che a
sera.

Sono contento d’aver trovato modo d’evitar la strada, prendendo pel
bosco di Vallombrosa, scendendo nella macchia, lungo il Rio caldo,
arrivar così senza incontri fino al boschetto della Petriera e
penetrarvi non veduto.

Possa quel boschetto restare eternamente in piedi, possano i suoi
pioppi e le sue quercie, risparmiate dalla scure, dai fulmini, dai
venti, crescere secolari ed altri amanti dell’avvenire, dopo aver
attraversate sotto i raggi ardenti del sole, nel tremolio dell’aria
brulicante di vapori, le terre lavorate che lo circondano, ondulanti
lontano come il mare, trovar nella sua ombra deliziosa, come ho trovato
io, il refrigerio del corpo e quello dell’animo.

I giorni di sofferenza, di amarezza, mi paiono lontani tanto... quasi
impossibili nell’avvenire.

Come il primo giorno ella venne in fretta, pallida, ansante. Volevo
prenderle la mano, parlare.

— Lo so,... mi disse, v’intendo,... se è così partite.

Tutte le forze del mio essere erano sospese, le cercavo il cuore
negli occhi; le parole che pronunziavano le labbra, non potevano aver
importanza, il suo cuore volevo mi rispondesse.

Piangeva insistendo.

Non ricordo più quello ch’io dissi nè quello che poi mi rispose; so che
ho parlato a lungo, detto tutto tutto quel che sentivo... siamo tornati
indietro negli anni, abbiamo riandato insieme tante cose di quell’età
in cui tutto era sorriso.

Poi l’ho riveduta il domani, e so di rivederla e di parlarle ancora.

E non è un sogno (perchè in certi momenti m’assale proprio il dubbio
di aver sognato), così ieri ancora sono penetrato nel boschetto, ho
appoggiato il fucile ad un tronco, mi sono curvato nell’erbe alte e
selvatiche, fissato lo sguardo allo svolto del viale d’olmi, che dal
suo giardino mette capo al boschetto, al nostro boschetto: all’ora
consueta l’ho veduta comparire nella sua veste chiara a piccole rose,
bella, elegante, coi piedi nelle margherite, spiccante sul fondo verde
degli alberi, nella piena luce, nella pien’aria, tal quale l’ho ancora
negli occhi, come l’avrò sempre, campassi cento anni.

Ha promesso di ritornare. Non oggi, ma domani la vedrò ancora apparire
così: avanzare prima lenta lenta, poi studiare il passo, affrettarlo,
e sul volto chino, disegnarsi un sorriso e diffondersi un rossore di
soavissima allegrezza ed io come ieri, come ierl’altro, come il primo
giorno, non oserò muovermi, respirare, batter le ciglia, trepidante di
vederla dileguar come un sogno...



                                                        6 marzo 1842.

Ho trovato questi fogli stamane rimaneggiando le mie carte.

Sono vecchio, vicino al fine... non vorrei lasciare indietro nulla
d’inutile... Avevo già bruciate tante lettere, tante carte, quando ho
trovato queste. Le ho gettate nel fuoco col resto,... mi è cresciuto
subito in gola un singhiozzo e le ho riprese.

Poi ho riletto attentamente.

Da molti anni ritirato, non più attore, ma spettatore della vita,
al riparo oramai da tutto ciò che inebbria e che illude, triste,
misantropo come un vecchio moralista, non avrei creduto più che la
lettura di poche frasi da tanto tempo sepolte, potessero suscitare
in me tal tempesta. Ho rimosso le ceneri, cercato nel cuore tutti i
ricordi sopiti, li ho evocati e mi sono gettato indietro con loro nel
passato, ora da essi accarezzato, ora atrocemente ferito, sorridendo,
piangendo, smaniando come un giovane.

Ogni attività deve calmar l’anima; così mi parve di potermi sbarazzare
di tutte queste idee, di tutti questi rimpianti scrivendoli... Trovare
conforto ai pensieri dolorosi esprimendoli, aggiungendo invece di
distrurre, compiendo ora quello che avevo incominciato a tanta distanza
di tempo.

È un’ultim’eco della gioventù lontana tanto, o non piuttosto un’idea di
vecchio rimbambito?

Vi è poco ad aggiungere a quei fatti, se non avrò la forza di finire,
lascierò così queste pagine, come saranno, abbandonate al loro destino.
Il mio esempio sarà forse utile a qualcuno.

Il mio esempio?....

Mancano gli esempi nel passato, nel presente? Mancheranno nell’avvenire?

Chi seguisse, per esempio, sol nei giornali la storia di certi amori,
notasse le ferite, le morti... a capo d’un anno avrebbe, sommando, un
campo di battaglia, un mare di lacrime e di sangue.

Così vorrei gettare un grido lontanissimo nel futuro ed avvertire i
figli di mio figlio, i miei lontani nipoti, di risparmiare alla loro
vecchiaia certi terribili rimpianti.

Esaminando freddamente la condotta di chi spia, osserva, attende l’ora
per torre ad un altro la moglie; pensando a tutto quello ch’ei fa per
trionfar del dovere, anche all’infuori delle leggi morali e religiose,
nasce in cuore il disprezzo.

Eppure la mia passione era come una religione che divinizzava l’essere
amato; composta d’abnegazione e d’entusiasmo avrebbe accettato
qualunque sacrificio... Mi pareva che l’anima mia si fosse scelta una
compagna fin dalla fanciullezza,... che malgrado gli ostacoli Elena
m’appartenesse per un diritto naturale, potente, superiore ad ogni
legge, ad ogni umana convenzione.

                             . . . . . . .

L’ultima domenica del mese di agosto, Elena doveva venire al boschetto,
alle tre, come nei giorni precedenti.

Ero arrivato molto prima dell’ora fissata, il tempo mi pareva lungo
nell’aspettare.

Dal punto in cui mi trovavo potevo scorgere, oltre al viale, la porta
del cortile che metteva nella piccola via verso il paese. Vidi aprirsi
la porta ed uscire le persone di servizio di Miniuti, allegre, in
frotta, vestite a festa. Mi ricordai, che ad una borgata vicina, al
Verneto, si celebrava San Bartolomeo; costoro dovevano aver avuto
licenza d’andarvi. Se Miniuti era uscito a caccia come al solito, Elena
era certo sola in casa... Guardai l’orologio, segnava le due e mezzo
appena.

Aveva piovuto nei tre giorni innanzi, da tre giorni non l’avevo veduta,
e mi frenavo a stento, impiegando tutte le forze della ragione, della
prudenza, per non spingermi fino alla casa. Mi aggiravo pel bosco e
sentivo nell’aria satura di elettricità l’avvicinarsi d’un temporale.

Saliva dall’orizzonte, al di sopra degli alberi, un gruppo di nuvoloni
cenerognoli, le foglie dei pioppi spiccavan tremolando, come piastrelle
d’argento, sul fondo già scuro del cielo.

Ritornai sempre più concitato al solito posto.

Mentre scoccavano al campanile della parrocchia le tre, la vidi
arrivare frettolosa, stesi le braccia allontanando il fogliame per
aprirle il passo fino al mio petto,... poi lasciai le fronde, che si
rinchiusero avvolgendoci.

L’avevo finalmente tra le braccia, le mormoravo colle labbra nel collo,
quanto sentivo in cuore da tre lunghi giorni.

Un soffio minaccioso passò sibilando fra gli alberi, i nuvoloni
grigi comparvero nell’alto, cacciando davanti uno sciame di nuvolette
bianchiccie, disperse, scarmigliate come brani di cencio sfilacciati;
poi guizzò un lampo, seguì subito uno scroscio di tuono, sentii sul
viso una goccia, una sulla mano, altre mille crepitar sul fogliame.

Elena si sciolse e si affrettò verso casa.

Laggiù le imposte sbattevano, la banderuola del comignolo girava
cigolando furiosa, gli alti alberi del giardino, disperatamente
contorti, s’inchinavano sino sul tetto.

Io seguitai Elena... non mi pareva di doverla lasciare...
nessuno poteva essere tornato ancora. L’uragano, scoppiato quasi
all’improvviso, doveva aver costretti quelli che erano fuor di casa a
cercar ricovero nel riparo più vicino.

La pioggia portata dal vento, cessò mentre si attraversava il viale,
ma ricominciò quando giungemmo alla porta ed allora le goccie presero a
scendere violente, filate come freccie d’acciaio.

Elena aprì l’uscio ed entrò.

Non ebbi tempo, a pensare, a riflettere, ad esitare, mi trovai travolto
dall’uragano, curvato, spinto al di là della soglia, una folata
rabbiosa, all’aprirsi della porta, scese rombando giù per la scala, e
la rinchiuse su di noi con fracasso.

Quando tornai verso Polonghera i nuvoloni neri sparivano all’orizzonte,
il cielo in alto era terso, azzurro, con una sfumatura d’arco baleno.

Il vento correva sui cespugli, sfiorando, inchinando le erbe e gli
steli, rendeva ora cupo, ora chiaro e lucente il verde dei prati,
staccava dai rami fronzuti le goccie d’acqua, che traversate dai raggi
radenti, brillavano in aria come diamanti.

Mi ricordo di tutto.

Mi ricordo che affondavo nei solchi, sentivo l’acqua penetrarmi negli
stivali, che l’aria freschissima e profumata mi accarezzava il viso,
e la respiravo con ebbrezza... il passato con le sue amarezze era
lontano, spariva indietro all’orizzonte coi biechi nuvoloni, l’avvenire
era davanti come un gran velo color di rosa, ben teso, senza pieghe,
e mi pareva di non aver che a stendere la mano e sollevarlo pian piano
badando solo a non squarciarlo brutalmente.

Quando giunsi all’albergo, le stelle si accendevano in alto, in fondo
il Monviso spiccava ancora netto sulla tinta ranciata che andava
morendo; una gran pace pioveva dal cielo e si allargava sul villaggio e
sulla pianura, ad ora ad ora più sfumati, più perduti nell’aria che si
andava oscurando.

Montai alla cameretta, trovai imbandita la cena, accese sul tavolo due
candele.

Posato nell’angolo vicino al canterano il fucile, sedetti a tavola ed
aprii per abitudine contratta un libro. Ma perduta tosto ogni coscienza
dell’azione, cominciai a riandare la benedetta storia del cuore.

Rivedevo così le vicende tutte della giornata: la partenza al mattino
nel timore di non trovarla neppur quel giorno, le ore d’aspettativa
angosciose, il momento ineffabile della sua apparizione... il
temporale... poi la camera a pian terreno... la pioggia che scrosciava
al di fuori, che si frangeva sui vetri in lucide lacrime, infine,... i
ricordi ardenti che mi bruciavano il sangue.

Aveva trovato sulla spalla un lungo filo lucente, un capello nerissimo,
lo avevo avvolto al dito, e vi posavo con frenesia le labbra.

In faccia, fuori della finestra aperta, i rami d’un pero poveri
di foglie, staccavano sul cielo come zampe d’un ragno fantastico,
colossale.

All’improvviso là, di mezzo a quei rami uscì uno strido vicino, acuto,
malaugurato, che mi scosse, mi ruppe brutalmente il filo delle idee, mi
gettò un freddo nelle ossa.

M’alzai, venni alla finestra e battei con forza le palme, credendo così
di cacciar l’uccello di sinistro augurio.

Vidi la civetta scuoter l’ali, camminar di fianco lungo il ramo,
perdersi tra le foglie, e ripetere subito il grido maledetto.

Allora andai all’angolo fra il muro ed il canterano e presi il fucile:
toccando l’acciarino m’avvidi che era scarico, stesi nell’ombra la mano
al chiodo ove solevo appendere il carniere, nel quale avevo polvere,
piombo, tutto l’occorrente.

Il carniere non v’era.

Guardai sul letto, cercai sul canterano, sul tavolo, per le sedie,
volli raccapezzarmi se l’avessi consegnato all’ostiere entrando con
selvaggina uccisa nel giorno.

No, quel giorno non avevo sparato...

Scesi la scala per entrare a pianterreno.

Sulla soglia una luce terribile mi abbagliò, mi rischiarò la mente.

Lo vidi, Dio Eterno! in quel momento il mio carniere,... lo vidi a
Murello, nella sala a pian terreno, nella casa del Miniuti!

Mi parve che il cervello dovesse scoppiare sotto l’urto del sangue che
vi affluì.

Ebbi subito la visione chiara, netta, terribile della scena che doveva
succedere in quel punto. Miniuti al suo ritorno aveva trovato il
carniere... vi aveva frugato, letto il mio nome, i miei connotati sulla
permissione di porto d’armi,... indovinava sull’atto, scopriva tutto,
si avventava contro Elena ruggendo, e lei si smarriva, non poteva
negare, schermirsi, non sapeva fuggire.

Li vedevo, li sentivo, la visione diventava realtà fino
all’allucinazione, alla pazzia.

Saltai nel cortile, sfondai d’un urto l’uscio della scuderia, senza
pensare ad aprirlo, gettai in fretta, in furia gli arnesi sul cavallo,
e balzato in sella, lo lanciai di carriera sul viale che mette alla
strada di Murello.

Volavo come nel sogno, nell’incubo; non potevo ragionare, nè formar
progetti.

Arrivare... portarla via, salvarla...

Mi pareva di sentir una voce lontana che mi chiamava là nell’oscurità,
dalla parte di Murello, e allora volevo cacciar come un grido altissimo
perchè si difendesse, fuggisse, mi aspettasse. Poi mi vedevo Elena
davanti, pallida, straziata, morente, che mi tendeva le braccia perchè
la prendessi, la salvassi, e stringevo rabbiosamente le ginocchia e mi
curvavo in sella, scosso dal capo alle piante da un gran tremito, col
sudore che mi gocciolava sulla fronte, mi rigava le gote, mi offuscava
la vista.

Ad un punto mi fermai di scatto, sentivo gorgogliar l’acqua a sinistra,
discernevo a destra un piccolo edificio chiaro.

Avevo sbagliato strada! Al santuario di Polonghera invece di torre
a destra verso Murello, avevo svoltato a sinistra, mi trovavo tra la
capella di San Giacomo ed il ponte sulla Macra, ad un trar di schioppo
da Racconigi.

Mi serrai coi pugni le tempia, mi parve di impazzire.

La strada da Racconigi a Murello mi si apriva davanti: erano tre
nuove miglia; serrai tra le gambe il cavallo, come se avessi voluto
soffocarlo, gli urlai all’orecchio le più strane e insensate parole,
le più violenti imprecazioni, e ricominciai ad andar come il vento
all’impazzata...

Ad uno svolto fui per dar di cozzo in una vettura che arrivava, essa
pure, precipitosa e senza lanterne.

Il mio cavallo schivò da sè, e la oltrepassai.

Sull’istante il scivolar rapidissimo di quel legno, a quell’ora,
nell’oscurità, nel mistero, mi insospettì: Lei forse... trascinata
lontano! bisognava saper chi vi era... Voltai bruscamente il cavallo,
la luna liberandosi in quel punto dalle nubi che la velavano, batteva
in pieno sulla strada: la vettura volava, diminuiva nella distanza.

In un baleno le fui di fianco, mi curvai, cacciai il capo sotto il
mantice...

E non ricordo più; mi par d’aver udito in un ringhio di rabbia,
pronunziato il mio nome, intravvisto un viso d’uomo sconvolto, un
braccio agitarsi, stendersi furiosamente contro il mio petto, un tuono,
un lampo poi più nulla.



Seppi di poi che un carrettiere, alla luce livida dell’alba, mi vide
steso in traverso alla strada. Costui mi portò ad una cascina, e
corse in tutta fretta a cercar un vecchio chirurgo militare ritirato
a Racconigi, molto abile nel curare le ferite prodotte dal piombo.
Egli estrasse la palla che m’era scivolata sotto le carni del petto
senza penetrar nella cavità, e dopo due mesi entrato in convalescenza,
camminavo, parlavo, ma ero come un uomo che si sveglia da un lungo
sonno, e stenta credere alla realtà degli oggetti che gli cadono
sott’occhio.

Poco si parlò a quei giorni dell’avvenimento, nessuno lo conobbe
nei suoi particolari veri ed esatti; — il Journal de Turin et de la
27.me Division de l’Empire français, gazzetta ufficiale del Piemonte,
non ne fece pur parola, — altri giornali parlarono d’un attacco di
briganti, nel circondario di Savigliano, e aggiunsero che, sebbene
il famoso Mayno, sedicente imperatore delle Alpi e re di Marengo,
fosse stato ucciso fin dal 12 aprile 1806, e la sua banda distrutta,
certi dipartimenti erano tuttavia infestati; insistevano perciò sulla
necessità delle ricerche, l’aumento delle taglie, ecc.

Ma in breve più nessuno s’occupò di quel fatto, le emozioni politiche
ed avvenimenti di terribile e capitale importanza assorbivano in quei
giorni l’attenzione del publico.

Il sangue altrove scorreva a flutti.

Tornai a Torino, ma l’animo non mi resse di restarvi; vagai nelle
città vicine senza scopo, finchè un giorno trovandomi ad Ivrea, presi
d’un tratto una vettura di posta per Aosta, traversai il San Bernardo,
discesi a Martigny, e per Ginevra e Bourg andai a Parigi.

Un mese dopo il mio arrivo presi servizio; speravo trovar potente
distrazione nel terribile avvicendarsi degli avvenimenti, o eterno
riposo nello spaventevole spreco di umane esistenze di quegli anni.

Fui ferito in Ispagna e guarii: in Russia ove andai sottotenente in
un reggimento di cacciatori a cavallo del corpo di Oudinot, lasciai
due dita sulle nevi, e ritornai in Piemonte coi capelli che ne avevano
preso il candore.

Un giorno questa casa, la cui soglia avevo già varcata una volta,...
divenne la mia.

Vi abitai sempre ed ho disposto di chiudervi gli occhi.

Nelle sue mura ancora per molti anni rapide apparizioni mi turbarono
l’animo, gettandomi agli occhi una forma, alle labbra un nome, nel
cuore un bisogno sconfinato, una smania terribile di riveder Elena, di
amarla ancora.

Per molto tempo cercai la notte, l’ombra, il silenzio, i sentieri, i
luoghi solitarii, serrandomi ai muri, alle siepi, come un ladro, un
mendicante.

Poi la calma della campagna cangiò i rimpianti in una melanconia dolce
e tranquilla, gli anni si aggiunsero agli anni; contrassi un debito
di riconoscenza verso un’angelica creatura che mi curò in una malattia
che doveva uccidermi, debito che mi fu dolce soddisfare, consacrai la
mia vita a chi l’aveva salvata, e ringrazio Iddio della felicità che mi
accordò in seguito.

Ora non ho più nulla a domandare alla vita; essa non è più davanti,
ma dietro di me; nessuna illusione mi nasconde la realtà, lasciandomi
apparire ancora orizzonti lontani... il termine è vicino, posso contare
i giorni che mi rimangono, un po’ di terra sul capo, _et en voila pour
jamais_.

Miniuti non l’ho rivisto più mai, d’Elena non ho forza scriver più.

Avrei potuto bruciar quei fogli e sperdere fino l’ultimo atomo delle
loro ceneri, ma non avrei potuto annientare che struggendo il cervello,
il rimpianto angoscioso, il rimorso d’essere stato la causa diretta
della fine atrocissima di una persona per la quale avrei data la vita
senza esitare.

Poichè tutto è lontano, tutto sparisce nel passato irrevocabile,
sparirà con me anche quest’ultimo spaventoso ricordo...



Il sole si alzò splendido il domani; Mario, Rocco ed io, entrammo in
caccia senza contrattempi.

I cani lavorarono a dovere, i colpi si succedettero fruttuosi.

Alle otto si fece colazione appiè d’un gelso; pane, cacio, rhum
nell’acqua. Poi si ricominciò sotto il sole in tutta la sua forza, un
sole tremendo, che cadeva a piombo sul capo, e si nuotò così tutta la
mattina, colle guancie aggrinzite e gli occhi serrati, in un mare di
delizia.

Bisognava pure divertirsi fino a sera.

Infine quando i cani ebbero penzolante fuor delle fauci tutta la
lingua di cui potevano disporre, quando si sdraiarono all’ombra, si
allungarono nei fossi col ventre nel fango, ci accordammo anche noi,
esseri ragionevoli ed indipendenti, la facoltà di stenderci al riparo
dai raggi.

Il calore ci assopì, il sole girando, penetrò tra le fronde, ornò
i nostri abiti di cerchielli dorati, venne a bruciarci il viso, a
colorarci sgradevolmente di rosso le palpebre chiuse.

Le formiche, sagaci ed industriose, s’introdussero nei praticabili,
si dispersero sulle nostre persone alla scoperta di nuovi mondi a loro
sconosciuti.

Infine a sera lontani da casa parecchie miglia, ci incamminammo per
tornare, l’uno dietro all’altro nel sentiero fra le canape altissime ed
i grani turchi rigogliosi.

Io camminavo primo, poi Mario, poi il vecchio Rocco che cantava la sua
vecchia _Complainte_ sulla diminuzione della selvaggina.

— Quando c’era il distretto, cari signori, quando i boschi venivano
fino al Rifreddo, Cr...o! che tempi! Lepri grosse come asinelli, con
certe testaccie quadre, e orecchie di due palmi, frotte di fagiani
grassi come capponi che passeggiavano nei sentieri, come tante
confraternite di frati.

Si veniva all’agguato tutte le sere, sul limite del distretto. Eravamo
sei o sette, tutti lestofanti che non dico altro, ogni tanto pan...
pan..., ed al chiudere dei conti erano, sei, sette, otto lepri di meno
nei boschi di Sua Maestà.

Ma non si dormiva. Allora i dragoni non scherzavano, c’era un rigore
d’inferno, un lepre ferito al di qua, saltava il fosso a dar i tratti
al di là e non si poteva pigliarlo.

— Così, disse Mario, il confine non lo hai passato mai Rocco?

— Cioè, ecco... io qualche volta... ma c’erano altri che passavano,
anche tutte le sere. Pietro l’Ollaro, che è vivo ancora, sordo come
le pentole che fabbrica, era già tal quale... Tutte le sere così,
stava un po’ al di qua, gironzava, s’impazientava, poi, vlan... eccolo
dall’altra e si perdeva nel folto.

Passavano dieci minuti, pan...: si vedeva curvo, curvo, piccolo la
metà, arrivar come il vento col fagiano od il lepre nel dorso della
giubba. A correre non c’era chi lo cogliesse, neppure Beppo Gallo, che
pure correva bene anche lui... Tutto detto, fu colto presso Racconigi,
in pien distretto, sfuggì sotto al naso delle guardie che lo videro
come vedo lor signori. Volò quei tre miglia, giunse in paese, si fece
veder nella via maestra così presto che potè provar... Come si dice?...

— Provar l’alibi.

— Ecco precisamente, potè provar quello che dice lei. L’anticristo era
Filipotto; le brache come due sacchi,..... vi nascondeva i fagiani
uccisi, uno schioppo rugginoso, colla canna legata da due giri di
spago; lo lasciava nei cespugli la notte..... Pigliava poi fuoco quando
si ricordava. Ma tant’è, a casa senza aver fatto il suo colpo non
tornava mai.

Del resto lui il difetto dell’arma lo conosceva; tanto è vero che
quando attaccata briga al gioco col Paschetta, volle freddarlo; andò
a farsi prestare un altro fucile..... trovò quel cane che glielo
imprestò, e così uccise in quella notte, buia come l’inferno, il suo
miglior amico in cambio del Paschetta. Se avesse adoperato il suo
fucile, chissà, forse non avrebbe sparato...

— Mi ricordo, disse Mario, di quell’omicidio, io era piccino assai.....
rammento di aver veduta la pozza di sangue davanti al caffè.

— E Filipotto, non l’hanno arrestato?

— Potevano arrestare il vento i carabinieri! era più facile... Egli
passò in Francia nei zuavi o nei turcos... restò in Crimea alla presa
di Malakoff.

E si andava ascoltando quel vecchio tutto abbandonato ai ricordi, che
accorgendosi della nostra attenzione, cercava nelle sue memorie quello
che potesse, secondo lui, interessarci.

La sera era scura, il cielo tutto coperto di nubi, la luna ne
illuminava di tanto in tanto un lembo vivamente, poi appariva
annebbiata, nuotante in un bagno di luce gialla, gettava un raggio
pallido sulla terra e tornava a celarsi lungamente.

Ad un punto il terreno dinanzi a noi sprofondava improvvisamente; il
sentiero girava sul margine di una fossa, irregolarmente scavata. Vi
giungemmo in un momento di fitta oscurità, io, che camminavo pel primo
nel sentiero, non vidi il precipizio e rotolai con gran fracasso fino
in fondo, trascinando meco una valanga di ghiaia e di terra smossa
che m’entrò nelle tasche, nelle scarpe, nel collo. I miei compagni si
precipitarono a rialzarmi, si accesero fiammiferi, si constatarono i
danni. Il fucile era intatto, io leggermente contuso e graffiato. Più
paura che male.

Quando fummo di nuovo in cammino sulla buona via, domandai al vecchio
qual fosse l’utilità di quel precipizio, e perchè si lasciasse
sussistere.

— La vede, quei del paese lo sanno che c’è; forestieri non ne passano
mai... Ma è vero quello che dice lei, poichè non serve a nulla dovrebbe
essere spianata da anni.

Un tempo,... eh! ma andiamo indietro molto, era lo scavo d’una fornace.

Si fermò, rinnovò il tabacco nella pipa, cangiò di spalla il fucile, si
raccolse un momento e ripigliò:

— Mi fa sempre un certo effetto a raccontarlo, eppure giacchè vedo che
s’interessano alle cose vecchie, là successe un fatto da far rizzar i
capelli.

Mio padre, buon’anima, teneva questa fornace, molti, ma molti anni
or sono, la bagatella forse di settantaquattro o settantacinque anni
fa. Una sera che era solo sentì sul tardi fermarsi una carrozza sulla
strada di Racconigi. (È là a duecento passi e vi saremo a momenti).
Egli non ci pose mente, aveva la fornace che divampava come l’inferno,
Dio ce ne scampi, e badava ai mattoni che cuocevano. Quand’ecco
comparir sul sentiero un signore alto alto, vestito come un marchese,
ma con un viso che metteva paura. Aveva con sè una donna, una signora
che pareva, come si dice, una tortora negli artigli di un nibbio. Era
giovane, la signora, giovane e bella, pallida che non pareva più di
questo mondo, aveva gli occhi fissi ed andava, diceva mio padre, come
una persona che dorma e vada in volta bell’e dormendo.

Il signore disse brusco brusco a mio padre che portasse del vino, che
alla signora era venuto male in carrozza.

Mio padre entrò a cercar il vino, nella sua capanna, tutto rimescolato,
chè quella poverina gli faceva pietà. Era al buio, non ci vedeva,
badava a battere la pietra, che allora non c’erano i fiammiferi come
adesso.

Dalla porta aperta, sentiva che parlavano; lui ringhiava come un
mastino, poi udì due parole di lei... una voce fioca come morisse.

Non capiva quel che dicessero.

Ad un tratto uno strillo... che gli fe’ cader di mano tutto l’ordigno.

Saltò fuori.

L’uomo spariva nell’ombra... solo; mio padre corse alla bocca
infuocata...

I capelli, cari signori, si rizzavano così quando raccontava... come se
avesse ancor negli occhi quello che aveva veduto.

Per terra c’era uno scialle da dama di alto rango. Mio padre lo portò a
Racconigi, lo vendette e coi denari fece dir tante messe per l’anima di
quella poveretta...

Mario mi strinse fortemente il braccio, guardandomi fisso, io accennai
di sì col capo, ero come lui convinto che Elena aveva finito così.



LE MASSE CRISTIANE


Nel novembre 1886 fui invitato dal conte Ruggiero Sauris a cacciare
nella sua terra di Ripalta-Piemonte. Il mio amico abita un grande
edifizio biancastro elevato sopra un terrapieno; che domina la piazza
del villaggio. Gode una vista immensa su un’estesa di poggi guerniti
di castelli, affollati di villaggi, di ville, di case campestri;
digradanti con variati e graziosi contorni fino a certe colline più
alte e grandiose, al di là delle quali si scorgono, nel vapore dei
giorni sereni, le vette rigide e maestose dell’Alpi.

Il castello di Ripalta è un quadrilatero più lungo per il verso della
facciata che sui fianchi, munito all’angolo che guarda il villaggio
d’un torrione quadrato, che di poco sovrasta al tetto. Nel centro è il
cortile pieno d’erba, ricco di due bei cipressi alti e diritti e d’un
pozzo dalle colonnette di pietra, coll’architravetto in traverso dal
quale pende la carrucola. Le muraglie sono assolutamente spoglie d’ogni
fregio, sia dipinto che in rilievo; nell’interno le sale e le stanze
sono assai semplicemente arredate con la promiscuità di suppellettili
che si osserva in molte vecchie ville piemontesi, ove l’occhio trova
nei mobili, nelle tappezzerie nei quadri, le variazioni portate dalla
moda e dallo stile nella seconda metà del secolo scorso e nella prima
metà del presente. Osservai in un angolo della gran sala terrena una
vecchia portantina sdruscita, un bell’orologio da muro a piè dello
scalone; qua e là per le stanze mobili intarsiati o scolpiti con garbo,
quadri di paese e ritratti di famiglia d’antica e più o meno simpatica
maniera; e, nella camera che mi fu destinata, un gran panno d’arazzo di
fabbrica fiamminga, teso su tutta una parete, rappresentante l’assalto
dato ad una fortezza merlata da certi soldati tozzi e muscolosi, armati
grottescamente alla Romana. Mi parve fresco e ben conservato.

— Come figurerebbe nel mio studio! — dissi a Ruggiero — Sulla parete di
fronte al finestrone...

— Naturale! — sclamò ridendo l’amico. — Trovo però che non sta male
dov’è. Ne vorrei un altro anzi, per far riscontro sulla parete di
faccia e coprire quel coiame che casca a pezzi da ogni parte, ch’è
una pietà; potrei cambiar parato, ma non ho quattrini. — Bello eh!
— soggiunse poi riguardandolo con compiacenza, — non me n’intendo,
ma mi par bello assai. Da bambino quei ceffi mi mettevan paura, non
sarei rimasto qui solo per un carico di dolci. Ma sono sempre rimasti
lì, boni e quieti; non mangiano, non bevono e non fan chiasso: abbi
pazienza, possono starci ancora.

S’andò a letto presto, e la mattina, armati ed in punto, scendemmo
sulla piazza, dove, davanti all’osteria, ci aspettavano parecchi
cacciatori del paese; v’era il sindaco, se ben ricordo, il sagrestano,
l’albergatore e quattro o cinque cacciatori di mestiere. Alle ultime
case s’unì a noi un vecchio lungo e smilzo, con certi occhi tutto brio
nel volto ossuto, raso come quel d’un prete; mostrò, salutandoci, un
testone arruffato, irto di capelli bianchi, una bella fronte, poco
ampia, ma molto elevata, che s’increspava e si spianava senza posa.

Ne chiesi il nome a Ruggiero.

— Dottor Vercellis, — rispose l’amico. — Vecchio assai, ma un Ercole
per forza, salute, potenza digestiva e vigor di polmoni. Va che manco
una saetta l’arriva ed ha un braccio che non c’è il compagno. Ha
istruzione, ingegno sottile; è mezzo letterato, poeta estemporaneo; sa
novellare a meraviglia. Sarebbe, te lo dico io, riescito uno scrittore
di polso, un romanziere come Ponson du Terrail o Montépin. Lo pregherò
di venire a cena con noi, al ritorno, lo faremo mangiar e bere bene e
ci dirà qualche storia. Ti parrà di sentire un romanzo, di quelli di
una volta, perchè adesso sono tutti noiosi.

Ruggiero non perde gli occhi sui libri; legge in città per pigliar
sonno, in campagna quando piove. Vuole i romanzi di _cappa e spada_,
con intreccio arrischiato, intricato e misterioso, dove si parli di
donne, di caccia o di cavalli. Non conosce che tre o quattro autori.
Quanto a tutti gli altri libri che il caso gli mette fra le mani, il
domestico li raccatta al mattino contro la parete più lontana dal letto
o appiè della finestra in giardino.

Feci la conoscenza del dottore al momento in cui si entrava in caccia;
scambiammo poche parole sulla fortuna probabile della giornata e
ci separammo. Ruggiero ed io facevamo, come si suol dire, la parte
dei principi. Camminavamo avanti, soffermandoci, ora al sommo d’una
collina, or sull’orlo della macchia, nei biforcamenti delle viottole e
delle stradicciuole. Gli altri cacciatori avanzavano in fila coi cani
sguinzagliati, indugiando nel folto, parlando, vociando, strepitando
per dar la fogata alle lepri ed alle beccaccie.

Si correva così dall’una all’altra posta da un paio d’ore e non s’era
ancora udito uno sparo, nè avuto un lampo d’emozione. Mi trovavo
in un campo arato di fresco, scendente alla valle con dolce pendìo,
fiancheggiato d’un bel bosco ceduo dal quale uscivano le voci lontane
dei nostri compagni; vedevo le figurine brune apparire e sparire tra le
fronde e balenare tratto tratto le canne dei fucili.

Ero sfiduciato, cominciavo a sentir la noia: quella sensazione d’una
mano ampia che si posa sulla nuca e grava ed opprime; i piedi mi
dolevano, lo schioppo pesava. V’era un termine a pochi passi, v’andai a
seder su.

Presi a guardar distratto le colline coperte di macchie irrugginite
dall’autunno, i vigneti deserti, l’erbe grigie dei prati nella valle
dormenti nella gran pace, nella luce limpida che pioveva dal cielo
pallido; abbassai gli occhi sulle zolle rotte e rivoltate del campo;
poco a poco mi sfumarono davanti, mi sentii avvolto in una nube, molto
lontano da quel sito e dallo scopo per il quale mi ci trovavo.

Non so quanti minuti io rimanessi così, col fucile tra le gambe e gli
occhi fissi fantasticando. Un nulla vi assorbe, un nulla vi richiama,
mi riscossi osservando ai miei piedi certe scheggie bianchiccie
frammiste alla terra giallastra: erano frammenti d’osso.

Ne scorsi altri più precisi di forma nei solchi vicini; un capo del
femore, una vertebra, una mascella che raccolsi per osservarne i denti
confitti, saldi ancora negli alveoli.

Non ebbi il campo a far riflessioni, scoppiò nel bosco uno scagnar
furioso; alcune grida: — Attento! attento!... — In un attimo fui in
piedi tutto occhi e palpitante; scorsero tre minuti, tre secoli, poi
una lepre schizzò fuor dai cespugli nel campo.

La povera bestia si avanzò prima nei solchi a gattonate, a gangherelli;
s’arrestò un istante perplessa, inquieta, con le orecchie dritte, poi
ripigliò trabalzando la sua corsa disperata.

Veniva a me difilato senza vedermi; posi la mira a basso, fra le
zampine anteriori e quando mi parve al punto, sparai...

Fu l’unico capo di selvaggina ucciso quel giorno.

                                   *
                                  * *

Tornati a casa, ci ritirammo a mutar abiti prima di cena. Deposta la
cacciatora e frugando per le tasche a cercare i fiammiferi, mi trovai
nelle mani il frammento d’osso raccolto il mattino. Come mai l’avevo
serbato? Avevo obbedito probabilmente a quell’impulso incosciente,
abituale ai cacciatori, che fa riporre in tasca la pezzuola, il pane,
la pipa, al levarsi improvviso d’una selvaggina, invece di sbrigarsi
col lasciarli cadere.

Ruggiero ed il dottor Vercellis m’aspettavano in sala. Mostrai la
mascella al dottore, che l’accostò alla lampada, mentre l’amico
mormorava:

— Quello è matto, anche le ossa di cane si porta a casa!

— Non è di cane, — osservò il dottore, — è una mandibola umana.

— Butti via quella porcheria! — esclamò Ruggiero. — Vuol lavarsi le
mani? Or si va a tavola...

Il dottore crollò il capo sorridendo, e pose l’osso sul camino. Si cenò
adagio e lietamente; alle frutta Sauris andò in persona a cercare una
bottiglia veneranda, che sturò con precauzione.

— Questa, caro mio, — mi disse mescendo, — è antichità prelibata,
simpatica, amabilissima. Darei per una cinquantina di queste...

— Il tuo vecchio arazzo? — esclamai io, sperando.

— Quello no, ma cent’altre cianciafruscole che sono in casa. Gran
collettore d’anticaglie l’amico — seguitò egli rivolto al dottore.
— Spende i denari in certe bazzecole, che è una pietà. Da del tu a
tutti i rigattieri, i ferravecchi, gl’imbroglioni della città e dei
sobborghi.

La sera era fresca: andammo a seder davanti alla fiamma scoppiettante.

— Dove l’ha raccolta? — mi domandò il dottore, ripigliando la povera
reliquia umana.

— Nel campo arato, ove ho preso la lepre.

— L’avrei scommesso! In Riva Calda, scavando poco sotto il fior di
terra, è ossa per tutto.

— Vi sarà stato un cimitero, — fece l’amico.

— No, uno scontro piuttosto, al tempo dei Branda, nel Novantanove.

— Dei Branda? — fece Ruggiero a cui quel nome riusciva nuovo affatto.

— Dei Branda, — confermò Vercellis. — Era un partito chiamato così da
Branda Lucioni, capobanda realista ai tempi della repubblica. Le sue
bande furono sciolte quando gli Austro-Russi si resero padroni del
Piemonte. Ma nei tempi che seguirono, quando tornarono i repubblicani,
chi parteggiò o fu creduto parteggiare per il Governo regio fu detto
Branda. Erano pur detti in dialetto: _Coui d’la smana ch’ven_ (quelli
della settimana ventura), forse per la loro ferma fede nell’imminente
ritorno del re. Ha letto: _I miei ricordi_, di Massimo d’Azeglio?

— Ci ho dato un’occhiata — rispose Ruggiero.

— Bene, d’Azeglio narra che i pochi vecchi e provati amici che venivano
in casa di suo padre negli anni che seguirono il ritorno da Firenze,
appartenevano a questo partito...

— Dottore, una storia! — interruppe Sauris; e volgendosi a me, continuò
per stimolarlo: — Il dottore sa tutto quello che accadde in paese da
trecento anni a questa parte, giorno per giorno come se l’avesse visto
e notato. Quello che non sa lo inventa. Ma come racconta bene! Sa farti
ridere da perdere i denti e farti rabbrividire e spiritare da tener la
pelle accapponata per tre giorni... Dottore da bravo, una storia?

— Da ridere no, — mormorò Vercellis — con questa cosa davanti.

Incrociò le braccia e stette assorto con gli occhi fissi sulla
mandibola.

— È finita, — soggiunse poi. — Non posso uscir dal Novantanove!

— Ci stia, — gli dissi. — Ci dica dei Branda.

— Peuh! non c’erano soltanto i Branda in quel tempo a mettere il
Piemonte sossopra. Prima di tutto v’era la miseria spaventosa: il
grano era aumentato smodatamente di prezzo nei mercati, non si poteva
più aver moneta erosa per le spese indispensabili, i soldati francesi
consumavano il foraggio, vuotavano i pollai e le cantine e, mentre i
ladri pullulavano nelle campagne, bisognava lasciarsi disarmare per non
essere fucilati. Era venuto anche il voto dell’unione alla Francia, si
gridava che il culto cattolico sarebbe interdetto, i parroci cacciati
fuor delle chiese, tutta la gioventù mandata a militare oltremonti,
e cento altri guai. Si mormorò, si gridò, molti Comuni insorsero, il
Piemonte si coprì di bande, le quali, sotto colore di battersi per
la monarchia e per la religione s’occupavano di vendette e di rapine.
Preti e frati dai pulpiti spargevano olio sul fuoco; si commisero atti
da cannibali!...

— Ma i Branda? — fece Ruggiero, già sdraiato sul canapè.

— I Branda... erano facinorosi più degli altri — seguitò il dottore.
— E il loro capo un furfante impostore di nefanda memoria. Era un
lombardo; antico ufficiale austriaco, già risparmiato dai francesi
nella sollevazione di Pavia. Il diavolo lo portò in Piemonte
nel Novantanove; cominciò ad andare in giro, vantandosi inviato
dall’imperatore a rimettere sul trono il legittimo sovrano, spacciando
che gli compariva Gesù Cristo a promettergli di condurlo di vittoria
in vittoria sino a spazzar la Francia dai repubblicani, niente meno. I
contadini cominciarono a seguirlo sbravazzando, sbraitando minaccie e
giuramenti che avrebbero fatto ridere i polli, se ve ne fossero rimasti
in Piemonte. Ma i fatti che seguirono non facevano rider nessuno.
Marciava fiancheggiato da due straccioni cappuccini, suoi luogotenenti
e segretari, scortato da un branco di pretacci e di fratacci ribaldi
a guisa di stato maggiore, seguito da una marmaglia sfrenata, in
disordine, armata di randelli, di fionde, di forche, di tridenti,
di schioppi o di tromboni. Ammazzavano quanti soldati francesi
incontrassero viaggianti in piccol numero, e tutti i repubblicani
che lor cadessero negli artigli. Capitando in un villaggio, mentre le
campane sonavano a festa, Branda Lucioni sostituiva all’albero della
Libertà, rovesciato a terra, una gran croce, e vi si buttava davanti
a pregare, a picchiarsi il petto, con gli occhi al cielo. Poi correva
lagrimoso e compunto a confessarsi e comunicarsi alla parrocchia,
mentre i suoi taglieggiavano allegramente e trucidavano quanti erano
in voce di essere giacobini, chè tali per loro erano i più ricchi
d’ogni terra, quanti avevano lite od interesse avverso ai caporioni
della _Massa cristiana_, che così aveva nome quella bell’accozzaglia;
ingiuriavano le donne più onorevoli, sempre col pretesto delle
opinioni repubblicane; commettevano, insomma, tutti i delitti che
possono inspirare la rabbia politica, il fanatismo religioso, gli odii
privati e l’ingordigia della rapina associati ed uniti. Da Biella e da
Ivrea fino alle porte di Torino regnava lo scompiglio e lo spavento.
I villaggi che rifiutavano di riconoscere Branda Lucioni come regio
mandatario, minacciati di sentirsi leggere il documento al chiaror
delle case incendiate, cedevano e si lasciavano taglieggiare. Così
accadde a Ciriè, San Maurizio, Caselle e Leynì... Alcuni fanatici della
banda involarono nella chiesa di Soperga tre calici ed un ostensorio...

Bruscamente il dottore s’interruppe e si volse a guardar Ruggiero
nella penombra: era disteso, aveva gli occhi chiusi, la respirazione
regolare, non si poteva dire che russasse, ma l’aria passando per le
narici produceva un leggier sibilo, molto espressivo.

Vercellis ebbe un breve sorriso, la sua fronte si andò spianando e
corrugando con continuo movimento mentre rifletteva; infine si rivolse
tutto a me:

— Mentre che il contino dorme — riprese egli a voce più bassa — le
dirò un fatto capitato qui nel maggio del Novantanove... Mio padre ogni
volta che tornava a raccontarlo rabbrividiva e si rimescolava tutto.

Di casa Sauris erano vive allora due persone: il conte Amedeo e sua
sorella Melania. Il conte sposò poi in tempi migliori la baronessa
Laneri del Castellaro, dalla quale ebbe Massimo, padre del nostro
Ruggiero.

Allora, trovandosi giovane assai, forte di corpo, d’animo ardito ed
appassionato, era andato a raggiungere il cavaliere di Vonzo, antico
ufficiale piemontese, il quale, con un tal Cerigna chirurgo, s’era
posto a capo dei campagnuoli nelle gole degli Appennini.

La contessina Melania aveva sposato il cavaliere Boetti di San Giorgio,
ammazzato subito, pochi giorni dopo le nozze, in non so qual fatto
d’armi. Nel separarsi ella gli aveva dato il suo ritratto in miniatura;
le fu riportato stiacciato dalla palla che aveva passato il cuore. Gli
voleva un bene dell’anima, fu uno di quei dolori che ne va la vita o la
ragione. Dopo giorni di pianto, di disperazione, di strazio mortale,
venuta a rinchiudersi qui nel castello, aveva incominciata una vita
monotona e regolare, come fosse circondata da una grande solitudine.

Si diceva che non avesse più senso di nulla, che le si fosse
travolto il cervello. Non scendeva mai nel villaggio, non riceveva
che l’arciprete-parroco, il quale saliva a dir la messa per lei e
per i servitori nel piccolo oratorio del torrione. Dalla piazza la
scorgevano pallida, vestita a bruno, col gran _fichu_ di _linon_ alla
Maria Antonietta, passeggiar sulla terrazza, o starsene immobile con
la persona eretta, le mani sul parapetto, i begli occhi perduti in un
punto lontano. Le donne dicevano che guardava le montagne ove era morto
il marito.

L’arciprete Don Barbero, uomo impetuoso, audace, gran cacciatore
al cospetto di Dio, professava quasi apertamente massime
anti-repubblicane. A costui non mancava che l’occasione per seguire
l’esempio di altri ministri di pace del suo stampo. Vescovi, frati
e preti, oltre all’aizzar la rabbia delle turbe, predicando che lo
scannar francesi e patrioti era opera meritoria presso Dio, facevano
comunella con gl’insorti, li aiutavano, li sostenevano, benedicevano
loro le mani intrise di sangue. Il vescovo d’Asti di tepido
repubblicano si trasformava in acerrimo persecutore dei patrioti; il
vescovo d’Acqui si faceva condurre gli sciagurati caduti nelle mani
dei campagnuoli e li cacciava al buio negli umidi sotterranei del
Seminario; quello d’Alba diveniva capo delle sommosse popolari nella
sua diocesi, col nome di _Comandante degli insorti_.

Preti e frati, fanatici energumeni, si vedevano col crocifisso in mano
e lo schioppo in spalla scorrazzare, trasmutati in capibanda, le strade
e le campagne dando la caccia ai francesi ed ai patrioti. Così il
curato di Bra, quel di Primeglio, di Castelalfèro ed altri assai.

A Ripalta, Don Barbero si contentava di predicare e di riscaldare gli
animi coi discorsi sovversivi; ma, quando nei primi giorni di maggio
insorsero Vauda di Front, Airasca, Villafaletto, Villafranca e non so
quanti altri paesi, i nostri villani più caldamente istigati gettarono
anch’essi a basso l’albero della Libertà.

                                   *
                                  * *

Poi ad una domenica tutta di tumulto successe un lunedì tranquillo;
l’albero era a terra come un nemico morto, i monelli vi correvano sopra
a piè scalzi, facendo a chi lo percorresse tutto senza sdrucciolarne;
i contadini consideravano l’operato, i municipalisti — fra i quali era
mio padre, flebotomo e speziale — non avevano saputo far niente prima
e meno sapevano adesso. Tacevano le campane, erano cessati gli urli e
lo schiamazzo e non si udiva che qualche grido rauco ed isolato: — Viva
il re! Viva l’indipendenza! Viva noi! — Poveri echi delle furibonde
acclamazioni del giorno prima.

Quand’ecco, tutto in un momento, senza che nessuno si presentasse ad
annunziarli, si videro comparire sulla strada maestra:

                _Les habits bleus par la victoire usés!_

Cioè i francesi che venivano a ristabilir l’ordine. Era una colonna di
forse duecento uomini, comandata da un capitano e da ufficiali. Vennero
difilato in piazza, senza trovar resistenza la occuparono, e, mentre
il duce, abboccatosi coi municipalisti, mostrava col gesticolamento
e col cipiglio di volerli ingoiar vivi; i soldati si sparsero per il
villaggio.

Si udirono subito strida e pianti di donne, strillar di bambini,
bestemmie, minaccie, abbaiar di cani, il fracasso degli usci ed
imposte che volavano in pezzi. Si videro comparire in piazza capi di
bestiame grosso e minuto in povero stato, anitre e galline magre e
consunte. Tornarono i soldati inviati ad arrestar l’arciprete come
fomentatore principale dei disordini: non avevano trovato nessuno nella
casetta, manco la serva. Un mendicante scemo, che sedeva sulla porta,
interrogato e minacciato, assicurava di averlo visto scappare per una
viottola che metteva alla macchia vicina. Avevano intanto spezzate le
campane parrocchiali.

Il capitano, giovane, piccoletto, ma saldo più dell’acciaio, coi
capelli color di sabbia, piatti, separati in mezzo alla fronte e
pioventi per le tempie fin sulle spalle — così lo dipingeva mio padre
— stava seduto davanti alla piccola osteria aspettando il desinare.
Sentito il rapporto del sergente, chiamò a sè un ufficiale e cominciava
ad impartirgli ordini sottovoce, quando alla finestra d’una casupola di
fronte si udì lo scoppio d’un’archibusata.

L’ufficiale impallidì, stralunò gli occhi, e dando una giravolta,
stramazzò colla faccia in terra. Il capitano, a cui forse era
diretto il colpo, saltò in piedi tuonando ordini che si perdettero
nel trambusto. I soldati si avventarono contro la casa, urtandosi,
impacciandosi a vicenda; la porta fu sbatacchiata, irruppero dentro;
tosto comparvero faccie scalmanate alle finestre urlando a quei
di sotto che non trovavan nessuno; e poi s’udì dietro la casa lo
schiamazzar di coloro che visto l’assassino saltare la siepe dell’orto
e correr volando, attraverso i prati, alla macchia, cominciarono a
sparargli addosso e a dargli la caccia.

Intanto il capitano, che era andato correndo di qua e di là mordendosi
le dita di rabbia, gridando e sagrando, era riuscito a raccozzar gli
uomini, e subito con due ordini rapidi e precisi li aveva scagliati
addosso ai contadini ad arrestarne quanti avessero potuto. Lo scalpore,
gli strilli, le ingiurie andarono alle stelle: gli arrestati, a pugni,
a pedate, a spintoni erano cacciati nella chiesetta di S. Rocco. Dopo
un momento per la piazza non si videro più che uniformi, i contadini
essendo tutti arrestati o scappati fuor del villaggio.

Davanti all’osteria, i municipalisti in gruppo stavano immobili,
intontiti, minacciati alla vita da una siepe luccicante di baionette in
canna.

Quando mio padre vide venire il capitano, trafelato, grondante di
sudore, con gli occhi e la fronte in burrasca, pensò: — Son ito!

Colui fece smettere con un gesto i soldati che si divertivano a torli
di mira e quelli che li punzecchiavano nelle reni con le baionette;
si piantò in faccia sulle gambe aperte e dettò con arroganza le sue
condizioni. Ecco: — Imponeva una contribuzione di guerra di lire
ventimila in moneta corrente di Piemonte, od in effetti d’oro e di
argento equivalenti: rifiutava gli assegnati. La taglia doveva essere
pagata dentro la settimana; in quel frattempo il villaggio avrebbe
provvisto alla sussistenza dei soldati. Al sabato, o i danari o fuoco
al villaggio senz’altro. Questi erano gli ordini del commissario
francese. Come rappresaglia per la morte dell’ufficiale, si sarebbero
fucilati subito sei contadini, tolti a caso fra i prigionieri;
avrebbe poi seguitato così ogni giorno per obbligare la municipalità a
spicciarsi.

Non aveva ancor finito di parlare che già gli uomini erano allineati
col fucile al braccio; sei disgraziati, i primi che vennero nelle mani
furono trascinati fuori della chiesa e buttati contro la casa donde era
uscito il colpo.

Erano ansanti, esterrefatti; quando capirono fu uno strazio. Due di
essi caddero sulle ginocchia, sfiniti, abbandonati, come si fosse
reciso i loro nervi, un altro rimase impietrito con gli occhi e la
bocca sbarrati e le mani per aria; i più giovani cacciando strida
disperate, si divincolavano come serpi contro la muraglia, graffiando
coll’unghie, puntando le braccia come per aprirla e fuggire. Un fragore
empì la piazza... poi silenzio di morte, neppure un gemito. Il fumo
s’alzò: mio padre aveva ancora negli occhi, dopo tanti anni, quei corpi
a terra, gli uni sugli altri, come falciati.

E mentre si rompevano le file e tornavano le voci e il rumore, la
nuvola saliva al cielo densa, come per aiutare l’ombra della notte ad
oscurarlo.

                                   *
                                  * *

Naturalmente la taglia doveva essere ripartita fra tutti: nobili,
preti, borghesi, campagnuoli. I municipalisti cominciarono a darsi
attorno per raggranellare il valsente; toccò a mio padre rivolgersi
alla contessa Melania.

Era notte. Egli si presentò al portone che s’apre sul villaggio,
picchiò e ripicchiò senza ottenere risposta. Andò lungo il muraglione
del giardino fino al cancello che mette sui campi; appuntando lo
sguardo fra i rami, scorse un abbaino illuminato nella casetta del
giardiniere; chiamò forte, e quando vide l’uomo avanzare nell’ombra del
viale si nominò e disse il motivo che lo conduceva.

Il giardiniere non s’arrischiò ad aprire senz’ordine, corse al castello
e ritornò subito per introdurlo. Gli disse che la contessa era nel
salone terreno.

Lei, vi avrà osservato due seggioloni antichi, coperti di cuoio,
coll’impresa della casa stampata in oro?... Be’, quella sera i due
seggioloni erano vicini alla tavola di mezzo: nell’uno sedeva la
contessa, l’altro, vuoto, era situato in modo da far pensare a mio
padre che una persona l’avesse poc’anzi occupato. V’era anche un libro
sulla tavola aperto e girato in quel verso: gli parve un breviario.

Mio padre si ricordò poi dopo di questa circostanza; in quel momento
pensò a fare un bell’inchino, e ad esporre con garbo i fatti e le
ragioni per cui era venuto. Non aveva rivisto da vicino donna Melania
dopo la vedovanza, l’impressione di quella visita non gli uscì più
dalla mente. Era pallida, accigliata, bellissima. Abbandonata la
persona sulla spalliera, il viso un po’ chino sul petto, le mani a
riposo sui bracciuoli, stava immobile ascoltando, pareva scolpita.
Ma le palpebre battevano sugli occhi luccicanti, fissi sul pavimento,
ove forse si disegnavano per lei, tramutandosi senza posa, lugubri e
fantastiche visioni di sangue. Di tratto levò il capo e lo sguardo;
diceva mio padre che uno sguardo così non l’aveva veduto più mai.
Non era nemmeno naturale: ora brillava vivo, acuto, scintillante come
la lama d’un pugnale sguainato di colpo; ora pareva spegnersi, errar
smarrito sulle persone e sugli oggetti senza raffigurarli e passava
via; tornava colla rapidità del lampo, acceso d’una fiamma scura,
e si levava severo, imperioso, terribile come una minaccia... per
ridiscendere blando e soave come un raggio od una carezza.

Quando egli disse la miseranda fine dei sei contadini, le scorse
balenar l’odio negli occhi per modo che n’ebbe un brivido e si sentì
mozzar la favella. Vi fu un silenzio e finalmente udì pur la sua voce;
una voce morbida che si sentiva spossata da un dolore mortale; velata,
dolce, fioca così che pareva venisse da un punto lontano... ricordava
quella d’una persona che parli in sogno. L’accento era grave, lento,
modulato con un tono d’indifferenza molle, come se quanto veniva
dicendo non avesse importanza o non fosse affar suo: — Aveva inteso;
avrebbe voluto far tanto e poteva far poco, poichè le Case Sauris e
Boetti avevano tutto donato al rompersi della guerra, come la Corte e
tutta la nobiltà. — E non disse altro.

Mio padre tornò correndo al villaggio; era sopraffatto da un gelido
senso di paura, gli pareva che le anime invisibili dei trucidati di
quel giorno, strappate in modo così fulmineo dai corpi, errassero nelle
tenebre senza sapersi decidere a lasciar quei luoghi, quasi aspettando
quelle che dovevano raggiungerle il domani.

                                   *
                                  * *

Il giorno seguente arrivò a sera senza gravi mutazioni: i soldati
continuavano a mettere sossopra il villaggio. Il capitano passeggiò per
la piazza discorrendo con gli ufficiali, giocò davanti all’osteria e,
a mezza giornata, fece subire a mio padre una specie d’interrogatorio a
proposito dell’arciprete. Gli domandò dove lo credesse rifugiato.

— Nella macchia, — rispose mio padre.

— È grande la macchia?

— Grandissima e folta.

— Non supponete invece che si trovi nel castello?

Mio padre rivide il seggiolone voltato alla tavola, il breviario
aperto, immaginò il vero. Rispose fermo che essendo stato nel castello
la sera innanzi aveva trovata la cittadina Boetti tutta sola.

Pareva però che il capitano non volesse occuparsi del castello; era
noncuranza o proposito? Forse non sperava d’entrarvi colle buone e le
muraglie e le porte apparivano così salde che per varcarle di forza
occorreva presso a poco un assalto. Forse non stimava che il bottino
francasse la spesa, o riserbava la festa per l’ultimo giorno.

Sul tardi, ad ogni municipalista che passasse, gli ufficiali gridavano
di spicciarsi coi quattrini, trattandoli di maiali, cialtroni,
infingardi ed altre finezze; poi di schianto un ordine volò per la
piazza: in due minuti si formò il plotone e gli si cacciaron davanti
sei disgraziati.

I municipalisti accorsero angosciati, pregando, implorando si
sospendesse l’esecuzione; speravano di consegnare nel domani gran parte
della somma; nel caso contrario sarebbero stati dodici i fucilati
invece di sei. Il capitano non li fece degni d’uno sguardo o d’una
parola. Si caricavano i fucili; il portone del castello si aprì, n’uscì
un vecchio con un sacchetto pesante; erano cinquemila lire di moneta
corrente inviate dalla cittadina Boetti.

— V’è il conto? — domandò il francese con arroganza ai taglieggiati.

Gran Dio! erano lontani ancora, però il domani...

Il capitano, di fianco al plotone, cacciò fuori la spada.

— O tutto o nulla, carogne!

La lama balenò: seguì fulmineo il tuonar dei fucili.

                                   *
                                  * *

S’era al terzo giorno, stava per cadere il sole, il momento fatale
s’avvicinava. I membri della Municipalità, agitatissimi, si sentivano
sui carboni accesi; avendo fatto il possibile e l’impossibile,
trovavano mancare tuttora una buona parte della somma, che non si
lusingavano di veder condonata.

Il capitano neppure si curò d’interrogarli; dalla tavola dove sedeva
guardò il sole che bruciava il sommo del poggio in faccia e lanciò
l’ordine di morte.

Fra’ soldati, quelli a ciò deputati, si allinearono, altri si
accomodarono a vedere; parecchi corsero alla chiesa a scegliere le
vittime.

Scoppiò là dentro un tafferuglio orrendo. Gli sciagurati che sapevano
d’essere tolti nel mucchio, prima si facevano piccini, aggruppandosi,
ficcandosi gli uni dietro gli altri, cercando sparire: poi, vedendosi
addosso i soldati, si sbrancavano a furia, scappando di qua, di là per
sfuggire, sgattaiolando per nascondersi. I francesi si divertivano un
mondo a quella sorta di mosca cieca mortale: li inseguivano vociando,
sghignazzando, lasciando l’uno per agguantar l’altro, dandosi il
barbaro gusto di prolungare l’agonia di tutti, col palleggiarli dalla
morte alla vita.

Il capitano, colla spada sguainata, aspettava; ed ecco di nuovo aprirsi
il portone. Si vide sulla soglia l’alta figura sottile della contessa
Melania, con la sua veste nera, i grandi occhi inquieti, il volto
più bianco che mai. Venne nobile e lenta al francese che la guardava
colpito, e, a due passi da lui, con un tono freddo, lontano ugualmente
dall’ordine come dalla preghiera, gli disse d’indugiar l’esecuzione.

Sperava di giungere a completare la taglia, con quanto rimaneva di
valsente in castello: invitava il capitano a salirvi, a verificare, a
pagarsi.

Piegò appena il capo, voltò le spalle e se ne tornò d’onde era venuta.
Non si vedeva più da un pezzo, ed il giovinotto guardava ancora da
quella parte immobile e muto.

                                   *
                                  * *

Salì subito con un luogotenente, alcuni soldati e tre municipalisti,
fra i quali mio padre. Non trovarono anima viva in cortile, un gran
silenzio come se il castello fosse abbandonato; ma avanzando videro
lume alle finestre del salone terreno e vi si diressero.

La contessa era là, ritta presso alla tavola. Sotto la fiamma sanguigna
e vacillante di una grossa lucerna senza paralume, brillavano gli
arredi sacri dell’oratorio, le poche gioie d’uno scrignetto aperto e
quanto forse restava dell’argenteria di casa Sauris.

Il capitano ed il luogotenente aspettavano un cenno, un invito: donna
Melania non pareva vederli, teneva gli occhi a terra come riposasse
profondamente in un solo pensiero. Allora i due scambiarono un’occhiata
inarcando le ciglia, e appressandosi non senza esitanza, cominciarono
ad esaminare il tesoro.

Per qualche minuto non si udì che il suono acuto dei metalli palpati e
pesati, il bisbigliare dei francesi, e su tutto il singhiozzo lugubre
di un gufo nei gran cipressi del cortile.

Mio padre guardava palpitante, sentiva correre dei brividi per le
spalle, come quando si dice che passa la morte.

I due ufficiali si consultarono: sommando quanto aveva raggranellato
la Municipalità, il danaro dato dalla cittadina la sera innanzi con ciò
che offriva in quel punto, la cifra che si esigeva era quasi raggiunta;
ad ogni modo si dichiaravano contenti.

Il capitano levò il capo per annunziarlo alla contessa, e si trovò
appuntati in viso i suoi occhi. Ritta così, con la fiamma che le
rischiarava il viso di sotto in su, in pieno, togliendo ogni ombra,
accrescendo il sinistro splendore delle pupille, al dir di mio
padre, ella aveva l’apparenza di uno spettro. Soggiungeva che in
quell’istante magnetizzava senza dubbio il francese facendolo con la
magica virtù dell’occhio, docile e mansueto come un cagnolino. Non
ne so niente, ma mio padre credeva a tante cose, al fascino, a mo’
d’esempio, degli uomini e degli animali. Per i primi citava questo
fatto istesso; per i secondi raccontava di aver provato ad avvicinare
un povero cardellino ad una vipera che gli avevano portato in bottega
per trarne del brodo. Questa rivolgendosi a spire come per scattare;
aveva fissato gli occhiolini accesi sull’augelletto, che si era messo
a tremare convulsivamente nella mano, palpitando palpitando e rimanendo
stecchito.

In fine, mentre si cacciava in un sacco tutta quella roba, il giovane,
come spinto da una muta forza, da un occulto voler superiore, si
lanciò fuori sulla terrazza, e, protendendosi dal parapetto, gridò con
voce tonante alla piazza l’ordine di mettere tosto in libertà tutti i
prigionieri.

S’udirono in seguito voci ed esclamazioni, scoppi di grida, un
calpestìo affrettato seguito dalle sonore risate e dai motteggi
clamorosi dei soldati che assistevano allo sbucare pazzo di quei
poveracci fuor della chiesa e al loro frenetico scappar dalla piazza.

Il capitano balzò in sala di nuovo a testa alta, impettito, tutto fiero
della dimostrata premura.

In quel momento il maestro di casa sollevava la portiera nel fondo
e si vedeva una tavola apparecchiata a due posti. Donna Melania fece
un rapido gesto di congedo a tutti e, figgendo sul giovane gli occhi
veementi, si mosse verso la tavola come per invitarlo a seguirla. Non
era più pallida, un lieve rossor febbrile le coloriva le guancie, un
turbamento strano le fremeva nella persona, i suoi occhi potenti si
dilatavano, brillavano come due diamanti. Il francese la guardava con
stupore. Mio padre lo vide impallidire un momento, gli notò in viso un
istantaneo e profondo sconvolgimento, le sue labbra si agitarono per
trovar forse una parola di rifiuto.

Dio sa da qual lucida, elettrica intuizione fu colpito in quel punto!

Ma il turbamento durò poco, tornò imperterrito e petulante, sorrise e
s’inchinò a ringraziare con un bel gesto da cavalier francese.

                                   *
                                  * *

Il domani gli uomini erano in ordine di partenza, gli ufficiali
aspettavano, scambiando sorrisi, osservazioni, motteggi sottovoce,
levando spesso il viso a guardare il castello. Splendeva un così bel
sole lassù, il venticello scherzava nelle fronde nuovissime, i passeri
si rincorrevano sui tetti e sul terrazzo, s’udivano gli usignuoli nel
giardino. Ma il capitano non compariva.

Bruscamente una voce circolò nelle file, arrivò agli ufficiali, che
fatto venire un soldato, lo interrogarono. Costui l’aveva veduto
uscire dal portone verso il tocco. Esortato a rammemorar ben tutte le
circostanze, affermava di non ingannarsi, solo gli era parso un po’ più
corpulento: effetto forse, diceva lui, della cena gustata.

Gli ufficiali, che non si raccapezzarono più, si consultarono e si
risolsero. Mentre l’un d’essi andava con alcuni uomini al portone,
l’altro si presentava, scortato pure, al cancello. Fu aperto ad
entrambi.

Nell’interno trovarono i servitori che andavano e venivano alle loro
faccende; due muratori riparavano una tettoia in fondo al cortile,
certe donne tendevano il bucato, e la cittadina Boetti, con le mani
inguantate, dirigeva e consigliava il giardiniere occupato a mondare i
rosai dietro la casa.

Tutti, signora e servitori, interrogati, mostrarono di non saper niente
del capitano, come non l’avessero visto mai. Certo era troppa la calma
e l’indifferenza loro per non essere simulata, ma d’altra parte era
evidente che nessuno avrebbe parlato, neppure con la morte alla gola.

Gli ufficiali dal terrazzo chiamarono su altri soldati di rinforzo; e,
mentre alcuni esploravano palmo a palmo il cortile ed il giardino per
trovar traccie recenti di scavo o di terra smossa, gli altri facevano
una minuziosa ispezione per tutto il castello, dalla soffitta alle
cantine. Si frugò nelle scuderie, sul fienile, pei magazzini; si cercò
nel pozzo, nel forno, nelle gole dei camini, e solo in uno di questi
si trovarono le traccie di panni arsi da poco, ma senza bottoni o fregi
metallici che tradissero indumenti militari.

Gli ufficiali in disparte si perdevano in un ginepraio di
supposizioni: lasciavan fare ai soldati che, avendo finito di frugare,
ricominciavano. E poco a poco costoro si accaloravano, i loro animi
s’inasprivano; presero a manomettere, poi a fracassare. Presto la casa
parve pigliata d’assalto: correvano vociando e minacciando per gli
appartamenti, forzando e sbatacchiando gli usci, scaricando le pistole
nelle serrature, spostando e scassinando armadi e cassettoni, buttando
per terra gli oggetti, le vesti, la biancheria alla rinfusa, strappando
le cortine, lanciando i mobili con le gambe per aria o buttandoli dalle
finestre.

La maledetta febbre della distruzione faceva briachi i cervelli,
metteva nelle mani e nelle braccia delle smanie furiose, suscitava in
coloro la frenesia omicida: quel delirio di sangue che spinge l’uomo
armato ed invelenito a voler adoprar l’arma sua ad ogni costo.

Due di costoro andati incontro al maestro di casa e presolo per il
petto, gli urlavano in faccia imprecazioni e minaccie; altri, fremendo
coi denti stretti, venivan coi fucili spianati alla vita degli altri
servitori. Un momento ancora e più nulla li avrebbe frenati...

Nella macchia cupa, foltissima, che rivestiva la collina di fronte
al villaggio, scoppiarono d’un tratto alcuni spari e si videro le
nuvolette grigie ondeggiar sui cespugli.

Gli ufficiali corsero alla terrazza, riparandosi gli occhi dai raggi,
osservando, scrutando; poi l’un d’essi si precipitò alla scalinata,
l’altro si diede attorno a riordinare gli uomini in fretta ed in furia.

Subito il bosco parve animarsi e viver tutto: s’empì di guizzi di
fiamma e di fumo; le palle grandinarono sul villaggio. Dalla terrazza
del castello si cominciò a rispondere; al basso ufficiali e sergenti
cacciavano correndo comandi brevi ed acuti, per disporre gli uomini ai
loro posti di battaglia.

Non n’ebbero il tempo; l’aria rintronò di grida forsennate; una
turba fitta, disordinata, furibonda irruppe sulla piazza e piombò sui
francesi. Camicie, farsetti, giacchette, tonache di preti e di frati
si mescolarono furiosamente agli uniformi. La battaglia proseguì corpo
a corpo: sciabole e baionette contro falci, coltelli, tridenti. Un
gran Cristo di legno dominava la strage come un insegna; scoppiavano
indistinte nell’urlìo orrendo le grida fanatiche di: — Viva il re! Viva
noi! Morte ai giacobini!...

I francesi, rotti in piazza, si sparpagliarono per le vie; la mischia
seguitò spaventosa negli orti, fra le siepi, nelle aie, nei cortili,
nelle stanze; si mutò in eccidio. Quelli che si trovavano in castello
si ripiegarono nel giardino, uscirono pel cancello sui colli, ma
raggiunti ed accerchiati nel sito detto poi Riva Calda, non ottennero a
niun patto quartiere.

Ci sono morti là pezzi di giovanotti!.. Ora questa mandibola, così ben
fornita, — aggiunse il dottore, ripigliandola fra le mani, — potrebbe
benissimo aver appartenuto a qualcun di coloro. E sa chi era fra i
primi a scannar francesi?... Don Barbero, anima pia, con gli abiti del
capitano.

— E il capitano?

— Ah! quello non fu rivisto mai.

                                   *
                                  * *

Non rammento d’aver sognato quella notte la bella e fatal figura della
contessa Melania; ma nei due o tre giorni ch’io rimasi ancora a Ripalta
provai, aggirandomi per le stanze del castello o passeggiando in
giardino, un senso inatteso di commozione che mi portava a fantasticare
un mondo di cose indefinite.

Tutto quanto si riferisce ai secoli morti, alle generazioni passate,
per una speciale disposizione del mio spirito, si riveste per me
di poesia. La conformazione delle strade di certi nostri villaggi,
l’aspetto esterno ed interno delle chiese, delle case, anche un mobile,
un quadro, un oggetto, bastano ad eccitare in me l’attività fantastica,
a risvegliare sensazioni arcane, idee indeterminate, inafferrabili,
che paiono rischiarare la mente come lampi, quasi occulte reminiscenze
d’una vita anteriore.

Le parole di Ruggiero: «quello che non sa il dottore lo inventa», mi
tornavano spesso alla mente.

Certo, ripensando al racconto molte cose mi riescivano sospette; i
fatti, malgrado le minuzie e le realtà di certi particolari, mancavano
di determinatezza. Un fondo di verità ci doveva pur essere, ma il
dottore aveva senza dubbio elaborato, ampliato e fiorito il soggetto.
La figura di Melania, Dio sa in qual romanzo era andato a pescarla! Se
pur non era sgorgata fuor dell’immaginazione così tal e quale.

Ma io stesso, in quell’ambiente, ero venuto in una sorta d’ebrietà
intellettuale, creavo a me stesso visioni d’una realtà intensa e
curiosa, passavo d’una in un’altra, internandomi in ognuna di esse
fino a discernervi minutissimi particolari, con convinzione, con
esaltazione. Quel fantasma di donna m’era visibile agli occhi, sentivo
trasalire in fondo al cuore qualche cosa di lei penetratovi col
racconto. La vedevo in lutto, con la sua carnagione d’un pallore di
avorio, coi grandi occhi nerissimi che, animati da interni fulgori,
sapevano fissare così intentamente da affascinare sull’atto. Immaginavo
la pietosa storia di quella giovane sposa, vedova il domani delle
nozze: i lunghi giorni vissuti nella glaciale solitudine di quel
triste castello, giorni contati a goccie di sangue, per quel coltello
che le aveva passato l’anima: covando in cuore un odio ineffabile,
inestinguibile contro coloro che glielo avevan confitto... E la
creatura della mia fantasia si andava facendo viva e reale, come
l’avessi conosciuta, e m’ostinavo a cercare un riflesso, un’essenza
eterea di lei che parlasse ancora, dopo tanti anni, della sua presenza
in quei luoghi...

— Ma che diavolo n’avean fatto del capitano?

                                   *
                                  * *

Quattro mesi dopo, nei primi giorni di marzo 1887, Ruggero fu a
trovarmi nello studio. Aveva la faccia di chi ha una grande novità
da metter fuori; gettò il cappello e la mazza sul divano e cominciò a
levarsi i guanti soffiando e brontolando:

— Ah! mio caro, mio caro, mio caro...

— Spero — gli dissi — che non sarai venuto per parlarmi del terremoto!

— Ma sì, ma sì.

— Eri in Liguria, forse? T’è capitato qualcosa?

— A Torino ero ed in letto ancora, la mattina del 23 scorso! Immagina,
avevo ballato al Circolo, cenato, bevuto... So assai, poi ero andato a
casa. Accaddero le scosse, il fracasso, il finimondo... mi svegliai a
mezzodì dalla parte che m’ero abbandonato.

— Sei il re dei ghiri!

— Anzi fu Michele che mi svegliò; l’ebbi da lui la scossa sussultoria,
ondulatoria e convulsiva: c’era Jona, di là, con la cambiale; primo
giorno di Quaresima, si sa...

Adesso ti dirò: il domani poi, lettera di Aragno il fattore. Il
crollo infernale aveva intronato tutte le case di Ripalta, ma gente
non n’era perita. Il mio torrione, situato su terreno di trasporto,
aveva barellato assai bene; s’erano fatte crepe importanti novissime,
allargate le antiche. Ti puoi figurare! La mia povera bicocca avita,
già tanto malandata, dove non oso tossire, nè sternutare e vo’ adagio
in punta di piedi per non tirarmela in testa... V’andai subito, non
trovai quel gran male che m’attendevo: torrione, castello e il resto
tenevano ancora benissimo insieme, ma il capo mastro di Ripalta mi
avvertì che ci andrebbe assai ferro a rilegarli.

La spaccatura più pericolosa corrispondeva anche nell’interno, nella
camera ove hai dormito, precisamente sotto il bel arazzo.

Ordinai si schiodasse. Ti ricordi?... il parato della camera è un
coiame antico lavorato a rabeschi, staccato in certi punti e pendenti
a pezzi e bocconi rasente il muro. Naturalmente la parte che correva
sotto l’arazzo era più conservata, ma in un certo tratto mancava
lasciando la muraglia nuda per uno spazio alto e rettangolare, come
vi fosse stata nel tempo un’apertura. Una porta non poteva essere;
immaginammo un armadio a muro; percotendo col pugno sonava a vuoto. Il
capomastro picchiò colla picozza, venne a terra un palmo d’intonaco, si
spostò un mattone ed ecco un buco scuro.

«Lavoro fatto in fretta e male!» brontolò l’uomo.

Ma vedi, un’altra idea veniva già a lui, a me, ad Aragno, a Michele:
«chi sa mai, in un castellaccio antico, con tante guerre da che mondo è
mondo, e rivoluzioni, epidemie ed accidenti, cosa poteva aver nascosto
lì dentro l’anima cara d’un bisarcavolo mio». — Scudi, fiorini,
ducatoni, marenghi!

Avanti, Dio superiore!... Il martello cominciò a lavorare. Si trovarono
in alto i palchetti di legno vuoti, poi a basso un negozio lungo e
massiccio intonacato di calce ingiallita; era duro e compatto, si
cominciò a spezzare.

Stai a sentire! Si mostrarono prima certi cenci corrosi e scoloriti che
presero una forma... la forma d’una persona avvoltolata fra coperte,
e, subito, capisci, subito venne in luce la testa, una faccia umana
vera, con la pelle secca e gialla come pergamena, stirata qua, grinzosa
là, con gli occhi affossati nelle orbite enormi, la bocca storta e
contratta, i denti visibili, bianchi ed intatti... E poi i capelli, le
ciglia, certi mustacchi rossicci ancora aderenti, come incollati... una
mummia, ecco, una vera mummia, in una parola!

Ti so dire che nessuno aveva faccia da ridere: pallidi, allibbiti, non
si pronunciava sillaba, come non s’avesse più fiato...

Ho voluto tener la cosa segreta... Storie! Tutto il paese volle vedere:
il parroco ha detto subito non so quante messe in suffragio dell’anima
sconosciuta, e le pagherò io.

Il giornale della provincia: l’_Eco dei colli_, raccontò
romanzescamente il fatto e concluse sperando che l’autorità, con
perspicaci investigazioni, sarebbe riescita a stabilire l’identità
degli avanzi e fare la luce. Sicuro!

Ma, viva Dio, non pare anche a te una cosa curiosa, fantastica,
incredibile, enorme: un fatto da romanzo!?... A proposito, il dottore
Vercellis è accorso subito, è rimasto di stucco anche lui e mi ha tanto
raccomandato di venirtelo a dire.



Dello stesso Autore


  _LA CONTESSA IRENE_
  ROMANZO
  Un vol. in-12º. 1889 — L. 3.

  _I LANCIA DI FALICETO_
  Con Prefazione di G. GIACOSA
  Un vol. in-12º, con 30 illustrazioni — L. 4.

  _I PIFFERI DI MONTAGNA_
  _UN PALADINO_
  RACCONTI
  Seconda ediz. — Un vol. in-12º, 1889 — L. 2,50.

  _LA BELL’ALDA_
  LEGGENDA
  Un elegante vol., con illustrazioni, in-8º, 1885 — L. 2.
  (_Legato alla Bodoniana_ L. 2,50).



NOTE:


[1] Une fantasie qui se propage parmi les jeunes gens, est celle de
décorer leur chambre à coucher, et particulièrement le chevet de leur
lit, d’armes de toutes les espèces; on se croirait dans le cabinet de
don Quichotte. — _L’hermite de la Chaussée-d’Antin._

[2] Piazza Castello.

[3] Via Barbaroux.

[4] In capo alla via di Po, due bei viali si prolungavano sino al fiume
ed ai lati, ove ora sorgono le case, si estendevano prati e campi.

[5] M. de Jouy, nel suo «_Hermite en Italie_» fa così menzione di
questo conte S... «Depuis dix ans, le comte de S... n’avait dit un mot
à personne, il indiquait avec la pointe de son couteau ce qu’il voulait
qu’on lui servit. Il montait souvent à cheval et fréquentait les
théâtres et les promenades; mais rien ne lui faisait enfreindre la loi
du silence éternel qu’il s’était imposé à l’âge de vingt ans, jouissant
d’une assez belle fortune. Il avait eu le malheur à cet âge de
commettre une indiscrétion, qui avait causé un duel dans le quel avait
succombé son plus intime ami; il résolut dès lors de ne plus prononcer
un seul mot, et aucune tentative, aucune séduction ne purent ébranler
sa résolution».

[6] È probabilmente il personaggio conosciuto dal signor Jouy che dice
d’averlo incontrato al suo arrivo in Torino al caffè del Rondeau:
dove entrando trovò: «Un petit bossu que j’avais connu à Paris au
commencement de la révolution. Je tais son nom, mais toutes les
personnes qui ont été à Turin le reconnaîtront sans doute. Rien de plus
drôle, de plus gai, de plus spirituel que ce petit homme; il n’avait
presque pas eu d’éducation, mais il était impossible d’avoir reçu
de la nature un meilleur cœur et un sens plus droit. Sa difformité
ne l’empêchait point d’être très-bien venu du beau sexe, et personne
n’était plus galant que lui» etc.

Ed altrove: «mon spirituel bossu, qui était bien la chronique vivante
de toute la haute Italie».

[7] Il principe Borghese, duca di Guastalla, cognato di Napoleone,
governatore generale al di qua delle Alpi.

[8] Società letteraria che si adunava in casa del conte Prospero Balbo,
in via Bogino, col nome di Accademia dei Concordi. Ne facevano parte
alcuni giovani che furono poi uomini chiarissimi.

Erano tutti designati con un nome accademico, così Ferdinando Balbo
era detto il _Travagliato_, Luigi Ornato, lo _Stringato_, Alessandro
d’Angennes il _Patetico_, ecc. (_Curiosità e Ricerche di Storia
Subalpina. Punt. III_).

[9] Via Principe Amedeo.

[10] Via San Francesco da Paola.

[11] Piazza San Carlo.

[12] Il tratto di via Roma che corre tra piazza San Carlo e piazza
Carlo Felice.

[13] Durante la guerra di Spagna, si riunivano ogni tanto in branco
i soldati che non potevano più servire, malconci per gli strazi e le
ferite, e si rinviavano alle loro famiglie.

[14] Nome dato dai soldati alla palla del cannone.

[15] Merciaio.



Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici.




*** End of this LibraryBlog Digital Book "Reliquie - Le masse cristiane" ***


Copyright 2023 LibraryBlog. All rights reserved.



Home