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Title: Prima di partire
Author: Castelnuovo, Enrico
Language: Italian
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Copyright Status: Not copyrighted in the United States. If you live elsewhere check the laws of your country before downloading this ebook. See comments about copyright issues at end of book.

*** Start of this Doctrine Publishing Corporation Digital Book "Prima di partire" ***


                            PRIMA di PARTIRE


                             NUOVI RACCONTI

                                   DI

                           Enrico Castelnuovo



                                 MILANO
                        FRATELLI TREVES, EDITORI
                                  1896
                                   —
                          =Secondo Migliaio.=



                         PROPRIETÀ LETTERARIA.

                         Milano. — Tip. Treves.



INDICE.


  Prima di partire (diario di Elena)      Pag. 1
  Fuori di tempo e fuori di posto             72
  Il salottino giapponese                    200
  Nell’andare al ballo                       258
  L’eredità di Giuseppina                    274
  Il natale di Ninetta                       303
  La nipote del colonnello                   318
  La zia Teresa                              338
  La bambina                                 352



PRIMA DI PARTIRE

(_Diario di Elena_).


                                     Venezia, lunedì, 31 maggio 1886.

Quest’album è invecchiato con le pagine bianche. L’ebbi in dono
dieci anni fa dalla povera mamma, quando, dopo aver letto _Miranda_
del Fogazzaro, mi venne il ghiribizzo di aver anch’io un album per
scrivervi, come Miranda, giorno per giorno i miei pensieri. Poi
non vi scrissi nemmeno una riga.... Può darsi che io sia volubile e
capricciosa, ma se debbo esser giusta ho pure un fondo di sincerità e
di schiettezza.... Riflettendoci bene, mi parve che questo registrar
solennemente tutte le fanfaluche che ci passano pel capo sia una bella
caricatura, tanto più che in via ordinaria la vita d’una ragazza non
è piena di avvenimenti, nè il suo cervello è fecondo di pensieri che
meritino di esser raccomandati alla posterità.... E dicci anni or sono
la mia vita si svolgeva placida, come acqua tranquilla di fiume dentro
i suoi margini, e in quanto a pensieri.... ne avevo così pochi!... Più
tardi capitarono i guai, e volti diletti si scolorarono e care voci
ammutolirono per sempre.... oh mi sarebbe parsa una profanazione il
sedermi a tavolino con la penna in mano per dare una forma letteraria
a’ miei sentimenti.

O dovevo forse notare le freddure di qualche bellimbusto, dovevo
descrivere la corte che qualcheduno mi fece nei tempi lieti, salvo a
piantarmi in asso nei tempi della sventura? No, no, abborro le inutili
querimonie.

Avrei potuto invece, come usano tante, seccare il prossimo, affannarmi
a raccogliere autografi illustri, detti memorabili, aborti poetici
e sgorbi pittorici; o, più modestamente, seguendo l’esempio della
mia amica Dall’Orno maritata a Vicenza, riempire il mio album con le
oleografie della _Mode Illustrée_.... Ho preferito lasciarlo dormire
per dieci anni.

Oggi l’ho tirato fuori dal suo cassetto, l’ho spolverato, l’ho aperto,
e son qui, son proprio qui, seduta al tavolino, e la mia penna corre
su queste pagine, e nonostante la mobilità del mio carattere credo che
per qualche settimana ancora dedicherò a tale occupazione un’oretta al
giorno.

Gli è che mi trovo in un momento solenne della mia vita, un momento
di cui desidero raccogliere e serbar tutte le impressioni e tutti
i ricordi. Sto per abbandonar forse per sempre la mia città, la mia
patria, sto per andar a migliaia e migliaia di miglia da qui, in un
paese di cui ignoro la lingua, dove sarò a poco a poco dimenticata da
conoscenti ed amici, dove, passati alcuni mesi, non mi giungerà più una
parola dalla mia Venezia.... Non è morire, ma ci somiglia.

Scommetto che chi leggesse queste righe direbbe: — Ah, una ragazza che
si marita all’estero.... Solite smorfie.

Non mi marito. Senza esser bella non sono neanche un mostro, ma il
fatto si è che ho venticinqu’anni compiuti e il mio sposo è sempre
di là da venire. Intanto vado a Tiflis a raggiungere un mio fratello
che è stabilito laggiù e al quale, dopo la morte del povero zio, il
mio unico sostegno da quando son rimasta orfana, dovevo pur scrivere
per dir ch’ero sola e che, una volta venduti i quattro stracci che
avevo, sarei rimasta sul lastrico. Fu una grande umiliazione, perchè di
quell’Odoardo, sebbene mio fratello, io rammento appena la fisonomia;
perchè ci siamo scambiate con lui forse tre lettere in tutta la vita;
e perchè infine, com’io sento pochissimo la famosa voce del sangue,
così non posso pretendere che la sentano molto gli altri.... Che cosa
importa chiamarsi fratello e sorella quando non s’è cresciuti insieme,
quando non s’è avuta nessuna comunanza di pensieri, di dolori, di
gioie?

Eppure, come si fa? Con l’educazione da _signorina_ che ho ricevuto,
guadagnarmi di punto in bianco da vivere m’era impossibile. Non
sono un’ignorante, ma non so nessuna cosa in modo da accingermi
ad insegnarla; non l’italiano e non il francese, non la musica e
non il disegno. Forse con un po’ di studio, con un po’ di pazienza
ci riuscirei, e in verità quello ch’io desideravo da Odoardo, il
quale ha voce d’essersi messo da parte una discreta fortuna, si era
ch’egli mi passasse un modesto assegno mensile fintantochè io fossi
in grado di bastare a me stessa. Egli però, con tutto il suo comodo,
mi rispose che poteva fare una cosa sola: prendermi seco. Avrei
avuto una posizione agiata, indipendente, sicura, e lo avrei certo
risarcito ad usura dell’ospitalità ch’egli mi offriva tenendogli
in ordine la casa, o a meglio dire permettendogli di avere una casa
propria in luogo di essere in balìa di gente mercenaria. Ci pensassi
su, e se accettavo la sua proposta gli spedissi un telegramma. Egli
mi avrebbe subito rimesso i fondi per il viaggio. Un viaggio, a sentir
lui, che non deve spaventarmi. Io non avevo che da prendere il vapore
fino a Costantinopoli; egli mi sarebbe venuto incontro colà, dove lo
chiamavano alcuni affari e dove si sarebbe trattenuto fino alla metà
di luglio; da Costantinopoli un altro piroscafo ci avrebbe condotti
insieme a Odessa, nel qual porto gli conveniva pure di fare una piccola
sosta; di là ci saremmo imbarcati per Batum. Da Batum a Tiflis c’è
la strada ferrata. Badassi bene di telegrafargli entro una settimana
dall’arrivo del suo foglio; prima almeno del 30 di maggio, giorno in
cui egli doveva partire senza fallo per Costantinopoli.

Questa lettera, lo confesso, mi suscitò una tempesta nell’anima.
Rispondere di sì era proprio giocare un terno al lotto; se c’era
incompatibilità di carattere tra mio fratello e me, se il clima di
Tiflis non si confaceva alla mia salute, se m’assaliva la nostalgia?...
Ma d’altra parte risponder di no era precludermi la sola via d’uscita
dagl’impicci in cui mi trovavo, era mettermi nella necessità di batter
di porta in porta alla ricerca d’un’occupazione pur che sia, e, peggio
ancora, espormi alla mortificazione delle beneficenze mal simulate;
inviti a desinare o in campagna, regali d’abiti dimessi e altre cose
simili.... Alla lunga poi, qualcheduno mi avrebbe detto: — Ma, cara
Elena, perchè vi siete lasciata sfuggir la buona occasione? — E allora
mi sarebbe convenuto scrivere di nuovo a mio fratello, spiegargli le
mie contraddizioni, pregarlo di compatirmi, d’accogliermi!... No, no,
a questo non volevo assolutamente arrivarci.... Aggiungasi al resto il
colèra che ha spopolato la città, che mi toglie perfino la speranza di
procurarmi qualche lezione....

Troncai gl’indugi, e prima che spirasse il termine stabilito spedii il
dispaccio.... Adesso attendo il danaro.

Non m’ero consigliata con anima viva. Consigliarsi in cose di poco
rilievo, passi; ma in cose gravi, Dio mio!... È il vero modo per non
venir più a capo di nulla. Ognuno dà un parere diverso e si finisce
coll’aver la testa come un cestone.

Così, quando, dopo l’invio del telegramma, annunziai alla signora
Celeste, la mia padrona di casa, che probabilmente sarei tra non molto
partita, per Tiflis, nel Caucaso, ella rimase fulminata. Non occorre
dire che le cognizioni geografiche della signora Celeste sono men che
mediocri, e che quest’era la prima volta ch’ella sentiva parlare del
Caucaso e di Tiflis.... — Vergine Santissima! — ella esclamò — e che
paesi sono? — Ma.... paesi alquanto lontani. — Più lontani di Verona? —
ella chiese. — Verona dov’ell’ha una cugina maritata è il punto estremo
a cui la signora Celeste si sia spinta nello sue peregrinazioni. —
Molto, molto più in là — risposi sorridendo; — paesi che son fuori
d’Europa, in Asia. — La signora Celeste che non ha idee chiare
delle cinque parti del mondo congiunse le mani in atto di dolorosa
maraviglia. — In Asia! Dunque più in là anche di Milano?

— Più in là, più in là — replicai.

Un’idea terribile balenò nella mente della signora Celeste.

— Andrebbe, Dio guardi, fra i Turchi?

— Ci sono anche dei Turchi, ma la città appartiene ai Russi, che sono
cristiani.

— E ha preso una risoluzione simile così su due piedi? — seguitò la
buona donna che non sapeva darsi pace. — E può serbar questa calma?

— Cara signora Celeste — dissi io — bisogna far di necessità virtù.

Del resto, la mia calma non era che apparente, e poi che fui nella mia
stanza ed ebbi dato il chiavistello all’uscio mi gettai con la faccia
sul letto, e inondai i guanciali di lacrime, e mi parve che sarei stata
tanto contenta se avessi potuto ritirare il telegramma e non partir
più. Ma ormai non c’era rimedio.

Il male si è che quanti più giorni passano tanto più sanguina la ferita
che questo prossimo distacco dalla mia patria mi ha aperto nel cuore.
Provo dentro di me un non so che d’inesplicabile. Questa città dove son
nata e cresciuta, di cui ho percorso forse tutte le strade e calcato
tutte le pietre, acquista ora per me un fascino nuovo; non posso uscir
di casa senz’aver qualche argomento di sorpresa. Dico a me stessa: —
Come? Non m’ero mai accorta di quell’effetto di luce, di quel contrasto
di colori, di quello scorcio così pittoresco? Cara, cara Venezia!...
Mi piacciono persino le suo brutture, le sue bicocche più diroccate, le
sue calli più anguste, i suoi rii più sudici. E anche questa è curiosa.
Cento faccie indifferenti che ho incontrato mille e mille volte sul mio
cammino, cento faccie di persone delle quali ignoro il nome pigliano
oggi a’ miei occhi un aspetto insolito; mi sembra quasi ch’esse mi
guardino con simpatia; mi sembra che, s’io le incoraggiassi, le loro
labbra si moverebbero per consigliarmi di non partire, di restar qui,
in mezzo ad amici.

Illusioni, fantasie d’un cervello malato. Evidentemente è così, ma
sento anche che quando sarò nella terra d’esilio, quando non vedrò più
il bel cielo d’Italia nè al mio orecchio sonerà il nostro dolcissimo
idioma, sarà un conforto per me il cullarmi in queste fantasie e in
queste illusioni. Voi mi aiuterete a evocarle, o pagine discrete, alle
quali confido i miei pensieri più intimi.


                                                  Martedì, 1º giugno.

In casa della signora Celeste, ch’è vedova d’un impiegato e alla
sua magra pensione aggiunge il po’ che guadagna affittando camere
ammobigliate, ci sono, oltre a me, due inquilini, il professor Verdani,
bolognese, che veggo di rado e non sento mai, e il cavaliere Struzzi,
colonnello in pensione, che non veggo quasi mai e che sento sempre.

La sua camera è dirimpetto alla mia, dall’altra parte del corridoio,
e io comincio a gustar le gioie di sì amabile vicinanza la mattina
quando la Gegia, la donna di servizio, va per tempissimo ad aprirgli
le imposte. Allora egli inizia la giornata scagliandosi contro di
lei o perchè è venuta troppo tardi o perchè è venuta troppo presto,
e le dà della marmotta, della buona a nulla, concludendo col dire
ch’è veneziana, e tanto busta. Poichè il colonnello, sebben veneziano
nelle midolle, ostenta un grande disprezzo pel suo paese e pe’ suoi
concittadini. Più tardi il bizzarro uomo si raddolcisce con la Gegia,
ma ne fa la sua vittima in un altro modo, costringendola a ricevere
i suoi sfoghi contro tutto e tutti, dai cuochi della trattoria che lo
avvelenano coi loro manicaretti sino al ministro della guerra che lo
ha messo in pensione prima di nominarlo generale. E una volta toccato
questo tasto, non la finisce più. A differenza dei veterani che si
vedono nelle commedie, ruvidi, brontoloni, ma pronti a rasserenarsi se
possono discorrere delle loro gesta, il colonnello o si pente, o finge
di pentirsi di tutto quello che ha fatto. È stato un prode, ha preso
parte alle guerre d’indipendenza dal 1848 in poi, s’è guadagnata la
medaglia al valor militare sul campo di Custoza e dichiara che doveva
invece tenersi un banco di lotto come aveva suo padre, e non mischiarsi
di politica, e non andar incontro alle palle e alle sciatiche per
quelle fanfaluche che si chiamano libertà e indipendenza. Ma che
libertà! Ma che indipendenza! Valeva la spesa di gettar via gli anni
più belli della vita perchè cinquecento arruffoni potessero empir
di chiacchiere quella loro gabbia di matti a cui diedero il nome di
Parlamento?

Queste filippiche si rinnovano più volte nel corso della giornata sotto
forma di soliloqui, specialmente quando il colonnello legge i fogli che
gl’irritano i nervi, ma dei quali non può star senza. — Buffoni! — egli
esclama di tratto in tratto rivolgendosi a interlocutori immaginari —
Asini e buffoni!

Alle quattro pomeridiane il mio bell’originale esce di casa e va
a deliziare con la sua festività i tavoleggianti del caffè e del
_restaurant_; rientra poi alle dieci, e nelle rare occasioni in cui
è di buon umore dice alla Gegia nell’atto di prendere il lume dalle
sue mani: — Vado a mettermi orizzontale — locchè significa che va a
letto. Se invece ha la luna a rovescio, ed è ciò che accade per solito,
borbotta quattro impertinenze a modo di felice notte e si chiude con
malagrazia nella sua camera per riaprir l’uscio di lì a poco e gettarne
fuori gli stivali che talora vengono a battere sulla mia parete.

Ebbene; non c’è dubbio che il colonnello sia un vicino poco piacevole;
ma in fin dei conti non fa male a nessuno e sento che mi parrà molto
strano di non udir più la sua voce.

In quanto al professore Verdani egli è il perfetto contrapposto del
colonnello. È un giovine pallido, studioso, timidissimo, taciturno. Lo
incontro spesso per le scale ed egli si fa piccino piccino, e tenendosi
alla propria destra rasente al muro si tocca col dito la tesa del
cappello e bisbiglia un impercettibile: — Riverisco.

Il buon professore è l’idolo della signora Celeste. Così scrupoloso nel
pagar la sua mesata, così pieno di riguardi, così affabile con lei e
con la Gegia! È una brava persona anche, un uomo che col tempo diverrà
famoso. La signora Celeste non se ne intende, ma glielo assicurò il
bidello della scuola ove il professore dà le sue lezioni.... Ha ormai
stampato dei libri!... A questo proposito la signora Celeste mi mostrò
in gran segretezza un opuscolo ch’ella aveva preso sulla tavola del
Verdani, un opuscolo composto proprio da lui e del quale egli aveva
ricevuto dallo stampatore una cinquantina di copie, tantochè non si
sarebbe nemmeno accorto del piccolo furto. Quell’opuscolo la signora
Celeste non lo leggeva, perchè già non aveva confidenza con la lettura,
e in ogni caso l’argomento era troppo difficile per lei.... Ma se
volevo darci un’occhiata io che avevo studiato alla scuola superiore
femminile?

Lo apersi per curiosità, e lessi il titolo: _Angoli di due spazi
contenuti nello spazio a N dimensioni_.

Santo cielo! Questo è arabo, persiano, sanscrito.

So dalla Gegia che oggi i miei due coinquilini si sono occupati
entrambi di me, mostrandosi, ciascuno a suo modo, dolenti della mia
partenza. — Chi sa chi verrà in luogo suo — brontolò il colonnello —
quella lì almeno non recava disturbo.

E il professore disse: — Mi dispiace davvero. Una signorina tanto per
bene.


                                                 Mercoledì, 2 giugno.

Il colèra è da lunedì in qualche descrescenza, ma seguita a colpire
più d’una trentina di persone al giorno. La città è squallida e triste.
Dietro le vetrine delle botteghe non si leggono che avvisi mortuari di
persone uccise dal _fiero morbo_, dal _crudo morbo_, dall’_inesorabile
morbo_, eleganti perifrasi per indicare il colèra senza nominarlo. Le
muraglie sono coperte di manifesti sesquipedali che vantano al pubblico
le glorie di questo o quel preservativo infallibile.

Si vanno aprendo collette e istituendo comitati: della Croce verde,
della Società del Bucintoro; si annunziano distribuzioni gratuite
di commestibili, questue per le case, ecc., ecc.; tutta roba che fa
salir la mosca al naso al colonnello Struzzi. L’ho sentito stamattina
esprimere le sue opinioni in proposito alla Gegia. Che Croce rossa, o
verde, o bianca?... Buffonate di gente che vuol mettersi in evidenza e
magari buscarsi un cavalierato.... Ci credete voi al colèra?.... Non vi
domando il vostro parere; può importarmene molto del vostro parere!...
Ma vi dico io che non c’è colèra, non c’è che un branco di vigliacchi
che scappano e un manipolo di vanitosi che si arrampicherebbero
sugli specchi per richiamare l’attenzione sopra di sè.... Come quei
dottorini della policlinica che girano per la città in cerca di
colerosi, e quando non ce ne sono se ne inventano.... Saltimbanchi,
saltimbanchi!... Oh nel 1849 sì che ci fu il colèra a Venezia, e
avevamo più di quattrocento casi in un giorno.... Ma già voi non
eravate neanche nata nel 49... Peggio per voi che vi toccherà stare di
più in questo mondaccio.... Cosa c’è? Dove andate?

— Ma.... — balbettò la ragazza — hanno suonato alla porta di strada.

— Che aspettino.... Fin che parlo io, voi dovete rimanere.... Dove
avete imparato la creanza?

In quel momento suonarono di nuovo, e siccome sapevo che la signora
Celeste era uscita e ritenevo quindi che fosse lei, andai io stessa ad
aprire.

Era invece il professore Verdani che aveva dimenticato la chiave di
casa e veniva a prenderla. Figuriamoci com’egli rimase quando vide me
sul pianerottolo, come arrossì, e quante scuse mi fece. Gli dispiaceva
proprio d’avermi disturbata.

— Un disturbo piccolo — risposi; — La Gegia è tenuta in chiacchiere dal
signor colonnello.

— Ah! — fece il professore.

E voleva aggiungere qualche cosa, e qualche cosa volevo aggiungere
anch’io. Ma eravamo imbarazzati tutti e due e ci limitammo a un saluto
più espansivo del solito.

A guardarlo bene il professore non è mica un brutto giovine....

Probabilmente la lettera di Odoardo è in viaggio. Ma da Tiflis a
Venezia le lettere ci mettono un paio di settimane, sicchè ho da
aspettare almeno dieci o dodici giorni. Sono curiosa di vedere quanti
danari mio fratello mi manda, e aspetto la sua rimessa prima di
fare alcune spese necessarie pel mio viaggio e di comperare qualche
regaluccio per le mie amiche. S’egli non mi spedisce che quanto occorre
strettamente pel tragitto a Costantinopoli, mi converrà vendere
o impegnare i pochi oggetti preziosi che conservo come ricordi di
famiglia.... Sarebbe un principiar molto male.


                                                    Sabato, 5 giugno.

Questa mattina la signora Celeste s’era fitta in capo di condurmi
alla chiesa della Salute, ove c’è una funzione solenne per invocar
dalla Madonna la cessazione del morbo che ci affligge. Io rispetto le
credenze di tutti, ma non so simulare una fede che non ho. Rifiutai
quindi d’accompagnare la mia padrona di casa nel suo pellegrinaggio, e
per quietarla le promisi di non partir da Venezia senza essermi recata
una domenica con lei a San Marco, all’ora della messa grande.... Ci
andrò volentieri; la basilica è tanto bella! E poi non sono mica una
giacobina, non ho mica l’orrore dei templi, non mi atteggio io, povera
donna, ignorante, a libera pensatrice, a spirito forte.... Ho una
ripugnanza invincibile a fingere, ecco tutto.

Del resto, la signora Celeste non è punto intollerante e fanatica.
Siamo uscite insieme anche stamane di buonissimo accordo; ella andò
alla sua chiesa, io andai da altra parte. Nel ritorno presi il vaporino
a San Moisè e mi trovai seduta poco distante dal dottor Negrotti, il
nostro medico antico, quello che mi ha vista nascere. Volevo salutarlo,
ma egli era in compagnia, e miope com’è non mi ravvisò.

Passammo dinanzi alla Salute. La superba chiesa era aperta, sfavillante
di ceri; moltissime gondole erano ferme dinanzi alla riva, quelle tra
l’altre del Municipio, con le bandiere a prora e i barcaiuoli in tenuta
di gala.

— Dottore — disse qualcheduno — ci crede lei alla Madonna della Salute
quale specifico contro il colèra?

— Caro mio — rispose il medico — credo appena al laudano, e poco anche
a quello.

Seguitarono così per un pezzo, tirando giù a campane doppie contro i
pregiudizi popolari, contro le processioni di fanciulle scalze, contro
la Giunta municipale che interveniva _in pompa magna_ a una cerimonia
religiosa.

— Meno male la Giunta! — sospirò con comica gravità il dottor Negrotti,
— il peggio si è che ha voluto intervenirvi mia moglie, pigliando per
sè la gondola e sforzandomi a girar per la città in vaporetto.

Il dottor Negrotti è molto invecchiato d’aspetto, ma è sempre lo
stesso uomo, scettico, sarcastico; e non dubito che si sarà conservato
buonissimo di fondo, caritatevole e leale a tutta prova.

Avevo rinunziato a salutarlo per oggi, quando alla stazione della Cà
d’Oro vidi con piacere ch’egli s’accommiatava dagli amici e scendeva
con me.

Me gli accostai tendendogli la mano. — Dottore, non mi riconosce?

— Oh! — fec’egli con un sorriso cordiale. — L’Elena?... Era in _tram_?

— Sì certo.... e a pochi passi da lei.... Ma non osavo disturbarlo.

— Perchè, perchè?... Oh come sono lieto di quest’incontro!... Dopo
tanto tempo! E come va, cara Elena?

Una volta il dottor Negrotti mi dava del _tu_; adesso si capisce che
gli faccio soggezione.

Camminavamo a fianco; egli era diretto dalla stessa parte ov’ero
diretta io. Gli raccontai le mie ultime vicende, la solitudine in cui
ero rimasta, la decisione che avevo presa di raggiunger mio fratello a
Tiflis.

— Oh diavolo, diavolo! — esclamò il dottore. — Che cosa mi narra?...
Ma lei deve appena conoscerlo quest’Odoardo. Era poco più d’una bambina
quando partì.

— Fu nel 66. Avevo cinqu’anni.

— Sicuro. Tra voi altri due ci devono essere almeno quindici anni di
differenza.

— Sedici ce ne sono.

— Già.... Odoardo è ormai un uomo maturo.... Come passa il tempo!...
Allora era un bel giovinetto.... molto vivace.... forse troppo
vivace....

Io non dissi nulla.... Pensavo alle lacrime che quel ragazzo aveva
fatto spargere a’ miei genitori.

— Non cattivo però — soggiunse Negrotti. — Era di quelli che hanno
bisogno di libertà, che non sanno adattarsi a star nelle file.... Ma
una volta che si sono aperta una strada, metton giudizio.... Deve aver
girato molto....

— Oh moltissimo!... Non s’è fissato a Tiflis che nell’83.

— E non ha mai fatto una corsa sin qui?

— Mai.

Il dottore rimase un momento soprappensiero; poi mi domandò: — È
rimasto scapolo?

— Sì.

— Capisco — riprese il vecchio medico. — Lei non ha altri appoggi, non
ha altri parenti....

— Nessuno, nessuno.... Ma — esclamai — sia sincero.... Crede che io
stia per commettere un grande sproposito?

— No, cara Elena, no.... È probabile che al suo posto avrei fatto lo
stesso anch’io..... A ogni modo, lei è una ragazza coraggiosa; se non
si trovasse bene saprebbe tornare nel suo paese.

— Oh! — diss’io.... tentennando la testa — non tornerò più.

E mi salivano le lacrime agli occhi.

Il dottore rallentò il passo, e mi mostrò un portone all’angolo della
_calle_. — Debbo fermarmi qui.... Ma lei non parte mica subito?...

Gli risposi che ritenevo di non partire prima della fine del mese.

— In tal caso spero che ci rivedremo — egli replicò. — Venga da me
un dopopranzo.... Anche mia moglie la saluterà volentieri.... Si
conoscevano una volta.... quando viveva la sua povera mamma.

Gli promisi d’andare, ma non andrò. Sua moglie è una superba che dopo
le nostre disgrazie si degnò appena di guardarci; chi sa con che aria
di protezione mi accoglierebbe! Io credo che non rivedrò più nemmeno il
buon dottore.... Fu proprio un caso ch’io l’abbia incontrato oggi.

È curioso! Anche senza lasciar la patria, ci son tante cose e tante
persone che a poco a poco si dileguano dai nostri occhi e dalla nostra
memoria. Eppure, persino di quelle indifferenti, persino di quelle
moleste è triste il dover dire: le vedo per l’ultima volta!

Il dottore Negrotti mi mise una pulce nell’orecchio con quella sua
domanda se Odoardo sia rimasto scapolo. In vero, chi mi assicura che
mio fratello non prenderà moglie più tardi? E allora che vita mi si
preparerebbe?


                                                  Domenica, 6 giugno.

Venticinquesimo anniversario della morte di Cavour, e festa dello
Statuto! Sarà l’ultima a cui avrò assistito. Dopo qualche tempo passato
laggiù fra i _barbari_ mi ricorderò appena chi fosse Cavour e che cosa
significhi questa che chiamiamo a ragione la festa nazionale. O belle
bandiere, belle bandiere tricolori che ho viste oggi sventolar sulle
antenne di San Marco, non dovrò vedervi più mai!

Chi sa che anche il colonnello Struzzi, se fosse nei miei panni,
in procinto di abbandonar per sempre l’Italia, non proverebbe una
commozione uguale alla mia!

Stamane, mentre il cannone tuonava da San Giorgio, il colonnello
tuonava dalla sua camera. Era pieno di stizza per lo spreco di polvere
che si faceva da un capo all’altro della penisola, s’arrabbiava con
sè stesso che aveva potuto prender sul serio simili bambocciate, e
perfino dopo essere stato messo in pensione aveva continuato per due
o tre anni a vestire in questo giorno la sua uniforme e a sfoggiare
le sue medaglie. Ma oramai egli lasciava che lo stato maggiore della
_territoriale_ si pompeggiasse nelle sue spalline e facesse batter sui
ponti le sciabole; non voleva aver da restituire il saluto militare
a quegli ufficialetti da burla venuti su come funghi dai negozi della
_Merceria_ e dai caffè della Piazza.

La Gegia, la solita confidente del colonnello, uscì dalla camera
intontita: — Creda a me, signorina — ella mi disse — quell’uomo finisce
matto.

Non so s’egli finirà matto; è certo che impazzirebbe chi dovesse
viver sempre con lui. Ed è certo altresì che il possedere un carattere
allegro è la più grande fortuna che ci possa esser concessa.

Oggi è venuta a farmi visita la Gemma Norini, la mia antica
condiscepola che ora è maestra comunale e che, nonostante le
innumerevoli noie della sua professione, conserva l’umore festevole che
aveva quando sedevamo sullo stesso banco della scuola.

Aveva sentito la gran novità e si lagnava, non a torto, che non gliela
avessi comunicata io. Ella però non è donna da rancori: era sicura che
non sarei partita senza prender congedo da lei. Per bacco! Andavo a
Tiflis! Un bel coraggio. Ell’era subito ricorsa ai testi e scommetteva
di saperla molto più lunga di me sul paese ove stavo per fissare il mio
domicilio.

— Fa conto — diss’io — che ne so molto poco.

— Son qua per illuminarti — ella soggiunse. — A proposito, una nipote
della mia direttrice ha il colèra. L’hanno curata coll’_ipodermoclisi_,
e pare che del colèra guarisca, ma muore della cura.... Torniamo a
noi. Tu sei capacissima d’ignorare che vai nella Transcaucasia o Russia
asiatica occidentale?...

— So all’ingrosso che vado al Caucaso e che il paese appartiene alla
Russia.... Ma la vostra scuola è chiusa per questo caso di colèra?

— No, no, la nipote della direttrice non abita mica con lei....
Siamo incaricate di vigilare sulle bimbe, sulla regolarità della loro
digestione.... mi capisci.... Ma non distrarmi.... È questa situata
(s’intende la Transcaucasia) a mezzodì del Caucaso fra il Mar Nero e
il Caspio, e forma un’altra possessione della Russia meno estesa della
prima ma più favorita dalla natura....

— Non potei a meno di mettermi a ridere: — Hai imparato la lezione....
E la _prima_? Qual’è la _prima_?

— Che _prima_?

— Oh bella! Quella prima possessione che dovrebb’essere più estesa ma
meno favorita dalla natura che la Transcaucasia?

— È giusto.... Non ci avevo pensato.... Ma niente paura.... Ho meco il
suggeritore.

La Gemma cacciò la mano in una saccoccia del vestito e ne estrasse
un volumetto, il _Nuovo compendio di Geografia teorico-pratica del
Comba_, edizione Paravia: lo aperse alla pagina 243, e dopo averci
dato un’occhiata, si picchiò la fronte dicendo: — Stupida! Dovevo
immaginarmelo: la prima regione è la Siberia... Ma adesso tieni pur tu
il libro e guarda un po’ se non sono sicura del fatto mio.

— Pazzerella! — esclamai. — Conservi sempre la tua memoria?

— Sempre. Sta a sentire; ripiglio dove abbiamo smesso. Essa (cioè
questa seconda regione) fu accresciuta nell’ultima guerra delle tre
provincie di Kars, Ardahan e Batum, staccate....

— Tira via.... tira via.... Questo m’importa poco.

— Preferisci che ti parli del clima? Ecco: dolce e salubre in generale;
il suolo fertilissimo dà i prodotti dell’Europa centrale.

— Veniamo a Tiflis.

— Ti servo subito: Tiflis, con 61 mila abitanti nella Georgia, è la
città principale, assai importante per il commercio di transito per
l’Europa e la Persia. In questa città, centro di un attivo commercio,
risiede il governatore.... Va bene?

— Benone.

— Aggiungerò poi una notizia che ho trovata in un altro libro. La
città è posta sul Kur, con sorgenti termali solforose da cui prende
il nome, che significa _città dalle acque calde_..... Nientemeno....
Tutta questa roba nella parolina Tiflis.... Ma che ti pare della mia
erudizione?

— Sei un portento....

— La geografia è stata sempre il mio forte.... Invece quella povera
Martinetti.... Te ne ricordi?

— Sì. Ebbene?

— La incontrai ieri, e avendole annunziato che vai a Tiflis, disse
pronta: In America!

— Brava! E che cosa fa la Martinetti? Non voleva tentare il teatro?

— Sì, studiava il canto al Liceo Marcello, ma non avendolo imparato, lo
insegna.

— Sei un capo ameno!... Hai un certo modo di dir le cose.... Dunque la
Martinetti dà lezioni?

— Lezioni di canto, a cinquanta centesimi l’una.

La Gemma seguitò a chiacchierare su questo tuono, rievocando gli anni
della scuola, facendomi rivivere in mezzo alle antiche compagne, non
dimenticandone una, nemmeno quelle che io avevo dimenticate da un
pezzo, nemmeno quelle ch’erano morte, o scomparse, perdute oramai nella
folla....

— Ah! — dissi, quando la mia amica fu per accommiatarsi, — se potessi
condurti meco a Tiflis, come mi parrebbe meno amaro l’esilio! Con te
non ci son malinconie....

Ella replicò con la sua aria scherzevole: — Conducimi.... pur che tuo
fratello mi sposi.... Che stampo è?

— Te lo scriverò da Tiflis.

— Eh, no — rispose la Gemma, quasi parlando a sè stessa. — Tuo fratello
non mi sposa.... È in mezzo alle Georgiane che passano per esser tra
le più belle donne del mondo.... Me non mi sposa nessuno.... Sono uno
stecco.

— Quest’è vero, ma non è una buona ragione. Non si sposano mica
solamente le donne grasse.

— Basta — concluso quello spiritello della Norini — resterò zitella....
Santa Gemma, vergine e martire.... per forza.... Ma già neanche
maritarsi come la Lucia Mazzuola per stentare il pane e far due figli
all’anno....

— Ih, che spropositi dici!... Due figli all’anno....

— Press’a poco.... Andrai a vederla....

— Senza dubbio.... Eravamo inseparabili.... Adesso si abita ai due capi
estremi di Venezia.... Prima di partire però....

— La troverai in mezzo a uno sciame di bimbi.... Oh, addio addio.... e
arrivederci, s’intende....

— Sì, arrivederci.

Io dico _arrivederci_ a tutti. E bisognerà pure che uno di questi
giorni cominci il mio giro di visite di congedo.... Non ho tempo da
perdere.

                             . . . . . . .

La passeggiata di beneficenza iniziata dalla Società del Bucintoro fu
oggi una distrazione in mezzo alle tristezze dell’epidemia. I soci,
giovani tutti, erano divisi in squadre, e annunziati da squilli di
tromba percorrevano, tra un aquazzone e l’altro (poichè il tempo era
piovoso), i vari _sestieri_ della città. Li percorrevano per terra
e per acqua nei loro agili battelli che paiono fatti apposta per
insinuarsi nei meandri de’ nostri rii. Allo squillo delle trombe la
gente s’affacciava alle finestre, usciva sulla strada, e chi dava del
danaro e chi qualche oggetto di biancheria e di vestiario; anche dalle
abitazioni più povere i bimbi e le donne portavano il loro soldo.
Curiosa popolazione! Altrettanto pronta a donare quanto a stender la
mano!

Allorchè i questuanti passarono da noi, il colonnello Struzzi non era
in casa. Non era nemmeno in paese; era a Padova per non tornare che
alla sera con l’ultima corsa, a _pagliacciata finita_, come egli disse
alla Gegia.


                                               Lunedì sera. 7 giugno.

Mi pare che la signora Celeste avrebbe dovuto avvisarmene. De’ suoi
tre inquilini io son la sola ch’ella tiene ordinariamente a dozzina, ma
oggi c’era a desinare con noi anche il professore Verdani, e sembra che
ci sarà per tutto il tempo che dura il colèra.

La signora Celeste, che ha una tenerezza particolare pel giovine
matematico, non capiva in sè dalla gioia. — Ce n’è voluto — ella
diceva scodellando la minestra; — ce n’è voluto a persuadere il nostro
professore a cambiar per qualche settimana i suoi pranzi di trattoria
con un po’ di cucina casalinga.... E scommetto che non se ne sarebbe
fatto nulla senza le inquietudini della sua mamma.... Per me, lo
confesso, oltre che l’onore, è una grande soddisfazione.... Quell’altro
di là.... — e la signora Celeste alludeva al colonnello — quell’altro
di là se vuol crepare che crepi.... Anzi, non lo vorrei alla mia tavola
per tutto l’oro del mondo.... Un accattabrighe, un basilisco....; ma il
nostro professore è una perla e lo considero uno di famiglia....

— Grazie, signora Celeste, grazie — biascicava il professore
sforzandosi invano di porre una diga a quel torrente di parole.

La signora Celeste si appellava a me, si appellava a una sua nipote
ch’è spesso sua commensale e ch’era stata invitata da lei anche oggi.
Noi potevamo testimoniare s’ella aspettava che il professore fosse
presente per discorrere di lui in questi termini.

Io che non amo queste interpellanze a bruciapelo me la son cavata con
qualche monosillabo, ma la Giulia Sereni (ch’è la nipote) spiegò una
parlantina maravigliosa tanto per confermar le cose dette dalla zia
quanto per aggiungerne altre di suo.... Anch’ella aveva una grande
ammirazione pel professore, una così brava persona e così modesta...
Una persona di cui non si sentiva dir che del bene da tutti.

Evidentemente Verdani era sulle spine, e pare che la signora Celeste
se ne sia accorta, perchè fece segno alla Giulia di smettere. Allora
la ragazza chinò in atto verecondo gli occhi sulla zuppiera e si
risolvette a mangiar la minestra.

La Giulia Sereni, ch’è direttrice d’un giardinetto froebeliano, deve
aver circa la mia età, piuttosto meno che più, e non è mica brutta,
tutt’altro; anche di modi, quando la si trova a tu per tu, è simpatica;
ma se c’è gente ha il vizio di voler far la ruota come il pavone. Sarà
forse un vizio comune. Noi usiamo montar sui trampoli per parere più
alti.

Secondo me, la Sereni sbaglia strada, ma non c’è dubbio ch’ella aspira
a far colpo sopra ogni nuova persona che le accade incontrare. Studia
i movimenti, le parole, i sorrisi, e non si lascia sfuggire nessuna
opportunità di mettere in mostra il suo mediocre corredo di cognizioni.
Oggi ha ripetuto a sazietà che non c’è al mondo un gusto maggiore di
quello d’istruirsi, e ha soggiunto, guarda che combinazione! che a lei
sarebbero piaciute immensamente le matematiche.... se il coltivarlo
non fosse stato superiore alle forze di una donna.... Ma quei risultati
positivi, quella certezza assoluta....

Il professore che fino a quel momento aveva taciuto gettò dell’acqua
fredda su questa fiamma d’entusiasmo. — Eh, cara signorina, i recenti
progressi della scienza non ci permettono più nemmeno di esser sicuri
che due e due fanno quattro.

Non so se Verdani volesse scoccare un epigramma alla sua interlocutrice
o alla scienza; so che la Giulia ne rimase un po’ sconcertata e che la
signora Celeste colse il destro per tirare il discorso sopra un tema
più alla portata della propria intelligenza. E deplorò la stramba idea
che m’era venuta di andar tra i selvaggi, in un paese di cui ella non
riusciva mai a rammentare il nome.

— Tiflis. Tiflis — saltò su la Sereni, beata di alludere per incidenza
alla Colchide, al Vello d’oro, agli Argonauti, a Giasone e a Medea
e di fare altre citazioni erudite per uso del professore che parve
divertirsene mediocremente. Allora la nipote della mia padrona di casa
lasciò la mitologia per la didattica e domandò l’opinione di Verdani
sul metodo Froebel.... Ma Verdani confessò che il metodo Froebel lo
conosceva appena di nome.

Se, come io mi son fitta in capo, la Sereni, d’accordo con la zia,
considera il professore quale un marito possibile e s’adopera per
conquistarlo, bisogna convenire che le prime avvisaglie non furono
fortunate. Vedremo in seguito.... Che la Giulia sia una donna adattata
pel professore, questo no e poi no. Del resto, a me la cosa non deve
importare nè punto, nè poco; anzi se la Sereni riesce a sposarsi ne
sarò contentissima per lei.... Ne ha tanta voglia!


                                                 Mercoledì, 9 giugno.

Oggi sono passata a informarmi d’una vecchia amica di mia madre, la
signora Della Riva, ch’è malatissima. Mi ricevette la figliuola,
l’Augusta, un’altra delle mie condiscepole. Povera Augusta! Son
quindici notti che non va a letto, son quindici notti che lascia
appena per pochi minuti la camera di sua madre. E non c’è speranza,
pur troppo, non si tratta che di prolungare la vita per alcuni giorni,
forse per alcune ore. Nel dirmi così, l’Augusta appoggiò la testa
sulla mia spalla, e mi ricordò il tempo in cui le nostre due mamme,
sane e robuste tutt’e due, ci conducevano insieme ai Giardini. Anche
la mia amica resterà molto sola; non ha che un fratello il quale
viaggia spessissimo per affari. È vero ch’ella crebbe al fianco di
questo fratello, è vero ch’ella lo conosce a fondo, è vero ch’ella
non lascia il proprio paese.... Il suo caso è ben diverso dal mio.
All’annunzio della mia prossima partenza pel Caucaso, ella non potè
trattenere un’esclamazione dolorosa. — Fin laggiù te ne vai! — Tu non
ci anderesti? — io chiesi. Ella rispose con enfasi: — Con un uomo a cui
volessi bene, andrei fra gli Ottentotti, ma se no.... — S’interruppe,
e temendo di essere stata troppo brusca, troppo recisa, soggiunse: — A
ogni modo, chi sa? Bisogna trovarsi nelle circostanze.... Ci rivedremo,
non è vero?

— Sì, sì.

Mi mossi di là con un’impressione singolare nell’animo. Se v’è una
figliuola buona, affettuosa, sollecita è certo l’Augusta; se v’è
dolore sincero è il suo.... Eppure, o io m’inganno, o l’acerbità
di questo dolore è temperata in lei da qualche gioia, da qualche
speranza segreta; persino il suo viso pallido e smunto mi apparve
oggi trasfigurato.... In collegio, rubiconda e fiorente, era proprio
bruttina, più brutta di me che non sono una Venere; oggi, a’ miei occhi
almeno, era bella, e giurerei che sarebbe tale anche agli occhi degli
uomini.... Dicono che l’amore soltanto opera di questi prodigi; ch’ella
ami, che sia amata?

A casa m’aspettava una gradita sorpresa. La Gegia mi consegnò un
libro francese lasciatole per me dal professore Verdani. S’intitola:
_Le Caucase et la Perse_, e ha un segno al principio del capitolo che
tratta di Tiflis — Ne ho già scorso alcune pagine.... La descrizione
che vi si fa del mio futuro soggiorno è meno sconfortante ch’io non
credessi; tuttavia quanto stenterò ad avvezzarmici, quante volte
fra quei Georgiani, quegli Armeni, quei Persiani e quegli Europei
semibarbari correrò col pensiero al mio popolo arguto e gentile, al
molle e melodioso dialetto delle mie lagune!

L’attenzione usatami dal professore mi fece molto piacere e ne
lo ringraziai vivamente a ora di pranzo. — Non vale la spesa di
ringraziarmi per così poco — egli disse: — se il libro non appartenesse
alla biblioteca della Scuola, la pregherei di portarselo seco: però è
libera di tenerselo fino al giorno della sua partenza.

Sarà una pura combinazione, ma è un fatto che, senza la Sereni, ce la
passammo più allegramente. Il professore aveva dimesso ogni sussiego, e
discorreva di tutto con la facilità e col garbo d’un uomo altrettanto
ricco d’istruzione quanto scevro di pedanteria. Capisco che la sua
timidezza è più apparente che reale; è la timidezza d’un uomo non
avvezzo a perdere il suo tempo nei salotti eleganti, nè a sciupare il
suo ingegno nelle giostre di spirito. Dev’essere un insegnante modello;
ha la parola chiara, sobria, precisa, di quelle che scolpiscono
l’idea....

Verso di me egli fu cortesissimo anche oggi, e nell’ipotesi assai
verosimile ch’io vada a imbarcarmi a Trieste per evitare le quarantene,
mi offerse una lettera per un parente di sua madre che abita in quella
città e potrebbe venirmi a prendere alla stazione e accompagnarmi
fino a bordo del vapore del Lloyd, e raccomandarmi in particolare al
capitano.

— Bah! — disse la signora Celeste, — io spero che la nostra Elena resti
con noi.

— O come? — esclamai.

— Giurerei che suo fratello ha mutato idea.... Vede che non le scrive
ancora.

— Cioè la lettera non può essere ancora arrivata — io soggiunsi. —
Se mutasse idea sarei in un bell’impiccio.... Dopo aver preso una
risoluzione di questa natura, il meglio è di poterla mandar presto ad
effetto.

— Ha quasi furia di piantarci.... Eppure si persuada che il suo è
stato un colpo di testa.... Una ragazza de’ suoi meriti avrebbe trovato
non uno ma mille modi di vivere onoratamente a Venezia.... Adesso, si
capisce, col colèra tutto è difficile.... ma non ha mica da durar molto
questa maledizione.

Io ero troppo commossa da replicar nulla. Davanti alla gente faccio
la disinvolta, dico che vorrei esser fuori di questo pensiero, giunta
ormai alla mia destinazione; ma poi dentro di me provo un affanno, uno
struggimento!...

Il professore fece un’osservazione giusta. Egli dichiarò che, secondo
lui, con un po’ di buon volere si può trovarsi tollerabilmente
dappertutto, giacchè noi portiamo in noi stessi il segreto della nostra
felicità o infelicità.

— Dunque — domandò la signora Celeste — lei approva il partito preso
dalla signorina?

— Non ho il diritto di approvarlo nè di disapprovarlo — rispose
Verdani; — le auguro e spero ch’ell’abbia sempre a lodarsene.

Era un’idea cortese, cortesemente espressa. Ma noi siamo
incontentabili. Avrei preferito che il professore mi biasimasse....
Perchè?... Non lo so neanch’io.


                                                  Giovedì, 10 giugno.

Grande scompiglio nelle vicinanze. C’è un caso di colèra in una _calle
che_ sbocca nella nostra. Una donna, moglie d’un gondoliere, fu colta
iersera dai primi sintomi della malattia e oggi è in fin di vita.
Non volle lasciarsi trasportare all’ospedale; quindi la posero sotto
sequestro, isolata dal rimanente della famiglia. Il marito viene ogni
tanto dal suo _traghetto_ a prender notizie, e forse por ingannare il
dolore è sempre ubbriaco, e urla contro il municipio, contro i signori
e contro i medici; i figliuoli son dispersi per la strada, confusi con
altri monelli della parrocchia. Noi sentiamo dalla finestra i commenti
romorosi delle donnicciuole. Come il solito, l’inferma s’è procurata
lei stessa il suo male. Ha mangiato questo, ha mangiato quello;
un piatto d’insalata verde secondo _siora_ Beta e una _granseola_
secondo _siora_ Barbara; ha camminato per la casa a piedi scalzi, ha
bevuto sei bicchieri d’acqua di fila. Dopo di lei la colpa ce l’ha il
dottore ch’è venuto tardi, che non le ha permesso di prendere il sal
di canale ch’era la sua medicina ordinaria, indicatissima pei disturbi
di visceri, che l’ha costretta a bevere alcune goccie di quel liquore
denso, nerastro che chiamano laudano, che finalmente l’ha spaventata
con quella maledetta denuncia e col sequestro.

La signora Celeste la quale finora non aveva mostrato d’esser paurosa,
oggi è in un’agitazione estrema, un’agitazione che le fece persino
andar di traverso la parrucca. Una scena comica nella sua violenza
successe fra lei e il colonnello attraverso il buco della chiave. Ella
pretendeva disinfettargli la camera e tenendo in mano una vaschetta
d’acido fenico diluito nell’acqua picchiò due volte all’uscio del suo
amabilissimo ospite.

— Chi è? — ruggì l’orso dal di dentro.

— Sono io.... Mi permette d’entrare?

— Entrare?... Perchè?... Che cosa vuole?...

— Ma.... Glielo dirò meglio se apre....

— Non apro.... Dica prima....

— Ecco.... vorrei.... spargere un po’ d’acido feni....

Il colonnello non le lasciò terminar la parola.

— Via subito.... Ah vorrebbe appestarmi la camera.... Non ha già
appestato abbastanza la casa?

— Sia ragionevole, signor colonnello — insisteva la signora Celeste. —
Lo sa che abbiamo il colèra a due passi?

— Che colèra?... Non c’è colèra.... E se c’è, tanto meglio....

— Signor colonnello.... Faccia il piacere.

E la signora Celeste tentò girare la gruccia dell’uscio.

Ma il colonnello si precipitò alla difesa, tuonando come tutta una
batteria di cannoni: — Vada via, e presto, o vengo fuori io col
revolver....

— Madonna Santa, aiuto! — gridò la signora Celeste sbigottita. — E
corse a rifugiarsi nella mia stanza, tacciando cader la vaschetta
dell’acido fenico che si sparse pel corridoio e avrà certo distrutto
una quantità immensa di microbi.

                             . . . . . . .

Quest’episodio, illustrato dalla signora Celeste con gran lusso di
gesti e suoni imitativi, fece le spese del pranzo, e tenne di buon
umore anche il professore Verdani. Però a due riprese la nostra padrona
di casa trovò che si scherzava troppo sul pericolo ch’ella aveva corso.
E il pericolo durava sempre, poichè, il colonnello era suo inquilino,
e un giorno o l’altro poteva saltargli il ghiribizzo di compier davvero
un eccidio.... D’altra parte ella non osava licenziarlo.... Era un uomo
capace di non voler andarsene con le buone, e allora? Ah chi le aveva
messo in casa il colonnello Struzzi le aveva fatto un bel servizio!...
È vero che pagava puntualmente e pagava bene.... ma tant’era dar
alloggio a Satanasso in persona!

Foss’effetto dell’emozione della giornata o d’altro, subito dopo
desinare la signora Celeste principiò a piegar la testa sul petto e a
chiudere gli occhi, e non tardò ad addormentarsi profondamente sulla
seggiola. Ell’era in questo stato quando la Gegia entrò con la macchina
da caffè.

— È peccato svegliarla — diss’io a bassa voce. — Il caffè lo farò io
stessa. Chi sa che intanto non si desti da sè.... Si fida della mia
abilità? — chiesi al professore.

— Per bacco! — egli rispose celiando; — vuole che non mi fidi?

— Già, lei non se ne intende, — soggiunsi nel medesimo tuono. — Uno
scienziato...!

— Crede proprio che gli scienziati non sappiano che le cose inutili? —
egli replicò. — S’inganna a partito... A fare il caffè con la macchina
ho una speciale attitudine.

— Davvero.... Quasi quasi le cederei il posto.... Ma no, non mi fido
io.... Invece, m’aiuti.... Scusi, dia qua i fiammiferi.

Ripensandoci su, stento a capacitarmi d’aver trattato con questa
familiarità un uomo grave e studioso, un uomo col quale pochi giorni
addietro non scambiavo che un freddo saluto; è certo però ch’egli
non mostrava di trovar nulla di strano ne’ miei modi, e mi discorreva
alla sua volta come si discorre a un vecchio camerata. La confidenza
somiglia a un fiore di campo che sboccia da sè, inavvertito, senza cure
di giardiniere.

Il professore mi parlò delle sue faccende domestiche; della sua
infanzia travagliata, del padre mortogli quand’era ancora bambino, e
della sua mamma rimasta con una magra pensione la quale doveva bastare
a lei e a due figliuoli. Uno di questi, il maggiore, le recò pochi
fastidi e cominciò a guadagnarsi il pane a dodici anni, ma il più
piccolo (ed era lui quello) avea la passione degli studi, e la fece
spendere e tribolare. Ma dalle labbra dell’angelica donna non uscì
mai una lagnanza; tutte le privazioni le parevano lievi per secondare
i ghiribizzi del suo dottore in erba.... Negarsi da sè le cose più
necessarie, vendere gli oggetti più cari.... oh in verità, anche questi
fanatici della scienza sono grandi egoisti!

— Però quando riescono — io dissi — sono egoisti che compensano
largamente i sacrifizi che hanno costato.

Verdani tentennò la testa. — Non creda.... Restano egoisti.... O se
fanno anch’essi dei sacrifizi non li fanno già per quelli che s’eran
sacrificati per loro; li fanno per la scienza, la sirena che li
affascina.... E poi chi può dire d’esser riuscito?... Ah badi, badi,
signorina, spenga.

Il caffè, bollendo e gorgogliando era già salito fino all’orlo del
recipiente di cristallo: il lucignolo che avrebbe dovuto spegnersi
da sè ardeva ancora, e io non me n’ero accorta. Prima ch’io potessi
riparare alla mia dimenticanza, il tappo, spinto dalla forza del
vapore, fu slanciato in aria e una parte del caffè si rovesciò sulla
tavola. Non so come nessuno abbia riportato delle scottature. Ma la
piccola esplosione svegliò in sussulto la signora Celeste che gridò
esterrefatta; — Misericordia! Il colonnello!

Quand’ella ebbe visto di che si trattava non tardò a ricomporsi ed
esclamò in aria di persona liberata da un incubo: — Ah! non era che la
macchina.... Dunque non si prende più il caffè per questa sera?

— Ce ne sarà rimasto abbastanza da riempire una tazza — risposi,
guardando mortificata i segni del recente disastro; — una tazza da
dividersi fra lei e il professore.... Io non merito nulla.

— Neppur io — protestò Verdani. — Son io che con le mie chiacchiere ho
distratto la signorina Elena.

Ma la signora Celeste dichiarò che la maggior colpevole era lei. — Non
dovevo prender sonno.... Un giovine e una giovine quando sono a tu per
tu hanno da far di meglio che badare a una macchina da caffè.

Questo scherzo di cattivo genere mise in impiccio il professore e me
e ci guastò la serata. Il dialogo si trascinò stentatamente per una
mezz’ora; poi ognuno se ne andò dalla sua parte.


                                                         Venerdì, 11.

Giornata triste. Non chiusi occhio in tutta la notte. Avevo caldo,
avevo freddo, avevo i nervi eccitati al massimo grado. Le parole
insignificanti della signora Celeste mi suonavano sempre all’orecchio,
come un avvertimento che la mia intimità col professore doveva finire
appena nata. È destino; nessuno crederà mai ad un’amicizia semplice,
schietta, franca tra un uomo e una donna.

Come saluto mattutino la Gegia, entrando in camera, mi disse: — La
colerosa qui vicina, è morta.

Me lo aspettavo; eppure mi fece un certo senso....

Più tardi sentii una gran scampanellata e la voce del postino che
gridava dalla strada: — _Elena Givalda!_ — il mio nome!

Mi si rimescolò il sangue. Era senza dubbio la lettera di Odoardo.

No, non era quella.... Era un foglio listato di nero, una
partecipazione funebre, con l’indirizzo mio in una calligrafia che non
m’era nuova. La signora Emilia Dalla Riva morì ieri a mezzogiorno.
Avevo visto l’Augusta mercoledì e sapevo che una catastrofe era
inevitabile, ma non la credevo imminente. I funerali si faranno
domattina alle 9 antimeridiane, in chiesa San Salvatore. Ci andrò.

È ricomparsa a pranzo la Giulia Sereni e l’avremo per commensale
fintantochè non sarà tornata sua madre che si recò a Verona a visitare
una figliuola da parto. La Giulia ha ricominciato a far la smorfiosa e
la saccente col professore. Pare uno scolaretto vicino al maestro, ma
uno scolaretto che ci tiene a farsi valere come il primo della classe.
Verdani s’annoia, è chiaro che s’annoia: tuttavia, non volendo essere
assolutamente sgarbato, bisogna bene ch’egli si occupi un poco di chi
si occupa tanto di lui.

Questa benedetta lettera d’Odoardo viene o non viene?... Quanto
pagherei d’essere già partita!


                                                        Sabato notte.

Ero così stanca, così turbata, che mi son messa a letto alle nove,
rinunziando per oggi ad aprir questo libro. Ma dopo inutili sforzi per
pigliar sonno dovetti alzarmi di nuovo, e mentre a San Marco suona la
campana di mezzanotte, io son qui al tavolino, assorta in questa cura
giornaliera, che è divenuta quasi una necessità del mio spirito; tanto
può l’abitudine!

La lettera d’Odoardo.... Ma procediamo con ordine.

Prima delle nove ero in chiesa San Salvatore per assistere ai funerali
della signora Dalla Riva. Vi assistetti _incognito_, come si dice
dei principi, seduta in disparte, col viso coperto da un fitto
velo, impassibile in apparenza, ma forse più commossa delle dieci
o dodici signore che, in lutto profondo, sfoggiavano il loro dolore
ufficiale nei posti riservati ai parenti e agli amici. La cerimonia,
semplicissima, durò poco, e alle dieci e un quarto ero già a casa.

La signora Celeste mi venne incontro con una lettera in mano.

— È per me? — chiesi, appoggiandomi alla ringhiera del pianerottolo.

— Per lei.... Una lettera con tanti bolli.

— Dia qui, signora Celeste, dia qui — ripigliai ansiosa.

— Temo che sia quella ch’ella aspettava — soggiunse la mia padrona di
casa.... — Almeno suo fratello le scrivesse per mandar in fumo quello
sciagurato viaggio!

Non le badai, ma corsi a chiudermi nella mia camera con la lettera, di
cui avevo riconosciuto il carattere.

Poche righe, in stile commerciale. Lieto della mia risoluzione,
mio fratello mi consigliava d’imbarcarmi a Trieste sul vapore del
Lloyd l’ultimo o il penultimo venerdì di questo mese. Imbarcandomi
a Venezia avrei dovuto scontare la contumacia; ritardando troppo si
correva il rischio che il governo turco mettesse le quarantene anche
per le provenienze da Trieste. A ogni modo telegrafassi al momento
dell’imbarco, dirigendo il dispaccio a Costantinopoli presso il
Consolato italiano. Inchiuso nella lettera c’era un _chèque_ di mille
franchi su un banchiere di qui, a vista.

La mia paura che Odoardo non mi rimettesse che la somma strettamente
necessaria pel viaggio era, come si vede, affatto infondata.
Cinquecento lire mi bastano ad esuberanza per andar fino a
Costantinopoli; le altre cinquecento potrò spenderle qui nel modo che
stimerò più opportuno. Non ho mai avuto tanti quattrini disponibili.

Quanto pagherei d’esser già partita! — io scrivevo l’altro ieri
su queste pagine.... Sì, sì, desidererei d’esser partita, d’essere
arrivata a Costantinopoli, a Tiflis, in capo al mondo.... Sono, in
complesso, d’un umore adattabile, finirò col rassegnarmi al mio nuovo
soggiorno e al mio nuovo stato.... Ma questo periodo d’attesa m’è
intollerabile.

Eppure non potrò imbarcarmi che il 25. Ho ancora troppe cose da
sbrigare, ho troppe persone da vedere perchè mi sia dato essere a
Trieste per venerdì prossimo.

La signora Celeste, piena di curiosità, picchiò all’uscio con un
pretesto qualunque.

Io mi ricomposi in fretta, e senz’aspettare le sue interrogazioni
dissi: — Cara signora Celeste, dunque ci lasceremo prima del 25.

Ella rimase sbalordita. — Ma siamo già al 12.

— Eh, come si fa?

Proprio la signora Celeste non sapeva darsene pace. Ero in casa sua
da poco tempo, ma le pareva di conoscermi da dieci anni almeno, e
aveva preso a volermi bene come a una figliuola.... La mia mancanza
le avrebbe lasciato un vuoto, un vuoto!... Pazienza se avesse potuto
esser tranquilla sul mio avvenire, se mi avesse vista appoggiata
a qualcheduno del cui affetto per me non fosse lecito dubitare; ma
questo fratello, che per anni e anni non s’era neanche rammentato ch’io
esistessi, le inspirava una ben scarsa fiducia.... Era un gran salto
nel buio quello ch’io facevo.

— È inutile, signora Celeste — io risposi. — Sono in mano della
Provvidenza. Ormai bisogna ch’io segua il mio destino.

Ella soggiunse qualche parola sulla mia ostinazione, e se ne andò a
malincuore.

— Coraggio — diss’io fra me. — Coraggio!

E cercai di raccogliere i miei pensieri, di fare un po’ di programma
pei dieci o dodici giorni che avevo ancora da restare a Venezia, di
stabilire a quali tra lo mie amiche dovevo lasciare un ricordo, quali
tra i libri della mia piccola biblioteca dovevo portar meco, quali
oggetti indispensabili dovevo comperare prima di mettermi in viaggio.
Ma le idee più semplici mi s’ingarbugliavano nella testa, e giravo
su e giù per la stanza a guisa di smemorata, aprendo ora un cassetto
ora l’altro del mio armadio e domandandomi perchè lo avessi aperto,
accingendomi a scrivere un nome, a fare un’annotazione, e rimanendo
lì col lapis tra le dita senza poter richiamare alla mente il nome che
volevo scrivere e l’annotazione che volevo fare.

Dopo qualche ora passata così mi risolvetti a uscir di casa e a recarmi
dall’Angusta Dalla Riva.

— Grazie d’esser venuta — ella mi disse gettandomi le braccia al collo.
Poi mi prese per mano e mi fece sedere su un canapè, accanto a lei....
Dopo i primi baci, dopo le prime parole che si scambiano in queste
occasioni, ci fu, come accade sovente, un breve silenzio. Ella teneva
gli occhi bassi; io la guardavo, e l’impressione provata nella mia
ultima visita si rinnovava più vivace, più intensa. Non era possibile
ch’io m’ingannassi per la seconda volta; in quel suo viso pallido che
serbava le traccie delle veglie affannose, in quel suo viso atteggiato
a un dolore sincero balenava ogni tanto come un raggio di luce, come la
manifestazione timida, inconscia d’una gioia che si vergognava ancora
di sè, ma che, invano rattenuta, saliva saliva dal fondo del cuore a
raddolcire le lacrime, a frenare i singhiozzi.

— C’eri stamattina in chiesa? — mi domandò l’Augusta con qualche
peritanza.

— Sì che c’ero.... Non ero però nei posti riservati.

— Dunque non hai visto nessuno? Nessuno ti ha parlato di me?

— Nessuno.

— Meglio così — ella soggiunse. — Meglio che tu sappia tutto dalla mia
bocca.... E prima di giudicarmi, aspetta....

— Giudicarti? Ma tu, tu che sei tanto buona, avresti una colpa sulla
coscienza?

— Non lo so.... So che ho perduta ier l’altro la mia mamma, la migliore
delle madri, so che non dovrei pensare che a questo, che non dovrei
veder sulla terra un raggio di luce.... e che invece..... oh mi pare
un’enormità....

— Invece tu ami qualcheduno? — interruppi, chinandomi verso di lei con
simpatia.

— Come hai capito?

Io sorrisi. — Eh, non ci vuol mica molto.... Ed è questo il tuo gran
delitto?

— No, forse l’amar qualcheduno non è un delitto, nemmeno in un momento
simile; gli è che da tre giorni soltanto ho la certezza d’essere
amata, e questa certezza mi rende felice.... Ecco la profanazione....
Felice, con la mia mamma appena sepolta.... Però — soggiunse l’Augusta,
impaziente d’attenuare il proprio fallo — però la mamma prima di morire
fu messa a parte di tutto, e l’idea di affidarmi ad un uomo onesto....
un uomo a cui non avrei creduto mai di poter aspirare.... consolò la
sua agonia.

La storia m’interessava davvero, e sollecitai l’Augusta a raccontarmi
tutto.

Come render l’accento caloroso, appassionato, sincero che mi fece
apparir così efficace, così eloquente la narrazione della mia amica?

Ella disse a un dipresso così: — Sono alla vigilia di sposare il dottor
Val Sabbia, il bravo medico che a trentacinqu’anni è già primario
dell’Ospitale e possiede una delle migliori clientele della città.
Val Sabbia era stato sopracchiamato da Ranioli, il nostro vecchio
dottore, ed essendosi Ranioli infermato subito dopo il consulto,
cedette alle nostre preghiere e rimase lui stesso alla cura.... Non si
può avere un’idea di ciò ch’egli ha fatto per la mamma. Senza dubbio
ella lo aveva ammaliato co’ suoi modi soavi, con la sua rassegnazione
angelica. Veniva di giorno, veniva di sera, veniva spontaneamente
anche nel cuor della notte. A me diceva qualche volta che la _mia_
mamma gli ricordava la _sua_ mamma e che io gli ricordavo una sorella,
maritata adesso a Firenze e nata per far la suora di carità.... Dio
mio! Io non facevo più di quello che ogni figliuola avrebbe fatto al
mio posto.... Mio fratello, che aveva la famiglia sulle spalle e non
poteva trascurar gli affari, era ogni momento fuori di casa, fuori di
città; così ci trovavamo spesso soli, il dottore ed io, soli accanto
al letto dell’inferma, soli nell’aspettazione d’una crisi, soli
durante un periodo di quiete ingannevole, desolati tutti e due, egli
dell’impotenza della sua dottrina, io dell’impotenza del mio affetto...
Erano lunghi, lunghi silenzi.... Di tratto in tratto i nostri occhi
s’incontravano e io sentivo un fuoco corrermi per le vene.... Non
osavo chiedere a me stessa se l’amavo; ma stavo così volentieri vicino
a lui, ma il cuore mi balzava in petto alla sua scampanellata, al
suono del suo passo, della sua voce.... In quanto a sperare ch’egli mi
amasse, oh Elena, te lo giuro, non ci pensavo nemmeno.... Non avevo il
diritto di esser tanto ambiziosa.... Da tre settimane era impossibile
illudersi sullo stato della mamma, ed ella non s’illudeva....
Mercoledì sera, la sera del giorno che tu fosti da me, ella disse:
— So bene che non c’è rimedio... Ma muoio con una gran riconoscenza
per quelli che m’hanno assistita. — Strinse la mano a me ed a Val
Sabbia e mormorò: — Come siete buoni! — Quella notte Umberto non volle
lasciarci. Temeva un attacco più violento del solito e rimase su una
poltrona nell’anticamera. L’attacco non venne; verso l’alba la mamma
dormiva abbastanza tranquilla. — Vada a riposarsi, dottore — io gli
dissi — e... grazie. — Egli parve disposto a seguire il mio consiglio
e s’avvicinò all’uscio... Ma si fermò a un tratto, senza prendere
il cappello ch’io gli porgevo. Aveva l’aria di un uomo che non sa
cominciare un discorso.... Impacciato, lui, davanti a me?... Io stavo
lì, immobile, col cappello fra le mani.... Egli si passò il fazzoletto
sulla fronte, e principiò: Crede proprio che la sua mamma m’abbia in
buon concetto? — Lo guardai stupita. — Che domanda mi fa? In che altro
concetto potrebbe averlo dopo le prove...? — Umberto mi troncò la
frase in bocca. — E crede che se le domandassi anch’io una prova....
una prova di fiducia, grande, illimitata.... me l’accorderebbe? —
Ma per lei — esclamai — la mamma farebbe qualunque cosa.... ne son
sicura.... Però, nella sua condizione presente, che cosa può fare?
— Invece di rispondere, Val Sabbia seguitò a interrogare. — Ed ella,
signorina Augusta, che opinione ha di me? — Dio, Dio, quale tortura!...
Io non capivo più niente.... Ossia, credevo di capire.... Ma se poi
m’ingannavo.... che colpo! — Non le domando l’opinione ch’ella ha di
me come medico — egli ripigliò per meglio chiarire il suo concetto
— ma come uomo. — Oh dottore — io balbettai — che può importarle
dell’opinione di una povera ragazza quale io mi sono? — Molto me ne
importa — egli replicò enfaticamente.

— Ma la voglio schietta, sincera. — A questo punto egli parve colto
da un dubbio. — È una strana pretesa la mia, non è vero? Infatti, se
anche pensasse male di me, a me non lo direbbe. — Non ne potevo più.
Il mio cuore traboccava. — Ma perchè mi tormenta? Come può venirle in
capo ch’io pensi male di lei? Non vede che se fosse così io sarei una
creatura spregevole, indegna di quel po’ di stima ch’ella mi accorda?
— La fisonomia grave d’Umberto s’illuminò tutta. — In tal caso — egli
riprese — se appena la sua mamma si sveglia, io andassi da lei e la
pregassi di concedermi in isposa la sua figliuola, e se la sua mamma
accogliesse favorevolmente la mia richiesta, lei, Augusta, non direbbe
di no?...

Oh Elena mia, che momento fu quello! Era possibile? Non era
un’allucinazione dei sensi? L’uomo che avevo visto paziente, sagace,
affettuoso, prodigar mille cure all’essere più caro che avessi al
mondo, l’uomo che adoravo in segreto e di cui cento ragazze nobili
e ricche sarebbero state superbe di portare il nome, quell’uomo
presceglieva me, la più umile delle sue clienti, me, povera, oscura,
senza nessun fascino di bellezza e d’ingegno!... La commozione mi
tolse la parola, ma sembra che i miei sguardi esprimessero ciò che
le mie labbra, non sapevano esprimere, perchè Umberto mi cinse delle
sue braccia, e mi susurrò nell’orecchio: — Dunque, sì? — Di nuovo
mi mancò la voce e dovetti contentarmi di fare un cenno affermativo
col capo. — Mi ami? — egli proseguì. Con uno sforzo supremo riuscii
a liberarmi da quella specie di paralisi che mi annodava la lingua e
risposi: — Con tutta l’anima mia.... — Il resto già te lo immagini.
T’immagini con quale entusiasmo la povera mamma accondiscese alla
domanda di Umberto.... troppo entusiasmo forse, perch’ella era così
debole e l’eccesso della commozione accelerò la sua fine. Pur serbò
fino all’ultimo istante la lucidezza del suo spirito e con gli occhi
già spenti e con le labbra già fredde ringraziava Umberto e mormorava
il nome di lui e il mio.... Povera mamma! Povera mamma!

L’Augusta nascose la faccia sul mio petto e lasciò scorrer le sue
lacrime.... Erano lacrime di dolore per la sciagura che l’aveva
colpita, erano lacrime di gioia per la felicità che l’aspettava? Che
mistero è la vita e che diverse correnti la solcano nella stessa ora,
nello stesso minuto! Senza dubbio l’Augusta era altrettanto sincera
nel suo dolore quanto nella sua gioia, e gioia e dolore si riflettevano
nel suo viso, si ripercotevano nelle sue parole.... Io l’assicurai che
ella non aveva nulla a rimproverarsi e che se il cielo aveva voluto
mandarle una gran consolazione nei giorni dell’angoscia ella doveva
accettarla con animo riconoscente e senza tema di offendere il culto
delle memorie.... Ma in verità io predicavo a una convertita, e non
potevo a meno di pensar fra me e me alla singolarità di questa visita
ch’era principiata come visita di condoglianza e finiva come visita di
congratulazione.

L’Augusta mi mostrò il ritratto del suo sposo. È un bell’uomo dalla
fisonomia aperta, intelligente.

— E quando le nozze? — io chiesi.

— Di qui a sei mesi disse l’Augusta. — Avrei preferito compier
l’anno di lutto, ma Umberto desidera spicciarsi e mio fratello gli dà
ragione.... Che peccato che tu non debba essere qui!

— Ti manderò i miei auguri da Tiflis — soggiunsi nell’accommiatarmi.

Ah, la vita è un mistero, ma il cuore umano è mistero ancora più
grande. Mi staccai dall’Augusta con l’animo riboccante di simpatia,
lieta della sorte che l’era toccata; eppure di mano in mano che
rifacevo la strada sentiva dentro di me qualcosa d’acre, d’amaro che
modificava le mie impressioni. Mi pareva che _tante altre_ meritassero
d’esser felici come l’Augusta e più dell’Augusta, non capivo perchè
ella dovesse essere una preferita della fortuna. E sebbene arrossissi
d’un sentimento a cui non volevo dar nome d’invidia e a cui non avrei
saputo quale altro nome dare, non mi riuscì disperdere le nuvole che
s’erano addensate sul mio spirito.

A pranzo fui sgarbata, irritabile, pronta a interpretar tutto
sfavorevolmente. M’ero fitta in capo che l’annunzio positivo della mia
partenza dovesse recare una gran soddisfazione alla Giulia Sereni, e
guardandola con questa idea preconcetta credevo realmente di scorgerle
sulle labbra un risolino di trionfo. Non ch’io fossi una rivale; ero
un testimonio incomodo delle arti con cui ella tentava accalappiare
l’ottimo professore. E lui? Oh gli uomini! Anche i migliori son
vanitosi, e a forza di lodarlo, di lisciarlo, di corteggiarlo, la
Giulia raggiungerà il suo intento.... A me oggi egli rivolse alcune
parole cortesi di rammarico; poi nulla più. Invece la signora Celeste
non la finiva con le sue lamentazioni, e lasciò perfino cader due
grosse lacrime nella minestra.

Dio buono! Quante pagine ho riempiuto! E sono già le tre del mattino.
Bisogna smettere.


                                                  Martedì, 15 giugno.

Nè ieri, nè ier l’altro non ho potuto metter penna in carta, tanto
fui occupata tra visite, spese e brighe d’ogni maniera. Vidi domenica
anche la Lucia Mazzuola, quella di cui la Norini dice che partorisce
due volte all’anno. È innegabile che il suo esempio non invoglia
al matrimonio. La trovai in mezzo a cinque marmocchi e incinta per
giunta. E com’è mutata! Era tanto bellina, e adesso ha perduto gran
parte dei suoi capelli, ha gli occhi smorti, le carni flosce e il
colorito terreo. Ha pei suoi bimbi una tenerezza rabbiosa che si sfoga
sgridandoli, sculacciandoli, urlando come un’ossessa a ogni birichinata
che fanno, a ogni pericolo che corrono. — Non ne posso più — ella mi
disse — non ho un’ora di pace, nè di giorno nè di notte.... E si stenta
a vivere, sai, co’ bei guadagni che ci sono.... Pensare che ci son di
quelli che han paura del colèra.... Per me, se mi capitasse, sarebbe
una gran liberazione.... Quieto Mino;... Maria, non toccare quella
sedia;... no, Tullio, non arrampicarti sul canapè;... ho detto di
no.... e quell’altro che tira il cordone della tenda.... no, no.... ah
Vergine Santissima, voi non ne avete avuti cinque figliuoli.... avete
già tribolato abbastanza con uno solo.

E queste esclamazioni erano intermezzate da _pif puf_ a destra e a
sinistra con l’inevitabile accompagnamento di pianti e singhiozzi
infantili.

— La festa è peggio che mai — notò la Lucia — perchè non posso mandarne
a scuola nessuno.

Non rimasi dalla mia amica che un quarto d’ora, quel tanto che bastava
per informarla della mia partenza e congedarmi da lei. Ella non deve
neanche aver capito ch’io vado così lontano. — Buon viaggio — mi disse.
— Quando vieni a Venezia, se ti ricordi di me mi farai piacere.... Ma
che sia di giorno di lavoro. Arrivederci.... E non ti maritare.

Iersera, dopo parecchi giorni piovigginosi, faceva bel tempo, e la
signora Celeste mi propose di fare una passeggiata. Accompagnammo
la Giulia Sereni a casa sua, e poi andammo noi due sole solette sul
Molo. Imboccando la Piazzetta si vedeva attraverso l’arcata d’angolo
del Palazzo Ducale il solco tremulo e argenteo segnato dalla luna
sull’acqua; e la mole ardita e leggiadra dello stupendo Palazzo, e le
colonne di Marco e Todero, e la biblioteca di Sansovino spiccavano
maravigliosamente sull’azzurro limpidissimo del cielo. L’isola di
San Giorgio, in fondo, chiudeva il quadro.... Ma dal Molo lo sguardo
correva senza ostacoli fino alla punta dei Giardini e alla striscia
sottile del Lido, abbracciando tutto il bacino della Laguna e tutta
la Riva degli Schiavoni, nuotanti, per così dire, nel mite chiarore
lunare. Era un silenzio, una quiete di città abbandonata; non un
fischio di vapori, non un movimento di remi. Con le braccia incrociate
sul davanti ai loro _pontili_ i barcaiuoli gridavano macchinalmente:
_Gondola, gondola_. E nessuno rispondeva. Lontano, lontano, una barca
dal _felze_ basso e chiuso, dall’aspetto sinistro, la barca che conduce
i colerosi all’Ospitale di San Cosmo, s’avviava verso la Giudecca.

Dopo aver girato alquanto su e giù, sedemmo con la signora Celeste su
una delle panchine di marmo vicine al ponticello che congiunge il Molo
al Giardinetto. Non passava quasi anima viva; il caffè in capo al viale
era muto, buio e deserto e metteva tristezza a vederlo, specialmente
chi se lo ricordava negli anni addietro, in questa stagione, affollato,
pieno di luce e di musica.

Comunque sia, anche nello squallore presente, la mia Venezia esercitava
sopra di me un fascino irresistibile. Non mi sarei più mossa di lì;
aspiravo per tutti i pori la voluttà segreta che dà lo spettacolo delle
cose belle.

La signora Celeste rispettò per un poco il mio raccoglimento, facendomi
il gran sacrifizio di serbare il silenzio; ma quando i Mori della
Loggetta batterono le dieci, ella mi toccò la spalla e mi disse che
era tardi e che bisognava rincasare. Mi alzai come un automa, girando
gli occhi intorno ancora una volta, quasi per imprimermi nella pupilla
la tinta del cielo e dell’acqua, la linea dei monumenti, e ogni
particolare della scena incantevole che forse non avrei più riveduta.

In Merceria fummo raggiunti dal professore Verdani che rincasava
anch’egli e che ci si pose al fianco. Era inquieto per l’inquietudine
della sua mamma, la quale non voleva persuadersi che il colèra fosse in
diminuzione, e insisteva per venire a Venezia presso il figliuolo.

— Questo non posso permetterlo — egli disse — ma capisco che mi
toccherà domandare una licenza di due o tre giorni e fare una corsa a
Bologna.

— Va via?... Quando? — esclamai, dolorosamente colpita dalla notizia.

— Oh! — rispose il professore. — Forse alla fine della settimana....
Lunedì sera al più tardi sarei di ritorno.... Ella non sarà mica
partita?

— Io?... No.... non credo — balbettai confusa.

— No certo — egli soggiunse. — Basta che parta il giovedì.... Mi
dorrebbe troppo ch’ella partisse senz’averla risalutata.

La signora Celeste affermò energicamente ch’io non dovevo partire che
all’ultimo momento.... seppur partivo. È inutile; la signora Celeste
non vuol rinunziare alla speranza ch’io rimanga a Venezia.

Fra una chiacchiera e l’altra si giunse a casa e ci scambiammo la buona
notte. Il professore mi diede mia stretta di mano all’inglese.

Non avevo sonno e cominciai a fare il mio baule nel quale posi anche
dieci o dodici libri che desidero portar meco; un piccolo Dante,
un’edizione completa del Manzoni, la _Gerusalemme_, le _Odi barbare_
del Carducci, un volumetto di poesie dello Schiller tradotte da!
Maffei, ecc., ecc. Il resto della mia minuscola biblioteca lo regalerò
alla Norini, la lettrice infaticabile. È vero ch’ella mi rivolse
un giorno questa singolare domanda: — Avresti da prestarmi un libro
immorale? — E poichè io inarcavo le ciglia, ella insistè: — Sì, uno
di quei libri che non si mettono in mano alle ragazze.... Non ti
scandalizzare. Noi maestre siamo inzuppate fradicie di moralità....
I nostri manuali scolastici sono così noiosamente virtuosi.... I
discorsi che facciamo alle nostre allieve, quelli che sentiamo farci
dalle autorità competenti sono uno stillato di così sante massime, che
qualche volta, per amor dei contrasti.... capisci....

Non so che dire; i libri che lascerò alla Norini non sono immorali....
S’ella non vorrà leggerli, pazienza.... Li serberà per memoria.

                             . . . . . . .

Una futile ragione mi tenne alzata iersera più tardi del consueto. Sul
punto di coricarmi mi parve che la mia camera avesse bisogno d’aria e
spalancai le imposte. Naturalmente la luce interna si riflettè sulla
muraglia sgretolata della casa dirimpetto, di là dalla calle ch’è
larga forse un paio di metri, e vi segnò sul fondo scurissimo la sagoma
rettangolare della finestra in mezzo alla quale spiccava la mia ombra.
Nè ciò avrebbe fermato la mia attenzione; ma a sinistra, poco più in
là, sulla stessa muraglia di fronte vidi un altro rettangolo luminoso
e in mezzo ad esso un’altra ombra, come il busto di un uomo seduto e
assorto in qualche grave occupazione. Sulle prime restai perplessa. O
di dove veniva quella luce? E che corpo proiettava quell’ombra? Però
non tardai a raccapezzarmi. Proprio alla sinistra, due stanze dopo la
mia, c’era la camera del professor Verdani. È chiaro ch’egli era alzato
com’ero io, e che aveva, come me, voluto prendere una boccata d’aria
prima di mettersi a letto. L’ombra mutò posizione e anzichè d’una
persona seduta parve quella d’una persona affacciata al davanzale. Noi
non potevamo vederci, il professore ed io, chè ce lo avrebbe impedito
anche di giorno la cappa d’un camino posta fra le due finestre;
tuttavia giurerei che a due riprese egli abbia proteso la testa dalla
mia parte. Del resto, io feci lo stesso. Di nuovo l’ombra si mosse e
ora s’ingrandiva ora s’impiccioliva sul muro, come avviene d’un corpo
che ora s’avvicini ora si discosti da un punto luminoso. Certo il
professore camminava su e giù per la stanza. Tendendo l’orecchio nel
silenzio profondo avrei giurato di sentire il suono de’ suoi passi. Due
volte ebbi la tentazione di gridare: — Buona sera, professore; — due
volte il saluto mi morì sulle labbra. Alle undici e tre quarti richiusi
le imposte.


                                           Mercoledì sera, 16 giugno.

Spese e visite, visite e spese; ecco il bilancio della giornata. Ho qui
schierati sul mio tavolino cinque o sei gingilli che regalerò alle mie
amiche; roba, s’intende, di poco valore, quale può essere donata da una
povera diavola come sono io. In tempi ordinari i bottegai mi avrebbero
servita con la massima flemma del mondo; oggi invece gareggiavano
di zelo e di sollecitudine. È un piagnisteo generale.... Il paese è
deserto; si apre e si chiude il negozio senza veder anima viva.... E
tutti hanno bisogno di prendersela con qualcheduno; coi cittadini che
partono o coi forestieri che non vengono, col Municipio, col Governo,
coi bollettini sanitari, con le quarantene, coi medici e persino con
gli ammalati. E, a rigore, gli ammalati sono i più colpevoli.... Se non
ci fossero, loro!...

Oggi, a pranzo, il professore entrò in salotto ch’eravamo già sedute
a tavola. Nel darmi la mano e nel prendere il suo posto fra la Giulia
e me, egli arrossì visibilmente e son certa d’aver arrossito anch’io.
Perchè? Ci vergognavamo forse d’esserci spiati a vicenda? Ero in
procinto di dirgliene qualche cosa; ma la Sereni ci aveva piantato gli
occhi addosso, e preferii di tacere.

Gran pedante quella Giulia Sereni! Da un paio di giorni, senza dubbio
per farsi bella col professore il quale dichiarò sere addietro di non
aver perduto ogni gusto per la poesia nemmeno dopo essersi consacrato
agli studi scientifici, ella infarcisce i suoi discorsi di citazioni di
versi. Se la zia non la fermava in tempo, oggi ci avrebbe data una vera
accademia di declamazione. Per fortuna quand’ella intuonò il celebre
sonetto del Carducci: _T’amo, o pio bove_, la signora Celeste, che
non ne poteva più gridò: — Auff! Anche il manzo adesso.... Mangialo il
manzo, e non ci romper le scatole!...

Quest’uscita molto prosaica e plebea tarpò l’ali della nostra Saffo.

È inutile ch’io lo nasconda, la Sereni mi va diventando proprio
antipatica. Forse non le perdono l’effetto disastroso ch’ella produce
sulle mie facoltà intellettuali. Non fui mai una ragazza prodigio,
e tante disgrazie, e tante incertezze dell’avvenire e più di tutto
quest’incubo di dover lasciar per sempre il mio paese son fatti apposta
per smorzare in me ogni vivacità ed ogni brio; a ogni modo, non sono
una stupida; ma in presenza della Sereni il mio spirito s’intorpidisce
e la mia lingua s’inceppa. La sua gran parlantina mi rende muta.
Peggio poi quand’ella colma Verdani di moine e d’elogi, quando approva
clamorosamente ogni opinione ch’egli esprime. Allora il dispetto mi
vince, ed è molto se si riesce a cavarmi di bocca un _sì_ o un _no_.
Pur troppo m’accorgo che ho un pessimo carattere, cosa della quale
non m’ero accorta sino a questo momento. È ben vero che il conoscere
a fondo se stessi è tanto difficile quanto il conoscere a fondo gli
altri.

Per esempio, il difetto della curiosità non credevo d’averlo. Eppure,
solo una persona curiosa può fare ciò ch’io feci iersera.

Sulla mezzanotte, senz’accendere il lume, scesi dal letto, infilai la
vestaglia, e dopo aver aperto delicatamente un’imposta insinuai pian
pianino la testa fra i due battenti. Volevo vedere se il professore
era desto, se aveva la finestra chiusa o spalancata, se lavorava.... E
vidi infatti la luce che veniva dalla sua camera brillar sulla muraglia
dirimpetto, e in quella luce muoversi l’ombra del mio vicino.... Su e
giù, su e giù come la sera prima.... Curioso modo di studiare che ha il
professor Verdoni!... E, come la sera prima, vi fu un momento in cui
egli si affacciò al davanzale.... Istintivamente raccolsi intorno al
petto le pieghe della mia vestaglia e trattenni il respiro finch’egli
non si fu allontanato....


                                                    Giovedì sera, 17.

_Se fossi stato Lear, avrei preferito Cordelia._ Queste parole dette
qualche ora fa da Verdani non mi possono uscir dalla mente. Le provocò
la Giulia Sereni con la sua nullità e con la sua pedanteria. Oggi
ella volle darci un altro saggio della sua erudizione di frontispizi
citando lo Shakespeare.... Oh Shakespeare!... Il divino Shakespeare....
Pareva che fosse stato un suo amico d’infanzia.... E io sarei pronta
a scommettere ch’è molto s’ella ha sentito il monologo dell’_Amleto_
recitato da un dilettante d’una delle nostre società filodrammatiche.

Il professore fece del suo meglio per lasciar cadere il discorso
mostrando invece d’interessarsi grandemente alle spiegazioni date
dalla signora Celeste sui diversi modi di preparar la salsa di
pomidoro; ma l’insistenza della Sereni lo costrinse a uscire dal suo
riserbo. E parlò dello Shakespeare come sa parlar lui; breve, chiaro,
efficace. Io stavo a sentirlo incantata, ammirando sempre più quella
sua cultura così varia e così ricca e nello stesso tempo così aliena
da ogni ostentazione. Verdani non è soltanto un matematico; è anche
un letterato e un artista. E quando s’accalora in un argomento, come
l’ingegno gli brilla negli occhi, come la sua fisonomia non regolare
diventa bella ed espressiva! Figuriamoci se la Giulia non andò in brodo
di giuggiole! Ah che fortuna per una giovine desiderosa d’istruirsi il
poter gustare di quando in quando la conversazione del professore! Ci
s’imparava più che in tutte le scuole, più che da tutti i libri. Non
c’era un dubbio ch’egli non sapesse risolvere, non c’era un soggetto su
cui egli non gettasse un raggio di luce.

In fin dei conti quella disgraziata della Giulia non diceva nulla in
cui io non convenissi con lei, ma, al solito, la sua enfasi da prima
attrice chiudeva la bocca a me e m’impediva perfino di fare un moto
d’assenso col capo. Me ne crucciavo in cuor mio inutilmente; c’era
qualcosa che paralizzava la mia volontà.

La Sereni ebbe un sorrisetto da donna superiore. — Io compiango quelli
che non sono accessibili all’entusiasmo.

All’allusione manifesta mi scossi, deliberata a difendermi; ma non
n’ebbi il tempo; chè Verdani, senza rilevare, almeno apparentemente, la
frase della sua interlocutrice, tornò a discorrere di Shakespeare.

— E il _Re Lear_! — egli chiese alla Sereni. — Conosce il _Re Lear_?

La Giulia non ebbe il coraggio che avrei avuto io di rispondere che
non l’aveva neanche sentito a nominare, e disse che lo conosceva....
già.... un magnifico lavoro.... era però tanto tempo che l’aveva letto!

— _Lear!_ — ripigliò Verdani. — Una concezione superba.... Se ne
ricorda?... Il vecchio re, sazio d’anni e di gloria, vuol liberarsi
dalle cure di Stato e dividere i suoi domini fra le tre figliuole,
Gonerilla, Regana e Cordelia. Senonchè egli desidera prima udir dalle
loro labbra fino a qual punto esse l’amino. Gonerilla e Regana non
hanno limiti nelle loro manifestazioni di tenerezza; esse protestano
di amar l’autore dei loro giorni più della luce degli occhi, più
della libertà, più della vita. Ma l’amore di Cordelia ha la verecondia
degli affetti sinceri e sdegna queste iperboli bugiarde; ond’ella, la
prediletta del padre, non sa che abbassare il capo e tacere. E Lear,
accecato dalla vanità e dall’orgoglio, la priva del suo retaggio, la
maledice, la scaccia da sè....

Verdani s’arrestò per pochi secondi; quindi soggiunse lentamente e
quasi scandendo le sillabe: — Se fossi stato Lear, avrei preferito
Cordelia.

Nel dir così, egli fissò il suo sguardo penetrante prima sulla Giulia
e poscia su me. Ella si morse il labbro; io sentii un’ondata calda di
sangue salirmi dal cuore alla faccia; sentii una dolcezza ineffabile
corrermi per le vene. Non pronunziai parola, ma Verdani deve aver letto
certo ne’ miei occhi la mia infinita riconoscenza.

Per oggi il vecchio Lear fu rimesso a dormire, e ignoro quali altre
vicende gli siano toccate. Più che di lui mi premerebbe saper di
Cordelia.... Le fu resa giustizia?


                                                  Venerdì, 18 giugno.

Verdani doveva partir questa sera alle 11; invece partì questa mattina
per tempo lasciando alla Gegia un biglietto per me. — Il professore mi
raccomandò caldamente di consegnarglielo in proprie mani — mi disse la
Gegia con quell’aria misteriosa che sogliono assumer le serve nel fare
un’ambasciata.

In quanto al biglietto esso non conteneva che poche righe: “Cara
signorina Elena. Anticipo la partenza per poter anticipare il ritorno.
Le comunicherò allora i motivi della mia improvvisa deliberazione.
Pensi qualche volta a me in questi giorni, e mi creda suo
affezionatissimo _Gustavo Verdani_.„

Perchè Verdani mi scrive? Perchè mi offre degli schiarimenti ch’io non
ho alcun diritto di chiedere? E quel suo invito a pensare a lui è una
pura formalità o è qualcosa di più? E che motivi saranno quelli a cui
egli accenna?

Ecco le domande ch’io rivolgo a me stessa da questa mattina in poi
e alle quali non mi vien fatto di rispondere. Il meglio sarebbe non
curarsene più che tanto, e aspettar dalla bocca di Verdani la chiave
dell’enigma. No, meglio ancora sarebbe non aspettar nulla, sfuggire
delle spiegazioni inutili.... Dio buono! Io avrei bisogno di calma,
avrei bisogno di chiamare a raccolta le mie forze per dare un addio
triste, ma dignitoso alla patria e agli amici, e invece noto in me i
segni precursori della tempesta.... Ma è possibile?... Io proverei per
Verdani un sentimento diverso dalla semplice amicizia? Alla vigilia
di partire per sempre io lascerei divampar quest’incendio nel mio
cuore? Eppur fino a un paio di giorni fa io non lo consideravo che
come un amico, un amico leale il cui ricordo pieno di soavità mi
avrebbe accompagnata nell’esilio.... Mercoledì soltanto le sue parole,
i suoi sguardi mi turbarono profondamente.... Oh s’egli lo sapesse,
come se ne dorrebbe!... Egli è un onest’uomo, non può volere il male
di nessuno.... Ma allora, perchè quel biglietto, perchè quella frase:
_pensi qualche volta a me_?... Ch’io mi fossi ingannata sul conto
suo, ch’egli fosse uno dei soliti libertini ai quali piace scherzare
col fuoco, certi ch’esso abbrucia gli altri e non loro?... Ma io, io
non sono forse la prima colpevole? Non dovevo accorgermi del pericolo
che mi sovrastava? Non dovevo sapere, a venticinqu’anni compiuti, che
questo povero cuore di donna è debole contro le insidie, è facile
alle illusioni, e che, solo chiudendosi alteramente in sè stesso,
può evitare di essere insidiato ed illuso? Non dovevo a ogni modo
arrestarmi a tempo in una via senza uscita? Dalle mie inquietudini, dai
miei dispetti, dalla mia avversione esagerata per la Giulia Sereni non
dovevo capire che camminavo sopra un vulcano?

                             . . . . . . .

Sono una sciocca. Ho riletto or ora il bigliettino del professore.
Certo fu in lui un atto cortese lo scriverlo, ma egli ha riparato a
questa esuberante gentilezza scrivendolo così asciutto, così conciso
che ci vuol proprio uno sforzo di fantasia a supporvi un significato
recondito.... Tanto meglio dunque.... O tanto peggio?... Dio mio, Dio
mio.... Sono giunta al punto di non saper più ciò che devo desiderare e
ciò che devo temere?


                                                          Mezzanotte.

Per distrarmi acconsentii ad andar in Piazza stasera con la signora
Celeste per aspettarvi il ritorno dei bersaglieri dal Lido. Al Lido s’è
festeggiato, come si festeggiava oggi in ogni distretto militare della
penisola, il cinquantesimo anniversario della istituzione di questo
Corpo divenuto così popolare in Italia.

Piovigginava e non c’era gran folla. I bersaglieri, approdati sul Molo,
percorsero la Piazza con fiaccole accese fra gli applausi e i fuochi di
bengala. Fu un divertimento che durò dieci minuti.

A ben altro spettacolo avevo assistito, di ben altro entusiasmo gli
stessi bersaglieri avevano fatto palpitare il mio cuore di bimba il 19
ottobre 1866, all’ingresso delle truppe italiane a Venezia. È una delle
memorie più vivaci della mia infanzia.

Mi par d’essere all’angolo delle Procuratie Nuove, in fianco del
campanile, con la mamma e col babbo, in mezzo a una calca di gente
ch’io vedevo muoversi e ondeggiare sotto di me, perchè il babbo,
alto di statura, m’aveva presa in collo e messa a sedere sulla sua
spalla. Io guardavo incantata i battaglioni che mi sfilavano dinanzi,
guardavo le bandiere tricolori che gonfiate dal vento si svolgevano
dalle antenne di San Marco in magnifici panneggiamenti, e le signore
che dalle finestre agitavano i fazzoletti, e gridavo anch’io come gli
altri: _Viva, viva!_ A un tratto s’udirono degli squilli di tromba e
tutta quella moltitudine si agitò, muggì come un mare in burrasca e una
voce corse per tutte le bocche: _I bersaglieri, i bersaglieri_. Fummo
travolti dalla folla, sospinti di qua e di là, fin che ci trovammo,
non so come, pigiati contro una colonna. Intesi dopo che s’era corso un
gran pericolo; il babbo aveva temuto di non poter tenermi in equilibrio
e la mamma che gli si aggrappava alle falde del vestito era stata sul
punto di esser separata da noi e rovesciata a terra. Ma allora chi ci
badava? Una vispa schiera di piccoli demoni (li ho sempre davanti agli
occhi) dalla faccia abbronzita, dalle uniformi turchine, dai grandi
cappelli piumati, si precipitava dal Molo in Piazzetta sollevando
sul suo passaggio un urlo frenetico: _Viva, viva i bersaglieri!_ E io
battevo le mie manine e ripetevo: _Viva, viva i bersaglieri!_... Ah chi
direbbe che da quel tempo son passati quasi venti anni?... Povero babbo
e povera mamma mia, voi non siete più adesso al mio fianco, e io sono
alla vigilia di abbandonare le vostre tombe!

Questi pensieri mi si affollavano nella mente durante la pallida
festa di questa sera. E pensavo anche: Quelli che vent’anni fa furono
applauditi su questa piazza dove sono adesso? Quanti ne sopravvivono?
E ove sono i plaudenti d’allora?... Gli edifizi sono rimasti immutati;
forse persino le pietre del selciato sono le stesse; le cose morte
sono quelle che cangiano meno.... Ma negli uomini è un continuo
trasformarsi, un continuo sparire.

                             . . . . . . .

Un capriccio. Ho qui sul tavolino, aperte tutt’e due, la lettera di
mio fratello e quella del professore Verdani, e ho voluto confrontarle
tra loro. La lettera di Odoardo con la sua calligrafia inglese,
commerciale, nitidissima, mi dà un senso di freddo...; l’altra....
ho un bel dire ch’essa non significa nulla; l’altra con le sue frasi
rotte, con la sua scrittura ineguale tradisce un’emozione che si
comunica a me....

                             . . . . . . .

A proposito: oggi la Giulia non ha desinato con noi. Era invitata da
un’amica.


                                                   Sabato, 19 giugno.

Non credevo in verità che la prima persona dalla quale mi sarei
congedata con tutte le regole sarebbe stato il colonnello Struzzi, il
mio turbolento vicino. Avevo smesso d’occuparmi di lui; le sue sfuriate
giornaliere con la Gegia, i suoi monologhi a voce alta non mi facevano
più nessun effetto, come a chi abita presso una cascata finisce col
non far nessun effetto lo scroscio dell’acqua. Figuriamoci se mi sarei
curata di cercarlo prima di partire.... Ma questa mattina, proprio nel
momento ch’io uscivo dalla mia camera, egli usciva dalla sua, e sfido
io, bisognò salutarsi per forza. Benchè irritatissimo per la nappa
del campanello che gli era rimasta in mano e ch’egli portava, come
corpo del delitto, a mostrare alla signora Celeste o alla Gegia, il
colonnello era, relativamente al solito, di umore mansueto.

— Signorina Giralda, — egli mi disse; — ho piacere d’incontrarla. Mi
assenterò per un paio di settimane, e poichè al mio ritorno non la
troverò più.... ho sentito ch’ella va a stabilirsi lontano.... le do
oggi il buon viaggio.

Egli mi tese bruscamente la destra, e soggiunse: — Fa bene a lasciar
Venezia.... Se potessi anch’io, anzichè per quindici giorni, andarmene
per sempre!... Questa non è una città.... sarà forse un museo!... Qui
non si mangia, qui non si digerisce, qui non si dorme;... insomma qui
non si vive.... Beata lei, signorina.... Buon viaggio, buon viaggio....
e buona fortuna.... Passi, passi pure.... io vedrò _quelle femmine_ più
tardi.

Chinò leggermente il capo, fece un mezzo giro con precisione militare
e rientrò nella sua camera, tenendo sempre in mano la nappa del
campanello.

Non lo vedrò più, ma la sua figura allampanata, i suoi modi strani, la
sua voce rugginosa non mi fuggiranno così presto dalla memoria.

Nel pomeriggio capitarono visite. Vennero le Giglietti, madre e figlia,
la figlia che al primo del mese farà gli esami di telegrafista, e non
sa darsi pace che i regolamenti abbiano voluto proibire il matrimonio
alle ragazze impiegate nei telegrafi; venne quell’originale della
Norini; venne infine l’Augusta Dalla Riva in lutto strettissimo, ma
trasfigurata dal suo amore felice. Mi parlò un poco della sua mamma
defunta, mi parlò molto del suo Umberto, delle cure delicate ch’egli le
prodiga, del quartierino ch’egli sta allestendo per lei.

Ah — esclamò l’Augusta al momento di prender commiato — io non meritavo
questa fortuna.... Possibile che non tocchi nulla di simile a te che
meriti tanto di più?... Se fossi un uomo, io!...

— Se tu fossi un uomo — risposi io sorridendo — non sposeresti il tuo
Umberto.

L’argomento non ammetteva replica, ed ella dovette darmi ragione.

Ci vedremo ancora una volta, martedì, e mi riservo a consegnarle in
quel giorno il ricordo che le ho destinato e che servirà per regalo di
nozze.

Tutte le mie amiche mi promettono di scrivermi; tutte vogliono
un’uguale promessa da me. Che corrispondenza avrebbe ad essere!...


                                                      Undici di sera.

Che cosa farà Verdani in questo momento?... — _Pensi a me qualche
volta_ — egli mi scrisse.... Ecco, io ci penso. Egli è accanto
alla sua mamma, in un salottino modesto, illuminato da una lampada
a petrolio.... la sua mamma lavora (so ch’ella ha l’abitudine di
lavorare);... egli le parla de’ suoi studi, della sua vita di
Venezia;... se le parlasse anche di me?... Stupida che non son
altro!... Il più probabile si è che a quest’ora egli sia già a letto e
dorma profondamente.

                             . . . . . . .

Oggi a otto sarò in alto mare, sola in una cabina di bastimento,
slanciata contro all’ignoto.... Penserò alla patria, penserò alle
persone care, penserò a _lui_.... È una pazzia, ma lo amo.


                                         Domenica mattina, 20 giugno.

_Lo amo._ Furono l’ultime parole che scrissi iersera, sono le prime
che scrivo stamane. Lo amo, provo una singolare dolcezza a ripeterlo.
Fino a quando durerà questo stato dell’animo, questo delirio che mi
fa trovare un’illusione di felicità in un sentimento che finirà forse
coll’essere il cruccio della mia vita?... Mi accorgo di sognare, eppur
la vaga coscienza della realtà non mi toglie la gioia del sogno. Sogno
a volte l’ebbrezza dell’amore ricambiato, a volte m’esalto nell’idea
del sacrifizio, nell’orgoglio d’una passione che si alimenta da sè, che
non spera, che non chiede, che non vuole compensi.

È strano. Quand’ero più giovine, non ancora sbalestrata dalle sventure
nel mondo senza mezzi di fortuna e senz’appoggi, ronzavano intorno
a me pure i galanti. Ho sentito susurrarmi all’orecchio delle dolci
paroline, ho visto degli occhi languidi fissarsi nei miei, ho ricevuto
dei bigliettini teneri.... Ma ne ho riso: ho sempre indovinato ciò
che v’era di poco serio in quelle calde proteste; non amai nessuno di
quelli che dicevano di amarmi.... E oggi amo chi non mi disse nulla...
o quasi nulla! È proprio vero che non si sa nè come si ama, nè perchè
si ama.

                             . . . . . . .

Egli potrebbe tornare oggi stesso.... Non mi scrisse di avere
anticipato la partenza per anticipare il ritorno?... Io non uscirò
dal mio riserbo; lo ringrazierò del suo biglietto senz’aggiungere una
sillaba, senza domandargli le spiegazioni ch’egli mi promise. S’egli
tacesse, tacerò anch’io.... Il diretto da Bologna arriva alle quattro e
mezzo.


                                                             Tre ore.

Ho pregato la signora Celeste di lasciarmi sola nella mia camera, ho
avvertito la Gegia che oggi non desideravo ricever nessuno, e dopo
mezzogiorno mi son gettata sul canapè sperando di dormire.... Chiusi
gli occhi, ma non dormii.

Tra la veglia e il sonno mi venivano all’orecchio tutti i rumori della
_calle_; le grida e il rincorrersi dei monelli, il chiaccherio delle
comari che disputavano di lotto e di colèra, il borbottar noioso d’una
mendicante ferma sulla cantonata. Poi, per la prima volta nell’anno,
mi ferì la voce nota e triste d’una persona sconosciuta, la voce d’una
venditrice di more, che fin dalla mia infanzia, in qualunque parte
della città io abitassi, sentivo offrir la sua merce con le identiche
parole e con l’identica cantilena, lenta, strascicata, patetica: —
_More, bele more da morero e da giardin. More, chi vol more?_... —
Non so dire e meno ancora saprei spiegare la malinconia che quella
voce e quella cantilena mi han sempre messa nell’anima. Ma non avevo
mai vista la venditrice di cui dimenticavo l’esistenza per nove mesi
dell’anno. Ho voluto vederla oggi. È una contadina di mezza età, tozza
della persona, con un cappellaccio nero a cencio, con un goffo vestito
di traliccio _bleu_ su cui spicca una pettorina di tela che dovrebbe
esser bianca, ma che il sugo delle more ha insudiciato di macchie tra
il rosso cupo e il violetto; in somma, tutto ciò di più prosaico che si
possa immaginare.... Valeva la pena d’alzarsi dal canapè per ammirare
questo bel tipo. E nondimeno quando il ritornello riprese _More, bele
more_, ecc.; e più ancora quando la voce andò via via allontanandosi,
ebbi il solito stringimento di cuore, la solita voglia di piangere.

Era il vespero. Le campane di San Marco suonavano a distesa. Due
colombi appollaiati sul tetto della casa di fronte spiccarono il volo
verso la piazza.


                                                          Mezzanotte.

Il professore non è arrivato. Se non arrivasse neppur domani, neppur
doman l’altro; se, invece di anticipare il suo ritorno come aveva
promesso, lo differisse fin dopo la mia partenza; se fosse trattenuto
da sua madre; se insomma io dovessi abbandonare Venezia senz’averlo più
visto?... Perchè, ormai non c’è rimedio, bisogna ben ch’io m’imbarchi
a Trieste il 25.... Con quale pretesto potrei tardare di più?... Per
aspettar lui che non si cura di me?... Per rivelargli il mio amore?...
Per mendicare il suo?... Ah no, no, sono troppo altera; piuttosto
morrei.

Del resto, se pur Verdani non viene, è impossibile ch’egli non
scriva. Non è soltanto un debito di cortesia, è un debito di lealtà.
Mi scriverà per mandarmi un saluto, per chiedermi scusa.... e questa
lettera fredda, cerimoniosa dovrà essere il mio conforto nelle
amarezze dell’esilio!... Sciocca, sciocca, che questa mattina credevo
possibile la felicità nella passione solitaria, ignorata da chi ne è
l’oggetto.... Sarà il tarlo nelle viscere, sarà l’inferno nell’anima,
sarà l’amore che si tramuta in odio....

La Giulia seguita a non comparire. Sembra che le amiche (tenere amiche)
se la disputino per averla a pranzo con loro.... Oh, ma ricomparirà
alla nostra tavola, ricomparirà certo appena torni Verdani.... Ella non
deve mica essersi data per vinta.... E forse ha ragione a persistere,
forse le sue grazie trionferanno delle ritrosie del professore, forse,
nel Caucaso, mi giungerà l’annunzio di quelle auspicatissime nozze....

Che desinare allegro fu quello d’oggi! La signora Celeste voleva
discorrere, ma io la scongiurai d’aver pietà della mia emicrania.
Allora ella divenne grave, misteriosa, e disse con piglio solenne:

— L’emicrania.... Uhm!... Domani sarà passata.


                                                  Domenica, 4 luglio.

Riprendo la penna dopo quindici giorni per compiacere ad _un’altra
persona_. Io avrei preferito attendere fin che avessi l’animo più
calmo, più riposato, ma _quella persona_ mi sollecita a romper
gl’indugi, e i desideri di lei sono ormai legge per me.

Quando penso alle disposizioni d’animo con le quali cominciai questo
diario e alle disposizioni con cui lo finisco, non posso non domandare
a me stessa se io, io che ne scrivo l’ultime pagine, sono l’identica
Elena Giralda che ne scrisse le prime e se la vita serba realmente
di queste sorprese, onde chi ieri ne invocò il termine come beneficio
supremo possa oggi augurarsela eterna.

Ma non voglio perdermi in divagazioni inutili.

— Sa, il professore è venuto — mi disse la Gegia, entrando in camera
col caffè la mattina di lunedì, il lunedì 21 giugno.... oh non
c’è dubbio che mi scappi di mente la data. — È venuto con la prima
corsa....

Avevo le palpebre gravi, l’ossa peste dalla notte insonne. Mi posi a
sedere sul letto e dissimulando la mia agitazione quanto meglio potevo:
— Ah! — replicai macchinalmente — è venuto?... E sta bene?

— Bene.... bene.... E non pareva punto stanco.... Avrà riposato un’ora
al più.... poi, quando meno si credeva, si affacciò alla soglia della
cucina e chiamò la padrona con la quale ebbe un colloquio lunghetto, e
adesso è lì in salottino che aspetta....

— Aspetta?... Che cosa?...

La Gegia prese la chicchera del caffè dalle mie mani che tremavano, e
rispose: — Ma!... sembra che aspetti lei....

— Perchè dovrebbe aspettarmi? — soggiunsi, sforzandomi di far
l’indifferente.

— Questo poi non lo so.... Non ho inteso ciò che si dicessero con la
signora; ho inteso soltanto le ultime parole del professore: _La vedrò
appena alzata_.... Di chi altri poteva parlare?

Licenziai la Gegia e saltai giù dal letto. Avrei voluto esser vestita
in un attimo, e invece la mia _toilette_ mi occupò una mezza oretta
abbondante, sia che istintivamente vi ponessi più cura, sia che la
smania di far presto riuscisse, come suole, all’effetto contrario.
Rammento un nodo dovuto rinnovare tre volte, un bottone passato e
ripassato in un occhiello che non era il suo, un riccio che s’ostinava
a cadermi sulla fronte e mi tenne davanti allo specchio per un paio di
minuti.

Quando fui pronta, esitai ad uscir dalla stanza; perchè, sebbene
avessi una gran voglia di salutare Verdani, non volevo aver l’aria di
cercarlo. D’altra parte però non era giusto ch’io rimanessi, contro le
mie abitudini, chiusa in camera fino al momento della colazione. Uscii
quindi in cappellino e mantiglia, deliberata ad andar fuori di casa per
alcune spese dopo aver dato il solito buon giorno alla signora Celeste.
Chi sa, del resto, che confusione s’era fatta la Gegia nella sua zucca
vuota? Chi sa se Verdani si sognava neanche di attendermi?

Ma la Gegia aveva colto nel segno, e il professore mi attendeva
davvero. Anzi egli doveva essere alle vedette, perchè appena sentì i
miei passi mi venne incontro tendendomi tutt’e due le mani.

— Desideravo — egli principiò alquanto impacciato, e guardando il mio
cappellino — desideravo dirle qualche cosa.... Ha urgenza di uscire? —
E poichè io tardavo a rispondere, egli insistè: — Avrei urgenza io.

— Quand’è così — susurrai con un filo di voce.

Egli m’introdusse nel salottino ove la signora Celeste stava una
parte del giorno a lavorar di calze o a leggere l’_Adriatico_ e il
_Pettegolo_, e ove io venivo di tratto in tratto a farle compagnia con
un ricamo o con un libro. Adesso la signora Celeste non c’era; eravamo
soli, il professore ed io.

Verdani mi pregò di sedere. Egli si mise a camminare in su e in giù,
come aveva camminato nella propria stanza quelle sere in cui io vedevo
la sua ombra sul muro della casa dirimpetto. Dopo un paio di giri
si fermò, s’appoggiò alla spalliera d’una seggiola e mi chiese senza
preamboli: — Quando parte, signorina Elena?

— Quando parto?... Ma.... lo sa bene.... Non più tardi di giovedì
mattina.... Se devo imbarcarmi venerdì....

— Ed è necessario, assolutamente necessario che s’imbarchi questa
settimana?

— Mio fratello mi scrisse di prendere il vapore del 18 o del 25....
Quello del 18 non l’ho preso; dunque....

— E se domandasse una proroga?...

— Al punto in cui siamo?... Dopo aver fatto tutti i preparativi, dopo
essermi accommiatata da quasi tutti i miei conoscenti?... No, no,
nemmen per sogno....

— Se poi ha tanta premura di lasciarci! — egli interruppe con amarezza.

— O professore — esclamai, e sentivo un nodo alla gola — non sia
ingiusto.... Crede che me ne vada fino al Caucaso per un capriccio?...
Avrò avuto torto ad accettar con tanta precipitazione l’offerta di mio
fratello, ma si metta al mio posto.... al posto d’una ragazza che non è
coraggiosa, che non è forte, che non ha spirito d’iniziativa.... Vedevo
non lontana la miseria, l’umiliazione di ricorrere alla carità degli
estranei, e afferrai la prima tavola di salute che mi fu gettata....
Ormai....

— E non c’è nulla, nulla che potrebbe trattenerla? — seguitò Verdani
con calore.

Mi sforzai a dissimulare con una facezia la mia crescente emozione.
— Vuol che speri in una lotteria guadagnata senza biglietti, in un
impiego ottenuto senza le cognizioni occorrenti per esercitarlo?

La fisonomia di Verdani ebbe una contrazione dolorosa. — Non c’è altro,
non c’è proprio altro?

Dio mio! Che cos’è questo riserbo che c’impone di reprimere i nostri
slanci, di nascondere i nostri sentimenti? È una virtù o è un vizio?
Io _lo_ vedevo soffrire; potevo forse con una parola dissipar le sue
sofferenze, infranger l’ultima tenue barriera che si ergeva fra noi e
la felicità, e non osavo dir quella parola, non osavo neanche guardarlo
in viso.

— Ebbene — ripigliò Verdani mutando posizione e venendo a sedermisi
accanto — scriverò a mia madre che m’ero ingannato.

— Sua madre? Come c’entra la sua mamma?

— Oh se c’entra!... Avevo affrettato la mia gita a Bologna per questo.
Volevo consultarla, lei che è tanto savia e buona; volevo comunicarle
un mio disegno.... S’ella lo disapprovava avrei chinato il capo
in silenzio, perchè non oserei far cosa di cui mia madre avesse a
dolersi.... Ma ell’approvò tutto; ella mi disse con la sua solita,
cieca fede in me: Ciò che tu fai è ben fatto; le persone che tu ami io
le amo; c’è sempre posto per esse nel mio cuore e nella mia casa....

Io tremavo come una foglia.

— Professore.... — balbettai confusa.

— Non mi chiami così — egli proruppe con impeto abbandonando la mano
ch’io avevo lasciata nella sua. E seguitò con voce raddolcita: — I
miei amici mi chiamano Verdani, mi chiamano Gustavo. — Egli scosse
tristamente il capo e soggiunse: — È vero ch’ella mi conosce appena.
Le son vissuto accanto parecchie settimane senza occuparmi di lei,
sfuggendola quasi.... Però, quando il caso ci avvicinò, quando ci
scambiammo le prime confidenze, quando la seppi sul punto di prendere
la via dell’esilio, provai dentro di me qualche cosa che non avevo
provato mai.... La mia scuola, i miei studi aridi e gelati non mi
bastavano più; sospiravo il momento d’incontrarla, sospiravo l’ora
del pranzo.... Mi pareva che ci fosse una certa analogia fra i nostri
caratteri; anch’ella era timida, era riservata come sono timido e
riservato io, e la semplicità de’ suoi modi spiccava maggiormente
per l’affettazione di altri.... sa bene a chi alludo.... di altri che
s’era pur fitto in capo di piacermi.... O signorina, se fossi stato
ricco, avrei ben vinto prima la mia ritrosia.... Ma come non esitare
se non potevo offrirle, per ora almeno, che un nome oscuro, una vita
modesta, fatta di privazioni e di sacrifizio? Ciò non ostante, lo vede,
il coraggio lo avevo trovato; ma capisco ch’era un sogno.... un bel
sogno....

Ah, in quell’istante trovai io pure il coraggio di dire a Verdani che
il suo sogno era stato il mio sogno, che quello ch’egli mi offriva
superava di molto ciò ch’io avessi osato chiedere alla fortuna, che lo
amavo....

Egli mi strinse sul petto bisbigliando con accento ineffabile: — Elena,
anima mia....

Allorchè mi sciolsi dalle sue braccia, mi sovvenne di Odoardo. — E mio
fratello che m’aspetta, che mi ha mandato il denaro pel viaggio?

— Tuo fratello? — disse Gustavo. — Gli telegraferai che non puoi
partire. Il resto glielo spiegheremo per lettera.... Ha vissuto tanti
anni senza di te; si adatterà a vivere ancora.... In quanto al danaro,
se non vorrà lasciarlo alla sorella come regalo di nozze, ho qualche
risparmio, glielo restituirò io.... Sarà il dono che farò alla mia
fidanzata.

Gustavo mi presentò come tale alla signora Celeste, la quale mi
abbracciò con trasporto, vantandosi d’aver contribuito a questo lieto
avvenimento.... Mai, mai le passò pel capo di far sposare ad un uomo
come il professore quella caricatura della Giulia.... Sarà....

Quel giorno stesso, dopo pranzo, mi parve che una nuvola oscurasse la
fronte di Gustavo, e gliene chiesi la ragione.

Egli mi rispose con un’altra domanda: — Sei ben sicura di non pentirti?

— O Gustavo....

— Fosti colta così di sorpresa!... Talvolta il cuore umano inganna sè
medesimo.... Amandomi oggi, t’è parso d’avermi amato anche prima.... Se
fosse un’illusione?

Non gli risposi; gli feci segno d’attendere, entrai nella mia camera e
ne presi questo libro, che deposi sul tavolino davanti a lui.

Egli m’interrogò con lo sguardo.

— È un libro — io spiegai — da leggere questa notte.... in quiete....
Non subito.... no.

A malgrado del mio divieto. Gustavo aveva sollevato la coperta
dell’album, e ne andava sfogliando le pagine.

— Una specie di diario?

— Appunto.

— Di tuo pugno?

— Di mio pugno.... Ma leggerai dopo... te ne prego.

Gustavo ubbidì a malincuore.

La mattina seguente lo vidi raggiante di contentezza. — O cara, cara —
egli mi disse. — Ora non dubito più.... Non puoi immaginarti che gioia
sia il sapere d’essere stati amati quando non s’era detto ancora che si
amava.

Io sorrisi. — Sì che me l’immagino, poichè è quello che è toccato a me.

— Hai ragione — egli soggiunse abbracciandomi teneramente. — Adesso
però convien scrivere l’epilogo.

Mi strinsi nelle spalle.

— Che importa? Questi sfoghi dell’anima s’addicono più ai giorni tristi
che ai lieti.

— No, no — insistè Gustavo. — È una storia intima che non può rimanere
incompiuta. Devi promettermi di finirla.

Glielo promisi. Ma non trovavo mai il verso di accingermi all’opera.
Ieri egli me ne rimproverò con dolcezza. — Se tardi troppo scriverai
di maniera. Scommetto che a quest’ora hai dimenticato molti particolari
del colloquio che decise della nostra sorte.

— Non scommettere — replicai. — Perderesti.

Fra poco darò da leggere queste pagine a Gustavo, ed egli, leale com’è,
sarà costretto a riconoscere che avrebbe perduto. Sono certa di non
aver nulla dimenticato e nulla inventato; dalla prima all’ultima pagina
la mia semplice cronaca non ha che un pregio, la sincerità.



FUORI DI TEMPO E FUORI DI POSTO.


I.

L’Università di X è da qualche tempo un po’ scaduta di credito; ma
dieci anni or sono essa era certo tra le più riputate del Regno,
e vi si contavano a dozzine i professori aventi un nome celebre
nella scienza. Nella facoltà giuridica il Bertioli, il Soreni, il
Mereghini, nella fisico-matematica il de Ziani e il Luserta, nella
medico-chirurgica l’Astigiano e il Barelli, in quella di filosofia
e lettere il Meravigli, il Dalla Volpe, il Frusti, il Teofoli, il
Canavese, il Pontevecchi, ch’era anche rettore. È verissimo che molti
di questi uomini insigni appartenevano alla classe dei professori che
chiameremmo decorativi, perchè le loro relazioni con l’Università si
limitavano a qualche lettera scritta al segretario economo per farsi
mandar lo stipendio. Il Bertioli, per esempio, era senatore e i suoi
doveri di cittadino lo costringevano a frequentare le sedute della
Camera vitalizia; il Sereni e il Mereghini erano tutti e due deputati
e avevano obblighi uguali verso la Camera elettiva; anzi il Mereghini,
nel cui cranio capace alloggiavano comodamente le legislazioni di tutti
i paesi del mondo, poteva considerarsi un’appendice del Ministero
di grazia o giustizia, ove i successivi titolari dei portafogli si
servivano di lui per l’eterno rimaneggiamento dei codici. Ciò non
gl’impediva del resto di fare all’Università una lezione ogni dicembre
annunziando la materia che avrebbe trattato e che naturalmente non
trattava nel corso dell’anno. Il de Ziani e il Luserta, onore della
facoltà matematica, ambidue senatori _in pectore_, erano anch’essi
pieni di cariche, membri dell’Accademia dei Lincei, membri del
Consiglio superiore dell’istruzione pubblica, ecc., ecc., autori
di relazioni e di programmi di studi in perfetta contraddizione fra
loro. Dell’Astigiano e del Barelli non si parla. Erano medici di fama
europea e non potevano rifiutare l’opera loro a chi li chiamasse a
consulto in Italia e fuori d’Italia. Spesso li si chiamava tutti e due
in una volta, giacchè essendo l’Astigiano profondo nella diagnosi e il
Barelli nella terapeutica poteva accadere che il primo, infallibile nel
determinare la natura del morbo, sbagliasse nel suggerire la cura, e
il secondo, senza rivali nella cura, prendesse in iscambio un male per
l’altro.

Del rimanente questo stato di cose conciliava le vedute delle famiglie
degli scolari con quelle degli scolari medesimi. Le famiglie si
riempivano la bocca coi gran nomi dei professori dei loro figliuoli; i
figliuoli esultavano delle continue assenze dei professori e mancavano
regolarmente alle lezioni dei sostituti.

Il rettore Pontevecchi, celebre orientalista ma non energico uomo, si
consolava pensando che nella facoltà di filosofia e lettere, ch’era
proprio la sua, le cose procedevano alquanto diversamente. In tanti
professori non c’era che un unico deputato, il Meravigli, e anche
quello andava di rado alla Camera perchè l’aria di Roma non gli era
propizia. Gli altri erano puramente uomini di studio e non volevano
saperne della vita pubblica.

Primeggiava tra questi il Teofoli, professore di filosofia, spirito
largo ed acuto, parlatore limpido ed efficacissimo, ammirato dalla
scolaresca, stimato e rispettato da tutti i colleghi. Due di essi, il
Dalla Volpe e il Frusti, lo seguivano come la sua ombra, e la gente,
a forza di vedere quei tre sempre insieme, aveva preso a chiamarli
per celia i tre _anabattisti_. Il Dalla Volpe aveva moglie, una
moglie terribile fino a trentacinqu’anni per la sua galanteria, da
trentacinqu’anni in poi per la sua devozione: il Frusti era vedovo e
grande odiatore delle donne; il Teofoli pareva deliberato a rimaner
scapolo, e sebbene non partecipasse ai pregiudizi del suo amico Frusti
contro il bel sesso, preferiva tenersene alla larga e frequentava
soltanto il salotto della contessa Ermansi, ch’era una signora matura.

Ben provveduto di mezzi di fortuna, il professore Clemente Teofoli
aveva un bel quartierino, una magnifica biblioteca e un’ottima tavola
a cui egli invitava spesso qualche collega, e, nelle grandi occasioni,
anche qualche discepolo preferito. Pegli altri due anabattisti, non
c’è bisogno di dirlo, c’era sempre un posto e una posata disponibile.
Il Dalla Volpe in particolare si rifugiava dall’amico il venerdì e le
altre vigilie, per evitare la cucina di magro che la sua degna consorte
gli avrebbe inflitta inevitabilmente.

Quei pranzetti, che la signora Pasqua, governante del professore
Teofoli, una virago baffuta e contro le tentazioni, sapeva ammannire
con arte sopraffina, erano rallegrati da discussioni dottissime fra
i tre inseparabili. Il Teofoli parlava volentieri dell’opera ch’egli
stava maturando da più anni sul tema già trattato alla fine del secolo
scorso dal Dupuis, _L’origine delle religioni_; il Frusti e il Dalla
Volpe facevano il possibile per tirare il discorso l’uno sulla storia
antica e l’altro sulla moderna o a meglio dire su quel periodo di
storia antica e moderna ch’essi prediligevano. Poichè, a voler essere
sinceri, i due amici brillavano piuttosto per la profondità che per
la varietà delle ricerche. Il Frusti non si occupava volentieri,
nella storia moderna, che della rivalità tra Carlo V e Francesco I,
e il Dalla Volpe, nella storia antica, non aveva occhi che per le
gesta della 19ª dinastia tebana le cui glorie cominciano con Setti I,
soprannominato Merenaphtha o Menaphtha (caro a Phtah), le cui imprese
però, come sanno anche gli studenti di ginnasio, furono confuse con
quelle di Ramesse II, suo figlio. Una volta preso l’aire, il dotto
uomo non si fermava più, salvo che qualcheduno non trovasse il modo di
richiamarlo alla memoria delle sue tribolazioni coniugali. Allora egli
dimenticava Menaphtha e Ramesse e sfoggiava una facondia mordace che
agli spiriti frivoli poteva parer preferibile alla grave e ponderata
eloquenza con la quale egli esponeva le vicende memorabili dell’Egitto.

— Ero un bel somaro a pigliarmi tanti fastidi in gioventù per le
scappatelle della mia signora consorte, — egli diceva sovente. — Quelli
eran tempi beati in confronto d’adesso. C’erano, sì, delle chiacchiere
in paese; c’erano spesso tra i piedi dei seccatori; ma almeno la Luisa
era d’un umore gaio, piacevole, ed era bellina, ciò che non guasta.
Le vere calamità, son principiate dopo quel fatale vaiuolo che la
lasciò tutta butterata. Non vedendosi più un cane intorno, le son
spuntati i rimorsi, l’è venuto il bisogno imperioso di espiare le sue
colpe e di rimettersi in grazia di Domeneddio. E vigilie, e digiuni,
e ogni momento in chiesa, alla messa, ai vesperi, alla benedizione, al
confessionale, e preti, e frati e monache in casa.... e, s’io arrischio
una parola, mi sento a rispondere: — Se ho commesso dei falli non
puoi dire ch’io non ne faccia penitenza. — Così ho il gusto di aver la
confessione esplicita di mia moglie, e quello di far penitenza insieme
con lei.... Ah le donne!

Il nostro Teofoli notava che quando si ha avuto la sfortuna d’incappar
male non è lecito giudicar tutte le donne alla stregua di quelle che ci
hanno fatto soffrire.

Ma questa ragionevole osservazione dava sui nervi al terzo commensale,
il professore Frusti. — È falso. Anzi è precisamente l’opposto. I soli
che possono esser indulgenti con le femmine sono quelli che incapparono
male. A loro almeno è permesso di credere che ce ne siano d’una
pasta diversa dalle poco di buono che conoscono. Chi ha conosciuto
le migliori non ha più illusioni possibili. E la mia era una delle
migliori. Tutti lo dicevano, tutti continuavano a dirlo.... anche
quando non c’era più un dubbio al mondo ch’ella mi menasse pel naso.
E io sono intimamente convinto che avessero ragione.... Ma era donna e
faceva la sua parte di animale nocivo.

Dopo queste dichiarazioni ripetute ogni tanto su per giù con le
stesse parole e la cui amarezza lasciava sospettare una ferita ancora
sanguinante, il professor Frusti aveva l’abitudine di tracannare un
bicchiere di vino. Qualche volta, se la signora Pasqua era presente (ed
ella usava dar di quando in quando una capatina in salotto da pranzo
per sentir lodare i suoi manicaretti), egli si appellava al giudizio di
lei ch’era uno spirito assennato e non aveva mai voluto esser confusa
con le persone del suo sesso.

E la signora Pasqua approvava energicamente. — Parole d’oro — ella
diceva con la sua voce grossa. — Son tutte tagliate sul medesimo
stampo.

Le dispute fra i tre amici si prolungavano sovente durante la
passeggiata e s’inacerbivano nelle sere in cui Teofoli, invece di
andare in birreria coi colleghi, si recava dalla contessa Ermansi.

Poichè Frusti e Dalla Volpe non gli potevano perdonare questa sua
debolezza. Com’essi non avevano mai accettato gl’inviti di quel _bas
bleu_ ch’era la Ermansi, così avrebbero preteso che non li accettasse
lui e che non si prestasse gentilmente a far la parte di bestia rara
nel _serraglio_ della contessa.


II.

La conoscenza di Teofoli con la contessa Susanna Ermansi datava
dal giorno ch’egli aveva tenuto all’Università una prolusione a cui
assisteva il fiore della cittadinanza e nella quale erano adombrate
le idee fondamentali dell’opera sull’origine delle religioni. Non si
ricordava all’Università un trionfo simile. Che il Teofoli avesse
ingegno e dottrina all’altezza del tema lo sapevano tutti, ma non
tutti presumevano che insieme col filosofo non rifuggente da nessuna
audacia dell’intelletto ci fosse in lui un poeta atto ad intendere
ogni aspirazione dell’anima, ogni inquietudine della coscienza. Nulla
nel suo discorso che ricordasse la critica superficiale, beffarda del
secolo XVIII, ma una larga tolleranza, ma una simpatia schietta per
tutti gli sforzi con cui l’umanità tenta di penetrare il mistero che ne
avvolge, per tutte le ipotesi pie che il sentimento tramuta volentieri
in certezze. Così, mentre gli uni applaudivano l’erudito, gli altri
battevano le mani all’artista, che vestiva di forme elettissime gli
astrusi concetti, e l’eleganti donnine, alle quali tra la messa,
il magro e il confessionale non dispiace qualche spruzzo di libero
pensiero, erano le più entusiaste ammiratrici del facondo professore
che si faceva perdonare l’ardito razionalismo con un caldo soffio
d’idealità.

In quel dì memorabile Teofoli non potè esimersi dall’esser presentato
a una ventina di contesse, marchese, baronesse, eccetera eccetera,
che andarono a gara per colmarlo d’elogi e per sollecitarlo a tener
presto una serie di conferenze a cui esse si sarebbero fatte una festa
d’intervenire.

Non c’è dubbio che la vanità dell’uomo era lusingata da questo incenso;
tuttavia, egli non perdette il suo sangue freddo e non si lasciò
prendere negli ingranaggi fatali del cosidetto bel mondo. Si schermì
molto cortesemente dagl’inviti che gli piovevano da ogni parte, si
schermì dal tener le conferenze che gli si domandavano, e di tante
nuove relazioni che avrebbe potuto iniziare non ne accettò che una
sola, quella della Ermansi, il cui salotto era frequentato anche da
parecchi colleghi dell’Università e della quale egli conosceva da un
pezzo il marito. Superba di questa preferenza, la contessa colmava
il professore d’attenzioni e di regalucci; lo sapeva appassionato
dei fiori e gli mandava le più belle rose del suo giardino; lo sapeva
ghiotto delle frutta e gli mandava le primizie del suo orto; e quando
il conte marito tornava dalla caccia il professor Teofoli era sicuro
di ricevere dal palazzo Ermansi o un invito a desinare o il dono
d’un capo di selvaggina, che, dopo esser stato oggetto delle cure più
amorose da parte della signora Pasqua, era servito in tavola a uno dei
soliti pranzetti con l’intervento di Dalla Volpe e di Frusti. In queste
occasioni Teofoli diceva scherzosamente ai suoi due commensali: —
Dovete pur convenire che la mia amicizia con la Ermansi ha il suo lato
buono.

— Sì, sì, — borbottavano gli altri; — se tutto si limitasse a ricever
dei regali di frutta e di selvaggina. Ma presto o tardi la Ermansi ti
farà qualche brutto tiro.

— O che tiro volete che mi faccia? — esclamava Teofoli. — Farsi sposare
no sicuramente. È maritata.

— Le donne maritate possono restar vedove.

— Il conte Antonio gode una salute di ferro. E in ogni caso la contessa
è fuori di combattimento.

— Non si sa mai.... Del resto in casa sua ci vanno anche delle signore
giovani.

— Oh che uccelli di malaugurio! — replicava Teofoli infastidito. — Per
le giovani son vecchio io.... E sul serio, avete paura ch’io mi metta a
fare il galante?

I due amici tentennavano la testa con aria lugubre, e Frusti
sentenziava con la sua voce cavernosa: — Tutto è possibile.

In verità non era facile rappresentarsi il nostro Teofoli sotto
l’aspetto d’uomo galante. In primo luogo gli mancava quello che i
francesi chiamano _le physique de l’emploi_. Tozzo della persona, con
una fisonomia espressiva ma irregolare, con certi movimenti bruschi
e nervosi, egli non era mai stato l’Apollo del Belvedere. Nell’età
critica in cui noi l’incontriamo, cioè a cinquant’anni sonati, egli
aveva già la vista indebolita dalle lunghe veglie sui libri, aveva
sull’ampia fronte i segni dell’intensa applicazione mentale, e i
capelli radi e grigi non lasciavano nemmeno sospettare la chioma
folta e ricciuta ch’era stata forse l’unica bellezza della sua
infanzia. Vestiva con proprietà ma senza la minima ricerca d’eleganza;
soprabito nero di taglio _professorale_, cravatta pur nera, calzoni
e guanti scuri, cappello a tuba, occhiali fissi, mazza d’ebano col
pomo d’avorio. Certo che a sentirlo discorrere si dimenticava la sua
apparenza infelice. Non lo si poteva confondere coi Dalla Volpe, i
Frusti e _similia_, che portavano la cattedra dovunque andassero.
Egli era piacevole, arguto, alieno da qualunque pedanteria, e aveva
uno spirito così largo e una cultura così varia che nessun argomento
grave o leggero lo coglieva alla sprovveduta. E anche con le signore
era amabile e disinvolto più che non si sarebbe supposto in un uomo
tanto dedito agli studi. Non che di tratto in tratto non gli accadesse
di commettere qualche goffaggine, di toccare qualche tasto falso, di
dir qualche madrigale che sentiva di rancido e di stantìo, ma eran
peccatucci veniali che gli si perdonavano volentieri, in grazia delle
molte sue qualità.

Anzi alla contessa Susanna non bastava averlo frequentatore assiduo
del suo salotto; ell’avrebbe voluto accaparrarselo per la sua
villeggiatura. — Venga a passare un mesetto con noi.... due settimane
almeno.... nel nostro romitorio di Sant’Eufemia, a tre ore dalla città,
in luogo tranquillo, con aria salubre e vista incantevole.... Venga,
venga. Farà un vero piacere a me e a mio marito.... E sarà in libertà
piena.... Potrà portarsi i suoi libri, le sue carte, potrà studiare....
Da noi non ci sono cerimonie, non ci sono etichette.... Ospiti, o
nessuno, o pochissimi, e gente alla buona.... Venga, venga.

Il conte Antonio faceva eco alla moglie. E pigliando a parte il
professore, soggiungeva in segreto: — Se ci onora della sua visita
le mostrerò la mia collezione di edizioni rare del 1600. La tengo in
campagna per godermela nelle giornate di brutto tempo.... Qui ho altre
occupazioni.... Ma in campagna quando non posso andare alla caccia non
trovo divertimento maggiore che quello di starmene fra i miei vecchi
libri.

Notiamo fra parentesi che chi avesse argomentato da ciò che il conte
Antonio Ermansi fosse una persona colta avrebbe pigliato un bel
granchio. Il conte Ermansi era un bibliomane; nulla più e nulla meno.
Egli non amava i libri per sè, ma per le loro curiosità tipografiche.
E anche le sue ricerche in proposito si limitavano al secolo XVII. La
più preziosa opera stampata nell’anno 1599 non valeva per lui quanto la
più stupida stampata nel 1601. D’altra parte, nello stesso secolo XVII
egli non si curava affatto degli autori celebri, noti, i cui scritti
erano stati pubblicati e ripubblicati; a’ suoi occhi non avevano pregio
che gli oscuri, quelli che nessuno conosceva, quelli che forse in
tutta la loro vita non avevano dato alla luce che un misero opuscolo di
venti pagine. Già il conte Ermansi non leggeva nè i volumi grandi, nè
i piccoli; una volta sicuro che del libercolo da lui scovato fuori su
un muricciuolo non c’erano che cinque o sei esemplari in Europa, egli
era contento come una Pasqua. Del resto, non era più noioso degli altri
della sua specie.

Comunque sia, è probabile che la collezione del conte Ermansi
esercitasse una scarsa attrattiva sul professore Teofoli e contribuisse
a fargli rimandar da un autunno all’altro l’accettazione dell’invito.
Egli si scusava adducendo la sua antica abitudine d’intraprender nelle
vacanze un lungo viaggio fuori d’Italia, a Parigi, a Vienna, a Berlino,
a Londra, a Edimburgo, allo scopo di rovistar biblioteche, di annodare
o di rinfrescar conoscenze coi confratelli di studio sparsi pel
mondo. Guai per lui se cedeva alla tentazione d’impigrirsi negli ozi
campestri.

Ma gli Ermansi non si davano per vinti. No, no, badasse a loro. Un
po’ di quiete è indispensabile sopratutto agli uomini che affaticano
molto il cervello. Avrebbe lavorato meglio dopo. In ogni modo, non si
pretendeva ch’egli rinunziasso al suo viaggio. Avrebbe fatto un viaggio
più breve, ecco tutto.... Anzi, se si fosse trovato male, sarebbe
ripartito il giorno dopo il suo arrivo, senza che nè lei nè suo marito
se ne adontassero.... Ma s’immagini. Con un vecchio amico!...

Alla lunga Teofoli si lasciò carpire una mezza promessa per l’autunno
187.... Non voleva impegnarsi, ma insomma, se gli era possibile,
al ritorno dalla Germania sarebbe passato a fare una visitina a
Sant’Eufemia.

E avvenne proprio così.


III.

Dalla Volpe e Frusti non seppero nulla di questa visita. Nelle vacanze
i tre _indivisibili_ si dividevano. Quell’originale di Dalla Volpe,
appena finiti gli esami, partiva per ignota destinazione, guardandosi
bene di dare a chicchessia il suo indirizzo. Non voleva che la moglie
potesse raggiungerlo nè con la persona nè con le lettere. — Il mio
matrimonio — egli diceva — non mi accorda ormai altro benefizio che
questo; di poter viver tre mesi lontano dalla mia dolce metà, di
starmene pacificamente in qualche angolo remoto del mondo cullandomi
nella beata illusione d’esser scapolo o vedovo, o pensando almeno che
la cara Luisa urla, strepita, sbuffa ed espia i suoi vecchi peccati
senza di me.

Fedele al suo programma, durante le sue assenze non scriveva a nessuno.
Un anno lo si era visto in una dello stazioni alpine più romite e
solitarie; l’anno dopo si seppe ch’egli era in Egitto alle rovine di
Tebe dove corso il rischio di morire da un colpo di sole pigliato
nel decifrar geroglifici.... Ma neanche la paura dei colpi di sole
l’avrebbe indotto a rinunziare a quello ch’egli chiamava _il suo bagno
nel celibato_.

In quanto a Frusti, egli rimaneva sepolto dal luglio all’ottobre
d’ogni anno in qualche biblioteca d’Europa a ricercar documenti
relativi a Francesco I e a Carlo V. E ogni nuova scoperta era per
lui una grandissima gioia; non però una gioia senza mistura d’amaro,
accadendogli spesso di trovare un documento favorevole a Francesco I
quand’egli stava per mostrar le sue simpatie a Carlo V e uno favorevole
a Carlo V quand’era sul punto di giungere a una conclusione opposta.

Per solito Frusti e Dalla Volpe erano di ritorno dalle loro
peregrinazioni soltanto dopo l’amico Teofoli, il quale nel suo zelo per
l’Università non voleva mancare nemmeno alla prima seduta del Consiglio
accademico. Si pensi quindi che maraviglia fosse la loro quando,
arrivati a X la mattina stessa dell’apertura dei corsi, seppero che
Teofoli non sarebbe giunto che fra due o tre giorni. Peggio poi quando
udirono il resto dalla signora Pasqua scandalizzata. Il professore era
stato in Germania sino alla metà di ottobre; poi s’era fermato un paio
di giorni nella villa dei conti Ermansi; di là era venuto a casa per
poche ore, tanto da comperarsi alla sartoria della _Ville de Rome_ un
vestito completo e da far qualche altra spesuccia; e la sera stessa,
senza dire nè ai nè bai, senza voler dare una spiegazione soddisfacente
a lei, la signora Pasqua, che pur ne aveva diritto, aveva ripreso il
treno per Sant’Eufemia. Ah c’era del buio, molto buio. Un uomo come
il professore Teofoli, un uomo ch’era stato sempre così savio, così
costumato!...

Frusti e Dalla Volpe si guardarono tentennando il capo. L’avevano
sempre detto che la relazione degli Ermansi doveva esser fatale al loro
amico.

La condotta del nostro Teofoli al suo ritorno non tardò a giustificare
le maggiori apprensioni. Già bastava vederlo per capire che non era
più quello di prima. C’era nella sua _toilette_, nella sua andatura,
nell’espressione della sua fisonomia qualcosa di civettuolo che lo
rendeva irriconoscibile. Dal rettore al bidello, dai professori agli
studenti tutta l’Università era commossa da questa trasformazione.
Ogni giorno se ne sentiva una di nuova. Teofoli s’era abbuonato dal
parrucchiere, e aveva il fazzoletto impregnato d’acqua di Colonia!
Teofoli aveva ordinato al confettiere Grandi di spedire a Sant’Eufemia
(ove gli Ermansi si trovavano ancora) una colossale scatola di dolci!
Teofoli s’era comperato due cravatte di raso color crema e un paio
di lenti da sostituirsi in certi casi agli occhiali, troppo solenni
e cattedratici! Teofoli, invece della sua mazza d’ebano col pomo
d’avorio, aveva un leggero bastoncello di canna d’India! Teofoli aveva
minacciato di licenziare la signora Pasqua s’ella si permetteva di
seccarlo con le sue querimonie!

Nè le osservazioni dei due indivisibili erano accolte meglio. Egli
si meravigliava delle loro meraviglie. S’era forse impegnato a vestir
sempre ad un modo? O che un professore non potrà mettersi una cravatta
di raso chiaro e farsi ravviare dal parrucchiere i pochi capelli che
gli restano? Credevano di giovare alla scienza con simili pedanterie?
No, no, egli era persuaso che quell’abisso voluto scavare fra gli
studiosi ed i semplici mortali era un ostacolo alla diffusione del
sapere. In quanto a lui era risoluto a esser un uomo come tutti
gli altri, e non trovava necessario di andar a pescare dei motivi
misteriosi a una determinazione così naturale.

— Teofoli, non ce la dai ad intendere — dicevano sarcasticamente Frusti
e Dalla Volpe. — Tu non ti profumi d’acqua di Colonia per agevolar la
diffusione del sapere. Qui sotto c’è una femmina.

Il professore alzava le spalle in atto stizzoso. — Che femmina, che
femmina?

Ma ogni volta che gli toccavano questo tasto, diveniva rosso come un
papavero.

Che la femmina ci fosse non c’era dubbio. Restava a sapere _chi_ fosse.

Era evidente che Teofoli doveva averla incontrata in villeggiatura
dagli Ermansi ove quell’autunno c’era stata più gente del solito, e ove
con una magnanimità degna di lode la contessa Susanna, riconoscendo
la propria insufficienza fisica, aveva invitato anche cinque o sei
signore giovani e belle. La più bella, la più giovine era la contessa
Giorgina Serlati, sposa da due anni di un lontano parente degli
Ermansi, vissuta fino allora tra Roma e Parigi e rassegnata adesso,
per riguardi di economia, al soggiorno meno costoso di X.... Questa
Giorgina non s’era vista a X che di passaggio subito dopo il suo
matrimonio, e aveva prodotto una notevole impressione per la singolare
avvenenza dell’aspetto e per la festività un po’ rumorosa e bizzarra
del carattere. La dicevano adesso ancora più seducente, ancora più
originale; insomma una di quelle che paiono nate apposta per corbellare
gli uomini. Aggiungasi un marito melenso, insignificante, persuaso da
un pezzo della vanità d’ogni suo tentativo d’invigilar la moglie, e
disposto a chiuder un occhio pur di esser libero d’occuparsi de’ suoi
cavalli e delle sue galanterie di bassa lega.

Che fosse mai questa la donna che faceva girar la testa al professore
Teofoli? È ben vero ch’egli poteva esser suo padre; ma non importa. In
amore, le bestialità più grosse sono le più probabili, e non c’era da
stupirsi se Teofoli a cinquant’anni sonati aveva preso una cotta per
una donna di ventidue o ventitrè. In ogni caso, la faccenda si sarebbe
chiarita appena gli Ermansi avessero abbandonato la villeggiatura,
tirandosi dietro gli ospiti che rimanevano ancora presso di loro. E i
Serlati erano appunto tra questi.

Ora il 25 novembre di quell’anno il professor Teofoli finì la sua
lezione dieci minuti prima che il bidello suonasse la campana,
e, congedandosi nell’atrio da tre o quattro studenti che avevano
l’abitudine di accompagnarlo a casa, entrò in un _fiacre_ appostato
presso il portone dell’Università.

— O dove andrà il professore? — chiesero due di quei bravi giovinotti.

— Ve lo saprò dire più tardi — soggiunse un terzo che non aveva fretta
di far colazione. E senza por tempo in mezzo montò in un altro _fiacre_
che passava di là ed era vuoto.

Teofoli non si recava in nessun luogo illecito e misterioso. I due
_fiacre_ si fermarono alla stazione. Il professore discese dal suo e lo
studente fece lo stesso; il professore si mise a passeggiare su e giù
in atto d’uomo che aspetta, lo studente andò a sedere al caffè.

Circa dieci minuti dopo giunse una corsa, e Teofoli ch’era riuscito
a spingersi fin sotto la tettoia ricomparve in mezzo a una folla di
persone tra le quali lo studente riconobbe i coniugi Ermansi. Ma più
dei coniugi Ermansi lo colpì una signora giovine, alta, bellissima, dai
grandi occhi bruni che lampeggiavano sotto la veletta, dal corpo svelto
e flessuoso, dalla voce argentina, squillante. La seguiva a pochi
passi di distanza un uomo pur giovine, in soprabito grigio, dall’aria
annoiata, certo il marito. Al fianco di lei c’era Teofoli e le parlava
animatamente, e teneva sul braccio un suo _impermeabile_, e si tirava
dietro col cordino una cagnetta _pinch_ alla quale la bella signora
slanciava degli sguardi teneri chiamandola a nome: _Darling, Darling_.
Facevano parte della brigata altri tre o quattro signori, senza tener
conto d’un codazzo di servi d’ambo i sessi, carichi di valigie, di
sacchi da viaggio, di panieri, d’ombrelli e perfino di gabbie di
canarini.

Fuori c’erano le carrozze, e la comitiva si divise con gran
dimostrazioni di cordialità. Gli Ermansi salirono in un _landau_
chiuso, l’altra coppia prese posto in un legno scoperto insieme con
la cagnetta. Però nel momento che il cocchiere stava per allentar le
redini sul collo dei cavalli la signora disse una parolina a Teofoli,
e questi ch’era ancora ritto davanti allo sportello mise il piede sul
montatoio e con una prestezza di movimenti di cui non lo si sarebbe
creduto capace fu in un attimo nella carrozza seduto accanto alla bella
persona che lo aveva invitato.

Rinvenuto appena dalla meraviglia di veder il suo professore dileguarsi
in quell’equipaggio signorile e al fianco di quella splendida
fata, lo studente colse a volo alcune frasi d’un colloquio fra due
zerbinotti ch’erano arrivati anch’essi in compagnia degli Ermansi e
che s’avviavano in città a piedi seguiti da un fattorino a cui avevano
consegnato il loro piccolo bagaglio.

Uno di questi zerbinotti che lo studente conosceva di nome, il marchese
di Montalto, diceva dispettosamente all’amico: — Alla lunga quel
balordo di Teofoli dà sui nervi.

— Non crederai mica che la Serlati lo prenda sul serio?

— Lo so anch’io che non lo prende sul serio. È però una gran noia
l’averlo sempre tra i piedi.

— Speriamo che quando ella lo avrà reso completamente ridicolo lo
getterà da parte.

— Sì, sì.... intanto si rende ridicola anche lei.

— Oh — notò l’interlocutore che prendeva le cose con maggior calma —
una donna bella come la contessa non si rende mai ridicola.

Lo studente non intese più di così, ma quello che aveva inteso,
unito con quello che aveva visto, gli bastò per riferire ai suoi
condiscepoli che la donna alla quale il professore Teofoli prestava i
suoi omaggi era la contessa Serlati, una creatura deliziosa, nel primo
fiore degli anni, un bocconcino insomma più adattato agli scolari
che ai professori. E quei bravi ragazzi che pur volevano un gran
bene a Teofoli, che lo consideravano un luminare della scienza, che
l’avrebbero difeso accanitamente contro i suoi detrattori, provavano
in quell’occasione una specie d’animosità contro di lui e si sentivano
disposti a far eco a quel mezzo cretino del marchese di Montalto che
con tanta disinvoltura gli aveva dato del _balordo_. Gli è che se non
capita mai il momento in cui il balordo paia un uomo di spirito, ci
sono anche troppi momenti nella vita in cui l’uomo di spirito pare, ed
è davvero, un balordo.


IV.

Dunque non c’era più dubbio: il professore Teofoli era innamorato
(spiritualmente, platonicamente) della contessa Giorgina Serlati.
Questa malattia (non si poteva chiamarla con altro nome) l’aveva côlto
in villa Ermansi e la contessa Susanna n’era dolente ed indispettita.
Può darsi che nel suo dolore e nel suo dispetto entrasse un po’ di
gelosia, poichè la Ermansi, senza essersi mai sognata che la sua
relazione con Teofoli uscisse dai confini d’un’onesta intimità,
s’era avvezza a considerare il buon professore come cosa sua e non
desiderava ch’egli stringesse dimestichezza con altre famiglie. Ma
sarebbe ingiusto il negare che i suoi sentimenti fossero dettati
da una sincera amicizia. Le spiaceva veder incamminarsi per una via
senza uscita un brav’uomo a cui ell’era affezionata, e avrebbe voluto
salvarlo finch’era in tempo. Bisogna convenire però che l’impresa non
era facile. Mettere in guardia un innamorato contro la sirena che lo
affascina è probabilmente un aggiunger esca al fuoco ed è poi quasi
sempre un farselo nemico. D’altra parte il dire a una donna galante che
non lusinghi un suo corteggiatore pel male che potrebbe derivarne a lui
è come parlare a un sordo. La donna galante non consentirà mai, senza
una suprema necessità, ad assottigliare la schiera dei suoi cicisbei.
Se ce ne sono di quelli che soffrono, di quelli che muoiono, tanto
peggio per loro. Così le pratiche della contessa Ermansi non riuscirono
che a render più freddi i suoi rapporti con Teofoli e con la Serlati.
Il professore continuava a frequentar casa Ermansi, ma era sulle spine
quando non ci trovava la Serlati, e quando ce la trovava non aveva pace
finchè non l’era seduto vicino. La Serlati, dal canto suo, si godeva a
mettere in burletta la Ermansi, e ne imitava i modi, i gesti, la voce,
e la chiamava dottoressa e maestra di buoni costumi.

Ma insomma, si domanderà, che cos’era questa Serlati? E a quale scopo
faceva ammattire quel povero Teofoli che non era giovine, che non era
bello, che non apparteneva alla società ov’ella brillava come uno degli
astri più fulgidi?

La contessa Giorgina Serlati era una civetta; e questa parolina
di sette lettere è grave di significato. Essa è nel medesimo tempo
un’accusa e un’attenuante. Perchè le civette di prima qualità, le
civette di razza (e la Serlati era una di queste) hanno, voglia o non
voglia, qualche cosa di spontaneo e d’irresponsabile che disarma le
collere e tempera i rancori. Gli avvocati della forza irresistibile non
potrebbero trovar campo più propizio alle loro eloquenti perorazioni.
Quand’una è nata civetta, ella è tale senz’accorgersene, senza volerlo;
vicina ad un uomo qualunque sia, sfoggerà le sue arti di seduzione, non
perchè quell’uomo le piaccia, ma perchè non può a meno di far così.
E se gli uomini saranno parecchi, avrà per ciascuno una preferenza,
un’attenzione particolare. In un salotto, in un ballo, confiderà a
questo il ventaglio mentre accorda un valzer a quello, permetterà
che uno raccolga un suo guanto e che un altro raccolga un suo fiore,
s’appoggerà voluttuosamente sul cavaliere che le dà il braccio, e
lascerà cader uno sguardo pieno di simpatia sullo spasimante timido
e sconosciuto che s’è messo sul suo cammino per vederla passare, per
toccar un lembo della sua veste, per essere avvolto dal suo respiro.
Susciterà desideri a cui non partecipa, speranze ch’ella non si sogna
di appagare, rivalità che non si cura di estinguere, inconsapevole del
male che fa, pronta a mostrare uno stupore ingenuo e sincero se vi sia
chi osi rinfacciarglielo, perch’ella è convinta di far piuttosto del
bene come fa il sole quando risplende sui forti e sugli umili. E il
peggio si è che s’ella tenta correggersi e per un momento accenna a
riuscirvi, ella perde le sue maggiori attrattive, onde quelli stessi
i quali le rimproveravano la sua civetteria, le rimproverano il suo
sussiego e la sua mancanza di naturalezza, e a lei non resta altro
partito da prendere che di tornare ciò ch’era prima.

Quest’era il caso della contessa Serlati. Per civetta era una civetta
adorabile; se si fosse forzata a divenire una donna savia, assestata,
casalinga, sarebbe parsa una creatura insignificante e melensa. Certo
che non erano da invidiare coloro che si abbruciavano a’ suoi raggi,
e il professore Clemente Teofoli era da invidiare meno di tutti.
L’incontro della Serlati era stato per lui un colpo di sole ben più
grave di quello che aveva minacciato l’esistenza del suo collega
Dalla Volpe. Ella lo aveva sin dal primo istante domato con la sua
bellezza e con la sua grazia, ell’aveva fatto vibrare in lui delle
corde che non avevano vibrato mai, gli aveva aperto lo spiraglio d’un
mondo ignoto al paragone del quale impallidivano anche le visioni
luminose del vero in cui soltanto s’era fino allora appuntata la sua
pupilla. Se si fosse chiesto a Teofoli che cosa desiderava, a che cosa
credeva potesse approdare questa sua passione, egli non avrebbe saputo
rispondere. O forse avrebbe risposto che non pretendeva nulla, che gli
bastava viver presso a quella donna incantevole, pendere dalle sue
labbra, inebbriarsi allo splendore de’ suoi occhi. E probabilmente,
nell’entusiasmo che scalda i primordi dell’amore, avrebbe soggiunto
che da quando la conosceva si sentiva la fantasia più feconda,
l’intelligenza più alacre, e che l’opera da lui meditata nelle lunghe
vigilie sarebbe giunta meglio a maturità ora che un dolce sorriso gli
era in pari tempo inspirazione e compenso. Gl’innamorati cominciano col
creder sempre così.

In quanto alla Serlati non c’era punto da maravigliarsi ch’ella
accettasse gli omaggi di Teofoli come accettava quelli di tutti gli
altri. E non era neanche così strano ch’ella mostrasse di aggradirli
in modo speciale. La sua vanità era stata singolarmente lusingata
dall’impressione fulminea ch’ella aveva prodotto sopra un uomo d’età
matura, di costumi austeri, dedito interamente agli studi e celebre
in Italia e fuori. Poichè le donne possono essere indifferenti alla
dottrina e all’ingegno; non sono mai indifferenti alla celebrità.
La contessa Giorgina pensava con ragione che di spasimanti della
risma di Montalto ella ne avrebbe trovati a dozzine, ma che i Teofoli
erano pochi e che non era piccola soddisfazione per lei l’averne uno
aggiogato al proprio carro. Aggiungasi un’ultima particolarità della
nostra bella contessa. Ell’aveva uno spirito leggero, superficiale;
pur non si poteva negarle una certa prontezza e versatilità, una certa
curiosità di sapere e d’apprendere. È poi naturale che queste doti
non accoppiate a nessuna perseveranza, a nessuna fermezza riuscissero
all’unico risultato di alloggiare nella sua povera testolina una serie
di nozioni confuse e mal digerite.

Ecco, per esempio, a Parigi l’era venuto il ghiribizzo di studiar
scienze fisiche e aveva preso alcune lezioni da uno scienziato che la
corteggiava. Ma le prime difficoltà l’avevano sbigottita; se l’era
presa col maestro che non sapeva insegnare, e gli aveva dato il ben
servito e come professore e come galante. Più tardi, a Roma, era stata
assalita da un nuovo capriccio. Avrebbe voluto imparare la pittura,
ma avrebbe voluto impararla presto, non in modo da far dei quadri
originali ma in modo da poter far delle copie. Non doveva esser così
difficile il copiare. Un artista famoso che le bazzicava per casa ebbe
l’insigne onore di dirigere quella mano gentile. Dopo qualche settimana
la contessa perdette la pazienza. — Di questo passo, — ella esclamò
infastidita, — ci vorranno cinquant’anni perchè io arrivi a dipingere
passabilmente una testa.

L’artista, vedute le disposizioni della sua allieva, pensava che
anzichè cinquanta gliene sarebbero voluti cento, e glielo fece
intendere. Ma siccome aveva più spirito dello scienziato francese,
glielo fece intender con garbo, offrendosi di avviarla in uno studio
diverso, quello dell’archeologia.

La contessa accettò con trasporto. L’archeologia studiata a Roma, sotto
una guida esperta e simpatica! Ma era una di quelle fortune da non
lasciarsi scappare. E poi il dedicarsi all’archeologia era un prender
due piccioni a una fava; era uno studiare, con la storia dei monumenti,
la storia di Roma, senza noia di libri, nelle condizioni più propizie
possibili, parte in carrozza, parte a piedi, quasi sempre all’aria
aperta. In conseguenza di ciò la bella contessa fu vista tra i ruderi
della città eterna, insieme col celebre artista, intenta a prender
note sul suo taccuino, ora al Campidoglio, ora al Foro Romano, ora al
Palazzo dei Cesari, o al Colosseo, o alle Catacombe, o alle Terme di
Caracalla. Per i primi due giorni l’accompagnò il marito. Diavolo! Non
era mica conveniente che una signora della sua età girasse sola per
Roma con un estraneo. Ma que’ due giorni misero a troppo dura prova
le forze del conte Serlati. Alzarsi presto la mattina, trascurare i
suoi cavalli e il suo club per veder quattro sassi e sentir degli
sproloqui sui primi abitatori del Lazio e sulla fusione dell’arte
greca con l’arte romana? Ah, non era affare per lui. Ed egli tentò di
persuader sua moglie che non sarebbe stato nemmeno affare per lei. Ma
ella tenne fermo. Non era così volubile, sebbene la dicessero tale;
non intendeva troncare uno studio così bene incominciato. In quanto
a lui, chi lo costringeva a seguirla? Non credeva ch’ella sapesse
custodirsi da sola? Riluttante sul principio, il conte finì col
lasciarsi persuadere. E la eccentrica signora continuò le passeggiate
archeologiche col suo cicerone. Continuò per un paio di settimane,
miracolo di perseveranza, chi consideri il suo carattere. È vero che
badando alle chiacchiere dei maligni, la bella contessa e il celebre
artista non si occupavano soltanto di archeologia. A ogni modo, passate
le due settimane, la contessa Giorgina dovette riconoscere che anche
l’archeologia ha i suoi inconvenienti. O le bisognava trascurare i suoi
alti doveri sociali, o rinunciare ad aver mai un momento di quiete.
Arrivava dalle sue conoscenti ansante, trafelata; i suoi adoratori non
la trovavano mai in casa; la sera, nei salotti, le accadeva di esser
côlta da un’invincibile sonnolenza. Le amiche la canzonavano. Sei
matta? Vuoi diventar socia dell’accademia dei Lincei? Non ti accorgi
che per poco che la duri sarai la favola del paese? E non capisci
che ti _comprometti_? Che ti si crede più invaghita dell’archeologo
che dell’archeologia? Se vedessi poi come ti sciupi la pelle! Perdi
ogni freschezza, finirai col farti la carnagione di quelli che stanno
esposti all’aria ed al sole.

Questo pronostico recò il colpo di grazia alla vocazione della contessa
per lo ricerche archeologiche.

Pareva anzi che si fossero acquetate in lei definitivamente le
curiosità intellettuali e ch’ella fosse rassegnata a esercitar le sue
forze soltanto nel campo della galanteria ove non c’era chi potesse
contrastarle la palma. Ma l’incontro con Teofoli a Sant’Eufemia
riaccese uno de’ suoi fuochi di paglia. Alcune parole ch’egli disse una
sera intorno a Spinoza la invogliarono della filosofia. Quello doveva
essere uno studio attraente, quando si potesse avere un professore
come Teofoli, un uomo che rendeva chiari i soggetti più astrusi. O se
Teofoli avesse voluto! Figuriamoci se non voleva! Sarebbe stato per lui
un onore, una felicità. Egli si metteva a sua disposizione e adesso
in campagna e più tardi in città, alle ore che lei desiderava, anche
tutti i giorni.... anche tutto il giorno se a lei fosse piaciuto — egli
concluse con enfasi e infiammandosi in volto.

Troppe grazie!... a lei bastava una infarinatura, quella che può
occorrere a una donna, specialmente sulle dottrine di Spinoza.

Perchè a una donna dovesse occorrere specialmente la conoscenza, sia
pure superficiale, delle dottrine di Spinoza è piuttosto difficile a
intendere. Ma Teofoli non volle contraddire alla sua bella discepola
e si accinse con molto fervore a spiegarle i principii cardinali su
cui si appoggiano l’_Etica_ e il _Trattato teologico politico_ del
sommo Olandese. Questi dotti colloqui succedevano per solito nel
giardino degli Ermansi, nell’ora in cui gli altri usavano ritirarsi
nelle proprie camere, e vi partecipava la cagnetta _Darling_, la quale
aveva un debole per le gambe del professore, e non avrebbe rinunziato
per tutto l’oro del mondo a mordergli almeno i calzoni. Onde accadeva
sovente che i discorsi sull’Ente assoluto e sulla legge di causalità
fossero interrotti dalle sommesse e quasi carezzevoli proteste del
filosofo minacciato nella sua integrità personale e dalle rampogne
più severe della contessa contro il poco rispettoso quadrupede.
Talvolta c’erano altri motivi di distrazione. La Serlati aveva qualche
suggerimento da dare al professore Teofoli circa alla sua _toilette_.
Quella cravatta col fiocco fisso non era di buon gusto; quei polsini
staccati dalla camicia non si usavano più; quei colletti troppo alti
erano da notaio, eccetera, eccetera. L’ottimo professore pendeva dalle
labbra della sua scolara e s’impegnava a seguirne in tutto e per tutto
i consigli. — Chi non imparerebbe con una tal maestra? — egli diceva
entusiasta. Ed ella replicava compiacente e lusinghiera: — È cosa
reciproca, caro Teofoli, è cosa reciproca.... Mutuo insegnamento.

Quelle erano ore deliziose per Teofoli. C’era però il rovescio della
medaglia. Quando la contessa era insieme col marchese di Montalto e con
altri giovinastri della stessa risma, ospiti come lei degli Ermansi,
ella dimenticava interamente la filosofia ed il filosofo. O se ne
ricordava soltanto per scherzarne.... scherzi senza dubbio argutissimi,
ma che il nostro egregio amico gustava limitatamente, quantunque egli
si affrettasse a dichiarare che tutto stava bene su quella bocca di
rosa.

Già, per disinvolto che volesse parere, alcune cose gli mettevano
addosso un’inquietudine, un cruccio grandissimo. Si rodeva di non poter
seguirla nelle sue cavalcate con quei capiscarichi, ma più di tutto si
rodeva se nel dopo pranzo, allorchè l’intera compagnia era raccolta
sul terrazzo, la bella donnina si allontanava in silenzio e scendeva
in giardino con Montalto o con altri perdendosi in quei viali, in
quei boschetti ove poche ore prima egli l’aveva intrattenuta in dotti
ragionamenti frammezzati di silenzi, di sospiri, di discrete allusioni
che dovevano farle capire la sua passione rispettosa e profonda. Chi sa
se Montalto sarebbe stato così riservato? Il professore Teofoli se la
prendeva col conte Ercole, il marito, il quale fumava tranquillamente
discorrendo di cani e di cavalli con Ermansi senza neppur badare alla
moglie. Ah mariti, mariti! Paion fatti apposta per tirarsi addosso le
disgrazie. Però Teofoli non poteva a meno di fare in cuor suo qualche
rimprovero anche alla contessa Giorgina. Che gusto doveva trovarci una
donna come lei a prestare orecchio a dei libertini che non avevano
nè ingegno, nè spirito, nè coltura? Oh, su questo punto Teofoli non
s’ingannava. Egli aveva buon naso. Di Montalto, per esempio, egli
parlava _ex informata conscientia_; avendolo avuto anni addietro per
scolaro all’Università. Uno scolaro che non assisteva mai alle lezioni,
che doveva ripeter tre o quattro volte gli esami e a cui si finiva
coll’accordare il passaggio per non vederselo più davanti agli occhi.
Ecco, la contessa Giorgina faceva male, proprio male a perdere il suo
tempo con quel balordo.... Ah se Teofoli avesse potuto immaginarsi che
Montalto dava del balordo a lui, e che, in quel momento, un giudice
imparziale sarebbe stato in un bell’impiccio a dire chi dei due avesse
ragione!


V.

Sarebbe un’offesa alla verità l’affermare che, dopo la villeggiatura,
i colloqui filosofici della Serlati con Teofoli procedessero molto
regolarmente. Le occupazioni della bella contessa non lo permettevano.
Quantunque la sua dimora a X fosse piuttosto un esperimento che
altro, ed ella si fosse accomodata provvisoriamente in un quartierino
ammobigliato, ella non intendeva vivervi nell’ombra e aveva quindi da
far visite e da riceverne, da conferire con la sarta, con la modista,
col gioielliere, da prepararsi insomma a passar bene il prossimo
carnevale. Inoltre, con tutto il rispetto per Spinoza, ella era forzata
a confessare che lo trovava più noioso del bisogno. Non si sarebbe
potuto, a tempo opportuno, occuparsi di Darwin, di Spencer?... Ma
sicuro; il professore non desiderava di meglio. Egli ammirava que’
due illustri pensatori; anzi con Darwin era stato e con Spencer era
in corrispondenza; figuriamoci se non si sarebbe volentieri fatto
interprete del loro pensiero con la contessa Giorgina! — Va bene, va
bene, — ella disse — sarà per la quaresima.

Se, per le gravi ragioni che sappiamo, la Serlati non si dedicava con
fervore agli studi, è innegabile però ch’ella seguitava a mostrarsi
singolarmente benevola al nostro professore. Gli aveva regalato una
sua fotografia ch’egli custodiva come una reliquia dentro un cassetto
per non esporla a sguardi profani; lo invitava a desinare da lei un
paio di volte per settimana, lo riceveva anche di giorno, a qualunque
ora, quand’era in casa, lo avvertiva delle sere ch’ella andava a
teatro, lo eccitava a lasciarsi presentare a due o tre famiglie che
avrebbero aperto i loro salotti in carnevale. Queste sollecitazioni
trovavano in principio il Teofoli renitente; egli pensava alle sue
care abitudini, alle sue serate tranquille, al suo studio, a’ suoi
fidi compagni; ma d’altra parte se quello era l’unico modo di veder
spesso la contessa Giorgina, se, rifiutando, si correva il pericolo di
disgustarla? Ond’egli fece violenza alla sua indole e comparve qualche
volta a teatro e consentì a frequentare qualche nuovo salotto. Non
che vi si divertisse; ah questo no. A teatro egli badava poco alla
scena; dal suo posto di platea guardava al palchetto della Serlati
ch’era sfolgorante di bellezza e di grazia e intorno alla quale c’era
un nugolo di adoratori. Per andare a salutarla egli avrebbe voluto
cogliere un momento in cui non ci fosse nessuno, ma questo momento non
capitava mai e gli conveniva pur risolversi a entrare nel palchetto
pieno. E dopo esser riuscito con fatica a darle la mano sedeva in un
angolo, assordato dal cinguettìo di tutta quella gioventù frivola
ed elegante che discorreva di balli, di _toilettes_, di sposalizi,
d’intrighi amorosi. Tuttavia la contessa Giorgina non lo dimenticava,
e rivolgendosi a lui con la sua voce flautata gli chiedeva il suo
parere sullo spettacolo. E siccome per poco ch’egli fosse stato attento
era stato certo più attento di lei, egli si accingeva ad esprimere
coscienziosamente i propri giudizi, ma gli era forza smetter subito,
o perchè la sua interlocutrice passava ad altro argomento, o perchè la
porta del palchetto s’apriva a nuovi visitatori. Naturalmente i primi
arrivati dovevano cedere il posto, e così, a mano a mano, quelli giunti
dopo si avanzavano dal fondo alla fronte del palco e si avvicinavano
al posto d’onore. Ma non ci rimanevano un pezzo, cacciati com’erano
dai sopravvenienti. Teofoli attendeva anch’egli il suo turno, sedeva
per un istante a fianco o dirimpetto alla contessa, e poi se ne tornava
alla sua poltroncina, o più sovente abbandonava addirittura il teatro,
riportandone un misto d’impressioni dolci ed amare. Egli aveva un bel
dire a sè stesso che una donnina come la Serlati non poteva a meno di
aver una folla di relazioni, e ch’era da aspettarsi di vederla cinta
da uno stuolo di spasimanti; aveva un bel dire che tutte lo signore
giovani, avvenenti, ricche, spiritose sono quasi costrette a menar
l’identica vita; ciò non bastava a calmar l’inquietudine de’ suoi
nervi. La Giorgina (tra sè e sè egli la chiamava così) a ventidue o
ventitrè anni appena avrebbe avuto necessità di una guida, non avrebbe
dovuto esser lasciata esposta a tutte le tentazioni. Quel suo marito
era d’una leggerezza! Non si curava nemmeno d’assumere informazioni sul
conto di quelli ch’eran presentati a sua moglie! E ce n’erano d’ogni
specie; ufficiali e forestieri per la massima parte, gente che di punto
in bianco avrebbe preso il volo per lidi ignoti e che dalla instabilità
del domicilio era resa pressochè irresponsabile.

In società Teofoli faceva le medesime riflessioni, aveva le medesime
angustie che in teatro. Non era possibile giungere fino alla contessa
che oltrepassando una barriera di galanti cosmopoliti. Con la sua
innata affabilità che diceva: — Buona sera, Teofoli, — lo eccitava
ad accostare una sedia, e a mettersi anch’egli nel suo circolo. Ma
quand’egli cedeva alla tentazione non tardava a trovarsi a disagio,
egli uomo più che maturo fra tanti giovani, egli uomo grave fra tanti
scapati. Si vedeva squadrato dalla testa ai piedi, notava un fondo
d’ironia perfino nella deferenza che gli si mostrava. Involontariamente
correva col pensiero alla sua cameretta raccolta, alla sua solitudine
pensosa, alla sua biblioteca, a’ suoi quaderni, alla sua grande opera
storico-filosofica a cui le mutate abitudini gl’impedivano di attendere
come avrebbe dovuto. E suo malgrado lo assaliva un rimpianto di quei
tempi tranquilli, di quelle laboriose giornate che gli costavano tanto
minor fatica delle distrazioni presenti. Allora le sue distrazioni si
limitavano alle passeggiate con Dalla Volpe e con Frusti, che ormai gli
tenevano il broncio, alle due sere per settimana passate dalla Ermansi,
che diveniva sempre più fredda verso di lui, che non gli mandava
neanche più le sue rose dopo che aveva saputo ch’esse andavano a finire
dalla bella contessa Giorgina. Tutta, tutta la vita di Teofoli era
cambiata. E per causa di chi? Per causa della Serlati.

A mente fredda egli formava mille propositi eroici. Avrebbe diradato
le sue visite, avrebbe cercato di esonerarsi dagl’inviti a pranzo,
non sarebbe andato nè a teatro, nè in società, luoghi che non erano
fatti per lui. Oh sì. Proprio negl’istanti in cui la sua risoluzione
pareva più salda, qualche incidente imprevisto lo costringeva a mutar
consiglio. È più facile a un gran generale di perdere una battaglia
che a una civetta sopraffina di perdere un adoratore. Un istinto
infallibile l’avverte del pericolo e le suggerisce il rimedio. La
contessa Giorgina non intendeva rinunziare agli omaggi di Teofoli,
ch’era certo il più vecchio, il meno chic de’ suoi vagheggini, ma
ch’era anche il più illustre, quello che forse le voleva più bene di
tutti, quello a ogni modo che non badava ad altre donne che a lei. E
allorchè le sembrava ch’egli mirasse a emanciparsi, ella lo legava a
sè con uno sguardo, con un sorriso, con una parola, con una preferenza
spiccata. Le preferenze femminili, già si sa, sono servigi richiesti
a ciascuno secondo le sue attitudini. Un giorno ella gli mandò un
bigliettino così concepito:

“Caro Teofoli. Potreste stasera accompagnarmi a teatro? Non si tratta
che di accompagnarmi e di restare al massimo una mezz’oretta in palco
con me fin che capiti qualcheduno. In ogni caso, sul tardi verrà mio
marito che ha non so quale impegno subito dopo pranzo, ma sarà libero
prima delle undici. Se non mi manderete a dir nulla in contrario, vi
aspetterò per le otto e mezza a casa mia. Scusate e prendete la mia
indiscrezione come una prova della mia amicizia.„


VI.

Il professore era a casa Serlati alle otto e un quarto. Sulle scale
egli trovò il conte Ercole che lo salutò cordialmente. — Bravo,
professore. Lo ringrazio anch’io della sua gentilezza. Alla Giorgina
non sarebbero mancati i cavalieri, ma noi abbiamo preferito lei.

— È un onore, un onore grandissimo, — biascicava Teofoli.

Il conte Ercole sorrise. — Basterà che rimanga finchè principia il
turno delle visite. Non avrà tanto da aspettare. Mia moglie conosce
ormai mezza città.

— Pur troppo, — avrebbe voluto rispondere il professore. Ma si contentò
di protestare ch’egli era ben lieto di consacrar l’intera serata alla
sua ottima amica.

Su in casa lo s’introdusse in un salottino bene riscaldato, bene
illuminato, pieno di ninnoli altrettanto inutili quanto eleganti, e lo
si pregò di attendere. La contessa finiva di vestirsi.

Di lì a pochi minuti ella comparve abbottonandosi i guanti e seguita
dalla cameriera che teneva spiegata una mantellina di stoffa bianca con
guarnizione di cigno.

— Lo sapevo bene che su voi si può fare assegnamento, — ella gli disse
stendendogli la mano. — Avete anticipato.

— Oh.... di qualche minuto.

Ella si affacciò allo specchio. — Ecco, per non lasciarvi solo son
venuta a compier qui la mia toilette.

Si rivolse alla cameriera. — Maria, infilami la mantellina.

La contessa Serlati quella sera era proprio un amore, con le sue belle
braccia nude, con l’abito di raso nero aperto sul davanti, con un
monile di perle intorno al collo di neve, e senz’altro ornamento in
testa che una camelia d’un color roseo pallido che faceva spiccare il
castano scuro de’ suoi capelli.

— Mi par di leggervi in cuore, — ella disse mentre dava un’ultima
occhiata allo specchio. — Queste donne non finiscono mai di lisciarsi,
di contemplarsi.... Tutte un impasto di vanità....

— Oh contessa....

— No, no, in fondo avete ragione.... Ma se siamo fatte così? Se la
cura della nostra persona e del nostro abbigliamento è parte del nostro
decoro, della nostra dignità?

— Ed è naturale, — rispose con galanteria il professore. — Quando la
persona è un’opera d’arte merita bene il conto di occuparsene.

— Sempre gentile, — ella soggiunse avvicinandosi.... — Io però credo
d’esser delle più spiccie a vestirmi.... Me ne appello alla Maria.

La cameriera chinò il capo assentendo.

— La carrozza? — domandò la contessa.

— È pronta.

— Andiamo allora.

Il professore Teofoli era stato più volte in carrozza con la contessa,
ma solo con lei, di sera, in un legno chiuso, non c’era stato mai. Si
sentiva al tempo stesso orgoglioso e turbato di quella vicinanza, di
quel tepore, di quel profumo che l’avvolgeva. Dai lampioni della strada
entravano ogni tanto dei fasci di luce nel landau, ed egli vedeva
quella testina adorabile voltata dalla sua parte, quei grandi occhi
scintillanti, quelle labbra rosee fatte per sorridere e per baciare....
Oh com’egli capiva che per un bacio di quelle labbra rosee si desse la
vita!... Se avesse osato?... Ma l’età dell’audacia era passata da un
pezzo.... E poi egli non era stato giovine nemmeno a trenta, nemmeno a
venti anni.... come poteva esser tale a cinquanta?

— Non avete niente da raccontarmi? — disse a un certo punto la Serlati.
— A che pensate stasera?

— Penso, — replicò il professore, — al dottor Fausto che dopo esser
invecchiato sui libri assimilandosi quasi tutto lo scibile umano,
vendette l’anima al diavolo per tornar giovine e farsi amare da
Margherita.

— E che c’entrano Fausto e Margherita in questo momento?

— Oh più di quello che non creda, contessa.

— Lasciamo stare Margherita. Sareste voi Fausto?

— Sono di quella famiglia.... Meno sapiente, s’intende.

— Meno vecchio piuttosto.

— Uno è vecchio appena ha cessato d’esser giovine.

— E vendereste l’anima al diavolo?

— Forse sarebbe inutile offrirgliela. Il diavolo è diventato più
positivo e s’è accorto che le anime non valgono quello che costano.

— Però voi non credete al diavolo, — soggiunse maliziosamente la
contessa.

— Credevo di non credervi.

— E avete mutato opinione?

— Sono problemi gravi.

— Ah Teofoli, — disse la Serlati con uno di quei bruschi passaggi di
cui le donne hanno il segreto, — che ce n’è delle nostre conferenze di
filosofia, del nostro Spinoza, del nostro Darwin, del nostro Spencer?

— Cara contessa, — ribattè il professore, — sa bene che dal canto
mio....

— Lo so, lo so, non è colpa vostra.... Ma vedete voi pure se ho un
momento di quiete.... V’avevo anche promesso di venir a vedere le
fotografie di quegli omenoni nel vostro studio.

— Magari venisse! — proruppe Teofoli. — Non ardisco sperarlo.

— Avete torto.... Forse sarei venuta se non temessi di esser morsicata
dal vostro Cerbero.

— Che Cerbero?

— La vostra governante, la vostra cuoca, quello che è insomma.

— La Pasqua?

— Si chiama Pasqua? Un nome stagionato, da persona matura.... Ebbene,
scommetterei che quella donna lì non mi può soffrire....

— Che idee!

— Ma sì; è naturale.... dev’essere uno spirito metodico la vostra
signora Pasqua. Deve averla con me per la rivoluzione che ho portato
nelle vostre abitudini.

Il professore seguitava a negare, ma in cuor suo riconosceva che la
contessa Giorgina aveva colto nel segno. Che donna perspicace!

— In ogni modo, — egli insinuò timidamente, — dal tocco alle tre la
Pasqua non c’è mai.

— Davvero?

— Sono le sue ore di libertà.... Non ci rinunzierebbe a nessun patto.

— Eh, allora.... chi sa che un bel giorno quando meno ve l’aspettate....

— Contessa, cara contessa, — esclamò Teofoli ingalluzzito. — Parla sul
serio?

— Sicuro.

— E quando verrà?

— Oh questo poi.... Non ha da essere una sorpresa?

— No.... riflettendoci bene.... potrei aver gente.... potrei esser
fuori.

— È giusto.... Allora vi avvertirò un giorno prima.... È inutile far
chiacchiere intanto....

— Si figuri....

E il professore strinse con entusiasmo la mano che la Giorgina gli
porse quasi a conferma della sua promessa.

La carrozza si fermò sotto la loggia coperta del teatro.

Teofoli aiutò la sua dama a scendere, e dandole il braccio attraversò
pomposamente il vestibolo. Camminava con la testa alta, con passo
leggero ed elastico; gli pareva di aver vent’anni.

Ma l’apparizione del giovine marchese di Montalto sul primo
pianerottolo dello scalone gli fece l’effetto d’una doccia fredda. Il
marchese si mise subito al fianco della contessa, ed entrò in palco
con lei e col professore. Egli rivolse alla Giorgina mille complimenti
sulla sua bellezza, sul buon gusto della sua _toilette_, e passando
in rassegna col cannocchiale le varie signore che c’erano in teatro
sentenziò che nessuna, proprio nessuna, poteva reggere al confronto di
lei. Nella quale opinione Teofoli consentiva interamente; gli seccava
però che la cosa fosse detta da Montalto, e più ancora che la Serlati
mostrasse di gradirla tanto e scherzasse con quella testa di legno e
gli concedesse una strana familiarità.

A poco a poco sopraggiunsero i soliti visitatori, i soliti cicisbei
sguaiati, svenevoli con cui la Giorgina aveva il torto di ridere e di
divertirsi.

— Ormai, — ella disse a Teofoli, — sono ben custodita, e non voglio
tenervi prigioniero. Grazie della vostra cortesia.

Fatto si è che nel palco non ci si stava più e che il professore non
poteva insistere per rimanere.

Al garbato congedo della contessa egli rispose:

— Scendo in platea.... Ripasserò sul tardi per sentire se le occorre
nulla.

— Ma no, non vi disturbate, — ella insistè con un principio
d’impazienza. — Che cosa deve occorrermi?

— Però.... se non venisse suo marito.... per riaccompagnarla in
carrozza....

— Mio marito verrà certamente.

— In ogni caso ci siamo noi, — gridarono all’unissono i presenti.

— Vedete che i cavalieri non mi mancano, — soggiunse la Giorgina. —
Buona notte, Teofoli, e grazie di nuovo.

E nel palco fu un coro di — Buona notte, professore, buona notte,
— con certe inflessioni di voce che davano alla frase innocente il
significato di: — Se ne vada, si spicci, non secchi più.

— Già, i cavalieri non le mancano, — borbottava l’ottimo professore
scendendo le scale. — Voglio sperare ch’ella li stimi per quello
che valgono. Con l’ingegno che ha non dovrebbe prender lucciole per
lanterne.... Quel marito però è un gran minchione.

Giunto nell’atrio, Teofoli non seppe resistere alla tentazione di
fermarsi alquanto in platea, ove, non avendo sedia chiusa, stette
ritto in mezzo alla folla con gli occhi fissi al palco 24 di prima fila
ch’era quello della Serlati.

Era un gran cicaleccio in quel palco, e di tratto in tratto dal basso
salivano dei tss, tss prolungati all’indirizzo dei disturbatori. Due
vicini del professore si sfogavano a sparlare di _quelle dame_ in
generale e della Serlati in particolare che soggiornava da pochissimo
tempo a X e quantunque fosse sposa da soli due anni faceva già
discorrer sul conto suo come le _veterane_. Il nostro amico sudava
freddo a sentir questi orrori, e avrebbe voluto ricacciar lo parole
in gola a quei bifolchi. Ma come promuovere uno scandalo alla sua
età, nella sua posizione sociale?... E poi non era peggio anche per
la contessa Giorgina? Non era un dare il nome di lei in pascolo al
pettegolezzo cittadino? No, no, era più savio consiglio l’andarsene.

Mentre Teofoli agitava in mente questi pensieri, al parapetto del palco
N. 24 di prima fila s’affacciava il conte Serlati e con la sua presenza
rimoveva gli ultimi scrupoli dall’animo del professore. Ormai c’era il
marito, e di lui non si aveva più bisogno.

Egli uscì dunque dal teatro. Ne uscì con la testa confusa, col cuore
in tumulto, con quello strano miscuglio d’impressioni e di sensazioni
contrarie ch’egli provava sempre dopo esser stato con la Giorgina.
Mai, mai una volta da poter dire senz’ambagi: — Oggi sono contento. —
Ma fors’è così nella vita; ove c’è intensità di gioia c’è intensità di
dolore.

Però, nel rifare la strada di casa e di mano in mano che l’aria
fresca metteva un po’ d’ordine nelle sue idee, Teofoli diceva a sè
stesso che quella sera egli aveva un gran torto di pensare ad altro
che alla promessa dolcissima fattagli ripetutamente dall’amabile
contessa; quella di venirlo a visitare nel suo studio. È vero che di
quest’argomento s’era già discorso in passato, ma se n’era discorso
per incidenza, nè egli stesso vi si era trattenuto più che tanto, nè vi
aveva attribuito un grande significato. Adesso era tutt’altro, adesso
la Giorgina s’era impegnata in modo solenne, e con una cert’aria di
mistero che aggiungeva importanza alla cosa. Non c’è dubbio, la Serlati
non veniva da lui come ci sarebbe venuta, per esempio, la Ermansi....
Ma come, come ci veniva? Con quali idee, con quali aspettazioni? Qui la
mente del povero professore si smarriva in un pelago di congetture, ed
egli sentiva alternarsi nell’anima audacie di leone e pusillanimità di
coniglio, e avrebbe dati volentieri dieci degli anni che gli restavano
a vivere per aver chiara e limpida davanti a sè la via da seguire. Ah,
in fin dei conti, un po’ di pratica non è mai una disgrazia.

Insomma non è punto da far le maraviglie se dopo una serata così ricca
di commozioni, il professore Clemente Teofoli non potè chiuder occhio
per tutta la notte.


VII.

È una caratteristica delle civette quella di dare agli atti, alle
parole più semplici un’apparenza che ne accresce la portata agli
occhi degli ingenui. Ogni donna dice _buona sera_, _buon giorno_,
_arrivederci_, ogni donna, se è stanca, accetta il braccio d’un
cavaliere; se ha sete, lo prega di procurarle un bicchiere d’acqua;
se le casca un guanto, lascia ch’egli lo raccolga; ma la civetta
farà tutto ciò in un suo modo particolare. Nel _buon giorno_, nella
_buona sera_ ci sarà un languore sentimentale; nell’_arrivederci_ ci
sarà una promessa; nell’appoggiarsi ci sarà un molle abbandono; nel
ringraziare d’un bicchier d’acqua portato, d’un guanto raccolto, ci
sarà un’espressione tenera di riconoscenza piena di sottintesi.

Così, in via ordinaria, non v’è motivo di scandalo e di meraviglia nel
fatto che una signora (e sia pur giovine e bella) vada una o più volte
nello studio d’uno scienziato d’età matura e di reputazione illibata.
E, in vero, abbiamo già detto che sulle prime il professore Teofoli
non aveva messo malizia alcuna nella visita sperata della contessa
Giorgina. Sarebbe stato certo un gran piacere per lui, ma la sua
innocente galanteria non mirava più in là. Era stata la contessa con lo
sue reticenze, col suo ordine di non dir nulla a nessuno che gli aveva
messo il sangue in fermento. E come non aveva dormito la notte, così
non seppe mettersi a lavorar di lena nei dì successivi. Dopo la sua
lezione all’Università non riusciva a far altro. Nel suo insegnamento
non si poteva scoprire il minimo sintomo di decadenza; la sua memoria,
la sua dialettica erano sempre ammirabili, la sua parola era sempre
limpida e colorita; anzi c’erano momenti ch’essa aveva un fascino
maggiore dell’usato come di strumento a cui si sia aggiunta una nuova
corda. Ma se il professore si manteneva all’altezza d’un tempo per ciò
che riguardava le sue lezioni, lo scienziato non era più quello per
l’assiduità nelle ricerche, per l’instancabile operosità del pensiero.
E non era nemmeno più quello per la sollecitudine verso gli scolari
dei quali una volta egli amava attorniarsi e che ora egli teneva
sempre a una certa distanza. Peggio poi da quando aspettava la visita
della Serlati. Bisognava assolutamente sviar quei ragazzi dal venirlo
a cercare a casa. E se uno di loro gli diceva che sarebbe passato a
disturbarlo per avere un libro in prestito, o per manifestargli alcuni
suoi dubbi su qualche questiono un po’ controversa, egli aveva una
sequela di ma, di se, di forse che scoraggiavano il sollecitatore.
Ecco, in quanto al libro, gliene indicasse pure il titolo; glielo
avrebbe fatto avere per mezzo del bidello. E circa ai dubbi che lo
studente desiderava esporgli, s’eran tali da potersi risolvere lì per
lì, valeva meglio spicciarsi subito; se no il giovine li mettesse in
carta, ed egli avrebbe risposto nello stesso modo. Coi colleghi teneva
un sistema analogo. S’isolava quanto più era possibile, insisteva sul
suo gran da fare; suggeriva loro, se avevano da parlargli e non si
sgomentavano dell’idea di aver fatto la strada inutilmente, di venir di
sera, dalle sette allo otto.... _Per solito_, a quell’ora era in casa.

— Par d’essere nel deserto — borbottava la signora Pasqua. Ed ella
che aveva in altri tempi molto brontolato pel continuo viavai della
ragazzaglia, adesso brontolava perchè, a eccezione del postino, non
c’era quasi nessuno che suonasse il campanello. E poi tutto andava
alla peggio. Talvolta a metà della giornata, il professore annunziava
che sarebbe stato a pranzo fuori, talvolta non si curava nemmeno di
annunziar nulla, e all’ora del desinare non si faceva vedere. E non
tollerava mica osservazioni. Oh sì. Era diventato un basilisco. — Se
non v’accomoda, quella è la porta — ecco il suo ritornello.

Ah se la signora Pasqua non gli fosse stata affezionata, se non avesse
trovato il suo tornaconto a stare al servizio d’un uomo solo! Non
le restava altro conforto che quello di sfogarsi con le vicine e coi
professori Frusti e Della Volpe, quando, venuti a cercar l’amico e non
trovatolo avevano anch’essi la loro dose di fiele da versar nell’animo
di qualcheduno. Già la signora Pasqua si conciliava subito la loro
benevolenza col dir male delle donne. — Avevano ragione, avevano
ragione da vendere. Le donne erano sempre la prima causa di tutti i
mali. Non poteva rimaner dov’era, quel serpente, quella contessa che
aveva reso irriconoscibile un uomo come il professore Teofoli?

Diceva ciò quasi a dipingerlo come la vittima di un incanto, di
una malìa. Però i suoi interlocutori non ammettevano circostanze
attenuanti. Se avesse avuto vent’anni, trent’anni, passi. Ma alla sua
età? Non si è vittime quando non si vuol esser tali. Si fosse provata a
civettar con loro, la signora contessa! Gli è che Teofoli aveva avuto
sempre le sue debolezze per il bel sesso. Non aveva badato a chi gli
presagiva che il salotto Ermansi sarebbe stato la sua rovina, aveva
voluto girare intorno al fuoco e s’era bruciato le ali. Tanto peggio
per lui!

Il più arrabbiato era il Della Volpe che non perdonava al collega
di avergli fatto mangiare di magro a casa un venerdì inviandogli
all’ultimo momento un biglietto per contrammandare il solito invito
settimanale. Un’azionaccia, una vera azionaccia che lo aveva esposto ai
sarcasmi della moglie e l’aveva costretto il giorno dopo a prendere il
bicarbonato di soda per accomodarsi lo stomaco!

Del rimanente, anche quando i tre amici desinavano insieme, i loro
ritrovi non avevano niente a che fare con quelli d’una volta. Le
querimonie di Della Volpe contro la consorte viva e quelle di Frusti
contro la defunta non sollevavano nessuna ilarità; alle galanterie
di Teofoli non era lecito di fare il minimo accenno; i fatti della
19ª dinastia tebana e la rivalità di Carlo V e di Francesco I non
riuscivano ad animare la conversazione; le virtù culinarie della
signora Pasqua, per quanto apprezzate dai commensali, non ricevevano il
debito tributo di lodi in causa dell’inappetenza dell’anfitrione. La
signora Pasqua avvilita dal veder che il professore toccava appena le
vivande, gettava sdegnosamente gli avanzi al gatto _Tocci_, dicendo che
per poco che durasse così ell’avrebbe fatto la cucina soltanto per lui.
— Ma già — ella proseguiva con aria sprezzante — tu non sei migliore
del tuo padrone. Se ti salta qualche grillo, se la micia soriana dei
nostri vicini ti fa qualche smorfia, pianti il cibo e la casa e corri
dietro a quella poco di buono pegli orti e pei tetti. Bada però di non
portartela qui dentro.... Se vi colgo state freschi.... Scandali non ne
voglio.

La signora Pasqua, nel pronunciar queste gravi parole, non s’immaginava
che il professore meditava appunto lo scandalo ch’ella non avrebbe
perdonato a Tocci.

Erano trascorse due settimane dalla serata del teatro, nè la contessa
Giorgina aveva più soggiunto una sillaba sul delicato argomento della
sua visita. Dal canto suo il professore non osava interrogarla; cercava
bensì che ne’ suoi occhi ci fosse la domanda che non osava salirgli
alle labbra, ma non avrebbe potuto dire s’ella lo capiva o se voleva
capirlo. Già, eravamo alle solite; ch’aveva sempre intorno a sè uno
sciame d’oziosi, e, per quella sua benedetta fissazione d’esser cortese
con tutti quanti, i vecchi amici si trovavano allo stesso livello dei
nuovi arrivati. Teofoli non andava da lei senza dover subirsi una o due
presentazioni. Il conte tale, il marchese tal altro. Bravissimi giovani
piovuti dalle nuvole che a sentir il suo nome borghese chinavano
appena la testa e a cui non passava neppure in mente che quel nome
potess’essere più rispettabile e più conosciuto del loro. Che tirocinio
d’umiltà deve fare un uomo d’ingegno allorchè si mette a corteggiare
una donna galante!

Nondimeno, Teofoli era rassegnato a questo genere di mortificazioni.
Ne avrebbe subìto in pace anche di maggiori se avesse potuto acquistar
la certezza che la Serlati gli voleva un po’ di bene. Ma perchè
quel contegno enigmatico? Perchè quel silenzio ostinato circa alla
sua visita? Gliel’aveva o non gliel’aveva promessa? E come si può
dimenticar così una promessa?

Ebbene, una sera nel venir via dalla conversazione dei Roncagli
e proprio nel momento che il professore inghiottiva tanto veleno
pensando alle paroline, ai sorrisi, alle occhiate che la contessa aveva
scambiato fino allora con Montalto e con due o tre giovani ufficiali,
ella colse un pretesto qualunque per avvicinarglisi e gli susurrò
all’orecchio: — Aspettatemi domani, al tocco e mezzo.

Si pose il dito sulla bocca per intimargli silenzio, e senz’attender
risposta diede il braccio a Montalto che l’accompagnò giù della scala
fino alla carrozza.

Neppur volendo, Teofoli non avrebbe potuto rispondere. Era sbalordito,
ammutolito, con la testa in combustione; sarebbe stato incapace di
esprimere quel che provava. O fors’era simile al soldato che, dopo
aver mostrato una grande impazienza di battersi, sente raddoppiar
le pulsazioni del cuore nel vedere il nemico, e non è ben sicuro che
quelle pulsazioni sian figlie tutte d’uno schietto entusiasmo.


VIII.

Il professore passò un’altra notte senza dormire (ormai la cosa gli
accadeva spessissimo) e la mattina fu in piedi per tempo chiedendo a
sè stesso se veramente fosse spuntato il giorno più memorabile della
sua vita. In veste da camera entrò nello studio, quello studio ove
al tocco e mezzo avrebbe ricevuto _lei_, ne aperse le imposte non
badando al freddo, e quantunque il sole non fosse ancora visibile
s’assicurò che il cielo era tutto sereno. Da questo lato dunque non
c’era pericolo che sorgessero ostacoli alla visita della contessa.
Naturalmente, se fosse piovuto, ella sarebbe rimasta a casa sua. Il
buon Teofoli s’arrabbiò seco medesimo sorprendendo nel fondo del suo
cuore una segreta e timida benevolenza verso la pioggia, la quale,
in fin dei conti, gli avrebbe permesso di prepararsi meglio a questa
specie d’esame.... Possibile ch’egli fosse un vigliacco?... S’armò
d’un granatino e si diede a spolverar leggermente i mobili, i libri,
e alcune fotografie appese a una delle pareti. Erano per lo più
ritratti d’illustri contemporanei, italiani e stranieri, regalati in
gran parte e portanti la firma autografa del donatore. Vi figuravano
i principali cultori della storia, della filosofia e delle scienze
in Italia; dei Tedeschi, il Mommsen, il Gregorovius, il Ranke, lo
Strauss, il Virchow; dei Francesi, il Renan, il Littré, il Taine;
degli Inglesi, il Darwin, lo Spencer, l’Huxley — i campioni insomma
del pensiero moderno, dalle fronti ampie e severe ove la meditazione
aveva segnato i suoi solchi, dagli occhi profondi che s’erano stancati
nelle assidue ricerche. Teofoli che conosceva tanta parte delle loro
opere avrebbe voluto in quel momento penetrar bene addentro nelle loro
anime, sapere i loro segreti più intimi, chieder loro se si fossero
mai trovati in condizioni simili a quella in cui egli si trovava,
implorare il soccorso della loro esperienza. Ahimè, nè da loro nè dai
libri allineati negli scaffali gli veniva lume a’ suoi dubbi. Ed egli
era tentato di domandarsi a che servono le biblioteche se non danno una
guida, un conforto nei casi difficili.

Frattanto macchinalmente, inconsciamente riordinava le carte e gli
opuscoli che ingombravano il suo tavolino, apriva sul leggìo un
magnifico atlante di Stieler, avvicinava alquanto alla finestra un bel
mappamondo che aveva comperato l’anno addietro a Lipsia, metteva in
mostra un volume di Spencer arrivatogli una settimana addietro con la
dedica dell’autore. Molto di più avrebbe fatto, se non fosse stato il
timore d’insospettire la signora Pasqua con le novità.

Ma la signora Pasqua venendo, come usava ogni giorno, alle nove a
portare il caffè e ad accender la stufa non s’accorse di null’altro
che della brutta cera del padrone il quale dovrebbe almeno, ella
disse, rimanere in letto un’ora di più la mattina dopo che aveva preso
l’abitudine di passare una parte della notte fuori di casa. — Se crede
che le faccia bene, — ella soggiunse.

— Son fantasie vostre, cara Pasqua, — rispose il professore. — Io sto
benissimo....

— Sarà.... Ma l’altr’anno stava molto meglio.

— Nemmeno per sogno, — replicò Teofoli, rimettendo la chicchera sul
vassoio. — I miei vestiti sono pronti?

— Sissignore. E oggi è a casa tanto a colazione che a pranzo?

— Sì, sono a casa. Lasciatemi adesso, chè devo far qualche cosa prima
d’andare all’Università.

Mezz’ora dopo, il professore Teofoli saliva in cattedra ed esponeva
a’ suoi studenti con parola fluida e precisa il sistema di Augusto
Comte, ciò che prova, a chi ne dubitasse, che molte funzioni anche
intellettuali diventano con l’abitudine semplici funzioni meccaniche e
che basta toccar certe corde per averne certe sonate. In realtà quella
mattina il nostro professore non si curava nè di Augusto Comte nè della
filosofia positiva e la sola impressione destata in lui dalla presenza
della colta gioventù era quella che il più asino della classe avrebbe
affrontato con maggior serenità e baldanza di spirito le vicende di un
convegno galante.

A colazione egli fu altrettanto taciturno quanto la mattina, e la
signora Pasqua non riuscì a cavargli di bocca che qualche monosillabo.

Questa taciturnità crescente del suo padrone non era l’ultima delle
ragioni che spingevano la signora Pasqua ad approfittar delle sue due
ore di libertà per andare a sfogarsi con le sue amiche. E anche quel
giorno, alle dodici e cinquantacinque minuti, ella infilò la porta,
liberando il professore dalla paura che per uno o un altro motivo ella
s’indugiasse più dell’usato. Uscita lei, fu facile al nostro Teofoli
di sbarazzarsi del ragazzo Fedele, un galoppino che stava sempre a
sua disposizione e che una volta fuori del nido metteva un secolo
a tornarci. È vero che ordinariamente Fedele si tratteneva in casa
durante le assenze della signora Pasqua, ma egli non era uomo da far
obbiezioni ad andarsene, e accettò con entusiasmo due o tre incarichi
che gli fornivano un ottimo pretesto per stare in giro mezza giornata.

E così, all’una e pochi minuti il professore Clemente Teofoli fu
solo.... aspettando. Non già nella camera da studio ch’era piuttosto
appartata, ma nel salottino da pranzo che dava sulla strada. Ne aperse
l’uscio per sentir meglio il campanello, sollevò alquanto il lembo
d’una tendina e si mise in vedetta. Da che parte sarebbe venuta? Se
veniva direttamente dalla sua abitazione sarebbe venuta dalla destra;
ma era probabile che avesse fatto una diversione, che venisse dal
lato opposto. Non importa; egli l’avrebbe vista a ogni modo. Ma come
sarebbe venuta? A piedi o in carrozza? Certo non nella sua carrozza.
Se no, come mantenere il segreto? Forse il meglio era ch’ell’avesse
preso un fiacre a nolo. E vero che anche il fiacre lì fermo ad
attenderla dinanzi alla porta aveva i suoi inconvenienti. Pazienza;
gl’inconvenienti non si potevano evitare nè in carrozza nè a piedi....
Qui poi lo assaliva un dubbio più fiero.... S’ella non fosse venuta?
S’egli l’avesse fraintesa? S’ell’avesse voluto fargli una burla? Ma
perchè? Ma perchè?

Era l’una e un quarto. Anche s’ella fosse stata puntuale non avrebbe
potuto esser da lui che tra un quarto d’ora; che ragione c’era ch’egli
stesse con gli usci aperti a pigliarsi il fresco prima del tempo?
Rientrò in camera da studio, non già per rimanervi, ma per dare
un’occhiata alla stufa, per rifondervi della nuova legna. Subito dopo
si rimise al suo osservatorio.

La strada era delle meno frequentate. Pochi pedoni; a lunghi intervalli
una vettura. Ah, come il cuore gli balzava a ogni scalpitìo di zampe
ferrate, a ogni romore di ruote, a ogni apparire in fondo alla via d’un
cappellino e d’un vestito femminile! Ma non era lei, non poteva esser
lei; mancavano dieci, mancavano cinque minuti all’ora prefissa.

Finalmente suonò la mezza, e da quell’istante le ansie dell’attesa
raddoppiarono. Ogni secondo pareva un minuto, ogni minuto pareva
un’ora. A un certo punto Teofoli ebbe una strana allucinazione. Vide
da lontano un suo studente con una donna, e quella donna, nella sua
fantasia riscaldata, pigliò l’aspetto della contessa Giorgina. Era
possibile? L’incanto fu subito rotto. Quello era bensì uno studente, ed
era in compagnia d’una ragazza, ma la ragazza, quantunque abbigliata
con una certa eleganza, aveva l’aria di non esser altro che una
crestaia. Ed egli aveva commesso il sacrilegio di scambiarla con la
Serlati! La giovine coppia passò sotto le finestre di Teofoli senza
nemmeno alzar la testa; lo scolaro ch’era venuto ripetutamente dal
suo professore per ragioni di studio aveva adesso ben altro che il
suo professore pel capo. Ah, come sembravano felici quei due! Come
camminavano svelti, spediti, come ridevano e ciarlavano e si divoravano
con gli occhi! Succedono pure di grandi trasformazioni in noi stessi.
Alcuni mesi addietro, Teofoli avrebbe certo biasimato in cuor suo
l’incauto discepolo che si lasciava adescare da una sguaiata, avrebbe
fatto eco alle filippiche di Dalla Volpe e di Frusti contro le femmine;
ora invece era pieno d’indulgenza pel sedotto e per la seduttrice e
quasi quasi avrebbe voluto essere al loro posto.

— Ma! Gioventù! — egli sospirò quando la coppia si fu dileguata.

E con un secondo sospiro guardò l’orologio. La lancetta segnava l’una e
tre quarti. Ah cattiva contessa; si sarebbe dunque presa gioco di lui?

In quel momento gli occhi del professore Teofoli caddero sopra una
persona la cui presenza gli recò una noia infinita. Dall’altra parte
della strada, poco men che dirimpetto alle sue finestre, il conte
Antonio Ermansi, spuntato non si sa di dove e fermo dinanzi alla mostra
di un rigattiere, esaminava in tutti i sensi alcuni vecchi libri,
mentre il padrone del negozio che stava sulla soglia in atto ossequioso
cercava d’indovinare dall’espressione e dai gesti del bibliomane il
valore della propria merce, da lui pagata a peso di carta.

— Cretino d’un Ermansi! — borbottava rabbiosamente il professore
stringendo i pugni. — Aveva da venir qui giusto oggi.... E non si
risolve mica ad andar via.... Oh sì.... Meno male che entra nella
bottega.... E poi dev’esser miope.... Ah!...

_Ah_, dice il dizionario, è una _interiezione che si usa per esprimere
diversi affetti_. Certo che adesso, in bocca del professore Clemente
Teofoli, essa ne esprimeva moltissimi. Chè di là ond’erano venuti
lo studente e la crestaia egli aveva visto sorgere (a lui era parso
davvero che sorgesse dal suolo) una bella, agile figura di donna,
avviluppata in una lunga pelliccia, con un cappellino di velluto color
marrone con nastri azzurri, la veletta calata sul volto e le mani
nascoste in un piccolo manicotto. Era lei, era lei. La cagnetta che
l’accompagnava e che aveva tutti i connotati di _Darling_ bastava a
rimuover gli ultimi dubbi.


IX.

L’andatura della contessa (poichè Teofoli non s’era ingannato) non
tradiva la minima esitanza, il minimo imbarazzo; s’ella aveva il velo
abbassato, s’ella studiava il passo, era pel freddo e non per la paura
di esser sorpresa. Giunta all’abitazione del professore, di cui ella
conosceva benissimo la facciata, ella infilò il portone che di giorno
era sempre aperto, salì la prima branca della scala e si fermò sul
pianerottolo. Ma non ebbe bisogno di suonare il campanello accanto al
quale era inciso su una piastra d’ottone il nome _Teofoli_, chè l’uscio
girò lentamente sui cardini e una voce soffocata disse dal di dentro: —
Contessa, o contessa Giorgina.

— Buon giorno, Teofoli, — ella rispose entrando con molta calma e
tranquillità.

— Com’è stata buona, com’è stata gentile! — esclamava il professore
porgendole la destra mentre con l’altra mano andava quietando _Darling_
che gli saltava alle gambe. — Non osavo sperare.

La contessa fece una risatina che mise allo scoperto una doppia fila di
denti bianchissimi, e domandò: — Cerbero non c’è?

— Nè Cerbero, nè nessuno, — replicò il professore con un accento che a
lei parve fin troppo tenero.

— Bah! — ella soggiunse. — In fondo sarebbe stato lo stesso.

Teofoli che precedeva di qualche passo la bella visitatrice e aveva già
aperto l’uscio della sua camera da studio non ebbe tempo di rilevare
il senso di questa frase poco appassionata, essendo avvenuto in quel
momento un singolare incidente.

Il gatto Tocci, avvertito dal suo fine odorato o dal tintinnio dei
sonagli di _Darling_ della presenza di un quadrupede estraneo sotto il
tetto domestico, si precipitò come un fulmine dal focolare della cucina
ove faceva il suo chilo e piombò minaccioso sulla cagnetta, la quale,
pusillanime per sua natura, evitò la pugna e inseguita dall’avversario
corse a ripararsi nello studio del professore, sotto uno scaffale.
_Tocci_, da animale che temperava l’audacia con la prudenza, non volle
impegnare battaglia in condizioni sfavorevoli, ma col pelo arruffato,
con la coda ingrossata si piantò dinanzi agli accampamenti dell’intruso
esprimendo i suoi fieri propositi con certi rauchi e lunghi miagolii
di non dubbio significato per chi conosce il linguaggio felino. Alle
grida della contessa atterrita dal pericolo di _Darling_, Teofoli
affrontò coraggiosamente il gatto belligero e dopo inutili sforzi per
impadronirsene riuscì infine a cacciarlo dallo studio nell’andito e
dall’andito nella camera della signora Pasqua di cui chiuse l’uscio
con un colpo secco. Compiuta questa lodevole impresa, il filosofo tornò
dalla Giorgina ch’egli trovò accovacciata sul tappeto e intenta a tirar
fuori _Darling_ dal suo rifugio.

— Che bestie feroci tenete presso di voi? — ella gli disse in tuono di
rimprovero.

— Oh per carità, contessa, mi perdoni, — balbettò il professore tutto
confuso. — Se avessi potuto credere, se avessi potuto immaginare....
_Darling_, povera _Darling_, quell’animalaccio non ti ha mica fatto
nulla?

— Paura le ha fatto.... Vedetela come trema.... Pur che non si
ricominci da capo al momento di uscire.

— Nemmen per idea. Ho preso le mie precauzioni.

— Dovevate prenderle prima, — rimboccò la Serlati che s’era messa a
sedere con la cagnetta in grembo e l’accarezzava come un bambino.

Il professore, umile e mortificato, non tentava nemmeno di difendersi.
Ahimè, l’abboccamento galante principiava male.

A poco a poco la contessa si rabbonì, depose Darling in terra, e
rivolgendosi a Teofoli disse: — Capisco, non ne avete colpa. — Indi
soggiunse gettando via la pelliccia e il manicotto con un movimento
rapido: — Fa un bel caldo qui.

— Se volesse levarsi anche il cappello? — egli propose timidamente.

— Non è affare.... Ci vuol troppo a rimetterlo.

— I guanti almeno....

— No, no.... Riallacciar tutti questi bottoni!...

Ella balzò in piedi nella grazia incantevole della elegante persona,
e disse con un sorriso: — Orsù, Teofoli, fate gli onori di casa.... È
pieno di luce il vostro studio.... Dove guarda?

— Su un giardino.... Oh non ci son finestre di fronte.... Può
affacciarsi liberamente.

— E perchè no?... Ah capisco, — ella ripigliò in tuono leggero; — sono
una donna che si compromette.

Quindi, dando un’occhiata intorno, — Quest’è, per voi altri dotti,
quello ch’è il salotto per noi donne.... Invece di ninnoli inutili, di
vasi, di stoffe, di tappeti appesi ai muri o gettati alla rinfusa sui
mobili, libri, libri, e poi libri.... Mi piace.... Se fossi un uomo,
vorrei anch’io.... Ah mio marito, poverino, non ha di questi gusti....
E scommetto neppur Montalto.... Lo studio di Montalto deve avere un
aspetto affatto diverso del vostro. Sarei curioso di vederlo.... Che
viso fate, Teofoli! — ella esclamò ridendo. — Non vi spaventate. Nello
studio di Montalto non andrò.... Mi comprometterei di più.

Teofoli, così eloquente dalla sua cattedra, così piacevole anche nella
conversazione ordinaria, non trovava parole. Ce n’erano due che gli
bruciavano le labbra e ch’egli non ardiva pronunziare, due paroline
piccole piccole — _Vi amo_ — che un pudore, un terrore invincibile
non gli aveva in tanto tempo permesso di dire alla Giorgina. E sì che
delle dichiarazioni gliene aveva fatte; delle dichiarazioni contorte,
poetiche, arcadiche; ma quelle due paroline che hanno il merito di
esser tanto chiare egli non gliele aveva dette mai. A dirgliele,
chi sa, egli si sarebbe attirato da lei un rabbuffo, avrebbe per lo
meno richiamato sulla sua bocca una di quelle risate rumorose che
gli facevan male; non era meglio lasciar ch’ella le indovinasse da
sè?... E poichè certo ella le aveva già indovinate e pur sentendo
ch’egli l’amava era venuta nel suo studio, nel suo santuario, non si
poteva dire che il metodo da lui seguito fino allora fosse interamente
sbagliato. Adesso però, adesso in qual modo doveva regolarsi? Non era
giunto l’istante di parlar chiaro?

Ebbene, non c’era caso, il coraggio gli mancava sul più bello.... Egli
a cinquant’anni, ella a poco più di venti, egli uomo grave, dedito a
una vita di pensiero, ella, donnina alla moda, avvenente, corteggiata,
assetata di divertimenti e di svaghi!... Oh quanto meglio gli sarebbe
stata la parte di padre che quella di damerino!... Ecco, pur dianzi,
quando la Serlati accennava celiando allo studio di Montalto, Teofoli
aveva provato una stretta al cuore, e sarebbe ingiusto il credere
ch’egli non sentisse che il morso acuto della gelosia. La gelosia c’era
senza dubbio, ma c’era anche un altro impulso più delicato e più casto;
come una gentile pietà di quella giovinetta che nessuno guidava, che si
lasciava esposta a tutte le tentazioni, che sarebbe stata capacissima
di cedere, se non oggi, domani alla curiosità di visitar lo studio d’un
libertino. Egli sentiva che avrebbe dovuto dirle: — Badi, Giorgina,
è su una strada falsa. Lei scherza col fuoco e il fuoco la brucierà.
Abbia giudizio per quelli che non ne hanno. Dia uno scopo serio alla
vita. Se sarà madre, s’occupi de’ suoi figliuoli.... Le gioie della
maternità la risarciranno di ciò che le è mancato come moglie.... Che
se pure è destino che neanche a lei possa bastar la famiglia, aspetti
almeno di ubbidire a una voce imperiosa del cuore. La passione attenua
sempre e talora scusa e nobilita la colpa.... Ma sopratutto non sia una
civetta volgare....

Ahi, poteva il professor Teofoli tener questo linguaggio alla contessa
Serlati, egli che non badando alla differenza d’età le faceva il
cascamorto, egli che s’era preparato a riceverla misteriosamente
come usa un giovinotto quando ha una di quelle che si chiamano _buone
fortune_?

Tutto ciò, si capisce, cresceva il suo impiccio che già non sarebbe
stato piccolo in nessun modo. Non osava essere un amante, non sapeva
essere un padre, non sapeva più nemmeno essere un amico. Le girava
intorno inquieto, seguitando a ripeterle: — Cara contessa, Giorgina,
s’accomodi.

E le additava un divano a molle ch’era in mezzo alla stanza.

— No, no, — replicava la contessa, — perchè volete farmi sedere? Sto
benissimo così.

Pareva un uccellino che salta di frasca in frasca. Ferma un istante
davanti agli scaffali, s’alzava in punta di piedi come se avesse
l’intenzione di decifrare i titoli dei volumi addensati nei palchetti,
ma appena il professore si accingeva a farle da cicerone, ella
sguizzava da un’altra parte, ed eccola curva sul mappamondo quasi
cercasse un punto importantissimo dell’orbe terracqueo.

Il professore le si accostava pieno di sollecitudine. — Che cerca?

— Niente, — rispondeva lei, alzando con un sorriso la sua bella testina.

E rivolgeva per pochi secondi la sua attenzione all’atlante che Teofoli
aveva spiegato sul leggìo.

— Quest’atlante, — cominciava il professore, — è il più completo di
quanti ci siano. Non si sa se più lodarne la nitidezza tipografica,
oppure....

La contessa assentiva. — Bello. Sembra un messale.... Perù preferisco
veder davvicino questi ritratti.... Di qualcheduno c’è il nome
sotto.... Autografi preziosi.... Quello è Renan. Ne vidi la fotografia
un’altra volta.... Che tipo singolare!... Come si vede ch’è stato
prete.... C’è una frase latina.... _semel_.... _semel_.... ah finitela
voi....

— _Semel abbas, semper abbas._

— Bravo.... E questi chi sono?

Teofoli glieli nominò ad uno ad uno.

— Tutti quanti illustri, — ella disse con aria convinta. — Non sarebbe
male che fossero più giovani.

— Eh, cara Giorgina, in certi studi non si arriva così presto a farsi
una celebrità.

— Ma nella poesia, nella musica, sì?

— Qualche volta.

— Ho visto i ritratti di Byron, di Mozart, di Bellini.... Non li avete
mica?

— No.... Ma d’un altro ritratto non mi domanda conto? — egli soggiunse
a mezza voce.

— Quale ritratto?

— Il suo.

— È vero.... Quello che vi diedi in campagna.... Dov’è?

Il professore aperse misteriosamente un cassetto.

— È qui.

— Lo custodite come una reliquia?

— _Per me_, è una reliquia....

— Dio, come siete sentimentale! Però è bene che non mi mettiate in
mostra.... Prima di tutto non converrebbe.... E poi la fotografia non
mi piace.... Spero che l’ultima di cui non ho ancora visto la prova sia
riuscita meglio. Faremo il cambio.

— Se mi permette le terrò tutt’e due, — disse Teofoli.

Ella si strinse nelle spalle. — Accomodatevi pure.

Indi sedette dinanzi alla tavola del professore, sulla sua poltrona, e
si diede a scartabellare i suoi fogli. — È qui che scrivete la vostra
grande opera sulle religioni?

— È qui che dovrei scriverla, — egli rispose. — Ma chi sa quando ne
verrò a capo.

Teofoli non osava confessare che dacchè l’aveva conosciuta non aveva
lavorato un giorno solo di lena.

— Male! — sentenziò con gravità la contessa. — Bisogna venirne a capo
presto. Siete già un uomo celebre, ma quel libro assoderà in modo
definitivo la vostra riputazione.

Il professore ch’era ritto dietro a lei si chinò adagio adagio fino
quasi a sfiorarle con le labbra una ciocca di capelli che le svolazzava
sulla nuca, e susurrò: — Le preme dunque la mia riputazione?

Ella si voltò bruscamente. — Mi avete fatto paura. Sì che mi preme.....
Ma perchè me lo domandate con quell’aria lugubre, sepolcrale, come
d’uomo che mediti un delitto?

Anche questa volta i modi della Giorgina lo sconcertarono. Era lì lì
per aver coraggio e non l’ebbe.

— Ebbene, Teofoli, — ella disse alzandosi in piedi; — non vi lagnerete
di me.... Ho mantenuto la mia promessa, son venuta a trovarvi a rischio
di far nascere chi sa quanti pettegolezzi.... e adesso vado via.... Ma
dov’è _Darling_?

— Va via.... così! — esclamò il povero professore.

— Come volete che vada?... Se sapeste quante cose ho da fare.... Ma
dove diamine è _Darling_?... _Darling_, o _Darling_.

La cagnetta, che s’era rifugiata di nuovo sotto lo scaffale, cacciò
fuori il muso dal suo nascondiglio e volse in giro gli occhi spauriti.

— Ha ancora la tremarella alle gambe, — notò la Giorgina. — L’eroismo
non è il suo forte.... Andiamo, _Darling_.... Non ci son più
pericoli.... Qua, qua.

_Darling_, a passini piccoli e cauti e quasi strisciando col ventre
per terra, s’avvicinò alla padrona che le disse minacciandola
dolcemente col dito: — Non conviene esser così vigliacchi. Dovevi
mostrare i denti, e chi sa che quell’altra bestiaccia non avrebbe fatto
rodomontate.... Orsù, Teofoli, aiutatemi a infilar la pelliccia.

— Non sia cattiva, Giorgina, non abbia questa fretta, — insisteva il
professore.

— Abbiate pazienza, amico mio.... Non posso aspettare un minuto di
più.... Ho lasciato detto a casa che per le due e mezzo circa sarò di
ritorno, e sono già le 2,35.... Poi debbo vestirmi per uscir alle tre
in carrozza... Ho da far quattro visite... pur troppo.... Oh avete
ragione, è una vita impossibile.... Ma non c’è rimedio.... Sfido per
esempio a non andar oggi stesso da Mistress Gilbert.... A proposito....
riceverete dai Gilbert l’invito per un ballo in costume che daranno
l’ultimo sabato di carnevale.

— Quei signori americani?... Se li conosco appena?

— Non importa.... Siete un luminare della scienza, e vi vogliono....
Così va bene.... grazie.

Quantunque a malincuore, Teofoli s’era rassegnato a metter la pelliccia
sulle spalle della contessa.

— Sono grato ai signori Gilbert — egli rispose. — Ma andare a un ballo,
e a un ballo in costume per giunta.... si figuri....

— Gran che! Temete di compromettere la vostra dignità?

— Non dico questo.... A ogni modo non è affare per me....

— Via via, vi lascierete persuadere.... Ne riparleremo. Intanto, vi
prego, datemi anche il manicotto.... È lì sul divano.... Grazie.... E
addio, Teofoli.... Badate che domani e doman l’altro non sono in casa
nè di giorno nè di sera. Posdomani sera ci troveremo dai Roncagli.

Prima che il professore potesse far un ultimo tentativo di trattenerla,
prima ch’egli potesse almeno carpirle la promessa di ritornare, ella
era già nell’andito vicino alla porta della scala. Bisognò pur che
Teofoli si decidesse ad aprirle.

— Buon giorno, — ella disse scendendo rapidamente gli scalini seguita
da _Darling_ i cui sonagli mettevano un tintinnio argentino.

Teofoli tornò nel salotto da pranzo e si riaffacciò alla finestra da
dove l’aveva vista venire. E dalla stessa finestra la vide allontanarsi
e l’accompagnò con lo sguardo sinch’ell’ebbe svoltato il canto della
via. Allora liberò il gatto _Tocci_ che miagolava e graffiava l’uscio
della sua prigione, e ricondottosi nello studio s’abbandonò sul divano,
stanco, sfinito come dopo una giornata campale.


X.

La brillante avventura del professore Teofoli non rimase a lungo celata.

Già sul far della sera la signora Pasqua venendo a portare il lume e a
chiuder le imposte si fermò sui due piedi arricciando il naso e disse:
— Che odore di muschio!

Il professore non rispose.

— Badi che si buscherà un’emicrania — ripigliò la governante, mentre
perlustrava lo studio in tutti i suoi sensi. — A un tratto ella
pronunziò queste gravi parole: — C’è stato un cane.

— Da quando in qua i cani hanno odore di muschio? — replicò Teofoli in
tuono ironico.

La signora Pasqua insisteva dando un’occhiata di sbieco sotto uno degli
scaffali: — Non parlo a caso. C’è stato un cane.

— Che cani, che cani? — riprese infastidito il padrone. — Dite
piuttosto un gatto. Ho dovuto cacciar via il vostro dilettissimo
_Tocci_ che s’era introdotto nella stanza.

— Sarà, — ripigliò impassibile la signora Pasqua, — ma c’è stato anche
un cane.... E un cane maleducato — ella continuò accalorandosi nel
discorso.

Teofoli perdette la pazienza. — Insomma cani o gatti, che cosa
v’importa?

— Molto m’importa. Io non sono disposta a tenerle pulita la stanza
perchè poi.... Ma come non sente il bisogno di spalancar le finestre?

— Io non sento niente.... Mettete giù il lume e lasciatemi in pace.

La signora Pasqua slanciò il cosidetto strale del Parto. — Non saranno
mica i suoi studenti che verranno a trovarlo coi cani dietro e col
muschio addosso. Ha ricevuto signore.

Al professore salirono le fiamme al viso. — Io ricevo chi mi pare e
piace e non ho conti da rendervi.

A questa rude intimazione l’austera donna fece due passi verso l’uscio;
poi voltandosi indietro e portando il grembiule agli occhi, disse: —
Capisco bene che lei non ha più fiducia in me.... La prego di cercarsi
prima della fine del mese chi prenda il mio posto.

Teofoli alzò la testa dalle sue carte. — Vi licenziate?

— Sissignore.... Io non sono una cameriera adattata per una casa dove
vengono le contesse....

— Tacete, sciocca che non siete altro — gridò il professore. — E
guardatevi bene dal ripetere queste fanfaluche.... In quanto al
licenziamento, da oggi alla fine del mese avete tempo da riflettere....
Adesso andate a preparare il desinare.

L’illustre professore aveva mostrato una grande padronanza di sè, ma
in fondo era più agitato della signora Pasqua e per tutta la notte non
fece che voltarsi e rivoltarsi nelle coperte.

Dopo gli splendidi risultati della giornata non ci mancava altro che
uno scandalo! E quella balorda era capacissima di farlo nascere se
spargeva fra le sue conoscenti la notizia di ciò che aveva creduto
indovinare. È vero ch’ella non aveva pronunziato alcun nome, ma
evidentemente ella alludeva alla contessa Giorgina, e non era probabile
che parlando con le sue amiche usasse la stessa discrezione che per
prudenza aveva usato parlando con lui. Così, di bocca in bocca, la
cosa sarebbe giunta senza dubbio fino agli orecchi del conte Serlati,
il quale era un marito frivolo che della moglie non si curava punto;
ma anche i mariti frivoli e noncuranti qualche volta s’accendono come
fiammiferi.... Se fosse venuto a fargli una scena, a provocarlo?...
Teofoli non era pusillanime; tuttavia alla sua età, nella sua
posizione, con la sua inesperienza assoluta del maneggio d’ogni arma,
non gli sorrideva punto l’idea d’un duello. Certo ch’egli poteva dare
al conte le assicurazioni più tranquillanti.... pur troppo.... poteva
giurargli sul proprio onore che la visita della Giorgina era stata
innocentissima; sta a vedere però se colui ne sarebbe rimasto persuaso;
se nella migliore ipotesi non avrebbe detto: — Caro professore, faccia
di meno di venire a casa mia...? E d’altra parte, Santo Iddio, come
regolarsi con la Pasqua? Rinnovarle più chiaramente l’intimazione di
tacere? Oh sì era lo stesso che farla parlare di più. Prenderla con
le buone, metterla nelle proprie confidenze, cercar insomma di avere
in lei una complice così pel passato come per l’avvenire? Peggio che
peggio. Questo sì sarebbe stato mutar una pulce in un elefante. In
fin dei conti quelle della Pasqua si riducevano a semplici ipotesi, a
congetture ch’era sempre lecito di smentir formalmente; col ricorrere
alle moine o alle minaccie per ottenere il suo silenzio si dava corpo
a’ suoi sospetti, si ammetteva di aver qualche magagna da nascondere.
La conclusione si fu che il professore deliberò di non fare pel
momento alcun passo con la sua donna di governo e di fingere che
la disputa di poche ore prima non fosse nemmeno avvenuta. Senonchè,
mentr’egli gustava per questo lato la calma relativa di chi ha preso un
partito, buono o cattivo che sia, lo ripigliava un’altra inquietudine.
Quell’imbecille del conte Ermansi aveva o non aveva vista la contessa
Giorgina? È vero che all’ultimo momento egli era entrato nella bottega
del rigattiere, ma anche dall’interno della bottega si poteva veder
benissimo il portone della casa dirimpetto.... Basta; bisognava sperare
che Ermansi non avesse visto nulla; se no quello lì chiacchierava
sicuramente.

Teofoli, molto timido e peritoso, andò dai Roncagli la sera
prossima, e con suo immenso terrore concepì subito il sospetto che la
scappatella della contessa Giorgina fosse già conosciuta. Gli lodavano
misteriosamente il suo studio, accennavano anche più misteriosamente
alle visite di studenti e non studenti ch’egli vi riceveva,
accompagnando i discorsi con risatine sardoniche e con significanti
tentennatine di testa.

Spaventato, egli colse un istante propizio per mettere sull’avviso la
contessa, che non aveva affatto l’aria di una persona sull’orlo d’un
precipizio.

La risposta ch’ella gli diede lo fece rimanere intontito. — Sì — ella
disse stringendosi nelle spalle — è il segreto di Pulcinella.... Chi
poi sarà stato il pettegolo?... Voi no...?

— Io? — esclamò Teofoli portandosi una mano al cuore.

— Vi credo, vi credo.... Ma non vale la spesa di affannarsi alla
ricerca del reo.... Alle prime avvisaglie ho subito parato il colpo.
Ero andata a fare un’improvvisata a un buon amico, a un vecchio amico,
a un amico rispettabile. Che cosa vi poteva esser di male?

— Niente — masticò fra i denti il professore, poco lusingato da tutti
questi epiteti onorifici. — E il conte?

— Mio marito prese la cosa come doveva prenderla, come una delle mie
tante eccentricità. Da quell’uomo savio ch’egli è — e la frase fu
pronunziata con manifesta ironia — mi fece una piccola predica e poi
si quetò.... Alla gente egli dice ch’era informatissimo della visita
che dovevo farvi, che mi avrebbe accompagnata volentieri, ma che non
potendolo mi lasciò andar sola.... Forse dirà lo stesso anche a voi....
_Tout est bien qui finit bien_ — ella concluse con un sorrisetto
troncando un colloquio che durava già da un mezzo minuto.

Sul tardi il conte Serlati tenne a Teofoli su per giù il discorso che
la Giorgina gli aveva pronunziato. E gli promise di capitar quando
meno se l’aspettava a sorprenderlo nel suo studio, o solo, o con la
moglie.... Sapeva ch’era uno studio così bello, così gaio....

A trovar la bonaccia assoluta dopo essersi preparato alla tempesta,
Teofoli, anzichè esser contento, provò un senso di mortificazione
e di rabbia. Ma dunque s’erano presi gioco di lui? Dunque nessuno
pensava che una donna potesse compromettersi a venir sola a casa sua?
E quell’imbecille di Serlati faceva lo spiritoso alle sue spalle? E
quell’altro peregrino intelletto di Montalto sogghignava anche lui
sotto i baffi? In verità non dovrebb’esser permesso ai cretini di
pigliare un’aria di superiorità verso gli uomini d’ingegno.

Ah uomini d’ingegno, uomini d’ingegno! Per modesti che siano o fingano
d’essere, l’orgoglio ch’è in loro fa capolino quando più converrebbe
ch’esso restasse celato. Ogni volta ch’essi si mettono in una posizione
falsa dando agli sciocchi il diritto di canzonarli, si lagnano se gli
sciocchi ne approfittano e li canzonano.

Tuttavia il maggior cruccio del disgraziato Teofoli derivava dal
sospetto che la contessa Giorgina fosse stata realmente d’accordo col
marito e coi galanti per fargli il brutto tiro e per rider poscia di
lui. Qui proprio egli si sbagliava. Seppur la Serlati avesse avuto
l’idea di burlarsi per conto proprio della passione senile ch’ell’aveva
destata, non avrebbe certo avuto quella di chiamar nessuno a partecipar
della burla. Ma non si trattava nemmeno per lei d’una burla. Era andata
da Teofoli un po’ per compiacenza, un po’ per curiosità, con quella
meditata spensieratezza (ci si passi buona la frase contraddittoria)
che si riscontra così sovente in qualche bizzarro cervellino di donna.
Aveva novanta su cento probabilità di non rischiar nulla nella sua
visita; in quanto alle dieci probabilità sfavorevoli si affidava al
caso, il regolatore supremo di gran parte dei fatti umani. Nè c’è
dubbio che non avendo da guadagnarci a propalare il segreto, per
conto suo avrebbe taciuto; ma poichè, senza sua colpa, la faccenda era
trapelata, ella si levava d’impaccio con molta disinvoltura, persuasa
in buonissima fede di render un servizio al suo amico.

Teofoli invece, a pensarci su, si riscaldava il sangue da solo, e
sarebbe stato un bel trionfo per la signora Pasqua il vederlo tornare a
casa in un parossismo di collera; per disgrazia la signora Pasqua era a
letto e non potè goder lo spettacolo del suo padrone inferocito contro
il proprio idolo. La celeste Giorgina, la creatura ideale, l’angiolo di
paradiso era divenuta un demonio, un mostro di nequizia. Strani effetti
dell’amore attraverso il quale noi non vediamo mai le cose nelle loro
proporzioni naturali, ma ora più grandi ora più piccole del vero, come
attraverso un canocchiale che si tenga a vicenda diritto o rovescio!

Quantunque fossero quasi le due del mattino, il professore rimase
alzato nel suo studio e s’accinse a scrivere. Non scriveva già un
capitolo del suo libro, una monografia per qualche giornale, una serie
di note per le sue lezioni; scriveva una lettera, a _lei_. A parlarle
non avrebbe mai avuto il coraggio di dire quello che voleva. Con la
penna in mano, chi sa! E scrisse, e scrisse senza mai riuscire a trovar
la nota giusta. Non uno de’ suoi lavori scientifici gli aveva costato
tanta fatica. Cominciò con l’intonazione secca, ricisa, d’un uomo che
brucia i suoi vascelli. Non intendeva esser lo zimbello di nessuno;
chi non apprezzava i suoi sentimenti mostrava di non esserne degno.
In quanto a lui, ormai aveva aperto gli occhi e doveva tutelare la
sua dignità. Ma a questo punto la lettera gli fece l’effetto d’esser
troppo brutale e stracciò il foglio e lo gettò nel cestino. E dopo il
primo un secondo, e dopo il secondo un terzo, e un quarto, e via via.
Intanto i suoi ardori sbollivano, e al quarto o quinto rimaneggiamento
la sua epistola divenne così melensa e insignificante che nulla più. Ma
nel rileggerla gli saltò la stizza di nuovo, s’accusò di debolezza, di
pusillanimità, si picchiò rabbiosamente la fronte coi pugni, e preso un
altro foglio ritentò l’ardua prova. Ed era sempre la medesima cosa. Ora
diceva troppo, ora troppo poco. Verso l’alba non ne poteva più e andò
a coricarsi senz’aver concluso nulla. Appena alzato si mise all’opera
e finì col vergare una trentina di righe che non erano nè carne nè
pesce, ma delle quali si contentò nella sfiducia assoluta di poter far
meglio. Ripiegò il foglio, lo chiuse nella busta, e rompendo gli indugi
lo consegnò al ragazzo Fedele perchè lo portasse subito subito alla sua
destinazione. Mezz’ora dopo uscì per recarsi all’Università. Camminava
torvo, stralunato, parlando fra sè, onde un collega, incontrandolo,
credette ch’egli declamasse dei versi di Virgilio o di Dante. Non
erano versi che Teofoli recitava; erano frasi della sua lettera, e
adesso, nel ripeterle a sè medesimo, stentava a trarne un senso chiaro
e preciso. Quella sua prosa arruffata, dissimile tanto dalla sua
prosa ordinaria, rifletteva lo stato della sua anima, combattuta tra
diversi affetti. Da un periodo traspariva in lui il fermo proposito
d’infrangere la sua catena; dal periodo seguente si sarebbe potuto
arguire ch’egli desiderasse di legarsi di più. Che avrebbe detto, che
avrebbe pensato la contessa Giorgina? E se non avesse detto nulla? Se
avesse inflitto al suo adoratore la massima delle umiliazioni, non
curandosi neanche di ciò ch’egli le scriveva, lasciandolo libero di
venire o non venire, di troncare o no ogni rapporto con lei?

L’ora della lezione fu, come sempre, un’ora di tregua, di pace pel
nostro Teofoli. In quell’Università ch’era il suo regno, in quelle aule
rese domestiche dalla lunga consuetudine, davanti alle faccie allegre
di quegli studenti che, pur cambiando ogni anno, conservavano un’aria
di famiglia, egli non dimenticava già le sue pene, ma gli pareva che il
carico ne fosse men grave.

L’agitazione ricominciò appena egli fu di nuovo all’aperto, e andò
crescendo di mano in mano ch’egli si avvicinava a casa. Era già presso
al portone quando sentì qualcheduno che lo rincorreva e una voce che
non gli era ignota lo chiamò replicatamente: — Professore, professore.

Era il cameriere della contessa Serlati.

— Ho questo biglietto per lei, — egli disse. — Non c’è risposta.

Fece un inchino e tirò innanzi.

Bianco come un cadavere, con le gambe che gli traballavano, Teofoli
s’appoggiò allo stipite della porta, e aperse con mano tremante il
biglietto sulla cui soprascritta aveva riconosciuto la calligrafia
della contessa.

Poche parole. “Ieri avete certo pranzato male e digerito peggio. Una
ragione di più perchè veniate oggi a desinare con noi alle sette. Non
si accettano scuse di nessuna specie e il mio servo ha l’ordine di non
star nemmeno ad aspettar la risposta. Arrivederci. Giorgina.„

In fondo, con queste poche righe la contessa Serlati non solo schivava
ogni spiegazione immediata, ma non lasciava intravedere nessuna
probabilità di spiegazioni future. Alle sfuriate di Teofoli ella dava
incirca quel peso che suol darsi alle bizzarrie d’un bambino che si
rabbonisce coi trastulli e coi dolci. Se il professore fosse stato
davvero sollecito della propria dignità come pretendeva di essere,
non avrebbe accettato l’invito. Ma egli era un innamorato e gli
innamorati trovano sempre argomenti efficacissimi per giustificare la
loro vigliaccheria. Prima ancora di fare i quindici o venti scalini
che mettevano al suo quartierino, egli aveva vinti tutti i suoi dubbi,
ribattute tutte le sue obbiezioni. Non andar dai Serlati sarebbe stata
una sconvenienza senza nome, sarebbe stato anche un imperdonabile
errore. Era precisamente coll’andarvi che si poteva presentar
l’opportunità d’un colloquio intimo con la Giorgina, la quale del resto
faceva prova d’una grande equanimità non prendendo in mala parte le
parole risentite del professore, e continuando a trattarlo come un
amico.


XI.

Fu una serata deliziosa, ma poco propizia ai colloqui intimi. A pranzo
non erano che in quattro persone, i due padroni di casa, il professore
Teofoli e un erudito francese, membro dell’Istituto, un Monsieur de la
Rue Blanche, che la Giorgina aveva conosciuto a Parigi. La contessa fu
amabilissima; presentò Teofoli all’accademico francese come uno dei
pensatori più illustri d’Italia e nello stesso tempo come un intimo
suo, accennò alla grande opera ch’egli aveva in lavoro, dolendosi solo
che l’operosità del suo amico non fosse pari al suo ingegno e alla
sua dottrina, e pronosticando a quell’opera, quando fosse compiuta, un
successo colossale. Ne parlava con un calore scevro di affettazione,
quasi d’una cosa in cui ella avesse parte, quasi d’una gloria che
dovesse gettare un riflesso sopra di lei. E aveva realmente l’aria di
persona appassionata pegli studi; non si sarebbe mai detto ch’ella
era la medesima donna che rideva agli scherzi scipiti di Montalto e
d’altri balordi simili. Teofoli e Monsieur de la Rue Blanche erano in
estasi; soltanto Seriati frenava a stento gli sbadigli. Quando non si
discorreva di cavalli e di _cocottes_ egli sbadigliava sempre.

Monsieur de la Rue Blanche era un uomo di mezza età e di buon aspetto,
e quantunque fosse un erudito era un uomo di spirito. Fu lui che portò
pel primo nella conversazione una nota mondana chiedendo so fosse
vero che Mister e Mistress Gilbert pei quali egli aveva una lettera di
raccomandazione dovessero dare una gran festa da ballo.

— Sicuro! — rispose la Serlati. — Consegnerà la lettera e andrà alla
festa anche lei.

— _Parbleu!_ — esclamò Monsieur de la Rue Blanche confessando che
andava pazzo per le feste da ballo, ciò che parve alquanto strano al
nostro Teofoli.

— Però.... una festa in costume.... — notò timidamente il professore.

Ma prima che il francese potesse dire se questa clausola creasse
per lui un ostacolo insuperabile, la contessa Giorgina intervenne
con vivacità. — Il costume non è più obbligatorio. I Gilbert
hanno risoluto.... un po’ per mio suggerimento, — ella soggiunse
rivolgendosi con un sorriso a Teofoli, — di ammettere in semplice
abito nero gli uomini di più di quarant’anni.... Tutto sta confessare i
quarant’anni.... Il professore li confessa?

— Sfido io.... A ogni modo....

La Serlati non badò a quell’_ogni modo_ gravido di restrizioni, e con
uno sguardo interrogativo all’altro commensale: — E Monsieur de la Rue
Bianche...?

Monsieur de la Rue Bianche trovava che questa degli anni è una faccenda
delicata per tutt’e due i sessi; ma già, seppur avesse giurato sul suo
onore di non aver compiuto i quaranta, nessuno gli avrebbe creduto....
Comunque sia, anche riconoscendo i suoi quarantacinqu’anni sonati, se
fosse stato a Parigi egli non avrebbe avuto una difficoltà al mondo di
cercarsi un costume; fuori di paese era cosa diversa, ed egli accettava
di buon grado la concessione dei signori Gilbert. Sarebbe andato in
abito nero. Non dubitava che il suo _cher confrère_ avrebbe fatto
altrettanto.

Ma il _cher confrère_ era molto perplesso. Non aveva frequentate le
feste nemmen da giovine; o che doveva cominciare alla sua età?

— Che età? Che età? — saltò su il francese. — Per lui non c’erano
uomini vecchi; c’erano tutt’al più uomini malati. E il _cher confrère_
stava bene; dunque...? Monsieur de la Rue Bianche, riscaldato un poco
dall’eccellente vino dei Serlati, si accinse a magnificare le splendide
veglie parigine a cui assistono senza vergognarsi personaggi gravi
e maturi, trovandovi, in mancanza di meglio, _un spectacle pour les
yeux_.... _Et quel spectacle!_... Ci vorrebbe altro che si dovesse far
penitenza appena cominciano a brizzolarsi i capelli.

Il buon umore di Monsieur de la Rue scosse dal suo intorpidimento anche
il conte Ercole che di Parigi si ricordava molte bellissime cose e ne
discorse con grande competenza abbassando la voce nei punti scabrosi ed
espandendosi col dotto forestiero.

Intanto la contessa Giorgina catechizzava Teofoli. Quella sua
ripugnanza ad andar dai Serlati era veramente incomprensibile. Valeva
la spesa ch’ella si sbracciasse a ottener dai Gilbert una modificazione
al loro programma! E l’aveva ottenuta pensando a lui, proprio a lui,
per togliergli la sola scusa che gli fosse lecito addurre con qualche
apparenza di ragione.... La bella figura ch’egli le avrebbe fatto far
coi Gilbert se si ostinava nel suo rifiuto!

Teofoli era sulle spine. Avrebbe voluto compiacer la contessa alla
quale era riconoscente dal fondo dell’anima della nuova prova di
benevolenza ch’ella gli dava. Ma, Dio buono! Che parte poteva essergli
riserbata in una festa? Se avesse ballato, se fosse stato in grado di
chiedere una quadriglia, un lancier alla persona che sapeva lui....
allora sì. Invece quella persona egli l’avrebbe appena vista, avrebbe
appena potuto dirle una parola....

La contessa si mise a ridere. — Via, via.... _Quella persona_,
che forse io conosco, non vi offre una quadriglia, un _lancier_,
dal momento che non ballate.... Ma si farà accompagnare da voi al
_buffet_.... un privilegio che molti v’invidieranno.

Era una sirena, una vera sirena quella Giorgina. Come resisterle?
Teofoli sollevava ancora qualche lieve obbiezione, tanto per la
forma, ma si capiva bene che ormai si dava per vinto. Se almeno
la sua mansuetudine gli avesse valso dalla contessa una franca
spiegazione sull’argomento che più gli stava a cuore! Sembrava però
ch’ella neanche si ricordasse d’aver ricevuto da lui una lettera meno
docile, meno sommessa del consueto. A un cenno ch’egli gliene fece con
infinita circospezione, ella gli chiuse la bocca con una risata e una
scrollatina di spalle. — Siete un visionario, — ella disse. E fu tutto.

Alle nove ella si accommiatò da’ suoi ospiti, dovendo vestirsi pel
teatro, e Monsieur de la Rue Bianche uscì insieme col professore
Teofoli al quale egli mostrava una simpatia straordinaria. E presolo
a braccetto si fece accompagnare da lui per le vie della città
parlandogli poco di studi e molto di femmine e chiedendogli una serie
di notizie che il candido professore non era in grado di fornirgli.
Anzi il linguaggio cinico assunto dall’accademico francese circa al bel
sesso frenò sulle labbra del buon Teofoli le espansioni e le confidenze
a cui forse, come ogni innamorato, egli sarebbe stato disposto. No,
non avrebbe tradito il suo sentimento con un uomo che nell’amore non
vedeva altro che un passatempo e riassumeva in qualche frase brutale
le sue massime sulla linea di condotta da tenersi con le donne. — _De
l’audace_, _de l’audace_, _et toujours de l’audace_, — egli diceva
battendo forte sulla spalla del suo interlocutore. — _C’est le mot de
Danton_.

Quel benedetto Monsieur de la Rue Bianche non si decideva più a
tornare all’albergo. E dopo non so quanti giri e rigiri, attratto
dall’illuminazione d’una birreria posta sulla piazza maggiore della
città, egli insistè per entrarvi. Ora quella era appunto la birreria
ove una volta il professore soleva recarsi tre o quattro sere per
settimana, e proprio di fronte alla porta d’ingresso Teofoli si trovò
faccia a faccia con Frusti e Dalla Volpe che sedevano soli soletti ad
un tavolino. Non potè a meno di salutarli e di presentar loro Monsieur
de la Rue Bianche, che Dalla Volpe specialmente avrebbe dovuto conoscer
di nome perchè s’occupava di studi analoghi ai suoi. Ma tra i due
professori e il dotto _confrère_ c’era troppa diversità d’indole perchè
il colloquio riuscisse animato, e Frusti e Dalla Volpe, limitandosi a
scambiar poche parole col forestiero, preferirono di vuotare il sacco
degli epigrammi contro il collega. Il più esacerbato era Dalla Volpe
che aveva sullo stomaco una quantità di pranzi di magro ammannitigli
dalla consorte. E tirò in campo la festa dei Gilbert alla quale aveva
sentito dire che Teofoli fosse invitato. Era vero?

Verissimo.

E ci sarebbe andato?

Probabile.

— E in che costume? — seguitò Dalla Volpe.

Teofoli avrebbe potuto rispondere che sarebbe andato in abito nero,
ma non volle abbassarsi a troppe spiegazioni. — Si vedrà, — egli disse
seccamente.

— Allora, — ripigliò Dalla Volpe, — scommetto ch’è vero anche questo:
che comparirai da Zefiro....

— E che ballerai un passo di grazia con la contessa Serlati — soggiunse
Frusti.

Il professore replicò con mal garbo, e chi sa che battibecco sarebbe
successo se la presenza d’un estraneo non avesse servito di freno.

Però Teofoli e Monsieur de la Rue Blanche non istettero molto ad
accommiatarsi. Il francese esternò subito la sua antipatia pei due
istrici che l’altro gli aveva fatto conoscere e svolse le sue idee
sulla necessaria inferiorità di quelli che sfuggono le donne. Beninteso
_qu’il ne faut pas nager dans l’azur_; bisogna andar subito al
concreto; se no, guai.

Fra i sarcasmi di Dalla Volpe e di Frusti e le dottrine radicali di
Monsieur de la Rue Bianche, il professore tornò a casa che aveva la
testa come un cestone. E tutta la notte sognò _le mot de Danton: de
l’audace, de l’audace, et toujours de l’audace_. E, sempre in sogno,
fu audacissimo; tanto audace che la mattina, a ricordarsene, sentì
drizzarsi i capelli sulla fronte e salirsi le fiamme al viso.


XII.

Comunque sia, in quei giorni, con la migliore volontà del mondo, il
professore Teofoli non avrebbe potuto essere audace altro che in sogno.
I preparativi pel ballo mascherato dei Gilbert assorbivano tutte le
facoltà e tutto il tempo delle signore eleganti di X; le virtuose
non badavano più alla loro famiglia, le peccatrici non badavano più
ai loro amanti, e quelle che, senza essere ancora cadute, avevano
voglia di gustare il frutto proibito, si riserbavano a stendervi la
mano in quaresima. Per ora conveniva pensare alla gran serata. Ed
erano abboccamenti misteriosi e misteriose corrispondenze con sarti
e _vestiaristi_ del paese e di fuori, erano colloqui diplomatici
in cui le rivali si tasteggiavano a vicenda cercando strapparsi il
geloso segreto di un’acconciatura, del taglio d’un abito, del colore
d’un nastro. Si consultavano gli artisti, si sfogliavano le opere più
riputate sul costume antico e moderno dei vari popoli, si esaminavano
disegni e modelli, si applicava la celebre formola dell’Accademia del
Cimento: provando e riprovando.... ogni sorta di foggie. C’era poi da
combinare le coppie per le quadriglie, e anche questo grave argomento
era oggetto di lunghi e delicatissimi negoziati.

Le intenzioni della contessa rimasero per un pezzo avvolte in un
mistero impenetrabile. Finalmente si seppe ch’essa sarebbe comparsa da
Madama di Pompadour e che il suo cavaliere nella quadriglia sarebbe
stato il marchese Montalto in uniforme di gentiluomo della Corte di
Luigi XV.

Teofoli accolse la notizia con mediocre entusiasmo. La marchesa di
Pompadour, una favorita! Non c’era proprio di meglio da scegliere?

E con molte reticenze il professore fece intendere alla sua amica che
avrebbe preferito qualche cos’altro, qualche tipo immortalato dalla
poesia, reso sacro dalla sventura....

— Mio caro, — interruppe la Serlati, — la poesia e la sventura son
bellissime cose, ma in un ballo si bada a ben altro che a ciò.... Sarò
una marchesa di Pompadour adorabile, ve ne dò la mia parola d’onore...
senza esser per questo la favorita di nessun principe....

— O contessa cattiva, può attribuirmi un pensiero simile? Gli è ch’io
l’avrei vista così volentieri come Beatrice, come Laura, come Vittoria
Colonna....

— Per carità, Teofoli, lasciamole in pace queste illustri signore.
Beatrice una maestra di catechismo, Laura una smorfiosa, Vittoria
Colonna una pedante.... La mia marchesa di Pompadour almeno è una
donna, viziosa fin che vi piace, ma donna, piena di buon gusto,
d’eleganza, di spirito.... E poi ella vestiva bene, e quest’è
l’essenziale.... domandate l’opinione delle sarte sulle _toilettes_
delle vostre tre dame.

In complesso Teofoli non osava dirlo, ma più che la scelta del costume
lo infastidiva la scelta del cavaliere. Montalto? Sempre Montalto?
Perchè la Giorgina aveva accordato un tanto favore a quello tra i suoi
adoratori che gli dava più ombra?

Questa, pel professore, avrebbe dovuto essere un’ottima ragione per
riconfermarsi nella sua prima e savissima idea di non andare dai
Gilbert; ma in amore non vi sono ottime ragioni; vi sono degli istinti;
vi sono, come direbbero gli avvocati, delle forze irresistibili che
ci trascinano a fare precisamente il contrario di quello che sarebbe
richiesto dalla nostra quiete e dal nostro decoro.

Nè ormai c’era alcuno che avesse presa sull’animo del buon Teofoli,
che potesse trattenerlo sul pendìo sdrucciolevole nel quale egli era
avviato. Non aveva altra persona di famiglia che una sorella maritata a
Roma e con cui egli scambiava due lettere all’anno; sfuggiva gli amici
e in particolar modo gli Ermansi, Frusti, Dalla Volpe, e quando non era
all’Università, o nel suo studio, o dai Serlati, vedeva con qualche
frequenza il solo Monsieur de la Rue Bianche, che, senza parlargli
della contessa Giorgina, coltivava coi discorsi procaci le sue recenti
disposizioni erotiche e gl’intronava la testa col _mot de Danton: de
l’audace, de l’audace et toujours de l’audace_.

Si avvicinava intanto la sera del ballo e alla vigilia del memorabile
avvenimento la signora Pasqua vide giungere a casa due paia di guanti
_gris perle_, due paia di cravatte bianche e un abito nero completo.
Quest’abito nero fu quello che l’impressionò di più, perchè il
professore ne aveva uno, fatto da un anno in occasione d’una cerimonia
scolastica, e tuttora in buonissime condizioni, tantochè egli se n’era
servito anche nel corso dell’inverno per andare nelle sue società.

Dopo la scena che il lettore ricorda, le relazioni tra la signora
Pasqua e il padrone erano quelle di due potenze che hanno richiamato
gli ambasciatori senza venire a una aperta rottura. Del licenziamento
non si parlava nè da una parte nè dall’altra; si dicevano soltanto
le cose indispensabili, e si dicevano col minor numero di parole
possibile.

Questa volta però la signora Pasqua non potè tacere.

— Scusi, — ella disse, — s’è dimenticato che ha un _frac_ quasi nuovo?

— Non ho dimenticato nulla, — rispose il professore, — ma quel _frac_
non va bene.

— Come? Non è più di moda?

— Già.... Non è più di moda, — replicò Teofoli per troncare il discorso.

Ma la signora Pasqua insistette. — Un uomo come lei curarsi della moda!
— ella brontolò. E soggiunse: — Io poi le giuro che il vestito vecchio
è dell’identico taglio di questo che il sarto le ha fatto adesso per
mangiarle dei quattrini.... Anzi vado a prenderlo.... Vedrà co’ suoi
occhi.

— No, no, — ripigliò il professore ordinandole di fermarsi. — Volete
saperla la ragione di quel _frac_ nuovo? L’altro era diventato troppo
largo e non c’era modo di stringerlo convenientemente....

Vi sono parole che illuminano.... La signora Pasqua guardò il
professore e riconobbe subito che il vecchio _frac_ doveva realmente
essergli diventato assai largo. In fatti gli eran diventati larghi
tutti i vestiti dell’anno scorso.

— È vero, — ella disse a mezza voce. — È dimagrato.

— Meglio così.

La signora Pasqua tentennò la testa. — Mi permetta di non esser del suo
parere. Creda a me, questa vita non le conferisce. Benedetti quei tempi
che aveva i suoi metodi, i suoi sistemi fissi, e stava solamente co’
suoi amici, e non pensava ad arricciarsi, a profumarsi....

— Oh, ci siamo con le prediche....

— Le chiami prediche fin che vuole, i fatti son fatti.... Una volta
aveva appetito e c’era una soddisfazione d’amor proprio a prepararle
qualche cosa di buono; adesso non bada neanche a quel boccone che
mangia.... seppur lo mangia; una volta era sempre di umore gaio, adesso
ha mille pensieri pel capo....

— Insomma, basta....

— Basterà, basterà.... Ma creda pure che non parlo per interesse....
gli è che vorrei il suo bene.... perchè meriterebbe d’esser
contento.... e mi fa una pena vedere invece....

— Via, via, — interruppe Teofoli, — vi ringrazio della vostra premura,
ma siate pur certa che non ho niente e che piuttosto d’ingrassare
son contento di divenir sottile come uno stecco.... In ogni caso il
carnevale è agli sgoccioli, e presto finiranno anche questi grandi
strapazzi.

— E, — domandò la signora Pasqua con una certa esitazione, — a quel
ballo ci va proprio?

— Sì che ci vado.... O credete che andare a un ballo sia come andare
alla guerra?

La signora Pasqua avrebbe aggiunto volentieri parecchie altre
considerazioni, ma desiderava di non far terminare con un diverbio
il primo colloquio amichevole che dopo un così lungo intervallo di
musoneria ell’aveva col suo padrone, e uscì lentamente, borbottando: —
Non son cose per lei.... Abbia pazienza, non son cose per lei.

Quantunque un po’ maravigliato della singolare tolleranza da lui
usata in quell’occasione verso la sua donna di governo, il nostro
amico era costretto a riconoscere che la signora Pasqua era animata
dalle migliori intenzioni del mondo e ch’egli avrebbe trovato il suo
tornaconto a seguire i consigli di lei piuttosto che quelli di chi si
ostinava a distrarlo dai suoi studi e dalle sue abitudini. Ed era anche
persuaso che la sua salute non fosse quella d’una volta, nè si guardava
nello specchio senza riportarne un’impressione penosa. Il dimagrimento
era il meno; aveva le guancie terree e fioscie, le labbra scolorite,
gli occhi smorti; quell’aspetto insomma che rivela l’amore, ma non
dice se si tratti d’un amore troppo felice, o troppo disgraziato.
E poi non si sentiva bene; pativa di emicranie, di vertigini, di
palpitazioni di cuore, di spossatezza; non si sarebbe più sognato,
come un anno addietro, di camminare tre ore di fila. Messo sull’avviso
dalle parole della signora Pasqua, egli avvertì, il giorno stesso della
sua conversazione con lei, un’oppressione di respiro, un insolito
abbassamento di voce, un uggioso tintinnio negli orecchi. Pur non
volle consultare il medico nè correre il rischio di esser sottoposto
a una cura, obbligato al riposo, impedito d’intervenire al ballo dei
Gilbert. E l’intervenire a quel ballo era per lui un punto d’onore, il
mancarvi gli sarebbe parso una diserzione, una pusillanimità; un darla
vinta agli Ermansi, al Frusti, al Dalla Volpe, alla signora Pasqua, un
offrirsi per bersaglio ai loro epigrammi. Ma questo non era il peggio.
Il peggio era che gli sarebbe stato forza di rinunziare ad accompagnare
la Serlati al _buffet_, di rinunziare a vederla in tutto lo splendore
della sua bellezza e della sua eleganza. L’avrebbe vista invece con
la fantasia, cinta dai suoi vagheggini, a braccio del suo Montalto,
trascinata nel vortice delle danze, e la visione tormentatrice
l’avrebbe fatto ammalar davvero. No, no, sin dopo la festa dei Gilbert
egli non aveva il diritto di badare a’ suoi piccoli acciacchi.


XIII.

Quel sabato sera, l’ultimo sabato di carnovale, quantunque nevicasse
fitto e tirasse un vento impetuoso che spegneva i lampioni alle
cantonate, una folla tenuta indietro a fatica da due guardie municipali
s’accalcava dinanzi al palazzo dei Gilbert. Quella gente venuta per
curiosità non vedeva null’altro che le finestre illuminate del primo
piano, e le carrozze che a una a una infilavano il portone e andavano
a deporre il proprio carico a’ piedi della scala, nell’ampio cortile
coperto di vetri e adorno di piante e di fiori. Ma gli sguardi profani
non arrivavano fino all’ampio cortile, non penetravano nelle chiuse
carrozze, e solo di tratto in tratto qualcheduno che conosceva il
cocchiere, o i cavalli, o lo stemma, o il monogramma, susurrava al
vicino un nome che correva poi per tutte le bocche. E ogni nome sonoro
e ogni equipaggio di lusso provocava un bisbiglio lunghissimo, mentre
i pochi _fiacres_ che portavano alla festa gl’invitati di minor conto
erano accolti da mormorii dispregiativi e da sghignazzate. Tanto
fascino conservano, in quest’epoca di vantata democrazia, il blasone
e la ricchezza! A quei poveri diavoli che irrigiditi e fradici fino
all’ossa stavano lì esposti all’intemperie a godersi lo spettacolo
del lusso altrui parevano degni di scherno i modesti borghesi che si
recavano al signorile ritrovo senza carrozza propria e livrea.

Anche l’umile vettura che conduceva il nostro Teofoli destò l’ilarità
petulante di alcuni monelli, uno dei quali, gran frequentatore della
Corte d’Assise, gridò con voce stentorea: — Entra la Corte. — Non si sa
se offeso o lusingato dal paragone, il magro ronzino mise un piede in
fallo e fu a un pelo per cadere; le risate aumentarono, il fiaccheraio
tirò tre o quattro moccoli, e il professore, abbassando il vetro della
portiera e cacciando fuori la testa, domandò a due riprese: — Che c’è?
Che c’è?

Il cocchiere non si curò di rispondergli, ma fatto far giudizio al
cavallo con un paio di frustate entrò solennemente nell’atrio del
palazzo.

Abbarbagliato dal fulgor dei lumi e dalla varietà dei colori, e
intontito dal brulichìo della gente che saliva lo scalone insieme con
lui, il celebre professore Teofoli si trovò, quasi senz’accorgersene,
prima nel guardaroba ove un servo gli levò di dosso la pelliccia e gli
consegnò una tessera, poi su nell’appartamento di fronte ai coniugi
Gilbert che nel severo costume dei contemporanei di Washington,
fondatori della libertà americana, ricevevano gli ospiti.

Ed essi ebbero anche per Teofoli una stretta di mano espansiva e una
parola gentile, ma non poterono prestare ascolto alla sua risposta,
costretti com’erano a badare ai sopravvenienti. Allora il professore
girando gli occhi intorno notò con rammarico che in quella sala su
trenta o quaranta uomini ce n’erano appena due o tre che vestissero
la prosaica marsina, nè una rapida corsa attraverso le altre sale
gli offrì argomento di conforto. Dappertutto l’abito nero figurava
come un’isola, e una brutta isola in mezzo all’Oceano e quelli che lo
indossavano avevano l’aria di vergognarsene. Persino Monsieur de la Rue
Blanche, all’ultimo momento, s’era deciso a camuffarsi da dottore della
Sorbona, in toga e parrucca, e Teofoli se lo vide comparir dinanzi in
questa foggia a braccio d’una _dama del primo impero_, non giovine, non
bella, ma d’un’opulenza di forme che rispondeva ai gusti dell’erudito
francese. Era una contessa Aginulfo che Monsieur de la Rue Blanche
aveva conosciuto tre sere addietro dal console francese e con la quale
egli sembrava disposto a esperimentare il suo sistema _de laudace_,
_toujours de l’audace_. In fatti egli passò accanto al suo recente
amico con piglio di conquistatore e con un sorriso fatuo sul labbro che
Teofoli interpretò così: Tu languisci da mesi per una femmina che ti
canzona; io in pochi giorni farò capitolar la fortezza.

— Ah, una femmina che mi canzona, — pensava Teofoli. — Riderà bene chi
riderà ultimo. Se mi casca un’altra volta sotto le unghie, non sarò
mica tanto ingenuo....

Due compagni di sventura del professore, vale a dire due persone
che come lui erano in _frac_, gli vennero incontro sorridenti ed
espansivi. L’uno d’essi, il vecchio dottor Lumi, medico dei Gilbert,
pieno di decorazioni. — Anche lei, — gli disse, — anche lei ha ottenuto
la _dispensa_.... Sfido io.... noi uomini seri, noi uomini maturi,
metterci la maschera, via....

— Ci si trova però alquanto a disagio, — soggiunse l’altro signore,
il cavalier Forlier, consigliere di prefettura. — Siamo una minoranza
impercettibile.

— Per me, — riprese il dottor Luini, — me ne vado di qui a
un’oretta.... E lei, professore?

— Ma.... Non so.... Credo che mi tratterrò un poco di più....
Arrivederci. Voglio fare un giretto per le sale.

Era il secondo giretto che Teofoli faceva al solo ed unico scopo di
cercar la Serlati.

Ma la Serlati aveva sempre l’abitudine di arrivare fra le ultime.
Del resto, mancavano ancora parecchie fra le stelle della _high life_
cittadina.

Ciò non toglie che l’appartamento fosse ormai affollato e presentasse
uno spettacolo incantevole pel lusso degli addobbi, per lo splendore
dell’illuminazione, per lo scintillìo dei brillanti, per la bellezza
delle signore, pel largo contributo portato alla festa dai costumi di
tutti i luoghi e di tutti i tempi, dai capricci della fantasia, dalle
geniali evocazioni della letteratura e dell’arte. Qua un giovane e
colossale _higlander scozzese_ che pareva uscito da uno dei romanzi
di Walter Scott dava il braccio a una fanciulla idealmente bella,
miss Gilbert, nipote dei padroni di casa, che nell’aspetto e nel
vestire riproduceva alla perfezione il tipo della soave Evangelina di
Longfellow,

    . . . . . . . in cerula gonnella,
    E adorna il crin della normanna cuffia,
    E le orecchie dei tremuli pendenti
    Che, recati di Francia ai vecchi giorni,
    Furon trasmessi poi di madre in figlia....

Più in là una Margherita biondissima, dimentica in quel momento di
Fausto, s’appoggiava con un certo abbandono a un mandarino chinese,
precedendo di pochi passi una Maria Antonietta, che improvvida
dell’avvenire, discorreva animatamente con un Enrico IV. Nel vano di
una finestra, un’altra tragica regina, Maria Stuarda, civettava in
lingua tedesca con un arabo dall’ampio e pittoresco turbante, e un
maresciallo Turenna, ritto davanti a una figlia di Madama Angot, stava
aspettando ch’ella avesse bevuto una limonata per riprender dalle sue
mani il bicchiere. E trovatori e castellane del Medio Evo, e donne
e cavalieri d’ogni età e d’ogni paese, e bizzarre personificazioni
di fiori e di piante, e albe rosee, e notti stellate passavano e
ripassavano, mentre dall’alto una musica invisibile dava il segnale
delle danze. Non si ballava però, o appena cominciato a ballare si
smetteva, tant’era la ressa della gente, tanta la curiosità che tutti
avevano di esaminarsi a vicenda.

Sulla mezzanotte, quasi contemporaneamente, arrivarono tre gruppi,
ciascuno di otto persone che furono ricevuti con grandi applausi. L’uno
di mugnai e mugnaie, era tutto composto di ragazze o di giovinetti la
cui avvenenza fresca e vivace poteva sfidare quel costume semplicissimo
e primitivo. Il secondo ed il terzo ci trasportavano in pieno secolo
decimottavo, all’epoca di Luigi XV. Otto fra pastori e pastorelle scesi
dai quadri del Watteau, e otto fra gentildonne e gentiluomini della
Corte frivola, arguta, elegante. In quest’ultimo gruppo era la Serlati,
da marchesa di Pompadour, e al fianco di lei, lindo, attillato,
con la mano sinistra sull’elsa dello spadino, il suo Montalto. Che
fascino c’era nella Serlati! E come i suoi occhi sfavillavano sotto la
parrucca incipriata! Ecco, ell’era appena giunta che già tutti quanti
gli sguardi si rivolgevano a lei e i travestimenti meglio riusciti
impallidivano al confronto del suo, e le più superbe bellezze si
vedevano per sua cagione disertate da una parte dei loro adoratori!
Ell’attraversava le sale senza imbarazzo e senza spavalderia, non
turbata, non esaltata dal fremito d’ammirazione e di desideri che
sollevava intorno a sè, ma con la sicurezza calma e serena, ma con la
facile indulgenza di chi non teme rivali.

Quale ella paresse a Teofoli non c’è bisogno di dirlo. Tutti i
superlativi del vocabolario gli salivano al labbro ed egli susurrava
fra sè: — Stupenda, celeste, divina! — Però, quanto maggiore era il
suo entusiasmo, tanto più egli sentiva la follia della sua passione,
tanto più si maravigliava seco medesimo delle parole temerarie che
aveva poco innanzi masticato fra i denti, quasi per rispondere alla
tacita canzonatura di Monsieur de la Rue Blanche. Egli esser l’amante
della contessa Giorgina Serlati! Era possibile? Non era un segno
d’aberrazione il solo averlo supposto? Eppure.... eppure egli l’amava,
su questo punto non c’era dubbio, e l’amore, nato in lui così tardi,
aveva tutta la violenza degli amori giovanili.... Sarebbe stato tanto
felice di morire per lei. Anzi, poichè questa, ragionevolmente, era
la sola felicità a cui egli potesse aspirare, il suo pensiero vi si
riposava con una specie di voluttà dolorosa.... Morire.... morire....

Intanto egli era combattuto fra il desiderio di salutar la Giorgina e
quello di dileguarsi inavvertito, di fuggir mille miglia lontano da un
luogo ov’egli appariva assurdo, ridicolo agli occhi propri.

Ma ella che lo aveva scorto in mezzo alla gente e che non voleva
perdere i suoi omaggi (a lei premeva di raccogliere persino le
briciole) gli si avvicinò con quella affabilità che le accattivava
gli animi. — O Teofoli, bisogna dunque che vi venga incontro io.... E
avete voluto far a modo vostro.... venire in _frac_. V’era così facile
indossare una toga di professore.... Avete visto il vostro amico de la
Rue Blanche?.... Quei quindici o venti _frac_ (non saranno mica di più)
sono i _punti neri_ della festa e son quasi pentita d’aver interceduto
io per ottenere questa concessione dai padroni di casa.... Non importa,
mi accompagnerete ugualmente al _buffet_.... quando sarà l’ora della
cena.... Speravate forse di esimervi dal vostro impegno? Vi leggo in
viso io il vostro tradimento....

— Oh contessa....

— Sì, sì, mi negherete che avevate una mezza intenzione d’andarvene?

— Ma.... — balbettò Teofoli, come uno scolaro côlto in fallo.

— Eh, — interpose con un sorrisetto il marchese di Montalto che faceva
da cavaliere alla contessa, — il signor professore non ha l’abitudine
di far così tardi....

— In quanto a questo, — replicò l’altro punto sul vivo, — non si dia
pensiero.... All’ora della cena sarò al mio posto.

— Bravo Teofoli, — esclamò la Serlati. — Ogni promessa è debito....
verrete a cercarmi nella sala da ballo.... Arrivederci.

E si confuse nella folla.

Era destino. Qualunque atto d’indipendenza egli volesse fare, ella era
pronta ad accorgersene, pronta a risaldar la catena che lo avvinceva a
lei.

S’era finalmente incominciato a ballare, e per quella selezione
naturale che avviene in queste occasioni gli uomini gravi e maturi si
trovavan separati dalla parte più giovine e vivace della società.

Il dottor Luini si riaccostò a Teofoli e lo prese pel braccio. — Venga
con me, professore, venga a bevere una tazza di tè; chè questo è il
vero momento di trovar la sala del _buffet_ quasi vuota.

Teofoli si lasciò condurre, più che per la tazza di tè di cui non gli
premeva punto, per _riconoscere la situazione_. Non era qui infatti
ch’egli doveva accompagnare la contessa Giorgina?

Senza esser quasi vuota, come il dottor Luini aveva previsto, la sala
del _buffet_ non era nemmeno affollata. La divideva nel senso della
sua larghezza una gran tavola ad arco dietro la parte rientrante della
quale stavano dodici camerieri in livrea; sulla tovaglia bianca di neve
erano disposti in bell’ordine vasi di fiori, trionfi di dolci, piramidi
di frutta, vassoi con ogni sorta di pasticceria, servizi di tè e di
caffè, ciotole da guazzi, gruppi di bottiglie, calici da sciampagna,
bicchieri e bicchierini di tutte le forme e misure. E pensare che il
meglio sarebbe venuto poi, quando dopo una mezz’oretta di preparazione,
il _buffet_ dolce si sarebbe trasformato in _buffet_ solido e i
conoscitori sarebbero stati chiamati a giudicar l’opera collettiva
di tre cuochi rivali pacificatisi per poco dinanzi alle medesime
casseruole!

Nell’attesa del _buffet_ solido, il professore Arnaldi, maestro
d’italiano di Miss Gilbert, faceva onore al _buffet_ dolce, ed egli
s’affrettò ad illuminare il dottor Luini e il professor Teofoli sui
meriti rispettivi delle varie paste, delle frutta, dei vini ch’egli
aveva assaggiati. Già aveva assaggiato di tutto e poteva parlare con
cognizione di causa. — Tutto è eccellente, ma provino di questo, ma
provino di quello. — E li incoraggiava con l’esempio.

I camerieri sorridevano.

— Per mia moglie e per i miei figliuoli, — diceva il buon professore,
prendendo a manate le confetture e riempiendosene le tasche. — È
vero che si rischia di rimetterci il _frac_.... un _frac_.... quasi
nuovo.... ma come si fa?... la famiglia porta degli obblighi.

— Adesso poi per me.

E accennava a uno dei servi di mescergli ancora un bicchiere di
_champagne frappé_, un nettare. Era il decimo ch’egli beveva.

Luini e Teofoli, per sottrarsi a questa pericolosa vicinanza, si
tirarono al capo opposto della tavola, ove cinque o sei persone posate
dei due sessi sorseggiavano tranquillamente la loro tazza di tè e
discorrevano della festa. In fondo, in un angolo, un paggio toscano del
quattrocento sbucciava un mandarino per una _walkiria_ pallida, bionda,
fantastica.

— Ecco l’età buona per questi divertimenti, — disse a voce bassa il
dottor Luini alludendo a quei due che parevano mangiarsi cogli occhi.
E soggiunse deponendo la chicchera sulla credenza: — Per me ne ho
d’avanzo.... Capisco che lei rimane, Teofoli.... È diventato un discolo
lei.... Buona notte.

— Vengo di là anch’io a dare una capatina nella sala da ballo.

— Non vuol perderne una, non vuole....

Il professore Arnaldi, un po’ allegro per lo sciampagna, gridò dietro
a Luini e a Teofoli: — Torneranno pel _buffet_ solido, spero.... Ho
saputo delle cose, delle cose.... Ci sarà del salmone fresco.... E
dei tartufi.... E del pasticcio di Strasburgo.... proprio genuino....
arrivato da Strasburgo direttamente.

— Ma! — notò il dottore mentre usciva dalla sala in compagnia del
nostro Teofoli. — Quell’uomo lì, un galantuomo, un brav’uomo, ha
trovato un mezzo infallibile per farsi ridicolo.

Teofoli non rispose. Egli aveva il vago presentimento che ci fossero
altri mezzi non meno sicuri per raggiungere il medesimo fine.


XIV.

La sala da ballo, assai ampia e di forma regolare, pressochè
quadrata, era per tre delle sue pareti rivestita di grandi specchi
che moltiplicavano all’infinito le immagini, onde l’occhio si smarriva
in quello scintillìo di fiammelle, in quell’intrecciarsi turbinoso di
coppie che apparivano, si dileguavano, ricomparivano subitamente, ora
di qua ora di là, ora in forma concreta, e palpabile, ora come visioni
lontane e fantastiche. Del resto, con tanta folla, non si ballava che
dai più pertinaci, urtandosi di continuo coi gomiti, pestandosi i piedi
ad ogni momento, fra scuse e risatine brevi, e agitarsi di ventagli,
ed esclamazioni involontarie, e fruscìo di vesti, tutte cose che unite
insieme davano un rumore simile a quello dell’api che sciamano. Si
sarebbe detto che gli specchi rimandassero, oltre che le immagini, il
suono.

Il professore Teofoli aveva finito coll’appoggiarsi allo stipite d’un
uscio, adattandosi a ricever spintoni da quelli che s’ammontavano
dietro a lui per vedere, da quelli che uscivano, da quelli ch’entravano
e perfino dai servitori che portavano in giro i rinfreschi. Anzi uno
d’essi, dopo esser stato in procinto di rovesciare un vassoio per colpa
sua, brontolò con mala grazia: — Vogliamo star lì duri, impalati. — Era
singolare come quella sera tutti gli mancassero di riguardo. Teofoli
non aveva vanità, non aveva superbia, ma Dio buono, egli aveva pure
il convincimento di valer meglio di quattro quinti della gente ch’era
raccolta da Gilbert, era avvezzo a esser trattato con rispetto, con
deferenza. Quella sera invece non c’era un bellimbusto che non lo
squadrasse d’alto in basso con piglio di superiorità. Anche i suoi
conoscenti, gli stessi che usavano largheggiar seco in dimostrazioni
di stima, appena gli rivolgevano la parola. Passi per la Ermansi che
aveva ragioni plausibili di tenergli il broncio e che aveva risposto
con estremo sussiego al suo saluto. Ma c’era alla festa una ventina
di studenti universitari camuffati in varie foggie, giovinotti che a
scuola pendevano dalle sue labbra, volevano essere illuminati da’ suoi
consigli e dei quali non uno si degnava adesso di fermarsi a fare un
po’ di conversazione con lui. Il meno villano, un paggio Fernando della
_Partita a scacchi_, aveva buttato lì distrattamente un — buona sera,
professore, come sta? — E detto ciò per incarico di coscienza l’aveva
piantato in asso per correr dietro a un’Ofelia con la quale aveva
impegnato la seconda quadriglia.

Il modo di barattar quattro chiacchiere il nostro professore l’avrebbe
trovato sicuramente nella stanza da fumare, rifugio ordinario dei
vecchi scapoli che hanno rinunziato alla galanteria, e dei mariti
filosofi rassegnati ai decreti della Provvidenza; senonchè, egli era
inchiodato a quel posto di dove gli era concesso di veder ogni tanto
la bella Serlati. La vedeva ora a braccio dell’uno, ora a braccio
dell’altro, ballando un giro con questo e con quello, ma nei balli
figurati avendo sempre per cavaliere quell’antipatico di Montalto. Poi,
fra un ballo e l’altro ella usciva per una delle quattro porte della
sala, passava talvolta rasente a lui, accompagnata, ben s’intende,
da qualche spasimante, lo salutava con un cenno, con un sorriso, e si
perdeva via nella folla che invadeva le stanze vicine. Egli esprimeva
la tentazione di seguirla, rattenuto dal timore di farsi scorgere, di
recarle noia, e soprattutto dalla certezza di non coglierla mai sola,
di non poter mai discorrerle con libertà. E quand’ella rientrava alle
prime battute dell’orchestra, e con essa entrava un’onda di gente, una
vampata di caldo, egli era ancora appoggiato a quello stipite di marmo,
immobile come una cariatide, solo rasciugandosi macchinalmente il
sudore col fazzoletto.

Seduta presso di lui a un capo del divano che girava intorno alla sala,
e ansante e sbuffante al pari di lui, una signora forestiera di mezza
età, molto grassa, lo guardava di tratto in tratto con un’espressione
mite e benevola di donna altrettanto disposta a raccontare i propri
dolori quanto a intendere e a compatire i dolori altrui. Ella non
conosceva Teofoli che non l’era stato presentato, ma parendole ch’egli
fosse lì suo malgrado, vittima di qualche dovere domestico, cedette a
un bisogno irresistibile di sfogarsi, e lasciando da parte le cerimonie
gli disse con una cattiva pronunzia francese: — _Ah si ce n’était pour
nos enfants!_

— _Plait-il, Madame?_ — domandò il professore che non aveva capito.

Allora ella gli spiegò ch’era venuta a quella festa unicamente per
accompagnarvi le sue due ragazze e che supponeva vi fosse anche lui per
un motivo simile.... _Sans cela, mon Dieu!_...

Teofoli divenne rosso e balbettò una frase evasiva. Per fortuna la
degna signora era alquanto sorda e non voleva esser creduta tale, ciò
che la induceva ad appagarsi di qualunque risposta.

— _Ah, oui, naturellement_, — ella soggiunse. E saltando ad altro
argomento fece notare al suo vicino che in quella temperatura tropicale
sudavano persino i muri e ch’egli s’era bagnata la manica del vestito a
forza di stare appoggiato allo stipite.... Se si contentava del po’ di
posto che c’era vicino a lei.... E lealmente, coscienziosamente, ella
si ristrinse più che potè, mentr’egli per non commettere una troppo
grossa villania approfittava del non ambito favore.

Egli sedette così per alcuni minuti, rattrappito sul divano, soffocando
peggio di prima e non abbracciando più come prima con lo sguardo
l’insieme della sala. Anzi, davanti a sè, non vedeva che un gran
turbinio di veli, uno svolgersi serpentino di code, un ondeggiar di
capigliature nei ritmici movimenti del ballo. Vedeva invece alla sua
destra sullo stesso divano una serie di faccie sonnolenti e ingrugnate:
mamme sospiranti il letto e combattute fra la speranza che le loro
figliuole potessero trovare un marito e il timore ch’esse tornassero
a casa con nuovi grilli in capo; vecchie zitelle furibonde d’esser
lasciate in disparte; vecchie eleganti schiacciate dall’umiliazione
dell’insolito abbandono; fanciulle anche non goffe, non brutte, ma
smarrite in una società ove non conoscevano quasi nessuno e aventi
l’aria di naufraghi in cerca di una tavola di salvezza. Quante, quante
delusioni! E per pochi trionfi quante disfatte!

La facoltà di assurgere dalla considerazione dei fatti particolari alle
idee generali offre, per quel che dicono, qualche conforto. Essa offre
almeno un modo di distrarsi, e il nostro professore, nello studiare
il dietro scena d’una festa, sviava per un istante il pensiero dalle
sue tribolazioni e non s’accorgeva, non foss’altro che dal movimento
vertiginoso dell’orchestra, che i secondi _lanciers_ toccavano al
loro termine e che si avvicinava per lui il gran momento di porgere
il braccio alla contessa Giorgina Serlati. Poichè si sapeva che dopo i
secondi lanciers si sarebbe aperto il _buffet_.

L’improvviso cessar della musica e la confusione, che ne seguì
richiamarono Teofoli al senso della realtà. Egli si alzò di scatto,
dominando con uno sforzo della volontà un inesplicabile malessere,
stupito di non provare nessun entusiasmo, di sentirsi piuttosto simile
a chi ubbidisce a una consegna che a chi è posseduto dal fuoco sacro
delle battaglie. Durante il tempo che era stato seduto aveva perso
di vista la contessa; la scorse adesso in fondo alla sala, appoggiata
tuttavia al braccio di Montalto e cinta dalle altre coppie che avevano
ballato nel medesimo _carré_ e che parevano, uomini e donne, inchinarla
come regina. Era una dedizione universale; _bella_, dicevano con
entusiasmo gli sguardi accesi degli uomini; _bella_, dicevano con
manifesto dispetto i sorrisi forzati delle signore.

Il professore esitò. L’idea d’appressarsi al crocchio dove si trovava
la Giorgina lo atterriva addirittura. Ah se avesse potuto sguisciar
via inosservato! Probabilmente ella non lo aspettava, non si ricordava
nemmeno di lui, della promessa che gli aveva fatta; e quando pur se ne
fosse ricordata, gli sarebbe stata riconoscente di dimenticarsene in
vece sua.... E in ogni modo, non avrebb’egli sempre potuto addurre la
scusa d’un’indisposizione subitanea?

Ma non gli rimase agio di pesare il pro e il contro di questa fuga.
La contessa aveva notato la sua presenza, e rispondendo con una
scrollatina di spalle alle rimostranze e alle preghiere di Montalto lo
aveva chiamato a sè con un cenno.

Non c’era più via di scampo e Teofoli fendette la folla per avvicinarsi
alla sua tiranna.

— Ebbene, — ella gli disse staccandosi bruscamente dal suo cavaliere e
passando sotto il braccio di lui il suo braccio nudo fino all’ascella,
— perchè non eravate pronto?...

Ella si voltò a Montalto che non si risolveva ad allontanarsi, e gli
tese la mano con un — A più tardi.

Una signora in costume da _Direttorio_ susurrò dietro il ventaglio
al suo cavaliere: — Pagherei sapere che gusto ci trovi la Serlati a
mettere alla berlina quel povero professore Teofoli.

— Eh, — replicò l’interrogato; — il gusto che le donne ci trovano
sempre a far disperare gli uomini.

— La più bella della festa in compagnia del più brutto, — sghignazzò
qualcheduno.

— Sì, — soggiunse un altro, — ma la figura ridicola la fa lui.

— Montalto inghiotte tanto veleno, — notò con compiacenza una Caterina
de’ Medici che non poteva soffrire il marchesino.

— Non credere, — disse un’amica. — Se non ha rivali più formidabili di
così....

Tutta questa gente usciva in processione dalla sala da ballo,
attraversava altre quattro stanze fra cui la stanza da giuoco, e si
dirigeva al _buffet_ ch’era rimasto chiuso per una mezz’ora e adesso
si riapriva trasformato interamente d’aspetto con una ventina di
tavolini da quattro posti per ciascheduno, apparecchiati di qua dal
banco ove gl’intenditori avrebbero potuto ammirare una vera esposizione
gastronomica. Quello però non era il momento di contemplazioni
platoniche.

Come accade sempre, il _buffet_ fu preso d’assalto. S’era bensì fatta
correr la parola d’ordine che i posti a sedere, anche per le sole
signore, eran pochi, che la stanza era d’una capacità limitata e che
sarebbe stato opportuno di non venirci tutti quanti in una volta. La
grande maggioranza non s’era arresa a queste ragioni. In un attimo
i tavolini furono occupati, e dinanzi al banco si vide la scena
edificante d’una massa d’uomini urlanti, dimenantisi a guisa d’ossessi,
intenti a soverchiarsi a vicenda, quali per saziar presto le loro dame,
quali per saziar sè medesimi.

— Qua, Giorgina.... Qua, contessa, — gridarono ad una voce tre signore
chiamando alla loro tavola la bella Serlati. — C’è un posto.... Ed è
Teofoli che ti serve?

— Ma sì.

— Come vuoi che faccia? È proprio roba per lui....

— Vedremo.... Da bravo, Teofoli, procuratemi intanto una tazza di
_consommé_.


XV.

Col dire che non era _roba per lui_, quella signora che Teofoli
conosceva superficialmente aveva detto una gran verità, e il povero
professore nell’ubbidire all’ordine della contessa somigliava a chi si
getta a capofitto nell’acqua senza saper nuotare. Più basso di statura,
meno largo di spalle, meno forte di gomiti, meno robusto di polmoni
della maggior parte di quelli che s’addensavano intorno al banco, egli
non riesciva nè a cacciarsi innanzi nè a far sentire il suo disperato
appello. — Un _consommé_! Un _consommé_! — Nè s’avvedeva intanto che
Montalto il quale s’era impuntato a servir lui la contessa, stendendo
le suo lunghe braccia al disopra delle spalle d’un amico indulgente,
otteneva la desiderata tazza di brodo e la portava come trofeo alla
donna del suo cuore.

Sulle prime la Giorgina lo rimproverò. — Che insistenza è la vostra,
Montalto? Sapete che ho dato l’incarico al professore.

Le sue compagne si misero a ridere. — Sei matta ad aver questi
scrupoli?... Chi primo arriva primo alloggia.... E poi stai fresca se
aspetti il tuo professore....

— Voi altre però, — riprese la contessa, — avete più pazienza coi
vostri cavalieri.

— Eh.... se indugiassero troppo ricorreremmo anche noi a Montalto....
Non è vero, Montalto, che servirebbe anche noi.... s’intende dopo la
contessa Serlati?

— Si figurino.... Con tutto il piacere.

Queste eccellenti ragioni vinsero la perplessità della contessa.
Montalto, raggiante, le susurrò una parola di tenero ringraziamento e
si slanciò di nuovo nel fitto della mischia.

Uno a uno gli eleganti giovinotti si presentavano alle loro dame chi
con un piatto, chi con una bottiglia, ultimo comparve il professore con
la sua tazza di _consommé_.

— Tardi, tardi, Teofoli — disse l’adorabile marchesa di Pompadour con
accento di sincero rammarico. — Avevo proprio bisogno d’una goccia di
brodo, me l’hanno offerto e l’ho preso.

— Ha fatto bene, — rispose il professore a denti stretti. — A ogni modo
potrebbe prendere anche questa tazza....

— Ah no, grazie.... Mi basta.... Piuttosto cercate d’aver
qualcos’altro.... della lingua, del salmone, del pasticcio di
Strasburgo.... quello che vi si dà insomma.

— Sì, sì, professore, — gridò la Del Viale, una leggiadra brunetta in
costume di maga che sedeva a sinistra della Serlati, — ci porti del
pasticcio di Strasburgo.

— E del salmone in abbondanza, — soggiunse la Binasco, una madama
Recamier che pareva in camicia.

— Badi a me sola, — ripigliò la Serlati, — se no, non ne viene più a
capo.

E quando Teofoli si fu allontanato per ritentar la difficile impresa,
ella si rivolse alle amiche: — Non ci mancavate che voi per fargli
perdere la bussola.

— Vorresti aver tu questo privilegio? — dissero le altre. — Li
accaparri tutti gli uomini, di tutte le specie, di tutte l’età....
nobili e borghesi, dotti e ignoranti, giovani e vecchi;... non ti
vergogni?... Ecco, noi ti ruberemo il tuo professore.

Era chiaro che in quei cervelli leggeri era entrata l’idea di
burlarsi del disgraziato Teofoli. La Serlati resisteva ancora, ma
resisteva fiaccamente. Non poteva permettere che le si attribuisse
una inclinazione seria pel professore. E poi il caldo ed il vino
cominciavano a salirle alla testa.

Al banco crescevano la confusione e lo strepito, e i camerieri non
sapevano più da che parte voltarsi, sconcertati dallo spettacolo di
quelle cento braccia che s’agitavano in aria, quali per consegnare,
quali per ricevere un piatto, storditi dal frastuono di quei cento
ordini che si accavallavano, per così dire, l’uno sull’altro, nelle
diverse lingue europee, con le diverse inflessioni di voci, imperiose,
persuasive, supplichevoli.

— Del salmone....

— Prego, del pasticcio di Strasburgo.

— E questo prosciutto viene o non viene?

— Fate il piacere, del fagiano, per due signore....

— Una bottiglia di Bordeaux, presto.

I vari postulanti si guardavano in cagnesco, frenando a stento la
voglia di scambiarsi dei vituperi, di cacciarsi a calci fuori della
sala. Bastava sentire in che modo secco, rabbioso fossero pronunciati
quei _pardon, pardon_, che per un resto d’educazione accompagnavano
gli spintoni e le gomitate. Ma i più irritanti erano quattro o
cinque signori in _frac_ che giunti alla prima fila vi si mantenevano
imperterriti riempiendosi l’epa di tutti i cibi e di tutti i vini, e
opponendo una resistenza passiva alle preghiere, alle sollecitazioni,
ai sarcasmi, agli urti.

Quando il professore Teofoli, dopo immani fatiche, arrivò presso al
banco per riconsegnarvi la tazza di brodo che la contessa Serlati
non aveva voluto, e per farsi dare del salmone, o della lingua, o
del pasticcio di Strasburgo, egli trovò dinanzi a sè, ultimo ma non
facilmente superabile ostacolo, uno di questi pilastri mangianti e
beventi. Ed egli aveva un bel dire, nella lingua internazionale dei
salotti: — _Pardon, monsieur_ — _permettez, monsieur, un petit moment_.
— _Monsieur_, che era rimasto sordo a tante esortazioni, sarebbe
rimasto sordo anche a questa, se non avesse riconosciuto, a malgrado
dell’idioma straniero, la voce dell’illustre Teofoli. Ciò lo indusse a
fare un quarto di giro e a presentare a Teofoli il suo profilo. Era il
professore Arnaldi.

— Caro collega, — esclamò costui reso tenero ed espansivo dal vino,
— dica a me, io la faccio servir subito.... Ma ha una tazza di brodo
ancora piena.... Perchè non la beve?... Vuol riconsegnarla?... Poteva
darla a un servo qualunque o metterla su una mensola.... A ogni
modo dia qui.... Ecco.... E adesso parli, che cosa desidera?... Io
la consiglierei a provar di tutto.... Non c’è niente da buttar via,
l’assicuro.... Cominci dalla lingua affumicata.

— Ma no, — interruppe Teofoli, — non si tratta di me.... si tratta di
alcune signore....

— _Alcune_ signore?... Corbezzoli.... Si piglia di questi impicci,
caro collega?... Non la invidio davvero.... Però vada pure per le
signore.... Che cosa devo procurare per le signore?

La qualità dell’alleato non piaceva troppo a Teofoli, nè gli piaceva,
nella sua aristocrazia di professore universitario, quel titolo
di collega datogli così da un maestrucolo; tuttavia egli non si
sentiva forte abbastanza da rispinger la mano pietosa che veniva in
suo soccorso, e disse: — Poichè è tanto gentile, cerchi d’aver del
salmone.... E del pasticcio.... in due piatti.... Già più di due piatti
non si possono mica portare.

In quel momento, come per dargli una solenne smentita, il marchese
Montalto gli passava accanto portando a ignota destinazione, con la
disinvoltura d’un cameriere di trattoria, non due piatti ma quattro.
Per fortuna Teofoli non se ne accorse.

— Del salmone! Del pasticcio! — gridava Arnaldi. E sentiva il bisogno
di soggiungere a sua giustificazione: — Non per me, per delle signore.

I camerieri ubbidivano in silenzio. Solo nel guardarsi sorridevano a
fior di labbro, di quel sorriso fine, diplomatico, che riavvicina un
credenziere a un ministro plenipotenziario.

Fra i presenti corse un fremito d’indignazione.

— È un’enormità.

— Non s’è mai visto una cosa simile.

— Quelli non son uomini, son lupi, pesci cani....

— Questa volta agisce per procura, — bisbigliò qualcuno che aveva côlto
una parte del dialogo tra i due professori.

— Sarà un pretesto, — rimbeccò uno scettico.

Ma convenne arrendersi all’evidenza. Allora un bello spirito slanciò un
epigramma. — Società di mutuo soccorso fra i docenti.

Troppo occupato a tener in equilibrio i suoi due piatti, Teofoli non
badò ai sarcasmi. Se arrivava sano e salvo era un miracolo.

Egli attraversò senza peripezie la barricata umana che divideva il
banco dal resto della sala, navigò felicemente tra gli scogli dei
tavolini, delle sedie smosse, dei lunghi strascichi di velluto e di
seta, e pervenne al termine del suo viaggio, cioè al tavolino della
Serlati. Ivi però lo aspettava una dolorosa sorpresa.

Intorno a quel tavolino s’addensava un nugolo di galanti. Ne avevano,
com’è giusto, anche le tre compagne della Giorgina, ma i più erano
per lei. E, ciò ch’è peggio, fra questi c’era Montalto che appoggiato
alla spalliera della seggiola della contessa le susurrava chi sa quali
freddure, mentr’ella alzando gli occhi dal piatto e volgendo alquanto
la testa lo ascoltava con deferenza e gli offriva un frutto con la
sua bianca manina. Insomma un idillio commovente. Il tavolino, si
può immaginarsi, era pieno d’ogni ben di Dio, da sfamare non quattro
delicate signore ma una dozzina d’uomini digiuni da una settimana;
poichè tutti quei giovinotti, confidando di giungere al cuore delle
loro belle per la via del palato e dello stomaco, erano andati a gara
per recar loro le proprie offerte.

Era naturale quindi che la comparsa del professore fosse accolta con
uno scoppiettìo di frizzi mordaci.

— È il soccorso di Pisa.

— La vettura del Negri.

— Il leggendario burchiello di Padova.

— Caro amico, — disse la Giorgina, — è una fatalità, ma siete sempre in
ritardo.... Vedete quanta roba hanno già portato questi signori.

Teofoli, pallidissimo, si morse il labbro. — Però.... Io ho fatto
quanto più presto m’era possibile.... e speravo....

— Che avessi pazienza, non è vero?... Dio buono.... non conviene poi
prender le cose sulla punta della spada.... Son sere eccezionali.... Mi
dispiace che abbiate avuto tante seccature per nulla.

Ritto in mezzo a quella gioventù canzonatrice co’ suoi due piatti in
mano che non sapeva dove posare, il professore faceva una ben grama
figura.

— Mangi lei, — gli suggerì la Binasco.

— Guardi, — soggiunse la Fiorenzi, una bionda slavata che fino allora
aveva parlato pochissimo; — laggiù è rimasta libera una sedia.... La
pigli e s’accomodi vicino a me.

— O come vuoi che pigli la sedia se ha tutte le due mani impegnate? —
le chiese piano la Del Viale.

— Zitto, — rispose la Fiorenzi nello stesso tuono di voce. — Ho detto
apposta.... per confonderlo peggio.... Non vedi com’è grottesco?
Giurerei che fa qualche malanno.

La Fiorenzi aveva una reputazione bene assodata d’istinti profetici.
Ella aveva appena finito di confidare le sue previsioni alla Del Viale
che il professore con un movimento falso urtava una contessa Marziani
la quale s’era alzata allora da una tavola vicina e stava raccogliendo
la coda prolissa del suo vestito da gentildonna veneziana del secolo
scorso. Nell’urto uno dei due piatti si piegò alquanto da un lato,
e parte della gelatina che guarniva il pasticcio andò a cader sopra
l’abito della dama. Ella ebbe un ruggito da leonessa ferita e il suo
cavaliere, un alcade spagnuolo, slanciò a Teofoli insieme con uno
sguardo fulmineo un _monsieur_ che per sè non voleva dir nulla, ma
che, pel modo in cui era pronunciato, appariva gravido di minaccie
e poteva contenere anche un cartello di sfida. Guai se il professore
avesse reagito! Egli però riconosceva il suo torto e biascicò alcune
parole di scusa. Il cavaliere interrogò con gli occhi la sua dama,
pronto, non se ne dubita neanche, a lavar col sangue dell’offensore la
macchia fatta dalla gelatina al vestito di lei. Per fortuna la dama gli
accennò di smettere e la cosa terminò lì. La gentildonna veneziana e il
suo belligero campione si allontanarono maestosamente; il professore
Teofoli consegnò il suo carico malaugurato al primo domestico che gli
si parò innanzi, e si lasciò cader sfinito sopra una sedia.

Alla tavola della Serlati questa scenetta destò un’ilarità
irrefrenabile. Era quel riso che somiglia a una convulsione, che
s’alimenta da sè stesso, che fa dire a chi ne ignora la causa: — O che
son diventati matti?

Ma Teofoli non ne ignorava la causa. Egli capiva perfettamente
che quelle donnine frivole e quei zerbinotti melensi ridevano di
lui. E degli altri non gli sarebbe importato. Era il riso della
Giorgina che lo feriva al cuore, era il veder che la Giorgina si
faceva mescer lo sciampagna da Montalto, e accostava il suo calice a
quello dell’elegante marchese e gli permetteva di chinarsele addosso
sguajatamente fino quasi a sfiorarle con la bocca le spalle nude. A
un certo punto non ne potè più; ebbe uno scatto d’energia, si rizzò
in piedi d’un colpo e si mosse per andarsene da un luogo ove non
raccoglieva che umiliazioni.

— Professore, professore, — gridarono dal crocchio della contessa
Serlati. — Ma dove va? Ma venga qui.... Vogliamo fare un brindisi alla
sua salute.

— Teofoli.... via.... che furia avete? Bevete un bicchiere di
sciampagna con noi.

Era la voce della Giorgina. Ma anche quella voce rimase inascoltata.
Essa gli pareva rauca, aspra, stridula come se lo stromento si fosse
guasto, come se qualche corda se ne fosse infranta.

Uno di quei giovani gli corse dietro. In nome della contessa Serlati
e dell’altro signore, in nome di tutti lo si pregava di trattenersi
ancora un pochino, di sedere alla loro tavola.

Il professore fece un segno negativo col capo e affrettò il passo. Non
era più una partenza, era una fuga.


XVI.

Ormai tutti quelli che non avevano intenzione di assistere al
_cotillon_ lasciavano la festa.

Ai nomi sonori slanciati nella strada a voce alta dal guardaportone,
le carrozze signorili entravano a una a una nell’atrio, si fermavano
ai piedi della scala, accoglievano fra i morbidi guanciali e le
soffici coperte di lana i padroni imbacuccati nelle loro pelliccie,
e da quell’ambiente di luce e di tepore uscivano fuori nella burrasca
invernale.

Quando toccò il turno del professore, il guardaportone gli chiese il
suo nome.

— Chiamate il numero del fiacre, 174. È più sicuro, — disse il
professore.

Il maestoso personaggio aggrottò alquanto le ciglia, e come se lo sue
labbra si rifiutassero a così umile ufficio confidò quel miserabile
numero a un suo dipendente che andò a gridarlo di malavoglia. — Il
fiacre numero 174.

A compenso delle orecchie delicate offese da questo suono, il
guardaportone in persona fece, subito dopo, echeggiar l’aria di alcune
note superbe: — La carrozza del duca Ferrando della Torre Merlata.

Lo stuolo dei lacchè tirò un sospiro di soddisfazione. Questi son nomi!

Sebbene il fiacre numero 174 dovesse aver la precedenza sulla carrozza
del duca Ferrando della Torre Merlata, accadde tutto l’opposto, essendo
troppo giusto che il signor duca e la signora duchessa non pigliassero
freddo nemmeno per un minuto secondo. Il fiaccheraio, vedendosi passato
in seconda linea, si permise due o tre frasi poco parlamentari che
scandalizzarono il nobile servidorame. — È gente che non ha educazione
— notò con gravità uno della marmaglia.

— In queste case bisognerebbe venire per lo meno con legni di rimessa,
— soggiunse un altro.

E un terzo, più aristocratico, sentenziò: — Il meglio sarebbe non
invitare chi non ha equipaggio proprio.

Checchè ne sia, il professor Teofoli fu alla fine, bene o male,
insaccato nella sua vettura.

— Avanti, — disse uno dei domestici dei Gilbert chiudendo rumorosamente
lo sportello.

Avanti nella neve, avanti nel freddo e nel buio. Nella neve che
picchiava con un suono metallico sui vetri dei finestrini, nel freddo
che penetrava attraverso tutte le commessure, nel buio rotto appena dal
raggio fioco e tremolante dei due lampioni del fiacre. La città dormiva
avvolta nel suo lenzuolo bianco; non un’imposta, non un negozio aperto,
non un pedone nella via o sotto i portici; solo di tratto in tratto
qualche carrozza a due cavalli, proveniente anch’essa dal palazzo
Gilbert, oltrepassava in silenzio il modesto veicolo del professore.

Il valentuomo era in preda a una sonnolenza affannosa che gli faceva
appoggiar la testa ora da un lato ora dall’altro della vettura senza
quietarsi mai interamente, ma che aveva il vantaggio inestimabile di
smorzar in lui le impressioni di quella notte sciagurata. Delle cose
viste ed udite gli restava come una fantasmagoria confusa, come una
risonanza lontana; gli restava un vago ricordo, non troppo acerbo però,
di qualche torto patito, di qualche pena sofferta. E provava insieme
una gran maraviglia d’essersi trovato in mezzo a quel frastuono, a
quel chiasso, un desiderio intenso di solitudine e di raccoglimento,
un’impazienza vivissima d’esser di nuovo nel suo studio, in mezzo a’
suoi manoscritti e a’ suoi libri.

Allorchè il fiacre si fermò dinanzi alla porta della sua casa il
professore uscì bruscamente da quello stato di dormiveglia e sentì
per un momento ridestarsi nell’animo la rabbia, la mortificazione,
l’angoscia che lo avevano straziato a gara durante la festa. Ma non fu
che un momento. Una sofferenza fisica acuta distrasse la sua attenzione
dalle sofferenze morali. Appena sceso di carrozza s’accorse che durava
fatica a tenersi ritto; una puntura assidua alla parte sinistra del
petto gli toglieva il respiro; aveva un cerchio alla testa, un’arsura
alla gola, una gravezza fastidiosa a tutte le membra. Nondimeno,
senza chiamare la signora Pasqua che non lo aspettava mai alzata la
notte, egli potè accendere il lume, salir il breve tratto di scala
che conduceva al suo quartierino, entrar nella sua camera e mettersi
a letto. Ma invece di averne sollievo si sentì peggio. Gli cresceva
l’ambascia, il dolor di capo, la sete inappagata, rabbiosa. La coltrice
gli pareva irta di spine, le coperte gli pesavano come se avesse
addosso una montagna: aveva negli occhi, anche dopo spenta la candela,
un barbaglio molesto, aveva negli orecchi un ronzìo come di qualche
insetto che vi fosse prigioniero.

Era giunto a casa verso le quattro; alle sei non ne potè più e suonò il
campanello.

Al vederlo col petto ansante, col volto acceso, con le pupille
stralunate, la signora Pasqua congiunse le mani ed esclamò: — Vergine
santissima, che cos’ha?

— Sto poco bene; credo d’aver la febbre, — rispose il professore con
voce fioca.

La signora Pasqua che pretendeva d’intendersene gli tastò il polso. —
Altro che febbre! Un febbrone.

Poi, pentita della sua franchezza brutale, soggiunse: — Non sarà
nulla.... Sarà un’effimera.... Avrà preso del freddo uscendo da quella
festa.... Là, figuriamoci, sarà stata una fornace. E quando non si è
usi a certi strapazzi.... Se avesse dato retta a me....

— Sì, sì, avrei fatto molto meglio.... Non mi ci vedono mai più in quei
posti.... mai più.

La docilità insolita del professore sconcertò la signora Pasqua. — O
pover’uomo! — ella pensò. — Dev’essere proprio a mal partito se mi dà
ragione così....

E poichè era preparata a discutere rimase per qualche istante senza
parola, accomodando i guanciali sotto il capo dell’ammalato.

— Perchè non suonar subito? — ella disse finalmente.

— Speravo d’addormentarmi.... Ma non c’è stato verso.... Fatemi
aver del ghiaccio.... E appena vien Fedele mandatelo dal professore
Astigiano, il mio medico.... Dev’essere in città.... E se non c’è lui,
da Barelli, l’altro mio collega, che sta in piazza Vittorio Emanuele a
fianco del Caffè d’Italia.

Teofoli parlava a stento, interrotto da frequenti colpi di tosse.

— È un raffreddore, un gran raffreddore, — ripigliò la signora
Pasqua. — Non si sforzi a discorrere. Cerchi di sudare piuttosto. Dal
professore Astigiano andrò io in persona. Fedele non sarà qui che dopo
le otto.... Ma non si dia pensiero, non lo lascerò mica solo. Pregherò
la portinaia di salire per una mezz’ora. E se le occorre qualcosa, tiri
il campanello....

— Va bene.... Ma del ghiaccio, mi raccomando.

— Prenderò anche del ghiaccio.... quantunque, secondo me, un sudorifero
farebbe più al caso.... Basta, verrà il medico.

Di medici, anzichè uno, ne vennero due, prima il Barelli e poi
l’Astigiano che non era a casa quando la signora Pasqua andò a
chiamarlo, ma che tornò nella mattina stessa da un consulto in
provincia e corse subito dall’amico e cliente. I due luminari della
diagnosi e della terapeutica furono d’accordo nel riconoscere la
gravità della malattia ch’era una pleuropneumonite con complicazione
cardiaca, la qual cosa dava maggior pensiero del resto e portava seco
il pericolo di soffocazione improvvisa, per sincope. E siccome la
clinica universitaria vantava nel professore Ravanetti uno specialista
per le affezioni di cuore, anche il Ravanetti fu pregato di esaminare
l’infermo, ciò ch’egli fece nella sera stessa, pronunciando un responso
identico a quello dei due onorandi colleghi.

Intanto la notizia del male violento che aveva colpito l’insigne
professore Teofoli s’era diffusa nella città e vi aveva destato una
dolorosa maraviglia. — Come? — si diceva: — Se poche ore fa era alla
festa dei Gilbert?

Allora qualcheduno notava che il professore da un pezzo non era più
lui, ch’era pallido, ch’era magro, ch’era di cattivo umore. E altri
accennavano in aria di mistero a quella sua disgraziata passione per la
Serlati, la prima origine di tutti quanti i suoi guai.

— Sarà un travaso di bile per chi sa che brutto tiro di quella civetta,
— borbottavano Frusti e Dalla Volpe.

E nel loro scetticismo non vollero, il primo giorno, nemmeno passare a
casa Teofoli ad assumervi informazioni precise.

La seconda mattina però, dopo un colloquio con l’Astigiano e col
Barelli, i due arcigni e ringhiosi personaggi si piegarono a più miti
consigli e si recarono in persona da colui che pochi mesi addietro essi
seguivano come due cani fedeli.

Teofoli mostrò di vederli con piacere, discorse loro, per quanto
glielo consentiva il respiro corto e affannoso, delle faccende
dell’Università, li invitò a tornar presto, ed espresse l’intenzione,
appena ristabilito, di riprender la vita d’un tempo, i suoi pranzetti
nell’intimità, le sue passeggiate, le sedutine in birreria.

In complesso i due professori non furono scontenti della loro visita.

— Il diavolo non sarà così brutto come si voleva farci credere, — essi
dissero alla signora Pasqua che li riaccompagnava. — E sembra almeno
che d’una delle sue malattie, della peggiore, egli sia guarito....
Quella femmina....

— Quella femmina, — proruppe con impeto la signora Pasqua, — lo ha
assassinato.... Guarito di quella malattia?... È vero, sembrerebbe che
fosse guarito. Ma non c’è da fidarsene.... E scommetterei che uscendo
di casa egli correrebbe subito dalla signora contessa.... Pur troppo,
— ella soggiunse rasciugandosi gli occhi col lembo del grembiale, — non
esce di casa, no, per adesso.... E voglia il cielo....

— Eh via....

— E pensare che se non ci fosse stata quella femmina....! — ripigliò
la signora Pasqua sfogando la sua acrimonia contro la Serlati. —
Brutta pettegola!... Lusingare un uomo come il professor Teofoli e poi
prendersi gioco di lui.... Perchè è andata così, giurerei ch’è andata
così.

— Donne, cara signora Pasqua, donne! — esclamò Frusti.

— Per questo è vero, — ella rispose. — Donne, e s’è detto molto.... Ma
che non ci sian proprio eccezioni?... Io, per poco donna che mi senta,
se avessi dato delle speranze a un uomo....

La signora Pasqua capì ch’era in procinto di dir qualche cosa di
contrario alla pudicizia e lasciò che i suoi interlocutori tirassero la
conclusione delle sue premesse.

— Già, signora Pasqua, già, — biascicarono i due professori, alquanto
stupiti che la fiera virago venisse ad ammettere implicitamente di
avere un sesso. E con questo innocuo monosillabo si accomiatarono.

Cammin facendo, l’ombroso Frusti manifestò al compagno il sospetto che
la signora Pasqua mirasse ad offrirsi al padrone come succedaneo della
contessa Serlati.

Dalla Volpe si strinse nelle spalle. — Sei pazzo? Un mostro simile?
Credi che Teofoli se ne contenterebbe?

— Eh, quando a uno si caccia nell’ossa il prurito amoroso, — replicò
Frusti, — non c’è mostro che tenga. Si comincia col cercar la bellezza,
si finisce coll’adattarsi a quel che si trova.... Beati quegli
organismi che son maschio e femmina a un tempo.... Per loro almeno la
questione è risolta.

— Sì, — rimbeccò Dalla Volpe, — sarebbe come s’io avessi mia moglie
sempre attaccata. Non ci mancherebbe altro.


XVII.

E in quel giorno e nei giorni successivi ci fu a tutte l’ore un gran
viavai a casa Teofoli. Venivano i colleghi e i discepoli; venivano
gli amici e i semplici conoscenti; venivano, o mandavano, anche gli
estranei che tenevano in pregio l’ingegno e la dottrina del professore.
Alcuni privilegiati, o intimi realmente, o creduti tali dalla signora
Pasqua, erano lasciati salir le scale e fatti passar nella camera
da studio ch’era attigua alla camera da letto, e di dove potevano,
essendo aperto dì e notte l’uscio di comunicazione tra le due stanze,
scambiare con l’infermo uno sguardo, un gesto, una parola. Così,
nonostante il divieto dei dottori, egli vedeva spesso qualcheduno, o
colleghi, o studenti, o il rettore dell’Università, o il conservatore
dell’Archivio, o il prefetto della Biblioteca, ecc., ecc. E quand’essi
s’affacciavano alla soglia, egli, senz’alzar la testa dai guanciali,
chiamava a sè ora questo, ora quello, mormorava un ringraziamento,
chiedeva un’informazione. Una sera notò la presenza del conte Ermansi,
gli fece segno di avvicinarsi, lo pregò di salutar la contessa e di
assicurarla che la sua prima visita, quando uscisse di casa, sarebbe
per lei. Era manifesto che o non credeva o simulava di non credere alla
gravità del suo stato. Si sarebbe detto piuttosto ch’egli riteneva di
attraversare una crisi benefica dopo la quale il vecchio uomo sarebbe
risorto. E ch’egli aiutasse questa risurrezione con uno sforzo della
volontà si capiva anche dallo studio con cui schivava di alludere ai
casi e alle persone che avevano avuto una parte prominente negli ultimi
mesi della sua esistenza. Un’unica volta domandò alla signora Pasqua se
i Serlati si fossero fatti vivi.

— Sì, sì, mandano il servitore, — borbottò la donna con mala grazia. —
Avrebbero dovuto venir loro, mi sembra.

E la signora Pasqua si mostrava disposta a continuare su questo tuono,
ma Teofoli si voltò sul fianco per tentar di dormire, ciò che non
gli riusciva da quando s’era messo a letto, tormentato com’era da
un’ambascia ribelle a tutte le cure.

A ogni modo chi non badava che alle apparenze, chi lo vedeva conservar
la sua mente lucidissima, chi lo sentiva far mille disegni per
l’avvenire non sapeva capacitarsi ch’egli fosse in gran burrasca.

I medici invece tentennavano il capo sfiduciati. E alla fine della
settimana uno di loro, il professore Astigiano, accennò all’opportunità
di avvertir la sola parente stretta che Teofoli avesse, la sorella
maritata a Roma.

La signora Pasqua che, nonostante le sue molte singolarità, era uno
spirito equanime, propendeva pel sì; Frusti e Dalla Volpe, i due
amici più assidui al letto dell’ammalato, propendevano pel no. —
Una donna?.... — essi brontolavano. — Che cosa può far di bene una
donna?... Una sorella della quale Teofoli non parla mai?... Se l’avesse
desiderata l’avrebbe chiesta.

— E perchè non interrogare in proposito lui stesso?... — notò
giudiziosamente qualcuno.

Qui sorsero in gran copia i _ma_, i _se_, i _forse_.... Ma era poi
savio consiglio l’interrogarlo?... Se il toccar questo tasto lo
mettesse in apprensione?... _Forse_ si faceva peggio.

Mentre si discuteva, il maggior foglio locale, _La Specula,_ annunziava
nella sua cronaca con accento contrito che da circa una settimana
l’illustre professore Clemente Teofoli, decoro della Università
cittadina, decoro degli studi italiani, _guardava il letto per non
lieve malore_. Naturalmente al triste annunzio tenevano dietro i più
fervidi auguri di sollecita guarigione. L’articoletto di cronaca aveva
un poscritto del seguente tenore: — “Al momento di porre in macchina
veniamo assicurati esservi un sensibile miglioramento nelle condizioni
dell’insigne uomo. Aumenta quindi la speranza di salvare una vita
preziosa agli studi e alla patria.„

In seguito a questo articolo, riprodotto subito dai giornali più
diffusi della penisola, capitarono il domani a casa Teofoli parecchi
dispacci da varie parti d’Italia, e uno fra gli altri da Roma, della
sorella, che domandava pronte e particolareggiate notizie.

Il telegramma arrivò appunto quando i due medici, Astigiani e Barelli,
uscivano insieme dalla camera del paziente, e la risposta da inviarsi a
Roma fu combinata da Frusti e Dalla Volpe d’accordo con loro. Essa era
tale da lasciar ben poche illusioni a chi sapesse legger fra le righe.

In fatti il _sensibile miglioramento_ indicato dalla _Specula_ non
esisteva che nella fantasia del cronista. Anzichè migliorare, le cose
precipitavano al peggio. La paralisi polmonare accennava ad estendersi
dal lato sinistro al destro, gli attacchi al cuore divenivano più
frequenti, le forze scemavano, s’offuscava l’intelligenza. C’erano
momenti in cui l’ammalato non riusciva nè a connetter le idee, nè a
riconoscere le persone.

Nella notte successiva la febbre si esacerbò e cominciò il delirio.
Teofoli parlava della sua opera sulla origine delle religioni, dei
materiali che aveva raccolti e che gli permettevano di consegnare
all’editore il primo volume entro un mese e il secondo entro l’anno.
Poi, come se il libro fosse già stampato, passava in rassegna i
probabili giudizi dei critici, discuteva con dialettica maravigliosa
le obbiezioni di un avversario ipotetico. Sulle sue labbra si
avvicendavano date, nomi d’autori, citazioni in lingue diverse; pareva
di assistere allo scoppio d’un magazzino di fuochi d’artifizio. Ma
di tratto in tratto la sua fisonomia si contraeva spasmodicamente;
un pensiero che non si riferiva a’ suoi studi gli attraversava lo
spirito, un nome che non aveva nulla da far co’ suoi libri e co’ suoi
autori gli saliva alla bocca: — _Giorgina, Giorgina._ — Non l’aveva
dunque dimenticata? E quando, dopo uno sforzo per alzar la testa
dai guanciali, ricadeva esausto, e le sue pupille vitree, sbarrate
si volgevano ostinatamente verso l’uscio aperto della sua camera da
studio, guardava forse soltanto alla sua biblioteca di cui non avrebbe
più toccato i volumi, alla sua tavola da lavoro di cui non avrebbe più
mosso le carte? O non c’era ne’ suoi occhi l’ansietà dolorosa di chi
aspetta qualcheduno che non verrà?

No, la Giorgina, s’è lei ch’egli aspetta, non verrà. Forse il suo
primo impulso sarebbe stato di venire, perchè di cuore non è cattiva,
perchè nutre una certa amicizia per Teofoli, quantunque gli abbia fatto
tanto male (cosa ch’ella non sospetta nemmeno), ma in risposta a una
sua allusione in proposito il conte Ercole le disse: — Non conviene
che tu vada sola, specialmente dopo quella tua bambinata che diede
da discorrere oltre al bisogno. T’accompagnerò io al primo momento di
libertà. — Ed ella replicò con inusata mansuetudine: — Come vuoi. — Per
disgrazia il conte era occupatissimo a cercare una nuova pariglia pel
suo _landau_ e non aveva in quei giorni un minuto disponibile. Anche
la contessa era tanto tanto occupata.... a riposarsi dalle fatiche
del carnovale e a prepararsi alle penitenze della quaresima.... Però
ell’aveva dato ordine espresso a uno dei servi di passare ogni mattina
dal professore, e, quel che più importa, quando il servo tornava dalla
sua spedizione, ell’aveva l’abitudine non troppo comune di star a
sentire ciò ch’egli le riferiva. Anzi un paio di volte ella esclamò: —
Povero Teofoli! Quanto mi dispiace!

Il bello si è che pel solo dubbio d’incontrar la Serlati non si recava
da Teofoli nemmeno la Ermansi, la quale avrebbe pur voluto portare il
suo perdono in _extremis_ all’amico che l’aveva offesa, ferita nel
suo amor proprio, posposta ad una civetta. Le due donne erano ormai
nemiche mortali, e la Ermansi parlando della Giorgina, diceva: — In
società devo subirla; se la trovassi in casa del professore temo che mi
dimenticherei d’essere una dama. — Ora, a essere una dama la contessa
ci teneva troppo per non sfuggir tutte le occasioni che potevano
farla discendere al grado di pedina. Rinunciò quindi al suo magnanimo
proposito affidando al conte marito l’ufficio di sostituirla.

In luogo della Serlati e della Ermansi, all’ultimo momento e quando
l’infermo aveva già perduto i sensi e non ravvisava nessuno, giunse
la sorella Teofoli da Roma. Era una signora magra, stecchita, dalla
fisonomia impassibile, d’un’età che non si sarebbe potuta determinare
a prima vista. In realtà aveva dieci o dodici anni meno del fratello
che studiava all’estero mentr’ella era fanciulla, che, per le necessità
della sua carriera, era rimasto lontano anche dopo, e col quale ella
non aveva nè analogia di gusti, nè consuetudine di vita, nè frequenza
di relazioni epistolari. L’imminente catastrofe la lasciava fredda;
mostrava appena quel tanto di dolore ch’era voluto dalle convenienze;
aveva piuttosto l’aria dell’erede che volgendo in giro lo sguardo
valuta, così a un dipresso, gli oggetti destinati a divenire in
breve sua proprietà. In fondo, di tutte le persone che in quell’ora
suprema s’affollavano nella casa, ell’era la meno afflitta, la meno
commossa; e verso quelle persone ella provava un sentimento difficile
a definirsi, un misto di stizza e di soggezione; le parevano intrusi,
e nel medesimo tempo una voce le diceva che l’intrusa era lei, lei che
del fratello non aveva curato la gloria, lei che ne ignorava i trionfi
e le debolezze. Pure, intrusa o no, poichè la parentela le dava una
larva di padronanza, ella si affrettò a far prevalere la sua volontà
in un soggetto delicatissimo. Tepida credente, ma ligia alle forme,
ma convinta della santità d’una massima che il suo consorte, impiegato
superiore al Demanio, amava spesso ripetere: _bisogna far sempre quello
che fa la maggioranza_; ella si scandalizzò altamente che Teofoli
si fosse ridotto a quel punto senz’adempiere alle pratiche di buon
cattolico. Che poi egli fosse vissuto sempre fuori d’ogni religione
positiva, che avesse ne’ suoi scritti e ne’ suoi discorsi sostenuto
dottrine razionaliste erano piccolezze che alla brava signora non
importavano affatto; le importava soltanto ch’egli uscisse dal mondo,
per dir così, _con le sue carte in regola_. Mandò quindi lì per lì a
chiamare un prete. Costui, un po’ per sincero zelo religioso, un po’
per il vanto di ricondurre in grembo alla Chiesa l’illustre professore
Teofoli, accorse subito, e non fu colpa sua se mentr’egli saliva le
scale l’illustre professore Teofoli esalava l’estremo sospiro. Però
la Curia fu di manica larga, tenne conto al morto del buon volere
manifestato da chi rappresentava la famiglia e si mostrò ben lieta di
accompagnarlo con le sue preghiere e di avvolgerlo nello sue pompe.
Alcuni arricciavano il naso, protestavano contro questa specie di
violenza postuma usata ad un uomo di cui erano notissime le opinioni,
e Dalla Volpe in particolare schizzava veleno pensando che la cosa
_avrebbe fatto piacere a sua moglie_. Ma già conveniva piegare il capo,
perchè in mancanza di qualsiasi disposizione del defunto non c’era
chi avesse diritto di opporsi all’autorità della sorella. Del resto,
anche molti indifferenti, molti scettici davano ragione a lei; dicevano
ch’ell’aveva fatto benissimo, che non c’è il prezzo dell’opera a
singolarizzarsi per questioni di forma, e che i funerali religiosi sono
più belli dei funerali civili.


XVIII.

Un pallido sole d’inverno illumina lo studio del professore Teofoli,
ove s’affollano, in quella fredda mattina di febbraio, i colleghi, gli
amici, i discepoli, tutti vestiti a bruno, tutti tristi e compunti,
alcuni con le lacrime agli occhi. Gl’intimissimi, quelli che si sentono
abbastanza sicuri de’ propri nervi, entrano un istante nella camera
attigua, danno un silenzioso saluto al defunto, composto nella bara
non ancora chiusa, irrigidito, non sformato però dalla morte, anzi
con un’espressione calma, serena, tranquillamente meditativa che
la sua fisonomia aveva perduto già da gran tempo. Forse egli aveva
finito col vincere la sua battaglia, con lo scacciar da sè le immagini
lusinghiere, le illusioni fallaci, forse, com’egli voleva, il vecchio
uomo era risorto.... Ma non c’era risorto che per morire.

Nello studio regna il disordine pieno di vita delle stanze abitate
fino a ieri; libri dappertutto; negli scaffali, sulla tavola, sulle
sedie; giornali sparsi qua e là alla rinfusa; quaderni ammonticchiati;
fogli manoscritti interrotti a metà di una linea, a metà di una parola
come per una chiamata urgente, improvvisa. E il tagliacarte d’avorio
fra una pagina e l’altra d’un nuovo volume, e il calamaio aperto
con gli orli ancora gocciolanti d’inchiostro, e la penna gettata
negligentemente sul calamaio e aspettante d’esser ripresa dalla
mano che l’ha deposta. Pendono dalla parete le solite fotografie di
celebri italiani e stranieri. Pendono e guardano. Videro per anni e
anni, dall’alba a notte inoltrata, il professore Teofoli intento nei
suoi lavori, ora esaltato dalla febbre della creazione, ora assorto
nelle minuzie dell’indagine, ora lieto, ora mesto, di quella gioia
vereconda, di quella mestizia pacata ch’è propria di chi ha un unico
amore, la scienza. E per anni e anni videro, soltanto in nome della
scienza, aprirsi le porte del santuario, e udirono suonar solo di
dispute scientifiche il luogo quieto e raccolto. Ma videro anche più
tardi sulla fronte pensosa del filosofo scender l’ombra di una cura
nuova e diversa, lo videro meno assiduo all’opera, meno paziente
nella ricerca, meno sollecito verso coloro che venivano ad attingere
alla ricca fonte della sua dottrina. Sin che un giorno, in quel fido
asilo di studi, irruppe un gaio folletto in cappellino color marrone,
pelliccia e manicotto, scompigliò i libri e le carte, spargendo intorno
a sè profumi acuti e sorrisi inebbrianti e promesse inadempiute di
arcane dolcezze. Sorrisero forse anch’essi gli illustri uomini pendenti
in effigie dalla parete, ma il professore Teofoli non sorrise più, non
trovò più conforto, non ebbe più pace. E adesso gl’illustri uomini
guardano s’egli esca dalla sua camera ov’entrò una mattina livido e
sfatto, se riprenda con animo sereno le sue occupazioni.

Sì certo ch’egli escirà dalla sua camera. N’esce chiuso fra
quattr’assi, sulle spalle di otto giovani della facoltà di lettere
che non vollero cedere a mani mercenarie l’onore di portare almeno
fino alla chiesa il loro diletto maestro. Attraversa un’ultima volta
lo studio, attraversa l’andito ove la signora Pasqua si stempera in
pianto, fa una breve sosta giù nel vestibolo terreno per lasciare che
si formi il corteo. A un dato segnale, la musica cittadina apre la
marcia intuonando funebri salmodie; subito dopo, la scolaresca coi
bidelli in gran tenuta e il gonfalone dell’Università velato a bruno, e
varie Associazioni con le rispettive bandiere. Poi viene il clero della
parrocchia, poi il feretro ch’è coperto di ghirlande e i cui cordoni
sono tenuti dal rettore dell’Università, dal sindaco, dal consigliere
delegato di Prefettura, dal presidente dell’Istituto di scienze e
da quattro professori tra i quali Frusti e Dalla Volpe. Seguono in
massa gli altri colleghi del corpo insegnante, compresi quelli che
non costumano di far lezione, e dietro a loro rappresentanze d’ogni
specie e cittadini d’ogni ordine, senza contare i semplici curiosi,
senza contare lo stuolo delle vanità che assistono ai funerali nella
speranza di veder citati i loro nomi dai fogli. Il corteggio passa in
mezzo a una doppia fila di popolo rispettoso; si parla del morto, se
ne ricordano le abitudini semplici, se ne lodano i modi gentili. — Un
così brav’uomo, e così privo di boria, — dice qualcuno. Indi corre per
le bocche la leggenda della contessa. — Era vero che una donna, una
_contessa_ gli aveva fatto girar la testa? Era vero che per seguirla di
qua e di là egli s’era rovinato la salute? — Ma sì, ma sì, era vero,
verissimo. E la contessa era quella Serlati ch’era venuta ad abitar
la città nell’inverno, e che si vedeva dappertutto. — Una bellezza!
— Questo sì.... Ma che civetta! — E poi così giovine!... Come mai il
professore Teofoli non ha capito che quello non era pane per i suoi
denti?

In chiesa c’è già una cinquantina di persone, nomini e signore, che
aspettano. Fra gli uomini il marchese di Montalto, mister Gilbert
che s’è fatto male a un piede e cammina a fatica, Monsieur de la Rue
Blanche ch’è appena tornato da una gita a Firenze; fra le signore,
oltre a parecchie mogli di professori, la Ermansi, la Roncagli, le
due Gilbert, zia e nipote, la tanto nominata Serlati. La Ermansi,
sinceramente afflitta per la perdita dell’antico frequentatore
del suo salotto, slancia occhiate velenose alla Serlati alla quale
ella attribuisce la colpa della catastrofe; dal canto suo, la bella
Giorgina, le mille miglia lontana dal sentirsi rea del delitto di
cui la si accusa, rimane impassibile sotto i fulmini della matura
contessa ed esamina attentamente miss Gilbert, la sola donna che
potrebbe rivaleggiare con lei. Ella conchiude però di non aver nulla da
temere nemmeno da miss Gilbert, ch’è troppo magra e non sa vestirsi,
mentr’ella, la Serlati, ha anche oggi una _toilette_ da lutto che le
sta a pennello.

Queste considerazioni sono interrotte dall’arrivo del funerale. E
durante tutta la cerimonia il contegno della Serlati è ammirabile.
Ella non sbadiglia, non chiacchiera con le vicine, non consulta troppo
spesso l’orologio; bensì, a un certo punto, non potendone più dal
caldo prodotto dalla gente e dai lumi, alza il velo che le nascondeva
la faccia. Nessuno ha l’obbligo di morir soffocato. Allora, non c’è
che dire, quegli uomini, giovani e vecchi, si turbano, si distraggono;
una fiamma passa nei loro occhi, un fremito agita le loro membra, una
parola si forma loro sulle labbra, una parola non pronunziata ma che
la Giorgina sente lo stesso: — Bella, bella! — Soltanto Frusti e Volpe
conservano un atteggiamento di fiera protesta. E quando il feretro è
portato fuori di chiesa, issato sul carro funebre che lo condurrà al
cimitero, passando per l’Università ove si pronunzieranno i discorsi,
Frusti arringa con piglio iracondo un gruppo di scolari intenti a
guardare estatici la Serlati che monta in carrozza. — Non vi curate
delle femmine, disgraziati che siete. La migliore di esse, e quella
lì è una delle peggio, non merita da noi il sacrifizio d’un’ora, d’un
pensiero.... Ogni minuto che diamo alla donna è tolto alla nostra pace,
alla nostra salute, a quelle pure e schiette gioie intellettuali che
valgono più di tutti i baci d’una sirena.

Mediocremente persuasi di questa sentenza, gli studenti sorridono sotto
i baffi.

Ma il Rettore, ch’è un uomo di molto buon senso, posa la mano sulla
spalla del focoso collega. — Via, via, Frusti, lasciate che i giovani
sian giovani.... In certe materie, credetelo, gli studenti hanno
maggior competenza dei professori....

— Bravo, — replica ironico lo storico di Carlo V e Francesco I,
— difendete anche voi il cosidetto sesso debole.... Mi sembra che
l’esempio del povero Teofoli....

— L’esempio del povero Teofoli non calza, — interrompe il Rettore.
— Teofoli ha avuto il torto, o la disgrazia, d’innamorarsi a
cinquant’anni passati; e d’innamorarsi d’una persona che non gli
conveniva sotto nessun rapporto. Era una cosa fatta fuori di tempo e
fuori di posto, e le cose fatte fuori di tempo e fuori di posto non
possono andare che male.

Forse queste semplici e savie parole riassumono tutta la filosofia del
nostro racconto.



IL SALOTTINO GIAPPONESE.


Giorgio Ceriani, capo della ricchissima ditta G. Ceriani e C.º,
era in gondola scoperta, insieme con due amici forestieri ch’egli
conduceva a desinare al Lido, sulla terrazza dello Stabilimento dei
Bagni. Nell’ultimo tratto del Canal Grande, quello che va dal Ponte
dell’Accademia fino al Molo, egli alzò gli occhi verso la finestra
d’angolo d’un palazzo gotico, e salutò qualcheduno che gli rese il
saluto.

— Che palazzo è? — chiese uno dei forestieri.

Giorgio Ceriani disse un nome patrizio e soggiunse: — Questi erano gli
antichi proprietari. Adesso però il palazzo appartiene al cavaliere
Roberto Prosperi, che fu già mio principale ed è ora mio socio
accomandante.

— Ha liquidato la sua casa?

— Oh, da un pezzo.

— Era vecchio?

— Tutt’altro.... Ma non aveva figliuoli.... E poi.... la condizione di
sua moglie.... Sarebbe una storia lunga....

Gli amici insistettero perch’egli la raccontasse.

— Più tardi, — egli rispose. — Dopo pranzo se non avremo di meglio.

Indi ripigliò: — La persona che ho salutata era appunto la signora
Prosperi, la bella Agnese Prosperi.... Povera donna! Ogni giorno, e
quasi a tutte le ore del giorno, si è certi di vederla a quel posto.

— Non si può muovere?

— Peggio. Non si vuol muovere.... Dice di non trovare un po’ di pace
che lì, in quello che lei chiama il suo salottino giapponese.

— È veramente un salotto alla giapponese?

— Avrebbe dovuto essere.... Invece non ne ha che il nome.

— Eh, si capisce che quella signora non ha il cervello a segno.

— Pur troppo.... Senza esser pazza.... ha un’idea fissa,
un’impressione, un ricordo incancellabile.

La curiosità dei due amici era stuzzicata. Ma Giorgio Ceriani tenne
fermo a non volerla appagare sin dopo il pranzo. Allora avvicinando la
sedia al parapetto della terrazza verso il mare, ove gli ultimi raggi
del sole coloravano le vele delle barche peschereccie, principiò il suo
racconto che noi riproduciamo qui quasi testualmente.


I.

Non sono che dieci anni. Ero nel banco Prosperi da qualche tempo,
addetto alla corrispondenza in lingue straniere.

Quantunque il più giovine e l’ultimo arrivato dei commessi, ero
trattato con distinzione speciale; forse conferiva al mio credito la
conoscenza delle lingue, forse s’era scoperta in me qualche attitudine
per gli affari, forse il mio carattere inspirava fiducia. Fatto si
è che non mi si nascondeva nulla, e che nelle operazioni importanti
il principale chiedeva spesso il mio parere. Ero stato anche due o
tre volte a pranzo su in casa, e la signora Agnese s’era mostrata
gentilissima meco. Ma la sua era una gentilezza fredda, un po’ altera,
ben diversa da quella del marito. I miei colleghi non l’amavano;
dicevano ch’ella non era donna adatta pel signor Roberto, ch’ella
aveva gusti troppo raffinati, troppo aristocratici, e che a lui
sarebbe convenuto di prender per moglie una figliuola di negozianti
con mezzo milione di dote, invece di questa che gli aveva portato
pochissimo e che senza esser nobile aveva tutti i fumi della nobiltà.
Però quelli che si ricordavano del matrimonio (e non ci voleva molto
a ricordarsene perchè il matrimonio datava solo da sei anni) dovevano
riconoscere che il signor Roberto e la signora Agnese s’erano sposati
per inclinazione e che difficilmente si poteva vedere una coppia più
bella e più innamorata. Adesso l’amore durava in uno solo dei coniugi,
nel signor Roberto, ed era un amore ardente, appassionato, un amore a
cui non sarebbe parso grave alcun sacrifizio pur di riconquistare quel
cuore che gli sfuggiva. Del resto, nessun’altra accusa seria, tranne
quella di ricambiare con un riserbo gelato tanta tenerezza, si faceva
alla signora Agnese. Non era nè vana, nè civetta, nè esigente; se
non trovava la felicità nella sua casa non la cercava di fuori. — Ah
se avesse avuto figliuoli! — esclamava qualcheduno. E l’esclamazione
coglieva nel segno.

Ho detto che non era esigente. Guai se fosse stata! Ogni desiderio
di lei era una legge pel marito; e non soltanto i desideri espressi
palesemente, ma anche quelli appena adombrati, ma anche quelli
supposti. Uomo savio com’era, il signor Roberto, per compiacerla,
avrebbe dato fondo al suo patrimonio.

Fu appunto per soddisfare uno di questi desideri sfuggitole dal labbro
ch’egli mi consegnò una mattina una lunga nota tutta di suo pugno
pregandomi di tradurla in inglese e d’inserirla nella lettera ch’io
dovevo scrivere il giorno stesso ai nostri corrispondenti di Hiogo
nel Giappone, i signori James Holiday e C.º. Noi avevamo in corso
coi signori Holiday un grossissimo affare; un’importazione di 60 mila
sacchi di riso da loro acquistati per nostro conto e ch’essi dovevano
caricare appena arrivasse a Hiogo il vapore inglese _King Arthur_,
capitano George Atkinson, che in quel momento si trovava a Venezia e
che avevamo noleggiato apposta. Ma la nota consegnatami dal principale
si riferiva a cosa affatto diversa. Essa conteneva la preghiera,
rivolta in particolare a M.r James Holiday, che i Prosperi avevano
conosciuto due anni addietro in un suo viaggio in Europa, di comperare
e spedire per mezzo del _King Arthur_ tutto l’occorrente per arredare
alla giapponese un salottino di cui s’indicavano le dimensioni e si
univa la pianta. Si fidava nel buon gusto di M.r Holiday lasciandogli
mano libera per la scelta degli oggetti, e dandogli per la spesa il
limite approssimativo di mille a milleduecento sterline. Questo importo
doveva essere aggiunto a quello del riso e compreso nelle tratte
con cui i signori Holiday si sarebbero rimborsati del loro avere sui
banchieri di Londra Eliot, Green e Cº.

Naturalmente, io dissi che mi sarei accinto subito al lavoro.

— Procuri di aver spicciato la posta per le due — ripigliò il signor
Roberto. — Vorrei che mi accompagnasse a bordo del _King Arthur_. Devo
parlare col capitano, ed ella sa che l’inglese non è il mio forte e
che mi è sempre utile di avere un interprete.... A proposito, — egli
soggiunse dopo una breve pausa, — verrà con noi anche mia moglie che
non ha mai visitato un gran vapore mercantile.

Alle due in punto la signora Agnese era in banco in cappellino e
mantiglia, col ventaglio appeso alla cintura e con un ombrellino di
seta rossa in mano.

Il principale mi chiamò: — Ha scritto quella lettera a Hiogo?

Io feci col capo un segno affermativo.

— Abbia la cortesia di portarla qui — seguitò Prosperi — e di leggere a
mia moglie la parte che concerne il salottino giapponese.

Andai a prendere il foglio e cominciai la mia lettura traducendo
dall’inglese in italiano.

La signora Agnese sorrise. — Legga pure nell’originale. Capisco
abbastanza.

Dovetti compiacerla, benchè mi seccasse questa specie di esame di
pronuncia. Ella mi porse un’attenzione benevola, e quand’ebbi finito
mi indirizzò qualche frase gentile circa alla mia facilità di scrivere
e parlare le lingue straniere. Però (e si rivolse a suo marito) aveva
delle obbiezioni di massima. È vero, ell’aveva detto, che rimettendo a
nuovo alcune stanze del palazzo si sarebbe potuto fornire di ninnoli
giapponesi il salottino d’angolo, ma l’aveva detto così di volo, non
sognandosi nemmeno che si trattasse d’una spesa grave. Venticinquemila
lire e più per un salottino!... Era una pazzia.... No, no, ella ne
avrebbe rimorso per tutta la vita.

Il signor Roberto che s’era levato da sedere le mise una mano sulla
bocca pregandola di non insistere. La pazzia, s’era tale, la faceva
lui; ella non aveva fatto che dar forma a un’idea ch’egli ruminava
già da due anni, da quando M.r Holiday era stato a Venezia. Non si
sgomentasse della spesa; l’ultimo bilancio s’era chiuso con un utile di
oltre mezzo milione, e permetteva di levarsi qualche capriccio.

Come conclusione di questo discorso il signor Roberto mi tolse di
mano la lettera, la firmò, e mi ordinò di portarla nella stanza vicina
perchè la copiassero e la mandassero immediatamente alla posta. — Cosa
fatta, capo ha, — egli disse. — E adesso non perdiamo tempo. Ceriani, è
pronto?

Di lì a poco scendevamo tutti e tre la scaletta che dal banco metteva
nell’entratura, una lunga entratura di palazzo veneziano, con la riva
da una parte e un ampio cortile dall’altra.

Io guardavo con maggior attenzione dell’usato la giovine coppia che mi
stava dinanzi; due belle persone, ma due tipi affatto diversi. Egli
alto, largo di spalle e di torace, ben piantato sulle gambe nervose,
bruno d’occhi, di capelli e di barba, di carnagione rosea che si
coloriva forse un po’ troppo intensamente dopo il pasto, dopo una
passeggiata, nel calore d’una discussione; insomma un temperamento
sanguigno esuberante di forza e di vitalità. Ella, pallida, bionda,
magra: un profilo di cammeo sopra un corpo di silfide; capelli lisci
e finissimi spartiti regolarmente sulle tempie e avvolti in treccia
dietro alla nuca, grandi occhi azzurri dalla guardatura un po’ incerta
e fantastica, piedi e mani che uno scultore avrebbe preso volentieri a
modello; nel complesso un impasto di correttezza classica e d’idealità
romantica.

Si montò in gondola. Quantunque non fossimo che alla metà di marzo era
una temperatura da primavera inoltrata, e la gondola aveva, anzichè
il felze nero e opprimente, una elegante tenda di raso a frangie.
Arrivammo in dieci minuti nel Canale della Giudecca, forse meno
gaio, meno artistico di quello di San Marco, senza lo sfondo superbo
del Palazzo dei Dogi e della Piazzetta; non meno bello però nè meno
pittoresco nella doppia linea delle Zattere e della Giudecca, quelle
rivolte al mezzogiorno, questa un po’ in ombra, un po’ severa, un po’
triste, se non fossero i rii che la traversano e che lasciano vedere da
lontano sotto gli archi dei ponti i muricciuoli degli orti incoronati
d’allegra verdura, e di là dall’Isola un altro e più ampio tratto di
laguna anch’esso riscintillante ai raggi del sole. E in questo Canale,
più assai che nel bacino di San Marco, s’agita e ferve, piccolo o
grande che sia, il commercio marittimo di Venezia, e a tutte l’ore
si vedono bastimenti a vela e piroscafi andare, venire, o cullarsi
indolentemente sull’onda come se posassero dalle fatiche del viaggio.

Il giorno della nostra visita al _King Arthur_ c’era un insolito
movimento. Mi ricordo che passò a poca distanza da noi, mandando un
urlo rauco e prolungato come un gemito di belva ferita, un vapore
inglese, vuoto, enorme e mostruoso, con quasi tutto lo scafo fuori
dell’acqua; intorno a un altro della Navigazione italiana arrivato
appena s’affollava uno sciame di barche e battelli; da un terzo,
ancorato in mezzo al Canale, si scaricava il carbone facendolo scendere
nelle _peate_ per un piano inclinato e sollevando un nembo di polvere
scura o densa; uno dei grossi navigli della _Peninsulare_, di quelli
che si spingono direttamente a Bombay e Calcutta, pronto a salpare
prima di notte, levava già le ancore e fumava dalla caminiera. E quanto
più ci avvicinavamo alla Giudecca, ov’era ormeggiato il _King Arthur_,
tanto più spesseggiavano i legni e tanto più cauta doveva proceder la
gondola per non urtar nelle catene e nei gavitelli.

Durante il tragitto il signor Roberto parlò quasi solo. Parlò di
quest’importazione di riso giapponese, la prima che si facesse in
Italia, e del profitto e dell’onore ch’egli sperava trarne. Disse
dei gran passi che s’eran fatti a Venezia, dopo il 1866, a dispetto
dei pessimisti e dei denigratori di professione, e rammentò i tempi
quando, per ogni prodotto di regioni lontane, si doveva ricorrere al
mercato di Londra. Se ci fossero altri dieci negozianti che avessero
il suo spirito d’iniziativa, — egli soggiunse con legittimo orgoglio, —
Venezia sarebbe la prima piazza d’Italia.

Nelle pause del suo discorso lo sguardo del signor Roberto cercava
quello di sua moglie, e più d’una volta la sua mano si posò sulla mano
di lei. Io notai a due riprese ch’ella, quand’era possibile, sfuggiva
il contatto, e questa mal celata ripugnanza per un uomo di cui ell’era
l’idolo offendeva in me il sentimento della giustizia e dell’equità.
Andavo persuadendomi che la scarsa simpatia dei miei colleghi per la
signora Agnese non era infondata.

La scala si fermò ai piedi della scaletta del _King Arthur_, in cima
alla quale il capitano Atkinson stava ad aspettarci. Era un uomo di
mezza età, di tinta olivastra, di statura giusta e lineamenti regolari,
con un’espressione di malinconia nei grandi occhi grigi. Tutto sommato,
un bell’uomo, dall’aria distinta e signorile, ma uno di quelli che a
guardarli non mettono di buon umore. Del rimanente, la sua tristezza
si spiegava col fatto che gli era morta alcuni mesi addietro a Londra,
mentr’egli viaggiava nei mari dell’India, una moglie giovine e adorata.
Egli ne portava il lutto e ne’ suoi abiti neri pareva un _policeman_, o
un impiegato delle pompe funebri.

Taciturno per indole e ancor più taciturno dopo la disgrazia che
l’aveva colpito, quel giorno però il capitano Atkinson si sforzava
di esser loquace e faceva con perfetta cortesia gli onori del suo
bastimento, conducendoci a visitarne tutte le parti, dal ponte del
comando alla stiva, dalla cucina alle macchine, prendendo per mano la
signora Agnese nei punti difficili e rispondendo con molta chiarezza
alle sue domande sul meccanismo dell’elica, sull’orario di bordo, sui
segnali, sul carico e lo scarico delle merci. M’accorsi ben presto
che la signora Prosperi non solo capiva l’inglese, ma lo parlava
speditamente, con un fraseggiare elegante, con una pronuncia corretta.
Ell’avrebbe potuto quanto me e meglio di me servire d’interprete a suo
marito. Compiuto il giro del naviglio, il capitano Atkinson ci fece
entrare in un salottino addobbato con molto decoro ch’era attiguo alla
sua cabina e ove erano preparati abbondanti rinfreschi. Io approfittai
di questo momento per comunicare al capitano certi desideri del mio
principale circa a qualche piccola modificazione da introdursi nei
ventilatori, e stavo scrivendo una noterella in proposito da lasciare
a bordo, quando s’intese un lieve rumore nella cabina. Master Atkinson
si alzò, aperse adagio l’uscio e diede un’occhiata attraverso lo
spiraglio. Poi tornò indietro con un sorriso sul labbro, un sorriso che
faceva uno strano effetto in quel viso triste, e disse: — C’è la mia
bimba di là.... Dorme come un angelo e Tom la veglia.... il mio cane
di Terranuova. Era lui che aveva urtato un mobile.... Quando c’è lui è
come se ci fossi io.

— Ha una bimba con sè? — esclamò la signora Agnese. E nel far questa
semplice interrogazione un vivo incarnato le si diffuse sulle guancie.

Egli chinò il capo affermativamente. — La mia unica figliuola.... L’ho
presa a bordo poche settimane fa, quando partii da Londra.... È orfana
di madre.... Con chi starebbe?... Di qui a qualche tempo forse la
metterò in un collegio.... Adesso è troppo piccina.... Ha cinque anni.

Il capitano Atkinson, commosso, levò gli occhi verso la parete da
cui pendevano due fotografie; quella del _King Artur_, e un’altra più
piccola, difesa da un vetro e inquadrata in una cornice di legno, d’una
donna giovine, bionda, dall’aria gracile, una di quelle fisonomie dolci
che si raccomandano.

— Oh me la faccia conoscere la sua bambina, — supplicò la signora
Agnese.

— Anche subito, se si contenta di vederla addormentata.

— Si figuri.... Pur di non svegliarla.

— Oh per questo non si dia pensiero.... Finchè non abbia dormito le sue
due ore di fila, non la sveglierebbero le cannonate.

— In tal caso.... — replicò la signora.

— E se invece pregassimo il capitano di condurcela domattina, quando
deve venire in banco alle undici? — propose il signor Roberto. —
Farebbe colazione con noi.

— Magari! — soggiunse la signora Agnese. E non si quetò fin che Master
Atkinson non ebbe accettato l’invito. Ma questa non le parve una buona
ragione per non veder subito la piccina.... Le bastava vederla di
lontano.... per un momento.

Il capitano volle compiacerla. — Mi lasci passare avanti allora, — egli
disse. — Tom non le permetterebbe neppure di affacciarsi alla soglia se
non ci fossi io.

In fatti, quando il capitano aperse l’uscio della cabina, la prima
cosa che si vide fu il cane di Terranuova che seduto sulle due zampe
posteriori custodiva l’ingresso. A un cenno imperioso del padrone
egli si tirò in un angolo manifestando con un lieve brontolìo la sua
disapprovazione.

Per una curiosità forse indiscreta m’ero avvicinato anch’io e stavo
dietro alla signora Agnese. Il signor Roberto era rimasto seduto e
sfogliava un atlante.

La bimba dormiva profondamente nella sua cuccetta, posata su un fianco,
con la faccia rivolta verso l’uscio, tantochè la si vedeva benissimo
senza entrare nella cabina. Somigliava alla fotografia appesa al
salotto, ma era molto più bella, un vero angioletto dalla capigliatura
bionda che formava una specie d’aureola intorno al visino di latte e di
rosa.

— Oh che amore! — disse la signora Agnese smorzando la voce e giungendo
le palme in atto di adorazione. — E che nome ha?

— Ofelia, — rispose Master Atkinson.

— Strano nome! — pensai, evocando la dolce figura della infelicissima
innamorata di Amleto.

— Venga, venga avanti, — riprese il capitano lusingato nel suo orgoglio
di padre.

La signora Agnese non se lo fece dire due volte, e accostatasi in punta
di piedi alla cuccetta si chinò sulla bimba e le sfiorò con un bacio la
bocca.

Tom inquieto si mosse dal suo angolo, interrogando con gli occhi il
capitano. — Che novità sono queste? Perchè la disturbate?

No, non la disturbavano, ed ella seguitava a dormire sorridendo nel
sonno.

Resistendo alla tentazione di baciarla una seconda volta, la signora
Agnese s’avviò per uscire. Il cane, ormai rassicurato, le si fregò
amorevolmente intorno alle vesti; ella gli fece una carezza e rientrò
nel salottino ove suo marito l’aspettava. A me disse passando: — Com’è
bella, non è vero? — E subito dopo si rivolse al signor Roberto con un
mite rimprovero: — Perchè non hai voluto vederla?

Egli chiuse l’atlante. — La vedrò domani.

— È così bella! — ella ripetè.

Il signor Roberto abbozzò un triste sorriso; uno di quei sorrisi che
sono tanto vicini alle lacrime.

Ricordata al capitano Atkinson la promessa di venir a colazione la
mattina dopo con l’Ofelia, lasciammo il bastimento. Nel ritorno le
parti erano invertite. Prosperi taceva, la signora Agnese, trasfigurata
d’aspetto, spiegava un’insolita facondia. Ma non parlava che d’una
cosa, la sola che le fosse rimasta impressa tra le molte vedute;
parlava di quell’orfanella vegliata amorosamente da quel cane di
Terranuova.

Nello smontar dalla gondola ella mi disse: — Badi che aspetto anche lei
domattina a colazione.


II.

L’indomani il capitano Atkinson portò a casa Prosperi un commensale non
invitato, il cane Tom, dal quale l’Ofelia non s’era voluto staccare a
nessun costo. Il capitano riconosceva francamente di non aver preveduto
questa difficoltà; all’ultimo momento, piuttosto di lasciar la
figliuola a bordo o di trascinarsela dietro per forza tutta ingrugnata
o piagnucolosa, egli s’era preso la licenza di accompagnare l’animale
della cui condotta osava farsi mallevadore. Infatti Tom si conduceva
assai meglio della sua padroncina che sulle prime rifiutava il cibo e
si nascondeva ostinatamente il viso fra le mani dichiarando di voler
andar via. Tom invece, seduto come il solito sulle gambe posteriori,
assisteva alla scena con la gravità d’un filosofo nemico d’ogni
escandescenza, ma disposto a perdonar molto all’infanzia.

Questi capriccetti dell’Ofelia empivano di confusione Master Atkinson
che si sentiva impotente di fronte alla sua piccola tiranna. Ah, se
avesse supposto una cosa simile non avrebbe certo accettato l’invito.

La signora Agnese, gaia, serena come non l’avevo mai vista, gli
ripeteva per confortarlo: — Lasci fare a me.

E con lo moine, con le carezze, con le rampogne scherzevoli, con tutte
quelle arti gentili di cui effettivamente gli uomini non hanno neppure
l’idea, ella riuscì a poco a poco a quetar la bambina. A colazione
finita, l’Ofelia era già divenuta amica della bella signora che le
parlava così bene nella sua lingua, con una voce così dolce, con modi
così persuasivi. Tantochè, quando la signora Agnese le domandò se
voleva andar con lei sola nel giardino, ella rispose tosto di sì...:
facendo però una riserva mentale relativamente a Tom. Di questa riserva
la signora Agnese s’accorse per un certo sguardo che la fanciulla
rivolse all’animale, e disse pronta: — Ah, Tom può venire.... Voi altri
ci raggiungerete più tardi, — ella soggiunse, indirizzandosi a noi.

— Che buona mamma sarebbe stata l’Agnese! — sospirò il signor Roberto
appena sua moglie fu uscita dal salotto. Poi cambiò argomento e ci
offerse dei sigari e del cognac.

Parlammo di viaggi. In Giappone il capitano Atkinson non c’era mai
stato; era stato un paio di volte a Singapore e credeva di dovervi
tornare nell’autunno a farvi un carico di pepe per l’Inghilterra. Già
egli calcolava di esser a Venezia col riso entro il mese d’agosto, onde
nella prima metà di settembre avrebbe potuto rimettersi in cammino.
Il King Arthur era uno dei vapori più rapidi della marina mercantile
inglese.

Ripensandoci molto tempo dopo, notai che Master Atkinson discorreva
volentieri del periodo più recente della sua carriera, ma schivava ogni
allusione ad un passato lontano.

Di lì a mezz’ora, scendemmo anche noi in giardino. Il nome era pomposo:
in realtà, non si trattava che d’un piccolo appezzamento di terra
chiuso per tre parti da muri, con una pergola che in quella stagione
dell’anno era senza foglie e con qualche aiuola ch’era senza fiori.
Comunque sia, quel po’ d’aria libera aveva servito a dissipar l’ultime
nubi dalla fronte dell’Ofelia, e prima ancora di vederla noi fummo
gradevolmente sorpresi dal suono delle sue risate argentine. Tenuta
a mano dalla signora Agnese, ella sedeva sul dorso di Tom e battendo
i piedini sul fianco del paziente quadrupede e gridando hop, hop,
si faceva condurre in giro per i sentieri che serpeggiavano intorno
alle aiuole. A ogni svolta ella rischiava di perder l’equilibrio e
s’aggrappava più forte alla sua guida e abbandonava la sua testina
bionda sul testone nero del cane fedele. Quelli erano i momenti della
massima ilarità. I riccioli d’oro le svolazzavano sulle tempie, un bel
colore di rosa le tingeva le guancie, e balenava ne’ suoi occhi sereni
e vibrava da tutte le sue tenere membra la voluttà della vita. _Hop,
hop!_ Ell’avrebbe continuato la sua cavalcata chi sa fino a quando,
tanto più che Tom non si stancava di portarla, nè la signora Agnese
si stancava di reggerla. Cosicchè suo padre che veniva a troncare
il suo divertimento non ebbe a rallegrarsi di troppo lusinghiere
accoglienze. Se prima aveva voluto andarsene, adesso voleva restare....
voleva restare con Tom e con _aunt Agnes_. La chiamava _aunt_, zia. La
_zia_ Agnese (per darle il titolo che le dava la bimba) intercedette
anch’ella in suo favore. Perchè l’Ofelia non poteva rimaner fino a
sera? Già il capitano aveva le sue faccende; che gusto ci trovava a
condur la figliuola in giro dai negozianti o dai sensali di noleggio?
Venisse a prenderla sul tardi, seppur non preferiva che la gli si
riaccompagnasse a bordo. O che non si fidava?

Durante quest’ultima parte della discussione l’Ofelia s’era ammutolita.
Seduta ai piedi della signora Agnese, ell’aveva posato il capo sulle
ginocchia di lei e vinta dalla stanchezza aveva chiusi gli occhi.

— Vede, — disse Master Atkinson, — a quest’ora mia figlia dovrebbe già
fare il suo sonnellino d’ogni giorno.... Sta per addormentarsi.

— Ma è bell’e addormentata, — esclamò con qualche maraviglia la signora
Agnese chinandosi sulla piccina. — Come si fa presto a quell’età!...
Non son due minuti che rideva, scherzava.... e adesso è con gli
angeli.... Adesso poi non gliela do neanche per idea, — ella ripigliò
in tono deciso. — Si figuri.... romperle il sonno.... costringerla a
tenersi ritta, a camminare.... No, no, la metterò a letto io stessa.

E nel dir questo se la prese in collo delicatamente senza svegliarla.

Il capitano era titubante. Gli dispiaceva recare un così gran disturbo;
inoltre non sapeva che impressione potesse fare all’Ofelia, nell’aprir
gli occhi, il trovarsi fuori della sua cabina, il non vedere il suo
babbo....

— Forse Master Atkinson ha ragione, — notò il signor Roberto che fino
allora non aveva pronunziato una parola sull’argomento. — I fanciulli
sono nervosi....

— E gli uomini non intendono nulla di certe cose, — replicò la signora
Agnese con una vivacità un po’ acre. — M’impegno io a calmar l’Ofelia
allorchè si desti.... Tutt’al più, per maggior precauzione, potrebbe
restare anche Tom.

A forza d’insistenza la signora Agnese ebbe causa vinta, e uscì
trionfante portandosi in camera sua la bambina che dormiva d’un sonno
tranquillo e profondo. Tom era rimasto alquanto perplesso, malcontento
di queste novità, desideroso di tornare sul suo bastimento, ma poco
disposto a tornarvi senza la sua inseparabile compagna. Alla fine
ubbidì agli ordini perentori del capitano, e col muso basso e la coda
fra le gambe seguì la sua padroncina.

Tutta questa scena aveva visibilmente conturbato il signor Roberto,
ed egli non me ne fece mistero. Non avrebbe condotta sua moglie a
visitare il _King Arthur_, mi disse, se avesse supposto di trovare a
bordo l’interessante orfanella. In fatto di bimbi, l’Agnese, che aveva
pure un sano criterio, andava soggetta a degl’impeti irriflessivi. Ora
li sfuggiva con affettazione, ora se ne appassionava fuor di misura. E
il peggio era appunto quando se ne appassionava. Se si fosse limitata
ad accoglierli con piacere, a voler averne spesso qualcheduno intorno
a sè, poichè il ciclo, fino allora almeno, gliene aveva negati de’
suoi, sarebbe stata una vera fortuna. Ed egli l’avrebbe assecondata
di tutto cuore. Era tanto lieto di vederla lieta. Ma le esagerazioni
lo sgomentavano. È sempre fatale il dimenticare la realtà delle cose.
È inutile; dei figli altrui non si poteva disporre come se fossero
propri; poteva accadere che dovessero allontanarsi temporaneamente,
che dovessero cambiar domicilio, ed egli sapeva per esperienza quante
lacrime e quanti singhiozzi costasse a sua moglie il rinunziare a
ognuno di questi sogni di maternità. Adesso quell’infatuazione per
l’inglesina sarebbe finita con una delle solite crisi. Di lì a un paio
di settimane, alla partenza del _King Arthur_, l’Agnese avrebbe sentito
più che mai il vuoto della casa, sarebbe ripiombata nella tristezza e
nello scoraggiamento.

In mezzo a queste savie riflessioni si capiva però che al signor
Roberto non bastava l’animo di opporsi in modo risoluto alle fantasie
della donna ch’egli adorava. E io che in principio lo tacciavo di
debolezza non tardai a spiegarmi la sua condotta. Ho anzi un rimorso;
di non aver contribuito a renderlo più pieghevole in un momento
decisivo e solenne.

Senza volerlo e senz’avvedermene io entravo nell’intimità della
famiglia. Nei dì successivi a quello in cui il principale m’aveva
rivelato le sue apprensioni, ebbi a trovarmi parecchie volte con la
signora Agnese che aveva persuaso il capitano Atkinson a lasciarle
ogni giorno per qualche ora l’Ofelia e che affidava a me l’incarico di
ricondurla a bordo quando non poteva accompagnarla lei stessa o quando
il padre non poteva venirla a prendere.

Qual cambiamento nella signora Agnese! Non serbava la minima traccia
di quell’alterigia che i miei colleghi le rimproveravano ad una voce;
non aveva più quell’aria tra uggita e sprezzante che io pure avevo
notata in lei; era affabile, espansiva, sempre dolce di modi, spesso
col sorriso sul labbro. Ed ella era la prima a riconoscere questa
sua trasformazione, e ne dava il merito all’Ofelia. — È così buona, —
diceva, — che si diventa buoni a starle insieme. Già i bambini sono una
gran benedizione del cielo.... È incomprensibile che ci sia della gente
che non li può soffrire, o che tutt’al più li tollera come una molestia
necessaria.... Ah se non ci fossero, sarebbe pur triste il mondo!

Non duravo fatica a darle ragione.

Ed ella seguitava: — Anche a lei, Ceriani, piacciono i bambini....
Si vede subito.... E non è mai sprecato l’affetto che si ha per
loro.... Li dicono interessati, egoisti.... Non è vero.... Son
meglio di noi grandi.... Noi altri invece ripaghiamo spesso l’amore
con l’indifferenza, l’indifferenza con l’amore.... A loro ciò non
accade.... Essi amano chi li ama.... L’Ofelia le vuol bene, sa?

Di tratto in tratto la signora Agnese sospirava: — Se avessi avuto
figliuoli...!

Un giorno mi arrischiai a dirle! — Ne avrà.... È tanto giovine.

Ella tentennò tristamente il capo e i suoi occhi s’inumidirono.

Io assistevo a un dramma domestico, a un dramma semplice e toccante,
quantunque non vi fosse in gioco nessuna di quelle che si ha
l’abitudine di chiamar forti passioni. Non l’adulterio con le sue
febbri, non la gelosia co’ suoi furori, non l’ambizione con le sue
inquietudini. Due persone nel fiore degli anni, certo con diversità
notevoli d’aspetto e di carattere, ma tutte e due sane di corpo, e
con un gran fondo di rettitudine morale, due persone che s’erano unite
sotto gli auspici più lieti a cui un capriccio della sorte avvelenava
resistenza! Nella moglie un istinto esagerato della maternità che
le rendeva incomportabile il non aver prole; nel marito, che pur si
sarebbe rassegnato a questa sventura, un cruccio, un rodimento continuo
di saper infelice una sposa per la quale egli avrebbe versato fin
l’ultima goccia del proprio sangue, un’acuta mortificazione di sentirla
sempre più fredda, più riluttante fra le sue braccia di mano in mano
che s’affievoliva la speranza di ciò che agli occhi di lei nobilitava
l’amore.

Altri particolari non ricercati, non chiesti, ma sorpresi facilmente
sulle labbra di questo o di quello contribuivano a illuminarmi sullo
stato delle cose. Si alludeva a consulti medici fatti sino dal secondo
anno di matrimonio e ripetuti poi, a cure contradditorie qua e là, ora
certi bagni, ora certe acque, ora la doccia, o il ferro, o l’arsenico.
E io mi figuravo la signora Agnese, lei così poetica, così riservata
nei modi, me la figuravo sottoposta a interrogatorî delicatissimi,
offesa ne’ suoi pudori più intimi senza che il sacrifizio approdasse
a nulla. Qual maraviglia che l’amore non fosse sopravvissuto a queste
prove dolorose, o che almeno esso ne fosse uscito col germe di qualche
male organico ed insanabile?

— Sicuro, — mi diceva il dottor Gandolfi, medico dei Prosperi, —
sicuro, quella che i moralisti chiamano psicologia ha sempre una base
fisiologica. — Ed egli soggiungeva che quest’era veramente un caso
singolare. A nessuno dei due coniugi si poteva imputare la sterilità
del matrimonio. C’erano novanta probabilità su cento che il marito
avesse avuto figliuoli da un’altra moglie e la moglie ne avesse avuti
da un altro marito. A questo punto il dottore ch’era un uomo di manica
larga si divertiva a sciorinar delle teorie molto ardite e a citar dei
versi d’un poeta latino sugli effetti benefici di certi strappi alla
fede coniugale. — Guai però a chi osasse tener questi discorsi alla
signora Agnese! — egli si affrettava a concludere.

Fatto si è che comprendendo le pene, le delusioni della signora Agnese,
vedevo anch’io che era una crudeltà l’insidiarle i suoi pochi momenti
di gioia.

Adesso ell’era beata nella compagnia della gentile Ofelia. A poco a
poco era riuscita a tenersela seco dalla mattina alla sera, la colmava
di regali, la conduceva in gondola, a passeggio, tirandosi dietro,
che già s’intende, l’inseparabile cane di Terranuova. Se il capitano
Atkinson faceva qualche osservazione, ella gli dava sulla voce. —
Non sia cattivo, si tratta di pochi giorni. — E intanto lo invitava
spessissimo a colazione e a pranzo.

— Curioso tipo quella Prosperi, — dicevano i pettegoli di caffè.
— Sempre con quella bambina cascata dalle nuvole! E co’ suoi gusti
aristocratici, col suo fare schizzinoso, ha per unici commensali un
capitano mercantile e un semplice commesso.

Il commesso ero io. Quando c’era l’Ofelia, la signora Agnese mi
tratteneva sovente a desinare.

Una mattina ella mi pregò di fissarle un’ora dal fotografo. Voleva far
fare un gruppo dell’Ofelia e di Tom. Ma badassi di non parlare della
cosa nè con suo marito, nè con Master Atkinson, nè con altri. Doveva
essere un’improvvisata.

Poche sere dopo, a tavola, il capitano trovò sotto il tovagliuolo
una copia della bellissima fotografia, e fu una gradita sorpresa.
La signora Agnese magnificò la discrezione dell’Ofelia. Una bimba di
quell’età, non essersi lasciata scappare una parola! Era un prodigio.

E in un impeto di tenerezza si alzò dalla seggiola e andò ad abbracciar
la fanciulla. Nel tornar al suo posto aveva le lacrime agli occhi;
Prosperi, inquieto, non sapeva staccar lo sguardo da lei.

Gli è che l’idillio s’avvicinava alla fine. Eravamo al mercoledì e la
partenza del _King Arthur_ era stabilita per sabato.

Ora la sera di quello stesso mercoledì, mentre il capitano Atkinson
stava per accommiatarsi, la signora Agnese, stringendogli forte la
mano, gli disse con una certa esaltazione: — Quanto durerà il suo
viaggio, fra andata e ritorno?

— Non più di cinque mesi, spero.

— Ebbene, vuol fare una bella cosa?... Affidi a noi l’Ofelia per questi
cinque mesi....

— Ma, Agnese.... — interruppe il signor Roberto. — come puoi domandare
a Master George di privarsi della sua figliuola?

— Oh lo sa anche lui che non potrà condurla sempre in giro pel mondo....

— Appunto per questo la vorrà seco adesso, — replicò Prosperi, —
evidentemente infastidito dal ghiribizzo saltato in capo a sua moglie.

La signora Agnese insistette. — Non lo si sforza mica. Sentiamo quel
che ne pensa lui.... lui e l’Ofelia.

S’era chinata sulla bimba per agganciarle i bottoni del soprabitino e
le susurrava in tono carezzevole: — Non è vero, Ofelia, che resteresti
volentieri con la zia Agnese?

Per l’Ofelia il restar con la zia Agnese significava andar a spasso
ogni giorno, far baldoria con Tom in giardino, aver sempre nuovi
balocchi da ammirare e da rompere, tutte cose piene di attrattive per
lei. Ma l’idea di separarsi per un pezzo dal padre non entrava nella
sua testolina, ed ella espresse ingenuamente il suo pensiero: — Con la
zia Agnese, col babbo e con Tom.

Il capitano Atkinson frattanto ringraziava la signora Prosperi
dell’ospitalità ch’ella offriva all’Ofelia.... L’avrebbe affidata a lei
come a una seconda mamma.... e avrebbe viaggiato sicuro, tranquillo,
anche per qualche anno di seguito.... In quel momento però temeva che
quella compagnia gli fosse necessaria.... Non s’era rimesso ancora dal
dolore per la perdita della moglie, e la sua unica consolazione era
quella di aver presso di sè la soave creaturina che nella voce, nei
lineamenti gli ricordava la sua povera morta.

Parlava commosso, agitato, cercando con gli occhi l’Ofelia di cui la
signora Agnese era sempre occupata ad agganciare i bottoni con mano
incerta e febbrile.

Forse la bimba sentì quello sguardo appassionato che l’avvolgeva; fatto
si è ch’ella si staccò dolcemente dalla zia, dicendo: — Lascia finire
al babbo: ha più pratica....

La signora Agnese vedeva svanire il suo sogno.

— Capisco, — ella balbettò in risposta a Master Atkinson, — capisco....
Ma non mi dia subito una negativa assoluta.... Rifletta fino a
domani.... La notte porta consiglio.

Ella diceva così, ma in fondo non sperava più nulla.

E quando il capitano e l’Ofelia furono usciti ella si abbandonò sulla
poltrona, con la faccia rivolta verso la spalliera e si mise a piangere
dirottamente.

A me parve delicato di lasciar soli marito e moglie e mi dileguai in
silenzio.


III.

Era destino però ch’io non potessi, neppur volendo, tenermi estraneo
alle faccende intime di casa Prosperi. Il giovedì mattina il principale
non venne in banco che tardi e mi chiamò subito nel suo gabinetto. Era
pallido, stravolto. — Ha fatto male ad andarsene iersera, — egli mi
disse. — Forse la sua presenza avrebbe evitato una scena penosa.

Mi raccontò poi che sua moglie lo aveva investito fieramente perchè con
le sue parole aveva incoraggiato la risposta sfavorevole del capitano
Atkinson, il quale non poteva tener un altro linguaggio dal momento che
le prime difficoltà venivano da una delle persone che avrebbero dovuto
ospitar la sua figliuola.

— In verità, — soggiunse il signor Roberto, — a me sembrava di avere
il diritto di far ben maggiori lagnanze dell’Agnese. Ell’aveva tirato
in campo, senza essersi intesa meco, un argomento gravissimo, aveva
tentato di forzarmi la mano, di vincere per sorpresa. Pur non le
mossi rimprovero di sorta. Mi limitai a spiegarle le ragioni per
le quali io giudicavo assolutamente inopportuna la sua proposta.
È sempre un’immensa responsabilità l’incaricarsi dei fanciulli che
non ci appartengono, ma la cosa può passare quando se ne conoscono a
fondo l’indole, le abitudini, le disposizioni fisiche; e sopratutto
quando se ne conosce a fondo la famiglia. Ora l’Ofelia si conosceva da
pochi giorni, suo padre si conosceva ancora meno di lei, e in quanto
ad altri parenti, fuori della madre ch’era morta, s’ignorava perfino
s’esistessero. E se la bimba s’ammalava in questi cinque mesi che,
nella più favorevole ipotesi, sarebbe durato il viaggio del capitano
Atkinson? Se, con la volubilità dell’età sua, domandava di tornar col
suo babbo mentr’egli era lontano migliaia di miglia?... Ma supposto
invece che tutto andasse pel meglio, come mai l’Agnese non aveva
considerato che il separarsi dall’Ofelia dopo cinque mesi di convivenza
le sarebbe riuscito più grave che il separarsene adesso? Poichè non si
poteva supporre che il capitano rinunziasse addirittura a sua figlia; e
quand’egli vi avesse rinunziato si sarebbe dovuto pensarci su molto da
parte nostra prima di risolverci a tenerla per un tempo indefinito....

Devo aver fatto un movimento inconsciente che il signor Roberto prese
per l’atto di chi si accinge a sollevare un’obbiezione. E s’interruppe
per dirmi: — Parli pure liberamente, Ceriani. Se ha un’opinione diversa
dalla mia, non abbia riguardo a manifestarmela.... Le assicuro; quasi
quasi vorrei aver torto.

Lo disingannai. I suoi argomenti mi parevano inappuntabili. — E la
signora? — chiesi.

— Ah, giovinotto mio, — egli rispose — le donne non discutono con
le ragioni, ma con le lacrime, ma con gli attacchi di nervi.... E
questa è la loro forza.... le ragioni di mia moglie erano deboli,
ma il suo pianto mi spezzava il cuore.... E al sentirla, in mezzo
ai singhiozzi, chiamar Dio in testimonio ch’ella non desiderava, nè
aveva mai desiderato nulla che non fosse onesto, a sentirla invidiar
la sorte della donnicciuola del popolo che tornando dal lavoro trova
un bimbo che le sorride e le stende le braccia e balbetta l’ineffabile
parola _mamma_, io provavo una gran tentazione di gettarmele ai piedi
e di domandarle perdono o di prometterle tutto quello che ella voleva.
Non lo feci per orgoglio, per puntiglio.... Ella stette male tutta la
notte cosicchè stamattina feci venire Gandolfi, il nostro dottore, e
prima e dopo la visita medica parlai con lui delle cause che avevano
provocato questa crisi, la quale, del rimanente, non ha nessuna
gravità. Ebbene, caro Ceriani, Gandolfi non è alieno dal credere che la
_vicematernità_, com’egli la chiama col suo frasario originale, sarebbe
forse il rimedio più efficace allo squilibrio nervoso della mia Agnese.
Anzi, nello stato presente delle cose, egli la ritiene preferibile
alla maternità vera che in un organismo già scosso porta sempre gravi
pericoli. Insomma, secondo lui, sarebbe stato miglior consiglio non
contraddire ai desideri di mia moglie e veder di persuadere il capitano
Atkinson a lasciar qui la bambina o durante questo, o durante un suo
prossimo viaggio.... Eccomi in un bell’impiccio, perchè, lo confesso,
le parole del dottore non mi hanno convertito che a mezzo e i miei
dubbi restano intatti.... Ma d’altra parte se c’è un modo di ridar
all’Agnese la serenità, la pace dell’animo, mi è lecito ostinarmi
nella mia negativa?... Chi sa?... La soluzione intermedia accennata
da Gandolfi, quella cioè di aver qui l’Ofelia durante un _prossimo
viaggio_, potrebb’esser la buona. Se l’Agnese si acquetasse a una
promessa formale del capitano in questo senso?... Perchè già è chiaro
che, subito, egli non ci confiderebbe l’Ofelia quando pur gliela
ridomandassimo.... Ah, Ceriani, — conchiuse il signor Roberto con un
sorriso triste — prevedo che avrò bisogno dell’opera sua.

— Disponga — risposi. — Ma come?

— Per tasteggiare il capitano meglio che non possa farlo io col mio
sciagurato inglese.... e anche per dir qualche parolina all’Agnese ove
se ne presenti l’opportunità.... L’Agnese ha molta stima di lei.... E
tutti e due, sa, mia moglie ed io, la consideriamo ormai come uno di
famiglia....

Chinai il capo ringraziando.

Alle corte, non seppi esimermi da quest’ufficio di negoziatore che mi
piombava sulle spalle. E riuscii oltre all’aspettativa. Così parve
allora agli altri, così pareva a me stesso.... Più tardi, di fronte
ad avvenimenti imprevisti, si levarono in me degli scrupoli, dei
rimorsi.... Usando una maggiore insistenza con Master Atkinson avrei
forse potuto ottenere.... quest’idea non mi vuole uscir dalla mente....
ch’egli aderisse alla primitiva richiesta della signora Agnese, nel
qual caso si sarebbero evitati dei grossi guai.... Basta; si rimase
d’accordo col capitano che se al suo ritorno dal Giappone i signori
Prosperi fossero stati ancora disposti a tenersi per qualche tempo
l’Ofelia egli l’avrebbe affidata a loro durante il nuovo viaggio da
Venezia a Singapore e da Singapore a Liverpool che secondo l’ultima
lettera de’ suoi armatori era definitivamente stabilito. I signori
Prosperi s’impegnavano poi, a viaggio compiuto, di riaccompagnare o far
riaccompagnare la bimba a Liverpool.

Quella clausola dubitativa _se i signori Prosperi fossero stati ancora
disposti_, destò l’ammirazione del signor Roberto. — È un tratto
di diplomazia sopraffina — egli esclamò. — In cinque mesi possono
succedere tante cose.... e va bene non aver legate le mani.

Non era presumibile che la signora Agnese facesse un’accoglienza
ugualmente festosa a questa specie di compromesso. Ciò ch’ella
desiderava era di non separarsi dall’Ofelia, le cui grazie ingenue
avevano conquistato il suo cuore. Invece le toccava separarsene tosto
per non riaverla che di lì ad alcuni mesi, e per alcuni mesi soltanto,
col patto espresso di restituirla al padre in un termine non breve
ma certo non lunghissimo. A ogni modo, sia ch’ella si fosse convinta
dell’impossibilità di ottener maggiori concessioni, sia che sperasse
di convertir l’atto della restituzione in una semplice visita della
figliuola al babbo, ella fu più ragionevole ch’io non avrei creduto. Mi
ringraziò della parte presa in questa faccenda e si mostrò riconoscente
anche al marito di ciò ch’egli aveva fatto per compiacerla.

Giunse così il sabato, giorno della partenza. S’era convenuto di
recarci a bordo, i coniugi Prosperi ed io, la mattina per tempo, e di
trattenerci non solo finchè il _King Arthur_ avesse levato le áncore,
ma finch’esso fosse arrivato a Malamocco. Là si sarebbe scesi per
tornare a Venezia col vapore che viene da Chioggia.

Il programma fu eseguito appuntino. Eravamo sul bastimento poco dopo le
otto antimeridiane, e mi par sempre di veder l’Ofelia correrci incontro
sul ponte co’ suoi bei capelli biondi che le ondeggiavano sulle
spalle e con Tom che le galoppava a fianco. Ell’aveva un vestito di
mussola bianca stretta alla vita da una cintura di seta nera e con due
nastri pur neri svolazzanti sugli omeri. Erano nere anche le scarpine
e le calze. Ella saltò al collo della signora Agnese baciandola e
ribaciandola, ma non perdendo d’occhio un grossissimo involto che uno
dei marinai aveva ricevuto da Beppi, il gondoliere, e portava su per
la scaletta. Quando poi l’involto fu aperto e ne uscirono sei o sette
scatole e scatolini, e quando il prezioso contenuto delle scatole
fu messo in mostra sulla coperta, l’entusiasmo della bimba non ebbe
confine. Erano balocchi d’ogni specie che la signora Agnese regalava
alla sua piccola amica, e fra questi primeggiavano una magnifica
bambola che chiamava _mamma_ e _papà_, e un can barbone che moveva la
testa, apriva la bocca e alzava le zampe anteriori, con grande ira di
Tom, non ben sicuro se avesse dinanzi a sè un fantoccio o un rivale in
carne ed ossa.

Si fece colazione prima che il _King Arthur_ si movesse dal Canale
della Giudecca, perchè il capitano voleva essere sul ponte del comando
al momento della partenza. Alle frutta Master Atkinson bevette alla
salute del signor Roberto e della signora Agnese ringraziandoli
dell’infinite cortesie usate a lui e all’Ofelia e pregandoli di
accettare un esemplare, uno dei due che gli restavano (l’altro era
quello che avevamo visto appeso nell’anticamera della sua cabina),
della fotografia del _King Arthur_ fatta fare a Liverpool alla vigilia
del suo ultimo viaggio. Per lui quella fotografia aveva un pregio
singolarissimo. In un gruppo di figurine appena percettibili che
si vedevano raccolte sul castello di poppa c’era anche sua moglie.
Naturalmente egli solo sarebbe riuscito a distinguerla, ma forse
appunto per questo la fotografia gli era più cara. Pregava i signori
Prosperi di serbarla per ricordo suo. Rispose il signor Roberto nel
miglior inglese che gli fu possibile, accettando il dono con animo
riconoscente e augurando prosperi l’andata e il ritorno al _King
Arthur_. — Siamo al 5 di aprile, — egli disse. — Speriamo di trovarci
qui uniti di nuovo il 5 di settembre.

Durante questo scambio di brindisi la signora Agnese s’era presa sulle
ginocchia l’Ofelia e tenendosela stretta al cuore le susurrava dolci
parole e le discorreva di ciò che avrebbero fatto insieme nell’autunno,
a viaggio finito.

Risalimmo sopra coperta, e di lì a pochi minuti il _King Arthur_ lasciò
la banchina e si diresse alla volta di Malamocco. Dietro di noi Venezia
s’impiccoliva e sfumava come un quadro dissolvente.

In vicinanza del porto il vapore rallentò la sua corsa, e una barca
s’avvicinò alla scaletta. Bisognava separarsi.

Ancora una volta l’Ofelia si aggrappò al collo della signora Agnese. —
Vieni con noi — le diceva — vieni con noi.... Noi dobbiamo tornare....
Tornerai anche tu.

E poichè il signor Roberto si era accostato alla moglie per
sollecitarla — Va via tu solo — gridò la fanciulla. — Cattivo, che
vorresti la zia Agnese tutta per te.

Vi furono di nuovo baci, lacrime e strette di mano in quantità. Alla
fine noi prendemmo posto nella barca che ci attendeva, il vapore
ripigliò la sua rotta.

S’agitarono i fazzoletti; l’Ofelia, sollevata sulle braccia dal padre,
mandava baci alla zia; Tom girava su e giù pel ponte abbaiando. Il
_King Arthur_ oltrepassò presto la diga e scomparve; per qualche minuto
si vide ancora una striscia di fumo nel cielo azzurro; si udì, o si
credette udire, il vocione di Tom; poi non si udì e non si vide più
nulla.

                             . . . . . . .


IV.

Se il signor Roberto sperava che con la partenza del _King Arthur_
sbollissero gli ardori di sua moglie per la figliuola del capitano
Atkinson, la sua era proprio una speranza campata in aria. L’Ofelia
non c’era, ma la signora Agnese ne parlava come d’un’assente che non
si sarebbe fatta aspettare troppo e a cui bisognava apparecchiare
gli alloggi. Ne aveva sempre sotto gli occhi la fotografia, divisava
seco medesima mille cose da effettuarsi al ritorno della fanciulla,
le modificazioni che avrebbe introdotte nella distribuzione della
giornata, la cameretta che le avrebbe assegnata, la bambinaia che le
avrebbe presa, le lezioni d’italiano che le avrebbe date lei stessa.
Non voleva più dubitare di nulla; nè dell’assenso del capitano a
rinunciare per sempre all’Ofelia, nè di quello di suo marito a tenerla
definitivamente presso di sè, nè della buona riuscita ch’ella avrebbe
fatto nelle sue mani. L’antico sogno, il sogno dolcissimo di diventar
madre davvero cedeva il posto alla singolare fantasia di questa
maternità fittizia.

Il signor Roberto tentennava il capo e si rimproverava la sua
debolezza. Quest’è il modo di disfar la famiglia — lo intesi dire
un giorno al dottor Gandolfi. — È già male che una donna trascuri il
marito per non pensare che ai propri figliuoli: peggio ancora che lo
trascuri pei figliuoli degli altri.

— In massima avete ragione — replicò quello scettico del dottore; —
ma in casa l’essenziale è di aver la pace.... Se vostra moglie ve la
dà a queste condizioni, accettatela con gratitudine; e tutt’al più....
cercatevi qualche svago.... Gli svaghi sono le valvole di sicurezza del
matrimonio....

Dal suo punto di vista medico, Gandolfi era contentissimo che la sua
cliente si fosse scossa dal torpore doloroso in cui era immersa da un
pezzo. Ed egli levava a cielo la combinazione da lui suggerita e in
virtù della quale la signora Agnese aveva cinque mesi da pregustar la
sua gioia. — E i beni che si sperano — notava il dottore filosofo — ci
danno sempre maggior voluttà dei beni che si hanno. Se quella bimba
fosse qui adesso, la signora Agnese comincierebbe già a crucciarsi
pensando al momento di perderla; invece ella è felice pensando a quello
di trovarla.

È innegabile che la signora Agnese, appunto facendo assegnamento
sul non lontano ritorno dell’Ofelia, s’era rimessa prestissimo dalla
commozione provata alla partenza del _King Arthur_. Era sempre in moto,
sempre vispa e gioviale. Cosa insolita, la vedevamo spessissimo in
banco. Ci veniva con mille pretesti, ma in fondo non le stava a cuore
che una cosa sola; saper s’erano giunte notizie del capitano Atkinson,
il quale aveva promesso di scrivere anche prima del suo arrivo a Hiogo.

E scrisse in fatti da Suez parlando a lungo dell’Ofelia che aveva
continuamente in bocca la zia Agnese e dichiarava con grande solennità
di voler mandarle una lettera. A tal fine prendeva un pezzo di carta,
vi tracciava col lapis alcuni geroglifici, lo piegava in due e lo
consegnava al padre con l’incarico di spedirlo a Venezia. L’Ofelia,
seguitava il capitano, era buona e savia e consacrava ogni giorno
un’oretta a combinar le parole coi caratteri mobili, sperando di
ricevere e decifrare da sè qualche riga della _zia_ Agnese. Alla quale
la bimba faceva sapere che Tom era in castigo perchè in un impeto
di gelosia aveva spezzato in due il cane barbone, credendolo vivo.
Infine, sempre per incarico della figliuola, il capitano assicurava la
signora che la puppatola era benissimo conservata; solo che la sua voce
cominciava a indebolirsi e diceva _mamma_ e _papà_ con meno enfasi di
prima.... forse, osservava l’Ofelia, per effetto del mal di mare.

Si diede immediatamente comunicazione alla signora Agnese di questa
lettera che interessava più lei che la ditta Prosperi e si può
immaginarsi s’ella le facesse festosa accoglienza. Il giorno stesso
ella mi chiamò per consegnarmi un biglietto in nitido stampatello
destinato a

                         MISS OPHELIA ATKINSON
                 to the care of Master George Atkinson
                 of the english Steamer _King Arthur_.

Il biglietto venne inchiuso in una lettera nostra al capitano,
impostata la sera stessa per Hiogo.

Ora bisognava rassegnarsi a un lungo silenzio, perchè il _King Arthur_
proseguiva direttamente pel Giappone senza poggiare a nessun punto
intermedio.

Noi intanto avevamo sollecitato il nostro banchiere di Londra ad
assumere qualche informazione precisa sul conto del capitano Atkinson,
sul suo carattere, sulla sua famiglia, sulla malattia da cui era morta
sua moglie, eccetera, eccetera. La risposta non si fece attender molto
e le informazioni furono, nel complesso, assai favorevoli. Il capitano
Atkinson, nativo di Glasgow, era da otto anni al servizio degli
armatori del _King Arthur_, i quali non avevano che da lodarsene. Era
uomo probo, intelligente, marinaio arditissimo, più colto di quello
che non sogliono essere le persone della sua classe. Non aveva parenti
prossimi; la moglie gli era morta pochi mesi addietro di tubercolosi
acuta lasciandogli un’unica figliuola in tenera età che adesso
viaggiava con lui.

Il punto nero era questo: la moglie morta di tubercolosi. La
possibilità che la figliuola avesse ereditato i germi della malattia
che aveva ucciso la madre impensieriva il signor Roberto e lo
raffermava nella risoluzione di non permettere che l’Ofelia prendesse
stabile dimora nella sua casa.

Ma di tutto ciò alla signora Agnese non fu tenuta parola. Era inutile
affliggerla fuori di tempo.

In mezzo alle preoccupazioni di vario genere che l’amabile bambina
del capitano Atkinson destava nei coniugi Prosperi era sfumata via la
grande curiosità di saper eseguita dai signori Holiday la commissione
del salottino giapponese. Però, in attesa dei gingilli che dovevano
adornarlo, il salotto d’angolo aveva, per la servitù e pei padroni,
preso già questo nome. Si era ormai avvezzi, domandando ove fosse
la signora, a sentirsi rispondere: — Nel _salottino giapponese_. —
Ella aveva sempre avuto una predilezione per questa stanza; adesso
vi passava anche più ore del solito, perchè il resto del palazzo era
sossopra a cagione dei ristauri. Invece il salotto d’angolo pel momento
non si toccava, e l’unica novità che vi fosse era quella delle due
fotografie dell’Ofelia e del _King Arthur_ che la signora Agnese aveva
provvisoriamente collocate sopra un tavolino.

Povera signora Agnese! Me la ricordo seduta presso la finestra, intenta
a ricamare od a leggere. M’aveva incaricato di comperarle qualche libro
che trattasse del Giappone, e le avevo portato tre o quattro volumi
ch’ella sfogliava con avidità.

— Capisco che questo non diventerà mai un salottino giapponese
autentico — ella mi disse un giorno. — Prima di tutto è troppo grande,
e poi vedo qui che veri e propri mobili i giapponesi non ne usano.
Hanno un’infinità di gingilli e ninnoli graziosissimi e stuoie, e
paraventi, e carte colorate, e specchi dipinti, e vasi, e tappeti,
ma non hanno nè sedie, nè tavole, nè armadi, nè letti.... Basta;
oggi le do il tè alla nostra maniera — ella soggiunse sorridendo; —
nell’inverno prossimo le metterò davanti le tazzine e quel fornelletto
di bronzo che i Giapponesi chiamano _tribacì_ e che serve per tenervi
in caldo l’acqua, e lei, accoccolato per terra che ben s’intende, si
leverà d’impiccio come potrà.

Di lì a poco cambiò argomento e mi chiese: — Dove sarà la nostra
piccola viaggiatrice?

— Ma! — risposi. — Non saprei.... A due terzi di cammino.... Nei mari
della China....

— Non vedo l’ora di ricevere l’annunzio telegrafico dell’arrivo a
Hiogo. Perchè il capitano telegraferà subito, non c’è dubbio.... L’ho
tanto pregato....

Io notai che in ogni caso avrebbero telegrafato i signori Holiday.

— Lo so, lo so — ella disse. — Ma non è la stessa cosa. I signori
Holiday non inseriranno nel dispaccio neanche una parola che si
riferisca all’Ofelia.... Questo non c’entra col vostro carico di riso.

Infatti, non c’entrava.

Dopo una breve pausa, la signora Agnese confessò che il suo trasporto
per quella fanciulla meravigliava lei stessa e che suo marito aveva
mille ragioni di rimproverarla di mancar di misura; ma certe cose non
si discutono.... L’Ofelia l’aveva ammaliata.

— E forse — ella continuava — anche Roberto finirà col subirne
il fascino, col desiderare ch’ella non vada più via. Si ha un bel
dire: “L’Ofelia è un’incognita.„ Ma tutti i bambini sono altrettante
incognite, persino i nostri quando ne abbiamo.... E se ci si decide
a dare ospitalità a quelli che non son nostri, il meglio si è che i
genitori o non ci siano, o siano lontani.... L’ho fatto l’esperimento
dei figliuoli dei parenti, degli amici; l’ho fatto nel terzo e
quart’anno del mio matrimonio.... C’era specialmente una bimbetta d’una
mia cugina che si lasciava da noi per due, tre mesi di fila.... Però
la madre veniva ogni tanto a vedersela e allora erano osservazioni su
questo, su quello.... La mia cugina andò a stabilirsi in Francia col
marito e con la figlia, e in quell’occasione io avevo giurato di non
voler più saperne nè di quella bimba, nè di nessun’altra.... Giuramenti
da marinaio.... Son nata mamma!

La signora Agnese si alzò e tendendomi la mano mi disse: — Sarà mio
alleato, non è vero? Patrocinerà la mia causa con mio marito e col
capitano Atkinson?

Balbettai qualche parola ch’ella interpretò nel senso più favorevole,
e m’allontanai col presentimento di essermi messo per una via irta di
triboli.

Questo colloquio era stato tenuto il lunedì o il martedì; la domenica,
almeno una settimana prima di quello che si sarebbe creduto, giunsero
due telegrammi da Hiogo, uno del capitano Atkinson che avvisava del
suo felice arrivo, l’altro dei signori James Holiday e C., in cifra,
che davano anch’essi la stessa notizia, assicuravano che si sarebbe
posto mano al più presto alla caricazione del riso, e confermavano una
lettera spedita per la posta circa al salottino giapponese. Non occorre
dire che il capitano aveva introdotta nel dispaccio la frase voluta
dalla signora Agnese.

Era il 20 di maggio. Il _King Arthur_ aveva compiuto il suo tragitto
in quarantacinque giorni. Se il ritorno si compiva con una celerità
uguale, accordato anche un mese per la caricazione, il bastimento si
sarebbe rivisto a Venezia ai primi di agosto.

Queste notizie e queste previsioni empirono d’allegria il banco e la
casa. Per la ditta Prosperi l’operazione non poteva presentarsi sotto
migliori auspici e c’era ormai la certezza di vendere tutta la partita
con un larghissimo margine sul prezzo di costo. Era inoltre una vera
compiacenza d’amor proprio l’aver iniziato un nuovo commercio con quei
lontani paesi. Gl’imitatori non sarebbero mancati, e già si sapeva che
i nostri rivali, i fratelli Gelardi, stavano trattando l’acquisto d’un
carico simile al nostro. Poco importava. Per presto ch’essi facessero
non avrebbero ricevuto la merce che un paio di mesi dopo di noi, e a
noi sarebbe sempre rimasto il merito di averli preceduti.

La signora Agnese si curava mediocremente di tutto ciò; quello che la
colmava di gioia era l’avvicinarsi del momento che la piccola Ofelia
sarebbe stata a Venezia, sua certo per qualche mese, sua forse per
sempre. Per creanza, ella mostrava talvolta di prendere interesse anche
all’affare in sè e indirizzava al signor Roberto mille domande a cui
egli rispondeva evasivamente, con un sorrisetto scettico. — Via via,
— egli le diceva — vorresti negarmi che se il _King Arthur_, invece
di contenere nella capace sua stiva una sessantina di mille sacchi di
riso, contenesse soltanto una bionda fanciulla di cinque anni chiamata
Ofelia, per te sarebbe precisamente lo stesso?

Ella protestava. — No, no, lo stesso, no....

— Quasi lo stesso allora — replicava il marito. — Sei contenta così?

Tre settimane dopo i dispacci annunzianti l’arrivo del bastimento ne
giunse un altro importantissimo dei signori Holiday. La caricazione del
riso era terminata; il salottino giapponese era stato incassato e non
mancava che di portarlo a bordo; il capitano si proponeva di partire al
più presto.

Quello fu un giorno di gran lavoro pel banco Prosperi. Si fece una
colossale rimessa di cambiali su Londra ai nostri banchieri Eliot
Green e C., per coprirli delle tratte che i signori Holiday avevano
certo spiccato sopra di loro, e si provvide senza ulteriori indugi
alla sicurtà che fu assunta da più Compagnie per la somma cumulativa
d’un milione di lire in cui era compreso anche l’utile probabile. Il
salottino giapponese venne assicurato a parte per 25 mila lire.

Infine il lunedì 18 giugno 1878 alle cinque pomeridiane (ricordo il
giorno e l’ora) capitò un nuovo e ultimo telegramma, brevissimo, dei
signori Holiday, avvisandoci che il _King Arthur_ era uscito quella
mattina dal porto di Hiogo.

— Non sarebbe da stupirsi — disse qualcuno — se il carico fosse qui
prima delle polizze.

Intanto la posta, ora per la via di Hong-Kong, Singapore e il Mar
Rosso, ora per quella di San Francisco, Nuova York e l’Atlantico,
recò una serie di lettere che i fulminei telegrammi avevano preceduto.
Lettere dei signori Holiday, lettere del capitano Atkinson, e persino
un foglietto per la signora Agnese con tre parole dell’Ofelia, della
quale evidentemente s’era condotta la mano: _Many kisses-Ophelia_. E
il capitano Atkinson nell’inviar questo prezioso autografo dava minuti
ragguagli sulla sua figliuoletta che non aveva sofferto nemmeno un’ora
di mal di mare e non aveva avuto nemmeno un capriccio; o a meglio dire
ne aveva avuto uno solo, quello di tener qualche volta il broncio
al suo babbo perchè non faceva venir la _zia_ Agnese. Del resto la
_zia_ l’avrebbe trovata cresciuta di statura e florida d’aspetto.
Anche Tom, dopo quella sua birichinata in principio del viaggio,
s’era condotto benissimo. Non solo aveva adempiuto scrupolosamente
ai suoi due uffici di custodir l’Ofelia e di dar la caccia ai topi,
ma s’era altresì reso meritevole di una decorazione salvando, con lo
slanciarsi spontaneamente nell’acqua, un mozzo che stava per affogare.
Figuriamoci, scriveva il capitano, ciò che farebbe quella buona bestia
se, Dio guardi, l’Ofelia avesse a correre un pericolo analogo!

Una delle lettere dei nostri corrispondenti di Hiogo conteneva un
lungo poscritto relativo al salottino giapponese, poscritto vergato
tutto quanto dalla mano di M. James Holiday in persona, il quale
si dichiarava lietissimo di rendere un piccolo servigio all’egregio
signor Prosperi e alla sua _most gracious lady_, da lui rammentata con
rispettosa ammirazione. Il detto signore confidava di poter raccogliere
in brevissimi giorni tutti gli oggetti necessari per l’arredo del
salottino, pagandone una somma inferiore a quello che i suoi amici eran
disposti a spendere. Egli si riprometteva eziandio, in un suo futuro
viaggio in Europa, di visitare questo salotto alla cui formazione egli
avrebbe contribuito e di prendervi una tazza di tè, preparata dalle
mani della più gentile signora ch’egli avesse avuto la fortuna di
conoscere ne’ suoi viaggi.

Queste galanterie dettele in faccia sarebbero parse alla signora Agnese
sciocche e dozzinali; avrebbero provocato sulle sue labbra uno di
quei motti freddi ed alteri con cui ella scoraggiava i corteggiatori,
e riusciva, lei, bella, ricca, elegante, a tenerne lontano lo sciame
importuno. Venute invece dal Giappone attraverso migliaia e migliaia
di miglia, esse lusingavano il suo amor proprio, la empivano di
gratitudine, la facevano arrossire di compiacenza.

Seguirono altre lettere di minor conto, finchè nella prima settimana
d’agosto ne capitò una portante la data dell’ultimo telegramma, 18
giugno. Essa confermava la partenza del _King Arthur_, conteneva le
polizze di carico, le fatture del riso, e la nota delle tratte emesse
da Hiogo sui banchieri Eliot, Collins e C. Nell’importo di queste
tratte era compreso anche il valore del salottino giapponese che
ammontava, se non mi falla la memoria, a qualcosa meno di 800 lire
sterline. I signori Holiday avvertivano di aver consegnato al capitano
la distinta particolare degli oggetti e dei prezzi.

Inchiuso nel foglio dei signori Holiday c’era pure un bigliettino di
Master Atkinson coi saluti e i baci dell’Ofelia per la zia Agnese.

La previsione che il bastimento arrivasse prima delle polizze di
carico, non s’era avverata. Ma in ciò non v’era nulla di straordinario,
tanto più che l’ultima posta aveva preso la via di San Francisco,
la quale, se si trovano le coincidenze esatte, porta sempre qualche
risparmio di tempo. Bisognava aspettare. E aspettammo.


V.

Aspettammo per alcuni giorni con la massima calma e serenità. La
signora Agnese era di buonissimo umore e dava l’ultima mano alla
cameretta ch’ella aveva preparata per la piccina. Era tormentata,
pareva almeno, da un unico dubbio. Si doveva tenersi anche Tom? E, in
ogni caso, era probabile che il capitano volesse privarsene? E, se non
voleva, che dispiacere non sarebbe stato quello per l’Ofelia?

— Quando non ci fosse che questo, — replicava il signor Roberto che
aveva preoccupazioni d’altra natura, — le procureremo un cane di
Terranuova identico a Tom. I fanciulli si consolano presto.

I più impazienti erano i sensali a cui premeva di veder meglio che
sui campioni la qualità di questo riso, sconosciuto fino allora a
Venezia. Avevano già in serbo gli ordini dei loro clienti e anelavano
d’eseguirli. D’altra parte appunto per l’incertezza della qualità, nè
essi si credevano autorizzati, nè noi desideravamo di vender la merce
viaggiante. Si contentavano di prender, come si direbbe, una specie
di prenotazione. Taluno ci susurrava all’orecchio che non dovevamo
tener troppo alte le nostre pretese, che i fratelli Gelardi stavano
facendo anch’essi un carico a Hiogo e che questo solo annunzio bastava
a raffreddare il mercato. Spauracchi vani. A ora che il carico dei
Gelardi arrivasse, la nostra operazione sarebbe liquidata da un pezzo.

Però, alla metà d’agosto il _King Arthur_ non era ancora giunto.
Telegrafammo a Suez per sapere se esso fosse passato di là; ci si
rispose di no. Evidentemente la sollecitudine eccezionale del viaggio
di andata ci faceva troppo esigenti pel viaggio di ritorno.

E continuammo ad aspettare. Ma non più con la stessa tranquillità di
spirito.

Si capiva che la sorte del bastimento cominciava ad impensierir tutti.

Non potevamo andar alla Borsa senza che ci si domandasse: — E questo
_King Arthur_?

E si trovava stranissimo, non tanto il ritardo, quanto la mancanza
d’ogni notizia. Come mai il capitano, seppur costretto a ripararsi in
qualche porto per cagion d’avaria, non aveva spedito un dispaccio?

La signora Agnese aveva per un pezzo usato violenza a sè stessa, s’era
stordita proponendosi di dar la baia a Master Giorgio pel suo ritardo
e facendo mille castelli in aria sulla villeggiatura autunnale con
l’Ofelia; poi questa commedia era divenuta superiore alle sue forze
ed ella non dissimulava più la sua inquietudine. Scendeva, saliva
dalla casa al banco, dal banco alla casa; fissava addosso certi occhi
scrutatori; non aveva pace un minuto.

Prosperi invitava ogni giorno due o tre persone a desinare. — Quando
siamo soli a tavola, mia moglie ed io — egli diceva — o il discorso
cade fatalmente sul _King Arthur_, o si tace.... E se si tace, è ancora
peggio.... Quello sciagurato legno, è lì, in mezzo a noi.

Pur troppo esso era sempre lì, per quanti fossero i commensali, per
quanto svariati gli argomenti che si mettevano sul tappeto. Si vedeva
subito che non c’era rispondenza fra la parola e il pensiero, come non
c’è mai allorchè lo spirito è occupato da una cura più grave.

Dopo uno di questi lugubri pranzi al quale avevo partecipato anch’io,
la signora Agnese mi chiamò in disparte con un pretesto, e mi disse a
voce bassa ma vibrata: — Mi si nasconde qualche cosa. È impossibile che
non sia successa una disgrazia al _King Arthur_.

Le diedi la mia parola d’onore che non le si nascondeva nulla perchè
realmente non si sapeva nulla. Tentai quindi alla meglio di dissipare
le sue apprensioni. Certo il viaggio aveva una durata maggiore
della prevista, ma le combinazioni son tante: contrarietà di venti,
deficienza di combustibile, guasto alla macchina....

— Naufragi — soggiunse la signora Agnese guardandomi bene in faccia.

— Sì, anche naufragi — risposi. — Ma questi si vengono a sapere.

— Sempre? — ella insistè.

— Quasi sempre — diss’io.

— Ah, _quasi_ — ella ripetè cupamente. — Ci son dunque esempi di
navigli perduti senza che rimanga alcuna traccia di loro, senza che si
salvi un uomo dell’equipaggio, senza che una tavola galleggiante sul
mare dia un indizio della catastrofe?

Non potei negarle che di questi casi ce ne fossero, ma erano così rari,
così eccezionali da non doverci fermare il pensiero.

— Perchè vede, Ceriani — ella ripigliò — non so come sopporterei
l’annunzio positivo d’una sciagura; so che l’incertezza mi
ucciderebbe.... Ma, in nome del cielo — seguitò la povera signora
attorcigliando nervosamente il fazzoletto alle dita — si è poi fatto
tutto quello che si doveva per chiarire questo mistero?... Mio marito
lo afferma; io non lo credo.

Le enumerai le lettere, i telegrammi che si erano spediti; l’assicurai
che si sarebbe tornato a scrivere, a telegrafare.

Ella si strinse nelle spalle. — Scrivere? Telegrafare?... Ah se fossi
un uomo!

Qualcuno s’avvicinava, ed ella mi lasciò con queste parole,
slanciandomi uno sguardo metà di preghiera, metà di rimprovero.

Che pretendeva mai la signora Agnese? Ch’io andassi alla ricerca del
_King Arthur_ come Stanley era andato alla ricerca di Livingstone?...
Ohimè, l’impresa dello Stanley era stata una follia sublime; la mia non
sarebbe stata che una follia ridicola.

Nè la signora Agnese me ne riparlò nei giorni seguenti. La sua
agitazione febbrile aveva ceduto il posto a una calma apparente che ci
impensieriva ancora di più. Ella stava per lunghe ore sdraiata sulla
sua poltrona nel _salottino giapponese_, senza un libro, senza un
lavoro, immersa in un cupo silenzio. A colazione, a pranzo, toccava
appena il cibo, pronunziava appena qualche monosillabo, si faceva
una legge di non menzionar mai nè il _King Arthur_, nè il capitano
Atkinson, nè la piccola Ofelia. Solo una volta ella scattò dalla
seggiola quando il dottor Gandolfi le suggerì un viaggetto di un mese.
— Quest’anno non mi muovo da Venezia — ella risposo in tuono secco,
reciso.

Passavano i giorni, passavano le settimane. Eravamo venuti a sapere
d’un tifone che aveva infuriato nei mari della China fra il 25 e il 28
di giugno ed era penetrato nei nostri animi il convincimento che in
quella occasione appunto il _King Arthur_ si fosse perduto con tutto
l’equipaggio. Ma mentre si conoscevano i nomi d’altri legni ch’erano
scampati miracolosamente al pericolo, e sbattuti, malconci avevano
dovuto ripararsi in qualcheduno di quei porti, del _King Arthur_
nessuno poteva dir nulla. Nessuno lo aveva visto dopo la sua partenza
da Hiogo.

Anche i danni materiali d’un simile stato di cose erano gravissimi. Le
rimesse fatte a Londra per rimborsare il nostro banchiere importavano
circa ottocentomila lire, somma della quale c’era forza rimaner
scoperti finchè fosse spirato il termine necessario per acquistare
il diritto d’abbandono verso le compagnie assicuratrici, e non c’è
casa di commercio, per potente che sia, a cui non dia degl’impicci
l’immobilizzare un capitale di quasi un milione.

Inoltre tutti i vantaggi sperati da un’iniziativa che doveva
riaffermare la superiorità della nostra ditta andavano in fumo per
esser raccolti in gran parte dai nostri rivali, i Gelardi, che avevano
commesso a Hiogo un carico di riso dopo di noi e che lo aspettavano
entro l’ottobre col vapore inglese _The Iron Duke_. Noi l’odiavamo
questa Iron Duke che seguiva la via tenuta dal _King Arthur_, che
probabilmente sarebbe passato sul punto ove il _King Arthur_ era stato
inghiottito dalle onde. Non credo che nessuno di noi gli augurasse
un disastro, ma è certo che a sentirlo nominare ci si rimescolava il
sangue. E lo si sentiva nominare così spesso. I sensali, che in attesa
del _King Arthur_ avevano imbastito degli affari con noi, adesso,
con la compunzione di chi fa una visita di condoglianza, venivano a
sciogliersi da ogni impegno e a dirci della _dolorosa_ necessità in
cui si trovavano di trattare coi Gelardi per l’acquisto della merce di
prossimo arrivo con l’_Iron Duke_. E poi gli stessi Gelardi, alquanto
vanitosi per loro natura, stimavano opportuno di comunicare ai giornali
cittadini le varie tappe del loro bastimento. Era partito il tal giorno
da Hiogo; aveva nel tal altro toccato Point-de-Galle; era passato per
Aden, era a Suez.... Il comandante dell’_Iron Duke_ non faceva economia
di telegrammi.

Finalmente, ai primi di novembre, una mattina, il bastimento entrò
in porto e andò ad ancorarsi alla Giudecca, proprio dove, in aprile,
era ancorato il _King Arthur_. Ed io procurai nella giornata medesima
di vedere il capitano per chiedergli se gli fosse venuta all’orecchio
nessuna voce circa al vapore che due mesi prima di lui aveva lasciato
il Giappone alla volta di Venezia. Ma egli non ne sapeva più di quello
che ne sapevamo noi.

Quando tornai in banco dopo questa mia pratica vana, il principale mi
disse: — Mia moglie ha ragione. L’incertezza è il peggiore dei mali,
e una speranza voluta conservare a ogni costo è una fonte perenne
d’inquietudine.... Ma che speranza? — egli corresse con un gesto
d’impazienza. — Noi non ne abbiamo più; noi non dubitiamo che il _King
Arthur_ sia perduto.... Ci manca però la forza di rassegnarvisi finchè
non abbiamo in mano un documento, una prova.... Ah, questa prova,
questa prova chi ce la darà?

Mi guardò in un modo singolare e soggiunse: — Senta, Ceriani. Il
viaggio d’esplorazione che l’Agnese parve consigliarle tempo addietro
è, anche a’ miei occhi, una cosa assurda. Nondimeno qualche passo si
potrebbe fare. Una corsa in Inghilterra per esempio, tanto da vedere
gli armatori, da consultarsi con persone esperimentate, da recarsi agli
uffici del Lloyd ove ci son notizie di tutto il mondo?... Andrei io, se
non avessi scrupolo di piantar quella disgraziata.... Lei, Ceriani, lei
ch’è giovine, ch’è libero, avrebbe difficoltà di partire per Londra al
più presto, domani sera, per esempio?...

Sollevai alcuni dubbi sull’utilità di questa gita, ma difficoltà ad
abbandonar Venezia per un quindici o venti giorni non ne avevo affatto.
In fondo, lo confesso, l’offerta mi tornava gradita, perchè ormai il
_King Arthur_ pesava sul banco come un incubo. Ora, quest’incubo io
l’avrei subìto anche durante le mie peregrinazioni che avevano per
iscopo preciso di far nuove indagini sulla sorte del naviglio: ma mi
sorrideva l’idea di cambiar aria, di sostituire una ricerca attiva
(fosse pure infruttuosa) a una preoccupazione inerte e opprimente.


VI.

Partii dunque, munito d’una quantità di commendatizie, partii senza
congedarmi dalla signora Agnese ch’era indisposta, e nel cui animo,
del resto, era inutile far sorgere aspettazioni che non si sarebbero
adempiute.

Che dirò del mio viaggio? Fui a Londra, fui a Glascow, fui a
Liverpool; parlai con gli armatori del _King Arthur_, mi rivolsi a
quel meraviglioso centro d’informazioni ch’è il Lloyd, conobbi il
comandante d’un vapore ch’era stato investito dal tifone dal 25 al 28
giugno, e non per questo riuscii a dissipare l’oscurità che avvolgeva
il nostro _vascello fantasma_. M’accorsi bensì che del _King Arthur_ si
discorreva universalmente come di chi sia morto e sepolto da un pezzo.
O, per esser più esatto, m’accorsi che si cominciava a discorrerne
meno, come d’un fatto ormai vecchio.

Gli armatori, ricchi a milioni, proprietari d’una dozzina di piroscafi
sparsi per tutti gli Oceani, erano più che addolorati, inaspriti contro
il capitano Atkinson. Lo accusavano d’imprudenza; già un’altra volta,
parecchi anni addietro, egli aveva, per la sua temerità, tratto a
perdizione un naviglio. Ma allora almeno s’era salvata la gente.

Questa circostanza che noi ignoravamo non era però ignorata dal Lloyd.
Mi mostrarono colà il _Captain’s Register_, specie di dizionario
biografico dei capitani mercantili inglesi, ove nella forma più
succinta possibile si contengono importanti notizie relative a ciascuno
di loro. E sotto il nome del capitano Giorgio Atkinson, dopo la data
e il luogo della nascita, dopo altre indicazioni varie, si leggevano
queste brevi parole: _Lady Hamilton, st. 1863-65 — lost on the 10th
May 1865, off the Isle of Majorca_; ciò che significava che il capitano
Atkinson avea dal 1801 al 1865 comandato il vapore _Lady Hamilton_, e
che questo vapore s’era perduto in vicinanza dell’isola di Majorca il
10 maggio 1865.

— Una disgrazia può succedere al più provetto, — notò la mia
guida chiudendo il volume accusatore; — è però sempre una cattiva
raccomandazione.

Del resto, anche pel Lloyd, il _King Arthur_ era un legno a cui
si poteva recitare il _de profundis_. Quei preposti, con molta
cortesia, mi lasciarono vedere la corrispondenza, quasi esclusivamente
telegrafica, scambiata coi loro agenti del Giappone, della China,
dell’India su questo argomento. Con parole diverse si arrivava sempre
alla identica conclusione: testimonianze oculari non ce n’erano, avanzi
del bastimento non se ne trovavano, ma il _King Arthur_ doveva esser
naufragato tra il 25 e il 28 giugno. La miglior prova era la mancanza
di qualunque notizia da pressochè cinque mesi. Nello stato presente
delle comunicazioni postali e telegrafiche, in una navigazione per mari
frequentatissimi, ciò non si spiegava che con un disastro.

E poichè io stentavo a capacitarmi di questa scomparsa assoluta
d’un bastimento, fui condotto in un’altra camera e invitato a dare
un’occhiata alla lista dei _missing vessels_, cioè dei _vascelli
mancanti_, su cui pesava lo stesso mistero che sul _King Arthur_, ma
di cui non si poteva mettere dubbio che fossero stati inghiottiti dal
mare con tutti i loro attrezzi, con tutti i loro uomini. La lista non
si riferiva che a pochi anni, eppure era così lunga. Vi figuravano
legni grandi o piccoli, a vapore ed a vela, col loro nome, col nome del
loro capitano, con l’indicazione del porto dal quale erano partiti e di
quello al quale erano diretti, con la data dell’ultime notizie.... Poi,
più nulla.

— E il _King Arthur_? — chiesi all’impiegato che mi accompagnava.

— Non c’è ancora, — egli mi rispose. — Lo registreremo presto....
Bisogna che passi un certo numero di mesi.

Io non sapevo staccar lo sguardo da quella pagina. Pensavo a tante
tragedie di cui l’Oceano chiude il secreto, a tante esistenze troncate,
a tanti gemiti, a tante imprecazioni, a tante preghiere soffocate
dal fragore del vento e dei flutti. E pensavo alla piccola Ofelia.
La rivedevo nella sala del palazzo Prosperi, ilare e vispa, co’ suoi
riccioli biondi che le svolazzavano sulla fronte; la rivedevo tra il
cane Tom e la signora Agnese. Povera, povera bambina! S’era accorta
dell’imminente catastrofe? O aveva cambiato il sonno con la morte?...
Ma più ancora che ai naufraghi pensavo a quelli che aspettano.... Madri
che l’inutile attesa precipita nella decrepitezza e nell’imbecillità,
spose che avvizziscono nella forzata vedovanza e che dopo aver pianto
tutte le loro lacrime dimandano invano la libertà di aprir il cuore a
nuovi affetti, di farsi una nuova famiglia....

L’impiegato del Lloyd indovinò in parte ciò che mi si agitava nella
mente e disse: — Tristi cose. Ma che sono i legni mancanti, che sono
i legni perduti in confronto di quelli che corrono i mari e tengono
alta la bandiera britannica? La lista dei _missing vessels_, il
_loss-book_, sono come il nostro necrologio, e qual’è la famiglia ove
non muoia qualcuno? Che famiglia numerosa sia la nostra lo si rileva
dal nostro registro nautico, il libro dei vivi. Erano l’anno scorso più
di dodici mila navigli.... nè il registro comprende tutti i legni della
marina mercantile inglese.... Sicuro, di quando in quando ci capita
un dispaccio annunziante un disastro, ma novanta volte su cento i
telegrammi che riceviamo a ogni ora del giorno ci parlano di bastimenti
arrivati, di bastimenti partiti, di bastimenti apparsi in qualche punto
remoto del globo e che mandano un saluto alla patria lontana.... Eh,
non ci resta mica tempo d’indugiarci troppo a pianger sui morti.

Orgoglioso della grandezza della sua patria, della grandezza
dell’istituzione alla quale egli apparteneva, il mio interlocutore,
uomo dall’aria positiva quanto mai, diventava poeta. E io subivo, mio
malgrado, il fascino della sua eloquenza e nelle linee maestose del
quadro ch’egli mi tracciava vedevo ridursi alle proporzioni d’un dramma
domestico il pietoso episodio del _King Arthur_. Ripetevo a me stesso
quella frase crudele: _Non ci resta tempo d’indugiarci troppo a pianger
sui morti_ — e mi pareva che, pronunziata in quella sala ove fa capo
il commercio marittimo del mondo, ella perdesse alquanto della sua
brutalità. Non ceder mai nè all’accidia, nè allo scoraggiamento, nè al
sentimentalismo, ecco il segreto della forza e della potenza.

Comunque sia, io ero già al termine della mia missione senz’aver
raggiunto il fine sperato. Indizi in quantità, certezza morale fin che
si vuole; ma prove materiali, palpabili, nessuna. Da Venezia Prosperi
mi scriveva lasciando in mia facoltà di spingermi magari all’India,
alla China, al Giappone se credevo al risultato pratico di questo
viaggio.... Io però non ci credevo, nè ci credeva alcuno di quelli
a cui ne parlai. — Dove andreste? — mi si diceva. — È un’ipotesi
ragionevole che il _King Arthur_ si sia perduto nel tifone dal 25 al
28 giugno. Ma è sempre un’ipotesi. E in ogni modo, pur riuscendo a
precisare il raggio di quel tifone, come scoprirete il punto ove il
bastimento si è sommerso? Che esercito di palombari prenderete con voi?
E vi par possibile ch’essi discendano a una profondità di migliaia e
migliaia di metri?

Quest’era vero, ma io obbiettai che forse qualche uomo dell’equipaggio
s’era salvato, rifugiato in un’isola, in una spiaggia deserta, che
forse si poteva trovarlo....

I miei ascoltatori sorrisero. — Non è più il tempo di Robinson Crusoè.

Un po’ perchè queste riflessioni non facevano che crescere la mia
sfiducia, un po’ perchè m’impregnavo anch’io della maschia filosofia
anglo-sassone che ci stimola a guardare dinanzi e non dietro a noi, io
abbandonai l’impresa e feci ritorno in Italia. Era inutile ostinarsi,
io dissi al mio principale, era inutile sprecar l’energia, l’ingegno,
il danaro in ricerche fantastiche. Dovevamo mettere il nostro cuore
in pace, dimenticare il _King Arthur_, lavorar con lena raddoppiata,
mantenere alla nostra casa il posto che le spettava pe’ suoi capitali,
per la sua riputazione, per l’abilità riconosciuta di chi la dirigeva.
Nel fervore del discorso mi sfuggì un’allusione alla frase udita
negli uffici del Lloyd circa alla necessità di non indugiarsi troppo a
piangere i morti.

Il principale m’interruppe. — Non si tratta di morti, caro Ceriani....
almeno per me.... Per me si tratta d’una persona viva che amo e che
avrei voluto render felice a costo del mio sangue, mentre invece un
fatale concorso di circostanze volge ad effetto contrario tutti i miei
sforzi.... Ah è facile dire: quella persona è un’esaltata, ingigantisce
i suoi dolori, non apprezza convenientemente i beni che possede, va in
traccia dello strano, del singolare.... È facile rimproverarle il suo
cieco trasporto per una bambina appena conosciuta, la sua mancanza di
rassegnazione ai decreti della Provvidenza. È facile infine citarle
tante donne che hanno la saviezza di contentarsi di ciò che hanno, di
non accasciarsi sotto il peso di sventure molto più grandi di quella
che l’ha colpita.... Ragioni belle, buone, sacrosante, ma che non
concludono nulla.... Le cose non sono quelle che dovrebbero essere, ma
quelle che sono.... Il fatto si è che le condizioni di mia moglie sono
tali da destar le più legittime apprensioni.... Quel pensiero assiduo
che la tormenta, logora la sua salute e pur troppo ha un’azione funesta
anche sulla sua intelligenza. La vedrà, Ceriani, la vedrà.... Non è
già che ella parli di continuo del _King Arthur_ o dell’Ofelia; sarebbe
meglio che ne parlasse.... ma si capisce che la sua mente è sempre lì,
e la sua fissazione di voler passar quasi l’intera giornata in quello
ch’ella chiama il suo salottino giapponese basta a dimostrarlo....
Via, siamo giusti, data una natura nervosa come quella dell’Agnese,
non poteva accader di peggio.... Se lo sciagurato _King Arthur_ si
fosse perduto come si perdono centinaia di navi non saremmo a questo
punto.... È per ciò ch’io insistevo per aver una prova.... Non la
si è potuta avere, pazienza.... Non ne ha colpa nessuno.... Intendo
benissimo che sarebbe una follia il girare il mondo in cerca di un
bastimento.... Ma bisogna convenire ch’è un destino iniquo. E vi sarà
della gente che c’invidia perchè siamo ricchi!

Il signor Roberto non esagerava accennando alle tristi condizioni di
sua moglie. La vidi nella giornata e mi fece una pena immensa. Aveva
dato un crollo in poche settimane. Era ridotta a pelle ed ossa, aveva
gli occhi infossati e più d’un filo bianco si mesceva a’ suoi bei
capelli biondi.... E quello sguardo, quello sguardo!

Mi accolse con una cortesia fredda, ben diversa dall’espansione ch’ella
m’aveva dimostrata negli ultimi tempi. Circa al mio viaggio, mi disse
soltanto: — Non ha saputo nulla.... Già era da immaginarselo.

Lieto ch’ell’avesse rotto il ghiaccio, mi credetti incoraggiato
a riferirle le indagini che avevo fatte, i nuovi indizi che avevo
raccolti, i discorsi che avevo sentiti, la dolorosa convinzione che
avevo acquistata dell’inutilità di ulteriori pratiche per accertare un
avvenimento su cui pur troppo non v’era più dubbio. M’aspettavo ch’ella
protestasse contro le mie parole, che, in un modo o nell’altro, ella
sfogasse il suo dolore.... Niente di tutto ciò.... Teneva la testa
chinata sul petto, le mani incrociate sulle ginocchia, non dava segno
di approvazione o dissenso.

Nell’uscire dalla stanza il signor Roberto sospirò: — È uno strazio.
Così non può durare....

Tale era anche la mia opinione. Ma c’ingannavamo tutti e due. Anzi, in
quanto a salute, la signora Agnese migliorò, riprese un po’ di polpa
e di colore. Non migliorò invece il suo stato morale, non ci fu verso
di scuotere il letargo nel quale ell’era piombata. Ella non trovava
qualche lampo d’energia che per respinger qualunque proposta suo marito
le facesse di viaggi o di distrazioni d’altra natura.

Compiuto l’anno, gli assicuratori pagarono il risarcimento che ci
spettava, e nella pagina del nostro registro mercanzie intestata
al _Riso giapponese col “King Arthur„_ noi potemmo inscrivere nella
colonna dell’_avere_ ch’era ancora in bianco la cifra rotonda di un
milione di lire, chiudendo con un utile ragguardevole questo conto,
nonostante le spese impreviste, nonostante la perdita degl’interessi.

Furono pagate contemporaneamente anche le 25 mila lire del salottino
giapponese ch’era stato assicurato a parte.

— Sia ringraziato il cielo, — esclamò quel giorno il ragioniere
della ditta. — Quelle due partite aperte gettavano un’ombra sinistra
sull’intera azienda.... Adesso che ci si è messa su una bella pietra
sepolcrale, si potrà respirar meglio e muoversi con più libertà.

Ebbene, quel giorno stesso il signor Roberto mi esternava per la prima
volta la sua intenzione di liquidare la casa. Non aveva più amore al
lavoro, non aveva più ambizione, non aveva più elasticità di fibra
e di spirito. Sentiva di non esser l’uomo d’un tempo, d’infastidirsi
a ogni contrarietà, di smarrirsi a ogni dubbiezza; quei lunghi mesi
d’ambascia l’avevano spossato, affranto. E poi con che sugo avrebbe
seguitato a logorare il cervello nelle intricate combinazioni del
commercio moderno?... Non aveva figliuoli e non isperava d’averne; sua
moglie non abbisognava di maggiori ricchezze per vegetar come faceva;
le occorrevano soltanto delle cure sollecite, attente, e queste cure
toccava a lui di prestargliele. Con la coscienza delicata dei buoni
egli si caricava di colpe immaginarie. — Dovevo entrar subito nell’idea
dell’Agnese, — egli ripeteva, — e far sì che il capitano ci lasciasse
la bambina addirittura, chè già con un po’ d’insistenza la si sarebbe
spuntata.... Oppure dovevo tagliar corto, dichiarar che non volevo
l’Ofelia in casa nè prima nè dopo, impedire a quella funesta tenerezza
di nascere, di crescere. Il mezzo termine adottato fu la cagion vera di
tante disgrazie.

Ohimè, la vera cagione era da cercarsi nella mente non equilibrata
della signora Agnese, ma questo il signor Roberto non intendeva
ammetterlo. Fermo nel tenersi responsabile di tutto, egli diceva che il
far l’infermiere era per lui, oltre che un debito d’affetto, una giusta
espiazione.

E persisteva nel proposito di ritirarsi dai traffici. Solo studiava il
modo di provvedere all’avvenire de’ suoi commessi, di volgere a loro
vantaggio il credito e le relazioni della sua ditta.

Di qui l’accomandita della quale io sono il gerente e che mi permise
di conservare intimità di rapporti con l’ottimo uomo. Però tra noi
non si discorre d’affari che quando io gli presento il bilancio, e
anche allora se ne discorre poco perchè egli ha in me una fiducia
che credo di non avere demeritata. Anzi talvolta egli mi rimprovera
scherzosamente di aumentar troppo il suo patrimonio.

Per lo più egli mi parla di sua moglie ch’egli ama con l’antico
trasporto e ch’è sempre nel medesimo stato, sospesa tra la sanità e la
malattia, tra la saviezza e la demenza. Quand’io vado a visitarla, e ci
vado ogni tre o quattro settimane, ella mi riconosce, mi porge la mano,
mi ringrazia d’essermi ricordato di lei, mette insieme poche frasi
insignificanti, e quindi ricade in un silenzio penoso. Ma se mi alzo
per accommiatarmi si scuote, e non manca di dire: — Torni: Già mi trova
al solito posto, nel mio _salottino giapponese_.

E nel salottino che conserva per ironia questo nome si vedono ancora
le fotografie dell’Ofelia e del _King Arthur_. Ma i mille ninnoli, ma
le lacche colorate, ma gli specchi dipinti, ma le mensole, i vasi che
dovevano adornare il _salottino giapponese_, dove sono? Dov’è il _King
Arthur_, dov’è la gentile Ofelia, dov’è il capitano Atkinson, dov’è il
cane Tom? Su quali alghe riposano, quanto mare li copre, chi saprà mai
nulla di loro?

                             . . . . . . .



NELL’ANDARE AL BALLO.


Il servo picchiò leggermente all’uscio, e disse con qualche esitazione:
— Signora....

Sola nel suo salottino, la signora Stella Marioli ripassava della
musica al pianoforte. Un resto di legna si consumava, scoppiettando,
nel caminetto; sopra una tavola sparsa di libri e giornali ardeva un
lume a _Carvel_.

— Che c’è? — chiese la signora, voltandosi sulla sedia.

— C’è una visita.

— A quest’ora? Lo sapete bene che di sera non ricevo.

— Lo so.... Ma il cavalier Gualberti mi ha ordinato di annunziarlo
ugualmente.

— È Gualberti? — soggiunse la signora Marioli come parlando tra sè. —
E pensò che per due volte consecutive egli era venuto di giorno senza
trovarla in casa. A ogni modo.... — Basta.... Che entri, — ella disse a
voce alta. — E portate da fare il tè.

Spense le due candele del pianoforte e andò a sedere accanto alla
tavola.

Era una donna sulla trentina, non bellissima ma piacente, vedova da
più di tre anni, senza figliuoli; chè il suo primo e unico bimbo l’era
morto in fasce. Viveva con la sua mamma ch’era vedova anch’essa; ma i
due quartierini erano perfettamente disobbligati con porta e ingresso a
parte. Madre e figliuola avevano spiriti indipendenti e gusti alquanto
diversi. Era poi questo spirito indipendente che rendeva la signora
Stella aliena dal rimaritarsi, quantunque, pur che avesse voluto, non
le sarebbero mancate le occasioni. Ma era ben provvista di beni di
fortuna, era in grado di saper difendersi dalle insidie; che furia
doveva avere di rimettere il collo sotto il giogo?

— In verità, Gualberti.... — ella cominciò rivolgendosi all’inatteso
visitatore con aria di mite rimprovero. Ma, al vederlo in abito nero e
cravatta bianca, soggiunse scherzosamente: — Meno male che non sono che
una stazione intermedia.... Via, sedete pure.... Già una rondine non fa
primavera.

Da un pezzo la signora Marioli dava del _voi_ a Gualberti.

— Oh, signora Stella, — egli disse, — non sia così cattiva. Ho commesso
un’indiscretezza, lo so, ma passavo di qui e non ho potuto resistere
alla tentazione. Di giorno non mi riesce mai....

— Mi dispiace che abbiate fatto due volte la strada per nulla. Ero
fuori.... Di venerdì però....

— Il suo giorno di ricevimento?... Non me ne discorra neanche....
Abborro i giorni di ricevimento in generale e il suo in particolare.

— Perchè il mio più degli altri?

— Perchè un salotto pieno di visite è tanto più odioso quanto più è
simpatica la padrona di casa.

— Devo ringraziarvi del madrigale?

— Non è un madrigale; è l’espressione schietta del mio pensiero. E poi,
non lo nego, divento un selvaggio.

— Voi? Non si direbbe. — E la signora Stella diede un’occhiata alla
_toilette_ inappuntabile di Gualberti. Quindi esclamò picchiandosi la
fronte:

— Adesso capisco.... Andate al ballo della contessa Vetturi....

— Sono uscito di casa con questa intenzione, ma....

— Non c’è _ma_ che tenga. Se credete che la Vetturi vi passerebbe buona
la vostra diserzione, v’ingannate a partito.... E fulminerebbe me se
potesse supporre che ne fossi la causa.... Oh non voglio correre di
questi pericoli..... Sono terribili le collere della Vetturi.

— Lei le affronta impavida.... perchè sarà invitata anche lei....

— Oh, il mio è un invito platonico.... Sanno bene che non vado a
feste.... Ma voi....

— Sicchè mi licenzia.... Mi spedisce dalla Vetturi a veder accendere i
lumi.

La signora Stella guardò l’orologio.

— Infatti è presto; sono le nove e tre quarti. Vi concedo di rimaner
fino alle dieci e mezzo, il tempo da prendere una tazza di tè che vi
preparo subito.... Da qui a casa Vetturi ci saranno quindici o venti
minuti di strada; arriverete alle undici; proprio l’ora giusta.

— E dire che rinunzierei tanto volentieri ad andarvi.

— Caro amico, quando non si vuole andare a una festa, non si comincia
col mettersi in _frac paré_.

— È inesorabile.... Bisogna perdonare alle contraddizioni umane.... Mi
son vestito macchinalmente, per forza d’inerzia; adesso domando a me
stesso che cosa vado a fare dalla Vetturi.

— Oh bella, quello che ci faranno gli altri. Ballerete.

— Se non ballo più.

— Vedrete a ballare.

— Non mi piacciono che i balli d’adolescenti.

— Carino, carino. _Bals d’enfants_ addirittura.

— Anche i _bals d’enfants_. Ma, scherzi a parte, il ballo, se non vuol
essere una cosa ridicola agli occhi di chi vi assiste, deve apparir
lo sfogo ingenuo di una vitalità esuberante. E tale è appunto pei
giovani che hanno un bisogno irresistibile di muoversi, di saltare,
di volare, sarei per dire. Più tardi, dopo vent’anni per le femmine,
dopo venticinque per i maschi, esso non è che un libertinaggio o una
pagliacciata.

— Nientemeno! — proruppe la signora Marioli. — Sicchè voi, consentaneo
ai vostri principî, avete cessato di ballare a venticinqu’anni?... Io
ritenevo....

— Che avessi ballato anche dopo? Lo ammetto. Ma questo non prova
nulla....

— Sarà. Gradirei sapere a ogni modo se ballando nella vostra età matura
facevate atto di libertino, o di...

La signora Stella non finì la frase. Gualberti la finì lui.

— O di pagliaccio? Ecco, siccome l’andar in giro come una trottola mi
pareva supremamente grottesco, crederei piuttosto....

E si fermò lì.

— Intendo, — disse la signora. — La vostra era una colpa di
libertinaggio.... E chi sa che giudizi pronunciavate in cuor vostro
sul conto di quelle povere diavole che accettavano il vostro invito per
una polka o per un valzer?... Buon per me che non abbiamo mai ballato
insieme.

— Io non mi ricordo di averla mai vista ballare, — replicò Gualberti.

— È vero. Anche quando viveva mio marito ballavo pochissimo.... Non in
omaggio alla vostra teoria, ma perchè vado soggetta alle vertigini....
E se ci fosse una signora Gualberti, levatemi una curiosità.... è
il vizio di noi donne l’esser curiose.... come vi regolereste con la
signora Gualberti?

— Eh, chi può dire quel che farei? Se l’amassi, sarei debole, cederei
probabilmente a’ suoi desideri. Ma non nego che dovrei mandar giù
di gran bocconi amari a vederla palleggiata dalle braccia dell’uno a
quelle dell’altro. Senza contare ciò che vien dopo.... Ogni imbecille
che ha ballato con _madama_ si crede in obbligo di portar la mattina
seguente i suoi biglietti da visita, in duplo come le quietanze, che il
marito babbeo è costretto a ricambiare, dando in questo modo la facoltà
a uno stuolo di cretini di venire in casa a corteggiargli la moglie.

La signora Stella si mise a ridere.

— Che moralista diventate invecchiando, e che marito geloso sareste!

— Geloso?... Secondo.... Se amassi mia moglie.... Sia sincera, signora
Stella, crede possibile amore senza gelosia?

— No, — ella rispose dopo averci pensato su un momento. — Pur di non
eccedere.

— D’accordo. È come il sale nelle vivande. Non si può farne senza, ma
non si deve abusarne.

— Parlate per aforismi stasera.... Ma torniamo a bomba.... Il vostro
programma coniugale è tuttora oscuro.

— Ha voglia di divertirsi alle mie spalle, lei, — esclamò il cavalier
Gualberti. — Che programma posso avere? È sicuro però che non adotterei
il sistema di coloro i quali nel gran numero di galanti lasciati
ronzare intorno alla moglie vedono una specie di salvaguardia contro
maggiori pericoli.... Tanto più ch’io ho certe opinioni tutte mie....
È la sera che la faccio maravigliare coi miei paradossi.... Se gliene
dicessi un altro?

Durante questo tempo la signora Stella era stata sempre in piedi
affaccendata intorno alla teiera; adesso il tè era fatto ed ella ne
mescè una tazza al Gualberti, dicendogli:

— Mettete voi a vostro piacere lo zucchero, la panna e il rhum, e
spifferate pure il vostro ultimo paradosso.... Perchè è l’ultimo; sono
già le dieci e mezzo.

— Non baderà poi al minuto. Il mio paradosso è questo. La colpa che
perdono meno alla donna è la civetteria.

— Misericordia! — gridò la padrona di casa alzando le mani al cielo.
— A dir queste cose v’inimicherete l’intera corporazione.... S’è già
passato in giudicato che siamo civette tutte quante?

Gualberti fece un moto vivace di protesta.

— Nemmen per sogno.... Ne conosco una per esempio....

La signora Marioli gli accennò con la mano di non continuare.

— Son io quella, s’intende.... Gualberti, stasera siete in vena
d’originalità; non naufragate in un bicchier d’acqua.

— Le giuro che....

— Tiriamo via.... E invece di perdervi in cerimonie, spiegatevi
meglio.... Per voi dunque la civetteria è un peccato mortale.

— Sarò ingiusto, sarò eccessivo.... Ma già me ne rifaccio con un
eccesso d’indulgenza per altri peccati.

— Oh!... Per esempio?

— Io compatisco la sensualità, compatisco e spesso rispetto la
passione, anche illegittima.

— E non compatite la civetteria?

— No. La sensualità ha qualche cosa d’irresponsabile, è una malattia
del sangue, come la passione è una malattia, una nobile malattia,
del cuore. Sensualità e passione sono necessariamente sincere; la
civetteria non è che un artifizio; è un pervertimento dell’ingegno
rivolto a miseri fini, è un gioco crudele che alla lunga spegne
nell’animo di chi lo fa ogni lampo di gentilezza.... La donna può
esercitarvisi per anni senza restar presa nei lacci che tende; non
importa, ella è mille volte più corrotta, mille volte più condannabile
di quella che ha ceduto all’amore, qualunque sia quest’amore....

— Onde alla signora Gualberti, se ci fosse, — ripigliò in tuono
scherzevole la signora Stella — voi perdonereste un amante, due
amanti....

— Come corre! Veda.... Bisogna distinguere. Quando una donna maritata
ha un amante, il marito è un offeso, e chi è offeso non guarda tanto
pel sottile; non considera il fatto in sè stesso, ma il danno, la
vergogna, il ridicolo che ne deriva a lui.... È probabile ch’io sarei
come gli altri, è possibile che scaccerei dal mio fianco la donna
colpevole.... a’ miei occhi indubbiamente colpevole.... ma non credo
che da una catastrofe di questo genere mi sentirei umiliato come
dall’aver una moglie che tenesse a bada una dozzina di bellimbusti e
girasse tutta la sua vita intorno all’adulterio senza cadervi mai.

— Avete finito?

— Ho finito.

— Ebbene, quantunque siano le dieci e tre quarti, voglio dire anch’io
due parole.... Figuratevi se non protesto in nome del mio sesso contro
le vostre esagerazioni.... Una seconda tazza di tè?

— Sì, grazie, — rispose Gualberti, il quale non domandava di meglio che
di esser trattenuto.

— Nella vostra filippica ci può anche essere un fondo di vero —
soggiunse la signora Stella mentre gli porgeva la tazza colma, —
ma, santo Iddio, le cose che vi dispiacciono le vedete con una lente
d’ingrandimento che vi muta una zanzara in un elefante. Non amo neppur
io la civetta di professione, ma un po’ di civetteria non è poi quel
delitto abbominevole che voi credete. È la nostra arma, la nostra
difesa, la nostra vendetta contro voi altri.

— Una vendetta?

— Appunto, e non è difficile a intenderlo. Con voi uomini una donna che
non sia nè vecchia nè brutta (e già le brutte e le vecchie le lasciate
in disparte) non ha che tre vie da tenere. O consente a sacrificarvi
la sua riputazione, o vi mette alla porta ch’è quello che meritereste
spessissimo, o si prende argutamente gioco di voi.... Ora capirete che
sacrificarvi la propria riputazione è novantanove volte su cento una
follìa, e che il darvi lo sfratto ci condannerebbe all’isolamento. Non
resta quindi che il terzo partito. Con che fronte venite ad accusarci
di finzione, d’artifizio? Siete schietti, siete sinceri voi altri?
Che cosa sono le vostre frasi sdolcinate, le vostre dichiarazioni
patetiche? Sono la bandiera con cui tentate far passare di contrabbando
un vostro desiderio, un vostro capriccio. Voi c’insultate, noi vi
canzoniamo. Ve lo ripeto, io non amo le civette in genere, però quando
sento che una civetta ha corbellato un libertino biasimo forse la
donna, ma in quanto all’uomo dico: Bene gli sta.

— Ah, signora Stella, — replicò Gualberti deponendo la chicchera
sulla tavola. — si capisce che c’è un grande spirito di solidarietà
fra le donne se le migliori prendono con tanto fuoco le parti delle
peggiori!... Cercar scuse alle civette, lei che non ha ombra di
civetteria?

— Ne siete sicuro? E, in ogni caso, credete di farmi un elogio? Se
fosse un difetto? Se per lo meno fosse una disgrazia?

— Come mai?

Ella soggiunse con un sorriso triste:

— Eh caro Gualberti, è quello che dicevo poco fa.... Non volersi
compromettere con uno, non voler prendersi gioco di molti, è il vero
modo di restar sole.

Le parve di essersi lasciata sfuggire qualche parola di troppo e si
alzò bruscamente dalla seggiola.

— Basta così, ormai.... Voi mi avete sciorinato le vostre massime;
io ho rintuzzato la vostra baldanza maschile.... vi ritenete sempre
impeccabili voi uomini.... adesso non mi resta altro che darvi la
felicissima notte e augurarvi buon divertimento dalla Vetturi.

Gualberti s’era alzato anche lui, e stava forse per accommiatarsi
definitivamente, quando ad un tratto abbassò gli occhi sullo sparato
della camicia e mise un piccolo grido.

— Che cos’è accaduto?

— È accaduto.... — rispose alquanto confuso Gualberti — che dalla
Vetturi non ci posso andar più.

— E perchè?

— Perchè m’accorgo d’essermi fatta una macchia di tè sulla camicia.

La signora Stella non potè a meno di sorridere.

— Un altro giorno vi legherete la salvietta al collo.... Per fortuna
avete ancora tempo di passar a casa vostra a mutarvi.

— Questo poi no. Far _toilette_ una volta, _transeat_, ma due? Non ho
una vocazione così pronunciata per la società. Sia compiacente, signora
Stella, e giacchè sono qui mi permetta di restarci ancora un pochino.
È tanto più gustoso il discorrer con una donna d’ingegno e di cuore che
l’andare a una festa a sentir le solite melensaggini.

Una nuvola si calò sulla fronte della signora Marioli; un sospetto
lo balenò nell’animo. Le venne il dubbio che quella macchia non fosse
accidentale, che Gualberti avesse lasciato cadere apposta una goccia
di tè sulla camicia per avere un pretesto di prolungar la sua visita.
E il pensiero di questo mezzuccio puerile l’offese, e l’insistenza per
rimaner da lei a quell’ora inusata l’afflisse. Ecco, anche Gualberti
del quale ella pregiava infinitamente lo spirito ed il carattere
assumeva dei modi che a lei non potevano convenire.... Le sarebbe
toccato metterlo a posto, forse non riceverlo più come non aveva
ricevuto più tanti altri.... Era un gran dolore.... O forse l’aveva
ella stessa trattato con soverchia familiarità?... Dio buono, che
sia necessario di star sempre in sussiego, di adombrarsi d’ogni atto,
d’ogni parola?... Che ogni minima deferenza debba bastare perchè un
uomo manchi di rispetto?...

— Oh Gualberti — ella ripigliò; e l’intonazione della sua voce rivelava
il suo animo commosso — non mi fate pentire di avervi perdonata la
licenza che vi siete presa.... Perchè io non vi avevo mai, mai invitato
a venire di sera.... Nè voi, nè altri, s’intende.... O scendo da mia
madre, o vado da qualche amica, o rimango sola.... Non è poi la fine
del mondo il rimaner sola.... Lo so — ella proseguì, quasi volendo
spiegar a sè stessa la propria condotta — tanti avevano insistito
perchè io ricevessi una sera per settimana.... A che pro?... Avrei
forse potuto ricever soltanto quelli che desideravo?... No certo, mi
sarebbe convenuto subir prima di tutti quelli che avevano fatto la
proposta, i seccatori, gl’importuni, i balordi, quelli che stimerebbero
fallire a un debito d’onore se non facessero la corte a una donna
che non è un mostro, e che non ha nessuno che la difenda.... Ebbene,
no, non era affare per me.... avete ragione, non sono abbastanza
civetta.... D’altra parte, sfido io, una volta detto di non ricever
la sera, come posso fare eccezioni?... Avete avuto torto di forzar la
consegna.... Più torto ancora avete adesso a ricorrere a espedienti non
degni di voi....

— Quali espedienti?

— Via, non fate l’ingenuo.... La vostra macchia di tè....

— Le dò la mia parola d’uomo d’onore....

— Inezie.... Non vi tengo mica il broncio.... E neppure voi lo terrete
a me, non è vero?... Amici come prima... E arrivederci, Gualberti,
arrivederci di giorno....

E gli tese la mano agitata da un leggero tremito.

Avvezzo a vederla così calma, così serena, così padrona di sè,
Gualberti fu colpito dal turbamento che le si scorgeva nel viso e che
l’insolito abbandono, l’insolita sconnessione del suo discorso tradiva.

— Oh signora Stella, signora Stella — egli esclamò con accento
appassionato — torno a darle la mia parola d’onore che la
fanciullaggine di cui ella m’accusa non l’ho commessa. Ma benedico
l’equivoco se ci aiuta a uscire dal circolo incantato in cui ci
aggiriamo da tanto tempo.

— Non vi capisco. Spiegatevi....

— Mi spiegherò.... Ma la scongiuro, mi lasci dire; non m’interrompa....
Quando avrò finito andrò via, e se vorrà andrò via per sempre.... E
soprattutto non accolga nemmeno per un istante l’idea ch’io abbia avuto
in animo di offenderla, di compromettere la sua riputazione.... Non mi
giudichi capace di una bassezza simile.... Ho vissuto molto in società,
è vero, in quella triste società che guasta e corrompe; pur credo di
non essermici interamente guasto e corrotto; i suoi idoli non sono i
miei idoli, i suoi trionfi non sono i trionfi a cui miro.

— Lo so, Gualberti, lo so.

— Quand’ero giovine, i miei amici.... amici di club.... avevano la
bontà-di dire che possedevo delle qualità naturali per riuscir nella
galanteria... il grande scopo della loro esistenza... ma che prendevo
le cose troppo sul serio... che talvolta ero troppo schizzinoso nella
scelta della piazza da espugnare... chiamiamola così.... talvolta ero
troppo scrupoloso nei mezzi.... Fatto si è che fui sempre un povero
seduttore.... anche quand’ero giovine.... Si figuri adesso....

— Ebbene, amico mio — soggiunse la signora Marioli — se qualche mia
frase ha potuto farvi supporre ch’io vi mettessi a livello dei don
Giovanni da dozzina, ve ne domando perdono....

— Non è questo, signora Stella; son io in ogni caso che devo implorare
la sua indulgenza.... Sono stato indiscreto, goffo, petulante.... Gli
è che avevo un bisogno immenso di vederla.... di vederla sola....
E proprio nell’ora che mi vestivo per quello stupido ballo, questo
bisogno diventava prepotente, irresistibile.... Mi son trovato alla
sua porta, sulle sue scale, qui, nel suo salotto, al cospetto di
lei.... Poi un po’ le sue osservazioni, un po’ il timore di aver
realmente commesso una sconvenienza mi hanno sconcertato, inasprito....
si è sempre inaspriti con gli altri quando si ha qualche cosa da
rimproverare a sè stessi.... e allora ho cominciato a infilare una
serie di paradossi di cui le assicuro che non sono responsabile che
in piccola parte.... essi mi salivano alle labbra, e io non potevo
fermarli.... Mi sembrava di rassomigliare a un pirotecnico inesperto
che veda partire a caso i suoi razzi.... Non importa; mentre la bocca
affastellava frasi su frasi la mia anima acquistava una lucidezza
maggior dell’usato, leggevo dentro di me più chiaro ch’io non avessi
mai letto, mi convincevo ch’era assurdo il voler soffocare, il voler
nasconder sotto un finto nome i miei sentimenti per lei.... Oh non mi
faccia segno di tacere.... Non posso e non debbo.... L’amo, signora
Stella, l’amo da un pezzo. Da un pezzo, ed è la miglior prova ch’io
l’amo, m’è divenuto increscioso ogni altro pensiero; ovunque io sia la
mia mente corre a questa casa, a questo salottino, alla donna gentile
che vi abita.... Perchè ho tardato tanto a parlare?... Temevo una sua
ripulsa, non osavo giocar tutto sopra una carta.... Dacchè la conosco
davvicino, e son quasi tre anni, ho visto ronzargliene intorno dei
vagheggini, e li ho visti pur dileguarsi, scoraggiati da lei, e quelli
la cui corte era un oltraggio e quelli che le offrivano ciò che solo
è lecito offrirle.... Avrò la medesima sorte?... io chiedevo a me
stesso.... E forse volevo esser ben sicuro di me, sicuro contro ogni
pentimento, contro ogni rimpianto delle mie abitudini di scapolo....
Oggi, signora Stella, di questi dubbi non ne ho più. Oggi sento il
pregio inestimabile d’un’affezione tranquilla, d’una vita raccolta,
e l’affezione a cui aspiro è la sua, e la vita che sogno è al suo
fianco.... Siamo liberi entrambi, abbiamo, più che non paia, gusti,
opinioni, ideali comuni; perchè non dobbiamo restare uniti, perchè non
vorrà accettare la mia mano, il mio nome?... Ella è molto più giovine
di me, ma i dolori valgono gli anni e le prove attraverso le quali ella
è passata attenuano la distanza che c’è fra noi.... Non mi respinga,
signora Stella.... non rivolga il viso da un’altra parte.... mi
assicuri che non è andata in collera....

Ella s’era rimessa a sedere col gomito appoggiato al tavolino, con la
fronte appoggiata alla palma, e quella dichiarazione in cui vibrava
l’accento della verità le scendeva nell’anima come una musica divina.
Altre dichiarazioni l’era toccato ascoltare, o bugiarde, o interessate,
o ridicole, e tutte quante le avevano dato il mezzo di sbarazzarsi con
gioia di corteggiatori importuni, di riaffermare la sua libertà che le
pareva un bene così prezioso; oggi per riaffermare quella libertà una
volta di più le sarebbe convenuto perdere il suo migliore amico;.... oh
il prezzo era troppo caro. Della sincerità di Gualberti era sicura come
di esistere.... egli che non aveva mentito mai, egli che la cingeva da
tanto tempo di una tenerezza rispettosa e discreta, egli ch’era così
alieno da ogni artifizio da domandarle di esser sua moglie, appena
mezz’ora dopo averle esposte delle massime coniugali che avrebbero
sgomentato una donna volgare....

La signora Marioli levò verso di lui i suoi occhi dolci e buoni. —
Non vi avrei lasciato parlare dieci minuti di fila se fossi andata in
collera.... Che cosa fate adesso?... Alzatevi, Gualberti.... Non siamo
due ragazzi.... Siamo due persone serie, mature.... Su, via....

E si alzò per la prima, sorridendo in mezzo al suo finto corruccio.

Egli non le dava retta e baciava i lembi del suo vestito e balbettava:
— Amor mio, amor mio.

— Su, Gualberti, su.... Non ho mica detto ancora di sì.

— L’ho veduto scritto sulla sua.... sulla tua fronte quel sì.... E poi
me lo dirai, non è vero?

— Ebbene.... tornate.... torna domani.

Ebbro di gioia, egli la strinse un istante fra le sue braccia, e si
decise finalmente a prendere il suo cappello.

L’orologio suonò la mezzanotte.

— Che ora impossibile! — esclamò la signora mentre premeva il bottone
del campanello elettrico. E soggiunse maliziosamente: — Sarà tardi pel
ballo della Vetturi....

— Cattiva!... Il ballo della Vetturi....

Entrò il servo.

— Buona notte, signora Stella.

— Buona notte, Gualberti.... A domani, dunque.... A qualunque ora....
Resto tutto il giorno in casa.

— Grazie. A domani.

Gualberti fece in quattro salti le scale. E seguitava a dire al
domestico che gli veniva dietro col lume: — Ci vedo, ci vedo benissimo.

Era buio pesto, ma l’amore, ch’è cieco, ci vede anche al buio.



L’EREDITÀ DI GIUSEPPINA.


I.

Nel salottino che una lumiera a gaz rischiarava dall’alto e che una
sola stanza divideva dalla camera del malato erano raccolte dieci
o dodici persone, quali sedute, quali in piedi, quali appoggiate al
davanzale d’una finestra aperta per respirare un po’ d’aria libera.
Sulla tavola, in mezzo ad alcuni album di fotografie e strenne e
gingilli, un gran vassoio con parecchi bicchieri d’acqua, un altro
più piccolo con una dozzina di bicchierini da liquori e una bottiglia
smerigliata di _Cognac fine Champagne_; infine una vaschetta piena di
pezzi di ghiaccio e con un cucchiaio di cristallo.

Di tratto in tratto qualcheduno infilava in silenzio l’uscio a
sinistra, stava fuori del salotto un paio di minuti e poi vi rientrava
con aria contrita.

— Nulla di nuovo? — si chiedeva da più parti.

— Nulla.... sempre nel medesimo stato.... Piuttosto inquieto.

Di quelle dieci o dodici persone sei erano li da poche ore, accorse
alla chiamata telegrafica. Erano i parenti più vicini, i probabili
eredi del cavaliere Achille, nessuno dei quali abitava in Venezia.
L’unica sorella superstite, la baronessa Rudeni, stava ordinariamente
a Firenze, ma il dispaccio l’aveva raggiunta a Livorno ov’ella faceva
i bagni di mare, ed ella, in compagnia del marito barone James e della
cagnetta _Darling_, aveva preso il primo treno per l’Alta Italia; i
Minucci, venivano da Torino, i Quaglia da Milano. 1 Minucci, padre e
figlio, erano cognato e nipote del cavaliere; così pure i Quaglia.

Tutti, come si vede, avevano risposto all’appello con meravigliosa
sollecitudine. E in vero il tenore del dispaccio spedito dal cugino
Raimondi per consiglio del medico non ammetteva indugi.

_Nostro Achille colpito apoplessia. Condizione allarmante. Desiderabile
vostra presenza._

Era stato un fulmine a ciel sereno. Chi poteva immaginarsi che il
cavaliere Achille morisse d’apoplessia a quarant’anni?

Tra il cavaliere e i parenti di lui non c’era mai stata una grande
intimità. Passavano dei mesi, passava un anno intiero senza che si
vedessero, perchè egli non andava a cercarli e preferiva di far i
suoi viaggetti all’estero ed essi capitavano di rado a Venezia. Una
volta, dopo alcune perdite fatte alla Borsa dal barone James, la
baronessa moglie aveva scritto al fratello manifestandogli l’idea di
tornare a stabilirsi in patria, presso di lui, che così non sarebbe
rimasto tanto solo. Il cavaliere l’aveva dissuasa dal suo proposito.
Se ne ricordasse; ella diceva sempre che lo scirocco di Venezia le
faceva male. Di lui non si prendesse pensiero; la solitudine non lo
sgomentava. Coi Minucci e coi Quaglia le relazioni erano ancora più
fredde. A ogni modo i nipoti non mancavano di scrivere allo zio una
toccante lettera pel capo d’anno, a cui egli, che aveva mediocri
disposizioni per lo stile epistolare, rispondeva con poche righe che
principiavano invariabilmente così: — _Caro nipote — Gratissimo fummi
tuo foglio_, ecc., ecc.


II.

È facile immaginare che questi amorosi parenti, appena giunti, avevano
tempestato di domande il cugino Raimondi. E anche adesso, ogni momento,
egli doveva ripetere per la centesima volta l’identica storia. — Stava
bene, stava benissimo. Avevamo passeggiato insieme l’altra sera sotto
le Procuratie per mezz’ora. E ieri mattina aveva fatto colazione con
eccellente appetito.

— Voi, però, non c’eravate mica? — chiese Annibale Minucci, il cognato
del cavaliere.

— Io no.... Fu un puro caso che mi trovassi qui vicino quando Battista,
il servitore, correva in traccia del medico.

— E siete venuto subito subito?

— Sfido io.... Quelle povere donne non sapevano dove dare il capo.

— Quali donne? — domandò severamente la baronessa Rudeni agitandosi
sulla poltrona.

— Le due donne di casa, la cuoca e la cameriera.

— E vi ha riconosciuto? — seguitò Minucci.

— Senza dubbio.... Riconosce anche adesso.... La coscienza non l’ha
perduta.... ma non può parlare.... non può muovere che il braccio
destro.

— Ma! — sospirò la baronessa. E a questa esclamazione patetica ne
succedette una iraconda accompagnata dal suono secco d’uno schiaffo: —
Maledette bestie!

_Darling,_ ch’era accovacciata sotto il tavolino, credendo che
qualcheduno avesse percosso la sua padrona, le si avvicinò guaiolando.
Ma la baronessa aveva schiaffeggiato sè medesima per accoppare una
zanzara.

— Cara Eleonora, — disse con accento flebile Ippolito Meroni, un
vecchio galante sulla sessantina, tinto e impomatato, — se vi darete
uno schiaffo a ogni zanzara che vi ronza attorno starete fresca.

Meroni assumeva volontieri un tuono confidenziale con le donne alle
quali aveva _in illo tempore_ fatto la corte. E si diceva che la
baronessa Rudeni fosse stata una delle sue fiamme.

— Ad abitar lontana da Venezia m’ero disavvezzata da questa piaga, —
rispose la baronessa. — Quieta, _Darling_.

— Non c’erano zanzare adesso a Livorno?

— Che!

Ippolito Meroni colse il destro per evocare il ricordo del passato.
E abbassando la voce: — Ve ne rammentate della stagione del 1860
all’Ardenza?

La baronessa aggrottò le ciglia. — Ma che 1860?... Io non c’ero....

— Sarà stato nel 1865.

— Io non fui all’Ardenza prima del 1870, — replicò dispettosamente la
baronessa Eleonora, e alzandosi in piedi lasciò in asso il suo vetusto
adoratore.

Che età avesse la baronessa Rudeni non si poteva sapere con precisione;
certo superava di una decina d’anni il fratello Achille ch’era il
più giovine della famiglia. Non era stata brutta.... nè inesorabile,
— dicevano le male lingue; ma dacchè gli uomini la trascuravano era
divenuta d’una virtù arcigna.

— Ti piace la zia? — susurrò Minucci juniore nell’orecchio del cugino.

— Non vorrei vederla senza busto, — rispose il contino Quaglia.

L’altro si mise a ridere. — Che sconquasso dev’essere!

Ippolito Meroni, piantato dalla baronessa, si accostò al barone il
quale leggeva la _Gazzetta_.

— Quel Battemberg, che ve ne pare?

— Io però o non sarei tornato a Sofia o vi sarei rimasto _coûte que
coûte._

— Eh son cose presto dette.... Ma contro la Russia....

— Chi non risica non rosica.

— Quel dispaccio dello Czar è d’una prepotenza!

— Non me ne parlate, caro Meroni, non me ne parlate. E l’Europa che
tollera! E noi che tolleriamo!... Siamo liberali o non siamo liberali?

Un’occhiata della moglie avvertì il barone che quello non era il luogo
di approfondire un tale argomento.

La baronessa s’era riunita al crocchio numeroso che stava accanto
alla finestra: Annibale Minucci, il conte Ercole Quaglia, l’avvocato
Rizzoli e qualche altro amico di famiglia. Così, in via accademica, si
calcolava a quanto potesse ascendere la fortuna del cavaliere Achille.

— Intanto il padre gli ha lasciato tutta la disponibile, — notò Quaglia.

— Sicuro. Poi ebbe un legato da quello zio che viveva a Londra, —
soggiunse Minucci.

— E le azioni del Canale di Suez che aveva comperate a 350 franchi e
che rivendette a tremila!

Quest’enumerazione fu interrotta dall’arrivo del dottore.


III.

Il dottor Gelsi, un uomo maturo, un po’ curvo, giallo di carnagione,
calvo, miope, salutò a destra, salutò a sinistra, — _buona sera,
buona sera,_ — chiese di volo che novità ci fossero dopo la sua ultima
visita e si diresse verso la camera del cavaliere Achille, preceduto
da Raimondi. La baronessa Eleonora gli tenne dietro, non senza aver
ordinato al marito di custodire la cagnetta _Darling_, perchè bisognava
assolutamente evitare la ripetizione delle scene spiacevoli avvenute
fra lei e _Bibì_, la cagnetta di casa. In fatti, quando _Darling_ aveva
voluto accompagnare la baronessa nella stanza del fratello, _Bibì_,
gelosissima de’ suoi diritti, era uscita digrignando i denti dal suo
nascondiglio sotto il letto del padrone e le si sarebbe slanciata
contro se la pronta intromissione dei presenti non glielo avesse
impedito.

Con la testa immobile sprofondata nei guanciali, con una vescica di
ghiaccio sulla fronte, il cavaliere Achille giaceva pressocchè inerte
sul suo letto conservando un resto di vita soltanto nel braccio
destro che si ostinava a uscir fuori dalle coperte, e negli occhi che
giravano lentamente nell’orbita. Vigilavano assidui al suo capezzale
la cameriera, un infermiere dell’ospedale e una terza persona, una
donna giovine, bella, decorosamente vestita, il cui sguardo ansioso,
sollecito, non si staccava mai un istante dall’ammalato.

Il dottore interrogò l’infermiere, interrogò la cameriera, ed essi, nel
rispondergli, si rivolgevano a quella _terza persona_: — Non è vero,
signora Giuseppina? — Allora Gelsi, non badando agli occhiacci della
baronessa, preferì di far senz’altro le sue domande alla _signora_
Giuseppina. Ed ella gli rispondeva con una voce dolce, una di quelle
voci che si raccomandano, rispondeva chiara, precisa; non una parola
di più, non una parola di meno del necessario. — Capisco, capisco, —
diceva il medico. Poi si chinò sull’infermo: — Signor Achille, come
va, come si sente? — Il cavaliere mosse faticosamente il capo. — Ah,
— ripigliò Gelsi come discorrendo fra sè — si è scosso, ha mostrato
d’intendere. — Oh, — sospirò la Giuseppina — intende benissimo.... Se
potesse esprimersi!

La baronessa Eleonora s’accostò al letto, dalla parte opposta a
quella ove si trovava la Giuseppina. — Achille, Achille?... M’hai
riconosciuto?... Sono Eleonora.... Eleonora.... Vuoi che resti a farti
un po’ di compagnia _io?_ — E quell’_io_ sottolineato tradiva l’intimo
pensiero della baronessa. Ella si offriva di vegliar qualche ora, nella
certezza che insieme con lei l’_altra_ non avrebbe osato rimanere,
o ch’ella in ogni modo avrebbe saputo mandarla via. Ma il malato
ritorcendo il viso dalla sorella, fissò gli occhi sulla Giuseppina che
tremava come una foglia e spinse verso di lei il braccio non colpito
dalla paralisi. La giovine gli afferrò la mano e la strinse nella sua.
Gelsi intervenne. — Signora baronessa, vedremo domani.... Per questa
notte è meglio che in camera non ci sia gente nuova.

— Ma io....

— Ha ragione.... Ho sbagliato a dir gente nuova. Intendo dire gente
che il signor Achille non abbia visto da un pezzo.... Gli altri, se
credono, possono vegliar nella stanza vicina.... alternativamente....
Lei, signora baronessa, farebbe bene a riposare.... Dev’esser stanca
dal viaggio.... Già, in caso di bisogno la chiamano.... E qui, com’è
disposto il servizio per la notte?

Quest’ultima interrogazione fu rivolta alla Linda, la cameriera.

— Alle undici e mezzo, — rispose questa, — Battista e la cuoca verranno
a dare il cambio all’infermiere ed a me.

— Io non mi muovo, — soggiunse semplicemente la Giuseppina.

Dopo alcune altre ordinazioni e istruzioni, il dottore uscì. — Non c’è
peggioramento, — egli disse ai parenti ed amici. — Siamo stazionari....
Ma pur troppo la condizione è sempre grave, gravissima.... Basta,
tornerò domattina alle sei. Buona sera, buona sera.

La baronessa lo accompagnò fuori del salotto. — Converrà meco,
dottore, che la presenza di quella donna è uno scandalo.... Se avessi
potuto immaginarmi una cosa simile le dò la mia parola che non sarei
venuta.... Per ricever quell’accoglienza!... Poichè mio fratello, al
punto a cui è ridotto, trova il modo di farmi capire che lo secco....

— Non creda.... non creda, — interruppe il medico. — Io mi spiego lo
stato d’animo del cavaliere Achille. I malati, anche i più gravi, e
forse per l’indebolimento stesso delle loro facoltà, non si fermano
sull’idea della morte finchè un incidente qualunque non produca sopra
di loro l’effetto d’una rivelazione improvvisa.... Il cavaliere si è
reso conto del pericolo quando ha visto intorno a sè i parenti che non
ha l’abitudine di vedere, quando ha visto lei che non veniva a Venezia
da un pezzo.... E il pensiero d’esser vicini al gran passo turba
perfino gli eroi....

La dotta disquisizione del dottor Gelsi persuase poco la baronessa. —
No, no, — ella disse — gli è che, tra la sua sorella e la sua ganza,
Achille preferisce la ganza.

Gelsi aveva fretta. — Cara baronessa, — egli concluse, — nella vita
conviene armarsi di pazienza.... E coi vecchi, coi bambini, coi malati
non si può ragionare.... Del resto, _quella donna_ è un’infermiera
preziosa.... Vorrei averne molte all’ospitale.


IV.

I Rudeni, i Quaglia, i Minucci erano, bene o male, alloggiati in casa.
Gli altri, alle undici, si congedarono. Ma la baronessa Eleonora pregò
il cugino Raimondi e l’avvocato Rizzoli di trattenersi ancora un poco.
Indi licenziò il marito, al quale non parve vero di ritirarsi in camera
con la _Gazzetta_, e consigliò i nipoti Quaglia e Minucci di andarsene
a letto per alcune ore. Se tutti restavano alzati contemporaneamente
sarebbe poi giunto il momento in cui nessuno avrebbe più avuto la forza
di reggersi in piedi. Per ultimo ella disse ai due cognati: — Voi due
mi usate la cortesia di rimanere. Dobbiamo parlare.

Fu fatto come ella voleva. E allora ella cominciò a sfogarsi con
Raimondi.... Raimondi era stato d’una leggerezza! Egli abitava a
Venezia, egli era in buoni termini con Achille.... Doveva sapere,
doveva avvertire.

Raimondi s’infastidiva. — Sapere che cosa? Avvertire di che cosa?

— Oh bella! Sapere questa tresca.... Avvertirne noi, i parenti.

— Ma scusi, Eleonora. Che ghiribizzi le saltano in testa? Gran che
seppur sapevo che Achille aveva una relazione amorosa!... Un uomo
scapolo, ricco, libero come lui?... O che dovevo mandar una circolare?

— Ah era dunque conveniente di lasciarci, senza preavviso, trovar
occupato da un’estranea il posto che spetterebbe a noi soli, a noi
di famiglia?... Per me, l’ho detto già al dottor Gelsi, se mi fossi
immaginata che v’era una padrona di casa, nonostante tutto l’affetto
che ho per mio fratello, sarei rimasta a Livorno.

— Non esageriamo — interpose il conte Quaglia ch’era un uomo calmo.

— Ma che padrona di casa? — replicò vivamente Raimondi. — Se la
Giuseppina non era mai stata in casa?... È venuta ieri.... e chi poteva
impedirglielo?... Era sicuro che Achille, se fosse stato in condizione
di parlare o di scrivere, l’avrebbe mandata a chiamare.... e non saprei
dargli torto quando vedo le cure che quella ragazza ha per lui.... Da
ieri in poi, nè di giorno nè di notte, non s’è allontanata un minuto da
quel letto.... Io non capisco come faccia.... Non mangia, non dorme....

La baronessa sogghignò. — Credete ai miracoli, voi. Tant’è che crediate
anche al disinteresse della vostra Giuseppina.

— Certo che in caso d’una disgrazia ella perde tutto, — osservò Minucci.

— Che ingenuità! — esclamò la baronessa Eleonora. — Quelle non son
femmine da lasciarsi cogliere alla sprovveduta.... Per esse l’amore
è un mercato.... Tanto si guadagna, tanto si rischia.... E dei rischi
voglion esser coperte.... Veda, avvocato Rizzoli, se l’ho pregato di
rimanere....

In fatti Rizzoli non sapeva ancora perch’egli fosse lì ad assistere a
questa disputa.

— Se l’ho pregato di rimanere, — proseguì la baronessa, — gli è perchè,
oltre ad essere un amico di famiglia, ella è un valente legale e può
consigliarci.

— Benedette donne! — pensò Rizzoli. — Non sanno ancora che i consulti
agli avvocati si vengono a domandare nello studio. — A ogni modo, egli
si limitò a chinare il capo in silenzio.

— Io metterei la mano nel fuoco che qui sotto c’è un grande imbroglio,
— ripigliò in tuono misterioso la baronessa Eleonora. — Quando un uomo
cade nei lacci d’un intrigante, egli non vede che per i suoi occhi,
è pronto a dimenticare per lei fratelli, sorelle, nipoti, e, se ne
avesse, persino i genitori e i figliuoli.... Alle corte, per me non c’è
dubbio che la _signora_ Giuseppina ha carpito ad Achille un testamento
a suo favore....

Quaglia e Minucci, che fino allora non avevano dato segno di
commuoversi molto alle filippiche della cognata, esclamarono in coro: —
Possibile?

Il cugino Raimondi protestò. — Nemmen per sogno.... La Giuseppina è una
buona diavola, incapace di sotterfugi.... E Achille era le mille miglia
lontano dall’idea di poter morire a quarant’anni....

— Voi, Raimondi, siete un uomo antidiluviano, — interruppe la
baronessa. E continuò con aria contrita: — Mi ripugna, lo sa Iddio
se mi ripugna il toccar questo tasto.... e volesse pure il cielo che
mio fratello campasse ancora cent’anni.... io abborro le questioni
d’interesse.... e infine per me.... non ho figliuoli.... e sarete
persuasi che se parlo, parlo piuttosto per voi altri, — questa
dichiarazione era fatta ai due cognati. — .... Ma le ingiustizie mi
offendono, e pur troppo d’ingiustizie nella nostra famiglia ne furono
commesse.... il povero babbo ha favorito Achille in un modo!... Basta,
era l’unico maschio.... Insomma quello che volevo chiedere a lei,
Rizzoli, è questo. Non sarà, ma supposto che la nuova ingiustizia sia
realmente avvenuta, che i parenti più stretti siano stati sacrificati
per una poco di buono.... la legge non provvede, non dà i mezzi di
difendersi?

— Ecco, signora baronessa, — rispose l’avvocato, — il cavaliere
Achille, non lasciando nè ascendenti nè discendenti, nè moglie, era
in piena facoltà di disporre come meglio gli piacesse di tutta la sua
sostanza.

— Di tutto?

— Eh sì; il Codice è chiaro.... Diritti intangibili non ne hanno
appunto che gli ascendenti, i discendenti e il coniuge superstite....
Certo che un testamento di cui si potesse provare che fu carpito con
la frode o con la violenza diverrebbe nullo.... Ma qui entriamo in un
ginepraio; non sono cose delle quali si possa discorrere vagamente, a
_priori_.... Bisogna vedere al caso pratico.... Del resto, — soggiunse
Rizzoli guardando l’orologio ch’era posto sulla mensola e che segnava
le undici e tre quarti, — sono anch’io d’opinione, come Raimondi,
che il cavaliere Achille non abbia preso alcuna disposizione....
Un testamento per atto di notaio, a quanto mi consta, non c’è....
Potrebb’esserci in qualche cassetto un testamento olografo, ma non lo
credo....

Dopo di ciò, l’avvocato chiese licenza. Aveva da discutere una
causa la mattina e voleva esaminare certi documenti. Raimondi uscì
con lui. — Parola d’onore, — egli disse appena giù delle scale, —
a momenti finivo collo schiaffeggiare mia cugina, la baronessa....
Che cinismo!... Suo fratello non è ancora morto ed ella si è già
prese le chiavi dei cassetti.... l’ho vista io a prendersele.... ed è
tutta trepidante per la sua parte d’eredità.... E quegli scrupoli da
santocchia.... lei!... Col suo passato!... E quella stramba pretesa
ch’io la informassi degli amori d’Achille?... O per chi mi prende?...
Son forse il suo salariato?... È vero, ho sempre avuto il torto di
esser troppo servizievole con questi miei signori parenti.... Ma se si
sognano d’abusarne!... Con quel sugo poi.... Anche in questa faccenda
dell’eredità che c’entro io?... Che ci sia o che non ci sia testamento
io non m’aspetto un centesimo.... Dunque perchè mi seccano? Sono
pentito d’aver mandato io i telegrammi che misero in movimento questo
sciame di corvi.

— Eh, caro mio, — notò Rizzoli con un risolino sardonico, — quando
c’è di mezzo l’interesse, gli uomini, su per giù, sono tutti d’uno
stampo.... Tu pure....

— Ti prego....

— Oh vorresti darmi ad intendere, per quanto bene tu voglia a tuo
cugino Achille, che s’egli ti avesse legato centomila lire, non ti
consoleresti più presto della sua perdita?

— Scettico incorreggibile! — borbottò Raimondi.


V.

Erano le cinque del mattino. Le due fiamme della lumiera a gaz del
salotto erano abbassate. Nella stanza fra il salotto e la camera del
malato ardeva una candela. Alle quattro la baronessa Eleonora, il
conte Quaglia e Annibale Minucci erano andati a coricarsi; da un’ora
vegliavano Minucci e Quaglia juniori. Vegliavano così per dire,
giacchè s’erano addormentati tutti e due, il primo sopra una poltrona
del salotto, il secondo sul canapè della stanza attigua. Destatisi
contemporaneamente allo scoccar delle cinque, i due cugini si vennero
incontro sbadigliando, col piglio annoiato di persone che adempiono mal
volentieri a un ufficio antipatico.

— Se la zia Eleonora sapesse che abbiamo dormito, ci metterebbe sotto
consiglio di guerra, — disse il contino Quaglia.

Minucci si strinse nelle spalle. — Per quello che c’è da fare!... La
zia Eleonora è una visionaria.... A badare a lei, qui dovrebbe essere
un continuo scassinare armadi, trafugar carte, e che so io ancora...
Quasi quasi si correrebbe il pericolo di essere assaliti per le stanze.

— Sciocchezze! A proposito, l’hai vista la terribile Giuseppina?

— Come l’hai vista tu. Da lontano, dalla soglia, poichè confesso che
l’entrar nella camera non mi seduce.... Ci fui ieri appena arrivato, e
sarà stata un’idea mia, ma mi parve che lo zio Achille mi facesse certi
occhiacci.

— Neppur io ci vado volentieri nella camera, — soggiunse Quaglia. — Ma
la donna è bella, sai.

— È parso anche a me.... Briccone d’uno zio!... Ma adesso, poveretto,
anche per lui è finita.... Potrebbe, tutt’al più, durar così qualche
mese.

— Non è probabile.... E non è neanche da augurarglielo.

In quel punto, Battista, il servo che aveva vegliato fino allora presso
il padrone, passò pel salotto ove si trovavano i due giovani.

— E come va? — essi gli chiesero.

Battista tentennò la testa. — Male.... Da mezzanotte in poi è stato
d’un’inquietudine!... E non si può capir che cosa voglia.... È una
pena....

Era giorno fatto e Battista aperse le imposte e spense i lumi. Poi
disse officiosamente: — Di qui a cinque minuti porterò loro il caffè.

E uscì dissimulando con fine arte diplomatica la noia che gli dava in
un momento simile la presenza di sei ospiti in casa.

1 due giovani s’affacciarono alla finestra. Non s’erano più visti dopo
il Carnovalone di Milano, che Minucci aveva passato presso i suoi
parenti Quaglia, e adesso, trovandosi insieme così inopinatamente,
evocavano i ricordi di quei giorni di baldoria.

— Ti rammenti dell’ultimo veglione alla Scala?

— E delle cene in _buona compagnia_ al Rebecchino?

— A proposito, con la Vittoria ti trovi spesso?

— Non è più a Milano.... Ha seguito Angioletti che è di guarnigione a
Napoli.

Battista ricomparve col caffè.


VI.

Era vero. Dalla mezzanotte, anzi da prima di mezzanotte, una
strana inquietudine s’era impadronita del cavaliere Achille. Moveva
continuamente le labbra senza poter mettere che suoni inarticolati,
moveva il braccio smaniando, fissava gli occhi sulla Giuseppina con un
certo sguardo supplichevole come a dirle: — Indovinami.

Povera Giuseppina! Che non avrebbe fatto per indovinarlo? Gli
raccomodava i guanciali sotto la testa, gli porgeva da bere, e alle
sue mute richieste rispondeva con altre interrogazioni: — Vuol questo?
Vuol quello? — No, non c’era verso di coglier nel segno. A volte ella
dimenticava i rispetti umani, non si curava della cuoca e di Battista
ch’erano lì davanti, e gli dava del _tu_ e non lo chiamava più _signor
Achille_, ma lo chiamava _Achille_ com’egli voleva esser chiamato da
lei. — Achille, dimmi che cosa vuoi, dillo alla tua Giuseppina.

Nel vederlo ridotto così, le salivano le lacrime agli occhi, ma le
ratteneva, ma si sforzava di sorridergli, di mostrargli una fisonomia
ilare, confidente, piena di speranza.

Era sua da tre anni; però non aveva cominciato ad amarlo davvero che
dopo qualche tempo. Sulle prime aveva ceduto a lui come una ragazza
povera, cresciuta in un ambiente poco scrupoloso, cede a un uomo ricco
che le assicura la pace, l’agiatezza, il modo di giovare alla famiglia.
L’aveva amato più tardi quando s’era accorta che egli non la trattava
con l’aria sprezzante con cui gli uomini trattano le donne di cui fanno
lo strumento dei loro piaceri. L’aveva amato senza sognarsi nemmeno
ch’egli potesse sposarla, godendo del presente come d’un bene superiore
ai suoi meriti, mettendo il suo orgoglio, la sua dignità nel prevenire
ogni desiderio di lui, nel rallegrargli col suo sorriso la vita. E
anch’egli le si era affezionato a grado a grado. In principio era stata
per esso uno svago e nulla più, poi aveva compreso ch’ella era molto
dissimile da tante altre; aveva sentito, egli scapolo impenitente,
che questa donna piena di abnegazione e di tenerezza riempiva un vuoto
nella sua esistenza, che senza imporgli i legami, a suo modo di vedere,
intollerabili del matrimonio, ella lo salvava dalla prosa delle tresche
volgari. Le aveva ammobigliato un quartierino di poche stanze e veniva
a passar qualche ora ogni giorno in quel nido tranquillo ov’ella, pure
uscita dal popolo, spargeva un profumo d’eleganza e di distinzione
nativa.

Misantropo per indole, disgustato de’ suoi parenti, e, quantunque nè
sciocco nè ignorante, privo di ambizioni letterarie, scientifiche,
politiche, il cavaliere Achille non istava volentieri che con la
Giuseppina e con pochi amici. Ma nemmeno coi pochi amici egli usava
discorrere de’ suoi amori, e poichè la Giuseppina aveva un uguale
riserbo, si può dire che questa relazione rimaneva avvolta in un’ombra
discreta.

Quella che la sapeva più lunga sull’argomento era la cagnetta _Bibì_,
ordinaria compagna del padrone nelle sue passeggiate, ma _Bibì_ si
limitava a far le sue confidenze ad altri individui della razza canina.

Comunque sia, in quell’istante supremo una cosa era certa. La persona,
che al cavaliere Achille pesava di più di lasciar sulla terra, era
la Giuseppina; e la Giuseppina era quella che sentiva più acerbo lo
strazio della sua morte.


VII.

— Buon giorno, buon giorno — disse il dottor Gelsi entrando in camera
col suo solito dondolamento di testa. — Si fece far dalla Giuseppina un
rapporto particolareggiato della notte, ordinò che si aprissero meglio
le imposte per aver più luce e poi si accinse a un esame minuzioso
dell’infermo, di cui lo colpì la singolare eccitazione nervosa. — Sarà
un affare serio dopo — egli pensò in cuor suo.

— Ah, se potesse indovinar lei ciò ch’egli vuole! — sospirò la
Giuseppina, affranta da tanti tentativi inutili.

Dopo essercisi provato e riprovato senz’alcun frutto, il dottore
allargò le braccia col gesto di chi si dà per vinto. — Scriverò la
ricetta per un calmante.

E s’avviò verso il tavolino.

Ma la Giuseppina lo trattenne chiamandolo con voce soffocata: —
Dottore, dottore.

— Che c’è?

— Guardi.

Gli occhi del malato s’erano dilatati nell’orbita, il suo braccio si
moveva rapido da destra a sinistra, da sinistra a destra.

Il medico fece un gesto interrogativo.

La Giuseppina soggiunse: — Lo sguardo ha assunto quell’espressione, il
movimento del braccio si è fatto così insistente quand’ella disse che
avrebbe scritto una ricetta.

Gelsi si picchiò la fronte. — Scrivere!... Che sia questo ciò ch’egli
vuole?... Non gli si era domandato?

— No, no.

— Presto allora... Non perdiamoci in chiacchiere.... Pur che sia in
grado di scrivere!... Col lapis forse sarà meno difficile.

Si trovò sul tavolino un quinterno di carta da lettere; il lapis lo
diede il dottore.

Il cavaliere Achille seguiva con impazienza angosciosa questi
preparativi. La fissità della pupilla, la tensione dei muscoli
tradivano in lui lo sforzo della mente e della volontà. Quando il
lapis fu posto tra le sue dita, quando il quinterno di carta fu dalla
Giuseppina collocato in modo ch’egli potesse scriverci, egli vi tracciò
faticosamente alcuni segni, poi lasciò ricader la mano spossata sulle
coperte.

— Dunque? — chiese il dottore allorchè la giovine, obbedendo a un cenno
dell’infermo, ebbe preso il foglio.

Sulle prime quei geroglifici riuscirono incomprensibili alla
Giuseppina, ma, avvicinatasi alla finestra, le linee confuse,
aggrovigliate si riordinarono come per incanto sotto i suoi occhi
e le permisero di leggere due parole. Quali parole fossero ella non
disse; piegò il foglio e lo nascose in seno, si precipitò sul letto
del moribondo, ne afferrò la mano e la coperse di baci e di lacrime.
_Bibì_, sentendola piangere, venne a fregarsele attorno mugolando
sommessamente.

In quel punto s’affacciò sul limitare dell’uscio la baronessa Eleonora
la quale aveva ordinato che la chiamassero al giungere del medico. Era
in vestaglia, molto _impreparata_, in quelle condizioni nelle quali i
nipoti non avrebbero voluto vederla.

Gelsi le si fece incontro e le parlò piano. La Giuseppina s’era
ricomposta, senza però allontanarsi dal letto; un istinto sicuro
l’avvertiva che quello era il solo asilo inviolabile per lei, e che
nonostante la protezione di Raimondi, l’indulgenza del medico, la
simpatia della servitù, se si moveva dal suo posto non avrebbe più
potuto tornarvi.

S’intese la voce della baronessa. — Come? Ha scritto e non è lecito
saper che cosa ha scritto?

— Oh — rispose il medico — per quello che può aver scritto!... Ha fatto
pochi segni confusi.... Del resto diede egli stesso la carta a....
quella giovine....

— _Quella giovine_ ne capì il senso.... Doveva comunicarlo....

— Perdoni.... Secondo i casi.... In ogni modo....

E l’onesto dottore, animato da uno spirito conciliativo, si accostò
alla Giuseppina.

Ma ella, che aveva côlto una parte della conversazione era già sulle
difese.

— Quella carta?... No, dottore.... non la dò a nessuno.... Le giuro
per quanto ho di più caro che non c’è nulla che possa interessar
nessuno.... altri che me....

E cedendo all’affanno che la soverchiava, continuò: — Dio mio, Dio
mio.... Mi lascino stare.... che male faccio?... Per che ragione
credono ch’io sia qui?... Ho delle colpe, ho dei peccati tanti....
ma questi sospetti non li merito.... Oh se quel poveretto potesse
parlare!... Mi difenda lei, dottore, lei ch’è buono....

Gelsi le fece segno di quietarsi, di tacere, e si accinse a calmar
gli spiriti belligeri della baronessa. Vedeva bene che non era lecito
insistere.... non c’era stata frode, non c’era stato artifizio, non
c’era stata violenza.... egli n’era buon testimonio, e il foglio
si trovava in possesso della signora.... di quella giovine, per
manifesto desiderio del cavaliere Achille.... S’era un segreto ch’ella
voleva custodire nessuno aveva il diritto di strapparglielo.... Egli
l’intendeva perfettamente, certe cose urtavano la suscettività della
baronessa;.... ma come si fa?... A questo mondo bisogna tante volte
sacrificarsi per evitar guai maggiori.... e in un momento simile....

La savia perorazione fu troncata da un gesto dell’infermiere.

Le condizioni del malato peggioravano di minuto in minuto. Al grande
eccitamento di prima succedeva una grande prostrazione di forze, e i
polsi declinavano rapidamente. Ciò era stato previsto fino a un certo
punto dal dottore Gelsi; tuttavia egli supponeva la reazione meno
subitanea, meno precipitosa. Così pure non illudendosi sull’esito
finale, egli non aveva creduto a una catastrofe imminente. Adesso
invece si presentavano sintomi tali da giustificare i più gravi
pronostici, e il medico, dopo aver fatto tutto ciò che la sua arte gli
suggeriva, stimò suo dovere di metter sull’avviso la baronessa Eleonora
e gli altri parenti ch’erano alzati.

La Giuseppina non aveva bisogno d’essere avvertita da alcuno. Ella
vedeva, ella sentiva spegnersi a oncia a oncia quella cara vita per la
quale avrebbe dato con entusiasmo la vita propria.


VIII.

E di nuovo quella sera, come la sera addietro, l’intera famiglia era
raccolta in salotto. D’estranei non c’era nessuno; oltre ai Rudeni, ai
Quaglia, ai Minucci non c’era che il cugino Raimondi. Il dottor Gelsi,
dopo una visita fatta alle sette, aveva promesso di tornare fra le
dieci e le undici quantunque, pur troppo, l’opera sua fosse inutile; il
cavaliere Achille non avrebbe passata la notte.

Un attacco di nervi avuto nella mattina aveva prostrato le forze della
baronessa Eleonora. Ella aveva rinunziato alla lotta, e distesa su una
poltrona e con una boccetta di sali sotto il naso, si contentava di
gemere sul proprio destino e di querelarsi dell’immoralità di certe
relazioni che turbano persino la santità dei lari domestici. Nondimeno,
anche nella sua anima frivola ed egoista, vibrava di tratto in tratto
qualche nota sincera di dolore. Pensava alla sua vecchia casa di cui
fra poche ore non sarebbe sopravvissuta che lei. Morti i genitori,
morte le sorelle, moribondo questo fratello nel pieno vigore degli
anni. E lui, se lo ricordava fanciullo, biondo, ricciuto, accarezzato
da tutti, alquanto selvatico forse ma ragionevole e buono. Perchè
s’erano amati così tepidamente, perchè negli ultimi tempi s’eran visti
così poco? Di chi era la colpa? Eppure, ella non poteva negarlo, in
due o tre occasioni quando s’era ricorso a lui per uscir dagl’impicci
nei quali il maledetto vizio del giuoco di Borsa aveva messo il barone
James, egli aveva aperto il suo scrigno senza farsi troppo pregare.
È vero che, dando il danaro, protestava di non voler immischiarsi
in nient’altro. Non voleva ricever confidenze, non voleva che gli
domandassero consigli, schivava gl’incontri e non incoraggiava le
visite.... Ma già teneva l’identico sistema con tutti i parenti....
Possibile a ogni modo che avesse lasciato un testamento per spogliare
la sorella, i nipoti, il suo sangue insomma?

Mentre la baronessa Eleonora piagnucolava sommessamente, gli uomini
tacevano. _Darling_ movendosi sotto la tavola faceva ogni tanto
tintinnare i sonaglini del suo collare d’ottone.

L’incidente della mattina era stato, durante la giornata, esaminato
sotto tutti gli aspetti. Non c’era più nulla da dire e non c’era
nessuna disposizione da prendere. Quali pur fossero le due o tre
parole scritte dal cavaliere e da lui consegnate a Giuseppina, era
chiaro ch’esse non potevano avere un valore legale. Potevano contenere
un’indicazione, un nome; chi sa? S’era cosa importante la Giuseppina
avrebbe cercato di servirsene, e allora si sarebbe visto quel che si
doveva fare.

Fin dalle prime ore del pomeriggio il malato aveva perduto ogni
conoscenza. Non apriva gli occhi che a lunghi intervalli, e quegli
occhi erano vitrei, immobili; solo la Giuseppina s’illudeva ch’egli
la ravvisasse ancora. Ormai anche il braccio destro giaceva inerte,
la mano umida d’un freddo sudore non rispondeva più alle strette della
gentile mano di donna che tentava scaldarla.

Dinanzi a quel corpo che s’irrigidiva a poco a poco nella sinistra
fissità della morte la Giuseppina sembrava una statua. Non vedeva
che lui, non sentiva che lui. S’accorgeva appena delle persone che
entravano ed uscivano dalla stanza; le era apparsa come in un sogno
una nera tonaca di prete, come in un sogno l’era giunto all’orecchio
un mormorìo di preghiere ch’ella, macchinalmente, aveva accompagnato
con parole salite al labbro dal fondo della memoria. Poi l’apparizione
era svanita; era venuto di nuovo il medico per andarsene via senza
ordinar nulla. Adesso (da quanto tempo? la Giuseppina non lo sapeva) il
silenzio della camera non era rotto che da un rantolo affannoso.... Ah,
finchè quel rantolo durava, il posto della Giuseppina era lì, sempre
lì.

Al tocco dopo mezzanotte il rantolo cessò. La testa del moribondo si
scosse per ricader sul guanciale.

— È finito, — disse l’infermiere.

Finito?... Ma allora?... Allora era finito anche per lei.... Ella non
poteva più rimanere.

Raccolse le sue forze, represse i suoi gemiti, si alzò in piedi, baciò
la fronte del morto, baciò gli occhi, baciò la bocca, ahi tante volte
baciata, e prima che altri la cacciasse dalla camera e dalla casa, si
dileguò inavvertita per l’uscio dello spogliatoio da cui era entrata
circa quarantott’ore innanzi, appena saputa la malattia improvvisa del
cavaliere Achille.


IX.

Due giorni dopo, i Quaglia, i Minucci e il barone James Rudeni,
pacatamente e decorosamente afflitti, accompagnarono fino al cimitero
la salma del loro amato congiunto, nè occorreva essere profondi
psicologhi per legger loro in viso sotto il lutto ufficiale dei parenti
la soddisfazione intima degli eredi. Il cugino Raimondi, l’ottimo
cugino Raimondi, s’era apposto al vero. Il cavaliere Achille non aveva
lasciato testamento; nei suoi cassetti frugati con la massima diligenza
non s’era trovata neanche una riga che accennasse a disposizioni
prese pel caso di morte. D’altra parte nessuno s’era fatto innanzi
a vantar diritti, e per conseguenza la sostanza del defunto stimata
quasi un milione andava divisa in tre parti tra la baronessa Rudeni,
come sorella, e i due giovani Minucci e Quaglia, come figli di sorelle
premorte. Era proprio il meglio che potesse succedere. Perchè dato un
testamento, anche a favore della sorella e dei nipoti, ci sarebbero
state certo delle prelevazioni da fare per legati, per beneficenze,
ecc. Così invece non c’era nulla di obbligatorio e dell’elargizioni
che si fossero fatte avrebbero avuto lode soltanto gli eredi. Ed eran
preparati a farne in congrua misura e la sera stessa sarebbe comparsa
ne’ fogli cittadini una bella lista d’offerte. Ma sicuro, bisognava
onorar la memoria del caro estinto, bisognava mostrarsi generosi
coi poveri. La maggior compiacenza che dà la ricchezza è quella di
giovare ai diseredati dalla fortuna. Quei signori erano pieni di nobili
sentimenti. Il barone James, prendendo il braccio dell’ottimo cugino
Raimondi, gli aveva detto, in nome proprio e dell’Eleonora rimasta
a casa indisposta, che si sarebbe domandato consiglio a lui su quel
che si doveva fare per la servitù. Gente così affezionata al padrone!
Gente che lo aveva assistito in quel modo! Non c’è dubbio che il
povero Achille, se avesse avuto tempo da far testamento, se ne sarebbe
ricordato. Ma! Come si muore! Oggi si è sani come pesci, domani....
_patatrac_.

E i giovani Minucci e Quaglia avevano anch’essi tirato in disparte
il cugino Raimondi per sentire da lui in quali condizioni restava
quella ragazza.... quella Giuseppina.... In quanto a loro.... seppur
la zia non voleva saperne.... non sarebbero stati alieni.... per una
volta tanto.... dal fare un sacrificio di qualche migliaio di lire....
s’intende che ciò non doveva costituire un precedente.... la ragazza
non aveva diritti da accampare, s’intende.... era così per un impulso
spontaneo.... In somma Raimondi aveva capito le loro idee; si regolasse
da quell’uomo cauto e savio ch’egli era.

Raimondi aveva lasciato dire per creanza, ma poi aveva dichiarato che
la Giuseppina sarebbe morta di fame prima d’accettare un centesimo,
che la proposta l’avrebbe offesa, ch’egli non avrebbe certo osato di
fargliela.

E i due cugini s’erano guardati dall’insistere, contentandosi di
esternare la loro ammirazione pel disinteresse che si riscontra
talvolta dove meno si supporrebbe. A ogni modo si sarebbe potuto
discorrerne di nuovo dopo la cerimonia.

All’ultimo momento l’avvocato Rizzoli pronunziò brevi ed acconcie
parole in nome dei congiunti troppo turbati da compiere essi
quest’ufficio pietoso; un altro signore aggiunse un saluto per parte
degli amici, e la bara fu calata nella fossa. Allora, sul triste
margine, risuonò un ululato di cane. Era _Bibì_. O come mai era
capitata in cimitero? In che barca s’era nascosta? L’allontanarono
a forza, volevano prenderla, ma essa sguisciò via fra le tombe. Sul
tumulo si deposero parecchie corone, fra cui tre splendidissime delle
famiglie Quaglia, Minucci e Rudeni. Poi altre strette di mano, altri
sospiri e condoglianze e ringraziamenti, e il corteggio si sciolse.

— Caro Raimondi, — disse il barone James, quando fu presso alla riva
del cimitero, — se avete moneta spicciola date un soldo a quel povero
vecchio che tiene la gondola..... Io non ho più rame in tasca.

                             . . . . . . .

La Giuseppina era venuta prima di tutti e aveva aspettato
pazientemente in un’altra parte dell’ampio recinto. Se si fosse unita
all’accompagnamento funebre l’avrebbero frustata come _Bibì_; ma già
ella stessa non voleva unirsi a nessuno, voleva esser sola a pregare
ed a piangere. S’inginocchiò sulla terra appena smossa, tolse di sotto
alla mantiglia una semplice ghirlanda di semprevivi e la collocò fra
quelle ghirlande sfarzose dai lunghi nastri di seta nera con ricami
d’argento.... E pianse, e pianse, e pianse. E pregò pace a lui ch’era
stato così buono, a lui che poche ore innanzi di morire aveva con la
mano tremante scritto quelle due parole adorabili: _Giuseppina mia_.
Perchè il misterioso foglio che aveva tanto sgomentato i parenti non
conteneva di più.

Ed era questa l’eredità di Giuseppina.

Non l’unica però.

Ella credeva di esser sola e non era. Accanto a lei _Bibì_ raspava la
terra e guaiva. — O _Bibì_, povera _Bibì_! — esclamò la Giuseppina. —
Tu gli volevi bene.

Se la prese in grembo e la portò via seco.



IL NATALE DI NINETTA.


I.

Era la vigilia di Natale più fredda che si ricordasse da gran tempo
in Venezia. Da tre o quattr’ore nevicava senza tregua, una neve fitta,
sottile, che messa in giro vorticoso da un vento gelato batteva con un
suono metallico sui muri delle case e sui vetri delle finestre.

Grave, impettito, solenne, col capo coperto da un berretto gallonato,
le mani strette in un paio di guanti di pelle di dante, e la maestosa
persona chiusa in un lungo soprabito dai bottoni d’argento, il signor
Barnaba, il guardaportone della nobile famiglia Costi, passeggiava
su e giù per l’ampia entratura del palazzo, illuminata da un gran
fanale a gaz che pendeva dall’alto. Di tratto in tratto si suonava
alla porta della riva. Allora un gondoliere andava ad aprire, ed il
signor Barnaba, senza perder nulla della sua gravità diplomatica,
moveva incontro ai nuovi arrivati, faceva loro un inchino silenzioso,
e li accompagnava fino allo scalone di cui s’affrettava a richiudere
l’uscio a vetri appena essi avessero posto il piede sul primo gradino.
Qualcheduno veniva anche dalla parte di terra, ma erano persone di
minor conto, almeno agli occhi del signor Barnaba, uomo incapace,
sebbene spesso radicale in politica, di accordar la sua stima a della
gente la quale non aveva gondola propria o non prendeva una gondola
a nolo con una serata simile. E la faccia diplomatica dell’eminente
funzionario si atteggiava a un sorrisetto ironico mentr’egli aiutava
quei disgraziati a scuotersi di dosso la neve e riceveva l’ombrello
dalle loro mani intirizzite.

— Che tempo, caro Barnaba, che tempo d’inferno! — esclamavano i poveri
diavoli fatti espansivi dalla consolazione di trovarsi finalmente al
coperto e dalla dolce prospettiva del pranzo che li aspettava.

— Brutte feste di Natale, — soggiungeva il signor Barnaba con la sua
voce di basso profondo. — Peccato!

— E l’ombrello non serve a nulla.

— Già, col vento.

— In gondola dev’esser peggio ancora.

Nonostante quest’asserzione di quelli che venivano a piedi, la maggior
parte degli invitati venivano in gondola. Del resto, non erano mica
molte persone, una ventina al più. Si capisce che per la vigilia di
Natale non si potevano invitare a pranzo che i parenti e quelli tra gli
amici intimi che non avevano famiglia.

Dallo spiraglio dell’uscio della portineria una fanciulla di undici
o dodici anni, magra, pallida, freddolosa, assisteva non vista al
passar della gente, guardava con ammirazione quelle belle signore
incappucciate (almeno ella se le figurava belle), quei signori avvolti
nelle morbide pelliccie, quei bimbi e quelle bimbe (oh quelle bimbe
sopratutto) così ben coperte, così ben vestite, con quei mantellini
dalle tinte gaie come doveva esser la loro vita, come doveva esser la
loro anima. E quand’esse erano scomparse a’ suoi occhi ella le seguiva
con la fantasia; le seguiva su per lo scalone, nelle sale tiepide,
dinanzi alla tavola scintillante di lumi, di cristalli, d’argenteria,
dinanzi all’albero di Natale carico di tanti regali preparati apposta
per loro.... O perchè ci dovevano esser dei bimbi così felici e degli
altri invece che stentavano il pane e non avevano da aspettarsi che i
rimbrotti e le busse?


II.

Dopo le sette non venne più nessuno e il signor Barnaba poteva
ripromettersi qualche ora di quiete e riposare alquanto dalle sue
gravi fatiche. Rientrato in portineria, egli non era più l’uomo
dalla faccia decorosamente ossequiosa che i padroni e i visitatori
erano avvezzi a vedere; come per incanto la sua fronte s’aggrinziva,
le sue sopracciglia si corrugavano, le sue labbra prendevano
un’espressione amara e disgustata, e la sua voce di basso profondo
acquistava delle note stridule ed aspre. Gli è che il signor Barnaba,
intimamente convinto che la società non rendesse giustizia ai suoi
meriti, accumulava nella giornata una buona dose di fiele, ch’egli
poi distribuiva in equa misura tra quelli che avevano la fortuna
di avvicinarlo nell’intimità. Non che fosse proprio cattivo il
signor Barnaba, ma era un povero cervello in cui le più matte idee
cozzavano insieme. A volte pareva più aristocratico d’un Montmorency,
a volte, specie dopo la lettura dei giornali, diventava giacobino e
comunardo. In tutt’e due queste fasi, sua moglie, la mite e timida
siora Marianna, aveva le sue grandi tribolazioni. Perchè quando suo
marito faceva il demagogo ella temeva che le pazze sfuriate di lui
arrivassero all’orecchio dei padroni; quando invece egli s’atteggiava
a conservatore, a persona rispettosa delle regole gerarchiche, ell’era
sicura ch’egli avrebbe finito col trovar l’equilibrio del suo spirito
applicando una sua massima favorita: — La subordinazione è giusta, ma
bisogna rifarsi sui più deboli delle umiliazioni che ci tocca subir dai
più forti.

E il signor Barnaba si _rifaceva_ particolarmente sulla moglie e
sulla Ninetta, ch’era quella bimba di cui abbiamo parlato prima.
La Ninetta non era nè figlia nè parente del signor Barnaba e della
_siora_ Marianna: era una povera orfana, la quale veniva di mattina
e di sera a prestar dei piccoli servigi in portineria, ricevendone in
compenso la colazione e il desinare ch’ella portava nel suo tugurio e
divideva con uno zio, abile operaio, ma giuocatore e beone, il quale
l’avrebbe cacciata di casa s’ella gli si fosse presentata davanti
con le mani vuote. Non era una vita allegra quella della Ninetta,
palleggiata fra la brutalità dello zio e la pedanteria meticolosa e
loquace del signor Barnaba, ma ell’aveva indole buona e tranquilla e
sopportava la sua sorte disgraziata con infinita pazienza. Del resto,
i suoi umili uffici al palazzo Costi, oltre ai vantaggi economici le
procuravano anche qualche momento di svago. Già le tre camerette della
portineria, sebben piccole e scure, erano una reggia al paragone di
quella specie di magazzino umido ov’ella passava la notte. E poi c’era
la distrazione della gente che veniva a far visita, dei barcaiuoli
che apparecchiavano o sparecchiavano la gondola, dei padroni e delle
padroncine che uscivano di casa o rientravano lasciando dietro di sè
quel profumo acuto _che hanno i signori_, come la Ninetta soleva dire;
senza tener conto delle volte in cui per risparmiar la fatica al signor
Barnaba la bimba saliva lei stessa le scale e portava nel piano nobile
un’imbasciata, un pacco, una lettera. Allora, se le riusciva di dare
una capatina nelle stanze, ella ridiscendeva rossa rossa in viso con
l’impressione di esser stata in un soggiorno di fate.


III.

Quella sera il signor Barnaba era più bisbetico del consueto. Egli non
sapeva capacitarsi che la vigilia di Natale un uomo suo pari, anzichè
goder la sua piena libertà e banchettare gli amici, fosse costretto
a misurar per lungo e per largo l’androne di un palazzo e ad aprir
la porta a una ventina di parassiti d’ogni età e sesso. Il mondo era
proprio fatto male, e ci voleva una rivoluzione per rinnovarlo _ab imis
fundamentis_. — Per fortuna il 1889 non è lontano e quello sarà un gran
centenario.

La _siora_ Marianna sbarrò tanto d’occhi, e il signor Barnaba soggiunse
con disprezzo: — Ecco ciò che vuol dire non avere istruzione, non aver
letto nulla.... E doveva toccare a me un’oca simile!.... Il 1889 è
il centenario del 1789.... l’anno della grande Rivoluzione francese,
quando s’è tagliata la testa ai re, ai nobili, ai preti....

— Zitto! — gridò la _siora_ Marianna spaventata.

— Ma che zitto! — replicò il consorte. — Qui nessuno mi sente.... E se
anche mi sentissero e volessero far i gradassi... sono un uomo capace
di anticipar di qualche anno il centenario, io.... E il primo che
deve pagarmela è il signor Schmaus, il mastro di casa.... quel tedesco
petulante che cerca il pelo nell’uovo.

A questo punto, nello spirito del signor Barnaba accadde un’improvvisa
reazione in senso conservativo, ed egli trovò che, quantunque
ingiustamente, il signor Schmaus era suo superiore in ordine
gerarchico e non aveva tutti i torti di voler rifarsi sopra di lui
delle risciacquate di capo prese dai padroni. Ma, come il solito,
l’indulgenza verso i superiori rese il signor Barnaba più aspro
cogl’inferiori. Se il signor Schmaus si rifaceva sopra di lui, il
signor Barnaba aveva ben il diritto di rifarsi su qualchedun altro....
— È come nelle fabbriche, — egli diceva fra sè con bella similitudine.
— Le pietre che stanno in alto pesano sulle pietre che stanno abbasso.
— In omaggio al quale principio, egli strapazzò la moglie, strapazzò la
Ninetta, e finalmente, guardando di punto in bianco l’orologio, ordinò
alla fanciulla di fare un salto al _chiosco_ più vicino per prendergli
il _Secolo_ che doveva essere arrivato.

La pietosa _siora_ Marianna arrischiò un ma....

— Che c’è? — ruggì il signor Barnaba.

— Niente.... niente.... Però la Ninetta ha da andar presto a casa
sua.... e con questa neve... farle fare una strada di più....

Il marito diede un pugno sulla tavola. — Ah vorrei vedere anche
questa!... Per un po’ di neve.... Come se fossero sassi.... Via,
signora _delicatina_.... si metta il suo scialle e non perda tempo....
_Marsch!_

La _siora_ Marianna non fiatava più, ma guardava la Ninetta in un certo
modo come a dire: — Abbi pazienza. È una bestia e non intende ragione.

E la Ninetta ubbidì in silenzio. Staccò da un chiodo lo scialletto
di lana che le copriva appena le spalle, guardò con un sospiro le sue
scarpe rattacconate, si fece dare un soldo dal signor Barnaba, aperse a
fatica il portone e uscì in istrada. Nevicava sempre, nevicava fitto,
e il vento s’ingolfava nella _calle_ con un urlo lungo, sinistro,
somigliante a un gemito umano. Mal difesa dalla sua vesticciuola
leggera, la povera fanciulla sentiva il freddo penetrarle nell’ossa, e
studiava il passo segnando una piccola orma sul candido lenzuolo steso
per terra.

La distanza dal palazzo Costi al primo _chiosco_ di giornali non era
mica grande, ma quella sera, con quel tempo, con quelle vie solitarie,
pareva alla Ninetta di dover percorrere un deserto immenso. Lungo
tutta la via ella incontrò appena un paio di persone, imbacuccate nei
loro cappotti, bianche e mute come fantasmi; solo attraversando un
_Campielo_ chiamato _Campielo dei morti_ (ce n’è più d’uno di questi
_Campieli_ in Venezia e il loro nome deriva dall’esservi stati secoli
addietro in quei luoghi dei piccoli cimiteri) la ferì il miagolio
lamentevole d’un gattino perduto in mezzo alla neve. Quando poi credeva
di esser giunta alla meta, le toccò un’amara delusione. Il _chiosco_
era chiuso, forse a cagione del tempo, forse a cagione della festa. Che
partito prendere? Tornarsene indietro a mani vuote, o andare in cerca
d’un altro _chiosco_ a rischio di trovar chiuso anche quello? Però in
quel punto ella sentì gridare in fondo alla strada: _il Secolo, appena
arrivato il Secolo._ — _Secolo_, — ella gridò ripetutamente, correndo
dietro al rivenditore. Ma questi non la intese o non le badò, nè a lei
riuscì di raggiungerlo, finchè un passante impietosito che aveva la
fortuna di possedere un vocione non ebbe tuonato due volte: — Ehi, del
_Secolo_, siete sordo? — Il rivenditore si fermò con malagrazia, prese
il soldo dalla mano della Ninetta, tirò fuori di sotto il soprabito
un numero del giornale, e dopo averlo dato alla fanciulla si allontanò
rapidamente ripetendo come un pappagallo: _Appena arrivato il Secolo.
Con molte notizie il Secolo._

La Ninetta rifece il cammino di prima senza trovar anima viva, senza
udire una voce umana che rompesse il silenzio; bensì nel _Campielo
dei morti_ suonava ancora, ma più rauco, più flebile, il miagolìo del
povero gattino smarrito, e una forma nera si dibatteva nella neve.


IV.

La _siora_ Marianna aveva preparata una bella scodella di roba da
mangiare per la Ninetta, l’aveva coperta con un piatto, ravvolta in un
tovagliuolo e riposta entro un paniere, quando la bimba ricomparve in
portineria col giornale.

— In che stato sei! — esclamò impietosita la donna.

— Gran che! — borbottò il signor Barnaba che si dondolava sopra un
seggiolone di paglia presso il camino. — Per quattro fiocchi di neve!
La bella educazione che mia moglie avrebbe dato ai suoi figliuoli se
ne avesse avuti!... Gira di più la chiavetta del gaz, che non ci vedo
a leggere, — soggiunse il maestoso guardaportone aprendo il _Secolo_.
— Una fiamma sola! E piccola per giunta.... Questi padroni sono d’una
taccagneria....

Mentre il signor Barnaba succhiava avidamente il miele del foglio
lombardo, la _siora_ Marianna parlava a bassa voce con la Ninetta.

— Mi fa pena che tu torni ad uscire con questo tempo.

— Non c’è rimedio....

— Se si potesse farti qui un letticciuolo provvisorio... per una
notte.... Io credo che quell’orso, — e accennava a suo marito, — non ci
troverebbe a ridire.... E neanche tuo zio....

— No, no, — rispose la bimba atterrita alla sola idea di poter cedere
alla tentazione. — Se mio zio non mi trova a casa quando torna lui, sto
fresca.

La _siora_ Marianna tentennò la testa. — Che peste questi uomini!

— Vado, — ripigliò la Ninetta, infilando il paniere nel braccio.

— Bevi almeno un sorso di vino, — insistè l’altra. — E gliene mescette
un mezzo bicchiere.

Finalmente, togliendo dalle spalle della fanciulla lo scialletto tutto
bagnato gliene prestò uno di suo, un po’ più grande e pesante. — Me lo
riporterai domani.

— Auff! La terminerete con queste smorfie? — saltò su impazientito il
signor Barnaba.

— Buona notte, buona notte, — disse la Ninetta. Ed uscì.

Uno dei barcaiuoli ch’era nell’entratura le aperse il portone di strada.

— E vai fino a Rialto?

— Sì.

— Bada che il vento non ti porti via.

No, il vento non la portava via, ma una tristezza invincibile le si
addensava sull’anima mentr’ella per la terza volta s’inoltrava sulla
via deserta. E di nuovo il suo pensiero correva involontariamente
a quei bimbi eleganti e felici ch’ell’aveva visti entrare in
palazzo e che adesso senza dubbio ridevano e saltavano davanti
all’albero di Natale. Non era invidiosa per sua natura; era buona,
tollerante, contenta di poco; i cattivi esempi non l’avevano ancora
guastata.... Anzi la brutalità dello zio, brutalità cagionata
specialmente dall’abuso dei liquori, le aveva inspirato il ribrezzo
dell’intemperanza, la passione della vita sobria e massaia; e d’altra
parte il freddo egoismo del signor Barnaba ripugnava profondamente
al suo cuore disposto alla simpatia. Quella sera però ella domandava
a sè stessa se suo zio non avesse ragione di annegare i suoi affanni
nell’acquavite, e se non avesse ragione il signor Barnaba di mettere
in pratica a casa propria quella massima, da lui ripetuta dieci volte
al giorno, che bisogna rifarsi su qualcheduno. Rifarsi?.... Ma ella,
per esempio, su chi avrebbe potuto rifarsi? Chi c’era al mondo di più
debole, di più derelitta di lei?

Mentr’ella faceva tra sè queste considerazioni, gli orologi
cominciarono a batter le nove. Per solito a quell’ora ell’era già a
casa, prima che suo zio fosse tornato dalla bettola; accendeva il lume,
gettava un po’ di stipa nel focolare, e dopo aver preso un boccone per
sè lasciava pel suo caro parente il buono e il meglio delle provvigioni
portate seco dal palazzo. Una volta ella doveva anche aspettarlo alzata
e l’aspettava realmente, cascante dal sonno o addormentata sulla sedia;
poi l’era stata data licenza di coricarsi alle nove e mezzo, e ne
approfittava con entusiasmo, evitando in tal modo di sentire, poichè
chiudeva gli occhi appena messa la testa sul capezzale, le divagazioni
stupide e le frasi sboccate dell’ubbriaco il quale finiva spesso col
gettarsi attraverso la tavola e pigliar sonno così.

Comunque sia, quella sera la Ninetta era in ritardo e le conveniva
affrettarsi.

Camminava con la testa bassa, rasente il muro, stringendosi addosso
quanto più poteva lo scialle, raccomandandosi l’anima nel far
gli scalini dei ponti, lasciando sfuggir un piccolo grido a ogni
sdrucciolone che dava, a ogni folata di vento che la investiva, a ogni
falda di neve che accumulata sulle grondaie, sulle cornici, sugli
sporti delle finestre, precipitava giù nella strada. Così arrivò
a quel _Campielo dei morti_ che aveva già passato due volte e che
doveva ripassar nuovamente per recarsi a casa sua, e non potè a meno
di volger l’occhio verso la parte da cui pochi minuti innanzi, veniva
il lamento dell’infelice bestiuola implorante aiuto. Adesso non si
udiva più nulla, ma lì accanto al muro, dove la Ninetta aveva visto
agitarsi una forma nera, ella notò qualche cosa che si staccava ancora
sul fondo candidissimo, e bench’ella non avesse tempo da perdere, una
forza irresistibile la spinse verso quella cosa immobile, che (fors’era
un’allucinazione della sua fantasia) la guardava con occhi fissi
e vitrei. Non s’era ingannata.... Era il gattino di prima; freddo,
irrigidito, morto.... Morto davvero?.... Per un momento lo credette
tale; poi, chinandosi sopra di lui e toccandolo con mano paurosa, le
parve che nello pupille dilatate balenasse un raggio di vita. E nelle
sue fibre di fanciulla sorse un impeto di pietà e di tenerezza; e in
petto le si svegliò subitaneo e imperioso quell’istinto gentile che
fa della donna la protettrice naturale dei deboli e degli afflitti.
Raccolse da terra l’animale agonizzante, lo avviluppò nelle pieghe
del suo scialle e ripigliò il suo cammino. Non sentiva più il freddo,
non s’accorgeva del vento che le scompigliava i capelli; angustiata
soltanto dall’idea che il suo soccorso fosse giunto troppo tardi. Ah,
non se lo sarebbe perdonato mai.


V.

Arrivò a casa trafelata, col cuore che le batteva tumultuosamente; ma
quando, aperta la porta di strada, vide tutto buio e capì che suo zio
non c’era, fu sollevata da un grande incubo. Se c’era lui e s’ella si
presentava al suo cospetto con quella strana compagnia, figuriamoci,
egli era uomo capace di far fare alla bestia, morta o viva, un gran
salto per la finestra. Volesse pure il cielo ch’egli rimanesse fuori
per un pezzo! Ella trovò a tastoni i fiammiferi, accese un moccolo di
sego, e depose delicatamente sulla tavola il suo prezioso fardello,
incerta ancora se il calore ch’ella sentiva rinascere in quel corpicino
fosse altro che il calore proprio, ch’ella gli aveva trasfuso tenendolo
stretto alla sua persona. Ma il dubbio non durò molto. Lisciato,
accarezzato, stropicciato in tutti i sensi, l’animale non tardò a dar
segni manifesti di vita. Mosse la coda, stirò a una a una le zampe,
aperse languidamente gli occhi, mise un lieve miagolìo; la risurrezione
era compiuta. Oh che felicità fu quella per la Ninetta! E la parola
_felicità_ non ci meravigli. Quando mai le nostre gioie e i nostri
dolori sono proporzionati alle cause da cui derivano? La fanciulla
era in estasi davanti alla leggiadra bestiuola ch’ella aveva salvata.
Era un gattino di cinque o sei mesi, dalle forme snelle, dal pelo
nerissimo, fino, lucido, vellutato; senza dubbio, appena si fosse
rimesso in forze, avrebbe avuto tutte le grazie che i gattini giovani
sogliono avere. Intanto si fregava intorno alla sua benefattrice
e pareva mansueto e riconoscente. — Caro, caro, caro! — esclamava
la Ninetta nel suo entusiasmo, baciandolo come un bambino. Lo fece
partecipare alla sua piccola cena; poi, spogliatasi in furia, lo portò
seco nel suo letticciuolo. Poverino! Aveva patito tanto freddo; era ben
giusto che si riscaldasse.

Di fuori continuava a soffiare il vento e a cader la neve, e nella
stanzuccia mal riparata giungevano i rumori sinistri della bufera;
tuttavia la Ninetta non istette molto ad addormentarsi. E sognò. Sognò
le belle bambine covate teneramente dagli occhi amorosi delle mamme e
dei babbi, le belle bambine che aveva viste lievi e agili come farfalle
ascendere lo scalone del palazzo; sognò d’essere una di loro e di
trovarsi con loro dinanzi all’albero di Natale, abbarbagliata dallo
scintillìo delle candele, dalla mostra dei balocchi che pendevano
dai rami come frutti maturi. Quand’ecco un gemito lungo e pietoso
salir dalla strada ove il tempo seguitava ad imperversare. Ed ella si
staccava dall’ilare schiera delle sue compagne, lasciava il salotto
tiepido e profumato, e correva attraverso una fila interminabile di
stanze giù per un labirinto di scale senza poter mai metter capo a
un’uscita.... Alla fine, si destò di soprassalto. Era nel suo letto,
rannicchiata sotto le coperte; il gattino, rivolto a spira, faceva
le fusa accanto a lei. La visione era svanita: solo una cosa restava
vera; ell’aveva salvato un essere che soffriva, e questo pensiero le
dava un’infinita dolcezza. — Bisogna rifarsi sui più deboli delle
umiliazioni che ci tocca subir dai più forti, — soleva ripetere il
signor Barnaba. Ecco, s’era _rifatta_ anche lei, ma a suo modo, un
modo tanto diverso, e tanto migliore di quello che il signor Barnaba
suggeriva.

Era la mezzanotte. Lo zio era tornato a casa e lo si sentiva russare in
cucina. Dalle cento chiese della città l’allegro scampanìo del Natale
portava una soave promessa a tutti i derelitti del mondo.



LA NIPOTE DEL COLONNELLO.


I.

Battista, già ordinanza e adesso cameriere del colonnello Annibale
Bedeschi, accese il lume, chiuse le imposte, tirò le tende, e poi,
mettendosi in posizione militare dinanzi al padrone, gli domandò se
doveva aggiungere dell’altra legna nella stufa.

— No, — rispose il colonnello, — non fa freddo. Andate pure.

Ma prima che l’altro richiudesse l’uscio dietro a sè gli fece una
interrogazione. — La signorina?

Battista tentennò il capo con aria grave. — Oh, signor colonnello, la
signorina è in gran faccende per quel dolce.... sa, quel dolce di cui
trovò la ricetta nel libro.... Anzi ho paura che oggi il desinare non
sarà pronto per l’ora solita.

— In causa del dolce?

— Appunto, signor colonnello.

— Che razza d’idea è saltata in mente alla Bice d’occuparsi di cucina?
— esclamò Bedeschi. — Ditele che appena può venga da me.

— Appena può, appena può? — brontolò il colonnello quando Battista fu
uscito. — Avrei soggezione di mia nipote? Mi sarei preso in casa un
tiranno domestico?... Io che fui sempre uso a comandare a bacchetta, io
che conducevo la mia famiglia come il mio reggimento?

Ebbe la tentazione di richiamare Battista e di mandare per suo mezzo
un ordine perentorio alla ragazza, ma se ne pentì. In fin dei conti se
la Bice faceva un dolce, questo non era un delitto, e se facendolo ella
portava un piccolo ritardo nel pranzo, questa non era una sventura....
Era poi innegabile che la ragazza era un tiranno _sui generis_, pieno
di grazia, di dolcezza e di buon umore, incapace di dire una parola
sgarbata e di commettere una prepotenza. Senza di lei il colonnello
sarebbe stato ben solo, ed egli avrebbe avuto torto marcio a lagnarsi
d’averla accolta presso di sè quando all’uscir di collegio ella s’era
trovata orfana di padre e di madre.... E in fondo non se ne lagnava,
quantunque gli paresse di non esser sotto certi rispetti più quello
d’una volta, dacchè c’era la Bice.

Le mani sprofondate nell’ampie saccoccie della vestaglia, la testa
coperta da un berretto di seta nera sotto a cui spuntava qualche ciuffo
di capelli che avevano acquistato da poco il coraggio del loro candore,
il vecchio militare si mise a camminare su e giù per la stanza,
trascinando alquanto la gamba sinistra ferita nel 1866 a Custoza. Era
un uomo sulla sessantina, alto, con le spalle larghe, i baffi folti e
lunghi, lo sguardo franco e leale, ma un po’ duro e imperioso.

Dopo tre o quattro giri egli si riavvicinò alla tavola, e inforcate
le lenti rilesse due telegrammi arrivati quel giorno stesso da’
suoi figliuoli Vittorio ed Augusto, militari tutti e due, il primo
nell’esercito, il secondo nella marina. I telegrammi con gli auguri pel
Natale venivano l’uno da Massaua, l’altro da Nuova York. Nientemeno.

Antico soldato dell’indipendenza italiana, non ritiratosi dal servizio
che per motivi di salute, il colonnello Bedeschi aveva favorito,
accarezzato la vocazione del suo primo e del suo secondogenito, e
allorchè Vittorio aveva chiesto e ottenuto di andare in Africa e
Augusto s’era imbarcato per un viaggio di circumnavigazione di circa
tre anni, egli li aveva accommiatati con ciglio asciutto, dicendo loro
soltanto: — Fate il vostro dovere, ragazzi.

Tuttavia quella sera, nel rileggere i due dispacci arrivati da due
sì lontane e diverse parti del mondo, anch’egli, l’uomo forte ed
austero, sentiva spuntarsi una lacrima. Non poteva a meno di rievocare
il tempo in cui que’ suoi cari rallegravano il tetto domestico e
scherzavano sulle ginocchia materne. Ahimè, ormai la madre era morta
da un pezzo.... Involontariamente l’occhio del colonnello si posava
sulla parete ove sotto i ritratti di Vittorio Emanuele, di Umberto,
di Garibaldi, di Lamarmora, di Napoleone III, ecc., ecc., c’era un
gruppo di fotografie di famiglia. La più antica e sbiadita era appunto
quella di sua moglie, una donna esile, dall’aria stanca e sofferente. A
fianco di lei Bedeschi in persona, in uniforme, con la sua medaglia al
valor militare sul petto, con la sua mano bravamente piantata sull’elsa
della sciabola. Qualche linea più sotto l’effigie di tre giovinotti,
Vittorio, Augusto, ed un terzo, minore di tutti.

Sicuro, c’era un terzo figliuolo, Federico, ed egli solo non s’era
fatto vivo in quel giorno, e da Londra, dove si trovava, non aveva
spedito nè una lettera, nè un dispaccio. Quando Bedeschi pensava
a questo ragazzo ch’era stato il suo preferito egli si doleva di
aver ceduto una volta tanto alle preghiere di sua moglie, la quale,
impuntatasi nell’idea che Federico fosse di salute cagionevole, aveva,
tra gemiti e singhiozzi, scongiurato il marito di non fargli abbracciar
la carriera militare come i fratelli, e strappatagliene un giorno a
malincuore la promessa, se l’era fatta rinnovare solennemente al letto
di morte. Federico era quindi rimasto in casa, aveva frequentate le
scuole pubbliche, ed era giunto senza gloria fino all’università. Non
gli mancava nè cuore nè ingegno, ma aveva uno spirito indisciplinato,
ripugnante a studi regolari, turbato piuttosto da vaghe inquietudini
d’artista. Onde nel bel mezzo del corso di legge gli era saltato il
ghiribizzo di darsi alla pittura, con grande sdegno del colonnello,
il quale nè amava l’arte, nè credeva a questa vocazione improvvisa.
N’eran seguite scene violente, per merito delle quali Federico aveva
finito col non studiar nè pittura nè legge e col menare una vita oziosa
e dissipata. Allora il padre gli aveva posto un dilemma. O mettersi in
grado di prendere la laurea entro un anno, o partire subito per Londra,
ove un antico compagno di cospirazioni del colonnello, arricchitosi
nel commercio, impiegava volentieri dei giovani italiani per mandarli,
dopo un tirocinio più o meno lungo, presso le sue case filiali di San
Francisco o di Sidney. Federico che della laurea non voleva saperne
accettò la seconda proposta; meglio far il minatore in California o
il pastore in Australia che incretinirsi su una scranna di giudice o
assottigliare il cervello nei cavilli avvocateschi.

E partì con una cert’aria spavalda che il colonnello, cattivo
psicologo, attribuì a perversità d’animo, mentre Federico, dal canto
suo, risentiva profondamente l’affettata indifferenza del padre.
Come avviene quando c’è un equivoco che non si chiarisce subito, la
freddezza reciproca andò a mano a mano crescendo; padre e figliuolo si
accusavano in silenzio di poco cuore e non si scambiavano che lettere
brevi, fredde e insignificanti.

Frattanto entrò in casa la Bice portando nella dimora solitaria un
nuovo alito di giovinezza, togliendole quell’aspetto triste e desolato
ch’essa aveva nelle prime settimane dell’assenza di Federico. Senza
volerlo, senza saperlo, la fanciulla nuoceva al cugino. Una frase dello
zio lo mise in guardia. — Non parliamo di quello scapato. — egli le
disse. — Ora sei tu che ne tieni il posto.

Tenere il posto di Federico? No, ciò non poteva, non doveva essere. Ed
ella dichiarò allo zio che prima che accadesse una cosa simile sarebbe
tornata in collegio, sicura di farvisi accettare dalla direttrice come
assistente.

Alla lunga si calmò, ma fermando il proposito di esercitar tutta la
propria influenza per sopire quel dissidio domestico. Pur non tardò ad
accorgersi che l’impresa era ardua ed esigeva infinite cautele.

Non le fu difficile mettersi in relazione con Federico, avendola lo
zio stesso incaricata talora di scrivergli in vece sua. E Federico
le rispose in principio diffidente e guardingo, poi, via via, più
sciolto ed espansivo. A lei rivelava la tristezza del suo esilio,
l’acuta nostalgia da cui era sovente assalito, la sua ripugnanza ad
allontanarsi ancora di più dall’Italia, la sua sfiducia assoluta di far
buona prova nella mercatura. Ma soprattutto le discorreva dell’arte,
ch’egli aveva ripreso ad amar con passione, che coltivava in segreto,
e nella quale avrebbe potuto forse non esser degli ultimi se gli fosse
stato permesso di dedicarvisi intero.

Il colonnello Bedeschi aveva tempra di despota, non d’inquisitore, e
avrebbe stimato inferiore alla sua dignità lo spiar le corrispondenze
della nipote. Delle lettere ch’ella riceveva da Federico egli sapeva
quel tanto che a lei piaceva di dirgliene, ed è naturale ch’ella gliene
presentasse un’edizione riveduta e corretta. Accennava alla condotta
regolare del giovine, al desiderio ch’egli manifestava di riacquistare
l’affetto e la stima del padre.... soggiungendo timidamente che a parer
suo non c’era ragione di tenerlo più oltre in castigo a Londra, e meno
che mai di spedirlo in capo al mondo.

La prima volta che la Bice toccò questo tasto, Bedeschi montò su
tutte le furie. — O ch’ella pretendeva di dargli lezioni? Ella,
una bambina, con quell’esperienza che aveva? Badasse ai casi suoi
e non s’impicciasse di ciò che non la riguardava. Se Federico le
scriveva delle sciocchezze, padrone; e padrona lei di rispondergliene
altrettante, ma non venisse a far la saccente. Aveva capito?

La fanciulla non si smarrì d’animo per questo rabbuffo nè perdette
di vista la sua meta. A ogni occasione opportuna ella tornava alla
carica, sopportando in santa pace le sfuriate dello zio, il quale, in
cuor suo, non si rammaricava troppo ch’ella difendesse il cugino. Ma il
colonnello aveva riputazione d’uomo forte, d’uomo inflessibile, e certe
riputazioni sono come un patrimonio da conservare. Bedeschi non voleva
che si dicesse ch’egli s’infemminiva cogli anni. Accadeva poi un fatto
curioso. Quantunque egli non osasse confessarlo a sè stesso, la Bice
gli diventava più cara per la sua generosità nel prender le parti di
Federico, e appunto col diventargli più cara gli rendeva meno sensibile
la mancanza del figlio.

S’era sbagliata strada. La Bice lo riconobbe e mutò tattica. Da due
o tre mesi ella non parlava di Federico che quand’era strettamente
necessario il parlarne, pareva rassegnata non solo alla relegazione del
cugino a Londra, ma anche alla sua partenza per Sidney o San Francisco.

— È frivola e obliosa come tutte le donne, — pensava il vecchio
soldato. — Que’ suoi grandi ardori battaglieri sono sbolliti.

E non le sapeva grado della sua docilità. Era meno sicuro di aver
ragione dacchè nessuno gli dava torto.

Ella intanto ne pesava le parole, ne scrutava i silenzi, i gesti,
l’espressione della fisonomia, arrischiando di tratto in tratto con
finta ingenuità una frase, una domanda, come un generale che spinge
innanzi i suoi esploratori per esaminare il terreno.

— Se Federico deve lasciar l’Europa, — ella disse una mattina, —
suppongo che verrà prima a salutarci.

Bedeschi levò il capo con un movimento brusco. — Non so.... Forse....
Vedremo.... — E sentendo lo sguardo della nipote fisso sopra di lui, si
alzò da sedere e uscì dalla stanza.

La corrispondenza fra i due cugini durava non interrotta e non
vigilata. Federico tradiva spesso la sua impazienza, accusava la
Bice di non spiegar sufficiente energia per agevolargli il ritorno in
patria, dichiarava che assolutamente a Londra non ci poteva stare e
che avrebbe finito col fare un colpo di testa.... Poi, nella medesima
lettera, chiedeva scusa della sua petulanza e prometteva di seguire a
occhi chiusi i consigli della sua savia cuginetta, ch’egli si ricordava
in vestito da collegiale e che aveva giudizio da vendere a lui e a
molti altri meglio di lui.

E la savia cuginetta gli aveva scritto un giorno con gravità di esperta
diplomatica: — Un colpo di testa può anche esser necessario, ma bisogna
saper scegliere il momento di farlo. Il momento lo sceglierò io.


II.

— Eccomi, — disse la Bice comparendo nel salotto ove si trovava lo zio.

Egli gettò via il giornale _L’Esercito_ che stava leggendo e si preparò
a darle una risciacquata di capo pel suo lungo ritardo. Ma l’aspetto
singolare in cui ella gli si presentava gli strappò invece un sorriso
dal labbro. E disse soltanto: — Finalmente!... E in quale arnese!

La ragazza aveva un lungo grembiale bianco che le scendeva dalle
ascelle ai piedi, le maniche del vestito rimboccate fino ai gomiti,
le mani e i polsi impiastricciati di farina, e teneva appunto le mani
aperte e le braccia larghe, discoste dai fianchi, per non insudiciarsi
di più. Aveva un po’ di farina anche sul viso e nei capelli.

— Eh, non ho terminato che adesso — ella rispose. — Sono in tenuta di
fatica.

— Vada a mutarsi dunque.... presto.

— Vado.... ma che cosa voleva, zio, che mi ha fatto chiamare?

È vero. Che cosa voleva? Non se lo rammentava neppur lui.... Ah sì,
voleva rimproverarla. E riprese: — Perder la giornata per fare un
dolce. Vergogna!

— Fare e rifare, caro zio.... Senza dubbio, la ricetta era
sbagliata.... Si figuri che se non ci mettevo un bicchier di latte di
più veniva fuori qualcosa di duro come una palla di cannone....

— E ce l’hai aggiunto di tuo capo?

— Già.... La cuoca non vuole responsabilità. È un’impertinente. Sa
quel che ha detto? “Mi perdoni, ma io non intendo immischiarmi ne’ suoi
pasticci.„

— Ha ragione.... Ma non forzerai neanche me a mangiarlo _il tuo
pasticcio._

— Oh lo assaggerà almeno.... per poter suggerirmi le correzioni da
farsi domani.

— Domani?

— Ma scusi, non eravamo d’accordo? Quella d’oggi è una prova.... Domani
poi che ci sono i veterani a pranzo.

La Bice chiamava così tre ufficiali in pensione, antichi commilitoni
dello zio, il quale li invitava a desinare un paio di volte all’anno.

— Per i veterani — interruppe il colonnello — manderemo a prendere
dall’offelliere un dolce che non sia duro come una palla di cannone.

La ragazza fece un segno di protesta.

— E a proposito — ripigliò Bedeschi — che ghiribizzo è stato quello di
voler che invitassi i miei amici per domani e non per oggi?

— Volere? — disse la Bice con accento sommesso. — Ho pregato.... Mi
pareva che la vigilia di Natale fosse meglio passarla in famiglia.

La fronte del colonnello si annuvolò. — Famiglia numerosa in verità —
egli borbottò fra i denti.

— Ma! — sospirò la Bice.

— Vatti a vestire, va, — soggiunse lo zio.

Ella non si moveva.

— Che c’è adesso?

— Nulla.... Pensavo.

— A che cosa?

— Pensavo a tanti anni fa.... l’anno prima ch’io andassi in collegio,
quando il Natale si festeggiò qui tutti uniti.... Che tavola allegra!
C’erano il mio babbo e la mia mamma, c’era la zia, e Vittorio e
Augusto, venuti in vacanza per una quindicina di giorni, e Federico....
Noi due eravamo i più giovani.... Egli faceva mille biricchinate e
mi legò con la treccia alla spalliera della seggiola.... Oh mi par
ieri.... E ora gli uni son morti, gli altri dispersi pel mondo.

Si voltò commossa, con le pupille umide.

Lo zio, infastidito, le diede sulla voce. — Per carità, non mi far
piagnistei. I morti lasciamoli in pace, e quanto a quelli che sono
dispersi, due calcolo che siano con noi; il terzo, il tuo carissimo
Federico, è meglio dimenticarlo com’egli dimentica.

Ella fu in procinto di mettergli la mano sulla bocca per farlo
tacere. Ma si ricordò ch’era tutta infarinata e si trattenne in tempo,
sorridendo in mezzo alle lacrime: — Non le dica neanche per ischerzo
queste cose. Se Federico non ha ancora scritto, questo non significa
che abbia dimenticato.... Giurerei che la lettera è in viaggio.

Il colonnello fece una spallucciata. — Del resto, peggio per lui. A me
non importa proprio niente.

Balzò in piedi e ripetè alla nipote: — Vatti a vestire. A meno che oggi
non si debba rinunziare al pranzo....

La ragazza guardò l’orologio. — Pel pranzo ci vorrà un’oretta.... o
un’oretta e un quarto.... secondo il punto in cui sarà il dolce.

— Insomma, Bice, — saltò su lo zio aggrottando le ciglia, — ogni bel
gioco dura poco.... Vada e torni vestita entro venti minuti, e quando
torna, a qualunque punto sia il dolce, disponga perchè portino subito
in tavola.... Marsch.

— Oh, — esclamò il colonnello appena rimasto solo. — È indispensabile
di por ordine a questa faccenda. Colei con le sue smorfiette ottiene
sempre quello che vuole.

Il peggio si è ch’ella lo faceva diventar patetico, sentimentale,
lui, il colonnello Bedeschi! Non aveva dovuto rasciugarsi gli occhi,
quella sera stessa, nel guardare le fotografie di famiglia? Non era
stato lì lì per commoversi quando la Bice aveva evocato la memoria di
quel Natale lontano? Non si crucciava fuori di luogo e di modo perchè
quel caposcarico del figliuolo minore tardava a mandare gli auguri per
le feste? Non soffriva all’assenza di questo ragazzo più assai che
non volesse ammettere di soffrire? Non vedeva con un certo sgomento
avvicinarsi il tempo nel quale Federico avrebbe dovuto andare di là
dall’oceano? Non c’erano dei momenti in cui gli sarebbe venuta una gran
tentazione di richiamarlo?

No, così non poteva durare. Il colonnello aveva bisogno di ricuperar
la stoica impassibilità d’una volta, anche a costo di allontanar da sè
la nipote. Ell’aveva diciott’anni, era piacente, graziosa, possedeva un
quarantamila lire di suo, altre ventimila gliene avrebbe date lui, non
doveva esser difficile di trovarle un marito.... Trovarle marito, e poi
rimaner solo, con Battista, l’ordinanza, e coi veterani per commensali
nelle grandi solennità.... Che bella prospettiva! Tanto bella che il
colonnello, nell’eccesso della gioia, diede sulla tavola un pugno così
formidabile da far quasi cadere il lume. Indi se la prese col giornale
_L’Esercito_ che gli parve indegno di avere nemmeno un associato;
stracciò in due pezzi il numero che aveva fra le mani e ne fece due
pallottole che scagliò a due angoli della stanza. Dopo le quali gesta
tirò fuori il suo cronometro per vedere se fossero trascorsi i venti
minuti ch’egli aveva assegnati alla Bice per la sua _toilette_.

— Venti minuti giusti, nè uno di più nè uno di meno, — disse la
giovinetta entrando proprio in quel punto. Ella vestiva un abito di
lana celeste con guarnizioni di _peluche_, portava al collo un filo
di corallo, e buccole pur di corallo agli orecchi. Nei folti e lucidi
capelli aveva intrecciato un nastrino di velluto rosso che ne faceva
meglio spiccare il colore castano scuro e dava risalto ai suoi occhi
bruni e vivaci. Del resto non aveva lineamenti regolarissimi, nè poteva
dirsi bella nello stretto senso della parola, ma la persona agile e
svelta e l’espressione della fisonomia dolce ed arguta ad un tempo la
rendevano preferibile a molte vantate bellezze.

— Sfido un’altra a far così presto, — ella continuò avanzandosi
verso lo zio, che, suo malgrado, era rimasto colpito dalla geniale
apparizione. Ma egli era armato contro le seduzioni e rispose in
tuono burbero: — Bene, bene.... E che necessità c’era di mettersi in
fronzoli?... Tutte civette, le donne....

— Oh zio, mi son messa il vestito buono e i coralli che mi ha regalato
lei il mese passato.... Dovevo lasciarli sempre chiusi in cassetto?

— Non dico questo.... Se ci fosse qualcheduno a pranzo.... Domani, per
esempio....

— Oh, pegli estranei.... Se però esige che vada a mutarmi di nuovo...?

— Sì, per non finirla più.... Hai dato gli ordini in cucina?

— No, veramente.... Volevo darli adesso....

Bedeschi mise un’esclamazione poco parlamentare e tirò con violenza il
campanello.

Si presentò Battista.

— Il pranzo è pronto? — chiese il colonnello con voce tuonante.

Il servo guardò la signorina.

— Non guardate la signorina, guardate me, e rispondete.

— Ma, — balbettò Battista. — Dev’esser pronto tutto.... tranne il
dolce.... che la cuoca dice che non sarà pronto mai....

— Gelosia di mestiere, — rimbeccò la Bice.

— Se tutto è pronto, tranne quello che non sarà pronto mai, — ripigliò
il colonnello, — scodellate la minestra immediatamente.

Battista voleva soggiungere qualcosa, ma la padroncina con un gesto di
rassegnazione lo pregò di tacere.

Di lì a poco, nel salotto da pranzo bene riscaldato ed illuminato,
zio e nipote sedevano a tavola l’uno di fronte all’altra e parevano
entrambi in poco felici disposizioni d’umore. Lo zio trovava da ridire
su tutte le pietanze, la nipote, d’ordinario chiacchierina e vivace,
s’era ammutolita ad un tratto, e in preda a una singolare inquietudine
s’agitava sulla sedia, tendeva l’orecchio ai più lievi rumori, e alzava
ogni tanto gli occhi verso la mostra d’un orologio.

La Bice arrossì come uno scolaro colto in fallo, e disse: — Osservavo
ch’è molto tardi.

— Bella scoperta! Di chi la colpa?

In quel momento si sentì una scampanellata alla porta di strada; la
Bice balzò fuori della stanza, e Battista, che quella sera serviva
peggio del solito, rovesciò una bottiglia di vino sulla tovaglia.

— Imbecille! — urlò il padrone. E avrebbe aggiunto chi sa quali altri
epiteti se non fosse stata la curiosità di saper chi era venuto.

— Andate di là, — egli ordinò al domestico che non se lo fece ripetere
due volte, — e tornate subito a dirmi chi è.

Ma Battista non tornò subito. Tornò invece la Bice con una strana
espressione nella fisonomia, e si fermò sulla soglia.

— Ebbene? Che cos’è successo? Siamo in un ospedale di pazzi? — chiese
il colonnello.

— Oh zio, — rispose la ragazza. — Se mi fa quei visacci non ho
coraggio....

— Finiamola.... Chi è venuto?

— È venuto.... un forastiero....

— Un forastiero.... Chi?....

La Bice esitava.

— Chi, in nome del cielo?

— Oh sa, faccio come nelle commedie, io.... Avanti, Federico.

E tirò a sè il battente dell’uscio, dietro a cui si trovava Federico in
persona.

Si ha un bell’esser corazzati contro le debolezze umane, si ha un
bel voler foggiarsi sul tipo inflessibile di Bruto primo e di Manlio,
allorchè un figliuolo che si credeva di non rivedere per un gran pezzo
vi compare dinanzi all’improvviso, e con uno sguardo più eloquente
d’ogni parola vi chiede perdono de’ suoi trascorsi e ridomanda la sua
parte di affetto e il suo posto al focolare domestico, è impossibile
non cedere al bisogno di spalancargli le braccia. Il tempo delle
riflessioni verrà, verrà forse il tempo di pentirsi dell’aver ceduto a
questo primo movimento; intanto il cuore, sia pur di sorpresa, riporta
una vittoria che non è mai senza conseguenze per l’avvenire.

Tutto ciò accadde al colonnello Bedeschi, il quale faceva inutili
sforzi per nascondere la propria emozione, e girando intorno a questo
figlio piovutogli dall’Inghilterra e divorandolo con gli occhi, tradiva
la sua sollecitudine con una sequela di domande: — Non sei mica malato,
eh? — Non hai mica patito freddo per viaggio? — Sei stanco? — Hai
ancora da pranzare?

E mentre Federico ch’era un florido giovinetto sui ventitrè anni gli
rispondeva che stava benissimo, che s’era rifocillato a Verona, ma che
nondimeno avrebbe preso volentieri una tazza di brodo, il colonnello
scoteva il braccio della Bice.... — Via, perchè non ti muovi?... E
dov’è quello stupido di Battista? O non c’è del brodo caldo in cucina?

— Ce n’è, ce n’è.... Ecco Battista con la zuppiera. È provvisto alla
cena, alla camera, a tutto....

— Tu sapevi dunque?

— Naturalmente.

— E anche la servitù?

Battista evitava lo sguardo del padrone. Federico non alzava il naso
dal piatto. La Bice sola, imperterrita, affrontava il fuoco.

— Anche la servitù. Da questa mattina.... L’avevo detto io.

— Ma perchè tanti sotterfugi?

— Ecco.... — principiò Federico al quale sembrava poco cavalleresco il
non accorrere in aiuto a sua cugina.

Ma il padre lo interruppe. — Tu bada a mangiare. La Bice ha la lingua
sciolta.

— Oh, — ripigliò questa, — mi spiccio in due parole. Se Federico
scriveva a lei che non ne poteva più delle nebbie di Londra, che
provava un bisogno imperioso di riscaldarsi al sole d’Italia, di
rivedere la casa, la famiglia, insomma se le chiedeva il permesso,
lei non glielo avrebbe dato, e allora come si faceva a disubbidire?...
Invece di scrivere a lei, Federico scriveva a me.... Non era un segreto
la nostra corrispondenza....

— No, certo; però non mi sarei immaginato che ne usaste per cospirare.
Alle corte, quel permesso che forse non avrei dato io, l’hai dato tu.

— Al momento opportuno ho incoraggiato Federico a perorar la sua causa
in persona. Lo assicuravo che suo padre era un uomo severo, ma un cuore
come ve ne son pochi....

— Basta, basta, — disse il colonnello. — È inutile dorare la pillola.
— Indi rivolgendosi al figliuolo: — E il mio amico Giraldi, il tuo
principale, è anche lui della congiura? Son sei o sette mesi che non mi
manda una riga.

Federico estrasse del taccuino una lettera e la porse al padre.

— Oh! — disse questo. — Son due lettere, una dentro dell’altra.

— Leggi e vedrai.

Giraldi scriveva ad Annibale Bedeschi lodandosi della condotta e della
intelligenza di Federico, ma soggiungendo che non gli pareva uomo nato
pel commercio, e che, secondo lui, era molto meglio lasciargli studiar
l’arte per la quale mostrava disposizioni singolari. In prova di che
inchiudeva un biglietto del celebre Whitty, uno dei primi pittori di
Londra, che aveva visto i disegni del giovine e ne traeva i più lieti
pronostici per l’avvenire.

Il colonnello diede un’occhiata al biglietto in questione. — È in
inglese! — egli esclamò. — O che che cosa devo capirci io?

Federico si offerse di tradurlo. Ma la Bice propose di rimetter le
spiegazioni al domani. Erano tutti stanchi, e Federico in particolare
cascava dal sonno.

— È vero, — assentì il colonnello. — Federico dovrebbe andarsene a
letto.

A questo punto la Bice si picchiò la fronte con la mano. — E il mio
dolce? Battista, fate il piacere di domandarne conto alla cuoca.

Il cugino mise un’esclamazione ammirativa. — Anche di pasticceria te ne
intendi?

— Un poco.

— Uhm! — fece il colonnello.

Battista rientrò in salotto con aria contrita, e depose davanti al
padrone un piatto che conteneva un oggetto informe.

— È questo il tuo dolce? — chiese ironicamente lo zio dopo alcuni vani
tentativi di fenderne la crosta col coltello.

La Bice, mortificata, non riconosceva più l’opera sua. — Così me lo
hanno ridotto?

Federico non potè trattenere una sonora risata.

— Hai torto di ridere, — disse la giovinetta. — Quella, vedi, è tutta
malizia della cuoca, invidiosa de’ miei trionfi. Un’altra volta....

— Non c’è altra volta che tenga, — protestò il colonnello. — Basta una,
ce n’è d’avanzo.

La Bice si strinse nelle spalle. — Il mio dolce avrà servito a ogni
modo a far ritardare il pranzo. Se la corsa fosse arrivata in orario,
Federico avrebbe desinato con noi, anzichè trovarci alle frutta.... E
adesso....

— O che c’è ancora?... Non volevi che tuo cugino andasse a riposarsi?

— Sì, ma poichè rimane un sorso di vino nei bicchieri faccio un
brindisi ai due assenti Vittorio e Augusto.

— Con tutto il cuore, — risposero a una voce padre e figliuolo.

— Agli assenti e al reduce, — ella soggiunse.

— Sia pure.... Anche al reduce, — ripetè il colonnello avvicinando il
suo bicchiere a quello di Federico. — Abbiamo però sempre dei conti da
regolare.

                             . . . . . . .

Quando Federico si mosse per salire nella sua camera, la Bice lo
accompagnò fino sul pianerottolo. Egli non aveva parole abbastanza per
ringraziarla, per esaltare il suo spirito, la sua bravura.

— Non facciamoci illusioni — ella disse. — Non cantiamo vittoria troppo
presto.

— Con te, mia cara, si vinceranno tutte le battaglie, — replicò il
cugino. E dopo una breve pausa, abbassando la voce e avvolgendola d’uno
sguardo ch’esprimeva il più sincero entusiasmo: — Sai che ho fatto
un’altra grande scoperta?

La Bice abbassò involontariamente gli occhi. — Quale?

— Che sei diventata proprio bella.... ma proprio.... non è già un
complimento.

— Pazzo che sei! — disse la ragazza imporporandosi in viso. — Buona
notte, buona notte. — El o piantò lì col lume in mano, incantato a
guardarla.

                             . . . . . . .

Come si accomodassero le faccende il dì appresso, che conseguenze
avesse nell’avvenire la _grande scoperta_ di Federico, a che risultato
approdasse la visibile simpatia de’ due cugini, son tutte cose che non
si possono saper subito.... Al Natale prossimo.... forse.



LA ZIA TERESA.


Quella sera, quando s’udì la scampanellata del postino, in casa
dell’avvocato Ettore Gualtieri avevano appena finito di desinare. La
cameriera entrò in salotto portando due giornali pel padrone e una
grossa lettera coperta di francobolli per la signorina Amelia.

La signorina Amelia, una leggiadra giovinetta di forse diciott’anni,
divenne rossa ed esclamò: — È della zia Teresa.

E agitando la lettera con aria trionfale soggiunse: — Scommetto che qui
c’è la fotografia. Era tempo.

Con un oh, oh di curiosità tutti quanti si strinsero intorno
all’Amelia. Erano in quattro, l’avvocato Ettore e la signora Luisa
sua moglie, la Carolina, una ragazza in quell’età critica nella quale
è arrischiato ogni pronostico sulla bellezza femminile, e Amedeo, un
fanciullo sgarbato come sogliono essere i maschi dagli otto ai quindici
anni.

— Bada che voglio i francobolli — gridò appunto Amedeo con la sua voce
di pentola fessa.

— E io il monogramma — disse la Carolina.

L’Amelia fece un gesto d’impazienza. — Dio, che noiosi! Avrete i
francobolli, avrete il monogramma, ma non istatemi addosso così.

L’avvocato allontanò col braccio i due importuni e diede alla sua
figliuola maggiore un temperino perch’ell’aprisse la busta senza
stracciarla.

Bisogna notare che, dal signor Ettore in fuori, nessuno dei presenti
aveva conosciuto questa zia Teresa. In primo luogo, dei giovani ella
non era zia ma prozia; aveva cioè sposato molto tempo addietro uno zio
dell’avvocato, un Gualtieri anch’esso, dimorante a Nuova York fin dal
1849 e arricchitosi colà negli affari. Al momento del matrimonio il
signor Temistocle (l’uomo si chiamava così) aveva quarantacinqu’anni
ed ella ne aveva venti, nè alcuno credette ch’ella lo prendesse per
inclinazione. Comunque sia, questo signore, tanto più vecchio della
moglie, s’era conservato vispo ed arzillo e veniva ogni due anni in
Italia; ella invece tra per le cure da prestarsi al padre che l’aveva
seguita in America, tra per gli acciacchi di cui si lagnava, non aveva
più ripassato l’Oceano.

Erano queste le ragioni ch’ell’adduceva scrivendo all’Amelia, ma il
marito, ne’ suoi viaggi in Europa, affermava che la ragione vera era la
pigrizia, era la paura del mare.

— La salute — egli soleva ripetere — l’ha buonissima, e ingrassa di
giorno in giorno. Anzi, inter _nos_, questo potrebb’essere un altro dei
motivi pei quali le ripugna di tornare dove c’è tanta gente che se la
ricorda giovine e bella.... Donne, sempre donne.... Già, ne avete la
prova.... ha perfino scrupolo di farsi fare il ritratto per mandarvelo.

Alla lunga, come si vede, lo scrupolo ella lo aveva vinto, e la
lettera giunta quella sera all’Amelia conteneva realmente la sospirata
fotografia.

Bisogna convenire che la prima impressione fu tale da richiamare alla
memoria le parole poco galanti del signor Temistocle. La zia Teresa
aveva l’aspetto d’una donna attempata, più florida del necessario,
senza studio d’eleganza nel vestito ch’era liscio, d’una sola tinta
scura e chiuso fino al collo. Nei capelli spartiti sulle tempie e
ravviati dietro alle orecchie era appuntato un velo nero; la mano
sinistra non si vedeva, la destra, appoggiata sulla spalliera della
poltrona, si protendeva troppo innanzi e appariva di proporzioni
esagerate. Gli occhi ch’erano stati bellissimi, che si capiva dover
essere belli tuttora, erano guastati dalla fotografia mancante
assolutamente di nitidezza e di rilievo.

Vi fu un breve silenzio durante il quale un osservatore attento avrebbe
potuto notare nel volto della signora Luisa un risolino di trionfo
che contrastava con l’aria malsoddisfatta degli altri e specialmente
dell’avvocato. — È questa la zia Teresa? — parevano domandare i
ragazzi. E l’avvocato: — È proprio lei?

Amedeo ruppe il ghiaccio. — Sapete a chi somiglia?... Alla signora
Venosti.

Il babbo gli slanciò uno sguardo fulmineo. — Sciocco!

Anche l’Amelia protestò con gran vivacità.

Ma la signora Luisa venne in aiuto del figliuolo. — Amedeo non ha tutti
i torti. La ricorda....

— No, mamma, no, — rimbeccò l’Amelia che non poteva tollerare questi
paragoni tra una zia dilettissima e una conoscente ridicola da lei
messa in canzonatura infinite volte.

— Si fa presto a dir no, — insistè la signora Luisa. — È un fatto.

Il signor Ettore perdette la pazienza. — Insomma vorrei sapere dove la
si trova questa famosa rassomiglianza....

— Nella bocca, per esempio....

— Oh santo cielo. Nella bocca?... Se la Venosti non ha quasi più
denti....

— E in questo ritratto, con tua licenza, la bocca è chiusa e non
possiamo sapere se i denti ci siano o non ci siano. E poi il taglio
della bocca non ha nulla a che fare coi denti....

— Via, mamma, — ripigliò l’Amelia, — la Venosti ha più di sessant’anni.

— E credi forse che tua zia sia una bambina?... I suoi cinquanta deve
bene averli....

L’avvocato fece un energico segno negativo col capo. — Nemmen per sogno.

— O quanti allora?

— È un conto semplice. È nata nel 1843 e siamo nel 1888.

— Da ottantotto a levar quarantatrè rimangono quarantacinque, — esclamò
Amedeo per mostrar la sua perizia nell’aritmetica.

— Precisamente quarantacinque, — ripetè il signor Ettore.

— Più quelli della balia, — soggiunse sghignazzando la moglie.

— È una bella ostinazione, — replicò l’avvocato. — Vuoi un’altra prova?
La Teresa si sposò nell’agosto 1863, venticinque anni fa, nè più nè
meno.... E aveva compiuto i vent’anni in quel mese stesso.

— Sarà, — disse la signora Luisa con quella riluttanza che hanno le
donne a darsi per vinte, soprattutto in certe questioni. — A ogni
modo se non sono che quarantacinqu’anni non gliene faccio le mie
congratulazioni.... Ne mostra molti di più.

Frattanto l’Amelia, che aveva scorso rapidamente la lettera della zia,
ne lesse una mezza pagina ad alta voce: “È la prima volta che vado dal
fotografo dacchè ho lasciato l’Europa. E ci andai per contentarti.
Desidero in compenso di aver le fotografie rinnovate di tutti voi
altri. Ho la tua, quelle di tua sorella e di tuo fratello, ma le
ultime rimontano al 1885 e ritengo che ne avrete di più recenti. Non
ho poi quelle della tua mamma e del tuo babbo, e mi sarebbe così caro
di averle.... Il tuo babbo mi trova molto cambiata, non è vero? Eh,
il tempo passa per tutti, e per noi donne passa più presto che pegli
uomini.„

— Bisogna tornar da Vianelli, — disse l’Amelia ripiegando il foglio.

— Torniamoci addirittura domani. — propose la Carolina.

— Oh, — replicò la madre, — ci andrete voi. Io farò tirar qualche altra
copia dei ritratti del 1885, quelli che ci siam fatti, il babbo ed io,
pochi mesi dopo dei vostri.

E rivolgendosi al marito: — Mi sembra che anche tu potresti spicciarti
allo stesso modo.

L’avvocato sorrise. — No, io voglio esser sincero. Non voglio farmi
passar per più giovine di quello che sono. È giusto che la zia Teresa
trovi cambiato me come io trovo cambiata lei.

Questa dichiarazione in cui c’era una punta d’ironia crebbe le
disposizioni irascibili della signora Luisa. — Io non sono tenuta ad
aver tanti scrupoli, ella disse con piglio acre. — La zia Teresa non
mi ha conosciuta e non può quindi trovarmi cambiata. Già non crederei
d’esser così cambiata in tre anni.

La signora Luisa, sebben rasentasse la quarantina, aveva ancora le sue
pretese.

Il marito non le diede la soddisfazione di rilevare le sue parole,
ma si mise a sgridare Amedeo che, uscito un momento dalla stanza, vi
rientrava con malagrazia rovesciando una seggiola sul suo passaggio.

Avvezzo ai rimproveri paterni, il ragazzo si limitò a rialzare la
seggiola e posò un grosso album sulla tavola. — Me li lasci levare
questi francobolli? — egli chiese all’Amelia stendendo la mano verso la
busta.

— Aspetta un momento.... Non scappano mica....

— Giacchè ho qui l’album....

La Carolina ricordò timidamente che doveva avere il monogramma.

— Lo so, lo so, l’ho già sentito.... Son gusti incomprensibili....
Ne avete non so quanti di questi francobolli di Nuova York, di questi
monogrammi della zia Teresa.... Giurerei che non avete altro nei vostri
splendidissimi album....

— Oh sì! Io ho quarantotto francobolli tutti diversi....

— E io ventitrè monogrammi.... tutti magnifici....

— Figuriamoci....

Mentre i figliuoli si bisticciavano, la signora Luisa s’era rimessa a
guardare la fotografia, e, siccome ell’era di quelle che nelle dispute
non la finirebbero mai, riattaccò il discorso al punto di prima.

— Che col tempo le linee della fisonomia e della persona si
modifichino, è troppo naturale — ella disse riconsegnando il ritratto
all’Amelia; — ma altro è modificarsi, altro è trasformarsi.... E a me
non entrerà in mente che questa donna sia stata bella.

Gualtieri si strinse nelle spalle. — Ce ne furono poche di belle come
lei.

— Basta sentir lo zio Temistocle, — notò l’Amelia.

— Oh, lui, s’intende, — rispose la madre. — Se l’ha sposata senza un
soldo è segno che a lui pareva bella....

— _Pareva?_... Era bella, era bella.... con o senza il tuo permesso, —
ribattè infastidito l’avvocato.

— Non riscaldarti il sangue.... È evidente che tutti e due, zio e
nipote, la trovavate la Venere dei Medici.... Però una Venere che
preferì chi poteva vestirla di porpora e di velluto.

La signora Luisa non aveva ancora terminata la frase imprudente
ch’ell’era già pentita di essersela lasciata sfuggire. Ma ormai era
troppo tardi.

Una fiamma passò negli occhi di Ettore Gualtieri. Pur si contenne e con
una voce che l’emozione rendeva più penetrante, — Luisa, — egli disse,
— a te non è lecito ignorare per qual ragione la Teresa Rosnati abbia
sposato mio zio che aveva più del doppio della sua età e ch’ella non
amava. Che se tu lo hai dimenticato, stimo opportuno di ricordartelo,
anche perchè i nostri figliuoli, qui presenti, non giudichino male una
zia che non hanno mai vista, che forse non vedranno mai, ma dalla quale
non hanno ricevuto che gentilezze.... Oh non è una storia lunga.... La
Teresa era le mille miglia lontana dall’idea di quel matrimonio quando
suo padre, rovinato da cattive speculazioni, si trovò in procinto di
fallire. Il suo maggior creditore era Temistocle Gualtieri, stabilito
da un pezzo in America, ma giunto allora in Europa per uno de’ suoi
viaggi d’affari. Corso a Venezia per questo minacciato fallimento, egli
vide la ragazza, se ne invaghì e ne chiese la mano. Pur d’ottenerla,
non solo egli accondiscendeva ad annullare il debito che il Rosnati
aveva verso di lui e lo aiutava a liquidar onorevolmente la casa,
ma gli offriva un posto lucroso nel suo banco a Nuova York. D’altra
parte, egli diceva chiaro e tondo che, data una negativa, si sarebbe
ritenuto sciolto da ogni riguardo e avrebbe pensato unicamente a
tutelare i suoi interessi. Lo si sapeva uomo che parlava sul serio; non
malvagio ma insofferente degli ostacoli e memore dello offese. Onde
la giovinetta divenne arbitra delle sorti del padre; accettando la
proposta che l’era fatta ne salvava la riputazione, lo sottraeva alle
strettezze, assicurava alla vecchiaia di lui ch’era vedovo e senz’altri
figliuoli un asilo comodo, decoroso, tranquillo presso l’unica persona
di famiglia che gli restasse; rifiutando, lo esponeva all’onta e alla
mortificazione del fallimento, lo costringeva a ricominciare sotto ben
tristi auspici la lotta dell’esistenza.... Che cosa risolvere? Vi sono
momenti terribili in cui, qualunque via si prenda, si calpesta qualche
sentimento sacro, si manca a qualche dovere o verso sè o verso altrui;
pur bisogna scegliere, perchè la vita c’incalza e le occasioni perdute
non tornano.... Ebbene, la Teresa non volle ascoltare che la voce
dell’amor filiale, e accettò.... Attribuire motivi men nobili alla sua
condotta, supporre ch’ella fosse abbagliata dai milioni, che quello che
fu per lei un sacrificio (e qual sacrificio!) fosse un calcolo vile....
oh è segno di una gran piccolezza d’animo....

Sentendo salirsi alle labbra parole più acerbe, l’avvocato Ettore non
attese neanche l’effetto della sua filippica, ma uscì bruscamente e
si ritirò nel suo studio. E lì, senza testimoni, nell’ombra della
stanza scarsamente illuminata dalla candela ch’egli aveva portato
seco, chiamò a raccolta le sue memorie. Ricordò l’impressione provata
quando la Teresa da lui conosciuta bambina gli riapparve dopo alcuni
anni vissuti in collegio, ricordò le prime timide dichiarazioni
susurratele all’orecchio, le promesse d’amore lette negli occhi di
lei, e i dolci colloqui, e le furtive strette di mano, e i giuramenti
scambievoli.... Alle famiglie non si diceva nulla perchè egli era
ancora studente, e così giovine, così privo di mezzi di fortuna, così
lontano dalla possibilità di prender moglie, che una domanda formale
avrebbe provocato un deciso rifiuto.... Ma, pur d’aver pazienza, non
bastava esser d’accordo con la Teresa?... Ohimè, nel bel mezzo di
questi sogni accadde la catastrofe della ditta Rosnati.... e subito
dopo, il resto.... Che colpo fu quello!... Che fieri propositi gli
si agitavano nella mente!... Vedeva sangue; voleva fare una strage;
uccider lo zio che gli rapiva il suo bene, uccider la crudele che lo
abbandonava.... e compier la tragedia facendosi saltar le cervella sui
cadaveri delle sue vittime.... Nè alla Teresa risparmiò le contumelie.
La disse senza cuore, senza coscienza, la fulminò con l’accusa che
poc’anzi gli era parsa così bassa ed ingiusta, l’accusa di cedere al
fascino della ricchezza.... Come si calmò? Come fu indotto a più miti
consigli?... Non lo sapeva lui stesso. Aveva però sempre davanti agli
occhi la donna fatale e adorata più bianca d’una morta, atteggiato il
viso a una pietà dolorosa; la sentiva rispondersi con un filo di voce:
— Voglia Iddio che tu non abbia mai da scegliere fra il tuo amore e
il tuo dovere. — E si rammentava pure che a vederla così umile, così
disarmata, così pallida, il suo gran furore s’era come affogato nelle
lacrime, un torrente di lacrime che gl’inondava le gote.... E tra i
pianti e i singhiozzi le aveva chiesto perdono delle ingiurie, aveva
cercato la sua mano, aveva baciato il lembo del suo vestito.... Ella
tranquillamente, dolcemente, s’era sciolta da lui; nè egli doveva
più rivederla.... Prima che succedessero le nozze egli si assentava
da Venezia per non rimpatriare che quando la seppe partita.... Oh
che triste ritorno!... Come, in quei primi mesi, gli pareva morta la
città senza la sua Teresa! Come aveva l’animo straziato dalla collera,
dal dolore, dall’amore!... Sì, anche dall’amore, poich’egli l’amava
sempre.... poichè sarebbe bastata una riga di lei per riaccendergli
in petto le più folli speranze.... Ma ella non si fece viva, ed egli
non ne aveva notizie che indirettamente, a lunghi intervalli, per
mezzo dello zio che conservava qualche rapporto con la famiglia e
che veniva di tratto in tratto in Europa.... Allora egli si sforzò di
dimenticarla, e vi fu un momento che credeva di averla dimenticata,
e, trascorsi sei anni dal matrimonio di quella che ormai egli doveva
chiamare la zia Teresa, sposò un’altra donna.... Passò un anno ancora,
dopo il quale gli nacque la sua primogenita, l’Amelia. E, di lì a poche
settimane, ecco capitar dalla zia un bel regalo per la piccina....
Le relazioni, rannodate così, non erano state interrotte più. Ma
erano relazioni curiose. La zia Teresa non scriveva a lui, scriveva
all’Amelia, anche quando l’Amelia non era in grado di leggere, e la
incaricava de’ suoi saluti al babbo e alla mamma. Egli rispondeva, ma
rispondeva in nome della figliuola... sino al giorno che la figliuola
fu in grado di rispondere da sè. I regali arrivavano sempre più
frequenti, sempre più ricchi; oltre che per l’Amelia, ce n’erano pei
bimbi nati dopo, Carolina e Amedeo; era manifesto però che l’Amelia
continuava ad esser la preferita, e tutta la corrispondenza con la zia
ricadeva sulle spalle di lei.

Così, a poco a poco, la donna gentile prendeva un posto nella casa, era
nominata, citata ad ogni occasione. Ora si diceva: — Dovrebbero arrivar
presto lettere della zia Teresa; — ora: — Converrà scrivere alla zia
Teresa; — ora infine le due ragazze si consultavano sul presente da
farsi alla zia Teresa per la sua festa. Infatti esse le spedivano
tutti gli anni un lavoruccio, tenue ricambio degli splendidi doni che
ricevevano continuamente.

C’era bensì una persona a cui pareva che di questa zia Teresa si
discorresse più del bisogno. Era la signora Luisa. Con l’infallibile
istinto femminile ell’aveva trapelato l’antico romanzetto di suo marito
e nelle sollecitudini affettuose della zia verso i nipoti sentiva uno
strascico del passato. Madre tenerissima, ella non voleva distogliere
i figli dal coltivare i buoni rapporti con una parente ricca e senza
prole, ma le accadeva spesso, con un gesto d’impazienza, con una
frase sarcastica, di tradire il suo segreto livore, la sorda gelosia
che la rodeva.... Però uno scatto come quella sera la signora Luisa
non l’aveva mai avuto. Ed è pur forza riconoscere che i suoi nervi
le rendevano un gran cattivo servizio facendola prender fuoco come
un fiammifero, proprio allora che l’effigie della presunta rivale
doveva calmare piuttosto che crescere le sue inquietudini. Certo si è
che con quella sfuriata inopportuna ella soffiava nelle ceneri d’una
vecchia passione, induceva Gualtieri a ripiegarsi su sè medesimo, a
riveder con gli occhi della fantasia, non quale l’età l’aveva ridotta
ma quale ell’era a venti anni, colei che egli aveva amato con tanto
trasporto. Nè la rivedeva con gli occhi della fantasia solamente....
In un cassetto del suo stipo, fra le pagine di un libro ch’egli
aveva letto con lei, insieme ad un fiore che una sera ella gli aveva
messo all’occhiello, egli conservava un’antica fotografia. E quella
fotografia tolta ora dal suo ripostiglio gli provava ch’egli non era
stato vittima d’un’allucinazione. Che gl’importava del nuovo ritratto
che la Teresa, troppo savia o troppo crudele, faceva pervenire
nelle sue mani dopo un quarto di secolo? Per lui non esisteva che
il ritratto antico, e da quello, benchè stinto e sbiadito, veniva un
profumo ineffabile di gioventù fresca e vivace. Quanta finezza in quei
lineamenti! Che luce d’intelligenza e di bontà in quegli occhi dolci e
pensosi! Che fascino in quel sorriso!... Ah, la sua signora consorte
pretendeva che la Teresa non fosse mai stata bella? Come gli sarebbe
riuscito facile di confonderla!... Ma no, no, quelle reliquie di
altri tempi appartenevano a lui solo; non dovevano esser profanate da
sguardi indifferenti od ostili.... Baciò ancora una volta il ritratto,
ancora una volta sfogliò le carte del libro, un volume di Leopardi,
diede un’occhiata al fiore, una mammola doppia che nei petali secchi
e schiacciati serbava un resto di fragranza; poi rimise ogni cosa al
posto di prima.

Mentre dava la chiave al cassetto dello stipo, si sentì un colpo
leggero all’uscio.

— Chi è? — gridò l’avvocato.

— Sono io, babbo.

— Ah, l’Amelia, — disse Gualtieri ricomponendosi in fretta. — Avanti.

La ragazza si avvicinò un po’ confusa. — Ti disturbo?

— No. Che cosa volevi?

— Io?... Nulla....

— Oh bella.... Per qualche ragione sarai venuta....

— Ecco.... Volevo sentir da te.... Sai.... dovevi condurmi in piazza
stasera....

Vedendo che suo padre la fissava con insistenza, ella abbassò gli occhi.

— Perchè guardi in terra? — egli le chiese. — Non hai mica niente da
vergognarti.... Guarda me invece.... Su, su.... Così.... Sei proprio
venuta solamente per questo?

Ella non rispose, due lacrimette le colavano adagio adagio giù per le
guancie.

— Non sei venuta anche....?

Il signor Ettore non finì la frase, ma aperse le braccia.

— Oh babbo! — esclamò l’Amelia gettandogli al collo, — come hai capito
bene che ero venuta per darti un bacio!

— E ora, — ripigliò di lì a poco l’avvocato, — va pure a metterti il
cappellino che usciremo insieme.

— No, no, se non ne hai voglia....

— Anzi desidero prendere una boccata d’aria....

Di nuovo la ragazza esitava.

— Ebbene, che c’è adesso?

— C’è, babbo mio.... non dirmi di no.... che avrei tanto piacere se
uscisse con noi anche la mamma.... La Carolina e Amedeo si coricano
presto...; la mamma resterebbe sola.... stasera....

Gualtieri aggrottò alquanto le ciglia e fu a un punto di rispondere
con un rifiuto. Ma c’era in viso dell’Amelia una preghiera così umile,
così calorosa, che egli non ebbe cuore di affliggerla, e fece un cenno
d’assenso.

— Come sei buono, babbo mio! — gridò la giovinetta ribaciandolo con
effusione.

— Troppo buono, — egli sospirò. — Va.... va.... Ti raggiungo subito.

Ritirò la chiave dal cassetto dello stipo e la ripose in tasca. Un
rossore intenso gli colorava le gote; egli sentiva che sua figlia aveva
indovinato gran parte del suo segreto.



LA BAMBINA.


Era nata in meno di sette mesi costando la vita alla sua povera mamma
che aveva appena avuto il tempo di darle un bacio e di chiamarla
col nome prestabilito: _Maria_. E anch’ella, la bambina, fu per più
settimane attaccata ad un filo; anzi la levatrice e i parenti dicevano
che non poteva campare e preparavano il padre alla nuova sventura.
Nè l’impresa era troppo difficile. Alberto Rinucci, giovine, ricco,
elegante, in mezzo al suo dolore per la sposa perduta, per la figlia
che andava spegnendosi, sorprendeva negli intimi recessi del suo
animo un fondo di rassegnazione egoistica di cui arrossiva ma sul
quale non poteva a meno in certi momenti di riposarsi; diceva a sè
stesso che aveva adempiuto a ogni ufficio di buon marito verso la
moglie ma che in fin dei conti questa moglie egli non l’aveva mai
amata appassionatamente; diceva che l’affezione dei padri verso i
loro figliuoli principia più tardi assai di quella delle mamme e che
l’infelice creatura venuta al mondo per languire e per soffrire non
avrebbe, dileguandosi adesso, aperto una piaga insanabile nel suo
cuore. Gli balenava agli occhi, e per quanto volesse cacciarla tornava
insistente, la visione di una vita riafferrata sotto auspici più lieti;
forse la libertà dello scapolo così bella a meno di trent’anni; forse
un nuovo matrimonio, un’altra donna al suo fianco, intorno a sè altri
figliuoli vigorosi e fiorenti.

Il medico intanto, infatuato nell’idea di fare un mezzo miracolo,
consacrava lunghe ore alla piccina ch’egli non voleva risolversi a
dare per ispacciata. L’aveva fatta involgere nel cotone, regolava
la temperatura elevatissima a cui la si doveva tenere, sorvegliava
l’allattamento artificiale, usava insomma di tutti gli espedienti che
la scienza suggerisce e la sollecitudine rende efficaci. In capo a due
mesi egli disse a Rinucci: — È salva.

Sulle prime si accolse l’annunzio con qualche scetticismo; poi fu forza
arrendersi all’evidenza; la bambina viveva. Il padre cominciò a volerle
bene, a chinarsi sulla sua cuna, a prenderla in collo, a baciarla.
Un giorno ella gli sorrise, e con quel sorriso finì di conquistarlo.
Il club, i teatri, la società ch’egli s’era rimesso a frequentare non
lo allettavano più come una volta: gli accadeva sovente di lasciar a
ora insolita gli allegri ritrovi per esser più presto a casa e per
assicurarsi che la sua Maria dormiva tranquilla. Anche le donnine
belle non esercitavano ormai sopra di lui che un fascino fuggitivo;
lo spaventava l’idea d’ogni legame durevole, non voleva più sentir
parlare d’un secondo matrimonio. Gli pareva che la sua Maria, la quale
si era messa a spasimare per lui gli dicesse: — Non darmi rivali: devi
appartenermi tutto quanto. Le cameriere, le governanti, le zie, le
cugine non mi bastano; ho bisogno di te; non sono come l’altre bambine,
io.

No, effettivamente ella non era come le altre. Nessuna grave infermità
era venuta a colpirla durante la puerizia; era passata illesa
attraverso un’epidemia difterica e un’epidemia vaiolosa che avevano
mietuto centinaia di testoline bionde. Ella era risparmiata dalle
malattie, ma era così esile e mingherlina da far credere che un soffio
di vento dovesse abbatterla, era così pallida e trasparente da non
potersi capire come il sangue scorresse nelle sue vene. Aveva messo
i denti più tardi del solito; più tardi del solito aveva cominciato
a parlare e a camminare. Ogni minimo sforzo l’affaticava, come se
avesse portato seco una grande stanchezza che nessun riposo successivo
giungeva a vincere. Il medico che aveva fatto il primo miracolo di
tenerla in vita non sapeva fare il secondo di renderla uguale ai suoi
coetanei. Aveva perduto anch’egli la balda sicurezza d’un tempo; alle
trepide interrogazioni del padre rispondeva con mezze parole, con frasi
che non impegnano. — Eh, lo sviluppo è lento, ma vizi organici non ce
ne sono.... Speriamo.... Col ferro, con l’olio di merluzzo, coi bagni
di mare, con la ginnastica, con l’aria di montagna.... — Il guaio si
è che lo stomaco della piccola Maria non sopportava nè il ferro, nè
l’olio di merluzzo; che i bagni di mare la infiacchivano; che le sue
gracili membra non erano fatte per la ginnastica, che le sue gambe
sottili non resistevano alle passeggiate in montagna.

Anche la statura cresceva appena sensibilmente e mostrava sempre molto
meno della sua età. Continuava a parere una bambina; _la bambina_,
dicevano, accennando a lei. Era questa per suo padre una grande
mortificazione; eppure egli non avrebbe voluto che la chiamassero in
altro modo; qualche volta a sentirsi domandare: _Come sta la bambina?_
egli s’illudeva, dimenticava ch’era passato il tempo di chiamarla così.

Per l’ingegno accadeva come pel resto. Non che avesse la negativa
d’intender le cose; tutt’altro; ma l’attenzione un po’ seguita l’era
impossibile, ma il ricordare l’era più difficile che l’imparare. A
dieci anni stentava a leggere correntemente e faceva ancora le aste. —
Non bisognava pretender da lei più di quello che danno le sue forze —
predicavano i dottori — non bisogna costringerla a nessun’applicazione
intensa.

Ma non aveva lena neanche a giuocare a lungo. Stava per lo più nel
suo salottino, seduta per terra sopra un tappeto, in mezzo a una
quantità di balocchi costosi che il suo babbo comperava in città o
faceva venire da Parigi o da Vienna, e di cui ella non tardava ad
annoiarsi. Appunto que’ suoi balocchi così belli, così diversi dai
soliti, erano una singolare attrattiva per altri fanciulli i quali
andavano ben volentieri a far compagnia alla bambina Rinucci. Erano
quasi tutti minori di lei, ma non lo si sarebbe detto a vederli, nè
essi lo credevano. Anzi ce n’era uno, di sett’anni mentr’ella ne aveva
dieci, che la trattava come una sorella più giovine, dandole qualche
buffetto sotto il mento con una cert’aria paterna e difendendola contro
le soperchierie dei prepotenti. Ell’accettava con animo grato questa
tutela affettuosa e faceva più festa a Giorgio Leati che agli altri;
solo pretendeva che, come il babbo, fosse anch’egli tutto per lei, e
s’arrabbiava fuor di misura, se per esempio, la sua cuginetta Tilde
Rinucci, figlia dello zio Amedeo, lo invitava nel suo giardino per
giuocare al volante.

In complesso era buona ma esigente e gelosa. Una governante assai
gentile d’aspetto e di modi l’era divenuta insopportabile dopo che una
mattina l’aveva vista passeggiare un’ora di seguito in su e giù per
la sala in compagnia di suo padre che le discorreva sotto voce e le
sorrideva. S’era messa subito a usarle ogni sorta di sgarbi, e a un
mite rimprovero che gliene avevano fatto era andata in escandescenze,
pestando i piedi, spargendo un fiume di lacrime, protestando fra i
singhiozzi di non voler più che _mademoiselle_ le venisse vicino. Nè
c’era stato verso d’indurla a più miti propositi, onde _mademoiselle_
aveva dovuto esser licenziata.

— È un capriccio — aveva detto il medico — ma se non la si contenta
rischia d’ammalarsi davvero.... Ed è così debole.

La sua debolezza era la sua forza. A poco a poco Alberto Rinucci, per
non vederla piangere, per non farla ammalare, preveniva tutti i suoi
desideri, secondava tutte le sue fantasie. Ed ella, ne’ suoi momenti
d’espansione, gli gettava le braccia al collo, lo chiamava coi nomi più
dolci, gli diceva ch’egli era tanto buono e ch’ella era tanto felice.

A quindici anni, non ostante le innumerevoli cure tentate, il suo
sviluppo, già così tardo, si arrestò affatto. Era piuttosto leggiadra
di viso, passava di qualche centimetro la statura che si suole
assegnare ai nani, non aveva deformità nel suo corpicino abbastanza
proporzionato, poteva parer realmente una bambina, ma si capiva che
ormai sarebbe rimasta tale per tutta la vita.

I suoi piccoli amici dei due sessi andavano in collegio, frequentavano
la scuola pubblica, stringevano nuove conoscenze, acquistavano nuove
abitudini, parlavano di maestri, di lezioni, di esami; ella restava tal
quale; continuava a passar lunghe ore nel salotto, sfogliando dei libri
illustrati o giocando con altri fanciulli che non erano più quelli d’un
tempo, continuava a uscir di tratto in tratto in gondola col babbo o
con la governante, a scender sulla Riva degli Schiavoni o ai Giardini,
a far stentatamente due passi al sole e a rientrare a casa prima del
tramonto.

Se la sera qualcheduno chiedeva a Rinucci: — Eri fuori con la tua
bambina, oggi? — egli rispondeva un sì affrettato e mutava discorso....
Egli pensava che la sua Maria avrebbe ormai potuto essere una
giovinetta di quelle che la gente si volta a guardar per la strada,
di quelle a cui gli studenti di liceo, fra un tema di latino e un tema
di greco, dedicano i loro primi versi; di quelle in fine che le mamme
cominciano a prendere in considerazione come partiti possibili, pei
loro figliuoli; pensava che l’avrebbe condotta alle feste da ballo, che
avrebbe spiato ne’ suoi occhi lo svegliarsi dei sensi e dell’anima, che
avrebbe strappato alle sue labbra le dolci e trepide confidenze....
Invece no; ell’era la bambina; nessuno l’avrebbe guardata altro che
per deriderla o per commiserarla, nessuno le avrebbe parlato d’amore,
nessuno avrebbe voluto vedere in lei una sposa, una nuora.... S’egli
fosse stato almeno sicuro d’averla sempre al suo fianco!... Ma
qualche volta gli correva un brivido per le vene e se la stringeva
al petto quasi per proteggerla da un nemico invisibile che dovesse
improvvisamente portarsela via.

Ella non s’accorgeva delle gravi preoccupazioni paterne; si sarebbe
detto anzi che non le pesava quella sua manifesta inferiorità di fronte
a’ suoi coetanei, che non sospettava l’esistenza o non la pungeva il
desiderio di tutto ciò che l’era negato. O forse, come gli estranei la
credevano una bambina, così si credeva una bambina anche lei.

Giorgio Leati, il suo grande amico, era entrato in collegio e non
veniva a farle che poche visite all’anno durante lo vacanze. Ogni
autunno la Maria trovava in lui qualche cambiamento; era sempre più
aitante delle membra, più largo di torace e di spalle, più fiero,
più maschio nello sguardo e nell’andatura. Passava poi per uno dei
migliori della classe e non gli dispiaceva di sfoggiare la sua nascente
dottrina. La Maria lo ascoltava incantata. E un giorno, appunto dopo
una di queste visite e mentre il padre le raccontava certe fiabe di
cui ell’era assai ghiotta, ella fece una singolare domanda: — Babbo,
vi sono delle fate buone che con un colpo di bacchetta trasformino
le persone piccole in persone grandi, le persone ignoranti in persone
sapienti? — Rinucci ebbe una stretta al cuore e disse senz’alzare gli
occhi: — Ma!... Ho paura che non ce ne siano più. — Ella sospirò: —
Peccato! — E fu l’unica allusione da lei fatta alle sue condizioni.

Adesso che Giorgio Leati era quasi sempre lontano, la Maria non
aveva più motivo di esser gelosa della cugina e le aveva ridonato
la sua amicizia un po’ invadente e tirannica. La Tilde, fanciullona
espansiva, si compiaceva di questo affetto riconquistato, e passava
presso _la bambina_ (anche in casa degli zii la chiamavano così) tre
o quattr’ore al giorno, raccontandole i pettegolezzi della Scuola
superiore femminile, mettendo in canzonatura le singolarità grottesche
di questo o quell’insegnante, biasimando la sguaiataggine di alcune
suo condiscepole che si lasciavano pedinare per la strada e ricevevano
bigliettini galanti. — A me — ella soggiungeva ridendo — questo non
accadrà mai. Già son contro le tentazioni.

Alquanto più giovine della Maria (aveva l’età di Leati) la Tilde era
allora nel periodo dello sviluppo ed era bruttina davvero, lunga,
stecchita, con gli occhi pesti, con la tinta giallastra, con due
braccia interminabili che parevano voler scivolar giù dalle maniche.
Ed ella era persuasa non solo di esser brutta ma di dover rimaner tale.
Diceva con una spallucciata: — Meglio così. Non verranno a seccarmi....
A me il matrimonio non piace.... Perchè si deve maritarsi?

Questo non lo capiva neanche la Maria. O che bisogno c’era d’avere
un marito? La Tilde conchiudeva enfaticamente: — Noi due resteremo
zitelle.

Senonchè la Tilde in brevissimo tempo subì una trasformazione
radicale. Le linee della sua persona si fusero in bella armonia, la
sua carnagione opaca acquistò chiaroscuri e riflessi, i suoi grandi
occhi bruni su cui nessuno aveva fermata l’attenzione brillarono a un
tratto di vivi splendori come le finestre d’una stanza che s’illumina
improvvisamente. Chi non la vedeva da un pezzo durava fatica a
riconoscerla. — È la Tilde Rinucci? — Quella ch’era un mostriciattolo?
— È mai possibile?

Ella seguitava a venir dalla cuginetta ed era affettuosa, servizievole
come il solito. Però non teneva più gli stessi discorsi, non aveva più
gli stessi sarcasmi per le galanterie, per l’amore, pel matrimonio. La
Maria la guardava triste e meditabonda; l’altra arrossiva; erano lunghi
silenzi. Nell’andar via la Tilde si chinava a baciar la povera piccina,
e nel suo bacio c’era una compassione immensa.

Quand’ella era uscita, la Maria pensava. — Ella l’ha avuta la sua fata,
la sua fata buona. Per me non c’è niente.

Se avesse almeno potuto sapere una parte di ciò che sapevano gli
altri, se non fosse stata costretta a vergognarsi quando gli altri
parlavano in sua presenza delle loro letture, dei loro studi! A volte
supplicava il babbo di farle insegnar qualche cosa, ed egli, con la
morte nell’anima, rideva di queste sue ubbie, rassicurava che le donne
sapienti sono intollerabili. Che se cedeva alle sue preghiere, alle sue
lacrime, era ancora peggio. Ella non tardava a smettere, abbattuta di
spirito, esausta di forze. Era troppo, troppo difficile.

Un’estate Giorgio Leati tornò in famiglia per tre mesi affine di
prepararsi agli esami per l’Accademia militare. Rivide la Maria ch’era
sempre uguale, ch’era sempre la bambina, e insieme con la Maria rivide
la Tilde tanto diversa da quando l’aveva lasciata. Alla Maria diede
del tu come in passato; con la Tilde non osò, e le chiese balbettando:
— Come sta? — Avrebbe voluto dire: — La trovo tanto, tanto bella.
— Ma se non glielo disse con la bocca glielo disse con lo sguardo.
Ella lo intese e si fece del color della porpora. Egli, per distrarsi
dall’impressione ricevuta, sedette accanto alla Maria, prese le manine
di lei nelle sue, le raccontò mille aneddoti e la tenne di buon umore
per un’oretta. — Vieni spesso, sai — ella gli disse.

Egli veniva ogni dopo pranzo e restava fino a sera avanzata. —
Grazie, Giorgio, — diceva Rinucci — la mia povera Maria ti vede così
volentieri.

Giorgio abbassava il capo. Egli sentiva di non meritar questi
ringraziamenti: non veniva per la Maria, ma per la Tilde. Anzi avrebbe
voluto non venire, ma una forza maggiore di lui guidava i suoi passi
là dove sapeva d’esser aspettato. Eppure fra la Tilde e Giorgio
non s’erano scambiati una parola d’amore; solo i loro occhi s’erano
incontrati più volte, solo le loro mani s’erano intrecciate in qualche
stretta furtiva. Per stordirsi raddoppiavano di sollecitudini verso
la Maria ch’era anche più debole del consueto, si discervellavano per
intrattenerla con storielle piacevoli, la reggevano quand’ella voleva
alzarsi e camminare, le rassettavano i guanciali sotto la testa quando
si metteva a giacere.

Una sera che c’era un bel chiaro di luna stettero tutti e tre per una
mezz’ora sul balcone d’angolo che guardava il canale. Poi alla Maria
parve che tirasse un po’ d’aria, ed ella desiderò di rientrare nella
stanza. L’adagiarono sul canapè con uno scialletto sulle ginocchia. La
luna cadeva proprio sul suo visino affilato. Ella chiuse gli occhi. —
Ti disturba il chiaro? — le domandarono. — No. — Vuoi dormire? — No,
sto bene così. Parlate voi altri, vi ascolto.

Eppure di lì a poco sembrava ch’ella dormisse davvero. Faceva un gran
caldo. La Tilde, in punta di piedi, uscì di nuovo sul balcone. Giorgio,
un minuto dopo, la seguì piano piano.... Nessuno dei due s’accorse che
la Maria s’era levata a sedere. Tutt’ad un tratto ella mise un grido
acuto e cadde riversa. Li aveva visti darsi un bacio.

Non morì subito; morì il giorno appresso tra le braccia del padre a
cui ella diceva, e furono le sue ultime parole: — Tu solo mi hai voluto
bene.... tu solo.

Quando il piccolo corpo fu chiuso nella piccola bara, Alberto Rinucci
vi si gettò sopra singhiozzando. Oh perchè non poteva esser chiuso lì
dentro anche lui? Adesso sì la sua vita era veramente spezzata.

Al passaggio del funerale qualcheduno domandò: — Chi è il morto? — È la
bambina Rinucci — rispose un altro dei presenti....

Aveva diciannove anni.


  FINE.



DEL MEDESIMO AUTORE.


  _Alla finestra._ 4.ª edizione                     L.  3 50
  _La contessina_                                    »  3 —
  _Dal 1.º piano alla soffitta._ 2ª edizione         »  3 50
  _Due convinzioni_                                  »  4 —
  _Lauretta._ 3.ª edizione                           »  3 50
  _Nella lotta._ 2.ª edizione                        »  3 50
  —— Edizione illustrata da G. Amato                 »  4 —
  _Reminiscenze e fantasie_                          »  3 50
  _Sorrisi e lagrime._ 3.ª edizione                  »  3 50
  _Prima di partire_                                 »  4 —
  _In balìa del vento_                               »  3 50
  _L’onorevole Paolo Leonforte._ 3.ª edizione        »  1 —



Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici.




*** End of this Doctrine Publishing Corporation Digital Book "Prima di partire" ***




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