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Title: Il tramonto di una civiltà, vol. 1 (di 2) : O la fine della Grecia antica Author: Barbagallo, Corrado Language: Italian As this book started as an ASCII text book there are no pictures available. *** Start of this LibraryBlog Digital Book "Il tramonto di una civiltà, vol. 1 (di 2) : O la fine della Grecia antica" *** CORRADO BARBAGALLO IL TRAMONTO DI UNA CIVILTÀ O LA FINE DELLA GRECIA ANTICA «..... Indagheremo e conosceremo insieme le ragioni per cui Sparta ed Atene, dal colmo della gloria, cui, fra i Greci, erano dal nulla pervenute, rischiarono poscia di precipitare nella servitù; le ragioni per cui i Tessali, straordinariamente cresciuti in ricchezza ed in potenza, sono ora ridotti allo stremo della disperazione». «Occorre all’uopo risalire alle cause prime, non già richiamare gli eventi, che da quelle sono proceduti: alle cause prime dei mali che ci hanno condotti allo sbaraglio attuale». (ISOCR., _La Pace_, 116-17; 101). VOLUME PRIMO FIRENZE FELICE LE MONNIER EDITORE PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA 2047-1923 — Firenze, Stab. Tipografico E. Ariani, Via S. Gallo 33 ALLA CARA MEMORIA DI GEORGES PLATON CHE QUESTO LIBRO MI DETTE LA FORTUNA DI CONOSCERE E DI AMARE PREFAZIONE _Questa edizione, interamente e assolutamente rinnovata, di un mio lavoro di parecchi anni addietro, comparso in tempi che dovevano essergli sfavorevoli, come quelli nei quali la disistima degli studi storici era, in Italia, per ragioni che qui non è il luogo di indagare, giunta al suo colmo, riappare adesso in una forma diversissima dall’antica. Chi scrive non è una di quelle egregie, invidiabili persone che si compiacciono assai di non avere mai nulla a mutare nelle loro opinioni, nei loro scritti, nelle loro meditazioni precedenti. Io ho trovato, e trovo sempre, da cambiare — profondamente —, e profondamente correggere, in tutto quanto ho avuto per l’innanzi a pensare e ad esporre. Così, per limitarmi al presente volume, dell’antica mia trattazione non è rimasta in piedi che parte dell’intravatura: il resto — disegno, architettura, ornamentazione — tutto è scomparso, divorato da una radicale rielaborazione e ricostruzione. Dirò di più: io mi sarei sentito umiliato se, rivedendo, dopo tanti anni, questo mio libro, non avessi trovato da rimaneggiarlo profondamente. Credo tuttavia che, quale esso torna oggi alla luce, sia, non soltanto cosa, forse, degna di rilievo, ma altresì capace di utilità pratica. Il problema più alto della storia è proprio eternamente questo del sorgere e del decadere delle Nazioni; onde riuscirne a coglierne la parola o le molte difficili parole risolutrici è conquistare una parte del mistero della nostra esistenza passata e presente. Appunto perciò, come la prima volta in cui lo concepii, anche ora io lo dedico idealmente, meno ai professionisti della nostra disciplina che a tutti coloro i quali si accostano alla fonte incantata della storia con la brama, solo parzialmente appagabile, di attenderne una grande lezione per l’avvenire e (Dio noi voglia!) anche per il presente. Che queste pagine possano, sia pure in piccolissima parte, soddisfare a sì alta ambizione!_ C. B. INTRODUZIONE Disegno della storia politica della Grecia antica — Obietto del presente studio e suoi limiti — Il concetto di «progresso» e di «decadenza» — Storia e fonti storiche. Il disegno generale della storia politica della Grecia antica è noto. Dopo un periodo di maraviglie, di cui sentiamo, sulle nostre palpebre e sulle nostre carni, la luce potente e radiosa, più che non riusciamo a intravedere i distinti contorni delle cose — il periodo cosiddetto _miceneo_ —, la Grecia precipita in una penombra oscura, in un medioevo tormentoso e affaticato, dal quale riescono solo a trarla fuori le guerre persiane del secolo V: la prima e più nobile guerra, che quel grande popolo combattè attraverso la sua quasi millenaria esistenza. Allora finalmente la Grecia balza alla luce della storia, e tutte le vicende, che si erano venute susseguendo da più di un secolo, maturano i loro frutti prodigiosi. Ora la Grecia è un Paese, in cui ogni contrada, ogni città brillano di luce propria, chi per i commerci, chi per le industrie, chi per le lettere, chi per l’arte, e ognuna ha un’anima, una fisonomia, sua, che la distingue dalle altre e impone al barbaro mondo circostante il rispetto del nome ellenico. Due città — Atene e Sparta —, due Stati — la Confederazione ateniese e quella spartana — sovrastano sulle altre e sugli altri, e finiscono con lo scontrarsi in un lungo duello mortale, nel quale Atene soccombe e dopo il quale la luce della sua gloria e del suo genio comincia ad affiochire. Sparta tenta in uno sforzo supremo di unificare la Grecia, sovrapponendo ad essa la propria dura egemonia, ma non vi riesce. La Grecia, che pur soffre del suo particolarismo, quasi grettamente municipale, non tollera alcuna sovranità effettiva. La lotta contro l’egemonia spartana si prolunga a mezzo il secolo IV. In questo momento la Grecia, sempre scontrosa e ribelle, può dirsi distribuita entro il raggio di tre vaste egemonie: quella spartana, quella ateniese, quella tebana. Ma nel 338 essa è domata dalla ancor barbara Macedonia, tal quale l’Italia del secolo XVI subirà, riluttante, il morso e il giogo delle armi francesi e spagnole. La nuova sovranità si è appena stabilita, che la Grecia ne è tratta ad un’impresa gigantesca: la conquista dell’Oriente persiano. La Persia è invasa, sconfitta, schiacciata, travolta, e la Grecia dell’età di Alessandro Magno si piglia l’estrema vendetta delle onte subite al tempo di Dario e di Serse. Ma l’istante, che parrebbe segnare il culmine della sua fortuna, affretta l’ora della ruina finale. Morto Alessandro, la Grecia viene precipitata nel turbine delle guerre dei generali macedoni, e poi dei loro successori, che la devastano e dilaniano per circa cinquant’anni, fino al chiudersi del primo ventennio del III secolo a. C. Al placarsi di sì vasta tormenta, la Grecia si ritrova provincia di una delle giovani monarchie ellenistiche: quella degli Antigònidi, e ancora e sempre soggetta alla Macedonia. Ma niuno riconoscerebbe più nei suoi contorni l’Ellade di Temistocle o di Pericle. Il Paese soffre orribilmente; esso è, in tutte le sue membra, agitato da mali oscuri, di cui gli uomini ignorano il vero carattere. Invano, sconfiggendo la Macedonia, Roma la ridona a libertà. La Grecia continua a soffrire e a morire ogni giorno un poco. Lo spettacolo di questa tormentosa agonia è orribile: le città si combattano a vicenda senza nessuno scopo apprezzabile, e in ciascuna i cittadini si strappano, gli uni gli altri, gli averi, le carni, la vita. In qualche posto non si combatte, non ci si strazia più; si banchetta e gozzoviglia come all’ultimo festino. E si attende e si invoca il diluvio, la ruina estrema, che tutto abbia ad ingoiare. È Polibio, il grande Polibio, a descriverci i sintomi di questo oscuro e terribile male! A intervalli, speranze gigantesche attraversano, come foschie di lampi, l’impotenza di questa diuturna agonia. Un’imprudenza maggiore delle altre rapisce alla Grecia per sempre l’indipendenza, e, nel 146, l’anno che la storia universale segnerà dalla fatale distruzione di Cartagine, anche la Grecia entra nel novero delle province romane, ossia di quel mondo che Roma, per ben due secoli, tratterà come materia vile _taillable et corvéable à merci_. Allorchè la Repubblica romana finisce e l’Impero comincia, quella, che gli uomini dicono ancora essere stata la Grecia, è una vasta necropoli, sacra soltanto alla memoria dell’avvenire. Noi vogliamo ricercare sul serio quali siano state le cause profonde di tanta ruina, forse più tragica di quella dell’Impero romano a mezzo il secolo V di C., perchè questa volta non è una grande potenza materiale che finisce; è una luce d’intelligenza, di coltura, di genio, di civiltà, che si spegne nel mondo. Ma un’indagine di questo genere non è stata mai còmpito agevole. L’ostacolo maggiore che ha fatto naufragare negli scogli della più sciagurata retorica i tentativi meglio intenzionati, sta nella difficoltà intrinseca della ricerca. Per lavori d’interpretazione storica di questo genere, non basta infatti diligenza di narratore; occorre, come ben s’esprimeva a suo tempo uno dei nostri più insigni maestri, occorre, diciamo, «occhio metafisico che sappia cogliere fra le varietà degli accidenti i tratti essenziali»[1], ed i pochissimi, invero, che, forniti di tale strumento hanno, anche per incidenza, toccato del grave problema, sono riusciti a gettarvi fasci di luce potente[2]. Una disamina compiuta e sistematica è però ancora un desiderio, e noi vogliamo tentarla — senza iattanza come senza paura — aggiungendo per la prima volta alle tante ricerche sulle _Cause della grandezza e della decadenza dei Romani_, questa, più nuova, di più brevi confini, ma non meno ardua e difficile, della decadenza della Grecia antica. Se non che, innanzi di entrare in argomento, ci sembra opportuno fissarne gli indispensabili criterî, sì da non essere più oltre costretti a turbare con dichiarazioni e discussioni l’oggettività della disamina. Che cosa intendiamo; che cosa si deve intendere per _Grecia antica_? La grecità è qualche cosa di sì vasto e di sì diffuso, che numerosi suoi frammenti sono venuti a gravitare nell’orbita di regimi e di rapporti, gli uni differentissimi dagli altri. Noi discorreremo quindi in ispecial modo della Grecia della penisola balcanica, e ci intratterremo del resto del mondo ellenico solo in occasione di quegli eventi, che possono legittimamente importare che vi si accenni o se ne faccia riferimento. Ma insorge qui il difficile problema: Che cosa deve intendersi per _decadenza_ e quali fenomeni sociali essa viene ad accogliere nella sfera della sua azione dissolvitrice? È possibile rispondere in modo soddisfacente? Il concetto di _decadenza_ sociale sta in diretta relazione con quello che noi dobbiamo formarci di _progresso_, ed è appunto perciò, come quest’ultimo, una delle nozioni meno chiare e meno approfondite della filosofia moderna. Per la massima parte degli antichi, il problema era più facile. Essi amavano collocare il loro ideale alle radici della storia nazionale, in un archetipo di società, semplice e buona, che rappresentava come il quadro perfetto della loro esistenza. Qualunque indirizzo, che si avviasse per altre strade, che discostasse la loro città da quell’ideal tipo di esistenza; che procedesse verso forme più complesse, o, secondo ieri si diceva, dall’omogeneo all’eterogeneo, veniva considerato come decadenza; qualunque tentativo di riaccostarvi si era giudicato progresso. Tale il concetto di _progresso_ o _decadenza_ che emerge dalle storie di Tucidide, di Livio, di Tacito, in una parola, dalla massima parte degli scritti degli antichi pensatori. Un concetto universale di _progresso_ o di _decadenza_, applicabile a tutti i popoli e a tutte le società, rimase estraneo al loro spirito; fu, anzi, uno degli elementi più gravi di contrasto fra l’ideologia pagana e quella cristiana[3]. Ma anche quando, in età relativamente tarda, alcuno di loro si distaccò da quelle preoccupazioni strettamente nazionali, e volse lo sguardo ad abbracciare lo sviluppo dell’intera umanità, anche allora egli ritenne fermamente che l’età della perfezione, l’età dell’oro dell’umanità, stesse dietro le spalle, non dinanzi agli occhi e alle speranze degli uomini. Anche gli Epicurei, che differirono da tutti gli altri antichi, per la concezione universale del progresso, anch’essi, diciamo, imaginavano chiuso con l’età loro il periodo di svolgimento dell’umanità e ormai raggiunta la fase definitiva dell’umano progresso, declinar dalla quale sarebbe significato precipitare nella decadenza. Diversissimi dagli antichi, gli uomini moderni, dal secolo XVIII in poi, hanno identificato il concetto di _progresso_ con quello di _svolgimento_; anzi hanno creduto che ogni società sia, per sua fatale legge immanente, affaticata dall’imperativo categorico del progresso, che la costringe ad ascendere di grado in grado verso forme superiori[4]. Nè l’una nè l’altra teoria possono essere considerate come vere. La teoria degli antichi è, nella sua essenza, negatrice del concetto di progresso: essa non risponde a un’idea di moto, ma di stasi, di immobilità. La teorica dei moderni, identificando progresso con svolgimento, perviene allo stesso resultato, in quanto implica, sotto quest’ultimo concetto, tanto l’idea di progresso come quello di decadenza. Muoversi non significa solo andare innanzi; può anche significare andare indietro. Nè la necessità assoluta del progresso è nulla più che una orgogliosa illusione, di cui il secolo XX si è andato man mano dispogliando. Gli uomini sanno che taluni popoli progrediscono, ossia, per intenderci all’ingrosso, assumono forme più elevate, più grandiose, più fortunate, più felici o più perfette di vita, come noi, secondo certi nostri transeunti criterî, le giudichiamo; altri, invece, precipitano a forme inferiori, e taluni scompaiono quasi dalla storia del mondo. La identità di _svolgimento_ e di _progresso_ non ci spiegherebbe mai le sorti singolari delle antiche società indigene dell’America, dei Califfati Arabi, della Spagna moderna, della stessa Italia, in parecchie ricorrenti fasi della sua storia. Taluno può forse pensare (come altra volta io stesso ho pensato)[5] che sia lecito limitare il concetto di progresso solo a determinate categorie di fatti sociali — quelli passibili di misurazione e di valutazione materiale —, definendo _progresso_ la trasmissione dei loro resultati, accumulati dalle generazioni precedenti, alle generazioni successive e, da queste accresciuti, trasmessi a loro volta alle generazioni future, definendo, viceversa, _regresso_ o _decadenza_ lo smarrimento di questi utili accumulati dal tempo. Si avrebbe così la possibilità di parlare di progresso o di decadenza del commercio, dell’industria, dell’agricoltura, della scienza, ecc. Ma questa seducente definizione ha il torto d’essere meramente quantitativa. In seno a ciascuna società, ognuno dei sopra elencati fenomeni non ha un valore isolato, per sè stante, ma un valore che sta in rapporto, in funzione alla totalità dell’organismo sociale cui s’innesta. Una corretta idea di _progresso_ e di _decadenza_ non può quindi considerare l’industria, l’agricoltura, il commercio, la scienza, come elementi isolati, ma in rapporto alla funzione ch’essi compiono in ciascuna società. Non è detto che il progredire quantitativo dell’industria, della scienza, dei beni materiali di un popolo, vi determini di necessità una fase di progresso e viceversa. La storia ci avverte singolarmente di tale fenomeno, e su questo punto la filosofia degli antichi fu assai più nel vero di quella dei moderni, allorchè ripetè fino alla sazietà che il progresso materiale non è veramente progresso, ma corruzione, se esso termina col dissolvere energie intime, che cementano la grandezza, che temprano la saldezza morale dei popoli. Un giudizio, dunque, di progresso o di decadenza, anche limitatamente ai fenomeni sociali passibili di misurazione e valutazione quantitativa, va fatto in rapporto alle ripercussioni sociali di questi fenomeni. I quali sono forze socialmente progressive, non in quanto riescono ad accumulare, nel seno di una società, elementi più copiosi che in passato, ma in quanto giovano a rendere migliori — _migliori_ nel puro significato darwiniano —, ossia a far trionfare nella concorrenza delle nazioni, i popoli nel cui seno essi ebbero a generarsi. I casi della Germania e della Francia contemporanee, al paragone della Germania e della Francia del secolo XIX, sono stati, per noi tutti, in questi ultimi anni, fenomeni rivelatori. Ma questa riserva ci apre altresì la via a renderci conto del modo in cui noi siamo in grado di parlare di _progresso_ e di _decadenza_, a proposito delle forme politiche, di quelle della morale, dell’arte, della letteratura di un popolo. Noi non possiamo, come volgarmente si usa, discorrere di forme politiche progressive o regressive; non asserire, poniamo, che la monarchia assoluta valga meno della repubblica; la democrazia meno della oligarchia; il regime unitario più di quello federativo, e viceversa. Il fatto ci avverte come ciascuna di queste forme politiche fu la più adatta in determinate situazioni, o la meno adatta in altre; che cioè anch’esse hanno, non già un valore isolato assoluto, ma un valore relativo alla complessa società da cui emergono, o in cui si tenta inserirle. Analogamente le varie morali dei popoli non sono alcunchè di assoluto e di graduabile: ciascuna risponde a determinate condizioni sociali del momento; e se talora ci troviamo a biasimarle o a condannarle, siamo vittime di un pregiudizio o di un giudizio superficiale, o le sorprendiamo in contrasto con la conservazione della società, a cui esse appartengono, o con talune sue tendenze che l’esperienza ci avvisa determinatrici di progresso futuro. D’altro canto, la letteratura, l’arte, la filosofia, la religione non sono, _nella loro essenza_, fenomeni sociali, sibbene individuali, e fra essi e la trama sociale, su cui s’adergono, esistono rapporti, che non sono di causa ad effetto, onde nulla vieta che società decadenti vantino talora artisti o letterati insigni, e nazioni nella pienezza del loro rigoglio, filosofie e letterature mediocri. Furono questi appunto, come sappiamo, gli alterni casi di Roma antica e dell’Italia del Rinascimento. Ma, per quanto non possa discorrersi in modo assoluto di decadenza dell’arte, della morale o della costituzione politica di ciascun popolo, le forme e gli istituti artistici, morali, politici non cessano per questo (così come il commercio, l’industria., la scienza ecc.) di poter divenire motivo di progresso o di regresso. Ciò avviene, ogni qualvolta essi investono con le loro conseguenze l’ordito dei rapporti sociali che li sorreggono ed alimentano, cooperando a rinsaldarlo o a disfarlo, a migliorarlo o a peggiorarlo. E un altro dubbio è lecito formulare: — Esistono veramente, così come nel linguaggio corrente si ripete, delle cause, delle _cause prime_, di questo o di quel fenomeno sociale? — Pur troppo, non ne esistono! Nello svolgimento della storia umana, non ci sono che fatti, niente altro che fatti, dei quali ciascuno è causa e conseguenza, conseguenza e causa, di circostanze impensate, e talora diversissime; anzi, ogni fatto è causa di altri fatti — di questa o di quella natura — che non va considerato isolatamente, _ma va posto in determinate relazioni con fatti precedenti o contemporanei_. La storia non è stasi; è un flusso perenne, infrenabile, di cui nessuna particella si può arrestare, ma in cui solo è lecito segnare qualche punto di riferimento, ciò che noi diciamo _causa_ od _effetto_ di questo o di quel fenomeno, successivo o precedente. In tale senso — e non in altro — va dunque intesa ogni ricerca delle cause della grandezza o della decadenza di un popolo; entro tutte queste riserve va collocata la trama della indagine che tentiamo nelle pagine seguenti. Ma un’altra difficoltà, propria della disamina che ci proponiamo, risiede non più nella poca chiarezza e nella difficoltà dei concetti guidatori della nostra indagine, ma nel materiale stesso. Moltissimi sono gli anelli che ci sfuggono della vita interna degli Stati greci; enorme il buio che incombe sui minori, sì da essere, in fondo, ridotti a conoscere, discretamente, solo la storia di Atene. Se non che tutto questo impaccia grandemente chi si sforzi di riesumare ciò che nel maggior numero di casi non è possibile — i più minuti particolari del passato —, non chi si studia di cogliere le direzioni generali secondo cui il passato si svolse. Chi a questo intende deve considerare le fonti storiche, specie se del mondo antico, come frammenti di un mondo scomparso, come rifiuti di un grande naufragio, di cui i flutti sospingono a caso alla riva sonante or questo or quell’altro detrito, ma di cui ciascuno è pregno di un significato, che oltrepassa il segno materiale da cui promana. Soltanto per riaccendere questa luce, per ricomporre l’insieme, per ricreare il clima storico, in cui quegli sparsi elementi furono cosa viva, bisognava, e bisogna, trarre da una più larga conoscenza storica, dalla pratica della vita tutte quelle nozioni, quelle suggestioni, quelle analogie, per cui il passato rivive, per cui soltanto è lecito scrivere di storia, e le quali sono (se ne divenga o no consapevoli) il presupposto necessario e fondamentale della storia. «Per chiunque», scriveva un grandissimo storico moderno — J. G. Droysen — «non sa trovare dietro un fatto isolato la piramide delle condizioni, di cui esso è il culmine; per chi non riesce a scovrire nelle indicazioni fortuite la tela di connessioni e di presupposti, cui appartengono; per chi nella storia altro non vede che un mosaico di passi estratti dai testi relativi, per costui (ahimè!), essa rimane muta e infeconda come scheletro privo di vita». Parole auree, che richiamano alla mente le altre, con le quali il massimo storico dell’evo antico accompagnava ai lettori l’opera sua, e che varrebbero la pena fossero gelosamente rammentate da tutti i filologuzzi e criticastri contemporanei: «Quanti s’illudono di poter conoscere la storia universale attraverso qualcuno soltanto dei suoi frammenti, sono simili a coloro che, per vedere le membra sparse di un organismo già ricco di energia e di bellezza, stimassero di averlo dinanzi nella sua piena attività di vivente. Sì che, qualora alcuno, ricomposto ad un tratto l’animale e ridonatolo alla forma originaria ed alla vita, tornasse loro a mostrarlo, io non ho dubbio, converrebbero tutti d’essere stati tanto remoti dal vero quanto chi sogna è lungi dalla realtà. _È possibile formarsi dalle parti un’idea approssimativa del tutto; non è possibile averne scienza e cognizione sicura_. Perchè si deve tenere ben fermo che ogni notizia parziale contribuisce alla intelligenza del tutto; ma questa si può solo conseguire dalla connessione e dalla comparazione, dal rilievo delle somiglianze, e delle differenze, di tutte le parti fra loro: solo chi studia in tal modo può dalla storia ritrarre giovamento e diletto»[6]. NOTE ALL’INTRODUZIONE. [1] F. DE SANCTIS, _L’uomo del Guicciardini_, in _Saggi critici_, Milano, Treves, 1914, III, p. 34. [2] Mi riferisco specialmente al FUSTEL DE COULANGES e al suo _Polybe ou la Grèce conquise par les Romains_, in _Questions historiques_, Paris, Hachette, 1893, p. 121 sgg. [3] Si cfr. la polemica di Giuliano l’Apostata contro i Cristiani circa la teorica degli Dei nazionali: JULIAN., _Contra Christian._, 115 sgg.; 238 _D_, ed. NEUMANN. [4] Una ottima trattazione di carattere storico sull’idea di progresso, presso antichi e moderni, è contenuta in I. B. BURY, _The idea of progress, an inquiry in to its origin and growth_, London, Macmillan, 1920. Ma l’antitesi fra le due concezioni, antica e moderna, era stata, prima ancora, colta e sviluppata egregiamente da G. FERRERO, _Tra i due mondi_, Milano, Treves, 1913. [5] C. BARBAGALLO, _Il materialismo storico_, Milano, «Fed. it. Bibl. popolari», 1916, p. 107. [6] POLIBIO, I, 4. 7-11. CAPITOLO PRIMO LA SCHIAVITÙ E L’ANTICA SOCIETÀ ELLENICA La schiavitù e la sua importanza storica. Il primo dei molti problemi, che un’associazione di uomini, regolarmente costituita, deve risolvere, è quello della produzione materiale. Non che tale sia il fine più nobile, fra i molti, cui la vita umana possa tendere, ma è certo quello che condiziona tutti gli altri, ed essa ha, in ogni società, l’identica importanza che il bilancio domestico in una famiglia, che il bilancio pubblico in uno Stato. Fortunato quel popolo che, avendo risolto felicemente il problema della sua produzione, riesce, così facendo, a rendere possibile la sua esistenza sociale! Esso avrà conquistato la forza di attraversare incolume i rischi più terribili, che talora si abbattono sulla vita delle nazioni; avrà trovato il segreto di dominarli o di superarli. Quella società, invece, che a ciò non avrà saputo provvedere, quali che siano le aspirazioni ideali della sua maggioranza o delle sue minoranze elette, non potrà non finire, scivolando lentamente nella decadenza o precipitando d’un balzo nella catastrofe. Così, ripetiamo, avviene nella vita dei singoli; così in quella delle nazioni. Se dunque noi vogliamo riuscire a cogliere le cause prime della grandezza o della decadenza dei popoli, noi dobbiamo anzitutto sforzarci di mettere la mano sulla loro speciale forma di produzione e intenderne il meccanismo, i vantaggi, i difetti: quello che, in una, parola, li mette in grado di vivere e di trionfare nella gara universale. Or bene, il mondo antico — e quindi anche la Grecia — poggiarono sulla pietra angolare della schiavitù. Lo schiavo, o, meglio, il lavoratore non libero, fu al tempo stesso lo strumento e il motore animato dell’agricoltura, dell’industria e del commercio antico. Lavoravano anche i liberi, ma in proporzione assai più piccola e (salvo in tempi o in regimi economici relativamente progrediti) con una capacità e una versatilità infinitamente minori di oggi. Il fenomeno della schiavitù, nel mondo antico, è stato più volte, troppe volte, oggetto di aspre requisitorie morali, di condanne violente per le società che si acconciarono ad adottarla. In realtà la schiavitù fu, nè più nè meno, che uno dei tanti mezzi, per cui l’uomo, attraverso i tempi, si è sforzato di risolvere (solo parzialmente riuscendovi) il problema della sua esistenza materiale. In quella fase dell’età prima di ciascun popolo, in cui le braccia di una sola gente o di una sola tribù non furono più bastevoli alla coltura del suolo, alla difesa dagli aggressori esterni, alla produzione di tutti gli oggetti occorrenti alla vita: in tempi, nei quali nessuno dei mezzi, che oggi valgono ad allettare e fissare il lavoro dei liberi, riesciva praticamente efficace, laddove le guerre, continue fra minuscoli aggregati sociali, fornivano in abbondanza le braccia pel lavoro servile, gli uomini ebbero il merito insigne di rivolgere a scopi utili questa somma non indifferente di energie, che il caso poneva a loro disposizione, su territori sconfinati, talora in gran parte sterili. Per tal via la schiavitù segnò una delle prime forme dell’umano lavoro e divenne strumento efficace di produzione e di accrescimento della ricchezza. Essa segnò la prima separazione di funzioni nella società primitiva; essa permise la divisione del lavoro sociale, e, nel lavoro stesso, una distribuzione particolare di energie e di attitudini; soprattutto, essa rese possibile due fatti, che in seguito dovevano assumere la più alta importanza: in primo, la separazione di una classe guerriera da una classe produttrice, il che rese possibile la formazione di grandi Stati, invece delle atomiche tribù primitive; in secondo, l’abito metodico e costante al lavoro, ossia la possibilità della produzione di beni e di ricchezze, che servissero a qualcosa di più complesso e di più alto della soddisfazione dei bisogni elementari ed immediati dell’individuo. Questa la grande funzione storica della schiavitù primitiva![7]. Pur troppo, come avviene di tutte le forze che si sviluppano in seno alla vita e alla storia, anch’essa, la schiavitù, andò col tempo svolgendo ed emanando da sè medesima un’influenza nociva all’ambiente sociale, in cui era posta e viveva, un’azione contraria allo sviluppo economico, che essa aveva saputo suscitare. Tali conseguenze si andarono aggravando con l’incalzare dei secoli. Studiare quindi, nella Grecia antica, la forma del lavoro servile, la sua natura, la sua portata, le sue conseguenze — in una parola, la sua crisi, e le crisi sociali, ch’essa andò man mano determinando nei vari dominî dell’industria, del commercio — significa penetrare nel mistero della sua vita spirituale: così oggi studiare le crisi del regime di quel libero salariato, che s’inaugurò nel mondo nei secoli XIV-XV, significa risalire alle origini prime della più grande fra le tragedie materiali e morali, che travagliano la civiltà contemporanea dei due mondi. La popolazione schiava in Grecia. A tal fine, ossia al fine di formarsi un’idea esatta del peso che la schiavitù esercitò nella vita sociale ellenica, noi brameremmo vivamente conoscere il rapporto numerico fra la popolazione libera e la servile, e quello dell’una e dall’altra, con la superficie, la produzione, l’importazione ecc., nei singoli Paesi della grande nazione. Pur troppo, assai esigua è la copia dei dati, di cui possiamo disporre, e soltanto nei rispetti più superficiali e più generici del problema. Secondo i calcoli più noti e più accreditati del Beloch[8], i rapporti fra popolazione libera e popolazione schiava, nei Paesi greci di cui meglio siamo informati, e nel periodo più luminoso di quella storia, ossia a mezzo il secolo V, sarebbero i seguenti: Superficie Popolaz. Schiavi Pop. relat. Pop. fra in km^2 libera per km^2 lib. e sch. Argolide 4185 165.000 175.000 78 1:1,09 (insieme con Egina e Corinto) Attica 2647 135.000 100.000 89 1,35:1 Megaride 470 20.000 20.000 88 1:1 Beozia 2580 100.000 50.000 58 2:1 Eubea 3592,3 40.000 20.000 17 2:1 Cicladi 2701,4 80.000 50.000 48 1,60:1 Corcira 770,6 30.000 40.000 91 1:1,33 Ma si tratta di cifre, diremo così, morte, ossia di cifre, in buona parte lambiccate su ragionamenti critici d’incertissime fondamenta, e attraverso le quali non si distinguono le forme diverse di lavoro, cui le centinaia di migliaia di schiavi della Grecia antica attendevano. Una immagine più viva della realtà è forse preferibile attingere dalle genetiche valutazioni degli antichi scrittori, o fissando l’attenzione sulla natura di talune delle aziende — agricole, industriali, commerciali — della cui memoria il tempo edace non volle, come di solito, privarci. In genere, la grande proprietà, in Grecia, non impiegava schiavi, ma servi della gleba, del cui infelice regime avremo ad occuparci in altro capitolo del presente volume. Ma impiegava anche schiavi, e di schiavi si servivano la media e la piccola proprietà. Nella classica operetta di Senofonte, l’Economico, tutto il personale degli addetti al lavoro dei campi è, quasi per definizione, concepito come schiavo. Schiavo è di regola il direttore dell’azienda, e schiavi sono gli operai, fra cui il padrone del fondo deve ogni giorno recarsi, con cui gli tocca dividere la fatica, intellettuale e morale, se non precisamente quella materiale delle braccia, e a cui, a tempo e luogo, egli impartisce lodi, incitamenti, castighi. Allorchè, nella terza fase della Guerra del Peloponneso, gli Spartani occuparono Decelea, piantando così una spina nel cuore dell’Attica — quella spina che Atene non riuscirà più a svellere dalle proprie carni — ben 20.000 schiavi lasciarono i lavori quotidiani, ed erano in buona parte fuggiaschi dai campi e dal duro ufficio della custodia del bestiame[9]. Ogni fondo, piccolo o grande, aveva i suoi schiavi[10]. La Beozia, paese eminentemente agricolo e punto industriale, contava una cospicua popolazione servile, la quale andò crescendo sensibilmente dal V al IV secolo di C.; e schiavi anche, almeno nel IV secolo, c’erano in Locride e in Focide, dove Mnasone di Elatea cominciò col possederne da solo circa un migliaio[11], con grande scandalo dei suoi concittadini, memori delle antiche, libere tradizioni locali. La conclusione, possibile a ricavare da tanti elementi, è questa: che in Grecia «esisteva una massa enorme di schiavi impiegati nell’agricoltura»[12]. Non meno numeroso era il personale servile richiesto dall’industria ellenica. Lo schiavo dava moto e vita, non solo alle aziende di una certa importanza, ma anche all’umile lavoro dell’artigiano; non solo alla grande, ma anche alla piccola e alla piccolissima industria. In Atene l’officina dell’oratore Lisia e del fratel suo contavano all’incirca 120 schiavi fabbroferrai; quella dell’oratore Demostene, 20 schiavi ebanisti e 33 fabbricatori di armi. Altre officine dovevano essere più piccole. Una fabbrica di scarpe — quella di Timarco — non superava i 9 o 10 schiavi; v’era chi possedeva un unico schiavo, quale suo umile aiutante. E sono gli schiavi a lavorare il ferro e il bronzo, a fabbricare passamanerie e strumenti musicali, a conciare pelli, a preparare droghe e profumi[13]. Uno dei campi più notevoli di applicazione del lavoro servile è l’estrazione del metallo dalle miniere e la sua prima lavorazione. Tutte le dure fatiche minerarie sono compiute da schiavi, e nell’Attica i concessionari per l’estrazione e per la prima lavorazione dell’argento del _Laurium_ disponevano chi di 50, chi di 300, chi di 600, chi di ben 1000 schiavi[14]. Lo Stato intraprende talora grandiose costruzioni pubbliche. Uno degli scopi principali ne è quello di dar lavoro e pane all’irrequieto proletariato delle grandi città. Ma anche le imprese, iniziate dallo Stato, o che si fanno per suo conto, impiegano schiavi. Dai conti, che ancora possediamo, di lavori pubblici nell’Attica, si rileva come gli schiavi si ritrovino in ogni specie di attività manuale, qualificata o no, ma certo, particolarmente, in quelle più facili e più grossolane. Di 38 lavoratori della pietra, addetti alla costruzione dell’_Erechteion_, in Atene, almeno 15 sono certamente schiavi[15]. Altri schiavi figurano nei conti relativi ai lavori di un santuario a Cerere e Proserpina in Eleusi, nei conti dell’_Eleusinion_ in Atene, non che nei lavori del _Portico_ così detto di _Filone_[16]. E schiavi sono in prevalenza — forse 10 contro 1 — i lavoratori del Didymeion di Mileto, nella prima metà del secolo III a. C.[17]. Anche nel commercio greco gli schiavi hanno la loro grande parte. È probabile che, quali mercanti, figurino in intraprese pubbliche, per esempio, nei lavori relativi all’_Erechteion_, al Santuario di Eleusi e all’_Eleusinion_ ad Atene[18]; ma è certo che essi figuravano come impiegati, come dirigenti, e perfino come associati nel commercio privato e nelle piccole industrie bancarie dell’Atene classica. La conclusione possibile a ricavare da tanti elementi, è ancora una volta questa: che nell’Ellade classica, in seno all’industria, al commercio, alla banca, l’elemento servile fu preponderante sull’elemento libero, e che, in genere, la popolazione schiava, di fronte a quella libera, se non strabocchevole, come nel mondo orientale e romano, non fu certo esigua; onde i suoi gravi effetti, se non sterminati come in altre età e presso altri popoli, non mancarono di riuscire sensibili. Improduttività e costosità del lavoro servile. La prima delle perniciose ripercussioni economiche della schiavitù era la seguente: gli schiavi, mentre da un lato offrivano a chi li possedeva e faceva lavorare, un margine minimo di reddito netto, minacciavano, dall’altro, di stazionarietà o di regresso le sorti della produzione ad essi affidata, e la restante popolazione, dei danni non lievi di una concorrenza spietata e di un prodotto scarso e relativamente costoso. Le ragioni del primo fatto sono agevoli ad intendere. Mentre nella moderna economia a libero salariato, il proprietario o l’industriale non spende nulla o assai poco per la sorveglianza del lavoro, nulla pel mantenimento dei lavoratori, limitandosi a corrisponder loro — e senza continuatività alcuna — un salario, che può essere inferiore ai bisogni elementari dell’operaio e sempre deve esserlo al valore del suo prodotto, in regime a schiavi, avviene precisamente l’opposto. Qui la sorveglianza deve essere continua e abbondante, qui il mantenimento non può limitarsi al periodo, in cui lo schiavo compie una funzione utile, ma è necessario si estenda anche a quelli in cui il suo lavoro riesce, per cause impreviste, o assolutamente nullo o passivo. Nel regime a schiavi, infine, la sussistenza dei lavoratori deve essere curata in modo speciale, perchè solo sui proprietari ricadono i danni delle malattie, della morte, della vecchiezza degli schiavi e della diminuita quantità e della peggiorata qualità del prodotto[19]. Mentre il libero lavoratore porta seco talvolta gli strumenti del lavoro, e sempre un’abilità e una tecnica particolare, un tal quale interessamento, suscitato in lui dal timore di eventuali rappresaglie o dalla speranza di compensi straordinari, lo schiavo non dispone di alcuna capacità sua propria, o, in tal caso, è acquisibile a prezzi elevatissimi; e solo per eccezione, e in condizioni speciali, riesce possibile stimolarne utilmente la diligenza e l’attività. Perfino il fatto stesso dell’organizzazione e della resistenza dei liberi lavoratori, che oggi rappresenta uno dei pericoli maggiori per la contemporanea economia capitalistica, ha un suo lato favorevole, in quanto costituisce uno stimolo continuo al perfezionamento degli strumenti della produzione. Ma dell’una e dell’altra lo schiavo è, per definizione, incapace. All’opera dello schiavo non può affidarsi alcuno istrumento perfezionato perchè non saprebbe usarne, e lo guasterebbe. Ma se per caso egli ne scoprisse uno che valesse a rendere più leggera e più breve la sua fatica, egli non trarrebbe compenso alcuno dalla sua invenzione, ma sarebbe considerato e trattato come un operaio spregevole che rifugge dal lavoro. Onde là dove si adoperano schiavi, è necessariamente impiegata maggior copia di forze di lavoro che non dove si adoperano lavoratori liberi, e l’opera dei primi riesce meno remunerativa anche quando e dove la giornata dei liberi risulta costosissima[20]. Per le stesse ragioni, assai difficilmente possono affidarsi agli schiavi lavori difficili e complicati. Onde, non sviluppo tecnico dell’agricoltura e dell’industria, non intensità o versatilità della produzione[21], non l’uso dei cottimi, non possibilità di proporzionare il numero dei lavoratori alle oscillazioni del mercato, non fortunosi effetti della concorrenza operaia, ma pesante tardità e rudezza d’opera, rapidissimo esaurimento del terreno, crisi incessanti, margini di guadagno angusti, una condizione forzata di semipovertà generale. Questi fenomeni non potevano non gravare, ora poco ora moltissimo, sull’economia classica, ed essi furono, talvolta con maggiore, tal’altra con minore consapevolezza ed intenzione, segnalati dai suoi antichi teorici. D’altra parte, le condizioni igieniche erano nel mondo greco-romano, specie nei grandi centri, assai più deplorevoli che in quello a noi contemporaneo; donde quella frequenza di mostruose epidemie, che talvolta mietevano a migliaia per giorno la popolazione di una sola città e arrecavano la desolazione e lo sterminio di intere province[22]. Ora, se la constatata brevità della media individuale della vita[23], e se la mortalità dei liberi tornava a danno dei pazienti e delle loro famiglie, le conseguenze dell’identico fenomeno, ogni qualvolta si trattava di schiavi, ricadevano tutte sui loro possessori, il cui profitto poteva magari venire letteralmente assorbito dalla rata d’ammortamento, d’ordinario elevatissima. Nè era tutto: la mortalità degli schiavi, che, come sempre, doveva riescire di parecchio superiore a quella dei liberi[24], veniva, coi nuovi acquisti, ch’essa imponeva, ad avvincere il proprietario al monopolio degli allevatori e dei cacciatori di carne umana, le cui onerose pretensioni devono, anche nell’evo antico, essere state uno dei più gravi incitamenti a quelle frequenti razzie, che si denominavano guerre coloniali[25]. Ma, di rimbalzo, altrettanto perniciosi, nei rispetti dell’economia a schiavi, erano gli effetti d’ogni genere di guerre, specie se combattute fra popoli confinanti, specie se frequentatissime come nel mondo ellenico. Esse porgevano occasione a bottini e a fughe di schiavi, e questo, mentre da un lato provocava nuovi dispendi, sia per le taglie e le ricompense, talora elevatissime, ai catturatori[26], sia per i contratti di assicurazione[27], cui era d’uopo ricorrere (cose tutte che moltiplicavano le già considerevoli spese di mantenimento), determinava sempre, all’improvviso, crisi, subitanee e dolorose, nella industria e nella agricoltura. Non diversi erano gli effetti delle carestie, molto più frequenti che non oggi, sia a motivo della coltura rudimentaria, e quindi della scarsa produttività della terra, sia della mancanza di un mercato mondiale, sia dello stato, quasi permanente, di guerra, in cui si dibattè, pur troppo, per secoli, l’Ellade antica[28]. Per esse, infatti, il possessore di schiavi era posto nel doloroso dilemma o di sostentare con una spesa moltiplicata il costoso personale servile[29] o di lasciarlo perire, mandando in rovina ciò che per lui rappresentava un ingente capitale di lavoro. Palesi, dicemmo, erano agli occhi di tutti la malavoglia e l’infedeltà con cui lo schiavo prestava la propria opera[30]; infedeltà e malavoglia, che, mentre da un canto si traducevano nella necessità di una sempre crescente e moltiplicata sorveglianza, erano, d’altro lato, cause principali della deficienza, qualitativa, e quantitativa, del prodotto del suo lavoro[31]. Or bene, si potrebbe pensare che esistessero, in potere del proprietario, espedienti disciplinari, straordinari e inauditi, in confronto a quelli che a lui sarebbe stato lecito usare coi liberi. Ma si tratta di mera illusione: ogni sfregio operato sulle carni degli schiavi, maltrattandone od abbreviandone l’esistenza, equivaleva a scemare il valore del capitale del proprietario, e, in certi casi, a provocare un vuoto incolmabile nel suo patrimonio[32]. Ond’è che da Platone[33] a Senofonte[34], da Senofonte a Catone[35], da Catone a Varrone[36], da Varrone a Columella[37], si leva universale l’ammonimento, pur troppo vano, che gli schiavi debbono essere trattati con ogni riguardo, e non già per ispirito di umanità, sibbene nell’interesse medesimo del proprietario![38]. Il regime a schiavi e la produzione. Tutto ciò è a dire nei rispetti di coloro che adoperavano schiavi, ossia delle classi, dirigenti e produttrici, dell’antichità classica, talora paradossalmente povere come i più poveri dei loro soggetti[39]. Altrettanto dolorosa è la constatazione di quello che avveniva nei rispetti della qualità della produzione servile, ossia, di un fatto che toccava l’interesse generale della società. — _Il lavoro servile è un lavoro da carnefici!_[40] —. Questo il grido disperato che prorompe dalla bocca di tutti gli economisti dell’evo antico. L’agronomo romano Columella, vissuto nell’età del maggior sviluppo della schiavitù in seno al mondo greco-italico, scriveva: «Gli schiavi danneggiano assai la coltivazione: locano i buoi al primo venuto, li nutrono male, lavorano la terra senza intelligenza; mettono in conto più sementi che non ne seminino; trascurano il prodotto del suolo; il grano che hanno portato sull’aia per batterlo, o lo rubano o lo lasciano rubare; il grano, già riposto, non lo dànno fedelmente in conto; di guisa che, per colpa del dirigente e dei suoi schiavi, la proprietà va in rovina....». E in altro luogo: «Se il padrone non sorveglia attivamente i lavori, accade quello stesso che in un esercito durante l’assenza del generale: niuno più adempie al suo dovere.... Gli schiavi si abbandonano ad ogni genere di eccessi..., pensano meno a coltivare che a devastare....»[41]. E Plinio il vecchio, allargando la sua osservazione e la sua condanna ad ogni forma di lavoro servile, aggiungeva: «È pessima idea quella di far coltivare i campi da schiavi, _giacchè pessima è l’opera di chi fatica, costretto soltanto dalla disperazione!..._»[42]. Non basta. Uno dei motivi principali della rovina dell’agricoltura, nonchè della decadenza o della stazionarietà dell’industria, è stato in ogni tempo l’assenteismo del proprietario. Ma i malefici effetti di cotale fenomeno venivano resi le mille volte più acuti e sensibili dalla esistenza di un regime a schiavi, il quale, d’altro canto, in grazia della sua stessa natura, ossia per l’illusione ch’esso dava di lavoro meccanico e sempre uguale a se stesso, induceva più facilmente i produttori a contravvenire al loro obbligo morale di una presenza continua ed operosa. Come nel mondo romano, così in quello greco, i dominî rurali alquanto estesi e le officine, specie se proprietà di gente arricchita, e che, come tale, amava occuparsi di tutto, fuorchè di agricoltura o d’industria, venivano affidati a un sovrintendente, il quale, nel maggior numero dei casi, era uno schiavo[43]. A parte la difficoltà, sempre rilevata dagli antichi, di trovare all’uopo persona, tecnicamente e moralmente capace, il sovrintendente altro desiderio non poteva avere all’infuori di quello di sfruttare sino all’esaurimento la terra col minimo di capitale, o di produrre merci della minore spesa e della peggiore qualità. Per lui, povero schiavo, la concorrenza intercapitalistica non dispiegava mai l’abbondanza delle sue sgargianti lusinghe, onde l’ingorda inerzia e il rozzo empirismo — che egli non aveva del resto mezzi per affinare — rimasero nell’antichità due motivi fieramente avversi allo sviluppo dei due rami principali della produzione e al progresso delle scienze che vi si collegano[44]. Alla metà del secolo XIX, nelle colonie meridionali degli Stati Uniti, nelle quali fioriva vigorosa l’economia a schiavi, e la concentrazione della proprietà aveva favorito al massimo grado l’assenteismo dei proprietari, la produzione, entro un solo decennio, scemò del 7%, mentre nelle colonie del nord, popolate di liberi lavoratori, essa cresceva del 27%[45]. Per gli stessi motivi, in Italia, entro un secolo, da Varrone a Columella, la produzione cerealifera scemava del 30 o 40%[46]. Ma, assumendo come esempio il caso più fortunato, quello cioè di un capociurma, tutto inteso a sfruttare fino ai limiti del possibile le sue energie di lavoro — i suoi schiavi —, noi non possiamo non sentire come la ripugnanza di questi ultimi e gli espedienti, subdoli o palesi, che essa avrebbe loro suggerito, dovevano farsi più numerosi e più gravi sotto la sorveglianza di un siffatto dirigente che non sotto il comando di un libero, o, tanto meno, del vero proprietario della terra o dell’officina. Per tutte le suesposte ragioni i lavori tiravano in lungo, il prodotto scemava di quantità e peggiorava di qualità, la terra si esauriva; talune produzioni non riuscivano a mantenersi in vita[47]; nell’agricoltura si rendeva inevitabile il latifondo; nell’industria, le grandi intraprese, cui, come abbiamo visto e torneremo a vedere, sospingeva per strana ironia la natura stessa del lavoro servile, intisichivano, colpite da misterioso arresto di sviluppo, e ad ogni giorno, ad ogni ora, ricorrevano — dolorose conseguenze dell’economia dominante — tutti quei fenomeni che in tutte le età hanno tristemente squillato come segnali d’allarme del regresso della produzione. Non mancano altri mezzi di accertamento di un siffatto fenomeno, capitalissimo. La scarsa produttività dell’antica mano d’opera servile è indicata dal tempo e dal personale richiesto dai vari generi di lavoro. Il vecchio Catone calcolava come indispensabili a coltivare un oliveto di 240 iugeri (Ea. 60 circa) ben 13 schiavi[48]. E si trattava di cultura arborea, anzi della cultura dell’olivo, la quale esigeva un assai minor concorso di lavoro, che non la vite o i cereali. Un vigneto di 100 iugeri (Ea. 25 circa) richiedeva infatti ben 16 schiavi[49]. L’agronomo Saserna ne calcolava 12 per 100 iugeri (Ea. 25 circa) di terre in semina[50], supponendo necessarie da 5 a 6 giornate per ogni iugero (a. 25 circa) di suolo pianeggiante[51], e 4 buoi e 11 schiavi per arare 200 iugeri (Ea. 50) di terreno alberato[52]. Columella opinava che un podere non alberato di 200 iugeri (Ea. 100) si dovesse coltivare con non meno di due paia di buoi e quattro schiavi, nonchè di sei altri operai, e che delle sementa granifere, le quali abbisognano di una quadrupla aratura, si può ultimare lo spargimento su 25 iugeri (Ea. 6) solo entro quattro mesi circa di lavoro[53]. Or bene, un secolo e mezzo addietro circa, in Inghilterra, senza ancora l’aiuto del moderno macchinario agricolo, e per gli stessi lavori, s’impiegava un numero parecchie volte minore d’operai[54] e, certamente, con lo stesso numero d’operai, una quantità assai minore di tempo. Il macchinario e i lavori agricoli in Grecia. I mali effetti della schiavitù e della sua relativa improduttività venivano aggravati dalla rudezza del macchinario agricolo e industriale, che, a sua volta, dipendeva (l’abbiamo notato) sia dalla normale malavoglia ed inesperienza degli schiavi, per cui era pericoloso affidar loro strumenti delicati e difficili, sia dall’inceppato sviluppo tecnico di ciascun ramo della produzione. Sembra un caso, mai non lo è: il popolo greco, fornito di tanta squisitezza, d’intelligenza, di tanta profonda cognizione delle discipline matematiche, non seppe, attraverso lunghi secoli di prosperità, compiere alcun progresso, degno di rilievo, nel macchinario o nei lavori dell’industria o dell’agricoltura; e dei progressi notevoli che, in quest’ultima, ebbe a compiere il popolo romano[55], è mestieri dichiararsi debitori all’età che precedette la universale adozione dell’economia servile e alle molteplici influenze, che, nella sua lunga e avventurosa storia, esso ebbe a subire e ad usufruire[56]. Nè poteva darsi altrimenti. Lo sviluppo tecnico e scientifico sono determinati, non già, come volgarmente si ritiene, dalla inventiva di isolati scienziati e pensatori, ma in primo luogo dalle esigenze, tecniche ed economiche, del lavoro. Nelle moderne colonie americane, ove fu a suo tempo restaurato l’antico lavoro a schiavi, gli strumenti della produzione non apparvero più simili a quelli dai coloni conosciuti e adoperati nella madre patria, chè vi se ne erano sostituiti altri, rozzi ed inetti, rievocanti il macchinario dell’agricoltura e dell’industria antica. Di essi un osservatore contemporaneo scriveva: «Quanto alla produzione, noi viviamo in secoli da un lungo tempo oltrepassati. Per noi, le macchine, lo sviluppo integrale della scienza e dell’arte sono come non mai avvenuti»[57]. E l’Olmsted, descrivendo un podere della Virginia, aggiungeva: «Io vidi degl’istrumenti che niuno di noi permetterebbe ad un libero lavoratore, giacchè il solo peso e la rudezza devono rendere il lavoro di almeno un decimo più gravoso. Ma è assurda l’ipotesi di strumenti più leggieri e più progrediti, giacchè _nelle mani degli schiavi non oltrepasserebbero la vita di un sol giorno...._»[58]. Similmente, ad onta della copia degli utensili agricoli, in Italia, nel secolo di Augusto, niun altro metodo di concimazione era conosciuto, o almeno praticamente, e con fiducia, seguìto, tranne quello della concimazione naturale[59], e le rotazioni agrarie, tanto caldeggiate da Catone, rimanevano coperte dall’ignoranza e dall’oblio, perchè la mano d’opera servile, incapace di versatilità, non riusciva a sapervisi dedicare[60]. L’aratro ateniese, nel periodo del maggiore sviluppo della metropoli dell’Attica, era rimasto all’incirca tale quale nell’età culturale omerica e preomerica, rozzo strumento a chiodo, cui non si aggiogava più di una coppia di buoi, e che, per la sua esilità, riesciva, più che a fendere, a graffiare il terreno alla superficie[61]. Come ai tempi di Omero, le sementa si continuavano a spargere a mano; a mano si mietevano le spighe[62], che le unghie delle bestie da soma erano incaricate di trebbiare[63] e la mobile discrezione del vento di nettare[64]. Fino all’età di Aristofane, il mondo ellenico continuava ad ignorare il rullo e l’erpice[65], nonchè i benefici effetti delle concimazioni chimiche[66] e delle rotazioni agrarie, in cui vece perdurava, in tutto il suo vigore, il sistema della cultura a maggese[67]. Tutto questo spiega come a Senofonte fosse lecito affermare che per l’agricoltura non occorresse nè lungo tirocinio, nè speciale abilità[68]. Ma i vantaggi dell’industrializzarsi dell’agricoltura e della manifattura non sono soltanto tecnici: sono essenzialmente economici. Un ettaro di frumento, mietuto a mano, costa il doppio circa di un ettaro mietuto a macchina[69]. E il basso prezzo di tutti i manufatti, per cui il secolo XIX andò felice e glorioso, si dovette appunto alla sostituzione del lavoro a macchina al lavoro a mano. In concorrenza con Paesi di più elevato tenore economico, la Grecia antica ne usciva battuta: quello che — vedremo — avvenne di fatto nel periodo così detto ellenistico. E una nazione, le cui energie economiche falliscono al cimento della concorrenza, è per questo soltanto condannata a una generale decadenza. La produzione del suolo. Ma è possibile conoscere, in modo più preciso, il livello a cui si eleva il prodotto del suolo, stremato d’ogni parte da tante e tanto sfavorevoli condizioni? Noi non siamo direttamente informati della sua altezza relativa in Grecia; ma è lecito indurla, con le debite cautele, da notizie collaterali. Per fermarci ai due cereali più cospicui dell’antichità, l’orzo ed il frumento, noi sappiamo che, in Italia, il massimo della produzione, nell’ultimo secolo, innanzi l’êra volgare, non oltrepassava i 7-10 hl. per ha., e, nel primo secolo dopo l’êra volgare, non superava i 6-7 hl. per ha. Noi sappiamo che nelle migliori contrade della più fertile Sicilia, la media, della produzione relativa di questi due cereali toccava, nello stesso periodo di tempo, i 12-15 hl. per ha.[70]. Or bene, nella Grecia antica, un paese assai meno fertile della Sicilia, e dell’Italia, la produzione doveva essere ancora più scarsa, e della sua bassezza possiamo forse credere di aver raggiunto la conferma attraverso un dato, ormai generalmente ammesso, il totale della produzione cerealifera, nel 329-28 a. C., dell’Attica, di Sciro, Lemno, Imbro, e dell’isoletta di Salamina, che, per l’orzo, in cifra tonda, si può ragguagliare in hl. 343.000, e, pel frumento, in hl. 75.800[71]. A tali cifre si può pervenire per induzione; ma esse non sono per questo meno sicure, almeno, in rapporto all’anno, cui esse si riferiscono. Or bene, assumendole come rappresentanti la media produzione totale dell’orzo e del frumento, nei Paesi sopra indicati, si può, con le debite cautele, ricavarne la produzione media relativa dei due cereali, che, per ciascun ettaro, offrirebbe le proporzioni seguenti: Frumento Orzo Attica Hl. 2,50-3,50 Hl. 5,50-6,50 Salamina » 4 » 8 Sciro » 3,50-4 » 6,50-8 Lemno » 12-13 » 24-25 Imbro » 7,50 8,50[72] Cifre, evidentemente, bassissime, come qualche paragone col mondo contemporaneo può avvertirci. La sterile Grecia di oggi, innanzi e dopo le grandi riforme dell’ultimo ventennio, produce in media hl. 6-10 di frumento ed hl. 10,50-11,50 di orzo per ettaro[73]. Il suolo dell’Italia nostra, pur troppo, non più fertile di quello della consorella greca, rende una media in granaglie di 11-12 hl. per ha. di frumento, mentre Paesi, meglio favoriti dall’arte o dalla natura, producono assai di più: la Germania, hl. 12,7 per ha.; gli Stati Uniti, hl. 17,9; la Francia, hl. 18,1; la Danimarca, hl. 30; il Belgio, hl. 31,1, e così via[74]. Ma noi non siamo in grado di acquistare una idea precisa del divario della produzione del suolo, fra l’evo antico e l’evo moderno, se non poniamo mente ad un altro fatto assai notevole: che cioè, laddove nei Paesi contemporanei, la cultura, per quanto varia, si fa ogni giorno più continua[75], le terre del mondo antico, rimanevano a maggese, alternativamente, un anno sì ed uno no[76]. In tal caso, la cifra della produzione di ciascun ettaro è di un valore economico assai diverso, a seconda si discorre del mondo antico o di quello odierno, e, a stabilire un’equa proporzione fra l’uno e l’altro, occorrerebbe dimezzare, o quasi, la prima, o raddoppiare la seconda. L’antica produzione dei cereali potrebbe dirsi, quindi, in genere, minore della nostra del 50%, o, tenendo conto della differenza annua di prodotto nelle contemporanee rotazioni agrarie, di almeno il 30%. Tutto ciò, ogni qual volta, come talora avveniva, l’insipienza o la malavoglia o la ostilità vera e propria dei lavoratori[77] non facevano che il ricolto riescisse appena pari alla semina, o, magari, ad essa inferiore[78]. Ne seguiva ciò che era prevedibile. Poichè ogni reazione contro l’alto costo della mano d’opera e la bassezza della produzione, mercè l’impiego di nuovi strumenti tecnici, veniva elusa dalla natura stessa del lavoro servile, al proprietario non restava che ricorrere alle produzioni, le quali richiedevano, e ancor oggi richiedono, il minor numero di lavoratori[79]. Di qui l’abbandono dell’agricoltura e l’instaurazione della pastorizia, che, se vantò l’esempio più saliente nell’economia italica degli ultimi secoli della Repubblica e in tutti quelli dell’Impero, fu del pari lo spettacolo offerto dal mondo ellenico all’approssimarsi dell’êra volgare[80]. Macchinario e lavori industriali. Lo stesso era a dire, a maggior ragione, dell’industria. Omero, Aristotile, Cratete, relegavano nel mondo degli Dei e dell’utopia la possibilità e l’esistenza di processi meccanici autonomi[81]. Sul terreno della realtà se ne ignoravano i tipi più elementari. Non mulini ad acqua ed a vento per la macinazione[82], non macchine di una certa complessità per la lavorazione dei metalli, delle stoffe, delle pelli, ma utensili miseramente rachitici e adoperabili solo con l’ausilio costante della mano dell’uomo. Nelle opere minerarie, le più tormentose, quelle su cui l’intelligenza umana più avrebbe dovuto stillarsi per alleggerire il peso di una fatica miseranda, il trasporto dello sterro e del minerale avveniva a mezzo di ceste portate a spalla. A forza di braccia l’operaio lo frantumava nei mortai, e non diverso era il motore della macina destinata a ridurlo in più minuti frammenti[83]. Da questo derivava il singolare fenomeno che tutte o quasi le industrie dell’evo antico, la cui vitalità fu in certo modo notevole, rispondessero in genere a meri bisogni voluttuari. Le fabbriche lavoravano stoviglie, porpore, armi cesellate, mentre gli oggetti essenziali alla vita venivano invece forniti dalla famiglia. «Ora questa produzione domestica, naturalmente meschina per la ristrettezza del suo àmbito medesimo, paralizzata da evidente insufficienza di divisione di lavoro, non comportava nè progresso nè sviluppo; e, poichè, d’altro canto, il lusso è nella vita fenomeno puramente eccezionale e le industrie destinate ad alimentarlo sono necessariamente limitate dalla scarsità dei loro sbocchi, un simile stato economico doveva dar luogo alla creazione di una ricchezza relativamente esigua, _di una vera e propria semipovertà_»[84]. La concentrazione della ricchezza immobiliare. A molti dei succitati inconvenienti singoli produttori tentavano rimediare, accentrando nelle proprie mani, svariate imprese agricole o industriali. Così soltanto — poteva pensarsi — sarebbe stato possibile ridurre le spese di sorveglianza e di approvigionamento, moltiplicare gli ettari di terra da sfruttare e i margini di profitto da godere; così eliminare più o meno le dolorose conseguenze del mantenimento di truppe di schiavi inoperose[85]. Tale fenomeno non era d’altro canto evitabile. È stato notato come «l’effetto economico della schiavitù, più importante d’ogni altro per il contraccolpo nella vita civile e sociale, sia il carattere esauriente dell’agricoltura». «Il difetto di versatilità rende» — l’abbiamo veduto — quasi «impossibili le rotazioni agrarie, donde la cultura continua di uno stesso prodotto, che termina ben presto con l’esaurire i terreni più fertili. Col mancare della fertilità», «il lavoro dello schiavo, dato l’enorme costo», «diventa addirittura passivo, donde il bisogno di avere alla mano sempre nuove terre feconde da sostituire a quelle già sfruttate». «Nel Texas, dopo solo dieci anni di sistema a schiavi, c’erano terreni deserti assai più ampi di quelli esistenti negli Stati liberi dopo due secoli di coltivazione». «La espansione territoriale in ragione di gran lunga superiore all’aumento della popolazione diventa quindi la necessità prima dei regimi schiavisti»[86], e il latifondo, la forma principe della proprietà immobiliare. L’una e l’altra di queste ragioni sono le cause essenziali del formarsi della grande proprietà nei Paesi che si servono di schiavi per la coltura della terra, e tutte le altre, che sogliono più di consueto assegnarvisi, costituiscono degli agenti o dei coefficienti secondari, non il motivo universale ed organico. Nell’antica Italia romana il latifondo nasce e procede di pari passo coll’introdursi e col diffondersi della schiavitù. Solo dopo le due prime grandi Guerre puniche, i latifondi invadono la penisola, e, con l’Italia, la Sicilia e l’Africa romana, sì che già nell’ultimo secolo a. C., un oratore poteva pubblicamente deplorare in Roma come tutto il vasto suolo dell’Impero fosse posseduto da non più di 2000 cittadini[87]. Nel mondo greco cotale fenomeno di concentrazione della proprietà rurale fu più lento e laborioso che non altrove, sia per la natura speciale del terreno, difficile a organizzare in grandi dominî, sia per gli estranei allettamenti, che offrivano agli abitanti l’industria e, più ancora, il commercio, sia, infine, per la feroce politica antiplutocratica di molte città democratiche greche. Pure, anche in Grecia, il fenomeno pervenne, come altrove, alle inevitabili, estreme conseguenze. Lasciando da parte i Paesi, che, in luogo di schiavi, adoperavano servi della gleba (Sparta e la Tessaglia, ad esempio), e dove la grande proprietà divenne la forma unica di possesso del suolo, nella Sicilia e nella Magna Grecia, il fatto della concentrazione della terra in poche mani, costituiva lo spettacolo più comune e naturale. Agrigento vantava famiglie di proprietari straordinariamente ricche; uno solo dei suoi cittadini ricavava, fra l’altro, dalle proprie terre ben 30.000 anfore di vino[88], pari a hl. 12.000. Il territorio di Siracusa era dominato da qualche migliaio di grandi proprietari, signori di numerosissimi schiavi[89]. E in parecchi Staterelli dell’Italia greca[90], come del resto nella Macedonia e nella Grecia di mezzo, la forma dominante del possesso della terra era appunto la grande proprietà. In modo alquanto diverso procedettero le cose nell’Attica, e forse anche nei Paesi che, come l’Attica, esercitarono attivamente l’industria ed il commercio: le cittadine dell’Asia minore e le isole dell’Egeo[91]. Dopo le riforme di Solone e di Pisistrato, i quali, nel secolo VI a. C., reagendo sulla già consumata concentrazione della ricchezza agricola, vi restaurarono la piccola proprietà rurale, l’Attica divenne uno Stato, nel quale tutti i cittadini, o quasi, possedevano un loro boccone di terra. Così, dicemmo, dovette seguire anche in altre cittadine commerciali industriali greche. Ma, appunto per questo, pur troppo, a mezzo il secolo IV a. C., la Grecia offriva, all’acuto esame dell’osservatore, lo spettacolo di un Paese, in cui, attraverso i numerosi possessi, attraverso le famiglie, di generazione in generazione condannate a una sempre più dura indigenza, attraverso i debiti, le ipoteche, le confische, la società andava lentamente avviandosi verso una nuova concentrazione della proprietà. Se già, in sullo scorcio del secolo V, molti piccoli possessi sono riuniti nelle mani di un unico proprietario, alla metà del secolo IV, parecchie proprietà, di recente costituitesi, appaiono fornite di un valore quale mai fin adesso avevano avuto le «grandi» proprietà dei più ricchi cittadini ateniesi: i cavalieri o i pentacosiomedimni. Un cittadino ateniese, a detta dell’oratore Iseo (primo trentennio del IV sec. a. C.), ricavava dai suoi fondi una rendita annua di 80 mine (circa Lt. 8000)[92]. E, poco più tardi, l’oratore Demostene, discutendo dinanzi ai giudici dell’_elièa_, poteva parlare di cittadini che possedevano da soli tanta parte dell’Attica quanta neanche tutti insieme i numerosi componenti il tribunale che assisteva a quella sua, sempre eletta, prova di eloquenza[93]. Un altro ateniese possedeva un fondo di dimensioni, fino al IV secolo, inaudite: ben 315 ha., da cui ricavava 1000 medimni di frumento e di orzo (hl. 518), 800 metreti di vino (hl. 310) e il cui legname gli rendeva all’anno circa 4000 lire[94]. Un quarto, il banchiere Pasione, vantava, investiti in beni immobili, oltre 20 talenti, circa L. 120.000[95]. È l’età in cui nuove oligarchie aristocratiche risorgono in seno alle cittadine democratiche dell’antica Confederazione ateniese. Così, nonostante ogni sforzo in contrario, tutta l’evoluzione economica greca finisce nella formazione di una ricchezza fondiaria, che poco a poco si riduce nelle mani di un piccolo o piccolissimo numero di grandi proprietari[96]. Ma la concentrazione della ricchezza fondiaria, se riusciva a mascherare le più naturali preoccupazioni, dettate dalla schiavitù, non giovava di certo a risolvere nel suo complesso il problema sociale di interi aggregati di cittadini impoveriti, e ch’essa veniva ancor più man mano impoverendo. A questo tendeva invece l’espediente di una continua espansione territoriale. Le moderne colonie schiaviste d’America, vi rimedieranno, alle loro origini, con la facile usurpazione delle vaste terre inoccupate. Invece, gli Stati agricoli dell’antichità non poterono provvedere che con la guerra, o con la colonizzazione forzata[97] — guerra anch’essa troppe volte, quest’ultima —; e dell’una e dell’altra il mondo greco si gioverà per tutta la sua storia con i malefici effetti che noteremo in uno dei capitoli che seguono. La concentrazione della ricchezza mobiliare. Non altrimenti accadeva della ricchezza mobiliare. Era proprio nella natura del regime a schiavi che venissero a decadere le forme intermedie della proprietà industriale, che, anzi, forme omogenee tendessero ogni giorno più a ridursi nelle medesime mani. «Se infatti», come scrive uno studioso di questioni coloniali[98], «le spese d’impianto riescono pari per un prodotto di dieci come di cento barili di zucchero, la superiorità della produzione in grande è incontestata», ed «il piccolo proprietario non può sostenere la concorrenza del grande». Non basta: la presenza degli schiavi, insieme con la necessità di non tenerli inoperosi, doveva sollecitare i loro possessori ad avere sempre a disposizione un qualche ramo di lavoro cui adibirli: non una quindi, ma più intraprese da esercitare con piena tranquillità di possesso, anzi con una tranquillità che consentisse l’anticipato addestramento dello schiavo a generi diversi di lavoro. Inoltre, il pauperismo, che la concentrazione della proprietà, terriera ed industriale, recava quale suo inevitabile corrispettivo, e la formazione di capitali, indipendenti dalla terra, agevolavano ed incoraggiavano i debiti, e di conseguenza, per nuove vie, la concentrazione dei capitali. Per tal guisa le fortune mobiliari impinguavano ad un polo della società, e stremavano, o disparivano, al polo opposto. Onde non unico, ma molteplice; non solo diretto, ma, in egual misura, indiretto, era l’impulso, di cui la schiavitù affaticava il mondo ellenico verso la concentrazione della ricchezza mobiliare. Ma se la forza di queste ragioni teoriche è invincibile, assai più disagevoli, e per svariati motivi, ci si offrono i mezzi di discernere e di determinare la portata delle loro conseguenze. Lo scarso sviluppo industriale del mondo ellenico, almeno in confronto a quello dell’evo moderno e contemporaneo, le tendenze, in genere conservatrici, delle classi intellettuali, distolsero gli antichi statisti dall’applicare in ispecial modo la loro attenzione al fenomeno dello sviluppo e della funzione della ricchezza mobiliare. E in mancanza di un esame diretto della questione, in mancanza di notizie, precise e intenzionalmente compiute, mal ci soccorrono le valutazioni patrimoniali, che troviamo presso gli oratori greci, in cui non è mai, o quasi, distinta la ricchezza immobiliare dalla mobiliare, nè in quest’ultima sono calcolate le varie parti investite in intraprese industriali o commerciali o bancarie. Inoltre noi abbiamo in proposito notizie abbondanti solo per Atene — cuore e cervello dell’antica Grecia —, ma città, come abbiamo accennato, nella quale sino in fondo si disfrenò la più vivace — talora rabbiosa — politica antiplutocratica, ossia una politica tendente a impedire la naturale consumazione del fenomeno che qui ci interessa. Comunque, accanto alla media, relativamente bassa, delle fortune, noi troviamo nell’Attica, dalla fine del secolo V allo scorcio del secolo IV a. C., indicazioni, e per giunta incomplete, di patrimoni di L. 180.000, 240.000, 300.000, 360.000, 600.000, 1.000.000, 3.500.000, di cui taluni costituiti in massima parte di ricchezze mobiliari[99]. Pasione e Conone possedevano in danaro intorno ai 40 talenti (240.000 lire)[100]. Buona parte della semimilionaria sostanza di Nicia, che manteneva 1000 schiavi, i quali, calcolati modestamente a due mine ciascuno (L. 200 a testa), significavano da soli un investimento di ben 200.000 lire, era rappresentata da denaro in contante[101]. L’Ipponico, che perirà nella battaglia di Delion (424 a. C.), possedeva, oltre ai suoi 600 schiavi, immensi tesori in beni mobili[102] e, più modesto, di lui, Filemonide, 300 schiavi[103], pari da soli a un capitale di almeno L. 60.000. Altri esempi ed altri suggerimenti ci vengono forniti dai redditi industriali di parecchi cittadini ateniesi. Il sommo storico, Tucidide, passava per uno dei più considerevoli concessionari delle miniere della Tracia[104]. Nicia ricavava dalle mine del Laurio l’ingente sostanza che lo faceva il più ricco tra gli Elleni[105]. Dal Laurio, Difilo aveva attinto quella sua colossale fortuna, di cui il milione, o quasi, distribuito ai cittadini, dopo la confisca dei suoi beni[106], non rappresentava che solo una parte della ricchezza posseduta in vita; dal Laurio, Epicrate e i ricchissimi soci, partecipi della sua intrapresa, ricavavano ben 600.000 lire annue[107]. Tutto ciò senza tener conto delle cospicue rendite dei due soci Filippo e Nausicle[108], anch’essi imprenditori delle miniere del Laurion, del ricchissimo Callia[109], colui che pagò la gravissima ammenda inflitta a Milziade, di Panteneto[110], ecc. Nè piccolo doveva essere il valore dell’azienda industriale mineraria dell’anonimo imprenditore, il quale, secondo c’informa una brevissima epigrafe[111], contrasse sur una sua officina metallurgica un prestito ipotecario di un talento (circa L. 6000) o dell’officina di Demostene nelle meravigliose miniere di Maronea (al Laurio), su cui questi poteva pigliare in prestito 10.500 lire[112]. Intanto il banchiere Pasione ricavava dalle sole sue speculazioni mutuarie la bellezza di 10.000 lire annue[113]. Il sistema degli appalti dei grandi servizi statali[114] e dei lavori pubblici, insieme con le clausole che lo Stato imponeva[115], fanno supporre l’esistenza di grossi capitali, di cui ci forniscono la riprova talune menzioni che al proposito possediamo. In sullo scorcio del V secolo, un tal Callicrate si incaricava della costruzione di tutto il nuovo muro, che avrebbe riunito il Pireo alla città[116]. Più tardi, mentre talora ritroviamo più di due o tre persone associate nell’esercizio di qualche porzione di un qualche pubblico lavoro, tal’altra ne ritroviamo una sola aggiudicataria di più forniture e di parecchi generi di lavoro, i quali importavano l’anticipo di forti capitali. Nè mancavano esempi espliciti di quella che oggi diremmo la grande industria, e che anche allora, quali che siano le valutazioni, che noi moderni possiamo farne, andava definita come «grande industria». Non era rara, infatti, nella stessa Atene, l’esistenza di concerie, di fabbriche di lampade, di armi, di strumenti musicali, di laboratorî metallurgici, che noverassero dai 30 ai 100 e più operai[117], e rendessero talora, come la fabbrica di scudi di Pasione, un profitto annuo di L. 6000, pari oggi, stante il mutato valore del danaro, a non meno di 20.000 lire[118]. Questo è ciò che risulta dall’esame delle scarse testimonianze a noi pervenute circa la vita economica in Atene, la città più permeata di democrazia della Grecia antica, e nella quale — ripetiamo — il governo politico, rimasto a lungo nelle mani dei democratici, curò con ogni sforzo che l’accentramento delle fortune e la proletarizzazione della grande massa fossero ad ogni costo evitati. Ma le cose andavano in modo alquanto differente nel resto della Grecia classica. A Delo, i conti relativi ai lavori pubblici, ci fanno conoscere, pel III secolo, lotti del valore di 2333, di 4000, di 7000 dramme[119], e, quando i lotti sono più piccoli, parecchi di essi cadono nelle mani di uno stesso imprenditore. A Trezene (in Argolide) il valore di ciascun lotto saliva a 2100 e, magari, a 6634 dramme. A Epidauro «le intraprese superiori a 1000 dramme sono assai numerose», e taluna raggiunge le 13.000 dramme attiche (= L. 13.000 circa). A Tegea (in Arcadia), e forse anche nell’argolica Epidauro, si cerca, per via di disposizioni legislative, di impedire la formazione di trusts industriali e l’accaparramento di più intraprese da parte di un unico imprenditore[120]. Si ha quindi un insieme di elementi, il quale lascia intravedere che in tutta la Grecia, non esclusa Atene, il crescente accentrarsi delle fortune mobiliari (così come di quelle immobiliari) fu il processo inevitabile della vita economica del Paese. Ma quello che più e meglio ci impone il convincimento di un tale fenomeno è il crescere e il diffondersi delle consuetudini di lusso, di magnificenza, di sperpero che noi cogliamo nella vita economica greca dal secolo V al secolo IV, e l’idea che adesso, insieme con l’orrore della miseria, si diffonde della potenza, anzi dell’onnipotenza della ricchezza. «Un tempo», s’esprimeva, a mezzo il IV secolo, Demostene, «nessuno sopravanzava gli altri nel fasto. Le abitazioni di Temistocle e di Milziade.... non erano più lussuose delle altre.... Oggi certi cittadini son così ricchi da fabbricare palazzi che superano in magnificenza l’insuperabile splendore degli antichi edifizi pubblici; e si acquistano oggi da taluni possessi più estesi di quelli che voi qui riuniti nel tribunale non possedete tutti insieme»[121]. Al lusso degli acquisti si aggiunge ora il lusso degli arredamenti. «Noi», farà dire ad un suo personaggio Menandro — uno scrittore di commedie vissuto nella Grecia immiserita del III secolo —; «noi abbondiamo fino all’eccesso d’ogni genere di ricchezza: traiamo oro dai Quindi, abiti talari dalla Persia; possediamo a iosa porpore, vasi cesellati, schiavi, coppe, sculture orientali, tragelafi e i grandi, sontuosi labronî persiani»[122]. Ora, finalmente, si cominciano ad amare e a praticare banchetti luculliani dai _menus_ ricercati ed interminabili[123], e si va in visibilio per gli ornamenti pittorici e per gli affreschi[124]. Così, mentre intere categorie di cittadini ateniesi si trovano nell’impossibilità di soddisfare ai legali obblighi liturgici[125], altri pochi vi profondono senza preoccupazioni, ed in misura davvero strabiliante, le sostanze acquisite. Un Alcibiade, cliente dell’oratore Lisia, spende per due coregíe tragiche 5 o 6000 lire, in quattro o cinque anni, durante i quali aveva contemporaneamente e volontariamente sostenuto, per ben tre volte gli oneri, tutt’altro che indifferenti, della trierarchia[126]. Lisia stesso, cui la condizione di straniero fa presumere una sostanza, costituita solo di beni mobili[127], spendeva in due anni L. 10.000 od 11.000 per _coregie_, come, in nove, per liturgie d’ogni genere — in massima parte volontarie — circa ben 55.000[128]. Come la ricchezza assurge fin d’ora a chiave fatata di tutte le porte della felicità, così la miseria che rincrudisce spalanca l’abisso di tutti i mali. «L’oro asserve i liberi»[129], «apre le porte dell’inferno»[130], «riesce a dimostrare vero il falso col falso»[131], e la poco eloquente povertà, «di cui non esiste male peggiore»[132], scredita l’onesto e il ben nato[133]. «Che cosa puoi tu», le grida Cremilo nel _Pluto_ di Aristofane (388 a. C.), «che cosa puoi somministrarci fuorchè le pustole che si pigliano nei bagni ed i lamenti dei fanciulli e delle vecchierelle angosciate dall’inedia? Che altro se non il prudore dei pidocchi, delle pulci innumerevoli e il fastidio delle zanzare, le quali sforzano col loro molesto ronzio gli uomini a risvegliarsi quasi dicessero: — Avrai fame, ma tant’è, devi levarti —? Tu ci fai avere per veste un cencio; per letto, un formicaio di cimici, che serve, non ad assopire, ma a ridestare i dormienti; per coperta, una stuoia fradicia; per guanciale, una grossa pietra; per pane, gambi di malva; per focaccia, foglie di rape; per seggiola, il coperchio di un rottame di vaso; per madia, un frammento di anfora incrinato.... Ecco i tuoi numerosi beneficî»[134]. Il quadro è intenzionatamente dipinto a colori assai foschi, e non già da un demagogo, ma da un uomo d’ordine. Non siamo, dunque, dinanzi ad una generale elevazione del tenore di vita della società, ma ad un accrescimento degli agi e ad un rincrudimento dei dolori delle sue classi estreme: alla concentrazione della ricchezza ad un polo, alla concentrazione della miseria — della miseria, unicamente — al lato opposto. Accanto a questa suggestiva rappresentazione degli utili infiniti della ricchezza e degli orrori innominabili della miseria, la realistica letteratura drammatica del tempo — la commedia così detta _media_ e _nuova_ — ci è testimone della crescente avversione delle classi medie e povere al matrimonio, avversione determinata dalle sopravvenute ristrettezze economiche e dalle nuove esigenze familiari. Or bene, anche questo, osserva acutamente un moderno, «da un lato, rendendo rare le unioni della classe media, e dall’altro, agevolando le nozze dei più ricchi tra loro, doveva riescire a stremare di numero la prima, a favorire una continua concentrazione di fortune e a mettere di contro a un numero sempre più ristretto di ricchi, uno più grande di proletari»[135]. La concorrenza servile e il lavoro libero. Ma la concentrazione della proprietà o dell’industria non risolveva che in apparenza il grave problema di eliminare o ridurre i danni numerosi della economia servile. Quello che può rendere utile un siffatto espediente non è l’agglomeramento, sur uno spazio continuo, di una quantità sovrabbondante di lavoratori; è la loro organica associazione ad una fatica comune, mediante la grandezza e la complessità del macchinario industriale: ciò che appunto era assolutamente escluso dalla rude natura del lavoro servile e dalla incapacità organica di quelli che lo prestavano. Non si trattava dunque che di mera illusione. Ma, se l’unico apparente rimedio del male — l’accentrarsi della proprietà e della ricchezza — coincideva con la rovina dei più, fa d’uopo aggiungere che la schiavitù, qualsiasi forma rivestisse, rimaneva sempre il meccanismo meglio adatto ad impedire ai liberi l’eterna, universale fonte della vita, talora della umana gioia: il lavoro. Soltanto «quando le spole anderanno da sè e i plettri faranno risonare da soli le cetere, noi non avremo più bisogno nè di schiavi, nè di padroni di schiavi», aveva scritto con ironico pessimismo il principe della filosofia greca, Aristotile[136]. In conseguenza, all’artigiano e all’antico operaio salariato, quando non si oppose il disprezzo naturale verso una categoria di persone compagna di lavoro degli schiavi, si riserbò il minimo di mercede e di concessioni, l’una e le altre, fatalmente regolate sull’avaro quotidiano mercato servile[137]. Nel secolo V, ad Atene, la giornata del libero lavoratore oscillava intorno ad una media di L. 1[138], e, nel IV, intorno a. L. 1,50[139], con un minimo di L. 0,50[140], che, detratti solo una ventina di giorni di riposo festivo, davano un ricavato annuo di L. 325 e di L. 510, affatto insufficienti ai bisogni più elementari di una famigliuola di quattro persone, due adulti e due fanciulli, per cui il minimo necessario si può calcolare, rispettivamente, in L. 750 e in L. 1000[141]. Ma i giorni festivi del calendario greco (di quello ateniese, ad esempio) erano circa 60. E a questi venivano ragionevolmente aggiunti gli altri, non meno numerosi, di riposo forzato per disoccupazione, le cui tristi conseguenze si abbattevano solo sugli operai liberi. Nei secoli III e II il tasso del salario appare raddoppiato: esso si aggira intorno alle due dramme giornaliere (L. 2 circa)[142]. Se non che, mentre contemporaneamente il prezzo dei generi di prima necessità si era quintuplicato, il valore del danaro era scemato della metà, anzi di tre quarti[143], in guisa da provocare un dislivello, maggiore che negli scorsi decennî, fra il reddito annuo e l’annuo bisogno dei lavoratori. Pure la prova, maggiore e più decisiva, della tenuità e della insufficienza dei salari operai nelle imprese industriali greche è data da un fatto, di cui pure qualche dotto moderno è sembrato compiacersi: la eguaglianza di salario fra gli schiavi e gli operai liberi[144]. Il che voleva dire che a ciascun operaio libero si pagava un salario, _equivalente solo al suo nutrimento individuale_, poichè, oltre a questo, lo schiavo, che non aveva a suo carico una famiglia, riceveva l’alloggio, il vestimento, le calzature, ecc. Ma la presenza degli schiavi contribuiva per altra via ad aggravare la condizione dei liberi salariati. Essa eliminava la possibilità della organizzazione e della resistenza operaia: le armi, pur troppo, sperimentate più efficaci a conseguire l’elevamento dei salari e il miglioramento delle condizioni del lavoro. La coesistenza della schiavitù inchiodava tormentosamente i liberi alla rupe del capitale e ne determinava l’indigenza e la rovina. Per questo antichi e moderni hanno sempre ritenuto l’introduzione e l’accrescimento della popolazione schiava causa diretta di decadenza della popolazione libera. Un magistrato della Carolina sud avvertiva, a suo tempo, come, per effetto dell’adozione dell’economia servile, in quella colonia americana, su 300.000 bianchi, meno di 50.000 potevano dirsi impiegati in qualche lavoro e in grado di ritrarne onestamente la vita. «Gli altri o non riuscivano a trovar lavoro o vivevano alla ventura di caccia, di pesca, di rapina, talora — ed è peggio — commerciando con gli schiavi ed eccitandoli a rubare a proprio vantaggio»[145]. Così, allorquando, nel sec. IV a. C., un cittadino della Focide introdusse per la prima volta nella contrada 1000 schiavi, fu una insurrezione generale: quegli intrusi venivano a togliere il lavoro ed il pane ad altrettanti operai liberi, di cui ciascuno, probabilmente, sostentava a sua volta una famiglia di quattro o cinque persone. Come pensare quindi a mettere su casa e a procreare dei figli? E un moderno, in una sua monografia assai nota sulla popolazione del mondo greco-romano, scartati, o quasi, tutti gli altri più ovvii motivi di costante regresso dell’antica popolazione, così si esprimeva: «Le vere ragioni del fenomeno debbono essere ricercate più a fondo. _In prima linea_ sta il costante prevalere dell’economia a schiavi.... Appena uno Stato antico entra nella fase dell’economia a schiavi, l’aumento della popolazione libera ha un ristagno.... Nessun dubbio quindi sul nesso fra l’incremento della popolazione schiava, e la diminuzione di quella libera»[146]. Da ciò quel fenomeno singolarissimo di ufficiale legislazione maltusiana, che ricorse negli antichi ordinamenti ellenici e ne fece regolare, per decreti, l’età matrimoniale, incoraggiare gli amori contro natura, autorizzare persino l’aborto e l’infanticidio. Da ciò le preoccupazioni di antichi filosofi e statisti, invocanti persino la peste e la guerra quali benefiche potenze limitatrici dello sviluppo della popolazione[147]. Da ciò la pratica dell’astensione volontaria[148], sintomo in tutte le età di disagio economico, e che antichi e moderni hanno, per facile illusione, ritenuta talora causa prima ed unica di depopolazione, quasi ingranaggio di una per sè stante corruzione morale. L’emigrazione. Cionondimeno, malgrado codesti limiti, naturalmente imposti dalla schiavitù all’accrescimento della popolazione: malgrado il fatto che la percentuale della popolazione relativa della Grecia antica riesca, almeno per noi moderni, singolarmente esigua (essa non superò al certo i 90 ab. per km^2 e discese ad un minimo di 10 e ad una media di 35)[149], il bisogno dell’emigrazione continua fu tra i più assillanti della vita sociale di quel grande Paese. Gli è che, nella Grecia antica, l’emigrazione viene costantemente determinata, oltrechè dalla spietata concorrenza servile, dallo scarso rendimento del lavoro e del capitale, che non riescivano mai a produrre il necessario alla sussistenza di quegli aggregati sociali, nel cui seno essi svolgevano la loro attività. Nei regimi a schiavi, in alto e in basso, gli «inoperosi», tra i liberi, sono moltissimi. Creare quindi uno sbocco a confini indefiniti all’onda sempre scarsa, e pur sempre sovrabbondante, della popolazione: conquistare un impero coloniale sempre più vasto che assorba di continuo il flutto incessante dei disoccupati e dei bisognosi: ecco la pietra filosofale, intorno a cui politici e filosofi, ricchi ingordi e poveri, «sempre turbolenti e bramosi di guerre»[150], si ruppero invano il cervello. Pericle, il più grande fra gli statisti ellenici, mentre applicava largamente il lavoro libero alla edilizia civica, instaurava colonie pei poveri[151] in ogni angolo dell’Impero ateniese. Morto Pericle, i suoi concittadini sono trascinati[152] alla fatale spedizione di Sicilia. L’impresa si inabissa in un’enorme catastrofe. Ma il bisogno che mai non cessa, li sospinge, nel 364, a sfidare il rischio di una nuova sollevazione degli alleati, pur di confiscarne e ripartirne il territorio, e, di là a poche decine di anni, la forza delle immutate circostanze persuaderà Isocrate, il massimo oratore della pace ad ogni costo, a invocare la tirannide macedone, pur di trarne in cambio la colonizzazione dell’Asia e lo sfollamento dell’Ellade[153]. Il lungo sospiro verrà soddisfatto da Alessandro Magno. Della «sovra popolazione» della Grecia nella seconda metà del secolo IV sarà testimonio la incessante emigrazione dei prossimi cinquecento anni, ma il rimedio, foriero di nuove cause demolitrici della vita ellenica, era giunto in ritardo: il fatale andare della decadenza aveva già maturato effetti irrimediabili. Ripercussioni politiche della schiavitù. Fatale per i produttori e per i liberi lavoratori, la schiavitù non era più benefica verso l’intera massa dei consumatori. La costosità della sua opera si ripercoteva nella costosità dei suoi prodotti. Carissime erano presso i Romani le manifatture che non uscivano dal lavoro domestico: le sete, le tele, i panni fini di lana, i drappi colorati, i guanciali così detti triclinari ecc.[154]. D’altra parte la rigidezza del congegno economico della schiavitù e il fatto di una mano d’opera difficilmente variabile, come quantità e come qualità, scaricavano sul mercato una copia di prodotti, in ogni circostanza, quasi invariata, provocando un costante disquilibrio fra l’offerta e la domanda. Così le crisi per eccesso si alternavano, nel mondo antico, con le crisi per difetto; l’abbondanza, con la carestia. Ma nell’un caso e nell’altro, la massa dei consumatori ne veniva egualmente danneggiata: nel primo, a motivo dell’acuita disoccupazione dei liberi; nel secondo, a motivo dei rincarati prezzi dei vari generi. Per tal modo la schiavitù finiva col danneggiare la popolazione libera nella sua duplice condizione di lavoratrice e di consumatrice. V’era di peggio. Come esattamente ha notato uno dei più geniali indagatori del mondo antico — il Fustel de Coulanges[155] — la presenza della schiavitù corrompeva, attossicava, anzi, i rapporti sociali fra le varie classi. Oggi la ricchezza passa dal ricco al povero; la speranza di raggiungerla stimola il lavoro e suscita l’emulazione. In Grecia, tra il lavoro del povero e la ricchezza, stava di mezzo la schiavitù. Per arricchire occorreva possedere degli schiavi; ma, per possederne, occorreva essere ricchi.... Per altro il lavoro era materia da schiavi e ai liberi, in fondo, riusciva fastidioso accostarvisi. Meglio dunque, e più facile, impossessarsi della ricchezza, chiedendola umilmente o strappandola con la violenza! Da questa ferrea condizione ha origine la universale tendenza, caratteristica delle democrazie greche, nei Paesi a regime aristocratico e in quelli a regime democratico: o il _panis et circenses_, fatti largire, più o meno volontariamente, dalle classi dominanti e dal Governo[156], o la espilazione diretta del pubblico denaro, sotto tutte le possibili forme, e il salasso degli ordini sociali più agiati, ogni qualvolta la direzione suprema della cosa pubblica si trovò in potere dei meno abbienti[157]. Nell’un caso e nell’altro, se taluni dei liberi disoccupati, che pur avevano bisogno di vivere, si recavano a pitoccare dai ricchi un posto a fianco degli schiavi, ove però trovavano pane condito di molto disprezzo; altri, i più, forse, locavano la propria industria in servigi degradanti, quali parassiti, adulatori, sicofanti, impostori ecc. Da ciò il dilagare della cortigianeria, del parassitismo, dell’indigenza accidiosa: da ciò un intrecciarsi osceno di complicità e di attaccamenti a basi inconfessabili, macchiati di tutte le umiliazioni e di tutte le bassezze, i cui effetti dovevano ripercotersi nell’ambito della vita pubblica, destinata ad un inevitabile, continuo processo d’inquinamento[158]. Per tal via, gli ordini politici, sperimentati migliori, si corrompevano. Non più lotte civili fra classi libere in antagonismo, non democrazie corrette, oneste, laboriose, ma alterni, quotidiani spettacoli di frode, di violenza, di venalità, di scialacquo. La schiavitù squarciava la società in due campi opposti di ricchi e di poveri, non già soltanto, come oggi avviene, di capitalisti e di lavoratori[159]. E questa antitetica, recisa polarizzazione della ricchezza o, piuttosto, della fortuna e dell’indigenza provocava effetti politici egualmente dannosi in seno alla nobiltà e in seno al popolo minuto. La superbia e la violenza, il presunto diritto al dispotismo e alla tracotanza, in privato ed in pubblico, sono sempre state, così come furono in Grecia, le consuete e più dirette conseguenze della schiavitù. L’abbassamento di un numero strabocchevole di creature umane a strumento cieco di altre, che trovavano agevole, anzi naturale, l’esercizio di un potere eccessivo, non era tale da provocare conseguenze indifferenti. «Ogni proprietario di schiavi», ha scritto un moderno, «nasce o diviene tiranno»[160], e Aristotile aveva, con l’acume consueto, schizzato i tratti salienti della psicologia delle aristocrazie elleniche. «Quale atteggiamento morale accompagni la ricchezza è agevole rilevarlo ogni giorno coi nostri occhi. I ricchi sono arroganti ed altezzosi, e quasi malati del possesso medesimo della ricchezza, che fa loro credere di avere nelle proprie mani ogni cosa». Nulla sembra superiore ai loro diritti ed ai loro meriti, e «scorgendo gli uomini, tutta la vita intenti a ricercare quanto meglio ad essi aggrada, precipitano facilmente nella stolida magnificenza e nella corruzione.... Onde è famosa la sentenzia di Simonide sul valore dei sapienti e dei ricchi. Che, essendo stato interrogato dalla moglie di Gerone se preferiva essere un uomo ricco o un sapiente — Un ricco — rispose —, perchè troppe volte ho visto i sapienti attendere umili alle porte dei ricchi.... — E i ricchi si ritengono degni di comandare, e sono convinti di possedere naturalmente tutte le qualità che fanno gli uomini degni del comando....[161]. Così, al modo stesso in cui l’indigenza o l’instabilità delle fortune aveva fatto dei non agiati un’orda famelica, miseranda e spregevole, di accattoni o di rapinatori, la consuetudine del comando più efferato fece, dei Grandi, una pianta sanguinaria di despoti naturali[162]. Assai pochi dei frutti gentili dell’agiatezza e della coltura fiorirono nei loro animi, e la _Repubblica ateniese_, che corre sotto il nome di Senofonte, come tutti gli scritti del tempo, usciti dalla cerchia dell’aristocrazia, contennero teorie, morali, sociali, politiche, atte a riscuotere il consenso dei più feroci piantatori americani[163]. Una, democrazia venale, corrotta, violenta; un’aristocrazia avida, gelosa, dissoluta, spregiatrice della giustizia, della correttezza, del lavoro e dei lavoratori[164] — spregio epidemico, che, fra l’altro, trascinò Socrate ad ingoiare la cicuta[165] —; una nobiltà, calpestatrice dei deboli e degli umili: ecco i più genuini prodotti, politici e morali, di quel regime schiavista, che suggeriva agli aristocratici il cinico, sanfedistico, giuramento «di essere nemici del popolo e di perpetrare a suo danno tutto il male di cui fossero capaci»[166]. Aristotile, che aveva, disegnato esattamente la configurazione esterna del fenomeno, intravedeva insieme, riassumendole in poche frasi, le cause profonde delle sciagure della vita, morale e sociale, ellenica: «Ai legislatori era parso che il punto capitale fosse l’organizzazione della proprietà...; è stato invece Filea di Calcedonia a stabilire come prima condizione del vivere sociale sia l’eguaglianza delle fortune»[167]. Or bene, la schiavitù costituiva il massimo ostacolo di questo processo verso l’uguaglianza economica; onde, come sempre succede in seno a società solcate da profonde disparità economiche, le istituzioni democratiche non solo non dettero pace alla Grecia, ma furono una delle cause dei suoi più profondi turbamenti interni[168]. «La violenza e l’orgoglio», proseguiva Aristotile, «che sono usciti dalla nobiltà e dalla eccessiva, ricchezza, sospingono gli uomini ai grandi attentati; così come la perversità», effetto «della miseria, della debolezza, della oscurità», «sospinge verso i reati comuni». «Le due classi estreme» riescono «in pari misura fatali alle città». L’epulone dimentica l’arte di comandare e di obbedire; l’indigente degrada fino a rendersi, non già disciplinato come uomo, ma prono come schiavo e tremendo nella riscossa come belva. È possibile allora ritrovare nelle città dei padroni e degli schiavi, non più una comunione di liberi. E allorchè una società risulta di individui, che a vicenda si invidiano e si disprezzano, cessa per questo stesso di essere una società....[169]. Un altro svantaggio, proseguiva Aristotele, della recisa polarizzazione della società in ricchi e poveri risiede nell’incentivo che ne promana ai quotidiani sconvolgimenti. Solo «dove l’agiatezza è diffusa, si ha la minore possibilità di sedizioni». «Quando il numero degl’indigenti prepondera e quello delle fortune medie s’assottiglia o dispare, lo Stato si sfascia e precipita rapidamente a ruina»[170]. Tale lo spettacolo che la schiavitù aveva suscitato nel mondo ellenico. Da per tutto due fazioni che si serravano l’una contro l’altra armate, non gareggiando in una lotta civile, stimolo di progresso e di virtù sociali, ma insanguinandosi in un certame rabbioso e letale, che, al di sopra delle mura di ciascuna città, andava ad intricarsi e ad aggrovigliarsi con altre lotte ed altri conflitti, provocando invasioni straniere, attentando all’indipendenza cittadina e nazionale, precipitando nell’irrequietezza, nella febbre, nella tempesta, nel sangue l’esistenza di ciascun popolo e di ciascuna famiglia. La corruzione morale. Escluso dalle virtù dei liberi, degradato da favori funesti o da cattivi trattamenti, abbrutito da vizi precoci o da fatiche eccessive, lo schiavo era una creatura, in cui di sveglio non albergava che il senso delle più basse passioni animali. L’istinto del furto, l’astuzia, la simulazione, il rancore, la sete di vendetta, l’indifferenza: ecco le sue caratteristiche morali, il cui contagio, come la comedia greca e romana c’informano, iniziava alla degradazione i dominatori[171]. Il bambino, appena nato, in quella prima età, in cui la natura si forma dalle impressioni dell’esterno, era in ispecial modo abbandonato all’impero degli schiavi, ed ei non faceva che saturarsi dei loro istinti malvagi». Giovane, li aveva compagni e strumenti di dissolutezza, consapevoli ed inconsapevoli traviatori della sua coscienza. Tutte «quelle passioni che hanno bisogno di essere contenute dal rispetto altrui, come dalla ragione, perdendo uno dei loro freni, si liberavano facilmente dell’altro, spingendo al male per una china tanto più rapida, quanto più in basso era posta la guida verso il precipizio»[172]. Così nei possessori di schiavi, oltre all’inclinazione alla collera, si sviluppò in ogni tempo quell’altro carattere dell’eccesso del potere di una persona sovra un’altra, ch’è incarnato dalla lussuria. «La schiavitù», scrive uno dei migliori economisti moderni e dei più acuti studiosi delle caratteristiche della economia antica, «la schiavitù corrompe sopra tutto la moralità dei rapporti sessuali, e quindi la vita familiare, radice di ogni altra vita». «Quella orribile demoralizzazione, la quale ricorre negli scrittori della decadenza, non sarebbe stata possibile senza la schiavitù, cioè senza l’abbassamento di tanti individui umani a strumento di altri....»[173]. La schiavitù da un lato arrestò il processo evolutivo della condizione della donna libera, cui fu preferita la schiava, dall’altro, proprio come avviene nei paesi ottomani, fece l’uomo refrattario alla stima della propria compagna[174], già per atavica tradizione tenuta in molto minor conto di lui, e tutti e due, estranei alla cura della prole, che venne affidata al magistero di pedagoghi e di domestici schiavi, ministri di degradazione fisica e morale. Ma se «l’intemperanza e la mancanza di freno producono la degradazione in alto», se «l’oppressione e le conseguenze la provocano in basso», «la corruzione per l’intima solidarietà del corpo sociale, dilaga da per tutto,» e l’intera società «si adagia in un parassitismo, che la estenua e dissolve»[175]. La reazione contro l’economia a schiavi. Noi abbiamo così, vivo e presente, in tutta la sua muta eloquenza, il quadro degli effetti sociali della schiavitù in ogni Paese, ove essa ebbe a radicarsi, e perciò anche sulla terra sacra dell’Ellade antica. Sotto l’aspetto materiale, una produzione lenta e costosa, una tecnica paralitica, un’agricoltura e un’industria rudimentali; sotto l’aspetto sociale, una incoercibile tendenza alla concentrazione della proprietà e della ricchezza, un’aspra concorrenza al lavoro e alla sussistenza dei liberi, costretti a lasciare la patria o a bramare perennemente terre nuove in cui applicare la propria attività umiliata e scornata; la corruzione, a un tempo, delle democrazie e delle aristocrazie, delle classi alte come delle basse; sotto l’aspetto morale, la triplice degradazione dell’individuo, della famiglia, dello Stato. Si ha così, nel tessuto elementare di ciascuna società greca, poggiante sulla schiavitù, una condizione perenne di debolezza organica, di fallacia nella vitalità e nella resistenza. Col suo fine senso della vita, il Greco antico ebbe l’intuizione della gravità di un male, così sottile, così insidioso, così profondo, e cercò, attraverso tutta la sua storia, di reagirvi, riducendo l’economia a schiavi ad una forma che la facesse diversa da quella che la sua stessa sostanza portava. Per non obbligare i produttori a possedere direttamente degli schiavi, fu creata l’industria della locazione, a tempo determinato, di questo vivente genere di merce-lavoro; con che, oltre a fornire la sicurezza di un reddito quotidiano il locatore veniva liberato dalla massima parte dei rischi, che gli venivano dal deperimento del suo personale. In luogo del puro mantenimento, fu adottato, anche per gli schiavi, un sistema di pagamento in salario, che forse permetteva loro di fare delle economie e li allettava con la speranza di formarsi un peculio, che un giorno poteva anche offrire, ad essi, il mezzo di acquistare la libertà. Lo schiavo locato per prezzo fu talora nulla più e nulla meno di un libero, che abitava dove volesse, si cibava a suo talento, e di cui niuno, salvo il padrone e il locatore, conosceva la precisa condizione sociale. Talora venne altresì adottato il sistema del pagamento a fattura, anzichè a giornata, e tal’altra volta il padrone associò lo schiavo a’ benefici dell’impresa che intendeva iniziare e per cui offerse i capitali, lasciando che il suo minor collaboratore vi mettesse di proprio l’attività e l’ingegno. In molti luoghi, infine, lo schiavo pubblico, ossia lo schiavo, dipendente dallo Stato, acquistò i privilegi, che derivano a tutti coloro, i quali, bene o male, in tutto o in parte, son depositari di una qualche molecola del pubblico potere. Con tutti questi abili espedienti, il mondo greco, o, piuttosto, talune delle società greche più evolute — quella ateniese, ad esempio — tentarono di sforzare il regime a schiavi a produrre il massimo di bene, lasciando dietro di sè la minor copia di male. Ed è forse possibile, in linea di ipotesi, pensare che in un ambiente tranquillo, al sicuro da urti esterni, in un’esperienza, per così dire, isolata nel vuoto, questo regime di perfetto equilibrio instabile avrebbe potuto conseguire dei successi. Pur troppo, mentre la Grecia tentava rivolgere dall’imo fondo le basi della sua vita sociale; mentre essa tutta si tendeva in questo supremo conato liberatore; mentre in alto si cominciava a formare come una diversa e più elevata coscienza economica; mentre i miopi interessi del giorno per giorno cedevano dinanzi a vedute più larghe e più pensose del domani; mentre, insieme col lento trasformarsi o disparire della schiavitù, i processi tecnici cominciavano ad affinarsi, nuove avverse influenze sopravvennero — e le studieremo —, ad arrestare il moto tendenziale, a frustrarne i vantaggi, a spezzare il miracoloso equilibrio, che sembrava già stabilito, schiacciando così, nella terribile prova, l’intera vita della nazione. NOTE AL CAPITOLO PRIMO. [7] Sulle origini storiche della schiavitù, cfr. A. COMTE, _Cours de philosophie positive_, Paris, Ballière et fils, 1864, V, 133 sgg.; H. SPENCER, _Principes de sociologie_ (trad. fr.), Paris, 1883, III, 393 sgg.; F. ENGELS, _L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato in relazione alle ricerche di L. H. Morgan_ (trad. it.), Benevento, 1885, pp. 149, 169; A. LORIA, _Analisi della proprietà capitalistica_, Torino, Bocca, II, pp. 55 sgg. — Un saggio pieno d’idee originali e suggestive sull’antica schiavitù è _Die Sklaverei im Altertum_ (in _Kleine Schriften_, Halle, 1910) di E. MEYER. Tuttavia, insieme con le idee originali, vi si insinuano a tratti tesi paradossali: questa, ad esempio, che trova la sua smentita in tutto il presente studio: che «la schiavitù non ebbe parte alcuna nella decadenza del mondo antico» (p. 210 e n. 4). [8] _Die Bevölkerung d. griechisch.-röm. Welt_, Leipzig, 1886, p. 506 e _passim_. (L’unica traduzione italiana è contenuta in _Bibl. di Storia economica_, diretta da V. PARETO ed E. CICCOTTI, IV, Milano, Soc. ed. libraria). [9] THUC., 7, 27. [10] DEMOST., XLVII (_In Euergum et Mnesib._), 53; HEROD., 6, 23, 5; JAMBL., _Vita Porph._, 197. [11] TIM., fr. 67 (in ATHEN., p. 264 _c-d_ e 272). [12] P. GUIRAUD, _La proprieté foncière en Grèce_, Paris, 1893, pp. 452 (trad. ital. in _Bibl. di Storia economica_, diretta da V. PARETO ed E. CICCOTTI, II, 2). [13] E. GLOTZ, _Le travail dans la Grèce ancienne_, Paris, Alcan, 1920, pp. 246 sgg. [14] Op. cit., 248. [15] Cfr. H. FRANCOTTE, _L’industrie en Grèce_, Bruxelles, Société belge de librairie, 1900, I, pp. 205 e 204, n. 2 _D_ e fonti ivi citate. [16] FRANCOTTE, op. cit., I, 208-10 e fonti ivi citate. [17] B. HAUSSOULIER, _Comptes de la construction du Didymeion_ (in _Révue de philol., de litter. et d’histoire ancienne_, 1906, _A_ II. 6-22; cfr. pp. 253-54). [18] FRANCOTTE, op. cit., 206-7 e fonti ivi citate. [19] CAIRNES, _The slave power, its character_, ecc., London, 1862, p. 85. [20] A. SMITH, _La ricchezza delle nazioni_ (in _Bibl. dell’Economista_, II, Torino, 1851), pp. 56, 266, 267, 471. [21] Secondo il DU MESNIL DE MARIGNY (_Hist. de l’economie polit. des anciens peuples_, Paris, 1872, II, 168, n. 1; cfr. 168-69), le statistiche sui lavori dei forzati avvertono che la costrizione violenta può ottenere da loro solo un terzo degli sforzi che nello stesso tempo durerebbe un libero lavoratore. Secondo il DUREAU DE LA MALLE, _Economie polit. des Romains_, Paris, 1840, I, 151 (l’opera è tradotta in _Bibl. di Storia econ._ di PARETO-CICCOTTI, I, 2), il lavoro dello schiavo va calcolato come corrispondente alla metà del lavoro medio di un libero. [22] Cfr. HILDEBRAND, DIE AMTLICHE BEVÖLKERUNGSSTATISTIK IM ALTEN ROM (in _Jahrbücher für Nationalökonomie_, etc. VI, 91); R. PÖHLMANN, _Die Uebervölkerung d. antiken Grosstädte_, Leipzig, 1884, pp. 114 sgg. [23] PÖHLMANN, loc. cit.; BELOCH, op. cit., pp. 41 sgg. [24] Cfr. DUREAU DE LA MALLE, op. cit., I, 149-50. [25] LORIA, op. cit., II, 91. [26] _Pap. Par._, n. 10 (a. 156 o 145 a. C.) e il commento del LETRONNE, a un _Papyrus du Musée royal contenant l’annonce d’une récompense promise à qui decouvrira ou ramenera deux esclaves echappés d’Alexandrie_, Paris, 1850, pp. 25-27 (in ARISTOPH., _Comoediae_, ed. DIDOT). [27] Cfr. ARIST., _Oeconom._, 2, 2, 34, 2. [28] Cfr. il cap. IV del presente volume. [29] ARIST., op. cit., 1, 5, 2 sgg. [30] XEN., _Oecon._, 14, 2 seg.; CAT., _De agricultura_, 2, 2; COLUMELLA, _De re rust., I praef._, 12, 3. [31] COLUM., op. cit., I, I; 7 e _passim_. [32] VARR., _Rer. r._, 1, 16, 4 e _passim_. [33] PLAT., _Leges_, 6, p. 777 _d_ sgg. [34] _Oecon._, 12, 6 sgg.; 13, 10 sgg.; 14, 7 sgg. e _passim_. [35] PLUT., _Cato_, 21, 1. [36] Op. cit., 1, 17, 5 sgg. [37] _De re rust._, 1, 8, 11, 1. 12, 3 e _passim_. Cfr. ARIST., _Oecon._, 1, 5, 2 sgg., e ARIST., _Polit._, 1, 5, 11. [38] Io ritengo sia necessario limitarsi a queste considerazioni di carattere generale per convincersi, e per convincere, della costosità del lavoro servile rispetto al lavoro libero. La maggior parte dei moderni ha preferito invece seguire un metodo diverso: ha preferito tentar di calcolare in cifre il costo dell’uno e dell’altro genere di lavoro, riescendo così, per mancanza di fondamenta, a conclusioni erronee e contrastanti con tutte le più generali e più incontroverse nozioni economiche. Così, ad esempio, il FOUCART (_Bullett. de corr. hell._, VIII, 1884, p. 214), discorrendo di schiavi addetti all’industria, non ha considerate le forme principali del lavoro libero, i lavori a cottimo ed _à forfait_, non i rischi per decesso o per evasione degli schiavi, non le spese di allevamento e di educazione dei loro nati (ben il 50% della popolazione servile, cfr. P. GUIRAUD, _La main d’oeuvre industrielle_. Paris, 1900, pp. 94 e fonti cit.), non le imposte relative, non la limitata produttività, non l’annua rata d’ammortamento, cose tutte non calcolabili esattamente in cifre. Inoltre egli errava non poco, illudendosi di poter ragguagliare numericamente le spese di alloggio che s’ignorano, le altre per gl’indumenti e per il fitto o pel possesso degli strumenti da lavoro (impossibili anch’esse a stabilire a priori), le quanto mai variabili spese minute e il fluttuante passivo dei giorni di festa e di forzata inoperosità. Più tardi il GUIRAUD (_La main d’oeuvre industrielle etc._, pp. 190-91) s’è illuso di seguire un metodo migliore, tenendo presente la spesa di quanti in Grecia, in luogo di possedere schiavi, si accontentavano di noleggiarli. Senonchè egli ha trascurato le già precedenti osservazioni di A. MAURI (_I cittadini lavoratori dell’Attica nei secoli V e IV a. C._, Milano, 1895, pp. 88-89) (alle quali altre sarebbe facile aggiungere), da cui resulterebbe come «_ancor meno sotto questa forma_, la mano d’opera servile poteva riescire di costo inferiore al salario concesso ai liberi». Ma il MAURI medesimo, che è doveroso riconoscere assai più cauto dei precedenti, ne condivide (pp. 85 sgg.) il torto, allorchè pretende riescire ad una qualsiasi conclusione numerica. Ed ha errato con essi nel non tenere conto del fatto notevolissimo, che, a differenza di quella servile, la mano d’opera libera, quali che ne siano le pretese, non implica un dispendio costante e quotidiano, sì che, mentre al mantenimento degli schiavi farebbe d’uopo aggiungere il passivo dei giorni di riposo e degli anni di vecchiezza, dal salario annuo dei liberi occorre sottrarre le incalcolabili mancate giornate di salario, ecc. Cfr. anche la _Introduzione_ di E. CICCOTTI alla edizione francese del suo _Declin de l’esclavage antique_, Paris, Rivière, 1910, pp. XII sgg. [39] È la frase di un antico a proposito dei proprietari di Tespia (cfr. HERACL. PONT., in _FHG._, a p. 80, nell’ed. DIDOT). [40] È la frase, quasi testuale, del più insigne agronomo del mondo romano (COL., _De re rust., I praef_.). [41] Op. cit., I, 7; 1. [42] _N. H._, 18, 36. Sulla decadenza dell’antica agricoltura italica a motivo della schiavitù, cfr. COLUMELLA, op. cit., _I praef._, e DUREAU DE LA MALLE, op. cit., II, 67-68. [43] GUIRAUD, _La propr. foncière en Grèce_ ecc., p. 455; ID., _La main d’oeuvre industrielle_ ecc., p. 129. [44] VARR., op. cit., 1, 44, 1 e COL., op. cit., 3, 3, 3. Sulla interpretazione di questi due passi cfr. C. BARBAGALLO, _La produzione media relativa dei cereali e della vite_, ecc. (in _Riv. stor. ant._, 1904, pp. 493 sgg.). Gli antichi sono tutti concordi nel deplorare l’assenteismo del proprietario dalla coltivazione della terra (_Xen._, _Oecon._, 12, 19-20; cfr. 13 e 14; VARR., op. cit., _II praef._, 1 sgg.; COLUM., op. cit., 1, 1; 3, 7; PLIN., _N. H._, 18, 35 sgg.; 43; PALLAD., _De re rust._, 1, 6; cfr. ARIST., _Oecon._, 1, 6, 3 sgg.); COLUMELLA, anzi (op. cit., 1, 7), soggiunge che, quando l’assenza è una necessità, il fitto è indubbiamente preferibile al lavoro servile. [45] ELLISON, _Slavery and secession in America_, London, 1861, p. 218. [46] Cfr. la precedente nota 38. [47] Scriveva A. SMITH, nella seconda metà del secolo XVIII: «La piantagione dello zucchero e del tabacco può comportare la spesa della coltura a schiavi. La coltura del grano sembra che oggi non lo possa. Nelle colonie inglesi, ove il prodotto principale è il grano, la massima parte del lavoro è fatta da liberi....» (_Ricchezza delle nazioni_, p. 266). [48] Op. cit., 10, 1. [49] Op. cit., 11, 1. [50] VARR., op. cit., I, 18, 1. [51] Op. cit., 1, 18, 2. [52] In COLUM., op. cit., 2, 12. Cfr. FUSTEL DE COULANGES, _Le domain rural chez les Romains_ (in _Revue des deux mondes_, 15 settembre 1886, pp. 339-40) (trad. it. in _Bibl. Stor. econ._ cit., II). [53] COLUM., op. cit., 2, 12. Cfr. DICKSON, _The husbandry of ancients_, Edimburgo, 1788, II, 78-79 (traduzione italiana in _Bibl. Stor. econ._ cit., pp. 305-6) e BÜCHER, _Die Aufstände d. unfreien Arbeiter_, Frankfurt, 1874, pp. 43 sgg.; ROSCHER, _Über das Verhältniss d. Nationalökonomie zum klass. Altertum_ (1861) (trad. it. in _Bibl. Stor. econ._ cit., I, 1), pp. 15-16. Anche l’industria antica era costretta a impiegare un personale più numeroso di quello che adopera l’industria contemporanea. Cfr. ARDAILLON, _Les mines du Laurium dans l’antiquité_, Paris, 1897, pp. 96 sgg., 108-9. [54] Cfr. DICKSON, loc. cit. [55] DICKSON, op. cit., I, 374 sgg.; MANZI, _La viticultura e l’enologia presso i Romani_, Roma, 1883, pp. 41 sgg.; 66. [56] Cfr. DICKSON, op. cit., I, 2, n. 1; II, 340, 345, 353 sgg.; CICCOTTI, _Il tramonto della schiavitù nel mondo antico_, Torino, Bocca, 1901, pp. 172-73. [57] JAY, _Adress to the non slaveholders of the South on the social and political evils of slavery_. New York, 1843, p. 5. Cfr. OLMSTED, _A journey in the seaboard States_, New York, 1856, pp. 483. [58] Op. cit., pp. 46-47; cfr. pp. 481, 483. [59] Il DICKSON (op. cit., I, 340 sgg.) enumera, fra le esotiche cognizioni della seconda metà del secolo I d. C., la concimazione con la calce e la marna (si trattava di esperienze e di nozioni importate da paesi a lavoro libero); gli sfugge però il passo, grandemente significativo, di VIRGILIO (_Georg._, I, vv. 193 sgg.): Semina vidi equidem multos medicare serentes et nitro prius et nigra perfundere amurca grandior ut fetus siliquis fallacibus esset. Tuttavia circa le conseguenze pratiche di queste cognizioni, cfr. la nota 60 seguente. [60] PORENA, _Decadenza dell’agricoltura presso i Romani_, Roma, 1867, p. 27. [61] GUIRAUD, _La proprieté_ ecc., pp. 475 sgg. Ecco, del resto, quello che il CAIRNES (op. cit., p. 81) scriveva delle colonie americane: «Fino allo scoppiare della guerra civile, negli Stati a schiavi del Messico, si notavano aratri di costruzione Chinese, i quali scavavano la terra come le zampe del porco o della talpa, senza riescire nè a fenderla nè a rovesciarla». [62] XEN., _Oecon._, 18, 1-3. [63] GUIRAUD, op. cit., p. 481. [64] XEN., op. cit., 18, 6. Cfr. BÜCHSENSCHÜTZ, _Besitz und Erwerb_, Halle, 1869, pp. 302 sgg. [65] GUIRAUD, op. cit., p. 477. [66] TEOFRASTO (_De causis plant._, 3, 17, 8, 6, 10, 9) accenna ad un esempio recente ed isolato di uso del nitro; PLINIO (_N. H._, 17, 42), all’uso della marna. Ma a parte la rarità del caso, non bisogna confondere la teoria degli intellettuali con la pratica del giorno per giorno, piena di sfiducia verso le escogitazioni e i tentativi scientifici (cfr. VERG., _Georg._, I, 196 sgg.). [67] GUIRAUD, op. cit., 471 sgg. [68] _Oecon._, 6, 8; 18, 10; 19, 14 sgg.; 21, 1 _passim_. [69] BERNARD, in _Journal d’agr. prat._, 1901, pp. 64-65. [70] Cfr. il mio studio, _La produzione media dei cereali e della vite nella Grecia, nella Sicilia_ ecc., in _Rivista di st. ant._, 1904, fasc. 3-4. [71] Cfr. _I. G._, II, 5, 834 _b_ e FOUCART, in _B.C.H._, 1884, pp. 195 sgg., ll. 50 sgg.; 1880, pp. 26 sgg., ll. 4 sgg. [72] Cfr. il mio scritto precedentemente cit. Il CICCOTTI (_Indirizzi e metodi degli studi di demografia antica_, pref. al IV vol. della _Bibl. di Stor. econ._, pp. 6 sgg.) solleva gravi dubbi sulla possibilità di adoperare utilmente dati così isolati. Le sue osservazioni sono speciose, ma non decisive. Ad ogni modo, non ci sembra incauto valerci di questi elementi, allorchè essi vengono a confermare, quasi in modo tangibile, tutto un insieme di conclusioni, che emergono per altra via da considerazioni indipendenti e di diverso carattere. [73] Cfr. TOMBASIS, _La Grèce sous le point de vue agricole_, Paris, 1878, pp. 27, 28, 29; U. RUFFOLO, _La Grecia economica odierna_, Roma, Istit. colon. italiano, 1920, pp. 23. [74] _Résultats de l’enquête décennale de 1892_, Paris, 1897, _Intr._, p. 69. Per l’Italia, cfr. anche G. ZATTINI, _La potenzialità attuale della produzione del frumento in Italia, in base alla statistica del dodicennio 1909-20_, Roma, Ministero Agr., Ind. e Commercio: Uff. Stat. agr., 1921. [75] Cfr. GIGLIOLI, _Malessere agrario ed alimentare in Italia_, Portici, 1903, pp. LXXV e LXXIX. Sulle proporzioni dell’annuo disparire del maggese cfr. l’_Agr. allemande à l’exposition de 1900_, Bonn, 1900, pp. 38 sgg., e, per la Francia, CONVERT, _La Ferme de Fresne_, Paris, 1895, p. 9. Dove il maggese permane, esso non è più biennale, ma triennale. [76] GUIRAUD, op. cit., 471-74; DUREAU DE LA MALLE, _Economie politique des Romains_, II, 67. [77] XEN., _Oecon._, 20, 2 sgg. [78] MENANDER, _Agricola_, fr. 4, ed. Didot.; PHILEM., _Incert. fab._, fr. 6; cfr. fr. 4, ed. DIDOT. [79] LORIA, _Analisi_ ecc., II, 73. [80] Cfr., per la Grecia peninsulare e per la Sicilia greca, STRAB., 8, 8, 1; 6, 2, 6; per la Grecia insulare, tutto il mirabile quadretto _Il cacciatore dell’Eubea_ di DIONE CRISOSTOMO (ed. Dindorf, Lipsiae, 1857) e BÜCHSENSCHÜTZ, op. cit., 209-10 sgg. Circa i vantaggi che i proprietari romani speravano di ritrarre dall’economia pastorale, cfr. DICKSON, op. cit., II, pp. 292-93. [81] _Ilias_, 18, vv. 373 sgg.; ARIST., _Polit._, 1, 2, 5; CRATET., _Belluae_, fr. I, 2, ed. DIDOT. [82] GUIRAUD, _La main d’oeuvre_ ecc., 87. «Gli stessi molini ad acqua», osserva un moderno, «non furono introdotti nella campagna di Roma che nel IV secolo, quando, per le numerose emancipazioni degli schiavi sotto Costantino, fu necessario sostituire con altri motori il lavoro umano rincarato» (LORIA, _Analisi_, II, pp. 70-71). [83] GUIRAUD, op. cit., 203-4. Cfr. MOREAU DE JONNÉS, _Statistique des peuples de l’antiquité_, Paris, 1851, I, 267-69. [84] SOUCHON, _Les theories économiques en Grèce_, Paris, 1898, pp. 119-20; cfr. MOREAU DE JONNÈS, op. cit., II, 521 sgg.; ROSCHER, op. cit., pp. 22-23. [85] Cfr. LORIA, _Analisi_ ecc., II, 74-75. [86] MONDAINI, _La questione dei negri nella società nordamericana_, Torino, 1898, pp. 106-7; CAIRNES, op. cit., pp. 56 sgg.; LORIA, _Analisi_ ecc., II, 71. [87] CIC., _De off._, 2, 21. Cfr. TAC., _Ann._, 3, 53. [88] DIOD., 13, 81, 5; 83, 1-3; 84, 1. [89] HEROD., 7, 155; THUC., 6, 67, 2. [90] ARISTOT., _Polit._, 5, 6 (7), 6. [91] Cfr. GLOTZ, op. cit., pp. 296-98. [92] V (_De Dicaeon. hereditate_), 35. Tutte le riduzioni di monete antiche in lire italiane s’intendono fatte in lire-oro. [93] XXIII (_In Aristocr._), 207. [94] DEMOST., XLII (_In Phaenipp._), 5; 7, 20. [95] DEMOST., XXXVI (_Pro Phormione_), 5. [96] Sulla graduale concentrazione della proprietà in Grecia, cfr. GUIRAUD, _La propr. fonç._ ecc., pp. 395-96, 398-401, 405; G. PLATON, _Le socialisme en Grèce_ (estr. dal _Devenir social_, settembre-ottobre 1905), pp. 43 sgg.; CICCOTTI, _Il tramonto della schiavitù_ ecc., pp. 91 sgg.; GLOTZ, op. cit., 298-300. [97] «Les difficultés et la lenteur dans la production.... devaient reporter leurs (_dei Greci_) ambitions vers les acquisitions artificielles de la richesse. C’est ainsi que l’antiquité toute entière a pu considérer la guerre comme le meilleur des tîtres de propriété» (SOUCHON, op. cit., 122-23; cfr. pp. 95-96 e p. 96, n. 1). Da questo fatto, appunto, Aristotele era indotto a definire la guerra come uno dei mezzi normali di acquisto della ricchezza (_Polit._, 1, 3, 8); cfr. ISOCR., VIII (_De pace_), 5-7; THUC., 6, 24, 3; DIOD., 13, 2, 3; 8 e, tra i moderni, ROSCHER, op. cit., 38. [98] MERIVALE, _Lectures on colonisation and colonies_, London, 1841-42, I, 76. [99] A. BÖCKH, _Staatshaltung d. Athener_, Berlin, 1886, I^3, 563 sgg. (trad. ital. in _Bibl. di Stor. econ._ di PARETO-CICCOTTI, I, 1). [100] DEMOST., XXXVI (_Pro Phormione_), 5-6; cfr. E. BRECCIA, _Storia delle banche e dei banchieri nell’età classica_ (in _Riv. di st. ant._, 1903, I, p. 114, n. 2) e BÖCKH, op. cit., I, 564, n. b. [101] LYS., _De Aristoph. patrimonio_, 40; cfr. BÖCKH, op. cit., I, 563. [102] LYS., op. cit., 47. [103] XEN., _De vectig._, 4, 14-15 e ATHEN., 12, 52, p. 537 _b_. [104] THUC., 4, 105, I. [105] XEN., op. cit., 4, 14; PLUT., _Nic._, 4, 2 sgg.; ATHEN., 6, 104, 272 _e_. [106] PLUT., _Vitae decem orat.: Lycurg._ 34. [107] HYPER., _Pro Euxen._, 37. [108] Op. cit., 30. [109] PLUT., _Cimon._, 4, 9. [110] DEMOST., XXXVII (_In Pantaen._), 4. [111] _J. G._, II, 2, 1122. [112] DEMOST., loc. cit. [113] DEMOST., XXXVI (_Pro Phorm._), 11. [114] BÖCKH, op. cit., I, 384 sgg. [115] Op. cit., I, 377 sgg. [116] PLUT., _Pericl._, 13, 5. [117] GLOTZ, op. cit., pp. 319-20; MAURI, op. cit., pp. 17-18. [118] Cfr. J. BELOCH, _Die Handelsbewegung im Altertum, in Jahrbücher f. National._ ecc., Serie 3ª, 18 (1899), p. 627, n. 3; ID., _Zur griechischen Wirtschaftsgesch._, in _Zeitschrift f. Socialwissenschaft_, V, 2 (1902), p. 101. [119] 1 dramma = circa 1 lira-oro. [120] Cfr. GUIRAUD, op. cit., pp. 80-81; FRANCOTTE, op. cit., II, 81-82. [121] DEMOST., XXIII (_In Aristocr._), 206-8; Id., IV (_Olynth._ III), 29 e XXI (_In Mid._), 158; cfr. LYS., XIX (_De bonis Aristoph._), 29; ARISTOPH., _Plout., v._ 180. [122] MENANDER, _Piscator_, fr. 4, ed. DIDOT. [123] ATHEN., 12, 69, pp. 547 _d_ sgg.; 10, 14, p. 419 c.; cfr. J. BAUDRILLART, _Hist. du luxe_, Paris, 1878-80, I, 515 sgg. [124] XEN., _Memorab._, 3, 8, 10; ANDOC., _In Alc._, 17. [125] Sulle _liturgie_ ateniesi, cfr. BÖCKH, op. cit., I, 533 sgg. [126] LYS., IX (_De Aristoph. bonis_), 29; 42 sgg. Si trattava di circa 50.000 lire. [127] Cfr. CLERC, _Les métèques athéniens_, Paris, 1893, pp. 78 sgg. [128] LYS., XXI (_Accept. muner. defensio_), 1 sgg.; cfr. BÖCKH, op. cit., I, 543-44. [129] MENANDER, _Fragmenta_, p. 100, v. 514, ed. DIDOT. [130] ID., p. 100, _v_. 538, ed. cit. [131] PHILEM., _Fragmenta_, p. 120, v. 15, ed. DIDOT. [132] _Id._, p. 98, v. 436. [133] PHILEM, loc. cit.; MENANDER, p. 98, _v._ 455. [134] _Vv._ 535 sgg. [135] CICCOTTI, op. cit., 91. È possibile segnare in cifre esatte questo processo di concentrazione della ricchezza, che forse non fu continuo, ma fu certo costante nel suo generale indirizzo? Pur troppo, non è possibile, dati i numerosi elementi congetturali su cui dovremmo fondarci. In ogni modo, per Atene, troviamo che, sur una popolazione cittadina all’incirca costante, i cittadini appartenenti alle classi agiate, che parrebbero in numero di 12-13000 ai primi del V secolo e di 15-16000 in sulla fine del medesimo, discesero, durante il IV secolo, con replicate oscillazioni, ad 8000-9000 (cfr. _J. Beloch_, _Bevölkerung_, pp. 71-74 e prec.). Identico fenomeno, ossia di riduzione progressiva della classe agiata, si può constatare nelle varie contrade del Peloponneso, attraverso i secoli V-IV; cfr. _E. Cavaignac_, _La population du Péloponnèse aux V^e et IV^e siècles_, in _Klio_, 1912, pp. 279-80 e prec. [136] _Polit._, 1, 2 (3), 5. [137] BRANTS, _De la condit. du travailleur libre dans l’industrie athénienne_ (in _Revue de l’instr. publique en Belgique_, 1883, 26, p. 113). [138] A. MAURI, op. cit., pp. 75 sgg.; GUIRAUD, _La main d’oeuvre_ ecc., pp. 183-85; FRANCOTTE, op. cit., I, 309-19; GIGLI, _Delle mercedi nell’antichità_ (in _Atti d. R. Accad. dei Lincei_, 1896), pp. 21 sgg.; GLOTZ, op. cit., 337 sgg. [139] MAURI, loc. cit.; GUIRAUD, op. cit., 185 sgg.; FRANCOTTE, op. cit., 1, 315 sgg.; 326; GIGLI, loc. cit. È bene notare che parecchi dati concernenti i salari dei liberi provengono da menzioni di lavori pubblici, come tali, meglio rimunerati. [140] LUCIAN., _Timon_, 12; ARISTOPH., _Ecclesiaz._, vv. 307-10. [141] DEMOSTENE, XLII (_In Phaen._), 22 avverte che L. 525 annue (reddito di circa 4500 lire al 12%) sono affatto insufficienti (οὐσίαν ἀφ’ ἦς ζῆν οὐ ῥάδιόν ἐστι) al mantenimento di un solo individuo, come, viceversa, dice sufficienti all’alimento proprio, durante la sua fanciullezza, e a quello della sorella minorenne e della madre, L. 700 annue (XXVII, _In Aphob._, I, 36). _Sufficiente_ per un solo adulto è d’altro canto dichiarato da Iseo un reddito di circa L. 850 annue (= L. 7000 al 12%) (XI, De _Hagniae heredit._, 44; cfr. 40 e 49), come, nel secolo precedente, con opposto intento causidico, LISIA (XXXII, _In Diogit._, 28) aveva detto abbondanti 1000 lire annue, ossia poco meno di L. 3 al giorno, pel mantenimento di tre fanciulli, un pedagogo e una domestica. Facendo ora la dovuta tara alla probabile tendenziosità dei tre oratori, lo _strettamente necessario_ al mantenimento di non più di due adulti è rappresentato dalla grossolana media di L. 900, per il IV secolo, e di L. 750 per il V. Che queste nostre presunzioni siano conformi al vero lo prova l’analogia dello stipendio annuo fornito dall’assemblea popolare di Teo a parecchi pubblici professionisti, i quali, per la natura delle loro occupazioni, sottostavano meno degli operai manuali agli effetti della concorrenza servile. Ce ne informa un’iscrizione, edita in forma completa dal FOUCART (_Inscriptions de Teos_, in _B. C. H._, IV, 1880), e riferibile alla prima metà del secolo III a. C. Da essa noi apprendiamo che un maestro elementare veniva pagato con 500 o 600 lire annue (ll. 10-13); un maestro di ginnastica, con 500 lire (l. 14); un maestro di musica, con L. 700 (l. 16); un maestro di scherma, con 300 (l. 26); un maestro di tiro d’arco, con 250 (ll. 25-26); così come, ad Eleusi, nel IV secolo, un architetto veniva pagato con L. 750 annue circa (_I. G._, II, 1, add. 834, l. 60; _B. C. H._, VI, p. 83; VIII, 213). Ma quando si pensa che nè essi erano tenuti ad un lavoro annuo (i due ultimi, anzi, erano obbligati ad insegnare solo per pochi mesi) e che il loro impiego non esauriva tutto il tempo disponibile di una giornata, non si può non avvertire quanto insufficienti al paragone fossero le tenui mercedi degli operai, costretti ad un ininterrotto lavoro quotidiano. Ma se noi possiamo stare soddisfatti a ragguagliare, pei secoli V e IV, rispettivamente, a 750 e a 900 franchi annui, lo _stretto necessario_ di due adulti, di parecchio superiore (per lo meno di 1/3) doveva essere quello di una famigliuola di 4 persone, due adulti e due fanciulli, che non può considerarsi come eccessivamente numerosa nella consueta prolificità delle classi proletarie. Le nostre cifre rappresentano quindi, in sostanza dei dati inferiori al minimo necessario alla vita. Inoltre il salario degli operai, tormentati dalla concorrenza dei liberi e dei servi e dalle frequenti interruzioni del lavoro, non aveva alcuna stabilità. Taluni moderni (il FRANCOTTE ad esempio, op. cit., I, 327 sgg.) hanno preferito valutare il valore reale del salario, fondandosi su calcoli complicatissimi e impossibili, talora evidentemente sbagliati, del costo dei varî elementi della vita, e sono pervenuti a conclusioni diverse dalle nostre, ma non certo altrettanto probabili. [142] GIGLI, op. cit., 30 sgg. [143] ID., op. cit., 51; JEVONS, _Work and wages in Athen_ (in _Journal of hell. studies_, 15 (1895), pp. 243 sgg.). [144] FRANCOTTE, op. cit., I, 319: «Il montre que la force de production de l’esclave n’est pas en dessous de celle de l’homme libre....». [145] OLMSTED, op. cit., pp. 514-15. [146] J. BELOCH, op. cit., 504-5. Cfr. BÜCHSENSCHÜTZ, _Besitz und Erwerb_, pp. 207-8; e ROSCHER, op. cit., 40. [147] ARIST., _Polit._, 2, 3, 6-7; 4, 3; 7, 4; 7, 14, 6; 10; PLAT., _Leges_, 8, p. 836 b; XEN., _Lacaed. Resp._, 2, 12-13; HERACL. PONT., fr. 3, 6, in F. H. G., II, 211-12, ed. MÜLLER. Cfr. MALTHUS, _Saggio sulla teoria della popolazione_ (tr. it., in _Biblioteca dell’Economista_, Serie 2ª, voll. XI-XII, pp. 103 sgg.). [148] POL., 37, 4, 4 sgg. [149] Cfr. J. BELOCH, _Bevölkerung_, p. 506. [150] DIOD., 18, 18, 4. [151] I lotti del suolo coloniale venivano in genere riservati ai poveri. (Cfr. I. G., I, 31 B., ll. 9-11). [152] Cfr. THUC., 6, 24, 3; Diod., 13, 2, 3. [153] ISOCH., _Philipp._, 120 sgg. [154] Cfr. A. SMITH, op. cit., 471-72. [155] _Polybe ou la Grèce conquise_ (in _Questions historiques_, pp. 125 sgg.). [156] Sulla beneficenza, privata e pubblica, in _Grecia_, cfr. MAURI, op. cit., 60 sgg.; GUIRAUD, _La main d’oeuvre_, pp. 193-95; ROSCHER, op. cit., pp. 26 sgg. [157] Cfr. LYSIAS, XXX (_In Nicomach._), 22; POL., 7, 10, I; 15, 21, 1-4; XEN., _Ath. Resp._, I, 13, 14; _Convivium_, 4, 29 sgg.; ARIST., _Polit._, 5, 4 (5), 3; THUC., 8, 21, 1; PLUT., _Qu. gr._, 18. Circa le contese fra ricchi e poveri in Grecia, cfr. GUIRAUD, _La propriété fonç._, pp. 600-602; 608; FUSTEL DE COULANGES, _Cité antique_, Paris, 1870, pp. 406 sgg. e _Questions hist._, pp. 123 sgg.; PÖHLMANN, _Gesch. d. antiken Kommunismus und Socialismus_, München, 1912, (2ª ed.), cap. II, §§ V-VI; G. PLATON, _La démocratie et le droit fiscal dans l’antiquité_, Paris, 1897, pp. 15 sgg. (estr. dal _Devenir social_). [158] ARIST., Polit, 4, 9, 4. [159] «Il rapporto di _ricchi e poveri_ è tipico dell’antichità; quello di _proletarii e capitalisti_ è proprio del nostro tempo. Lo notò già Rodbertus e poi anche Marx, che in qualche punto fece rimprovero nientemeno che a Teodoro Mommsen di essere incorso in questo equivoco» (E. CICCOTTI, _Athene, repubblica di proletari?_, in _Nuova Rivista storica_, 1920, p. 515). [160] MASON, cit. in MONDAINI, op. cit., pp. 111-12. [161] ARISTOT., _Rhetor._, 2, 16 sgg. [162] DEMOST. XXIV (_In Timocr._), 163; XXIII (_In Androt._), 51 sgg. [163] L’autore dell’opuscolo pseudo-senofonteo qualifica i poveri come abietta canaglia (1, 4; 2, 19), e _canaglia_ definisce tutti i simpatizzanti pei regimi democratici. «Coloro che, non venendo dal popolo, preferiscono di abitare in una città a regime di popolo, meditano senza dubbio tristi propositi e sperano di potersi meglio nascondere» (2, 20). «Gli è a motivo di ciò che da per tutto _ogni tristo_ si accorda mirabilmente col proprio simile nell’amore del popolo» (3, 10). Lo stesso scrittore è scandolezzato del mite trattamento degli schiavi in Atene (1, 10); e, nell’atto stesso che si sforza di identificare i suoi amici politici col fior fiore della gente dabbene (1, 1; 1, 4; 2, 19; 3, 10), ne celebra la squisita gentilezza con esempi (3, 11), che ci si offrono come la più chiara smentita della tesi in precedenza dichiarata. Lo stesso è a dire del più antico poeta TEOGNIDE (cfr. G. FRACCAROLI, _I Lirici greci_, Torino, 1910, I, pp. 182 sgg., 187 e frammenti ivi richiamati). [164] Cfr. HEROD., 2, 167. [165] XEN., _Memorab._, 1, 2, 56 sgg.: «Diceva inoltre l’accusatore [di Socrate] che questi insegnava ai suoi amici a essere facinorosi e tirannici. Ad esempio, il verso di Esiodo: Nessun lavoro è vergognoso, ma soltanto l’ozio egli lo interpretava come se il poeta avesse inculcato di non astenersi da alcun lavoro, fosse pure indegno, turpe; ma che occorresse sottostarvi per campare la vita....»; cfr. 2, 7, 7 sgg. [166] ARIST., _Polit._, 5, 7, 19. La insolenza dei componenti le classi superiori, vuoi in regimi oligarchici, vuoi in regimi democratici, anche da parte di uomini che tenevano a passare per popolari, è notoria, e di essi rimangono esempi significativi Crizia, Midia, Alcibiade; cfr. DEMOST., XXI (_In Mid._), 143 segg. _e passim_; ANDOC., _In Alc._, 17; ATHEN., 9, 72, p. 407 b-c; XEN., _Memor._, 1, 2, 12; ARIST., _Polit._, 5, 6, 4: «I ricchi, appena la costituzione assicura loro la superiorità politica, non pensano che a soddisfare il proprio orgoglio e la propria ambizione....». [167] _Polit._, 2, 4, 1. [168] Cfr. E. DE LAVELEYE, _De la propriété et de ses formes primitives_, Paris, 1891, pp. 391-92; cfr. FUSTEL DE COULANGES, Cité antique, pp. 407 e 408. [169] ARIST., _Polit._, 4, 9, 4 sgg. [170] Op. cit., 4, 9 (11), 9; cfr. 5, 3, 7; 6 (7), 2. [171] WALLON, _Hist. de l’esclavage_, Paris, 1879, I, 408. Cfr. XEN., _Lacaed. Resp._, 2, 1. [172] WALLON, op. cit., I, 443, 438; cfr. Arist., _Polit._, 7, 15, 6. [173] ROSCHER, op. cit., p. 40. [174] WALLON, op. cit., I, 439 sgg. [175] CICCOTTI, _Il tramonto della schiavitù etc._, 180; cfr. ROSCHER, op. cit., 41-42. CAPITOLO SECONDO LE SOCIETÀ AGRICOLE E LA SERVITÙ IN GRECIA Origini della servitù della gleba. Non tutta l’economia greca era — l’avvertimmo — posta in movimento da schiavi; nè gli schiavi ed i liberi esaurivano tutta la serie di forze di lavoro, di cui quel mondo, così vario e interessante, si giovò ai fini della propria esistenza. In talune contrade, anzichè adoperare dei singoli schiavi, o gruppi di schiavi, che la guerra e il commercio venivano man mano fornendo, erano state assoggettate intere popolazioni, le si erano fatte discendere a un livello inferiore ai liberi, fosse pure più elevato di quello degli schiavi, e si era imposto loro, sotto certe condizioni, a vantaggio dei nuovi signori, l’obbligo di coltivare la terra, da cui mai avrebbero potuto liberarsi. Tal’altra volta intere categorie di liberi lavoratori della campagna, schiacciati dai debiti, erano stati tramutati in ischiavi, forzatamente addetti a dissodare la terra per conto dei loro creditori. Certe volte questo doloroso passaggio era stato volontariamente invocato, quasi a protezione degli affanni crescenti, dagli stessi piccoli proprietari, oberati dai debiti e dalle preoccupazioni, i quali avevano venduto o ceduto il loro campo a un grande proprietario, con la sola riserva di potervi restare a coltivarlo, di padre in figlio, per generazioni e generazioni. Altre volte, infine, erano stati gli stessi grandi proprietari, gli antichi possessori di schiavi, che, decaduti, impoveriti e ridotti allo stremo di ogni risorsa, avevano allentato la rugginosa catena dei loro soggetti, e ne avevano fatto alcun che tra il libero e lo schiavo: un lavoratore della campagna, che coltivasse la terra per proprio conto, ma che rimanesse legato da insuperabili vincoli — morali, politici, economici — alla potestà quiritaria dell’antico signore. Così, per tutte queste vie, e forse anche per altre, a noi ignote, era stata creata, molti secoli innanzi l’êra volgare, quella forma economica, che il Medio Evo diffuse da per tutto, e che oggi conosciamo sotto il nome, odioso e odiato, di servitù della gleba[176]. La Laconia e la Messenia ne furono in Grecia i Paesi classici e caratteristici. Servi della gleba, erano appunto gli Iloti, il cui nome è passato attraverso la storia come sinonimo d’ogni umiliazione e d’ogni miseria. In Messenia e in Laconia, come sulle terre dell’Europa medioevale, il suolo era distribuito tra desolate famiglie di servi, sparsi per la squallida campagna e costretti a faticare, dolenti, pei lontani signori, dediti al non meno duro mestiere delle armi e della politica[177]. Anche la servitù della gleba, dunque, mirava, in Grecia, come dappertutto, a rendere possibile quella distinzione di classi sociali — agricola e militare — la cui esigenza stava in fondo alla più diffusa ordinaria schiavitù. E, pur troppo, come ci accingiamo a vedere, la forma stessa di questa speciale economia dovea portare, nei Paesi, in cui essa si radicò, conseguenze assai più tragiche che non la schiavitù vera e propria. La servitù nella Grecia antica. Di servi della gleba, nel periodo classico, ne esistettero anche altrove, fuori della Laconia e della Messenia. Ne esistevano in Tessaglia col nome di _penesti_, ove essi, al pari degli Iloti spartani, legati in perpetuo a determinati lotti di terreno, lavoravano al servizio dei proprietari aborriti[178]. Ne esistevano nella Locride[179], intorno a Eraclea Pontica — i così detti _mariandini_[180] —, nell’Attica antica[181], in Creta col vario nome di _afamioti_, _claroti_, _oicheis_[182], nell’Argolide fino al IV secolo a. C.[183], in Sicionia[184], e se ne sono sospettati in Corinzia, in Focide, ad Apollonia, in Acaia, a Chio, nel territorio di Naupacto, di Eraclea Trachinia, di Siracusa ed anche altrove[185], sebbene assai incerte risultino le notizie particolari, che ce ne sono pervenute. Or bene, in quale condizione vivevano, con quale successo riuscivano a provvedere alla loro sussistenza, i Paesi agricoli ellenici, dove imperò la servitù della gleba? La servitù della gleba è, nelle sue apparenze esterne, una ingenua forma di piccola proprietà terriera. Senza dubbio, il regime della piccola proprietà fu sempre, e rimane ancor oggi, un regime assai vantaggioso, anche quando non si tratti di proprietà diretta e inappellabile. Riferendosi al mondo antico, Columella scriveva che la terra profitta di più nelle mani di un libero fittavolo, anzichè in quelle di un _vilicus_, ossia, del capo di una ciurma di schiavi rurali. L’uno può non approntare scrupolosamente il fitto: l’altro coltiva sempre male la terra, travolgendola in un disastroso esaurimento. «Felice quel suolo — egli aggiungeva — che i fittavoli si trasmettono di padre in figlio e nel quale essi sono nati e perciò considerano come cosa propria!»[186]. Non diversamente avviene nel mondo contemporaneo. Due sono oggi le forme più notevoli di proprietà indiretta della terra: il fitto e la mezzadria. Il primo è il sistema in vigore nelle contrade più ricche e materialmente più evolute d’Europa. Per esso il fittavolo è libero di scegliere la coltura, che, a superficie eguale, dona un prodotto più abbondante. Nulla l’ostacola nelle varie intraprese, e i benefici ricavati tornano, quasi interamente, a suo utile, per cui, se la durata dei fitti è grande, o il fitto è magari ereditario, i tre inconvenienti più volte rilevati di questo sistema — l’assenza del supremo interessato, il proprietario, il rifuggire dei fittavoli da quei miglioramenti che non dànno frutto a breve scadenza, la negligenza o il rapido esaurimento delle terre — non solo vengono interamente eliminati, ma sono più che liberalmente compensati dai vantaggi, che qui non è però il luogo di enumerare[187]. Ma, pur troppo, la piccola proprietà, nell’antica Laconia, e, in genere, nei Paesi ellenici, che subirono un regime analogo, rispondeva, anzi che al sistema del fitto, ad una delle forme peggiori tra le molteplici della mezzadria. Gli antichi servi della gleba non lavoravano il suolo per proprio conto, fornendo al lontano e distratto signore un reddito fisso in natura o in danaro. Essi erano obbligati a versare nelle sue mani una quantità di prodotti proporzionale al raccolto annuo. Gl’Iloti della Messenia, versavano la metà del ricavato del suolo[188]. Gli antichi _ectemoroi_ dell’Attica presolonica erano tenuti al versamento, non sappiamo, se dei 5/6 o di 1/6 del raccolto[189]. I Mariandini di Eraclea Pontica erano tenuti — ci si dice — a fornire ai dominatori tutto quello che il bisogno o il capriccio o la tirannia di costoro avesse richiesto[190]. Nè diversamente poteva accadere nella maggior parte degli altri Paesi, che adottarono la servitù della gleba. Il versamento in natura, proporzionale al prodotto del suolo, era il sistema più adatto per coloni poveri, privi di capitali[191], e sembrava anche coincidere col massimo interesse del proprietario del suolo, sempre naturalmente riluttante a lasciare ai suoi servi un margine troppo ampio di ipotetici guadagni. Così suole seguire in seno alle economie più arretrate del mondo contemporaneo, così seguì nell’economia agricola del tardo Impero romano e del Medio Evo, nella quale i rapporti tra signori, coloni e servi della gleba si fondarono specialmente su prestazioni in natura, proporzionali al prodotto del suolo, o su prestazioni di lavoro[192]. Or bene, gli è precisamente questa forma — in apparenza benevola — di contratto fra signori e servi quella che ha sempre costituito il primo grave, imbarazzante motivo di stazionarietà e di decadenza in seno ai regimi agricoli, che poggiano sulla servitù della gleba, e, in conseguenza, presso i popoli ellenici che li adottarono. Ciò che segna il progresso della ricchezza agricola non è il raccolto totale, ma la _rendita_ netta, che si ricava dalla terra. La terra è il capitale che l’industria umana fa valere, e quanto maggiore è l’utile netto che essa, a superficie eguale, rende al coltivatore, tanto più l’agricoltura è socialmente proficua, maggiore è la ricchezza che crea nell’interesse generale. Ora la colonia parziaria o mezzadria, ossia quel sistema di rapporti economici fra proprietario e coltivatore, per cui questi versa al primo una parte proporzionale al prodotto, che egli ricava dal suolo, ha per effetto d’impedire ch’egli preferisca quelle colture, le quali, in ragione dello spazio che occupano, lasciano una più alta percentuale di rendita netta. Il mezzadro infatti paga in natura, e in una certa proporzione con l’intero suo raccolto. Egli quindi è tratto a preferire le culture che reclamano il minore anticipo di spese, nè può badare specialmente all’altezza del ricavato netto del fondo, perchè questo non andrà a benefizio proprio, ma, in parte eguale, a benefizio altrui. «Supponendo», scrive un economista[193], «che un campo seminato a segala, esiga per ettaro 45 franchi di spesa perchè ne renda 120, e che lo stesso ettaro, coltivato a frumento, ne esiga 120 per renderne 250, un fittavolo non esiterà a scegliere la cultura del grano. Egli calcola infatti in moneta sonante, e una coltura, che gli renderà netti 130 franchi, varrà per lui assai più di un’altra, che a superficie eguale gliene rende solo 80. Ma un mezzadro è costretto a calcolare in maniera affatto diversa. L’ettaro di segala gli rende 120 franchi su 45 di spesa, e, poichè egli ha diritto alla sola metà della raccolta, sono 15 franchi che riscuote di guadagno. L’ettaro di grano invece non gli lascerà per la sua parte che 5 franchi di beneficio, ed egli non esiterà quindi a optare per la segala....». Così, mentre il fittavolo attinge i maggiori profitti dall’accrescimento della produzione, il mezzadro è costretto a ricercarli dal miope risparmio dei capitali da investire nella terra, e che egli preferisce lasciare inoperosi piuttosto che dividerne i frutti col padrone. Ma qual’è la portata pratica dell’onere imposto dal proprietario al mezzadro e, nel caso nostro, al servo della gleba? «Se la _decima_», scriveva Adamo Smith, il principe degli economisti moderni; «se la decima, che pur non è se non la decima parte del prodotto, è considerata come un gravissimo ostacolo al miglioramento della cultura, una imposta, pari al 50% del prodotto, deve costituirne un limite invalicabile»[194]. Figurarsi quindi ciò che doveva accadere nella sterile Grecia antica, là dove i beneficî dei proprietari salivano a percentuali, in genere vicine a questa, o forse più elevate. Siffatte condizioni, si ripercotevano sull’intera vita economica del Paese, decadente o per lo meno stazionario in economia, ma di una stazionarietà, che precipita inesorabilmente a miseria ad ogni alitare di concorrenza forestiera. E v’era qualcosa di peggio, che non dev’essere dimenticato, come non ha trascurato di rilevarla uno dei più noti, ma eziandio uno dei più acuti sostenitori della mezzadria. Nei Paesi che adattano questo regime, «la massa della popolazione — i coloni del pari che i proprietari — trovansi provveduti di derrate. Ed ecco ciò che segue. Nelle buone annate, i mercati sono ingombri di tutto il superfluo; nelle cattive, mancanti del necessario. Invece, nei Paesi in cui predomina il fitto, i fittavoli vendono ogni anno tutti i prodotti della terra eccedenti il loro uso domestico; quindi i mercati sono sempre ben provvisti. E poichè d’altro lato essi sono i soli che non comperino (tutte le altre classi, anche i proprietari, si provvedono sul mercato), nei Paesi, in cui il fitto predomina, si ha una somma maggiore di offerte e di domande. Ne segue, che nelle cattive annate le derrate aumentano più rapidamente di prezzo, e, in proporzione assai più grande, nei Paesi a mezzadria che in quelli a fitto e, viceversa, nelle buone, i prezzi ribassano di più e più rapidamente nei primi che nei secondi»[195]. Così le oscillazioni dell’abbondanza e della penuria sono più profonde e frequenti nei Paesi a mezzadria che in quelli a fitto.... Figlia naturale della povertà, la mezzadria diviene dunque, di regola, poco a poco, una delle cause determinanti della medesima[196]. Genio del malaugurio, essa ricorre e prepondera sulle altre forme di contratto al ricorrere di ogni crisi economica, e di essa consolida gli effetti e prolunga la durata, mentre sparisce o si attenua col diffondersi della ricchezza e del progresso agricolo[197]. La condizione giuridica e morale dei servi della gleba e sue conseguenze. Tutti questi effetti economici, è bene ripeterlo, venivano egualmente a pesare sulla antica servitù della gleba, o, per certo, su quella sua forma specifica, che esistette in Laconia e in Messenia e in tutti i Paesi greci con somigliante regime economico. Ma con un gravame di non piccolo rilievo. Il servo della gleba non era libero. Egli, in primo luogo, soggiaceva al divieto assoluto di disporre della terra che coltivava col modo che avesse creduto migliore. Ora, un possesso indiretto, coatto, inalienabile e indivisibile, si può, nelle sue conseguenze, paragonare all’incirca al gravame di un capitale intangibile e inalienabile, che si fosse stati costretti a mutuare ad interesse. Tale regime obbligava il possessore alla coltivazione del suolo, anche quando il passivo superava l’attivo; gli chiudeva ogni mite fonte di credito, pur forzandolo, volesse o non volesse, a proporzionare la spesa alle esigenze della proprietà; impediva che la terra passasse a lavoratori più capaci di accrescerne il prodotto; vietava, infine, ai più fortunati il soddisfacimento dei loro bisogni, dei loro desideri, delle loro ambizioni. Ma, come se ciò non bastasse, quel tanto di terreno, che nell’assegnazione toccava a ciascuno dei servi della gleba, non poteva non essere piccolissimo. Se l’originario podere degli Spartani in Laconia si aggirava, come è stato calcolato, intorno agli 8-9 ha. per famiglia[198], minore dovette essere l’estensione della nuova porzione di terra, che a ciascun d’essi toccò dopo la conquista della Messenia[199], ch’era però indubbiamente più fertile della Laconia. Ciò dovette sentire lo stesso re Agide, il quale tuttavia, nei suoi propositi arcaicizzanti di restaurazione, voleva tornare a Licurgo e all’antica morigeratezza dei costumi, allorchè, a mezzo il IV secolo, in una nuova ripartizione, sebbene la popolazione libera spartana fosse scemata della metà, credette opportuno estendere e di parecchio l’àmbito del suolo propriamente spartano, la così detta πολιτικὴ χώρα[200]. Ma, pur troppo, la πολιτικὴ χώρα della Laconia e della Messenia non doveva servire soltanto per le poche migliaia di dominatori, ma per i 200.000 o 300.000 Iloti, che la coltivavano. Si trattava quindi di coloni, per vizio d’origine, tisici, condannati insieme con le loro famiglie alla stessa sorte miseranda dei coloni dell’Impero romano, o dei mezzadri dell’Irlanda o dell’Italia meridionale contemporanee. Ma (vedi singolare contraddizione!), mentre i Greci primitivi avevano adottato la servitù in vista della sicurezza che, in ogni caso, durante le loro imprese militari, ne avrebbero ritratto per la propria esistenza materiale, essi vennero via via col tempo, tratti dalle nuove necessità della guerra, ad adoperare a tale uso anche i propri servi della gleba. Così fecero certamente gli Spartani[201], così i Tessali[202], così gli Eracleesi[203]. Or bene, tale innovazione dovette aggravare, e di parecchio, la situazione materiale degli Iloti e delle terre ad essi affidate. Dovette ripetere per la Grecia tutto quanto, nello stesso tempo, accadeva nel Lazio romano, ove del pari, per le identiche ragioni, si elaborava la rovina dell’agricoltura e della piccola proprietà. Al termine d’ogni guerra, i disgraziati coloni trovavano i campi mal coltivati, i tributi arretrati, l’azienda domestica in rovina, i possessi, recanti le tracce dei saccheggi e delle devastazioni nemiche. Ma quali non erano le altre condizioni morali e politiche, di questi coatti difensori dei loro tiranni! Con i servi della Grecia antica noi ci troviamo di fronte a individui, i quali meritarono in ogni tempo la suprema pietà degli uomini, espressa da un antico nella sentenza, che definiva gli Iloti di Sparta «i più schiavi fra gli schiavi», ed i loro padroni, «i più liberi fra i liberi»[204]. Gli Spartani esercitavano sull’Ilota ogni sorta di sevizie, la cui gamma andava dai lavori faticosi ai trattamenti vili e disonoranti. Ogni anno, senza che egli si fosse reso colpevole, gli somministravano un determinato numero di battiture, unicamente perchè non obliasse la propria condizione servile[205]. Anzi, mentre in Tessaglia i servi della gleba avevano ottenuto, in cambio della servitù, la garanzia perenne della vita[206], a Sparta era lecito uccidere impunemente gli Iloti[207]. Forse, anzi, dietro le incruenti battiture, di cui ci discorreranno gli antichi, si nascondeva una singolare tragedia di ferocia e di sangue. A Sparta, ogni anno, gli efori, che entravano in carica, si compiacevano di gareggiare coi loro predecessori nei metodi e nell’astuzia di una caccia spietata, di una Saint-Barthélmy dorica, nella quale gl’Iloti, che avessero palesata una robustezza non conveniente al loro rango, venivano, con ispeciale attenzione, sacrati all’assassinio![208]. Questa tremenda condizione dell’Ilota spartano è in ragione diretta della sua triste condizione economica. Non sarebbe, anzi, spiegabile senza di questa. Ma già a tanta distanza di luogo e di tempo, con informazioni fuggevoli da parte delle fonti, riesce impossibile formarsi un’idea esatta delle condizioni reali dei servi della gleba nell’antichità greca. Meglio c’illumina il confronto con situazioni più recenti ed analoghe, e noi troviamo che in Russia, ove la servitù si consolidò molto tardi, e in seguito a numerosi contrasti, non dissimile ne era, nel secolo XVII, la condizione. «Nessuno», scrive lo storico, forse più autorevole della Russia moderna, il Milioukov, «nessuno poteva intervenire nelle relazioni tra il signore ed il servo, neanche il potere centrale. La servitù della gleba presentava allora tutti gli attributi di un potere illimitato dell’uomo sull’uomo. Il _pomiestchik_ (il signore) poteva strappare il servo dal suo boccone di terra e deportarlo altrove, separando magari l’uno dall’altro i membri di una stessa famiglia. Cominciò allora la vendita diretta di quel materiale umano. Già fin dal secolo XVI il _pomiestchik_ esercitava su di esso i pieni poteri giudiziari; nel secolo XVII il suo maniero si era arricchito di una prigione, di catene, di manette, e l’arsenale delle sue prove giudiziarie, delle più raffinate torture moscovite.... Il codice ordinava ai signori, è vero, di non uccidere, di non storpiare, di non far morire di fame i loro soggetti, ma si trattava di prescrizioni destituite di ogni sanzione pratica, giacchè il _pomiestchik_, violandole, non incorreva in responsabilità alcuna....»[209]. «Nessuna legge», scrive analogamente il Fustel de Coulanges, a proposito della più mite servitù della gleba nella Francia medievale, «nessuna legge determinava i doveri del servo, nessuna consuetudine li aveva fissati. Le condizioni dipendevano dalla volontà del padrone; di contratto non era a discorrere; nessun contratto era possibile fra il padrone e lo schiavo....»[210]. In maniera identica i procedimenti giudiziari a carico dell’Ilota erano sommarî e proditorî[211]. Egli era fuori di qualsiasi guarentigia giuridica, e solo un disutile, convenzionale giuramento salvaguardava il patto originario circa il quantitativo dei prodotti da versare al padrone. Nulla che gli appartenesse era sacro; e il servo, che nessun diritto possedeva di trasferirsi altrove e d’investire in altre terre, con maggiore convenienza, i propri capitali, applicandovi con interessamento la sua intelligenza e la sua attività, poteva da un giorno all’altro essere strappato dal suolo, che aveva fecondato col proprio sudore, essere applicato altrove, ed aveva sempre a temere che, alla propria morte, il boccone di terra, che egli si era illuso di considerare come proprio, tornasse, anzichè ai suoi figli, al supremo proprietario del suolo[212], o ad altri, forse, che più del supremo proprietario egli avrebbe avuto ragione di aborrire. A Creta, ad esempio — suprema irrisione — al servo della gleba non era espressamente vietato di associarsi in connubio con una donna libera. Ma non era detto che la sua eredità dovesse andare ai propri eredi; essa poteva andare ai figliuoli, che la moglie avrebbe potuto avere da un altro uomo di condizione libera....[213]. Per tutto questo l’Ilota spartano fu il tipo di schiavo, che con maggiore tenacia restasse nemico, implacabile e ribelle, dei suoi dominatori: che il _penesta_ tessalo, una delle varietà dei servi della gleba trattate meno peggio, non venisse mai meno al suo spirito d’insubordinazione, nè mai desistesse dalle frequenti rivolte[214], e che i _Calliciri_ di Siracusa, probabili servi della gleba anch’essi, in una insurrezione generale, dimostrassero la natura dei propri sentimenti, spogliando di tutti i beni e bandendo dalla patria gli antichi padroni[215]. Che serenità di spirito, che cura della terra, che progressi agricoli si potevano aspettare da gente, non mai sicura nè del domani, nè della propria esistenza materiale, e per la quale un lavoro scoraggiante, disperato, spegnendone lo spirito d’intrapresa, disanimandone le iniziative, doveva sospingere verso l’inerzia, la noncuranza, il cieco fatalismo?[216]. Gli antichi agronomi romani e i grandi signori feudali francesi rilevavano che i servi della gleba, «non lavoravano» e «trascuravano i poderi»[217]. I politici più avveduti della Russia del secolo XIX ripetevano, quasi con le stesse parole, ciò che era stato detto del lavoro degli antichi schiavi: «l’esperienza dimostra che i liberi salariati rendono un guadagno _assai maggiore_ di quello che il feudatario, il _pomietschik_, non ritragga dai propri servi....»[218]. E come in Francia sino alla Rivoluzione, così in Russia fino al secolo XIX, conseguenza del lungo regime servile, fu il preponderare della cultura più superficiale, il fornire ogni lavoro coi sistemi più rozzi, senza periodicità di seminagioni, senza l’uso di concimi chimici o di rotazioni, senza riposi del suolo, senza macchinario, senza irrigazione, senza impiego di capitali. Così, mentre il territorio della zona così detta sterile si allargava spaventosamente, e il deserto seguiva passo passo le orme dei coloni, si rimaneva paghi a sfruttare il suolo fino all’esaurimento, fino a che esso più non avrebbe fornito se non erbacce cattive e pessimi raccolti, fino a che non fosse stato più in grado di porgere una sola briciola di pane, di promettere un raggio solo di speranza[219]. Così in Francia, così in Russia, così nelle colonie americane la servitù della gleba determinava l’immobilità, il regresso, talora la catastrofe economica[220], e, di conseguenza, le più note e più tremende ripercussioni, morali e politiche. Tuttavia, se in questi Paesi un tale stato di cose trovava eco e voce umana nelle querele e nelle polemiche del giorno per giorno, il laconismo spartano e l’ombra che grava su tanta parte della storia antica non hanno consentito che sì numerose sciagure fossero ai nostri occhi rappresentate da altro se non dal muto, spaventoso, crescente disastro della proprietà fondiaria. Ma quanta eloquenza rechi nel proprio seno questa illustrazione, di che danni fosse segno, di che implacabile Nemesi storica essa si erigesse a ministra, noi possiamo ancora vedere. I proprietari del suolo. Anche sui supremi proprietari, sugli incontrollati padroni del suolo, incombeva il gravame della inalienabilità e della indivisibilità del possesso, con tutte le conseguenze, impaccianti e dolorose, che abbiamo visto discendere sul capo di ciascuno dei loro coloni[221]. Anch’essi erano forzati a coltivare i propri campi, anche quando più non tornava loro conto. Anche ad essi, nulla avendo da offrire in garanzia, era preclusa ogni legale fonte di credito; anche ai più valenti, o ai più fortunati tra loro, era impedita la via del soddisfacimento dei più elementari bisogni, delle più sospirate ambizioni, dei più legittimi e umani desiderî, e per lunghi secoli essi dovettero lottare e penare innanzi di conseguire l’abolizione del tremendo divieto[222]. Se però il servo della gleba poteva vivere in campagna e curare direttamente la terra che fruttava a lui lacrime a sangue, ma anche il sostentamento, il suo signore, per cui ogni genere di fatica materiale era una colpa, non poteva accudirvi direttamente, non tentar di accrescerne la produzione, non sorvegliarne i lavori, non soggiornare lungi dalla città. «Sotto questo riguardo», osserva un grande economista moderno, «il regime del lavoro agricolo a schiavi, considerando la cosa dal punto di vista puramente economico, era ben più vantaggioso del regime della servitù della gleba»[223]. I signori in Grecia dovevano, dunque, vivere nella capitale e nelle città capoluogo della contrada; ma qui, come in tutti i grandi centri, la vita non era davvero a buon mercato. A Sparta per giunta (e il costume non fu soltanto spartano)[224] i cittadini facevano un pasto in comune, contribuendovi annualmente con un minimo di derrate e di danaro[225]. Tale la spesa per le mense comuni. Bisognava inoltre provvedersi di abiti, provvedere al vitto e alle vestimenta della propria famiglia, alla casa, al suo arredamento, pagare le imposte, fornirsi di armi di offesa, e di difesa (queste ultime in genere costosissime), versare il contributo necessario alle feste, alle processioni, ai cori, alle rappresentazioni teatrali[226]. Se i figli erano numerosi, tanto peggio: l’esiguo reddito doveva ripartirsi sur un maggior numero di teste, e, alla morte del padre, parecchie famiglie erano costrette a ritrovare il proprio sostentamento in ciò ch’era riuscito insufficiente a sostentarne una sola. E mentre degli eventuali progressi dell’agricoltura usufruivano proprietario e colono, spettava al primo soltanto subire le conseguenze del progresso materiale della civiltà e del moltiplicarsi delle sue raffinatezze e dei suoi bisogni. Aggiungi a tutto ciò l’incertezza della rendita annua, che induceva il proprietario sulla china della imprevidenza o della prodigalità. Aggiungi la fatale decadenza del terreno. Un bel giorno l’antico, orgoglioso cittadino spartano non si trovava più in condizione di versare il contributo quotidiano alla mensa pubblica, e ciò bastava perchè egli perdesse i diritti politici nella sua città[227]. Nè, dando di piglio a mezzi estremi per iscongiurare una tanta iattura, ad altro riusciva che a dilazionare, spesso a renderne più ruinosa la catastrofe. Il proprietario infatti, cui era vietato alienare il proprio boccone di terra, poteva contrarre debiti, o, meglio, giacchè il prestito, come qualsiasi traffico del denaro, era legalmente proibito, poteva ricorrere allo strozzinaggio di clandestini usurai. Naturalmente, ottanta volte su cento, l’avvenire non gli avrebbe concesso di riscattare la propria terra o la propria persona, o, magari, quella dei figli, cose tutte ipotecate quale garanzia del saldo del debito e dei suoi favolosi interessi[228]. Onde il sequestro dei suoi beni, come la perdita della libertà personale e di quella dei suoi cari sarebbero tosto venuti a segnare, per altra via, la sua decadenza da cittadino e da proprietario[229]. Le condizioni, cui, in età più tarda, ebbero a pervenire i vari Paesi organizzati secondo il regime economico che abbiamo descritto, possono dirsi identiche a quelle, cui, innanzi il secolo VI, era già ridotta l’ampia distesa dell’Attica, che Solone così descriveva: «La terra era coperta d’ipoteche...; molti Ateniesi erano stati venduti...; taluni, esuli per dura necessità, vagando di contrada in contrada, avevano obliato la favella materna, altri subivano in patria una servitù umiliante, tremando dinanzi alla verga dei loro padroni....»[230]. Talvolta, come è stato osservato[231], tutto ciò poteva anche essere una finzione legale. Chi voleva sbarazzarsi del giogo della terra figurava di diventar debitore e di decadere da proprietario. Ma la conseguenza era sempre quella. Mentre una parte, anzi la maggiore, della cittadinanza veniva sospinta a gran passi verso il pauperismo, talora verso la schiavitù, pochi fortunati accentravano nelle proprie mani, di fatto, se non di diritto, i redditi del suolo, e si veniva per tal modo a costituire quell’enorme diseguaglianza delle fortune, che un grande filosofo antico definiva causa prima di tutti i mali degli Stati[232]. La grande crisi sociale. Altri motivi concomitanti acceleravano e aggravavano il doloroso fenomeno. Era, l’abbiamo accennato, norma costante del mondo ellenico che il diritto di proprietà rimanesse subordinato alla qualità di cittadino. Gli è logico quindi dedurre che la perdita della cittadinanza implicasse la menomazione dei diritti di proprietario. Or bene, era questo un caso, assai comune, in Grecia. Qualche condanna giudiziaria, che importava la così detta ἀτιμία; a Sparta, il celibato o la insubordinazione alla disciplina sociale, ogni cosa portava alla decadenza, in tutto o in parte, dai diritti di cittadinanza, e perciò all’altra, legale o effettiva, dai diritti di proprietà[233]. Anche a non voler ammettere una sì naturale conseguenza, il fatto stesso della perdita dei diritti politici recava l’incapacità giuridica a garantire efficacemente il proprio possesso. Coloro che discendevano in basso e venivano esclusi dai tribunali e dalle cariche, passavano naturalmente, come i poveri contadini (i _geomoroi_) dell’Attica del VI secolo, alla mercè di chi aveva in sua mano e gli uni e le altre. Ma un’assai più deleteria azione disgregatrice era quella che veniva esercitando il fenomeno della guerra, in seno alle società agricole a regime di servitù della gleba. Triste destino e tristi società! Esse erano condannate a mantenere, col loro sudore, una forte minoranza di liberi che non producevano ricchezza, e il cui orgoglio supremo era quello di arare con la lancia e di mietere con la spada! Compito, ben lo sentivano gli antichi, difficile e faticosissimo! Quali territorî, sconfinati e fecondi, quali pianure babilonesi, esclama Aristotele, non occorrerebbero ai cittadini della ideale Repubblica di Platone per mantenere i suoi 5000 guerrieri inoperosi, con le loro mogli e i loro schiavi![234]. Or bene, questo era il duro ufficio della grande massa della popolazione della Laconia, di Creta, della Tessaglia, e d’altrove. E poichè la terra a loro disposizione non era sufficiente, occorreva, con la spada alla mano, conquistarne delle nuove estensioni ancor vergini! Così l’esercizio della guerra generava la guerra! Ma questa guerra, che, in forza delle sue esigenze aveva suggerito agli antichi di riporre l’economia sociale sulle basi della servitù della gleba o della schiavitù; questa guerra, che aveva consigliato di umiliare al più basso livello di vita centinaia di migliaia di creature umane e di esaltare pochi eletti ai fastigi di un potere quasi sconfinato; la guerra — diciamo — finiva per volgersi, con le sue estreme conseguenze, contro coloro che aveva essa stessa liberati d’ogni vile cura e collocati alla cima della piramide sociale. Non solo coi carichi, che, nella buona e nella mala fortuna, veniva imponendo, essa operava in modo da ridurre progressivamente il numero dei proprietari agiati, e quindi dei cittadini forniti dei pieni diritti politici, ma per essa rivoli d’oro e d’argento penetravano nelle città vincitrici, sconvolgendo quelle condizioni, che un dì avevano reso socialmente utile la forma economica della servitù della gleba. L’esempio di Sparta è tristemente famoso. Ivi, già a mezzo il secolo V, abbiamo i segni del costituirsi di grandi ricchezze mobiliari. In questo tempo il re Plistonatte è condannato a una multa di ben 15 talenti; Agide I, si dice, possiede ben 500 talenti in moneta sonante. Le accuse di corruzione per danaro investono continuamente efori, generali, senatori. E del danaro gli stessi Spartani, che tanto si erano sforzati di allontanarlo dalle proprie case, si servono per corrompere gli Stati nemici, fin per violare la santità degli oracoli. Essere ricco è alto titolo di onore, come un tempo lo era stato essere povero[235]. La severa tavola spartana è ora contaminata da vini e cibi, svariati e abbondanti, da leccornie inusitate, dagli splendori di coppe preziose. Le case dei nuovi Lacedemoni sono sontuosamente addobbate; le loro persone e loro vesti, sibariticamente profumate. Taluni privati rivaleggiano in magnificenza e in raffinatezza coi re, li vincono, anzi, nella gara inaudita[236]. Fu soprattutto la guerra del Peloponneso, la grande guerra imperialistica, combattuta nella seconda metà del secolo V a. C., la guerra che per circa un quarto di secolo portò Sparta al dominio dell’intero mondo greco, a dischiudere tutte le porte all’invasione della ricchezza nelle case degli Spartani. E di essi, ai primi del quinto secolo, un grande Ateniese può asserire: «In Sparta c’è più oro e argento che in tutta la restante Grecia, giacchè per lungo ordine di generazioni l’uno e l’altro metallo vi affluiscono da Greci e da barbari, e non ne escono mai.... Cosicchè tu puoi ben dire che, quanto a possesso d’oro e d’argento, gli uomini di quella città sono i più ricchi di tutta la terra....»[237]. Ma, ahimè, i metalli preziosi, che man mano si accumulano nei forzieri dei vincitori, ad altro non servono che a dissolvere la vecchia economia nazionale e ad aprire nelle viscere di quella società, una crisi più vasta e profonda. Ben aveva avuto ragione l’antico oracolo di profetizzare che l’oro e l’argento avrebbero fatto la rovina degli Spartani. Quivi, come in tutti i Paesi agricoli poggianti sulla servitù della gleba, qui dove l’industria e il commercio non esistevano, o dovevano ascondersi, quasi vergognosi, perchè severamente banditi dalla parola della legge, i nuovi capitali non venivano adoperati o invocati che ad un unico scopo, ad un unico ufficio: il prestito[238], il che voleva dire, all’usura. Senonchè l’usura, a sua volta, dopo il primo ingannevole sollievo, faceva ricadere sugli infelici, bisognosi di tutto, il rigore del più spietato diritto creditorio, e quindi sacrificava, alla sempre crescente ricchezza di pochissimi, la morigerata agiatezza, che un tempo era stata l’orgoglio dei più. Ma il danaro intaccava ancor più profondamente questa società, e finiva con ismagliare, con infrangere la corazza bronzea, in cui essa, illudendosi, s’era voluta rinchiudere per l’eternità. L’irrompere del danaro, in seno a questi vecchi Paesi agricoli, vi determinava quegli stessi rivolgimenti che la restante Grecia avea già conosciuti e subiti nei secoli VII e VI a. C. Con l’avvento del danaro l’economia spartana cessa dal restare un’economia chiusa, ed entra in rapporto con tutta la restante produzione greca. Ora il piccolo proprietario non può più scambiare ciò di cui abbisogna, con i soli prodotti del suo campo. Fra le une e gli altri è entrato di mezzo il danaro, il quale fa sì che i prezzi delle merci abbiano un valore commerciale al di sopra dell’antico valore d’uso. Egli ha ora bisogno di danaro, oltre che di derrate agricole, per acquistare ciò che gli occorre. E poichè danaro non possiede, come, purtroppo, ne posseggono i suoi più ricchi concittadini, egli deve, anche a tale fine, procurarselo attraverso l’usura! «Ma anche pel grande proprietario», spiegò Edoardo Meyer, in un suo saggio magistrale, che abbiamo più volte richiamato, «la cosa non andava diversamente.... Anch’egli, se intendeva mantenere l’antica posizione sociale, abbisogna, e sempre più, di danaro. Ma ora il valore dei prodotti dell’agricoltura regredisce costantemente, sia perchè l’importazione deprime i prezzi, sia perchè le nuove vie di guadagno», aperte dall’industria e dal commercio, «dànno un profitto di gran lunga maggiore, e la vita diviene sempre più costosa»[239]. Così la grande aristocrazia fondiaria precipita man mano economicamente in basso; tal quale la grande aristocrazia fondiaria francese alla vigilia della Rivoluzione, sospinta con passo crescente verso l’abisso dai possessori della nuova ricchezza mobiliare, suscitata dalla guerra, la cui onnipotenza riesce a disfare i più saldi regimi oligarchici come quello spartano[240]. E fra i capitali disponibili che si creano e che non trovano impiego, se non per una sola via, la più ruinosa — quella del prestito ad usura —: fra gli eccitamenti e le seduzioni, che discendono dall’alto, e le sollecitazioni dell’indigenza lacrimosa, che salgono dal basso; in mezzo all’impotenza dei proprietari ad accrescere la produzione dei loro terreni, e dei proprietari e dei servi insieme, a riparare alle perdite, a saldare i debiti, a pagare i mostruosi interessi; in mezzo all’universale concorrenza dei prodotti delle contrade circostanti, si consuma quel processo d’impoverimento, quasi universale, a cui nessuno sfuggirà, Sparta ancor meno degli altri Paesi che le assomigliavano. Così anche nei regimi agricoli fondati sulla servitù della gleba, il latifondo assurge a forma principe di possesso agricolo. In Tessaglia, la grande proprietà finisce col dominare, arbitra delle sorti del Paese. Ivi molti possono con mezzi propri equipaggiare interi eserciti[241]. Ivi, dove l’opulenza degli Scopadi era proverbiale[242], si faceva menzione di gente che aveva più di 2 o 300 servi sulle proprie terre; ivi ben 6000 individui erano atti a mantenere il cavallo e a militare fra i cavalieri quanti neanche ne forniva tutta la Grecia centrale e meridionale. Ma il ceto medio era assai limitato, onde la Tessaglia, proporzionalmente alla sua superficie (circa 10.000 km^2), era povera di cittadini in condizione di servire nella fanteria pesante quali opliti[243]. Ivi stesso, nel secolo III (così come in Laconia), le agitazioni agrarie e le agitazioni per debiti si faranno violente e quotidiane[244]. Ma quel che accadde in Laconia e in Messenia supera di molto la nostra immaginazione. Più spiccatamente che le altre, l’economia spartana in perpetuo equilibrio instabile, minaccia, ad ogni momento, di rovesciarsi sul suo asse. Già, secondo la tradizione, Licurgo, nel secolo IX od VIII, era stato costretto a rinnovare l’originaria spartizione del suolo, seguita alla prima conquista della Laconia, perchè il Paese, che Sparta domina, conta già pochi ricchi e molti impoveriti. Ma, circa cento anni dopo, alla vigilia della grande conquista messenica, taluno degli Spartani torna a possedere pascoli assai più vasti che non molti altri dei suoi concittadini. Lo squilibrio si aggrava nei due secoli successivi[245]. Alla fine del V o ai primi del IV, Socrate può ben dire al suo discepolo Alcibiade: «Tu ti credi ricchissimo. Ma sei in grave errore. Se tu conoscessi le ricchezze degli Spartani, sapresti che le nostre sono assai piccola cosa al confronto di quelle di laggiù.... Gli Spartani posseggono grandi terre in Laconia e in Messenia, poi, inoltre, gran numero di schiavi, di Iloti, di cavalli, di greggi....»[246]. Ora tutta la valle dell’Eurota e tutta la ricca Messenia, che insieme formavano un territorio di circa 8000 km^2, sono divenute riserva di qualche decina di centinaia di proprietari, e moltissimi o hanno proprietà insignificanti o non posseggono più nulla[247]. Noi possiamo forse stabilirne la cifra. Ai primi del IV secolo, i 9000 Spartani dell’età di Licurgo (IX od VIII secolo)[248], forniti di proprietà terriera e di pieni diritti civili, sono ridotti a 1500[249] o, forse anche, a soli 1000[250], di cui ognuno in conseguenza avrebbe goduto di una proprietà estesa per ben 5 km^2: più che dieci volte lo scandaloso latifondo di Fenippo nell’Attica, che faceva strabiliare gli eliasti, ascoltanti l’infocata parola di Demostene. E allorchè la perdita della Messenia si è aggiunta ad aggravare la crisi economica che travaglia la società spartana, i cittadini lacedemoni, a detta di un antico[251], sono discesi, a mezzo il secolo III, ad appena 700, di cui solo 100 proprietari dell’avaro suolo spartano! Invano re Agide IV, tentando ripetere Licurgo, poteva, con una nuova spartizione delle terre, ricostituire 4500 proprietari[252]. Quindici anni dopo, il successore Cleomene, ripigliando l’opera interrotta, non potrà racimolarne che 4000[253]. V’è un certo momento in cui i rapporti di agiatezza fra proprietari e servi della gleba si invertono. Mentre la massa dei cittadini impoverisce, alcune _élites_ di Iloti, più fortunati dei loro compagni di dolore, salgono all’agiatezza. Nella seconda metà del III secolo, 6000 Iloti sono in grado di comperarsi col proprio denaro la libertà, versando ciascuno cinque _mine_ (L. 500)[254], ossia una somma che ormai più non riusciva a possedere la maggior parte degli antichi Spartani. Ma non si tratta soltanto di un processo di universale immiserimento. Con questo andava congiunto il fenomeno continuo della depopolazione. Nell’età di Aristotele, il numero degli Spartani rimaneva stazionario, e in quella terra, sacra alle più feroci ordinanze malthusiane, già si accordavano privilegi ai padri di tre o quattro figliuoli[255]. Sparta, esclama Aristotele, perisce per mancanza di uomini![256]. La popolazione superstite, senza terra, senza diritti, senza patria, s’accinge a un’opera di sedizione cronica all’interno, che, or repressa con la violenza, or placata con rimedi transitorî — condono di debiti, nuove ripartizioni del suolo[257] — farà della nazione una preda facile e desiderata dallo straniero. Tale è la storia di Sparta, la supposta, immobile Cina ellenica, la cui esistenza, secondo si esprime un antico, fu attraversata da discordie non meno gravi e numerose delle altre città greche; tale quella della Tessaglia, tale quella delle rimanenti regioni agricole, con cui esse ebbero comuni i regimi economici. Che cosa, in queste condizioni, poteva avvenire del benessere sociale, che cosa del desiderio di conservare le istituzioni, la integrità stessa della patria? «Il patriottismo», osserva uno dei più geniali e profondi storici francesi, «non è da confondere con l’attaccamento al suolo natio; non è, come questo, un sentimento istintivo, invincibile, imposto da natura a tutte le generazioni che abitano uno stesso territorio. Il patriottismo è un sentimento più libero, più vario, dipendente da un maggior numero di condizioni. Si ama la patria, cioè a dire, la propria città o la propria nazione, quando se ne amano le leggi, i governanti, i costumi. Si ama per la educazione ricevuta, per i buoni esempi riscontrati, per le virtù apprese. Si ama, infine, quando si è convinti di doverle il proprio benessere e di non saperne fare a meno»[258]. Là, dove ogni famiglia ha in abbondanza il necessario alla vita, là dove si gode di una certa agiatezza, non può regnare il desiderio della novità o quella specie di scoramento che fa dire alle classi sottostanti: — Checchè avvenga, non staremo mai così male come adesso! — Là, alla prima offesa, i cuori e le braccia si unirebbero per respingere l’aggressore. Ognuno sentirebbe il prezzo dei vantaggi di cui gode e il pericolo di perderli che deriverebbe da ogni cangiamento. In Grecia, per contro, si assistette allo spettacolo miserando di tutta una folla di afflitti, di vinti, di ruinati, struggentisi nell’attesa, per lunghi secoli insoddisfatta, di quel dominio straniero, che ai loro occhi rappresentava l’unico spiraglio di scampo e di salute![259]. NOTE AL CAPITOLO SECONDO. [176] Le sue origini in Grecia, anche se non ne siamo minutamente informati, furono quelle stesse del colonato e della servitù della gleba nell’Impero romano e negli Stati medioevali (cfr. FUSTEL DE COULANGES, _Hist. des instit. de l’ancienne France: l’invasion germanique, etc._, Paris, Hachette, 1891, Lib. I, cap. VIII, pp. 139-41; IDEM, _Recherches sur quelque probl. d’hist._, pp. 1 sgg.; G. SEGRÈ, _Sulla origine e sullo sviluppo storico del colonato romano_, in _Arch. giurid._ del SERAFINI, voll. 42, 43, 44, 45; SCHULTEN, _Colonus_, in E. DE RUGGIERO, _Dizion. epigrafico_, Roma, Pasqualucci; E. BEAUDOUIN, _Les grands domaines dans l’Empire romaine_, in _Nouv. revue hist. de droit français et étranger_, 1897, pp. 694 sgg.; 707 sgg.); J. TOUTAIN (ibid.), pp. 414-415. Per la Grecia propria, cfr. U. BEAUCHET, _Le droit privé de la Rép. athén._, Paris, 1897, II, p. 527. GUIRAUD, _Propriété foncière etc._, 124-25; 407 sgg.; H. GLOTZ, op. cit., 101-3. Per le analogie del colonato romano con la servitù greca, o per le relazioni dell’uno con l’altra, cfr. l’_Appendice_ in fine al presente libro: _Il tributo degli Iloti spartani_. [177] Sul divieto agli Spartani d’ogni occupazione estranea alla milizia, cfr. PLUT., _Lyc._, 24, 2-6; _Solon._, 22, 2; _Inst., lacon._, 41. Ma non era divieto esclusivo a questo popolo, bensì comune ad altre popolazioni greche. Cfr. per Tespia (in Beozia), HERACL. PONT., fr. 43 (in _F. H. G._, II, pp. 224, ed. Didot); per Creta, _Poëtae lyr. gr._, III^4, p. 651, 28, ed. BERGK. Vedi anche ARISTOT., _Polit._, 2, 4, 13; HEROD., 2, 167. [178] ATHEN., 6, 85, p. 264 _A-C_. [179] DARESTE; HAUSSOULIER; REINACH, _Recueil des inscr. jurid. grecques_, Paris, 1891, XI B. ll. 19-20. [180] ATHEN., 6, 89, p. 264 _D-E_; POLL., 3, 83; STRAB., 12, 3-4. [181] HESYCHIUS, _Hectemoroi_; ARIST., _Ath. Resp._, 2; DION. HAL., 2, 9. [182] ATHEN., 6, 84, p. 263 E-F; DARESTE, op. cit., XVII, §§ 26, 31 e _passim._ Cfr. E. CICCOTTI, _Le istituz. pubbliche cretesi_ (in _Studî e doc. di storia e diritto_ (1892), 13, pp. 136 sgg.); A. SEMENOFF, _Antiquitates iuris publici Cretensium_, Pietroburgo, 1893, pp. 101 sgg. [183] POLL., 3, 83. [184] ID., loc. cit. [185] WALLON, _Hist. de l’esclavage dans l’antiquité_, I, 129 sgg.; JANNET, _Les institutions sociales et le droit civil à Sparte_, Paris, 1893, p. 15; FUSTEL DE COULANGES, _Nouv. recherches sur quelques problèmes d’histoire_, Paris, 1891, pp. 47-51; GUIRAUD, _La propr. fonç. en Grèce_, pp. 408 sgg.; CH. LECRIVAIN, _Hélotes_, in DAREMBERG et SAGLIO, _Dictionnaire d’antiquités classiques_; DARESTE; HAUSSOULIER; REINACH, _Inscriptions juridiques etc._, Paris, 1892, II, XI, § 5 (p. 182). [186] _De re rustica_, 1, 7. [187] Cfr. DE LAVALEYE, _La Néerlandie_, Paris, 1865, pp. 129 sgg.; DE LAVERGNE, _Essai sur l’économie rurale de l’Angleterre, de l’Écosse et de l’Irlande_, Paris, 1863, pp. 126 sgg. [188] Cfr. l’_Appendice_ in fondo al presente libro. [189] Le informazioni degli antichi sono in proposito contradittorie (PLUT., _Sol._, 13; HESYCH., Ἑκτήμοροι; PLAT., _Eutiphr._, 4 C); ARISTOTELE, che poteva essere la nostra fonte più notevole, ci lascia in una completa incertezza (_Athen. Resp._, 2). I moderni hanno voluto colmare la lacuna o sforzando l’etimologia della parola, pur riuscendo a conclusioni contradittorie (chi ha interpretato la denominazione Ἑκτήμορος come riferibile a gente che versasse 1/6 del ricavato del suolo, e chi, a gente che ne trattenesse appunto la sesta parte), o arzigogolando intorno agli opposti elementi fornitici dagli antichi, o invocando l’aiuto di qualche analogia d’altri tempi. Anche per quest’ultima via era impossibile giungere a conclusioni sicure. Le analogie sono della più disparata natura. Basta, pel mondo antico, confrontare i patti, di cui ci informano la _Genesi_ (47, 19-24), le leggi imperiali sui latifondi africani (cfr. BEAUDOUIN, in _Nouv. Revue hist. de droit. français etc._, 1898, 65 sgg.), i dati dei papiri greco-egizi (cfr. E. COSTA, in _Bullett. Ist. diritto romano_, 1902 (1901), p. 55 e _passim_; IDEM, _Storia del diritto romano_, Torino, Bocca, 1911, pp. 392-393, n. 3), e, pel mondo moderno, scorrere una serie di esemplificazioni alquanto diffusa, ma tutt’altro che completa: quella, ad es., di G. ROSCHER, nella sua _Économie politique rurale_ (trad. fr.), Paris, Guillaumin, 1888, pp. 233 sgg. Per poter decidere occorrerebbe sapere se gli _Ectemoroi_ pagavano una quotaparte su tutta la raccolta, o la quotaparte di ciò che ne restava, dedotti i prodotti necessari al loro sostentamento, di che abbiamo esempi nel mondo moderno e in quello antico; occorrerebbe sapere che cosa di proprio (strumenti, sementi, ingrassi ecc.) essi mettessero nella coltivazione del suolo, ecc. A seconda di queste differentissime condizioni, muta naturalmente anche il valore da assegnare all’obbligo dei 5/6 o del 1/6, che gli _ectemoroi_ avrebbero dovuto fornire ai loro padroni. Sul disputato argomento cfr. FUSTEL DE COULANGES, _Cité antique_ (6ª ed.), 312 sgg.; IDEM, _Attica Respublica_, I, pp. 534-35 e nn. 14, 16 (in DAREMBERG et SAGLIO, op. cit.); GUIRAUD, op. cit., pp. 421-23; BEAUCHET, op. cit., II, pp. 529 sgg.; TH. GOMPERZ, _Die Schrift vom Staatswesen d. Athener_, Wien, Hölder, pp. 45 sgg.; G. NICCOLINI, in _Riv. stor. ant._, 1903, pp. 673 sgg.; CAILLEMER, _Hectemoroi_, in DAREMBERG et SAGLIO, _Dictionn. d’ant. class._; SWOBODA, _Hect._, in PAULY-WISSOWA, _Realencyclopädie d. class. Altertumswissenschaft_. G. DE SANCTIS (_Storia della Rep. aten._, Torino, Bocca, 1912, pp. 196-97) segue una sua personalissima ipotesi, concependo gli _ectemoroi_ quali debitori al 16,66%. [190] POSIDON., in ATHEN., 6, 84, p. 263 _D.-C._ L’obbligazione non significa soltanto, come s’è creduto, che i Mariandini erano tenuti a fornire ai loro signori una quotaparte dei prodotti del suolo, ma, precisamente, che i bisogni del suolo e la volontà del padrone avrebbero, volta per volta, indicato la misura degli obblighi di quelli. Un esempio analogo è nel medievale _Polittico_ di San Germano (cfr. FUSTEL DE COULANGES, _L’alleu et le dom. rur._, p. 412 e n. 7). [191] ROSCHER, op. cit., 235. Nell’antichità l’osservazione fu fatta da PLINIO IL GIOVANE (_Ep._, 9, 37, 2) e ne fu tenuto conto nei contratti agrari dell’epoca (cfr. DARESTE; HAUSSOULIER; REINACH, _Inscriptions juridiques grecques_, II, p. 238 XIII bis, §§ 2-3). Su questo punto vedi la nostra _Appendice_ citata. [192] _Cod. Iust._, II, 48 (47), 5; cfr. SCHULTEN, op. cit., pp. 459, 460, 464 e G. LUZZATTO, _I servi nelle grandi proprietà ecclesiastiche_ ecc., Pisa, 1905, App. II e III con le corrispondenti illustrazioni nel testo. [193] _Agriculture_, in _Dictionnaire d’écon. polit._ di COQUELIN et GUILLAUMIN (Paris, 1873), I, pp. 37 sgg. Cfr. anche A. SMITH, _Ricchezza delle nazioni_, 267, e ROSCHER, op. cit., 238-239 e 238, n. 1; 239, n. 1. [194] SMITH, op. cit., p. 267. Cfr. SAVIGNY, _Röm. Steuerverfassung unter d. Kaisern_, in _Vermischte Schriften_, II, 1850, p. 173. [195] DE GASPARIN, _Sulla mezzeria_, p. 684, in _Biblioteca dell’Economista_, Ser. II, vol. II. [196] DARESTE, _Les classes agricoles en France_, Paris, 1858, p. 65; ROSCHER, op. cit., 238-43, _passim_. A proposito dei mali effetti della mezzadria in Toscana, ossia nel paese, ove essa si ritiene da taluni abbia reso servizi sociali notevolissimi, si cfr. C. RIDOLFI, _Della mezzeria toscana_, Memoria I e II (in _Atti dei Georgofili_, N. S., 187, 407 sgg.). Circa le conseguenze della mezzadria in paesi poveri, cfr. il recentissimo studio di G. ARIAS, _La questione meridionale_, Bologna, N. Zanichelli, 1922, II, cap. I. [197] Così è avvenuto in Francia, il paese classico della piccola proprietà. Ivi la mezzadria, la quale, nel secolo XVIII, ingombrava i 4/7 del suolo, già nel 1882 si era ridotta a 4.539.322 _ha._ soltanto su _ha._ 43.872.529 di terreno coltivato; i mezzadri erano solo 34.976 sur un totale di 5.735.221 piccoli e grandi proprietari. Per giunta il regime della mezzadria era ormai limitato alle province meno progredite. Cfr. ROSCHER, op. cit., 236-37; BEAUDRILLART, _Tenure des terre_ (in _Dictionnaire d’éc. pol._ del SAY, Paris, 1902, II, p. 988). Identico è il processo, che la proprietà fondiaria ha seguito negli Stati Uniti, come ci rivelano, a distanza di un ventennio, i due censimenti del 1880 e del 1900 (Cfr. _Journal des économistes_, agosto, 1884, p. 198, e _Twelfth Census_ etc., V, 1, p. 66). Una delle caratteristiche salienti delle agitazioni agrarie nell’Italia contemporanea, specie in quella settentrionale, è lo sforzo dei mezzadri di trasformarsi in liberi fittavoli. [198] Cfr. E. MEYER, _Gesch. d. Altertums_, Stuttgart, Berlin, 1884-902, II, 297. Un podere di media estensione doveva, secondo gli antichi, aggirarsi intorno ai 20 _ha._ [199] La superficie della Laconia era di circa 5000 km^2.; quella della Messenia, di km^2. 2700-2900; cfr. BELOCH, _Bevölkerung_, 112 e prec. [200] GUIRAUD, op. cit., 162. [201] ISOCR., _Panath._, 180. [202] DEMOST., XXXII (_In Aristocr._), 199; XEN., _Hellen._, 6, 1, 11. [203] ARIST., _Polit._, 7, 5, 7. [204] CRITIAS (in LIBAN.), XXIV (_De servitute_) ed. REISKE, 1793, II, p. 85. [205] Cfr. ATHEN., 14, 74, p. 657 _D_. [206] ATHEN., 6, 85, p. 264 _A-B_. [207] Gli è in tal guisa che il testo di MIRONE DI PRIENE, tramandatoci da ATENEO (loc. cit.), deve essere conciliato con l’altro di HERACLIDE PONT., fr. 2, 3 (in _F. H. G._, II, p. 210) che si riferisce alla medesima usanza. [208] ISOCR., _Panath._, 182. [209] _Essai sur l’hist. de la civilisation russe_, trad. fr., Paris, 1901, p. 261. [210] _L’alleu et le dom. rural_, p. 379. [211] THUC., 4, 80, 1-4 e PLUT., _Lyc._, 28, 2 sgg. [212] La terra lavorata dal servo non poteva essergli riconosciuta come ereditaria. Vi si opponeva il fatto che egli non aveva eredi legali e che la terra non era sua. Lui morto, essa tornava al proprietario, cui spettavano le ulteriori disposizioni (FUSTEL DE COULANGES, op. cit., p. 390). [213] Così, ammettendo una verisimile interpretazione del GUIRAUD (op. cit., 415-17; cfr. CICCOTTI, op. cit., pp. 139-40) di un passo della famosa iscrizione di Gortyna (DARESTE, op. cit., XVII, 41). [214] ARIST., _Polit._, 2, 5, 2. [215] HEROD., 8, 155. [216] Si è, da taluni studiosi, creduto bene osservare che gli Iloti non dovevano stare poi malissimo, giacchè in Sparta, nell’età di Cleomene (seconda metà del III secolo), ben 6000 servi poterono, versando cinque _mine_ (L. 500 circa ciascuna), riacquistare la libertà. La fortuna di 6000 Iloti su un totale di forse 2 o 300.000 non prova nulla. Del resto il caso di taluni di essi, pervenuti felicemente all’agiatezza, sia pure dopo molte generazioni e in un periodo di grande crisi economica dei loro signori (cfr. pp. 95 sgg.), è analoga a quelli di molti servi della gleba nel Medio Evo o di molti antichi schiavi romani, e non prova affatto contro le generali, perniciose conseguenze dell’uno e dell’altro regime economico. [217] Cfr. DARESTE, op. cit., p. 268. [218] Così nel 1845 il ministro Perowski, in uno dei Comitati segreti dello czar Nicola I; cfr. MILIOUKOV, op. cit., p. 268. [219] MILIOUKOV, op. cit., pp. 85 sgg. [220] LORIA, _Analisi della proprietà capitalista_, II, pp. 143 sgg. [221] Cfr., per Sparta, ARISTOT., _Polit._, 2, 6 (9), 10; PLUT., _Inst. lac._, 22; _Agis._, 5, 2; per la Locride e per Leucade, ARIST., _Polit._, 2, 4, 4-5; per Creta, DARESTE, ecc., op. cit., XI, p. 191, XVII, § 36 sgg.; per le altre città, ARISTOT., _Polit._, 6, 2, 5. [222] Cfr. PLUT., _Agis._, 5, 2; ARISTOT., _Polit._, 2, 6 (9), 10. È impossibile definire con precisione la cronologia di questa innovazione attribuita all’eforo Epitadeo. Tuttavia uno strappo così grave alla costituzione dovette seguire in qualcuno dei momenti più decisivi delle crisi sociali spartane, non certo innanzi la guerra del Peloponneso; probabilmente, perciò, nella prima metà del secolo IV. [223] ROSCHER, _Économie politique rurale_, p. 218. [224] PLUT., _Lyc._, 12, 3; ARIST., _Polit._, 2, 7, 3; 4. [225] Cfr. PLUT., _Lyc._, 12, 3 e, per qualche variante, DICAEARCH. MESSEN., fr. 23 (in _F. H. G._, ed. DIDOT, II). [226] Anche Sparta ebbe le sue coregie, cfr. ARIST., _Polit._, 8 (5), 6, 6. [227] Era norma di diritto greco che il creditore non soddisfatto, qualunque fosse l’ammontare del suo credito, s’impossessasse dell’intera cosa ipotecata, e i creditori mettevano, naturalmente, a condizione del prestito l’ipoteca su tutti i beni del creditore. Sulla tremenda esosità dei debiti in seno alle economie povere e alle civiltà primitive, cfr. C. APPLETON, in _Nouv. revue hist. de droit français et étranger_, 1919, pp. 408 sgg. [228] Cfr. ARIST., _Polit._, 2, 6 (9), 21. [229] FUSTEL DE COULANGES, _Nouvelles recherches_, pp. 43-45. [230] In ARIST., _Atheniens. Respubl._, 12, 2, 4. [231] FUSTEL DE COULANGES, _Nouv. recherches_, pp. 115 e prec. [232] ARIST., _Polit._, 5, 1, 6 sgg. [233] FUSTEL DE COULANGES, op. cit., pp. 103-8. [234] _Polit._, 2, 3 (6), 3. [235] XENOPH., _Laced. Resp._, 14; ARISTOT., _Polit._, 2, 6, 5; e FUSTEL DE COULANGES, _Lacedaem. Resp._, in DAREMBERG ET SAGLIO, _Dictionn. d’ant. classiques_, p. 890 e fonti ivi richiamate. [236] PHILARC., in ATHEN., IV, 20, p. 242. [237] PLUT., _Alcib._, I, 18; cfr. Isocr., _Panath._, 179, che però a torto riferisce tale situazione anche ai tempi più antichi, e il quadro che ARISTOTELE (_Polit._, II, 6 (9), 7-8; 11) ci lasciò delle donne di Sparta. [238] Cfr. POSIDON., in ATHEN., VI, 24, p. 233; cfr. PLUT., _Agis_, 13, 3; cfr. FRANCOTTE, op. cit., II, 346. [239] _Die wirthschaftliche Entwickelung_, etc., 712-713. [240] Per l’indebitamento dei grandi proprietari Spartani, cfr. PLUT., _Agis_, 13, 2-3. [241] DEMOST., XXIII (_in Aristocr._), 199 e XIII (_De rep. ordin._), 23. [242] CRITIAS, fr. 5 (in _Poetae lyrici gr._, II^4, ed. BERGK). [243] BELOCH, _Griech. Geschichte_, II, I, 102-03 (2ª edizione 1914). [244] LIV., 42, 5. [245] Cfr. FUSTEL DE COULANGES, _Lacedaem. Respubl._ (in op. cit.), pp. 889-890 e fonti ivi citate. [246] PLUT., _Alcib._, I, 18. [247] Cfr. ARIST., _Polit._, 2, 6 (9), 10. [248] Si tratta di cifra approssimativa, ma non fantastica. Taluno (ad es. BELOCH, _Die Bevölkerung etc._, p. 141), ha ritenuto che essa provenga da una leggenda originatasi nel III secolo a. C., nell’età delle riforme di Agide e di Cleomene. Ma PLUTARCO (_Lyc._, 8, 3-4) ricorda due altre tradizioni, che enumerano 4500 e 6000 Spartani; ARISTOTELE (_Polit._, II, 6, 12) ne enumera, per lo stesso periodo di tempo, 10.000, ed ERODOTO (7, 234, 3), 8000. Ora nè Aristotele, nè Erodoto appartengono al III secolo a. C., nè gli eventi di questa età altra cifra avrebbero potuto suggerire all’infuori di 4500. [249] BELOCH, op. cit., p. 138; E. CAVAIGNAC, _La population du Péloponnèse aux V e IV siècles_ (in _Klio_, 1912, p. 271). [250] ARISTOT., _Polit._, 2, 6, 11. [251] PLUT., _Agis_, 5, 4; _Lyc._, 8, 2. Il BELOCH ha interpretato trattarsi di soli 100 grandi proprietari. Gli altri sarebbero stati dei piccoli proprietari; cfr. _Bevölkerung_, 142; _Gr. Gesch._, III, 1, p. 327. Tale interpretazione, che contradice in modo categorico al testo di Plutarco, non ci sembra necessaria: le antiche limitazioni all’esercizio dei diritti politici dei non proprietari potevano ora essere andate in disuso, come in disuso erano andate le antiche mense comuni. [252] PLUT., _Agis_, 8. [253] PLUT., _Cleom._, 11, 2. [254] PLUT., _Cleom._, 23, 1. [255] ARISTOT., _Polit._, 2, 3, 6. [256] _Polit._, 2, 6, 11; 12; cfr. BELOCH, _Bevölkerung_, p. 159. [257] Così tentarono gli ultimi re e gli ultimi tiranni spartani, così Nicocle a Sicione; così più volte gli Etoli e i Tessali; cfr. FUSTEL DE COULANGES, _Questions historiques_, pp. 126 sgg. [258] FUSTEL DE COULANGES, _Questions historiques_, p. 130; cfr. MALTHUS, op. cit., p. 546. [259] LIV., 42, 30, 4. CAPITOLO TERZO L’IMPERIALISMO L’imperialismo greco. Noi siam soliti raffigurarci il mondo ellenico come avvolto in un nimbo di luce e di azzurro, come ricolmo di tutte le grazie della natura e della vita. Eppure anche su quel suolo — anzi specialmente su di esso — fiorì il fiore, acre ed atroce, di ciò che noi oggi chiamiamo imperialismo, ossia la determinata volontà di singole nazioni di assoggettarne delle altre per servirsi di queste agli scopi del proprio benessere, materiale e spirituale. Era, pur troppo, assai più che nel mondo moderno, la fatale conseguenza della produzione tenue e rozza, che la forma servile del lavoro imponeva, e che, portando, sul mercato comune, una quantità assai piccola e assai costosa di beni, invitava gli uomini a procurarsi il resto con la fatica e la sofferenza degli altri. Era, pur troppo, la fatale conseguenza della disoccupazione, della povertà, del naturale amore all’ozio, istillato nella grande massa dei liberi dal fenomeno stesso della schiavitù che spingeva questi, o i governanti per essi, a procurarsi, e a procurar loro, un artificioso benessere attraverso la ricchezza dello Stato, conquistatore e dominatore. «Molti dei magistrati Ateniesi», avverte un antico, «ripetono di saper distinguere il giusto dall’ingiusto al pari di tutti gli altri uomini, ma che la povertà della moltitudine li costringe a comportarsi iniquamente verso le altre città....»[260]. Di quanti beni, infatti, non era questa iniquità apportatrice alle moltitudini! «Dal costituirsi del suo impero», spiegava Aristotele[261], «il popolo ateniese ritrasse grande facilità di vita. Col provento dei tributi, delle tasse, delle imposte sugli alleati _vivevano a spese dello Stato più di 20.000 persone_. Seimila erano i giurati, mille e seicento gli arcieri, duemila i cavalieri; cinquecento i _buleuti_; cinquecento le guardie dei cantieri; oltre cinquanta le guardie urbane. Le magistrature cittadine occupavano circa settecento persone; altrettanto quelle estere; e, dopo la guerra del Peloponneso, si ebbero ancora due mila e cinquecento opliti, venti navi di crociera ed altre che trasportavano le guarnigioni, su cui montavano duemila uomini; poi c’erano il _pritaneo_ e gli orfani e i custodi delle carceri: _tutti costoro vivevano del pubblico danaro...._». Finchè lo Stato è potente, è quindi ricco; finchè esso può versare a piene mani, dalla ricolma cornucopia, l’agiatezza che la maggior parte dei cittadini non è in grado di procurarsi a più facili condizioni, il demone della guerra civile tace e sonnecchia, saziato. Ma il giorno della sventura albeggia sanguigno, allorchè una siffatta condizione, malamente istituita dalla violenza, comincia a sgretolarsi. Quando lo Stato non può più liberalmente donare, e le nazioni soggette sfuggono al lungo, esoso servaggio, allora l’idra della guerra civile si ridesta, e i poveri si gettano furiosamente sui ricchi, e la spoliazione universale ha principio. Non si possedevano, invero, mezzi più rapidi di conquista della ricchezza. La scienza dello sfruttamento della natura era ancora infante, onde l’agiatezza doveva scaturire in prima linea dallo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. L’imperialismo all’esterno era perciò il naturale prolungamento della schiavitù, o della servitù, all’interno; e il suo strumento, la guerra, un mezzo legittimo di acquisto della ricchezza....[262]. Così fu nel mondo antico, così è stato nel moderno all’incirca sino alla fine del secolo XVIII, sino al prodigioso sviluppo di quegli strumenti meccanici, che hanno reso possibile la grande industria. Per questo la forma caratteristica dell’imperialismo antico, quel suo spianarsi con la violenza la strada verso i mercati più vicini e lontani, quel suo suscitarli o ampliarli, con brutali atti d’imperio o con la eliminazione dei rivali e dei concorrenti; quel suo assoggettarsi intere popolazioni, imponendo ad esse di vivere soltanto per i loro conquistatori; per questo, dico, tale forma di imperialismo cieco e brutale, è durata fino al giorno in cui non fu possibile apprendere che esisteva, che poteva esistere, una specie migliore, forse più savia, di soddisfazione dei propri bisogni: quella di cooperare alla gestione delle risorse naturali dei popoli inferiori; quella di abbattere, con la viltà dei prezzi o con l’abbondanza degli elaborati industriali, le muraglie cinesi di regimi sociali chiusi e gelosi. Fu gloria della borghesia del secolo XIX, specie della nazione europea — l’Inghilterra — che prima giunse alle soglie della grande industria, aver creato questa seconda civile forma d’imperialismo, destinata a surrogare l’antica, che s’era perpetuata nell’età moderna, attraverso i sistemi coloniali spagnuoli. Pur troppo, l’Ellade divina visse in un tempo, in cui il destino non le permise di cogliere i novelli fiori della vita, cui la sua indole meravigliosa la faceva specialmente adatta. Onde, anche colà, su quella terra sacra all’arte ed alla bellezza, il dominio di uno Stato sovra altri popoli fu sangue e dolore. Peggio ancora, quello che noi diciamo la luminosa civiltà greca, fu solo la civiltà di qualcuna delle città greche, che si alimentò del dolore, del sangue, della distruzione, seminata tutt’intorno, per ogni dove. L’imperialismo ellenico ebbe denominazioni varie e diverse. Si disse, e fu detto, egemonia, _sinecismo_, _sintelia_, _simpolitia_: nomi tutti, che, pur palesando circostanze diverse, significavano il più delle volte un identico sistema di sfruttamento politico, economico. E la consuetudine del fatto si cristallizzò, presso gli Elleni, in una delle loro più salde ideologie morali. La opinione classica di Aristotele che, degli uomini, taluni siano fatti per comandare, altri per servire, e che, quindi, la schiavitù umana riposi sur una legittima base naturale, viene dai Greci applicata alla lettera a tutte le forme di rapporti internazionali. Per essi, «il diritto naturale reclama che ciascuno comandi a coloro che ha potuto soggiogare» e che «il debole debba andare soggetto al più forte»[263]. Secondo il pensiero politico greco, la neutralità o la libertà dei piccoli Stati non è ammissibile, e neanche sono ammissibili i loro rapporti di amicizia con gli Stati maggiori e potenti. A questi ultimi occorre in modo assoluto la soggezione dei primi, perchè la neutralità sarebbe più dannosa dell’aperta inimicizia, e tale amicizia verrebbe interpretata dagli altri loro sudditi come una prova di debolezza. Meglio l’odio che l’amicizia dei deboli! L’odio, che almeno è segno e riconoscimento di potenza! Chi non intende sottostare a questa legge universale della vita delle nazioni, che niuno inventò per prima, ma tutte ereditarono _ab aeterno_, e ciascuna tramanderà altrui in eterno; chi, diciamo, contravviene a questa legge ne paga il fio, diventando schiavo dell’impero altrui. Chi non domina sarà dominato; e, per non essere dominata, ogni nazione deve, con ogni mezzo, riescire a tener gli altri sotto il proprio dominio![264]. Per questo, in un’ora grigia di pericolo e di terrore, nel fitto della guerra del Peloponneso, alla dimane della seconda invasione spartana nell’Attica, mentre le fiamme dell’incendio disertavano ancora i bei vigneti, fatti rigogliosi attraverso lunga serie di anni e di cure, e la peste, piombata d’improvviso sulla città, mieteva il fiore dei giovani ateniesi, Pericle, il sommo maestro della democrazia antica, vedeva la gloria della sua Patria emergere da ciò che ne costituiva una delle colpe più gravi, e sarà uno dei suoi più dolorosi tormenti: la vastità e l’esosità del suo dominio. «Sappiate», egli diceva, volgendosi ai suoi concittadini attanagliati dal lutto e dall’angoscia; «sappiate che la nostra patria ha conseguito grande gloria presso tutti i mortali e ch’essa ha acquistato fino ad oggi una potenza, la cui memoria sarà eterna nell’avvenire, perchè, Greci, teniamo l’impero su moltissimi Greci e abbiamo sostenuto gravissime guerre, contro tutti e contro ciascuno, e abitiamo una città potente e abbondantissima di tutte le cose. Solo chi è vile potrà rimproverarcene; ma l’uomo d’azione vorrà emularci; o, se questi beni egli non possiede al pari di noi, dovrà invidiarci. Cosa importa che siamo odiati o mal visti? Tale sorte toccò in ogni tempo a tutti coloro che ebbero la volontà di dominare altrui. Solo chi perviene a grandi cose è nel vero. L’odio non dura; soltanto lo splendore di oggi, e la gloria che ne discende, sono immortali....»[265]. Nella seconda metà del V secolo a. C., alla vigilia della paurosa invasione ateniese in Sicilia, così il più grande storico dell’antichità greca faceva che un oratore siracusano parlasse ai deputati convenuti di tutte le città di Sicilia: «Se abbiamo senno, noi dobbiamo invitare i nostri alleati ed affrontare pericoli _per conquistare quello che non ci spetta.... All’ambizione degli Ateniesi io credo si debba essere larghi di indulgenza_; io non censuro chi tende a dominare; io censuro chi consente ad ubbidire: è insito nella natura umana far violenza a quelli che volontariamente si assoggettano....»[266]. Uno spartano, al quale si offriva pace, purchè Sparta si piegasse a liberare una terra, che per secoli aveva tormentata — la Messenia —, così poteva essere indotto a parlare: «Io vorrei sapere dai miei contradittori se si dànno occasioni legittime per affrontare in battaglia la morte. Non forse quando i nemici ci gravano di imposizioni _contrarie a giustizia...._ quando liberano i nostri servi, e assegnano loro terre, che noi ereditammo dai padri nostri, e, così facendo, non solo ci spogliano delle cose nostre, ma anche ci colmano di danno e di vergogna? Per conto mio, sono d’avviso che _per siffatti motivi_, non solo si debba soffrire la guerra, ma _eziandio l’esilio e la morte_», «chè, per noi, _non può darsi danno maggiore di quello che oggi si chiede...._». E come sopporteremo «che i nostri antichi sudditi rechino [ad Olimpia], dalla terra già nostra, primizie e vittime più copiose di quelle che offriremo noi stessi?». Come tollereremo «che quelli che ora soffrono la più dura delle servitù abbiano a trattare da eguali coi loro padroni? Ognuno di noi ne sarà ferito di un dolore inesprimibile.... Infatti la nostra elevatezza di spirito di un tempo sarà chiamata arroganza, e si dirà che, non valendo di più degli altri, abbiamo finora dominato con la violenza, simulando una falsa superiorità»[267]. E, poco più tardi, agli Ateniesi precipitati in fondo ad uno degli ultimi scalini della sciagura, Isocrate, il mite apostolo di pace del mondo ellenico, così era costretto a rimproverare: «Noi siamo già da tempo corrotti e ruinati da una genia di politici, i quali pongono tutto il loro studio nell’asserire che Voi non dovete consentire che alcuno tragitti il mare senza comperare per tributo il beneplacito della Vostra città.... Ond’è che tale, pur troppo, persiste la nostra idea favorita, da supporre che, se ci riesca di coprire il mare con poderoso naviglio e di sforzare le città a pagarci tributo e ad inviare in Atene loro rappresentanti, noi abbiamo compiuto opera meritoria»[268]. La salda convinzione di questa ineluttabilità dell’imperialismo delle nazioni giunge sino a fare in modo che le stesse vittime trovino giustificati i loro tiranni. Non si tratta di legge, che la volontà dei mortali possa cangiare o attenuare; ma di una fatalità, ascosa e tremenda, che grava su tutti — dominatori e dominati — gli uni e gli altri soggetti a un destino imperscrutabile. Atene non ne imputa gli Spartani più che non ne imputerebbe Tebani od Argivi: Sparta opera secondo è fatalmente costretta. Se Sparta non fosse, altri occuperebbe il suo posto, assumerebbe il suo tremendo ufficio; e, purchè avessero la forza di scambiare le parti, le vittime redente si comporterebbero tal quale come i loro aguzzini di ieri e di oggi. Neanche le modalità dell’esercizio del proprio impero possono essere liberamente regolate. Chi è salito a grande altezza è tenuto a insidiare ed offendere altrui; ed è giocoforza ch’egli reprima ogni inclinazione all’indulgenza[269]. Fu perciò fortuna se un imperialismo, concepito in guisa tanto assoluta ed implacabile, non si rendesse responsabile di tutto quello di cui s’erano resi, o avranno a rendersi, colpevoli gli imperialismi orientali e romano. Se l’imperialismo greco attentò alla esistenza, politica e sociale, di qualche nazione, se giunse fino a creare un ambiente deleterio per ognuno degli Stati, ch’ebbe ad esercitarlo, e che venne perciò destinato a spegnersi man mano entro la cerchia di desolazione, ch’esso si andò spianando d’intorno, esso non fu mai una cosa orribile come l’imperialismo assiro-babilonese o come l’imperialismo romano degli ultimi secoli della Repubblica. Più che improvviso e tremendo turbine devastatore, fu tisi lenta e sottile, marasma quotidiano e supremamente fastidioso. Il che non vuol dire che i suoi effetti riescano meno degni di rilievo. Esso, lentamente disfacendo antiche e gloriose civiltà, paralizzò lo sviluppo di energie nazionali destinate a un grande avvenire; impedì la possibilità di una storia unica e comune dell’Ellade; il che a sua volta decise del finale destino politico di quella nobile contrada, divenendo per tal guisa uno dei più gravi elementi dissolvitori della Grecia antica. L’imperialismo ateniese: soggezione economica. Il dominio più glorioso e luminoso, un dominio che dette e dona appiglio a troppe giustificazioni ed attenuanti, sì da avere ispirato a Giorgio Grote nella sua mirabile _Storia della Grecia antica_ un’apologia, appassionata e incondizionata, fu l’impero d’Atene che, profetizzato dall’oracolo[270], recando come suo centro il suolo sacro dell’isola di Delo, si stendeva fino a una linea immaginaria, che da Bisanzio scorreva lungo la Tracia; poi, costeggiando la Grecia europea, toccava Citera; di là raggiungeva Carpato e, per Carpato, Rodi, la Doride e la costa asiatica, toccava Calcedonia di faccia a Bisanzio, allacciando le mille città, che con amara ironia Aristofane largiva ai suoi concittadini quale materia abietta di parassitismo[271]. L’impero ateniese subì, è vero, due grandi tracolli: il primo, dopo la guerra del Peloponneso (401), il secondo, dopo la pace di Antalcida (387). Ma e l’una e l’altra volta il suo orizzonte tornò di nuovo ad estendersi sino al limite estremo degli antichi confini: nel 377 quella che suol dirsi la seconda Lega marittima, e che invece fu realmente la terza[272], era già costituita, e il 364 a. C. rivide le triremi di Atene veleggiare imperiose dal Bosforo a Rodi, dall’Asia minore al continente europeo. Tanta gloria non sarebbe crollata per sempre che dopo la fatale _Guerra_ così detta _degli alleati_ (357-355)! Il primo impero era in origine proceduto dalla spontanea volontà dei soggetti[273]. Alla fine delle due prime guerre persiane, un gruppo di nazioni, in maggioranza ioniche, insulari e peninsulari, si erano volontariamente associate ad Atene per la tutela dei comuni interessi marittimi, che eventuali invasioni nemiche avrebbero potuto turbare. Il secondo aveva avuto, quale scopo, il riscatto dalla tirannide spartana[274]. Ma tanta originaria spontaneità non bastò a fare in modo che quell’impero fosse esercitato con mitezza o tollerato con rassegnazione. L’alleanza, formatasi nel 477, alla dimane della battaglia gloriosa di Platea, portava seco un grave vizio di origine, che fra breve l’avrebbe tramutata in tirannia secreta od aperta: il patto perenne della sua indissolubilità, anche se le cause che l’avevano generata fossero col tempo venute a mancare. La seconda Federazione, sebbene mirasse anch’essa a uno scopo ben definito, fu subito, da Atene, rivolta a maggiori intendimenti di espansione e di violenza politica sul mare e sulla terraferma: in Beozia, nel Chersoneso tracico, in Calcidica, nel Peloponneso, nel Jonio[275]. Era evidente che, in tali circostanze, quella concordia d’interessi, da cui la Lega era uscita, veniva meno e quindi la possibilità della Lega stessa. Perciò la prima e la seconda Confederazione ateniese furono teatro — sempre aperto — di crisi di ogni genere. Ma specialmente la prima. Alla metà del secolo V, le città confederate che, ventisette anni prima, il savio Aristide era riuscito a stringere intorno ad Atene nella previsione di una quarta grande offensiva persiana, avevano cominciato a disgregarsi, a balenare, ad insorgere. Il minaccioso pericolo persiano non esisteva più, o Atene non si curava più di darvi la caccia per le mobili acque del Mediterraneo. Perchè dunque ciascuna delle isolette, ciascuna delle città marinare dell’Egeo, le quali fino ad ora erano vissute delle loro modeste industrie, dei loro pacifici commerci, avrebbe dovuto consacrare parte delle proprie ricchezze e, peggio ancora, il sangue della propria gioventù a scopi bellici, che punto la riguardavano e che tornavano invece ad esclusivo vantaggio della potenza ateniese? Le proteste furono rafforzate da rivolte, pur troppo, sanguinose ed infelici. Atene allora propose una trasformazione radicale della Confederazione. Le cittadine malcontente avrebbero continuato ad attendere, come innanzi l’uragano scatenato dalla Persia, ai loro piccoli affari d’ogni giorno. Soltanto, la metropoli dell’Attica si sarebbe occupata di guerra, ossia della difesa, di sè e di loro tutte, dalla Persia, e a tale scopo avrebbero pagato un annuo contributo in danaro. La proposta, in apparenza equa, fu accettata. Salvo pochissime — le maggiori isole di Lesbo, Chio, Samo —, tutte le antiche alleate di Atene preferirono ora diventare sue tributarie. Ma non passeranno molti anni, ch’esse si pentiranno amaramente dell’errore commesso. Esse avevano per danaro barattato l’indipendenza; esse non avevano più parte nella direzione della lega e, quindi, nell’indirizzo che Atene vi avrebbe impresso. Atene si sarebbe armata potentemente, mentre esse, l’una dopo l’altra, si sarebbero dispogliate delle armi. Il denaro, infine, che contribuivano ogni anno, avrebbe a poco a poco cessato di volgersi a vantaggio comune, e Atene, divenuta ormai signora assoluta, o l’avrebbe adoperato altrimenti nell’interesse proprio, o, magari, l’avrebbe rivolto contro gli interessi e la indipendenza delle antiche alleate. La triste pratica non avrebbe tardato a trovare una qualsiasi formula giustificativa. E Atene dichiarerà tra non guari che dell’uso del sangue e della ricchezza dei suoi sudditi, ella, purchè ottemperasse alla difesa dell’Egeo, non era tenuta a render conto ad alcuno![276]. Gli alleati — così quelli della prima ora, come gli altri della seconda Lega — corrispondevano un annuo tributo fisso. Era una precauzione che offriva dei vantaggi. Sotto questo aspetto, la Lega ateniese sembrava dimostrarsi più salda e sicura di quella peloponnesiaca, che Sparta aveva organizzata intorno al suo breve dominio lacone-messenico. Ma appunto questo vantaggio doveva costituire una delle debolezze dell’imperialismo ateniese, e convertirsi in una nuova fonte di mali. Quando il pericolo, persiano e spartano, dileguerà, Atene, lieta di tanta ricchezza, ch’essa sola amministrava, comincerà ad usarne nel proprio esclusivo interesse. Senza dubbio molti dei modi, in cui Atene impiegò il denaro delle sue alleate, hanno diritto alla riconoscenza eterna degli uomini. Le grandi opere d’arte ateniesi del secolo V (il Partenone, i Propilei, l’Erechteion, il Teseion, il tempio a Posidone sul promontorio Sunio, tutte le statue e i meravigliosi bassorilievi che adornavano la Città e i suoi monumenti), furono inalzate col sudore e cementate nella sofferenza e nell’umiliazione della Grecia intera[277]; ma quella vergogna e quelle lagrime Atene seppe convertire in perle meravigliose, oggetto nei secoli di venerazione imperitura. Molte altre volte però, quel danaro fu adoperato a scopi assai meno nobili. Il tentato asservimento della Grecia centrale, la vana conquista della Sicilia e d’altre terre dell’occidente greco: tutto questo fu fatto con i tributi, ma non già nell’interesse, della Grecia alleata ad Atene. Pur troppo, niuno era più in grado di contrastarvi; niuno più di opporre una resistenza, che riuscisse a preoccupare l’invitta dominatrice; e le città, che a intervalli lo tentarono, ne vennero punite con nuove durezze. Atene era arbitra assoluta del destino altrui, e il mondo greco si stava raccolto, umile e trepidante, sotto il suo impero. Allora l’antico, immutabile contributo venne via via, sotto varie forme e pretesti, sforzato a subire un aggravamento progressivo. Lo si era in origine consolidato in una cifra, che, complessivamente, non superava i 460 talenti[278] (2.500.000 lire-oro). L’entusiasmo dei primi anni non aveva forse ben ponderato la gravità del carico che le città alleate si venivano ad addossare. Ebbene, si passò tosto a circa 600 talenti[279] (L. 3.500.000), spiegabili in parte col sopravvenire di nuovi alleati, forse anche col riscatto dagli antichi obblighi militari[280]; ma non certo con le cresciute necessità di difesa del pericolo persiano. Qualche decennio ancora, e si passò da 600 a 1000 e poi a 1200 e a 1300 talenti[281] (L. 7.000.000 o L. 7.500.000)! Allora non si trattò più di un danno relativo, non di un aggravio tollerabile; si trattò della rovina di parecchie popolazioni alleate. Finalmente, la tremenda massima politica imperialistica, che un antico scrittore di parte conservatrice attribuiva ai democratici ateniesi, apparve pienamente incarnata nella realtà. Gli Ateniesi dovevano possedere tutte le ricchezze degli alleati: questi, invece, solo quanto occorreva ad essi per vivere e penare nell’impotenza![282]. Le conseguenze furono tremende. A molti dei cittadini degli Staterelli alleati non riuscì più possibile sottostare ai carichi che il nuovo gravame imponeva loro. Numerose famiglie emigrarono, abbandonando disperate la patria[283]. E si formò la leggenda, o la verace tradizione, che molti degli isolani uscissero dalla terribile crisi, perdendo, per debiti, insieme con gli averi, la libertà propria e quella dei loro figliuoli[284]. Ma i gravami e i danni economici dell’imperialismo ateniese non si limitavano al tributo annuo. Già alcuni degli Staterelli tributarî non avevano diritto a tutti i vantaggi, che potevano derivare dall’alleanza. Essi avevano diritto solo a versare il tributo pattuito[285] e probabilmente a sobbarcarsi a taluno dei sacrifici, di necessità connessi con l’esercizio dell’impero ateniese. Ma gli altri, quelli che, a mezzo il secolo V a. C., si illudevano di aver convertito in danaro ogni loro obbligo e di avervi soddisfatto del tutto con gli annui versamenti pattuiti, furono, a poco a poco, di nuovo, costretti al servizio militare e poi anche a contributi supplementari in danaro[286] o in natura[287]. Il tributo, il classico φόρος, non era quindi più che un segno materiale di soggezione, i carichi, che la federazione e l’alleanza importavano, dovendo essere sostenuti a parte con sacrifici appositi. Talora, in luogo del tributo, si ricorse al singolare espediente di una imposta doganale. Fu il caso di Samo, dopo il 440[288]. Ivi il nuovo gravame venne adottato in seguito ad una ribellione dell’isola. Questo solo fatto basta a non farcelo considerare come un suo esclusivo, doloroso privilegio: altre città dovettero subire la sorte di Samo. Comunque, la particolare natura del tributo costituì un ostacolo intollerabile al progresso, alla esistenza economica dei Paesi, su cui esso venne a gravare. Ma fra non molto dette luogo ad una più vasta applicazione. Nel tragico anno dell’occupazione spartana di Decelea, all’aprirsi dell’ultima fase della guerra del Peloponneso (413 a. C.), Atene, stretta dal bisogno, sostituì il tributo ordinario degli alleati con un’unica tassazione generale del 5% su tutte le merci in entrata e in uscita nei loro porti[289]. Era il più grande attentato economico, che mai l’imperialismo ateniese consumasse ai danni della prosperità dei territorî da esso dominati. Il commercio di tutto l’Egeo, anzi del mondo antico, il cui cuore pulsava allora nelle acque dell’Egeo, dovette esserne profondamente colpito, e gli effetti economici, universalmente sensibili. Più tardi ancora, un’imposta del genere fu applicata al commercio di transito pel Bosforo. Nel 409 Atene vi stabiliva la così detta _decima_ (δεκάτη) di Bisanzio[290], i cui effetti non poterono non ripercotersi, oltre che su questa città, su tutte le nazioni commerciali dell’Egeo[291], su tutte le colonie greche del Ponto. Si trattava di un gravame del 10% su tutte le merci di passaggio pel Bosforo. La frequenza di tale commercio era, nel secondo secolo di C., a detta di un antico, intensissima. Dal Ponto affluivano le pelli, gli schiavi, le carni salate, il frumento, il miele, la cera, e a quella volta viaggiavano gli olî, i vini e, financo, il grano dell’Ellade[292]. Ma quanto più grandioso non doveva essere quel movimento, centocinquant’anni innanzi, nel periodo aureo della Grecia, e prima che Atene non avesse violentemente diminuito o annullato l’utile dei navigatori, ed elevato, sia pure indirettamente, coi suoi sbrigativi mezzi fiscali, i prezzi delle merci oggetto del traffico del Bosforo! Dal danno inflitto al commercio delle nazioni dell’Egeo e del Mar Nero, che di quel transito abbisognavano, Atene sola aveva ora trovato il mezzo di derivare a proprio vantaggio ingenti somme di danaro, e, più tardi, sebbene l’impresa fosse stata ceduta in appalto, queste furono sufficienti a farle condurre le molteplici operazioni militari, in cui la grande città era impegnata[293]. Forse perchè memori della vanità dell’antico espediente, gli alleati di Atene non vollero più, nel 377, al riannodarsi della terza o, come suol dirsi, della seconda Confederazione, ricorrere al ripiego dell’immunità militare, e preferirono, come in origine, al tempo di Aristide, contribuire con navi ed uomini, oltre che con danaro[294]. Forse, altresì, perchè memori della durezza dell’antico tributo, essi pattuirono scrupolosamente di fornire solo contributi volontarî (συντάξεις), variabili e intermittenti. Pur troppo, non avevano fatto che rivoltarsi sur un giaciglio, di cui già avevano sperimentato tutti i triboli, e certamente non tardarono ad accorgersi quanto vani, di fronte a una potente alleata, siano gli impegni che non si ha mezzo di far rispettare con la forza. Di nuovo la guerra perenne travolse quei piccoli Stati in una voragine di sacrifici continui. Di nuovo Atene trovò la forza — o ebbe la necessità — di trasformare in obbligatorî i volontarî contributi pattuiti. Nuovamente le flotte ateniesi tornarono a solcare i mari, non solo per difendere le città e le isole da nemici, reali o fantastici, ma per imporre a ciascuna, con l’autorità e con la forza, il versamento del tributo[295]. Di nuovo la misura di questo fu stabilita dalla dominatrice, in proporzione non più delle capacità delle alleate, ma dei propri sempre urgenti bisogni[296]. La reazione scoppiò dopo soli venti anni, rapida e violenta, tanto quanto piena di accorata passione era stata la ripresa della Lega, ed essa ebbe nome da quella _Guerra sociale o degli alleati_ (357-355), che pose fine per sempre all’Impero marittimo ateniese. Soggezione giudiziaria. La prestazione in danaro era ben lungi dal potersi dire una sicura salvaguardia dell’autonomia dei soggetti. La gravità della cosa è segnalata anzi tutto dalla natura stessa delle denominazioni. Se ne togli un numero ristrettissimo di sedicenti alleati, i quali andarono man mano assottigliandosi sino a ridursi, in sul principio della Guerra peloponnesiaca, a tre soltanto (che non per questo erano meno _sudditi_ (ὑπήκοοι)[297] dei rimanenti, e la cui indipendenza vivacchiava ormai giorno per giorno al buon grado della dominatrice[298]), la condizione politica degli altri veniva esplicitamente definita come _una schiavitù_ (δουλεῖα o καταδούλωσις)[299], a cui, da parte di Atene, si contrapponeva l’esercizio d’una vera e propria tirannide. «Il nostro impero è una _tirannide_», esclamavano concordi Pericle e Cleone, una tirannide su gente «insidiatrice e ritrosa, la quale non obbedisce per grandezza di beneficî o di sacrifizi, ma perchè la nostra forza è da più della loro benevolenza»[300]. I nomi e le qualifiche erano il riflesso di una triste realtà. Tutti gli alleati — e fra essi vanno compresi anche quelli così detti _autonomi_[301] — soggiacquero, sia durante la prima, sia, probabilmente, durante la terza fase[302] dell’impero ateniese, all’obbligo di discutere nella metropoli dell’Attica i loro affari giudiziari, civili e penali. Certo doveva trattarsi di cause di una certa importanza, ma non per questo insignificanti erano i danni, materiali e morali, che conseguivano da quell’obbligo. Il dispendio per i viaggi, per il soggiorno in una città lontana, nonchè per la faticosa preparazione del processo, doveva essere assai grave; e, quando si pensa che la pura giustizia non era l’unica ispiratrice delle giurie ateniesi; che bisognava accaparrarsi la benevolenza dei giudici[303]; che in Atene, naturalmente, avevano troppa forza le alte ragioni di Stato, le piccole vendette partigiane, l’ingordigia dei giudici «democratici», sarà facile rilevare come il danno materiale veniva agevolmente ad intrecciarsi con quello morale. Più grave era il caso, quando i processi da discutere vertevano fra cittadini alleati e cittadini della metropoli dominatrice, fra alleati e coloni (cleruchi) ateniesi, fra la repubblica, e gli alleati[304]. Nelle umane controversie, insegnavano gli Ateniesi, «è notorio, si agisce secondo giustizia solo quando uguale è il potere delle parti contendenti. In caso contrario, i più forti operano, e i deboli sono costretti a consentire, in ragione della forza o della debolezza degli uni e degli altri....»[305]. Tutte le spese giudiziarie dovevano versarsi nell’erario di Atene. Il ricavato ne era abbondantissimo, tanto che, per indurre gli Spartani all’occupazione di Decelea, il più grande storico dell’antichità greca, Tucidide, metteva in bocca ad Alcibiade, fuggiasco presso i nemici della sua patria, insieme con gli altri argomenti, questo: che gli incassi giudiziari ateniesi ne sarebbero andati quasi interamente perduti[306]. Ma basta dare un semplice sguardo a questi gravami giudiziari per avvedersi tosto della loro esosità. Innanzi di venire al giudizio ambo le parti in contesa erano tenute a un deposito quasi sempre proporzionale all’importanza della causa[307], la quale, nei giudizi che gli alleati sollecitavano in Atene, era sempre notevole. Chi perdeva era tenuto a pagare per sè e per la parte vincitrice. Riesce quindi agevole capire come troppe volte avessero gli alleati dovuto pagare i debiti dei loro facili vincitori.... La pena consisteva in genere in una multa o in un complesso di multe, e, se nell’accrescerne la portata nei rispetti dei propri concittadini, gli Ateniesi non furono mai eccessivamente ritegnosi, tanto meno lo furono, al certo, nei riguardi degli alleati[308], il cui patrimonio dovette più volte servire a colmare i vuoti delle miserie pubbliche e private. Tanto più che gravissime riescivano — come è noto — le conseguenze delle multe non pagate. Il colpito era senz’altro considerato come un debitore dello Stato, e ciò bastava perchè divenisse passibile della detenzione, del raddoppiamento del debito, della confisca del patrimonio, e gli stessi eredi fossero tenuti all’espiazione della pena[309]. Non meno odioso era il lato morale della giurisdizione, che poneva i sudditi di Atene come sotto una perenne tutela. Quando si pensa che al potere giudiziario sono affidate la sanzione e la norma di tutti gli atti della vita sociale di un popolo, che ad esso si collegano quistioni altissime d’interesse economico e politico, e che nell’evo antico la giustizia invadeva campi più gelosi e funzioni più vitali che nel mondo odierno — i frequenti grandiosi dibattimenti, in cui l’esilio o la perdita del capo e delle sostanze era, da parte d’intere classi sociali, la sorte consueta, valgono per tutti —, si capisce come disporre della vita giudiziaria d’una nazione equivalesse senz’altro all’esercizio di una tirannide quasi illimitata. Soggezione politica. Ma non era la sola vita giudiziaria a subire il controllo e la signoria di Atene. La misura della libertà e dei diritti politici, da questa lasciata ai soggetti, rimaneva — come il loro danaro, come la giustizia — al buon grado dell’opportunità della concessione e del momento; e dacchè essa era la suprema dominatrice, i suoi cittadini si ritenevano in diritto della riconoscenza degli alleati pel solo fatto di non averli privati di beni maggiori[310]. Di tutto ciò noi non possediamo che accenni, ma essi sono troppo eloquenti per non illuminarci della dura realtà. Perchè l’alleanza e la sudditanza riescissero perfette, e non dessero luogo ad attriti troppo frequenti, Atene credeva opportuno determinare _a priori_ la costituzione delle città a lei confederate, ossia abbattervi i governi oligarchici e inaugurarvi governi democratici[311]. Certo, questi ultimi avevano con il regime ateniese profonde affinità di aspirazioni sociali, ma venivano di regola a trovarsi in crudele conflitto con la natura organica di quelle società così violentemente turbate. Nè i particolari della terribile operazione erano semplici e piani. Occorreva spogliare del governo coloro che lo possedevano, decretarne, o farne decretare, l’esilio e, con l’esilio, la confisca dei beni; poi spartirne le sostanze tra gli avversari e tra gli improvvisati amici dell’ultima ora[312]. L’opera non era ancora finita. Il nuovo assetto politico andava regolato e studiosamente sorvegliato; il che dava luogo a ulteriori, fastidiosissime, minute disposizioni[313]. Talora la libertà dell’ordinamento politico era un dono che Atene dichiarava esplicitamente di _largire_[314] per ritoglierlo, quando le se ne porgessero facili il destro e l’occasione[315]. E in ogni modo la sua costante divisa sarà sempre che «per un tiranno, come per una città a capo di un impero, l’utile dev’essere l’unico criterio logico dei propri atti»[316]. La inframmettenza ateniese sapeva ricercare vie più intime e segrete. Atene spediva presso gli alleati — nè l’amara esperienza della prima Confederazione era riescita a farla accorta del danno che con questo arrecava a sè medesima[317] — suoi commissari in qualità di magistrati, paragonabili (crede bene avvertirci un antico) agli odiati _armosti_ spartani[318], nonchè degli esosi ufficiali d’ispezione[319]; richiedeva ostaggi, imponeva disarmi[320], e, in tempo di guerra, o, magari, di pace[321], guarnigioni militari, formate di vagabondi e di mercenari, che l’istinto e i bisogni eccitavano in gara al bottino, e comandate da ufficiali con piena licenza di insolentire contro coloro ch’essi avrebbero dovuto proteggere[322]. La vanità della così detta autonomia degli alleati ateniesi si palesava in quegli stessi ordini di affari, che riguardavano i loro più delicati rapporti politici con Atene. Che ciò sia avvenuto fin dalla prima Confederazione ateniese è ormai fuori dubbio, ma la seconda non se ne rese meno colpevole. Questa poteva dirsi costituita da una diarchia, rappresentata per un verso dal _Comitato federale_, e, per un altro, dall’assemblea popolare della città egemone. Ma le decisioni del primo non avevano che un semplice valore platonico; toccava al _demo_, ossia al popolo ateniese, confermarle o rigettarle inappellabilmente[323], con quanta soddisfazione degl’interessi comuni è facile immaginare. Se tanto Atene si permetteva nella vita interna dei suoi alleati, assai maggiori dovevano essere i suoi arbitrii su quanto concerneva la loro politica estera, la parte più sensibile della vita delle nazioni[324]. E la cosa era questa volta perfettamente naturale. Ogni alleanza implica per definizione una limitazione della indipendenza dei rapporti esterni degli Stati, che vengono a comporla; tanto più se quest’alleanza è niente altro che la larvata o aperta egemonia di un grande Stato su molti staterelli minori. Il primo potrà concedere a questi ultimi le più ampie libertà di regime interno; ma dovrà con polso fermo impedire che i suoi sedicenti alleati orientino le loro amicizie o i loro odî in modo differente di come esso abbia a desiderare. Ancor meno potrà consentire che, in seno al suo impero, si formino pericolose Confederazioni minori, naturalmente destinate a rafforzare le città soggette nei loro eventuali contrasti con la città dominatrice. Ogni città egemone vuole trattare singolarmente con ciascuno dei sudditi, non con gruppi di nazioni confederate. Così accadde nella Repubblica romana; così nel mondo medioevale; così segue nel mondo moderno; così seguì in seno alla Confederazione marittima ateniese. E poichè, naturalmente, lo sforzo supremo degli Stati dipendenti fu sempre quello di reagire e di coalizzarsi a tale scopo, ne seguirono periodiche violenze, alterne repressioni, di cui ciascuna segnò il ricorrere di nuove amarezze e di nuove umiliazioni. I mali, inevitabilmente connessi con l’impero di Atene, venivano considerevolmente aggravati dalla malvagità che gli uomini ponevano nell’esercitarlo. La fedeltà o l’infedeltà degli alleati erano, a tale proposito, un argomento magnifico, che la fungaia dei politici o dei politicanti sfruttava a proprio vantaggio, tal quale come, fra i cittadini, il patriottismo e l’antipatriottismo formavano materia inesausta di guadagni per il numeroso, famelico stuolo dei sicofanti. Gli oratori ateniesi, racconta un personaggio di Aristofane, «estorcono alle città ben 50 talenti, ponendo il minaccioso dilemma: — O voi versate i tributi, o io tuonerò perchè la vostra città sia rovesciata dalle fondamenta.... — ». E gli alleati, atterriti «recano loro doni: vasi ricolmi di pesci salati, vino, tappeti, formaggi, miele, sesamo, guanciali, anfore, vesti, corone, monili, tazze ed ogni ben di Dio....»[325]. «E allorchè», soggiunge altrove malinconicamente il poeta, durante la guerra «la dea della Pace, per amore di questa terra, accennava a far capolino.... [gli oratori] assalivano gli alleati più ricchi, accusandoli di favoreggiare i nostri nemici.... E quelli, consapevoli dei mali che loro sarebbero toccati, si affaticavano a turare con l’oro la bocca di quanti arricchivano col maltrattarli....»[326]. L’espropriazione delle terre degli alleati. Ma neppure la perdita della libertà era il danno maggiore fra tutti. Un numero infinito di volte gli alleati perdettero, con questa, la vita, la patria, la proprietà a maggior gloria dei dominatori dell’Attica. Nè intendiamo riferirci al diritto di possesso che gli Ateniesi si arrogavano dei prodotti minerali di parecchi territorî alleati. La confisca delle miniere tracie, pomo di discordia fra Atene e Taso, e causa prima ed esclusiva dell’assoggettamento di questa isoletta, potè essere anche un episodio eccezionale[327]. Intendiamo invece accennare all’istituto delle colonie (le famose _cleruchie_), scongiurato e interrotto solo per breve ora, alla ripresa della seconda Lega ateniese[328]. La _cleruchia_, ossia la deduzione di colonie sui territori alleati, fu il mezzo ordinario, cui il governo di Atene (come quello di molte altre città, di Siracusa in Sicilia, di Roma nell’Italia antica) ricorse, ora per intimidire e distogliere i riottosi dal pensiero della defezione[329], ora per imporre un alto concetto del proprio potere, ora per sopperire ai bisogni dell’esuberante popolazione[330]. Ogni vittoria ateniese, ogni repressione del più lieve tentativo di rivolta tornò così a legittimare l’espropriazione del suolo e della patria altrui. Sciro, Lemno, Imbro, l’Eubea, Egina, Potidea, Delo, Lesbo, Melo, il Chersoneso tracico, Nasso, Andro, la Tracia, il Mar Nero, tutto l’Egeo erano popolati da cleruchi dell’Attica, sottentrati all’antica popolazione indigena, esiliata, tratta in ischiavitù[331], o barbaramente massacrata[332]. E assai più vasto sarebbe stato il cumulo delle rovine, di cui Atene sognava farsi autrice, se la sua mala sorte non glielo avesse alla fine impedito. «Noi», dichiarava Alcibiade alla vigilia della spedizione di Atene contro Siracusa, «noi non possiamo tracciare _a priori_ limiti al nostro impero; chè ci è forza, quando siamo pervenuti ad un certo segno, insidiare a danno di taluni, non risparmiare altri, perchè a noi incombe il pericolo di essere dominati, se noi stessi altrui non dominiamo....»[333]. E più tardi soggiungerà: «Noi veleggiammo alla volta della Sicilia, mirando anzi tutto ad assoggettare i Sicelioti; poi saremmo mossi contro gli Italioti; indi avremmo fatto una punta contro l’impero Cartaginese e contro Cartagine stessa; e, se la fortuna ci avesse assistito in tutte o nella massima parte di queste imprese, trascinando con noi tutti i Greci della Sicilia e dell’Italia, stipendiando molti barbari, nonchè gli Iberi ed altri barbari bellicosissimi che abitano in quelle regioni, ci saremmo accinti ad assalire il Peloponneso. Le foreste italiche ci avrebbero somministrato il legname necessario alla costruzione di nuove flotte. E bloccando per mare l’intera penisola, e assalendo con le fanterie dalla parte di terra, ne avremmo espugnato o assediato le città. Così speravamo di riescire facilmente a debellare il Peloponneso e poscia a conquistare l’impero su tutta la Grecia. Il danaro e le vettovaglie, per tanta impresa ci sarebbero stati forniti in copia dall’annessione di quelle terre, senza aver bisogno di impiegare le risorse nazionali....»[334]. Così, febbricitante di ambizione, farneticava il successore di Pericle, il nuovo duce della democrazia ateniese. Nulla di strano quindi se, al rinnovarsi della Confederazione ateniese, nel 377, le cittadine alleate abbiano cercato, di garantirsi, come da tanti altri, anche da un siffatto pericolo, impegnando Atene a non fondare cleruchie fuori dell’Attica e i cittadini ateniesi, a non costituirvisi possedimenti fondiari[335]. Anche questa solenne promessa doveva essere violata! Nell’atto stesso in cui rinnovavano l’alleanza, gli Ateniesi possedevano cleruchie a Lemno, Imbro, Sciro. Più tardi altre ne fonderanno nel Chersoneso tracio, a Samo; e allo scoppio della rivolta suprema — la _Guerra sociale_ —, nuovamente, tutto l’Egeo sarà popolato di coloni ateniesi[336]. Ecco perchè nazioni greche, le cui risorse naturali erano superiori a quelle ateniesi, e più vantaggiosa, forse, la naturale positura nei rispetti commerciali — Tera, l’Asia Minore, Delo, Rodi — ove le tracce dell’età micenea ed eroica, e i lucidi, felici intervalli dei secoli successivi testimoniano una civiltà grandiosa e una non minore capacità di progresso; ecco — diciamo — perchè, incalzate da tanta violenza, dileguarono a poco a poco nell’ombra, sì che di loro ci riesce impossibile narrare le vicende o rilevare i tratti caratteristici della oscura fisonomia storica. L’imperialismo e la decadenza di Atene. Ma, come sempre, quasi per legge fatale della storia, i rovinosi effetti dell’imperialismo rimbalzavano a danno della città imperialista, sì da strappare dalle labbra di uno dei suoi più miti cittadini la requisitoria più sanguinosa. «I pericoli che ci minacciano da ogni lato, la ruina di quella costituzione democratica che fece grandi e felici i nostri antenati, tutto il cumulo dei mali che noi infliggiamo agli altri o dagli altri furono inflitti a noi stessi, tutto dobbiamo» «a questa fatale cupidigia dell’impero marittimo», «che, qualora magari ci venisse offerto spontaneamente, noi non dovremmo a nessun patto accettare»[337]. «Codesto impero non può tornare a nostro utile, ed a noi stessi è dato convincercene, confrontando lo stato della nostra città innanzi e dopo la sua potenza coloniale». «L’antica repubblica di tanto supera per valore e per merito la nuova, di quanto, nella virtù e nella gloria, i Milziadi, gli Aristidi, i Temistocli sovrastano ad un Iperbolo, a un Cleofonte e a tutti i demagoghi dei nostri giorni. A quei tempi il popolo non s’era ancor reso spregevole per infingardaggine, per miseria, per vana gonfiezza di speranze. Allora era capace di mettere in fuga chiunque avesse osato porre il piede nell’Attica; allora esso correva primo al pericolo, ove lo chiamava la salute della Grecia, e in tal guisa si guadagnò il libero e sicuro affidamento di molte città. L’esercizio dell’impero ci fu fatale; ci fece perdere la rinomanza di cui godevamo presso tutti i popoli; c’infuse biasimevole intemperanza, codardia, sì che, mentre prima sconfiggevamo i nemici che venivano ad assalirci, ora non osiamo più batterci con loro dinanzi alle mura; e, in luogo di quella benevolenza, che riscotevamo dagli alleati, e dell’onore, che i restanti Greci tributavano alla nostra virtù, l’impero ci procurò un odio così grande, che avrebbe portato la rovina della nostra città, se non avessimo trovato gli Spartani, nostri antichi nemici, più benevoli di quello che non lo furono i nostri alleati. Nè possiamo rimproverar loro di aver agito ostilmente contro di noi; giacchè tali li facemmo col soverchiarli e con lo straziarli». «Allorchè, sbalorditi dalla improvvisa ricchezza, senza la menoma preoccupazione, magnificammo la fortuna di Atene, l’iniquità che l’aveva introdotta s’apparecchiava a dar fondo anche ai beni che giustamente possedevamo». «Quando l’esercito spartano stava accampato nell’Attica, quando il cuneo di Decelea era piantato nel cuore del nostro Paese, noi veleggiammo alla conquista della Sicilia, abbandonando senza rossore la patria devastata per assalire chi mai non ci aveva offesi. Non più padroni dei nostri borghi e delle cose nostre, vaneggiammo conquistare l’impero della Sicilia, dell’Italia, di Cartagine»[338]. E «duecento navi, spedite in Egitto, vi trovarono coi loro equipaggi la morte; a cencinquanta furono tomba le acque di Cipro; ben diecimila uomini — parte cittadini, parte alleati — vennero tagliati a pezzi in Tracia[339]; le acque della Sicilia ingoiarono 40.000 soldati e 240 triremi; da ultimo, altre duecento l’Ellesponto. Ma chi può noverare i disastri minori? E tutte queste sciagure ricorrevano periodicamente ogni anno; ogni nuovo giro di sole assisteva a nuove pubbliche esequie»; «i sepolcri s’empivano di cadaveri di cittadini, e le file della cittadinanza, d’ignoti stranieri.... Antiche e gloriosissime famiglie, che avevano sfidato l’oppressione dei tiranni e il turbine delle guerre persiane, furono schiantate dalle radici, mentre noi correvamo dietro alla follia del nostro impero.... Noi menammo una vita da banditi, ora nuotando nell’abbondanza, ora travagliati dalla carestia, con l’assedio alle spalle e la ruina sul capo». «Noi tenevamo con le nostre guarnigioni le altrui fortezze, e le nostre erano in balía dei nemici. Strappammo i figli dalle braccia dei genitori per tenerli in ostaggio, e fummo costretti a vedere i nostri figlioli, durante l’assedio, languir di vergogna e di miseria. Mietemmo ove non avevamo seminato, e non ci fu concesso per anni ed anni di rivedere la terra nostra. Di guisa che, ove taluno ci chiedesse se per un sì breve e disastroso dominio vogliamo tornare ad esporre la patria alle subite sciagure, niuno, che non sia un disperato, un empio, un uomo senza genitori e senza figli, un perfetto egoista, di null’altro curante che del breve corso della sua vita, risponderebbe affermativamente». «Codesto sedicente impero non è che un malaugurio, il quale rende peggiori coloro che lo possiedono»[340]. L’imperialismo spartano. Se tale fu l’imperialismo d’Atene, ossia di uno Stato, che accolse in sè le caratteristiche migliori della civiltà antica, e che, ad onta di tutte le sue colpe, seppe sfruttarlo nella forma meno biasimevole e in vista di taluni fra gl’interessi più elevati della civiltà, quale non dovette essere la durezza del governo imperiale, esercitato dalle metropoli, sue contemporanee od ereditiere, Sparta, Tebe, Siracusa? L’impero di Sparta era nato male. Era nato in un’orgia di sangue e di ferocia, celebrata ai danni di una nazione, congiunta per schiatta: la Messenia. Un popolo intero, in parte travolto nella più dura delle schiavitù, nella tremenda condizione di Iloti, in parte costretto a esulare; un Paese di circa 3000 km^2, già benedetto dal sorriso della natura, sacrato al deserto, alla barbarie, alla devastazione: tale era stata la cerimonia inaugurale dell’imperialismo spartano. Poi vi avevano fatto seguito una serie di guerre fortunate in Arcadia e contro l’Argolide, che le avevano fruttato l’annessione della Cinuria e il passaggio, sotto l’egemonia spartana, di parte dell’Acaia, dell’Elide, della Sicionia, della Corinzia, dell’Argolide, eccetto Argo. L’impero spartano si stendeva ora sur un territorio di circa 13.000 km^2[341]. Se non che le nuove conquiste non erano più consistite nella diretta annessione di nuovi territorî, ma nella formazione di nuove alleanze, fornitrici d’armi e di tributi solo in circostanze straordinarie[342]. Vero è che la luce di tanta liberalità era oscurata da cupe ombre. Sparta non era tenuta a far noti ai suoi alleati gli scopi delle guerre ch’essa intraprendeva. Questi, anzi, potevano essere senz’altro trascinati a combattere contro nazioni, fin allora ad essi legate da vincoli d’amicizia[343]. Vero è che agli obblighi teorici di ferrei accordi federali, Sparta preferiva il fatto concreto della costituzione e della esistenza di governi oligarchici in seno alle città alleate[344]. Ma, fino alla grande guerra con Atene del 431-404, la maggiore, apparente scioltezza dei vincoli federali del Peloponneso, la mancanza di un tributo fisso, avevano fatto sì che molta parte dei Greci guardassero con accorata simpatia alla remota e silente regina della Laconia. Il suo «libero» federalismo era stato, per lunghi anni, la bandiera ch’essa avea sventolata contro la invisa gloria di Atene, la quale pur tuttavia non contava nel suo passato il triplice sterminio della Messenia. Nel 432, allorchè i Corinzi l’avevano invitata a mettersi alla testa della guerra per il riscatto della Grecia dalla tirannide ateniese[345], Sparta aveva fatto sapere alla sua rivale che avrebbe potuto continuare nella pace solo nel caso che ai Greci, gementi sotto la sua tirannide, venisse restituita l’indipendenza[346]. «La vostra richiesta di autonomia — ripeteva poco più tardi, nel 429, il re spartano, Archidamo, ai Plateesi — è pienamente giustificata. Secondo il re Pausania vi concesse, vivete pure liberi e aiutateci a liberare quanti, affrontando gli stessi vostri pericoli, fecero lo stesso vostro giuramento, e ora sono soggetti agli Ateniesi! Tutto questo apparato di guerra _è per la libertà loro e per quella degli altri_. Se voi volete parteciparvi, rimanete fedeli al giuramento; se no, state paghi di ciò a cui vi invitammo, e conservate pure le cose vostre e rimanete neutrali, e ricevete l’amicizia di ambo le parti, _non mai, però, per forza d’armi. Questo a noi basta_»[347]. Le libere parole di Archidamo ricevono un’autorevole conferma dal discorso, che nel 424 il generale spartano Brasida rivolgerà agli antichi alleati ateniesi della penisola tracica: «Io sono qui, non pel vostro danno, ma per la liberazione dei Greci. I magistrati spartani mi hanno giurato nella forma più solenne che tutti gli alleati che procurerò loro resteranno indipendenti....»; «io non vengo per fare gl’interessi di una fazione locale o per rovesciare la vostra costituzione, giacchè una indipendenza di questo genere sarebbe più intollerabile del dominio straniero». Noi sappiamo che, se v’ingannassimo, «ci attireremmo censure più severe di quelle meritate dagli Ateniesi, che non hanno mai fatto dichiarazioni di libertà, giacchè, per chi sta in alto, accrescere la propria potenza con l’inganno specioso è colpa maggiore dell’aperta violenza»[348]. Non si sarebbe detto, ma non passeranno molti anni, che le chiare promesse e i solenni giuramenti di Sparta avranno subìto la più categorica delle smentite, e Atene godrà della vendetta più allegra, se non più meritata. Le dure prove della lunga Guerra peloponnesiaca, le ripetute devastazioni del territorio nazionale, le perdite di uomini e di denari, i debiti contratti, l’orgoglio e la baldanza, ispirati dalla vittoria, non mancarono di produrre i loro effetti naturali. Già le prime durezze e i primi malcontenti erano cominciati in sullo scorcio della guerra. Nell’anno in cui il così detto trattato di Nicia sembrava per un momento pacificare il confuso mondo ellenico, nel 421, diciamo, l’antico blocco delle forze peloponnesiache si incrinava; la fedeltà di Corinto, la città maggiormente responsabile della guerra testè chiusa, balenava, e subito dopo Atene riusciva a trovare alleati nell’Elide e in Arcadia. L’esercizio dell’impero era tornato molesto. Ma non si trattava che di un mite esordio. Appena la battaglia di Egospotamòs ebbe rovesciata al suolo la potenza di Atene, il generale spartano Lisandro si affrettava a percorrere tutte le isole e le città litoranee dell’Egeo, provocando ovunque quei tali rivolgimenti delle antiche costituzioni, la cui sola possibilità Brasida aveva, venti anni prima, smentita, sostituendo alle preesistenti democrazie delle feroci oligarchie, introducendo guarnigioni spartane[349], imponendo un tributo doppio di quello ateniese[350], negando agli alleati di ieri i frutti della comune guerra, lunga e sanguinosa. Il governo così detto de _I Trenta_ in Atene (404-403) è l’esempio più significativo dell’immane tormenta, in cui Sparta travolse la vita di tutti i Paesi dell’Egeo. Gli alleati di Atene s’erano una volta, presso Sparta, lagnati della durezza della loro città egemone. «Se un giorno», aveva malinconicamente replicato un ambasciatore ateniese, «il nostro impero venisse a passare in mani altrui, il confronto metterà tosto in evidenza con quanta moderazione noi ne usavamo»[351]. L’infausto presagio non poteva attendere conferma più solenne! Le oligarchie imposte da Lisandro, che sconvolgono tutti i naturali processi storici delle città dominate, sfogano adesso la più crudele vendetta contro gli antichi avversari. Si perpetrano arresti, esecuzioni — illegali, magari rispetto alle nuove norme di governo —, confische, esilî, per vendetta e per ingordigia, sui cittadini e sugli stranieri, da parte di pubblici ufficiali e da parte di privati[352]. Si disarmano i liberi, si drizzano liste di proscrizione, si violentano i fanciulli e le donne.... È l’impero incontrastato della ferocia, del sangue, della lussuria, che uno dei maggiori colpevoli giustificherà con un argomento, che, venti e più secoli di poi, ricorre sulla bocca inconsapevole di un terrorista francese: «La nave della rivoluzione non si conduce in porto se non su flutti di sangue»[353]. I cittadini disperati preferiscono la morte a tanta ignominia[354]. Perfino Sparta ha un attimo di pudore; per un istante inorridisce di se medesima, e, poco dopo il 404, riprova la condotta del generale, ch’era stato il classico interprete del suo novello imperialismo[355], consentendo alle città alleate di ristabilire gli antichi governi[356]. Ma non si trattava che del ravvedimento di un’ora, e la politica di Lisandro verrà poco di poi trionfalmente ripresa da Agesilao[357]. Fin dove la misura poteva essere colma, essa lo fu. «Gli Spartani», dirà Isocrate, «non hanno lasciato a chi voglia in avvenire peccare, mezzo alcuno di superarli.... Quale iniquità non perpetuarono? Quale turpitudine o quale atrocità non commisero? Largirono la propria fiducia ai quotidiani violatori delle leggi; onorarono i traditori non altrimenti che benefattori.... circondarono di affetto più che paterno i sicari dei propri concittadini.... Ci gravarono da tanta moltitudine di mali, sì da impietrare l’animo di noi tutti, sì da farci impassibili allo strazio degli altri», «sì da non lasciarci più il tempo di dolercene». «Niuno sfuggì ai loro colpi; niuno potè tenersi tanto lontano dalla vita pubblica, da sfuggire ai pericoli, in cui essi ci precipitarono.... In tre mesi hanno mandato a morte senza processo un numero di cittadini maggiore di quelli che Atene non citò in giudizio per tutto il tempo della sua supremazia.... I corsari tengono la signoria del mare; i mercenari, quella delle città. I cittadini, in luogo di combattere per la patria contro i nemici, si accaniscono fra loro entro la cerchia delle proprie mura. Il numero delle città fatte schiave si è moltiplicato, e il turbamento quotidiano di tutti gli ordini civili ha fatto sì che stiano meglio quelli che stanno peggio: gli esuli, piuttosto che i rimasti in patria.... Talune delle città sono state distrutte, altre sono divenute preda di barbari.... Gli Spartani un tempo protestavano altamente contro il nostro legittimo impero su qualche città; oggi non curano la turba degli schiavi ch’essi hanno fatti. Oggi non basta pagare tributo e vedere le propine fortezze in mano ai nemici; oggi le pubbliche calamità non sono iattura sufficiente; oggi i nuovi sudditi patiscono, sul loro corpo, trattamenti più duri di quelli dei nostri schiavi mercenari.... E per colmo di miseria costoro si vedono costretti a militare con gli Spartani in difesa del proprio servaggio, costretti a combattere contro chi vuol essere libero; sì che, se saranno vinti, tosto dovranno perire; se vincitori, precipiteranno in una schiavitù peggiore della presente....»[358]. Isocrate non è il solo a parlarci così; nè queste sue parole sono dettate dal suo naturale pacifismo. I metodi spartani vengono concordemente stigmatizzati da tutti gli storici, da tutti gli oratori del tempo. La prova più palpabile delle colpe di Sparta, nell’esercizio dell’impero in Grecia, è data dalla fulminea rivoluzione di sentimenti che quella condotta ebbe a provocare, sì che, appena pochi mesi dopo, quelli stessi che l’avevano acclamata liberatrice le si rivoltavano contro furiosi. La rivoluzione degli spiriti precedeva la rivoluzione dei fatti, e, nel 394, il crollo dell’impero marittimo spartano, dopo dieci anni di strazio e di dolore, preannunziava la fine prossima dell’antico impero terrestre. In quei giorni l’impopolarità e l’odio erano giunti a tale, che la sola notizia della disfatta di Cnido bastava a rendere inscongiurabile la fuga degli armosti spartani da tutte le isole ch’essi avevano crudelmente tiranneggiate. L’ateniese Conone e il persiano Farnabazo s’erano visti accolti dovunque come liberatori, e la nuova opera di restaurazione poteva compiersi senza spargimento di sangue. Ma se tale era stata la febbre della liberazione in gente, che il giogo spartano aveva sperimentato solo per pochi anni, quale non fu più tardi l’entusiasmo del Peloponneso all’annuncio del piegare di Sparta sotto l’urto delle vittorie tebane! Anche sul Peloponneso la vittoria di Egospotamòs e, più tardi ancora, la pace di Antalcida, avevano fatto passare le raffiche della reazione. L’Elide era stata invasa e messa a ferro e a fuoco; Argo, Corinto, Fliunte, soggette a degli armosti; gli alleati tutti, non che esclusi dai vantaggi della guerra, citati senza testimoni e senza difesa a comparire in un giudizio, che porrà capo allo smembramento della grande Mantinea[359]: esempio insigne dei criterî dell’alta politica spartana, che mirava egualmente ad infrangere le federazioni e a polverizzare in villaggi le città maggiori. Senofonte narrerà che quell’esecuzione era stata accolta con favore da buona parte dei cittadini[360]. Ma qualche anno dopo, alla notizia della sconfitta spartana di Leuttra, i «soddisfatti» adottano unanimi la proposta di restaurare la città e l’antica unione politica, e una folla di esuli e di cittadini accorre da ogni parte ad offrire l’aiuto materiale delle proprie braccia. Gli Elèi spediscono trenta talenti. Sparta pregherà invano che non le venga inflitta l’onta di sì umiliante disprezzo; invano prometterà il suo rapido consenso. I Mantinei rispondono ch’è troppo tardi e che più non è il caso di consentire a sì mite richiesta[361]. Ma che dire del visibilio di gioia, da cui il Peloponneso fu percorso alla prima invasione di Epaminonda e alla proposta della fondazione, non diremo di Megalopoli, ma di Messene? L’ora tragica della metropoli crudele, che aveva insolentito contro sudditi e contro alleati, che ne aveva disertato le città con le sedizioni, che le aveva inondate di sangue, che — senza rispetto per avversari o per amici — aveva saccheggiato l’Asia, infestato le isole, spento le repubbliche della Magna Grecia, seminato di tirannidi l’Ellade, straziato persino il fedele Peloponneso, era finalmente sonata. Quel grande giorno doveva essere consacrato dalla risurrezione della terra che più essa aveva insanguinata: la Messenia. Perciò fu deliberata la fondazione della città di Messene. L’opera venne fatta precedere da sacrifizi solenni a tutti gli Dei, agli eroi e alle eroine della infelice nazione, perchè discendessero in ispirito a rioccupare l’antica loro sede. Il circuito fu segnato e le prime pietre deposte al suono di liuti e di canti. Eseguivano e diligevano il lavoro i migliori operai ed i migliori architetti, invocati da tutta la Grecia, e pareva che, non una città risorgesse, ma che la Libertà ridiscesa in terra celebrasse la sua apoteosi. Ma già le raffiche dell’imperialismo spartano, come di qualsiasi imperialismo, erano, fatalmente, tornate a rimbalzare sulla nazione che le aveva scatenate. «Gli Dei», esordisce malinconicamente il non sospetto Senofonte, «gli Dei non dimenticarono nè gli empi, nè gli scellerati, e Sparta che aveva giurato libertà per tutti, ma aveva tenuto in suo potere la cittadella dei Tebani; Sparta, fin allora non mai umiliata da alcun mortale, venne punita solo per mano di coloro che essa aveva violentati»: i Tebani[362]. Ma noi sappiamo come Tebe non fosse che lo strumento inconsapevole di un destino più alto e più implacabile. Non essa ferì a morte la potenza spartana, ma quell’imperialismo, che, con la ricchezza di cui era stato apportatore, rovesciò le basi dell’antica società lacedemone. Noi conosciamo in modo positivo il lento processo di tanto rivolgimento[363]. Gli antichi, in forma meno perspicua, ma non per questo meno sicura, ebbero egualmente l’impressione del fatto grave e incontestabile. «Erra», scriverà Isocrate, «chi [all’episodio della disfatta di Leuttra] attribuisce la causa della decadenza degli Spartani. Non per questa sciagura, ma per le colpe degli anni precedenti, essi furono vinti e costretti a combattere per la propria esistenza. Non si devono trasferire le cagioni dei mali agli eventi che seguirono dopo; non bisogna riportarli alle colpe originarie, che determinarono le sciagure successive. Vera e prima origine di ogni loro sciagura fu il dominio del mare. Esso dette agli Spartani una potenza non mai veduta»; onde «l’intemperanza nell’usarne finì con far loro perdere anche l’impero terrestre. Immemori dei patrii costumi e delle antiche istituzioni, stimando lecito fare tutto quello che loro fosse talentato, precipitarono in gravi frangenti. Non intesero quale pericolosa Sirena si fosse codesta sovranità da tutti vagheggiata, nè come riesca difficile, a chi una volta assapora la dolce ebbrezza del suo amore, non finire con l’impazzarne del tutto!»[364]. L’imperialismo tebano. Tebe è la terza fra le città elleniche, le quali, dopo avere, al pari di Atene e di Sparta, per lunghi anni tiranneggiato nell’àmbito della propria contrada, pervennero per un istante a conseguire un impero, che fu tra i maggiori della Grecia. Pur troppo, le condizioni del suo dominio riuscirono singolarmente oppressive, chè, se Atene e Sparta avevano, per qualche tempo, governato senza suscitare malcontenti, i rapporti di Tebe con quelle che essa diceva sue proprie colonie, ci si disegnano in un perenne incrociarsi di odî e di violenze. La costituzione dell’impero tebano non sembrava, in astratto, peggiore di quella ateniese. In sui primi del IV sec. a. C., la Beozia era distribuita in undici distretti, di cui ciascuno mandava al Comitato direttivo della lega, un _beotarca_ e al Consiglio federale, 60 _bulenti_; versava imposte, forniva contributi militari pari ad 1/11 dell’ammontare totale, ed eleggeva, con lo stesso sistema, i giudici del tribunale federale, incaricato di discutere le cause di una certa importanza, riguardanti i cittadini di ognuna delle città alleate[365]. Tale la costituzione della Beozia nella prima metà del secolo IV a. C. e, salvo particolari insignificanti, in tutto l’agitato periodo che vi precedette. Ma, bisogna guardare un po’ più a fondo per accorgersi che cosa in realtà si fosse questa apparente eguaglianza di diritti e di doveri fra Tebe e le altre città alleate. Ogni distretto non rappresentava una sola cittadina beotica, ma poteva comprenderne due o tre insieme; così come Tebe, col più vasto territorio a lei direttamente soggetto, formava ben quattro distretti. In seno, dunque, a tutti gli organi della lega, talune cittadine valevano per 1/2 o per 1/3, mentre Tebe val sempre per quattro. Essa, quindi, dispone di assai più beotarchi, buleuti, giudici, milizie che non ciascuna delle sue consorelle, e ha tutti i mezzi, legali e materiali, per esercitare su di esse il suo potere quasi assoluto. Tebe manda al senato della lega 240 buleuti; Orcomeno ne porta 60; Tisbe, 40; Aliarto solo 20; Tebe dispone di 4400 soldati; Coronea di soli 370 all’incirca[366]. In conseguenza la celebrata parità di poteri scomparisce, e, in seno alla lega, le città beotiche si trovano di fronte a Tebe nelle identiche condizioni in cui si trovarono, dinanzi alle consorelle maggiori, le minori colonie inglesi dell’America del nord dopo la prima costituzione del 1781, e innanzi il felice compromesso del 1787. Per giunta il governo centrale della lega, in cui Tebe si è fatta la parte del leone, non è soltanto un potere esclusivamente federale. Esso, che ne ha la forza, ama talora invadere il campo riservato degli affari interni delle singole città[367] e, come Sparta, come Atene, rivolgerne violentemente la costituzione[368]. Per giunta, la parola decisiva negli affari più importanti tocca all’assemblea federale beotica[369], alla quale i cittadini dei lontani municipi della Beozia potevano assai di rado partecipare, o, se anche vi partecipavano, erano, come avveniva in Atene, sommersi dalla popolazione urbana della capitale, entro le cui mura l’assemblea aveva luogo. I Tebani non fecero mai mistero di questa loro ambizione di dominare la lega, di esserne gli egemoni, come Atene lo era stata della sua federazione marittima, come Sparta — fu il loro preferito paragone[370] — lo era del Peloponneso; della loro volontà, in una parola, di trasformare la lega beotica in un impero tebano. Le cittadine beotiche, salvo Tebe, sarebbero terre _pericche_[371], così come lo è tutta un’ampia zona della Laconia spartana. Per occhi tebani Platea ha il grave torto di non lasciarsi guidare e dominare (ἡγεμονεύεσθαι) da Tebe[372]. Ma la più clamorosa manifestazione del pensiero politico tebano si ebbe nel duplice, storico duello tra gli ambasciatori di Tebe e i plenipotenziari di Sparta nelle trattative, che precedettero la pace di Antalcida (387)[373], e in quelle tenute a Sparta, che misero capo alla battaglia di Leuttra (371). L’una e l’altra volta la tesi spartana fu per l’autonomia di tutte le cittadine beotiche. Ma i plenipotenziari tebani al convegno di Sparta (il loro autorevolissimo capo fu questa volta, senza meno, Epaminonda,) sfuggono alla risposta, complicandola con la questione dell’assetto della Grecia intera. — La pace, osserva Epaminonda, non può farsi davvero senza porre ogni cosa sur un piede di eguaglianza. Se la Beozia deve essere libera, libera deve essere anche la Laconia; se Platea deve diventare autonoma rispetto a Tebe, lo stesso ha da seguire di Amicle nei confronti di Sparla.... Sono i rappresentanti spartani inclini ad addivenire a questa eguaglianza di trattamento? — Il re Agesilao, che presiede alla conferenza, torna ad invitare Epaminonda perchè non divaghi e dichiari le precise intenzioni della sua città: — È Tebe disposta a proclamare libere le cittadine della Beozia? — Epaminonda ancora una volta elude la risposta, ossia rifiuta il suo consenso. Allora la conferenza è sciolta; Agesilao annunzia che si andrà di nuovo incontro alla guerra, l’unico espediente che potrà tagliare ogni nodo irresolubile[374]. Ed Epaminonda e i suoi colleghi accettano la sfida, e preferiscono la guerra alla libertà della Beozia. Ma con che diritto, in vista di quali necessità superiori, poteva Tebe giustificare la sua egemonia? Se Atene disponeva di un patto originario concordemente giurato; se Atene poteva evocare il duplice spettro della invasione persiana e della tirannide spartana, Tebe ebbe assai di rado qualche ragione legittima, che imponesse l’idea e la necessità pratica della sua sempre vagheggiata confederazione beotica. Innanzi i primi lustri dolorosi del IV secolo, allorchè veramente tutta la Grecia soffoca sotto il calcagno dell’imperialismo spartano, Tebe non aveva potuto invocare a fondamento legittimo del suo impero che oscure, fantastiche, consuetudini regionali[375]. Il pericolo spartano fu presto eliminato dopo Leuttra, ma vi si sostituì subito, per tutta la Grecia, e per la Beozia, il nuovo pericolo tebano. Come, quindi, rassegnarsi a servire e a pagare, in danaro ed in sangue, per gettare le fondamenta di un altro dominio? Noi abbiamo in tal modo, sott’occhio, tutte le ragioni per le quali la storia della così detta Lega beotica è, come le altre, e più che le altre, gonfia di malumori e di sedizioni. Platea, l’eroica vicina di Atene, fu la sua più cordiale nemica, ed al suo esempio tennero dietro Orcomeno, Tespia, Tanagra, Oropo. La stessa nobile ribellione di Tebe contro Sparta del 379-362, che, diretta da un uomo di Stato e di cuore, come Epaminonda, reca, nelle sue alterne vicende, pagine così gloriose, non valse mai a farsele consenzienti. Allorquando, più tardi, nel 335, Alessandro metterà Tebe a ferro ed a fuoco, saranno, non già i Macedoni, sibbene i Plateesi, i Tespiesi, gli Orcomenii a segnalarsi in quell’orgia di odio contro la metropoli disfatta[376]. Appunto per questo lo sforzo che Tebe dovette durare per mantenere in piedi il suo impero, ossia per prolungare la soggezione delle sue consorelle ed alleate, fu assai più duro e costoso che non quello di Sparta e di Atene. Tebe rase due volte al suolo le mura di Platea, nel 427 e nel 373-372, e ne confiscò per sempre il territorio a beneficio, non già della Confederazione, ma dello Stato tebano[377]; smantellò prima (423 a. C.) l’eroica Tespia; poscia, espugnatala, ne cacciò via gli abitanti (373 o 371 a. C.)[378]; e poco più tardi, ordinò uno scempio atroce delle mura e dei cittadini della veneranda Orcomeno, a cui (narrava la tradizione) un giorno la stessa Tebe aveva pagato tributo (368 o 363 a. C.)[379]. «I vostri sudditi», esclamava nel 373, rivolgendosi agli Ateniesi, un oratore di Platea, «i vostri sudditi, appena cessata la guerra, ricevono dai magistrati libera autonomia; i Tebani costringono i loro vicini a una servitù ch’è pari solo a quella degli schiavi, nè mai desistono dal travagliarli e dallo straziarli, finchè non li abbiano sospinti verso quell’abisso di mali, ove già noi precipitammo. Accusano Sparta di aver occultato la Cadmea e di avere stanziato da per tutto guarnigioni.... Essi infatti non stanziano guarnigioni, essi abbattono le mura delle città vinte o alleate; essi le radono letteralmente al suolo, senza rimorsi...»[380]. Per questo appunto, ad ogni giorno, ad ogni ora, in grazia dell’impero da conquistare o da riconquistare, Tebe fu il malo genio di tutta la storia ellenica: adesso alleata dei Persiani, che sembravano più potenti; poi, di Sparta, che le promette la riconquista dell’egemonia, chiedendo in cambio guerra ed odio perenne contro Atene[381]; poi, ancora, di Atene contro Sparta; indi, di nuovo, in guerra contro Atene e contro Sparta per non aver voluto concedere libertà alle città beotiche; infine, vittoriosa, eccola aspirare al dominio di tutta la Grecia. Se tale fu l’imperialismo tebano nei limiti della Beozia, non meno duro esso si palesò nelle estreme regioni dell’impero. L’avveduta e moderata politica di Epaminonda parve ai suoi concittadini un reato così grave, da sospingerli non solo ad annullare i suoi atti politici, ma a negare al suo autore la fiducia di una rielezione a beotarca. Per contro, in ciascuna delle città achee, essi inviarono delle guarnigioni e degli armosti, la cui condotta fu tutt’altro che incensurabile, e ne rovesciarono gli antichi governi, e ne esiliarono i partigiani, gettando il Peloponneso nell’incendio di una guerra civile[382], e tornarono ad ostacolare coi mezzi più violenti l’indipendenza politica di quelle città[383]. «La ribellione [dei Peloponnesiaci all’impero spartano]», giudicava Isocrate, «non portò alcuno dei benefizi che si attendevano. Sospirando la libertà, precipitarono nella servitù; perduti i loro migliori uomini, caddero sotto il governo di pessimi cittadini; cercando l’indipendenza, soffersero numerose e terribili illegalità..., e le lotte intestine, che prima non conoscevano se non per udita dire, sono oggi lo spettacolo quotidiano delle loro città.... Nessuna può vantarsi immune di mali; nessuna sicura da prossimi pericoli, da parte dei suoi vicini. Cosicchè le terre giacciono devastate; le città smantellate; deserte le case; abrogate le leggi; rovesciati gli ordinamenti politici.... E tanto i cittadini diffidano di sè a vicenda, tanto sono esulcerati da odî reciproci, da temere i compatrioti più dei nemici. Non la concordia di un tempo; non l’antico frequente scambio di commerci. Gli uomini aborrono da ogni rapporto civile a tal segno, che i ricchi preferiscono gettare in mare il loro danaro piuttosto che farne parte ai poveri, e questi strapparlo ai ricchi piuttosto che procurarselo lecitamente.... Obliati i sacrifici consueti del culto, i suoi abitatori si sgozzano selvaggiamente sugli stessi altari, sì che i fuorusciti di una sola città superano oramai di gran lunga quelli di ieri, accorrenti da tutto il Peloponneso....»[384]. Ma, come per Atene e per Sparta, così per Tebe, il sangue e le lagrime, spremute da ogni terra, tornavano a ricadere sulla testa dei desolatori. È ancora il pio Isocrate, il flagellatore d’ogni imperialismo greco, ad avvertircene: «[I Tebani], per avere male usato della buona fortuna, non sono più che un popolo vinto ed infelice.... Avevano appena battuto i nemici, che, dimentichi d’ogni cosa, si accinsero ad agitare le città del Peloponneso, a tentar di asservire la Tessaglia; minacciarono i Megaresi, loro vicini, spogliarono Atene di una parte del suo territorio, saccheggiarono l’Eubea, spedirono una flotta a Bisanzio, quasi volessero impadronirsi della terra e del mare. Da ultimo mossero guerra ai Focesi, accingendosi ad occuparne le città e il territorio e a violare i tesori di Delfo.... E rischiavano intanto di perdere le proprie terre, e, scorrendo pel Paese nemico, recavano altrui un danno minore di quello che ora, tornati in patria, subiscono. Avevano in Focide ucciso dei soldati mercenari, ai quali metteva più conto morire che vivere, ed essi, tornati in patria, si sono visti privi dei cittadini migliori e più capaci di abnegazione e di sacrifizio»[385]. Gli Dei non tarderanno a punire tanto orgoglio e tanta violenza. La catastrofe di Tebe, seguìta nel 335; la sua distruzione — sorte orribile, che non era toccata nè ad Atene nè a Sparta — fu (avvertirono gli antichi) un solenne castigo ed un ammonimento divino. «I Tebani avevano violato i patti giurati coi Plateesi e schiantato dalle fondamenta la città», «sul cui terreno sacro i Greci, combattendo contro i Persiani, avevano salvato da servitù la Grecia». «Essi avevano, contro la consuetudine, trucidato quegli Elleni che erano passati agli Spartani; essi avevano perduto col loro voto gli Ateniesi, sostenendo nel Congresso dei confederati peloponnesiaci, l’asservimento della grande città». Perciò la distruzione di Tebe, di questa metropoli che tanto aveva brillato per potenza e per gloria, ma tanto aveva peccato contro la verità e contro la giustizia, non fu senza ragione: «fu l’effetto meritato della vendetta degli Dei»[386]. L’Imperialismo in Sicilia e nella Magna Grecia. Poco diverse furono, sotto questo rispetto, le sorti dell’Occidente ellenico. Anche l’Occidente greco ebbe la sua Atene, e questa fu Siracusa. L’impero siracusano sulle città della Sicilia, e, in parte, sulle città elleniche dell’Italia meridionale, può dirsi si sia svolto in tre grandi periodi: dall’instaurazione della democrazia, dopo la cacciata dei Dinomenidi, alla fine del primo Dionigi (460-367); dalla ricostruzione operatane da Timoleonte alla morte di questo (345-337?)[387]; dagli esordi alla fine della tirannide di Agatocle (312-289). Al colmo del suo splendore, ossia sotto il grande Dionigi, quell’impero teneva in Sicilia due grandi strisce di territorio sulle coste settentrionale e meridionale; sull’orientale, un più vasto paese, che può essere schematicamente raffigurato nella forma di un triangolo, col vertice appuntato sulla lontana Enna; infine, nell’Italia del Mezzogiorno, dominava saldamente il Paese a sud del 39° di latitudine, salvo l’interno, ma non esclusa la campagna Reggiana. Quell’impero, non minore di quello tebano o ateniese, si stendeva per circa 25.000 km^2, contava una popolazione di circa un milione di abitanti, e abbracciava le più famose città greche della Sicilia — Messina, Nasso, Taormina, Catania, Leontini, Siracusa, Camarina, Gela, Agrigento, Terma, Solunte, la nuova Tindaride — e, nell’Italia meridionale, Reggio e Locri[388]. L’organizzazione non ne era uniforme. Il territorio all’intorno di Siracusa si trovava nelle identiche condizioni della Messenia rispetto a Sparta, con una popolazione — i _Calliciri_ — al servizio diretto dell’aristocrazia della metropoli. Le città dell’antico regno siculo di Ducezio, che abbracciava il Paese intorno a Caltagirone, stendendosi poscia fino ai Catania e all’Etna, erano, nell’età di Tucidide, territorî soggetti e tributari (ὑπήκοοι), obbligati, cioè a fornire stabili proventi, nonchè a subire guarnigioni straniere, e tali rimasero fino all’ultimo, ripagando la dominatrice dell’odio più cordiale[389]. Il resto del Paese era popolato di colonie militari e di città alleate. Le prime erano state tratte, non solo dagli abitanti di Siracusa, ma anche dalle popolazioni di altre città, elleniche, indigene o, magari, da contingenti di mercenari, e la loro origine stava a testimoniare una vicenda lacrimosa di spodestamenti, di esilî, di deportazioni, di confische. Del resto le città alleate non partecipavano al governo della madre patria; ne dipendevano, anzi, nei rispetti della politica estera, sottostavano all’obbligo di fornire aiuti in operazioni militari, che il più delle volte esse non avevano sollecitate, di subire guarnigioni e ufficiali siracusani, di non battere moneta, talora, di consegnare ostaggi in garanzia della promessa fedeltà e di vedere la propria giurisdizione, o fors’anco gli altri più notevoli diritti cittadini, alla mercè di magistrati siracusani[390]. Men dura riesciva la sorte delle città alleate. Era loro riserbato il diritto di coniare moneta di bronzo; ma, anche fra esse, imperava l’obbligo di fornire contingenti militari; anche fra esse, come nella Grecia vera e propria, c’erano città alleate autonome e città alleate soggette[391], e l’analogia con gl’imperi della madre patria induce a supporvi alleati immuni da tributo e alleati tributari. Indubbiamente l’impero siracusano in Sicilia rispondeva ad una grande missione storica. Se la prima Lega marittima ateniese aveva salvata la Grecia dalla oppressione persiana, Siracusa salvò per oltre due secoli la Sicilia dalla onnipresente minaccia punica e riescì a formare quivi, contro Cartaginesi e contro Siciliani, un vasto impero ellenico. Eppure la fama e la leggenda, entro le quali l’opera e la memoria dei grandi principi siracusani — del grande Dionigi, sopra tutto — ci pervennero avviluppate, rivelano il malvolere, con cui le città greche, convitate al grande festino politico, tollerarono quella dura «alleanza» imperialistica. La memoria dei tiranni siracusani è, in quella tradizione, tanto maledetta quanto, presso gli alleati di Atene, di Tebe, di Sparta, il nome della città che volta a volta li tenne legati al suo carro trionfale. Neanche in Occidente la mèta luminosa bastò a far perdonare i mezzi con cui quello scopo era stato raggiunto. E le costituzioni cittadine violate, le piccole città assoggettate, colonizzate, sterminate, le popolazioni deportate gridano ancora vendetta contro quelli che osarono sì ferocemente accanirsi sopra di esse. Imperialismi minori. Ma i quattro imperi di Atene, Sparta, Tebe, Siracusa, nelle cui spire si dibatte quasi tutta la storia del mondo ellenico, non ne formano che la trama più esterna e visibile. Noi imaginiamo le antiche cittadine greche come animate dal più indomito spirito d’indipendenza, dal più incoercibile particolarismo. Ed è vero: la terribile prova delle esperienze durate faceva di ogni borgo della Grecia un puledro selvaggio ribelle ad ogni freno. Ma per isfuggire alla servitù ciascuno tendeva febbrilmente a crearsi a sua volta la potenza di un impero. Era la terribile «legge naturale», che Alcibiade aveva illustrata ai suoi concittadini[392]. Per tal modo, in Grecia, non ci fu città che non aspirasse e non riescisse a dominarne delle altre, sì che le grandi Confederazioni elleniche risultavano di Federazioni minori, e queste, a loro volta, di Leghe minime; condizione, talora, legalmente sancita negli statuti e nelle rispettive consuetudini. Per fermarci agli esempi più salienti[393], in seno alla Confederazione ateniese, Mitilene dominava, non solo le città limitrofe, ma l’intera Lesbo[394]; Olinto signoreggiava trentaquattro città calcidiche[395]; in quella beotica, Platea, Scolo, Eritre, Scafe, dipendevano direttamente da Tebe[396]; Aspledone, Olmone, Ietto da Orcomeno; Sifa, Leuttra, Eutreso, da Tespia[397]; un tempo Tanagra vi aveva dominato Eleon, Harma, Micalesso, Fara, Aulide, Hiria[398]; la stessa Platea numerava i suoi sudditi o le sue alleate[399]; nella Lega peloponnesiaca, Mantinea aveva fin dalle origini dominato i municipi limitrofi, e, allorchè si rese autonoma, divenne la città egemone della Lega arcadica, il cui governo fu costretta ad alternare con l’avversa Tegea[400]. Elide dominava un gruppo di minuscole cittadine della Trifilia; Argo, sotto vari nomi e condizioni — nè tutte liete[401] — i centri dell’Argolide e talora quelli delle altre regioni limitrofe[402]. Fin la _Lega achea_, l’unico governo federale ellenico, che la tradizione riconosca veramente tale di nome e di fatto; quella Lega achea, solennemente celebrata da antichi e da moderni per il sincero spirito di libertà, di eguaglianza, di democrazia, di rispetto delle autonomie nazionali[403], fu lo Stato imperialista di tutta una buona parte del Peloponneso, che non aveva voluto accedervi spontaneamente. Anche qui, tal quale negl’imperi ateniese, spartano e tebano, la violenza non mancò di essere il saldo cemento della compagine federale. Mantinea, non mai soddisfatta, nè mai interamente soggiogata, più volte umiliata e più volte felicemente ribelle, vide da ultimo i suoi cittadini, in parte trucidati, in parte ridotti in schiavitù, subire l’infamia del mercato o della deportazione[404]. La Messenia e la Laconia, l’una e l’altra suddite coatte e perennemente irrequiete, mossero alla Lega una guerra incessante, con le defezioni, con le armi, coi maneggi pericolosi presso i nuovi dominatori, che apparivano all’orizzonte: i Romani; nè mai si chetarono se non quando l’una riescì a liberarsi; l’altra, a provocare la ruina della Lega e, con essa, della indipendenza della Grecia tutta[405]. I metodi imperialistici di Sparta, di Atene, di Tebe passarono in seno alle federazioni greche dei secoli III-II a. C. Interi territorî e grandi e gloriose città facevano parte di queste Leghe, ma quali sudditi incalcolati di un lontano governo, cui essi dovevano un contributo annuo, senza però riescire ad esercitare alcuna influenza sopra di esso[406]. I vari Stati della Lega subivano singolari restrizioni circa la libertà di commercio e il diritto di proprietà[407], nè le rade e brevi assemblee federali erano più che una lustra. Tutti i poteri restavano in mano a governo centrale, sino a cui difficilmente le voci e gl’interessi dei più riuscivano a farsi strada[408]. Peggio ancora, le ingerenze di questo governo, in seno ai singoli Staterelli, erano più fastidiose, talora, più crudeli di quelle che noi apprendemmo a conoscere nelle Federazioni ateniese o spartana. Il governo della Lega favoriva in ciascuna città tutti quei colpi di mano, che valevano a sostituirvi il potere dei suoi fautori a quello dei suoi avversari o dei tepidi e rassegnati amici. Ogni insurrezione fallita portava seco la consegna al governo federale degli autori della rivolta, l’introduzione di una guarnigione[409], il disarmo della città, la trasformazione delle sue istituzioni[410], il suo avvilimento politico[411], l’esilio di intere classi di cittadini, la spartizione del suolo a favore di nuovi cleruchi[412], finalmente, l’esaltazione ai pieni diritti politici di quei ceti della popolazione che fin ora ne erano rimasti esclusi[413]. Altrettanto è a dire delle minori Leghe tessalica, epirotica, focese, calcidica e, più ancora, dell’etolica[414], le quali, dai pochi accenni che le fanno conoscere, si appalesano altrettante tirannie mascherate all’interno, altrettante coalizioni imperialistiche all’estero, sfruttatrici a un tempo dei nemici e degli alleati. Ma tutto quello che i ricorrenti fraterni regimi federali non avevano osato, lo faranno sperimentare in una volta sola prima l’imperialismo macedone, poscia l’imperialismo romano, il quale ultimo, per la sua importanza e per la sua durata, non può non esorbitare dai limiti del presente capitolo. L’imperialismo macedone. L’imperialismo macedone! Ma come determinarne la portata? Come definire l’indefinibile? Come fissare il _mobilis in mobile_? L’imperialismo macedone fu dapprima, a motivo del turbamento e del disordine che, fin circa settant’anni dopo la morte di Alessandro Magno, regnò intorno alla successione della Macedonia, poscia, a motivo della caotica incertezza di relazioni fra gli eredi fortunati e la Grecia, un male imprevedibile ed inscongiurabile, un flagello vario, proteiforme, minaccioso e fugace, gravido di ruine e di illusioni; un bottino, un rovescio d’ordini e di cose, in mezzo al quale, sulle membra semirrigidite di un popolo in agonia, si accanirono con lena affannata i vittoriosi dell’ieri e quelli di oggi o di domani. Ma se tale è l’impressione e l’imagine che la conquista macedone destano al pensiero, la condizione delle fonti, cui dobbiamo attingere, per segnarne le particolari vicende, è così infelice, l’oscuro groviglio degli avvenimenti, nella secolare contesa dei Diadochi e degli Epigoni si fa ora così fitto, da ritoglierci fin la speranza di una disamina chiara e completa. L’imperialismo macedone si esercitò su quattro soltanto dei gruppi di nazioni elleniche da noi conosciuti: le città greche dell’Asia Minore, della Tracia, del Ponto, sulla Grecia peninsulare propriamente detta. Ma se la sorte delle prime fu relativamente lieve, in quanto esse scambiarono con l’indipendenza e con un governo più civile il meno civile impero persiano, ben diversa appare la sorte della Grecia propria, la cui esistenza venne inserita nell’ingranaggio della monarchia macedone, e colpita da una delle bufere più rovinose della storia antica. La carta costituzionale, il patto fondamentale, su cui il dominio macedone riposava, appariva quanto di più mite e di più soddisfacente si potesse immaginare. La dieta di Corinto del 338, nella quale il conquistatore della Grecia — Filippo II — annunziò ai nuovi sudditi le future condizioni della comune esistenza, istituiva un _Consiglio federale ellenico_, per l’amministrazione degli affari della Grecia; affidava al nuovo monarca il comando militare di tutte le forze confederali; ma non imponeva tributi fissi e dichiarava che scopo principale del nuovo regime era quello di stabilire in Grecia una pace universale, di garantire a tutti gli Stati il loro territorio, la loro costituzione, e ai cittadini, i pieni diritti di proprietà e di commercio[415]. Ma così miti e benevoli consigli avevano già subìto un’anticipata violazione. La Grecia, a cui Filippo prometteva pace e libertà e sicurezza, non era tutta la Grecia: già, innanzi al 338, una buona parte di essa aveva perduto crudelmente la propria indipendenza, e la Macedonia l’aveva conquistata o con l’astuzia o con le armi, e ne aveva fatto scempio inaudito. Questa sorte era toccata, per un verso, all’Epiro; per un altro, alla Calcidica, alla Tracia, alla Tessaglia[416]. Un notevole articolo della costituzione federale vietava il rimpatrio degli esuli, di questi inevitabili fautori di disordine in seno ad ogni città vinta e umiliata[417]; ma, subito dopo la vittoria di Cheronea, Filippo aveva imposto a Tebe di riaprire loro le porte. Con essi la guerra civile era entrata come in casa propria, nell’antica, gloriosa città. Allora Filippo aveva sciolto la Federazione beotica, istituito un nuovo _Consiglio_, iniziata una persecuzione contro i fautori della politica antimacedone e introdotto una guarnigione nella Cadmea. In maniera analoga, dopo la dieta di Corinto, la Grecia libera continuò a subire delle guarnigioni macedoni in Eubea, a Corinto[418], ad Ambracia[419], ed altrove[420]. Il successore di Filippo, Alessandro — il futuro Alessandro Magno — continuò la politica del padre. Nel 336 egli tornava a rinnovare con la Grecia la Lega giurata, due anni prima, a Corinto. Ma tale rinnovazione non era questa volta spontanea. Alessandro ebbe bisogno di imporla con l’invasione a mano armata della Grecia. Non molto dopo, sebbene non investito da alcun potere federale, egli distruggeva ferocemente Tebe ribelle. Indi passava ad ingerirsi negli affari interni di Atene, chiedendo la consegna degli oratori antimacedoni e provocandone l’esilio[421]: misure tutte la cui iniziativa sarebbe spettata soltanto al _synedrio_ della lega. Più tardi ancora, al colmo dei suoi trionfi, stanziate nuove guarnigioni a Rodi ed a Chio[422], tornava a gravare sulle città greche, imponendo loro, e per sè, onori divini e — quello che al tempo stesso riesciva in contraddizione coi patti federali, nonchè a motivo delle implicite conseguenze, politiche ed economiche, terribilmente pauroso — l’universale e sempre scongiurato ritorno degli esuli in patria[423]. Le città che vi si fossero rifiutate sarebbero state ricondotte con la forza all’obbedienza[424]. Gli Staterelli greci dovevano restar liberi di darsi o serbare la costituzione che meglio loro fosse talentata. Ma Alessandro, più volte, vi aveva ricondotto gli espulsi tiranni o avea rovesciato con la violenza gli antichi ordinamenti[425]. Gli Achei e gli Arcadi avevano subìto limitazioni alla indipendenza delle loro rispettive assemblee federali[426]; gli Ateniesi, alla loro navigazione[427]. Ma la Grecia, di cui tale era la sorte, costituiva una parte ancora più piccola della Grecia vera e propria, che non fosse stato ai tempi di Filippo II. Le contrade, non facenti parte della Lega, figuravano, rispetto alla Macedonia, o come suddite o come nemiche, su cui nulla era vietato tentare[428]. La Tessaglia e anche l’Epiro — l’abbiamo veduto — giacevano da tempo sotto il piede del principe macedone; l’Etolia e Sparta erano terre destinate ad una conquista, vicina o lontana, e, se la prima, nel 330, avea rischiato di subire l’amara punizione della inaudita pretesa dell’indipendenza[429], la seconda era dovuta entrare nella sedicente Lega e fornire, quale ostaggio di fedeltà, ben 50 cittadini[430]. Alquanto più dura si fece la condizione della Grecia alla morte di Alessandro Magno. La così detta _Guerra Lamiaca_, una delle tante di riscossa degli Elleni dal giogo macedone, vi apportò invece la schiavitù. Atene, la gloriosa Atene, che Alessandro aveva sempre curato di trattare con ogni benevolenza, fu dal governatore della Macedonia, Antipatro, costretta a subire una guarnigione, a trasformare da democratica in oligarchica la propria costituzione, sì che più di una metà dei suoi cittadini venne privata dei diritti politici, a perdere i suoi possedimenti esteri, infine, a consegnare al vincitore i capi dell’agitazione antimacedone. Nello stesso tempo il Peloponneso subiva un’identica trasformazione dei propri ordinamenti, una eguale tormenta di persecuzioni e di esilî e la sorveglianza di un _epimeleta_ straniero[431]. Era la cessazione pura e semplice di tutte le guarentige della Dieta di Corinto. Ma da questo momento, in cui la tempesta si scatena, e si apre l’êra delle gigantesche guerre dei Diadochi e degli Epigoni, la Grecia, che fin adesso aveva subìto il dominio, sia pure incostituzionale, della Macedonia, diviene senz’altro una terra di conquista, sulla quale, per almeno settant’anni, si rovesceranno l’ira e la furia di tutti i generali di Alessandro Magno; diviene un Paese calcato e ricalcato le mille volte dal tallone di eserciti stranieri, i quali propugneranno ora l’oligarchia ora la democrazia, ora annunzieranno la liberazione, ora ne perpetreranno la conquista, procedendo, consapevoli ed inconsapevoli, verso il più tormentoso asservimento della contrada, la cui miseria non avrà altro termine di raffronto se non nelle province romane al tempo delle due ultime guerre civili o nell’Italia moderna durante le invasioni francesi, spagnole ed austriache. Lo stato politico del Paese, in questo periodo, ci viene eloquentemente significato dalle sue condizioni, dopo la pace, conclusa nel 311 fra la prima serie di contendenti per la pingue eredità di Alessandro, e che con amara ironia veniva a proclamare la «liberazione» della Grecia. La Tessaglia è dominio macedone, e dominio macedone sono anche l’Acarnania, Tebe, ricostituita da Cassandro quale posto avanzato contro le limitrofe città della Beozia, la Locride Opunzia, la Focide, l’Arcadia. Guarnigioni macedoni tengono Argo e l’Acaia. L’Elide giace spezzata, parte sotto Cassandro, parte sotto il suo rivale al trono di Macedonia, Polisperconte; Corinto e Sicione spettano a un altro dei generali di Alessandro, Tolomeo I d’Egitto; Megara e la Messenia appartengono a Cassandro; Atene subisce una guarnigione e un governatore macedone. Solo Sparta, precipitata in sull’estremo scalino dell’avvilimento, a null’altro ridotta che ad un inesauribile mercato di avventurieri, e l’Etolia, protetta dalle sue montagne, serbano l’antica, miseranda, e pur invidiata, indipendenza[432]. Ventitrè anni dopo, la Macedonia poteva vantare un dominio stabile, sotto il figliuolo del più singolare eroe degli Epigoni, Antigono Gonata, l’erede di Demetrio Poliorcete. Ma, nell’anno della morte di Pirro (272), che per un istante ne aveva messo in forse il trono e la vita, la Grecia tornava ad offrire l’antico spettacolo di miseria e di dolore. La Tessaglia, ad onta dei replicati tentativi di riscossa, piegava il capo ai cenni della Macedonia; la Beozia era stata affrancata, ma non già l’Eubea, l’Attica e Salamina, tutte e tre occupate da guarnigioni macedoni[433]. Guarnigioni macedoni tengono Corinto e, forse anche, Trezene e Mantinea, e parecchie delle città dell’Acaia. Ma se i possedimenti diretti della Macedonia apparivano in tal guisa ridotti, quelli indiretti si erano a dismisura accresciuti. L’intero Peloponneso si dibatteva nella rete indistricabile d’una trama di tirannidi, i cui fili erano retti, come da arbitro supremo, dal re di Macedonia[434]. Tiranni dominavano l’Elide, Argo, Sicione, Megalopoli; tiranni, le città marittime dell’Ellade[435], e tutta la contrada era sorvegliata da uno stratego macedone[436]. I patti dell’antica Dieta di Corinto erano ormai un dileguato, oltraggioso ricordo. Ma di peggio — se di peggio poteva discorrersi — si ebbe in seguito all’infelice tentativo ateniese della guerra, che dal nome di colui, che la ispirò con la sua eloquenza e col suo patriottismo, fu detta di Cremonide (266-63 a. C.). Allora nuove guarnigioni occuparono i porti e l’interno della città; un generale italiota fu posto a capo del governo di Atene; gli arconti stessi, sottoposti alla investitura regia, le lunghe mura, come un tempo aveva appena osato lo spartano Lisandro, rase al suolo[437]. Nè la politica macedone subisce modificazioni all’avvento dei nuovi successori di Alessandro, Demetrio II e Antigono Dosone. La Grecia rimane un Paese di conquista; la Macedonia ogni giorno vi abbandona, o vi ripiglia, nuovi Staterelli e nuove città: nulla è costante e sicuro, se ne togli l’insicurezza d’ogni cosa. Nel 223, Antigono Dosone volle rifare l’antica Confederazione di Corinto, creando una nuova Lega che, secondo s’esprime il grande storico della Grecia ellenistica, il convinto apologista dell’imperialismo macedone — J. G. Droysen —, doveva riescire a qualcosa di nuovo: a un libero Stato federale paragonabile alla Germania innanzi il 1870, e di cui la Macedonia non sarebbe stata più il governo dominatore, ma l’umile componente, con diritti pari a quelli dei restanti territorî ellenici[438]. Ma la Lega, che Antigono, negli ultimi giorni di sua vita, riesciva a costituire, era l’epilogo di tutta una decennale serie di violazioni dell’indipendenza ellenica, tanti quanti erano stati gli anni del suo governo. Ed essa non celava che un’ipocrisia: la Tessaglia, che avrebbe dovuto esserne uno degli Stati autonomi, era governata direttamente dal re di Macedonia; Sparta, da un _epistate_ macedone; l’Argolide e una parte dell’Acaia stavano alla diretta dipendenza della Macedonia[439]. E così via di seguito. L’antico corso degli eventi non muta per mutare di principi. Il nuovo sovrano di Macedonia, Filippo V, appena salito al trono, assale Ambracia, muove guerra agli Etoli[440], invade Elide e Trifilia[441], v’impone un _epimeleta_, lascia una guarnigione a Lepreon, e termina la sua personale storia di manomissione delle libertà greche, invadendo il territorio spartano[442], sì che, all’istante dell’ultrice vittoria romana, i diritti della Macedonia sulla Grecia pretendevano esercitarsi su Corinto, la Focide, la Locride, l’Eubea, l’Acaia, la Tessaglia, la Magnesia, la Ftiotide, la Dolopia, la Perrebia...: tutte le terre che il vincitore, Tito Quinzio Flaminino, proclamerà finalmente libere nei solenni giochi istmici del 196 a. C.[443]. La reazione greca. Quale fu il sentimento greco, di contro all’imperialismo macedone? Le fonti storiche dei secoli IV-II a. C., pur attraverso la loro scarsezza e la loro oscurità, ci permettono di rispondere a questa domanda. Il giudice inesorabile dell’imperialismo macedone non è più Isocrate; è questa volta l’ultimo dei grandi spiriti ateniesi dell’età classica: Demostene, l’infelice difensore delle libertà elleniche moriture. «Tutto ciò», egli gridava in faccia ai suoi degeneri concittadini, «tutto ciò che fu commesso dagli Spartani in sei lustri del loro impero panellenico, e lo fu dai nostri antenati per settanta anni, è un’ombra rispetto a quello che Filippo ha perpetrato a danno dei Greci in meno di tredici anni.... Taccio dell’enorme scempio di Olinto, di Metone, di Apollonia e delle altre trentadue città della Tracia, da lui distrutte in modo tale, che, a chiunque volesse ivi recarsi, non darebbero più l’immagine di un Paese un tempo abitato; taccio dello sterminio della popolosa Focide; ma qual’è mai la condizione della Tessaglia? Non sono state anche quivi distrutte città e rovesciate nazioni? E non ha ivi Filippo istituito delle tetrarchie, che significhino non solo la sudditanza della regione, ma altresì la servitù dei cittadini? Non obbedisce l’Eubea a nuovi tiranni?... Non dichiara egli apertamente per iscritto: — Io non conosco pace se non per quanti si rassegnano ad ubbidirmi? — Nè si limita a dichiararlo.... Ma invade l’Ellesponto, e prima assalì Ambracia; occupa la grande Elide e prima insidiò Megara. Nè il mondo greco, nè quello barbarico saziarono l’ingorda ambizione di tal uomo»[444]. Ma in quale stato Filippo II, il conquistatore della Grecia, usasse ridurre le contrade, su cui trascorrevano le sue falangi vittoriose, Demostene ci aveva detto altra volta: «Ivi — in Focide — a noi viaggianti alla volta di Delfo», s’aperse «uno spettacolo crudele e miserando»: «edifici distrutti, mura abbattute, un intero paese deserto di giovani, popolato di rare donne, di fanciulli e di vecchi in atteggiamenti da muovere pietà; una rovina che lingua umana non è capace di descrivere....»[445]. Un altro ignoto oratore, che non a caso la tradizione confuse con Demostene, dirige una requisitoria, forse meno vivace, certo più precisa, contro il figliuolo di Filippo e le sue sistematiche violazioni dei patti, ch’egli era tornato a giurare solennemente in cospetto dei Greci, a Corinto: «Se vi si domandasse, o Ateniesi, quale è la cosa che più vi sdegnerebbe, voi rispondereste che sarebbe questa: di costringervi con la violenza alla restaurazione dei discendenti di Pisistrato, caso mai oggi ancora ne esistessero. Voi prendereste senza indugio le armi, vi esporreste a qualsiasi sbaraglio, piuttosto di riammetterli in città; o se voi consentiste a far ciò, sareste destinati a servire più che non schiavi acquistati per denaro, giacchè nessuno uccide volentieri il suo schiavo, mentre i tiranni fanno perire dei cittadini senza giudizio e ne oltraggiano le donne e i fanciulli. Ma Alessandro, che, a dispetto dei giuramenti e del trattato comune, ha restaurato i tiranni — i figliuoli di Filiade — a Messene, si è preoccupato della giustizia, o non piuttosto ha seguito soltanto il suo istinto dispotico senza rispetto per voi e per i patti comuni?[446]. Se ci sta dunque a cuore l’osservanza dei giuramenti e quella giustizia, che nei trattati invochiamo, è nostro dovere prendere le armi e, insieme con le nazioni che ci vorranno seguire, volgerci contro i quotidiani trasgressori della propria parola....»[447]. «Il trattato stabiliva che coloro i quali distruggeranno la forma di governo, che si trovava costituita in ciascuna città, all’atto della pace, saranno considerati come nemici di tutti i confederati. Ebbene, gli Achei vivevano in regime di democrazia, e il re di Macedonia distrusse in Pellene il governo democratico, ne scacciò moltissimi cittadini, distribuì i loro beni a degli schiavi e dette la città in mano a un tiranno: un pugilista, un tal Cherone.... Non si deve, secondo il trattato di pace, considerare come nemico chi agisce in tal modo?...»[448]. «Il trattato ordina a quelli che provvedono agli interessi e alla difesa comune di non far sì che nelle nazioni confederate i cittadini siano messi a morte o esiliati contrariamente alle leggi della città; ordina che i loro beni non siano confiscati; le terra divise; i debiti aboliti; gli schiavi affrancati; che, insomma, non abbiano luogo innovazioni perniciose. Ebbene, coloro stessi che dovrebbero impedire queste violenze, ne favoriscono gli autori....»[449]. «È detto nel trattato che gli esuli non potranno, movendo da alcuna città confederata, portare le armi contro qualsiasi altra; e che, se ciò avverrà, la città, donde mossero all’attacco, sia esclusa dall’alleanza. Or bene, il re di Macedonia non cessa di far portare le sue armi dovunque; bande armate di Macedoni scorazzano da per tutto, e oggi più di prima, dopochè di loro propria autorità, hanno ristabilito i tiranni in parecchie città.... Se dunque occorre osservare le convenzioni comuni, consideriamo come escluse dal trattato le città che questo osarono, ossia escludiamo dal trattato le città macedoniche» e «deliberiamo in che modo siano da trattare quegli uomini che ostentano un’insolenza dispotica, che vediamo intrigare perpetuamente, e sempre farsi giuoco della pace comune....»[450]. «Un’altra clausola prescrive che il commercio sia libero per i confederati, sì che niuno possa ostacolarlo od osar di catturarne le navi. Or bene, nessuno ignora, che i Macedoni han fatto proprio questo, e con la violenza hanno catturato e trasportato a Tenedo tutte le navi partite dal Ponto..., e che non le rilasciarono se non quando voi decretaste di armare cento navigli, e i navigli furon tosto messi in mare agli ordini di Menesteo....»[451]. «Ma ciò che mostra specialmente l’orgoglio e l’arroganza dei Macedoni è quello che accadde testè, allorquando, a dispetto delle mutue convenzioni, osarono penetrare nel Pireo.... Essi vollero mettere a dura prova la nostra pazienza per poter fare lo stesso con gli altri e dichiarare, come sempre, ch’essi non badano ai trattati.... Il capitano macedone, che sbarcò al Pireo, vi chiese il permesso di fabbricare nei vostri porti delle navi.... Non che ci sia gran copia di legno da costruzione ad Atene, la quale invece lo importa da lontano e con gran dispendio, nè che se ne difetti in Macedonia, dove invece se ne fornisce a chiunque ne desidera, e a bassissimo prezzo. Ma essi volevano fabbricare e caricare vascelli nel nostro porto, a malgrado dei divieti del trattato. Così la loro licenza s’aggraverà ogni giorno di più....»[452]. Ma la requisitoria più grave contro lo sgoverno macedone viene dal grande Polibio messa in bocca ad un ambasciatore etolico a Sparta. «Io sono sicuro», questi si esprimeva, «che niuno oserà contraddire la mia affermazione: avere il dominio macedone segnato il principio della nostra servitù.... Esisteva in Tracia una corona di colonie ateniesi e calcidesi, fra cui spiccava per potenza e per splendore Olinto, e Filippo le ridusse tutte così ferocemente in ischiavitù, e le propose, come terribile esempio, a tutti gli altri Greci, sì da ritrarne di lì a poco l’attonita sommissione della Tessaglia». «Poscia, senza riguardar troppo per il sottile, entrò nel vostro Paese, disertò le vostre terre, rase al suolo le vostre case, e, strappandovi città e campagne, smembrò, nell’unico intento di danneggiarvi, il vostro territorio fra Argivi, Tegeati, Megalopolitani e Messeni.... A Filippo successe Alessandro, e questi, temendo che Tebe divenisse il focolare del risorgimento ellenico, s’affrettò a menarne lo scempio esecrando che voi tutti rammentate. E che dire dei successori? Nessuno ignora che Antipatro, alla dimane della battaglia di Lamia, maltrattò orribilmente gli infelici Ateniesi, come i suoi predecessori, giungendo fino a cacciarne come belve, per città e per campagne, i fuorusciti e quanti di loro avevano osato avversare, in qualsiasi modo, i principi della Macedonia. Di essi, parte tratti a forza dai templi e d’in su gli altari, finirono fra i tormenti; gli altri, espulsi da tutta la Grecia, non trovarono rifugio che presso di noi. E chi ignora l’opera di Cassandro, di Demetrio, o di Antigono Gonata?... Essi, sia introducendo guarnigioni nelle città libere, sia instaurandovi tirannidi, non ne lasciarono alcuna immune del duro marchio della servitù. Lo stesso Antigono, se vi ha guerreggiato, non l’ha fatto — come anche fra voi qualche ingenuo continua a credere — per salvare gli Achei o per infrangere la tirannide del vostro re Cleomene....». Egli vi ha combattuto «temendo e invidiando», «per infrangere le vostre speranze, per distruggere la vostra potenza....»[453]. «Se noi teniamo dunque», aveva concluso l’ignoto oratore del _Trattato con Alessandro_, «alla osservanza dei giuramenti e di quell’equità che nei trattati invochiamo, è nostro dovere pigliare le armi e insieme con le nazioni alleate volgerci contro i quotidiani trasgressori della propria parola»[454]. E il suo incitamento non fu inteso a sordo. Un fatto esiste, un fatto, che è l’accusa più solenne contro il dominio macedone; una circostanza che malamente gli storici si sono compiaciuti spiegare quale effetto di inconsiderata follia di libertà: la insistente, quotidiana, indomita riscossa della Grecia contro la Macedonia. Dal 338 al 196 è un incendio perenne, un continuo scoppio di malumori e di energie compresse. La Lega di Corinto è appena giurata, il cadavere di Filippo, ancora caldo, e già Atene, Tebe, la Tessaglia, l’Etolia, l’Ambracia, Argo, gli Elei, gli Arcadi, la Grecia tutta è in armi contro il successore[455]. Questi vince, rinnova la Lega, si dispone all’impresa asiatica, ossia al compimento della spedizione più gloriosa che mai la Grecia antica avesse concepito, all’esaudimento di un’ambizione secolare, al coronamento di un’opera, fatta sacra dalle memorie più fulgide degli Elleni; ma basta il falso allarme della improvvisa morte di Alessandro, perchè Atene torni ad insorgere, e, con Atene, Tebe, gli Elei, gli Etoli, gli Arcadi[456]. Alessandro s’è impegnato nella spedizione asiatica; ma in Grecia si attendono con ansia i bollettini, non delle sue vittorie, ma delle sue sconfitte; in Grecia si sospira la disfatta del Macedone[457]; in Grecia, Ateniesi, Spartani, Elei, Arcadi, Achei, Etoli, Tessali, Perrebi insorgono e guerreggiano contro il nuovo dominio e il nuovo tiranno[458]. La notizia della morte di Alessandro è appena conosciuta, che la Grecia è di nuovo invasa dalla febbre della liberazione. Atene, al primo annunzio, vuole mettersi alla testa della rivolta. «Se oggi», avverte il prudente Focione, «egli è morto, lo sarà anche domani, lo sarà doman l’altro e noi avremo agio di prendere una risoluzione ponderata»[459]. Invano! Atene, l’Etolia, la Focide, la Locride temono non arrivare in tempo, ingaggiano da sole la guerra contro il reggente della Macedonia, e le prime vittorie bastano a trascinare allo sbaraglio l’intera penisola: la Tessaglia, la Dolopia, Argo, Sicione, Epidauro, l’Argolide, la Messenia, l’Arcadia, l’Acarnania, l’Eubea....[460]. L’insurrezione è novamente domata, ma non scorrono venti anni che la venuta di Demetrio Poliorcete nell’Attica, insieme con l’annunzio menzognero della liberazione universale della Grecia, vi provocano indicibili manifestazioni di gioia. Quadrighe d’oro e statue, dedicate al novello «Salvatore», vengono poste a fianco di quelle sacre dei due eroi delle libertà ateniesi: — Armodio e Aristogitone —; a lui e al padre suo sono donate corone ricchissime d’oro, è consacrato un altare, un culto perenne; per loro vengono istituite gare annue ed annui sacrifici; le loro effigi sono intessute nel peplo sacro ad Atene, e si votano ambascerie, che si rechino ad essi con tutto l’apparato delle processioni sacre. Altri — come se ciò non bastasse — propone qualcosa di più: la consacrazione del suolo, che Demetrio aveva calcato scendendo dal carro, la largizione del titolo, riservato a Giove, di Kαταιβάτης (_Colui che discende_), l’istituzione di ricevimenti, pari, in solennità, alle feste di Bacco e di Démetra. E il mese di _munichio_, come l’ultimo giorno di ciascun mese, assumono, d’ora innanzi, il nome di _Demetrio_, e le solennità dionisiache sono convertite in feste _Demetrie_[461]. Ma, tredici anni dopo, nel 294, gli Ateniesi tornavamo ad avvedersi come la «libertà» donata dal «Salvatore» non valesse di più della tirannide degli altri. E appena Demetrio sarà divenuto re, Atene ordisce una congiura, per iscacciarne la guarnigione e instaurare sul serio quell’indipendenza, rimasta fino ad ora nome vano senza soggetto[462]. La congiura fallisce; ma sei anni più tardi, il tentativo è ripreso, e, nel 288, la sempre inquieta metropoli della Grecia ripiglia le armi. E le imbracciarono di fatti i vecchi e gli adolescenti, e venne scacciata la guarnigione macedone e battuto l’esercito accorso da Corinto alle frontiere dell’Attica[463]. L’insurrezione, ancora una volta schiacciata, risorge contro il più mite figliuolo del vincitore, Antigono Gonata. Un primo tentativo è operato nel 281 da Sparta, favorita da Atene e da quattro città della Confederazione achea[464]; ma l’eroico apogeo di tanti sovrumani sforzi è segnato dalla oscura e gloriosa guerra di Cremonide (266-63). Neanche questa volta Atene fu sola: al suo fianco lottarono Spartani, Elei, Achei, Tegeati, Mantineesi, Orcomenî, Fialei, Cafî, Cretesi. Dirigeva la riscossa un mite filosofo — Cremonide — fra i cui ammiratori era quello stesso re di Macedonia, contro il quale il suo dovere di patriota lo costringono ad imbracciare le armi. Il nuovo trattato di alleanza, fra Sparta ed Atene è — fra tanta miseria politica — documento nobilissimo di virtù civili e rammemora i più bei giorni dell’Ellade. Sparta ed Atene ricordano gli anni, in cui insieme avevano combattuto contro quanti tentavano schiacciare la nazione greca, guadagnando per sè gloria, imperitura e libertà per la patria comune. Quel tempo — esse dicono — è ora tornato, e le antiche rivali giurano, oggi e sempre, di rimanere, fianco a fianco, in armi contro i nuovi, non meno pericolosi, nemici della libertà[465]. Il popolo di Atene aveva invitato tutti i cittadini e gli abitanti dell’Attica a contribuire in danaro. Il limite minimo era stato fissato in 50 dramme (L. 50); quello massimo, in 200 (L. 200). Or bene, dei settantasette versamenti effettuati che noi conosciamo, due soltanto discendono a 70 dramme; nove a 100; i sessantasei rimanenti toccano il massimo stabilito. Ma anche questo supremo tentativo fu vano. Atene piegò dinanzi alle forze soverchianti del vincitore, e la tradizione volle simboleggiarne la catastrofe nella leggenda della morte del poeta Filemone. Filemone abitava al Pireo; egli era allora vecchissimo, quasi centenario. Una notte vide in sogno, o gli parve di vedere, nove fanciulle uscire di casa sua. Chiese perchè lo lasciassero, e quelle risposero che partivano per non assistere alla ruina di Atene. Filemone raccontò il sogno al ragazzo che lo serviva, si levò, terminò il dramma, al quale accudiva, si ravvolse in una coperta per dormire, nè più si destò[466]. «Non era già da un poeta, tepidamente amato dalle Muse», commenta un grande storico moderno, «che queste si dipartivano per non assistere alla sua morte; esse partivano, recando seco, per sottrarlo all’ora funesta della vittoria nemica, un uomo dabbene, caro agli Dei, il superstite estremo dell’antica età, un uomo, che aveva visto i bei giorni di Atene e gli anni più fiorenti di gloria e di energia di Demostene, e per suo mezzo annunziavano alla città tanto amata, che anch’esse erano ormai costrette ad abbandonarla per sempre»[467]. Così lunghi decenni di sofferenze e di vane aspirazioni proromperanno in uno scoppio folle di gioia all’istante, in cui, nella primavera del 196, ai Greci, convocati solennemente pei giuochi istmici, un araldo romano annunzierà quella liberazione dall’imperialismo macedone, ch’era stata il sospiro sesquisecolare della Grecia. Allorquando, narrano i cronisti, il banditore annunziò l’inaudito messaggio, l’assemblea parve soccombere all’eccesso dell’emozione e della gioia. Non si era sicuri di avere udito bene, tutti si guardavano a vicenda, quasi sospettassero di essere cullati dalla illusione di un sogno. Si richiamò l’araldo, lo si voleva riudire, lui che aveva parlato la parola della liberazione; sopra tutto, lo si voleva vedere. Egli ripetè il messaggio. Quand’ebbe terminato, la folla proruppe in manifestazioni ed in applausi così clamorosi che gli echi del mare vicino ne furono scossi. Per un momento il console romano, del quale l’araldo non aveva fatto che ripetere la volontà e la parola, rischiò di perire soffocato tra le acclamazioni della folla. Il popolo gli si voleva stringere intorno, per rendergli grazie, per goderne la vista, per isfiorargli la destra redentrice. Lo si coperse di ghirlande, di fiori, di nastri.... Gli furono decretate statue in tutte le città greche, fu votata una ambasceria, recante corone d’oro al senato romano. Tutte le città elleniche vennero inscritte nel novero degli alleati di Roma. La libertà, il più caro dei beni pei Greci, veniva finalmente restituita! La protesta contro la secolare tirannide, ringoiata per lustri interminabili di dolore, rompeva liberamente nella frenesia di un inno di gioia![468] Tali le sorti, tale la reazione della Grecia ai colpi dell’imperialismo cittadino e straniero. Ma fra gli effetti disastrosi, che questo provocava, ce n’era uno, che, divenendo a sua volta causa di mille altre conseguenze, veniva ad esercitare su tutta la nazione, un’efficacia più grande di quella del fenomeno originario, che l’aveva determinato. L’imperialismo sboccava fatalmente nella guerra, e di questa, come dei suoi effetti, dovremo intrattenerci nelle pagine che seguono. NOTE AL CAPITOLO TERZO. [260] PS. XEN., _De vectig._, 1, 1. [261] _Athen. Resp._, 24-25; cfr. 27. [262] È la nota opinione di ARISTOTELE (_Polit._, 1, 3 (8), 8). [263] THUC., I, 76, 2; 5, 105, 2; cfr. DION. HAL., Περὶ τοῦ Θουκιδίδου χαράκτηρος etc., 40. [264] Cfr. THUC., V, 94-95; VI, 18, 3. [265] Thuc., 2, 64, 3-5; ARISTOFANE (_Equites_, vv. 797-800) metterà in caricatura tali concetti e tali sentimenti. Si cfr. anche F. CAVALLOTTI, _Alcibiade e il secolo di Pericle_, in _Opere_, Milano, 1883, IV, 295-96. [266] THUC., 4, 61, 5. [267] ISOCR., _Archid._, 88-89; 72; 96; 98. [268] ID., DE PACE, 36, 29. [269] THUC., 5, 18, 3. [270] ATHEN., 8, 3, p. 331 f. [271] ARISTOPH., _Vespae_, v. 707. [272] Così giustamente la denomina il BELOCH, _Gr. Gesch._, III (1ª ed.), 149 sgg. [273] THUC., I, 18, 2; 75, 2; VI, 76, 3. [274] _I. G._, II, 1 (= _C. I. A._, II, 1), 17. _ll._ 9 sgg. Cfr. BUSOLT, _Der zweite athen. Bund_ (in _Jahrbücher für class. Philol._, VII Suppl., Leipzig, 1874), pp. 684-85 e fonti ivi citate. [275] Si cfr. l’acuto saggio di H. SWOBODA, _Der hellenische Bund d. Jahres 371 a. C._ (in _Rhein. Museum_, 1894, 321 sgg., 335 sgg.). [276] PLUT., _Pericl._, 12, 2. [277] Si leggano le censure rivolte a Pericle dai suoi avversari politici. Cfr. PLUT., _Pericl._, 12, 1. [278] BÖCKH, _Staatshaltung d. Atener_, I^3, n. 526 del FRÄNKEL; cfr. H. FRANCOTTE, _Les finances des cités grecques_, Lièges-Paris, 1909, pp. 108 sgg.; E. CAVAIGNAC, _Études sur l’histoire financière d’Athènes au V siècle: le trésor d’Athènes de 480 à 404_, Paris, 1908, pp. 42 sgg. [279] Tale è la cifra, da TUCIDIDE (2, 13, 3) messa in bocca a PERICLE, e che l’esame delle fonti epigrafiche ha indotto qualche autorevole studioso contemporaneo (cfr. BUSOLT, _Der Phoros d. ath. Bündner_ _von 446-45 bis 426-25_, in _Philologus_, 41, 1882, pp. 652 sgg. e BELOCH, _Zur Finanzsgesch._ _d. Athen._, in _Rheinisches Museum_, 39, 1884, pp. 34 sgg.) a rigettare. Ma, a parte che i 140 talenti in più, testimoniati da TUCIDIDE, si spiegherebbero egualmente come effetti dell’imperialismo ateniese (cfr. BELOCH, op. cit., pp. 37-40), nè il testo di TUCIDIDE ammette interpretazione diversa dalla consueta, nè l’autorità delle mutile e incomplete fonti epigrafiche ci sembra capace di prova in contrario. [280] BÖCKH, op. cit., I^3, 472. [281] AESCHIN., _De mala legat._, 175; ANDOC., _In Alcib._, 12; _De pace cum Laced._, 9; _I. G._, I, 37, _z"_; I, 543 e Suppl. a p. 140; cfr. E. CAVAIGNAC, _Études sur l’hist. financière d’Athènes_, pp. XLV-XLVI, e Pl. I, n. 3. [282] PS. XEN., _Athen. Resp._, I, 15. [283] ANDOC., _In Alcib._, 12. [284] Cfr. PHILOSTR., _Vitae sophist._, 2, 12, 2-3; _Schol. ad_ ARISTID. Υπὲρ τῶν τεττάρ. 149, 3 (in vol. III, p. 510, ed. DINDORF). [285] THUC., 5, 18; cfr. BÖCKH, op. cit., I^3, 483-84. [286] THUC., II, 9, 5; IV, 42; 53, 1, 129, 2; V, 2, 1; VI, 43, 1; 20, 2; XENOPH., _Hell._, 1, 6, 25. [287] Cfr. _I. G._, I. Suppl., 1887 (= _C. I. A._, IV, 1, 2), 27^b (=DITTENBERGER _S. I. G._, 20), _l._ 14. [288] BELOCH (in _Rh. Mus._, 1884), pp. 36 sgg. [289] THUC., 7, 28, 4. [290] XEN., _Hell._, I, 1, 22; DIOD., 13, 64, 2 e forse anche _I. G._, I, 32 _B_. [291] POL., 4, 38, 6 sgg. [292] ID., 4, 38, 4-5. [293] XEN., op. cit., 4, 8, 27; 31; DEMOST., XXX (In _Lept._), 60. Il BELOCH, (_ibid._, p. 40) le ragguaglia a circa L. 600.000 annue nette. [294] BUSOLT, op. cit., 728 sgg.; cfr. FRANCOTTE, op. cit., 116 sgg. [295] PLUT., _Phoc._, 7, 1; ISOCR., _De pace_, 29. [296] PS. DEMOST. LVIII (_In Theocr._), 37 sgg.; AESCHIN., _De falsa legat._, 71. [297] THUC., III, 10, 5; VII, 57, 4. [298] ID., 3, 10, 1 sgg. [299] ID., I, 98, 1; 2; 4, III, 10, 3; V, 9, 9; 92, 1; VI, 76, 2; 3; 77, 1; ISOCR., _De pace_, 42; PLUT., _Cimon._, 11, 2. [300] THUC., 3, 37, 2. Su tale sentimento, universale in Grecia e in Atene, cfr. le conversazioni degli ambasciatori ateniesi coi Melii alla vigilia della tragica catastrofe politica di questi ultimi (THUC., 5, 85, 1 sgg.) e THUC., VI, 84-85; I, 124, 3. [301] GROTE, _Hist. de la Grèce_ (trad. fr.), Paris, 1864-1867, VIII, p. 53, nota. [302] Cfr. ISOCR., _Panathen._, 66; il che voleva dire che l’immunità giudiziaria, garantita dal patto originario di questa terza Lega, era stata alla fine anch’essa, violata; GILBERT, _Handbuch d. griech. Alterthümer_, I, pp. 483 sgg., 500 sgg. [303] PS. XEN., op. cit., I, 18. [304] THUC., 3, 9, 1. [305] ID., V, 89, I; cfr. I, 76, 2; III, 40, 3; 44, 1; 4. [306] ID., 6, 91, 7. [307] Tale era il caso della πρυτανεία e della παρακαταβολή, per la quale chi si appellava contro già avvenuti incameramenti di beni o contro eredità già attribuite, era tenuto a depositare, rispettivamente, 1/5 o 1/10 del valore controverso (BÖCKH, op. cit., I^3, 419, 430). [308] Le _Vespe_ di ARISTOFANE sono quasi per intero la caricatura di questa manìa di condanne universali, che, con l’aggravarsi dell’imperialismo, era venuta a turbare le menti e i cuori ateniesi. [309] BÖCKH, op. cit., I^3, 455 sgg. Circa la gravità dei dispendi giudiziari degli alleati, cfr. BELOCH, _Zur Finanzgesch. Athens_, in _Rhein. Museum_, 39 (1884), p. 244. [310] THUC., 1, 77, 3. [311] ISOCR., _Paneg._, 106; THUC., I, 115; _I. G._, I, 9; 7 sgg. [312] ISOCR., _De pace_, 79; THUC., 8, 21. [313] Cfr. _I. G._, 1 (=_C. I. A._, 1), 9. [314] _C. I. A._, IV, 61 _a_. [315] BUSOLT, op. cit., 821-22. [316] THUC., 6, 85, 1. [317] Cfr. i documenti editi dal KÖHLER, in _Mitt. d. deutschen arch. Inst._, VII, pp. 174 sgg., 313 sgg.; BÖCKH, op. cit., I^3, 495-96. [318] Cfr. HARPOCR., Ἐπίσκοποι; THUC., IV, 104, 4; I, 115, 5; ARISTOPH., _Aves_, v. 1050; _C. I. A._, IV, 22 _a_. [319] BÖCKH, op. cit., I^3, 481 e n. 643 del FRÄNKEL. [320] THUC., I, 56, 2; 115, 3. [321] Cfr. _I. G._, I (=_C. I. A._, I), 9, _l._ 39; 10, _l._ 4. ISOCR., _De pace_, 16, 42, 134. [322] ISOCR., _De pace_, 44 sgg., 79, 134; DEMOST., _In Phil._, I, 24; AESCHIN., _De mala legat._, 71. Cfr. BUSOLT, op. cit., 823-835 sgg. Fu questa, secondo l’insospettabile GROTE (op. cit., XIV, 29-30), ammiratore dell’imperialismo ateniese, la principale cagione della _Guerra degli alleati_ (357-55) e della catastrofe — questa volta irreparabile — della Lega. [323] BUSOLT, op. cit., 690, 698; FRÄNKEL, n. 673 (in BÖCKH, op. cit., I^3, 494). [324] Cfr. THUC., I, 56, 2. [325] ARISTOPH., _Vespae_, vv. 666 sgg. [326] ID., _Pax_, vv. 635 sgg. [327] Cfr. GROTE, op. cit., VII, 287 sgg. [328] BUSOLT, op. cit., 686, 822. [329] BÖCKH, op. cit., I^3, 500-501. [330] GUIRAUD, _La propr. fonç. en Grèce_, pp. 617 sgg. [331] THUC., 5, 32, 1; 116, 4; DIOD., 12, 76, 3-4. [332] BÖCKH, op. cit., I^3, 502-3; GROTE, op. cit., VIII, 13-15. [333] THUC., 6, 18, 3. [334] THUC., 6, 90, 2-4. [335] _I. G._, II, 1 (=_C. I. A._, II), 17, ll. 25 sgg. [336] BÖCKH, op. cit., I^3, 503-4, e FRÄNKEL, nn. 693, 694; BUSOLT, op. cit., 686 sgg. [337] ISOCR., _De pace_, 64; 70. [338] ISOCR., op. cit., 74-79; 83; 84-85. [339] Il testo ha ἐν Δάτῳ: sulla ubicazione cfr. PAPE-BENSELER, _Wörterbuch d. Griechischen Eigennamen_ (3ª edizione), Δάτον. [340] ISOCR., op. cit., 86-87; 88; 90; 92-94; cfr. 117-20. [341] Cfr. THUC., 2, 9, 2-3; BUSOLT, _Die Laikedaimonier u. ihre Bundesgenossen_, Leipzig, 1878, I, 264; BELOCH, _Gr. Gesch._, III, 1, 309 (2ª ed.). [342] THUC., 1, 19; PLUT., _Cleom._, 27, 2. [343] XEN., _Hell._, 6, 3, 7. [344] THUC., I, 19. [345] ID., I, 69, 1 sgg.; I, 123-24. [346] ID., I, 126, 1; cfr. ISOCR., _Paneg._, 122. [347] ID., 2, 72, 1. [348] ID., 4, 86, 1; 4 sgg.; cfr. 85, 1 sgg. [349] PLUT., _Lysandr._, 13, 5. [350] DIOD., 14, 10, 2. [351] THUC., I, 76, 4. Cfr. PLUT., op. cit., 13, 8. [352] LYS., _In Eratost._, 6 sgg.; XEN., _Hell._, 3, 1, 5; DIOD., 14, 5, 6. [353] XEN., _Hell._, 2, 3, 24: «Se alcuno di voi opina che vengano uccisi più cittadini del necessario, pensi che questo avviene in tutte le rivoluzioni....»: le identiche parole che, la sera dell’esecuzione della regina Maria Antonietta, il Barère rivolgeva a Robespierre. Cfr. VILATE, _Causes secrètes de la Révol. du 9 au 10 thermidor_, in _Mem. sur les journées révol. et les coups d’État_, Paris, 1875, p. 223. [354] PLUT., loc. cit.; DIOD., 15, 54, 3. [355] PLUT., _Lysandr._, 21, 1 sgg.; NEP., _Lys._, 3, 1. [356] XEN., _Hell._, 3, 4, 2. [357] Cfr. PLUT., _Agesil._, 24 sgg.; POL., 9, 23, 8. [358] ISOCR., op. cit., 110-124. [359] XEN., _Hell._, 5, 2, 1 sgg. [360] ID., op. cit., 5, 2, 7. [361] ID., op. cit., 6, 5, 3-5. [362] ID., op. cit., 5, 4, 1. [363] Cfr. pp. 96 sgg. del presente volume. [364] ISOCR., _De pace_, 100 sgg. [365] Questa costituzione noi la conosciamo ormai, con una certa ampiezza, attraverso il frammento di un anonimo storico (Teopompo? Cratippo?) ritrovato in uno dei papiri di Oxirinco (_Oxy. P._, V, 842, col. XI, 34 sgg.; cfr. le osservazioni degli editori inglesi a pp. 224 sgg. e G. GLOTZ., in _B. C. H._, 1908, 270 sgg.). [366] IBID., _Oxy. P._, V, 842, col. XII, 9 sgg. [367] IBID., col. XIII, 10 sgg. [368] IBID., ISOCR., _Plat._, 8. [369] IBID., _Oxy. P._, 842, col. XI, 29-31; cfr. BELOCH, _Gr. Gesch._, III, 1 (2ª ediz.), 160-61, n. 4. [370] PLUT., _Ages._, 27, 4 sgg.; PAUS., 9, 13, 2. [371] XEN., _Hell._, 5, 4, 63: τὰς περιοικίδας πόλεις. Lo storico greco traduce, senza saperlo, nella frase significativa, l’universale concetto politico del tempo. [372] THUC., 3, 61, 2. [373] XEN., _Hell._, 5, 1, 32 sgg. [374] La scena, che deve essere seguita effettivamente, è contenuta in PLUT., _Ages._, 27, 4-5; 28, 1-2; cfr. PAUS. 9, 13, 2. [375] THUC., II, 2, 4; III, 61, 2; 65, 2; 66, 1. [376] ARRIAN., _Anabas._, 1, 8, 8. [377] THUC., 3, 68, 1 sgg. [378] ID., 4, 133, 1; XEN., _Hell._, 6, 3, 1; DIOD., 15, 46, 6. [379] ISOCR., _Plat._, 8; DIOD., 15, 79, 3-6; PAUS., 9, 15, 2. [380] ISOCR., _Plat._, 18-19. [381] DIOD., 11, 81, 2-3; ISOCR., _Plat._, 31. [382] Cfr. GROTE, op. cit., XV, 115-16. Sulla storia della Confederazione beotica, cfr. FREEMAN, _History of federal gouvern._, London, 1893, 120 sgg. [383] Quest’ultima violazione reca la complicità dello stesso Epaminonda. «Voi» — aveva egli risposto ad una ambasceria di Arcadi — «avete concluso la pace senza consultarci.... Ebbene, sappiate che noi verremo tosto in Arcadia e vi combatteremo insieme coi nostri amici» (XEN., _Hell._, 7, 4, 40). E gli altri, colpiti da tanta minaccia riassumevano il criterio direttivo dell’imperialismo tebano nel querulo gemito, in cui solo era dato esplicare la vana protesta: «A quale scopo i Tebani vogliono venire nel nostro Paese, mentre noi non li sollecitiamo?» «A quale scopo, se non per iscatenarci gli uni contro gli altri affinchè ambedue le parti abbiano bisogno di loro?» «A quale scopo, se non per danneggiarci?» (XEN., op. cit., 7, 5, 1-2). [384] ISOCR., _Archid._, 64-68. [385] ID., _Philipp._, 53 sgg. [386] ARRIAN., _Anabas._, 1, 9, 7; AESCHIN., _In Ctesiph._, 133. [387] DIODORO (16, 90-91) riporta a quest’anno la morte di Timoleone; PLUTARCO, invece (_Timol._, 37, 3; 39, 1), lo fa continuare a vivere più a lungo, e forse a maggior ragione, chè il racconto di Diodoro è gravemente sospetto di confusione (NIESE, _Geschichte d. griech. und maked. Staaten_, Gotha, 1893-1903, 1, 423, n. 1). [388] Sull’impero di Dionisio il grande, cfr. J. BELOCH, _Griech. Gesch._, III, 1 (2ª ed.), 54 sgg.; 110 sgg.; 312 e l’apposita monografia dello stesso autore: _L’Impero di Dionisio_ (in _Memorie della R. Accademia dei Lincei_, Roma, 1880-81). [389] DIOD., 19, 6, 3. [390] Cfr. BELOCH, op. cit., p. 13. [391] ID., op. cit., 13-14. [392] THUC., 6, 18, 3. [393] Di parecchie Federazioni elleniche, come quelle tessalica e focese, noi possediamo ragguagli così insufficienti, da non sentirci in grado di definirne la natura, sebbene anche tutto c’induca ad attribuir loro le caratteristiche di egemonie mascherate. Su di esse e sulle altre, di cui c’intratteniamo, cfr. FREEMAN, op. cit., 113 sgg. [394] THUC., 3, 2, 3; 3, 1. Cfr. eziandio KÖHLER, _Urkunde und Untersuch. zur Gesch. d. delisch.-att. Bundes_ (in _Abh. der Königl. Akad. d. Wiss._, Berlin, 1869, 122-23) e BUSOLT, _Der Phoros d. ath. Bündner_ (in _Philologus_, 1882, pp. 660 sgg.). [395] FREEMAN, op. cit., 149 sgg. [396] _Oxy. P._, V, 842, col. XII, 12-13. [397] _Oxy. P._, V, 842, col. XII, 15-17 e note a p. 227. Cfr. PEYRON, _Dei governi federali della Grecia_ (in _Atti della R. Accad. delle Scienze di Torino_, Serie 2ª, XVIII), § 2; FREEMAN, op. cit., 126. [398] Cfr. _Oxy. P._, V, pp. 227-23 e fonti ivi cit. [399] _Oxy. P._, V, 842, col. XII, 12-14 e nota di pp. 226-27. [400] FREEMAN, op. cit., 155; 161. [401] Secondo il BUSOLT (_Die Lacedaimonier und ihre Bundesgenossen_, pp. 67 sgg.), si tratterebbe senza meno di intere popolazioni ridotte allo stato di _perieche_; di altre, destituite dei fondamentali diritti politici; di altre, infine, precipitate in piena servitù della gleba. Quello strumento di tirannia, che per Atene fu il potere giudiziario sugli alleati, sarebbe stato improntato, oltre che a Tebe, ad Elide e ad Argo (cfr. BÖCKH, op. cit., 1, 478). [402] Cfr. BUSOLT, loc. cit. [403] POL., 2, 37, 7 sgg. Il FREEMAN (op. cit., 4-5) la definisce l’incarnazione del perfetto regime federale; cfr. H. SWOBODA, in _Klio_, 1912, pp. 17 sgg. [404] POL., 2, 58, 5 sgg.; PLUT., _Arat._, 36, 1; 39, 1; 45, 3. [405] PEYRON, op. cit., §§ 23-24. [406] FREEMAN, op. cit., 212. [407] Cfr. P. FOUCART, _Fragment d’un décret de la Ligue achéenne_, in _Revue arch._, pp. 101 e testo, ll. 11 sgg. [408] FREEMAN, op. cit., 214-15. [409] Cfr. DUBOIS, _Les ligues étolienne et achéenne_, Paris, 1885, p. 174. [410] LIV., 38, 34, 1 sgg.; 39, 37 _passim_. [411] POL., 23, 12, 3. [412] FOUCART, loc. cit. [413] PLUT., _Arat._, 36, 1. [414] BELOCH, _Gr. Gesch._ III, 1 (2ª ed.), 517-19; DROYSEN, op. cit., III, 428-32. [415] DROYSEN, op. cit., I, 44-45, 161-63; SCHÄFER, _Demosthenes u. seine Zeit,_ Leipzig, 1885-87, III, 51 sgg.; KÄRST, _Der Korint. Bund._ (in _Rhein. Mus._, 52, pp. 518 sgg.); NIESE, op. cit., I, 37-39; BELOCH, _Gr. Gesch._ III, 1 (2ª ed.), 575-76. [416] Cfr. DROYSEN, op. cit., I, 159; DEMOST., _Olynt._, I, 5; VIII (_De Cherson._), 62-63; VII (_De Halonn._), 10. [417] PS. DEMOST., XVII (_De foedere alex._), 16 sgg. [418] PLUT., _Arat._, 23, 2-3; POL., 38, 1, 3. [419] DROYSEN, op. cit., 1, 105. [420] Cfr. POL., loc. cit. L’ipotesi del KÄRST (_Der Korint. Bund._, p. 539), che codeste guarnigioni fossero volute dagli Stati greci nel loro interesse generale, e fossero perciò mantenute a spese comuni, sembra singolarmente speciosa. [421] NIESE, op. cit., I, 53. [422] DROYSEN, op. cit., I, 143-44. [423] Q. CURT., 4, 8, 12; DIOD., 18, 8, 1; cfr. PS. DEMOST. (_De foed. Alex._), 16 sgg. [424] DIOD., 18, 8, 2-4. [425] PS. DEMOST., XVII (_De foed. alex._), 4 sgg.; 10; 15. [426] HYPERID., fr. 108, 5^b, ed. DIDOT. [427] PS. DEMOST., XVII (_De foed. alex._), 19-20. [428] KÄRST, op. cit., p. 539, n. 1. [429] DROYSEN, op. cit., I, 427. [430] ID., I, 398. [431] ID., II, 72 sgg.; NIESE, op. cit., I, 209-11. [432] DROYSEN, op. cit., II, 398 sgg. [433] IBID., III, 90 sgg. [434] IBID., III, 215 sgg. [435] IBID., III, 220, e n. 1. [436] IBID., III, 195. [437] IBID., III, 239-40; BELOCH, _Gr. Gesch._, III, (1ª ed.), 608-10. [438] DROYSEN, op. cit., III, 389-90. [439] ID., loc. cit. [440] NIESE, op. cit., II, 431 sgg. [441] IBID., II, 440 sgg. [442] IBID., II, 449 sgg. [443] PLUT., _Tit. Flamin._, 10, 3. [444] DEMOST., _In Phil._, III, 25-27; cfr. _Olynt._, I, 5: VIII (_De Cherson._), 62-63. [445] XIX (_De mala legatione_), 64-65. [446] 3-5. [447] 9. [448] 10. [449] 15. [450] 16-17. [451] 20. [452] 26-29. [453] POL., 9, 28, 1 sgg. [454] POL., op. cit., 9. [455] DROYSEN, op. cit., I, 105. [456] IBIDEM, I, 134-36. [457] AESCHIN., _In Ctesiph._, 164. È confermato da tutte le relazioni degli Elleni coi Persiani durante la campagna asiatica di Alessandro; cfr. FLATHE, _Gesch. Makedoniens_, Leipzig, 1832-34, I, 263. [458] DROYSEN, op. cit., I, 273, 385 sgg. [459] PLUT., _Phocion._, 22, 3. [460] DROYSEN, op. cit., II, 46; 50-51. [461] PLUT., _Demetr._, 12, 2 sgg. Cfr. DROYSEN, op. cit., II, 415-18. [462] DROYSEN., op. cit., II, 559-60. [463] Op. cit., 585-86. [464] Op. cit., II, 617 sgg. [465] _I. G._, II, 1 (=_C. I. A._, II), 332, _ll._ 7 sgg. [466] SUIDA, _Philem._, p. 600, ed. BERNHARDY. [467] NIEBUHR, _Kleine historische und philologische Schriften_, Bonn., 1878, I, p. 463. Cfr. DROYSEN, op. cit. III, 219 sgg. [468] POL., 18, 29, 4 sgg.; PLUT., _T. Flamininus_, 10, 4 sgg.; APP., _Macaed._, 7, 2; LIV., 33, 32-33. APPENDICE AL CAPITOLO II. Il tributo degli Iloti spartani. Quali erano gli obblighi tributari degli infelici Iloti della Messenia e della Laconia verso gli Spartani, loro signori? Il passo più comunemente citato in proposito è quello di PLUTARCO (_Lyc._, 8, 4), nel quale si dice che, nella originaria distribuzione compiuta da Licurgo, del territorio della Laconia, «il lotto di terra di ciascuno Spartano era tanto esteso da consentire il raccolto di 70 medimni di orzo per capofamiglia; di 12 medimni per la sua donna e di una proporzionale quantità di liquidi e di frutta». Com’è chiaro dalla dizione, il passo non indica il contributo degli Iloti, ma specifica il prodotto medio di ciascuno dei lotti spartani in Laconia nell’età di Licurgo. In conseguenza è assai dubbio che se ne possa indurre alcuna conclusione per gli obblighi degli Iloti verso gli Spartani dominatori. Altri due passi, non meno frequentemente citati, sono quelli di PLUTARCO: _Inst. lac._, 41; _Lyc._, 24, 3, nei quali il biografo antico informa che gli Iloti corrispondevano «un tributo (_apophorà_), determinato», ossia «fisso sin dalle origini, e che era cosa empia esigere di più». Da questi due passi si è voluto ricavare che gli Iloti versassero ogni anno ai loro signori una quantità numericamente fissa e immutata di misure di cereali o d’altri prodotti, ossia, per ispiegarci più chiaramente, un certo numero fisso di ettolitri o di litri di solidi e di liquidi. Ma anche questi due passi non impongono una così precisa conclusione. Essi autorizzano solo a concludere che la prestazione o il tributo degli Iloti — quali che ne fossero la natura o la forma —, ossia il loro obbligo contrattuale verso gli Spartani, _era stato fissato fin dal principio ed era immutabile._ Bisogna dunque, per maggior luce, ricorrere ad altre testimonianze. Le quali infatti esistono, e ci avvertono che i passi di Plutarco non vanno intesi secondo l’interpretazione consueta. Ce ne avverte anzi tutto la testimonianza, di un contemporaneo della seconda guerra messenica, ossia di un personaggio del tempo remotissimo, a cui Plutarco si riferiva — il poeta TIRTEO —, il quale parlando dei Messeni, ridotti, dopo la prima conquista, alla condizione di semiliberi o, piuttosto, di liberi privi dei diritti politici[469], li descrive: Sotto gran pesi rotti sì come asini Dalla necessità lacrimosa ai padroni costretti _A dar metà_ di quanto i campi rendono[470]. Il passo è esplicito e non ammette contestazioni: i Messeni pagavano agli Spartani il «tributo fisso e immutabile» della metà dei prodotti dei campi da essi coltivati. La immutabilità quindi non si riferirebbe ad una cifra, _ma a una proporzione determinata_. Un altro antico scrittore greco, Pausania, anche lui della prima età imperiale, come Plutarco, fondandosi su Tirteo e su altre fonti, interpretava egualmente che ai Messeni «non fu imposto alcun tributo determinato, ma di tutti i prodotti della terra quelli versavano ai loro signori _la metà del ricavato_»[471]. Il che vuol dire che, mentre i moderni in genere concepiscono i rapporti economici — non quelli politici! — tra Spartani e Iloti, come rapporti di locatari a conduttori, paganti un fitto in natura, Tirteo e Pausania ci riportano invece a un rapporto — più o meno volontario — di mezzadria o, per dirla in termini giuridici romani, a una _colonia partiaria_[472]. Questa costante stabilità, non della quantità, _ma della proporzione del tributo_ dei servi della gleba o dei coloni semiliberi, non è esclusiva a Sparta; è comune a tutto il mondo greco-orientale e alla legislazione imperiale romana, nonchè a quella successiva — fondata sulla romana — dell’alto Medioevo. Ed invero, tutti i documenti del periodo imperiale romano, relativi alle _colonie parziarie_ dell’epoca, contengono clausole perfettamente analoghe a quelle che abbiamo ritrovate nei passi degli antichi scrittori, riferentisi a Sparta e agli Iloti primitivi: le une e le altre, aventi per iscopo d’impedire alcun mutamento nelle originarie condizioni contrattuali. La legge di Adriano, che regolava le condizioni dei coloni dei demanî imperiali in Africa, vietava, tanto ai procuratori come ai conduttori, di richiedere da quelli maggior quantità di contribuzioni o di prestazioni di quanto in origine fosse stato stabilito: «Kapite legis Hadrianae, quod supra scriptum est, ademptum est.... ius etiam procuratoribus, nedum conductori _adversus colonos ampliandi partes agrarias aut operarum praebitionem jugorumve etc._»[473]. E poichè, oltre mezzo secolo più tardi — nel 180-83 circa —, tale norma è stata violata, i coloni del _Saltus Burunitanus_ si appellano all’imperatore, invocando la legge _Hadriana_ che li aveva istituiti. E l’imperatore — Commodo — dà loro ragione, e legifera a sua volta: «procuratores.... curabunt ne quis per iniuriam _contra perpetuam formam_ a vobis exigatur»[474]. Ancora sessant’anni più tardi, verso il 244-46, in una assai diversa contrada dell’Impero romano, nella greco-orientale Frigia, i coloni di un altro demanio imperiale si appellavano egualmente all’imperatore, quasi con le stesse parole della iscrizione africana sopra citata, contro le violazioni dei loro patti contrattuali originari, e l’imperatore torna a dar loro ragione[475]. Ma può, quasi con sicurezza assoluta, dirsi che non si tratta di caso particolare, ma di norma universale. La famosa iscrizione di Henrich Mettich — ch’è il più antico documento riguardante il colonato romano, e che rimonta all’età di Traiano (116 o 117) —, richiama a sua volta una precedente _lex Manciana_ (la legge originaria che aveva regolato il dominio), e ne ripete e rinnova passo per passo le clausole[476]. Identicamente si comporta una legge dell’età di Adriano riguardante i coloni di un innominato dominio imperiale di Africa[477]. La famosa iscrizione di Ain Oussel dell’età di Settimio Severo (209-211) richiama a sua volta, anch’essa, la _lex Hadriana_ sopra citata[478]. E tutta la legislazione imperiale autorizza a concludere che si tratta di colonie parziarie, enfiteutiche, talora ereditarie, e quindi, in conseguenza, _a condizioni immutabili_[479]. Identiche clausole troviamo, non più nelle epigrafi, ma nelle più tarde e varie (per tempo e per luogo) disposizioni del _Codex Justinianeus_, per le quali i coloni semiliberi o i servi della gleba veri e propri pagavano in natura e danaro, ma più specialmente in natura (nel che consiste l’essenza della trasformazione del fitto libero in colonato o in servitù della gleba[480]), _secondo una proporzione immutabile_. Una disposizione di Costantino il grande stabilisce: «Quisquis colonus plus a domino exigitur _quam ante consueverat et quam in anterioribus temporibus exactus est_ adeat iudicem.... et facinus comprobet.... ut ille qui convincitur amplius postulare quam accipere consueverat, hic facere in posterum prohibeatur»[481]. Eguale divieto sanciscono Costanzo[482], e, poco più tardi (365 d. C.), Valentiniano e Valente: «Domini praediorum id quod terra praestat accipiant; pecuniam non requirant.... _nisi consuetudo praedii_ hoc exigat»[483]. E, più esplicitamente, due secoli circa più tardi, Giustiniano ribadiva: «_Sancimus colonos nulla deteriore condicione praegravari_.... Caveant autem possessionum domini, in quibus tales coloni constituti sunt, _aliquam innovationem eis inferre_.... Si enim hoc approbatum fuerit et per iudicem pronuntiatum, ipse provinciae moderator.... _omni modo provideat.... veterem consuetudinem in reditibus praestandis eis observare_»[484]. Nè la stabilità dei patti contrattuali si limita ai rapporti fra il proprietario e il singolo colono, ma deve estendersi a tutti i discendenti di quest’ultimo. «Et hoc», proseguiva Giustiniano, «tam iis ipsis colonis quam in subole eorum sancimus, ut et ipsa semel in fundo nata remaneat in possessione _sub iisdem modis condicionibusque, sub quibus etiam genitoribus eius manere definivimus_»[485]. La frase consueta delle epigrafi per indicare il tributo in natura dei coloni è, come si è visto, quella di _partes_ o _partes fructuum_, o _partes agrariae_[486]. Or bene, essa sembra la traduzione letterale della frase di un antico che ci discorreva appunto degli Iloti spartani — MIRONE DI PRIENE (in ATH., 14, 14) —, il quale così testualmente si esprimeva: [Gli Spartani], «affidando [agli Iloti] la terra, stabilirono ch’essi dovessero fornire immutabilmente _parte [dei frutti]_ (ἔταξαν μοῖραν ᾕν αὐτοῖς ἀνοίσουσιν ἀεὶ)», descrivendoci in tal guisa, più precisamente che non avesse fatto Plutarco, un rapporto economico di mezzadria, ossia, come dicevamo, di _colonia partiaria_. È lecito ora chiedersi: Si tratta di una semplice casuale analogia fra il mondo greco e quello romano o non forse di qualche cosa di più intimo? Secondo il maggior conoscitore del colonato, lo SCHULTEN, la _colonia partiaria_ dell’Impero romano è _pura derivazione di quella greca_[487]. Ma anche a non ammettere una così rigida discendenza di fenomeni giuridici, è fuori dubbio che l’influenza del diritto greco ed ellenistico si esercitò profondamente su l’istituto romano della _colonia partiaria_[488], e che, quindi, le forme dell’uno dovettero ripetere le forme preesistenti dell’altro dei due fenomeni. Secondo, dunque, ogni cosa ci induce a credere, gli obblighi degli Iloti verso gli Spartani dovevano essere quelli di un tributo in natura, proporzionale al ricavato del suolo. Abbiamo noi a nostra disposizione qualche altro argomento che ci autorizzi a tale interpretazione? Imporre ai propri coloni un tributo fisso anzichè uno proporzionale al raccolto del suolo, o viceversa, non è materia di capriccio individuale del supremo proprietario; è necessità, determinata a sua volta dalle condizioni del suolo e del coltivatore. In una sua lettera, su questo punto notevolissima, PLINIO IL GIOVANE spiegava ad un amico perchè egli fosse costretto a trasformare in mezzadria la locazione di un suo podere, i cui contadini avevano fin ad allora pagato un canone in danaro: «Negli ultimi cinque anni (egli scrive) non ostante i numerosi condoni, gli arretrati [dei miei fittavoli] sono andati accumulandosi. Perciò la maggior parte non si preoccupano di ridurre il debito, disperando di poterlo mai soddisfare; anzi distruggono e sperperano il prodotto, convinti di non avere a risparmiare per sè. Occorre dunque rimediare ai mali che si aggravano ogni giorno. E non v’ha che un solo rimedio: _non locare a fitto, ma a mezzadria_.... Del resto non c’è nessun genere di guadagno più equo di quello che proviene solo dalla fertilità della terra, dal clima e dalle vicende delle stagioni....»[489]. A giudizio di Plinio, dunque, di fronte a contadini rovinati o impoveriti, imporre un canone fisso significa precludersi la via di riscuotere alcunchè. Identico pericolo era previsto nei contratti greci. Ce ne informa un significantissimo contratto del periodo classico (345-344 a. C.), fra il demo di Aixone e due cittadini ateniesi. In esso, dopo l’indicazione delle clausole normali della locazione, per cui i conduttori avrebbero dovuto corrispondere un canone fisso in danaro (152 dr. annue), si aggiunge che, se per disgrazia, durante il periodo della locazione, il territorio sarà devastato dai nemici, o se ne sarà da essi impedita la coltivazione, il fitto si trasformerà in mezzadria, e toccherà ai proprietari solo la metà dei prodotti della terra («_Se i nemici impediscono la coltivazione o distruggono il prodotto, spetterà agli Aixonei la metà del ricavato della terra_»)[490]. Se questo sentono gli antichi, la scienza moderna è concorde nel pensare che la mezzadria, o è «una trasformazione del fitto, imposta dall’impoverimento dei fittavoli», o è determinata dalla povertà del suolo e dei suoi diretti coltivatori[491]. Imporre dunque a dei coloni rovinati e impoveriti (e tali furono gli Iloti della Laconia, dopo la prima invasione, o, più ancora, i Messeni dopo la così detta seconda guerra messenica) un canone annuo fisso, era cosa, che non soltanto non si doveva, ma che _non si poteva fare_, salvo a perpetrare, al tempo stesso il danno dei locatari del suolo. Con la relativa sicurezza, dunque, che è lecita in simili questioni, noi possiamo tornare a concludere che _l’obbligo degli Iloti laconi verso i loro signori, era quello, non già di un tributo fisso in danaro, ma di un tributo in natura, di costante proporzionalità verso il raccolto annuo dei loro campi_. NOTE ALL’APPENDICE. [469] Cfr. PAUSANIA, 4, 14, 3 sgg. specie 4: «In primo gli Spartani li fanno giurare di non defezionare mai da loro, e di non tentare alcun altro mutamento». Questa dicitura sembra riferirsi a un rapporto di Stato dominatore a popolazione civilmente libera. [470] In _Poetae gr._, ed. BERGK, II, fr. 6: trad. it. di G. FRACCAROLI, _Lirici greci,_ Torino, Bocca, II, 90. [471] PAUS., 4, 14, 4. [472] PAUSANIA discorreva dei Messeni innanzi la grande rivolta della fine del VII secolo a. C.; dopo di che, soggiunge, essi «passarono nella categoria degli Iloti» (4, 23, 1; 24, 5). Si deve, in questa frase, supporre anche un mutamento dei loro obblighi tributari nel senso che, in luogo di un tributo proporzionale, i nuovi Iloti (come gli antichi) avrebbero pagato un tributo fisso in natura? Tale deduzione sarebbe arbitraria ed anche inverosimile, in quanto l’aggravarsi della condizione materiale dei Messeni non rendeva possibile siffatto mutamento (cfr. pp. 215-16 del pres. volume). Molto più semplicemente qui si deve trattare del loro passaggio da coloni liberi o semiliberi a servi della gleba. È singolare lo sforzo dei moderni per conciliare i passi di Plutarco e di Pausania, dopo averli interpretati in modo da renderne inconciliabile il contenuto. Nel suo ottimo libro _Le travail dans la Grèce ancienne_ (pp. 112-13) il GLOTZ imagina che la condizione degli Iloti della Messenia fosse stata diversa da quella degli Iloti della Laconia: complicazione improbabilissima, di cui le fonti tacciono assolutamente o che esse smentiscono: infatti PAUSANIA, vedemmo, informava che anche i Messeni furono inscritti fra gli Iloti. Il BELOCH poi, nella sua _Griechische Geschichte_ (2ª ed., I, 1, p. 304, n. 1), suppone che la condizione degli Iloti sia stata dapprima quella descrittaci da Tirteo e da Pausania, poi quella indicataci dalla consueta interpretazione di Plutarco. Il guaio si è che PLUTARCO (loc. cit.) si riferiva, come Tirteo e Pausania, all’età licurgica e prelicurgica.... Lo stesso storico (lo notiamo implicitamente) cade in qualche altra inesattezza. Egli considera i Messeni, innanzi la grande rivolta del VII secolo, quali servi della gleba (p. 206), e interpreta l’espressione ἀποφορὰ, con cui Plutarco indica il generico tributo degli Iloti, come il vocabolo tecnico che renda il concetto di «fitto costante» (p. 304, n. 1). [473] _C. I. L._, VIII, 2, 10570, § 3 (iscrizione di Suk el Kmis) (in RICCOBONO; BAVIERA; FERRINI, _Fontes iuris romani_, Florentiae, Barbera, 1909, pp. 362 sgg.). [474] IBID., § 4. [475] Cfr. _Journal of hellenic studies_, 1897, pp. 418 sgg. Pur troppo, l’iscrizione, gravemente mutila, non ci illumina (verbalmente almeno) in modo così completo come quella africana di Suk el Kmis. [476] In RICCOBONO ecc., _Fontes iuris romani_, pp. 352 sgg.; col. I, ll. 6-7, 9, 12, 24; col. II, l. 29 e _passim_. [477] IBID., pp. 357 sgg.; col. I, l. 8; col. IV, l. 9. [478] IBID., p. 359 sgg.; col. I, ll. 2 sgg.; col. II, l. 10. [479] E. BEAUDOUIN, _Les grands domaines dans l’Empire romain_, in _Nouv. Revue hist. de droit français et étranger_, 1898, pp. 556 sgg. [480] _Cod. Just._, 11, 48 (47), 5: «_Domini praediorum id quod terra praestat accipiant, pecuniam non requirant_; cfr. FUSTEL DE COULANGES, _Recherches sur quelques probl. d’histoire_, pp. 1-82; IDEM, _Institutions politiques: L’invasion germanique_ ecc., pp. 142-43; _L’alleu et le domain rural_ (Paris, 1899), pp. 77-79. 406; _Le domain rural_ in _Revue des deux mondes_, 1886, pp. 855-56 (trad. it. in _Bibl. di st. economica del_ PARETO-CICCOTTI, II, 1); MITTEIS, _in Hermes_ (1895), p. 606; E. COSTA, in _Bullett. Ist. dir. rom._, 1901 (1902), pp. 50 sgg.; SCHULTEN, _Colonus_, in _Dizion. epigr._ del DE RUGGIERO, pp. 459-460; E. BEAUDOUIN, op. cit., in _Nouv. Revue hist. de droit français et étranger_, 1897, pp. 708, 709, note 1-2; 1898, 56-57; G. LUZZATTO, _I servi della gleba nelle grandi proprietà ecclesiastiche_, Pisa, Spoerri, 1910, pp. 143 sgg., 179 sgg. [481] _Cod. Iust._, 11, 49 (50). [482] _Cod. Iust._, 41, 47 (48) 1 (a. 328). [483] _Cod. Iust._, 11, 48 (47), 5. [484] _Cod. Iust._, 41, 47 (48), 23, 1-2. [485] IBID., § 3. [486] Cfr. anche l’epigrafe d’_Henchir Mettich_ in RICCOBONO ecc., op. cit., pp. 374 sgg., ll. 11 sgg.; BEAUDOUIN, in loc. cit., 708-09, note, e _Cod. Iust._, 11, 48 (47), 8, 1, ecc. [487] _Die Lex Manciana_ ecc., in _Abhandl. d. Königl. Gesellschaft d. Wissenschaft zu Göttingen philol. hist. Classe_, N. S., II, 3, 1897, (estr. pp. 46 e _passim_). [488] Cfr. BEAUDOUIN, in _Nouv. Revue hist. de droit français et étranger_, 1898, pp. 547 sgg. [489] PLIN., _Ep._, 9, 37, 2 sgg. Cfr. Dig., 19, 2, 25, 6: «Partiarius colonus quasi societatis iure et damnum et lucrum cum domino fundi partitur». [490] DARESTE; HAUSSOULIER; REINACH, _Inscriptions juridiques grecques_, II, (p. 238), XIII bis, § 3. [491] GU. ROSCHER, _Traité d’économie politique rurale_ (trad. fr.), Paris, 1888, pp. 235 e sgg. INDICE. PREFAZIONE Pag. VII INTRODUZIONE IX Disegno della storia politica della Grecia antica; Obietto del presente studio e suoi limiti; Il concetto di «progresso» e di «decadenza»; Storia e fonti storiche. CAPITOLO I. — LA SCHIAVITÙ E L’ANTICA SOCIETÀ ELLENICA Pag. 1 La schiavitù e la sua importanza storica; La popolazione schiava in Grecia; Improduttività e costosità del lavoro servile; Il regime a schiavi e la produzione; Il macchinario e i lavori agricoli in Grecia; La produzione del suolo; Macchinario e lavori industriali; La concentrazione della ricchezza immobiliare; La concentrazione della ricchezza mobiliare; La concorrenza servile e il lavoro libero; L’emigrazione; Ripercussioni politiche della schiavitù; La corruzione morale; La reazione contro l’economia a schiavi. CAPITOLO II. — LE SOCIETÀ AGRICOLE E LA SERVITÙ DELLA GLEBA IN GRECIA Pag. 75 Origini della servitù della gleba; La servitù nella Grecia antica; La condizione giuridica e morale dei servi della gleba e sue conseguenze; I proprietari del suolo; La grande crisi sociale. CAPITOLO III. — L’IMPERIALISMO Pag. 115 L’imperialismo greco; L’imperialismo ateniese: soggezione economica; Soggezione giudiziaria; Soggezione politica; L’espropriazione delle terre degli alleati; L’imperialismo e la decadenza di Atene; L’imperialismo spartano; L’imperialismo tebano; L’imperialismo in Sicilia e nella Magna Grecia; Imperialismi minori; L’imperialismo macedone; La reazione greca. APPENDICE AL CAPITOLO SECONDO Pag. 209 Il tributo degli Iloti spartani. FINE DEL VOLUME PRIMO. Nota del Trascrittore Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. La notazione ^ indica che il carattere seguente è in apice. *** End of this LibraryBlog Digital Book "Il tramonto di una civiltà, vol. 1 (di 2) : O la fine della Grecia antica" *** Copyright 2023 LibraryBlog. All rights reserved.