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Title: Il processo di Verre : Un capitolo di storia romana Author: Ciccotti, Ettore Language: Italian As this book started as an ASCII text book there are no pictures available. *** Start of this LibraryBlog Digital Book "Il processo di Verre : Un capitolo di storia romana" *** IL PROCESSO DI VERRE UN CAPITOLO DI STORIA ROMANA DI ETTORE CICCOTTI MILANO ÈDITO A CURA DELL’AUTORE 1895 PROPRIETÀ LETTERARIA Prato, tip. Giachetti, Figlio e C. I. LVXVRIA INCVBVIT VICTVMQVE VLCISCITVR ORBEM [Le conquiste oltremarine di Roma.] Quando Aristagora di Mileto si recò a Sparta, per ottenere ch’essa prendesse a sostenere la causa degli Ioni contro i barbari, buon parlatore e facondo, com’era, cercò sopra tutto lusingare gli Spartani, col mettere ad essi sottocchio le smisurate ricchezze dell’Asia, che loro senza molta pena sarebbero venute in mano, e gli avrebbero condotti al punto di contendere di ricchezza con Zeus; essi che per poca terra guerreggiavan con Messeni ed Arcadi ed Argivi. Quali cupide voglie e quali speranze destasse quel lieto miraggio nella folla degli ascoltatori, Erodoto non dice; ma l’impressione dovette ben essere intensa, se Cleomene volle rimandata la risposta a tre giorni. E il terzo giorno venuto, con ispartana brevità, altro Cleomene non domandò fuori di questo: quanta distanza separasse gli Ioni dal re; a che con inganno Aristagora rispose: un cammino di tre mesi. La qual cosa udita, Cleomene più non volle ascoltare, ed interrompendo gridò: O straniero di Mileto, sgombra da Sparta prima che cada il sole; poichè non dici cose buone per i Lacedemoni tu che vuoi condurli per una via, che si dilunga di tre mesi dal mare[1]. Forse Cleomene, dando la sua fiera risposta al tiranno di Mileto, non pensava in quel punto che a’ disagi, a’ pericoli, alle incertezze di una spedizione tanto lontana; ma per un buono Spartano maggiori anche de’ pericoli dell’impresa di guerra, se anche più remoti, doveano apparire quelli che avrebbero minacciata l’indole e la consistenza delle instituzioni spartane. Agli Stati, che hanno il vanto d’instituzioni guerriere, meno è da temere la guerra e più le conseguenze della vittoria. Alcune instituzioni severe od una rigorosa semplicità di costumi non possono serbarsi che in un ambiente, ove niente vi sia che desti sentimenti di bisogni nuovi ed alletti nuove cupidigie con la stessa facilità di appagarle. E se improvvisamente gente avvezza ad una primitiva austerità e semplicità di vita si trovi a un tratto sobbalzata tra gente e costumi d’indole più progredita e pel progresso stesso fatta più raffinata e corrotta, il mutamento è d’ordinario fatale. Un popolo sperimentato in imprese guerresche, una gente guerriera, a causa della vita stessa che è costretta a menare, non può, per la difficoltà di soddisfarli, alimentare nuovi bisogni; ma l’amore dell’ornamento, il pregio della ricchezza serpono in esso segretamente, se anche non pienamente sviluppati, perchè male adatti alla semplice vita agricola ed alla vita del campo; poco utili se non nelle manifestazioni più rudimentali e semplici, e, come soddisfazione dell’amor proprio e della vanità, messi in seconda linea dalla manifestazione più alta del valor personale. Ma per poco che il cerchio magico, ond’esso è cinto, sia rotto, e l’ambiente, in cui questo popolo è costretto ad aggirarsi, si muti, ne nasce un effetto impensato, eppur consentaneo alla natura delle cose e di quegli uomini. L’ardore indomito che irruppe tante volte nel tumulto delle battaglie, si muta in una smania irrefrenata di godimento; la prepotenza guerriera, lo spirito di distruzione, quasi che, mutando di campo, tendano ad esercitarsi non più sugli uomini, ma sulle cose, si convertono in una prodigalità quasi pazza, in un fasto insolente; e la stessa emulazione del valore diviene un’emulazione di lusso e di opulenza. Un oracolo aveva detto come null’altro che la φιλοχρηματία[2] avrebbe potuto perdere Sparta, e questa fu tra le cause che la dissolsero; nè alcuna cosa l’alimentò più delle imprese lontane, de’ suoi rapporti con le popolazioni dell’Asia minore; e fu proprio sotto Lisandro che, con la fama delle riportate vittorie, v’irruppero più che mai la pompa asiatica e gli usi orientali. E quello ch’era accaduto di Sparta, accadde in più larga misura — nè forse è la sola analogia tra i due paesi[3] — di Roma dal soggiogamento d’Italia e più anche dalla seconda guerra punica in poi. Quando Polibio[4] iniziava le sue storie, accostandosi pieno di reverenza e di maraviglia, come ad un santuario, a questo spettacolo del mondo intero, com’egli diceva, che in cinquanta e tre anni, non anco compiuti, era caduto tutto sotto la sola signoria romana, avea già un’intuizione, fors’anche men che vaga, della fine remota di quell’immensa fortuna[5]. Altre volte, prima di Roma, era stato sognato e messo ad effetto l’impero del mondo, ma, anche più che nel disegno, nell’adempimento quell’impero non fu mai così vasto, come riescì a Roma formarlo; ed era stata l’opera di un braccio valoroso o di un uomo di genio, ch’era durata quanto la vita che avea animato quel braccio e quella mente, o poco più. Era invece questa la prima volta che non un uomo, ma una città, uno Stato libero, menava a buon fine quell’impresa, che veniva così sin dall’origine acquistando una forza ed una consistenza di cosa non legata ad una breve e precaria vita umana. Il mondo più antico, in un ambito così vasto, non aveva conosciuto se non le signorie personali, nel cui centro vivente trovavano la loro unità tutte le parti dell’imperio. La Grecia avea aggiunto la nozione dello Stato, più astratta e complessa nella sua forma impersonale; ma, sì nella speculazione de’ filosofi che nella storia, lo Stato libero non avea sorpassato i limiti di una città, ed ogni più grande compagine riposava sopra legami troppo lenti e materiali. Fu Roma che, preludendo in certa guisa e formando un anello di passaggio tra l’antico ed il nuovo, compose in forma più ordinata, più intima ed organicamente fusa una più grande compagine. Ed a questo giunse per gradi. Come l’aquila, appresso fatta sua insegna, che tenta da prima incerta i primi voli, indi da quelle prove fatta sicura ed incitata, spiega le ali fin dove ala d’emulo non può raggiungerla, nè può seguirla occhio umano; così Roma nelle sue conquiste. La storia è l’opera di tanti e sì diversi elementi, ed è il risultamento di così molteplici cause, in parte poste fuori di ogni previsione, e di un’azione reciproca così varia, che non vi è mente, come si voglia vasta, alla quale sia lecito prevedere in forma distinta e particolareggiata quale sia per essere nell’avvenire, a grande distanza di tempo, la condizione e l’ordinamento di tutto un diverso stato sociale e l’effetto ultimo degli stessi atti compiuti sotto i propri occhi giorno per giorno. E tanti di quelli, che davano a volta a volta la spinta alla nuova politica romana dovettero in ultimo essere essi stessi sorpresi degli effetti di un movimento, che per quanto non rivelasse completamente la sua natura se non a qualche distanza di tempo, pure si chiarì quale nè essi avrebbero voluto che fosse, nè avrebbero mai osato neppure immaginare; tanto in tutte le sue parti fu vario e grandioso. Quando per la prima volta un esercito romano varcò i confini dell’Italia peninsulare, non già la conquista del mondo[6], ma neppure quella della Sicilia, era tra i disegni del popolo e della classe dirigente romana; ma gli eventi, che traggono spesso fino i timidi ed i riluttanti, spingendo anche gl’interessi di classe, condussero all’una cosa ed all’altra. E poichè fatti di tanto momento non potevano seguire senz’esercitare un’azione notevolissima sullo stesso Stato conquistatore, accentuarono le trasformazioni già iniziate e determinarono il più radicale mutamento in tutta la vita pubblica e privata, politica ed economica di Roma. [La nuova vita romana.] L’ambiente, in cui lo Stato di Roma era sin qui stato costretto a muoversi, il suo campo di azione sia fisico che morale, i suoi fini, il suo indirizzo, le sue tendenze, le sue condizioni di vita; infine, come oggi si direbbe, i mezzi onde sin allora avea combattuta, entro e fuori del suo dominio, la lotta per l’esistenza, mutarono in tratto relativamente breve di tempo ed in guisa che ne seguì la più profonda rivoluzione. Una rivoluzione che trasformò radicalmente, con la fisonomia stessa della società e dell’urbe, l’economia pubblica e privata e gli ordini dello Stato, e fecondò e schiuse i germi di tutto il restante sviluppo dell’impero romano; così che, maggiore forse di quelle che mutarono in maniera più appariscente la forma dello Stato, contenendo in sè virtualmente tutto l’avvenire, chiuse il ciclo dell’antica e costituì come la palingenesi della nuova Roma. Ben potevano appresso e scrittori e poeti rimpiangere la _Romana paupertas_[7], o l’antica _semplicità_ di costumi[8]; l’ala del tempo ed il turbine degli eventi l’avean portate via per sempre, assai più che incendi e commovimenti terrestri non avessero fatto dell’antica città. Per cinque secoli circa dalla sua fondazione Roma era sempre ascesa per la via della potenza e della vittoria: avea consolidati i suoi ordinamenti, sviluppate le sue forze ed affermata la supremazia del suo nome e delle sue insegne nella penisola. Ma l’incremento che n’ebbe, fu lento e sicuro, i suoi passi misurati e giusti e, per quanto si spingesse innanzi, si trovava pur sempre in paese, la cui civiltà, le cui usanze ed il cui costume non le potevano essere stranieri. Il suo era il progresso naturale di un organismo forte che cresce e si espande, assorbendo gli elementi vitali dell’ambiente che lo circonda, commisurando lo sforzo all’energia, l’assimilazione al bisogno: un progresso insomma _calmo e forte_, come appunto un grande poeta si piacque di chiamare e figurarsi il progresso. Essa, prima combattendo con i popoli vicini una naturale lotta per l’esistenza, poi cercando appagamento a’ suoi bisogni interni ed impiego alle sue energie, avea progredito verso l’egemonia d’Italia, di cui, se la potenza politica ne faceva la signora, la comunione di stirpe e di civiltà e la sua posizione topografica ne doveano fare la capitale. E nelle lunghe lotte, che avean preluso al grandioso destino, Roma avea fatto come la prova delle sue instituzioni civili e militari, e l’ambiente, in cui d’ordinario avea dovuto trovarsi e la maniera e l’indole delle lotte durate, erano stati tali che ne’ suoi ordinamenti essa avea dovuto piuttosto riformare e correggere che trasformare; nè la sua indole e la sua vita cittadina, per quanto modificate, aveano potuto esserne mutate radicalmente. Le guerre sostenute co’ suoi avversarii d’Italia se, quando aveano avuto una durata assai lunga, aveano scosso, non aveano mai potuto sconvolgere le condizioni interne e l’economia di Roma come quelle che sopravvennero di poi. Gente agricola l’una e l’altra parte, in ugual modo doveano assoggettarsi a certi bisogni e risentirne i danni, e la loro condotta bisognava pure che s’informasse agli uni e agli altri. E i frutti della vittoria si riducevano a prede, quand’anche abbondanti, non opulente; sopratutto ad acquisti di terre, che distribuite alla classe povera romana, sedavano nelle città il fomite di tumulti, e lontano formavano come de’ posti avanzati a guardia, a tutela ed incremento del nome e della potenza di Roma. La guerra, malgrado il nuovo ordinamento tattico, non esigendo ancora quelle speciali attitudini e quella genialità che, trasportata in più largo campo, chiese di poi, non contribuiva ancora a creare poteri personali ed era condotta dai consoli in carica, successivamente; sicchè, compiuta, era la vittoria non di questo o di quel generale, ma del popolo romano. Tutto invece mutò con l’allargarsi dell’imperio di Roma; e la guerra con Taranto e Pirro fu come dire l’anello di passaggio tra l’uno e l’altro periodo. La seconda guerra punica specialmente, che pose in tanto pericolo le sorti di Roma, rese necessario il discostarsi straordinariamente e tumultuariamente[9] dalle regole fin’allora serbate nel conferimento e nell’esercizio delle cariche supreme e de’ comandi militari. Gli avvenimenti che indi seguirono, guerre lunghe, ostinate, combattute in lontane regioni resero tali eccezioni sempre più frequenti, ed il potere personale de’ capi, illimitato insieme e soggetto a scarso controllo per lo stato di guerra e per la distanza, schiudeva l’adito a quelle preponderanze ed egemonie, che in Roma stessa posero termine, prima di fatto e poi anche di nome, alla libertà repubblicana. E co’ poteri prorogati, durava ancora prorogata la milizia de’ soldati, malcontenti dapprima e reclamanti, come in Ispagna, a gran voce il ritorno, poi placati e lusingati anche dalla speranza delle prede e talvolta anche della nuova vita contenti, congiunti al generale da’ vincoli saldi, che creano la vita del campo ed i comuni pericoli; nè d’altro desiderosi che di levarlo sugli scudi, anche sopra la legge e sopra la patria, per partire con lui il frutto delle vittorie cittadine, come avean fatto già delle oltremarine. E intanto l’agricoltura in Italia languiva: i campi già orgoglio e sostentamento de’ liberi cittadini, fatti prima deserti cadevano a poco a poco nella voragine de’ latifondi; nè altra mèsse portavano, se non coltivata da schiavi, nè per altri l’alimentavano che per opulenti signori, anelanti a profonderne il prezzo in breve ora nel lusso della capitale e delle magnifiche ville. Poichè era tutto che si snaturava; l’antica vita pubblica, l’antica economia e, con esse e con l’antica morale, la vecchia parsimonia romana. Bene l’Epimenide romano, sotto cui Varrone[10] in una delle sue satire nascose forse sè stesso, ben avea ragione di volgersi intorno in tuono di rampogna al trovare intorno a sè tutto mutato. Ma Varrone stesso, il quale scrivea quando già quelle tendenze avean tanto progredito, vedeva a quanto poco approdasse la rampogna che al suo Epimenide altro guiderdone non concedeva se non quello di essere, per far onore al nuovo costume e ad un vecchio proverbio, gittato dal ponte. [La rivoluzione economica.] Roma era sorta e si era sviluppata, come un paese essenzialmente agricolo, e la sua economia era stata delle più semplici. Le prime monete d’argento coniate in Roma rimontano all’anno 485 o 486 (268 av. C.) secondo che si sta alla fede di Plinio o degli annalisti[11]. La questione concernente il didracmo di Servio Tullio ha un valore più numismatico che economico. Monete d’argento, sopratutto de’ paesi vicini, dovettero già da lunga pezza innanzi per rapporti commerciali penetrare in Roma; ma si può ritenere che a Roma, come nel Lazio, nel Piceno e nell’Italia settentrionale, era la moneta di rame, che avea corso legale e costituiva la base de’ calcoli. «Una linea che andava dall’imboccatura del Liri al Monte Gargano separava il dominio dell’aes grave da quella ove si fabbricavano le belle monete d’argento di Cuma, di Napoli e delle repubbliche della Magna Grecia. Quando Roma ebbe sorpassato questa linea, la moneta d’argento cominciò sempre più a penetrare in Roma prima da Capua, che ne fabbricò anche per conto di Roma; poi dal Sannio nel suo trionfo Papirio Cursore ne fe’ portare una notevole quantità (Liv. X, 46) e, quando vennero conquistati Taranto e la Magna Grecia, già una rivoluzione economica si annunziava»[12]. Gli avvenimenti che seguirono poi e fecero affluire a Roma i tesori del mondo, l’affrettarono e le dettero una portata che altrimenti non avrebbe potuto avere. La grande quantità di numerario, che così improvvisamente sopravveniva, congiunta alla rapida e continua circolazione[13], fece sì che il valore ne scadesse, portando necessariamente come corrispettivo un rincaro nel prezzo delle merci. Questo popolo che prima era stato avvezzo a considerare come la maggiore e quasi unica sorgente di ricchezza la terra, da cui in fondo derivavano anche i capitali dati ad interesse, si vide innanzi agli occhi l’altra inesausta e seduttrice fonte de’ traffici, delle imprese più o meno grandiose, delle speculazioni di banca e di borsa. Il secolo nostro è fatto appunto per farci intendere, meglio che ogni altro forse non avrebbe potuto, questo periodo della vita romana. L’elemento economico è quello che forma il sostrato della vita sociale, onde, in varia maniera alimentate, emergono le varie manifestazioni e tendenze; varie nell’aspetto e nella forma e pur congiunte in una sola radice. Questa _febbre_ di subiti guadagni, che a tratti a tratti si manifesta in grado più alto, che Dante sfolgorò a’ suoi tempi, che noi abbiamo vista invadere a dirittura la Francia sotto la monarchia di luglio ed il secondo Impero, allargarsi poi alla vita tedesca dopo le vittorie degli ultimi anni ed alla vita italiana e divenire caratteristica dell’epoca nostra; invase Roma, piegando sotto l’alito suo tutta la vita cittadina. Una nuova funzione si forma un nuovo organo, e la nuova corrente economica se non creò già una nuova classe, le seppe infondere uno spirito, un’indole, un indirizzo ed un atteggiamento diverso. Del grande mercato del mondo che ora si apriva all’attività romana, le due classi, che sin qui aveano l’una contro l’altra lottato, non potevano avvantaggiarsi: non la plebe, per mancanza di capitali esclusa da’ grandi commerci e, dopo essere stata un po’ scossa dalle guerre antecedenti alle puniche, rovinata addirittura da queste; non i nobili, che divisi fra il desiderio del lucro, la tradizione e l’orgoglio nativo, aveano, in apparenza almeno ed in virtù di legge, dovuto veder prevalere la considerazione di questi ultimi, aspettando con raffinata ipocrisia di poter comporre insieme, come poi fecero, le tre forze cozzanti. [I cavalieri.] Vi era una instituzione che, cominciata come un’istituzione di indole assolutamente militare, si era sotto l’azione del principio timocratico ogni dì prevalente, ampliata sempre più e costituita sotto forma di ordine della cittadinanza, che dell’antica sostanza non conservava omai se non il nome e le insegne. Il censo, che da prima non avea servito se non a costituire una delle condizioni necessarie per l’adempimento dell’ufficio dallo stesso nome designato, avea finito per costituire da sè solo il fondamento del nuovo ordine ed insieme la ragion d’essere e l’arma dalla classe. Roma, nell’estendere la sua potenza sull’Italia, con le concessioni di cittadinanza, con le colonie, con tutte le altre sue ramificazioni era divenuta più che la soggiogatrice, la metropoli di molta parte d’Italia; e la parte migliore della cittadinanza delle città italiche di diversa denominazione, rifluiva a Roma, quasi come nuovo e giovane rampollo che s’innesti su di un forte tronco, ed a mezzo appunto dell’ordine equestre entrava a partecipare più direttamente alla vita pubblica un così forte elemento rinnovatore com’era quello che si sarebbe potuto chiamare della nobiltà italica. Ma questo elemento, prima di assorgere al maggior grado di forza, non faceva parte per se stesso; esso corrispondeva agli _homines novi_, capi della plebe rurale[14], che con questa facevano causa comune e combattevano sotto una bandiera nel comune interesse. Quest’ordine, che il Belot compara alla classe de’ _francs-tenanciers_, a quella borghesia campagnuola dell’Inghilterra, ove Cromwell reclutò i suoi squadroni di _ironcoates_[15]; venuto anch’esso dalle aziende agricole, dalla sana, dalla rude, dalla semplice vita campagnuola, si distingueva da prima per un attaccamento alla probità, al valore, al buono ed onesto vivere civile: ma, distolto dal quel primo genere di economia, fu preso nel giro della nuova speculazione e ne uscì esso stesso trasformato. La speculazione bancaria e gabellare fu, è vero, esercitata d’ordinario da corpi collettivi, da grandi società in accomandita[16]; ma il nucleo principale di essi era pur sempre rappresentato da cavalieri, divenuti così i gestori privilegiati della grande speculazione, di buoni campagnuoli fatti sagaci mercanti, di modesti proprietari fatti arditi banchieri e di temperanti paesani fatti pubblicani e spesso avidi e sfrontati pubblicani. Erano essi che schiudevano e chiudevano i rivoli d’oro, i soli atti omai a fecondare la nuova vita cittadina: e s’imposero. Quel senso dell’opportunità, o come bruttamente è stato chiamato di poi l’opportunismo, quell’arte fatta d’interessi e di espedienti, che tutto mette a partito e tutto fa valere ed ogni cosa riduce a spiccioli; essi la trasportarono spesse volte dal mondo degli affari in quello della politica; ed il loro ausilio e il poter loro, abilmente negati o concessi, promessi o distolti, furono come la spada che, nelle aspre e diuturne contese politiche, gittata nella bilancia, la fece traboccare da una parte o dall’altra. E tutto ebbero: il fasto, la ricchezza, il potere: anche quello che negli Stati antichi era stata la maggiore manifestazione del potere, il diritto di giudicare, ch’essi fecero pendere come la spada di Damocle sul capo di amici e nemici. [Il nuovo costume.] Notevole analogia, il χρήματ’ ἁνήρ[17] (l’uomo val quel che possiede), che aveva designato il tralignamento di Sparta, ricomparisce meno laconicamente in un verso di Lucilio[18]: «_Tantum habeas, tantum ipse si es, tantique habearis_.» Compagni e forieri della mutata vita economica erano stati i nuovi andazzi de’ costumi, delle fogge, delle maniere di vita. Con l’eco delle vittorie e con l’oro de’ vinti erano penetrati in Roma, a frotte, tutta la corrotta genìa di parassiti, tutto quel nugolo di artefici della corruzione, che si erano schiusi dal seno della decadente civiltà greca, ed al rustico Lazio apportavano tutti i più raffinati amminicoli di un’età corrotta, tutti i più fieri veleni della vita, larvati sotto le più liete apparenze. L’elemento greco certamente aveva avuto sempre, a mezzo delle colonie italiche, contatto con la vita romana, e non avea potuto non esercitarvi la sua azione[19]; ma ora addirittura v’irruppe, e con le sue correnti meno sane, fatte per giunta tramite di tutta la corrotta vita orientale. La monotona vita romana ne fu come affascinata, e vi si tuffò sitibonda, e tanto più inappagata quanto più ebbra. Dalle statue e dalle tele, di cui non erano capaci d’intendere la suprema bellezza, alle fogge del vestire; dalle più corrotte manifestazioni dell’arte decadente fino alle creazioni più forbite del lusso, tutto essi vollero e a tutto si attaccarono con foga assimilatrice, più della stessa impudica imperatrice _nondum laxati sed satii_. Oh, la tenue saliera di argento, solo ornamento alla mensa[20], come scomparve sotto l’onda del ricco vasellame! La piena corruttrice ed innovatrice dilagò per tutto, e non ne fu salva, nemmeno nella semplicità sua materiale, la casa. «I nostri vecchi — diceva un satirico[21] — dimoravano in case fatte di mattoni con un buon fondamento di pietra per evitare l’umidità;» «canne intrecciate con virgulti sparsi d’argilla facevano le veci di tegole;» «dopo la messe raccoglievano lo strame da’ campi per accomodarle. [Disparità delle fortune.] Tempi passati! Ora di fronte a quelle vecchie memorie sorgevano i lussureggianti edificii, la casa di Scauro[22], gli atrî di Crasso[23]. Fu dapprima il bisogno che si sentì di far posto a tutta la popolazione la quale traeva a Roma e di rendere le abitazioni più commode[24]; ma ben presto al puro sentimento dei bisogno si attaccò il lusso e la vinse su quello. «Greci modelli — dice lo Jordan[25] — sia della madre patria che delle colonie dell’Italia meridionale e della Sicilia trovarono un terreno fecondo nella nobiltà romana tutta animata da uno spirito di progresso e tutta penetrata dalla civiltà greca; e le casse dello Stato ricolme e le ricchezze private subitamente moltiplicate allettarono a dotare e lo Stato e la casa delle più belle opere ed ornamenti della più avanzata civiltà greca.» Ma, accanto agli alti e splendidi palagi sorgenti maestosi, si restringevano quasi vergognose le antiche case, asilo alla plebe, alla poveraglia che in folla vi cercava ricetto. Strano contrasto che tolse ogni armonico aspetto alla città fino all’incendio di Nerone[26], e che rendeva materialmente immagine della società romana del tempo. Come nell’aspetto materiale della città, così nell’ordine economico e morale quel che più colpiva era la disparità enorme delle fortune. Il criterio della ricchezza era stranamente mutato: il numerario depreziato, gli aumentati bisogni, le merci rincarite di prezzo, il giro rapido de’ capitali e la febbre della ricchezza, faceano sì che Varrone[27] poteva dire, accennando a’ progenitori che «_quod nunc satis sibi vix putant, lautum [habebant]_.» Lucilio[28] si domandava: _Quid vero est, centum ac ducentum possideas si milium_; e M. Crasso diceva che quegli solo era al caso di chiamarsi ricco, che era in grado di mantenere un esercito[29]. E questa vita di dissipazione, prodotta in gran parte dal modo stesso di acquisto della ricchezza[30], era come una macchina, che prendeva tutti nel suo ingranaggio, divorando sopra tutto le piccole fortune, poichè un antico adagio diceva che «quando il povero prende ad imitare il ricco, va in malora»[31]. Poche volte forse si ebbe tal cumulo di debiti, quanti ne portavano addosso allegramente i più importanti uomini politici e gli uomini più alla moda del tempo[32]. La classe media rósa da’ debiti, sopraffatta dalla grande proprietà, dalla decrescente produzione[33], scompariva portando seco la memoria del buon tempo antico, l’antica temperanza e le antiche virtù. Quella vita di crapule e di disordine, di lusso e di miseria, quel miraggio di oro e quello spettacolo di affamati, aveano finito naturalmente col sovvertire il senso morale, naufrago immane nell’infuriare di sì cozzanti elementi. «Gli avi ed i proavi nostri — diceva l’eterno _ruminatore_[34] Varrone — quand’anche il parlar loro sentisse di aglio e di cipolla, aveano l’anima sana[35].» Ed ora? Si eran fatte _inquilinae_ l’empietà, la perfidia, la impudicizia[36]. Il male pubblico si era insinuato nelle famiglie, sovvertendone la stessa esistenza: «qual bimbo di soli dieci anni non è buono non dico a spegnere, ma a toglier via tranquillamente il padre di veleno?[37]» Al concetto etico della vita s’era sostituito l’ideale del piacere, al criterio morale il senso della più bassa utilità, e sola stella polare, sola bussola e sola guida il danaro. Era l’onda de’ piaceri e delle seduzioni che si allargava, invadendo e chiamando, tra una turba opulenta, avida e prepotente, ed una plebe affamata di godimento e di pane. [La vita politica.] La vita politica, che era già da tante cose guasta ed inquinata, risentì tutta l’azione di queste correnti corruttrici e finì di foggiarsi a dirittura sul nuovo stato di cose. Variato era omai il compito della politica romana; variati gli elementi, onde il popolo sovrano ed imperante si componeva. Sino alle guerre puniche il popolo non era stato chiamato a pronunziarsi che sopra cose le quali non potevano di gran lunga oltrepassare la cerchia della sua capacità e delle sue conoscenze. Si trattava di un governo non certo così complicato come si fece di poi e di rapporti con popoli d’Italia, delle cui cose anche il popolo dovea avere men vaga conoscenza che non delle nazioni oltremarine. Quando invece occorse disporre e regolare le cose del mondo, trattare del contegno da tenere di fronte alle nazioni, di cui il nome si udiva forse a Roma per la prima volta, e del modo di comportarsi in paesi, della cui posizione e della cui natura non era facile nemmeno farsi un’idea; il còmpito era mutato. Alla massa faceva difetto la conoscenza di tutti i fatti, che qui doveano essere presi in esame e la capacità di tirare una retta e sicura conclusione dalla comparazione di rapporti così complicati, ed essa stessa sentiva l’insufficenza delle sue forze a poter formarsi un proprio convincimento sopra cose tanto difficoltose. Era poco lusinghiero, ma non perciò meno giusto, quando il vecchio Catone la paragonava ad un gregge di pecore, di cui ciascuna presa da sola era difficile guidare; ma che messe insieme pecorinamente traevano dietro alla voce del conduttore[38]. E in tutto questo vi era già in germe il fondamento di tutti quei poteri personali che, durati senza interruzione negli ultimi tempi della repubblica ed esercitati solo con maggiore o minore energia, riescirono alla fondazione dell’impero. Nè solo la materia del governo era mutata, ma la natura stessa de’ governanti. Il popolo imperante non era più, come un tempo, composto di quegli agricoltori, di que’ piccoli proprietari che, insieme alla fierezza del nome romano, aveano vivo il sentimento d’interesse alla cosa pubblica, così intimamente connessa alle loro private fortune. Era questo il tempo in cui traeva in folla alla capitale, oltre a tutti gli avventurieri stranieri, il proletariato d’Italia, sedotto dalle largizioni di frumento, ed a quella continua onda rifluente, la città, in un’esuberanza di crescenza, si espandeva anche oltre la cerchia dell’antico pomerio[39]. Schiavi emancipati a frotte, per motivi specialmente economici se vecchi, ed in ogni modo per l’invalso spirito di prodigalità e per intenti politici, inquinavano la massa del popolo; e il popolo romano, questo popolo innanzi al quale piativano popoli e re, era formato, come ben dice uno scrittore, «di signori del mondo che erano in imbarazzo pel pane quotidiano e doveano appartenere a chi li sfamasse[40]. Di qui quella corruzione elettorale, che assunse proporzioni straordinarie e prima timidamente tentata, si affermò poi sfacciata alla luce del sole.» Che cosa può esservi di più efficace — diceva Nevio[41] — quando parla il danaro? — E Varrone[42]: «Dove prima erano comizii, ora è mercato.» «L’oro annebbia gli occhi non meno del puro vino.» [La corruzione elettorale e la dilapidazione delle provincie.] La corruzione elettorale giunse a tal punto che palesemente venivano mercanteggiati i voti e fatte distribuzioni per accaparrarli: quello di agente elettorale divenne un mestiere e i _nomenclatores_, i _divisores_, i _sequestres_, i _deductores_ divennero una parte integrante della nuova vita pubblica romana[43]. Oltre alle corporazioni già esistenti le quali, come più tardi nelle elezioni municipali di Pompei[44], prendevano viva parte alla lotta elettorale, se ne costituirono delle altre con l’unico scopo di brogliare nell’elezioni, che disciolte sempre ripullulavano. Dice Carlo Marx: «Col diffondersi della circolazione delle merci cresce la potenza del danaro, omai già compiuta, assoluta forma sociale della ricchezza. «L’oro è una cosa mirabile. Chi lo possiede è signore di tutto quello che vuole. Con l’oro si possono perfino mandare le anime in paradiso (Colombo, _Lettera della Giamaica_, 1503).» «Poichè non può scorgersi quello che si è trasformato nel danaro, tutto, sia merce o non sia, si trasforma in danaro. Tutto diviene oggetto di compera e di vendita. La circolazione diviene la grande storta sociale, in cui tutto va a finire per riescirne ancora _cristallo-moneta_. A quest’alchimia non resistono nemmeno le ossa de’ santi e meno che mai le meno grossolane _res sacrosanctae_, _extra commercium hominum_. Come nella moneta è cancellata ogni distinzione qualitativa delle merci, alla sua volta, come un radicale livellatore, essa cancella tutte le differenze. Ma la moneta è anch’essa merce, una cosa materiale che può divenire proprietà di ognuno. Così la potenza sociale diviene potenza privata di un privato. Perciò la società antica la denunzia come lo strumento del traffico del suo ordinamento economico e morale»[45]. D’allora nessuna colpa fu tanto grave in un candidato quanto la povertà o l’avarizia. L’edilità imposta e richiesta con pari ardore (_furiosa aedilitatis expectatio_) era la misura della larghezza de’ candidati[46]. E dalla lebbra nuova poteva dirsi ormai che nessuno quasi andasse immune; era l’ambiente che s’imponeva e Cicerone cominciava perfino a fare delle distinzioni scolastiche tra _beneficenza_ e _corruzione_. Una elezione importava una spesa talvolta ingente, capace di assorbire un patrimonio; e non si recedeva innanzi ad esso. Gli è che l’ambizione e l’avarizia si davano insieme la mano, e nel danaro oggi profuso per comprare la carica, i più vedevano la posta che domani avrebbe reso il cento per uno; e le ricchezze profuse nel foro sarebbero tornate in casa centuplicate ne’ vascelli carichi di oro e di tesori artistici, che facean vela da’ porti delle smunte provincie. Roma ebbe i suoi _politicians_, che della vita pubblica si facevano una professione, gente che Lucilio[47] vedeva: _a mane ad noctem festo atque profesto_ _totus item pariterque die populusque patresque_ _iactare indu foro se omnes decedere nusquam,_ _uni atque eidem studio omnes dedere et arti_ _verba dare ut caute possint, pugnare dolose_ _blanditia certare, bonum simulare verumse_ _insidias facere, ut si hostes sint omnibus omnes._ La corruzione elettorale e la dilapidazione delle provincie erano come i due estremi di una linea, che ripiegandosi su sè stessa, formava un circolo chiuso ed il più vizioso che mai fosse. Si corrompeva per ottenere la carica e si voleva la carica per fare una fortuna: e si pensava e si diceva palesemente che delle ricchezze smunte occorreva far tre parti: una alle spese fatte per ottenere la carica, un’altra a’ giudici per ottenere l’impunità ed una terza per serbarla a sè stesso. Per il ceto senatorio poi l’una cosa e l’altra erano il mezzo non solo di mantenersi al potere, ma di rendere ancora più serrata l’oligarchia, effetto infallibile del nuovo stato di cose. Il ceto senatorio, escluso da’ commerci[48], comunque indirettamente partecipasse alle associazioni assuntrici di gabelle ed imprese pubbliche, pure se voleva rifornire l’esauste fortune, o rendere ancor più opulento l’avito patrimonio, a niente altro e a niente meglio poteva ricorrere che al governo provinciale. La via regia della fortuna, della potenza, che dava amici e stato e mezzi e fastigio e proseliti era quella. Fu dal governo della Spagna, onde Cesare[49] uscì mondo della enorme colluvie di debiti e rifatto a nuovo e provveduto di mezzi per meglio apprestarsi a giocare il suo ultimo dado. Esempi come quelli di Caio Gracco che poteva dire di aver riportati vuoti dalla provincia i sacchi che vi avea portati pieni d’argento[50], o di Catone che partiva per la Spagna accompagnato da non più che tre servi e condivideva il cibo e la bevanda de’ barcaiuoli[51]; erano certamente esempii ben rari. Chi poneva invece freno all’avidità di altri, avidità in molti naturalmente fomentata dalle condizioni de’ tempi e fatta seconda natura? Era il male comune che, penetrato nell’organismo, si spandeva per ogni sua parte ed in ogni forma, come fatale principio di dissoluzione. Ed invano, invano contro il fato irrompente si agitava il manipolo de’ conservatori, di cui il tipo più noto e più rigido è rimasto Catone. Per noi, cui, a tanta distanza di tempo, è lecito abbracciare i fatti nel loro complesso e col sèguito di tutte le loro conseguenze, questo spettacolo di corruzione e degenerazione non è che uno de’ lati di uno de’ più grandi fenomeni che mai presenti la storia. A noi Roma, pur in quella sua nuova vita, appare come il gigante, che ad ogni passo si sentiva crescere e fu alfine sì alto che potè abbracciare il sole e confondersi in esso. Mentre la Roma antica innovandosi scompare, noi vediamo alla Roma metropoli del Lazio e d’Italia succedere a poco a poco Roma capitale del mondo. Sotto il velo dell’infinita corruzione vi è Roma che stringe a sè di un infinito e lungo amplesso il mondo per dargli il suo spirito, improntarlo di sè e confondersi in esso. E in questo, che è il necessario prodotto della storia, par quasi di vedere un tratto di consapevole ascèsi; quasi che essa, martire volontaria, accogliesse in sè tutti i vizî, tutte le corruttele, tutti i germi di perdizione dell’universale, per improntarlo in cambio di sè e infondergli il forte suo alito vitale e fonder meglio le divise nazioni spargendo il seme raccolto della antica civiltà. Sicchè quanto vi era di basso e d’impuro passa e scompare nel tempo, e nel tempo cade quanto vi era di vecchio; e quel che era imperituro rimane, e dalla solenne comunione si schiude il tempo novello. Ma a chi allora si guardava d’intorno, senza la visione del futuro, ed avea occhi per abbracciare tutto il complesso dello immenso baccanale, quello spettacolo di decadenza dovea sembrare la fine di tutto, dove tutto irrimediabilmente andava a perire. Quello spettacolo dovea sembrare, come parve più tardi a Giovenale, l’ultima orgia gigantesca, in cui il mondo soggiogato, come il dèmone della voluttà, si vendicava del conquistatore soffocandolo nell’estasi stessa del piacere. Ed era l’indignazione, fatta verso, che prorompeva dal cuor de’ poeti; la rampogna che si faceva via nella voce degli oratori allo spettacolo della patria decadenza, od un supremo movimento di disprezzo, che di fronte alla indegna prepotenza, alla forza cinica soverchiante, era ultima arme all’oppresso, e faceva sì che in una rivolta dell’orgoglio impotente, cui la speranza del trionfo vien meno, Giugurta, volgendo le spalle alla città odiata, tutta avvolta nell’ebbrezza della vittoria e del piacere, gettasse al vento, come la freccia del Parto, le memorande parole: «O città venale, che venderesti te stessa, se trovassi un compratore[52]». II. PRAEDIA POPULI ROMANI [La formazione delle provincie.] L’impero romano, quale noi abbiamo imparato a conoscere e studiare nella sua immensa compagine, è creazione tanto vasta che nè un uomo nè una generazione poteva concepirlo; ed anche un uomo di genio qual’era Publio Cornelio Scipione[53], per altra politica non combatteva, se non per dare a Roma, piuttosto che il dominio, l’egemonia degli Stati che cingevano il bacino del Mediterraneo. All’impero del mondo i Romani giunsero in parte inconsapevoli, o tratti dagli eventi[54]. Guerre o intraprese sotto l’impero della necessità, o sorte d’improvviso, e le une e le altre vittoriosamente compiute avean dilatata la potenza romana. Per ciò stesso uno stabile impero, una vera amministrazione provinciale tardò ancora a sorgere. Quel vasto ordinamento, quella organica irradiazione del potere di Roma per tutti i paesi del suo dominio, che ridotto poi in forma più perfetta ma non diversa, durò sì lungo spazio di tempo, si venne formando qua e là, senza un preconcetto disegno, volta per volta, per assicurare le conquiste, mantenerle, stabilire un ordine nel paese. La stessa parola provincia, adoperata poi nell’uso comune e non altrimenti intesa se non come una regione con certi confini soggetta all’amministrazione di un magistrato ad essa preposto, era già nella lingua latina, e veniva adoperata per indicare l’insieme delle funzioni il cui adempimento era affidato ad un dato magistrato. Ed appunto col ridursi sotto la stabile competenza di uno speciale magistrato, le regioni conquistate usurparono più particolarmente quel nome. [Il diritto di guerra.] La guerra, tristissima delle eredità a noi trasmesse a traverso i tempi, ha nondimeno mutato d’indole e di forma, e con l’indole e la forma son mutate anche le sue conseguenze. La guerra è oggi per noi, almeno nella maggior parte de’ casi e nelle sue cause apparenti, l’effetto di una triste ed inevitabile necessità, l’_ultima ratio_, cui è giocoforza ricorrere per dirimere una controversia, che altrimenti non ha potuto essere sciolta. E la guerra non è diretta ad altro che a costringere l’altro stato belligerante a rispettare un diritto conteso o fare l’ammenda della sua violazione; e come tale la guerra si fa tra uno Stato ed un altro, rispettando, come più e fin dove è possibile, tutto ciò che è di diritto privato. Tutt’altro era la guerra nell’antichità. Essa era un mezzo legittimo di acquisto, una naturale esplicazione di una esuberanza di forze e di vitalità, che cercava fuori l’appagamento ad essa non più consentito nel ristretto suo campo. Questo diritto del più valente e più forte ad esercitare la signoria sul più debole e meno capace, era così naturalmente insito nella civiltà antica, ch’essa ne informò la sua religione ed i suoi miti, ne trasse il primo fondamento delle sue leggi e l’elevò a teoria per bocca del più grande de’ suoi filosofi[55]. Lo svolgimento naturale dell’umanità, del diritto naturale e delle genti modificò in qualche modo, a lungo andare, la figura più arcaica della guerra, in quanto era una pura ed arbitraria impresa di briganti o di pirati; ma la modificò in un certo senso soltanto. La necessità di assicurare le proprie cose indusse ad assicurare quelle di altri contro ogni minaccia di propria violenza; ed una guerra non potè a questi essere più indetta se non con forme determinate od in virtù di motivi, almeno in apparenza, giusti. Ma con coloro, con cui non si era mai venuto ad accordi e per questa semplice ragione erano _hostes_, il caso era diverso; ed in ogni modo, entrati una volta in guerra con chiunque si fosse, tanto poteva acquistare una parte, tanto ritener l’altra, quanto a ciascuno consentisse la propria forza; ed altro schermo non v’era. La guerra era di popoli contro popoli, d’individui contro individui: la condizione giuridica, la buona norma della guerra era questa che a lotta finita le persone de’ vinti, i loro beni, il loro territorio, tutto divenisse preda del vincitore. I Romani poterono nel muovere guerra, anche rinnovando spesso per proprio conto la favola del lupo e dell’agnello, dare apparenza di guerra giusta alle loro imprese; ma è sotto l’impero di que’ principii che governarono la guerra, nè parve mai che la vittoria desse loro meno diritti di quelli, che da quei principii scaturivano. I paesi conquistati divennero null’altro che _praedia populi Romani_[56], e il diritto della conquista fu così intimamente sentito e così inflessibilmente applicato fino alle sue ultime conseguenze giuridiche, che un diritto di proprietà da parte de’ provinciali sul suolo propriamente provinciale fu ritenuto impossibile; chi l’avea, dovea considerarsene semplicemente possessore od usufruttuario, perchè il dominio era, prima del popolo romano soltanto, poi del popolo romano e dell’imperatore[57]. Perfino le terre rivendute per conto dello Stato erano rivendute sotto tale espressa condizione che potessero trasmettersi od anche alienarsi, ma un _vectigal_ reale o nominale era l’impronta del dominio dello Stato[58]. Se la conquista avesse avuto luogo su campo meno vasto e i Romani si fossero trasportati, come popolo, sulle terre de’ vinti, i provinciali sarebbero stati mutati in tanti servi della gleba. Ma la vastità del nuovo dominio, l’organismo dello Stato romano non permisero già di porre in atto fino alle ultime loro conseguenze que’ principii, che pure astrattamente si mantennero per tanto tempo inflessibili. Oltre di che, ciò era consigliato anche da una buona politica, ed i Romani amavano in certo modo, più che seguire, ostentare come un senso di giustizia superiore, un sentimento di generosità e di cavalleria. Proprio come disse di poi il loro poeta nazionale, nel portare intorno la guerra avean l’aria di volere imporre il regno della pace, debellando i superbi, essendo buoni con gli umili. Ne’ discorsi di Livio è una costante preoccupazione quella de’ generali romani di far sì che a tutti sembri come le armi del popolo romano non portano a’ liberi la servitù, ma rendono a’ servi la libertà[59]. Il primo atto de’ romani riguardo agli Illirii ed a’ Macedoni è quello di dichiararli liberi[60]. Scipione in Africa, pur dicendo di aver la vittoria in pugno, non rifugge dalla pace «perchè tutte le genti sappiano che il popolo romano con senso di giustizia imprende e similmente compie le guerre»[61]. Quindi anche a far meglio dimenticare gli orrori della guerra, i saccheggi, il pingue bottino viaggiante alla volta di Roma, se casi speciali non imponevano esempii di solenne severità, si faceva uso di magnanimità (_mansuetudo et abstinentia_): si faceva di più; perchè con l’apparenza della libertà il giogo de’ nuovi padroni sembrasse meno gravoso di quello de’ vecchi, si lasciava questo immutato od anche si alleggeriva[62], sicchè diventasse anche più sopportabile la soma dalla speranza e dal cambiamento fatta più lieve. [Le conseguenze della conquista.] Tutto il territorio in generale diveniva proprietà dello Stato, ma in realtà lo Stato non riteneva per sè, sotto il nome di _ager publicus populi Romani_, che il territorio già di proprietà del governo locale cui succedeva, di città che, per aver opposta assai fiera resistenza od aver mancato di fede, venivano in pena private di tutto. Tale territorio distribuito in parte a’ coloni Romani, come fu il caso di quelli dedotti in Africa da C. Gracco, o venduto, come è cenno nella _lex agraria_ del 643, diveniva _ager privatus_ con le sue varie classificazioni e modalità; mentre un’altra parte, rimanendo sempre di proprietà pubblica, veniva poi locata nell’interesse dello Stato da’ censori[63]. Fuori di questi casi, il territorio diveniva e veniva dichiarato, soltanto per la sua definizione giuridica, proprietà del popolo romano; ma questo lo rendeva, lo restituiva[64] agli antichi proprietari, sottoponendolo ad un tributo di forma diversa, che, oltre a’ suoi vantaggi economici, rimaneva come il segno del diritto di proprietà del popolo romano ed era la caratteristica del suolo provinciale. La teoria astratta di questi rapporti giuridici è di posteriore formazione; ma essa tende a spiegare, legittimare e completare tutto uno stato di fatto, da cui si sviluppa. [La _lex provinciae_.] Questa in genere la condotta tenuta da Roma di fronte alle provincie; ma non è già ch’essa emanasse da una regola fissa ed universale. L’uniformità nel governo e nell’amministrazione delle provincie fu una mèta, cui tendette l’impero; ma sotto la repubblica, costituite le provincie in tempi diversi ed in diverse condizioni, venivano ordinate in maniera meglio rispondente alle necessità presenti ed alle convenienze locali. Solitamente, di volta in volta, soggiogata una regione, veniva colà mandata una Commissione composta di dieci senatori[65], perchè, secondo le istruzioni del senato, insieme al comandante locale pacificasse ed ordinasse in forma di provincia il paese. Il compito di questa Commissione era quello di costituire le basi della vita amministrativa della provincia, e nell’adempierlo essa dovea esercitare, come è dire, un’alta giustizia e provvedere a supreme necessità politiche. Si trattava non solo di ricompensare le città sperimentate amiche, usar riguardo alle benevole, mostrarsi severi verso le nemiche ed infide; ma eziandio di ripartire le regioni in modo che non fosse agevole tramar congiure ed ordire sollevazioni contro il nuovo dominio. Ed a ciò si giungeva, non solo rendendo più difficili i contatti e la fusione delle diverse popolazioni, ma eziandio deducendo colonie che stessero come a presidio, o largendo privilegî che, con lo spargere i semi della gelosia e crear de’ fautori, dividendo, assicuravano meglio l’impero. Di qui la divisione in _civitates foederatae_, _immunes et liberae sine foedere_, _coloniae_, _municipia_, _civitates_ semplicemente _stipendiariae_[66]. Le _civitates foederatae_ e le _liberae immunes_, distinte in quanto la loro condizione giuridica nasceva da un _foedus_ ovvero da un riconoscimento od una largizione del popolo romano, erano in ugual modo autonome, indipendenti da’ governatori provinciali[67], esenti da imposte verso lo Stato, soggette soltanto ad alcune contribuzioni straordinarie[68] e conservavano il dominium del loro territorio _ex iure peregrino_, altra divisione questa del suolo delle provincie. Le _coloniae_ (sempre che non avessero avuto il _ius italicum_, parola dell’età imperiale adoperata ad indicare un privilegio già noto all’età repubblicana)[69] ed i _municipia_ pagavano regolarmente le imposte allo stato di Roma, e soltanto, siccome città di costituzione romana, aveano un’amministrazione simile a quella delle città italiane di uguale denominazione e, durante il periodo della repubblica almeno, sembra che fossero sottratte al controllo diretto del governatore. Di contro a queste stavano le città _stipendiariae_, i cui cittadini non solo, rimanendo sul loro territorio come _possessores_ od usufruttuari, erano obbligati al pagamento del tributo; ma erano costituzionalmente privi di franchigie locali. Non è che anch’essi non avessero un’amministrazione propria locale: che anzi per lo più avean questa ed esercitavano anche facoltà maggiori[70]; ma tutto ciò non costituiva per essi un vero diritto. In fondo per gli stessi Romani era anche, più che utile, necessario ne’ rapporti amministrativi avere a trattare con qualcuno che fosse rappresentante degli enti locali; ma queste rappresentanze non aveano un riconoscimento legale e la loro attività era subordinata al beneplacito del governatore, da cui dipendeva non solo la validità, ma il compimento di ogni singolo atto. [Sistema d’imposizione.] Distribuite press’a poco in queste categorie le città che componevano o doveano comporre la provincia, non senza fare anche in que’ limiti straordinarie concessioni di privilegi e particolari distinzioni, si passava ad imporre il contributo che la provincia dovea dare a Roma. Il punto di partenza nello stabilirlo, sia per la sua quantità che per il modo di pagamento, era, in quanto specialmente era conciliabile co’ bisogni di Roma, l’antico sistema d’imposizione, cui i popoli già da prima soggiacevano; ed assunse due forme, quello della _decuma_, e dello _stipendium_. La _decuma_, che fu la forma di contribuzione della Sicilia ed anche dell’Asia da C. Gracco a G. Cesare, consisteva nel pagamento in natura di un decimo di ciascun prodotto del suolo. Lo _stipendium_, che fu la forma di contribuzione imposta a tutte le restanti provincie, consisteva nel pagamento di una somma stabilmente fissata sulle norme delle antiche contribuzioni, che colpiva complessivamente l’intera regione e, soltanto per la riscossione, ripartita ne’ diversi distretti, si risolveva anch’essa secondo le anteriori maniere di tassazione in un _tributum soli_ ed in un _tributum capitis_ insieme[71]. Lo _stipendium_ era pagato in moneta d’argento ed anche in natura talvolta, mediante sostanze anche non alimentari, ma inservienti ad usi diversi, specie militari[72]. A questa ch’era la contribuzione fissa e certa bisognava aggiungere altre contribuzioni straordinarie di vario genere, o dettate dalla difesa stessa del paese o da’ bisogni di Roma, o de’ magistrati inviati nelle provincie[73]. Onde p. es. la Sardegna, oltre allo _stipendium_, dette anche un contributo di _frumentum_[74]. Vi erano finalmente, le dogane (portoria)[75] dazî d’entrata, ed altre imposte indirette e tasse. Il complesso di tutte queste norme, che regolavano lo stato delle diverse città e delle contribuzioni, prendeva il nome di _lex provinciae; lex data_ e non _rogata_, che nondimeno costituiva lo stabile sostrato della vita amministrativa provinciale, la costituzione della provincia. L’ordinamento delle provincie venne fatto in base a criterî di buona politica, ed era in complesso tale che tanto Roma quanto i paesi soggetti, tenuto conto della loro condizione, potevano non esserne affatto scontenti. Il contributo da Roma imposto alle provincie era stato come una taglia di guerra, e la stessa sua durata indefinita era come l’equivalente delle spese, cui Roma stessa andava incontro per mantenere le conquiste ed il suo impero con lo scopo ultimo di tenere il mondo pacificato, imponendo sotto la sua egemonia la _pax Romana_. Tale imposizione avea permesso che sin dal 167 av. C. il territorio d’Italia fosse dichiarato esente d’imposte, che il tesoro s’impinguasse del ricco bottino ed un largo provento si schiudesse alla capitale per la soddisfazione de’ suoi bisogni e per l’appagamento delle classi povere. D’altra parte le popolazioni vinte aveano visto in genere stabilito un ordinamento, che il più delle volte non le gravava più del precedente e non faceva che sostituire un signore ad un altro. Ed avrebbero le provincie fors’anche potuto chiamarsi contente, se la legge data fosse stata pienamente osservata. Ma gli è che la legge non faceva se non determinare i loro rapporti con lo Stato, e non lo Stato solo essi dovevano appagare. [Le provincie e i magistrati.] La legge era quella, ma a quanti abusi ed a quante vessazioni non avrebbe essa schiusa la via! Avevano un bel chiamarli _socii_ ed _amici_ i Romani; ma in fondo essi finivano col vedere ne’ provinciali nient’altro che i soggetti, i vinti, rimpetto a cui ogni loro arbitrio poteva esser lecito e ch’erano come le genti feudali _taillables et corvéables à merci_. Su questi popoli che la civiltà greca avea ingentiliti, che le mollezze asiatiche aveano effeminati, che i danni e le rapine della guerra non avean fatto cessare di essere opulenti, che la corruzione, l’abitudine della servitù e la nuova fiorente potenza romana facevano umili ed inchinevoli; su queste genti si riversavano i Romani co’ loro magistrati e co’ loro pubblicani, co’ loro funzionari ed i loro usurai, forti del sussidio delle armi e di tutti i privilegi, siccome in mezzo ad un gregge inerme, considerato dalla legge solo in quanto era capace di essere ben tosato. La nuova lussuriosa e scialacquatrice vita romana avea dato fondo a’ patrimoni e questi erano i _praedia_ del popolo romano, ove fioriva la messe compensatrice e promettente: i piaceri della capitale non avean fatto che acuire le voglie e tentare le brame; e questo era il campo per appagare le une e saziare le altre. Questa era la terra promessa che dovea colmare le voragini aperte dalla corruzione elettorale e schiudere la via a nuove e crescenti fortune. Alla fonte inesausta dunque, ricca di promesse e di gioie, era un esodo continuo di gente avida di ricchezza e di piacere, che non si dipartiva se non per far luogo ad un’altra folla più avida e sitibonda. Ed eran gente che veniva armata di tutti i poteri, che lo Stato poteva concedere, investiti d’autorità per eseguire quella legge ch’essi volevano violare. Chi contro di loro? Con la costituzione della Sicilia (513=241) e poi della Sardegna (516=239) in provincie romane, s’intese il bisogno di mandarvi speciali magistrati che l’amministrassero, e, nel 527 probabilmente portato da due a quattro[76] il numero de’ pretori, alla testa di ciascuna provincia fu messo un pretore. Il rapido e continuo crescere delle provincie obbligò ad accrescere ancora il numero de’ pretori che giunse così sino a sei.[77], il qual numero rimase fermo sino a Silla, che lo portò ad otto. Ma essendo i pretori adibiti anche per dirigere le _quaestiones_ nuovamente instituite, si giunse a tale che le competenze cittadine e provinciali erano assai maggiori del numero de’ pretori scelti annualmente. Si presentò quindi come ovvio l’espediente già noto della prorogazione dell’ufficio, e così i pretori eletti disimpegnarono in un primo anno le funzioni cittadine loro delegate, ed in un secondo anno tennero il governo delle provincie, condividendo anche talvolta quest’ufficio con quelli che aveano coverta la carica di console. Era questa la via necessaria a tenere ad un popolo, che procedendo con uguali norme nella conquista e nell’ordinamento, di volta in volta sopperiva, secondo il momento dettava, all’urgenza del caso. Silla nel suo desiderio di tutto regolare, tenendo conto della più matura esperienza de’ tempi e del maggiore sviluppo dell’imperio romano, volle dare all’amministrazione più stabile assetto: e vi provvide portando ad otto il numero de’ pretori ed erigendo a norma costante la prorogazione dell’ufficio non solo pe’ pretori, che vennero adibiti a dirigere le _quaestiones_ cresciute, ma anche pe’ consoli, che fino allora soltanto in via eccezionale aveano ottenuto il governo delle provincie. Ma il dilatarsi della potenza romana ed il continuo crescere ed ampliarsi delle giurisdizioni non permise nemmeno all’ordinamento di Silla una più lunga durata, e toccò al Senato mediante tutto un sistema di prorogazioni ed espedienti provvedere all’esigenze dell’amministrazione e della giustizia, finchè Cesare non credette di provvedere portando a sedici il numero de’ pretori, ed il governo di Augusto e poi quello de’ suoi successori non sopravvennero in ultimo a dare un assetto più stabile ed anche meglio rispondente al vantaggio delle provincie ed a’ bisogni dell’amministrazione. [Il governatore della provincia e i suoi dipendenti.] Così durante l’età repubblicana a capo della provincia si trova un magistrato che è prima un pretore, poi un pro-pretore od un pro-console, affidando a quest’ultimo, più per uso che per regola, la provincia, ove una guerra, od una guerra di maggior importanza dovesse essere sostenuta. Il governatore della provincia era il depositario dell’_imperium_ delegatogli dallo Stato sovrano ed era la viva immagine di questo presso i provinciali. Tutti i poteri si raccoglievano in lui: le funzioni civili, le militari e le giudiziarie; ed egli era insieme giudice, comandante supremo e governatore. Quel limite che in Roma veniva sia dalla collegialità che dall’incontrarsi della sfera di azione delle varie magistrature[78], mancava qui dove il governatore non pure raccoglieva in sè tutti i poteri, ma era solo. Egli, come potere esecutivo, poteva liberamente muoversi nel campo della legge e metterla in atto, con una libertà ed autonomia, che spesso menava all’arbitrio; ma avea di più la facoltà di fare a sua volta la legge. Il _jus edicendi_, ad esso concesso, e che da principio era stato contenuto ne’ limiti della pura necessità, fu, per ambizione e per favorire abusi, così malamente usato ed esagerato, che la legge Cornelia del 687 credette dovervi mettere un argine[79]. Ed era questa la peggiore delle ironie, che il governatore non solo commettesse delle iniquità, ma desse loro la forma di una norma legale. L’amministrazione delle provincie non era stata che una trasformazione dell’occupazione militare, foggiata perciò sul modello stesso dello esercito. Avea quindi il governatore al suo seguito, che col tempo divenne sempre più numeroso, quello stesso stato maggiore, che avrebbe avuto uscendo ad una impresa di guerra. Avea così de’ _legati_ di un numero vario, determinato dal Senato secondo i bisogni, ma prescelti da lui; che lo coadiuvavano nelle imprese militari; o, se di queste non era a parlare, sparsi per la provincia lo aiutavano nell’amministrazione. Si davano inoltre al governatore due questori per la Sicilia ed uno per ogni altra provincia, che doveano avere il maneggio del denaro; e ciò sopratutto per mantenere questo come un fatto distinto, conforme alla pratica costituzionale romana. Il questore avea anch’esso attribuzioni militari e giurisdizionali, che crescevano talvolta con la delegazione che gliene veniva fatta dallo stesso governatore. A questi bisognava aggiungere i prefetti, littori, interpreti ed altri ufficiali subordinati; ma non si arrestava qui il seguito del governatore. Scipione, nel partire per la Spagna, ove andò ad assumere il comando, sopratutto per le condizioni anormali in cui si trovava quello esercito, volle circondarsi come di una guardia del corpo, che prendendo nome di _comites_, _cohors amicorum,_ stesse a guardia della sua persona e lo coadiuvasse insieme in alcuna delle sue operazioni militari ed amministrative[80]. Ora l’esempio di Scipione non solo trovò imitatori, ma si convertì in una regolare instituzione. L’assunzione del governo di una provincia divenne in campo più ristretto a Roma qualcosa di simile a quello che è in America l’ascensione al potere di un partito. Tutti quelli che erano stati gli agenti elettorali del governatore, che ne aveano formato il circolo urbano, ne aveano seguito le parti, ora pigliavano la via della provincia con lui per pigliar parte al lauto banchetto, o raccogliere, alla peggio, le bricciole. In un paese, ove le cariche erano gratuite e la vita pubblica era divenuta il dominio, anche più che de’ partiti, delle fazioni, questo era un comodissimo espediente nell’interesse dei beneficanti e dei beneficati, di cui gli uni e gli altri avevano il vantaggio ed i provinciali facevano le spese. Questi così non avevano solo a soddisfare il governatore, ma con lui tutta una turba di gente di varia condizione e tutta egualmente affamata, cui la provincia doveva fare o rifare un patrimonio e per cui doveva rappresentare quasi un’oasi, nella quale non solo si aveano a godere tutti i possibili diletti, ma si doveano eziandio fare le provvisioni ed i rifornimenti per proseguire a miglior agio il lungo viaggio della vita pubblica e dell’esistenza. È vero, videro anche le provincie governatori che non le considerarono almeno come una preda privata loro e de’ loro satelliti; uomini che come i Gracchi e Catone spesero del loro, e, dando esempio di straordinaria parsimonia di abitudini e di vita, lasciarono nome onesto e buona memoria tra i provinciali. Ma i buoni esempi andarono in disuso, e li resero ancora più rari le condizioni stesse della vita privata e pubblica romana e delle provincie. La corruzione crescente, nelle abitudini e nel sistema elettorale, il danaro fatto signore delle une e dell’altro, elevarono a conseguenza sempre più necessaria le dilapidazioni provinciali, solo mezzo a tutta una classe di arricchire. Le nuove provincie, per il crescente numero e per la positura lontana, messe sempre più fuori di ogni controllo, le rendevano sempre più facili. I governatori, allogati in quelle che erano state già residenze reali, corteggiati ed inchinati con tutte le arti che l’esperienza dell’adulazione sapeva suggerire, aveano l’illusione di credersi sovrani e come tali si conducevano. «I casi d’insubordinazione di arbitraria condotta dei consoli, pro-consoli e pretori, che stavano in lontane provincie, si moltiplicarono in grado sorprendente, senza che il Senato avesse mostrato il volere o la forza di chiamare a render ragione quelli che avevan provato ad invadere i suoi diritti sovrani[81]. Il potere di trattare con popoli e governi, conferito ne’ limiti necessari al governo della provincia, veniva, spesso non per altro scopo che quello dell’ambizione ed ancor più dell’avidità, convertito in un vero esercizio del diritto sovrano di pace e di guerra e gli ultimi due secoli della repubblica ne offrono frequenti esempi[82]. E per governatori che non si peritavano di trascinare arbitrariamente la repubblica in una guerra, qualunque procedimento ed aggravio contro i propri amministrati dovea sembrar cosa di poco. [I pubblicani] Ma la categoria de’ vampiri delle provincie non si restringeva semplicemente ai governatori ed agli altri magistrati. Vi era qualcosa di peggiore ancora che, come una piovra gigantesca, le avvolgeva tutte e ne suggeva implacabilmente la vita, ed era tutta una numerosissima classe di speculatori, appaltatori, banchieri, usurai, che sparsi per tutto il dominio romano spellavano fino al sangue quel gregge de’ vinti, che lo Stato si era contentato di tondere soltanto. In prima linea erano i _publicani_. Anche prima che l’economia romana avesse un così rapido e vertiginoso sviluppo, l’uso prevalente nell’amministrazione Romana di dare in appalto opere pubbliche, imposte, fondi pubblici, avea sviluppato questa classe, cui era venuto il nome appunto dell’assumere che faceva pubbliche imprese[83]. Essa non avea acquistato nulla del potere, che le venne dipoi dal prevalere della ricchezza mobile sulla fondiaria e dalla maggiore importanza delle sue speculazioni; ma in cambio avea già data tale prova di sè[84], da essere guardata come gente trista e pericolosa al punto che, all’inizio dell’amministrazione provinciale, quando lo Stato mostrava aver di questa altra cura, si rinunziò a sfruttare le miniere della Macedonia e locare i fondi rustici, per non introdurvi la peste dei pubblicani. Senza pubblicani — dice Livio[85] — non potevano essere usufruite, e, dove entrava il pubblicano, ivi o il diritto pubblico svaniva, o i soci del popolo romano finivano di esser liberi. I pubblicani restarono quali erano; anzi furono peggiori: solo gli scrupoli de’ Romani passarono. Il concetto che i Romani aveano per un momento avuto della funzione delle provincie mutò subito con gli avvenimenti e i tributi superiori all’aspettativa, ed altro pensiero non vi fu se non quello di sfruttarle nel miglior modo, che era poi anche il peggiore. La plebe le volle per isfamarsi, la nobiltà per impinguare i suoi magistrati, ed i cavalieri per creare o sviluppare fino all’inverosimile la potenza economica e politica dell’ordine sorgente a nuove fortune; e le provincie divennero così un elemento integrante ed importantissimo della politica interna Romana. La plebe le abbandonò ai cavalieri, pur di aver parte alla preda ed averli alleati nello strapparle alla nobiltà, che volea goderle da sole, e nello abbattere il nemico secolare. Così sul fôro, in veste di cittadini e come partito, i cavalieri combatterono per ampliare il dominio romano e fiaccare e distruggere i concorrenti del loro commercio: poi in veste di _publicani_ e _negotiatores_, si gettarono sul mondo caduto vinto ai piedi di Roma, per trar loro pro, fino all’ultimo, della vittoria. Innanzi agli eserciti romani, insieme ad essi, al seguito loro si erano diffusi pel mondo tutti questi speculatori[86], invasi dal desiderio di far fortuna ed intraprendenti abbastanza per dar compimento al desiderio. Erano gente appartenente all’ordine de’ cavalieri, di cui Cicerone diceva che: _omnes vias pecuniae norunt_[87], che varcavano monti e mari (_mare_ — dice Lucilio — _metitur magnum et se fluctibus tradit_) assorti sempre nel loro disegno. Cicerone, o che li considerasse come classe in genere, o piuttosto perchè spinto da ragione politica aveva interesse di renderseli benevoli[88], ha spesse volte nelle orazioni o negli scritti destinati alla pubblicità, lusinghiere parole per loro, ma egli stesso ne parla ben più rimessamente nelle lettere[89], e l’opinione generale ne era ben più triste. Dovunque il pagamento non avea luogo direttamente, costoro prendevano in appalto l’esazione, come delle decime in Sicilia ed in Asia; ed assumevano del pari la locazione de’ fondi rustici. La loro impresa, in teoria, importava un rischio; ma in pratica ne era allontanata fin la possibilità per le soperchierie, le violenze, gli abusi che commettevano nella percezione. Chi avrebbe dovuto reprimere questi loro abusi era appunto il governatore; ma la vendetta de’ pubblicani, sorretti dall’ordine de’ cavalieri, di cui erano tanta parte e che per tanto tempo ebbero in mano i giudizi, era implacabile e sicura[90]; ed i governatori, or per paura finivano per chiudere gli occhi sulle loro magagne, ora per avidità cominciavano dal divenirne i complici. Il contegno rimpetto a’ pubblicani era delle cose, che rendevano più scabroso ed imbarazzante il compito del governatore di provincia[91]. «Avversarli — dicea Cicerone al fratello Quinto[92] — è come render contrari a noi ed al Senato un ordine di noi assai benemerito e per mezzo nostro congiunto al Governo; lasciar loro briglia sciolta, è come lasciar che vadano in completa rovina coloro, di cui dobbiamo avere a cuore non solo la salvezza, ma anche il vantaggio. «Questa — soggiunge Cicerone — a dirla schietta, è la sola difficoltà del tuo uffizio:» e conchiudeva: che sapeva di virtù quasi divina il riescire accetto a’ pubblicani, sopratutto quando l’appalto fosse fatto a cattive condizioni, ed insieme non lasciar rovinare i provinciali, _socios_ come egli li chiamava. [I _negotiatores_.] A’ _publicani_, quasi che questi non bastassero, si aggiungevano i _negotiatores_, appartenenti anch’essi d’ordinario alla classe de’ cavalieri, banchieri per la massima parte, ma non banchieri soltanto, che esercitavano[93] l’industria del prestar danaro, preferibilmente in provincia, dove meglio potevano esercitare l’usura, repressa in qualche modo in Roma. Costoro facevano considerevoli imprestiti a re[94], a città, si rendevano cessionari, specialmente contro di queste, di rate d’imposte non soddisfatte, e con tutti gli espedienti ed i tormenti, che uno Shylock romano potesse escogitare e mettere in pratica, si adoperavano non solo per essere pagati, ma per avere il cento per uno. Spesso erano coadiuvati da’ governatori, che mettevano a loro disposizione anche la forza[95], ed è così che Scaptio, un prestanome di Bruto, per essere pagato dalla città di Salamina, cui aveva fatto un imprestito, tenne assediato con una schiera di cavalieri, ottenuta da Appio governatore, nella stessa curia il Senato di Salamina, sì che cinque senatori morirono di fame[96]. [La _praefectura_ e la _legatio libera_.] Per meglio opprimere i provinciali i _negotiatores_, come Scaptio aveva appunto fatto, si facevano affidare una _praefectura_[97], che, con la veste pubblica dava loro maggior potere. Cittadini d’ordine più elevato ottenevano la _legatio libera_, che dava loro modo di viaggiare stando a carico de’ provinciali, di essere ospitati e di gerire con maggior comodità i loro affari personali[98]. Così il danaro spremuto dalle provincie per opera di magistrati e pubblicani vi veniva riportato, perchè ritornasse a Roma centuplicato, dagli usurai. E sotto gli artigli di magistrati e di privati, di senatori e di cavalieri, le provincie languivano dolorosamente soffrendo, levando or alti or sordi, sempre inutili lamenti, nella lunga penosa attesa di qualcuno o di qualche cosa, che non togliesse, ma allievasse loro la grave soma. III. PATRONA SOCIORUM [Roma e gli stranieri.] Il diritto romano, al pari del diritto di tutti gli altri popoli, cominciò ad imperare come un diritto personale, non territoriale, e tale si mantenne fin quando la qualità di cittadino romano non fu estesa a tutti gli abitanti dell’impero. Tutto il sussidio quindi, che dalle leggi poteva venire, era accordato semplicemente a’ cittadini, e solo questi potevano farlo valere. Lo straniero, che a quella compagine non apparteneva, era privo di diritti, di ogni modo di far valere le proprie ragioni. Se non che, i bisogni crescenti ed i rapporti che ogni giorno divennero più frequenti tra Romani ed altri popoli, rendevano necessario la stipulazione di trattati, onde fossero possibili i commerci e dessero reciprocamente modo a chi li esercitava di garentire i suoi diritti anche fuori del proprio paese. È così che si diffondono le mutue concessioni del _commercium_ ed anche del _connubium_ e, come corrispondente al primo di questo, l’altra concessione, che ad esso si accompagna, della _recuperatio_ o _reciperatio_. «_Reciperatio_ — dice Festo[99] — _est, ut ait Gallus Aelius, cum inter populum Romanum et reges nationesque et civitates peregrinas lex convenit, quomodo per reciperatores reddantur res reciperenturque, resque privatas inter se persequantur._» L’instituto, come si vede dalla stessa parola, è de’ più semplici, e conserva nell’espressione tutta la forma rudimentale che dovette avere ne’ primi tempi. Secondo i concetti originariamente dominanti nei rapporti con gli stranieri, tutto ciò che a loro si toglieva, anche con la violenza, era legittimamente e bene acquistato. Ora la _reciperatio_, verso popoli con cui si contraevano rapporti di amicizia, era una via aperta a riavere, recuperare, quello che fosse stato malamente tolto ed era un complemento necessario del _commercium_, il solo mezzo di renderlo praticamente possibile. Il primo esempio di tale concessione si trova nel trattato di Roma con la lega latina del 261 a. u. c.[100] e successivamente fu come un elemento integrante de’ trattati con i popoli italici che entravano in rapporti di amicizia col popolo romano, e divenne come il germe del _jus gentium_ e delle disposizioni che da quello emanarono[101]. Il _commercium_ e la _recuperatio_ ricorrono pure ne’ trattati co’ popoli non italici, ma semplicemente sino alla fine del quinto secolo: dal sesto secolo in poi ne’ trattati co’ popoli non italici quelle stipulazioni scompaiono ed il trattato con Massalia è il solo, ove perdurarono per tutto il periodo repubblicano[102]. «Gli stessi rapporti di vita — come dice il Voigt[103] — entro i diversi Stati e le condizioni sociali e politiche, onde erano sorti il bisogno di una protezione giuridica contrattuale e con essa il _commercium_ e la _recuperatio_, si erano essenzialmente cambiati: era inoltre subentrato un nuovo ordine di cose, pel quale clausole di reciproca protezione giuridica si erano chiarite inutili ed in parte anche completamente inapplicabili ed erano state quindi eliminate da’ trattati.» Sopratutto l’aspetto sotto il quale i Romani si erano mostrati agli altri popoli, aspetto di vincitori e conquistatori, e la posizione che aveano assunto rispetto ad essi, facea sì che, anche senza reciproca concessione di diritti, erano ben garentiti ne’ loro commerci ed in tutta l’esplicazione della vita civile. Da questa nuova piega de’ rapporti internazionali nacque uno stato di cose, che dette il più vigoroso impulso allo sviluppo del _jus gentium_ ed esercitò una grande azione sul diritto e le istituzioni romane. Ma intanto si attraversava un periodo di transizione, in cui molti diritti erano sprovveduti di tutela, molti bisogni privi di soddisfazione, e la vita pubblica e privata sentiva tutte le conseguenze di queste condizioni anormali, che, se finirono per essere la causa prima delle nuove instituzioni, facevano passare i contemporanei attraverso un penosissimo stadio di vita. Tutti questi provinciali, che nominalmente erano chiamati _socii_ ed _amici_ del popolo romano, in fatto si trovavano nella più sfavorevole condizione; fuori della cittadinanza romana, non messi da alcun trattato a paro de’ cittadini romani per far valere i loro diritti, erano in realtà privi di qualunque tutela, e per quanto taglieggiati, oppressi, spogliati da’ magistrati romani non aveano rimedio di sorta, perchè mancava loro la capacità di poter proporre un’accusa, mancando di veste giuridica per poter legalmente dinanzi ad un magistrato ripetere il mal tolto. Non restava loro che una sola via di uscita. Il Senato era quello che ormai regolava la sorte delle provincie, menava innanzi le trattative con i popoli stranieri, ricevendo ambascerie; dunque altro mezzo non v’era che denunziare al Senato i soprusi patiti, invocando riparo e giustizia; ed è questa la prima via, per cui i provinciali si misero, e che poi portò a più regolari istituzioni e più speciali provvedimenti. Il primo esempio noto è dell’anno 171 av. G. C., in cui delegati delle provincie di Spagna si presentarono a Roma per muovere querele degli abusi patiti per opera di tre governatori romani[104]. Il Senato, come sembra, in questi casi faceva un esame preliminare delle accuse, che venivano mosse, e quando le trovava fondate, dava incarico, come fece appunto per i deputati spagnuoli, ad un pretore di menare avanti il giudizio mediante l’opera di _recuperatores_ tratti dal Senato. Era un provvedimento straordinario quello seguito dal Senato, che non rientrava precisamente in alcune delle sue sfere di attribuzione[105], ed era, in parte un’esplicazione del potere ad esso inerente sull’amministrazione delle provincie, in parte uno di quei mezzi indiretti, con i quali i Romani, ampliando un ordine di competenza, applicando per analogia rapporti analoghi a casi consimili provvedevano, in mancanza di norme speciali, ad emergenze non prevedute e non regolate anticipatamente. Il mezzo adottato dal Senato giungeva in fondo a mettere i provinciali nella condizione stessa in cui si sarebbero senz’altro trovati, se invece di essere venuti, come erano, in un rapporto di soggezione verso i Romani, si fossero trovati in grado di potere dimandare, in virtù di un trattato, il giudizio de’ _recuperatores_. Abilitati così a stare in giudizio, sorretti da patroni concessi dal Senato, si riparava all’incapacità giuridica de’ provinciali; ed essi per l’esperimento delle loro ragioni potevano valersi di tutti i sussidi concessi dalla legge. Le forme del processo recuperatorio non ci sono ben note; ed in molta parte doveano, quando esso avea origine da trattati, dipendere da clausole in questi stessi stipulati[106]. Di solito i _recuperatores_ venivano in numero pari proposti dalle due parti contendenti, ed il tribunale così composto veniva poi completato dal pretore coll’aggiungervi un altro di sua scelta[107]. L’indole del processo recuperatorio era quello di essere sopra tutto sommario[108], quale si conveniva agli interessi delle parti litiganti. Nel trattato tra Roma e la lega latina il termine assegnato allo espletamento de’ giudizi era di dieci giorni[109] nei quali vi è chi vorrebbe comprendere anche il periodo esecutivo[110]. Col processo recuperatorio ad altro non si approdava che alla restituzione del mal tolto a favore degl’interessati, e tutta la causa si fondava sopra un’azione privata, nè perdeva nel corso del giudizio questo suo carattere per acquistare quello di un’azione penale. Poteva ben sorgere dall’operato de’ governatori un’azione penale; ma allora si trattava di cosa del tutto diversa; c’era un mutamento completo di giurisdizione, di accusatori, di procedura, di tutto. I provinciali, gli offesi scomparivano per far posto a’ tribuni, i quali assunta in proprio nome l’accusa, portavano l’accusato innanzi al suo giudice naturale, al popolo raccolto in comizio, ed, indipendentemente da ogni interesse privato offeso, ne ottenevano la condanna. E fu questo il caso di C. Lucrezio, che accusato dai tribuni M. Juvenzio Talva e Cn. Aufidio, venne unanimemente condannato da tutte le trentacinque tribù ad una grave multa[111]. Era uno stesso rapporto, che, presentandosi sotto diversi aspetti, veniva diversamente trattato, con criteri pubblici o privati, e gli uni e gli altri incerti, instabili e malsicuri, poichè si era in presenza di fatti e persone di condizione giuridica non ben definita, ed i provvedimenti che si adottavano, anche più che carattere giuridico, aveano un carattere politico, presi com’erano per soddisfare nuovi bisogni e non lasciare negletti alti interessi morali e materiali dello Stato. [L’origine delle _leges de repetundis._ La _lex Calpurnia_] Intanto il dilatarsi dell’impero, la corruzione crescente, ed il moltiplicarsi delle prevaricazioni, faceva sì che più frequenti e rinnovati giungessero i lagni delle popolazioni, il male apparisse più grave e più imperioso s’imponesse il bisogno di provvedere a così gravi fatti e ricorrenti con tanta frequenza, mercè una norma stabile e generale. Questa alfine venne, prima di tutta una serie che le fece seguito poi, e fu la _lex Calpurnia_ dell’anno 149 av. G. C.[112]. Della legge Calpurnia noi non abbiamo che una conoscenza indiretta, superficiale, quale possiamo desumere da poche testimonianze d’autori e dalla traccia che ne rimase nelle leggi posteriori. La grande innovazione della legge Calpurnia sembra sia stata l’aver creato una giurisdizione speciale, innanzi alla quale potevano esser tratti in giudizio i governatori, senza il mezzo indiretto cui prima si dovea ricorrere, rivolgendosi al Senato. La nuova giurisdizione consistette in un collegio presieduto dal pretore e composto di membri scelti nel Senato[113] e fu chiamata _quaestio perpetua_; un’istituzione che poi rappresentò tanta parte nello svolgimento del dritto e della procedura penale romana. Il procedimento penale di un magistrato inquirente circondato da un consiglio ed il procedimento recuperatorio del diritto privato si fusero insieme; il magistrato assunse la direzione, il consiglio, il voto deliberativo ed entrambi insieme espletavano il processo. È questa la procedura mista, che preferibilmente va compresa sotto il concetto di _quaestio_. La recisa distinzione tra il procedimento _in iure_ ed _in iudicio_ veniva qui per la prima volta a cessare ed era una nuova forma di giurisdizione e di processo che con essa s’inaugurava[114]. Con tutto ciò l’azione data a’ provinciali non venne a mutare, e solo, a grado a grado, a partire dalla _Lex Acilia_, assunse, per la condanna nel doppio ed un più efficace intervento dello Stato, un carattere pubblico. Il semplice rifacimento del danno patito, l’impiego della _legis actio sacramento_, la natura delle funzioni del magistrato chiamato a presiedere la _quaestio_, la presenza delle parti in giudizio, tutto conservò all’azione ed al processo, sotto la _lex Calpurnia_ il suo carattere privato[115]. Il maggiore de’ vantaggi che da essa venne a’ provinciali fu questo, che ottennero in maniera ordinaria e fissa quell’adito all’esperimento de’ proprî diritti che prima aveano avuto in linea puramente straordinaria e graziosa. E la _lex Calpurnia_ attese probabilmente più a regolare il procedimento che a stabilire il vero concetto che dovea informare l’azione _pecuniarum repetundarum_, dette luogo piuttosto ad una valutazione di fatto in base alle leggi che regolavano i poteri del governatore, il valore delle esazioni e gli obblighi de’ provinciali. [La _lex Junia_.] _La lex Calpurnia_, come primo passo nella via delle repressioni, era stata notevolissima, ma tuttavia essa era per vari aspetti disadatta a garantire completamente gl’interessi de’ provinciali, ed altre leggi dovettero seguire ad essa, per correggerla e renderla più adatta allo scopo. Quella che prima le tenne dietro fu la _lex Junia_, di cui noi nulla sapremmo, se non ne trovassimo fatta menzione nella _lex Acilia_[116]. Autore ne fu M. Junio figlio di Decimo, tribuno della plebe, che vien creduto lo stesso M. Junio Silano console nel 645 a. u. c.[117]. La data della legge è parimenti incerta ed unico criterio per determinarla in qualche modo è il porla tra la data della _Lex Calpurnia_ (605-149)[118] e quella della _lex Acilia_ (632-122). Su quello che fosse il suo contenuto, per quanto si siano proposte molte ipotesi[119], non ve ne è alcuna, a cui si possa aderire per la mancanza assoluta di ogni dato intorno ad essa. Sappiamo soltanto dalla _lex Acilia_ che in base ad essa si agiva anche con la _legis actio sacramento_ ed il carattere che la procedura aveva con la _lex Calpurnia_ non era probabilmente mutato con la _lex Junia_. Sotto l’impero della _lex Calpurnia_ ebbero luogo varî processi[120], i quali, se se ne tolga quello del 148 in cui fu condannato L. Cornelio Lentulo, finirono tutti con assoluzioni[121]. [La _lex Acilia_.] Ma è con la rivoluzione portata da C. Gracco nelle instituzioni e nella politica romana che la _lex repetundarum_ va soggetta a notevoli mutamenti. Nel 122 (632), epoca del suo tribunato, C. Gracco, con una _lex iudiciaria_, che fu per l’ordine senatorio un colpo mortale, tolse ad esso col privilegio la facoltà di giudicare ne’ giudizi penali, trasferendola a’ cavalieri[122]. Ed è contemporaneamente, nell’anno 631 o 632 a. u. che riproducendosi la _lex repetundarum_, si faceva di essa addirittura un’arma contro l’ordine senatorio; perchè sanzionata in essa l’incapacità a giudicare di tutto l’ordine senatorio insieme a quello de’ magistrati minori e de’ figli stessi de’ senatori, si rese più rigorosa la legge e se ne allargò l’azione, assai più che innanzi non fosse stato fatto. Questa legge è giunta sino a noi e fu per molto tempo ritenuta come la _lex Servilia_; ma oggi essa è riconosciuta come la _lex Acilia_[123], e non si può più fondatamente ancora sostenere la prima opinione. Uno de’ caratteri distintivi della _lex Servilia_ dall’_Acilia_ è che quella introdusse la _comperendinatio_, dove l’altra stabiliva l’_ampliatio_ ne’ giudizi, e la legge a noi giunta, rettamente supplita, non contiene la _comperendinatio_, bensì l’_ampliatio_. Inoltre questa legge, appunto come l’_Acilia_ faceva, concedeva in premio di aver fatto condannare un magistrato prevaricatore la cittadinanza anche al peregrino, che avesse sporta l’accusa, dritto che per la legge Servilia fu limitata a’ soli Latini. Questa legge ebbe ad autore un Acilio Glabrione, di cui altro non si sa se non che fu genero di P. Scevola console dall’anno 621 e padre di quel Manio Acilio Glabrione che in qualità di pretore presiedette alla _quaestio_ nel giudizio di Verre[124]. L’indole della legge, la _vis et acrimonia_, che Cicerone attribuisce al suo autore, fanno ritenere che Acilio la proponesse, mentre era tribuno della plebe; e, poichè essa andò in vigore tra la _lex Sempronia iudiciaria_ e la _lex Rubria_, non può essere attribuita che all’anno 631 o 632[125]. L’autore di essa quindi, se la propose e la fece approvare mentre era tribuno, fu collega di C. Gracco, e la legge in parola non potette non essere promulgata sotto l’azione di C. Gracco, al cui movimento generale di riforma ed alla cui politica si ricollega. Questa legge avea importantissime prescrizioni sia in ordine al contenuto stesso dell’azione _pecuniarum repetundarum_, che alla procedura da seguirsi nel relativo giudizio, ciò che a torto ha suggerito al Zumpt[126] l’idea di classificarla tra le _leges iudiciariae_, piuttosto che tra quelle _repetundarum_. Questa legge sopratutto segna un passo notevole nella via di mutare il giudizio _pecuniarum repetundarum_ di giudizio privato in giudizio pubblico, rendendo maggiore la partecipazione ad esso dei pubblici poteri, variando le conseguenze della condanna. E tutto ciò senza sopprimere l’altra forma di giudizio; così che i provinciali potevano seguire la via ch’era loro aperta dalla nuova legge, od anche sperimentare una semplice azione civile, come per l’innanzi, ciò che in molti casi dovea riuscire per loro più spedito e più comodo[127]. La nuova legge fissava i dati perchè un giudizio _pecuniarum repetundarum_ potesse aver luogo e stabiliva che non vi potesse essere sottoposto se non chi si fosse reso colpevole mentre teneva la carica di dittatore, di console, di pretore, _magister equitum_, censore, edile della plebe, questore, triumviro capitale, triumviro _a(gris) d(andis) ad(signandis)_, tribuno militare delle prime quattro legioni, od era figliuolo d’uno di questi magistrati o di un senatore in generale[128]. La legge, come si vede, era diretta contro tutte le magistrature maggiori, che si ricollegavano all’ordine senatorio, e comprendeva alcuni dei _minores magistratus_, cui anche il patriziato avea accesso. Vi era pure fissata la somma, a partire dalla quale vi poteva esser luogo all’applicazione della legge e la cui menzione non è conservata nel bronzo, ma che, come si ha da altri dati, era _infra IIII M sestertium_[129]. Inoltre la legge dette un carattere più propriamente penale all’azione, portando per tutte le prevaricazioni posteriori alla legge la condanna al doppio, mentre per quelle commesse anteriormente ad essa la condanna non superava il valore indebitamente procurato[130]. Poi, per rendere più facile a’ provinciali, l’esperimento non solo, ma anche il conseguimento de’ propri diritti, fece del giudizio estimatorio del danno patito dal querelante un sèguito e come un’esplicazione[131] del giudizio principale, col quale si era assodata la reità dell’incolpato, ed affidò la stessa esecuzione del pronunziato giudiziario al potere pubblico, rendendo così più facile e più sicuro quel risarcimento, a raggiungere il quale i mezzi privati del querelante a grande stento e non tutte le volte avrebbero potuto giungere. Per effetto di tali disposizioni il _quaesitor_, il capo della _quaestio_, dietro il parere del collegio giudicante, imponeva al colpevole l’obbligo di una cauzione[132], che, secondo il rito giudiziario romano[133], benchè qui la legge espressamente non lo dica, era data con l’offerta di fideiussori. Se a ciò egli non avesse adempiuto, i suoi beni erano pegnorati, forse anche venduti, secondo è stato supplito; ma ciò è fortemente contrastato[134]. Assicurato così il risarcimento e fatta l’estimazione del debito, il questore, che avea in consegna la data cauzione, ne’ tre giorni successivi dovea pagare, cui spettassero, le somme dovute[135]. Era preveduto anche il caso che il danaro tratto da’ beni del condannato non bastasse a risarcire il danno per intero; ed allora, secondo le disposizioni sancite nella legge, si facea luogo ad una ripartizione per contributo[136]. Queste erano le norme, che costituivano, come è dire, il contenuto della legge, la essenza del reato di prevaricazione. Ma la legge, insieme ad esse, avea stabilite molte regole relative alla procedura del giudizio ed alla costituzione del collegio giudicante che, tendendo ad assicurare la retta applicazione della legge, non erano di minore interesse. Noi sappiamo che, sino a questa legge, la direzione della _quaestio repetundarum_ era affidata al _pretore peregrino_: a chi fosse affidata secondo questa legge, è cosa che è tra le lacune del testo. Nondimeno si sa per un dato epigrafico[137] che anche prima di Silla, fuvvi un apposito pretore destinato alla _quaestio repetundarum_, e vi è tutta la ragione di credere, comparando due luoghi della stessa legge[138], che proprio nell’anno in cui questa fu promulgata e per effetto di una disposizione in essa contenuta, venne creato il _praetor repetundis_[139]. Il collegio giudicante poi era composto di giudici investiti della giurisdizione secondo la _lex Sempronia iudiciaria_, e quindi di quelli semplicemente che aveano il censo equestre, come rettamente vien supplito il testo lacunoso in questo luogo, escludendone assolutamente quelli, che secondo le disposizioni precedenti della stessa legge erano soggetti alla sua sanzione, ed inoltre chi aveva militato come mercenario, chi aveva meno di trent’anni e più di 60, chi non avea il domicilio in Roma od in un perimetro di mille passi da essa, chi, per essere stato condannato in un giudizio pubblico, avesse perduta la capacità di divenir senatore e finalmente anche il padre ed il fratello de’ magistrati mentovati nella legge siccome punibili a norma di essi, ed in genere il padre ed il figliuolo di qualunque senatore[140]. Fatto così con questi criteri l’albo de’ prescelti con il nome del padre, quello della tribù ed il cognome, veniva formato e tenuta a disposizione di chiunque volesse averne notizia. Il numero de’ giudici era di quattrocentocinquanta, che il pretore eleggeva sempre secondo le norme della legge, ma essendo libero affatto della scelta e da niente altro vincolato se non dal giuramento, cui era tenuto a prestare, di aver fatta legalmente e pel meglio l’elezione[141]. Questo era il corpo, onde dovea uscire il giury chiamato a giudicare di ciascuna causa _repetundarum_. Chi agiva in giudizio faceva la _delatio nominis_ del colpevole al pretore, accompagnandola col _iusiurandum calumniae_[142] ed il pretore gli dava, ove egli li avesse richiesti, de’ patroni che non fossero stati congiunti dell’accusato. Dopo ciò l’accusato dovea fare l’_editio_ di quelli che essendo compresi nell’albo dei quattrocentocinquanta gli fossero congiunti o fossero suoi sodali o collegiali, ed anche tale _editio_ era accompagnato da giuramento. Nel ventesimo giorno della _delatio nominis_ l’accusatore faceva una scelta giurata dall’albo, quale era dopo l’editio dell’accusato, di cento giudici, avendo cura di non comprendervi persone che fossero suoi congiunti, o sodali o collegiali, nè due persone che appartenessero ad una stessa famiglia od altri con cui egli avesse conteso con la _legis actio sacramento_ secondo le leggi Junia e Calpurnia, o che si trovasse sottoposto a processo[143]. Da questi cento l’accusato, e, in caso che egli avesse trascurato di farlo, l’accusatore stesso, sceglieva cinquanta persone che giudicavano della causa[144]. La inquisizione era a carico dell’accusatore ed il pretore gli assegnava un termine per compierla[145]. I testimoni, prodotti in numero non superiore a quarantotto, venivano intesi a volta a volta, secondo i diversi capi di accusa, escludendone, oltre a’ parenti dell’imputato, il difensore, il liberto e quelli che o direttamente o per parte dei loro maggiori avevano avuto con l’imputato o con i suoi maggiori quel rapporto che veniva detto: _in fide esse_[146]. Provate le accuse sia con le testimonianze che con documenti, i giudici che già prima aveano prestato giuramento, secondo i supplementi alla legge, tornavano a giurare e poi si riunivano in consiglio per decidere. Se più di una terza parte credeva che la causa non fosse in istato di venire decisa, si faceva luogo all’_ampliatio_, ed il pretore fissava il nuovo giorno della discussione; che se più di due volte i giudici avessero voluto rimettersi all’_ampliatio_, la legge comminava loro una multa. Quando due terzi almeno credevano di potere emettere il loro giudizio, il pretore allontanava quelli che non si credevano in grado di potersi pronunziare e, fatta la votazione mercè tavolette cerate portanti _A_(_bsolvo_) o _C_(_ondemno_) e lo spoglio de’ voti con tutte le garenzie volute dalla legge, l’imputato veniva anche con la semplice parità di voti assoluto[147], nè era per lo stesso fatto soggetto ad altra accusa, a meno che non si trattasse di fatti compiuti dopo, o di prevaricazioni commesse in giudizio, ovvero dell’estimazione della lite fatta in esplicazione della condanna o di altra sanzione della stessa legge[148]. La legge oltre a curare la punizione del reo, voleva assicurare un premio all’accusatore di chi fosse stato riconosciuto reo ed assicurava quindi a lui, a’ figli già nati, ed a’ nipoti di figli già nati, la cittadinanza romana, o, nel caso che non credesse di accettare questa, il _jus provocationis_ e l’_immunità_[149]. Quale premio fosse accordato al cittadino romano, ne impedisce di saperlo il testo che qui s’interrompe. [Le _leges Serviliae_.] Queste erano le garanzie che assicurava la _lex Acilia_; ma essa, venuta su con il potere di C. Gracco, non potè non risentire il contraccolpo della sua caduta. Che dal 643=111 fosse stata abrogata, si deduce da un argomento esterno, dall’esservi stata cioè sul rovescio incisa la _lex agraria_ di quell’anno[150]; cosa che peraltro non ha un valore assoluto, perchè il bronzo poteva ancora essere adoperato in modo che si leggesse dall’uno e dall’altro lato[151]. Ma certamente la legge giudiziaria di Servilio Cepione, appartenente come pare al 106 av. C.[152], per tutto quanto concerneva la costituzione del collegio giudicante la rese inapplicabile. La legge rogata dal Console Servilio Cepione[153] ridette, secondo vogliono alcuni, all’ordine senatorio l’esclusivo privilegio de’ giudizî, e secondo altri tolse semplicemente il divieto della legge Sempronia, così che quello vi partecipò insieme all’ordine equestre[154]. Ma ciò per l’ordine senatorio non fu che un trionfo di breve durata, perchè le nuove fortune della parte democratica la posero in grado di restaurare l’abolito ordine de’ giudizî. E questo pure fu il compito della _lex Servilia_ di C. Servilio Glaucia non si sa quando precisamente rogata, ma assai probabilmente mentre egli era tribuno della plebe. Or, poichè di lui si sa che morì nel 654=100 rivestendo la carica di pretore, la sua legge dovette essere rogata prima di quest’epoca, e quindi va ristretta tra il 654 e il 648 epoca della legge di Servilio Cepione. E che sia stata rogata dopo la legge di costui, si desume con molta probabilità da ciò che Cicerone dice di lui, che si era guadagnato l’ordine equestre col beneficio della sua legge[155], e ciò non potea riferirsi se non alle prerogative giudiziarie limitate o tolte all’ordine equestre da Cepione, e da Glaucia restituite nel pieno loro tenore. Onde, considerando la legge proposta da Glaucia nel suo tribunato, non è ardita l’ipotesi di quelli che la collocano nel 104 av. C.[156], quantunque non si possa dire l’anno del suo tribunato. Tutto il contenuto di questa legge Servilia ci è ignoto. Si sa solo di essa che, in genere, era severissima (_acerbissima_); che conteneva disposizioni per le quali, dopo la condanna del reo, il mal tolto si poteva perseguire non solo presso di lui, ma anche presso coloro _ad quos pervenerit_[157]; sostituiva all’_ampliatio_ la _comperendinatio_[158] e limitava a’ soli latini la concessione della cittadinanza[159], dalla legge Acilia data ad ogni peregrino, che avesse ottenuto la condanna di un magistrato prevaricatore. Altro non si sa della legge Servilia; ma, come in parte si vede da questi dati che ci rimangono e dal silenzio serbato sul resto, essa, nel rifiorire delle tendenze democratiche e delle ire civili, che tra poco dovean divampare più fiere che mai, dovè in fondo innestarsi sull’antico tronco delle _leges repetundarum_, acuendone le sanzioni, portandole a più fiere e più lontane conseguenze e mirando a togliere tutti quegli impedimenti, che altre volte aveano eluso gli effetti della legge. Di qui l’acerbità, ed il perseguimento del mal tolto anche nelle mani di altri che non fosse il concussionario, di qui la _comperendinatio_. — Già la _lex Acilia_ con l’irrogare la multa a quei giudici, i quali avessero più di due volte rinnovato il giudizio, avea messo un certo riparo agli eccessi dell’_ampliatio_, la quale, potendosi ripetere non una ma moltissime volte (e si sa di giudizî ove fu ripetuta ben sette volte)[160], era cagione di perturbazioni gravissime ne’ giudizi; perchè, scemandosi a lungo andare l’interesse del processo e potendosi cogliere anche sempre fra tanti mutamenti politici un’occasione favorevole all’imputato, era divenuta la via indiretta ed il preludio dell’assoluzione. La _comperendinatio_ non era, come dice Festo[161], che il _iudicium in tertium diem constitutum_, ed, in altri termini, era una seconda azione aggiunta alla prima e separata da essa mediante l’intervallo di un giorno libero; ed in cui il giudizio dovea assolutamente aver fine[162]. La differenza tra l’_ampliatio_ e la _comperendinatio_ stava appunto in ciò, che, mentre la prima era una vera riproduzione del procedimento, l’altro non ne era che il proseguimento[163]; e, mentre la prima era un mezzo dilatorio, lasciato in confini indeterminati, l’altro avea luogo in termini ben definiti e toglieva via assolutamente ogni mezzo dilatorio. [La _lex Cornelia de repetundis_.] Per quale durata di tempo ebbe vigore la _lex Servilia_, non si sa. Il rimaneggiamento della legislazione romana, che fece Silla, e specialmente l’attribuzione de’ tribunali all’ordine senatorio, portò di necessità l’abrogazione della _lex Servilia_, almeno per la larga parte di norme riflettenti il procedimento che, a somiglianza della _lex Acilia_, dovea avere. Ed è comune opinione che alla _lex Servilia_ tenne dietro una _lex Cornelia de repetundis_, dovuta appunto a Silla. Il Zumpt (A. W.)[164], più che metterne in forse, ne negò addirittura l’esistenza. Veramente una espressa menzione di scrittore che parli di una _lex Cornelia de pecuniis repetundis_, non v’è; ma il luogo, ove Cicerone[165] parla del perseguimento della pecunia presso coloro _ad quos pervenerit_, siccome comune alla _lex Julia_, _Cornelia_, _Servilia_, fa ragionevolmente indurre, benchè solo come cosa probabile e priva dell’assoluta certezza, che il titolo delle due ultime leggi, siccome il loro contenuto, fosse comune alla prima. Ben più ardito sarebbe volerne determinare il contenuto. Che Silla abbia in qualche modo anche in ciò voluto favorire l’ordine senatorio, ch’egli volle rialzare, può darsi; come lo favorì, oltre che col privilegio del diritto di giudicare, consentendo, e non ne’ soli _iudicia repetundarum_ forse, a’ membri dell’ordine senatorio un diritto di ricusazione maggiore di quello concesso agli altri e che non andava oltre i tre nomi[166]; ma alcune maggiori larghezze concesse dopo di lui, sarebbero dovute più che alla sua legge, alla desuetudine, in cui caddero disposizioni precedenti[167]. Sembra che dopo Silla non vi fosse un espresso divieto di fare acquisto di opere d’arte e d’altre cose[168]. Similmente si deduce pure da Cicerone[169] che non era vietato raccogliere somme per festività, od altre per erigere statue al governatore: soltanto, se nel quinquennio egli non avesse impiegato queste somme, andava soggetto alla sanzione della _lex repetundarum_[170]. Era bensì vietato dare ad usura[171] ed anche commerciare[172]; ma ciò dovette far parte meno di una _lex Cornelia repetundis_ e piuttosto di disposizioni diverse. La _lex repetundarum_, come si vede anche nella _lex Acilia_[173], allargando successivamente il più ristretto senso della _Calpurnia_, limitata ad una pura ripetizione civile d’indebito, considerava in genere tutto l’_ablatum_, _captum_, _coactum_, _conciliatum_, _aversum_, e mirava, con opportuno procedimento, a favorire la condanna del reo ed il rifacimento de’ danneggiati. Il considerare poi tutto quello che dovesse entrare nella categoria del mal tolto, era in parte un giudizio di fatto, in parte una conseguenza che si traeva da altre leggi particolari, ove venivano limitati o determinati i poteri de’ magistrati nel pretendere alcune prestazioni od esercitare alcuni diritti. [La pena.] Quanto alla pena irrogata, vi è chi sulla fede del Ps. Asconio[174] ritiene comminato per questi reati l’esilio; ma il tratto stesso di Cicerone citato dal Rein[175] non favorisce tale opinione. Infatti quando Cicerone diceva: _retinete, retinete hominem in civitate_, non faceva nessuna allusione all’esilio, o meglio, come bene è stato osservato, ad una _interdictio aquae et ignis_[176]; ma semplicemente intendeva, per via di contrapposizione, alludere all’incapacità civile, di cui un accenno si trovava già nella _lex Acilia_[177] ed in più larga testimonianza si trova altrove[178]. Assoluto, Verre sarebbe rimasto _in civitate_, cioè avrebbe, come è meglio spiegato appresso dallo stesso autore, seguitato a covrire tutti gli uffici politici e giudiziari; condannato, invece avrebbe cessato di essere _in civitate_. È _il desinere in civitate esse_ che ricorre molte volte come formola tecnica[179], cui soggiaceva il condannato in un giudizio _repetundarum_, ormai già innanzi nella via di trasformazione di giudizio privato in giudizio pubblico. L’espatriazione dunque, anche rispetto a questo periodo, più che un _quid iuris_, era un _quid facti_, che avveniva, o prima anche della condanna, come accadde di Verre, o dopo, per isfuggire più tristi conseguenze, cui s’andasse incontro da chi non voleva o non poteva soddisfare interamente l’_aestimatio litis_. Nè con maggiore fondamento si può ritenere che dopo Silla fosse elevato al quadruplo il risarcimento del danno. Il caso di Verre[180], dal quale per un danno di 40 milioni di sesterzî veniva chiesto un risarcimento di 100 milioni, ne dimostra l’inesattezza. Non so peraltro se da questo caso possa elevarsi a regola, come è stato fatto[181], che il risarcimento fosse stato per opera di Silla portato a due volte e mezzo il danno. Oltre a trattarsi di un esempio singolo, non si saprebbero ben vedere nè i motivi della crescente ragione di risarcimento per opera di Silla, nè in ogni modo del frazionario aumento; se pure non è possibile, dato che tra le due cifre di Cicerone vi sia un rapporto giuridico, come altri[182] ha sostenuto, che il risarcimento fosse in diversa proporzione stabilito secondo il modo e la natura delle espilazioni, o che il risarcimento chiesto nella _Divinatio_ fosse stato poi ridotto in termini più ristretti nel corso stesso del giudizio. [Le vicende del potere giurisdizionale e de’ giudizî.] Tali fino a’ tempi di Verre erano state le vicende di questa legge, che, introdotta da prima a beneficio delle provincie (_sociorum causa constituta_)[183], era enfaticamente chiamata da Cicerone _arx_, _spes_, _patrona sociorum_, _ius nationum exterarum_. E tale si era inteso che fosse; ma, trasportata in mezzo alla lotta delle parti e delle fazioni romane, se ne erano visti storti e snaturati gli effetti. I giudizî pubblici nella repubblica romana, come in tutto il mondo antico, non rimanevano in un campo strettamente giuridico, ma assumevano un’importanza ed un carattere eminentemente politico; e la prerogativa de’ giudizî, da’ tempi di Gracco a quelli di Cesare, è il pomo della discordia tra l’ordine senatorio da un lato ed i cavalieri e la plebe dall’altro. Strappati i tribunali all’ordine senatorio da C. Gracco, riconquistati ad esso da Servilio Cepione, ritolti da Servilio Glaucia, adagiati, come sembra, sopra basi miste da M. Plauzio Silvano[184], furono ricondotti in mano a’ senatori con più acrimonia da Silla. Il tentativo di comporre il lungo dissidio, riescito, proprio nell’anno stesso e mentre che Verre era sotto giudizio, con la _lex Aurelia iudiciaria_[185], la quale rese partecipi della funzione giudiziaria l’ordine senatorio, l’equestre ed i _tribuni aerarii_, avea costato la vita a M. Livio Druso, il quale in diversa maniera avea cercato di giungere ad un componimento[186]. E nel passare da una parte ad un’altra, i giudizî si erano sempre più andati corrompendo, e, piuttosto che campo imparziale di giustizia, eran divenuti mercato d’illeciti e compri favori od arme d’irose rappresaglie. Mentre erano da prima in mano del Senato, come si vede da processi di cui abbiamo notizie[187], i dilapidatori non trovarono che favore presso i membri del loro ordine; e, poichè furono ad essi ridati da Silla, Cicerone potea chiamare corrotti e contaminati i giudizî, «e si sentiva in grado non solo di rammemorare, ma eziandio di mostrare più determinatamente tutto quanto di nefario e di reo» si fosse compiuto in dieci anni ne’ giudizi nuovamente deferiti al Senato[188]. Per l’ordine equestre Cicerone, secondo il suo costume, non ha che parole di lode e dice che «in cinquant’anni circa, mentre l’ordine equestre giudicava, non era sorto nemmeno il più tenue sospetto di danaro ricevuto per giudicare[189]». Ma se anche le parole di Cicerone potessero ingenuamente prendersi alla lettera, e potesse l’ordine equestre andare immune dall’accusa di corruzione, chi lo difenderebbe da quella di prepotenza? Intimamente stretti con gli assuntori di dazî, di appalti nelle provincie ed assuntori essi stessi, esercitavano una superiorità sopra tutti i governatori e magistrati delle provincie, che si convertiva nella più aperta licenza di commettere e perpetrare quanto loro piacesse. E guai a chi osava ribellarsi! I governatori di provincie finivano per essere i loro alleati nelle dilapidazioni, se inchinevoli, e il loro bersaglio, se recalcitranti. Così dilapidate e strette da tutte le parti, fornite di appoggi e garanzie più nominali che reali, le provincie ruinate, taglieggiate, tiranneggiate non aveano schermo di sorta; poichè quello che avrebbe dovuto essere il loro baluardo, era il fonte di tutti i mali. Il male cresceva ogni giorno, ogni giorno le cose volgevano al peggio. Cesare fin dal 59 volle venire loro in aiuto con una legge[190], e questa fu, come varie volte Cicerone ebbe a dire, insieme _acerrima_, _optima_, _iustissima_. Fu anche l’ultima e servì per tutto l’impero di caposaldo alle penalità imposte a quella specie di reato[191]. Ma, più che da una legge, un po’ di tregua le provincie potevano aspettarla da un mutamento costituzionale, che avesse spezzata tutta quella rete di dilapidatori, e reso più facile ed efficace il controllo e sottratta la giustizia al mutevole capriccio de’ partiti. E Cesare, che con la sua legge era venuto in aiuto delle provincie, fece anche questo, divenendo l’instauratore dell’impero. IV. INSULA CERERIS [La conquista e l’ordinamento della Sicilia.] È tradizione che Pirro lasciando la Sicilia dicesse: «quale mai palestra, o amici, noi lasciamo a’ Cartaginesi ed a’ Romani!» (Plut. _Pyr._ 23). E divenne infatti, non molto dopo, la palestra degli uni e degli altri; e fu per i Romani il premio della vittoria. Le guerre puniche, e specialmente la seconda, furono per Roma quel che nella tradizione biblica fu per Giacobbe la lotta con l’angelo: la prova delle proprie forze ed insieme la rivelazione del proprio destino. La battaglia delle isole Egadi (241 av. C.)[192], che chiuse la prima guerra punica, dette a Roma tutto quanto Cartagine possedeva ancora in Sicilia, con aggiunta l’autorità maggiore, nascente dalla maggiore potenza e dalla recente vittoria. Restava ancora nella parte orientale dell’isola il regno, probabilmente sminuito già dal secondo anno della guerra (263)[193], di Jerone II, alleato in diritto e in fatto poco men che vassallo; ma la seconda guerra punica e la ribellione del figliuolo di lui Jeronimo offersero il modo di incorporare anche quello al dominio romano, e con la presa di Syracusae (212 av. C.)[194] il maggior baluardo dell’indipendenza siciliana venne meno. Il Console M. Valerio Levino, succeduto a M. Claudio Marcello nel governo della Sicilia, prese Agrigentum e finì di pacificare l’isola[195]. La Sicilia era così venuta tutta omai in potere de’ Romani e, compiuta la conquista, si attese a darle uno stabile assetto. M. Valerio Levino che avea compiuto l’impresa di guerra, attese anch’esso ad esaurir questo compito. Già, da quando alla fine della prima guerra punica la Sicilia era stata costituita in provincia, avea dovuto esserle dato un particolare ordinamento, ma è ignoto a noi quale precisamente si fosse. Che vi venisse mandato uno speciale annuo governatore sin dal principio, lo dice Appiano[196], ma quale speciale grado egli avesse, non par chiaro. Un pretore, no di certo, quantunque tale apparirebbe dalla parola usata dallo storico greco (στρατηγός); giacchè è noto che solo tra il 525 ed il 529, verosimilmente nel 527[197], si portò a quattro il numero de’ pretori, per destinarne uno al governo della Sardegna ed un altro a quello della Sicilia; ed il primo, di cui si sa che andò in tale qualità a reggere la Sicilia, fu C. Flaminio[198]. Sino a quel tempo fu dunque uno dei due pretori in carica ad amministrarla direttamente, o l’amministrò una persona eletta da un d’essi? o eletta dal popolo[199]? e fu un questore[200], o un _praefectus iuri dicundo_[201]? Ecco tante domande, le cui risposte possono poggiare soltanto sopra più o meno fondate induzioni. Del resto le condizioni anormali e lo stato di guerra in cui la Sicilia si trovò ancora avvolta dopo il 527, fecero sì che consoli vi prendessero la direzione della guerra, ed allora i pretori, destinati al suo governo, ebbero limitata ad una zona più ristretta la loro attività e dovettero subordinare il loro imperio a quello del magistrato superiore[202]. In virtù di questo suo imperio M. Claudio Marcello[203], espugnata Syracusae, nel ricevere le legazioni di altre città, ne determinò in varia maniera la condizione, prendendo consiglio dall’attitudine da esse tenuta. Ma ordinata definitivamente non avea potuto essere la Sicilia, già neppur tutta riconquistata e sgombra de’ Cartaginesi; e, poichè li ebbe scacciati anche da Agrigentum[204] ed ebbe ricondotto l’ordine in tutta l’isola, di nuovo in gran parte turbata e fatta ribelle dopo la partenza di Marcello[205]; fu M. Levino (210 av. C.) che dette alla provincia il suo stabile assetto, la sua _forma_; e, per chi volesse accettare l’ingegnosa interpretazione fatta da un autore[206] di un noto passo di Livio[207], quell’assetto rimase poi immutato sino a’ tempi di Verre e di Cicerone. Tuttavia noi dell’ordinamento di Levino abbiamo così poche notizie e tanto generiche, che non ce ne consentono una conoscenza ampia e sicura; e poichè, per giunta, qui si parla dell’amministrazione della Sicilia solo in via d’introduzione al processo di Verre e per quel tanto che giovi a meglio intendere e chiarire quel fatto storico, non è possibile, e non importa neanche molto, trattar qui alcune quistioni d’ordine assai speciale, che esigono una trattazione indipendente. Tra il governo di Levino e quello di Verre nuovamente fu sconvolta la Sicilia, non più da guerre esterne, ma da un moto intestino, dalle due guerre servili di Euno e di Atenione; e, chiusa che fu la prima di esse, secondo la saggia politica romana che non si preoccupava soltanto di vincere, ma ancor più di assicurare i frutti della vittoria, non s’affidava soltanto all’opera breve e violenta delle armi, ma ancora a quella più lenta e durevole di proficui ordinamenti; dieci legati furon dal senato mandati in Sicilia perchè insieme al Console Rupilio, vincitore della ribellione, componessero le cose di Sicilia; ed è la Sicilia, quale uscì riordinata dalle mani di questi suoi legislatori, che noi conosciamo relativamente un po’ meglio, grazie a Cicerone; ed è quello che anche a noi importa meglio sapere per il nostro argomento. A che cosa precisamente si limitasse o si estendesse l’opera di Rupilio e de’ dieci commissari, non possiamo in maniera certa trarre dalle fonti che ce ne danno notizia[208]. Per quanto è possibile dedurne, l’opera loro dovette principalmente rivolgersi a regolare la vita giuridica ed economica, sopratutto nell’intento di allontanare quelle cause, che aveano prodotta la prima guerra servile e, non molti anni di poi, benchè per periodo più breve, fecero riardere la seconda. Secondo un’ipotesi già accennata, potè ben darsi che ne’ privilegî delle varie città, nella loro condizione rispetto a Roma non venissero introdotte mutazioni, od almeno mutazioni notevoli. Non si dovea trattare, infatti, per la natura della guerra, di punire o premiare città, che avessero parteggiato a favore o contro di Roma, ma piuttosto di riordinare i rapporti interni, ed eliminare sopratutto ogni forte ragione di malcontento, e temperare i danni dell’economia servile e scongiurare o frenare i moti minacciosi che ne derivavano. Ma, che che sia di ciò, come ultime venute nel tempo, sotto il periodo della Repubblica, per quel che poterono innovare e per quello che confermarono, per quello che largirono e per quel che riconobbero, le _leges Rupiliae_ (_Lex Rupilia_, _leges Rupiliae_, _decretum_) valsero come la carta fondamentale della vita pubblica siciliana. [Le città di Sicilia.] Le città di Sicilia possono calcolarsi, anche nel periodo della Repubblica, a sessantotto[209]. Il numero di sessantasette, mentovato da Diodoro[210], sale a sessantotto se vi si aggiunge, come bisogna aggiungervi, Syracusae, ed allo stesso computo si giunge con Livio[211], considerando, come sembra riesca evidente, che nel numero di sessantasei, cui accenna, non ha potuto comprendere Syracusae ed Agrigentum, della cui espugnazione ha subito prima dato conto. Similmente in niente contrasta a tutto questo la menzione fatta da Cicerone[212] di centotrenta censori, eletti, in numero di due per ciascuna, da sessantacinque città; giacchè niente toglie (ed anzi la relazione di que’ tratti col contesto lo suggerisce) che siano state lasciate fuori le tre città federate. Di queste sessantotto città, tre — Messana[213], Tauromenium[214] e Netum[215] — erano città federate; cinque — Centoripae, Halaesa, Segesta, Halicyae e Panhormus — benchè senza trattato, erano libere ed immuni da tributi (_liberae et immunes_); trentaquattro comuni — quelli degli Agyrinenses (Cic. in Verr. A. S. III, 27, 67), Aetnenses (id. 44, 104), Acestenses (id. 36, 83), Agrigentini (id. 43, 103) Amestratini (39, 88), Apollonienses (43, 103), Assorini (l. c.), Catinenses (l. c.), Calactini (43, 101), Coephaloeditani (43, 103), Citarini (l. c.), Capitini (l. c.), Entellini (l. c.), Enguini (l. c.), Gelenses (l. c.), Hennenses (42, 100), Heraclienses (43, 103), Haluntini (l. c.), Helorini (l. c.), Herbitenses (32, 75), Hyblenses (43, 102), Imacharenses (43, 100), Inenses (43, 103), Ietini (l. c.), Leontini (44, 104), Mutycenses (43, 101), Menaeni (43, 102), Murgetini (48, 103), Petrini (39, 90) Soluntini (43, 103), Scherini (43, 103), Thermitani (42, 99) Tissenses (38, 86), Tyndaritani (43, 103) — erano città _decumanae_: le rimanenti città erano _censoriae_. Il numero preciso ed il nome di queste ultime non ci sono stati tramandati; ma, per via indiretta[216], è sembrato poterne fissare il numero a ventisei, anche per argomento di una notizia già citata di Livio[217]; e, quando si ritenessero prive di valore le critiche fatte all’indice pliniano, riescirebbe molto ovvio averne anche il nome, detraendo da quell’elenco le quarantadue città di altra categoria già menzionate. In tal caso le ventisei città censorie dovrebbero riconoscersi in quelle di Megara, Syracusa, Camerina, Lilyboeum, Mytistratum, Acrae, Bidis, Drepanum, Ergetia, Echetla, Eryx, Herbessus, Hadranum, e quelle degli Iponenses, Macellini, Naxii, Noini, Parapini, Phintienses, Semelitani, Selinuntini, Symaetii, Talarienses, Triocalini, Tyracinenses, Zanclaei[218]. [La condizione delle città.] Questa varia classificazione delle città siciliane era stata determinata da criterî di governo, tendenti a rompere ogni unità di consenso ed ogni formazione di un maggior senso di solidarietà nella regione, da considerazioni di opportunità rispondenti alla maggiore o minore importanza militare ed economica delle varie città, e, come i fonti, anche frammentarî ed incompleti, sono in grado molte volte di dimostrare specificatamente[219], avea avuto la sua causa immediata e la sua base nel diverso atteggiamento tenuto dalla città durante le due guerre puniche, e nel modo, come erano venute all’amicizia od in potere de’ Romani, e ne’ diversi servizî che potevano ancora rendere[220]. [Città federate ed indipendenti.] Le tre città _foederatae_, congiunte a Roma da un _foedus_, e materialmente comprese ne’ termini della provincia, legalmente ne erano fuori, e teoricamente formavano come tre distinti stati rimpetto a Roma, con completa autonomia politica e legislativa e proprietà esclusiva del suolo del loro territorio rimpetto a tutti. Messana nondimeno avea l’obbligo di fornire una nave oneraria al popolo romano, la qual cosa, agli occhi di Cicerone, era quasi come un’impronta di servitù (_quasi quaedam nota servitutis_)[221]. Che quest’obbligo si estendesse anche alle altre due città _foederatae_ ed alle _liberae sine foedere_, è sembrato a qualcuno[222], ma in realtà nelle orazioni di Cicerone, e negli stessi tratti citati a documento (Cic. in Verr. AS. IV 9, 19; 67, 150; V, 17, 42; 20, 51; 24, 60), si fa riferimento sempre a Messana. Altrove (Cic. in Verr. AS V, 19, 50) si dice espressamente che Tauromenium era stata esentata da quest’obbligo; e quindi, anche a voler ritenere inerente al _foedus_ l’obbligo di contribuire la nave, non si sa se l’altra città ne fosse esentata; e in ogni modo nulla se ne può dedurre riguardo alle città _liberae et immunes sine foedere_. Le città libere ed esenti da tributo, benchè non in virtù di trattato (_liberae et immunes sine foedere_), materialmente erano nella stessa condizione delle alleate, e la differenza vera tra le une e le altre era, anzichè nella loro posizione, nel fondamento di queste, che, non risultando da contratto ma da concessione unilaterale, era necessariamente precario. L’immunità poi loro concessa, se questa condizione non era limitata alla sola Halicya, non rifletteva tutto il territorio, ma il territorio coltivato da cittadini de’ comuni immuni; sicchè gl’_incolae_ pagavano il tributo, se coltivavano parte di quel suolo (AS. III, 40, 91). Ciò spiega e dimostra alla sua volta la natura d’imposta insieme personale e fondiaria della decima in Sicilia (Voigt, op. cit. II, p. 403, n. 475). A queste, come alle città alleate, era stato imposto, dal 73 a. G. C. con la _lex Cassia Terentia_, come obbligo straordinario, la provvisione del frumento commesso da Roma e pagato ad un prezzo dallo stesso committente fissato a tre sesterzî il modio per la seconda decima che davano le città decumane, ed a tre sesterzî e mezzo per l’altro che veniva indistintamente prelevato da tutte le città[223]. [Città decumane.] Dalle trentaquattro città decumane il Governo di Roma prelevava la _decima_ di tutti i prodotti agricoli, frumento, vino ecc., e da questo sistema d’imposta veniva ad esse la definizione del loro stato legale. Il suolo, o meglio il possesso di esso[224] era stato loro lasciato, o reso, come si amò meglio dire in seguito, riassumendo nell’elaborazione di un concetto giuridico riflesso questo stato di cose[225]; e il tributo imposto era come il segno dell’alto dominio di Roma e ne alimentava l’erario. Queste decime, non esatte direttamente dallo Stato, venivano locate a’ pubblicani, od anche alle città che avevano parimenti facoltà di concorrere. Tutto il frumento così esatto o comprato poteva ammontare per la prima decima a tre milioni di modii, ad altrettanto per la seconda e per l’_imperatum_ ad ottocentomila modî; in tutto 6,800,000. [Città censorie.] Restava il reddito delle città censorie. Quanto alle città censorie il loro suolo era più propriamente comparabile all’_ager vectigalis_. Di questo suolo delle città censorie dice Cicerone[226] che, essendo divenuto suolo pubblico del popolo romano, fu nondimeno loro restituito (_illis est redditus_), e soggiunge: questo territorio suole esser locato da’ censori. E ad evitare ogni contraddizione tra l’una e l’altra cosa, occorre bene ammettere che la locazione avesse per oggetto il tributo (_vectigal_) imposto a’ detentori di campi, non già i campi stessi[227]. Il tributo del suolo censorio si locava a Roma, mentre quello decumano si locava presso i questori di Lilybaeum e di Syracusae; ma sarebbe un errore volere limitare a questo la differenza reale delle due categorie. L’attribuzione a due diverse competenze indicava meglio la distinzione di suolo semplicemente provinciale e suolo più propriamente e direttamente pubblico; ma la distinzione maggiore doveva consistere nell’entità del tributo che, mentre per l’agro decumano era proporzionale e limitato ad un decimo del prodotto secondo la _lex Hieronica_, per l’agro censorio invece era qualche cosa di determinato[228], senza che noi siamo in grado di dire a quanto ammontasse. La differente sede e la diversa competenza della locazione delle _decumae_ e del tributo dell’agro censorio, non fu talvolta con rigidità osservata. Infatti non essendovi stati censori dal 673 al 683 di Roma, la locazione venne fatta da’ consoli e nel 679 il Senato[229] permise a’ consoli di locare anche le decime de’ vini, olii e de’ cereali di minore importanza, che regolarmente avrebbero dovuto essere locate da’ questori in Sicilia. Che poi, durante l’amministrazione di Verre in Sicilia (681-3), a’ questori di Sicilia ricadesse anche la locazione dell’agro censorio, è un errore in cui, mi pare, il Voigt[230] sia caduto, considerando come censorio il territorio di Leontini, ch’era invece decumano[231]. [Altri tributi.] Si ha inoltre notizia da Cicerone[232] di un tributo, che sarebbe stato pagato da tutti i Siciliani, in proporzione dell’avere, a norma de’ censi fatti da due censori nominati per ogni città. Ma la menzione di questo tributo, dato in maniera indiretta, trattando della creazione dei censori, è la più incompleta ed oscura. Che fosse un tributo dovuto all’erario romano, sembra da escludere, tenuto anche conto che delle accuse fatte a Verre e che riguardano ogni lato del suo governo, alcuna non ve n’è che abbia relazione a questo. Ed inoltre il fatto che l’elezione di questi censori era lasciata alle città (Cic. in Verr. AS III, 53, 131), l’osservazione che il censo fatto da questi censori creati da Verre fu tale che la cosa pubblica di nessuna città poteva amministrarsi con esso (Cic. l. c. 55, 138), e la considerazione che due censori per città, nel numero di centotrenta, importano l’inclusione delle _civitates liberae et immunes_; tutto induce a ritenere che questo tributo avesse effetto ed impiego tutto locale. Infatti, un’amministrazione comunale ivi sussistente, servizî pubblici, polizia, non possono intendersi senza una finanza comunale. I redditi de’ pascoli, se questi rientravano nel suolo censorio, si ottenevano per mezzo di pubblicani[233]; se erano compresi nel territorio decumano, ignoriamo qual sistema si tenesse. Oltre a questi tributi diretti, vi era il tributo indiretto, che gravava in genere su tutto quanto fosse esportato dalla Sicilia, senza distinzione della persona cui appartenesse, e consisteva nella _vicesima_, il cinque per cento del valore della merce, che sotto nome di _portorio_ si esigeva come dazio di esportazione[234]. Altri redditi dovevano pure venire da altri cespiti ed imposte indirette, in tutto sei[235], secondo una lettura del testo di Cicerone, ed in cui erano forse compresi diritti sulla pesca, sul sale e l’estrazione de’ metalli[236]. [Ordinamento locale.] Ma, mentre da una ad un’altra di queste città v’erano così notevoli differenze nella posizione verso Roma e nella misura de’ tributi; tutte in genere avevano una loro organizzazione comunale, con magistrati, senati, censori, funzionarî locali. Si ha menzione del _senatus_ non solo di comunità privilegiate e conosciute come _foederatae_, _liberae immunes_, quali Messana, Segesta, Halaesa, Centoripae, Panhormus[237], ma anche di _decumanae_[238] e perfino di _censoriae_[239], e di _oppida miserrima et desertissima_[240], con regolari manifestazioni sotto forma di _legationes_, _mandata_, _postulata_, _litterae_, _testimonia_[241]. E col senato naturalmente vi erano del pari magistrati di ordine vario, cui erano affidate le attribuzioni esecutive. Si hanno così i _proagori_[242], i censori[243], di cui abbiamo fatto cenno, nominati due per città, _edili e questori_[244], e poi molteplici altri funzionarî di vario ordine e di varie attribuzioni come τριακάδαρχοι, σιτοφύλαχοι[245] ginnasiarchi[246] oltre ad altri uffici subordinati, come quelli di ὐπογραφεῖς, ὑπηρέτας, κάρυξ[247]. Accanto a questi uffizî civili vi erano poi i sacerdozî[248], i quali alcune volte, come a Gela, ad Agrigentum, a Melitta, a Segesta (ἱεράπολος o ἱέροθύτης)[249] compariscono come eponimi, ed a Syracusae (άμφίπολος Διὸς Ὀλυμπίου)[250] veniva adoperato il nome del sommo sacerdote a controsegnare gli atti pubblici e gli anni. Ricorre anche la menzione de’ _decemprimi_[251] _quinqueprimi_[252], che, indicati così distintamente e forse in contrapposizione a’ magistrati, denotano probabilmente, più che altro, un grado di anzianità e di maggiore importanza di alcuni senatori. [Sistemi d’elezione.] La nomina a questi diversi uffici aveva luogo in modo diverso. La loro creazione era regolata da norme spesso diverse da una ad un’altra città, norme spesso date da magistrati romani, anche per facoltà avuta dal senato; come quelle date da C. Claudio Pulcro e da C. Marcello (95 a. C.) ad Halaesa, che spontaneamente ne faceva richiesta[253], da Scipione (207 av. C.) e da P. Rupilio (132 a. C.) nel dedurre coloni ed Agrigentum ed Heraclea[254]. Per tali regolamenti ad Halaesa era stabilita a trenta anni l’età per entrare in Senato ed erano dati altri provvedimenti circa la capacità, il censo ed altre cose[255]: ad Agrigentum e ad Heraclea era provveduto a che vecchi cittadini e nuovi coloni avessero una uguale rappresentanza nel senato locale[256]. Niente conosciamo del numero de’ senatori: nella discussione non vi era ordine rigoroso, ma per consuetudine parlava prima il più vecchio, e, tacendo tutti, si traeva a sorte il nome di qualcuno, e quegli era chiamato a parlare[257]. Un indirizzo democratico non era in genere favorito de’ Romani, ma in città predilette, come Centoripae (Cic. in Verr. AS II, 68, 163), vi è accenno a deliberazioni popolari dirette. I senatori venivano creati, sembra, per cooptazione[258]; i censori invece per mandato diretto del popolo[259]; e per voti ed in comizî sappiamo anche più chiaramente ch’erano eletti i sacerdoti[260]. In Syracusae la scelta era limitata a tre, non tribù, come qualcuno vuole[261], ma schiatte (_ex tribus generibus_)[262]. Tutte queste elezioni, riferendosi ad amministrazioni di ordine interno, avrebbero dovuto restar indipendenti dall’azione del governatore della provincia; ma il diritto di _veto_, _d’intercessio_ ch’egli avea, e che, naturalmente, trovava la sua ragione d’essere nella tutela della sovranità romana, lo metteva anche in grado di esercitar tali azioni, tali abusi da mettergli in mano come la facoltà stessa della nomina[263]. [Le _leges Rupiliae_.] Il _decretum_ di Rupilio poi, quello che si potrebbe dire la _Charta_ largita alla Sicilia, avea inteso soprattutto a regolare la vita giuridica e giurisdizionale della Sicilia. Ciò ne costituiva, sembra, la parte precipua, od almeno quella di cui, relativamente, noi abbiamo maggiore notizia. Quanto alle norme giuridiche imperanti in Sicilia, noi non abbiamo conoscenza del loro contenuto e del modo, onde ciascun rapporto era regolato. Le notizie che abbiamo intorno alle riforme legislative di Diocle nel 339 a. u. c.=416 a. G. C., di Cephalo nel 412=342 sotto Timoleone, e di Polydoro sulla fine del V secolo sotto Jerone[264], sono notizie giunte a noi in forma molto indeterminata: di Diocle legislatore è dubbia fino l’identificazione[265]. Quello invece che sappiamo, è che in Sicilia la vita giuridica funzionava sotto l’impero dello statuto personale. I Siciliani aveano le loro leggi[266], che erano speciali di ciascuna città e rimasero intatte a regolare i loro rapporti reciproci. Vigeva poi, d’altra parte, riguardo a’ cittadini romani o per quella parte che fosse stato imposto, il diritto romano[267], ed accanto all’uno e l’altro diritto particolare vi è accenno a’ _iura communia_[268], pe’ quali sembra doversi intendere: _iura gentium_, quel diritto delle genti, che serviva di complemento all’uno ed all’altro. Vi erano insomma tutti quegli elementi dalla cui fusione si apprestava ad uscire, come poi uscì, il diritto romano quale noi lo conosciamo. La _lex Rupilia_, o meglio _decretum Rupilii_, per quel tanto che noi ne sappiamo, avea sopra tutto atteso a riconoscere direttamente od indirettamente la validità e l’applicabilità e regolare la coesistenza e l’applicazione di questi varî principî o statuti, specialmente determinando la competenza e la costituzione dell’autorità giudicante. Il diritto giudiziario in Sicilia veniva così a riposare su questi principî[269]. Il giudizio di un Siciliano con un Siciliano avea luogo nella comune loro città, ed era deciso secondo le leggi, cui entrambi obbedivano; nel giudizio tra due Siciliani di città diverse, il pretore dava esso i giudici secondo le norme del decreto di Rupilio; nella causa di un privato con una città era costituito a giudice il senato di una città estranea a’ due litiganti. Nelle cause tra Siciliani e cittadini romani, veniva dato un giudice della nazionalità del convenuto e non dell’attore: romano quindi se la causa era promossa da un Siciliano; siciliano se la causa avea luogo ad istanza di un Romano. Per le restanti cose dice Cicerone, erano scelti giudici dal _conventus_[270] de’ cittadini Romani; espressione che, usata dapprima per indicare i cittadini romani che convenivano in un luogo per l’esercizio delle loro azioni giudiziarie, acquistò un significato più specifico, secondo alcuni di _universitates civium Romanorum_, residenti (_consistentium_) in città le quali non godevano della cittadinanza romana[271] e secondo altri di diocesi giuridiche[272]. Che cosa si dovesse intendere per _ceterae res_, non è ben chiaro: parrebbe dovesse intendersi di cause non promosse da un privato; ma deve voler avere un significato più comprensivo, nell’intento di abbracciare ogni altro caso non preveduto. [La _lex Hieronica_.] Un’altra menzione vi era finalmente ed era che i giudizî tra decumani ed agricoltori aveano luogo secondo la _lex frumentaria_ chiamata _Hieronica_[273]. La _lex Hieronica_ ha la massima importanza nelle Verrine e la sua compiuta conoscenza sarebbe capitale per istudiare tutto quanto concerne Verre. Ma quanto è grande il bisogno che noi abbiamo di un’estesa ed esatta conoscenza di quella legge, altrettanto è grande la scarsezza di dati per tutto quanto ad essa si riferisce. Noi non sappiamo nemmeno con precisione a chi riferirla, se a Jerone I od al II; ed anzi lo stesso nome può per qualcuno[274] non valere come un indizio sicuro dell’autore della legge, tenuto conto che i riformatori delle leggi di Diocle non furono nè Jerone, nè Timoleone, ma Cephalo e Polydoro. Il dritto di prelevare una decima parte de’ prodotti del suolo può farsi risalire ben alto nella storia de’ tiranni siracusani: anche in Atene Pisistrato prelevava una decima[275]. Ma come va spiegato questo suo particolare appellativo e questa sua estensione a trentaquattro città di ogni parte della Sicilia; e si deve dire a tutta la Sicilia, considerando che quella delle città censorie fu una condizione resa deteriore del loro particolare atteggiamento verso i Romani, durante la guerra? Pur facendo risalire il sistema d’imposizione allo stesso Gelone, fu forse Jerone I, che lo estese a buona parte della Sicilia e gli dette il nome con l’estendere il suo potere ed il suo credito? Ovvero, in un ultimo rimaneggiamento avvenuto sotto Jerone II, prese il nome da costui, e la sua legge tributaria venne indi da’ Romani assunta a base del loro sistema d’imposizione nella fusione delle due circoscrizioni prima distinte e contrapposte di Lilybeo e di Syracusae e nella costituzione della provincia di Sicilia allargata? Senza documenti, senza dati, senza possibilità d’induzioni sicure, son semplici ipotesi queste, che hanno un valore tutto relativo. Ma la _lex Hieronica_, come la troviamo menzionata nelle Verrine[276], non era più semplicemente una legge tributaria, bensì anche una legge giudiziaria. Com’è cosa tutt’altro che infrequente nell’antichità, la legge che stabiliva un rapporto giuridico, essa stessa, come ad integrarlo, determinava i mezzi di esecuzione, la sanzione della sua infrazione e tutta la procedura degli annessi giudizi. Se non che nella _lex Hieronica_, quale Cicerone ce la mostra, ricorrono i _recuperatores_, il _vadimonium_, il _conventus_, e se queste parole, come pare, debbono essere prese nel loro significato tecnico e non come espressione approssimativa di istituti giuridici stranieri, ne viene che la _lex Hieronica_, nella forma approssimativamente a noi nota, più che un’impronta greca, quale conformemente al suo nome, dovrebbe avere, ha una fisonomia prevalentemente romana. E tutto ciò trova la sua spiegazione, quando si consideri che la _lex Hieronica_, accolta nel suo nome e nel suo fondamento di legge tributaria, venne sotto il dominio romano, trasformata ed ampliata in una legge giudiziaria[277]. Quale fosse tutto l’ordinamento giudiziario voluto dalla legge, è dubbio, oltre che nelle particolarità, anche ne’ suoi tratti generali, tanto che è stato possibile ad alcuni scrittori considerare la _lex Hieronica_ semplicemente come tributaria[278], mentre altri ne limitano l’efficacia alla semplice costituzione dell’autorità giudicante[279] ed altri le mette altre arbitrarie limitazioni, circoscrivendo le sue disposizioni procedurali soltanto alle controversie riflettenti le denunzie delle coltivazioni (_professiones_) ed il pagamento della decima (_pactiones_)[280]. Il contenuto delle regole di vita giudiziaria contenuto nella _lex Hieronica_ è difficile a sapere, perchè non se ne hanno notizie dirette, ma invece tutto quello che se ne può sapere, bisogna dedurlo dalle violazioni che Verre, secondo Cicerone, ne avrebbe fatte durante la sua amministrazione in Sicilia. Sembra[281] dunque che a dirimere le controversie tra _decumani_ ed _aratores_, sotto il quale appellativo vengono compresi possessori del suolo e coltivatori diretti, la _lex Hieronica_ avesse disposto la costituzione di un collegio giudicante, a comporre il quale erano chiamati _aratores_ e _negotiatores_, non si sa se per giudicare sotto forma di tribunale misto, o alternandosi con vicenda a noi ignota. Probabilmente delle persone abilitate all’esercizio di questo potere giurisdizionale era redatto un albo, che peraltro aveva piuttosto lo scopo di agevolare il compito del pretore e non mai quello di limitare con criteri esclusivi la libertà d’elezione. La natura delle controversie tra _decumani_ ed _aratores_, sommarie per se stesse e tali da dovere essere sbrigate con sollecitudine, esigeva che le persone chiamate a risolverle vi funzionassero come _recuperatores_; ed infatti son questi che ordinariamente ricorrono ne’ giudizî riferiti di Cicerone. Tuttavia si deduce dal tratto relativo alla _lex Hieronica_[282] come questa avea norme anche su la scelta di _iudices_. La distinzione netta tra la competenza de’ _recuperatores_ e quella del _judex_, che è ancora oscura nella sua classificazione generale[283], è anche qui nel caso particolare non chiara. Suppone qualcuno[284] che l’impiego del _judex_ piuttosto che de’ _recuperatores_ potesse dipendere da un accordo mutuo delle due parti, che del resto non ricorreva se non di rado. Un’altra delle condizioni favorevoli che la _lex Hieronica_, in concorrenza con altre leggi, garentiva all’_arator_, era che la competenza fosse determinata dal luogo dell’esazione[285]. La controversia circa il pagamento della decima sorgeva come un incidente dell’esecuzione, ed a ciò principalmente, alla connessione ch’era tra l’una cosa e l’altra, si deve la competenza eccezionale, la competenza del luogo di esazione; e, poichè il luogo di esazione era d’ordinario nelle vicinanze del campo, la competenza veniva a convertirsi in una condizione di favore per l’_arator_. Del modo ora come questo giudizio si svolgeva, Cicerone direttamente proprio si limita a dire che la legge era quale un tiranno ed un Siciliano avevano potuto scrivere, acuta e severa e diligente, quale si conveniva a chi non avea altri tributi da esigere[286]. Tale legge, continua Cicerone (l. c.) era fatta in modo che per essa l’_arator_ era assoggettato al decumano con tutte le cure convenienti all’esazione ed in modo che diveniva impossibile all’_arator_ frodare il _decumano_ con l’asportare, o rimuovere o celare il frumento. I decumani, in fondo, come assuntori dell’esazione de’ tributi, venivano ad essere guardati con occhio benevolo dal Governo romano, che in maniera più o meno diretta, avea interessi non difformi da’ loro. Onde, in tutto il procedimento dell’esazione de’ tributi, si era sempre più venuto insinuando un elemento, che teneva del carattere pubblico più che del privato e che improntava di tale fisonomia la procedura. Le facoltà intese ad impedire l’amozione e l’asportazione del frumento e poi la stessa esecuzione dovevano risolversi facilmente in un diritto di pegno. II diritto di pegno, assicurato secondo il diritto ellenico al pubblicano, cominciò a sperimentarsi con l’assistenza del magistrato, ch’era di guarentigia allo stesso _arator_. La denunzia delle colture (_professio_), fatta prima dell’appalto, quando il pubblicano non aveva ancora acquistati i suoi diritti, faceva sì che la sua violazione valesse come una violazione di una disposizione d’ordine pubblico. Il pubblicano aveva tre vie innanzi a sè nello esigere le decime e poteva, come spesso accadeva[287], cedere il suo diritto d’esazione alle singole città, che pensavano ad effettuare dal canto loro la riscossione; poteva mettersi, procedendo direttamente all’esazione, d’accordo con l’_arator_, ed allora il suo diritto veniva a poggiare su di una base contrattuale, alla cui esecuzione era assicurata la protezione del governatore provinciale[288]; poteva finalmente esservi disaccordo tra decumano ed _arator_, ed allora avea origine una controversia, intorno al cui giudizio si può dire che fosse un giudizio sommario, che stesse di mezzo tra il diritto pubblico ed il privato, e, vertendo tra persone di diversa categoria, alla imparzialità sua doveva vegliare il governatore sopra tutto con la scelta de’ _recuperatores_[289]. La lesione de’ diritti de’ pubblicani assumeva un carattere pubblico e di qui le multe e l’ampiezza de’ mezzi esecutivi. [I poteri del governatore.] Tale era l’ordinamento effettivo, su cui riposava il governo della Sicilia; ma resta ad indicare quale fosse il valore legale di esso. Tutto questo ordinamento, in altri termini, avea l’autorità e la forza di una legge? Domanda interessante questa, la cui risposta ci aiuta meglio a considerare ed a comprendere l’atteggiamento del governatore della provincia rimpetto ad essa. È sicuro che Cicerone tutte le volte che parla dell’ordinamento dato sotto Rupilio alla provincia, tiene a distinguer bene che non si trattava di una legge; e tale era chiamata solo impropriamente da’ provinciali[290]. Il Senato con l’estensione, che veniva sempre più dando alle sue attribuzioni ed a’ suoi poteri, era venuto sviluppando questa sua facoltà e questa ingerenza nell’ordinamento provinciale, che avea stretto rapporto con l’amministrazione stessa della provincia e con la sorveglianza su’ suoi governatori. E l’ordinamento, infatti, si veniva per molta parte compiendo dal Senato sia sotto forma di delegazione che sotto forma di ratifica di disposizioni adottate dagli stessi governatori[291]. Perciò non si saprebbe rigorosamente determinare quanto tali ordinamenti emanati dal Senato potessero ritenersi efficaci ed obbligatori per i governatori di provincia[292], e non è perfettamente giusto[293] sostenere che avessero interamente il valore di una legge. Bisogna ammettere non solo che doveano cedere il luogo ad una legge, ove questa vi era, ma ancora che «_formalmente_»[294] il governatore poteva non ritenersi assolutamente stretto da quegli ordinamenti. A ciò si aggiunga che il potere, nella realtà legislativo, inerente al _jus edicendi_[295] avea limiti tanto poco precisi, che nella sua esplicazione, specialmente nel campo del dritto privato, si convertiva in una vera fonte legislativa. Perciò è la cosa più ardua il voler decidere in quanto secondo le fondamentali regole costituzionali e in quanto anche, secondo i partiti e le necessità della pratica, poteva ritenersi legato da quegli ordinamenti un governatore, sopra tutto in provincia, dove la preoccupazione di raffermare od estendere il dominio romano e quello di fondere ed armonizzare insieme i diversi statuti personali ed i cozzanti interessi di così varî elementi dovea imporsi al governatore e far sì che, in provincia, forse ben più che a Roma, il suo editto fosse uno strumento di continua evoluzione del diritto. [Le condizioni economiche della Sicilia.] E in Sicilia, anche più che altrove, codesto compito era interessante e difficile. La sua posizione ne avea fatto l’oggetto di contesa ed il luogo di convegno di tutti i popoli che si erano disputato l’imperio del Mediterraneo; e, pure decisa la lotta a favore di Roma, restavano ancora tutte queste diverse razze, diverse consuetudini, diverse norme giuridiche a fondere insieme, ed intanto occorreva renderne possibile la coesistenza. Inoltre, ruinato il ceto agricolo romano ed italico, e fattosi vorticoso il crescere del proletariato e dato allo Stato, dopo i Gracchi, quell’indirizzo, che metteva tra i suoi compiti l’alimentazione del proletariato cittadino; la Sicilia, sino alla conquista dell’Egitto uno de’ maggiori granai d’Italia, avea per la vita politica ed economica, per la sussistenza stessa di Roma un’importanza capitale. Il particolare sistema di amministrazione della Sicilia (Cicerone non si stanca mai di ripeterlo e di farlo intendere) era in teoria tale che l’interesse suo e quello dello Stato dominante erano intimamente connessi. La prosperità crescente della Sicilia voleva dire una decima più abbondante, il frumento _imperatum_ comperato a miglior prezzo e, con l’aumento dell’importazione e dell’esportazione, una quota più alta di tributi indiretti. Ma l’ordinamento provinciale della Sicilia, per quanto Roma avesse cercato favorirlo, per necessità di cose e di tempi, non avea punto evitati tanti di quegl’inconvenienti, che ne impedivano il completo sviluppo economico; e, tanto più potea essere naturale l’opera pratica, adattata a’ singoli casi, del governatore, che rendeva meno sensibili alcune asprezze, che attenuava o s’ingegnava di eliminare alcuni mali. Il sistema d’impedire alle diverse parti della provincia di trovare in se stessa un centro, a cui fortemente riconnettersi, e quello di creare barriere tra parti e parti della provincia, per far sì che propositi di autonomia non sorgessero, o non venissero messi in atto; erano cose a cui i Romani non aveano saputo, nè potuto rinunziare interamente nell’amministrazione della Sicilia. Di qui tanti di quegl’inceppi, che non poteva fare a meno di comprimere lo svolgimento di tutte le sue attività. Benchè ci avvenga d’incontrare un _commune Siciliae_, è affatto da escludere ogni organizzazione regionale. Tutte le città vivevano ciascuna a sè, trovando il proprio centro, fuori dell’isola, in Roma, e, nell’isola, in colui che ne era il rappresentante, nel governatore. V’era un più stretto legame tra alcune città, ma erano le diciassette, che s’erano mantenute sempre fedeli a Roma; ed i rapporti più stretti, che le univano, aveano semplicemente carattere e scopo religioso. A ciò si aggiunga che la classe dominante romana avea vivo l’interesse, chiaro il disegno di attrarre a sè, come più poteva, tutte le fonti di ricchezza e, come meglio le riusciva, di monopolizzarle. Di tutta l’azione di questi diversi interessi pubblici e privati, la Sicilia sentì vivamente gli effetti e con danno della sua economia. Se il _commercium_ interdetto ad ogni altro sul territorio di Segesta[296] dipendeva non da altro che dalla sua condizione di città libera, che la facea considerare come uno stato indipendente anche rimpetto a’ Romani; quello che lo stesso Cicerone ci dice di Agrigentum[297], mi pare possa ben dar luogo a supporre che tra città e città si erano elevate barriere, ed era impedito o circoscritto il _commercio_ ai cittadini di una in un’altra città. E, pur ritenendo che la natura del suolo provinciale, sia di città censorie che di decumane, non ammetteva ne’ detentori un diritto di dominio, non è detto che anche il semplice trasferimento del possesso non potesse essere più o meno limitato dal divieto o dalla mancanza d’ogni riconoscimento giuridico. Ne nasceva allora che, posti tali inceppi, i cittadini romani, che, come tali, aveano il _commercium_ nelle città soggette di Sicilia, poteano vittoriosamente fare agli altri la concorrenza. È sicuro in ogni modo che campi ed aziende agricole siciliane vennero in buona parte, nelle proporzioni e sotto forma di latifondi, in mano di cittadini Romani, i quali, menandone innanzi la coltura, si avvalevano del lavoro servile, e davano luogo ad una industria agricola, che, diretta ad esaurire gli uomini impiegati ed il suolo, ruinava l’agricoltura e fomentava quel malessere che divampò due volte nelle guerre servili. La produzione nel primo terzo del primo secolo si è fatta ascendere[298] in tutta la Sicilia ad otto milioni di medimni (ogni medimno siciliano è di litri 52,392)[299] di frumento e quattro milioni di medimni di altri cereali; ma, considerando che la sola decima del frumento delle città decumane ascendeva a cinquecentomila medimni, potrebbe fors’anche il computo portarsi più alto[300]. Intanto, secondo calcoli che naturalmente possono accettarsi solo come approssimativi[301], la popolazione che, tra la fine del quinto e il principio del quarto secolo, ascendeva a circa 800000 abitanti e appresso avea avuto un incremento e sotto Agatocle avea potuto salire ad un milione; colla morte del tiranno avea cominciato a decadere, e se, ristabilita la pace dopo ottanta anni di guerre, la regione riavea sotto i Romani un periodo di relativa risurrezione economica, era il numero degli schiavi che cresceva in proporzione assai notevole, assai più che innanzi non fosse stato, sino a pareggiare il numero de’ liberi. A lenire alcuni inconvenienti, a stornare alcuni mali, ad esercitare in tutto un’azione benefica, potea giovar molto l’opera del governatore, fornito, così com’era, di largo potere; e, del pari, se mosso da impulsi diversi, potea recar molto male. Di settantasei de’ governatori della Sicilia, che esercitarono l’ufficio loro prima di Verre, noi abbiamo notizia[302]; ma dell’opera ivi spiegata da loro, specialmente quando non si riferisce ad imprese di guerra, poco sappiamo. Di M. Valerio Levino, primo tra i governatori dell’intera Sicilia, sappiamo bensì che cercò di svilupparne la produzione anche artificialmente, incitando personalmente[303], alla coltura del suolo. In questa provincia fu mandato come governatore, settantesimosettimo di quelli a noi noti, C. Verre. V. HOMO AMENS AC PERDITUS? Chi era C. Verre? [Le Verrine.] Lo scrittore, il poeta, l’oratore, l’artista sono anche tanti giustizieri. In questo arruffìo quotidiano della vita, mentre essi, gravati dell’incommodo bagaglio delle loro idealità, passano assai spesso punzecchiati, derisi, angosciati; gli uomini piccoli, che per la loro stessa natura non perdono mai di vista la terra, s’insinuano in tutti i meandri del multiforme inganno umano, tendono reti e stanno in agguato, ghignando, sugl’improvvidi che vi cadono, scavano ad altri la terra sotto i piedi; e da questo lavorio di tutti i giorni assurgono pieni di oro e di fango, carichi di uffizî e di onori, e, tra l’incenso, che loro sale alle nari e le maledizioni che si perdono inascoltate nell’aria, arrivano freschi, riposati, sereni al termine della loro giornata terrena. Ma se essi inciampano il poeta, lo scrittore, l’artista, in un’ora della vita in cui il loro cuore è colmo d’infinita amarezza, il poeta, lo scrittore, l’artista, che sanno anche essere giustizieri, li acciuffano con la mano febbrilmente potente, e sulla fronte, insolitamente rivolta verso il cielo, imprimono come un suggello il marchio della condanna. Si spengono allora gli echi dolenti delle angoscie che essi suscitarono; scompare fin la traccia delle ville sontuose e de’ palagi superbi, onde guardarono con piglio insolente sul mondo e sulla vita; le statue, ch’essi si eressero, vanno in pezzi; ma vive ancora nel verso, nell’orazione, nel libro il povero clandestino epigramma, che anonimamente ronzava intorno a loro; e, raccomandati all’opera di chi li fece eterni, passano alla posterità cinti di un nimbo d’infamia, monumenti vivi dello stridente contrasto tra la gente che impera e quella che langue, esempî di tanti altri, che vissero della loro vita e godettero della loro fortuna. Tale è la sorte di Verre. Non son molti davvero i personaggi dell’antichità, specialmente di ordine secondario, delle cui gesta possiamo dire di sapere tanto come di Verre. Ma tutto quello che sappiamo di lui, sgorga da una fonte sola, e questa non è una fonte spassionata ed impersonale; anzi è un atto di accusa, dove la narrazione si trova incastrata tra invettive, sarcasmi, dileggi. E, quasi che ciò non bastasse, l’accusa non è soltanto la reazione di un’anima offesa dallo spettacolo dell’ingiustizia, ma, che che Cicerone faccia per attenuarne l’effetto, è l’assalto di un avversario ed un atto coordinato a tutto un piano di condotta politica e destinato ad avere un’azione immediata sugli avvenimenti politici del tempo. Pure, benchè la fonte sia così unilaterale e ci manchi generalmente la possibilità del controllo, convenientemente usata ed interpretata, ci dà modo di formarci un concetto non incompiuto dell’uomo e del tempo. Chi ha qualche volta osservato l’indole e le fasi dello svolgimento de’ drammi giudiziari, come usa chiamarli, ha veduto come spesso, nelle mani di chi accusa o difende, i fatti vengano abilmente svisati ed affermati o smentiti secondo un preconcetto disegno. Ma tal’altra volta i fatti son tali, o così provati, che si contende piuttosto della loro importanza e della interpretazione a cui possono andare soggetti, ed allora anche un’accusa od una difesa può esser un documento storico di notevole valore. E questo sembra sia il caso delle «Verrine». In esse per giunta troviamo riflettuto, sia pure per farne strazio, tutto il sistema di difesa di Verre, e di tratto in tratto ci è dato gettare uno sguardo sull’ambiente esteriore, e conoscere ciò che si operava dietro la scena e da quali impressioni era dominata e come si moveva la folla, che, assistendovi, partecipava anch’essa a questo così importante episodio della vita romana. Accanto a qualche esagerazione ed a qualche interpretazione forzata, da alcuni particolari stessi che non hanno diretto rapporto con l’accusa, balza fuori in qualche modo la figura dell’accusato. Da tutto l’insieme di dati piccoli e grandi, da quella sfida cinica alla giustizia ed all’opinione[304], da quella furberia talvolta sino infantile[305] e da quella cieca e sventata imprevidenza, da quella passione delle opere di arte morbosamente irresistibile[306], da quella sua irritabilità[307] che, eccitata reagisce feroce, da quella sua rapacità che diventa crudeltà, da quel suo furioso entusiasmo della libidine e dell’orgia[308], e da quella sua incontinenza che non conosce confine, si ricompone — se tutti que’ dati son veri — una figura di delinquente quale la scienza moderna[309] lo concepisce: un tipo di degenerato morale, che da un lato si ricongiunge alla follia e dall’altro presenta come un ritorno atavico dell’uomo primitivo, del selvaggio. Tra la civiltà greca, in mezzo a cui vive, egli appare veramente il tardo nepote de’ favoleggiati compagni di Romolo, assertori del diritto della forza, rapitori di donne, banditi; o come un’anticipazione di quello che sarà tra un secolo Nerone, amatore dell’arte cieco ed impotente, che vuol trasportare nella vita un suo grande sogno di lusso e di piacere e, dominato da invincibili impulsi, piega e spezza tutto quanto si para come un ostacolo al suo egoismo armato del potere. E insieme alla figura di Verre viene a galla tutto un altro gruppo di figure, quale intraveduta appena, quale sbozzata e pur chiara; e tutta una serie di concetti morali dominanti la vita pubblica e la privata, e i buoni e i cattivi istinti della folla e l’ambiente stesso della vita giornaliera de’ dominatori e dei soggetti; tutto un momento insomma della vita romana, che il processo di Verre rievoca e ricompone intorno a Verre, fatto centro di tanti interessi, ire e passioni, che, compenetrandosi con la sua sorte e la sua persona, le danno una particolare importanza storica. [C. Verre e la sua famiglia.] Chi egli fosse e da quale famiglia uscisse, non parve sempre, nè a tutti ben chiaro. Il nome romano, che ha la particolarità di determinare così bene un uomo ne’ suoi rapporti pubblici e privati, nelle sue relazioni famigliari e di schiatta, appare in C. Verre, piuttosto che monco, suscettibile di ambigue interpretazioni. Fu creduto anche che Verre fosse solo il cognome, e il nome gentilizio, per tutto taciuto, fosse Cornelio; ma è invece il contrario ch’emerge dal testo stesso di Cicerone[310], e si può affermare con sicurezza che quello di Verre fu un nome gentilizio[311], e, cosa del resto non rara, egli non ebbe cognome. Nè il nome stesso ha il carattere eccezionale, che da principio si sarebbe inchini ad attribuirgli, se può ritenersi soltanto come una forma più antica di Verrius[312], della cui schiatta la famiglia di Verre potrebbe così essere stata un ramo, distratto sempre più dal tronco comune. Vi sarebbe qualche motivo per credere che non potesse già vantare parentele illustri e potenti[313]; in ogni modo era nobile[314]. Suo padre, C. Verre anch’esso[315], dovea aver nome d’insigne manipolatore di elezioni e vivea in una cerchia d’incettatori di voti[316], incettatore egli stesso, addestrando nell’arte, perchè non si perdesse, altri membri di sua famiglia, un Q. Verre[317] per esempio, della tribù Romilia. Malgrado ciò, o forse per ciò, non gli mancò un posto nel senato. Sua madre avea comune la schiatta ed il nome con Q. Tadio[318]. Questi i congiunti che avea per parte de’ suoi genitori. Il suo matrimonio appresso lo legò con vincoli di affinità a Vezio, cavaliere romano[319]: un legame non sappiamo di qual genere e tra chi, lo rese anche affine de’ Metelli, ma solo alla vigilia del suo giudizio[320]. Di qual famiglia fosse il genero non sappiamo. L’anno della sua nascita ci è del pari ignoto, ma sapendo della sua morte avvenuta, e non per causa naturale, nel 43 av. C. e che, pretore in Sicilia era padre di un figlio presso ad uscire dall’adolescenza e di una figliola già fatta sposa[321]; possiamo da tutto ciò argomentare che all’epoca della sua pretura probabilmente egli doveva avere un’età non maggiore o di poco a quella richiesta per covrire l’ufficio. Egli dunque dovè fare con rapidità e con fortuna la sua carriera, a cui si preparò non con pazienza di studî e nobile esercizio di vita; ma, piuttosto, sulla scorta dell’esempio paterno e, conforme all’indole dei tempi, emergendo nel lieto pandemonio delle gazzarre cittadine. Non si logorò proprio negli studî; e se Cicerone non lo calunnia anche in questo[322], non trovò nemmeno il tempo di acquistare una conveniente cultura, neppure quello di apprendere il greco, cosa relativamente comune per gli uomini del suo stato. Ma Cicerone certamente esagerò anche questa volta. In ogni modo da adolescente si sarebbe annunziato, quale sarebbe poi stato maturo. Cicerone fa le viste di non volersi occupare della sua vita di adolescente; ma ciò non è che un artifizio retorico; ricorrendo alla figura della preterizione, trova benissimo il modo di rievocare le orgie notturne e la gioventù spesa tra lenoni, biscazzieri, mezzani, e i buchi fatti al patrimonio paterno; quella sua prima milizia non ricca che d’ignominie, e in cui profuse oro insieme ed onori; tutta insomma l’impura adolescenza che ora si rinnovava nel figliuolo[323]. [La questura di Verre.] Questo stesso suo modo di vita non doveva essergli d’impedimento a salire nelle nuove condizioni della vita romana e specialmente nell’infuriare delle dissensioni civili; e lo vediamo infatti entrare nella vita pubblica come questore[324] del console Cn. Papirio Carbone nella lotta della parte mariana e sillana. Cicerone gli fa tener questa carica quattordici anni prima della causa e, benchè, secondo quella che ad alcuni può parere la più usuale maniera di contare, si sarebbe aspettato che avesse detto quindici[325], riesce evidente che intendeva riferirsi all’anno 84 a. C.[326]. Il fatto che Cicerone lo fa restare questore ancora sino al sacco di Rimini[327], il quale non potè accadere che nell’82, e ad anno abbastanza avanzato, ha dato origine ad una viva controversia sull’epoca vera della questura di Verre; onde, mentre qualcuno[328] l’assegna all’anno 84, altri[329] l’attribuisce all’anno 83, ed altri[330] ancora all’anno 82. Che Cicerone assegnasse l’entrata di Verre in carica all’anno 84 è fuor di dubbio e non pare lo facesse per una svista, giacchè egli si ferma molto alle particolarità del fatto, rileva il nome di L. Scipione, siccome quello del console succeduto a Cn. Papirio Carbone e mostra di ben conoscere il seguito de’ fatti di quegli anni, che del resto si erano svolti sotto i suoi occhi. D’altra parte per l’allusione al sacco di Rimini, per la menzione de’ conti resi a P. Lentulo e L. Triario[331], questori nell’anno 81, si deve pure ritenere, che nell’anno 82, C. Verre occupava l’ufficio di questore. Di fronte a questi fatti restano prive di valore le opinioni unilaterali di quelli che vorrebbero far valere la data di un anno o quella di un altro, e pare si debba pensare ad una prorogazione dell’ufficio o ad una rielezione di Verre all’ufficio di questore; cosa tanto più probabile in quanto avrebbe fatto riscontro appunto alla reiterazione del consolato di Cn. Papirio Carbone[332]. Cronologicamente dunque la notizia di Cicerone non offre materia ad appunti: merita bensì di essere accolto con ogni cautela il giudizio che dà del modo onde l’ufficio fu gerito e degli incidenti che l’accompagnarono. Verre infatti nell’anno 82 si staccò dalla parte mariana per aderire alla sillana, e Cicerone non ha parole sufficienti per bollare più e più volte questa sua defezione[333]. A sentire il suo accusatore, prima di tutto C. Verre non fece questa apostasia per considerazioni politiche, ma semplicemente a scopo di rapina. Infatti da’ conti resi della sua questura appariva com’egli dovesse avere ancora presso di sè seicentomila sesterzi, quanti costituivano la differenza tra il denaro ricevuto e lo speso, e, intanto, a’ suoi successori non seppe darne altra giustificazione se non d’averli lasciati a Rimini, dove a cagione del sacco doveano essere andati perduti[334]. Ora come accadessero le cose, noi non siamo in grado di dire; ma si può ben dire che la giustificazione di Verre non menava univocamente a quell’interpretazione che Cicerone le dava. E tanto più apparisce parziale, quanto più passionato ed esagerato è il biasimo che Cicerone getta su Verre, indipendentemente da ogni ragione di furto, pel semplice abbandono del suo console. Per averne un chiaro intendimento occorre mettere in relazione quel fatto con altri avvenimenti del tempo stesso. L. Cornelio Silla era da poco sbarcato in Italia e già dalla parte avversa molti cominciavano ad inclinare verso di lui. L’esercito di L. Scipione abbandonava il suo comandante e si rendeva a Silla[335], e colle vittorie de’ suoi legati e l’affermarsi della sua fortuna, la demoralizzazione e la sfiducia entravano nel campo nemico; e le diserzioni spesseggiavano tanto più, quanto l’uomo, _a’ suoi benigno ed a’ nemici crudo_, sapeva con tutte le arti del fascino personale e con tutte le minacce della più inesorabile vendetta attrarre a sè gli uomini[336]. Se qualche cosa è notevole, è precisamente questo: che Verre potè ancor tanto tempo dopo la venuta di Silla in Italia restare fedele alla sua parte, e non passò all’avversario, se non quando la sua parte si andava ormai dissolvendo senza rimedio e i suoi interessi di Romano e di nobile lo gettavano in braccio a Silla; e probabilmente non si poteva dire ch’egli abbandonava il suo console, ma che il suo console abbandonava lui e l’esercito e la sua parte, cercando in Africa uno scampo[337]. Il peggio che in questo può dirsi di Verre è che, al pari di tanti altri, in questa e nelle posteriori guerre civili, anch’egli finì per obbedire a quel senso dell’opportunità, che, se oggi è perfino il programma e la bandiera di un partito, fu sempre come la bussola de’ moltissimi che, nella vita civile e nella politica, in ogni tempo ebbero a supremo scopo all’esistenza il salvataggio della borsa e della pelle. Verre potè dire d’aver assicurato l’una cosa e l’altra. Silla lo mandò nel Beneventano tra i suoi amici, per diffidenza come vuole Cicerone[338], per ragione di uffizio, se come è lecito dedurre dalla resa di conti fatta a’ questori dell’anno successivo, egli tenne la carica sino alla fine dell’anno[339]. Silla in ogni modo, com’era natura dell’uomo, lo beneficò e lo protesse, e Verre potè andare innanzi nella sua carriera. A Roma dopo questa sua questura, rimase appena tre giorni[340], occupato del resto, come sembra, in missioni ed incarichi, probabilmente nel Beneventano. [La legazione e la proquestura di Verre.] Due anni dopo, nell’anno 80, Cn. Dolabella di parte aristocratica, stato l’anno innanzi pretore, va come propretore in Cilicia ed, a proprio legato, non sa eleggersi miglior compagno di Verre, e dopo la morte del suo questore C. Malleolo gli affida anche la gestione della questura in sua vece[341]. Che legazione e che proquestura! Qui Cicerone aggrava la mano e fa Verre responsabile non solo di quello ch’egli potè commettere, ma di quello altresì che commisero il suo capo ed i suoi dipendenti. Che cosa in verità fece di suo proposito e per suo conto, che cosa come ministro del propretore? Noi non lo possiamo sapere completamente. Dolabella era ornai tramontato dall’orizzonte e a Cicerone fa commodo addebitare tutto a Verre, anche quello di cui Dolabella era stato riconosciuto colpevole in giudizio[342], ricorrendo ad induzioni ed illazioni, invocando la testimonianza di gente danneggiata e stizzita, o disposta ad accusare anche per propria difesa[343]. In ogni modo, se anche alcuni fatti non ebbero origine in un preconcetto disegno, ma furono l’incidente di una notte di crapula[344]; se in alcuni atti egli fu il braccio allungato di Dolabella, non bisogna durar molta fatica per ammettere che il suo passaggio, più che quello di un legato del popolo romano, dovè sembrare talvolta quello di qualche infortunio[345]. Soltanto, di questi infortunî in pellegrinaggio si era destinati a vederne più d’uno. I Dolabella erano di razza rapaci e fraudolenti[346] e C. Malleolo, il questore, era tutt’altro che un puritano[347]. Un uomo dal senso morale molto mediocre, come era Verre, non poteva proporsi altro che di accomodarsi alle leggi dell’ambiente e farne suo pro, e così fece. A quella scuola egli apprese e ritenne per poi, se mai, emulare o superare i maestri. Era, pare, la sua prima scorsa su’ poderi del popolo romano ed egli vi faceva, come è dire, il suo noviziato; per non perdere tempo anzi incominciò dal viaggio. La sua casa era ancora poco adorna di statue greche, e la selvetta che la circondava sarebbe stata lieta di porgere le sue ombre alle divinità elleniche[348]; i provinciali aveano ancora molta lana da potersi tosare e, se anche un colpo di forbici arrivava alla pelle, ciò li avrebbe resi più umili; e, finalmente, a lui che usciva dalla guerra sillana, gli ozî di Marte, dio infido e terribile, doveano parere utili a propiziarsi Afrodite, e tutte le avventure galanti della provincia poteano fornire un diletto, lieto a godere oggi e bello a narrare domani. [Il viaggio.] All’opera dunque! A Sicione fa al magistrato cittadino richiesta di danaro. Non si arrende? L’avarizia può più del nome romano e della paura? Ebbene, lo si caccia in uno stambugio e, acceso un buon fuoco di legna verdi, lo si lascia a considerare se ha minor pregio l’oro, o dà maggior molestia il fumo[349]; _citra sanguinis effusionem!_ Di oro intanto sarà meno avara in Atene Minerva, e al magistrato romano che la vide e non ne partì a mani vuote, ne rimarrà due volte grato il ricordo[350]. Sono ancora troppo ricchi, troppo ornati questi templi di Grecia e d’Oriente, pur dopo che vi passò, da tanti anni, il conquistatore romano: ha troppe statue Apollo nel suo tempio, a Delo ove nacque, e nella notte è bene che ne sparisca qualcuna. Ma Apollo è qualche volta un dio iroso e capace di difendere la sua proprietà, come un qualunque avaro mortale, anche invocando da Poseidone un uragano: la tempesta infatti viene e la nave, che porta la sacrilega preda, si sfascia ed il turbato flutto del mare riporta alla riva le statue sacre di Apollo; sicchè — fu superstizione o necessità di resipiscenza? — Dolabella deve farle rimettere là donde furono prese e donde il popolo, tacito, ne deplorava la mancanza, pur non avendo il coraggio di reclamarle[351]. Ma non tutti gli dèi sanno o vogliono difendersi come Apollo: a Samo il tempio di Giunone resta a dirittura spogliato[352]; a Tenedo lo stesso dio indigete Tene non riesce a restar fermo al suo posto[353]; Diana di Perga vede depredato non solo il suo tempio, ma sè stessa degli ornamenti muliebri che porta[354]. E invano tentano gli uomini di sopperire alla neghittosità degli iddii; a’ legati di Samo, che vanno a muoverne lamento, C. Nerone risponde che vadano a Roma, e Roma è lontana, e, quando essi vi arrivino, potranno avere la sorpresa di vedere che, in prova d’animo generoso, il loro depredatore si è offerto ad ornare per un giorno delle opere d’arte rubate i fòri e le vie[355]. Intanto bellissime statue sono portate via di forza da Chio, da Erythrae, da Alicarnasso[356]; da Aspendo, in cospetto di tutti, su carri tirati da buoi s’asporta tutto quanto stava ad ornamento di edifizî pubblici e di templi e, tra l’altro, quel citarista, che per la perfezione sua era passato in proverbio e si dicea capace di cantare ogni cosa[357]. Non perdona agli dèi il nuovo padrone e tanto meno perdona agli uomini; ma, in cambio, come ama piacere, ad ogni costo, alle donne! Il suo amore egli lo insinua, lo offre per tutto, più spesso lo impone a dirittura. [L’avventura di Lampsaco.] Vi è una missione per i re Sadala e Nicomede, e Verre fa sì che Cn. Dolabella gliela commetta; una felice occasione a queste spedizioni feconde e senza pericoli. Sulla sua via è Lampsaco, ed egli vi fa sosta con tutto il suo seguito. Dolce e generoso è il vino di Lampsaco e belle ne sono le donne; ma bella più di tutte è la figliuola di Filodamo, bella e pudica. Verre è ospite di Janitore, di cui non gli riesce potere abbandonare la casa, e a Filodamo impone, ospite non desiderato, non accetto, Rubrio, un suo bracco, lo stesso appunto che avrebbe scovata la bella fanciulla. Filodamo tuttavia vuol fare ammenda dell’ospitalità mal concessa, e la casa del ricco anfitrione s’apre per accogliere, convitati da Rubrio, Verre e il seguito suo. Fu intanto pensiero preconcetto, come vuole Cicerone, o fu caso? Ma, libando e crescendo l’eccitazione del convito, Rubrio si rivolge a Filodamo per suggerirgli di chiamar lì la sua bella figliuola e, al timido schermirsi di Filodamo, altre voci si levano più pertinaci invocando la donna, e, tra le insistenze e la minacciata violenza degli uni e la resistenza degli altri, si accende una rissa in cui un littore, Cornelio, viene ucciso e donde lo stesso Rubrio esce ferito[358]. La voce e l’ira del tumulto viene il giorno appresso portata in piazza, e Verre, assalito in casa da una folla furibonda, che minaccia di metter tutto a ferro e fuoco, deve la sua salvezza soltanto all’interposizione de’ cittadini romani, che erano colà per i loro commerci[359]. E parte, rinunziando anche per ora a chiedere la punizione dell’offesa fatta alla sua autorità ed alla sua persona[360]; ma la vendetta non scende meno sicura nè meno rapida sul capo di Filodamo e del figliuolo. Cn. Dolabella lascia la sua provincia di Cilicia e l’esercito e la guerra per accorrere in Asia ed indurre C. Nerone, esitante, a punire l’uccisione avvenuta nella sua giurisdizione, e da un tribunale composto di Dolabella, de’ suoi prefetti e tribuni, dello stesso Verre e di creditori di Greci sempre ligi a’ legati; Filodamo e il suo figliuolo passano nelle mani del carnefice sul fòro di Laodicea[361], dando a tutta l’Asia spettacolo più della vendetta, che della giustizia romana. [Il brigantino di Mileto.] Pur troppo gli Asiatici erano costretti a vederne d’ogni colore. Verre passa per Mileto, ne tratta con alterigia i magistrati, e, mentre si fa ospitare lautamente, li maltratta e taglieggia la città con la richiesta di un contributo di lana; poi, partendo, chiede una nave che gli serva di scorta sino a Myndo, e, subito, con T umiltà di chi serve, gli è dato un brigantino ben allestito, ben armato, scelto tra i dieci che Mileto aveva a servizio della stessa repubblica. Ma il magistrato della repubblica è anche più infido del mare: soldati e marinai tornano, ma a piedi; il vascello non più; venduto a L. Magio e L. Fannio, dichiarati poi nemici di Roma, esso va in corsa da Sinope a Dianium, dalla Spagna al Mar Nero! E guai a muoverne pure lamento! Lettere di Dolabella arrivano e impongono che non se ne parli, che se ne cancelli la traccia dagli atti pubblici, che tutto insomma torni nel buio[362]. [Verre tutore.] Ma Verre andava omai a vele spiegate ed era la fortuna che gli gonfiava la vela. C. Malleolo, il questore, viene ucciso ed è una doppia eredità che tocca a Verre, la proquestura, che Cn. Dolabella gli affida, e la tutela del figliuolo dell’ucciso: doppia eredità; chè anche la tutela può, in certi casi e con certe persone, valere come un’eredità. Qui, a dir di Cicerone, sarebbero cominciate quelle esimie baratterie nelle compre del frumento a un prezzo designato dalla stessa legge che ne ordinava l’acquisto (_emptum_, _imperatum_), e nelle riscossioni fatte in luogo del frumento da fornire al pretore ed al suo seguito (_aestimatum_), che poi in Sicilia assunsero così larghe proporzioni. Nè si tratta di tentativi tanto timidi, se fu poi addebitato un profitto di tre milioni di sesterzî a Dolabella per frumento, cuoi, sacchi, panni, che avrebbe dovuto prendere e non prese, avendone in cambio danaro[363]. E il tutore del pupillo valeva quanto il pubblico amministratore. C. Malleolo, uomo senza scrupoli, per affermazione dello stesso Cicerone faceva il paio con Verre ed era ricco di masserizie, di servi, di crediti verso le città. In tutto questo panno ora Verre avrebbe tagliato a suo agio, senza discrezione: de’ vini, che quegli aveva in gran copia, pensò a rifornire le sue cantine; tutte le argenterie, gli schiavi, o che si raccomandassero per la bellezza dell’aspetto o per particolari attitudini, li prese per sè ed i crediti li fece a poco a poco sfumare tra le sue mani. Egli avrebbe esatto due milioni e cinquecentomila sesterzi, ma di dare i conti non se ne parlava; messo alle strette dalla madre e dall’ava del pupillo, perchè dicesse almeno quanto aveva portato, parlò di un milione, poi, per uno scambietto di cui non possiamo comprendere nulla, come nulla mostrava di comprenderne Cicerone, con una dolosa cancellatura, il milione si trovò ridotto a seicentomila sesterzi, che apparivano dati al servo Crysogono ed accreditati al pupillo Malleolo, senza che nemmeno si fossero integralmente versati[364]. [Verre e Dolabella in giudizio.] Quelli della provincia erano i giorni della gazzarra; ma, mentre il lampo dell’oro e lo strepito de’ tripudî rendeva il governatore ebbro, e come un ebbro sicuro di sè stesso, quelle lagrime di manomessi, di spogliati, di violate talvolta si addensavano lontano, a Roma, per iscoppiare loro, sul capo, al ritorno. Era il fuoco del purgatorio non acceso, oltre la vita, da una trascendente giustizia divina; ma qui in terra, e non dalla pietà verso i provinciali, ma dall’invidia, dall’avidità delusa, dall’ira di parte, dall’ambizione, da tutto il vento delle passioni insomma, che vi soffiava dentro, facendo di quei giudizî una fiamma da tregenda. Un M. Scauro della famiglia degli Aurelî[365], più probabilmente che di quella degli Emilî[366], è forse quello stesso che Cicerone poco innanzi nomina come questore in Asia[367] e che colà poteva avere avuto notizia de’ fatti, giovane d’anni ma astuto e corrivo alla vendetta, si faceva nell’anno 78 accusatore di Dolabella, chiedendogli conto del suo governo di Cilicia. Quanta parte nel malgoverno aveva avuta Dolabella? quanta ne aveva avuta Verre? Cicerone tendenziosamente ne vorrebbe addossare tutta a questo la soma, facendone quasi il solo responsabile degli stessi fatti, di cui Dolabella riportò condanna: un’esagerazione, comoda certamente a’ bisogni della causa, ma manifesta sì per la diversa posizione de’ due e sì per le stesse parole di Cicerone, quando fa intervenire Dolabella a metter la polvere sugli atti di Verre od a sperderne la traccia[368] e quando egli stesso, per induzione, arriva a concludere che se Dolabella ne fu l’autore, Verre ne fu l’esecutore materiale[369]. È chiaro in ogni modo che se il governo della provincia avea dovuto farne due amici e la concordia era sopravvissuta anche alla spartizione della preda, ora nel giudizio l’istinto della propria conservazione dovea farne due avversarî; e M. Scauro, intento sopratutto a colpire Dolabella, trasse naturalmente partito da questa posizione di cose, anche senza quell’anticipato e perverso accordo, che forse può essere una posteriore induzione di Cicerone[370]. Cicerone fa colpa anche a Verre di non aver resi i suoi conti prima della condanna di Dolabella; eppure nulla vi era di più giusto. La responsabilità anche amministrativa di Verre e la sincerità de’ suoi conti dipendevano direttamente dal grado di responsabilità di Dolabella e dalla provata verità delle sue attestazioni in giudizio; era impossibile parlare di resoconto, mentre si disputava se Dolabella avesse oppur no ricevuto, e se Verre gli avesse dati cinquecento trentacinque mila sesterzî, e se alla sua volta Verre avesse ricevuto altri duecento trenta duemila sesterzî non riportati ne’ suoi registri, e di frumento un altro milione ed ottocentomila sesterzî parimenti non riportati. Può darsi benissimo che ne’ suoi registri Verre avesse trascurato d’iscrivere i crediti verso Q. e Cn. Postumio Curzio e che avesse pure in Atene versato nelle mani di P. Tadio quattro milioni di sesterzî[371]: in ogni modo da quel processo, donde correva rischio di riuscire come un accusato, ne uscì immune. Fu a proposito di questo giudizio che Verre dovette trattenersi in Roma tre giorni[372], la sola dimora da lui fatta in città dopo l’esercizio della sua questura, a quanto almeno dice Cicerone; e, se ciò è vero, questa sua breve fermata e la lunga assenza valgono anche a togliere credito a’ maneggi che Cicerone gli attribuisce nella causa di Dolabella. [La pretura di Verre.] Dove fu e che cosa fece, dopo ciò, per più che tre anni? Poichè era questo il tempo in cui la parte mariana, rifatta ardita dalla morte di Silla, faceva una nuova levata di scudi in Italia e maggiore anche e più fortunata nella penisola iberica; è probabile che Verre non restò inoperoso e contribuì a sostenere le sorti della parte aristocratica di cui era un campione. È notevole che Cicerone per questo triennio e più non gl’imputa niente di determinato, e, benchè dica che la cronaca cittadina non cessa di occuparsi di lui e non per festeggiarlo, non è improbabile ritenere che, durante la sua lontananza, gli echi di fatti suoi non commendevoli, che aveano potuto ripercuotersi nel processo di Dolabella, si andarono spegnendo, e con essi, come per chi è lontano suole appunto avvenire, molte ire e rancori. Quando Verre tornò a Roma nel 679 (75 a. C.), vi tornò per essere elevato ad una delle più alte cariche dello Stato, a quella che, se poteva essere seconda in importanza ad un’altra, poteva in dignità ritenersi non seconda ad alcuna. Verre divenne pretore. Fu tutta opera della corruzione elettorale e di nient’altro che della corruzione? Cicerone lo dice nella forma più esplicita e tale che non ammette repliche. Trecentomila sesterzî distribuirono per suo conto i _divisores_ ed ottantamila n’ebbe l’accusatore perchè recedesse dall’accusa[373]. Certamente il credere alla corruzione non è fare ingiuria nè all’uomo, nè a’ tempi; l’uno e gli altri anzi lo suggeriscono; ma non bisogna neppure dimenticare che un uomo come Verre, duro, inesorabile ostinato e senza soverchi scrupoli, era per la parte in cui militava, e lo mostrò, uno strumento non trascurabile, ed il potere della parte aristocratica, allora prevalente, va pure tenuto in conto. Comunque ciò fosse, quando il suo nome uscì trionfante dal voto dei comizî, egli dovè sentire tutto l’orgoglio e la gioia di chi è salito così alto che non ha se non da tendere la mano per afferrare il supremo fastigio del potere. Anche la sorte lo favoriva; egli era pretore urbano[374]. Strumento ed artefice al tempo stesso della legge, egli si assideva oggi in Roma come l’arbitro della giustizia civile; e, tra un anno, l’aspettava la provincia, dove, questa volta, con autorità incontestata, e se dio voglia, con migliore fortuna avrebbe compiuta quello che aveva fatta ed anche quello che forse non aveva fatto Dolabella. Ma dunque, o Cicerone, è un pirata che si accampa nel fòro di Roma?[375]. Il pretore — occorre appena rammentarlo — non era semplicemente l’esecutore della legge, stretto dalla parola di essa in determinati confini ed a spiegare l’opera sua soltanto caso per caso. Fra gli elementi che concorrono all’esplicazione della coscienza e della vita giuridica romana, il pretore è l’elemento più vivo ed operoso, e il suo editto è lo spirito innovatore che svolge le istituzioni e le leggi antiche e le adatta alle nuove condizioni di vita; deriva da’ nuovi rapporti economici e sociali le nuove norme giuridiche e segue assiduamente Roma in questo allargamento progressivo della sua sfera di azione ed in questa graduale fusione della civiltà cittadina con la civiltà universale. Quanto più vasto il compito adunque, tanto più facilmente irto di pericoli, fecondo di errori; ed il rimedio a tutto non era in una espressa disposizione di legge, ma piuttosto nella natura transitoria del provvedimento, nel divieto al suo adempimento opposto da un magistrato di potere uguale o maggiore, nel limite sopratutto che ciascuno dovea sapere imporre a sè stesso. Ancora un freno di meno: l’editto non era il programma del candidato, che diveniva legge poi per l’eletto; ma uno schema, neppure rigorosamente obbligatorio, del pretore designato ad entrare in funzione. Che cosa non dovea prestarsi a divenire un tale ufficio nella Roma del settimo secolo, divenuta il mercato del mondo, in quella gara intemperante di ambizioni, d’interessi, di cupidigie, e come doveva essere ben saldo sulla sua sedia curule il pretore per resistere a quel cozzo, e quante volte vi restava saldo? E che cosa ne fece Verre? Che pagina scrisse egli in questa storia sì gloriosa, se guardata a grandi tratti, della pretura romana? L’opinione di Cicerone è risaputa: la pagina che Verre vi scrisse, fu quale l’avidità potea suggerire, la malafede dettare, e l’insipienza scrivere. Designato pretore non fece che tessere tutta una rete piena di viluppi per tenderla poi ne’ giorni dell’uffizio: tale è il suo editto. Non è nemmeno la manifestazione di uno o di un altro concetto giuridico; è, così, un ingegno messo insieme per prede predestinate. E Cicerone, al giorno del giudizio, ne strappa via alcuni nodi e alcune maglie per agitarli innanzi a’ giudici e al popolo, onde tutti li vedano, tutti concepiscano il resto. [L’eredità di P. Annio.] P. Annio Asello è morto, che era ancor pretore C. Sacerdote, il predecessore di Verre: non avea che una figliuola e la legge Voconia, rogata secondo la data più probabile[376] novantaquattro anni innanzi, nel 585 (169 a. C.) dal tribuno Voconio, favente Catone, avrebbe potuto toglierle o limitarle il diritto ereditario; ma egli non era censito ed il diritto ereditario della figliuola così resta salvo. Pure così non pare a Verre. Giacchè vi è un L. Annio, erede secondo chiamato, a quanto dice Cicerone, Verre lo fa venire a sè, si accorda con lui, ed ecco introdotta nell’editto una regola interpretativa della legge Voconia, e con effetto retroattivo per giunta, per cui la figliuola di P. Annio vien dichiarata incapace di succedere al padre e l’eredità si devolve a L. Annio[377]. [L’eredità di P. Trebonio.] P. Trebonio muore lasciando varî eredi, tra i quali un suo liberto e, poichè suo fratello A. Trebonio è proscritto e non può essere suo erede, impone agli eredi istituiti di giurare che farebbero in modo di far arrivare ad A. Trebonio almeno la metà di ciascuna porzione ereditaria. Gli eredi, consapevoli della legge Cornelia che interdiceva qualsiasi aiuto al proscritto, vanno da Verre, mostrano l’impossibilità legale del giuramento e sono immessi nel possesso dell’eredità: più ingenuo il liberto presta il suo giuramento e ne è escluso[378]. Ancora. Muore durante la pretura del predecessore di Verre, di C. Sacerdote, C. Sulpicio [L’eredità di Sulpicio Olympo.] Olympo ed istituisce suo erede M. Ottavio Ligure, uomo di posizione molto elevata per nome, qualità personali ed opulenza. M. Ottavio Ligure era stato già immesso nel possesso dell’eredità dal pretore C. Sacerdote, quando l’anno appresso, sotto la pretura di Verre, la figliuola del patrono di Olympo si fa a chiedere la sesta parte della sua eredità. Nell’assenza di M. Ottavio, il fratello Lucio, e con lui altri amici e parenti, cercano tutelare il suo interesse: L. Gellio ne assume il patrocinio, sopravviene in fine lo stesso M. Ottavio e cerca far intendere a Verre le sue ragioni e che il suo editto non può avere effetto retroattivo e via; ma Verre gli fa intendere alla sua volta, senza ambagi, che non è questione di argomenti giuridici e disquisizioni legali, è soltanto questione di quattrini[379]. Cicerone dice di poter evocare seicento sentenze almeno, che hanno in sè stesse l’impronta della corruzione[380]. Si trattava di una realtà o di una amplificazione? Non è punto difficile propendere per questa seconda opinione. Che che ne dica Cicerone, i tre casi innanzi esposti, che sono i tre esempi addotti da Cicerone, non sono tali da far dire che Verre uscisse assolutamente fuori della legalità, decidendo come decise. [Verre e la _lex Voconia_.] Noi non possiamo dire di conoscere veramente bene la legge Voconia, giacchè le notizie, che su di essa ci sono pervenute, sono in parte incomplete, e in parte contraddittorie[381]. Due tratti dello stesso Cicerone, che si riferiscono ad essa[382], se a qualcuno sono sembrati atti ad essere conciliati[383], ad altri sono sembrati assolutamente repugnanti. E discordanti sono ancora sembrati un luogo di Gaio[384], ed un altro di Cicerone[385], che si riferiscono non alle regole dell’eredità, ma a quelle de’ legati, imposte dalla legge Voconia. Stando alla relazione che l’epitome liviana (l. c.) dà della legge Voconia, il procedimento di Verre sarebbe stato affatto conforme al precetto legislativo; giacchè il divieto di istituire erede una donna sarebbe stato generale e non limitato a’ cittadini aventi un censo maggiore di centomila assi. Ma forse potrà ritenersi che l’epitome, per lo stesso sforzo di essere compendiosa, sia riescita monca; e sia. Sia dunque il divieto limitato come Gaio[386] vuole a’ testatori aventi un censo superiore a centomila assi. Di che cosa Cicerone fa colpa a Verre? Non già di avere escluso a torto dalla successione di P. Annio la figliuola perchè unica; bensì di averla esclusa a torto, perchè suo padre non era censito. Anche qui l’uso della parola «censito» ha generati alcuni equivoci sulla legge Voconia; quasi che per Cicerone, essa si riferisse a tutti i censiti, non a quelli della prima classe soltanto. Il concetto di Cicerone non è questo: egli intende dire semplicemente che P. Annio, se fosse stato censito, sarebbe stato annoverato nella prima classe; ma egli non era stato censito. E perchè non era stato censito? Nessuno ce ne dice categoricamente la ragione; ma, rammentando le fasi cui andò soggetta la censura dopo Silla, che, se non l’abolì di dritto, l’abolì di fatto[387], intenderemo facilmente che P. Annio, il quale forse appunto in quel giro d’anni avrebbe dovuto essere censito, non fu iscritto per la mancata redazione delle nuove liste. Ciò posto, nell’applicazione della legge Voconia, doveva aversi riguardo al vecchio censo od alle nuove mutate condizioni di fatto? È chiaro che il diritto pretorio specialmente, che aveva uno scopo eminentemente pratico, dovea attenersi a questa seconda norma; e a questa si attenne Verre. Che P. Annio fosse un uomo facoltoso, risulta da tutto il complesso della narrazione di Cicerone, e questa, cui si è accennato, è la maniera più probabile di spiegare come egli non fosse compreso nel censo. E nel caso suo doveano trovarsi anche più e più altri; e la legge Voconia sarebbe stata praticamente elusa, anche più che non si tentasse di fare con altri mezzi[388]; onde il provvedimento di Verre, anche volendo disputare sulla sua legalità, era in ogni modo giusto. Ed allora sembra che non vi fosse nemmeno ragione di parlare di un effetto retroattivo arbitrariamente dato da Verre alla norma da lui stabilita. Anzi tutto il divieto della retroattività non fu mai così assoluto, specialmente nella sua pratica applicazione[389], come si potrebbe credere; e sopratutto, quando si poteva trattare di norme di ordine pubblico, nel novero delle quali bisogna far entrare la legge Voconia. Per giunta poi, qui non si trattava di una nuova legge, ma di una interpretazione di una legge già esistente e di un suo adattamento alle innovate condizioni dello Stato; e non si vede quindi sino a qual punto si potesse parlare di effetto retroattivo e di violazione di diritti quesiti. [Verre e la _lex Cornelia de proscriptis_.] Che se poi si guarda alla condotta di Verre nell’altro caso, nella successione di P. Trebonio, la sua giustificazione è più che mai evidente. Se infatti la _lex Cornelia de proscriptis_[390] vietava qualunque aiuto a’ proscritti, ne confiscava tutti i beni e li rendeva perfino incapaci di ereditare nelle successioni legittime; il testamento di P. Trebonio offendeva direttamente quella legge. Che doveva fare Verre in tal caso? Per quella norma giuridica appresso anche più recisamente prevalsa, per cui la condizione illecita negli atti di ultima volontà non gl’invalida, ma ne resta invece invalidata, l’eredità bene ricadeva a quegli eredi che, consapevoli della legge, non giurando, mostravano di non osservare la condizione apposta al lascito; e Verre gl’immise senz’altro nel possesso dell’eredità. Quanto al liberto, Cicerone stesso riconosce, che, col suo giuramento, se fece atto di ossequio alla volontà del suo patrono, fece del pari cosa contraria alla legge; soltanto sembra intenda che Verre avrebbe del pari dovuto immetterlo nel possesso ereditario, curando poi con un’azione indipendente di sottoporlo alla pena conveniente e privarlo anche dell’eredità per la violata disposizione di legge. Ma, se anche tutto questo lungo rigiro poteva rispondere al rigoroso schematismo della procedura ed alla lettera delle leggi, era nell’indole del diritto pretorio di giungere allo stesso risultato per via più spedita, e non di altro poteva farsi colpa a Verre. [Verre e il diritto successorio de’ patroni.] Che dire del caso di M. Ottavio Ligure? La condotta di Verre a quel proposito trova la sua spiegazione e la sua giustificazione nelle vicende legislative del diritto ereditario de’ patroni verso i liberti. Quel diritto, il più importante, si può dire, di tutti quelli competenti a’ patroni, dopo la introduzione della più ampia libertà di testare, di cui, come ogni altro cittadino, si avvalevano i liberti, finiva per essere illusoria. L’equità pretoria, che anche in questo caso interveniva per sovvenire alla deficienza della legge, a questa _iniquitas_ anzi, dice Gaio; per mezzo della _bonorum possessio_, assicurava il diritto del patrono, garentendogli, in mancanza di figli naturali la metà de’ beni del liberto[391]. La regola seguita da Verre fa parte di tutto questo indirizzo della giurisprudenza pretoria, che regolò questo argomento, specialmente sino alle leggi introdotte sotto Augusto. Nè potea costituire un ostacolo il possesso dell’eredità già ottenuto da M. Ottavio sotto C. Sacerdote, sia perchè la _bonorum possessio_, specialmente nel suo periodo più antico, ebbe un carattere temporaneo e mirò a costituire uno stato di fatto; sia perchè la figliuola del patrono di C. Sulpicio Olympo, che si faceva ora a domandare da M. Ottavio la sesta parte dell’eredità, non potea essere stata pregiudicata da quel fatto, cui era rimasta estranea, e poteva, da varî punti di vista, ripetere da M. Ottavio, successore di C. Sulpicio, tutto ciò che le toccava. L’altro tratto dell’editto[392] riguardante la validità del testamento e la trasmissione dell’eredità, consente l’esame anche meno, se si considera che in un punto è d’incerta lezione[393]. [La giustizia di Verre.] Guardando specialmente a’ casi precedenti, appare quanto fosse esagerato ed anche ingiusto il biasimo di Cicerone; e, messo invece l’editto in rapporto con tutta l’evoluzione della coscienza giuridica romana e delle sue forme, non appare che Verre si fosse veramente allontanato dall’una e dalle altre. Nè depone veramente contro di lui il fatto che alcuni di quei precetti da esso introdotti nell’editto urbano scomparvero dal provinciale[394], giacchè e l’esperienza fatta e le diverse condizioni di vita potettero suggerire il mutamento. Ciò intanto non vuol punto dire che Verre fosse il modello de’ giudici e che, nel campo pratico specialmente, la giustizia trovasse ne’ suoi pronunziati la migliore espressione. Uomo di partito, eletto co’ voti e con l’appoggio di un partito contro di un altro, egli non trovava modo di scordarsene nell’amministrare la giustizia. A lui, campione della parte aristocratica, quei liberti, que’ plebei e tutti in fine gli avversarî doveano parere gente da potersi impunemente mettere fuori della legge, conculcare, taglieggiare anche all’occasione. I nomi di quelli che si dicono lesi da lui durante la sua pretura, Annio[395], Junio[396], Ottavio fors’anche, sono nomi di plebei, e plebei erano pure con poche eccezioni i Minucii, che aveano dati già tribuni alla plebe[397]. Trebonio era un cavaliere ed era un proscritto. Pare che la sua pretura ebbe questo carattere prevalentemente partigiano, tanto che L. Pisone[398] suo collega nella pretura dovette più volte colla sua interposizione impedire l’esecuzione de’ suoi atti. Q. Opimio tribuno della plebe, menato in giudizio innanzi a Verre, o che, nella gestione del suo officio, avesse semplicemente detto, come vuole Cicerone, qualche cosa contro il volere di qualche nobile, o che davvero avesse interposto il suo _veto_ contro la legge Cornelia; dopo una causa di tre ore semplicemente, ne uscì privo de’ suoi beni, di ogni avere, di ogni grado[399]. Ma non soltanto per passione politica pare che traviasse Verre: l’oro che tutto poteva e tutto faceva, a’ suoi tempi come o un po’ più che in certi altri, riesciva a tirarsi dietro a sghimbescio la sua giustizia. Almeno, salvo il valore delle loro testimonianze, erano in parecchi ad attestarlo in giudizio, anche per questo periodo[400]. [Chelidone.] Sopratutto poi a’ varî fonti di diritto conosciuti sin qui se ne era aggiunto un altro: Chelidone. Col crescere della raffinatezza e del lusso, Roma era invasa pure da una folla di quelle etère che già in Grecia avevano tenuto lo scettro; e la Grecia vinta signoreggiava il conquistatore anche con le deboli e delicate mani di queste sue donne. Esperte di tutte le arti di piacere, colte anche qualche volta, piene di capricci e di bizzarrie, strano impasto di tenerezza e di malizia, quali ci appaiono specialmente nei poeti del secolo che finisce e di quello che incomincia; esse erano fatte per abbagliare, attirare e conquistare i conquistatori del mondo, e, in tempo di prosperante arbitrio e di crescenti poteri personali, portare più che mai il coefficiente dell’alcova nell’alchimia della politica contemporanea. In una di queste amabili panie era andato ad invischiarsi Verre. _Lei_ si chiamava, o si faceva chiamare Chelidone: rondine; un nome, specialmente per l’epoca quasi sentimentale, il nome dell’uccello commisto alla triste favola di Tereo, dell’uccello cantato da Anacreonte, un nome bello e sonoro che aveva in sè come un’eco indistinta di risorgenti primavere e d’autunni morenti, di lunghe lontananze e di fedeli ritorni. _Lui_, n’era preso, pare, alla follia, e la piccola mano che regge col freno il pretore, reggerà anche la pretura ed i giudizî[401]. O litiganti, a che affollare la casa del giureconsulto ed impetrare il parere di Scevola e l’opera dell’avvocato? Benchè sia la via diretta, nondimeno è la più lunga e spesso non vi conduce in porto. La chiave della pretura e del cuore del pretore è nelle mani di Chelidone; e nella sua casa s’agitano e si decretano le sorti d’ognuno. La sua casa è gremita, come non mai casa di giureconsulto, ed ella si asside, sibilla del nuovo oracolo; chi chiede di essere messo in possesso, chi di non esserne espulso, chi di essere posto al coverto da un giudizio che non vuole, chi l’attribuzione delle cose contese e chi numera quattrini e chi suggella scritture[402]. È la casa dell’etèra o l’aula della giustizia? L’una cosa e l’altra, che tendevano — e forse non allora soltanto — a divenire una cosa. E l’oro che affluisce colà, ora e poi, per una via o per un’altra, pure va a finire in mano di Verre! Anche morendo due anni appresso (72 a. C.) Chelidone è provvida tanto da pensare a che il gaudio dell’erede renda meno amare le lagrime dell’amante[403]. Chelidone infatti morì sotto il consolato di Cn. Lentulo e L. Gellio[404]. [La manutenzione de’ pubblici edificî.] Nè in quella pretura, sembra, mancavano a Verre ed a Chelidone l’occasione di rimestare e brogliare. La mancanza di censori faceva sì che gli appalti della manutenzione di pubblici edifici entrassero tra le incombenze de’ consoli o de’ pretori ad essi sostituiti, e qui anche più, od anche più palesemente, a quanto dice Cicerone[405], Verre si creò un largo campo di azione. L. Ottavio e C. Aurelio consoli nel 75 a. C.[406] e con essi i pretori C. Sacerdote e M. Caesio non avevano potuto farsi dare la consegna degli edificî sacri, la cui manutenzione aveano dato in appalto, e con apposito senatusconsulto l’incarico di esaurire tale compito venne dato a’ pretori C. Verre e P. Celio[407]. A dire di Cicerone, Verre ne fece di tali e tante nel disimpegno di questo suo ufficio, che la voce ne correva in città, e ad attestarlo non facevano nemmeno difetto testimoni anche della sua parentela. Pure ve n’era uno, che, per le sue particolarità e pel suo carattere manifesto, faceva sì che tutti gli altri impallidissero a suo confronto; una cosa non da sentirsi soltanto, ma da vedersi ogni giorno e da tutti. P. Junio, un uomo della plebe, avea preso in appalto sotto il consolato di L. Silla e Q. Metello nell’anno 80 a C.[408] la manutenzione del tempio di Castore, il celebre tempio votato, secondo la tradizione, nella battaglia al lago Regillo e dedicato sedici anni dopo[409]; ed è probabile che non prendesse quell’appalto per la prima volta, anzi l’avesse già avuto da cinque anni innanzi sotto la censura di L. Marcio e M. Perpenna[410]. Morto prima di dare la consegna, lasciò un figliuolo minore in tutela di L. Habonio o Rabonio[411], di P. Tizio o Tettio[412] e M. Marcello. La grandezza e la magnificenza del tempio potevano fare sperare a Verre di trovare pingui lucri dall’approvazione di quell’appalto, e con tali auspicî Verre si appresta a farla; ma, il pretesto? Il tetto bellamente ornato, tutte le cose nuove e tenute in ordine non erano fatte per offrirlo. Verre è in imbarazzo e con lui quei bracchi, che, per suo stesso detto, numerosi gli erano intorno, quasi a scovare la preda; nulla promette ad essi neppure il loro fiuto, e un di loro, levando in alto il naso, in aria di sconforto: Nulla, dice, o Verre; nulla, nulla, fuorchè se vuoi chiedere che le colonne sieno messe a perpendicolo. A perpendicolo? È un modo di dire, e, a sentir Cicerone, Verre non lo comprende nemmeno; ma, quando gli viene chiarito, il motto diventa per lui una trovata, ed ha già il capo in mano per volgere la cosa in suo profitto. Ma appaltatore pel nuovo quinquennio è quello stesso Habonio, tutore del pupillo Junio. La cosa dunque gli sfuggirà di mano? Verre non si arrende per così poco, e dopo breve tratto di tempo, avendo a consiglieri la paura e la speranza, Habonio è già dalla sua ed anch’egli vuole le colonne a perpendicolo. La casa di Junio è messa in agitazione; gli zii C. Mustio e M. Junio, il tutore P. Tizio, messi in trambusto, vanno a prendere consiglio dall’altro tutore M. Marcello e costui va egli stesso da Verre per distornare il male minacciato: tutto inutilmente. Dunque non vi è via di uscita? Forse ve n’è una: sotto la pretura di Verre quel che non può Marcello, può Chelidone; e C. Mustio, M. Iunio, P. Tizio vanno, nuovo pellegrinaggio, da Chelidone. C. Mustio è l’oratore de’ nuovi legati, e Chelidone, per quella che ella è, li accoglie, si direbbe, onestamente, ed onestamente li congeda. Verre non ama soltanto Chelidone; ama l’oro e Chelidone; e assai guadagno spera avere da quest’affare, nè sa acconciarsi a rinunziarvi. Si torna allora da Habonio: l’opera può costare quarantamila sesterzi, non più; si pattuisce per duecentomila. Ma neppur di questo Verre è contento; egli dunque darà l’opera in appalto, e senz’altro la mette in appalto, senza indire il giorno e senza avvisi, durante gli stessi _giuochi romani_, nel fòro ornato per quella solennità. Pure i tutori vi accorrono: M. Junio, lo zio, alza il dito, chiedendo per sè l’appalto. La preda sfuggirà dunque di nuovo a Verre? No, sinchè non gli verrà meno un espediente; e d’espedienti egli non è a corto così facilmente. Verre si perde d’animo per un momento, ma poi si riprende, ed una clausola che vieta al pupillo di concorrere all’appalto ha tutto rimediato. Si tratta di un’aggiunta già fatta da tempo, o immediatamente per quel caso? Pare fatta immediatamente. Inoltre, ad escludere ogni altro, si fissa all’esecuzione dell’opera un termine brevissimo, dagl’idi di Settembre alle calende di Decembre. Così l’opera, che M. Junio volea compiere per 400.000 sesterzî, viene data ad Habonio per 560.000. Ma, in compenso, Verre tiene alla regolarità del contratto; abbonda in cautele, è provvido e previdente. Non si tratta che di scomporre le colonne e ricomporne le parti con maggiore regolarità; non vi è dunque materiale vecchio da scartare, nè nuovo da adoperare; tutto consiste nella mano d’opera e nell’impalcatura; in ogni modo Verre prevede ogni danno, che l’appaltatura possa arrecare e gliene impone il risarcimento; gli prescrive di eseguire regolarmente l’opera in ogni sua parte, gli attribuisce infine il materiale di scarto e, tra l’una cosa e l’altra, non dimentica di disporre che il prezzo dell’opera appaltata venga pagato prontamente; dimentica bensì di esigere poi il compimento dell’opera e collaudarla. In cambio ha una mezza resipiscenza, che gli fa condonare a Giunio 110.000 sesterzi su 560.000. [La _sortitio iuniana_.] Così Verre regolava gli appalti, e a chi creda scorgervi qualche inverosimiglianza — nè io oserei asserire che non ve ne sieno — si deve rispondere, riferendosi a Cicerone[413] come l’Ariosto a Turpino. E di questa pretura urbana altro non ci dice Cicerone, solo, egli maestro di sottintesi e di reticenze, sotto la forma della preterizione, lancia, come la freccia del Parto, l’ultima accusa; una gherminella di Verre per riversare, allontanandola da sè, su C. Junio tutta la colpa delle corruzioni avvenute nel processo Oppianico. È un’accusa che Cicerone ripeterà anche alcuni anni dopo, difendendo A. Cluenzio[414]. Ma contro la sua affermazione stava il giudicato da cui era stato condannato C. Junio; perchè i giudici non aveano creduto a costui ma a Verre, e, non trovando confermato dagli atti di Verre il sorteggio de’ giudici di Oppianico, aveano ritenuto irregolare il sorteggio e colpevole di corruzione C. Junio. Del resto Cicerone non v’insiste; la gestione della pretura era per lui come un utile preambolo per meglio potersi domandare: Che cosa farà fuori d’Italia costui, se tale si è mostrato nello stesso fòro romano? e quale sarà con i provinciali, chi tale è stato con i cittadini?[415]. Ed un preambolo si può dire fosse per lo stesso Verre la pretura urbana. Già sin dal primo entrare in ufficio la provincia dovea allettarlo con le seduzioni del futuro, e, come più l’anno procedeva, l’isola da’ molti armenti e da’ floridi campi e dalle piazze fastose doveva attirarlo con il fascino della terra promessa. L’anno 73 spuntava ben auspicato per C. Verre. In Sicilia risorgono forse tutte le speranze, le aspettative, le illusioni, i timori che un mutamento di padrone suol destare. O terra di Aceste, è un altro lontano nipote di Enea che viene a renderti il guiderdone dell’ospitalità data all’antenato, e si appresta a scrivere nella tua storia secolare una dolorosa pagina, che non è la prima e, purtroppo, non sarà l’ultima. VI. QUASI IN PRAEDAM [Verre e i suoi accoliti in Sicilia.] E con quanti bracchi, o fondo del popolo romano, il tuo padrone manda in caccia il suo ministro! Sono e saranno con lui il figliuolo[416], il genero[417], i legati, tra cui Q. Tadio suo parente[418] e P. Cervio[419], i questori T. Vezio[420] fratello di suo cognato, P. Cesezio[421], Postumio[422]; ma non tutti sono buoni bracchi e ad ogni conto sono pochi. Egli ha perciò la sua coorte, l’aruspice Volusio, il medico Cornelio[423], il liberto Timarchide, suo ministro[424] Cornificio lo scriba[425]; ed, a coadiuvarlo ancora, intorno a lui, come per un misterioso richiamo, si aggruppano altre umane arpie, quali venute d’Italia, quali attratte presso al governatore da ogni punto della Sicilia: Nevio Turpione, uomo corrotto e violento[426], Volcazio, cavaliere romano[427], Valenzio, interprete, non della lingua greca soltanto, ma della rapacità del pretore[428]; Claudio il cinico, bruno e da’ crespi capelli[429], Theomnasto siracusano[430]; Escrione e Cleomene i due mariti indulgenti[431], Atidio[432], Jerone e Tlepolemo, i due cani di Cibyra[433], Carpinazio, preposto all’azienda de’ pubblicani in Sicilia[434], Papirio Potamone[435]; e con questi tutta un’altra schiera di liberti, servi fuggitivi, aruspici, medici, prefetti, banditori, littori[436], che andavano da Apronio[437], uno stratega della corruzione, la mente e il braccio di Verre, a L. Sestio[438], il carnefice, la mano passiva, che colpiva inesorabilmente. Non mancano veramente i bracchi a Verre per iscoprire la preda e per impadronirsene, e poi egli ha già tutto un piano prestabilito: il suo fine odorato l’ha già da Roma messo sulle tracce, ed egli sa già di là dove metter le mani[439]. E non perde tempo. [L’eredità di Apollodoro Laphirone.] [L’eredità di Sosippo e Philocrate.] Apollodoro Laphirone è morto ed ha lasciato erede il figliuolo di Dione di Halaesa con l’obbligo di porre alcune statue nel fòro, e con la minaccia di una multa a favore di Venere Erycina, se ciò non faccia. L’eredità si è devoluta sotto C. Sacerdote, la condizione è adempiuta, e l’erede gode in pace la ricca eredità. Ma Verre è appena giunto a Messana, la città complice, la ricettatrice delle sue ruberie[440] e il giorno stesso in cui vi giunge[441] (proprio il giorno stesso?) fa chiamare Dione, uomo primario, fatto poi da Metello cittadino romano, e gli dice di voler giudicare dell’eredità pervenuta al figliuolo di lui. Giudicare di che, se non vi è ombra di dubbio o di contesa? Ma Venere è la dea del gioco, e, se la sorte aiuti, qualcosa ne uscirà. Il tempio del monte Eryce ha un magistrato, che ne può rivendicare i diritti, uno de’ questori; pure chi si presenta a rivendicarli è quel Nevio Turpione che sappiamo. La causa si fa, e Dione vince la causa, ma perde la lite. Venere non ottiene la multa; ma un milione di sesterzî dalle mani di Dione passa in quelle di Verre, e branchi di cavalli ed argento lavorato e tappeti dalla sua casa passano ad ornare quella del pretore[442]. Venere in verità, non ha campione più disinteressato di Verre. Due fratelli di Agyrrium, Sosippo e Philocrate[443], hanno avuta per testamento dal padre l’eredità sotto condizione di pagare una multa a Venere, se in un certo luogo si faccia una certa cosa. Nel ventesimo anno, dopo che tanti pretori, tanti questori e tanti calunniatori v’erano stati in Sicilia, viene loro mossa la causa; e quattrocentomila sesterzî dati a Volcazio fanno loro vincere la causa; ma la vittoria loro è più nefasta di quella di Pirro[444]. [I metodi giudiziarî di Verre.] Tutto l’ampio e, si può dire, infinito potere che è nel diritto di giudicare e ch’è la condizione della conservazione di ogni avere e di ogni diritto, Verre l’usava, a quanto dice Cicerone, in maniera da raggiungere l’effetto opposto, determinando in forma equivoca la questione della causa, storcendo l’ordine de’ giudizî, violando le giurisdizioni e le competenze. Con la divisione della procedura _in iure_ e _in iudicio_, in questa seconda fase del giudizio non si faceva che applicare e trarre alle sue conseguènze concrete una premessa posta dal magistrato. Perciò, malgrado l’apparenza contraria, il destino della causa era in mano di costui, e il _iudex_ poteva divenire in mano sua il materiale strumento del suo volere. A sentire Cicerone, Verre poneva i giudici del fatto alle prese con questioni del genere di queste[445]: «Se pare che il fondo capenate, intorno a cui verte la lite, appartenga, secondo il diritto quiritario, a P. Servilio, nè tal fondo verrà reso a Q. Catulo — fa che gli sia reso[446]»; oppure: «Se non accetta ciò che tu dici di dovergli, menalo in giudizio; se agisce per ottenere quel che pretende, menalo in carcere[447]». Riesce evidente che con questi responsi sibillini, anzi con queste trappole, non v’era alcuno che potesse sfuggire ad una voluta condanna, nè il _iudex_, fosse stato un uomo comunque si voglia dotto e ligio al dovere, poteva evitare di compiere una madornale ingiustizia. Similmente tutte le leggi riflettenti l’ordinamento giudiziario in Sicilia e l’autorità chiamata a giudicare ne’ vari casi di controversie sorte tra Siciliani e Siciliani o tra privati e città, o tra Siciliani e cittadini romani, o tra agricoltori e decumani od in altri casi ancora, erano, come Cicerone vuole[448], completamente eluse da Verre, mercè una pena comminata nel suo editto a chi indebitamente si attribuisse la funzione di giudicare. Una tale minaccia, pendente, come la spada di Damocle, su chiunque si accingesse a giudicare, facea sì che, pur restando ferme astrattamente le norme di rito giudiziario, in realtà tutto si facea a posta di Verre; giacchè o il giudice designato cedeva il campo, o giudicava, ma senza libertà di coscienza. E, nella massima parte de’ casi, il posto che avrebbero dovuto avere giudici tratti dal _conventus_ e dai _negotiatores_, lo prendeva la coorte, e qual coorte! di Verre. La violazione di queste forme era della massima conseguenza, perchè la loro eliminazione, specie se fatta a disegno, privava di ogni garanzia i litiganti; e Cicerone tende appunto a dimostrare con varî esempi i fatti ed il motivo di essi. [L’eredità di Eraclio Siracusano.] Eraclio siracusano[449], già ricco del suo, ha da un altro parente, anch’esso di nome Eraclio, un’eredità di circa tre milioni di sesterzi e con essi una casa ben fornita di stoviglie di argento e di tappeti e di schiavi. La cosa è, come dire, l’avvenimento del giorno e tutti ne parlano. Verre non solo lo sa per sentita dire, ma vi è chi richiama la sua attenzione e gli fa vedere l’agevolezza di entrare come coerede dell’erede. Cleomene ed Escrione, i due mariti compiacenti, Theomnasto, Dionisodoro, gli stanno all’orecchio; Eraclio è vecchio, poco svelto; di protettori altri non ha che Marcello, e Marcello è a Roma: che più? Pel testamento egli ha l’obbligo di ergere statue nella palestra, e, se anche egli ve l’abbia poste, ciò può esser tal rampino da tirar appresso l’eredità ed il resto. E Verre non se lo lascia dire la terza volta; la cosa gli piace e, detto fatto, i palestriti indicono ad Eraclio la causa. Viene il giorno assegnato, ma Eraclio invoca il beneficio del termine che gli viene dalla legge Rupilia e che gli concede trenta giorni. Verre si rassegna, ma dopo i trenta giorni la causa di Eraclio ricomparisce con precedenza su tutte le altre, rinviata per l’occasione: e si è già al sorteggio; almeno Verre fa le viste di farlo. Se non che gli attori in giudizio chiedono che scelga egli cinque giudici da quelle città che convengono a quel fòro pe’ giudizi. Eraclio, ed i suoi avvocati con lui, chiedono che si faccia il sorteggio, quale la legge Rupilia vuole; ma invano: cinque giudici sono scelti a piacere, senza sorteggio, senza facoltà di ricusazione, senza alcuna norma prestabilita, e la causa è rinviata al giorno appresso. Che scampo resta ormai ad Eraclio? Nessuno fuori che quello de’ deboli, la fuga. Solo la sua contumacia potea riuscirgli di qualche aiuto, rendendo più odiosa la grave condanna, l’assegnazione non legale de’ giudici e il resto, e quella notte stessa Eraclio lascia Syracusae. Il giorno del giudizio è venuto, e, poichè è giorno di raccolta, questa volta Verre si è levato di buon mattino per metter mano alla messe. Eraclio è assente? Che importa? ed incita i giudici a condannarlo, ma questi stessi, un po’ più peritosi di lui, ottengono che si rimetta la cosa all’ora decima; poi lo stesso Verre ha qualche esitazione, e, ritornando su’ suoi passi, scarta i cinque giudici scelti e, ritornando alla legge Rupilia, trae a sorte tre giudici. Ma è tutta una lustra; in fatto, questi han l’ordine di condannare e condannano. E quale condanna! Non solo Eraclio perde l’eredità di tre milioni, ma quello che il testatore, indipendentemente dal testamento, gli aveva dato prima di morire; persino quello che gli era venuto dal padre. La sua casa è addirittura messa a sacco, e l’argento scolpito, i vasi corinti, i tappeti, il meglio degli schiavi prendono la via della casa di Verre. E quando i Siracusani rendono conto in Senato di questi beni di Eraclio e si svolge la lista delle tazze d’argento, delle anfore, de’ tappeti, degli schiavi dati a Verre, un senso di segreto dolore serpe tra gli uditori: pur si contengono. Ma quando in un sol capo fu detto che per ordine di Verre si erano dati trecentomila sesterzi, il malcontento, appena contenuto, proruppe in modo che Verre, sgomento, non seppe far di meglio che riversare la colpa sul genero, il quale alla sua volta e con isdegno, respinse l’accusa, e poco appresso lasciò il suocero e la Sicilia. In ogni modo Verre credette uscire d’impaccio, e, quel che è più, i trecentomila sesterzî, usciti così dalla porta, rientrarono per la finestra. [L’eredità di Epicrate.] E l’esempio, com’era da attendere, faceva scuola. Muore un parente d’Epicrate[450], il maggior proprietario di Bidi, ed ecco i nemici suoi già pronti a rinnovare con lui il giuoco così ben riuscito con Eraclio. Ottantamila sesterzi sono versati a Volcazio, come prezzo degli accordi presi col pretore, e i palestriti di Bidi, al modo stesso di quelli di Syracusae, son pronti ad intentare la causa. Ad uguale attacco uguale difesa; ma Epicrate è più pronto di Eraclio, e fugge a Reggio prima ancora d’esser tratto in giudizio, così che sventa quasi con la sua fuga la trama che gli era stata tesa. I suoi avversarî, i palestriti, rischiano questa volta di fare come i pifferi di montagna e lo seguitano a Reggio per patteggiare con lui ed uscire almeno senza danno dall’impresa abortita. Se non che Epicrate si sente al sicuro e li respinge e non li ascolta. Il caso va di bocca in bocca e se ne parla tanto che Verre è obbligato ad occuparsene direttamente ed a far rendere da Volcazio a’ Bidini la mancia pagata. Ma anche questa volta si trattava di una lustra: infatti non solo non allontana da sè Volcazio, il corrotto, e non punisce i corruttori; ma fa in modo che la causa si rinnovi in altro modo e con sorte anche peggiore. I Bidini chiedono di nuovo l’eredità, poichè sanno che Verre farà dritto alla domanda anche contro l’assente, i procuratori di Epicrate chiedono che la causa si svolga secondo le leggi patrie, o secondo la legge Rupilia. Nell’imbarazzo della risposta gli avversarî dicono dolosa la fuga di Epicrate e chiedono di essere immessi nel possesso de’ beni; ma, come ottenere tutto ciò, se gli amici di lui, che non doveva nulla ad alcuno, sono là pronti a dare ogni più ampia malleveria? Allora, come pensiero rampolla da pensiero, in quella nuova contesa dell’agnello e del lupo, viene fuori un altro addebito, quasi che Epicrate avesse falsificato atti pubblici. Gli amici di lui resistono ancora, chiedono che la causa non venga fatta contro l’assente; invocano le leggi patrie, e quando si accorgono che è vana ogni resistenza o difesa, abbandonano la causa e Verre immette i Bidini in possesso de’ beni di Epicrate; non solo di quelli di cui era contesa, ma de’ suoi propri che ascendevano ad un milione e cinquecentomila sesterzî. E di questo genere di ricatti giudiziarî Cicerone non ne addebita a Verre uno o due soltanto: per estorquere denaro (100000 o 400000 sesterzi?) ad Eraclio di Centoripae[451], rescinde giudicati, gl’interdice l’accesso al senato e ad ogni luogo pubblico, lo mette a dirittura fuori della legge; proclamando altamente che non punirebbe qualunque violenza a lui fatta, e ad ogni domanda farebbe diritto che venisse proposta contro di lui. Veramente, a quanto dice Cicerone, i giudicati aveano per Verre un valore molto relativo. [La condanna di Sopatro di Halycia] Sopatro di Halycia[452], già giudicato da C. Sacerdote, veniva ora chiamato nuovamente in giudizio capitale innanzi a Verre per la stessa accusa da cui era stato assolto. Sicura gli pareva la cosa; pure Timarchide sa circonvenirlo e carpirgli ottantamila sesterzî; ma, dopo un po’ di tempo, gli sembrano pochi, e la causa è rinviata, ed intanto egli torna per avere altro danaro. Il giudice si metteva all’incanto, ed i suoi avversari erano disposti a pagare di più. Gli amici sconsigliano Eraclio dal dare di più; con maggiore impulso ancora lo sconsiglia il suo modesto stato di fortuna; egli dunque tien duro; infine vi sono de’ giudici a Syracusae! E v’erano proprio i giudici, che l’avevano assolto la prima volta. Ma è ingenuo far questi calcoli con Verre. Quando l’udienza sta per aprirsi ed i giudici convengono numerosi, e tra essi quelli sperati da Sopatro; Verre ordina a M. Petilio, cavaliere romano, di attendere alle cause private, ed una obbiezione di Petilio è occasione per fare allontanare tutti gli altri e far restare Verre solo a giudicare con la sua banda. Q. Minucio, cavaliere romano, difensore di Sopatro, ha per un momento ancora l’illusione che la causa venga rinviata; e, quando n’è disilluso, abbandona l’udienza. Verre cerca trattenerlo; è in furia poichè non vi riesce, ed esita; quando una parolina, susurrata al suo orecchio da Timarchide, lo rimette in carreggiata, e si riprende, e fa sfilare a tamburo battente i testimoni e chiude il dibattimento e condanna. Che quando poi, alla speranza del lucro, si aggiungevano l’ira, il dispetto, l’amor proprio offeso; allora i giudizî sotto Verre assumevano una forma anche peggiore; come fu il caso di Stenio[453]. [Il caso di Stenio da Thermae.] Stenio di Thermae era, a quanto dice Cicerone, uno degli uomini più ragguardevoli che allora contasse la Sicilia. Onorato di tutte le cariche pubbliche del suo paese, le aveva esercitate assai onorevolmente; avea con munificenza singolare ornata la sua città, ottenendone da essa pubblici attestati, ed aveva saputo acquistare considerazione ed amicizia presso i principali uomini che al suo tempo fossero a Roma, da C. Mario a Cn. Pompeo. Amante, come tanti Siciliani, delle opere d’arte, sia per soddisfare questa tendenza, assai viva in paesi di coltura greca, che per compire con maggior splendore i suoi doveri di ospitalità verso tanti ospiti illustri, avea ornata con la maggior magnificenza la sua casa della più elegante suppellettile di bronzo di Delo e di Corinto, di pitture, di vasellame d’argento; tutte cose messe insieme sin dall’adolescenza, mentre era in Asia. Tra gli ospiti di Stenio fu anche Verre, e mai non ne partì, senza che qualcosa, mancante dalla casa ospitale, attestasse la sua venuta. Pure Stenio sopportava tutto, con rassegnazione, e in silenzio. Ma all’uomo, che così tranquillamente avea tollerato il danno proprio, vennero meno rassegnazione e pazienza, quando Verre volle mettere le mani su di alcune opere d’arte, che avevano già appartenuto ad Himera e che Scipione Africano, dopo la conquista di Cartagine, avea donato a Thermae, città vicina della distrutta Himera. Erano molte statue di bronzo, figure muliebri, una statua di Stesicoro, una capretta così bella che avrebbe fatto impressione anche ad un Romano non educato al gusto di queste cose. Verre le desiderava ardentemente, ed ardentemente la cittadinanza teneva a conservarle, come cose che si connettevano alle tradizioni cittadine, alla memoria di Scipione, e costituivano quanto di più caro e più prezioso avesse il paese. Stenio si fece il coraggioso interprete del sentimento de’ suoi concittadini, e si oppose e rese vano il desiderio di Verre. Per costui fu come una dichiarazione di guerra. Lascia la casa di Stenio per andare a quella de’ nemici suoi, che, come suole accadere, perciò stesso l’invitavano. Egli non ha che l’imbarazzo della scelta; andrà da Agatino o da Doroteo, suo genero? La bella Callidama, sua moglie, fa dare la preferenza a quest’ultimo; e l’intervallo di una sola notte lo avea già fatto tale, che si sarebbe detto avesse tutto comune con Doroteo, ed Agatino fosse come un suo parente ed affine. E la sua buona fortuna non lo placa; lo incita anzi di più alla vendetta contro Stenio. I suoi nemici stessi non sanno escogitare nulla contro di lui; ma Verre gl’incita e li aiuta ad imbastire uno de’ soliti processi per falsificazione di atti pubblici. Stenio, per la condizione autonoma di Thermae, per la legge Rupilia, chiede che la causa venga trattata secondo le leggi termitane. Verre fa il sordo e, per tutta risposta, indice la causa per l’ora nona. È inverno, e il mare è più infido che mai; pure a Stenio il mare pare meno infido e meno malsicuro di Verre, e si commette al mare per cercare a Roma un aiuto contro il suo persecutore. Intanto Verre, che all’ora nona puntualmente lo aspetta e non lo vede, va in furia, cerca da per tutto per iscovarlo; lascia il fòro alla terza ora della notte per tornarvi il domani e condannarlo in contumacia, per falsificazioni di atti pubblici, a pagare cinquantamila sesterzî al tempio di Venere del monte Eryce. Ancora alcuni anni dopo, Cicerone vi vedeva un Cupido d’argento, consacrato da’ beni di Stenio, quasi a rappresentare plasticamente il segreto della sua condanna. Ma non basta; nè Verre si tien pago: in pubblico, dal suo seggio, fa sapere a tutti, che se qualcuno vorrà accusarlo di delitto capitale, egli procederà contro Stenio, comunque assente. Pure lo stesso Agatino non si presta a ciò, e, per trovare chi lo faccia, bisogna ricorrere ad un tale Pacilio, un pezzente ed uno sciocco. Vien fatto precetto a Stenio di trovarsi fra trenta giorni per le calende di Decembre, a Syracusae. Ma Stenio a Roma non perde tempo, e si muove e si agita tanto, che i consoli Gn. Lentulo e L. Gellio (s’era nel 72 av. C.)[454] fanno una mozione, perchè il Senato stabilisca che nelle provincie non sia lecito sottoporre a causa capitale gli assenti. Si stava già per decider questo, e dichiarar nullo ogni giudizio che contro tale regola si fosse fatto a danno di Stenio, quando il padre di Verre, con pianti e con l’aiuto di ostruzionisti, riesce a rimandare la cosa, poi la mette a dirittura in tacere, promettendo di far sì che il figliuolo non dia corso alla causa. Se non che nulla ponno presso Verre le preghiere di suo padre, nulla i pericoli, onde lo minacciano gli stessi suoi atti; le calende di Decembre vengono, ed egli cita l’accusato. Non risponde Stenio, e non risponde, chi sa per qual caso, neppure l’accusatore; nondimeno Verre va avanti. V’è bisogno di un patrocinatore? Gli assegna uno de’ suoi satelliti, un Claudio, figliuolo di Claudio, della tribù Palatina, probabilmente un liberto, nimicissimo di Stenio, e così lo condanna. Con tutto ciò la sua ira può dilaniare i beni, non raggiungere la persona di Stenio; giacchè Cicerone, ospite ed amico di Stenio, ottiene da’ tribuni della plebe, che egli possa rimanere in Roma al sicuro, malgrado l’editto che non permetteva di restare in Roma a condannati per delitto capitale. E questi erano i delitti più perspicui compiuti da Verre nell’amministrare la giustizia: ma accanto ad essi molti altri non si accennavano neppure, per la stessa moltitudine loro[455]. [L’ingerenza nelle elezioni de’ magistrati locali.] La funzione giudiziaria era un modo per estorquere danaro; ma non era il solo. L’esercizio del diritto elettorale, che in Roma era un cospicuo mezzo di lucro, divenne tale anche in provincia in mano di Verre; e, per far meglio, anche dove non gli competeva, se l’arrogava arbitrariamente. Così avvenne dell’elezione de’ senatori, sottratta a’ suffragi popolari, resa indipendente da tutte le limitazioni di età, di censo e da ogni altra condizione personale, che le leggi, conservate a’ Siciliani o date dal governo di Roma, imponevano[456]. In Halaesa, dove per le leggi date da Appio Claudio Pulcher, non si potea essere senatore che a trenta anni, per danaro furono creati senatori fanciulli di sei, di sette, di dieci anni, ed ogni altro che volle[457]. Ad Agrigentum ed Heraclea, dove al senato doveano avere parte, in proporzioni uguali, i vecchi cittadini ed i nuovi coloni, per prezzo ne fu confusa la proporzione, covrendo indifferentemente con gli uni i posti serbati agli altri[458]. Dove al suo volere si opponevano difficoltà d’ordine naturale, disposizioni recise di legge, se non si determinava a violarle apertamente, le girava riducendo la legge ad un giochetto, tenendo un metodo tutto gesuitico; e così, salvando capra e cavoli, si trovava all’altra riva. [I sacerdoti.] Si trattava di dare il sacerdozio di Giove in Syracusae a Theomnasto, suo familiare, contro la legge che limitava la elezione de’ candidati a tre schiatte e dava l’ultima scelta alla sorte? Si faceva, con un abuso, introdurre Theomnasto fra i tre, e poi, perchè la sorte non lo tradisse, si metteva nell’urna, tre volte, il solo suo nome[459]. [I censori.] A Cephaloedium, l’elezione del sommo sacerdote avveniva in un mese determinato e, per le particolari condizioni locali, quell’onore spettava ad un tale Erodoto. Perchè invece l’ottenesse un tale Artemone Climachia, sarebbe stato, con l’introduzione di un mese e mezzo intercalare, turbato l’ordine de’ mesi in tal modo, che Erodoto non potè giungere a tempo da Roma, e rimase, nella maniera più strana, deluso nella sua aspettativa[460]. Ma il peggio avvenne nella creazione de’ censori. Quell’ufficio era tenuto in gran conto per le grandi conseguenze pratiche che venivano dalla redazione del censo; e l’elezione di essi, fatta città per città, da’ rispettivi concittadini, costituiva una garanzia di non piccola importanza. Verre ne avocò a sè la nomina e pose ognuno di que’ posti all’incanto. A trattare la cosa non v’era forse persona più adatta di Timarchide, di lui, che aveva un fiuto finissimo, che in Sicilia conosceva uomini e cose e sapeva trar partito dalle amicizie, dalle inimicizie, dall’avidità, dalle debolezze umane, e, servendo Verre, dominava e Verre e la Sicilia. Egli teneva questo mercato a Syracusae nella stessa casa del pretore, e poche volte, forse, alcun mercato fu tanto ricco come quello, onde uscivano in quell’anno i centotrenta censori della Sicilia; la quale finì per pagarne a dovizia le spese; perchè il censo fu quale da siffatti censori poteva attendersi, e quale loro conveniva che fosse per rifarsi ad usura della compera della carica[461]. Inoltre, quasi che tutto ciò non bastasse, ognuno de’ censori fu obbligato a contribuire trecento danari per rendere onore di statue a Verre; e con quest’altro pretesto sarebbero stati estorti, nella maniera più aperta, altri trentotto mila denari[462]. [Le statue.] Questa delle statue era un’altra delle ubbie di Verre. In parte era vanità, quella stessa vanità, che gli aveva fatto sostituire le feste, designate col suo nome «Verria», a quelle già esistenti in onore di Marcello e che prendevano nome da costui «Marcellia»[463]. Egli ne avea fatta mettere una, dorata, nella Curia di Syracusae[464], e un’altra innanzi al tempio di Serapide[465], un’altra equestre, a Roma, innanzi al tempio di Vulcano[466]; altre erano state dedicate dalla rappresentanza comune delle città siciliane[467]; altre ancora ne erano state erette a Tauromenium[468], Tyndaris[469], a Leontini[470], a Centoripae[471] e altrove, con gli epiteti più altosonanti di _patrono_, di _soter_ perfino, quasi che i Siciliani avessero bisogno di chiedere alla loro propria lingua un vocabolo appropriato[472]. A Syracusae ne erano state fatte anche al padre ed al figliuolo[473]. Ma non era tutta e sola vanità, era almeno vanità e qualcos’altro. Cicerone pretendeva provare che, col pretesto delle statue, Verre avesse estorti dalla Sicilia circa due milioni di sesterzî[474]; da’ soli Centoripini avea tratto a tal fine duecento mila sesterzî[475]. La sola Syracusae era stata costretta a contribuire tante volte: per le statue da porsi nel fòro, per quelle da erigersi in Roma, per quella che elevavano gli agricoltori, per quella che offriva la Sicilia collettivamente[476]. Contribuzioni simili avevano fatto Halaesa, Catina, Tyndaris, Henha, Herbita, Agyrium, Netum, Segesta, per tacere di tante altre[477], e con esse gli agricoltori ed i _negotiatores_ di Syracusae di Agrigentum, di Panhormus, di Lilybaeum[478]. E, per assicurare meglio il profitto, l’esecuzione delle statue veniva appaltata allo stesso Timarchide[479]. La cosa era proceduta a tal punto che i Siciliani dovettero fare una petizione ridicola in apparenza, pratica in fondo; dovettero chiedere cioè «che non fosse loro permesso di promettere statue ad alcun magistrato, se prima non avesse lasciato il paese[480].» [Le esportazioni abusive.] La più gran parte intanto, di ciò che Verre espilava in Sicilia, non era destinata a rimanere quivi, ed occorreva pagare il cinque per cento di dazio sulla roba esportata. Verre volle esimersi dal pagamento di questi diritti, e tale sua condotta provocò qualche dissenso tra lui e i pubblicani. Dal solo porto di Syracusae esportò in pochi mesi quattrocento anfore di miele, molti panni maltesi, cinquanta letti per triclinî, una grande quantità di candelabri, per un valore di un milione e duecento mila sesterzî; e L. Canuleio, rappresentante della società in quel porto, che mal sapeva rassegnarsi alla perdita di sessantamila sesterzî di dazio, non seppe fare a meno di scriverne a’ suoi, mandandone vivo lamento[481]. Ma il dissenso fu presto appianato. L. Carpinazio, che sopraintendeva agli appalti di Sicilia, da vero pubblicano, pensò che, come suole avvenire in questi casi, perdere qualche cosa col pretore, potesse essere anche un buon affare per sè e per la società stessa; e non solo largheggiò col pretore, ma anzi divenne il compagno indivisibile e familiare di lui, un altro Timarchide insomma, e si costituì suo banchiere. Era egli che poneva a frutto i capitali del governatore; inoltre in tutti quei loschi affari, in cui occorreva sborso di danaro ed i poveri ricattati non l’avevano pronto, egli era sempre disposto ad anticiparlo, e poi lo accreditava a Verre, al suo scriba, a Timarchide[482]. [L’amministrazione frumentaria. Verre e la _lex Hieronica_.] Ma di tutte queste cose si poteva dire che fossero appena delle riprese per Verre; cose messe a profitto qua e là, e secondo l’occasione si dava. Il vero campo, in cui Verre mieteva con tutta la larghezza, era il tributo della Sicilia, nelle varie sue forme, che, per la sua opulenza e per la sua ricorrenza costante, offriva la mèsse più ubertosa a’ suoi lucri. A tale scopo, prima di ogni altra cosa, Verre cercò mettere da parte la legge _Hieronica_, se non con l’abrogarla apertamente, coll’aggiungere varie clausole al suo editto e con l’eluderla nel campo pratico. Anzi fece in modo che il decumano poteva trovarsi in una condizione privilegiata, mettendosi senz’altro in possesso della quantità di frumento che a sè credeva dovuta e lasciando all’agricoltore il compito di farsi attore in giudizio e ripetere quanto gli fosse stato tolto contro ragione. Tanto l’agricoltore era obbligato a dare al decumano, quanto costui diceva che gli fosse dovuto a titolo di decima[483]. Con tali innovazioni, tra le altre cose, anche l’onere della prova ricadeva sull’agricoltore, e, sotto ogni rapporto, la sua posizione diveniva meno favorevole. Seguiva a questa, è vero, un’altra disposizione, per la quale, a giudizio finito, il decumano doveva restituire otto volte quello che arbitrariamente avesse preso, e l’agricoltore quattro volte quello che ingiustamente avesse negato di dare[484]. Ma queste sanzioni legali, dice Cicerone, divenivano un’irrisione, perchè i giudici e i _recuperatores_ non erano presi, secondo la legge, dal _conventus_[485], bensì dalla coorte di Verre, ed erano satelliti di costui, complici de’ complici suoi. E infatti, a dire di Cicerone, non solo nessuno di questi giudizî era stato mai risoluto a favore di qualche agricoltore, ma non v’era stato neppure uno che ne avesse tentata la sorte[486]. E l’editto proseguiva per questa via, arricchendosi di altre clausole, quali ironiche, quasi, per gli agricoltori, quali fatte per rendere ancora più difficile la loro posizione. Si promettevano per esempio i _recuperatores_, ma solo nel caso che l’uno e l’altro de’ litiganti li volessero[487]; e l’uno de’ litiganti, che solitamente avrebbe dovuto essere Apronio, certamente non li voleva. S’imponeva agli agricoltori di fare la dichiarazione dell’estensione di campi da essi coltivati, per trar motivo di altre molestie dalla inosservanza o dalla pretesa violazione di questa parte dell’editto[488]. Si dava facoltà al decumano di scegliersi la sede del giudizio, obbligando l’agricoltore a dare, dove quello volesse, sicurtà di comparire in giudizio[489]; e, per gente aliena dalle controversie, trattenuta dal genere stesso delle sue occupazioni nella propria città, può immaginarsi quanto ciò riescisse molesto. Quasi che non fosse stato già abbastanza aver concesso al decumano di impossessarsi della quantità che a lui piaceva; si ordinava al magistrato siculo di mettere in esecuzione questo privilegio, già accordato al decumano[490]. Altre volte si trattava di aggiunte escogitate per una particolare persona, per un caso particolare, per togliere ogni via di scampo, che la legge o l’editto avesse ancora potuto lasciare. Tale per esempio era stata la disposizione che metteva la scelta del luogo del giudizio nelle mani del decumano; tali furono quelle sulla rimozione e sul trasporto del frumento al mare. Un cavaliere romano Q. Septicio — i Siciliani erano per necessità più ossequenti — non volea saperne di venire a patti con i decumani: opportunamente viene l’editto ad imporre che, prima d’essersi accordato co’ decumani, non si può portar via il frumento dall’aia. Q. Septicio cede più al dispetto che all’interesse e gli piace meglio veder marcire il frumento, sotto la pioggia, nell’aia, che non vederlo finire ne’ granai di Apronio e di Verre; allora ecco un’altra volta l’editto, che impone ad ognuno di trasportare al mare le decime a tutto il mese di Agosto[491]. Che fare? Dove volgersi? Erano gli ultimi colpi di Verre, i provvedimenti presi nel terzo anno del suo governo, a raccolta già fatta, per dare l’ultima mano, gli ultimi ritocchi all’editto e scagliarli, come la freccia del Parto, alla Sicilia che stava per abbandonare[492]. E tutti questi editti dovevano essere le armi per colpire infallibilmente la preda, in mano a’ suoi servi stessi, che egli avea sguinzagliati, nuovo genere di decumani, per tutti i campi e le città di Sicilia. Mossi dall’avidità, fatti securi ed anche audaci, più che dalla protezione, dalla complicità del governatore, essi scorrevano la regione, come paese di conquista; ed in testa a tutti Apronio, un altro Timarchide, il compagno indivisibile e l’uguale di Verre, il consorte de’ conviti, il fido Acate del pretore, che niente avea integro e sano, nemmeno il fiato. Così Verre, quello che altri aveano seminato e mietuto ne’ campi, mieteva e raccoglieva sulle aie. [Le angherie degli agricoltori.] Apronio vuole che Nymphone di Centoripae non abbia sinceramente denunziate le estensioni da lui coltivate; e l’uno e l’altro vanno in giudizio. Che sentenza verrà mai fuori da _recuperatores_ come il medico Cornelio, quello stesso Artemidoro che aiutò già Verre a spogliare il tempio di Diana di Pergae, e l’aruspice Volusio e il banditore Valerio? Un provvedimento semplice, ma tale che toglierà a Nymphone per l’avvenire, non si dice il desiderio di litigare, ma fino il modo di coltivare ancora la terra. Se Nymphone ha mentito, occorre che paghi, e paghi tanto frumento, quanto ne ha nelle sue aie. In tal modo Apronio, in luogo della decima, ha settemila medimni di grano, e Nymphone si rifugia a Roma aspettando, se verrà, la tarda giustizia[493]. Xenone Menaeno è avvolto nella stessa briga: ma i fondi non sono suoi, son di sua moglie; ed egli confida nel suo difensore M. Cossuzio, confida nella sua causa, malgrado tutto, malgrado quella singolare specie di _recuperatores_. Se non che Verre ha ancora qualche cosa in serbo per lui. Non teme il giudizio e la condanna? forse non sarà altrettanto delle verghe; e infatti, a quella minaccia, egli si arrende e paga a’ decumani tanto quanto si chiede da lui[494]. In verità questa delle battiture, o minacciate o date, era un sistema infallibile. Polemarco di Murgentia, che su cinquanta iugeri non voleva dare settecento medimni di decima, chiamato nella stanza da letto di Verre e preso a pugni ed a calci, finisce per darne mille[495]. Lo stesso trattamento doma ogni spirito ribelle in Eubulida Grospo di Centoripae, ed egli si placa e dà tutto quello che si vuole[496]. Sostrato, Numenio e Nymphodoro della stessa città fuggono, non volendo dare per decima più di quanto avean raccolto. Apronio invade i loro poderi, mettendoli a sacco ed a ruba, e, quando Nymphodoro va ad Aetna a pregarlo per ottenere la restituzione del suo, lo fa sospendere all’olivo selvatico, ch’è nel fòro, tenendovelo così, finchè gli garba[497]. Nè solo con i Siciliani, per la condizione loro, più esposti alle offese, ma con gli stessi cittadini romani si trattava così. C. Matrinio, cavaliere romano, è tenuto per due giorni a Leontini prigione e digiuno[498]. Q. Lollio, a cui l’esempio di C. Matrinio e l’età di novant’anni non hanno tolta ogni velleità di resistenza, è portato innanzi ad Apronio ad Aetna, mentre, come di consueto, banchettava nel fòro, e, lì stesso, in pubblico, è schernito, dileggiato da’ convitati, sin che non si arrende a’ patti che Apronio gl’impone[499]. A Leontini dove la moglie di C. Cassio, dell’ordine senatorio, avea molte colture, i decumani portarono via tutto il ricolto[500]. [Le città e il riscatto delle decime.] Ciò co’ privati; rispetto alle città poi sarebbe stata escogitata un’altra serie di espedienti, che menava a lucri più sicuri anche e più pingui. Usando di frequente le città siciliane riscattare il tributo, col prendere esse stesse le decime in appalto; entrava a licitare contro quelle uno de’ soliti satelliti di Verre. Ne seguiva allora facilmente che l’appalto restasse a costoro, e, sia che gli avversarî, disanimati, recedessero dalla gara, sia che, insistendovi, obbligassero quelli ad assumere l’appalto ad alta ragione, in ogni caso non mancava loro materia ingente di lucri. Infatti, nel primo caso, l’utile veniva dalla bassa ragione dell’appalto; nel secondo caso, le vessazioni, fatte con ogni sicurezza agli agricoltori, li compensavano del prezzo dell’appalto ed assicuravano loro un guadagno non lieve. Oltre di che, assai di sovente, le città stesse erano costrette a prendere in subappalto le decime dall’appaltatore con grave loro danno. Delle decime, dovute da Agyrium, era divenuto appaltatore Apronio; e venne ad Agyrium, preceduto da minacce e dagli uscieri stessi del governatore, promettendo d’altra parte d’andar via subito e senza far piati, se gli fosse assicurato un lucro conveniente. Ma gli Agyrinensi credevano di non doverlo temere, e di non doverlo placare; ed ecco i loro magistrati ed i loro cinque primarî chiamati a Syracusae, per rispondere di violazione dell’editto del pretore. L’accusa era vaga e perciò stesso insidiosa; giudici i soliti: Artemidoro il medico, il pittore Tlepolemo ed altri simili; pure niente spaventava gli Agyrinensi, e restavano duri perfino di fronte all’offerta mediazione di Timarchide, che, insieme, gl’invitava a transigere e faceva loro balenare innanzi agli occhi l’ingente condanna. Ma, quando intesero dallo stesso pretore la minaccia di essere fustigati sino a morirne, piangendo, si arresero, promettendo di voler dare ogni loro cosa; e poterono dire di essersela cavata a buon mercato riscattando le decime e dando ad Apronio, a titolo di lucro, trentatremila medimni di frumento, un sesterzio a medimno per l’esame del frumento e trentamila altri sesterzî, come lucro, per le decime dell’orzo[501]. Allo stesso trattamento fu soggetta Herbita per tre anni. Nel primo anno furono costretti gli Herbitensi a dare trentottomila ed ottocento modii di frumento, a titolo di lucro, ad Atidio, uno de’ noti satelliti di Verre, che aveva preso in appalto le decime di quella città per soli diciottomila modii[502]. L’anno appresso, nella stessa maniera, furono obbligati a dare, sempre a titolo di lucro, ventun mila modii di grano e duemila sesterzî di giunta ad Apronio, che aveva preso l’appalto per venticinquemila modii di frumento[503]. Nel terzo anno finalmente, al modo stesso delle città asiatiche, destinate a fornire di ornamenti le varie mogli del gran re, Herbita fu chiamata a dare un tributo a Pipa e Terzia, le due vezzose amanti di Verre. Escrione, il marito putativo di Pipa, e Docimo, il marito compiacente di Terzia, divennero gli appaltatori, il primo della decima di frumento ed il secondo della decima dell’orzo. Nella gara Escrione avea portato l’appalto ad ottomila cinquecento medimni, una ragione così alta che Verre la ridusse a settemila cinquecento. Gli Herbitensi intanto, trattando da Siciliani a Siciliani, non temevano nè l’uno nè l’altro. Tratti allora in giudizio a Syracusae, sono obbligati a dare ad Escrione i seicento medimni, scemati da Verre all’appalto, e a Docimo dodicimila sesterzî[504]. Altri seicento medimni di frumento furono fatti guadagnare allo stesso Docimo sulla decima di Aceste, costretta a prenderle in subappalto da lui[505]. I Liparensi, le cui decime, povere e scarse, erano state affittate ad A. Valenzio, l’interprete di Verre, furono costretti a riscattarle da lui, pagando in più trentamila sesterzî[506]. I Tissensi, in ugual modo, furono costretti a dare a Diogneto, servo del tempio di Venere, pubblicano di nuovo conio, ventunmila sesterzî nel secondo anno e duemila modii di frumento nel terzo; a Diogneto, che, per la sua qualità e la povertà sua, non poteva essere, come vuole Cicerone, che un prestanome di Verre[507]. Addette le decime di Amestratum a M. Cesio ad un’alta ragione, Eraclio, uno de’ legati, fu obbligato, senza mandato del suo senato e senz’altro, a riscattarle con la perdita di ventiduemila sesterzî[508]. La stessa città dovette dare altro denaro a Sesto Vennonio, nel secondo anno, con lo stesso pretesto. Appresso, aggiudicate le decime a Bariobale, un altro servo del tempio di Venere, per ottocento medimni di grano, gli Amestratini furono costretti a riscattarle, dando un lucro di ottocentocinquanta medimni e millecinquecento sesterzî, un lucro maggiore dello stesso prezzo di appalto[509]. I Petrini furono obbligati a dare cinquantaduemila sesterzî di lucro a P. Nevio Turpione su di un appalto di tremila medimni, equivalenti a quarantacinquemila sesterzî, presso a poco[510]. Halycia, dove solo gl’inquilini e non i cittadini pagano, dovè dare allo stesso Nevio quindicimila sesterzî di lucro per una decima di cento medimni[511]. A Segesta, dove era decumano un altro servo di Venere, Symmaco, gli agricoltori, contro ogni norma di legge, sono obbligati a dare sicurtà di stare in giudizio fuori del loro fòro; Diocle Phime di Panhormus, che avea in fitto in quel territorio un podere per seimila sesterzî, fu obbligato a pagare, per decime, sedicimila sesterzî e seicentocinquantaquattro medimni di frumento, non senza una giunta di battiture; lo stesso C. Anneo Brocco senatore fu obbligato a dare danaro e frumento[512]. Per le decime di Thermae un tal Venuleio, concorrente a posticcio, vinse nella gara il legato della città, che voleva aggiudicarsele, portandole sino ad ottomila medimni; e, perchè non andasse sul posto, la città stessa si vide obbligata a dargli settemila modii di frumento e duemila sesterzî[513]. Gli Imacarensi, dopo essere stati ridotti allo stremo, dovettero dare ad Apronio ventimila sesterzî[514]. Gli Hennensi, dopo che le loro decime furono appaltate per ottomila duecento medimni, dovettero darne ad Apronio altri tremila con duemila sesterzî per giunta[515]. I Calactini furono obbligati a dare a M. Cesio in Amestratum le decime, date per lo innanzi sempre nella loro città, anche sotto Verre nel biennio precedente[516]. I Mutycensi furono così vessati da Theomnasto Syracusano, che, per dare le seconde decime, dovettero comperare ii frumento; nè ciò accadde ad essi soltanto[517]. Gli Hyblei finirono col pagare per decima al decumano Cn. Sergio sei volte quello che aveano seminato[518]. Altre simili soperchierie furono fatte a’ Menaeni[519], agli Agrigentini, agli Entellini, agli Heracleensi, a’ Soluntini, a’ Catinensi, a’ Tyndaritani, a’ Cephaloeditani, agli Haluntini, agli Apolloniensi, agli Enguini, a’ Capitini, agli Innensi, a’ Murgentini, agli Assorini, agli Helorini, a’ Ietini, a’ Cetarini, agli Scherini, a tutte insomma le città siciliane[520]. Ad Aetna, ove insieme banchettava nel fòro e smungeva e sberteggiava gli agricoltori, Apronio trasse un lucro di cinquantamila sesterzî[521]. A Leontini lo stesso Apronio, su di un’estensione coltivata di trentamila jugeri, prese in appalto le decime per trentaseimila medimni, in concorrenza di Q. Minucio, che voleva assumerla ad una ragione di cinquemila medimni di più; e, prelevando tre decime invece di una, poi tre cinquantesimi e poi ancora, per ogni medimno, uno o due sesterzî, giunse a fare un guadagno di quattrocentomila modii all’incirca[522]. [Le compere di frumento.] Altra occasione di lucri fornì il _frumentum imperatum_, quello cioè che, come si è detto, giusta la legge _Terentia Cassia_, i Siciliani erano obbligati a vendere alla repubblica per un prezzo imposto, ed il _frumentum aestimatum_, quello cioè dovuto per i bisogni del governatore e del suo seguito. Per l’acquisto del _frumentum imperatum_, Verre ebbe dalla repubblica circa dodici milioni di sesterzî, più precisamente, undici milioni e settecentomila sesterzî: nove milioni per comperare dalle città decumane, a tre sesterzî il modio, tre milioni di modii, quantità equivalente alla decima già contribuita, e due milioni ottocentomila sesterzî per comperare, indistintamente da tutte le città, ottocentomila modii di grano, a tre sesterzî e mezzo il modio[523]. Questo danaro dovea essergli versato dalla società de’ pubblicani di Sicilia, e Verre cominciò dal lasciarlo nelle loro casse, esigendo, non senza loro lamento, un interesse del due per cento al mese[524]; poi, nell’esazione del frumento, rifiutò, quasi non fosse buono, il frumento di molte città, come di Halaesa, Thermae, Cephaloedium, Amestratum, Tyndaris, Herbita ed altre, e, non dando nulla di quanto loro doveva, o le obbligò a comperare il frumento di Apronio, o altrimenti esigette, per ogni medimno, il massimo prezzo corrente, quindici sesterzî[525]; da alcune città, come Centoripae, Agrigentum ed altre, prese il frumento e pagò il denaro, ma facendo notevoli detrazioni per l’esame del grano, per il _collybum_, il cambio delle monete, e per il così detto _cerarium_, onde veniva un diritto del quattro per cento a favore _dello scriba_[526]. Considerando tali detrazioni, l’interesse carpito e i diciotto o ventun sesterzî avuti dallo Stato per ogni medimno e ritenuti, si ha che i lucri ascendevano ad una cifra assai forte. Oltre di che Verre, o la sua coorte, avea modo così di mettere in commercio il frumento arbitrariamente ed indebitamente esatto nella percezione delle prime decime[527]. Quanto al _frumentum aestimatum_, il senato avea assegnato a Verre quattro sesterzî a modio per comperare il grano e due per comperare l’orzo[528]. Avuto riguardo al prezzo del frumento, secondo ci dice Cicerone, allora assai basso, di due, o al più, di tre sesterzî al modio, Verre seguendo una consuetudine invalsa, avrebbe potuto ritenere il denaro, astenendosi dal comperare il frumento[529]. Servendo questo _frumentum aestimatum_ al vitto del pretore e de’ suoi dipendenti, per uso, se non per legge, il governatore era divenuto arbitro dell’acquistarlo oppur no, dell’esigerlo in genere o in denaro, del richiederlo in un luogo, piuttosto che in un altro, della sua provincia. La composizione, che ne potea seguire tra agricoltori e governatore, quando non era fatta con sistema assolutamente leonino, potea riuscire anche a vantaggio de’ provinciali, esimendoli dalle noie di trasporti in luoghi lontani, dalle molestie di privarsi del grano, che avevano bisogno d’impiegare in uso proprio o di ritenere, per venderlo in tempi più propizî[530]. Verre si dispensò dal percepire il frumento, ma, invece di esigerne l’equivalente al prezzo corrente di due o tre sesterzî a modio, fece tutto un coacervo dell’orzo e del grano, che avea diritto di esigere, e stabilì, per ogni modio, un prezzo di tre denari, cioè dodici sesterzî, e per conseguenza ritenne i quattro sesterzî a modio, a lui assegnati dal Senato, e per giunta ne esigette altri otto[531]. Cosa affatto ingiustificata, secondo Cicerone; giacchè, nè le spese di trasporto potevano portare a quel prezzo, nè il costo del grano variava da una città ad un’altra di Sicilia[532]. Tutto questo danaro, che Verre veniva così accumulando, serviva, massimamente, a realizzare nella vita quel suo sogno di lusso e di piacere, che era come la mèta di ogni suo desiderio; una vita di dominio e di godimento, allietata da tutti i diletti de’ sensi, menata innanzi, giorno per giorno, in conspetto di quanto più potesse allegrare la vista, in ville e palagi magnifici e splendidamente ornati[533]. [La caccia alle opere d’arte.] Per la moda incalzante, pel senso dell’arte, che la coltura greca progrediente rendeva sempre più vivo, le opere d’arte di fattura greca, se anche non completamente apprezzate, doveano costituire una delle maggiori, se non la maggiore attrattiva; e l’averne quanto più fosse possibile, l’avere le più belle, per Verre, più che una passione, più che una tendenza irresistibile, costituiva una vera manìa[534], la quale in un paese di coltura greca, come la Sicilia, potea trovare il suo massimo sfogo[535]. Egli vi avrebbe fatta, secondo Cicerone, una vera razzìa. Dovunque arrivavano i suoi occhi, arrivavano le mani; e per vedere, anzi per fiutare più da lontano e per prendere, gli stavano alle costole Tlepolemo e Jerone, i due fratelli; i due cani di Cibyra, a cui nulla sfuggiva, fuori di quello che a loro convenisse non vedere[536]. Così il suo accusatore potea dire, intendendo dare alle parole il loro pretto significato letterale, che non vi era gemma, vaso prezioso, statua, arnese fatto d’oro o d’avorio, dipinto od arazzo, che egli avesse veduto e non avesse preso, pagandoli molte volte a prezzi vilissimi, tanto per salvare le apparenze e mostrare di aver comperato. Si era venuto a tale che, per possedere ancora tutti questi oggetti artistici e di pregio, bisognava possederli clandestinamente. Guai a metterli sotto i suoi occhi in un convito, in una festa, nell’ospitarlo; il giorno appresso essi partivano, seguendo l’ospite[537]. Già una cosa di tal genere era stato il pomo della discordia tra lui e Stenio: ma quello, nell’accusa di Cicerone, non era destinato ad essere che un piccolo episodio di tutto un sistema. Ospite di Q. Heio di Messana, Verre l’obbliga a vendergli per seimila e cinquecento sesterzî tutto quanto formava l’ornamento e il decoro del suo sacrario domestico: un Cupido di Prassitele, uguale a quello famoso di Tespi, un Ercole di Myrone, due canefore di Policleto[538]. Queste apparivano comprate: per alcune stoffe attaliche, intessute d’oro, non occorse nemmeno questa finzione. Semplicemente, spedite ad Agrigentum, per ordine di Verre, trovarono la via dell’andata, mai più invece quella del ritorno[539]. Ad Aristone di Palermo, a Cratippo di Tyndaris, a Phylarco di Centoripae estorse alcune splendide collane; nè l’averle nascoste riuscì a quest’ultimo di giovamento per salvarle[540]. Pamphilo di Lilybaeum perdette nello stesso modo un’anfora (_hydria_) d’argento, lavorata da Boetho di Calcedonia, splendida per fattura e preziosa per qualità di materia; e salvò due sue coppe lavorate a rilievo, a stento, intendendosi co’ cani di Cibyra e rimettendovi mille sesterzi[541]. Diocle il genero di lui, anche di Lilybaeum, dovette pentirsi di far delle mostre, perchè Verre gli portò via tutti i vasi d’argento, così come li avea esposti sulla mensola, facendo, come al solito, mostra di pagarli[542]. Da M. Celio, cavaliere romano, prese quel che volle; da C. Cacurio tutta la sua suppellettile; da Q. Lutazio Diodoro, cittadino romano per beneficio di Q. Catulo, una magnifica e grande tavola di cedro. Con Apollonio di Drepanum, figlio di Nicone, chiamato poi, dopo l’acquisto della cittadinanza, A. Clodio, prima saccheggiò i beni de’ pupilli affidati alle cure di lui, e poi lo spogliò di tutto l’argento lavorato. Da un altro pupillo, Heio, posto sotto la tutela di C. Marcello, portò via quantità di denaro e nappi di fine lavoro. Da Lysone, uno de’ primarî di Lilybaeum, portò via una statua di Apollo, per un prezzo irrisorio di mille sesterzî[543]. Diodoro di Malta, anch’esso dimorante a Lilybaeum, possiede molti vasi di fine lavoro, e, tra gli altri, alcuni nappi, lavoro di Mentore, il famoso cesellatore, chiamati _tericlei_ dalla forma, che il vasaio Tericle dette primo ad essi. Verre non sa starne senza, e manda per averli, nè sa privarsene Diodoro. Così, tra i due, comincia una vera scherma per depredare e non essere depredato. Non sono a Lilybaeum; sono a Malta? Verre manda anche colà. Ma prima di Verre, ha mandato anche Diodoro a Malta, e fa che i vasi non si trovino. Così il giuoco continua, ma Diodoro sta per uscirne con un’accusa capitale, da cui lo scampano solo l’intervento del padre di Verre e l’essere Verre ancora novizio: si era al primo anno della sua propretura. Pure la cosa costa a Diodoro un volontario esilio di tre anni[544]. Più fortunato fu invece con L. Curidio e con Gn. Calidio, a cui l’essere figlio di senatore non giovò a salvare certi suoi bicchieri di argento (_eculei_)[545]. A L. Papirio, cavaliere romano, tolse semplicemente il fregio dell’incensiere, restituendogli il resto, quasi fosse vago non del metallo, ma del lavoro; e così del resto fece con molti altri; che in ogni casa, si può dire v’erano arredi, specialmente sacri, con qualcuno di questi fregi attaccati[546]. Ne fecero esperienza, fra gli altri, Cn. Pompeo di Tyndaris, già, prima di essere cittadino romano, chiamato Philone; Eupolemo di Calactae ed altri. Eschilo e Trasone di Tyndaris, Nymphodoro di Agrigentum, intanto, vi rimisero, oltre al fregio, anche gli arredi, un incensiere, una tazza, un vaso (_patella_)[547]. Una caccia speciale dava agli anelli, alle gemme. Vien portata un giorno una lettera al suo interprete Valenzio. Verre ne vede l’impronta che gli piace, e non ha pace, sin che l’anello non passa dal dito di chi avea spedito la lettera, di L. Tizio, nelle sue mani[548]. Ma questi erano gli amminicoli, presi qua e là, come l’occasione si presentava, in mancanza di preda maggiore. Le razzìe assumevano talvolta proporzioni più vaste e forme ufficiali, o quasi. A Catina chiama il proagoro Dionysiarco, a Centoripae Phylarco, ad Agyrium Apollodoro, ad Haluntium Arcagato, tutti primi cittadini o magistrati de’ luoghi, ed impone loro di fare una regolare requisizione di vasi d’argento cesellati, di vasi corinti, che egli si faceva portare e, fidato al fiuto de’ cani di Cibyra, ne faceva la scelta. Ad Arcagato, secondo Cicerone, dette anche il compito di essere in questa occasione, suo banchiere, ma senza mai rivalerlo[549]. A Syracusae poi, nello stesso palazzo del pretore, sotto i suoi occhi, per rifondere e foggiare a nuovo tutta questa preda raccolta[550], si era impiantata una vera officina per allestir vasi d’oro, staccare fregi e adattarli. Per tutta la Sicilia, a Segesta, in casa di Lamia, a Netum, in casa di Attalo, a Lilybaeum, in casa di Lysone, ad Aetna, in casa di Critolao, a Syracusae in casa di Escrione, Cleomene e Theomnasto, ad Helorum, in casa di Arconida, tanti telai lavoravano indefessamente per Verre, a tappezzare i letti delle sue molte ville[551]. Altrove si facevano i letti stessi e i candelabri. Quella sua manìa degli oggetti d’arte lo metteva a tale da non perdonare a nessuno, non a re, non agli dèi. Antioco l’Asiatico, figliolo di Antioco il Pio, reduce da Roma, dove era stato a brigare per l’eredità di sua madre Selene[552], traversava la Sicilia, e avea con sè un magnifico candelabro, che intendeva dedicare nel tempio di Giove Capitolino e che riportava con sè, non essendo stato ancora, dopo l’incendio, rifatto quel tempio. Verre riuscì per favore speciale a vederlo, e gli fece tale impressione, che, avendolo avuto a casa per inganno, lo ritenne per forza; senza che dal suo proposito potessero rimuoverlo l’autorità, le lagrime stesse del principe, le sue promesse, il dovere dell’ospitalità, o la paura di un futuro gastigo[553]. Contro un gastigo degli uomini si sentiva bene agguerrito, e, quanto a Giove, pensava che il dio non guardasse a ciò; od egli almeno non guardava al dio, troppo lontano. [I sacrilegi.] Verre era sulla via del sacrilegio, e seguitava a batterla, spensieratamente. Era una guerra dichiarata, insieme, al sentimento religioso ed a quello patrio de’ Siciliani; giacchè da’ loro templi rapiva le statue delle divinità, ed erano quelle stesse che, prese da’ Cartaginesi, erano ritornate in Sicilia, dono insigne di Scipione, come testimonianza e trofeo della distruzione di Cartagine[554]. Verre cominciò dal volere la Diana di bronzo di Segesta; e, poichè non l’ebbe, giù con vessazioni contro i Segestani, aggravî nella compera del _frumentum imperatum_ e nell’esigere il contributo di marinai e remiganti, molestie nel chiamarli in giudizio, tirandoseli dietro per tutte le giurisdizioni della provincia; e, per giunta, minaccie di peggio a tutti, presi insieme o singolarmente. Così la resistenza si fiaccava e veniva meno; venivano vinti, sotto l’impulso della paura, gli ultimi scrupoli patriottici, le ultime superstizioni, e, infine, la statua di Diana, cosparsa di unguenti, coronata di fiori, usciva, tra i pianti delle donne e il muto cordoglio degli uomini, da Segesta e da’ confini del suo territorio, e la base, che portava scritto l’atto magnanimo di P. Africano, veniva demolita, quasi a sperdere la memoria del fatto e del misfatto[555]. A Tyndaris, dove il senato gli negava una bellissima statua di Mercurio, dono anch’esso di Scipione, Verre fece in pubblico, d’inverno, legare il proagoro Sopatro alla statua equestre di C. Marcello, e ve lo tenne, sin che la cittadinanza ed il senato, per salvare il concittadino e il magistrato, quasi semivivo dall’onta e dal freddo, assentirono all’importuna richiesta del pretore, e la statua di Mercurio, a spese pubbliche, fu portata a Messana[556]. Ad Enguion, dal tempio, a cui sempre P. Scipione ne avea fatto dono, prese loriche ed elmi di bronzo cesellato, ed urne ed altre opere d’arte[557]. Ad Agrigentum, di soppiatto, fece rubare dal tempio di Esculapio una bellissima statua d’Apollo, che un’iscrizione, incisa nel femore, attribuiva a Myrone[558]. Ma imprese di questo genere non sempre gli riuscirono bene. Agrigentini e cittadini romani, residenti in Agrigentum, messi sull’avviso, stettero in guardia, e quando, sotto la condotta di Timarchide, in una fosca notte, gli emissarî di Verre andarono per rubare dal tempio di Ercole la statua stessa dell’eroe, venerato tanto, che per i baci de’ devoti aveva avuto logoro il mento; tutto il popolo accorse ed a sassate li obbligarono a fuggire con soli due piccoli emblemi, mentre già, con forza di corde e con ogni fatica, tentavano di smuovere la statua, senza pure riuscirvi[559]. Ad Assorum uguale insidia fu tesa al nume fluviale indigete Chrysa da’ due cani di Cibyra, ed ugualmente fu elusa, chiamando, a suon di buccina, a raccolta i cittadini[560]. Ma questi tentativi, mal riusciti, non disanimavano Verre, nè lo intiepidivano. A Catina, i suoi stessi servi rubarono un’antichissima statua di Cerere da un sacrario, a cui le sole donne aveano accesso; e poi, per distornare da sè l’accusa, fece imputare del fatto un servo, ad esso estraneo ed innocente. Ma il senato di Catina l’assolse, avendo sentore della trama, e quasi in onta al vero colpevole[561]. A Malta spogliò il santuario di Giunone di ogni più bella cosa, perfino di certi ingenti denti di elefanti, che Massinissa avea già avuti come preda e che avea restituiti, poichè ne conobbe la provenienza[562]. Ad Henna dov’era il tempio più antico di Cerere e Proserpina, e dove appunto si credeva che Proserpina fosse stata rapita da Plutone, rubò la statua bronzea di Cerere, la più antica di quelle ivi conservate, e, da un’altra statua di Cerere, posta innanzi al tempio e difficile ad esportare per la sua grandezza, strappò una statuina della vittoria, ad essa posta tra mani[563]. A Syracusae, del tempio di Minerva, posto nell’_Insula_, fece un vero scempio, spogliandolo del quadro rappresentante la battaglia equestre di Agatocle e di ventisette altri con i ritratti di re e di tiranni di Sicilia, tutte cose, che Marcello, nella presa della città, avea rispettate e che erano care, sia pel loro pregio artistico, che per la memoria de’ fatti e delle persone[564]. Dalle porte stesse del tempio, magnificamente lavorate in oro e in avorio, strappò la bellissima testa di Medusa e tutti gli altri rilievi, perfino le borchie d’oro, lasciandole nude e appena adatte a chiudere[565]. Dal Pritaneo, posto in Acradina, prese la bellissima Saffo di Silanione[566]. Dal tempio di Esculapio, prese la statua di Pean; da quello di Bacco, la statua di Aristeo, tenuto per inventore dell’olio; dal tempio di Giove, prese la statua stessa del nume, la statua di Giove Ourio, una delle tre più celebrate del genere, secondo Cicerone; e qua e là, un po’ per tutto, mense delfiche e bellissime tazze di bronzo, una quantità ingente di vasi corinzî[567]. [Le cospirazioni degli schiavi.] Tutto, insomma, era, dice Cicerone, per Verre buona occasione di guadagno, che che accadesse, che che ne andasse di mezzo. Eccitato dall’imperversante guerra servile d’Italia ad usare una severa disciplina, escogitava immaginarie cospirazioni di schiavi per trarne pretesto a ricattare i loro padroni. È così che imbastisce, nel territorio triocalino, una simile accusa contro gli schiavi di Leonida, e li mena a Lilybaeum e li condanna; poi, mentre, già stretti al palo, stanno per patire l’estremo supplizio, per ragioni, che a Cicerone non parevano un mistero, li scioglie e li ridona a’ loro padroni[568]. In un modo presso che simile si condusse con Aristodamo di Apollonia, con Leonte Imacarense; coll’espediente delle stesse accuse, carpì sessantamila sesterzî ad Eumenida di Halycia, cinquecentomila allo stesso C. Matrinio, cavaliere romano[569]. Da Apollonio, figlio di Diocle, di Panhormus, voleva assolutamente conto di un servo, preposto agli armenti, che quegli non avea mai avuto: in realtà, volea quattrini; e, poichè non n’ebbe, senza regolare accusa, senza giudizio, lo fece prendere e lo gettò a marcire in carcere per diciotto mesi, senza che valessero a liberarlo le pubbliche intercessioni del Senato, de’ magistrati, de’ sacerdoti panormitani. Poi d’un tratto — qualche cosa di maggiore efficacia agli occhi di Verre era intervenuto — senza trattar causa, senza nessuna formalità, lo trasse di carcere[570]. [La flotta e i pirati.] Questa sua smania d’illeciti lucri non si arrestava nemmeno dinanzi a ciò che riguardava, più da presso, la sicurezza della sua provincia; anzi, sempre secondo Cicerone, ne lo rendeva più dimentico che mai. Così, contro la lettera stessa del trattato, esentò Messana dal contribuire, come sin qui avea fatto, con una bireme e con marinai e soldati alla flotta, mentre vi astrinse Tauromenium, che per trattato n’era esente[571]. Poi l’amministrazione della stessa flotta gli suggerì tutta un’altra lunga e sicura speculazione. Mentre per lo innanzi ogni città dava al suo navarco, che ne dovea dare poi stretto conto, quanto era necessario a mantenere la nave e le persone poste sotto il suo comando; Verre avocò a sè l’amministrazione, obbligando ogni città a mettere nelle mani di lui quel che prima era dato al navarco. Al tempo stesso prese a trattare con le città per dispensarle, dietro un corrispettivo, dal fornire un determinato numero di marinai; trattò privatamente con ognuno di questi, per congedarli innanzi tempo con un compenso di seicento sesterzî a testa; e così, mentre straordinariamente faceva questi lucri, se ne veniva ad assicurare un altro anche più stabile, avendo da mantenere un numero di uomini inferiore a quello calcolato dalle città nel loro contributo[572]. Intanto, una simile condizione della flotta la rendeva inetta a provvedere efficacemente alla difesa contro i pirati. Già, se anche questi talvolta gli capitavano tra mano, non ne faceva un trattamento tale che valesse ad estinguerli e sopratutto ad atterrire con il rigore dell’esempio. Presa una volta presso Megaride, non lungi da Syracusae, una nave piratica da una flottiglia di dieci navi, posta sotto il comando di P. Cesezio e P. Tadio, Verre non pensò che ad appropriarsi la preda assai grande ed opulenta. Quanto agli uomini, invece di mandarli pubblicamente al supplizio, de’ più giovani, più belli, degli istrutti in qualche arte fece dono agli amici ed acoliti; sei, sinfoniaci, ne mandò anche ad una sua amica di Roma; i vecchi, gli inutili li fece uccidere ad uno alla volta, senza pensare a quelli che pretendevano fare l’esatto conto de’ presi e degli uccisi. Il capo de’ pirati non lo vide nessuno; Verre l’avea mandato a Centoripae, con ordine, dice Cicerone, di trattarlo bene; mentre così sorgeva e si accreditava sempre più la voce che danaro fosse stato dato da’ pirati per la sua liberazione[573]. [Il supplizio de’ navarchi.] Ma questo fortunato evento fu dovuto più al caso ed alla forza evidentemente preponderante che ad altro; ed in ogni modo sarebbe stato unico. Lo stato della flotta e la potenza de’ pirati, sempre più minacciosa, erano meglio adatti ad apportare de’ rovesci; e non mancarono. La passione per Nice, la bella Siracusana, il pensiero di meglio agevolare la sua tresca, aveano indotto Verre a dare il comando della flottiglia al marito di lei, Cleomene, imbelle ammiraglio di una squadra resa già, essa stessa, sì imbelle. Così la flottiglia uscì dal porto di Syracusae per non più tornarvi; prima di tutte la nave di Centoripae, nave ammiraglia, che portava lo stesso Cleomene, e poi in ordine quelle di Segesta, di Tyndaris, di Herbita, di Heraclea, di Apollonia, di Haluntium. Dopo cinque giorni, era a Pachynum, nel porto; e la gazzarra, che Cleomene vi faceva, fu interrotta dall’annunzio delle navi piratiche, che si trovavano nel vicino porto di Odyssea. Stremate erano le ciurme ed affamate, ridotte a nutrirsi di radici di palme selvatiche: sperò per un momento Cleomene di potersi rifornire con le forze del presidio di terra, ma esse non si trovavano in condizioni migliori di quelle delle navi. Altro scampo non gli parve avere che la fuga, e si apprese a quel partito: le altre navi ebbero per un momento un proposito di resistenza, ma poi seguitarono verso Helorum la nave ammiraglia; senonchè, meno celeri e più esposte come erano, ne caddero già due, subito, nella fuga, in mano a’ pirati: quella di Haluntium, il cui capitano, Phìlarco, fu preso prigione e quello di Apollonia, il cui prefetto, Anthropino, fu ucciso. La perdita delle altre venne ritardata soltanto, non evitata; che tutte caddero in mano de’ pirati, poichè gli equipaggi, giunti a terra, le abbandonarono in mare, ed Eracleo, l’archipirata, le fece tutte bruciare. La nuova giunse rapidamente a Syracusae nel cuore della notte, destando furore ed allarme, e, dopo breve tempo, vi arrivarono gli stessi pirati, che penetrarono e restarono nel porto, cioè a dire nella città, finchè a loro stessi non piacque d’andarsene. Già, nel tumultuario diffondersi della prima novella, Cleomene sentiva il bisogno di nascondersi, e Verre, esso stesso, si sentiva minacciato dal fermento di tutta la cittadinanza; indi ogni giorno crescevano le vociferazioni e le accuse. Verre sentì il bisogno di mettersi al coverto, e credette di provvedervi, inducendo tutti i navarchi a dichiarare in forma legale che le navi erano bene equipaggiate e ben provviste; ma, quando furono venuti a ciò, poterono dire di aver segnata la loro condanna di morte. Tutti furono accusati a mezzo di Nevio Turpione, uno de’ bracchi del pretore, e tutti, per sentenza di Verre e de’ peggiori della sua coorte, furono destinati al supplizio che doveva togliere per sempre ogni incommoda testimonianza. Nulla valsero ad Aristeo, il navarco di Tyndaris, le lagrime del padre Desone, già ospite di Verre; nulla a quello di Herbita le difese e le implorazioni del padre Eubulide; nulla a Furio di Eraclea il suo atteggiamento minaccioso e sprezzante; nulla potè nemmeno, in favore di Eraclio di Segesta, l’assenza regolarmente giustificata da malattia. Solo Cleomene rimase senza molestia e senza appunto, tenendosi allato al pretore durante lo svolgimento stesso del giudizio. Phalacro di Centoripae, che era con Cleomene nella stessa nave, dovette alla corruzione più che a questo argomento lo scampo. Gli altri tutti perirono, e come miseramente! Per prezzo i parenti ne ottennero da Sestio, il carnefice, una morte meno lunga e meno penosa; a prezzo, gemendo innanzi alle porte della prigione, ne riscattarono i cadaveri[574]. Ma Verre era crudele non meno che avido, e l’una passione soffiava sull’altra, accendendola. Quale specie d’inviolabilità potevano avere i Siciliani, dove non era rispettata neppure quella de’ cittadini romani? C. Servilio, uomo di affari, del convento di Panhormus e cittadino romano, per non aver voluto dar una cauzione di duemila sesterzî in una causa di furto, indettagli da Verre col nome di un servo venerio, morì dopo esser stato battuto a sangue da sei littori; e da’ beni di lui Verre consacrò indi nel tempio di Venere un Cupido di argento[575]. [I ricatti e le uccisioni.] Ma gli ultimi resti della guerra sertoriana in Ispagna, la pirateria sempre più estesa e minacciosa, e la guerra servile d’Italia davano maggiormente occasione ed anche pretesto ad ogni maniera di soperchierie. Ogni nave che approdava in Sicilia, da ogni parte, anche di Oriente, era staggita, e, quanto più onusta, tanto più veniva battezzata come proveniente dalla Spagna e cosa di sertoriani. Era un seguito di ricatti; mentre le _lautumiae_, le carceri di Syracusae, si riempivano di cittadini romani, che quando non ne uscivano già cadaveri, ne uscivano a capo coperto per esser menati all’estremo supplizio[576]. Liberti di P. Granio ed altri liberti e mercatanti di Puteoli furono così messi a morte[577]. T. Herennio, banchiere a Leptis, venne ucciso in cospetto di tutta Syracusae, mentre v’erano almento cento cittadini romani, che potevano dar contezza dell’esser suo[578]. P. Gavio, del municipio di Compsa, fuggito dalle _lautumiae_, fece troppo presto a vantarsi e ad inveire contro di Verre; che, mentre si apprestava a salire in nave per tornare in Italia, fu consegnato da’ Mamertini a Verre, allora soppravvenuto; e, confitto alla croce, come una spia degli schiavi ribelli d’Italia, gli fu dato solo per ischerno di guardare, morendo, la terra, in cui egli avea sperato di ritrovare, con l’impero della legge, la sua salvezza. Nè gli valse a nulla l’invocare la sua qualità di cittadino romano; a nulla l’offrirsi a provarla[579]. [Lo stato della Sicilia sotto Verre.] Tali secondo Cicerone sarebbero stati i fasti di Sicilia sotto l’imperio di Verre. Un cupo e tetro sentimento emana dalle impetuose orazioni dell’accusatore; quasi che un alito di morte passasse, tutto abbassando e piegando, sul bel paese degli idilli siracusani, sulla feconda terra di Cerere. I campi parevano quali avrebbe potuto renderli una guerra accanita ed ostinata, che vi avesse portato la devastazione. I piani ed i colli, innanzi verdi e fiorenti, erano ornai brulli e deserti, sì che la terra stessa pareva invocare e rimpiangere l’agricoltore[580]. E n’era il caso; perchè gli agricoltori, ridotti agli estremi dalle vessazioni e da’ dissesti, abbandonavano la coltura, esulavano, ponevano persino termine violentemente a’ loro giorni[581]. Ad Henna, a Murgentia, ad Assorum, ad Imachara, ad Aetna l’abbandono era tale che non appariva più traccia di quello che la Sicilia era stata una volta. Nell’agro leontino gli agricoltori si riducevano da ottantaquattro a trentadue; nel mutycense da centottantasette ad ottantasei; ad Herbita da dugentocinquantadue a centoventi; ad Agyrium da dugentocinquanta ad ottanta[582]. I furti delle opere d’arte lasciavano tristi le case, che ne rimanevano spogliate[583]; e, specialmente quando si trattava di arredi del culto, di oggetti sacri, non ne uscivano che lasciando immerse in pianti e lamenti le donne[584]. Quelle statue di divinità, strappate o fatte scomparire da’ templi, lasciavano dietro di sè un’impressione di superstizioso terrore, che faceva attribuire a quella violazione religiosa la scarsità de’ ricolti ed ogni male che ne seguisse[585]. [Le gazzarre del pretore e della coorte.] E, mentre la Sicilia giaceva così oppressa e le sue piazze erano insanguinate, e compromessa n’era in ogni modo la pace e la sicurezza[586]; Apronio andava banchettando per tutti i fòri, e Verre attendeva a rallegrare ogni giorno di un novo gaudio la sua vita. L’inverno lo tratteneva a Syracusae, la città dove è fama che mai il giorno sia così brutto che non lasci per qualche ora vedere il sole, ed i conviti gli davan modo d’impiegare lietamente i giorni brevi, e gli amori le notti lunghe nella bella reggia di Jerone. Al più, lo richiamava talvolta l’officina artistica, che avea costituito nel suo stesso palazzo, ed a cui egli assisteva in _pallio_ e _tunica pulla_[587]. Al venire della primavera — e solo il rifiorire delle rose era per lui nunzio verace di primavera — cominciava le sue peregrinazioni di città in città, condotto in una lettiga, della quale non aveano una più bella i re di Bitinia, adagiato su molli guanciali di Malta imbottiti di rose, avendo in testa una corona, avendone al collo, mentre un tenue lino, appena mosso, diffondeva anch’esso tutt’intorno soave odore di rose. Di là non iscendeva che per entrare nel cubicolo, dove riceveva magistrati e cavalieri e dove si ordivano gl’intrighi e si maturavano i suoi responsi. Più spesso ancora amava ricevere le più belle donne del luogo: se aveano più ritegno, esse vi venivano evitando gli sguardi indiscreti; se erano più libere, prendevano parte anche a’ conviti, che spesso, vere orgie, finivano in risse: in una battaglia di Canne del vizio, dice Cicerone. L’estate poi non lo sorprendeva già sulle aie polverose, tra l’opera faticosa della mietitura e gli schiavi congregati: essa lo trovava di nuovo a Syracusae, ma non più nella reggia. Come in un accampamento estivo, nell’isola che sta quasi a guardia de’ due porti, sotto tende di tela finissima, egli seguitava là il costume della sua vita invernale[588]. Quivi veniva Terzia, la figlia del mimo Isidoro, portata via a un rodio sonatore di flauto, e Pipa, la moglie di Escrione, e Nice la moglie di Cleomene, che, vinte forse da Terzia nella gara della bellezza e nell’affetto di Verre, sollevavano alterchi, mostrando di averne a schifo l’ignobiltà dell’origine[589]. E il figliuolo adolescente era con lui[590]. [L’addensarsi della tempesta e gli scongiuri.] Intanto i Siciliani aspettavano, affrettandone il termine co’ voti, che l’anno del suo governo finisse, che arrivasse Q. Arrio[591] il successore; ma Arrio non veniva. La morte l’avea colto per via. Così Verre vi rimase ancora un anno; poi un altro anno ancora[592]. Per tutta vendetta i Siciliani esercitavano contro di lui il loro spirito _frondeur_. Il nome di Pipa, la moglie putativa di Escrione, si trovò parecchie volte scritto sul seggio del pretore[593]. Ad altri motti di spirito dette occasione il tentato furto della statua di Ercole in Agrigentum: questo _verre_ prese posto nelle fatiche d’Ercole, accanto al cinghiale erymantio[594]. I sussurri, poi, le vociferazioni sulla sua condotta, su’ suoi rapporti con Apronio e con i decumani si spandevano e crescevano ogni giorno, divenendo qualche volta aperta sfida e audace rampogna, come nel caso di Scandilio[595]. In cambio, Verre pensava a farsi degli amici, tra Siciliani e Romani, con doni militari e in altro modo, sperando di trarre profitto da ogni evento[596]. Tentava amicarsi qualche città, specialmente Syracusae, la più importante, dove egli risiedeva, con espedienti come quelli dell’eredità di Eraclio[597]. Con Messana poi avea stretto una vera lega, e ne avrebbe fatto la sua complice, mentre egli la esentava da ogni contribuzione verso la repubblica e per la difesa della Sicilia. Messana, una testa di ponte tra la provincia e l’Italia, diveniva il quartiere generale e il magazzeno di Verre, fornendolo anche di una _cybea_, fatta a mo’ di trireme, bellissima e fornitissima, costruita a spese pubbliche, perchè meglio potesse mettere in salvo tutte le sue ruberie[598]. Pure anche il terzo anno, il terzo e lunghissimo e rovinoso anno passò, e finalmente Verre partì. Non aveva ancora posto piede, si può dire, in Italia, e già le ire represse si scatenavano e scoppiava la tempesta, che per tanto tempo si era venuta addensando. Le statue, che egli si era fatto erigere, non solo per trarne guadagno, ma altresì a difesa ed anche a lode del suo governo, vennero rovesciate a furia di popolo, e appena, a quanto dice Cicerone, il nuovo pretore potè salvarne qualcuna[599]. A Tauromenium la sua statua venne demolita, lasciando per maggior onta intatto il piedistallo; e, con lo stesso intento, a Tyndaris veniva abbattuta la statua, lasciando in piedi il cavallo[600]. Alcuni mesi dopo, il senato di Centoripae ordinò che si appaltasse la demolizione della statua di Verre e del figlio, e che trenta senatori vi assistessero[601]. Era un lungo clamore, che inseguiva Verre nel suo ritorno, come un grido di dolore e di vendetta; ed a Roma, questa volta, non mancava gente disposta a raccoglierlo. VII. AD ARAM LEGUM [Il carattere dell’accusa e l’ambiente.] Non potevano davvero mancare a Verre accusatori, ed accusatori implacabili. Quello di accusare un uomo politico importante, un governatore di provincia era un modo, se anche un po’ discreditato, di venire in fama e di acquistare importanza; ma l’accusa di Verre, questa volta, trascendeva i confini di un interesse semplicemente individuale. Le lotte civili soffocate, ma non spente, da Silla, si erano riaccese non appena egli era sceso nel sepolcro; e la parte popolare tentava in ogni modo di riconquistare il potere, riprendere i suoi diritti, indebolire in tutti i modi la parte sillana, combattendola non solo come partito, ma, individualmente, ne’ suoi uomini principali e più intransigenti. Verre, come uomo di parte, era di una selvaggia energia, implacabile ed ostinata, aliena da tergiversazioni e da scrupoli, e non dovea essere piccolo guadagno per i suoi avversarî metterlo fuori di combattimento. La plebe, da lui avversata specialmente nel periodo della sua pretura; i cavalieri, trattati molte volte senza riguardi in Sicilia e feriti ne’ loro interessi sopratutto con la preferenza accordata negli appalti delle decime agli uomini della coorte pretoria, aspettavano ed invocavano una vendetta contro C. Verre, ed, altrettanto o più, l’invocavano tutte le vittime delle proscrizioni e delle confische sillane, le cui piaghe recenti non si erano peranco rimarginate, e che in Verre odiavano non solo l’acolito di Silla, ma l’antico disertore che, passando a Silla dalla parte mariana, vi avea portato tutto l’ardore e lo zelo del rinnegato. Ma, oltre allo sfogo che il processo di Verre potea procacciare a queste ire, oltre ad essere una questione di sentimento; esso avea una presente ed evidente importanza politica, ed era destinato ad avere un’azione immediata sugli avvenimenti del giorno e sull’atteggiamento dei partiti. Non erano trascorsi ancora otto anni dalla morte di L. Cornelio Silla, e già il fondamento politico della sua costituzione era scosso e l’egemonia dell’ordine senatorio vacillava, sì per il crescere delle forze de’ suoi avversari, sì per la cattiva prova che aveva fatta nel suo esclusivo reggimento del governo. In questo stesso anno del processo, nell’anno 70 av. C., sotto gli auspicî di Cn. Pompeo, l’antico e massimo aderente di Silla, ora console con M. Crasso, si veniva ad una serie di concessioni, da cui la costituzione sillana usciva tanto modificata. Pompeo, giunto ad un grado elevato di potenza e guardato con gelosia dalla parte aristocratica, era attratto verso la parte popolare, di cui, ogni giorno più, crescevano l’ardire e le forze. Il tribunato, per la cui completa reintegrazione si lottava già da parecchi anni, e che era riuscito a liberarsi da qualcuno de’ vincoli ad esso imposti da Silla, vi acquistava già in principio di quest’anno, per opera di Pompeo[602], la pienezza de’ suoi diritti e delle sue prerogative[603]. L’altro validissimo privilegio del giudicare veniva minato con la proposta di ammettere a giudicare altresì i cavalieri ed i _tribuni aerarii_, fatta da L. Aurelio Cotta, zio di C. Giulio Cesare e fratello di quel C. Aurelio, sotto il cui consolato, nel 75 erano state abrogate le incapacità de’ tribuni a coprire le altre magistrature[604]. La democrazia riprendeva le sue posizioni, attaccando la reazione in tutti i suoi baluardi; ed, in un tale momento della lotta politica, il processo di Verre si presentava come un’arma di combattimento di prim’ordine. Un processo che svelasse tutte le prepotenze, le ruberie, gli abusi di ogni sorta di un membro della fazione aristocratica, com’era Verre, riusciva già per sè solo, quale che ne fosse l’esito, di non piccola efficacia; poichè ne sarebbe risultata chiara la cattiva amministrazione delle provincie, e le colpe individuali si riflettevano, in ogni modo, sull’intero ordine. Ma anche più imbarazzante era questa volta il processo per gli ottimati. Una condanna li obbligava a volgersi contro uno de’ più validi loro sostegni, a togliersi un appoggio ed a confessare quasi lo sgoverno delle provincie, che all’ordine veniva rimproverato. Un’assoluzione, quando la colpa fosse dimostrata, o ne fosse indotto almeno il sospetto nella cittadinanza, faceva anche più apertamente assumere all’intero ordine la responsabilità de’ fatti imputabili a Verre e non poteva a meno di provocare una reazione, la quale si dovea manifestare specialmente col togliere all’ordine senatorio la prerogativa de’ giudizî, così caduti in discredito. Il processo di Verre acquistò per ciò stesso un’importanza di gran lunga maggiore di quella che poteva venirgli dall’alta posizione dell’accusato, e dall’ingente valore delle concussioni, di cui gli si dava colpa. C. Verre diveniva come il vivente segnacolo di una grande e decisiva battaglia politica, ed il suo processo era destinato a destare tutto l’interessamento de’ contemporanei e ad avere, anche per i venturi, un’importanza storica più assai di molti altri processi consimili. [Cicerone.] Perciò, quando i Siciliani si presentarono in Roma, per proporre regolarmente l’accusa, non mancarono loro appoggi, nè costò difficoltà il trovare chi la volesse sostenere; se pure, come non è ardito il supporre, non furono essi stessi allettati ed incitati a venire. E sicuramente l’invito a sostenere la loro causa, se non fu sollecitato da Cicerone, fu in ogni modo accolto da lui più che di buon grado e ricevuto come una buona ventura: giacchè questo processo era destinato anche a rappresentare, come rappresentò, una tappa notevolissima nella carriera politica ed oratoria di Cicerone. Il conterraneo di C. Mario, che egli, quale che ne fosse la ragione[605], avea preso anche a soggetto de’ suoi versi giovenili, non poteva proprio avere le maggiori simpatie per Silla ed il suo ordinamento, che, tra l’altre cose, non era destinato ad agevolare il suo cammino, a lui _homo novus_ ed aspirante a farsi una via con l’eloquenza. Nè i tempi, nè forse la natura dell’animo suo lo potevano spingere a mettersi sulla via di un’opposizione ostinata ed aperta; pure i suoi primi passi, le sue prime prove nel fòro lo posero contro ad aderenti di Silla e all’azione diretta o indiretta di lui. La difesa sua di Roscio Amerino, nell’80 a. C., fu una lotta fortunata, massimamente contro L. Cornelio Chrysogono, uno de’ potenti liberti di Silla[606]; e, quand’anche si voglia far la tara al suo coraggio, supponendo che alcune frasi fossero posteriormente inserite nell’orazione e che lo francheggiasse la protezione de’ Metelli, di Servilio, e degli Scipioni, amici di Roscio[607], mentre Silla non prendeva vero interesse alla cosa; resta nondimeno quell’orazione a prova delle sue antiche tendenze. Le quali si mostrarono anche più manifeste, e in forma più recisa, nell’anno seguente, quando, essendo ancora vivo Silla, fece ritener nulla da’ giudici la disposizione, con la quale Silla avea privato dell’_jus civitatis_ gli Aretini[608]. Ora, l’incarico di sostenere l’accusa contro Verre non era solo l’occasione di richiamare una pena sul capo di uno de’ più appassionati e meno scrupolosi adepti di Silla, ma era anche la via per portare un ultimo colpo alla costituzione del dittatore, per attaccare nel fòro apertamente tutta quella fazione di ottimati, orgogliosi ed intransigenti, che niente più mostravano di spregiare, quanto gli _homines novi_[609], alla cui categoria Cicerone apparteneva. Oltre a tutto poi, o forse innanzi tutto, questa causa era il tornèo, tante volte invocato ed aspettato, in cui l’oratore dovea e potea fare la prova della sua eloquenza. I trionfi di L. Ortensio, del famoso oratore, di otto anni più vecchio di lui[610], non gli aveano lasciato i sonni tranquilli; e, per una natura ingenuamente ambiziosa, come quella di Cicerone, così innamorato della sua arte, emulare e superare il più grande oratore del suo tempo, era al tempo stesso un’aspirazione ed un bisogno. Già, in una delle sue prime cause, la prima, di cui l’orazione ci sia rimasta, quella di P. Quinzio nell’a. 81[611], Cicerone si era trovato a fronte del grande avvocato; ma la causa, una contesa d’interessi privati, poco si prestava ad un vero duello oratorio, e poi Cicerone allora era giovane, e stette a fronte del suo contraddittore, così come i tempi, la diversa fama, la diversa posizione sociale esigevano. Ma d’allora undici anni circa erano passati: il giovane era divenuto un uomo maturo di trentasette anni; si era valso del volontario esilio, che si era imposto negli ultimi anni della vita di Silla, per compiere i suoi studî filosofici e retorici, nella culla stessa della cultura e dell’eloquenza; avea fatto le sue prime prove di magistrato; avea preso il suo posto nella lotta de’ partiti, e potea bene sperare d’ingaggiare la tenzone desiderata col suo emulo, da pari a pari, in una causa a cui doveano essere rivolti, non solo gli occhi di Roma, ma di tutto il mondo romano, ed in cui egli potea sperare di avere la miglior parte. Nè solo la fama di primo oratore dovea dargli quel singolare duello giudiziario; era anche un’altra spinta sulla via degli onori. Dopo avere nel 75 a. C. coverta, in Sicilia, la carica di questore del propretore Sesto Peduceo[612], egli, ora, trascurando di chiedere il tribunato, che forse non credeva interamente conforme alla sua indole e al genere di politica che intendeva seguire, chiedeva l’edilità; e lo speciale compito, che disimpegnava in questo processo, lo metteva in vista come l’uomo del giorno, e faceva sì, che sul suo nome, più che su di ogni altro, la sua parte avrebbe affermato i suoi sentimenti e il suo programma. [I primi maneggi di Verre.] Verre dal canto suo non se ne sta inoperoso. Mentre egli era ancora in viaggio verso Roma, Timarchide scriveva ad Apronio in Sicilia, suggerendogli i modi di neutralizzare la cattiva fama, in cui si cercava mettere presso Metello tanto lui che Verre; modi che erano quali poteva consigliare un artefice esperto di ogni corruzione com’era Timarchide. «Adoperati con ogni diligenza, perchè non abbia a scapitare l’opinione del pretore. L’abilità e l’eloquenza non ti mancano. Hai di che spendere. Tira a te gli scribi, gli uscieri: con Volteio, che può moltissimo, fai comunella e taglia per diritto e per traverso. Voglio, o fratello mio, che tu presti ascolto al tuo fratelluccio; e tutta la compagnia ti avrà caro. Abbi pronta una pezza per ogni sdrucitura; con l’intercessione tua ognuno è avvezzo a vincere. Sai che Metello è un talentone. Se Volteio sarà con te, tutto si farà come per gioco. Hanno insinuato a Metello e Volteio che tu hai ruinati gli agricoltori. Hanno loro intronato le orecchie dicendo che tu eri il compare del pretore. Fa che sappia la tristizia loro; ed essi avranno da correre un bel po’, se gli dèi vorranno[613].» L. Metello infatti doveva essere giunto in Sicilia assai preoccupato, non solo di queste voci, ma della condizione generale della Sicilia, quale che egli potesse crederne la ragione. Ne è prova la lettera, che egli, nell’anno istesso della sua propretura, diresse a’ consoli Crasso e Pompeo, in cui accennava alle decime vendute secondo la _lex Hieronica_; all’opera interposta, con le lettere e con le parole, perchè vi si seminasse quanto più era possibile, malgrado la difficoltà de’ tempi ed il numero stremato degli agricoltori, ed a tutti i provvedimenti presi, perchè la percezione presente non fosse tale da esaurire le fonti stesse del reddito[614]. Egli cercò, a quanto pare, di mostrare un’attitudine conciliante e di riparare alle conseguenze di alcuni atti compiuti dal governatore precedente. Reintegrò così Eraclio ed Epicrate nel possesso de’ loro beni[615]. Rescisse altri giudicati di Verre, a Panhormus, ad Agrigentum e Lilybaeum; mise da parte il censo fatto durante la pretura di lui, valendosi del precedente: fece insomma cose tali, da far dire a Cicerone che l’opera sua consisteva massimamente nel disfare l’opera del suo predecessore[616]. Ma, improvvisamente, poco prima dell’arrivo di Cicerone in Sicilia, si mutò. Fu questo l’effetto de’ consigli dati da Timarchide ad Apronio? Non pare. Cicerone ne attribuisce la causa all’arrivo, da Roma, di un tal Letilio, suo segretario, e ad alcune lettere che gli portò. Venivano direttamente da Verre queste lettere, come alcuni volevano, per rammentargli l’antica amicizia e la parentela e tante altre cose? La lettera che operò il miracolo doveva essere una lettera ricevuta di casa sua[617], e, probabilmente, al mutamento dettero causa ragioni assai più forti d’ordine politico. L’aspetto, sempre più chiaramente politico, che assumeva il processo di Verre, la parte che costui prendeva nelle elezioni di quell’anno, finite poi con la vittoria di Metello; tutto dovea consigliare un mutamento che subito seguì. Verre, da questo punto, ebbe in L. Metello un amico ed un alleato, che non poco vantaggio era in grado di recargli. Alla sua coorte poi Verre potè entrare in grazia, non solo per favore riflesso, ma anche con altri argomenti più positivi[618]. [La proposizione dell’accusa. Cicerone e Q. Cecilio.] Intanto Cicerone si era presentato innanzi al pretore M. Acilio Glabrione, destinato a presiedere i giudizî _de repetundis_, facendo la sua _postulatio_, perchè a nome di tutte le città di Sicilia, meno Messana e Syracusae, venisse egli incaricato della _delatio nominis_ contro Verre per le sue concussioni. Ma, contemporaneamente, o prima, o poco dopo di lui, in ogni modo prima che la querela di Cicerone venisse regolarmente accolta e gli fosse data regolare facoltà d’iniziare la sua inquisizione, Q. Cecilio Niger, già questore di Verre e siciliano di patria, dolendosi anch’egli di essere stato a torto danneggiato da Verre, si presentò alla sua volta per muovere querela ed essere abilitato a menare innanzi egli stesso il processo[619]. La necessità di evitare sentenze contraddittorie menava, senz’altro, all’unità del giudizio; e, nel caso di più querele, specialmente quando riguardavano una sola specie di reati, occorreva, con un procedimento molto sommario e con un giudizio quasi di delibazione, vagliare la condizione giuridica de’ vari accusatori per affidare poi ad uno di essi, od a varî congiuntamente, la cura di portare innanzi l’inquisizione e l’accusa. A considerare il nome familiare di Cecilio, può argomentarsi che egli fosse, per tradizione familiare, un aderente de’ Metelli, di cui portava il nome. La questura, da lui gerita in Sicilia con Verre, non è fatta per diminuire valore a questa ipotesi, e Cicerone, nella _Divinatio_, lo accusa apertamente di essere un accusatore simulato. Gl’intrighi e le escogitazioni di Verre crescevano, quanto più il pericolo minacciava ed incalzava; e non sarebbe punto improbabile che, perduta la speranza di mandare a monte il processo, egli avesse pensato, con un accusatore di sua scelta, un nemico compiacente, di farlo finire in una bolla di sapone e magari in un trionfo. Non è men vero d’altra parte che Verre e Cecilio, uniti e concordi forse a’ danni de’ Siciliani, aveano finito col venire in contrasto al momento della spartizione delle spoglie[620]; la riconciliazione, che potè aver luogo tra loro, non si sa se fosse sincera e tale da mettere del tutto a tacere l’avidità delusa e le vecchie ire[621]. Varî mesi dopo, lo stesso Cicerone parlava dell’inimicizia di Q. Cecilio verso Verre, come di giusta inimicizia[622], e, forse, quest’asserzione di un tempo non sospetto, e in cui, di Cecilio, si poteva parlare senza secondi fini, potrebbe anche essere stata la vera. Due altri Cecilii, Quinto e Lucio, erano testimoni d’accusa contro Verre nella causa[623]. Ma niente di certo si può asserire; perchè, d’altra parte, a poca distanza, Cicerone parla dell’attitudine ostile, mostrata verso di lui da due de’ questori di Verre[624]. Era tra questi anche Cecilio? [La _Divinatio_.] Fosse intanto egli un emissario di Verre, o ne fosse francamente nemico, Verre amava meglio che l’accusa rimanesse affidata a Q. Cecilio, anzi che ad un avversario poderoso, eloquente e politicamente importante, come era Cicerone. La questione venne in decisione probabilmente nel Gennaio del 70 av. C., come si può calcolare, tenendo conto de’ cento dieci giorni assegnati a Cicerone per l’inquisizione e di tre mesi perduti per la interposizione del giudizio contro il governatore di Acaia, attraverso cui bisogna rimontare dalla data della causa[625]. Anzi, si può ritenere che ciò avvenne proprio ne’ primi giorni del Gennaio, se si crede a Cicerone che i Siciliani erano venuti per accusarlo, mentre Verre non avea ancora lasciata la Sicilia e n’avea ancora in mano il governo[626]. A risolvere la controversia era chiamato lo stesso Glabrione, assistito da un consesso di giudici, che non era precisamente quello stesso che poi giudicò della causa, ma avea parecchi nomi comuni[627]. Di preciso sappiamo che v’era C. Marcello[628]. Questo primo incidente del giudizio era anche come un _praeiudicium_[629], non tanto per l’esame superficiale dell’ammissibilità dell’accusa, che poteva andar congiunta alla _postulatio nomen deferendi_, quanto perchè la scelta dell’uno o dell’altro accusatore poteva essere l’oroscopo della fine che avrebbe avuto il processo. Ortensio si adoperava per escludere Cicerone, ma con un lavorìo occulto ed insidioso, ora facendo vedere quanto modesta per sè ed indifferente fosse la sua pretesa di avere uno piuttosto che un altro accusatore; ora cercando intimidire i giudici col dire che egli avea nel consesso chi gli avrebbe dato notizia del voto di ciascuno, giacchè il genere di votazione, molto sommario e senza preoccupazioni di segreto, offriva modo di sapere di ognuno il fatto suo[630]. Ma i Siciliani non volevano saperne di Q. Cecilio, di cui pare non avessero avuto nemmeno a lodarsi nel tempo della sua amministrazione, ed erano disposti a tutto, pur di non avere a far causa comune con lui[631]; e Cicerone anche più di loro. Egli, che avea fatto di tutto per acquistarsi la benevolenza de’ Siciliani, che si gloriava di aver rintracciato per loro la tomba di Archimede[632], che, sul partire, avea pubblicamente dato saggio della sua eloquenza, promettendo loro dal fòro di Lilybaeum ogni suo appoggio[633]; si credeva il naturale patrono de’ Siciliani, e non sapeva concepire che altri gli mettesse il piede innanzi. Tanto più non sapeva concepirlo, considerando l’importanza che per lui avea questa causa, mentre egli si presentava candidato alla carica di edile. Cicerone, da questo contrasto, trasse occasione di una prima avvisaglia oratoria, e venne fuori con quella sua orazione contro Q. Cecilio, chiamata _divinatio_, probabilmente perchè rifletteva un genere di giudizi, ove la sentenza dipendeva meno da prove e più da induzioni[634]. Fu una vera scaramuccia, ed una scaramuccia fortunata, combattuta con grande abilità. L’ironia, la minaccia, l’argomentazione stringente furono tutte adoperate per ottenere quanto a Cicerone importava raggiungere. Di questo, come di tutti gli altri suoi discorsi, egli mirava a farsi un piedestallo; ma questo suo scopo lo dissimulò con molto tatto. Il paragone con Cecilio, ch’era uno de’ grandi argomenti per far decidere la contesa in suo favore, è affrontato e trattato con tanta disinvoltura, che Cicerone ne esce con la sua affermazione di grande oratore, di solo degno competitore di Ortensio, senza pure aver l’aria di pretensioso e vanitoso. Al tempo stesso, mette in rilievo con molta intenzione la speciale figura, ch’egli avea in quel processo; si schermisce dalle censure, che il compito di accusatore, compito oramai discreditato, poteva attirargli, e cerca di togliere assolutamente alla causa l’aspetto di un duello di carattere personale, o di una semplice tenzone oratoria, per ridarle il suo pieno significato politico e civile. Questo valore anzi disinteressato della sua accusa e il sentimento di solidarietà sociale che l’inspira, sono punti, su cui Cicerone torna ed insiste anche più volte in appresso, e la sua eloquenza e la sua persona si rilevano molto, sotto quella favorevole luce e lo mettono a parte, e al di sopra, degli altri oratori semplicemente forensi del suo tempo. Di questo stesso prologo del giudizio profittò intanto Cicerone per dare come un prospetto di tutta la causa, mettere Verre nella luce più fosca, cercare di sgominare tutte le mene sue e de’ suoi fautori e protettori e fare i primi attacchi, benchè in forma velata e condizionale, contro i tribunali senatorî. Da questa prima prova Cicerone uscì trionfante. Non solo riuscì ad ottenere che a lui si affidasse l’accusa; ma evitò anche che gli si aggiungesse, come _subscriptor_, Cecilio, che avrebbe potuto essere una spia ed un traditore, e, con lui, scartò anche i due, che Cecilio si era aggregati come coaccusatori, L. Appuleio e Alieno, un uomo questo, che aveva forza più ne’ polmoni che nel cervello, e, con loro, tutto l’altro infinito gregge di accusatori di occasione, i quali indifferentemente, a scopo di lucro o di vanità, tenevano ad unirsi nell’accusa con chi che sia[635]. La vittoria di Cicerone dipese essa, tutta, dalla sua eloquenza, o dalle premure di tutti que’ legati di Sicilia, che, mentre parlava, gli facevan corona? o dalla considerazione da lui stesso messa innanzi che l’accusa sua fosse quella meglio atta a dispiacere a Verre e soddisfare a’ Siciliani? o finalmente dalla persuasione che Cecilio fosse davvero un falso accusatore? Tutte le ragioni vi contribuirono un po’; ma, oltre alle considerazioni politiche e al merito di Cicerone, dovè concorrere molto a fare escludere Cecilio, secondo un’antica consuetudine[636], la stessa carica di questore, ch’egli occupò già presso Verre e che lo avea fatto, se non proprio partecipe, assenziente almeno in qualche modo agli atti di Verre[637]. [L’inquisizione di Cicerone.] Cicerone si fece assegnare per la sua inquisizione un termine di centodieci giorni, un termine assai breve, a parer suo[638], ma che in ogni modo (poichè gli riuscì di sbrigarsi in più breve tempo) gli avrebbe permesso di fare le cose ad agio, se altro non fosse sopravvenuto a dargli fretta. L’accusatore del governatore di Acaia (Cicerone non ne dice il nome e, secondo il Ps. Asconio[639], si sarebbe trattato di un Rupilio che accusava un Oppio, o addirittura di Q. Metello Nepote che accusava Curione), mentre Cicerone avea chiesto un termine di centodieci giorni per la inquisizione contro Verre, ne chiese due di meno, cent’otto per la propria. Secondo Cicerone quest’accusa e quest’accusatore sarebbero stati escogitati e suscitati nell’interesse stesso di Verre, perchè, a misura che il processo si presentava sempre più come inevitabile e pericoloso e se ne avvicinava il tempo, non restava altra speranza nè altro aiuto che il prender tempo, il differire, finchè fosse stato possibile, sino all’anno successivo in cui tutto faceva sperare, come avvenne, che il consolato sarebbe venuto nelle mani di L. Ortensio e Q. Metello; ed a M. Metello, nominato pretore, probabilmente avrebbe potuto toccare in sorte la direzione della sua causa[640]. L’unica, o la maggior preoccupazione di Verre, a quanto sembra, fu questa che il tempo potesse mancargli[641]. Questo anonimo accusatore acaico non giunse neppure a Brindisi, non si mosse da Roma. Bene invece partì Cicerone. Egli stesso ci dice[642] che era in Sicilia nel cuore dell’inverno, e da altri luoghi[643] si desume che vi arrivò, poco meno d’un mese dopo di L. Metello. Se si deve credere a Cicerone, ogni maniera d’insidia, per mare e per terra, gli fu tesa; ma egli, or con la propria diligenza, or col benevolo aiuto degli amici, ne uscì sempre sano e salvo, e con lui il cugino che l’accompagnava[644]. Arrivò così in Sicilia, e si mise subito all’opera. Suo proposito era quello di appurare tutto, tutto vedere, tutto toccare e sapere per propria scienza. Un conveniente concetto delle condizioni della regione glielo dava già, a suo dire, la vista dello stato stesso della campagna squallida e derelitta[645]: le valli e i colli d’Agrigentum, il fecondissimo e famoso territorio di Leontini[646], ora mesti e desolati; e, nelle città stesse, le statue di Verre demolite e spezzate, mentre i piedestalli e le epigrafi rimanevano là a testimoniare l’onta patita[647]. Ma tutto ciò non gli bastava. Egli dice che andava a cercare gli agricoltori nelle loro stesse capanne per udirne le doglianze; li cercava sul luogo stesso del lavoro, ne’ campi, e li ascoltava, mentre, interrotta la faticosa opera dell’aratro, con la mano sulla stiva, gli narravano tutte le offese ed i danni[648]. Certo gli si paravano difficoltà gravissime e, qualche volta, quasi insormontabili. L. Metello, che il messaggio di Letilio, giunto due giorni prima di Cicerone, avea del tutto mutato, non vedea più in Verre che l’affine, l’amico e, forse più di tutto, il grande elettore de’ suoi fratelli: forse lo stringevano a lui anche argomenti del genere di quelle _tabellae tributariae_[649], a cui una volta Cicerone allude, benchè altre volte si affretti a dissipare ogni siffatto sospetto[650]. Così, sino a quel punto, ne avea contraddetti gli atti, imponendo a’ Mamertini, che dall’altro n’erano stati esonerati, la contribuzione del frumento[651]; ne avea rescissi i giudicati[652]; avea messo da parte il suo censo, servendosi di quello di Sesto Peduceo, intanto che se ne facesse un altro[653]; parea insomma più intento a disfare l’opera del predecessore che a menare innanzi la propria, e, in trenta giorni, l’avea già disfatta in gran parte[654]. Ora invece imponeva a’ Centoripini di rialzare le statue demolite di Verre[655]; impediva a C. Gallo Senatore di procedere contro Apronio per le sue concussioni, acciò Verre non ne fosse compromesso[656]. E, quasi che tutto ciò non bastasse, cercava costringere le città Siciliane ad assumere la parte di _laudatores_ nel processo di Verre[657], e minacciava, e tratteneva anche quelli che andavano a deporre contro Verre[658], e cercava insomma di porre ostacoli di ogni sorta all’inquisizione di Cicerone. E, fatti tanto più forti del suo esempio, gli tenevan bordone i questori[659]; tutta la sua coorte, divenuta a dire di Cicerone, roba d’Apronio[660]; gli amici che Verre avea lasciati in Sicilia in numero non indifferente[661]. A Messana, nonostante il suo grado di senatore, Cicerone ricevette un’accoglienza, più che fredda, ostile; e, ciò che in nessun altra città mai accadde, non fu pubblicamente ospitato[662]. Ma a tutte queste animosità, a questi piccoli e grandi intrighi, Cicerone resisteva, forte dell’autorità della legge e della particolare funzione, che andava colà ufficialmente a disimpegnare, sotto gli auspicî di Glabrione[663], sorretto anche da’ consoli in carica, e specialmente da Pompeo, tra i cui clienti ed aderenti, numerosissimi in Sicilia, reclutò testimoni, denunzianti, fautori. Lo sorreggeva anche tutto il sentimento pubblico e l’aura popolare, che faceva vedere in lui come un vindice ed un liberatore; e a lui si facevano via, per trovare uno sfogo ed un’espressione, tutte le ire, tutti i dolori, tutte le speranze. Quell’accusa era anche un conforto alla loro irrequietezza di soggetti, e, nella rivolta contro Verre, vi era in germe la rivolta contro ogni mala signoria, anzi contro ogni dominio. Ad Henna gli vennero incontro i sacerdoti, vestiti de’ loro paramenti sacri, e tutto il popolo che, sotto il peso della superstizione, parea oppresso dal furto della statua di Cerere e prorompea in pianti e lamenti alle parole di Cicerone[664]. Altrove gli andavano incontro, se Metello non riusciva ad impedirlo, le madri e le sorelle degli uccisi. Ad Heraclea, la madre di uno de’ navarchi, fatti uccidere da Verre, andò incontro a Cicerone, di notte, al chiaror delle faci, scortata dalle matrone della città, e, poichè l’ebbe visto, gli si gittò a’ piedi supplicando e piangendo, quasi egli avesse potere di richiamare in vita il figliuol suo[665]. L’inquisizione ottenne così tutto il suo effetto. Rese la causa in Sicilia anche più popolare di quel che avesse potuto essere da prima; rialzò gli animi de’ Siciliani e li rese più tenaci e più coraggiosi nell’accusare, e fece sì che Cicerone potesse tornare in Italia, con testimonianze e prove e documenti di ogni sorta. Egli frugò negli atti pubblici di tutte le città, attraverso le quali passò, per trarne materia di accusa contro Verre[666]; perquisì la casa di Apronio, per trovare i suoi libri di conti, ma non ne trovò, o che davvero non ne avesse, come asseriva, o, come è anche probabile, che li avesse fatti sparire a tempo[667]; vi trovò bensì la lettera di Timarchide, a cui già si è accennato, e ch’era tanto adatta a mettere in luce il dietroscena del processo[668]. Ad Halaesa, dove un membro del senato cittadino, Enea, avea avuto incarico di rendere grazie a Cicerone, in nome della città, e coadiuvarlo nell’inquisizione, potè guardare gli atti pubblici ed i conti ed averne la prova che, realmente, a Valenzio e Timarchide non si era dato frumento ma denaro[669]. Ad Entella, intervenne nel senato per prendere conoscenza di tutti i torti fatti da Verre alla città[670]. A Leontini, fu più difficile il compito di Cicerone, perchè quel territorio era tutto un latifondo della famiglia di un tale Mnasistrato, e gli altri tutti non potevano avere quindi interesse a denunziare i torti a lui fatti, o ne aveano uno contrario[671]. Egli dunque, qui, si aiutò con quanto gli potè dire Mnasistrato, prendendo dati e tirandone deduzioni[672]. A Syracusae, vi andò sopratutto per guardare i conti de’ pubblicani e le somme che Carpinazio, loro preposto, dava a credito per conto di Verre, dopo che ne divenne l’amico, l’uomo di fiducia e il banchiere. Carpinazio, che avea già cercato di rendersi utile a Verre, facendo scomparire le denunzie fatte da L. Canuleio delle sue abusive esportazioni, cercò di sperdere anche queste altre tracce, facendo di Verre un C. Verrucio; ma la cancellatura, sempre ripetuta e mal dissimulata, la coincidenza delle somme a lui accreditate e di alcune prevaricazioni di Verre, rivelavano facilmente, dice Cicerone, la magagna, che si rese più aperta, quando, in pubblica piazza, non vi fu nessuno che potesse attestare l’esistenza di questo Verrucio. Così Cicerone ne prese copia, anche con l’autorità de’ testimoni presenti (giacchè que’ registri de’ pubblicani non potevano asportarsi); e fu assai pago della scoperta, che gli dovea poi appresso permettere anche di ricamarvi su delle facezie[673]. Altro non si riprometteva da una città come Syracusae, che non aveva nemmeno veduta rappresentata nelle legazioni venute per accusare Verre[674]; che dovea essere affezionata a Verre per l’ottenuta eredità di Eraclio e per i cuori conquistati delle sue donne e le benemerenze acquistate presso i loro mariti[675], e che, finalmente, avea ancora, nella curia, la statua dorata di Verre[676]. Vi si tratteneva dunque Cicerone, più che altro, per ripigliare un po’ fiato nella sua inquisizione ed attingere quegli elementi, che gli potevano essere forniti da cittadini romani. Ma, sembra che con la partenza di Verre, avesse perduto il sopravvento chi ne teneva le parti, e la preeminenza l’aveano omai i suoi avversarî; o, quali che fossero, almeno gli si erano ora voltati contro. Eraclio, che avea la suprema magistratura, invitò Cicerone e suo cugino ad intervenire in Senato, dove seguì uno scambio di dichiarazioni e spiegazioni, per cui si rigettava tutta sugli amici di Verre l’odiosità della statua eretta a Verre nella curia ed ancora in piedi, la dilapidazione dell’eredità di Eraclio e la dissidenza dagli altri Siciliani, andati a Roma, per proporre l’accusa contro Verre. L’ansia di allontanare ogni sospetto di favore verso Verre, di provare la nuova cordialità verso Cicerone, andò tant’oltre che Cicerone e il cugino suo furono dichiarati ospiti pubblici; a Cicerone fu data comunicazione degli atti pubblici, che provavano le ruberie di Verre, e fu messa a partito e votata, a pieni voti, la proposta di rivocare la _laudatio_, concessa già a Verre a malincuore, sotto la pressione di L. Metello. Ma, quando Cicerone andò per avere copia di questa deliberazione, P. Cesezio, già questore di Verre, benchè non ne avesse facoltà, cercò impedirlo; e Metello, a cui Cicerone ricorse, in quel giorno cercò di evitarlo, e, nel dì appresso, non solo non volle aderire alla sua richiesta, ma gli fece rimprovero dell’aver parlato greco ed in un senato greco. Cicerone non ebbe altro rimedio che prenderle per forza, non senza aver dovuto impegnarsi in una rissa con Theomnasto, un mattacchione, zimbello de’ Siracusani, da essi chiamato Theoracto, forse quello stesso che Verre a suo tempo avea fatto gran sacerdote. Ma l’ebbe; l’ebbe, malgrado la rinnovata opposizione di Metello; e Theomnasto, vedendolo più forte, com’era natura dell’uomo, non pensò che a rabbonirlo, e finì, come soprassello, per dargli un libretto, dov’erano scritti tutti i furti da Verre compiuti a Syracusae[677]. [Il ritorno di Cicerone.] L’inquisizione di Cicerone in Sicilia, omai poteva dirsi compiuta. Essa era durata cinquanta giorni: egli si vantava di averla compiuta in un termine più breve di quello assegnato, ed in un modo da avere raccolto quanto si poteva, e di non essere stato a carico di alcuno, nè ad alcuno d’impaccio, fermandosi sempre, quantunque senatore, soltanto da’ suoi ospiti privati[678]. Pure il suo ritorno, che, anch’esso, come l’andata, a sentir Cicerone, si sarebbe compiuto tra le insidie di Verre e tra pericoli di pirati e masnadieri, dovette essere assai frettoloso, e da Vibo a Velia il tragitto fu compiuto sopra una piccola barca[679]. È inutile qui discutere se fosse stato lecito a Cicerone d’abbreviare il termine ottenuto di centodieci giorni ed iniziare prima la causa, anche per eludere lo strattagemma del processo suscitato contro il governatore di Acaia. Che che si voglia ritenere, in astratto, di questa facoltà[680], Cicerone non avrebbe potuto farne uso; perchè, se il finto accusatore acaico non s’era mosso di Roma, non gli avrebbe mai permesso, non piacendo a Verre, di trattare il suo processo prima di lui. Inoltre Cicerone dà come ragione del suo ritorno, più che affrettato, precipitoso, non il desiderio di affrettare la trattazione della causa, ma il bisogno di trovarsi a Roma allo spirare del termine a lui concesso, per evitare che, nell’assenza dell’accusatore, Verre si facesse prosciogliere dall’accusa. Se è così, si può allora ritenere che Cicerone avesse consumato ancora in Roma, prima di partire, una parte del tempo a lui dato per l’inquisizione; ovvero che, finita l’inquisizione, rimanesse ancora un po’ di tempo in Sicilia. Infatti egli dava convegno a molti de’ testimoni, perchè tornassero con lui; e ciò potè essere causa dell’indugio; anche perchè la partenza di alcuni era impedita o distornata da Metello[681]. Potea poi anche darsi che attendesse il tempo favorevole pel ritorno. Ammettendo l’una cosa e l’altra, e che tra il termine fissato e la reale trattazione della causa passassero altri tre mesi[682]; Cicerone dovè tornare a Roma sulla fine dell’Aprile. Che se tornò prima, vuol dire che Cicerone dovè trovare opportuno, specialmente in un’orazione non pronunziata, d’introdurre anche quest’altro particolare, per rendere sempre più interessante e drammatico il suo contegno in questo processo. [La candidatura di Cicerone e i preliminari della causa.] Altre cose, del resto, oltre al processo, chiamavano a Roma Cicerone, e gli consigliavano d’affrettare il ritorno. Egli era candidato, ed occorreva ch’egli stesse bene sull’avviso, per non farsi dare dagli avversari il gambetto. Intanto che il processo del governatore di Acaia, montato nell’interesse di Verre, si faceva, (e pare che si trascinasse in lungo per tre mesi), Cicerone non perdeva di vista la sua causa, ed, anche a Roma, radunava altri documenti ed altre prove. Sequestrò così i _codices accepti et expensi_ di Verre e del padre di lui; ma trovò ch’egli li avea fatti sino al consolato di M. Terenzio e C. Cassio, cioè sino all’anno 73[683], epoca della partenza di Verre per la Sicilia; così che non gli servirono che per trarre un argomento dalla loro mancanza[684]. Sequestrò pure presso L. Vibio, già amministratore della società de’ pubblicani di Sicilia, la copia privata di due lettere, in cui L. Canuleio, loro agente a Syracusae, denunziava le abusive esportazioni di Verre; lettere che Carpinazio, poichè divenne amico di Verre, avea fatto sparire, insieme alle sue stesse, dagli atti della società[685]. Rinvenne presso L. Tullio le copie delle lettere che P. Vezio avea mandate a Carpinazio, e che Cicerone avea già ritrovate in Sicilia presso costui[686]. Ma tanta parte del tempo di Cicerone, dopo questo suo ritorno, dovette essere assorbito dal lavoro elettorale. La lotta era fierissima. Vi erano impegnati personalmente i Metelli, i _consoli per decreto del fato_, con due della loro famiglia, che chiedevano il consolato e la pretura; e candidato al consolato era anche l’avvocato stesso di Verre, Q. Ortensio. Innanzi tutto, occorreva formare il corpo giudicante, il collegio de’ giudici. Era soltanto un preliminare della causa, ma un preliminare, che doveva essere il miglior pronostico dell’esito del giudizio, ed, in realtà, dovea decidere di esso. Verre ponea in questo le maggiori, o tutte le sue speranze; e le somme, che avea spese sin dal suo ritorno, quelle che ancora era pronto a spendere, lo facevano tener sicuro del fatto suo[687]. A Cicerone d’altra parte tardava anche di venire alla costituzione della giuria, per assicurare un severo giudizio, e al tempo stesso per dare la prima smentita alle ciarle messe in giro sulla sua collusione con Verre[688]. E riuscì, pure bene nell’una cosa e nell’altra[689]. Un Q. Curzio, consorte di Verre, che, falsamente, è stato da qualcuno ritenuto presidente di questa causa di Verre, ma che in realtà, come è stato ampiamente dimostrato[690], non poteva avere in questa causa un ufficio, che consta essere stato gerito da Glabrione; venne in aiuto di Verre, cercando di perturbare il regolare e sincero sorteggio de’ giudici. Sembra, benchè ciò sia un’ipotesi e null’altro, che tutto l’albo de’ giudici fosse diviso in tante _decurie_, quante erano le _quaestiones_[691]. Ora Q. Curzio, delegato a presiedere una delle _quaestiones_, cercò comprendere nella decuria, assegnata alla sua _quaestio_, molti di quelli, che doveano invece prendere parte alla _quaestio_, innanzi a cui era rinviato Verre e che potevano essere giudici non grati a costui. Ma Cicerone pubblicamente sventò il suo inganno, e gli tenne testa, mentre alle rampogne sue si univano quelle di tutto il popolo[692]. Così il sorteggio seguì la sua via regolare e ne venne fuori un corpo giudicante, che Cicerone, con una amplificazione, molto naturale nell’oratore che parlava o fingeva parlare a giudici presenti, dice superiori per dignità e splendore a tutti quelli che si erano visti sin qui[693]. Tanto era un’amplificazione la sua, che, qualche tempo dopo, ed altrove, non si peritò di parlare di parecchi di loro in maniera affatto diversa[694]. [I giudici della causa.] A noi non sono noti tutti i giudici, ed anzi non è nemmeno noto il loro numero. Ma sappiamo che v’erano tra loro M. Cesonio, anch’esso, insieme a Cicerone, creato edile per l’anno successivo[695] e noto già pel processo di calunnia[696] contro Cluenzio[697]; Q. Manlio; Q. Cornificio, _homo sobrius et sanctus_ e di famiglia che avea dato consoli allo Stato[698]; M. Crepereio, C. Cassio, Cn. Tremellio, P. Sulpicio, M. Metello, P. Servilio, Q. Lutazio Catulo, Q. Titinio[699], C. Marcello[700]. Verre, che, per la sua qualità di senatore, non avea ristretto a tre soltanto il numero de’ giudici da ricusare[701], ricusò sei giudici: P. Cervio, che era stato suo legato in Sicilia e con cui probabilmente era venuto in disaccordo[702]; Sesto Peduceo, che l’avea preceduto nel governo della Sicilia, e che non poteva avere verso lui i migliori sentimenti, sopratutto per l’impedimento posto ad una manifestazione del Senato di Syracusae in suo onore[703]; Q. Considio, uomo di animo forte[704], giudice probo, amico di Cicerone probabilmente, se tale possono farlo credere le lodi con cui sempre lo menziona[705]; C. Cassio, uomo consolare, giudice severo, della cui moglie avea offeso gl’interessi nel Leontino[706]; Q. Junio, avverso a Verre per la tradizione popolare della sua gente, e ancor più, se come è probabile, congiunto al _iudex quaestionis_, condannato in seguito al giudizio di Oppianico ed al pupillo Junio, vessato per l’appalto del tempio di Castore[707]; P. Galba, appresso competitore di Cicerone nel consolato[708]. Sesto Peduceo, Q. Considio, Q. Junio li ricusò, nonostante che Hortensio ne lo dissuadesse[709]. Nel collegio giudicante, così come riuscì composto, v’erano familiari di Verre, amici del padre; almeno egli ne menava vanto[710]; e, stando infatti anche a quelli soli qui nominati, era notevole per lui il nome di M. Metello. Tuttavia, per quello che Cicerone ne dice, il complesso de’ giudici sarebbe riuscito affatto contrario a’ suoi desiderî: egli anzi ne sarebbe stato sgominato e disanimato al punto di credere senz’altro perduta la sua causa; e gli altri credevano altrettanto con lui[711]. In verità, parecchi di questi nomi non erano fatti per alimentare le sue buone speranze. Cesonio, candidato all’edilità, in quell’anno, con Cicerone e trionfato indi con lui, era probabilmente del suo stesso partito; e in ogni modo il processo di corruzione, a lui intentato per la causa di Oppianico, cui avea preso parte, se anche era finito con la sua completa assoluzione, non gli avea potuto lasciare l’animo ben disposto verso Verre, che avea avuto in quel processo la parte che sappiamo[712]. Q. Manlio e Q. Cornificio, oltre a tutti i caratteri personali, che potevano renderli contrarî a Verre, o refrattarî alle sue corruzioni e che Cornificio specialmente sembrava avere[713], erano stati eletti tribuni della plebe per l’anno seguente[714] e, per coerenza alla loro carica stessa, doveano essere avversi al dispregiatore della plebe, al puntello della fazione sillana. Di P. Sulpicio, di cui come si è visto, è stata confusa la persona, non si sa molto. Anzi, mentre il Pseudo Asconio[715] lo dà come tribuno della plebe, v’è chi[716] mette in dubbio tale dato, per il cominciare che faceva l’anno tribunizio il 10 Decembre, e non il 5. L’esclusione di questa carica è anche meglio dimostrata, benchè non incontrastabilmente, dalla sua qualità di patrizio e dalla considerazione, che Cicerone l’avrebbe menzionato insieme a’ due altri tribuni, Manlio e Cornificio. Al tempo stesso non poteva essere edile, perchè tali erano Cicerone e Cesonio. Non resta dunque a ritenere se non che egli fosse questore, e come tale entrava in ufficio alle none di Decembre[717]. L’esempio recente tra i Sulpici di un altro P. Sulpicio (Rufo), che avea aderito alla parte mariana, poteva non farlo prevedere favorevole a Verre; e, in ogni modo, per tale non dovea darlo la sua qualità di _iudex iustus et integer_[718]. C. Cassio, oltre all’appartenere alla famiglia di quel L. Cassio, la cui severità era passata in proverbio[719], dovea risentire le ire del console C. Cassio, offeso e danneggiato da Verre in Sicilia. M. Crepereio apparteneva ad una famiglia equestre, e ciò dovea bastare a renderlo avverso a Verre; per giunta poi, nella sua famiglia, era ereditaria l’acrimonia e la severità[720]. Cn. Tremellio, se è quello stesso che ci appare poi legato in amicizia con Cicerone[721], non poteva nemmeno essergli benevolo; e, studioso di cose agricole[722], dovea vie maggiormente sentirsi spinto a prendere le parti degli agricoltori siciliani. P. Servilio era nipote di Q. Metello il Macedonico[723]; ma l’alta posizione, ch’egli avea, poteva far concepire a Cicerone la speranza di un retto giudizio. Del resto, un altro P. Servilio, preposto della società de’ pubblicani, e che non sappiamo in che rapporti fosse con questo, avea avuto a dolersi degli abusi di Verre[724]. Q. Lutazio Catulo apparteneva, è vero, alla fazione sillana, anche per tradizione paterna, ed era divenuto, o dovea divenire, il cognato di Ortensio; ma, oltre all’essere di riconosciuta probità[725], avea la ferma persuasione che l’essere severi ne’ giudizî era ancora una delle poche cose, che potessero fare argine al rifluire della parte popolare[726]. Q. Titinio, di una famiglia plebea, che avea dato alla repubblica tribuni, i quali si erano opposti in altro tempo (193 av. C.) al trionfo di Q. Metello, e cavalieri, che avevano lottato per le prerogative dell’ordine[727], dovea ora vedere in Verre non solo l’aderente di Silla e de’ Metelli, ma anche il pretore, da cui il suo fratellastro C. Junio era stato, o pretendeva di essere stato danneggiato[728]. C. Marcello, discendente dell’espugnatore di Syracusae, era anche stato pro-pretore in Sicilia (79 av. C.)[729] e, mentre da un lato era legato da un vincolo di patronato ereditario a’ Siciliani[730], dall’altro era imparentato con la famiglia Junia[731]. Di tutti questi, che conosciamo, se non il solo favorevole, certamente il più favorevole era M. Metello, per i rapporti di famiglia, per l’aiuto da lui avuto nelle elezioni, per tradizione politica. Cicerone ne dovè ricusare degli altri ben più compromessi, se si adattò a ritenere M. Metello; tra gli altri dovette ricusare quel M. Lucrezio, che rimproverava quasi a Verre di aver voluto ritenere e che non sappiamo in quali rapporti fosse con Verre[732]. Tuttavia, o che guardasse agli altri giudici — ve ne doveano ben essere molti altri; nel processo di A. Cluenzio erano trentadue[733] — o che, chiuso in quelle distrette, prendesse a fare quell’alchimia, che gli accusati sogliono fare, almanaccando su tutti i possibili rapporti con i giudici[734]; cominciò forse a riaversi un cotal poco da quell’abbattimento, che Cicerone gli appone. Che quando, con l’intervallo di pochi giorni, l’elezioni ebbero luogo e dettero la vittoria alla sua parte, ogni abbattimento era dileguato, ed egli credeva vedere in esse l’auspicio e l’augurio della vittoria. [Le elezioni.] Le elezioni ebbero luogo, probabilmente, tra la fine del Luglio ed i primi di Agosto, epoca solita, poichè l’entrata in carica avea luogo nel Gennaio[735]; prima i comizî consulari, e ne uscirono trionfanti Q. Metello e Q. Ortensio; poi i pretori, e ne uscì eletto M. Metello. Parve il trionfo di Verre. Alla notizia della riuscita di Q. Ortensio, L. Curione, che s’imbattè in Verre presso l’Arco Fabiano, lo fermò e l’abbracciò, auspicando d’allora la sua assoluzione; e la sua opinione era l’opinione di tutti[736]. Quando poi si seppe che a M. Metello toccava presiedere per l’anno appresso i giudizî _de repetundis_, Verre mandò un messaggio in sua casa, perchè la moglie sapesse subito la fausta notizia[737]. Pure il trionfo non era completo, nè certo l’auspicio, se le elezioni non si chiudevano con la disfatta di Cicerone; e a ciò tendevano ora gli sforzi. Prima e soprattutto si ricorse al danaro. Dieci scrigni di danaro siciliano furono lasciati presso un senatore, perchè servissero contro Cicerone. Mestatori elettorali furono chiamati a congresso e, con i ricordi delle passate largizioni, con l’eloquenza del danaro e con le promesse di somme maggiori, furono incitati e confortati nell’opera loro contro Cicerone. Pure il còmpito parve ad alcuni difficile e fin disperato; solo Q. Verre, della tribù Romilia, consanguineo di Verre, si riprometteva la riuscita della cosa, quando fossero depositati cinquecentomila sesterzi. Cicerone sapeva tutto per mezzo de’ suoi clienti, di uomini di sua fiducia; ma, messo com’era tra l’elezioni ed il giudizio, che si seguivano a poca distanza di tempo, non poteva far tutto quello che voleva. Non poteva attendere esclusivamente all’una cosa ed all’altra. Le convenienze delle elezioni gli vietavano di dare addosso alle corruzioni, che minacciavano il giudizio; e, d’altra parte, i corruttori delle elezioni, sapendolo già tutto avvolto in quella bèga, si tenevano sicuri del fatto loro[738]. Intanto, quasi che tutto ciò non bastasse, si era messa in giro la voce che anche Cicerone fosse stato corrotto e comprato[739]; calunnia fatta per compromettere a un tempo l’elezioni e la causa, ma già sfatata dalla maniera onde era avvenuta la costituzione del corpo giudicante. [Alla vigilia del giudizio.] Ma, a dispetto di tutto, malgrado tutto il da fare che si dettero e Verre e il figliuol suo, Cicerone riuscì eletto; e, avendo omai le mani libere, potè attendere tutto al giudizio, che era imminente e richiedeva ogni sua cura. Verre avea bene tratto profitto della lunga mora, che avea saputo procacciarsi. Sin da prima che Cicerone partisse, aveva mandato per avere attestati laudatorî (_laudationes_) di città siciliane, e ne avea avute due, una di Messana, l’altra di Syracusae, rilasciato, secondo fu detto di Cicerone, quasi a denti stretti, e senza molto entusiasmo. Poca roba; ma, in ogni modo, si trattava di due delle città più importanti, una la più amica a’ Romani, e l’altra nella quale egli avea vissuto per tre anni. Avea poi, a dire di Cicerone, cercato aiutarsi in ogni altra maniera col corrompere, con l’insidiare, col placare. Avea promesso di restituire alcune delle cose, che avea estorte e rubate[740] salvo, come fece, a non mantenere la promessa, quando, messo in piazza l’intrigo, gli nuoceva più che non gli giovasse. Sopratutto poi avea sparso danaro a dritta e a manca. Cicerone lo accagionava anche, ma chi sa con quanto fondamento, d’aver fatto aggredire ed uccidere M. Lollio, figlio di quel Q. Lollio, che era stato vessato ed ingiuriato a suo tempo da Apronio, e il cui figlio superstite veniva ora a portare la vendetta in giudizio[741]. Nell’imminenza stessa del dibattimento Q. Ortensio, già designato console, fece chiamare i Siciliani, perchè desistessero dall’accusa; ma essi presentirono la ragione della chiamata e non vi andarono[742]. Rinnovò la prova l’altro console, e fu più fortunato, soprattutto, perchè fratello di Lucio, il governatore di Sicilia. Questa volta i Siciliani andarono da lui, ed egli fece di tutto per dissuaderli, per disilluderli sulle conseguenze dell’accusa; ma non approdò a nulla[743]. Essendo essi in gran parte legati della città, forse non avrebbero potuto desistere, anche volendo. Così si venne finalmente alla causa. [La causa.] L’interesse politico, l’importanza dell’accusato, la fama degli oratori, la passionata attenzione di tutto un popolo, fanno rievocare da alcuni, per trovare alcun che di simile, Warren Hastings, quando comparve innanzi alla Camera alta per essere giudicato. E, certo, sotto vari aspetti, il richiamo non è fortuito e il paragone è calzante. Per noi, cui è toccato assistere a processi come quelli del Panama e della Banca romana, vengono spontanei alla mente anche questi, che, meno conformi a quello di Verre nel loro aspetto esteriore, gli si accostano tanto in quel che hanno di più intimo, e son così adatti a far comprendere l’ambiente viziato, in cui quello si svolgeva, il turpe dietroscena e la sua importanza, come indizio di un irrimediabile decadimento e decomposizione di certe forme economiche e politiche, di cui fatti come questi sono la diretta conseguenza. L’attenzione non di Roma soltanto, ma di tutto il mondo romano, si può dire, dovea essere rivolta a ciò che avveniva in que’ giorni nel Fòro di Roma. Non era veramente nè la prima volta, nè la seconda che un personaggio, anche più importante di Verre, si vedea tratto a rispondere di un’accusa così grave. Ma ora non si trattava come già altre volte di un interesse esclusivamente locale, o di una contesa meramente personale. L’accusato avea già spesa l’opera sua in Italia, in Sicilia, in Oriente, lasciando dovunque tracce del suo passaggio ed ire e rancori: inoltre, il suo giudizio era uno degli ultimi episodi della lotta contro la parte sillana, mescolato alla lotta elettorale, alla legge _iudiciaria_, che, in Roma, pareva fatta per modificare seriamente le condizioni de’ partiti, e, ne’ soggetti, poteva destare l’illusione di una norma adatta ad infrenare alcuni abusi de’ magistrati. Come già da prima era lecito prevedere[744], una folla enorme si pigiava nel Fòro[745], in vista del tempio di Castore, intorno a’ banchi destinati a’ giudici, alle parti, a’ difensori, a’ testimoni, aspettando che il dibattimento s’iniziasse; e l’arrivo de’ più importanti di loro dovea eccitare nella folla un vario movimento. Verre vi comparve, ma, pare, non, come gli accusati solevano, in attitudine dimessa e supplichevole, per guadagnarsi la simpatia o almeno la pietà de’ giudici e del pubblico; ma in atteggiamento che dovea essere quasi di provocazione, di sfida, se erano vere le dicerie ch’egli spargeva e faceva spargere sull’esito del giudizio. Una sola volta egli diceva di aver trepidato per la sua sorte, quando, tornato appena dalla provincia e fatto segno alle accuse, avea temuto di non avere il tempo necessario ad ordire tutti gli intrighi[746]. Ora, tempo ne aveva avuto tanto, e non inutilmente; ed altro ancora sperava di prenderne, se gli servisse. Egli si ringalluzziva vedendo que’ nobili suoi fautori, in cui confidava più che in ogni altra cosa[747]. Non mancava neppure la presenza di qualcuno de’ suoi bracchi: Claudio, da’ capelli neri e ricciuti, con contegno di saccente, stava a prendere note e dava suggerimenti[748]; Apronio, non di rado atteggiava il volto al riso[749]. Manio Acilio Glabrione, il pretore, intanto, assumeva la presidenza e dava regolarmente principio al giudizio. Era il dì cinque d’Agosto, ed avea principio l’aspettato duello tra Ortensio e Cicerone. [Ortensio e Cicerone.] Difensore di Verre era anche L. Cornelio Sisenna[750], che avea governata la Sicilia sette anni innanzi nel 77[751]. P. Scipione, al pari di altri nobili, più che difenderla direttamente, era di quelli, che prestavano un’assistenza morale, e che riescivano proficui, secondo un’usanza invalsa, alla causa, sedendo vicino a’ veri difensori, patroni della causa.[752] Ma tutto il nerbo della difesa era riposto in Q. Ortensio, ed a lui si dirigeva Cicerone, a lui guardava, contro lui combatteva. Oltre ad esser la causa di Verre, specialmente per parte di Cicerone, questa era la causa loro, degli avvocati; un contrasto determinato dalla loro posizione sociale, e politica, da’ loro caratteri personali, dalle condizioni dell’eloquenza giudiziaria in quel tempo. Ortensio apparteneva ad una famiglia, che, già da tempo remoto, si era resa nota nella repubblica, e le cariche, che gli antenati aveano coperto, e la considerazione che aveano saputo guadagnarsi, aveano dato il battesimo e il prestigio della nobiltà alla schiatta plebea[753]. Egli non avea dunque da farsi da sè un posto al sole, e la sua natura fiacca ed imbelle non lo portava a fare della sua stessa posizione un posto più elevato di combattimento. Alieno da’ pericoli e dalla gloria militare, anche se ciò gli portasse il rimprovero d’ignavia[754], cercava con sapiente studio i diletti della vita, e si dimenticava tutto nella cura della sua piscina e delle sue ville[755]; e della voluttà godeva, coltivandola e cantandola. Il suo volto, privo di espressione, non a torto ha richiamato alla mente di qualcuno quella di Claudio imperatore[756]; ed egli, uomo privo di una vera energia, si era rifugiato nel culto della parola, da cui aspettava tutto e che lo portò infatti a’ primi onori. Egli naturalmente faceva causa comune con la nobiltà prevalente e teneva alla continuazione del privilegio, ma senza poter pretendere alla direzione politica della sua parte, ed, anche quando si trovava alla testa di essa, guidato assai più che non guidasse, cercato e corteggiato per la sua facondia e per le stesse qualità negative, che in alcuni momenti della politica consigliavano di metterlo innanzi. La sua stessa eloquenza si manifestò assai più nell’arringo forense che in quello politico; ed i maggiori servigi alla sua parte li rese appunto nei giudizi, e non sempre, nè solo con l’eloquenza. Uomo del suo tempo, egli avea cercato d’informare al genere greco-asiatico, specialmente a quello venuto in moda a’ suoi giorni, l’eloquenza giudiziaria latina; e, tutto quanto di pregio potesse esservi in esso, la parsimonia e la venustà dello stile, il dire caldo e faceto[757], egli li possedeva pienamente. Poi tutto quanto potea giovare a dar nell’occhio e piacere, il gesto accurato, l’eleganza dell’abito e del movimento, la dolcezza della voce, la cura perfino dell’acconciatura; egli lo cercava sino al punto da farsi appiccicare il nomignolo di Dionysia, la ballerina più in voga[758]. Egli voleva essere insomma, e vi riesciva completamente, un virtuoso della tribuna giudiziaria; e la sua eloquenza, che pure gli dava la fama indiscussa di primo oratore, piaceva più al volgo che a’ meglio atti a giudicarne; e le sue orazioni, messe in iscritto, perdevano molto di pregio. Queste sue attitudini ora egli le pose interamente al servigio della sua parte, specialmente della consorteria dominante; e tutti i magistrati prevaricatori e concussionari ebbero in lui il più strenuo de’ difensori. Tanto più strenuo, perchè, dove non arrivava la parola, giungevano le sue malizie e i mezzucci d’avvocato consumato nell’arte. Era rimasta, così, famosa, tra le sue malizie quella adoperata, allorchè fu difensore di M. Terenzio Varrone, suo cugino; e, per esercitare un controllo su’ giudici corrotti, fece sì che le tabelle di cera, distribuite per la votazione, fossero tutte di colore diverso[759]. Egli era divenuto così l’ègida di tutti i governatori concussionarî, che, in cambio, lo sostenevano ne’ comizî elettorali, gli permettevano, da edile, di dare i giuochi più suntuosi, gli ornavano le ville e gli davano il vanto di avere le cantine meglio fornite[760]. M. Canuleio, i due Cn. Dolabella, Terenzio Varrone erano stati difesi tutti da lui, ed assai più si accingeva a difenderne[761] in appresso. Egli era il «_re dei giudizî, il lume della curia, l’ornamento del fòro_». E contro questo signore assoluto della curia, Cicerone sentiva, prima di tutto, il bisogno d’insorgere. Anche a lui non sorrideva la vita delle armi, e, per uscire, lui uomo novo ed ignoto, dall’oscurità, avea veduto, per riflessione e per esperienza, che altra via non v’era, se non quella di conquistarsi cariche e fama nel fòro, sotto gli occhi stessi de’ suoi concittadini[762]. Tra lui e il suo scopo, Ortensio era forse l’ostacolo maggiore; e non gli perdonò mai, anche quando, per le vicende della politica, cessò di essere suo avversario per restare semplicemente suo emulo. Anche sotto il colore della benevolenza e dell’amicizia, l’insinuazione si fa via per ferirlo, da vivo e da morto[763]. Non apprezzato, come volea esserlo, da’ nobili, al principio della sua carriera, Cicerone, che faceva una politica eminentemente personale, fu con la parte popolare più temperata, per forza stessa della cosa e per far meglio sentire la sua forza e la sua importanza alla parte aristocratica, altezzosa e chiusa in sè stessa[764]; che egli, secondo ogni apparenza, si proponeva di trarre ad accordi coll’ordine equestre specialmente, per passare poi come lo schermo dell’una e dell’altro ed il puntello della repubblica. Ora, sin che questa parte politica avesse avuto il suo oratore, il suo uomo, uscito quasi dal suo seno, non avrebbe ricorso ad un altro. Perchè si ricorresse a lui, Cicerone dovea infondere la persuasione della superiorità del suo talento oratorio e politico, ed a ciò tendevano i suoi sforzi, coronati in fine da buon esito. La causa di Verre era proprio un punto culminante e forse decisivo per questa sua carriera, ed egli lo sentiva, fors’anche più che non lo comprendesse. Intanto essa veniva a mettersi in modo che bisognava scegliere fra il trionfo oratorio e quello politico. L’uno avrebbe forse fatto svanire l’altro; e Cicerone vedeva, che, così accadendo, lo stesso trionfo oratorio ne sarebbe stato più che dimezzato; perchè il grosso del pubblico giudicava naturalmente dall’esito, e, per quanto ne potesse ammirare il discorso, e quali che potessero essere politicamente le conseguenze dell’assoluzione, avrebbe visto in lui sempre il rappresentante della parte soccombente. [Gli ultimi maneggi di Verre.] Per quanto i fautori di Verre facessero pompose vanterie, per quanto Alba Emilio, uomo dappoco, tenuto a vile persino da’ buffoni, seduto all’entrata del macello, bandisse a’ quattro venti la tariffa, secondo cui erano stati comprati i giudici, a 300, a 400, a 500 mila sesterzî, ed aggiungesse che, per venire ad una condanna, le cose dovevano essere presentate così smaccatamente da non esservi luogo a rispondere[765]; per quanto si facesse e dicesse, il consesso dei giudici non era tale, che egli potesse fare a fidanza con essi per un’assoluzione. La stessa vittoria elettorale di Ortensio e Metello, che avea così improvvisamente rialzato gli spiriti abbattuti di Verre e de’ suoi, avrebbe prodotto tutto il suo effetto, se si fosse riusciti a far discutere nell’anno seguente la causa, sotto il loro consolato, mentre essi potevano mettere al servigio del loro amico, non il credito loro personale soltanto, ma tutto il potere, che potea dare ad essi la loro posizione ufficiale. Tutte le mene dunque di Verre e de’ suoi patroni erano dirette a portare la causa al prossimo anno, per farla decidere sotto la direzione di M. Metello. Un rinvio della causa al nuovo anno avrebbe dato un corpo giudicante affatto diverso; giacchè doveano cessare dal farne parte M. Cesonio, per prendere la sua carica di edile; Q. Manlio e Q. Cornificio, per occupare il tribunato; Q. Sulpicio pel suo ufficio di questore; M. Crepereio, L. Cassio, Cn. Tremellio, già designati al tribunato militare; e, in luogo di tutti costoro, se ne sarebbero sorteggiati altri. Anche il posto lasciato vacante da M. Metello avrebbe dato luogo al sorteggio di un altro giudice[766]. Si teneva tanto al rinvio della causa al nuovo anno, e tante speranze erano riposte in questo espediente, che quelli i quali, per prezzo, aveano assunto l’incarico di far assolvere Verre, l’aveano stipulato espressamente[767]. E questo proposito veniva incoraggiato ed agevolato dalla stagione dell’anno e dal succedersi di varie festività, durante le quali il giudizio dovea, necessariamente, essere sospeso. Era il giorno cinque d’Agosto[768], quello in cui cominciava la discussione vera della causa. Tra dieci giorni, a’ 16 del mese, cominciavano i giuochi, che Cn. Pompeo avea promesso di compiere nella guerra contro Sertorio, ed avrebbero occupati ben quindici giorni di tempo[769]. Tra i giorni 4 e 19 Settembre aveano luogo i _ludi Romani_. A’ 26 d’Ottobre cominciavano i giuochi della Vittoria, istituiti già da Silla per la battaglia da lui vinta alla porta Collina, e andavano sino al 1 Novembre. A’ 4 dello stesso mese cominciavano i _ludi plebei_ per proseguire sino a’ 17[770]. Restava ancora del tempo utile per la causa, tra gli uni e gli altri ludi; ma una sequela, abilmente escogitata, di gherminelle, di astuzie, di differimenti avrebbe potuto stremare ed anche rendere insufficiente quel tempo. [Il sistema d’accusa di Cicerone. L’orazione.] Contro questo tranello dunque, che gli si tendeva anche poco copertamente, tra per leggerezza e tra per cinica confidenza in sè stessi, Cicerone dovea mettersi in guardia; e lo fece, e s’ingegnò anche a tutto potere di sventarlo. Uno de’ pericoli poteva stare nella sua ambizione letteraria, o nel suo amor proprio che fosse. Di fronte ad Ortensio, la cui carriera oratoria era lì lì per prendere la curva discendente della parabola (il suo avversario ne data proprio dall’epoca del consolato la decadenza[771]); egli ora potea presentarsi come avversario maturo e temibile, nel pieno rigoglio delle sue forze; e poche cause, forse, come questa, per il grande interesse e per la larga materia e la varietà grande degli episodi, potevano metterlo in grado di sfoggiare tutte quelle qualità, che, a senso suo stesso, costituivano il suo primato: la perizia letteraria, il ragionamento addestrato nello studio della filosofia, la conoscenza del diritto e delle istituzioni dello Stato, la memoria de’ tempi presenti e degli andati, la digressione opportuna e sapiente, quello spirito bonariamente ironico ed arguto, che dava l’impronta alla sua fisionomia, e sopratutto quell’abilità di eccitare a sua posta il riso ed il pianto, per meglio stringere in un cerchio di acciaio l’avversario e trarre i giudici al proprio avviso[772]. Pure, questa volta, il senso dell’opportunità e del momento, l’interesse della causa, lo sguardo strategico, insomma, della lotta impegnata potettero far passare in seconda linea perfino il suo invincibile e prepotente bisogno di fare un bel discorso; e si appigliò ad un espediente, fatto per togliere a Verre ogni via di scampo e sventare tutti i suoi più sottili artifizî. L’ordine consueto e normale de’ giudizî (solo in parte e temporaneamente modificato dalle leggi di Pompeo nel 702 a. u. = 52 a. C.) portava che l’accusatore dovea svolgere l’accusa nella sua orazione; ad essa dovea seguire la difesa; e tutte le prove della colpa e dell’innocenza, che facean poi seguito a questa, chiudevano questa prima parte del giudizio, che avea nella _comperendinatio_ come un’appendice ed una seconda parte, in cui le prove ed il loro esame erano meglio completati e discussi[773]. Quanto tempo potesse occupare questa orazione d’accusa non sappiamo, in ogni modo: ad essa, come all’orazione defensionale, era assegnato un tempo determinato[774], che, per giunta, a dedurlo da’ casi analoghi[775], non era molto lungo; si trattava di ore. Pure, per Cicerone, specialmente in vista degli imminenti _ludi_ di Pompeo, ogni tempo era prezioso, ed intendeva risparmiarlo, lesinarlo anzi, in ogni modo. Così pensò di rinunziare ad una lunga e diffusa orazione, in cui ogni capo d’accusa fosse diffusamente, o particolarmente almeno, proposto, esaminato, discusso, limitandosi a fare soltanto una breve e compendiosa proposizione dell’accusa e riservandosi di spiegare tutti i capi nello svolgimento delle prove, che egli intendeva presentare aggruppate ed ordinate insieme, secondo la connessione del loro soggetto. L’orazione che Cicerone pronunziò, calda, serrata e piena di concitazione, accennò appena[776] a tutte le colpe personali di Verre e più brevemente ancora a quelle ch’erano l’oggetto determinato dell’accusa, e tenne piuttosto a rilevare l’indole speciale della causa, la sua importanza politica e morale, ed il suo rapporto col momento che si attraversava. Pur mostrando di non volere essere oppositore sistematico dell’ordine senatorio, a cui egli stesso apparteneva, in realtà ebbe parole roventi per la progrediente corruzione dei giudizî senatorî; sulla qual nota egli poi tornava ripetutamente e con istraordinaria insistenza[777], giacchè, mentre da un lato essa gli dovea servire a guadagnare il favore di quelli che sostenevano la riforma de’ giudizî ed a preparare a questa il terreno, dall’altro canto, agitata come uno spettro rosso innanzi agli occhi de’ giudici, dovea spingerli a compiere il sacrificio di Verre. Le insidie di Verre, poi, le sue improvvide vanterie e le ciniche ostentazioni, sue e de’ suoi amici, sull’effetto sicuro delle corruzioni e degl’intrighi, furono tutte da Cicerone, in quel breve discorso, portate in piazza e sventate, confondendo in un solo biasimo l’imputato e la causa, i patroni e la parte cui appartenevano, ed affrontando apertamente i Metelli ed Ortensio col denunziare la loro prepotenza politica e forense. L’orazione, in cui le tinte forti s’alternavano abilmente co’ chiaroscuri, i consigli con le insinuazioni, le lusinghe con le minaccie, rispondeva pienamente alla sua indole di uomo, al suo programma politico, alla sua posizione di accusatore, al momento stesso; ed, anche dal punto di vista oratorio, quello dovette essere per lui un trionfo sui suoi avversarî. Il lato nuovo della condotta, serbata da Cicerone in questa causa, non era già l’omissione di un’orazione continua, in cui analiticamente si desse il prospetto di tutta l’accusa; il lato nuovo consisteva nel rompere, come fece, quest’orazione, adattandola, come un’introduzione ed un commento, ad ogni gruppo di testimoni e di prove. Quell’orazione preliminare era stata già, molte altre volte, pretermessa anche da’ maggiori e più riputati degli accusatori; e far ciò potea sembrare ed essere un loro diritto. Questo sistema anzi, invalso, conferì forse a fare adottare la legge di Pompeo, per cui l’udizione de’ testimoni regolarmente precedeva le requisitorie e le difese. Nondimeno, in pratica, esso veniva a mettere in una strana posizione l’accusato e la sua difesa; e, sotto questo aspetto, s’intende come Verre ed Ortensio se ne dolessero[778]. Alle accuse vaghe e generali, contenute in questa prima orazione, ove gli epiteti tenevano luogo de’ fatti, era piuttosto impossibile, che difficile, dare alcuna conveniente risposta. E così il diritto del difensore di parlare due volte era in pratica ridotto ad una sola. Nè stava in ciò tutto il male: l’orazione preliminare dava già, così a’ giudici come all’accusato stesso, un concetto chiaro ed anticipato dello svolgimento dell’accusa e permetteva a questo di premunirsi contro tutti gli attacchi, con l’addurre opportuni elementi di prove, di non trovarsi innanzi ad ogni testimone ed ad ogni carico, come innanzi ad una cosa inaspettata, che non dava modo di ben considerare le domande da svolgere, le obbiezioni da fare. Ed Ortensio sentiva bene tutto questo, quando deplorava che _il silenzio dell’accusatore era un modo di sopraffare l’imputato, che niente era tanto pericoloso per la sorte degl’innocenti come questa congiura del silenzio, ordita dagli avversarî; che se Cicerone avesse molto parlato, sarebbe stato di qualche sollievo al suo difeso; che l’avea invece perduto tacendo_; che occorreva conoscere la causa, e che così facendo, si toglieva all’imputato tutto il vantaggio della doppia fase del giudizio[779]. Fu opinione difatti che Cicerone contribuisse alla condanna di Verre col suo silenzio, più che con la sua parola[780]. Era invero malagevole rispondere ad un’orazione vaga ed indeterminata come quella di Cicerone, ed infatti nè Ortensio, nè alcun altro dei difensori vi rispose[781]. Si procedette quindi a sviluppare l’accusa per mezzo di prove e di testimonî. [L’oggetto dell’imputazione.] In quali termini era sviluppata l’accusa, e quale estensione, precisamente, avea essa in questa causa? Quali erano veramente i delitti, su cui il tribunale dovea pronunziare? V’è chi crede che l’accusa[782] riguardava tanto gl’illeciti profitti, fatti in Sicilia per un valore di quaranta milioni, quanto gli atti arbitrarî e crudeli, di cui è parola nelle varie orazioni. Questa opinione si fonda sulla conclusione dell’orazione della prima azione, in cui Cicerone dice che Verre «avendo commessi molti atti di libidine, molte crudeltà in danno di cittadini romani e di provinciali, avendo compiute molte azioni riprovevoli contro gli dèi e contro gli uomini, avea inoltre, con violazione delle leggi, fatti in Sicilia illeciti profitti per una somma di quaranta milioni di sesterzî[783]». Il fatto stesso che gli atti di libidine, le crudeltà, le altre azioni vergognose sono collocate in un inciso della proposizione, ove si contiene l’accusa, spinge a credere che sieno menzionate là, soltanto in via sussidiaria, per rendere più odiosa l’accusa principale, indicando insieme con quali mezzi gl’illeciti lucri furono fatti. Ma, a rendere più salda ancora tale opinione, concorrono ancora varî tratti delle varie orazioni di Cicerone, che, riuniti insieme, son tali da indurre un criterio di certezza. Che molti di questi atti iniqui furono commessi, appunto a scopo di lucro, e come mezzi per raggiungerlo, è detto espressamente[784]; come pure espressamente è rilevato il multiforme aspetto de’ delitti da lui compiuti e la contemporanea violazione di molte norme, non solo giuridiche, ma altresì religiose[785]. Rileva pure altrove Cicerone, per qualcuno de’ fatti a Verre apposti, che esso presenta tutti i caratteri del peculato[786]; ma nota altresì che, quando a Verre avvenisse di sfuggire, ora, a questa condanna, egli, Cicerone, lo trarrebbe innanzi ad un’altra quaestio, in un’apposita causa di peculato[787]. Del pari, per l’archipirata sottratto al supplizio, dichiarò di voler serbare integro l’argomento, giacchè «vi è un luogo apposito, un’apposita legge, un apposito tribunale, al cui giudizio è riservato questo delitto[788]», e, similmente, per le uccisioni de’ cittadini romani, dice che porterebbe la causa innanzi al popolo romano, nel febbraio, se Verre ora sfuggisse all’accusa presente[789]. Ed era naturale che così fosse. Portando una tale accusa la pena capitale, non se ne poteva giudicare se non da tutto il popolo, (_maximo comitiatu_). Tutto ciò dimostra sufficientemente la natura vera dell’accusa proposta contro Verre e l’oggetto vero della sentenza, che si provocava. Ma, anche più manifestamente, se è possibile, Cicerone dice che era un delitto di avarizia quello, di cui specialmente si voleva convincere Verre[790], e lo chiarisce anche là, dove parla della disfatta dell’armata e delle sevizie usate contro i navarchi e su’ loro stessi cadaveri[791]. In più altri luoghi poi si rivela o si torna a rammentare che l’oggetto della causa è il rintracciare le concussioni commesse da Verre[792], e che la causa presente ha origine e prende nome dalla legge _de repetundis_[793]. A’ giudici si rammenta che sono _iudices de pecunia capta, conciliata_[794]; di Heio, si dice che si serve della legge, dalla quale ha origine questo giudizio, e la legge è appunto la _lex de repetundis_[795]; e _de repetundis_ viene espressamente chiamato il giudizio anche in altre occasioni. E che tale fosse e non altro, lo dimostrano la considerazione che la causa era fatta ad istanza di Siciliani, e la natura e il genere della domanda, che dava origine al processo; e tutto ciò che riguardava specialmente l’uccisione di cittadini romani, era trattato da Cicerone piuttosto per soddisfare un dovere morale; ma egli stesso avea cura di rilevare che ciò non entrava nella causa a lui affidata (_recepta_)[796]. [Il danno e il risarcimento.] I lucri indebitamente fatti da Verre, e di cui quindi dovea rispondere innanzi alla _quaestio_ de _repetundis_, ascendevano, secondo l’accusa, a quaranta milioni di sesterzî[797]. Tra questo dato e l’altro della _Divinatio_[798], in cui si chiedevano invece cento milioni di sesterzî, non vi è vera discrepanza; giacchè la cifra minore potrebbe, come molti vogliono, indicare che la domanda, in seguito all’inquisizione di Cicerone, venne ridotta; fors’anche il dato della _Divinatio_ determinava la somma, che si chiedeva come risarcimento del danno; gli altri dati indicano il valore del danno. Nel primo caso è adoperata una parola (_repeto_), che vuol denotare la domanda proposta in giudizio; negli altri due una parola (_abstulit_, _abstulisse_), che dinota il puro fatto materiale compiuto da Verre, e, se si tien conto del carattere penale, che andava sempre più assumendo la _lex de repetundis_, del tribunale, innanzi a cui fu portato Verre e della verosimiglianza di un risarcimento che sapesse anche di multa; apparirà sempre più probabile la seconda opinione. [L’esame delle prove e de’ testimonî.] A svolgere dunque quest’accusa, si venne senz’altro all’esame delle prove e de’ testimonî; e, poichè era peculiare degli antichi processi che venisse in essi in discussione tutta la vita dell’accusato (del giudice antico, specialmente, si poteva dire, come Vergilio di Minosse: _vitasque et crimina discit_), non si trascurò d’introdurre tutto quanto potesse concorrere a mettere in cattiva luce la vita e la persona di Verre. Quello che di nuovo Cicerone portò in questa causa, come si è detto, non fu già l’eliminazione di una lunga orazione preliminare di accusa, ma il sistema di presentare per gruppi, secondo i diversi delitti, i testimoni e le prove, premettendo all’esame di essi un’esposizione ed un esame del fatto che si voleva provare. E il metodo seguito da Cicerone e queste stesse esposizioni e discussioni, noi possiamo dire di conoscerli. Si sa infatti che il giudizio non ebbe, come dovea, la sua seconda fase, a seguito della _comperendinatio_: tuttavia, a ben considerare le cinque orazioni, comprese nella _secunda actio_, si vede che son fatte precisamente con questo metodo; sicchè non è punto improbabile supporre che, ridotte in iscritto e pubblicate, fossero foggiate in modo da comporre come una seconda accusa, ampliate, coordinate ed arricchite di dati e di fatti; ma, in realtà, in esse bisogna cercare lo schema primitivo di queste introduzioni e commenti, fatti alle singole prove. Per esempio quelle apostrofi a’ giudici, fatte ora di minacce, più o meno larvate, ora di lusinghe[799]; quegli eccitamenti, fatti anche più spesso e più direttamente al popolo, col solletico del suo amor proprio, del suo sentimento religioso e del suo interesse[800]; quello studio di aizzare ora i Marcelli[801], ora lo stesso ordine senatorio[802], e gli stessi Scipioni[803] contro Verre; mentre, d’altra parte, faceva l’apologia degli _homines novi_ contro la nobiltà ereditaria[804]; quelle insinuazioni contro Ortensio[805]; quegl’incensi bruciati sotto il naso di Pompeo[806]; son tutte cose che ben potettero e forse dovettero trovar luogo in questi intermezzi di Cicerone. Così i testimonî, come le altre prove, si seguirono in gran copia, come era stato promesso[807]. Cittadini romani in gran numero, appartenenti anche all’ordine senatorio ed a quello dei cavalieri, e, con essi, Siciliani, intesi sia come privati, che come delegati delle loro città, vennero a deporre su fatti compiuti da Verre, tanto in danno loro che d’altri; e furono esibiti pure atti pubblici e privati, lettere, sentenze ed ogni altra specie di documenti[808]. Su’ furti di Verre a Samo, fu udito Caridèmo di Chio[809]; sull’episodio di Lampsaco, P. Tettio, già tribuno militare[810], e si lessero, inoltre, la deposizione resa da Verre nella causa contro Artemidoro, e varie lettere da lui mandate a C. Nerone[811]. Sull’amministrazione della tutela del figlio di C. Malleolo, furono prodotti come testimonî questo stesso, la madre e l’ava[812]. Quanto alla pro-questura di Verre, forse, furono letti alcuni degli atti della causa fatta a Cn. Dolabella, suo pretore[813]. Per ciò che Verre avea fatto nel periodo della pretura, M. Ottavio Ligure depose sulla sentenza da Verre resa nella sua causa[814]. Sulla sua corruzione nel collaudo degli edifici pubblici, deposero C. Fannio, dell’ordine equestre e Q. Tadio, congiunto di Verre, che confermò la sua deposizione con i suoi libri di conti[815]. Sulla dilapidazione, a cui, in quell’occasione, andò soggetto il pupillo Junio, e sulle ingerenze di Chelidone negli affari dell’ufficio, furono condotti, per rendere testimonianza, lo stesso pupillo Junio, i suoi tutori P. Tettio e M. Iunio, e fu pure udito L. Domizio; ed è verosimile che Cicerone si avvalesse anche de’ registri del sedicente appaltatore Habonio o Rabonio e delle norme dell’appalto, di cui si serve nella seconda accusa[816]. Sull’eredità fatta dal figlio di Dione di Halaesa e sul ricatto compiuto in suo danno, furono uditi molti testimonî: Sesto Pompeo Cloro, Q. Cecilio, Dione, L. Cecilio, L. Ligure, T. Manlio, L. Caleno, M. Lucullo, con l’accenno a registri e documenti[817]. Lo stesso Sesto Pompeo Cloro ricomparve per deporre, con Cn. Pompeo Theodoro, Posidio Mucrone Soluntino e Cn. Lentulo, sul caso di Sthenio[818]; caso che non sappiamo se, anche nella prima accusa, fu illustrato come nella seconda, con accenni a una seduta del senato, con una petizione di Siciliani, col registro delle sentenze di Verre, con la menzione di un provvedimento de’ tribuni, con un’epigrafe posta in suo onore a Thermae e con le _laudationes_ di molte città sicule; perfino con la menzione di un Cupìdo d’argento del tempio di Eryce[819]. Molti testimoni, ma non sappiamo quali, furono anche uditi per provare il danaro estorto a Sosippo e Philocrate di Agyrium, in occasione della successione paterna[820]. Eraclio di Centoripae depose sulla somma che gli era stata estorta da Verre[821]: Q. Minucio, già difensore di Sopatro, su quanto era stato fatto a danno del suo cliente[822] e del re Antioco[823]; Q. Vario e C. Sacerdote sulle corruzioni giudiziarie di Verre[824]. Sull’abusivo e venale conferimento degli uffici pubblici, e specialmente de’ posti di senatori nelle città siciliane, deposero legati di Centoripae, di Halaesa, Catina, Panhormus e di altre città ancora, e molti privati[825]. Molti testimoni riferirono, pure, su i ricatti fatti da Timarchide[826], tanto nel campo giudiziario, che in quello amministrativo. Di tutti gli illeciti lucri fatti nell’esigere le diverse contribuzioni di frumento, Cicerone si propose di dare maggiori prove e trattare più a lungo nella seconda accusa[827]. Pure non si trascurò di sentire molte testimonianze pubbliche di città siciliane[828]. Resero la loro testimonianza alcuni legati agyrinensi[829]; Philino Herbitense[830]; i legati etnei presieduti da Artemidoro[831]; Mnasistrato, il latifondista di Leontini[832]; Arconida di Helorum, che parlò de’ suicidî degli agricoltori[833]. Per meglio sfatare la _laudatio_ di Messana, in onore di Verre, Cicerone chiamò a deporre C. Heio, presidente dell’ambasceria mandata da Messana, e l’obbligò, senza alcuno sforzo, a dire delle opere d’arte a lui carpite da Verre e della nave oneraria, che s’era fatta donare dalla città[834]. Phylarco di Centoripae[835] e L. Papinio[836], deposero delle cose a loro tolte; L. Curidio di quello, che gli era stato prima tolto, poi reso[837]; Phylarco depose anche della requisizione fatta per ordine di Verre a Centoripae[838], come Artemidoro di quelle fatte ad Agyrium[839]; Arcagato e Cn. Lentulo Marcellino di quella fatta ad Haluntium[840]; legati di Tyndaris della manomissione de’ doni di Scipione[841] e del modo, onde fu compiuta[842]. Ismenio e Zosippo dissero anche delle promesse di Verre di voler restituire il Mercurio[843]. Diede lettura pure Cicerone, in questo primo stadio dell’accusa, degli atti pubblici di Segesta[844]. Theodoro, Numenio e Nicasione, legati di Henna, dissero della statua di Cerere e della Vittoria, invano ridomandate[845]. Qualche testimonio depose ancora su i templi spogliati di Syracusae e, tra l’altre cose, sulle canne d’India rubate[846]. Su’ ricatti fatti ad Eumenida di Halycia ed al cavaliere romano C. Matrinio, sotto il pretesto delle congiure de’ loro schiavi, deposero gli stessi Eumenida e C. Matrinio, e, con questo, L. Flavio, suo procuratore[847]. M. Annio depose sull’archipirata sottratto al supplizio[848]; Phylarco di Haluntium sulla cattura della flotta[849]; Onaso di Segesta sulla messa a prezzo della facoltà di seppellire i navarchi[850]; L. Suezio sulle uccisioni di cittadini romani nelle prigioni[851]; sull’uccisione di P. Gavio, deposero C. Numitorio, M. e P. Cozio, Q. Lucceio[852]; L. Flavio, cavaliere romano, depose sull’uccisione di L. Herennio[853]. Ma oltre a questi testimoni, che furono uditi, ed a questi documenti, che furono letti, Cicerone, nell’attesa del secondo stadio del giudizio, in cui l’accusa dovea essere rinnovata e completata, avea tenuto in riserva, a quanto appare, almeno, dalle sue orazioni, altro buon numero di testimoni e di prove[854]. Così furono riserbati i testimoni intesi a provare alcuni de’ furti di Mileto[855]; quelli intesi a mostrare, che le somme, la cui malversazione era stata attribuita a Dolabella, furono in realtà rubate da Verre[856]; il figlio di Sopatro ed altri di Halycia o di altre città di Sicilia[857]; molti che sapevano del caso di Stenio[858]; Cn. Sertio, M. Modio, e almeno seicento cittadini romani, che aveano dati danari a Verre, per averne sentenze favorevoli[859]; molte persone, che potevano attestare della soppressione delle lettere di Carpinazio, ove si parlava delle esportazioni abusive di Verre[860], ed altri, dalle cui deposizioni dovea risultare che Carpinazio era l’intermediario e il cassiere degli atti di corruzione di Verre e delle somme pagate[861]. Sopratutto gl’illeciti lucri, carpiti nell’esazione del frumento, doveano essere più ampiamente trattati nel secondo stadio del giudizio[862]. Dovea essere inteso M. Lollio, il figliuolo del vecchio Lollio[863]; doveano essere intese le testimonianze di molte delegazioni di città siciliane[864]; quella di L. Cassio, già ricusato come giudice[865]; quelle degli Agrigentini, degli Entellini, degli Heraclei, de’ Gelensi, de’ Soluntini, de’ Catinensi, de’ Tyndaritani, de’ Cephaloeditani, degli Haluntini, degli Apollonensi, de’ Capitini, degli Enguini, degli Inensi, de’ Murgentini, degli Assorini, degli Helorini, Jetini, Citarini, Scherini, tutte sul sistema vessatorio di esigere i tributi; e doveano esser letti i registri delle terre seminate dagli Hyblei e del contratto di esazione stipulato da’ Menenei[866]; dovevano essere uditi i tre legati, mandati dagli agricoltori di Centoripae, che si trovavano sparsi in tutta la Sicilia[867]; si doveano esaminare i conti di Halaesa, ed atti pubblici e testimonianze pubbliche di varie città[868]. Doveano essere uditi altri testimoni su furti di opere d’arte, come per es. Polea e Demetrio di Tyndaris[869]; il censore Cn. Lentulo sul danaro carpito a C. Matrinio[870]; altri, tra cui P. Granio, sulle uccisioni di cittadini nelle carceri[871]; cittadini di Compsa sul caso di Gavio[872]. Di questi testimoni e di queste prove si può dire con asseveranza, che non furono portati all’esame. Ma, per un altro buon numero degli uni e delle altre, Cicerone, nelle orazioni che vanno sotto il nome di _actio secunda_, usa espressioni (_dicit_, _dicunt_, _cognoscite_), che non consentono di affermare recisamente se furono, oppur no, portati innanzi a’ giudici. Probabilmente non furono uditi in quel primo stadio del giudizio i legati di Melitta[873] e quelli della città di Centoripae[874], nè lette le testimonianze pubbliche e gli atti de’ Thermitani e degli Imacarensi, degli Amestratini[875], de’ Liparensi[876], de’ Tissensi[877]. Le attestazioni pubbliche delle città, il più delle volte, erano mandate a mezzo di speciali legati e, in qualcuno di questi casi, come p. e. nel caso di Agyrium[878], poterono i legati deporre oralmente, mentre la lettura delle deliberazioni della città e degli altri suoi atti pubblici potea forse esser fatta dall’accusatore nella seconda sua accusa. In altri casi, come in quelli ultimamente mentovati, benchè più rari, le testimonianze pubbliche delle città potevano essere affidate per iscritto all’accusatore, perchè le leggesse al momento opportuno[879]. Phalacro di Centoripae[880], probabilmente, dovea essere ancora inteso, a quanto può sembrare dal contesto, benchè l’espressioni adoperate per lui (_adest_, _dicit_) sieno le stesse usate per Phylarco, già udito. È verosimile che di varî testimoni, che dovevano deporre sugli stessi fatti o su fatti analoghi, Cicerone ne fece udire qualcuno nel primo periodo del giudizio, riserbando altri al secondo, sia per sentimento di opportunità, che per accelerare, com’era suo intento, il corso del giudizio. Così l’editto urbano di Verre[881], i _codices_ contenenti le interposizioni di L. Pisone[882], i documenti sul danaro estorto per le statue, e le petizioni de’ Siciliani, che seguirono poi[883]; le lettere di Canuleio[884], fors’anche le copie de’ registri de’ pubblicani[885], l’editto provinciale di Verre[886], la _lex decumis vendundis_[887], la decisione di Verre sulle contribuzioni di Messana[888], gli atti pubblici de’ Mamertini[889], le lettere di Verre a Segesta[890], ed altre lettere sue[891], quelle di Vezio Chilone[892], quelle di Timarchide[893], i conti di Diocle[894], varî provvedimenti di Metello e le sue lettere[895], l’autodifesa di Furio di Eraclea[896]. Di questi ultimi scritti Cicerone volea servirsi probabilmente come di un colpo ultimo, decisivo, da portare inaspettatamente. In molti altri casi, Cicerone non ricorse a prove determinate; ma si riferì alla voce pubblica, alle sorde vociferazioni anonime, alla coscienza generale[897], pur offrendo di citare, in prova, quanti testimoni si volessero, od atti pubblici[898], e, qualche volta, dicendosi pronto a richiamare un testimone, già innanzi udito su di altri fatti[899]. Verre avea anche de’ testimoni, che deponevano a favore suo, ma, a dire di Cicerone, erano gente di nessun valore, venuta da’ borghi più poveri ed abbandonati, senza incarico del popolo e del senato cittadino[900]. Era tutto quello, che Metello avea potuto ottenere; meglio, forse, era riuscito nel compito d’impedire l’andata a legati, destinati a portare a Roma le testimonianze pubbliche delle loro città[901]. Di città che pubblicamente lo lodassero, non ve ne furono che due: Messana e Syracusae: ma Cicerone, oltre a rilevare che nessuna importanza potevano avere le _laudationes_, quando non giungevano neppure a dieci[902], discreditò più particolarmente, in quel primo stadio della causa, la _laudatio_ di Syracusae con la testimonianza di Eraclio[903] e quella di Messana con la deposizione di Heio[904]; e più ancora si apprestava a discreditarle in appresso, mostrando tutti i rapporti, cui accenna, di Verre con Messana, e provando il modo, onde la _laudatio_ di Syracusae era stata estorta e la successiva sua revocazione. Pare che in quel primo stadio del giudizio la _laudatio_ fosse stata presentata, ma senza sentire tutti i _laudatores_, che Cicerone si riserbava d’interrogare poi, per convertirli in tanti testimoni a carico di Verre, rincarando la dose con l’esibizione degli atti pubblici[905]. [Il contegno di Ortensio e di Verre.] Una grande qualità degli avvocati romani, ne’ processi, era quella di assoggettare i testimoni ad un fuoco vivo ed incrociato d’interrogazioni e di obiezioni, per trarre dalla loro bocca de’ dati, ovvero scemare il credito delle loro parole. Era quella stessa _cross-examination_, che forma il vanto degli avvocati inglesi. Pure, Ortensio, e Verre con lui, rinunziarono volontariamente a questo espediente di difesa, per servirsene solo eccezionalmente e casualmente, qualche volta[906]; e preferirono veder passare in silenzio tutti i testimoni. Cicerone, naturalmente commenta questo contegno, in modo da trarne le conclusioni più sfavorevoli per la causa, e dedurne la condizione disperata dell’imputato. Ma, forse, il sistema seguito da Ortensio veniva da un esatto concetto della situazione e da un’esperienza forense, la quale avea potuto dimostrargli come, in alcuni casi, il silenzio valga, per lo meno, quanto la più raffinata arte d’interrogare. Verre dava anticipatamente già come sospetti[907] tutti, o almeno la massima parte de’ testimoni prodotti nella causa. Era questa la sua maniera di screditare l’accusa e il suo argomento. Insistere dunque sulle deposizioni, stuzzicare i testimoni, cercare di circonvenirli era sicuramente, con gente spesso assai scaltra, come quella che veniva al giudizio, irrito e vano, e poteva anche probabilmente riescire un gioco pericoloso. Meglio dunque lasciarli liberi ne’ loro detti, per coglierli dopo in fallo, se occorreva e si poteva, e ritenere fatti e detti a propria posta, secondo la verità, o contro di essa, avvalendosi di tutti gli espedienti e di tutte le particolarità de’ casi. [Gl’incidenti del giudizio.] Ciò pareva a Verre e a’ suoi difensori ingegnoso[908]; e forse era, realmente, ingegnoso. Pure, alla deposizione di P. Tettio, Ortensio crede uscire dalla sua riserva per opporre la cosa giudicata[909]. Verre qualche volta, pur serbando il silenzio, non sapeva contenere il gesto, come per accennare di leggere tutta e non una parte di un documento[910]; tal’altra, come alla testimonianza di M. Annio, balzò in piedi per ismentirlo[911], o interloquì in tono ironico[912]. Così, dunque, sfilarono, l’un dopo l’altro, i testimonî, seguiti con la più viva attenzione da’ giudici, col più vivo e passionato interesse dalla folla, accorsa ad assistere[913], la quale, talvolta, non riusciva a frenarsi. Quando il pupillo Junio, un fanciullo che ancora non avea lasciato la _praetexta_, comparve, vennero le lagrime agli occhi di molti; al punto che Ortensio se ne dolse con Cicerone[914]; come mosse lamento, altresì, contro Artemone di Centoripae, che investì Verre in modo da sembrare un accusatore più che un testimone[915]. Alla descrizione de’ danni degli agricoltori, della loro ruina, fatta da Philino di Herbita, quasi un gemito si levò nella folla, facendo eco alle sue parole[916]. Qualche volta, al movimento di commiserazione, o di maraviglia[917], si avvicendava uno scoppio di viva ilarità, come all’udire le ingenue risposte di Heio[918], od al vedere forse il comico imbarazzo di L. Domizio, che stentava a nominare Chelidone[919]. Ma, quando C. Numitorio venne a dire di Gavio, fatto mettere in croce senza pietà, con dispregio de’ suoi appelli alla qualità di cittadino romano, il popolo ne fu, insieme, così commosso ed eccitato, che M’. Glabrione dovette togliere la seduta, per evitare che dell’imputato venisse fatta giustizia sommaria[920]. [Il primo stadio del giudizio.] Questo primo stadio del giudizio durò nove giorni[921], togliendo ogni giorno a Verre un’illusione, od una speranza. Già dal primo giorno, a quanto dice Cicerone[922] i testimoni furono tanti, e dissero tali cose in giudizio, che pubblicamente parve impossibile l’assoluzione di Verre, se si voleva ancora tenere in piedi lo Stato; al secondo giorno, i suoi stessi amici e i difensori aveano perduto, non solo ogni speranza di salvarlo, ma eziandio ogni volontà di difenderlo; e, il terzo giorno, egli stesso era omai così abbattuto e così fuor d’ogni speranza, che s’ammalò, o si finse ammalato. Gli altri sei giorni compirono l’opera di questi tre, e, allo spirare del nono giorno, quando il primo stadio della causa fu chiuso, egli e tutti doveano parlare piuttosto di una condanna che di un rinvio. Tutto lo studio di Verre consisteva nel rispondere all’accusa dopo i secondi giuochi, cioè almeno dopo il 19 settembre; quello di Cicerone, invece, nel far sì che il primo periodo si chiudesse innanzi a’ primi giuochi, innanzi al 15 di agosto, e cominciasse a decorrere da quel punto il termine, che separava i due stadî del giudizio[923]. Cicerone, dunque, era completamente riescito nel suo intento. La _comperendinatio_ importava l’intervallo di un giorno libero tra l’uno e l’altro stadio del giudizio[924], e, poichè i primi giuochi terminavano nel dì 31 d’agosto ed i secondi non cominciavano prima del 4 settembre, è precisamente nel primo giorno di settembre, che dovea riaprirsi il giudizio; e, in questo secondo stadio, alla rinnovata e più diffusa accusa di Cicerone avrebbero dovuto tener dietro la difesa di Verre e la sentenza. [La difesa di Verre?] La difesa di Verre? Ma Cicerone non si stanca mai di ripetere che questa difesa, anche più che iniqua, più che vana, era a dirittura impossibile; lo dice, considerandola nella sua generalità, e, caso per caso, sempre, con un’insistenza quasi petulante[925]. Era dunque veramente così: la difesa di Verre non potea nemmeno tentarsi? Per quanto noi siamo costretti ad aggirarci in un confine così stretto, come sono le orazioni dell’accusatore, e ci troviamo nella stessa condizione, in cui ci troveremmo, se dovessimo giudicare Warren Hastings dalle orazioni di Burke; pur nondimeno un esame delle accuse, che sia un po’ più che superficiale, ci mette subito sull’avviso, e ci fa vedere quanto avea di assolutezza, di partigianeria e di iattanza l’asserzione di Cicerone, che del resto ricorre precisamente nelle orazioni attribuite al secondo stadio del giudizio e che quindi non vennero pronunciate. [La natura delle accuse.] Cicerone, egli stesso, ci dice in un’altra orazione[926], quanta fede si potesse prestare, e quanta in realtà se ne prestasse, alle orazioni d’accusa pronunziate ne’ giudizî, che, come questo, aveano un retroscena di motivi e d’interessi politici. Cicerone, egli stesso, parla di simili accuse, che furono pronunciate contro uomini, come M’. Aquilio, L. Cotta, e come lo stesso L. Pisone Frugi, da lui non mai lodato abbastanza; e pure non vi si prestò fede, se anche quelli che le sostenevano aveano perfino il nome di C. Gracco. Che se contro P. Rutilio tali accuse riescirono, non perciò, a senso di Cicerone e d’altri[927], ne dovea rimanere menomato l’onore e la fama, che Cicerone teneva anzi a rivendicare. Cominciando così, per la natura stessa delle cose e la considerazione de’ tempi, ad essere un po’ meno creduli, quelle accuse, quelle invettive perdono già anticipatamente qualche cosa del loro valore, quanto più sono acri e più eccessive. [La questura e la proquestura.] Si è già veduto, come, nel giudicare della questura e della proquestura di Verre, Cicerone confonda i dati cronologici, e probabilmente a disegno, per trarne precipitate o false illazioni, sulla sua mancanza di fede e su tutto il modo come le tenne. Per quel che riguarda poi la sua proquestura, Cicerone non dubitò, per far torto a Verre, di attaccare la verità della cosa giudicata, del cui rispetto altra volta si mostra tanto zelante; ed attribuisce a Verre colpe e responsabilità, di cui egli, giuridicamente almeno, poteva oramai dirsi mondo, dopo che la sentenza pronunziata da C. Nerone, da Cicerone stesso chiamato _vir optimus atque innocentissimus_, e per l’occasione fatto coccodrillo, contro Philodamo e il figliuol suo, e l’altra, pronunziata contro Dolabella, ne aveano riconosciuto in altri i responsabili[928]. Nè il vago accenno, fatto alla deposizione resa da Verre contro Artemidoro ed al condono concesso a Themistagora e Thessalo, può menare logicamente ad altra conclusione. [La pretura.] Del potere, specialmente giurisdizionale, esercitato poi da Verre nella sua pretura, là, dove abbiamo la possibilità di un qualsiasi controllo, abbiamo veduto che non fece tutto quell’abuso, che Cicerone vuole sostenere; e, molte volte, egli s’inspirò ne’ suoi provvedimenti all’indirizzo, che il diritto civile andava prendendo, secondo l’interpretazione, che il diritto pretorio gli dava. Del resto, poi, in un giudizio come quello de _repetundis_, fatto ad iniziativa e nell’interesse de’ provinciali, e qui, più propriamente, ad istanza de’ Siciliani, i fatti, relativi specialmente alla gestione delle magistrature urbane, non potevano trovar luogo; e si adducevano più che altro per aggravare moralmente la condizione dell’accusato. I lucri illeciti fatti in Sicilia costituivano la vera materia della causa, e, per quanto Cicerone lo dicesse stretto e sopraffatto dalle prove, la condizione di Verre non era tale da precludergli ogni via di scampo. [Il valore delle prove.] Anzi tutto quali erano i mezzi di prova? Si è veduto che molti de’ testimoni e de’ documenti, a cui si allude, e forse i più importanti, non erano ancora stati prodotti in giudizio, ed avrebbero dovuto essere presi in esame nel secondo stadio. A questi, come a quelli ch’erano già stati dedotti contro di lui, Verre opponeva una ragione pregiudiziale, scuotendo la fede, che a loro si sarebbe potuta aggiustare, con il richiamo alle ire, che li animavano contro di lui. Cicerone[929] cercava di distruggere questa difesa in ogni modo, opponendogli le deposizioni de’ cittadini romani, quando Verre diceva di aver nemici i Siciliani per aver voluto proteggere gl’interessi de’ primi; opponendogli le deposizioni de’ Siciliani, sia di città soggette che d’immuni, quando Verre diceva di aver nemici i cittadini romani per aver tenuto conto degli interessi de’ Siciliani. Pareva un’argomentazione inoppugnabile, una via senza uscita; eppure, quali che fossero le sue colpe, Verre non avea tutti i torti a prendersela con questa valanga di rancori e di vendette che si rovesciava su lui. Figurarsi, in tre anni di governo, quanti interessi aveano potuti essere offesi, a dritto od a torto; quanti odî inevitabilmente non aveano dovuto germogliare; ed ora cercavano di avvolgerlo tutto e di schiantarlo. Cicerone stesso se ne ricordava, in altra occasione, di tutta questa posizione imbarazzante, in cui un governatore di provincia si dovea trovare. «Come è difficile e pericoloso questo governo delle città e delle provincie: la diligenza ti acquista inimicizie, la negligenza ti procaccia biasimi; la severità è piena di pericoli, la larghezza è mal corrisposta: la parola è pregna d’insidie, fatale la compiacente adulazione; spianato e ben disposto è il volto di ognuno, gli animi di molti pieni di rancore; gli odî covano segreti, mentre manifeste son solo le lusinghe. Il pretore è atteso al suo venire, inchinato durante la sua dimora, abbandonato al suo partire[930]». Era, così, tutta una fioritura di inimicizie e di intrighi, contro Verre, da parte di appaltatori, tributarî, o litiganti, riusciti soccombenti ne’ giudizî; e da questi si comunicava agli altri, sino a quelli stessi che Verre avea careggiati e decorati[931]. La suggestione dell’odio dilagava e conquistava tutti; e, in questa rivolta contro di lui, v’era anche, più che in germe, la rivolta contro il dominio, di cui era il rappresentante. Il fenomeno non era nuovo: è così che Cicerone screditava e contraddiceva le accuse contro M. Fonteio e L. Flacco, difesi da lui stesso in tempi posteriori. Quest’abitudine di non risparmiare il nemico in giudizio e farne il proprio bersaglio, sia da accusatore che da testimone, era divenuta una cosa comunemente intesa, e più giustificata, quanto più avea per fondamento una inimicizia personale ed il ricambio di danni patiti; ma ciò stesso avea finito per rendere innocue le testimonianze anche de’ primi uomini dello Stato. In varie occasioni, non aveano trovato ascolto deposizioni, come quelle di Cn. e Q. Cepione, di L. e Q. Metello, di M. Emilio Scauro, di L. Crasso[932]. Le testimonianze poi de’ soggetti erano, già in tesi generale, screditate. Con tali criteri Cicerone stesso trattava le testimonianze de’ Galli[933], peggio ancora quelle de’ Greci in generale, e di quelli d’Asia, specialmente[934]. E Greci, di linguaggio e di origine, erano per la maggior parte i testimoni adibiti contro Verre, per quanto Cicerone li volesse far diversi dagli altri[935]. In buona parte anche, per quel tanto che possiamo saperne noi, erano persone, che con lui aveano ragioni particolari d’inimicizia. Per Charidemo di Chio l’accusare Verre era stato ed era il precipuo mezzo di scolparsi[936]. E che valore giuridico potevano avere le deposizioni della madre e dell’ava di Malleolo[937]? L. Ligure, che avea una gran parte nella causa e veniva a deporre due volte, su due distinti capi di accusa, era fratello di quel M. Ottavio, riuscito soccombente e, pare, non a torto, in una causa giudicata da Verre[938]. Sulla gestione de’ _sarta tecta_ deponevano il pupillo Junio, M. Junio, suo zio e tutore; P. Tettio tutore anch’esso, di una famiglia plebea e in cui Cicerone aveva aderenti; L. Domizio, il cui fratello era morto combattendo contro la parte Sillana (Plut. _Pomp._ 12; Oros V, 21, 13); C. Fannio, cavaliere, ed appartenente ad una famiglia oppugnatrice de’ nobili; Q. Tadio, che, appunto perchè affine di Verre e già devoto a suo padre, non poteva ora indursi a deporre contro di lui, se non per ragioni di inimicizia personale[939]. L. Minucio, cavaliere, e vinto da Apronio nella gara di appalto delle decime di Leontini, veniva a deporre su di una causa, in cui egli era stato difensore[940]; e difensore del pari nella causa, su cui deponeva, era stato Sesto Pompeo Cloro[941]. Q. Vario era, anch’esso, un danneggiato[942]. Quel Sopatro, poi, condannato da Verre, per quanto Cicerone lo chiami _locuples_, _honestus_, _innocentissimus_, era sempre una persona, che avea potuta essere tratta in giudizio per delitto capitale[943]. Non si vuol già dire che tutti proprio i testimoni, addotti contro Verre, fossero strettamente interessati, consapevolmente falsi: ciò potrebbe essere esagerato, e non potrebbe in ogni modo provarsi, per una certa parte di casi. Semplicemente, quello che sappiamo d’alcuni, può rendere diffidenti verso di altri; e questi plebei, maltrattati da Verre nella pretura, questi cavalieri, questi aderenti di Cicerone e di Pompeo, chiamati a raccolta dalla Sicilia, danno ansa ad accogliere con qualche circospezione i fatti narrati. È probabile che un’analisi molto minuta ed accurata de’ rapporti personali di questi testimoni, quale avrebbe potuto fare, se vi fosse stata, l’orazione di Ortensio; avrebbe compiuto, nel campo dell’accusa, un lavoro di eliminazione, non meno ampio e non meno severo di quello che si studiò di fare, da difensore, Cicerone, nelle sue orazioni a pro di Fonteio e di Flacco; ed avrebbe, anche in questo processo come in quelli, scorto tutto il lavorio di Cn. Pompeo[944] e di altri avversarî di Verre. Che se uno sguardo generale, anche superficiale, all’indole delle prove ci fa vedere come esagerasse Cicerone nel ritenere impossibile la difesa di Verre, alla stessa conseguenza ci mena un esame più speciale di varie delle accuse. [L’ordinamento della Sicilia e il _jus edicendi_.] L’accusa fatta a Verre in linea preliminare, e che è come la base e la condizione di molte altre, l’accusa di aver commesso un eccesso di potere modificando le norme, che regolavano l’amministrazione e la vita giudiziaria in Sicilia, dal punto di vista costituzionale, anche più che discutibile, può dirsi, a dirittura, priva di fondamento. Le _leges Rupiliae_, la _lex Hieronica_, gli statuti delle singole città non emanavano direttamente dal popolo, potere sovrano, ma da magistrati, che esercitavano una funzione delegata, e, benchè chiamate _leges_, erano _leges datae_ e non _rogatae_. Ora, il diritto di emettere e di applicare disposizioni legislative (_ius edicendi_), ch’era una conseguenza del potere delegato dal popolo al magistrato, e che trovava solo il suo limite nel carattere temporaneo delle sue disposizioni e, dove ciò era possibile, nella intercessione di altri magistrati; se non incontrava un impedimento assoluto nelle vere leggi, quando, interpretandole od allargandole, le modificava; tanto meno poteva trovare un intoppo in queste altre norme, che, in fondo, non erano se non editti anch’essi. Verre perciò, nell’introdurvi qualche innovazione, era, _formalmente_, nel suo diritto[945], e la censura poteva colpirlo piuttosto da un punto di vista morale, in quanto, ciò facendo, si allontanava dalla consuetudinaria e comune osservanza di que’ precetti. Lo stesso Cicerone[946] osservava che le leggi date da quelli, cui il popolo romano avea conferito l’_imperium_, doveano tenersi per leggi del popolo romano; ed, anche senza l’_auctoritas_ del senato, di cui egli parla ivi stesso, quegli effetti dell’_imperium_ doveano rimanere, quali egli li scorgeva. Anzi, la consuetudine del senato di girare al magistrato, fornito d’_imperium_, la commissione avuta di dar leggi ad un comune, può valere come una conferma di quel principio[947]. [Il controllo de’ giudizî.] Che uso fece Verre di questa sua facoltà, riguardo alla _lex Hieronica_, si vedrà appresso. Di disposizioni, che avessero azione sulla giurisdizione in generale, Cicerone veramente si limita a citare quest’una: che se qualcuno avesse male giudicato, egli avrebbe preso in esame la cosa, e, dopo ciò, avrebbe spiegato la sua azione[948]. È una disposizione alquanto vaga, la quale, assai più che ad un diritto d’appello, mirava forse a tener ben definite le competenze giurisdizionali ed a reprimere gli abusi de’ giudicanti. Certamente questa sua vaghezza conteneva, in germe, la facoltà di commettere molti abusi; ma, per l’indole sua stessa di norma diretta a stabilire un controllo superiore, mal si prestava ad una forma più determinata e quasi casuistica. Da questa norma generale scendendo poi a’ varî giudicati, che Cicerone gli appone, si vede che, quali che si fossero i motivi e il valore morale delle sue sentenze, sotto l’aspetto giuridico almeno, Verre non era ridotto a quella impossibilità di difesa, che Cicerone gli rinfacciava. [La giurisdizione.] È difficile pronunciarsi sul modo come Verre poneva la questione, la tesi della causa. Probabilmente non sarebbe del tutto arbitrario supporre che l’esemplificazione data da Cicerone, rispondeva alla tendenza di caricare le tinte ed accentuare le contraddizioni[949], per presentare così, nella forma più assurda, un sistema forse non troppo logico e leale nello stabilire le basi della contesa giudiziaria. Quanto alle cause ereditarie, intentate contro il figliuolo di Dione, contro Sosyppo e Philocrate di Agyrium, che fossero intentate in un tempo più o meno lontano dall’apertura e dalla devoluzione della successione, non deve rendere corrivi a supposizioni precipitate; specialmente quando si consideri che si trattava di lasciti sottoposti a condizione. In ogni modo, nell’uno e nell’altro caso, gli eredi convenuti in giudizio, ne uscirono vittoriosi. È vero che, secondo Cicerone, la vittoria costò cara; ma, che il denaro fosse stato proprio estorto da Verre, che fosse proprio arrivato a lui, che non, piuttosto, fosse stato abilmente carpito, magari con danno dell’uno e degli altri, da que’ cani che ronzavano intorno a Verre e che doveano essere de’ grandi venditori di fumo; tutto questo non era strettamente provato; e Cicerone, si noti bene, arrivava a quella conclusione per una via meramente congetturale[950]. Al giudizio, che Cicerone porta sulla causa tra Eraclio di Syracusae e i palestriti della sua città, sono stati già altra volta mossi alcuni appunti[951]; e non si è trascurato di osservare come Cicerone, volontariamente od involontariamente, ingeneri una confusione, quando de’ palestriti e del popolo di Syracusae vuol fare una sola e medesima cosa. Ritenendo anche, in ogni modo, questa identità d’interesse e di figura giuridica, a giudizio del Zumpt, dovea chiamarsi a giudicare il Senato di una terza città, secondo la stessa legge Rupilia citata da Cicerone[952], e non i tre giudici, che Eraclio sembrava invocare. Prendendo le mosse appunto da questa legge Rupilia, quale Cicerone la dà, e non identificando i palestriti col popolo siracusano, può ritenersi che la causa ricadesse nel novero di quelle, che non potevano assegnarsi precisamente ad una delle categorie in essa definite, e il cui collegio giudicante era costituito secondo l’ultima sua norma. In tal caso, la richiesta degli avversarî di Eraclio era, forse, più conforme alla legge, che non fosse la sua. Che poi duecentocinquantamila sesterzî fossero stati prelevati a beneficio di Verre sulla eredità rivendicata dai palestriti, Cicerone lo afferma; ma è pur vero che Verre, sin da che il fatto avvenne, ne dette colpa al genero, e ne seguì un dissidio domestico. Cicerone fa fare al genero di Verre la parte del martire, ma nessuno è in grado di sapere da qual parte fosse la verità. Veramente, quando si tratta di esaminare la fisonomia vera de’ fatti e notare soltanto le inverosimiglianze e le reticenze del racconto ciceroniano, si è, per necessità, su di un terreno lubrico e malagevole, e si rischia facilmente di perdersi nel vago, od arrivare a sottigliezze che possono sembrare sofismi. Ma l’indole unilaterale e l’inesattezza delle Verrine appare meglio, quando l’accusa fa allusione a qualche norma giuridica meno ignorata, od è in più aperto contrasto con fatti ed opinioni, messi innanzi ivi ed altrove dallo stesso Cicerone. Il racconto del caso intervenuto a Sopatro di Halycia è tanto vago che non lascia proprio vedere, se si potesse davvero invocare la cosa giudicata, per la perfetta identità dell’accusa, e se l’assoluzione precedente fosse definitiva, o fosse soltanto dipesa da una insufficiente prova dell’accusa. Inoltre il ricorrere, che nella _lex Acilia_ fa la disposizione speciale[953], tendente ad allontanare la possibilità di una ripetizione del giudizio chiuso da una sentenza, sia di assoluzione che di condanna; se dimostra il progresso che faceva l’idea di assicurare il rispetto della cosa giudicata, può anche lasciar sospettare che non era divenuta ancora una norma così generale, da dispensare di farne menzione in una legge speciale. Per quanto questo concetto si affermasse nell’antichità, non si ometteva, anche per l’indole molte volte politica de’ processi, di lasciare una qualche via aperta alla rescissione[954]; e lo stesso Metello, succeduto a Verre, sia pure sotto la forma elastica e poco urtante della _restitutio in integrum_, non faceva, nel primo mese del suo governo, che demolire le sentenze di Verre, le quali pure erano, omai, divenute _cosa giudicata_; e Cicerone non aveva per un tale suo contegno che lodi e compiacimento[955]. Il concetto poi che Cicerone mostra di avere dell’assenza, nel caso di Epicrate di Bidis ed in quello di Stenio, non è quale può emanare dalle leggi e dalle consuetudini del tempo. Già, alcuni anni dopo, lo stesso Cicerone si sentiva in obbligo di far distinzione tra colui ch’era davvero assente (_absentem_) e l’altro, invece, che, sapendo dell’accusa e potendo comparire, non voleva (_latentem reum_)[956]; e il caso di Epicrate e di Stenio si accostava assai più a questo, che a non quello. L’assente, contro il quale non si poteva agire in giudizio, era quello, la cui lontananza dipendeva dalla necessità di attendere al disimpegno di un incarico pubblico; ma ad esso non poteva agguagliarsi, in una medesima condizione di favore, chi si era allontanato per isfuggire alla pena e per rendere, se mai, anche impossibile il giudizio. Anche per la persona, la cui assenza non fosse stata volontaria e dolosa, dovea bastare l’assegnazione di un termine conveniente[957]. Inoltre restava a vedere, se, ed in quanto, anche la condizione di favore fatta in Roma all’accusato, assente per ragione giustificata, potesse avere la sua applicazione in provincia. Nella seduta del Senato, in cui fu portata la questione di Stenio, in ogni modo, la discussione fu vivissima, e non mancarono quelli, che sostennero la legalità della condotta di Verre; nè, quali che ne fossero le ragioni, il Senato venne ad alcuna risoluzione. La cosa rimase insoluta[958]. Lo stesso provvedimento di tolleranza, adottato da’ tribuni verso di Stenio, tendeva ad eliminare solo alcuni degli effetti della condanna di Verre e il divieto di rimanere in Roma, non la stessa condanna[959]. L’avocazione, poi, fatta da Verre a sè della causa di Stenio, è cosa pienamente rispondente ad una consuetudine, sempre più prevalente, de’ governatori di provincia[960], giustificata dal loro _imperium_, dalla posizione speciale, che essi aveano nella provincia e dal progrediente accentramento, imposto spesso dall’interesse stesso del dominio romano. La costituzione del consiglio, nella causa di Sopatro, in parte, dipendeva da una ragione a lui estranea, dal ritirarsi di M. Petilio e degli altri; e del resto, non è dimostrato che il consiglio dovesse essere lo stesso di quello che avea giudicato l’altra volta, e che il governatore, scegliendo gli uni piuttosto che gli altri, avesse veramente violata la legge. Ugualmente, se si ammettesse, come qualcuno vuole[961], che, nel procedimento _in iure_, la presenza dell’accusatore non era così impreteribile, come in quello _in iudicio_, e che, non essendo presente, nè contraddicendo Stenio, la causa si arrestava a quel primo stadio; anche l’assenza dell’accusatore Pacilio non importerebbe quella grave violazione, che Cicerone voleva trovare. Nè, in ogni modo, l’assenza di Pacilio era quella vera desistenza, che valeva di rinunzia all’accusa e l’annullava[962]. Finalmente la missio _in bona_, ordinata a danno di Epicrate, e così censurata da Cicerone, trova la sua completa giustificazione in una massima del diritto pretorio, accolta nell’editto perpetuo: «_Qui fraudationis causa latitabit, si boni viri arbitratu non defenditur, eius bona possideri vendique iubebo_[963]». Infatti, Epicrate s’era volontariamente allontanato dalla Sicilia, e i suoi amici finirono col desistere dal difenderlo[964]. [La creazione de’ magistrati locali.] Passando dall’ordine de’ giudizî a quello amministrativo, la creazione di magistrati in generale e de’ censori in ispecie, sottratta al voto de’ concittadini e fatta, direttamente o indirettamente, dal governatore, potea trovare la sua giustificazione, innanzi tutto, nel potere stesso del governatore, che gli permetteva di derogare a quelle norme costituzionali date, in fondo, da altri governatori, e, poi, dalla consuetudine, crescente ne’ governatori, di immischiarsi sempre più, forse anche talvolta a fin di bene, nelle faccende delle amministrazioni locali[965]. Potè anche Verre esservi tratto da ragioni di utilità sua privata, come vuole Cicerone; ma il caso non era nuovo, nè censurabile in sè stesso. È proprio Cicerone che più tardi dalla Cilicia scriveva che i provinciali non aveano, molte volte, nemici peggiori di questi loro magistrati, che li derubavano e li mandavano in rovina[966]. Un’intrusione del supremo magistrato della provincia, del governatore, poteva molte volte essere feconda di bene, e provvido, qualche volta, anche il sottrarre la scelta de’ magistrati alle gare delle fazioni locali. Si aggiunga, quanto a’ censori, che se il censo era fatto per servire più immediatamente agli scopi de’ comuni, avea poi innegabili relazioni con tutti gli interessi dell’amministrazione romana nella provincia, ed il governatore non poteva affatto disinteressarsene[967]. [Le statue.] Similmente come elemento d’accusa, dal punto di vista giuridico almeno, poco valore potea avere l’addebito che Cicerone faceva a Verre di avere obbligato i Siciliani ad erogare tanto denaro per elevargli delle statue, e di averlo talvolta esatto, senza poi spenderlo secondo l’uso, a cui era destinato. Che Verre obbligasse i Siciliani a contribuire ad erigere statue, e che lo facesse per vanità insieme e per interesse, può ben darsi; non costa proprio fatica l’ammetterlo; ma gli argomenti, che Cicerone adopera per provare il suo assunto, sono troppo sottili, e il dilemma lascia una facile via di uscita. Quel generale concorso a’ suoi onori e quell’universale rivolta, quelle petizioni che invocavano restrizioni di ordine pubblico a tali elargizioni, potrebbero deporre anche di un radicato spirito di adulazione e di una reazione, facile a conciliare con la stessa abitudine di adulare. Ma che che sia della cosa, moralmente, dal punto di vista giuridico, Cicerone stesso ammetteva[968] che, legalmente, si era obbligati ad attendere il decorrimento di un quinquennio per vedere se impiegava il danaro. È pur vero, come Cicerone osservava, che, se a Verre accadeva di sfuggire ad un processo grave come questo, un processo intentato per il semplice denaro, estorto, col pretesto delle statue o per le statue, non potea davvero dar materia a serio pensiero. Ma ciò non poteva, in nessuna maniera, aver l’effetto di toglierli il beneficio del termine e farlo condannare contro l’espresso dettato della legge. [Il conferimento de’ sacerdozî.] Il metodo seguito nel dare il sacerdozio di Giove a Theomnasto, se è comico nella forma, non è che un modo di far sentire, anche più fortemente, quell’_imperium_, in virtù del quale egli poteva modificare, così in principio, come in pratica, le capacità ed i sistemi di elezione. Ma l’elezione di Cephaloedium, che le fa riscontro, lascia scorgere, senza troppa difficoltà, l’esagerazione di Cicerone. È strano come Cicerone, mentre attribuisce a Verre il potere di costringere gli altri a giudicare, a votare, a condursi in ogni modo a suo talento, gli fa violare regole giurisdizionali, norme costituzionali; ciò che non ha senso, perchè Verre avrebbe potuto, per altra via più semplice, con la sua autorità su i giudici e con l’esercizio diretto del suo potere, giungere allo stesso scopo. Riesce quindi difficile l’intendere, come, per far giungere Artemone Climachia al supremo sacerdozio, invece di seguire una via franca e spedita, avesse bisogno di mettere a soqquadro il calendario di quella città. È evidente che, in tal modo, invece di violare le sole norme stabilite pel conferimento del sommo sacerdozio, turbava anche il calendario locale, lasciando una traccia più sicura e più durevole del fatto suo. Veramente, il far servire l’intercalazione a scopi politici e personali di un partito, di una fazione, di una famiglia, era in Roma una cosa tutt’altro che nuova[969]. Cicerone stesso, dalla Cilicia[970], tra il serio ed il faceto, scrivendo, più volte raccomandava di trascurare l’intercalazione di quell’anno per abbreviare la lontananza da Roma, a lui tanto incresciosa. Se, dunque, Verre avesse fatto a Cephaloedium proprio quello che Cicerone gli attribuisce, veramente non avrebbe fatto che usare in provincia una abitudine, già invecchiata a Roma. Ma, considerando l’indole de’ fatti e la notevole verosimiglianza delle cose, è possibile che Cicerone abbia qui messo in relazione due cose tra loro indipendenti; anche perchè ciò gli consentiva, nel pubblicare queste sue orazioni, di arricchirle di uno di quegli incidenti umoristici, a cui egli teneva tanto. Come è noto, al tempo di Verre, il calendario, anche a Roma, non avea acquistata quella regolarità che Cesare cercò dargli, benchè non vi riuscisse in maniera definitiva; e questa periodica sistemazione del calendario era, là ed altrove, come si è detto, causa di preoccupazioni insieme e di abusi. Fuori di Roma, in molti posti, il computo dell’anno, non che essere adagiato su di una base definitiva e regolare, era fatto ancora sul corso della luna[971]. Per sapere, davvero, quale fu l’indole della intercalazione di Verre, occorrerebbe sapere le particolarità del calendario di Cephaloedium in quell’anno. In ogni modo, se ciò non ci è dato, siamo in grado di vedere che Cicerone diceva cosa inesatta, dando a’ calendari greci e siciliani una conformità, che non avevano, e gabellando per uso universale l’aggiunzione o la sottrazione di uno o due giorni al mese; mentre, in alcuni casi, l’aggiunta di due giorni sarebbe stata soverchia, e, in altri casi, s’intercalava, o si sopprimeva, tutta una serie di giorni[972]. [Le esportazioni.] Il calcolo delle esportazioni di Verre, che Cicerone poi faceva, in base a quelle avvenute dal porto di Syracusae, era probabilmente arbitrario, od, almeno, esclusivamente congetturale. Dimorando Verre in Syracusae, era di là che le esportazioni di solito avean luogo; e, che in ogni porto di Sicilia Verre facesse un diuturno carico di merci, era cosa che Cicerone poteva più facilmente fingere che provare. Il rimprovero, da Cicerone fatto a Verre, di non aver pagato il dazio sulle sue esportazioni e le corrispondenti lamentele di pubblicani, di cui poi si tentò disperdere la traccia, difficilmente ponno accordarsi con le esplicite norme, che volevano soggetto a dazio soltanto ciò che era esportato per ragione di commercio, non ciò che era esportato per uso privato[973]. E Verre, non foss’altro che per l’ordine a cui apparteneva, non si poteva intendere che esportasse a scopo di commercio. [Verre e la _lex Hieronica_.] Ma, anche là, dove Cicerone si studiava più di colpir Verre, nell’amministrazione del tributo pagato dalla Sicilia, non mancavano in più parti elementi di giustificazione e di difesa. Cicerone accusava Verre, a tal proposito, di avere arbitrariamente innovata, e in parte abrogata la _lex Hieronica_, specialmente per quella parte, che riguardava la costituzione del tribunale giudicante sulle controversie ad essa relative, e di averne poi, nella pratica applicazione, tratta tanta materia di abusi, da rovinare a dirittura l’agricoltura siciliana ed esaurire la prosperità della Sicilia. Ora, a bene intendere, per quanto le varie notizie permettono, la natura vera della _lex Hieronica_ e la sua funzione nella amministrazione siciliana e l’estensione de’ poteri del pretore, si scorge già l’esagerazione dell’accusa di Cicerone, anche per la prima delle accuse. La _lex Hieronica_ era la norma direttiva per l’esazione del tributo. Il pretore non ripeteva anno per anno tutte le sue clausole, ma rinviava alla _lex Hieronica_. Così l’editto provinciale riassumeva in sè, come _lex redemptionis_, questa norma regolatrice del tributo; e non è inverosimile che essa costituisse la parte più antica e migliore dell’editto provinciale, che diveniva _translaticium_. A questo tronco si vennero naturalmente innestando le inerenti norme procedurali, e l’editto divenne un codice di tutto il procedimento giudiziario, riguardante l’esazione delle decime. Ma, secondo il comune modo di vedere, questa procedura non riposava tanto sull’editto, quanto sulla _lex frumentaria_, sulla _lex Hieronica_. Eran fusi e conservati l’antica consueta imposta, il modo di esazione, il sistema di regole amministrative, con cui si tendeva ad assicurare, insieme, chi pagava e chi esigeva il tributo[974]. Se è così, formalmente almeno, Verre non commetteva un eccesso di potere, sviluppando anche più che innovando, le norme fondamentali di quel regime tributario, e l’editto suo, messo in relazione co’ concetti, a cui, secondo lo stesso Cicerone s’inspirava la _lex Hieronica_, non appare così discordante da essi, come voleva l’accusa. Con l’_edictum de professione_, Verre non fece altro che completare e sviluppare un indirizzo amministrativo, a lui anteriore; dove prima, forse, era un semplice elenco de’ coltivatori, volle che s’aggiungesse anche un elenco delle coltivazioni[975]. Le condanne, in causa della mancata o non sincera denunzia (_professio_), era poi una conseguenza naturale dell’obbligo imposto di denunziare le coltivazioni; e, se ne fu fatta cattiva applicazione, il biasimo non si può, in via assoluta, farlo risalire al decreto, da cui avea origine. La _professio_, nella formazione del censo, era la cooperazione del cittadino alla formazione del registro censuale, richiesta per legge e con minaccia di una pena[976]; e questa di Verre, in Sicilia, si poteva dire un’applicazione analogica dello stesso principio[977]. Che poi la misura del pagamento non potesse dipendere semplicemente dalla _professio_, dalla denunzia dell’agricoltore, s’intende senza molta difficoltà. L’esazione avea luogo in base al ruolo del tributo, che costituiva pel debitore il legale ordine di pagamento e lo metteva in mora[978]; ed il rimedio ad un’esazione esagerata consisteva, appunto, nella ripetizione di quanto era stato esatto ingiustamente e nella multa che accompagnava l’arbitraria esazione[979]. Il divieto, fatto all’agricoltore, di asportare il frumento dall’aia, prima di essersi accordato col decumano, oltre ad essere un mezzo di assicurare l’esazione e dare pratica esecuzione alle norme precedenti, trovava la sua corrispondenza appunto nella _lex Hieronica_, la quale, secondo la versione stessa di Cicerone, cercava con pene severe di impedire che il frumento venisse rimosso in frode del decumano[980]. Un altro appiglio a maggiori attacchi, da parte di Cicerone, era offerto dall’allargamento de’ poteri de’ pubblicani nell’esercitare il loro diritto di pegno. Ma, anche qui, un più meditato esame della via seguita da Verre, conduce forse ad un giudizio meno parziale. Che il diritto di pegno competesse a’ pubblicani, è ammesso anche da Cicerone, come norma esistente in ogni regione del dominio romano[981]. La colpa di Verre sarebbe consistita nell’allargare questo diritto di pegno sino a comprendere, non semplicemente quello che il pubblicano chiedeva e il coltivatore si rifiutava di dare, bensì perfino, talvolta, tutto quello che si trovava sull’aia; nell’invertire l’onere della prova, in modo che non era più il pubblicano a dover dimostrare che gli era dovuto quanto chiedeva, ma il coltivatore che dovea agire in giudizio contro di lui; e, finalmente, in tutta la protezione ufficiale accordata a questo sconfinato arbitrio de’ pubblicani, mercè l’intervento del magistrato. Ora, giova osservare che il diritto di pegno, specialmente nelle sue origini, si presenta come un mezzo indiretto di costrizione e s’informa, tutto, a questo principio dominante[982]; è un mezzo di coazione, e, subordinatamente, una pena. L’estensione dunque di questo diritto, sino a comprendere tutto il ricolto, specialmente nel caso del _frumentum conceptum celatum_, è una estrinsecazione ed una conseguenza di quel principio. Per vedere davvero in quanto Verre modificò, e da che punto di vista, occorrerebbe sapere con precisione il metodo seguito prima di lui. Ma anche senza poter risalire a questo, e ritenendo, come una vera innovazione, l’inversione della prova e le clausole dell’editto, che regolavano la condanna dell’agricoltore opponente, o del pubblicano concussionario, la modificazione va considerata in relazione a’ concetti che informavano il diritto tributario. Per chi crede che davvero il suolo provinciale, soggetto a tributo, non fosse posseduto che a titolo di _precarium_[983]; od anche che il _precarium_, senza costituire il cosciente ed originario fondamento di quello stato di cose, ne fosse, specialmente verso la fine della repubblica, divenuta l’espressione giuridica; per chi si mette da questo punto di vista, la confisca del prodotto e l’inversione della prova divengono soltanto la logica conseguenza di un principio giuridico ammesso. Il pagamento del tributo era la condizione per mantenersi nel possesso del fondo, e l’inadempimento, se poteva portare la devoluzione del fondo stesso, a maggior ragione poteva produrre il pignoramento di tutti i frutti; e dovea esso, l’agricoltore, agire in giudizio contro il pubblicano, che come rappresentante de’ diritti dello Stato vi compariva come _possessor_. Ma, anche chi non muove da questo punto di partenza, non esita a riconoscere che il pubblicano ed i poteri, che ad esso venivano concessi, non possono prendere norma, nè trovare la loro spiegazione semplicemente ne’ rapporti di diritto privato; ed è invece al carattere pubblico, ad essi attribuito, che bisogna domandare una spiegazione conveniente. Lo Stato, nella sua amministrazione ed in tutti i suoi rapporti finanziarî, non si lasciava circoscrivere dalle norme di diritto privato, e seguiva le sue speciali norme che son quelle del diritto pubblico[984]. L’interesse de’ pubblicani era intimamente connesso con quello dell’annona, dell’approvvigionamento di Roma, del retto funzionamento di tutti que’ servizi pubblici che il pagamento de’ tributi rendeva possibile. Rendere dunque l’esazione de’ tributi pronta e spedita, togliendo gl’inceppi che potevano venire da preventive contese, significava, non solo, e forse non tanto, favorire il ceto de’ pubblicani, quanto favorire lo Stato, che nulla avrebbe percepito, quando alla loro volta gli altri non avessero esatto. Di qui quei diritti di pignorare, di perquisire, che si vedono concessi a’ pubblicani[985]. La nuova regola, tanto censurata da Cicerone, per cui l’agricoltore era costretto a seguire la competenza del fòro scelto dal pubblicano, piuttosto che del suo, corrispondeva probabilmente all’ordine invertito delle parti; ed, avendo il pubblicano la veste di convenuto, l’agricoltore, divenuto attore, dovea andargli ad intentare nel luogo di sua residenza la causa. Tutto ciò a prescindere da ogni facoltà del governatore nello stabilire la sede del giudizio, facoltà di cui anche Cicerone in Cilicia fece grande uso. Alcune delle disposizioni a ciò relative, contenute nell’editto di Verre, rispondono, successivamente, ad un’evoluzione della legislazione tributaria, che, anche da noi, si fonda sul principio eccezionale del _solve et repete_; adottato talvolta anche in rapporti d’ordine privato, ma sempre in vista di motivi d’interesse pubblico. Le vessazioni e gli arbitrî, che facilmente si possono accompagnare ad una siffatta estensione di poteri, che, anzi, molte volte sono inevitabili, possono solo limitarsi, adottando rigorose disposizioni contro gli abusi commessi; ed è per questa via che si metteva la legislazione, specialmente sotto l’impero[986]. Verre minacciando di condannare i pubblicani a pagare otto volte quello che avessero indebitamente esatto, obbediva precisamente — a considerare almeno la disposizione in astratto — a questo criterio. La disposizione corrispondente, che comminava il pagamento del quadruplo all’agricoltore soccombente, poteva, certamente, essere un tranello; ma era pure un rimedio necessario contro la moltiplicazione di giudizî temerarî, ed una cosa affatto rispondente all’indole ed al carattere del giudizio romano. Secondo Cicerone, queste nuove disposizioni, già per sè stesse dannose agl’interessi degli agricoltori, sarebbero state rese anche più esiziali dalla irregolare costituzione de’ tribunali, formati con criterî diversi da quelli voluti dalla _lex Hieronica_; giacchè, in luogo di esser tratti dal _conventus_ e da’ _negotiatores_, i giudici erano presi dalla coorte stessa del pretore. L’accusa non è nuova; e Cicerone, prima di trattare dell’amministrazione frumentaria, l’avea già fatta a Verre, trattando, in generale, dell’amministrazione giudiziaria. Se non che, lo stesso Cicerone ci dà modo di temperare l’accusa e di mostrarla almeno nella sua generalità esagerata. A breve distanza del luogo, ove, in forma assoluta, avea negato ogni scelta di giudici da’ _negotiatores_ e dal _conventus_, dice che non avea tenuto conto della _lex Rupilia_, che _quando non v’andava di mezzo il suo interesse_[987]. Più appresso, sempre lo stesso Cicerone parla di M. Petilio, cavaliere romano, ch’era nel _consilium_ di Verre, e che da lui, in occasione della causa di Sopatro, fu allontanato, perchè adempisse la sua funzione di _iudex rei privatae_; e con M. Petilio erano anche molti altri, che solevano prender parte a’ giudizi e che aveano esercitato tale compito anche sotto il predecessore di Verre[988]. A’ membri della coorte poi Cicerone nega la loro qualità di cittadini romani[989]; ma il loro nome di Cornelii, e il vederli intorno a Verre, ci fa agevolmente pensare che essi doveano appartenere a que’ diecimila, o più, che Silla introdusse nella cittadinanza romana[990]; e solo la viziosa origine e la foga dell’accusa hanno indotto Cicerone a dire il contrario. Se erano cittadini romani, come tali appartenevano al _conventus_, e, formalmente almeno, Verre non avrebbe punto violata la legge scegliendoli a giudici; per quanto noi non siamo bene informati del modo preciso, onde concorrevano a formare il corpo giudicante il conventus e i negotiatores. In ogni modo, nella formazione del tribunale, il pretore avea il diritto di scelta, e le parti quello della ricusazione[991]; sicchè, anche sotto questo rapporto, l’operato di Verre sfugge sempre più all’accusa di illegalità. È opportuno anche rammentare come, in genere, il consiglio adoperato dal magistrato avea una funzione, più che altro consultiva, e nel costituirlo e nel seguirlo, in genere, era lasciata molta latitudine al magistrato[992]. E questo stesso suo carattere, messo insieme alla maggiore agevolezza di trarre i giudici dal seguito del governatore, composto di persone meno distratte da altre faccende e sempre presenti, portò poi a costituire stabilmente, de’ membri della coorte, i tribunali provinciali. Sotto questo aspetto, infatti, i tribunali ci si presentano nel periodo imperiale; ma la consuetudine, verosimilmente, era più antica, e si trattava di tutta una evoluzione, per cui un semplice stato di fatto, con la costante ripetizione, si mutava in una norma fissa[993]. [Gli elementi di fatto dell’accusa.] Scendendo da questa censura di norme generali a’ casi concreti, riesce più difficile sottoporre ad esame le accuse di Cicerone; ma, pur non potendo discutere fatti, che sfuggono ad ogni controllo, sia per il loro riferimento a qualche fatto d’ordine generale, sia per il carattere comune che hanno, porgono anch’essi agio talvolta a togliere opinione di esattezza alle parole di Cicerone e a giudicare, con qualche criterio diverso dal suo, alcuni de’ fatti di Verre. È stato già osservato[994], per esempio, come poco giustificabile sia il giudizio portato da Cicerone nel caso di Xenone Meneno, sia che si consideri il diritto di accertare la vera estensione delle colture, sia che si consideri la legale rappresentanza che il marito avea della moglie. L’intromissione di Verre nel riscatto, che facevano le città delle decime dalle mani de’ pubblicani, può aver dato, ed avrà dato luogo ad abusi: non c’è a dubitarne; ma, considerata in principio, corrispondeva ad un compito, che il governatore non reputava estraneo alle sue funzioni, tanto dal punto di vista dell’interesse de’ pubblicani, che de’ provinciali; e lo stesso Cicerone, in Cilicia, si adoperò a menare a termine queste composizioni. Gl’ingenti guadagni che i pubblicani, secondo lui, avrebbero realizzato, non hanno bisogno, per essere spiegati, assolutamente, di queste pressioni di Verre. Gli appalti, assunti in base alle colture, ch’erano state denunziate, spesso, in proporzione inferiore alla realtà; le leggi rigorose, che aveano armato i pubblicani di tanti poteri nelle riscossioni; bastano già, per sè soli, a spiegare queste transazioni, fatte a condizioni così favorevoli e con sì lauti guadagni. Anche Cicerone è costretto a riconoscere indirettamente il secondo di questi argomenti[995]. [Le decime di Leontini.] Ma dove Cicerone più mostra la parzialità dell’accusa, è proprio in quel punto, in cui crede di portare a Verre un colpo irreparabile: alludo all’appalto delle decime dell’agro leontino. Cicerone rimproverava, infatti, a Verre di avere appaltato ad Apronio, per trentaseimila medimni, la riscossione delle decime dell’agro leontino, che nella migliore ipotesi non potevano ascendere a più di trentamila medimni; giacchè trentamila jugeri erano stati messi a coltura, ed il prodotto, solo nella migliore delle ipotesi, era il decuplo della semente. Intanto, data questa condizione di cose, non si riesce a spiegare come Cicerone là stesso e poco appresso possa affermare[996], che le decime in altri tempi, sotto C. Norbano, cioè nell’87 a. C.[997] si vendettero ad ugual prezzo, e che, in quell’anno stesso, Q. Minucio, uomo de’ più onesti (_in primis honestum_), e che perciò dovea contare solo su’ mezzi leciti, volea prendere l’appalto ad una ragione assai più alta di quella offerta da Apronio. La spiegazione si trova soltanto col dissipare la confusione che Cicerone vuol portare sull’argomento. I _Campi leontini_, che, per la loro feracità, avean persino fama di essere stati i primi a portare il frumento[998]; anche oggi, quando la miglior parte di essi è stata sottratta alla coltura de’ cereali, per essere adibita ad una cultura più intensiva, esausti pur come possono essere, dopo tanti anni, e senza un vero miglioramento di metodi di cultura; sono pur capaci di rendere dodici volte la semente[999], due volte più di quello che Cicerone diceva. Quando Plinio ne scriveva, da naturalista, e senza i preconcetti che Cicerone vi portava, ne faceva ascendere la fecondità a tal punto, che la sua espressione, poichè parla del cento per uno, dev’essere ritenuta iperbolica. In ogni modo Plinio fa que’ campi fecondi come quelli dell’Egitto[1000]. Cicerone dunque cominciava dall’abbassare la produttività di quelle terre, e non si fermava qui. La produttività non si proporzionava all’area coltivata, bensì alla semente piantata. Ora, nell’iugero di terra, specialmente quando il terreno era assai fecondo, poteva seminarsi anche più di un medimno di frumento. La diversa proporzione della semente era cosa ben nota agli scrittori antichi di agricoltura[1001]; un d’essi, parlando della seminagione dell’orzo, consiglia di metterne otto modii in ogni iugero di terreno[1002]. Se si tien calcolo di tutto questo, si può anche venire alla conclusione che Apronio prelevò tre medimni per ogni iugero di terreno, senza prendere in realtà più di una decima parte del prodotto. [Il _frumentum imperatum_ e l’_aestimatum_.] Non degno di maggior fede, forse, è Cicerone, dove, censurando le percezioni arbitrariamente fatte, nell’esigere il _frumentum imperatum_ e specialmente il _collybus_, l’aggio sul cambio delle monete, dice che questo non potea trovar luogo, perchè in Sicilia non avea corso che una sola specie di moneta. Eppure, se v’era paese, che per la commistione de’ popoli, per la posizione, per il commercio, dovea avere, come avea, un corso di monete vario, quello era la Sicilia. Equivoco del pari e capzioso è il ragionamento, col quale Cicerone vuole provare la colpevolezza di Verre nell’esigere il _frumentum aestimatum_. Come è noto, il pretore avea facoltà di esigere il frumento occorrente agli usi personali suoi e dei suoi dipendenti, e Verre l’avrebbe dovuto pagare, per quel che Cicerone ci dice, a quattro sesterzî il modio. Se non che, una consuetudine sorta prima a vantaggio, e poi convertita a danno de’ provinciali, ammetteva che il governatore esigesse danaro invece di frumento; e, giacchè il governatore avea diritto di esigere il frumento dove più gli piacesse, il prezzo da esigere si valutava prendendo come misura, il prezzo che il frumento avea nella città della provincia, in cui era più caro. Verre avea, in base a questa consuetudine, esatto in Sicilia, a titolo di _frumentum aestimatum_, nientemeno che tre danari a modio, cioè dodici sesterzî. Cicerone, pur cedendo alla consuetudine e non volendo attaccare Verre almeno da questo aspetto, sostiene che Verre ne abusò; giacchè in Sicilia il costo del frumento era uniforme, se non di due sesterzî a modio, come pur Verre avea scritto, tutt’al più di due sesterzî e mezzo. Verre quindi, anche a questo titolo, avea violata la legge, espilando danaro. Ora, che al tempo di Verre il frumento avesse, per tutta la provincia, un prezzo uniforme e costante, recherà molta meraviglia; quando un’occhiata a recenti statistiche mostra come, anche a’ tempi nostri, pur con ogni facilità di approvigionamento, con i mezzi di comunicazione incomparabilmente più agevoli, si è ben lungi, nella stessa Sicilia, dall’ottenere questo prezzo uniforme[1003]; ed allora la Sicilia si distingueva sopra tutto per lo scarsissimo sviluppo di viabilità[1004]. Che, dunque, il prezzo del frumento fosse eguale in ogni punto della Sicilia, noi non lo crederemo, se anche ce lo dice Cicerone. Ma un equivoco anche maggiore è quello che vuole indurre Cicerone, quando, parlando del frumento venduto, a detta di Verre, a due sesterzî il modio, e di quello da Verre stesso fatto pagare a tre danari, non fa distinzione di tempo. Percorrendo i dati, comunque non molto abbondanti, che abbiamo sul prezzo de’ cereali nell’antichità, da nulla forse siamo tanto colpiti, come dalle variazioni affatto repentine, a cui andava soggetto; in modo che a distanza di pochi mesi è possibile veder salire il prezzo di un medimno da 4 d. 3 ob. a 7 o 10 d.[1005], ed, a più breve distanza ancora, il prezzo di un’artaba da 250 dr. a 320, 368, 384 dr.[1006]. Pure, ciò non può destarci meraviglia, se consideriamo tutti i vincoli imposti al commercio de’ cereali, i sistemi proibitivi, i monopolî, i privilegî. Gli effetti di una tale condizione di cose, sopra tutto per quanto riguarda l’artificiale rialzo del prezzo, sono stati studiati, nella stessa Italia, molte volte e da tempo[1007], e non accade di tornarvi sopra. Bastava un’incetta fatta su larga scala per far salire il prezzo sino a 16 dramme il medimno[1008]; ma, anche indipendentemente da questi casi speciali, avveniva facilmente che il grano, svilito di prezzo subito dopo il ricolto, salisse ad un prezzo assai alto in altra stagione dell’anno. In Sicilia, donde, a sola nostra notizia, senza tener conto del _frumentum aestimatum_ e de’ guadagni de’ pubblicani, tra prima e seconda decima e _frumentum emptum_, venivano prelevati, per conto di Roma, circa un milionecentotrentamila e più medimni, non era difficile che ciò avvenisse. Lo stesso Cicerone ammette senza contrasto, che appena sotto il predecessore di Verre, il prezzo del frumento era salito a cinque danari il modio[1009]. Considerando dunque l’indeterminatezza della notizia di Cicerone, basterà supporre che i due prezzi diversi de’ cereali si riferiscano a due periodi diversi e che Verre, non avendo limite di tempo fissato alla sua richiesta, l’abbia fatta in un momento dì rincaro; ed anche quest’accusa di Cicerone, sempre dal punto di vista legale, da cui egli amava mettersi, avrà perduto ogni fondamento. [La ruina dell’agricoltura siciliana.] Quanto ne avea l’altra accusa che Cicerone facea a Verre, di aver egli solo rovinata l’agricoltura siciliana? Veramente, se le cifre corrispondono al vero, fa senso il vedere, in soli tre anni, ridotti i coloni di Leontini da 84 a 32, quelli di Mutyce da 187 ad 86, quelli di Herbita da 252 a 130, quelli di Agyrium, finalmente, da 250 ad 80[1010]. Ma, era proprio tutta colpa di Verre? Non sarò io a negare i tristissimi effetti di un sistema d’imposizione, male ordinato e peggio applicato; pure è giusto rilevare che, nè questo metteva capo a Verre soltanto, nè un fatto di tanto rilievo avea la sua origine soltanto nel sistema tributario e nelle vessazioni di un governatore. Molteplici e maggiori ne erano le cause. Se le guerre servili, due volte divampate con uno scoppio più violento, due volte erano state represse, non n’erano perciò state tolte le cause. Sotto l’azione di tutte queste cause, che la concorrenza sempre progrediente dell’Africa e dell’Egitto, rendeva ognora più disastrose, la Sicilia s’impoveriva e si spopolava. Era una crisi, incomparabilmente più duratura e più esiziale di quella che avea potuto portare alcuni secoli innanzi la coltura dell’olivo e della vite, introdotta nell’Africa[1011]. Se è vero, come Cicerone vuole, che a C. Norbano, soltanto quattordici anni prima di Verre, era riuscito agevole esigere, senza durezza e senza soverchio aggravio, quello che Verre potè esigere a costo di tanti sforzi; bisogna pure da questo dedurre che, anche in un tal numero d’anni non grande, una sensibile decadenza avea avuto luogo nell’agricoltura. Quell’incremento del lavoro servile, doppiamente insidioso alla piccola proprietà ed al benessere generale, per la concorrenza sempre più implacabile e per lo stato permanentemente malsicuro in cui teneva l’isola, conduceva ad una forma di produzione agricola, sempre più sfruttatrice e meno rimunerativa. I vincoli imposti alla libera espansione degli elementi locali, l’avida e prepotente speculazione di tutto il ceto commerciante romano, che, direttamente o indirettamente, si volgeva alla Sicilia, il prelevamento delle decime, aveano un’azione incalcolabile su tutta l’economia siciliana. La _lex Cassia Terentia_, introdotta appunto al principio dell’amministrazione di Verre, avea dovuto essere un altro colpo. Benchè Cicerone tenga a dire il contrario, è poco probabile che il Senato nello stabilire i prezzi tenesse più conto dell’interesse de’ Siciliani che di quello dell’erario; e, in ogni modo, quest’altro prelevamento forzato non era fatto per mettere meglio in grado gli agricoltori di tentare la libera speculazione e di profittare della varia vicenda de’ prezzi. Se a tutto ciò si aggiunge il brigantaggio e specialmente la pirateria, fatta sempre più audace e molesta, si avrà ragione di sospettare che non era in tutto veritiero, nè in tutto giusto Cicerone, nell’imporre quest’altro carico, tutto, sul capo di Verre. È strano come Cicerone, che avea tanto abbondato in altri punti, qui, volendo dimostrare la diminuzione degli agricoltori, si limiti a parlare di quattro soltanto tra le sessantotto città di Sicilia. E come mai la diminuzione sarebbe stata maggiore in questi punti, che erano pure i più fecondi? La notizia di Cicerone inoltre è monca, giacchè di due dati, che il catasto di Verre abbracciava, il numero degli agricoltori e l’estensione delle culture, ci dà notizia solo di quelli e non di questa. Nella campagna di Agrigentum, ebbe l’impressione di una grande desolazione; eppure egli non se ne può servire per dimostrare che gli agricoltori scemavano proprio sotto Verre[1012]. Occorre notare, come dallo stesso Cicerone sappiamo, che doveano esservi stati degli anni di cattivo raccolto sotto Verre e che, anzi, per superstizione, i Siciliani ne attribuivano la cagione al trafugamento della statua di Cerere[1013]. È notevole pure che i territorî di quelle quattro città, tutti della Sicilia orientale, doveano essere più facilmente preda de’ pirati, omai prepotenti, che facevano sbarchi sulle coste e si inoltravano anche talvolta nel paese per saccheggiare e incendiare le mèssi[1014]. Appiano[1015] attribuisce alla pirateria, divenuta tanto potente da interrompere ogni commercio, anche questo abbandono de’ campi. Tutto ciò ci dice già qualche cosa; ma un’altra spiegazione l’abbiamo ancora, se ci facciamo a considerare che que’ territori si trovavano precisamente in quella parte della Sicilia, ch’è anche oggi quella ove più domina il latifondo[1016]. Che anche allora la grande coltura tendesse sempre più ad ampliarsi, sia sotto forma di allargamento della proprietà, l’_ingens cupido agros continuandi_, rilevata poi da Livio[1017], che di locazione in grande, e che si riuscisse a meraviglia a sopprimere piccoli proprietarî, o piccoli affittaiuoli; ce lo dimostra il caso de’ Leontini, quale ce lo dà lo stesso Cicerone[1018]. A Leontini appunto, l’unico e grande possessore fondiario era Mnasistrato, odiato perciò stesso da’ suoi concittadini, come può essere un latifondista siciliano del giorno, che vive del tributo, della fame e della miseria de’ suoi conterranei. Chi sa dunque quanta parte, in questo stremarsi degli agricoltori, l’aveano la mala annata, i pirati e gli emuli di quello stesso Mnasistrato, che Cicerone chiama con intenzione _homo honestissimus_ e _vir optimus_. La lettera di L. Metello[1019], che Cicerone volea mettere innanzi come il più grave atto di accusa contro Verre, ha un significato molto più largo. Essa è l’eco delle tristi condizioni dell’agricoltura, nel momento in cui era scritta; ma fa pensare ad assai più cose, che non sia la semplice amministrazione di Verre. Anche per il modo di pensare di Metello in rapporto a questo, la lettera non poteva essere rivolta contro di lui. Fors’anche Metello si schermiva verso i consoli, che, di lontano, lo incitavano a cavare dalla Sicilia quanto più potesse. Essa pare fatta per richiamare alla memoria le lettere, colle quali la Compagnia delle Indie, mentre avea l’aria d’inculcare a Warren Hastings la severa osservanza della legge, spingeva a trasgredirla insistendo sulla necessità di accrescere l’entrate. L’apologo del castaldo, che per dare maggior reddito al padrone baratta gli stessi strumenti della cultura, era di applicazione assai più generale, e Cicerone avea torto di volerlo restringere a Verre. L’incitamento, dallo stesso Metello fatto agli agricoltori siciliani, di non abbandonare le colture ed anzi di estenderle, era nelle consuetudini de’ governatori di provincia e non ha bisogno, per essere inteso, di essere messo in relazione con le vessazioni di Verre. Benchè Cicerone accenni quasi il contrario[1020], è pur vero che M. Levino fece di tutto per incoraggiare gli agricoltori ad attendere alla cultura della terra[1021], ed, anche dopo di lui, la cultura de’ campi venne promossa, perfino con la minaccia e l’applicazione de’ gastighi[1022]. La disonesta e rovinosa amministrazione frumentaria era stata, come dire, il cavallo di battaglia dell’accusa di Cicerone, ed, appena, l’allusione a’ cittadini romani, arbitrariamente messi a morte, poteva avere tanta azione su’ giudici ed anche sul popolo, quanto ne avea questo richiamo a’ loro maggiori interessi, così offesi e compromessi. Cicerone lo sapeva e vi si fermava volentieri, comprendendo che ciò avrebbe contribuito grandemente all’esito della causa. [Le opere d’arte.] Tutto il bottino di opere d’arte, da lui denunziato, poteva interessare, solo mediocremente, il popolo romano. Verre chiamava quel suo amore delle opere d’arte _passione_, i suoi amici lo chiamavano anche _manìa_, e a Roma, dove il senso dell’arte era ancora molto limitato, avrebbero perdonato l’una e l’altra. Cicerone, per rendere più grave la cosa, tirava fuori, da quelle ch’egli denunziava come rapine, il sacrilegio, i rapporti di Roma compromessi verso potentati stranieri. Ma anche qui era tutt’altro che disperata, dal lato giuridico, la difesa di Verre. Verre si scusava di aver comperato quelle opere d’arte, che Cicerone diceva rubate[1023] e, in verità, in varî casi, riusciva a dare una dimostrazione sufficiente di questa sua asserzione[1024]. Altre volte si trattava di statue, date a lui in virtù di esplicite deliberazioni di magistrature cittadine[1025]; ottenute qualche volta, forse, nel modo, che dice Cicerone, qualche altra, fors’anche, se non con ispontaneità di sentimento, almeno in forma spontanea. Certamente, era pericoloso quel desiderio di comperare, in mano ad un governatore; perchè quelle compere potevano anche mutarsi, e si mutavano, in un mezzo di estorsione: ma, in ogni modo, Cicerone stesso consentiva a non voler vedere, nel semplice fatto della compera, un reato. Che, del resto, molte volte Verre fosse condotto a questa razzìa di opere d’arte, più da passione che da semplice avidità, lo dimostra lo stesso fatto, tante volte ripetuto da Cicerone, del restituire che faceva gli oggetti di metallo prezioso dopo averne staccati i fregi. Col proposito, poi, di mostrare che quelle vendite si traducevano talvolta in veri ricatti, Cicerone si lasciava andare volentieri ad esagerare il valore delle opere d’arte e, chi sa? fors’anche qualche volta a travisarne la vera natura. Il valore di molte opere d’arte, specialmente di utensili ed arredi, andava a grado a grado rinvilendo, specialmente poichè ne fu affidata la produzione al lavoro servile[1026]. E, quanto alle vantate opere d’arte di Prassitele (IV, 2, 5) di Mirone (3, 5; 43, 93) di Policleto (l. c.), di Boetho (14, 32), di Mentore (18, 38), di Silanione (57, 126); si trattava proprio degli originali, o non piuttosto di copie, cui era conveniente il prezzo assegnato? Questi baratti di copie per originali non erano proprio rari; erano anzi frequenti, anche in un periodo di più progredita conoscenza, e l’inganno riusciva a meraviglia[1027]. Dell’Eros di Prassitele e delle sue varie figurazioni noi non sappiamo tutto quello che vorremmo; ma la celebrità, che presto ottenne, ne dovette necessariamente far moltiplicare le copie. È notevole intanto che di questa statua di «Eros» posseduta da Heio, Cicerone è il solo a parlare[1028]. L’Heracles era soltanto attribuito a Mirone; e sarebbe stata la seconda delle statue del solo Heracles, attribuite a questo scultore[1029]. Anche la statua di Apollo in Agrigentum corrisponde ad un’altra della stessa divinità e dello stesso scultore, che si trovava in Efeso[1030]. Se queste ed altre statue, acquistate da Verre, erano copie semplicemente, anche le conseguenze che Cicerone voleva ricavare dal tenue prezzo, per cui erano state comperate, rimanevano ingiustificate. Di altre statue il furto era stato compiuto o tentato, anche a stare alla versione di Cicerone, da aderenti di Verre; e non era dimostrato assolutamente che l’avessero fatto per conto del governatore e non per proprio conto. [Verre e i suoi accoliti.] Un altro de’ punti deboli dell’accusa di Cicerone consisteva appunto in questa solidarietà, tutta congetturale e niente affatto dimostrata, di Verre e de’ suoi fautori, o dipendenti. Occorreva tutta la parzialità di un accusatore per credere che i membri della coorte, che gli amici, che gli aderenti non avessero profittato della loro posizione per empire il sacco. Questo sistema di far risalire a Verre tutta la responsabilità de’ fatti compiuti sotto di lui, era un metodo analogo a quello, cui si attennero poi gli accusatori di Warren Hastings, e contro il quale reagisce ora un suo recente biografo, cercando di sceverare quanta parte potesse avere egli, e quanta ne avessero Sir Elias Impey e gli altri[1031]. E Verre stesso, del resto, si rendeva conto di ciò, e si doleva della responsabilità, che avrebbe finito coll’avere, di colpe non sue[1032]. Il maneggio del danaro era presso i questori: ma, mentre Cicerone, parlando di Dolabella già giudicato e condannato, volea far risalire a Verre molte delle sue colpe, tanto riputava l’opera del questore necessaria e prevalente in siffatto genere di cose; trattando invece di Verre, dimentica i questori, e, se una volta li rammenta, lo fa per iscusarli e trarli anzi fuori della causa[1033]. Eppure in altro momento, quando si era trattato di ottenere a preferenza di Q. Cecilio, il diritto di accusare, Cicerone avea ben saputo riconoscere quanta fosse la parte e quanta la responsabilità de’ questori in tutte le colpe, di cui si accagionava Verre[1034]. [Le prevaricazioni.] Le preterizioni, le deduzioni affrettate, la congettura, sopra tutto, hanno una grandissima parte in quest’accusa di Cicerone. L’incostituzionalità di alcune parti dell’editto, molti de’ pronunziati giudiziarî e tanti altri degli atti a Verre rimproverati, potevano costituire veramente materia di quel particolare giudizio, in quanto era dimostrato che la causa determinante ne fosse stata il lucro. Ora a questa conclusione, anche volendo tener conto di quello che egli dice, Cicerone arriva per via indiretta, congetturale[1035]. Questo carattere dell’accusa è così saliente, che lo notava anche uno degli scoliasti di Cicerone[1036]. [Le benemerenze di Verre.] Ma, oltre a tutte le scuse e le difese, che a Verre dovea riescir possibile trovar contro queste colpe e parvenze di colpe, ve n’era un’altra, che dovea contare non poco, ed era la benemerenza, ch’egli avrebbe acquistato verso lo Stato, accrescendo i proventi della Sicilia e mantenendo nell’isola la tranquillità, mantenendovi intatto il prestigio di Roma e del suo imperio e salvaguardando la sua sicurezza[1037]. A Cicerone questo pareva come spostar la questione e mutar l’indole del giudizio, portando la discussione da un campo in un altro. Ma egli sapeva benissimo che in un giudizio, in cui si richiamava, moralmente almeno, in esame tutta la vita dell’imputato, e in cui il verdetto, effetto di un lavorio tutto interno della coscienza, emanava da un concetto sintetico delle azioni, della vita, del carattere del giudicabile; un ordine di benemerenza, come quello, non solo non rimaneva indifferente, ma diveniva forse il principale coefficiente della sentenza. Gli stava bene innanzi alla mente M’. Aquillio, il vincitore della seconda guerra servile, le cui colpe anche Cicerone, altrove[1038], non qui, riconosceva come evidenti, e che a considerazioni di tal genere dovette la sua assoluzione. Egli stesso, difendendo appresso M. Fonteio[1039] e poi L. Flacco[1040], doveva molto insistere su questo modo di difesa. Anche in tempi più recenti, Warren Hastings, benchè esplicitamente dichiarasse di volere essere condannato, se colpevole, non si astenne dall’allegare tutti i servigî da lui resi al paese, come la prova maggiore del suo carattere elevato e dell’incapacità di compiere atti disonorevoli[1041]. Così Cicerone si vide obbligato a seguire il suo avversario, anche su questo terreno, e fece del suo meglio per discreditare Verre ed ogni sua impresa in Sicilia. È noto come cercò di mostrar bugiardo il vanto de’ maggiori proventi tratti dalla Sicilia. Ora, la quiete mai disturbata in Sicilia, la compiacente liberazione di schiavi, già condannati come ribelli, la venale amministrazione della flotta, il suo annientamento, l’interesse dello Stato subordinato a’ suoi rapporti galanti, l’ingresso de’ pirati nel porto di Syracusae doveano dimostrare menzogneri anche gli altri vanti. Anzi, tutto quanto, in questo, poteva conferire alla prova della sua venalità, dovea servire anche a rincalzare l’accusa. Finalmente i maltrattamenti e le arbitrarie uccisioni di cittadini romani doveano finire di renderlo inviso a giudici e popolo, obbligando gli uni ad immolarlo all’ira dell’altro. Messo su questa china, non deve far meraviglia che Cicerone sacrificasse molto della verità all’interesse della causa e, dopo, nel redigere la sua orazione, all’interesse letterario. [La sicurezza in Sicilia.] Lo stato della Sicilia sotto Verre non poteva essere, e non era, quello stato di assoluta pace interna ed esterna, che Cicerone ci vorrebbe far credere. Anche dal semplice accenno, fatto innanzi, all’estendersi del latifondo, al decadere della popolazione, alla crisi economica, si può desumere che, se i Romani aveano due volte potuto spegnere nel sangue quelle rivolte servili, che aveano attratto nel loro vortice anche una parte del proletariato, non ne aveano tolto le cagioni, e il fuoco semispento covava sempre sotto le ceneri. Spartaco stesso guardava, con occhio pieno di speranza, a quella terra classica di schiavi arditi ed insofferenti. E, mentre un lievito di future rivolte fermentava, pur dissimulato, all’interno, tutti i mari intorno erano in mano de’ pirati, giunti allo stadio della loro maggiore potenza. L’onta recente di M. Antonio Cretico era ancora invendicata e, da soli quattro anni, Verre avea lasciata la Sicilia, quando i Romani dovettero pensare a rimettere insieme una flotta, che non aveano più, e dovettero conferire poteri illimitati al loro più famoso comandante per venire a capo dell’impresa. In tali condizioni, solo una mano ferma e virile potea impedire uno scoppio immediato e il riardere di una guerra servile. Spartaco, entrato in trattative con pirati di Cilicia, avea deliberato appunto di passare in Sicilia; e, se, secondo qualcuno, il passaggio fu impedito dalla malafede de’ pirati, che, presa la mercede, non tennero i patti[1042], non è men vero (ce lo dice un autore attendibile e non remoto da que’ fatti) che Verre sorvegliò ed assicurò i lidi italiani[1043]. Questa tradizione recisa e sicura, il proposito di Spartaco di volgersi alla Sicilia, donde gli dovettero venire incitamenti ed assicurazioni di un terreno favorevole, bastano già per mostrare la parzialità dell’accusa di Cicerone[1044]; ed, a chi considera le cose da questo punto di vista, il caso degli schiavi triocalini, prima condannati e poi liberati, quelli di Aristodemo, di Apollonio, di Leonte d’Imachara, di Apollonio di Panhormus, a noi neppure ben noti in tutte le loro particolarità, perdono d’importanza sopra tutto, se intendono a dimostrare che Verre non si occupò di tener sicura la Sicilia. La grazia accordata agli schiavi di Leonida, nel momento stesso dell’esecuzione della condanna, se, a Roma, in un giudizio pronunziato da un regolare tribunale contro un cittadino, era cosa affatto sconosciuta ed illegale; in provincia, tenuto conto della speciale posizione del pretore, dell’ordine non rigoroso de’ giudizî, può non destare sorpresa, ed, in linea di fatto, è suscettibile di spiegazioni ben diverse da quelle che congetturalmente ne dava Cicerone. E quanto ad Apollonio, se Cicerone mostrava di non saper concepire, per la sua posizione, ch’egli avesse mano nelle sommosse servili; quelli, cui è noto, per lungo ordine di esempî tutto lo sviluppo del _manutengolismo_ in Sicilia, potranno vedere, in quello, un caso del genere. [I pirati ed i provvedimenti per la flotta.] V’è appena bisogno di rilevare, di fronte a tutto il complesso de’ fatti anteriori e posteriori ed alla concorde tradizione[1045], che minaccia dovevano essere poi i pirati, per la Sicilia specialmente. Del resto basti dire che lo stesso Cicerone diceva della loro abitudine di svernare a Melitta[1046], e de’ Liparensi, ch’erano divenuti verso di essi veri tributarî[1047]: ed alludeva, con insistenza, alla pericolose avventure del suo viaggio in Sicilia e del suo ritorno[1048]. Quanto più grave era il compito, tanto più erano inadeguati i mezzi, di cui poteva disporre un governatore della Sicilia. Una marineria stabile, regolare e bene ordinata, mancava prima dell’impero, e bisognava sopperire col contingente fornito dalle varie città. Cicerone probabilmente travisa e contorce le varie misure prese da Verre in ordine alla flotta; ma forse non è ardito vedere, attraverso quelle stesse notizie che Cicerone ci dà, frammentariamente ed accompagnate da malevoli interpretazioni, un tentativo di riordinamento della squadra locale. Quali che si fossero le vere intenzioni, che animarono Verre nella sua condotta verso Messana e verso Tauromenium, l’esenzione fatta alla prima di contribuire una nave (se esenzione fu e non sostituzione), non potè indebolire la flotta, dal momento che fu chiamata a concorrervi la seconda, la quale, a dir di Cicerone, non vi era obbligata. Le altre somme, percepite dalla città o da’ privati, per esenzioni dal servizio militare, corrispondono ad una consuetudine sempre più invalsa in quei tempi, nelle leve fatte anche in Italia[1049], e davano modo di colmare quei vuoti con mercenarî e proletarî. Tanto più ciò può intendersi per la Sicilia, dove non è punto nuovo questo scambio di vicarî[1050], e, secondo l’interpretazione di uno scrittore, la decima avrebbe avuto origine come corrispettivo di questa esenzione dal servizio militare[1051]; e s’intende meglio, trattandosi della flotta, che soleva essere armata degli elementi più scadenti della popolazione. La provvisione avocata al comando dell’armata delle paghe e de’ viveri, forniti prima a cura de’ varî comuni, se può aver fornito, come Cicerone vuole, argomento di ruberie, può anche meglio considerarsi come un passo nel riorganamento, sempre meglio congegnato e coerente, della forza navale; e diventava una necessità per l’alimentazione delle ciurme, quando, mobilizzata la flottiglia e costretta a mutar spesso di posto, occorreva provvedere a tutto con una regolarità, di cui forse non sempre davano affidamento le singole città ed i navarchi. Il conferimento, poi, del comando a Cleomene non ha bisogno di essere spiegato esclusivamente con un intrigo di gineceo. Anzi tutto, non si trattava di un fatto assoluto. Cicerone stesso ci fa altra volta vedere la squadra sotto il comando de’ legati P. Cesezio e Q. Tadio[1052]. In questa continua guerriglia de’ pirati, si dovea ben sentire quel bisogno che appresso raccomandò greci navigatori, anche liberti, in grazia della loro esperienza, per l’ufficio di ammiragli. I copiosi esempî che appresso ne abbiamo[1053], andando verso l’impero, ci dispensano dal ricorrere proprio alla sottile e personale spiegazione messa innanzi da Cicerone. Che se la flotta venne fugata e distrutta, non occorre dimenticare la forza de’ pirati ed altre memorande sconfitte da essi date a flotte maggiori. La spiegazione che Cicerone ne dà, può essere accolta o rigettata; ma, in punto di fatto, egli stesso dice che i navarchi ammisero che le navi fossero bene armate e fornite. Per quelli, che doveano giudicar Verre, ciò risultava da un documento[1054]. Parimenti il diverso trattamento usato a Cleomene ed a’ navarchi, trova la sua spiegazione nel fatto che Cleomene era approdato a Pachyno per rinforzare con il presidio di terra l’equipaggio: gli altri invece avrebbero lasciato la flotta in mano de’ pirati[1055]. Come si vede, anche per tempi posteriori, queste milizie locali non erano veramente permanenti e si richiamavano, o si congedavano, secondo il bisogno[1056]. Non era dunque da farsi un così gran carico a Verre de’ congedi accordati, nè v’era da sorprendersi di questo bisogno sentito da Cleomene di imbarcare altri soldati nell’imminenza della zuffa. Potea, dunque, ben avvenire che egli apparisse in qualche maniera giustificato e che la responsabilità dell’abbandono e dell’incendio della flotta si facesse gravare su i navarchi, che non aveano opposta resistenza, ed anzi aveano abbandonato le navi. Ad accrescere la difficoltà della situazione, in quei momenti, in Sicilia, conferì anche, e molto, il contegno di Mitradate, il quale, a combattere Roma, si giovava de’ pirati, de’ Sertoriani, di tutto. Questo scambio di rapporti tra Mitradate e Sertorio dovea richiamare tutta l’attenzione di Verre[1057], che, stando a mezza strada, dovea avere il debito e l’interesse di scoprirli ed intercettarli; tanto più che ciò dava occasione al vecchio sillano di fare le ultime vendette della sua parte. Ed a questo, probabilmente, fu dovuta quella condotta, anche più che severa, crudele talvolta, contro cittadini romani, di cui Cicerone seppe avvalersi assai bene per rinfocolare gli odî e rendere più esosa ancora la causa di Verre. [L’opera di Verre.] Una tale causa, a bene intenderla e giudicarla, avea bisogno di una serenità d’indagine, che era illusione attendersi, tenuto conto, specialmente, del suo carattere politico. Io non ho inteso, nè preteso fare la difesa di Verre. La storia non accusa, nè difende: interpreta e narra; ed io ho voluto precisamente fare uno studio storico, che permettesse di meglio valutare, da un lato le _Verrine_, considerate come documenti storici, e dall’altro, il vero rapporto di Verre con gli uomini e le condizioni del suo tempo. La spiegazione di molti fatti occorre chiederla alle condizioni, in cui la Sicilia e tutto il dominio romano si trovavano, ed a’ fatti, che precedettero e seguirono il governo di Verre. Di più altre cose la spiegazione ci vien data dallo studio delle istituzioni, guardate specialmente nel periodo imperiale. V’era nell’amministrazione delle province, ne’ poteri e nelle funzioni del governatore, in tutto insomma, una evoluzione, che appresso si manifesta in forma più distinta e che, in questi ultimi tempi della repubblica, si mostra come un deviamento dal carattere formale della legge e delle istituzioni ed, insieme, come un adattamento di esse allo stato reale delle cose. Considerata nel suo complesso, l’amministrazione di Verre, malgrado tutte le sue colpe, e al disopra di tutti i suoi non confessabili interessi, sembrava dominata da un criterio direttivo: quello di affermare in tutta la sua estensione, e in forma assoluta, il dominio romano, di accentrare nel governatore tutta la direzione della vita amministrativa e giuridica della provincia. A questo e all’evidenza stessa de’ fatti, consapevolmente o no, si riferivano Verre ed Ortensio nella difesa, che Cicerone presupponeva ed anticipava; e questo significato avea l’appello alla comune consuetudine, agli abusi anche, così frequentemente commessi e tollerati. [La causa dal punto di vista politico.] Questa, a dire di Cicerone, era una _improba defensio_, e, dal punto di vista morale specialmente, egli avea ragione. Ma in questo proprio stava il punto più interessante della causa, che era, sopra tutto, una causa politica. Tutte le osservazioni d’indole giuridica e le rettificazioni de’ fatti potevano trovar posto nella difesa, e non erano trascurate; ma la difesa vera consisteva in questo appello alla solidarietà della classe, e Verre non ne faceva proprio mistero. Egli si rivolgeva a quell’aristocrazia, cui Silla avea voluto ridonare il monopolio del potere; che avea chiesta ed ottenuta la sua vittoria alle proscrizioni ed a’ supplizî, e, avendo diguazzato nella rapina e nel sangue, non sentiva il bisogno e non poteva nemmeno accampare il diritto di aver degli scrupoli. Lo diceva proprio l’accusatore di Verre[1058]: «le loro case e le loro ville eran piene delle statue e de’ dipinti di questi, che, per un eufemismo, Cicerone chiamava ancora «socii.» In quelle ville era racchiuso il danaro, di cui tanti aveano bisogno, tutto quanto di meglio potea offrire il dominio romano. Piangevano tutte le provincie, si dolevano tutti i popoli, chiedevan ragione i regni delle cupidigie e delle offese romane; non v’era luogo, per ogni terra che circondasse l’Oceano, nè così lontano, nè così riposto, ove, ora, la nequizia e la corruzione romana non fossero penetrate. Il popolo romano omai era impotente a resistere, non alle armi, non alla forza, non alle guerre de’ popoli stranieri, ma al loro cordoglio, alle loro lacrime, a’ loro gridi di dolore[1059].» E pure, in quelle condizioni politiche, era forza che così fosse. Tutte le colpe, di ogni genere, apposte a Verre, ricompariscono, come un fatto immancabile, in tutta la storia del regime coloniale. Allora, poi, col fasto insolente, che ogni giorno più cresceva e più diveniva generale, col decadere dell’agricoltura, col crescere della concorrenza, l’aristocrazia romana dovea trovare nell’espilazione delle provincie una condizione necessaria di vita; e là si fondevano, mirabilmente, come sempre, il suo interesse politico ed il suo interesse economico, di cui il monopolio del potere era la più schietta manifestazione. Verre, ostinato ed intransigente sillano, affermava per suo conto questo, fors’anche con affettazione di cinismo, e chiedeva alla sua parte che anch’essa, cinicamente, l’affermasse da’ rostri, dal tribunale, per tutto. Quando Verre allegava a sua discolpa la corruzione generale, anche più che fare l’appello ad un senso di giustizia distribuitiva, faceva appello allo spirito di solidarietà, ed a quello di conservazione della sua classe. Ma la memoria del terribile dittatore, dell’uomo, che col suo nome avea fatto tremare i suoi nemici, cominciava ad allontanarsi, e l’opera sua, in gran parte di carattere personale, si andava sgretolando sotto le esigenze del tempo, nell’infiacchirsi della sua parte e nel risorgere delle tendenze democratiche. Molta parte dell’aristocrazia rinunziava alla sua intransigenza, per meglio resistere con graduali concessioni al nuovo impeto della parte popolare e, con la conciliazione, tener lontana ancora l’ora della sua fine. Mutava la sua orientazione politica, e l’appello di Verre dovea perdersi come una voce inascoltata: Verre stesso diveniva quel che di peggio può avere, in certi momenti, un partito reazionario: un troppo zelante partigiano, un incomodo amico. Alcuni anni innanzi, l’interesse di classe avrebbe potuto suggerire il salvataggio di Verre; e l’oligarchia romana si sarebbe condotta verso di lui, come, non di rado nella storia, come, anche oggi, la classe dominante si conduce rispetto ad uomini, che assai più di Verre hanno offesa la legge e la morale, ma che si credono ancora utili; tanto più utili anzi, quanto più sono impulsivi ed inaccessibili ad ogni scrupolo. Lo spirito di conservazione della classe esigeva, in quel momento, piuttosto il sacrifizio che il salvataggio di Verre. E così fu fatto. La _lex Aurellia iudiciaria_, tenuta in sospeso mentre Verre sembrava rinunciasse a difendersi, e promulgata, quando parve che risorgessero il suo ardire e le sue speranze[1060]; fu l’indizio di questo momento politico, e, per Verre, il pronostico della sua condanna. Egli, nella pendenza del giudizio, rimase ancora incerto, cercando, forse, ancora un’estrema via di scampo. Mandò un messaggio a Messana, chiedendo che fosse dichiarato Heio degno d’ignominia per la parte presa contro di lui[1061]. Intanto restava ancora a Roma. Dopo che il primo stadio della causa fu chiuso, fu visto in casa di L. Sisenna stare a contemplare con occhi appassionati alcuni arredi di argento, oggetto egli stesso di curiosità per tutti gli altri[1062]. [La fine.] Ma a misura che il secondo periodo della causa stava per avvicinarsi, vide la necessità di lasciar Roma, e partì in volontario esilio. Le speranze erano venute meno in lui; e, presente o assente, la sua vita pubblica era chiusa per sempre. Fu, in qualche parte, disdegno che l’indusse a partire, senz’attendere la sentenza? Era sopratutto il suo interesse che gli dettava di far così. Troncando col suo volontario esilio quel giudizio di carattere penale, tra lui ed i Siciliani non vi sarebbe stato più luogo che ad una causa civile, in cui molto più difficile riesciva il provare i profitti che gli si attribuivano, e in cui, oltre a tutte le armi che le sottigliezze giuridiche potevano mettergli in mano, gli doveano giovare anche, specialmente in quanto all’acquisto delle opere d’arte, que’ documenti, di cui si tentava impugnare l’efficacia nel giudizio di concussione. Con questo anche si può spiegare che la condanna di Verre fu ridotta a tre milioni, soltanto, di sesterzî[1063]. Se ne andò, così, Verre in esilio con le sue ricchezze, con le statue, che avea saputo mettere in salvo[1064], co’ suoi vasi corinzî; ed in quegli ozî invecchiò, non rimpiangendo forse il prestigio del comando e l’agitata vita pubblica e le speranze di maggiori onori. A quelle sue collezioni artistiche teneva tanto, che il non essersene voluto separare, gli avrebbe, secondo la tradizione, procurata la morte da parte di M. Antonio, il _corinthiarius_, che desiderava appunto i suoi vasi corinzî[1065], e non trovò miglior mezzo, per averli, che comprendere il proprietario nelle liste di proscrizione triumvirali. E, se non è inventato per ispirito di parte, e ripetuto per comodità di rettorica[1066], seppe morire virilmente. Prima di morire avea anche saputo, e non senza intima soddisfazione, la morte del suo accusatore[1067], il quale avea resa più vergognosa e più amara la sua fuga scrivendo quelle orazioni che non avea potuto tutte pronunziare. Tutte cose da inserire negl’inventarî della provvidenza divina! Ma Lattanzio dice[1068] che gli dèi del tempo erano inetti a vendicarsi, perfino delle ruberie e de’ sacrilegî; ed il suo dio, evidentemente, non guardava ancora a questi suoi regni d’occidente! ERRATA CORRIGE Pag. 37, lin. 4, confidare affidare » 43, » 3, primi prima » 53, » 15, procedere procedimento » 54, » 25, mezza mezzo » 55, » 30, era eran » 56, » 4, contamniati contaminati » 57 e _passim_: Agrigento Agrigentum » 58 e _passim_: Siracusa, Siracusae Syracusae » 64 e _passim_: Lilibeo, Lilybeum Lilybaeum » 80, lin. 11, lece fece » 91, » 9, spegate spiegate » 96, » 4, nell’uffizio dell’uffizio » 103, » 8, l’anno appresso due anni appresso (73 a. C.) (72 a. C.) » 104, » 4, avuta avuto » 108 e _passim_: Messina Messana » 109 e _passim_: Agyrrium Agyrium » 165, lin. 19, presa preso INDICE I. LVXVRIA INCVBVIT VICTVMQUE VLCISCITVR ORBEM Le conquiste oltremarine di Roma Pag. 3 La nuova vita romana » 6 La rivoluzione economica » 9 I cavalieri » 11 Il nuovo costume » 13 Disparità delle fortune » 14 La vita politica » 16 La corruzione elettorale e la dilapidazione delle provincie » 17 II. PRAEDIA POPULI ROMANI La formazione delle provincie » 21 Il diritto di guerra » 22 Le conseguenze della conquista » 24 La _lex provinciae_ » 25 Sistema d’imposizione » 27 Le provincie e i magistrati » 29 Il governatore della provincia e i suoi dipendenti » 31 I pubblicani » 33 I _negotiatores_ » 36 La _praefectura_ e la _legatio libera_ » 37 III. PATRONA SOCIORUM Roma e gli stranieri » ivi L’origine delle _leges de repetundis_. La _lex Calpurnia_ » 41 La _lex Junia_ » 43 La _lex Acilia_ » 44 Le _leges Serviliae_ » 50 La _lex Cornelia de repetundis_ » 52 La pena » 53 Le vicende del potere giurisdizionale e de’ giudizî » 55 IV. INSULA CERERIS La conquista e l’ordinamento della Sicilia » 57 Le città di Sicilia » 60 La condizione delle città » 62 Città federate ed indipendenti » ivi Città decumane » 63 Città censorie » 64 Altri tributi » 65 Ordinamento locale » 66 Sistemi d’elezione » 67 Le _leges Rupiliae_ » 68 La _lex Hieronica_ » 70 I poteri del governatore » 74 Le condizioni economiche della Sicilia » 76 V. HOMO AMENS AC PERDITUS? Le Verrine » 79 C. Verre e la sua famiglia » 82 La questura di Verre » 84 La legazione e la proquestura di Verre » 87 Il viaggio » 88 L’avventura di Lampsaco » 89 Il brigantino di Mileto » 90 Verre tutore » 91 Verre e Dolabella in giudizio » 92 La pretura di Verre » 94 L’eredità di P. Annio » 96 L’eredità di P. Trebonio » ivi L’eredità di Sulpicio Olympo » 97 Verre e la _lex Voconia_ » ivi Verre e la _lex Cornelia de proscriptis_ » 99 Verre e il diritto successorio de’ patroni » 100 La giustizia di Verre » 101 Chelidone » 102 La manutenzione de’ pubblici edifici » 103 La _sortitio iuniana_ » 106 VI. QUASI IN PRAEDAM Verre e i suoi accoliti in Sicilia » 107 L’eredità di Apollodoro Laphirone » 108 L’eredità di Sosippo e Philocrate » 109 I metodi giudiziari di Verre » ivi L’eredità di Eraclio Siracusano » 110 L’eredità di Epicrate » 112 La condanna di Sopatro di Halycia » 113 Il caso di Stenio da Thermae » 114 L’ingerenza nelle elezioni de’ magistrati locali » 116 I sacerdozî » 117 I censori » ivi Le statue » 118 Le esportazioni abusive » 119 L’amministrazione frumentaria. — Verre e la _lex Hieronica_ » 120 Le angherie degli agricoltori » 122 Le città e il riscatto delle decime » 124 Le compere di frumento » 127 La caccia alle opere d’arte » 129 I sacrilegî » 133 Le cospirazioni degli schiavi » 136 La flotta e i pirati » 137 Il supplizio de’ navarchi » 139 I ricatti e le uccisioni » 140 Lo stato della Sicilia sotto Verre » ivi Le gazzarre del pretore e della coorte » 141 L’addensarsi della tempesta e gli scongiuri » 142 VII. AD ARAM LEGUM Il carattere dell’accusa e l’ambiente » 144 Cicerone » 146 I primi maneggi di Verre » 149 La proposizione dell’accusa. Cicerone e Q. Cecilio » 150 La _Divinatio_ » 152 L’inquisizione di Cicerone » 155 Il ritorno di Cicerone » 161 La candidatura di Cicerone e i preliminari della causa » 162 I giudici della causa » 164 Le elezioni » 168 Alla vigilia del giudizio » 169 La causa » 170 Ortensio e Cicerone » 172 Gli ultimi maneggi di Verre » 175 Il sistema d’accusa di Cicerone. — L’orazione » 176 L’oggetto dell’imputazione » 180 Il danno e il risarcimento » 182 L’esame delle prove e de’ testimoni » 183 Il contegno di Ortensio e di Verre » 192 Gl’incidenti del giudizio » ivi Il primo stadio del giudizio » 194 La difesa di Verre? » ivi La natura delle accuse » 195 La questura e la proquestura » ivi La pretura » 196 Il valore delle prove » ivi L’ordinamento della Sicilia e il _ius edicendi_ » 199 Il controllo de’ giudizî » 200 La giurisdizione » 201 La creazione de’ magistrati locali » 205 Le statue » ivi Il conferimento de’ sacerdozî » 206 Le esportazioni » 208 Verre e la _lex Hieronica_ » ivi Gli elementi di fatto dell’accusa » 214 Le decime di Leontini » 215 Il _frumentum imperatum_ e l’_aestimatum_ » 216 La ruina dell’agricoltura siciliana » 219 Le opere d’arte » 222 Verre e i suoi acoliti » 224 Le prevaricazioni » 225 Le benemerenze di Verre » ivi La sicurezza in Sicilia » 227 I pirati ed i provvedimenti per la flotta » 228 L’opera di Verre » 231 La causa dal punto di vista politico » 232 La fine » 234 NOTE: [1] HEROD. V, 49-50, ed. Stein. [2] _Fragm. hist. graec._, ed. Didot, II, 131, 88. [3] Rhein. Mus., 1886. E. MEYER. _Die Ueberlieferung über die lykurgische Verfassung_, 585 seg. [4] POLYB. _Hist._, I, 1, 5, ed. Büttner-Wobst. [5] VI, 57. [6] MOMMSEN _Röm. Gesch._ Berlin, 1888, I^8, 781. [7] JUV. _Sat._, II, 6, 295, ed. Weidner. [8] OVID. _A. A._, III, 113-4, ed. Riese. [9] BOUCHÉ-LECLERCQ. _Manuel des institutions romaines._ Paris, 1886, pp. 60, 62, 82. [10] M. TERENTI VARRONIS. _Saturarum Menippearum reliquiae._ Leipz., 1865, ed. Riese, p. 215. [11] MOMMSEN-BLACAS. _Hist. de la monnaie romaine._ Paris, 1870, II, 28. [12] LENORMANT ET DE WITTE. _Élite des monuments ceramogr._ Intr., pp. XLII, XLIII, XLV. BELOT. _De la révolution économique et monétaire qui eut lieu à Rome du III siècle._ Paris, 1886, pag. 113. [13] BELOT. _La révolut. économ._, p. 115. [14] BELOT E. _Histoire des chévaliers Romains_. Paris, 1873, II, p. 4 e seg. [15] BELOT E. Loc. cit., p. 146. [16] DELOUME A. _Les manieurs d’argent à Rome_. Paris, 1891, p. 29. [17] Rhein. Mus. 1886. E. MEYER, l. c., p. 586. [18] _Satur._ ed. Lachmann, p. 118, v. 1067. [19] SAALFELD u. GUNTHER. _Der Hellenismus in Latium._ Wolfenbüttel, 1888, pp. 2, 38 etc. [20] HORAT. _Carm._ II, 16, ed. Keller-Holder. [21] VARRON. _Sat. Menipp._, ed. Riese, Τάφη Μενίππου, p. 225. [22] PLIN. _N. H._, XXXVI, 2, 4-6, ed. Ianus. [23] VARRON. _Sat. Menipp._, p. 103, II, 2. [24] MARQUARDT J. _Das Privatleben der Römer._ Leipzig, 1886, pag. 221 e seg. [25] JORDAN H. _Topographie der Stadt Rom in Alterthum._ Berlin, 1878, I Bd. I Th. p. 297. [26] FRIEDLÄNDER. _Darstellungen aus der Sittengeschichte Roms._ Leipzig, 1881, I, p. 3. [27] _Sat. Menip._, p. 141, VII, 6. [28] Ed. Lachmann, p. 90, v. 834. [29] PLIN. _N. H._, XXXIII, 134. [30] IHNE W. _Röm. Gesch._ Leipzig, 1870, II, p. 395. [31] _Comic. Roman. fragm._, ed. O. Ribbeck. Lipsiae, 1878, p. 358, v. 644. [32] _Maximum aes alienum amplissimorum virorum_ CIC. _ad fam._ 1, 6; 7, 3. — DRUMANN. _Gesch. Rom’s._ Königsberg, 1844, III, 186. [33] DUREAU DE LA MALLE. _Économ. polit. des Romains._ Paris, 1840, II, 219 e seg.; 234 e seg. [34] _Sat. Menip._, p. 217, XVII, 16. [35] Loc. cit. p. 110, XXIV, 6, 17. [36] Loc. cit. p. 211, V, 3. [37] Loc. cit. p. 216, VI, 13. [38] NEUMANN. _Geschichte Roms während des Verfalles der Republik._ Breslau, 1881, I Bd. 26-7. [39] BELOCH J. _Die Bevölkerung der Griechisch-Römischen Welt._ Leipzig, 1886, I, p. 393. [40] NEUMANN. Op. cit. I, 87. [41] _Fragm. Comic. Roman._, ed. Ribbeck, pag. 27. [42] _Satir. Menip._, pp. 100 e 216. [43] LABATUT EDM. _La corruption électorale chez les Romains._ Paris, 1876, p. 89 e seg.; GENTILE I. _Le elezioni e il broglio nella Repubblica romana._ Milano, 1879, p. 249 e seg. [44] WILLEMS. _Les élections municipales à Pompei._ Paris, 1887, p. 26 e segg. [45] _Das Kapital._ Hamburg, 1890, I^4, pp. 95-6. [46] LABATUT. Op. cit. pp. 107, 111, 181 etc. [47] _Sat._, ed. Lachmann, p. 111, v. 1020 _b._ [48] LIV. XXI, 63, 4; Cic. _A. S. in Verr._, V, 18, 45; L. 3, D. 50, 5 _de vacat. et excusat. munerum._ MOMMSEN. _St. R._ I^3, 497; III, 898 e seg. [49] C. SUET. TRANQ. _Div. Iul. 54_, ed. Roth. [50] _Orat. Rom. fragm._, ed. H. Meyer. Turici, 1842, p. 281; AUL. GELL. 15, 12, ed. Hertz. [51] VALER. MAX. IV, 3, 11, ed. Haase. [52] C. CRISP. SALLUST. _Bell. Iug._ 35, 10 ed. Dietsch. [53] NITZSCH. _Gesch. der Röm. Republik._ Leipzig, 1884, I, p. 188; II, p. 20. [54] CIC. _Pro Font._ 19, ed. Klotz. ARNOLD W. T. _The roman system of provincial administration to the accession of Costantin the Great._ London, 1879, p. 8. [55] ARISTOT. _Polit_, I, 2, 20, ed. Susemihl. [56] CIC. _in Verr. A. S._, II, 3, 7. [57] GAL. II, 7. [58] _Lex. agr. a. 643 C. I. L._, I, 175, n. 200; BRUNS^5. _Fontes iuris antiqui_, p. 72. [59] LIV. XXXXV, 18, ed. Weissenborn. [60] LIV. XXXXV, 18. [61] LIV. XXX, 16. [62] LIV. XXXXV, 18. [63] ARNOLD. Op. cit. 180-7. — KUHN. _Die stadtische und bürgerliche Verfassung des Römisches Reichs._ Leipzig, 1865, II, 1-80. [64] LIV. XXXI, 31, 8, _... captam iisdem armis et liberatam urbem reddidimus_; PLUT. _Marc._ 23, ed. Sintenis. [65] BERGFELD. _Die Organisation der röm. Provinzen._ Neustrelitz, 1846, p. 16 e seg.; POLYB. 22, 7. [66] ARNOLD. Op. cit. 201 e seg.; MARQUARDT. _Staatsverwaltung_, I^2, 269 e seg.; PERSON. _Essai sur l’administration des provinces romaines sous la République._ Paris, 1878, pp. 89-113; KUHN. Op. cit. 1-41; MARX. _Essai sur les pouvoirs du gouverneur de province._ Paris, 1880, p. 20 e seg.; D’Hughes. Une province romaine sous la République. Paris, 1876, p. 15-50. [67] CIC. _in Verr. A. S._, II, 66, 160; _De prov. cons._ 3, 6; STRAB. IV, 1, 5: _C. I. G._, 2222, vv. 16-7. [68] CIC. _in Verr. A. S._, III, 73; 77, 180; IV, 9, 20, 21; 34, 76; _C. I. L._, I. _Plebisc. de Thermes_, 52-6; STRAB. VIII, 5, 5, ed. Müller-Dubner; KUHN. Op. cit. 30-1. [69] MARQUARDT. _StVerw._ I^2, 92. [70] ARNOLD. Op. cit. p. 215. [71] ARNOLD. Op. cit. p. 188; MARQUARDT. _StVerv._ II^2, 201-2. [72] MARQUARDT. _StVerv._, II^2, 192-3; PLIN. _N. H._, XXI, 77; XXXIII, 51. [73] CIC. _in Verr. A. S._, III, 70, 163; III, 6, 13; III, 73, 170; PRO FLACC. 12, 14; LIV. XXI, 19; XXXII, 27; XXXVI, 4; XLIII, 8; PERSON. OP. CIT. 161-9. [74] LIV. XXIII, 21, 5; 32, 9; 41, 6; XXXVI, 2, 13; XLII, 31, 8. [75] LIV. XL, 51, 8; VELL. _Pat._, II, 6, 3, ed. Haase. [76] LIV. _epit._ 20. [77] LIV. XXXII, 27; MOMMSEN. _Staatsrecht_, II^3, 198. [78] LABOULAYE ED. _Essai sur les lois criminelles des Romains._ Paris, 1845, XXII-XXIII. [79] RUDORFF. _De iurisdictione edictum. Edicti perpetui quae reliqua sunt._ Lipsiae, 1869, p. 6-7; CIC. _in Verr. A. S._, I. 46; ad Att. 6, 1, 15; _ad fam._ III, 8, 4, 5; ASCON. in Cornel. p. 58, 15 Orelli, DIO. CASS. 36, 40, (23) ed. Dindorf. [80] HERMES. IV, 120 e seg. [81] NEUMANN. _Gesch. Rom’s._ I, 62. [82] Op. cit. pp. 62-70. [83] L. 1, § 1, D. 39, 4 _de publicanis_, ed. Mommsen. [84] DELOUME. _Les manieurs d’argent_, pp. 253-61. [85] XXXV, 18. [86] DIOD. SIC. V, 26, 3, 4, ed. Müller; CAES. _Bel. Gal._, III, 1, 2. [87] _Ad. Quint. fratr._, I, 1, ed. Wesenberg. [88] DELOUME. Op. cit. p. 403 e seg.; BOISSIER. _Cicéron et ses amis._ Paris, 1865, pp. 65-6. [89] _Ad. Quint._ fr., I, 1, 13. [90] CIC. _Pro Planc._, 13, 33. [91] _Le Correspondant 1874._ A. NISARD. _Un gouverneur de province au temps de Cicéron_, p. 752 e seg. [92] _Ad. Quint. fr._, I, 1, 11. [93] DELOUME. Op. cit. pp. 95, 176. [94] CIC. _Pro. C. Rab. Post._, 2, 4. [95] CIC. _in Verr. A. S._, II, 29. [96] CIC. _ad Att._, VI, 1, 5, 6. [97] CIC. _ad Att._, VI, 1, 6. [98] CIC. _pro Flac._, 84, 86; _de leg. agr._, I, 3, 8; ARNOLD. Op. cit., p. 75. [99] _Fest. s. v. Reciperatio_, 274 Muller. [100] DIONYS. VI, 95, ed. Jacoby. [101] BETHMANN-HOLLWEG. _Der röm. Civilprocess._ Bonn, 1864, I, 53, 67-8. [102] VOIGT. _Das jus naturale aequum et bonum und jus gentium der Römer._ Leipzig, 1858, II, 218. [103] Op. cit. II, 219-20. [104] LIV. XLIII, 2. [105] WILLEMS. _Le sénat de la république romaine._ Paris, 1888, II, 275-6. [106] VOIGT. Op. cit. II, 193. [107] ZUMPT A. W. _Das Criminalrecht der röm. Republik._ Berlin, 1868, II, 1, p. 16. [108] BELOT. _De la revolut. économ._ p. 26; BETHMANN-HOLLWEG. Op. cit., I, 69. [109] DIONYS. VI, 95. [110] VOIGT. Op. cit., II, 196. [111] LIV. XLIII, 8; ZUMPT C. T. _De legibus iudiciisque repetundarum in Republica Romana._ Berlin, 1895, p. 9; ZUMPT A. W. Op. cit., II, 1, p. 20. [112] CIC. _Brut._ 27, 106; _De off._, II, 21, 75. [113] REIN. _Das Criminalrecht der Römer._ Leipzig, 1844, p. 614. [114] MOMMSEN. _Röm. St R._, II^3, 583. [115] MOMMSEN. _St. R._, II^3, 223-4; LABOULAYE. _Essai sur les lois criminelles des Romains._ Paris, 1845, p. 198. [116] BRUNS^5. _Fontes iuris Romani antiqui_, ed. Mommsen. _Lex Acilia repet. vs._ 23 e 74. [117] _Annali dell’Istituto di corrispondenza archeologica_ (1849), vol. 21, p. 9. [118] _C. I. L._, I, p. 54. [119] REIN. Op. cit., 615-6. [120] ZUMPT C. T. _De legibus iudiciisque_ etc. p. 15; REIN. Op. cit., 646 e seg.; ZUMPT _Der Criminalprocess der röm. Republik._ Leipzig, 1871, p. 468 e seg. [121] VAL. MAX. (V, 8, 3) narra del caso di D. Iunio Silano, ma questi non venne sottoposto all’ordinario procedimento della _quaestio_, bensì, per volere concorde anche degli accusatori, deferito al giudicio del padre, che di ciò avea fatta domanda, e riconosciuto da lui colpevole, finì suicida (ZUMPT _C. R._, II, (1), 21). Lentulo è detto da VAL. MAX. (VI, 9, 10) condannato secondo la lex Caecilia, ma deve intendersi Calpurnia. _C. I. L._, p. 54; ZUMPT _Cr. Pr._, 468; _Cr. R._, II, 1, 25; REIN. Op. cit. 646. [122] _App. B. Civ._, I, 22, ed. Mendelsohn; CIC. _in Verr. A. S._, 1, 13; VELLEIUS. II, 6, 3; 13, 2; 32, 3; FLOR. III, 17, ed. Salmasii; PLIN. _N. H._, XXXIII, 34; TACIT. _Ann._, XII, 60, ed. Nipperdey; BELOT. _Hist. des chev._, II, 233 e seg. [123] _C. I. L._, I, p. 54. [124] CIC. _in Verr. A._ I, 17, 51, 52. [125] KARLOWA. _Röm. Rechtsgesch._ Leipzig, 1885, I, 432 e seg. [126] _Cr. R._, II, 1. [127] _C. I. L._, I, p. 64. [128] _Lex Ac. rep_. v. 2. [129] _C. I. L._, I, p. 64. [130] _Lex Acil. rep._, v. 59. [131] _Lex Ac. rep._, v. 58. [132] _Lex Ac. rep._., v. 57. [133] ZUMPT _C. R._, II, (1), 159. [134] ZUMPT _C. R._, II, (1), 160. [135] _Lex Ac. rep._, v. 57. [136] _Lex Ac. rep._, v. 62 e seg. [137] ORELLI, 569. [138] _Lex Ac. rep._, v. 12, 16. [139] _C. I. L._, I, p. 65; MOMMSEN. _St. R._, II^3, p. 191, A. I. [140] _Lex Ac. rep._, v. 13, 16, 17. [141] Loc. cit., v. 18. [142] _Lex Ac. rep._, 1, 20. [143] _Lex Ac. rep._, v. 22-23. Si trovano di nuovo qui eccepiti tutti quei funzionari, che innanzi erano stati eccepiti come incapaci di entrare tra i quattrocento cinquanta, il che ha dato luogo a dissensi d’interpretazioni e di supplementi, in cui non entro, trattandosi di una discussione speciale che non riguarda questo lavoro. Cfr. ZUMPT _C. R._, II, (1), 127 e seg. [144] _Lex Ac. rep._, v. 25-6. [145] Loc. cit. v. 30-1. [146] Loc. cit. v. 30-3; VOIGT. Op. cit. IV, 385. [147] _Lex Ac. rep_., v. 36-56. [148] Loc. cit. v. 56. [149] Loc. cit. v. 76-79. [150] _C. I. L._, I, p. 56. [151] ZUMPT _C. R._, II, (1), 187-8. [152] IUL. OBSEQU. _prodig. lib._ c. 101 (41) ed. Jahn; CASSIOD. _Chron. s. a._ 648, ed. Mommsen. [153] TACIT. _Ann._, XII, 60; CIC. _de inv._, I, 49; _Brut._, 44, 164. [154] LABOULAYE. Op. cit. 231 e seg.; ZUMPT _C. R._, II, (1), 192 e seg.; GEIB. _Gesch. des röm. Criminalprocess._ Leipzig, 1842, p. 198. [155] CIC. _Brut._, 62, 224. [156] ZUMPT _C. R._, II, (1), 192. [157] CIC. _Pro Rab. Post._, 4, 8. [158] CIC. _in Verr. A. S._, I, 9, 26. [159] CIC. _Pro Balb._, 24, 54. [160] CIC. _Brut_, 22, 86; Val. Max. VIII, 1, 11. [161] S. v. _res comperendinata_, p. 282, Müller. [162] CIC. _in Verr._, I, 9. [163] GEIB. Op. cit. p. 378. [164] _C. R._, II, (1), 359, 371. [165] CIC. _Pro C. Rab. Post._, 4, 8. [166] CIC. _in Verr. A. S._, II, 31, 77. [167] CIC. _in Verr. A. S._, IV, 5, 10. Dicet aliquis: Noli isto modo agere cum Verre, noli eius facta ad antiquae religionis rationem exquirere; concede ut impune emerit, modo ut bona ratione emerit, nihil pro potestate nihil et invito, nihil per iniuriam. [168] CIC. _in Verr. A. S._, I, 22; IV, 5. [169] CIC. _in Verr. A. S._, II, 21. [170] CIC. _in Verr. A. S._, II, 58, 142. [171] CIC. _in Verr. A. S._, III, 72, 168. [172] CIC. _in Verr. A. S._, IV, 4, 8. [173] V, 3. [174] _Ps. Asc._ p. 146, Orelli; REIN. Op. cit. 622. [175] Op. cit. 622; CIC. _in Verr. A. S._, II, 31, 76. [176] ZUMPT C. T. _De legibus et iudiciis_, etc. 41. [177] _v._, 23. [178] _Rhetoric. ad Herenn._, I, 11, 20, ed. C. L. Kayser. [179] _Zeitschr. der Sav. Stift. für R. G._, IX (XXII), _R. A._, p. 403; _C. I. L._, XII, 6038. [180] CIC. _Div. in Q. Caecil._, 5; A. S., I, 10. [181] ZUMPT C. T. _De legib. iudic._, etc. p. 40. [182] ZUMPT _C. R._, II, (1), 361. [183] CIC. _Div. in Q. Caecil._, 5. [184] CIC. ap. Ascon. in Cornel. p. 79, Orelli; ZUMPT _C. R._, II, (1), 259; ZUMPT C. T. _De legib._, p. 85. [185] ORELLI BAITER. _Onomasticon Tullianum_, Turici, 1838, _Index legum s. v. Aurellia iudiciaria_. [186] APPIAN. _B. C._, I, 35. [187] ZUMPT A. W. _Criminalprocess_, p. 469 e seg.; REIN. Op. cit. 646 e seg. [188] CIC. _Div._, 21; _A._, I, 13. [189] CIC. _in Verr._, _A._, I, 13. [190] CIC. _Pro Sest._, 64, 35; _in Vat._, 12, 29; _in Pison_, 37, 90. [191] ZUMPT _C. R._, II, (2), 294 e seg.; REIN. Op. cit. 623 e seg.; ZUMPT C. T. _De legib._, p. 60; LABOULAYE. Op. cit. p. 300. [192] LIV. _Epit._, 19; XXX, 44; POLYB. I, 61, 3. [193] ZONAR. VIII, 9 ed. Dindorf; PAIS. Alcune osservazioni sulla Storia e sull’amministrazione della Sicilia durante il dominio romano. Palermo, 1888, p. 58, 60 e seg. [194] LIV. XXV, 23-31. [195] LIV. XXVI, 40. [196] SIC. 2, 2. [197] LIV. _ep._, 20; SOLIN. 5, 1, ed. Mommsen; MOMMSEN. _St. R._, II^3, 1, 198. [198] SOLIN. l. c.; KLEIN. _Die Verwaltungsbeamten der Provinzen des Röm. Reichs bis auf. Diocletian._, Bonn, 1878, I, p. 11. [199] MOMMSEN. _Röm. Gesch._, I^8, 545. [200] KLEIN. Op. cit. p. 5. [201] BERGFELD. Op. cit. p. 9. [202] POLYB. VIII, 5; LIV. XXIV, 27 e seg., XXVII, 8, 16; KLEIN. Op. cit. pp. 5, 14, 16-7. [203] LIV. XXV, 40. [204] LIV. XXVI, 40. [205] LIV. XXVI, 21. [206] PAIS. Op. cit. pp. 63-4. [207] LIV. XVI, 40. [208] VALER. MAX. VI, 9, 8; SCHOL. GRONOV. ed. Orelli 391; CIC. _in Verr. A. S._, II, 13-16. [209] BELOCH. _Die Bevölkerung der Griech. Röm. Welt_, Leipz. 1886, p. 299; PAIS. Op. cit. pag. 7 sg.; Altrimenti KUHN. _Die städt. bürg. Verfassung des Röm. Reichs._ Leipz. 1864-5, II, p. 61. [210] XXIII, 4, Didot. [211] LIV. XXVI, 40. [212] Cic. in Verr. A. S., II, 53, 133; 55, 137. [213] Cic. in Verr. A. S., III, 6, 13. [214] Cic. in Verr., loc. cit. [215] Cic. in Verr. A. S., V, 22, 56; 51, 133. [216] PAIS. Op. cit. p. 26. [217] XXVI, 40. [218] PAIS. Loc. cit. [219] PAIS. Op. cit. pp. 27-64. [220] NITZSCH. _Die Gracchen._ Berlin, 1847, p. 56. [221] CIC. _in Verr. A. S._, V, 20, 51. [222] VOIGT. _Das jus nat. aequum et bonum und jus gentium der Römer_, II, 397, n. 456. [223] _A. S._, III, 70, 163; V, 21, 52. [224] VOIGT. Op. cit. II, p. 398, 9, n. 459; RUDORFF. _Schriften d. Röm. Feldmesser_, II, p. 315. [225] PERNICE. _Parerga_ in _Zeitschrift für Savigny-Stiftung, Röm. Abth._ V, p. 64. [226] CIC. _in Verr. A. S._, III, 6, 13. [227] DARESTE. _De forma et conditione Siciliae provinciae Romanae. Lutetiae_, 1850, p. 33. [228] CIC. _in Verr. A. S._, V, 21, 53. [229] CIC. _Divin. in Q. Caecil._, 3, 8; Cic. _in Verr. A. S._, I, 50, 130; III, 7, 18; MOMMSEN. _St. R._, II^3, 336-7. [230] VOIGT. Op. cit. l. c. [231] CIC. _in Verr. A. S._, III, 46, 110 e seg.; 49, 117 e seg. [232] CIC. _in Verr. A. S._, II, 53, 131; 56, 139. [233] CIC. _in Verr. A. S._, II, 70, 169; III, 71, 167; DARESTE, op. cit. 42. [234] CIC. _in Verr. A. S._, II, 71, 171, 75, 185. [235] CIC. _in Verr. A. S._, III, 71, 167, ed. Zumpt, p. 589. [236] DARESTE. Op. cit. p. 43. [237] CIC. _in Verr. A. S._, II, 49, 122; 67, 161; III, 45, 108; 73, 170; IV, 8, 17; 34, 76; V, 8, 21; 17, 44. [238] Senatus Thermitanorum CIC. _in Verr. A. S._, II, 36, 88, Agrigentinorum, II, 50, 123; Senatus Agyrinensis, III; 31, 73; Amestratinus, III, 39, 88; Senatus Imacharensium; A. S., III, 42, 100; in Senatu Entellino; _A. S._, III, 87, 200; Senatus Tyndaritanus; _A. S._, IV, 39, 40; Catinae magistratus, senatus, curia; _A. S._, I, 45, 99, 100. [239] Senatus Syracusanus, Senatum populumque Syracusanum, curia, _A. S._, IV, 61 e seg. [240] _A. S._, II, 5, 14. [241] CIC. _in Verr._, I, 3, 7; A. S., II, 42, 103; 46, 114; 49, 120; 59, 146; 64, 155; III, 39, 89; 42, 100; 67, 161; IV, 62, 138; 64, 143 e seg.; V, 24, 61; 39, 103; KUHN. Op. cit. II, 58 e seg.; DARESTE. Op. cit. p. 16. [242] CIC. _in Verr. A. S._, IV; 23, 39, 85; C. I. G., 5491=KAIBEL. _Inscript. gr. Siciliae_, 952. [243] CIC. _in Ver A. S._, II, 56, 139; 53, 133; 55, 137. [244] CIC. _in Verr. A. S._, II, 67, 161; IV, 43, 93; ἁγορανόμοι _C. I. G._, 5425-7; KAIBEL, _I. G. S._, 209, 211, 312. ταμίαι _C. I. G._, 5491, 5640=KAIBEL. _I. G. S._, 952, 422. [245] _C. I. G._, 5425-7, 5491. [246] CIC. _in Verr. A. S._, IV, 42, 92; C. I. G., 5475, 5641-2=KAIBEL. _I. G. S._, 256, 423-4. [247] _C. I. G._, 5425-7. [248] _C. I. G._, 5425 e seg.; 5742=KAIBEL. _I. G. S._, 472. cfr. CIC. _in Verr. A. S._, IV, 57, 128. [249] _C. I. G._, 5475, 5476, 5491, 5546, 5752=KAIBEL. _I. G. S._, 256-7, 852, 290, 953. [250] DIOD. SIC. XVI, 70; CIC. _in Verr. A. S._, II, 51, 126; 52, 128; IV, 61, 137. [251] _Centoripinum magistratus et Decemprimum_, A. S., II, 67, 162. [252] _Agyrrio magistratus et quinqueprimi_, A. S., III, 28, 68. [253] CIC. _in Verr. A. S._, II, 49. [254] CIC. _in Verr. A. S._, II, 50. [255] CIC. _in Verr. A. S._, II, 49, 122. [256] CIC. _in Verr. A. S._, II, 50. [257] CIC. _in Verr. A. S._, IV, 64. [258] CIC. _in Verr. A. S._, II, 49, 120, 122. [259] CIC. _in Verr. A. S._, II. 53, 131. [260] CIC. _in Verr. A. S._, II, 52, 126-7; 52, 128. [261] GÖTTLING. _Röm. St. Verf._, p. 419; KUHN. Op, cit. p. 60. [262] CIC. _in Verr. A. S._, II, 51, 127. [263] CIC. _in Verr. A. S._, II, 49-50, 120-5. [264] DIOD. SIC. XIII, 34, 6; 35, 1-4; XVI, 82, 6. [265] FREEMAN. _History of Sicily_, III, p, 726-7. Oxford, 1892. [266] CIC. _in Verr._, I, 4, 13. [267] Leges Bidinorum. CIC. _in Verr. A. S._, II, 22; Leges Agyrinensium. _A. S._, III, 31, 73; Lex Thermitanorum, _A. S._, II, 37, 90 e seg.; CIC. _in Verr._, I, 4, 13. [268] Loc. cit.; VOIGT. Op. cit. II, p. 407. [269] CIC. _in Verr. A. S._, II, 13, 32. [270] _A. S._, II, 13, 32. [271] KORNEMANN. _De civibus romanis in provinciis imperii consistentibus._ Berol. 1892, pp. 16, 18, 20; SCHULTEN. _De conventibus civium Romanorum._ Berol. 1892, pp. 1-16, 124-5. [272] HERMES. VII MOMMSEN. _Die Röm. Lagerstädte_, p. 319 sg.; HERMES. XVI MOMMSEN. _Schweiz Nachstudien_, p. 377 sg. [273] CIC. _in Verr. A. S._ II, 13, 32. [274] DEGENKOLB H. _Die lex Hieronica und das Pfändungsrecht der Steuerpächter._ Berlin, 1861. [275] ARISTOT. Ἀθηναίων πολιτεία. 16; NITZSCH. _Die Gracchen._ pp. 37-56. [276] CIC. _in Verr. A. S._, II, 13, 32; III, 6, 15; 8, 19-20. [277] DEGENKOLB. Op. cit. [278] DARESTE. Op. cit. p. 23; DEGENKOLB. Op. cit. p. 13. [279] SELL. _Die Recuperatio_, p. 385; DEGENKOLB. Op. cit. p. 14. [280] VOIGT. Op. cit. II, 404. [281] DEGENKOLB. Op. cit. p. 19 e seg. [282] CIC. _in Verr. A. S._, II, 13, 34. [283] KELLER. _De la procedure civile et des actions chez les Romains, trad. franç._ Paris, 1890, p. 34. [284] DEGENKOLB. Op. cit. pp. 31, 33. [285] _Nequis extra suum forum vadimonium promittere cogatur._ CIC. _in Verr. A. S._, III, 15, 38. [286] CIC. _in Verr. A. S._, III, 8, 20. [287] CIC. _in Verr. A. S._, III. 27, 32. [288] CIC. _ad Qu. fr._, I, 1, 12; _ad Att._, V, 13; _ad fam._, XIII, 65; _de prov. cons._, 5; cfr. DEGENKOLB. Op. cit. p. 44. [289] DEGENKOLB. Op. cit. pp. 76-7. [290] CIC. _in Verr. A. S._, II, 13, 32. [291] LIV. XXXIV, 21; XXXVI, 31; PLUT. _Cat. maj._, 11; Zon. VIII, 17; APPIAN. _Hisp._ 434; CIC. _in Verr. A. S._, II, 50, 123; WILLEMS. _Le sénat de la République romaine._ Paris, 1883, II, 703. [292] MOMMSEN, _Röm. St. R._, III, 1211. Leipzig, 1888. [293] VOIGT. Op. cit. IL, p. 395-6, n. 453. [294] MOMMSEN. _Die Stadrechte der lateinischer Gemeinden Salpensa und Malaca. Abhandl d. K. S. Ges. d. Wissensch._, III, p. 693, n. 12. [295] MOMMSEN. _St. R._, II^3, 221-2. [296] CIC. _in Verr. A. S._, III, 40, 93; VOIGT. Op. cit. p. 397 A. 457; KUHN. Op. cit. II, p. 39. [297] CIC. _in Verr. A. S._, II, 50, 124. [298] BELOCH. _Die Bevölkerung der griech. röm. Welt._ Leipzig, 1886, p. 273. [299] NISSEN. _Griech. u. Röm. Metrologie in Müller Hdb. d. Klass. Alterthumovis._ I^2, p. 884. [300] Nell’anno 1891 in Sicilia la produzione del frumento veniva calcolata ad ettolitri 7,744,918, del granturco a 67,632, dell’avena a 197,918, dell’orzo a 1,511,699, della segala a 31,631, del riso a 25,590, de’ legumi a 1,318,442, delle patate a qu. 69,312, del vino a ett. 6,855,655, dell’olio a 534,267, degli agrumi a 23,488,288 frutti (_Ann. stat. ital._ 1892). [301] BELOCH. Op. cit. p. 298. [302] KLEIN. Op. cit. 11-72 [303] LIV. XXVI, 40, 15. [304] _A. S._, I, 6, 15; 7, 20. [305] _A. S._, I, 54, 141; III, 26, 65. [306] _A. S._, IV, 14-15, 33-4; 28, 65; 29, 66. [307] _A. S._, V, 62, 161. [308] _A. S._, IV, 38, 83; 61, 136; V, 10-13, 26-33; 40,104; 54, 142. [309] LOMBROSO. _L’uomo delinquente._ Torino, 1884, pp. 398-409. [310] _A. S._, II, 6, 18; IV, 25, 56. [311] MOMMSEN in _Berichte der Sächs. Gesell. d. Wissenschaft._ 1850, p. 62, _e Rh. Mus._ N. F., XV, pp. 192, 207; MERCKLIN in _Philologus_, XIX, p. 110. [312] RITSCHL F. _De declinatione quadam latina reconditiore._ Opusc. philol., IV, pp. 469-70. Lips. 1878. [313] I, 16, 47. [314] _A. S._, I, 13, 35: _quod ferre novos homines non potuerit. Ad nobilitatem hoc est ad suos transisse._ [315] PS. ASCON. _Argum. in Divinat._ [316] I, 9, 25. [317] I, 8, 23. [318] _A. S._, I, 49, 128. [319] _A. S._, III, 71, 166. [320] _A. S._, II, 56, 138. [321] _A. S._, II, 20, 49; III, 68, 159. [322] _A. S._, IV, 44, 98; 57, 127; V, 57, 148; _A. S._, I, 51, 133; 18, 47. [323] _A. S._, I, 12, 32-3; _A. S._, I, 39, 101; IV, 12, 33. [324] _A. S._, I, 12-13, 34. [325] M. TULLII CICERONIS. _Verrinae. Lib._ VIII, _ad fidem codicum manuscriptorum recensuit et explicavit._ C. Timoth. Zumpt. Berolini, 1831, p. 115. [326] _A. S._, I, 14, 37. [327] _A. S._, I, 14, 36. [328] PIGHI. _Annales Romanorum._ Antverpiae, 1615, III, 246. [329] STORTENBEKKER. _De conditione Siciliae etc._, Hagae, 1861, p. 13. [330] DRUMANN. _Gesch. Roms in seinem Uebergange von d. rep. z. monarch. Verf._ Koenisberg, 1841, V, 266. [331] _A. S._, I, 14, 37. [332] _C. I. L._, I^2, p. 154. Una più ampia trattazione di questa questione cronologica è fatta in uno speciale articolo sulla questura di Verre, che sarà pubblicato nella _Rivista di filologia_. [333] _A. S._, I, 13, 34-35; 14-15, 37-40; III, 76, 177-8; V, 58, 152. [334] _A. S._, I, 13, 35; 14, 36-7. [335] APPIAN. B. C. I, 85. [336] APPIAN. B. C. I, 91, 93, 94. [337] APPIAN. B. C. I, 92. [338] _A. S._, I, 15, 38. [339] _A. S._, I, 14, 37. [340] _A. S._, I, 39, 101: _vix triduum, constitisset_. [341] _A._, I, 4, 11; _A. S._, Iº, 15, 41; IV, 32, 71. [342] _A. S._, I, 38, 98; 39, 99, 100; 17, 45. [343] _A. S._, I, 20, 52; 28, 71. [344] _A. S._, I, 24, 63-27, 69. [345] _A. S._, I, 17, 44 ... _ut quaedam calamitas pervadere videretur._ [346] DRUMANN. Op. cit., II, 561, sgg. [347] CIC. _in Verr. A. S._, I, 36, 91. [348] _A. S._, I, 19, 51. [349] _A. S._, I, 17, 44-5. [350] _A. S._, I, 17, 45; V, 32, 71. [351] _A. S._, I, 17-8, 46. [352] _A. S._, I, 12, 50; 20, 52. [353] _A. S._, I, 19, 49. [354] _A. S._, I, 20, 54; IV, 32, 71. [355] _A. S._, I, 22, 58-9. [356] _A. S._, I, 19, 59. [357] _A. S._, I, 20, 53. [358] _A. S._, I, 24-5, 62-7. [359] _A. S._, I, 27, 68-9. [360] _A. S._, I, 33, 84. [361] _A. S._, I, 29-30, 72-6. [362] _A. S._, I, 34, 86-8. [363] _A. S._, I, 38, 95-7; III, 3, 6. [364] _A. S._, I, 86, 90-3; 37, 94. L’espressione di Cicerone: _quinquaginta soluta non sunt_ non è chiara ed è stata interpretata sia nel senso che fossero stati pagati solo 50000 sesterzî, sia che ne fossero stati pagati 50000 di meno (cfr. ed. Zumpt, p. 192). Una delle interpretazioni pare più conforme alla lettera; l’altra meglio rispondente al probabile andamento de’ fatti. L’ediz. del Müller ha cinquantamila, altre cinquemila. [365] DRUMANN. Op. cit., II, p. 564, n. 66. [366] ZUMPT _ad Accus. in Verr._, I, 33, 85. [367] _A. S._, I, 33, 85; altrimenti il Zumpt. [368] _A. S._, I, 18, 46; 29, 72-4; 30, 75, 77; 34, 88; 35, 89. [369] _A. S._, I, 38, 95. [370] _A. S._, I, 38, 97. [371] _A. S._, I, 39, 99, 100. [372] _A. S._, I, 39, 101. [373] _A. S._, IV, 20, 45. [374] _A. S._, I, 40, 104. [375] _A. S._, I, 59, 154. [376] MEYER. _Orat. Roman. fragm._ Turici, 1842, p. 98; KARLOWA. _Röm. Rechtsgesch._ Leipz., 1893, II, p. 859. [377] _A. S._, I, 41-4, 104-114. [378] _A. S._, I, 47, 122-4. [379] _A. S._, I, 48, 125-27. [380] _A. S._, I, 47, 125. [381] CIC. _de senect._, 5, 14; _de repub._, III, 10, 7; _de finib._, II, 17, 55; pro _Balbo_, 8, 21; _in Verrem A. S._, I, 41-44; Ps. ASCON. pag. 104, Orelli; LIV. _epit._, XLI; Ps. QUINTIL. _declam._, 264; AUL. GELL. VI, 13; XVII, 6; XX, 1, 23, ed. Hertz; DIO. CASS. LVI, 10, 32; PLIN. _Panegyr._, 42; AUG. _De civ. Dei_, III, 21; GAI., II, 226, 274; PAUL., IV, 8, 22; _Cod. leg. Mos._, XVI, 3, 20. [382] _A. S._, I, 41, 104; CIC. _de repub._, III, 10. [383] ZUMPT ad CIC. _Accus. in Verr._, p. 183, § 183. [384] _Inst._, II, 226. [385] _A. S._, I, 43, 110; KARLOWA. _Röm. Rechtsgesch._, Leipzig. 1893, II, 940-1. [386] II, 274. [387] MOMMSEN. _R. St. R._ I^3, 336. [388] KARLOWA. Op. cit., 894, 942 sg. [389] GABBA. _Teoria della retroattività delle leggi_, Torino, 1884, I, p. 47-9; Vangerow. _Lehrbuch d. Pandekt._, I, § 26. [390] PLUT. _Syll._, 81; VELL. PAT., II, 28. [391] GAI. _Inst._, III, 40 sgg.; LENEL. _das Edictum perpetuum_, Leipzig, 1883. p. 278; SAVIGNY. _System des heut. Röm Rechts_, Berlin, 1841, IV, 272; LEMONNIER. _Étude historique sur la condition privée des affranchis_, Paris, 1887, p. 116 sg. [392] _A. S._, I, 45, 115-7. [393] _A. S._, I, 45, 116. [394] _A. S._, I, 43, 112; 45, 117. [395] DRUMANN. Op. cit., I, p. 40. [396] _A. S._, I, 58, 151; DRUMANN. IV, 1. [397] Oros. 5, 8, 3; 5, 12, 5, ed. Zangemeister; Liv. V, 11, 4; AUL. GELL. 6, 19, 2, ed. Hertz. [398] _A. S._, I, 46, 119; MOMMSEN. _St. R._, I^3, 266 sgg. [399] _A. S._, I, 60, 155-7. [400] _A. S._, I, 48, 126-7; 49, 128; 53, 139. [401] _A. S._, I, 16, 39; V, 13, 34; 15, 38-9. [402] _A. S._, I. 52, 137-8. [403] _A. S._, I, 47, 116; IV, 32, 71. [404] _A. S._, II, 39, 95; 47, 116; _C. I. L._, I^2, pp. 27, 154. [405] _A. S._, I, 49, 128. [406] _C. I. L._, I^2, pp. 27, 154. [407] _A. S._, I, 50, 130. [408] _C. I. L._, I^2, pp. 27, 154. [409] LIV. II, 20, 12; 42, 5. [410] _A. S._, I, 55, 143. [411] _A. S._, I, 50, 182, ed. Zumpt, p. 218. [412] _A. S._, I, 51, 135, ed. Zumpt. p. 214. [413] _A. S._, I, 50-9, 180-54. [414] CIC. _Pro A. Cluent._, 33. [415] _A. S._, I, 59, 154; II, 1, 1. [416] _A. S._, III, 68, 159; V, 42,109. [417] _A. S._, II, 20, 49. [418] _A. S._, II, 20, 49; _A. S._ I, 49, 128. [419] _A. S._, V, 44, 114. [420] _A. S._, III, 71-72, 166-8; V, 44, 114. [421] _A. S._, IV, 65, 146. [422] _A. S._, II, 18, 44. [423] _A. S._, III, 11, 28. [424] _A. S._, II, 28, 69. [425] _A. S._, I, 57, 150. [426] _A. S._, II, 8, 22; III, 39, 90. [427] _A. S._, II, 24, 58. [428] _A. S._, III, 37, 84. [429] _A. S._, II, 44, 108. [430] _A. S._, II, 51, 127. [431] _A. S._, II, 14, 36; III, 33, 77. [432] _A. S._, III, 32, 75. [433] _A. S._, IV, 13, 30. [434] _A. S._, II, 70, 169. [435] _A. S._, III, 60, 137. [436] _A. S._, II, 10, 27. [437] _A. S._, III, 9, 22-3; 12, 31. [438] _A. S._, V, 45, 118; 54, 141-2. [439] _A. S._, II, 6, 18. [440] _A. S._, IV, 67, 150-1; V, 17, 44; 18, 45; 19, 48; 61, 159-60. [441] _A. S._, II, 7, 19. [442] _A. S._, II. 7-8, 19-23. [443] Il ZUMPT ha invece _Epicrates_. [444] _A. S._, II, 9, 25. [445] _A. S._, II, 12, 31. [446] PS. ASCON., p. 211, Orelli. [447] Sulla variante «_si patitur_» cfr. ed. Zumpt, p. 269; PS. ASCON., p. 212, Orelli. [448] _A. S._, II, 13, 33-4. [449] _A. S._, II, 14-21, 35-50. [450] _A. S._, II, 22-5, 58-61. [451] _A. S._, II, 27, 66-7. [452] _A. S._, II, 28-30, 68-75. [453] _A. S._, II, 34-47, 83-118. [454] _C. I. L._, I^2, p. 154. [455] _A. S._, II, 48, 118-9. [456] _A. S._, II, 49, 120, 1. [457] _A. S._, II, 49, 122. [458] _A. S._, II, 50, 123-5. [459] _A. S._, II, 51, 126-7. [460] _A. S._, II, 52, 128-130. [461] _A. S._, II, 53-55, 131-8. [462] _A. S._, II, 55, 137. [463] _A. S._, II, 21, 51-2. [464] _A. S._, II, 21, 50; IV, 62, 138; 64, 143. [465] _A. S._, II, 66, 160. [466] _A. S._, II, 61, 150. [467] _A. S._, II, 63, 154. [468] _A. S._, II, 66, 160. [469] _A. S._, II, 66, 160. [470] _A. S._, II, 66, 160. [471] _A. S._, II, 67, 161-2. [472] _A. S._, II, 63, 154. [473] _A. S._, II, 59, 145. [474] _A. S._, II, 57, 141. [475] _A. S._, II, 58, 148. [476] _A. S._, II, 59, 145. [477] _A. S._, II, 65, 156. [478] _A. S._, II, 62, 153. [479] _A. S._, II, 59, 144. [480] _A. S._, II, 49, 146. [481] _A. S._, II, 74, 183; 75, 184-5. [482] _A. S._, II, 70, 169-70. [483] _A. S._, III, 10, 25; 11, 27-8; 29, 70. [484] _A. S._, III, 10, 26, 13, 34. [485] _A. S._, III, 11, 28. [486] _A. S._, III, 13, 32-3. [487] _A. S._, III, 14, 35. [488] _A. S._, III, 15, 38. [489] _A. S._, III, 15, 38. [490] _A. S._, III, 13, 34; 29, 70. [491] _A. S._, III, 64, 36-7. [492] _A. S._, III, 20, 51-2. [493] _A. S._, III, 21, 53-4. [494] _A. S._, III, 22, 55. [495] _A. S._, III, 23, 56. [496] _A. S._, III, 23, 56. [497] _A. S._, III, 23, 57. [498] _A. S._, III, 24, 60. [499] _A. S._, III, 25, 61-2. [500] _A. S._, III, 41, 37-8. [501] _A. S._, III, 27-36, 67-74. [502] _A. S._, III, 32, 75. [503] _A. S._, III, 32, 76. [504] _A. S._, III, 33-34,76-80. [505] _A. S._, III, 36, 83. [506] _A. S._, III, 37, 84-5. [507] _A. S._, III, 38, 86-7. [508] _A. S._, III, 39, 88-9. [509] _A. S._, III, 39, 88-9. [510] _A. S._, III, 39, 90. [511] _A. S._, III, 40, 91. [512] _A. S._, III, 40, 92-3. [513] _A. S._, III, 42, 93. [514] _A. S._, III, 42, 100. [515] _A. S._, III, 42, 100. [516] _A. S._, III, 43, 101. [517] _A. S._, III, 43, 101. [518] _A. S._, III, 43, 102. [519] _A. S._, III, 43, 102. [520] _A. S._, III, 43, 103. [521] _A. S._, III, 44-5, 104-8. [522] _A. S._, III, 46-50; 109-119; 63-64; 147-51. [523] _A. S._, III, 70, 163-4. [524] _A. S._, III, 70-1, 165-70. [525] _A. S._, III, 73-77, 170-79. [526] _A. S._, III, 78-80; 180-4. [527] _A. S._, III, 77, 178-9. [528] _A. S._, III, 81, 188. [529] _A. S._, III, 34, 195. [530] _A. S._, III, 82, 189-90 [531] _A. S._, III, 81, 188-9; 85, 196-8. [532] _A. S._, III, 83, 191-3. [533] _A. S._, IV, 57, 126. [534] _A. S._, IV, 1,1. [535] _A. S._, IV, 21, 46-7. [536] _A. S._, IV, 13, 30-1. [537] _A. S._, IV, 22, 48-9. [538] _A. S._, IV, 2-7, 3-16. [539] _A. S._, IV, 12, 27-8. [540] _A. S._, IV, 12, 29. [541] _A. S._, IV, 14, 32. [542] _A. S._, IV, 16, 35. [543] _A. S._, IV, 17, 37. [544] _A. S._, IV, 18-9, 38-42. [545] _A. S._, IV, 20, 42-5. [546] _A. S._, IV, 21, 46-7; 22, 48. [547] _A. S._, IV, 22, 48-49. [548] _A. S._, IV, 26, 58-9. [549] _A. S._, IV, 23, 50-2. [550] _A. S._, IV, 24, 54. [551] _A. S._, IV, 26-59. [552] APPIAN. _Syr._ 49, 66, 70; MOMMSEN. _Rom. Gesch._, G. III^8, 66, 143. [553] _A. S._, IV, 27-32, 60-71. [554] _A. S._, IV, 33, 73. [555] _A. S._, IV, 33-8, 72-83. [556] _A. S._, IV, 39-42, 84-92. [557] _A. S._, IV, 44, 97. [558] _A. S._, IV, 43, 94-5. [559] _A. S._, IV, 43, 94-5. [560] _A. S._, IV, 44, 96. [561] _A. S._, IV, 45, 99-102. [562] _A. S._, IV, 46, 103-4. [563] _A. S._, IV, 48-50, 106-11. [564] _A. S._, IV, 55, 122-3. [565] _A. S._, IV, 56, 124-5. [566] _A. S._, IV, 57, 126-7. [567] _A. S._, IV, 57-8, 128-31; 69, 132. [568] _A. S._, V, 4-5, 10-11. [569] _A. S._, V, 7, 15. [570] _A. S._, V, 7-9, 16-24. [571] _A. S._, V, 17-23, 43-59. [572] _A. S._, V, 24-5, 60-2. [573] _A. S._, 25-8, 63, 73. [574] _A. S._, V, 31-51, 80-156. [575] _A. S._, V, 54, 140-2. [576] _A. S._, V, 55-7, 143-8. [577] _A. S._, V, 59, 154. [578] _A. S._, V, 59, 155. [579] _A. S._, V, 61-65, 158-68. [580] _A. S._, III, 18, 47. [581] _A. S._, III, 56, 129. [582] _A. S._, III, 51, 120. [583] _A. S._, IV, 59, 132. [584] _A. S._, IV, 21, 47. [585] _A. S._, IV, 34, 78; 51, 113. [586] _A. S._, IV, 52, 116. [587] _A. S._, IV, 24, 54. [588] _A. S._, V, 10-12, 25-30. [589] _A. S._, V, 12, 31; 31, 80-1. [590] _A. S._, V, 12, 31; 31, 80-1. [591] _A. S._, IV, 20, 42. [592] _A. S._, III, 32, 75-6; Ps. Asc. _Arg. in divinat._ [593] _A. S._, III, 33, 77. [594] _A. S._, IV, 43, 95. [595] _A. S._, III, 57-61, 132-41. [596] _A. S._, III, 80, 185-7; IV, 66, 148. [597] _A. S._, IV, 62, 139. [598] _A. S._, IV, 9, 19-21; 10, 23; 67, 150; V, 17-22, 43-58. [599] _A. S._, II, 65, 158; 66, 161. [600] _A. S._, II, 66, 160; IV, 41, 90. [601] _A. S._, II, 67, 161. [602] ASC. _in Corn._, p. 66, 78 Orelli; SALL. _Hist. frag._, III, 82, pag. 274, ed. Kritz. [603] VELL. II, 30; CIC. _de legg._, III, 22, 26; PLUT. _Pomp._, 21; CIC. _in Verr._, I, 15, 45; DRUMANN. Op. cit. IV, 363 seg. [604] _A. S._, III, 96, 223-4; ASCON. _in Corn._, p. 61, Orelli; DRUMANN. Op. cit. III, 138 seg.; IV, 391 seg. [605] DRUMANN. Op. cit. V, 221. [606] CIC. _Pro. Sex. Roscio Am._, 2, 6. [607] DRUMANN. Op. cit. V, 244. [608] CIC. _Pro. A. Caec._, 33, 97. [609] CIC. _in Verr. A. S._, III, 3-4, 7-8. [610] _Brut._, 64, 229. [611] CIC. _Pro. P. Quinct._; GELL. 15, 28, 3 ed. Hertz. [612] PS. ASCON. _in Div. in Caec. arg._; _A. I_, 1. [613] _A. S._, III, 66-7, 154-7. [614] _A. S._, III, 53-5, 123-8. [615] _A. S._, II, 25, 62. [616] _A. S._, II, 26, 63. [617] _A. S._, II, 26, 64. [618] _A. S._, III, 64, 152. [619] PS. ASC. _Argum. in Divin._; CIC. _Divinat. in Q. Caecil._, 2, 4. [620] _In Q. Caecil. Divin._, 17, 55-7. [621] _In Q. Caecil. Divin._, 18, 58. [622] _A. S._, I, 6, 15. [623] _A. S._, II, 8, 23. [624] _A. S._, II, 4, 11; A. S., IV, 65, 146. [625] _A. S._, I, 11, 30; ZUMPT A. W. _Der Criminalprocess der römischen Republik._ Leipzig, 1871, pp. 187-91. [626] _A. S._, III, 18, 45. [627] _A. S._, I, 11, 30. [628] _In Q. Caecil. Divin._, 4, 14. [629] _In Q. Caecil. Divin._, 4, 12. [630] _In Q. Caecil. Divin._, 7, 23-4. [631] _In Q. Caecil. Divin._, 2, 4. [632] _Tusc._, 5, 23. [633] PS. ASCON. _in Divin. argum.; Divin. in Q. Caecil._, 1-2, 2, 4. [634] GELL. II, 4, 1-6, ed. Hertz; PSEUD. ASCON. p. 99, Orelli; ZUMPT _Cr. proc._, p. 136. [635] _In Q. Caecil. Divin._, 4, 14. [636] _In Q. Caecil. Divin._, 19, 62-3. [637] _In Q. Caecil. Divin._, 9-10, 29-33. [638] _A. I._, 2, 6. [639] p. 128, Orelli; _A. I._, 2, 6. [640] _A. I._, 9, 26. [641] _A. I._, 2, 5. [642] _Pro M. Aem. Scauro fragm._, XI, 23-6, ed. Klotz. [643] _A. S._, 25-6, 62-64; 57, 140. [644] _A. S._, III, 73, 170; IV, 11, 25; 61, 137; 65, 145; DRUMANN. Op. cit. V, p. 215, 314. [645] _A. S._, III, 18, 41-7. [646] _Pro M. Aem. Scauro fragm._, XI, 25. [647] _A. S._, II, 65-158. [648] _Pro. M. Aem. Scaur._, XI, 26. [649] _A. S._, IV, 66, 148. [650] _A. S._, III, 68, 158. [651] _A. S._, V, 21, 55. [652] _A. S._, II, 25, 62. [653] _A. S._, II, 56, 139. [654] _A. S._, II, 57, 140. [655] _A. S._, II, 67-8, 162, 164. [656] _A. S._, III, 65, 152. [657] _A. S._, IV, 63, 141. [658] _A. S._, II, 26, 64. [659] _A. S._, II, 4, 11. [660] _A. S._, III, 65, 152. [661] _A. S._, IV, 66, 148. [662] _A. S._, IV, 11, 25. [663] _A. S._, II, 26, 64. [664] _A. S._, IV, 50, 110. [665] _A. S._, V, 49, 129. [666] _A. I._, 2, 6. [667] _A. S._, III, 47, 112. [668] _A. S._, III, 66, 154. [669] _A. S._, III, 7, 3, 170-1. [670] _A. S._, III, 87, 200. [671] _A. S._, III, 46, 109. [672] _A. S._, III, 49, 116 sg. [673] _A. S._, II, 76-8, 186-91. [674] _In Q. Caecil. divin._, 4, 14. [675] _A. S._, IV, 61, 136. [676] _A. S._, IV, 62, 138. [677] _A. S._, IV, 61-6, 136-49. [678] _A. I._, 2, 6; A. S., I, 6, 16. [679] _A. S._, II, 40, 39. [680] ZUMPT _D. Criminalprocess d. röm. Repub._, p. 189. [681] _A. S._, II, 27, 65. [682] _A. S._, I, 11, 80; PS. ASC. p. 128, ed. Orelli; ZUMPT Op. cit. p. 190-1. [683] _C. I. L._, I^2, pp. 27, 154. [684] _A. S._, I, 23, 60-1. [685] _A. S._, II, 70, 169-71; 74,182. [686] _A. S._, III, 71, 167. [687] _A._, I. 6, 16. [688] _A. S._, I, 6, 17. [689] _A. S._, I, 7, 18. [690] CIC. _in Verr._, ed. Zumpt, p. 284 sg.; GEIB. _Gesch. d. röm. Criminalpr._, Leipzig, 1842, pp. 186-95, 307; ZUMPT _Der Criminalpr. d. röm. Rep._ [691] GEIB. _Gesch. d. röm. Criminalpr._, pp. 213-5. [692] _A. S._, I, 61, 158. [693] _A. S._, I, 16, 49. [694] _Ad Att._ 1, 1, 1. [695] _A._, I, 10, 29. [696] PS. ASC. p. 140-1, Orelli. [697] _A. I._, 10, 30; _pro Cluent._ 13, 38. [698] _A. I._, 10, 30; ASCON. _in or. in tog. cand._, p. 82, Or. [699] _A. I._, 10, 30. [700] _A. S._, IV, 42, 90. [701] _A. S._, II, 31, 77; ZUMPT in CIC. p. 318. [702] _A. S._, V, 44, 114. [703] _A. S._, IV, 54, 142. [704] PLUT. _Caes._ 14. [705] CIC. _pro A. Cluent._, 38, 107. [706] _A. S._, III, 41, 97; CIC. _pro A. Cluent., 49; pro lege Manil._, 23. [707] _A. S._, I, 55, 143 sg; 61, 157. [708] _A. S._, I, 7, 18; _pro Mar._ 8, 17. [709] _A. S._, I, 7, 18. [710] _A. S._, V, 52, 136. Questo P. Galba suol essere creduto lo stesso che il P. Sulpicio, di cui in _A. I._, 10, 30 (BRÖCKER _in Pauly_, VI, p. 1497, n. 40 e KLOTZ. _Indices in Cic. script._, V, p. 37-8) ma a torto; perchè P. Sulpicio prendeva parte al giudizio, mentre P. Galba fu ricusato. [711] _A. I._, 6, 17. [712] PS. ASCON. p. 141, Orelli; SCHOL. GRON. p. 395, Or. [713] ASCON. _in tog. cand._, p. 82, Or. [714] _A. I._, 10, 30. [715] p. 141 Or. [716] REIN _in_ Pauly, _Real-Encyclopëdie d. class. Alterthumw._ VI, 1497, 40, 2115. [717] SCHOL. GRONOV. p. 395 Or.; MOMMSEN. _St. R._, I^3, p. 498. [718] _A. I._, 10, 30. [719] VAL. MAX. III, 7, 9; CIC. _in Verr. A. S._, III, 60, 137; 63, 146. [720] _A. I._ 10, 30. [721] _Ad Att._, V, 4, 2; VI, 1, 13; VII, 1, 8. [722] VARRO. _R. R._, I, 2, 10, ed. Keil; COLUM., 1, 1, 12. [723] _A. S._, III, 90, 210; _pro dom._, 47, 123. [724] _A. S._, III, 71, 167-8. [725] PLUT. Pomp., 16. [726] _A. I._, 15, 44. [727] LIV. XXXV, 8; CIC. _pro Cluent._, 56, 153. [728] _A. S._, I, 49, 128. [729] KLEIN. _Op. cit._ p. 69. [730] _A. S._, IV, 41, 89; 42, 91. [731] CIC. _Ad fam._, XV, 7, 8; DRUMANN. Op. cit. II, 399, 15, IV, 49, 52. [732] _A. S._, I, 7, 18; PS. ASC. p. 161, Or. [733] CIC. _pro Cluent._ 27, 74; ZUMPT _D. Criminalproz._ p. 351. [734] _A. S._, V, 52, 136. [735] HUMBERT. _Comitia in_ DAREMBERG et SAGLIO _Dict. d’antiq. grecques et romaines_, p. 1393; _A. I._, 6, 17. [736] _A. I._, 7, 8-20. [737] _A. I._, 8, 21. [738] _A. I._, 8-9, 22-5. [739] _A. S._, I, 6, 16-17. [740] _A. S._, I, 36, 97; _A. S._, IV, 12, 29; 20, 43-4; 42, 92. [741] _A. S._, III, 25, 63. [742] _A. I._, 9, 25. [743] _A. I._, 9, 27. [744] _Divin. in Q. Caecil._, 13, 41-2. [745] _A. I._, 2, 3; 5, 15; _A. S._, III, 34, 80; V, 59, 143; 58, 150; _A. S._, I, 59, 154; _A. S._, III, 16, 41. [746] _A. I._, 2, 5. [747] _A. I._, 6, 15. [748] _A. S._, II, 44, 108. [749] _A. S._, III, 25, 62. [750] _A. S._, II, 45, 110; IV, 20, 43. [751] KLEIN. Op. cit. p. 70. [752] _A. S._, IV, 36, 79 seg.; PS. ASC. _Arg. in Divin._, ZUMPT _R. Criminalprocess_, pag. 82. [753] DRUMANN. Op. cit. III, pp. 78-81. [754] CIC. _ad fam._, II, 16, 3. [755] MACROB. _Sat._, III, 15, 6 ed. Ian. [756] BERNOULLI. _Röm. Iconographie_, Stuttgart, 1882, I, pp. 98-9 tav. VI. [757] CIC. _Brutus_, 95, 825. [758] GELL. 1, 5, 3; CIC. _Brut._ 88, 303; VAL. MAX. 8, 10, 12 ediz. Halm; MACROB. _Sat._, III, 13, 4-5. [759] _In Q. Caecil. Divinat._, 7, 24; PS. ASCON. pp. 109-10 Or. [760] DRUMANN. Op. cit. 3, 104-7. [761] MEYER. _Orat. Rom. Fragm._, Turici, 1842, p. 361. [762] CIC. _pro Plancio_, 26-7, 65, 6. [763] CIC. _de off._, III, 18, 73. [764] _A. S._, III, 4, 7-9. [765] _A. S._, III, 62, 145-6. [766] _A. I._, 10, 29, 30. [767] _A. S._, I, 11, 31. [768] _A. I._, 10, 30. [769] _l. c._, PS. ASC. p. 142, Or. [770] _C. I. L._, I^2, pp. 299, 300, 333, 335. [771] CIC. _Brutus_, 93, 320; 95, 325. [772] CIC. _Brutus_, 95, 322. [773] GEIB. _Gesch. d. röm. Criminalprocess_, Leipzig, 1842, p. 318 seg.; ZUMPT A. W. _Der Criminalprocess d. röm. Republik_, Leipzig, 1871, p. 215 sg. [774] _A. I._, 11, 32; GEIB. Op. cit. 325. [775] _A. S._, I, 9, 24-5; CIC. _pro Flacc._, 33, 52; SCH. GRONOV. p. 396 Or. [776] _A. I._, 4-5, 11-5. [777] _A. I._, 1, 1-3; 3, 8; 8, 20; 12, 36; 13, 38-9; 14, 41, 15-17; 43-51. [778] _A. S._, I, 9, 24-5. [779] _A. S._, I, 9, 24-6. [780] PLUT. _Cic._ 7. [781] _A. S._, I, 11, 31; MEYER. _Orat. rom. frag._, Turici, 1842, p. 369. [782] ZUMPT A. W. _der Criminalprocess d. römischen Republik_, pp. 202, 348. [783] _A. I._, 18, 56. [784] _A. S._, III, 16, 40; V, 56, 145. [785] _A. S._, IV, 41, 88; _Est pecuniarum captarum..... est majestatis... est sceleris..... est crudelitatis._ [786] _A. S._, III, 72, 168; 76, 177. [787] _A. S._, III, 36, 83-4. [788] _A. S._, V, 30, 79. [789] _A. S._, I, 5, 13-4; V, 68, 173. [790] _A. S._, V, 59, 153. [791] _A. S._, V, 18, 45-7; 52, 137-8. [792] _A. S._, III, 16, 40. [793] _A. S._, III, 30, 71. [794] _A. S._, III, 94, 218. [795] _A. S._, IV, 38, 82; V, 48, 127.... _pecunias, quo nomine iudicium hoc appellatur, non repetunt._ [796] _A. S._, V, 53, 139. [797] _A. I._, 18, 56; A. S., I, 10, 27. [798] 5, 19. [799] _A. S._, III, 57, 131; 90, 210-211; IV, 30, 67-8; 31, 69; 38, 82; 56,134. [800] _A. S._, III, 52-5, 122-8; 62, 144; 78, 182; 87, 205; 97, 226; IV, 24, 54; 32, 71; 38, 83; 50, 112; V, 55, 144; 60 sg. [801] _A. S._, IV, 41, 89. [802] _A. S._, III, 41, 94-7. [803] _A. S._, IV, 44, 97. [804] _A. S._, IV, 37, 81. [805] _A. S._, V, 69, 177-8. [806] _A. S._, III, 16, 42. [807] _A. I._, 16, 48; 18, 56. [808] _A. S._, I, 3, 7; 7, 20; 11, 33, 4, 10; II, 4, 11, 6, 16; 7, 20; 59, 146; III, 27, 66; 52, 122; V, 29, 74; 16, 40; 39, 103. [809] _A. S._, I, 20, 52. [810] _A. S._, I, 28, 71. [811] _A. S._, I, 31, 78; 33, 83-4. [812] _A. S._, I, 37, 93-4. [813] _A. S._, I, 38-9, 95-8. [814] _A. S._, I, 48, 126-7. [815] _A. S._, I, 49, 127-8; 50, 130; IV, 13, 31. [816] _A. S._, I, 52, 53, 139; 55, 145; 57, 150; 58, 151. [817] _A. S._, I, 10, 28; II, 8, 23-4. [818] _A. S._, II, 42, 102-3. [819] _A. S._, II, 39, 95, 41, 100; 42, 103; 43, 106; 46, 112, 114; 47, 115. [820] _A. S._, II, 9, 25; 10, 26. [821] _A. S._, II, 27, 66. [822] _A. S._, II, 33, 80. [823] _A. S._, IV, 27, 62; 31, 70. [824] _A. S._, II, 48, 119. [825] _A. S._, II, 48, 120; 49,120-1. [826] _A. S._, II, 28, 69; 53, 133. [827] _A. S._, III, 19, 49. [828] _A. S._, III, 27, 66. [829] _A. S._, III, 31, 73; 51, 120. [830] _A. S._, III. 34, 80. [831] _A. S._, III, 44, 105. [832] _A. S._, III, 46, 109. [833] _A. S._, III, 56, 129. [834] _A. S._, IV, 7, 15-6; 8, 19; 12, 27; V, 18, 47. [835] _A. S._, IV, 21, 46. [836] _A. S._, IV, 12, 29. [837] _A. S._, IV, 20, 44. [838] _A. S._, IV, 23, 50. [839] _A. S._, IV, 23, 50. [840] _A. S._, IV, 23, 51-3. [841] _A. S._, IV, 39, 84-8. [842] _A. S._, 40, 86. [843] _A. S._, IV, 42-92. [844] _A. S._, IV, 35, 79. [845] _A. S._, IV, 51, 113. [846] _A. S._, IV, 56, 125. [847] _A. S._, V, 7, 15. [848] _A. S._, V, 29, 73; 60, 156; I, 5, 14. [849] _A. S._, V, 34, 90; _A. S._, V, 46, 122. [850] _A. S._, V, 45, 120. [851] _A. S._, V, 57, 147. [852] _A. S._, V, 63, 163; 64, 165; _A. S._, I, 5, 13. [853] _A. S._, I, 5, 14. [854] _A. S._, IV, 22, 48, 25, 55; 31, 70. [855] _A. S._, I, 34, 86; 35, 89. [856] _A. S._, I, 39, 100. [857] _A. S._, II, 33, 80. [858] _A. S._, II, 42, 102. [859] _A. S._, II, 48, 119. [860] _A. S._, II, 71, 175; 74, 182. [861] _A. S._, II, 76, 186. [862] _A. S._, III, 19, 49. [863] _A. S._, III, 25, 63. [864] _A. S._, III, 27, 66. [865] _A. S._, III, 41, 97. [866] _A. S._, III, 43; 103; 87, 200. [867] _A. S._, III, 45, 108. [868] _A. S._, III, 75, 175. [869] _A. S._, IV, 42, 92. [870] _A. S._, V, 7, 15. [871] _A. S._, V, 57, 147; 59, 154. [872] _A. S._, V, 63, 164. [873] _A. S._, IV, 47, 104. [874] _A. S._, III, 45, 108. [875] _A. S._, III, 42, 99, 100; 39, 89. [876] _A. S._, III, 37, 85. [877] _A. S._, III, 38, 87. [878] _A. S._, III, 31, 73-4. [879] ZUMPT _Crim. proc._, 290. [880] _A. S._, V, 46, 122. [881] _A. S._, I, 45. [882] _A. S._, I, 46, 119. [883] _A. S._, II, 57, 141; 59, 146. [884] _A. S._, II, 74, 182-3. [885] _A. S._, II, 76, 186. [886] _A. S._, III, 10, 26 sg. [887] _A. S._, III, 36, 83. [888] _A. S._, V, 22, 54-6. [889] _A. S._, V, 19, 48. [890] _A. S._, III, 40, 92-3. [891] _A. S._, III, 81, 189. [892] _A. S._, III, 71, 167. [893] _A. S._, III, 64, 164 sg. [894] _A. S._, III, 40, 92-3. [895] _A. S._, II, 56, 138-9; III, 18, 45; 53, 123 sg. [896] _A. S._, V, 43, 112-3. [897] _A. S._, III, 61, 142; 57, 130; _A. S._, I, 59, 154; V, 53, 139. [898] _A. S._, V, 63, 164. [899] _A. S._, V, 59, 155. [900] _A. S._, II, 5, 14. [901] _A. S._, V, 22, 57. [902] _A. S._, II, 18, 45. [903] _A. S._, II, 5, 15. [904] _A. S._, II, 5, 13; IV, 7, 15; V, 22, 57. [905] _A. S._, II, 5, 15. [906] _A. S._, I, 28, 71. [907] _A. S._, II, 6, 15, 61, 149; 69, 105-6. [908] _A. S._, III, 16, 41; V, 59, 154-5. [909] _A. S._, I, 28, 71. [910] _A. S._, III, 10, 26. [911] _A. S._, IV, 29, 73. [912] _A. S._, V, 39, 101. [913] _A. S._, I, 10, 28; III, 5, 10; 34, 80. [914] _A. S._, I, 58, 151. [915] _A. S._, II, 64, 156. [916] _A. S._, III, 34, 80. [917] _A. S._, IV, 56, 125. [918] _A. S._, IV, 12, 27. [919] _A. S._, I, 53, 139. [920] _A. S._, V. 63, 163. [921] _A. S._, I, 60, 156. [922] _A. S._, I, 7, 20. [923] _A. I._, 11, 34. [924] _Festus s. v. res comperendinata_; CIC. _Brut._ 22, 87; GEIB. Op. cit. 374. [925] _A. S._, II, 78, 191-2; III, 45, 107; IV, 16, 35-6, 47, 104. [926] _pro M. Fonteio_, 17, 38-9. [927] VELL. PAT. II, 13, 2. [928] _A. S._, I, 30, 75-6; 38-9, 95-100. [929] _A. S._, II, 69, 165-6. [930] CIC. _pro L. Flacco_, 35, 87; cfr, 3, 6; 7, 18. [931] _A. S._, III, 77, 186. [932] CIC. _pro M. Fonteio_, 11, 23-4. [933] CIC. _pro M. Fonteio_, 12, 27. [934] _pro L. Flacco_, 5, 11-2; 8, 23; 11, 24; 27, 65. [935] CIC. _in Verr._, A. S., II, 3, 7. [936] _A. S._, I, 20, 52. [937] _A. S._, I, 37, 93. [938] _A. S._, I, 48, 126-7; II, 8, 24. [939] _A. S._, I, 49, 128; 50, 130; 53, 139; 58, 151-3. [940] _A. S._, II, 33, 80; III, 64, 149. [941] _A. S._, II, 8, 23. [942] _A. S._, II, 38, 68. [943] _A. S._, II, 38, 68. [944] CIC. _pro L. Flacco_, 6, 14. [945] MOMMSEN. _Die Stadtrechte der latinischen Gemeinden Salpensa und Malaca in der Provinz. Baetica_ (_Abhandl. d. K. S. Ges. d. Wissensch._, III, 27) pag. 393-4. [946] _A. S._, II, 49, 121. [947] _A. S._, II, 49, 122; cfr. 50, 123, 125. [948] _A. S._, II, 13, 33: Si qui perperam iudicasset, se cogniturum: cum cognosset, animadversurum. [949] _A. S._, II, 12, 31. [950] _A. S._, II, 6, 19-20; 10, 26-8; 11, 29. [951] ZUMPT C. T.; _Ciceronis Verrinarum libri septem_, Beroli 1831, p. 276-7. [952] _A. S._, II, 13, 32. [953] _vs._, 56-7. [954] MEIR. U. SCHÖMANN. _Der attische Process neu bearb. von I. Lipsius_, Berlin 1883-7, p. 971 sg.; PUCHTA. _Institutionen_, Leipzig 1857, II, § 175-7, p. 215 sg. [955] _A. S._, II, 26, 63. [956] _pro L. Flacco_, 32, 78. [957] ZUMPT A. W. _Der Criminalprocess_, pag. 153 sgg.; _Studia Romana_, p. 172; GEIB. Op. cit. p. 271-2. [958] _A. S._, II, 39, 95-6; 42, 102. [959] _A. S._, II, 41, 100. [960] MOMMSEN. _St. R._, II^3, p. 268. [961] ZUMPT A. W. _Der Criminalprocess d. röm. Rep._, p. 34. [962] GEIB. Op. cit. p. 290. n. 95; PLUT. _Syll. 5_, ἀπέστη τῆς χατηγορίας. [963] GAI. 3, 78; CIC. _pro Quint._, 19, 60; LENEL. _Das Edictum perpetuum_, Leipzig 1883, pp. 58, 333-4. [964] _A. S._, II, 25, 61. [965] WALTER. _R. Rechtsgesch._ Bonn. 1845, I, p. 273. [966] CIC. Ad Att., VI, 2, 5; _Ad fam._, III, 8, 5. [967] WEBER M. _Die römische Agrargeschichte in ihrer Bedeutung für das Staats und Privatrecht._ Stuttgart 1891, pp. 181-2. [968] _A. S._, II, 58, 142. [969] MACROB. _Sat_, I, 13, 21; SUET. _Caes._ 40. [970] _E. ad Att._, 5, 9, 2. [971] UNGER. _Zeitrechnung der Griechen und Römer_ (_in Iw. Mullers Hdb._ I^2, pp. 770-1). [972] SCHMIDT. _A. Handbuch der griechischen Chronol._ Iena 1888, p. 182 sg. [973] _L._ 203, D. L., 16; COD. THEOD., IV, 12, 2, 3, ed. Haenel. [974] DEGENKOLB. Op. cit. 80-1. [975] _A. S._, III, 15, 38-9; 47, 112-3; DEGENKOLB. Op. cit. pp. 46-7. [976] PERNICE. _Parerga S. 11 in Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte_, Bd. V, 1884. [977] WEBER. _Die Römische Agrargeschichte etc._ p. 146, A., 37. [978] PERNICE. Op. cit. 15. [979] _A. S._, III, 10, 25-6. [980] _A. S._, III, 8, 20; DEGENKOLB. Op. cit. p. 48 sg. [981] _A. S._, III, 11, 27. Cum omnibus in aliis vectigalibus Asiae, Macedoniae, Hispaniae, Galliae, Africae, Sardiniae, ipsius Italiae, quae vectigalia sunt, cum in his inquam, rebus omnibus publicanus petitor aut pignerator... DEGENKOLB. Op. cit. 52 sg. [982] DEGENKOLB. Op. cit. pag. 33, 101, sg. [983] MATTHIASS. _Die Römische Grundsteuer und das Vectigalrecht._ Erlangen 1882, pp. 60, 68. [984] PERNICE. Op. cit. 2; MOMMSEN. _St. R._, I^3, 162 sg; 227 sg. [985] DEGENKOLB. Op. cit. p. 134. [986] DEGENKOLB. Op. cit. p. 136. [987] _A. S._, II, 13, 34. [988] _A. S._, II, 29, 71. [989] _A. S._, III, 28, 69. [990] APPIAN. _d. bel. civ._, 1, 100. [991] _A. S._, III, 13, 32. [992] MOMMSEN. St. R., I^3, 315-8. [993] KORNEMANN. _De civibus romanis in provinciis imperii consistentibus._ Berolini 1882, p. 44, n. 2. [994] DEGENKOLB. Op. cit. pp. 50-1. [995] _A. S._, III, 64, 150. [996] _A. S._, III, 49, 116-7; 64, 148 sg. [997] KLEIN. Op. cit. p. 60. [998] DIOD. SIC., V, 2, 4. [999] INCHIESTA AGRARIA ITALIANA, XIII, P. _I._, p. 88, Roma 1884-5. [1000] _N. H._, 18, 21, 95, ed. Ian. [1001] XENOPH. _Oeconom._, 17, 8; MAGERSTEDT. _Bilder aus der römischen Landwirtfischaft._ Sonderhausen 1861, Bd. 5, 6, 179; INCHIESTA AGRARIA ITALIANA, XIII, P. I., p. 88. [1002] PALLAD. _de re rust._, 2, 4. [1003] INCHIESTA AGRARIA ITALIANA, XIII, P. I, p. 625. [1004] _C. I. L._, X, P. II, p. 714. [1005] _Studî di storia antica pubblic. da_ G. BELOCH. Roma 1893, fasc. II: CORSETTI. _Sul prezzo de’ grani nell’antichità classica_, p. 73. Cfr. anche D’AVENEL G. _Hist. économ. de la propriété, des salaires, des denrées dep. l’an. 1200 jusqu’en l’an. 1800_. Paris 1894, II, p. 413 sg. [1006] Op. cit. p. 82. [1007] VERRI. _Meditazioni sull’economia politica._ Bibl. dell’Econom. Serie I, vol. 3, p. 573. [1008] CORSETTI. Op. cit. p. 68. [1009] _A. S._, III, 92, 214. [1010] _A. S._, III, 51, 120. [1011] DIOD. SIC. XIII, 81, 5; BELOCH. _Die Bevölkerung der griech. röm. Welt_, Leipzig, 1886, p. 284-5. [1012] _A. S._, II, 65, 168. [1013] _A. S._, IV, 51, 114. [1014] _A. S._, III, 80, 186. [1015] _De bell. Mit._, 93. [1016] ATTI DELLA GIUNTA PER L’INCHIESTA AGRARIA, Roma, 1884, I, p. 78. [1017] XXXIV, 4. [1018] WEBER. _Agrargeschichte_, p. 139, n. 30; CIC. IN VERR. A. S., III, 46, 109. [1019] _A. S._, II, 53, 123 sg. [1020] _A. S._, III, 54, 125. [1021] LIV. XXVI, 40, 15. [1022] LIV. XXVII, 8, 18. [1023] _A. S._, IV, 4, 8. [1024] _A. S._, IV, 4, 8; 6, 12; 16, 35; 17, 37; 20, 43; 21, 46; 24, 53. [1025] _A. S._, IV, 34, 76; 40, 87. [1026] FRIEDLANDER. _Darstellungen der Sittengeschichte Roms._ Leipzig 1881, III, 259 sg. [1027] FRIEDLANDER, Op. cit. p. 273 sg. [1028] BRUNN. _Geschichte der griechischen Künstler._ Stuttgart 1889, I^2, 239, 245, 388; ROSCHER, _Ausfuhr. Lexicon d. griech. u. röm. Myth._, p. 1358; _Denkmäler d. Klass. Alterth._, p. 1401. [1029] BRUNN. Op. cit. I^2, 102. [1030] BRUNN. _l. c._ [1031] MALLESON. _The life of Warren Hastings, the first governor of India_, London, 1894; _Revue de deux mondes_, 1 Mars 1895: VALBERT. _Le dernier biographe de Warren Hastings._ [1032] _A. S._, II, 20, 49. [1033] _A. S._, III, 97, 225. [1034] _In Q. Caecil. divin._, 10, 32-3. [1035] _A. S._, II, 23, 56; 25, 61; 33, 80; III, 20, 51; 30, 71; 32, 75; 38, 87; 39, 89; 58-9. [1036] _Act. sec. lib. sec. argumentum._ [1037] _A. S._, III, 16, 40; 49, 117; V, 1, 1-4. [1038] _pro L. Flacco_, 39, 98. [1039] _pro M. Fonteio_, 19, 42. [1040] _pro L. Flacco_, 39, 97-9. [1041] _Warren Hastings and the founding of the british administration by L. I. Trotter_, Oxford, 1894, p. 207. [1042] PLUT. _Crass._, 10. [1043] SALLUST. _Hist. fragm._, IV, 31, ed. Kritz. [1044] KRITZ. _Comment in Sallust._, fragm., pp. 332-3. [1045] APPIAN. _de bell. mithrid._, 92 sg. [1046] _A. S._, IV, 47, 104. [1047] _A. S._, III, 37, 85. [1048] PS. ASC. _Arg. in act. I_; A. S., II, 40, 99. [1049] MARQUARDT. _De l’organisation militaire chez les Romains, trad. franç._ Paris 1891, p. 144. [1050] LIV. XXIX, 1. [1051] NITZSCH. _Die Gracchen_, p. 41 seg. [1052] _A. S._, V, 25, 63. [1053] FERRERO E. _L’ordinamento delle armate romane._ Torino 1878, pp. 14, 32. [1054] _A. S._, V, 39, 102. [1055] _A. S._, V, 51, 133. [1056] CAGNAT. _De municipalibus et provincialibus militiis in imperio romano._ Lutetiae Parisiorum 1880, p. 3. [1057] APPIAN. _De bello mithr._, 68, 72; REINACH. _Th. Mithrad. Eupator ins deutsch. übertr._ Leipzig 1895, pp. 310, 328. [1058] _A. S._, V, 48, 127. [1059] _A. S._, III, 89, 207. [1060] _A. S._, V, 69, 178. [1061] _A. S._, IV, 8, 18. [1062] _A. S._, IV, 15, 33. [1063] PLUTARC. _Cic._ 8. [1064] CIC. _in Verr._, _A. S._, I, 19, 51. [1065] PLIN. _N. H._, 34, 3, 6. [1066] SENEC. _Suasor._, 6, 24, ed. Kiessling. [1067] LACTANCT. _Instit. div._, 2, 4, ed. Fritsche. [1068] _l. c._ Nota del Trascrittore Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. La notazione ^ indica che il carattere successivo è in apice. Le correzioni elencate a fine libro (Errata Corrige) sono state riportate nel testo. *** End of this LibraryBlog Digital Book "Il processo di Verre : Un capitolo di storia romana" *** Copyright 2023 LibraryBlog. All rights reserved.