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Title: I ragazzi d'una volta e i ragazzi d'adesso Author: Colombi, marchesa Language: Italian As this book started as an ASCII text book there are no pictures available. *** Start of this LibraryBlog Digital Book "I ragazzi d'una volta e i ragazzi d'adesso" *** LA MARCHESA COLOMBI I RAGAZZI D’UNA VOLTA E I RAGAZZI D’ADESSO MILANO GIUSEPPE GALLI, EDITORE _Galleria Vittorio Emanuele, 17 e 80_ — 1888. PROPRIETÀ LETTERARIA Milano. — Tip. Filippo Poncelletti, Via Broletto, 43. DUE PAROLE D’ESORDIO A misura che considero l’esistenza dei ragazzi che mi circondano, mi convinco sempre più, che questo è un tempo estremamente fortunato e bello per la fanciullezza. I bambini sono i despoti delle famiglie, i padroni del mondo, anche nelle case dove una giusta e voluta severità, non permette alle piccole testoline capricciose di avvedersi troppo di questa loro fortuna. Si vedono intere famiglie della borghesia trasportarsi, nell’estate, in riva al mare, o sui monti, o a qualche sorgente di acque minerali, — anche a costo di gravi sacrifici di borsa, — per rinforzare un bambino gracile, per ridare un po’ di roseo alle guancie impallidite di una bambina. A’ miei tempi i bambini delicati e poveri morivano, ed i genitori piangevano amaramente. Ma le bagnature e le cure climatiche erano riservate esclusivamente alla gente ricca. Ora invece, se non si può movere la famiglia, si cerca, e si trova una pensione, economica relativamente, ma sempre gravosa per le piccole rendite e per la gente che vive del proprio lavoro; ma il ragazzo non è mai privato della cura che si richiede per la sua salute. Pei figlioli dei poveri vi sono delle beneficenze che provvedono alle cure climatiche ed ai bagni di mare. Negli istituti, nelle famiglie, si usa far visitare tratto tratto da un dentista i denti dei giovinetti, per preservarli da quell’orribile carie, che altre volte rovinava i denti tanto presto, senza altro rimedio, nella maggioranza, che quelli a cui si ricorreva quando gli spasimi lo richiedevano imperiosamente, e che, bene spesso, distruggevano il dente insieme col male. I nostri vecchi, dente più dente meno, non se ne curavano troppo, e dicevano che queste sottigliezze erano buone pei figlioli dei gran signori. E le scuole dove noi s’andava a gelare l’inverno, ed a soffocare l’estate, sono ora riscaldate ed aerate bene, a seconda della stagione. Ed invece di passarvi una quantità di ore immobili, come si faceva altre volte, ora vi si alternano gli studi colla ginnastica, colle lunghe passeggiate; si misura il tempo, si studia soltanto in date stagioni; tutto per riguardo alla salute ed al benessere dei ragazzi. Conosco degli istituti dove le giovinette, che non si debbono esporre al freddo della strada per andare a far colazione alle loro case, si portano una costoletta preparata in un piattino, ed un piccolo fornello a spirito, e nell’ora della ricreazione si cuociono quel manicaretto sostanzioso. Ne conosco altri, dove l’istituto stesso fornisce, dietro richiesta dei genitori, le colazioni calde alle alunne, come se fossero in una piccola locanda. Ai nostri tempi la colazione che si portava alla scuola era composta di pane e frutta. Non altro. Le bottigliette del vino, che ora si portano generalmente, ci avrebbero inspirata una grande stupefazione. I castighi, i veri castighi che tutti noi ricordiamo, — lunghe genuflessioni, lunghe reclusioni in un camerino, privazioni di frutta, e persino il regime a pane e minestra per vari giorni, tutto questo è passato allo stato di leggenda. Non so se i fortunati bambini, curati, accarezzati col dolce sistema moderno, che approvo, riescano moralmente migliori di quelli d’altre volte, avvezzi dai primi anni a sopportare delle piccole contrarietà. Non so neppure se il loro fisico si rinforzi realmente nelle agiatezze; ad ogni modo, l’infiacchimento che può provenire dalle soverchie delicatezze, dev’essere corretto dalle cure igieniche. Ma quello che mi parrebbe naturale, è che i bambini d’adesso fossero più felici dei loro piccoli predecessori, trattati tanto più rozzamente, e tenuti in soggezione. Ed invece non mi pare di riscontrare nelle piccole brigate e sui volti giovinetti dei bimbi del ceto civile, l’allegria schietta, spensierata che una volta era generale nei fanciulli. Vedo sovente dei visini giovani improntati d’una gravità prematura, ed alle volte d’un’ombra di malinconia che m’impensierisce. Oh bambini; o gioventù noncurante! Se sapeste a che amore s’inspirano quelle cure che vi circondano e che spesso vi danno noia; se sapeste che lavoro assiduo, che privazioni, e che pensieri, e che cumulo di fastidi costano ai vostri parenti, ne avreste un vantaggio infinito, perchè, se non altro, ne risentireste la gioia suprema di sapervi amati fino al sacrificio; e le gioie di questa specie fanno bene allo spirito ed al cuore, quanto l’igiene fa bene al corpo. I nuovi sistemi, che rendono tanto dispendiosa l’educazione dei figli, non permettono più, o permettono di rado ai parenti di accumulare, anno per anno, dei piccoli risparmi, e di crearsi un modesto patrimonio, pel riposo e per l’agiatezza della loro vecchiaia. Eppure vi sono parenti che, pel benessere dei loro figli, accettano anche questa prospettiva orrenda, della povertà nella età avanzata, dopo una lunga vita di lavoro. Si rassegnano a campare come potranno, magari della riconoscenza dei figli che hanno allevati, a vivere in una relativa dipendenza, nell’età venerabile che avrebbe diritto a tutte le indipendenze, a tutte le supremazie, quando si gloria del ricordo d’un passato onesto ed operoso. Questo è il colmo, è la sublimità dell’abnegazione; è l’eroismo della paternità. È perchè i miei piccoli lettori possano apprezzare al loro alto valore le cure, i sacrifici che si fanno per loro, perchè si fermino qualche volta a considerare quanto tesoro di benevolezza rappresentano una costoletta, un paio di guanti, un mantellino imbottito, un’inezia, che per lo più lasciano passare inosservata, che ho scritti, dal gennaio al dicembre del 1886, questi racconti, e che ora li raccolgo in un volume. Sono una serie di episodi veri, dell’infanzia, e della gioventù di persone, che ora sono mature o vecchie, e specialmente del mio nonno, che è morto da vent’anni. Egli era fanciullo nell’ultimo quarto del secolo passato, quando a pochi, a pochissimi eletti, figli di grandi famiglie patrizie, erano concesse certe raffinatezze, delle quali ora si circonda anche un bambino di condizione modestissima. Allora i figli dei piccoli possidenti, dei commercianti, dei professionisti, erano allevati un po’ alla guardia di Dio, e dovevano cominciar presto a lavorar di gomiti per farsi largo nella vita. Sono episodi semplici, buffi fors’anche. Ma quando ne avrete riso, bambini, ripensateci un poco; e vedrete come per voi si sono spianate tante difficoltà, come si sono banditi tanti rigori, come la vostra esistenza è più facile ed agiata. E, se siete buoni, ne sarete commossi, e sentirete un’immensa gratitudine pei vostri maggiori che si consumano la vita a lavorare per voi. _Come il nonno imparò a nuotare_ Il nonno, che quando era bimbo, come è ben naturale, non era punto nonno, e si chiamava Andrea, abitava in un piccolo villaggio del basso Novarese. Suo padre era farmacista, il che, a quei tempi, non significava, come ora, preparare e vendere medicinali e, per giunta, tenere una raccolta di specialità più o meno ciarlatanesche in boccette e scatoline eleganti, e ciarlar di politica col medico condotto e con le altre autorità e notabilità del paese. Il farmacista di Cerano, allora, vendeva e fabbricava una serie di cose, anche estranee affatto alla farmacopea; come per esempio il carbone, la polvere di riso, la cioccolata, la mostarda. Era dunque un uomo straordinariamente affaccendato, ed aveva ben poco tempo, per non dire che non ne aveva punto, per occuparsi a vezzeggiare i suoi figli. Sua moglie era in farmacia fin dalla mattina, e faceva le veci del marito tutto il tempo che egli doveva passare alle carbonaie. E quando lui prendeva il suo posto dietro il banco, lei badava alla cucina, al bucato, a tenere in ordine i vestiti dei figlioli, all’allevamento dei bachi nei mesi di maggio e giugno, ai polli, alle oche, ad un’infinità di cose, per le quali le ventiquattr’ore della giornata le bastavano appena, grazie alla sua grande attività; ma, a rigore, sarebbero state insufficienti. I figli, che erano tre, venivano svegliati ogni mattina dalla mamma, che, di buonissima ora, bussava forte all’uscio dello stanzone, dove dormivano su tre lettucci, composti di due cavalletti, d’un saccone di foglie e d’una materassa. A cinque anni cominciavano già a lavarsi e vestirsi da sè alla meglio. Prima dei cinque anni, era Andrea, il fratello maggiore, che aiutava i più piccini. Gli era capitata addosso a sei anni quella prima responsabilità; ma non gli era mai riuscita gravosa. È vero che qualche volta i piccini, assonnati, capricciosi, gli menavano qualche pugno; ma lui lo rendeva equamente; se gridavano, gridava più forte di loro, e, bene o male, finivano sempre per esser vestiti tutti ogni mattina, e per scendere in cucina. Era là che la mamma li aspettava per le preghiere; così, senza perder tempo, recitava forte un _pater_, un’_ave_, un _credo_, mentre scodellava la polenta, e versava in ogni scodella di polenta calda, una buona mestola di latte fresco pei figlioli. Dette le orazioni e mangiata la polenta, i tre ometti andavano alla scuola, muniti del sillabario, della dottrina cristiana, dell’abbaco, del quaderno per lo scritto, e d’un panierino col pane ed una mela per la colazione del mezzogiorno. Il pane era abbondante, la mela era sempre una sola; e quando non era la mela erano quattro noci, o una pera. Mai nulla di più appetitoso. La costoletta, la bistecca, o le ova sbattute delle nostre scolarine moderne, non erano mai balenate alla mente di quei ragazzi, neppure in sogno. Se avessero udito di qualcuno che si fosse portato il vino per la colazione a scuola, come ora si fa da molti, avrebbero creduto che si trattasse del principe Camaralzaman o della principessa Badour, delle _Mille ed una notte_, e l’avrebbero considerata come una delle tante stravaganze di quei personaggi meravigliosi. Al ritorno dalla scuola, babbo e mamma, facevano trovare ai figli il desinare, il focolare acceso nell’inverno, il letto per dormire, gli abiti per mutarsi. Confetti, trastulli, passeggiate, giochi, vezzeggiamenti, erano cose ignote. E questo, non perchè il babbo del nonno fosse veramente povero. Aveva qualche fondo, la farmacia, e guadagnava benino, ed in un piccolo paese come Cerano, dove la vita costava meno che in città, ed a quei tempi, si poteva dire un uomo agiato. Ma prendeva la vita molto sul serio. Aveva dei principii austeri. Guai a fare un debito! A’ suoi occhi era una vergogna. Guai a ritardare d’un giorno un pagamento; era mancare ad un dovere. Guai a spendere quattrini in una cosa inutile, in una superfluità, in un divertimento, mentre con quel denaro si poteva fare qualche cosa di seriamente giovevole all’avvenire dei figli, o soccorrere della gente in miseria! E quell’austerità l’applicava a sè stesso prima che agli altri. Vestiva quasi come i contadini del paese, mangiava nel modo più frugale, non aveva mai portato guanti in vita sua, non andava mai neppur fino a Novara, se non per necessità del suo commercio o della famiglia, non entrava mai nell’unico caffè del paese, e tanto meno nell’osteria. Nessuno dunque poteva biasimarlo se non comperava dei giocattoli ai suoi figli, per quanto loro li desiderassero. Del resto i ragazzi si trastullavano egualmente. Ma lo facevano per iniziativa propria e come potevano. Uscivano soli pel paese, andavano in cerca di nidi, coglievano le more sulle siepi, pescavano nella Morra, vi facevano i bagni; ed era un arrampicarsi, un saltare, un correre, un dimenarsi in tutti i modi, che non aveva nulla da invidiare alla ginnastica sistematica delle nostre scuole. La mamma se ne accorgeva dagli strappi che trovava nei vestiti, ognuno dei quali era salutato da una sgridata o da uno scappellotto. Ma la mamma non ci metteva fiele, ed i ragazzi non se ne avevano a male. Nei calori ardenti dell’estate, tutti gli altri spassi erano trascurati, ed i giovinetti del paese passavano nell’acqua tutte le ore che la scuola e le occupazioni di casa lasciavano loro di libertà. Quasi tutti sapevano nuotare. Eppure nessuno aveva mai presa una lezione di nuoto, nè era mai stato accompagnato in acqua da un marinaio, nè s’era legate sulla schiena due zucche come le ali d’un amorino, nè s’era aggrappato disperatamente ad un salvagente. I parenti d’allora non si davano tante brighe. Trovavano che il nuoto non era una necessità, e dicevano: «Se non potete imparare da voi, fatene a meno». Molti, molti anni dopo, quando il piccolo Andrea era diventato il nonno, noi s’andava qualche rara volta in campagna per alcuni giorni sul lago d’Orta. Là c’erano delle nostre compagne, che avevano una casa in riva al lago, una darsena, un canotto, un marinaio, o piuttosto un barcaiolo, marinaio d’acqua dolce. Noialtri pure avremmo voluto nuotare, ma non sapevamo. S’entrava nell’acqua a uno a uno col barcaiolo che ci teneva le mani, e ci faceva fare l’esercizio, ripetendo all’infinito, come fanno i caporali coi coscritti: «Uno, due, tre, quattro». Noi ci si metteva un’attenzione intensissima che ci irrigidiva tutti, e si aveva una paura smisurata, e non si riesciva mai a mettere d’accordo le braccia con le gambe, e s’andava regolarmente sotto, appena il barcaiolo ci lasciava. Il nonno, alto, forte, tutto bruciato dal sole, stava ritto sulla spiaggia come una grande statua di bronzo, e, ridendo dei nostri sforzi, diceva: «Io non ho mai imparato quell’esercizio, eppure sono stato un nuotatore famoso. Ma ai miei tempi queste cose non entravano nel numero di quelle che si debbono imparare. Era un gusto come un altro, e, chi lo voleva, se lo procurava come poteva». «A Cerano, poco fuori dal paese, c’era un ponte sulla Morra, alto come un secondo piano, ed anche più. Si chiamava: _Il ponte del diavolo_. Vi sono molti ponti che si chiamano così, sebbene non abbiano nulla di tremendo, di diabolicamente pauroso e bello, come il _Ponte del diavolo_ che i viaggiatori vanno ad ammirare sulla via del Gottardo. «Vedevo i miei compagni che spiccavano il salto da quel ponte, affondavano un istante, poi diguazzavano scotendo l’acqua e spruzzandone da tutte le parti, e col capo fuori dall’acqua tiravano via a nuotare allegramente. «Li invidiavo. Mi struggevo di fare altrettanto. Ma ero ancora molto piccino. Avevo, credo, sette anni. Non sapevo nuotare, e dovevo accontentarmi di bagnarmi alla riva, correndo nella sabbia, coll’acqua fino alle spalle. «Una volta domandai a mio padre: — Come si fa per imparare a nuotare? «E lui mi rispose: — Ma! Si prova. Io ho nuotato finchè sono stato giovane, senza che nessuno mi abbia mai insegnato. «Poi, crollando le spalle, soggiunse: — Del resto, non c’è nessun bisogno d’imparare a nuotare, quando non si deve fare il marinaio. «Io non ne parlai più. Ma ne avevo una gran voglia. Un giorno stavo sul _Ponte del diavolo_ guardando alcuni compagni che nuotavano di sotto, e dissi a due altri che si preparavano a fare il salto: — Come mi piacerebbe di saper nuotare anch’io! «Non avevo terminato di dirlo che mi sentii sollevare da terra e precipitare nel vuoto, mentre i compagni che mi buttavano giù, gridavano agli altri che erano già nel torrente: — Attenti! attenti! Badate che vien giù Andrea! «Affondai nell’acqua, provai un gran freddo, una gran soffocazione, poi respirai a stento. Avevo la testa fuori dell’acqua e due nuotatori me la reggevano, tirandomi innanzi. «Non so come avvenisse, ma bastò quella lezione. «Il giorno dopo spiccai il salto da me, ed ebbi appena bisogno dell’aiuto dei compagni per tornare a _galla_. «La terza volta non ebbi bisogno di nessun aiuto. Sapevo nuotare. «La mamma, quando le dissi quel fatto si mise di malumore; forse aveva paura per me; ma non me lo disse. «Mio padre borbottò tutto accigliato: — che ero una testa matta, che avevo arrischiato di rompermi il collo per imparare una cosa inutile, un perditempo... «Io mi arrischiai a dire: — Ma ha detto l’altro giorno che anche lei ha nuotato finchè è stato giovane, babbo... — È vero. Ma non ho cominciato dal salto. E poi, se io ho perduto del tempo inutilmente, non è quello che ho fatto di meglio, e non devi imitarmi. Se hai delle ore di troppo vieni alle carbonaie, che troverai da occuparti meglio. «Fu tutta la gloria o l’ammirazione che mi fruttò quel mio rapido progresso nella nautica. «Tenetelo a mente, signorini, che mi fate spendere i quattrini della lezione, e credete di aver fatto molto, e quasi quasi pretendete ch’io vi lodi e vi ringrazi, quando ne avete profittato un pochino. _Santa Lucia_ Richiamo un ricordo molto, molto lontano. Forse il più lontano; forse la prima delle storie del nonno, che io abbia capita, e che mi sia rimasta in mente. Era un inverno rigido. Sento ancora l’impressione assiderante che provavo uscendo di casa il mattino alle otto per andare alla scuola; sento il soffio d’aria diaccia che mi entrava nel collo, e mi faceva l’effetto di una doccia. Nella mia piccola città di provincia, a Novara, non c’erano, come nelle grandi città, gli omnibus che abbreviassero le strade. Bisognava andar sempre a piedi, a meno d’esser signori da carrozza; e questo non era il caso mio. Mia sorella era in collegio; c’era entrata appunto quell’anno. Mio fratello frequentava, come me, le scuole elementari municipali; ma le sue, le maschili; erano da un’altra parte. Andavo dunque alla scuola sola, accompagnata dalla cuoca, che era la nostra unica persona di servizio; una vecchia taciturna. Tutta la strada, non avendo con chi distrarmi a parlare, a fare il chiasso, pensavo al freddo; e sebbene avessi il mantellino, mi pareva di gelare. C’erano due sorelle, figlie d’una famiglia della borghesia ricca, che venivano alla scuola con un gran goletto di pelo d’ermellino. Lo si vedeva biancheggiare da lontano, e formava l’ammirazione di tutta la scolaresca, dalla prima alla quarta elementare. Io lo invidiavo appassionatamente. E, non so perchè, a forza di pensarci, mi ero persuasa di poter aver in dono una meraviglia simile, per la festa di Santa Lucia. Perchè nel Novarese, ed a quei tempi, non era a Natale, ma il giorno di Santa Lucia, il 13 dicembre, che si ricevevano le strenne, nel panierino, messo appositamente fuori dalla finestra la sera prima. A Natale si davano le mancia ai giovani dei negozi, _le buone feste_, i negozianti di commestibili mandavano le _buone feste_ con un dono, alle loro pratiche. Ma la strenna dei bimbi nel panierino, la strenna misteriosa, che si doveva fingere di non sapere da dove venisse, la strenna soprannaturale, la portava Santa Lucia. Però i bambini furbi ripetevano una vecchia quartina informe: Santa Lucia Mamma mia Colla borsa del papà Santa Lucia la vegnirà. Non so perchè mi tenessi quasi sicura di quella strenna sfarzosa. Era l’intensità del desiderio, che m’aveva suscitata nel cuore la temeraria speranza. Del resto, avevo tanto parlato in casa del bel goletto delle mie compagne di scuola, che la mamma non poteva ignorare quale fosse il dono più gradito da suggerire a Santa Lucia per la mia strenna. La domenica, quando andai a trovare mia sorella in collegio, le comunicai la mia grande speranza. E lei si mise subito a calcolare quale cosa magnifica potrebbe portare Santa Lucia a lei, perchè potesse stare a confronto di quel goletto che doveva costare tanto caro, e che lei non poteva avere perchè portava la divisa del collegio. La mattina del giorno 13, appena svegliata, e mi svegliai prestissimo, saltai giù dal letto, ed in pura camicia da notte, coi piedi nudi, corsi a spalancare la finestra della mia cameretta, per ritirare il prezioso panierino. Con mio grande stupore non lo trovai ricolmo come gli altri anni. Non se ne vedevano rigurgitare le carte frastagliate delle caramelle; non si vedeva sporgere tra un arruffio di carte d’ogni colore, e di chicche senza carta, il capino biondo di una bambola. Eppure, la bambola, le chicche, ed un’orribile figurina di pasta, con un’inverniciatura di zucchero a colori, rappresentante Santa Lucia cieca con in mano i suoi occhi sopra un vassoio, erano il complemento inevitabile d’ogni strenna. Come mai non c’erano? Doveva essere stata una dimenticanza. Ma, certo il goletto, non poteva mancare; e, per me, era il più importante. Al resto si penserebbe poi. Infatti, il goletto c’era, in fondo al paniere, avvolto in un bel foglio di carta color di rosa. Ma non era d’ermellino; era grigio. Seppi più tardi che era un pelo fine, e che si chiamava _petit-gris_. Ma a me parve brutto, con la sua tinta neutra e scura, e dopo che avevo vagheggiato il bianco latteo dell’ermellino, messo in risalto dalle belle virgole nerissime e lucenti. Gettai, stizzita, il goletto grigio ai piedi del letto. Tornai a rannicchiarmi fra le lenzuola, e mi misi a piangere disperatamente. Dopo circa mezz’ora, quando la mamma entrò nella mia cameretta, singhiozzavo tanto, che mi sarebbe stato impossibile dire una parola. Alle sue domande, potei soltanto rispondere accennando colle mani il goletto e piangendo più forte. La mamma rimase un po’ male. Si aspettava una dimostrazione di gioia, e mi trovava invece nella desolazione. Tuttavia, cercò di persuadermi che quel goletto era bello quanto quello delle mie compagne. Mi disse che il _petit-gris_ era un pelo di pregio, e che le era costato tanto, che lei aveva dovuto rimetterci anche i quattrini destinati a completare la strenna coi chicchi e colla bambola. Ma io ero inconsolabile, e continuavo a ripetere fra i singhiozzi: — Lo volevo d’ermellino! Le ragazze a scuola non lo sanno che questo pelo grigio costa caro! Non lo crederanno! La mamma fece il volto serio, e disse: — Perchè ti preme tanto che sappiano che costa caro? È una vanità volgare e stupida. Io ti ho scelto apposta il goletto di questo colore modesto, appunto perchè non dia nell’occhio come un oggetto di lusso. Noi non siamo ricchi, e dobbiamo vestire secondo il nostro stato. Non ti ricordi della storia della rana che si gonfiava per rassomigliare al bue? Vorresti fare la stessa figura? Ma questi discorsi non valevano a persuadermi. Tutto il giorno fui imbronciata, e borbottai «che, per non avere il goletto come volevo io, non metteva conto d’esser privata della bambola e dei confetti». E leticai con mio fratello, perchè volevo prendergli le sue chicche ed i suoi soldatini di legno dipinto. Il nonno, quando udì quelle lagnanze, mi rimproverò severamente. — Sei un’ingrata. La tua mamma ha fatta una spesa per regalarti quel goletto, ed ha cercato di accontentarti, nella misura che era conciliabile colla modestia con cui debbono vestire le ragazze che non sono ricche. E tu la compensi molto male della sua generosa bontà. Disse questo con un piglio fermo ed austero, che rendeva sempre inesorabili le sue parole, e ce le imprimeva nella mente. Poi stette zitto un tratto, e finalmente, riprendendo il suo fare mite e cordiale, incominciò a parlare dei tempi remoti della sua infanzia. Era una sua abitudine di raccontare episodi e storielle di quel lontano passato. Ce li dava come esempi, come lezioni di vita austera, per correggerci di certe nostre tendenze al lusso ed alle agiatezze; due cose che egli diceva «molto dannose alla gioventù, la quale deve temprarsi per affrontare gli attriti e le lotte della vita.» Quel giorno disse: «Io, da ragazzo, non ebbi mai il gusto di trovarmi sul balcone, la mattina di Santa Lucia, un paniere rigurgitante di dolci e giocattoli e cose belle, come lo trovate voi ogni anno. «La strenna, quel giorno, l’avevo anch’io. Ma mio padre voleva che fosse sempre un dono serio come lui. Un oggetto di prima necessità, che doveva comperarmi inevitabilmente, e che il più delle volte, per poter rappresentare, a suo tempo, la strenna di Santa Lucia, mi giungeva molto in ritardo, e, per conseguenza m’imponeva prima una privazione. «Serbo ancora memoria d’un inverno crudele, durante il quale mi toccò di andare alla scuola, dal quattro novembre fino al dodici dicembre, poco meno d’un mese e mezzo, colle mani orribilmente gonfie e screpolate dai geloni, che mi dolevano come bruciature quando le esponevo all’aria gelida del mattino; e tutto quel tempo sospiravo la benedizione d’un paio di guanti di lana. «Se ne parlava continuamente, in casa, di quei famosi guanti. Mi si facevano balenare agli occhi della fantasia come un miraggio. Si diceva che con dei guanti di lana non avrei sentito più nessun dolore, che i geloni mi sarebbero guariti immediatamente; che erano anzi il solo rimedio efficace.... Tutto questo per farmeli apprezzare in tutto il loro valore. «Ma però continuavo ad uscire ogni mattina con un freddo di parecchi gradi sotto zero, e colle mie povere mani nude, che parevano due informi cuscinetti paonazzi. «Fu soltanto la mattina di Santa Lucia, che andando a ritirare la mia scarpa sul ballatoio che dava in corte, vi trovai i guanti tanto vagheggiati, fatti da mia madre a calza. «Ah! come avrei preferito restare senza strenna, non mettere neppure fuori la scarpa, ma avere i guanti un mese prima! «Ve l’ho detto, mi pare, che a Cerano, come in tutte le nostre campagne si mette una scarpa sul balcone per ricevere la strenna, invece del paniere che mettete voi! «Del resto, quei giorni che precedevano il Natale, erano un periodo molto laborioso nella nostra annata, e non lasciavano molto tempo per fantasticare sulle strenne di Santa Lucia. «A Natale, mio padre mandava un dono a tutte le famiglie agiate del paese, per conservare le pratiche alla sua farmacia. E quei doni toccava a me prepararli, e portarli a destinazione. «In principio di dicembre, si faceva venire da Novara un cioccolattaio, colla larga pietra scanaliate ed il grosso cilindro di marmo per macinare il cacao. «Quell’uomo lavorava a giornata in cucina, macinando e rimacinando la pasta profumata e lucida, che faceva una gola da non dire a me ed ai miei fratellini. «E dopo la scuola, che finiva alle tre, io dovevo preparare i fogli bianchi e quadrati, ed avvolgervi le tavolette di cioccolata, che il cioccolattaio aveva preparato lungo il giorno. «Poi c’erano delle larghe torte, dei metri quadrati di cotognata, fatta da mio padre nell’autunno, che aspettavano me, per essere tagliate a quadri, a dischi, a stelle, a cuori. «Poi dovevo fare dei sacchetti ingommati per mettervi della cipria e dell’amido, dello zucchero e del caffè. «Tutte queste cose erano destinate alle strenne degli avventori, e dovevano essere pronte almeno tre giorni prima di Natale. «Avevo dunque molto da fare in quella prima metà del dicembre. «I miei fratelli, che erano troppo piccini per aiutarmi in quei lavori, facevano da sguatteri alla mamma, che, come tutte le buone massaie del Novarese, in quel giorno aveva l’abitudine di _preparare_ le oche: riporre le carni in sale pel resto dell’inverno, fare lo strutto col grasso, friggere la pelle. Si rendevano utili anche loro, poverini. «E questi erano i nostri teatri, i nostri _bals-d’enfants_, i nostri alberi di Natale, i nostri divertimenti. «Di divertimenti, nell’inverno, ne avevamo due: Giocare a tombola la Domenica in casa del medico, e scivolare sul ghiaccio nell’andare alla scuola e nel ritornare. «Ma questo secondo divertimento, siccome sciupava molto le scarpe, ci era proibito. Il che non vuol dire però che noi ce ne privassimo; io specialmente, che andavo a scuola solo, perchè de’ miei fratelli, uno solo andava ad una scuoletta infantile da una donna del vicinato, e l’altro stava ancora in casa. «Parlo di quando avevo sette anni. «Uscivo solo; il babbo non mi vedeva; com’era possibile che camminassi serio serio, su quel piano levigato che pareva fatto apposta perchè i bambini si divertissero a scivolare un poco? Quale sarebbe stata l’utilità d’avere il ghiaccio? «Ed erano delle volate lunghe parecchi metri, delle risate senza fine, che andavano in tanto sangue. «E quando era la settimana di Natale, ed avevo vacanza, e mio padre ne profittava per mandarmi in giro con un gran paniere di pacchi turchini, a distribuire alle sue pratiche le strenne lungamente preparate, si può dire che facevo tutta la strada scivolando, ed almeno venti volte al giorno ruzzolavo sul ghiaccio col paniere e tutto, spandendo tutti i pacchi sul ghiaccio. «Quell’anno appunto, quando io ne avevo sette, si cambiò il medico condotto, ed il nuovo venuto non c’invitò più la sera della Domenica a giocare a tombola. «Allora noi ragazzi, desolati, pregammo tanto e tanto, che il babbo ci promise di farci giocare nella retrobottega della farmacia... quando una qualche fortuna impreveduta, ci facesse avere le cartelle, i numeri, tutto l’occorrente pel gioco. «Io capii subito che quella fortuna impreveduta doveva essere la Santa Lucia, e che la tombola sarebbe la mia strenna. «Quel discorso si era fatto una sera a cena. «La mattina dopo, appena potei svignarmela colla cartella dei libri per andare alla scuola, corsi difilato fuori del paese, in un punto dove il ghiaccio era più sodo, e dov’ero sicuro di trovare i miei amici più cari, ed entrando in mezzo con una gran scivolata che finì in un capitombolo, annunciai, prima ancora d’essermi rimesso in piedi, che, cominciando dalla prima domenica dopo Santa Lucia, si giocherebbe a tombola in casa nostra. «Si pagavano due centesimi per cartella, ed era permesso soltanto ai grandi di prenderne due. Per cui il guadagno massimo, la tombola, non superava mai i trenta centesimi. «Ma noi ci si divertiva egualmente. «La buona novella fu accolta con una salva d’applausi e di grida; e, per festeggiarla, si combinò pel ritorno dalla scuola una grande scivolata. «Noi non si diceva ancora _pattinare_, e non so se quell’uso straniero fosse allora importato in Italia. Perchè vi parlo dei primissimi anni di questo secolo, figlioli, io sono nato alla fine di quell’altro. «Comunque fosse, a Cerano nessuno aveva idea del pattinaggio; neppure i Marchesi De Landi, i più ricchi proprietari dei dintorni, che abitavano un gran casamento in fondo al paese, e che quando c’era il ghiaccio uscivano colle soprascarpe di corda per paura di sdrucciolare. «Si può figurarsi se io presi parte alla festa del pomeriggio! «Ne presi tanta, che tornai dalla scuola quasi all’ora di cena, e le tavolette di cioccolata ne patirono, perchè non ebbi tempo d’incartarle, ed anch’io ne patii, perchè mi buscai due scappellotti da mio padre, ed una buona sgridata dalla mamma. «I giorni seguenti badai a dividere il mio tempo tra il ghiaccio e le occupazioni di casa, e rubando una mezz’ora ogni giorno al ritorno dalla scuola, mi tenni sicuro di poter scivolare senza farmi scorgere. «Intanto venne la vigilia di Santa Lucia. «La sera il babbo mi lasciò uscire pel paese, a vedere i banchi di dolci, illuminati con due candele circondate da uno scartoccio di carta bianca, e carichi di paste dolci, di torrone nella carta d’oro, di arancio, di zuccherini, e di Sante Lucie di pasta e di zucchero, cogli occhi sul bacile. «Lungo la strada, ad ogni amico che incontravo, rinnovavo l’invito per la prossima domenica a giocare a tombola. «Tornato a casa poi, prima d’andare a letto, misi una delle mie scarpe sul ballatoio verso corte. «Aveva la suola bucata quella povera scarpa; ed anche il tomaio era tutto spellato in punta e logoro; ed il tacco era scalcagnato che era una vera pietà. «Ma come fare? La sua compagna era anche in peggior stato, ed io mi consolai pensando che di notte il babbo non se ne sarebbe accorto. «Calcolando che il gioco della tombola, col cartellone, il sacco dei numeri e tutto, non potrebbe mai stare nè dentro nè sopra una scarpa, per quanto non fosse quella di Cenerentola, le misi sotto disteso un bel foglio di carta turchina, dei più larghi che trovai in farmacia; per ricevere il dono desiderato. «Poi me ne andai a letto, ansioso di rivedere il giorno, e con esso la strenna, che doveva procurare a me, ed ai miei compagni, tante sere di spasso. «Ed il giorno venne, come tutti i giorni desiderati o no, felici od infelici. «Ma quando mi accostai, tutto palpitante, alla vetrata del ballatoio, vidi il foglio turchino fatto più scuro dall’umidità della notte, e su quel tappeto azzurro, isolata, e triste come un paracarro sopra una strada, la mia povera scarpa scalcagnata. Non altro. Nè cartelle, nè numeri, nè cartellone. Nulla. «Sebbene mi battesse forte il cuore per lo sgomento, pensai: — È perchè il gioco non stava nella scarpa. Il babbo me lo darà in mano or ora, quando scenderò a colazione. «Però, guardando meglio traverso i vetri rabescati dal ghiaccio, vidi un pezzettino di foglio bianco, che sporgeva malinconicamente dal gambale della mia scarpaccia. «Cosa poteva essere? «Forse che il babbo non aveva trovata occasione di far comperare la tombola a Novara, ed aveva messi i quattrini in quel foglio, perchè me la comperassi io? «Sicuro; doveva essere così. «Spalancai in fretta il balcone. Tirai dentro la scarpa, ed apersi il foglio misterioso. «Ma no; non c’erano punto quattrini. C’erano soltanto poche parole di scritto. — «Buono di L. 4, per la risuolatura ed altre riparazioni, ad un paio di scarpe sciupate scivolando sul ghiaccio.» «IL BABBO.» «Oh, non aveva bisogno di scriverlo che era il babbo! Lo avrei sentito, lo avrei indovinato. Lo avevo indovinato alla prima, sebbene cercassi di farmi illusione, che quella scarpa solitaria e quel fogliolino rappresentavano un guaio! «Era il prezzo della tombola, che doveva pagare la riparazione delle scarpe. E la mia strenna di Santa Lucia si riduceva ad un rimprovero e ad un castigo.» . . . . . . . Quando il nonno ebbe finito quel racconto, andai a prendere il mio goletto di pelo grigio, me lo misi sulle spalle, e corsi a ringraziare la mamma che, fin d’allora, tanti anni fa, mi disse: — Oh, i figlioli d’adesso sono ben più fortunati di quelli d’una volta! Ma per voi, piccoli lettori, io rappresento, colla mia storia ed il mio goletto, degli altri figlioli d’una volta. E dire che voi avete dei pattini per pattinare sul ghiaccio, un maestro che vi insegna quel divertimento come se fosse uno studio, e dei mantelli foderati di pelliccia per coprirvi quando avete finito di pattinare! Voi sì che siete veramente in grado di fare il confronto tra i ragazzi d’una volta e quelli d’adesso; e dovete sentire una gran gioia per la vostra fortuna, ed una gran riconoscenza pei vostri parenti, pei maestri, per la società, per la provvidenza, che vi rendono tanto felici! _Come il nonno si fece levare un dente_ Un giorno il nonno ricevette una lettera da mio fratello, che era in collegio a Vercelli, nella quale il povero ragazzo annunziava d’essere tormentato da un forte dolor di denti. Il giorno dopo giunse un’altra lettera con una descrizione straziante degli spasimi del malato. Il direttore aveva fatto chiamare il chirurgo dentista, e Mario aspettava con ansietà d’essere visitato. Il terzo giorno venne una terza lettera. Il dentista aveva dichiarato che la carie era troppo avanzata perchè il dente si potesse ancora impiombare. Il paziente però non si sentiva il coraggio di farselo levare, ed aveva domandato che, prima di ricorrere a quella misura _estrema_ e _barbara_, si tentassero tutti i rimedi possibili. Aveva trovato un sollievo momentaneo nel laudano; ma poi era ricaduto nelle sue atroci sofferenze. Inutile dire che, da otto giorni, aveva lasciato gli studi e tutto, e stava nell’infermeria gemendo e piangendo. Per una settimana ancora continuò a venire ogni giorno un bollettino sanitario, nel quale il malato stesso riferiva minutamente le cure tentate, le pillole d’oppio, persino un’iniezione di morfina descritta pomposamente, come una seria operazione sopportata con coraggio, poi il creosoto, gli empiastri applicati alla guancia, e gli effetti più o meno buoni, e più o meno durevoli d’ogni rimedio. Finalmente venne una lettera del direttore, il quale avvertiva solennemente il nonno, che la sofferenza di Mario, sebbene non avesse nessuna gravità, non si potrebbe realmente guarire, se non coll’estirpazione del dente cariato. Questo annuncio era accompagnato da una dichiarazione del chirurgo-dentista, il quale faceva ogni settimana una visita ai denti di tutti gli allievi del collegio, li puliva, li limava quand’era necessario, li medicava, ed in questa circostanza speciale di Mario, giudicava inevitabile l’estirpazione del dente guasto. Si pregava il nonno di rispondere per telegrafo, perchè il malato era molto nervoso ed intollerante. Il nonno non s’era mai crucciato di tutto questo; più volte aveva data una scrollatina di spalle ricevendo le lettere urgenti di Mario; ed anche quella mattina sorrideva tra sè mentre scriveva il suo telegramma di risposta che diceva: «Si faccia pure grande operazione. Raccomando coraggio piccolo eroe.» Sgraziatamente, pare che il piccolo eroe non ne avesse di molto, perchè in giornata venne un altro telegramma del direttore: «Mario esige essere cloroformizzato. Non oso assumere responsabilità. Cosa fare?» Il nonno questa volta fece una vera risata, e rispose, sempre per telegrafo: «Differite finchè avrete lettera. Scrivo subito.» E, spedito il telegramma, temperò una bella penna d’oca, una rarità che si trovava sempre in casa nostra, perchè il nonno aveva una pessima opinione delle penne d’acciaio, e scrisse a mio fratello: «Caro Mario, «Sono sbalordito del chiasso che fai per un dente cariato. «Ammetto che ti dolga molto, e ti compiango... fino ad un certo punto. «È un fatto che noialtri vecchi siamo sempre un po’ in lotta coi nuovi sistemi. Ma è certo che ai miei tempi, quando non si usavano le visite settimanali del medico (trenta lire all’anno), alla dentatura dei ragazzi, e si badava un po’ meno a qualche piccola sofferenza, o anche a qualche grave sofferenza purchè non presentasse nessun pericolo, e si lasciava un pochino che i giovinetti si dibattessero da sè nella gran lotta della vita, si era, alla tua età, più coraggiosi e più forti di quanto tu hai dimostrato di essere. «In risposta alle molte lettere, bollettini sanitari, dichiarazioni mediche e telegrammi, che costituiscano il voluminoso incartamento del tuo caso straziante, ti dirò come io, a nove anni, mi feci levare un dente. «Vivevo, come sai, a Cerano, non lontano dalle risaie, in mezzo alle praterie irrigate, paese di nebbia e di vapori malsani. Un autunno l’umidità fu tanta, che anche i miei giovani denti se ne risentirono. Cominciai dall’avere una flussione alla guancia destra, che si gonfiò enormemente tirandomi il naso tutto da un lato, e coprendomi un occhio, e finii per rimanere con una fitta acuta, dolorosissima, come se m’introducessero un succhiello proprio sotto l’occhio destro, poi lo togliessero con uno strappo, poi lo introducessero di nuovo girandolo e rigirandolo dentro. «Mio padre era occupato intorno ai lambicchi dove distillava le vinaccie per far l’acquavite; la mamma aveva al fuoco dalla mattina alla sera un’enorme caldaia in cui faceva cuocere, collo zucchero e col miele, le frutta per la mostarda. «A queste faccende straordinarie dell’autunno, si univano quelle ordinarie della famiglia e della casa. «Per conseguenza nessuno aveva tempo d’intenerirsi per il mio mal di denti. «O, forse, s’intenerivano, perchè, sebbene non facessero carezze, i miei genitori mi volevano molto bene. Ma non avevano tempo nè di compiangermi, nè di chiamare a consulto la _facoltà_ per un male del quale non si muore. E quanto ad amministrarmi narcotici e corrosivi, il babbo non voleva saperne, dicendo con ragione: «È meglio patire un po’ di più, che guastarsi i denti, e magari anche la salute, con le medicine.» «Io, dunque, non andavo a piagnucolare con loro. Mi sforzavo di sopportare il mio male con coraggio, aspettando che finisse. «Ma non finiva. «Una mattina mio padre mi disse: — Dovrei mandare a Novara questa partita d’acquavite che ho venduta ad un liquorista, e mi accomoderebbe che tu andassi sul carro per tener d’occhio il carrettiere, che non mi avesse a fare qualche marachella. Ma con quel male, non potrai?... «Pensa, caro il mio infermo, fin dove tu alzeresti le braccia per invocare il cielo in testimonio dell’umana barbarie, se in questo momento ti proponessero, non dico una strada di sette chilometri sopra un carro scoperto in una giornata umida di novembre, ma soltanto di scendere dall’infermeria per assistere ad una lezione. «Io invece, senza essere per questo un eroe, ero avvezzo a prendere la vita sul serio, ed a rendermi utile nella misura delle mie forze di nove anni. Dissi ad un mio compagno più grande di me, che aveva dei denti infelicissimi: — Come dovrei fare per farmi cavare questo maledetto dente nella giornata? Vorrei star bene per andare a Novara domattina... «L’altro mi rispose: — Fa come faccio io ogni volta che ho un dente troppo dolente e troppo guasto: vieni dal fabbro. «Fui un po’ meravigliato, e dissi: — Dal fabbro? Per farmi levare un dente? «Ma sì! Vorresti andar dal chirurgo come una donnina? «A dire il vero, avrei preferito andare dal chirurgo come una donnina. Quel fabbro mi faceva un po’ di paura. Ma il chirurgo era burbero; mi vedeva da parecchi giorni girare per la farmacia col volto sfigurato, ed invece di guardarmi in bocca per veder di guarirmi, mi aveva detto: «Effetto dell’umido; passerà» e non ci aveva badato più. Era anche, per principio, contrario alla estirpazione dei denti. Mi rassegnai dunque ad andare col mio compagno, che mi condusse dal fabbro, in fondo al paese, e gli disse: — «Lavatelli, c’è un’operazione da fare. Un buon colpo; mi raccomando: è un mio amico. «Il fabbro, senza neppur guardarmi, andò a prendere uno spago, poi venne da me e domandò: — «Dov’è questo dente? «Io glielo mostrai. Egli mi pose in mano lo spago e mi disse: — Legalo; prendi lo spago nel mezzo, per lasciarmi i due capi della stessa lunghezza. «Da me solo stentavo; ma, coll’aiuto del compagno, si riescì a legare il dente cariato collo spago. «Allora il fabbro legò i due capi all’incudine tenendoli molto corti, tanto che dovevo star chino per non sentirmi tirare il dente indolito. «Io domandai: — Ed ora, come si fa? «Il mio compagno, venendomi accanto in modo da non lasciarmi vedere nè l’incudine nè il fabbro, mi rispose: — «A momenti, quando te ne sentirai il coraggio, darai una stratta spingendo il capo indietro... In quella un colpo tremendo, formidabile, del martello sull’incudine, fece tremare tutta la bottega, echeggiò come lo scoppio d’una bomba; e, nel sussulto pauroso che mi fece fare quel colpo inaspettato, diedi involontariamente una grande stratta allo spago, che rimase attaccato all’incudine col dente malato, mentre il mio compagno esclamava: — Ecco fatta l’operazione! «Infatti, tutto era finito; non soffrivo più, e non mi pareva neppure d’aver sofferto nel momento dell’estirpazione, tanto quel colpo m’aveva sorpreso e sbalordito. «E la mattina seguente potei andare tranquillamente a Novara sul carro, per proteggere con la mia presenza l’acquavite del babbo, contro gli attentati del carrettiere. «Ecco, figliolo mio, _come il nonno si fece levare un dente_. Ora quel mezzo primitivo ed un po’ barbaro non si potrebbe usar più, nè te lo vorrei consigliare. Ma rifletti a questa storiella della mia vita semplice, e fanne l’uso che credi. «IL NONNO.» Si stette due giorni senza nuove di Mario. Poi venne una lettera, tranquilla e seria, nella quale parlava degli studi, dei prossimi esami semestrali, di certe provviste che gli occorrevano; e soltanto in fondo, come cosa secondaria, diceva: «Sa, nonno? quel dente me lo feci cavare. Ma senza cloroformio. Avevo la sua lettera che ne faceva le veci.» _Come il nonno diventò un famoso ballerino_ La nostra povera mamma se n’era andata con Dio. Eravamo soli col povero vecchio nonno. Dopo le quattro classi elementari, egli ci mandò, mia sorella ed io, ad un istituto privato, come esterne, per impararvi il cucito e la lingua francese, la sola lingua straniera che trovasse grazia ai suoi occhi; ne aveva compresa la necessità ai tempi di Napoleone I, quando aveva veduti i francesi in carne ed ossa, sulle strade e nelle campagne del basso Novarese. Verso la fine di novembre la direttrice dell’istituto venne in classe ad annunziare che aveva fissato un buon maestro di ballo, per quelle allieve che volessero prender lezioni durante tutto il carnevale, e parte della quaresima; sessanta lezioni in tutto. La spesa sarebbe minima, venendo suddivisa, com’era da supporre, fra tutte le scolare, o almeno fra la massima parte di esse. Si può figurarsi in che stato di eccitamento ci ponesse quell’annunzio. Avevamo veduto una volta un ballo al teatro, e ci pareva già di far le piroette col vestito corto, con una gamba stesa, come quelle ballerine color di rosa, che ci erano sembrate delle enormi e leggerissime farfalle. Trovammo modo di parlarne il resto del tempo di scuola, e durante la strada del ritorno, animatissime, cogli occhi lucenti, le guance accese, gesticolando esageratamente, sebbene, a ripensarci ora, non mi riesca d’immaginare che cosa potessimo dire così a lungo su quell’argomento, tanto più che nessuna di noi pensava a sollevare il menomo dubbio su quelle lezioni tanto desiderate. Però, quando ci trovammo in faccia al nonno, provammo un senso di sgomento, una peritanza inesplicabile. Quel vecchio alto, color di bronzo, con le mani dure, con la parrucca messa alla peggio senza la menoma pretesa d’ingannar nessuno, aveva qualche cosa di troppo positivo, di troppo pratico, di troppo contrario all’idea elegante e pittoresca che noi ci facevamo del ballo, per incoraggiarci. Si stette un po’ impacciate, ripetendo: «Buona sera, nonno; buona sera» e non osando aggiunger altro. Fu lui che, sedendo a tavola, domandò, come del resto domandava ogni giorno: — Che cosa c’è stato di nuovo a scuola? Allora noi ci guardammo, molto confuse, e mia sorella scrollava il capo come per dire: — Io non parlo; non se ne fa nulla. Ma io, che di solito mi eccitavo di più e riflettevo meno, mi feci un gran coraggio, e dissi: — C’è stata una famosa novità. La direttrice ha preso un maestro di ballo. Il nonno alzò le spalle in atto di sprezzo, e sospendendo un minuto di soffiare nella minestra, disse: — Che idea! Poi ricomincio a soffiare. La Giuseppina mi diede una pedata sotto la tavola, ed io mi sentii batter forte forte il cuore. Per un momento la confusione c’impedì di parlare. Ma a misura che il desinare s’avvicinava alla fine, la mia impazienza cresceva e sentivo il bisogno di uscire da quella incertezza. Cercai di parlare con voce calma, e domandai: — Non le pare che sia una buona idea, nonno, quella del maestro di ballo? — Mi pare inutile. Cosa ne vuol fare, la direttrice, di questo maestro? Io risposi: — Far insegnare il ballo... a quelle che vogliono impararlo. Il nonno mi guardò, poi guardò la Giuseppina attentamente. Aveva capito; ma non lo disse, ed invece riprese: — Io ho ballato tutta la mia gioventù, e non ho mai pensato a prender lezioni di ballo. La Giuseppina, che non aveva ancora parlato, vedendo che le cose prendevano una brutta piega, venne in mio soccorso, insinuando timidamente: — Avrà ballato male... Ed io, con un’energia provocante, confermai: — Sicuro! Avrà ballato male. Il nonno sorrise, come ad un’immagine lontana che vedesse lui solo, ma non rispose. Poco dopo s’udi una scampanellata secca, nervosa, e subito entrò la signora Giovannina. Era una cugina del nonno, una zitellona, alta e sottile come una guglia, con una testina piccola, un naso diritto, come quello delle statue greche, le tempia depresse, e le labbra sottili sulle gengive sdentate. Pareva più una zitellona da romanzo, che una vera zitellona viva di provincia. Quella personcina così priva di carne, che a vederla pareva di sentire scricchiolare le sue piccole ossa sporgenti, era tutta nervi; vibrava come un apparecchio elettrico. Specialmente quando era irritata si scrollava tutta energicamente, e pareva un pioppo scosso dal vento. Il nonno aveva la facoltà di farla vibrare a quel modo parecchie volte ogni sera; perchè, o per distrazione o per il gusto di farla stizzire, la chiamava sempre a testimonio quando narrava le sue gesta giovanili; e la signora Giovannina rifiutava ostinatamente di rammentarsi di quelle date remote. Quel giorno, appena fu entrata, il nonno le disse: — Dite un po’, Giovannina, vi pare che noi si ballasse male, quando s’andava ai veglioni del ventuno... La signora Giovannina si diede una lieve scossa che fece svolazzare tutti i nastri che aveva addosso. Poi, voltandosi per deporre il cappellino, rispose: — Siete matto! Come volete che mi ricordi del ventuno? Ero una bambina... — Sì, una bambina di ventiquattro anni... Siete dell’altro secolo, Giovannina; non rinnegate vostro padre... E dopo aver lasciato che la signora Giovannina si scrollasse, scattasse, si facesse svolazzare tutti i vestiti intorno per un tratto, quando la vide un po’ più quieta, riprese: — Via, dite un po’ a queste grulline come si ballava noi, e come si era imparato a ballare. Si guardarono un momento ridendo, poi la signora Giovannina disse: — Le prime prove si fecero laggiù a Cerano, davanti alla farmacia di vostro padre... Ma dite voi, Andrea, ci avete più gusto di me a raccontare. Infatti il nonno ci aveva gusto, e cominciò a raccontare col volto ridente: «Il babbo di quel vecchio Lavatelli che viene ogni anno a potare le nostre viti, abitava, a Ceràno, in faccia a noi; e la domenica e tutte le feste comandate, passava il pomeriggio seduto fuori della porta di casa, sonando certe zampogne primitive che si fabbricava da sè, con la scorza dei pioppi. «Ora dico così, perchè ho veduto di meglio, ma allora avevo un’ammirazione infinita per le zampogne del vecchio Lavatelli, ed andavo in sollucchero quando lo sentivo sonare. La nostra Giovannina che allora era piccina, e portava quei vestiti lunghi colla vita corta, come quelle donnine in miniatura che vi fanno ridere quando le vedete nelle incisioni di quei tempi in cui non usavano ancora i calzoncini, veniva sempre a passare qualche settimana nell’estate con noi. Una sera, poteva avere allora nove o dieci anni, era nel... — Lasciate stare! interruppe con una grande scrollata di testa la signora Giovannina. — Voi avete la manìa delle date... Il nonno rise un pochino in silenzio, poi continuò: «Una sera senza data, dunque, la Giovannina era appena arrivata da Novara, quando il vecchio Lavatelli cominciò a sonare la zampogna. «Allora lei spiccò un salto giù dai quattro scalini della farmacia, balzò in istrada in piedi, e, rialzandosi delicatamente le gonnelline sui fianchi, col pollice e l’indice chiusi e le mani tese, cominciò a ballonzolare avanti e indietro, dimenando il capo beatamente. «Mio padre con tutta la famiglia, il medico ed alcuni avventori, uscirono dalla farmacia; tutti i vicini della contrada, i ragazzi vagabondi, si accostarono, e fecero cerchio intorno alla ballerina. Era un trionfo, e la mia vanità mi spingeva fortemente a pigliarvi parte. «Saltai in istrada anch’io, e, piantandomi dinanzi a lei colle mani sui fianchi, mi posi ad imitare ogni suo movimento. «Il repertorio del vecchio Lavatelli si limitava a poche cantilene di canto fermo di chiesa, e ad una sua canzone prediletta, che cantava in tono gemebondo quando lavorava nei campi, e della quale ricordo ancora lo stupido ritornello: «I quattro evangelisti, la luna e il sol «E chi ha creà sto mondo l’è stà nostro Signor.» «Quel giorno era appunto l’aria piagnucolosa, lenta, misteriosa della sua canzone, che il Lavatelli sonava; per cui i movimenti della danza dovevano essere straordinariamente lenti e languidi, per accompagnare la musica. Erano dei dondolamenti malinconici, degli inchini solenni, dei passi d’una gravità da funerale. Io, che, ballando, mi ricordavo e canticchiavo il ritornello misterioso, ne ero profondamente commosso. «Il nostro pubblico trovò che noi si ballava stupendamente, e la domenica seguente c’incoraggiò a ripetere la danza. Questa volta ballammo improvvisando, sull’aria maestosa del «_Tantum ergo_» ambrosiano. «E così di festa in festa, poi d’autunno in autunno ci esercitammo a quel ballo fantastico e bizzarro, indipendente da ogni regola, che noi ed i nostri ammiratori chiamavamo minuetto, unicamente perchè si cominciava sempre, io colle mani sui fianchi, lei, rialzandosi le gonnelline. «Una volta, io era a Novara in casa della Giovannina per le vacanze di carnovale, quando certi suoi parenti vennero, tutti in gala, a fare l’invito per una festicciòla in casa loro, in tutta confidenza. «A noi non parve vero d’andare a sfoggiare la nostra abilità ad una vera festa da ballo, e colla vera musica d’un organetto. «Io aveva tredici anni, e lei... La signora Giovannina cominciò a scrollarsi, ed il nonno invece di dire la sua età, riprese ridendo: «Via, lasciamo andare! «Entrammo trionfanti, la Giovannina col suo vestito più bello di lana scozzese, io con un jabot molto rammendato ma di vera trina, sebbene grossa e fatta al tombolo. «Alle prime battute, senza curarci degli altri, ci mettemmo in posizione, uno colle mani sui fianchi, l’altra coi rigonfi dell’abito fra le dita, e cominciammo i nostri passi stravaganti, un po’ impacciati dal tempo accelerato a cui non eravamo avvezzi, ma lei inventando meravigliosamente, io secondandola alla meglio. «Ad un tratto, uno scoppio di risate irrompenti, poi, subito, una salva d’applausi fragorosi, ci fece fermare. «Soltanto allora, guardandoci intorno, ci accorgemmo che eravamo soli a ballare, mentre tutta la sala ci faceva circolo intorno, e rideva alle nostre spalle. «Molti si figurarono che ballassimo una danza caratteristica di qualche paese, e ci domandarono ripetutamente: — Che ballo è? È la tarantella? È il fandango? È il bolero? Dov’è che si balla così? «Un minuto si rimase male tutti due. Ma la Giovannina, che ha sempre avuta la lingua pronta, si rinfrancò subito, e, ridendo anche lei cogli altri, rispose: — Si balla così dove non si sa ballare. È una danza di nostra invenzione. «Volevano che si facesse il bis. Ma lei mi prese per la mano, e mi disse piano: — No, sai. La seconda volta ci burlerebbero. Stiamo a vedere come fanno gli altri, poi faremo lo stesso anche noi. «Infatti, sia pel lungo esercizio che s’era fatto alla nostra maniera, sia per l’amor proprio che ci spingeva, prestammo un’attenzione così intensa a tutti i passi, a tutte le movenze degli altri ballerini, che la sera stessa incespicando, imbrogliando un poco le figure, riescimmo a ballare la gavotta ed a prender parte ad una contraddanza. «Il giorno dopo, a casa, ci chiudemmo nella stanza da pranzo, e, senza musica, accompagnandoci con dei _tra la la, tra la la_, interrotti, ansimanti, stonati, riprovammo ripetutamente quei balli. «E l’anno seguente andammo a parecchie festicciòle, e ce la cavammo alla meglio, pestandoci i piedi tra noi. Ed anche più tardi, quando io era un giovinotto e lei una signorina da marito, la Giovannina era molto ricercata dai ballerini migliori, ed io potevo scegliere fra le signore, perchè ero conosciuto per un famoso ballerino.» La lunga storia del nonno ci fece ridere, ma non ci persuase. E la signora Giovannina, che amava sfoggiare le idee moderne per ringiovanirsi, osservò: — Queste sono coso d’altri tempi, Andrea. Ora se una signorina si mettesse a ballare a quel modo, senza saperne nulla, la metterebbero sulla _Vendetta_. — Il nonno corresse ridendo: _Vedetta_. Era un giornale che usciva a Novara con questo titolo, che la signora Giovannina non aveva mai capito cosa volesse dire; e si ostinava a chiamarlo «_Vendetta_» per dargli un senso nella sua mente. Per cui alla correzione del nonno, ribattè appoggiando forte sulla _n_: «_Venn-detta_.» E ricominciarono le eterne spiegazioni e discussioni su quel titolo di giornale, che si ripetevano ogni sera, senza che la signora Giovannina si persuadesse mai. Intanto le nostre lezioni di ballo andarono a monte, e noi imparammo a ballare da noi, come potemmo, e la _Vedetta_ non ne parlò. Ma ora credo davvero che, quando tocca una sventura simile alle nostre bambine, non sia fuor del caso che qualche giornale di _sport_ rimandi alla storia il fatto memorabile. _Come il nonno imparò a sonare il flauto_ Questa storiella il nonno ce la narrò solennemente nel salotto della direttrice, ed ecco in quale circostanza. Bisogna dire che, nonostante quanto il nonno e la signora Giovannina ci avevano raccontato del loro tirocinio e dei loro trionfi nell’arte della danza, noi avevamo provato una grande mortificazione a dover confessare in iscuola che non avremmo presa parte alle lezioni di ballo. Non avevamo pensato mai seriamente quale potesse essere la nostra situazione finanziaria; ma avevamo una gran vanità istintiva, un’ambizione stupida da non parere da meno delle compagne ricche, e, parecchie volte, ci eravamo abbandonate alle più ridicole bugie, vantando delle grandiosità inverosimili, volendo passare per signorine cresciute nell’opulenza. Quella volta la Giuseppina si provò persino a dire che il nonno non voleva saperne delle lezioni di ballo, perchè il veder ballare gli faceva girare il capo. Ma una compagna sguaiatella le rispose un po’ brutalmente: — Già. Se voialtre ballaste qui, al vostro nonno girerebbe il capo a casa nel pagar le lezioni!... Da quel giorno ci eravamo messe in testa l’idea d’essere vittime di un nonno crudele ed avaro, che ci condannasse a vivere di privazioni. Quando ci accadeva di leggere una delle solite sentenze: «che l’uomo è nato per soffrire» — «che il mondo è una valle di lagrime» noi ci mettevamo a sospirare, come se conoscessimo per esperienza quelle tristi verità. È vero che in tempo di ricreazione c’ingegnavamo a ballare con le compagne; ed, a vederci, non c’era gran differenza fra quelle che imparavano il ballo, e quelle che ballavano senz’aver preso lezione; ma appena si toccava quel discorso, o si presentava qualche occasione opportuna, non mancavamo mai di riprendere il nostro languido atteggiamento da vittime. E quando, finito il carnevale, cominciarono le lezioni di pianoforte, alle quali intervennero moltissime allieve, noi non pensammo neppure un istante di proporre al babbo quel lusso d’educazione, per non esporci ad un altro rifiuto umiliante. Ci atteggiammo da vittime più che mai, e cercammo, non di rassegnarci, ma di esser compiante. Ma le lezioni di pianoforte non dovevano durare soltanto un breve periodo di tempo come quelle di ballo. E non c’è più costrutto a fare la vittima quando nessuno ci compatisce. Por dire la verità, fummo poco compatite. Il nonno, da quell’uomo operoso e filosofo che era, non se ne avvide neppure. Le compagne più superbiose, invece d’intenerirsi, ci misero in burla, noi e le nostre compagne di sventura, chiamandoci le «musicofobe.» Alcune, più buone, cercarono per alcuni giorni di consolarci; ma vedendo che non ci riescivano, perdettero la pazienza e vi rinunziarono. Allora, prive anche del misero sollievo di attirare l’attenzione, sentimmo più acerba che mai la ferita dell’amor proprio, e cominciammo a pensare a mille ripieghi per uscire da quella situazione che ci mortificava. Avremmo voluto abbandonare l’istituto, andarci soltanto un’ora al giorno per la lezione di francese; ma per far questo ci voleva il consenso del nonno, e noi non osavamo domandarlo, non sapendo come giustificare la nostra domanda. Mentre stavamo in questo abisso d’incertezze, una sera capitò a casa nostra un signore che aveva due nipotine da mandare a scuola, ed il nonno gli fece un grande elogio della nostra direttrice, che diceva degna d’ogni stima e d’ogni fiducia. Queste dichiarazioni ci suggerirono l’idea d’interessare la direttrice alla nostra causa, e di invocare il suo appoggio, per ottenere nientemeno che di studiare il pianoforte. Naturalmente, ci guardammo bene dal dirle che la causa del nostro gran malcontento, ed il movente che ci spingeva allo studio della musica, era la meschina vanità di non voler figurare da meno delle compagne. Capivamo benissimo che questa ragione non era fatta per disporre l’animo della direttrice in nostro favore. Parlammo invece d’una gran passione per la musica, un’attrazione prepotente, una vocazione addirittura. Mia sorella, la voce più stonata ch’io avessi mai udita, osò dire che le bastava d’ascoltare una frase musicale, per impararla e ripeterla esattissimamente. Io, per non esser da meno, dissi con accento elegiaco, che quando udivo, dalle compagne che prendevano lezione, la melodia soave delle cinque note: «_do-re-mi-fa-sol, fa-mi-re-do_» avevo delle palpitazioni violente, impallidivo, e finivo per struggermi in pianto dirotto, che continuava finchè durava il commovente esercizio. La direttrice si rannuvolò, e disse: — Via! Non dite grullerie! Non occorrono tante esagerazioni per dimostrare che amate la musica, e vorreste studiarla. Dacchè credete ch’io abbia qualche ascendente sul vostro nonno, gli parlerò volentieri, e se non avrà nessuna ragione in contrario... Fu in seguito a questo, che la direttrice scrisse al nonno per pregarlo d’andare da lei; e lui accorse premurosamente, com’era sua abitudine cortese, quando una signora lo chiamava; poi fummo chiamate in sala anche noi, ed alla nostra presenza, la direttrice espresse al nonno il nostro desiderio. Il nonno l’ascoltò con deferenza, poi rispose: — Deve sapere, cara signora, che queste ragazze non sono ricche; dirò meglio; non hanno nulla. Per conseguenza, intendo farne due buone massaie, che sappiano governar bene una casa, che amino lavorare e non isdegnino nessuna specie di lavoro. La direttrice osservò: — La musica è anche un lavoro; ed in alcune circostanze può riescire di grande utilità, appunto per una ragazza senza mezzi. Ma il nonno la interruppe: — Vuoi dire che potrebbe diventar maestra di piano, non è vero? O concertista? È verissimo. Ma bisognerebbe che queste signorine avessero cominciato a studiare da sei o sette anni almeno, quando erano bimbe. In quel caso soltanto, e consacrando moltissime ore al giorno a quello studio esclusivo, dato che avessero delle disposizioni veramente eccezionali, avrebbero potuto diventare delle brave pianiste. Ma avrebbero anche potuto non avere quelle tali disposizioni eccezionali, e perdere molto tempo inutilmente. Perchè, creda a me, cara signora, la smania della musica non prova sempre la capacità di riuscire in quell’arte tanto difficile e bella. Io ne so qualche cosa! Il nonno disse queste ultime parole con quel sorrisetto e quello sguardo fisso davanti a sè, come in una visione lontana, che aveva sempre quando rivedeva col pensiero qualche scena del suo passato tanto remoto. La direttrice, che conosceva la sua abitudine di raccontare le sue memorie alla spicciolata, sotto forma di aneddoti e di storielle, gli disse: — Vedo che ha una storiella da narrare a questo proposito. Me la dica, la prego; se non altro per insegnarmi ad essere più cauta nell’immischiarmi indiscretamente nei fatti degli altri. Il nonno protestò energicamente, che lei non era stata indiscreta, che non aveva bisogno di imparar nulla; ma consentì a raccontare la storiella «per insegnare a queste signorine a non far troppo a fidanza col loro supposto genio musicale.» Noi chinammo il capo, imbronciate e contrite, ed il nonno cominciò: «Queste ragazze sanno che un certo Lavatelli, un vecchio contadino del mio paese e mio vicino di casa, sonava la zampogna, e che io lo ammiravo straordinariamente, ed avevo imparato a ballare sulle arie gemebonde che egli sonava, e che mi commovevano fino al pianto. «Ma potevo udirlo soltanto la domenica, perchè gli altri giorni io era a scuola, e lui lavorava in campagna. Mi ero tanto innamorato di quelle cantilene patetiche, che tutta la settimana ne sentivo la mancanza, e le desideravo ardentemente. «Dal desiderare una cosa, al cercare tutti i mezzi di procurarsela, queste signorine l’hanno dimostrato or ora, non c’è che un passo. «Io, dunque, cercai d’imparare a sonare da me solo, con uno zuffoletto di legno che m’ero comperato alla fiera di Novara. «Mi mettevo in faccia al vecchio Lavatelli, e cercavo d’imitare colle dita e colle labbra i movimenti che faceva lui. «Erano delle stonature orribili. Tutta la contrada protestò raccapricciata. «Mio padre mi diceva: — «Povero figliolo. Come vuoi riescir a sonare con quello zuffoletto? Dà retta a me; smetti. «Ma la mamma, che capiva quanto mi sarebbe dispiaciuto di rinunciare a quell’aspirazione, insinuò: — «Sul solaio c’è un vecchio flauto del povero zio Tommaso. È tutto rotto. Ma se si potesse accomodare... «Guardava il babbo come per suggerirgli di farlo accomodare; ed anch’io lo guardavo. «Ma lui non ci pensò neppure ed intavolò un discorso di politica col medico condotto. «Allora io me ne andai sul solaio, cercai in mezzo ad una quantità di roba rotta, di cocci, di cenci, di mobili fuori d’uso, finchè mi riescì di trovare tutti i pezzi sparsi di quel povero flauto. «La sera lo portai nella stalla dei Lavatelli, e tra me ed il vecchio musicista, lo accomodammo alla meglio. Mandava certi stridi, certi rantoli, da far piangere i sassi; ma era un flauto e sonava. «E cominciai, su quello strumento meno ignobile, ad imitare il vecchio, che sonava la zampogna. Fu un esercizio che durò dei mesi; con quali risultati si può figurarselo. «Ma amavo con tanto ardore la musica, che le difficoltà, invece di scoraggiarmi, mi spronavano allo studio. Mia madre ed il vecchio Lavatelli dicevano che dovevo avere il genio della musica. «Quanto a me non ne avevo mai dubitato. «Soltanto, il vecchio disperava di poter fare da sè la mia educazione musicale. «Avevamo due strumenti diversi. Lui non aveva tempo di farmi una zampogna per insegnarmi su quella, ed il mio flauto era anche tutto guasto. E mi diceva: — «Ci vorrebbero due cose: un flauto buono, ed un maestro. «Era quanto dire: ci vorrebbero il sole e la luna. «Ai miei tempi i ragazzi delle famiglie borghesi non avevano certe aspirazioni alte, che hanno i ragazzi moderni. Sapevano che le cose di lusso erano da lasciare ai signori, e si contentavano del loro stato. «Io dunque non domandai a mio padre nè il flauto nè il maestro; e tornai tranquillamente alle mie occupazioni di scuola, di casa e di campagna, rassegnandomi, sebbene a malincuore, a privare il mondo del mio genio musicale. «Un tratto fuori dal paese c’era un vecchio fabbricato, tra palazzo e castello, di proprietà del marchese De Landi di Novara. «Non sapevo come si componesse la famiglia; ma conoscevo il marchesino, un ragazzo della mia età, superbioso e bello, circondato di servitori e di maestri, che martirizzava coi suoi capricci. L’avevo veduto molte volte in giardino a cavalcioni sulle spalle d’un povero vecchio, che obbligava a star delle ore carponi per fargli da cavallo, e che frustava come una bestia. «Un giorno, sull’imbrunire, mio padre mi mandò a portare al castello, come lo chiamavano in paese, una medicina che gli aveva ordinata il marchese nel passare. «Nell’avvicinarmi cominciai a sentire un suono che andò facendosi man mano più distinto e chiaro. «Erano delle scale eseguite sul flauto, «Per entrare nel castello bisognava traversare un ponte, sul fossato che lo circondava. Io era rimasto sbalordito sul ponte, quando vidi uscire dalla corte il giardiniere e, tutto palpitante, gli domandai: — «Chi è che suona? «Egli si fermò, e rispose: — «È il marchesino che prende lezione di flauto. «Tornai ad interrogarlo: — «Comincia ora? — «Chè! Sono due mesi che fa gli stessi urli. Non ne ha voglia. È suo padre che vuol fargli imparare la musica ad ogni costo. E tutte le sere, lassù, in quella sala al primo piano, dove vede il lume, il povero maestro, venuto apposta da Novara, ci rimette tanto di fiato con quello zuccone da marchesino. «Consegnai la medicina al giardiniere, poi tornai a varcare il ponte, e feci il giro del castello fuori dal fossato, fissando sempre quella finestra illuminata, ed ascoltando con amore quell’orrore di scala stonata. «Un lungo e forte ramo d’ippocastano, che sporgeva traverso il fossato, andava a finire dinanzi alla finestra, e ne velava e frastagliava la luce. «Ero sveltissimo, per la lunga pratica di arrampicarmi sugli alberi in cerca di nidi. «Pensai d’arrampicarmi al tronco forte dell’ipocastano, che sorgeva sulla strada, e giunto in cima, di strisciarmi su quel ramo sporgente, e così spingermi fin dinanzi alla finestra, per vedere come si desse una lezione di flauto. «La cosa mi riescì facile. Quel ramo pareva steso là apposta per me. Vedevo benissimo ogni cosa. Il marchesino stava in piedi dinanzi ad un leggìo sul quale c’era la musica. Il maestro era in piedi anche lui, dall’altro lato del leggìo, e senza musica. «Pare che lui non ne avesse bisogno. «Avevano un flauto ciascuno. Il marchesino cominciava la scala, e, quando sbagliava, il maestro lo interrompeva per correggerlo, e ripeteva lui la parte sbagliata, che l’altro tornava a ripetere, il più delle volte sbagliando ancora. «Il maestro non s’impazientiva mai. Il marchesino sempre. Ad ogni sbaglio scrollava le spalle, pestava i piedi, borbottava, andava a sedere tutto imbronciato, e bisognava che il maestro andasse a riprenderlo ed a pregarlo, per fargli ripigliar la lezione. «Ero indignato di veder così male accolti i benefizi della Provvidenza, e pensavo: — «Se questa fortuna fosse toccata a me, chissà che progressi avrei già fatti, chissà che maestro riescirei! «E, tornato a casa, guardavo con disprezzo i vasi e le ampolle della farmacia; mi sentivo artista. «La notte, che è la madre dei consigli, me ne suggerì uno famoso. «Dacchè c’era quel ramo d’ippocastano, da dove potevo assistere alla lezione di flauto, perchè non ne profitterei? «Era tutto un avvenire musicale che mi si parava dinanzi, e la sera stessa mi trovai al mio alto posto d’osservazione, munito del mio flauto, all’ora della lezione. «Non che m’illudessi di poter sonare anch’io. «Sarei stato scoperto, e cacciato via, per conseguenza, come un intruso. «Ma mi proponevo d’imitare in silenzio la mimica del maestro, cavandone quel tanto di utile che era possibile, il movimento delle dita, la misura del tempo.... A casa poi, proverei ad eseguire la stessa manovra emettendo i suoni. «Quest’idea, che sembra una fola, ebbi il coraggio di metterla in pratica. «Era d’estate, avevo allora dai tredici ai quattordici anni, e la sera, dopo la cena, mio padre mi concedeva un paio d’ore di libertà per andare a passeggiare. «Io, invece, correvo alla mia strana lezione di flauto, e mi pareva di cavarne molto vantaggio, e d’essere già avviato sul sentiero della gloria. «Se soltanto avessi avuto un flauto meno scellerato, o almeno moderno! «Ma era uno di quegli strumenti del secolo passato, con due sole chiavi, mentre il maestro ed il marchesino studiavano con due bei flauti moderni, di quelli inventati appunto allora, circa il 1812, che hanno più di sedici chiavi. «Si può figurarsi come il mio studio riuscisse difficile e pieno di lacune! «Avrei dato la mia parte di paradiso, per possedere un flauto con tutte quelle chiavi lucenti. «Una sera, ero alla mia decima lezione sul ramo d’ippocastano, che sovrastava al sentiero sabbioso del giardino, quando il marchesino, irritato da un esercizio che assolutamente non gli riesciva, dopo averlo ripetuto tre o quattro volte, si mise a picchiare i piedi, a gesticolare, come dichiarando che non voleva più saperne. «Io udiva soltanto la voce stizzosa; non ero abbastanza vicino per capir le parole. Ad un tratto buttò il flauto sul leggìo, ed andò a sedere sul solito divano, nascondendo il volto nei cuscini, e facendo spalluccie dispettosamente. «Il maestro, paziente come un santo, prese lo strumento, ed andò accanto all’allievo, accarezzandogli le spalle, e parlandogli con tono persuasivo. «Allora il marchesino alzò il volto rosso dall’ira, afferrò il flauto, e, strappandolo con mal garbo dalle mani del maestro, corse alla finestra e lo scaraventò giù gridando: — «Va’ al diavolo! Non sonerò mai più! «Al rumore secco del flauto caduto sulla sabbia, seguì un altro rumore sordo, come un tonfo. «Ecco che cos’era accaduto: «Alla vista di quel bel flauto, tanto desiderato, laggiù in terra, io non avevo ragionato più; ed impazzito dal desiderio di possederlo, avevo spiccato il salto dal ramo dove ero seduto, ed ero piombato in giardino. «Dalla finestra dove il maestro si era affacciato, partì un grido di terrore. «Un minuto dopo mi sentii sollevare pietosamente, ed aprendo gli occhi, vidi, nella penombra d’una sera senza luna, il maestro ed il marchesino, che mi reggevano, pallidi dalla paura. Il marchesino non era più superbioso. «Per fortuna, dalla finestra del primo piano, il salto non era stato alto, ed anzi, passato il primo sbalordimento, mi parve di non essermi fatto nessun male. «Fu soltanto quando vollero rialzarmi, che mi accorsi d’avere una gamba, che non mi reggeva, e che era rotta. «Il marchesino voleva portarmi al castello, ma il maestro ed il marchese, che era accorso anche lui, dissero che si troverebbe più pronto il soccorso portandomi alla farmacia di mio padre. «Là fui accolto da rimproveri per la mia sbadataggine, che velavano male il turbamento e l’angoscia de’ miei poveri genitori, punto carezzevoli, ma in fondo amorosissimi. «Ma questo non c’entra con la mia storia. «Il maestro ed il marchesino erano stati colpiti all’udire che la passione della musica m’aveva spinto a salire sull’albero, ed a saltar giù; e pensarono, come gli altri, che dovevo avere delle attitudini eccezionali per la musica e che non si dovevano trascurare. «Mio padre si stringeva nelle spalle, e diceva che avrebbe preferito che avessi delle attitudini per la farmacia. «Ma il marchesino insisteva a volermi regalare il suo flauto; forse per liberarsene. Il maestro si offriva di darmi lezione per nulla; il marchese protestava che lo pagherebbe lui, ed allora mio padre disse: — «No, no. Se mio figlio deve prendere queste lezioni, voglio pagarle io. Me le metta meno che può, maestro, perchè sono un povero farmacista... Ma voglio pagarle. «Ed infatti, appena la mia gamba fu guarita, ci mettemmo, il maestro ed io, con uno zelo, un ardore straordinario, a sviluppare il mio genio musicale. «Ma, pur troppo, quel genio non c’era. Il mio amore per l’arte, era un amore non corrisposto. «Dopo aver soffiato dei mesi nel flauto del marchesino, non avevo fatto più progressi di lui. Il maestro, mortificato del granchio che aveva preso, e troppo coscienzioso per continuare a farsi pagare delle lezioni inutili, si licenziò con bel garbo, consigliandomi di tornare alla farmacia. «Ed io, ostinandomi a consacrare al flauto tutte le ore che avevo libere, mettendoci tutto l’entusiasmo che avevo in cuore per la musica, riescii a stento a sonare, con qualche stonatura, la canzone piagnucolosa del vecchio Lavatelli, e, più tardi, la _Marsigliese_. _Come il nonno imparò a farsi la barba_ Quando il nonno usciva dalla sua camera dopo essersi fatta la barba, aveva sempre sulle guancie, sul mento, sotto il naso, da una parte o dall’altra del viso, qualche strisciolina di sangue, come un filo di seta rossa. E noi gridavamo: — Oh, nonno! S’è tagliato? Egli si stropicciava il viso con una mano, domandando: — Dove? E soltanto quando ritirava la mano, guardandola da lontano come fanno i presbiti, e la vedeva macchiata di sangue, diceva: — Già! è vero. A noi faceva una gran meraviglia che si tagliasse così senza sentir dolore. Dovevano essere delle ferite a fior di pelle; ed infatti si rimarginavano subito e non lasciavano traccia. Però mio fratello rabbrividiva al vederle, e diceva: — Io, quando avrò la barba, me la farò fare dal barbiere; da un buon barbiere. Questa, d’avere la barba e di farsela fare, era una manìa, che aveva invaso Mario appena s’era messo gli abiti da uomo, a dieci anni; ed erano circa sei anni che vagheggiava quell’ideale, e faceva, con le dita al di sopra della bocca, l’atto d’aricciarsi dei baffi immaginari. Finalmente, verso il diciassettesimo anno, cominciò a spuntargli una peluria bruna al di sopra del labbro superiore, una sfumatura, della quale egli andava oltremodo superbo. Ma era proprio il caso di dire: «Non c’è rosa senza spine.» Mentre il suo labbro si ornava di quella peluria fitta, morbida, gentile, sul mento gli spuntavano qua e là certi peli isolati, duri come setole; vere spine, che gli amareggiavano di molto la sua gioia. Avevamo una serva, che aveva varcato il passo doloroso della cinquantina, e che, appunto, aveva il mento deturpato da quelle setole. Le tagliava con le forbici, ma questo non faceva che renderle più dure e più buffe. Mio fratello era mortificatissimo di quella comunanza di sventura con la Maddalena. Si era aspettato ben altre glorie dalla sua barba, e quell’esordio infelice era un vero disinganno per lui. Un giorno venne a pranzo col mento liscio come noi. Non aveva più neppure una setola. Lo guardammo stupefatte, poi la Giuseppina gli accarezzò il mento con una mano, e disse: — Un velluto addirittura! Io gridai: — E le setole? Le hai tagliate con le forbici! Confessa! Come la Maddalena! Mario era molto indispettito; scrollava le spalle per respingerci con lo stesso garbo che usano i ciuchi per respingere le mosche, e mangiava, col naso nel piatto, per non risponderci. La Giuseppina gli diede una gomitata e disse: — Via, rispondi, ghiottone! Che cosa ne hai fatto «dell’onor del mento» che non pungi più come una spazzola? Non eravamo molto gentili fra noi fratelli. Mario rispose con la bocca piena: — Me la son fatta fare. — Oh! dal barbiere? — Che domanda sciocca! Da chi volete che me la facessi fare? Dal tosa-cani? — Ma perchè non fartela da te? — Già, come fa il nonno, eh? Per comparir poi tutto coperto di ferite, come un eroe del quarantotto! Il nonno rideva e mangiava senza parlare. Non prendeva mai parte ai nostri battibecchi, se non qualche volta, di rado, per dire a mio fratello che, a’ suoi tempi, gli uomini erano più cortesi colle signore. Al che Mario rispondeva, facendo dei garbacci a me ed a mia sorella: — Belle signore! E gentili poi! Ed il battibecco continuava, più aspro di prima. Ma tutto questo per burla, per spavalderia. In fondo ci si voleva tanto bene, quanto quelli che si fanno mille smancerie. Quel giorno cessai di bisticciarmi con Mario, per dire al nonno: — Ma sì, appunto, nonno; perchè non va dal barbiere, invece di tagliuzzarsi tutto il viso a quella maniera? Il nonno inghiottì la cucchiata di minestra che aveva in bocca, poi rispose: — È laggiù, lontano, il perchè. Nel milleottocentoquattordici, mi pare. E sorrideva tra sè guardando nel vuoto, come faceva sempre, quando rivedeva col pensiero uno de’ suoi ricordi remoti. Gli domandai: — Allora, è una storia? Il nonno rispose: — Un aneddoto, piccino... Mario disse con disprezzo: — Un aneddoto dei tempi barbari? Via, lo dica, nonno. Servirà a farci ingoiare quest’altra barbarie della carne lessa. Il nonno esitò un pochino, dicendo: — Veramente... veramente... quell’aneddoto non è fatto per far ingoiare... tutt’altro... Poi soggiunse: — Ma via! Alla vostra età si ha lo stomaco forte, e non si guarda tanto pel sottile. E cominciò a raccontare, rivolgendosi a Mario: «Alla tua età, anzi un anno prima, a sedici anni, avevo già il mento coperto di quelle setole rade e disuguali, che tu avevi fino a ieri... Io non potei a meno di dire ironicamente a Mario: — Consolati. È una bellezza di famiglia. Il nonno continuò: «Dopo parecchi mesi, le mie setole erano cresciute tanto, che avevo una barba ispida. «Mio padre, che aveva sempre portato il volto sbarbato, come l’ho poi sempre portato anch’io, non poteva soffrire quel mento barbuto, del quale io andavo superbo. «Un giorno mi disse: « — Bada, non ti voglio più vedere quella barba da zappatore. Prendi i miei rasoi, e levatela. «Allora i figlioli, anche grandi, usavano obbedire ai genitori senza rimbeccarsi, e, per quanto il privarmi della barba m’increscesse, non mi venne neppur in mente di volerla portare, dal momento che spiaceva a mio padre. «Però mi sgomentai all’idea di mettermi sul volto il rasoio, che non sapevo maneggiare affatto, ed osservai: « — Ma non so fare, babbo. Mi tagliuzzerei tutto il viso. «Il babbo sorrise, poi mi diede sei soldi e disse: « — Allora prendi. Questi sono i quattrini. Se ti basta l’animo, va a fartela fare dal barbiere. «Non capivo perchè mi dovesse _bastar l’animo_, come se si trattasse di un atto eroico. «Ad ogni modo, ben contento di poter andare a farmi fare la barba con i quattrini in mano come un signore, e come un uomo, la mattina dopo andai dal barbiere. «Cerano parecchi avventori. Il parroco, che era già seduto coll’asciugamani sotto il mento e col volto insaponato; il vecchio Lavatelli, quello dalla zampogna; ed un uomo di mezza età, che masticava tabacco e sputacchiava nero. «Sedetti ad aspettare mentre il barbiere faceva la barba al parroco, appunto sulla gota destra, dove aveva un’enorme gonfiezza. «L’avevo veduto la sera prima in farmacia, e pensavo: — Come mai gli è gonfiato il viso a quella maniera in una notte? Ieri sera stava bene... «Tirai fuori il libro di scuola che avevo in tasca, e, per passare il tempo, rilessi due volte un pezzo di latino difficile. Poi guardai a che punto stava la barba di Don Domenico, e, con mia grande stupefazione, vidi che la gonfiezza gli era passata dalla guancia destra alla sinistra, che appunto il barbiere stava radendo. «Pensai: « — È l’insaponatura che gli fa quest’effetto. Soffre forse di flussioni... Ma è strano che gli vengano tanto istantaneamente, e scompaiano colla stessa rapidità. «Intanto il barbiere aveva finito. Prese le due estremità dell’asciugamani che pendeva sul largo petto di Don Domenico, glielo buttò sul viso, stropicciò forte per togliere ogni residuo d’umidità e di sapone, poi staccò l’asciugamani, ed il volto del parroco rimase bianco, con una lieve sfumatura turchina al posto della barba, e regolarissimo senza la menoma gonfiezza da nessuna parte. «La mia stupefazione fu al colmo. Cosa poteva essere quel fenomeno? E doveva accadere anche a me? «Guardai attentamente l’uomo che sputacchiava nero. Sedette col volto dritto e regolare. Il barbiere gli pose l’asciugamani sotto il mento facendoglielo entrare un pochino tra il collo ed il goletto. Poi prese il bacino, glielo mise sotto il volto e, presto presto, con la mano che aveva libera, gli inondò la faccia di spuma bianca. Quando depose il bacino per prendere il rasoio, il paziente aveva la guancia destra gonfia, come dianzi Don Domenico. «Non staccavo più un istante gli occhi da quel prodigio, ansioso di scoprirne il segreto. Ad un tratto il barbiere disse: — «Un po’ più alto... «Ed immediatamente la gonfiezza salì più alto sulla guancia. «Finalmente avevo capito, e risi di cuore della mia ingenuità. Si gonfiavano la guancia empiendola d’aria, e stringendo forte le labbra, per impedire che sfuggisse. Era una cosa che avevo fatta tante volte per chiasso. «Sicuro. Come mai non l’avevo capito subito? Ecco. Finita la guancia destra, quell’uomo sputacchiò due o tre volte, mentre il barbiere passava dall’altro lato, poi gonfiò la guancia sinistra. Era buffo. Non vedevo l’ora di provare anch’io quel gioco. Intanto lo provavo da me, nel mio cantuccio. «Mentre il barbiere stropicciava coll’asciugamani il volto dell’uomo che sputava nero, il vecchio Lavatelli, che era molto affezionato a tutti noi, mi disse: — «Se vuol farsi la barba prima di me, signor Andrea, io non ho premura... «Non mi parve vero, e corsi a sedermi sulla poltroncina. Appena fui conciato, coll’asciugami sotto la gola, mi empii la bocca d’aria, e mi gonfiai le gote, come un amorino paffuto, tenendo le labbra bene strette e respirando a stento dal naso. «Il barbiere prese il bacino con la saponata e mentre mi passava la mano sulla bocca ripetutamente, disse: — «La palla. «Capii che voleva una sola palla, e che chiamava così la tensione delle guance, e spinsi tutta l’aria nella gota destra come avevano fatto gli altri. «Ma cominciavo a soffocare, e stringevo più che mai le labbra per contenere l’aria in bocca. Il barbiere tornò a dire: — «La palla. «Ed intanto mi premeva a tutta forza un corpo duro sulla bocca, dicendo: — «Ma apra dunque. «Mi spinsi indietro sbalordito per poter guardare, e vidi... una palla d’avorio! «Quella che aveva gonfiate le gote del parroco, e dell’uomo che sputava nero! «Afferrai l’asciugamani che avevo dinanzi, e stropicciandomi il volto in fretta, balzai in piedi, poi scaraventando l’asciugamani dietro a me senza saper dove, fuggii di corsa fuori della bottega, e via per le strade, come un ladro inseguito; e non mi fermai che nella nostra farmacia. «Mio padre, vedendomi arrivare a quel modo, fece una risatina, e disse: — «La palla, eh? Non t’è bastato l’animo! «Da quel giorno cominciai a farmi la barba da me. Non ci ho attitudine; riesco male; mi tagliuzzo tutto il volto. Ma non ho più potuto vincere quella prima avversione che m’hanno inspirata le botteghe de’ barbieri, sebbene la palla sia passata di moda da un pezzo. _Come il nonno non si vestì di nuovo_ Altre volte, nelle scuole, anche civiche e governative, gli esami alla fine dell’anno scolastico si facevano in pubblico, alla presenza del sindaco, del prefetto, e di tutte le autorità cittadine. Specialmente nelle scuole femminili, gli esami erano una pompa, e vi si faceva più mostra di vanità che di sapere. Le interrogazioni e gli esperimenti erano combinati in modo da far figurare le allieve migliori, e da lasciare nell’ombra le mediocri. Ogni insegnante chiamava quella che sapeva meglio istruita nella sua specialità, e pregava qualche personaggio autorevole d’interrogarla. Ed il pubblico, dopo aver uditi tre o quattro pappagallini ammaestrati ripetere le gesta di qualche eroe più o meno leggendario, enumerare dei fiumi e dei monti, e delle città capitali, eseguire qualche operazione aritmetica irta di moltiplicazioni e di segni difficili a capire, rimaneva sbalordito di tanta scienza. Era buono, e facile di contentatura il povero pubblico. Bisognava sentire, che sorta di pillole gli si facevano ingoiare, coi nostri componimenti letterari, declamatorii, gonfi, ridicolmente rettorici! E bisognava vedere, come si commoveva, e si soffiava il naso, per nascondere l’inumidirsi ed il luccicare degli occhi! Rammento ancora una lettera sul tema: «Rimproverare ad una compagna la sua cattiva condotta in iscuola, e darle dei buoni consigli.» Io scrissi una specie di predica terribile, in cui parlavo di onore e di disonore, di giustizia, umana e divina, di maledizioni paterne, di rimorsi al letto di morte, d’ogni sorta d’orrori; per poi stemperarmi, nella seconda parte, in una gran tenerezza di pentimenti, d’espiazione, di ravvedimento, di riabilitazione, di virtù ideali ed inverosimili, di morte rassegnata del giusto, di gioie mistiche ed eterne in un mondo migliore. Tagliata in due, avrebbe potuto essere una requisitoria contro un malfattore della peggiore specie, ed una predica del padre confortatore ad un condannato a morte. Meritavo io, una condanna per quel delitto letterario. Ma il pubblico ne fu commosso fin nelle viscere, non seppe frenare gli applausi, sebbene fossero proibiti, e, finiti gli esami, una signora anonima mi mandò a regalare dalla cameriera un astuccio, con un finimento da lavoro in argento. Era naturale che una delle cose a cui più si badasse in quegli esami d’apparato, fosse il vestito. Era una gara di eleganza. Noi avevamo un vestitino di mussola bianco, che ogni anno, in quella circostanza, si rimetteva a nuovo, ben lavato, insaldato, teso e scricchiolante come un vestito di carta. Ne andavamo superbe; tanto più, che vi si aggiungeva una cintura di velluto nero, legata dietro la vita con un fiocco smisurato, i cui capi ci sbatacchiavano sulla schiena e sui fianchi, come le ale d’un grande corvo, che ci avesse affondato il becco nelle reni e ci succhiasse il sangue. Queste cose mostruose, le dico ora, volgendo uno sguardo retrospettivo a quell’abbigliatura, coll’occhio educato ai gusti moderni. Ma allora, tanto io che mia sorella, la credevamo bellissima. Furono le compagne ricche ed eleganti che scossero la nostra fede beata. Quell’anno era di moda un certo colorino roseo, cangiante, con dei riflessi argentei, che si chiamava «_nuage d’aurore_» (nube d’aurora). Quelle signorine si erano fatto un abito del colore di moda per portarlo agli esami, e ne parlavano continuamente in iscuola. Un giorno una di loro, dopo aver fatto una descrizione pomposa del suo bell’abito, si rivolse a noi, e disse con disprezzo: — «Voialtre già, ricomparirete col solito abito di carta, e l’avoltoio nella schiena! Di carta! L’avoltoio! Vidi mia sorella farsi pallida, mentre sentivo una vampa di rossore salirmi al volto; ed il cuore si mise a saltarmi nel petto come un passero in gabbia. Quella critica ci giungeva nuova, inaspettata. Eppure la nostra vanità intuì subito che la mussolina insaldata e la cintura nera di velluto avevano inspirato l’umorismo crudele di quella ragazza. Intesi pure che quella burla non era nata allora, e che doveva averci circolato intorno negli anni precedenti, mentre noi ci pavoneggiavamo beatamente, nella nostra abbigliatura di gala. Fu una spina che ci si pose nel cuore; e ne soffrimmo, come, più tardi, quando l’esperienza ci ha dimostrato che queste contrarietà sono meschine e ridicole, si soffre per contrarietà più vere e gravi. Pel nostro mondo piccino e per la nostra piccola età, quell’idea di ricomparire vestite male, all’antica, in mezzo alle ragazze eleganti, era una grande umiliazione. Aspettammo con ansietà la domenica, e la visita al nonno. Quando venne corremmo in parlatorio tutte eccitate, lo salutammo in fretta, poi io gridai: — Sa, nonno? Ci vuole un vestito nuovo.... E la Giuseppina soggiunse: — Per gli esami; un vestito color «_nuage d’aurore_.» Il nonno rimase un tratto attonito, senza poter rispondere, poi esclamò: — Che cos’è questo «_nuage d’aurore_?» Siete matte? Non avete il vestito bianco? La Giuseppina borbottò dispettosamente: — Oh! il vestito di carta! Il nonno ripetè stupefatto: — Di carta? E la Giuseppina riprese: — Ma sì; insaldato a quel modo la mussola sembra una carta. Il nonno scrollò le spalle, e disse con fare conciliante: — Si può fare a meno d’insaldarla. Ma io mi figurai subito quel cencetto molle, cascante languidamente sulle gonnelle, e soggiunsi sospirando: — E quella cintura nera che sembra un corvo? Questa volta il nonno si mise a ridere, e disse: — Che strane idee vi siete messe in testa! Poi riprese sempre conciliante: — Del resto, se la cintura sembra un corvo, non ve la mettete. C’è modo di accomodare ogni cosa. — Bel modo! Sembreremo in camicia, con un vestito tutto bianco e non insaldato. — E allora, fatelo insaldare. — Parrà di carta... — Ma insomma, cosa posso farci io? Questa era la vera domanda che aspettavamo, e ci affrettammo a rispondere: — Può farcene un altro, nonno. — Color _nuage d’aurore_, nonno. Il nonno scrollò il capo ridendo, e rispose: — Questa è appunto la cosa che non posso fare. Posso invece raccontarvi una storiella... — Oh, nonno! — È inutile protestare. La storiella può insegnarvi a non esser troppo esigenti, ed a contentarvi di quanto vi si può dare. Per conseguenza non ve ne faccio grazia. Tanto, debbo aspettare qui la Giovannina, che verrà anche lei a vedervi. Chinammo il capo un po’ imbroncite, ed il nonno, a bassa voce, per non disturbare gli altri gruppi di collegiali e di visitatori, che ingombravano il parlatorio, cominciò subito la storiella: «Ogni anno, alla stagione dei bachi, mio padre ne allevava una grossa partita, e voleva che tutti in casa, piccoli e grandi, ce ne occupassimo senza risparmio di fatica. «Io ebbi sempre una repulsione per quei vermiciattoli che, per quaranta giorni, crescevano, crescevano, mangiavano senza posa, e diventavano grossi come maccheroni. «S’era appena finito di rizzare un palco di sei, sette stoie, sovrapposte l’una all’altra, che già i bachi lo avevano invaso tutto, e bisognava rizzarne un altro. «E quando non c’era più spazio per nuovi palchi, i bachi crescevano ancora, e bisognava posare le stoie sui mobili, in tutte le stanze, accanto ai letti. «Si doveva star sempre rinchiusi con una copertaccia di lana appesa contro gli usci, perchè quegli animalucci stessero ben caldi. E, tra il calore, la mancanza d’aria, l’odore della foglia verde, l’atmosfera non era più respirabile. «Ma non importa; bisognava starci, e lavorare. Staccare la foglia dai rami, tritarla, spargerla sulle stoie. E guai se pioveva! Allora bisognava accendere un bel fuoco, e stendere i rami di gelso ad asciugare, perchè i piccoli bachi soffrivano a mangiare la foglia umida. «Ed intanto, tutti quegli avanzi di erba rosicchiata si accumulavano sulle stoie, formando un letto umidiccio e fitto, che minacciava di fermentare. «Ogni due giorni si cambiava il letto, cioè si traslocavano tatti i bachi per togliere quello strato fetido che avevano sotto, e rimetterli sulle stoie con la carta pulita, perchè la insudiciassero un’altra volta. «Erano quaranta giorni d’un lavoro incessante, febbrile; la fame dei bachi era insaziabile. Si doveva alzarsi una o due volte nella notte per somministrare il pasto a quelle centinaia di migliaia d’insetti. «Poi, ad un tratto, non mangiavano più; scappavano da tutte le parti; e bisognava affrettarsi a circondare le stoie con frasche ed eriche, perchè i bachi si arrampicassero a fare il bozzolo. «Io ed i miei fratelli ci sentivamo come rinascere, quando tutti i bachi erano arrivati a frasca; e non ci pareva vero di uscire all’aperto, e di non curarcene più. «Ma il babbo e la mamma continuavano a guardare l’orizzonte, ed a spaurirsi ad ogni nuvola che compariva, perchè bastava un temporale, una giornata umida, una variazione di temperatura, perchè i bachi interrompessero il loro lavoro, ed il bozzolo riescisse difettoso. «Quando ebbi dodici anni, mio padre mi disse che, per avvezzarmi a coltivare i bachi con tutta la cura dovuta ad una cosa tanto importante, mi faceva dono dell’_ospedale_. «Dovevo occuparmene da solo; ed il prodotto sarebbe messo da parte come una mia assoluta proprietà, della quale potrei disporre per ogni necessità impreveduta. «L’ospedale era la parte più repulsiva di quella gran faccenda repulsiva. Tutti i bachi stentini, giallini, rossastri, molli, bavosi, si toglievano dalle stoie, e si mettevano da parte in una stoina piccola, che era l’ospedale. «Quelle bestiole infermiccie mangiavano lentamente, dormivano con ritardo, ed alle quattro mute, non riescivano mai a togliersi del tutto la vecchia pelle, che serbavano languidamente raggrinzata sulla coda. E finalmente filavano dei bozzoli piccini, storti, molli, incompleti, che si vendevano per pochi denari. «Il primo anno però, il babbo, sempre allo scopo di innamorarmi dei bachi, ne fece passare nell’ospedale di molti, che, a rigore, avrebbero potuto stare coi sani; e quando fu il tempo di sbozzolare, raccolsi non solo della faloppa, ma anche un paniere di bozzoli buoni, e misi da parte trentacinque lire. «Infatti, dopo quel guadagno, compresi l’utilità dei bachi, e li coltivai con maggior cura, specialmente l’ospedale. «Dopo un paio d’anni cedetti l’ospedale ai miei fratelli, ed io ebbi un bel pizzico di seme, ed allevai la mia piccola partita speciale di bachi buoni. «Il denaro andò aumentando. Quando se ne parlava, la mamma diceva che servirebbe a vestirmi tutto di nuovo quando dovrei andare a Novara per studiare al liceo. «Non si trattava di mettermi in gala, nè di farmi un vestito color _nuage d’aurore_, piuttosto che di un altro colore. Si trattava unicamente di vestirmi come vestivano i ragazzi di città, perchè a Ceràno io portava i calzoni di fustagno corti fino al ginocchio, delle grosse calze di cotone bigio, degli scarponi con la suola di legno, ed una cacciatora di fustagno come i calzoni. «Tutto il costume dei contadini del basso Novarese, che a Novara mi avrebbe reso ridicolo. Per conseguenza, i miei genitori consideravano come una necessità il vestirmi di nuovo. «L’ultimo anno mi dedicai con un ardore straordinario alla coltivazione de’ miei bachi; e, mentre mi arrampicavo sui palchi, pulivo le stoie, tagliavo la foglia, avevo sempre in mente i bei calzoni di panno turchino lunghi fin al collo del piede, gli scarpini, il gilè color _nanchino_ ed il casacchino corto uguale ai calzoni, tutto l’abito cittadino che dovevo farmi per andare in città. «Quell’anno il raccolto andò maluccio; ma c’era il denaro degli anni precedenti, e fra tutto faceva una bella somma. Circa dugentocinquanta lire. «Bastava a farmi un bellissimo corredo. «In principio d’ottobre, mio padre ebbe la nuova che il marito di sua sorella, medico condotto ad Oleggio, era gravemente ammalato. «E tra il babbo e la mamma cominciarono a fare quei soliti discorsi crudeli, che si fanno sempre in simili circostanze, considerando già il povero malato come se non esistesse più, dandosi pensiero unicamente dei superstiti, e compiangendo loro soli, quasichè la vita di quell’uomo non avesse importanza, se non per l’utile che recava a quegli altri. — Quella povera vedova! E con cinque figlioli! E quel povero uomo benedetto, che non volle mai saperne di privazioni!... Non avrà lasciato un soldo di risparmio... «E della gente buona come i miei genitori, rimproveravano già a quel morto, che non era morto ancora, di non aver aggiunta anche l’infelicità delle privazioni alla sua povera esistenza di lavoro, per lasciare un po’ di benessere a quelli che rimanevano, vivi e sani, dopo di lui, mentre lui se ne andava sotterra. «Mi fece pena questa ingiustizia del mondo verso i poveri morti, e dissi: — «Io compiango lui, povero zio, che se ne va. Gli altri lavoreranno come ha lavorato lui, ad ogni modo s’accomoderanno sempre... «Mio padre chinò più volte il capo pensosamente, e disse: — «È facile dire, s’accomoderanno... «Verso la metà d’ottobre la malattia s’aggravò tanto, che mio padre dovette partire per Oleggio. Lo zio era moribondo. «Intanto il San Carlo s’avvicinava, e bisognava pensare a prepararmi per andare a Novara. «La mamma mi condusse a scegliere le stoffe per gli abiti, ad ordinarmi le scarpe, le camicie, le pezzuole... «Ma sulle stoffe ero irresoluta. Non ero avvezza a comperare senza consultare il babbo. Si fece mandare le pezze a casa, per vederle meglio, e per sentire anche dal sarto quali fossero più convenienti. Intanto chi sa? Potrebbe darsi che lo zio stesse meglio, e che il babbo tornasse per vedere anche lui... «Infatti il babbo tornò, appunto la mattina seguente, mentre noi si stava osservando le stoffe alla gran luce del giorno, nella farmacia. «Entrò tutto frettoloso ed impensierito, rispose appena in fretta «addio, addio» ai nostri saluti, poi domandò: — «Che cos’è questa roba? «La mamma rispose: — «Sono le stoffe pei vestiti d’Andrea. «Allora il babbo cercò me cogli occhi, e, guardandomi un po’ accigliato, disse: — «Eh sì! C’è altro da pensare che a vestirsi ora, figliolo mio! Quelli laggiù sono in mezzo ad una strada; e c’è un povero morto da portare al campo santo. «Noi restammo tutti sbigottiti senza rispondere. Il babbo riprese, sempre guardandomi: — «Tu non volevi aver pietà dei superstiti, e compiangevi il povero morto. Ora è proprio il povero morto che ha bisogno di te. Io ho i superstiti da provvedere. E tu, li vuoi dare i tuoi quattrini per i funerali? «Più tardi deplorai di non aver potuto vestirmi di nuovo; ma in quel momento non sentii altro che un’immensa, un’infinita pietà per quell’uomo che avevo veduto poche volte, ma sempre allegro e sano, e che ora aveva bisogno de’ miei poveri soldi per esser portato al camposanto; e dissi con tutto il cuore: — «Sì che voglio darli, babbo! e corsi di sopra a prendere la cassetta con i denari. «Quando gliela portai, il babbo mi disse: — «Bravo figliolo. Dopo quest’atto che fai, puoi portare con orgoglio i tuoi vecchi abiti da contadino anche al liceo di Novara. Ti fanno onore. «Io pure pensavo così, e partii col cuore soddisfatto, ed entrai per la prima volta in iscuola con la fronte alta, come un ragazzo contento di sè. «Durante la prima lezione vidi che i ragazzi mi guardavano, poi si guardavano fra loro e ridevano nascondendo il volto sul banco. Ma pensai che non sapevano il motivo per cui ero vestito così. — «Alla prima occasione lo dirò, ed allora sarà finita. Mi giudicheranno come merito. «Appena terminata la lezione, mentre il maestro di latino usciva, e s’aspettava quello di geografia, un ragazzo gridò: — «Eh, massaio, quanto costa al sacco il grano? «Guardai in giro per vedere dove fosse il massaio; ma un altro mi venne proprio davanti e mi gridò in viso: — «E il concime l’hai sparso sui campi, massaio? «Capii che parlavano con me. Tutti ridevano e si burlavano dei miei vestiti da contadino. Mi alzai rosso, rosso, per rispondere; ma mi ripugnava, davvero, mi ripugnava il vantarmi pubblicamente del poco bene che avevo fatto. «In quel mentre entrò il professore di geografia, e tutti tacquero e tornarono ai loro posti. Ma dopo quella seconda lezione, appena il maestro aveva chiuso l’uscio dietro a sè, sentii qualche cosa di duro colpirmi alla nuca, mentre una voce gridava: — «Eh! ortolano! Prendi il concime! «Ed un altro: — «Questo è buon letame, raccogli! «E da destra, da sinistra, da tutte le parti mi piovevano addosso torsoli di mele, bucce, noccioli di frutta, vecchie croste di pane, pallottole di carta stropicciata bagnate nell’inchiostro, che mi colpivano nel volto, nel petto, sul dorso, e lasciavano la macchia. «Mi alzai per parlare, ma una salva di fischi, di grida, di risate coprì la mia voce. Imitavano il muggito del bue, il raglio dell’asino, il gracidare delle galline, il canto del gallo; pareva d’essere in una fattoria. «Allora, tutto fremente di sdegno, corsi fuori dalla scuola, ed appena giunto dalla vecchia parente dov’ero alloggiato, scrissi a mio padre tutta quella scena. Nella mia disperazione gli dicevo: — «Bisogna fare qualunque sacrificio per vestirmi come gli altri, da cittadino; altrimenti sarà impossibile che io continui a studiare. Intanto sospendo d’andare al liceo. «Mio padre rispose: — «Se credevi l’opera buona che hai fatta, tanto facile e senza conseguenze per te, non meritavi l’ammirazione con cui l’accolsi. Dare il denaro dei tuoi abiti pel tuo povero zio morto, voleva dire rassegnarti a frequentare, per un tempo indeterminato, la scuola vestito da contadino, esporti a qualche burla, a qualche umiliazione. Abbi dunque il coraggio della tua buona azione. La vita ha ben altre lotte, ben altre contrarietà, e devi avvezzarti di buon’ora a sopportarle, se vuoi fare la tua strada nel mondo e diventare un uomo. Io non voglio intervenire in questa puerilità. Sbrigati come puoi, e sopratutto non lasciare lo studio, che è la parte seria della vita, per codeste suscettività d’amor proprio, che ne sono la parte ridicola.» «Sulle prime quella lettera mi parve crudele ma, ripensandoci, compresi che era giusta nella sua severità. E tornai al liceo, e sopportai con dignità le insolenze de’ miei compagni, rispondendo appena con qualche scappellotto ai tentativi più violenti. «Così si avvezzarono a vedermi vestito da contadino, e, a misura che mi facevo onore negli studi, s’avvezzarono anche a rispettarmi. S’avvezzarono tanto bene, che quando, dopo sei mesi, mio padre mi regalò un bel vestito da città, al primo vedermi vestito così, i più grulli cominciarono a burlarmi di nuovo. Ma i loro scherzi non furono secondati, perchè la maggioranza aveva imparato a giudicarmi più seriamente.» Eravamo un po’ commosse, ma non tanto da aver completamente dimenticate le occhiate ironiche e le risate di scherno delle compagne eleganti. Io risposi, esitando un poco, ma facendomi coraggio: — «Ma noi non abbiamo nessuna bella azione da raccontare, per giustificare il nostro vestito vecchio. Il nonno, col volto, non più conciliante, ma serio serio, rispose: — «Fra tutte le belle azioni, la più bella è fare il proprio dovere. Il vostro dovere è di accettare la situazione che Dio ha fatta al vostro nonno ed a voi. Non siamo ricchi; dobbiamo accontentarci, io di non farvi un abito nuovo, voi di non portarlo. Ho una gran paura che nelle vostre testoline sia entrata tanta vanità, da farvi parere un sacrificio, un atto eroico addirittura, il confessare la vostra condizione modesta. Ebbene, confessatela, e se vi costerà molto, avrete una buona azione da raccontare, una vittoria riportata sulla vostra vanità. E vi farà del bene. Non confessammo nulla. Non eravamo abbastanza dignitose e forti per farlo. Ma l’abito di carta coll’avoltoio nella schiena, ricomparendo ancora, confessarono per noi. Però quel giorno osservammo che erano molte le compagne che portavano gli abiti degli anni precedenti, ed il gruppo delle eleganti era così piccino, che ci accorgemmo d’averne esagerata l’importanza. Tutte le più brave erano vestite modestamente; ed anche noi facemmo un bell’esame. E ne avemmo una soddisfazione, che il bel vestito non ci avrebbe dato di certo. Dopo l’esame la Giuseppina mi disse, un po’ tardi, ma meglio che mai: — Sono contenta ora, che non abbiamo fatto fare un sacrificio al nonno per vestirci. _Come il nonno troncò una serie di rappresentazioni_ Passati gli anni di collegio e di scuola, e finiti gli studi, la nostra vita da signorine di provincia cominciò ad essere assai monotona. Non si doveva più pensare ad altro che a diventare donne di casa, buone massaie. L’ordine della casa, il bucato, la cucina, dovevano occuparci interamente. Se ci veniva in mente di cominciare un ricamo, il nonno, che badava all’igiene, diceva che quel lavoro sedentario e fine nuoceva alla salute e sciupava la vista. Se poi ci mettevamo a leggere, le zie esclamavano spaurite: — Per carità! Che non avessero a credervi dottoresse! Erano persuase che tutti i guai, tutte le miserie dell’umanità, derivassero dalla lettura, specialmente per le donne; e dicevano, con un risentimento pieno di convinzione: — Ah! quei maledetti libri! Tanto, che noi si pensava sovente, perchè ci avessero fatto imparare a leggere. Ma doveva essere per abilitarci a leggere «La cuoca piemontese» il solo libro che trovasse grazia agli occhi delle zie. Si doveva fare, noi due ragazze, una settimana ciascuna alternandoci in cucina, cercando di mettere in pratica gli insegnamenti di quel ricettario. Il nonno però, che era condannato a mangiare i prodotti dei nostri esperimenti, non aveva lo stesso ardore delle zie, nello spingerci a fare da cuoche; e preferiva che ci occupassimo della «tenuta dei libri di casa» come diceva pomposamente. In realtà si trattava di notare le spese giornaliere; ce lo faceva fare in francese per tenerci in esercizio. Era un esercizio assai limitato, «Lait, pain, sel, ris, beurre, poulet, viande, fromage...» un centinaio, mettiamo anche dugento parole di questo genere, che si ripetevano ogni giorno con una monotonia desolante. Metteva proprio conto d’avere imparata una lingua per questo! Intanto la nostra piccola famiglia, composta di noi due ragazze, del nonno, e di nostro fratello, non ci dava da fare abbastanza per occuparci tutto il giorno. Avevamo una donna di servizio laboriosissima, a cui la nostra presenza in cucina dava noia, e che stirava mezzo bucato, nel tempo che noi si stirava una camicia. Per conseguenza le giornate erano molto lunghe per le nostre occupazioni da massaie, e ci lasciavano molto tempo da fantasticare, mentre lavoravamo meccanicamente di cucito, sole, perchè le zie venivano spesso a vederci e ci accompagnavano fuori, ma non abitavano con noi. L’argomento sul quale si fantasticava più volentieri, era, naturalmente, la nostra propria sorte. Ci domandavamo l’una all’altra: — È questa la gioventù allegra, la gioventù serena, felice, piena d’illusioni, di poesia; la bella gioventù, che dura appena una quinta parte della vita, e che si continua a rimpiangere per gli altri quattro quinti, inconsolabilmente? Domandavo a mia sorella: — Sei felice d’avere diciassett’anni? E lei mi rispondeva: — E tu sei felice d’essere quel personaggio ideale, l’incarnazione della gioia e del sorriso, «_la giovinetta trilustre_?» E tutte e due concludevamo: — Era più bello esser bimbe. Ci si divertiva di più. Ed infatti, in quei due anni, i nostri divertimenti erano stati scarsi. Eravamo state una volta ogni carnevale al teatro di musica, con un vecchio fratellastro del nonno, che chiamavamo zio, e con una sua figlia, un po’ troppo matura, che chiamavamo cugina. Lei si metteva in gran gala: abiti di tulle scolacciati, nastri, fiori, trine. Noi portavamo il nostro vestito da estate più bello, che era sempre brutto accanto a quegli abiti da sera. La cugina si faceva dare del tu da noi, per ringiovanirsi; ma ci metteva una gran soggezione. Entrando nel palco si fermava subito allo specchio, e si accomodava lungamente l’acconciatura, ingombrando tutto lo stretto spazio, senza badare che noi si rimaneva sull’uscio. Poi andava a sedere al posto migliore, dove c’era un guancialone sulla poltrona, in modo che lei rimaneva in alto, con tutta la vita sporgente dal parapetto. Mia sorella, che sedeva in faccia a lei, senza guanciale, sembrava piccina piccina, e non figurava punto. Quanto a me, ero condannata alla tortura del panchettino, sul quale si vedeva sorgere la mia vita di lana colorata, fra i rigonfi della gonna bianca leggiera di mia cugina, che si stendeva pomposamente sulle mie ginocchia. Lei, che andava sovente al teatro, conosceva la musica, le belle signore dei palchi, i bei giovinotti, e salutava, graziosa, chinando il capo ed il ventaglio. Noi, che si stava sempre in casa e solitarie, nessuno ci salutava; ci sentivamo fuori di posto, come due campagnole. E quel secondo anno, il giorno dopo quella serata memorabile, quando il nonno ci domandò se ci eravamo divertite, cominciammo a gemere le nostre lagnanze. La Giuseppina disse: — Come vuole che ci si diverta, nonno, andando al teatro una volta all’anno? Non si conosce nessuno... Ed io, che rammentavo quelle ore passate appollaiata sul disgraziato panchettino, col capo teso innanzi fra mia cugina e mia sorella, e la persona indietro per non schiacciare i rigonfi leggeri che avevo in grembo, esclamai con premura: — Ed in tre in un palco! Sembravamo tre galline in una stia... Il nonno agitò le mani in alto con le dita aperte in atto di scandalo e di stupefazione, ed esclamò: — Oh! che gioventù! che gioventù! Ma non sapete prendere i divertimenti come vengono, senza amareggiarveli con l’amor proprio, con le aspirazioni della vanità? Ci vuole il racconto, ho capito. E cominciò uno dei soliti racconti. «La Giovannina, alla vostra età, e anche molto dopo, non aveva mai veduto un teatro. Perchè ai nostri tempi — parlo del principio di questo secolo — la società aristocratica si spassava quanto adesso e forse più, faceva una vita dissipata, vestiva con molto cattivo gusto, ma con uno sfarzo maggiore d’adesso. Ma le famiglie della borghesìa menavano vita affatto casalinga, e non avevano la pretesa di rivaleggiare coi signori. I nostri divertimenti ce li pigliavamo fra noi, modestamente, e sapevamo contentarcene, per meschini che fossero. «La Giovannina abitava allora in piazza del Rosario, ed aveva un gran balcone al primo piano. «Fino a diciotto anni, dunque, non aveva mai veduto un teatro; quando verso la fine d’ottobre capitò a Novara un burattinaio, ed una bella sera si vide comparire sulla piazza del Rosario, e proprio dirimpetto al balcone della zia, la baracca dei burattini. «Figuratevi la gioia della Giovannina! Sebbene la sala del balcone, di solito, stesse sempre chiusa, perchè l’aria e la luce non facessero scolorire le seggiole ed il divano di _reps_, quella sera ella si piantò sul balcone appena vide la baracca, e non si mosse più finchè la burattinata fu finita ed i lumi spenti. «Il giorno dopo stette in grande ansietà per paura che il burattinaio non tornasse. Ma tornò, e lei, tutta felice, domandò ai suoi parenti il permesso di mandare a prendere due amiche, perchè godessero con lei quello spettacolo. «E per parecchie sere, le tre fanciulle si divertirono immensamente, attentissime alla commedia, che poi il giorno dopo ripetevano a chi voleva sentirla. «Io, che ero appunto a Novara per studiare al liceo, fui invitato dalla Giovannina alle burattinate, e quando non avevo molto da studiare, ci andavo e mi divertivo la mia parte. «Ma quell’anno l’ottobre era eccezionalmente freddo, e la commedia finiva tardi, verso le dieci. Le ragazze infreddarono tutte. «Allora tutti i parenti proibirono di stare al balcone di sera, compresa mia zia, che intimò a sua figlia d’andare a letto alle otto, finchè non le fosse passata la tosse. «La Giovannina non disse nulla, perchè sua madre non le permetteva di discutere le sue risoluzioni. Ma la tosse continuava e si faceva anzi più acuta, nonostante gli atroci decotti di orzo indolciti col miele, che la zia faceva ingollare alla malata. «Intanto io, che non avevo bisogno del balcone per godere le burattinate, la prima sera che i miei studi me lo permisero, andai in piazza del Rosario, con l’intenzione di sentire la commedia in piedi. Ma la folla era già compatta, e non mi fu possibile di farmi strada fin sotto il balcone della zia, per essere in faccia alla baracca. Rimasi invece dietro la baracca ed in faccia al balcone chiuso. «Quando non si vedono gli attori, l’attenzione è meno accaparrata dallo spettacolo. Io dunque guardavo in giro, un po’ qua, e un po’ là, e più spesso sul balcone della zia, pensando che lassù avrei veduto tutto, e sarei stato più comodo che lì dietro, pigiato tra la folla, dove sentivo la voce in falsetto d’una infelice ambiziosa defunta, che urlava tra le fiamme dell’inferno: «Per trent’anni di regno, tutta un’eternità di pene!» Vedevo i bagliori rossi del fuoco eterno di paglia, che ardeva sul davanti della baracca, ma non potevo vedere nè l’inferno, nè i diavoli, nè la regina. «Ad un tratto, a quella luce rosseggiante, vidi moversi qualche cosa di bianco sopra un gran testo, nel quale cresceva una magnifica pianta d’oleandro, sul balcone della zia. «Guardai attentamente, ma pare che l’inferno avesse cessato di divampare, e la piazza ricadde nell’oscurità. «Che l’eternità fosse già finita? «No. I diavoli, più attenti di molte vestali, non lasciano spegnere il fuoco infernale. S’udirono sibilare, movere i tridenti per rattizzarlo, la piazza rosseggiò un’altra volta irradiata dalla vampa in cui si dibatteva la regina col suo monotono lamento, ed a quella luce sanguigna, abbagliante, vidi distintamente la Giovannina, leggermente vestita d’una gonnella e d’un giubbino da notte, accoccolata sul testo dell’oleandro, che contemplava esterrefatta quella scena diabolica. «Il suo vestiario, e le persiane del balcone richiuse ermeticamente dietro a lei, mi spiegarono subito il mistero. «La Giovannina lasciava sua madre nella stanza da pranzo che era dall’altro lato del quartiere, e se ne andava a letto in camera sua, che comunicava appunto con la sala. E, dopo che sua madre era andata ad assicurarsi che era coricata e che non le mancava nulla, usciva pian piano, senza perder tempo a vestirsi, fors’anche a piedi nudi per non far rumore, e se ne andava sul balcone al buio per più di due ore. «E tutto questo per una miserabile commedia di burattini; e se ne divertiva semplicemente, senza pensieri di vanità, in gonnella, non veduta da nessuno. «Che ne dite, belle signorine, che sdegnate uno spettacolo d’opera e ballo, perchè l’andarvi una volta sola, non vi permette d’essere ammirate e salutate dagli abbonati, e perchè l’essere in tre in un palco non vi sembra abbastanza comodo e signorile? «La mattina, volendo sapere qualche cosa di più preciso sulla Giovannina, andai dalla zia, e la trovai tutta costernata perchè la sua figliola continuava ad avere la tosse, e questo, in una ragazza tanto lunga e sottile, dava da pensare. « — Sono due giorni che la tengo a letto, ma tosse sempre egualmente, e fors’anche di più... Temo che abbia la febbre... «Era ancora peggio di quanto avevo supposto. Stando a letto, la Giovannina non aveva gli abiti sotto mano, perchè sua madre, che amava la pulizia e l’ordine, li portava fuori di certo, per spazzolarli, o perchè non ingombrassero i pochi mobili della cameretta. «Dunque, quella povera ragazza, usciva, calda dopo una giornata di letto, e magari sudata, appena coperta d’una gonnella bianca, e stava ferma delle ore sul balcone, al freddo, col rischio di pigliarsi una polmonite, e d’andarsene all’altro mondo. «Se avessi potuto vederla l’avrei sgridata severamente, e anche minacciata di denunziarla a sua madre. Ma, naturalmente, non potevo entrare nella sua camera; e denunziarla davvero mi ripugnava, per quanto si trattasse di tutelare la sua salute. «Ci pensai tutto il giorno, e trovai modo d’impedire che non commettesse più quell’imprudenza, senza farle toccare i rimproveri, e forse qualche scappellotto dalla sua mamma, che le voleva bene, ma era molto severa. «Pregai tre amici di venire la sera con me a vedere la burattinata in piazza del Rosario, e mi collocai con loro, proprio accanto alla baracca. «Prima che ci fossimo trovati tutti all’appuntamento, s’era fatto un po’ tardi, e lo spettacolo era già al secondo atto quando giungemmo a posto. «Guardai subito sul balcone della zia e, per quanto fosse buio, vidi benissimo la figura bianca, che si moveva sul testo dell’oleandro. «Allora alzai un pochino per di dietro la tela che chiudeva la baracca, per assicurarmi che aveva un pavimento interno di legno, sul quale stavano rannicchiati il burattinaio, ed un suo figlioletto mingherlino, che faceva da suggeritore, e che, dopo il secondo atto, usciva a far la questua tra la folla. «Sicuro così del fatto mio, mi misi d’accordo coi miei compagni; ci collocammo ai quattro angoli della baracca, ed aspettammo una scena culminante del dramma, quando Florindo e Rosaura, con l’aiuto di Colombina e di Arlecchino, si disponevano a fuggire dalla casa di Pantalone. «E ad un tratto, sollevammo di peso la baracca, col burattinaio, il piccolo suggeritore, il cesto dei personaggi e tutti; e, fra gli urli della folla, giubilante e plaudente, a quell’improvvisata, trasportammo ogni cosa in quel vicolo stretto e curvo, che mette alla contrada del municipio, mentre il burattinaio si sporgeva fuori della baracca gesticolando disperatamente, con le braccia in alto, e con due burattini per ogni mano. «Nel vicolo buio lo rimettemmo in terra, avvertendolo con tutto il garbo possibile che, se non sceglieva un altro posto per i suoi spettacoli, sarebbe stato portato in trionfo ogni sera a quella maniera, prima che avesse il tempo di mandare in giro il suggeritore a raccogliere i quattrini. «La sera seguente il burattinaio piantò la baracca in piazza delle Erbe; e dopo due o tre giorni la tosse della Giovannina era cessata. «Ma quando ella seppe che ero stato io l’eroe di quell’impresa, e che l’avevo compiuta per lei, invece di ringraziarmi, mi rimproverò, perchè l’avevo privata del suo modesto teatro democratico, che la divertiva tanto. _Come il nonno non sposò la signora Giovannina_ Quella storiella dei burattini ci aveva molto scoraggiate. Era stata come una gran raffica, che aveva spazzato via tutte le nostre speranze di divertimenti. A noi pareva anche ingiusta perchè, in realtà, non eravamo musone, e la baracca dei burattini, se fosse capitata sotto la nostra terrazza, avrebbe divertite anche noi, come ci divertiva alle volte una partita a tombola col nonno e con le zie. Soltanto, quegli spassi lì non ci bastavano. Avevamo sempre il desiderio d’andare ai balli, dove andavano la tale e la talaltra; di vestire come loro; e quei continui confronti ci rendevano malcontente, e dissipavano presto l’allegria, che ci avevano procurato i nostri modesti e semplici piaceri. Per combinazione, appunto pochi giorni dopo quel discorso sul teatro, ricevemmo per la prima volta un invito per una festa da ballo. Eravamo a tavola; noi si pranzava al tocco; la donna venne a dirci che c’erano giù in sala delle signore. — Chi mai? Il nonno non voleva esser disturbato quand’era a pranzo; e sebbene, quando si trovava con le signore, le trattasse con la squisita cortesia dei suoi tempi, preferiva però di non trovarcisi. Ci permise di scendere in sala noi a ricevere quella visita, e rimase a tavola solo, perchè allora nostro fratello era in collegio. In sala trovammo la signora Righi, con due delle sue sei figliole. Non volevano neppure sedersi, perchè avevano una gran premura; erano in giro a fare gl’inviti «per quattro salti» che si farebbero in casa loro il domani sera. Dovevano ancora girare tutta Novara, perchè non si trattava d’una festa, per la quale mettesse conto di mandare gli inviti per lettera. — Quattro salti, semplicemente. In tutta confidenza. Un vestito chiaro purchessia. Chiaro, perchè è più allegro; ma senza eleganza, vedete? E badate di non mancare. Ditelo al nonno che contiamo su voi.... Ed erano già in fondo alla scala. Io era come sbalordita, in uno di quegli accessi di contento insperato, che quasi non si osa credere alla nostra felicità. Stavo a guardare mia sorella, aspettando di sentire cosa ne pensasse lei, prima d’abbandonarmi alla gioia che mi gonfiava il cuore. La Giuseppina scrollò il capo, e disse sfiduciata: — È inutile pensarci, non ci si va, sai! — Perchè? Il nonno non vorrà? — Figurati! Lui, che crede che una commedia di burattini basti a mantenere l’ilarità delle ragazze finchè dura la gioventù, penserà che l’opera dell’altra sera debba bastare a farci giubilare pel resto dei nostri giorni. Mi parve che avesse ragione, e susurrai scoraggiata: — Allora non gli si dice neppure? — Io non glielo dico per non sentirmi dare un rifiuto. — Ma se domanda perchè sono venute le Righi... — Gli si può dire, come novità del giorno. Ma non ci fondare speranze, sai. Invece, con nostra grande meraviglia, e con altrettanta gioia, il nonno non discusse neppure quell’invito. Ci domandò a che ora si dovesse andare, e ci avvertì che si dovrebbe tornare a mezzanotte, perchè lui non permetteva che si vegliasse più tardi. Non mi riuscì più d’ingoiare un boccone, tanto ero eccitata. Un ballo! Continuavo a parlare, a parlare con una vivacità insolita, senza badare a quanto dicevo, come ubbriaca di gioia. Mia sorella era assai meno allegra. Appena il nonno si alzò da tavola e scese nel suo studio, io dissi alla Giuseppina: — Vedi? Se non gli si diceva dell’invito, si perdeva il divertimento. Pensa; un ballo! Lei scrollò le spalle infastidita, e disse: — Ma che ballo! non ci si va. Rimasi sbalordita, poi mi venne una grande indignazione ed esclamai: — Vedi come sei? Ha ragione il nonno. Nulla ti contenta. Lui, povero vecchio, è disposto a condurci ad un ballo, e tu non vuoi. Allora è colpa tua se non ci si diverte.... Lei non si scompose e tornò a rispondere fredda fredda: — Sì, è colpa mia. C’è un bel vestito bianco in guardaroba, ed io non me lo voglio mettere, nevvero? — Un vestito bianco?... Chi ce l’ha messo?... — Non fare la scimunita. Ti dico che non abbiamo vestito per andare a ballare, ecco perchè non ci si andrà. Io osservai timidamente: — Ma quello bianco e verde?... — Già, per fare la figura che abbiamo fatta al teatro. Sarebbe un bel divertimento. — Ma le Righi hanno detto «in tutta confidenza; un vestitino chiaro purchessia...» — Sono cose che si dicono. Io preferisco non andarci. Quella risoluzione inaspettata mi affliggeva troppo; ci pensai un pochino, poi feci questa proposta temeraria: — Se si dicesse al nonno di farci un vestito; o, anzi, di farlo soltanto per te, che sei la maggiore, e lo desideri... A me non importa di venire con quello bianco e verde... Mia sorella alzò le braccia al cielo, e gridò: — Per carità! Ci racconterebbe un’altra storia, noiosa come quella de’ suoi vestiti andati in fumo, che ci raccontò due anni fa in collegio; e non ci si guadagnerebbe altro. Io sospirai: — È vero. Tutti i nostri ideali sono destinati a svanire in una storiella. Tuttavia avevo l’animo pieno di gratitudine pel nonno, che aveva acconsentito con tanta facilità ad accompagnarci a quel ballo, e mi addolorava il pensiero di non profittare di quella concessione. Cercai di conciliare le cose con un’altra proposta: — Infatti, domandare un abito nuovo sarebbe un’indiscrezione. E poi la sarta non avrebbe neppure il tempo di farlo. Ma si può accomodare ogni cosa. Io mi metto il vestito verde. Tu prendi quella vecchia gonnella rossa di seta della povera mamma, che è nell’armadio. La copriremo tutta coi nostri due veli di tulle bianco della prima comunione, che sono affatto nuovi, e che ti faranno una bellissima sopravveste. Quanto alla vita, metterai quella di seta nera, ed avrai una toletta da serata senza spendere un soldo. Mia sorella si rasserenò tutta all’idea di quell’abbigliatura, che allora era di gran moda, e che certo le avrebbe fatto fare una figura magnifica. Soltanto, la gonnella rossa la teneva il nonno in un armadio chiuso a chiave, con tutto lo spoglio della nostra povera mamma, e non si poteva pigliarla, se lui non ci dava la chiave, ed il consenso. Questo ci mise in gran pensiero, perchè, conoscendo i suoi principî severi, temevamo un serio rabbuffo. Tuttavia, siccome non c’era tempo da perdere, io che, domandando non per me ma per un altra, mi sentivo più coraggio, andai dal nonno, e pian piano gli dissi che la Giuseppina sarebbe stata tanto bene con un vestito da ballo, e che si poteva combinarlo senza nessuna spesa, perchè c’era tutto in casa... E gli esposi il mio disegno, il vestito rosso, i veli, ecc. ecc. Egli corrugò la fronte, poi rispose una sua parola che noi conoscevamo decisiva, inesorabile, ed alla quale non avremmo mai osato di rispondere: — Non se ne parli altro! Io rimasi male. Ma cosa potevo dire? Non dava nessuna ragione del rifiuto; non c’era mezzo di combatterlo. Mia sorella si limitò a crollare il capo ed a dire che prevedeva che sarebbe andata così. Ma aveva le lagrime agli occhi; e ripetè che non voleva venire al ballo. Io poi, ero disperata di rinunciare al divertimento per quella storia del vestito, e suggerii di far parlare al nonno da qualcuno più influente di noi. — Se si provasse la signora Giovannina? La stuzzica sempre per la sua età, ma in fondo le vuoi bene. Ha fatta tutta quella cosa della baracca dei burattini per lei... La Giuseppina stette un minuto perplessa, poi mi approvò: — Forse hai ragione. La signora Giovannina è la sola che lo possa persuadere. Se si andasse da lei? Felice di vedere ancora accettato un mio consiglio, e di potere, ad ogni modo, andare a quel ballo, corsi dal nonno a domandargli il permesso di uscire colla serva e con la mia sorella, per fare una visita alla signora Giovannina. Il nonno si tolse gli occhiali per guardarmi, e cominciò a dire: — Mi pare una stravaganza. Ma poi, forse ricordandosi d’avermi dato un rifiuto secco secco un momento prima, si strinse nelle spalle, e disse: — Ma se vi fa piacere, andate. Corsi in cucina ad avvertire la serva, che brontolò perchè le si faceva smettere di rigovernare, e ci avviammo. Infatti la serva aveva ragione. Era un’avventatezza indegna di due giovinette destinate a diventare due modelli di donne di casa, l’interrompere le occupazioni importanti dell’unica donna di servizio, per una visita che non si giustificava in nessun modo. Ma la strada era breve, ed appena fummo alla porta della signora Giovannina, rimandammo la donna alle sue faccende, e salimmo sole. Era la prima volta che andavamo spontaneamente da quella vecchia parente, e la prima volta che invocavamo il suo appoggio. Come accade sempre dei disegni troppo arditi, passata l’eccitazione orgogliosa d’averlo concepito, mi si affacciavano tutte le difficoltà dell’attuarlo. Nel salire le scale, dissi con un sospiro: — Non otterrà nulla neppur lei, come la direttrice quando si trattò delle lezioni di piano. E la Giuseppina rispose: — Almeno la signora Giovannina non corre il rischio di sentire una storiella, perchè le storie del nonno le sa tutte anche lei. Ed io soggiunsi: — E così non la sentiremo neppur noi; sarà tanto di guadagnato. Fu invece la signora Giovannina, che, questa volta, ci raccontò una storia. Appena, un po’ intimidite, un po’ esitanti, le ebbimo detto quanto volevamo da lei, si scrollò tutta con tale nervosità, che i nastri della cuffia, i lembi della cravatta, il grembiule, tutto si mise a svolazzare ed a sbattacchiarle intorno. E, mentre si agitava a quel modo, diceva: — No, no, ragazze, no. Io non glielo dico; e nessuno glielo deve dire. E voi dovete rinunziare a questa idea del vestito, e non pensarci più, e metter da parte l’ambizione... Perchè, se sapeste che male può farvi! Se sapeste! Bisogna sapersi accontentare del proprio stato, e non pretendere di imitare i ricchi, ecco! Non importa che quell’abito non costi nulla. Non dovete farlo. Poi, con una certa peritanza, e con espressione di rammarico, soggiunse: — Io l’ho imparato a mie spese... La Giuseppina disse spaurita: — Oh, Dio! Vuol raccontare una storiella anche lei, signora Giovannina? E lei rispose con impeto: — Ma sì; appunto. Siete ragazze, e vi può fare del bene. Sapete perchè sono invecchiata sola, senza marito, senza figlioli, in questo isolamento che mette pietà? Per l’ambizione. E per un’ambizione che non costava nulla ai miei parenti e che prima non avevo... — «State a sentire. Voi conoscete quanto è buono Andrea, e quanto ha studiato, e che uomo d’ingegno è. Ma allora, ai tempi di cui parlo io, non era ancora professore di fisica e di botanica. Era farmacista e giovane. Aveva comprata la farmacia con poche migliaia di lire che gli aveva date suo padre, impegnandosi a pagare il resto del prezzo convenuto, nel termine d’un certo numero di anni. E lavorava molto, e spendeva poco, per finire quel pagamento e diventare proprietario assoluto della farmacia: E diceva: — «Allora avrò una situazione modesta, ma sicura, e potrò pensare al mio avvenire, a farmi una famiglia... «Non aveva mai detto di più; ma frequentava moltissimo la nostra casa, e mi dimostrava tanto affetto... La Giuseppina, che cominciava a prender gusto a quella storia, la interruppe ridendo: — Sì, sì, sappiamo, signora Giovannina. Le imprese d’Ercole! Ha portato un teatro con tutta la compagnia drammatica, per risparmiarle un raffreddore. E la signora Giovannina riprese: — «Appunto. Mi voleva bene a quella maniera. Ed era contento che mi divertissi delle burattinate! Diceva che gli piacevano le ragazze semplici, contente del loro stato, sanamente allegre. «I miei genitori dicevano apertamente che Andrea sarebbe stato un buon marito per me. Che sarebbero stati felici d’avere un genero con quell’intelligenza e con quel carattere. «Ed io non lo dicevo apertamente, ma lo pensavo, e, più ancora, lo sentivo. «Disgraziatamente, qualche anno dopo la storia dei burattini, ebbi, come voialtre, l’invito per una festina da ballo. «Allora le case della borghesia non ostentavano il lusso di appartamento e di mobili che si ostenta ora. «La famiglia che dava il ballo possedeva un salottino, ma piccolo, appartato, che non si prestava ai ricevimenti un po’ numerosi, e stava quasi sempre chiuso e buio. «Invece avevano una bella cucina, vasta, quadrata, colle pareti bianche ed i fornelli di mattoni rossi. «Si toglieva la tavola di mezzo, si stendeva un lenzuolo sopra una parete per nascondere il rame, si annaffiava il pavimento di mattoni con acqua insaponata, e si ballava in cucina. «Per musica c’era un organetto, per rinfreschi il secchio dell’acqua con il rispettivo ramaiuolo, per illuminazione due lampade ad olio sul camino, e due candele sui fornelli. «Però, nel fare gl’inviti, la padrona di casa aveva detto, come dissero le Righi a voi, di vestirci di chiaro, per dare alla serata un’aria più gaia. «Allora si usavano gli abiti scollati, con le maniche corte e rigonfie, con la vita cortissima, e la gonnella stretta alla persona tanto da disegnarne le forme, e lunga appena fino alla caviglia; tutto il piede rimaneva scoperto; si portavano scarpe scollate e calze bianche a trafori. «Io aveva un abito di mussola bianca; una stoffa che cominciava appena a comparire e costava più cara della seta. Era un regalo che m’aveva mandato da Parigi una signora, alla quale mio padre aveva prestato i suoi servigi come medico, durante un suo viaggio in Italia. Era un vestito di lusso per me. «Andai dunque alla prima festa con quell’abito. Il nonno vi disse, come, senza maestro, avessi imparato a ballare assai bene. Non si ballavano le _polke_ ed i _walzer_, che ballate ora; si ballava la contraddanza, la monaco, balli eleganti in cui le abbigliature figuravano meglio e si sciupavano meno che nei balli d’adesso. Ora, con quei giri violenti che fate, strette strette contro il ballerino vestito di nero come un notaio, ed in mezzo al turbinìo di molte altre copie, che girano urtandovi e calpestando gli strascichi, le eleganze del vestire sfuggono. «Allora anche gli uomini portavano dei calzoni chiari, delle giacchette corte color grigio di sorcio o verdolino. Ma questo non importa. Io mi avvidi d’aver fatto una bellissima figura col mio vestito bianco, e tornando a casa mi promettevo una serie di trionfi identici. Andrea, che ci accompagnò a casa, io e la mamma, perchè mio padre, occupato de’ suoi ammalati, non aveva potuto venire, ci assicurò che in quella casa si sarebbe ballato ancora quattro volte nel corso del carnevale. «La mamma aveva osservato l’assiduità d’Andrea a ballare con me, e se ne rallegrò più volte parlandone col babbo a tavola. Io me ne rallegrai senza parlarne. «Alla seconda festa, due signorine che mettevano tutta la loro ambizione nel vestire con grande eleganza, comparvero con un abito differente dal primo. Un abito d’un turchino brillante, che era di moda quell’anno e si chiamava _celeste Maria Luigia_. «Tutto le signore le complimentarono per quel vestito; gli uomini si affollarono intorno a loro, leticando per essere i primi a farle ballare, ed io fui assai meno ammirata della prima volta; ballai quasi sempre con Andrea, che non dovette leticare con nessuno per avermi. «Quella sera, al ritorno, ero assai meno contenta; e, quando la mamma parlava dell’assiduità di mio cugino, e ci fondava sopra i suoi disegni d’avvenire, io, invece di rallegrarmene, mi sentivo mortificata, e pensavo che, se non m’avesse fatta ballar lui, sarei rimasta seduta; e che certo lui mi aveva compianta per quell’abbandono. «Ero troppo orgogliosa per rassegnarmi ad essere compianta, e mi proposi di non andare ad un terzo ballo con lo stesso vestito. La mia preziosa mussolina bianca mi era doventata odiosa. «Tuttavia, sapevo che mio padre non era ricco, e che lavorava per mantenere la famiglia, e non mi passò neppure per la mente di domandare un vestito nuovo. Ero molto laboriosa ed ingegnosa, e mi venne l’idea di trasformare il mio vestito bianco in un vestito celeste. A questo la mia mamma si oppose un pochino dapprincipio, perchè dubitava della riescita, ma poi consentì, e mi lasciò fare. «A forza di bagnarla in un’acqua con molto turchinetto, mi riescì di dare alla mussolina un color celeste, meno bello di quello _Maria Luigia_, ma abbastanza grazioso; e quando l’ebbi stirato e rimesso a nuovo, il mio vestito stava molto bene; ed alla terza festa fui ammirata e ricercata come alla prima. «Allora, invece di badare alla maggioranza delle signorine, che venivano con la stessa abbigliatura della prima sera, e si divertivano con semplicità, come conveniva ad un modesto ballo di giovinette, e quando non erano ricercate dai ballerini, ballavano tra loro, mi rallegrai del mio trionfo, mi compiacqui di poter compiangere Andrea, perchè, circondata com’ero, avevo potuto ballare ben poco con lui, e mi parve che questo dovesse darmi maggior valore ai suoi occhi, e che se non mi fossi mantenuta a quel grado di eleganza, sarei decaduta nella sua considerazione. «Pensai dunque al modo di cambiare ancora abbigliatura per la prossima festa, e, dopo quel primo risultato, mi attenni al primo sistema, della tintura. Lavai io stessa il mio vestito; feci bollire una quantità di spinacci, ed in quell’acqua verdognola che lasciarono, immersi il vestito bianco. «Avevo pensato di dargli quel certo color verdolino che si usava per le giacchette degli uomini, e che si chiamava, poco elegantemente, _caca d’oie_. «E la cosa mi riescì a meraviglia. Quando il vestito fu stirato, ed il volante pieghettato fu rimesso in fondo alla gonnella, mia madre mi fece delle lodi per la mia abilità. Mi diceva: « — Sei una figliola industriosa; sai figurare senza spender quattrini. «Andrea invece, quando mi vide con quella nuova abbigliatura, ed udì la storia della mia abilità, disse: « — Io non capisco che utilità ci sia a parere di più di quello che siamo. «E non mi fece nessun elogio. «Quella sera ancora fui molto circondata e potei fare soltanto un ballo o due con mio cugino. Ma mi avevano trovata tutti così bizzarra, per aver adottato quel colore degli abiti maschili, che io ne ero lusingatissima; e, del resto, ci mettevo dell’amor proprio a potermi far preziosa con lui. Non mi pareva mai d’aver riscattata abbastanza l’umiliazione di quella seconda sera, quando, vedendomi trascurata, m’aveva fatta ballare per compassione. «Almeno io aveva creduto che fosse per compassione. «Incoraggiata dai risultati ottenuti, per l’ultimo ballo rilavai il vestito e, sempre con lo stesso metodo, m’ingegnai a dargli un nuovo colore. Questa volta lo bagnai nel caffè e gli diedi una forte tinta di tela greggia, che allora si chiamava color nanchino. Con due o tre lire di spesa vi aggiunsi una cintura rossa, e fu ancora una serata trionfale per me. «Quella sera la mamma osservò che, con Andrea, non avevo ballato affatto. Neppure una volta. Ma io me ne consolai. Chissà quanto doveva aver sospirato d’avermi, senza trovarmi mai libera! Doveva ammirarmi tanto più, dacchè m’aveva veduta tanto ricercata da tutti. «Finito il carnovale non si parlò più di divertimenti, e si tornò alla solita vita casalinga. «Andrea si vedeva di rado; ma era molto occupato nella farmacia; si capiva che non gli rimanesse tempo d’andare in giro. «Non gli mancava più che un’ultima rata del pagamento per diventare proprietario. «La mamma diceva a mio padre: — «Sono sicura che, appena avrà finito di pagare la farmacia, verrà a domandarci la Giovannina. «Ed il babbo rispondeva: — «Io non desidero di meglio. È un bravo giovane. Ha cuore ed intelligenza. Farà una bella strada. «Quanto a me non dicevo nulla; ma pensavo anch’io che verrebbe, e mi rallegravo di aver tanto brillato a quelle feste, pensando che lui doveva rammentarmi così elegante e corteggiata. «Ma passarono dei mesi. Andrea continuò a farci delle visite settimanali, senza mai fare la menoma allusione al pagamento della farmacia, nè al suo proposito di crearsi una famiglia. «Verso la fine di giugno ci preparammo a partire per un paesucolo vicino a Novara, dove s’aveva una casetta e poca terra, e dove s’andava ogni anno per badare ai raccolti e per fare un gran bucato annuale, non per villeggiare nè per cura climatica, perchè era una brutta campagna, tutta circondata di risaie che ammorbavano l’aria. «La vigilia della nostra partenza Andrea venne a salutarci, e la mamma lo trattenne a pranzo, sperando che dicesse qualche cosa. Questa speranza me la comunicò più tardi; ma io l’avevo indovinata subito, perchè era anche la speranza mia. «A tavola Andrea disse, guardando sul piatto vuoto, come se gli facesse pena di guardare in faccia qualcuno di noi. — «Sa, zia? Ho cominciato a studiare seriamente le scienze naturali. Voglio doventar professore e dedicarmi all’insegnamento. «La mamma capì, come l’avevo intuito io stessa, che quegli studi serii, nei quali sarebbe tutto assorbo per un tempo relativamente lungo, distruggevano que’ suoi primi propositi che ci avevano lusingati, e ne prendevano il posto; ed esclamò: — «Oh! e la farmacia? — «Ho preso con me un buon praticante; così avrò tutto il tempo di studiare. «Mio padre fece la sua osservazione da uomo pratico. — «Ti sei assunta questa spesa, prima di aver finito il pagamento della farmacia? «Andrea rispose, sempre cogli occhi sul piatto, e facendosi rosso, ed asciugandosi la fronte sudata: — «Il praticante mi costa poco; soltanto il vitto e l’alloggio; ed il pagamento è compiuto fin da questo carnovale... Misericordia, che caldo! «La mamma guardò me, che ero tutta agitata, e mi disse d’andare a far il caffè. Poi quando fui uscita, riprese il discorso con intimità da parente: — «Allora non ci pensi più a crearti una famiglia, come dicevi?... «E lui brusco brusco: « — Per ora no. «Si alzò in piedi, girò per la stanza come se volesse uscire, poi fermandosi dinanzi alla finestra, e sporgendosi in fuori come per cercare un soffio d’aria, disse ancora: — «Voglio prendere gli esami, e doventare professore di fisica o di botanica; e si sventolava con la pezzuola. — «Ma perchè? Non avevi già scelta una professione? Non vuoi più fare il farmacista? — «Sì: ma ho bisogno di occupare la mente, di fare qualche cosa di più. La vita della farmacia mi rattrista... «In quel mentre entravo col caffè. «Si parlò d’altro, poi ancora di quegli studi che Andrea si proponeva; poi egli si alzò per andarsene, dicendo che faceva troppo caldo a star rinchiusi, che aveva bisogno d’uscire a respirare un po’ d’aria. «Mio padre nel salutarlo gli disse: — «Dacchè hai un praticante, potrai andare qualche volta da mia moglie a Caltignaga. Non c’è buon’aria, ma è meno caldo che in città... almeno la sera. «Andrea esitò un minuto, poi rispose: — «No; grazie, zio. Debbo studiare; quest’anno non potrò venire neppure la domenica con lei. «Allora la mamma, che, come tutti noi, vedeva benissimo che voleva evitarci ad ogni costo, s’avviò verso la sua camera, dicendo: — «Vieni qui un momento. Ho dimenticata una commissione, e domattina si parte presto. Mi farai il favore di farla tu... «Andrea la seguì, e stettero circa un quarto d’ora. «Io sentii che qualche cosa di doloroso mi era accaduto; sentii che quel cugino buono, intelligente, pieno di buone intenzioni e che prometteva tanto per l’avvenire, si era staccato da me; che non dovevo più considerarlo, come l’avevamo considerato fin allora, il mio fidanzato, il compagno del mio avvenire. «Compresi che facevo una gran perdita, e sentii come uno schianto al cuore. «Incrociai le braccia sulla tavola, chinai il capo sulle braccia, e piansi in silenzio. «Mio padre passeggiò un tratto su e giù per la stanza, sbuffando contro il caldo, come se quello fosse il suo solo pensiero; poi, sfiorandomi il capo con la mano, mi disse: — «Via, non crucciarti. Ne capiterà un altro! Mi dispiace anche a me, perchè era un buon partito. Ma si vede che non ci pensava. Abbiamo preso un granchio. «Quella riflessione aggiunse una puntura di amor proprio al dispiacere che provavo già. Pensai ai commenti delle mie amiche e dei nostri conoscenti, i quali avevano indovinato di certo i nostri disegni su Andrea, che noi non ci davamo molta briga di nascondere. «Dopo un tratto sentii tornare la mamma, che disse subito con un po’ di risentimento: « — Mia cara; non è il caso di piangere, ma di picchiarsi il petto e dire _mea culpa_. Sai perchè ha smessa l’idea di sposarti? E l’aveva, sai? me l’ha detto. Per i tuoi tre vestiti, cioè per i tre colori del tuo vestito di questo carnovale. Dice che hai dimostrato un’ambizione che lui non sarebbe in grado di soddisfare; e, per quanto cercassi di fargli capire che non si è speso nulla per quei vestiti, che anzi sei stata industriosa, ed hai saputo figurare bene con poco, non volle saperne. Mi rispose: — «Quella è un’industria pericolosa, zia. Per me, che si sia speso o no, non cambia nulla alla cosa. Ho veduto che mia cugina ama la società e l’eleganza del vestire; e questo è contrario ai miei gusti ed ai miei principii. Ho sempre pensato di trovarmi una moglie che si contenti dello stato in cui l’avrò posta, non per far atto di doverosa rassegnazione, ma spontaneamente, per modestia di carattere, per semplicità di gusti. Invece ho veduto che i gusti della Giovannina sono differenti. Si compiaceva di essere elegante, o di parere, che per me è la stessa cosa; si compiaceva d’essere ammirata, corteggiata. Il vivere senza queste soddisfazioni le costerebbe un sacrificio, un atto d’abnegazione, che farebbe forse volentieri per me, ma che sarebbe sempre sacrificio ed abnegazione. E questo io non lo voglio, perchè fa fare a me la parte del tiranno, ed espone lei al rischio di pentirsi più tardi. Dal canto mio non potrei mai rassegnarmi a quella vita esteriore e leggiera, e se volessi farlo per lei, anch’io m’imporrei un sacrificio, e correrei il rischio di pentirmene. Alla nostra età la vita può essere ancora molto lunga, e non bisogna esporsi al pericolo di renderla infelice all’uno e all’altra. La Giovannina troverà facilmente un giovane meno orso di me, il quale sarà felice di avere una moglie, che fa bella figura in società, che si fa ammirare; e si sposeranno, e, non dovendo nessuno dei due far violenza ai proprii gusti, andranno perfettamente d’accordo. E quanto a me, se più tardi, molto più tardi, mi stancherò d’esser solo, farò lo stesso anch’io; cercherò una giovane che si diverta semplicemente, modesta come me, e che non debba imporsi nessun sacrificio per accettare la situazione che potrò offrirle.» . . . . . . . La signora Giovannina stette un tratto pensosa, e sospirò come se rimpiangesse ancora dopo cinquant’anni, quel buon matrimonio andato a monte. E forse lo rimpiangeva davvero, perchè la sua vita doveva essere stata molto arida e triste. La Giuseppina osservò: — Però, quella volta, il nonno è stato cattivo. L’ha punita troppo severamente. La signora Giovannina si scrollò tutta con grande energia, e rispose: — Ma no, ma no! Lui non l’ha fatto per punirmi, nè per atteggiarsi a giudice. Ha dovuto sopportare anche lui le conseguenze di un errore della mia educazione. I miei genitori erano stati deboli, per cieco affetto, e non mi avevano corretta a tempo della mia vanità; io, giunta ad una età ragionevole, invece di considerare il male che poteva farmi quella tendenza, creandomi dei gusti e dei bisogni non adatti al mio stato, assecondai la mia inclinazione, e, realmente, se allora avessi sposato Andrea, sarei stata infelice di non poter più sfoggiare dei bei vestiti, e di non essere ammirata e complimentata in società. E la mia infelicità avrebbe reso infelice lui. Fu una disgrazia per me, ma lui ebbe ragione di non sposarmi. E, vedete, nessun altro mi domandò. Rimasi zitellona. Forse appunto perchè tutti mi trovarono molto vana, per una giovane della mia condizione. Noi comprendemmo che tutto questo era vero, e, senza più parlare del famoso vestito rosso, andammo a quelle due festicciole col nostro vestito da estate di lanetta bianca e verde, che ora farebbe rabbrividire certe nostre giovinette pretenziose ed inspirerebbe loro chissà quanti epigrammi maligni. E ci divertimmo allegramente, ballando fra noi ragazze quando i ballerini non venivano a prenderci. Però quel giorno, mentre la signora Giovannina era andata a mettersi il cappellino per accompagnarci a casa, la Giuseppina mi disse: — Dicevi bene, dianzi a casa, Maria. Tutti i nostri ideali sono destinati a svanire in una storiella. E tutte e due sospirammo con grande rammarico. _Come il nonno prese moglie_ Quel gran disinganno della signora Giovannina ci aveva richiamata alla memoria la prima moglie del nonno, morta da molti anni, e che noi naturalmente non avevamo mai conosciuta. Ma avevamo udito ripetere in casa e fuori che era una gobbina, alta appena un metro, e che non usciva mai di casa. In sedici anni circa che aveva vissuto col nonno, non era uscita più di otto o dieci volte, in carrozza. Perchè mai il nonno aveva sposato quel povero essere deforme? Lui doveva essere stato bello nella prima gioventù. Certo era alto, molto alto, ben proporzionato, forte, cogli occhi buoni ed i lineamenti regolari. Tutto questo si vedeva ancora ad ottantasei anni. Ed anche la signora Giovannina, la sua prima passione, era stata bella. Ne portava le traccie nelle linee correttissime del volto, nella persona alta e svelta. E poi, il nonno stesso ce l’aveva detto più volte. Come mai era poi andato a scegliere quella sposa disgraziata? Ci pensammo tanto, che alla fine, non potendo più frenare la curiosità, domandammo alla signora Giovannina com’era andata quella cosa strana. Era un pomeriggio d’estate quando le facemmo quella domanda. Eravamo tutte e tre alla cascina del nonno, che noi ragazze chiamavamo per affettazione «la villa» quando però il nonno non udiva. Si stava sedute sopra una panca di legno, addossata al muro esterno della casa civile, la quale era poco più civile di quella rustica. Dinanzi a noi si stendeva una striscia di terreno lunga e stretta come una strada maestra, tagliata fuori dalle praterie e dagli orti, e fiancheggiata da due viali. In quella striscia crescevano alla rinfusa delle dalie d’ogni colore, delle ortensie, dei gigli, delle peonie, fiori ed arbusti comunissimi, che costituivano tutte le bellezze del nostro giardino. I viali laterali erano fiancheggiati da piante di calicanto, di persicaria, che il nonno chiamava sempre polygonum persicario in memoria della cattedra di botanica che aveva occupato per molti anni, di lilla e di altri alberi ed arboscelli fioriti, che chiudevano il giardino come in una fitta siepe, separandolo dal resto del fondo. Nel viale di destra vedevamo il nonno, con una vecchia giubba nera, ed un vecchio cappello a tuba grigio, avanzi della sua guardaroba di città, che egli faceva servire come costume di campagna, per misura d’economia. Camminava lentamente, allontanandosi da noi, colle mani dietro la schiena, e con in mano il falcetto che luccicava al sole. Tratto tratto alzava il braccio destro armato di quell’arma innocente, spiccava con un solo colpo un ramo troppo sporgente, poi riprendeva la sua positura colle mani di dietro incrociate, e tirava via a camminare canticchiando certe sue tre note, stonate ed invariabili. «Hum! Hum! Hum!» Quel giorno eravamo troppo distanti per udire le note, ma conoscevamo le sue abitudini, e ci pareva di udirle. La signora Giovannina strinse le labbra ed alzò il mento, accennando il nonno, e, cogli occhi fissi in quella larga schiena diritta, rispose: «Perchè è sempre stato buono come un santo. Ecco perchè ha fatto quel matrimonio! Noi non parlammo, perchè avevamo sorpreso nella voce della signora Giovannina un certo suono gutturale, che ci aveva imbarazzate. E lei pure s’era interrotta, un po’ mortificata di quella commozione. Si diede una gran scrollata, come per scuoterla via, poi cominciò a raccontare, parlando a scatti, col suo accento asciutto, che quel giorno stonò più volte col senso pieno di calore delle sue parole. . . . . . . . «Quella povera gobbina, era figlia di certi signori Ripamonti, lontani parenti di Andrea. «Erano tre figliole e quattro maschi. «Le figlie erano maggiori dei fratelli. «Le due prime erano sane e belle. La terza era stata colpita a dieci anni da un’artritide deformante, che l’aveva ridotta in uno stato da far pietà: gobba, colle mani contorte e nodose, e quasi inferma. Soltanto il volto aveva serbato una gran dolcezza d’espressione, ed una gran gentilezza di linee; ed i capelli biondi erano così lunghi ed abbondanti, che formavano come un cimiero troppo grave, per quel povero capino delicato dell’Editta. «La signora Ripamonti era una buona donna, ma d’un’intelligenza assai limitata. Era di Biandrate, figlia d’un possidente rozzo, che non le aveva data nessuna istruzione, oltre quella che aveva ricevuta alla scuoletta comunale del villaggio, in quei tempi, quando le maestre non avevano bisogno di diplomi, e ne sapevano abbastanza se riescivano a scrivere una lettera, ed a fare le quattro operazioni aritmetiche. «Ripamonti l’aveva sposata, perchè appunto era figlia d’un ricco possidente. «Ma quel possidente, che non era una gran testa neppur lui, s’era sempre lagnato di non aver altri figli che quella ragazza; ed aveva dichiarato di voler lasciare a lei, soltanto la parte che le spettava a titolo di legge, e di voler legare il grosso del suo patrimonio ai discendenti maschi. «Se sua figlia aveva dei maschi, come era da sperare, essi erediterebbero la sostanza del nonno materno, coll’obbligo di portarne il nome, unito a quello del padre: Ripamonti-Pratinelli. «Se per disgrazia sua figlia non aveva figli maschi, gli eredi sarebbero i figli d’un fratello di lui, dei veri Pratinelli, due ragazzoni robusti, che promettevano di godere a lungo i quattrini dello zio. «Si può figurarsi con che ansietà il signor Ripamonti, un piccolissimo proprietario, che cavava appena da’ suoi fondi, tanto da vivere, aspettasse d’esser padre d’un bel maschiotto, Ripamonti-Pratinelli, ed anche Gaetano, perchè, per abbondare di cortesia, contava di farlo tenere a battesimo dal suocero e di dargli il suo nome. «La sposa pregava il Cielo con fervore che le mandasse un bambino. «Ma videro invece, e con crescente terrore di tutti, venire al mondo, una dopo l’altra, tre bambinette. «La signora Ripamonti le amava, le allattava, ne aveva tutte le cure, e le trovava bellissime. Ma se ne vergognava, come di tre cattive azioni che avesse commesse. «E, certo, suo padre e suo marito le consideravano, se non proprio come tre cattive azioni, come tre errori; e la facevano responsabile delle conseguenze finanziarie, disastrose per la famiglia. «Finalmente, dopo sei anni di matrimonio, quella povera donna trovò grazia dinanzi a Dio, che le mandò il piccolo Gaetano Ripamonti-Pratinelli, destinato a richiamare sulla retta via il patrimonio di suo nonno, che stava per sviarsi. Il fausto avvenimento fu festeggiatissimo da tutta la famiglia, ed il bambino divenne l’idolo, l’arbitro della casa. «A due anni, quel piccolo despota, si ammalò gravemente di morbillo, e fu lì lì per tornare al limbo dal quale era partito. Fu una tale ansietà, un tal terrore, che per poco non morirono tutti i Ripamonti, di quella sua malattia. «Le cure assidue, amorosissime della madre, contribuirono molto a salvarlo. Però era ridotto come un cadaverino, ed il medico ripeteva: « — Ora io ho finita la mia parte. Il resto lo deve fare la mamma. È la sola che possa assisterlo con tutta l’attenzione, con tutta la devozione che si richiede. Avrà una convalescenza lunga e difficile assai. La menoma inavvertenza, un soffio d’aria, un boccone che mangi più del bisogno, possono mandarlo all’altro mondo da un’ora all’altra. «La povera mamma non si risparmiava di certo, ed era disposta a rimetterci la vita, pur di guarire il piccolo ammalato. «Ma sgraziatamente il male era contagioso, o dopo alcuni giorni ne fu colpita anche lei molto gravemente. Si fece un consulto, ma i medici tentennavano il capo e davano poca speranza. Ed intanto il bambino, invece di riaversi, rimaneva abbattuto, languido, con un resto di febbriciattola che non si poteva sradicare. «Quando si vide perduta, la povera donna s’impaurì, non tanto per sè quanto per quel piccolo essere, tanto necessario all’avvenire della famiglia, alla felicità di suo marito e di suo padre. «La sua mente piccina si smarrì a quell’idea tremenda che, morta lei, anche il bambino, al quale erano indispensabili le sue cure materne, morrebbe, lasciando la casa nella disperazione e nella rovina. «Sotto quell’incubo pauroso, ella fece un voto strano, inaudito, quasi incredibile. «Giurò di offrire al Signore tutte e tre le sue figliole, di farle monache, se otteneva la grazia di guarire, per curare il piccolo Gaetano. . . . . . . . Noi interrompemmo il racconto della signora Giovannina, per esclamare con indignazione: — Ma era una cattiva madre! — Una donna senza cuore! — Un’egoista! La signora Giovannina stette zitta un lungo tratto, chiudendo quasi gli occhi, e stringendo le labbra, come per fare violenza a sè stessa e trattenere le parole che le venivano in bocca. Poi disse con molta fermezza: — No. Anch’io ho pensato come voi alla vostra età, ed ho giudicato quella donna severamente. Ma ho fatto male. Più tardi dovetti riconoscerlo. Fu sempre per le sue figlie una madre affettuosa, le allevò colla massima tenerezza; guai se si ammalavano, se alla scuola subivano qualche piccola ingiustizia; era sempre pronta ad assisterle, a difenderle con una parzialità affatto materna. Quando l’Editta fu colpita dall’artritide che durò più d’un anno nello stato acuto, poi prese un carattere cronico, la mamma abbandonò ogni cosa per curarla giorno e notte, non risparmiò nè fatiche nè veglie, tutti la videro soffrire, agire ed amare come una vera e buona madre. Io risposi: — Però deve ammettere che, quelle povere figlie, le amava molto male, e le sacrificava. Lei non aveva diritto di disporre della loro vita. — È vero. Ma era semplice di mente. Queste cose che tu dici non le sapeva. Siccome il privarsi delle sue figlie era un sacrificio, un dolore anche per lei, non poteva immaginarsi d’essere egoista. Chi non sa di fare il male è come se non lo facesse. Credete a me, ragazze, non abbiamo diritto noi di erigerci a giudici. Io ho compreso questo, quando ho veduto Andrea, quel giovane buono ed onesto, troncare ad un tratto tutte le mie speranze, il mio avvenire di donna, per una questione di principii giusta a’ suoi occhi, ma troppo severa. Ho compreso allora che si può far male ad altri senza essere cattivi, nè colpevoli: Mia sorella disse: — Oh è stato cattivo, sì, quella volta il nonno con lei. È stato crudele. Io non glielo posso perdonare. E la vecchia, con un accento secco, come di stizza, rispose: — Ed io sì. Voi siete giovani. Non sapete. Ma quando si vede che una persona è buona, giusta, onesta in tutta la sua vita, non si deve giudicarla per un atto solo che sembra crudele. Può essere soltanto uno sbaglio; e può essere che noi non lo comprendiamo e che sia un atto buono, nel fine o nell’intenzione. Il nostro cuore di donna ci porta a stimare barbare le madri spartane, che spingevano i loro figli in guerra, e non piangevano quando erano morti. Invece pare che fossero migliori delle altre madri, grandi addirittura. Siamo noi povere donnette semplici, che non le comprendiamo. Forse al mondo non vi sono vere cattiverie; vi sono soltanto degli errori. La signora Giovannina finì quel discorso mite, che aveva detto coll’asprezza d’una invettiva, e rimase assorta in quelle riflessioni, che chissà quanta parte avevano occupata nella sua povera vita solitaria. Io era stupita, come se la vedessi e la udissi per la prima volta. Non avrei mai supposto che quella vecchia zitella, priva di coltura, piena di piccole manìe, fosse capace, per sola intelligenza e nobiltà d’animo naturali, di quelle due virtù tanto grandi e pie: Essere indulgente, e non giudicare il prossimo. Sono le più difficili delle virtù umane. Il perdono, la dolce virtù del perdono, che Cristo ci comanda e ci insegna, non è che una riparazione per chi ha mancato a queste altre. Chi ha commesso l’atto di superbia di giudicare arbitrariamente un suo simile, deve poi espiarlo, perdonando la colpa che gli ha imputato. Ma l’uomo umile e giusto, che dice: — «Io non posso giudicare le azioni d’un altro, perchè non gli vedo nel cuore; perchè, forse, anche facendo quanto a me sembra male, ha delle intenzioni buone», — quel giusto, non ha bisogno di perdonare. Queste cose che ora dico, allora le sentivo soltanto. Ed ammiravo quella vecchia semplice e sfortunata, che in tanti lunghi anni di vita senza gioie, non le aveva rinnegate. La signora Giovannina dovette darsi una scrollata famosa per riscuotersi da quelle idee filosofiche. Tutti i suoi abiti, i nastri, le gale, svolazzarono; la panca tremò, e noi saltammo sulla panca, come se ci fosse il terremoto. Poi ella riprese a parlare in fretta, come per farci dimenticare quegli sfoghi di sentimento e quei voli di pensiero, dei quali, nella sua timidezza selvatica, si vergognava. . . . . . . . «La signora Ripamonti guarì, e potè allevare quel primo erede Pratinelli, e due altri che vennero poi, a garantire solidamente alla famiglia il possesso della sostanza materna. «Ed intanto, accanto ai fratelli ricchi, crescevano le sorelle povere. «Le due maggiori erano già al Sacro Cuore per esservi educate, e per avvezzarsi a quell’ambiente nel quale dovevano passare tutta la loro vita. «La povera Editta, a quindici anni, ne dimostrava appena dieci. «Camminava con difficoltà, era incapace di qualsiasi lavoro, aveva bisogno di un’assistenza continua. «Quando sua madre, l’aveva trasportata a Trecate per farla ammettere al Sacro Cuore come educanda, aveva ricevuto un rifiuto formale, irrevocabile. «E, non solo non poteva esservi ammessa come educanda, ma non potrebbe neppure, più tardi, entrarvi come monaca professa. La sua infermità la escludeva dalla vita monastica. «Allora la coscienza timorata della signora Ripamonti cominciò ad inquietarsi. «Nel suo voto solenne aveva promesse al Signore tutte e tre le sue figlie; ora dandone due soltanto, si sentiva spergiura. «Cosa sarebbe di lei, cosa sarebbe de’ suoi figlioli, e di quella figlia stessa, in questa vita e nell’altra? Era continuamente tormentata da scrupoli religiosi, atterrita dall’idea delle punizioni soprannaturali che la minacciavano. «La Editta, che colla sua infermità la obbligava a trasgredire un voto, divenne ai suoi occhi un oggetto di repulsione; era al tempo stesso causa e rimprovero della sua colpa. «L’eccitazione della povera donna raggiunse il grado d’una idea fissa, d’una manìa. Ella non parlava più d’altro, e colle sue lagnanze, come coi silenzi feroci, rimproverava continuamente all’inferma la sua disgrazia, e le conseguenze orrende che, secondo lei, ne dovevano derivare. «Quando ebbero compiuta la loro educazione nel Sacro Cuore, le due sorelle maggiori tornarono in casa per passarvi un anno prima di prendere il velo. Tutte e due, ma specialmente la Delfina, la maggiore, furono prese da un’immensa pietà per la loro giovane sorella, sulla quale pesavano due grandi miserie: l’infermità, e l’ingiustizia della madre. «Le due educande tentarono ogni mezzo per far ragionare la signora Ripamonti; ma la sua scarsa intelligenza, l’ignoranza, il fanatismo religioso, l’avevano ridotta in uno stato d’irritazione vicino alla demenza. «Neppure il suo confessore riesciva a toglierle dalla mente quello strano scrupolo del voto trasgredito. «In quel tempo, Andrea, che prima frequentava poco quei lontani parenti, era diventato il più assiduo di casa Ripamonti. «Aveva posti gli occhi ed il cuore sulla Delfina, la bella bruna malinconica, dai grandi occhi azzurri. Egli, che non era mai entrato nelle confidenze della famiglia, sapeva vagamente, come tutti lo sapevano a Novara, che le due sorelle Ripamonti erano destinate a farsi monache; ma non poteva immaginarsi a che punto la madre fosse tenace e irremovibile in quel suo proposito. «Appena comunicò alla Delfina la sua intenzione di domandarla in isposa, e di cambiare il suo destino, lei gli tolse ogni illusione, perchè non gli riescisse più amaro il disinganno. «Per la madre era una questione di coscienza, ed il contrariarla avrebbe finito di farla impazzire. Il nonno Pratinelli era imbecillito da qualche anno e non poteva più esercitare nessuna influenza sulla figlia. Ed il signor Ripamonti aveva troppo desiderati ed aspettati gli eredi maschi, per non aver aderito, fin dal principio, al voto di sua moglie. Dunque non c’era speranza di revocarlo. «Del resto, a quei tempi, erano molto frequenti i casi di fanciulle che prendevano il velo, anche senza averne la vocazione, per considerazioni di famiglia. E quel caso delle Ripamonti non suscitava l’indignazione ed il compianto che susciterebbe ora. «Andrea e la Delfina erano due anime forti: videro che il loro matrimonio era impossibile, e si rassegnarono colla tranquillità delle anime forti. Andrea aveva condivisa con le due educande la grande pietà per la povera Editta, e le aveva posto affetto come ad una sorella infelice. «Mancavano pochi giorni alla vestizione delle due novizie. Il signor Ripamonti pensò che la presenza continua di quel giovinotto in casa, e le sue occhiate amorose e meste alla Delfina, potrebbero mettere la ribellione nel cuore della sua figliola, e suscitare nella sua triste famiglia altri guai, oltre a quelli che la funestavano già. «Quella sera stessa, quando Andrea si congedò, egli uscì ad accompagnarlo un tratto, e, quando furono in istrada, lo pregò di sospendere le sue visite, finchè le due monache fossero partite pel loro mesto destino. «Senza un saluto, senza una stretta di mano, Andrea si vide separato dalla Delfina, per non rivederla mai più. Se almeno il signor Ripamonti avesse parlato due ore prima! Avrebbe potuto darle un ultimo addio... «Questa riflessione Andrea la fece nel suo cuore; ma obbedì al padre della Delfina. Era troppo onesto per ribellarsi a quell’ordine o per eluderlo coll’astuzia. Ne sofferse molto. Ma se l’onestà non costasse nessuna pena, non sarebbe tanto rara. «La farmacia d’Andrea era in fondo al corso di porta Milano. La carrozza che doveva condurre le due monache a Trecate al Sacro Cuore, doveva necessariamente passarle davanti. Il giorno della partenza era stato fissato da un pezzo, ed Andrea lo conosceva. «Quella mattina abbandonò le polverine, le pillole, i decotti al suo praticante, ed appena ebbe aperta la farmacia, si mise in sentinella all’ingresso. Prese il caffè là fuori. Rinunciò a far colazione per non abbandonare il suo posto, ed aspettò pazientemente, ore dopo ore, per vedere un’ultima volta gli occhi azzurri della Delfina. «Finalmente, verso le undici, vide venire da lontano la carrozza da nolo, una miserabile timonella, che il signor Ripamonti guidava stando a cassetta. «Le due fanciulle erano sedute di dentro ai due lati, rincantucciate contro le pareti della carrozza per non schiacciare la mamma, che era seduta in fondo in mezzo a loro. «Come Andrea, anche la Delfina doveva aver pensato a quell’ultima occhiata, perchè si era messa dalla parte della farmacia, a destra. «Tutti salutarono Andrea, senza fermarsi. Il signor Ripamonti gli gridò che lo aspettava a casa la sera dopo, le ragazze chinarono ripetutamente il capo e sorrisero. La Delfina sorrise più a lungo, lo guardò fisso, lo salutò colla mano, poi abbandonò il braccio fuori della carrozza, e lasciò cadere un fogliolino piegato. «Andrea corse innanzi sulla strada, dove il foglio era caduto, e stette là a custodirlo finchè la carrozza fu scomparsa. «Allora, sicuro di non esser veduto, si chinò, raccolse il biglietto, corse in casa, traversò la farmacia in fretta, e salì a rinchiudersi nella sua camera. «Non so se pianse lassù, o cosa fece. Non lo disse mai. Ma certo in quel breve istante, mentre la carrozza passava, mentre egli salutava e sorrideva, aveva sentito il suo avvenire spezzarsi, la sua più cara speranza svanire per sempre. «Io l’avevo provato un anno prima, per lui, quel dolore. E so quanto è tremendo per un cuore giovane. «Il biglietto della Delfina diceva: «CARO ANDREA, «Io accetto, per obbedienza figliale una vita di sacrificio. Accettatela anche voi per sentimento di carità. Sposate la mia povera Editta; toglietela a quell’esistenza tribolata, a quei maltrattamenti che la uccidono.» «È la sola prova che posso domandarvi del vostro amore, e ve ne sarò grata, e vi benedirò per tutta la vita, e pregherò per voi.» «DELFINA.» «Andrea esitò qualche tempo. «Il sacrificio era troppo grande pei suoi venticinque anni. «Ma una sera trovò l’Editta col capo fasciato; ed il signor Ripamonti non esitò a dirgli che, un pugno violento della madre, l’aveva fatta cadere contro un mobile, dove aveva battuta la fronte in mal modo. «Dopo qualche giorno l’Editta scomparve dal tinello, dove stava di solito radunata la famiglia. Andrea ne domandò conto alla signora Ripamonti; ed ella rispose che l’aveva rinchiusa in camera, perchè era colpevole di sacrilegio. «Allora Andrea si rammentò la preghiera della Delfina, e si risolvette al sacrificio eroico. Sposò la povera gobba, per sottrarla alla persecuzione di quella pazza. «Ora che si cura prima d’ogni cosa l’igiene, la salute, lo sviluppo fisico, quel matrimonio sarebbe considerato più mostruoso che sublime. «Anche allora, molti esclamarono inorriditi: « — Avranno dei bambini deformi! «E parlavano dei Greci che gettavano i bambini contraffatti giù dalla rupe Tarpea, perchè non si moltiplicasse la loro razza disgraziata. «Può darsi che a forza di discorsi scientifici si possa dimostrare che avevano ragione. «Ma Andrea non almanaccò tanto. Fu generoso, pietoso, ed obbedì alla preghiera della Delfina. «Grazie alla sua carità eroica, quella povera gobbina visse sedici anni tranquilla, circondata da cure amorevoli. «E sua madre, non vedendosela più continuamente accanto, si calmò, ed evitò il manicomio, al quale l’avrebbe condotta indubbiamente la sua pazzia religiosa. «È certo che, se Andrea si fosse veduto crescere intorno una corona di bambini deformi avrebbe sofferto; si sarebbe anche pentito del suo eroismo. «Ma la provvidenza gli risparmiò quella prova. Egli non ebbe figli. Forse fu quello il compenso della sua buona azione. «Ad ogni modo, in quel matrimonio, come in ogni atto della sua vita, Andrea fu nobile, generoso e buono. _Nota._ — Questo racconto, che forse sembrerà a molti improbabile, è tutto, tutto verissimo, e non vi ho aggiunto del mio altro che la forma letteraria. L’AUTRICE. _Non se ne parli altro!_ EPISODIO NUM. 1 Un giorno dello scorso inverno ero in casa d’una mia amica, la signora Neris, quando la sua figliola, Emma, tornò dalla lezione di tedesco, conducendo con sè una compagna, per far insieme il còmpito, che era molto difficile. Entrò in sala, e presentò la compagna con tutta disinvoltura. — Mamma, la signorina Vitta, che ha la bontà di venir a lavorare con me. Poi, rivolgendosi alla sua amica, riprese accennando noi: — La mia mamma... La Marchesa Colombi... La signorina Vitta s’inchinò con un garbo da vera donnina, s’intrattenne un minuto rispondendo alle domande della signora Neris, ed appena il discorso accennò a cadere, si rivolse all’Emma, e le disse: — Quando vuoi che andiamo a lavorare... Uscirono dal salotto tutte e due; ma, dopo pochi minuti, la Emma tornò per prendere la cartella dei libri che aveva dimenticata. Sua madre, con un pensiero cordialissimo, le disse: — Puoi trattenerla a pranzo la tua amica, se ti fa piacere. L’Emma pensò un tratto, poi disse con aria infastidita: — Bisognerebbe avvertire i suoi parenti... — Li avvertiremo per mezzo della persona di servizio che verrà a prendere la ragazza. — No... Potrebbero non acconsentire, ed allora dovrebbero mandar qui un’altra volta a pigliarla. Sarebbe un disturbo. — Si potrebbe mandar la nostra cameriera ora, e domandare il permesso di trattenere la signorina. L’Emma non manifestò nessuna soddisfazione, e disse anzi con un fare sprezzantuccio: — Ne parli magnificamente, mamma, di questo pranzo. Ma io vorrei sapere che pranzo c’è. — Oh, il solito. L’Emma si mise a ridere, e domandò: — Fai del proselitismo per la società di temperanza? Confessalo. Poi soggiunse: — Dì, davvero; cosa si può aggiungere alle dolcezze della nostra _mensa di famiglia_? La signora suggerì: un antipasto, un piatto di mezzo freddo, una crema, ed una bottiglia di vino dolce spumante. La figliola crollò il capo disapprovando: — Si capisce troppo che è un pranzo di ripiego. La mamma, troppo buona, le disse ancora: — Ma, se non ti fa piacere, non invitarla, sai. Io lo dicevo per te... — Sì, a me farebbe piacere... Ma vorrei anche che noi non si facesse troppa cattiva figura. L’Elisa ha dei gusti molto raffinati. La mamma osservò: — Ad ogni modo, non potrà figurarsi che noi facciamo ogni giorno un banchetto. Dacchè la invitiamo «_à la fortune du pôt_» non può aspettarsi che un pranzo di famiglia. E, come pranzo di famiglia, il nostro non è da sprezzare. — È questo invitare «_à la fortune du pôt_» che non è signorile, quando il _pôt_ ha delle fortune discutibili come il nostro. Io stava a sentire a bocca aperta, sbalordita. Non seppi trattenermi dal domandare a quella ragazza: — Quanti anni hai, figliola mia? — Ne avrò presto quindici. Sono vecchia. — Ma è certo che sei vecchia! Sei ben sicura di non avere trent’anni? Lei mi rispose con un’aria da scettica: — Chi è mai sicuro di nulla a questo mondo? — Ma tu, tu, non senti che hai quindici anni, che sei quasi una bimba, che hai un babbo, una mamma.... — Oh! babbo e mamma si fanno sentire, se non altro, per farmi dei predicozzi e per dettare delle leggi! Diceva questo sorridendo, come per burla, ma, in fondo, si sentiva che le pesavano le leggi. Io ripresi: — Ma nel tuo cuore di fanciulla amata, vezzeggiata, viziata anzi, non esulta l’allegrezza della gioventù? Dianzi, all’udire che potevi invitare la tua compagna a pranzo, non hai giubilato? Non hai sentito un impeto di riconoscenza per la mamma che è tanto cordiale colle tue amiche? L’Emma baciò sua madre con aria di protezione, e disse ridendo: — Oh! la cordialità della mamma non la manda in rovina! Ha sentito che trattamenti luculliani? Un antipasto, un piatto freddo ed una crema, abilmente intercalati al rancio del focolare domestico.... E vedendo la sua compagna, che, stanca forse d’aspettarla nello studio, tornava in sala a cercarla, le disse: — Giubila, Elisa. Ci si prepara un divertimento sfarzoso; una gioia pazza. Qui, la marchesa non può darsi pace ch’io non faccia le capriole per la gioia. Indovina di cosa si tratta. L’altra rispose subito, con un gesto ed una cera che parevano dire: «_Transeat a me calix iste!_» — No, no! per carità! Non posso soffrire i giochi innocenti. Specialmente gl’indovinelli. Io pensava che, infatti, co’ suoi _gusti raffinati_, come diceva l’Emma, doveva essere molto difficile divertire quella ragazza. L’Emma riprese: — Ti si invita al nostro pranzo di gala! Alla folle ilarità della nostra serata di famiglia! L’invitata rispose con un fare perfettamente cortese: — Oh grazie. La tua mamma è troppo gentile... Ma mi aspettano a casa. La signora Neris non osò insistere. L’Emma disse: — Non è proprio il caso di pregarti, perchè ti annoieresti più che in casa tua... L’Elisa alzò le mani e gli occhi al soffitto, esclamando: — Oh! in casa mia! Io domandai, sempre più curiosa, e sempre più sbalordita: — Scusa. Ti annoi anche in casa tua? Quella signorina dai gusti raffinati, mi guardò, meravigliata ch’io le dessi del tu senza conoscerla, poi mi rispose: — Ma quanto! È un abisso, un incubo di noia! Io ripresi: — Sei forse sola, senza fratelli nè sorelle?... Scusa sai; io do sempre del tu alle ragazze. Non ho ancora potuto avvezzarmi a considerarle persone serie, come siete voialtre. Ella fece un cenno del capo, graziosamente, per indicare che scusava, poi esclamò: — Ma che! Sola! Ci chiamiamo legione! Siamo sei; si figuri! — Mi figuro che giocherete, che riderete, che vi bisticcerete qualche volta, e che starete allegri. — Quanto a bisticciarci, sì, ci bisticciamo spesso. Ma ridere non è facile. Manca di ilarità la nostra casa. Siamo due sorelle, vestite tutte e due ad un modo, uguali, minuziosamente uniformi, come due vasi del Giappone, come due candelabri da caminetto borghese, come due _pendants_; molto ridicole; ma, sa, il ridicolo fa ridere gli altri, e noi ci fa quasi piangere. Abbiamo due fratelli in collegio... studiosi! — Sono cose che capitano soltanto a noi! — Hanno sempre delle uscite di favore pei loro meriti, e le nostre domeniche le passiamo tutte a portare in giro per Milano quei due soldatini dotti, in grande uniforme, che fanno voltar la gente in istrada! Ed il resto del nostro tempo, quando non si è a scuola, si fanno delle esclamazioni ammirative dinanzi a Nini ed a Baby, i due piccini, tanto bellini, tanto carini, e tanto noiosini.... La signora Neris profittò di quella geremiade per dire: — Ebbene, qui non c’è nè il suo _pendant_ che le fa venir da piangere, nè i _noiosini_ che strillano. Resti oggi con noi; ci rallegrerà tutti col suo spirito.... Finalmente la signorina Elisa, con molte smorfiette, lasciò cader dall’alto il suo consenso, al quale l’Emma fece questo commento, poco lusinghiero per la sua famiglia: — Poverina! Come ti compiango! Io mi sentivo invasa da quello sgomento, da quel sentimento d’un pericolo prossimo, che m’inspirano sempre l’indifferenza, lo scetticismo, la mancanza d’ilarità e di gioia nella gioventù. Da un pezzo i miei poveri vecchi, il nonno e la signora Giovannina, erano morti. Confrontando la mia adolescenza, che a quella gente austera sembrava già pretensiosa e scettica, coll’adolescenza vecchia di queste giovinette, la mia mi parve gaia come una risata, al paragone. E, sopratutto, la mia era stata più semplice e meno fortunata. Profittai d’un’uscita della signora Neris che andò a dare degli ordini per la sua ospite inaspettata, e feci con quelle ragazze la parte che faceva il nonno co’ miei fratelli e con me. Cominciai da un predicozzo, per finire con una storiella. Ecco il predicozzo: — Avete troppe soddisfazioni, ragazze. Tutti i vostri desiderii sono appagati. Non vi resta nulla a desiderare nel campo delle cose semplici e possibili. Per questo, quando vi capita una cosa piacevole, non la apprezzate, perchè l’avete ottenuta con troppa facilità, e v’immaginate delle cose più difficili ad ottenere, e, per conseguenza, ai vostri occhi, più belle. E così vi create degli ideali impossibili, ed avete il gusto guasto dalle raffinatezze. Una, non è contenta d’avere un’amica a pranzo, perchè non può offrirle un pranzo di gala, l’altra si fa pregare ad accettare, perchè forse non vede la prospettiva d’una serata elegante... La Emma m’interruppe con quel suo fare di superiorità un po’ ironica, che sembrava burlarsi di me: — Ma perchè, marchesa, s’immagina che invitare un’amica a pranzo sia una cosa tanto peregrina? — Perchè a’ miei tempi era, se non peregrina, molto rara di certo, nella nostra condizione di borghesi non ricchi. Perchè io non ho mai avuta questa gioia, e tutte le mie compagne, figlie di famiglie modeste, come la mia, come la vostra, erano, su per giù, nello stesso caso. Perchè, un giorno, questa soddisfazione che voi disprezzate, io l’ho desiderata con tutto l’ardore del mio amor proprio compromesso, della mia parola impegnata... — E non l’ha ottenuta? — Non si ottenevano mica molte cose, ai miei tempi! E bisognava prendere il mondo come veniva. Si borbottava un poco fra noi, qualche volta si arrischiava una timida protesta; ma si finiva sempre a piegare il capo alla volontà dei superiori, una volontà indiscutibile ed inesorabile. La signorina Elisa osservò con un sospiro: — Allora dovevano essere anche meno allegre di noi! — Confesso che cominciavamo già un po’ a prendere gli atteggiamenti da vittima che prendete voialtre; ma soltanto nei momenti di contrarietà, e per poco. In generale, eravamo molto più allegre, perchè avevamo delle esigenze molto più moderate; ed anche quelle, per moderate che fossero, i nostri genitori ce le sapevano reprimere con fermezza. Ci si allevava nel sentimento della sommissione. — Ma era una tirannia! — Chissà! Anche noi, allora si pensava così. Ma, col tempo, ci ha risparmiati molti dolori, quella così detta tirannia; perchè ci aveva avvezzati alle contrarietà della vita, e quando le incontrammo più tardi, serie ed inevitabili, avevamo imparato a sopportarle senza debolezza. Non so se voialtre, che a quindici anni discutete un pranzo, e non lo trovate abbastanza raffinato per meritare d’essere offerto ad una bimba, che trovate ridicolo vestirvi come le vostre sorelle, e noioso passeggiare coi vostri fratelli, sapreste, poi rassegnarvi, da donne fatte, alle limitazioni che impongono le rendite ristrette o l’avarizia d’un marito, alla privazione d’ogni divertimento, alla vita affatto casalinga, che tocca a moltissime spose, mentre magari il marito esce ogni sera e si diverte. La Emma, che probabilmente si annoiava della piega troppo seria ch’io aveva data al discorso, osservò, colla confidenza con cui trattava sempre con me, come con tutti superiori ed inferiori: — Credevo che questa predica dovesse metter capo ad un raccontino come quelli del suo nonno... — Infatti; ma non c’ero arrivata ancora. — Allora, scusi, sa; ma il suo nonno era meno... era un po’ più divertente; non faceva delle dissertazioni morali tanto lunghe... almeno a giudicarne da quanto riferisce lei... — È perchè io, quando vi ripeto i suoi racconti, ne abbrevio la parte noiosa. — Ma è una buona abitudine, marchesa. Badi di non perderla, per carità. — Profitterò della tua lezione. E ridendo dell’impertinenza schietta di quella bimba, cominciai a raccontare. . . . . . . . «Una delle nostre grandi contrarietà, toccò appunto, a me ed a mia sorella, per un invito a pranzo. «Avevamo due amiche, le signorine Liprandi, maggiori di noi di parecchi anni, molto belle e molto eleganti, che ci davano una gran suggezione, ma della cui amicizia andavamo molto superbe. «Alle volte, nell’estate, venivano la sera al cascinino del nonno, che noi parlando con loro chiamavamo sempre «villa» per darci un’aria un po’ elegante anche noi; e si mettevano tanto in gala, che a noi pareva che facessero una gran degnazione girando con quei bei vestiti pei filari della vigna, e mettendosi in bocca i chicchi dell’uva con quei guantini attillati e chiari. E quando avevano fatte queste cose, noi non si finiva d’esclamare: — «Come sono buone! Come sono semplici! Non hanno nessun orgoglio! Pareva che si trattasse di due principesse. Del resto erano buone e semplici davvero, e tolta la manìa di vestir sempre in gala, avevano le stesse abitudini casalinghe che avevamo noi, si divertivano facilmente, s’accontentavano di tutto. Ed anche l’eleganza delle loro tolette, non costava di molto, perchè si facevano gli abiti loro stesse con un’abilità invidiabile. «Una volta mia sorella aveva imparato uno di quei lavori di cattivo gusto che inventano tratto tratto i giornali di moda, e contro i quali l’arte dovrebbe bandire delle pene severe. «Si chiamava «_pittura orientale_» e serviva ad imbrattare delle belle stoffe di seta, con fiori, frutti, augelli, destinati a disgustare per sempre l’umanità, contro tutte le flore e le faune dipinte, ed a far piangere all’arte le sue lagrime più amare. «Le Liprandi, invece di disgustarsi, s’innamorarono di quei delitti di leso buon gusto, e desiderarono d’imparare a commetterne. «Era d’estate, e noi avevamo l’abitudine di pranzare alla «villa.» Ci si andava il mattino dopo la colazione. Si pranzava al tocco; e si tornava in città la sera a cena. «Quel giorno che si parlò colle Liprandi, in casa loro, della «pittura orientale» mia sorella disse: — «Bisognerebbe che si potesse stare insieme un po’ a lungo, se volete imparare; almeno tutto un pomeriggio. «Loro risposero: — «Noi non domandiamo di meglio; ma come si fa? «Mia sorella riprese: — «Potreste, un giorno, venire da noi presto presto, e rimanere fino alla sera. «La Giuseppina intendeva presto presto nel pomeriggio; al tocco e mezzo. Invece le Liprandi, che in casa loro pranzavano alle cinque, udendo quell’invito che sopprimeva il loro pranzo, credettero che volesse dire di pranzare da noi; e l’Elena, la maggiore, rispose con molto garbo: — «Grazie; grazie tante. Noi accettiamo senza complimenti. Quando vorrete, potremo esser pronte alle nove del mattino. «Io provai l’impressione di cadere in un abisso. Sentii istintivamente che davvero entravo in un ginepraio, dal quale sarebbe stato difficilissimo uscire. «Tuttavia, il sentimento della cortesia, ed anche un po’ la vanità di farla da signorina ricca ed indipendente, che può fare inviti _nelle sue terre_, mi spinsero a rispondere: — «Benissimo. Passeremo a prendervi alle nove, ed andremo alla «villa» insieme; e poi la sera, o la vostra mamma verrà a prendervi, o vi accompagneremo a casa noi. Nevvero, zia? «La zia Caterina assentì con un’aria molto spaurita. «Le Liprandi ci ringraziarono ed approvarono tutto cordialmente. Si discusse il giorno, e si combinò per il prossimo venerdì. Il posdomani. «Vi fu un momento di eccitazione e di gioia nel fare il programma della giornata. Si stabilirono per bene le ore dell’andata, dell’arrivo, del lavoro, dello spasso in giardino, del pranzo... «Io mi ubbriacai al punto da dire, come una vera padrona di casa: — «Mi dispiace che, da noi, si mangia di magro il venerdì... «E loro dissero che non importava; anzi.... E tornarono a ringraziare. Poi venne in sala la loro mamma colla parrucca, e ci ringraziò anche lei, e noi trionfammo coll’aria cortese di due signore, che, possedendo una villa, potevano permettersi il lusso di far degli inviti. «Ma, appena fummo uscite da casa Liprandi, la zia Caterina disse: — «Cosa dirà poi il nonno, di questo invito? «Noi rispondemmo con due sospiri. «Pur troppo, l’aria e la luce della strada avevano richiamate anche noi alla realtà, e ci era entrato un gran freddo nel cuore all’idea di annunciare al nonno, che, così, di nostra testa, avevamo invitato due signorine a pranzo. «In casa nostra, a nostra ricordanza, tolte le zie, ed i parenti che venivano dalla campagna, non s’era mai invitato a pranzo nessuno. Neppure la signora Giovannina. «La zia riprese: — «Come farete a dirglielo? «Io sospirai ancora: — «Ma! «E mia sorella fece eco con un altro sospiro: — «Ma! «Appena fummo a casa raccontammo il caso a nostro fratello, che era tornato dal collegio per le vacanze: «Egli fece una gran risata ed esclamò: — «Brave! Voi le studiate tutte per mettervi negli impicci! «Si vedeva che lui non sperava nulla di buono. Ma, invece di crucciarsi come noi, trovava il caso molto buffo, e si divertiva un mondo alle nostre spalle. «Io gli domandai tutta costernata: — «Cosa diresti di fare? — «Io mi metterei a letto colla febbre... o senza; e, ad ogni modo, scriverei a quelle signorine che ho la febbre, e che l’avrò per tutto il resto dell’estate e fino all’autunno inoltrato... — «Credi proprio che il nonno dirà di no? — «Io non so. Provate a dirglielo... «E fece un’altra risata. «Quella sera, a cena, io mi feci un gran coraggio e dissi forte, come per parlare al nonno, ma senza guardarlo, e cogli occhi fissi nel mio piatto: — «Venerdì verranno le Liprandi con noi al cascinino. «E mia sorella, vedendomi saltare il fosso così, mi seguì in fretta, come per non lasciarmi perir sola, e soggiunse: — «Verranno, perchè abbiamo bisogno di star insieme a lungo. Vogliono imparare la «pittura orientale...» «Il nonno, tutto intento a mettere del latte e dello zucchero nella pasta asciutta, com’era sua abitudine, rispose distrattamente: — «Bene, bene! «Poi soggiunse, accennando quegli ingredienti eterogenei: — «Voi, già, non ne volete... «Io un po’ per gratitudine di quel «bene, bene!» che mi aveva incoraggiata, un po’ per la speranza di rabbonirlo e d’indurlo alla concessione maggiore, mi sacrificai eroicamente, ed inaffiai abbondantemente di latte il mio piatto di pasta, poi dissi, facendo uno sforzo per ingoiarne un cucchiaio: — «È buona! «Mio fratello, che se la godeva pazzamente, mi volse un’occhiata derisoria, e suggerì: — «Mettici anche un po’ di zucchero. _Farà meglio!_ «Avevo il cuore che mi batteva fin in gola. «La Giuseppina era pallida. Perchè, in sostanza, il più grave non era ancora detto. «Ad un tratto Mario, con una gran sfrontatezza, disse forte, trattenendosi a stento dal ridere: — «Resteranno anche a pranzo, quelle signorine! «Io chinai il volto sulle mie povere lasagne natanti nel latte freddo, sul quale il burro coagulato formava dei dischi gialli; ero letteralmente soffocata dalla palpitazione. Mi aspettavo una grande protesta del nonno; magari una sfuriata, sebbene non ne facesse mai. «Ma non udii nulla. «Alzai gli occhi a guardarlo, e vidi che sorrideva bonariamente alla sua minestra inzuccherata. «E non rispose. «Era contento? Si doveva considerare quel silenzio come un consenso? «Fu una discussione che durò tutta la sera sul balcone fra noi tre ragazzi, mentre il nonno di dentro discorreva colle zie, che venivano sempre a passare la serata con noi. «Mario, citando il solito «_chi tace consente_» pretendeva che non si dovesse parlarne più, e presentare addirittura le signorine Liprandi a tavola. «Io inclinavo un poco a questo partito eroico; perchè, insomma, quando una cosa è fatta, è fatta. Tutt’al più, il nonno ci avrebbe sgridate dopo; ma intanto, noi non si mancava all’impegno preso; non si faceva una figuraccia. «Perchè, quanto a fare il menomo commento scortese dinanzi alle sue ospiti, per quanto poco desiderate, il nonno non ne era capace. Anzi, aveva la galanteria de’ suoi tempi colle signore, e biasimava i giovani moderni, specialmente mio fratello, di non averla. «La Giuseppina però si oppose a quel ripiego. Temeva che un atto di meraviglia del nonno, che non poteva mancare dinanzi a quell’avvenimento nuovo nella storia di casa nostra, facesse capire a quelle signorine l’irregolarità dell’invito, e le mortificasse, mortificando anche noi. «E ripeteva saviamente: — «No no; esporle ad un’accoglienza equivoca, è assai più inospitale che non invitarle. «E Mario, che non perdeva un’occasione di burlarsi della nostra avventatezza, rispose con aria grave: — «Ah! Infatti! Io vi consiglierei di _non invitarle_! «Poi, ad un tratto, senza avvertirci di nulla, entrò un passo dal balcone, e disse: — «Sanno, zie? Venerdì vengono a pranzo al Cascinino le signorine Liprandi. «La zia Caterina ci guardò, stupefatta. Lei che sapeva com’era andata la cosa, pareva soddisfatta di vederla accomodata così facilmente. «Il nonno fece ancora il suo risolino bonario, e disse: — «Già! Già!... «Poi riprese a bisticciarsi colla zia Rosa, che gli leggeva forte il giornale, e che pronunciava Nicotèra, mentre lui voleva che dicesse Nicòtera. «Noi, che, fuori sul balcone, avevamo udite quel «_già, già!_» tanto condiscendente, ci abbracciammo e saltammo di gioia, ridendo piano. «E dicevamo: — «Vedi? ci eravamo esagerata la misantropia del nonno. — «Alle volte ci si figurano le cose più difficili di quello che sono... «Non avevamo mai amato tanto il nonno come quella sera. «Mezz’ora prima del solito, io corsi a preparare una sua bibita che prendeva sempre prima di andare a letto, fatta con acqua calda, limone e fondo di caffè, e che si chiamava _acqua caffettata_, mentre mia sorella rientrava in salotto e si metteva a leggergli lei il giornale, con certi Nicotera tanto sdruccioli, che ruzzolavano come palle, nella noia dell’articolo di fondo. «E Mario interruppe la lettura, per offrire al nonno le pianelle ed il berretto da notte, mellifluamente, a grande stupefazione del povero vecchio, che lo ringraziò sorridendo di quella strana offerta. «Però, la mattina dopo, mia sorella tornò a mettere le cose in dubbio. — «Io vorrei che il nonno ci desse proprio un consenso formale. Se ho da dire la verità, più ci penso, e più mi pare che abbia preso quell’invito come una burla. «E mio fratello anche lui diceva: — «È quasi certo. Il nonno è furbo. S’è buscato tutte le nostre gentilezze, il caffè mezz’ora prima, la lettura coi Nicotera sdruccioli, le pianelle ed il berretto da notte, e l’eroismo gastronomico della Maria che s’è gonfiata di pasta col latte; e lui intanto ci ha canzonati. — «Cosa fare? — «Cosa fare? «Mario ci diede un consiglio serio. — «Andate nello studio e ditegli la cosa francamente. «Io pregai mia sorella che ci andasse lei, come la maggiore. Ma lei non voleva; non aveva coraggio. Cercammo di persuadere Mario a pigliarsi lui quell’incarico, ma protestò energicamente. — «Brave! Vi buttate in acqua e poi volete ch’io vi salvi. No. No. Del resto, io non sono il Beniamino del nonno. Vi guasterei l’affare. Tirate alla pagliuzza fra voi due chi deve parlamentare. «Preparò lui le pagliuzze. La più corta toccò alla Giuseppina, che si rassegnò. «Io presi il vangelo, e mi posi a leggerlo con fervore, implorando nel mio cuore come una grazia, che mia sorella ottenesse il consenso desiderato. «Mario la spinse nello studio, poi si mise in ginocchio dietro l’uscio, facendo delle grandi smorfie, come se pregasse, e dei segni di croce per mettere in caricatura me; e picchiandosi il petto disperatamente, esclamava: — «Faccio voto d’andare in Terra Santa sulle ginocchia logore de’ miei calzoni, purchè il nonno me ne comperi un altro paio, ed offra un piatto di maccheroni col latte a quelle belle signorine!... «Ad un tratto l’uscio dello studio fu spinto con violenza, mandando Mario a gambe levate; e la Giuseppina uscì tutta rossa, cogli occhi pieni di lagrime, e disse subito stizzita: — «Ecco! L’ho detto io, che non se ne faceva nulla! Non ci aveva nemmeno pensato, lui! L’aveva creduto uno scherzo. Bello scherzo spiritoso, nevvero? — «Infatti..., il nonno mostra d’avere un’idea un po’ meschina del vostro spirito.... Volete che lo sfidi? «Io interruppi Mario per domandare alla Giuseppina: — «Ma quando gli hai detto che si diceva per davvero? — «Quando gliel’ho detto, ha risposto la sua gran parola irrevocabile: «_Non se ne parli altro!_» «Infatti, pel nonno, quella era una sentenza senza appello. Sarebbe stato perfettamente inutile parlargli della nostra parola impegnata, della nostra mortificazione d’amor proprio, della cattiva figura che si farebbe tutti!... «Queste considerazioni, per lui, non avevano importanza. Quando una cosa non gli accomodava, la metteva addirittura da parte con quella sentenza inesorabile: «Non se ne parli altro.» E non si curava affatto delle conseguenze. Crollava le spalle, e sorrideva di compassione alle nostre suscettibilità, che chiamava leggerezze. «Ora non c’era altro a fare, che trovar un modo di cavarcela alla meglio.... o alla peggio. «Il ripiego della febbre, suggerito da Mario non era effettuabile. Il nonno non era uomo da permetterci una commedia simile, neppure un giorno. Era troppo schietto e semplice. «Se eravamo ammalati ci faceva curare con premura. Ma non tollerava smorfie, nè finzioni. «Bisognò rassegnarsi, e scrivere semplicemente alle signorine Liprandi, che in causa di certi affari del nonno, che lo trattenevano in città, s’era dovuto smettere d’andare a pranzo «alla villa» per cui il domani non potevamo andarle a prendere per la partita combinata. «Era assurdo, perchè in tal caso, avremmo dovuto pregarle di venire ad imparare la famosa pittura orientale a casa nostra in città, e di rimanere a pranzo con noi egualmente. «Quelle signorine capirono che questa seconda parte del biglietto mancava per qualche ragione. Tanto più che a noi non venne neppur in mente la temerità inaudita, di proporre al nonno di rinunciare ai suoi cari pranzi del Cascinino per accomodare quel nostro pasticcio; e si continuò ad andar fuori il mattino, per non tornare che la sera. «Per conseguenza le Liprandi, non potendo immaginare il vero motivo della nostra scortesia, la semplice avversione del nonno ad ogni specie di novità, si offesero, e non vennero più a vederci. Tanto, che credemmo d’aver perduta per sempre quell’amicizia che era la nostra gloria. «La ricuperammo invece in un’altra circostanza, che fu un vero trionfo per noi. Ma un trionfo breve. Il regno dei cento giorni. . . . . . . . L’Emma e la sua amica erano state a sentire la mia storiella, con un’attenzione benevola da signorine bene educate, e si erano degnate di far bocca da ridere alle burle di Mario ed al nostro imbarazzo. Quando però, alludendo a quell’altra circostanza, feci capire che c’era una seconda storiella da dire, la Emma, con una premura, che non oserei dire se fosse di desiderio o di sgomento, ma inclino a credere di sgomento, mi domandò: — E vuol raccontarci anche quella, marchesa? Io non mi lasciai scoraggiare e risposi: — Sì, voglio raccontarla, perchè gioverà a farvi apprezzare quanto valgono i divertimenti che i nostri genitori vi procurano, e che voi vi pigliate con indifferenza, come cose che vi siano dovute, perchè non ne avete mai provata la privazione. Giacchè la Elisa si ferma qui a pranzo, domanderò anch’io da pranzo alla tua mamma, per potervi raccontare questa sera la storiella Num. 2. Le due signorine, sempre ben educate, fecero «_a mauvais jeu bonne mine_» e mi ringraziarono. _Non se ne parli altro!_ EPISODIO NUM. 2 Quelle gite quotidiane, inesorabili, che si dovevano fare al Cascinino, con qualunque tempo ed in qualunque stagione, erano, alle volte, molto uggiose. «Nell’inverno specialmente, quella spedizione era seccantissima per noi, e si faceva a gara a chi non andrebbe. — «Io debbo finire un ricamo.... — «Io debbo fare un esercizio di francese.... «Ma il nonno non ci menava buone quelle scuse. La gioventù, secondo lui, aveva sempre bisogno di moto; al moto si doveva sacrificare ogni cosa.... «In sostanza credo che, oltre al nostro moto, gli premesse anche d’aver compagnia nella sua passeggiata, sebbene non parlasse quasi mai. Perchè il nonno amava raccontare, ma non conversare. «Ad ogni modo, non voleva andare al Cascinino solo nella sua seconda gita del pomeriggio. Ci si rassegnava nella prima, che faceva il mattino dalle dieci alle dodici, perchè le zie trovavano che, per due ragazze giovani, sarebbe stato sconveniente uscire due volte nella giornata, a meno che una fosse per andare in chiesa. «S’erano dunque accomodate le cose alla meglio, alternandoci, e facendo un giorno per ciascuna ad andare al Cascinino, durante i tristi mesi dell’inverno novarese, rigido, umido, nevoso. «Si camminava nella neve, sul ghiaccio, nel fango. «La casa era chiusa. Il nonno apriva; s’entrava nella sala buia, si spalancavano le imposte, e s’accendeva il fuoco nel camino. «Quella vampata era la gioia del nonno ed il nostro tormento, perchè toccava a noi toglierci i guanti, e, vestite da passeggio, romper la legna e fare il fuoco. «Una volta ch’io m’ero provata a chiamare la contadina, il nonno mi aveva dato sulla voce: «che non ero una principessa, e che una ragazza doveva esser sempre pronta a tutte le occupazioni casalinghe, anche le più modeste....» Una ramanzina che era durata un quarto d’ora. «E non bastava di farla la vampata, bisognava anche goderla, come diceva lui, bruciandosi il viso al fuoco e gelandosi il dorso in quella così detta sala, che era una stanzaccia terrena, con delle finestre alte alte, alle quali s’arrivava appena salendo in piedi ad una sedia, ed ingombra d’una tavola quadrata, tanto larga, che a stento si poteva girarle intorno. Una tavola tutta screpolata, vacillante, scricchiolante, minacciante rovina; perchè il nonno, che aveva la passione del ferro vecchio, una vera manìa, andava comperando a tutte le fiere, sui banchi dei rigattieri, agli incanti, una quantità di serrature arrugginite, di catenacci, di chiodi, di chiavi, di viti; e ne aveva, col tempo, talmente riempita la cassetta di quel tavolone, che un bel giorno s’era sfondata sotto il peso, e, nel cadere col carico formidabile che aveva nel ventre, aveva fatto piegare la tavola, spezzandone due gambe. «Il nonno poi aveva rattoppato alla peggio quel mobilaccio monumentale e venerabile. «Dico rattoppato, e non fatto rattoppare, perchè era un’altra sua manìa di fare da sè, quando poteva; ed anche quando non avrebbe potuto, perchè si può figurarsi com’erano bellini quei mobili che rabberciava lui, inchiodando delle vecchie lastre di ferro ai due pezzi staccati d’una gamba di tavola, o d’una spalliera di sedia, per tenerli uniti. «Con che occhi li guarderebbero le nostre signorine, quegli orrori, fra i quali noi siamo cresciute, ridendone un poco, anche molto, ma senza crucciarcene però, e sopratutto senza vergognarcene menomamente, vagheggiando anzi, se ci fosse stato possibile, di ricevere fra essi le nostre amiche ed anche di farvi degli inviti. «Gli altri ornamenti di quella famosa sala, erano: un divano di pelle lustra e fredda che metteva i brividi, ed un grande e massiccio cantonale di quercia, solido che avrebbe sostenuto un cannone, e la cui unica destinazione era di reggere un piccolo Napoleone a Sant’Elena, «le braccia al sen conserte» chiuso in un tempietto di vetro. «Quella statuina era l’idolo, la passione del nonno, e gli forniva ogni giorno l’occasione di raccontarci qualche episodio della vita gloriosa di quel suo eroe non mai abbastanza ammirato. «Dopo la vampata e l’episodio napoleonico, si saliva al piano di sopra, squallido, coi letti disfatti e respinti in un canto, con dei palchi come quelli dei bachi, rizzati in mezzo alle stanze, e carichi di frutta conservata per l’inverno, che mandava un odore nauseabondo. «Il nonno ci faceva salire a prendere una mela, una pera o un grappolo d’uva, per aiutarci a pazientare, aspettando che lui avesse finito il giro della casa e del fondo. . . . . . . . «Una sera io tornai dalla passeggiata al Cascinino con una grande, una stupefacente novità. «Noi si darebbe un ballo alla villa!!! «Per fortuna Mario era in collegio, altrimenti Dio sa che scene avrebbe fatte! Mia sorella, che pure non era una gran riditrice, fece una quantità d’esclamazioni, e finì per abbandonarsi sul divano in una convulsione di risa contorcendosi e gridando: — «Oh! no! no! È troppo buffa! È troppo buffa! «E la zia Rosa, che si trascinava dietro da trent’anni una malattia di fegato, e coi suoi poveri occhi gialli, vedeva dei malanni dappertutto, mi afferrò il polso, e mi disse tutta spaurita, preparandosi a guardarmi in bocca: — «Metti fuori la lingua! «Mi credeva in un delirio di febbre. «Veramente la cosa era tanto nuova, tanto impreveduta, tanto straordinaria, che avevano ragione di non volerla credere. «Eppure era vero. «Quel giorno, al Cascinino, dopo aver fatto il giro delle stanze di sopra che erano quattro, due da ciascun lato della scala, e comunicavano fra loro da una parte pel pianerottolo, e dall’altra per un corridoio interno, il nonno aveva detto queste precise parole: — «Ora che, ai balli, c’è quella brutta moda di non stare in sala, di fare la coda, qui si potrebbe benissimo dare una festa; perchè quattro coppie in qualunque di queste stanze ci possono ballare comodamente, poi uscirebbero man mano dal pianerottolo, passerebbero nella prima stanza di là dalla scala, e rientrerebbero dal corridoio... «Quando vidi l’incredulità con cui in casa era accolta la mia fausta novella, ripetei alla Giuseppina ed alle zie quel discorso del nonno, tutta eccitata dall’idea gloriosa di far passare la coda d’una festa da ballo... dal pianerottolo. «Mia sorella, che aveva smesso di ridere per riprender fiato, mi disse con un’aria sbalordita: — «E perchè il nonno ha detto questo, tu t’immagini che daremo un ballo davvero? No! Veramente sei troppo immaginosa, Maria! Un giorno o l’altro scriverai dei romanzi! «Povera sorella! Non pensava certo, allora, che quel malinconico oroscopo la farebbe indovina! «Io, più che mai impuntigliata a dimostrare che non avevo raccontata una frottola, esclamai: — «Ma no! Ma no! Il nonno ha detto di più. Si sono fatti dei progetti. Si farà portare un pianoforte, ben inteso. Si toglieranno dalle stanze i letti ed i palchi della frutta; si faranno ridipingere le pareti... «Un’altra risata di mia sorella mi troncò le parole in bocca. — «Oh! Oh!!... Ridipingere le pareti! Il nonno!... Oh! ma davvero ti gira la testa. Ha ragione la zia Rosa. Metti fuori la lingua! E chi è il Raffaello che farà questo lavoro? — «Via! non s’hanno a dipingere davvero; s’intende ricolorirle... darci una tinta... «Ero così mortificata che non sapevo più stare allo scherzo e rispondevo seria seria e scimunita. «Dovetti lottare tutta la sera contro l’incredulità della Giuseppina e delle zie, e contro le loro burle. «Finalmente il nonno uscì dallo studio, ed io lo aggredii addirittura, domandandogli francamente, a bruciapelo, come una ragazza sicura del fatto suo: — «Nevvero, nonno, che s’è combinato di dare una festa da ballo al Cascinino? — «Ah! sì. Ho veduto che i locali si prestano, rispose lui, tutto sorridente al pensiero di quei suoi locali che amava tanto. — «E quando daremo questa festa? domandò mia sorella, sempre con un’aria d’incredulità e di burla. — «Ma... questa primavera, disse subito il nonno. «Io trionfavo. Ma la Giuseppina tornò a domandare ridendo: — «Si ballerà intorno ai palchi dei bachi da seta? «Il nonno, che sentì in quelle parole un accento d’ironia, come un voto di sfiducia ai suoi locali ed al suo tenimento, rispose: — «Ma no! Che bisogno c’è? Non manca lo spazio. I bachi si possono mettere a pian terreno; in sala, in cucina, nella serra.... «La serra era un corridoio senza stufa, dove si ritiravano nell’inverno i vasi di fiori che sarebbero morti stando al freddo di fuori, e che morivano gelati di dentro. «Mia sorella non potè a meno di osservare: — «Staranno caldi i bachi nella serra! «Però, vedendo che il nonno insisteva sulla possibilità, per quanto discutibile, di dare quel ballo, cominciò a trovarmi meno immaginosa, ed a prender sul serio la mia grande nuova. «Dal prenderla sul serio ad appassionarsene non c’era che un passo. Perchè, sebbene cominciassimo già ad avere quello spirito critico, che ora rende tanto esigenti ed un po’ infelici i giovinetti, non eravamo ancora arrivati a farcene un cruccio, e ne usavamo soltanto per trovare il lato buffo d’ogni cosa e per divertircene. «Pel resto della serata non si parlò d’altro che della festa. Si disposero, colla fantasia, le sale, i lumi, i rinfreschi. Dei rinfreschi molto ridicoli, che noi credevamo adatti ad una festa campestre, tutti di frutta, di latte, di cose di campagna, ed assolutamente disadatte ad un ballo. «Io, che ebbi sempre un senso esagerato di pietà anche per le miserie che lo meritano meno, ed un bisogno inconsiderato di larghezza che ha mantenuto sempre lo squilibrio nel mio bilancio con una costanza degna di miglior causa, avevo immaginata un’altra assurdità, che mi pareva magnifica: di spargere qua e là per le sale, sui mobili, delle scatole di guanti. E questo perchè mi ero commossa sproporzionatamente alle piccole festine di provincia dov’ero stata, vedendo dei giovanotti, poveri impiegati della posta, del telegrafo, della prefettura, con dei guanti troppo vecchi e sporchi. «Andammo a letto colla fantasia eccitata, gloriose di quell’avvenimento insperato, che permetteva alla nostra vanità di fare degli inviti, di ricevere, d’essere ringraziate e ricercate dai ballerini, come lo sono sempre, ad un ballo, le padroncine di casa, anche quando non sono punto attraenti. «Il domani la Giuseppina, che non rideva più, volle stendere la lieta degli inviti, e, naturalmente, mettemmo avanti a tutti le Liprandi, felici di potere in quell’occasione riparare alla scortesia che avevamo dovuto fare nell’estate, per quel disgraziato invito a pranzo, e di ricuperare la loro amicizia. «Non si può immaginare cosa più stravagante di quegli inviti che combinavamo pel nostro ballo. «Mentre doveva essere una seratina affatto intima, agli uomini si doveva mandare un invito, scritto o stampato, ma sempre un invito formale per lettera, perchè noi di uomini non ne conoscevamo neppur uno. Il nonno non voleva giovinetti per casa. Si dovevano dunque invitare i ballerini dai guanti vecchi, che avevamo veduti nel carnovale alle festicciuole dove avevamo fatta la nostra breve comparsa prima di mezzanotte, ed altri giovani che vedevamo in istrada, e dei quali sapevamo appena il nome, oppure non lo sapevamo nemmanco, e contavamo di domandarlo sui connotati. «Cominciammo a parlarne colle cugine, poi colle prime amiche che incontrammo. La voce corse, e ben presto tutte le nostre conoscenti furono informate che nella primavera vi sarebbe una festa da ballo alla nostra villa. «Un bel giorno, dopo un lungo abbandono, capitarono a farci visita le Liprandi tutte in ghingheri, e ci dissero con quel loro fare tanto affabile e grazioso: — «Abbiamo sentito che ci farete ballare, nevvero? «Noi, che non vedevamo l’ora di dare la stura alla grande nuova, con tutto il suo seguito di progetti, confermammo gentilmente l’invito, sottinteso nella loro domanda, e cominciammo subito a discorrere della disposizione dei locali, e dell’orario, e dei vestiti... «Dicevamo con una grande affettazione di semplicità: — «Non si dovrà fare del lusso... figurarsi! Quattro salti in campagna... Ma ci vestiremo di chiaro, però; sarà della stagione, ed anche più allegro... «Il che era quanto dire modestamente: «Badate a farvi belle, ad ornarvi di colori gai, perchè noi intendiamo che la nostra festa riesca elegante. «Le Liprandi, che non avevano bisogno d’incoraggiamenti in fatto di toletta, proposero subito varie combinazioni, una più bella dell’altra, compiacendosene già in anticipazione, come se si vedessero in uno specchio. «A Novara le voci hanno presto fatto a compiere il giro della città; allora era anche più piccola d’adesso, e quella voce, nel suo giro, doveva bussare soltanto alle porte della borghesia modesta. «In capo alla settimana la novità di casa nostra non era più ignorata da nessuno; e noi si venne a sapere, molto indirettamente, e con un misto d’orgoglio e di sgomento, che se n’era parlato in un caffè! «Poi ebbimo altre soddisfazioni inaspettate. «Una signorina molto bionda, molto miope e molto altera, che, colla scusa che non vedeva bene, non salutava mai nessuno in istrada, ci fece dire dalle Liprandi che desiderava di fare la nostra conoscenza. «Non ci era mai accaduto d’inspirare a nessuno un desiderio simile. «Infatti, venne colle nostre belle amiche a farci una visita, e la maggiore delle Liprandi, che parlava bene, avviò il discorso con garbo, per preparare l’invito. — «Queste signorine, disse alla bionda miope, hanno una _bella villa_ fuori di porta Vercelli. «E l’altra, che non s’era mai degnata di guardare l’umile Cascinino del nonno, rispose tutta in un sorriso: — «Oh lo so! La conosco. Ci si passa per andare alla Vigna Grande. «La Vigna Grande era la sua villa. Una vera villa, quella. Non di lusso, nè elegante; ma certo adatta per passarvi il tempo della villeggiatura, e da non confrontarsi colla nostra capanna. «Ma era l’idea del ballo che rendeva quelle ragazze tanto indulgenti e complimentose verso il povero Cascinino. Troppo complimentose; tanto, da parere che ci burlassero, perchè, mentre noi balbettavamo con dei falsi attucci modesti: «Oh! la nostra non è una villa... Le sta meglio il nome che le ha posto il nonno: il Cascinino... ecc. ecc.» la Liprandi maggiore c’interruppe, per dire, sempre alla sua amica: — «Ma no, no. Se tu vedessi, di dentro, è bellissima! «Poi, un po’ confusa di quella bomba che aveva sparata, riprese: — «Modesta, sai; campestre, anzi. Ma graziosa. E contano anche di darvi un ballo, appena comincerà la primavera. «L’altra, che era venuta per quello, fece le meraviglie, come se non ne sapesse nulla. «La tentazione di formulare un invito era così forte per me, che soggiunsi subito: — «Sarà un’occasione di vedere il nostro Cascinino, se vorrà favorirci in quella circostanza. «E si tirò via, una serie di salamelecchi, che a me ed a mia sorella andarono in tanto sangue. «Certe altre signorine, che avevano il banco immediatamente davanti al nostro in Duomo, e che ci salutavano appena con un’aria di degnazione, perchè avevano un titolo di nobiltà e molti anni più di noi, cominciarono a farci dei sorrisetti amichevoli quando si voltavano ad aprire il banco prima della predica. Ed un giorno una, la più giovane, profittò della combinazione ch’io era ancora inginocchiata, per cui le rimanevo vicina, per dirmi, mentre metteva la chiave nella toppa: — «Le piace questo predicatore? «Era un modo d’entrare in discorso, per poi concludere, come concluse: — «È tanto, che ci si vede ogni giorno nella quaresima, che mi pare di conoscerle, e m’è venuto naturale di rivolgerle la parola. «Io balbettavo delle cose inconcludenti, tutta intimidita, perchè erano tre zitellone che non m’inspiravano nessuna confidenza. «Ma loro si voltarono tutte a fare dei sorrisetti e dei cennini graziosi col capo; e quella che aveva parlato, mi disse a bruciapelo, facendomi arrossire e confondere: — «È un pezzo, sa, che volevo parlarle. Mi è tanto simpatica!.. «Infatti d’allora ci parlarono ogni giorno, e fin dal giorno seguente, cominciarono a fare delle allusioni alla villa, ed alla festa da ballo... «che chissà come doveva riescir bella! Una festa campestre...!» «Naturalmente, ricaddi a capo fitto nel tranello, e sfoggiai le mie graziette in un invito. «Quel fermento, quel chiacchierìo, durò una settimana in città. Poi, siccome eravamo in piena quaresima, ed alla primavera mancavano ancora due mesi e più, il fermento cessò, e della nostra festa non si parlò più che fra noialtre amiche. «E finì la quaresima, e venne la Pasqua, che quell’anno fu verso la metà d’aprile, poi l’aprile finì, e cominciò il maggio, tutto biancheggiante di margherite e rosseggiante di rose. «Era primavera! «Ma, a misura che il tempo di concretare il gran disegno s’avvicinava, l’enormità della cosa si faceva più chiara alla nostra mente, ed un segreto sgomento c’invadeva. «Sarebbe stato tempo di provvedere a far dipingere le stanze, a far portare il pianoforte, a diramare gl’inviti.... «Il nonno non faceva la menoma allusione a tutto questo. «Anzi, era tutto occupato del seme di bachi, e già due volte di seguito ce l’aveva fatto lavare nel vino, con gravissimo danno delle nostre mani, che ne serbavano il violetto alla radice delle unghie per vari giorni, ad onta delle più complicate lavande. «Intanto le amiche, incontrandoci in istrada, ci domandavano: — «A quando? Sarete occupate nei preparativi? Sarà questa settimana? O quest’altra? «E noi si rispondeva sempre: — «Oh, sarà presto; sicuro... «Ma sempre con un freddo nel cuore; con una specie di vertigine, all’idea che ci si affacciava alla mente di quelle stanze squallide, colle pareti imbiancate a calce ed ora annerite dal fumo e dal tempo, e col pavimento di mattoni, che ad ogni passo esalava una nuvoletta di polvere rossastra. «Mia sorella cominciava a recriminare: — «S’è parlato troppo presto. Tu colla tua fantasia che vola, e che piglia per veri tutti i fantasmi... Ora chissà come andrà a finire? Il nonno non ci pensa affatto; bisognerà rammentarglielo... «Ah! che tribolazioni, che paure, che lunghe strette di cuore ci costò quella festa da ballo! «Non ne hanno idea le ragazze d’adesso, avvezze a trattare i genitori con tanta confidenza, ed esprimere i loro desideri senza soggezione, ad accettare il sì dei babbi e delle mamme come cosa a cui abbiano sempre diritto, a ribatterne il no quando lo trovano incomodo, a discutere, a volere, a contare per qualche cosa, per molto, nelle risoluzioni da prendersi in famiglia! «Intanto i giorni e le settimane passavano, e non si vedeva nessun sintomo di festa da ballo; e noi non avevamo il coraggio di ricordare al nonno quella sua parola spontaneamente impegnata. «Eppure bisognava trovarlo quel coraggio. Cominciavamo già a pensare come si potrebbe entrare in discorso. Andavamo alla villa con lui, o l’una o l’altra, anche il mattino; parlavamo di cose agricole. Mia sorella, la cui inettitudine per la botanica non era comparabile che alla mia, ricominciò a farsi insegnare dal nonno quella sua scienza gentile che avevamo abbandonata, ed a masticare dei nomi latini, che era una pietà. Ed io lavavo e rilavavo con fervore il seme dei bachi, immergendo eroicamente le braccia nel vino fino ai gomiti. «Ah! cosa non avremmo fatto per predisporre l’animo del nonno alla condiscendenza! «Mentre noi accarezzavamo così tutte le sue piccole manie, e lo studiavamo ad ogni ora, in ogni sguardo, in ogni sorriso, nel tono della voce, e nell’espressione del silenzio, per spiare il momento più opportuno al difficile discorso della festa da ballo, il caso provocò la spiegazione tanto e lungamente aspettata. «Un giorno, tornando colle zie da casa loro, ci vedemmo correre incontro giù per le scale la serva, che ci disse: — «Ci sono su quelle due signorine in gala, con quell’altra che non ci vede. «Capimmo subito che erano le Liprandi colla bionda miope della Vigna Grande. — «Dove sono? domandammo affrettandoci a salire. — «Sono in sala, col signor Andrea. «Arrivammo su di corsa, tutte sorridenti, colle mani stese... Ma fummo arrestate, fulminate sull’uscio, respinte indietro contro le zie che ci seguivano davvicino, all’udire una parola tremenda: — «Non se ne parli altro! «Era il nonno, naturalmente, che parlava, col volto serio, accigliato. Poi, con accento fermo, inesorabile, ripetè spiccando le sillabe, come per piantarle ben salde: — «Non-se-ne-par-li-al-tro! «Le signore erano tutte confuse; e la Liprandi maggiore, tutta rossa in viso, si rivolse a noi, e senza badare alle nostre mani stese, ci disse con accento di stizza: — «Brave, voi! Ci fate fare delle belle figure! «E la loro mamma colla parrucca, soggiunse: — «Ma sicuro! Domandavamo al vostro nonno di questo ballo.... Pare che ve lo siate sognato! Bisogna pensarci, prima di parlare, mie care... Avete montata la testa a queste ragazze... Le avete fatte lavorare a cucirsi gli abiti... E poi ne abbiamo parlato con tutti... Ora come si fa a dire che non era vero? «Noi ci affannammo a protestare che era vero; che il nonno l’aveva detto lui, e che noi non si poteva a meno di crederlo. «Ma parlavamo come d’un terzo lontano, senza osare di rivolgere la parola al nonno per rinfacciargli la promessa mancata. «Quanto a lui, aveva detta la sentenza che troncava ogni questione, aveva respinta da sè una idea importuna, come si scaccia una mosca, e non si curava affatto delle lagnanze di quelle signore, nè del nostro imbarazzo. «Ai suoi occhi le ragazze erano esseri così assolutamente dipendenti, che non ammetteva che nessuno potesse aver dato valore alle nostre parole non confermate da lui. Ed avrebbe riso se gli avessimo detto che noi ci prendevamo tanto sul serio, da crederci impegnate in faccia alla società per quella promessa mancata. «Da quel giorno l’amicizia delle Liprandi fu inesorabilmente perduta per noi. «La loro amica, più miope che mai, non ci riconobbe più affatto, neppure quando ci incontrò sul cancello del Cascinino, nel passare per andare alla Vigna Grande. «E le zitellone del banco in Duomo, quando si voltavano ad aprirlo, avevano da fare a cercare la toppa, e non potevano neppure alzare gli occhi. I loro volti pieni di sussiego non sembravano neppur suscettibili dei sorrisetti e dei cennini graziosi che li avevano rischiarati un istante. «Nell’estate la brigata delle amiche non si fece più vedere al Cascinino; e nel carnovale seguente non ebbimo neppure un invito per una seratina. «Aveva fatto il vuoto intorno a noi, quel terribile: «Non se ne parli altro!» FINE. INDICE Due parole d’esordio Pag. 9 Come il nonno imparò a nuotare » 19 Santa Lucia » 31 Come il nonno si fece levare un dente » 51 Come il nonno diventò un famoso ballerino » 63 Come il nonno imparò a suonare il flauto » 79 Come il nonno imparò a farsi la barba » 101 Come il nonno non si vestì di nuovo » 115 Come il nonno troncò una serie di rappresentazioni » 137 Come il nonno non sposò la signora Giovannina » 153 Come il nonno prese moglie » 183 Non se ne parli altro! (Episodio n. 1) » 207 Non se ne parli altro! (Episodio n. 2) » 237 Nota del Trascrittore Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. *** End of this LibraryBlog Digital Book "I ragazzi d'una volta e i ragazzi d'adesso" *** Copyright 2023 LibraryBlog. All rights reserved.