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Title: Racconti popolari
Author: Thouar, Pietro
Language: Italian
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                             PIETRO THOUAR


                           RACCONTI POPOLARI


  Le Tessitore. — Una madre. — Una passeggiata pei borghi di Firenze.
      Il buono e il cattivo per tutto. — Il mugnajo di Vallecchia.


                             NUOVA EDIZIONE
                       ILLUSTRATA DA E. MAZZANTI



                                FIRENZE
                      FELICE PAGGI LIBRAIO-EDITORE
                           Via del Proconsolo
                                  1889



            Proprietà letteraria dell’editore Felice Paggi.

             Tipografia di Cesare Moder, Via del Presto, 4.



AVVERTIMENTO


Ristampando nella nostra _Biblioteca Scolastica_ i _Racconti
popolari_ di Pietro Thouar, li abbiamo adornati di illustrazioni
fatte opportunamente disegnare, li abbiamo arricchiti di alcune
noterelle compilate nell’intento di chiarire qua e là il testo, di
ricordare località che oggi più non esistono perchè hanno dato luogo
al riordinamento ed all’abbellimento di Firenze, di spiegare il
significato di qualche vocabolo fuori d’uso, o proprio del vernacolo
fiorentino.

I libri del Thouar non invecchiano; spirano anzi freschezza perenne, e
i racconti in questo volume compresi sono storie dalle quali il nostro
popolo può sempre ricavare utili insegnamenti. Quando furono la prima
volta pubblicate le _Tessitore_, che sono pagine d’interesse altamente
sociale, Giuseppe Giusti, testimone non sospetto, come quegli che da
qualsivoglia adulazione dignitosamente aborriva, scriveva al suo caro
Pietro: «Felice chi ha saputo e potuto mantenersi un cuore così buono,
come ci vuole a scrivere quel libro. Credi che tu mi hai fatto fare
l’esame di coscienza e l’atto di contrizione almeno dieci volte. Mi
duole di doverti dire che non avrai lettori quanti ne meriti, se per
lettori s’intende dire persone che sappiano valutare un libro. Ma non
ti fermare per questo; verrà un tempo che questi scritti si faranno
sentire pienamente.»

Pietro Thouar compendia in sè un’esistenza spesa tutta per il bene
della gioventù, per il progresso morale e civile del popolo, per il
trionfo della verità e della giustizia, per l’avvenire della grande
patria italiana; dalla lettura di queste sue narrazioni l’anima esce
migliorata, consolata, commossa da dolce pietà, non straziata nè
abbattuta da luttuose e tetre storie; perchè la pittura della virtù,
ne’ suoi scritti, a quella del vizio sopravanza; ed egli voleva che i
virtuosi esempi avessero valore di correggere e di edificare.

Con uno stile piano, scorrevole, stile in cui il Thouar fu eccellente
maestro, e che ha servito a tanti di lezione, egli osservava i costumi
e tentava di rigenerare le plebi; studiava i bisogni del popolo e
lo istruiva; la vita del povero e dell’artigiano era un libro in cui
spesso egli apriva le pagine, non di rado piene di lagrime e di dolore,
e da quelle traeva argomento ad educare la gioventù.

Non aggiungiamo parole a raccomandare la nuova edizione; il largo
smercio, che trovano nel favore del pubblico i nostri volumi, ci ha
concesso, nonostante i miglioramenti introdotti in questo, di ridurne
il prezzo della metà.

  _Firenze, maggio 1888._

                                                           L’EDITORE.



   [Illustrazione: LE TESSITORE]



LE TESSITORE


Ai primi di Novembre del 18..., la casa di maestro Cecco muratore
in via dell’Ariento era tutta sotto-sopra. La mobilia, parte nella
strada e parte nel baroccio, doveva andare ad un secondo piano delle
case-nuove sul Prato.[1]

Maestro Cecco, assistito da Michele e dall’Anna suoi figliuoli,
sgomberava per dar luogo a’ nuovi pigionali venuti anch’essi col loro
carico.

Il medesimo baratto di famiglie e di masserizie accadeva in molti
luoghi del vicinato, come anche nel rimanente della città, sicchè
figuratevi che via-vai, che tramenío, che casa del diavolo! I pigionali
vecchi imbarazzati nello scendere dai pigionali nuovi solleciti di
salire; i carretti o i barocci stracarichi di seggiole, d’arcolai,
di trabiccoli inalberati alle gambe dei tavolini, si rintoppavano
nei punti più stretti delle straducole: là una contesa tra gli
sgomberatori; qui un tafferuglio tra il padron di casa e il pigionale
minacciato del sequestro o del gravamento, e sfrattato per insolvente,
ma che non vorrebbe andarsene, perchè non sa dove; qua un rammarichìo
di donne per qualche attrezzo smarrito e barattato o per qualche mobile
fracassato; e per tutto il polverone che acceca e la spazzatura tra’
piedi: peggio che peggio se il cattivo tempo sopraggiunge ad accrescere
lo sciupìo della roba, la fretta, il parapiglia, la confusione!

Ah sì, una sgomberatura è sempre un tracollo! E chi volesse meglio
conoscere le più riposte miserie dei poveri, dovrebbe introdursi
appunto allora ne’ fondacci de’ Camaldoli,[2] dove e’ si rannicchiano,
perchè i vasti palazzi, i conventi sterminati, le case de’ ricchi
o nuove o ampliate e gli stabili rimpasticciati alla moderna dagli
speculatori, occupano le parti più centrali, più pulite, più ariose
della città, e sempre più rammontano e ricacciano la così detta
marmáglia e il cianùme[3] crescente ne’ luoghi bassi, infetti ed
ottusi. Costì vedrebbe tra le altre quanto sia grande la tribolazione
di non aver sotto i piedi quattro mattoni di suo in tutta l’immensità
della terra, troppo angusta per alcuni e troppo spaziosa per altri;
costì scorgerebbe più chiaramente che passa troppo grande differenza
dalle suppellettili innumerevoli e sontuose venute di fuori via, dai
_rococò_, e dai ninnoli comprati a peso d’oro, dalle voluttà della
mollezza ostentate nei palazzi, ai tréspoli scarsi e fiaccati, ai
cocci fessi, ai cenci luridi nelle soffitte afose o nei terreni umidi,
buj, insalubri della povera gente. Il signore a cassetta d’una bella
carrozza attraversa a caso un crocicchio di Camaldoli, incontra un
uomo che trascina lentamente in bilico sul baroccio tutti gli averi
d’una povera famigliuola: quella lentezza lo infastidisce; gli amici lo
aspettano a un banchetto; ed ei fa chioccare la frusta dietro le nude
spalle del pover uomo perchè si levi subito di mezzo; e tira via con
l’aria minacciosa del Tribbia,[4] maledicendo l’importuno inciampo....
Ma se per disgrazia una seggiola fosse capitombolata fra le zampe
dei focosi cavalli, e gli avesse fatti infuriare e scatenare a fuga
precipitosa...? Oh, non pensiamo a disgrazie!

Io mi ricordo che in mezzo al diascolìo[5] delle sgomberature
camaldolesi, tra il lezzùme d’una gente vilipesa e calunniata perchè
vive senza sua colpa nell’ignoranza e nella rozzezza, ho pur visto
molte povere creature dar prove d’affetti gentili e fare azioni
caritatevoli e generose. Quella famiglia che va via dice addio con
segni di commovente afflizione alle altre che rimangono, come se le
non s’avessero più a rivedere; e da una parte hanno ragione, perchè
il povero non può spendere il tempo nelle visite; e se un giorno
ebbero che dire per qualche cosa, in quella espansione di cuore fanno
monte di tutto, e se ne scordano per sempre; i nuovi pigionali, che
nell’arruffío di mutar casa pajono mosche senza capo, trovano pronti
i vicini a far loro tutti i servigi che in tali occorrenze sono
tanto opportuni; e v’è chi li chiama a cena con sè e li fa dormire
nel proprio letto, e non gli avrà mai conosciuti.... Ma, o che non
siamo noi tutti fratelli? e non hanno essi un distintivo per esser
riconosciuti ed amati addirittura, la povertà? Che se tra loro vi fosse
un vecchio decrepito, un malato, una donna sopraparto, allora sì che le
attenzioni crescono, e sono carità fiorite, carità benedette! Quelli
non trovano un ricovero perchè non hanno da pagarlo quanto l’avidità
del padrone di casa vorrebbe.... Dunque l’albergo della stella nelle
notti di novembre?... Venite via; restate con noi; per qualche po’
di tempo faremo alla meglio: dopo le prime furie che non ha a rimaner
libera una stanzuccia nel casone?[6] e quell’usuraio che farebbe pagar
l’affitto ai topi, piuttostochè non ritirar nulla, si contenterà anche
del poco. Quelli altri hanno mutato casa; ma quando viene la loro
roba? Aspetta, aspetta, non si vede nulla; avevano sotto braccio due
o tre fagottucci di cenci.... l’è tutta quella.... E il letto? A bujo
accatteranno qualche covone di paglia.... Oh! ma se uno se n’avvede, è
capace di dare in prestito a que’ meschini il suo saccone: tra poveri
e poveri sono imprestiti che non fanno vergogna, mentre è delitto pei
ricchi il non rimediare a quelle miserie.

Maestro Cecco non sgomberava perchè non avesse da pagare la pigione
o perchè il padrone volesse mettere la martellina nello stabile o
crescerne il prezzo d’affitto; ma due mesi addietro gli era morta di
mal di petto la moglie!... Era dunque il dolore che lo faceva andar via
da una casa da lui abitata fin da piccino.

La camera della defunta restò chiusa fino al giorno della sgomberatura,
chè il povero vedovo il quale non trovava ben di sè dall’afflizione,
non si potè risolvere a dormir nel suo letto senza la compagnia di
quella coppa d’oro, che era stata con lui in santa pace trentacinque
anni. Del letto poi e’ n’aveva già fatto un’elemosina alla famiglia
più tribolata del vicinato; e cinque creature che da un pezzo
s’accovacciavano tutte insieme sopra un canile, poterono almeno
slargarsi e dormire sul morvido e nel pulito. Così anche il vestiario
usato e varie altre bricciche e carabattole, fu tutta eredità dei più
poveri. Tanto, non dubitate, al vedovo ed ai figliuoli rimanevano le
memorie delle virtù e degli affetti coniugali e materni, senza che
avessero bisogno d’andare a leggerle sopra una lapida in Santa Croce.

Inoltre maestro Cecco poteva dare ascolto alle ispirazioni della
carità, perchè un uomo laborioso e onesto, un padre di famiglia
economo e previdente non è mai povero. La moglie, buon’anima, s’era
guadagnata il pane col tessere la seta; la figliuola faceva lo stesso;
il maschio era servente nello spedale, e metteva in casa una buona
parte della sua paga. Il babbo, sempre sano e robusto, benchè verso
la settantina, riscoteva una giornata di circa tre paoli almeno, e di
rado s’era trovato senza lavoro. Ponete che tre in famiglia guadagnino
di ragguagliato cinque lire il giorno, si rivestano senza lusso, siano
sobri, contentandosi dell’onesto vivere dei braccianti, si ristringano
in poche stanze e dove le case costano meno, stiano sempre d’amore e
d’accordo, e non facciano mai scialo nè per la gola nè per gli spassi,
e vedrete che il bisognevole c’entra senza lasciarsi patire, e n’avanza
da metterne in serbo, o da raccapezzare un po’ di corredo per una
fanciulla.

Appunto l’Anna da un pezzo era dietro a farsi il corredo, e non
le mancava neanche il damo, scelto col consenso della famiglia.
Questo damo si chiamava Cintio, primo garzone d’un parrucchiere di
baldacchino.

Ma la sgomberatura è finita, e la famiglia è sistemata a casa nuova sul
Prato: andiamo dunque a ritrovarla colà, e avremo tempo di conoscerla
meglio.

Già da quel poco che v’ho detto è facile immaginare le buone qualità
del padre e dei figliuoli; e potrebbero farne testimonianza i vicini
di via dell’Ariento che li portavano in palma di mano, e che a vederli
andar via rimasero sconfortati come se avessero perduto il loro
sostegno.

— Quello è un uomo di proposito! se non fosse stato maestro Cecco, cani
e gatti in casa mia; ma ora non v’è pericolo.

— Oh! il mio marito non giuoca più, non mette più piede nella béttola;
e tutto merito di maestro Cecco.

— O il mio? Quella praticaccia!... ve ne ricordate? I pianti ch’i’ non
feci le son cose grosse! Ma benedetto maestro Cecco! Col Commissario[7]
non si concludeva mai nulla; sì.... ogni po’ una chiamata, una
lavataccia di capo; ma chè! Gli era lo stesso che pestar l’acqua nel
mortaio. E’ ci messe le mani lui, e intrafine-fatto[8] la cosa morì lì
senza tanto scalpóre.

— E quelle du’ saette scatenate de’ miei figliuoli? Io guà, povera
vedova, i’ non sapevo proprio come cucinarmeli. Mi raccomando alla su’
donna buon’anima; e lei: sicuro! lo dirò a maestro Cecco.... Insomma e’
non occorre ch’i’ ve lo conti: e’ sono a bottega a salario, si portan
bene.... e in casa, due pulcini e loro l’è tutt’una.

— Oh la si vuol piangere per un pezzo la morte di quella donna!

— I’ lo so io! quand’i’ feci il mio primo! Poverin’a me! senza neanche
du’ stracci, senz’avere da mettere in pentola un po’ di carne....
basta, la ci pensò lei, e mi riebbe da morte a vita.

— E v’hanno portato buon augurio sapete? Roba che è stata addosso a
que’ du’ angioli dell’Anna e di Michele!

— E ora... ch’e’ non s’abbiano a riveder più i’ la stiaccio proprio
male! —[9]

Ma io voglio anche provarmi a darvi alla meglio un’idea delle fattezze
dell’Anna, perchè a sentir parlare d’una ragazza che ha il damo, vien
subito in capo che l’abbia ad avere un bel viso.... Come se una ragazza
onesta e laboriosa non potesse trovar marito senz’essere un occhio di
sole! Ho veduto che quando la Provvidenza assiste le fanciulle con la
sanità e colla voglia di lavorare, le si possono facilmente imbatter
bene, in un giovine di giudizio che guardi alla sostanza e non si
curi poi tanto della mostra. Certo lo so anch’io, le bellezze danno
nell’occhio, e sono subito corteggiate; ma così le fossero anche sicure
da tanti pericoli! Perchè molti s’innamorano solamente del viso, e non
sanno santificare l’amore con la religione della virtù, non considerano
le buone qualità della donna, non si preparano a coltivarle, a farne
prò per il bene della famiglia. E allora un affetto vano svapora
presto, e diventa fredda abitudine o passione invereconda. Allora la
donna si potrebbe rassomigliare ad un libro pieno di belle cose, ma
dato in mano a chi non sa leggere.

L’Anna, volendo stare a rigore, non era bella; bensì era aggraziata
e piacente, e di personale alto e dignitoso; aveva una bell’aria e
gentile, un incarnato pieno di pudore, di serenità, di freschezza; la
fronte spaziosa, i capelli neri e le ciglia grandi e bene inarcate;
ma il naso era piuttosto aquilino, e il labbro inferiore della bocca
un po’ troppo sporgente. In alcune fisonomie de’ nostri popolani[10]
si trova talora qualche lineamento dell’Alighieri. Gli occhi però
che danno vita al sembiante, gli occhi, nell’ampiezza delle nere
pupille e nella movenza risoluta e vereconda, mostravano la bontà e
la fortezza dell’animo e l’acume dell’intelletto; erano propriamente
una luce benigna, che accendeva amore e incuteva rispetto. Il vestito
di rigatino, il fazzoletto di cotone, il vezzo di corallo con una
crocellina d’argento, che era già stata sul petto della mamma, le
buccole di madreperla e il pettine di tartaruga: ecco le sue vesti ed i
suoi ornamenti che facevano spicco per semplicità e per lindura.

Cintio, già amico del suo fratello, se n’era innamorato vedendola
in San Lorenzo alla novena del Natale e le discorreva da qualche
mese. Maestro Cecco avendo avuto buone informazioni di questo giovine
(quantunque non gli andasse gran cosa a genio il mestiere che faceva),
e scorgendo che la figliuola n’era molto invaghita, lo lasciò venire in
casa, e l’assistè anzi di propria tasca, perchè si riscattasse dalla
coscrizione.[11] Di che Cintio aveva mostrato riconoscenza, era stato
puntuale a restituirgli a un tanto la settimana il denaro, e faceva i
suoi conti di poter presto aprir bottega da sè con la riscossione d’un
credito lasciatogli per eredità da uno zio. Intanto gli avventori ch’ei
serviva a tempo avanzato gli davano buon guadagno; e ancora che la
riscossione di quel credito dovesse andare in lungo, a motivo di certi
ammennicoli del debitore, il principale che gli voleva bene, e che già
per esser vecchio si riposava, era pronto ad assisterlo col suo credito
e a dargli avviamento per la nuova bottega.

Nella casa di sul Prato l’Anna trovò subito compagnia di suo genio.
Abitavano al primo piano una vedova e la figliuola, tutt’e due
tessitore; la ragazza era stata alle scuole normali di San Paolo a
tempo dell’Anna, e s’erano volute un gran bene. Quantunque le non si
fossero più riviste da qualche anno, pure nell’atto si riconobbero con
una festa da non si dire, e ristrinsero l’amicizia.

— Ma bene! — esclamava la Maria. — Chi poteva mai figurarsi che dopo
tanto s’avesse a essere pigionali? Almeno si starà allegre insieme!
S’ha a stare allegre, sai?

— Eh! me ne ricordo sì, con te non vi sono malinconie. Anche troppo
brio qualche volta! Ma ora non siamo più bambine.

— Io poi, vedi tu? son sempre la stessa; sempre di buon umore. L’uggia
non mi va a sangue. Povera, ma contenta; che vuo’ tu ch’i’ ci faccia?
Gli è naturale.

— Meglio così, quando non vi son pensieri che affliggano.

— A dire! I pensieri? tu mi parli di pensieri? Me ne sono un po’
accorta, sì, appena che t’ho visto. Che c’è egli?

— Eh! tu puoi considerare! Di donne in casa son rimasta sola....

— A proposito! Tu hai ragione! Che disgrazia! — E intravvenuta da pochi
mesi a questa parte! — Abbi pazienza! Sia fatta la volontà di Dio. Ci
vuole rassegnazione! O io? Tre anni fa! Il mio povero babbo! Figurati
che sebbene tu mi ritrovi allegra come alla scuola, i’ lo piansi, sai?
I’ lo piansi giorno e notte. Ma poi.... Che ci si rimedia col piangere?
Bisogna farsi una ragione: e per amor della mamma, che, poverina, il
dolore la rodeva senza darle pace, i’ feci tanto di smettere. E allora,
si sa, il naturale riprese il sopravvento. —

Questa ragazza leggiadra, briosa e faceta, pareva fatta a bella posta
per sollevar l’animo di chi l’avesse angustiato da una disgrazia,
di chi fosse un pochetto proclive alla mestizia. La conobbero anche
maestro Cecco e Michele; fecero presto amicizia da buoni vicini con
l’Elisabetta e con lei; e soprattutto al giovine piacquero così alla
prima le grazie ingenue della fanciulla.

Il giorno dopo, entrando in discorsi più lieti, la Maria domandò
all’Anna:

— Hai tu il damo?

L’amica rispose con un sorriso abbassando gli occhi.

— Già io me n’era apposta, — continuò la Maria, — e l’ho incontrato
per le scale; e me ne rallegro davvero, perchè gli è anco un bel
giovinotto!

— Bello poi! non lo so, e non importa. Il mi rallegro per questo non ci
ha che fare: se tu dicessi che gli è un giovine di proposito....

— Tu hai ragione.

— E se Dio fa ch’e’ si mantenga....

— Io te lo desidero con tutto il cuore. Ma a quanto veggo, niente
paura, Corbezzole! il damo in giubba?

— Gli è il mestiere, sai! E’ fa il parrucchiere.

— Ah! ora ho capito. Meglio così! Un mestiere che non fa venire i calli
alle mani. E c’è dei parrucchieri che la ricavano molto bene.

— Del resto, la giubba non mi tirerebbe davvero!

— Perchè? Questo poi, scusa, ma gli è uno scrupolo senza sugo.[12] Io
anzi, me ne terrei.

— A proposito! non per sapere i fatti tuoi; ma tu?

— Io? Oh! io non ci penso. Gli ha a passare qualche altro carnevale.

— Perchè?

— Figurati! figliuola d’una povera vedova. Senza aver potuto
raccapezzare ancora una dote.... Chè, chè! E poi voglio stare allegra
dell’altro.

— O che gl’innamorati non possono stare allegri?

— Quelli che ho visto io mi son parsi tutti rimmelensiti.

— Bisogna vedere con che sentimenti si mettono. Basta che l’amore non
levi la dritta al giudizio. Animo, animo! tu hai un buon mestiere, e il
marito ci dev’essere anche per te. Io te l’auguro, e presto. Oh! addio.
Ecco l’avviatora:[13] andiamo a finir questa tela. —

E le due amiche si separarono. La Maria canterellando si pose al
telajo, e l’Anna salì su pensierosa con l’avviatora.

Due o tre settimane dopo quel colloquio, Cintio andò in casa dell’Anna
vestito con più eleganza del solito, e tutto giulivo. Questo giovine
che aveva mostrato in principio buon naturale ed una certa sveltezza
di modi franchi e sinceri, adagio adagio, a forza d’imitare le
affettazioni della galanteria per rendersi ben accetto ai bellimbusti
e alle damine che gli affidavano la loro testa, era divenuto lezioso,
adulatore, loquace, voleva farla da faceto ma riusciva scipito, si
dava aria d’importanza ma cadeva nel ridicolo. Il sorriso continuo, il
passo scivolante, i gesti a scatti, gli occhi irrequieti lo facevano
parere uno scimmiotto. Il capo che in conseguenza del mestiere doveva
essere un capo-modello per la pettinatura, variava spesso di mostra,
ora prevalendo la zázzera ricciuta come se i capelli fossero tanti
cesti d’indivia, ora la zázzera liscia mozzata alla dirittura del
mento che dà alla testa la forma d’un cappello di fungo, ora il ciuffo
ritto a cetriolo; e tutte queste trasformazioni gli facevano variare
fisonomia come avverrebbe di chi si mostrasse con una maschera oggi
e con un’altra domani. Com’è dunque possibile che l’Anna, ragazza
piuttosto seria e molto giudiziosa, continuasse a dar retta a un amante
che diveniva così sguajato? Ricordiamoci che questo cambiamento era
accaduto a poco per volta: e poi fosse accortezza o fosse abitudine,
o piuttosto la soggezione che gli veniva dai portamenti dell’Anna, di
suo padre e di Michele, quand’egli era con loro pareva un altro; tale
quale un comico che sul teatro fa le parti di sciocco, ed in famiglia
sa star sulle sue. E a volte la circospezione d’una fanciulla savia e
l’oculatezza d’un padre prudente non sono rimaste deluse per qualche
tempo dalle apparenze? Quel giovine in casa della fidanzata pare
onestissimo, economo, mansueto, e poi riesce scostumato, sciupone,
collerico. Quell’altro dava a divedere molto senno, e messo alla prova
riesce uno stolido. Vero è che quest’inganni son più frequenti nei
matrimoni dei ricchi, dove le parti interessate per altri rispetti,
congiurano, si può dire, a danno del vero bene degli sposi inesperti;
mentre quando non c’è bisogno di tante stampìte[14] gli spropositi
saltano agli occhi più presto, e vi può essere il verso di rimediare in
tempo.

— Buone nuove — diceva maestro Cecco.

— Per l’appunto — rispose Cintio.

— Buone nuove sicuro! I’ ho succhiellato una bella carta![15] Quella
locanda nuova di Lungarno, lo sapete? c’è un cameriere mio amico, e
tanto basta! Lì arrivano forestieri a tutt’andare; e i forestieri non
hanno il granchio al borsellino.

— Eh allegri pure! I’ ho caro che tu cerchi d’avvantaggiarti. Ma
bada veh! con questi forestieri ci vuol giudizio. Le grosse mance
e straordinarie non sempre fanno prò quanto i guadagni discreti e
consueti. E con la servitù che vien di fuori-via? Con quella sì, che
bisogna stare all’erta! A volte ci s’imbatte in certi fior di virtù
segnati e abboccati,[16] che sono avvezzi a fare d’ogni erba un fascio.

— Davvero! — esclamava l’Anna con apprensione.

— Ditelo a me! — aggiunse francamente Cintio. — I’ non son mica un
ragazzo.

— Non te l’avere a male. Un po’ d’esperienza m’ha insegnato molte cose.
Basta che quando hai fatto il tuo servizio...

— A bottega subito; s’intende! Non mi lascio infinocchiare,[17] no, io!

— E tutta questa gala — proseguiva l’Anna additando il vestito nuovo.

— Oio![18] stasera c’è _appartamento_[19] a Corte; e ho da pettinare
due signore inghilesi che arrivarono jeri alla locanda nuova. Anzi,
ci vorrà pazienza; i’ vi dico addio. Voglio esser puntuale. Con loro
non si sgarra! — E dato un tenero sguardo alla fanciulla, se n’andò
frettoloso.

Nella stanza di passaggio del piano di sotto, Cintio s’imbattè con la
Maria che gli fece un garbato saluto. A quel saluto e’ rimase un poco
sopra sè a guardarla piacevolmente, si pavoneggiò; e restituita la
buona notte, proseguì pel fatto suo.

Intanto maestro Cecco esortava la figliuola a non stare in pensiero.

— Ho detto in quel modo, e quel che ho detto pur troppo è vero! Ma
Cintio finora m’è parso non solo onesto, ma anche avvistato; ad ogni
modo gli staremo alle costole noialtri, non dubitare. E se poi per
disgrazia e’ si lasciasse metter su da certe amistanze... Di giovanotti
non ce n’è carestia.

— Non lo dite nemmeno!

— Aspetta ch’egli abbia potuto aprir bottega da sè. Allora col lavoro
delle parrucche e dei fintini e col bisogno di badare allo sportello,
gli avrà meno occasione di bazzicare per le locande. — Ciò detto andò
a cena; e l’Anna che aveva premura di riportar presto la tela dal
mercante, proseguì a far correre la spola.

D’allora in poi Cintio venne sempre in falda di panno fine e in
corvatta bianca insaldata; e spesso prima di salir su faceva una
fermatina al telaio della Maria, sebbene la Lisabetta sua madre, quando
vi si trovava presente, sgridasse la figliuola e costringesse lui a
girar di bordo.

— Ma che c’è ogni sera il baciamano a Corte e la pettinatura
degl’inghilesi? — disse una volta l’Anna al suo damo nel mentre che
stavano insieme alla finestra.

— Perchè?

— Sempre in lucco!

— Oh bella! quel che ci va ci vuole. Sulle locande che ho a essere da
meno degli altri?

— La pulizia, son con teco.

— Se tu vedessi come vestono i servitori dei _milordi_! Ci sarebbe da
sbagliarli co’ padroni.

— Ma tu non sei obbligato a far tutto come loro.

— Guarda guarda! — e le additava un cameriere francese di sua
conoscenza. — Eccone uno là che torna dalle Cascine. — Il cameriere lo
riconobbe, lo salutò, e fece una scappellata svenevole alla ragazza,
benchè la si fosse subito tirata indietro. Allora Cintio guardandole
con un certo rammarico il vestito di rigatino:

— Anzi — soggiunse — questa robuccia ruvida e ordinaria non istà bene
neanche a te. Chi ti vede meco...

— Oh lasciami portare il rigatino quando non vi sono nè macchie nè tane!

— Tu mi fa’ ridere! E quando saremo marito e moglie?

— Mia madre, buon’anima, s’è vestita sempre da sua pari; e tu sai se il
babbo avrebbe potuto metterla in seta! Ma gnornò: Chi fa la seta, la mi
diceva, si deve contentare di portarla al mercante.

— Codeste sono idee stantìe. Guarda l’altre ragazze, tutte le ragazze
che hanno il damo.

— Giusto quelle, dovrebbero mettere il cervello a partito. Aspetta
ch’i’ abbia bell’e preparato tutto il corredo della biancheria, e
poi se c’entra qualche altra cosa ne discorreremo. Vuo’ tu ch’i’ non
ci abbia gusto anch’io a mettermi d’intorno un bel capo di roba e a
fartene onore?

— Dunque no’ siamo d’accordo.

— Ma prima l’essenziale. —

Questi medesimi discorsi ritornarono in ballo altre volte, perchè
Cintio in cuor suo avrebbe preso che l’Anna si fosse messa alla pari
di certe ragazzette sgargianti,[20] scolarine di crestaie e di sarte,
vagheggiate e ganzate[21] da’ servitori e da’ padroni scapestrati.
Anzi una domenica egli scansò d’andare a spasso con lei e con maestro
Cecco prima di sera, perchè la ragazza non era agghindata a modo suo,
ed il vecchio si manteneva sempre fedele ai calzon corti ed alle scarpe
con le fibbie.[22] L’Anna se n’avvide, ne rimase afflitta, e vi fu
un’ombra di dissapore; ma la n’era sempre tanto innamorata, che presto
si riconciliarono; e, come suole accadere, dopo un breve adiramento,
in lei almeno, si rinvigorì quell’affetto che per parte sua più grande
non poteva essere. — Quando m’avrà presa, pensava tra sè, lo contenterò
un pocolino sul principio, e poi, al primo figliuolo, addio grilli! Un
babbo bracciante ha altro che pensare! I vestiti belli allora sono i
figliuoli tenuti bene. —

Quasi tutti i venerdì, prima delle ventiquattro, la vecchia Lisabetta
andava da sè sola, e come di soppiatto, verso il convento del
Carmine,[23] e spesso si tratteneva fuor di casa fino a tardetto,
fin dopo l’arrivo di Cintio; il quale trovando la Maria senza
custodia, s’arrischiava allora a fermarsi con lei più del solito, per
chiacchierare barzellettando del più e del meno. Il brio della povera
tessitorina dava nel genio al parrucchiere galante, e in lei facevano
breccia le falde, il cappello di felpa rasata, i guanti e le garbatezze
affettate.

— Giovinottino, — la diceva sorridendo — vo’ fareste meglio a andare
pe’ fatti vostri; questa non è aria per voi. La mamma ha ragione; e
povera me se la capitasse qui all’improvviso!

— Vo subito via a gambe, vedete? Fo le scale in un attimo!

— Eh! lo veggo, sì; come il granchio.

— E da qui innanzi me ne vo ratto ratto senza neanche darvi la buona
sera.

— Meglio così; tutto fiato risparmiato.

— E meglio sarebbe che voi vi trovaste una volta un po’ di damo anche
voi. Allora chi s’è visto s’è visto.

— Oh! vo’ l’avete detta bella! I’ non vo’ cascamorti tra’ piedi.

— Anzi, i’ mi son messo in capo di trovarvelo io.

— Bravo! dunque di piantone a San Giovanni.[24]

— Perchè?

— Perchè ancora gli ha a nascere.

— Oh! lo vedremo!

— Lasciamo le celie. I’ ve l’ho detto e ridetto. Io degli uomini non ne
vo’ saper nulla. Se la non vi piace sputatela.

— Vale e che[25] voi ci cascate più presto d’un’altra?

— I’ so dove metto i piedi, ragazzo mio!

— Chi biasima vuol comprare.

— Neanche un quattrin bacato. Oh, bene spesi per tribolare tutta la
vita!

— Voialtre eh? Vo’ fate bene a metter le mani innanzi per non cascare.

— Noi, sempre confitte in casa a fracassarci il petto al telajo, ad
assaettarci coi figliuoli... E voi, chiedete e domandate, tutti gli
spassi son vostri.

— Gli è che anche a tenervi sotto chiave non basta.

— Come sarebbe a dire?

— Lo sapete com’è? Voi non potete soffrire gli uomini; e io lontano
cento miglia dalle donne, e tutti pari!

— E’ si vede!

— Voi non direte così domani.

— Badiamo veh! da qui innanzi, passando per andar su, neanche la buona
sera.

— Non vi sarà questo pericolo.

— E guardare in viso le donne....

— Mai!

— _Bene chidem!_[26] E per far meglio vo’ vi dovreste cavare gli occhi.

— I’ li terrò sempre bassi.

— E a vederne spuntare una da una cantonata....

— Io torno subito addietro.

— E se ce n’è una anche dietro?

— Allora poi....

— Fate una cosa: mettetevi l’ale per camminare tra’ nuvoli!... —

Ma se questo cicaleccio era insulso per le parole, non così per gli
atti e gli sguardi e i sorrisi, pieni di spensierato abbandono nella
Maria, e d’artifiziosa audacia nel giovine. La qual cosa avrebbe dato
molto da pensare a maestro Cecco, o avrebbe subito fatto conoscere
all’Anna quanto pericolo v’era che si fosse ingannata nel mentre che
ella, inconsapevole di tutto, stava su a tessere e ad aspettare il suo
damo. E questi, svagato al primo piano, incominciava a trovare insipida
la conversazione di quelli del secondo. Un amore soave, tranquillo,
verecondo, un conversare onestamente piacevole, assennato e condito
dalle paterne ammonizioni dell’esperienza, andavano perdendo per lui
ogni attrattiva. Egli avrebbe preso che l’Anna fosse stata più docile
a certe dimostrazioni d’amore fatte a modo suo, ma che non andavano
d’accordo con la ritenutezza della modestia. Un giorno, per esempio,
e’ s’ebbe a male che la fanciulla avvezza a ricusare ogni più piccolo
regaluccio, non volesse prendere neanche una bella _camelia_.

— A me piacciono più le rose, — diceva l’Anna — le camelie son belle,
ma non sanno di nulla. —

E chi le avesse detto che quel fiore era stato regalato a Cintio da
una cameriera inglese? Nè il rifiuto veniva da scrupolo eccessivo! ma
ella si ricordava che un’altra volta col pretesto di darle un mazzetto
di viole mammole, ei s’era preso la libertà di stringerle la mano di
nascosto a suo padre. Quando poi si tratteneva in casa il fratello,
non toccandogli sempre la nottata allo spedale, passavano parte della
veglia con un po’ di lettura; la fanciulla e il vecchio la gradivano
perchè sempre bene scelta, istruttiva e piacevole soprattutto quando
leggevano i _Promessi Sposi_ del Manzoni; ma il parrucchiere avrebbe
preferito le chiacchiere oziose o una partitina a briscola; insomma
egli, arrivò a desiderare piuttosto cinque minuti di colloquio insulso
colla Maria, che un’ora di lieta e morigerata conversazione colla sua
ragazza. Inoltre gli dava molestia la vigilanza perseverante di maestro
Cecco; non già che il buon padre dubitasse della sua onestà, chè allora
non l’avrebbe ricevuto in casa; nè era custode sofistico, e anzi gli
dimostrava tutto l’affetto e tutta la fiducia d’un futuro suocero; e
poi sapeva bene che la figliuola poteva guardarsi da sè: ma quale uomo
casalingo e padre veramente amoroso, il suo maggior gusto era quello
di godersi la compagnia della famigliuola, e non s’era mai dato esempio
che l’Anna fosse rimasta da sola a solo con Cintio, sebbene gli amanti
avessero tutta la libertà di ragionare delle loro più liete speranze.

Ma una sera che maestro Cecco, volendo spiegar meglio a Cintio i
regolamenti e i vantaggi delle Casse di risparmio era andato in camera
a prendere il suo libretto di credito, l’audace parrucchiere in un
batti-baleno[27] spiccò all’improvviso un lancio verso l’Anna, e con
tutta la svenevole agilità del ballerino le impresse un bacio sopra
la spalla. Essa fece subito il viso rosso come lo sverzino, e con la
minaccia d’appiccicargli uno schiaffo, lo respinse da sè.

— Dunque tu non mi vuoi bene! — esclamò Cintio.

— E voi non sapete come si fa a voler bene a me.

— Tanto non dobbiamo essere marito e moglie?

— E però queste confidenze non le voglio.

— Tu mi fa’ ridere! Scommetto io che la Maria non sarebbe tanto
schizzinosa. —[28]

Queste parole furono un rasojo al cuore della fanciulla; chinando
il capo si lasciò cadere di mano la spola, e nel raccattarla dovè
rasciugarsi una lagrima.

— Animo! — soggiungeva ridendo il parrucchiere.

— Ho detto per chiasso; ho voluto provare se tu eri gelosa....

— Non importa che vo’ facciate altre prove. Con questi sentimenti vo’
non fate per me!

— Così sul serio? I’ sarei capace di prenderti in parola, guarda! —

Il ritorno del padre troncò il dialogo, e l’Anna fece di tutto per
nascondere l’afflizione. Di lì a poco venne anche il fratello. Cintio
disse allora che aveva una chiamata alla locanda, e se n’andò via
frettoloso. Ma invece d’incamminarsi alla locanda, prese per le
mura[29] con l’animo turbato dalla stizza contro la severa virtù della
buona fanciulla.

Strada facendo raggiunse due donne che passeggiavano, e tirò di lungo
senza guardarle, ma potè udire queste parole:

— Sì, è lui; — e gli parve la voce della Maria, nel tempo che l’altra
con premura strepitava:

— Ti vuo’ tu chetare, poco giudizio? —

Allora si voltò, le riconobbe, e si mosse verso di loro.

— Ecco, — proseguiva la Lisabetta sgridando la figliuola, — I’ ti levo
di casa apposta per non far nascere scangei,[30] e lui anche per le
mura! Oh! i’ sono stufa sapete?

— Zitta via! — interruppe la figliuola pacificandola. — Non abbiate
paura. Cintio è un giovine di proposito; non è capace.... — E
volgendosi a lui: — Che novità son queste? che cosa venite voi a far
qui? a pettinare qualche albero? —

E intanto la vecchia proseguiva a strillare, a condurre indietro la
figliuola, a guardare il giovine a stracciasacco, e ad imporgli ch’e’
se n’andasse pel fatto suo.

— Dunque, — rifletteva questi tra se e sè, — la Lisabetta ha qualche
ragione per dubitare. Ho capito; sono a cavallo. — E poi esclamò a voce
alta, ponendosi dalla parte della fanciulla: — Il fatto mio è questo.
Appunto venivo a cercarvi.

_Maria._ Davvero? Perchè mai?

_Elisabetta._ Finiamola, e subito!

_Cintio._ Il male è che voi la pigliate in burla; ma i’ vi dico e vi
giuro che se vo’ mi volete bene....; meno discorsi! l’Anna non è per
me. Stasera ci siamo sciolti. —

E lo disse con tale veemenza, che le donne s’arrestarono stupefatte,
senza rifiatare, a guardarlo con tanto d’occhi. Poi la Lisabetta
tirando a sè la ragazza, con animo più risoluto:

— Vo’ siete spiritato — gridava. — Vo’ avete perso il giudizio. Già si
sa; le solite cose. Oggi rotti e domani più cotti[31] che mai! Ma non
istà bene motteggiar così con chi non pensa a voi nè punto nè poco.
E se gli è vero che v’abbiate lasciato l’Anna, meglio per tutti; vo’
non avrete più occasione di venirci tra’ piedi; vo’ potete baciare il
chiavistello del nostro uscio. —

La Maria stava zitta, e, forse per la prima volta in vita sua, divenne
seria. Cintio spiegò quel silenzio a modo suo; e vedendo che la teneva
gli occhi bassi e che non badava alle parole della vecchia, credette
d’aver dato nel segno. Allora finse di volere obbedire alla Lisabetta,
prese di furto la mano della fanciulla che non ebbe tempo di ritirarla,
e dicendole sottovoce: — Se tu non vuoi la mia morte, hai capito! —
proseguì a gambe verso la Fortezza.

A quella stretta di mano, a quelle parole da primo amoroso in tragedia,
la Maria mandò un grido sommesso, rabbrividì tutta, e si lasciò
trascinare verso casa dalla madre che non potè udire quel grido nè
accorgersi dell’insolita commozione della fanciulla, perchè infatuata
dalla collera continuava ad esclamare: — Vien via! Al suon d’un raglio
non bisogna cetra.[32] Poerin’a me! a queste suzzàcchere[33] m’ho a
ritrovare? Già l’ho detto veh! Tu gli hai dato troppo braccio. Oh! Ma
i’ la finirò io; i’ glieli leverò io questi grilli del capo. Garbatino!
mettersi oggi con una, domani con un’altra. Una bella moda gli hanno
imparato questi arnesacci trincati![34] E po’ lui che pratica tanti
be’ ciaccherini,[35] tanta signoria, e i cavalier serventi delle dame!
Noe, noe! anco ch’e’ fusse novizio e’ non farebbe al caso per noi; e
tu ne puoi far subito il pianto. Alla larga! S’i’ fussi!... Tu ci ha’
dato e non fo celia! Ma i’ mi farò sentire con una buona parlantina
in grammatica a maestro Cecco e a quell’altra daddolosa![36] E’ se
l’hanno a tener per se quel giojello. E se gli avessero a traccheggiare
dell’altro, so io quel che va fatto! I’ cerco subito du’ stanzucce,
chiama e rispondi, in via San Zanobi o in via de’ Pentolini....[37] Tu
ha’ a dire ch’e’ venga lì con credendo d’appiccicarsi a noi! Prima di
rivederlo tu vuo’ sentir sonare più d’un doppio. E in quel caso, a fin
di giuoco, no’ ci riparleremo! I’ n’ho pochi degli spiccioli, veh io!
Tu lo sai, non c’è bisogno che nissuno mi venga a insegnar cantare; i’
sono stata prima vin che aceto![38] E con questi due cernecchiucci[39]
di capelli, bench’i’ sia povera e vecchia, quand’i’ mi sento
arrugginire il sangue, mi basta l’animo di fare anche un ricorso al
Commissario.[40] —

E di questo passo la vecchia, senza potersi attutire, tirava innanzi a
sgridar la figliuola e a metter fuori proponimenti per troncar diviáto
la tresca; finchè, entrata in casa, la ragazza si lasciò andar bocconi,
sulla sponda del letto, e diede nel piangere.

La mamma, non avvezza a veder le sue lagrime, si lasciò intenerire, e
non aperse più bocca. Su, al secondo piano, non si sentiva uno zitto;
e anch’esse andarono chete chete a dormire, sebbene la Maria stentasse
molto a chiudere gli occhi. Riflettendo a quella improvvisa risoluzione
ed a certi discorsi fatti più volte da Cintio ne’ suoi rincontri alla
sfuggita, la si convinse ch’e’ doveva essersi sciolto per davvero,
e le parve allora d’aver corso un po’ troppo con le risposte. — Ma
come fare? — diceva tra sè, — che l’ho a costringere io a pigliarla
per forza? O se gli avesse conosciuto prima me?... Povero Cintio! Si
vede proprio che gli aveva sbagliato.... E poi, e’ non si troverebbe
mai d’accordo con Michele. Michele, sicuro, anche lui è un giovine di
proposito; ma sempre serio, troppo sorniòne.... Chi sa che cosa sarebbe
seguito con que’ due naturali così opposti fra loro! — E in fine, un
po’ di vanità e un po’ di compassione la persuadevano che non avrebbe
fatto male a dargli retta. Indi la s’affliggeva di questa tentazione,
e poi la ritornava a compiacersene; e così fu quella in vita sua la
prima notte vegliata nelle afflizioni. Anche l’Anna, quando fu rimasta
sola, ebbe bisogno di piangere, anch’ella si trovò a contrastare fra
due opposti sentimenti; ma presto il migliore prevalse; e col pensiero
a sua madre, della quale ricordava sempre i consigli e i conforti, potè
quetarsi nel refrigerio d’un sonno tranquillo.

Sperando intanto la Lisabetta che questa faccenda potesse morir lì come
un capriccio che presto svanisce, non si volle confondere a parlarne
con chicchessia, o pensò che fosse meglio aspettare l’occasione
propizia. In una donna della sua indole il lasciar raffreddare il
primo bollore era lo stesso che non far nulla, lo stesso che succiarsi
una disgrazia come se ormai non vi fosse rimedio. Anzi pareva che
al crescere del rischio la si studiasse più che mai di levarne il
pensiero, non avendo coraggio di mettersi a repentaglio contro di esso.

La sera dopo, Cintio non si fece vedere nè su nè giù. Queste vacanze
non erano insolite: un _circolo_ a Corte, l’_opera_ alla Pergola
o qualche festa di ballo potevano tenerlo impelagato attorno alle
signore fino a tardi; ma l’Anna s’era già messa in sospetto; e benchè
deliberata a disfarsene, la non poteva fare a meno di non patirne; la
spina era troppo confitta dentro. Intanto il parrucchiere che faceva
la posta alla Maria quando andava dal mercante in Vacchereccia, la
rintoppò in Parione allo sbocco del vicolo che mette in una stradella
senza riuscita detta del Purgatorio. La ragazza, appena l’ebbe
visto, avrebbe voluto tirar di lungo; ma come resistere a un’occhiata
fulminante, a un viso pallido e costernato, a tutti gli artifizi d’un
seduttore? E quelle parole «se tu non vuoi la mia morte» le erano
rimaste tanto impresse nell’animo, che zitta zitta si lasciò condurre
in disparte, ed eccoli proprio insaccati nella via del Purgatorio, dove
senz’esser visti da alcuno potevano discorrere a loro bell’agio.

— I’ volevo ben dire che tu avessi il cuore di non mi mantener la
promessa — incominciava Cintio.

— Che promessa? Adagio! — rispose la Maria turbandosi.

— Io son libero, — e all’improvviso si mostrò tutto rasserenato. —
E’ me n’hanno fatte tante che alla fine son libero! Ma che libero? I’
son tuo; tutto tuo in sempiterno. Ora conosco che cosa vuol dire fare
all’amore. Maria, tu eri nata per me. I’ ti cercavo per mare e per
terra. Alla fine ti ho ritrovata. Chi ci volesse separare, sarebbe
lo stesso che distruggere le leggi dell’universo. — E accompagnando
con gesti enfatici questa tirata presa ad imprestito dal libretto
dell’_opera_, si levava di dito un cerchiettino d’oro: — sia questo il
primo pegno del nostro amore; e questo sarà il più bel giorno della mia
vita! —

La Maria ritirava la mano, non voleva prendere l’anellino; ma fu
impossibile, chè in quel mentre udendo i passi di qualcheduno, la
cominciò a tremare come una foglia, e Cintio s’approfittò accortamente
di questa improvvisa apprensione per indurla in fretta e in furia a
promettergli corrispondenza. Il sì, in quel frangente, per un’anima
debole era più pronto del no; e dall’averlo detto, quasi per ripiego
con la paura d’esser trovata a discorrere nella strada con un
giovinotto, facilmente si ridusse a desiderare di sostenerlo. — Se
l’ha a esser questa la volontà del Cielo, facciamola; — ecco la sua
conclusione; ecco il pretesto col quale cercò di nascondere il proprio
rossore nel separarsi da Cintio. Ma gli è anche vero che le ci volle
del buono e del bello prima di ritrovare la diritta via, prima di
muovere il passo con tutta franchezza.

Il parrucchiere poi se n’andò baldanzoso e giulivo, e subito in cerca
di maestro Cecco col quale di punto in bianco si pose a discorrere del
poco fondamento che v’era nelle sue speranze sull’eredità dello zio per
aprir bottega, rimbobolando[41] non so quante fandonie, e toccando ora
un tasto ora un altro per coglier l’occasione di guastare i concerti.

— Che vuo’ tu ch’i’ ti dica? — rispondeva l’onest’uomo, sorpreso ma
non imbarazzato da quello stravagante guazzabuglio di parole senza
costrutto. — A tutto c’è il suo rimedio. E alle corte, tu sai com’i’
son fatto. La Provvidenza non m’abbandona; sarà il male d’aspettare un
po’ più.

— Mi passa l’anima il pensiero dell’Anna. Se la faccenda va in lungo,
se il diavolo ci mette la coda....

— In quanto all’Anna, figliuolo mio, l’Anna non avrebbe neanche tanta
furia. Tu sai che non ci piace di far le cose alla peggio. E tu non ci
scappi....

— Ma.... e poi ma.... — E a forza di _ma_ il petulante venne fuori con
tanti casimisdei,[42] che maestro Cecco non potendo raccapezzarsi dove
e’ volesse andar a finire colla cantata, si sentì un certo bruscolo
nell’occhio da inferirne assai male. Nondimeno la cosa giungeva tanto
improvvisa, che per paura d’offenderlo con cattivi giudizi, non volle
stringergli i panni addosso con qualche domanda più concludente, senza
prima scandagliare l’animo della fanciulla. Sicchè Cintio, vedendo che
non gli riusciva di far breccia, pensò meglio d’andarsene, sebbene con
le trombe nel sacco, ma deliberato ormai di buttar giù buffa[43] senza
tanti riguardi.

Infatti fece vacanza anche per quella sera; e maestro Cecco, passata
che fu l’ora senza vederlo capitare, guardò in viso alla figliuola,
e conobbe bene che la si sforzava di addimostrare tranquillità e
indifferenza.

— Cattivo segno! — disse tra sè; — qui c’è del buio. Dio voglia ch’i’
non l’abbia indovinata. — Poi volgendole la parola: — E Cintio?
Ma quanto durano le sfuriate del lavoro? Che siano arrivati molti
forestieri? Che c’è _appartamento_?[44] Non ti disse nulla? Non mi
rispondi?

— No, non mi disse nulla.

— E’ par giusto giusto ch’e’ non te n’importi.

— Se gli ha da lavorare, mi farò una ragione.

— Figliuola mia, ha’ tu nulla da confidare al tuo babbo? Ecco qui, no’
siam soli. Discorriamo un po’ tra di noi.

— Volentieri, babbo.

— Dimmi; che c’è stato qualche cosa? Che siete un po’ grossi? Io,
sì.... lo confesso, i’ son piuttosto severo su questo punto. Ma via! se
Cintio avesse il torto.... gli dirò il fatto mio: debbo farlo; ma poi
so anche compatire; non aver paura.

— Che gli perdonereste, puta caso, un’impertinenza?

— Oh! qui poi ne lascerò giudicare a te.

— Io? io no! — E non resse alla pena: chinando il capo sul petto, e
coprendosi il viso con le mani le convenne dar la via alle lagrime.

Il padre la lasciò piangere; e poi: — Tua madre avrebbe fatto lo
stesso. Coraggio! Tu la somigli in tutto e per tutto. E la ti sente,
sai? la ti vede, l’è qui a farti animo. Sì, no’ piglieremo consiglio da
lei. — Datole il tempo di sfogare la commozione di quella memoria: — E
ora, — riprese, — ora che tu ci avrai ripensato anche meglio, puoi tu
dirmi se tu se’ sempre del medesimo sentimento?

— Sì, babbo; — e pronunziò quel sì senza piangere, con la fermezza
della virtù che ha saputo resistere a tutte le seduzioni.

— E domani e domani l’altro? Anche s’e’ venisse qui pentito a
confessare lo sbaglio, e a chiederti perdono?

— E perchè non è ancora venuto?

— Nondimeno aspettiamo dell’altro — concluse il vecchio. — Tutti
possiamo sbagliare; e chi è buono, sa ravvedersi. — Ma in cuor suo
aveva già immaginato che la faccenda fosse senza rimedio.

La sera dipoi aspettavano in silenzio la venuta del parrucchiere,
quando Michele tornando a casa e trovandoli soli, domandò se Cintio
s’era visto.

— Ancora no — rispose l’Anna tranquillamente.

Il padre gli fece cenno di stare zitto, e dopo alcune parole
indifferenti, andò in camera dietro a lui. Costì Michele esclamò subito
con risentimento:

— Dunque non ho sbagliato io! Vorrei un po’ sapere a che giuoco si
giuoca!

— Perchè? di’ adagio.

— Dicerto era lui! Quando passavo dalla Vigna,[45] era lui sotto il
lampione; ho buona vista veh io! a discorrere fitto fitto con la Maria.

— E anche se fosse vero?

— Se fosse vero? Corpo di bacco! — avviandosi minaccioso per uscire.

Maestro Cecco lo rattenne.

— Ma non ti riscaldare senza riflettervi. Poniamo che Cintio fosse
capace d’un tradimento; allora dimmi un poco, il levarselo di torno che
sarebbe perdita o acquisto?

— Senza fargliela pagar cara? senza empirgli il muso di ceffoni?

— Michele! con chi parlo io?

— Ma l’Anna che cosa dirà?

— L’Anna saprà rassegnarsi. La s’è già avvista di qualche cosa.

— E lo smacco? E i braconi subito pronti a pensar male delle fanciulle?
Un giovinotto che ne pianti lì tre o quattro una dietro l’altra, riman
sempre lo stesso; ma per loro è diversa.

— Lascia cantare. Chi ha bene in pratica la mia famiglia non piglierà
la cosa a rovescio come tu credi. E poi tra due mali il peggiore
sarebbe quello d’aver acquistato un cattivo parente. S’e’ non cerca più
di noi, t’assicuro io che non avremo ragione di cercar lui.

— Se gli è un poco di buono, e’ non l’ha a passar così liscia.

— Non facciamo scalpóre quando c’è di mezzo la fanciulla. E scalpóre
perchè? Bisogna anzi ringraziare la Provvidenza che ce l’ha fatto
conoscere in tempo!

— Povera Anna! Dopo tante belle speranze! Dopo tante promesse!

— Ti ripeto che la l’ha capita da sè.

— E per l’appunto la pigionale!

— Lo vedi tu? Per conoscere un uomo bisogna provarlo nel cimento.

— Gli è che mi dispiace anche per la Maria! Dunque sarà ingannata anche
lei! È egli possibile che l’abbia ad avere tanto poco giudizio?

— S’e’ ci si potesse rimediare!

— Proprio ingannata! Perchè i’ la conosco! So io! Gran disgrazia
d’avere per madre...! Basta! s’e’ s’ha a lasciar correre, lasciamo
correre; ma fate conto ch’i’ durerò una gran fatica a mandarla giù. Sì
davvero!

— Michele — e lo guardava con attenzione — i’ t’ho per un figliuolo
prudente. S’e’ si può impedire il male di quella ragazza, facciamolo.
Ma la faccenda è delicata; e questo tuo calore.... Sbaglierò.... Ma
bada!...

— Dio voglia che se Cintio è un cattivo soggetto non la faccia capitar
male. Non dirò altro. E maledetto il primo giorno ch’i’ gli parlai.

— No, figliuol mio, il maledire sta sempre male. Ritorna in te.
Prudenza, e pensiamo all’Anna. Intanto dammi retta. Doman l’altro la
riporta la tela al mercante.... S’e’ non ci sarà nulla di nuovo....
Mi dispiace che per l’appunto ora i’ non posso lasciar la fabbrica!
Basta, tu piglierai un calesse e l’accompagnerai lassù a Malmantile a
casa della mia cognata. E’ s’era detto di farlo anche dopo la disgrazia
della mamma; e per cagione di colui ne levammo il pensiero. Quella
buona creatura v’aspetta a braccia aperte. Che cosa ne dici tu?

— La mi par pensata bene.

— O andiamo di là; ad ogni modo il tempo darà consiglio. —

Le donne, in molte cose, e massime se si discorre d’affetti, sogliono
avere penetrazione più squisita degli uomini; ed i giovani, sempre
più fervidi degli uomini fatti, non sanno contenere quanto bisogna
gl’interni moti dell’animo. È meglio questo che una studiata posatezza,
la quale nell’uomo onesto può essere prudenza opportuna, ma nel giovine
può facilmente diventare simulazione. Perciò l’Anna capì subito il
motivo dell’insolito colloquio tenuto in camera tra il padre e il
fratello; e questi, suo malgrado, le diede a conoscere che la non
s’era ingannata. Anzi, ella fece presto un’altra scoperta; e le bastò
di non trovare secondo il solito la Maria al telajo quando scendeva le
scale per andar fuori, e di non si veder salutata lietamente a viso
aperto come prima dalla Lisabetta. Ebbe poi piena conferma delle sue
congetture, se non fosse bastata l’assenza di Cintio, nell’andare col
fratello a Malmantile.

Il cavallo, povera bestia, giacchè da un pezzo aveva perso il brio
e il vigore della gioventù, non s’era trovato mai a camminare così a
bell’agio come in quel giorno. Appena furono fuor di porta, le guide
sempre ferme, e la frusta sempre zitta.

— Tu hai un bel dire, quel che è stato è stato, — cominciò allora
Michele — ma i’ ho paura che tu te ne voglia ricordare per un pezzo.

— Sì, come quello che s’è visto cascar la saetta accanto senza rimanere
incenerito.

— Dio faccia che la tua salute non ne risenta. Tu t’affatichi a fare
l’indifferente....

— Che ti pensi tu? l’ho pianto sai? Dell’ore da piangere ce ne sono
state, e dimolte!

— Ed io avrò sempre il rimorso....

— Di che? se mai, i’ mi ricordo che tu non eri po’ poi tanto contento.
Ma che cosa occorre tornar sul passato? Se tu ti affliggi di questo,
per carità, non lo fare. Gli è che.... Michele, nessuno ci sente. I’
non vorrei che questa disgrazia ne tirasse dietro un’altra. Ma che
cosa dico disgrazia! Per me la sarà stata una fortuna. Ma se colui si
mettesse dintorno.... Dimmi, ti se’ tu avvisto di nulla?

— I’ stavo zitto io, perchè.... Ma tanto, prima o poi, tu l’avresti a
sapere anche tu.

— Dunque non ho sbagliato.

— I’ stavo zitto per via di te.

— Per via di me? Figúrati! I’ penso a quella povera disgraziata io! Se
la non arriva a conoscerlo in tempo! S’e’ sa fingere con lei come gli
ha fatto con me!

— Che vuo’ tu ch’i’ ti dica? Suo danno!

— E ora, anche tu mi vien fuori con l’indifferenza. Come s’i’ non mi
fossi accorta d’ogni cosa!

— Ma insegnami il rimedio, se ti riesce! E poi, oramai, no! Ora è
finita! Anco se la l’avesse guardato in viso una volta sola!...

— Michele! questo è troppo! La non sapeva nulla: pensaci bene! La
non ha esperienza. I’ non dirò che tu facessi male ad aspettare, per
conoscerla meglio; questo sì; ma ora la va compatita.

— Gli è inutile!

— No, Michele! tu mi daresti davvero un gran dolore. Guarda, ora i’ ci
vo a mal’in gambe in campagna. Se potessi, tornerei addietro. Ma tu,
oh! tu m’hai a promettere....

— Io? i’ non ci penso più, te lo giuro.

— E per l’appunto perchè tu lo giuri, i’ non te lo credo. Se c’è verso,
te lo chiedo in carità, fa’ di tutto. No’ siamo ancora in tempo. Se non
per te, almeno per lei. Ricordati che l’è mia amica.

— Ancora? Dopo quello che la t’ha fatto?

— E vorresti tu darne tutta la colpa a lei? I’ non credevo che tu fossi
ingiusto come tanti altri. E’ ce li fanno far loro gli spropositi, e
poi non ce li vogliono perdonare.

— Dunque se la Maria si ripentisse?

— Dio lo volesse! Centomila perdoni. E poi ho già perdonato, mentre
considero che la sia stata messa in mezzo.

— E lui?

— Di lui non ne parlo.

— Dunque compatisci anche me.

— Oh! ma la cosa è troppo diversa. E’ mi discorreva da un pezzo; e lei,
poveretta, la non si sarà neanche arrischiata a figurarsi che un giorno
o l’altro tu avessi potuto.... I’ la conosco: con la sua allegria la
par franca; ma non è vero; e tu le davi soggezione!

— Ma levare il damo a un’amica! Senza franchezza non si fa davvero!
anzi, ci vuole sfacciataggine.

— No’ siamo al solito. O tu non mi capisci, o tu fa’ le viste!

— Non t’inquietare: i’ vedrò meglio come sta la faccenda; e poi,
giacchè tu me lo consigli....

— I’ te lo consiglio, e mi raccomando.

— Farò una prova; ma ci spero poco. —

E le medesime cose, con altre parole, ridissero più d’una volta,
venendo sempre alla medesima conclusione, finchè non furono arrivati
alla Lastra a Signa, dove il marito della zia, era giorno di mercato,
gli aspettava, perchè maestro Cecco gli aveva già mandato scritto ogni
cosa.

Sandro, con la sincera cordialità d’un onesto campagnuolo, fece ai
nipoti un visibilio di feste, montò sul suo cavallo, e presero insieme
la strada di Malmantile, discorrendo lietamente del più e del meno.
Arrivati presto alla salita, anche l’Anna volle scendere di calesse; e
allora i modi gioviali di Sandro e la vaghezza del luogo la distrassero
alquanto da’ suoi dolorosi pensieri.

La strada, serpeggiando lungo un torrente, saliva su ripida ripida,
framezzo ad amene collinette, in parte coltivate a vigneti, in parte
rimaste selvatiche. Dopo un bel tratto di verdeggiante e popolata
pianura, quel luogo svariato, un po’ solitario ed alpestre, diveniva
anche più gradevole; e il cielo sereno, l’aria purissima, la fragranza
delle piante aromatiche, le ginestre e le scope fiorite accrescevano la
bellezza della campagna e il diletto di passeggiarvi.

Dopo aver salito alquanto, ecco l’orizzonte a poco per volta farsi più
largo; e a destra, sull’opposta riva dell’Arno, sorgere in lontananza
le pittoresche cime d’Artimino, di Pietramarina e di Montalbano; a
sinistra i gioghi della Romola, e di faccia di quando in quando il
castello di Capraja, o la veduta dell’Arno, o una porzione della
pianura Empolese. Dove la campagna montuosa apparisce meno fertile e
meno coltivata, in quella vece fanno più spicco le collinette scoscese,
e le fettuccine di terreno verdeggiante messe a frutto più qua e più
là dall’industria; e l’occhio è ricreato grandiosamente dalle vedute
di molte miglia di paese lontano, dallo spettacolo delle boscaglie di
pini che incoronano i monti slanciando le folte chiome nell’azzurro del
cielo, e dai gioghi maestosi dell’Appennino che in maggior lontananza
incorniciano il quadro.

— Beato voi, — esclamava Michele verso lo zio — beato voi che vi godete
quest’ameno soggiorno lavorando la vostra terra! Noi altri sempre
laggiù in quel catino, imprigionati fra le case, spesso affogati
nella nebbia, e poi e poi.... non vo’ dir altro! No’ siamo proprio
disgraziati!

— Eh giovanotto mio, — rispose il contadino con un sorriso — tu’ di’
bene, ma questa bell’aria costa dimolti sudori per chi deve campare
della propria fatica.

— L’è la vostra salute.

— I’ vorrei che tu fossi quassù a’ solleoni per le faccende, o agli
stridori del verno, o quando tira la tramontana, che ci rammonta la
neve sull’uscio e ci leva di peso dal focolare.

— Vo’ ci siete avvezzi; e se vo’ aveste a lavorare la terra di un
padrone, forse direi!... ma per il vostro poderetto dove nissun altro
comanda, tutte le intemperie si possono tollerare più volentieri.

— O rimediala quando l’annata va a traverso! E che dopo esserci
sbonzolati,[46] bestie e cristiani, su per que’ greppi, un alidore
brucia le grasce in erba, o, arrivati alla falce, un diluvio ce le
atterra; quando una percossa di grandine ci sperpera l’uva, o quando
un turbine di vento ci porta via l’ulive bell’e annerite! Avendo
da rifarsi con altre terre, pazienza; ma chi ha solamente quattro
zolle?...

— Niente paura! Dopo il cattivo ne viene il buono. Un’annata
d’abbondanza vale per tre di penuria.

— Ma voialtri non avete questi timori: il lavoro a chi sa fare e a chi
ha voglia non manca mai; ed ogni sabato vi viene snocciolato il vostro
salario.

— S’i’ mi lamentassi per me, mi parrebbe di mormorare della
Provvidenza; ma gli è anche vero che la legatura perpetua non
conferisce, e dà più fastidio di tutte le stravaganze delle stagioni.
Io, vedete, i’ starei a patto di non toccar mai la palla d’un
quattrino,[47] purchè la zappa e la vanga mi dassero il campamento
all’aria aperta.

— Vuo’ tu fare a baratto?...

— Insomma, — interruppe l’Anna ridendo — vo’ mi volete far credere
anche voialtri che in questo mondo non ci sia bene per nessuno. Io poi,
ve l’ho a dire? mi ricordo delle parole del babbo: Chi si contenta del
proprio stato sta bene per tutto.

— E ha ragione! — risposero gli altri ad una voce.

Del resto, nessuno de’ due interlocutori era indiscreto, nè avrebbe
osato rammaricarsi sul serio. Ma è troppo naturale al cittadino
innamorarsi delle bellezze campestri, e al campagnuolo vagheggiare
i comodi della città; perchè, lasciando stare tante altre ragioni,
chi visita per poco o quella o questa, ne vede solamente il meglio.
Nondimeno i’ mi sarei messo dalla parte di Michele a preferire la
campagna e l’agricoltura. La semplicità del vivere che molto giova
ai buoni costumi, per dirne una, vale assai più di tutte le agiatezze
cittadinesche che sì facilmente li depravano.

Già erano pervenuti i nostri viaggiatori sotto la diroccata bicocca
di Malmantile, resa tanto celebre da quel bizzarro ingegno del
Lippi,[48] quando videro venirsi incontro tutte giulive la moglie di
Sandro e le sue figliolette. Figuratevi le accoglienze amorose, gli
amplessi ed i baci! Le donne non s’erano viste da molto tempo, e quello
sfogo d’affetti veniva propriamente dal cuore. Attraversando alcuni
campi, giunsero a casa dov’era già apparecchiata la mensa. Michele
si trattenne quanto occorreva per rifocillarsi e per far riposare il
cavallo, e poi gli convenne tornare sollecitamente a Firenze. Nè le
istanze di tutti, perchè si trattenesse dell’altro, nè le seducenti
bellezze della campagna, valsero a fargli scordare il proprio dovere.

In quel luogo ameno e tranquillo, in compagnia di gente proba,
lieta, operosa, l’Anna avrebbe potuto riaversi; e chi l’avesse
vista corrispondere con serenità alle attenzioni degli zii e delle
cugine, avrebbe creduto che il suo animo fosse privo d’afflizioni.
Ma vo’ potete immaginarvi se v’era da starsene alle apparenze! Come
dimenticare così subito un affetto nutrito per lungo tempo, sebbene la
cagione di levarselo dal cuore così all’improvviso non fosse stata sua?
E quante dolci speranze perdute a un tratto? E che rammarico doloroso
d’un inganno durato tanto! Poi la passione de’ pericoli ai quali si
trovava esposta la sconsigliata amica, e più che altro il considerare
il dispiacere del fratello che vedeva andare in fumo una cara speranza.
Che anzi le bellezze della campagna, la contentezza che traspariva dai
volti de’ parenti affettuosi, e la grata vista d’una famiglia governata
dall’amore, e nella quale la temperanza, la semplicità e la voglia
di lavorare producevano beni molto preferibili alle ricchezze; tutto
ciò produceva nell’Anna un doloroso contrasto col suo stato presente.
Quante volte la s’era figurata anch’essa di dover godere della medesima
pace, di vedersi crescere d’intorno una famigliuola sua propria, e
d’accogliere in seno affetti nuovi e puri e soavi e costanti!

Ora non più! Tutto sparito come sogno. Sicchè dopo i lavori e le
ricreazioni della giornata, quando la rimaneva sola nella sua
cameretta, affacciandosi alla finestra per godere la vista del
firmamento, le venivano giù in gran copia le lagrime, rattenute a forza
per tante ore; ed il sonno non era più un dolce riposo per lei, ma il
languido assopimento di chi è stanco di soffrire.

A Firenze v’è chi ride; ma quante volte il riso d’una persona è più
lagrimevole del pianto d’un’altra! La Maria aveva dato facile ascolto
a tutte le fandonie inventate da Cintio per dissipare i suoi scrupoli;
ormai s’era abbandonata per l’affatto alle seduzioni della vanità
e dell’amore capriccioso; non si saziava di giubbilarne; tutto le
compariva color di rosa. Ma la mattina, appena albore, ed essendo
sempre tra il sonno e la veglia, le s’affacciava un rimorso, come
se l’Anna fosse apparita lì per rimproverarla d’un tradimento. Tutta
rimescolata, — Io? — balbettava — non ci ho colpa, veh, io! Gli è stato
il caso; e poi, tu non dovevi licenziarlo. Tu gli ha’ dato lo sfratto;
ora tant’è che sia io od un’altra. Non mi guardare in quel modo; tu mi
fa’ paura. — E riscossa e svegliata con la ricordanza confusa di quel
breve farneticare, la si confortava, rammentandosi che la pigionale
era fuori di casa, e dicendo con un sorriso: — Manco male, l’è andata
via! —

Cintio poi trovava alla fine tutto il suo pascolo nell’aver per dama
una fanciulla ghiribizzosa,[49] di bellezza appariscente, dedita a
fare spocchia[50] di belle vesti, poco austera negli atti e nelle
parole; e godeva più che altro di non ritrovarsi a quella suggezione
d’un padre autorevole ed accorto e d’un fratello assennato. V’era la
Lisabetta; ma come volete voi che la povera vecchia con tutte le sue
sfuriate di chiacchiere non si lasciasse prendere il sopravvento da
un appaltone[51] inforestierato? L’ebbe un bel dirgli e ripetergli: —
Badiamo bene! prima di lasciarvi discorrere con la me’ figliuola i’ vo’
sapere che intenzioni siano le vostre! Che vo’ non vi crediate d’aver
che fare con una milensa; qui vo’ non troverete il terreno morvido come
su. I’ non son maestro Cecco io; quando nacque il suo diavolo, il mio
andava a processione.[52] _In primis_[53] e’ s’ha a fissar bene; e’
voglian esser patti chiari; e promettere e mantenere. In casa mia s’usa
così. Nissuno vi ci ha chiamato.... — e via discorrendo. Promettere? E
che cosa costa far credere il panno largo, ed obbligarsi anche a faccia
fresca per iscrittura a chi s’è fatto spergiuro con un’altra? a chi
non si ricordava d’aver visto morir contenta una madre colla speranza
che fosse assicurato il buono accasamento della figliuola? E dopo le
promesse ed i giuramenti, la povera vecchia si diede maggiormente pace,
vedendo che i pigionali stavano zitti, che l’Anna se l’era battuta, che
Cintio non rifiniva a regali; inoltre ogni repugnanza svanì addirittura
quand’ebbe scoperto in esso una segreta passione, che per lei era buon
requisito, la passione vo’ dire del giuoco del lotto. Con una terzina
battezzata per sicura, con una cabala da tirar fuori la vincita, Cintio
poteva comandare a bacchetta.

Poco ci volle a Michele per accorgersi di questa conformità degli
animi; e per quanto se ne addolorasse molto, e propendesse ad obbedire
alle raccomandazioni della sorella ed ai suggerimenti del proprio
cuore, nondimeno si trovò legate le braccia, e dovè concludere che il
caso era proprio disperato.

Nel medesimo tempo la sorella, benchè sempre distratta dalle amorose
attenzioni de’ buoni parenti, non poteva più sopportare di trovarsi
lontana dalla casa paterna; ed il non saper nulla di quello che Michele
avesse potuto risolvere le dava molto martòro. Dopo una ventina
di giorni maestro Cecco era andato lassù coll’intenzione di farle
solamente una visita e di lasciarvela stare dell’altro, se la zia, come
poteva figurarselo, si fosse opposta alla sua partenza; ma e’ conobbe
che non v’era da farlo, che non conveniva prevalersi d’un’obbedienza
forzata, e che d’altronde la rassegnazione della fanciulla non era più
da mettersi in dubbio.

Vi lasciò considerare se con tutto ciò l’Anna rimanesse intenerita
dalla sincera afflizione che gli zii e le cugine mostrarono nel
separarsi da lei! Per istrada non s’arrischiò ad interrogare il babbo
su quello che le premeva tanto di sapere; e come a sfogo di gratitudine
verso i parenti, non fece altro che raccontargli le loro affettuose
garbatezze: ma appena rivisto il fratello, non indugiò a leggergli
in volto lo scoraggiamento di chi non ha potuto superare gli ostacoli
d’un’impresa troppo difficile.

— E proprio non c’è speranza? — gli disse quando furon soli.

— Tu lo vedrai anche da te. Perchè non se’ tu rimasta in campagna?

— In questo caso sarebbe meglio ch’i’ non ci fossi neanche andata, o
che piuttosto tu vi potessi passar tu una ventina di giorni.

— Anch’io so rassegnarmi.

— Non mi pare; tu se’ andato a male, sai, in questo po’ di tempo!

— Eh giusto! sarà il dispetto; perchè.... perchè non si può veder
di peggio. E non so chi mi tenga dal non rompergli il muso a quello
sciagurato!

— Ho io ragione? Abbi pazienza, ma bisogna che tu mi dia più retta. I’
non vo’ più sentire questi discorsi. Una bella rassegnazione codesta!

— E s’i’ ti dicessi ch’e’ par giusto giusto che gli abbiano ragion
loro! ch’e’ non si riguardano di farsi vedere, di salutarmi come
s’e’ non fosse accaduto nulla, come se dopo un tradimento come questo
s’avesse a essere più amici di prima!

— Compatiscili: e’ saranno più disgraziati che mai. Quand’uno ha perso
la bussola, non sa più quel ch’e’ si faccia. E poi, non dubitare, se
gli è uno sproposito, verrà anche il ravvedimento.

— Venga pure; ma per me l’ha indugiato troppo! —

Anche l’Anna potè convincersi poco dopo che Michele non aveva esagerato
nel darle ragguaglio del loro contegno. L’accecamento durava sempre; e
perchè l’amica tradita non ebbe cuore, al primo incontro casuale con
la Maria, di farle il viso dell’arme, questa riprese animo; credette
che la generosa compassione e la benignità della virtù soccorritrice
fossero invece indizio di sommessione, e godè in cuor suo di poter
liberamente vantare a’ suoi occhi un malaugurato trionfo.

Nel mentre che l’Anna ritornava premurosa al telaio per allestire il
nuovo lavoro e ricattare il tempo perduto in campagna, la Maria e la
Lisabetta inciambellate[54] da Cintio, andavano ogni sera a spasso, e
qualche volta anco al teatro; e per questi svaghi fu necessario buttar
via de’ quattrinelli in fronzoli e sciupar delle ore per metterseli
dintorno. Quindi tra i molti divertimenti co’ quali il parrucchiere
infatuato volle ganzare[55] la nuova dama, vi fu quello d’una merenda
alle Cascine in comitiva d’alcuni servitori di forestieri. Anch’essi
avrebbero condotto le loro donne; e volevano fare, per dirlo con
parola barbara più imbarbarita che mai, un _picchinicche_[56] appunto
come facevano i loro padroni con grande scialacquìo di vivande,
con sfarzo di vestiario, e perfino colla scarrozzata, pigliando a
nolo due o tre _fiaccherre_. Figuratevi se Cintio si sbracciò a far
l’impossibile perchè la Maria e la Lisabetta fossero della brigata,
e non scomparissero a petto alle altre! Ma ci voleva il vestito di
seta, ci volevano le gioie, e tutto all’ultima moda, e tanto per la
vecchia che per la giovane! La spesa era molta e gli assegnamenti
mancavano. Per combinazione, una tra centomila, il giuoco del lotto
venne improvvisamente a fargli crescere quella smania. Gnorsì, dacch’e’
faceva all’amore con la Maria s’era messo a giocare disperatamente da
sè ed a mezzo con la Lisabetta, studiando la cabala degli _autori_[57]
di grido, e dando retta alle più scempiate stregonerie, che l’ignoranza
del gonzo tiene quali articoli di fede e che l’iniquità dell’impostura
fomenta per assassinarlo. Pochi giorni innanzi a quello che era stato
fissato per la merenda, eccoti la vincita, una gran vincita veh! quella
d’un ambo. Avevano già speso più del doppio di quel ch’e’ riscossero;
ma che cosa volete? l’immaginazione de’ giocatori di lotto, si sa, al
primo barlume di fortuna, si riscalda, s’infiamma, come quella d’un
cortigiano che precipitandosi in terra per baciar le impronte delle
pedate del principe abbia potuto una volta metter le labbra anche sopra
una cócca del manto reale.

— C’è ella la Provvidenza? — esclamò la vecchia tutta ringalluzzata,
appena vide Cintio dopo la famosa consolazione.

— O andate a dire ch’i’ non l’azzecco!

— Sempre voi! Come il cacio su’ maccheroni.

— Eh figliuolo! — e gli si accostava all’orecchio perchè neanche l’aria
la sentisse — I’ non ci vo per nulla laggiù, voi mi capite! sulla
piazza del Carmine![58]

— Un viaggio e due servizi — diceva allora tra sè il parrucchiere
pensando alla Maria lasciata sola. — E questo gli è anche un buon
augurio — soggiunse forte. — E’ si vede bene che la Maria era destinata
per me.

— Sicuro! quando vo’ mi dite che alle mani di maestro Cecco non c’era
verso di giocare? Vecchio trullo![59] Per onestà e’ sarà un uomo da
mettergli il capo in grembo. Dio l’abbia in gloria! ma se gli ha a noia
il lotto, e’ mi dà in ciampanelle,[60] e’ patisce nel comprendonio. Lo
vedete voi? gli è inutile confondersi, nondimeno per la povera gente
non c’è altro rinfranco!... Che pretende di saperne più lui di chi l’ha
inventato? Basta darci dentro e saper capire l’_autore_! Oio![61] a
quest’altra girata s’ha a raddoppiare la posta; e i numeri ci sono, da
fare un bello sdrucio, di quelli di sott’il banco; e gli ho già messi
in prova.[62] Eh! v’insegnerò io il segreto per tenere la strada aperta
alla fortuna. Chi la dura la vince. —

Ma Cintio allora le dava poca retta, perchè l’essenziale consisteva nel
preparare l’occorrente per la merenda.

Presto, con la sua tessitorina, dalla sarta e dalla crestaia; il
lavoro è di furia; i denari lì, uno sopra l’altro; dunque da parte i
vestiti delle signore; e poi chi direbbe di no all’accorto e piacevole
parrucchiere che sa guadagnarsi la protezione delle sue ricorrenti, che
può avere ordinazioni co’ fiocchi e ordinazioni per forestiere, sempre
ricche sfondate?[63]

Poi andarono sul Ponte Vecchio, entrarono in una delle botteghe più in
giorno con la moda, e l’orefice penò poco ad avvedersi che si trattava
d’innamorati e di quattrini vinti al lotto. La vecchia che non aveva
mai visto un gruzzoletto di plurimi[64] ballanti e sonanti, facilmente
si diede a credere ch’e’ fosse la miniera del monte gaio, e che prima
di vederne il fondo la potesse lasciar andare la briglia a que’ due
capi sventati. E se v’è un giuocatore che dopo la più meschina vincita
non si figuri d’aver acciuffato pe’ capelli la fortuna, e non si
creda di poter subito rinnocare,[65] e non pigli la rincorsa verso il
precipizio che l’aspetta, segnatelo col carbon bianco.

Finalmente arrivò la domenica del _picchinicche_;[66] il tempo era
bellissimo: due _fiaccherre_ si fermarono dinanzi al marciapiede
delle case-nuove. Colui che poco prima aveva paura che la sua bella
dovesse far poco spicco, ebbe la soddisfazione di vederla superare in
leggiadria e in lusso tutte le compagne.

Le finestre del vicinato messo a rumore erano affollate di gente per
vederla salire in carrozza col suo milordino; e i cavalli a chiocchi di
frusta condussero via gloriosa e trionfante la comitiva. E nella strada
un bairamme:[67]

— A voi! — diceva una ragazza in un capannello di donnicciòle in
sacchino e rete[68] — la l’ha trovato il verso di fare spocchia!

— Sì, che la duri! — soggiunse una donna attempata.

— Ma quello non era il geo[69] della pigionale?

— Gli è quel ch’i’ dico; e la non può andare a finir bene. Con l’asino
che non trova basto che gli entri, si fa poca strada.

— Io resto della vecchia!

— E’ l’ha saputa infinocchiare perbenino con le sue pastocchie.[70]

— Chi di venti non n’ha, di trenta non ne aspetti.

— Bellina, strascicata[71] anche lei!

— E com’e’ s’impancano[72] al fumo de’ signori!

— Per farsi mettere in favola e in canzona!

— Qui poi, adagio a dire. Puta caso[73] noialtri poveri non potremo
spasseggiare tra’ lustrissimi? Che siam concio noialtri? che perderanno
uno spicchio di croce?

— I’ son con voi: l’è giusta: il mondo è di tutti e i’ so andar sempre
dove mi par’e piace; ma da povera! I’ lascio il guardinfante[74] e
l’alluminìo[75] a chi n’ha bisogno; e non ho gusto a entrar nella calca
per farmi pigiare.

— Che t’anderebbe a’ versi a te quello spaccone[76] tutto razzimato e
liscio liscio com’un subbio?

— Figurati! sapone e muffa![77]

— I’ ho più a noia le falde... e quelli che parlano in quinci e quindi!

— Hai tu visto eh! E dacchè gli ha piantato il bordone al primo piano,
la strada non mette erba.

— Una bella cosa! tutti patatucchi impacciosi, prepotenti e
impertinenti da perderci anche la riputazione!

— Ma intanto la va oltre in contegno, e non v’è carestia di spassi nè
di regali!

— Ch’e’ se li tengano per le donne del loro paese!

— Ma il vestito di quella bellezza patita gli è una maraviglia da
maledetto senno!

— Ma la scimmia anche vestita di seta è sempre scimmia. E badate ch’e’
non le abbia a costar troppo caro!

— Bisogna vedere chi spende!

— Ragazze, non pensate a male. Io credo ch’e’ sian quattrini del lotto.

— Bene spesi davvero!

— Questo gli è un altro conto. —

E lì, e più lontano, il bisbiglìo e il cinguettìo durarono un pezzo.
Una vecchia strucia,[78] più meschina e più tribolata di quante ve
n’erano sulle case-nuove, che seminava cirindelli[79] da tutte le
parti, che non s’arrischiava a mescolarsi nel cicaleccio con le altre,
che sapeva pur troppo, per propria e dolorosa esperienza, a qual misero
fine conducano gli spropositi della gioventù inesperta, guardò con
lungo sospiro la coppia baldanzosa; e zitta zitta tentennando la testa
si pose a passeggiare sotto gli alberi del prato.[80] L’Anna in quel
tempo era a vespro, e pregava Dio per la prosperità del padre e del
fratello.

Ora non vi starò a raccontare se la pappata dei servitori fu riboccante
di squisite vivande! proprio da far gola ai più ghiotti parassiti dei
loro padroni. Avevano fissato di gozzovigliare a bocca e borsa;[81]
ma il vincitore dell’ambo volle metterci di suo la coda, una coda più
lunga di quante e’ n’aveva pettinate a’ suoi giorni.

Dopo avere speso l’osso del collo, dopo essersi impinguati d’intingoli
e di boria, tutta roba troppo indigesta, massime per chi non ci è
avvezzo, i nostri amanti finirono la loro comparsa sull’imbrunire
della sera. Vi sarebbe stata la voglia di far la chiusa col teatro
o col ballo; ma era giocoforza sottomettersi ai doveri del proprio
stato. E Cintio doveva lasciare la bella nella casipola del telaio,
e levarsi i guanti bianchi per impugnare il pettine in un palazzo
o in una locanda, e lisciare con la pomata i fintini delle signore
anziane o le trecce delle novizie; gli altri erano aspettati chi dalla
spazzola in guardaroba, chi dai cavalli nella scuderia. Già se la
Maria avesse dovuto rimanere più a lungo striminzita[82] nel busto e
fra i gangheri, si sarebbe svenuta. Inoltre le vivande rimpasticciate,
i vini forestieri e artefatti, il caldo della stagione e la polvere
avevano fatto impallidire il suo incarnato, e messole un’arsione da
aver la lingua a mezzo la gola, con un frizzìo doloroso negli occhi.
La vecchia.... Oh meschina! portatela a letto; vo’ non vedete come l’è
sbalordita e rifinita dalla strepitosa scorpacciata? E poi nella quiete
della sua cameretta nessuno vada a vederla quando non sia per porgerle
assistenza, chè se lo strapazzo della gioventù malcapitata riempie
l’anima di mestizia, la vecchiaia che si lascia trascinare dove non è
chi sappia rispettarla, diviene anche ributtante. Dopochè la fanciulla
si fu sciolta di quelle pastoie, ebbe bisogno di sdraiarsi sopra una
seggiola. Costì fu presto travagliata dai languori di stomaco, da
lunghi sbadigli, da giramenti di capo, e poi assalita da sonnacchioso
sbalordimento; e allora le sopravvenne una confusa ricordanza
dell’accaduto: messa da parte l’ambizione di comparire insignorita agli
occhi delle vicine, e di esser da più delle commensali, la ritornò
con la fantasia agli atti e ai discorsi di Cintio e dei servitori.
Le sue orecchie avevano sentito come venisse straziato da costoro il
dolce linguaggio nativo, e la verecondia le aveva fatto salire spesso
sul volto le vampe del rossore. Per lungo tempo fu un delirio tra la
sorpresa e il pentimento, un chieder perdono a Dio dell’aver sorriso
come gli altri alle bestemmie, agli sfacciati equivoci, agli osceni
racconti di quanto può inventare la feccia d’ogni paese a scapito
dell’onestà e della modestia. E sempre più la postema cresceva! La
non ebbe neanche fiato di moversi dalla seggiola; e il sonno era
interrotto, soffocante, convulso, pieno di spasimi e di visioni. Ora le
pareva di veder Cintio, con la faccia strafigurita e con orrido ghigno
pigliarsi gusto di strapazzarla e d’incolpare lei sola de’ suoi proprj
traviamenti; ora di comparire dinanzi a uno specchio e di ritrovarsi
scarna, lividosa e nuda bruca mendicando misericordia in mezzo a una
strada, senza potersi scansare dalle ruote di una carrozza o dalle
zampe dei cavalli, e senza un filo di voce per chiedere soccorso. In
quelle smanie una sola apparizione pietosa veniva di quando in quando
a sorreggerla: il personale e i modi parevano quelli dell’Anna; ma il
viso era coperto da un velo bianco, e se spirava un alito di vento
per sollevarlo, i suoi occhi non potevano stare aperti: ma intanto
l’enorme peso che le piombava sullo stomaco diveniva più leggiero, la
saliva era meno amara, il respiro non tanto affannoso. In questo modo
passò tutta la notte quant’ella fu lunga senza trovar mai pace di sè,
e allo svegliarsi era pallida, rifinita, milensa. La fiaccona e la
svogliatezza durarono più giorni; il buon umore, le ciarle e i progetti
di Cintio non bastavano a darle sollievo; ma cominciando egli a
mostrarsene infastidito ed a rampognarla, bisognò che almeno la facesse
le viste d’essere allegra. Col fingere, a poco per volta la riprese il
solito brio, e la giovinezza le tornò a rifiorire le gote.

Del resticciòlo della vincita non ne fu fatto quell’uso che la vecchia
e la Maria s’erano figurate. Chi si mette addosso gli ori e la seta
non la finisce più; improvvisamente scappa fuori il bisogno di tante
altre brìcciche[83] da far seguito; chè dopo la prima spesaccia non
siamo a nulla. Come quello che principia a murare in sull’angolo d’una
casa: È stato fatto il più; si può fare il meno, e spesso il meno,
alla fin de’ conti, viene a costare il doppio del più. — Ormai il
vestito c’è: che s’ha a buttar via? L’ho portato una volta che non ha
a veder più lume? E’ direbbero ch’e’ non era mio, o che non l’avessi
pagato, o che il Presto[84] ci servisse di guardaroba. Dunque tiriamo
via. Quel che ci va ci vuole; e’ s’intende! la casa coll’orto.[85]
— Ma il più essenziale, che sarebbe il giudizio, non è mai messo in
capo di lista: e’ viene in ballo al tirar delle tende, quando s’arriva
all’ergo di pagare; ma allora è tardi, ed è seguito dal pentimento
che è una compagnia bella e buona per chi può scialare, non già per
quelli che non hanno da rifarsi. Nello stesso tempo la fanciulla,
per quell’impasto di vanità, di buon cuore e d’inesperienza che
l’aveva fatta capitar male, s’assuefece a vedere con meno ripugnanza
i compagnoni di Cintio. Inoltre quelle persone che a prima vista
non ci vanno a’ versi, a forza di machia,[86] di baciabassi,[87] di
studiate cortesie, di sfrontatezza e d’elogi smaccati, adagio adagio
entrano in grazia a chi non ha esperienza de’ loro costumi e a chi si
lascia infinocchiare da’ loro ammennicoli. E poi, lasciate fare alla
servitù vagabonda di certi forestieri libertini ed oziosi, che si
danno l’aria di signori splendidi e ragguardevoli scialacquando nei
vizi i doni della Provvidenza; che presumono d’arricchire un paese
spargendovi oro, mal esempio e debiti! Questa servitù, con l’arroganza
dello schiavo che si rende necessario al padrone e che si sottomette
volontariamente a’ suoi capricci, con la finzione che pare sincerità,
con certa insensibilità ciarliera che passa per tenerezza di cuore,
s’invernicia l’anima come le scarpe dall’aver di continuo sott’occhio
quell’artefatta gentilezza, colla quale sanno mascherarsi i padroni per
usurpare la stima dovuta al merito di coloro, chè senza dubbio ve ne
sono, i quali anche fuor di patria sanno farsi onorevoli con la virtù,
con l’ingegno e col buon uso della ricchezza. Chè anzi la povera Maria,
credula alle immaginazioni di Cintio, il quale si figurava di doversi
acquistare riputazione e ricchezza bazzicando le locande e stando
dietro ai servitori di piazza, si compiaceva di quest’abiezione del
suo amante. Nello stesso modo la vanità e la bassezza d’animo conducon
talora anche le persone, così dette, d’alta sfera,[88] a passar coi
forestieri i limiti dell’ospitalità doverosa, corteggiandone l’albagía
ruvida o raffinata, imitandoli a guisa di scimmie in tutto e per tutto,
rinnegando perfino i costumi, le inclinazioni e la lingua del proprio
paese, quasichè si vergognino d’appartenere a una patria, della quale,
operando così, senza dubbio diventano indegni.

Questa correntezza trascinò la sconsigliata tessitorina sull’orlo d’un
precipizio, dal quale per buona sorte scampò come per miracolo, senza
che la s’accorgesse nè punto nè poco della grandezza del rischio.
Più di tutti gli altri faceva premure, feste e finezze tragrandi
agli amanti un certo cameriere, non saprei di qual nazione, perchè
taluni a forza di mutar padroni e usanze e paesi perdono ogni vestigio
della loro origine. Costui era uomo di età matura, si dava l’aria
di protettore e d’uomo che la sa lunga, aveva sempre in bocca il
risettino obbligato, era il caporione e l’oracolo d’ogni comitiva, e
pareva un fior di senno; vestito con molta lindura, in giubba nera e
in corvattone: anelli massicci alle dita, catena d’oro, ripetizione e
occhialetto; e sempre gaia la borsa, da fare alla palla delle monete.

Il suo linguaggio era un guazzabuglio di parole prese da un visibilio
di paesi, ricucite a modo suo, da muovere spesso alle risa o piuttosto
a dispetto; sgranava una guardatura fissa e penetrante, ma sempre a
sghimbescio, e gli atti poi erano melati, svenevoli, seducenti, come
di coloro che si pigliano gusto di mostrar la luna nel pozzo a’ gonzi.
Un giorno volle regalare alla Maria due paia di guanti sopraffini.
La non gli avrebbe voluti; ma Cintio, considerando a parer suo che
si trattava d’un uomo di proposito, non ci trovò alcun male, e la
obbligò a prenderli; e così d’alcune altre bazzecole di minor conto.
Parlavano con lui del loro futuro matrimonio, ed egli voleva esser uno
dei testimoni, far tutte le carte, e con un sorriso misterioso dava a
divedere che avrebbe preparato un regalo co’ fiocchi. Venne il tempo
delle corse degl’Inglesi alle Cascine. L’espettativa e i preparativi
dei forestieri e de’ giovani eleganti del paese per quello spettacolo,
il chiacchierìo che ne facevano i servitori e i cocchieri degli uni e
degli altri, la curiosità degli sfaccendati e del popolo invogliarono
anche la Maria ad andarvi; e il cameriere, come se avesse indovinato
il suo desiderio, non richiesto le portò due nomine per salire col damo
sopra un palco. Ma come fare ad approfittarsene senza potervi condurre
la Lisabetta? Inoltre, e per l’appunto quel giorno, Cintio aveva avuto
una chiamata da una signora forestiera in campagna, tre miglia fuor
di porta. V’erano anche delle altre difficoltà, perchè la Maria non
aveva così subito la roba da rivestirsi di tutto punto.... Insomma
il donativo delle nomine riesciva inutile. Allora il cameriere messe
innanzi un ripiego. E’ doveva condurre a veder le corse una sua zia,
donna rispettabile al servizio d’una gran signora; e avrebbe avuto il
comodo della carrozza. Dunque ecco la compagnia per la fanciulla, ecco
levato di mezzo il maggiore intoppo. Pel vestiario ci voleva poco:
la stagione permetteva un abbigliamento semplice; con piccola spesa
e in un batter d’occhio era provvisto a ogni cosa. La Maria, sebbene
smaniosa di veder quelle corse, nondimeno aveva una certa repugnanza
a cedere a questi accordi. Ma Cintio messe in campo tante ragioni,
che gli riuscì di persuaderla a fare a modo suo e dell’amico. Quindi
se n’andò in campagna che già la fanciulla era vestita, e aspettava
il cameriere con la zia e con la carrozza. Ma aspetta aspetta, nissun
venne. Passò un’infinità di carrozze, di gente a cavallo, di curiosi;
furon fatte le corse, tutti tornarono dalle Cascine; e infine anche
Cintio tornò dalla sua gita in campagna. Appena la Maria e la Lisabetta
gli ebbero fatto sapere come colui avesse mancato di parola, Cintio
che era trafelato, e aveva un diavolo per capello, raccontò come dopo
aver fatto a gambe tre buone miglia fuori di porta, e aver girato non
so quanto per que’ dintorni in cerca della villa, nissun gliel’avesse
saputa insegnare, e alcuni a vederlo così sperso, sbalordito, come uno
venuto di Val di Strulla,[89] e con quella eleganza tutta malconcia
dalla polvere e dal sudore, avessero malignamente preso a canzonarlo.
E come raccapezzarsi in questa faccenda? Il parrucchiere andò subito
alla locanda, e seppe allora che quel cameriere ed il suo padrone
erano spariti, e che la polizia era in cerca di loro, ma troppo tardi;
e correva voce che nella notte passata, in un palazzo dove si teneva
occultamente un gioco rovinoso, quello stesso forestiere avesse fatto
una vincita esorbitante e sospetta. Cintio sbigottito cercò di mostrare
indifferenza a questa notizia, perchè altri non ricavasse cattive
induzioni dalla sua amicizia col cameriere; ma almeno qualche beffa
anche per questo gli venne addosso. Poi ripensando tra sè e sè ai
regali, alla villa negli spazj immaginarj, alla finta zia, alle corse,
dubitò dell’orribile tradimento che gli poteva essere stato tramato da
quel ciurmadore, se la necessità di affrettare una fuga non l’avesse
per avventura mandato a vuoto; e gli convenne intanto almanaccare
una filastrocca di fandonie per levar di sospetto la Maria. Il giorno
dopo ne seppe dell’altre, che gli fecero conoscere con più evidenza
il pericolo che aveva corso; ma credete voi che questa lezione gli
servisse? Ahimè! Diciotto di vino,[90] diceva il lanzo:[91] e quand’uno
ha perduto la bussola e s’è lasciato abbacinare gli occhi dalle
apparenze, è molto difficile che si ravveda. Infatti presto dimenticò
l’accaduto; proseguì a praticare i soliti gabbatori, che per lo meno si
burlavano poi della sua vanità e delle sue baggianate; e intanto veniva
l’inverno e crescevano le conoscenze per l’aumentata affluenza degli
stranieri, e con esse le occasioni di nuovi spassi e di nuove spese,
prima ch’egli avesse pensato con fondamento a metter su bottega e ad
accasarsi, non ostante le esortazioni della giovane e della vecchia. E’
badava a traccheggiare e a mandarla in lungo con un’infinità d’inciampi
inventati, di pretesti, di scuse; e assicurandosi sempre sopra
mille speranze senza fondamento, gli riusciva di trattenere la loro
impazienza e di far chetare la Lisabetta quando voleva dir qualche cosa
fuor de’ denti.

Tra’ signori arrivati a Firenze da ogni parte della terra in
quell’anno, ve ne fu uno spropositatamente ricco, e quanto mai si
può dire pazzamente prodigo e dissipato. Costui mutando in veleno
per gli altri i doni gettati nelle sue mani dalla fortuna, conduceva
seco per istrascico una ciurma di mangiapani, un branco di bestie e
di servitori d’ogni razza e d’ogni paese, come quando il turbine mena
seco la spazzatura a mulinello ne’ crocicchi delle strade. Qualche
migliaio di poveri schiavi s’arrapinava tutte le ore del giorno in
mezzo agli stenti per riempirgli ogni mese lo scrigno, e cento paia
di granfie di libertini tornavano ogni mese a vuotarlo. — Ecco una
provvidenza, — dicevano coloro che vivendo la maggior parte dell’anno
in ozio vituperevole aspettano il tempo dei facili e spesso illeciti
guadagni.... — Beata la città che gode di queste grasse entrate! —
Ma Giotto, Brunellesco, Michelagnolo e cento poi, non crearono tante
maraviglie di belle arti perchè i posteri ne facessero mercimonio col
mostrarle ai vagabondi che non le intendono o che le sbeffano; bensì
le lasciarono a testimonianza della magnanimità d’un popolo libero
e vigoroso, che sapeva arricchirsi con nobili industrie, onorare di
generosa ospitalità gli stranieri amici, e difendere i costumi e le
mura di casa sua dalle pessime usanze o dalla mala signoria de’ nemici.
Nè voi, patrie colline, di tanta vaghezza vi rivestite sotto l’azzurro
d’un cielo sereno per divenire raddotti di lascivie per lo straniero!

Cintio ebbe subito che fare con alcuni del seguito di costui; e gli
parve d’esser saltato a piè pari nel paese della Cuccagna.

Un vasto palazzo, di bella architettura, casa una volta di rinomata
famiglia spenta con la Repubblica,[92] bastò appena a contenere tutta
quella corte babilonica; e subito sotto gli occhi dell’usuraio, che
se l’era acquistato chi sa come, le pareti splendide d’antiche e di
gloriose pitture, adorne di venerate immagini o d’arazzi maravigliosi
furono qua e là sfondate con barbarica furia, o imbrattate coi moderni
frastagliumi d’un’arte bastarda, per adattare al gusto ed agli usi
del forestiere una dimora ch’egli avrebbe abitato per pochi mesi. I
vecchi ma suntuosi mobili adoperati dai padri della patria, le tele
che sotto la polvere de’ secoli nascondevano bellezze squisite non
conosciute, le statue di maestri celebri e di scolari più celebri
dei maestri, ai quali forse mancò solo il testimonio d’un artista
intelligente per meritare onorato posto nelle pubbliche gallerie,
le pergamene ed i libri rimasti in preda dei tarli e dei topi, ma
forse ricchi di sapienza e di storia, tutto ciò insomma che vi poteva
essere di più venerando fu cacciato e ricacciato alla rinfusa in
oscuri ripostigli; le stanze consacrate agli affetti di famiglia
divennero luogo di profanazione; e i terreni e le loggie dove un
tempo il cittadino ragguardevole discuteva le pubbliche faccende
sotto gli occhi del popolo, o mercatava le ricchezze dell’Oriente
e dell’Occidente, furono imbrattati dalla greppia e dallo strame
dei cavalli, dai covili dei cani, dalle ruote delle carrozze. Forse
una zampa ferrata percoteva sciupando quel pavimento dove uno dei
Ghirlandai si prostese a disegnare con la brace le prime ispirazioni
dei suoi dipinti, o dove Dante sedette a colloquio, non già per
servile diletto del ricco padrone, come fecero molti poeti di tempi
più corrotti, ma per isvolgere ed invigorire in esso le virtù del
cittadino. Così uno sbruffo d’oro gettato con alterigia nelle mani
dell’ingorda ignoranza bastava a convertire in bordello un tempio,
dove i secoli accumularono le reliquie della gloria nazionale. Invano
ne muovon lamento o rimprovero il dotto che le tiene in venerazione
conoscendone l’importanza, l’artista che sa pregiarle e valersene pe’
suoi studj, il poeta che ne trarrebbe magnanime ispirazioni: la loro
voce non suona come lo scrigno impinguato dalle ricchezze d’un nuovo
mondo che gl’Italiani aprirono e donarono ad altri popoli; e la santa
verità degli affetti che cosa vale dirimpetto agli argomenti inumani
dell’avarizia?

Uno de’ primi regali del ricco straniero fu la festa di ballo
in maschera con apparecchio d’inaudito sfarzo, con profusione di
rinfreschi e di vivande, e con larghissimo invito. Già gli sfaccendati
che erano accorsi a strisciargli la riverenza avevano ammirato
le sue carrozze, le magnifiche pariglie, i tanti servi riccamente
vestiti, il perpetuo va e vieni di signori, di negozianti, d’artefici
al suo palazzo; i parassiti più allupati con la consuma in corpo e
l’acquolina in bocca,[93] i più solleciti ad apparecchiare su tutte le
prode, facevano la posta ai cuochi sul canto di mercato, e ronzavano
leccandosi le basette[94] intorno alle finestre della cucina, tirati
dall’odore come i corvi alla Sardinga;[95] e insomma il negozio[96] di
quella festa faceva strepito dappertutto, ed era la più valida ragione
messa fuori da alcuni per dare ad intendere che la città ricavava
gran guadagno dall’oro de’ forestieri. Ma le spese fatte per insulsi
godimenti e per ogni altra cosa superflua non accrescono la ricchezza
d’un paese, poichè allora si tratta per lo più di consumare senza
conclusione, vale a dire senza riprodurre. Lasciamo stare i danni
che dai lucri troppo facili e inaspettati derivano spesso alla morale
degli artigiani, quando non tutti resistono alla tentazione di abusare
della larghezza di chi spende, assuefacendosi così alla malafede, e
sdegnando poi le mercedi moderate secondo giustizia; e alcuni dopo
le furie d’un lavoro abborracciato e ricompensato profumatamente,
s’infingardiscono, scialacquano, e in poco tempo, o con desiderj
smoderati o con svaghi intemperanti, sciupano il loro guadagno;
lasciamo stare il mal esempio che i dissipatori vanno seminando col
lusso sfrenato, con le mollezze fatte palesi a chi deve scoprirne per
necessità del mestiere tutti i segreti; lasciamo stare l’insolente
arroganza di chi ha il solo merito del denaro in casa d’altri, chè
spesso ricchezza e sopruso sono fratelli. Ma pigliando solamente ad
esaminare l’uso materiale della ricchezza, vedete prima quanto tempo
perduto in opere infruttifere da chi si diverte a quel modo, e da chi
deve preparare que’ divertimenti! E il tempo è il capitale che ha più
valore di tutti gli altri. A ogni modo i mestieranti lavorano, voi
dite, e saranno pagati; ma dal lavoro che hanno fatto, che costrutto
ne ricava il paese? Un bel vestito che pe’ suoi guarnimenti avrà
richiesto tre o quattro giornate di lavoro, e che dopo la festa di
ballo non è più portabile, gioverà egli alla prosperità dell’industria
quanto un arnese perfezionato per qualche manifattura utile a tutti?
Le torme de’ servitori guadagnano e consumano; ma il tempo speso nello
stare in un’anticamera o dietro una carrozza, e le forze adoperate per
lisciare uomini, bestie, legni e pavimenti, producono certamente meno
del tempo e delle forze che il contadino spende nel lavoro della terra.
I molti cavalli destinati a trascinare un uomo solo danno guadagno
ai mezzani e ai mercanti che li vendono; ma le loro forze, giacchè,
povere bestie, sono condannate a servirci, darebbero qualche utilità,
quando piuttosto fossero moderatamente usate a movere una macchina.
Nella stalla d’un ozioso vi saranno più pariglie ben pasciute e oziose
come il padrone, mentre un povero somaro scoppierà dalla fatica sul
podere lontano, perchè il contadino che ci somministra il vitto non può
mantenere altro che un povero somaro. Le carni, le droghe, i condimenti
comperati per apparecchiare un sontuoso banchetto impinguano le casse
de’ macellari, de’ negozianti, de’ pizzicagnoli; ma dopo molto strazio
di roba per rendere più squisiti i sapori e più sostanziosi i sughi,
ne escono pochi intingoli da stuzzicare un tardo appetito, e il resto
satolla l’ingordigia dell’ozio subalterno, o va nelle fogne; mentre
una povera madre non potrà allattar bene il figliuolo per mancanza di
nutrimento sano, o l’infermo in uno squallido tugurio morirà senza che
una stilla di gelatina abbia potuto bagnarli le labbra riarse. Ecco
là un branco di cani ben cibati e bene alloggiati: che ci danno forse
la lana come le pecore?... Dunque su questa terra non vi sono più
poveri, e potremo moltiplicare senza bisogno le razze degli animali che
non producono nulla, e dare ad essi il pane e le carni avanzate alle
mense? Ah! finchè le migliaja patiranno la fame ed il freddo, finchè
non sapremo procacciare il lavoro a chi lo chiede, o educare al lavoro
chi vi repugna, i godimenti superflui e l’impiego dei capitali in que’
godimenti saranno spese contrarie alla prosperità d’un paese, perchè,
dopo aver somministrato un guadagno passeggiero, inaridiscono la
sorgente de’ salari. Il cattivo uso della ricchezza è sempre un delitto
contro l’umana famiglia e contro la Provvidenza divina.

Intanto e pel forestiere che dava la festa, e pel suo corteggio e per
gl’invitati padroni e servitori, i negozianti, le sarte, le crestaje
si prepararono a far conti e a segnare spese e fatture su’ libri;
gli usurai levarono da’ nascondigli i loro sacchetti per imprestar
quattrini col pegno in mano e con mallevadoria più che sicura a chi ne
avesse bisogno; e un visibilio di salari, d’elemosine, di pensioni, di
lavori campestri, e via discorrendo, rimasero arretrati, perchè tutti
non possono fare due spese in una volta; e poi, cava e non metti ogni
gran monte scema. Lo credereste? anche Cintio che aveva già tuffato il
romajòlo in quel calderone, e sperava a suo tempo maggiori bocconi,[97]
anche Cintio trovò il modo di condurre a una festa di ballo la povera
tessitorina.

I subalterni di seconda tinta, quelli senza titolo di barone o di
cavaliere, servi anch’essi del ricco forestiere, ma non di camera nè di
stalla, gente insomma di confidenza minuta, senza nome e giornaliera,
avendo non poco braccio nelle faccende di quella baraonda, vollero dare
una festa anche per loro e pei loro amici. Presero a pigione la sala
d’una locanda, e l’addobbarono con lusso; dipoi una bell’orchestra,
uno squisito banchetto, e suono a raccolta di tutto il fiore del
servitorame. Cintio fu tra’ primi e de’ più desiderati, perchè valente
ballerino e perchè aveva da condurre una bella compagna. Così la Maria,
già da lui istruita nel _valzer_ e nella quadriglia, avrebbe potuto
una volta sfogarsi. Ma al solito, bisognava che la non fosse da meno
delle altre nell’eleganza del vestiario; e questa volta mancava la
vincita dell’ambo. S’erano industriati, è vero, e coi numeri della
gogna,[98] e con quelli de’ più accreditati autori di cabale, e col
libro de’ sogni, e con le visitine alla piazza del Carmine[99], e con
le fattucchierie, e coi denari presi dall’usurajo bacchettone, ma non
poterono cavar costrutto da nulla. Che cosa si stilla? Nè la sarta nè
la crestaja voglion più fare a credenza. Inoltre la ragazza non sarebbe
andata alla festa senza la compagnia della mamma, e così cresceva la
spesa per mettere in ghingheri anche la vecchia. Cintio ebbe un bel
dire, e portare esempi e stampar compensi; la Maria in questo tenne
fermo. Pur troppo una benda funesta le s’era messa davanti agli occhi
da un pezzo! Ma il naturale sentimento della propria onestà le incuteva
sempre un utile ritegno, mantenuto anche dalla presenza de’ virtuosi
pigionali, da quella generosa compassione di chi non cova rancore
nè pensa a vendicarsi delle ingiurie, ma invece, se non può far di
meglio, le dimentica e le perdona; di chi non mortifica con disprezzo,
nè ammonisce con presunzione i traviati, ma piuttosto li richiama
e li commove con l’esempio. La virtù dell’Anna era per la Maria un
modello divenuto ormai troppo difficile ad imitare; ma avendolo sempre
davanti, non poteva fare a meno di conoscerne la bellezza. Così il
rozzo montanaro, che anch’esso ha avuto dalla natura occhi e affetto
per ammirare la perfezione delle sue opere, sebbene gli manchi l’arte
per ricopiarle, pur le contempla volentieri sulle tele e ne’ marmi, e
gode in segreto che altri ve le abbia sapute ritrarre sì bene. Forse
talvolta la Maria tornata in sè con lucido intervallo, ponendo il
proprio stato a paragone di quello dell’Anna, e travedendo i pericoli
a’ quali era esposta, si sarà abbandonata a quello scoraggiamento
che ci fa dire: — Ormai non v’è rimedio; non si torna più indietro;
nasca quel che sa nascere,[100] i’ voglio andar sino in fondo; — ma
a vedere che i pigionali incontrandola a caso, non la scansavano con
dispetto sprezzante nè con alterigia, le tornava allora un po’ di
forza per cercare di ravvedersi. Spesso l’intolleranza che pretende
distruggere il vizio a furia di flagelli non produce altro che dispetto
e ostinazione, come quel maestro di scuola che volendo educare con la
sferza i discepoli, provoca l’audacia ribellantesi apertamente contro
ogni legge, o suscita l’ipocrisia peggior d’ogni vizio. Ma invece,
quante volte un colpevole, volgendo lo sguardo, nella quiete d’una
notte serena, alle maraviglie del firmamento, si sarà inginocchiato
da sè nella polvere per adorare uno Dio misericordioso, e chiedergli
perdono con le lacrime del contrito!

Nondimeno il parrucchiere venne a capo di far fare alla Maria e
alla Lisabetta un altro passo falso. La vecchia aveva ancora un
vezzo di perle scaramazze,[101] il miglior capo del suo corredo, il
solo assegnamento che le fosse rimasto per dare un po’ di dote alla
figliuola. Cintio lo sapeva, e cominciò a dire che le perle non usavano
più, che quelle essendo così disunite e anche giallognole, non erano
da mettersi al collo d’una sposa giovane, d’una sposa cittadina; che
quanto a lui sarebbe stato inutile di serbarle;.... e, per fare il
discorso corto, quel vezzo fu bacchettato nell’atto, e convertito in
tante calìe[102] nè più nè meno come i quattrini dell’ambo.

Così la vigilia della festa la fanciulla era all’ordine per andarvi
abbigliata di tutto punto, quand’ecco un altr’inciampo inaspettato;
perchè la Lisabetta, che già pativa d’alcuni dolorucci reumatici,
peggiorò a un tratto per la rigidezza della stagione, e in guisa da non
potersi reggere in gambe. Allora la ciarla del parrucchiere fece nuovi
sforzi per ismovere la Maria dal proposito di restare in casa.

— Non dobbiamo noi essere marito e moglie? Per una volta, che male sarà
uscir fuori senza lo strascico[102a] della mamma? Riguardatevi, Lisabetta,
riguardatevi a questi stridori di freddo. Io.... come si fa egli? Ormai
ho promesso. No’ abbiamo speso.... Voi non avete bisogno di nulla;
basta che stiate calda; domani non sarà altro. —

E seguitando di questo passo, egli arrivò perfino alle minacce di
piantar la ragazza, se non facevano a modo suo. Che cosa volete ch’i’
vi dica? A queste minaccie la povera vecchia s’arrese, e gli sposi
andarono da sè soli.

Per la Maria, che non aveva mai veduto una festa di ballo in una gran
sala, con profusione di addobbi, di lumi, di rinfreschi, tra una matta
allegria, in mezzo allo strepito dell’orchestra, poco ci volle perchè
si abbandonasse tutta al suo brio spensierato. Cintio a metter su e
dirigere le quadriglie, ballerino agile, elegante, fanatico, faceva
la prima figura tra i giovani; e pensate voi se mancarono adulazioni
a lei, sempre bella, in gran gala, pettinata stupendamente dalle mani
di Cintio, e presto sfranchita nel ballo per la sveltezza e la grazia
del personale! Quella festa e quella gozzoviglia durarono fino a
tardi; gli sposi furono degli ultimi a uscire; e la Maria, che per la
novità dello svago non aveva potuto scorgere quanta licenza vi fosse,
andò via desiderando nell’anima che le si desse presto l’occasione di
ritornarvi.

Ragionando lietamente di ciò che avevano visto e di quanto s’erano
divertiti, giunsero sul Prato, apersero l’uscio, salirono le scale, e
costì fecero adagio per non isvegliare la vecchia, immaginandosi
che fosse a letto. Ma appena messo piede sulla soglia, sentirono una
zaffata puzzolente che pareva sito di cenci bruciati. Ratta la Maria
corre in camera: un denso fumo annebbiava la fiaccolina del lume a
mano: il fetore mozzava il fiato. — Vergine santa! Dov’è la
mamma? — La povera vecchia era sdrajata sopra una seggiola, era
basita[103] da quel fumo, da quella peste.[104] Guardano meglio,
e s’avvedono che il veggio aveva dato fuoco alla sottana, e su su,
fino a bruciare le carni. Il riscontro dell’uscio aperto fece
rilevare la fiamma! La Maria, forsennata, perso il lume degli occhi,
tremando tutta, si dà a scoter la mamma e a urlare quanto n’avea
nella canna:

— Oh Dio! è morta! —

A quelle grida i pigionali si svegliano, e senza metter tempo in mezzo
scendono giù. Per buona sorte v’era anche Michele. Vista la disgrazia,
manda l’Anna a prendere olio, lardo, cotone; fa correr Cintio in cerca
d’un medico, e insieme col babbo si mette a spogliare, e a stracciare
le vesti di dosso alla vecchia; poi sdruce la materassa, per adoperarne
in compenso la lana, e versato sulla carne l’olio del lume a mano,
comincia a ungere e a coprire le bruciature; piglia il cotone del
baulino dove pochi giorni avanti stava il vezzo di perle, poi adopera
quello che l’Anna era corsa a prendere in casa, e prosegue a spalmare
con olio e con lardo e a metter cotone finchè bisogna. Allora fece
aprir la finestra, e la sventurata incominciò a dar segno di vita.
L’Anna assisteva la Maria, che pel disperato dolore s’era svenuta. Il
medico venne subito, esaminò lo stato della malata, conobbe che Michele
aveva fatto quel meglio che si poteva; ma ci volle anche una cavata
di sangue. Dopo due ore di terribile ansietà, poterono avere un po’ di
speranza. Ma le bruciature erano affondate e si distendevano per tutta
la gamba e fin sopra il ginocchio. Se il soccorso avesse indugiato, chi
sa? e’ l’avrebbero trovata stecchita. Dopo la partenza del medico la
Maria sciolse un pianto dirotto e convulso, e ci volle tutta la pietosa
misericordia dell’Anna per racchetarla. Cintio se n’andò avvilito e
confuso. Maestro Cecco e Michele vegliarono in sala tutto il rimanente
di quella notte, e l’Anna non uscì di camera.

La medicatura richiedeva molta diligenza e molta pratica, e la
guardaroba ben provvista. Michele esperto infermiere si pose
spontaneamente ad ajutare il medico; e l’Anna.... Che cosa volete? le
cencerìe[105] di moda che la Maria possedeva non erano neanche buone
per far le fasce; e avendo strutto nel lusso tutti i quattrini, non le
era riuscito ancora di mettere insieme un correduccio di biancheria;
sicchè l’Anna che lo aveva bell’e preparato da un pezzo, chiese e
ottenne dal babbo il permesso di adoperarlo in servizio della povera
Lisabetta. Allora dovè rifarsi da una parte, e ogni giorno bisognava
dar sotto a qualche capo di roba; ogni giorno la Maria, maravigliata di
tanta generosità, diceva e diceva.

— Ma zitta! — rispondeva l’Anna, — non ci pensare; lo fo volontieri,
sai? Non siamo amiche? non siamo prossimo? Sì, quando potrai, penseremo
a rimettere in essere il consumato. Po’ poi tu avresti fatto lo stesso
con me.... —

E maestro Cecco e Michele ripetevano su per giù le medesime cose, con
quella sincera benevolenza che non umilia chi ha bisogno del soccorso
degli altri.

Ma alla mancanza di guadagno per aver trasandato il lavoro, alla
pigione, ai debiti.... a tutto questo i pigionali non potevano
riparare. Allora Cintio, che non sapeva più dove si battere il capo,
consigliò la Maria a mettere in ipoteca que’ ciondoli di valore che
erano stati comperati a contanti. Un usurajo de’ più sordidi fu subito
pronto, uno di quelli che appena si contentano di prendere un quattrino
il giorno sopra ogni francescone,[106] prestando la quarta parte del
valsente del pegno, e facendo anche con orribile sacrilegio qualche pia
invocazione, per battezzare quale atto di carità l’assassinio. Portati
a costui gli orecchini, la collana, gli smanigli, a stento s’appagò di
quelle minuzzaglie costose per la fattura e di poco valore intrinseco;
ma lo scioperato parrucchiere stretto dal bisogno si lasciò sgozzar
dall’usura come chi piglia un cavallo morto oggi per rendere un barbero
a San Giovanni.[107] Così la Maria si trovò presto spogliata, e quasi
senza costrutto, di tutte quelle cose che non s’addicevano al suo
stato. Ma questo non le importava, purchè la mamma guarisse. E infatti
per le sue cure e per quelle de’ pigionali, la povera vecchia a poco a
poco si riebbe e andò migliorando.

Intanto s’appressava quel giorno nero in cui non vi sarebbe più stato
nulla da mettere in pegno; e per soprappiù era imminente il mese della
pigione. Cintio, curandosi poco di queste angustie, faceva l’uomo
franco, e al solito metteva in campo la sue speranze spallate[108] per
tirare in lungo più che e’ poteva. Ma le chiacchiere e le apparenze
co’ padroni di casa non contan nulla; e appunto avevano da fare con
un uomo che già li minacciava di spogliarli di tutto, e di non aver
compassione della povera vecchia inferma, pur di non perdere neanche
un picciolo: sicchè o l’anticipato o la disdetta. L’Anna se ne accorse,
ne tenne discorso col babbo e col fratello, i quali erano pronti a fare
tutto quel bene che avessero potuto, e poi trovatasi da sola a sola con
l’amica:

— Maria, — le disse — tu m’avevi dato parola di confidarmi ogni
cosa; ma ho paura che tu non voglia farlo quando sarebbe forse più
necessario. No’ siamo amiche; le disgrazie non fanno vergogna....

— Credi tu ch’i’ non m’accorga che le mie son disgrazie meritate?

— Diciamo che sia vero, benchè i’ direi più che altro che fosse colpa
di poca esperienza; ma questi discorsi ora non ci hanno che fare.
A ogni modo, se vi fu inconsideratezza tu l’hai scontata cara anche
troppo. Ora vien qui, torniamo a quel ch’i’ dicevo dianzi. Vuo’ tu
confidarmi?.... O piuttosto, hai tu gli assegnamenti per pagare la
pigione? Scusa.... non te n’offendere; sa’ tu dove rivolgerti se mai ti
mancassero? —

La Maria si diede a piangere, senza poter mettere assieme quattro
parole di risposta. L’altra, confortandola, aspettò un poco; e alla
fine:

— Sta’ quieta; domani il babbo va a pagare la pigione per sè, e ha
già pensato per quella via di far un viaggio e due servizi col levarvi
questo pensiero. Poi, a vostro comodo, senza stare a dire nè quando nè
come....

— Ma questo è troppo! — esclamò allora con trasporto di tenerezza
la Maria; — dopo tanti benefizi pagarci anche la pigione! Piuttosto,
ecco fatto, ajutatemi a cavar dalle mani dell’ipotecario quelle po’ di
gioje, giacchè i’ voglio credere che a venderle vi sia da ricavare....

— Bada, Maria, i’ ho sentito sempre dire che quando si va a vendere
certe cose col bisogno alle spalle, e’ si perde ranno e sapone.[109]
E poi non ci pensar più, non ti confondere con l’ipotecario, scordati
del passato. Oh quanto pagherei a rivederti, come quando si diventò
pigionali col tuo vestito di rigatino, attenta al telajo, senza
metterti dintorno quello che non ci conviene! E’ si pena poco:[110]
un fiore costa un quattrino, ma non sta bene a tutti. Per me tu sei
la medesima d’allora, e io ti vo’ bene come prima; e quand’i’ ti veggo
afflitta non ti so dire se ci patisco; ma credilo! se tu hai perduto la
pace, la contentezza, io la do a quella smania.... tu m’intendi. E sai?
A non sapersene liberare v’è anche il pericolo di sentirsi tirar fuori
cattivo nome. —

A questo discorso la Maria fu tanto commossa, che non potette fare a
meno d’abbracciare l’amica esclamando:

— Tu dici bene! la m’era venuta anche a me quest’idea; mi mancava il
coraggio; tu me l’hai dato! —

E corse alla cassa, frugò in fondo sotto un fagotto di cenciucci,
bellini all’occhio ma tutta tela di ragno, e cavò fuori il vestito di
rigatino, dimenticato laggiù per tanto tempo.

— Sì, — diceva — con questo mi sentirò meglio. E’ mi par d’essere
un’altra; questo, sempre questo! Benedetta te, che non hai messo da
parte il rigatino! —

E si stringeva al seno quel modesto vestito, come si farebbe d’una cara
persona che non si fosse rivista da qualche anno. Ma nello scoterlo
cadde in terra un libricciòlo che v’era tramezzo. La Maria non seppe
raccapezzare a un tratto che cosa fosse, e andava per raccattarlo;
quando, riconosciutolo, e fatto il viso di mille colori, si rattenne
stupefatta e quasi paurosa.

— È un libriccino.... — diceva l’Anna, — lo raccatterò io. —

E lo prese, e guardatolo bene, capì il motivo di quella temenza.

Michele, sui primi tempi che furono pigionali, lo aveva letto alle
ragazze, ed era tanto piaciuto alla Maria, ch’esso glielo aveva
regalato.

— Prendilo, è tuo; perchè non t’arrischi?

— Oh avess’io dato retta, — e si copriva il volto con le mani, —
avess’io dato retta agli avvertimenti che sono in cotesto libro! Ma!
gli andò in dimenticanza con quel vestito! Mi sta il dovere.

— Tu se’ sempre a tempo. Rileggilo; rileggiamolo insieme. E ricordati
che ad ogni cosa c’è il su’ rimedio. Eccolo qui; i’ lo poso sul
vestito: gli stanno bene assieme. Su quel che ho detto dianzi ci siamo
intese. Il babbo penserà a tutto. Ora poi tu mi devi fare un servizio.
Il mercante m’ha messo furia per la tela, e io avrei da cucir subito
una mezza dozzina di camicie da donna. I’ non ho potuto dir di no.
Figurati: e’ m’hanno fin dato i quattrini anticipati per obbligarmi a
pigliarle. Tu non hai nulla in telajo, la mamma sta benino.... E poi,
per queste non v’è tanta furia. Dunque intanto poss’io far capitale di
te?

— Che discorsi! Ma i’ ho paura di non esser capace....

— Eh via! Che son le prime? Tu cuci veramente bene!

— Le saranno di suggezione....

— No; una cucitura liscia liscia.... Da donna, tu puoi considerare.
Anzi le sono bell’e tagliate. Or ora te le porto giù. Eccoti intanto i
quattrini della fattura.

— No davvero! Vi sarà tempo.

— Quest’è bella! I’ gli ho avuti; il lavoro lo fai tu; dunque son tuoi.
Animo! E più qua, se t’avanzerà tempo, ce ne saranno dell’altre. Addio.
— E se n’andò frettolosa, posando i quattrini sul pancone[111] del
telajo, senza lasciarle il tempo di ringraziarla.

La Maria, rimasta sola, benedì quell’angiolo, benedì la Provvidenza che
per sua mano le mandava lavoro e un guadagno propriamente opportuno;
e poi si messe addosso il vestito di rigatino, prese in mano quel
libricciòlo, e s’inginocchiò a piè del letto. Le parole, i conforti e i
soccorsi dell’amica, il distacco da quelle vanità che l’avevano fatta
traviare, e più che altro la contrizione di cuore, le fecero tanto
bene, che le parve proprio d’esser rinata. Poco dopo l’Anna riscese
con le camicie tagliate, e trovandola con quel vestito e col volto più
sereno:

— Così va bene, — le disse — quando c’è il coraggio, c’è ogni cosa....
— In questo mentre sentiron gente che saliva le scale. Tutt’e due
riconobbero il passo; l’Anna, senza turbarsi:

— Ti lascio, perchè ho da fare — e andò via; l’altra sospirando non
ebbe ardire di trattenerla; fece due passi verso l’uscio, e si trovò
Cintio a fronte.

— Che novità è ella questa? Così presto non t’aspettavo davvero!

— Chi è uscito di qui?

— Tu puoi figurartelo!

— E chi t’ha messo in capo di ripigliare il rigatino? Perchè venir
fuori con quest’anticaglia?

— Così non l’avessi lasciato mai!

— Ho capito! Or ora anche il casacchino e la rete, — e scosse il capo
con un sorriso dispettoso e maligno.

— Del resto, la novità.... Ma ormai pur troppo l’è cosa vecchia. Quel
figuro del padron di casa è duro come un masso. Non vuole aspettar
nemmeno qualche giorno di più. Pochi giorni bastavano, perchè tra pochi
giorni!...

— Oh! tra pochi giorni più panìco o meno uccelli![112]

— Che c’è di nuovo?

— Tu lo saprai allora; ma intanto, bisognerebbe vedere di rimediarla in
tutt’i modi. Voglio parlare a tua madre.

— La dorme.

— Dov’è quel libro?

— Che libro?

— Il libro de’ sogni, non mi capisci?

— Cintio, non ti rovinar più che mai; affidati piuttosto nella
Provvidenza....

— Sì! la ti calerà il panierino co’ quattrini bell’e involtati in una
foglia di fico. L’è una bella parola la Provvidenza!

— Per amor del Cielo, non dir resìe![113]

— Con quell’omaccio non c’è Provvidenza che tenga.

— E io t’assicuro che tu non avrai bisogno di lambiccarti il cervello
per la pigione.

— Perchè?

— Perchè domani sarà pagata.

— Ma come?

— Sarà pagata, e tanto basta. Non ci pensar più, e non mi domandare
altro. E questo è lavoro. Vedi tu? Intanto che aspetto la tela,
ecco un po’ di guadagno per tirarsi ’nnanzi. Ora c’è ella la
Provvidenza? —

Cintio l’affissava, come smemorato, senza rifiatare; e poi guardando il
fagotto delle camicie tagliate, vi scorse accanto quel libricciòlo.

— O questo?

— È mio; l’avevo da tanto tempo!...

— Non te l’ho mai visto. —

E lo prendeva e lo strappava di mano alla ragazza. Quindi
scartabellandolo più qua e più là s’imbattè in un punto dove il libro
ammoniva le persone, e soprattutto i poveri, a non s’inviziare nel
giuoco del lotto. Allora lo gettò via con disprezzo, dicendo:

— Voglio sapere chi te l’ha dato.

— Che c’è qualcosa di male?

— Obbedisci!

— Cintio, oggi tu mi fai paura. Mi merito io forse d’esser trattata
così?

— O io? che cosa t’ho io fatto che tu abbia da venirmi fuori con de’
segreti?

— Per carità, non cominciamo co’ rimproveri! Stiamo zitti, che sarà
meglio per tutt’e due.

— Dacchè ho messo piede in casa tua non me n’è andata una bene! E ora
che sarei, posso dire, a cavallo,[114] peggio che peggio! —

La Maria piangeva; un nodo le serrava la gola...

— Ma ho capito tutto; e so io come regolarmi. Se la mamma dorme, ci
vorrà pazienza; la sveglierò. — E indispettito si moveva per entrare in
camera.

La ragazza, non potendo articolar parola, tanto era lo spasimo de’
singhiozzi, gli si messe davanti ginocchioni per trattenerlo. Cintio,
o che ne fosse davvero intenerito, o che fingesse; — Sta’ zitta! —
disse con dolcezza, rizzandola. — I’ non posso patire che tu pianga
per cagion mia. Quel che t’avrai fatto tu, starà tutto bene. Sì,
ringraziamo la Provvidenza. E anch’io, vedi tu? appunto venivo per
combinare qualche cosa del nostro matrimonio, perchè, com’i’ ho detto,
da qui innanzi le mie faccende spero che piglieranno buona piega.
Bisognava levar di mezzo questa seccata della pigione; e giacchè
non ci devo pensare, tanto meglio! Allora lasciamola dormire. Ci
rivedremo stasera. — E con simulata dolcezza e serenità se n’andò via,
lanciandole uno di quelli sguardi che l’avevano ammaliata. La Maria
non ebbe tempo di trattenerlo; non ebbe ardire d’insistere nelle sue
domande; e pigliando per sincera quell’espansione di cuore, tornò a
rinvigorirsi nell’affetto per lui, si scordò di tutta l’amarezza del
discorso tenuto innanzi, e non le rimase altro pensiero che quello di
poter concludere presto il matrimonio.

Nella sera medesima l’Anna, parlando con Michele fece cascare il
discorso sulla Maria, e gli raccontò l’accaduto della mattina.

— E’ mi pare un buon principio, io l’ho detto sempre; il ravvedimento
è sicuro; sta’ a vedere com’e’ si regola quell’altro. — Michele stava
zitto e sopra pensiero, baloccandosi con un rocchetto che aveva lì tra’
piedi. Poi disse:

— Non andar tanto in là con le congetture.

— Che ti dispiacerebbe?

— No! gli è forse il troppo desiderio, che non mi lascia dar la via
alla speranza.

— Ma a pensare al peggio v’è sempre tempo.

— Anche l’ingannarsi riesce duro; e tu lo sai quanto me.

— Per questo, prima di dirti _rincòrati_, i’ ci ho voluto pensar bene.

— Intanto son passati dei mesi....

— Ma che la medicina opera subito? Qualche volta la guarigione
apparisce quand’uno men se l’aspetta.

— Non ne discorrere con me di medicina e di guarigione!
Disgraziatamente i’ veggo ogni giorno come vi sia da attaccarsi poco a
queste cose.

— Gli è che anche tu se’ malato; e allora come vuo’ tu giudicare della
salute degli altri? E poi, lasciamelo dire, la gioventù, a questi lumi
di luna, ha troppo cattiva opinione di noialtre ragazze....

— Qui poi non mi mettere in un mazzo con gli altri!

— No davvero!

— Gli è che tutte non somigliano te.

— Che cosa c’entro io? Tu devi dire piuttosto che a forza di gridarci
la croce addosso, anche in barzelletta, i giovani s’assuefanno a
pensare sempre a male! Lo senti tu? _Lupus est in fabula;_[115]
senti tu nella strada il vendistorie? _Le malizie delle ragazze per
imbrogliare i giovinotti!_ Le son queste le belle storie ch’e’ vanno
stampando! E girano per tutto, e molti le comprano, e ci ridono
sopra. I’ vorrei sapere se la povera Maria e un’altra persona ch’è qui
hanno tirato a imbrogliare.... Basta! Al più piccolo sbaglio subito
la condanna; e il perdono.... signor no, il perdono non vien mai.
Bisognava che tu l’avessi vista! I’ scommetto io che se tu fossi stato
ad uno spiraglio dell’uscio, a quest’ora tu saresti più persuaso di
me! —

Il giovane, commosso dallo zelo della sorella, rasserenò la faccia con
un sorriso, ed esclamò: — Sì! tu hai ragione; tu m’hai consolato; i’ la
pensavo come te; solamente mi dava noja l’indugio....

— Da cosa nasce cosa, e il tempo la matura. E se tu mi parli di
prudenza, i’ son con te: ma non mi fare lo spericolato; non cerco
d’altro. —

Michele alzò gli occhi al cielo, sospirando e toccandosi il cuore, e
andò in camera, perchè aveva bisogno di star solo. L’Anna si rallegrò
tutta, perchè quello, secondo lei, era buon segno; e chi sa fin dove
l’affettuosa immaginazione allora la trasportasse!

I loro animi erano rimasti in tale stato di speranze, quando maestro
Cecco tornando a cena la sera dopo, restituì all’Anna una parte di
que’ denari che aveva presi seco la mattina per pagar la pigione de’
due piani: — Non ce n’è più bisogno; tu li puoi rimettere insieme con
gli altri già assegnati per rifarti il corredo. — I figliuoli rimasero
stupefatti.

E Michele: — O come va la faccenda?

E l’Anna: — Forse che da un momento all’altro la Maria ha potuto
pagarla da sè?

— Cintio ha disdetto la casa.

— Possibile! Si vede che ancora non sapeva nulla....

— Anzi, lo sapeva. L’ha disdetta stamani; ed ha avvisato il padron di
casa che badasse bene di non pigliar quattrini da me.... E qualche
altra cosetta poi.... ma.... non ci va badato. Il fatto è ch’i’ non
ho potuto insistere.... Che cosa volete voi? Alla fine io non saprei
costringere chi si sia a ricevere da me un servizio per forza. —

Questa notizia per l’Anna fu una saetta a secco. Michele con le
mani incrociate sul petto la guardava in silenzio. E lei non potendo
sostenere i suoi sguardi, quasi fossero un rimprovero per le parole del
giorno innanzi:

— Quei quattrini — esclamò tutta contristata — non li ripiglio davvero!
Fatene voi quel che volete; fatene un’elemosina. I’ non vo’ più pensare
a corredo. La cena è pronta; v’aspetto di là. — E andò via, nascondendo
il viso nel grembiule.

— Che cos’è stato? — disse maestro Cecco al figliuolo.

— Vo’ conoscete il suo buon cuore; non dico altro.

— Eh! tu puoi credere se anch’io ci patisco. Ma no’ siam lì:
quando proprio non vogliono! Quando se n’offendono! Ora mi dispiace
doverglielo detto. I’ non credevo che la se n’avesse ad affliggere
tanto. Gli è vero che l’erano amiche.... Sta tutto bene.... Ma, vedi,
con te posso andar franco; tu devi essere spassionato.... Quel ragazzo,
per non dir altro, ha fatto un diavoleto, una dicerìa contro di noi,
come se no’ volessimo, che so io? metter su la fanciulla a dargli
licenza.... E guarda con chi è andato a sfogarsi! Col padron di casa,
che non gl’importa nè punto nè poco di queste ciance! Si può egli avere
meno giudizio? T’assicuro io che ho durato fatica a non uscire da’
gangheri![116] E quasi quasi ho gusto che se ne vadano. Tanto, secondo
quel che ha detto colui al padrone di casa, presto si mariteranno.
Almeno quella povera ragazza non sarà più menata per bocca dal
vicinato. E può darsi che a lui, dopo averla presa, ritorni quel po’ di
giudizio che aveva prima che imparasse a conoscerla.

— Speriamolo!

— Dunque, senza stare a dir tutto alla tua sorella, tu vedi quanta
prudenza ci vuole! Quel che si poteva fare noialtri, l’abbiamo fatto,
mi pare. Nondimeno, quand’occorra son qua. Troppo sarebbe se in questo
mondo si dovesse far servizio solamente a chi lo merita! Bisogna
compatire l’ignoranza, l’inesperienza, e badar sempre che il giusto non
ne soffra pel peccatore. —

Figuratevi se Michele era spassionato come credeva suo padre, e se
quelle parole gli arrivarono all’anima! Nondimeno e’ fece di tutto
per non gli dare a trapelar nulla, e tornò a nascondere in seno quel
segreto che da un pezzo era solamente palese alla sua sorella. Questa
giudicò subito che Cintio avesse fatto ogni cosa di proprio arbitrio, e
diede nel segno. Sebbene accortamente ammonita da Michele a regolarsi
con molta cautela, tuttavia si propose di cogliere la prima occasione
che si fosse offerta per tentar di nuovo l’animo dell’amica. Passarono
cinque o sei giorni senza che il caso le facesse incontrare insieme.
In questo tempo Cintio concertò molte cose con la vecchia; scovò un
ingarbugliatore,[117] un mezzano di scrocchi, per vendergli a pochi
soldi le sue ragioni su quel meschino assegnamento lasciatogli dallo
zio; e parendogli allora d’esser ricco, fece animo anche alla Maria,
sicchè la non ebbe più ritegno a rimettersi in lui in tutto e per
tutto. Sbrigatasi a cucir le camicie, le riportò all’amica in tanta
fretta, che questa non ebbe tempo d’entrare in discorso di nulla;
ed appena la vecchia potè fare due passi, Cintio condusse lei e la
figliuola a veder la casa che aveva scelto per loro. Il quartierino
era già spigionato; la vecchia ne rimase contenta, e in quattr’ e
quattr’otto[118] messero mano a sgomberare.

L’addio tra le fanciulle in apparenza fu freddo; ma l’Anna era
piena d’afflizione, e le pareva che la sventurata andasse proprio a
precipitarsi senza che a lei rimanesse alcun verso per soccorrerla. La
Maria non aveva parole fatte, in parte per essersi abbandonata alla
speranza di diventar presto moglie di Cintio, giacchè quella volta
sembrava ch’e’ dicesse davvero; in parte per quel rammarico quasi
superstizioso che nasce quando si va via da una casa dove abbiamo
passati molti anni, gli anni più belli della vita, come se quel
cambiamento ci dovesse portare disgrazia, o fosse un distacco dagli
affetti dell’età innocente, un oltraggio alle dolci ricordanze che ci
vengono anche dalle nude pareti. Le fanciulle si diedero un bacio, ma
i’ non vi so dire che cosa le provassero in quel momento! La vecchia
non rifiniva di ringraziare; e, poveretta, sebbene mal prevenuta
contro i pigionali, chi sa da quali fandonie di Cintio, pure i suoi
ringraziamenti erano sinceri ed affettuosi, e le fecero spremere
qualche lagrima. Michele e maestro Cecco dissero poche parole nel
momento della separazione; quasi punte quando furono rimasti soli. In
seguito ognuno si diede a mostrare scambievolmente d’aver dimenticato
le pigionali, ma non era vero. E Dio volesse che i loro taciti voti
fossero poi stati esauditi!

Dopo quella separazione, le giovani tessitore non s’incontrarono più
neanche dal mercante; e solo in capo a qualche settimana Michele seppe
che la Maria era stata sposa di Cintio, e non si curò d’altro, nè di
parlarne all’Anna. Ma lei ebbe la stessa notizia dall’avviatora; e di
più questa donna con la lingua affilata bene, con una chiacchiera da
tenere addietro un avvocato:

— Per una certa congiuntura gli avranno avuto fortuna — aggiungeva, —
ma che import’egli? e’ si son fatti anche scorgere nondimeno!

— Basta che gli abbiano avuto fortuna, come vo’ dite; non m’importa del
resto.

— Uh! che male fo io a dirvi come l’è andata? E’ non c’era principio
di conclusione; sempre il casetto per tirare in lungo; ma tutt’a un
tratto, vo’ l’avrete sentito dire anche voi, una signora, per non
so che festa, dà la dote a due ragazze, ridete! a patto che le si
maritino per l’appunto in quel giorno. E lui, subito a metter di
mezzo persone da ogni banda per fare aver questa dote alla Maria: e
vi riescì, e stiacciò tutto l’affare[119] così su due piedi. Oh! con
le su’ spacconate da bravazzone, col su’ baco[120] di grandezza e di
lusso, un bell’onore! E poi un desinare spropositato, in campagna,
con l’invito a una tregenda[121] di que’ soggettini che vo’ sapete,
e scialo di vestiti, di svaghi alla smargiassona.... Insomma il lupo
perde il pelo, il vizio mai; di lì a pochi giorni s’era ridotto al
verde, dopo aver fatto più spropositi che non ha foglie maggio; sicchè
la dote.... mi spiego? — soffiando sulla palma della mano — _tabula
rasat_. Ecco il bel frutto d’una carità estrosa come quella. Una dote,
non dico.... l’è sempre una carità fiorita; ma vedete voi che razza di
matrimonio per godersi que’ pochi! Un giorno contenti come pasque, e
poi alla fin del salmo, le tenebre per casa, e più tribolati di prima;
un branco di figliuoli come le dita e rilevati male; punto giudizio,
che dovrebb’essere il capo essenziale; litigi un dì sì e un dì sì, e
tutto a traverso. L’è pure la gran passione, figliuola! Io per me, se
fossi una signora che volessi dare la dote, invece di quattrini, una
botteguccia, un telaio, o qualche altro arnese da mestiere; e poi gli
sposi meschinelli, i’ li vorrei prima conoscere ben bene da me; e dare
il tempo di concertar le cose con garbo perch’e’ non avessero a metter
le mire troppo alte quando la scala non v’arriva. Ormai, i’ n’ho visti
tanti di questi matrimoni abborracciati con gli assegnamenti che non
servon neanche a mezza via! Come l’Ammannato «i quattrini son finiti,
e il tempo è avanzato.» E poi chi li leva dagli stenti? Oh! s’e’ ne va
uno bene gli è proprio miracolo!... —

L’avviatora voleva riportare altre chiacchiere o esagerate o false,
un guazzabuglio dal quale veniva anche intaccata l’onestà di Cintio e
forse quella della sua moglie; ma l’Anna le troncò le parole in bocca,
ammonendola a non credere poi tanto al male che si dice di questo e
quello, ed a non spandere le ciarle a danno del prossimo.

— Io li conosco bene tutt’e due.... — soggiungeva.

— Sie guà! ditelo a me! E dopo l’azione ch’e’ v’hanno fatto, i’ mi
maraviglio che vo’ la ripigliate per loro. Quando la bontà passa la
parte, i’ la chiamerei buaggine,... a casa mia.

— Appunto per questo; s’i’ non li conoscessi bene non fiaterei. Ma
la verità sempre a suo luogo: se v’è del guaio e’ dipende tutto da
inconsideratezza e dal bazzicar male, e non importa andare a dirlo al
popolo ed al comune. E poi, le cose sapute in iscorcio, vo’ non dovete
mai correre a crederle, e molto meno a raccontarle se anche le fossero
da potersi dire senza far pregiudizio al terzo ed al quarto. D’avanzo
no’ siam menati per bocca da chi ha sulla cuccuma i poveri,[122] da chi
non vorrebbe confinare con noi! La sarebbe agra ch’e’ ci si avesse a
dar l’asce su’ piedi[123] da noi medesimi!

— V’avete ragione; la mi torna, anche a me mi piace d’essere schietta,
e non mi voglio aggravar l’anima. Oh! prima di buttar fuora una
proposizione ci penso, sapete? E so ch’i’ so che se mettiamo la mano
al petto, anche noi la si leva lebbrosa. Nulladimeno ognuno è figliuolo
delle sue azioni; e bisogna poi vedere di chi si parla. Sicuro, di voi
e de’ vostri uomini com’essere, che vo’ siete benedetti, non c’è da
dirne altro che un mar di bene!

— I miei uomini hanno giudizio....

— E buon cuore; e vo’ tirate da loro, e tutti lo sanno, sapete? E ben
vi sta, che vo’ non abbiate astio a una regina. Benedetta quella mamma
che v’ha fatto!

— I’ ho avuto l’esempio in casa, è naturale ch’i’ cerchi di fame pro.

— Badiamo veh! L’esempio sempre non basta. E ognun ch’è ritto può
cadere. Che v’è egli da dire della Teresa mia cognata? La si strascica
un po’ troppo per le chiese, a dirvela tonda tonda, ma poi l’è una
coppa d’oro. Nulladimeno quella pettegola muffosa[124] della su’
figliuola.... quando la mamma non è in casa, non passa una mosca che la
non sia subito alla finestra; e spesso fuori a giostroni[125]....

— Ma fatemi il servizio; non toccate più questi tasti.

— Insomma è una stirpaccia....

— E con tanto ciambolare[126] vi verrà troppa sete.

— Sie! che bocio come s’i’ fussi in pulpito? Gli è che vo’ non volete
sentir tagliare i panni addosso[127] a nessuno.

— Giacchè vo’ l’avete detto da voi, scusate, ma l’è così.

— E io son del medesimo sentimento.

— Allora tanto meglio.

— Ma zitta come un olio, non mi riprometto davvero! Quando mi sento
sollevar la bile non mi posso tenere. I’ sare’ ita in convento, s’i’
avessi voluto gastigarmi la lingua.

— O che non si può discorrere senza impacciarsi de’ fatti degli altri,
e senza scoprire le magagne del prossimo?

— Provatevi, se vi riesce! Povera fanciulla! Vo’ siete tanto buona voi!
I’ vi compatisco! Lasciatemi dire, tanto son sicura che le rimangon
morte qui. Vo’ non sapete quanto il mondo sia sconsagrato in oggi!
Voltatevi di qua, voltatevi di là, per tutto c’è il baco.... Proprio,
quando ci penso, i’ non vi so dir le pene ch’io provo! E’ me ne va
il sangue a catinelle! Girate un poco e specchiatevi. Un diluvio di
rompicolli oziosi, bighelloni, sfacciati, caparbi...; e i ragazzi
imparano, e vengon su sgloriati e monelli peggio di loro; e prima
d’aver rasciutto il latte su’ denti, non apron bocca se non per dire
delle cosacce.... Ma i’ non l’ho con loro io; i’ l’ho con le mamme, che
della pasta di quelle di prima, se ce ne sono, le si contan proprio
a dito.... Questo poi sì! Chi si sente scottare gridi ohi! Ma viva
la faccia della verità! I’ la dico e posso dirla, perchè non porto la
livrea di nessuno. E benchè povera, quand’i’ n’abbia tanti da campare
col mi’ lavoro, per me gli è tutto quel del mondo.... E ora ch’i’ mi
sono un po’ sfogata, seguitate voi, s’e’ vi garba.

— Vo’ la conoscete, non è vero, l’Assunta di via Gora?[128] Quella che
incanna l’orsoio?[129] la moglie del ciaba?[130]

— S’i’ la conosco! da cima a fondo. Ch’ha ella fatto? Qualche
sproposito? Di lei poi mi parrebbe impossibile, perchè, a dirla
giusta, l’è una buona creatura.... povera sì, e dimolto, ma buona; e
anche il su’ marito.... gli stanno bene insieme. Già i tribolati nelle
barbe[131] che male volete voi ch’e’ ci facciano?

— Or bene; con tutta la miseria che hanno addosso, vedete? gli hanno
preso per figliuola quella povera creaturina che, due mesi fa, restò
senza babbo e senza mamma....

— I’ ho capito. A dire eh? O come fann’eglino a camparla, se gli hanno
un dicatti[132] di mangiar pane e coltello?

— Eppure ci riescono! A forza di lavoro, tutt’e due la rimediano.
L’imbroglio stava nel vestiario, perchè la piccinuccia, poveretta, era
proprio nuda bruca come un vermine, senza neanche un brincelluccio[133]
di camicia. Dunque, e’ non avevan mai chiesto una capocchia di spillo a
nissuno; ma per amor di lei, che cosa volete! Uno spoglio da quella, un
cencio da quell’altra, gli hanno trovato da rivestirla di tutto punto,
e la mandano pulita, ravvìatina che la pare un giojello. E tutta roba
di poveri. O andate a dire!

— Per codesto i’ n’avrei da contare anch’io delle belle! Naturale![134]
Troppo sarebbe che tutti gli avessero a essere a un modo! Dianzi, che
cosa credete voi? i’ ho detto per dire. Quando vedo certe cose....
basta! mi sento arrugginire, e gli metto tutti in un mazzo. Ma poi,
i’ son ragionevole. Anzi bisognerebbe che vedessero, quelli che non
la perdonano a nessuno, quelli che ci vorrebbero vedere sterminati,
noialtri poveri, bisognerebbe che vedessero le cose ch’i’ ho visto
io con quest’occhi!... Oio![135] quelle du’ maestrine che stanno in
Palazzuolo![136] oh quelle sì, benedette loro, che le fanno una carità
fiorita! Come? I’ non ve l’avevo mai detto? State a sentire, veh!
Le son povere la su’ parte anche loro! E’ si può credere quel che le
guadagnano a tenere a scuola una ventina di bambine! Chi dà sei crazie
il mese, chi un giulio,[137] e gala se qualche mamma un po’ meno
in miserie l’arriva fino alla lira;[138] e poi, da certe famiglie,
tribolate come don Vincenzio che sonava la messa co’ tegoli, non c’è da
ricavare neanche un sospiro. E per questo? O che quelle povere piccine
dovrebbero rimanere nel mezzo della via? Padrone d’andare a scuola; e
la stessa assistenza per tutte; e spesso e volentieri, se le v’entran
digiune, le ritornano a casa satolle. Dunque, ora viene il meglio;
e io lo so perchè in quella casa avvìo due telaja; queste maestrine
le seppero di due signore di loro conoscenza che erano ricadute al
basso....[139] il perchè, se fosse vero! volete voi ch’io lo dica?

— Che sarebbe cosa di male?

— Piuttosto! Conseguenza di poco giudizio.

— Dunque chetatevi.

— Tanto la non è certa. Ma insomma, finchè uno ha denti in bocca, non
può saper quel che gli tocca, le non avevano da pagar la pigione nè
da sdigiunarsi; e, meschine loro, per chi non è nato di povera gente,
per tutti veh! ma per loro poi, l’andare a parar mano è cosa troppo
dura. I signori, o in auge[140] o ricaduti, so com’e’ pensano; i’
n’ho praticati a barche! Sicchè, per tornare a bomba, le maestrine
che cosa ti fanno? Alla meglio d’un letto le ne stampan due; una
materassa per loro su quattro legnucci, e una materassa col saccone e
le panchette per le signore. E poi le vanno a profferirlo, così per
poco tempo, tanto che le possano provvedersi di meglio; ma il poco
tempo è diventato dimolto. Intanto le maestrine a mendicar lavoro uscio
a uscio per le signore, a riscoter per esse perchè le non dovessero
rinchinarsi a nessuno; insomma le si riebbero da morte a vita, sapete?
e le vi son sempre; e sempre le vi staranno, perchè le si vogliono
un bene dell’anima. E poi si dirà che tra donne e donne non ci
troviamo mai d’accordo? Lo vedete voi? Inclusive tra quelle di nascita
differente!...

— Lasciamo stare la nascita; no’ siam tutti figliuoli dello stesso
Dio. Gli è che quando si sta insieme per ajutarci l’un con l’altro,
per lavorare, per essere onesti, il baco della discordia non c’entra,
ve lo dico io! State a sentire d’una donna che ho conosciuto in via
dell’Ariento, dove si stava di casa tempo fa! La si chiama Brigida;
vedova d’un cenciajuolo. Una donna di un cuore tanto fatto, vedete!...
e’ ce ne può essere poche! Basta, vi dirò solamente questo: rimasta
vedova, e campucchiando alla meglio col fare i servizi, ma senza voler
mai dormire in casa d’altri!... Gua’, i’ la compatisco.... l’ha caro
di dormire nel su’ letto; con tutto questo, quando la vedde che una
famiglia di tribolati vicino a lei s’era ridotta a non aver altro che
un po’ di paglia per dormire, una sera la prese il suo caro saccone
di foglie, e ratta ratta la lo portò in quel tugurio: «Animo! dormite
qui sopra. Almanco vo’ starete meno sul duro. Sie, sie! vo’ me lo
renderete a vostro comodo!» La l’ha ancora a riavere. Ma aspettate;
la non è finita qui. Poco dopo, una sua compagna che non sapeva nulla
del saccone, la va a raccomandarsi: «Meschina me! la mi’ figliuola,
povera ragazza, la s’è strutta com’una candela; il medico l’ha spedita
per tisica, e non vuole ch’i’ dorma più seco. E’ dice bene lui; ma e’
non considera ch’i’ non ho altro che una materassuccia di capecchio. E
lui, bada a battere,[141] e vuole obbligarmi a mandarla allo spedale.
Allo spedale poi non la mando davvero! piuttosto dormirò in terra.»
E la Brigida: «Vi par egli? i’ vi presterò la me’ materassa.» «Eh
giusto!» risponde quell’altra: «i’ non sono così indiscreta. Prestatemi
’l saccone finch’io non possa avere un lettuccio della Congregazione
di San Giovambatista,[142] chè il priore spera bene.» E la Brigida:
«Fate a modo mio, pigliate la materassa; i’ l’ho più caro.» «Allora
poi,» rispose quell’altra,» che volete voi ch’i’ vi dica? I’ farò a
modo vostro.» E così la Brigida rimase anche senza la materassa per
parecchie sere, e nel cuor dell’inverno; e nessuno trapelò nulla, altro
che quando la si fu ammalata. Allora qualcheduno le rese il bene che
l’aveva fatto.

— E io m’appongo[143] chi glielo rese, quel bene: vostro padre.

— Oh! come se in quella strada non ci fosse stato altri che lui!

— No’ ci siamo intesi. E’ non se ne trova de’ su’ pari. So io!...

— Ma assicuratevi che della buona gente ce n’è più di quel che vo’ non
credete. —

Intanto l’avviatora aveva finito di ripulire e aggiustare tutte le
fila dello strigato, e se n’andò senza pensar più, almeno per quella
giornata, nè agli spropositi di Cintio e della Maria, nè alle ciarle
che correvano sul conto loro. Anzi, alle altre tessitore che vide
dipoi, andò ripetendo invece i racconti delle carità fatte da maestro
Cecco e di quelle che aveva risaputo dall’Anna.

Inoltre, avendo potuto a poco per volta raccapezzare pel su’ verso
quasi tutto quel che era passato di grosso tra le due fanciulle
tessitore, il tradimento della Maria, il perdono generoso dell’Anna, la
sua assistenza alla vecchia anche a costo di rimetterci il corredo, e
via discorrendo, ne tenne discorso per filo e per segno a una tessitora
riposata, moglie d’un onesto magnano, e alla presenza del suo marito
e del suo figliuolo, giovine di venticinque anni, onesto, abile nel
mestiere del babbo, e già capace di fare il maestro di bottega.

Quando l’avviatora se ne fu andata pe’ fatti suoi, il giovine, che si
chiamava Nanni, infiammato dalla passione per la virtù:

— Questa, s’i’ me la potessi meritare, questa — esclamò verso la madre
— la sarebbe una moglie da somigliar voi!

— E sì ch’i’ conosco maestro Cecco, — rispose il padre con un
sorriso di compiacenza. — Ci siamo ritrovati più volte a lavorare
sulle medesime fabbriche. E di certo, alle mani di quel galantuomo
di ventiquattro carati[144] i figliuoli hanno a venire su bene; sì,
e’ posson portare la testa alta; i’ non stento punto a credere che
l’avviatora abbia detto il vero. Nanni mio, tu sai se no’ desideriamo
di vederti accompagnato meglio che sia possibile. Eccoci qui tutt’e due
vicini a batter l’ultima capata.[145] La Provvidenza, grazie a Dio, ci
ha assistito. I’ ti lascio una bottega bene avviata e un buon nome. Tu
non avrai a sgomentarti pel campamento della famiglia; e i’ te l’ho
già detto più volte di sceglierti una ragazza a tuo modo, perchè no’
siamo sicuri che tu saprai sceglier bene. Eh? che cosa ne dite voi,
Maddalena?

— Che domande! Potre’ io morir contenta senza vederlo ammogliato? — E
si rasciugava una lagrima.

Allora Nanni: — Per carità, non m’addolorate con questi discorsi, se
vo’ volete ch’i’ pensi alla moglie!

— Figliuolo mio! — soggiunse maestro Antonio, — le son cose di
questo mondo; bisogna prepararvisi tutti. Iddio ci dà i genitori, i
figliuoli, tutti gli altri beni, e ce li leva secondo la sua volontà.
Quaggiù, dove noi siamo di passaggio, gli è come a dire un imprestito,
per vedere se sappiamo farne buon uso. Vien poi ’l tempo d’andare a
rincalzare i cavoli,[146] e chi s’è visto s’è visto. Ma per imparare
a vivere, massime chi si pone nel caso di mettere al mondo dell’altre
creature, credilo a me, bisogna ch’e’ conosca a puntino in che cosa
consiste questa vita. E quella del saper sopportare le disgrazie, che
spesso vengono all’improvviso, l’è la migliore scuola per tutti. Ma
basta così: discorriamo solamente dell’Anna. L’ispirazione è buona, e
più bel principio di questo non vi sarebbe. Ma a quante cose, Nanni
mio, bisogna pensare! Vo’ non vi siete mai visti nè conosciuti. La
ragazza, che s’è imbattuta tanto male la prima volta, poveretta, i’ la
compatirei se l’andasse a rilento. La vorrà pigliare quelle cautele che
la prudenza consiglia. Insomma,... la faccenda può essere scabrosa, e
tu non ti devi mettere in capo di riuscirvi, se prima non ci si para
davanti qualche buon fondamento.

— Davvero sai? — aggiunse la madre; — che tu non t’avessi ad accorare
per un sogno di fantasia.

— V’avete ragione; e per me, come se non avessi fiatato. I’ starò al
mio posto, fermo com’un piloto.[147] Fate voi, babbo; mi raccomando
a voi. E quando vo’ mi direte: «Fatti conoscere; se tu piacerai alla
ragazza, il parentado sarà fattibile,» io, state pur sicuro, i’ non
guarderò più in là. Che la ragazza debba piacere a me non vi sarà
dubbio, perchè io, lo sapete, non cerco bellezze. E poi, ancorchè
l’avviatora non avesse detto che l’è sana, che l’ha un bel personale,
che l’è piacente, e’ mi basterebbe d’aver saputo quel che i’ ho saputo.
Non avrei altra paura che quella di non la meritare, come v’ho detto
dianzi. — E andò via, perchè doveva tornare a bottega presto.

I genitori, rimasti soli, si confortarono del savio pensare del
figliuolo, e poi maestro Antonio disse sottovoce alla moglie che s’era
messa in qualche apprensione per le dubbiezze del progetto:

— Rincòrati, perchè tu hai da sapere intanto; questo non gliel’ho
voluto dire, e non glielo dirò prima d’aver parlato con maestro
Cecco; tu hai da sapere che quel buono omaccino lo conosce il nostro
figliuolo; e lo conosce per un fatto, che, sta’ pur certa, non gli
uscirà mai dalla mente. A te allora non volli raccontarlo per non ti
metter paura. Tempo fa, maestro Cecco era meco a visitare i lavori
di risarcimento a un mulino e alla pescaja. Noi due di sopra nella
barca, e un bardotto[148] con la stanga a condurla; a un tratto la
stanga riman confitta giù in fondo; e’ fa uno sforzo per cavarla fuori,
ma invece gli scivola un piede, e dà un tuffo; intanto la barca per
quell’urto rimane spinta nella corrente del callone[149] a rischio di
farci precipitare nel tònfane.[150] Io afferro quell’altra stanga, ma
era troppo tardi; mi trovo perso, e m’entra la tremerella per l’amico;
quand’ecco Nanni accorre di sulla schiena della pescaja, afferra la
barca alla punta davanti, e la leva di pericolo; e poi si butta a
nuoto per dare ajuto al bardotto, che sbalordito dal tuffo non si
poteva reggere tanto da arrivare alla panchina. Insomma, in un batter
d’occhio e’ salvò la vita a tre persone. E poi, tu sa’ bene come gli
è fatto: quando si fu rasciugato alla meglio, se ne andò zitto zitto
per non avere altri ringraziamenti. Allora tra me e maestro Cecco
entrammo in discorso di lui; e io, figùrati s’i’ avevo da lodarmi del
nostro figliuolo! Per quella via maestro Cecco mi ragionò del suo, che
davvero non fa astio a Nanni, e poi si venne alla ragazza; e ti so dir
io che se la non aveva cominciato giusto allora a discorrere con quella
coltrice,[151] il pateracchio[152] era bell’e fatto! Dunque che cosa te
ne pare?

— Tu mi dài una gran consolazione!

— E io mi sento rinverzicolire![153] Or ora, se non ci bado, divento
più infatuato di lui. L’amore, sì, l’amore e l’inclinazione devono
andare innanzi a molte cose! Ma i’ mi ricordo che spesso, a tempo
nostro, dicendola qui che nessuno ci sente, i parentadi si concludevano
anche sulla sola riputazione de’ padri e de’ figliuoli. Ed era un buon
fondamento anche quello, sai? Anzi, senza di quello non c’era amor che
tenesse. E noi, se tu ti ricordi....

— Gli è vero; noi ci si discorse solamente un mese prima.

— E subito d’accordo.

— E sempre, tu devi dire.

— E Iddio benedisse il nostro amore con la provvidenza di questo
figliuolo.

— Come benedirà anche il suo. È tanto tempo che non fo altro che
raccomandarmi alla Vergine!...

— Dunque speriamo bene. —

I buoni vecchi alzarono insieme verso il cielo la loro fronte veneranda
e serena, e insieme sparsero qualche lagrima per la dolce speranza di
ritrovarsi finalmente a godere la maggior consolazione che rimanga ai
vecchi su questa terra.

Maestro Antonio, senza dare a divedere nè alla moglie nè al figliuolo
tanta premura, se ne andò diviato[154] in cerca di maestro Cecco; e
subito, tra loro non v’era bisogno di preamboli, incominciò col dirgli
la cosa come la stava.

— Allora fu un sogno, se tu te ne rammenti; posto preso; ma oggi come
oggi, gnorsì, i’ vorrei che questo sogno si avverasse da un momento
all’altro.

— Per me gli è bell’e avverato, non foss’altro perchè i’ posso dire,
me ne ricordo sempre, sai? i’ posso dire d’esser vivo per dato e fatto
del su’ coraggio. — E s’abbracciavano stretti stretti. — Ma se lei non
fosse proprio contenta!...

— Di mio genio; e amici più di prima. Nondimeno, se è possibile, cose
leste!

— A tutto ci vuole il suo tempo.

— Naturale![155]

— I’ te lo dico, perchè, non lo prendere in mala parte, ma i’ t’ho
conosciuto qualche volta un po’ troppo precipitoso.

— Va bene! e io ti davo la quadra[156] per la tu’ flemma; gnorsì, me ne
ricordo. Ma ora gli è un altro par di maniche. Gli anni e l’esperienza
ci mettono i piè di piombo, fratello mio!

— A te non tanto!

— E bada a battere![157] Bisognerebbe che tu avessi sentito il discorso
ch’i’ feci a quel figliuolo!

— Bene, via! Uomo avvisato è mezzo salvo. Zitto, finch’i’ non ti do una
risposta.

— Non si moverà foglia senza di voi. — E con una stretta di mano
lasciò maestro Cecco, sgambettando lesto lesto, benchè più vecchio di
lui, fino a bottega, dove chi l’avesse visto lavorare, comandare a’
garzoni e dirigere i lavori, l’avrebbe preso per un giovinotto, o per
un uomo, come si suol dire, di ferro. I molti anni non l’avevano fatto
incurvare nè ammencire:[158] diritto come un fuso, impresciuttito,
ferrigno; con poche grinzoline tirate sulla faccia rubizza, coi capelli
proprio d’argento e con l’occhio sempre vivace. E il figliuolo tirava
da lui. Un giovinotto svelto, di temperamento sanguigno, di bella
presenza, tutto fuoco nelle parole e negli occhi. Ma nel tempo stesso
non v’era pericolo che l’ardore della gioventù gli facesse commettere
un’imprudenza. In una congiuntura poi tanto seria come quella, sebbene
tutt’e due fossero smaniosi di vederne la fine, pur seppero contenersi
in tal modo, che per loro, bisogna dirlo, v’era dell’eroismo.

Intanto maestro Cecco, sempre avvezzo a andar cauto, per non avere a
rifare la strada due volte, e nondimeno, tanto è vero che la prudenza
non è mai troppa! s’era trovato a sbagliarla con Cintio, volle prima
avvisarne Michele per maturare insieme il disegno; e com’era naturale,
si trovarono presto d’accordo nel riconoscerne la bontà; se non che
avevano ragionevolmente paura che l’Anna, quando anco lo sposo le
andasse a genio, non si volesse risolvere con quella sollecitudine che
gli altri desideravamo.

In que’ giorni l’Accademia delle Belle Arti era aperta al pubblico per
l’esposizione dei quadri, delle sculture e delle opere dell’industria.
Maestro Cecco e Michele vi condussero l’Anna, e dopo avere ammirato
i dipinti e le statue, passarono nella stanza delle manifatture.
Quivi l’artigiano che vedeva i prodotti della sua fatica accolti
ed esposti nello stesso luogo in cui il genio delle arti faceva
di sè bella mostra, si sentiva crescere l’amor del lavoro e il
coraggio, e meglio riconosceva la dignità del proprio stato. Ed è
ben giusto che il grembiule sia onorato al pari della tavolozza e
dello scarpello; essendochè il sudore sparso dall’uomo nelle officine
giova alla prosperità della patria, come alla sua gloria provvedono
le opere degli artisti eccellenti. Perciò tu vedevi più che altrove
affollati in quelle stanze i buoni artigiani, giovani e vecchi, a
esaminare e giudicare con lieta compiacenza i più bei lavori de’
loro compagni; e faceva consolazione il sentire le schiette lodi,
che senza ombra d’invidia distribuivano a questo e quello. La maggior
parte degl’intelligenti ammirava certi serrami da usci e da finestre
immaginati con nuovo congegno, con molta semplicità, con eleganza, e
condotti a pulimento stupendamente, sicchè per tutti questi pregi il
manifattore aveva meritato il premio della medaglia d’oro.

— Eccoli qui, — diceva un vecchio magnano al suo figliuolo, —
eccoli qui i lavori di Nanni. Guarda che diligenza, guarda che lima!
Spècchiati,[159] figliuolo mio. E anche lui è giovane, tu lo sai.

— E neanche gli pesa la fatica — rispose un altro; — i’ lo so io che
l’ho visto lavorare.

— E che buon figliuolo che gli è! Già senz’essere buon figliuolo e
buon cittadino le non si fanno le belle cose, veh? E’ ce lo mettono
sott’occhio gli esempi di chi ordinò e di chi seppe costruire quella
maestosa cupola, che si vede appena usciti fuori da questa strada.[160]

— Beato dunque il babbo del nostro Nanni!

— Già, buona pianta fa buon frutto; quando c’è la probità e la voglia
di lavorare ogni cosa riesce bene.

— La medaglia d’oro? bravi! e’ se la merita davvero! Guardate che fior
di lavoro! Si può egli vedere di meglio?

— Io gliel’avrei data solamente per il buon figliuolo che gli è!

— Felice la compagna che gli ha scelto o che gli sceglierà — diceva tra
sè l’Anna, tutta intenerita da quelle lodi unanimi, e che si potevano
dire pubbliche, e proferite da gente che non sa fingere, che sa ben
valutare le qualità dell’artigiano onesto e del figliuolo virtuoso.

Uscendo dalle Belle Arti passarono dalla bottega di maestro Antonio;
e maestro Cecco accennando da lontano alla figliuola un giovinotto che
stava lì assiduo a lavorare:

— Guarda, gli è quel Nanni — le disse — che ha avuto il premio della
medaglia d’oro. —

La fanciulla lo vide di profilo, ma tanto che le bastasse per avere
un’idea delle sue fattezze; e tirarono di lungo senza fare altri
discorsi. Intanto all’Anna quella fisonomia era andata a genio; e più
che altro le faceva piacevole sensazione il riflettere che quel giovine
stava lì al sizio in maniche di camicia e in grembiule tal quale
come i suoi garzoni, mentre là, in quella sala, tra tanta gente di
stocco portavano in palma di mano il suo nome, e additavano con bella
compiacenza il premio meritato della medaglia d’oro. E’ le parve di
vedergliela luccicare sul petto in mezzo alla fuliggine della fucina,
ma nel tempo stesso la modestia del giovine le compariva molto più
splendida della sua medaglia.

A desinare incominciarono a discorrere delle Belle Arti, e ritornando
con la mente sulle cose vedute, arrivarono col discorso fino ai lavori
del magnano premiato.

— Io lo conosco bene quel giovine, — diceva maestro Cecco — e sono
amico di suo padre. Quello, vedi, sarebbe stato una buona occasione
per te! Dicerto i’ non avrei il rimorso d’averti fatto incontrare tanto
male alla prima.

— Voi? Che rimorso? Per carità, non dite questo. Anzi, vo’ avete sempre
avuta l’intenzione di farmi felice. Se non ci siete riuscito per quel
verso, la colpa non è vostra.

— Ma quella fissazione di non voler più marito, mi aveva fatto star
male, sai? Ora mi rincoro, pensando alla tua promessa!

— Io son figliuola, e tanto basta. Nondimeno ci sarà tempo.

— E ci sia! Ma se ti capitasse un giovinotto come Nanni?

— I’ non la vo’ credere cosa tanto difficile, perchè de’ giovinotti
per bene ce ne sono — e guardava Michele; — ma intanto, prima ch’e’ si
presenti!...

— Ma, dico io, s’e’ si fosse presentato?

— I’ vi posso rispondere come dianzi.... E lui ha egli incontrato bene?

— Chi lui?

— Quel Nanni.

— Quel Nanni è sempre scapolo.

— Ma non gli mancherà la dama.

— Anzi e’ non l’ha, e so ch’e’ vuol moglie. E appunto gli premerebbe
d’incontrar bene. —

A queste parole l’Anna abbassò gli occhi, e non rispose. Maestro Cecco,
ridendo soggiunse:

— Dunque, dimmi un poco; tanto si fa per discorrere; dianzi tu l’ha’
visto. Che cosa te n’è parso?

— Ma oggi vo’ mi fate certi discorsi!

— I’ ti vorrei veder felice, figliuola mia!

— E intanto vo’ pensereste a levarmi di casa? — E quasi le usciva una
lagrima.

— Oh! per darti marito che ci separiamo? E se tu sposavi Cintio, non
sarebbe stata la medesima cosa?

— Se almeno Michele non si ostinasse a rimanere scapolo! Che cosa
vorreste fare, voialtri due, senza una donna in casa? —

E Michele:

— Anna, questo discorso non c’entra; tu lo sai quanto me; e ora non
ne voglio far mistero nemmeno col babbo. Se fosse stato possibile, a
quest’ora, chi sa? Quella disgraziata della Maria....

— Credi tu ch’i’ non me ne fossi avvisto un po’ poco? Ma ora non
usciamo del seminato. Figliuola mia, senza tanti discorsi, a noi tu
non ci devi pensare. A tutto c’è il suo rimedio. Nanni è figliuolo
unico; della sua indole tu n’hai saputo abbastanza. Suo padre e sua
madre, basterebbe che tu li vedessi; e poi i’ non ti direi queste
cose a rischio di fare un buco nell’acqua o qualche cosa di peggio. La
lezione del passato è stata tremenda! Solamente vorrei sapere da te,
se a caso mi fosse fatta qualche domanda, com’i’ dovrei contenermi:
o levar di speranza addirittura, o aspettare.... Pensaci bene, piglia
tutto il tempo, e non istarò a dirti altro, finchè tu non sia la prima
a discorrerne.... Starai tu zitta? E ogni cosa rimarrà seppellita qui.

— Babbo, questo sarebbe troppo. Quel che vo’ farete voi, sarà ben fatto.

— Davvero? Dunque sappi che tu se’ chiesta.

— Da Nanni?

— Da suo padre, a nome di Nanni; ma ancora, sta’ pur certa, non son
corse altre parole che un semplice _proviamo_. Nanni non t’ha vista....

— O come ha egli fatto a pensare a me?

— Questo poi.... Tu hai pur detto dianzi che, secondo te, dei
giovinotti perbene ce ne deve essere. Anche lui ha questa buona
opinione delle ragazze: e’ conosce i fatti tuoi più che tu non
credi....

— Anche dell’occasione ch’i’ avevo?

— Soprattutto di quella.

— E nondimeno mi chiederebbe?

— E sa del bene che tu facesti alla povera Maria....

— Ma chi gli ha detto tutte queste cose?

— L’avviatora. Ha ella fatto male?

— I’ non so più cosa mi dire. Compatitemi.

— Ma bada; tutto questo sarebbe come non detto, se tu ci avessi la più
piccola difficoltà.

— Ho io a rispondere per te? — aggiunse il fratello. — Se sbaglio,
correggimi. Difficoltà non ve ne possono essere. Nanni sarà tuo sposo.
Ho io sbagliato? —

L’Anna era tanto commossa, che non potendo rattenersi abbracciò suo
padre, e gli disse: — Vo’ m’avete detto ch’i’ sono una figliuola
obbediente. Se questa è la vostra volontà, i’ la considero come quella
di Dio.

— E allora, — esclamava il padre intenerito quanto lei — allora abbi da
sapere che tu mi dài la più gran consolazione ch’io potessi desiderare!
Si vede proprio che Nanni era destinato per te. E’ sarebbe già tuo
marito, se non v’era di mezzo quell’altro. Sì, figliuola mia, questo
Nanni salvò la vita a tuo padre!

— Che cosa mi dite voi?

— E al suo nel tempo stesso, perchè s’era tutt’e due nel medesimo
precipizio.... E poi un ragazzo.... Basta, i’ ti racconterò ogni cosa
con più comodo. Ora tu hai bisogno di riposarti.

— No! fatemi questa grazia; ditemi tutto ora subito. Non dubitate, i’
sto bene; i’ patirei troppo se dovessi aspettare. —

E infatti a quella notizia l’Anna parve ispirata da tutto l’ardore
dell’affetto e della riconoscenza. Gli occhi le scintillavano con le
lagrime in pelle in pelle; il volto era acceso; le labbra aperte ad
angelico sorriso; e rattenendo il fiato, la pendeva immobile dalla
faccia del padre, mentr’ei le raccontò minutamente il fatto che noi già
sappiamo.

— Figurati dunque — concluse il padre — s’i’ mi rodevo dentro a pensare
che pochi giorni prima tu eri libera! e che a quest’ora!...

— Oh! a quel che è stato non ci pensate più. Dio voglia ch’i’ possa
farvelo dimenticare per l’affatto!

— Sì, figliuola mia, i’ vedo che la Provvidenza ci ha rimessi davvero
in quella via che la ci aveva aperta innanzi. Nonostante tu sarai
sempre in tempo a rifletterci meglio. Domattina, prima di rivedere
maestro Antonio, sentirò te. — E datole un bacio, la lasciò con Michele
per andare in camera sua.

I fratelli per un poco si guardarono in silenzio con quell’aria di
compiacenza che apparisce sul volto a chi ha già fatto un proposito
buono; quindi l’Anna disse ridendo a Michele: — Ora capisco perchè
in questi giorni tu m’hai parlato tante volte di matrimonio! Sai tu
che quasi quasi me n’era nato qualche sospetto? Bravi! tutt’e due
d’accordo! Ma tu pensi agli altri; e per te....

— Non lo dire. Quel giorno, e ormai secondo me gli è venuto, quel
giorno ch’i’ ti vedrò con uno sposo a modo, tutte le mie malinconie
saranno finite. Credilo! il Cielo m’ha dato molto, quando m’ha dato una
sorella come te! — E veramente nel dirle queste parole e’ mostrava un
giubbilo che l’Anna non aveva più visto in lui da molto tempo. Quello
solo sarebbe bastato per darle animo a seguire la volontà del padre e
gl’impulsi del cuore. Dormendo le comparve in sogno la madre, non più
come altre volte in sembianza di vecchia; ma pareva che la fosse della
medesima età della figliuola, e vestita da nozze, e tutta ridente di
letizia di Paradiso. L’augurio era buono, e v’assicuro io che allo
svegliarsi la non l’aveva dimenticato.

Maestro Cecco non volle più mettere tempo in mezzo, e trovò appunto
per istrada il compagno che andava a bottega un po’ più tardi del
figliuolo. — Che fa’ tu in questi mari?[161] — disse maestro Antonio; —
se non è per venire da me, gira largo. A forza d’aspettare, or ora non
ne posso più.

— Ma lasciami dire. Bisogna che tu sappia che questa volta, a dispetto
della mia flemma, come tu la chiami, i’ son diventato più impaziente di
te. Sì signore, i’ non ho potuto stare alle mosse quant’i’ volevo.

— Dunque la conclusione? Sbrighiamoci!

— Una volta entrato su questo particolare, la fu finita; bisognò andare
fino in fondo. E’ mi pareva d’esser diventato un altro maestro Antonio.

— Ma tu mi fai struggere. Io vo’ sapere la conclusione, t’ho detto.

— E ancora tu non hai indovinato?

— Che storia! I’ non la posso indovinare altro che a un modo.

— E sarà quello.

— Sonate campane![162] — E i due vecchi brillando dal contento
s’abbracciarono stretti stretti nel mezzo di strada, come se fossero
stati in casa da solo a solo.

— Nondimeno — soggiungeva maestro Antonio — tu mi vien fuori col
_sarà_; i’ voglio che tu mi dica _gli è_!

— Aspettiamo ch’e’ si conoscano! —

Nanni che di sulla bottega aveva visto suo padre abbracciare quel
vecchio, s’appose al vero, e corse verso di loro, e li sorprese quando
maestro Cecco proferiva queste parole; e subito:

— Intanto i’ la conosco! — esclamò; — i’ l’ho vista.

— Com’hai tu fatto?

— Maestro Cecco deve compatire un innamorato. Vo’ sapete che per un
innamorato non vi sono nè usci nè finestre....

— Ma, dico io, — interrompeva maestro Antonio — questi non sono i patti!

— Oh non dubitate ch’io abbia commesso imprudenze! I’ ho detto così
per dire. Del resto, in questi giorni la non doveva uscir mai di
casa? E non bastava che il babbo m’avesse dato, non parendo suo
fatto,[163] un’idea della vostra fisonomia? I’ sapevo che vo’ state
di casa sul Prato; e domenica, così alla lontana.... Eh! quest’occhi
tiran di molto sapete? Nulladimeno, vi chieggo scusa d’esser venuto
qui all’improvviso; e se quando la vedrà me, i’ non avessi la fortuna
d’incontrare, eccomi rassegnato senza pretendere di far violenza a
nessuno.

— Sì, vo’ me la fate violenza, giovinotto mio, vo’ me la fate, e l’ho
caro. Nonostante vi piglio in parola quanto alla rassegnazione, perchè,
figliuolo, le combinazioni son tante, che non è mai male abbondare di
cautela. Ma che cosa volete? ora come ora, la mi parrebbe crudeltà a
non dirvi che la v’ha un po’ visto anche lei...:

— Davvero?

— E il resto? — disse subito maestro Antonio.

— Per quel ch’e’ si può giudicare dall’averlo visto passando di qui, da
bottega....

— L’è passata di qui?

— Lascialo dire!

— E’ v’è da sperar bene!

— Dunque sposi addirittura!

— E quando fu che passaste di qui? Ditemi, com’andò ella? E lei sapeva
nulla?

— Vi pare? nemmen per sogno: e’ s’era andati alle Belle Arti, e s’era
visto i vostri lavori. Quelli, vedete? que’ bei lavori, e i nostri
compagni che dicevano di voi ogni bene, mi risparmiarono i primi
discorsi. Voce di popolo voce di Dio! La buona riputazione, figliuolo,
può far miracoli. —

Nanni per modestia non rispondeva, e suo padre guardava ridendo ora
l’uno ora l’altro. — E tu, — proseguì maestro Cecco voltando la parola
all’amico — tu non m’avevi detto nulla nè di que’ lavori nè della
medaglia d’oro....

— Cospetto! se gli era de’ mesi che non ci si vedeva!

— Non aver paura; e’ mi parrebbe che ora si fosse trovato il modo di
rintopparci[164] più spesso! I’ ti darò la figliuola, ma i’ voglio
esser sempre su’ padre, hai tu capito?

— Che discorsi! sempre insieme!

— E lei, poveretta, se c’era una difficoltà, l’era quella di non
potersi risolvere a lasciar soli noialtri.

— Ora pensiamo all’essenziale, e poi, non dubitare; i’ so io come
va fatto. Un’altra cosa: i’ dico a voi, maestro Nanni: com’è egli
possibile, che per riconoscermi v’abbiate avuto bisogno di contrassegni
da vostro padre?

— Come sarebbe a dire?

— O che vi siete scordato di quella pescaja e di quel vecchio che era
nella barca con vostro padre?

— Come! voi stesso?

— Sì, figliuolo; e io non lo dimentico, veh! E l’Anna l’ha saputo!
Intanto vi basti questo, per non aver più nulla da temere! —

Maestro Cecco nel dir ciò si stringeva al petto la robusta mano del
giovinotto, che a capo basso si lasciava condurre da lui verso bottega.

— Ma no, signori, — esclamò maestro Antonio pigliando a braccetto
l’amico, e facendolo voltare all’improvviso con una stratta;[165] — e
ora dov’andate voi? A casa subito! Vi par egli ch’io voglia aspettare
un minuto a dar questa consolazione alla mia donna? E tu gliel’hai
a dire con la tua bocca! Gnorsì, con la tua flemma tu gli hai a dir
subito: «I’ sono il sòcero di Nanni,» e anche di sul pianerottolo,
prima di salir su! E alza la voce, perchè povera vecchiuccia, l’ha
ingrossato un po’ il timpano. — E così gongolando di contentezza, tra
le espansioni di cuore e le facezie, fece allestire il passo a maestro
Cecco, il quale da molti anni non aveva più fatto una marcia forzata
come quella. Se la Maddalena fu lieta a sentirsi dire che maestro Cecco
era suocero del suo Nanni, pensatelo voi!

Per quella via, giacchè i vecchi erano insieme, pensarono anche al
rimanente, e siate pur certi che si trovarono d’accordo nell’atto.
Se non che ragionando del giorno per le nozze, maestro Cecco avrebbe
preso un tempo più lungo, e maestro Antonio a fatica gli dette un mese,
perchè la moglie gli rammentò che a’ tempi de’ tempi era stato fatto
così anche per loro.

— Codesto non importerebbe nulla — diceva egli; — e poi noialtri non ci
s’era visti neanche alla lontana. Ma qui muta specie: questi figliuoli
ormai si conoscono. Ma per non parere ostinato, pigliatevi un mese dal
giorno dell’Esposizione, ecco fatto.

— Bravo! — rispose maestro Cecco ridendo, — allora non è più di qui
a un mese. Tu me lo vuoi dare sbocconcellato. Ma sta’ zitto; i’ l’ho
caro, perchè la ricorrenza di quel giorno è di buon augurio per un
matrimonio. L’industria premiata e la stima de’ conoscenti.... i’ non
cercherei altri testimoni per la scritta di nozze.

— Ehi! se s’avesse a pigliar regola da questo, gli anderebbe contato
il mese dal giorno che l’avviatora venne qui a ragionarci delle virtù
della vostra figliuola. —


La domenica dipoi era una giornata delle più serene che si fossero
viste in quella stagione. La mattina presto, secondo il solito, maestro
Cecco andò con la figliuola a sentir messa in santa Lucia sul Prato,
e poi tornando a casa per far colazione vi trovarono anche Michele.
Quel buon giovine, che era ben veduto nello spedale, poteva avere il
permesso facilmente, quantunque non abusasse mai di questo favore a
pregiudizio del proprio dovere nè dei poveri malati, che trovavano
tanto sollievo nella sua prontezza amorevole e diligente. L’Anna, a
vederlo in casa a quell’ora, vestito come quando egli andava a spasso,
allegro e sorridente:

— Che novità è ella questa? Oggi che è giorno di scialo?

— Tu non lo vedi il bel tempo? Chi non anderebbe a spasso?

— Ma bene! Dunque tu verrai con noi! Anche il babbo ha intenzione di
far due passi alle Cascine.

— Appunto i’ son qui per questo.

— E’ non mi par vero! il tempo è bene scelto; piuttosto ora che dopo
desinare. Stamani non ci sarà quasi un’anima, e potremo goderci quella
bell’aria con libertà, senza tanta signoria tra’ piedi, senza lo
strepito delle carrozze, senza il pericolo che ci venga a ridosso il
cavallo d’un milordino.

— E il fastidio di quelli scimuniti che ogni poco si voltano indietro
tutti d’un pezzo a guardar le ragazze con l’occhialetto, e fanno mille
sguajate svenevolezze. Al vestito parrebbe ch’e’ dovessero essere il
fiore della civiltà, e poi non conoscono educazione, e dicono certe
cose che farebbero vergogna alla vergogna stessa!

— Per codesti poi i’ potre’ dire d’esser cieca e sorda. I’ non ho mai
visto nè sentito nulla. Solamente mi conviene qualche volta turarmi
il naso, perchè ve ne son certi, che appestano l’aria come se tra que’
cespugli ci fossero tante serpi.

— Del resto, i’ credo che oggi no’ troveremo compagnia.

— Come sarebbe a dire?

— Ma non di quella! Una compagnia che ti deve piacere.

— Persone di nostra conoscenza?

— Anche! Non antica, almeno per te, ma che dovrà durare quanto la vita,
e più. —

L’Anna capì subito, tanto più che era già stata avvisata, ma senza
sapere il come nè il quando. Allora abbassò gli occhi, e fece il viso
rosso.

— Ora dunque, — incominciò maestro Cecco, — tu m’hai a dire
sinceramente se questa passeggiata ti va a genio. Se no, vi son tanti
altri luoghi per passeggiare!

— Ma se gli è un fissato.

— Naturale![166]

— Allora — ella soggiunse ridendo — che vorreste mancar di
parola? —

Maestro Cecco s’alzò nell’atto, la prese sotto braccio, e via per le
scale. Scendendo sentì che l’aveva un po’ di tremito, e per la strada
rallentò il passo, domandandole se il camminare le dava noja.

— No, — rispose — andate pure del vostro passo. Credete voi ch’i’ non
venga volentieri a un fissato in vostra compagnia? —

L’Anna era vestita da festa con la semplicità delle giovani tessitore
che serbavano l’usanza di qualche anno addietro: in zucca; le trecce
fermate da un bel pettine di tartaruga; il vestito bianco accollato;
il vezzo di perle della madre, e una bella cuffia di modano che le
copriva le spalle. Suo padre in calzoni corti, in giubbone all’antica,
il cappello di tesa larga, le calze bianche e le fibbie d’argento alle
scarpe. Michele aveva la carniera[167] di velluto, quella carniera che
alcuni hanno a noja, perchè disgraziatamente tra quelli che la portano
vi son pur troppo dei capi scarichi, ma che può essere ed è un vestito
da gente onorata al pari d’ogni altro, da non far vergogna a chi
s’infilza il soprabitino. Anche Nanni andava in carniera, e tutt’e due
seguivano tanto in quella come nel resto del vestiario la costumanza
moderna,[168] ma senza le caricature, le legature, i ciondoli con cui
gli zerbini la fanno essere ridicola e troppo incomoda per chi non è
avvezzo a stare in ozio, per chi ha poco tempo da buttar via, e un po’
di robustezza nelle membra e un po’ di sale in zucca.

Passarono la porticciòla,[169] presero di sull’argine dell’Arno, e per
quanto poteva tirare la loro vista, non videro un’anima. Il vecchio
dopo aver fatto qualche cento di passi, dopo essersi voltato indietro
due o tre volte, guardava in viso Michele senza far motto. L’Anna non
aveva alzato gli occhi subito, ma pure gli alzò anch’essa, e non vide
altro che gli alberi, la macchia, i fiorellini tra l’erba e i fagiani
che svolazzavano terra terra. Invero quella dolce prospettiva a un’ora
sempre freschetta, col placido scorrere dell’acqua, con un venticello
che faceva tremolare le foglie luccicanti ai raggi del sole levato
dietro le loro spalle, era proprio deliziosa; e il canto dell’usignuolo
in que’ boschi, dove l’ingordigia e il trastullo degli uomini non gli
muove guerra, accresceva il diletto del passeggiare. Ma come mai tanta
solitudine? Stava bene esser soli a godersi quell’amena campagna, ma a
volte il troppo è troppo!

E’ se n’andavano zitti zitti, almanaccando in vario modo sulla cagione
dell’indugio degli altri, quando presso allo sbocco d’un viale nel
mezzo al bosco odono la voce di maestro Antonio che diceva: — Ora vo’
vi siete riposata abbastanza; ora saranno per istrada; venite via; —
ed eccolo scaturire snello come un frullino sopra la riva, mentre la
Maddalena sorretta da Nanni s’alzava da sedere. Il rintopparsi tutti
lì all’improvviso, l’esclamare _ben venuti!_ a vicenda, il consolarsi
de’ vecchi e de’ giovani pose tutti in una commozione da non si dire.
Poichè ebbero fatto le presentazioni scambievoli, i due sposi furono
messi in coppia innanzi a tutti; Michele profferse il braccio alla
Maddalena; e i due vecchietti che nuotavano nel contento chiusero il
corteggio andando con le mani di dietro, e col viso tutto ridente. Se
non che maestro Cecco, sospirando talora in segreto, esclamava tra sè e
sè: — Ah! perchè non è ella viva anche lei? —

E noi non saremo indiscreti da voler sentire le parole degli sposi.
Già chi ha fatto con essi un po’ di conoscenza può immaginarsele. E
chi volesse sapere la conclusione del loro colloquio, la domandi a
coloro che si trovarono la domenica dopo in Santa Lucia sul Prato,
dove, appena il Priore ebbe recitato il Vangelo, diede un’altra buona
nuova che principiava con queste parole: _Si denunzia per la prima
volta ec. ec._ Io non so se fosse immaginazione o altro: fatto sta che
quando il sacerdote volse al popolo la veneranda faccia pronunziando
a voce alta e commossa quelle parole e i nomi degli sposi, parve che
quanti erano lì si rallegrassero, e che alcuni dicessero sottovoce al
compagno: — Felice lei! la lo merita davvero! — e che poi, tralasciando
di implorare grazie per sè invocassero la benedizione dell’Eterno su
quel bene augurato matrimonio. E lo stesso, cred’io, sarà accaduto in
Ognissanti, cioè nella cura[170] di Nanni: perchè il giubbilo degli
onesti artigiani è giubbilo di tutti; un giubbilo sincero e veramente
benefico, quantunque non sia stimolato con gli sfarzi e con l’oro,
quantunque non faccia strepito tra la moltitudine pazza d’un’esultanza
che spesso va a finire nel pianto di qualche famiglia, ma si ricoveri
tranquillo nell’anima che non lo dimentica tanto presto, che lo ripone
tra gli esempi della virtù premiata, per invigorire la virtù che non ha
ancora nissuna ricompensa su questa terra.

Venne finalmente il giorno delle nozze. I primi raggi del sole appena
appena indoravano il comignolo dei tetti. Una brigatella di poveri,
ciechi e storpiati, era lì sulla piazzetta di santa Lucia; non già con
molta speranza, perchè la figliuola d’un muratore e il figliuolo d’un
magnano, quella uscita dal telajo per ritornare al telajo, quello con
le mani incallite dal manico del martello e della lima, non possono
farla da generosi. Ma non dubitate! Maestro Cecco d’amore e d’accordo
con maestro Antonio hanno pensato a voi poveretti! E non solamente a
voi che non potendo lavorare siete ormai avvezzi a stendere la mano
al passeggiere; ma e’ si son ricordati che i poveri più infelici son
quelli che non possono nè lavorare nè accattare, e tribolano in certi
tugurj dove l’occhio della carità non penetra sempre quanto sarebbe
necessario, perchè laggiù il bujo è troppo fitto e il tanfo[171]
è troppo ributtante per certi stomachi avvezzi a godere l’aperta
luce del sole e i profumi de’ giardini e delle pomate. Nondimeno
e’ son braccianti, e non potrebbero sostenere due spese, quella del
soccorrere i poveri e quella dello scialo di nozze. Or bene, delle
due hanno scelto la prima: tanta era la dolcezza del loro cuore,
che non pensarono nè punto nè poco a procacciarne anche al palato; e
invece di mangiar troppo, a rischio di guadagnarsi un’indigestione, si
contentarono del vitto consueto, e vollero piuttosto che il superfluo
servisse a chi pativa del necessario.

Vedete ora gli sposi venire in chiesa, in mezzo ai vecchi genitori
e agli altri parenti inteneriti fino alle lagrime, inginocchiarsi
davanti al sacerdote, alzar l’anima ai pensieri di religione e d’amore,
ai doveri di famiglia e di patria, e ricevere con quella di Dio la
conferma di tutte le benedizioni, che accompagnano un sì proferito
nel nome della virtù e della carità del prossimo. Pochi tra i popolani
avevan saputo precisamente il giorno e l’ora dell’anello; ma bastò che
due o tre vedessero gli sposi uscir di casa, e in poco tempo la chiesa
divenne piena di gente. Era stata grande la contentezza comune alle
denunzie degli sponsali, ma crebbe assai più nell’assistervi! Erano
universali i _mi rallegro_ agli sposi, al parentado, e tra l’uno e
l’altro de’ conoscenti, come se si fosse trattato d’una fortuna per
tutti.

La comitiva che era uscita di casa senz’altra accompagnatura, ritornò
in casa in mezzo alla folla. Tra quella buona gente che s’abbandonava a
così liete congratulazioni teneva il primo posto l’avviatora, invitata
alle nozze, tutta in gala e infatuata, e senza poter riparare alle
domande che le facevano le altre donne riguardo allo sposo e alla sua
famiglia, giacchè le sapevano bene che l’andava a raccattar le brache
di questo e quello per fargli poi i gazzettini[172] sull’uscio. Ma
figuriamoci se in quel giorno che si dava bella occasione di parlar
molto dei fatti degli altri, la si sfogò a dir bene del prossimo senza
pericolo di metter fuori sfarfalloni! E il medesimo accadde coll’andar
del tempo, giacchè divenuta sempre più intriseca d’ambedue le famiglie,
che ormai si potevan chiamare una sola, furon palesi anche a lei le
loro azioni, ed erano tali da poterle narrare con frutto di chi le
udiva.

Ma l’Anna ebbe a rimproverarla più volte d’indiscretezza, e anche gli
altri furon costretti a riguardarsi dalla sua smania di raccontare alle
conoscenti il bene ch’essi facevano. Così le persone ciarliere fossero
premurose di divulgare le azioni oneste, e non di riferire, spesso con
aggiunte e scandalo e calunnia, le disoneste! La stessa riservatezza
che ci voleva con l’avviatora, naturalmente era da essi tenuta con
tutti; sicchè poche cose potrei aggiungere a questo racconto, se voi
non vi contentaste di sapere che l’Anna in capo a un anno partorì
felicemente un bel maschiotto; e che maestro Cecco e Michele, sebbene
ogni poco fossero in casa degli sposi, tuttavia non furono contenti
finchè non ebbero trovato un piano di casa da potervi abitare tutti
insieme, con libertà scambievole e con risparmio.

Vorrei lasciarvi l’animo consolato proponendovi a immaginare da voi
stessi le contentezze e la prosperità di quegli onesti artigiani,
la buona riuscita, insomma, d’un matrimonio fatto con giudizio. Ma
qui taluno s’aspetterà di vedere anche il rovescio della medaglia; e
io, a dirla giusta, ho saputo molte cose; ma sarebbe questo un altro
racconto così lungo e così doloroso, che ora non ho cuore di farlo.
Lasciamo passare almeno un par d’anni; tiriamo un velo sulle imprudenze
di quella sventurata, rimasta vittima più che altro de’ traviamenti
di un vanesio, che inciampò in tutte le occasioni per divenire uno
scellerato; non ci funestiamo con la descrizione de’ suoi errori; non
torniamo a umiliar troppo l’ufficio del narratore accennando le sozzure
de’ suoi male scelti compagni e de’ loro padroni; di quella funesta
genìa di viziosi inculti e di viziosi culti, che tanto contaminano i
costumi e la dignità de’ popoli ai quali appartengono, e di quelli tra’
quali vanno girovagando!

Contentatevi dunque di sapere che, in capo a poco più di due anni,
Michele, essendo passato a migliore impiego, non solo per la sua
capacità, ma più che altro pe’ suoi buoni portamenti, era nella
farmacia dello spedale; e talvolta vi faceva di notte giorno per
istudiare e guadagnarsi la matricola, o per adempiere sempre meglio il
proprio dovere. In una di quelle nottate ecco il suono della campana
della Misericordia che gli annunzia una disgrazia. Sebbene e’ fosse già
avvezzo a questi casi pur troppo frequenti, nondimeno e’ ne rimaneva
sempre afflitto, tanto più che qualche volta gli era accaduto di
veder portare nel cataletto un suo conoscente. Quella volta poi, forse
perchè nel silenzio della notte il suono lugubre della campana della
Misericordia fa più specie, gli venne fatto uno scossone e un sospiro.
Udito il secondo rintocco, e poi null’altro:

— È _a caso_, — disse fra sè; — poveretto! — Poi una voce vicino a lui
gridò all’improvviso:

— _A caso!_

— Io son qui, — rispose Michele a quella voce, — presto sarà pronto
ogni cosa secondo il bisogno.

— I’ vengo di fuori, e ho udito dire che si tratta di getti di
sangue. —

— Uomo o donna?

— Donna. — E Michele si sentì un’altra stretta al cuore; s’alzò
sollecito come se volesse accorrere a preparare qualche cosa, ma
piuttosto per distrarsi da un abbattimento maggiore del solito; e
l’altro: — Non c’è furia veh! Benchè gli abbiano a andare sulla piazza
della Nunziata, se il male dice davvero bisognerà ch’e’ camminino come
le formicole. — Il tempo che passò tra questi discorsi e l’arrivo della
malata parve eterno a Michele. Infine ecco lo scoroncìo,[173] ecco il
servo colle facciòle, ecco le vesti nere ed il cataletto; e subito la
poverina più morta che viva fu posta in un letto caldo, e visitata dal
medico astante. Ma pur troppo v’era da ordinar poco!

— Che cosa volete voi medicare, se l’è moribonda? — diceva sottovoce
l’astante. — Una servente e il cappuccino.

— La servente eccola qua, — soggiunse un giovane praticante
accennandola, e facendo posto anco ad una suora misericordiosa che
era di guardia; e in quel mentre scòrse Michele appoggiato a un letto
vicino, e quasi privo di sensi. Nel volto cadaverico dell’inferma egli
aveva riconosciuto la povera Maria! Il giovine che si accòrse del suo
abbattimento:

— Oh — disse forte ridendo — se ci fosse bisogno di medicine, lo
speziale ci darebbe un bell’ajuto e non fo celia! E’ non ne può più dal
sonno, e si direbbe che ci volesse l’olio santo anche per lui!

— Chetati! — esclamò allora Michele con sdegno represso; e ripigliando
tutta la sua presenza di spirito: — Qui non v’è da ridere! Pensa a dare
gli ordini per quello che occorre, e io saprò obbedire. — E si collocò
a piè del letto di quella disgraziata.

— Corbezzole! — soggiunse l’altro sfuggendo lo sguardo fulminante di
Michele, e andandosene con affettata indifferenza. Quindi s’allontanò
anche il medico, dopo aver fatto quel più che v’era da fare in un caso
disperato. Poco dopo venne il cappuccino coi soccorsi della religione.
Anch’egli, quand’ebbe esaminato ben bene l’inferma, abbassò il capo sul
petto, e si pose in orazione, aspettando che la si riavesse col riposo
e coi ristorativi che le erano stati somministrati. Tanto il cappuccino
che la suora erano rimasti uno di qua e uno di là al capezzale, finchè
trascorsa una mezz’ora l’inferma aperse gli occhi a guisa di chi si
sveglia da lungo sonno, si guardò attorno, ed esclamò delirando: — Dove
sono?... Dov’è la mia creatura?... Rendetemi la mia creatura!

— Sì, poveretta! — disse subito il cappuccino. — Come vi sentite?

— Sto bene io; ma la mia creatura! Per l’amor di Dio, rendetemela
subito! Non voglio, non posso morire senza rivederla!

— Ditemi dov’è? Chi ve l’ha presa? — esclamò Michele accostandosi
e chinando il volto su lei. A quella voce la Maria rimase come
impietrita, spalancò gli occhi, fece uno sforzo per alzarsi, ma ricadde
subito, proferendo a mezza voce il nome di Michele! Quello sforzo
cagionò un altro getto terribile che la ridusse agli estremi. Allora
Michele, percotendosi la fronte, si buttò ginocchioni come forsennato,
mentre il cappuccino le raccomandava l’anima. Pochi minuti d’agonia, e
la sventurata era morta!

Michele non fu più in grado di rimanere nello spedale; si sentiva
rodere il cuore dalla gran passione, e dall’impazienza di saper qualche
cosa della creaturina che la moribonda chiedeva di rivedere. Uscì
ratto ratto, e diviato sulla Piazza dell’Annunziata, e a girare in
quei contorni, non sapendo che cosa si pensare, nè dove rivolgersi.
Corse alla polizia, fece un visibilio d’interrogazioni, e non ebbe
risposte che gli potessero dare qualche lume. Ma la mattina gli
venne un pensiero. Corse di nuovo sulla Piazza dell’Annunziata; entrò
nello Spedale degl’Innocenti, e a forza d’indagini gli venne fatto di
raccapezzare l’origine della disgrazia. Un’ora prima che suonasse la
campana della Misericordia era stato abbandonato nel finestrino de’
Nocentini[174] un lattante di pochi mesi; aveva al collo una crocellina
involtata in un foglio. Michele riconobbe la crocellina che era stata
un regalo dell’Anna all’amica, e lesse nel foglio il nome di Maria.

Con l’andar del tempo Michele potè venire in chiaro di tutto, e a noi
basterà sapere che quella meschina, dopo la morte di sua madre, era
stata condotta da Cintio fuori via, a Napoli. Quivi costui, dopo aver
tentato invano d’indurla a secondare le sue prave intenzioni, prese
l’iniqua risoluzione di legarsi le scarpe e fumarsela,[175] mutando
nome e abbandonandola nelle stremezze[176] della povertà. La sventurata
col suo bambino in collo, si trascinò a piedi, figuratevi con quanti
strapazzi, fino a Firenze, dove la miseria, la vergogna e lo sfinimento
l’avevano indotta a lasciare in quel modo il bambino, che non poteva
più essere nutrito dal seno materno. Ma lo spasimo di quel distacco,
dopo i sofferti patimenti, le fece scoppiare il cuore.

Il bambino fu presto levato dagl’Innocenti e preso per suo da Michele,
il quale non avendo potuto salvare la povera Maria, volle almeno
esser padre di quello sventurato figliuolo, e dargli il proprio nome e
l’educazione e uno stato. Così il povero piccino trovò anche una madre,
e voi avete già indovinato chi fosse: l’Anna lo tenne insieme coi suoi
figliuoli, e senza la menoma parzialità lo assistè come quelli.

Il fanciullino era già arrivato all’età di cinque anni, allorchè un
giovine medico, amico di Michele, e venuto su co’ medesimi sentimenti,
ritornando da un viaggio fatto per suo studio nella Francia e
nell’Inghilterra, lo incontrò con esso per mano.

— Oh! — disse il medico nel far le feste all’amico e accarezzando il
bambino — mi rallegro davvero! Tu hai moglie; e che bel figliuolo!

— Eh! non ho moglie io! gli è adottivo — rispose Michele sottovoce; —
ma gli voglio bene come se fosse mio.

— Lo credo! Poi seguitarono a passeggiare, e insieme tornarono col
pensiero alle antiche ricordanze e a discorrere degli amici della prima
gioventù. Allora il medico giugnendo le mani in atto di gran dolore:

— A proposito! sa’ tu chi mi toccò a vedere tra i galeotti nel bagno
di Brest là in Francia? E sì che quando imparammo a conoscerlo pareva
ch’e’ dovesse fare buona riuscita. Quel Cintio....

— Dio mio! zitto! — e non volendo, tirò a sè con una stratta[177]
il fanciullo, che quasi impaurito: «Babbo!» esclamava «non ci sono
carrozze!» L’amico, maravigliato: — Sarebbe mai?...

— Non lo dire a nessuno! Chè sebbene quest’innocente non sappia nulla,
pure potrebbe un tempo.... chi sa?

— Tu hai ragione. Neanche all’aria! — E s’inchinava intenerito a dare
un bacio al fanciullo. Poi Michele soggiunse:

— Disgraziato! E non vi sarebbe verso di far qualche cosa per lui? —
L’amico, guardandolo con un’occhiata di rassegnazione compassionevole:
— Al mio ritorno dall’Inghilterra era morto — articolò con le labbra; e
coprendosi il volto andò via. Michele restò come tocco dal fulmine!

Il buon giovine voleva un gran bene al suo figliuolo adottivo; ma
d’allora in poi l’affetto verso di lui fu anche maggiore, e Michelino
seppe essergli riconoscente qual vero figliuolo.

Queste due famiglie d’onesti popolani solevano fare di nascosto
delle elemosine a chi ne aveva proprio bisogno, e soprattutto quando
ricorreva qualche solennità religiosa o qualche festa domestica.
D’allora in poi ne fecero anche di più; e ogni volta che un
infelice riceveva da essi la carità benedicendo i misericordiosi e
ringraziando Iddio con le lagrime della riconoscenza, essi gli dicevano
all’orecchio: — Pregate per l’anima di due nostri poveri amici! —



UNA MADRE


I.

— Io non so che cosa mi fare di questo figliuolo — diceva Giuseppe
tabaccajo ad un suo amico, additando Pippo, fanciullo di nove anni, e
tacciandolo d’irrequietezza, di disobbedienza, di svogliataggine, di
monelleria. — È una disperazione; mangia quant’un lupo, consuma scarpe
e vestiti per quattro, e non mi guadagna nulla.... Non è buono ad altro
che a sciuparmi dei fogli, scarabocchiandoli con la pretensione di
disegnare alberi, montagne, casine....

— Come vuo’ tu ch’e’ guadagni, se ancora è bambino?

— Almeno da farsi le scarpe; ce ne son tanti che vanno a bottega,
e buscano....[178] anche un giulio[179] la settimana; per ora sarei
contento, se mi potessi compromettere.... Ma figuratevi! io non lo
mando nè lo manderò a bottega, perchè se anche guadagnasse dieci, mi
consumerebbe per venti a forza di girandolare, di strofinarsi, di fare
il chiasso....

— Ma imparerebbe un mestiere....

— Troppo caro il mio mestiere! Eh no! Chi lo volesse per fattorino
avrebbe a pagarmi tanto che non troverò certo nessun che lo voglia
prendere. I servitori non son pagati bene dai padroni? Quando sarà più
grande, se non saprà fare altro.... a servire.

— A servire poi!... Oh i miei figliuoli non ci anderanno davvero! Un
mestiere, un mestiere. Guadagnar meno, ma liberi! E senza la livrea di
nessuno! E poi tu! che bisogno hai tu?...

— Cospetto! Per chi m’hai tu preso? Perchè dal nulla ho messo
assieme quattro soldi, vo’ mi credete ricco sfondato.[180] E poi, non
foss’altro per levarmi di tra’ piedi quella forca!...

— Mandalo a scuola.

— A volere ch’e’ mi diventi più bardassa[181] che mai! E s’e’ ci
andasse! Quand’e’ può sgattajolare[182] di qui, subito per le mura o
fuor di porta a giuocare, a rovinarsi la roba....

— Vi sono delle scuole dove i ragazzi vanno volentieri, a quanto mi
dicono, perchè sanno tenerli bene, farli studiare di genio....

— Se potessi spendere!...

— Già non si spende; e poi tu non dovresti guardarci tanto!

— Finiamola! Non mi toccar più questo tasto! — E s’inquietava.

— Fa’ una cosa. Tu hai detto che Pippo non farebbe altro che
disegnare....

— Già, a scapito di fogli e d’inchiostro....

— Mandalo all’Accademia. Se ha genio pel disegno, all’Accademia ci
anderà volentieri, e potrebbe fare buona riuscita e buoni guadagni.
Alle volte si sono visti certi colpi di fortuna!... Come chi avesse ora
una figliuola con buona voce per cantare, o buone gambe per ballare.
Quattrini a palate! Benchè io ve’!.... Col rischio di vederla poi....
mi capite?... Non m’importerebbe delle ricchezze.... no davvero! Val
più l’onestà e la pace che tutte le grandi lodi e i tesori di questo
mondo.... E poi, anche le più fortunate vanno quasi sempre a finire
malamente allo spedale.... Ma, quanto a Pippo sarebbe un altro par
di maniche. Fa’ a modo mio, Giuseppe. — Intanto, aggiungeva tra sè
l’amico, quel povero ragazzo sarà picchiato più di rado.

   [Illustrazione: UNA MADRE]

E Giuseppe, che di primo slancio approvava quell’idea, s’era messo
taciturno a pensare. Poi riprese:

— All’Accademia non si spende, eh?

— Così è: non si spende.

— Tu m’hai dato un’idea che per ora non mi dispiace. — Poi, volgendosi
al banco, e vedendo che il figliuolo, nel baloccarsi, aveva gettato non
so che cosa per terra, gli corse addosso furiosamente, e incominciò a
rampognarlo e a percuoterlo.

Il compagno, che altre volte s’era trovato a quelle brutte scene, e
che reputava inutile, o aveva paura di prendere le difese del povero
fanciullo, facendo una spallata, se la battè[183] pel fatto suo.

Non così la madre di Pippo, la quale, benchè sapesse d’esporsi al
pericolo di tirare sopra di sè la collera del marito, appena ebbe
udito quelle strida, scese lesta lesta una scaletta che metteva dalla
casa nella bottega; e prima con le preghiere, poi con le mani tentò di
trattenere le busse. Non bastava; e allora s’interpose a forza con la
persona. E Giuseppe preso da maggiore sdegno, proseguiva a scagliar
colpi alla cieca, e ferì la meschina in un sopracciglio, sicchè il
sangue che ne spillò subito scorse con le lagrime a rigarle la gota.
Essa, coprendo il viso con una mano e chinandosi perchè il marito non
vedesse il male che le avea fatto, si contentò d’esclamare con voce
commovente e sommessa: — Basta! — e trascinò seco su per la scaletta
il figliuolo, che vedendosi ricoverato nelle materne braccia, cessò di
piangere. Giuseppe, o che fosse rimasto un po’ intenerito da quella
parola supplichevole della moglie, o che non volesse lasciar sola la
bottega, rimase appoggiato al banco, chinando il capo, e mostrando
col mordersi le labbra tumide e bavose, con aggrottare le ciglia
nerissime e folte, e con stringere i pugni e arrotar fra loro le
nòcca, una interna violentissima commozione, che poteva prendersi o
per acuto rimorso o per avanzo di collera a dispetto suo non sfogata.
In quel punto entrò in bottega, a muso basso con la coda tra le gambe
e rasentando la soglia, il cane ch’ei teneva per guardia: una povera
bestia smunta, allampanata[184], che alle mani di cotal padrone sarebbe
già morta di fame, se la moglie non aggiungeva furtivamente qualche
cosa ai magri pasti fatti dei rimasugli d’una mensa troppo frugale, o
se altro non rinveniva da sè fiutando le spazzature ammonticchiate nei
vicoli.

Nondimeno il mal capitato guardiano aveva per Giuseppe la stessa
affezione che per gli altri; e dopo essersi stropicciato più volte al
muro e allo spigolo del banco, fattosi animo, s’accostò alle gambe del
padrone, incominciò a scodinzolare, a mugolare, a raspare.... Ahimè!
il tempo era male scelto. Giuseppe non voleva feste, e con un calcio lo
mandò a rotolarsi ed a guaire in un canto. Due artigiani che parlavano
tra di loro lì presso alla bottega, e che ben conoscevano l’umor della
bestia, si volsero compassionevoli verso il cane e s’allontanarono,
ma non tanto frettolosi, che Giuseppe non potesse udire queste parole
proferite da uno di essi: — Senza parzialità per nessuno; e’ tratta
il cane come la moglie e il figliuolo. — Il banco si riscosse a
tali detti? Nemmeno Giuseppe. Anzi spianò le rughe della faccia, e
tentennando il capo fece apparire a fior di labbra un risolino di
derisione maligna, e poi andò a raccattare tranquillamente la roba che
il figliuolo aveva fatto cadere di sul banco, e a rimettere a sesto
altri oggetti. Allora trovò in un ripostiglio dietro i vasi del tabacco
ed i mazzi delle pipe tre o quattro libricciuoli laceri, di quelli che
gli erano stati venduti coi fagotti di fogli per carta da involtare il
tabacco. Quei libricciuoli appartenevano ad una raccolta di descrizioni
di viaggi, e vi si trovavano alcune stampucce rappresentanti i paesi
descritti nell’opera. Pippo che appena aveva imparato a compitare da
sua madre, se li leggeva e rileggeva con infinito diletto, e sognava
maravigliosi viaggi e ricopiava quelle stampucce, innamorandosi di così
fatti lavori. Quando poi vedeva disegni, e in specie quelli di paese,
nelle vetrine delle botteghe dei librai e dei negozianti di stampe,
rimaneva lì estatico a contemplarli, e si sarebbe scordato di tutto,
anco delle busse di suo padre. Il ritrovamento di quei libri così
riposti riaccese l’insana collera di Giuseppe; ma si contentò questa
volta di levare l’innocente trastullo al figliuolo, sciogliendo le
pagine e mettendole alla rinfusa accanto alle bilance. Povero Pippo!
come rimase addolorato quando non ritrovò più quei suoi cari compagni!

Pochi avventori venivano quel giorno dal tabaccajo, perchè una
processione strepitosa richiamava gli sfaccendati nella parte di città
opposta a quella dov’era la bottega di Giuseppe; sicchè dopo avere
sciupato i libricciuoli di Pippo, si nojò ad aspettare chi non viene,
serrò lo sportello un quarto d’ora prima del solito, e andò su in casa
a sollecitare la minestra. Comparve dunque inaspettato alla moglie,
mentr’ella si studiava di ricoprirsi con certo drappo carnicino[185] la
ferita del sopracciglio, in modo che Giuseppe non la potesse scorgere.
Ma prima anche di vederlo, ella udì la sua temuta voce che domandava:
— Che cosa avete voi fatto! — La Carolina si riscosse, non seppe come
rispondergli; ed era per balbettare forse una menzogna, quando Pippo
che usciva dalla finestra e aveva udito l’interrogazione, ricoprì la
sua voce dicendo con ingenua franchezza: — È stato lei signor padre;
dianzi....

— Ho capito, ho capito! Ma per cagion tua, monello....

— No, — interruppe allora arditamente la Carolina, andando incontro
con umili e affettuosi modi al marito, e facendo cenno di tacere al
figliuolo. — No, caro Beppe, non ci pensare; è una cosa da nulla; è
stata la mia sbadataggine....

— La mia balordaggine, avete a dire; la mia.... Ve lo rinfaccerò
sempre; me ne pentirò finchè avrò vita, d’avervi dato retta a
riprendere....

— Zitto, per carità! — e gli s’accostava con premura, e parlando piano
perchè Pippo non sentisse. — Non dite queste cose in faccia a lui!...

— Se si fosse lasciato agl’Innocenti come quell’altro, ora queste scene
non seguirebbero....

— Ormai, abbi pazienza, mi raccomando....

— Sì, sì, ormai bisogna tenerci questo bel mobile....

— È tuo figliuolo! — E seguiva il marito in cucina, e chiudeva l’uscio,
raccomandandogli di tacere o di parlare sommessamente.

— Per farmi dannare; per rovinarmi!...

— E se Dio benedetto gli concedesse di poterti assistere nella
vecchiaia?...

— Oh giusto! la vecchiaia! Voi mi farete morire di bile, prima che mi
s’imbianchino tutti i capelli....

— Non mi far tribolare così! Tu sai che se con la mia vita potessi
farti più lunga e più felice la tua....

— Non mi venir fuori con queste tenerezze insulse. Non è più tempo....

— Lo veggo, pur troppo, che tu ti sei mutato.... Ah! tutto il rovescio
di prima....

— Sì eh? Perchè mi lascio meno infinocchiare[186] dalle tue moine!
Lo vedi, lo vedi tu ora il bel guadagno che n’ho ricavato a lasciarti
riprendere dagl’Innocenti quella bardassa?[187] Tu mi seccasti tanto
con le tue lagrime!... E ora, — vedendo che la Carolina piangeva — ora
tu crederesti di far breccia da capo? Finiamola, finiamola! Non voglio
pianti. Andiamo a mangiare un boccone in santa pace, se sarà mai più
possibile averla. Allestisci. Del resto, Pippo non starà più tanto
per casa.... M’hanno consigliato.... Vedrò.... È ella in ordine la
minestra? —

La moglie s’affrettò subito a preparare un boccone, perchè l’indugio
non avesse a cagionare altre sfuriate di collera; ma, poveretta, un
nuovo pensiero l’angustiava per quelle poche parole buttate là con
aria di mistero da Giuseppe sul conto del figliuolo. — Che razza di
consiglio avrà egli avuto? pensava tra sè; io non ispero nulla di
buono. Vorrà metterlo a bottega; così piccino? E chi sa dove? Forse con
un maestro avvezzo come lui a menar le mani.... — Con simile trepidanza
poco mancò non le cadesse di mano ora una cosa ora un’altra; e il
marito, a vederla imbrogliata in quel modo, fremeva e batteva i piedi.
Alla fine la tavola fu apparecchiata; venne la minestra; chiamarono
il fanciullo, e mangiarono silenziosi. Giuseppe divorava; la moglie
spelluzzicava[188] girando dal cammino alla mensa; e Pippo spartiva di
soppiatto la sua magra porzione col cane, che era più affamato di lui.

Nel tempo di questo malinconico pasto, io tornerò col racconto un passo
addietro, come diceva la mia nonna buon’anima.


Giuseppe, quand’era sempre ragazzo, fu da suo padre, calzolajo, rimasto
vedovo, messo nella milizia a fare il tamburino; e chi s’è visto s’è
visto. I tamburini, almeno secondo le usanze d’allora, dopo avere
imparato a forza di slogature di braccia, di strapazzi, di nerbate, a
suonare il tamburo, diventavano i peggio soggetti del reggimento. Ora
indisciplinati e spesso in gastigo, ora protetti da qualche superiore
e più indisciplinati che mai, a motivo del protettore, che spesso li
salvava dall’arresto, dal digiuno e dal bastone; viziosi a dismisura
e spesso con più mezzi degli altri per fomentare i loro vizi; quindi
arroganza, avvilimento del corpo e dell’animo in tutte le turpitudini
immaginabili, e ignoranza assoluta d’ogni diritto e d’ogni dovere di
cittadino. Il suo tamburo, l’osteria, chi gli pagava da bere, chi gli
chiedeva servigi più o meno riprovevoli con la promessa di parziali
appoggi e di ricompense, queste erano le sorgenti dei pensieri e delle
affezioni di Beppe. Una notte, per non so qual tresca, egli tentò di
scendere senza scala dalle mura della fortezza; non era la prima volta
che con audacia e agilità straordinarie gli era riuscito d’uscire e
di rientrare in tal modo nella fortezza. Ma quella notte il tentativo
andò male, e lo sciagurato, precipitando giù, si ruppe una gamba in
due luoghi. Fu scoperto, condotto allo spedale, sottoposto a severo
processo; ed allora i protettori palesi ed occulti, o non pensarono a
lui o non poterono in alcun modo sottrarlo alla condanna del rigoroso
codice militare.

Dopo la sua guarigione, e per giunta alla solita pena, gli convenne
entrare per alcuni anni nel corpo dei coloniali, specie di servizio
militare forzato per correzione o per gastigo. E quel servizio era
abominevole: la compagnia si componeva quasi tutta dei più sciagurati
e incorreggibili soggetti, espulsi dalla milizia e dalla società,
perchè si faceva impossibile il ravvedimento dei traviati, i quali
invece imparavano ad essere più viziosi e più malvagi; fatiche
bestiali; trattamenti crudeli; gastighi d’estremo rigore; vituperosa
fama; insomma una specie di galera, anzi peggio, perchè più volte
intravveniva che alcuni dei coloniali commettessero a bella posta
qualche delitto, per essere condannati a finire il rimanente della vita
tra i galeotti. Raro che quegli che esciva dal corpo dei coloniali, per
ritornare in società, non facesse poi pessima fine, tanto era falso ed
opposto all’umanità, alla giustizia, alla morale quel modo di punire
i colpevoli, i quali, quasi sempre divenivano viziosi per mancanza
d’educazione, d’istruzione, di lavoro.

Parve che Giuseppe, sebbene nel suo lungo soggiorno tra i coloniali
avesse, poco più poco meno, fatto birbanterie, sofferto gastighi e
patito tribolazioni da quanto gli altri, pure fosse assistito dal caso,
perchè lasciando quel tristo soggiorno non gli fu impedito d’andarne
libero; e tra i primi pensieri, che gli vennero alla mente, vi fu
quello di suo padre. Quest’uomo, è vero, aveva abbandonato affatto
il figliuolo, e si poteva dire che fosse stato, benchè non volendo e
per indolente ignoranza, la cagione principale dei suoi traviamenti;
ma in sostanza era padre, e Giuseppe lo trovò quasi moribondo allo
spedale. Un resto di tenerezza filiale lo aveva spinto a ricercare di
lui; e questa tenerezza si accrebbe allorchè lo vide in quello stato, e
s’accorse che il vecchio piangeva a ricordarsi che v’era pur tuttavia
sulla terra una creatura delle sue viscere, a pensare che almeno il
figliuolo veniva in tempo a serrargli gli occhi. Forse quelle lagrime
erano spremute anco da un tormentoso rimorso che voleva dire: — Che
cosa sarà di questo figliuolo che io stesso lasciai andare sulla via
della perdizione? — L’agonia di quel vecchio fu veramente una cosa da
stringere il cuore, finch’ei non perdè affatto i sentimenti; e spirò
lasciando lì basìto[189] dal dolore e dalla confusione il figliuolo.
Era forse la prima volta che questi si sentiva muovere a compassione,
che il suo cuore, indurito dagli strapazzi, dalle scioperataggini, dal
mal governo d’una spietata e capricciosa disciplina, s’inteneriva.
Poi dalla tenerezza passò a un tratto a una disperazione furibonda;
stranulava gli occhi, si torceva le mani, e un po’ con le imprecazioni,
un po’ con i gemiti convulsi, pareva volesse richiamare in vita il
cadavere. Allora alcuni di quei serventi, con la spietata indifferenza
che i più sogliono avere per le umane tribolazioni, stando non per
carità ma per mestiero attorno ai malati, lo cacciarono con mal
garbo, gli dissero che non aveva più che fare in quel luogo, che
andasse piuttosto a farsi chiudere nello spedale dei pazzi, e non
gl’impacciasse nelle loro faccende. Egli o non capiva, o non voleva
uscire.

— Io sono suo figliuolo! — esclamò finalmente.

— Giusto per questo, — risposero, — è bene che ve n’andiate; e ora lo
spedale si chiude. Animo, animo! Non c’è altro luogo che questo per
fare tante geate?[190] Era vecchio, doveva morire.... —

Giuseppe rattenendo a fatica la collera per non fare una scenata lì
presso la spoglia del padre, e fra tanti poveretti che oppressi dal
male gli giacevano attorno, se n’andò querelandosi sottovoce, a passo
lento, e voltandosi più volte al letto del padre. Arrivò appunto al
cancello, mentre il portinajo rimandava indietro una povera vecchia,
che voleva passare con un tegame di minestra nel tovagliuolo. — Vi
ripeto che non si passa più; avete fatto tardi; volete voi capirla? E
poi, ah! ah! il numero 327?... Volete proprio portare cotesta roba al
numero 327?...

— Di buona ragione![191] Che v’è egli da ridere?

— Ah! ah! i morti, donnina mia, non mangiano!

— Come? è morto? il ciabattino di via...?

— Morto, gnora sì; che i ciabattini non muojono?...

— Oh poveretto! E da quando in qua?

— Pochi minuti sono. Anzi, vedete, ecco il suo figliuolo che vien via,
— additando Giuseppe che s’avvicinava al cancello, e aveva udito parte
del colloquio.

— Il suo figliuolo? Questo qui?

— Già! Che maraviglie! Insomma volete voi andarvene? —

Giuseppe era giunto alla soglia, e usciva; e la pietosa donna
lagrimando tornò indietro con lui, e gli s’accompagnò; ed egli smanioso
di sapere chi fosse colei che piangeva la morte di suo padre, e che
gli aveva portato la minestra, senza aspettare che la incominciasse il
discorso, le domandò:

— O voi chi siete?

— Povero giovinotto! Voi figliuolo di Matteo buon’anima? proprio voi?
A dire! Ah sì; ora me ne ricordo, qualche volta e’ lo diceva d’avere un
figliuolo.... al militare, è egli vero?

— Ah! dunque mi rammentava qualche volta?

— Che discorsi! sicuro! e si rammaricava di non potervi vedere, di non
sapere nemmeno dove cercarvi. O voi? perchè non gli avete mai mandato
scritto? E chi v’ha detto che gli era malato?

— Eh! nemmeno io so scrivere.... E poi e poi!...

— E massime nella malattia, sapete? Oh! e’ vi rammentava, e gli sapeva
mill’anni che almeno prima di morire.... Ma dunque vo’ siete arrivato
proprio oggi, perchè ieri non mi disse nulla....

— Proprio oggi, ed è stato un caso!

— Dunque non sapevi?...

— Nulla!

— E vi siete ritrovato?...

— Appena per vederlo spirare!

— Povero giovinotto! Già così segue le più volte di noialtri tribolati!
Dispersi sopra la terra quelli d’una stessa famiglia a cercare un po’
di campamento stentato; e si tribola e si muore senza che uno sappia
dell’altro, nè più nè meno come le bestie!...

— E non ci si permette neanche di sfogarci a piangere sopra il morto.
M’hanno mandato via come un cane....

— Ci vuol pazienza! A buon conto gli faremo dire una messa per
suffragio dell’anima. Ci penserò io, non dubitate.

— Ma dunque, chi siete voi? Una parente?

— Parente no; ma i’ lo conoscevo da un pezzetto; e’ mi rattoppava le
scarpe.... E’ non aveva nessuno che lo potesse assistere; e quando
seppi che gli era malato allo spedale, guà! un po’ d’ajuto alla
meglio.... Gli avrebbe fatto lo stesso per me....

— Dio ve ne renda merito!

— Oh, figuratevi! Un bel merito! O voi come campate? Che siete sempre
nel militare, o a mestiere?

— Io?... ah!... non so che dire.... Io esco ora dal militare.... I’
non ho arte nè parte[192].... Davvero che non so ancora in che mondo mi
sia.

— Le solite cose, povero giovinotto! Ho capito! Anche voi.... i meglio
anni spesi male; e poi nel mezzo d’una strada.... Ma, lasciatemi
pensare.... Giusto, giusto.... Un ombrellajo che dà il lavoro alla mia
compagna, giorni sono cercava d’un garzone; se non l’ha trovato, la mia
compagna vi potrebbe proporre; e siate certo che a lei e’ darà retta,
perchè lei, oh! quella è una donna di proposito; e quando saprà di chi
vo’ siete figliuolo!... Ma dite; vorrete vo’ poi adattarvi a fare il
garzone d’un ombrellajo? E per pochi soldi....

— Eh! figuratevi! tanto per non morire di fame, o per non essere
ridotto.... basta!...

— Povero figliuolo! Speriamo bene.

— Vo’ mi fate coraggio. —

E veramente quel giovane smarrito, senza pensiero del domani, e
che sarebbesi facilmente indotto a commettere qualunque pessima
azione, se a caso non avesse trovato altro modo per liberarsi dalla
fame, tra l’essere stato commosso dalla morte del padre, e tra la
tenerezza che gli veniva in vedere una donna misericordiosa, che
con tanto amore aveva soccorso il vecchio e pensava a far del bene
anche a lui, aveva incominciato ad ammansirsi, era quasi disposto
a provare una vita diversa affatto da quella a cui la sciagura lo
avrebbe esposto; già gli balenavano alla mente alcune idee affatto
nuove, idee di riconciliazione con gli uomini, di rassegnazione, di
speranza. Ei si lasciava condurre come un fanciullo da quella donna
semplicetta, dimenticando anche l’osteria dov’era aspettato da un
pajo di compagnacci, i quali pagandogli lo scotto e sapendo che buona
lana fosse stato fino allora, avevano fatto disegno d’associarselo per
commettere chi sa quali bricconate, per tenerlo sempre sulla via della
galera.

Così passo passo arrivarono ad un vicoletto, ed entrarono in casa
della cucitrice d’ombrelli: due stanze all’ultimo piano d’un’antica
torre, d’uno di quei massicci fortilizzi dentro la città, eretti
nel medio evo a tempo delle parti tra Guelfi e Ghibellini, divenuto
più tardi opificio dell’arte della lana, ridotto poi a casone
per albergo o ricovero di povere famiglie. Scale strette, ripide,
buje e in parte a chiocciola; mura grosse, quasi tutte di macigno;
finestroni spropositati con le impannate d’un secolo fa; stamberghe
coi pavimenti sconquassati e le pareti stonacate;[193] freddo da
agghiacciare nell’inverno, caldo afoso nell’estate, umido gocciolante
da per tutto nei tempi piovosi. La prima e più vasta di queste due
stanze serviva da lavoratorio e da cucina col cammino chiuso da due
grandi sportelli, e accanto l’acquaio; l’altra era una camera, ma
con la finestra del pozzo e lo stanzino, un bugigattolo[194] da non
potervisi rinchiudere nemmeno una persona. Figuratevi che bel dormirvi
tra il freddo, il bujo, e le cattive esalazioni della latrina! Scendo
a queste minuzie di descrizione, per far osservare che nel nostro
secolo di progressivo incivilimento, come si dice, nel centro di una
città illustre, quella poteva e può tuttavia dirsi una delle migliori
tra le abitazioni che toccano ai poveri, ai poveri, notate bene, che
arrapinandosi[195] col lavoro dalla mattina alla sera e spesso anche
la notte, raccapezzano,[196] oltre al campamento frugale, un quindici
o venti scudi da pagare ogni anno la pigione. E quelle due stanze erano
le migliori di tutto il casamento.

La maestra, cucitrice d’ombrelli, stava lì a un tavolino con tre o
quattro ragazzette, che andavano ad imparare il mestiere. Voglio
spendere alcune parole su quella donna, perchè oltre alle buone
assuefazioni, operosità, illibatezza di costumi, rettitudine,
sobrietà, che sono più frequenti che non si crede in chi con molta
fatica si guadagna un meschino campamento, ella aveva dei pregi
particolari, e sapeva sostenere con mirabile coraggio una grande
sciagura. Malata di epilessia fino da fanciulletta, contava ormai 65
anni d’infermità; erano 32 anni che stava continuamente inchiodata
sopra una rozza poltrona a ruote, con la quale si faceva condurre
a letto la sera e ricondurre al lavoro la mattina a levata di sole.
Nondimeno difficilmente avresti trovato una donna d’umore sempre lieto
e spesso faceto come il suo; linda nella persona e nelle povere vesti;
di sembiante piacevole e che mostrava dover essere stato bello nella
sua gioventù, ed ora in mezzo a quella serenità imperturbabile, era
nel tempo stesso autorevole e venerando. Istruiva e governava le sue
scolare con affetto e accortezza; e sapeva così bene destreggiarsi coi
garzoni degli ombrellai che le portavano il lavoro, ragazzi o giovani
spesso male educati e insolenti, che niuno ardiva mai di commettere
in casa sua la minima imprudenza. Tutti le si affezionavano, e
rispettavano maestra e scolare; ed alcuni usavano conversare con lei la
domenica sera, trovandovi onesta gajezza e uscendone sempre migliori.
La Clarice era dunque, per così dire, la buona testa del casamento e
del vicinato. Se i pigionali potevano qualche volta darsi un po’ di
buon tempo, andavano a veglia da lei, ed erano sicuri di ricrearsi;
un dissapore che fosse nato tra loro e nella famiglia veniva subito
dissipato dal senno, dalla giovialità, dalle esortazioni della Clarice;
le disgrazie poi, assai più frequenti, e talvolta sola cagione dei
dissapori tra i poveri, trovavano in lei efficace conforto e il più
delle volte riparo. Contuttochè la guadagnasse appena da sostentare
sè stessa e la sua compagna Appollonia, povera ragazza da lei accolta
molti anni fa levandola da una famiglia di pigionali campagnoli che le
facevano patire la fame; contuttochè la non avesse altri assegnamenti
che il lavoro, nondimeno a forza di risparmi e di privazioni le
riesciva soccorrere anche di qualche imprestito o di qualche elemosina
i suoi amici.

Or ecco una nuova occasione d’esercitare la sua carità a pro di quel
giovane ramingo, del figliuolo d’un uomo che già aveva più volte,
massime nella ultima malattia, esperimentato le sue beneficenze. La
notizia della morte del ciabattino l’addolorò molto; ma quando seppe
chi era il giovine condotto a lei dall’Appollonia, e come egli avesse
bisogno estremo d’essere assistito, subito incominciò a confortarlo;
e senza cercare della sua vita passata o del perchè in quella età non
avesse ancora uno stato, un mestiero, un appoggio qualunque, mossa
dallo zelo di far del bene, con la fiducia di chi è avvezzo a credere
onesti tutti gli uomini benchè più volte si sia trovato deluso, pensò
al modo d’impiegarlo col maestro ombrellajo, che cercava un garzone.
Volle che intanto Giuseppe rimanesse a mangiare un boccone da lei; e
gli trovò alloggio provvisorio nel casamento.

Era tra’ suoi casigliani, ed abitava una sfasciata soffitta proprio
sotto il comignolo, maestro Nicodemo, uomo stravagante, che il
vicinato chiamava il filosofo spiantato, e qualche donnicciuola
superstiziosa credeva uno stregone sulla fede del Bellarmino.[197]
Fatto è che maestro Nicodemo da parecchio tempo si rintanava colassù
in compagnia delle rondini e dei topi, ma nissuno aveva mai avuto da
lagnarsi dei fatti suoi. Non parlava quasi mai, nè con altri s’era un
poco addomesticato se non con la Clarice; e a lei sola era riuscito
di fargli fare qualche rara volta il viso ridente. Costui campava
con l’arte d’incidere in legno quelle rozze stampe che vedonsi nei
libricciuoli da chiesa, nei lunari e che so io, lavorando con arnesi
grossolani e con una certa disinvoltura, che non pareva suo fatto.
Stava sempre lassù in quella sua soffittaccia a lavorare alla luce
che veniva da un abbaìno; teneva gli arnesi dentro una sporta; uno
strapunto per dormire, un tornio mezzo fracassato, due panchetti,
una secchia da acqua, pochi pentoli e un visibilio di stampucce
appiccicate al muro con la pasta erano le sue masserizie; e quasi
tutto, meno i pentoli e la secchia, aveva fatto con le proprie mani;
si cibava di pane e patate o cipolle, senza bever mai vino; aveva
lunga barba, aspetto burbero, vesti grossolane, sempre le stesse; ed
era magro allampanato.[198] Fin qui potevasi capire perchè i vicini
lo chiamassero filosofo. L’altro soprannome poi gli veniva anco
dall’essere possessore d’uno specifico stupendo per guarire il dolor
dei denti; e di fatto bastava ch’ei toccasse due o tre volte con un
certo liquore denso, puzzolente, più nero dell’inchiostro, le gengive
di chi non aveva repugnanza o paura d’andare a farsi curare da lui,
perchè il dolore sparisse affatto e per molto tempo. Nè per queste
guarigioni era mai possibile fargli accettare non che denaro, la più
piccola ricompensa in roba; e s’infastidiva a sentirsi ringraziare. Era
poi accanto alla sua soffitta, che gli faceva da camera, da studio di
artista e da infermeria pei malati di dolor di denti, una stanzuccia
affatto vuota, se non che vedevasi appeso a un chiodo nella parete un
ritratto femminile, parte in matita, parte in colori, che si diceva
opera delle sue mani; e sapevasi che ogni giorno ei se ne stava delle
ore chiuso in quella stanzuccia; ma niuno aveva potuto penetrarne il
motivo.

Quando la Clarice ebbe licenziate le sue scolare e fu rimasta sola
con Giuseppe e con la compagna, mandò questa a chiamar Nicodemo. Egli
scese nell’atto, e vedendo quel giovine che se ne stava a sedere in un
canto, tra pensieroso ed afflitto, appoggiando la guancia alla destra,
gli fece subito cenno di seguirlo, e si volgeva per tornarsene indietro
senza aver fatto una parola.

— Aspettate! — esclamò la Clarice.

— O non sapete che la medicina l’ho su?

— Ma questo giovinotto non ha male ai denti.

— Dunque io non gli posso far nulla; — e se ne andava.

— Anzi, voi potreste fare un gran piacere a me ed a lui. Venite qua; e’
non ha casa, nè quattrini per dormire alla locanda. Un’altra volta mi
faceste la carità....

— Ho capito; venga pure.

— Porterà seco il solito sacconcino.

— Va bene.

— Una notte o due, eh?

— Anche dieci. I’ son su. — E andò via.

Dopo aver così provveduto all’alloggio, la Clarice mandò l’Appollonia
in cerca dell’ombrellajo per proporgli il nuovo garzone. Ma
l’ombrellajo non potè venire che il giorno dopo; e sebbene avesse
tuttavia bisogno del garzone, e desiderasse di contentare la Clarice,
preferendo alle molte persone che chiedevano d’impiegarsi nella
sua bottega quella che da lei gli veniva proposta, pure non volle
impicciarsi con uno sconosciuto, e si scusò con dire che aveva già dato
fuori una promessa.

Giuseppe rimase impassibile alla cattiva riuscita di questo primo
tentativo, perchè ancora poteva dirsi che fosse in un mondo per lui
affatto nuovo; e quasi quasi pensandovi un poco, non avrebbe saputo
come adattarsi così subito a un lavoro o ad un servizio qualunque.
Quella specie di stupida indolenza era presa dalla Clarice per
afflizione della morte del padre, ed ella non finiva mai di fargli
animo e d’esortarlo a sperare che alla fine qualche occasione di lavoro
e di guadagno sarebbesi presentata. A buon conto un po’ di pane e un
po’ d’alloggio non gli mancava.

— E come va con maestro Nicodemo? Che uomo curioso eh? Ma buon uomo,
vedete; basta contentarsi di non discorrere. E come dormite voi in
quella stanzuccia?

— Eh! meglio qualche cosa che nulla. E poi e’ mi pare d’esser più
padrone di lui. Vo su, lo trovo al bujo....

— E’ non accende mai lume.

— Addormentato sul suo strapunto...; io mi butto giù nel mio canto; mi
sveglio che lo trovo al lavoro; gli do il buon giorno, e vengo via....

— E ancora nemmeno una parola?

— Nemmeno. Gli è proprio curioso; ma una sera se lo trovo sveglio....

— Pretendereste di farlo discorrere? Non vi riesce.

— Voglio provarmi. — Ed anche questa curiosità era cagione di
tenerlo fermo qualche altro po’ di tempo nel proposito d’aspettare
pazientemente l’esito delle premure della Clarice. Infatti ella tentò
di nuovo l’ombrellajo, ma sempre invano; cercò altrove, ma senza
costrutto. Erano già passati cinque o sei giorni; le dispiaceva di
vedere il giovinetto così ozioso, e a lui cominciava a passare la
voglia d’aspettare, e s’infastidiva; e se vagolando per la città si
fosse imbattuto in quei compagni dell’osteria, avrebbe certamente dato
ascolto ai loro inviti. In quel mentre morì all’improvviso un povero
vecchio, che conduceva il baroccino d’un fruttajuolo pigionale della
Clarice, quando questi andava per la città a vendere le perecotte.
Appena che la Clarice lo seppe, domandò al fruttajuolo se avesse voluto
approfittarsi di quel povero giovine per tirare il baroccino; ed egli:

— Senza difficoltà finchè durano le perecotte; buona canna[199] per
bociare, ma pochi quattrini; io, vo’ lo sapete....

— Eh! nello stremo[200] d’ogni cosa tutto fa. Dunque, Giuseppe, tocca a
voi; accettate?

— Perchè no? Gli è ch’io vorrei potervi ricompensare....

— Oh! che discorsi! Pigliate quel che viene; e da cosa nasce
cosa. —

Giuseppe andò così a vendere per la città le perecotte che in quella
stagione erano in voga; e intanto il fruttajuolo ebbe da comandargli
altre faccende; e bazzicando il mercato, capitava spesso l’occasione di
fare il facchino per quello e per quell’altro. I po’ di soldi ch’egli
andava raccapezzando,[201] erano da lui consegnati alla Clarice per
rimborso delle spese di vitto. Avrebbe voluto lasciar libero Nicodemo
e andare a dormire su qualche locanduccia; ma quegli non volle, finchè
non seppe che il suo guadagno fosse cresciuto. E crebbe, allorchè
essendo finito il tempo di vendere le perecotte, gli riuscì di mettersi
a salario per facchino con un grosso salumajo del mercato. Nè il
salumajo ebbe a lagnarsene, perchè Giuseppe faceva il suo dovere,
durava volentieri molta fatica, e pareva fidato. Il buon esempio delle
persone che questo giovane aveva incontrate a caso, nel suo primo
ritrovarsi libero di sè stesso, bastava a premunirlo dagli errori e dai
delitti ai quali per le passate scioperatezze pareva serbato.

Lo stato suo in pochi mesi divenne discreto. Le sommerelle che di mano
in mano aveva consegnato alla Clarice furono da essa tenute in serbo
per lui, e la generosa donna volle a ogni costo restituirgliele. Ei
potè dunque rimpannucciarsi, prendere a pigione una stanzetta che
era rimasta vuota nel casamento, e considerare assicurata la sua
sussistenza. Allora s’affezionò alla fatica e al risparmio; e se mai il
rigoroso risparmio d’un povero si potesse chiamare avarizia, Giuseppe
dava a divedere che quando una volta si fosse ritrovato in qualche
agiatezza, stato sarebbe più facilmente avaro che prodigo. Seguitando a
frequentare la Clarice, s’innamorò d’una ragazza che era stata a scuola
da lei, e che andava spesso a farle visita. La Carolina gli dette
retta: guadagnava già una buona giornata col suo mestiere; aveva un
po’ d’assegnamento raccapezzato con alcune di quelle doti che toccano
in sorte per lasciti pii alle fanciulle povere; sua madre era vedova,
ma godeva d’una pensioncella lasciatale da una sua padrona; Giuseppe
sembrava ormai giovine di proposito; la Clarice fu interrogata dalla
madre della fanciulla, e non trovò ragioni valevoli da opporre contro
questo matrimonio, se non che la consigliava a chieder prima un parere
anche al principale di Giuseppe; e il principale continuava a lodarsi
di lui; sicchè il matrimonio fu concluso.

Giuseppe si accasò con la moglie; e pei primi mesi tutto andò pel suo
verso; ma innanzi che la Carolina, già incinta divenisse madre, la
vedova si ammalò gravemente. Era sempre malata quando la figliuola
partorì un maschio. Come provvedere all’assistenza di tutt’e due,
mentre per le sole spese della malattia non bastava la pensioncella
della vedova?... In quel frangente[202] fu presa la risoluzione
disperata di metter la creatura nel ricovero dei gettatelli; la stessa
levatrice trovò subito una donnicciuola esperta per quei trafugamenti;
la madre non avrebbe voluto a niun patto; era quasi fuori di sè
dall’afflizione; ma Giuseppe aveva già incominciato a darsi a conoscere
per uomo di voglie assolute e d’affetti languidi. Più tardi la vedova
dovè soccombere alla sua infermità, e così mancò il soccorso della
pensione; e la Carolina era stata qualche mese senza lavorare, avendo
dovuto assistere la madre, e poi mettersi in letto pel puerperio
che non fu nè prospero nè sollecito. Dunque le faccende di Giuseppe
andavano molto male; il suo solo guadagno era scarso ai bisogni; e
per l’appunto allorchè la necessità di risparmiare s’era fatta così
maggiore, egli aveva incominciato a bazzicar qualche volta la bettola,
a giochicchiare al lotto, a scordarsi dei buoni consigli e dei buoni
esempi avuti in casa della Clarice. Spesso accade pur troppo che chi
è tribolato e pusillanime a un tempo, quando si trova in procinto di
peggiorare stato, affretta da sè medesimo la propria rovina. La moglie
s’era accorta di qualche cosa; ma, poveretta, aveva già perduto ogni
ascendente sul marito; non le serviva a nulla rimproverarlo; si sfogava
a piangere in segreto di non vedersi più amata come prima, di essere
anzi veramente soggetta ad una crudele tirannia. Di rado vedeva la
Clarice, perchè Giuseppe non aveva più voluto condurvela; e non le dava
l’animo di palesarle i suoi patimenti per paura che il marito se ne
fosse potuto accorgere, e ne rimanesse pregiudicato nell’opinione.

Nondimeno la malcapitata moglie divenne incinta di nuovo; e vi potete
immaginare che anche questo secondo figliuolo era già destinato
all’ospizio dei gettatelli, a non conoscere i suoi genitori, a
ritrovarsi nel mondo senza una famiglia sua propria. Giuseppe dopo
aver commesso questo secondo atto di crudeltà paterna, sventuratamente
ridottovi dall’estremo bisogno pei suoi cattivi portamenti, divenne più
che mai burbero e fastidioso, disamorato anzi crudo verso la moglie,
dedito maggiormente agli stravizj della bettola e del giuoco. La vita
che la Carolina faceva era un continuo crepacuore. Dopo aver perduto in
modo così crudele i figliuoli, vedersi quasi affatto abbandonata dal
marito! A volte ei tornava a casa più tardi assai della mezzanotte, o
non si faceva rivedere che il giorno dopo; e allora compariva sempre
immerso in una cupa malinconia, pieno d’un’atrabile che metteva paura;
sicchè la Carolina, dopo alcuni tentativi inutili, non si arrischiava
ad insistere nelle dimande per sapere la cagione di quelle assenze
notturne. Che veglie dolorose le toccava a passare! Che orribili
pensieri le metteva in capo la paura! Che tormento di non poter più
avere piena fiducia nella onestà del marito! La s’era accorta ch’ei
bazzicava le bettole, ma non l’aveva mai visto tornare a casa ubriaco;
e queste novità erano incominciate a poco per volta, dappoichè egli
s’era messo a giuocare al lotto; e una mattina le intravvenne di
trovare in camera due o tre polizze di lotto, che tutte insieme
costavano più d’una mesata del suo salario. Eppure ei le lasciava i
denari per le spese di casa!... E di dove cavava egli dunque i denari
pel giuoco?

Una sera Giuseppe tornò a casa presto, appena che fu serrata la bottega
del principale, ed era di buon umore.

Figuratevi se la Carolina ne giubbilasse, andandogli subito incontro
con lieto viso.

— Tu non sai, eh? — disse allora Giuseppe — buone nuove! ho vinto
al lotto, nientemeno che la bella somma di novecento scudi! E’ son
lì contati uno sopra l’altro nel botteghino; or ora devo andare a
riscoterli. Son venuto.... Presto!... Con questa roba bisogna cucire
un sacchetto, due tre; e poi verrai anche tu ad aiutarmi a portarli.
E’ pesano, sai? e’ son dimolti!... — E tutto infatuato non lasciava
che la moglie aprisse bocca; non ebbe pace finchè i sacchetti non
furono cuciti. Poi la fece vestire in fretta e in furia, e ratti ratti
andarono a prendere la vincita al botteghino, e se la portarono a
casa. Alla vista di quel mucchio d’argento nella sua casuccia, sul suo
tavolino, riverberante i raggi del suo lume a mano, tornò a giubbilarne
fuor di misura.

— Ma tu, — diceva alla moglie, — tu non mi sembri allegra quanto
dovresti! O che non vedi che siamo diventati ricchi a un tratto?...

— Appunto per questo, abbi pazienza..., l’ho caro, sì, di vederti
contento. Ma quattrini di giuoco! ho sempre sentito dire che prima o
poi e’ tornano di dove son venuti....

— Eh! non alle mie mani peraltro! Corpo di...! Giacchè la fortuna m’ha
assistito, giacchè ho fatto questa bella cilecca[203] a chi tiene il
giuoco, a chi tira a rasciugare le nostre tasche, i’ non glieli rendo
davvero sai? Una vincita come questa! Oh fossero state le ottanta, le
cento lire, anche scudi vo’ mettere.... allora, chi sa? i’ non mi sarei
sfogato abbastanza.... Ma ora? Oh! ora non mi gabbano più davvero, te
lo dico io! Giacchè in questa maledetta guerra l’ho avuta vinta io, non
ne vo’ più, no davvero!... E poi, non ti credere.... e’ mi costano,
sai? — E in ciò dire tornava burbero come prima. — Sì davvero! mi
costano; ed ora che gli ho, nissuno me li caverà!

— Ti costano? Ma come? E appunto volevo dire.... Chi ti dava tanti
denari per giocare?

— Oh! mi costano! sicuro eh?... Intendo dire.... si sa.... spera oggi,
spera domani....

— Forse le nottate che tu hai fatto.... Lavoravi forse di nascosto a
me....

— Già.... lavoravo.... sicuro.... di nascosto a te.... per guadagnare
di più, e giocarmeli.... Oh! finalmente l’è andata bene.... Ora mi
riposerò.... Non ci pensiamo più.... Pensiamo a goderceli.... cioè....
adagio! Ci vuol giudizio.... I’ li vo’ mettere a frutto.... i’ vo’
fare il signore.... Vedrai, vedrai.... E intanto, sì, è giusta, povera
Carolina!... Ora posso dire, son ricco; chiedi e domanda.

— Dunque non farai più le nottate fuori di casa.

— No!

— Ora son contenta davvero! Ora tu mi dài una consolazione....

— Ma io dicevo che se tu hai qualche voglia.... Animo! Una parte di
questi denari son tuoi....

— Oh! io, quando tu mi vuoi bene, quando ti vedo contento, quando tu
ritorni a vivere come prima, casa e bottega....

— Sì, sì! Ma non basta; i’ ti vo’ fare un regalo, e un regalo co’
fiocchi!

— Giuseppe! Tu vuoi farmi davvero un regalo gradito? Darmi una vera
consolazione?

— Ma sì!

— Caro Giuseppe! ricordati che tu se’ padre!...

— Oh questo poi....

— Se ora la.... sì.... lo voglio sperare, se ora la Provvidenza ti ha
assistito, rendimi i figliuoli....

— Adagio!

— Intanto uno; almeno uno per ora! E piangeva a calde lagrime, e gli si
buttava in ginocchio, abbracciandogli le gambe....

— Ma come si fa egli...?

— Oh! lo so io: è facile, ci ho pensato; quante volte ci ho pensato,
marito mio!... Vedi.... questi denari, in sostanza, l’hai detto anche
tu, non vengono da oneste fatiche....

— Chi ha detto questo? — e s’incolleriva.

— O non sono guadagnati al giuoco? non è un colpo di fortuna? Dunque
tu non gli hai sudati. Ma se ora tu te ne servi per ricuperare i
figliuoli, credilo a me, e’ ti faranno più pro. L’è una buona azione,
tu mi fai felice davvero! i’ non voglio altri regali che questo....
— E tanto disse e tanto supplicò la misera madre, che Giuseppe alla
fine condiscese a permetterle di riprendere dagl’Innocenti il secondo,
quello stesso che abbiamo già conosciuto sul principio di questo
racconto.

La gioja d’una madre, che ricupera così un figliuolo ch’ella credeva
perduto per sempre, è indicibile. Quando la Carolina, dopo avere
superato molte difficoltà incredibili, l’ebbe nelle sue braccia
materne, pareva fuori di sè dalla contentezza. Il povero piccino era
stento stento; ma a lei parve un occhio di sole; e tanto fece, che in
poco tempo, a forza di cure amorose, lo riebbe propriamente da morte
a vita. Tornò spesso a raccomandarsi al marito perch’ei le lasciasse
riprendere anche l’altro: ma sempre un no inesorabile.

Dopo due o tre mesi intravvenne che fossero arrestati alcuni borsajuoli
i quali commettevano vari furti per la città, ora nelle botteghe, ora
nelle case, e per molti indizi, e fors’anco per le rivelazioni d’uno di
quei malandrini, la polizia entrò in sospetto che anche Giuseppe fosse
della brigata. Per farla breve, ei si trovò compreso nel processo,
e dovè toccare la carcere. La Carolina a questa notizia rimase come
colpita dal fulmine; e ricordandosi delle assenze notturne, di certe
parole tronche, non potè fare a meno di dubitare che davvero lo
sciagurato fosse stato condotto dalla passione del giuoco a commettere
quei delitti. Ma le prove per dichiararlo reo mancavano, e l’avvocato
seppe farlo assolvere compiutamente; ma questa faccenda gli costò quasi
la metà della sua vincita. E il peggio fu per la Carolina e pel suo
figliuolo, perchè fin d’allora Giuseppe divenne più disamorato, più
burbero, collerico fuor di modo.

Intanto, col capitale rimasto, gli riuscì d’ottenere la patente
per aprir bottega di tabaccajo, subentrando nelle ragioni d’un
suo conoscente che era fallito. Seppe condurre bene innanzi quel
trafficuccio; e poi si pose in sul risparmio rigoroso, o per meglio
dire divenne avaro, usurajo, e tanto peggiorava quanto gli crescevano i
guadagni; e così per un verso o per l’altro la vita della Carolina era
continuamente piena di tribolazioni.


II.

La sola contentezza che dopo molti dolori fosse data da Giuseppe
alla Carolina fu la risoluzione inaspettata di mandare il figliuolo
alle scuole dell’Accademia. Le pareva proprio un prodigio; e si
figurava che Pippo dovesse divenire qualche gran cosa, riflettendo
all’inclinazione ch’ei mostrava al disegno. Pensate poi se ne fu
allegro il fanciullo! E il suo giubbilo accresceva quello della madre.
Peraltro quando Pippo si vide porre davanti occhi, nasi, bocche ed
orecchi, e non potè scorgere nella scuola nè disegni, nè quadri di
paese, restò maravigliato e sconfortato. Ei s’immaginava che dovessero
ammaestrarlo secondo il suo genio. Ma tanta era la smania d’imparare
il disegno, ch’ei si adattò a copiare nasi, occhi, bocche ed orecchi,
invece di alberi case e montagne, naturalmente riflettendo che per
popolare i quadri di paese bisogna anche saper ritrarre le figure
degli animali. Avrebbe incominciato più volentieri dallo studio degli
oggetti inanimati secondo gli dettava il suo genio; ma non per questo
si pose con meno ardore a quello che gli fu imposto. Egli era tra i
pochissimi scolari studiosi e diligenti; e si mantenne in sulle prime
piuttosto savio, perchè aveva propriamente vocazione al disegno, e
sapeva il perchè fosse andato a quella scuola; ma a poco per volta
il cattivo esempio degli scioperati, la poca vigilanza dei maestri e
la incuria del padre, che dopo averlo fatto ammettere all’Accademia,
non si dava altro pensiero, fecero divenire un po’ monello anche lui.
Un giorno fra gli altri, nell’uscire di scuola, ei prese parte in una
baruffa dei suoi condiscepoli. Quasi tutti ragazzuoli senza educazione,
tenuti in quella numerosa scuola con poca disciplina, presto vi si
avvezzavano male guastandosi l’un l’altro, e imparando piuttosto
a sciupare la carta e le tavolette che a disegnare. Cosa rara che
qualche garzoncello ne uscisse con amor vero dell’arte, e si dedicasse
a studiarla di proposito sugli originali dei buoni maestri sparsi per
le chiese, pei chiostri, per le gallerie, certo migliore scuola che
quella dell’Accademia, e sapesse poi esercitarla con qualche decoro.
La baruffa era incominciata in scuola fra tre o quattro per insolenze
fattesi tra di loro; i pochi trovarono fautori; la scolaresca si divise
in due schiere di combattenti, le quali andarono lungo le mura della
città, e quivi si guerreggiarono alquanto a pugni e a sassate. Alla
fine comparvero alcuni famigli,[204] e tutti quei mariuoli dandosi
a fuga precipitosa, e scagliando contro i famigli i sassi che ancora
si ritrovavano in mano, sparirono in un attimo. Pippo era stato dei
più fieri nella baruffa, e ne usciva con una ferita nel capo e con
una manica del corpetto tutta strappata. Guai se suo padre l’avesse
visto così malconcio! E come rimediarvi? Col non tornare a casa. O non
sarà peggio? Ma intanto la paura delle busse presenti la vinceva su
quella delle future, e lo teneva lontano da casa. Dopo essere andato
ramingando un’oretta per certe strade remote finchè la ferita non ebbe
cessato di filar sangue, incominciò a sentire un appetito prepotente,
e gli venne in animo di salire in casa della Clarice per farsi alla
meglio rassettare la manica e chieder consiglio o protezione, e quel
che più gli premeva allora, un tozzo di pane. Ei conosceva la Clarice,
perchè sua madre andandovi qualche volta di soppiatto al marito lo
aveva condotto seco; e quella buona creatura, compiangendo la Carolina
per la cattiva riuscita di Giuseppe, quasi accusando sè stessa di aver
data occasione a quel matrimonio malaugurato, sebbene non sapesse ogni
cosa, perchè la Carolina sopportava il peggio in silenzio con mirabile
rassegnazione, aveva posto grandissimo affetto in quel fanciullo, e
avrebbe dato la propria vita per levare d’angustie la madre.

Pippo fu dunque ricevuto con grande amore dalla cucitrice; narrò
schiettamente quello che gli era accaduto, si fece rassettare
il corpetto, mangiò, e chiese d’essere accompagnato a casa
dall’Appollonia. Intanto sua madre s’era già posta in gran pensiero per
l’indugio; ed il marito accorgendosene aveva preso a beffarla, dicendo:
— Non torni più quel monello, non me n’importa; e se tornasse, voi lo
sapete che cosa gli avrei preparato.

— Almeno lasciatemi andare a cercarlo. Potrebbe essergli accaduta
qualche disgrazia....

— Volete girare tutta la città, consumare un pajo di scarpe senza
conclusione?

— Eppure è vostro figliuolo! — e piangeva.

Giuseppe nojato del piagnisteo, alla fine disse: — Uscitemi di tomo;
andate dove volete, purchè quel monello non metta più piede in casa.
Badate bene! io non lo voglio più tra’ piedi; ch’ei provveda a sè come
può. Voi sapete che quando ho detto una cosa non mi rimuovo. —

E pur troppo era vero! Sicchè la Carolina, con l’animo pieno di grande
afflizione, andò in traccia del figliuolo, prima all’Accademia, ma era
tutto chiuso, poi nelle strade circonvicine, domandando a questo e a
quello ma invano; e finalmente le venne la ispirazione di ricorrere
alla Clarice, quando appunto l’Appollonia con Pippo erano in procinto
di uscir di casa. Vedere il figliuolo e correre ad abbracciarlo con
tutta la tenerezza materna fu un punto solo; poi si pose alquanto in
sul serio domandandogli la cagione dell’assenza, e avendola saputa
ne lo rimproverò con dolore. Dissegli come suo padre fosse sdegnato,
e per ora non convenisse tornare a casa. La Clarice propose tosto di
tenerlo con sè quant’occorreva, e la Carolina dovè rassegnarsi a non
aver più sempre con sè il suo caro figliuolo. E ciò dispiacque assai
anche a Pippo, che a dir vero le voleva un gran bene, ad anche a patto
d’essere ogni giorno percosso dal padre, avrebbe preferito di non
si separare mai dalla madre. Questa tentò più volte d’intercedergli
perdono da Giuseppe, e d’ottenere di riprenderlo; ma egli, inflessibile
sempre, senza curarsi di mai più rivederlo, non voleva nemmeno sentirne
parlare. Già era divenuto più burbero, più collerico e più avaro di
prima. Basta dire che in casa sua non si accendeva più fuoco, avendo
costretto anche la moglie a contentarsi di cibi grossolani presi
in qualche meschina bettola del mercato; e il motivo principale per
cui non voleva più in casa il figliuolo era quello di non aver così
il pensiero di fargli le spese. Temeva inoltre che quel ragazzo
gli dovesse carpire di soppiatto o roba o denari: e questa medesima
diffidenza incominciò ad avere verso la moglie, in specie riflettendo
che da qualche parte doveva uscire il mantenimento del figliuolo fuori
di casa. Forse egli aveva dimenticato la caritatevole generosità della
Clarice, o più non credeva che potessero esservi persone capaci di
assistere senza interesse gli sventurati. E certo l’essersi posto
da lungo tempo a far l’usurajo con ogni più turpe rapina, doveva
avergli distrutto qualunque sentimento d’umanità. Per farla breve,
lo sciagurato, che ormai stava di continuo in sospetto di tutti e di
tutto, incominciò a brontolare per le visite della moglie al figliuolo
in casa della Clarice, le quali non erano nemmeno così frequenti come
la povera madre avrebbe voluto, perchè appunto sapeva quanto egli le
vedesse di mal occhio: e un bel giorno che la Carolina gli chiedeva con
supplichevole sommessione la licenza di andar fuori al solito per via
del figliuolo, addirittura le disse:

— Andate e state; rimanete lì, e fatela finita! Io non ho bisogno di
nessuno. Sto meglio solo che accompagnato.

— Dio mio! Dunque voi mi cacciate di casa! Mi odiate! Che cosa vi ho io
fatto?

— Queste ciarle e questi piagnistei non contan nulla. Andatevene con le
buone. Se avrò bisogno di voi, vi manderò a cercare.

— Ma Giuseppe!...

— Non facciamo scene! Per ora son tranquillo; tra poco, tra poco....
M’avete capito.... Sicchè, a buon rivederci....

— E per campare? Anderemo noi a chiedere l’elemosina?

— Lavorate; voi avete un mestiere; e quel monello è ormai in età da
guadagnarsi il pane da sè....

— E non volete pensare a nulla?...

— Ho fatto anche troppo!

— Meschina me! Voi mi volete ridurre alla disperazione!

— Finiamola, dico! Vi passerò qualche cosa, per ora, per poco tempo,
finchè non avrete lavoro; ma a patto che ve n’andiate subito.... A
voi! Eccovi intanto quattro scudi; vi serviranno per un bel pezzo....
Ma via di qua, subito! Avete capito? Mi pizzicano le mani!...[205]
Non mi mettete al punto.... — E le chiudeva la bocca, respingendola,
minacciando di percuoterla, facendo un viso spaventevole, sicchè
la poverina vide bene che bisognava obbedire, altrimenti quell’uomo
crudele avrebbe commesso qualche esorbitanza da precipitare sè e lei.
E quantunque ne fosse trattata con tanta barbarie, le premeva più la
di lui quiete che la propria salvezza, e si sarebbe lasciata morire in
segreto di consunzione, piuttosto che vederlo per cagion sua esposto a
qualche pericolo, piuttosto che ricorrere a chi si sia per farsi fare
giustizia. Indi le premeva troppo di poter assistere il figliuolo, e
sperava che quella sfuriata fosse per calmarsi presto, come alcune
volte e nei primi tempi era intravvenuto. Raccolse silenziosa, e
rattenendo a stento le lagrime, il denaro ch’egli aveva lasciato per
lei sopra il letto, prese con sè alcuni pochi oggetti di valore che le
erano stati donati da sua madre, chè almeno avesse modo di rimborsare
la Clarice delle spese di mantenimento pel suo Pippo, e andò via
immersa nel dolore, ma con la speranza di ritornare in quella casa,
che sebbene fosse per lei divenuta una carcere spaventosa, tuttavia non
poteva darsi pace d’esserne discacciata innocente.

Non istarò a dirvi con quanto amore la Carolina fosse ricoverata dalla
Clarice, alla quale peraltro seppe nascondere con pietoso artifizio
la vera cagione che la costringeva a separarsi per qualche tempo dal
marito.

Le amiche la posero a dormire alla meglio nella loro camera sopra
quel medesimo sacconcino che aveva servito un tempo a Giuseppe nella
soffitta di maestro Nicodemo; e il ragazzo stava sopra un letticciuolo
provvisorio, fatto di seggiole e messo su nella prima stanza. Sua madre
aiutava la Clarice a cucire gli ombrelli; e Pippo, proseguendo a andare
all’Accademia, aveva già fatto non pochi progressi nel disegno, ed era
divenuto più savio dopo il rigoroso gastigo della prima scappata.

Se non fosse stato il crepacuore della separazione dal marito e
della sua ostinatezza a non voler più ricevere in casa nè lei nè il
figliuolo, sarebbesi detto che quei giorni per la Carolina fossero
giorni di respiro e di pace, perchè viveva insieme con la sua
diletta creatura e con una pietosa amica, senza il continuo timore
degl’ingiusti rabbuffi e delle frequenti bastonature d’un uomo brutale.

Intanto costui viveva propriamente come una belva nella sua tana, solo
premuroso di scorticare i meschini o gli scioperati, che per bisogno di
denaro gli capitavano sotto le unghie; senza mai allontanarsi da casa
o dalla bottega, alla quale pochi avventori capitavano perchè sviati
dai suoi modi burberi e insolenti; sempre a far guardia al nascondiglio
ove teneva i denari; cibandosi male per sozza spilorceria; odiato dai
vicini, fastidioso a sè stesso come colui che perpetuamente si travagli
per sospetti, per rimorsi, per insaziabile avidità di malvagi guadagni.
Non molto dopo ch’egli ebbe scacciato di casa il figliuolo e la moglie,
rimase privo anche della compagnia del suo cane, che già pareva uno
scheletro: non lo vide più tornare a casa, e poi gli fu detto che era
morto avvelenato in una stradella vicina. Questa perdita lo afflisse,
perchè il cane non gli costava nulla per mantenerlo, ed era buona
guardia allo scrigno, in specie per la notte. Certamente nessuno
sarebbe potuto entrare in quella casetta senza che il cane mettesse a
rumore il vicinato e s’avventasse alle gambe dell’incauto.

Una sera di carnevale, burrascosa, fuor di modo buja, mentre il
temporale rumoreggiava da lontano, e il vento e la pioggia, in
specie sul tardi, avevano fatta deserta la città, Giuseppe dopo aver
riscontrato e riposto sotto il suo letto lo scrigno, si spogliò e
spense il lume. La finestra della sua camera corrispondeva sopra
un vicolo stretto e oscurissimo. Ei non aveva ancora preso sonno,
che dopo lo scoppio d’un tuono udì un fischio che gli era ben noto,
ma al quale da molto tempo più non pensava. Diede subito un crollo
di tutta la persona che fece tremare il letto; s’ascose sotto le
lenzuola, e poi si riconfortò, immaginandosi che fosse stato sogno;
ma ecco un altro lampo, un altro tuono, e poi il medesimo fischio più
acuto del primo, tanto acuto, che gli parve la trafitta d’uno stile
da orecchio a orecchio, e non potè fare a meno di balzare a seder
sul letto. Nonostante tornò ad acquattarsi ravvoltolandosi come una
serpe; e allora udì chiamarsi per nome da voce nota e minacciosa, che
gl’imponeva d’affacciarsi subito alla finestra. Giuseppe conoscendo
l’ardire di chi lo chiamava, sapendo che la finestra era bassa e con
serrature deboli, scese il letto, si coperse alla meglio, mandò un gran
sospiro pensando allo scrigno, e col viso pallido e il tremito della
rabbia, aperse uno spiraglio della finestra, e domandò:

— Che cosa volete?

— Con le buone, compare, aprimi; ho bisogno di ricovero.

— Non posso; abbiate pazienza.

— A questo tempo assaettato avresti coraggio di lasciarmi fuori?

— Oh sì, voi avete una bella paura del tempo cattivo! Anzi, questo per
voi è il tempo buono. Alle corte: se avete bisogno di qualche cosa....
vedremo.... Ma aprire, non posso.

— Dunque tu mi discacci; tu non ti ricordi di nulla? Nel tempo che
quello di fuori lo teneva così a bada, Giuseppe fu riscosso da un
beve rumore dietro di sè; volse l’occhio atterrito, e gli balenò alle
spalle un raggio di luce, che parve riflesso da una lama di coltello.
Era per cacciare un urlo, quando si sentì chiudere la bocca, afferrare
per le braccia, e trarre a forza nel mezzo di camera; una mano a
lui invisibile richiuse la finestra; anche colui che era fuori in un
salto salì le scale, e fu in camera; e Giuseppe, al fioco lume d’una
lanterna si vide nelle mani di tre robusti malandrini mascherati, ma
che non stentò ad accorgersi che erano antichi suoi conoscenti ch’ei
già credeva condannati a marcire nelle galere con la catena ai piedi
per tutta la vita. Lo spavento di quella visita inaspettata fu tale,
che sulle prime non ebbe fiato di mandare una voce nè di muovere un
passo. Allora lo stesso compare che lo aveva chiamato dalla finestra
gl’intimò, con argomenti ai quali bisognava obbedire, che non facesse
il menomo strepito. — Noi siamo qui senza che anima viva lo sappia: le
chiavi false, il carnevale e il buon tempo, come tu hai detto, ci hanno
favorito; e se vuoi, faremo le cose da buoni compari, benchè tu ci
abbia trattato perfidamente....

— Io.... che colpa ne ho io?...

— A voce bassa; e lascia prima dir me, chè faremo più presto. Discolpe
non ne hai. Tu non sei stato ai patti. Appena che la fortuna t’ebbe
assistito, rompesti lega. Pazienza che tu non fossi più venuto con noi
a provvedere il conquibus[206] per giocare; ma le vincite, secondo i
patti giurati della nostra società, dovevano essere spartite.... E tu
no! sapesti ingannarci; e poi quando il bargello[207] ci pose addosso
le mani, tu avesti da pagare bene l’avvocato, e la passasti liscia. Noi
si sarebbe potuto.... tu lo sai.... Ma si volle fare un’altra prova.
Giuseppe, disse uno, se gli preme la pelle, ci ajuterà a svignare
di carcere, o ci manderà almeno qualche soccorso; ha quattrini, e
sa che con noi non si scherza. Prima o poi!... E ora, tu lo vedi....
Gnornò! scordarsi d’ogni cosa... affatto affatto! E tu non pensavi,
balordo, che una volta fatta lega per quelle faccende, o con noi o
col boja? Ma.... ormai, quello che è stato è stato. Ora sappiamo che
tu hai scrigno, a forza d’usura e di avarizia.... E ti sei levato di
torno la moglie e il figliuolo.... O che cosa vuoi tu farne di tanti
quattrini riposti? Chi avrebbe mai creduto che il tamburino dovesse
diventare spilorcio? Accomodiamole dunque ora le nostre partite,
giacchè siamo in tempo. Dov’è il morto?[208] — E si dava a cercare
per la stanza, e si chinava sotto il letto. Giuseppe, con un fremito
di rabbia, col viso che schizzava fuoco, con la voce rantolosa voleva
raccomandarsi, svincolarsi.... Ma le solite minacce e la custodia dei
due lo costrinsero a lasciar fare. Il malandrino trovò presto quel
che cercava, e fece presto pulito intascandosi l’oro e l’argento, che
in tutto sarà stato circa un migliajo di scudi. Se non che, guardando
la faccia spaurita e convulsa di Giuseppe, e mostrando un sentimento
di compassione, non già per lui ma per la sua famiglia, riversò una
manciata di monete nello scrigno, con dire: — Noi vogliamo essere
umani: tu hai cacciato di casa la moglie e il figliuolo; non è giusto
che quei disgraziati rimangano senza assegnamenti. Eccoti qui un
resto dei tuoi denari, a patto che tu gli assista, altrimenti noi ti
promettiamo una seconda visita; e sta’ certo che potremo mantenere
la promessa, perchè ora stiamo bene col bargello, sai tu? ferri di
bottega, hai capito? Che se ti venisse la tentazione d’accusarci, bada
bene a quel che tu fai; tu ne anderesti a capo rotto dicerto.... — Ma
volgendosi ai compagni, e dopo aver meglio squadrato[209] la faccia
di Giuseppe: — Io dico che possiamo andarcene senza sospetto, perchè,
a quanto mi pare, costui ha più bisogno del prete che delle funi.
Lasciamolo qui sul letto. Noi non gli abbiamo torto un capello, a buon
conto; e qui tutto è al suo posto. Partiamo. — E di fatto, i malandrini
lo lasciarono, che quasi non dava alcun segno di vita; e così com’erano
venuti, se n’andarono impunemente, almeno per quella volta, dopo aver
commesso l’audace assassinio.

Lo sciagurato Giuseppe era già nelle strette d’un colpo di apoplessia.
Lo avevano messo lì a sponda di letto; un piccolo movimento convulso
bastò per farlo stramazzare a terra; percosse una tempia nella
panchetta di ferro, e in poco tempo spirò, immerso nel proprio sangue.

La mattina i vicini non lo videro aprir bottega; guardarono le finestre
di casa, ed erano sempre serrate. Uno andò in cerca della sua moglie
per avvisarla di questa novità. La poverina corse a casa, ma non
aveva le chiavi; e intanto la polizia avvisata da altri, si preparava
ad entrare a forza: la moglie volle ad ogni costo esser la prima: e
appena veduto quello spettacolo miserando, svenne sulle braccia d’un
famiglio. Fu chiamato un medico per assister lei e per riconoscere la
cagione di quella morte; nè altra cagione potè assegnarsi che un colpo
d’apoplessia. Un merciaio che aveva bottega in quella strada, uomo
d’illibata riputazione e che meglio degli altri conosceva i casi della
infelice, la fece ricondurre a proprie spese in carrozza e in compagnia
della sua moglie a casa della Clarice, e provvide a quant’altro
occorreva in così disgraziata avventura. Tal fine ebbe la vita di un
uomo, che sebbene si fosse ritrovato sulla via della galera, aveva
saputo schermirsene, ma non tanto che la funesta passione del giuoco
del lotto non lo facesse poi capitare anche peggio.

La Carolina, dopochè si fu riavuta dallo svenimento, si trovò in preda
al delirio e ad una febbre maligna, che pose la sua vita a repentaglio
per molti giorni; ma superata avendo una lunga malattia potè risanare,
benchè ne rimanesse rifinita e malinconica.

Il buon merciajo che aveva preso a cuore i suoi negozj le fece avere il
denaro e la roba che a lei appartenevano, e subentrò nel possesso della
bottega, dandole in cambio un assegnamento giornaliero, che bastasse a
farla campare alla meglio insieme col figliuolo.

La spensieratezza d’un giovinetto di quattordici anni bene spesso
si corregge alla scuola delle disgrazie, e tanto più alla vista del
dolore che esse cagionano ai suoi più cari. Pippo rimase sbigottito
dalla tragica morte del padre; rimase accorato dalla grave malattia
della mamma; e la vedeva sempre ormai afflitta. Più volte si diede a
riflettere sull’accaduto. Chi sa, diceva tra sè, che la mia scappata
per cagion della quale mi ritrovai fuori di casa, e alla mamma per
amor mio intravvenne lo stesso, chi sa che non avesse molta parte
nelle nostre disgrazie? E ora che davvero siamo poveri, come potrò io
continuare i miei studi di disegno senza sottoporre mia madre a dei
sacrifizi troppo superiori alle sue forze? Sarebbe anzi necessario che
io guadagnassi per assisterla.... Ah sì, è meglio che io mi metta a un
mestiere. Le speranze che mi dà il professore, la smania di farmi un
nome nell’arte, sono incentivi grandi, sì, grandi assai, e mi parrebbe
di non potervi resistere; starei a patto piuttosto di nutricarmi
solamente con un tozzo di pane.... Ma! e mia madre? È egli giusto
che l’abbia ad essere sempre povera per cagion mia? E se poi le mie
speranze non riuscissero a nulla? Sciagurato! Avrei fatto la sua rovina
e la mia! — E ruminando queste riflessioni, ei faceva proposito d’andar
subito ad offerire i suoi servigi in qualche bottega per guadagnare
intanto la meschina giornata d’un fattorino. Ma poi alla vista della
sua cartella da disegno, a sentirsi ribollire nell’animo gli elogi e i
conforti del maestro, quei proponimenti vacillavano, e a poco a poco si
riducevano in un — Aspettiamo dell’altro a risolvere. —

Intanto la madre che conosceva il suo amore per lo studio del disegno,
che lo vedeva indefesso al lavoro, che sapeva essere egli uno dei
migliori scolari dell’Accademia, non si sarebbe nemmeno sognata di
levarlo da quell’avviamento, ed era disposta a privarsi anche del
necessario, purchè ei potesse un tempo divenire artista e raccogliere
il frutto dei suoi sudori; e s’ella ne avesse conosciuto le dubbiezze,
le avrebbe subito vinte con esortarlo a proseguire, a non pensare a
lei, a rivolgere liberamente all’arte ogni sua premura. Poveretta!
Nella sua inesperienza non sapeva quanti fossero i mediocri, e peggio
che mediocri, ridotti a strapparsi un pane meschino, a spengere ogni
scintilla di genio copiando i quadri delle gallerie, invidiandosi
lavorucci meschini, prostituendo l’arte alle bizzarrie della moda, ai
capricci dei forestieri, alle spilorcerie di mecenati in miniatura,
capaci soltanto di alimentare una caterva d’artisti in miniatura; non
poteva riflettere che il saper disegnare, fosse anche abilmente, non
bastava a fare stato prospero e a dar nome celebre senza una educazione
accurata del gusto, senza una compiuta istruzione della storia e dei
costumi dei popoli, senza un genio straordinario da superare l’infinito
numero degli emuli. L’amor materno in lei teneva luogo di tutto, e
contro di quello niuna considerazione sarebbe stata bastante a farle
prendere un partito, che avesse potuto credere dispiacente pel suo
Pippo. Pochi soldi bastavano a farli campare ambedue: con pochi soldi
pagava una stanzetta rimasta spigionata nel casamento; e siccome
quella stanzetta era interna e buja, così la Clarice aveva ottenuto da
Nicodemo che Pippo studiasse qualche ora del giorno nella sua soffitta
più ariosa.

Di consueto Pippo era ilare, e più nel tempo che lavorava; e la
compagnia dei condiscepoli dell’Accademia, tra i quali se ne trovavano
alcuni d’ingegno svegliato, altri piuttosto bizzarri, ma da non
confondersi certo coi frivoli o con gl’insolenti, gli faceva nascere
la smania d’imitarli e gli fomentava l’ambizioncella, naturale nei
giovani, di comparire stravagante. Ma la stravaganza che nasce da
imitazione e si può dire affettata rimpiccolisce le idee, indebolisce
il sentimento, distrugge a poco a poco la originalità, e a lungo andare
ci rende fatui e servili. Nicodemo, conoscendo la disgrazia della
Carolina e del suo figliuolo, s’era affezionato ad essi, senza peraltro
darlo a divedere: e in special modo si sentiva commosso dalla ingenuità
e dalla tenerezza materna della vedova, e stava in apprensione pel
futuro destino di quel giovane, che non gli pareva potesse facilmente
essere conforme alle speranze lusinghiere da lui concepite. Chi avesse
potuto penetrare nell’animo di Nicodemo, avrebbe detto: costui ha
certamente nutrito un tempo i più soavi affetti domestici; e ora,
per quanto si sforzi di comparire insensibile a tutto e indifferente
per qualunque cosa gli accada all’intorno, pure la ricordanza del
passato, certi confronti, chi sa? lo spingono, contro sua voglia,
a prendersi a cuore i fatti di quella famigliuola. Pareva ch’ei si
fosse ormai voluto distaccare da tutte le creature; ma eccone capitate
vicino a lui alcune, che lo riconducevano talvolta a quei sentimenti
d’umanità senza dei quali la vita è uggiosa, sterile, null’altro che
un aspettare impassibilmente la morte. Nondimeno, che cosa poteva egli
concludere a loro vantaggio con questo suo segreto affetto? Povero,
sconosciuto, tenuto in non cale da tutti, non v’era da aspettarsi
da lui nè assistenza nè protezione. La Clarice, povera anch’ella, ma
d’indole in apparenza diversa, sempre lieta, sempre fidente nel bene,
piena d’attività benchè vecchia ed inferma, era, a paragone di lui, una
persona di molta importanza, e si trovava in stato non solo di volere
il bene, ma qualche volta anche di farlo, compatibilmente peraltro
alle sue forze. E Nicodemo tutto ciò conosceva; per lo che tenendosi
ristretto nella sua quasi nullità, celava con grande studio ogni più
piccola commozione, faceva proprio di tutto per comparire noncurante di
qualunque cosa.

Non è dunque maraviglia se Pippo, dopo la prima impressione di qualche
sorpresa che l’aspetto e i modi di quell’uomo gli avevano generato
nell’animo, si assuefacesse poi a guardarlo con indifferenza; e
fors’anco, ma di rado e in un momento di giovanile inconsideratezza,
si lasciasse andare all’estro di prenderne beffe, benchè poi ne
sentisse rincrescimento. In sostanza il buon uomo gli faceva servigio
col permettergli di disegnare nella sua soffitta; e poi, senza che
Pippo potesse immaginarlo e sentirne gratitudine, per Nicodemo quella
compagnia, in specie sulle prime, era anche un sacrifizio, perchè
opposta alla sua grande affezione per la solitudine.

Ma a poco per volta ambedue s’affiatarono alquanto. Nicodemo dai muti
cenni passò ai monosillabi, e da questi a qualche parola, semprechè
peraltro fosse interrogato da Pippo; il quale mirando con occhio di
disprezzo o di compassione i rozzi intagli di Nicodemo, quei lavorucci
d’una umile arte che pure gli dava il pane, e confrontandoli co’
suoi disegni di teste e di statue greche, co’ suoi studi del nudo,
cedeva talvolta alla tentazione di chiedergli il suo parere in aria
di dileggio scherzevole, o con un po’ di sentimento d’orgoglio, quasi
per fargli notare la gran differenza che passava tra i lavori di lui,
giovinetto, e quelli d’un uomo in età avanzata.

— A voi, maestro Nicodemo, che cosa ve ne pare, eh? M’è venuto bene
questo disegno? Potrà essere contento il professore? —

E Nicodemo lo mandava in pace con un muover di capo, che non
significava nè lode nè adulazione, nè biasimo, nè indizio di sentirsi
umiliato dal confronto.

Ma una volta che il garzoncello ebbe condotto con grande amore e con
lunga fatica il disegno che doveva servire pel concorso al premio, e
s’era avvantaggiato di qualche giorno sopra degli emuli per la smania
di conseguire un trionfo sperato, lo mostrò a Nicodemo con maggior
baldanza del solito, e non fu come prima contento del suo consueto
e freddo muover di capo. Voleva ad ogni costo godersi le primizie
della lode, fosse anche quella di un giudice da lui medesimo riputato
incapace di gustare il bello dell’arte.

— Animo via! ditemi qualche cosa! vi piace, sì o no? Non avete occhi?
Non avete parole fatte? Ci ho faticato tanto! Mia madre, la Clarice, le
scolare sono rimaste a bocca aperta. Non è un disegno da portar via il
premio?

— Sei tu persuaso d’averlo fatto bene in ogni sua parte? — rispose
Nicodemo dopo averlo considerato attentamente.

Pippo, a questa domanda inaspettata e ch’egli non aveva mai pensato di
dover fare a sè stesso, guardò Nicodemo con una specie di dispetto, e
poi esaminò il lavoro, e non gli parve in tutto quello di prima. A un
tratto ne fu sbigottito; poi scuotendo il capo:

— Che forse pretendereste di trovarvi qualche eccezione?

— Figurati che sia lavoro di un altro, d’uno dei tuoi concorrenti....

— Ebbene?

— Ti metterebbe in soggezione, o ti darebbe maggiore speranza d’avere
il premio?

— Io non vi capisco.

— Mi sarò spiegato male; e quasi quasi l’ho caro.

— Ma dunque?

— Non ti confondere. Basterebbe che tu potessi proprio figurarti che
non è tuo.

— E allora, — esclamò con fuoco, dopo averlo squadrato come chi cerca
il pelo nell’uovo, — allora lo straccierei per farne un altro migliore,
e poi un altro. No, no! Io non ne sono più contento! Ma il tempo,
neanche di rifarlo una volta sola, dov’è? E se mi ritiro dal concorso,
addio speranze! E’ diranno che ho avuto paura dei compagni!... Non è
possibile! Bisogna che sia questo! che sia com’è; non v’è rimedio!...
Già il professore mi vede di buon occhio; m’ha promesso.... Eh
via! coraggio! Starà così.... Po’ poi son sempre scolare. Un bel
negozio ho fatto a domandarvi il vostro parere!... Oh! ma io non
vi do retta! Badate ai vostri intagli.... Eppure.... Se potessi far
meglio!... —

E mentre Pippo farneticava in quel modo, trabalzato ai due estremi
dello scoraggiamento e della presunzione, Nicodemo pensava tra sè:
Veramente questo ragazzo avrebbe genio da addivenire un artista; ma,
poveretto, l’Accademia lo ha traviato; e questi concorsi, queste gare
forzate tra chi non ha ancora la vigoria di reggersi in gambe da sè,
nella strettezza d’un tempo contato a giorni e ad ore, con la speranza
di protezioni, di parzialità, d’indulgenza, con l’argomento assegnato a
capriccio dei maestri, non secondo il genio dello scolaro, finiranno di
rovinarlo, s’e’ non sarà in tempo o s’e’ non avrà forza di liberarsi da
sè dalle torture accademiche.

— In conclusione, — riprese Pippo, — che cosa dovrei io fare, secondo
voi? O ajutatemi, se sapete! — e lo disse più per burla che sul serio.

— Ajutarti io? Ti par egli! Io non so disegnare. Posso dire il mio
sentimento; posso credere che una parte sia fatta men bene, o che so
io;... ma posso anche sbagliare più d’ogni altro.

— Intanto ditemi dove vi sembra che sia difetto. Anch’io m’accorgo
ora, a guardarlo ben bene, che certe cose.... Vediamo almeno se si va
d’accordo. —

Nicodemo pareva stanco d’un colloquio per lui troppo lungo, chè da
molti anni non aveva fatto tante parole in un medesimo giorno; ed
era tornato a lavorare co’ suoi ferruzzi, per finire l’intaglio d’una
stampina da leggendario.

Ma Pippo insisteva: — Ditemi qualche cosa: ormai mi avete messo una
pulce nell’orecchio; non esco di qui, finchè non mi abbiate dato retta.

— Dunque, — e posava gli arnesi e si metteva a considerare il disegno,
— dunque tu vuoi addirittura...? Proviamoci. Guarda se questo torso
non dovrebbe esser girato un po’ meglio.... così, per esempio.... — E
infatti anche Pippo vi aveva conosciuto un difetto, e si accorse che
Nicodemo gl’indicava bene la correzione; e lo stesso in altri luoghi;
e così d’alcune sviste sfuggite a Pippo, e che richiedevano occhio bene
esercitato per discernerle. Della qual cosa Pippo rimase stupefatto, e
domandò:

— Ma dunque voi sapete...?

— Adagio! altro è saper fare, altro è dire il proprio sentimento
sulle cose fatte da quest’e quello. Tu sai che chi sta a vedere ha la
mente quieta, l’occhio riposato, e non è frastornato dal pensiero di
dover rifare o correggere il mal fatto. Va’ al teatro, e una semplice
fanciulletta scoprirà nel dramma una imperfezione che all’autore
è sfuggita, benchè abbia messo tutto il suo studio e tutta la sua
fatica nel comporre e correggere e ricomporre. Ma di quanto io t’ho
detto sul tuo lavoro, fanne quel conto che crederai; pensavi meglio;
non ti perdere d’animo; e se ormai non sei più in tempo a lasciare
una professione disgraziata per tanti versi, preparati almeno ad
esercitarla in modo, che nè tu nè la tua patria ve n’abbiate mai a
vergognare. —

Queste ultime parole fecero specie[210] a Pippo, ma e’ non ne intese
nè poteva intenderne tutto il significato. Senza nissuna cultura, con
idee grette, con la sola compagnia di ragazzi per lo più ineducati
e ignoranti al par di lui, come poteva egli inalzare la mente alla
considerazione dei grandi uffici dell’arte, rispetto alla civiltà
ed alla patria? La matita, la carta, gli esemplari, le sue copie, la
mano e di rado la parola del professore per correggere quelle copie;
una caterva di condiscepoli per lo più messi là come lui da genitori
che non sapevano dove mandarli per levarseli di casa; le invidiuzze,
le persecuzioni e le mariuolerie e bene spesso i mali esempi dei
depravati.... ecco in che cosa consisteva la educazione artistica
di Pippo. Egli appena sapeva leggere e scrivere; e libri d’arte, di
storia, di letteratura non conosceva nè avrebbe facilmente capiti. I
soli libri ch’egli avesse più volte riletto nell’infanzia erano stati
quei brani di relazioni di viaggi; e sempre gli stava a cuore lo studio
del paese, e qualche prova di quando in quando faceva alla meglio da
sè medesimo, dimostrando sempre d’aver più genio pel paese che per
la figura. Ma ormai trovandosene suo malgrado sviato, proseguiva a
studiare quel che poteva, tanto per dire un giorno: — Sono stato tutto
questo tempo all’Accademia, ho fatto quel che mi hanno dato da fare,
ho avuto i premi; dunque son pittore.... — Così, come tanti altri, si
metteva nel caso di ridurre il suo esercizio dell’arte a mestiero, o
di doversi poveramente adattare, per necessità di pronto guadagno, ai
lavori di riquadratore di stanze e d’imbianchino.

A confermarlo poi nel proposito di fare il pittore s’aggiunse il
premio del concorso conferito difatti a lui stesso. Figuratevi la sua
gioja, la consolazione della madre, la festa che ne fu fatta da tutti!
La buona Carolina benediceva in segreto le lunghe veglie spese nel
lavoro, e gli stenti segretamente sofferti per mantenere il figliuolo
all’Accademia, figurandosi che l’averne riportato un premio fosse
indizio infallibile di buona riuscita, e sperando ogni dì più che Pippo
dovesse diventare professore celebre, ed arricchirsi.

Il giovanetto, dopo aver dato sfogo alle sue consolazioni, andò a
trovare Nicodemo, gli annunziò la buona notizia, e poi aggiunse con
ingenua confessione e con sincero affetto di riconoscenza:

— E sapete? se i’ l’avessi portato al concorso senza farvi prima le
correzioni che voi mi suggeriste, il premio non sarebbe toccato a me.
Vi sarebbe stato il disegno d’un altro concorrente, che avrebbe avuto
meno difetti del mio. Dunque vi ringrazio, e da ora in poi....

— No, non mi ringraziare d’aver dato mano a commettere un’ingiustizia.

— Oh! un’ingiustizia! perchè?

— Tu mi dici che non avresti superato il compagno se non ti fossero
state suggerite quelle correzioni. Il compagno non avrà avuto chi gli
facesse questo servigio.

— Capisco; ma voi non sapete che quel tale è nipote d’un altro
professore dell’Accademia, e che tutti asseriscono che il disegno
era stato condotto più dal professore che da lui.... E perciò il mio
trionfo è stato più bello: chè ognuno si maravigliava che io avessi
avuto maggiore abilità di un professore.... Ma che cosa dico? io no....
voi, caro Nicodemo; e non mi darete ad intendere d’esser buono soltanto
a intagliare cotesti pezzi di legno. —

Nicodemo non seppe trattenere un sospiro.

— Voi sospirate? Dunque.... Oh non pretendo d’essere messo a parte dei
vostri segreti; ma....

— Io sospiro, ragazzo mio, vedendo che non ci è verso di rispettare tra
noi la giustizia; e pensando che vi possa forse essere un professore sì
poco abile nel disegno, da doversi mettere a confronto con me....

— Eppure, se sapeste tutto quello che ho udito dire di certi prof....

— No, no! lasciamo questo discorso: non mi piace di far giudizj
cattivi sulle parole degli altri, e molto meno di udirli in bocca di un
giovinetto, di uno scolare. Tu studia, fa’ il tuo dovere, e non pensare
ad altro.

— Smettiamo pure; ma io pagherei, per quel bene che spero mi vogliate,
che voi mi confidaste....

— Sì, io ti voglio bene, e per questo ti dico di non lasciarti
insuperbire dalla tua vittoria. Te lo dico io, che davvero non do
sospetto di potermi mai mettere a competenza nè con te nè con altri.
Vorrei anzi che tu fossi per diventare Raffaello Sanzio....

— E chi era Raffaello Sanzio?

— Chi era Raffaello Sanzio? — ripetè con aria di compassionevole
afflizione a quella dimanda fattagli da un alunno premiato della scuola
del disegno; ma poi reprimendosi proseguì: — Era pittore, forse il più
grande di quanti ne sono stati finora e ne saranno per un pezzo. Io
t’ho visto ricopiare con grande amore alcune sue teste....

— Oh bella! E non mi hanno detto nulla! Me le direte voi eh queste
cose? Ma quali sono le teste che avete detto? — E correva ai disegni, e
dopo averne scelti due o tre: — Scommetterei che son queste!

— Sì, per l’appunto. —

E allora Pippo, senza pensare ad altro, si pose a contemplarle con
infinito diletto.

— Non v’è dubbio, — diceva intanto fra sè Nicodemo, — questo ragazzo
avrebbe propriamente genio per l’arte. Che peccato ch’ei sia venuto al
mondo con la povertà addosso ed in questi tempi!... —

Era verso sera, e giorno di festa: alcuni condiscepoli di Pippo vennero
a cercarlo per congratularsi del premio; tra essi uno o due con affetto
sincero, gli altri soltanto per cogliere una occasione di sollazzarsi
più del solito. Così accade in quasi tutte le cose di questo mondo:
pochi son quelli, per esempio, i quali frequentino una conversazione
per amicizia vera verso la famiglia che li riceve, o vadano al teatro
con l’intento d’istruirsi, o alla chiesa per divozione; i più hanno
soltanto l’ambizionuccia di far sapere che vanno in quella tal casa,
la smania di raccogliervi ciarle e di scroccarvi rinfreschi, e per
essi il teatro e la chiesa son luoghi da veder gente e farsi vedere,
sfoggiando in belle vesti, amoreggiando, spendendo in qualche modo il
tempo, del quale non sanno che cosa farsi. Quell’uno o quei due che
cercavano Pippo con buona intenzione, non badarono alla povertà della
casuccia ch’egli abitava, o se vi posero mente gli si affezionarono
più che mai; gli altri, benchè non fossero di famiglie facoltose, ma
solo in apparenza potessero passare per gente da più di lui, guardarono
al luogo, non alla persona, e accolsero subito nell’animo il vile
e crudele sentimento del disprezzo, inacerbiti anco dall’invidia di
vedersi superati in abilità da quel meschinello. Ma appunto costoro
gli fecero i più strepitosi e i più smaccati elogj, ridendone poi
insieme di soppiatto; e vollero che uscisse con loro, per goderselo,
come dicevano, alla passeggiata. Pippo, sua madre e la Clarice, con
ingenua credulità e grandissima gioja accolsero quelle congratulazioni
mentite, e ne resero molte grazie. Pippo non stava più nei suoi panni;
seguì la comitiva, e dopo che ebbero girellato alquanto per la città
imbattendosi in altri condiscepoli che a loro si accompagnarono, vi fu
chi propose di andare al caffè. Secondo l’usanza, quest’invito doveva
venire da parte del festeggiato, e a lui stesso toccava pagare il
rinfresco; ma oltrechè la conversazione era divenuta troppo numerosa,
ognuno sapeva che Pippo era povero, e vollero invece pagare per
lui. I più intemperanti e i più chiassoni si abbandonarono ad ogni
eccesso; uscirono dal caffè ponendo in mezzo il premiato, che per
l’insolito baccano e per la naturale sua ilarità si lasciava metter
su da quei capi sventati; e, fosse caso o malvagio disegno di alcuni
o inconsideratezza di tutti, volsero i passi verso la casa del primo
tra i competitori di Pippo, di quello che, ad onta dell’ajuto dello
zio professore, come dicevano, mentre si faceva sicuro del premio, se
l’era visto rapire. E quivi, con alte voci di beffe, con insolenze
d’ogni maniera, diedero facilmente a conoscere a quelli di casa, e
chi erano, e che cosa fossero venuti a fare. Pippo, il quale in sulle
prime di nulla erasi accorto, appena che v’ebbe posto mente, gli
spiacque assai, ne mosse aperto rimprovero ai compagni, li abbandonò;
e i peggiori se l’ebbero a male e fecero pensiero di ricattarsi.
Intanto il competitore deluso conobbe la canzonatura; e al dolore della
disfatta e all’invidia s’aggiunse lo sdegno dell’ingiuria, e se ne
dolse coi genitori e con lo zio. Pippo solo fu accusato d’aver condotto
i compagni a commettere quella insolenza; e chi n’era veramente
colpevole, avvalorò la calunnia. Così il povero giovine si ritrovò ad
avere molti nemici e tra i condiscepoli e tra i maestri; e, per quanta
prudenza cercasse d’usare, spesso rinnovaronsi dissidj e s’accrebbero
rancori, a cagione dei malevoli che s’erano proposti di perseguitarlo.
Infine vedendo egli che la rassegnazione e la modestia non bastavano
a liberarlo da tante inquietudini, volle provarsi a fare ardimentosa
resistenza; anch’egli sciolse la lingua alle contumelie, e si pose
in aperta guerra, attenendosi al proverbio «chi pecora si fa lupo la
mangia.»[211] Ma Pippo era solo contro tutti, era povero, non aveva
sostegno di persone autorevoli; le sue sole difese erano l’abilità e
l’ardire; e queste ad altro non servivano che ad accrescere l’invidia e
l’odio degli avversari. Celò sempre a sua madre tutte queste disgustose
avventure; ne fece qualche parola con Nicodemo, ma non seppe, o forse
non potè sempre seguire i suoi buoni consigli; e la contesa andò
tant’oltre, che senza aver commesso niuna colpa, ei si trovò alla fine
espulso dall’Accademia qual pericoloso suscitatore di discordie tra i
condiscepoli. Niuno si mosse a prendere le sue difese, perchè sebbene
ei fosse stato sempre rispettoso verso i superiori, tuttavia non s’era
curato mai di corteggiarli; e così credeva anzi, e non s’ingannava, di
mostrare vera stima e rispetto verso di essi. Avrebbe potuto addurre da
sè medesimo sincere ed efficaci discolpe; ma bisognava accusare altri,
palesare ingiustizie, parzialità, calunnie, fare in certo modo il
delatore; e solo a pensarvi ne rifuggiva con generoso dispetto.

Allora ei tornò a riflettere più seriamente ai casi proprj; e già anche
senza l’espulsione dall’Accademia, il bisogno di provvedervi in qualche
modo andava crescendo. Ormai, per continuare lo studio della pittura,
occorrevano spese troppo superiori alla possibilità della madre; ed
egli avrebbe voluto anzi da lungo tempo guadagnar qualche cosa per
assisterla. La risoluzione di mettersi a un mestiero sarebbe stata più
opportuna due o tre anni prima. Ora v’era anche bisogno di maggiore
sforzo per vincere l’amor proprio. Dopo tanto studiare, dopo tanti
elogi, sul punto quasi di prendere la tavolozza e d’aprire studio, come
ridursi a entrare garzone d’uno stipettajo o d’un fabbro? Tuttavia il
povero giovine non sapeva trovare strada di mezzo; e più d’ogni altro
partito sarebbegli dispiaciuto quello già preso da molti suoi compagni,
di mettersi a colorire stampe, a miniare, a copiare bazzecole,[212] a
rimpasticciare i quadri vecchi o a riquadrare le stanze; perchè, non
potendo essere artista, non sapeva nemmeno rassegnarsi affatto a lavori
solamente manuali, col rammarico di tanti anni sprecati nello studio
del disegno.

— E non solo il denaro, — diceva Nicodemo, spinto dalla gravità del
caso a ragionarne di proposito con Pippo che gli aveva confidato tutto,
— ma anche l’istruzione ti manca, ragazzo mio....

— Eh! voi me l’avete detto altre volte; e io ci ho pensato poco. Ma
perchè non me l’hanno detto anche i maestri?

— I maestri avranno pensato solamente a insegnarti il disegno,
supponendo che tu potessi provvedere al resto da te, o che non ti
premesse imparare altro che la pittura, per dir così, macchinalmente.
Non voglio credere che giudichino inutile l’istruzione per chi non
si contenta di saper ritrarre uomini, copiare quadri antichi, e cose
simili.

— Ma spiegatemi un po’ meglio che cos’è questa istruzione, perchè, a
dirvela, ho anche udito dire che i grandi maestri del tempo scorso non
se ne ingerivano poi tanto; eppure divennero celebri....

— Pippo mio, questo non possono averti detto le persone di senno.
Chi ben guarda alle opere di quei maestri, non vi trova soltanto la
perfezione del disegno e il merito del colorito, ma anche la elevatezza
dei concetti nella esposizione degli argomenti, la filosofia, come
dicono, dell’arte, i significati ingegnosi, l’espressione dei volti e
degli atteggiamenti, cose tutte che derivano dal genio educato dalla
sapienza. Di questa sapienza non facevano pompa, perchè erano uomini
semplici e modesti; ma essa traspare dalle opere: contemplale a lungo,
cerca di ritrovarvi la ragione di quei componimenti mirabili, e vedrai
che per dipingere in quel modo, e perchè le figure ti commovano,
ti sveglino sentimenti d’amore, di pietà, di dolore, idee e affetti
generosi, perchè insomma ti parlino all’anima per commoverti o per
istruirti, come farebbe la più bella pagina d’un libro, anzi un libro
intero, un intero poema, non basta aver addestrato l’occhio e la mano
a ben ritrarre il nudo e i panneggiamenti, i colori e le ombre, gli
scorci e i piani, e tutto quello, in sostanza, che si riferisce alla
semplice copia della natura o dei costumi degli uomini. Bisogna dunque
educare anche l’intelletto, acquistare idee e saperle connettere e
abbellire con l’immaginazione, e valersene per comporre sulla tela,
come farebbero il poeta, lo storico, il filosofo nei loro libri. E
queste idee le troverai tu nella scuola del disegno, nella compagnia
dei condiscepoli, negl’insegnamenti sterili del maestro? Bisogna
acquistarle con lo studio dei buoni libri e delle opere dei grandi
artisti; bisogna che il sentimento governi l’occhio e la mano, e dia
la vita alle figure. Forse vedendo che gli antichi rappresentavano
quasi sempre argomenti di religione pagana o di religione cristiana,
crederanno i moderni artisti che avessero poco bisogno di studiare la
storia dei popoli, di coltivare le lettere, di elevarsi al maggior
grado della civiltà dei loro contemporanei; ma io torno a dire:
contemplate bene le loro opere, fossero anche tutte e solamente
d’argomento religioso, e vedrete quanta sapienza, oltre all’abilità,
vi traspare! Almeno avranno studiato sui libri che narrano la storia
alla religione, avranno letto e meditato gli scritti dei Santi Padri, i
poemi che descrivono le più rinomate vicende dei popoli e degli eroi.
Indi gli scolari seguivano i maestri sui lavori e gli ajutavano, e
gli udivano ragionare; avevano di continuo commercio d’idee con chi
già era istruito; e i grandi avvenimenti di quei tempi o delle età
meno remote da loro che da noi, la vita pubblica dei popoli accesi
da vigorose passioni, le molte industrie, i commerci, le guerre, le
parti, il movimento straordinario che li teneva tutti svegli, erano
continua lezione. Ora tu vedi che siamo in tempi di molta inerzia e di
passioni meschine; non già che per dar vita alle arti, e istruzione e
sentimento agli artisti, ci vogliano anco gli sconvolgimenti calamitosi
dei secoli meno civili o meno tranquilli del nostro; le arti e gli
artisti prosperano anzi, come tutte le altre cose, più nella pace
che nella guerra o nella discordia, ma purchè questa pace non sia
codarda, nè sonnolenta, nè contaminata dalla depravazione dei costumi,
e che non vieti al popolo di fare quella parte che gli spetta nelle
pubbliche faccende. Tu vedi ora una dimenticanza quasi universale
d’ogni generoso sentimento; la moltitudine oppressa dalle miserie e
dall’ignoranza, o solo occupata a sostenere le fatiche materiali dei
suoi mestieri; le persone quasi tutte prese da uno smisurato egoismo,
dedite alla cupidigia dell’oro o dei piaceri, diffidenti, con poche
ed abbiette e spesso colpevoli voglie; la gente ricca dominata per
lo più dai capricci della moda, dalle mollezze, dal fasto, o dalla
sordida avarizia; una gioventù snervata, oziosa, frivola, e per la
maggior parte libertina; i generosi sentimenti per lei stanno più nelle
parole che nei fatti; i buoni proponimenti durano poco; per tutto una
mania di fare, di riformare, d’accrescere più i beni materiali che i
morali per la nazione; ma è quasi sempre fuoco di paglia, sopraggiunge
presto la stanchezza, e la fatica e la perseveranza pesano a tutti.
Ove trovi tu da ispirarti? forse nei caffè ripieni di una folla di
giovani spensierati, che se non si depravano conversando insieme, certo
non si migliorano? forse nei teatri divenuti scuola d’ineducazione
e di costumi licenziosi? forse nei pubblici passeggi che non sono
altro che mostre di gente vana che ha messo tutto il suo studio nella
guardaroba? Le feste popolari non hanno altro di bello che il nome;
le solennità religiose non ti presentano altro che fasto profano,
privo di divozione, spesso irriverente! Così la poca vita pubblica
che ci rimane è tutta sterile di sentimento, è una continua mostra
di vanità e d’ipocrisie, nelle quali i varj ordini di cittadini si
scimmieggiano tra di loro, e sembra facciano a gara a chi più si
deprava. Le cose non anderanno sempre così, questo è vero. Vi sono
tuttavia i magnanimi e i virtuosi che tentano di redimere la società
dall’avvilimento in cui è caduta; e verrà tempo che il buon seme
che essi spargono dovrà fruttare; e le persecuzioni, gli esilj, le
carceri, i martirj che incontrano, affretteranno quel tempo.[213] I
popoli non periscono come un solo uomo; invano sperano i malvagi che
le nazioni tollerino sempre la loro vergogna, stieno sempre divise,
dimentichino per sempre il passato. Una nuova èra di risorgimento si
prepara, si avvicina; i tentativi generosi non furono mai inutili; le
virtù popolari si assopiscono ma non si spengono mai. Quando l’ora è
suonata, una scintilla basta a riaccenderle. Ah! è vero, io ho sperato
troppo, ho offerto tutto me stesso alla patria, ho creduto che non
fosse invano, ho patito.... non ti saprei narrare giammai quanto ho
patito! Tu vedi quale è il presente mio stato, e basta! Ho perduto
ogni cosa; ma la speranza no! I miei occhi saranno chiusi dalla morte,
e, nondimeno, anche morendo io spererò sempre, perchè chi desidera
davvero il bene della patria, non lo desidera per sè solo, ma pei
posteri; non per sè solo, ma per quelli si adopera, e sostiene fatiche,
persecuzioni, dolori, dovesse volerci anche qualche secolo prima che
quel bene sia ottenuto. Ma intanto che cosa farai tu mentre si maturano
i destini della tua patria? Se tu vuoi nutrire con elevate idee il tuo
genio d’artista, ti convien cercare i modelli più nelle opere degli
antichi che in quelle dei moderni; ti conviene scegliere nei secoli
quei fatti e quegli uomini che meglio ti rappresentano il buono, il
bello, il grande, il sublime della società umana. Nè alcuno può avere
immaginativa tanto feconda, da figurarsi il passato senza studiarlo
nei monumenti e nei libri; e molto studio ci vuole per bene scegliere,
per ben confrontare, per bene adattare gli argomenti ai bisogni del
tempo, e affinchè insomma la tua opera sia originale, istruttiva, e
contribuisca con le altre diverse manifestazioni del vero ingegno, a
migliorare la società. Questo è il dover tuo, se vuoi essere artista;
il diletto solo nelle opere d’arte non basta, ed è anzi intendimento
secondario; il fine principale è quello di accendere negli animi
l’amore della virtù, la emulazione dei fatti egregi, di parlare a un
popolo il linguaggio degno di lui, degno della virtù e della nazione:
l’artista ignorante è sempre mediocre, è sempre soggetto, se vuol
campare della sua arte, a vendere servilmente l’opera e l’ingegno; è
spesso tentato a prostituire l’arte all’adulazione, al capriccio, al
vizio.... Queste cose dico a te, non per distoglierti dal proseguire i
tuoi studj, ma perchè tu vi rifletta ad animo riposato....

— A me pare che abbiate ragione; e sento che se io dovessi fare il
pittore, vorrei farlo con decoro; e se questo la mia povertà e la mia
ignoranza non mi concedono, meglio è che alla fine abbandoni l’arte....
Ma intanto ho tradito le speranze della mia povera madre! So che
finchè ella vive non le mancherà un tozzo di pane, e io sono preparato
a campare alla meglio col meschino guadagno d’un mestiere, a vivere
piuttosto povero e indipendente, che ad avvilire me o l’arte mia per
qualunque grosso guadagno!... Ma se mi fosse riuscito di procacciare
più comodi a mia madre nella sua vecchiaja; se avessi potuto dirle
una volta: riposatevi, mamma, non lavorate più per bisogno; ecco, io
guadagno tanto che basta a farvi star bene!...

— E perchè non potrai tu riuscirvi? No, tu non ti devi scoraggiare; tu
hai gioventù, ingegno, robustezza, amor del lavoro....

— Ma che cosa farò io dunque, se abbandono l’arte addirittura?...

— Nè questo è necessario. Tu mi confidasti molto tempo fa che la tua
prima vocazione sarebbe stata il disegno del paese....

— Pur troppo!...

— E io ti consigliai allora a studiare la prospettiva, l’ornato e
soprattutto il paese; e vedo che tu l’hai fatto con passione, e che ci
sei riuscito.

— Ora capisco il vostro pensiero....

— Or dunque rivolgi ogni tuo maggiore studio al paese; tu hai meno
impedimenti a divenire buon pittore paesista che buon pittore di
figura. E che tu sia già addestrato nel disegno della figura è bene,
perchè così non sarai costretto a far paesi disabitati o a mettervi
goffe e insulse figure, o a chiedere l’opera d’altri per condurre a
fine i tuoi quadri.

— Avete ragione; il ripiego mi piace assai: e credete che io troverò da
lavorar molto....

— Se tu sarai buon paesista, non ti figurare di dovere arricchire; ma i
buoni paesisti sono rari: meglio essere abile tra i pochi che mediocre
tra i molti. Per lavorare di paese non ci vuole tanto dispendio nè
tanto tempo come per condurre opere di figura; meno guadagno, ma più
frequente e più facile; meno celebrità, ma non può mancarti lode se
tu la meriti; e ricordati, per non dire altri, di Salvator Rosa. Poi
quanta ricreazione d’animo, quanta dolcezza in ritrarre le infinite e
svariate bellezze della natura, i costumi per lo più onesti e semplici
degli abitatori delle campagne lontane dalle città, da questi centri
dei vizj! E le nostre pianure, i monti, i boschi, le marine, l’azzurro
e splendido cielo, i fenomeni giornalieri che si palesano ai nostri
occhi hanno tanta dovizia di stupende bellezze, che non lasciano mai
senza grandi ispirazioni l’animo di chi le contempla e le sente! Nè
sarebbe opera priva d’utilità far conoscere agli uomini, quasi sempre
rinchiusi nelle vaste prigioni cittadine, come sia leggiadra e maestosa
la terra della loro patria; e a quelli d’una provincia mostrare gli
aspetti naturali, i costumi, i monumenti che ne adornano un’altra.
Anche questo è espediente efficace ad affratellare di più tra di loro
gli uomini d’una medesima nazione; far conoscere a tutti, per così
dire, i pregi della propria casa. E soprattutto sarebbe intendimento
degno dell’arte ritrarre quei luoghi che la storia dei padri nostri
fece più celebri, e così rammentare le gesta gloriose dei grandi uomini
e dei popoli, e nutrire od accendere nei giovani qualche scintilla di
patrio amore e di virtù cittadine, or che n’è sì grande il bisogno!...
I quadretti di paese ben condotti e che ritraggano il vero e che
abbiano scopo anche istruttivo, meritano d’esser moltiplicati con
la litografia, e di essi intravviene allora come dei libri fatti per
dilettare e per porgere utili cognizioni. Tu stesso potresti riportare
sulla litografia i tuoi quadri, che non è cosa difficile, e così
guadagnarti un pane onorato con più indipendenza che se tu dovessi
andare in cerca di chi ti volesse allogare opere di gran lena, la qual
cosa pur troppo di rado avviene anco agli artisti più rinomati, ai
maestri abili e provetti.

— Voi m’avete persuaso a seguire il vostro consiglio; e mi sento
crescere l’ardore per la pittura del paese.

— Che io non ti avrei proposta, se non mi fosse sembrato, da quello che
finora hai fatto, che tu dovessi riuscirvi meglio che in quella della
figura.

— Ma ora non mi negate più un altro favore che da tanto tempo io
aspetto da voi.

— E quale?

— Dalle vostre parole conosco che avete avuto educazione superiore
al vostro stato presente. Per quali avventure vi siete voi ridotto
così? Non la curiosità mi avrebbe fatto fare tante altre volte questa
dimanda, ma sì l’affetto che io sento per voi. Un gran dolore vi
affligge continuamente; benchè vi sforziate di nasconderlo, io me ne
sono accorto. Io non presumo di potervi confortare; e rispetterò un
segreto, se....

— Caro giovine, io non ti avrei nascosto le mie avventure, se il loro
racconto avesse potuto istruirti nella pratica della vita. Ma a che
cosa ti gioverà conoscere una di più delle tante disgrazie che toccano
agli uomini? Io non farò altro che affliggerti. Ma tu lo chiedi in nome
dell’affetto.... Ah sì! dopo tanti anni che io aveva chiuso l’animo ad
ogni affetto, sento rinascere quello dell’amicizia per te, e consentirò
a dartene una prova col farti conoscere la cagione del mio lungo e
sconsolato dolore. —


III.

Ecco il racconto che Nicodemo fece a Pippo.

— Mio padre era un onesto negoziante d’un paesetto di provincia, molto
lontano da queste parti. Ebbe me solo di figliuoli maschi, e una
femmina. Non era ricco, ma le sue faccende andavano prosperamente;
e non volle che io attendessi come lui alla mercatura. Mi mandò
agli studi nella città più vicina, e morì prima che io gli avessi
compiuti. A dir vero, io m’era molto affezionato a quegli studi,
e mi sarebbe piaciuta la professione di dottor di legge, bramando
d’andare all’università, d’acquistarmi un bel titolo, e di far poi
la prima figura nel mio paese. La disgrazia di quella morte immatura
mi levò subito di speranze, perchè dovei mettermi invece a bottega,
per sostenere la casa coi guadagni del commercio. Mi riusciva di
adempiere questo dovere, trovando anche il tempo di proseguire alla
meglio da me stesso gli studi incominciati, allorchè in più parti del
regno la popolazione, malcontenta del suo governo, sdegnata contro
alcuni magistrati, si levò in armi con la speranza di migliorare o
di mutare lo stato. Questi moti si propagarono anche nel mio paese;
la gioventù arditamente rovesciò in un subito quell’ordine di cose
che la popolazione giudicava contrario alla prosperità pubblica; e ai
poco esperti, che erano i più, sembrava già di avere ottenuto piena
vittoria. Ma questa cieca e presuntuosa fiducia nelle loro forze e nel
loro senno li ridusse presto a mal partito. Mancavano persone capaci
di ben dirigere i nuovi ordinamenti; uomini scellerati si prevalsero
dei tumulti, delle dubbiezze, delle paure per accrescere lo scompiglio
e specularvi a proprio vantaggio; nacquero molte discordie, trambusti
infiniti, nuove scontentezze; e quel tempo che i buoni cittadini
avrebbero dovuto adoperare a pro della patria, doverono spendere in
combattere gli ostacoli suscitati dalla inesperienza o dalla perfidia.
Intanto il governo spediva milizie a sedare i tumulti, a togliere la
libertà a quanti, vi avessero o no preso parte, pur potevano comparire
sospetti; e molte ingiustizie e crudeltà si commettevano dovunque.
Io fui preso e maltrattato assai, talchè la mia povera madre se ne
ammalò di spavento e d’afflizione, e sarebbe morta se non fosse
stata l’assistenza di quell’angiolo della mia sorella, che seppe
conservare mirabile coraggio in mezzo a tante sciagure. Ma non per
tutto le milizie inviate dal governo poterono superare la rivoluzione
o sostenersi a lungo dove l’avevano in sulle prime repressa; e accadde
ancora che alcuni reggimenti coi loro capi si ponessero dalla parte
dei novatori. Io potei allora liberarmi dalla dura prigionia, e tornare
in seno della famiglia. Poi il governo, che non si credeva abbastanza
forte per sostenere questa lotta contro le popolazioni, chiamò in
soccorso milizie straniere. Queste vennero sollecite; i novatori,
sorpresi in mezzo alle loro discordie, non ancora agguerriti, nè
abbastanza provvisti per opporre maggior resistenza a tanti nemici,
doverono cedere. Allora le persecuzioni e le stragi desolarono infinito
numero di famiglie e molti paesi. Il mio fu dei più percossi. Una
compagnia di soldati stranieri, cupidi di vendetta e pronti agli
eccidj, venne a occuparlo e a saccheggiarlo. Pochi giovani animosi
tentarono di difendere il borgo che era in luogo elevato e alquanto
munito dalla natura e dall’arte, e dove avevano cercato rifugio molti
campagnuoli. Quei pochi fecero prodezze mirabili, e si sostennero
due giorni contro il nemico di forze molto superiori, e che batteva
il borgo anche col cannone. Ma spesso qualche difensore periva, e la
molta gente rinchiusa tra quelle mura anguste incominciava a patir
la fame. In questo tempo mia madre moriva; e la mia sorella, appena
ebbe compiuto gli uffici filiali si unì ad alcune altre valorose
fanciulle che aiutavano gli uomini alla difesa, e combattevano esse
medesime, e si prendevano cura dei feriti. Ma la terra non si poteva
più tenere, quando il travaglio della fame s’aggiunse alla scarsità
dei combattenti: questi avrebbero voluto morire con le armi in mano
piuttosto che cedere, ma il rischio di tanti inermi li consigliò
a chiedere capitolazione, purchè fossero salve le vite dei vecchi,
delle donne e dei fanciulli; i giovani davano volentieri le vite loro
per quelle. Il nemico accettò il patto, e promise la vita anche ai
combattenti, se avessero posato le armi. E le posarono; ma la promessa
del nemico non fu mantenuta! appena i soldati poterono penetrare nel
borgo, ed ebbero disarmato i difensori, incominciarono a fare strage
di quanti poteron cogliere, senza pietà di vecchi, di donne o di
fanciulli, a saccheggiare per tutto, a fare ogni più nefando e crudele
strazio del sesso debole. Io, benchè ferito gravemente in più parti,
potei sottrarre all’obbrobrio e alla carneficina la sorella, che
intanto si prendeva cura delle mie ferite: e ci ponemmo in fuga pei
remoti sentieri, dei quali eravamo pratici ambedue, io perchè fui abile
cacciatore, lei per un’altra ragione che dirò dopo. Con gran disagio
andammo avanti parecchie ore per boschi e per luoghi scoscesi, fino a
che non giunse la notte. Infine la spossatezza e la fame ci obbligò
a stramazzare sul terreno, e a me la perdita del sangue e il dolore
toglievano i sensi. Un poco di riposo ci sarebbe bastato per scendere
in luoghi abitati e trovarvi soccorso; ma quando sul far del giorno
eravamo per ricominciare il doloroso viaggio, ci ritrovammo in mezzo a
un drappello di nemici, che essendo, non so come, rimasti indietro dai
loro compagni, nè avendo potuto imbattersi in una guida, non trovavano
il sentiero per ridursi al borgo dalla parte della montagna. Costoro
supposero subito che io venissi di là, e m’ordinarono con aspri modi di
accompagnarveli. Mostrai che non mi era possibile di far molti passi,
e mi strinsi al seno la sorella; ma essi a forza me la strapparono
dalle braccia, intimandomi di guidarli fino al borgo, e minacciando
d’ucciderla sotto i miei occhi se non avessi obbedito subito, o se
avessi osato d’ingannarli. A quella infelice non sarebbe importato di
morire se la mia negativa non avesse cagionato anche la mia morte;
e me tratteneva pietà di lei dal ricusare di condurre io stesso i
nemici del mio paese.... Tu puoi immaginarti che orribile angoscia
fosse la nostra! Bisognò dunque mettersi in cammino; ma gli snaturati
s’accorsero presto che le forze mancavano a tutti e due; allora ci
posero a barella sui fucili, e alla fine giungemmo in luogo di dove si
scorgeva il borgo, ah! pur troppo visibile più di prima, poichè era
un mucchio di rovine fumanti ancora dell’incendio suscitatovi dopo
il saccheggio. Poichè io ebbi accennato il luogo colla mano, chiesi
che ci lasciassero in libertà. Ah! figliuol mio, perchè hai tu voluto
ch’io contristassi l’animo tuo col racconto d’inaudite scelleratezze?
I mostri mi legarono allora ad un albero, poi s’avventarono contro la
mia povera sorella, ne fecero strazio sotto i miei occhi, gettarono il
cadavere in un burrone profondo, e facendomi segno ai tiri del loro
schioppo, corsero a raggiungere i compagni. Io aveva già perduto i
sensi pel disperato dolore; appena mi accorsi d’essere stato ferito;
nè d’altro mi ricordo che d’essermi trovato, non so quanto tempo
dopo, disteso sopra la paglia in una povera capanna d’un boscajolo.
La famiglia che ivi abitava era tutta intorno a me per assistermi
con quella sollecitudine, con quell’amore che maggiori non si possono
dimostrare per un figliuolo. Io, maravigliato d’essere ancor vivo, per
un sol fine desiderai che la misericordia di quei pietosi mi desse
alcuni altri giorni di vita: il fine di ricercare le spoglie della
sorella, per darle sepoltura, e poi lasciarmi morire di dolore o di
fame sulla sua fossa. A poco a poco le mie ferite che erano gravi ma
non mortali si rimarginarono, e riacquistai le forze per camminare.
Se ti sapessi descrivere il giubbilo dei miei liberatori a vedermi
quasi risanato, mitigherei la mestizia del racconto; ma oh! non è
possibile ritrarre gli affetti che nella rozzezza dei modi e delle
vesti, in mezzo alla povertà e agli stenti, si racchiudono nelle loro
anime! — Un’altra carità tu devi farmi, io dissi al boscajolo, appena
mi sentii capace di girare per quei contorni: prendi la tua scure,
e guidami al luogo ove tu mi trovasti; colà in fondo a un burrone
rinverremo il cadavere di una fanciulla; coi rami d’un albero faremo
una bara, e condurremo al camposanto le ossa della mia sorella....
— Della vostra sorella! rispose il buon uomo abbassando il capo e
sospirando.... Oh! datevi pace.... Quelle ossa ebbero già sepoltura nel
nostro camposanto, lo stesso giorno che portammo voi nella capanna.
Io non v’ho detto mai nulla, perchè non sapeva se avrei fatto bene
a parlarvene; e se.... Dunque, poveretta, era vostra sorella? Oh!
l’abbiamo pianta, sapete? Tutto il popolo, uomini e donne di questi
poveri monti, andò a prenderla in processione dietro il parroco, e
tutti pregammo per l’anima sua innanzi di coprire il corpo colla terra
del nostro camposanto, e di spargervi sopra i fiori dei nostri prati.
— Io abbracciai di nuovo il pietoso; la tenerezza della gratitudine mi
soffocava le parole; poi mi feci condurre al camposanto; vidi il tumulo
recente; vi avevano posta una croce di legno, alla quale trovai appesa
una ghirlanda di fiori e la crocellina d’oro che aveva da tanti anni
posato sul seno della mia sorella.... Quivi m’inginocchiai a piangere;
e vedendo il compagno che io bramava di restar solo, mi lasciò. Nè
mi sarei più staccato da quella sepoltura, e stava lì propriamente
immobile, senza dar segno di vita, aspettando che mi scavassero a’
piedi la fossa per rimanervi in eterno. Io non voleva più vedere gli
uomini nè la terra; e in mezzo al disperato dolore, che contro mia
voglia talvolta si convertiva in odio feroce, rimasto era solamente
un senso di gratitudine pei miei liberatori e pei loro vicini, perchè
avevano con tanto amore onorato di sepoltura e di lagrime le spoglie
della mia diletta. Ma essi forse previdero a che fine mi sarei ridotto,
lasciandomi in preda di tanta afflizione, e usarono ogni più amoroso
conforto per ridurmi a più rassegnati pensieri. E voleva ragione
ch’io gli esaudissi dopo che mi avevano tanto beneficato; nè volli
che anche la mia morte o la presenza d’una persona sempre sconsolata
li rattristasse maggiormente. Cedei ai loro conforti; promisi che
avrei fatto di tutto per darmi pace; e in mezzo alle lagrime e
alle benedizioni di trenta famiglie di poveri campagnuoli che mi
accompagnarono per buon tratto di strada, che vollero ad ogni costo
darmi chi un pane, chi una veste, chi qualche po’ di denaro, lasciai
quei luoghi con maggior dolore che se vi fossi rimasto. Allora andai
ramingando, ma deliberato di non sopravvivere alla mia disgrazia; e
quante volte avrei potuto cedere a questa tentazione! Ma il ricordo
dei miei benefattori mi ratteneva, e benchè ormai ne fossi lontano,
mi sarebbe parso di macchiarmi di nera ingratitudine verso di loro.
Poi riflettei che ci voleva maggior coraggio a vivere con la memoria
delle patite sciagure e con l’afflizione perpetua della morte di
quell’angiolo, e mi ricoverai lontano dal mio paese, in mezzo alla
gente sì, ma stando come se fossi solo, e scegliendo per campare
onestamente un lavoro che mi lasciasse vivere quasi in solitudine e
a modo mio. Ora tu sei il primo al quale, dopo tanti anni, ho aperto
l’animo mio, e svelato il segreto dolore che mi accompagnerà fino al
sepolcro. Quella stanzetta vuota, quel ritratto.... Ora tu sai tutto!
Quando sto lì mi pare d’esser con lei, di vederla, di parlarle; e lì
mi farò condurre quando sarà venuto il termine del mio dolore su questa
terra.... Ho lasciato dianzi una parte del mio racconto, ma ti ho detto
che la mia sorella era un fiore di bontà e di bellezza, che le sue
virtù modeste potevano essere un esemplare.... Oh! quanto affetto pe’
suoi genitori, per me, per gli infelici!... Io aveva incominciato fino
da giovinetto a patire spesso pel dolore dei denti: una buona vecchia
insegnò alla mia sorella a comporre un certo liquore coi sughi di
parecchie erbe e di alcuni insetti, e questo liquore mi faceva buono.
La vecchia morì, e la mia sorella si approfittò dell’imparato specifico
per utile mio e degli altri, che nel paese solevano farsi medicare da
quella povera donna, dandole qualche cosa per ricompensa. La mia Laura,
come tu puoi immaginarti, non aveva bisogno di ricompense.... Quand’io
andava a caccia, ella veniva meco in cerca delle erbe e degli insetti,
e così aveva pratica dei monti e dei boschi vicini, e anch’io potei
imparare a comporre la medicina pei denti. È quella stessa che adopero
qui: e medicando chi a me ricorre, e ricusando qualunque ricompensa, mi
par d’obbedire a un desiderio caritatevole della mia sorella, giacchè
questa è la sola carità che nel mio povero stato mi vien concesso di
fare a somiglianza di quelle tante ch’ella spargeva nel paese, quando
la mia famiglia era in prospero stato. —

Dopo aver posto fine così al suo racconto, Nicodemo riprese tosto la
consueta impassibilità, e tornò a lavorare come se fino allora non
avesse aperto bocca. Pippo voleva dimostrargli, con qualche parola,
la sua riconoscenza e la sua commozione, ma si accorse che Nicodemo
non gli badava, e che forse, il ritornare di nuovo insiem con lui sul
passato, avrebbe troppo accresciuto il suo dolore. Si ritirò dunque
in silenzio, e per alcuni giorni non vi fu verso di far due parole
con l’intagliatore. Chi non avesse, come Pippo, saputo la sua storia,
l’avrebbe, secondo il solito, giudicato mentecatto o stravagante per
folle ostentazione. Egli non era nè fu altro che un uomo il quale
invece d’aspettar la morte accanto alla fossa d’una cara persona,
l’aspettava, senza altra speranza, lavorando tacito e solitario. Un
po’ d’affetto per quel giovine potè fargli dimenticare talvolta i suoi
mesti proponimenti.


IV.

Il consiglio di maestro Nicodemo fu seguito da Pippo, e presto se ne
trovò bene, perchè era lo stesso che secondare le inclinazioni della
propria natura; ed anche le assuefazioni prese nell’infanzia gli
giovarono molto. I suoi dipinti di paese copiati dal vero nei più bei
luoghi dei contorni della città, piacquero ed ebbero smercio, ed egli
incominciò a guadagnare. Allora in poco tempo apprese a disegnare sopra
la pietra, e anche in quest’arte fece subito buon avanzamento.

Sopraggiunse intanto a sua madre un soccorso inaspettato. Quell’onesto
merciajo che aveva preso la bottega, ed era entrato nelle ragioni
del suo marito col darle in cambio un modico assegnamento giornaliero
sua vita durante, morì lasciando ben provvista la propria famiglia, e
facendo a favore della Carolina un legato di seicento scudi, fruttiferi
al cinque per cento per sei anni, indi pagabili in due rate di semestre
in semestre a lei od a’ suoi eredi. Il qual nuovo assegnamento, in
aggiunta a quello del vitalizio, le assicurava una rendita di circa due
lire il giorno, da poter meglio provvedere ai suoi bisogni. Figuratevi!
le parve d’essere arricchita. S’era trovata a dover campare a stento
sè e il figliuolo con pochi soldi, ed ora ecco che il figliuolo
guadagnava, ed essa poteva mettere in serbo qualche avanzo di denaro
per la vecchiaja, poteva preparare al figliuolo un rinfranco.[214] Non
vi so dire quante benedizioni all’onesto merciajo!

Bensì le male lingue, al solito, non rispettarono la memoria di
quell’uomo. Parecchi sapevano che il marito della Carolina era
divenuto avaro e che faceva l’abominevole mercato dell’usura, e perciò
supponevano che avesse dovuto lasciare morendo molti quattrini. Niuno
sapeva in qual modo gli fosse stato rapito lo scrigno. Or dunque,
secondo loro, il merciajo, sebbene nel prendere sopra di sè la bottega
e la tutela degli interessi della Carolina fatto avesse ogni cosa
in regola con l’assistenza d’un procuratore, doveva aver trovato in
qualche ripostiglio della bottega chi sa che ricco bottino! e se l’era
fatto suo senza veruno scrupolo. Se non che, in punto di morte, gli
scrupoli e i rimorsi eran venuti: ed ecco che per andare all’altro
mondo con la coscienza meno macchiata, aveva preso l’espediente di
restituire alla vedova una parte almeno di quello che appartenuto
le sarebbe. Costoro non rammentavano che il merciajo aveva saputo
sempre condurre assai bene le proprie faccende, senza mai mettere in
mezzo il suo prossimo; e che appena ebbe acquistato la bottega del
tabaccajo le rese il credito, ebbe sempre molti avventori, e vi fece
abbondanti guadagni. Ma lasciamoli dire. Fatto sta che il buon merciajo
chiamò legataria la vedova di Giuseppe per sola carità di lei, carità
gentilmente fatta in sembianza di gratitudine, chè questa appunto era
la ragione del legato addotta nel testamento, col quale ei confessava
che lo smercio della bottega di tabaccajo lo aveva molto avvantaggiato.
Ma per disgrazia il più delle volte si stenta a credere che gli
uomini possano nutrire generosi sentimenti ed essere capaci di buone
azioni. Oh fossero meno frequenti le azioni malvagie quanto son vere
le buone! Saranno; ma anche quanto rare in confronto delle altre!...
E chi presume di conoscerle tutte? le più e le più belle rimangono
occulte. La carità vera, la magnanimità vera, la virtù vera non vanno
a dire a tutti: io ho fatto questo, io ho fatto quest’altro. Anche le
malvagità occulte sono infinite, e in assai maggior numero, e spesso
più inique delle palesi.... Sarà; ma che rimangano sempre occulte, come
può avvenire delle opere buone, è per lo meno assai dubbio. Chi è che
possa dire di non aver prima o poi, in un modo o nell’altro, pagato
il fio delle sue colpe, e anche al cospetto degli uomini? Non sempre
in un tribunale, non sempre in una carcere; ma davanti a qualcuno
sempre, o almeno assai di rado davanti alla sola propria coscienza.
E per questo il male, non solo è, ma assai più che veramente non sia,
comparisce maggiore del bene, e accresce la diffidenza nei sospettosi,
l’audacia nei malvagi la perfidia negl’ipocriti, lo scoraggiamento nei
deboli. E noi badando più a querelarci dei colpevoli e a premunirci
contro i male intenzionati che a migliorare noi stessi e prevenire gli
errori di chi ha tanti incentivi, e massime l’ignoranza, il bisogno,
la seduzione, per commetterli, facciamo di tutto perchè sempre più il
vizio prevalga; come coloro che per paura, per egoismo o per pigrizia,
invece di porgere soccorso, fuggono d’accanto alla casa del vicino se
scoprono che in un de’ lati abbia preso fuoco, e poi dolorosamente si
lagnano, e la negligenza del povero vicino maledicono, se il fuoco s’è
appiccato anche alla casa loro. E siccome mi sta a cuore la riputazione
di quel merciajo buon’anima, voglio dir qui a chi già non lo sapesse, e
per non dimenticarmene dopo, che i tre assassini di Giuseppe, sebbene,
com’essi dicevano, avessero acquistato la protezione del bargello e
fossero divenuti ferri di bottega, tuttavia ne fecero tante altre,
che fu giocoforza catturarli insieme con molti dei loro compagni; e
i più andarono in galera, e alcuni in galera a vita; e tra questi il
più scellerato, il quale quasi per vanto narrava come avesse punito
Giuseppe dell’essersi sbrancato dalla sua comitiva, dopo aver fatto
la vincita del lotto coi denari rubati. Ed ecco un’altra osservazione
che poteva stare qui sopra; che, cioè, se non sempre la giustizia può
colpire i malvagi, essi trovano il verso di punirsi tra di loro, e
spesso assai più crudelmente che non farebbe un codice rigoroso. Già si
sa: gl’iniqui sono amici.... ma non profaniamo questa parola.... sono
collegati finchè hanno bisogno di reggersi l’un con l’altro per rubare,
assassinare, opprimere, calunniare, e via discorrendo. Aspettate che
quel bisogno finisca, o che uno soverchi l’altro, ecco la discordia,
gli odj, le contese, le stragi; e tal sia di loro, purchè non ne
patisca mai l’innocente pel reo! Oh! la fratellanza dei buoni, per
fare il bene che ognuno da per sè non potrebbe, è pur bella e pacifica
sempre e potente, e feconda di benefizi sempre maggiori!

Poichè la Carolina si fu trovata ad aver migliore stato, volle che
Pippo facesse per sè solo quell’uso ch’ei credeva dei propri guadagni,
potendosi ormai ripromettere ch’e’ non avrebbe sprecato il denaro in
spese superflue, e molto meno in fomentar vizj, ma sì adoperato per
avvantaggiarsi nell’arte. E infatti il giovane paesista, che aveva
conosciuto per tempo quanto sia biasimevole e calamitoso il contegno
di coloro i quali, incominciando per così dire, la propria educazione
pubblica nei caffè, addivengono sciocchi e spensierati, dissipatori
e libertini, s’era presto allontanato da’ male scelti compagni, e
si governava con senno. Piacevagli il conversare con gli studenti,
coi nuovi artisti, coi giovani d’ingegno, istruiti e bene educati,
e l’avrebbe sovente fatto fosse anche nei caffè in mancanza d’altro
luogo; ma di queste riunioni a modo suo, che sarebbero tanto utili
tra i giovani per istruirsi, per consigliarsi, per migliorarsi a
vicenda, o non ne trovava, o se di quando in quando se ne formavano,
la durata ne era brevissima a cagione di qualche imprudente che vi
suscitava contese e discordie. Nè eravi alcuno tra i primarj maestri
che accogliesse nello studio o in casa i discepoli e i loro amici,
e familiarmente conferendo con essi o dell’arte o degli studj che
all’arte si riferiscono, s’ingegnasse di coltivare il loro intelletto,
di accrescere la loro esperienza, di migliorare i costumi. Taluno
avrebbe ambito vedersi attorno una corona di giovani, ma per esserne
adulato e corteggiato; altri se ne stava sempre nascosto, quasi
temesse che le sue parole, i concetti, i consigli, gli ammaestramenti
potessero formare di quei giovani tanti emuli ansiosi d’oscurare la
sua fama, di pensare e d’operare, per dir così, a spese sue; ovvero
preferiva di farsi piaggiatore dei grandi e dei potenti, e umiliandosi
in faccia a chi superbamente ostenta protezione e promette favori,
s’alienava l’animo di chi avrebbe saputo meglio rispettare l’abilità
e l’ingegno, e ricambiare con verace affetto di riconoscenza la
familiarità generosa la quale se è usata verso animi gentili e
riconoscenti, non sminuisce l’autorità del maestro provetto, ed anzi
gli accresce merito e venerazione. In altri tempi, quando fiorivano
artisti di grandissima vaglia i discepoli non erano così segregati dai
maestri, ma sì e’ formavano tra loro quasi una famiglia, e studiavano
e lavoravano insieme, senza sospetti, senza invidie, senza servilità,
senza orgogli; e quelle erano scuole, non Accademie; di lì uscivano
artisti veri, e opere degne di sopravvivere ai loro autori. Come mai
da un branco di ragazzi appena curati da un maestro mediocre, posti
per più anni davanti a pochi modelli per copiarli svogliatamente,
chiassando tra loro, perdendo il rispetto ai maestri, consumando così
male il fior dell’età, come potrebbero uscirne alcuni bene educati
all’arte e bramosi d’esercitarla con decoro? E se poi quei giovani
che pur sarebbero da natura disposti a operare abilmente, rimangono
abbandonati a sè stessi, troppo raro è che non si guastino, e non
divengano presuntuosi e frivoli, e non si lascino anche traviare dai
cattivi costumi. Quelli poi che avrebbero bisogno di maggiori ajuti
e che non li trovano, vanno perdendo il tempo, tradiscono le speranze
della famiglia e della patria, e sono inetti o sventurati per tutta la
vita.

Pippo, essendo per avventura scampato da questo pericolo, potè a poco a
poco formarsi una buona riputazione; e approfittandosi del soccorso che
gli veniva dall’affetto materno, si propose di fare alcuni viaggetti,
intanto nel suo paese, per iscegliere i luoghi da ritrarre sulla tela
e poi sulla pietra secondo il suggerimento di Nicodemo. Egli aveva già
acquistato pratica e gusto nel bene scegliere le vedute da ricopiare; e
poi le pitturava con diligenza, con grazia, con maestria di colorito,
sicchè trovava smercio ai suoi quadri. Piaceva il concetto di dare
a conoscere in quel modo ai cittadini le naturali bellezze del loro
paese; e così Pippo s’andava formando riputazione d’abile paesista.
Studiava poi continuamente la storia, e si preparava a condurre lavori
d’assai maggiore importanza.

Una delle prime tra le sue gite più lunghe ei la fece in montagna;
ed essendo robusto, avvezzo a vita attiva e frugale, gli riescì
dilettevolissimo aggirarsi a piedi per quei luoghi alpestri, conversare
coi buoni montanari suoi ospiti, e conoscere a fondo i loro costumi
semplici e rozzi, vero modo per poterli meglio ritrarre. Più che
altrove si trattenne Pippo nella casa d’un contadino montanaro, posta
vicino a un grosso torrente, a boscaglie, a prati, a dirupi, a molte
e svariate bellezze di terre colte e selvatiche. Probo, industrioso e
cortese era quel montanaro, con poca famiglia, la moglie o la massaja,
una figliuola di diciotto anni, due ragazzetti, un suo fratello e
un garzone; tutti, a somiglianza del capoccia, onesti e amorevoli.
Accolsero volentieri il giovine pittore, purchè si adattasse, come
dicevano, a dormir male e a mangiare alla meglio. Pippo sapeva bene
adattarvisi, mentre poi in quella casa era molta più nettezza che nelle
altre, ed anco una certa abbondanza, la quale era meritata ricompensa
della industria e della fatica. Avevano essi un bel branco di pecore e
di capre ed alcune mucche, e per quei pascoli naturali delle praterie
montanine ne ricavavano latte squisito, buoni caci, ed eccellenti
ricotte e raveggiuoli. Il dolce frutto del castagno, il formentone,
il grano; in certi solatii[215] la vigna e gli alveari; una boscaglia
di querci per alimento dei majali; il pollame, e al bisogno la caccia
e la pésca, provvedevano alla varietà e alla copia dei cibi. Il clima
salubre, il lavoro, la pace domestica mantenevano l’appetito, la
sanità, la contentezza dell’animo. Il capoccia era uomo di costumi
patriarcali, severo pel mantenimento dell’ordine nel governo della
famiglia e nelle faccende, infaticabile, risoluto, assennato; ma nel
tempo stesso gioviale e affabile quand’era tempo di concedere riposo a
sè ed agli altri, e di godersi a sobria mensa nella casa o sul campo
i piaceri della famiglia. La massaja somigliava il marito, o s’era
a poco a poco assuefatta a imitarlo; la figliuola era savia, bella,
vispa, ingenua come i suoi fratellini, amorosa verso di tutti. Il suo
zio era il vecchio di casa, e qual fratello maggiore del capoccia,
a lui sarebbe appartenuto questo grado; ma poichè, quantunque fosse
buono e robusto lavoratore, non aveva mente svegliata, nè accortezza
pronta quanto il minore, così a lui cedeva l’autorità di comandare
e d’amministrare. Nondimeno gli era sempre serbato il primo posto, e
ognuno lo rispettava siccome anziano della famiglia; e da lui tutti
dipendevano quando il capoccia si assentava da casa per andare ai
mercati od altrove. Giovanni, il garzone, era con essi da molto tempo;
aveva poco più di venti anni: bel giovine, pieno di vigorìa, d’ardore
e d’abilità per le faccende campestri, sottomesso senza bassezza
ai suoi superiori, prudente e virtuoso, ma per lo più malinconico e
taciturno. Talvolta, in mezzo alla sua naturale e franca garbatezza,
alla sua docilità sollecita in obbedire, alla sua schietta riconoscenza
per l’amorevole contegno verso di lui di tutta la famiglia che ormai
lo teneva propriamente per suocera sembrato sdegnoso, o burbero ed
inquieto, quasi a fatica reprimesse qualche impeto di collera; e per
due o tre giorni compariva allora più malinconico del consueto, e se ne
stava più solitario. Della qual cosa accorgendosi gli altri, e credendo
di non avergliene dato cagione, o non sapendola riconoscere, alquanto
in sulle prime se ne affliggevano, ma poi si assuefecero a farne minor
caso, attribuendo quegl’intervalli di malumore alla ricordanza delle
sue passate disgrazie. Giovanni era stato levato in fasce dallo spedale
degl’Innocenti; non conosceva i suoi genitori, e questa era la prima
e la più grande delle sue disgrazie, poichè aveva animo da sentirne
tutta la forza. Passò l’infanzia con una famiglia di campagnuoli della
pianura, ma poco industriosi e alquanto guasti nei costumi, e perciò
dissestati nelle faccende, spesso discordi fra loro, disamorati e
qualche volta inumani. Lo avevano preso dall’ospizio degli orfanelli
più con la speranza di cavarne guadagno che per bisogno che avessero
d’ajuto pel podere. Infatti, dopochè in quella casa fu rilevato, e
appena poteva camminare da sè, lo avvezzarono a chiedere l’elemosina ai
viandanti sulla vicina strada maestra. E invero quella misera creatura,
cresciuta fra lo stento e gli strapazzi, con luridi stracci attorno
al corpo smunto e affamato, svegliava compassione e ribrezzo. Le sue
lagrime nel raccomandarsi non erano finte come quelle d’un accattone
adulto, ma pur troppo le spremeva il timore d’essere percosso,
d’esser tenuto senza mangiare, o d’esser cacciato di casa un’intera
notte invernale dai suoi crudeli padroni, se fosse tornato senza aver
raccolto qualche soldo. Oh quante volte erasi ritrovato a dormire, o
piuttosto a tremare tutta la notte dal freddo, standosi accovacciato
a piè del pagliajo e accanto al casotto del cane da guardia! Sovente
la perversità dei padroni lo ridusse a mal partito; e un giorno fra
gli altri, per fuggire dalle mani di chi lo voleva percuotere, ruzzolò
una scala, e rimase così gravemente ferito nel capo, che lo crederono
morto. Risanò presto benchè gli avessero usato pochissima cura, e
convennegli tornare alla medesima vita. Non molto dopo, correndo dietro
a una carrozza di viaggiatori per chiedere l’elemosina, inciampò,
cadde, rimase con una gamba sotto la ruota, e l’ebbe troncata in
due luoghi. S’avvicinava la notte, e la strada maestra era poco
frequentata. Lo sventurato fanciullo rimase lungo tempo senza soccorso,
finchè accostandosi alla strada il cane da guardia, la sola creatura
che gli fosse affezionata, lo trovò disteso in terra, fuori di sè dal
dolore, e corse al padrone, e tanto fece mugolando e accennandogli di
seguirlo, che lo condusse sul luogo della disgrazia. Nanni allora fu
trasportato in casa, potete immaginarvi con quanto spasimo! Il padrone
non volle che fosse condotto allo spedale, temendo che s’avesse a
scoprire la vera cagione dell’accaduto; fu chiamato il medico con tutta
segretezza, e questi prese a curarlo diligentemente e affettuosamente,
ma non osò riferire ad alcuno ciò ch’ei sapeva degli strapazzi e dei
pericoli a cui il fanciullo era esposto, perchè temeva la vendetta di
quella gente. Peraltro ei seppe col tempo metter riparo a questa sua
biasimevole debolezza, quando in ispecie si accòrse che i padroni di
Nanni, non contenti di farne un accattone e di martoriarlo con tanta
iniquità, lo costringevano ancora a commettere qualche furto sui campi
e nelle case dei vicini. Anzi egli stesso lo sorprese mentre tentava
di rubargli nell’orto; n’ebbe compassione, lo tenne celato due o tre
giorni in casa sua, e poi lo mandò di soppiatto più lontano da certi
suoi parenti. Questi erano amici d’Andrea: seppero ch’egli era per
aver bisogno d’un garzoncello da mandare col branco delle pecore, gli
parlarono di quello sfortunato ragazzo che già aveva intorno ai dieci
o agli undici anni svelandogli francamente ogni cosa, e il buon Andrea
non ebbe alcuna difficoltà a condurlo seco in montagna. Così Nanni fu
salvato in tempo dal pericolo di divenire un malfattore. I suoi primi
padroni, non lo vedendo più comparire, non s’arrischiarono a fame
ricerca, per timore che si scoprissero i loro iniqui portamenti contro
di lui; indi, non so con quali astute menzogne, poterono ingannare sul
conto suo le persone che troppo leggermente avevano così male affidato
quel meschinello, e fecero credere che fosse morto di malattia. Fatto
è che Nanni in casa d’Andrea trovò misericordiosa assistenza, e quasi
affetto di genitori. Il suo corpo, ricoperto di lividi e di sozzure,
fu lavato da capo a piedi; gli diedero vesti rozze ma pulite; e prima
di mandarlo con le pecore o di deputarlo ad altre faccende di maggior
fatica, aspettarono ch’ei si fosse riavuto a quell’aria buona, con
cibi sani e con le amorevolezze che tutti gli usavano. E in poco tempo
sembrò rinato, s’invigorì, mostrossi di buona indole, riconoscente ai
suoi benefattori, corretto delle male abitudini che aveva acquistato, e
delle quali, benchè non fossero colpa sua, dolorosamente si vergognava.
Perciò era ragionevole supporre che la malinconia e talvolta l’atrabile
dipendessero ancora dai ricordi funesti di così travagliata infanzia.
Ma col tempo vi s’aggiunse un’altra cagione segreta, e assai più forte
di quella. Nello stesso modo che Andrea e la sua moglie lo avevano
accolto, e lo tenevano come figliuolo, così la fanciulla Maddalena gli
s’era affezionata con ingenuo e tenerissimo amor fraterno; e Nanni le
corrispondeva, pensate voi con quanto ardore! La dolcezza dei modi,
la semplicità, il candore, l’abbandono della vispa Maddalena a quel
sentimento, svegliò sulle prime la riconoscenza del garzoncello; ma
col crescere degli anni ei s’accòrse che questa si convertiva in amore
di natura diversa dall’amor fraterno. La considerazione dello stato
suo, del posto che aveva in quella casa e del bene che gli facevano
continuamente, lo consigliava a tenersi guardingo, a reprimere una
passione prepotente; e taceva e soffriva, ed era pronto a fuggire le
occasioni che avessero a mettere a pericolosa prova la sua prudenza.
E bene spesso gli era sembrato, o l’immaginazione glielo faceva
credere, che la Maddalena sarebbe stata proclive a corrispondergli,
con ingenuo abbandono, per naturale e innocente propensione a volergli
bene più che a fratello; la qual cosa era per lui continuo alimento al
soffocato amore, e gli suscitava nell’animo cotanta e sì fiera guerra
di sentimenti, che talora, non potendo reggere a quel martirio, si
proponeva di allontanarsi per sempre, piuttostochè trovarsi finalmente
nel rischio di tradire la fiducia che i genitori della Maddalena
riponevano nella sua saviezza. Nè crediate già che e’ non avessero
preveduto i pericoli a cui poteva essere esposta la loro figliuola
quando Nanni non fosse stato più ragazzo; ma veramente pareva loro di
potersi fidare non solo nella onestà della fanciulla, bensì ancora
in quella di Nanni; e poi sembrava che la loro intenzione non fosse
per essere contraria agli effetti di un amore virtuoso e scambievole,
quando Nanni avesse continuato a meritare la stima di tutti; mentre
poi difficilmente avrebbero potuto rinvenire tra i vicini un giovine
più abile di lui per tutte le faccende campestri e pel governo d’una
famiglia. Nondimeno vegliavano attentamente sul contegno dei due
giovani, ed aspettavano il tempo più opportuno a prendere qualche
risoluzione. Per essi che in questa cosa procedevano con animo
riposato, il tempo non passava nè troppo adagio nè troppo presto; ma
a Nanni, inconsapevole dei loro disegni, sempre immerso in dolorose
dubbiezze, ora i giorni parevan secoli, ora gli anni parevan giorni, e
sempre rimaneva piuttosto oppresso dal timore che alquanto confortato
dalla speranza. Oh! pur troppo, ricordandosi quanto fosse infelice per
non avere un nome, una famiglia proprio sua, ei s’immaginava che per
lui non vi potesse mai essere alcun bene sopra la terra, nemmeno quello
della speranza, che è pure la sola consolazione degli sventurati!

L’arrivo di Pippo, una novità così rara per quei luoghi, pose
propriamente in festa la famiglia; tanto più che Pippo era allegro e
faceto, sapeva affiatarsi coi buoni montanari, e dava loro nel genio
mostrandosi così affezionato ai costumi semplici, così riconoscente
alle garbatezze che si studiavano di fargli, così innamorato di quei
luoghi dei quali non si rifiniva di far gli elogi. I ragazzi, la
fanciulla, il garzone non avevano mai visto pitturare, nè si sapevano
persuadere come si potesse, a forza di colori e di pennelli, ritrarre
in così piccolo spazio un gran tratto di paese, gli alberi, gli
animali, le cascate del torrente, il cielo or sereno ed or burrascoso,
e tutto in guisa da riconoscere a puntino qualunque luogo lor fosse
più noto, cosicchè a fissarvi gli sguardi sembrasse vero e vasto
quanto il vero, e animato dalla viva natura. Per essi pareva piuttosto
prodigio che arte umana, e se fossero stati sciocchi superstiziosi,
avrebbero creduto di vedere in Pippo nientemeno che un negromante. Ei
fece, si può dire, in un batter d’occhio la veduta della casa che era
pittoresca, e vi pose con bizzarri componimenti di figure tutta la
famiglia ritratta dal vero, sicchè ognuno vi riconosceva gli altri e sè
stesso, e lietamente se ne compiacevano. Pippo andava tutto il giorno
ora qua ora là a ricavar vedute, a fare studj su per quei greppi,
e la sera tornava a cena coi montanari, e li teneva sempre in gran
festa. Nanni, a dir vero, si rallegrava meno facilmente degli altri,
e non vedeva di buon occhio le cortesie di Pippo alla Maddalena, e lo
pungevano le confidenze ch’ei si prendeva con lei con quella disinvolta
e talora indiscreta franchezza di un giovine assuefatto a vedere i
licenziosi costumi della capitale. Pippo s’accorse del mal’umore di
Nanni, ne immaginò subito la cagione, e si propose, con biasimevole
leggerezza, di divertirsi alle spalle del rozzo e timido amante. Venne
la domenica, e dopo cena il vecchio di casa prese a suonare la sua
zampogna. Era una serata bellissima; andarono tutti sull’aja: dopo
alcun tempo, al suono della zampogna che l’eco e il venticello avea
recato in lontananza, vennero alcuni altri montanari, uomini e donne.
Solevano appunto le fanciulle radunarsi a veglia le domeniche in casa
della Maddalena, della più leggiadra fra le montanine di quei contorni,
e quella sera più volenterose vi accorsero per la curiosità di vedere
il giovine e allegro pittore, del quale avevano già avuto contezza.
Pippo all’arrivo di questa comitiva era acceso di giubbilo, e non gli
parve vero che incominciasse la danza campestre. Ecco un altro quadro
importante per lui; ma a dirla schietta ei pensava allora più al
proprio diletto che all’arte. Si fece capo della festa; diede principio
alla danza con la Maddalena; e in breve si dileguò dall’animo dei
sopraggiunti quella specie di soggezione che sì negli uomini che nelle
donne veniva dalla presenza del cittadino. Tutti gli s’affratellarono,
e onestamente sollazzandosi fecero la più lieta veglia che mai fosse
stata nel paese. Ma Nanni s’era presto e di nascosto allontanato dalla
compagnia: Pippo se ne accorse; gli venne voglia di fare una qualche
burla allo scontroso, e di porgere così nuova materia di divertimento
alla brigata. Andò a cercarlo senza che altri se ne accorgesse, e
lo trovò che pareva assorto in un sonno profondo. Il povero Nanni
non aveva certamente volontà di dormire, ma s’era rintanato in quel
modo, perchè sentiva di non poter godere come gli altri, e non sapeva
fingere: dunque era meglio andar via. Nondimeno anche da lontano
sentiva lo schiamazzo dei gaudenti, e quella gioja tanto contraria
allo stato del suo animo gli faceva male. Allora appoggiando i gomiti
alle ginocchia si chiuse gli orecchi, e trovandosi così solo, seduto,
oppresso da un pensiero fastidioso, scontento di sè medesimo, era
piuttosto fuori di sè pel dolore che addormentato. Comunque siasi,
Pippo credè che dormisse, e non sapendo così all’improvviso quale
altra burla immaginare, corse a prendere alcuni dei suoi pennelli,
e gli dipinse sul volto come meglio potè una maschera grottesca e
ridicola; poi ritornando alla festa incominciò a ricercare di Nanni
come se solamente allora si fosse accorto della sua assenza, e
lagnossene, e mandò a cercarlo. Subito alcuni entrarono in casa; allo
strepito che fecero nel chiamarlo, Nanni si riscosse; lo videro, e lo
condussero quasi a forza tra la comitiva. Finchè furono a poca luce
non s’accorsero del ceffo che aveva; ma appena ebbero raggiunto gli
altri, che quasi tutti s’erano ridotti nella cucina, ognuno sbigottì;
poi conoscendo la burla si diedero a ridergli in faccia; e le beffe
crescevano a vederlo immobile in mezzo alla stanza stupefatto di
così strana accoglienza, e in forse del chiederne la ragione. Ma la
Maddalena conobbe che la celia non poteva piacergli, e accostandosegli
con una compagna che le teneva il braccio sul collo, gli sussurrò
all’orecchio che andasse via, e si lavasse il viso perchè lo aveva
conciato. Così fece il povero giovine, e lavandosi vide l’acqua tinta,
e nel medesimo tempo da uno dei ragazzi gli fu narrato come la burla
stata fosse una scappata del bizzarro pittore. Nanni aggrottò le ciglia
traendo un sospiro sdegnoso, e non si fece più vedere a nessuno; andò
nella stalla, com’era solito tutte le sere, per custodire il bestiame,
e rimase colà finchè non fu posto fine alla veglia. Pippo a null’altro
pensando che alla riuscita del suo scherzo, e al rimanente della
veglia che avrebbe voluto potesse continuare fino a giorno come s’usa
nelle città, non si curò più del giovine burlato, nè s’accorse che la
Maddalena ne fosse rimasta afflitta. Infine il vecchio ripose la sua
zampogna, i vicini tornarono alle loro case, e la famiglia d’Andrea
si diede in braccio al riposo. Il pittore si pose a far fagotto perchè
aveva destinato di partire il lunedì per un borgo vicino, dove voleva
trattenersi tre o quattro giorni, e poi s’addormentò anch’egli senza
indugio, da quanto era stanco. Gli ultimi a prender sonno furono la
Maddalena, turbata ancora dal rincrescimento del brutto tiro che era
stato fatto a Nanni, e Nanni medesimo che non si poteva così presto
dimenticare le beffe avute per cagione della celia scortese, e che
soprattutto ne era stato punto perchè si trovava in faccia alla
Maddalena e ad altre fanciulle.

Pippo col sorgere del sole si pose il lunedì dopo in via per continuare
il suo dilettevole pellegrinaggio, senza altro pensiero che quello
di divertirsi e di studiare le frequenti bellezze naturali che gli
s’offerivano allo sguardo.

Ritornò, come aveva promesso, sul finire della settimana alla casa
d’Andrea, ma prima di giungervi fu colto da un temporale improvviso
e fierissimo. Ebbe un dicatti[216] di ricoverarsi in una capanna da
pastori, e dopo che si fu dissipata la burrasca riprese la strada.
Giunse al torrente, e vide che il guado era assai malagevole per
l’impetuosa piena delle acque, che trascinavano seco grosse pietre
e tronchi d’alberi. Andò a cercare un varco meno pericoloso; ma
essendo poco pratico dei luoghi e troppo ardito, si lanciò dov’era
maggior rischio, non potè resistere alla forza della corrente che
lo fece cadere, e scendendo di masso in masso, in procinto sempre di
sfracellarsi, fu spinto sull’orlo di un pelago angusto ma profondo,
ove le acque riversandosi e gorgogliando con grande impeto lo avrebbero
fatto prestamente annegare, se Nanni, che lo aveva scòrto da un’altura
vicina, non fosse accorso in tempo a soccorrerlo. L’animoso garzone
si lanciò sopra un masso che sporgeva sul pelago, giunse ad afferrare
con le robuste sue braccia il meschino che già aveva perduto i sensi,
lo tirò fuori, e a gran fatica e con molto suo rischio lo condusse in
salvo sopra la sponda, e poi di peso a casa. Le donne sbigottite lo
credevano morto, ma tuttavia non messero tempo in mezzo per assisterlo,
e con grande consolazione di tutti incominciò presto a dar segni
di vita. La paura, i lividi delle percosse nelle pietre e il guasto
della sua cassetta da dipingere e del fagotto di panni che aveva ad
armacollo, furono i maggiori mali di questa avventura. Quando seppe chi
era stato il suo generoso liberatore, volle abbracciarlo con tenera
riconoscenza; e nella pienezza dell’affetto, ricordando la persona
più cara che avesse sopra la terra, esclamava: — Tu ci hai fatto il
maggiore dei benefizi; tu hai reso il figliuolo a una madre che è già
stata tanto infelice, che non ha altra consolazione che l’amor mio!
Io ti sono debitore di due vite; io t’amerò sempre più che fratello!
— e Nanni si commoveva a quei trasporti di riconoscenza e d’affetto
filiale. Ma, povero Nanni! quali tormentosi pensieri lo assalivano nel
tempo stesso! Egli che non aveva conosciuto nè genitori nè parenti, che
non aveva potuto dir mai mia madre a colei che veramente gli aveva dato
la vita, che ignorava la dolcezza dei più cari affetti, che si vedeva
condannato a non poterne godere giammai!

Quando Pippo fu migliorato di un forte raffreddore, conseguenza del
bagno involontario nel torrente, si sollecitò a ritornare a casa sua,
che già aveva indugiato troppo, e temeva con ragione che sua madre
stesse in pensiero.

La dipartenza del giovine pittore da quella buona famiglia di montanari
fu piena di tenerezza; ma Nanni non si faceva vedere; era sempre nel
campo alle sue faccende, Pippo andò a cercarlo, e lo trovò malinconico
più del solito; gli dimostrò nuovamente la sua riconoscenza, e dopo
averlo abbracciato e baciato più volte, nello stringergli la mano per
separarsi gli fece scorrere sulla palma alcune monete. Nanni allora
infiammandosi a un tratto nel volto, ritraendosi con fremito furibondo,
le lasciò cadere per terra, e si dileguò tra le siepi e i cespugli.
Pippo rimase estatico e afflitto; conobbe d’aver offeso quell’anima
sdegnosa, si ricordò e si pentì della burla fattagli in occasion
della veglia, e corse tosto a pregare Andrea che facesse di tutto per
riconciliarlo con lui, che s’interponesse affinchè si separassero da
amici. Andrea che ben conosceva l’indole di Nanni, quand’ebbe saputo
del denaro, disse al pittore che giudicava troppo difficile mansuefarlo
così su due piedi; che bisognava aspettare ch’ei si sfogasse da
sè medesimo, che si riprometteva di ricondurlo, ma col tempo, a
sentimenti d’amicizia verso di lui. Che intanto partisse, e avrebbegli
mandato scritto qualche cosa. Pippo dunque si pose in viaggio con
molta afflizione per quello che di spiacevole eragli avvenuto in
simile incontro, e con animo di tornar presto ad abbracciare il suo
benefattore placato.


V.

Il paesista rivide la madre che lo aspettava con impazienza, che pianse
di vera consolazione nel riabbracciarlo; narrò le sue avventure a lei,
alla Clarice, a Nicodemo; fece infiniti elogi della famiglia d’Andrea,
e parlò di Nanni come avrebbe fatto del più caro amico, occultando
peraltro alla madre il grave pericolo da cui quel giovine e generoso
montanaro lo aveva salvato. Ma questi prudenti riguardi sogliono
essere poco validi, a fronte delle trepidazioni dell’amor materno. Il
narratore immaginoso non seppe poi rattenersi dal descrivere anco la
burrasca, il torrente gonfio, i rischi del varco; e benchè parlasse di
sè medesimo in barzelletta, pure la gratitudine verso Nanni rinforzò il
colorito della pittura. Una madre affettuosa pensa sempre al peggio; e
in questo caso la Carolina aveva ragione! Si figurava quello e più di
quello che stato fosse, e la sua tenerezza riconoscente per Nanni non
la cedeva a quella del suo figliuolo. Immaginatevi poi quanto maggiore
sarebbe stata in lei la commozione, se Pippo, che non sapeva nulla
della origine di Nanni, avesse potuto dirle ch’egli aveva la grande
sventura di non conoscere i genitori! Oh! la Carolina ne sarebbe stata
crudelmente afflitta, poichè in segreto piangeva sempre la perdita del
primogenito. La poveretta, dopo la morte del marito e il miglioramento
del suo stato, aveva fatto, di nascosto al figliuolo, molte ricerche,
ma erano state tutte inutili; e infine, perdendo qualunque speranza,
erasi rassegnata a contentarsi del suo Pippo, a nascondere per sempre
e a tutti quel doloroso segreto, a sopportare il perpetuo e acuto
rammarico d’una colpa non sua. E se il figliuolo recuperato avesse
potuto immaginare quanta afflizione fosse costata la sua assenza a una
madre che, ritrovandosi nuovamente sola, era angustiata ogni istante
dalla paura d’averlo a perdere un’altra volta, certo ei non si sarebbe
dipartito mai dal suo fianco. Ella dunque ne benedisse mille volte il
ritorno, benedisse mille volte quel giovine ignoto che a lei pareva, e
non s’ingannava, essere stato il salvatore dell’unico figliuolo che le
era rimasto; e tanto andava farneticando con la immaginazione amorosa,
che le pareva di vederlo, di conoscerlo da lungo tempo, di ritrovare
nel suo sembiante e nel suo affetto qualche conforto all’immenso dolore
d’un bene perduto senza speranza di ricuperarlo.

Intanto Pippo aspettava con impazienza la lettera d’Andrea, la quale
indugiò molti giorni, e finalmente gli giunse; ma quella lettera
conteneva una dolorosa notizia: Nanni poco dopo la sua partenza s’era
ammalato d’una febbre biliosa; non aveva fatto conoscere a nessuno il
male che si sentiva, lasciandolo inacerbire; e finalmente, non avendo
più potuto celarlo, erasi ridotto a curarsi tanto tardi, che il medico
disperava della sua salvezza. «Del resto,» diceva Andrea in quella
lettera, «state tranquillo sul conto della riconciliazione, perchè
questo buono e infelice figliuolo dimenticò presto ogni cosa, e vi
mandava a salutare con sincera affezione. Potete figurarvi se siamo
tutti addolorati di questa sua malattia e del timore di perderlo,
tanto più che se s’avesse a cercare una cagione, dubiterei che fosse
questa. Al povero Nanni fu raccontato, senza mia saputa, che un giovine
benestante di questi luoghi m’aveva chiesto in moglie la Maddalena.
Io che non guardo ai denari nella scelta di un marito per la mia
figliuola, e che da molto tempo m’era accorto di un segreto affetto
tra questi ragazzi, non mi sarei opposto ai loro desiderj quando me
ne fossi assicurato; ma Nanni non conosceva ancora le mie intenzioni,
nè sapeva che risposta avessi dato al benestante. Io m’immagino dunque
ch’ei si sia figurato tutto il contrario di quello che poteva essere,
e che se ne sia tanto accorato da ammalarsi. Ho fatto il possibile
per confortarlo; gli direi addirittura l’animo mio anche su questa
faccenda; e la Maddalena che lo assiste continuamente con quell’amore
che vi potete pensare, lo sa. Ma finora tutto sembra inutile. Il povero
giovine non ascolta, non parla, non risponde, non darebbe segno di
vita se non fosse il polso che gli batte a febbre continuamente. Noi
preghiamo Iddio che ce lo conservi, non solo per quel buon giovine che
è, ma perchè temiamo che se si avesse questa disgrazia di perder lui,
la nostra figliuola non se ne potrebbe dar pace; e poverina!... Ma non
mi dà il cuore di dirvi altro; e mi dispiace che questa lettera, che
per me vi è stata scritta dal Parroco, v’abbia a dare dell’afflizione.
Rimettiamoci nelle mani del Signore, e speriamo.»

Pippo a questa notizia si afflisse, come se si fosse trattato del suo
migliore amico, d’un suo fratello; se ne spassionò con la madre, e
si propose di andar subito da sè medesimo a vedere in che stato fosse
l’infermo. Alla Carolina sarebbe venuto subito lo stesso desiderio, se
la lontananza e l’incertezza di trovare alloggio, chè non conveniva
allora andare in casa d’Andrea, non avessero fatto ostacolo. Ma a
Pippo non pareva vero che fosse venuta questa volontà a sua madre,
soprattutto pensando quanto ella fosse esperta nel custodire i malati:
e la stagione era buona; e il viaggio benchè lunghetto per una donna,
poteva esser fatto con tutto il comodo in carrozza fino a un certo
punto, e di lì in treggia[217] fino alla casa. Quanto all’alloggio,
ei disse che il Priore avrebbe avuto posto per lei e per lui, e che
ragionando di sua madre con quella buona gente, gli avevano, come
suole, fatto più volte l’invito di condurla lassù a respirare quella
buon’aria, offrendosi il Parroco d’ospitarla nella canonica, perchè vi
stesse con più agio che nella casa d’un contadino. Dunque ne scrisse
subito al Priore, chiedendo le nuove di Nanni, e n’ebbe immediata
risposta che l’infermo non peggiorava nè migliorava, e che sarebbero
stati graditi da tutti, se davvero si fossero voluti incomodare
ad andarvi; e tanto più in una occasione, nella quale li conduceva
piuttosto un sentimento di carità che il desiderio di ricrearsi in
campagna. E su questo particolare, aggiungeva il Parroco: «Se potessimo
avere la consolazione che Nanni scampasse da così grave pericolo, io
credo che al suo miglioramento conferirebbe molto il vedersi attorno
altre buone persone venute a visitarlo per amor suo, o il sapere almeno
che si prendono tanto a cuore la sua salvezza; perchè, a parer mio, una
delle grandi passioni, essendo egli molto sensibile, dev’essere quella
di non sapere a qual famiglia propriamente appartenga. Povero Nanni!
Anch’egli è uno di quei tanti.... Basta, m’avete capito. Una famiglia
che lo ama davvero c’è; e si può dire che in certo modo sia divenuta
sua; e diverrà sua addirittura s’ei sopravvive. Ma intanto la premura
degli amici gli farebbe coraggio, gli accrescerebbe il sentimento della
propria stima, e sarebbe un preparativo a quella maggior consolazione,
che gli è riserbata dalla bontà e dalla giustizia d’Andrea, dall’amore
di quella cara fanciulla della Maddalena. Io temerei che se Nanni
s’è ridotto in questo lagrimevole stato per la passione di credere
impossibile il suo matrimonio con la Maddalena, dovesse poi ricevere
una scossa troppo forte e dannosa per l’estremo della contentezza,
quando venisse a sapere che i suoi occulti desiderj potrebbero essere
appieno esauditi. Mostriamogli adunque coi fatti che l’oscurità della
sua nascita, invece d’umiliarlo ai nostri occhi, come farebbe a quelli
di gente pregiudicata e disumana, ce lo rende anzi più caro, e accresce
d’assai quella stima che le sue buone qualità gli hanno fatto meritare.
Oh! il mondo vano e spensierato è per lo più ingiusto e crudele con
questi infelici! Ma se ognuno sapesse quanto sentano la loro disgrazia!
Io che ho esperienza di molte cose, posso attestarlo. Anche quelli, e
sono comparabilmente i più, i quali hanno un’infanzia tribolatissima,
e sono tenuti quali schiavi, e sono strapazzati e vilipesi a segno
di perdere quasi ogni sentimento della propria dignità d’uomo e della
propria sventura, anche quelli, in certi supremi istanti della misera
vita che trascinano su questa terra, bevono sino al fondo del calice
l’amarezza di così grande sventura! Se poi gli animi più vigorosi
possono redimersi dall’abbrutimento a cui si trovano esposti che è
cosa ben rara ma almeno toccata in sorte al nostro Nanni, e formarsi
uno stato onorevole e godere i pochi beni che a tutti gli uomini son
comuni, quella prima e irrimediabile disgrazia, crediatelo, amareggia
per sempre tutte le loro contentezze. Ma, pur troppo, i più sprecano
in male opere la vigoria dell’animo, quasi fossero fatalmente costretti
dalla colpa o dalla sventura dei genitori che li rinnegarono a mettersi
in guerra con tutti, a ricattarsi ferocemente con la società che gli
accoglie male o che li respinge; e per essi con quel rancore antico,
segreto, perpetuo, il ravvedimento è più difficile, i delitti paiono
inevitabili. Ah! io mi scordava che scrivo una lettera e non un
sermone. Compatitemi se la mestizia di questi pensieri m’ha levato di
strada. Fate prudente uso delle notizie che vi ho dato, come ad amico
della famiglia d’Andrea, di Nanni e mio. E, con questa qualità o senza,
venite pure da me con vostra madre, che sarete ambedue padroni della
mia casa, e accolti con tutto l’amore ec.»

Se vi fosse stato bisogno di sprone a sollecitare la partenza di
Pippo, questa lettera sarebbe giunta opportuna, e accresceva in lui
l’affetto per Nanni disvelandogli sul conto suo altre circostanze alle
quali nemmeno per sogno aveva pensato. Quindi non indugiò a mostrare
la lettera a sua madre, considerando che anch’ella vi avrebbe trovato
maggiore incentivo ad accompagnarlo. Ma e’ non sapeva che a lei quelle
notizie avrebbero fatto ben maggiore impressione! che anch’ella aveva
un segreto! E poco mancò che nel sentirla leggere, la meschina non
si tradisse. Pippo teneva gli occhi sul foglio, e non potè scorgere
il volto della madre ora impallidire ora accendersi di rossore, e le
lagrime scorrere in abbondanza lungo le gote, e un fremito convulso
assalirle tutta la persona. Dopo la lettura s’allontanò da lui con
un pretesto, dicendogli a fatica: — Sì, andiamo subito, — e si ritirò
a dare sfogo in segreto a quei sentimenti che la facevano spasimare.
— Colpa o sventura! — pensava ella. — Ah! io non ho colpa, io non ho
rinnegato il mio figliuolo. Ma sì! forse mi lasciai troppo intimorire
dalla collera di quell’uomo.... E poi non avrò fatto bastanti
ricerche.... E nell’amore per Pippo avrò dimenticato qualche volta
quell’altro.... Mio Dio! Non potrò rimediare mai a questa colpa!...
Avrò sempre questi rimorsi atroci!... E doverli nascondere!... Che vita
è la mia? Io sarò sempre infelice! — Così alla povera Carolina, che
era martoriata continuamente da quel gran dolore, più che mai crebbe
l’affanno dopo aver udito la digressione della lettera del Parroco.
Ma nello stesso tempo era divenuta più impaziente di Pippo per fare
quella visita; e si figurava che amando e assistendo Nanni dovesse
cavarne qualche po’ di consolazione, come se in parte espiasse una
colpa, benchè non sua; e si raccomandava a Dio che il giovine guarisse,
e immaginando gli anni che aver poteva, le tornavano tutte le antiche
speranze, e s’affidava in una combinazione fortunata. Poi rifletteva
alla rarità di simili combinazioni, si ricordava che gli amministratori
dell’ospizio non sapendo più che cosa rispondere alle sue premurose
indagini, le avevano fatto credere che quella creatura fosse morta, e
vedeva dileguarsi ogni speranza; e in questa vicenda di dolori certi e
di speranze fragilissime, il suo tormento era sempre maggiore.

Pippo aveva già trovato la vettura, e dopo pochi e lesti preparativi,
condusse a buon viaggio sua madre fino alla casa del Priore che gli
aspettava, e che andò a incontrarli con lieto volto. — Buone nuove, —
esclamò subito, salutando affettuosamente la Carolina e il pittore, —
buone nuove! Nanni sta un poco meglio, e si spera che guarirà presto:
fin da ieri sera il medico annunziò che gli pareva ormai fuori di
pericolo. Andrea vi aspetta; Nanni ha udito dire della vostra visita, e
se ne è rallegrato; ora gli possiamo parlare; capisce tutto, risponde a
tono, e sembra tranquillo. Voi siete arrivati in buon punto. —

Così entrarono in casa del venerando loro ospite tutti consolati non
solo per la buona notizia, ma ancora per l’accoglienza sinceramente
amorevole che venne lor fatta. La famiglia d’Andrea e Nanni furono
avvisati e lietissimi del loro arrivo; e dopo che la Carolina si fu
alquanto ristorata dal viaggio, andò col Priore e con Pippo alla casa
d’Andrea. Nanni s’era svegliato di poco da un sonno placido e più lungo
del consueto; la massaia e la Maddalena vegliavano al suo capezzale. Il
capoccia si mosse a incontrare i sopraggiunti, si rallegrò della loro
venuta, e andò in camera insieme col Parroco, per farlo sapere alle
donne e al malato. Nel mentre che queste, a un cenno d’Andrea uscirono
per salutare la Carolina e il figliuolo, il Parroco s’accostò a Nanni,
e gli disse: — Il pittore ha mantenuto la sua promessa, e ha condotto
seco un’altra persona.

— Ah! forse sua madre — soggiunse subito Nanni, con quel suo solito
sorriso a fior di labbra, misto di malinconia e di dolcezza.

— Appunto; e gradirebbero di vederti, di rallegrarsi teco del tuo
miglioramento....

— È una carità; ma io....

— Se tu li gradisci....

— Eccòme!

— Tu non devi peraltro metterti in soggezione. Ormai sono amici di
casa; hanno approfittato del bel tempo e della buona stagione per
prendere una boccata d’aria; e poi la madre di quel giovine ti vuole un
gran bene senza conoscerti, perchè sa che tu salvasti la vita....

— Questo poi.... Che cosa feci?...

— Il tuo dovere; sta bene. Ed essa non viene per ringraziarti, ma
per fare la tua conoscenza, perchè tu sei un giovine savio, amico del
suo figliuolo, stimato e amato con ragione da tutti noi. È una cosa
naturale, e se non t’incomoda....

— No davvero!

— Dunque non ti mettere in orgasmo; figurati che sia una conoscenza
vecchia; sta’ tranquillo, senza moverti senza scompannarti....[218] Ora
li fo passare, eh?

— Sì signore. — E il suo volto annunziava che l’animo era bastantemente
quieto.

Adunque il parroco invitò gli altri nella camera. Pippo s’accostò
il primo al malato, e si dettero un bacio. La Maddalena conduceva
per mano la Carolina dall’altra parte del letto; Nanni fece segno di
volersi alzare; ma la Carolina lo pregò con soave garbatezza a non
si muovere; e i loro sguardi s’incontrarono, e per breve tempo si
fissarono reciprocamente, e fu un silenzio profondo in ciascuno dei
circostanti, senza che se ne sapessero rendere ragione. A Nanni era
comparso all’improvviso un poco di rossore sulle guance impallidite; e
la Carolina, sorpresa da un’interna soavissima commozione, ebbe bisogno
di mettersi a sedere. Il Parroco fu il primo a rompere quel silenzio;
parlando con vivace familiarità ora alla Carolina ora a Pippo, del buon
viaggio che aveano avuto, della campagna, d’altre cose indifferenti,
per dare agio a Nanni di riaversi dalla prima commozione d’una visita,
della quale sebbene fosse stato prevenuto, pur doveva risentire qualche
effetto come di cosa insolita e per parte di una persona sconosciuta.
Ma questa persona assai più che Nanni avrebbe avuto bisogno di sfogare
con libertà la commozione dell’animo. La Carolina, fosse immaginazione
o acutezza di sguardo materno, aveva riconosciuto nei lineamenti di
Nanni qualche leggiero tratto di somiglianza con quelli di suo marito
e di Pippo; si sentiva un impulso prepotente a ricoprire di baci e di
lacrime quel volto, ad esclamare fuor di sè dalla gioia; chi sa che
io non abbia ritrovato un figliuolo? Due o tre volte si mosse.... ma
subito la riflessione, considerando lo stato del giovine e il pericolo
d’un inganno, la trattenne. Si sforzò anche a guardarlo di nuovo con
apparente pacatezza e a interrogarlo a voce sommessa s’ei continuava
a sentirsi meglio; e Nanni rispose dolcemente: — Sì signora; mi
par proprio di star bene. — Ah! quella voce le penetrò sì addentro
nell’anima, che vedendo di non poter più resistere, s’appoggiò al
braccio della Maddalena per alzarsi da sedere e per allontanarsi.
Appena ebbe fiato di dire: — Lasciamolo in quiete; ritornerò più tardi.
— Il Priore che sempre osservava con la coda dell’occhio Nanni e la
Carolina, andò a darle di braccio, accorgendosi ch’ella si studiava di
celare a fatica una commozione straordinaria. Pippo distraeva gli altri
col suo buon umore; non s’avvide di nulla, e proseguì a trattenersi in
piacevole colloquio con la massaja, con Andrea, col vecchio fratello
del capoccia, e di quando in quando volgeva la parola a Nanni, anco
senza aspettarne risposta; e riparava insieme a ricevere le feste dei
ragazzi, e a scherzare con essi.

— La vista di questo giovine m’ha intenerito più che io non credeva, —
disse la Carolina uscendo di camera e parlando sottovoce al Priore.

— Me ne sono accorto: e ha fatto bene ad assentarsi per ora. Davvero
che Nanni sveglia affetto in tutti. E poi la sua gratitudine, la
gratitudine d’una madre.... Oh! intendo, intendo; la compatisco....

— Anzi vorrei pregarla d’una carità, quando saremo soli.

— Subito; vuol tornare alla prioria, chè saremo più liberi?

— Mi lascerò regolare da lei. —

La Maddalena s’era già separata da loro, vedendo che avevano da
discorrere; ed essi se n’andarono inosservati.

Strada facendo, la Carolina si provò due o tre volte a intavolare
il discorso: non aveva parole fatte; si peritava, dubitava di dover
passare per visionaria, d’aver voluto toccare con troppa precipitazione
un tasto così delicato; ma un animo la stimolava tuttavia a
sollecitarsi, ed era più divorata dall’impazienza che disposta a cedere
alla riflessione; e poi ormai nell’impegno s’era messa, e qualche
cosa bisognava dire. Il Parroco interruppe di rado il conflitto dei
suoi pensieri con domande di cose da nulla; poi giunsero a un viottolo
scosceso, dove bisognava andare uno dietro l’altra, e la necessità di
muovere il passo con maggiore attenzione li tenne in silenzio. Eccoli
alla prioria: il Parroco la condusse nella cameretta che le aveva
destinata per alloggio, la fece sedere, e la esortò a riposarsi intanto
che egli andava a dare qualche ordine al suo servente.

In breve fu di ritorno, dicendole, nel sederle di faccia: — Eccomi qui
ad ascoltarla, se non le scomoda. —

La Carolina aveva trovato il bandolo,[219] e s’era fatta animo, o, per
dir meglio, la gentilezza dei modi del buon vecchio le dava coraggio, e
prese a dirgli:

— La compatirà se io, che son madre afflitta da lungo tempo, ricorro
a lei in questa congiuntura, per palesarle un segreto e per chiederle
ajuto, se mai una certa speranza che m’è nata avesse fondamento.

— Devo ringraziarla della fiducia che mi dimostra; e non v’è bisogno
che io le dica come per affetto e per dovere terrò celato a tutti, se
occorre, questo suo segreto, e mi studierò d’assisterla con l’ajuto di
Dio.

— Signor Priore, io ho letto quello che ultimamente la mandò scritto al
mio Pippo; forse Pippo non doveva palesare a me quella lettera, perchè
conteneva certi ragguagli sopra Nanni; ma la lo compatisca: è di primo
impeto;[220] non sapeva quel fatto....

— Oh! a una madre prudente si possono confidare molte cose che non
starebbe bene dirle ad altri. E poi, io credo che lei.... Oh! sì
certo, una buona persona come lei, non può avere quei pregiudizj che
ingiustamente avviliscono tanti poveretti....

— Mio Dio! si figuri!... Oh! sentirà, sentirà!... Ma se non fosse
presunzione di salvarmi senza merito, direi.... vorrei prima
assicurarla che io.... Ma forse.... Ah! non ho più il coraggio che
credevo.... Mi compatisca... — E si diede a singhiozzare e a versar
lagrime, arrossendo e abbandonandosi a dolorosi sospiri.

— Stia tranquilla! Aspetti quanto vuole; e si ricordi che ora, qui, la
può far conto d’esser sola. Io l’ascolto con lo spirito solamente; e se
oggi non potesse....

— No, no! Non mi par vero di dir tutto, e subito. Ecco: io era una
povera fanciulla; presi marito con pochi assegnamenti.... i due
figliuoli che ebbi nei primi due anni di matrimonio.... la povertà....
contro mia voglia....

— Ho capito; pur troppo!... Oh! la compatisco; e poi vedo che uno....

— Sì, il secondo; appena che potei... Ed ebbi la consolazione di
ricuperarlo.... È Pippo....

— L’altro non le sarà riuscito....

— Per mia disgrazia! E non ho avuto più bene; mi sono sempre logorata
dentro di me, quantunque non lo dessi a divedere....

— Poveretta! ma si faccia coraggio.

— E ora.... la combinazione.... chi sa?... Una somiglianza.... Un
animo mi dice.... Oh! mi soccorra lei!... Non vorrei ingannarmi!
Dopo avere sperato un bene come questo, che cosa sarebbe di me, se io
m’ingannassi?...

— Bisognerebbe continuare a rassegnarsi con l’ajuto di Dio.... Lo so,
il desiderio d’una madre a volte accieca.... Ma vediamo.... Oltre la
somiglianza....

— Anche l’età combinerebbe.... E avrà capito che io parlo di quel
giovine....

— Sì; ma per il solito, chi ha volontà, chi ha speranza di poter un
tempo riprendere la creatura....

— Ecco! un segno.... E ci pensai.... Ma io tremo a cercarne!... Se non
l’avesse, o se non fosse quello!...

— Ma nonostante.... vediamo.... Che segno era?

— Una medaglina della Madonna dei dolori, traforata in due luoghi per
poterla meglio distinguere....

— Ah! ho capito. — E nel dire queste parole, il Parroco si sforzò di
nascondere uno slancio involontario di giubbilo, che gli rasserenava
improvvisamente tutta la faccia.

La Carolina peraltro se ne accòrse, ed esclamò: — Ah! signor Priore!
che?... forse....

— Ho caro che se ne ricordi precisamente di questo segno.... E però....

— E come non me ne doveva io ricordare? — aggiunse con sorpresa, e
ricadendo subito nel dolore.

— Bene, bene! Perchè così sarà più facile riconoscere la persona,
se Dio le concedesse una volta di ritrovare in qualche luogo questo
figliuolo....

— Ah! per carità, mi compatisca; ma le sue parole mi accrescevano la
speranza. Pareva che la sapesse qualche cosa.... — E tornava a farsi
animo.

— Cara mia, qui o saper tutto o nulla.... Io non posso.... non
voglio.... Ecco, poniamo il caso che la dovesse ricevere questa grande
consolazione!... Vi sarebbe ella preparata? Pensi che un avvenimento
come questo la dovrebbe commovere all’estremo; e vi sarebbe poi la
combinazione che Nanni è in quello stato.... Anche per riguardo di
lui....

— Ma dunque lei non mi leva di speranza!

— Tutto è possibile!...

— E avrebbe timore che io, dopo aver patito tanto...?

— Appunto per questo....

— Ah, signor Priore, non dubiti, no; io sarei preparata.... E se
quella creatura.... Oh! saprei vincermi, saprei soffrir tutto per
amor suo!... Ma questo, questo tormento che provo ora.... oh! questo
è insoffribile.... Questo mi farebbe morire, se dovesse durare
dell’altro....

— Or bene, io le dirò che Nanni, come tanti altri, ha naturalmente
un segno d’esser cristiano; ha una medaglia; che io gliel’ho vista al
collo nell’ajutare la massaja quando gli medicava i vessicanti....

— E l’ha riconosciuta?... Era come quella che dico io?...

— Per averla vista una volta, e senza saper altro....

— Dunque, che io la veda, o che lei, signor Priore, abbia la bontà di
esaminarla....

— Questo sì; e quanto volentieri! Ma potrò io compromettermi della sua
rassegnazione ad aspettare quant’occorre? Ci vorrà un po’ di tempo....
Anderò subito; bisognerà che io cerchi il medico, perchè egli trovi un
pretesto.... Ora non v’è più da medicare i vessicanti sul petto.... E
se poi la medaglia non fosse quella?...

— Che cosa vuole? Eccomi rassegnata.... Vedo pur troppo che sarebbe una
fortuna troppo grande. Ah! io non la merito!

— Non dica questo; si faccia animo, e consideri intanto che quand’anco
avessi da darle presto una buona notizia, Nanni, ora come ora, non mi
parrebbe in tale stato da poterne essere messo a parte....

— Ha ragione.... Oh! saprei contenermi....

— Basta; ci lasceremo regolare dal medico. Intanto anderò a cercarlo,
per concertare qualche cosa.... Ma lei rimane qui sola....

— Non pensi a me....

— Già, se ha bisogno potrà chiamare: il mio servente non esce di
prioria;... ecco qui un campanello....

— Signor Priore, abbia la bontà d’accompagnarmi in chiesa. Mi rimetto
nella volontà di Dio; sento che la preghiera mi darà forza.... —

Così il Priore la condusse in chiesa, e poi andò in traccia del medico.

Del resto, il prudente vecchio aveva visto il descritto contrassegno
sulla medaglia; ma come arrischiarsi a dar subito alla madre una
notizia di tanta importanza, senza prima accertarsene scrupolosamente?
Gli parve anzi d’aver corso troppo nel suo colloquio con la Carolina;
ed era non meno di lei premuroso di schiarir subito questa faccenda.

Difatti potè schiarirla con ogni cautela, ed ebbe la consolazione
ch’ei s’aspettava. Bastò alla Carolina un’occhiata al volto sereno del
Parroco, per abbandonarsi nell’atto a un’ineffabile gioja. Egli aveva
nelle sue mani la medaglia; e poichè si fu accorto di non aver saputo
nascondere la interna sua contentezza, giudicò di non dovere interporre
altri indugi; e alle prime insistenti domande della madre, rispose:

— Io le farò vedere la medaglia; giudicherà da sè medesima se è quella
stessa.

— Davvero? Dov’è?

— Eccola....

— È questa, è questa! Dio, ti ringrazio! Nanni è mio figliuolo! Ora
morirò contenta!... — E baciando con immensa tenerezza la medaglia, non
potè dir altro, perchè la troppo forte commozione le tolse i sensi.

Il Priore aveva avuto la cautela di condur seco il medico, il quale a
un suo cenno accorse subito ad assistere la Carolina. Il deliquio durò
molto, ma senza grave sconcerto della persona. La Carolina tornando in
sè, e ritrovandosi sola col Parroco, ebbe agio di sfogarsi in lagrime
di suprema dolcezza; e quando il suo assistente la vide abbastanza
tranquilla, pensò di poterla lasciar sola, per preparare, come ella
stessa ne lo richiese, l’animo di Pippo a ricevere quella notizia.

Il pittore, tutto contento d’aver fatto la sua visita a Nanni e d’aver
condotta seco la madre, ad altro più non pensava che alle vedute
di paese; e quando incontrò il Parroco mentre appunto ritornava da
una gita con le sue carabàttole[221] per disegnare, entrò subito in
discorso delle nuove bellezze che aveva scoperto in quei luoghi.

— E ora ch’io sono qui con mia madre, con la certezza della guarigione
di Nanni, in mezzo a una famiglia di gente sì buona, in compagnia
d’un uomo tanto stimabile quanto lei, signor Priore, che ha avuto la
bontà di accordarmi la sua amicizia, mi par d’essere felice; non ho
mai goduto tanto in vita mia. Un solo dispiacere mi diminuisce un poco
questa contentezza, quando penso che presto ci dovremo separare. Oh!
ma spero che non si scorderanno di me; io di loro no certo; e prometto
di fare altre visite; e chi sa che anche mia madre?... A proposito! È
ancora tornata a riveder Nanni? È sempre in casa?

— Sì, è in casa....

— Che forse quest’aria fine le riesce molesta?...

— Oh! sta benone! Dirò.... ha avuto desiderio di trattenersi meco.
Nella vostra assenza abbiamo discorso molto insieme; e ora ho da
parlare anche a voi....

— Cospetto! Mi fa una grazia. E poichè me lo dice sorridendo, io mi
figuro che si tratti di cose liete.

— Lietissime, caro amico! e cose che riguardano vostra madre, Nanni, e
voi molto da vicino....

— Non mi fa celia? dica dunque; subito!... cioè.... scusi.... se le
piace: mi ha messo in curiosità...

— Abbiamo fatto una scoperta di molta importanza.

— Sì?

— Vostra madre mi ha messo a parte dei suoi segreti....

— Mia madre ha dei segreti?

— E che l’angustiavano molto!

— Ah! è vero; io l’ho sempre veduta tanto afflitta!... Oh! se lei
avesse trovato il verso di consolarla, sarebbe davvero una grande
scoperta! un benefizio segnalato! Che si fa celia? povera mamma! io
mi sono accorto che la faceva di tutto per celarmi il motivo della sua
mestizia; ma dunque, è lecito sapere da che cosa derivi? Ora spero di
non esserne cagione io. —

Qui il Parroco allontanando, com’era giusto, ogni ombra di colpa o di
negligenza della Carolina, palesò a Pippo ciò che egli non sapeva nè
della sua infanzia nè d’un fratello maggiore che la madre non aveva
potuto ricuperare; e poi brevemente venne a svelargli la scoperta,
quando già era balenata alla immaginazione di Pippo, il quale nello
scoppio del giubbilo non sapendo reprimersi, lasciò cadere a terra
quanto aveva in mano, e buttò le braccia al collo del Parroco, e sì
fattamente lo teneva stretto, che il buon vecchio si sentiva soffocare.
Poi gli chiese scusa della troppa confidenza; e subito voleva correre
alla madre e a Nanni, ma incerto dove andar prima: ora affrettando i
passi verso la prioria, ora verso la casa d’Andrea, quale forsennato,
calpestando i disegni, i pennelli, dava calci alla cassetta, a quella
stessa malcapitata cassetta, che aveva fatto naufragio al passo del
torrente. Il Parroco durò fatica a frenarlo, a persuaderlo che per
allora bisognava lasciar quieto il malato e usare circospezione anche
con sua madre, narrandogli del lungo patire che aveva fatto prima
d’acquistar la certezza del ritrovamento, e del deliquio dal quale era
stata presa dipoi.

Ma intanto la Carolina gli aveva veduti avviarsi alla prioria, e
dai gesti di Pippo s’era accorta d’ogni cosa. Non aveva potuto stare
alle mosse; era scesa; e mentre il Priore, benchè Pippo si opponesse,
lo aiutava, ridendo, a raccogliere le sparpagliate reliquie del suo
bagaglio artistico, si affrettava a raggiungerli. Appena ebbero ripreso
il cammino se la videro dinanzi; e quivi all’aria aperta un’altra scena
di tenerezza tra la madre e il figliuolo, e le poche ma affettuosissime
parole che si dissero, erano interrotte da molte lacrime e baci.

Il Parroco, vigilando, considerava quali e quante sono le vie del
Signore per riparare con insoliti casi le ingiustizie o le sventure
degli uomini. — E così, — diceva egli in cuor suo, — così potesse
intravvenire di tutte le disgrazie che ci angustiano sopra la terra!...
Oh! ma pur troppo! per la maggior parte non v’è altra speranza di
riparo che nel cielo! Ah! rassegnatevi a questo solo conforto, che è
pur grande, o infelici che languite separati senza rimedio dai vostri
cari, smarriti a piangere, abbandonati a patire in mezzo a quei tanti
che sembrano felici, a quei pochi che sono meno sventurati di voi! E
deplorate le disgrazie, compatite gli errori, perdonate le colpe che
furono cagione di condannare al dolore tutti i giorni della vostra
vita! No, non aggiungete ai mali che vi opprimono il tormento dei
rancori, degli odj, delle invidie! Il perdono generoso vi mansuefaccia,
vi commova, vi esalti fino alla dignità dell’esser vostro; che se voi
sapete mantenerla ad onta delle tribolazioni, diviene più augusta
e più meritoria, e nessuno potrà conculcarla nè per abbiettezza di
vilipendj, nè per forza di pregiudizj, nè per colpevole dimenticanza
di chi sarebbe deputato da Dio e dagli uomini a mitigare la vostra
disgrazia, e pur si mostra indegno di così sacro e soave ufficio!
Piangete, sì, perchè vi sono divietati i più soavi affetti; ma quanti
altri la virtù vostra non ne può generare invece di quelli! E la virtù
modesta negl’infelici è più bella, più sublime, più veneranda!... Che
cosa sono, in faccia a lei, le vane grandigie, le voluttà della gloria,
dell’orgoglio, della potenza? —


VI.

Chi avesse veduto la Maddalena custodire Nanni nella sua malattia,
avrebbe detto davvero che una buona e amorosa assistenza è la migliore
di tutte le medicine. Il dolore che l’aveva oppressa quando lo vide
ridotto agli estremi, era stato chiaro indizio pe’ suoi genitori
che la si fosse da lungo tempo affezionata a lui con quell’ingenuo
abbandono dell’innocenza che ama il buono ed il bello, e d’altro
non si cura. Poi la riflessione dell’età e l’esempio di ciò che le
altre fanciulle oneste e dicono e fanno, dovevano averla naturalmente
condotta a celare con gelosa ritenutezza quel sentimento, al giovine
per modestia, ai genitori per temenza che non potessero approvarlo.
Ma l’affezione fraterna s’era già convertita in amore d’innamorata; e
sapesse o no d’essere corrisposta, avesse o no la speranza di divenire
sposa di Nanni, il suo cuore ormai era dato, e per sempre, a lui solo.
Fortuna dunque che i genitori avessero ragione di tener Nanni in conto
di giovine virtuoso, che sapessero vincere il pregiudizio che gli
stava contro per la nascita, e avessero conosciuto, anche prima della
figliuola, com’egli ne fosse amante segreto, e rispettoso, rassegnato
se mai, a non possederla, credendolo cosa impossibile. Ebbero quasi
a pentirsi che la fredda prudenza, la quale in simili negozj si suol
dire non è mai troppa, gli avesse fatti indugiare soverchiamente a
render palese ai due giovani l’animo loro; perchè temerono che se
Nanni non avesse potuto scampare dal fiero morbo, la fanciulla se ne
sarebbe accorata tanto, da perderne anch’essa la salute e la vita.
Ma poichè il pericolo sembrò del tutto svanito, essi medesimi fecero
animo alla figliuola, mostrandole che già da lungo tempo conoscevano
e non biasimavano i suoi desiderj onestamente occulti, e lasciando
a lei principalmente, in tutto ciò che non poteva offendere il suo
pudore, la custodia d’una vita che ormai a lei medesima apparteneva.
E di questo seppero intanto fare accorto il buon giovine, quando
videro che il giubbilo di così bella speranza poteva dargli coraggio
ed ajutare la sua guarigione. Oh! come allora la pallida faccia di
Nanni si ricoperse tutta d’insolita serenità! Che palpiti di non mai
più goduta consolazione, quando Andrea, dopo essersi con prudenti
domande assicurato della sua inclinazione per la Maddalena, gli ebbe
detto addirittura: — Potevi tu dubitare che noi che ti vogliamo bene da
tanto tempo come a un figliuolo, perchè tu lo meriti, dovessimo avere
difficoltà a farti propriamente della nostra famiglia? Se tu non ti
fossi portato sempre bene, t’avrei io tenuto con questa fanciulla per
casa? Dunque pensa intanto a guarire, e a suo tempo, questo, possiamo
dire, è un negozio fatto. —

Nanni non aveva parole da rispondere, tanta era la sua gioja! E
difatti la guarigione già incominciata progrediva sollecitamente.
La Maddalena poi, il suo angiolo custode, vegliando al capezzale di
colui ch’ella poteva considerare suo fidanzato, aveva ripreso quella
vereconda franchezza, che usava con lui nei primi anni che si conobbero
da fanciulli; e sulla faccia di Nanni non appariva più la mestizia,
nè le sue parole erano rade come prima, nè i suoi sguardi sfuggivano
d’incontrarsi con quelli della Maddalena. Fosse anche stata nei loro
costumi tutta la rozzezza che si può immaginare nei montanari incolti,
l’amor virtuoso educa a gentilezza gli amanti e mirabilmente sublima le
loro anime.

Intanto la Carolina, benchè tornando a rivedere il suo Nanni avesse
potuto a gran fatica reprimere la subitanea commozione, e fosse venuta
in compagnia del Parroco e di Pippo che intavolarono tosto lieti
colloqui, si mostrò tuttavia così affettuosa verso l’infermo, ch’ei ne
rimase maravigliato, e pensava fra sè stesso: — Che cosa mi farebbe
una madre, se questa pietosa donna che appena mi conosce mi dimostra
cotanto amore? Ah! è vero; lo fa perchè crede che io le abbia salvato
il figliuolo. Felici quei figliuoli che conoscono la loro madre, e che
l’hanno così amorosa! — Pippo nascondeva a gran fatica il suo giubbilo
con le facezie; e tutti erano più lieti del solito in quella comitiva;
nè Andrea e la sua famiglia sapevano ancora quale altra maggior cagione
di letizia fosse apparecchiata per tutti.

Così trascorse quel tempo, che il medico e il priore giudicarono
necessario perchè Nanni fosse in istato di ricevere senza rischio
una nuova e sì straordinaria consolazione. Intanto Andrea aveva dato
licenza che si parlasse del matrimonio di Nanni con la Maddalena; e se
ne faceva da ognuno quella festa che potete pensare, coi fidanzati e
coi genitori.

— Oh, — scappò detto una volta a Pippo, mentre ne parlava con Nanni,
— tempo fa involontariamente ti offesi.... Tu m’hai perdonato, non ne
parliamo più. Ma io ti preparo un regalo di nozze, che tu non potrai
ricusare davvero! —

Nanni arrossiva, ma senza ombra di sdegno. S’era già molto affezionato
a Pippo, e gli pareva propriamente un altro, perchè non s’era più
arrischiato a prendersi con la Maddalena quelle confidenze le quali
altra volta, sebbene non avessero potuto offendere il pudore della
fanciulla, nondimeno gli passavano l’anima; e tollerabili certo non
erano, nè a lei stessa potevan piacere, nè a Pippo giovavano, facendolo
passare per giovine frivolo e ineducato. Che s’egli si fosse imbattuto
in montanari meno cauti e garbati, gli sarebbe forse intravvenuto di
pagar molto care quelle leziosaggini in luoghi dov’era tanta abbondanza
di legna verdi.

Infine il Parroco, rimasto da solo a solo con Nanni, prese a parlare di
Pippo e della Carolina, rivelando le loro buone qualità e compiacendosi
d’averli conosciuti.

— Sì davvero, che son persone per bene, e io rimango delle garbatezze
che mi fanno; io, povero garzone di contadini in montagna....

— Oh! questo poi.... Che cosa vuol dire che tu sia semplice garzone,
quando i tuoi portamenti sono da uomo onesto, quando ti rendi utile
col lavoro e con l’abilità nella tua arte? Un gran signore che fosse
vizioso o stolido, non sarebbe nemmeno da mettersi a paragone con te.
L’essenziale consiste nel meritare la stima delle persone di proposito;
e tu l’hai meritata, lo vedi? fino al punto che Andrea di semplice
garzone che eri ti fa suo genero.

— Davvero che una fortuna così grande io non me l’aspettava!

— Ma è una giusta ricompensa....

— Anche lei, signor Priore, ha troppa bontà per me....

— Oh! non dir questo! Io ti voglio bene, io parlo così perchè sono
persuaso che tu lo meriti; e così fanno il pittore e sua madre.
Potresti tu dubitare che le loro parole e le loro attenzioni affettuose
per te non fossero sincere?

— No certo! Non l’ho mai dubitato. Si figuri!

— E se tu sapessi quante cose la Carolina mi ha detto di te! O lei sì,
che ti vuole un bene dell’anima!

— Eh lo vedo! Io non so se una madre potrebbe fare di più col suo
figliuolo! — Ed era questa l’idea fissa di Nanni, ch’ei manifestava pur
sempre con una certa mestizia, quasi dicesse: Eppure alla mia felicità
mancherà sempre dimolto!

— Senti, Nanni, io vorrei che tu potessi avere un’altra consolazione....

— Oh! quale, signor Priore? Crede ella che non sia contento?

— Sì; ma se si trattasse di qualche ricerca per sapere dei tuoi
genitori?

— Ah! che cosa dice? magari! Ma perchè volere l’impossibile?...

— Oh! impossibile? Come puoi tu asserirlo?

— Se mi avessero voluto conoscere, non mi avrebbero abbandonato. Per
carità, non mi rammenti queste cose!...

— Tu sai che questo abbandono può essere dipeso solamente dalla
disgrazia; e che poi, dopo un certo tempo, ancorchè la volontà di
ricercare una creatura vi sia, possono darsi tali e tanti ostacoli....
Se questo fosse stato il caso dei tuoi genitori, e che poi una
combinazione fortunata, rara sì, pur troppo delle più rare, ma
nondimeno possibile.... Insomma, vorresti tu impedirmi di fare delle
premure?

— Oh! no, signor Priore! Anzi sarebbe carità....

— E quando si scoprisse che la sola disgrazia fosse stata cagione del
tuo abbandono, sapresti tu compatire una madre, che dalla povertà
e dalla sola volontà del marito fosse stata costretta a lasciarsi
strappare dalle braccia la sua creatura, e che poi l’avesse pianta e
desiderata sempre, e cercata con ogni premura, ma invano; finchè una
combinazione dopo molti anni?....

— Ah! che cosa mi dice? Ma scusi, perchè affacciarmi queste speranze?
Dopo tanto tempo, non posso credere....

— Sai tu perchè? perchè le premure che io ti diceva sono state
fatte.... perchè tu non hai più in seno la tua medaglia....

— Oh! è vero. Chi me l’ha presa? E perchè?

— L’ho io; eccola qui; te la rendo; e questa medaglia è indizio
dell’intenzione che i tuoi genitori avevano di riprenderti, subito che
avessero potuto....

— Ma dunque; la sa già qualche cosa.... E ora.... Oh Dio! potrei
figurarmi.... forse...

— Intanto sappi che tua madre vive.

— Ma dov’è? Presto....

— Ti sentiresti tu la forza di sostenere una consolazione così grande?

— Sì!

— Se io potessi condurtela qui ora....

— Oh! andiamo a cercarla.... subito! anderei in capo al mondo.... — E
si alzava dalla sedia con la franchezza di giovine robusto.

— Pensa che tu dovresti far coraggio a lei! — aggiungeva il Priore nel
trattenerlo.

— Sì; lo farò; non dubiti....

— Or bene; andiamo da tua madre!.... —

E sostenendolo, o piuttosto raffrenando la sua impazienza, lo condusse
nella stanza accanto, dov’era la Carolina con Pippo e col medico.
La madre gli corse incontro, e si abbracciarono e si baciarono senza
poter proferire altre parole che, mio figliuolo! mia madre! Poi le loro
lagrime scorsero lungo tempo in silenzio, nell’estasi d’un piacere
soprumano. La Carolina ebbe infine bisogno di abbandonarsi sopra una
sedia, e l’assistenza del medico non fu inutile; Nanni si resse, andò
a gettarsi nelle braccia di Pippo che lo aspettava impaziente, e che
dopo averlo stretto al suo seno con tutto l’impeto dell’amore fraterno:
«Eccoti,» esclamò additando la madre, «eccoti dunque il regalo di nozze
ch’io t’ho promesso.»

Nè meno smaniosi di rallegrarsi di così fausto avvenimento erano,
come potete figurarvi, tutti gli altri, in specie la Maddalena, che fu
chiamata la prima ad assistere la Carolina. Questa era assisa nel mezzo
ai suoi figliuoli, tornata in sè, tenendo strette nelle sue le mani di
Nanni; e Pippo al sopraggiungere della fanciulla, subito le cedè il suo
posto.

Io non vi starò a dire i nuovi trasporti di giubbilo per tante
consolazioni ad un tempo. Quella, che ormai, se ne togliete il
Parroco e il Medico rimasti da parte a godere di così tenera vista,
poteva considerarsi tutta una famiglia, passò in gran festa la intera
giornata. Il parroco e il Medico doverono rimanere con loro fino alla
sera, quando la Carolina e Pippo si separarono dagli altri per tornare
a inebriarsi nei giorni successivi, di più riposati ma non meno soavi
godimenti.

Qui potrei metter fine al racconto con la descrizione delle nozze di
Nanni e della Maddalena fatte pochi mesi dipoi, e senza dubbio furono
liete e commoventi: ma io voglio lasciare questa cura alla vostra
immaginazione, e dirvi piuttosto che la riuscita di quel matrimonio
fu ottima; sebbene anche di ciò possiate da voi medesimi agevolmente
persuadervi, riflettendo che gli sposi erano bene accoppiati, e che
tutta la parentela era composta di persone di garbo.

Dirò nondimeno qualche altra cosa dei fatti loro, senza tema di essere
indiscreto, perchè mi pare che confermino la buona opinione che ormai
possiamo averne. Nanni, benchè ritrovato avesse una madre cittadina,
e un fratello pittore paesista di molto merito, il quale co’ suoi
guadagni poteva ormai vivere e mantenere agiatamente la madre, non
lasciò peraltro la sua onorata arte d’agricoltore, nè si separò dalla
famiglia, che lo aveva con tanto amore raccolto da giovinetto e salvato
chi sa da quali pericoli! Bensì divenne agricoltore possidente, perchè
sua madre coi cinquecento scudi redati dal merciajo, e Pippo col frutto
dei suoi risparmi, comperarono alcune terre in vicinanza di quelle che
erano lavorate da Andrea, e posero in assetto una casa ove la Carolina
andò a passare lietamente la sua vecchiaja in compagnia del figliuolo
ricuperato, di quell’angiolo della sua nuora, e di una bella corona
di nipotini, che con grande consolazione si vide crescere attorno.
Pippo si godeva i domestici affetti passando spesso dalia città alla
campagna, lavorando per tutto, viaggiando, facendo quadri da valente
paesista, e rammentando con la maestria nel dipingere, con la viva
copia della bella natura, con la scelta sapiente dei luoghi e delle
gesta da ritrarre, le glorie e le sventure della patria, e col generoso
intendimento di risvegliare magnanimi sensi ed emulazione di egregi e
forti fatti, in un’età e in un popolo come ripeteva Nicodemo, che di
questi ricordi hanno dovizia e pur sempre tanto bisogno.

Nè la Carolina nè Pippo dimenticarono mai la buona Clarice, che
tuttavia sosteneva con lieta e veramente eroica rassegnazione la
sua infermità e le tribolazioni crescenti per la vecchiaja, tra le
quali a ottantacinque anni, la perdita della vista. Allora sì che le
divenne opportuno il soccorso di coloro che migliorando stato, seppero
essere riconoscenti verso una donna, la quale sebbene fosse povera gli
aveva assistiti e consolati tante volte! Eppure benchè cieca, benchè
d’ottantacinque anni, e debole e inferma, io l’ho veduta lavorare al
tasto con la tanta pratica che aveva del suo mestiere; io l’ho udita
benedire con lagrime di tenera riconoscenza l’ajuto offertole dai suoi
pochi amici, attribuendolo tutto alla loro carità e alla mano della
Provvidenza, non ai meriti che avesse potuto acquistare con le sue
buone azioni verso di essi e di molte altre persone, alle quali era
stata utile in varj modi.

Pippo narrò a Nicodemo le felicità di sua madre, le sue e quelle di
Nanni. L’afflitto valentuomo le udì volentieri, ne fu commosso, se
ne rallegrò con sincero affetto verso di loro; pure non potè fare a
meno di dire in segreto; — Ma io non riavrò una sorella, nè potrò
vendicarla! Ah! che cosa dico vendicar lei? La mia patria, la mia
sventurata patria!

Ma confortati, povero Nicodemo! il dì del riscatto suole a volte
spuntare quand’uno men se lo aspetta. Lo preparano, è vero, gli eventi
lontani, lo contrastano i tentativi infelici; e molti che hanno perduto
nell’esilio la cara patria, nelle carceri la libertà, nelle stragi
e nei supplizj la vita, non lo vedranno risplendere; ma anch’esso
è pur segnato dalla mano della Provvidenza nei destini e nella vita
dei popoli, e verrà, e sarà principio di novella e più felice e più
gloriosa età per la nazione che lo aspetta e che ne è fatta degna dal
lungo patire. Benedetti coloro che lo sperarono, che lo prepararono,
che lo santificarono con le virtù cittadine, con l’eroismo, col
martirio! Forse tu sei destinato a vederlo splendere dalla tua
povera soffitta, prima che i tuoi occhi moribondi spremano le ultime
lagrime sulla perduta sorella, sulla sventurata patria, sulle vittime
invendicate. Allora tu scioglierai a parole di giubbilo e di speranza
vera le labbra per tanti anni chiuse dal doloroso silenzio; allora non
ti pentirai d’averlo una volta interrotto per dare utili e generosi
consigli a quel giovine, che ti mostrava di non averli ascoltati
invano. E tu, o madre popolana, che hai patito e pianto per sì lunghe
sventure, non aver paura per la salvezza dei figliuoli ricuperati nella
vecchiaja. Il giorno del riscatto spunterà sereno per la loro patria;
la forza del vero otterrà alfine una vittoria tutta pacifica; e se al
valor cittadino non bastasse di risorgere per trionfare, rammentati
che con quel valore sta il diritto dei popoli, e che la vita spesa per
la patria non è perdita, ma acquisto di gloria immacolata, fruttuosa,
immortale. Anche la patria aveva smarrito, come te, i suoi figliuoli,
e giaceva derelitta co’ suoi figliuoli infelici, dimentichi di lei, e
il suo dolore non aveva confini! Ma quando anch’essa udì le note voci,
rivide gli amati sembianti, e scòrse balenare un raggio di speranza
che i suoi figliuoli tornassero a lei per salvarla, per sostenerla,
sorrise allora di celeste giubbilo, si sentì rigenerata nei valorosi,
e non le dolse che con una mano stringessero l’ulivo, con l’altra il
ferro per compiere e assicurare la sua salvezza. Narra pur le tue gioje
alle altre madri popolane che ti somigliano, mostra loro i tesori che
rinvenisti, godi dei godimenti della tua nuora, delle speranze dei
tuoi nipoti; ma non essere avara del tuo sangue alla patria comune
quand’essa lo chiedesse per la comune salute. I piaceri domestici sono
grandi, ineffabili; prima di essi vi sono i doveri dei cittadini; ma
in mezzo alle tribolazioni della moltitudine derelitta perderebbero
ogni dolcezza se li amareggiasse il rimorso di non aver nulla operato a
sollievo dei fratelli infelici.



UNA PASSEGGIATA PEI BORGHI DI FIRENZE


I. — Il Capo d’Anno.

È capo d’anno; siamo tutti in gala. Chi torna da fare le visite di
complimento, chi da portare i biglietti di visita alle case. Il viavai
dei frettolosi portatori di biglietti che entrano ed escono con aria
d’importanza dai palazzi, dura sempre, sebbene sia stato introdotto
anche qui il lodevole uso di fare la nota del capo d’anno, e di
assegnare quel denaro a benefizio dei poveri o di qualche istituzione
ad essi vantaggiosa. Ma vi sono molti che non s’appagano di vedere
stampato in quella nota il proprio nome, e vogliono anche far la girata
e la distribuzione dei loro biglietti. Se credono speso bene il tempo
e la fatica in questa faccenda, tal sia di loro. Quei bigliettini
avranno l’onore di starsene dentro la cornice di uno specchio elegante,
finchè a poco a poco un servo, spolverando, non li lasci cadere tra
la spazzatura a guisa dei petali d’un fiore appassito, o finchè una
donna gentile non ne faccia l’anima d’un gomitolino di seta. Oh quanti
invidieranno questo destino più avventuroso! un bel titolo, una corona
ducale sotto le nivee dita d’una donna gentile, e accuratamente riposti
in una serica veste! Chi si diletta di paragoni, potrebbe mettere
in campo il mirabile verme nato a formare la leggiadra farfalla e il
bozzolo e la crisalide, ed eziandio le mummie d’Egitto, cose tutte che
rasentano l’idea dell’immortalità, almeno di quella che può toccare
alla materia. Ma lasciamo ora le splendide dimore ove le apparenti
vagheggiate felicità e mille cure soavissime infiorano la vita dei
mortali mollemente adagiati sul carro della fortuna.

Andiamo nei borghi della popolosa e vetusta città; andiamo in
Camaldoli.[222] Ahimè, che rovescio di medaglia! Lasciamo stare che
non vi possano essere gli svelti, eleganti e profumati portatori di
bigliettini; ma anche senza ciò, il nome solo di questa parte della
città addolora l’anima, perchè rammenta povere case e povere famiglie
e dure fatiche e la penuria di lavoro e di guadagno, e gli stimoli
inesorabili del bisogno, e tutte le tribolazioni dello stentato vivere
di coloro che sembrano gente di un’altra e più bassa anzi infima ed
abbietta sfera, caduti a caso attorno i cittadini lieti e facoltosi.
Vero è che taluni asserirono, quella benedetta felicità da tutti
gli uomini tanto desiderata aver più a grado l’umile casolare d’un
campagnuolo o le rozze vesti d’un onesto artigiano, che i palazzi
sontuosi o le ricche spoglie del fasto e dell’orgoglio; ma comunque
ciò sia, fatto sta che di rado essa balena anco agli occhi di coloro
che si credono averla più da presso. Nonostante giova credere che meno
s’inganni chi la suppone amica della virtù e della moderazione ne’
desiderj, senza curarsi gran fatto se queste qualità sieno possedute
dal ricco o dal povero. Sicchè resterebbe solamente a conoscere a quale
di essi due sia più facile possederle.

Ma l’aspetto dei Camaldoli non è poi sì lurido e meschino in tutte le
loro strade. Vi sono pur troppo, e dove meno si crederebbe, i tetri
ripostigli in cui le più tribolate creature languiscono d’estrema
povertà, e si consumano nei patimenti; ma il sentiero che ad esse
conduce inspira repugnanza ad alcuni benefattori troppo delicati, e
solamente quella carità misericordiosa che si copre del manto della
modestia, essa sola vi sa penetrare senza ribrezzo, e tocca e solleva
e conforta sul fetido giaciglio le membra dei fratelli soffrenti per
infermità schifose e per difetto d’assistenza. Ma a quella carità
non sempre è dato di prevenire i mali che logorano l’infima parte
dell’umana famiglia; essa non può fare altro che mitigarne i dolori.

Nondimeno parrebbe che il primo giorno dell’anno un raggio di
gioja dovesse spuntare per tutto. Noi rintoppiamo intanto parecchi
artigiani rimpulizziti, e l’animo si riconforta sperando ch’essi
godano di uno stato migliore. Oh sì! in un giorno come questo si
cerca d’ornare a festa ogni cosa; oggi più facilmente si dimenticano
le umane tribolazioni. Oggi tutta questa buona gente è allegra,
tutta sollecita di tornare a casa per rivedere i parenti prossimi,
i parenti lontani, gli amici, e per ritrovarsi qualche ora in
famiglia. Oggi si rinfrescano i più teneri affetti, oggi si dissipano
le inquietudini, i malumori, le ruggini.... I vezzi d’un’ingenua
creaturina, la benedizione d’un vecchio venerando riconciliano quegli
animi che forse erano turbati da un malinteso, da un dirizzone, da una
ciarla, e spremono dolci lagrime da quegli occhi che jeri sfuggivano
d’incontrarsi. I figliuoli chiedono perdono ai genitori, i mariti alle
mogli; ogni rammarico è dimenticato, ogni famiglia è in tripudio....
E chi non l’ha? Oh! chi non l’ha, se la trova in quella del suo
amico. E’ v’è aspettato a braccia aperte, i grandi e i piccini lo
festeggiano, e tutti gli fanno animo, e dicono: — Siete nostro, siete
nostro! — Poveretto! e’ s’intenerisce; anch’egli giubbila, anch’egli
beve alla salute de’ suoi cari lontani, come se fossero a quella
mensa d’una famiglia non sua. Lo strepito di queste vivaci, di queste
schiette consolazioni che s’ode fin dalla strada, riempie l’animo di
contentezza.

Vero è che anche il tripudio onesto passa talora certi limiti; oltre i
quali, quando per effetto di vanità, quando per eccesso di buon cuore,
diventa cagione di disordini: la è vecchia sentenza, che ogni eccesso è
dannoso.

Or ecco venirsene frettoloso un falegname che oggi agli abiti ed al
sussiego tu prenderesti per uno stipettajo: ha in capo lo stajo[223]
nuovo e luccicante, indossa la falda nera, e una cocca del fazzoletto
bianco si affaccia alla tasca. Il suo figlioletto, con la gala smerlata
e la cintura di pelle fiorita, va innanzi battendo i tacchi e recando
in mano un grande involto di carta. Maestro Giuseppe, che le male
lingue (ve ne sono per tutto) vogliono tassare[224] d’un po’ di boria,
dannosa in ciascuno e massime in un artigiano. Maestro Giuseppe sta
rimpettito, e saluta a gote gonfie i vicini che gli pajono da meno
di lui.... Ciò non sta bene, maestro mio, perchè si potrebbe credere
che la taccia di borioso fosse fondata. — Oh! maestro Giuseppe ha
comperato il pasticcio, — dice uno. — Si fa celia! — soggiunge un
altro, — gli ha a desinare il Cursore del Commissariato! Chi è per lui?
— Maestro Giuseppe mette la chiave nell’uscio, ordina al figliuolo
che zitto zitto vada a nascondere in bottega l’involto accanto alle
bottiglie comperate la sera innanzi, perchè vuol fare uno scialo, uno
spolvero[225] da suo pari; e sale su.

Quanta gente! quanti evviva! Chi lo chiama cognato, chi zio, chi babbo,
chi nonno, e tutti lo accerchiano e lo assordano, col suono della
voce e col battere delle mani. Egli diventa due dita più alto, si
rasciuga il sudore col fazzoletto bianco, sparge i confetti alla turba
dei nipotini, e poi va in camera, e la moglie dietro, per ajutarlo a
levarsi e ripiegare il vestito di gala.

— O Cecchino dov’è? — domanda la moglie.

— Dammi il berretto, non voglio infreddare.

— Eccolo qui; e Cecchino?

— Se non mi cavo questi stivali, divento zoppo. —

E la moglie lo ajuta, e poi: — Ma insomma si può sapere...?

— Finiscila con la tua curiosità! —

Ecco Cecchino. — O dove sei tu stato finora? — dice la mamma.

— A nascondere il pasticcio — risponde il fanciullo.

Ma il padre, senza lasciargli finir la parola, gli chiude la bocca con
poco garbo, va in collera, e lo fa spiritare di paura.

— L’ho indovinata io che gatta ci cova! — esclama la moglie tutta
dolente. — Ah! marito mio, tu ti vuoi rovinare con tante grandezze! Ti
par egli questo il tempo di fare scialo?

— Signora Geltrude, non cominciamo!

— E intanto la mia povera roba rimane al Presto!

— Oggi non se ne poteva fare a meno. Io non voglio scomparire.

— Ma che bisogno c’era del pasticcio?

— Oh! il babbo non ha speso nulla! — diceva il bambino.

— Anche i debiti! Peggio che peggio!

— Stasera ci riparleremo. Va’ a mettere in tavola, — rispose il
marito con mal piglio. — E fece un tal gesto, che la buona Geltrude,
vedendo la mala parata, pensò che fosse meglio obbedire e tacere. Già
i commensali che gli avevano visti sparire, e conoscevano l’umor della
bestia, erano venuti in traccia di loro, ed empivano la camera.

— A mangiare, a mangiare! Allegramente, figliuoli! è capo d’anno! —
esclamò allora il padrone di casa.

— Allegramente! — risposero tutti, rincorati di trovarlo in buona luna;
e andarono a tavola.

Lasciamo stare maestro Giuseppe coi suoi commensali; forse domani lo
rivedremo.


Guardate ora quella casipola di faccia: non ha altro che due finestrine
per piano; vi sono ancora le impannate invece dei vetri; e la facciata
qua e là è senza intonaco. Vo’ direste che la fosse proprio il tugurio
della povertà. Nè s’ode schiamazzo di liete voci; forse chi v’abita non
ha quattrini da celebrare il capo d’anno con tanto scialo! Salite tutte
le sue scalucce, e troverete una stanzetta, povera di suppellettili, ma
pulita come uno specchio. Ecco lì due vecchierelli, marito e moglie,
e una vispa giovanetta che ha finito d’apparecchiare la tavola con
biancheria ordinaria, ma linda e odorata di spigo. Sono tre, ed è
apparecchiato per quattro: pare che aspettino con impazienza l’arrivo
d’un commensale.

Il marito, pover’uomo, è cieco; un tempo faceva il tessitore di panni.
La ragazza è un’orfanella presa dall’ospizio degl’Innocenti, la quale
custodisce e vuol bene a quei vecchi, come se fossero il suo babbo e
la sua mamma. Essi ricavano il campamento da un figliuolo, che fa il
mestiere del padre in un paesetto di provincia, piuttosto lontano,
verso i confini della Romagna.[226]

Povero Nisio! e’ non avrebbe voluto lasciare i suoi vecchi; ma quando
il padre ebbe la disgrazia d’accecare, Nisio non trovò subito una
fabbrica dove la sua abilità potesse fruttargli guadagno sufficente
al bisogno. Allora capitò un fabbricante campagnuolo, che andava in
cerca d’un ministro abile e morigerato; conobbe Nisio, gli piacque,
e gli offerse di prenderselo in casa e di dargli un tanto il mese ed
il vitto. Il partito parve buono; ed anche suo padre lo confortò ad
accettarlo.

Questo principale è un uomo d’età avanzata, di poche parole e piuttosto
burbero, ma onesto e molto amorevole; e conoscendo la buona indole,
la capacità e la fidatezza del giovine, fa di tutto per tenerselo
affezionato.

Nisio manda il suo guadagno ai genitori, i quali se la passano
strettamente, ma in santa pace, confortati dalla speranza che non sia
per mancare il campamento nè a loro nè a quel savio figliuolo. Sicuro,
è una gran passione per essi il viverne separati; e anche Nisio se ne
affligge, e vorrebbe almeno poterli rivedere più spesso; ma come si
fa? in questo mondo non si possono avere tutte le cose a suo modo. Il
principale ha sempre molto lavoro, e non concede al ministro d’andare
a casa sua altro che tre o quattro volte l’anno per trattenervisi un
giorno solo.

A quest’ora doveva esser giunto per fare il capo d’anno in famiglia;
ha mandato scritto pel procaccia[227] che lo aspettino; il desinare è
fatto, e va a male. Ma questo importerebbe poco; il peggio si è, che i
vecchi e la Maria stanno in pensiero.

— Sarà partito più tardi, — dice la Maria, — vo’ sapete che per
risparmio e’ fa molta strada a piedi; le miglia sono parecchie.... — E
torna alla finestra per vedere se arriva.

In questo mentre una ventata porta seco alcuni rintocchi della campana
della Misericordia.[228] La vecchia si riscuote e sospira. Il marito va
alla finestra per orecchiare.

— Non suoneranno a caso; suoneranno a malato, — aggiunge la Maria; ma
anch’ella impensierita fa il viso bianco, e si studia di nasconderlo ai
buoni vecchi.

Già nelle altre case tutti sono a tavola; tutti gli usci sono chiusi;
di quando in quando s’odono le liete voci dei convitati; ma la strada
è deserta. Solamente il servo della Compagnia,[229] incappato, va
gridando con lugubre voce: — Elemosine per le anime del Purgatorio! — e
picchia alle case. Ma oggi pochi lo sentono, o pochi gli daranno retta:
in mezzo al tripudio chi vuol pensare alla morte? Ma giunto sotto la
casa dei vecchi, la Maria gli butta un madonnino;[230] un madonnino
che le era stato regalato da Nisio. — Dio ne renda merito a voi e alle
anime dei vostri defunti! — e intuona il _De profundis_, e la Maria ed
i vecchi divotamente rispondono ai mesti versetti.

Finita la santa prece, che fu recitata con la solita indifferenza dal
servo e con pietosa compunzione dalla Maria e da’ suoi padroni, la
fanciulla si mette a sedere con loro, dicendo in cuor suo: — Che cosa
sarà accaduto del povero Nisio? Dio mio, ajutatelo! — E ad essi: —
A proposito! Ora capisco. A vedere il servo della Compagnia, mi sono
ricordata che uno di questi giorni doveva arrivare il priore nuovo nel
paese dove sta Nisio; forse sarà arrivato oggi. Ecco perchè Nisio fa
tardi. Avranno voluto che rimanga alla festa.... Io dico che fino a
stasera non lo vedremo.

— Ti par egli? — soggiunse la vecchia — e’ ce l’avrebbe mandato
scritto; non v’è pericolo. Ah! dicerto gli è accaduta qualche
disgrazia.... — E le donne si guardavano sbigottite.

Il marito che intanto stava in orecchi verso la finestra, senza badare
alle parole della Maria, a un tratto esclama tutto giubbilante: — È lui
è lui! lo riconosco al passo; — e s’alza.

Mentre la Maria corre per affacciarsi, ecco tre picchi lesti e sonori
all’uscio di casa.

— Dio sia benedetto! — grida la vecchia.

Nisio è già nelle sue braccia; le bacia le mani ed il volto; poi corre
al babbo; e intanto la madre si rasciuga di nascosto una lagrima. Nisio
si volta per salutare anche la Maria; ma ella era corsa tutta lieta a
buttare le paste nella pentola.

— Dunque tu sta’ proprio bene? — domanda la madre.

— Benissimo! —

— Ma chi sa come tu sarai stracco! —

— Vo’ sapete che per gambe la cedo a pochi io. Mi dispiace d’avervi
fatto stare in pensiero. È tanto più tardi del solito! Ma che cosa
volete? Quasi due miglia fuori di porta è avvenuta una disgrazia ad un
pover’uomo. E’ non è stato a tempo a ribadarsi dalla carrozza di certi
signori, che andavano via come disperati; n’è stato investito, e....
poveretto! una ruota gli è passata sul braccio sinistro, e s’è fatto un
po’ di male anche alla testa.... —

— Vergine santa! Ecco forse perchè è suonata la Misericordia.... E
tu....

— Io l’ho portato alla meglio nella casa d’un contadino, e poi sono
corso a chiamare i fratelli della Misericordia: m’è convenuto tornare
in su col servo....

— E quei signori della carrozza?...

— Figuratevi! Il cocchiere ha frustato i cavalli, e via a precipizio
più di prima. Sicuro, se avessero avuto compassione di quel
disgraziato.... almeno si sarebbe potuto avvisare la Misericordia più
presto!

— Sicchè, stracco come tu eri....

— E che cosa m’importava della stanchezza? M’avete insegnato voi a
soccorrere il prossimo a costo anche della vita.

— Oh sì! tu hai ragione; hai fatto benissimo; e Dio te ne renderà
merito.

— Ho fatto il mio dovere, e nulla di più....

— E quel pover’uomo?

— Confortiamoci, perchè il chirurgo ha detto che la ferita del capo non
è pericolosa, e che il braccio si può rassettare facilmente. Sono stato
a sentire le sue nuove allo spedale; e stasera voglio tornarvi....

— Farai bene; e se è un povero....

— Alle vesti pareva.... Ho capito; lasciate fare a me. Voialtri, grazie
a Dio, state bene....

— Al solito contenti come tu vedi....

— E la Maria continua a custodirvi con amore?...

— Oh! sì davvero, povera ragazza! — rispose il padre. — Non possiamo
dirne altro che bene!

— Fa le tue veci propriamente con garbo, — aggiunse la madre.

— Ma non è il nostro Nisio!

— Lo credo anch’io! ma ci vuol pazienza. E il tuo principale che fa
egli?

— Ogni giorno va in collera con tutti; ma è sempre un gran galantuomo,
e prosegue a volermi un bene dell’anima....

— Dunque, con te sarà un’altra cosa.

— Eppure qualche volta brontola anche con me.... Io non credo di dargli
motivo; e mi studio di far sempre il mio dovere; ma vo’ lo sapete....
È fatto così: e’ piglia fuoco per un’inezia. Nonostante, figuratevi!
non ci penso nemmeno. Cioè.... per un verso mi dispiace, perchè
quando s’accorge d’avere sbagliato, mi chiede scusa; mi fa piangere di
tenerezza.... Insomma si piange tutt’e due, e bell’e finita. Allora mi
vuol più bene di prima. —

Dopo questi discorsi, la Maria che scodellava la minestra, e s’era
tutta consolata a udire i padroni lodarsi di lei col figliuolo,
esclamò: — A tavola, a tavola! La minestra si fredda.

— Evviva la Maria! — disse Nisio facendole festa. — Te ne farò onore
davvero! —

Ecco un altro desinare; ma quanto diverso da quello di maestro
Giuseppe! Un buon lesso ed un bel cappone, pane e vino quanto volete,
e la contentezza nell’anima. Esempio della frugalità degli antichi
artigiani fiorentini, di quelli stessi che allora erano popolo, e
fecero inalzare la cupola di Brunellesco.


II. — Il giorno dopo Capo d’Anno.

Il giorno dopo, maestro Giuseppe alle nove precise era nell’anticamera
del Commissario.[231] Il suo stesso cognato cursore, il quale jeri
s’era lautamente pasciuto in casa sua, per vendicare la sorella di
certe busse toccate dal marito la sera del banchetto, aveva staccato e
portato da sè medesimo il precetto.[232]

Il falegname aspettò due ore prima di poter passare. Sventuratamente
accade che nei giorni i quali precedono le solennità si trova, per
cagione dei vanesj e degl’intemperanti, maggior folla nei botteghini
del giuoco, ai fondachi, ai vinaj, ai pasticcieri, e nei giorni
susseguenti sono piene le udienze dei commissarj e le carceri: gli
effetti tengono sempre dietro alle cagioni. Ma il povero maestro
Giuseppe che aveva sempre la testa invasata dal vino, con una bella
dormita si liberò dalla noja dell’aspettare. Finalmente fu svegliato,
andò a udienza, vide l’aspetto minaccioso del Commissario, udì le
accuse, i rabuffi, e.... per mala sorte, scordandosi dove e con chi
era, rispose a traverso, volle fare alto là, e la cosa divenne seria.
Il pasticcio e le bottiglie, come potete immaginarvi, erano stati
la pietra dello scandalo; ma non potendosi mettere in carcere nè i
pasticci nè le bottiglie, toccò a lui ad andarsene in gabbia. Se avesse
avuto il tempo di smaltire la balla,[233] questo non sarebbe accaduto;
ma il cognato fu troppo sollecito, e il Commissario non sapeva o non
pensava di parlare con un fiasco e non col cervello d’un uomo.

Quando la moglie seppe che il marito era al bujo,[234] disperata
e invelenita venne ad aspra contesa col fratello; e dopo un casa
del diavolo da non si dire, non fu cercato altro ripiego che quello
d’ungere il chiavistello della segreta, supponendo che si potesse
aprire innanzi il tempo senza fare strepito.[235] Ma ancora che
questa supposizione fosse stata ragionevole, non si trovò chi potesse
prestare un soldo; tutti s’erano ridotti al verde. Il povero maestro
Giuseppe dovè battere i denti tutta la nottata; la moglie abortì pel
rimescolamento e per l’arrabbiatura; il figliuolo ebbe una colica
d’indigestione e una malattia di venti giorni; i creditori, dubitando
che lo sventurato falegname navigasse per perso, vollero esser pagati
addirittura per non rimanere al naufragio; sicchè il cappello nuovo, la
giubba, e inclusive certe poche masserizie di casa andarono in fumo.
Dopo qualche mese la disgraziata moglie aveva preso il suo posto a
chiedere l’elemosina sotto le loggie dell’Annunziata, e Giuseppe, di
maestro divenuto garzone, stentava un meschino salario.

Dalla casa di faccia ecco uscire il giovine Nisio, e i suoi vecchi e la
Maria dirgli addio anche dalla finestra.

— A Pasqua d’Uovo!

— Sì, a Pasqua d’Uovo, — ripeteva egli camminando lentamente; e durò un
pezzo a camminare lentamente, perchè gli dispiaceva di separarsi tanto
presto dai genitori. Ma alla fine, quando ebbe fatto qualche passo
fuori di porta, riflettè che stando lontano da casa sua procacciava
il sostentamento di chi gli aveva dato la vita, e allestì il passo, e
tornò contento a fare il proprio dovere.

Dopo due anni il suo principale burbero ma onesto, sentendosi fiacco
per la vecchiaja, lasciò a lui tutta la direzione della fabbrica,
assegnandogli un buono stipendio e una partecipazione agli utili.
Sicchè Nisio potè aprir casa in quel paese, condurvi i suoi genitori
per non doversene più separare, prendere per moglie la buona Maria
ricompensandola dell’amorosa assistenza fatta ai suoi vecchi, e potersi
dire pienamente contento.


III. — La vigilia dell’Epifania.[236]

Era la vigilia dell’Epifania, e in varie strade di Camaldoli vedevasi
un viavai di ragazzi e di giovinastri con torce e granate accese e
fumanti, e udivansi un tafferuglio, un risuonare di strane vociacce, un
rimbombare di stridule trombe, e per tutto conciliaboli e spauracchi,
quasi la sognata ribaldaglia delle streghe fosse venuta a trescare in
quel luogo.

— Stasera — diceva Gigi merciajo a un rivenditore nel chiudere la
bottega — stasera Camaldoli è divenuto proprio una casa del diavolo.
Ma anche tu, Cencio mio, mescolarti in queste ragazzate! Mi fa specie
davvero, che un uomo che ha moglie e figliuoli....

— Che cosa vuoi che ti dica? È un uso antico; vo dietro alla corrente
io. E poi non fanno la Befana anche quelli della Pergola?[237]

— E se non hanno giudizio loro, lo volete perdere anche voialtri?
E poi quello è uno stillo[238] de’ coristi per far quattrini o per
gozzovigliare a spese degli altri; e voi sciupate senza sugo que’ po’
di soldi che vi costano tanti sudori! Codesta granata per esempio, non
sarebbe meglio serbarla per dare una buona spazzata alla tua bottega?
E quel povero ragazzo del tuo figliuolo con quella tromba alla bocca
si logora i polmoni e va a rischio d’allentarsi. Un buon medico che
pratica molto per questi luoghi e vuol bene alla povera gente, mi
diceva che le chiassate delle rificolone e delle befane,[239] a motivo
dei fischi, degli urlacci e delle trombe, fanno venire l’ernia a una
quantità di persone....

— Tu dira’ bene; ma ormai sono in compagnia, ho promesso; e se manco,
domattina mi fanno martire.

— Perchè s’accorgeranno che hai avuto più giudizio di loro. Guarda che
premura stasera di mantenere le tue promesse! Fa’ a modo mio: o non
v’andare, o provati a dissuadere anche loro....

— Oh sì! e subito mi darebbero retta! Anderei a rischio d’essere
canzonato pel dì delle feste!

— E per fare una buon’azione tu hai paura delle beffe?

— Ormai ho pagato la mia crazia[240] ogni settimana per la spesa del
carro e della cena, e giacchè sono in ballo voglio ballare. Tanto, se
non ci vo, non mi rendono mica i quattrini.

— Meglio perderli e perdere la cena, che andare a rischio di capitar
male in cattiva compagnia, d’ubriacarsi, e qualche cosa di peggio!
Ecco! per le scioccherie i quattrini si trovano, e per farne buon
uso non si sanno mettere insieme. Se tu avessi portato quelle
craziuole[241] nella cassa di Risparmio; o se.... c’intendiamo....

— Oh, i conti addosso poi non li voglio! — E se ne va tutto stizzito,
serrando la bottega in fretta e furia, e correndo col figliuolo alla
bettola, dov’era un ritrovato di bighelloni per accompagnare la più
sciatta befana che mai fosse andata a zonzo per Camaldoli.

Intanto una povera tessitora, mamma senza cervello, rimpinzava di fave
cotte il corpicciuolo d’una sua bambinella di quattro o cinque anni,
dicendo: — Mangiane dell’altre, piccina mia, mangiane dell’altre, sennò
la befana stanotte viene a bucarti il corpo con lo stidione. E sai? non
servirebbe ch’i’ ti mettessi addosso il tagliere o l’asse del pane....
Le senti tu le trombe? Eccola, eccola! vieni alla finestra a vederla
passare.

— Mamma, ho paura!

— Vien via, grulla! Vedrai domani quante chicche vi saranno nella tua
calzina.[242] Oh! svoltano in via dell’Ariento.... Che peccato! Ma più
tardi passeranno anche di qui. Eh la Befana non manca!

— Che viene anche quando si dorme?

— Di buona ragione! Se tu vedessi! Col capo tutto imbacuccato, col viso
nero, zitta zitta, le braccia lunghe che non finiscono mai....

— Picchiano, mamma! — esclama la bambina tutta spaurita, acciuffandola
per la sottana.

— Animo! Che geate[243] son queste? Va’ a vedere chi è.

— Non mi lasciate al bujo! — e piangeva.

— Di che ha’ tu paura? della gatta ignuda? Chétati, o ti sculaccio. Se
ti sente la Befana! non ti porta nulla, o t’empie la calza di carboni
presi dal fondo dell’Inferno. Animo! vien meco. E ora? lo vedi? per
pigliarti in collo mi s’è spento il lume!

— E’ picchiano daccapo, sentite?

— Andiamo ad aprire.

— Al bujo?

— Oh, non sarà il Lupo mannaro,[244] nè lo Smisurato, nè l’Orco che
vengano a portarti via! —

La madre scende le scale con la bambina che trema come una foglia;
apre, ed è la vecchia Liberata che le chiede il piacere di un po’ di
fuoco pel veggio, dicendole: — Fatemela voi questa carità. Tutte le
botteghe sono chiuse, con questa miseria delle befane!

— Qua il veggio. Aspettatemi costì. Uh, questo veggio pesa che gli
spiomba! Che diascolo ci avete vo’ messo, maestrina?

— Un quattrin di brace, ed è pochina bene. A mala pena mi potrò
scaldare il letto, col vento che tira stasera. —

Mentre la Brigida, con la bambina in collo, mette il fuoco nel veggio
della vecchia: — Ecco fatto! — esclama — il fuoco s’attacca alla
paletta. Ci mancava ora che venisse questa strega a farmi restare
al bujo. Era meglio che la fosse andata a ballare co’ diavoli sotto
il noce, se la voleva scaldarsi bene. Vien vien, bambina, andiamo a
portarglielo subito questo benedetto veggio: il lume l’accenderò dopo;
non mi par vero di levarmela di torno. Ma sentite che peso! Scommetto
io che in questo veggiaccio vi sono tutti i denti della Versiera! —
Prima di scendere mette la granata alla finestra, e poi va all’uscio,
e non vede più la povera vecchia. — L’ho detto io? Era venuta a
stregarmi la figliuola! Vecchia perfidiosa! Ho messo la granata, e se
l’è battuta. Va’ via anche tu! — E scaraventato il veggio nel mezzo di
strada, fa un’usciata che ne tremano i vetri delle finestre, e torna su
con la bambina tramortita dalla paura.

La vecchierella, per timore d’esser buttata in terra da certi
scioperati che berciando e barcollando pigliavano tutta la strada e
non le avevano dato tempo di rifugiarsi nell’uscio, erasi rintanata nel
vicino chiassuolo per lasciarli passare. Poi studiato un ringraziamento
umile e cortese, perchè sapeva d’aver che fare con una donna bislacca
e piena d’ubbìe, esciva dal suo nascondiglio, quando udì lo scoppio
del veggio e il tonfo dell’uscio, e vide i cocci e la brace per
terra. Povera Liberata! quella sera le toccò a tremare dal freddo, e
a piangere il suo veggio che le costava molto, perchè era di quelli
impiombati.

La notte s’inoltra; comincia a piovere e a tirar vento. Quando il
fuoco s’attacca alla paletta, perchè il ferro tira l’umido, è segno di
pioggia.

Torna a casa il marito della Brigida; ha le traveggole e sta male in
gambe per essere andato anch’egli alla bettola a vuotare un fiasco ad
onore della Befana. Inciampa ne’ cocci del veggio, perde l’equilibrio,
stramazza per terra, e si spacca la testa. Il male non è grave, ma lo
strepito e gli urli e le disperazioni della Brigida mettono a soqquadro
la strada. Poi un litigio tra lei e il marito, e un rimescolamento
maggiore nella bambina. Allora la madre è più che mai persuasa che
la Liberata sia una strega, che abbia preso a perseguitarla, ed anche
prima di fasciare la testa al marito che grondava sangue, si confonde
a cercare nella cassa il ramo d’abeto per metterlo sulla soglia
dell’uscio.

Alle due dopo mezzanotte si sente gridare: — Al fuoco! al fuoco! Brucia
la bottega di Cencio rivenditore. — O ch’egli nella furia di chiuderla
avesse spento male il lume o lasciato il veggio col fuoco sempre acceso
accanto a’ suoi cenci, o che taluno avesse smorzato una torcia alle
bande mezzo imporrate, fatto è che la bottega bruciava davvero. Il
merciajo andando a letto tardi, perchè aveva voluto mettere in pari
la sua scrittura, sentì il puzzo del fumo e scoperse il fuoco. Avvisò
Cencio ed il vicinato, corse a chiamare le guardie del fuoco, dette
mano a spengere, vigilò ogni cosa perchè Cencio era sbalordito dal
vino e dalla paura; e presto cessò il pericolo, sebbene fosse grande, a
motivo del vento che trasportava le faville per tutto.

Il giorno dopo, un visibilio di congetture sulla cagione del
bruciamento; ma nessuno ne incolpò gli scompigli e le follìe originate
dal baccano della Befana.

La Brigida cominciò a mettere in campo la vecchia Liberata, sospettando
che essa sola fosse cagione di tutte queste disgrazie; e già tra
parecchie altre donnicciuole si bucinava non so che di fattucchierìe e
di stregature. Indi la figliuolina di quella sciagurata madre, per le
paure sofferte, per un’indigestione di fave, di confetti e di panforte,
s’ammalò, dette addietro in pochi giorni, e morì prima che fosse
chiamato il medico a visitarla, e dopo aver preso qualche sciagurato
intruglio di donnicciuole o di ciarlatani.

Allora ribollirono i sospetti contro la Liberata; le chiacchiere
si moltiplicarono; il vicinato incominciò a vedere di mal occhio, a
mortificare, a maltrattare la misera vecchierella, e la faccenda finì
al Commissario con piati e precetti e carcerazioni e spese e discordie.
Sicchè alla fine la Liberata, sebbene fosse stata difesa e assistita
da Gigi merciajo, vedendo che quella non era più aria per lei, con
santa rassegnazione lasciò la sua cameruccia e andò a ricoverarsi
nell’ospizio dei poveri; ma il merciajo non lasciò di andare a
visitarla tutte le domeniche, recandole quando una cosa quando l’altra
per conforto della sua tribolata vecchiaja.

Questo medesimo uomo caritatevole e savio, trovato nel suo bilancio
del mese un guadagno maggiore del solito, cancellò un debito stantìo
del rivenditore che era rimasto brullo[245] pel bruciamento, e gli donò
una cinquantina di lire per sostentare la famiglia finchè non si fosse
riavuto. Cencio lo ringraziava di tanta carità; ma il merciajo: — Non
voglio ringraziamenti — gli disse. — Tu mi devi soltanto promettere
di badar meglio a’ fatti tuoi, e soprattutto nella vigilia di
_Befanìa_. —


VI. — Il giorno di Berlingaccio.

— Animo! per oggi facciamo festa. I’ non ne vo’ sapere più nulla
della lima; è Berlingaccio, — diceva maestro Simone magnano al suo
fattorino di bottega. — È meglio andare sotto gli Ufizj[246] a vedere
le maschere. O tu, maestro Carlo — al magnano di faccia, — che cosa fai
che non serri ancora la tua bottega?

— Che è festa di precetto?[247]

— No, ma un po’ di svago ci vuole per tutti.

— Questa non la ’ntendo. Dello svago ce ne pigliamo abbastanza le
domeniche; e poi mi preme di rimettere il lavoro quando l’ho promesso;
e sinchè ho da fare, non smetto io.

— E non vorrai nè anche vedere du’ maschere?

— Non mi par vero che di qui non ne passino. Sono scioccherie che mi
fanno rivoltare lo stomaco. Gli uomini ho piacere di vederli in viso
io, anche quando si spassano.

— O badate ora che uomo savio, che sputasentenze! Qualche anno fa,
quando s’era garzoni assieme, tu non la pensavi così, fratello.

— È meglio metter giudizio una volta che mai. E quando s’ha moglie e
figliuoli, mi parrebb’ora di far l’uomo posato.

— Che forse la fo mancare di qualche cosa la me’ famiglia?[248]

— Non dirò questo; ma lo vedi? E’ s’era tutt’e due bardotti alla stessa
paga; poi si aprì bottega di nostro, su per giù nel medesimo tempo. Ma
ora tu hai un garzone soltanto, e io n’ho quattro. Ho più famiglia di
te; la mantengo passabilmente, e qualche cosuccia m’avanza sempre.

— Che vuo’ tu ch’i’ ti dica io? Bazza a chi tocca! Tu se’ più
affortunato di me. Le ordinazioni ti piovono da ogni parte....

— Gli è che levato delle domeniche e delle altre feste d’intero
precetto, i’ lavoro sempre. Per me, sotto la Fortezza, Lungarno di
Carnovale, al Monte alle Croci i venerdì di Quaresima, al Prato delle
Lune per San Luca, alla Cella di Cialdo, lungo Mugnone, alle Mura,[249]
e via discorrendo, per gozzovigliare, per vedere tanti scioperati
che anche dalle feste sacre pigliano occasione di far baldoria e
d’ubriacarsi, chi m’ha visto m’ha visto. E poi non siamo più dell’erba
d’oggi, Simone mio; e a stare a bottega più che si può, è sempre meglio
per l’anima e pel corpo.

— Ed avrai cuore di tener costì a telonio tutta la giornata codesti
ragazzi?

— Io non gli obbligo: chi vuole sdarsi,[250] padrone; e’ fa sul suo.

I garzoni, ridendo sotto i baffi, lavoravano lietamente; e chi diceva:
— Io me ne trovo bene a dar retta al principale; — e chi: — Ho più
gusto a portare un giulio a me’ madre, io, che a veder cento maschere.

— Sai tu come l’è? — rispose maestro Simone — voglio andare sotto gli
Ufizj; la moglie m’aspetta. Oh! guarda, guarda il me’ Biagio vestito
da Arlecchino. Che cosa te ne pare? Non è un giojello? Buffone! ti
riconosco, sai? Eccomi, eccomi. Di’ alla mamma che vengo subito; corri.
Addio, maestro Carlo. Buona veglia!

— Addio. Animo, ragazzi! il lavoro d’oggi rende il doppio. Povero
Simone, vuol rovinarsi; ma il peggio è che quel figliuolo s’avvezza
male! —

Nella strada non si udivano altri strepiti che quelli dei martelli e
delle lime di maestro Carlo e dei suoi garzoni.

Un’ora dopo, cápita un giovine di banco tutto frettoloso in cerca di
maestro Simone, e trova chiusa la bottega. — Volevo maestro Simone —
dice a Carlo; — è il magnano del mio principale; ma si vede che oggi
e’ se la sbirba; suo danno! Venite voi, maestro Carlo; so che posso
fidarmi. Il principale ha bisogno di mutare certe chiavi. Se avete
tempo, pigliate gli arnesi: ci vuole un lavoro lesto e fatto con garbo.

— Grazie; ma io non voglio levare questo guadagno a maestro Simone. È
andato sotto gli Ufizj, posso mandare a cercarlo.

— Vi par egli? Il principale non può aspettare; domani parte. Animo!
Una volta tanto non ci sarà male. Doveva stare a bottega il balordo! Ve
lo chiedo proprio in piacere. E se non venite voi, cerco un altro.

— Quand’è così, eccomi a’ vostri comandi. Lavorerò per Simone.

— Va bene. Ma prendete de’ buoni arnesi; le son toppe indiavolate.

— Se vedrò di potervi contentare, starò all’impegno: sennò, vi
servirete d’un altro.

— Così parlano i galantuomini; ma chi ha meno pretensione, dà più nel
segno.

— Andiamo. Ragazzi, lavorate. Or ora torno. —

Maestro Carlo si comportò da suo pari; lavorò a bottega chiusa fin
dopo la mezzanotte; e il banchiere fu tanto contento della sua abilità
e della sua esattezza, che volle dargli un bello zecchino. L’avrebbe
anche fissato per altri lavori invece di Simone, ed egli rispose: — La
scusi, non mi dà l’animo; non voglio levare il pane a nessuno. Se oggi
Simone ha avuto la disgrazia di non poterla servire, non sarà così da
qui innanzi.

— Hai ragione; mi piace la tua onestà. Ma c’è un forestiero che mi
richiede d’un buon magnano per dargli molto lavoro. Gli propongo subito
te, perchè sono sicuro di farmene onore.

— Ed io lo servirò meglio che potrò. Grazie tante! —

Il giorno dopo, all’aperta di bottega, maestro Carlo andò a trovare
maestro Simone, che era sempre immelensito dal chiasso e dal sonno. — E
com’è andata? Ti divertisti tu a tuo modo?

— Lasciami stare! non ho più fiato; e quel che è peggio, mi trovo
rasciutta la tasca. Buon per me se jeri t’avessi dato retta! Me
ne seguirono d’ogni razza! Che giornataccia! Il figliuolo m’ebbe
a rimanere sotto una carrozza; si conciò tutto, e trema sempre dal
rimescolamento; ho paura che mi s’ammali. La me’ donna si strappò il
vestito nuovo. Io non trovo la via di rimettermi a lavorare. Sarei
capace di andarmene a gironi[251] per passar la mattana.

— Vorresti pregiudicarti più che mai? Animo! a ogni cosa v’è il suo
rimedio. Coraggio! Una buona settimana di lavoro ripara a tutto. E
intanto, vien qua. Lo vedi questo zecchino? È tuo; lo guadagnai jersera
per te, lavorando a un banchiere che aveva mandato a cercarti. E’ mi
ha promesso il lavoro d’un forestiere, e ci combineremo per farlo a
mezzo. —

Maestro Simone gli buttò le braccia al collo; non voleva lo zecchino,
ma finalmente lo prese; fece proposito fermo di non mai più abbandonare
il lavoro pei passatempi frivoli e dannosi, e fu puntuale con sè
stesso.


V. — Un lunedì in Camaldoli.

IL CANARINO.

Un lunedì mattina, levatomi presto, passeggiando bel bello, arrivai
in Camaldoli. Appena entrato in una via delle più popolose, odo un
frastuono di risate, d’urlacci, di batter di mani e di fischi; e
vedo ragazzi col loro pezzo di pane sotto il braccio, uomini con gli
arnesi del mestiere, donne scapigliate e in ciabatte accorrere ed
affollarsi davanti una casa, e bambini e fanciulle alle finestre,
e tutti fare un tafferuglio, uno schiamazzo da disgradarne la fiera
dell’Impruneta;[252] e guardavano e accennavano un tetto che poteva
essere dominato in parte anche dal mezzo della strada. Su quel tetto
v’erano una donna e un fanciullo che parevano forsennati, ballonzolando
la tarantella. A un tratto anch’io fui mosso alle risa; ma tosto me ne
uscì la voglia, pensando al loro pericolo, ed accorgendomi che facevano
la caccia ad un povero canarino scappato di gabbia. Le fischiate
erano pei loro inutili tentativi di chiapparlo; gli evviva pei voli
dell’innocente bestiolina, quasi fosse diventata il Pagliaccio di monsu
Guerra,[253] allorchè ad ogni salto mortale,

    Dell’attonita gente i magni spirti
    Accendeva di bella emulazione,
    Ed in mezzo agli applausi iva l’eroe
    Con la patria nel petto a far più grande
    D’essa il nome, ed il suo....

Fatto sta che il misero animaluccio, stordito dagli urli, spaventato
dai suoi persecutori, che per affetto sviscerato lo volevano
rimprigionare, alla fine tentò un volo più ardito, ma non lo resse,
e precipitò sulla folla, allora cento mani si contesero il protetto
amico della libertà; ma l’infelice pagò troppo cara la protezione,
perchè morì soffocato da chi avea tanto zelo per la sua salvezza.
Intanto i suoi tiranni rimasero sul tetto, delusi e segno alle beffe
ed alle fischiate della marmaglia; ed o fosse l’impeto dello sdegno,
o la fretta di rifugiarsi nell’abbaìno, venne giù un tegolo smosso, e
spaccò la testa a un ragazzo. Allora un prorompere in osceni improperj,
e uno schiamazzare più strepitoso che mai, finchè non scaturirono dalle
vicine botteghe due o tre uomini armati di bastone o di nerbo a dar la
caccia ai monelli, tempestando bòtte alla cieca e facendo piazza pulita
in un attimo. Il corpo dell’estinto ebbe tosto sepoltura nel ventre
d’un gatto.

Tutto ciò poteva dirsi un’inezia, se non fossero stati gli strapazzi
patiti dal canarino prima di morire, e le dolorose conseguenze che
derivarono dalla curiosità di chi accorse a vedere e ad accrescere
lo scompiglio. Non dirò le inimicizie e le contese dei padroni del
canarino col vicinato: non i lividi, le paure e i pianti dei bambini
lasciati soli e ruzzolati a terra dal letto, non le prede dei gatti
rimasti padroni delle cucine.... Le grida disperate che uscivano da
una casa della strada contigua mi spinsero ad entrarvi con gli altri:
«M’è affogato il figliuolo! Ajuto! Oh Vergine! urlava una donna
spenzolandosi al pozzo, e strappandosi i capelli; e la gente affollata,
sbigottita, non sapeva che cosa farsi; quand’ecco un giovine, ratto
come il baleno, aprirsi la via, ghermire la fune, annodarla che non
scorresse e calarsi nel pozzo; e un uomo accorrere con una scala, e in
men che il dico ricomparire salendo per essa il giovine coraggioso con
in braccio un bambino di forse quattro anni. Non dava segno di vita;
e la madre, più forsennata di prima, a stringerlo al seno, a baciarlo,
a brancicarlo piangendo. Ma l’uomo cavatoglielo dalle mani: — Potrebbe
darsi che non fosse morto, — diceva — aspettate; — e presolo pei piedi
lo capovolgeva per fargli vomitar l’acqua secondo il comune errore.
Allora mi feci avanti, e: — Se v’è speranza di salvarlo, — esclamai
— per carità non fate così. Via subito a chiamare un medico; — e il
giovane a corsa pel medico. E intanto feci stendere supino il fanciullo
sul letto, e scaldare quanti panni si poteva..., e pregai che la folla
facesse posto. Per buona sorte un medico era vicino, e tosto venne.

Postosi attorno al fanciullo, bisognò respingere a forza i curiosi,
altrimenti non avrebbe avuto campo di fare il suo ufficio. È una
crudele stoltezza affollarsi attorno un disgraziato per vedere,
senza dare ajuto, facendogli respirare un’aria cattiva e impacciando
coloro che lo assistono. Io trassi in disparte la madre per frenare
le sue smanie e la sua impazienza, e intanto udiva il cinguettìo
delle donnicciuole: — Già non concluderanno nulla.... Pretendono di
resuscitare un morto.

— Le sono minchionerie; tempo perso!

— È tanto bracona quella benedetta Geltrude, che si lascierebbe
bruciare la casa per andar dietro a’ fatti degli altri.

— Dacchè il suo marito sta con l’Ebreo ha la sperpetua in casa. —

Come se il servire onestamente, e senza rinnegare la fede, un Turco o
un Ebreo, fosse peccato!...

Dopo due ore di tentativi e di cure, dopo una buona cavata di sangue ed
altre opportune cautele, l’abile medico con grande maraviglia di tutti
e con indicibile consolazione della madre, aveva richiamato in vita il
fanciullo. Esaminando allora in che modo e’ fosse caduto nel pozzo, fu
visto ch’ei doveva essere salito da una seggiola sopra la madia, posta
con poco senno presso la finestra del pozzo, e che questa finestra era
stata scapatamente lasciata aperta dalla madre per accorrere fuori; il
bambino, o volesse guardare il fondo, o baloccarsi con la fune, s’era
spenzolato tanto da precipitare laggiù. Fortuna che la cucina era a
terreno, e il pozzo poco profondo! La madre incolpandosi, giurando
di non lasciar più solo il figliuolo, di chiudere sempre il pozzo,
e tuttavia piangendo dirottamente, ringraziava Dio, il medico e il
giovine, il quale, senza curarsi di ringraziamenti o di lodi, già se
n’era andato pel fatto suo. Aveva una buona fisonomia tutta serenità e
schiettezza, le vesti da bracciante[254] ma pulite, gli sguardi pieni
di fuoco; ed era intrepido e risoluto negli atti. Seppi che faceva il
trombaio; e tutti lo tenevano per giovine onesto, laborioso, abile e di
buon cuore.


LA PROTEZIONE.

Batteva il tacco innanzi a me un uomo attempato e grassotto; aveva
il codino, i calzoni corti e le fibbie alle scarpe. Quel vestiario
antiquato mi dette nell’occhio, e accostatomi un po’ più, vidi una di
quelle facce rubiconde e gioviali che fanno consolazione e mettono
proprio di buon umore. A un tratto mi parve che incominciasse a
rattenersi o a camminare di malincorpo, come chi teme il passo di
Malamocco. Ora si fregava il mento con la mano storcendo la bocca,
ora si rosicchiava le unghie, stabaccava, o faceva la rassegna dei
suoi bottoni. Ma finalmente, squadrata ben bene una casuccia, e scossa
la testa, si piantò nel rigagnolo a gambe larghe e con le braccia
incrociate sul petto, alzò il capo facendo rizzare all’improvviso il
codino sul bavero lumacoso della giubba, e chiamò con quanto fiato
aveva — Giovann’Antonia! — Una vecchia impresciuttita e rubizza apparì
a scatto di molla alla finestra dell’ultimo piano, esclamando: — Oh!
mamma delle poerine! gli è proprio lui!

— Volete voi far motto a capo scala, Giovann’Antonia?

— _Gaudeamus!_[255] — rispose ella; e in un batter d’occhio scese
le scale, appuntandosi un fazzoletto bianco, buttato alla peggio per
pudicizia sopra un collo color di nocciòla e grinzoso come quello delle
testuggini. — Che Dio vi dia bene! — esclamò tutta gioconda ed a mani
giunte; — chi non muor si rivede! ogni cent’anni una volta! Animo,
passate; almeno per riposarvi.... Non degna più vosustrissima?

— Non ho tempo.

— No’ siamo alle solite! Sempre le furie. Che cosa vuol dire eh non
esser più dell’erba d’oggi, maestro Jacopo? Ma!... scordarsi proprio di
tutto!....

— Il tempo passa, Giovann’Antonia! —

E la temuta loquacità della vecchia, incominciava a fargli perdere la
pazienza.

— Lo so che il tempo passa — rispose ella ponendo le mani sui fianchi,
— ma eh? quarant’anni fa non avreste parlato così; _salmisia!_[256]

— Insomma! — esclamò Jacopo, uscendo de’ gangheri, — o chetatevi o me
ne vado.

— Sì, starò zitta. — Soggiunse allora colei strillando meno. — Dite
voi; in che cosa posso servirvi?

— Dov’è Matteo? Sempre a gironi? Ha egli messo giudizio? Ho bisogno
d’un lavorante. Quasi quasi mi arrischierei a metterlo in fabbrica
un’altra volta.

— Dio facesse! — esclamò con fuoco; — mi sono raccomandata tanto
nelle mie orazioni! volevo ben dire che vo’ ci avessi abbandonati per
l’affatto, a questi lumi di luna!

— In conclusione, c’è egli?

— Ora come ora.... ve la dirò giusta giusta.... — e con voce
supplichevole — gli è a caccia; ma, non dubitate....

— Con quel solito signorino? con quel protettore spiantato? Ho capito!
Buon pro gli faccia! — E si voltava risoluto per andarsene.

— Per l’amor di Dio, sentite — diceva la vecchia tutta umile e
addolorata, scongiurandolo a trattenersi. — Domani va lassù il prete;
gli mando a dire che torni subito....

— Figliuola mia, non s’è fatto nulla; finchè Matteo farà il
secutus[257] a quello sdolcinato ganimede, a quel vagabondo pieno di
boria e di debiti, può girar largo. Per me, lo sapete, voglio gente che
stia al sizio: i signori nei palazzi, e i braccianti a bottega.

— Ma che cosa volete ch’i’ ci faccia io, povera madre? E’ non aveva
lavoro.... Quando stette con voi la prima volta stentava tanto a
guadagnare....

— Perchè aveva poca voglia di durar fatica; perchè stava dietro a
tutte le festicciuole.... E poi, si sa, bisogna fare il noviziato; e se
avesse avuto pazienza, a quest’ora potrebbe riscuotere un buon salario.
Ma se crede di passarsela meglio a baloccare il signorino, padrone, si
serva....

— Oh che dite voi? figuratevi! e’ c’è andato per non disgustare la
casa.... Le son persone che ci possono fare del bene....

— Sarà....

— Fate conto che qualche cosa casca sempre. Non foss’altro gli avanzi
di cucina....

— Oh! su questo poi, state zitta! buona roba!... me ne ricordo.... la
grazia di Dio andata male.... Sciatterìe, golaggini da far rivoltare
lo stomaco.... un companatico da aver bisogno del medico e dei
purganti.... Vuol esser pane, maestrina!... La si vede la bella cera
della vostra nuora e della sua povera creaturina che ingojano quei
veleni! Pane, pane!...

— O gli spogli?... li contate voi per nulla?

— Sciala! uno straccio di falde all’inghilese, e i pantaloni bianchi
ragnati.... per far venire la voglia della giannettina e del sigaro!
Vuol esser lavoro, e rivestirsi a modo suo, e non portare la livrea di
nessuno. A rivederci; ho fatto tardi.

— Ohimè, vo’ siete diventato aspro davvero! Ma via!... voglio darvi la
ragione; e sapete? da povera madre, gliel’ho dette anch’io queste cose.
Ma noialtri, mi risponde, noialtri non possiamo fare superbia....

— Superbia! superbia! Eh, Giovann’Antonia, i’ vi compatisco io!...
L’onore, dico, l’onore.... Quando s’ha un par di braccia e un mestiere
alle mani, e voglia di lavorare, non è superbia se ci teniamo
di campare da braccianti, ma a casa nostra, e senza strascicarci
dietro agli sfaccendati per aspettare che caschi qualcosa, per aver
protezione, e bisognando, esser costretti a tener di mano.... lasciarsi
disonorare.... Basta, non ho più tempo da perdere. — E se n’andava
pieno di dispetto.

— Oh Vergin santa! dico che avete mille ragioni;... ma io....

— Sentite — ritornando un po’ indietro e parlandole nell’orecchio. —
Quando quello svenevole dicesse: «Matteo, va’, trovati una bottega; ti
darò del lavoro.... te ne farò avere da’ miei amici.... Ecco, ti compro
gli arnesi: mi renderai i denari a suo tempo....» Oh! allora crederò
al bene ch’e’ dice di volergli; allora benedite la sua carità.... Già,
me l’aspettava, sapete, questa notizia! Ma per farvi vedere ch’i’ sono
sempre il maestro Jacopo di quarant’anni fa, i’ era venuto prima a
cercar di lui. Ora ho fatto il mio dovere; non occorr’altro. —

La povera vecchia non aveva più parole; un nodo le serrava la gola;
implorava misericordia con le mani giunte, e con le lagrime grondanti
sotto le ciglia canute. Maestro Jacopo che non era un orso, abbassando
il capo come per guardarsi le fibbie delle scarpe:

— Chetatevi! — disse con la voce commossa; — Giovann’Antonia,
chetatevi! Ci penserò meglio; vedrò; ma non gli mandate a dir nulla....
Lasciate che si diverta, che si sfoghi. Quando ritornerà, se ne
avrà voglia, ci sarà da lavorare anche per lui.... La Provvidenza mi
assiste.... Sì, mandatemelo a bottega.... Po’ poi, la colpa non è tutta
sua.... è traviato, e potrebbe darsi che una volta si ravvedesse.
Mettiamolo daccapo alla prova.... E quella disgraziata della sua
moglie, come se la passa?

— Eh! che cosa volete? — ripigliando tutto il suo animo e rasciugandosi
le lacrime col grembiule. — La non si può dar pace.... E’ la fa
stentare.... e così sopra parto.... Volete voi che la chiami?

— No! — con una risoluzione che sarebbe parsa crudele, se la voce non
fosse venuta come un gemito dal fondo del cuore; e poi, nel pigliare
la mano alla vecchia per dirle addio, le lasciò una moneta di dieci
paoli![258] e, senz’altro, pigiandosi il cappello sugli occhi, andò
via.

La Giovann’Antonia proferì qualche parola di ringraziamento, si fermò
sulla soglia dell’uscio a guardargli dietro, e poi, quando l’ebbe
visto scantonare, baciò due o tre volte quella moneta, e adagio adagio
cominciò a salire le scale. — Questi sono uomini! — diceva tra se e sè.
— Che sbaglio fece mia madre, Dio la perdoni, a non volermi dare a lui,
perchè era nocentino![259] Nocentino o no, aveva un buon mestiere e
buone intenzioni; e un cuore di Cesare! Quel che diceva, lo manteneva.
Era colpa sua, poverino, se non conosceva nè babbo nè mamma? A me non
importava; conoscevo lui, e tanto basta.... Mio marito, buon’anima....
uh! il cielo mi guardi dal dirne male! era una perla.... ma con tanto
voler fare le cose alla grande.... ecco qui.... e’ ci ha lasciati
come Tenete.[260] E quel benedetto ragazzo tirerebbe da lui! e’ si
vergogna di portare il grembiule.... Vuol bazzicare i signori.... Oh!
ma starò a vedere io, se questa volta lascierà l’arrosto pel fumo.
Eh, eh! non sono ancora sottoterra, no, io! — E così dicendo arrivò al
pianerottolo, riprese fiato, e andò a consolare la povera nuora, che
pallida, a capo basso, logorata dal crepacuore, cullava il figliuolo di
un padre senza giudizio; un bambino macilento, nutrito col latte del
dolore, e più avvezzo a veder le lagrime che il sorriso d’una madre
sventurata ridotta a patire ed a piangere per le insensatezze del
marito traviato e per le insidie del protettore libertino.


I COMPAGNONI.

Tra la tenerezza e il rammarico di ciò che io aveva visto e saputo, mi
posi dietro a due calzolaj che s’incamminavano con poca sollecitudine
verso la bottega. Uno di essi aveva l’aspetto sereno ed un buon
colorito, e avresti detto che andasse adagio per far piacere al
compagno; il quale col viso giallo, col sigaro in bocca e gli occhi
smarriti, pareva malato. — Animo! — dicevagli dolcemente l’altro,
allestisci il passo, che è tardi.

— Oggi non c’è bisogno di furia, — rispose. — È lunedì. Tutti se la
sbirbano.

— Oh! un bel discorso codesto! Par che sia obbligo seguire il mal
esempio degli altri, sciupare il tempo, i denari e la salute perchè
è lunedì. D’avanzo chi ha poco giudizio si rovina le domeniche! E tu
lo sai, figliuolo. Credevo d’averti persuaso; ma si vede che per tua
disgrazia non vuoi darmi retta. Guarda se quelli che si potrebbero
spassare più di noi, nemmeno ci pensano! Il nostro principale s’è fatto
un patrimonio, ma non smette mica di lavorare; e lavora tutti i giorni,
e dalla mattina alla sera. E nella sua gioventù era un povero garzone
come noialtri. E il signor Andrea che conosci anche tu, con un’entrata
di dieci paoli il giorno, e poca famiglia, potrebbe darsi buon
tempo.... gnornò; e’ lavora sempre! Conosco un magnano che ha una villa
con tre poderi; nonostante va a bottega, e non fa vacanza nè anche le
mezze feste!... — Il compagno rispose:

— Sicuro! loro hanno già fatto i quattrini; e chi più ha, più vorrebbe
avere.

— O che non possiamo mettere in serbo qualche soldo anche noi? Basta
cominciare. Io, tu lo sai, ho il mio libretto della cassa di risparmio.
Quel che avrei speso in merende, in sigari, in divertimenti, tutto lì;
e ancora non son morto ch’i’ non diventi qualche cosa più di garzone.
Per carità, Sandro mio, ti voglio bene, e vorrei....

— Po’ poi io non ho famiglia; posso scialare un altro poco.

— O io che l’ho? E poi quando si fa l’uso alla scioperatezza
e all’ozio, è più difficile ravvedersi.... E’ viene lo
scoraggiamento. —

Intanto un altro giovinotto fischiava a una casa, di dove ne uscivano
due, e tutti insieme fermarono i calzolaj, facendo loro le feste. Il
fischiatore zelante:

— Animo! — disse — figliuoli; oggi ci sono _le corse degl’Inghilesi_
alle Cascine; bisogna andarci. Il ritocchino[261] lo pago io. Ho
sempre un resticciòlo della vincita del terno. Gli hanno a andare tutti
pel medesimo verso. Si deve stare allegramente. Venite, venite. — Il
calzolajo svogliato, che era per cedere alle buone ragioni dell’amico
giudizioso, non potè resistere a quest’invito. Due lo presero nel mezzo
a braccetto, e all’amico non riuscì di trattenerlo. Anzi n’ebbe le
beffe, perchè ricusò di seguirli; ma anche da lontano s’affaticava a
dir loro:

— Date retta a me.... finitela questa storia.... Verrà il tempo che ve
ne pentirete.... — Non gli badarono; e canterellando disoneste canzoni
s’avviarono alle Cascine.


I GIUOCATORI.

Riflettendo passo passo alle triste conseguenze della scioperataggine
a cui s’abbandonano il lunedì alcuni mestieranti della città, mi trovai
di faccia ad una prenditoria di lotto.

   [Illustrazione: I GIUOCATORI]

V’era la folla a leggere l’estrazione di Roma. Anch’io mi fermai;
nessuno degli affollati, uomini o donne, era lieto: chi si grattava
il capo, imprecando alla fortuna o al libro de’ sogni; chi si
rammaricava di non aver saputo levare i numeri; chi era disperato per
aver impegnato senza costrutto ogni cosa; e i mariti se ne tornavano
a casa a sfogare la loro collera contro le povere mogli. Grande
schiamazzo faceva un pollajuolo per aver avuto due numeri accanto: —
O va’ a riscoterli! — dicevano gli altri beffandolo. Egli impermalito
rispondeva con oscene parole, senza curarsi delle fanciulle e dei
ragazzi che udivano. Due donne erano per accapigliarsi, sostenendo
l’una d’aver fatto la giocata a mezzo con l’altra, e richiedendo
in conseguenza la metà della messa;[262] ma sarebbe stata capace di
negare la metà della vincita, se la fortuna le avesse assistite. Una
pinzochera battipetto narrava i suoi sogni, le diverse spiegazioni
di essi, citava le cabale, portava le ragioni del non aver vinto nè
ella nè la tale nè la tal’altra che avevano avuto i suoi numeri; e non
era scoraggiata, ma si sdegnava della poca accortezza dei giocatori,
delle malìe fattele per invidia, e dava consigli e avvertimenti per
l’avvenire. Aveva un’udienza numerosa, e i balordi le davano ragione;
ma non tutti. — Gracchia meno![263] — esclamava con acerbo rammarico
una donna rovinata per averle dato retta. — Intanto il tuo marito
è allo spedale e il figliuolo in prigione, precipitàti dal tuo poco
giudizio.

— E non va mai a vederlo quel pover’uomo, — soggiunse un’altra. — Non
v’è pericolo che la gli compri una beuta.[264] Tutti nel giuoco. Quando
venne la Misericordia a pigliarlo, l’era nel botteghino.

— Io poi non mi lascio infinocchiare dalle sue frottole — riprese
una che aveva l’aria di donna savia. — Il giuoco non mi gabba: non
passo mai la lira...; raddoppio la posta quando c’è la Gogna,[265] e
basta....

— E io — scappa fuori una serva — giuoco solamente quando qualcheduno
ne fa delle belle. Mi sa mill’anni che segua una rissa, un rubamento o
un incendio; allora soltanto ricavo i numeri. Ho visto che i più sicuri
si ricavano sempre dal fuoco.

— Me la fareste dir bella, donne senza cuore e senza giudizio! —
esclamò un ortolano che passava di lì col suo carretto. — C’è più
conclusione negli orecchi del mio somaro, che in tutte le vostre zucche
arruffate.

— Aspetta ch’io compri l’insalata da te, villanaccio! — rispose
indispettita una donna.

— Non m’importa; tanto con chi giuoca non ho mai fatto un pasto buono.
_Arri_ là, Bartolo! che sta’ tu a fiutare? Non senti che è tutto puzzo
di miseria? —

Intanto la pinzochera se n’andava dicendo: — Maria benedetta! è
tardi.... Mi toccherà a perdere la messa; e a quest’ora il confessore
se ne sarà andato.... — E così mischiando il giuoco e la religione,
ella andava a profanare il tempio co’ voti colpevoli di un turpe vizio.
Ecco dall’altra parte correre furiosamente un omaccione in maniche di
camicia, scalzo, ansimante; aprire con impeto la folla, quasi ebbro di
giubbilo, ma ritenuto ancora dall’incertezza; guardare, e sbirciare
con ansietà l’estrazione; s’accosta di più, ma tremando; e poi fatto
certo dell’inganno, si morde le labbra divenute bianche, si caccia
disperatamente le mani entro i capelli, e imprecando con orribili
grida, ritorna indietro.

— Madonna santa! — esclamarono le donne atterrite — or ora si butta in
Arno!

— Gli hanno dato ad intendere che aveva vinto — disse uno sopraggiunto
di fresco. — Ha messo tutto il suo sopra un numero, e per un punto ha
perduto. — E seguitò a narrare la celia ordita per fargli credere la
vincita.

Il peggio si è ch’egli sfogò la sua collera sulla sventurata famiglia;
e il frenetico, arrestato pe’ suoi disordini, dovè andare a scontarli
in una prigione. Dopo questi fatti mi parve di scorgere sul volto di
alcuni un rammarico, una specie di ravvedimento, e tutti se n’andarono
costernati. In terra, di faccia alla prenditorìa v’era la fiorita dei
biglietti stracciati. Parevano sangue mischiato di lacrime e di veleno,
e che ne uscissero _sospiri, pianti ed alti guai_!


LA GOGNA.

La gente se n’andava alle sue faccende. Scoccavano le dieci; ed ecco il
suono lugubre della campana del Bargello che incomincia a percuotere
l’aria. Il bisbiglio rinasce. Uno, due, tre.... escono dalle case,
dalle botteghe, e via a corsa verso il Bargello[266] e non solamente
uomini, ma ragazzi, e donne e fanciulli. Pur taluno proseguiva pel
fatto suo, e allestiva il passo, e sospirando si chiudeva gli orecchi.
Udii un bambino domandare alla mamma che cosa volesse dire quella
campana e quel correre della gente: — Raccomandiamolo a Dio, — gli
rispose; — suonano per uno che ha fatto del male. — E s’affrettava per
chiudersi in casa.

Ma gli altri: — Vieni tu? Animo, si fa in un momento.

— Oggi ce ne sono tre.

— Sì, bisogna vederli.

— Sventurati! — esclamò un sacerdote, che forse era il parroco, —
sventurati loro, e voi più di loro! E avrete il cuore di lasciare le
vostre faccende per vedere l’infamia e il gastigo dei vostri fratelli?
La giustizia umana avrà forse bisogno di questi tremendi esempj; ma
voi, perchè, trascurando il proprio dovere, abbandonate la bottega
o la famiglia per sì crudele curiosità? Quei meschini son lì perchè
hanno trascurato il proprio dovere.... pensateci! E se la disperazione
non gli avesse accecati, o se avessero avuto la fortuna meno avversa,
forse non sarebbero nè anche colpevoli. Compiangeteli piuttosto, e
pregate Dio, affinchè possano sopportare con pazienza il loro gastigo,
e ravvedersi. —

Alcuni tornarono indietro; e il buon parroco accompagnatosi con essi,
strinse affettuosamente le loro mani, li condusse in un oratorio
vicino, e fatta insieme una breve orazione a Dio, implorò perdono e
misericordia pe’ traviati. La sua voce era commossa e, qualche lagrima
cadde dagli occhi di coloro che lo avevano seguìto.


LA BETTOLA.

Verso il mezzogiorno incominciò l’affluenza alla bettola, sebbene
vi entrasse meno gente del solito, perchè essendo giorno di lunedì,
molti dei suoi avventori erano per le osterie di campagna. Intanto
dal terreno di una casuccia poco distante dalla bettola uscivano le
dolorose querele d’una donna.

— Ecco qui, — diceva ella ad una sua vicina, che le aveva portato
per carità una minestruccia fatta sull’acqua, — lui all’osteria, ed
io a patire. Dio ve ne renda merito! Se non foste voi, oggi sarebbe
stato digiuno rigoroso. Finchè non posso riportare quella po’ di
seta non si mangia. Ma eh? che mariti! Hanno la casa aperta, e la
moglie che gli aspetta: ma no! all’osteria per ispendere il doppio, e
ubriacarsi, e non esser più buoni a lavorare nel resto della giornata.
E per soprappiù anche il giuoco! Si comincia dal fiasco, e si finisce
col perdere la camicia. Ma! è toccata a me questa tribolazione....
Benedetto il me’ cognato: guadagna poco! non potrà comperarsi la
carne tutti i giorni; ma quel poco lo mangia con la moglie, sempre
in pace, sempre di buon umore. E la Geppa? ha il marito che lavora
fuori di porta; ma e’ torna a bella posta in Firenze per pigliare
un boccone[267] con la famiglia. E l’osteria l’avrebbe accanto; ma
che! una volta ch’è una volta non c’è entrato. Quelli son uomini! E
senza debiti, e pieni di salute loro e i figliuoli; perchè lì non si
trangugia pane e afflizione. —

La vicina, confortatala ad aver pazienza, andò via. Poco dopo
sopraggiunse il figlioletto della sventurata; ed ella rasciugandosi una
lagrima e composta a serenità la sua faccia, si pose a mangiare con
lui la minestra. Quindi il fanciullo si provava a rodere un tozzo di
pane scuro e risecchito; ma la madre, levandoglielo di mano, diceva:
— Aspetta, bambino mio, è troppo duro cotesto. — E andò a cavare da
un ripostiglio una fetta di pane bianco involtata in uno straccio di
tovagliolo, e glielo dette senza pigliarne un boccone per sè. — Ma
bada, sai? che il babbo non lo risappia. Povera me, se arrivasse a
scoprire che ho da comperarti una libbra di pan bianco! Ah Cencio,
Cencio! Quando mi facevi l’innamorato, a detta tua dovevo trovarmi
a stare come una regina; non mi sarebbe mancato nulla; e sempre
insieme.... E allora tu eri un giojello! Il primo sempre a andare
a bottega; tutto pace, e buono come un angiolo.... Ora, dacchè tu
pratichi tanti capitalacci, e bàzzichi le osterie e i biliardi, sei
diventato un demonio. Carlino! tu piangi!.... che hai?

— Mamma, questo pane non lo posso buttar giù, se non ne mangiate
anche voi. — La povera madre, rimproverandosi d’aver dato sfogo al suo
dolore senza più ricordarsi che era presente il figliuolo, prese ad
accarezzarlo e baciarlo, quando a un tratto fu scossa da uno scroscio
di risa sgangherate. Il pane bianco scappò di mano al fanciullo, ed
ella tutta sgomenta lo raccattò, corse a rimpiattarlo, e poi ricoverò
il figliuolo tra le ginocchia. Ecco il marito in compagnia d’un altro
sciagurato. Pareva che non potessero salire lo scalino dell’uscio; ma
traballando passarono; e narrarono con risa scempiate, che il cammino
dell’oste avea preso fuoco; polli e frittura, tutto sciupato dalla
fuliggine; ma che essi a buon conto qualche cosa avevano in corpo, e
che approfittandosi dello scompiglio erano venuti via senza pagare.
Volevano godersi sotto la Fortezza[268] i denari non spesi all’osteria;
e invitavano anche lei a fare scialo con essi alla barba dell’oste.

— O perchè non ajutarlo a spengere? — diss’ella.

— Cospetto! — rispose il marito, cadendo di scoppio a sedere sopra la
panca — che bruci lui con tutti i libracci dove ha scritto il mio nome!
Ci fa pagare l’osso del collo; e noi ci dobbiamo sbracciare per lui?

— O perchè ci andate? e lasciate le povere mogli a casa a patire?

— Chétati! — alzandosele contro furioso. — Ti conduco a far merenda
sotto la Fortezza, e tu mi vieni fuora con questi discorsi?

— Per carità, — esclamò la sventurata buttandosegli a’ piedi — non fare
strepito!

E il fanciullo piangendo stava tra mezzo, con le mani giunte verso quel
padre spietato. Ma intanto l’amico, che non poteva più stare alle mosse
lo tirò via con sè, e andarono barcollando sotto la Fortezza. La moglie
rimase lì a piangere; e tanto ella che il figliuolo non poterono più
accostarsi il pane alla bocca in tutto quel giorno.


L’INNAMORATO.

Verso sera mi ritrovai in fondo a una strada solitaria e vicina alle
mura della città. Vidi aperta la finestra terrena dell’ultima casipola,
e ne usciva un dolcissimo canto. Era la voce di una fanciulla, e le
parole cantate mi parvero queste:

    Su, notturni viandanti,
      Su, movendo i passi lieti,
      Oda il Cielo i nostri canti
      Nella sua serenità:
        Forse un coro d’Angioletti
        A cantar con noi verrà.

    Della Luna il bianco raggio
      Inargenta omai la Terra;
      Ci accompagna per viaggio,
      E consola i nostri cor.
        Duri eterna l’ora santa
        Della pace e dell’amor.

In quella povera stanza vedevasi un letto, ed in esso una donna
malata, col volto pallido e magro, ma sereno. La figliuola vereconda e
leggiadra, forse di diciotto anni, con vesti povere ma linde, stavasi
accanto al capezzale della madre; e allora faceva la calza; ma presso
la finestra v’era un telajo da ricamare. Vedendo la madre sorriderle
per la dolcezza del canto, tutta consolata continuava:

    Presto andiamo; in sulla via
      Sorge un piccolo tugurio
      Che l’immagin di Maria
      Col suo tetto coprirà;
        Della luna il bianco raggio
        La sua lampada sarà.

    Protettrice delle mèssi
      Tra la siepe in mezzo ai fiori,
      Quante volte genuflessi
      L’han baciata i pii cultori,
        Invocando pei figliuoli
        La gran madre del Signor!

— Vien qui! — disse l’inferma, e le chiese un bacio. Allora la
giovinetta giubbilando si chinò sul suo volto, e le ne diede due.

— E ho finito la calza — disse poi con un sorriso di contentezza.

— Hai fatto presto! e’ mi pare di non aver male con questa figliuola
accanto. Ce n’è più della canzoncina?

— Sì, mamma; ecco il resto:

    Oh! per quante rimembranze
      Sacro è a noi quel monumento!
      Di conforti, di speranze
      Taciturno donator.
        Quante lagrime vi han sparse
        E la gioja ed il dolor!

— Non t’ho sentito cantare mai tanto bene! Mi passano tutti i
dolori.... — Indi, come se un pensiero molesto le fosse balenato alla
mente, si turbò all’improvviso, strinse la mano della figliuola, e
guardandola con occhi supplichevoli, disse: — Ma!... non le darai retta
eh? a quella signora che ti lodò tanto, e che ti vuole per cameriera. È
vero; ti promesse tante belle cose, ma....

— Mamma mia! che cosa dite? Perchè affliggervi dubitando ch’io possa
lasciarvi nè anche un giorno? Già vo’ lo sapete; ancora che fossi certa
che non vi poteste più ammalare, starei sempre con voi, ancora che non
dovessi più pensare a Beppe.... — E nel proferire quel nome, il volto
le si copriva d’onesto rossore.

— E poi, tu hai l’esempio della povera Lisa — riprese la madre.

— Eh lo so, poverina! non ha un momento di bene..., par tisica; lavora
come un martire, e la sua padrona non è mai contenta; le fa fare e
disfare le cose due o tre volte, e non ha riposo nè anche la notte.
Poi.... Oh! povera Lisa!... la mi disse piangendo che l’aveva anche
certi altri dispiaceri più grandi.... tanto grandi, da non potermeli
raccontare. Nè io mi curo di sapere i fatti suoi quando non abbia modo
d’ajutarla. Almeno, diceva potessi uscire! Ma no! e’ la tengono, si può
dire, per forza.

— Che peccato! Lo vedi dunque? non ti lasciar mettere su da nessuno.

— Figuratevi! E se Beppe potesse immaginare che ho parlato con quella
signora, e ch’ella mi fece quei discorsi, Dio guardi!

— Sì, sì, non ci va pensato.

— E non mi date più il dolore di dubitarne. Non vi lascerò mai; e se
Beppe vorrà la mia mano, giacchè non ha nessuno, deve prima promettermi
di star sempre con voi. Oh! lo farà dicerto. Intanto bisogna
raccomandarsi a Dio che abbia il premio al concorso di meccanica,
perchè il suo maestro di bottega gli ha promesso di crescergli il
salario se ha questo premio.

— Oh! gli toccherà, ne son certa.

— Ma chi lo sa? diceva sospirando la giovinetta.

— E se non lo avesse quest’anno? pazienza! — riprese tosto la madre,
confortandola. — A buon conto lavora bene, ha giudizio; e anche senza
il premio, se il principale è giusto....

— Lo so; ma si potrebbe accorare e perdere d’animo....

— Eh via, non aver paura! Beppe non è più un ragazzo. Animo! canta un
altro poco. — E la fanciulla, piena di fiducia, ricominciava a cantare:

    Della luna il bianco raggio
      Inargenta omai la terra;
      Ci accompagna per viaggio,
      E consola i nostri cor.
        Duri eterna l’ora santa
        Della pace....

E interrompendo il canto, si pose in orecchi. La madre si voltò
a guardarla; ed ella con timido sorriso: — M’era parso.... avrò
sbagliato....

— E tu credi che stasera venga presto? Ha finito forse di lavorare
intorno al modello?

— Non lo so, perchè su questo non mi ha voluto dire mai nulla....

    Duri eterna l’ora santa
    Della pace e dell’amor.

Intanto s’accostava alla casuccia un giovine frettoloso. La fanciulla
balzò alla finestra, lo riconobbe, e dopo avere avvisato la mamma,
corse ad aprire. Quel giovine era più lieto del solito; ella se ne
accorse appena gli ebbe rivolto un’occhiata amorosa; e battendo le
mani: — Buone nuove! — disse alla mamma.

Beppe era un artigiano, non bello, ma d’aspetto sereno, piacevole,
sincero e dignitoso; era vestito con semplicità e lindura. Le parole
e gli atti manifestavano la bontà del cuore, un affetto virtuoso e
una buona educazione. Dopo aver salutato l’inferma, zitto zitto e
sorridendo prese il lume, s’accostò al letto, e si trasse di tasca una
lucida medaglia. Le donne la guardarono con subita maraviglia.

— _Michelangiolo!_ — esclamò la fanciulla, leggendo il contorno.
— È il premio? Così presto! Davvero? — Beppe guardando il cielo, e
accostandosi la medaglia al petto, esclamò:

— Dio m’ha assistito!

— Ma tu non me lo dicesti — soggiunse la Nina — che il giorno dei premi
era così prossimo!

— Se non mi fosse toccato...! — rispose Beppe — chi sa quante ore
di penosa incertezza per voi. — La povera inferma piangeva dalla
consolazione, abbracciava ora il giovine, ora la figliuola, e giugnendo
le mani, invocava su loro la benedizione del Cielo. Immaginiamo le
venerate e severe sembianze del _Buonarroti_, i volti lieti, l’amore,
le speranze ed il giubbilo di chi le contemplava, e lasciamo quella
coppia felice a godersi i piaceri d’un amore virtuoso.

Presa la via delle mura, mi trovai alla porta delle Cascine. Vidi un
chiarore insolito, e la gente accorrere ed affollarsi; e finalmente
ecco le torce e la compagnia della Misericordia ed il cataletto.
Portavano allo spedale un disgraziato giovine calzolajo, il quale, per
ribadarsi[269] da un soldato a cavallo, che faceva largo alle c_orse
degl’Inghilesi_, era rimasto sotto una carrozza, e s’era rotto una
gamba!


IL TEATRO.

Era già bujo, e il cielo rannuvolato minacciava un rovescio. Passando
di Via Palazzuolo, udii più qua e più là ragionare di commedia e dello
Stenterello che recitava nel vicino teatro di Borgognissanti;[270] ma
quasi tutti rattenuti dal cattivo tempo dicevano esser meglio di stare
in casa, di risparmiare quel mezzo paolo,[271] e per minor consumo di
lume, andarsene a cena e a letto. — Vi lodo; — diceva un uomo ad alcuni
giovani artigiani — tanto il teatro non è necessario; e poi in oggi non
rappresentano altro che scempiaggini, e si va a rischio di impararvi
piuttosto il male. Lo Stenterello si butta a fare solamente scioccherie
o sconcezze, e tutti spettacolacci d’assassini, di spiriti folletti....
È una vergogna. Andateci di rado, o soltanto allorchè siete certi
che la commedia sia buona, non scipita nè immorale; e quando tale non
fosse, meglio sarebbe sempre starsene a casa a far qualche briccica
o a leggere qualche libro utile. Soprattutto poi badate bene di non
vi condurre ragazzi! Lasciamo stare che le scelleratezze o le inezie
indecenti, dannose a tutti, per loro sono pessime; ma la platea! Oh
che poca educazione! quante magagne, che licenza, figliuoli! A tempo
mio.... non dirò.... gl’imprudenti vi sono sempre; ma ora.... che
si fa celia? Si parla di tutto, si sparla, si dà noja.... Insomma
io sono rimasto scandalizzato.... E credo che questo dipenda appunto
dalle cattive lezioni che vi si danno. Chè se la commedia fosse come
m’intendo io, gli spettatori si comporterebbero altrimenti. Ma.... che
cosa volete? Gli ostacoli per avere un buon teatro sono troppi! So io
quel che dico.... — Pareva che quei giovani gli menassero buone le sue
querele. Uno di essi che si allontanò prima degli altri, appena ebbe
scantonato[272] videsi venire incontro una povera vecchierella. E’ la
conosceva, e le domandò: — Come sta egli oggi Tonino?

— Al solito, figliuolo, al solito, — rispose sospirando.

— E poi, con la povertà addosso....

— Tieni, avevo fatto conto d’andare al teatro; ma è meglio che l’abbia
lui. — E ciò dicendo, le donò un mezzo paolo e la buona notte.

La vecchia: — Dio ve ne renda merito! — esclamò. — Già lo sapevo che
voi siete un giovine perbene. — E allestì il passo, perchè principiava
a piovigginare.

In quel mentre escono da una casipola un uomo e una donna; quello
in giubba nera ed in guanti bianchi, questa col vestito di seta e
una penna al cappello e la mantiglia ricamata. Infine parevano due
signori; ma le esclamazioni poco scelte che fecero accorgendosi della
pioggia, non andavano d’accordo con l’apparenza delle vesti. Poi nacque
un diverbio, perchè l’uomo riprendeva la donna d’aver indugiato a
vestirsi, e questa lui di non essere andato più presto alla crestaia, e
si rammaricavano di dovere stare tutta la sera col fradicio addosso, e
perdere forse l’introduzione dell’opera nuova. Cospetto! questi signori
si sono ripicchiati[273] per andare alla Pergola! E non tornarono già
indietro, sebbene la pioggia crescesse; ma aperto un ombrelluccio,
si posero una pezzola bianca sopra i cappelli; l’uomo si tirò su i
calzoni, la donna tutto il vestito; e saltellando per iscansare le
grondaje e le pozze, andarono a gambe verso la Pergola. Questo signore
era un gentiluomo caduto al basso, e la signora Maria, sua moglie,
aveva chiesto in prestito la mattina stessa ad una buona vecchiarella
che abitava una soffitta di quella casuccia la somma di quattro lire,
appunto quante occorrevano per andare col marito all’opera nuova
della Pergola. — Mi fate una carità fiorita — diceva ella, — perchè
il signor Guidobaldo non ha potuto riscuotere ancora certi denari; e
non vorrei far debito col macellaro nè col fornajo. Ce n’andrebbe del
nostro onore. Sono uomini maldicenti, pieni d’insolenza; non sanno
avere i debiti riguardi per le persone distinte al par di noi. Fra tre
o quattro giorni vi restituisco tutto, non dubitate.... — E molte altre
cose diceva, con voce quasi piangente.

E la vecchia confortandola:

— Glieli do volentieri, sa ella? Basta che la si ricordi che siamo
vicini alla pigione: gli ho fatti col mio filato per pagarla.... — E
consegnati i denari tornava su, tutta contenta d’avere asciugato le
lagrime di quella signora. Dopo la sua partenza, le lagrime si mutarono
in riso ed in beffe intorno alla credulità della vecchia che le aveva
menato buono tutte le sue fandonie. La sera la moglie ed il marito si
lisciano, pongono a letto un loro bambinello di tre o quattr’anni, e se
ne vanno alla Pergola. Un’ora dopo, mentre la vecchia era per andarsene
a letto, il bambino si riscuote allo scoppio d’un tuono; impaurito
chiama la mamma; nissuno gli risponde, ed egli comincia a strillare.
La vecchia l’ode nello spogliarsi, e rimane afflitta; ma pensandosi che
sua madre troverebbe il verso di farlo chetare, se ne va a letto. Ma il
pianto continua. — Meschina me! — esclama ella — o è seguita qualche
disgrazia, o i suoi genitori sono fuori di casa. A questo tempo! Mi
pare impossibile. Vo’ un po’ vedere se hanno bisogno di me.... — Si
riveste, riaccende il lume, e va giù; si accosta all’uscio, e chiama;
nessuno risponde; picchia, nessuno apre. Chiama più forte, e allora il
bambino, udita la sua voce, va gridando che si è trovato solo, che ha
paura, che non può dormire; ed ella a confortarlo, a promettergli che
starà lì per fargli compagnia; e difatti corre a pigliare la rócca,
torna giù, si pone a sedere sopra uno scalino, ed incomincia con lui
un colloquio, poi gli racconta le novelle; e il bambino che per lo
spiraglio dell’uscio vedeva un poco di lume, si riconforta, è contento;
e dopo due ore, a mezzo di una novella, si raddormenta.

La vecchia quando lo ebbe udito russare ben bene, risalì nella
sua soffitta, e andò a dormire, non senza prima durar fatica a
sgranchiare le membra assiderate dal freddo. Tornarono i genitori
fradici mézzi;[274] trovarono il figliuolo come lo avevano lasciato,
e poco soddisfatti del loro divertimento, se n’andarono a riposare.
Di levata il figliuolo narrò che gli era apparso in sogno la vecchia
a liberarlo dai lupi che lo volevano sbranare ed a raccontargli
novelle. Nè in quel giorno, nè in quello dopo, nè in altri si ragionò
di restituire i denari alla vecchia. S’ella avesse avuto qualche altra
lira da prestare, sarebbe stato un negozione. Ma la stentava il pane,
poveretta! e i due malaccorti scialacquavano ridendosi di lei e del suo
perpetuo filare. Venne il giorno della pigione; la vecchia si arrapinò,
vendè, impegnò la sua robicciuola per non perdersi la soffitta. I
signori buontemponi doverono sloggiare col danno e la vergogna, perchè
era il secondo semestre che non pagavano. La vecchia, ricavando il
campamento dalla rócca e dai fusi, morì in santa pace, e lasciò tanto
da farsi suffragare l’anima e da rivestire di tutto punto tre suoi
nipotini. I signori, quando non poterono più far le mode nè andare
al teatro, al caffè o ai passeggi, nè giocare al lotto, nè mangiare
a debito, nè trovare chi prestasse denari per fomento dell’orgoglio
e dei vizj signorili, andarono miseramente a finire, il marito in
Montedomini,[275] la moglie allo spedale. Il povero figlioletto era già
morto dallo stento!


VI. — Un vecchio Camaldolese.

Non è passato gran tempo che nei Camaldoli di San Lorenzo morì un
vecchio battilano, il quale per aver tenuto vita onesta, operosa
e utile al bene dei suoi vicini, fu da essi compianto con affetto
filiale, e lasciò di sè onorata memoria.

Egli fu buon padre di famiglia, morigerato e amorevole, e potè con savj
portamenti indirizzarla al bene, nello stesso tempo che la moderazione
nei desiderj, i risparmj e il coraggio, gli diedero modo di liberarla
anche nei giorni calamitosi dalle strettezze del bisogno che suole
essere cagione di tanti guai.

Contento sempre del suo umile mestiere, cercò di renderlo anche più
onorato esercitandolo onestamente, e lo fece diventare più lucroso
con l’assiduità del lavoro. Indi recavasi a vanto d’essere battilano,
perchè sapeva quanta parte il lanificio avesse avuto nella potenza
e nella celebrità degli antichi Fiorentini. Intorno alla qual cosa
inoltre soleva dire che il popolo fiorentino potè edificare la
maravigliosa cupola del Duomo quando erano più rispettati i grembiuli e
quando facevano meno schifo il puzzo e l’untume della lana. Siccome poi
in nessuna cosa volle mai costrignere l’animo altrui, così concesse che
il suo stesso figliuolo, non inclinando a questo suo favorito mestiere
del battilano, si tirasse su piuttosto per quello del calzolajo.

Ebbe nome Michele; e anche di ciò era lieto per memoria di quel raro
uomo di Michele di Lando scardassiere, che nella sollevazione dei
Ciompi seppe con senno e prodezza por freno alle angherie dei grandi,
governare la plebe tumultuante, rendendo tuttavia ai popolani il
potere che era stato loro usurpato, riformare insomma gli ordinamenti
della Repubblica, e riprendere poi con modestia lo scamàto[276] e
il grembiule del suo mestiere, dopo aver sostenuto gloriosamente il
gonfalone della suprema magistratura.

Essendo inoltre il nostro vecchio molto affezionato alla sua patria,
soleva raccomandare ai compagni che ciascuno venerasse la bella
Firenze coi monumenti della passata grandezza, con le opere dei celebri
artefici che la resero gloriosa, con le memorie del senno, del valore e
dell’amor di patria del buon popolo antico. Senza andare alle scuole,
era venuto a capo, domandando a questo e quello, e leggicchiando a
tempo avanzato, d’imparare a conoscere i più notabili avvenimenti della
storia fiorentina; ma non si reputava un dottore, e soprattutto diceva
di non sapere le date, sebbene intorno ad alcune delle più importanti
e’ non sgarrasse[277] nemmeno di un giorno.

Essendo anche molto religioso, gustava la sublime dolcezza delle
verità e della carità del Vangelo, e studiandosi di esercitare le
virtù cristiane, osservava puntualmente i doveri della sua fede. Talora
s’affliggeva, considerando che molti nelle sacre solennità agognavano
e pregiavano solamente l’apparenza e lo sfarzo delle cose mondane,
e che le frequenti feste e festicciuole divenivano per parecchi
oggetto di passatempo, pretesto ad oziare, e occasione ad abbandonarsi
all’intemperanza.

Intorno alla qual cosa giovi riferire ciò ch’egli fece un anno per la
festa di San Rocco.

I Camaldolesi che tengono in molta venerazione questo santo,
sogliono la sera della sua vigilia far luminarie nelle loro strade
ai tabernacoli ed alle case, ed imbandire liete cene sull’uscio,
facendo strage di maccheroni, e talora chiudendo la veglia con qualche
rissa cagionata dai vapori del vino. Due giorni prima che si dovesse
apparecchiare questa pia gozzoviglia, morì, per esser caduto di sulla
fabbrica dov’ei lavorava, un falegname del vicinato di Michele, giovine
onesto e benaffetto a ciascuno, e lasciò desolata e povera la moglie
con quattro figliuoli. Michele, deplorando la repentina disgrazia
di quella famiglia, — Io, per me, — diceva ad alcuni compagni, —
lasciamo stare che le cene non hanno nulla che fare con la divozione
a San Rocco, ma non potrò vedere tanta baldoria e tanta allegria,
pensando che quei tribolati non hanno più chi li campi. Si fa egli una
cosa, fratelli? Ci accordiamo noi a mettere assieme quel tanto che si
spenderebbe nei lumi alle finestre e nella cena, per poi donarlo alla
vedova? Io non ricuso di pagare la mia tassa pe’ lumi al tabernacolo;
ma ogni rimanente a quella povera donna.

— Tu pensi bene — risposero ad una voce i compagni. — Ci stiamo anche
noi! — Detto fatto; ne parlarono con le loro mogli che furono tosto del
medesimo sentimento; e il partito[278] girando di bocca in bocca andò
a genio a tutte le savie famiglie del vicinato, le quali deputarono
Michele a raccogliere le caritatevoli offerte per consegnarle alla
vedova. Così in quella strada non si videro illuminazioni alle case
nè tavole apparecchiate sull’uscio, nè si udirono suoni o canti o
schiamazzi di gente allegra. I lumi erano accesi solamente alla
immagine del tabernacolo parata con bell’assetto; e le donne e
i fanciullini vi recitavano il rosario con divozione consolata e
tranquilla. Intanto la povera vedova del falegname, benedicendo con
le sue creaturine la buona ispirazione di Michele, sopportava con
più coraggio lo spasimo d’aver perduto il marito, e si confortava nel
vedere assicurato per molti giorni il campamento della famiglia.

Michele non apparteneva ad altre confraternite fuorchè a quella
dei Battilani, nella quale si onora sempre la memoria di Michele di
Lando, e dove, tra gli statuti delle antiche corporazioni d’arti e
mestieri, si mantengono in vigore soltanto quelli che si riferiscono
alla scambievole assistenza dei mestieranti malati e impoveriti.
Del resto, e’ non approvava che tra fratelli e fratelli si vedessero
introdotte quasi in nome della religione certe distinzioni contrarie
all’eguaglianza evangelica, e suscitare ambizioni e promovere spese e
dissidj per cagioni tutte mondane.

I suoi compagni lo chiamavano per soprannome lo _Sveglia_, perchè
avendo egli avuto fino da giovinetto una particolare avversione al
soverchio dormire, non solamente era sempre il primo a svegliarsi nel
vicinato ed a comparire a bottega, ma faceva anche da svegliatore agli
amici, che desideravano d’imitare la sua sollecitudine: quasi ogni
giorno, prima d’essere in sul lavoro, aveva già destato per via sette o
otto artigiani, proferendo ad alta voce il suo favorito proverbio: «Chi
dorme non piglia pesci!» Talora biasimando il troppo dormire, toccava
anche alcuni altri difetti che ne dipendono o che lo fomentano, e
ribadiva i suoi avvertimenti con molti esempj, quando gli pareva ch’e’
quadrassero bene. Alla poltronaggine attribuiva, non senza ragione,
un visibilio di guai. — Dal mangiare o dal bere con intemperanza —
diceva egli — nasce di necessità il bisogno di dormire un po’ troppo
e il pericolo d’ammalarsi; ed ecco una cagione di spese gravose e di
disastri, perchè l’intemperanza divora tutto il salario, il dormire
accorcia il tempo del lavorare e diminuisce la voglia, e una malattia
può essere la rovina delle nostre famiglie. E poi, chi più dorme più
vorrebbe dormire, e fa la testa grossa, e si trova indebolite tutte le
membra; e l’uomo sonnolento o sbalordito guasta spesso i fatti suoi, e
trova chi gli dà ad intendere o gli fa fare tutto quel male che vuole.
E badate, dove molti dormono c’è sempre qualcheduno che veglia: uno
che vegli con buone intenzioni può giovare a sè ed agli altri; ma vi
potrebbe anch’essere chi vegliasse per nuocere ai dormiglioni. Oh se
sapeste quanti rimasero mortificati, o perdettero una buona ventura,
o si ritrovarono senza letto, per aver troppo dormito! — E qui narrava
delle sconfitte toccate di nottetempo ai Filistei dopo la gozzoviglia,
del Campidoglio romano che sarebbe caduto nelle mani dei Galli se le
oche non ne avessero svegliate le guardie; di Pisa che era per essere
saccheggiata e arsa nel sonno dai Saracini, se non fossero state le
grida e il valore di Cinzica de’ Sismondi.... aggiungendo che non per
tutto vi sono le oche pronte a sventare con lo schiamazzo le insidie
dei nemici, e che una Cinzica de’ Sismondi sarebbe cosa troppo rara
al dì d’oggi. I sogni poi che si affacciano tanto spesso a turbare il
sonno dell’intemperante e dell’infingardo, o a sedurre la fantasia del
giocatore, non sono le più volte cagione di grandi mali?...

Sebbene i suoi ragionamenti su questo e sugli altri difetti ch’egli
prendeva di mira, fossero in sostanza molto rozzi e comuni, tuttavia
e’ li faceva con tanta vivacità e amorevolezza, che ai suoi uditori
andavano molto a genio, e producevano spesso qualche buono effetto.
Inoltre, ponendosi a tassare le azioni degli uomini, egli sfuggiva
sempre di mordere questo o quello, e non portava mai sè medesimo per
esempio; laonde non veniva in fastidio a nessuno: e soprattutto quando
era fuori di casa sua, bisognava proprio levargli le parole di bocca;
altrimenti non avrebbe osato di far la predica a chicchessia. E queste
e le cose che seguono sono state narrate con tenera riconoscenza da
coloro a cui giovò molto l’averle udite proprio dalla sua bocca.

Tra i buoni costumi ch’egli massimamente raccomandava ai Camaldolesi
era la nettezza della casa e della persona. — Perchè siete poveri, —
diceva loro, — vo’ credete di non potere stare puliti? Ma questo è uno
sbaglio grosso: anzi la pulizia che sta bene in tutti, è necessaria
quanto il pane per noi; starei per dire che l’è la nostra ricchezza.
Non crediate che per farsi vedere puliti vi sia bisogno della giubba
di panno fine e del fazzoletto di seta; ma la camicia, chi è quello
che non la può mettere spesso in bucato? E l’acqua per lavare non
manca mai. È meglio andare in maniche di camicia ed averla anche
rattoppata ma linda, che nascondere con un fronzolo le vesti sudice e
strambellate. Tutti vi diranno che la pulizia giova molto a mantenerci
sani; e tutti abbiamo potuto vedere che le malattie contagiose hanno
sperperato più gente dove i poveri si cibavano male e stavano sudici,
che dove erano frugali e puliti. Vo’ mi dite che ai poveri manca il
tempo di ripulirsi: ed io vedo che per l’appunto i più sudici sono
quelli che stanno più in ozio; e posso dirvi che anzi la pulizia è un
risparmio di tempo. Una buona tessitora ebbe da incannare per cinque o
sei mesi di séguito, e intanto il telajo rimase fermo. Il suo marito
le diceva spesso; dagli una spolverata a quel telajo; riguardalo di
quando in quando. — Oh! — rispondeva la moglie, — ho altro tempo da
perdere! Mi preme d’incannare.... — e via discorrendo. Venne il giorno
d’andare a tessere: era un lavoro di soggezione e di furia. Prima
d’avere spolverato il telajo ci vollero molte ore; e qui mancava una
cosa, e là un’altra; i licci e il pettine erano sciupati, e bisognò che
spendesse per far rifare alcuni pezzi; e la tela veniva disunita ed a
stento. Il marito rimproverò la malaccorta: nacque un litigio; ed ecco
turbata la pace di casa, un’arrabbiatura da ammalarsi, e un lavoro da
scomparire e da perdere la buona riputazione, che aveva, di tessitora
abile e diligente. V’è chi dice che la biancheria si logori troppo a
lavarla spesso: ed io vi farei vedere che il sudiciume mangia la roba
più che il ranno o il sapone; mangia perfino la pelle, perchè quante
sono le malattie cutanee cagionate o alimentate dal sudiciume, e che
spesso deformano il corpo di chi le ha sofferte! E poi un povero che
almeno faccia di tutto per mantenersi pulito, trova più compatimento e
più fiducia nelle persone caritatevoli che possono assisterlo, dandogli
del lavoro o adoperandolo in qualche servigio.

Sebbene non fosse ricco, Michele si trovava spesso a fare qualche
elemosina, ma segretamente, ed elemosine da suo pari: un pane comperato
con quei po’ di soldi che avrebbero dovuto servire pel suo companatico:
un vestito usato; un pajo di giornate di lavoro per un padre di
famiglia malato, affinchè il principale che aveva le furie non avesse
a prendere un altro lavorante invece di quello; qualche povero senza
tetto ricoverato per varj giorni in casa sua; e via discorrendo.

Una volta gli fu chiesta in prestito da un amico una sommerella per
pagare la pigione: altrimenti il padrone di casa, usurajo matricolato,
lo minacciava di cacciarlo fuori o di sequestrargli i letti; e la
povera madre di quest’amico era inferma! Michele che appunto aveva
messo in serbo certi denari per portarli nella Cassa di risparmio,
glieli prestò subito; e l’amico fu puntuale a restituirgli il giorno
fissato. Ma considerando il buon vecchio la povertà di colui per la
grave malattia della madre, volle dargli altro tempo e più lungo per
la restituzione: e quei denari furono una manna, perchè il figliuolo
non ebbe il dolore di mandare allo spedale colei che gli aveva dato la
vita.

Ad un altro fece lo stesso; ma siccome sapeva che in casa sua non
v’erano disgrazie di malattie, e che sarebbe stata a proposito un po’
più di regola nello spendere, con molta delicatezza fece cadere il
discorso sopra il risparmio.

— Vo’ dite bene — rispondeva l’amico; — ma che cosa dobbiamo
risparmiare noialtri poveri, che non abbiamo nulla, e quando il
guadagno appena ci basta per levarci la fame? — E Michele soggiungeva:

— Pensaci bene, e vedrai che alcune spese sono inutili, o che si
potrebbero fare con più giudizio, e che talora si sciupa il tempo, e
questa è l’uscita più rovinosa. Chi ci obbliga, per esempio, a spendere
le craziuole in certe golaggini, che costano più del pane, che non
sfamano come quello, e che spesso riescono dannose alla salute? Così
dei liquori, così dei ninnoli che ci si mettono attorno per fare
spocchia, così dei divertimenti che costano e che fanno sempre venire
nuove tentazioni; e quanti vi sono che non lavorano il lunedì, che
per ogni festicciuola si danno buon tempo all’osteria e poi fanno
stentare il pane alla famiglia per tentar la fortuna, sperando di poter
rimediare alla loro miseria con una vincita che non viene mai, o se
viene, è quasi sempre cagione di un precipizio maggiore! — L’amico gli
diede retta; incominciò a serbare una parte del denaro donatogli da
Michele, e le cose gli andarono meglio di prima. Nello stesso modo che
una voglia tira l’altra, così il resistere alla prima tentazione ci dà
la forza di scacciare anche la seconda.

Un’altra volta rintoppò[279] un suo parente tutto sgomento: il suo
figliuolo cadendo si era spaccato la testa, ed egli dopo la paura aveva
dovuto spendere per farlo medicare.

— Me ne dispiace davvero! — rispose Michele — povero ragazzo! O come
mai gli è seguita questa disgrazia?

— Che cosa volete? — riprese l’altro — è un monello; e’ le caverebbe
di mano a un santo: i’ lo rincorrevo per picchiarlo, e fuggendo ha
inciampato in una seggiola.... Dio mio! credevo che fosse rimasto sul
tiro. —

Michele si recò a visitare il fanciullo, ed a confortare i suoi
genitori; e quando quel ragazzo fu guarito, un giorno di domenica
andò a spasso con suo padre. Allora, tornando sul fatto della caduta
del figliuolo, si provò a fargli capire quanto stesse male percuotere
i fanciulli, mostrandogli con evidenza che in quel modo invece di
correggerli si va a rischio di farli diventare peggiori, di perdere il
loro affetto, e d’indebolire l’autorità continua e tranquilla che un
padre deve avere sopra di essi. Oggi e’ ricoprirà di baci il figliuolo,
gli concederà tutto quello che vuole, lo condurrà seco Dio sa dove, e
domani, se è di cattivo umore, o se il fanciullo s’imbizzarrisce per
una cosa di poco, ecco in ballo le busse.

Il parente, il quale aveva da farsi molti rimproveri, dovè convenire
che qualche volta i falli dei ragazzetti possono dipendere dai
disordini e dalle imprudenze dei genitori, e che perciò il batterli
sta tanto più male, in quanto che alla crudeltà s’unisce l’ingiustizia.
In sostanza quel padre a poco a poco potè moderarsi, diventò più cauto
nelle proprie azioni, e fu in tempo a rimettere sulla buona strada il
figliuolo. Appunto in quei giorni si narrava di un giovinetto, che
fuggendo dalla casa paterna per essere stato battuto dal genitore,
s’era intruppato con alcuni discoli, e arrestato insieme con essi e
creduto complice delle loro mariuolerie, gli era toccato a vedersi
rinchiudere in una carcere e a soggiacere a un processo. Il padre pel
rammarico e pel dolore fu còlto da una fiera malattia, e il figliuolo
si perdette la bottega dov’era garzone. Così quello fu punito del modo
bestiale di correggere il suo figliuolo, questi pagò anche troppo cara
la pena di una colpevole disobbedienza. Chi lo sa? se avessero avuto
per amico Michele, non si sarebbero ritrovati a quelle disgrazie.

Michele parlando ora con questa ora con quella camaldolese, aveva
più volte biasimato l’usanza di correre senza ragionevole bisogno ad
impegnare la loro robicciuola al Presto.[280] E’ lodava l’istituzione
di questo Presto, perchè derivata dal desiderio di soccorrere i poveri
nelle loro strettezze, ma siccome il cattivo uso o l’abuso delle
cose buone è sempre nocivo, egli ammoniva gli amici a non far pegni
per andar poi a gozzovigliare con quei po’ di soldi nelle osterie i
giorni di festa; gli dispiaceva di vedere tanti poveri sconsigliati
che impegnando mantelli, coltroni, materasse e perfino le camice per
godersi un’ora di lauta mensa, andavano a rischio di tremare di freddo
tutto un inverno, di guastarsi la salute, di perdere le cose impegnate
e di spendere il doppio di quello che costavano per ricomprarle;
deplorava i dissapori e le discordie che nascono in molte famiglie
dopo il pentimento e dopo i rimproveri, rammentava che nella folla
alla porta del Presto nascono spesso gravi inconvenienti e risse e
inimicizie e scandali senza fine, e che tra l’andare a portare il pegno
e a ricoglierlo, molte donne sciupano due o tre giornate di lavoro;
mentrechè se invece le stessero a casa a telajo, potrebbero conservare
la loro roba, e guadagnare nel tempo stesso quel tanto che ricevono
in prestito sul piccolo valsente della roba impegnata. Ma questa e
molte altre ragioni, menate buone in altri tempi, poco valevano alla
vigilia d’una solennità. Una volta corse la voce in Camaldoli che per
non so quale straordinaria occasione i piccoli pegni sarebbero stati
resi senza riscatto. Allora sì, che in tutti venne voglia d’impegnare a
ruba! Ma il nostro Michele che sapeva di buon luogo quella voce altro
non essere spesse volte che una congettura poco fondata, non volle
stare zitto, e uscì fuori, e parlò allora a voce alta a un buon numero
di donne qua e là radunate e in procinto d’andare al Presto. Ma per
quanto si affaticasse, poche furono quelle che gli dessero ascolto.
La folla ai Monti di Pietà fu senza esempio; bisognò mettervi le
sentinelle per tenerla a freno, e nonostante accaddero varie disgrazie,
e furono fatti parecchi arresti. Una donna gravida, che più delle
altre s’era fatto beffe dei buoni avvertimenti di Michele, caduta e
calpestata nel tafferuglio, abortì, dovè patire una malattia lunga
e dispendiosa, e poco mancò non morisse; e una madre di famiglia che
s’era trattenuta al Presto tutta la giornata e aveva dato in custodia
i suoi piccini a una donnicciuola dappoco, trovò che uno di essi era
caduto boccone sul focolare, e s’era sciupato la faccia e gli occhi, in
modo da far temere ch’ei ne perdesse la vista. E finalmente, secondo
che Michele aveva preveduto, la speranza della restituzione gratuita
dei pegni svanì per l’affatto. Allora in Camaldoli incominciarono a
chiamarlo indovino e profeta; ed egli durò molta fatica a levar di capo
agli sciocchi questo pregiudizio, studiandosi di far loro capire che
molti avvenimenti si possono prevedere con l’ajuto della riflessione e
con l’esperienza dei fatti che gli hanno preceduti.

Confortando un tale che era rimasto deluso in certe sue spallate
speranze d’ottenere una gran fortuna per mezzo di protezione, diceva:
— Così è, figliuol mio: noialtri poveri dobbiamo meno di tutti prestar
fede alle seducenti promesse d’arricchire senza onesta fatica. Sta
bene che si desiderino e che si accettino volentieri le assistenze e
le carità delle quali possiamo aver bisogno; che si benedicano coloro
che studiano il modo di migliorare il nostro stato; che ci rendiamo
meritevoli di queste premure con la virtù e con la riconoscenza;
ma intanto facciamo sempre dal canto nostro quel che è da noi per
assicurarci il campamento con le fatiche moderate ed oneste. Finchè
siamo sani e robusti facciamo capitale dei guadagni dell’onorata
industria, e quando chi ha voglia e capacità di lavorare non può
certamente morire di fame, contentiamoci di far la parte che ci tocca,
e lasciamo che la carità degli altri soccorra chi non ha modo di vivere
con le proprie braccia. Figliuolo mio, è meglio mangiare pane e cipolla
a casa nostra, in santa pace, con la famiglia, dopo aver lavorato
quanto permettono le nostre forze, che arrovellarci a correre dietro
alle fallaci promesse della fortuna per poi vivere in ozio o nutrirci
di cibi più delicati o coprire il nostro corpo di vesti più belle. Se
potremo un giorno condurre vita più agiata mercè i nostri guadagni e
i nostri risparmi, sta bene; se no, abbiamo noi bisogno di lavorare?
lavoriamo volentieri, e Dio, che è imparziale con tutti, benedirà
le nostre fatiche. Inoltre le fortune che vengono all’improvviso non
sempre sono fatte per noi: di rado le giovano a coloro che hanno più
confidenza con la ricchezza; noi poi che non ci siamo avvezzi, corriamo
rischio di rimanerne imbarazzati e di perdere la pace dell’anima e
l’illibatezza dei costumi. — E siccome talora oltre agli esempj e’
soleva uscir fuori con certe sue favole e paragoni, a somiglianza
d’Esopo, così prese a dire all’amico:

— E’ si conta che il Leone, eletto signore degli animali volle avere
numerosa comitiva di costoro intorno alla sua tana, e ne chiamò a
sè da ogni parte, facendoli mettere su con molte belle promesse di
gozzoviglie, di sollazzi e di ricompense. Infatti a’ primi che vi
corsero in folla, parve quello il paese della cuccagna, perchè senza
durare una fatica al mondo vi trovarono grasse pasture, abbondanti
ricolte e la bellezza di ogni sorta di carnagione. Vi giunse anche
la volpe ma accortasi la tristarella che messer lo Leone in tanta
sopravvegnenza di convitati non aveva grande scrupolo ad imbandire le
vivande coi loro medesimi quarti, avrebbe subito ripreso la via tra le
gambe per tornarsene indietro, se non le fosse stato dato l’ufficio
di tenere i conti al siniscalco, con un buon salvacondotto per la
sua pelle. Intanto l’Asino, che presiedeva l’assemblea, fattane un dì
la rassegna generale, vide che vi mancava il Castoro; e prima che il
Leone s’avesse a sdegnare del suo indugio, andò subito ad invitarlo con
larghe promesse e con squisite carezze, perchè gli era stato detto che
qualche volta e’ faceva l’indiano e lo smorfioso. Infatti il Castoro
che se ne stava tutto in faccende per certa fabbrica di una casa, in
sulle prime non voleva dar retta a questa chiamata; ma finalmente mosso
dai ragli eloquenti e dalle svenevoli moine dell’Asino, si risciacquò
ben bene la coda, che era tutta imbrattata di mota, e venne alla tana
del Leone. Quivi, imbrancato con le altre bestie, le quali tutto dì
se ne stavano senza far nulla, vagolando qua e là, lisciandosi la
pelle, spiattellando strambottoli, mormorando senza carità del prossimo
e mangiando a ufo, presto quella vita gli venne a noia, e l’uggia
l’avrebbe fatto morire tisico in poco d’ora, se non che, adocchiato un
torrente vicino alla caverna, si trasse alla sponda di quello, e posesi
addirittura a lavorare ai fondamenti di una casupola. A prima vista
non raccapezzarono i compagni che cosa volesse fare, e si pensarono
che quello fosse un nuovo trastullo, una buffonata di nuovo conio;
ma quando l’Asino e gli altri conobbero ch’e’ faceva davvero, senza
mettere tempo in mezzo corsero a rampognarlo, urlando non essere lecito
ch’ei si sporcasse in quel lavoro triviale al cospetto del Leone e
di tutta la bestiale assemblea. Il povero Castoro ebbe un bel dire
ch’egli credeva anzi di fare onore a sè ed alla razza, mostrando la
sua abilità, invece di sdarsi come gli altri dalla mattina alla sera,
o di mettersi a dir corna dì questo e quello: allora non solamente gli
convenne abbandonare l’incominciato lavoro, ma scorbacchiato in mezzo
agl’insulti di tante bestie, perdè la vita sotto i calci dell’Asino,
perchè aveva avuto la temerità di rispondergli ragionando. —

Figuratevi se Michele con questi sentimenti poteva compatire quelli
sciagurati, che avrebbero sanità e robustezza per l’esercizio d’un
mestiere, ma che invece di lavorare si buttano a far gli accattoni,
senza esservi ridotti dalla disgrazia! Un giorno che tra’ suoi uditori
v’era uno di costoro, dopo aver deplorato un difetto tanto biasimevole,
recitò questa specie di parabola:

— Era di verno, e il freddo repente assiderava le membra. Tre accattoni
che non erano nè ciechi, nè vecchi, nè storpiati, ma solamente per
mancanza di voglia di lavorare non avevano arte nè parte, se ne stavano
oziando in sulla porta di una chiesa, a battere i denti e a mormorare
contro la Provvidenza, che negava loro un tetto per ricoverarsi
dai rigori della stagione. Passa un carro di paglia: uno di essi lo
adocchia, e ratto va dietro a sfilarne un covone ben grosso, e se
lo porta via per goderselo da sè solo. Ma i compagni, garosi[281]
di spartire la preda, gli corrono addosso, e uno di qua uno di là
acciuffano il covone, e fanno a tira tira per carpirglielo. Era
meschina cosa un covone di paglia; ma l’astio dei mascalzoni s’infiammò
tanto, che convertitosi in aspra contesa vennero alle percosse. In
questo mentre si levò un turbine di vento, e la paglia tritata da
quelle mani rapaci fu dispersa in un attimo, e le mani rapaci restarono
vuote. Allora, posto giù lo sdegno, il primo esclamò:

— O s’io l’avessi compra?

— Chi te l’avrebbe tocca? — disse il secondo: — la roba rubata non fa
frutto, tu lo sai.

— Lo sappiamo tutti e tre — soggiunse l’altro con aria d’amaro
rimprovero.

— Ma intanto non ho più freddo, — concluse il terzo; — questo moto mi
ha riscaldato.

— E il moto vi scalderebbe sempre, non col percotervi tra di voi per
contendervi la roba involata, ma col lavorare onestamente, — esclamò un
uomo intabarrato che passava rasente ad essi.

— Ah! non c’è lavoro! — gridarono ad una voce gli accattoni.

— Non c’è voglia! — rispose l’incognito; e tirò via.

Guardatisi un poco in silenzio, uno degli accattoni disse addio
ai compagni, si voltò da una parte, e andò a chieder lavoro per
misericordia ad un onesto artigiano di sua parentela; ebbe il
lavoro, non patì più freddo nè fame, e si pentì del passato. Un
altro, accomiatatosi dal compagno prese la strada opposta, e fatti
pochi passi trovò un facchino che per essersi tolto in ispalla un
peso sproporzionato alle sue forze, non poteva andare più innanzi;
l’accattone se gli accostò per dargli una mano, e il facchino gliene
seppe buon grado e lo condusse a far colazione e a scaldarsi con lui;
e i pesi da portare non mancarono mai. Il terzo ricordandosi per che
verso andava l’incognito, gli corse dietro, lo raggiunse, e fattoglisi
accanto gli disse: — Dunque, abbiate la carità di darmi da lavorare.
— L’incognito gli accennò di seguirlo; e andarono innanzi un buon
tratto senza parlarsi, finchè usciti dalla città e giunti a un podere,
l’incognito si fermò presso una casupola rovinata di cui le macerie
ingombravano i solchi del campo: — Ecco, — disse all’accattone — un
turbine di vento buttò giù questa casa; sgombera il terreno dai sassi,
affinchè il mio contadino possa seminarvi il grano, che tu mangerai con
lui, se avrai sempre voglia di lavorare e se sarai uomo onesto. —

A Michele stesso intravenne che una sera sull’imbrunire passando di
lung’Arno, dove la via è più solitaria, gli s’accostò a chiedergli
l’elemosina un giovinotto cencioso, ma ben quadrato di spalle e ben
piantato sopra le seste,[282] sicchè aveva tutto l’aspetto d’un
bighellone: — Figliuolo mio, — rispose Michele con dolcezza — ti
comprerò volentieri un po’ di pane, perchè tu mi dici che sei digiuno;
ma o non potresti guadagnartelo? Tu mi sembri sano e robusto.

— Che cosa volete? — rispose l’accattone — lavorerei, ma non so far
nulla; esco ora dal militare, e senza avere imparato un mestiere non
trovo chi mi pigli; per bardotto ho troppa età; a casa mia son più
tribolati di me; qui non conosco nessuno....

— I’ voglio credere a quel che tu dici — soggiunse Michele, — ma non
ti stancare a cercare lavoro, perchè alla fine chi ha voglia davvero
lo trova. — E mentre andava innanzi per arrivare alla bottega d’un
fornaio, scòrse per terra una quantità di fiocchetti di lana tra
le fessure delle lastre, perchè in quel luogo i tintori sogliono
distendere al sole la lana lavata per farla asciugare. Allora spiegò
il suo fazzoletto, e disse all’accattone: — Fammi intanto un servizio;
raccogliamo questi fiocchetti; nissuno li gode, se non fossero le
rondini per portarli nel loro nido. — E tornando anche addietro,
e rifrustando per tutto, in poco d’ora tra lui e l’accattone, che
attonito lo seguiva, n’ebbero pieno quel fazzoletto. — Ecco, — disse
dipoi Michele al compagno — di questa lana, non foss’altro rivendendola
ad un cenciajuolo tu puoi prendere almeno un par di soldi: tanto pane
per domattina: ecco la ricompensa della tua fatica; è un mestiere
facile; e così puoi raccogliere fogliucci, ossi, pezzi di cuoio,
di ferro, di latta; insomma per ora puoi fare lo spazzaturaio non
sapendo che altro. — Intanto giunsero al forno, e comperatogli il
pane, Michele aggiunse: — Porta pur teco il fazzoletto: me lo renderai
a tuo comodo; — e dettogli dove egli stava di bottega, lo lasciò con
Dio. L’accattone, fosse egli o no disgraziato ed onesto come dalle
sue parole poteva credersi, fatto sta che fu puntuale a riportare il
fazzoletto, e che fino da quel giorno avendo deliberato di non far più
la vita del vagabondo, s’appigliò al consiglio di Michele. Questi gli
prestò allora un canestro per raccogliere le spazzature, gli procacciò
un luogo da farne deposito, e lo vide poi sempre industriarsi in quel
modo e ricavarne onesto campamento.

Ma vediamo una volta questo buon vecchio a casa sua, poco tempo prima
ch’egli morisse, ed assistiamo ad una conversazione tra lui e la sua
famiglia.


VII. — Una veglia in Camaldoli.

È una sera di verno: Michele, eccolo là seduto a scranna, accosto al
bischetto di Santi suo figliuolo, che lavora di calzolaio. Il vecchio
ha già passato la settantina, ma li porta bene; posa le mani sul pomo
della mazza, e appoggia il mento sopra le mani; ha i capelli bianchi,
ma lunghi e folti; è piuttosto secco e col viso pieno di grinze, ma le
carni sono ancora sodette e bronzine; gli occhi scintillano come quelli
di un giovanotto, ed ora sorride, ora parla con piacevole posatezza;
non è sordo, non gli manca un dente...; insomma è un uomo ferrigno[283]
e rubizzo, che ha saputo conservarsi bene con la temperanza; e di verno
ei non ha mai bisogno di fuoco; non può vedere i veggi, specialmente
nel letto; e dice che sono fatti per gl’infingardi e per chi vuole
avere in casa un incendio.

Accanto a lui siede la Teresa, moglie del suo figliuolo, donna di circa
trentacinque anni, non bella, ma con sembiante pieno di dolcezza e
con tutto il senno di una buona massaia; fa poche parole, ma buone;
veste sempre di roba ordinaria, ma linda; e non alza gli occhi di
sul lavoro se non quando parla il vecchio Michele. Dall’altra parte
vi è l’Isabella, figliuola della Teresa, giovanetta leggiadra, vispa
e modesta, abile tessitora di seta, e piena di attenzioni verso il
nonno. Per non istare in ozio la sera quando non si può tessere, cuce o
rimenda per casa, o si prepara il corredo.

Santi poi è sempre lì al suo bischetto a cucire le scarpe. Chi volesse
dipingere la giovialità e la salute, dovrebbe fare il suo ritratto.
Figuratevi un pezzo d’uomo tarchiato, piuttosto grasso, pieno di
robustezza, col volto quasi sempre ridente, le carni bianche e rosse, i
capelli neri e ricciuti, gli occhi tutto fuoco, i denti bianchissimi e
la voce sonora.

Andrea, giovine pigionale e amico di casa, vi capita ogni sera per un
par d’ore; si mette di faccia al vecchio ed accanto a Santi. Andrea è
piuttosto serio e taciturno, non però zotico nè sgarbato; anzi, le sue
maniere sono affettuose, ed ha sempre un rispettoso contegno. I suoi
lineamenti sono regolari, il colorito sano, e il personale ben fatto.
Dal vestito coperto di peli e di lische,[284] si conosce che fa il
linaiuolo; ed anch’egli, per non perdere il tempo, si prova a cucire
le scarpe, e così va dietro a quella buona massima «Impara l’arte e
mettila da parte.» Se una volta o l’altra il suo mestiere non gli desse
più il pane, s’ingegnerebbe con quello del calzolaio.

Spesso vi suole essere in conversazione anche Angiolino, figliuolo
minore di Santi: ha nove anni; è vegeto, robusto, vivace, e qualche
volta farebbe il diavolo a quattro, se una parola del nonno o dei suoi
genitori non bastasse a frenarlo; dagli occhi neri e sgranati traluce
l’acutezza della mente; e la faccia sempre aperta e serena dà indizio
d’ingenuità e di buon cuore. Ha in mano un libro: legge benino; e
quand’è in conversazione, fa la sua lettura a voce alta. Tutti vi
stanno attenti, e spesso il vecchio lo interrompe con qualche utile
osservazione. Così Angiolino fa una parte d’importanza; ma non se
ne investe come farebbe un ragazzo vanesio. Va a scuola al Reciproco
Insegnamento,[285] e spesso è premiato con buoni libri, che sono quelli
che di mano in mano legge alla famiglia.

— La felicità? — diceva Andrea — e dov’è la felicità? io ne conosco
una sola — e guardava l’Isabella; — ma che tutti la possono avere la
felicità che m’intendo io? I’ veggo tante miserie ogni giorno, ch’e’ mi
par proprio d’essere in un mondo di disperati. Nè anche i signori sono
felici!...

— Anzi, — soggiunse Santi ridendo, — i’ non ne conosco uno che non
si rammarichi sempre d’un visibilio di molestie, e che specialmente
non triboli a camminare; vogliono le scarpe troppo attillate e poi si
lamentano meco de’ piedi sciupati.

— Ma prima di ragionare, — disse il vecchio, — leggiamo avanti. A te,
Angiolino: — e Angiolino leggeva:

«Se l’uomo non potesse mai essere felice, si direbbe che non fosse
stato creato da quella Divina Sapienza, che governa tutte le cose.
Esaminate la magnificenza e l’ordine dell’universo. Le stelle brillano
sempre con lo stesso splendore; il sole ogni giorno c’illumina, e
la luna segue eternamente il suo corso. Vedete poi il giro delle
stagioni, la perfetta struttura delle piante, l’istinto degli animali
per conservare la loro specie; e riflettete come i venti, le pioggie,
le nevi, le stesse tempeste purghino l’aria, fecondino le campagne,
e rendano più vigorosa la vegetazione delle piante e la vita degli
animali. L’uomo, che è la creatura più intelligente, non può esser nato
per vivere a caso, o per languire nell’avvilimento e nella miseria.
Iddio ci ha collocati sopra la terra perchè tutti viviamo, perchè tutti
godiamo dei suoi benefizii, e perchè siamo sempre più felici, facendo
buon uso dei beni che Egli ci ha compartito.»

Michele fece fare ad Angiolino una pausa, e guardando Andrea: — Ora che
cosa ne dici? —

— Va tutto bene, — rispose; — lo so anch’io che tutti, adempiendo i
nostri doveri, possiamo sperare d’essere felici, e di migliorare il
nostro stato; ma qual’è la felicità che deve toccare a noi? Forse
quella di campare senza pensieri, come i fagiani delle Cascine?[286]
Veggo che chi non ha quattrini sta male; chi ne ha troppi, il più delle
volte sta anche peggio....

— Male, figliuolo mio, — interruppe Michele, — male se tu fai
consistere la felicità solo nei quattrini. Che cos’è la ricchezza? Uno
che guadagna tanto da vivere, è più ricco di chi ha mille scudi il mese
e ne spende mille uno o vorrebbe averne duemila.

— È vero; non dico questo, — riprese Andrea; — ma in somma nessuno è
contento: chi si rammarica della troppa fatica, e chi è ammazzato dalla
noja non avendo da fare o perchè non sia stretto dal bisogno o perchè
gli manchi la voglia.

— Ho capito, — replicò Santi; — la felicità è come il giudizio: la
viene a quarti d’ora. Per un giorno di bene un anno di guai.

— Piuttosto direi che la felicità possa dipendere dal giudizio, — disse
la Teresa. — Per me chi ha più giudizio è più felice.

— Lo credo anch’io! — soggiunse con timidezza l’Isabella.

— Ma alle volte, — rispose Andrea sospirando, — alle volte si trova
più felicità a dar retta al cuore, che a lasciarsi governare dal
giudizio. —

Michele disse allora: — O che il cuore e il giudizio non hanno a andare
d’accordo? Anzi credo che chi si lasciasse trasportare dal cuore senza
governarsi colla riflessione, spesso rischierebbe di diventare infelice
e di fare infelici anche gli altri. Puta caso, un padre di famiglia
spenderà tutto il suo per saziare le voglie, i capricci, l’ambizione
della moglie e dei figliuoli: e’ si dirà ch’ei lo fa per buon cuore;
ma si può anche dire ch’ei non abbia giudizio, perchè non pensa alle
malattie, non pensa che morto lui la famiglia rimane povera.... Val più
un po’ di risparmio, un po’ di previdenza, anche a costo di privarsi
di qualche cosa, che una condiscendenza fuori di proposito. Quel
giovine vuol bene ad una ragazza, e crederò che il buon cuore lo faccia
risolvere a sposarla presto; ma se i suoi guadagni non sono ancora
buoni e sicuri, non sarà meglio che aspetti un poco, invece di andare
a rischio d’aver figliuoli senza la possibilità di mantenerli e di
educarli come si deve? Nello stesso tempo io credo che un uomo senza
buon cuore, ancora che abbia molto giudizio, non possa godere un’ora di
vero bene.

— Dunque, — soggiunse Andrea, — non sbaglio io; la felicità viene dal
cuore.

— Purchè la vada d’accordo col giudizio.... — ripetè Michele. — O
andiamo avanti, Angiolino. —

«Ma siccome l’uomo non è perfetto, così egli non può godere di una
felicità senza limiti. L’uomo ha bisogno di occuparsi, di migliorare
sempre sè stesso e le cose sue, e di superare i pericoli ai quali
è esposto. Se si ritrovasse ad essere felice senza niuna fatica,
correrebbe rischio di diventare fiacco, vile, egoista ed avaro; ma
nel compiere costantemente il proprio dovere, l’anima si nobilita
e ringagliardisce. Il pretendere d’essere felici come gli Angeli, è
una pazzia; nello stesso modo che sarebbe delitto ridurci a vivere
come bruti. Restiamo volentieri nella condizione d’uomini, e in essa
troveremo la felicità che ci spetta. Quindi non ci affliggiamo d’esser
privi di quelle cose che non possiamo avere. Alla fine, del bene ve n’è
per tutti. Un povero pastore non ha idea delle comodità dei ricchi; ma
e’ possiede le sue proprie, delle quali i ricchi non goderanno giammai.
Lasciamo stare se sia meglio esser nato pastore che uomo ricco, giacchè
ambedue possono esser felici a modo loro; ma intanto è cosa certa
che il pastore potrà arrivare alla felicità più presto del ricco, e
che l’uno è meno esposto ai gravi pericoli e agli strani precipizj
dell’altro. Siccome Iddio non ha voluto che la felicità sia solamente
privilegio di pochi, perciò per esser felici non è necessario possedere
le ricchezze e nascere in alto stato. Il bene non consiste in queste
cose. Anch’esse possono procacciarlo, ma ad una condizione rigorosa;
ed è quella di non lasciarsi sedurre dall’oro o dal potere; di saperne
fare buon uso, e di moderare i desiderj: cosa difficile, perchè la
ricchezza e il potere hanno attrattive molto pericolose sugli uomini, e
diventano tribolazione e miseria per chi li vuole acquistare con modi
poco onesti, per chi si crede di doverli possedere a preferenza degli
altri, o per chi non se ne sa approfittare a vantaggio del prossimo. Si
pena poco a voler troppo, a scordarsi degli altri, a incorrere nelle
disgrazie dalle quali è salvo chi vive nella mediocrità, chi nasce
oscuro, chi non si lascia rodere l’anima dall’invidia; e le cadute dei
grandi sono più micidiali perchè sono fatte dall’alto.»

— Vero, verissimo! — esclamò Santi. — Mi ricordo io d’aver fatto
gli scarpini da Corte ad uno che ora ha un dicatti di scantonare i
chiassuoli. E allora faceva il gallo[287] con tutti; aveva sotto di
sè un visibilio di gente, e comandava a bacchetta; e guai a chi avesse
avuto che dire con lui! e’ ne fece anche a me di quelle.... Basta, se
ora m’intoppa, fa il viso rosso.

— E tu voltati; o soccorrilo se ti chiede misericordia, — interruppe
Michele, — o compiangilo; e fa’ ch’ei non s’accorga d’essere
riconosciuto da chi può farlo arrossire: se è reo, lascia che lo
giudichi Iddio; e pensa che se tu fossi stato nei suoi piedi, potresti
aver fatto anche peggio. Ringrazia piuttosto il Cielo che non corri
pericolo di patire umiliazioni così dolorose.

— Avete ragione, — riprese Santi tutto commosso; — fece compassione
anche a me, quando lo vidi la prima volta. Mi pentii d’averlo guardato
dall’alto in basso; non avevo mai avuto una giornata così malinconica
come quella.

— E tu a che cosa pensi? — scuotendo Andrea che se ne stava a capo
basso, e pareva immerso in profondi pensieri.

— Io, — disse Andrea, — io mi lambicco il cervello per trovare cosa vi
vuole ad esser felici.

— Dimmi, Andrea, — soggiunse Michele, — quando sei proprio contento di
te stesso, ti par egli allora d’esser felice?

— Sì; ma che si può esser sempre contento? E poi, chi sa quali sono per
l’appunto le cose che ci possono fare stare più contenti?

_Michele._ Quando hai fatto il tuo dovere, per esempio, sei tu contento?

_Andrea._ Sì; ma non ci potrebbe essere qualche cosa che mi rendesse
più contento che mai?

_Teresa._ Ma se voi siete incontentabile, lo credo anch’io, non potrete
mai esser felice!

_Andrea._ Diamo che oggi la mi vada bene per aver fatto il mio dovere a
bottega. Domani mi ammalo, e non posso più lavorare.... sono io felice?

_Michele._ Convengo che per esser felici vi voglia anche la sanità; ma
dimmi un poco: se la tua malattia è venuta per disgrazia, avrai tu il
rimorso d’essertela procurata con gli stravizj?

_Andrea._ No; questo è naturale.

_Michele._ Intanto anche nel male che ci viene addosso v’è la sua
differenza, perchè il male voluto scotta più di quello che viene senza
nostra colpa. Avrai male; ma almeno la tua coscienza è tranquilla,
e non ti mancherà la forza di sopportarlo; non ti mancherà nemmeno
l’ajuto di chi ti vuol bene; guarirai più facilmente; acquisterai
maggior vigore per sopportare le nuove disgrazie.... Rammentati
che l’uomo è imperfetto, e non deve presumere d’ottenere perfetta
felicità.... Ma intanto eccoti sano; e se alla tua sanità unisci quella
tranquillità di coscienza, che ti faceva sopportare con rassegnazione
la malattia, di che cosa avrai tu da lagnarti? Ora, in conclusione, la
salute e la pace dell’anima, non le possiamo aver tutti?

_Santi._ Senza dubbio. E anche dico io che una fa bene all’altra.
Quando non ho nulla da rimproverarmi, mi par d’essere l’uomo più felice
di questo mondo.

_Andrea._ Ma queste due cose non bastano; perchè con tutta la mia
salute e con la coscienza tranquilla potrei aver la tasca pulita, e
patir la fame. In oggi chi fa l’uomo onesto è un miserabile; tutti
tirano ad ingannare il prossimo, e a levarsi il pane di bocca l’un
l’altro!...

Le donne e il vecchio fecero un atto di disapprovazione, e Santi
battendo il martello sul bischetto esclamò infiammato:

_Santi._ Questo poi non è vero! Tu l’hai a lasciar dire a chi accusa
gli altri per discolpare sè stesso, a chi vuol mangiare a ufo, a chi
vuole scorticare i fratelli, a chi fa capitale delle disgrazie, delle
imprudenze o della dabbenaggine del prossimo. Un uomo che lavora tutta
la sua giornata, che non getta il guadagno nell’osteria, che cerca, se
può, di risparmiare qualche cosuccia pei bisogni straordinarj, che non
si rovina col giuoco, oh! lo trova il modo di campare onestamente. Non
potrà scialare, ma non morirà mai di fame.

_Michele._ E poi, come potresti esser contento di te, se tu non avessi
fatto il tuo dovere? E facendo il tuo dovere da onesto bracciante, che
è quello di lavorare, è certo che tu guadagni.

_Andrea._ Se ci fosse sempre il lavoro!...

_Michele._ Prima di tutto, a chi ha voglia e capacità il lavoro
non manca mai. Se per disgrazia un maestro è obbligato a mandar via
qualche garzone, fa sempre di tutto per conservarsi i più onesti e i
più capaci. E se poi fossero licenziati anche loro, quando hanno buona
reputazione, trovano facilmente un’altra bottega; e se non la trovano
subito, qualcheduno li ajuterà. Ma convengo che per dire d’esser
felici, oltre alla sanità e alla pace dell’anima, ci vuole un guadagno
sicuro e sufficiente a provvedere ai nostri bisogni.

_Santi._ E tu vedi bene che queste cose vengono una dietro l’altra. Per
lavorare ci vuol salute; la salute si mantiene coi buoni costumi; il
lavoro, la salute e i buoni costumi ci assicurano il pane e ci danno
modo di risparmiare; e quando non ti manca da mangiare ed hai l’animo
in pace, tu sei contento. Allegri dunque, e coraggio! Ma a quel che
veggo non sei ancora persuaso. Che cosa vorresti di più?

_Andrea._ Le malattie, avete detto, possono esser volute, e allora
peggio per chi le ha; ma quando le vengono per disgrazia? Un muratore
che caschi dalla fabbrica, e si rompa una gamba....

_Michele._ Hai ragione. L’uomo è sempre sottoposto alle disgrazie; ma
v’è il modo di prevenirle....

_Andrea._ Come volete che io faccia a prevenire una caduta?

_Michele._ Non dico questo, sebbene la prudenza possa far molto; ma
in ogni caso non ti ricordi che cosa leggemmo sere sono sulla Cassa
di risparmio? Metti assieme anche un soldo per giorno, e avrai una
sommerella da parte, che basterà spesso a rimediare alle tue disgrazie.
E se le disgrazie non vengono, i frutti del tuo denaro potranno
servirti a migliorare il tuo stato, a dare una buona educazione ai
figliuoli, e ad assicurarti una vecchiaja tranquilla.

_Andrea._ Voi dite bene; ma poniamo il caso che una disgrazia mi
venga presto, e quando non ho che pochi paoli[288] nella Cassa di
risparmio?....

_Isabella._ Per carità, non fate tanti casi disperati!

_Santi._ Lascia dire, perchè la risposta viene a proposito.

_Teresa._ Se ci fosse stato l’altra sera, non farebbe una domanda come
questa.

_Andrea._ Sentiamo la risposta. Dev’esser bella davvero se vo’
m’insegnate il modo di rimediare alle disgrazie d’un bracciante, che
per un pezzo non potrà lavorare.... So anch’io che lo Spedale e il
Reclusorio sono fatti pei poveri; ma....

_Michele._ Lasciamo star queste cose. La risposta che ti darò sarà
buona; ma non ti credere ch’e’ sia un rimedio caduto giù dalle nuvole,
e bell’e pronto. In queste cose non bisogna figurarsi miracoli. Non si
tratta di fortune prodigiose, di tesori nascosti. Ora dobbiamo studiare
un espediente per prevenire la miseria, per rimediare alle disgrazie
impreviste, per assicurarsi il pane nella vecchiaja, per migliorare
il proprio stato. E questo espediente deve sempre essere fondato sulla
previdenza e sul risparmio, ma in un modo più efficace di quello della
Cassa di risparmio. Per ora è un disegno, ma che potrebbe riuscire a
bene, basta volere. E sta a noi a farne la prova. Ora ne giudicherai da
te stesso.

Andrea stava ad ascoltare attonito, ma poco disposto a credere.

— Angiolo, — seguitò Michele, — to’ su il libro che parla delle
_Società di Soccorso scambievole tra gli operaj_,[289] e leggi di dove
feci un segno coll’unghia. —

Andrea, scotendo il capo, disse allora sottovoce: — Finchè sono cose
scritte nei libri, ci ho poca fede. Saranno belle; ma chi vi pon mano?

_Michele._ Ho detto che tocca a noi; e sostengo che se vogliamo,
possiamo. Abbi pazienza, ed ascolta. —

Angiolino lesse:

«Gli operaj sono sottoposti a perdere il pane a motivo della
mancanza di lavoro, delle malattie, della vecchiaja e delle disgrazie
impreviste. Vi sono già le Casse di risparmio che rimediano a molti
guai: ma non tutti coloro che vi ricorrono, possono avervi depositata
una somma bastante a provvedere ad una necessità inaspettata; non tutti
possono aver cominciato tanto presto a depositare i loro risparmj, da
mettere insieme una somma, che dia un frutto sufficiente per farsi le
spese nella vecchiaja. Ora, i buoni operaj, hanno immaginato le _Casse
o Società di previdenza o di soccorso scambievole, ossia Compagnie
contro le disgrazie della vita_; e a un dipresso in questo modo.

«Ogni operajo che ha una giornata sicura, per quanto guadagni poco
ed abbia famiglia, se vuole, può levare un soldo il giorno dal suo
salario, e depositarlo nelle mani di un onesto cassiere. Già parecchi
sono quelli ai quali riesce di depositare ogni settimana nelle Casse di
risparmio anche una somma molto maggiore di sei soldi.

«Quando il numero dei contribuenti passa i dugento, la società può
soccorrere, finchè il bisogno lo richiede, quei socj che si ammalano
o quelli che non hanno lavoro, o assicurar loro una pensione per tutta
la vecchiaja. Se un operajo che sia stato ammesso alla società, non può
più guadagnare per malattia o per mancanza di lavoro, con pochi soldi
ha acquistato il diritto di godere, finchè sarà necessario, di un tanto
il giorno, e d’aver medico e medicine pagate; e se non ha famiglia,
sarà custodito in casa sua dai suoi compagni, senza bisogno d’andare
allo spedale. Ancora che per venti anni di seguito un operajo abbia
depositato nella cassa della società tanti soldi da fare una somma di
sole tre o quattrocento lire, con questo piccolo capitale ha diritto di
godere una pensione di cinquanta lire il mese, e anche più, secondo il
numero dei socj. Il piccolo capitale di quattrocento lire gli frutta
allora come quello di quindicimila al quattro per cento. Una società
che incassi trecento lire il mese può dare sei pensioni di cinquanta
lire l’una.

«La società destina un certo numero di persone che, senza pregiudizio
del loro tempo, debbono andare per turno a visitare i socj malati,
e, se è necessario, ad assisterli, ed accompagnare i defunti alla
sepoltura ec.

«Pel buono andamento della società è necessario che tutti i suoi membri
sieno scelti tra gli artigiani più onesti e più sobri.

«I malati per effetto di stravizj o di colpevoli risse, non sogliono
essere ammessi al benefizio dei soccorsi, o vien loro restituito col
debito frutto il denaro che hanno depositato nella cassa, e rimangono
esclusi dalla società; la quale tra le persone più specchiate ne deputa
alcune per giudicare di questi casi.

«Il socio che senza un’assoluta impossibilità dipendente da
straordinarie cause nelle quali non abbia nessuna colpa, non paga
per due o tre mesi la sua tassa, perde la somma che può aver già
depositato, e rimane escluso dalla società e dai diritti che aveva
acquistati.

«La medesima persona alla quale riesca di fare maggiori risparmj di
quelli che occorrono per pagare la sua tassa, può nello stesso tempo
depositare il superfluo nella Cassa di risparmio, o appartenere a due o
tre di consimili associazioni.

«Il marito e la moglie possono appartenere ciascuno alla medesima
società, pagando ambedue la tassa, o a due società diverse, e
procacciarsi così il mezzo di passare insieme la loro vecchiaja senza
patimenti e senza le umiliazioni della povertà.

«Le più facili a istituirsi fra tali società sono quelle che provvedono
principalmente alla vecchiaja, e non sarebbe male incominciare da
queste.

«L’esperienza ha già dimostrato in Francia e in Italia quanto sieno
utili; e non v’è da temere che la quantità dei pensionati le mandi
in rovina: prima, perchè niun contribuente è obbligato ad aumentare
la tassa, sia piccolo o grande il numero delle pensioni da darsi;
quindi perchè per lo più questo numero è piccolo in confronto a quello
dei contribuenti. Una società di questo genere composta di dugento
cinquanta artefici, tra maestri di bottega, garzoni e fattorini, non
giunge ad aver mai più di otto pensionati, cioè neppure uno su trenta.

«Quando si sono trovati tanti socj, che bastino a mettere in piedi
un’associazione di questo genere e che abbiano tutte le condizioni
richieste per renderla stabile e veramente morale, le difficoltà
principali da superare stanno nello scegliere gli ufficiali, nel fare
il regolamento, nell’assicurare l’utile d’ogni socio e nel far fruttare
convenientemente il denaro che avanza. Uomini o inesperti o tuttodì
occupati non possono provvedere a queste cose. Dunque è necessario
che vi pongano mano i maestri di bottega più istruiti, i capi dei
traffici, i fondatori e i direttori di altre società caritatevoli.
I capi d’arte specialmente sapranno stabilire e regolare siffatte
associazioni, e troveranno in esse molti mezzi per migliorare lo
stato dei loro sottoposti, per affezionarseli maggiormente, e per
renderne più corretti i costumi. Essi conoscono più d’ogni altro i
bisogni, i difetti, la possibilità degli operaj, e possono offrir
loro una opportuna sicurezza per la custodia e pel giro dei capitali.
Nonostante bisogna che uno cominci; e sia chi si voglia, purchè uomo
onesto, il suo zelo e i suoi tentativi potranno fare un gran bene al
prossimo. Noi ne abbiamo già un bellissimo esempio nella Compagnia
della Misericordia; e le antiche nostre corporazioni delle arti e
dei mestieri (lasciamo stare le ragioni per cui furono soppresse)
provvedevano a un dipresso con questo mezzo ai bisogni degli operaj più
poveri e di quelli che rimanevano colpiti dalle disgrazie. Possedevano
inclusive terre e case, e adoperavano in tali opere di carità una buona
parte delle rendite di questi beni. Anche adesso, se non tutti, almeno
molti mestieranti hanno la buona usanza di assistersi scambievolmente;
e un cappellajo, per esempio, che per qualche disgrazia rimanga privo
di lavoro, o vada a cercarne da una città in un’altra, trova soccorso
nei suoi compagni. Ma questo è un soccorso sempre incerto, e mancano
i regolamenti che sarebbero necessarj per provvedere al vero bisogno,
e per isfuggire il pericolo di assistere chi non lo merita, e di
fomentare l’infingardo ed il vagabondo. Nonostante, quest’assistenza
tacita, spontanea, indipendente da ogni patto e da ogni obbligazione,
mostra la buona indole dei nostri operaj, e sarebbe preferibile a ogni
altro metodo; ma non può sempre porgere aiuti costanti e corrispondenti
ai bisogni; indi per lo più è tutta a carico di pochi, e va a rischio
di mantenere gli abusi. Alla fine l’istituzione d’una di queste società
non toglie che altri assista come gli pare e piace gli amici e i
compagni. Il buon esito di una società che provveda ai bisogni della
vecchiaja, farebbe nascere il desiderio di istituirne altre consimili,
le quali in varj modi migliorerebbero l’economia domestica e la
moralità della classe manifattrice.»[290]

— Basterà per istasera, — disse Michele ad Angiolino. — Ora puoi andare
a letto. — Indi volgendosi ad Andrea: — Ecco a un dipresso come si
potrebbe rimediare alle nostre disgrazie. Mancherà ora chi voglia farne
la prova e dare un esempio anche tra noi? Io spero che non passerà
gran tempo che vedremo istituita la società di soccorso reciproco tra i
calzolaj. Intanto il mio figliuolo ed io daremmo subito un pajo di lire
al mese per ciascheduno; che cosa ne dici? —

Andrea approvò il pensiero, ed esclamò: — Dio volesse che una società
come questa fosse già fatta! Anch’io sarei per uno. Ma chi comincia?

— Subito che fuorivia lo fanno, e se ne trovano bene — aggiungeva
Santi, — perchè non s’ha a poter fare anche qui?

— E poi — ripetè Michele — ricordatevi che non si può nè anche dire
che sia cosa nuova per noi. Nei tempi antichi c’era anche più di
questo; e l’unione tra gli operai non solamente era giovevole alla loro
prosperità domestica, ma potevano ancora accumular denari per opere di
pubblica magnificenza, come fece l’_Arte della Lana_ che sostenne le
maggiori spese per la fabbrica del Duomo, e tutte le altre che fecero
fondere e scolpire le belle statue di bronzo e di marmo, che sono nelle
nicchie di Orsanmichele.

— Oh! ma quelli erano altri tempi, — diceva Andrea sospirando.

— E ora chi dice di fare un’altra cupola? — soggiunse Michele; —
si tratta di assicurare il campamento di qualche povero vecchio, di
prevenire la miseria, di migliorare il nostro stato, di trovare almeno
il mezzo di morire in pace in casa nostra, piuttosto che andare a
chiedere l’elemosina o chiuderci in un ospizio di mendicità, o finire
una vita tribolata nello spedale. E poi, cominciamo, non ci lasciamo
sgomentare dalle difficoltà e dalle dubbiezze; proviamo, se non
foss’altro. Lasceremo noi dire che ora non siamo capaci d’immaginare
un’opera buona o di condurla a fine? Ci sono tante compagnie religiose,
che si reggono da lungo tempo! e anche in quelle si paga; forse meno,
è vero; ma a tener di conto di tante spesicciuole traverse, e per lo
più superflue, in capo all’anno si farebbe una bella somma! E nello
stabilire una società di scambievole soccorso, credete voi che la
religione non debba avervi la sua parte? E ve l’ha naturalmente, perchè
questo è il miglior modo di esercitare la carità cristiana, perchè è il
più utile al maggior numero, e perchè deve reggersi sui buoni costumi
e tener cura della morale. La miseria, voi lo sapete, è una causa di
molta depravazione. Dite: un figliuolo che fosse esatto a pagare la
sua tassa alla compagnia, pel calo del torcetto alla processione, per
la festa al tabernacolo, pel desinare ec., e che sapesse fare la sua
bella figura sul banco del Governatore, ma che poi non volesse aiutare
suo padre invecchiato nella fatica, e lo lasciasse andare a chiedere
l’elemosina o a chiudersi in Montedomini, vi parrebbe egli un buon
figliuolo, un vero cristiano codesto? Non direste che egli fa quelle
spese più per ostentazione che per zelo religioso? Ma io non voglio
fare la predica. Siete persuasi della bontà della proposta? bisogna
cominciare a metterla ad effetto. Meno parole e più fatti. Aggiungerò
solamente, ma non per voi, che molti i quali crederanno di non si
potere obbligare a un tanto la settimana o a un tanto il mese per
questa compagnia, troveranno un mezzo paolo ogni venerdì pel giuoco
del lotto. Se a codesti disgraziati si dicesse: Che cosa preferite; un
terno al lotto, promesso tante volte e non ottenuto mai, e se ottenuto,
cagione spesso di molti altri inconvenienti; ovvero una pensione
anche di sole trenta lire per tutta la vostra vecchiaja? Credete voi
che dubiterebbero nella scelta? Andiamo, andiamo! Io spero che presto
vedremo prosperare in gran numero anche fra noi queste nuove società
di soccorso scambievole tra gli operaj; che tutti si persuaderanno
della loro utilità, e che ne verrà un notabile miglioramento nei nostri
costumi. —

Tutti applaudirono alle parole del vecchio, e Andrea esclamò: — Domani
voglio parlarne subito al mio maestro di bottega; so che gli piacciono,
queste cose!

— Benissimo! parlatene subito. — esclamarono le donne.

E Andrea, data la buona notte, un’occhiata amorosa alla fanciulla e una
stretta di mano a Michele ed a Santi, tornò a casa più contento del
solito, e impaziente di conferire col suo maestro di bottega intorno
alle cose che aveva udito.



IL BUONO E IL CATTIVO PER TUTTO


I fatti lacrimevoli che qui troverai narrati, o lettore, avvennero a
tempo della tremenda rivoluzione, che scosse la Francia e l’Europa sul
cadere del secolo scorso; di quella rivoluzione così detta dell’89,
terrore tanto dei despoti che dei popoli; segnalata da atrocità
inaudite e da virtù e da prove di valore talvolta sublimi: lodata
troppo e troppo biasimata tanto da coloro che nelle rivoluzioni altro
non vedono che la occasione di soddisfare passioni sfrenate o malvage,
quanto da coloro che le credono sempre ordite da cospiratori e da pochi
faziosi, nè sanno persuadersi che per lo più i governi stessi coi loro
errori le preparano, e le fanno essere inevitabili.

Perchè, tu dirai forse, avendo volontà di scrivere un racconto,
perchè scegliere argomento così malinconico, e risvegliare memorie sì
luttuose? Non basta che la storia registri le calamità di quel tempo?
Che cosa occorre andar frugando nei remoti angoli d’una provincia per
ricordare dolori e lacrime ormai ignorate da lungo tempo?

Io risponderò, cortese lettore, che la intenzione è manifesta nel
titolo, e che io la credo buona, e perciò ho dato in luce lo scritto.
Imperocchè le rivoluzioni essendo più o meno inevitabili in tutti i
popoli fino a che ogni specie di dispotismo non sarà abolita sopra la
terra, fino a che tra gli uomini sussisteranno diseguaglianze derivanti
da ingiusti privilegi e da iniqua usurpazione; così la esperienza del
passato è sempre utile pel presente e pel futuro; e appunto le lezioni
della storia devono principalmente conferire a minorare, quant’è
possibile, gli errori, i disordini, gli eccessi purtroppo inseparabili
da qualunque violenta mutazione nel reggimento dei popoli. Quindi
ciascuno può trovar da imparare qualche cosa, non solo nelle gesta
luminose di un uomo grande, ma anche nelle avventure d’un oscuro e
povero cittadino, il nome del quale non comparirà mai nella storia.


La Vandea,[291] come a tutti è noto, fu la provincia che nel tempo
della rivoluzione fece i maggiori sforzi pel sostegno della monarchia
borbonica. Ivi le passioni della fazione realista, spingendo gli
uomini qualche volta all’eroismo e più spesso alla ferocia, giunsero
a terribili eccessi, e fecero versare invano molte lacrime e molto
sangue, invano oltraggiarono la natura, per difendere e conservare
un ordine di cose divenuto impossibile per colpa di quei medesimi che
presumevano di poterlo perpetuare.

In quel paese viveva a Fontenay una povera vedova in compagnia del suo
unico figliuolo, onesto giovine e abile artigiano. Ambedue erano amati
dai loro vicini, e godevano la stima dell’universale, non tanto pei
loro buoni costumi e pel tenero affetto che si volevano, quanto perchè
erano esemplari nella religione, vivendo da veri cristiani.

Il figliuolo si chiamava Carlo, ed era di natura sua molto riflessivo,
taciturno, timido, poco proclive ad affiatarsi con gli altri, e quasi
privo di quello spirito pronto e vivace che suole sovrabbondare nei
Francesi. Questa singolarità di carattere, finchè si trattava di
tempi ordinarj, non aveva dato nell’occhio. D’altronde egli non era
mai comparso nè sgarbato, nè orgoglioso, nè di cattivo cuore; anzi i
conoscenti lo avevano esperimentato d’animo cortese, generoso, modesto,
pieno di carità del prossimo, non a parole ma a fatti. S’era egli dato
il caso di qualche incendio? Carlo aveva esposto pel primo la sua vita
in soccorso di quella degli altri; ma se volevate i particolari del
fatto, e in specie delle prove di coraggio date da lui, inutilmente a
lui stesso vi sareste rivolto.

In tempi nei quali le passioni faziose imperversano, la originalità,
qualunque ella siasi, ancorchè tutta generativa di bene, fa spicco, e
chi non la può volgere ai suoi fini, si trova tentato a interpretarla
malignamente. Sicchè quando il paese incominciò ad essere sommosso
dalla controrivoluzione, o, come ora si dice, dalla reazione, i
compaesani di Carlo, scordando affatto le sue buone qualità e i suoi
meriti, posero mente soltanto alla sua ritiratezza e alla taciturnità
che fin quasi dalla nascita aveva mostrato; e parendo loro di vedervi
non so che di misterioso, senz’altro lo giudicarono avverso alla parte
colà prevalente, e lo fecero segno a strani e formidabili sospetti.
Così la politica ha ed avrà sempre, come gli ebbe l’inquisizione, le
sue torture e i suoi roghi, sì pei colpevoli che per gl’innocenti.

Quanto più la rivoluzione si stendeva, tanto più crescevano i sospetti
dei paurosi contro le supposte intenzioni segrete di Carlo. E poichè
da lui, come suol dirsi, non v’era da ricavare un numero, e niuno vi
fu che osasse francamente domandargli com’ei la pensava; così i più
zelanti si posero attorno a sua madre, sperando forse di conoscere
per tal via l’animo del figliuolo. E tra questi fu il suo confessore,
il quale stimò di non doverle nascondere le apprensioni del paese sul
conto di Carlo; e con affettuosa premura la esortava ad usare la sua
dolce autorità materna, dal buon giovine esemplarmente rispettata, per
farlo ravvedere, come ei diceva, e per distoglierlo da qualche orrendo
tentativo. — Nè ve ne accorgete? Carlo sta a sè anche più di prima: ora
come ora tanta indifferenza può esser studiata affettazione; e se con
qualcuno s’affiata, lo fa appunto con quei tre o quattro giovani che si
sono manifestati partigiani della repubblica, e che il paese tiene per
nemici della patria. Or si può dunque ragionevolmente dubitare ch’ei
mediti qualche serio fatto, ch’ei si sia lasciato indurre a entrare in
qualche iniqua cospirazione. Se fosse vero, esortatelo a ravvedersi:
tocca a voi; ne va della vostra coscienza; ricordatevi che è vostro
figliuolo. Io ve lo dico pel bene di tutti e due. —

Queste parole, queste paure cagionavano afflizione e sgomento alla
tenera madre. Essa non aveva veduto la menoma variazione nel contegno
del figliuolo, perchè infatti niuna variazione era avvenuta; ma a forza
di udirne discorrere, e poi anche da persone autorevoli, incominciò a
dubitare anch’essa che qualche cosa di vero vi dovesse essere, e mosse
a Carlo alcune domande timide e incerte, e gli fece ammonizioni piene
d’affettuosa trepidazione.

Carlo in sulle prime non si raccapezzava, e la confortava a stare
pienamente tranquilla sul conto suo; poi travide l’origine dei
materni timori, e con la sua solita schietta e vigorosa concisione,
le rispondeva: — Mamma, state tranquilla: io amo la patria, e non
farò altro che quello che un buon Francese deve fare. Ma già voi mi
conoscete, e basta. —

Più volte egli ebbe a ripetere tali detti; ma questa risposta, che
sua madre volle riferire per testimonianza della schiettezza d’animo
di Carlo, poteva essere interpetrata sinistramente; e così avvenne,
perlochè i suoi compaesani ne trassero motivo a maggiormente temerlo, e
a trascendere fino all’odio.

Intanto l’afflitta donna, che non poteva ancora risolversi a dar corpo
a quelle ombre, andava tuttavia sovente in cerca del confessore per
isfogare con esso la sua segreta apprensione, per chiedergli consiglio,
assistenza, conforto: ma purtroppo la non ne ricavava altro che parole
dettate dalla ipocrisia, della passione faziosa; nuovi timori, arcane
minaccie e accrescimento di scrupolo religioso.

   [Illustrazione: Pag. 287.]

Un giorno il confessore stesso andò a lei con animo deliberato di
chiarirsi di un altro sospetto, che, cioè, anche la madre fosse
d’accordo col figliuolo, fosse a parte di qualche macchinazione, dalla
scoperta della quale potesse venire molto utile al suo paese. Dopo i
consueti discorsi, ricominciò con dolcezza a domandarle: — Ma sapete
voi bene che cosa faccia questo giovane di tutto il suo guadagno? Se,
come voi m’assicurate, e io lo credo, se egli lavora giorno e notte e
non s’impiccia d’altro che del suo lavoro, e’ deve guadagnare bene.
Dunque in che cosa spende? Ha egli messo da parte qualche somma? Lo
so, lo so; e’ pensa al vostro mantenimento, e non vi fa mancare di
nulla. Ma per voi, che siete tanto discreta, che cosa ci vuole? Si
può credere! Dunque? che cosa fa egli del rimanente? Dove consuma i
suoi risparmi? Invero, alla bettola non è stato mai veduto; dedito al
giuoco, che si sappia, non è.... Eppure in qualche cosa il suo denaro
deve essere speso. Ah! sorella mia, io che conosco i segreti di tante
coscienze, io che conosco quante iniquità si commettono o si fanno
commettere agl’incauti, cose che soltanto a Dio e ai suoi ministri
sono note.... Ah! voglia il cielo che il suo confessore lo assista
davvero, come io fo quanto posso per assistere e premunire l’anima
vostra!... Ma quel denaro che non si sa come vada speso, per me....
sbaglierò.... vorrei sbagliare.... mi dà pensiero. Oh! se si fosse in
tempo a rimediare! E sì che io potrei.... Ma bisogna che io sappia,
bisogna aprirmi l’animo candidamente!... — Ma era inutile: nulla
valeva a fargli scoprire ciò che era impossibile di scoprire, perchè
non sussisteva altro segreto fuorchè quello fattogli travedere dalla
sua fissazione. E la madre che si sentiva opprimere dal crepacuore,
si scioglieva in lacrime guardandolo con occhi atterriti e implorando
pietà pel figliuolo, che ad onta delle tante paure che spingevano
anche lei a sospettare, pure dalla intima coscienza le era gridato
incolpabile.

Alfine, quando il sacerdote conobbe che dalla ingenuità di quella
creatura non v’era da ricavare nulla intorno al supposto segreto
che tanto gli premeva discoprire, esclamò con grande afflizione: —
Ah! poichè vi vedo così ostinata a nascondermi tutto, e ricusate di
affidarvi in me che voglio il bene del mio paese, e che procurerei nel
tempo stesso di mettere in salvo l’anima vostra e quella del vostro
figliuolo io vi dichiaro con mio sommo dispiacere, ma bisogna che lo
faccia, vi dichiaro che non potrò più ascoltarvi qual mia penitente,
perchè la mia coscienza non mi permetterebbe di assolvervi. — E
dandosi a credere di avere adempito così al proprio dovere, andò via
compassionando la debolezza della sua penitente in lasciarsi sedurre
fino a quel punto dall’amore materno.

Essa rimase tanto sbalordita da questa inaspettata minaccia, che non
ebbe fiato di raccomandarsi, d’andargli dietro.

Ma in capo a pochi giorni, dopo che la si fu crudelmente logorata
l’anima in una lotta tremenda tra l’affezione pel figliuolo e
gli scrupoli di coscienza, che quanto più vi pensava tanto più
le crescevano, alfine, come se fosse spinta ad abbandonarsi a una
risoluzione disperata, corse al confessore; piangeva dirottamente, e a
fatica gli potè far capire che implorava d’essere ascoltata.

Egli, sperando che fosse venuta per confidargli il supposto segreto,
l’accolse amorevolmente, le fece coraggio a parlare, e guardando il
cielo con occhi pietosi, aspettava la bramata rivelazione. — Sì, —
diceva allora tra i singulti la sventurata, — ho risoluto, lo farò;
non posso sopportare d’essere abbandonata da voi.... Ah! voi lo sapete,
reverendo padre, il mio.... il povero Carlo mi dà il campamento; ma....

— Avanti! Coraggio! Siamo soli! Non dubitate!

— Ma io, proprio, non so.... non posso credere....; e se mai, per
assicurarvi che non sono a parte dei suoi segreti.... Ah! ho deciso:
piuttosto mi separerò da lui; camperò di elemosina, mi figurerò
di averlo perduto, piuttosto che restar priva della vostra santa
benedizione. — E appena pronunziate con fermezza queste parole, cadde
ginocchioni, quasi in deliquio, ai piedi del confessore, in atto
d’aspettare la sua sentenza.

Ma egli, sebbene, rimanesse colpito e si mostrasse commosso da quella
risoluzione, pur vide che non ne poteva ricavare costrutto. Nondimeno
giudicò di doverne tener conto; accortosi che ella vi persisteva con
fermo proponimento, la confortò di pietose parole, e la benedisse,
dicendole: — Sia fatta la tua volontà, che io spero sia quella del
cielo. Va’ buona creatura. Iddio ti rimuneri di questo atto di virtù
cristiana, e ti dia forza per sostenerlo, affinchè tu possa ricavarne
quel bene che la divina misericordia si degnerà di concedere a te e a
quello sciagurato giovine. — Così l’indegno sacerdote, traviato dalla
passione politica, profanava la religione, e permetteva che in nome di
essa si separassero due cuori che Dio fece per essere sempre uniti.

Chi avesse veduto quella povera madre, dopo che fu uscita dalla
presenza del confessore, e quando con incerti passi brancolava
per ritrovare la strada e ricondursi a casa, l’avrebbe creduta una
moribonda che si trascinasse da sè medesima al camposanto per cercarvi
sepoltura. Pure le riuscì di giungere alla casuccia che ella aveva
fatto proposito d’abbandonare, dopo aver rivisto il figliuolo per
dirgli addio. Un animo l’avrebbe anche consigliata a nascondersi subito
ai suoi sguardi, a lasciarlo senza dirgli nulla; ma la natura non vi
consentì; sebbene l’amor materno fosse stato soffocato con una violenza
di passione quasi incredibile, pur la natura non era vinta, e guidò i
suoi passi a quelle stanze dove una modesta agiatezza, una gioia serena
l’avevano accolta sposa, dove con arcana e soave corrispondenza di
giubbilo e di dolori era divenuta madre, dove aveva allattato da sè,
educato e visto crescere la delizia sua e del marito, quel figliuolo
che ora...! Povera madre! E pianse; pianse tutto il giorno, combattendo
sempre gli affetti che venivano in folla ad assalirla.

Verso sera, chè l’ora s’appressava in cui il figliuolo sarebbe tornato
a casa, si rasciugò più volte le lacrime, e finalmente le riuscì
di costringere gli occhi a non versarne più. Ed ecco che ode i noti
passi: il suo Carlo è per le scale; frettoloso, secondo il solito, per
rivedere, dopo tante ore di lavoro, sua madre, per portarle la cena,
che facevano sempre insieme, e sempre in mezzo a lieto e affettuoso
colloquio, prima che la domestica pace fosse stata loro turbata
dalla crudele ipocrisia. Allora un brivido le prese tutta la persona,
impallidì, guardò il cielo, e ripetè: — Ho deciso! —

In quel punto la porta si apriva; e Carlo entrava, anche più mesto del
solito, tenendo involta in un fazzoletto la poca provvista per la loro
cena. Ma la tavola non era apparecchiata; e sua madre se ne stava in
piedi, silenziosa e immobile, accosto a quella, guardandolo con aspetto
che pareva severo.

— Perchè non è apparecchiato? — disse dolcemente Carlo. — Forse avete
già cenato? —

La madre non rispondeva: pure i suoi occhi s’affissavano nel figliuolo,
ma come gli occhi che si posano sopra un oggetto senza vederlo quando
la mente è distratta e tutta assorta in qualche grande pensiero.

— Forse siete corrucciata con me perchè ho fatto tardi? Ho indugiato,
— continuava il povero figliuolo sospirando, — ho indugiato un poco
stasera, perchè.... non vi sgomentate peraltro.... perchè non avevo
quattrini per comperare questo boccone di cena. — E intanto svoltava il
fazzoletto.

Allora la madre si mostrò sorpresa di questa novità, ed esclamò subito
con voce piuttosto austera: — Dunque oggi non hai lavorato? E che cosa
hai tu fatto?

— Sì, mamma, ho lavorato come gli altri giorni. Ma che cosa volete?
in questi tempi di così terribili calamità, non tutti quelli che
hanno fortuna d’aver lavoro, possono anche far conto d’essere pagati
immediatamente. Ho aspettato due ore che il principale tornasse, gli ho
chiesto la mia giornata; e lui: — Non riscuoto io, e non posso darne a
voi! — Soggiungendo poi, con impeto di collera: — Dovete ringraziarne
quei birbanti che mettono sottosopra tutta la Francia! — In ciò dire
Carlo aveva finito di porre sulla tavola la cena, e ripiegando il
fazzoletto, scuoteva il capo con un sorriso di disprezzo, e aggiungeva:
— Come se questi pretesi birbanti potessero impedire alla gente
onesta di pagare puntualmente la mercede agli operai, la mercede dei
lavoranti. —

All’ingenua risposta di Carlo, sua madre aveva abbassato il capo; si
toccava colla destra il petto, e lo sentiva palpitare; e poco mancò
che a un tratto quei palpiti materni non la smovessero dal suo crudele
proponimento. Ma no! con una stretta di mano convulsa, compresse quel
cuore e poi la ritrasse dal petto quasi avesse voluto strapparselo,
giacchè la non doveva più dare ascolto ai suoi moti d’amore verso il
figliuolo.

Carlo non vide quell’atto perchè anch’egli, per un’altra ragione, si
studiava di distrarsi da quelle idee malinconiche; e lo faceva col
rimettere, senza bisogno, nelle sue pieghe il fazzoletto.

Poi, cacciato risolutamente da sè ogni pensiero molesto, e
rasserenatosi anche per fare animo alla mamma: — Su via, disse,
mangiamo in pace questo boccone. A tutto v’è il suo rimedio. Io non
mi scoraggisco, e voi dovete scoraggirvi meno di me. Finchè avrò così
buona salute!... Sicuro, stasera la cena sarà un po’ più magra, chè,
avendo dovuto prendere a imprestito il denaro, ho speso meno che fosse
possibile. —

All’udire che il figliuolo, per procacciarsi un vitto anche più
frugale del solito, aveva avuto bisogno di farsi prestare il danaro,
fu assalita da una specie di ribrezzo, parendole cosa incredibile,
dimenticando quello che Carlo le aveva detto innanzi, e pensando
solamente ai discorsi e ai sospetti del confessore; e, preso animo
dalle parole di Carlo, ma animo di disperazione, disse, senza mostrare
turbamento:

— Oh! ne avanzerà, perchè deve servire a te solo.

— Come? non volete mangiare?

— No. Ma stasera se avrò appetito cenerò all’Ospizio dei poveri. Vi
sarei digià, se non fosse stato per non lasciare la casa aperta. Ora
che ci sei tu; addio!... Bisogna che ti lasci. E questo è l’ultimo
addio che ti dà tua madre! —

A tali parole parve che il fulmine l’avesse colpito e ridotto in
cenere: con gli occhi stralunati e fissi sopra di lei che gli voltava
le spalle e partiva; senza la forza di movere un passo nè d’articolare
un accento, come chi sogna di stramazzare sull’orlo d’uno spaventevole
abisso, e non può stendere il braccio a un sostegno, nè sciogliere la
voce per gridare ajuto.

Intanto la madre tornava con passo concitato alla casa del confessore;
e appena fu giunta alla sua presenza, gli annunziò con fermezza d’aver
mandato ad effetto la separazione dal figliuolo, e gli chiese la
polizza d’ammissione nell’Ospizio dei poveri.

— Brava! Oh se tutti i fedeli fossero come voi, questo povero mondo
quanto sarebbe migliore! Ma, dite un poco; siate sincera: che cosa ha
egli detto, quando voi gli avete fatto sapere la vostra risoluzione?

— Nulla! — rispose la meschina senza poter reprimere un sospiro di
spasimo. — Mi ha lasciato andar via!

— Ah! lo vedete? Che disgrazia! Ve lo diceva io? lo hanno traviato! Chi
sa che cosa vanno macchinando? Sciagurati! E che non si abbia a poter
sapere, per poter rimediare in tempo?...

— Ma oh Dio! mi raccomando, non può esser colpa sua!

— Eh! non dubitate: io farò di tutto per salvarlo. E spero.... Chi sa?
Questa lezione.... Intanto ringraziate Dio che vi ha dato il coraggio,
la virtù d’abbandonarlo. — E proferendo altre simili scellerate parole
a modo di conforto, s’alzò per darle la polizza d’ammissione, e la
mandò al suo destino.

Carlo, appena riavuto dal primo sbigottimento, lasciata la cena, spento
il lume, chiuso a chiave l’uscio, e scesa d’un salto la scala, corse
in traccia di sua madre. Giunse fino all’Ospizio; domandò se una donna
si fosse presentata poco prima per farsi ammettere nel ricovero. Non
avevan veduto nessuno. Andò alquanto errando come forsennato in quei
dintorni; poi gli venne in mente il confessore di sua madre. — Forse
sarà da lui. — Giunse alla casa di questi. Picchia, ripicchia: nessuno
gli risponde: ormai era tardi, e tutti dormivano. Tornò all’Ospizio. La
donna vi era stata accolta allora; ma di sera niuno, se non fosse per
ammissione, poteva passare nell’Ospizio. I superiori non v’erano o non
davano udienza. Ogni scongiuro fu inutile. Figliuolo o non figliuolo,
il vedere la madre gli fu negato inesorabilmente.

Forse per la prima volta in vita sua Carlo fu sul punto di lasciarsi
trasportare dalla collera a qualche eccesso; e i custodi dell’Ospizio
già si apparecchiavano ad usare la forza per mettere in arresto quel
furibondo. Ma la riflessione venne in tempo a ridurlo in calma, e gli
suggerì di rivolgersi al suo proprio confessore.

Questi aveva potuto serbarsi imparziale nelle gravi turbolenze, che
ponevano lo scompiglio nel paese: era uomo di costumi semplici ed
esemplari; pieno di pace e di carità evangelica per tutti, e sollecito
d’andare in cerca dei poveri, degl’infelici, degli oppressi, per
assisterli con le parole e con le opere.

Gran parte della notte, quand’ei non era al capezzale dei moribondi,
e benchè avesse faticato tutto il giorno in servigio della società
e della chiesa secondo il suo ministero, soleva passarla a studiare.
Quindi Carlo lo trovò levato, e potè subito essere ammesso alla sua
presenza.

Prima che il dolore gli concedesse di proferire una sola parola, gli
cadde genuflesso ai piedi; e con le gote inondate di lagrime, tra
i singulti, con accenti interrotti gli narrò poi l’accaduto sino da
quei primi colloquj che furono forieri della sciagurata separazione.
— Tutto, — esclamava l’infelice, — tutto ho sofferto sommessamente: i
sospetti crudeli d’una madre adorata, le persecuzioni, le calunnie dei
miei compaesani, il loro disprezzo atroce contro un povero giovine che
non ha mai dato noia a nessuno, che anzi!... Ma farmi perdere l’amore
di mia madre, strapparmela di casa, ridurla ad abbandonarmi di sua
volontà, con una risolutezza tranquilla da fare spavento, oh padre
mio! questa è troppa crudeltà! Io non reggo; io sono disperato! Sento
che potrei essere spinto!... — E con le mani giunte si percoteva e si
premeva la fronte.

Il santo uomo, esprimendo allora dal suo cuore quelle parole che
solamente la lingua degli angioli potrebbe riferire, giunse a porre un
po’ di calma nell’animo dello sconsolato; e fattoselo sedere accanto:
— Or dunque, — soggiungeva, — hai tu pensato a che cosa io potrei fare
per te? Hai tu fatto qualche disegno?...

— Ah! io son venuto a chiedere consiglio. Io non ho pensieri fatti; non
ho volontà; non so a qual partito appigliarmi.... Abbandonato così da
mia madre, solo sopra la terra, scoraggito, avvilito dai miei nemici
crudeli, che mi hanno tolto più che la vita...!

— Questa è disperazione, figliuolo. Tu mi hai già promesso di ritornare
in te. E a che cosa gioverebbero i consigli che tu mi chiedi, se Dio
mi concederà di darteli buoni, quando io non mi potessi affidare nella
tua ragione? Chi ti dice che se tua madre è ingannata, la non abbia ad
accorgersi dell’inganno? Che se tu hai dei nemici, essi non possano
ravvedersi? Intanto conviene operare in modo da non accrescere il
male presente; e per riuscire in questo, ci vuole pacatezza d’animo,
rassegnazione, coraggio. Fa’ di meritare l’aiuto di Dio, usando la
ragione che esso ti ha data. — E dopo altre esortazioni, gli domandò
schiarimenti sopra ogni fatto che potesse riferirsi a quello della
separazione; raccolse i proprj pensieri; si richiamò alla mente tutto
quello che già aveva udito e veduto di più deplorabile nel suo paese,
a motivo delle passioni politiche che furiosamente lo agitavano; e
riconobbe infine da tutto ciò, che a Carlo poteva veramente soprastare
qualche grave pericolo. Allora gli domandò:

— Ti senti tu proprio disposto a fare quello che a me parrebbe più
conveniente? Seguirai tu il mio consiglio?

— Sì, padre!

— Dunque mi sembra che ora sia prudenza scansare nuovi contrasti. Se
v’è taluno che sia accecato dalla passione, non è possibile così subito
illuminarlo. Il tempo, in queste faccende, è la miglior medicina. Tu
sei abile nella tua professione d’orologiaro. Prendi i tuoi arnesi,
e va’ subito nel vicino paese di Bourbon-Vendée. Lì ti conoscono, ti
stimano, lo so; e al bisogno, mi scriverai; ti raccomanderò a qualcuno.
Io intanto penserò a vedere tua madre, a persuaderla, a farla tornare
in casa....

— E io manderò l’occorrente pel suo campamento.

— Così è, da buon figliuolo. Or dunque, va’, sii operoso e costumato
come finora t’ho conosciuto; e abbi fiducia nella misericordia divina,
che dopo breve afflizione ti renderà, spero, agli amplessi di tua
madre. Iddio ti benedica, e ti mantenga il coraggio. —

Carlo s’accomiatò alcun po’ confortato, e ambedue s’adoperarono tosto a
mandare ad effetto dal canto proprio quello che deliberato avevano fra
di loro.

Così l’orologiaro, seguendo il consiglio del venerando vecchio, andò
quasi inosservato a Bourbon, dove altre volte recato si era o d’ordine
del suo principale a riportare qualche lavoro, od anche di sua volontà,
per le proprie faccende. Dispiacevagli all’estremo di dover fare quel
passo; ma riconobbe che in tutti i modi era il miglior partito a cui
potesse appigliarsi in tal frangente; e ne ebbe presto chiara riprova
per le notizie che gli pervennero intorno ai giudizi che di lui erano
stati formati. La strana risoluzione di sua madre gli fece por mente
a cose delle quali prima sdegnava affatto prendersi alcun pensiero; e
allora conobbe purtroppo che molti per effetto di opinioni l’odiavano,
e che il minimo risentimento ch’egli avesse dimostrato sarebbe stato
cagione di uno di quelli scandali, di uno di quei pericoli, contro
i quali anche la più accurata prudenza, anche il maggior possibile
coraggio, di rado hanno schermo.

Intanto il sacerdote, andato subito in cerca di sua madre, parlandole
con tenerezza in nome dell’afflitto figliuolo, in nome della religione
che deve riunire non separare le creature di Dio, fossero anche
colpevoli di quelli errori a cui la fragilità umana è soggetta,
tanto più poi quando la opinione di tali errori può essere falsa o
almeno precipitata, le toccò il cuore; e tanta era appo tutti la di
lui autorità di virtuosi costumi e di cristiana sapienza, che ella
si lasciò indurre a tornare a casa e ad accettare dal sacerdote
il bisognevole pel proprio campamento; usando egli peraltro la
cautela di non le dire subito di dove provenisse, per timore che lo
scrupolo malaugurato si risvegliasse, e non la spingesse a ricusare
quell’offerta che era in sostanza la più accettabile e doverosa.

Carlo s’era rivolto in Bourbon a un ricco orologiaro che ben conosceva
la sua abilità e la sua onestà, e ottenne facilmente lavoro; e preferì
di farlo a casa in una stanzuccia terrena presa a dozzina per dormirvi,
volendo così sfuggire di dar nell’occhio, e più che altro bramando la
libertà di sfogare inosservato la sua afflizione.

Quando egli ebbe preso la risoluzione di ritirarsi per qualche
tempo da Fontenay, alcuni suoi amici, che erano caduti in sospetto
pressochè come lui, vedendosi soprastare non meno gravi pericoli e
avendo in molta estimazione il suo senno, risolsero di seguirlo; ma
non incontrarono subito egual fortuna, poichè mancò lavoro per essi,
e doverono qualche po’ di tempo vivere a spese di lui. Il che non
potendo, per giusto sentimento della propria dignità, sopportare, gli
proposero di andare tutti insieme alla capitale, dove, a parer loro,
doveva esser facile trovare da allogarsi tutti in qualche officina, e
dove si figuravano che sarebbero stati più sicuri: perchè, dicevano, a
Parigi la rivoluzione trionfa, e non può essere a meno che si sostenga,
dacchè è nata per cagione del governo medesimo, il quale non ha
mantenuto quello che aveva promesso; e il governo sleale è già caduto,
nè si vede che ormai i suoi fautori abbiano più forza di ristorarlo.
Noi dunque staremo con la parte che ha più ragione.... Ma Carlo,
che per onesti riguardi era alieno dall’abbandonare senza assoluto
bisogno il suo paese, e che giudicava poter servire per tutto la patria
nel caso che essa chiamasse anche lui, ricusava d’unirsi a loro; e
udendoli ragionare di parti ne mostrò dispetto, e persistè più che mai
nel rifiuto, troncando ogni loro insistenza con queste parole: — Io
amo la patria, e non farò altro che quello che un buon Francese dee
fare. — Nientedimeno essi presero in mala parte la negativa e queste
parole, e la loro scontentezza giunse a tal segno, che, dimenticata
la stima avuta per lui fino allora, la fiducia ch’ei meritava e il
soccorso ricevutone, convertirono l’amicizia in odio, e se ne andarono,
dicendogli: — Ah! ti abbiamo conosciuto; anche tu sei un realista.
Ci pareva una cosa.... ma t’è caduta la maschera. Resta, resta pure a
Bourbon-Vendée, che è proprio paese fatto pe’ pari tuoi. —

Egli compassionando la cecità degli sconsigliati, continuò
tranquillamente il suo lavoro; e già era passato parecchio tempo che
accudendovi con indefessa fatica era pervenuto a guadagnare assai bene,
da poter assistere anche con maggior larghezza di prima sua madre.

Ma questa era soddisfazione troppo leggiera a confronto del dolore di
vedersene separato; e quando, per le premure del confessore, era, forse
più ch’egli non si aspettasse, vicino il giorno in cui o a Bourbon od
anche a Fontenay se le sarebbe potuto riunire, il forte patema d’animo,
covato per tanto tempo, gli cagionò una malattia pericolosa.

Il suo confessore vedendosi mancare per molto tempo le notizie che
soleva regolarmente riceverne, dubitò di quello che veramente era, e
corse a trovarlo. Il povero giovine con la speranza di guarir presto,
non gli aveva in sul principio fatto saper nulla, per non metterlo
in pensiero. Quando avrebbe voluto avvisarlo, non poteva a cagione
del male aumentato a dismisura. La vecchia portinaia di quella casa
lo assisteva con amore, ma i doveri del suo impiego e la vecchiaja
impedivano che l’assistenza fosse quale il bisogno chiedeva. Il
sacerdote giunse in tempo per provvedervi; chè se il malato gli parve
grave, pur nonostante, per la esperienza che di tali cose aveva fatta,
giudicò che potesse guarire, e che fosse per essere più efficace la
cura del morale che quella del fisico. La sola sua presenza, quando
Carlo lo riconobbe, lo aveva fatto alquanto riavere da un abbattimento
che a primo aspetto sarebbesi creduto letargo mortale; e viepiù
lo rianimò col palesargli di mano in mano le buone disposizioni
della madre, con usare, nell’esortarlo a farsi coraggio, quei modi
così pietosi, così soavi e persuasivi, nei quali non era chi lo
agguagliasse.

Indi, per buona sorte, abitava il primo piano di quella casa, una
vedova, donna ragguardevole pei suoi egregi costumi, e tenuta in grande
estimazione da tutti pei meriti del suo defunto marito, che aveva
reso segnalati servigi alla Francia. Era anche facoltosa, benchè non
fosse più ricca come per l’innanzi a motivo dei dissesti economici del
suo unico figliuolo, il quale era dominato dalla passione sciagurata
del giuoco. Ella viveva appunto da lungo tempo in quel remoto paese e
nella massima ritiratezza, non solo pel dolore della vedovanza e per la
diminuzione degli averi, ma più che altro ad oggetto di tener lontano
dalla capitale e dalle occasioni di nuovi disordini quel figliuolo
colpevole.

Il confessore di Carlo la conosceva bene, e n’era tenuto in quella
venerazione ch’egli si meritava. Ei dunque, non potendo trattenersi
a Bourbon senza trascurare i doveri del suo ministero a Fontenay,
lasciò Carlo raccomandato a questa signora, la quale non è a dire se lo
assistesse con tenerezza e con generosità, non risparmiando nè cure nè
spese per fargli recuperare la salute.

Appena che il giovine orologiaro fu guarito, non solo il sentimento
di un dovere, ma quello di sincera e affettuosa gratitudine lo mosse a
ringraziare la sua benefattrice. I savi portamenti da lui tenuti sempre
a Bourbon, il buon concetto in che lo aveva quel sant’uomo del suo
confessore, e i modi gentili benchè riservatissimi, gli procacciarono
benevolenza nell’animo della dama e del suo figliuolo. Avrebbero anche
voluto averlo a veglia sovente, e non meno spesso alla loro tavola;
ma se egli qualche volta passava volentieri la serata con loro, di
rado accettava l’invito del pranzo, e solo per non parere scortese;
adducendo per ragion del rifiuto che il lasciare troppe volte le
proprie assuefazioni gli avrebbe forse diminuito l’amore del lavoro,
del quale aveva tanto bisogno.

Ma Carlo, che aveva sempre il cuore a Fontenay, non vedeva l’ora di
potervi tornare; e già le notizie che ne riceveva gli avvicinavano
questo sospirato giorno, e perchè sua madre pareva ormai disposta a
riceverlo e a vivere con lui come prima, avendo potuto superare gli
scrupoli, e perchè gli avvenimenti politici erano tanto cresciuti
d’importanza, chè sembrava le discordie stesse di un’intera provincia,
non che i sospetti d’alcuni terrazzani contro un oscuro artigiano,
dovessero affatto dileguarsi, a fronte d’una grande catastrofe che
involveva tutta la nazione, e faceva sbigottire l’Europa.

E l’orologiaro aveva già dato alla signora qualche cenno della sua
prossima partenza; la qual cosa veramente le dispiaceva, poichè (tanto
è industrioso l’amor materno!) essa aveva fatto capitale sull’amicizia
e sulla stima che il suo figliuolo dimostrava per un giovine così
morigerato, e di carattere, comunque nato fosse in condizione
inferiore, tanto nobile e tanto fermo, sperando che anche questo
esempio potesse farlo vergognare di sè, ed aver forza, col tempo, di
distoglierlo più facilmente dalla funesta passione del giuoco. S’era
data perfino la combinazione che in quel frattempo Arturo aveva fatto
più rade e più brevi tanto le sue improvvise scappate alla vicina
città di Tours, quanto quelle, per lei più temibili, alla capitale,
dove egli tornava a cadere nelle mani dei suoi iniqui seduttori,
degli scellerati assassini delle sue sostanze. Povera illusa! essa
non sapeva, o l’ardente speranza non le consentiva di riflettere, che
la mancanza di denaro e la maggior difficoltà di trovarne anche dai
più rapaci e temerari usuraj in quei tempi di universale trambusto,
erano forse il solo freno allo sconsigliato; e che se in apparenza
ei riveriva e lodava e teneva per amico Carlo così benaffetto a sua
madre, segretamente peraltro si sentiva punto, umiliato, offeso dal
confronto. Ah! quando il vizioso non ha più forza di combattere
sè medesimo con sincero ravvedimento, allora la sua alleanza con
la virtù, purtroppo è più spesso apparente che reale, suggerita da
secondi fini, piena di pericoli e d’inganni, non foss’altro perchè
allora il male che danneggia la società si occulta, non si guarisce,
e serpendo così celatamente non fa che viepiù radicare e rendere
scaltrita e inestirpabile la depravazione. E quando i grandi mutamenti
sopraggiungono a scuotere le basi su cui l’umano consorzio riposa, e
la discordia alza la sua face sanguigna a rischiarare il campo della
scellerata lotta fraterna, allora i fragili legami dell’apparenza, dei
privati interessi, della codarda ipocrisia, si strappano subito; e a
vedere i creduti amici esser primi e più spietati a combattersi, e il
santuario stesso della famiglia rimaner profanato dall’odio, l’umanità
inorridita si sbigottisce, incredula quasi di tanta colpa, e quasi
perdendo ogni fiducia nella virtù, ogni speranza nel perfezionamento
sociale, nel miglioramento dei destini dei popoli.


Una mattina presto d’inverno, il giovine orologiaro s’era già involto
nel suo mantello per andare, secondo il solito, in chiesa prima di
porsi al lavoro; giacchè egli aveva per massima che tanto chi va in
chiesa per farsi vedere quanto chi ostenta le sue virtù e le sue buone
azioni, potrebbero non essere altro che ipocriti. Egli stava dunque per
varcare la soglia, allorchè gli giunge all’orecchio un forte schiamazzo
d’urla confuse, che s’avvicinavano a quella parte. Si sofferma, si
pone in ascolto, e distingue alcune grida d’imprecazione contro i
rivoluzionari, miste ad altre grida che urlavano: — Al ladro! al ladro!
— Mandando allora un doloroso sospiro, egli esclama: — Forse qualche
altra vittima del fanatismo! — e aspetta che la turba che sempre
più si appressava fosse passata, per poter uscire di casa e andare
tranquillamente pel fatto suo. Ma ecco spalancarsi all’improvviso la
porta della sua stanza, e precipitarvisi dentro una persona imbacuccata
nel ferrajolo. Ma il volto non era tutto celato; e gli sguardi
atterriti, la pallidezza, il tremito delle membra rivelavano il terrore
o un delitto. Era Arturo. Anzichè accostarsi a Carlo gli s’avventa, con
voce interrotta e fioca gli dice: — Se vuoi salvarmi l’onore, nascondi
questo fagotto! — e come un lampo sparisce, traversando il giardino e
uscendo per una porticella segreta.

Carlo, senza curarsi di vedere che cosa fossevi nell’involto, si
accinge subito a nascondere l’atto d’accusa contro l’onore del
figliuolo della sua benefattrice; e per far più presto non si leva
nemmeno il mantello. Ma in quel mentre una voce grida sotto la
finestra: — Qua, qua! l’ho visto entrar qua, tutto inferrajolato! —
E la turba irrompe nella casa, entra nella stanza: lo trovano intento
a celare il fatale involto, gli saltano addosso, scoprono gli oggetti
rubati, lo percotono fieramente, sebbene ei se ne stesse imperterrito
senza fare contrasto nè con atti nè con parole, e lo conducono tra gli
urli e gli strapazzi alla carcere, esclamando:

— L’abbiamo preso, questo ladro di repubblicano! Al lampione, al
lampione!

— Che lampione! bruciatelo! Ha rubato in chiesa! È un sacrilego! È
scomunicato.

E i gendarmi accorsi al tumulto durarono fatica a salvarlo da orribile
strazio contro la furia della gente. Era appunto quella che Carlo aveva
udito schiamazzare senza conoscerne la cagione; che correva in traccia
del reo di un furto d’arredi sacri di molto valore, già da lungo tempo
appesi in voto alla immagine, tenuta per miracolosa, di una chiesa
remota. Una donna recatasi in quella chiesa alla prima messa, asseriva
d’averne veduto uscire frettolosamente un uomo intabarrato, che aveva
preso la dirittura di quella strada.

La sventurata madre d’Arturo che non era nemmeno andata a letto per
l’ansia d’aspettare il figliuolo, che fino dal giorno innanzi mancava
di casa e le aveva fatto pur troppo dubitare d’essere tornato a
ingolfarsi nel giuoco, fu spettatrice del lacrimevole avvenimento.
Afflitta e atterrita, non pensò più ad Arturo; e celandosi il volto con
ambe le palme:

— Gran Dio! — esclamava alla portinaja, — chi l’avrebbe mai detto?
Un giovine che pareva sì onesto, sì affezionato al lavoro! È egli
possibile? non ardisco di credere a me stessa!

— Eh! — soggiungeva la portinaja non meno sbigottita della padrona,
— anch’io duro fatica a persuadermene; ma poi rifletto che quando non
v’è timor di Dio, non vi può essere onestà vera, ed è tutta finzione; e
prima o poi si finisce male. La dica, l’ha ella mai visto in chiesa?

— Ah! purtroppo! Tu potresti aver ragione. Io le visito spesso le
chiese del luogo, e non l’ho mai incontrato. Gran disgrazia! E io che
sperava!... Arturo.... Ma a proposito! E ancora quel figliuolo non è
tornato?

— Eh! no, signora.

— Povera me! quante afflizioni!

— Ma via, non si disperi. È giovine. Qualche ritrovo d’amici, qualche
passeggiata in campagna, la caccia.... sono cose innocenti, che a lor
signori si perdonano; possono farlo; e poi, al bisogno, hanno tanta
carità pei poveri! Così tutti la meritassero! La lo sa che a volte
non torna a casa fuorchè la mattina dopo. — E qui la signora non potè
reprimere un gran sospiro.

— Ma dica, signora padrona, — continuava la vecchia, — quando il
signorino tornerà e saprà questa notizia terribile! lui che si degnava
d’avere tanta affezione per quello sciagurato! si figuri che colpo
a sapere che e come! Lui tanto scrupoloso, tanto puntuale nei suoi
impegni! La s’immagini che.... ma, per carità, mi raccomando, non gli
dica che io le ho raccontato questa cosa. Una mattina tornò di fuori, e
mi disse: «Senti, ho bisogno che tu mi faccia un favore; m’è avvenuto
di perdere qualche cosa al giuoco, e non ho pronta tutta la somma per
pagare. Eccoti il mio orologio d’oro e le mie fibbie di brillanti.
Vedi se ti riesce di trovarmi denaro con questi pegni. Fa’ presto,
e soprattutto che mia madre non trapeli nulla; tu sai quanto mi sta
a cuore l’onore!» Signora, la si ricordi di queste parole, e non mi
faccia scomparire. — E la dama sospirava di nuovo, e dolorosamente; nè
potendo più celare il violento affanno, si ritrasse a sfogarlo nella
sua camera; indi si accingeva a scrivere al confessore di Carlo per
dargli la tristissima nuova.

Ma in quel mentre le fu recata una lettera d’Arturo, che diceva:

«Mia cara madre. — Mi rincresce d’avervi fatto stare in pensiero col
non tornare a casa stanotte. Dall’amore che ho per voi potete giudicare
se ne sono dolente. Ma spero che mi perdonerete quando saprete quale ne
è la cagione. Il nostro amico M. Bernard partiva per Parigi sul far del
giorno, appunto mentre io mi dirigeva a casa. L’ho visto quando entrava
in carrozza, e ho voluto salutarlo; ed egli stringendomi la mano mi ha
detto: Arturo, la decisione dell’impiego che tu aspetti da tanto tempo
è imminente. Sii certo che io farò tutto quello che potrò a tuo favore,
ed è sperabile che la ricordanza dei meriti di tuo padre ti faccia
essere il preferito. Ma quanto sarebbe meglio che tu fossi meco! La tua
presenza gioverebbe molto per farti ottenere con certezza e più presto
ciò che tu brami, ciò che la tua rispettabile madre giustamente si
aspetta. I tuoi competitori non hanno forse altra speranza di riuscita
che quella fondata sulla tua assenza. Vuoi tu venire con me? Io ho
creduto di non dover ricusare l’offerta; gli ho chiesto di scrivervi
questa lettera, e siamo partiti. Addio, dunque, al mio ritorno ec.»

Così lo scellerato tentava, con accorta finzione, di nascondere il suo
delitto, non essendovi altro di vero nella lettera che la partenza,
mercè quel suo amico che gli aveva agevolato la fuga. Povera madre! E
con qual giubbilo lesse la lettera! Invero guardandola di nuovo ebbe a
credere che fosse stata scritta con mano tremante; ma poi si rassicurò
riflettendo alla fretta che doveva avere avuto e alla trepidanza d’un
giovine che si vede in procinto di conseguire un impiego ambito da
molti. — Meglio così, — diceva tra sè; — meglio ch’ei sia lontano. Non
avrà il dolore di scoprire un gran colpevole nel suo.... Ah! che diceva
io mai! qual disinganno! Pure dovrà saperlo. Almeno non sarà presente
al processo; e per ora io non gli farò saper nulla. —

Indi riprese a scrivere al sacerdote; e questi, appena ricevuta la
lettera speditagli per espresso, partì frettoloso con la speranza di
salvare il suo penitente, perchè parevagli impossibile ch’ei fosse
stato capace di commettere quel delitto. — Ah! io lo conosco bene,
— diceva tra sè; — io so quanto è onesto, integerrimo; so quanta
religione ha, senza volerla ostentare.... Dio mio, concedimi la
grazia di scoprire il vero, di far trionfare l’innocenza della tua
creatura! —

Il processo era già incominciato. In quel tempo non andavano per le
lunghe; e inoltre lo sdegno dei Borbonesi contro il preteso sacrilego
era tanto furioso, che una folla di sfaccendati assediava sempre la
carcere, e ne chiedeva il supplizio.

Carlo udiva di quando in quando le loro grida, conosceva purtroppo
a quale orribile destino serbato fosse. Nondimeno tacque sempre. Lo
stesso carceriere a cui fu dato in consegna era uomo crudele, scelto
a bello studio per tormentarlo, per atterrirlo, per sottoporlo a una
continua tortura di strapazzi, d’ingiurie, di minacce, assai più
tormentose dello strazio della persona. Nondimeno Carlo resisteva
imperterrito a tutto: le insidie e le atrocità del carceriere
riuscirono così vane, che in breve quel brutale uomo si stancò
ed ebbe a darsi per vinto. Un altro venne dopo di lui. Questi era
compassionevole: rispettava il silenzio austero dell’imputato, gli
offeriva quei servigi che poteva fargli senza mancare al proprio
dovere; e gli mostrò sincera afflizione di averlo trovato in un carcere
così fetido e così freddo, che pareva impossibile potervi sopravvivere
un’intera giornata. — Ah! — disse quell’uomo, dopo averlo tradotto in
un carcere meno orribile, — quanto avrete sofferto! Povero giovine!
Alle mani di colui non c’è misericordia, lo so! Ora, se avete bisogno
di qualche cosa, e che io possa, dite pure. E non crediate che io lo
faccia per interesse o per iscalzarvi, cercando di scoprire con le
buone maniere quel segreto che gli strapazzi brutali e il terrore non
vi hanno potuto strappare. Io fo il carceriere e non il processante,
e non cerco altro che di fare stare meno male i disgraziati che
capitano in questo luogo! E non mi par vero di mutar mestiero. Ho
moglie e figliuoli, e per ora mi convien mangiare di questo pane; ma
presto spero di aver trovato un guadagno più cristiano. — Carlo, dopo
aver mostrato riconoscenza delle buone e sincere intenzioni del nuovo
carceriere, a queste parole rispose: — Oh! se tu sei così umano, sarà
meglio che tu seguiti a fare il carceriere. Qui appunto v’è bisogno di
chi abbia buon cuore. Tu vedi quanto bene tu puoi fare ai disgraziati
che saranno posti sotto la tua custodia, col trattarli umanamente; e
così tu acquisterai merito appresso Dio! —

Recandosi il sacerdote a uno dei Giudici criminali, udì che l’imputato
si ostinava a non voler confessare il delitto, ma che le prove erano
così convincenti, da non poterlo sottrarre alla pena capitale. Inoltre
soggiungeva il giudice con piglio severo: — Voi non potete ignorare che
questo giovine dovè lasciare il suo paese per forti indizi di segreta
cospirazione, e che altri quattro suoi amici, non meno sospetti di
lui, lo accompagnarono. Costoro, dopo aver vissuto qualche giorno qui
in ozio, non si sa con quali assegnamenti, andarono a Parigi; e per
le mie indagini ho avuto notizia (ecco qui la lettera) che sono stati
arrestati per _Chouans_.[292] Voi vedete dunque come sia dubbia la loro
condotta! essi che facevano da repubblicani! Chi non li giudicherebbe
birbanti che cercano di trarre partito da tutti i partiti? E per
costoro non vi può essere compassione! —

L’afflitto prete impallidì, rabbrividì a queste parole. Una folla di
gravi obiezioni al discorso del giudice gli era venuta alla mente;
ma per allora si contentò di chiedere il permesso di visitare il
carcerato. — Oh! finchè il processo non è finito non si può. — Io ve lo
chiedo in grazia; sono il suo confessore. — Scusate, ma per ora non si
può. Io debbo essere inflessibile. — Il sacerdote s’accòrse purtroppo
che ogni insistenza sarebbe stata vana: andò via più sconfortato che
mai; ma nell’uscire da quelle stanze incontrò un magistrato di sua
conoscenza. Era mesto: lo salutò, gli parlò di Carlo: — Ah! — rispose
questi, — io dubito che la giustizia non sappia il vero, e che la
condanna sia precipitata! Ma temo d’esser solo a pensare così!...

— Anche voi dunque siete uno dei suoi giudici?

— Per mia disgrazia!

— Dite per fortuna di Carlo; perchè, chi sa? io spero molto che
vi riesca di scoprire la verità, d’impedire una sentenza troppo
sollecita....

Il giudice non ardiva di confermare queste speranze nell’animo del
pietoso; ma potè almeno fargli ottenere il permesso di visitar subito
il carcerato.

Appena che il sacerdote fu entrato nella prigione, Carlo mandò un grido
di gioia, e si mosse per abbracciarlo; ma poi frenandosi a un tratto si
ritrasse, e riprese la sua solita impassibilità, dicendo con rispettosa
pacatezza: — Voi siete un Angiolo tutelare, mandatomi dal Cielo; ma le
mie mani non possono stringervi a questo seno, perchè a giudizio degli
uomini io sono infame. Nondimeno maggior conforto io non poteva sperare
di quello di vedervi, fosse anco di soltanto vedervi! Ma sarò ben più
lieto se voi mi concederete la vostra benedizione. Padre, non ne sono
indegno! Questo vi basti; perchè, non vi offendete, non mi accusate
d’ingratitudine pel bene che mi avete fatto; no, chè questo sarebbe per
me il maggiore di qualunque martirio; ma!... Iddio solo, Iddio solo,
può sapere il vero! — E tacque piegando un ginocchio, e giungendo le
mani con tanta serenità di volto, che il sacerdote tra il dolore e la
maraviglia rimase alcun tempo attonito, senza poter proferire alcuna
parola.

Poi non lasciò nulla intentato, nè preghiere, nè scongiuri, nè le
affettuose lacrime dell’amico, nè l’autorità di direttore spirituale,
nè il ricordo di una madre infelice, per indurlo a svelare l’arcano, a
dire perchè mai quegli oggetti rubati fossero venuti nelle sue mani, a
difendersi dalle accuse di cospiratore, di complice. La sola risposta
che ne potè ottenere fu sempre questa: — Io sono innocente; ho sempre
amato la patria, e non ho fatto altro che quello che un buon Francese
dee fare. — E in ultimo, quasi sentisse il bisogno d’invocare una forza
maggiore di quella che aveva in sè stesso per sostenersi contro le
commoventi esortazioni del sacerdote, aggiunse con voce sommessa, ma
ferma, e percotendosi il petto con la destra: — Onore al merito! —

Il sacerdote allora, colpito da questa esclamazione, riconcentrò
le sue idee guardandolo fiso, scrutando nel volto, negli sguardi di
Carlo, se mai qualche lampo di vero.... Ma il giovine si rinchiuse
in sè stesso, e nemmeno il silenzio che in certi supremi casi suol
essere più eloquente delle parole, nemmeno il silenzio rivelò nulla.
— E tua madre? ripeteva il sacerdote. — Appunto — rispose allora
intenerito il prigioniero, e dando sfogo alle lacrime, — appunto io
stava per esortarvi a pregare i giudici che mi concedano la grazia
di scriverle per chiederle perdono. — Il prete che aveva con sè un
calamajo da tasca e la carta, gli pòrse l’occorrente, dicendo: — Io
ci aveva pensato: ma non posso nasconderti che sperava la tua lettera
a quella infelice dovesse essere ben diversa! — Carlo si pose a
scrivere. La sua afflizione era estrema; ma la mano non tremava, e nel
consegnare il foglio al sacerdote, gli disse: — Oh! sento purtroppo
quanto dolore ho cagionato a mia madre! Ma assicuratela, potete farlo,
assicuratela che suo figlio muore onorato. Può figurarsi ch’ei sia
perito sul campo di battaglia in difesa della patria, dando la vita
per.... — Ma qui i singhiozzi gl’impedirono di proseguire, e dopo
alcun poco non potè aggiungere altro che: — E la raccomando alla vostra
misericordia! —

Approfittandosi il sacerdote di quel nuovo slancio di tenerezza
filiale, tornò a tentare l’animo di Carlo per vedere se gli fosse stato
possibile di penetrare il funesto segreto; ma alfine dovè perderne la
speranza, e non gli rimase altro che offrirgli il suo ufficio per la
confessione, e Carlo l’accettò con riconoscenza.... Ma quando furono
al punto più grave, nemmeno il suggello della confessione potè indurlo
a svelare il segreto. Il sacerdote usò la dolcezza e la severità: —
Tu dici d’essere innocente, di morire onorato; ma intanto il furto del
quale ti accusano avvenne, e gli oggetti rubati erano nelle tue mani.
Un reo v’è di certo. Tu devi conoscerlo; tu per generosità d’animo
non vuoi palesarlo, e ti sottoponi alla condanna da lui meritata. Ma
questo, figliuolo mio, equivale a un suicidio! — A tali ed altre parole
solenni il giovane non si smosse, e finalmente rispose: — Anche Gesù
Cristo era innocente e morì crocifisso! —

Niun altro particolare di quella confessione potè essere conosciuto....
Se non che il sacerdote fu visto uscire dopo lungo tempo dalla carcere
col volto oppresso da profonda mestizia, con le lacrime agli occhi, con
passi tremanti.

Era venuto il giorno della esecuzione della sentenza. Il giovine
orologiaro, estenuato di corpo, ma di spirito sempre imperterrito, fu
posto sopra una carretta e avviato al patibolo.

Una moltitudine immensa, accorsa inclusive dalle contrade limitrofe
alla Vandea, riempiva fino dalla sera innanzi la spianata su cui
sorgeva il patibolo. Tutta la notte, ed era d’inverno, molte migliaja
d’uomini, di donne (e parecchie avevano dovuto condurre i loro
figliuoli per non lasciarli soli) stati erano allo scoperto, al freddo,
affollati per aver posto ad assistere all’orrendo spettacolo! Povero
popolo! A che giova parlare di virtù, quando uno spettacolo come questo
abbia a venire a distruggere in te ogni sentimento di umanità? E con
qual coraggio deplorare la rozzezza dei popoli barbari, e gli orribili
pasti dei cannibali, se noi, gente celebrata per coltura, diamo loro
siffatti esempi?

Nè minor folla di plebaglia accompagnava il condannato, e si dimostrava
più feroce, aizzata forse maggiormente dalla sua intrepidezza; e con
urla terribili, scagliandogli addosso e fango e marciumi ed altre
immondezze, gridava morte al ladro repubblicano, al ladro sacrilego,
allo scomunicato assassino!

In mezzo a questo infame trambusto, odonsi all’improvviso altre
grida più acute, più disperate, e vedesi da lontano più agitata la
moltitudine. Tutti si spingono là, e ne vengono respinti con impeto
furibondo, e molti cadono, e rimangono pesti e malconci; il frastuono
cresce e si appressa alla carretta: una donna scarmigliata, con le
vesti stracciate e il volto sanguinoso dagli sforzi fatti per aprirsi
una via tra la folla, con passi di forsennata e sguardi che mettevano
spavento, si slancia sulla carretta, abbraccia il condannato, e gli
rimane avvinta come se di due corpi fossero divenuti uno solo.

A tal vista le grida e il furore della plebaglia raddoppiano:

— È la sua complice! è la sua druda! svergognata repubblicana! È una
strega! alle fiamme! alle fiamme! —

E la sciagurata, alzando allora le braccia, coi pugni stretti, per dar
forza alla voce che le mancava:

— Sono sua madre! Sono sua madre!

— No! tu menti, scellerata, i repubblicani non hanno madre!

E in ciò dire, i più vicini la trassero giù dalla carretta afferrandola
per le vesti, e la fecero precipitare in terra. All’orrendo colpo
l’infelice giovine perdette il senno e la vista: non vide lo strazio
della madre che in pochi istanti fu cadavere; non vide il delitto
esecrando d’un popolo traviato da scellerata passione; non vide il
patibolo, su cui in aspetto d’infame finì una vita intemerata; non udì
gridare con giubbilo infernale, con orrenda bestemmia, da quella misera
moltitudine: — Viva la giustizia! —

La madre d’Arturo s’era ritirata in quei giorni in una casetta di
campagna, presa a pigione distante alcune leghe da Bourbon-Vendée,
perchè non aveva potuto sopportare la vicinanza al luogo del supplizio;
ma non bastò questa cautela a risparmiarle il dolore della inaspettata
tragedia, giacchè la fama ne corse per tutto. Allora scrisse al
figliuolo, narrandogli i miserandi casi, e scongiurandolo a tornare,
perchè tanta era la sua mestizia, da aver bisogno d’essere da lui
confortata. Ma Iddio nemmeno ai più grandi scellerati ha tolto il
rimorso; e Arturo fu così scosso da tale descrizione, che.... sua
madre, infelice! lo aspettava; ma invece di riabbracciare il figliuolo,
ricevè la notizia ch’ei s’era annegato nella Senna; e la misera donna
non ebbe più pace fino all’ultimo giorno, che presto giunse, della sua
vita.

Arturo, prima di togliersi con nuovo delitto la sua, ed abbreviare
così quella della madre, scrisse al confessore dell’orologiaro,
svelandogli il funesto segreto come per la necessità di pagare
nelle ventiquattr’ore un debito di giuoco, che egli chiamava debito
d’onore, e per la impossibilità di trovare il denaro ad imprestito, si
fosse lasciato trascinare al furto sacrilego, e quindi per salvarsi
con la fuga, allorchè si vide scoperto e inseguito, avesse voluto
nascondere il corpo del delitto nella stanza di Carlo. — E dopo questa
confessione, l’afflitto sacerdote ne riceveva un’altra.

Nel casamento abitato da Carlo a Fontenay viveva una fanciulla di sua
conoscenza, e che più volte gli aveva assistito amorevolmente la madre
in casi di malattia, mentre egli era costretto a stare in bottega per
guadagnare. Ingenua, di costumi candidi, non bella, ma di sentimenti
elevati, aveva posto il suo amore in quel giovine, e n’era riamata
ardentemente.

In una di quelle malattie, a cagion della quale il buon giovine
era stato in gran timore per la vita di sua madre, aveva trovato
conforto alla sua afflizione nell’affetto purissimo di quell’angiolo
di speranza, che così la chiamava; e le aveva promesso di farla sua
compagna allorquando co’ propri risparmj avesse potuto mettere tanto da
parte da assicurare onorata sussistenza alla famiglia; e fino da quel
punto la pietosa fanciulla era divenuta custode del picciolo scrigno,
che racchiudeva il danaro di mano in mano risparmiato, e che non doveva
essere aperto se non che il giorno della loro felicità. Questo era
il patto fra essi concluso nel palesarsi lo scambievole amore; e niun
altro fuorchè Dio ed essi doveva conoscere il loro amore e quel patto,
prima del giorno desiderato.

La sventurata fanciulla scriveva il mesto ricordo dal suo letticciuolo
in cui la teneva confitta una febbre micidiale, la febbre del dolore
d’aver perduto, e in che modo, il suo amante; e col ricordo mandava
al confessore il grazioso scrignetto di squisito lavoro, tutto di mano
di Carlo, con dentro alcune centinaja di lire e un orologio parimente
lavorato da lui, e involto in una carta, dov’egli aveva scritto di
proprio pugno: «Enrichetta, questo mio lavoro, al desiato tempo della
nostra consolazione, segnerà l’ora in cui potremo esser felici!» Nella
medesima carta la fanciulla aveva notato che alla somma dei danari
da lei ricevuti in più volte mancavano due lire, le sole richiestele
dal suo amante la stessa sera in cui dovè partire da Fontenay. Forse
erano quelle ch’ei disse d’essersi fatte dare ad imprestito per la cena
della povera madre, quand’ella volle fatalmente abbandonarlo. In ultimo
aggiungeva la moribonda: «Poichè ambedue quest’infelici hanno lasciato
la terra, se non hanno parenti, come credo, e se nella vostra saviezza,
reverendo padre, voi l’approvate, chiedovi che questo denaro e il
valore dello scrigno e dell’orologio, siano per mano vostra destinati
parte a suffragio delle nostre anime, e parte a soccorso dei poveri.»

Il santo uomo, appena ricevuta la lettera e lo scrigno, andò per
visitare la fanciulla. Ella era in fine, ma lo riconobbe, e mandò un
sospiro di profondo dolore: — Confortati, — disse allora il sacerdote
— il tuo Carlo era innocente; il vero colpevole è stato scoperto. — A
tali parole la moribonda sorrise guardando il cielo, e con un grido di
giubbilo spirò. Le lacrime dei dolori mondani rigavano le gote della
vergine, ma il volto spirava la beata serenità della innocenza, che
lietamente lasciando questa terra di guai ritorna nel seno di Dio.


La domenica seguente il buon prete, dopo avere spiegato il Vangelo
ai suoi parrocchiani, dopo averli commossi con parlare dell’amore
del prossimo, stato alquanto sopra di sè, e pregatili a trattenersi
un altro poco: — Il dovere del mio ministero, disse loro, m’impone
di svelarvi qui, a piè dell’altare, a piè della croce del Redentore,
l’innocenza d’un vostro fratello, che per una di quelle disgraziate
combinazioni da imputarsi alla fragilità degli umani giudizi, morì
condannato come colpevole di un grande misfatto. Io non intendo, nè voi
potrete osare di farne rimprovero a chi si sia. La giustizia umana deve
avere il suo corso, altrimenti la società perirebbe. A volte sciagurate
apparenze la ingannano; ma chi può giudicarle propriamente apparenze
quando una colpa è stata commessa, quando il reo s’è potuto celare,
quando l’innocente accusato in sua vece non si difende? La giustizia
divina soltanto può riparare gli errori della umana; e chi, perchè
questa è soggetta ad errare, volesse rispettarla meno, e volesse punire
negli uomini i falli involontarj, costui offenderebbe Dio col presumere
di far le sue parti. Preghiamo che Egli illumini sempre i giudici, che
li renda sempre incorruttibili; rispettiamo le leggi che devono essere
rifugio dei deboli e degl’innocenti, e rimettiamo poi tutto nelle mani
della Provvidenza divina. Ricordatevi, insomma, di quello che vi ho
detto dianzi sull’amore del prossimo, e ascoltate. — Quindi raccontò
tutto quello che era necessario a far conoscere evidentemente la
innocenza di Carlo, la sua pietà religiosa, le sue virtù cittadine, la
purezza del suo affetto per la patria; e li commosse fino alle lagrime.

E allora esclamò: — Popolo mio, fedeli cristiani, non dimenticate
il precetto del vostro divino Maestro; amatevi, ve lo ripeto in
nome di Lui che tanto patì per la nostra redenzione, amatevi tutti
scambievolmente; non vi lasciate traviare dalla funesta passione di
parte, non vi lasciate accecare dall’odio; e se avete bisogno di chi vi
consigli nei gravi frangenti, ascoltate gli uomini virtuosi che amano
lealmente la patria, siano essi chiamati o repubblicani o girondini,
o conservatori. Non guardate al nome, ma ai fatti; perchè chi ama
lealmente la patria non può ambire altro nome che quello di difensore
della nazione, non può volere altro che la osservanza delle leggi
e il bene universale. E coloro ai quali è affidato il grave peso di
governare i popoli, siano costumati e illuminati da Dio per conservarsi
sempre equi e imparziali, per preservarsi essi i primi dalla passione
di parte, per operare con fatti, e non con parole soltanto, ciò che
il bisogno della società richiede, per mantenere le cose promesse
o per non lasciarsi indurre a promettere ciò che poi non avrebbero
volontà di mantenere; e allora non si ritroveranno a dover contrastare
con le fazioni, perchè esse alla viva luce del vero e della lealtà
spariscono come le ombre e i vani fantasmi della notte all’apparire del
sole; allora non avranno eglino stessi nè incerta, nè paurosa vita;
non vedranno il mostro della discordia empire le carceri, separare
le famiglie con gli odj o con gli esilj, insanguinare i patiboli,
accendere disperate guerre tra nazioni e nazioni, fra quelle genti che
sono fatte da Dio per amarsi come sue creature dilette; nè si udiranno
rimproverare poi a loro stessi lo strazio della umanità che dovevano
render felice; ma invece saranno chiamati suoi padri, suoi salvatori, e
si meriteranno la benedizione delle moltitudini, come io benedico voi,
miei cari figliuoli. — E mentre egli compartiva loro la benedizione,
tutti genuflessi e singhiozzando esclamarono: — Uniti, e per sempre! la
Patria e il Vangelo! —



IL MUGNAJO DI VALLECCHIA


Io mi diletto, voi lo sapete, di fare nell’ottobre qualche viaggetto a
piedi, o andando solo o in compagnia d’un amico.

Sei o sette anni fa, essendo già in villeggiatura in un luogo lontano
dalla capitale, mi posi in cammino una mattina, che il tempo era
bellissimo; e mi era proposto una gita di tre o quattro giorni.
Doveva venir meco un valente giovine, ma dopo che io l’ebbi alquanto
aspettato, mi fece sapere che non so quale ragione glielo impediva.

Quando ebbi fatto un quindici o venti miglia per luoghi montuosi, verso
un castelletto nel quale avrei voluto passare la notte, ecco che a due
ore dopo il mezzodì un vento burrascoso incominciò all’improvviso a
imperversare furiosamente; il cielo fu tosto coperto di nuvoloni neri
neri e bassi, e poi giù a scroscio una pioggia rovinosa, che appena mi
lasciò il tempo di prenderla tutta quanta ne veniva. Il settembre era
stato piovoso oltremodo, e pareva lecito sperare che l’ottobre sarebbe
andato asciutto: ma il cielo che non guarda ai nostri lunarj, che per
dirlo con Dante, procede a suo talento «oltre la difension de’ senni
umani,» volle quell’anno, e massime quella sera, farci ricordare un
tantino i tempi del diluvio universale.

Le strade già guaste dalle piogge precedenti, si convertirono subito
in fossi; l’acqua, di sopra, flagellava le schiene, e l’acqua di sotto
correva come la piena nel letto di un torrente; e due o tre volte
l’ebbi alta fin sopra il ginocchio. Nè una casa, nè una capanna mi
riesciva scoprire per trovarvi un po’ di ricovero; e, com’è naturale
in questi frangenti, mi pareva che il castello a cui erano volti
i miei passi fosse anche più lontano, e tutta quella campagna un
deserto. Ci voleva pazienza. La prima scossa non durò molto; ma in
breve un’altra non meno copiosa le tenne dietro. Allora, girato un
gomito della strada, sopra una pendice vicinissima scòrsi con mia
grande consolazione un vasto casamento; e il giubbilo crebbe, allorchè,
sbirciando ben bene il desiderato rifugio, vidi qualcuno affacciato a
una finestra, che mi restava proprio di fronte. A tale scoperta feci
un atto e un grido di allegrezza, come chi da lontano riconosce un
amico, il quale accorra frettoloso per dargli un amplesso. La persona,
e mi parve un uomo piuttosto vecchio, vide certamente il mio gesto, udì
fors’anco il mio grido, capì che era una domanda di soccorso, e chiuse
subito la finestra. Tanto più mi assicurai che il cortese abitatore
di quella casa avesse la buona intenzione di proteggermi contro
l’imperversare della procella; e mi aspettava di vederlo sulla porta
spalancata, per accogliere il povero naufrago. Lasciai la strada, e a
corsa feci la breve salita, che conduceva al limitare dell’ospizio. Ma
ohimè! il portone era chiuso. Aspettai un poco, non vidi nessuno, non
udii altro strepito che quello della pioggia e della grandine. Girai
gli occhi attorno per vedere se vi fosse una qualche porticella....
del soccorso. Tutto chiuso; muri, cancelli, inferriate, per tutto:
bussai, ribussai or qua or là; niuno si faceva vivo; nemmeno un cane
che abbajasse! Ho io sognato? diceva tra me. Non ho pur veduto con
questi occhi una persona alla finestra? E colui che l’ha chiusa dopo
avermi scòrto? Che abbia ruzzolato le scale per la fretta di scendere?
Poveretto! mi dispiacerebbe davvero! Ma non sarà solo!... Insomma, dopo
altre inutili prove, ebbi a concludere che o la casa fosse disabitata,
o che gli spietati padroni di quella non mi volessero dare asilo.
Almeno vi fosse stato un tetto molto sporgente, un portico da potermivi
rannicchiare! nulla! Pareva il recinto d’un camposanto, d’una fortezza,
d’una prigione! Non posso negare che riscesi indispettito, brontolando
contro.... contro nessuno; e molle fino alle ossa, ripresi la via, e in
su quel primo bollore del crudele disinganno, non mi accòrsi nemmeno
che dall’altura si dominava una vallecola sparsa di varie case, e che
nelle colline dirimpetto sorgeva il castello, il sospirato termine del
mio viaggio.

   [Illustrazione: Pag. 315.]

Io me n’andava giù mesto, a capo basso, e senza tanto affrettarmi,
come colui che si è già rassegnato a una disgrazia inevitabile, o
all’emicrania che vuol fare il suo corso. Ormai l’acqua, avesse anche
durato altre due ore, non avrebbe potuto bagnarmi di più: la lavanda
era completa.

Mentre dunque, tutto raccolto in me stesso, mi lasciava flagellare
dalla piova «fredda e greve,» sento una voce che mi chiama: — Ehi
galantuomo! — Parendomi di poter rispondere a questo saluto cortese, mi
volto, e vedo un vecchio; non era quello della finestra, «un vecchio
bianco per antico pelo,» e biancheggiante anco alle vesti, alto,
tarchiato, il quale garbatamente mostrandomi una casipola poco distante
dalla strada: — E dove andate a questo tempo? Siete voi pazzo? perchè
non vi rifugiate voi in casa mia? Animo, animo! venite ad asciugarvi!

— Grazie, vo al castello; deve essere poco discosto, non è vero?

— È poco discosto; ma, caro mio, non vi potrete arrivare. Il torrente è
grosso, e il ponte è stato portato via dalla piena. —

E, senz’altro dire, con un gesto che era insieme cortese invito e
risoluto comando, mi fe’ cenno di seguirlo. Io gli vo dietro; egli,
anche prima d’essere in casa — Maria! — gridò, — mettete altre legna
sul fuoco; le lenzuola di bucato sul letto, e i panni a scaldare. —
Poi, voltandosi a me, per darmi il passo: — Entri, caro signore; questo
non è tempo da andare attorno: un bicchier di vino, un buon fuoco e un
letto caldo, ci vuole per non prendere un malanno. Che mi fa celia? A
quanto vedo, la non ne ha risparmiata una gocciola. — E aveva ragione.
Appena fermatomi davanti un bel fuoco, feci la pozza. La buona Maria,
dopo aver messo le legna sulla fiamma, che già era ben nutrita in
servigio di due o tre poveri viandanti riparati prima di me sotto quel
tetto ospitale, ebbe a prendere la granata per levare la stroscia[293]
dell’acqua, calata giù da tutta la mia inondata persona.

Durarono molta fatica ella e il mugnajo (dalla casa e dalle vesti mi
accorsi che tale era il mio protettore), a levarmi di dosso la roba
inzuppata; e, bisognò obbedire in tutto il vecchio premuroso, mi
condusse in camera, m’ajutarono a finir di spogliarmi, e mi posero nel
letto, già scaldato; e intanto preparavano panni asciutti, portavano ad
asciugare le mie vesti, mi facevano bevere un bicchier di vino, e mi
domandavano ogni poco se io mi sentiva bene, se avessi avuto bisogno
di qualche cosa. Insomma, io credo che in casa mia non avrebbero
potuto usarmi maggiori attenzioni. Io mi sforzava a ringraziare, a
ricusare; gnornò: il mugnajo e la sua degna consorte mi lasciavano dire
e facevano. E veramente presto fui convinto che quelle cure non erano
superflue. A corpo ed animo riposato, conobbi d’averla scampata bella.
Mi si presentarono tutti i fenomeni precursori d’un mal di petto; ma
il riparo preso in tempo mi salvò subito. Mi disse poi il mugnajo, che
appena vistomi da vicino, giudicò del mio pericolo dall’aspetto livido
e dalle labbra smorte e tremanti.

Se avessi un sol momento perduto la mia presenza di spirito, sarei
rimasto avvilito in mezzo alla strada.

Io me ne stava beatamente accovacciato in quel letto; i miei ospiti
mi avevano lasciato solo, esortandomi a procurare di addormentarmi,
e preparando intanto la cena, allorchè udii da lontano le disperate
grida di una donna. Balzo dal letto, avvolgendomi in una coperta,
e vo per cercare l’uscio e la scala, dubitando che fosse avvenuta
qualche disgrazia; ma non conosceva il luogo, era un po’ bujo....
Allora corro ad aprir la finestra, e vedo poco lungi il torrente, che
era straripato, e menava una piena terribile. Una donna scapigliata
correva, urlava, guardava protendendo le braccia verso l’acqua; e
anch’io aguzzando le ciglia al punto da lei accennato, rabbrividii
nello scorgere un bambino travolto dalle onde, e a mala pena sostenuto
a galla perchè era nel suo cestino di vimini. Misurata subito l’altezza
della finestra, e visto che senza pericolo avrei potuto accorciare la
strada, pensai, giacchè era nudo e sapeva nuotare, di correre in ajuto
del povero bambinello. Mi sbarazzai della coperta, e mi accingeva a
saltar giù; ma in quel mentre ecco che il mugnajo s’era già lanciato
in mezzo alle acque; con poche, rapide, vigorose puntate giunse ad
afferrare il cestino, e bravamente salvò il bambinello dall’annegare,
non senza aver corso grave pericolo, perchè il torrente a ogni poco
travolgeva ciottoli e massi enormi. Fu tanto il mio stupore e tanta la
mia consolazione a quella vista, che io non m’avvedeva d’esser rimasto
lì nudo, a cavallo sul davanzale della finestra.

Il freddo e la pioggia mi riscossero; e tornato a coprirmi alla meglio,
trovai l’uscio e scesi per andare a stringere, a baciare la mano del
vecchio, e dargli libertà di mettere nel mio posto il bambino, giacchè
il letto era sempre calduccio. Così facemmo: il povero piccino si
riebbe; più difficile fu il far tornare in sè la povera madre, la
quale, prima pel dolore di vedersi rapito dalla piena il figliuolo,
indi per la subita consolazione di riaverlo salvo, s’era svenuta, ed
era presa da forti convulsioni.

Manco male che avendo io qualche po’ di pratica di medicina domestica,
ed essendo solito di portare in tasca nei miei viaggetti acqua di
colonia e spirito canforato, potei ajutare la Maria e il mugnajo nella
pietosa cura che si davano attorno alla meschina; e un’ora dopo, quando
la pioggia era già quasi cessata, madre e figliuolo stavano benone, e
potemmo accompagnarli alla loro casipola.

Io, coperto dei panni da festa del mugnajo, mi posi quindi nel canto
del fuoco, a guardare la Maria, che tranquillamente era tornata ad
ammannire la cena, e a raffigurarmi la generosità, la vigorìa, la
sveltezza del vecchio. Egli se n’era andato lungo il torrente per
esaminare i guasti già fatti dalla piena, o quelli che sarebbero stati
da temersi, e per riparare a qualche cosa se fosse stato necessario e
possibile.

Non istette molto a tornare, ed erano con lui due bei giovinotti, che
non indugiai a conoscere per suoi figliuoli. Mi salutarono con franca
garbatezza, e si accostarono al fuoco. Erano anch’essi bagnati da
capo a piedi, fangosi, stanchi, ma appena si curavano di scaldarsi. La
madre diceva loro che si mutassero; il padre stava zitto: i figliuoli
risposero alla Maria rispettosamente, che non pareva loro necessario
mutarsi, che una scaldatina bastava, e che il loro maggior bisogno
sarebbe stato quello di fare onore ai suoi preparativi. Avevano
faticato tutta la giornata per assicurare alcuni argini minacciati
dalla piena, e prevenire qualche smotta che avrebbe potuto arrecare
gran danno alla vicina campagna, e per fare con sassi, travi e funi
un ponticello provvisorio, laddove il torrente correva più stretto
in mezzo ad alte ripe; e quel lavoro era stato ordinato e diretto dal
padre in servigio degli abitanti della valle e del vicino castello.

Dopo essermi congratulato col buon mugnajo e con la sua moglie, di
vedere quei due bei giovinotti dei loro figliuoli, — Gran cosa, —
dissi io, — che queste piogge tanto frequenti non abbiano a cessare.
Danneggiano le campagne; e anche voi ne patirete, non potendo macinare
per soverchia quantità d’acqua. —

Il vecchio attizzava il fuoco, e non rispondeva.

— E nell’estate, — aggiunsi, — spesso avrete difetto d’acqua, perchè
questi torrentelli non sogliono avere sorgente perenne; o se l’hanno, è
scarsa al bisogno, e non può mandare una macine.

— Così è, — rispose allora il vecchio: — nell’estate si sta un mese,
due, a volte tre senza poter macinare. Dategli poi le piene e i guasti
degl’inverni piovosi, e sono parecchi anni che abbiamo questo flagello,
e vedete un po’ che faccenda! sempre i due estremi! —

E siccome io lo guardava con sincera espressione di condoglianza, quasi
invitandolo a sfogarsi meco e a farmi il racconto delle sue peripezie,
proprio desideroso che un mugnajo di tanta vaglia, quale mi pareva,
potesse avere a suo servigio la cateratta del Niagara, egli con volto
sereno, senza burbanza, mi disse:

— Veda, signor mio, è vero che essendo mugnajo, ricavo dall’acqua il
campamento della mia famiglia; ma non mi è mai venuta la tentazione
di lagnarmi della troppa siccità o della troppa pioggia, perchè mi
pare inutile ogni lamento, quando si tratta di cose inevitabili e che
non dipende da noi mutarle a piacer nostro; e soprattutto poi, perchè
temerei d’offendere la Provvidenza. Iddio, che governa l’universo, sa
quel che fa. Lavoro quando posso e come posso; e piova o non piova,
per chi vuole, non manca da fare in casa mia: quando i tempi vanno
contrarj, mi ricordo di quelli che ho avuto propizj, e la riconoscenza
del bene di cui ho goduto, mi fa sostenere con pace quello che sogliamo
chiamar male, e che forse potrebbe anche essere un bene maggiore che il
nostro corto vedere non sa conoscere.

— Va bene, — soggiunsi, — la vostra riflessione mi par giustissima.

— Che cosa vuole? Nella mia lunga vita, sebbene abbia visto poco mondo,
pure m’è avvenuto più volte di udir taluni lagnarsi dell’asciutto
mentre altri dicevano di averne bisogno, e tanti chiedere acqua mentre
altri si raccomandavano che il sereno durasse lungo tempo. Secondo i
loro interessi gli uni e gli altri erano persuasi d’aver ragione; e
mentre questi ringraziavano Dio, quelli imprecavano. E gl’imbecilli
o gl’impostori a dire e far cose da pazzi o da empj, speculando sulle
superstiziose credenze dei poveri gonzi. Io sono ignorante, si figuri,
non so nemmeno leggere, e sbaglierò; ma provo maggiore tranquillità
d’animo e più coraggio, contentandomi del bene che ricevo, accettando
con rassegnazione il male se tale è, e se deve venire, rimettendomi in
tutto e per tutto nelle mani del Signore. —

E senza lasciarmi tempo di rispondere, e accennando la Maria che
metteva in tavola un minestrone fumante:

— Ecco intanto un po’ di bene, — proseguì; — se vossignoria vuol
degnarsi di mangiare un boccone alla buona con noi, venga qua, e
s’accomodi su questa panca, che è più vicina al fuoco. —

Io, stringendogli la mano, accettai subito, e mi posi dov’egli
accennava, nel suo posto, nel posto d’onore; dopo il vecchio si
assisero i figliuoli, e cenammo lietamente. La Maria stava sempre in
moto: non volle essere ajutata dai figliuoli perchè erano stracchi;
mangiava un boccone sedendo un poco, e ora dicendo una garbatezza a
me, ora facendo un sorriso al marito o ai figliuoli; poi s’alzava a
mutare i piatti, a mescere il vino, a mettere in tavola un bel tòcco
di lesso, indi un’insalata candida e tenerina, che era una delizia.
Per fare onore all’ospite vollero cavar fuori il cacio e le frutta; ma
io era tanto bene satollo, che non potei prendere altro: e il vecchio,
senza insistere, dette fede alle mie parole, e ci ponemmo a fare altre
ciarle.

Poco dopo il vecchio s’alzò, andò a guardare il tempo, e tornando mi
disse: — Domani, se non m’inganno, sarà buon tempo: e vossignoria, se
vorrà....

— Ma io anderei al castello anche ora: non è tardi; sto tanto bene; le
mie vesti sono rasciutte.

— Se ha estremo bisogno d’andare al castello stanotte, io e i miei
figliuoli siamo pronti ad accompagnarla.

— Oh! non dovreste incomodarvi!

— Scusi, caro signore, ma la non è pratico di questi luoghi;
bisognerebbe passare il torrente tre volte, prima di giungere alla
collina difaccia; e poi le strade son rotte e fangose; e benchè la
piena sia abbassata e i miei figliuoli abbiano fatto un buon lavoro,
chi non è di qui non può arrischiarsi davvero a andare attorno
stanotte.

— Quand’è così, piuttosto accetto la vostra cortese ospitalità anche
stanotte, che obbligarvi a venire ad accompagnarmi. Ma in tutti i modi
io vi do incomodo.... —

Il vecchio, interrompendomi con un sorriso benevolo, prese il lume, mi
accennò la scala, e disse:

— Venga, venga dunque a riposarsi; le farà buono. Il letto è rifatto e
scaldato, non è vero, Maria?

— Che si domanda? — rispose quella.

— Voi, — riprese il vecchio, volgendosi ai figliuoli, — andate prima
a dare un’altra occhiatina alla gora, all’argine, al varco del ponte;
assicurate bene i ripari, chè a caso qualcuno viaggiando di notte e non
sapendo che il ponte se l’è battuta, non abbia a pericolare; e se v’è
bisogno di me chiamatemi, se no, buona notte. — E prese la via delle
scale precedendomi col lume: io salutai la Maria e i figliuoli, e lo
seguii obbediente come se fosse stato mio padre.

— Non avrà un letto comodo e bello, — mi disse mostrandolo; — ma è
pulito, e non posso offrirle di meglio. Se avrà bisogno di qualche
cosa, batta le nocca nel muro, perchè o io o la mia moglie, che
dormiamo di qua, sentiamo dicerto. Di là dormono i miei figliuoli;
ma o staranno fuori buona parte della notte, perchè a questi tempi
il torrente ha bisogno d’essere vigilato, o se dormissero, non
basterebbe picchiare le nocca; ci vorrebbe un tuono per isvegliarli.
Buoni ragazzi, sa ella? Buoni ragazzi! È questo il tempo di dormire
la grossa per loro. Hanno da fare più strada di quella che hanno già
fatto, se Dio vorrà; ed è giusta che a suo tempo dormano tutti i loro
sonni. —

Ciò detto, posato il lume in terra, guardato se v’era in camera tutto
l’occorrente, mi dette con lieto volto la buona notte, e andò via senza
lasciarmi tempo di ringraziare. Appena gli potei restituire la buona
notte con un’altra stretta di mano, che v’assicuro io, fu più eloquente
d’un lungo ringraziamento.

Non voglio trattenervi col ricordare le mie riflessioni sul contegno
del mugnajo. Ne feci molte, e potrete farle pressochè eguali da voi
medesimi. Non ebbi nemmeno la vogliolina di fumare il mio sigaretto.
Con la immagine di quel bel vecchio davanti gli occhi, ripensando alle
sue parole assennate, alle sue azioni risolute, alla sua schiettezza,
al rispetto che i figliuoli, grandi e grossi, gli addimostravano,
all’amore di quella madre, eccellente massaja, mi parve d’essere un
fanciullino sotto la custodia del nonno; e tanti dilettucoli, gingilli,
perditempi, inezie, che a noi cittadini, anche a chi sulle prime le
sdegna, a lungo andare sembrano cose necessarie e importanti, non mi
passarono per la mente.

Dopo una bella dormita, ai primi raggi del sole mi svegliai. Le mie
vesti erano già schierate sopra due sedie a piè del letto. Mi accorsi
che anche gli altri erano levati. Mi vestii, scesi, trovai la massaja
che mi aveva preparato il caffè, e il vecchio mugnajo che lavora di
legnajuolo.

Appena mi vide, mi accolse con un sorriso; e seguitando il suo lavoro:
— Non istò a domandarle se ha dormito bene, — mi disse — perchè due o
tre volte ho avuto bisogno d’entrare in camera sua, e il rumore che ho
fatto non l’ha svegliata. Era buon segno, se non m’inganno.

— Avete ragione. Ho dormito benissimo; e vi assicuro che vo via mal
volentieri da questa casa.

— E perchè dunque non rimane quanto le piace?

— Sono aspettato. Ma tornerò a rivedervi.

— Mi farà grazia; e se il mio augurio valesse qualche cosa, lo farei
di tutto cuore perchè la non incontrasse una giornata come quella di
ieri. —

Intanto la Maria mi mesceva il caffè.

Quando l’ebbi preso, e mostrato di volermi mettere in cammino, il
vecchio fece un fischio. In breve comparve uno dei suoi figliuoli.

— Se dunque l’ha bisogno di andar via, ecco qui Nanni, che
l’accompagnerà fino alla strada buona. Verrei io, se non avessi bisogno
di riparare al guasto del mulino.

— E non dovete privarvi dell’ajuto di Nanni. Ora è giorno, la strada la
so....

— Scusi; ma il lavoro che ho da fare non è per Nanni; e la strada è
mutata per cagione del ponte, portato via dalla piena. Faccia buon
viaggio, e al piacere di rivederci, perchè mi ricorderò della sua
promessa. —

Nanni aspettava; la Maria ringraziava me d’aver gradita la loro
ospitalità: il vecchio rispondeva con affetto alle mie strette di mano.
Chi avrebbe avuto l’ardire di ringraziare? E quali parole avrebbero
potuto esprimere quello che io sentiva?

Andai con Nanni, rivolgendomi due o tre volte alla casipola, dove io
aveva passato così bene la veglia e la notte, dove io aveva imparato a
conoscere una famiglia a modo mio. L’altro figliuolo era andato lontano
per non so quale faccenda. Passammo il ponte provvisorio, ed ebbi a
rimanere stupito del lavoro che quei due giovinotti avevano saputo fare
in poco tempo; e presto giungemmo alle falde dell’opposta collina.

Salendo quella pendice, vedemmo i grandi guasti fatti nella valle
dalla pioggia e dalla piena; e appunto nell’osservare la campagna, mi
dette nell’occhio il casamento misterioso, del quale non mi era più
rammentato per le molte distrazioni avute nella casa del mugnajo.

— Oh! — esclamai, — a proposito! E di chi è quel casamento in collina,
poco distante dal vostro mulino?

— Appartiene a un certo signore....

— È abitato?

— Sicuro. Vi sta da sè il padrone.

— E che uomo è?

— Glie l’ho a dire?

— Mi fate grazia.

— È un avaraccio, ma dica avaraccio!

— Capisco. Non sarebbe stato dunque pronto come vostro padre a darmi
ospitalità nemmeno con quella po’ po’ di burrasca che mi sorprese ieri
per via.

— Credo di no. Anzi direi che se per caso ei l’avesse veduto
avvicinarsi alla casa, avrebbe sbarrato le porte, e fatto spengere il
fuoco e serrato i cani in cantina per far credere che la casa fosse
disabitata.

— Tu l’hai indovinata giusta giusta, — dissi tra me. — Certo la faccia
che vidi era quella dell’avaraccio. — E risposi: — Dunque sarà mal
veduto in questo paese!

— La si figuri!

— E vostro padre, che cosa ne dice?

— Mio padre?... Mio padre non vuole che si parli mai di quelle persone
delle quali non possiamo dir bene.

— Ma, corpo di Bacco, un avaro di questa sorta! mentre vostro padre è
così generoso!...

— Eppure ved’ella? Guai a chi lo oltraggiasse in sua presenza. —

— Forse gli ha delle obbligazioni.

— Oh no, signore! Anzi....

— Anzi? Che cosa?

— Io le racconterò un fatto solo, e tanto basta. La potrà giudicare da
sè.

— Dunque sentiamo.

— L’abbia da sapere, che un anno, io era sempre ragazzo, l’alidore
dell’estate durò tanto in questi paesi, che uomini e bestie
incominciarono a patire una sete da morirne. Noi abbiamo un buon pozzo;
e mio padre, la può figurarsi, lo lasciò aperto a tutti. Venivano ad
attingere acqua di lontano due o tre miglia, e perfino alcuni del
castelletto, perchè anche lassù, levato del pozzo dello speziale
e di quello del pievano, gli altri erano asciutti; e quei due non
bastavano al bisogno. L’avaro ha una gran cisterna, un buon pozzo, due
vasche nel giardino; e in casa non v’è che lui, un abatino che dicono
suo figliuolo o suo nipote, una donna, un servitore, e due cani per
guardia. Sicchè acqua ne avevano d’avanzo, e anche la cantina molto ben
provvista di vino! Ma che? sempre chiusi. I poveri assetati potevano
picchiare, raccomandarsi, cadere rifiniti a piè della porta.... Se non
erano suoi contadini, non potevano sperare d’avere nemmeno una stilla
d’acqua. Povera gente! tra il patire che facevano e la paura dei cani,
quando s’erano raccomandati perfino piangendo, ma inutilmente, se
ne andavano, e allora tornavano a casa nostra, dove, finchè il pozzo
ebbe un fil d’acqua, mio padre la spartì con quanti si presentavano.
Tre volte almeno si calò giù ad affondarlo, levando i sassi a uno per
volta, per non intorbare la poca acqua che v’era; e poi, scavando più
qua e più là lungo il torrente, gli venne fatto di rinvenire due o tre
polle che davano pochi sorsi in un’ora; ma sempre meglio qualche cosa
che nulla. La può figurarsi le benedizioni che davano a mio padre, e le
maledizioni che scagliavano contro l’avaro. Ma il babbo li riprendeva,
dicendo: — Compiangetelo! egli è più infelice di noi! Non ha altro Dio
che l’oro, e vive sempre col tormento della paura e del rimorso!....
— Alcuni più arditi, quando la disperazione fu al colmo, fecero udire
feroci minacce.... E mio padre: — Sciagurati! colui col negare di dar
da bere agli assetati commette un delitto; vorreste voi commetterne
uno maggiore con usare violenza, con chiedere sangue perchè vi vien
ricusata l’acqua? Se giungeste mai ad estorcerla a questo prezzo, la si
convertirebbe in veleno! — Insomma si può dire ch’ei gli salvasse la
vita più volte. Finalmente, vedendo la mala parata,[294] una mattina
mio padre andò alla casa dell’avaro; picchiò due, tre volte; non gli
volevano aprire: ma tanto fece, che giunse a parlare al padrone, e
addirittura gli disse che avrebbe fatto bene a permettere che i poveri
assetati attingessero acqua al suo pozzo. Colui a giurare e spergiurare
che pozzo e cisterna erano più asciutti del forno. Non era vero. Mio
padre con buona maniera, con pazienza, a raccomandarsi. — Se non volete
gente sconosciuta per casa, date a me un barile o due dell’acqua che
avete in abbondanza, lo so dicerto, e io penserò a distribuirla; e
niun altri passerà la soglia di questa porta. — Il bir.... colui sempre
duro. Mio padre ebbe a venir via, perchè non volle essere messo a punto
di fare quello, che avrebbe biasimato se fosse stato fatto da altri.
Venne via, e stette male, proprio male qualche ora, per la violenza
che aveva dovuto fare a sè stesso per frenarsi. Il giorno dopo, come
Dio volle, il cielo si rannuvolò, e presto una buona pioggia venne a
liberarci da tante tribolazioni. Io non le so dire le feste che tutti
facemmo. E questa buona gente venivano con le lagrime agli occhi a
ringraziare mio padre.... Ma sa di che cosa lo ringraziavano con più
fervore? Non già d’avere spartito la nostra acqua con chiunque veniva
a chiederla; ma sì d’averli con tanta costanza dissuasi dal commettere
un atroce delitto. Avevano patito con rassegnazione, e perciò godevano
tutta intera la gioja di vedersi liberati da quel terribile flagello.

Passarono pochi giorni, e nissuno pensava quasi più alle sofferte
tribolazioni, quando mio padre, verso sera, volgendo a caso gli occhi
dalla parte di quel casamento, vede escire un gran fumo dal fienile:
fumo e faville; si mette in sospetto; poi ode alcune grida, e in breve
s’accorge che il fienile dell’avaro aveva preso fuoco; e l’incendio era
tanto accosto alla casa, che senza pronto soccorso le fiamme avrebbe
potuto ridurla in cenere. Subito corre con noi al borghetto, e trova
lì sulla piazza gli uomini che se ne stavano impassibili a guardare il
bruciamento, come se fossero stati fuochi d’artifizio. — Figliuoli,
— esclama, — che cosa state a fare? Animo! Chiedono soccorso, non
li sentite? Andiamo! — Ma nissuno si moveva; e vi fu chi disse: — O
l’acqua che non volle dare agli assetati non l’ha? Spenga il fuoco con
quella. E se vuol bruciare bruci! Noi l’abbiamo patita l’arsura della
sete? Provi ora un po’ lui! — e simili altre parole. Mio padre acceso
di collera: — Tacete! gridò con una voce da far paura. Vergognatevi!
Chiunque si sia, è un disgraziato che chiede soccorso. Così ringraziate
Dio della provvidenza che vi concede? Se non volete venire voialtri,
animo ragazzi, volgendosi a noi, venite meco, faremo quel che potremo.
— E via a casa a prendere l’occorrente. Che cosa vuole? Tutti ci
vennero dietro, quali con bigoncioli, quali con secchie, brocche,
accette, pale.... Mio padre fece prendere ai più svelti scale,
funi, tutto quello che gli parve potesse abbisognare. In un attimo
fummo lassù in trenta o quaranta persone; e sotto la direzione del
babbo incominciammo a gettare dove acqua, dove terra, a demolire il
fabbricato per troncare la strada alle fiamme. Per farla breve, in meno
d’un’ora l’incendio era soffocato, e non accaddero disgrazie. Mio padre
soltanto, perchè andava sempre innanzi, ne riportò alcune contusioni e
bruciature, ma di poco rilievo. Colui e la sua gente s’erano rintanati
in un casotto nel fondo dell’orto, tutti più morti che vivi; e sapemmo
poi che avevano dovuto trascinare a forza il padrone di casa fuori del
suo scrittojo, al quale senza il nostro soccorso il fuoco si sarebbe
comunicato di sicuro. L’avaro avrebbe voluto piuttosto morire nelle
fiamme, che lasciare il suo scrigno. Anche allora, sa ella? anche
allora i nostri buoni vicini ringraziarono il babbo d’aver dato loro
l’esempio, e se ne tornarono a casa, contenti d’aver fatto una buona
azione.

— Va bene. Ma lo spietato avaro, — dissi io a Nanni, — sarà poi venuto
a ringraziare tuo padre?

— Ei non esce mai di casa che sono molti anni, — mi rispose il giovine
secco secco.

— Avrà mandato qualcuno....

— La non mi faccia dire altro.

— Ma perchè? Hai tu paura di narrarmi il resto? Che cosa avvenne?
Sentiamo.

— Che cosa avvenne? — e fremeva di sdegno. — Mio padre vorrebbe che lo
avessimo dimenticato: crede anzi.... Guai se sapesse che io!...

— Ma via!

— Sa ella che cosa disse l’avaro a qualcheduno che non era capace di
darci a intender fiabe? Colui disse che il fuoco era stato appiccato
al fienile da quella canaglia del borghetto, per vendetta dell’acqua
negata.

— Indegno! scellerato! E tuo padre?

— Mio padre? la l’ha conosciuto, e tanto basta! E’ si contentò di
esclamare: — Ve lo diceva io, che colui per la sua avarizia è l’uomo
più sventurato che possa darsi sopra la terra? Ingratitudine e
calunnia! Oh, figliuoli miei, gl’ingrati e i calunniatori sono pure
infelici. — E voi dunque gli perdonereste? risposero. — Io lo compiango
sempre più. — Ma costui ci toglie anche l’onore! — Che cosa volete che
vi tolga l’onore, uno che non sa che cosa voglia dire esser uomo? — E
se un giorno venisse, e dicesse: il frutto del vostro sudore è mio; la
vostra vita e quella delle vostre famiglie è mia; voi siete tutti miei
schiavi, perchè io sono ricco e voi siete poveri.... dovremmo anche
allora compiangerlo e sopportare pazientemente? — E che discorsi mi
fate voi ora? Che cosa andate voi a pescare fantasticando così?... —
Siamo poveri, e non sappiamo quello che ci possa toccare. Colui che ha
abbondanza d’acqua ci lascia morir di sete, e noi dobbiamo compiangerlo
e perdonargli; è in pericolo di morire nelle fiamme, e noi, mossi
dal vostro esempio, esponiamo la nostra vita per la sua, ed egli in
ricompensa ci calunnia infamemente; e ancora dobbiamo compiangerlo e
perdonargli!... — Ma dunque vorrete farle voi, le parti della giustizia
di Dio? Se Dio è misericordioso, volete essere inesorabili voi? —
No; ma di questo passo, ci lasceremo mettere i piedi sul collo dal
primo scellerato che ci vorrà opprimere, e a forza di compiangere e
perdonare.... — Tacete! Quando avvenisse quello che un giusto sdegno
ora vi fa supporre, venite a me: ve lo dirò allora che cosa dovrete
fare! — E non volle rispondere altro; e tutti se n’andarono silenziosi
e tranquilli. Mio padre, nel proferire queste ultime parole, aveva
dato loro una di quelle, noi altri le abbiamo viste di rado, ma ce ne
ricordiamo sempre, una di quelle occhiate che ci danno la sua anima,
che ci fanno diventare risoluti e intrepidi come lui. Da quella volta
in poi nissuno ha più rammentato, almeno in sua presenza, nè l’avaro,
nè la sua crudeltà, nè la sua ingratitudine, nè la sua calunnia. —

Eravamo giunti a pochi passi dal castello. Nanni si accomiatò.
Ci lasciammo con affetto, come se fossimo stati fratelli. Io mi
congratulai con lui dell’ottimo padre che aveva. Nanni, guardando il
cielo: — È proprio una gran fortuna! — esclamò; e tutto lieto volse i
passi verso il mulino.


Io vi ho narrato cose che non sono o non dovrebbero essere
straordinarie. Ma se in oggi gli uomini di questa tempra
sventuratamente fossero troppo rari, ho creduto che anche voi poteste
avere a grado di fare la conoscenza del mugnajo di Vallecchia.

FINE



INDICE


  AVVERTIMENTO                             Pag. V
  Le Tessitore                                  1
  Una Madre                                   101
  Una passeggiata pei borghi di Firenze       201
  Il buono e il cattivo per tutto             277
  Il mugnajo di Vallecchia                    311



NOTE:


[1] In Firenze, nella Piazza del Prato.

[2] Quartieri dei poveri, dove le donne per lo più esercitavano
l’arte della seta. Forse ebbero questo nome da un convento dei padri
Camaldolensi.

[3] L’infima plebe; ciane son dette in Firenze le donne che ad essa
appartengono.

[4] Aspetto, sembiante di chi supera prepotentemente un ostacolo.

[5] Rumore, frastuono.

[6] Un casamento vasto da appigionare a piccoli quartieri per uso dei
poveri.

[7] Autorità di polizia: quelli che ora si chiamano Delegati, in
Toscana avanti il 1859 si chiamavano Commissari.

[8] Subitamente, prestamente.

[9] _Stiacciarla male:_ Soffrire checchessia contro voglia e con acerbo
dolore.

[10] Ricordi il lettore che l’azione del Racconto ha luogo in Firenze,
verso il 1840.

[11] Secondo gli ordinamenti del tempo, i cittadini potevano liberarsi
dalla coscrizione, cioè dal prestare servizio militare, pagando una
somma in contanti.

[12] _Uno scrupolo senza sugo:_ uno scrupolo ingiustificato, senza
buona sostanza.

[13] L’avviatora prepara lo strigato per la tessitora, ossia
giornalmente l’ordito già steso sul girellone, perchè la tessitora
possa tirare innanzi la tela senza incontrare intoppi.

[14] Discorso lungo e noioso. Le _stampìte_ erano componimenti
provenzali a strofe, simili alle nostre canzoni.

[15] Ho tentato un buon affare. Metafora presa dal giuoco delle carte.

[16] Si dice dei fiaschi da vino, quando sono di giusta misura. Qui
all’opposto vale: che ha tutte le cattive qualità.

[17] Ingannare.

[18] Esclamazione insignificante, propria del vernacolo fiorentino,
oggi fuori d’uso.

[19] Ricevimento. Nello stile ufficiale si diceva che il Granduca
apriva il suo _reale appartamento_, allorchè si degnava ricevere i
nobili della città e anche di fuori. In oggi si dice, non sappiamo con
quanta proprietà, _Tener circolo_.

[20] Che fanno mostra d’ambizione, soprattutto nel vestiario.

[21] _Ganzare:_ vale Amoreggiare non onestamente.

[22] Come correva la moda sullo scorcio del secolo XVIII.

[23] Narra la tradizione che un frate del Convento del Carmine, certo
padre Ambrogino, avesse fama di indovinare i numeri che dovevano uscire
all’estrazione del lotto; e che le donne del popolo a lui ricorressero
per aver la sorte.

[24] Al Battistero.

[25] Modo famigliare che esprime congettura; come dire: Scommetto
che....

[26] Corruzione del latino _bene quidem_, che vale: Bene veramente; sta
benissimo.

[27] In un attimo.

[28] Schifiltosa, ritrosa.

[29] Prese la via ov’erano le mura della città, che era anche luogo di
passeggio.

[30] Tristi avventure; inconvenienti gravi.

[31] Innamorati.

[32] Non bisogna dar retta ai discorsi degli sciocchi.

[33] Cose che danno noia, molestia.

[34] Soggettacci scaltriti.

[35] Scapestrati; diminutivo di ciacco, porcello.

[36] Smorfiosa esagerata.

[37] Oggi via dei Macci. L’una e l’altra, sono strade abitate in
massima parte da gente del popolo.

[38] Ho esperienza.

[39] Piccole ciocche.

[40] Autorità di polizia: quelli che ora si chiamano Delegati, in
Toscana avanti il 1859 si chiamavano Commissari.

[41] _Rimbombolare:_ lo stesso che arzigogolare, fantasticare.

[42] Osservazioni inutili; argomenti inconsulti.

[43] Risolversi a far una cosa con efficacia.

[44] Ricevimento. Nello stile ufficiale si diceva che il Granduca
apriva il suo _reale appartamento_, allorchè si degnava ricevere i
nobili della città e anche di fuori. In oggi si dice, non sappiamo con
quanta proprietà, _Tener circolo_.

[45] Strada contigua alla Via del Purgatorio.

[46] Eccessivamente affaticati.

[47] Non avere mai neppure un quattrino.

[48] Lorenzo Lippi fiorentino, pittore, e poeta, nato nel 1607.
Passando dal castello di Malmantile vennegli il capriccio di comporre
una leggenda in istile burlesco, e tanto vi lavorò attorno con l’andar
del tempo, che la leggenda divenne un poema faceto, in stile vernacolo,
col titolo _Il Malmantile racquistato_, pieno di ridicole novelle, di
proverbi e graziosi idiotismi, pregevolissimo d’altronde per lo studio
della lingua. Secondo lui _Malmantile_ significa una _cattiva tovaglia
da tavola_; e conclude il poema avvertendo che quelli i quali vogliono
sempre godersi l’allegria de’ conviti, per lo più si riducono a morire
fra gli stenti.

[49] Capricciosa, fantastica.

[50] Vana mostra.

[51] Faccendiere, mestatore; Chi appalta, sopraffà con le parole.

[52] Ho più esperienza o accortezza di lui.

[53] Prima d’ogni altra cosa.

[54] Condotte a braccetto.

[55] _Ganzare:_ vale Amoreggiare non onestamente.

[56] Merenda fatta in comune, pagando ciascuno la propria parte: _a
bocca e borsa_.

[57] I giuocatori chiamano autore chi è creduto capace di ricavare i
numeri sicuri dalle cabale, e anche l’inventore delle medesime cabale.

[58] Narra la tradizione che un frate del Convento del Carmine, certo
padre Ambrogino, avesse fama di indovinare i numeri che dovevano uscire
all’estrazione del lotto; e che le donne del popolo a lui ricorressero
per aver la sorte.

[59] Sciocco.

[60] Sbagliarla; da _Inciampare_.

[61] Esclamazione insignificante, propria del vernacolo fiorentino,
oggi fuori d’uso.

[62] Vuol dire mettere i numeri sotto il capezzale per ricavare dal
sogno se sono buoni o no.

[63] _Ricco sfondato_, vale ricchissimo.

[64] Quattrini.

[65] Vincer da capo. Metafora tratta dal giuoco dell’oca.

[66] Merenda fatta in comune, pagando ciascuno la propria parte: _a
bocca e borsa_.

[67] Fracasso e rumore di molta gente raccolta insieme.

[68] _Sacchino_, giubbetta da donna; e _rete_, scuffia di maglia da
notte, con trafori.

[69] L’amante.

[70] Cose false, finzioni.

[71] Sottintendi in carrozza.

[72] Introdursi, mischiarsi con pretenzione. Da _panca_, sedile.

[73] _Puta caso_, vale per esempio.

[74] Arnese che portavano le donne sotto la gonnella, acciocchè facesse
loro gonfiar gli abiti dalla vita in giù.

[75] Il titolo d’illustrissimo.

[76] Smargiasso, millantatore.

[77] Crede saper molto, ed ha molto orgoglio.

[78] Mal vestita.

[79] Dall’avere il vestito stracciato.

[80] Della Piazza del Prato.

[81] Pagando un tanto per uno.

[82] Strettamente rinchiusa.

[83] Bagattelle, coserelle, detto più spesso di vesti, masseriziuole e
lavoretti minuti.

[84] Monte di Pietà.

[85] La casa con tutti gli annessi.

[86] Finzione.

[87] Umiliazioni servili.

[88] D’alto grado.

[89] Paese immaginato a designare una località d’onde provengono i
dappoco, gl’imbecilli. Oggi più comune: _Isola di Creta_.

[90] Modo usato a significare la deliberata volontà di fare una cosa,
checchè ne avvenga.

[91] Soldato tedesco, qui sta per Soldato della peggiore specie e
ubriacone.

[92] Intendi con la Repubblica Fiorentina.

[93] _Aver la consuma_ ec., essere oltremodo affamati e assetati.

[94] Lo stesso che Baffi.

[95] Così chiamavasi in Firenze un luogo sul greto d’Arno, dove
solevansi sotterrare i cadaveri dei cavalli, dei cani, ec.

[96] Faccenda.

[97] Intendi: Anche Cintio, che aveva già largamente guadagnato, e
sperava a suo tempo di guadagnar maggiormente.

[98] La gogna era il luogo dove si esponevano i rei alla berlina, e
da quella le donnicciole traevano i numeri da giocare al lotto. — La
trista usanza della gogna è durata in Firenze fino all’anno 1847.

[99] Narra la tradizione che un frate del Convento del Carmine, certo
padre Ambrogino, avesse fama di indovinare i numeri che dovevano uscire
all’estrazione del lotto; e che le donne del popolo a lui ricorressero
per aver la sorte.

[100] _Nasca_, ec. Avvenga che può.

[101] _Perle scaramazze:_ perle che non sono ben tonde; e in
conseguenza di non molto pregio.

[102] _Calìe_, cose di poco conto.

[102a] La compagnia.

[103] _Basire:_ Esser preso da deliquio.

[104] Qui _Peste_ sta per fetore grandissimo.

[105] Quantità di cenci, ossia di vesti lacere e di poco pregio.

[106] _Quattrino.... Francescone:_ Monete toscane; un quattrino = cent.
1,400; un francescone = lire 5,60.

[107] Il giorno di San Giovanni, patrono di Firenze, costumavasi, fra
gli altri divertimenti popolari, di fare un palio alla lunga di cavalli
sciolti; il qual palio si diceva anco la _Corsa de’ barberi_; di qui il
dettato «pigliare un cavallo morto oggi, per rendere un barbero a San
Giovanni.»

[108] Vane.

[109] _Perder ranno e sapone:_ prov. che vale Aver speso inutilmente
tempo e cure attorno a una cosa.

[110] _E’ si pena poco:_ lo stesso che: Si fa presto....

[111] Parte piana annessa orizzontalmente al cosciale del telajo, e che
serve per posare e fermare il subbio.

[112] _Tra pochi giorni più panìco o meno uccelli_, lo stesso che: In
seguito, le faccende procederanno in modo diverso.

[113] Lo stesso che Eresie.

[114] _Essere a cavallo_, figuratamente per Essere in buona e sicura
condizione.

[115] Proverbio latino di chiaro significato, e usitatissimo.

[116] _Uscire da’ gangheri:_ Dare in escandescenze.

[117] Imbroglione, Raggiratore.

[118] _In quattr’ e quattr’otto:_ In brevissimo spazio di tempo.

[119] _Stiacciare un affare_, dicesi famigliarmente per terminarlo,
accomodarlo comecchessia, senza che altri abbia a risaperlo o a
mescolarvisi.

[120] Qui _baco_ sta per magagna.

[121] Gran moltitudine e quantità di gente.

[122] Da chi ha in uggia i poveri.

[123] _Darsi l’asce su’ piedi_, vale Operare contrariamente all’utile
proprio.

[124] Superbiosa.

[125] _Fuori a giostroni:_ Andar fuori, vagando oziosamente.

[126] Parlar molto e senza proposito.

[127] _Tagliare i panni addosso_ ad alcuno, vale Sparlare gravemente
quand’egli è lontano.

[128] Strada oggi soppressa, che era situata vicino alla Piazza del
Prato.

[129] La seta che serve a ordire.

[130] Ciabattino; quello che rassetta le scarpe.

[131] _Tribolati nelle barbe:_ Ridotti in estrema povertà.

[132] A mala pena mangiano, ec.

[133] Diminutivo di Brincello, Pezzetto.

[134] _Naturale!_... proposizione affermativa, come dire: _Sicuro!_...

[135] Esclamazione insignificante, propria del vernacolo fiorentino,
oggi fuori d’uso.

[136] Strada presso la Piazza del Prato.

[137] _Crazia,... giulio_: monete toscane; una crazia = 7 cent.; un
giulio = 56 cent.

[138] _Una lira_ toscana = 84 cent.

[139] Divenute povere.

[140] _Esser in auge_, vale Esser in prosperità.

[141] E lui, a insistere.

[142] Congregazione di carità tuttora vivente e operosa.

[143] _Apponersi:_ Indovinare, dar nel segno.

[144] _Galantuomo di ventiquattro carati:_ Persona di specchiata onestà.

[145] Vicini a morire.

[146] Andar sottoterra.

[147] Lo stesso che starò al mio posto fermo come una sentinella.

[148] Garzone, giovine pel mestiere e per gli anni.

[149] Apertura lasciata nelle pescaie de’ fiumi per dar passo alle
barche.

[150] Ricettacolo d’acqua ne’ fiumi, ov’ella è più profonda.

[151] Giovinotto che studia d’imitare il figurino delle mode, e se ne
compiace.

[152] L’affare, l’accordo.

[153] Riacquistar tutto il vigore muscolare della gioventù.

[154] Ratto, sollecito.

[155] _Naturale!_... proposizione affermativa, come dire: _Sicuro!_...

[156] _Dar la quadra:_ Dar la burla, censurare.

[157] E lui, a insistere.

[158] Divenir mencio, floscio.

[159] _Specchiarsi_ in alcuno. Dicesi figuratamente per Riguardarne le
opere, i costumi ec., a fine di prenderne esempio.

[160] L’Accademia delle Belle Arti, era, come oggi, situata in Via
Ricasoli; e la Cupola di S. M. del Fiore si presenta subitamente agli
occhi di chi, sboccando da quella via entri in Piazza del Duomo e volga
a sinistra.

[161] Luoghi.

[162] _Sonate campane!:_ Finalmente!

[163] _Non parer suo fatto:_ Far l’indifferente, fingendo che la cosa
che alcuno ha fatto non appartenga a lui.

[164] Incontrarci.

[165] Scossa sùbita e violenta.

[166] _Naturale!_... proposizione affermativa, come dire: _Sicuro!_...

[167] Sorta di giacchetta. Oggi la carniera è propria dei cacciatori.

[168] Cioè del tempo in cui il Thouar scriveva.

[169] Si chiamava _porticciòla_ una piccola porta che dava accesso alla
passeggiata delle Cascine.

[170] Parrocchia.

[171] Fetor della muffa.

[172] _Fare i Gazzettini_ da _Gazzetta_, Sindacare i fatti altrui.

[173] Il rumore delle corone che i fratelli della Misericordia sogliono
portare a cintola.

[174] Innocenti, Gettatelli.

[175] Andarsene, Svignarsela.

[176] Angustie, Strettezze.

[177] Scossa sùbita e violenta.

[178] Guadagnano.

[179] un giulio = 56 cent.

[180] _Ricco sfondato:_ Ricchissimo.

[181] Ragazzo impertinente, cattivo.

[182] Uscir d’impaccio con arte, proprio come fa il gatto quando si
vede in pericolo.

[183] _Battersela:_ Uscire rapidamente da un luogo.

[184] Secca, divenuta quasi trasparente come una lampana.

[185] _Drappo carnicino:_ Drappo di colore tra rosso e bianco, come
quello del carnato dell’uomo.

[186] Ingannare.

[187] Ragazzo impertinente, cattivo.

[188] _Spelluzzicare:_ Mangiar poco, pianamente e con gran riguardo.

[189] _Basire:_ Esser preso da deliquio.

[190] Pianti, lamenti, forse da _Geremiate_.

[191] _Dì buona ragione_, vale: Sicuro, Precisamente.

[192] _Non avere arte nè parte:_ Non avere abilità nè facoltà.

[193] Senza intonaco.

[194] Piccola stanza e non bella, dove si sta a disagio.

[195] _Arrapinarsi:_ Arrovellarsi, affaticarsi molto.

[196] _Raccapezzare:_ Mettere insieme a poco per volta.

[197] _Sulla fede del Bellarmino:_ Come il Bellarmino descrive tal
sorte di gente.

[198] Secca, divenuta quasi trasparente come una lampana.

[199] _Canna:_ Gola.

[200] _Stremo:_ Estremo.

[201] _Raccapezzare:_ Mettere insieme a poco per volta.

[202] _Frangente:_ Colpo di avversa fortuna; Accidente impensato e
travaglioso.

[203] _Far cilecca_, propriamente vale Beffa che si fa altrui,
mostrando di dargli qualche cosa e poi non dandogliela.

[204] Gente di polizia, Birri.

[205] Mi sento provocato a menar le mani, a picchiarvi.

[206] _Conquibus:_ Voce famigliare e scherzevole per Denaro.

[207] Capo de’ birri.

[208] _Il morto:_ Somma di denaro tenuta riposta.

[209] _Squadrare:_ Guardare una persona minutamente da capo a piedi,
per accertarsi della di lui qualità.

[210] _Fare specie_: Dicesi nel linguaggio famigliare per far
meraviglia.

[211] Chi non si risente delle ingiurie piccole, dà occasione che
gliene siano fatte delle grandi.

[212] Inezie, Cose da nulla.

[213] Quando il Thouar faceva parlare così Nicodemo, il nostro paese
non aveva ancora riacquistata la sua indipendenza e la sua unità.

[214] _Rinfranco_: Aiuto non aspettato.

[215] _Solatio_: Luogo che risguarda il mezzogiorno, e perciò gode più
il calore del sole.

[216] _Aver dicatti_: Aver di grazia; chiamarsi contenti di una cosa,
per non poter averla maggiore o migliore.

[217] Arnese fatto a modo di carro, ma intessuto di vimini e senza
ruote, che i buoi trascinano, e di cui ci serviamo, specialmente in
Toscana, per luoghi ove sarebbe impossibile andare con veicoli a ruote.

[218] _Scompannare:_ Scomporre i panni del letto e rimanere scoperto
per il soverchio agitarsi.

[219] _Trovare il bandolo:_ Trovare il modo di venire a capo di alcuna
difficoltà, per uscire di qualche impaccio.

[220] Essere di _primo impeto_ dicesi di chi non sa rattenersi.

[221] _Carabàttole:_ Masseriziuole di poco pregio, che altri può
trasportar seco andando da luogo a luogo.

[222] Parti della città di Firenze con vie strette e povere case,
dove sta la povera gente e la meno civile; vi sono i Camaldoli di San
Frediano e vi erano i Camaldoli di San Lorenzo, quelli di là, questi di
qua d’Arno.

[223] _Staio:_ foggia di cappello che oggi si dice a cilindro.

[224] Lo stesso che _Tacciare_, che vale, Vituperare, Censurare.

[225] Dicesi che una cosa è di spolvero, quando si mostra a chi l’ode
o vede di primo tratto bella e ricca di tutte le parti che la fanno
piacere, con tutto che nella sostanza non sia di tutta prova.

[226] Oggi la Romagna comprende alcune provincie del Regno d’Italia;
allora faceva parte degli stati della Chiesa, e confinava con la
Toscana.

[227] Il _procaccia_ era colui che portava lettere e robe da un paese
a un altro, innanzi che il servizio postale fosse ordinato siccome è
attualmente.

[228] Il suono della campana che raccoglie i fratelli a fare la carità,
cioè il trasporto di un infermo o di un morto da uno ad altro luogo.

[229] Confraternita religiosa.

[230] Moneta che aveva per impronta l’effigie della Madonna, e valeva
circa 28 cent.

[231] Autorità di polizia: quelli che ora si chiamano Delegati, in
Toscana avanti il 1859 si chiamavano Commissari.

[232] Ingiunzione a comparire innanzi al magistrato.

[233] La ubriacatura.

[234] _Esser al buio_ vale essere in prigione.

[235] Intendi; Non fu cercato altro ripiego che quello di spender
denari per fare uscire il reo più presto di prigione.

[236] _Epifania_ significa Apparizione, manifestazione di cosa
superiore, di un Dio ec. e dicesi anco per vocabolo corrotto _Befania_,
e presso gli antichi _Pifania_. Questa solennità rammenta la visita dei
Magi d’Oriente a Gesù in fasce: quindi la manifestazione del Messia ai
Gentili.

[237] I coristi del teatro della Pergola solevano addobbare un carro
e montarvi sopra vestiti da _comparse_, e andare attorno cantando e
accattando denari per gozzovigliare in certi giorni di festa.

[238] _Stillo_ da _stillare_, che vale trovare accortamente il modo di
fare una cosa.

[239] _Befane:_ i fantocci che si portavano attorno con faci accese la
sera della vigilia dell’Epifania, e pare avesse origine dalle antiche
rappresentazioni di avvenimenti sacri.

[240] Crazia = 7 cent.

[241] Poche crazie.

[242] È antica costumanza, andata quasi in disuso, il far appendere ai
fanciulli alla catena del camino la sera della vigilia dell’Epifania
una calza vuota, dando loro ad intendere che la Befana nella notte
empirà quella calza di dolci e di regali, se li avranno meritati.

[243] Pianti, lamenti, forse da _Geremiate_.

[244] _Il Lupo mannaro_, ec. Nomi immaginari che si adoprano per
spauracchio ai bambini.

[245] _Rimaner brullo:_ rimaner povero.

[246] Il giorno di Berlingaccio e gli ultimi due giorni di Carnevale
solevasi tenere un concorso di maschere sotto gli Uffizi, loggie del
Vasari, al quale interveniva ogni sorta di gente.

[247] _Festa di precetto:_ quella nella quale ci dobbiamo astenere
dalle opere servili.

[248] _Me’ famiglia:_ Mia famiglia.

[249] Località ove i Fiorentini andavano a sollazzarsi o a merendare:
il _Prato delle Lune_ è situato presso Montughi.

[250] Anneghittirsi, Impigrirsi.

[251] _A gironi:_ Girare senza saper dove.

[252] Località a 10 chilometri circa da Firenze, dove nel mese di
ottobre è usanza tenersi una fiera, alla quale accorre moltissima gente
da Firenze e dalle campagne vicine.

[253] Era questo il nome del Direttore di un circo equestre, di molta
rinomanza a quel tempo.

[254] _Bracciante:_ chi vive delle braccia, cioè del lavoro
materialissimo e di pura fatica.

[255] Voce latina che si usa nel significato di Godimento, Sollazzo.
Qui, a guisa di esclamazione: _Con tutto il piacere!_

[256] Parola che si dice quasi vogliasi allontanare il mal augurio, e
che è un composto di _Salvo mi sia_. Qui intendasi: Non avresti detto
così; _Dio ne guardi!_

[257] _Fare il secutus_ a uno vale Corteggiarlo, Andarvi a seconda.

[258] _Dieci paoli_ = L. 5.60.

[259] Figlio dell’Ospedale degl’Innocenti, cioè Bastardo.

[260] _Rimanere come Tenete_, frase che si usa allorchè ci troviamo
sopraffatti o da improvvisa paura, o da meraviglia, per modo che
restiamo come stupidi, e non possiamo continuare a dire o a far
checchessia; qui però vale: ci ha lasciati senza sostanze.

[261] _Ritocchino:_ Piccolo pasto che si fa dopo aver già mangiato.

[262] _Messa:_ lo speso nella giocata.

[263] Il Gracchiare è proprio delle Cornacchie; ma si dice anco degli
uomini che parlano assai e senza bisogno, ed ancora sparlano di altrui.

[264] Bibita.

[265] La gogna era il luogo dove si esponevano i rei alla berlina, e
da quella le donnicciole traevano i numeri da giocare al lotto. — La
trista usanza della gogna è durata in Firenze fino all’anno 1847.

[266] _Verso il Bargello:_ intendi verso il Palazzo del Bargello,
vetusto monumento di Firenze, dove erano le carceri, ed ora trovasi il
Museo Nazionale.

[267] _Pigliare un boccone:_ Mangiare alla buona, e quanto basta per
ristorarsi.

[268] Oggi è luogo di amena passeggiata, allora si vedevano in quelle
località dei vasti prati, che nell’inverno si destinavano a serbatoi
d’acqua, donde si toglievano i pezzi di ghiaccio e perciò si chiamavano
diacciaie.

[269] Cansarsi, Cercare di schivare un pericolo.

[270] Questo Teatro prendeva nome, una volta, dalla strada ov’era
situato; poi fino al 1887 si chiamò teatro Rossini; ora è soppresso e
il locale è destinato ad un altro uso.

[271] Mezzo paolo = 28 cent.

[272] _Scantonare_, voltare da una cantonata per entrare in altra
strada.

[273] _Ripicchiato_ vale adorno e lisciato per modo da nascondere i
difetti del tempo.

[274] _Mézzo:_ Eccessivamente molle.

[275] Luogo di ricovero per i poveri, dove sono albergati e mantenuti e
dove si assuefanno al lavoro.

[276] _Scamàto:_ la verga dei battilani.

[277] Prendere errore o sbaglio; sbagliare.

[278] _Partito_ qui sta per la Proposta.

[279] _Rintoppare:_ Incontrare.

[280] Monte di Pietà, dove si prestano i denari contro pegno.

[281] _Garoso:_ Bramoso.

[282] _Seste_ per similitudine e scherzevolmente dicesi per Gambe.

[283] Gagliardo, Robusto.

[284] _Lisca:_ Materia legnosa, che cade dal lino e dalla canapa quando
si maciulla, si pettina, ec.

[285] Le Scuole di Reciproco o di Mutuo insegnamento, istituite nei
primi anni del secolo XIX, a cura di persone dabbene, precorsero in
Italia l’insegnamento pubblico elementare, e dettero ai giovani un
forte impulso a far libera la patria.

[286] A que’ tempi, alle Cascine, la più frequentata passeggiata di
Firenze, si allevavano i Fagiani e ogni altra sorta di rari uccelli,
molti anni innanzi che vi fosse istituito il cosiddetto Giardino
Zoologico.

[287] _Fare il gallo:_ Imbaldanzire.

[288] _Dieci paoli_ = L. 5.60.

[289] Società di Mutuo soccorso.

[290] Queste auree parole erano destinate a preparare od affrettare
la istituzione in Firenze delle Società di Mutuo Soccorso, che sono
il frutto di una ben intesa e ordinata previdenza, quando il loro vero
fine non venga in qualsivoglia modo falsato.

[291] Dipartimento della Francia.

[292] Gli _Chouans_ erano individui appartenenti a bande armate, che
nell’Ovest della Francia facevano la guerra dei partigiani contro la
Rivoluzione del 1793.

[293] La riga che fa l’acqua caduta in terra.

[294] _Vedere la mala parata:_ Conoscere d’essere in termine pericoloso.



Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici.




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