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Title: Un'eroica famiglia bresciana - Fiero misfatto e fiera vendetta
Author: Bettoni, Paolo
Language: Italian
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UN’EROICA FAMIGLIA BRESCIANA

FIERO MISFATTO E FIERA VENDETTA


   [Illustrazione: Qui accadde un abbracciarsi lungo e fervoroso,
   ecc. _Cap. IX, pag. 90._]


                               UN’EROICA
                           FAMIGLIA BRESCIANA

                                   —

                             FIERO MISFATTO
                                   E
                             FIERA VENDETTA


                              RACCONTI DUE

                                   DI
                             PAOLO BETTONI



                                 MILANO
                PRESSO LA LIBRERIA DI FRANCESCO SANVITO
              Contrada di S. Pietro all’Orto, N. 17 rosso.
                                  1861



                        _Proprietà letteraria._

                Tip. già Boniotti diretta da F. Gareffi.



UN’EROICA FAMIGLIA BRESCIANA



PARTE PRIMA



I.

Il Sepolcro.


La collina che sorge dal lato orientale appena fuori di Brescia, è
tutta sparsa di casini ameni e pittoreschi, da cui dipendono poche
pertiche di terreno, chiuso intorno da un muro di confine. Questi
poderetti, che i Bresciani chiamano _ronchi_, sono la delizia dei
loro possessori, per lo più negozianti e uomini d’affari, i quali
nella stagione autunnale v’installano le loro famiglie per ricrearle.
Eglino medesimi vi si recano la sera dalla città dopo finite le cure,
e ne discendono il mattino appresso. Queste passeggiate sono salubri
e consolanti all’uomo laborioso e dabbene. Per esse con alterna
vicenda si congiunge a’ suoi cari e se ne stacca vagheggiando il non
lontano piacere di rivederli alla fine del giorno. Le viti, gli alberi
fruttiferi, le civaje e qualche sorta di grano formano il prodotto di
queste terre sassose, ma fatte dall’industria feraci. Alla primavera è
bello il vedere dal sottoposto piano spiccare sul pendio, in mezzo al
verde generale, i mandorli ed i peschi nella loro fioritura bianca e
rossa. «È la grande coccarda italiana composta dalla natura, dicevano
i Bresciani per lo passato. Il governo austriaco la permette perchè
essa non dura che pochi giorni d’aprile. Verrà il tempo della coccarda
composta da noi uomini, e quella durerà tutto l’anno.» Alcuni _ronchi_
più elevati hanno un paretajo nominato _roccolo_, dove si pigliano
uccelli in abbondanza con gioja e soddisfazione di chi attende e
di chi assiste a questo genere di caccia. I Bresciani sono abili
e appassionati cacciatori tanto collo schioppo quanto colle reti.
Fortunato chi possiede un _ronco_, e può soggiornarvi a sua voglia.
Colassù egli respira un’aria purissima, e gode d’un orizzonte ben
disegnato e spazioso. Nei giorni sereni vede distintamente il campanile
e la chiesa di Montechiaro, che stanno alla distanza di dodici miglia.

La sera del 4 settembre 1849, uscivano da una di queste casette
suburbane la signora Elisa e Faustino suo unico figlio tredicenne, i
quali tenendosi per mano si diressero mesti e silenziosi verso un luogo
appartato in fondo al recinto. Eravi colà vicino al muro un’ajuola
seminata di fiori, nel mezzo dei quali sorgeva una piccola croce di
marmo bianco portante un’iscrizione in caratteri neri. Con religioso
raccoglimento i due visitatori s’inginocchiarono presso l’ajuola, e la
donna pronunciò queste parole, che il giovinetto ripeteva sommesso: «O
martire infelice di una patria più infelice, o vittima dell’austriaca
ferocia, ecco la tua sposa e il tuo figlio che ti recano il consueto
tributo d’amore e di dolore. Possa la tua spoglia commoversi dolcemente
della nostra vicinanza, mentre la tua anima ci guarda benigna dal
cielo, e gradisce il nostro affettuoso e pio officio. Deh, come noi ti
preghiamo, così tu prega Iddio, della cui vista sei beato, affinchè
ponga un termine alle calamità dell’Italia. Pregalo che tolga dal
nostro paese i mali della tirannide straniera, che voglia nella
sua misericordia udire i gemiti e vedere le lacrime di un popolo
straziato.»

Indi baciarono la croce e dal lugubre e venerato luogo si dilungarono.

La notte aveva disteso il fosco suo manto sulle universe cose. Alcuni
nuvoloni di fantastiche forme cangianti erravano pel cielo e facevano
alla luna densi velami, dai quali tratto tratto si sviluppava per
esserne poi eclissata di nuovo. Nei momenti della sua apparizione
si poteva scorgere la massa confusa della sottostante città, e
distintamente la torre merlata del Broletto, e la cupola della
nuova cattedrale. Veduta dai _ronchi_, Brescia pareva una necropoli,
tanto era cupa e muta in quell’ora. Non il mormorìo lontano dei suoi
abitanti, non la penombra de’ suoi edificj, non un indizio di città
vivente partiva da essa. Quanti dolori racchiudeva nel suo seno!
Quante cagioni di taciturnità e di mestizia! Il medesimo silenzio
malinconioso regnava per tutta la collina. Sotto i porticati e sopra le
aje delle case i _ronchieri_ pigiavano la vendemmia fatta di giorno, e
spannocchiavano il grano turco. Si vedevano i lumi rischiaranti la loro
opera, ma non si udiva un canto, non un grido festevole, di cui cento e
cento ne ripeteva in altri tempi l’eco giojosa.

Il marito della signora Elisa, giovane uomo amantissimo dell’Italia,
cittadino agiato e stimabile pagò largamente colla persona e cogli
averi il suo tributo di caldo patriota alla rivoluzione del 1848. Egli
impugnò le armi come volontario, e si mostrò eguale ai più consumati
nell’arte militare. Durante l’armistizio si rifugiò in Piemonte e
nella Svizzera, aspettando la ripresa delle ostilità. All’epoca della
battaglia di Novara i Bresciani, ingannati da false notizie intorno ai
fatti della guerra, assalirono la guarnigione austriaca della città
credendo con ciò di giovare alla causa dell’indipendenza. Il marito
della signora Elisa penetrò in Brescia con una mano di risoluti per
unirsi a’ suoi concittadini. Il generale Hainau, avuto notizia della
sollevazione, accorse dal Veneto con quattromila uomini onde domarla.
S’impegnò un accanito combattimento fuori della città e dentro le sue
mura. Hainau, che sapeva esattamente le cose di Novara, avrebbe potuto
risparmiare il sangue, disingannando i Bresciani e persuadendoli a
deporre le armi, essendo inutile ogni resistenza. Ma quell’uomo feroce
anelava alla vendetta, e voleva l’esterminio dei ribelli. Grandissimo
fu allora, come sempre, il coraggio mostrato dai Bresciani, che
contesero al nemico palmo a palmo il terreno della città. Le donne ed
i fanciulli presero parte alla pugna nelle strade, sotto gli atrii
delle case, dai tetti e dalle finestre. Intanto il presidio, chiuso
nel castello, lanciava projettili infiammati, che produssero incendj
di edificj. Alla fine i valorosi disfortunati dovettero soccombere
ad una forza di gran lunga superiore. Hainau impose enormi tributi ai
cittadini, e fece uccidere quanti venivano presi colle armi alla mano.
Egli preludiava a Brescia nelle stragi continuate dappoi in Ungheria.
Fra il numero dei fucilati vi fu il marito della signora Elisa, il
quale si distinse nel combattimento per una prodezza degna del nome
di eroismo, e morì intrepido, acclamando all’Italia e maledicendone
gli oppressori. La vedova di lui potè ottenere furtivamente il suo
cadavere, che venne sepolto dove abbiamo detto. Ella abbandonò la città
e si stabilì al _ronco_ in compagnia del figlio, alla cui educazione
si dedicava, siccome donna di molto senno e di grande coltura dotata.
Comportando con dignità e con fortezza d’animo la sua sventura,
non ruppe in lacrime imbelli nè in vane querimonie. Quasi schiva
dell’altrui compianto, chiuse in petto il dolore, e soltanto col figlio
vi dava sfogo per la comunanza degli affetti, e perchè nel giovinetto
cuore il miserando fato del padre fosse incitamento all’odio contro i
carnefici suoi. La signora Elisa varcava appena il trentunesimo anno.
Difficilmente si avrebbe potuto trovare una donna, che alle virtù del
suo sesso e alla formosità del volto e della persona congiungesse un
animo virile ed un’ altezza di sentimenti, come si verificava in lei.
Era una di quelle rare donne che si guardano con ammirazione, che
spirano dal loro insieme un incanto irresistibile, che sembrano avere
qualche cosa di superiore alla terrena condizione. Una di quelle donne
che in mezzo al tesoro delle loro prerogative serbano una modestia
singolare, e credono che non vi abbia virtù ad essere virtuose. Modelli
di fedeltà conjugale, non amano di essere lodate per ciò, e ascoltano
il complimento coll’aria di voler quasi rispondere: Che ne sapete voi?
Conoscendone i pregi morali, si è costretti a dire di queste donne che
la bellezza onde risplendono non è un dono del caso, ma una distinzione
di che Dio le ha segnate in premio dei loro meriti. Tali anime dovevano
necessariamente albergare in tali corpi.



II.

La Veglia.


La signora Elisa e Faustino, dopo aver conversato un quarto d’ora colla
famiglia del _ronchiere_, si erano ritirati in casa.

— Ah, sono passati più di cinque mesi dacchè il mio povero padre venne
ucciso, disse mestamente il fanciullo sedendo presso la madre. Parmi
l’altro giorno quando egli fu preso per essere condotto al supplizio,
quando ci serrava tra le sue braccia e ne volgeva quegli sguardi senza
pianto, ma esprimenti gli effetti disperati e le torture della sua
anima. Parmi di sentire ancora il fuoco dell’ultimo suo bacio, quando i
satelliti, impazienti dell’indugio, lo staccarono dai nostri amplessi.
Ah, di quel bacio io ho compreso tutto il significato, e tutti i dolori
che compendiava in sè. Sopra la guancia dove mi fu dato non rimasero i
segni visibili, ma la memoria della provata sensazione mi durerà quanto
la vita. Tu non hai voluto che vedessi il corpo di mio padre la notte
che lo portarono a seppellire laggiù in fondo.

— Troppo male ti avrebbe fatto quella vista, disse la madre con voce
commossa.

— Nondimeno il doloroso spettacolo che tu mi hai risparmiato me lo
presenta non di rado la mia immaginazione. Poco fa, come io vedeva
coll’occhio materiale il sepolcro, così con quello della mente vedeva
il cadavere squarciato nel petto e nella testa dal piombo austriaco. Le
piaghe mandavano sangue tuttavia.

— Non ti creare queste tetre immagini, che danno allo spirito inutile
travaglio. Tuo padre non ti venga al pensiero sotto apparenze cruenti
e paurose. Vedilo senza ferite, giacente come in placido sonno, colla
serenità nel sembiante, col capo cinto dell’aureola celeste. Sia un
martire glorioso, che gode della sua beatitudine, al quale sorride
l’idea che dal proprio sangue e da quello de’ suoi compagni germoglierà
un giorno la salute della patria. Dio e gli uomini tengono conto dei
dolori e delle vittime d’Italia; questi dolori e queste vittime saranno
seme che frutterà la sua redenzione.

— Ma perchè non l’affretta il cielo? La nostra patria geme da sette
lustri sotto il giogo straniero.

— Forse Iddio nella sua giustizia non troverà che l’Italia abbia
bastevolmente espiato le antiche e le nuove sue colpe. Forse non ci
crederà degni ancora della libertà, che i popoli debbono acquistarsi
con lungo e faticoso lavoro, onde saperla apprezzare e conservare come
supremo inestimabile bene.

— E noi credevamo l’anno scorso di averlo raggiunto questo bene tanto
sospirato. Infelice Carlo Alberto! Egli perdette il regno e la vita per
la causa italiana.

— Se a lui non fu dato di compiere l’alta impresa, facilitò ai posteri
le vie di riuscirvi. Concedendo la libertà al suo popolo, rinfrancò
le speranze dei fratelli italiani, i quali non riposeranno finchè non
l’abbiano essi pure conseguita. Vittorio Emanuele II promette di voler
continuare l’opera incominciata dal padre.

— Ah, l’indipendenza e la libertà sicure e durevoli debbono essere un
gran tesoro. Quanta gioja nei quattro mesi della nostra illusione,
quanti auguri di grandezza, quanti assegnamenti di felicità
sull’avvenire. E il mio povero padre come era lieto delle nuove sorti
del paese, egli che tanto aveva sofferto e contribuito a prepararle. In
primavera dell’anno passato tutto rideva intorno a noi. Il cielo aveva
un azzurro più splendido, le campagne un verde più bello, gli uccelli
cantavano più gajamente, l’aria era più pura e vivificante dopo la
cacciata degli Austriaci. Così pareva a me, che pure non comprendeva
ancora tutta l’importanza del grande avvenimento. Ma i nostri
oppressori sono tornati, e ci fanno sentire più di prima la durezza
del loro dominio. Tu, cara madre, mi dicevi che debbo odiare il governo
austriaco, e non i soldati che egli obbliga a servirlo.

— Così vogliono la giustizia e la carità cristiana. Essi non hanno
colpa del cattivo ufficio che sono costretti di esercitare fra noi. I
nostri soldati lombardi, che debbono compierlo in Boemia o in Galizia,
non sarebbe ragionevole che fossero odiati in quei paesi.

— Mi riesce molto difficile, per non dire impossibile, l’adempimento
del tuo precetto. Il governo austriaco io lo vedo in tutti coloro che
contribuiscono a sostenerlo. Imperatore, ministri e soldati non posso a
meno di comprenderli insieme nel mio odio. Quando incontro un ufficiale
che trascina da bravaccio la sciabola sul lastricato, che insulta ai
cittadini col ceffo audace o col sogghigno beffardo, io personifico in
lui il governo che ci sta sul collo. Si osserva però che la guarnigione
di Brescia, dopo gli ultimi fatti, ha rimesso alquanto dell’usata
spavalderia, e va più riguardosa col popolo, sia per rispetto de’ suoi
mali, sia per ammirazione del suo coraggio sventurato, sia per paura
di una nuova rivolta. Quest’ultima ragione dovrebbe essere la vera,
badando al gran numero di cannoni posti sulle mura del castello e sopra
lo spianato fuori di Porta Torrelunga. I quali indizi di minaccia,
anzichè terrore, destano fremiti di sdegno nei cittadini. Madre mia, io
sono orgoglioso di essere bresciano.

— Di essere italiano, devi dire.

— Sì, per la nazione, s’intende, ma pel municipio mi compiaccio
grandemente di appartenere al mio. Le istorie bresciane di tutte le
età registrano fatti egregi dei nostri avi, e noi nel valore e nel
patriotismo non siamo degeneri da loro.

— Più un paese è celebre per antiche e per nuove glorie, più debbono i
suoi figli mostrarsi degni di esso. Come ti comporterai tu verso la tua
patria?

— Amandola sempre e tanto maggiormente perchè infelice, servendola come
meglio potrò, e sacrificandole se farà d’uopo la mia vita. Tu sarai
contenta del tuo Faustino. Ascolta un poco, domani non è giorno di
scuola, e invece di discendere a Brescia, salirò sul monte per tirare
al bersaglio. Dopo domani poi, finita la lezione, tornerò al _ronco_
in compagnia del maestro, il quale, come ti ho detto, mi ha promesso di
venire a pranzo da noi. Preparagli qualche manicaretto gustoso, ed una
bottiglia del migliore. Sarà mia incumbenza di cogliere un piattello
di fichi dalla pianta esposta a mezzodì contro il pilastro, chè quelli
sono i più saporiti. Io voglio molto bene a Don Aurelio.

— Questo è debito tuo verso l’uomo che t’instruisce con cura affettuosa.

— E poi egli è stato maestro anche di mio padre, ed ha benedetto la sua
sepoltura. Verso sera lo accompagnerò fino alla porta della città, e
tanto meglio se vorrai discendere tu pure a fare quattro passi con noi.

Dopo questa conversazione, Faustino prese a leggere ad alta voce le
vite degli uomini illustri di Plutarco, e la madre di quando in quando
lo interrompeva per farvi dei comenti e delle osservazioni pregevoli
per concetto giudizioso e per chiarezza di esposizione. La signora
Elisa aveva una piccola raccolta di opere scelte con discernimento,
opere atte ad innalzare la mente ed informare il cuore al bene.
Con alcuno di questi libri intratteneva ogni sera il figlio, e tali
letture, fatte in simil modo, gli erano di grandissimo giovamento.
Don Aurelio poi ammaestrava il fanciullo nel corso ginnasiale, ed
era sommamente contento di lui, che possedeva tutte le qualità per
farsi amare dai precettori, e per destare in essi la compiacenza
dell’istruire. Oltre il suo bel sembiante, oltre la vivacità dello
spirito, l’acume dell’ingegno e l’applicazione volonterosa allo studio,
aveva il sentimento del beneficio che a lui si usava coll’ammaestrarlo,
e questo sentimento lo faceva palese nelle più graziose maniere. Dopo
una spiegazione ricevuta, dopo una difficoltà sparita, dopo un passo
fatto nel sapere, egli volgeva al maestro un dolce sguardo esprimente
la propria contentezza, e insieme il ringraziamento e la gratitudine a
lui.



III.

Il Bersaglio.


Il mattino seguente prima che spuntasse il sole Faustino e Checco il
servitore, armati ciascuno di un bastone colla punta ferrata, presero a
salire verso l’antico monastero di San Gottardo, passato il quale non
vi sono più abitazioni, e la collina si cambia in montagna incolta,
sparsa di roveti crescenti fra le roccie ignude. Continuarono per
greppi senza sentieri fino al luogo della loro meta. Questa ascensione
sarebbe stata faticosa per chiunque, ma Faustino e il suo compagno la
fecero colla leggerezza di due capriuoli. Penetrarono in una valletta,
e dal crepaccio di uno scoglio trassero una carabina, due pistole, la
munizione contenuta in un sacco di pelle, e un’assicella della forma
e grandezza di un tagliere, che serviva da bersaglio. Disposta ogni
cosa, Faustino principiò a sparare contro il segno. Checco gli stava al
fianco per caricargli l’arma, e per disciplinarlo nel modo di tenerla.

Checco, o Francesco, era un giovane di ventitrè anni, un alpigiano
della Val Trompia, calato a Brescia nel marzo 1848 per menare le
mani contro gli Austriaci. Egli si trovò in parecchie zuffe, e diede
prove ammirabili d’intrepidezza e di ardimento. Il padre di Faustino
lo vide combattere sotto i suoi ordini, e ne restò maravigliato. Gli
pose benevolenza, e lo adoperò in tutte le fazioni da lui comandate
al lago di Garda e verso i confini del Tirolo. Dopo il rovescio delle
armi italiane, lo condusse con sè nell’emigrazione. Ricominciate le
ostilità, Checco fece parte della schiera che comparve in ajuto della
sollevazione bresciana, e col solito valore affrontò gli Austriaci
nel villaggio di S. Eufemia, e poscia nell’interno della città. Egli
cadde ferito difendendo una casa dal furore nemico, e nella medesima
venne raccolto e curato fino alla guarigione. Intanto seppe la misera
fine del suo protettore, e fu per disperarsi di cordoglio. Nel mese di
maggio entrò come domestico al servizio della signora Elisa. Non è che
si fosse appigliato a quel partito pel bisogno di guadagnarsi il pane,
poichè la famiglia di Checco possedeva al suo paesello una casa, alcuni
campi, ed una fucina in cui egli stesso lavorava con due fratelli e
alquanti giornalieri. Neppure cambiò mestiere perchè trovasse duro
adoperare il maglio e sudare alla fornace. Un nobile sentimento gli
fu inspiratore di questa risoluzione. L’amore che aveva portato al suo
infelice capitano volle continuarlo al figlio e alla vedova di lui non
meno infelici. Così pel piacere di appartener loro in qualche modo e di
poterli avvicinare, rinunciò alla propria indipendenza e si sottopose
alla condizione di servo. Quando seppe chi giaceva nel sepolcro in
fondo al _ronco_, si commosse stranamente e pianse come un bambino.
Egli pure vi si recava spesso, e la sua faccia, naturalmente allegra,
diventava in quelle visite piena di tristezza. Checco aveva un cuore
dei più eccellenti. Quanto impetuoso e terribile era nel battersi,
altrettanto si mostrava dolce e mansueto nella vita ordinaria. In
pochi giorni si affezionò talmente a’ suoi padroni, che qualunque
sacrificio per essi gli sarebbe stato leggero. La signora Elisa studiò
attentamente questo giovane, e ben presto si persuase della bontà della
sua natura e de’ suoi costumi. Inoltre conobbe in lui retto senso e
perspicace intendimento, quantunque non fosse uscito dalla rozzezza
montanina che quel tanto procuratogli dalla scuola elementare del suo
villaggio. In grazia di queste rassicuranti qualità la signora Elisa
permise che egli fosse compagno a Faustino nelle sue passeggiate e
assistente a’ suoi ginnastici esercizii.

— Ma bravo, signorino, e cinque! In nove tiri farne cinque di buoni,
ciò prova che si ha occhio giusto e polso fermo, disse Checco tutto
contento.

— Dunque faccio io progressi? domandò Faustino egli pure contento.

— Maravigliosi, padroncino. Fra poco lo scolaro supererà il maestro.

— Via, burlone, in nove colpi tu non ne avresti sbagliato uno. Dopo
fatta colazione, allungheremo la distanza a trecento passi.

Checco aveva portato, secondo il solito, una valigia da armacollo
contenente pane, formaggio, frutta ed un fiasco pieno d’acqua. Seduti
per terra, si diedero a mangiare proseguendo il discorso.

— Che avverrebbe, disse Faustino, se comparissero qui improvvisamente
due gendarmi, o due croati, o due birri qualunque?

— Non mi sentirei inclinato ad essere cortese nè a far complimenti con
loro, soggiunse Checco ridendo. Non vorrei invitarli a restar serviti
della nostra colazione.

— E se eglino invece invitassero noi a seguirli in città dopo averci
legate le mani?

— Cioè prima di legarci le mani, perchè questa operazione sarebbe loro
impossibile, trattandosi del mio signorino e di me. Io risponderei che
non accettiamo l’invito di seguirli in città, nè in qualunque altro
luogo si fosse.

— Allora essi volterebbero via mogi, mogi, salutandoci garbatamente, è
vero?

— E perchè no, quando avessero visto che io mi faccio brutto, e che la
voce non mi trema punto? Ma prima di dar mano alla carabina che è qui e
alle pistole che sono lì, vorrei mostrarmi quel buon diavolo che credo
di essere, persuadendo i due individui in uniforme che noi non facciamo
niente di male, e pregandoli di lasciarci in santa pace. Ma io credo
che il padroncino avrà parlato dell’apparizione di gendarmi o simile
genia per solo supposto, e non già per timore che possa realmente
accadere.

— Sì, per semplice ipotesi, come direbbe il mio Don Aurelio. Io mi
reputo qui pienamente sicuro da ogni sorpresa, e giurerei che nessuna
pattuglia si è mai sognata di fare le sue ronde in queste solitudini
alpestri. A quale scopo verrebbero quassù a rompersi le scarpe? Mia
madre è tranquilla al pari di me. Se avesse avuto delle inquietudini,
non mi permetteva certamente quello che mi ha permesso.

— Delle inquietudini, per verità, ne ha avute la sua signora madre, ed
era giustissimo e naturalissimo che ne avesse. Ma io le ho dissipate,
informandola del luogo recondito e selvaggio dei nostri esercizii, e di
tutte le cautele che abbiamo prese per tenerli nascosti. E poi ella è
persuasa che suo figlio, affidato a me, non può correre alcun pericolo,
perchè io lo difenderei a costo della mia vita.

— Quanto sei buono e affezionato a noi, mio caro Francesco. Tu
congiungi la forza e il coraggio del leone alla benignità dell’agnello.

— Che bel merito! Sono due qualità che avrei comuni coi quadrupedi,
disse il giovane ridendo cordialmente.

— Come hai tu imparato ad amare la patria, e odiare i suoi nemici?

— Non fa bisogno di studio per imparare queste cose; sono sentimenti
che nascono con noi, e si sviluppano col vivere. Noi amiamo
naturalmente la nostra casa, e odiamo coloro che ce la usurpano e ci
maltrattano per mantenersene in possesso.

— Bravo, Checco!

— Non occorre di aver sudato sui libri per arrivare a saper tanto. Il
suo povero padre si compiaceva di farmi chiaccherare sull’articolo
della patria, e diceva di essere contento delle mie opinioni. Ah,
quello era un vero italiano! Suvvia, non si rattristi, chè la sventura
non ha rimedio. Il tempo guarirà il suo dolore, e farà spuntare il
giorno delle vendette.

— Prosegui pure, io sono tranquillo, disse Faustino con un profondo
sospiro.

— Egli mi voleva bene il suo signor padre, e mi trattava come se non
vi fosse stata una grande distanza fra noi. Mi sono divertito molto,
ed anche istruito un poco nel vedere il mondo. A Genova, a Torino e
nella Svizzera ho potuto farmi un’idea dei paesi indipendenti e liberi,
e conoscere i vantaggi di un governo proprio e nazionale. Il mio buon
signore aveva amici, e riceveva dimostrazioni di stima in ogni dove.
Era sempre coi liberali a discutere e concertare provvedimenti per la
vicina riscossa.

— Aimè, egli doveva tornare per mostrarsi appena a’ suoi cari. Egli
doveva rivedere la sua Brescia per incontrarvi la morte. E qual morte!

— È stato un orribile destino, bisogna convenirne. Ma almeno l’infelice
non seppe il trionfo dell’Austria a Novara, e la nostra ricaduta nella
schiavitù. Come avrebbe la sua anima sopportato questo tormento?

— Ah, ah! proruppe Faustino ridendo colle lacrime agli occhi. Era un
riso che faceva pietà, e Checco rimase stupito a guardarlo. Ah, ah! tu
credi che io venga a tirare al bersaglio per trastullo ginnastico, per
vanità di forare un’asse, per compiacenza di sentirmi dir bravo? Che
semplicione tu sei! A quell’asse io sostituisco mentalmente la testa o
il petto di un soldato austriaco. Capisci, Francesco? Lo so anch’io che
un’altra rivoluzione dovrà accadere. Chi può sopportare questi barbari
ladroni? questi esecrabili desolatori d’Italia? Non si tratta di lepri
nè di pernici. Io imparo a colpir giusto per darmi ad un altro genere
di caccia. O semplicione di Checco a non indovinare il vero scopo del
mio studio. Venga pure anche domani la rivoluzione, o altra causa di
combattere il Tedesco lurco. Io sarò nelle prime file. Che nessuno
mi guardi con occhio di dispregio o di compassione; io non sono più
un fanciullo. Gli Austriaci, uccidendomi il padre, mi hanno fatto di
sbalzo diventare un uomo. Morte e sterminio agli Austriaci!

Tutto ciò il giovinetto disse con esaltazione convulsiva, mancandogli
tratto tratto le parole, come accade a chi è troppo appassionato e
pieno del suo soggetto. A questa specie di orgasmo successe una calma
silenziosa. Allora Checco, uscito dal suo stupore, disse fra serio e
scherzoso:

— Non mi piace di passare per un semplicione, come il signorino mi
ha chiamalo due volte in un minuto. Che diamine! Io non indovinare
il perchè egli aspira ad essere un gran bersagliere? Non so io di
chi è figlio, e quali sentimenti nutre nell’animo? Sarebbe stato un
fargli torto se io gli avessi detto: Il fine per cui deve imparare a
ben dirigere le palle si è per mandarle all’indirizzo degli Austriaci
quando verrà l’occasione. Orsù, aggiungiamo alla distanza altri
quaranta passi, e poi ripigliamo il tiro.

Checco numerò i passi, e Faustino, collocatosi al nuovo posto, continuò
per un’altra mezz’ora l’esercizio. Indi, rimesse le armi e la munizione
nel nascondiglio, discesero verso casa.



IV.

L’anniversario.


In quel giorno si compiva il quattordicesimo anno dacchè la signora
Elisa aveva sposato il padre di Faustino. Infatti il 5 settembre
1835 era stata benedetta nella chiesa parrocchiale di S. Alessandro
l’unione di Elisa V. con Odoardo S. La donzella contava diciassette
anni, e il giovane ventiquattro, ammirabile coppia fra quante ne
avesse mai assortite il cenomano paese. Tutti lodavano l’avvenenza, le
doti egregie e le conformità dell’indole degli sposi, e ne traevano
auspici di sicura felicità. La stima scambievole aveva generato lo
scambievole amore. Elisa pose il colmo al suo quando seppe di Odoardo
il seguente fatto. Era il giovane uscito appena di minore, e divenuto
padrone delle sue sostanze. Accadde che per l’improvviso traslocamento
di un magistrato suo inquilino rimanesse vuoto l’appartamento che egli
occupava in casa sua. Un colonnello austriaco desiderò di appigionarlo,
confacendogli assai per la sua bella e comoda situazione. Odoardo
ricusò replicatamente di accordarglielo, malgrado le istanze del
municipio e del comando militare, che non trovavano buone le ragioni
del suo rifiuto. Temendo egli che la forza potesse per avventura
costringerlo a cedere, mandò un giorno una truppa di muratori a
demolire l’appartamento, sotto pretesto di volerlo con altro disegno
rifabbricare. Per eseguire il suo pensamento non badò al sacrificio
di alcuni pregevoli affreschi di Lattanzio Gambara. Così fu liberato
dal fastidio di dover albergare in casa sua un guerriero dell’Austria.
Il giovane ebbe il voto e gli applausi dei concittadini liberali, non
che una maggiore intensità d’affetto e molti sorrisi dolcissimi della
sua Elisa. Le nozze vennero celebrate poco appresso, e la felicità
degli sposi fu intera e costante. I detrattori del matrimonio, nella
corruzione dei loro sentimenti, lo chiamino pure la tomba dell’amore, e
scherzino sulla luna di miele e sui papaveri conjugali. Due belle anime
troveranno immancabilmente in questa unione una fonte perenne di pure
gioie, un alimento alla virtù, un conforto nelle sventure, un sostegno
scambievole nel cammino della vita. I ritrosi al matrimonio non amano
davvero, e non hanno fede nell’amore. Una tale riflessione è stata
fatta mille volte, ma, perchè la ci piace sommamente, abbiamo voluto
ripeterla anche noi, sebbene persuasi di dire ciò che tutti sanno.

La signora Elisa pensava adesso ai beati giorni andati, sedendo nella
sua camera, cogli sguardi fissi nel ritratto di Odoardo che teneva
in mano. La bella infelice, vestita a bruno, atteggiata pietosamente,
coll’angoscia dipinta in volto, avrebbe commosso chiunque fosse stato a
vederla. Essa ricordava la storia del suo amore, i cari impulsi che vi
diedero principio e incremento, i palpiti giojosi della corrispondenza,
l’ora delle speranze e delle brame compiute, le delizie insomma della
sua vita di sposa. In mezzo a queste rimembranze di felicità sorgeva
la tremenda coscienza di quanto era accaduto all’uomo diletto, nella
cui vana immagine teneva l’occhio ed il pensiero intenti. A tale
confronto la misera imbiancava di pallore, e comprimeva sul ritratto
le labbra tremanti. Alzatasi da sedere, traeva da uno stipo alcune
lettere affettuose di Odoardo, e leggevale colla vista velata dal
pianto. Discendeva al sepolcro, e quivi più acerbe sentiva le memorie e
più cocente l’affanno. Immaginava di udirsi chiamare flebilmente dallo
sposo, di vedere il suo corpo agitarsi pel desio di lei. Parevale che
la croce si movesse, che i fiori dell’ajuola si rovesciassero, e la
terra si aprisse per dar passaggio al redivivo.

Intanto Faustino si avvicinava a casa, e sull’erta strada la sua
voce risuonava da lungi, e veniva a scuotere la madre che studiando
di ricomporsi in calma, si mosse ad incontrarlo. Il giovinetto era
acceso in volto dei bei colori umidi della sanità, che appariscono
dopo un lungo moto allorchè le forze furono soverchiamente esercitate.
Bisognava vedere come la madre gli tendesse le braccia, come lo
stringesse al seno, e con quale effusione di tenerezza lo guardasse
mentre gli spartiva sulla fronte sudata i capegli disordinati, e lo
garriva dolcemente del suo affaticarsi. In questo modo ella esprimeva
di non essere nella sua sciagura deserta d’ogni consolazione, poichè
le restavano i tesori dell’amore materno. Faustino non poteva giungere
in un momento più opportuno, e forse comprese che la sua presenza
quietava un doloroso tumulto nell’animo della madre. Così faceva
credere corrispondendo alle carezze di lei colla tenera premura non
solo di chi divide l’amore, ma di chi è conscio del beneficio che opera
in quell’istante. Francesco se ne stava a guardare come assorto in
estasi, e si sentiva felice d’essersi dato anima e corpo a quelle due
creature che innamoravano di loro. È senza dubbio uno spettacolo che
rapisce soavemente il vedere una bella madre in espansione di cuore
col suo bel figlio, che la rassomiglia tutta nelle sembianze, nei
sentimenti e nelle inclinazioni virtuose. Noi ammiriamo in quel gruppo
l’opera stupenda della natura, la sua misteriosa potenza che, nella
riproduzione degli esseri, sa dare quando vuole alla materia e allo
spirito i caratteri della più perfetta somiglianza.



V.

Amori nascenti. — Don Aurelio. Arnaldo da Brescia.


Il domani all’ora consueta Faustino si recò alla città per prendere
lezione. Entrando dal maestro, s’imbattè in Luigia, una giovinetta di
undici anni, figlia del padrone di casa, la quale soleva intrattenersi
famigliarmente con don Aurelio e con la governante di lui. All’arrivo
di Faustino, si congedò in fretta e partì. I due fanciulli si
guardarono come di furto, si confusero un poco, e non si dissero
parola. Altre volte si erano veduti in questo luogo, e sebbene col
loro contegno non lo manifestassero, pure avevano sempre desiderato
e avuto caro d’incontrarsi. Quando Luigia udì raccontare per qual
fatto crudele Faustino perdette il padre, la pietà commosse vivamente
il suo tenero cuore. Questo sentimento ne generò un altro che ella
non sapeva definire e non osava esternare, ma di cui provava ognor
più gli effetti potenti. Avrebbe voluto che Faustino fosse stato
suo fratello, che avesse diviso con lei l’abitazione, gli studi ed
i trastulli. Quel vederlo di rado e solo per caso le dispiaceva, e
dopo vedutolo si dava della sciocca perchè non era stata capace di
fermarsi un momento a parlare con lui di qualche cosa. In avvenire
voleva comportarsi diversamente, vale a dire mostrarsi disinvolta e
garbata. Ma toccherebbe a lui, pensava, di entrare in discorso, perchè
i giovani non sono timidi come le fanciulle. Invece egli sembra muto e
non curante di me. Che sia superbo? Che io gl’inspiri soggezione? Che
il suo dolore gl’impedisca di far complimenti? Poverino, se volesse
parlare con me del suo dolore, se mi dicesse: Signora Luigia, o Luigia
semplicemente, io non ho più padre, perchè gli Austriaci me lo hanno
fucilato; egli vedrebbe come saprei compiangerlo e confortarlo. Ma non
appartiene a me di toccare questa piaga. La fanciulla, nell’ora che
sapeva finita presso a poco la lezione di Faustino, mettevasi, potendo,
in agguato alla finestra per vederlo dilungarsi nella contrada. Lo
seguiva coll’occhio, facendo un giudizio assai favorevole sull’armonia
della sua persona e sulla grazia del suo portamento. Col pensiero lo
accompagnava anche dopo scomparso all’occhio, e inoltre volava a lui
nel tempo che stava silenziosa nelle sue occupazioni.

Non altrimenti sentiva Faustino riguardo a Luigia. La sua immagine
gli era entrata gradevolmente nell’animo, e gli dava soggetto di
raccoglimenti e di silenzi pensierosi. Egli aveva notato nella
giovinetta un dolce suono di voce, una bella capigliatura bionda,
e due occhi pieni di soavità. Cercava in sè la spiegazione del come
questi particolari avessero il potere di occuparlo in tal modo, e la
cosa gli riusciva inesplicabile. Sebbene la penetrazione e lo sviluppo
intellettuale fossero in Faustino superiori alla sua età, nondimeno in
ciò che riguarda l’amore e la condizione dei due sessi, egli viveva
ancora nell’ignoranza, eccettuato quei vaghi presentimenti, quelle
inspirazioni confuse, quelle voci lontane e misteriose con cui la
natura preludia nei giovinetti. Egli sentiva che Luigia esercitava
sopra di lui una dolce influenza, che sarebbe stato contento di mirarla
a suo agio, di averla in compagnia al _ronco_, e di ammetterla essa
pure alle carezze di sua madre. Con tutto ciò era quasi vergognoso
in sè medesimo di questo nuovo affetto, e lo nascondeva a tutti
studiosamente, non sapendo come giustificarlo. Luigia non era un
fanciullo per potersene fare un amico, nè una sorella per trattarla
come tale.

Don Aurelio era un prete di cinquantacinque anni, distinto per le virtù
del sacerdote e del cittadino. In lui la religione formava un tutto
coll’amore di patria. La sua vasta dottrina e l’esemplarità de’ suoi
costumi avrebbero potuto collocarlo in alto seggio, se la sua modestia
e la moderazione de’ suoi desideri non lo avessero fatto alieno dagli
onori e persuaso alla vita umile e tranquilla. In gioventù era stato
pubblico professore di belle lettere, ma presto si ritirò dall’arringo,
non sapendo piegarsi al sistema d’istruzione voluto dal governo
tedesco. Da ultimo aveva accettato di essere maestro a Faustino,
derogando per lui solo alle proprie abitudini in grazia dell’affetto
che nutriva pel fanciullo, e della memoria cara e dolorosa che serbava
per suo padre. Provveduto di tremila lire di rendita vitalizia, abitava
un piccolo ma decente e allegro appartamento in una casa posta nella
contrada di S. Barnaba. Le stanze erano mobigliate con semplicità non
priva di buon gusto, e spiravano un’aura di bell’ordine e di mondezza,
mercè le cure di Marta la governante, ottima donna e di piacevole
aspetto, benchè avesse varcato da un pezzo l’età sinodale.

Don Aurelio sorrise benevolmente a Faustino, gli domandò novelle di sua
madre, e si dispose a dargli lezione. Il giovinetto avendo osservato
sullo scrittoio un libro col titolo _Apologia di Arnaldo da Brescia
scritto dal canonico Guadagnini_, domandò al maestro chi fosse questo
Arnaldo. Don Aurelio, sedendo nella sua poltrona, così prese a dire:

— Arnaldo era un pio e sapiente monaco bresciano del secolo XII, uno
dei tanti uomini grandi che in ogni epoca e in ogni paese patirono e
morirono per la causa della verità e della giustizia. Porgimi attento
orecchio, e sarà soddisfatta ampiamente la tua non vana curiosità. I
costumi della corte di Roma e del clero cattolico in generale erano
vergognosamente corrotti ai giorni di Arnaldo, con grave scandalo
e dolore dei fedeli. Alcuni pontefici, e più degli altri Gregorio
VII, cercarono di rimediare a questa depravazione, ma inutilmente,
perchè il male aveva messo profonde radici. Era difficile che uomini
sbrigliati nei vizi potessero sottomettersi al freno di austere
riforme. Nei secoli antecedenti, quando i papi non erano re, ma
soltanto capi della religione e vicari di Cristo in terra, i costumi
degli ecclesiastici erano puri ed esemplari, e quei tempi furono i più
gloriosi al cristianesimo. Ben a ragione si attribuiva dunque il brutto
disordine alle cure mondane, alle ambizioni di potere, all’amore delle
ricchezze e del fasto, a cui il clero si era abbandonato. Gli uomini
saggi e dabbene conoscevano queste verità, e le andavano propagando.
A capo di essi figurava Arnaldo, il quale nella signoria temporale
dei papi vedeva inoltre un ostacolo grandissimo al riordinamento
politico d’Italia. Egli predicava altamente che per purificare la
vita dei chierici, per giovare alla chiesa cattolica, e per provvedere
insieme alla libertà della patria, di cui era tenerissimo, bisognava
separare i due poteri, e fare che l’autorità dei pontefici e dei
vescovi si esercitasse unicamente nelle cose spettanti al regno
de’ cieli. La vita intemerata del monaco bresciano, i suoi studi
profondi, la dignità del suo aspetto, il fervore e l’eloquenza con cui
predicava la sua dottrina, gli attiravano un gran numero di fautori
e di seguaci. Era naturale che la corte romana e tutti i preti che
abborrivano dal ritornare alle virtù evangeliche diventassero suoi
nemici e persecutori, come infatti avvenne. In mancanza di ragioni per
combattere la validità delle sue massime, ricorsero alla calunnia e lo
accusarono che spargesse la discordia e l’eresia nella cristianità. Il
popolo e molti signori che lo amavano e tenevano in altissima stima,
presero a difenderlo caldamente, e sempre più si sdegnarono contro
i suoi avversari. La lotta durava da gran tempo, e il partito della
riforma e della libertà ingrossava ogni giorno. Roma era il teatro
della guerra civile, e la sovranità temporale del papa minacciava
di cadere. Se non che dopo un lungo alternare delle sorti, la causa
dei liberali ebbe la peggio, e Arnaldo, fuggitivo e perseguitato, si
ricoverò in un castello dei conti della Campania suoi potenti amici.
Federico Barbarossa veniva intanto a Roma onde ricevere la corona
imperiale dalle mani di Adriano IV. Per compiacere a lui, che glie ne
faceva grandi istanze, e che anzi lo esigeva come condizione di buon
accordo fra loro, Federico costrinse colla forza i conti di Campania a
consegnare Arnaldo al pontefice. Inorridisci, figlio mio; il virtuoso
monaco fu impiccato, il suo corpo arso infilzato in uno spiedo, e
le sue ceneri disperse nel Tevere per timore che il popolo avesse a
venerarle come quelle di un santo.

— Misero Arnaldo! disse pietosamente il fanciullo, che aveva ascoltato
il racconto senza battere palpebra. Egli fece questa orribile fine per
aver tentato di operare il bene! Il pontefice che ordinò la sua morte
fu troppo ingiusto e spietato. Il rappresentante di Gesù Cristo in
terra non doveva trascorrere a tanta enormità.

— Faustino caro, molti pontefici, prima e dopo di quello, furono
biasimevoli per atti iniqui e per turpitudini vergognose. Non ti cada
però in pensiero di minorare il rispetto ai successori di S. Pietro,
e la fede che dobbiamo avere nella nostra santa religione. Bisogna
distinguere il sacro dal profano, e considerare che il male non si
commette dal sommo pastore delle anime, ma dal principe interessato
negli affari mondani.

— Questo è vero, ma io non riesco facilmente a fare nello stesso uomo
una tale distinzione, e trovo che le opere cattive del principe tolgono
il pregio a quelle sante del papa.

— Ecco perchè il papa non dovrebbe essere principe, e perchè tutte le
persone di buon senso condannano questa incompatibile unione dei due
poteri. Il regnante deve non di rado adoperare dei mezzi ed esercitare
degli atti che non sono in armonia colle leggi della giustizia
eterna, colla mitezza della religione, e colla santità degli uffici
sacerdotali.

— Per esempio, quando si tratta di aggravare il popolo, d’intraprendere
una guerra, di riempiere le carceri d’infelici, e di sottoscrivere
una sentenza di morte. Che queste durezze, o necessità dolorose, si
compiano dal papa, è cosa che fa male a sapersi.

— Non è dunque offendere la religione il desiderare che finisca
l’impero mondano dei pontefici; anzi le verrebbe da ciò maggior lustro
e venerazione. Il nostro divin Salvatore ha detto agli Apostoli che
il suo regno non era di questa terra. Che poi il papa-re sia una
calamità politica del nostro paese, è un fatto evidente e fuori di
qualunque dubbio. La storia di dodici secoli lo attesta con mille prove
irrefragabili. I papi furono sempre la causa principale della debolezza
d’Italia, i mantenitori delle sue divisioni, i fautori costanti del
dominio straniero, in una parola il grande inciampo alla sua unità e
indipendenza. Questo vero abbiamo dovuto sperimentarlo ancora l’anno
passato. Pur troppo la condotta di Pio IX ci è stata fatale. Se egli
avesse levato la sua mano e la sua voce potente a benedire le nostre
armi, non vi sarebbero più Austriaci fra noi.

— Ah, mi dica, signor maestro, come vede lei nel suo senno, come
giudica lo stato presente d’Italia? La nostra ricaduta nel servaggio
durerà lungamente? Potremo noi presto rialzarci?

— Le nostre condizioni attuali sono tristi e deplorabili certamente,
ma non si deve mai disperare della salute della patria. Infecondi non
saranno i dolori patiti nè il sangue versato, se noi sapremo mantenerci
saldi nei proponimenti generosi, e disposti ai grandi sacrifici.
Sopportiamo le catene col fremito dei forti, e non coll’abbattimento e
colla rassegnazione dei pusilli. Viva si mantenga la favilla che deve
un giorno produrre l’incendio distruttore dell’Austria. Alla scuola
dei patimenti e dell’esperienza si emendino intanto gli errori e le
fiacchezze del passato, si scuotano gl’irresoluti, abbiano fine le
contrarietà dei partiti, e vedano una volta gl’Italiani che un solo
e concorde pensiero deve guidarli nell’opera del loro riscatto. Nel
silenzio fervoroso facciasi intanto ai nemici la guerra in petto.
Gli animi trovino lume di consigli e di espedienti, attingano forza e
tenacità di voleri, progrediscano nelle disposizioni per l’avvenire,
e si preparino caldamente all’azione. Il tempo matura gli avvenimenti
preveduti, e ne porta sovente d’inaspettati. Noi dobbiamo essere pronti
a profittarne.

— Questi argomenti rialzano le speranze prostrate. Io pure li trovo
nel mio interno, ma confusi così con dubbi e timori da non poterli
accettare come verità persuadenti e confortevoli. Bisognava che fossero
esposti da lei, e fortificati dalla sua autorità.

Dopo questo ragionamento si occuparono delle cose di scuola.



VI.

Una visita funesta, ed una consolante.


Accadeva intanto al _ronco_ un tristissimo fatto. La signora Elisa era
andata a trovare e soccorrere una povera vecchia inferma che abitava
a mezzo miglio di là. Nella sua assenza un capitano austriaco, legato
il cavallo al cancello, si presentò in casa a domandare della signora.
Francesco, inquieto di quella strana e sinistra apparizione, rispose
che la signora si trovava fuori nei dintorni, e che egli non sapeva
quando sarebbe rientrata. Aspetterò, soggiunse il capitano, e si diede
a passeggiare pei sentieri del _ronco_. Arrivato al luogo funebre che
sappiamo, egli parve maravigliarsi di vedere colà un sepolcro, e lesse
corrugandosi l’iscrizione sopra la croce. Avanti la rivoluzione del
1848 questo capitano erasi follemente innamorato della signora Elisa,
e le aveva scritto più lettere da lei rimandate o gettate al fuoco
senza aprirle. Non ultimo rovello degli Italiani sotto l’Austria era
di vedere le loro donne contaminate o almeno insidiate dai biondi
don Giovanni del settentrione vestiti delle insegne di Marte. Per
l’abborrimento della signoria straniera questa considerazione valeva
non meno delle altre riguardanti la libertà, la dignità patria, le
vite e le sostanze dei cittadini. Pensi il lettore qual donna fosse la
signora Elisa, e comprenderà come ella doveva sentire l’offesa fattale
da un tale uomo.

Costui, colla sua malnata fiamma in seno e coll’ira di vederla
disprezzata, dovette abbandonare Brescia, e starsene sempre occupato
nell’assedio di Venezia. Dopo diciassette mesi di resistenza, la
generosa città era caduta, e il capitano si restituiva a Brescia, irato
ancora delle antiche ripulse, non guarito del suo amore, ma neppur
disperato di poterlo contentare. Egli sapeva già che la signora Elisa
non aveva più marito, e nell’animo villano l’idea del fatto atroce che
la vedovava non fu ritegno alla temerità ond’era mosso. Ella comparve,
e restò petrificata al vedere il capitano che attraversava il cortile
per avvicinarsi a lei. Non dubitò circa il motivo della visita, e
richiamati gli spiriti smarriti, si fermò sopra la soglia sfolgorando
di dignità imponente.

Lo sguardo e la domanda che gli rivolse erano tali da confondere
qualunque audace, e rimuoverlo da’ suoi colpevoli intendimenti. Nessuno
è indifferente dinanzi ad un nobile e fiero atteggiamento, al cospetto
di un volto severamente animato, che protesta in favore della propria
virtù, e combatte chi la insidia. Perciò anche il teutono insolente,
fra il subito commovimento della sua passione, e fra i lampi di quella
beltà sdegnata, rimase un istante come interdetto. Non fu che un
breve istante. La passione medesima, e il contegno alteramente ostile
della donna che la inspirava, lo irritarono ben tosto e gli furono
stimolo all’impresa per cui era venuto. Non badando all’intimazione
di ritirarsi, egli tenne dietro alla signora Elisa nella prima stanza
a terreno, e le disse: Io vi amo da lungo tempo, e soffro i tormenti
dell’amore disprezzato. Abbiatemi finalmente pietà. Queste parole
del tracotante che la seguiva suo malgrado, il pensiero del proprio
stato, e l’idea del sepolcro vicino aumentarono in essa le cagioni
del turbamento, e diedero maggior espressione di sdegno alla sua
persona. Ritta in piedi presso una finestra, non uscendo tuttavia
dalla compostezza dignitosa, e contenendo col cenno imperioso il suo
persecutore.

— Statemi discosto, rispose, non mettete il colmo alla vostra temerità.

— Io vi amo ardentemente, replicò il capitano, e vi supplico di
ascoltarmi.

— No, cessate!

— Una volta il mio amore poteva essere biasimevole, ma ora non è più
tale. Voi siete vedova, ed io vi offro la mia mano di sposo.

— La vostra mano di sposo! disse la signora Elisa con un accento
esprimente il ribrezzo, l’indegnazione e la vergogna ad un tempo. Voi
non comprendete la santità della sventura, nè i riguardi alla medesima
dovuti. Andate, vi ripeto, la vostra presenza mi è insopportabile.

— No, Bresciana rigida e superba quanto bella, disse il capitano
elevando la voce e gestendo col frustino, io non andrò senza che
mi abbiate ascoltato. Perchè abborrirmi così? Sono io deforme? Non
possiedo ricchezze? Non vanto buoni natali?

— Immensa è la distanza che passa fra me, donna bresciana, e voi,
capitano austriaco. Abbastanza mi avete insultata. Partite!

— L’odio politico e l’antipatia di nazione lasciateli andare, e
avvezzatevi alla nostra fratellanza. Volete o non volete, noi saremo
sempre i padroni d’Italia. Gli ultimi avvenimenti vi hanno raffermato
vie meglio il nostro dominio.

Nell’animo della signora Elisa i sentimenti già manifestati toccarono
l’estremo della loro forza, e questa volta apparvero sul di lei
volto espressi colla terribile maestà di una regina che fulmina un
cortigiano, il quale abbia tentato di oltraggiarla.

— I soldati e gli ufficiali dell’Austria, disse, sono una masnada di
sicari, di barbari e di brutali. Essi ignorano perfino i principii
dell’onor militare che comanda il rispetto alla donna. Uscite! aggiunse
coll’indice teso verso la porta.

— Vi ubbidisco, signora, terminò il capitano con un sogghigno del più
infausto presagio, e partì.

Durante questa scena Francesco, stando di fuori, si era sempre
mantenuto visibile presso i vetri della finestra.

Don Aurelio e Faustino, terminata la lezione, si avviarono al _ronco_.
Il fanciullo procedeva rispettoso al fianco del maestro, si uniformava
al suo lento camminare, e stava attento a procurargli la parte più
comoda della strada. Intanto discorrevano di una cosa e dell’altra,
cavando materia dagli oggetti che si succedevano ai loro sguardi. Al
principiare della salita, Faustino porse il braccio a Don Aurelio,
come soleva fare ogni volta che ascendevano in compagnia. Il servire
d’appoggio al suo maestro eragli motivo d’onore e di piacere. A
metà cammino esisteva una di quelle cappellette rustiche, appellate
_santelle_ nel dialetto dei paesani. Là si riposarono alquanto sopra
un sedile di pietra che vi stava dinanzi, e che era il luogo della loro
sosta consueta. Quindi ripresero la salita, e dopo venti minuti furono
a casa.

Nella signora Elisa non apparivano traccie del tumulto d’animo
sostenuto due ore prima, ella pareva tranquilla mercè gli sforzi
della dissimulazione. Piena di cortesie cordiali fu l’accoglienza da
lei fatta a Don Aurelio, siccome all’istruttore del suo Faustino e
all’amico intimo della famiglia. Dopo pranzo si aggiravano pei viali
del _ronco_, e il buon prete ammirava l’abbondanza delle mandorle
che facevano capolino dai malli semiaperti, e maravigliava dinanzi
ad un pero invernino, i cui frutti si distinguevano per grossezza
straordinaria. I tre passeggianti, venuti a riuscire al sepolcro, si
fermarono un istante cogli occhi rivolti alla croce, e cogli animi
compresi di tristezza. Tuttavia non dissero una parola, e mantennero
il silenzio finchè si furono di là discostati. Ma la signora Elisa
aveva troppo sofferto in quel giorno per non venir meno alla sua
forza. Il trovarsi vicino al sepolcro del marito coll’uomo che avevalo
conosciuto fanciullo, che gli era stato maestro, che lo aveva amato
e pianto, destò in lei una commozione angosciosa che potè comprimere
a stento. Cercò la calma col mettersi a contatto di chi era in certo
modo la causa della commozione medesima, e per la prima volta prese
il braccio di Don Aurelio, che avrà compreso il perchè di quell’atto
insolito, usatogli in quella circostanza con un sospiro ed un tremito
abbastanza significanti. Sul far della sera Faustino e la madre
accompagnarono l’ospite fino all’ingresso della città, malgrado che
egli si fosse opposto al loro grazioso volere. Nel retrocedere, la
signora Elisa diede uno sguardo ai cannoni schierati presso la Porta,
sui quali batteva la luna e li faceva corruscare d’una luce sinistra.
Il turbamento morale non ancora abbonacciato, l’ora malinconica e la
strada deserta generarono nel suo animo tetri presentimenti e paurose
inquietudini. Le pareva che pendesse sopra di lei una nuova sventura,
che fosse minacciata di un nuovo travaglio senza saper quale, e
frattanto sentiva il bisogno irresistibile di camminare stretta al
figlio. Giunta a casa, lo dispensò dell’usata lettura, se lo fece
sedere accanto sopra il sofà, e cintogli con un braccio il collo,
posavagli la guancia sul capo, e lo andava affettuosamente carezzando.
Nel tempo stesso gli rammentava alcuni aneddoti della sua infanzia,
certe scene curiose, certe risposte argute da lui date alla tale
persona nella tale occasione. Gli ricordava la sua balia, i fanciulli
suoi compagni, i pericoli corsi, i luoghi da lui abitati, ed altre cose
più o meno rilevanti, e dove era argomento di lode, di meraviglia,
di timore e di contento alternava i baci alle parole. Ella voleva in
quell’ora, come aveva fatto il giorno innanzi, e come faceva sovente,
essere tutta piena di suo figlio. Altro sentimento non voleva ascoltare
che quello dell’affetto materno, perchè l’abbandonarvisi era sempre una
delizia al suo cuore, e perchè le discacciava adesso i neri fantasmi
che l’assediavano.



VII.

L’arresto. — Il cadavere tolto e ripreso. La prigione.


Arcane cose e quasi soprannaturali sono i presentimenti avverati. Come
mai succede che noi abbiamo alle volte sentore di una trista ventura
indeterminata e lontana che ci pende sul capo? Onde in noi quella voce
fatidica, quell’avviso misterioso che ci turba colla minaccia di un
vago e incognito male, che poi si dichiara e ci colpisce? La signora
Elisa era stata pur troppo presaga del vero. Circa la mezza notte
il _ronchiere_ fu destato dal bussare che si faceva al cancello, e
discese ad aprire. Erano i messi della polizia venuti per arrestare la
madre ed il figlio, ai quali intimarono l’ordine emanato dall’autorità
superiore. La signora Elisa e Faustino si vestirono, fecero un piccolo
fardello, si congedarono dai domestici, e in angoscioso silenzio
tennero dietro ai poliziotti. Il _ronchiere_ e Checco avrebbero
volentieri scannato quei brutti ceffi, se l’espediente avesse potuto
impedire la sciagura, e non ritardarla che di poco tempo. Essendo
loro vietato di accompagnare gli amati padroni, rimasero a piangere
di dolore e di rabbia. In una carrozza che aspettava dove la strada è
meno erta, salirono gli arrestati e gli sbirri ciascuno al suo posto.
Dopo una mezz’ora erano entrati in città, ascesi al castello, e passati
sopra il ponte levatojo.

La notte medesima comparve al _ronco_ un’altra visita poliziesca. La
comitiva, più numerosa della prima, si componeva di un commissario, due
guardie, e quattro uomini portanti gli strumenti da scavare la terra.
Accese alcune torcie resinose, andarono al sepolcro, ne trassero il
cadavere, che era chiuso in una cassa calafatata, e lo portarono via
insieme alla croce. Il _ronchiere_ e Francesco, nascosti nelle tenebre
dietro un albero, avevano guardato con un senso di tristezza e di
raccapriccio quella lugubre operazione, che loro parve una tregenda
di stregoni e di demonj, tanto più che le fiaccole mandavano una luce
torbido-rossastra, ed un fumo graveolente di catrame. In distanza e con
tutte le cautele tennero dietro ai sacrileghi rapitori del morto per
vedere se fosse possibile, dove andrebbero a deporlo. I quali rapitori,
giunti alla pianura, entrarono in un campo appena dissodato e preparato
per la semenza del frumento, fecero una buca abbastanza profonda, ve
lo nascosero, e poi spianarono la terra come stava prima. Il vomere
non sarebbe mai penetrato là in fondo, ma forse coll’andare del
tempo i posteri lontani avrebbero trovato, per qualche straordinario
scavamento, uno scheletro umano da fornir materia a molte congetture,
fuorchè a quella del vero. Se non che il _ronchiere_ e Francesco,
appiattati in un fosso asciutto, sporgevano il capo, e con tutta
l’attenzione dell’occhio e della mente notavano il sito del lavoro.
Quando i beccamorti della polizia se ne furono andati, eglino corsero
quivi e piantarono un segno. La notte appresso, armati alla loro
volta dei necessari ordigni, vennero a riconquistare la cassa, e fatti
sparire gl’indizi dell’operato, la restituirono al _ronco_, dandole
sepoltura in una fossa distante dalla prima, e allestita di giorno.
Tutto si fece nel più gran secreto fra loro due, senza cooperatori nè
consapevoli dell’impresa.

La signora Elisa e Faustino non ebbero comune la prigione. Chi potrebbe
esprimere a parole come stessero la madre ed il figlio al vedersi
dividere l’una dall’altro? Si dissero addio cogli occhi e cogli
abbracciamenti più che colla voce, venuta loro meno. Le camere in cui
furono chiusi erano abbastanza decenti, considerate come prigioni;
ma che importava ai poveri separati se anche fossero state quelle
di una reggia? All’avere un letto e delle sedie, avrebbero preferito
un mucchio di paglia ed una panca di legno, ma stando in compagnia.
Faustino ebbe un brivido di spavento, una sensazione tremenda allorchè
udì serrare dietro di sè con cupo rimbombo l’uscio della prigione.
Egli stette un momento come trasognato guardando fisso il lume che il
secondino aveva deposto sopra la tavola. Uscito della sua immobilità,
si sentì in petto i fremiti precursori della tempesta, quella
disposizione all’infiammarsi e all’irrompere, che conduce talvolta una
creatura al delirio, al furore, alla disperazione. Fanciullo ardente,
sensitivo, appassionato, coll’anima già piagata acerbamente, ed ora
distaccato dalla madre carcerata come lui, solo in quel luogo di
ribrezzo, nel colmo della notte, angosciato dai timori del presente
e del futuro, era ad un pelo di ruggire come un lioncello, di correre
la stanza furibondo, e di sbattere il capo contro le pareti. Ma il suo
buon angelo custode lo salvò dal cadere in quella frenesia, facendogli
balenare nella mente il pensiero di Dio, i conforti della speranza, e
le idee della fortezza e del coraggio. La terribile esplosione non ebbe
luogo, e il silenzio della camera non fu rotto che da qualche sospiro e
singhiozzo d’impossibile raffrenamento. Il poverino si gettò sul letto
senza spogliarsi, ma invano tentò di riavere il sonno statogli tolto al
_ronco_ per così trista cagione.

I carcerieri sono possibilmente scelti fra gl’individui che hanno fosca
ciera, aspri modi, e secca parola. Si vuole che il prigioniero non
abbia a comunicare con persone di faccia serena, e di maniere tanto o
quanto gradevoli. Egli deve rinunciare anche a questa piccola dolcezza,
perchè appartiene al numero di quelle che si godono nella società,
dalla quale è segregato. Il carceriere di Faustino era egli pure dello
stampo ordinario, ma non aveva duro l’animo come i lineamenti. Il tener
sotto chiave un giovinetto distinto per molti riguardi era cosa nuova
per lui, assuefatto in altri luoghi a chiudere monelli baruffanti e
tagliaborse. Un ospite così singolare gli destava interessamento e
compassione, ma non voleva dimostrargli questi sentimenti, perchè il
signorino serbava al suo cospetto un contegno che pareva inspirato
dall’avversione e dal dispregio. Infatti Faustino non aveva nessuna
simpatia per un uomo del suo mestiere, della sua figura e del suo
cuore, che egli supponeva cattivo senza averlo sperimentato. Non andò
guari però che, rimettendo ciascuno un poco dell’amor proprio, si
disposero meglio alla confidenza e principiarono ad intendersi. Parve
allora al fanciullo che il viso del carceriere non fosse poi così
arcigno, e che sapesse anche comporsi discretamente al sorriso. Di
più si persuase che il suo fare non era quello di un orso, e che una
parola benigna, quando voleva, era capace di dirla. Dal canto suo il
carceriere vide che Faustino diventava più affabile e più espansivo.
Laonde furono contenti l’uno dell’altro, ed ogni giorno passavano
qualche minuto a conversare insieme. Grazie a questo ravvicinamento,
si mutò pure un tantino la condizione del prigioniero, poichè egli
ebbe dal suo custode una matita e alcuni fogli di carta, su cui
tracciare ghirigori e quanto sapeva. Inoltre gli fu prestato un così
detto giuoco di pazienza, cioè un dipinto sopra molti pezzetti di
legno sottile, tagliati in varie forme e congiunti fra loro, i quali
si separano, si confondono, e poi si cerca di rimetterli al loro posto
onde ne risulti di nuovo la cosa rappresentata. In questo lavoro c’è
da lambiccarsi il cervello e da spendere più o meno tempo, secondo
l’acume e l’entratura di chi vi si accinge. Faustino impiegava delle
ore a fare e rifare il quadro, come pure a scarabocchiare fogli di
carta. Ma non di rado s’interrompeva in tali occupazioni, e coi gomiti
appuntati sul tavolino e il capo stretto fra le mani pensava amaramente
alle persone e alle cose dilette che gli erano tolte. Supremo de’ suoi
desideri era sempre la madre; poi venivano Don Aurelio e Checco e tanti
altri amici e conoscenti. Una personcina graziosa non mancava mai di
farsi strada ne’ suoi pensieri, e di volerne avere una buona parte.
Quella Luigia gli era oggetto di sospiro e di conforto insieme. Egli
sospirava del non vederla, e si confortava dell’immaginarsela sensibile
al suo patire. Per certo la fanciulla doveva ricordarsi di lui, e
parlarne pietosamente con Don Aurelio e con Marta la governante. Questa
idea, congiunta alla speranza di rivedere un giorno la giovinetta,
disacerbava alquanto la sua pena. Alle volte, montato sopra una sedia,
guardava dalle sbarre della finestra sui tetti vicini. Il girare e
lo stridere di una banderuola mossa dal vento, il fumo che usciva da
un camino, un gatto che lento attraversava i comignoli o sdrajato si
leccava il pelo, un passero che beccava le tegole, una lucertola che
strisciava lungo una cornice, attraevano la sua attenzione. Porgeva
orecchio alle campane di questa e di quella chiesa che battevano le
ore, o suonavano alla distesa. Badava anche alle nubi che vagavano
pel cielo, formando delle figure gigantesche, bizzarre e varianti,
il quale spettacolo tiene assorti e induce a fantasticare. Tutto ciò
serviva all’esercizio della mente. Riguardo alla ginnastica, vi era
poco da poter fare in una camera di venti metri quadrati. Faustino
la passeggiava in tutte le direzioni, saltava a piè pari contro una
parete, tirava di scherma con una bacchetta verso un punto segnato sul
muro, e cercava di colpire con pallottole di carta il suo cappello,
collocato alla maggiore distanza possibile. Così divertiva la
tetraggine della solitudine e dell’ozio, in cui il dolore lo assaliva
in cento guise spietate.



VIII.

L’interrogatorio.


I prigionieri stettero quindici giorni prima di subire un esame.
Lo stato d’assedio, cui era sottoposta la città, voleva che fossero
giudicati da un tribunale straordinario. Finalmente la signora Elisa
venne condotta dinanzi alla commissione che soleva radunarsi in una
sala del castello per esaminare gl’incolpati politici colà rinchiusi.

— Sa ella il motivo del suo arresto? domandò il presidente della
commissione.

— Io lo suppongo, rispose l’interrogata. Ma quello che riguarda mio
figlio non posso immaginarlo. La sua tenera età e la sua innocenza
lo avrebbero dovuto preservare dal carcere, o almeno fargli dividere
quello di sua madre. Non ignoro per altro che l’Austria si permette
ogni sorta d’iniquità.

— Si ricordi, signora, a chi sta dinanzi, e non voglia con propositi
oltraggiosi al governo, far danno a sè medesima. Come ha ella potuto
procurarsi il cadavere di suo marito, e a quale scopo lo faceva
seppellire al suo _ronco_?

— Me lo sono procurato col danaro e colle preghiere. L’ho fatto
seppellire al _ronco_ perchè le persone care si vogliono avere
possibilmente vicine quando sono vive e quando morte. Dalla mia camera
vedo il luogo dove riposa. Ogni mattina, aprendo la finestra, invìo
colà un saluto, e altrove una maledizione.

— Suo marito era un sedizioso che infiammava i cittadini alla rivolta,
che fu preso colle armi alla mano, e punito come meritava, disse uno
dei due consiglieri.

— Un Italiano così parla di un Italiano assassinato dagli Austriaci!
Mio marito è muto in eterno, ma io rispondo per lui.

— La signora avrà abbastanza da rispondere per sè stessa, ripigliò
il presidente additando la croce che stava in un angolo della sala.
Riconosce lei quella croce?

— Infamia! disse la signora Elisa diventando smorta. Hanno dunque
invaso di nuovo il mio domicilio, strappata la funerea pietra, e forse
manomesso il sepolcro? Che avvenne del cadavere di mio marito?

— Non importa che ella lo sappia.

— I barbari! gl’iniqui! che violano anche le tombe delle loro vittime.
Non vollero lasciarmi neppure le ossa dell’infelice. Essi temono che,
bagnate dal pianto della sposa e del figlio, abbiano a ricomporsi e
sorgere animate e minacciose agli oppressori.

— Chi ha composto l’epigrafe scolpita su quella croce? domandò l’altro
consigliere.

— Io medesima «Per aver amato e difeso la patria fucilato degli
Austriaci tiranni e carnefici d’Italia.»

— E chi fu il manuale che incise quelle audaci parole?

— Il signor consigliere sarà ben persuaso che lo domanda invano. Questo
delitto lo aggiunga all’altro mio. Come ho composto l’epigrafe, così mi
carico pure di averla scolpita. La cosa non sarebbe impossibile.

— Ella è già aggravata abbastanza. Le sue opinioni, i suoi discorsi, i
suoi atti arditamente contrari al governo, il mal esempio che diffonde,
i cattivi principii in cui educa suo figlio, tutta insomma la di lei
condotta potrebbe attirarle il più grave castigo.

— La morte mi sarebbe meno dolorosa dell’esistenza a cui l’Austria mi
ha serbata. Io sono rea agli occhi della tirannide, e sia fatto di me
secondo le sue bieche deliberazioni. Ma mio figlio è innocente, e non
deve gemere alla sua età nella solitudine e nello squallore di una
prigione. In nome di Dio e dell’umanità sia lasciato libero, o se non
altro gli venga concessa la compagnia di sua madre.

— Egli non potrebbe avere peggior compagnia di quella di sua madre,
rispose accigliato il presidente. La signora si avvezzi al pensiero
di separarsene per sempre. Suo figlio sarà posto in un collegio
governativo per esservi educato come si conviene.

— Ciò non potrebbe accadere neppure dopo la mia morte. Vi sarebbe
cosa più misera di questa, più infame e più insopportabile sulla
terra? Io rabbrividisco al solo immaginarla. Mio figlio educato per
cura del governo austriaco, l’assassino di suo padre! No, no, tale
progetto esecrabile non può effettuarsi in verun modo. Il mio Faustino
vi troverebbe scampo col precipitarsi da una finestra. Così sarebbe
compito l’eccidio dell’intera famiglia. Mi si riconduca alla mia
prigione.

— La signora non ha dichiarato abbastanza per qual modo ottenesse il
cadavere di suo marito.

— Col pregare, ho detto, e col ricompensare le persone che potevano
contentarmi.

— I nomi di queste persone?

— Io non denunzio nessuno.

— Il tribunale è interessato a scoprire di lei complici.

— Non denunzio nessuno.

— Il silenzio tornerà a suo detrimento.

— Altro non dovrebbero avere a domandarmi, giacchè io mi confesso rea
di quanto sono accusata.

— Noi vogliamo conoscere meglio i suoi sentimenti verso il governo.

— Mi meraviglio che non li abbiano già conosciuti quanto basta. Ah,
l’Austria condanna pure il pensiero, che è libero per legge eterna
indeclinabile di natura? Libero anche negli schiavi, e non sottomesso
neppure alla nostra propria volontà? E loro signori hanno il mandato
d’investigare questo pensiero inviolabile, di trarlo dalle latebre
dell’anima e processarlo? Ecco un nuovo genere di Santo Uffizio della
Inquisizione. Se non che io risparmio loro l’incomodo d’interrogare. Le
mie eresie politiche non le nascondo nè per paura nè per altro riguardo
qualunque. Io detesto in sommo grado il governo austriaco.

— Laonde gli nuocerebbe, potendo?

— Nuocergli? Ne farei l’estrema rovina con mia gran gioia.

— Forse la signora non pensava così avanti la morte di suo marito.

— Il signor consigliere mi fa torto; il mio odio è antico. L’assassinio
che mi ha vedovata è un lutto di famiglia, un dolore a parte che io
metto appena nel cumolo delle patrie miserie. Chi ama il suo paese
piange lo strazio che si fa di esso più che i mali suoi propri. Benchè
grave e miseranda la mia sciagura, che è in confronto delle pubbliche
onde gemono cinque milioni d’Italiani? Io posso quietarmi alle volte
sul mio affanno privato, ma non mai alla considerazione delle calamità
moltiplici e diuturne che pesano sulla patria, non mai al pensiero
della sua oppressione, della sua schiavitù, della sua infelicità.

— Potrebbe darsi che la signora esagerasse il suo amore di patria e
la sua avversione al governo per acquistarsi una tal quale celebrità
nel mondo dei liberali, disse il presidente con un sorriso beffardo.
L’ambizione alle volte suggerisce i più strani partiti, compreso
quello di sacrificare sè stessi alle lusinghe di essere ammirati e
glorificati.

— Il signor presidente vorrebbe offendermi con questa maligna
osservazione, ma io gli rispondo con calma che non esagero l’amore di
patria nè l’abbominio all’Austria. Sono due sentimenti sinceramente
professati fra noi, e così debiti e generali che non destano alcuna
attenzione, come avviene delle doti comuni. Che vi sia un ostentatore
di essi per vaghezza di rinomanza non si può credere, giacchè costui
non arriverebbe a distinguersi dalla folla, nè a farsi un merito. Non
mancano, è vero, anche i disamorati della patria e gli amici della mala
signoria tedesca, ma si restringono a pochi venduti, che sarebbero
pronti a mutare bandiera quando si rinnovassero gli avvenimenti
dell’anno passato.

Il presidente suonò il campanello, e comparve una guardia che
ricondusse la signora Elisa alla sua prigione. Indi a poco il medesimo
tribunale ebbe dinanzi Faustino. Il fanciullo era destinato a servire
di accusatore e di testimonio contro la madre. I giudici, profittando
della sua inesperienza, dovevano trargli di bocca la rivelazione di
fatti a lei pregiudizievoli, quando ve ne fossero stati. Per averlo
pronto a questo perfido e snaturato ufficio, lo facevano intanto
addolorare in carcere. Tale era la moralità e l’eccellenza della
giustizia austriaca. Faustino aveva stabilito in cuor suo di voler
essere impavido e superiore a sè stesso, ma il solenne apparato del
luogo e l’imponenza dei giudici fecero svanire il suo proponimento.
Sgomentato e peritoso, abbassava gli occhi e balbettava le risposte.
Ci voleva lo stimolo dell’amore filiale e quello dell’indegnazione per
fargli alzare il capo e sgombrargli dall’animo lo sbigottimento. Al
rifiuto della sua preghiera di poter vedere la madre, si sentì mutato
interamente.

— O crudeltà inaudita! proruppe egli acceso in volto. Dividere il
figlio dalla madre, chiuderli separatamente, negar loro il sollievo
di abbracciarsi! Di che siamo noi colpevoli per farci tanto soffrire?
Povera madre mia!

— Calmatevi, disse il presidente, e rispondete con sincerità alle
nostre interrogazioni. Questo è il solo mezzo per cui possiate sperare
di riunirvi a lei. Quali amicizie, quali relazioni ha la vostra
famiglia in Brescia?

— Io credo che prima di me avranno interrogato mia madre. Se ella ha
risposto, è inutile che risponda io; se ha taciuto, io pure mi taccio.

— Voi cominciate male per meritarvi la consolazione che bramate.

— Non debbo acquistarmela col nuocere altrui.

— Dunque le persone che vengono in casa vostra parlano contro il
governo?

— Io ignoro l’argomento dei loro discorsi, perchè non vi assisto. Il
governo che ha in ira e perseguita la mia famiglia sospetterebbe e
molesterebbe anche a torto coloro che sono in qualche modo legati a
lei. Ecco perchè non li nomino. Quello che posso dire si è che mia
madre ed io viviamo da cinque mesi ritirati al _ronco_ senza vedere
quasi nessuno.

— Vostra madre debb’essere altresì la vostra maestra, disse uno dei
consiglieri. Che cosa v’insegna di bello?

— Mio maestro è il prete Don Aurelio, che mi spiega la religione, il
latino, e le altre discipline ginnasiali.

— Quali massime v’infonde egli circa la patria ed il governo?

— Ciò non entra nell’istruzione che ricevo da lui.

— L’insegnamento di questa materia lo ha dunque vostra madre riserbato
per sè, ripigliò il presidente. Noi sappiamo che avete profittato delle
sue lezioni, e che portate odio all’Austria.

— Le lezioni di mia madre versano sulla bellezza della virtù, e sulla
deformità del vizio; sui pregi della scienza, dell’onore e della bontà
dell’animo, e sulla vergogna di quanto vi è contrario. Mia madre, colla
scorta di nobili esempj cerca d’instillarmi l’amore di tutto ciò che è
generoso e stimabile al mondo.

— La vostra fanciullezza dovrebbe salvarvi dal dovuto castigo, ma
siccome voi mostrate lo scaltrimento e l’ardire di un uomo, così
potrebbe darsi che per voi si derogasse alla legge, e vi si giudicasse
in via di eccezione.

— E per quale delitto? Io domando perchè mia madre ed io siamo stati
condotti in prigione. Abbiamo forse obbligo di voler bene al governo
che ha fatto di noi una vedova ed un orfano?

— Vostra madre è colpevole di aver corrotto persone che trafugarono il
cadavere di suo marito.

— Ah, povero padre mio, egli doveva dunque essere interrato come un
bruto sui bastioni della città dove subì l’orrendo supplizio?

— Voi saprete per opera di quali uomini ella riuscì a dargli sepoltura
al _ronco_.

— Io non so altro se non che una mattina mia madre mi guidò sopra un
terreno smosso di recente, e mi disse «Qui giacciono le spoglie mortali
di tuo padre». Io mi prostrai affannosamente, e proruppi in lacrime
dirotte. Quel giorno medesimo piantai sul sacro terreno alcuni fiori
che presto germogliarono e crebbero, e che io seguito a coltivare con
religiosa cura.

— Il vostro giardino è stato distrutto; il corpo di vostro padre non è
più là.

Faustino restò muto di quel silenzio a cui una subita e grave ambascia
costringe. Egli ebbe la stessa ferita che colpì sua madre all’udire lo
stesso annunzio. Dopo un istante potè formare la parola, ed esclamò:

— Giusto Dio, vendicate la profanazione dei sepolcri, punite gli
spietati che mi uccisero il padre, e che ora mi tolgono le sue ceneri,
sopra le quali mi era dato di piangere e di pregare. Neppure questo
misero conforto ci è lasciato.

— Vostra madre confessò di aver composto l’iscrizione che stava sulla
croce, disse un consigliere.

— E che perciò? Doveva forse attribuirla ad altri, mentre era sua?

— Confessò pure il nome dello scarpellino che la incise.

— Questo non può essere vero. Mia madre non ha basso animo, e non fa
male a nessuno. Mi accorgo che si tenta di condur me a rivelare quel
nome. Io dichiaro di non saperlo, e quand’anche mi fosse noto, non lo
paleserei neppure sotto la tortura.

— Voi siete una testolina calda, conchiuse il presidente, un piccolo
temerario imbevuto di cattivi principii, avviato a diventare un
facinoroso, come era vostro padre. Tanto peggio per voi se non
metterete giudizio.



IX.

Il Carceriere pietoso.


Restituito alla sua prigione, Faustino pianse amaramente. La
distruzione del paterno sepolcro, e la disperanza di unirsi alla madre
avevano desolato senza rimedio la sua anima. Egli passò quasi un mese
non trovando più modo di divagarsi nè col pensiero, nè colle solite
occupazioni materiali. Un giorno il carceriere entrò per prendere gli
utensili del pranzo, e vide che il fanciullo aveva mangiato pochissimo.

— Oggi non ha fame? domandò egli raccogliendo i tondi e piegando il
mantile.

— No, non ho fame, rispose Faustino che sedeva sulla sponda del letto
in atteggiamento di mestizia.

— E sì le vivande sono gustose, e dovrebbero stuzzicargli l’appetito.
Vorrei che facesse onore alla mia cucina particolare, giacchè la sua
signora madre ha ottenuto di servirsene per sè e per suo figlio. Mia
moglie è una brava cuoca, e non lo dico per vantarla. Io lascierò qui
ogni cosa, e il signorino mangerà più tardi con suo comodo.

— No no, portate via tutto. Io non voglio più nutrirmi, e così morirò
d’inedia.

— Morire d’inedia! Che malinconie gli saltano adesso in capo?

— Io non posso più sopportare il mio tristo e troppo prolungato
isolamento. Nessuno ha compassione di me.

— Non è vero, perchè io ne ho della compassione per lui.

— Fate dunque che io veda mia madre.

— Gli ripeto che non posso; il mio dovere me lo vieta assolutamente.

— Se aveste a trasgredirlo, non crollerebbe già per questo la monarchia
austriaca.

— Per carità non parli di politica.

— E poi, nessuno saprebbe che avete commesso un sì enorme delitto.

— Non ne facciamo niente, come ho detto più volte.

— Ah, dove si trova un carceriere che abbia buon cuore? Sono tutti
crudeli.

— Ehi, signor Faustino, sia ragionevole e giusto. Non dica crudele a
me, che pure gli do prove di non essere tale.

— Avete ragione, perdonatemi. Sono così irritato, così angosciato!

— Tutte le concessioni che poteva, le ho fatte.

— Ascoltatemi, buono e caro Anastasio. Sedete lì un momento, e non mi
lasciate così tosto. Ma perchè non potreste contentare il mio santo,
il mio ardente desiderio? Di che si tratta finalmente per voi? Di
venire a prendermi una notte, quando anima viva non è in volta, per
condurmi nella prigione di mia madre. Voi state presente alle nostre
esclamazioni gioiose, al ricambio dei nostri amplessi, e intanto
gustate la compiacenza di aver procurato a due infelici un così dolce
momento. Non sarà che un momento quello della nostra unione; voi ci
dividerete presto, ma mia madre ed io avremo avuto un gran ristoro,
che ci ajuterà a sopportare di nuovo la separazione. Questo fatto
resterebbe per sempre un secreto fra noi tre.

— Lei dice a maraviglia, ma è impossibile che io mi arrenda. Gli ordini
superiori sono positivi e severi. Abbia pazienza e non andrà molto
che finiranno i suoi patimenti. Per quanto io sappia, la giustizia ha
poco da imputare a loro signori, e quindi non tarderanno a riavere la
libertà. Intanto si contenti di sapere che sua madre sta bene.

— Ecco tutto quello che mi dite di lei; sempre la stessa notizia
asciutta, e nulla di più. È una ostinazione che mi fa disperare.

— Ma io reco altresì al signorino i saluti di sua madre.

— Ci vuol altro per appagare le brame ansiose di un figlio. Io vorrei
sapere cento cose, e voi negate ognora di rispondermi.

— Suvvia, questa parte del mio dovere mi arrischio di trasgredirla. Non
dica mai più che io sono un crudele.

— No, caro Anastasio, non lo dirò più.

— Mi faccia delle interrogazioni, e se saranno discrete, risponderò.

— Ah, così mi piacete tanto. Come sopporta mia madre la prigionia?

— Con gran coraggio; non si lamenta mai.

— Ditemi, la sua camera è salubre e decente? Vi entra aria e luce
abbastanza?

— È la migliore del castello. Molti cittadini sarebbero contenti di
cambiarla col proprio alloggio, voglio dire riguardata come camera
d’affitto e non come prigione.

— Io tremo nel domandarvi se mia madre è costretta all’inazione, che
produce la noja, orribile male per sè stesso e irritatore di tutti gli
altri.

— Mia moglie procura alla signora qualche lavoro di ago e di maglia,
come io fornisco al signorino le matite, i fogli di carta, e i giuochi
di pazienza. Eppure qualcheduno ci dà la taccia di crudeli.

— Io riconosco il mio torto, e me ne pento. Ringraziate per me vostra
moglie delle distrazioni che trova a mia madre, senza le quali il
giorno le parrebbe interminabile. Ha ella dimagrato? Mangia e dorme
discretamente?

— La signora gode una buona salute, e questo lo dico sempre.

— Io temo che il vostro possa essere un pietoso inganno. Senza
dubbio ella chiederà novelle di me sovente. Ditele tante cose, ma
tutte consolanti: che io la saluto carissimamente, che la bacio col
desiderio, che mi diverto a disegnare, che sono allegro.... Ah, questo
non è vero, e non lo crederà.... ma pare bisogna dirglielo. Voi vedete
che ho la ciera smunta e le guancie un poco incavate, ma ciò deve
ignorarlo assolutamente. Ella ne ha abbastanza dei dolori. Volete
andarvene? Aspettate.... mi fareste la grazia preziosa di portarle
quattro parole che scriverò colla matita sopra un pezzetto di carta?

— Quando avrò veduto che sorta di parole...... faccia presto.

— In un momento. Ecco, ascoltate: «Mia dolcissima madre, io penso
sempre a te, anche ne’ miei sogni. Io penetro sovente i muri che ci
dividono, e vengo ad abbracciarti. Ah, le larve della immaginazione
sono lontanissime dalla realtà. Anastasio ha compassione di noi. Addio,
addio!»

— Questo biglietto posso portarlo, ma appena letto dalla signora, sarà
distrutto sotto i miei occhi.

— Sì, sì, mi basterà che mia madre lo abbia letto. Ah, il bel pensiero!
Permettete anche a lei di scrivere sul medesimo biglietto una riga di
risposta, e poi lo distruggerete qui da me, dopo che mi sarò consolato
del ricambio. Deh, mettete il colmo alla vostra bontà.

— Questo pure sarà fatto. A rivederci questa sera.

— Quanto v’invidio che potete comparire dinanzi a mia madre, guardarla
in volto e parlarle.

— Da bravo, cominci a mangiare, chè sarà meglio, disse il carceriere
uscendo e dando i chiavistelli.

Faustino si sentì contento all’idea di poter leggere e baciare i
caratteri di sua madre. Gli si destò alquanto l’appetito, e prese a
sbocconcellare.

La signora Elisa ebbe il biglietto del figlio, e ne fu dolcemente
commossa, tanto più quando intese che poteva fargli una risposta.
Questo era il primo conforto da lei ricevuto in prigione, dove il
dolore le aveva stampato in viso le sue impronte fatali. L’anima
può sopportare gagliardamente i patimenti morali, ma il corpo no
che è fragile e non ubbidiente ai consigli della riflessione. La
materia languisce e soccombe per la ragione medesima onde lo spirito
rinvigorisce e trionfa. O sono leggere, o non sentite abbastanza
quelle afflizioni che lasciano intatto il benessere della persona.
Il carceriere mentiva dunque al figlio nell’assicurarlo che la
madre godeva buona salute, ma egli doveva dire così. Il vero sta che
la signora Elisa era mutata non poco da quella di prima, e che il
decadimento della sua bellezza si faceva sempre più manifesto. In
sei settimane di prigionia già trascorse non solo non aveva potuto
vedere un parente, un amico, un servo, ma neppure ricevere novelle di
nessuno. Ogni comunicazione a voce e per iscritto erale impedita. Ma la
maggiore ambascia, la spina più acuta del suo cuore era la separazione
dal figlio. Il conforto del biglietto fu di breve durata. Ella notò
che Faustino non faceva motto della sua salute, e inoltre le parve che
le parole fossero tracciate con mano tremante. Da ciò argomentando
che egli fosse indisposto, si creava una nuova pena, e accresceva
il suo struggimento di vederlo. La moglie del carceriere, che era
madre anch’essa, pregò molte volte e indusse finalmente il marito a
transigere, almeno per metà, col proprio dovere. Egli permise che la
signora Elisa vedesse il figlio, ma nell’ora che sarebbe addormentato,
affinchè il secreto di questa condiscendenza non fosse in balìa di un
fanciullo. Nel profondo della notte Anastasio dischiuse piano piano
la prigione di Faustino e v’introdusse la madre, cui balzava il cuore
di tenera ansietà e di gaudio anticipato. Sulla punta de’ piedi si
avvicinò al letto, si chinò sul dormente che giaceva supino e stette a
contemplarlo con tutta l’intensità dell’amore materno. Il carceriere
si fermò in distanza, tenendo il lume in modo che la scena rimanesse
nella penombra. La madre s’avvide che il caro sembiante era alquanto
sparuto, e la temenza pietosa venne a mescolarsi in lei cogli altri
sentimenti. Chinatasi di più, lo guardò con occhio scrutatore, ascoltò
il respiro, gli pose una mano leggera sopra la fronte, e poi si diede
a baciarlo a fior di labbra sulle guancie e sulla bocca. Il godere
sola di quella gioja le parve egoismo colpevole, e con fraude amorosa
attribuì al caso ciò che avvenne per effetto del suo volere. Simulando
tuttavia ogni precauzione, toccò di furto e vivamente una spalla del
giovinetto, il quale fece un movimento e si scosse dal sonno. Chi
può dire come egli rimanesse al trovarsi dinanzi la madre? Si sollevò
a sedere, si fregò gli occhi, e persuaso che non sognava, imbietolì
tutto quanto e pianse di dolcezza. Qui accadde un abbracciarsi lungo e
fervoroso, un esclamare di giubilo, un bagnarsi di lacrime, un baciarsi
senza posa. Il carceriere intenerito non poteva andare in collera
come avrebbe voluto, nè gridare contro la violazione del patto. Dopo
aver lasciato durare alcuni minuti quella effusione di santi affetti,
intimò che era tempo di finirla. Egli disse alla madre nel ricondurla
al carcere: Se il fanciullo si è svegliato per proprio impulso, è segno
che Dio lo ha voluto; se fu la signora che apposta gli ruppe il sonno,
io le perdono. Bisogna credere che Anastasio, a quello spettacolo
affettuoso, si fosse molto impietosito, e che il suo animo avesse
goduto al godimento altrui, poichè ogni cinque o sei notti introduceva
la madre nella prigione del figlio, e così ripetevasi il piacere di
tutti. Egli aveva detto a sè medesimo: Giacchè la prima visita non ha
potuto rimanere secreta al fanciullo, tant’è che succeda allo stesso
modo la seconda, la terza, e le altre che verranno in seguito. L’uomo
non è una bestia feroce, e conviene che ubbidisca al cuore allorchè la
sua voce parla più altamente di quella del dovere. Io spero che la mia
colpa non sarà scoperta, ma quando pure lo fosse, l’aver mancato una
o più volte farebbe lo stesso in questo caso. Potrò giurare però che i
brevi colloqui della madre e del figlio furono soltanto espansioni dei
loro affetti. I due prigionieri non parlarono mai di altre cose, nè io
li lasciai soli un momento.



X.

Rammarico degli amici.


Francesco era come fuori di sè stesso, e non trovava pace nè giorno
nè notte. Aveva abbandonato il _ronco_, e abitava la casa in città
per essere più vicino a’ suoi padroni, e per poter salire più presto
e aggirarsi presso le mura del castello. Quante volte egli fece e
rifece quella strada; quante volte passeggiò in vista del terribile
edificio; quante altre si fermò al principio del lungo ponte di
legno, e appoggiato al parapetto, fissò la tetra porta d’ingresso
custodita dai soldati. Dio sa con che pensieri di affanno, di
desiderio disperato, e di rabbia compressa egli si tenne colà immobile
e dimentico d’ogni altra cosa. Ah, se avesse potuto passare quella
soglia crudele, penetrare fino al carcere dei due infelici, e gettarsi
ai loro piedi! Se avesse potuto almeno vederli da lungi, e salutarli
con un cenno! Sovente si recava da Don Aurelio, sperando di avere
da lui qualche notizia, ma l’ottimo prete sommamente afflitto egli
pure, non ne sapeva più di Francesco. E sì, fino da quando i suoi
cari furono arrestati, egli si era messo in moto e non aveva cessato
di visitare e pregare magistrati, capi militari, ed altre persone
considerevoli e influenti della città, onde procurassero la liberazione
dei disgraziati. Ognuno prometteva più o meno caldamente l’opera sua,
compresi coloro che avevano in animo di nulla tentare. Questi ultimi
presentavano anticipatamente come difficile e pressochè impossibile
la buona riuscita dell’impresa, e così mettevano al coperto la loro
vigliaccheria di promettere senza intenzione di mantenere. Ma quelli
ancora che si erano adoperati davvero e con zelo non ottennero che
parole di speranza, e la cosa intanto andava per le lunghe.

La piccola Luigia aveva essa pure la sua afflizione, e tanto più
sentita in quanto che doveva tenerla nascosta. La poverina comprendeva
di non potere nè in casa sua nè presso Don Aurelio abbandonarsi alla
tristezza, nè fare soverchie e premurose domande intorno la sorte
dei prigionieri. A lei non conveniva mostrare un interessamento e una
compassione al di là della misura che si tiene comunemente verso le
sventure del prossimo. Quando era sola, si dispensava dal dissimulare.
Immestita nel volto gentile e nei begli occhi cerulei, pensava a
Faustino e se lo rappresentava in tutte le condizioni di patimento.
Colla immaginazione inesperta e impaurita lo vedeva chiuso in una cella
oscura e malsana, sdrajato sopra un pagliericcio, nutrito di scarso e
grossolano cibo, e duramente trattato da’ suoi guardiani. Lo vedeva
tristo e gemente passare i giorni sconsolati, e le notti insonni e
più travagliose ancora. Si pentiva di essersi comportata verso di lui
con apparente indifferenza, di non avergli lasciato intravvedere che
gli voleva bene, perchè da questa idea egli trarrebbe forse nella
sua miseria un conforto, e tanto più se avesse corrisposto al bene
di lei. Per la signora Elisa, quantunque non la conoscesse, nutriva
pure compassione ed un certo affetto, perchè era madre di Faustino e
sua compagna nella sventura. Visitando Don Aurelio, entrava lieta e
scherzosa, affettazione fanciullesca che ella credeva arte profonda per
nascondere il proprio animo. Dopo una volubilità di discorso, domandava
della signora Elisa e di suo figlio, volgendosi altrove e baloccandosi
intanto. Don Aurelio era troppo preoccupato per badare minutamente
al contegno di Luigia, e trovava poi naturale e dovuto che ella si
componesse alla serietà del compianto, udendo che le novelle non erano
buone. Conversando con Marta, la giovinetta non si studiava tanto nel
dissimulare. Un giorno di dicembre la governante stava curando i suoi
vasi di fiori in una stanza accomodata a guisa di serra. Luigia entrò
proprio colla mira e colla voglia di parlare di Faustino. Ma prima che
il discorso cadesse là, bisognava raggirarlo destramente per altre vie.

— Siamo arrivati quasi alle feste di Natale, disse Luigia, alla
stagione la più nemica dei fiori. Non è vero, signora Marta?

— È vero pur troppo, rispose la governante additando un bottone di rosa
tristanzuolo che non poteva sbucciare. Veda, signorina, come l’inverno
mi accomoda, per esempio, le mie rose del Bengala.

— Però in complesso non vi potete lagnare del vostro giardino
invernale. Questi geranj, queste viole e questi gelsomini sono
prosperosi, e spandono qua dentro un odore soave.

— Sì sì, ma è tutt’altro in maggio ed in agosto. Io dirò sempre: Viva
la primavera, e viva l’estate.

— Sono del vostro parere anch’io. L’inverno piace a pochi, e
principalmente questo che è freddo assai.

— Oggi quattro gradi sotto lo zero, dice il mio padrone che consulta il
suo termometro appeso allo scaffale dello studio. Io poi non capisco
come una macchinetta di legno e di vetro possa sentire il freddo, e
indicarlo altrui. In quanto a me, io lo sento nelle mie ossa, e da ciò
so misurarne la forza.

— Lo sentono ben più i poverelli mal vestiti, e che non hanno stufa
nè caminetto nella loro camera. A proposito, chi sa mai se la signora
Elisa e suo figlio avranno fuoco in prigione.

— Ah, temo di no. Essi patiranno anche di freddo, mio Dio.

— Sarebbe una crudeltà infinita quella dei loro carcerieri. Si dice che
sia tanto buona la signora Elisa.

— Una benefica, una santa donna. Se fosse in libertà, molti bisognosi
sarebbero provveduti di legna e di vestimenti dalla sua carità. Invece
ella deve soffrire quella miseria che avrebbe riparata negli altri.

— Sarà molto buono anche il signor Faustino, disse la fanciulla
guardando e toccando un garofano, come se quel fiore la occupasse
veramente.

— Egli è degno figlio di sua madre, un ragazzo d’oro, soggiunse Marta
smovendo la terra di un vaso. Lei lo ha veduto parecchie volte qui da
noi.

— Sì, ma senza fermarmi, e col solo ricambio del saluto. Un giorno però
abbiamo parlato un poco allorchè, essendo egli caduto nel montare sopra
una sedia, io gli domandai se si fosse fatto male. Voi non eravate
presente.

— Sicchè lei non può conoscerlo, come lo conosciamo io e don Aurelio.
Creature del suo stampo non se ne trovano facilmente. Questi crisantemi
hanno bisogno di essere inaffiati. Non parlo già del suo bel viso, che
si vede da tutti, ma del suo bell’animo e del suo bel cuore. Venendo a
scuola, egli fa l’elemosina a quanti poverelli incontra per la strada.
Io non lo so da lui, ma da chi ha scoperto questa sua abitudine.
Il donare è per esso un piacere. A noi regala fragole, ciliege,
pesche e pomi appj del suo ronco; si può dire che ci dà una decima
di frutta d’ogni stagione. Non parliamo quest’anno delle giuggiole e
delle nespole, perchè al tempo della raccolta il poverino pur troppo
non vi era, e la sua gente aveva tutt’altro pel capo. E come impara
egregiamente quel caro giovinetto. Quanto ingegno, e quanta volontà di
studiare. Don Aurelio gli vuole un amore dell’anima, e la sua prigionia
lo addolora e lo dimagra tanto, che i vestiti e le calze non gli vanno
più bene. Io mi sento accorata non meno di lui. A pensarvi sopra, la
è una barbarie delle più disumane. Imprigionare due innocenti, dopo
quanto di orribile hanno già patito! Quale strazio si fa di quelle
povere anime!

Marta si asciugò una lacrima.

— Voi fate piangere anche me, disse Luigia tutta commossa. Ma non
credete voi che saranno presto liberati?

— Voglio sperarlo, perchè il mio padrone questa mattina mi parve
alquanto sollevato, e parlò di una felice inspirazione che gli era
venuta, ma senza dire di più. Ah, misericordia, in che tempi viviamo
noi! Questi Tedeschi ne fanno proprio di scellerate. I tristacci si
vendicano atrocemente di aver dovuto abbandonare per un poco il nostro
paese. Ma il Signore Iddio ci metterà rimedio.

Luigia si congedò, e la sua nascente passione trovò nuova esca
nelle parole di Marta. Quando l’amore ha principio e alimento dalla
compassione, va innanzi di galoppo nei teneri cuori.

Qual era la felice inspirazione di don Aurelio, accennata dalla
governante? L’egregio sacerdote aveva qualche legame di amicizia con un
vescovo di Lombardia, suo antico compagno di scuola. Costui doveva il
pastorale ad un alto personaggio di Vienna suo benevolo protettore, e
uomo potente in corte. Don Aurelio pensò d’intraprendere un viaggetto
fino alla residenza del mitrato per confidargli e raccomandargli
la causa dei prigionieri. Infatti egli comparve un giorno dinanzi
all’amico, che lo accolse cortesemente, e gli promise i suoi buoni
uffici. Ammirabile cosa e quasi incredibile che un vescovo degli Stati
austriaci osasse farsi intercessore di due imprigionati per opinioni
avverse al governo. Eppure fu così, e Don Aurelio tornò a Brescia
confortato di liete speranze.



XI.

La vendetta. — La liberazione. Le congratulazioni.


Il primo giorno dell’anno 1850 per un freddo intenso e calcando
sentieri agghiacciati e sdrucciolevoli, Francesco saliva al luogo del
bersaglio. Tratta dal nascondiglio la migliore delle due pistole, se
la pose in tasca, e discese al _ronco_ già da lui abbandonato dopo
l’imprigionamento de’ suoi padroni. Visitò il nuovo e secreto sepolcro,
sul quale era spuntata e poscia inaridita dal gelo qualche erba,
girò i viali bianchi di brina, guardò gli alberi nudi e luccicanti
di ghiacciuoli, provando nell’anima sconsolata anche quel senso di
tristezza che nasce all’aspetto della squallida e intorpidita natura.
Entrato in casa, passò dall’una all’altra camera, tutte fredde,
silenziose e spiranti la mestizia del deserto. Diede uno sguardo
affannoso al letto della signora Elisa ed a quello di Faustino, e si
allontanò esalando sospiri. Chiuso dappoi in un gabinetto, si diede
a pulire accuratamente dalla ruggine la pistola, e involtala in un
fazzoletto, se la ripose in tasca. Quindi transitò alla casetta rustica
del _ronchiere_, sedette al desinare della famiglia, e sull’imbrunire
si restituì alla città.

Francesco era intimamente persuaso, che il capitano austriaco avesse
veduto il sepolcro, e fosse stato il delatore della signora Elisa. Non
ci voleva un gran criterio per penetrare questa verità. Egli ravvisò in
seguito il traditore che stava in crocchio con altri ufficiali dinanzi
una bottega di caffè. A tal vista si sentì rimescolare il sangue nelle
vene, e accolse l’idea di mandarlo all’altro mondo, idea sempre più
fissa e dominante a misura che tardava la liberazione dei prigionieri.
Egli aveva ben meditato e maturato il progetto, era giunto a conoscere
le pratiche notturne e la dimora del capitano, il tutto colle proprie
osservazioni fatte accortamente senza prender lingua nè seminare
sospetti. Già da tre notti a tarda ora si metteva in agguato presso
l’abitazione di colui, ma per un accidente o per l’altro non aveva
potuto fare il colpo. Alla quarta non vi fu ostacolo, e camminando
all’incontro dell’insidiato, lo freddò sull’istante piantandogli una
palla nel petto. Gettata l’arma e datosi a correre per contrade e per
vicoli deserti, si ridusse inosservato a casa.

L’uccisione di un ufficiale doveva produrre nelle autorità civili,
e più nelle militari un gran commovimento, e molta sollecitudine di
scoprire il reo. Ma come venirne a capo? Era vendetta privata, o
dimostrazione di rabbia contro il governo? Chi erano i nemici del
capitano? Che aveva egli fatto per armare contro di sè il braccio
di un assassino? Nessuno sapeva niente. Il commissario superiore
di polizia, che aveva ricevuto in secreto la delazione del capitano
a carico della signora Elisa, era morto di malattia un mese prima.
Sicchè l’avvenimento di quella notte restò un arcano impenetrabile per
tutti. La polizia, per darsi l’aria di zelo, catturò qualche innocente,
fondandosi sopra vaghe supposizioni. Vi furono minacciosi proclami
militari e nuovo apparato di forze per la città, ma poi non se ne fece
altro.

Francesco aveva covato e predisposto il suo delitto senza inquietarsi
delle conseguenze. Non fu così quando lo ebbe consumato. La coscienza
principiò a tormentare la sua anima buona. Egli udiva sempre nella
mente il cupo rumore che fece cadendo il capitano, e il gemito che
mandò nel morire. Invano si ricordava d’aver ucciso senza rimorso
altri soldati in battaglia; molto diversa gli pareva essere la
circostanza. Invano si rappresentava la scelleraggine di colui, e i
mali che aveva prodotti. Ma toccava forse a me di vendicarli, e in tal
modo? E li ho io fatti cessare per questo? E i poveri incolpati del
mio delitto, e arrestati a torto? E lo sbigottimento che fu sparso
nei cittadini per mia cagione? Così egli pensava dolorosamente,
e sempre più cresceva il suo turbamento. In casa di Don Aurelio
non compariva da parecchi giorni, e invece di distrarsi cercava la
solitudine, o errava concentrato e sconvolto nell’aspetto. Guai a
lui se vi fosse stato il minimo indizio, la più piccola prevenzione
per sospettarlo dell’accaduto; col suo contegno strano avrebbe
cangiato i dubbi in certezza. Non potendo più vivere così oppresso
dai rimorsi, andò a prostrarsi dinanzi a don Aurelio, e sotto il
suggello sacramentale della Penitenza, gli palesò il proprio misfatto,
invocandone l’assoluzione. Il confessore ascoltò prima la turpe azione
del capitano, e per tal modo conobbe il misterioso accusatore della
signora Elisa. Quindi udì la confessione dell’omicida, passando dal
ribrezzo che desta un delitto di sangue al compatimento per la causa
onde fu commesso, e per la compunzione sincera del reo. Don Aurelio
fece il suo debito di sacerdote e di uomo savio parlando in questa
guisa: Per quanto fosse grande la tua affezione verso i tuoi padroni,
e grande lo sdegno contro l’autore della loro sciagura, tu non dovevi
mai cadere in tanta enormezza. Egli appartiene alla giustizia umana il
castigare le iniquità dei tristi, e a quella divina allorchè restano
impunite sulla terra. Tu hai vendicato il delitto col delitto; ecco
perchè la coscienza ti affanna co’ suoi terrori. Nondimeno, figlio
mio, metti in calma lo spirito, e confida nella clemenza del Signore,
al quale domanderai perdono del tuo grave peccato. In quanto a me,
per la facoltà che mi accorda il mio ministero, e in riguardo del tuo
pentimento, te ne do l’assoluzione.

Intanto era venuto da Vienna l’ordine espresso di lasciare in libertà
i due prigionieri. Don Aurelio si allontanò ancora da Brescia, con
maraviglia e dispetto di Marta, la quale non potè mai sapere il
perchè di quelle due assenze del suo padrone. Questa volta andò a
ringraziare il vescovo del favore ottenuto, come l’altra era andato
per domandarlo. Don Aurelio non parlò mai con nessuno del passo da lui
fatto a vantaggio de’ suoi cari. Questo silenzio fu l’effetto della
propria modestia, e insieme di un riguardo squisito verso la signora
Elisa, la quale doveva certamente aver più caro che la sua liberazione
fosse avvenuta per atto spontaneo del tribunale, di quello che per
grazia concessa alle preghiere altrui. È vero che ella, ignorando
l’opera dell’intercessione, non poteva dimostrare a’ suoi benefattori
la propria gratitudine, ma questa era una lieve perdita per Don Aurelio
e pel vescovo suo amico. Le anime buone si appagano dell’idea d’aver
fatto il bene, e non pretendono ai ringraziamenti.

La signora Elisa si sarebbe restituita volentieri al _ronco_ per
amore della solitudine, ma vi rinunciò, non tanto perchè il gennaio è
contrario al soggiorno della campagna, quanto perchè non voleva nella
fredda stagione esporre il figlio ai soliti viaggetti per recarsi a
scuola. Dal tornare al _ronco_ la distoglieva pure il pensiero che
le avevano rapito il cadavere dello sposo, ignorando ella ancora
che Francesco lo avesse ricuperato. Si fermò dunque nella sua casa
di città. Tutti gli amici e conoscenti venivano a manifestarle
come fossero lieti della sua liberazione. Egualmente facevano molti
_ronchieri_ uomini e donne suoi beneficati; sicchè per due settimane
fu una continua processione. Grande conforto nei mali sono le altrui
dimostrazioni di compianto mentre essi durano, e di gratulazione
allorchè sono cessati. Chi non ha saputo inspirare amore e stima tanto
da meritarsi queste dimostrazioni, deve sentire molto i suoi infortuni
e poco le sue prosperità, vedendo che nessuno prende parte nè agli uni
nè alle altre.

Luigia si era tutta consolata, e aveva lasciato quella distrazione e
quella svogliatezza di cui si lagnavano qualche volta i suoi maestri
di lettere e di pianoforte. Non vedeva l’ora che Faustino tornasse a
prendere lezione da Don Aurelio, e le pareva assolutamente dovuto di
dirgli alla prima occasione: Mi congratulo con lei e con sua madre che
abbiano finito di patire. Questo sarebbe stato un passo difficile, che
richiedeva molta risolutezza, ma tant’e tanto voleva farlo, anche a
rischio di diventar rossa come lo scarlatto.

Faustino venne finalmente a ripigliare gli studi, pieno egli pure
d’ansietà d’incontrarsi con Luigia. Il primo giorno non si videro,
ma il secondo sì, e nel più bel momento, grazie ad un’astuzia della
fanciulla. Essa comparve proprio al finire della scuola quando Faustino
chiudeva e radunava i libri. Comparve con un piccolo ricamo in mano
da lei eseguito e destinato in dono a Don Aurelio. Era una ghirlanda
di fiori di lana, lavorata sul canevaccio, che doveva collocarsi
sopra la tavola a sopportare la lucerna. Per verità quel ricamo era
terminato da alcuni giorni, ma Luigia aveva i suoi buoni motivi per
differirne la presentazione. Don Aurelio lo accolse con gran festa, lo
guardò minutamente, e lodò assai l’autrice e donatrice di esso. Invitò
Faustino ad ammirarlo, e chiamò Marta per la stessa ragione. Vi fu
un chiaccherio, un va vieni da questa ad altre stanze per provare la
lucerna su quella specie di piedestallo grazioso. I più occupati nella
faccenda erano Don Aurelio e la governante; gli altri due procuravano
di esserlo in apparenza. La loro vera occupazione stava nel volgersi
occhiate meno timide e furtive di quelle d’una volta; occhiate da
ambe le parti comprese come espressione della loro simpatia. Quella di
Luigia si può dire che passò propriamente allora allo stato di amore,
tanto la fanciulla fu tocca dalle traccie dei patimenti segnate in
volto di Faustino. Cogliendo l’istante propizio, ella disse a mezza
voce tremola, e imporporando le guancie: — Quanto godo che lei e sua
madre abbiano ricuperato la libertà. Ho pensato molte volte a loro.
— Queste parole produssero in Faustino un dolcissimo effetto, un
commovimento di gioia non mai provato. Erano parole che in suo cuore
bramava, ma non sperava di udire. Eppure furono pronunciate, e con
vezzosa timidezza e con espressione di sincerità. Faustino rispose
col medesimo accento e rossore: — La ringrazio della sua compassione.
Anch’io pensava spesso a lei, e ciò mi faceva bene. — Solo i primi
e adolescenti amori hanno momenti così deliziosi, che più non si
rinnovano, ma che si ricordano durante la vita. Faustino andò a casa
tutto compreso d’interna letizia. Era innocentissima, eppure la nascose
a sua madre, per la quale non aveva secreti. Il sentimento che egli
principiava a nutrire è il solo che si chiude anche dai cuori i più
virtuosi, ma poi si rivela col contegno, se non colle parole.



XII.

Ancora il bersaglio.


Venuta la primavera, la signora Elisa tornò a stabilirsi al _ronco_, e
fece subito piantare due cipressi vicino al nuovo sepolcro, senz’altro
indizio di funebre ricordanza. Francesco le aveva manifestato che il
corpo di suo marito era stato ritolto ai rapitori. Tale annunzio fu da
lei ascoltato esultando ed esclamando di gratitudine verso il servo ed
il _ronchiere_, che avevano racquistata la cara spoglia con tanta prova
di devozione ingegnosa, e con tanto pericolo di sè medesimi. Se avesse
poi saputo il fatto del capitano! Ma Francesco era persuaso che essa
pure lo avrebbe condannato, e perciò rimase un secreto eterno fra lui e
Don Aurelio. Faustino ricominciò le sue discese alla città, ed entrava
palpitando nella casa del maestro, o per meglio dire di Luigia, giacchè
era lei che suscitavagli quei rapidi battimenti di cuore. Benchè ogni
giorno progredisse il loro attaccamento, i giovinetti erano cauti
nel celarlo agli occhi altrui, per quella ritenutezza naturale, per
quello scaltrimento prudente che è istinto di tutti, ma più ascoltato
dagli educati. Luigia non aumentò le sue visite. Soltanto a misurati
intervalli procurava a sè stessa e all’amato la consolazione di
trovarsi un momento vicini e ricambiarsi alcune parole in presenza di
Don Aurelio o di Marta. Ciò che non tralasciava era di star pronta alla
finestra quando Faustino partiva, sua consuetudine occulta un tempo,
ma ora conosciuta dall’altra parte interessata. Il giovinetto levava il
capo passando, e succedeva lo scambio d’uno sguardo e d’un sorriso che
dicevano tutto. Luigia si ritraeva subito, e Faustino proseguiva la via
senza voltarsi indietro.

Si ricominciò pure l’esercizio del bersaglio. Il primo giorno Francesco
ebbe un bel da fare a disruginire la carabina, che pareva tolta dal
magazzino di un ferravecchj.

— Dov’è l’altra pistola? domandò Faustino vedendo che mancava.

— Dirò.... l’altra pistola.... rispose Checco imbarazzato, e cogli
occhi abbassati sulla carabina, che fregava con più energia. Ecco il
fatto, piuttosto serio, se si vuole.... ma adesso che è passato non
ci penso più. Era il capo d’anno, e faceva un freddo indiavolato....
però giornata serena e sole lucido, benchè senza calore. Andiamo lassù,
dissi fra me, a visitare la nostra armerìa. Così mi distrarrò un poco
arrampicandomi sulla montagna.... si figuri se io era contristato in
quel tempo! Dunque arrivo qui, e cavo fuori le armi dalla tana. Allora
non erano coperte di ruggine come adesso. Mi venne voglia di sparare
alcuni colpi.... perchè io amo il rumore del fuoco e l’odore della
polvere. Caricata una pistola, tiro il grilletto, e pum! Che avvenne?
Quella sciagurata mi si ruppe in mano....

— Aimè, disse Faustino.

— Non si turbi, giacchè non mi fece alcun male. E sì l’accidente fu
grave.... la canna ebbe una fenditura da cima a fondo, ma senza mia
offesa. Solamente provai un forte scuotimento al braccio.... Quello,
dico io, è stato un vero miracolo.

— Senz’altro, povero Checco. Va là che l’hai scampata brutta. E la
pistola dove finì?

— La gettai dentro una macchia, discendendo il monte. Ora a noi,
continuò Francesco dopo nettata e caricata la carabina. Il primo colpo
lo tiro io per provarla. Benissimo, lo scoppio è stato pieno, deciso e
sonoro.

— Tu hai colto proprio nel mezzo del bersaglio.

— La è una fedele arma antica, ma soda e robusta come se fosse nuova.
Esce dalla fabbrica dei nostri Paris e Cominazzi di Gardone, celebri
perfino in Turchia.

Faustino, stando inginocchiato e qualche volta disteso per terra, fece
una ventina di scariche, il più delle quali con buon successo. Dopo si
dedicarono ad un’altra faccenda, cioè alla colazione.

— Il padroncino, durante le vacanze, non ha perduto niente della sua
abilità, disse Checco estraendo dalla valigia le provvisioni.

— Se venisse l’occasione, io potrei dunque fare le mie prove? Uccidere
gli Austriaci in battaglia debb’essere un godimento.

— Solo in battaglia? domandò Checco simulando il distratto.

— Come? Forse in una sommossa popolare? Ma sicuro! Anche quella è una
specie di battaglia. Essi sono armati, e noi pure lo siamo. Quindi
fuoco da una parte e dall’altra.

— E non si potrebbe senza rimorso, ammazzare un Austriaco fuori del
caso di guerra? Non so perchè mi nasca un tal dubbio.

— Vuoi tu dire in una rissa? In un duello?

— No, assalendolo di notte.... o di giorno all’impensata.

— Sarebbe una viltà, un tradimento.

— Supponiamo che questo Austriaco fosse un nefando briccone, che avesse
commesso egli medesimo un tradimento, e fatto patire lungamente alcuni
innocenti.....

— Tanto peggio per lui, ma un assassinio non è giustificabile in verun
modo.

Francesco sentiva nel suo animo questa verità, come debbono sentirla
tutti gli onesti. Ma pure avrebbe desiderato di udire un’altra
sentenza, almeno dal fanciullo per amore del quale era trascorso
all’assassinio. Egli non avrebbe dato gran peso a tale sentenza, perchè
non cercava una giustificazione al suo delitto, ma solo un compatimento
ed un sollievo momentaneo alla sua coscienza. Essendogli mancato
questo refrigerio, volle procurarselo in altra guisa indipendente
dall’opinione e dal giudizio altrui. Dopo una transazione di discorso,
entrò a dire:

— Mi sembra che la sua signora madre non abbia ancora riacquistato il
colorito e l’aspetto prosperoso di prima.

— È vero pur troppo. Io temo sempre che si ammali.

— Questo poi no; la gran burrasca è passata. Non è un bel complimento
ma anche il signorino ha tuttavia la ciera alquanto sparuta.

— Me lo dice pure lo specchio. Gli effetti di una dura prigionia non si
cancellano così tosto. Ah, se abbiamo penato!

— E senza il conforto di stare insieme, e farsi animo a vicenda. Come
sarà loro parso lungo il tempo.

— Ti lascio immaginare.

— Chiuso in un piccolo spazio murato, colle finestre sbarrate di ferro,
doveva essere un supplizio per lei avvezzo al moto libero e all’aria
aperta della campagna. Non avere neppure un libro per occupare il
pensiero. E poi la privazione di tutti i loro comodi.

— Anzi delle cose le più necessarie. Ti dico la verità che mi sono
augurato molte volte di morire.

— E perchè sottomettere alla pena dei malfattori due anime degne
invece di benedizioni e di felicità? Perchè vollero possedere gli
avanzi mortali della persona che più amavano al mondo, della persona
iniquamente uccisa dagli autori medesimi dei loro tormenti.

— Mercè tua quegli avanzi diletti li possediamo ancora, disse il
fanciullo abbracciando con trasporto e baciando Francesco.

— E non fu sommamente malvagio chi denunziò il fatto alla polizia?

— Sì, malvagio sommamente. Che doveva importare a lui se la vedova ed
il figlio dell’ucciso ne custodivano presso di loro le amate spoglie?
Il delatore sarà stato, io penso, uno degli uomini che le portarono al
_ronco_. La speranza di un premio lo avrà sedotto.

— E la sua signora madre sospetta pure così?

— No, perchè, secondo lei, quegli uomini erano tutti fidati; e poi
non avrebbero indugiato tanto tempo a commettere la perfida azione.
Mia madre dice che la polizia ha tanti altri mezzi per conoscere un
secreto.

— Comunque sia, il signorino conviene con me che lo spione meritava...
che fu insomma un esecrabile scellerato.

— Il cielo sicuramente lo punirà.

— Potrebbe darsi che lo avesse già punito...

Ecco per qual modo Francesco tentava di attenuare il suo misfatto, e
di far tacere il verme roditore della coscienza. Egli otteneva infatti
una tregua ricordando la perversità del capitano, e frugando nei dolori
delle sue vittime. Quasi gli pareva allora di essere stato non altro
che lo strumento della vendetta celeste.



XIII.

L’innondazione del Mella.


Sullo scorcio di luglio la signora Elisa andò a soggiornare in
un’altra sua villetta situata fra Urago e Collebeato a quattro
miglia da Brescia verso occidente. Don Aurelio accettò volentieri di
tenerle compagnia, e così non interruppe l’istruzione di Faustino.
Il giovinetto sentì rincrescimento di non dover ricevere per un
pezzo le lezioni in casa del maestro. Luigia aveva saputo ciò che
stava per accadere, interrogando Marta che allestiva un baule pel
suo padrone. A tale notizia fu penetrata del medesimo rincrescimento
di Faustino. Questi aveva preparato da alcuni giorni un biglietto,
e per ricapitarlo aspettava l’opportunità, non senza temere che gli
mancasse. Ma l’opportunità non mancò, e l’atto venne compito con
mano tremante e con violenta pulsazione di cuore. Era per Faustino un
ardire di nuova specie, una sorta di dichiarazione amorosa che metteva
in quell’istante i suoi spiriti in tumulto. La fanciulla scomparve
per leggere il biglietto così concepito. «Io desidero di tornare il
più presto possibile a prendere lezione in questa casa, dove provo
delle consolazioni... Il mio pensiero volerà qui infinite volte, e mi
conforterò intanto colle sue illusioni. La saluto di cuore». Luigia
ebbe carissimo questo scritto, e lo lesse replicatamente. Però le parve
troppo breve, e non abbastanza chiaro. Avrebbe voluto trovarvi qualche
cosa di più deciso e di più significante. Faustino doveva dire, per
esempio, che le consolazioni gli venivano da lei, dirlo senza bisogno
d’interpretazione. E poi che male ci sarebbe stato a mettervi qua o
là la parola amore? Fu tentata di rispondergli, ma una voce interna
l’avvisò di astenersene. Faustino aveva fatto bene a scriverle quella
letterina, ma essa non doveva ricambiarlo, sebbene fosse persuasa
che gli avrebbe con ciò ricambiato anche il piacere da lei provato.
La ragione di tale ritenutezza non sapeva propriamente trovarla. In
lei principiava l’azione di quel freno istintivo che in fatto d’amore
contiene la donna al di qua della libertà concessa all’uomo. Fare dei
sacrifici, molto sentire e poco manifestare, ecco la sua condizione,
che spesso è salvaguardia di gravi errori. Luigia nascose il suo
tesoretto in luogo sicuro, e il giorno dell’ultima lezione si trovò
alla solita finestra quando Faustino partiva. Questa volta non vi
era il sorriso sulle loro labbra, nè la serenità nei loro sguardi,
prolungati oltre l’usato.

La signora Elisa villeggiava dunque alla _breda_. Con questo
nome chiamano i Bresciani ogni podere poco vasto, situato nelle
pianure circostanti alla città. La casa era fabbricata in un
luogo piacevolmente solitario, alla quale si arrivava per un viale
fiancheggiato di alti pioppi. Il terreno consisteva in duecento
pertiche, diviso in vari pezzi coltivati a gelsi, viti e cereali. Don
Aurelio sentivasi ringiovanire abitando alla campagna con quelle amate
persone, di cui si studiava divertire le dolorose memorie colla sua
conversazione quando spiritosa e quando erudita, ma sempre allettevole
e sparsa di grazie. La signora Elisa ne ritraeva realmente un sollievo;
la sua quiete non era tutta effetto di quella legge sociale che
prescrive di non rattristare gli ospiti colla tristezza nostra. Le
voci del dolore aspettavano a parlare in lei allorchè, per mancanza di
distrazioni e di testimonj, la trovavano disposta ad ascoltarle. Tutte
le sere, al rinfrescarsi dell’aria, i tre villeggianti facevano una
passeggiata nei contorni, e specialmente sull’argine del Mella poco
discosto dalla casa. Questo torrente nella stagione più calda rimane a
secco, e soltanto in alcuni luoghi bassi contro le sponde conserva un
po’ d’acqua lenta o stagnante, che ogni giorno va calando essa pure.
Sicchè il Mella in estate sembra un immenso deposito di ghiaja e di
ciottoli lucenti e infuocati dal sole. Chi avrebbe mai pensato che un
mare di acqua dovesse scorrere sopra quel letto che il giorno prima
si attraversava a piedi asciutti? Un mare di acqua precipitosa, che
imperversando rabbiosamente soverchiò e ruppe i ritegni, versandosi
ad inabissare i campi di cento comuni. Tanto accadde sventuratamente
a rovina e lutto di una parte della provincia bresciana. La notte fra
il 14 e il 15 agosto del 1850 si scatenò il più spaventoso uragano
che ricordino le memorie di Lombardia. Enormi macigni, staccatisi
dai monti, precipitarono nella Val Trompia dove passa il Mella,
e sviarono col loro ingombro il furioso torrente già gonfio dalla
tromba diluviale. Il ruggire del vento si confondeva con quello delle
onde, il rumore del tuono con quello dei massi cadenti e rotolanti
a precipizio. Lo schianto degli alberi, il crollare delle case, lo
sconquasso e il travolgimento delle masserizie, le grida delle persone
disperate, il muggire lamentoso degli armenti trascinati dalla piena
accrescevano l’orrore di questo cataclisma rischiarato ad intervalli
dalla tetra luce dei lampi. Ogni prova di coraggio e di abnegazione,
ogni tentativo ardimentoso per mettere un qualche freno all’incollerito
elemento riuscirono vani. La carità di ajutare i sommersi ne accrebbe
il numero, vittime lacrimevoli le une non meno delle altre. Qual notte
d’inferno! Ma venne il giorno ad illuminare quella scena in realtà più
tremenda e più desolante di quello che in mezzo alle tenebre avesse
potuto dipingersi alle atterrite fantasie. Allora si videro galleggiare
cadaveri di persone e di bestie sopra le acque torbide e frementi
tuttavia; si videro alberi, legnami, cumoli di strame, attrezzi rurali
e suppellettili d’ogni sorta. Allora si videro ponti disfatti, strade
franate e confuse coi campi, tutta la pianura sparsa di sassi e di
macerie, ogni vestigio di coltivazione scomparso, un caos, un deserto
generale. E quello era un giorno di solennità religiosa dedicato alla
gran Madre di Dio, il giorno della sua assunzione al cielo. Quanti
dei fedeli che lo avranno invocato preparati a celebrarlo divotamente
si trovavano adesso senza tetto, senza vestiti e senza pane. Nei
successivi giorni si manifestarono sempre più le conseguenze di questo
fatale disastro, le quali dopo dieci anni non sono ancora dileguate
interamente.

Affrettiamoci a far conoscere la situazione dei nostri personaggi nel
frangente di quella notte spaventevole. Quand’anche avessero potuto
prevedere l’imminente catastrofe, il vento turbinoso e la pioggia
cadente a rovesci non permettevano loro di abbandonare la casa, che
ben presto fu allagata fino all’altezza di due braccia. Si rifugiarono
al piano superiore, dove li feriva lo strepito sordo e lontano del
rovinio che abbiamo tentato di descrivere. A poco a poco lo udivano più
distinto e commisto ai clamori dei pericolanti e alle grida di soccorso
che partivano dalle case più prossime. Francesco, al principiare
della tempesta, era accorso a qualche luogo più minacciato, ma vista
l’impossibilità di giovare e pensando a’ suoi padroni, retrocesse
indi a poco immergendosi nella piena fino alla cintura. Per verità i
suoi padroni non correvano rischio in una casa edificata solidamente,
intorno alla quale non potevano le acque molto alzarsi, avendo aperto
lo sfogo della vasta e declinante pianura. Il giovane, in mezzo
alla pietà del prossimo e alla costernatone per la sventura generale
sentiva destarsi vivamente gli affetti del sangue, e stava turbato sui
pericoli della sua propria famiglia. L’amore verso i suoi padroni non
aveva in lui diminuito quello che portava alla madre ed ai fratelli.
Ora il pensiero che essi abitavano là dove il Mella doveva avere più
imperversato, lo rendeva sommamente inquieto. Non ancora ritirate del
tutto le acque, egli volle recarsi al nativo paese di Tavernole, e vi
giunse a fatica per vie quasi impraticabili, rattristando ad ogni passo
lo sguardo sulle rovine, e udendo racconti di miserie estreme. La sua
piccola possessione, la casa e la fucina erano guaste bensì, ma non al
segno di tante altre del circondario. La madre ed i fratelli non ebbero
a soffrire alcun male nella persona, dallo spavento in fuori. Dopo
aver avvisato con essi circa il modo di riparare i danni, dopo averli
confortati e regalati del risparmio sul suo salario, egli rifece il
cammino fra il medesimo spettacolo affliggente.

A Brescia tutti i cittadini erano angustiati. Marta, da quattro giorni
dopo il disastro, non sapeva ancora niente di Don Aurelio nè degli
ospiti suoi. Luigia andava mattina e sera ad interrogarla con ansietà,
e sempre udiva la medesima risposta d’incertezza. Oh Dio, se egli
si fosse annegato! pensava la fanciulla, discolorando a quell’idea.
Finalmente capitò Francesco a quietare la governante, che alla sua
volta quietò Luigia. Egli si recava alla casa di città e a quella
del _ronco_ per radunare biancherie, coperte e capi di vestiario da
distribuirsi ai danneggiati più bisognosi. Inoltre la signora Elisa
fece elemosine considerevoli di danaro e di grano. La carità pubblica
si destò e operò alacremente non solo nella provincia di Brescia e in
tutta la Lombardia, ma in altre parti d’Italia e più nel Piemonte, che
nutriva pei Bresciani una speciale simpatia. Il governo austriaco non
diede un soldo del suo. Egli si degnò di permettere che si facessero
collette nel nostro paese, ma negli altri dell’impero no. Eppure fu
questuato parecchie volte fra noi per infortunj accaduti in Boemia
ed in Croazia. Il Lombardo-Veneto doveva dar sempre, e non ricevere
mai. Meglio così. Noi domandiamo se i Bresciani, nobilmente sdegnosi,
avrebbero ricevuto volentieri la carità degli Austriaci.



PARTE SECONDA



I.

Sguardo retrospettivo — La confessione — Il ritorno di Francesco.


La tessitura di questo racconto vuole che ora facciamo un gran salto
sopra il tempo, e che prendiamo i nostri personaggi come stavano in
autunno del 1857. Quanti nuovi mali percossero l’Italia in questo
intervallo di sette anni! Con quale inasprimento di tirannia la
trattarono i suoi nemici! Principiando dal Lombardo-Veneto, quante
persecuzioni e crudeltà, quanti ladroneggi vi andavano commettendo!
Il governo militare prolungato per anni, le imposte d’ogni maniera
accresciute enormemente, violate e derise le promesse riforme,
gravosi e stolti insieme i nuovi ordinamenti, deportazioni e patiboli
per punire i generosi impazienti del ferreo giogo. I feudatarj
dell’Austria si comportavano non meno iniquamente di essa. A Parma
regnava un malarnese di duca spavaldo e prepotente, che divorava
le sostanze dei sudditi per alimentare i suoi vizj. Caduto sotto
il pugnale della vendetta, la vedova di lui tirava innanzi con un
governo da donnicciuola, che alla schiavitù dei governati aggiungeva
l’avvilimento e la vergogna. A Modena il degno figlio di Francesco
IV, seguendo la fortuna dell’Austria, si restaurava sul trono paterno,
reggendosi col sistema di prima, e moltiplicando, a danno del popolo
impoverito, le sue già esorbitanti ricchezze. Il Granduca rientrava
con male disposizioni, smentiva la sua fama di mitezza, e chiamava
o sopportava in casa diecimila soldati austriaci. Questa insolita
e lunga occupazione forestiera inasprì sommamente i Toscani, e li
dispose contro la dinastia di Lorena ad un odio che portò più tardi
i suoi frutti. Il Papa tornava anch’egli dalla fuga, protetto dalle
armi straniere, e la reazione pretina faceva le sue vendette. Quel
governo scompigliato e cieco non solo perdurò caparbiamente negli
antichi errori, ma ne accrebbe la somma. Per non cadere di nuovo, gli
fu mestieri puntellarsi colle bajonette francesi e tedesche. Finalmente
il Borbone di Napoli, astuto e inflessibile tiranno, proseguiva a
regnare col solito dispotismo feroce, disprezzando ogni buon consiglio
da qualunque parte gli venisse dato. Egli giurò e spergiurò, come gli
altri, una costituzione strappatagli dalla paura, fu bugiardo nelle
amnistie, condannò al carcere ed all’esiglio un numero infinito di
patrioti, e singolarmente incrudelì contro i Siciliani. In mezzo a
tanta tristizia di governi e miseria di governati, il solo Piemonte
camminava francamente nel suo libero reggimento, maturava i suoi
disegni generosi, e teneva vive le speranze della redenzione italiana,
che ora si va compiendo.

Faustino toccava il ventunesimo anno, ed era uno de’ più bei giovani
di Brescia. Le grazie della persona e dello spirito, che abbiamo
conosciute in lui adolescente, avevano raggiunto uno sviluppo ed una
perfezione ammirabile. Egli presentava incarnato il bello ideale della
scultura coll’animazione che essa non può dare. Fanciulle e donne lo
guardavano un po’ troppo lungamente, e l’impressione che ricevevano
del suo volto durava anche dopo sparito. Faustino ignorava di avere
tanta virtù di attrazione e di essere l’oggetto di molte brame secrete,
che avrebbe dipeso da lui il convertire in passioni profonde. Ma
sapendolo pure, non ne avrebbe profittato, come giovane non inchinevole
per natura alle lusingherie amorose, e non cercatore di galanti
avventure. Amando sempre la sua Luigia, egli serbava per le altre
donne l’indifferenza e quasi la ritrosia del Pastor Fido. In quanto
all’istruzione, la possedeva ampia, moltiplice ed esatta per sola opera
di Don Aurelio e di un altro insegnante privato; istruzione libera e
sciolta dalle pastoje liceali e universitarie dell’Austria. Egli non
voleva dal governo impieghi nè uffici di sorta. Le sue visite a Don
Aurelio non erano più quelle dello scolaro al maestro, ma dell’amico
all’amico, e conversando seco lui accresceva tuttavia il tesoro delle
sue cognizioni.

Da lungo tempo Faustino e Luigia avevano cessato di vedersi in casa di
Don Aurelio, e così bisognava fare. Benchè durassero i rapporti delle
famiglie e l’occasione della vicinanza, non vi erano più dalla parte di
Luigia le ragioni e le libertà fanciullesche per condurla di frequente,
come una volta, presso l’inquilino. Ora doveva avere altre cure in casa
propria, e andare da lui colla debita moderazione, e non mai quando vi
potesse incontrare Faustino. I due giovani furono egualmente persuasi
di questa convenienza, e vi ubbidirono. L’amore e la beltà crebbero in
essi cogli anni, e pareva che la beltà e l’amore si fossero giovati a
vicenda nell’incremento. Le loro anime si erano perfettamente intese.
Ora si amavano colla pienezza d’affetto e di fidanza, che ha in sè
tante gioie da supplire a quelle mancate del trovarsi insieme. Da
supplire fino ad un certo segno, aggiungiamo. Il compenso sarebbe stato
scarso quando non avessero avuto il modo di ricambiarsi tratto tratto
una letterina e qualche occhiata in distanza. A dir giusto, quello
delle occhiate in distanza non era un fatto nuovo, se il lettore se ne
ricorda. Faustino aveva terminato di essere scolaro, ma egli passava
ancora sotto quella tale finestra, salvo il mutamento dei giorni e
delle ore.

Poteva l’amore del giovane rimanere sempre nascosto alla signora
Elisa e a Don Aurelio? Poteva l’occhio della madre e quello dell’amico
non leggere nel suo cuore? E Faustino medesimo non doveva finalmente
confidarsi colla madre e coll’amico? No, essi non ignoravano il suo
secreto, e ne tenevano discorso fra loro. Siccome l’amore pareva ben
collocato, e molta la probabilità del matrimonio, così non ne erano
inquieti, e fingevano di non addarsene, aspettando la confessione di
Faustino. Un giorno di ottobre egli ricevette un foglio di Luigia,
e tornò al _ronco_ tutto consolato di quel dono, che mancavagli da
qualche tempo. Era singolarmente strano il suo contegno in tale giorno.
Discorrendo a tavola, passava di sbalzo da un soggetto all’altro, da
una facezia ad un serio proposito, dal ridere al comporsi in gravità,
dalla distrazione al raccoglimento. Tutto ciò perchè avrebbe voluto
entrare in un certo tema, e non osava. Sotto gli sguardi fissi della
madre si sconcertava di più e arrossiva. La signora Elisa indovinò
il motivo di quell’impaccio, e si divertì nell’aumentarlo. Dopo
pranzo Faustino la prese sotto il braccio, ed uscirono a passeggiare
all’aperto.

— Mia cara madre, io sono innamorato, diss’egli di botto come se il
secreto gli scappasse con impeto di fuga. Nello stesso mentre distolse
l’occhio da lei per non vedere l’effetto che produrrebbe sul suo volto
la confessione.

— Innamorato da molto tempo? domandò tranquillamente la signora Elisa.

— Ah sì, da molto tempo! rispose Faustino maravigliato della calma con
cui gli veniva fatta quella domanda. Egli ricondusse lo sguardo alla
madre, che componeva le labbra ad un lieve sorriso.

— E perchè non confidarmelo prima d’ora?

— Lo avrei voluto molte volte, ma....

— Ma che?

— Me ne vergognava. Il mio cuore si era aperto troppo presto e mio
malgrado all’amore. Facilmente si sarebbe considerato come un balocco
da fanciulli..... avrebbe dato motivo a ridere.... Ah no, il mio amore
era serio e grande fino dal suo nascere. Tuttavia non sapeva risolvermi
a palesartelo. Io aspettava, aspettava.... mi perdonerai, madre mia?

— Chi è la fanciulla?

Faustino la nominò, e ne fece il ritratto col più tenero entusiasmo.

— Ed io credeva di occupare sola il cuore di mio figlio, proseguì
la signora Elisa con accento da lasciare in dubbio se veramente le
rincresceva di essersi ingannata.

Noi siamo persuasi che il suo lamento fosse sincero, ma come riferibile
ad un antico e dileguato dispiacere. Quando la signora Elisa ebbe
scoperto colle proprie osservazioni il secreto di Faustino, si dolse
in sè medesima che egli dividesse i suoi affetti. Tutti gli amori sono
esclusivi e gelosi di regnare assolutamente. Il materno, conoscendo
l’assurdità del suo egoismo, lo nasconde, ma ne ascolta se non altro
i primi moti. Faustino doveva credere che la madre si lamentasse di
un’amarezza nata allora, e si adoperò caldamente a dissiparla.

— Rassicurati, cara mia, che tu mi stai nel cuore sempre al medesimo
posto, egli disse premendola al braccio. Il mio affetto per Luigia
non ha punto pregiudicato a quello che nutro per te. Anzi tu ci hai
guadagnato, se il mio figliale amore poteva crescere ancora. Mia madre
e Luigia mi toccano nell’anima due corde producenti insieme un’armonia
soavissima. Luigia mi abbellisce di nuove gioie la vita che mia madre
mi diede. Allorchè tu conoscerai la creatura che ti fa gelosa, l’amerai
tu pure e ne sarai riamata. Così fra noi tre la scambievolezza del
duplice amore ne farà direi quasi uno solo, che non avrà l’eguale per
l’abbondanza delle sue dolcezze.

— E se il padre di Luigia si opponesse alla vostra unione?

— Ah, non è possibile, disse Faustino assalito da quel dubbio doloroso
che aveva più volte combattuto e vinto in sè stesso. Il padre di Luigia
l’ama troppo per volerla disperare, e me con essa. Io credo di non
essere immeritevole che mi affidi il destino di sua figlia.

— Però tu sei stato imprudente, Faustino mio. Alla tua età non dovevi
accogliere un amore che poteva essere indegno di te, o non diviso, o
contrastato.

— Col primo richiamo tu mi fai torto davvero. Per fanciullo che io
fossi, non mi mancava il discernimento. Ove Luigia non fosse stata
di buona famiglia, d’indole gentile e ben educata, non avrei fermato
lo sguardo sopra di lei, e molto meno cangiata la prima simpatia in
altro più vivo sentimento. Quanto al pericolo che il mio amore potesse
essere non diviso o contrastato, vi era, mi parve, poco da temere.
Non abbiamo tutti il nostro amor proprio che ci fa coraggio? Qual è il
giovane amante che non si lusinghi di ottenere corrispondenza? E donde
mi sarebbe venuto l’ostacolo alla speranza? Io aveva fatto l’esame
di me stesso, e sia detto colla dovuta modestia, mi trovai abbastanza
contento. Il sentire troppo umilmente di noi, e il timore dei rifiuti
e dei contrasti non giustificati, costringerebbero una gran parte degli
uomini ad astenersi dall’amore, o a soffocarlo nascente. Sicchè, madre
diletta, mi darai il tuo consenso? Ti piacerà di avere due figli?

— Potresti dubitarne? Ma ci manca un altro consenso.

— Lo avremo sicuramente. Sarebbe tempo che io mi facessi conoscere
dal padre di Luigia.... che preparassimo le cose. Don Aurelio sarebbe
l’uomo a proposito per toccare i primi tasti. Quindi interverrebbe
la mia dolcissima madre colla sua nobile presenza, coi suoi modi
attraenti, preceduta dalla fama delle sue virtù e de’ suoi patimenti
gloriosi.... a lei non si resiste.

— Basta basta. L’interesse della propria causa rende eloquenti.... ed
anche adulatori se occorre, disse la signora Elisa con una grazia di
sorriso e di gesto da mostrare che meritava l’elogio, mentre intendeva
di declinarlo.

Erano giunti in vista del sepolcro, e tacquero. I due cipressi, già
cresciuti ed educati a protendere basso i rami, lo coprivano colla loro
fosca verdura. Più che un sepolcro, altre volte cagione di emozioni
affannose, era adesso un altare a cui si accostavano con mesta e quieta
venerazione. Passando di là non piangevano più, ma sospendevano un
lieto pensiero che potesse allora occuparli. Il dolore, così a lungo
e aspramente esercitato, aveva spuntati i suoi strali e finito di
adoperarli, lasciando nei feriti le piaghe rimarginate.

Passarono presso un melo, sopra il quale stava il _ronchiere_
cogliendone i frutti.

— Se ti contenti, disse Faustino alla madre, manderemo domani a Don
Aurelio un cestello di queste pome tanto belle e saporite. Io credo che
non fossero più seducenti quelle mangiate da Eva e dal Consorte.

— Sì sì, vorresti anche tu adoperarle a sedurre... cioè a
raccomandare... disse scherzando la signora Elisa.

— Mamma cara e maliziosa!

— Vedi se mi hai capita?

— Don Aurelio mi gioverà senza bisogno di mele, perchè vi sarà
disposto dalla sua bontà, ed io gli pagherò il debito coll’aumentargli
il mio affetto e la mia gratitudine. Dunque il primo giorno che noi
discendiamo insieme a Brescia, e sarà presto, è vero? io ti lascio alla
porta di Don Aurelio, e vado a passeggiare per la città. Dopo un’ora
torno a prenderti, e mi presento franco e disinvolto, come se non
sapessi ciò che intanto sarà accaduto fra voi due.

— E che sarà accaduto?

— Nulla di più facile a prevedersi. Tu gli avrai detto: il mio Faustino
ama vivamente e con ricambio la signora Luigia, figlia del padrone di
questa casa. Io non la conosco, ma Faustino me l’ha dipinta come un
modello di perfezione. Lei, signor Don Aurelio, potrebbe dirmi se il
ritratto corrisponde all’originale. Qui il mio caro maestro conferma la
somiglianza, e tu prosiegui: Lei che abita in questa casa da venti anni
avrà naturalmente dei rapporti di amicizia col padre della fanciulla.
Chi non fa stima di Don Aurelio, e non si tiene onorato di essergli
amico? Or bene, io lo pregherei che volesse così bel bello provare
il terreno..... scoprire le intenzioni del padre..... e grado grado
insinuarsi nell’affare. Don Aurelio avrà risposto che assai volentieri
assume questo impegno, e che ha ferma speranza di ben riuscirvi. Ecco
il sommario del vostro discorso. Io tralascio per brevità gli sviluppi
e le disgressioni con cui lo avrete allungato. Non dico neppure la
maraviglia di Don Aurelio all’intendere che Faustino e Luigia si amano.
Come sono stati furbi costoro! avrà esclamato. Ed io non avvedermene
mai!

In questo momento compariva Francesco su pel viale, e gli mossero
premurosamente incontro. Dopo un’assenza di cinque giorni, egli tornava
col suo fagottello sotto il braccio e coll’aria molto più afflitta di
quando era partito.

— Ella è morta! disse sospirando allorchè si fu avvicinato ai padroni.

— Morta! Povero Checco! risposero essi restando immobili in atto di
grande compassione.

Si guardarono tutti tre a vicenda, e gli occhi ed i volti esprimevano
nel silenzio io stato dei loro animi.

— Parla, poveretto, disfoga il tuo dolore, disse la signora Elisa
standogli da un lato, e Faustino dall’altro, e tornando lentamente a
salire.

— Ah, il mio dolore è ben grave! Sono arrivato al paese nell’ora
che la cara vecchia pareva star meglio. Sia lodato il Signore, disse
al vedermi entrare in camera; il suo solito motto di quando veniva
sorpresa da una consolazione. Era seduta in letto, e quasi non
sembrava ammalata, badando alla sua voce ferma e all’insieme del suo
aspetto. Sicchè io non moderai il mio trasporto, e me la strinsi fra
le braccia come se fosse stata sana. «Figlio mio, la tua venuta mi
è di grande sollievo, e contribuirà a guarirmi. Jeri e l’altro mi
sono trovata poco meno che agli estremi, e temeva di non più vederti.
Ma oggi, grazie al cielo, mi sento sollevata.» Così mi disse mentre
eravamo abbracciati. Ah traditore di un male! Il giorno appresso ella
ricadde nello stato di prima, e con segnali più spaventosi ancora. Le
sue divozioni le aveva già fatte. Il curato venne per amministrarle
l’olio santo, e confortarla a morire. Ella non perdette un minuto la
conoscenza, e parlò rassegnata e tranquilla a noi tre fratelli, che
stavamo singhiozzando intorno al letto. Ci disse parole che stringevano
l’anima, ultime parole uscite dalla bocca di nostra madre: «Amatevi
come avete sempre fatto, e non cessate di avere il santo timor di Dio,
ci disse. Io pregherò per voi, e vi do la mia benedizione.» La signora
udrà volentieri che mia madre si ricordò di lei e del signor Faustino,
come pure delle cortesie che le usarono quando fu a trovarmi a Brescia.
«Quei buoni signori che hanno tanto patito! continua a servirli con
amore, ed io pregherò anche per essi.» Una mezz’ora dopo mia madre non
era più.

Francesco si passò una mano sugli occhi. La signora Elisa e Faustino
lo avevano ascoltato silenziosi. Che avrebbero potuto dirgli in tale
circostanza? Quali conforti recargli? Certo è che nessun male di
persona estranea li aveva toccati al pari di questo. Ma Checco non
era un estraneo per essi. Come non sentire vivamente il dolore di chi
aveva sentito più vivamente i loro? La signora Elisa, entrando in casa,
ordinò alla cociniera che gli preparasse da mangiare. Egli inghiottì
a stento qualche boccone e poi, volente la padrona, andò a riposarsi
dalla stanchezza del viaggio. Nella sua cameretta disfece il fardello
per mettere a luogo i panni. Vi erano anche involte alcune cosuccie
appartenute a sua madre, fra le quali una medaglia che essa portava
sempre al collo. Vedendo quegli oggetti, si commosse fortemente, il
cuore gli si disgruppò, e sparse lacrime abbondanti; il che non aveva
ancora potuto fare.



II.

Un lieto giorno.


La signora Elisa e Faustino andarono in compagnia alla città, e si
separarono sulla soglia di casa di Don Aurelio, presso il quale per
buona sorte trovavasi Luigia. Era la prima volta che le due signore
si vedevano, e Don Aurelio le presentò l’una all’altra. La fanciulla
provò un interno tumulto e si confuse alquanto dinanzi alla madre
del suo amato, sentendosi tuttavia contenta di conoscerla. Molto si
piacquero scambievolmente, e si andavano guardando con segni manifesti
di simpatia. La signora Elisa dovette in sè convenire che l’amore
di Faustino era ampiamente giustificato, molto più quando ebbe udito
parlare la fanciulla nella breve conversazione tenuta fra loro. Luigia
si congedò, e la signora Elisa le porse la mano. Avrebbe voluto invece
darle un bacio, che sarebbe stato ricambiato con eguale piacere, ma il
mondo ha le sue leggi così dette di convenienza, alle quali bisogna
ubbidire quando pure contraddicano ai nostri desiderj onesti e ai
buoni impulsi del cuore. Fra la signora Elisa e Luigia non vi era
famigliarità. Egli è vero che molte volte due donne si baciano con
indifferenza ed anche con avversione reciproca, ma là il bacio sta
bene, perchè si conoscono e si chiamano amiche da lungo tempo.

— Godo che il caso ci abbia favoriti, disse Don Aurelio alla signora
Elisa rimasti soli. Ebbene, non è bella e amabile questa giovane?

— Sì veramente, io ne sono molto soddisfatta. Ascolti una novità.
Faustino mi fece la grande rivelazione del suo amore.

— Finalmente!

— Io vengo per suo ordine, soggiunse ridendo, a pregare Don Aurelio di
adoperarsi in questo negozio.... di toccare i primi tasti, come egli si
esprimeva.

— Ah ah, non si attenta di venire egli stesso a pregarmi, disse Don
Aurelio ridendo alla sua volta. Lo avrei veduto e udito volentieri
espormi la storia del suo innamoramento. Ma veniamo a noi. Il padre di
Luigia non avrebbe nessuna difficoltà per questo matrimonio, anzi lo
gradirebbe come onorevole alla sua famiglia. Egli stima molto Faustino,
e più ancora la di lui madre. Ma per effettuare l’unione bisognerebbe
attendere qualche tempo, egli fece osservare. Ambedue sono ancora
troppo giovani, e poi al presente egli non avrebbe pronta la dote.

— Questo non è un ostacolo, perchè nè io nè Faustino miriamo
all’interesse. La dote verrà in seguito quando potrà darla. Mi pare
più giusta la ragione dell’età, e perciò noi aspetteremo un anno, se
occorre. Don Aurelio avrà informato il padre della fanciulla circa la
nostra fortuna, che è mediocre per non dire scarsa.

— Quella di lui non debb’essere gran fatto migliore, per quanto io
mi sappia. Egli possiede questa casa, una piccola _breda_, e alcuni
capitali in giro pel suo commercio di sete.

— Don Aurelio avrà la bontà d’introdurmi a lui, perchè possiamo
conoscerci personalmente e condurre innanzi le trattative. Noi
stabiliremo il giorno della visita.

Qui si presentò Faustino, alla cui impazienza parve che fosse passato
gran tempo dacchè aveva lasciata la madre, un tempo più che bastevole
perchè ella avesse esaurito a fondo il suo impegno.

— Indovina di che abbiamo parlato finora, gli disse Don Aurelio
stringendogli la mano. E nota bene che siamo sempre stati sul medesimo
argomento.

— Segno che era interessante e degno di occuparsene a lungo, rispose
Faustino ridendo.

Da questo preludio di Don Aurelio e dagli sguardi lieti della madre
egli trasse buoni augurii.

— Vi era una volta un bel giovane che s’innamorò di una bella giovane,
proseguì Don Aurelio carezzandosi il mento.

— Bello così così, lo interruppe Faustino uniformandosi al tono
scherzevole del maestro. In quanto poi alla giovane bisognava dire
bellissima.

— Nessuno sospettò mai l’amore nascosto di questo giovane.... bello
così così; neppure un certo prete suo amico, uomo accorto e conoscitore
delle passioni umane.

— Neppure sua madre che doveva penetrare meglio di tutti nel cuore di
lui, disse la signora Elisa mettendosi all’unisono degli altri due.

— Che arte sopraffina dalla parte del giovane!

— Che abile dissimulazione!

Faustino era persuaso dapprima che dicessero la verità riguardo al
secreto da lui saputo conservare, ma questo non gli pareva adesso il
modo di dirla. Principiò a credere che ne sapessero già qualche cosa
avanti la sua confessione, e che le loro parole fossero ironiche. Don
Aurelio continuò.

— Quando gli parve tempo, questo amore lo fece noto....

— A sua madre, disse Faustino.

— La quale doveva anch’essa palesarlo....

— A quel tal prete.

— E perchè a lui?

— Perchè si spera nel suo ajuto. A quest’ora gli è stato esposto....
quello che forse già sapeva dell’amore secreto. Riguardo al beneficio
che si aspetta dalla sua bontà, quello bisognava domandarlo.

— Un amico può alle volte antivedere ciò che occorre all’amico, e
risparmiargli la sua domanda.

— Ah sì certamente. La vera amicizia ha pure di queste previdenze
delicate. Laonde si potrebbe credere....

— Che il prete ha fatto il suo debito di amico, toccando i primi
tasti.... Questo modo di dire fu adoperato da altri prima di me.

— Ho capito. Quel giovane è stato un baggeo a persuadersi che il suo
amore fosse ignorato da tutti. Sua madre ha recitato egregiamente la
commedia. E come risposero al tocco i primi tasti?

— Abbastanza bene da contentarsene. La prima volta che il prete vedrà
quel giovane, gli darà una buona notizia.

— Supponiamo che il prete sia Don Aurelio, e il giovane sia Faustino.
Udiamo la buona notizia.

— Il padre della fanciulla ti è favorevole. Entro un tempo da
stabilirsi tu otterrai la mano di sua figlia.

— Ah, Don Aurelio carissimo, ecellentissimo!

— Siamo finalmente usciti da questa lunga figura allegorica, sostenuta
si può dire non male. Anche tua madre ha qualche cosa di bello a dirti.

— Davvero? Parla, madre mia.

— Ho veduto la signora Luigia, e discorso con lei.

— Oh! Quando? In che luogo?

— Poco fa, in questa stanza medesima dove si trovava al mio arrivo. È
bella, graziosa e modesta.

— Un angelo, si dovrebbe dire.

— Questa parola è riserbata solo agli amanti.

— E di che cosa avete parlato?

— Di letture e di lavori femminili.

— Il mio nome non è stato pronunziato?

— Forse mentalmente da lei.

— Signori, disse Don Aurelio, oggi bisogna fermarsi qui a far penitenza
con me. Non si torna al _ronco_ se non verso sera. Intanto se la
signora Elisa è contenta, usciremo a passeggiare un poco sotto i
portici.

Il doppio invito fu accettato. Non si videro mai per avventura unite
tre persone dotate come queste della virtù di attirare gradevolmente
gli sguardi. La signora Elisa quarantenne, ma bella ancora e sempre
distinta per la sua aria gentilesca mista di dolce malinconia, era
acconciata con semplicità squisita e perfetto buon gusto, confacente
del tutto alla sua persona. Don Aurelio, coi capegli bianchi come
neve, curvo alquanto ma rubizzo tuttavia e spedito nei movimenti,
vestiva pulitamente e sodamente dal cappello alle scarpe, ornate di
fibbie d’argento lucenti. Così dava risalto alla sua figura espressiva
e improntata di amabile serenità. È inutile il ripetere per quali
esterne doti Faustino si facesse notare. Tutti tre camminavano fra la
gente rivolta verso di loro; bisognava essere distratti altrove per
non guardarli. Cento volte furono salutati quando con domestichezza e
quando con riverenza. Visitarono qualche persona di comune amicizia,
e quindi si recarono a pranzo. Don Aurelio si comportò da cortese
anfitrione, e Marta da esperta cuoca. Le vivande non furono molte,
ma prelibate e servite decorosamente. Si adoperò la biancheria più
fina e il vasellame d’argento e di porcellana straordinario. In mezzo
alla tavola spiccava un bel mazzo di fiori del giardino di Marta.
Dicano in coscienza i convitatori grandi e piccoli se il lusso più
o meno abbagliante onde parano le loro mense proceda da riguardi
rispettosi verso i convitati, o da vanità di ostentare le proprie cose
invidiabili. Don Aurelio faceva quello sfoggio per cordialità e per
onoranza de’ suoi commensali, che avrebbe voluto poterli trattare in
piatti d’oro.

Sul tramonto del sole la signora Elisa e Faustino si avviarono al
_ronco_, d’onde non tornarono a Brescia che il giorno stabilito con Don
Aurelio per fare la prima visita al padre di Luigia.



III.

Il duello.


In quella visita, accaduta alla fine di ottobre, furono accettate le
scambievoli proposizioni, e si convenne che il matrimonio avrebbe luogo
fra otto mesi. Faustino potè andare in casa di Luigia, ma non troppo di
frequente, perchè la fanciulla non aveva più la madre, e stava sotto la
custodia di una _bonne_.

Il giorno 14 dicembre Faustino entrò nel caffè sotto i portici
nominato il bottegone, dove un amico gli aveva dato la posta, e non
era ancor giunto. Per aspettarlo, si trattenne in una saletta vuota
di avventori, facendosi portare qualche bevanda ed un giornale. Poco
stante comparvero nello stesso luogo due giovani ufficiali austriaci,
che sedettero ad un tavolino discorrendo fra loro in tedesco. Uno
di costoro disse all’altro: «Non vedo l’ora di essere traslocato
altrove. Questi maledetti briganti Bresciani ci odiano a morte.
Avrebbero bisogno delle lezioni di un altro Hainau». Faustino non
potè contenersi, e con un fremito di sdegno si alzò e proruppe nella
medesima lingua: «Signore, voi siete un tristo, e vi domando ragione
dell’insulto che avete fatto a me e a’ miei concittadini. Che noi
odiamo gli Austriaci è verissimo, ma voi mentite vilmente chiamandoci
con quei nomi ingiuriosi». L’ufficiale era balzato in piedi, mettendo
la mano sull’elsa della spada e imprecando rabbiosamente. Faustino
gli fermò il braccio, e lo tenne come dentro uno strettojo. L’altro
ufficiale cercò invano di calmarli.

— Voi dovete disdire le vostre insolenze, continuò Faustino con accento
risoluto.

— Non mai, urlò l’avversario schiumando di collera. Noi ci batteremo.

— Quando? dove?

— Domani alle otto del mattino fuori di Porta Pila sotto il castello.

— Ma io non possiedo armi.

— Porterò io due eccellenti pistole. Ciascuno verrà col suo padrino.

— Così sia, e siamo intesi.

— Guai a chi manca!

— Guai a chi manca! ripetè Faustino, lanciandogli uno sguardo
fulminante e partendo di là.

Sotto i portici incontrò l’amico aspettato, e gli fece nota l’avventura
pregandolo a volergli servire di padrino.

Non paia strano che il nostro giovane, alla prima occasione di
affronto, si comportasse come un uomo solito alle contese e al farsi
rendere ragione. Non si dica essere stata la sua impetuosa condotta
poco in armonia colla dolcezza della sua natura. A questa dolcezza non
si opponeva l’energia da lui adoperata nell’esprimere il suo giusto
sdegno. Il sentirlo meno, o il manifestarlo pacatamente sarebbe stata
una debolezza prossima alla viltà. Ricordiamoci quali sentimenti
gagliardi egli nutrisse fra i teneri che gli occupavano il cuore.
Ricordiamoci che suo padre, con cento altri patriotti, era stato ucciso
da Hainau, e che ora un miserabile strumento di oppressione augurava a
danno dei Bresciani una nuova tigre di quella fatta.

Faustino andò a trovare Luigia e Don Aurelio, studiandosi di
comparire del consueto buon umore, e vi riuscì bastevolmente. Quel
giorno egli pranzò fuori di casa, e la sera voleva fingere un male
di capo e mettersi a letto per tempo, onde evitare di commoversi e
tradirsi conversando colla madre. Ma questo consiglio lo rigettò,
parendogli significare fiacchezza e crudeltà insieme. Io debbo saper
padroneggiare il mio animo, egli pensava. Io non voglio togliere due
ore di compagnia a mia madre, che è forse alla vigilia di perdermi
per sempre. Anzi questa sera mi tratterrò più lungamente con lei, e
domani ne comprenderà il motivo. La signora Elisa lavorava dinanzi ad
un piccolo tavolino rotondo, sul quale stava una lucerna col globo di
vetro smerigliato. Prima di sedere presso la madre, Faustino accese
una candela, e si mise in disparte a squadernare un album collocato
sopra un altro tavolino. Col proposito di voler evitare le commozioni,
si abbandonava invece a suscitarle, e ne sentiva una sorta di voluttà
tormentosa. I suoi occhi non erano attenti al libro, ma rivolti
furtivamente alla madre. Qual nuovo dolore io le preparo, diceva
tra sè medesimo; quante lacrime dovrà spargere ancora? Che sarà di
me, che sarà di lei domani? O vincitore o perdente, o vivo o morto
che io rimanga, uno strazio acerbo è riserbato al suo cuore. O il
sepolcro mi torrà a lei per sempre, o la fuga e l’esiglio per lungo
tempo. Mia povera madre! Ma non dipenderebbe da me il risparmiarle un
tale supplizio? Chi mi obbliga di cimentare la vita con quel tedesco
marrano? Non potrei io astenermi dall’andare al convegno, e beffarmi
di lui? Questa idea gli fece comparire il rossore alla fronte. Io
commettere una simile vigliaccheria? continuò a pensare. Io venir meno
alla data parola, e alle leggi dell’onore? Non sarà mai! E l’ira che
m’infiamma dovrà forse tacere? Non ardo io d’impazienza di castigare
colui? E se la perizia o la fortuna gli daranno invece la palma? Non
m’importa. Sia pur bella e preziosa la vita, mi consoli pure l’amore di
mia madre e quello di Luigia, abbiano pure le due dilette un disperato
cordoglio per mia cagione, ma domani si compia ciò che è scritto
in cielo. La signora Elisa, tenendo sempre gli occhi abbassati sul
lavoro aveva composto in questo momento le labbra al sorriso. Ella non
ha sentore della sventura che le sovrasta, seguitò Faustino nel suo
mentale soliloquio. Immagini liete le passano per l’anima, e la fanno
sorridere. Chi, se non io e Luigia, può esserne la causa? Fuori di
quelle che le vengono da noi, essa non ha al mondo altre consolazioni.
E domani le sarà recata la novella.... Ah tristissimo pensiero! E se
io la disponessi a riceverla senza desolarsi? Mi mancano forse buoni
argomenti? Sì, voglio aver fede nella sua ragione e nella forza del suo
animo. Ella non potrà disapprovare ciò che ho fatto, nè distogliermi
dall’incontrarne le conseguenze. Una nuova riflessione lo ricondusse al
partito di tacere. No no, io non oso promettermi che vi acconsenta. Ho
supposto in lei dei sentimenti che una madre non può avere, molto meno
una madre di unico figlio. Ella sarebbe rassegnata al vedermi partire
per combattere i nemici della patria, ma non mai per cimentarmi in un
duello. Il suo materno cuore addurrebbe tali ragioni potenti, che le
mie cadrebbero come stolti sofismi. Le sue carezze, le sue preghiere,
il suo pianto finirebbero col farmi mancare.... no, sull’onor mio non
mancherò. Quindi mia madre non sappia nulla.

Egli andò a sederle accanto, e parlarono di Luigia, del futuro
matrimonio, della felicità aspettata, e di altre cose famigliari
e geniali, accompagnate di espansioni affettuose. La signora Elisa
non ebbe il minimo indizio per sospettare che il figlio chiudesse
nell’animo un disturbo, non che una guerra così tremenda, tanto egli
seppe sorvegliarsi e governarsi accortamente fino al momento che si
furono separati. Faustino invitò Francesco a seguirlo nella sua camera,
dove gli raccontò l’accaduto.

— È un affare molto serio, disse tutto conturbato il servo fedele. Ma
conta lei di battersi?

— Senza alcun dubbio.

— E se io non volessi?

— Via, non è tempo di scherzare.

— Dio mi castighi se non dico di buono. Lei non si batterà.

— La stessa mia madre non basterebbe ad impedirmelo.

— La sua signora madre non sa l’occorso, ed io lo so. Non doveva
confidarlo neppure a me. Che dico io? Anzi ringrazio il cielo che gli
abbia mandato la buona ispirazione.

— Tu mi dispiaci con questi sgomenti da femminetta. Dov’è l’animo di
Checco?

— Non si tratta di me, signore; io tremo per lei e per sua madre.
Ah, cane ribaldo austriaco! Aver piacere di quanto Hainau ha fatto ai
Bresciani! Chiamarli maledetti briganti! Or bene, facciamo una cosa.
Lei viene sorpreso questa notte da un’improvvisa malattia, e quindi non
può recarsi domattina al luogo del ritrovo. Ci vado io in cambio.

— Checco mio caro....

— Mi lasci finire. Lei mi presta alcuni suoi panni, affinchè io non
sembri quello che sono, e colui non abbia il pretesto di ricusarmi come
sostituto. In quanto ai modi e al discorso io spero di elevarmi per un
quarto d’ora al segno da non parere un servitore. Così l’affare me lo
prendo sopra di me, e il tedesco lo acconcio io pel dì delle feste.

— Non ne facciamo nulla, mio impareggiabile Checco, disse
abbracciandolo. I propositi scellerati del tedesco hanno ferito le mie
orecchie, e tocca a me di trarne vendetta. Spero di aggiustarlo io pel
dì delle feste. Ecco venuta l’occasione di giovarmi delle lezioni di
bersaglio.

— Vivaddio, e perchè mettermi a parte di questo avvenimento?

— Perchè ti voglio bene, disse Faustino pigliandolo amorevolmente per
mano, perchè tu comprendi che il duello non può tralasciarsi, e perchè
tu mi accompagnerai sul terreno.

— Questo s’intende. Ma sua madre, sua madre! Sventuratissima signora!
Mi crederà ella complice di un tal fatto? Vorrà ella persuadersi che
ho cercato d’impedirlo? Deh, signor padrone, pensi che potrebbe restar
morto sul colpo.... o ferito gravemente.... Se ciò avvenisse....
perdio! colui non rientra più in Brescia. O si batte anche con me, o
lo strozzo là come un pollastro. Aimè, che cosa mi è toccato di sapere
questa notte! Ho le convulsioni in tutto il corpo.

— Lasciami, Checco mio, chè debbo scrivere alcune lettere. Fa di essere
pronto domani alle sette.

— Lo sarò di qualunque ora, perchè io non dormo più.

Rimasto solo, Faustino scrisse alla madre, a Luigia e a Don Aurelio;
fece alcuni altri preparativi, e poi si coricò. Il mattino all’ora
prefissa tutti si trovarono sul campo. Esaurite le pratiche di uso, i
due avversarii si collocarono alla distanza convenuta, e fecero fuoco.
Faustino fu toccato leggermente nel braccio sinistro, ma l’ufficiale,
colpito nella fronte, cadde per non più rialzarsi. Checco respirò, e
gli disparve dal volto l’aria torbida che lo infoscava.

— Addio, gli disse Faustino quando si furono allontanati dalla scena;
io vado all’estero senza indugiare un momento. Nella mia camera sopra
il tavolino vi sono tre lettere, che tu darai a mia madre. Confortala,
e dille che appena giunto in salvo le scriverò.

— Signor padrone, io non mi separo da lei se non quando avrà passato il
confine, soggiunse Checco risolutamente. La polizia austriaca veglia
e ghermisce da per tutto. Ci mancherebbe che lei cadesse ne’ suoi
artigli. È inutile che mi contrasti. La sua signora madre le troverà da
sè le lettere sopra il tavolino.

— Ebbene, andiamo. Io terrò conto anche di quest’altra prova del tuo
amore.

— Eh, che conto! Dove pensa di recarsi?

— Nella Svizzera.

— Va bene. Io sono pratico dei luoghi, e vi arriveremo senza intoppi.
La via della Valtellina è troppo lunga; piglieremo quella di Como.

Furono presto alla stazione della strada ferrata senza passare per
Brescia. Alcune ore dopo discesero a quella di Porta Tosa, e poi
salirono all’altra di Porta Nuova presso Milano, per finire all’ultima
della Camerlata. Al di sopra di Como presero certi sentieri attraverso
i campi, e quindi misero piede sul territorio di Mendrisio. Con qual
animo poi si dividessero, lo pensi il lettore. La sera del giorno dopo
Francesco rientrava in Brescia.

— È salvo, è salvo, disse alla sua padrona che stava in compagnia di
Don Aurelio.

— Ah, Checco, non ti avrei creduto capace di secondare Faustino in
questo orribile fatto, disse la signora Elisa con severità mista alla
costernazione.

— Secondarlo? Ecco l’accusa che io temeva. Il cielo mi è testimonio
della opposizione che gli ho fatta, ma inutilmente. Egli stette fermo
come una rupe. Mi era nato perfino il pensiero di chiuderlo in camera,
ma sono persuaso che avrebbe rotto l’uscio, o si sarebbe calato dalla
finestra piuttosto che mancare al convenuto. La signora avrà trovato
delle lettere.

— Sì, le ho trovate.

— La ferita di Faustino è veramente leggera, come si racconta? domandò
Don Aurelio.

— Un’inezia. Egli ebbe rotta la manica e sfiorata la pelle, ma
l’altro....

— Taci, lo interruppe la signora Elisa, aggiungendovi un cenno della
mano. La polizia venne per arrestare Faustino.

— Quale semplicità! Credeva forse la polizia che egli stesse ad
aspettarla? Noi abbiamo dormito la scorsa notte a cento miglia di qua.

— Tu non mi hai detto ancora dove si è rifugiato.

— Nel Cantone Ticino, d’onde passerà in Piemonte. Fra due o tre giorni
la signora avrà sue notizie.

— Ti ringrazio che lo hai accompagnato, e sei stato partecipe de’ suoi
pericoli. Mi dispiace di averti fatto torto, aggiunse per cancellare in
lui l’impressione dell’immeritato rimprovero.

Checco non avrebbe avuto pace, se quelle parole non venivano a
dargliela.



III.

Felicità mancata.


Faustino soggiornava nella capitale del Piemonte, e di là scriveva
sovente alla madre ed a Luigia. Questa confortava alquanto il proprio
dolore, trattenendosi con Don Aurelio e colla signora Elisa. La giovane
era travagliata altresì per un’altra cagione. Gli affari commerciali di
suo padre andavano male, e lo vedeva preoccupato e mesto.

La signora Elisa, avendo ottenuto dopo molte istanze un passaporto per
Torino, andò a trovare il figlio, che abitava due camerette mobigliate
in via di Po. Grande fu la gioia di lui all’arrivo inaspettato della
madre, che non gli aveva fatto sperare la sua visita per le difficoltà
di averne il permesso. Non fu minore il giubilo della signora Elisa,
colla differenza che importava l’esservi ella preparata. Il giovane,
in tre mesi dacchè dimorava a Torino, aveva acquistato una sorta
di celebrità. I patimenti e il patriottismo della sua famiglia, i
suoi pregi personali, e il duello da lui sostenuto per un sentimento
generoso, lo facevano l’idolo di tutti i liberali, e principalmente
degli emigrati bresciani, amici di suo padre. Quando si seppe la venuta
della signora Elisa, vi fu negli uomini e nelle donne un desiderio
di conoscerla, una gara nell’onorarla, un’affluenza di visitatori al
suo albergo. I due Bresciani madre e figlio formavano il soggetto dei
discorsi e delle lodi generali. Le spie austriache stanziate a Torino
riferivano sul favore che la signora Elisa godeva presso il partito
rivoluzionario, sul concorso alla sua abitazione, e sui propositi
sediziosi che vi erano tenuti. Don Aurelio intese da un galantuomo bene
informato le misure che prendeva la polizia contro di lei, e le scrisse
di non lasciare il Piemonte, perchè tornando a Brescia non vi sarebbe
sicura. Questo avviso venne a risolvere la sua incertezza. Ella già
desiderava di rimanere col figlio, il cui ritorno a casa non era da
sperarsi per lungo tempo, ma le cose domestiche ed altre considerazioni
si opponevano alla sua brama. Non si mosse dunque da Torino, ma
significò le proprie intenzioni al suo uomo d’affari, ed a Francesco
l’ordine di venire a raggiungerla, dopo spacciate certe incumbenze.

Don Aurelio e Luigia erano dolentissimi che alla emigrazione del figlio
si fosse aggiunta quella della madre. Le sventure e le afflizioni
si succedevano l’una all’altra. Il padre della fanciulla andava di
male in peggio nei suoi negozii. Da parecchi anni la filatura dei
bozzoli eragli stata tutt’altro che lucrosa. La perdita di una lite,
alcune speculazioni disgraziate, e il fallimento di un corrispondente
concorsero a precipitarlo. Ormai non poteva più soddisfare a’ suoi
impegni, e trovavasi al punto di dover fallire egli stesso. Un ricco
cittadino, il signor M.*, si offerse di salvargli il credito e le
sostanze al patto che diremo dopo una digressione.

Tutti i paesi d’Italia vantano uomini amanti della patria, il numero
dei quali è grande dove più e dove meno, come la forza del loro amore.
Parlando solo della Lombardia, si può dire che vi abbondano questi
uomini, e non pochi sono patriotti in alto grado. Costoro hanno
veramente l’Italia in cuore. Per essa versano il proprio sangue e
prodigano i loro averi, contribuendo a tutto quanto può agevolare i
suoi trionfi e il suo risorgimento. Nell’oro da essi donato vedono
armi e armati che fulminano i suoi nemici. Nessun sacrificio è loro
increscevole. Se poco possiedono, danno tuttavia molto per ammirabile
virtù di abnegazione. Ai bisogni e agli appelli urgenti, essi dicono
fra sè medesimi: supponiamo che un incendio ci abbia guasta la casa,
o la gragnuola devastati i campi, e il danaro che dovrebbe riparare
i danni, adoperiamolo a soccorrere la patria. Quanto hanno patito
al tempo della sua oppressione, altrettanto gioiscono ora che va
risorgendo a libertà. Non sono entusiasti del momento, nè facili
a raffreddarsi sui grandi avvenimenti politici e militari che ci
apportarono salute. Durevoli sono nei loro animi le impressioni
lasciate da questi avvenimenti; viva è sempre la memoria dei vantaggi
che ne risultarono. Essi ne parlano e ne godono come di un bene
appena ricevuto. Per essi le battaglie di Magenta e di Solferino, le
annessioni dell’Emilia, della Toscana e delle Due Sicilie sono fatti
accaduti jeri, e sentiti ognora col piacere di una grande e felice
novità. Gli uomini in generale illanguidiscono prestamente nel loro
sentire, compreso quello toccante la patria. Sulle cose avute per più
importanti e più care passano in breve alla tepidezza, all’indifferenza
e quasi all’oblìo. Questo è un grave male di fare subitamente vecchio
il nuovo e di adagiarsi nel presente senza più rivolgere il pensiero al
passato, nè stabilire confronti. Ciò impedisce non solo di apprezzare
degnamente e di godere appieno la prospera situazione raggiunta,
ma scema lo stimolo e l’aspirazione a renderla più prospera ancora.
Come vi sono gli eccellenti patriotti, così esistono gli uomini che
del nome di patria non conoscono neppure il significato. Lasciando i
molti di costoro che s’incontrano fra i volgari, accenniamo ai pochi
della classe ricca e distinta. Sono pochi, ma ci colpiscono di un
senso tanto più disgustoso in quanto che li troviamo in una sfera che
non dovrebbe presentarne alcuno. Questi figli disamorati non hanno
mai palpitato al nome della loro madre, l’Italia. Essi vivono sul
suo suolo come stranieri, e non prendono parte nè ai dolori nè alle
gioie di lei. Anzi hanno contribuito a procurarne i dolori appunto
perchè non aspiravano a parteciparne le gioje. O aderivano al governo
austriaco, o l’anima hanno meschina e pregiudicata, o l’avarizia li
strozza. Per l’una o per l’altra di queste maledizioni non fecero
e non fanno mai nulla a pro della patria, nemmeno per timore della
pubblica opinione, che essi disprezzano. Invano si cercano i loro nomi
negli elenchi dei benemeriti che giovano alla causa nazionale. Il
loro danaro sta chiuso nei forzieri, o lo spendono per alimento dei
proprii vizii, o in opere di stolidi e dannosi intendimenti. Anche
Brescia la generosa conteneva alcuni di questi uomini biasimevoli, e
li additava vergognando. Nel picciol numero era compreso il signor M.*
che si presentò per soccorrere il padre di Luigia. In contraccambio
del beneficio egli domandava di sposare la fanciulla, della quale
erasi follemente innamorato, sapendo pure che essa amava Faustino
e che doveva a lui unirsi. I suoi milioni lo fecero dimentico de’
suoi cinquant’anni, ardito a far rompere una promessa, e crudele nel
desolare due cuori. Forse egli affibbiava alla sua azione un qualche
epiteto onorevole, come quella che salvava un onesto negoziante dalla
rovina. A far conoscere ai lettori questo fatto gioverà, meglio della
nostra narrazione, la corrispondenza che noi citiamo.

      =Luigia a Faustino.=

                                                   _25 marzo 1858._

  Le angustie di mio padre vanno aumentando colla sua tristezza;
  egli ha l’aspetto di un ammalato. Alle mie interrogazioni risponde
  che gravi sventure di commercio lo hanno colpito, e non mi dice di
  più. Nel suo studio vi è un’insolita frequenza di persone che vanno
  e vengono con dipinta in volto una cura molesta. Io pavento una
  catastrofe imminente. Se non avessi il tuo amore che mi sostiene,
  sarei disperata. Ah, Faustino, sposerai tu una povera giovane senza
  dote?

      =Faustino a Luigia.=

                                                        _26 marzo._

  Prima rispondo alla domanda colla quale tu chiudi la tua lettera.
  Se io ti sposerò malgrado la sorte che le disgrazie di tuo padre
  ti preparano? Potresti tu dubitarne, mia Luigia? Nel tuo dolore
  io ho un motivo di più per amarti, e per voler dividere con te
  il poco che possiedo. Ecco la prova che posso dartene: ottieni da
  tuo padre che egli accorci il tempo assegnato alla nostra unione,
  e che questa si compia al più presto qui in Piemonte. Digli che
  se bastassero cinquanta o sessanta mila lire per riparare allo
  sconcerto de’ suoi affari, noi lo assicuriamo di procurargliele.
  Mia madre ed io abbiamo già discorso in proposito, e fatto qualche
  disegno. Non ti perdere d’animo, Luigia cara, e speriamo che tutto
  finirà bene.

      =Luigia a Faustino.=

                                                        _4 aprile._

  Mio padre è rovinato senza rimedio. I suoi debiti sommano a
  trecentomila lire, e la sua sostanza non arriva a tanto. Ah,
  Faustino, se io volessi scriverti con calma sarebbe una finzione,
  anzi un vano sforzo, perchè non vi riuscirei coll’animo lacerato
  come mi sento. Mio padre venne jeri sera nella mia camera a
  mostrarmi l’abisso che gli sta aperto dinanzi «Tu sola puoi
  salvarmi, Luigia, disse piangendo col capo abbandonato sopra la mia
  spalla. Il signor M.* ti ama ed è pronto, se tu lo sposi, a trarmi
  da questa fatale situazione. Io so quello che tu puoi rispondermi;
  so il tuo amore per Faustino e la promessa che a lui ti lega. Ma
  si danno qualche volta delle circostanze imperiose, accadono tali
  avvenimenti di forza maggiore che violentano la nostra volontà,
  e ci trascinano a rompere gl’impegni contratti anteriormente. Non
  vorrai tu impedire il disonore e forse la morte di tuo padre? Io
  sono alla vigilia del più disastroso fallimento. Abbi pietà di
  me, Luigia». Egli per avventura interpretava il mio silenzio come
  un segno di perplessità, e come un mezzo consentimento alla sua
  proposta; io taceva perchè impietrita dalla proposta medesima.
  Mio padre si allontanò dicendo che mi dava tempo otto giorni
  a decidermi. Ah, Faustino, io non posso più scrivere; ho le
  convulsioni nella mano come nel cuore.

      =Faustino a Luigia.=

                                                        _5 aprile._

  Dire che sono stato colpito dalla tua lettera come da un fulmine,
  è poco. Tuo padre ha potuto proporti?.... Ah, signor no! Un animo
  paterno rifugge dall’idea di un tale sacrificio. Il solo domandarlo
  dovrebbe costargli più che il sottomettersi alla propria sventura.
  I figli non hanno a portare la pena degli errori dei padri. Chi
  fu cagione de’ suoi mali non voglia rimediarli col fare l’altrui
  infelicità, ma sappia sopportarli con rassegnazione. Ah, perdere
  la mia Luigia! Saperla sposa di un altro! Comprendi tu lo schianto
  e la disperazione che mi viene da un tale pensiero? E quel signor
  M.* gesuita e codino, venderebbe a simil prezzo il suo beneficio?
  Ecco la generosità che corre nel mondo, ecco i moventi delle belle
  azioni degli uomini: l’interesse, o il soddisfacimento di mal
  concepite passioni. Di’ a tuo padre che io sono sulle furie, e che
  l’iniquo e vergognoso mercato non avrà luogo. Guai a lui se vorrà
  farti violenza, e mancare alla parola che mi ha data.

      =Faustino a Luigia.=

                                                        _6 aprile._

  Dopo messa alla Posta la lettera di jeri mi sono pentito d’averla
  spedita come immoderata e aspra verso tuo padre. Perdonami, Luigia,
  perchè io era nel bollore del risentimento quando la scrissi. Ora
  più miti consigli parlano in me. Noi dobbiamo pregare e non volere,
  dobbiamo commovere e non irritare. Metti in opera con tuo padre
  quella soavità di parole e di maniere che tu sola possiedi. Egli
  sarebbe ben crudele se persistesse nel suo divisamento. Digli che
  ceda ogni suo avere ai creditori, e che un fallimento per disgrazie
  non è disonore, come non lo è la povertà che ne consegue. Digli che
  mia madre ed io siamo sempre disposti a giovargli in tutto quello
  che potremo. Ma in nome di Dio egli desista dal volersi ajutare
  con tale espediente ingiusto. Nel cangiamento della sua fortuna
  abbia almeno il conforto di vederti felice. Non resista alla voce
  dell’amore paterno, e conservi pura la coscienza dal rimorso di
  averti sacrificata.

      =Luigia a Faustino.=

                                                        _9 aprile._

  Io ho esaurito ogni argomento che l’amore e il dolore potevano
  suggerirmi. Apprezzando le mie ragioni, conoscendo la grandezza
  del sacrificio che mi chiede, e compassionandomi ognora, mio padre
  non rimane dal supplicarmi e dal dipingermi con tetri colori
  la miseria del suo stato. Ma non sarei io sola a patire quando
  mi arrendessi alle vostre istanze, gli dissi questa mattina.
  Faustino non vi è figlio, egli non ha con voi legami di natura, nè
  obblighi di sommissione per dover portare questa croce — Faustino
  è un giovine magnanimo, capace d’un sublime atto di virtù, e di
  ammirarlo in altri, mi rispose. La pena di rinunciare a te gli
  sarà alleviata dall’amore stesso, pensando come tu fosti degna
  di averglielo inspirato, e come egli fu degno del ricambio del
  tuo. Aimè, quale combattimento nel mio povero cuore! Perchè due
  sentimenti egualmente vivi e santi debbono essere in tale contrasto
  fra loro, e così fatali l’uno all’altro? Ascoltami, Faustino, tu
  sei più grande e più virtuoso di me..... dammi il nobile esempio
  del sacrificio... scrivimi una parola non dico di eccitamento, ma
  di consenso, o almeno di rassegnazione... ed io farò la volontà di
  mio padre. Se tu ti opponi, se tu continui a commovermi col tuo
  cordoglio, io torno al partito di resistere. L’amore e la pietà
  figliale dovranno cedere; io sarò tua, o di nessun altro.

      =Faustino a Luigia.=

                                                       _11 aprile._

  No, tu non tornerai al partito di resistere; il tuo amore e la tua
  pietà di figlia vinceranno. Io sono corso da mia madre a mostrarle
  la tua lettera, e abbiamo pianto insieme. «Così doveva fare quella
  nobile, quell’egregia creatura, ella disse. Tu non sarai minore di
  lei nella virtù del sacrificio.» Mia madre si diede a prodigarmi
  i suoi conforti, conoscendo quanto bisogno ne avessi in quell’ora
  di mortale affanno. Aimè, Luigia, così dunque dovevano compirsi i
  nostri voti e le nostre speranze di felicità? Così dunque doveva
  coronarsi il nostro amore di tanti anni, il nostro amore così puro
  e costante, che di due anime ne aveva fatta una sola? Crudelissimo
  destino! Ma cessino i lamenti. L’affetto che io nutro per mia madre
  mi rappresenta quello che tu devi portare al padre tuo. Ebbene,
  Luigia, arrenditi alle sue preghiere, e segui la voce che t’invita
  all’eroico sacrificio. Io ti sciolgo dalla tua promessa. Dio avrà
  compassione di noi, e ci farà trovare qualche lenimento al nostro
  dolore nel merito della causa che lo produceva.

      =Luigia a Faustino.=

                                                       _13 aprile._

  Don Aurelio, al quale ho sempre confidato le mie pene, si intenerì
  leggendo la tua lettera, e disse approvandola: Non mi aspettava
  meno da lui. Il venerando uomo m’incoraggiò a presentarmi subito a
  mio padre, perchè io esitava ancora, e temeva che non mi reggessero
  le forze per pronunciare io stessa la mia terribile sentenza.
  Mi presentai, e l’ebbi pronunciata. Egli risorse da morte a
  vita, ma per pietà di me non manifestò tutta la contentezza che
  lo possedeva. Ti dirò il vero, il mio dolore tacque vedendo io
  serenarsi il volto e l’animo di mio padre. Così mi fosse durata
  a lungo l’impressione ricevuta in quel momento. La sera venne
  il signor M.* a ricevere la mia promessa. Fu convenuto che il
  matrimonio si farà entro un mese, e questa sollecitudine l’ho
  domandata io stessa. Faustino, noi non dobbiamo più scriverci. Non
  ti dico se potrò e vorrò togliermi dal cuore l’amor tuo. Questo
  sarà un secreto fra Dio e me.

      =Faustino a Luigia.=

                                                       _14 aprile._

  Che noi non dobbiamo più scriverci, è cosa dovuta. Che tu possa
  e voglia dimenticarmi o no, sia pure un secreto fra Dio e te. Dal
  canto mio ti dico apertamente che non posso nè voglio cessare di
  amarti. Per me non vi sono più donne al mondo. Luigia fu il mio
  primo e sarà l’ultimo mio amore. Se io ti ho perduta, mi rimane la
  tua immagine scolpita indelebilmente nel cuore. Ah, di una cosa mi
  disdico. Se misuro la tua dalla mia passione, debbo credere che non
  ti sarà facile il guarirne anche volendolo. Deh, non lo volere,
  non lo tentare nemmeno. Segui tu pure ad amarmi, e non farmene
  un secreto. Io ho bisogno di esserne assicurato, perchè questa
  certezza sarà il conforto della mia vita. Ti prego di portar sempre
  quell’anello che ti ho donato. Scrivimi ancora una lettera, nella
  quale io possa leggere che tu secondi la mia preghiera.

      =Luigia a Faustino.=

                                                       _15 aprile._

  Eccoti la mia ultima lettera. L’anello che io porto dal giorno che
  me lo donasti, mi uscirà dal dito soltanto dopo morta. Ciò ti dica
  se io possa e voglia scordarmi di te. Ah no, Faustino, il nostro
  amore, chiuso nel profondo delle nostre anime, non sarà una colpa.
  La sventura che lo ha reso infelice sopra la terra, deve cessare
  nell’altra vita, dove noi saremo riuniti in eterno, e potremo
  amarci senza impedimento.



IV.

Guerra.


Don Aurelio, che da nove mesi non vedeva il suo allievo nè la madre di
lui, andò a trovarli a Torino con loro grande consolazione. Un giorno,
stando solo colla signora Elisa, le domandò:

— Che ha operato finora il tempo sull’animo di Faustino?

— Ben poco di salutare, disse la signora Elisa levando gli occhi al
cielo. La guarigione del suo male sarà lenta, se pure avrà luogo.
Egli è diventato malinconico, e soltanto dinanzi a me si sforza di non
parerlo. E Luigia?

— Io la vedo rare volte dopo il suo matrimonio. Quell’anima tenera e
gentile deve soffrire non meno di Faustino. Ma il soffrire cesserà a
poco a poco in ambedue. Il loro amore, spoglio del tormento che ancora
lo accompagna, resterà una mesta, ma non dolorosa memoria della loro
vita. Il padre di Luigia ha rimesso in ottimo stato i suoi affari; la
città intera però lo biasima del mezzo da lui adoperato. Il signor M.*
è divenuto un altro uomo. Egli ha riformato sontuosamente il governo
della sua casa, veste con elegante proprietà, non ha più l’aria del
sanfedista, e quasi sto per dire che pensa come un liberale. Questo
miracolo, che fa maravigliare i cittadini, si attribuisce al suo amore
per la sposa, e al potere che ella esercita sopra di lui. In compenso
di quanto ha tolto a Luigia, il signor M.* la circonda di tutti i
piaceri che le ricchezze procurano. Ella però non si appiglia a quelli
del lusso, tanto ambiti generalmente, ma a quelli di premiare il merito
e di spargere beneficenze.

— Così Brescia avrà guadagnato, se il mio povero Faustino ha perduto,
disse la signora Elisa sorridendo mestamente.

— Egli pure ha guadagnato qualche cosa in mezzo alla sua perdita, cioè
il raddoppiamento della benevolenza dei Bresciani, che lo compiangono
per le care speranze che gli furono tolte. Questo sentimento favorevole
e generale de’ suoi concittadini non deve essergli indifferente.

— Le voci di guerra crescono sempre più, disse Faustino entrando.
L’alleanza offensiva e difensiva del Piemonte colla Francia si dà per
certa.

— Io mi consolo, rispose Don Aurelio, che vi sieno magnanimi scopi e
nobili impulsi di nazioni verso nazioni, come avvene d’individui verso
individui.

— E che? disse la signora Elisa, dovranno sempre i popoli ed i governi
badare soltanto ai calcoli del proprio interesse, consultare unicamente
le loro ragioni di stato, e guardare con indifferenza l’abuso della
forza brutale che opprime un paese vicino?

— Avvi chi non approva questa alleanza, ripigliò Faustino, e vorrebbe
che l’Italia si redimesse colle sue proprie forze. Certo che la
redenzione fatta in tal modo sarebbe la migliore, ma il Piemonte,
rinforzato di pochi e incerti ajuti fraterni, non basta contro
l’Austria. E perchè dovremo noi rifiutare i soccorsi che generosamente
ci offre una nazione grande e bellicosa? È troppo severa la sentenza
che un popolo deve provvedere da sè medesimo alla propria salute. Noi
abbiamo a che fare con un nemico tanto potente quanto astuto, il quale
in nove lustri dacchè ci pesa addosso, ha studiate e praticate tutte
le arti leonine e volpine per tenerci sotto. Noi siamo degni che ci
venga tesa la mano soccorritrice, perchè sentiamo vivamente il nostro
servaggio, perchè ci dibattiamo fra le catene, e abbiamo tentato più
volte di spezzarle. Per noi e per la nostra causa stanno i voti e le
simpatie di tutte le nazioni incivilite. Io ho fede che l’Austria sarà
vinta e costretta a sgombrare il Lombardo-Veneto.

— È certo, disse la signora Elisa, che altre provincie d’Italia si
rivolteranno contro i loro tiranni per darsi al Piemonte, cominciando
così la bramata unità nazionale, che fra non molto avrà compimento.

— E quando l’Italia sarà unita, soggiunse Don Aurelio, si affretti
a farsi forte. Ciò è richiesto a gran voce dalle sue condizioni
di bellissima e ricchissima, che la espongono ad essere insidiata
eternamente. La dottrina del secolo è il rispetto alle nazionalità,
e la condanna delle conquiste. Ma le dottrine cangiano, e i tempi
delle conquiste e delle invasioni possono ritornare. L’impero della
ragione, del diritto e della giustizia è alternato sulla terra con
quello del disordine, dell’ambizione e della forza usurpatrice. Bisogna
essere previdenti, e spingere lo sguardo anche nell’avvenire lontano.
Lasciando da parte ogni altro timore, l’Italia deve sempre aver quello
dell’Austria, che starà in perpetuo agguato per ripiombare sulla preda
sfuggitale di mano. Se un popolo ha lo scudo della sua forza e del
suo valore, può resistere a qualunque attacco. Questo scudo è il solo
nume protettore che manterrà l’Italia quando sarà fatta. Io ripeto che
suprema cura degli Italiani debb’essere quella di agguerrirsi più che
mai, fosse pure con qualche scapito delle sublimi speculazioni, degli
studj industriali, e delle arti graziose. Anche il retrocedere un passo
nella raffinata civiltà non sarebbe un male quando ne nasca il mezzo di
mantenerci nel primissimo dei beni, l’indipendenza e la libertà. Oltre
le rocche, i baluardi e le bastite, abbia l’Italia a propria difesa il
petto di tutti i suoi figli. Ad un bisogno ogni uomo sia soldato. Il
futuro governo italiano deve sommamente occuparsi ad armare il Paese,
a promuovere l’educazione militare e levarla in alto pregio, sicchè
la destrezza, la gagliardia ed il coraggio sieno argomenti d’onore e
di gara nazionale. Studio di ogni cittadino sia quello delle armi, e
ambizione l’averne di perfette. Così, e non altrimenti, l’Italia sarà
rispettata nella sua esistenza. Così farà ritorno all’antica grandezza,
e avrà stabile seggio fra le potenti e temute nazioni.

Già si facevano formidabili apparecchi di guerra tanto dall’Austria,
quanto dagli alleati franco-sardi. Da tutte le parti d’Italia
accorrevano in Piemonte giovani animosi ad arruolarsi chi nell’esercito
regolare, e chi nelle bande dei volontarj capitanati dall’immortale
Garibaldi. Faustino e Checco s’incorporarono in un reggimento di
bersaglieri nella medesima compagnia. Gli amici potenti di Faustino
volevano procurargli un grado, persuasi che lo avrebbe sostenuto con
onore, ma egli ricusò fermamente, e fu gregario come il suo caro e
fedel servitore. Quando amano la patria e sono bramosi di combattere
per essa i novelli e spontanei guerrieri, sieno pur nobili o ricchi o
pregevoli per ingegno, non ambiscono distinzioni e si mettono tra le
file dei semplici soldati. È bello il vedere questi giovani favoriti
dalla fortuna sprezzare gli agi della vita, indossare l’assisa
grossolana, e dividere gajamente i pericoli e le fatiche coi figli del
popolo.

Venne l’ora delle battaglie. La signora Elisa e Faustino si erano
separati come usano in simili circostanze le anime forti. L’idea che
quello poteva essere l’ultimo addio non la manifestarono, temendo
che la sua grande acerbità non indebolisse la loro fermezza. Eppure
nè la madre nè il figlio avrebbero voluto che quella separazione non
avvenisse.

L’esercito austriaco alla fine d’aprile 1859 varcò il Ticino, assalendo
il Piemonte in casa sua. Gli alleati lasciarono che si avanzasse e
occupasse un tratto di paese senza opporgli resistenza. Quando loro
parve tempo gli diedero addosso gagliardamente, e dopo una serie
di fatti gloriosi, l’ebbero respinto dappertutto. Faustino e Checco
parteciparono alle vittorie di Palestro e di Magenta. In quest’ultimo
luogo gli Austriaci furono sbaragliati e costretti a sgombrare la
Lombardia. A Magenta rimase ucciso Francesco mentre combatteva presso
la stazione della strada ferrata. Era sull’imbrunire e la battaglia
andava cessando, allorchè egli cadde poco lungi da Faustino. Questi
corse a lui che, trascinatosi ai piedi di un albero, nuotava nel
proprio sangue uscentegli dalla gola traforata da una palla di
moschetto. Invano si adoperò a fasciarlo e soccorrerlo con ogni
sollecitudine; la ferita era mortale. Il misero non poteva formare
la parola, e scolorava e languiva con progresso veloce. Gli sguardi e
le strette di mano erano il suo linguaggio, e Faustino gli rispondeva
interpretandolo, e poi lo baciava e gli piangeva sul volto. Gli sguardi
e le strette di mano cessarono, perchè gli occhi vetrificati perdevano
l’espressione, e le dita si allentavano irrigidite. Faustino ebbe
in breve un cadavere fra le braccia. Povero Checco! Nato e cresciuto
in umile condizione, possedeva un’anima bella per intrepidezza, per
sentimenti virtuosi, per devozione affettuosa a’ suoi padroni. Nella
grande ecatombe di Magenta poche vite si spensero più preziose della
sua. Era degno di rinomanza, e morì oscuro e ignorato.

La signora Elisa, trasferitasi da Torino a Novara si dedicava al
servizio degli ospedali riboccanti di feriti. La moderna età sbandì
dalla guerra l’antica ferocia. Ora l’umanità parla, per quanto
può, nelle battaglie, e impedisce gli atti di barbarie. L’umanità
circonda di cure le vittime esangui trasportate fuori del campo,
senza distinzione di amici e di nemici. Donne caritatevoli e pazienti
medicano le loro ferite e alleviano i loro patimenti, come farebbero
le madri e le sorelle. In tale ufficio misericordioso, già da lei
esercitato a Brescia nel 1848, era eminente la signora Elisa. La
squisitezza della sua carità i suoi sensi compassionevoli, il suo garbo
nell’operare e nel confortare non avevano pari. Essere tocchi da quella
mano delicata, guardati da quegli occhi pietosi, e consolati da quella
voce angelica pareva ai soffrenti un beneficio soprannaturale.

Dal giorno che principiarono le ostilità, la signora Elisa aveva
ricevuto una sola lettera di Faustino, e dopo non ebbe più notizie di
lui. Ogni mattina veniva all’ospedale tremando che egli fosse tra il
numero dei sopraggiunti feriti. Alle volte si augurava di trovarvelo
per poter quietare l’angoscia d’immaginarselo morto sul campo. A lei
sembrava che le materne cure avrebbero avuto tanta virtù da risanare
le sue ferite per quanto fossero state gravi. Che Faustino lasciasse
veramente la madre priva di sue notizie? No, egli aveva scritto
altre lettere, che nei disordini della guerra non arrivarono al loro
indirizzo.

Il giovane era entrato in Lombardia colle schiere vincitrici e pronte
a nuovi combattimenti. Gli Austriaci, sgominati e inseguiti, si
ripararono al Mincio dove, radunate tutte le loro forze, tentarono
una grande battaglia decisiva. L’Europa la conosce sotto i nomi di
Solferino e di San Martino; nomi gloriosi all’esercito alleato, e di
funesta memoria all’Austria.



V.

Scena finale.


Le sorti di Francesco e di Faustino dovevano fatalmente essere eguali,
colla differenza che il secondo contribuì ad una nuova vittoria, e
sopravvisse alcuni giorni alle sue ferite. A San Martino egli ricevette
in viso una scarica di mitraglia, che lo guastò orrendamente e lo
rese cieco. Dopo le prime cure urgenti venne trasportato con altri
disgraziati fino a Brescia, perchè Lonato, Castiglione, Montechiaro e
tutti i luoghi prossimi al teatro della guerra erano pieni di feriti.
Anche Brescia ne aveva un gran numero, che sempre più ingrossava. Molte
case di nobili e di borghesi parevano ospedali. Quella, dove per caso
fu condotto Faustino, ne accoglieva quindici o venti distribuiti in
tre sale, e curati dalla padrona e da qualche sua amica. Diciamo senza
indugio che era la casa del signor M.* il marito di Luigia. Il recente
amor patrio di costui non andava fino al segno di fargli cedere a tale
uso una parte della sua bella abitazione, ma per compiacere alla sposa
vi si era accomodato. Inoltre aveva preso a nolo e messo al servizio
delle ambulanze quante vetture pubbliche si potevano trovare. In opere
di soccorso alle miserie della guerra egli fu prodigo del suo denaro;
gli sia resa questa giustizia.

Faustino, più morto che vivo, non domandò in qual casa lo avessero
ricoverato, e forse non sapeva neppure di essere a Brescia. Luigia,
visitando i nuovi arrivati, fu per cadere svenuta presso il suo letto,
mentre il chirurgo gli toglieva le bende per esaminare le ferite. Essa
lo riconobbe quantunque mutato e pesto in deplorabile guisa. Gli occhi
aveva aperti ma senza vista, la faccia bucata tutta quanta e gonfia
estremamente. Luigia si ritrasse da quello spettacolo miserando per
raccogliere l’animo e le forze di ritornarvi. Il chirurgo giudicò
gravissimo il male. Alcune scheggie di mitraglia, penetrate molto
addentro nella fronte, si potevano estrarre difficilmente, e facevano
temere che qualche organo delicato avessero leso. Coll’assistenza di
un collega operò l’estrazione alla meglio, e circa i suoi timori parve
allora che si fosse ingannato. Il tentare un rimedio alla vista era
impresa disperata, poichè le pupille apparivano colpite d’immobilità
e di offuscamento insanabile. Il giorno dopo l’infermo cessò di
delirare, e si sentì alquanto sollevato. Luigia lo curava colle sue
mani, ma sempre taceva. Una compagna le stava indivisibile al fianco ad
interrogare e rispondere per lei, come se operasse e parlasse una sola
e medesima persona. Gli venne detto che egli era nella sua città nativa
presso una supposta famiglia, di cui fu pronunciato il nome. Giunse Don
Aurelio, e prima di aprir bocca stette un minuto a guardar Faustino
e Luigia alternamente con pietà e doglia estreme. L’uno non poteva
rispondere a’ suoi sguardi e restava impassibile; l’altra vi rispondeva
con tale espressione d’ambascia da spezzare il cuore. Don Aurelio fece
udire la sua voce.

— Ah, il mio maestro! disse Faustino scuotendosi e cercando la mano
di lui. Le parole gli uscivano poco chiare, perchè aveva la bocca
costretta e quasi sepolta nelle fascie. E mia madre? domandò.

— Oggi le scriverò a Novara, e subito si metterà in viaggio.

— Non le date il martirio di vedermi in questo stato; aspettate dopo la
mia morte.

— Tu guarirai, Faustino mio.

— Guarire? non è possibile... voi mi vedete... ed io non posso veder
voi! A che mi gioverebbe la vita senza il bene della luce? Vanno avanti
i nostri? Combattono sotto Peschiera e sotto Mantova?

— Sì, gli Austriaci sono inseguiti al di là del Mincio.

— Ah, l’Italia libera! Io muoio contento. E Luigia è felice? La
visitate sovente? Sa ella che mi trovo a Brescia mortalmente ferito?

— Basta così, Faustino, il chirurgo ha proibito di farti parlare.

— Quanto l’ho amata e quanto l’amo ancora! Sia risparmiata a lei, come
a mia madre, la conoscenza del mio male irrimediabile. Voi solo siatene
testimonio, e quando non sarò più, dite loro che io moriva senza
patire.

Luigia e la sua amica si asciugavano il pianto. Don Aurelio salutò
Faustino fingendo di allontanarsi, ma rimase a vedere la medicatura
delle piaghe. Egli raccapricciò dinanzi a quel volto sfigurato
miseramente, quel volto così bello non ha guari. Lo intenerirono poi
le sollecitudini pietose delle due infermiere, e il modo industre
che adoperavano nel loro ufficio per parere unificate. Don Aurelio
partì disperando della guarigione di Faustino. Infatti il suo stato
peggiorava ad ogni ora. La febbre, il delirio e le trafitture interne
del capo facevano di lui il più crudo governo, e non gli davano che
brevissime tregue. In una di queste Luigia, rimasta un momento senza
la sua compagna, si arrischiò alterando la voce, di rispondere ad una
domanda dell’infermo.

— Dio! esclamò egli animandosi per quanto lo poteva; ripetete, o
signora, la vostra risposta.

Luigia tacque.

— Per pietà, fatemi udire ancora la vostra voce.

Il silenzio non fu rotto. Allora Faustino prese ambe le mani della
sua infermiera e andò tastandole avidamente dove principiano le dita.
Egli riconobbe il piccolo cammeo rotondo, l’anello che aveva donato a
Luigia.

— Bontà celeste, che discopro io mai! Luigia! Parla, parla, te ne
scongiuro.

— Faustino!...

— È lei! La mia Luigia! O Dio, datemi per un istante la vista, ch’io
possa guardarla, e poi fatemi morire tra le sue braccia.

— Faustino!...

— Essere medicato da te! Ed io non saperlo! Ma l’altra pietosa che mi
confortava?

— È una mia amica. Tu sei in casa mia.

— E tu sempre tacere! Non darmi un sentore della tua presenza! Temevi
di cagionarmi tormento o gioja mortale? Ah, tormento no... gioja
mortale, ma dolcissima, immensa...

E le baciava la mano, umettandola di lacrime. Sì, quegli occhi spenti
poterono piangere ancora, ultimo loro pianto. La somma commozione
lo interruppe, e quando fu in grado di continuare, aveva perduto
la memoria della sua scoperta. Disse parole d’incoerenza e di
vaneggiamento. Nella mente disordinata gli passavano idee relative
alle battaglie, ai trionfi riportati, e alla libertà della patria. Gli
pareva di essere al _ronco_ presso il sepolcro del padre, su pei monti
con Francesco, e poi in prigione colla madre. Ora gioiva nominando
Luigia come sua sposa, ora si disperava di averla perduta, e citava le
lettere da lei scrittegli in Piemonte. Il vaneggiamento e il letargo
non lo abbandonarono più. Egli non riebbe la conoscenza neppure alla
voce di sua madre. Miserrima donna, con qual animo gli stavi sopra a
guardarlo, a parlargli, a baciarlo, a struggerti di lui senza ottenere
una risposta!

Alle parti cerebrali dell’infermo si era manifestata una lesione, e
la faccia gli si colorava di un rosso livido infiammato. Dopo cinque
giorni di tale esistenza, egli morì di corpo, come era già morto
di spirito. La madre, Luigia e Don Aurelio accolsero il suo estremo
sospiro.

Faustino riposa nel bel Camposanto di Brescia sotto un modesto
monumento. Due volte la settimana una carrozza si ferma verso sera
nel gran viale dei pini, e ne discendono un prete ed una signora
in gramaglia. Entrano nel sacro recinto, e si prostrano dinanzi al
monumento. Povera signora Elisa! Povero Don Aurelio!



FIERO MISFATTO E FIERA VENDETTA



I.

Il figlio deforme.


Il marchese di San Giulio, emigrato romano, benchè toccasse i
cinquant’anni, entrò come ufficiale fra i volontarj di Garibaldi,
partecipò alla spedizione in Sicilia e nelle Calabrie, e ferito nella
battaglia del Volturno, si fece trasportare a Bologna, già libera dal
giogo pontificio. Egli possedeva in quella città un palazzo, e nella
provincia alcuni latifondi, sicchè, dopo dodici anni di esiglio, poteva
dire di essere rimpatriato, sebbene fosse nativo e abitatore di Roma.

Siamo dunque nel palazzo del marchese in una camera mobigliata
riccamente all’antica foggia, colle pareti tappezzate di lampasso
giallo, colle cortine delle finestre e le portiere della medesima
stoffa. Il nobile convalescente, bella e dignitosa figura, giace in
una poltrona di marrocchino scuro, è involto in una zimarra di seta
a fiorami, e porta in capo una calotta di velluto ricamato. Gli siede
vicino il celebre dottore Ortensj, uomo sessagenario di grave aspetto,
vestito di nero con estrema proprietà, tutto ossequio e sollecitudine,
come sono generalmente i medici dei grandi ammalati che pagano le
visite un marengo l’una. In questo caso però il contegno riverente e
premuroso del dottore Ortensj verso il marchese di San Giulio non gli
era inspirato dal prestigio della sua nobiltà e delle sue ricchezze,
nè dall’idea della sua liberalità nel ricompensarlo delle cure che
gli prestava. Il dottore comportavasi così per effetto di stima ai
meriti personali del marchese, e per ricambio delle dimostrazioni di
benevolenza amichevole che riceveva da lui.

— Caro dottore, voi siete probabilmente scomunicato da Pio IX ad
istanza di Antonelli e di Nardoni, disse il marchese con un lieve
sorriso. E ciò perchè avete lasciato Roma per venire a Bologna in
soccorso di me, ribelle battagliero ferito nel combattere il Borbone,
amico intrinseco di Sua Beatitudine. La scomunica sarà tanto più grave
in quanto che voi mi avete risanato quasi perfettamente, onde io possa
riprendere le armi, se farà bisogno, contro Sua Beatitudine medesima.
Non vi sentite addosso un malessere di nuovo genere? Lo spirito maligno
non vi dà noja in corpo?

— Eccellenza, io sto benissimo, rispose il dottore, contento di quello
scherzo confidenziale. Il papa mi scomunichi fin che vuole, e mi tratti
ancora in guisa più seria al mio rientrare a casa. Per cagione del
signor marchese tutto soffrirò volentieri.

— Non abbiate timore. Ben presto il papa e la sua compagnia saranno iti
in Palestina o altrove.

— Io pure nutro questa dolce speranza.

— Udite un mio sogno della scorsa notte. Nella più vasta sala del
Vaticano erano radunati tutti i pontefici dal primo fino all’attuale.
Quelli che furono soltanto capi della religione stavano da una parte
tranquilli e sereni; si vedevano dall’altra i papi-re sbuffanti veleno
e assordanti di clamori il luogo. I più furibondi erano Gregorio VII,
Nicolò V, Bonifazio VIII e Giulio II. Pio IX non sapeva come salvarsi
da quei rabbiosi che gli davano dell’imbecille e lo minacciavano coi
pugni alla faccia per aver egli perduto l’eredità trasmessagli, e
ucciso il papato nel suo potere temporale. Invano il bersagliato si
schermiva coll’incolpare la rivoluzione, la tristizia dei tempi, e
altre cause di forza maggiore. A questo trambusto, i papi dei primi
secoli della Chiesa si mostravano scandolezzati, e cercavano di calmare
gl’impetuosi. Domeneddio e l’apostolo S. Pietro dall’alto della sala
sorridevano di compiacenza, sapendo che la religione farà un bel
guadagno, purgati che sieno i pontefici dalle ambizioni di regno
e dalle cure mondane. Il Signore perdette poi la pazienza, e prese
a sgridare severamente i tumultuanti. Il tuonare della sua voce mi
risvegliò.

— Questo sogno è pronostico e insieme immagine del vero. Il dominio
terreno dei papi è dileguato la più parte; il resto lo sarà fra poco e
per sempre.

— Caduta la mala signoria, nessuno al mondo sarà di me più lieto.

— Perchè nessuno ha sofferto più di Vostra Eccellenza per la causa
della libertà. Il signor marchese di San Giulio è il migliore patriotta
d’Italia.

— V’ingannate, dottore. Mille e mille altri amano più di me l’Italia
e mi superano nell’aver contribuito al suo risorgimento. Dove nessuno
mi vince si è nell’odio al governo papale, e nella brama di vederlo
distrutto. Se io ho congiurato incessantemente e profuso danaro per
propagare la congiura, se ho subìto il carcere e l’esiglio, se ho
combattuto a Roma nel 1849, e ultimamente nel regno delle due Sicilie,
fu per abbattere la tirannide sacerdotale. Il resto d’Italia e le sue
condizioni politiche non mi occupavano gran fatto. Tanto meglio però
se la patria comune acquista l’indipendenza e la libertà; tanto meglio
se componesi in forte unione nazionale. Di questo grande avvenimento
io ne gioirò col patto che ai Vicarj di Cristo non rimanga ombra di
politico dominio; col patto che Roma sia la capitale del nuovo regno
italiano. Nel 1848 quando Pio IX per un suo sbaglio e per l’imbecillità
universale era diventato l’idolo popolare, io non sapeva darmi pace
al pensiero che il trono pontificio potesse consolidarsi e salire
a maggior grado di potenza. Nel 1859 quando si parlava di un’Italia
confederata sotto la presidenza del papa, io voleva spiritare, e andava
gridando a tutti: Derisione e vergogna! Si saranno dunque vinte le
battaglie di Magenta e di Solferino per ottenere questo bel risultato?
No, vivaddio, il papa deve tornare alle reti e alla barca di S.
Pietro. Ditemi, dottore, voi che siete invecchiato nel soggiorno di
Roma, che avete per clienti una quantità di porporati, di abati e di
simile genìa, voi che sapete le turpitudini antiche e nuove della corte
romana, non vi sentite nauseato e indignato allo spettacolo diuturno
di corruzione che offre la città eterna? Non vi pare che sia troppo
contaminata? Che la sua atmosfera sia grave per lezzo pestilenziale
a cagione del governo dei preti? Non vi pare che un popolo il quale
sopporta da secoli un tale governo sia degno di vitupero e di frusta?

A questo punto comparve nella stanza un essere estremamente misero
per deformità di volto e di corpo. Il volto era macilento, scialbo,
chiazzato di macchie livide, e spirante un’aria di stupidità. Il corpo
era esile, sbilenco e attrappito in tutte le membra. Si sarebbe detto
che la povera creatura fosse così mostruosa per maleficio di una
strega, e che ogni notte un vampiro le suggesse il sangue. Compiva
i ventott’anni e pareva ne avesse quaranta. La sua intelligenza era
quella di un cretino. Egli entrò guidato da un servitore, e si diresse
al marchese sollecitando il passo stentato e traballante, e articolando
tre volte il nome di papà. In quel movimento affrettato e in quella
voce ansiosa parlava la natura, non mai interamente muta neppure
nelle anime più ottuse ed imperfette. Una tristezza mista di amore
si dipinse in viso del marchese, il quale carezzò e baciò il figlio,
volgendogli qualche domanda leggera e giocosa come si pratica verso i
piccoli fanciulli. Anche il dottore alla sua volta gli fece festa e lo
intrattenne puerilmente, ottenendone dei propositi insulsi ed un riso
melenso. Era una compassione il vedere e l’ascoltare quel disgraziato,
che fatta la sua visita, si ritirò seguìto dal medesimo servitore. Il
marchese accompagnandolo coll’occhio, sospirò profondamente, divenne
torbido, e disse con voce irata:

— Maledizione alla Corte di Roma; annichilamento del potere e della
opulenza dei chierici, cagione dei vizj, delle iniquità e delle infamie
loro.

Il dottore ascoltava con grande maraviglia. Quell’uscita violenta gli
pareva intempestiva nel momento che il marchese era tuttavia commosso
dolorosamente dalla vista del figlio. Quale rapporto vi poteva essere
fra due sentimenti così disparati? Perchè avvicinare senza transazione
due idee tanto lontane l’una dall’altra?

— Figlio mio, figlio mio infelicissimo, continuò il marchese abbassando
il capo in atto di grande sconforto. Egli sarebbe nato sano di corpo
e di mente, e forse dotato di bellezza e d’ingegno; egli sarebbe stato
la delizia e l’orgoglio de’ suoi genitori. Dannazione eterna, proruppe
con l’impeto di prima, dannazione a colui che guastò nel suo germe
l’opera felice e santa della natura; a colui che con atroce delitto la
difformò in tal modo, e condannò un padre ad avere l’anima funestata
perennemente allo spettacolo di tanta miseria.

Il dottore era attonito sempre più, e pensava: Il marchese attribuisce
la disgrazia del figlio ad un delitto! Egli impreca alla Corte di Roma,
e subito dopo all’autore di questo delitto? Qual mistero tenebroso!
Vorrà egli forse rivelarmelo?

— Dottore, proseguì il marchese con voce pacata, voi mi avete guarito
da una complicazione di mali, generati dalla mia ferita al petto. Il
vostro beneficio io lo apprezzo mediocremente, perchè la vita ha poca
importanza per me. Nondimeno la mia gratitudine verso di voi è quella
di un uomo che si sente beato della esistenza, e obbligato in sommo
grado a chi gliela conserva. Io voglio darvi una prova del mio animo
riconoscente palesandovi un secreto altissimo e tremendo, che da quasi
trent’anni porto chiuso in seno. Voi siete il primo e il solo a cui lo
discopro; giudicate da ciò la deferenza che ho per voi, e il favore nel
quale vi tengo.

Il dottore fece un inchino, e disse parole di ringraziamento. Il suo
amor proprio era lusingato gradevolmente. Alla quale compiacenza
univasi in lui il vivo desiderio di conoscere un secreto di tanta
rilevanza, desiderio prossimo ad essere soddisfatto. Tali suoi
sentimenti gli apparivano espressi nel volto e nell’atteggiamento della
persona.

— Ah no, dottore, non è vero che la vita mi sia indifferente, esclamò
il marchese; anzi mi è cara assai, perchè ho il diletto di odiare una
razza di tristi, e perchè avrò la voluttà ineffabile di assistere alla
loro imminente caduta. Udite.... la deformità di mio figlio..... e la
morte della mia sposa sono opera di un cardinale di Santa Chiesa.

Non è possibile significare l’accento di sdegno e di amarezza con cui
il marchese pronunciò le ultime parole, nè la terribile espressione
del sembiante onde le accompagnò. Neppure si potrebbe dipingere la
stupefazione del dottore, il quale balbettò:

— Che ascolto mai!

— Bisogna innanzi tutto che io vi faccia la storia del mio amore e del
mio matrimonio.



II.

L’Agnus Dei.


Il marchese si alzò, e trasse da uno stipo un piccolo astuccio
di prezioso lavoro, che durante la narrazione andava rivolgendo
macchinalmente fra le mani senza aprirlo. Così principiò a dire:

— La contessa Claudia Bentivoglio mia zia era ancora a quarant’anni
una donna leggiadra, galante, e gioconda qualche volta fuor di misura.
Se vivesse oggidì, non piangerebbe di santa compassione alle lettere
pastorali di Pio IX, e non darebbe il suo obolo al danaro di S.
Pietro. Malgrado ciò, aveva un legame di amicizia coll’abbadessa delle
Salesiane, e andava sovente a trovarla nel monastero. Pareva strano che
una donna tutt’altro che ascetica se la intendesse con una claustrale
consacrata a Dio. Alcuni dicevano che l’abbadessa era una mondana
nell’anima, e che si compiaceva di conversare con chi le parlasse di
cose non monacali. Altri opinavano invece che volesse convertire la
Bentivoglio alla vita divota e contemplativa. Io non so dove stesse il
vero. Un giorno manifestai alla zia il mio rincrescimento che fosse
vietato agli uomini di entrare nel convento delle Salesiane, e che
pertanto non potessi contentare il mio desiderio di vederne l’interno.
Ella mi rispose ridendo che potrei appagare questo desiderio qualora
sapessi prestarmi ad una metamorfosi, e sostenerla debitamente.
Assicurata che ne sarei capace, mi condusse nel suo gabinetto, e
coll’ajuto delle cameriere mi trasformò in fanciulla così al naturale
da illudere coloro stessi che mi conoscevano più distintamente. Io
aveva allora sedici anni, e tutta la freschezza dell’adolescenza.
Guardandomi nello specchio, poco mancò che io medesimo non credessi
aver cambiato sesso, e pensai a Tiresia. Montati in carrozza, noi ci
recammo al monastero. La zia mi presentò come figlia di una sua amica,
e la badessa, dopo i complimenti, chiamò una conversa che mi condusse
a vedere i luoghi, cioè la chiesa, le scuole, il refettorio e i
dormitorj. Era l’ora che le educande si trastullavano sotto i chiostri,
nei cortili e sull’erba di un praticello. Quale spettacolo nuovo e
delizioso mi offrirono quegli stormi di vispe creature folleggianti
e susurranti qua e là con iscoppi di risa festose, con esclamazioni e
canti di voci argentine, con battimani e moti di vivacità guizzante.
Quale incanto nel vedere spiritelli gentili per vezzi nascenti, per
forme tenere e aggraziate che si rivelavano sotto le vesti goffe e
dissimulatrici, volute dalle rigide norme conventuali. In quegli occhi
neri e cerulei, brillanti e soavi, in quelle boccuccie di corallo, in
quei volti dove candidi e dove bruni, in quelle fisonomie variamente
espressive si andavano sviluppando e compiendo bellezze squisite d’ogni
tipo.

— Qual anima, qual fuoco, Eccellenza, nell’esprimere le sue
reminiscenze giovanili.

— Per lo più i fanciulli sono rozzi e sgarbati quando giuocano. Le
giovinette all’incontro ci hanno un fare grazioso che spiegano perfino
negli sdegnuzzi e nelle petulanze loro. La mia scorta mi condusse
per un corridojo largo e lungo, in fondo al quale si vedeva dipinta
sul muro una Santa Teresa in estasi. Dinanzi a noi andavano preste e
giulive due educande con piene le mani di narcisi, di giacinti e di
giunchiglie, seminando una dolce e casta fragranza. Arrivate a quella
specie di altare, si occuparono a distribuire i fiori nei vasi e nelle
ampolle per adornarlo. Una di esse era maravigliosa, incantevole
a vedersi. Aveva quattordici anni, e tutto il bello che la natura
può creare. Io rinuncio a descriverla, perchè ne darei una immagine
sbiadata e lontana dal vero. Dirò soltanto che possedeva due occhi
grandi, fulgidi e voluttuosi nella loro innocenza; due occhi neri come
la sua capigliatura fina e abbondante, che luceva sotto un raggio di
sole primaverile cadente da un’alta finestra. Ella fu prima a sorridere
e chinare il capo verso di me in atto di saluto, cui risposi con
alcune parole timide e, credo, col rossore sul volto. Continuando la
sua geniale occupazione, spiegava in tutte le movenze della persona e
nell’agire delle belle manine una grazia incomparabile. Io stetti un
minuto a guardarla assorto in tale estasi, che quella di Santa Teresa
lì vicino era una distrazione in confronto. La fanciulla, collocati
a posto i fiori, mi si accostò confidente e come presa da simpatia
per me. Lodò la mia toeletta elegante, e abbassò lo sguardo un po’
mortificato alla sua umile veste di saja turchina. Ci avviammo di
conserva lungo il corridojo, discorrendo intorno alla vita e le regole
del monastero. Quando fummo in capo alla scala, si fermò accennando
di congedarsi e voltare per altra parte. Si tolse dal collo un Agnus
Dei ricamato in oro sopra il raso bianco, e me lo donò dicendo che era
quello un suo lavoro, e che lo tenessi per memoria di lei. Vedetelo
qua, aggiunse il marchese commosso, aprendo l’astuccio.

— È una gentile cosettina, disse il dottore dopo averlo esaminato.

— Io lo custodisco da trentacinque anni, e non lo darei per qualunque
tesoro. La fanciulla, nel farmi questo regalo, mi baciò.... ed io la
corrisposi. Un brivido di dolcezza sentii andarmi per le vene. In vita
mia non ho mai provato una commozione così cara, un turbamento così
dilettoso come nel ricevere e nel ricambiare quel bacio. Discendendo la
scala, mi si offuscò la vista e mi tremarono le gambe. Io non pensava
all’inganno della giovinetta, la quale aveva creduto di baciare una
sua eguale. Come io mi considerava quello che era veramente, così per
una stolida e temeraria illusione parevami che ella pure mi avesse
considerato similmente, sicchè io attribuiva ai due baci il medesimo
valore. Alla zia non feci motto dell’avventura. Non si sarebbe già
scandalizzata, ma ne avrebbe riso allegramente; il che io non voleva,
perchè la cosa era troppo seria per me.

Mio padre mi mandò a viaggiare col pedagogo, e l’Agnus Dei viaggiava
secretamente con me. Io era preoccupato e malinconico; nulla
m’interessava nè mi divertiva di quanto ci offrivano i paesi da
noi visitati. Nei templi, nei musei, nelle pinacoteche, dinanzi ai
monumenti e agli edificj più grandiosi io era distratto e sbadigliava.
Con indifferenza, o poco meno, vidi la Torre di Londra; il Louvre e
l’Escuriale. Solo mi stava nel pensiero l’immagine della giovinetta,
e la memoria dei baci. Don Petronio si sdegnava contro il suo allievo
così svogliato d’istruirsi alla scuola dei viaggi. Dopo due anni
rimpatriai senza portare a Roma altre impressioni che quella con
cui era partito, e divenuta più profonda nell’assenza. Avrei voluto
trasformarmi ancora in fanciulla e penetrare di nuovo nel convento, ma
questi scherzi non si fanno due volte, e poi mi era spuntata un po’ di
barba al mento e alle guancie.

Da così strano accidente ecco in me generato un amore, che la giovanile
immaginazione rendeva, carezzandolo, ognor più vivo e più intenso.
Benchè avessi varcato il diciottesimo anno, il pedagogo, secondo la
moda dei tempi, mi teneva ancora sotto la sua potestà e sorveglianza.
Io gli augurava il malanno per diverse ragioni, ma principalmente
perchè egli non voleva andare, nelle nostre passeggiate, verso il
convento delle Salesiane, dicendo che le strade di là non erano amene,
mentre per me conducevano al paradiso. Sì, il solo vedere quelle mura e
quella porta, il respirare l’aria di quei dintorni mi faceva palpitare
il cuore e fantasticare giojosamente.

Un giorno confessai tutto alla zia, e le dissi piangendo che se io
non otteneva in isposa l’oggetto del mio amore, sarei morto d’affanno
e di disperazione. La zia, che mi voleva un gran bene, ascoltò
con interessamento la mia confessione, e mi promise che si sarebbe
adoperata per consolarmi. La fanciulla era Eleonora de’ Gigli, di
nobilissimo e dovizioso casato. A mio padre si presentavano per me
i più ragguardevoli partiti di Roma, senza contare una principessa
partenopéa, e la figlia di Don Manuele Linares y Aranda y Madruso
Grande di Spagna.

— Vostra Eccellenza era il più bel giovane degli Stati Pontifici.

— Io non era più bello di molti altri, ma la mia famiglia possedeva
cinquemila jugeri nella Comarca, e novemila nella delegazione di
Macerata. Io ricusai la mano di qualunque fanciulla, insistendo per
quella di Eleonora, che finalmente ottenni dopo superate non poche
difficoltà, perchè alcuni giovani di gran conto aspiravano essi pure
alle sue nozze. Come orfana e sotto tutela, Eleonora rimase in convento
fino all’epoca del matrimonio. Ah, dottore, io non saprei dirvi quanto
fosse divenuta più bella. Essa credeva di vedermi per la prima volta, e
rapidamente mi amò. Perdonatemi questa vanità.

— Il signor marchese, per farsi tosto amare, aveva un talismano potente
nelle grazie del volto, e in quelle dei modi e del discorso.

— Dite piuttosto che il mio amore, a lei secreto, traboccò quando
fu mia in tale espansione da generare, come per miracolo, il suo e
farlo adulto d’un tratto. Un giorno ella mi disse vezzosamente: Noi
ci siamo subito amati senza aver avuto tempo di conoscerci — Ma noi
ci conosciamo da lungo tempo, le risposi fra serio e scherzoso; anni
fa noi ci siamo anche baciati, non ti ricordi? Eleonora mi guardò
coll’aria di chi trova scipita, anzi buffonesca una celia. Allora io le
posi sott’occhio questo Agnus Dei, che ella riconobbe per sua fattura
e suo dono ad una fanciulla da lei incontrata nel monastero. Alle
mie spiegazioni, fattele ridendo, cessò di essere stupita, e tinse le
guancie del più amabile rossore in memoria dell’innocente abbandono,
a cui la sua semplicità l’aveva condotta. Ingannatore! mi disse con un
accento ed uno sguardo pieni di dolcezza, e mi strinse fra le braccia.

Dopo due mesi di matrimonio, si manifestò nella mia sposa
un’alterazione di salute. Essa impallidiva da un momento all’altro,
e perdeva tratto tratto il sonno e l’appetito. Qualche volta veniva
sopraffatta da un leggero tremito convulsivo. Voi non eravate per
anco il medico della mia famiglia; quello d’allora giudicò essere
tali incomodi effetto della gravidanza. Una certa malinconia velò
dappoi la naturale gajezza di Eleonora, e per distrarla io la
condussi a Napoli ed a Palermo. Sembrando che il viaggiare le fosse
di giovamento, noi andammo in Ispagna, ma sbarcati a Barcellona,
dovemmo colà sostare, perchè il male si voltò subitamente al peggio.
La mia sposa languiva e dimagrava un giorno più dell’altro. I medici
credettero d’avere scoperto il morbo, che battezzarono con due dei
vostri nomi tecnici, e curarono senza costrutto. Il ricondurla a Roma
in quello stato era impossibile. Mi fecero sperare che dopo il parto si
sarebbe riavuta, ma la speranza fu vana. Eleonora partorì un bambino
di così trista apparenza che somigliava un aborto; in seguitò ella
precipitò miseramente agli estremi. Io non l’abbandonai un istante, e
l’abbracciava con amore e cordoglio disperati. Era uno scheletro, ma
io vedeva sempre in lei quel portento di bellezza che mi aveva rapito,
e che mi stava indelebile nel cuore. La sua angelica bontà e i suoi
sentimenti religiosi la fecero rassegnata a separarsi dalla vita e da
me, il cui affanno la impietosiva e le dettava parole soavi e sante per
consolarlo, parole che invece lo incrudivano di più appunto per la loro
soavità e santità. La bocca donde uscivano stava per essere muta in
eterno; io doveva perdere per sempre colei che sapeva trovare, benchè
invano, tali argomenti di conforto al suo trambasciato compagno. La
cara infelice si spense nel mentre le nostre labbra erano congiunte;
io bevvi il suo ultimo respiro. Anima desolata come la mia, e piena
di raccapriccio e di furore compresso, e sitibonda di vendetta non
vi fu mai sopra la terra. Interrogando un giorno l’inferma circa
alcuni particolari della sua vita nel monastero, io aveva convertito
in certezza il più orrendo dei sospetti. Coi miseri avanzi mortali
della mia sposa, co’ miei servi e con una nutrice catalana per mio
figlio m’imbarcai per Civitavecchia, dove giunsi dopo cinque giorni di
navigazione.



III.

Il pugnale.


Il marchese fece una pausa di due minuti, e quindi proseguì:

— Il cardinale *** uomo di rei costumi, dissimulati da una profonda
ipocrisia, aveva sotto la sua protezione e direzione il convento delle
Salesiane, e perciò si recava non di rado a visitarlo.

— Forse il cardinale *** che fu trovato morto nella sua villa? domandò
con premura il dottore.

— Quel desso appunto. Egli vide Eleonora, e ne restò invaghito
perdutamente. Nella residenza della badessa ordinava di quando
in quando che gli fossero condotte dinanzi alcune educande col
pretesto d’interrogarle negli studi. Fra queste non dimenticava mai
di comprendere Eleonora, per la quale unicamente metteva in opera
l’ingegnoso trovato. Dopo fatta qualche domanda alle fanciulle,
giovandosi della sua età e autorità, toccava loro con vezzo affabile
il mento, e le regalava, congedandole, di zuccherini. Immaginate
come stesse il porporato nel praticare ad Eleonora quelle carezze
peccaminose sotto l’apparenza della bontà paternale.

Sua Eminenza aveva per nipote un coso ridicolo, un bietolone
di ventisei anni, ascritto a varie confraternite pie, e membro
dell’accademia degli Arcadi. A lui guardò come a prezioso ausiliare,
e principiò le sue pratiche onde farlo sposo della fanciulla. Se
mio padre e mia zia non fossero entrati per me in lizza, il potente
cardinale sarebbe probabilmente riuscito nel suo intento. Ma, come
vi ho detto, io trionfai di tutti i rivali, ed Eleonora fu fidanzata
a me. Deluso nelle sue speranze, quel demonio pensò ed eseguì tale
enormità, che appena poteva capire in un’anima infernale. Alcuni giorni
prima che la fanciulla abbandonasse il convento per diventare mia
sposa, l’efferato, l’orribile uomo la ebbe dinanzi nella solita stanza
dell’abadessa, le disse parole benigne e salutari circa il di lei
ingresso nel mondo, e la invitò a bere una tazza di cioccolatte. Ah,
dove erano i fulmini di Dio in quel momento? Il veleno adoperato dal
cardinale doveva essere d’una virtù satanica, non è vero, dottore? Egli
ne scelse uno di lenta ma sicura azione, un veleno sottile, perfido,
latente, che non diede indizio di sè, e trasse a morte la sua vittima,
come fosse colpita da un male ordinario che manda la natura; un veleno
tanto scellerato che filtrò perfino nei penetrali della generazione, e
corruppe l’organismo del feto. Il cardinale voleva morta la mia sposa
in capo ad un anno, e calcolò giusto.

— Fu dunque fatta l’autopsia del cadavere! Si scopersero le traccie del
tossico?

— Che mi domandate voi? rispose con qualche dispetto il marchese.
Ecco gli uomini dell’arte, che vanno sempre coi piedi di piombo. Per
credere al delitto, essi vogliono coglierlo sul fatto e toccarlo con
mano. Questo metodo sarà buono, se volete, per la corte di giustizia
criminale, chè nel caso mio non doveva entrarci per nulla. Io era
persuaso anche troppo della scelleraggine del cardinale. Mi risovvenni
per soprappiù che avendolo incontrato alcune volte dopo il mio
matrimonio, mi guardava con un certo piglio notevole, con una cert’aria
indagatrice, di cui in seguito mi spiegai il significato. In faccia al
mondo la mia sposa era morta di consunzione.

Il cardinale soggiornava nella sua villa a Tivoli. Un giovane
travestito s’introdusse una sera e si nascose nel parco dove il
villeggiante soleva passeggiare senza compagnia. Quel giovane era
io. Quando me lo vidi a segno, balzai dal nascondiglio, e afferratolo
pel collo e chiusagli la bocca con un lembo della propria sottana, lo
trascinai in un vicino boschetto, e gli tenni le ginocchia e le mani
puntate sul corpo. Egli mi riconobbe, e mandò soffocati gemiti di
spavento. Io gli lasciai libera un istante la bocca per intendere quali
parole ne uscirebbero. Non faceva d’uopo che egli medesimo si accusasse
per confermarmi nella persuasione della sua nefandezza e infiammarmi
nella brama di ucciderlo. Pure nell’udirlo confessarsi reo e implorare
misericordia provai una letizia feroce; la sete del suo sangue e
la forza del braccio per versarlo mi si raddoppiarono. Avrei voluto
poterlo martoriare un secolo prima di cacciargli l’anima dal corpo, e
mi diedi a sfregiarlo col pugnale e forarlo nel viso replicatamente. Le
tenebre non erano così folte che io non vedessi il sangue sprizzargli
da più parti e la figura farsegli brutta e convulsa pel terrore e
per lo spasimo. Finalmente lo pugnalai nelle regioni del cuore finchè
rimase cadavere, e mi posi in salvo.

Qui il marchese si alzò di nuovo, andò al medesimo stipo, e tornò a
sedere tenendo in mano un pugnale.

— Questa è l’arma che lo uccise, disse sfoderandolo e mettendolo sotto
gli occhi del dottore. Guardate, il sangue rappreso vi è commisto alla
ruggine. Io non ho mai voluto pulirlo, e sta sempre vicino all’Agnus
Dei. Papa Gregorio ebbe un bel promettere cinquemila scudi a chi
rivelasse il nome dell’assassino. Quale opinione avete voi, dottore,
intorno all’atto che chiamasi assassinio?

— Un’opinione varia secondo la causa che lo produce, e secondo le
qualità individuali e la riputazione di chi lo commette e di chi lo
patisce. Alle volte non posso a meno di scusarlo, se non giustificarlo,
come nel caso di Vostra Eccellenza.

— Così non parlerebbero i facitori di massime sociali e morali,
i regolatori del consorzio umano. Costoro dicono la punizione dei
delitti appartenere alla pubblica giustizia, ed hanno ragione. Ma si
trova forse giustizia a Roma? Come ottenerla poi contro un cardinale?
Come convincerlo del suo eccesso? Quali testimonianze produrre? No
no, quand’anche avessi veduto il reo ascendere il patibolo, io sarei
stato lungi dal contentarmene. Troppo barbaro e inaudito era il suo
misfatto, e troppo straziata e crucciosa la mia anima perchè io non mi
vendicassi da me medesimo. E la vendetta, o dottore, mi parve debole e
insufficiente. Io non poteva più rinnovare la scena di Tivoli, come era
impossibile che mi fosse restituita la mia sposa. Riversai l’odio sopra
la classe di colui che lo aveva in me acceso. Con ostinato proposito
studiai i costumi dell’alto clero romano, e ne conobbi il marcio e lo
scandalo. Mi furono palesi le lussurie, le avarizie, i mercimonj e le
altre sue vergogne. Lo vidi al maneggio degli affari dello Stato; altra
cagione d’indignarmi e di condannarlo. Ogni ramo della pubblica cosa
era in disordine; l’inettitudine, la corruzione e l’arbitrio regnavano
da per tutto. Vidi le leggi e le istituzioni tiranniche o stolte, i
privilegi e il favoritismo dominanti, il tesoro dilapidato, il popolo
misero, ignorante, avvilito. Fino allora io non aveva posto mente alla
condotta dei chierici, nè come uomini dell’altare, nè come legislatori,
giudici e magistrati mondani. Anzi l’aristocrazia bigotta della mia
famiglia e i principj della mia educazione volevano che io vedessi
in tutti i preti venerande persone, e nel loro governo dei popoli un
modello di saviezza. È probabile che senza la sventura occorsami, e
assorto nella mia felicità conjugale, non mi sarei occupato di quelle
bisogne, e avrei subìto, inconsapevole o codardo, la signoria papale,
come fecero tanti altri della mia sfera. Mi adoperai invece con ogni
possa a rovinare quella signoria, associando alla mia causa particolare
quella della patria, e confondendo la mia offesa privata col pubblico
danno. Ecco per quale circostanza io diventai liberale cospiratore e
soldato. Io sono in fama di buon patriotta, e voi vedete ora fin dove
merito questo titolo. Dottore, io non avrò posteri; la famiglia di San
Giulio sarà estinta con me e col povero mio figlio.

— Vostra Eccellenza, nella sua età ancor fresca e nella sua robustezza,
potrebbe rimaritarsi e continuare una illustre prosapia.

— No, no, io ho troppo amato la mia sposa, e troppo son pieno della
sua memoria per volermi unire ad altra donna. Ho già fatto il mio
testamento, e ve ne confido il tenore. Io assegno una ragguardevole
somma per un’opera grandiosa e monumentale da erigersi in una piazza di
Roma. Quest’opera, che sarà in marmo od in bronzo, deve rappresentare
la caduta del potere temporale dei papi, secondo il voto degli
Italiani e degli stranieri ben pensanti. Il resto delle mie sostanze,
amministrate dal governo nazionale, costituiranno un fondo che fornisca
i mezzi onde combattere, ove si manifestino, i tentativi dei preti
e dei loro fautori per ricuperare il perduto dominio. Un consiglio o
comitato, composto di membri stipendiati, verrà creato a perpetuità
per investigare se vi sieno tendenze e maneggi a questo scopo. I
pontefici-re non debbono mai più rinnovarsi al mondo. La loro esistenza
deve essere annoverata fra quelle assurde istituzioni umane che hanno
fatto il loro tempo, e che sono sparite per sempre.


  FINE



Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici.




*** End of this LibraryBlog Digital Book "Un'eroica famiglia bresciana - Fiero misfatto e fiera vendetta" ***

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