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Title: Storia di un'anima
Author: Bazzero, Ambrogio
Language: Italian
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*** Start of this LibraryBlog Digital Book "Storia di un'anima" ***


(This file was produced from images generously made
available by Biblioteca Sormani - Milano)



AMBROGIO BAZZERO

STORIA DI UN'ANIMA

ANIMA.

SCHIZZI DAL MARE, ACQUERELLI.

LACRIME E SORRISE--CORRISPONDENZE.

MALINCONIE DI UN ANTIQUARIO.

MILANO

FRATELLI TREVES EDITORI

1885.

AMBROGIO BAZZERO

Erano i tempi della nostra _Vita Nuova_.

Con questo titolo uscì nel 1876 a Milano un giornale letterario
sostenuto in parte dai raminghi scrittori dell'antica _Palestra
letteraria_ e da altri nuovi venuti. Furono e l'uno e l'altro due
bagliori, più che due fuochi, ma a quella vampa molti giovani si
conobbero a tempo, molte volontà si sgranchirono, molti ingegni si
accesero. Poi venne la vita vera per alcuni, l'oblìo per altri, la
morte per i migliori.

Fu in quell'anno ch'io conobbi Ambrogio Bazzero, il primo dei nostri
morti,

Non molto alto di persona, di capelli rari per grave malattia sofferta
qualche anno prima; con bei baffi rossicci, di fattezze regolari,
parlava con una voce chiara, ora argutamente, ora in tono di profonda
tristezza. Mobile, nervoso, fuggevole, caro, fu il più attivo, il
più ordinato, il più candido di quella babilonia che si diceva
per burla Amministrazione della _Vita Nuova_.

Il Bazzero era nato il 15 ottobre 1851 a Milano, da una ricca
famiglia. L'essere ricco non nocque a lui, come nuoce a molti che la
troppa fortuna confonde e stanca, perchè il denaro non gl'impedì
mai di studiare e di fare del gran bene alla povera gente.

Fin da fanciullo, dice un santo libricciuolo che mi fu dato di
consultare, Ambrogio mostrò animo così pietoso, che non osava
far male a una formica. D'inverno spargeva miglio e briciole di pane
sul davanzale della finestra e godeva a vedere gli uccelli che
venivano confidenti a mangiare. Era così semplice ne' suoi gusti
che un fiore, un frutto, un bambino, un cagnolino rapivano subito la
sua attenzione e bastavano a consolarlo e a rallegrarlo.

Questa semplicità di gusto egli conservò sempre, e passeggiando
con lui, era curioso il vedere come egli sapesse rilevare il bello e
il grottesco nelle cose più comuni, nel saltellare elastico d'un
passerotto sull'erba, o nel subito atteggiarsi d'un gatto, o nei
ghirigori d'un'inferriata, o nella frase volante d'un vetturale, o in
un proverbio di contadini, dei quali sapeva ingegnosamente imitare la
cadenza e i fiori del linguaggio.

Dopo il Liceo, in cui fu suo caro maestro Leopoldo Marenco, studiò
legge privatamente, cosa di cui si lamentava sempre per non aver
potuto apprendere nel libero consorzio universitario la scienza della
vita e una maggiore sicurezza di sè stesso. E veramente in lui a
trent'anni tremava ancora il fanciullo.

Il pensiero era libero e audace, ma la volontà paurosa. Di questo
squilibrio di forze, fra l'occhio che vede e la mano che non osa, egli
si querelava spesso con me durante il nostro viaggio di piacere a
Firenze e a Venezia, e spesso ne piange anche in questo libro, che
è la storia dell'anima sua. Più che i codici amava le sue armi
antiche di cui aveva in casa una ricca collezione, i suoi elmi, le sue
spade rugginose, le celate, gli stocchi, gli archibugi a ruota. Nè
minore era il suo entusiasmo per ogni altra sorta d'anticaglia,
mobili, stipi, poltrone, inferriate, tappeti, e non già per moda,
come usarono poi molti dei nostri ricchi, ma per il sentimento che gli
faceva credere d'abbracciare in quelle cose lo spirito di più
generazioni. Alle anime generose è poca soltanto una vita.

Io me ne accorsi in quel nostro viaggio del 1876. Era la prima volta
che si spiccava il volo dalla casa, e freschi entrambi di studi e di
affetti, corremmo a contemplare le _porte del paradiso_, il campanile di
Giotto, e poi San Marco e la laguna. Quali giorni nella mia vita e
come sento che molta parte della vita di lui è rimasta come
trasfusa in me! Quando entrando nella sala del Bargello a Firenze,
vide una stupenda raccolta di fucili d'ogni tempo, egli gettò un
grido di gioia e per poco non mi abbracciò, senza chiedermi pure se
io avessi mai letta la sua monografia: _Sopra gli archibugi a ruota_
ch'egli aveva pubblicato a vent'anni.

Nella sala della _Morte_ a Firenze, volle provarsi la veste, il
cappuccio e la buffa della compagnia. A Parma pagò il chierico
perchè si lasciasse mettere in testa l'elmo e brandisse la spada di
Alessandro Farnese, giù nella cripta al chiarore delle torcie. A
Ferrara, entrando nella celletta di Sant'Anna, mi accorsi ch'egli
tremava di commozione, e pallido lo vidi uscire dal carcere ove fu
chiuso il povero amante di Parisina. E intanto preveniva nuove
emozioni desiderando, sognando Venezia e i quadri del suo Tintoretto,
sul quale aveva due anni prima scritto il suo prediletto dramma.

Non so dire se più dell'arte egli amasse la libera natura, Fin da
fanciullo ebbe sotto gli occhi i malinconici dintorni del suo Limbiate
e i grandi boschi di pino silvestre che coprono una vasta zona
dell'alto Milanese, luoghi di caccia una volta e di sontuose
villeggiature, oggi ingiustamente abbandonate. Per quei boschi, nati
nell'ingrato solco della sodaglia, i sentieri si avviluppano in un
inestricabile labirinto di selve, fra eserciti agglomerati di
conifere, sottili, diritte, vicine, che quasi si toccano, che tolgono
la luce del cielo o la lasciano solamente biancheggiare fra ciuffo e
ciuffo pallidamente. E scendono e salgono le viottole in un mare di
eriche e di felci. Stride la gazza, passa a volo, e va squassando le
ali a posarsi sull'orlo d'un laghettone, in cui la piova del bosco si
riversa in uno stagno viscido e giallastro che dorme nel silenzio
verde della pineta. Tu vai e vai per miglia e per ore e non trovi che
solchi, avvallamenti e nuovi eserciti di pini scaglionati su una
vetta, talchè ora ti pare d'essere a un valico alpino, ora in un
parco reale, ora in un deserto. Non una voce odi, non un fiato, se non
è quello del vento che passa al disopra: o tutto a un tratto lo
scoppio aspro d'un fucile e il frascare d'un cane. Vai ancora. Il
bosco si schiarisce.

Al di là scorgi un non so che di bianco. È un cimitero
abbandonato, sepolto nel verde, dove vorresti sdraiarti tutto supino,
colle mani in croce, e chiudere gli occhi, e dormire, dormire nel seno
molle della madre terra.

Fra questi boschi era solito errare il giovinetto colla mente accesa
dai tanti romanzi storici che noi tutti in quegli anni abbiamo
avidamente cercati. E il bosco a lui pareva d'un subito che si
popolasse di cavalieri erranti, armati di ferro, di donzelle bionde e
di tutti i più bei fantasmi che uscivano soltanto al tocco degli
antichi liuti.

I boschi non soffrono d'anacronismo e a chi le chiama bene vengono
incontro anche le vergini amadriadi.

Il romanticismo vinceva negli anni che corrispondono alla giovinezza
d'Ambrogio Bazzero le sue ultime battaglie, accompagnando il frastuono
delle battaglie vere per la patria. Tutti abbiamo avuto, qual più qual
meno, qualche castello nel cuore e una spada di Toledo nel pugno. I
più giovani, i più timidi erano i più leggieri alle immaginazioni. Il
Bazzero, d'ingegno facile, senza le noiose distrazioni del bisogno,
con un'anima semplice, con tanto medioevo appiccato alle pareti del
suo studio, potè meglio di molti altri ricreare quel mondo morto
intorno a sè. Nè lo ricreava per sola vaghezza d'antiquario, come si
disse, ma perchè gli pareva che in quel mondo astratto i suoi sottili
ideali respirassero meglio che nell'aria grossa della realtà pregna di
cose. Da questo raccoglimento uscì il suo _Buondelmonte_, l'_Angelica
Montanini_ e l'_Ugo_, in cui la conoscenza dei tempi e dei costumi è
così ricca e precisa e i rapporti così studiati nella lontananza dei
tempi, che il lettore moderno, sorpreso dal gran numero delle
evocazioni rimane confuso, e accusa d'oscurità e di confusione un'arte
che ha il difetto di essere troppo minuziosamente precisa.

Ma chi ha tanta pazienza di rileggere e d'aspettare che l'impressione
si snodi trova cento luoghi d'ammirare e finisce col sentire in sè
la forza e l'anima dei tempi. Nell'_Ugo_ specialmente, romanzo che
stancò lo stesso autore, l'impressione finale è propriamente
quella di sentirsi sotto il peso cupo del più cupo secolo della
nostra storia, il decimo.

Chi più di tutti sentiva il fascino di queste risurrezioni era
l'autore, quando si svegliava dalla sua meditazione con tutte le prove
vive e parlanti intorno a sè dell'opera sua.--Chi può capire la
potenza di certe mie pagine?--scriveva nel libro dell'_Anima_, in un
sincero abbandono con sè stesso; non fa meraviglia, quindi, che al
vedere gli amici suoi impassibili o indifferenti, il pubblico non
curante, la critica scempia e ingiusta, provasse tanto dispetto da
buttar via la penna, da chiudere i libri negli scaffali, da maledire
le sue armi, le sue notti perdute. Erano i mesi dello sconforto: poi
ritornava da capo, e avrebbe vinta la partita, son certo, se la morte
non avesse voluto vincere prima di lui.

* * *

Di questi scritti che non fanno parte del presente volume, e che bene
o male appartengono già al pubblico da molti anni, dirò soltanto
quel che importa per la migliore conoscenza dello scrittore, augurando
che la devozione di chi volle raccolti questi primi fogli consigli a
tentare una nuova raccolta anche di quelli.

Lasciando stare qualche piccolo tentativo troppo giovanile e troppo
acerbo, ch'egli pubblicò in privata edizione, mi pare che
coll'_Angelica Montanini_ tentasse veramente di scendere nel campo
letterario(1).

L'azione di questo dramma ha luogo a Siena alla fine del secolo XIV,
durante la guerra di Siena contro Firenze. Il dramma è dedicato a
Leopoldo Marenco, che con una parola d'affetto aveva cambiato, come
dice la dedica, in speranza il tormento ineffabile dell'arte. Molte
sono le esuberanze e le inesperienze in questo lavoro, che è
congegnato sopra un odio di parte e sopra una spada, e manca in molte
parti quella chiara prospettiva dei caratteri e delle cose che è
tanto necessaria sulle scene. Evidente è l'imitazione del
Guerrazzi.

Al Guerrazzi, per le lettere sue all'autore, è dedicato il
_Tintoretto_(2). La tela di questo dramma è più distesa, più
ben dipinta e qua e là tocca ad una larghezza quasi di poema
storico. Chi lo giudicasse soltanto dal punto di vista della
_teatralità_ potrebbe trovarlo anche una meschina cosa, ma noi
sappiamo da un pezzo che _teatralità_ è parola volgare, buona per
un successo, e che quasi sempre finisce là dove l'arte comincia,
mentre non c'è parola nei drammi de Bazzero, che non sia collocata
senza una sicura convinzione artistica. Quei grandi artisti del
cinquecento, voglio dire il Vecellio, il Sansovino, lo Schiavone, il
Tintoretto e quel grande ludibrio che fu messer Pietro Aretino, si
muovono in una scena sfarzosa, piena di colori, e parlano un
linguaggio che arieggia il classico del Vasari e del Cellini. Nel
_Tintoretto_ ha voluto il Bazzero rappresentare gli sforzi d'un uomo
alla conquista delle due più grandi gioie della vita, l'arte e la
famiglia, contro tutte le minaccie della fortuna e della volgarità.
Al Tintoretto vien sciupato il nome dall'Aretino, e tolta la figliuola
diletta dalla peste. Eccone le ultime scene:

Infierisce la peste in Venezia. Due commessari di sanità vestiti in
nero e sdrusciti, salgono dal mare al terrazzo ov'è la casa del
Tintoretto:

PRIMO _(salendo, grida al basso)_. Ohe, maledetta ciurma, legate la
gondola chè l'onda non la rovesci.

SECONDO. È tanto piena! Pescare i morti non s'è mai dato.

PRIMO. Pesca i vivi, pesca i morti, è tutt'una; quello che non si
è mai dato in dieci notti che faccio questo mestiere da corvo, si
è pescare qualche borsuccia d'oro.

SECONDO. Senza il fiasco e la gonnella fanno pietà anche i morti.

PRIMO. Orsù, ci hanno chiamato con tanta furia _(ridendo)_. Date
qua..... _(si avvia alla porta del Tintoretto, e vi dà un calcio)_.
Messeri e madonne! _(apre ed entra cantacchiando)_.

SCENA V.

TINTORETTO _e i due_ COMMESSARI.

TINT. _(stringendosi alla figlia)_. Chi siete?

PRIMO. _(accennando la morta)_. È questa sola? _(al secondo)_. Togli
su, e fa presto.

TINT. _(con feroce lamento)_. Voi non me la toccherete!

SECONDO. Tutti matti così questi pittori! _(gli fanno forza)_.

PRIMO. Guarda, se c'è qualcosa.... _(dà un piede nella cesta di
fiori e la rovescia)_.

TINT. Indietro, villano barattiero!

PRIMO. È il mestier nostro così!

TINT. Tu vuoi rubare? Ruba, dà fuoco, saccheggia, ma lasciami la
figlia! _(ruggendo, s'accinge alla disperata difesa dell'amatissimo
corpo)_.

SECONDO. Noi siamo ai servigi della Repubblica. Mettete senno, o vi
chiamiamo due alabardieri _(s'avvia all'uscio)_.

TINT. La violenza a me?

PRIMO. È tempo sprecato _(cinicamente)_.... Ci chiamerete voi, quando
vi accorgerete che vostra figlia ell'è come tutte le creature di
carne ed ossa, destinate alla terra. Adesso le fate mille baci, ma
domani....

TINT. _(come chi scopre una terribile verità)_. Domani?... Ah!

PRIMO. E non so se avremo tempo.

TINT. Fermatevi!... _(va al letto di Maria, e la guarda e la tocca con
ansia paurosa)_.... Quel pallore è tremendo!.... _(imprecando e
supplicando)_. Natura tristissima, che crei questi angioli per disfarli
nel modo il più sozzo! Una figlia farà ribrezzo al padre? _(ai
Commessari)_.... Voglio tenere il mio tesoro, finchè potrò
_(baciandola sicuramente)_.... Ora posso ancora baciarla.

PRIMO. Ripasseremo ancora.

TINT. Quando?

PRIMO. Domani.

TINT. No!... (Anche la lupa, che vegliò il lupicino trafitto,
abbandona la tana ai corvi! Io fuggirò'?...) _(combattendo fiera
battaglia, facendosi per crudelissima necessità mansueto)_. Io
stesso la recherò sulle mie braccia, le farò posto nella
gondola, l'adagerò tranquilla.... Le conserverete i fiori e il
drappo bianco?... Io l'accompagnerò fin dove andrete: poi quando il
commessario mi scaccerà... apparecchiate due fosse vicine....

PRIMO. Messere _(gli tende la mano....)_

TINT. _(si china, cieco dal dolore, toglie dal cofanetto una collana,
fa per darla al commessario)_.... No!... È la collana di mia figlia!
Ed io non sono degno di baciarla!... _(va ad una cassa, con subito
pensiero toglie una borsa)_. Prendete: è l'oro di re Filippo.
Regnate nella taverna e sulle donne vostre!... _(i Commessari
soddisfatti, escono sul terrazzo, e discendono al mare)_.

SCENA VI.

TINTORETTO _solo_.

_(baciando la figlia)_ È l'ultimo bacio nella casa dove se' nata! _(la
compone, le si inginocchia vicino, si solleva)_. È l'ultima alba!...
Guarda se ancora luccica la tua stella!... _(la drizza sui guanciali,
le alza la testa, e fissa pel finestrone.... Dal terrazzo si vedrà
sfilare sull'acqua un'immensa processione di lumi, lentissima,
imponente)_.... Che è?... È il funerale di Tiziano! _(chinandosi
sulla figlia)_. Tutto è finito! Famiglia ed Arte!

SCENA ULTIMA.

MARCO(3), _dalla scala di terra, sale al terrazzo, lo attraversa
frettolosamente e giunge all'uscio: sta in sospeso per la gioia: trova
semiaperto ed entra.... Il_ TINTORETTO _gli viene incontra, reggendo la
figlia sulle braccia._

TINT. Non è più tua! Ella è d'Iddio e dei posteri!

* * *

L'_Ugo_, che l'autore dedica alla sua prima amarissima delusione, è
la prima parte d'un romanzo sul secolo X, che vide la luce nella _Vita
Nuova_. Il genere astruso dell'argomento e dello stile stancò i
lettori del giornale abituati al facile leggere. Raccolto poi in un
volume, la critica l'addentò colla sua solita inconsulta
voracità(4). Il Bazzero ne restò tanto conturbato che non volle
più continuare. Rileggendolo in questi mesi ho risentito ancora il
sentimento faticoso della prima volta, ma se l'affetto non mi fa velo,
credo che vi siano in queste 130 pagine, cinquanta almeno degne d'un
grande scrittore. E non sarebbero poche per un libro! Che tempi
fossero quelli ch'egli vuole descrivere, ce lo dice presto in un modo
vivo e incisivo:

  "Erano quelli i tempi in cui un cavaliere noverava, come un sellaio,
  le fibbie e i chiodi della sua sella da battaglia e neppure
  sbagliava in un sopranome a quegli arnesi e forse forse moriva senza
  tutto avere appreso il _paternoster_ dalla bocca della madre o del
  chierico: tempi in cui, io credo, che la natura non si sarebbe messa
  su via fallata, se avesse ai priminati delle famiglie baronali dato
  a vece di cranio addirittura un elmo, a vece di lingua una lama, e
  per cervello qualcosa di bollente che fuori uscisse e fosse
  mostruoso cimiero. Io non so se ancora allora i bambinelli si
  tormentassero colle fasce: se così fosse stato, non mi sarebbe
  punto di maraviglia se anche trovassi nelle cronache che la madre di
  Garmario saluzzese, madonna Sandra, torturasse le membra del suo
  figliuolo, serrandole in una bandiera insanguinata, o che il padre
  di Forcone da Ivrea recasse al castello per la bisogna materna della
  sua moglie Ageltruda la soprasberga dell'inimico bucata e ribucata a
  colpi di spada: l'avo Attone da Susa legò con sacramento ai
  nascituri dal suo Rogerio il lembo stracciato a morsi della sozza
  camicia che vestiva nella _torre della fame_. Messer Adalberto era
  primogenito, ed aveva avuto madre come l'ebbe Garmario, padre come
  quello di Forcone, ed avo della taglia di Atto. Finchè vissero i
  suoi, imparò che nelle sale feudali l'agnello santo del perdono
  ci sta figurato solo per spasso di qualche frate dipintore, il quale
  fa il mestiere, è pagato, e se ne va dal ponte: imparò che
  negli steccati dei giuochi d'arme, se le cadute da cavallo
  v'incarnano gli anelli di maglia nelle membra, perchè la lancia
  dell'avversario vi coglie, è meglio che quelli vadano fino al
  cuore a condensarvi dentro tutto l'odio, e questa vi avesse passato
  fuor fuora, senza accorgervi di provare vergogna! Imparò che le
  dita ci furono date da natura per contare le vendette da farsi:
  segnar croce colla penna è da monaco, tagliare colla spada da
  cavaliere: si vive collo usbergo maledetto, si muore coll'abito
  immacolato di qualche monistero."

Ugo è un tessuto di scene, una successione di quadri storici, di
figure riprodotte dalle cronache, di atteggiamenti che sembrano
scolture, di truci spettacoli, incisi con uno stile di ferro.

La lettura non ne è facile come dell'elegante prosa del D'Annunzio
e della lucida scuola degli Abruzzesi, ma è una prosa nutrita di
studii e di forti riflessioni, che durerà, io mi lusingo, nel
giudizio dei buongustai, più del tempo che dura una moda.

Ecco come il Bazzero vi dipinge le sue figure.

Dopo aver letto _sono tubae_ il bando pasquale ai vassalli, l'araldo
Guidello e il chierico Ingo, poco lieti delle mancie ricevute, si
allontanano così:

  "E mossero giù dalla scalea della chiesa. La piazzuola della
  _curte_ era deserta. Essi presero ad uscire dalla viuzza
  fiancheggiata dalle casucce dei montanari, oggi boscaiuoli, domani
  alle giornate d'armi, sempre poveri e sempre irosi. Intorno
  all'edera frusciavano con volo tortuoso le nottole; gli usci erano
  chiusi, gli arconcelli delle finestre lucenti di strisce rosse dal
  sotto in su, che venivano dai focolari posti in mezzo alle stanze;
  sullo sfondo si vedeva una montagna già sfumata nella nebbia del
  crepuscolo.

  I nostri due procedevano silenziosi, e, benchè sotto la protezione
  del loro signore, pure affrettavano il passo e sulla punta dei piedi.

  E l'uno calava il cappuccetto sulla testa tonsurata e nascondeva la
  pergamena sotto la tonaca, e l'altro storceva una mano all'indietro
  ad assicurarsi che la tromba non percuotesse coll'elsa della spada o
  col pugnale: e quegli guardava sospettoso le pieghe del drappo
  ventilante dallo strumento del compagno, come se da quelle dovesse
  uscirgli il malanno: e questi imprecava il calzolaio che aveva fatto
  pel chierico scarpe così disacconce per suolo sospettato.

  Passavano e guardavano. Quelle tavolacce di quercia parevano fatte
  apposta per spalancarsi ad un'insidia: da quegli arconcelli i
  tizzoni che erano sui focolari con maledetta furia potevano essere
  sbatacchiati nella strada. Basta! il santo patrono tenesse buoni i
  _gloria_!"

Così descrive un pranzo nel castello:

  "Come voleva la cortesia delle usanze, i messeri furono convitati.
  Entrarono in una sala assai rozza, ma spaziosa, col tavolo fumante
  di mezzi capretti arrostiti, colle seggiolone coperte di pelli di
  lupi. Scinsero le spade, rumorosamente gittandole in un mucchio,
  allentarono le fibbie delle piastre e delle maglie, si lasciarono
  andare giù sui panconi, pure nessuno mise le mani nel tagliere,
  perchè un posto, e il più eminente, rimaneva vuoto. Nè
  attesero a lungo: si sollevò l'usciale della sala, e un paggio,
  affacciando mezza persona, annunziò:--Madonna Imilda.

  Apparve la figliuola di messer Ildebrandino e della morta Adelasia,
  di vaga persona e di animatissimo viso, in stretta gonna oscura,
  cinta su da uno saccheggiale, e coperta il capo dai lati con un velo
  appuntato: s'avanzò salutando i convitati, e, al cenno fattole
  dal padre, s'assise al suo posto. A destra aveva messer Ugo, a
  sinistra il suo parente Oberto.

  Ildebrandino così la salutò:--Valenti, udite: la figliuola mia
  sa assai bene di leuto e canta di Carlomagno e dei paladini: operate
  in modo che il suo strumento abbia una corda anche per voi, e la sua
  bocca una voce per le vostre imprese. Amabilissima figlia, abbiateci
  grazia!

  Di poi i convitati presero l'invito non da scherzo, come ai dì
  nostri, e se da quegli assalti alle vivande dovevasi trarre augurio
  per la domane, in verità era buonissimo. La sola fanciulla non
  aveva tagliere dinnanzi e non partecipava all'allegrezza epulona: il
  che era richiesto dal suo decoro verginale."

Notate quanto spavento in questa descrizione d'un assalto al castello;

  "Imilda era nella cappella da un pezzo e così pregava, quando
  nella corte ecco un grido spaventato, e un altro! Imilda si alza in
  piedi tremante, corre sotto un finestrone aperto.--I
  nemici!--ascolta la voce del vecchio Federigo:--Salvate madonna!--ed
  ecco ancora:--Fuoco! fuoco!

  La vergine, come a luogo di rifugio, si butta ai piedi dello altare,
  scongiurando con fiero rimorso:--O Signore, salvate mio padre! Come
  vi ho pregato? È il mio castigo dunque così pronto?--ed ode
  ancora un rumore di pugna, e uno sbattersi fragoroso di porte, e un
  correre affrettato su nelle stanze, e voci diverse, e tra tutte una
  irosissima che comandava:--Balestrate fuoco nelle finestre!--e
  un'altra,--Se tutto arde, che ci rimane di bottino?

  --Combattete!--gridava Federigo agli uomini del castello:--Giuratemi!

  Alla fantasia della fanciulla si presentò tutto il castello
  invaso da una turba di lupi e da un torrente di fuoco; e qua sotto
  alle scuri si sfasciavano gli usci: e qua si massacravano i servi:
  qua si sforzavano gli scrigni: dappertutto si portava ruina: e le
  fiamme divampavano più e più, alimentate dai cadaveri
  friggenti: e il fumo soffogava assalitori e assaliti. Chi
  precipitava dalle finestre: e chi dalle finestre entrava: chi si
  trascinava a morire sulla soglia, per avere fiato: chi impedito
  nella fuga o nella corsa di conquisto da qualche ferito pregante,
  gli faceva somma grazia o di una stoccata o di una maledizione...
  Venivano, venivano i furibondi! La camera del padre era deserta: lo
  scalone, il corritoio, o stanzone dell'arme....--O Signore! la
  fanciulla se li immaginò al lume delle torce incendiarie
  nell'andito lunghissimo che conduceva alla cappella! Venivano,
  venivano!... Almanco le fossero già alle spalle, l'avessero
  già afferrata: ella, si sarebbe trascinata all'altare, chiamando
  la Madonna! Ma oh come invece erano lenti e terribili! E che portava
  quel mostro? Dio! la non vedesse! Portava una testa sanguinosa!... O
  padre! O Ugo!...

  La povera vergine, esterrefatta dall'atrocissima visione, si
  rinversò con abbandono ai piedi dell'altare.--Non sia vero!

  Fu scossa. Di nuovo la voce:--Balestrate fuoco nelle finestre!--E
  un'altra:--Sulle vetriere c'è su dipinta la croce: lì è la
  cappella.--Ancora la prima:--Sconficcate le inferriate!

  Imilda non ascoltò più, ed aggrappandosi ai gradini, discinse
  le chiome, le scompose, con quelle si velò il volto per
  pudicizia, poi ancora, ma più rassegnata, scongiurò:--E se
  vuoi mandarmi la morte, fa che non sia vergognosa!"

Mi duole di non poter trascrivere tutti i punti in cui mi pare che la
vita e l'arte si stringano in una forma tutta di getto. Qualche scena
feroce è tale da far inorridire, come là dove descrive la morte
di Guidinga, che in odio al marito, nuda, oscenissima e sanguinante,
si rotola giù di gradino in gradino, percuotendo quasi a morte il
frutto esecrato che porta nelle viscere: e la vendetta che trae il
marito, mostrando all'antico amante di lei il cadavere della donna
senza lume accanto, senza frate, senza croce fra le mani! Dicono le
cronache che solesse venire poi la _madonna perduta_ e ripetesse la
condanna: Voi non credete in Dio! Da questa donna era nato Ugo; e
crebbe cupo, angosciosissimo. «In vent'anni tre volte ho
sorriso,--esclama--quando la prima volta su un'altissima cima vidi
all'orizzonte sorgere il sole e vidi che avvolgeva anche me ne' suoi
raggi; quando suonò la tromba che mi chiamava all'armi, quando...
Non è riso, è sogghigno! Ebbene sogghigno oggi in cui mi trovo
tanto deserto....»

* * *

Come nel Tintoretto, così in molti dolori dell'Ugo il Bazzero
descriveva i suoi. Quell'anima dolce e tenerissima, che non sapeva far
male a una formica, caricò i suoi personaggi di feroci furori e
quasi li incaricò delle sue vendette. È un mistero che molte
pagine del presente volume spiegheranno.

* * *

Anch'egli amò la sua donna, ma noi come tutti gli altri. Amò
troppo castamente, e sacrificò all'ideale più che non sia
permesso alla debole natura umana. Fenomeno strano è questo che in
un tempo, in cui dal languido romanticismo l'arte e con essa il
sentire si avviavano verso il godimento pagano del realismo, strano
fenomeno veramente è il vedere questo solitario rifugiarsi nel
deserto, con un'immagine sola soavissima nel cuore, meno donna alla
fine che luminosa e innocente visione, ch'egli adorò estatico come
quel d'Assisi adorò la Vergine sua, «Vi dirò (troverete negli
_Schizzi dal mare_), che una fanciulla bionda, la mia fanciulla che mi
cantava le poesie d'Iddio e dell'amore, mi ha fatto piangere e mi ha
ammalato a letto. Mi offriva vaniglie, viole del pensiero, versi
francesi e sorrisi di santa Cecilia, l'organista.»

A noi non è permesso di togliere il velo di cui egli volle
circondata Lidia, una bionda straniera, assai colta, che viveva del
suo lavoro, la quale, prima non potè corrispondergli perchè
stretta da un'altra promessa; e sciolta questa, quando forse poteva
farla sua, egli o non seppe o non osò contraddire a un'autorità
ch'era dover suo di rispettare. Poco importa a noi di sapere come
scoppiasse in quel cuore, dopo un'alba ridente d'amore, un tumultuoso
uragano, che lo spinse fino all'orlo dalla morte. Più che una lotta
fra vivi, fu una lotta di fantasimi creati dal desiderio e dalla
volontà in cozzo, sostenuta coll'energia dell'anacoreta, voluta per
forza, inasprita dalle istigazioni feroci della natura. Questa è la
storia dell'Anima, che egli scrisse giorno per giorno, nel silenzio
del suo studiolo, e che noi confidiamo a tutte le anime delicate che
sanno accogliere ogni dolore umano con umana carità. A chi ci
domandasse l'utilità di una pubblicazione di questo genere, noi non
sapremmo rispondere nulla, perchè certe cose si appannano solo a
toccarle colla punta delle dita.

Immaginiamoci invece il fondo della pineta vastissima colle sue ombre
folte: e innanzi al pensiero del vergine giovinetto una immagine di
donna, esule da una patria infelice, Lidia: immaginiamoci il vecchio
cimitero del villaggio con tutti gli accozzi della rovina, e il fido
cane che parla all'amico poeta co' suoi grandi occhi onesti: poi è
a pensare un'anima per indole molto religiosa, anche quando la mente
non crede più ai misteri sacri del pane e del vino, ma che per una
deliziosa superstizione si accosta alla comunione per sentire Iddio
nel fremito dell'amore, per vedere Iddio buono e grande attraverso
alla diafana idealità della donna! Questo mistico è artista non
soltanto come frate Angelico, ma con impeti umani, come la calda
scuola de' suoi adorati cinquecentisti; onde il cozzo delle passioni,
e voci strazianti, e contraddizioni ed esecrazioni miste ad estasi
stupende, e dappertutto un incalzante presentimento di morte.

Il lettore troverà in queste centoquaranta pagine dell'_Anima_
qualche cosa di soverchio che ci fu necessario di lasciare così per
tenere insieme nella materia uno spirito troppo irrequieto; e spero
che non gli vorrà far colpa se nella foga dell'improvvisazione e
del dolore il giudizio di chi scrisse sulle cose e sugli uomini e il
tenore dello stile travalica di qualche linea la misura.

Il Bazzero fu un diligente coltivatore del dolore e lodando lui, a
questi soli splendenti, si può far credere che si voglia rimettere
in auge un genere d'arte che si estinse da un pezzo nelle proprie
lagrime.

Sappiamo anche noi che uno dei modi di rendere le nostre passioni
troppo intense e malaticcie è di rifiutar loro ogni consolazione, e
che nel moderato esercizio dei nostri affetti è l'equilibrio della
vita, e forse la felicità. Il Bazzero ebbe torto di rifiutare tutte le
gioie che questo mondo gli poteva dare, e di schernirle, come insulse
o troppo volgari; ebbe torto di credersi più forte della natura, che è
la fonte della vita e di avere quasi una superstiziosa paura di ciò
che in qualche modo poteva fargli piacere. Sappialo che è meglio
allargare la vita in cerchi sempre più grandi fino a comprendere la
rassegnazione e la coscienza delle umane cose, anzichè restringerla
nella celletta del cervello per forza d'una morale contrazione.

Ma ogni più bel ragionamento non ha mai guarito un cuore afflitto,
e quand'anche il Bazzero non fosse figlio del suo tempo, malato per
troppa delicatezza morale, avrebbe avuto questi torti in comune con
quasi tutti i più grandi poeti dell'umanità che non conobbero le
matematiche leggi dell'equilibrio.

«No, scriveva il Rousseau, la natura non mi ha creato per godere; ella
ha distillato nel mio cervello il veleno di quella felicità
ineffabile di cui ha messo il desiderio dentro il mio cuore.»

È del Wagner la sentenza che non riesce a nulla se non chi è
sempre malcontento di qualche cosa.

Nel _Giornale intimo_ di H. F. Amiel, che suscitò recentemente in
Francia un interesse assai vivo, e che offre la storia di un altro
pensoso solitario, s'incontra spesso questa scoraggiante compiacenza
di voler essere infelice quasi a dispetto della natura. Anche Amiel
scriveva: «Diffido di me e della felicità perchè mi conosco.» E
se non fosse la paura di offendere la santa modestia dell'amico,
vorrei trovare nel Leopardi, nell'Heine, nel Byron, nel Tasso i suoi
fratelli maggiori.

Da questo stato dell'animo, prodotto alla sua volta da inevitabili
condizioni fisiologiche, deriva spesso quella specie di malattia della
volontà, che si trasforma in una mutabilità continua di
desiderii e di propositi, in una incostanza di simpatie, in trasporti
vivi e in profondi abbattimenti, come fu veramente la vita del nostro.
Per superare una difficoltà a cui sarebbe bastata una schietta e
franca deliberazione, noi lo vedemmo riprendere gli studi classici
all'Accademia di Milano, coll'intenzione di laurearsi in lettere, e
poi smetterli per darsi tutto allo studio delle lingue moderne, e
tentare la pittura, e maledire libri e pennelli, per tuffarsi nella
politica e nella carità, senza che nella sua coscienza entrasse mai
la persuasione che tutto ciò gli potesse servire a qualche cosa.
Sempre egli ritornava poi alla solitudine del suo studio, scoraggiato,
affranto, ammalato di desiderii infiniti, e cercava la pace al bromuro
di potassio.

Colla storia dell'_Anima_ si collegano gli scritti che seguono, cioè
gli _Schizzi dal mare_ o _Acquerelli_ com'egli li intitolò variamente.

Sono un poema marino, in una forma sciolta dal verso, ma risonante di
melodie interne, luccicante di colori e d'immagini, in cui l'anima del
Bazzero trabocca ne' suoi momenti migliori.

Se è vero che questo dovrà essere il sembiante della futura
poesia, il giorno che avrà rotto i ceppi della vecchia e della
nuova metrica, al Bazzero potrà forse venire anche una piccola lode
di precursore, che egli non sognò quando scrisse dietro il naturale
impulso.

La città, il popolo, il mare, i villaggi dell'incantata riviera
ligure, i marinai dalle schiene di bronzo, le bagnanti, i colori
dell'onda, il suo anelare immenso, i misteri delle sue profondità,
una chiesetta, una barchetta, un canto, un gruppo di aloe nodosi, dei
fiorellini, eccovi una serie di piccoli schizzi e di acquerelli,
animati da una continua emozione e legati da una erudizione abilmente
usata e argutamente presa a gabbo. Il poeta trasfonde il suo _io_ in
tutto ciò che vede e tutto vivifica di sè. Qualche pagina
scintilla d'una meravigliosa evidenza. Sembra che la parola stessa
rinunci alla sua logica natura per diffondersi in colore e in luce.

Leggete com'egli descrive i _grigi pennacchi_ dell'onda che vengono a
incalzarsi, a _sfioccarsi_, e il suo gonfiare e suo _colmo trasparente
verdissimo_ e il _concavo lenissimo_ e il fragore e il dibattersi delle
_ondine che sommuovono_ ciottoli, e i mille rivoletti che ridiscendono
con _troscie lucenti_ (vedi a pag. 158). La lingua, come sentite, si
ripiega sotto l'urto dell'impressione e scattano fuori delle arditezze
felici che piacquero di poi in libri meno significanti. Si avrebbe
torto di volere in una prosa comune ciò che scoppia continuamente
con impeto lirico, ciò che divaga nei mille capricci dell'ora,
dell'estasi, della tristezza, dell'umorismo e si perde nelle azzurre
profondità di una filosofia panteistica. Aprite il libro e leggete
subito, per farvi un'idea dell'uomo, il bozzetto _Sera_ a pag. 184. Se
vi pare che due dei nostri trecento lirici classici abbiano più
profondamente sentito il dolore di un tramonto, e lo spasimo
voluttuoso di quel dondolarsi a fior d'acqua e di quello spandersi
dall'anima sui colmi dell'onda, di quel vanare nell'infinito, dite
pure che il Bazzero è un poeta inutile di più. Per me, apro il
mio cuore, certi tratti conservano ancora dopo tanti anni una
freschezza che molte lodate liriche di quel tempo hanno perduto da un
pezzo: e rileggendo gli ultimi acquerelli, _Àncora_, _Stelle cadenti_,
_Barcanera_, ecc., non so perchè mi risuoni nell'anima qualche
accento dell'Heine, e a volte dello Sterne, senza essere nè
dell'uno nè dell'altro.

Non c'è imitazione, ma forse anche il Bazzero derivava da una fonte
comune, che ha le sue scaturigini in un'elevata coscienza della nostra
pochezza in faccia all'universo.

Il pessimismo, che fa tanto desiderare al Bazzero la morte e il riposo
sottoterra, non è come la rigida convinzione leopardiana un
precetto sterile, ma è un dolore che cerca riposo disciogliendosi.
Nel mare dell'essere egli non vuole affogarsi, ma diffondersi e coi
mille atomi accesi della sua coscienza fecondare per l'umanità
qualche divina idea consolatrice.

Qual poteva essere il suo modello in questo genere pittoresco? quanti
dei nostri pittori eccellenti che trattarono abilmente la penna
sappero fondere così intimamente le due arti come il Bazzero? Il
canto intitolato: _Genova_, comincia a pag. 217, con un'evocazione
storica che tocca spesso a un'epica maestà, e scorrendo attraverso
alle più luminose memorie della superba città, finisce in una
finissima e aristocratica visione della donna genovese. Gli ultimi
acquerelli: _Convogli_, _Osteria_, _Montanari,_ son quadri fiamminghi.
_Barcanera_ è un'elegìa carica di mestizia, che più si rilegge
e più persuade che la poesia esiste: _Buona vendemmia_ vince quanto
di più grazioso ha scritto Teocrito.

Spesso i legami sono così tenui e i passaggi così rapidi, che un
lettore comune crederà che le parti siano sconnesse, e accuserà
ingiustamente di incoerenza e di oscurità ciò che a una seconda
o a una terza lettura ricomparirebbe agli occhi suoi in una naturale
corrispondenza.

Si può pretendere che un lettore moderno legga due volte? In questi
_Acquerelli_ è notevole ancora come il Bazzero abbia saputo
trasfondere la sua vasta coltura storica nella poesia senza sciupare
nè l'una nè l'altra. Io non so s'egli pensasse mai a un grande
poema storico, ma è certo che da questi frammenti, come dai pezzi
d'un'antica rovina, si può arguire una costruzione artistica
d'immenso valore. Ciò che rimpiangiamo nel Bazzero è non solo un
dolce amico, un'anima candida, un caldo artista, una giovinezza
recisa, ma anche una grande speranza.

_Lagrime e sorrisi_: è un lavoro più giovanile che egli
pubblicò in una privata edizione, e del quale mostrò sempre di
fare un gran conto. È un seguito dì massime, di sentenze, di
consigli dedicati alla sorella sua e dentro già vi traduce il suo
genio e la sua coscienza. Il pensiero dominante in queste massime è
che l'amore e l'arte, più che ogni altra lusinga, più che ogni
altro compenso di gloria e di ricchezza, sono i veri beneficii del
vivere umano. L'amore consiglia la carità; amando s'impara a
pregare, e si ritrova Dio. Ama chi piange e le lagrime sono il
battesimo della virtù. Come la natura crea il nostro corpo, così
l'arte crea il nostro spirito.

Molta giovinezza, vale a dire pochissima esperienza, troverete in
queste massime, che non si possono nemmeno avvicinare a quelle del
gentilissimo Vauvenargues, morto giovane e saggio. La vita in quasi
tutti gli scritti dell'amico nostro è ancora al primo suo momento,
quando più la si sente che non la si comprenda. Ma la giovinezza
è la stagione dei fiori, e se anche con fiori non si possono fare
che delle inutili ghirlande, bene amiamo averne pieni i giardini e la
casa. Mi guardi il cielo dunque ch'io voglia ridurre queste massime e
l'arte tutta del Bazzero a un sistema, e rilevarne le frequenti
contraddizioni, e la non molta profondità pratica. Leggano le anime
più giovinette queste pagine e lascino che la dolce poesia
trabocchi dagli orli. Arido è il tempo e aride le ragioni del
tempo: beato chi s'inebria una volta nella sua vita! vien per tutti
necessariamente e troppo presto la stagione che la mente vede più
chiaro le cose del mondo nei loro rapporti relativi e proporzionali,
ma è sempre un giorno triste quando si scopre il primo capello
bianco. Il Bazzero non ebbe il tempo di affilare la sua filosofa fino
a farne uno strumento di morte contro sè stesso; e morì prima
che la critica di sè corrodesse la sua abbondante spontaneità.
Storia e filosofia sono ancora in lui, come nel primo stadio della
civiltà, allo stato poetico. Egli non seppe mai, come i
modernissimi scrittori fanno, rendersi il minuto conto dell'opera
propria e calcolare la quantità degli elementi che entravano a
comporre il suo ideale, farne dei prospetti, rintracciarne la
derivazione, pesare a piccole dosi la produzione chimica del proprio
pensiero.

Le _Corrispondenze_ segnano un passo dalla poesia colorita alla poesia
del disegno. Sono meno abbaglianti degli Acquerelli, ma più
consistenti. L'impressione va perdendo alcun poco della sua
vaporosità per concretarsi in un corpo. Ci sono ancora i prediletti
sfondi, i mari trasparenti e celesti, le vastità fantastiche, ma
uomini e cose cominciano insieme a farsi avanti e a tenere il campo
del quadro. La realtà viene incontro e lo scrittore dopo averla
accolta con giovanile trasporto, la segue, la insegue, la trova,

È da alcuni tratti di queste _Corrispondenze_ che si vede ancor
meglio quello che il Bazzero avrebbe potuto scrivere al volgere del
suo trentesimo anno, quando placato il torbido senso giovanile, fosse
venuto alla vita nella chiarezza d'un sentimento più riposato.

Le _Corrispondenze_ sono argomenti semplicissimi, che il Bazzero eleva a
una maggiore dignità. Pur scrivendo per conto di giornali di Moda e
di Sport non riusciva mai lo scribacchiare a questo povero uomo. Aver
la penna in mano voleva sempre dire per lui erigersi a interprete e
quasi indovino delle cose, come se la sedia del suo studiolo fosse il
tripode e Nume fosse per sè l'umano pensiero. Di qui forse una
soverchia abbondanza d'addobbi che pare quasi una verbosità senza
significato, e non è che una eccessiva riverenza; di qui anche una
risonanza nell'incedere stesso della parola, che pare gonfiezza e non
è che una musica che accompagna la venerata Idea. Chi ama adora, e
chi adora prega a lungo e canta. Ma fatta la debita parte alla foga
giovanile, poco gli manca per essere qua e là un modello di stile.
Cercate alla pagina 302 la descrizione d'un paesaggio alpestre sopra
Oropa e giunti là dove egli parla di una vacca che appare col muso
_gemmato d'acqua, le corna sporche di terra, con una bava che fila
giù dalle mascelle spostate dal ruminare, che sbarra gli occhioni,
e colla coda sferza una mosca, poi sprofonda la gamba nana nei cespi
di rododendron...._ leggete, giudicate. Non è più l'infinito
azzurro, non è più la vaporosa visione aleardiana, è una
vacca viva in mezzo a un armento vivo.

Le _Melanconie di un antiquario_ che chiudono il presente volume sono
variazioni artistiche e spirituali sopra il _Natale_ e altre feste
dell'anno, pubblicate come articoli d'occasione nel _Pungolo_ di Milano.
Era troppo lusso per i soliti abbonati. Qui troveranno la luce giusta.

* * *

Degli altri scritti che non entrano in questo volume non dirò che
per cenni. Al solo elenco non basterebbero dieci pagine, ma vien da
sè che il valore non sia uguale in tutti, come non uguale era la
stima che ne faceva l'autore. Un grosso libro di _Confidenze_ egli
teneva in pronto per la stampa, e in parte anche pubblicò sopra
qualche giornale.

E la raccolta delle lettere che _Lina_ scrive ad _Ermanna_ sui casi della
propria vita e di quella delle sue amiche. Non c'è una gran favola
e un grande intreccio, ma ne forma il tema l'assidua osservazione
delle piccole cose e dei grandi sentimenti. In questo volume, dove
abbiamo le confidenze originali dell'autore, ci sembrò inutile
riportare quelle ch'egli affidò a un gracile personaggio
fantastico, sebbene ci dolga che molte pagine descrittive restino per
ora sottratte alla curiosità degli artisti. Il nome di Lina e di
Ermanna ritorna spesso nelle memorie insieme a quello di un _Giuliano_,
titolo d'un dramma storico in cui versò molta amarezza, Un romanzo
tentò su _Gian Galeazzo Visconti,_ e tre volte ritornò sopra il
_Buondelmonte._ Abbozzò una _Cinzica_, un _Baldo_ e una quantità
infinita di schizzi, d'impressioni, di pensieri, di ricordi, che,
sebbene inediti, si rivedono nella loro matura integrità negli
_Acquerelli_, nelle _Corrispondenze_, e nelle _Lagrime e Sorrisi_. In un
secondo volume, che tratterà più specialmente di studii
artistici e archeologici, troveranno più naturale il loro posto le
sue ricerche storiche su _Matteo I Visconti_, sugli _Italiani alla prima
crociata_, gli opuscoli sulle _Armi di fuoco_, _Sulle armi antiche nel
Museo Archeologico di Milano_, le _Riviste artistiche_ sull'Esposizione
nazionale di Milano, e quegli altri scritti d'arte che gli meritarono
le lodi dei conoscitori. Fra gli altri il direttore dell'_Auf der
Höhe_, dottor L. von Sacher Masoch di Lipsia, gli scriveva in data
del 10 gennaio 1882;

    "_Illustrissimo signore!_

  "Il di lei nome celebre non solamente in Italia, ma che ha passato
  già le Alpi ed il mare e la raccomandazione del signor professore
  Angelo De-Gubernatis di Firenze, mi hanno ispirato il desiderio di
  chiedere alla V. S. Ill. il favore di contribuire alla mia rivista
  internazionale. "_Auf der Höhe_" recentemente fondata. Noi ci
  siamo proposti di proteggere e coltivare le belle arti e le scienze
  in bella forma per un pubblico educato, ma senza eccitare contese e
  disputazioni. Nomi come Wallace, Flammarion, De-Gubernatis,
  Mantegazza, e altri che abbiamo l'onore di chiamare i nostri
  collaboratori, Le saranno una garanzia per le tendenze della nostra
  rivista. Ci recheremo a onore se la S. V. Ill. ci concedesse il
  favore di diventare il nostro collaboratore e fissasse l'onorario
  per il di Lei pregiatissimo lavoro. Aggradisca, ecc."

Il sentirsi a un tratto chiamato da una voce lontana, il vedere il
nome suo messo a lato dei più illustri cultori degli studii, ecco
il primo e l'ultimo compenso della sua penosa, oscura, travagliata
carriera letteraria. Poco potè rispondere all'invito, perchè
nell'agosto di quello stesso anno la sua mano era fredda per sempre.
Altri compensi tuttavia egli seppe procurare al suo cuore
coll'esercizio delle più sante virtù civili. Alieno in tutto dai
raggiri politici, volle pur entrare nella Associazione Costituzionale,
che rispondeva meglio alle sue idee d'ordine, e vi si adoperò
molto, offrendo la sua penna d'artista per tutte le scritturazioni
d'ufficio, a redigere verbali, a compilare manifesti. Molti giovani
amici, spiriti indipendenti, deploravano e deridevano costui che
andava a servire un partito, o come si dice dai furbi, a
compromettersi; qualche giornaluccio avversario gli lanciò sul viso
le solite impertinenze.

Egli se ne turbò, soffrì, come soffriva sempre atrocemente delle
grandi e delle piccole cose, ma rimase al suo posto. Era meno furbo e
più coraggioso.

Della nostra Congregazione di carità non fu un comune patrono, ma
un santo e zelante operaio.

Vi passava le più belle ore della giornata, e nominato visitatore
dei poveri, andava per le case dei più miserabili a studiarne i
dolori con quell'indulgenza che perdona anche gl'inganni. A me
raccontava poi le sue tristi impressioni e lo stringimento del cuore
che provava nel discendere certe scale. Fu dei promotori delle Cucine
economiche, dove rimase tutto un inverno a distribuire le minestre,
alacre, arguto fra i poverelli, che cominciavano a distinguere il
signor Bazzero fra i cento che compiono il loro bene con solennità.
Nè meno caro divenne agli Artisti della Società Patriottica.
Prendeva allegra parte alle loro feste, schizzava con tratti rapidi e
sicuri armi antiche, con una conoscenza di cose unicamente sua, con
tanto gusto che il Pagliano e altri lo consigliarono a pubblicare un
album in zincotipia, che è ancora molto apprezzato negli studi dei
pittori.

 Alla pittura ebbe sempre genio, sebbene non vi si dedicasse di
proposito. Amò fin da fanciullo delineare tramonti coloriti,
navicelle perdute nelle burrasche, boscaglie cupe tormentate dai
venti. Della sua dottrina artistica e del suo gusto diede un largo
saggio colle recensioni sull'Esposizione di belle arti pubblicate nel
_Pungolo_ di Milano, l'anno 1881, e in molti articoli illustrativi di
cose vecchie e nuove, che egli regalava ai giornali e che non andranno
perdute. Benemerito fu anche nel riordinare e nell'illustrare le
Armature del Museo Archeologico, e quelle del museo Poldi-Pezzoli.
Sempre disposto a far sacrificio della sua persona nei giorni di
parata, era invece il più tenace e sempre il primo nei giorni di
lavoro; non ebbe, nè dimandò ricompense ufficiali.

A Limbiate, in mezzo ai contadini, egli si sentiva più libero e
più allegro. Quando vedeva una frotta di ragazzi in strada,
chiamava a sè il più grande e gli dava qualche soldone perchè
comperasse e distribuisse con giudizio una manata di zuccherini. La
frotta scalza pigliava la corsa per la piazza come uno stormo di
passeri, gridando: _Viva el scior Ambroeus!_

Egli correva in casa, ridendo, fregandosi le mani, col suo passino
leggiero che non si sentiva, e per quel dì la gioia era con lui e
cogli altri.

Ciò non impediva che il giorno dopo la nostalgia degli spiriti
pellegrini sulla terra non rattristasse di nuovo la sua fronte.
L'amore, l'arte, un nascosto e doloroso desiderio di gloria, un
credere altrove, sempre troppo remota da sè, una felicità che
non esiste che in noi, il sentimento esagerato della propria pochezza
sociale in contrasto con un non proporzionato concetto della propria
individualità solitaria, le continue apprensioni, pur troppo non
false, del suo presto finire, tutte queste erano le cagioni che lo
facevano comparire ora torbido e rinchiuso, ora sospettoso e
incostante,

Da qualche lettera risulta ch'egli meditò più volte la morte, e
vi andò vicino: altre volte pensò di entrare tra i monaci
dell'Ospizio del gran San Bernardo. Fu religioso perchè fu buono e
amò sua madre: ma più ancora perchè fu artista. Ogni passo
verso una perfezione è un passo verso Dio, che sta nei cuori; nè
la Intera Bellezza si può desiderare senza credere a lei come alla
luce. La sua non fu la fede d'un catechismo, ma neppure un delicato
epicureismo che teme, non credendo all'infinito, di rifiutare la
più grande delle umane emozioni. Egli è pio e sincero anche
quando sembra disperato.

Di una tale esistenza non comune, alla quale s'intreccia un delicato
nome di donna, voi troverete nella prima parte di questo libro i
documenti. E il libro anzichè una stonatura, come temono i suoi
amici, crediamo che possa essere un raggio di sole che ritorna e nel
suo complesso un prezioso documento a tutti quelli che studieranno
l'evoluzione del pensiero e del sentimento italiano in quel tumultuoso
periodo che succede alle battaglie dell'indipendenza, quando
l'entusiasmo che le ha compiute diventa il primo imbarazzo del
vincitore. Tutto è disordine ancora, non si sa quel che si vuole,
ma si vuol molto, da tutti. Il linguaggio epico urta colla
necessità ufficiale, il passato ingombra il presente e impedisce
alle giovani forze l'andare avanti.

Ambrogio Bazzero non è solo in questa evoluzione, e per non parlare
che di una piccola scuola milanese, mi pare che i nomi del Rovani, del
Tarchetti, del Praga, del Dossi e del Boito abbiano con lui molti
punti di affinità artistica. A tutti costoro mancò forse una
ricca suppellettile accademica, ma tutti amarono l'arte con geniale
sfrenatezza; la vita uccise i migliori.

D'Ambrogio Bazzero non vorrei che l'antica devozione mi avesse tratto
a dire cosa maggiore del vero. Che se a chi lo conobbe e a chi lo
conoscerà fra poco dovesse sembrare il mio giudizio troppo
infiammato, io non mi pentirò d'aver consumato il mio fuoco a
riscaldare questa cenere benedetta. Da due anni il povero Bazzero
giace sotterra, e più che da due anni giacevano rinchiuse e morte
le ignorate pagine dell'anima sua. Non si risuscita un morto senza un
gran grido.

* * *

Il tifo che l'aveva già colpito nel 1873, lo assalì una seconda volta
ai primi dell'agosto del 1882. Fu una malattia rapida, senza pietà,
che il fratello Carlo descrisse in una potente _Commemorazione_ che ha
scosso ogni cuore. L'anima di Ambrogio aiutò a dettare quelle pagine
così vere e così tremende che narrano un fatto tanto comune, il
morire. Così termina quello scritto:

  "Era la mattina di lunedì 7 agosto, il giorno che egli aveva
  stabilito per la partenza pel suo giro di svago.

  Alle 9 e 45 l'infermiera, fatto il segno di croce, cominciò a
  pregare a suffragio dell'anima.

  Il suo volto rimase atteggiato ad un dolore sdegnoso, le labbra
  sottili strette, l'occhio semi-aperto, io spirito malinconico
  abbandonò la terra, lasciando sul volto i segni dell'angoscia,
  supremo addio alla luce; si dileguò addolorato così come s'era
  sempre pasciuto di segreto corruccio e di desolazioni.

  Venni da mia madre, m'inginocchiai e con uno scoppio del mio pianto
  feci più violento il suo, che s'effondeva invocando Dio.

  Mia madre, mio padre ed io baciammo un'ultima volta la sua fronte
  tiepida ancora, e il nostro sacrificio era compiuto."

La notizia della sua morte giunse quasi improvvisa agli amici e fa un
colpo di fulmine. Povero Bazzero! Ci ritrovammo tutti al tuo funerale,
e ci parve che in te morisse la nostra prima giovinezza.

Ho ancora presente quella bella mattina di agosto. La gente riempiva
la strada innanzi alla sua casa. C'erano le rappresentanze della
stampa, della Costituzionale, della Congregazione di carità, gli
amici della _Palestra_, della _Vita Nuova_, dell'_Eco dello Sport_, i
parenti, i poverelli. Pareva che tutti, anche quelli che l'avevano
incontrato una volta sola, affettassero un certo orgoglio d'essere al
suo funerale, per dimostrare in qualche modo d'appartenergli. Due cose
ebbi occasione di osservare nel mezzo della mia commozione: che la
morte è una rivelazione; che i buoni sono forti.

Dal portichetto si entrava nella sala d'armi a terreno, vasto locale
dal nero soffitto, dalle finestre acute a piccoli vetri rotondi, pei
quali la luce entrava fredda a intirizzirsi sull'acciaio delle
armature appese alle pareti. In un angolo un camino con poca cenere, e
un vaso funebre sopra; di qua di là cassoni antichi, d'un colore
cupo, con sopra elmi, e appoggiati agli spigoli delle vecchie targhe.

Nel mezzo era il feretro dell'ultimo amico dei cavalieri, fra quattro
antiche torcie e molti fiori. Al cimitero non gli mancarono saluti
pieni di lagrime. Uno gli disse:--Beato chi anche a trent'anni lascia
un'orma di sè!--Quell'uno era Carlo Borghi, anima e simpatia della
_Vita Nuova_, anch'egli una speranza dell'arte e del paese. Non passò
l'anno che la morte, giudicandolo colle sue stesse parole, le
trascriveva pel suo funerale. Noi crediamo ancora che i morti
s'incontrano in qualche luogo.

In alcune sue _Ultime volontà_ il Bazzero lasciava scritto: «Il
giorno da me tanto desiderato, o miei parenti, è giunto. e non
piangete: è il giorno in cui voi finalmente conoscerete l'anima
mia.» E dopo aver raccomandato la sua donna e le sue ceneri, pregava
così: «Per mia iscrizione queste sole parole:

                         AMBROGIO BAZZERO
             NATO............... MORTO...............
                _Tout ce qui finit est si court!_

Erano le parole della sua donna, nelle quali spera di rivivere.

I giornali cittadini di tutti i partiti dissero le lodi del defunto:
la famiglia gli eresse un sepolcro, dove a capo della cassa, pose le
sue intime memorie e le lettere della sua donna. Oggi ne richiama lo
spirito e lo raccomanda sommessamente all'avvenire.


EMILIO DE MARCHI.



ANIMA.

Incipit vita nova.



NEL MIO COMPLEANNO.


        Limbiate, 15 ottobre 1876.

AL DESERTO.

L'anno scorso, nel mio compleanno, scrivevo dei pensieri che erano
l'espressione dell'anima mia, e li dedicavo a mia sorella: quest'anno
ancora voglio scrivere dei pensieri e li dedico al _deserto_.
_Deserto_: ecco l'espressione dell'anima mia! Che cosa scrivo?...
Si possono tradurre a parola le convulsioni dell'anima, le contorsioni
di mano, gli stringigola, i groppi, le memorie fallite e le speranze
fallite? Posso scrivere lo stato dell'anima mia?... Eppure voglio
sfogarmi: voglio lasciare un foglietto che attesti questo tristissimo
compleanno. Lo leggerò io? quando? come? Lo leggeranno gli altri?
quando? Quando io sarò morto, quando frugando entro le mie carte, i
miei parenti diranno:--Aveva un po' del matto!--e mi compiangeranno.
Lo leggerò io? Non so perchè, ma fra l'immenso buio che mi ottenebra
la vita, un po' di lume cade su quella scena ineffabile che ho sognato
mille volte:--cioè:--una donna, la mia _donna_, spierà me che
apro il cofanetto di ferro.... Apro e tolgo anche questo foglio. Lo
leggiamo insieme.

Se oltre i trent'anni mi aspettassi l'ineffabile felicità che
sogno! Consento ad _amare poco_ la mia famiglia, ad essere misantropo,
ad essere così scoraggiato, per apprezzare te doppiamente, o mio
ideale, o mio unico segno, o mio _completamento!_ Ti desidero, ti
supplico, ti voglio! Quante volte oggi satanicamente ghignai alla
canna del mio fucile, dicendo:--Dentro c'è la morte!--e guardandone
la nera bocca, e invidiando la suprema voluttà della morte..., mi
sorrideva a un tratto l'idea: Avrai pace, anima! Nel futuro avrai
tante gioie a compensarti i dolori, gioie tranquille, pure,
castissime... Sei brutto, corpo mio, ma sei buona, anima mia! Oh
sì! sei buona, sei casta, sei amantissima! Voglio anche esser
morto, quando la donna mia trovasse questo foglio! Certo non
riderebbe!

L'inattività, l'inutilità mi avviliscono, il _deserto_ mi
schiaccia.... Come soffro! Nessuno mi conosce, nessuno oggi più mi
soccorre di una parola, nessuno mi incoraggia alla vita!...


                        Limbiate, 23 ottobre 1876.

Fu una giornata piovosa, melanconica, di quelle in cui si desidera la
quieta canterina, con un angiolo, con un bambino, con un focolare
benedetto: tutto bigio e nebbioso dovrebb'essere al di fuori: cadute
le foglie, infangate le stradicciuole, freddolosi i bimbi: tutto
mesto, tutto morto, per far contrasto col di dentro--tutto santamente
allegro e tutto vita. Vita, vita, ecco la gran parola! Vita, la grande
aspirazione dei ventidue anni, dei ventitrè, dei ventiquattro, dei
venticinque. A venticinque questa vita è l'irresistibile
bisogno!... Acquietati, anima mia: il tuo corpo è bambino:
acquietati: diventa filosofessa e ascolta il gran principio della
sapienza pratica:--_la vita è uno scherzo, cosa da ridere: si debbe
approfittare delle gioie che offre: non prendere niente sul serio: si
debbono ammirare i sacrifici per uno scopo: il moralista «en amateur»
è un asino_. È vero, c'è in queste parole una schiacciante
verità. Vorresti discutere? No, arrossiresti, anima mia. Vorresti
esprimerti? No, saresti ridicola. Vorresti prorompere? oh sì!
espanderti nei cieli, volare ai mari, cercare i monti, volare
volare... ma poi, tutta potentissima, fidente, docile, speranzosa,
felice, tutta venirmi alle labbra, e formare un bacio, su una fronte
umile di una donna; tutta divenire l'espressione di un ossequio, di
una religione, di una felicità, di un nuovo Dio formatosi nel mio
cuore, un Dio per la Donna! L'anima, così incatenata come mi è a
questi giorni tristissimi, impotenti, irresoluti, sogna per espandersi
l'ampiezza, l'altezza, l'incommensurabile, l'infinito, sogna le
immense solitudini: l'anima sogna i consorzi umani e vorrebbe dalle
solitudini passare ad abbracciare le città, la civiltà, le arti
di tanti popoli: l'anima vorrebbe stancarsi, per posare.... ma il
cuore, il povero cuore, tronca siffatti voli, e, modesto, di passo,
quieto, religioso, vorrebbe avviarsi, anzi con evidenza s'avvia al
futuro: il suo mondo diviene una camerina, la sproporzione dei
desideri dell'anima si riduce alla misura delle cose umane, l'infinito
si cambia nella _vita_, divengono stanche ironie le grandi solitudini
della Natura e i grandi consorzi degli uomini di fronte ad un santo
_dovere_, ad una donna che popola un universo, irradiando le virtù
della fede, della speranza, della carità....--Ecco,--ora dico a te
stesso:--faccio della poesia, sono un sognatore, nemmeno io vorrei
credere a queste mie ciancie. Faccio della poesia? Ecco la
prosa:--vorrei la mia Donna che mi amasse, rendendomi la fede gentile
che ho perduto; vorrei un bambino che mi facesse pensare:--Che importa
a me degli ambiziosi, dei ricchi, dei gaudenti, dei gloriosi? Eccoti
nel bambino la tua ambizione, la tua ricchezza, il tuo gaudio, la tua
gloria, il tuo scopo! Oh sì, compiangendo, ma non irridendo le mie
poesie di un dì, diventerei un uomo che vive, che sa fare le
addizioni e le moltipliche, che sa comperare, sa risparmiare, sa
provvedere ai bisogni più prosaici, e vorrei avere uno scrittoio
dinnanzi, non un'immensa solitudine, non uno spettacolo di varie
civiltà, e da quello vedere il mio orizzonte, cioè i guadagni
che potrei fare per la mia famigliuola.

* * *

Mille volte dico: voglio su qualche foglietto di carta lasciare
traccia dei miei patimenti, per farmi conoscere dai miei quando
frugassero fra le mie carte. Io scrivo, a sbalzi, pel mio cassetto,
molte volte rattenendo le lagrime di tenerissima commozione, molte
volto imprecando con voluttà mefistofelica a Dio!--Ci voleva tanto
poco per farmi felice! Non ricchezze, non gloria, non nobiltà, non
i soliti meccanismi della società domandavo: domandavo pace,
sacrificio, religione, fede: avevo coscienza di fare un sacrificio, la
coltivavo, mi accosciavo due volte al giorno, per voto, in una chiesa,
ero buono una volta. Che ho ottenuto? Poveri miei anni, dai diciolto
ai venticinque!

* * *

Che cosa è la vita dell'uomo? Nient'altro che la spuma dell'onda
che si dibatte fra gli scogli misteriosi dell'Infinito. Ma se un
riflesso di cielo può dare l'azzurro alla spuma fuggitiva, un
riflesso d'amore può dare alla vita i colori della Fede, della
Speranza e della Carità.

* * *

Ricordo, colle lacrime al cuore, che vi fu un anno, in cui, in alcune
sere stellate, quando dimenticavo il mio corpo, quando dimenticavo il
mondo esterno, e il mondo interno mi signoreggiava, e mi sentivo, e
volevo credere, e sperare, e amare, ricordo che in alcune sere
stellate, soavissime, confidentissime, ebbi vicino a me un'anima che
mi ascoltò e mi comprese, quand'io espressi qualche speranza pel mio
avvenire, avvenire che io legavo all'arte e alla famiglia. In quelle
sere io accrescevo di dignità alla mia coscienza, io mi dichiaravo non
volgare, mi mostravo uomo, e confidando, credevo, speravo, amavo....
Furono gli unici conforti: li ricordo: e allora, perchè a metà
svelate, mi parvero più sante le mie melanconie, i miei silenzi, i
miei dolori, il mio carissimo e soavissimo tifo, sì, la mia religiosa
convalescenza, le mie dolcissime _Confidenze_, i miei sessi profumi, e
il mio risveglio, il mio _Tintoretto_.... il mio _Giuliano_! Ho
ricordato queste cose per dire che a quell'anima (come pensi ora di
me, e come penserà, se vivo, non so) vorrei fossero consegnate queste
mie annotazioni, s'io morissi, perchè, almeno in lei la mia memoria
vivesse un po' consacrata, non come quella che lascierei a mia madre o
a mio padre, la memoria di un _povero_ figliuolo: e basti la
compassione. A Lidia non oso destinare una sola riga: a che pro? Se mi
volle un po' di bene ed ebbe poi tempo di dimenticarmi, perchè
svegliare in lei, non dirò un rimorso, ma una cura fastidiosa? Così
vivendo e morendo faccio sacrificio di speranze. A che pro io ebbi
rimorsi, e per esser felice, mi tormentai? A che pro? A che pro non so
correggermi?

Scriverò anche stassera? Oh sì che ne ho immenso bisogno! Mi
sentivo buono, ma deserto, ma ridicolo, ma quasi reietto dalla
società, avevo voglia di piangere e gettai le braccia al collo di
mia madre. Oh mia madre! mia madre! Se tu fossi il mio tesoro, la mia
pace, la mia religione, se in ogni tristo mio momento potessi posare
la mia testa sulla tua! Tu hai scoperto che io piangevo, e mi hai
detto:--La tua fronte scotta!--O mamma, in questa povera testaccia
bollono tanti pensieri, ma resteranno sempre cozzanti e inconcreti
perchè la mente ha perduto ogni forza di studio: mancò al cuore
l'alito primo: l'ambizione non mi seduce più: se avessi denari,
libertà e cattiva natura, questo sarebbe stato l'anno in cui sarei
diventato vizioso! Coi vizi almeno avrei vissuto; col ricordo della
virtù, colla stizza dell'impotenza al male, col vano attendere,
colle spossatezze, coi fremiti del dì d'oggi vivo neghittoso. Vivo?
Vegeto, inutile pianta. Nessun scopo alla vita: sono deserto. A
venticinque anni....

Mia madre è venuta qui, mi ha baciato, mi ha domandato che cosa
ho?--Ho un mondo a rivelarle: non so da che parte incominciare: l'ho
quasi respinta col dirle:--Lasciami stare, lasciami stare--quasi che
lei fosse indegna di ascoltare le mie confessioni. Sempre così!...
Respinta, si tace, soffre, forse come me, forse più di me, e
fingendosi tranquilla mi domanda se le voglio bene. In questa promessa
vuole ch'io le racchiuda una sacra promessa; ella forse teme.... Ha
concluso con una sola parola:--Tu sei troppo buono!--Oh mamma, mamma,
lasciami questa illusione: tu, cioè, non mi credi _originale_. O mia
mamma, questa parola _buono_ sulle tue labbra ha avuto un accento nuovo
e sicuro: anche quand'ero piccino mi dicevi ch'ero _buono_. Anche oggi
l'hai detto, e hai capito che dentro di me si compiono dei sacrifizi.
O mamma, ti voglio tanto bene. E vorrei esser felice per raccontarti
tutto, per farti esultare di tutte le mie umili contentezze, per avere
in te l'interprete sincera delle gioie dell'anima mia. Passo dei
giorni squallidi, tristissimi, meschini, lo vedi.... No, mamma, nella
mia superbia dell'affetto, nelle mie gelose fantasticaggini, nel mio
deserto, mi pare quasi d'esser fanciullo, volendoti bene, e m'infingo:
ma invece dove sei tu, c'è il mio angiolo: tu angiolo di verità,
di rassegnazione, di fede, di speranza, di mitissimo amore, tu mamma!

* * *

Ieri, verso sera, ho veduto una bambina coi capelli biondi, colle
pupille azzurre, una poverina che sedeva sui ciottoli, senza pensiero,
col sorriso dei suoi otto anni. La mirai a lungo. Pensando che
s'avvicinava la sera e a casa mi aspettava la minestra calda col buon
brodo, e la carne, e la lucerna allegra, e la tovaglia di buon
augurio, avrei voluto condurla con me e darle la mia parte, e
sorriderle.... Che cosa avevo io fatto nel giorno per trovarmi
servito, scaldato, allegrato? Povera bimba!--Lo dissi alla mamma:--Una
bimba come quella non oserei sognarla mia,--e tacqui. La mamma mi
raccontò che quella sgraziata aveva una matrigna che la trattava a
busse e le faceva soffrire la fame. O mamma, quanto avrei voluto
baciarti: mi riconciliai con tutto, con tutti, volli fugare i miei
fantasmi di dolori, volli che tu fossi il mio tutto. Come potrei io
dedicarmi a te? oscuramente, ma santamente provarti sempre che t'amo e
contrapporre alle mie sciocche ambizioni, all'amor proprio trafitto,
alle vane gare in cui sanguina il cuore inutilmente, contrapporre il
tuo affetto sempre placido, sempre religioso, sempre benedetto, non
mai ridicolo?

* * *

O Lidia, Dio è l'ironia!--Il buio!



ULTIMO GIORNO DELL'ANNO 1876.

                                Domenica, 31 dicembre.

Mancano tre ore e l'anno sarà finito. Queste tre ore voglio
sentirle minuto per minuto, voglio goderle.... Come le gode la gente
pratica del mondo? Divertendosi e gozzovigliando. Stupenda filosofia!
io come le godo? Le godo sgroppando un'uscita al pianto segreto che mi
arroventa il cuore: è una consolazione:--sorridendo un po' a
qualche pallida fantasia della mia religione: è una poesia! So che
è poesia inutile, ma a me è tanto cara.

Sono solo nel mio studiolo. Papà, mamma, Carlo sono andati or ora a
teatro, proprio quand'io salivo le scale per chiudermi quassù. Ed
or ora ho lasciato il Bianchi che mi ha complimentato gentilmente
dicendomi un paio di volte «che bel tipo! _originale!_» perchè lui va
a teatro, e io torno a casa a capo chino.

Sono solo e sono triste. Vorrei scrivere ordinatamente, ma non posso.
Sebbene, chiusomi quassù, avessi tutta l'intenzione e il bisogno di
scrivere, di scrivere, di scrivere. A che? per chi?

Che cosa spero pel 1877?


Milano. _Mercoledì, 21 novembre_ 1877.--Sono da pochi giorni arrivato
dalla campagna: ed ho il mio studiolo freddo, polveroso, abbandonato,
tristo e perciò sto a disagio al tavolo. Coll'anima stanca, col
cuore senza fede, coll'ingegno assopito, con grandi dolori--ma senza
lutti officiali al cappello--bisognoso _di vita, di vita, di vita_,
freddo a numerare le mie illusioni cadute, freddissimo a pensare al
futuro, ti mando un bacio. Aggradiscilo come bacio di fratello. Pensa
che mi sento il cuore gonfio d'un'arcana bontà, pensa che io
piango, e che piangendo sento il bisogno di un'anima, e pensa che
dinnanzi all'altare di un'altra anima che mi comprendesse, io
pregherei ancora Dio, perchè mi sento casto, gentile, serio: e
dinnanzi ai santi balbettamenti di un bimbo capirei--con quanta vita
del cuore!--che l'arte per cui ho sofferto tanto, addoppiando me
stesso, era un bisogno imperioso di creare; che la scienza di queste
Accademie è il deserto, il vuoto, il nulla, o il tritume, la
polveraglia dei morti: che gli anni di mia giovinezza erano un _voto_:
che i miei tormenti, le mie fedi, il mio scetticismo, le mie speranze,
le mie battaglie, il mio isolamento nella folla, il mio sdegno pei
volgari, le mie povere poesie, erano indizi di un'anima che
rigurgitava in un corpo nervoso, _di un'anima che voleva
un'anima!_--Sono solo nel mio studiolo, solo, freddoloso e mesto. Ogni
anno di questi dì faccio una ben triste resa di conti:--delusioni
si aggiungono a delusioni. I volgari non si accorgono mai delle foglie
che cadono, tu piangi: e la baraonda prosegue. Tu sorridi: oh
veramente ci fosse Dio e vedesse e almeno lui apprezzasse questi
sorrisi!

--Qualcosa c'è che non si soggioga a cifre: qualcosa c'è che
rende uggiosi i libri dei filosofi: qualcosa c'è che consola i
soli, gli abbandonati, i poveri, i poeti!--Oggi bisognerebbe tutto
domandare ai medici materialisti. Io domando troppo a me stesso.



ULTIMO GIORNO DELL'ANNO 1877.


                                Lunedì, 31 dicembre.

Mancano tre ore e l'anno sarà finito. Ho qui sul tavolo tutte le
mie memorie. E voglio scrivere. Scrivendo imito il carattere di Lidia,
Che cosa voglio scrivere? Nulla di ordinato. Incomincio col rileggere
le mie annotazioni del settembre 1876, poi voglio leggere il mio
portafogli co' miei sogni di artista (1873-1874-1875): poi la mia
lettera a Lidia: poi la sua a me....

Oggi si chiude un anno, un tristissimo anno. Colle speranze, coi
ricordi, colle illusioni. Ella mi appartiene quasi, fino all'ultimo
minuto di questo anno; domani si apre un anno nuovo, un anno che sarà
importante per lei: sento che mi sfugge sempre più, che non è.... che
non sarà mai più mia!...(5) Mio Dio, rendila felice!--Io mi illudo
sempre nel mio dolore: rileggo la sua lettera, ribacio il suo
ritratto, sento nell'animo la sua voce, e sono superbo, contento,
felice, ma sogno, sogno: la verità non è ancora entrata nel mio cuore,
io non sono persuaso che non la vedrò più! che non ho più diritto a
pensare a lei!... Anno tristo, la mia vita è spezzata. Io ero nato per
l'amore, per la donna, per la casa, per le sere tranquille, per un
bambino, per sperare, per _sentire_ la famiglia a benedire tutte le
mie febbri, le mie aspirazioni, le mie malattie: e invece? Io vedo
dinnanzi a me giorni e giorni e anni e anni _che passeranno_, solo
conforto: _che passeranno_.... senza più ambizione di un nome, senza
desiderio di una donna, senza coscienza di un'anima, e sempre più col
bisogno di una donna! Non voglio più scrivere. Nè so scrivere. Mi
inginocchio e prego il suo Dio, quello che ella pregherà per me:--Dio,
ho bisogno dì credere! io mi sento buono! io mi sento il cuore!

Quando pensavo a lei, sentivo la fede e Dio! quando mi sentivo
squallido e senza speranze, pensavo al suicidio, quasi come a un
candido sogno! quando vedevo dei luoghi ameni: dicevo--_qui non c'è
lei!_--quando vedevo delle fanciulle mi sentivo l'anima innondata di
pace! quando vedevo dei bimbi, mi venivano le lagrime agli occhi! Mio
Dio, al mio corpo nervoso, cupido, febbrile ho negato gli amplessi
della femmina nuda; ho impazzito pensando alle voluttà: ho
combattuto battaglie ridicole pel mondo, ma supreme e gloriose per chi
vuol avere nel pensiero suo il pensiero d'una vergine; mio Dio, il suo
ricordo era per me il ricordo di una tua vergine: la sua lettera l'ho
letta in un santuario, guardando la bionda testina di due de' tuoi
angioli! Guardami! Dimmi tu che non sono ridicolo, amando ancora! Che
non lo fui amando in passato! Tu hai detto:--Siate fratelli e
sorelle--e non hai detto che gli stranieri, i poveri, gli sventurati
non possano fra loro essere fratelli e sorelle. Dinnanzi a mio padre,
a mia madre, ai miei amici non ho saputo dire:--Ella è straniera!
Ella non ha dote! Ella mangia il pane altrui!--sarebbe stato un
delitto di _leso decoro_ questo mio detto. Io fui così fiacco da non
parlare, da non combattere parenti e amici e mondo: io tacqui! e
sperai in te e in lei!... Mio Dio! Quanti a quest'ora si apparecchiano
a godere gli ultimi momenti dell'anno! Io sono ginocchioni, io prego,
io voglio pregare, io piango, io sono solo! io non so sperare, nè
domandarti per me alcuna cosa per l'anno nuovo!! No, no, che importa a
me di quello che mi accadrà? Ma io voglio pregare, voglio
sorridere, voglio piangere per lei! Mio Dio:--rendila felice, e fa che
ella si ricordi di me e che io sappia qualcosa di lei!

Rileggo i libri delle mie _Confidenze_. Oh! come sono belle e
tranquille! Rileggo le pagine della malattia di Lina e le invocazioni
ad Ermanna! Povero mio cuore!... Mio Dio, ti supplico, rendila felice.


_Domenica, 27 gennaio._--È una giornata chiara, bella, calduccia.
Tutti passeggiano. La si crede una prima festa di primavera. Io sono
tanto tristo! Ho aperto le finestre: e mi vengono tutte le memorie
della mia convalescenza. Poveri giorni di languide speranze! Giorni in
cui mi pareva sempre di sentire l'odore di ghiaia umida misto
all'odore delle violette: mi pareva di vedere uno dei viali del
giardino _non suo_ un viale che termina a un gruppo di pini dal cortice
odoroso.... Oh mesti crepuscoli di Limbiate!--Io non so scrivere
ordinatamente.--Ho taciuto tanto. Mi piacerebbe avere qui tante e
tante memorie scritte: le rileggerei ora e le troverei belle! Come mi
paiono belle queste poche! Eppure in vacanza non ho saputo scrivere:
scrivendo mi pareva di rendere troppo concreto il mio dolore, di
studiarlo troppo, mi sforzavo a essere indifferente. Quello che di
dolorosissimo ho scritto l'ho scritto per Bianchi. Ho perdute le
lagrime di quei dì. Vorrei ch'egli mi restituisse le mie lettere.
Mi pento gravemente di essermi tanto confidato con lui. Mi capisce?
Può capire chi non ha il mio ingegno? Chi non ebbe i miei
entusiasmi? Chi non ebbe il mio cuore! Ridicolaggini! Ma io mi sentii
_potente_ ed ebbi un giorno delle audacie e una tal coscienza di me, che
mi dovetti dire:--Oh sante le mie febbri che mi distinguono dalla
folla intorno a me.

In questi giorni mi tornano alla mente i miei auguri per lei. Voglio
pensare alla sua felicità. Ella apparecchierà la sua veste
bianca! Ella gli scriverà quei mille nonnulla così graziosi,
così cari, così confidenti! _L'oubli seul sépare!_ E il mio
pensiero?

O mio tranquillo cimitero di Limbiate, ti amo! O miei boschi! o
pini!--Purchè io sia tra voi o mi imagini di essere tra voi, il mio
cuore si esalta, l'anima mia diventa buona, e nelle speranze di un di
e nelle delusioni d'oggi, il mio desiderio è desiderio di pace e di
amore, il mio ingegno si sveglia e mi tormenta e mi fa delirare sempre
inconcreto, sempre senza via, sempre senza certezza di scopo. O mio
cimitero! Ti vedevo tutti i giorni quando pensavo all'amore! Ti
ricordo ogni volta che qualche amico ride o qualche femmina
sogghigna!--Come si amano i propri dolori!--Il cimitero vecchio non
serve più per le tumulazioni: ebbene amo già il nuovo, perchè
presento che vi giacerò (non oso dire _voglio giacervi_): vi sono
passato vicino tante volte st'anno guardando ai monti di Como, a
Mombello, alla Chiesa dei frati, ai monti che ho contemplato mille
volte al tramonto con dolci desideri di avere una casetta là e
là.--Amo le strade infangate, le foglie cadute, le campagne
brumose, la mestizia della solitudine e il luogo di pace... amo la mia
memoria abbandonata, solitaria: mi sento sotterra, sento l'oblio, lo
sfacimento.... Ella avrà dei figli, degli amici, _la vita!_...


_Mercoledì, 30._--Tutto è vuoto, senza scopo, senza soddisfazioni.
Ieri ho visitato il cimitero degli stranieri! Come dormono bene le
anime protestanti! «_Thy will be done_...» Come dormirei bene anch'io!

* * *

Tutto finì. Ecco il vuoto.

* * *

_Est quaedam fiere voluptas!_

* * *

Mio padre crede che questo sia il libro dei conti.

* * *

_Nos joies ressemblent à l'arc-en-ciel, qui a l'aurore nous
apparaît au couchant, et vers le soir se montre à l'orient._

* * *

Ogni mio filo che mi lega alla vita è nel passato: ed è solo pel
passato e per lei che sento che la vita deve avere uno scopo serio. E
solo per lei ho bisogno di credere a Dio, e solo per lei il suo Dio mi
dà una mestissima pace e una mestissima fede, quasi una
vocazione.... Solo pel passato, mantenendo una dolcissima illusione,
io sorrido e studio, e prego Dio e sospiro alle fanciulle e vorrei
baciare tutti i bimbi.

Uno solo il mio pensiero--Lidia--ed uno il mio voto--Dio, rendila
felice!--Essa è mia sorella. «_Notre affection est pure et noble,
elle n'a rien de profane, elle peut se raconter à toutes les
âmes qui sont bonnes_:(6)» ella mi disse, e mi accettò per
fratello....

Io solamente son felice quando guardo la sua lettera, il suo ritratto,
la mia lettera, quando penso a Limbiate e al cimitero tranquillo....

Desidererei (e voglio scriverlo a' miei parenti) d'esser sepolto a
Limbiate.--Desidero di avere sulla mia pietra o croce il solo mio nome
e cognome e le sue parole: _Tout ce qui finit est si court. Allez
toujours_.


_5 e 6 febbraio._--S'io trovassi un compagno, andrei in Grecia
_volontario_, giacchè qualche garibaldino si muove da Milano.
Insegnerei a' miei parenti ed amici ch'io sprezzo la vita!

Leggo Byron. Si è avverato il _suo augurio_:--«_que son coeur se
passionne pour ce qui est beau et grand!_»--Byron! I miei giorni non
sono sciupati: più che il tritume delle Accademie vale il vulcano
di Byron. Byron! io sento il mio cuore batter col suo! Che m'importa
se vivo solitario? Perdo poco perdendo le ciarle stupidine o
pretenziose o vuote dei cosidetti amici che sanno _vivere a questo
mondo, prendendo le cose come vengono_. Perdo nulla, perdendo, la sera,
le pettegole scipitaggini di un palchetto di femminucce... Byron! Tu
mi rifai il sangue. Tu mi animi. Tu mi ridoni i miei muscoli... Oggi
spero indeterminatissimamente, ma spero pel mio avvenire.--Ho veduto
mio padre assistere all'anniversarie preci per suo padre.--Mi consolo
ricordando, in una passeggiata in campagna, al sole primaverile, le
frasi della lettera di Lidia.--Che ancora per le fila provvidenziali
di Dio avessimo ad incontrarci?--Oh! possa il mio povero ricordo
tormentarti nelle ore delle tue frenetiche voluttà! Sposa sei?--O
mio Dio, come io desidero di morire!


_19 febbraio._--O mio Dio, sento uno di quegli sconforti, pensando al
mio passato!--Come vorrei esser morto! Piango!--Oggi, qui, dai tetti
di un terzo piano di povera gente mi giungeva la vocina balbettante di
un bambino.--Guardo il suo ritratto. Ma, mio Dio! sento che
inavvertitamente caricherei a palla, _sì_, una pistola antica, e in
questa febbre, inavvertitamente me la accosterei alla fronte.... Amo
Lei! Lei! Tutta la mia giornata è per _Lei_! Studio per Lei, di
giorno: studio per Lei, di sera! penso a Lei, di notte!--Penso ch'Ella
deve esser felice, e per non turbarla, non mi uccido! Ma chi più mi
trattiene? Che mi aspetta?--Che cosa è il mondo per me!--Se potessi
viaggiare e viaggiare e stancarmi!--Come passo le sere e le giornate
da solo.--Sere di primavera, coll'odore delle violette di Limbiate!
Giornate di primavera con una trista, strapotente insidia di
voluttà nelle membra!--_E voglio esser casto_! Chi lo sa? Chi lo sa
il mio martirio? Chi lo apprezza?


_3 marzo._--È primavera. È domenica. Suonano a distesa le campane.
Domani andrò a Limbiate e qualcosa saprò.... Avrò coraggio di
domandare di Lei?... Mi spaventa un tristo presentimento dacchè non
ha Ella risposto al mio biglietto.

Mio Dio! che vuoto! Non sono stato ad alcun veglione; eppure oggi io
mi sento tanto triste, e inquieto e svogliato, come se fossi stato a
sciupare la mia notte.... Mi conforta il pensiero che Ella leggerà
il mio libro _Lagrime e Sorrisi_. È _donna_ e lo capirà. Che importa
a me del mondo?


_6 marzo_.--Torno adesso da Limbiate, e subito corro quassù a leggere
queste mie memorie, e vorrei scrivere sempre un pensiero, sempre un
dolore, sempre un'illusione. Domani, giovedi grasso, quando gli altri
godranno, io scriverò, e penserò, e piangerò.

Non ho saputo niente di Lei!


_30 marzo_.--Il nostro povero cane di Limbiate è ammalato. L'amo
perchè è tanto legato alle mie memorie! Nel novembre 1873,
quando solo mi addormentavo nella mia stanza fredda gustando le sante,
melanconiche, dolcissime mie speranze: il povero cane mi dormiva a'
piedi del letto. Quando a cinque ore, al tramonto, io vedevo, fra gli
sterpi e le ruine scalcinate della darsena del laghettone, e
contemplavo nell'acqua il riflesso roseo del cielo e _sentivo_ la
solitudine delle acque e delle tristi pinete, fingendo di trovarmi
sulle rive del Mincio, e pensavo sospirando all'amore.... quando là
al laghettone, _riassumevo_ la giornata e chiusi i fascicoli di diritto
speravo e speravo e speravo!... il povero cane mi era accosto. E,
ricordo, ho sorriso a lui, che mi trovava solo, meditabondo, amoroso,
a quell'ora, a quel luogo! E credo qualche volta di avere avuto quasi
soggezione di lui!... Povero cane, povero amico!...

Tutti i giorni passavo un'ora o due al cimitero e pensavo alla _vita_, a
una fanciulla, ai bimbi, alle _sue_ toilette, ai suoi nonnulla, alle sue
scarpine, ai suoi guanti, alle sue moine,--lì fra le croci e le
foglie secche col sole pallido e le stradette umide io vivevo! O
speranze! o memorie!--Io lavoro: studio il tedesco. Mi avvinghio
sempre più al passato. Dove l'avvenire?


_31 marzo_.--È morto il cane! Povero _Chellen_! povero amico!.... A
poco a poco là s'infrangono gli anelli che mi legano al mio
passato.... O mio avvenire! O Lidia, se tu sapessi la mia
sensibilità, la mia poesia, le mie lagrime! Mi è caro tutto
ciò che nella mia memoria è legato con te... Ma non poteva Dio
volere ch'io non li vedessi, ch'io fossi tranquillo, ch'io amassi
un'altra fanciulla, ch'io a quest'ora fossi già _marito_ e _padre_,
ch'io fossi felice? Perchè Dio volle diversamente?... Crescono le
ardenze delle mie febbri, il corpo freme di bisogni fisiologici,
l'anima è sempre la stessa a comprendere la donna, il cuore è
gonfio, l'ingegno sente la ricchezza del sentimento e... Se tu sapessi
i miei scoraggiamomi!... Il mio passato!... O miei sogni, o mia
preghiera, o Dio, o Donna, o Tutto, o Lidia!... O Lidia, come ti
amo!--Ma che Dio sia almeno giusto, e faccia sì che il mio pensiero
dia anche a te un po' di questi tormenti.

Torno col pensiero al povero cane! Povero amico! sì, caro
testimonio di tante mie lagrime, di tanti miei dolori!

Leggo le mie memorie: è il saluto che le scrissi! E piango! Come il
cuore è gonfio!--La scienza è vana. Ieri ho ascoltato una grande
lezione di Antropologia: la genesi umana: la scimmia! O Lidia,
perchè non eri tu a casa mia, in un bel gabinetto, pieno di cose
d'arte e di profumi tuoi, bella, _mia_, sorridente? e perchè io non
potevo gittarmi a' tuoi piedi, pregando Dio attraverso Te!

Leggo il mio saluto. Oh se tu potessi piangere, come piango io!...
Eppure spero... Ci incontreremo, sarai _mia!_... Forse incominciano
adesso le mie battaglie... Perseveranza, Castità, Fede...
Speranza!... Lidia, ti prego in ginocchioni, dalla tua felicità (se
ti ricordi di me) mandami un poco di pace! Merito un poco di pace,
perchè delle mie idee arrossisco in faccia al mondo: non in faccia
a Te, non in faccia a Dio! Leggo il mio saluto.... Saluto eterno!...
La mia vita è condannata al tormento di perpetua illusione e di
sproporzionato sentimento!...

Torno dal cimitero. Ho visitato il campo degli stranieri: ho letto
iscrizioni tedesche e inglesi: Credo sia una buona azione il visitare
i poveri morti stranieri.--Come dalla morte a me sgorga il pensiero
della vita.--Ho visitato anche la Pinacoteca, _adorando_ le Madonne
del quattrocento... Sì, sì, il mio ideale della donna è divino.--Sei
maritata? Oh come penso tristamente alle tue gioie frementi di sposa!
Amavo meglio, nei mesi scorsi, pensare a' tuoi dolori di vergine!

Quand'io sognavo... la prima volta con te, a Firenze o a Venezia, io
promettevo, io giuravo di caderti innanzi ginocchioni, dicendoti
qualche mio pensiero delle _Lagrime e Sorrisi_, piangendo ch'io non
fossi abbastanza poeta per te, esultando con tutta l'anima d'avere la
coscienza ch'eri un fiore e che io non ero la mano villana che lo
toccava.. E t'avrei baciata in fronte e t'avrei detto:--Piangi!

La mia penna è impotente alle povere fantasie del cuore!


_1.° aprile_.--Vorrei ricordarmi e rischiararmi dei paesaggi
carissimi, dei boschi, delle rive, dei cieli... Anima ammalata: sento
le donne nei fiori, nelle gemme, nei prati, nei cieli, nei raggi del
sole... Non scrivo perchè non so scrivere: le parole che adopero
sono parole che hanno tutti nei vocabolari; i sentimenti che mi
ammalano sono sentimenti miei, e il mio cuore è diverso da quello
degli altri.

Oh come penso! come vedo! come fremo! Ho avuto il tristo dono della
fantasia. E come soffro! Ma oh! venga il mio pensiero qualche volta a
turbarti!

Ho aperto il mio cassetto: il profumo che ne uscì mi ricordò
dolcissimamente il giugno del 74, quando scrivevo le _Confidenze_, mi
illudevo tanto e speravo tanto! Allora mi sentivo una fanciulla: e la
mia convalescenza era per me una scusa alla languidezza del mio
sentimento....

Crescere in dignità per lei, è lo scopo di questo mio anno. Nel
mese scorso, venendo qui, nel mio cassetto presi un foglio di carta e
scrissi due versi di Byron: oggi ho scritto due versi di
Schiller.--Sogno dolcemente: a Limbiate le mie speranze, le mie
certezze, il mio avvenire!--Ma quando sono qui, e vedo i luoghi di
tante mie meditazioni, e quando vedo la casetta di..... e quando suona
la campanella della chiesa di sotto, e quando vedo il _suo_ giardino, e
la finestra dove era affacciata quella sera di settembre, e quando....
oh come sento che tutto è passato! che la mia vita è decisa! che
il mio avvenire è spezzato!--Deserto!

Prego la primavera, i fiori, le rondini, i bambini, il sole,
Dio.--Rendetela felice!

E di fronte alla primavera, ai fiori, alle rondini, ai bambini, al
sole, a Dio, mi sento innamorato e casto!


_Venerdì Santo_.--Compiono oggi sei mesi da che... Sei mesi! mezzo
anno! A me paiono sei giorni!

O quale sconforto il mio.

Oggi tutte le donne pregano.... Prega per me! Prega Dio che mi faccia
morire!...

Morire? imputridire? essere dimenticato? E il mio desiderio, il mio
bisogno era la vita, l'amore, la poesia!


_Sabbato Santo_.--Le campane annunciano che Cristo è risorto. Qual
vuoto in me! Ma come potrò io mostrare l'anima mia! a chi?


_Martedì, 23 aprile_.--Come per certi dispiaceri certi uomini
ricorrono ai liquori, pe' miei io ricorro (ricorsi) a Byron, Foscolo,
Rousseau, Shakespeare: mi sostengo con questi alcool.--Ora gli
abbattimenti, il vuoto.... e quali battaglie!... I miei _balocchi_
antichi cominciano a distrarmi poco poco. Ma perchè forzare la
natura?


_24, mercoledì_.--Ho fatto la comunione. Ieri il prete mi disse di
meditare mezz'ora. Ecco come medito.... Per quattr'anni di seguito,
quando a primavera andavo alla chiesa per la comunione, io portavo con
me il portafogli col tuo nome! Sante illusioni! E quando l'ostia
toccava le mie labbra io mi concentravo nel pensiero:--Lidia crede in
Dio!--E la comunione del 74, quando ero convalescente? Oh nessuna
preparazione di teologo, nessun libro, nessuna madre, poteva rendermi
tanto degno di Iddio, quanto la mia speranza e la tua memoria! Santa
religione, santa poesia, fede gentile: _Vita_, Donna e Dio!--Dimenticavo
di non esser bello, d'essere ignorante, d'essere timido alla pratica,
sentivo Te, speravo, sentivo la fede che è la vita! O vergine, o
bionda, o straniera, chi t'avrebbe detto che tu dovevi tanto deliziare
e tanto tormentare un'anima italiana. Io italiano? goffo, ridicolo,
senz'azioni.

O vergine, o vergine! o Lidia, io ti ringrazio! Quei momenti in cui io
pensavo a Te e la tua memoria veniva col pensiero di Dio, erano
momenti soavi, pii, forti, si, e non verranno più! O Lidia, o
Lidia, o _mia sorella_, prega per me!--Alcune volte voglio ribellarmi al
tuo ricordo, e chiamarti causa d'ogni mio tormento, e odiarti....
Potessi odiarti!... Tu non ti sei manco accorta di me!--La realtà
è troppo triste: è meglio l'illusione, la poesia.

Ed oggi?--Vuoto, sconfortato, col solo pensiero che sono brutto e
ridicolo!--Senza speranza, senza fede, senza amore,--sono andato alla
chiesa.... Ho pensato alla tua comunione di sposa.--Ho sentito come,
anch'io, riceverei la mia ultima comunione, a letto, ammalato,
moribondo, pensando alle mie Memorie, a Limbiate, al cimitero, dove
voglio giacere, al mio libriccino _Lagrime e Sorrisi_, al mio
portafogli, pensando a quelle carte che lascio nel mio scrignetto, al
tuo ritratto che cadrà sotto gli occhi di mia madre.... pensando al
di che saprai ch'io sono morto!...

Oh io mi sento buono!

Non voglio più annotare!

_Maggio, 3._--Guardo il cranio.... e guardo il tuo ritratto. Il tuo
ritratto! Ecco la vita, la speranza, l'amore, la Donna, la _Fede_!

Ed io ancora ho la speranza, la vita, l'amore, la fede per te, per te
che non sei più mia!--Piango con dolcissime lagrime.--Mia Lidia,
quale scoraggiamento!

Nel teschio vedo la materia: in te lo spirito: in quello il vuoto; in
te il pensiero.... In te Dio!

Ho riletto le memorie di quest'anno! Mio Dio, mi vedi? Non so
scrivere. _Je ne vous oublierai pas_, ella scrisse: e nel cassetto mio
tengo la sua lettera mezzo aperta per leggere.

* * *

Tento di scriver oggi, 22. Ho veduto Lidia qui a Milano. Da quindici
giorni ero abbattuto, stanco, annoiato, avvilito, senza più un
pensiero alle cose antiche, senza passione per lo studio del tedesco,
indifferente ad Heine e Goethe.... a tutto! Oh come mi erano cari
quest'inverno i miei studi di tedesco su nel mio studiolo, quando
tentavo di tradurre _Lagrime e Sorrisi_, e scrivevo, imitando il
carattere di Lidia! Eppure guardavo di rado il suo ritratto. E la
domenica in Duomo? Sempre, sempre passeggiavo sotto le arcate
ricordandomi le espressioni della mia lettera, le espressioni della
sua: e pensando che avrei studiato, e che avrei fatto.... In questi
giorni studio in Biblioteca: e ogni sera, su nel mio studio, guardo le
teste da morto e poi guardo il suo ritratto.

L'ho veduta ieri dopo pranzo alle 7 1/2. Tre volte l'ho veduta. Essa
mi ha fissato, si è rivolta, mi ha atteso.... Ed io?

Che farà? È sposa? Era con sua madre? Colla sua tutrice? Ho
influito sulla sua vita? Viene da Mantova o da Catanzaro? Va a
Catanzaro o forse _per sempre_ in Germania? È felice?

Era pallida.

Ma era proprio lei?

Quando nell'ottobre scorso l'ho vista a Limbiate aveva la faccia rosea
sotto il velo.

Ieri era pallida.

Se non fosse stata lei, perchè avrebbe mostrato di accorgersi tanto
di me?

Il mio turbamento fu immenso. Poi mi acquietai. Ho dormito sognando
dell'incontro. A mattina mi rinacquero mille speranze e pensai a cento
ipotesi, mi sentii felice. Sono andato sul corso, in Galleria Vecchia,
vicino a Dumolard, in Duomo.--Forse è partita! Per dove? Avrà
dormito stanotte? Che avrà pensato?

Dio mio! Dio mio! Ho letto tutta la mia lettera a Lei. Ho schifo delle
mie sconce mani. E ho l'anima che sente Dio.

Era lei?--O è tutta mia illusione?-

Da Limbiate potrei saper qualcosa, ma non oso, non oso affrontare
nuove emozioni, e forse tristissime!

Stamattina ancora ho sperato. Ma e se fosse a Milano per provvedere il
suo corredo da sposa? Doveva sposarsi nel febbraio, mi dissero (a
Limbiate).

(Fosse qui per collocarsi nuovamente in qualche casa!)

Quali incertezze! Se mio padre e se mia madre sapessero!

L'incontrerò ancora?

(Non so scrivere).

Ma che cosa vorrebbe adunque l'anima mia! Oh! nella morte ci deve
essere una gran _pace_. Mi ricordo sempre il _Suicidio_, dramma di
Ferrari, e so di voler bene a mia madre! O mamma! o mamma! Come da Te
è uscita la mia anima ardente?

E sono brutto e ho dei difetti che mi rendono ridicolo nell'amore.

Sono tormentato, ma mi sento _vivo! vivo! vivo!_ meglio è l'inferno
che il nulla.

Ogni speranza di attività, di amore, di avvenire, di vita è in
Lei.... E la vedo per l'ultima volta o la rincontrerò?--Tormento di
incertezza--Basta! basta: ma come passerò i giorni?

Ma ci vuol altro! Leggere cinque o sei ore al giorno tedesco, è
questa la vita? la pratica? la realtà? Ma che cos'è la _vita_
dunque?

Vorrei divenir pazzo per non pensare _più_.

_Un'anima che ama_, in un corpo nervoso è tale tormento che gli
uomini serii non sapranno mai,

A che scrivere?

E se questa Provvidenza che io bestemmio mi preparasse la felicità?
se?...--Se lei potesse entrare in casa mia? Se sua madre o la sua
tutrice....

Sogni! sogni inutili.

--_Sei brutto e sei tormentato: e sarai brutto e sarai tormentato:_
ecco l'unica verità. Ti morirà la mamma, e che farai? Ti
morirà il padre, e che farai?--Resterai solo a far la vita
dell'ortica--solo--o con un fratello che ebbe aspirazioni diverse
dalle tue.--Solo senza illusioni, senza egoismo e senza virtù
proficue agli altri, solo e sempre memore che hai _amato_ hai amato, hai
amato. Allora leggerò queste note?


_22, dopopranzo_.--O suicidio! o suicidio! Ecco un orribile momento!


_7 agosto_.--A che cosa è attaccata la mia speranza? Tutto quello che
ho sofferto in quattr'anni! Come ho bisogno d'esser felice! E come amo
Te sola!


_20 agosto, giovedì_.--Compie oggi l'anno. Come avevo deciso di
uccidermi?--Andrò a Parigi: ma l'anima mia è a Limbiate: a
Limbiate la mia _illusione_!

O Lidia, come ti amo!

23 _agosto_.--Andrò a Parigi. Mio padre oggi mi ha dato i denari.
Rimasi avvilito:--Che cosa ho fatto per meritarmeli?

O Lidia, penso malvolontieri al viaggio. _Mi pare_ che Tu debba ancora
essere a Limbiate.


                                   Limbiate, 8 ottobre 1878. Martedì.

So che il suo matrimonio è andato in fumo, perchè lo zio le
negò il consenso.... Che parte ho avuto io in quell'animo?--Che
deserto! È vuoto quel palazzo, e piove, e mi ritiro (santa
illusione) a scrivere un po' di tedesco e di inglese, pensando a
Lei.... E Lei penserà a me?

Spero sempre: e benedico le mie melanconie. Mi illudo che Ella capiti
a Milano, ch'io la riveda, ch'io... O Ella ha _l'anima mia_: ella
leggerà i miei pensieri. Potrà sprezzarmi?


_Domenica, 24 novembre 1878_.--Sono a Milano, da quasi una settimana: e
come mi sento triste! Sempre il tuo pensiero, o Lidia! Come all'anima
mia abbisogna la tua! Come mi sento bisogno di amare, di credere, di
sperare!--Un amico mi ha domandato se sono divenuto _filosofo_, anch'io.
Sì, ho risposto, ed ho riso.

Filosofo gaudente e indifferente? Filosofo?--Ohimè, come mi diventa
indifferente l'idea del suicidio!

Oh gli amici non mi comprendono! Sono anime piccine: Sono corpi
oscuri:--Sono mezze creature.--Come desidero di morire! Oh mia madre,
come ti voglio bene! Ma perchè hai soccorso sì poco all'anima
mia!


_18 dicembre_.--O mio avvenire! Mi si presentano sogni, e imagini e
speranze, con una evidenza e una serietà di particolari che quasi
mi illudo... e sogni e imagini e speranze si fondano su di Te. Da tre
mesi e mezzo, non ho più guardato il Tuo ritratto, o mia vergine, e
mi sforzo a ricordarti tutta, coll'anima!

Tre grandi illusioni sono il mio grande tormento: tre grandi illusioni
nella vita di un giovine bennato, Dio--la Donna--l'Arte.

Mi sento solo--e la notte mi turba con mille paure.

Un altro pensiero che pareva sopito da tanto tempo risorge a
infastidirmi nell'amor proprio,--ma non scrivo; su queste pagine,
consacrate al Tuo nome, o Lidia, non scriverò nessun altro nome di
donna.


_Martedì, 24_.--Ecco un'ora triste!--Ieri sono stato fra la gente, ho
visto dei giovinotti eleganti; delle belle signore.--Non so
scrivere:--i sogni mi perseguitano con maliarda voluttà. Che ho
provato io della _vita_? Nulla e mi sento stanco, vecchio, senza
speranze, e senza scopo.

Oh qual bisogno d'esser felice!

Ma a che tradurre Byron? a che tradurre Heine? Byron e Heine hanno
_vissuto_: ecco la poesia.

Ho ingegno sì o no? E che cosa faccio?

O come desidero di morire!

Rileggo un poco del mio _Tintoretto_! O che giorni erano quelli in cui
scrivevo quelle scene, appena guarito dal tifo! Che vita! che
speranze! che amore! Come mi sentivo artista, buono, solitario!--Sono
scorsi già quattro anni. Quattro anni! E come sono io oggi?--Oh!
leggo, leggo alcune scene.--E ricordo quello che mi dissero Marenco,
Lombardi, Ferrari.--Oh come ho bisogno di risvegliarmi, di
risvegliarmi alla vita, e dire ho la _donna, e le gioie dell'Arte_!

Ma è un sogno. E desidero di morire.

--L'anima mia che è?

Oh! s'io morissi! Ma s'io morissi, le fanciulle continuerebbero a
prendere marito.

Mi è pure uscita una triste parola.--Oh la donna! valgono tanti
tormenti dell'anima per lei?

La donna! avessi ascese le scale del lupanare, quando, a diciott'anni
mi vennero le prime melanconie, e correvo tutti i giorni a pregare
Dio, e non per me! Ah! ero troppo stupido!

Ma uno scopo ci dev'essere all'attività; alle febbri della mia
età. Non sono nato per i divertimenti, non per lo studio, non per
la gloria--oh potessi fare il bene, sì, e obliarmi nel beneficare
chi soffre. Unico scopo, la _carità_.


_31 dicembre 1878_.--Ultimo giorno di un anno inutile nella mia
vita.--Ho studiato l'inglese e il tedesco: ho letto molto: ora leggo
molto, e con un ordine. Voglio farmi un'idea netta della letteratura
del nostro secolo, e passo le giornate al tavolo colle grammatiche, e
alla biblioteca con Monti e Manzoni e--sono sempre scoraggiato.


_1° gennaio 1879_.--È passato anche il 78!

E Lidia ove sarà? che farà? Si ricorderà di me? Ho riletto
tutte queste memorie. Ho sperato sempre e spero ancora.


_3 gennaio._--Oh se potessi andare a Venezia! E le conseguenze? E mio
padre?

Perchè Lidia non si è maritata?--Non ho ancora aperto la busta del suo
biglietto, ma ho intravisto.... Nemmeno il carattere della carta da
visita è cambiato. Dunque non ha aggiunto nessun nome al suo.... E se
avessi intravvisto male? Vorrei vedere subito.--No,--domani.--E in
quante speranze mi perdo!

Si era un po' assopita l'anima mia. Perchè torno a svegliarmi? e
sento tanto tormento di incertezze e di speranze?--Vorrei.


_5 gennaio._--A che studiare? È una bellissima giornata: sole, luce,
vento sciroccale: l'atmosfera nettissima: suonano campane e campanone; la
ballerina si affaccia al balcone discinta e canta a squarciagola.... e
senza sentimento! Oh la vita!--Io sono nè triste, nè allegro: sono
nervoso, impaziente.

E penso.--Io ho mandato a Lidia il mio biglietto di visita senza una
mia parola, senza il mio indirizzo--e Lei mi manda gli auguri e scrive
il suo indirizzo.... Il suo indirizzo non è un invito a scriverle?
O forse avrà bisogno di una parola amica?--Ed io tacerò se è
dovere.--Ma c'è un altro dovere....--Ma se è destino?--Stamane
pensai agli amici, ai parenti, al mondo, e mi spaventai....

Quali incertezze!

_6 gennaio_.--O Lidia! (scrivo dalla Biblioteca di Brera: è
mezzogiorno, suonano le campane: e mi pare di essere in una città
di provincia, e mi faccio triste, per gustare quella melanconia che
avrai gustato Tu tante volte a Mantova e a Venezia! Questa estate,
qui, le campane mi avevano il suono delle campane di Limbiate, e
sospiravo!) O Lidia, ho qui il biglietto che mi spedisti Tu ieri da
Venezia, in ricambio.... La busta non l'ho ancora aperta: e tutt'oggi
non l'aprirò, gusto questa incertezza. Oh sono felice!--A Limbiate
non sapevo più nulla di te: a Milano nulla. Quattro mesi erano
scorsi: potevi esser morta. Io affidai al caso (no, no, a Dio!) il mio
biglietto di visita per te.... Così era lontano dal credere che tu
lo ricevessi!--E l'hai ricevuto! Oh qual gioia per me avere una busta
scritta da Te.... e dico nel mio cuore, scrivendo il mio nome, avrà
pur dovuto, fosse solo per un minuto, pensare a me!--Una volta ho
ricevuto il tuo ritratto (10 ottobre 1877): una seconda volta la tua
lunga lettera (23 ottobre 1877): ed ora un tuo biglietto.... avrà
qualche frase? l'indirizzo? la data?--Non so! Non apro la busta: ma mi
sento felice.--Rispondendo al mio biglietto mi hai dato una gran prova
di stima.... potevi lasciarmi supporre di non aver ricevuto il mio....
Ma a che ragionare? Mi sento felice.--Nell'ultimo giorno dell'anno
1878, io ruppi i suggelli a certe mie carte, e rilessi, rilessi le mie
annotazioni! Trovai una grande disperazione e una grande
speranza--anche quando _ero certo_ che Tu eri la moglie di un altro.--Ed
ora lo sei? Se il tuo biglietto portasse un altro cognome?-

O Lidia! Lidia! a che studiare? quando si è così felici
nell'amore santamente?--Oh come ti amo! E come spero? Dio può
ingannarmi? Dio ha fissato che tu sii la mia donna! senza confidenza,
senza speranza, ho gettato in buca il mio biglietto... ed oggi... oh
non l'aspettavo più il Tuo!--Col tuo biglietto sul cuore, volli
entrare nella Chiesa di San Marco a osservare le sculture antiche e
fingevo d'essere a Venezia, poi sono andato al Duomo.--Sotto le arcate
del Duomo, l'inverno scorso, ho sperato e temuto mille volte
d'incontrarti col tuo sposo; sotto quelle arcate ho ricordato tutte le
domeniche le espressioni della Tua lettera, e ho cercato di tradurle
in inglese e in tedesco (soave illusione!); sotto quelle arcate Ti
cercai più giorni nell'estate, dopo che t'avevo vista a Milano...
Rileggendo le memorie del 1878 mi dicevo:--_Ma come speravo ancora?_

_Sento_ che un giorno rileggeremo insieme queste annotazioni, e saremo
contenti, e pregheremo Iddio, sento che la castità e la mia vita
ritirata non sono un castigo per me, sono un _voto_, una preparazione...
O Lidia, mi inganno? E allora che cosa è della mia vita? Ho già
27 anni! E sento tanto bisogno d'avere al mio fianco una donna, una
giovane, una sorella, una vergine! I miei anni passano! Io spero,
spero, o Lidia, spero.

Che importa se per quattro anni Tu non hai risposto al mio amore: Mi
hai amato, quando Ti dichiarai: «Siate felice!» e avrai cominciato ad
amarmi dopo l'addio.

Oh! se sono derivate a Te sventure, io dico: «benedette sventure se
possono farti ricordare di me e potessi io un giorno farti dimenticare
le sventure che hai avuto e rifarti con me una vita nuova, tranquilla,
anche nella nostra età matura!»

Quale incertezza!--Oh spero, e _sento_ che Dio mi vede... Vorrei andare
al Santuario di Saronno, e là affisandomi in quei due angioli
purissimi di Gaudenzio che ho tanto amato, là aprire la busta e
leggere il suo Nome. Così nel 1877 ho letto la sua lettera: in
faccia a Dio, nella quiete, nell'ombra, nella poesia santa di un
sacrario antico!--Lontano dagli amici che ridono!

Senz'aprire la busta ho voluto spiare mettendola su un vetro della
finestra quello ci fosse scritto sul biglietto. C'è l'indirizzo
suo... gli auguri.

Mi sento triste--Le scriverò? Uscirò dall'incertezza? Oh s'io
fossi libero della mia volontà che cosa Le scriverei!--Mi viene in
mente di far stampare dei pensieri, e mandarli a Lei,--E poi?--Quale
tormento!

_7 gennaio 1879._--Imparare una lingua difficilissima, come la tedesca,
per far sentire a una fanciulla tedesca le note di un suo grande poeta
(note piene di religione e di amore di patria) è un pensiero che
non sarebbe venuto in capo a due su mille innamorati nel mio caso. Oh
che dico?--Darle una speranza o un addio con voce dignitosa, con sì
faticosa costanza, con sì nobile poesia! Mi accingerei con fiducia
e lavorerei anche cinque ore al giorno, per un anno, se sapessi.... Ma
in queste incertezze!

Piuttosto che vivere così combattuto desidero morire e desidero che
queste mie memorie tutte siano lette da mio padre e da mia madre.

Tarsis e Ricci sono morti giovani. Oh che darebbero i loro genitori
per farli rivivere? E come tutto diventa santo dopo la nostra
morte!--E i miei desideri, che sono santissimi ora, diverrebbero una
religione di memorie sulla mia tomba. O mia vergine, come io ho
sentito l'amore puro, nobile, felice! Oh! come io ho bisogno di Iddio.

_10 gennaio._--Quali incertezze sempre! Ieri sera ero deciso a mandarle
il _Tintoretto_--quel _Tintoretto_ che ho tanto amato!--E come mi spaventa
il giudizio del _mondo_!

Ah potessi essere egoista e avere i mezzi di esserlo con i fatti!
Essere egoista, osceno, pigro, poltrone, ghiotto, e consumare il
cervello coi vizî, non coi pensieri nobili--Ma che faccio
infine?--Ho riletto il mio _Tintoretto_ e sono mestissimo! Quante
illusioni e quanto amore!

_11 gennaio._--Come mi spaventa il _mondo!_ E chi è questo mondo?... Oh
come sto meglio nella solitudine di Limbiate! dove non sento nemmeno
questi nomi!? E il _mondo_ dopo aver ciarlato una settimana, s'annoia, e
cerca un nuovo pettegolezzo: e ad esso si dovrebbe sacrificare tutta
una vita?--Ma perchè questi pensieri, con tanta evidenza?--O Lidia,
come stanotte ho vegliato penosamente! Ho pensato al mio avvenire.
Sono stanco di studiare, così, senza uno scopo. Eppure quando a
teatro sento qualche bella cosa, santa, morale, scritta coll'anima e
col cuore, mi dico:--Mi sento anch'io chiamato _a fare del bene?_ Sì,
e bene!--Bisogna combattere la nuova letteratura da postribolo. Ho
pensato a fare pratica di notaio o di avvocato, e fare gli esami. Ma
che carriera sarebbe per me?--Oh che tormento! E che cosa faccio?--Da
un poco di giorni penso seriamente di parlare al Parravicini e farmi
da lui occupare nella Congregazione di Carità. Almeno fare un po'
di bene! giacchè non posso essere egoista!--Che faccio? Che
farò?--Studio, studio, mi occupo a leggere operone e non elzevir,
riconduco il mio pensiero al grande, al bello, al dignitoso. Ma mi
annoio anche! Non ho una parola gentile che mi aiuti!

_13 gennaio._--Mio Dio! come veglio penosamente la notte! Perchè
questo strazio? Amo quella vergine, e _sento la vita_ de' miei
ventisette anni, vita ribollente, immensa, condensata, perchè non
l'ho mai sfogata colle tremende voluttà della carne.--Amo! e devo
reprimere _tutto in me_: e sperare, sperare vagamente, sperare.... È
ben tristo quello che io penso.

No, no, non mi sento creato per questa vita nulla che conduco! no, no,
no, non mi seducono le scettiche prospettive di una vita negli anni
venturi... no, no!

Io amo come Dio vuole che alla mia età si ami. Io amo come la
Natura vuole che con un viscere che si chiama cuore l'uomo ami.

Una donna! un bambino!--Ecco il sogno del poeta, del credente,
dell'artista, del felice, dell'infelice... dell'uomo!--Che importa a
me della filosofia, di Iddio!--ammetto i bisogni della terra, e di
questi bisogni faccio un tesoro di religione, una filosofia contro cui
non si può lottare, un Dio che non è in cielo nè in chiesa,
ma è un Dio--Amore!

* * *

--No, non sono pazzo: sono infelice, giacchè lo studio accresce i
miei dolori, mi crea sempre nuove speranze che diventano sempre nuove
illusioni e poi sempre nuove delusioni, giacchè non posso essere
egoista come i giovani ricchi e eleganti, giacchè, coll'anima mia
d'amante e col mio cuore di poeta, non potrò fare mai una carriera
seria,--voglio provare a fare il bene colla mano, voglio entrare nella
Congregazione di Carità, e vedere le vere miserie della folla, e
soccorrerle forse anche co' miei denari! Sì, il _bene_!

Io mi tormento; ma ecco sento una calma, una fiducia, una
speranza;--mi inginocchio....

Mio Dio! perchè mi arrabbatto tanto? Tu forse hai già preparato
tutto il mio avvenire nella Tua Bontà; mi vedesti! mi vedi! mi
vedrai! Io so nulla e Tu sai tutto! Io bestemmio e Tu sei e mi
perdoni! O santa fiducia! Chi sa le tua fila, o Dio? E mia madre Ti
prega? Che Ti dice? E Tu la ascolti? Ed io sarò felice? O Dio, io
leggo il tuo Vangelo e sento che se i miei pensieri non si conformano
alle sciocchezze del mondo, si accordano co' tuoi precetti santi,--io
sento la gioia di amare coll'anima e d'essere casto!--E, se vuoi,
fammi pure morire... morire casto, tranquillo, pensando al mio
cimitero di Limbiate, alle mie soavi speranze di vita che mi
lusingavano un giorno, e alla placida certezza di riposo che avrò
sotterra: Oh io mi sento buono!--Sai, ho sempre pensato a Lidia
davanti a quel cimitero: era un cattivo augurio o un buon augurio? Ma
che volevo? che voglio? La pace!

Come ho vergogna, in faccia a mio padre, di non avere una carriera
seria!

La mia vita in sei anni fu eterna e brevissima, felicissima e
infelicissima: speranze, scoraggiamenti, voli, cadute a precipizio:
certezze, febbri, languori, tormenti... chi può dire? oblio, anche
oblio! deliri, pazzie nei sogni, nei desideri: e santa castità, e
santìssimi, rossori! O Dio! ma _un solo il voto_: quando, febbrile,
crudele, briaco, promettevo a me stesso di gettarmi fra le braccia di
una femmina qualunque, e di raccontarle i miei dolori, per farmi
almeno deridere da lei, per istigarmi, per istigarla, quando... No!
no! «Avrai dei figli da guardare negli occhi» mi diceva una voce
segreta... e sentivo che ancora al mondo c'è mia madre, e forse
lei, la mia vergine!

Rileggo la lettera di Lidia! «_Aimons! c'est le bonheur suprème que
l'amour et j'ai aimé plusieurs fois dans ma vie avec une telle
exaltation, un tel transport que j'aurais peut-étre été
capable de tout sacrifier pour des personnes qui maintenant m'ont
déjà oubliées!--J'ai senti en moi un besoin profond d'amour
et de sacrifice! oh combien j'ai souffert quelquefois de n'avoir
reçu une nature ardente!_»

* * *

Torno adesso dalla Pretura. Mio Dio! Come mi spaventa il mondo reale,
il mondo della prosa, dei bisogni, degli affari.--E mi chiudo nel mio
studiolo: apro il mobiletto.... Oh mondo delle mie illusioni, della
mia poesia, del mio cuore! Come mi sento felice!

Leggo la mia lettera a Lidia! Non è un affare, no, ma per me decide
della vita nel futuro! Come sono contento d'avere espresso le mie
idee, i miei cari tormenti.--Rileggerà Ella la mia lettera? E
penserà?--_Et croyez-moi bien je n'oublierai jamais ce que vous avez
été et ce que vous vouliez être pour moi!_


_21 gennajo._--Cinque anni fa, come oggi, mi posi a letto. Se fossi
morto?... Io sarei in pace, ma Ella non avrebbe avuto _Lagrime e
Sorrisi_, e la mia lettera.... Mi conosce? Penserà a me? Al male che
mi ha fatto?


_25 gennajo._--Conosco pochissimi romanzi: e li ho letti assai tardi: a
venticinque e ventisei anni non hanno lasciato traccia su me, li
leggevo, come li avrebbe letti un presidente di Tribunale. Leggendo
Young, Foscolo, Leopardi, Goëthe, Byron, Heine, Rousseau... dicevo
a me stesso «che teste bizzarre!» e pensavo: è più utile un
ingegnere che un poeta pazzo. Oh lo dico francamente: le letture non
hanno esercitato nessuna influenza su me.--Leggevo per esercizio di
lingua francese, inglese e tedesca.--Se un autore ha avuto influenza
su me è Aleardi, e, vedete, Aleardi non può far male!

Deciditi, sciocco! Chiudi in una busta tutte queste memorie: suggella,
come si chiude una pietra di tomba; e non pensare più al passato:
gettati nella vita! già troppi anni sono passati e fra pochi altri
incomincerai ad esser già vecchio! Nella vita!--Oh se potessi
viaggiare! E perchè? Chi mi strapperebbe il cuore e il cervello?
L'orgia? la femmina?... Ah! alcune volte lo dico a Dio: se rinascessi,
fammi nascere donnaccia volgare e venduta, e fammi conoscere tutte le
crudeltà della libidine!--Potessi gettarmi nella vita!

Si ha tanta affezione ai propri dolori, alle proprie illusioni, alle
speranze, quando una vergine nel giorno del sacrificio immenso ci
dice: Conosco che il nostro affetto è puro, è nobile--ho per voi
una confidenza di sorella--non dimenticherò mai quello che voi
siete stato e quello che volevate essere per me.--E sono dolori,
illusioni, speranze che hanno consacrato sei anni _e sei anni della
giovinezza_, sei anni dai ventidue ai ventotto anni.--Ah se sul cuore
si potesse porre una pietra come su una tomba! Ma anche pei morti si
spera la resurrezione!


_25 gennajo._--Oh mie memorie di Limbiate, come mi tornate davanti alla
mente, carissime e meste! E voi tranquille pinete, tranquillissime
mura, squallide croci, mi ricordate il mondo della mia ardentissima
vita. Come vi amo! Come vorrei rivedervi una giornata triste! Oh
memorie dolci e piene di speranze, della mia malattia e della mia
convalescenza! Il piccolo portafogli l'avevo sotto il mio guanciale:
quando i miei parenti erano a pranzo, mi tiravo su a sedere sul letto,
prendevo il portafogli, lo aprivo, leggevo il tuo nome e lo baciavo. E
i miei libri francesi? _Raphael et les confidences_? E il primo
lampeggiarmi alla mente l'idea che della vita del Tintoretto si
potesse fare un dramma, e con quel dramma potessi conquistare un nome,
e col nome, un avvenire? E il piacere di trovarmi ingentilito dalla
malattia? E la soddisfazione di dire: «Mia madre sa che ho sofferto?»
E le trepidazioni, le incertezze?


_26 gennajo._ È una domenica calduccia, sciroccale, umida. Apro la
finestra.--Ho trovato uno schizzo dal vero fatto a Limbiate
probabilmente nel 1863 o 1864: lo amo!


_31 gennajo._--Il tempo si è fatto triste. È inverno.

Quali incertezze!

Se fosse qui vicino ardirei parlarle? No: sono troppo villano di
corpo.

Compero armi antiche: getto denaro e vorrei gettarne di più. Ed
Ella lavora per guadagnare.

_2 febbrajo._--Jeri sera ho offeso, villanamente offeso, un mio amico.
Lidia, perdonami! Ma così contraffatto, e incerto come sono io, il
mio carattere può essere riflessivo e paziente? E i miei nervi?

_Sera_.--Sono tranquillo, anzi sono lieto. Sono tre anni di vita
riassunti in quei drammi e in quelle epigrafi (1874-75-77). E che? Non
temo? Dio mi vede nell'anima.

_7 febbrajo._--«_Je remercie l'ami de se souvenir de moi et l'auteur
de me juger digne de l'apprécier: à tous deux je serre affectueusement
la main._(7)»

O Tintoretto, quanto mi costi! O Byron, o Goëthe, per leggervi ho
speso un anno di fatiche e di illusioni e di delusioni!--L'amico si
ricorderà sempre di voi.

Questo amico che ha votato alla solitudine e allo studio gli anni
più belli e più ardenti della sua giovinezza, colla sola gentile
confidenza in Dio che un'anima di sorella ci poteva essere, la quale
conoscesse le religioni del suo affetto e le febbri del suo povero
ingegno, questo amico, qualunque sieno le circostanze della sua vita e
della Vostra, vi ricorderà sempre. E vi prego di una cosa sola:--in
quei giorni almeno in cui tutti per abitudine mandano un loro
biglietto di visita ai conoscenti, per un mesto pensiero Voi non
vogliate essergli avara del Vostro, perchè almeno egli sappia che
Voi siete ancora a questo mondo e dove siete. Se poi verrà il
giorno in cui al vostro biglietto vedesse aggiunto un altro, l'amico
dirà:--Che essi siano felici!--e state sicuri, la sua preghiera a
Dio sarà senza rossore, senza rimorso, senza un pensiero mondano,
perchè incomincierà coi vostri nomi e finirà coll'augurio che
si fa sulla culla degli innocenti (8 febbrajo 1879).

_11 febbrajo._--Povero illuso! Aspetto ancora una lettera!



_Comme une étoile dans la nuit!_


_14 febbrajo._--Una lettera di Lidia! Che spavento! Ella è infelice e
si confida in me. Vuole consolazioni da me?

Che le dirò? Che posso fare?

È giunto il momento che in sei anni ho sospirato.

Essa è libera, è infelice,--è povera,--e si volge a me. Ed
io?

Ella mi ama! sarà mia?

_Etant pauvre il faut que je travaille_(8).

Lidia, l'anno scorso, in febbrajo, io ti credevo sposa a un altro.
Quest'anno in febbraio, Tu ricorri a me per avere conforti! O Lidia,
come io saprei farti dimenticare quello che hai sofferto! Io che ho
sofferto sei anni! e soffrivo quando tu non sapevi di me!

Forse Dio ha già stabilito tutto. L'ho sempre sentita questa
profonda confidenza, anche quando ti credevo sposa a un altro.--Lidia,
sei mia, sarai mia. Mi voto a te.

Se Ella venisse a Milano?

O mia Lidia, sono felice! Potessi vederti qui, nella mia casa!--Ti
scriverò, come si scrive a una sorella.--È destino, no, è
volere d'Iddio che noi abbiamo a trovarci, fosse pure fra dieci, fra
venti anni! Ma ella è povera.... e vivrà? O Dio, sento una
profonda fede in Te, l'ho sempre sentita anche nella disperazione, ho
fede! e Tu mi dai la speranza!

Povera ragazza! Sono io un infame, che la illusi? No: Dio mi vede.
È Dio che ha disposto che io debba essere a Lei un fratello, un
consolatore. Oh come mi sono meritato questo affetto di sorella!

«_Etant pauvre il faut que je travaille._» Ecco perchè Ti sposerei:
per lavorare insieme, per darti gli agi di una discreta posizione:
ecco perchè Ti vorrei mia...


_16, domenica._---Ho letto un po' dell'_Ugo_. La mia _vita_ la sfogavo in
quei tormenti drammatici! Chi può capire la potenza di certe mie
pagine?


_17 febbrajo._--Come sono felice! Io amo e sono amato! O Lidia, l'anno
scorso, di questi giorni, chi me lo avrebbe detto? Ma _sentivo_ che
l'anime nostre dovevano incontrarsi!

Jeri ho adorato la Madonna della nostra Pinacoteca fingendo ch'Ella fosse
con me, con me felice, sorella, vergine!--Come sono felice! Sento di
vivere! Sì, e parlo in casa, e fuori di casa, pel primo, mi intrattengo
coi conoscenti, parlo, rido, non abbasso gli occhi.... Vivo! o Lidia, da
quella prima sera che ti vidi a Limbiate ad oggi come ti ho sempre amato!
ma quale scoraggiamento nel pensare «Mi amerà lei? o almeno si ricorderà
di me?» Forse Ti ero indifferente!--Ma in questi giorni mi ami! mi ami!

O mamma, come sono felice!

Come Ti amo! Ma ricomincia il tormento:--Come farmi una strada?--come
lavorare a prepararmi un avvenire?

Io sono poeta!


_18 martedì._--Jeri sera come fui melanconico e scoraggiato! Come
farmi una strada?


_19 febbrajo._--_Etant pauvre il faut que je travaille._--Come mi
addolorano queste parole! In casa si discorre di comperare carrozze.
In sei anni io credo che ventiquattro mila lire si sono spese per
questo inutile lusso. E tu lavori!

Jeri sono stato a passeggiare verso Limbiate, per sentirmi felice, per
dire--là, là, un giorno ci troveremo e Ti condurrò in quei
luoghi ove io ho pensato a Te e ho pianto!--Si vedevano i bei monti!
Entrai nel cimitero di Porta Comasina per dedicare un mesto pensiero
alle mie sorelle.

Come sentii la vita! Come pensai a Te! Come Ti volli mia, al mio
braccio sorridente fra le croci, melanconica per quanto hai sofferto,
fidente pel bene che Ti farò io!--Dio ci ha destinati!

Jeri avevo pensato tanto! E a sera un papà mi fa mille complimenti,
per introdurmi nel palco di sua figlia. Combinazione! in quel palco,
tante sere fa, sedeva una ragazza che somigliava a Lidia, ed io,
pensando a Lidia, ho guardato con molta insistenza. La figlia del
signor F. si credette d'essere l'oggetto di tanta mia attenzione, e
cominciò da quella sera a guardarmi.--Oh come sarebbe felice mia
madre!

* * *

Lidia, sono venuti per voi i giorni dello sconforto! cara, l'anima mia
vi trova e vi dice--Coraggio!--l'anima sicura è ardente in Dio.
È dovere il mio, e l'adempio in nome di quanto di più puro avete
nella memoria della vostra vita, di quanto di più sacro sentite in
fondo al cuore, fra i tesori della vostra fede religiosa, che è la
mia. Un anno fa, voi mi avete scritto che credevate all'affetto
nobile, puro, bello, quand'io mi sentivo tanto felice di sapervi
felicissima: in quest'ora in cui ringrazio Dio che la mia povera voce
possa giungere a un'anima sconsolata, in questa ora vi dico che Voi
non avevate offerta la carità del vostro affetto ad un floscio che
volesse raccosciarsi sui gradini del vostro altare e che sempre
volesse tendervi la mano elemosinando l'obolo della vostra
contentezza. Voi avete avuto allora e avete oggi la confidenza di una
sorella: ed io, state sicura, so quale immenso e delicatissimo dovere
mi dia questa massima parentela di _rispetto_ e di _affezione_. Voi
credete? Io ho avuto due sorelle, ma esse mi sono morte assai presto,
bambine ancora: ma ancora le sento intorno a me, cresciute con me,
pietose di me e le invoco, e le voglio, e ne bacio i biondi capegli, e
le amo, e arrossisco di non essere nè bello nè gentile, ma le
amo, tremando e inginocchiandomi, le amo! Ed esse mi dicono:--Siamo
deboli, siamo fiori, siamo profumi, siamo memorie, siamo angioli!
Siamo sorelle, siamo vergini!--Voi credete! Queste parole per me sono
la più possente religione, quella che non si insegna dalle madri
nelle nostre preghiere da fanciulli, quella che non ho trovato davanti
agli altari della indulgenza, quella che non ho cercato alla scienza e
quella che, vizioso e scettico e rachitico, il mondo irride. Una
religione celata in fondo all'anima, colle più tremende battaglie
alla materia, colle più arcane gioie dello spirito, piena di
misteri, di fede, di speranza, senza esame, senza egoismo, colla gran
voce della natura che ci vuole buoni, con Iddio che ci vuole infelici!

Ed è in nome di questa religione che non può offender voi nella
vostra memoria nè nelle vostre speranze, ch'io vi dico:--Sorella,
coraggio! Se le mie parole, disperse alla folla, mi tormentavano
tanto, se le mie fatiche non aprirono mai una via, se le mie speranze
d'Arte sono cadute, Dio è stato buono, ha voluto darmi le delusioni
e i dolori, per darmi un segno della religione del sentimento, ha
voluto togliermi ogni coraggio, per darmi poi la fede perchè io
ripetessi a un'anima queste parole e con sicurezza.--Coraggio!---Se mi
apparecchia un avvenire sa che c'è quest'anima a benedirmi, a
pregare per me. E a Dio mi sono sempre confidato così:--Ella non mi
ha fatto male e desiderando sempre che Tu la rendessi felice, io non
mi sentivo mai egoista! Ella fu un gentile ideale che mi rifulse nella
mestizia di una vita arida e senza scopo: mi accompagnò nella
solitudine e negli studi: forse non dimenticò.... Se la mia voce
può farvi del bene, Lidia, se questa parola _coraggio_ non vi suona
banale da me, se l'espandervi vi sgroppa l'affanno dei giorni tristi,
ricordatevi che non siete sola sulla terra, che io vi pongo tra le
visioni più pure delle mie ore tranquille, e ardenti, che _io credo
in Dio e in Voi_, che anche le vostre lagrime mi sono care, ch'io credo
in Dio ed amo l'amoroso ideale della dolcissima Maria.

E mi dico vostro affezionatissimo fratello.

                                     15 febbraio 1879.


_19 febbraio._--Amo Lei! Lei! Tutta la mia giornata è per Lei! Studio
per Lei, di giorno: studio per Lei, di sera: penso a Lei, di notte!
Penso ch'Ella deve essere felice!

Ed oggi come sono felice. Dio, credo in Te! Dio, non far morire me,
non far morire Lei! Lascia che ci amiamo come fratello e sorella: ci
benedici: e ci compensa di quello che abbiamo sofferto, Ella nelle
delusioni, io nell'amare solo Lei!

Oh come sono felice! Come vorrei che mia madre vedesse queste mie
confidenze, per benedirci!

Oh quanto amore! E se morissi? Ho visto ieri le ossa dei morti! Chi
distingue le ossa di chi ha amato?--Finchè siamo vivi e giovani e
puri, Dio è in noi e Dio è l'amore!

Perchè si vive?

Leggo un po' del mio _Tintoretto_! Questa copia, gualcita, sporca, su
cui ho scritto tante volte per epigrafe i versi di Byron e quelli di
Goethe, questa copia l'ho portata con me a Venezia nel 1876 e volevo
abbandonarla sulla lapide del Tintoretto. C'era insieme un mio amico,
e non ho osato. Oh come ho amato vedendo la pietra del pittore e
pensando a Te!--A Verona ero solo: volli andare a Mantova per vedere
la città dove Tu eri: alla stazione di Verona comperai dei fiori,
li posi nel volumetto del mio _Tintoretto_ a pag. 70 e 71,(9) dove ci
sono i pensieri che più mi facevano ricordare di Te, e volevo
abbandonare e il dramma e i fiori e il mio pensiero al Mincio che va e
va, all'ignoto, a Te.... Mi spaventai, pensando che quella copia
potesse essere trovata e compromettere Te! vedi, a quali
fantasticaggini da bambino conduce l'amore! Passai dinanzi al palazzo
G. pauroso, religioso, raccolto, con amorosissimi pensieri: era
illuminato dal sole: certe finestre aperte: nella corte si stava
attaccando una carrozza.... Passai, ripassai, pieno di paure, e di
memorie e di speranze.... Oh sì! Dio, li hai calcolati quei
momenti, perchè ora mi fai tanto felice!

* * *

Ma l'avvenire! l'avvenire come me lo preparo? Con che lavoro? con che
via?


_20 febbraio._--È venuta un'ora di sconforto!--Da alcuni giorni sono
al Museo Archeologico, colla _pretesa_ di studiare le armi, ma veramente
per farmi un po' conoscere dall'_alta camorra artistica e municipale_ e
forse mettermi a fare qualcosa. Passo delle ore là, ma adoro le
Madonne e penso a te, o Lidia! Che importa a me delle armi rugginose?
Quello che mi tormenta è la _vita_! Soffri tu? Sei nervoso? Sei
ardente? È vero amore il mio? Perchè sono tanto infelice?


_21 febbraio._--Come sono felice di amarti! Ma perchè sono
incatenato?--Sento la poesia: ma oh quante volte penso al positivo, e
faccio dei calcoli. Mio padre è ricco: scriverò un dramma per
farmi una posizione?! È passato il tempo di queste ingenuità:
non è passato l'amore.


_23 febbraio._--Alcune volte come mi spavento! Oh potessimo esser
felici! Noi due, noi due soli, e una bambina, noi, tranquilli,
indifferenti del mondo, religiosi, artisti, casti, felici!

I sogni mi stancano con maliarde voluttà: oggi mi sento la testa
grave.


_24 febbraio._--Ho abbozzato una lettera per Lidia. Trepido e tremo....
Sono io geloso?


_25 febbraio._--Come mi spavento in mezzo alla gente, pensando alle mie
segrete speranze! Sciocco, ma quella gente moverebbe un dito per
alleviarti un dolore? E Tu giovane, scettico e freddo e pieno di _posa_,
sai Tu come mi agghiacci l'anima col tuo cinismo scientifico? Sei
artista tu?--Ami tu?

O Lidia, che giornata triste! Nevica ed è freddo. Guardo il tuo
ritratto e penso.--Quanto ho sofferto dalla sera che io ti vidi,
freddolosa, triste, avvolta nello scialle ad oggi! Io ho sofferto per
amore! Oh come riderebbero i miei amici!


_26 febbraio._--Dio, mi spavento! Sono io sicuro dell'anima mia?


_1.° marzo._--Oggi sono felice. Da due giorni ero nervoso e
spaventato. Ho letto ieri in un libro del Michelet: «Due persone che
si amano spendono assai meno di uno solo che vuol dimenticare.»--E
che idee nobili, pratiche, scientifiche! Quelle pagine mi hanno
consolato.--È sabbato grasso. Ieri a sera non sono andato al
veglione della Scala: sarebbe stato un insulto a Lei che soffre.

Oggi sono felice!


_2 marzo._--Sono freddoloso e sonnolento. Sono stato alle feste del
Giardino. Ho avuto vicino, vicinissimo a me una sposina dalle spalle,
dal seno nudo, ridente, allegra. Ho finito di dire a me stesso:--È
mia moglie? Posso amarla?--La trovai gentile, perchè donna, la
guardai, mi sentii buono e onesto, ma... potrei dimenticarti, o Lidia?
No!

Ieri il mio tormento fu grande. I pensieri mi bollivano nella testa,
si che credevo di impazzire. Leggo oggi Michelet.--Poesia!


_6 marzo._--Perchè non una riga? Perchè mi tormento così?--Sono
nervoso e aspetto.--Come la vita è breve per il mio amore! Oh come
aspetto una tua riga! Tu tardi, penso che Tu scrivi una lunghissima
lettera per dirmi tutta la Tua vita. Sei ammalata? Al _Club_ non ardisco
guardare la _Gazzetta di Venezia_, temo di trovare il tuo nome fra i
morti.


_7, venerdì_.--Perchè non una riga? Oh abbiate cuore!


_8, sabbato._--Abbiate cuore!--È primavera: senti anche Tu l'amore
della natura?--Che tristezza mi assale in questo momento! Lidia, io ho
turbato l'anima tua, e che cosa posso io fare per Te?


_10 marzo._--Oh! miei genitori, se voi provaste ad avere l'anima mia!

Ai tremendi bisogni di un corpo nervoso, al tormentoso bollire di
pensieri nel cervello, alla muraglia di ghiaccio che mi separa dal mio
avvenire, come resistere? Come resistetti? Non posso occuparmi, no: la
mia anima _non può_ volgersi ad altri pensieri; che importa a me di
tutto ciò che è diverso dal mio amore? Oh se gonfio di vita,
avessi almeno lo sfogo delle libidini: se pieno di sentimento potessi
almeno prorompere in una poesia: se così tormentato potessi almeno
avere la libertà di stordirmi viaggiando!--È primavera! Sono io
un pazzo? Lo fossi, sì, lo fossi! sarei felice!--Ricordo che ho
vissuto con intimità con due donne a V... e ad Oropa. Come ero
contento! Come prevenivo i loro minimi desideri! Come mi sentivo bene
avendo vicino a me una donna! E se questa donna fosse stata quella che
ho sognato! E discorrevo del mio avvenire, dell'amore, della famiglia,
dei figli, di Dio, e delle _toilettes_! Così la vita. Ma ero
contento, e presentivo la felicità di essere con Lei.

Sciocco! ieri lessi un libro di scienza. Dio non c'è: il fato è
tutto: l'ideale nulla.--Dunque io sono un povero sciocco!

Padre mio, Ti sei tormentato tu pensando: Dio c'è, o non c'è?

La scienza nuova, le nuove lettere mi spaventano: non leggo niente per
non turbarmi, e se qualcosa mi capita sotto gli occhi, sento lo
squallore del materialismo e dell'ateismo. Sono un fanciullo, non sono
un uomo: non oso pensare, non oso leggere: sto bene nelle mie dolci
illusioni dell'ideale e di Dio. L'archeologia mi occupa tanto: cerco
libriccini, leggo, annoto, confronto, vorrei farmi conoscere e entrare
in qualche commissione, ma quante volte, quando splende il sole e le
pagine sono gialle e rose dai tarli, quando la primavera regna e
rifulge ed anima e suscita e tormenta, e la carta morta sta morta,
quando una donna, una _sposina_ entra a visitare la Biblioteca, una
sposina con un mazzetto di viole e l'oblato sta lì giallo su un
mucchio di libri a studiare le teorie della poesia rettorica o di Dio
scolastico, quando da una finestra col sole entra il suono di un
pianoforte ed io mi sento il cuore gonfio,--quante volte dico:--Al
diavolo, o carte vecchie!

Da un mese vado in uno studio da pittore. M... sta facendo il ritratto
di una sposina, morta st'anno. Nello studio vi sono i suoi abiti, i
suoi pizzi, i suoi nastri. Un giorno li toccai con riverenza, un altro
senza che io tanto ci pensassi, chinai la testa su uno di quegli abiti
e lo baciai. Amo quella morta, ed è bruttina: ma era donna!

E nei sogni, nei sogni mi viene la femmina nuda, viscida, spossata, o
ardente, istigatrice, bestiale! E sento che anch'io ero nato per
provare l'orgia e l'abbrutimenio!

Quando potrò io abbruciare tutte queste carte e distruggere il mio
passato e amare una fanciulla che abbia una buona dote?

Ora non ho alcuna passione. «_Etant pauvre il faut que je travaille._»
Queste parole mi strinsero il cuore: Ella lavora per guadagnare il
denaro; io lo getto in ferravecchi. Spesi 160 franchi per un elmo di
ferro! Quanto deve lavorare Ella per avere 160 franchi? Queste mie
cose antiche mi danno un rimorso. Col denaro speso potevo soccorrere
qualche povera famiglia o qualche povera fanciulla che lavora!

È primavera!--Mi ami Tu, o mia sorella? E taci? E soffri? Pensi per
me? Soffri per me?--La viltà dell'egoismo mi persuade il suicidio:
ma, no! no! Ti renderei troppo infelice!

Mio Dio! fammi vivere, vivere anche nel massimo dolore, vivere nella
massima gioia, ma _vivere_! Questa stupida monotonia di giorni non è
vita per l'anima mia e per i miei ventisette anni!

L'altr'ieri ho passato la _Gazzetta di Venezia_, dal 14 febbraio ai
primi di marzo, guardando i nomi dei morti.... Mio Dio, quale
spaventoso presentimento! Non osavo, tremavo: ridevo, alzavo le spalle
e me ne andavo... Non ho trovato N.° del 23 e 24 febbraio. Che
dubbio! Ma perchè...?

I miei sentimenti io li intono solo alla solitudine di Limbiate, alle
tristezze della mia malattia, al deserto di questo mio studio, ma come
sono stonati col mondo!--Ecco il mio spavento!

Sciocco! e se tutto fosse un sogno?


_11 marzo._--Dopo pranzo. È la terza sera che salgo qui nel mio
studio e mi trovo solo... Domani andrò a Limbiate. Che ora triste!
È l'ora in cui si desidera di essere belli, buoni e felici!


_14 marzo._--Torno adesso da Limbiate, e trovo una tua lettera, o Lidia.
A Limbiate quanti pensieri! Non li ho scritti, ma li scriverò per
Te!... Ho qui la Tua lettera: ma non voglio aprirla. Sono felice! che
mi dirai? Non so, ma sono felice; mi sento in orgasmo... Primo
pensiero: vorrei andare al Santuario di Saronno, e leggere la tua
lettera, contemplando gli angioli (cioè quei due angioli, che
conosco tanto) del Gaudenzio Ferrari. Ma come sono brutto e villano
io!--Stanotte ho sognato di Te: nei sogni mi pare di esser bello
perchè non ho corpo!

Domani scriverò. Oggi ho letto la Tua lettera, ma la folla, il
sole, le ciarle mi hanno stordito. La rilessi ancora e la rileggo
«_Qu'aviendra-t-il de moi?_» O mia madre! Spero di morire! E tu devi
pensare a Lei come ad una figlia: lo devi perchè il mio amore è
santo.--Sono in orgasmo. È una settimana ch'Ella ha scritto la
lettera. Sono felice e sento che Dio mi vede.

Dio? ed io credo nell'anima? E Tu?

Sì! sì, siamo pazzi, ma consoláti, ma poeti!


_15 marzo 1879._--Ho riveduta la A., quella ragazzina che mi fece tanto
bene! Nell'agosto del 1877 forse mi sarei ucciso. Da due giorni ero in
uno stato di abbattimento spaventoso. Trovai quella bambina, le diedi
dei soldi, la baciai, la accarezzai, la tenni con me, e una voce di
dentro al cuore mi disse:--Somiglia alla bimba che tu avrai dalla tua
Lidia!--Fui tranquillo, felice, guarito. La realtà era tremenda per
me, il fatto era fatto: eppure quella illusione mi salvò, perchè
illusione gentile.

Ho una lontana speranza di poter scrivere qualche libro. Questo amore
ha acuito le mie facoltà, e forse, cessato l'orgasmo, fra un po'
d'anni potrò scrivere: e sento che scriverò come Tarchetti, con
analisi, con cuore, coll'ideale. Ma che riuscita ha avuto Tarchetti?
Che carriera ha fatto? Grazie tanto. Oh e il pubblico? Il pubblico? Il
pubblico che legge l'anima nostra, e non la capisce, ci sprezza e fa
il pettegolezzo!--No, meglio queste _pletore_, queste abbondanze di vita
che fanno morire, che quegli sfoghi artistici che fanno sogghignare
gli uomini d'esperienza panciuti e i giovinetti che hanno la mantenuta
e le femmine eleganti che, oltre il francese, sanno leggere
l'italiano! E gli amici? E i nemici?

Insomma i miei parenti non possono vedere ch'io sono stanco e
sfiduciato.--Non mi divertono i cavalli, le feste, il teatro, la
società, il giuoco, gli abiti, i pranzi... E solo discorro di vita
e di viaggi, e solo mi chiudo in me, e in casa, Non ho nulla. No, Tu,
mamma, hai sofferto, ma non avevi e non hai la mia anima! ma hai
sofferto, sono certo: e Tu suonavi il pianoforte, timida e senza
capire la musica, come una bambina. È un ricordo triste!

Guardo il Tuo ritratto, o Lidia! Ah mi costi _cinque anni di vita_! Ed
è impossibile che io rinunci al sogno di una felicità che mi
sarei meritata con tanti dolori! Sì, dolori! ed i peggiori
dolori--quelli repressi in una povera anima e custoditi e santificati
dalla solitudine e dal pensiero di Dio!

In nome di questi delirii, di queste baldanze, di questi
scoraggiamenti, in nome dall'_Anima_ che è trasfusa in queste povere
carte, in nome di Dio, mamma, ti prego, ama la mia Lidia, provvedi a
lei, tienla con te, sorreggila, amala più che se fosse la tua Maria
o la tua Sofia! Questa è sorella di tuo figlio! Sorella d'anima,
è sorella castissima in Dio!

* * *

Oggi non posso studiare. Il _Don Giovanni_ di Byron mi annoia, mi
indispettisce. Che umorismo scettico e volgare! Penso e non penso:
sono inquieto: vorrei fare un viaggio, se potessi. Ma che vuoi? Non
posso fare cosa diversa dallo stare al tavolo. Coi divertimenti mi
pare di perdere tempo, un tempo sì prezioso! Oh se potessi lavorare
e guadagnare, o sperare una posizione!

--O Dio! Che pensieri! Chissà quanti dolori avrò ancora! Gli
ostacoli alla sua felicità sono temporanei forse: forse si
sposerà; ed io avrò l'anima spezzata una seconda volta e senza
rimedio!--Quanti dolori avrò ancora! Perchè tu non mi hai detto
tutto!

Ah bisogna confessare che queste incertezze sono tormenti orrendi!


_16 marzo._--Ieri fui al cimitero di Porta Magenta e vidi la esumazione
dei tredici scheletri degli appiccati nel 6 febbraio 53. Mio Dio, che
orrore! E quando verrà il giorno in cui anch'io potrò sfogare l'anima mia
nelle grandiose emozioni delle battaglie? Oh venga presto quel giorno!
Sì, laverei la macchia che ho sull'anima:--l'essermi lasciato persuadere
da mio padre, quando potevo e dovevo fare il soldato. Come mi annoiano e
mi ripugnano e mi avviliscono le sciocchezze che dico quando sono colla
gente! Eppure bisogna fare così. Alla Società Patriottica si sta
preparando una pagliacciata: io fui pregato, con grandi promesse di
fortuna, fui lodato, fui conosciuto... Chi volle conoscermi pel mio
_Ugo_? Se mi prestassi alla mascherata certo farei conoscenze e farei dei
passi, più che con due anni di tentativi drammatici, due di
scoraggiamenti fatali, e due di studi di lingue! Ma il divertimento mi
ripugna! Tu soffri, o Lidia, e pensi a me, io Ti parlo di Dio e di
solitudine, e Tu hai paura del Tuo avvenire: ed io divertirò la
gente?--No: per chi leggerà queste mie pagine voglio lasciare un ricordo,
un ricordo dignitoso, severo, casto, gentile del mio amore. Che importa a
me del mondo? E che importerà a voi del mondo quando conoscerete i
tormenti e le incertezze dell'anima mia!

Quando sento suonare gli inni di Mameli e le canzoni del 48 mi si
riempie il cuore! Oh sento l'oblio di tutto! Perchè non mi fu dato
di sfogare nelle tremende emozioni della Patria le esuberanze dei mio
cuore?

Sono io così sciocco? Byron che non era sciocco amava ed amò
sempre miss Chaworth; ed ella non lo amava. Come era sciocco Byron,
non è vero, o Papà?

Ecco un'idea poetica che mi è cascata dalla penna! Ecco, direte che
io sono esaltato dalle letture!--Esaltato? Scusate, sono abbassato. E
se cito Byron gli è perchè era un uomo che sentiva ed io odio la
folla dei merciai, dei rachitici, degli accidiosi, degli spudorati, la
folla che oblia tutto!--Obliare?--Che importa? Fino alla morte avere
l'anima gentile e Dio...

Ecco un tormento ineffabile che voi non capirete mai! Io dico di
sentire fiducia in Dio, di sperare in lui, dico ch'egli ha fisso il
mio avvenire, e prego melanconicamente e sorrido... Oh ma che faccio
per il mio avvenire?

La scienza seria mi dice:--Dio non c'è: il tuo ideale è
bambinesco; l'uomo si prepari il suo avvenire, l'uomo combatta, l'uomo
soffra, l'uomo sia di questa terra! Oh che faccio per il mio avvenire?
Se la verità è questa, e se è vero che la vita passa sì
presto, e se è vero che il mondo è una commedia, che sono io e
perchè mi tormento?


_18 marzo._--Mi rifiuto alla pagliacciata che si farà dagli artisti.
Anche le nuove mie conoscenze incomincieranno a dirmi _originale_. Che
importa? Posso io fare lo sciocco e divertire gli altri, quando Tu
domandi: «_Qu'aviendra-t-il de moi?_»


_19 marzo._--Padre mio, l'hai tu sentito nella tua giovinezza questo
strapotentissimo bisogno d'esser bello, d'esser felice, d'esser
buono?--Se Dio non c'è, se la perfezione e la felicità dell'altra vita
non esistono, l'uomo che su questa terra si sente l'anima così commossa,
che si volge al cielo e dice:--Fammi esser bello e felice e buono--l'uomo
non è uscito dal fango, sebbene imperfetto, turbato, sconvolto dalle
passioni!

Oh li vedo, ora che passo del tempo fra la gente, certi uomini
seri!... La politica è seria? L'arte? Le scienze? Li vedo; questi
uomini sono indifferenti, fanciulli, senza passione: hanno anima? Essi
certamente invidiano chi può nella quiete di uno studio essere
indipendente, sciolto da ogni affare, solo, solissimo... Lo invidiano
loro!

Dio mio, un anno solo, un mese solo, un giorno solo di quella
felicità santa, piena, immensa che acquieti l'anima mia, un giorno
solo, Ti prego! E poi lasciami pure al mio destino. Ch'io provi a
vivere!


_20 marzo._--Oh nei sogni quali spasimi di voluttà che non ho mai
provato! E quando sono desto, e vivo, e ardente, ed è primavera,
quale imperioso bisogno di conforto ai miei anni!--No, no! ti sprezzo,
o femmina, o stupida istigatrice, fango destinato al fango; e ti
adoro, o vergine, mestissima e santa poesia vivente!

O Lidia, Ti ho schiuse le pagine più sacre delle memorie, e forse
anche Tu hai detto ch'io sono un fanciullo! e forse mi hai creduto un
cattolico, forse un chierico!

O Lidia, il mio Dio lo capisci Tu come lo capisco io?


_22 marzo._ Sono stanco, annoiato di tutto, scoraggiato, avvilito. Penso
al M. Com'è felice colla sua donna!--Io non avrò mai questa
felicità? E perchè mi sono tanto tormentato?

Gli Italiani vanno alla Nuova Guinea. Sono pazzi? Mi è balenato il
desiderio, in sogno, di avventurarmi là anch'io, e lasciare a casa
tutte le memorie perchè i miei le leggano, e sperare... Sempre un
dolore solo! Sperare! Sperare! L'anno scorso avevo pensato anche
così. Non voglio più guardare alcuna ragazza. Lidia avrà una
figlia: e la sposerò!--il mio spavento era che si rompesse ogni
filo fra me e Lei; dove sarà fra tre, quattro anni?

Dov'è ora? E dove sarà?

Oh fosse vero il mio sogno! Che Tu potessi amarmi e ch'io potessi
esser felice! Oh fosse vero il mio sogno!--Lidia, Lidia, io non sento
che Te, Ti voglio, Ti amo, inginocchiandomi e tremando Ti amo! Tutti i
dolori passano, o passeranno: il mio amore non passa. Dio, dammi la
mia pace, la mia felicità, il mio cuore!

E intanto passano gli anni della mia giovinezza! E quanti miei amici
sono felici, belli, tranquilli! E quante fanciulle sorridono! E quante
femmine ghignano!

Una cosa che mi avvilisce è che ho poca memoria: e vale stordirsi
il capo? L'anno scorso c'erano delle notti (e per settimane) in cui
sognavo di leggere tedesco o inglese, dopo sei o sette ore di lettura
fatta nel giorno!

--Sono tre mesi e più che l'anima mia è piena del Tuo ricordo,
giorno e notte. Sì, non è passata ora in cui la mia anima non ti
abbia invocata, per sentire la mia felicità o la mia infelicità!
E di notte, quando mi sveglio, tu sei il primo pensiero, il primo
tormento!

... _Il y a révolte en moi-même et comme un enfant capricieux qui
ne veut point entendre raison, j'appelle la nature marâtre,
parceque je veux qu'elle me donne aussi ma parte de bonheur!_(10)

Che parole! Ti amo perchè sei ribelle, perchè imprechi,
perchè avrai dei pensieri orribili, perchè non sei la larva
vaporosa del mio studio e dei boschi di Limbiate, ma perchè sei
_viva_, soffri,--sei donna! E donna, ribelle, imprecante, disperata, mi
devi credere un fanciullo perchè ti parlai di Dio e di Maria! Oh se
ti dessi a leggere l'_Ugo_! mi conosceresti, mi ammireresti, mi
ameresti! No! sarebbe una cattiva azione la mia!

Chi conosce l'anima mia? Vorrei prorompere! E se Tu fossi quella che
deve capirmi e darmi la pace e farmi vivere? Che importa a me dei
milioni di cui così avidamente discorrono. A me importa _la pace_, _la
vita_, _la felicità_. E che colpa avevo io da scontare perchè Dio
mi condannasse al supplizio di questa vita piena di desideri e di
tormenti, e di bisogni e d'amore?

Vorrei morire.... ma non si rinasce a rimediare ai mali di questa
vita.

Oh io Le ho fatto del male! L'ho turbata! Tante volte nel parossismo
del mio dolore ho sognato che il suo fidanzato si ingelosisse di me, e
venisse da me, e mi sfidasse, e mi uccidesse. Comprenderebbe egli il
mio amore? e non sa che se l'avrebbe fatta felice, io avrei amato
anche lui? Non sa che potevo essergli fratello?

Su questa terra io non ho trovato quello che l'anima mia
spasmodicamente cerca! Sono insodisfatto e scettico. Sono ammalato.

O Lidia, ch'io un giorno sappia il tuo suicidio o la tua vergogna?
Come tutte le sere paurosamente leggo la _Gazzetta di Venezia_!

Oh se potessi salvarti dal dolore e dai pericoli, mi ameresti per
tutta la vita. Salvarti!

Temo di perdere mezz'ora di tempo, a staccarmi dai libri, e perchè
non vado nè a passeggio, nè in cavallerizza, mi paiono preziose
le ore, e che cosa faccio? Come faccio a prepararmi una via? Per due
anni ho studiato anche alla sera nell'inverno, e 5 e 6 ore di sera,
oltre 7 ore di giorno e che cosa so o piuttosto che cosa ho fatto di
pratico? Ed io stesso mi dico: _poltrone, lavora e fatti una carriera,
professa le tue idee dignitose ad alta fronte, e parla colla tua
coscienza d'uomo, e pensa al tuo avvenire con sicurezza e con coraggio
invece di sospirare e di bevere bromuro_!

Dicono ch'io sia originale, invece sono solamente infelice. Se fossi
pazzo, quante volte avrei compromesso in casa mia il suo delicatissimo
nome! O mi sarei inebetito coi liquori, o avrei giocato.

Ma a che tante giustificazioni? E per chi? _Sento l'anima mia_--e sento
che ho sempre ragionato:--e con grandi sacrifizi, sì--ma ho sempre
ragionato:--e sento di essere un uomo.

Lidia potrebbe dirmi _No!_--Ma la mia posizione sarebbe
decisa,--netta,--finite le incertezze. E mi darei tutto alla
carità.--Non mi ucciderei, come un vile; non imprecherei, come un
briaco; non mi soffocherei nei vizi, perchè la mia anima è
nobile; non viaggierei per non sprecare denaro (un denaro che a me non
comprerebbe l'oblio e sarebbe tanto di meno per chi soffre) e mi darei
tutto alla carità.--Sarei uomo. Il dolore massimo si sopporta colla
massima forza. Sono le incertezze che tolgono forza.


_23 marzo._--Sono stanco e assordato. Stanotte assistetti alla festa
della Società Artistica Patriottica. Ero melanconico e guardavo....
Vidi come gli uomini sono frivoli e libidinosi. Nel massimo rumore e
fra la gioia più sfrenata, io ti nominai fra me e me una o due
volte, o Lidia, e ricordai che t'avevo scritto. Il mondo non mi ha mai
dato delle consolazioni, perchè non può darne; non mi ha mai
dato una delle sue gioie, perchè non le voglio. E fra il lusso
della cena, nel salone, mi sono immaginato la tua modesta cameretta, o
mia vergine!

Oh se io potessi farti felice!

Quel fracasso mi ha stordito: oh se potessi sempre stordirmi! Invece
penso sempre. Pensare per agire è cosa umana; pensare per
fantasticare su mille gioie e mille paure è ben tormentoso.--Ieri
credevo di impazzire e credevo che il tifo mi assalisse di nuovo: ero
contento.--A notte ho pensato che ti ho scritto della mia comunione:
se alcuno dei miei amici avesse visto quelle righe! E che? Sono
superbo.


_26 marzo._--Sono inquietissimo.


_27 marzo._--Ieri ho riletto la Tua lettera del 13 febbraio. Ho bevuto
del bromuro di potassio. I miei nervi si sono acquietati; le idee sono
sempre le stesse. Come sono contento quando dormo: non penso
più!--La ballerina ciarla, è allegra e guarda i fiori.... O
fortunati coloro che si _innamorano_ di una femminaccia che possono
_mantenere_!

Rammenta, rammenta, e spera, e spera, o fanciullo, e intanto diventi
vecchio! Gli anni più belli, più ardenti, passeranno.

Chi avrebbe detto a mio padre, quando comperava questi fogli di carta,
che essi dovevano servire agli sfoghi dell'anima mia? Anima
appassionata, timida, buona, piena di fede e di speranza, anima che
non trova l'anima!

Lidia, sei tu l'anima mia, io sento! Siamo destinati!--E se Tu
morissi? Se io morissi?

Io scrivo parole, ma chi capirà che sono _dolori_?

Da molto tempo coltivo il disegno di andare a Venezia,--la città
del mio Tintoretto e della mia Lidia. O padre mio, se tu sapessi che
uragani ho nell'anima mia!

Se in questi giorni di primavera, vedo qualche fotografia di Venezia,
mi sento una gonfiezza al cuore, un orgasmo, una melanconia.. ..
Pazienza! Pazienza!

Ma soffri anche tu, Lidia, e hai pensieri orribili e imprechi.... Ed
io Ti consolo parlandoti di Dio. Io! In quali momenti mi sento io!--Mi
scriverai?

Un giorno saremo abbracciati, felici, inginocchiati a ringraziare quel
Dio a cui abbiamo creduto. Oh potessimo sposarci a Limbiate!--È un
pensiero che ho sempre, e che non ho mai scritto!

Dio, Ti ringrazio! Mi hai aiutato l'anno scorso, e in che giorni! mi
aiuti anche in questo. Sì, quanto Ti debbo: mi ha scritto. Sapevo
io dove era? Era viva? Era morta?--Dio, grazie!


_28 marzo._--A San Miniato, a Firenze, come Ti ricordai!--E quando ero
solo, a Mantova nel palazzo Ducale; a Verona, nel giardino di casa
Giusti; nel cimitero di Brescia, come Ti volli! come ero infelice! Ero
tanto solo! O Lidia, se Tu avessi provato quei momenti di ardentissima
passione e di immenso sconforto!

Oh mio _Giuliano_! Chi ti conosce? Io ebbi l'animo per abbozzarti: non
ebbi l'ingegno per scriverti. Ma chi ti conosce? In te ho cercato di
sfogare le incertezze, la bontà e i deliri e gli inferni e i
paradisi di un'anima che sclama:--Dio, Tu non ci sei, ma c'è la
donna! Non credo in Te, ma spero in Lei!--O Lidia, potess'io parlarti
di quel mio _Giuliano_. Comprenderesti i tormenti dell'anima mia, piena
di vita e desiderosa di morire.


_29 marzo._--Ieri ho aspettato P.... nella via Olmetto per parlargli, se
poteva trovare qualche mansione da darmi a disimpegnare alla
Congregazione di Carità.--Non osavo. Come sono timido io! Mi
esibii, arrossendo. Diffido sempre di me. Mi rispose freddamente,
freddissimamente.... Pure aspetterò.

Stanotte ho sognato di ricevere una lettera d'una amica di
Lidia:--«È con raccapriccio che devo farle sapere....» così
cominciava. Mio Dio! Che spavento! Lessi qua e là.

Mi sovviene che un mese fa ho fatto _dei conti colle cifre_. Voi mi
credete poeta! Ho calcolato fitto, vestito, cucina, servizio, ecc.,
ecc.--O Lidia, potessi darti una posizione agiata e vivere a lungo, se
mi ami: e se non mi ami, morire presto per lasciarti libera e con
qualche mezzo.


_30 marzo._--L'altro dì, credendo di vederti, o Lidia, ho sentito
una specie di ebbrezza: ieri, cercandoti nella via Manzoni, ho
sentito uno spavento che non Ti so dire.--E chi sei tu?--Tante
volte guardo la carta topografica di Mantova e cerco di trasportarmi
coll'immaginazione o alla Piazza Virgiliana o a Porta Molina, o a
Sant'Andrea o al Palazzo del T.... Che tristezza!

Ieri ho toccato i tuoi capegli biondi, povera morta! povera sposina!
Come un giorno da ragazzo, sentivo paura e religione davanti
all'altare, oggi sento religione e paura davanti a qualunque minuzia
che appartiene ad una fanciulla.


_31 marzo._--Alcune volte mi sento felice nel pensare alla morte,
perchè mi dico:--L'anima mia è scritta in queste pagine e mia
madre mi conoscerà.--Mia madre stenterà a capire la mia
calligrafia, ed io sarò sotterra, senza aspettare la risurrezione.


_2 aprile._---Oggi per la prima volta, io, _letterato_, ho letto la poesia
di Stecchetti.--Oh amo Te, mio ideale, mia Lidia! Ecco come le letture
delle poesie stampate influiscono su di me!


_3 aprile._--Anche i cattolici romani che leggono i discorsi alla
Società Cattolica, dicendo che Dio è buono, abbracciano la
femmina. Io credo in Te e per Te sono puro!

Li leggo i poeti, ora che ho rinunciato ad ogni studio d'arte, li
leggo per curiosità Stecchetti e Carducci. Che mi importa?
Nulla--voglio fare la carità.


_6 aprile_ (sera).--Lo _sento_. Verrà quell'ora in cui io mi
ucciderò. Ti scriverò?


_11 aprile._--Aspetto sempre d'esser accettato alla Congregazione di
Carità.--Alla sera mi trovo con molti giovani. Come sono stupidi
nella sensualità! Ed io mi sento la poesia nel cuore!--Alcuni di
quei giovani sono stimati giovani d'ingegno. Oh sono cinici e volgari!

Sulla _Gazzetta di Venezia_ fra i decessi non trovo il suo nome. Dio Ti
ringrazio. Ma che futuro mi prepari? Premiami di questa mia
solitudine, di questi miei studj, delle mie speranze in Te!


_13 aprile._--Giorno di Pasqua. Jeri a sera mi commossi dolcemente.
Venendo a casa, come sempre ho pensato a Lidia! Nella mia camera da
letto, sullo specchio vedo una busta...--Una lettera di Lidia, mi sono
detto subito.--Era un regalo di mia madre: era una busta coll'augurio:
_La pace sia con te_.

Oh sì la pace! Sai tu che pace abbisogni all'anima mia? Oh mamma,
mi commosse la tua ingenua, bambinesca calligrafia! La pace! Non l'ho
trovata nella febbrile fantasia dell'arte, nella stupida società
elegante, nell'amore, negli studii pacati e solitarii... La troverò
nel prestarmi a lavorare pei poveri?

E Tu, Lidia, non sei povera?

Suonano le campane e mi pare di essere a Limbiate e di camminare per
uno stradone e di pensare a Te.

Perchè non mi scrivi? Che Tu fossi partita da Venezia e che io
nulla debba sapere di Te?


_14 aprile._--Perchè oggi ho il mio pensiero così fissamente
rivolto a Te, o mia sorella?

L'anno scorso, quand'ero in Duomo, credevo e temevo sempre di vederti
a braccio del Tuo sposo. Come sospiravo dietro a certe coppie
tranquille! Che desiderio il mio! Che bisogno!--E mi rassegnavo.

--_Perséverez dans le travail: dans vos nobles aspirations_.--Mi
suonava sempre nell'anima questo tuo caro ricordo. Perseverare,
studiare! E senza domandarmi il perchè vero, per solo amore
melanconicissimo a Te, io studiavo: non ho perduto un'ora sola in ozio
o in divertimento, nell'inverno: studiavo di giorno, di sera, di
domenica... L'anno scorso e st'anno, quando il sacerdote alza l'ostia,
io dico:--Lidia--e credo... a che? Non credo al prete: credo a Dio! E
quando il sacerdote leva il calice, io dico:--Lidia!--e credo!

Sono gli istanti solenni della commemorazione... Quando in cimitero
vedo gli ossami e mi sento aizzato allo scetticismo, non credo nulla,
nulla, e mi sento certo che sotterra non si ama, ma si imputrida, e
finisce la bellezza, la bontà, la poesia, l'anima, io mi
dico:--Lidia!--e quest'invocazione significa:--Voglio la vita!

Camperò solamente dieci o venti anni ancora. La mia giovinezza è
quasi passata e sciupata in inutili studi e inutili melanconie e
inutili ideali--morrò e...

O campane, come suonate meste e quasi a morte!--Come suoneranno meste
a Venezia!--Le campane mi hanno sempre commosso nei paesi, e nelle
città di provincia.--A Vicenza, a Padova, a Verona, a Mantova! A
Mantova! Credevo che Tu fossi là nel settembre del 1876! O campane,
perchè mi fate nascere tutta la mia melanconia!--Voglio _vita_ e
_amore_.


_16 aprile._--Ho fatto la comunione. A questo mistero del pane di Dio io
sposo sempre una mesta commemorazione, santa, pura, gentile.--È
commemorazione d'amore. Mi sento casto e affettuosissimo. Avevo con me
la tua lettera, e ho ripetuto tra me le parole: _Vous étes mon ami,
et un ami rare, pourquoi ne serai-je pas confiante avec vous? Si je
vous ai fait du mal une fois je veux le réparer en étant pour
vous une soeur et une amie._--Dio, eccoti il mio avvenire.

Finora la mia vita fu uno spasimo di incertezze, di speranze, di
propositi, di scoraggiameli... Ed ora?

Perchè non mi scrive?-Non mi scriverà?--Sarà rotto il filo
tra noi due.

Ma perchè mi tormento così? Prego? Confido? Faccio della poesia?
La scienza che mi dice? La verità qual'è?... Mio Dio, mia Lidia,
datemi un po' di fede gentile.

In che mani saranno questi miei fogli fra venti anni? e fra quaranta?
e fra cento?--Vivrà l'anima mia, quando io sarò polvere e
nulla?--Chi leggerà? chi capirà? Chi pregherà per me fra
cento anni?

O Lidia, almeno le anime siano immortali! posso io averti amato
soltanto per sette o dieci o venti anni? e dopo?--Per sempre! Per
sempre!--dice l'anima mia.--Per sempre e in Dio! Dio che è l'amore!
Dio che mi vede, e mi perdona, e mi conforta, e mi fa sperare e
sorridere:--Dio che c'è!

* * *

--Torno dal Duomo. Che pensieri mesti! Credo sempre di vederti e
sento di amarti! Ho bisogno di guardarti negli occhi!--Ti immagino
nella chiesa di San Marco; tu sei bella, tu credi, tu disperi.


_22 aprile._--Ho speso del denaro, comperando un _budriere_ antico. Non
è denaro pei poveri? Nella mia nuova missione imparerò a
risparmiare ed a fare l'elemosina!


_24 aprile_.--Jeri ho incominciato a vedere la _miseria_. Lidia, voglio
avere un grandissimo, religioso, gentile rispetto per quelli che
soffrono e che lavorano--ricordandomi di Te e delle Tue parole
«_étant pauvre il faut que je travaille!_»


_26 aprile._--Jeri notte ho fatto un sogno bruttissimo. Jeri a sera,
assai melanconicamente, ho parlato di Te.--Che Tu indispettita del mio
silenzio, non mi scriva più? Sei già partita da Venezia? Mi hai
promesso--_Si je quitte Venise je vous en avertirai afin que vous
sachiez toujours quelles sont les douleurs ou les joies de votre
affectionnée amie et soeur._ Ti ricordi di avermi scritto
così?--Hai Tu la brutta copia delle lettere che mi scrivi? Suona
mezzogiorno a salutare il nome purissimo di Maria. O Lidia, mia
sorella, come Ti amo!


_29 aprile._ Lavoro pei poveri: e sono contento, E se il mondo fosse
pieno di finzioni? E se tanti poveri sono bricconi? E se io sono
novizzo?


_1° maggio_.--L'anno scorso, quasi regalo di maggio, il mese dei
fiori, dei nidi, dei bambini e di Maria, mi fu regalato un cranio. Era
un augurio? Se fossi morto, sarei morto credendo Lidia felice. Essendo
vissuto, ho la gioia e il tremendo dolore di sapere che potrei farla
mia....

Sono stanco e insoddisfatto di tutto.--Ah mio collega G.! fare la
carità per te è un gustare doppiamente la tua posizione. Tu hai
finito di girare per la stamberga, e vai alla tua casa e trovi una
sposina bella e un bellissimo bimbo. Egoista!

Chi da giovane ha avuto le ubbriachezze della carne colla femmina, non
può o non è degno di sentire il bisogno alto della _donna_; chi ha
sempre avuto religione per la donna, vive per la _sua donna_, per il suo
bambino.--O Lidia, il mio futuro non so e non voglio, e non posso
sognarlo squallido!--Forse nuove delusioni mi aspettano! ma pure
queste illusioni mi sono care, l'unico appoggio alla vita stupida,
insoddisfatta, di ogni dì in questa mia repressa giovinezza.
Leggete le mie annotazioni... e qualche pagina del _Giuliano_ e
dell'_Ugo_. Se quell'uragano che avevo nell'animo l'avessi traboccato in
fatti, che cosa potevo essere io? un demonio!--E sempre, sempre,
pensando a Te, _mia_ fanciulla, fra mille dubbi e mille tormenti, ho
sorriso e ho confidato in Dio!


_Sera._--Oggi sono stato a consegnare il baliatico in sei povere
cameruccie. Che rispetto ho io per quelle povere mamme!

Come mi commuovo! sento bisogno di riaprire il mio mobiletto e di
annotare.... come mi commuovo! Non sono ricchi e sono felici! Qui, ad
una finestra vicina, un uomo è affacciato e guarda: _lei_, non bella,
gli appoggia una manina sulla spalla.... Oh felicità! felicità
per me! O Lidia, come Ti parlerei io nei crepuscoli! Poesia e fede e
amore! Poesia e speranza e _vita_!


_3 maggio._--Jeri mi sono trovato con C.--L'anno scorso di questi giorni
accompagnava per Milano la mantenuta. St'anno ha moglie e viene alla
Congregazione di Carità:--Sono contento!--mi disse,--ho goduto la
_mia gioventù_.

È un assioma di questo mondo. Io come godo la _mia gioventù_? Come
mi preparo per Te? Come penso? E come soffro?

Oh il mondo mi assolverà sempre da qualunque sudicio amorazzo, non
mi assolverà d'aver amato una vergine pura e povera e infelice!


_Sera._--Io mi tolgo da pranzo e Ti ricordo sempre! Ricordo la povera
minestra fredda e certi tozzi di polenta che vidi in certe povere
casuccie, dove le mamme avevano un bambino in collo.


_6 maggio._--....Sorriso di donna, che cosa sei?


_8 maggio._--Non posso resistere; apro il mobiletto e guardo il tuo
ritratto, o Lidia, e Ti fisso negli occhi. S'avvicina il giorno di
santa Lidia, Ti scriverò. Da due giorni non leggo la _Gazzetta di
Venezia_. Ti troverò fra i morti?--Penso al suicidio. No, penso a
_vivere_ con Tei in campagna! O primavera!


_9 maggio._--O Lidia, Ti guardo negli occhi. Come Ti amo! Dio, Ti
supplico, _a patto di qualunque infelicità_, rendila mia, per un
giorno solo!--Ti guardo ancora negli occhi, e mi domando:--Sei Tu? Tu,
Lidia!


_10 maggio._--Oggi, quale spavento! Vidi e rividi un capitano del
35.° fanteria. Era il Tuo sposo? il Tuo promesso? Veniva a Milano
per uccidermi?


_12 maggio._--Penso alle _mie ultime volontà_ che ho scritto, e vorrei
raccomandare a mia madre.... Oh mia madre mi capirà quando
leggerà quelle mie righe e queste mie pagine. Come sono contento
pensando che in quel dì non saranno più _mie vergogne_ quelle
sante, pure, caste effusioni dell'anima mia, in quel dì non saranno
più fanciullaggini le mie melanconie e i miei bisogni, ma in quel
dì nella loro tremenda evidenza si mostreranno i sacrifizi e le
repressioni dell'anima dai miei ventidue a questi miei ventisette
anni! Capiranno? Oh no! a loro non fu dato il tormento di amare
gentilmente a ventidue anni! a loro non fu dato ingegno e sentimento
tormentatore di squisita e sfidatrice poesia!

Mia madre dirà:--Che tesoro d'affetti, che avvenire, che
felicità! che _anima_! seppelliamo tutto in una buca e per sempre!
Poteva e voleva essere buono e felice, voleva una fanciulla, ma casta,
ma gentile, ma infelice. Lo seppelliamo _per sempre_!

Sì, per _sempre_! non si viene più di laggiù: è triste verità: si muore:
l'anima è la memoria che lasciamo e l'_anima mia_ ve la lascio in queste
mie pagine e in quelle mie ultime volontà e in questo mio grido del cuore
straziato:--O mamma, ti raccomando la mia Lidia: per Lei sono stato puro,
gentile, sperando in Dio... Credi tu in Dio? Sì! Dunque per l'amore di
Dio, per Lui che volle ch'Ella fosse il mio angelo attraverso la mia
bollente giovinezza che poteva essere piena di spaventose colpe, per Dio
che volle ch'Ella mi stimasse e mi rendesse gentile e pauroso e timido,
per Dio che me la mostrò, me la tolse, mi tormentò di incertezze, e pare
che _me la destini_ ancora, per Dio che è l'Amore e lesse nell'anima mia,
per Dio, te la raccomando, o mamma,

Oh come vorrei che queste fossero l'ultime parole che scrivo è che
tu troverai, perchè Ella, la mia Lidia, ti sia raccomandata come
una figlia!


_17 maggio._--Voce, grazia, profumo, linee dolcissime, seduzione, sudore,
carne della femmina, che siete voi per me? Vidi jeri e meditai sul quadro
di Morelli «_Le tentazioni di sant'Antonio_.» Carne della femmina che
sei? Tutto passa, e tu, corpo, imputridisci; dopo la giovinezza, nessun
piacere; dopo la morte, nessuna vita!--O Lidia, in queste pagine su cui è
scritto il tuo nome di vergine, oso io lasciare queste righe? Sì, per
dirti che all'_anima Tua_ sacrifico la mia bollente gioventù. Ti amo,
purissimamente Ti amo e purissimamente Ti voglio mia!


_18 maggio._ «Io mi tacerò quando non mi sentirò più degna di stringervi
la mano, come ora.» Queste sono le parole di Lidia, che mi spaventano da
due giorni.


_30 maggio._--A sera tarda mi trovai cogli artisti che festeggiavano il
Michetti. Figlio di pastori a 25 anni è già celebre in Italia e
in Francia, e guadagna quello che vuole. Come vorrei essere in lui!
avere tanto nome e tanto merito e dire: _Per una fanciulla_!
festeggiato, amato, ammirato e dire: _Col pensiero di una fanciulla_!
Che superba compiacenza!


_4 giugno._--Jeri sera ho ricordate le Tue parole a me e stamane voglio
rileggerle:--_J'ai aussi des remords, votre lettre m'a troublée--je me
sens malheureuse car j'ai été pour vous cause de souffrance_ (oh sì),
_peut-être ma légéreté en est-elle la cause?--J'ai pleuré en lisant votre
lettre, il m'a semblé entendre une voix que n'ètait point de cette terre,
je ne croyais pas qu'il y eût sur cette terre une âme si belle que la
vôtre!_

O madre, queste parole sono il premio della mia castità, della mia
religione, della mia timidezza, del mio amore!--E le ho lette in un
santuario della Vergine.



_Tout ce qui finit est si court Allez toujours_--


_24 marzo_ 1880.--Facendo la carità, trovo un padre che si uccide
perchè la Congregazione è una vecchia istituzione burocratica
piena di pregiudizii. Credo di servire il mio partito, ma per reggere
alla noia di stare tre o quattro ore al tavolino della Costituzionale
a scribacchiare i verbali mi immagino sempre d'aver avanti agli occhi
la nostra Regina Margherita, e per _lei_, _donna_, faccio quel sacrificio
di star lì. Essendomi occupato della Società Dantesca, trovo i
Commendatori amici che mi fanno dire che sono assenti da Milano.
Quando ho studiato che conforti ho avuto? quando ho scritto? quando mi
ero inchiodato sulle panche dell'Accademia?

Io mi sento artista, perchè sto in contemplazione di un raggio di
sole che fa luccicare mestamente l'iniziale delle pergamena e vivifica
i colori di un angolo di tappeto turco e fa spiccare le ombre del
tavolo barocco e polveroso. Io sono artista--melanconico e sognatore.

Guardo alla libreria polverosa.... O poeti, non vi leggo più! penso
che anch'io volevo essere romanziero storico: e, dopo il mio amore,
romanziere antico. Incominciai col _Buondelmonte_ e finii coll'abbozzo
_Tisi_.

Ho qui un vasetto di viole del pensiero. Da sei anni a primavera ho
questa gentile compagnia: viole ed illusioni.--I miei amici vedendomi,
triste, mi dicono per consolarmi:--Prendi moglie....


_29 marzo._--Perchè nulla annotai nel dicembre, nel gennaio, nel
febbraio, quando servivo i poveri alla cucina economica? Perchè non
scrissi le soddisfazioni dell'anima mia nel fare il bene? E il bene
l'ho fatto pensando a Te: ho avuto dolcezza, pazienza, perseveranza,
dicendomi:--Lidia mi vede.--Ma chi sei Tu che ti facesti padrona della
mia giovinezza? Chi sei? Perchè ti sono così schiavo? Perchè
mi fai piangere? Perchè farai piangere mia madre?--Oh alcune volte
impreco contro di Te, e ti odio e vorrei che l'anima tua soffrisse
come la mia!

E che? La vita, l'avvenire è dinnanzi a me.... Sì, ma dove le
risoluzioni? la forza d'animo? la perseveranza? la fede?--Alcune volte
mi dico:--Dimenticarono tanti: dimenticherò anch'io: avrò una
famiglia: avrò una carriera.--Ma no! sento solo le mie melanconiche
fantasticaggini artistiche! Sento solo l'armonia del mio dolce
passato! Ho sofferto, e i miei dolori non sono troppo preziosi, per
mutarli nelle gioie banali di vita solita.


_(sera)._--Oggi mi sentii poeta. Meditai una poesia, _I morti_, i
morti all'ospedale e i morti in battaglia--i morti d'amore--i morti in
campagna....

Lessi i ricordi della _vita di Settembrini_. Come mi sentii consolato!
Che fede in Dio! Che amore nella sua donna! Che carattere!--Mio Dio!
perchè non sono vissuto nel tempo delle cospirazioni, dei patiboli,
delle battaglie? A me che rimane? _Lo sconforto_!


_11 aprile._--Sono otto mesi ch'io da mattina a sera aspetto una lettera
di Lidia; che cosa mi potrebbe dire?

S'io mi trovassi padrone di trecento od anche di duecento mila lire,
scriverei a Lidia:--Voi siete povera: ditemi quanto vi abbisogna per
la vostra felicità.... Vi darei tutto. Avrei fatto il mio dovere
dopo di avervi date tante proteste di affetto vero.--Dopo, colla
coscienza forte e _finalmente_ persuaso di aver fatto una buona azione,
dopo mi voterei a Dio. Per andare missionario bisogna tanto denaro?
Don Fedele non era ricco.

Fra tutte queste cose vecchie del mio studio, ho delle camelie in un
vaso, camelie candidissime, camelie rosee... Perchè adorando i
fiori, con dolcissima illusione, con irresistibile bisogno, adoro la
donna?

Fanciulle belle e bruttine che passeggiate al sole, se sapeste il mio
sacrificio! _Nulla, nulla_ si cancella dall'anima mia e mi sento senza
speranza, senza amore, con troppo amore!

Come ti bestemmio, o Dio! Non ti credo nei cieli! Sei in terra e Sei
l'amore! Sii maledetto, o amore!--. Perchè non mi uccidi?

O sole, come ti amo sui picchi delle montagne selvagge! Come mi sentii
felice nei deserti della Natura! come libero! come poeta!--Ma tu,
Sole, mi schiaffeggiavi, mi macchiavi il volto e le mani, sì ch'io
avevo persino vergogna della montanara che m'accompagnava: e quando
tornavo fra gli uomini, io mi sentivo rigurgitante l'anima di
grandiosa, di aspra, d'infinita poesia, e gli uomini ridevano di
compassione per me, e le donnine ghignavano di scherno! O Sole! o
Sole, mi tormentasti e mi tormenti! Io amerei Te e l'infinito mare, ma
diverrei brutto d'una bruttezza ineducata!--Donne che per qualche
minuto avete avuto un pensiero per me, chi siete? Vi ho io amato?
Siete voi invecchiate? Mi avete dimenticato, come io ho dimenticato
voi? L'anima sussulta!--I bei giorni ch'io ho passato con Te, o R., a
ventitrè anni! Le belle cose che ti diceva parlando di Dio e
leggendo le poesie! gli orrendi tumulti che si suscitavano nell'anima
mia quando ti recitavo il mio _Giuliano_! Il Giuliano è incatenato in
questo mio povero, sporco e meschino corpicciuolo, e lo squassa e lo
uccide! Ero buono, ti confesso, una volta, gentile verso la Madonna,
fiducioso in Dio. Ed ora?--Non leggo più poesie stampate. È
domenica: io non benedico il Signore. Sorgete tutte in me, o male
passioni dell'anima mia, tormentatemi, abbattetemi, schiacciatemi.
Ch'io muoia maledetto, perdonando a nessuno.


_12 aprile._--Eravamo soli in una cameretta disabitata del sacrestano:
c'era una crociona nera dei morti: un canapè: delle seggiolaccie:
un tavolo sconnesso.... Sui monti imperversò un uragano. Lei aveva
paura dei lampi.... Si schiarì il cielo: tornò il sole,
bellissimo: la montagna divenne festante. Io lessi l'agonia suprema
del mio Tintoretto!--Che speranze, che fede nell'arte! Che baldanza
nel guardare al mio futuro! Chi ridà i miei ventitrè anni?--Tu
fosti gentile, soave, confidente, affettuosa, compassionevole con me.

Ma perchè mi tornano alla memoria queste dolci ricordanze della mia
giovinezza? Perchè con tanta insistenza, vi risaluto ancora, o
anime, ch'io chiamai gentili?--Su, a quella chiesetta scrivemmo i
nostri nomi. Ci saranno ancora? Chi li avrà letti?--E parlammo di
Te, o A., povera e affettuosissima e nervosa Signora che mi amasti! e
mi piangesti in volto là su quei colli! piangesti ricordando il tuo
passato!--Dirai tu, o Lidia, che questi sieno ricordi profani,
perchè rubano a Te? Ma chi fosti tu per me?


_12 aprile._--Sorgete tutte in me, o male passioni dell'anima mia: o
tristi ricordi, o gelosia, o frenetici odi, o tremende ardenze del mio
corpo, io sfido Iddio!--Così imploravo ieri.--E invece sorgono dal
passato i ricordi dolci--dolcissimi--dell'affetto, dell'amicizia,
della stima, della simpatia, della confidenza.


_13 aprile._--Ma sai, Lidia, che ho un'illusione quest'anno? Di divenire
pittore d'armi antiche. Mosè Bianchi, Pagliano, Bazzero, De
Albertis, tutti gli artisti della Società Patriottica mi
riconoscono per _specialista_ nel disegnare armi antiche. Sono assai
apprezzati i miei schizzi.--Diventare artista! Avere il mio studio!
Nel mio studio mettere un pianoforte per Te! Oh il mio sogno! Avere i
fiori, la donna, la purissima arte, qualche libro tedesco e qualche
inglese e francese! Essere artista!


_20 aprile._--Sono melanconicissimo fra gli amici.

Uno di questi amici raccontò una cosa graziosissima di sua moglie.
Quando tornavano dall'altare di nozze, lei disse--Ora scappami, se
puoi!--All'albergo, ella si addormentò fidente e stanca, ed egli
stava a guardarla pensando:--Mio Dio, che spavento! È mia per tutta
la vita!

Tu vedi com'è l'anima mia, o Vergine santissima: Tu sai ch'io
voglio morire. Fammi morire. Risparmiami un delitto. Fammi morire.
Tremenda malattia dell'anima! Io inorridisco! Scrivo io un romanzo o
scrivo i miei pensieri? Scrivo il mio sconforto su un pezzo di carta
che si consumerà, con un inchiostro che si sbiadirà, scrivo pei
topi che rosicchieranno queste mie memorie, scrivo _che sento d'amare_!
Che sfiducia ho io--io nulla farò a questo mondo perchè sono
incertissimo di tutto e su tutto--non sono mai in pace--voglio e non
voglio.

Perchè così presto ho sciupato il mio ideale della Carità?

Perchè ho conosciuto l'uomo basso, vigliacco, volgare, neghittoso,
ipocrita e stupidamente prolifico? I poveri?--Presto avremo le
elezioni politiche. Io mi dimetterò da Segretario della
Costituzionale... Che importa a me della briga degli ambiziosi e degli
intriganti?

È maggio: o fiori, o farfalle, o verde, o cielo, o fanciulle!

Come sono brutto io! La mia poesia bisogna ch'io la tenga nascosta in
fondo al cuore, per me, per piangere solo, per pregar solo, per disperare
solo!--Alcune volte sogno d'essere lontano, lontano nel mondo, fra gente
nuova, sotto un cielo nuovo, con dolori nuovi... O mia mamma, perchè ho
anche la squisitezza tormentosa di sentire i dolori di certe povere
creature che non hanno casa, patria, parenti? Perchè penso
mestissimamente a quella disgraziata--elegantissima--che ieri andava al
manicomio?

Ricevo dalla Accademia di Brera dei biglietti di congratulazione per
me spediti da Promis, Biondelli, Mongeri. Mi sento incoraggiato. Se
potessi arrivare a quel posto! Ma coll'amore dell'arte non si _fa
carriera_!


_20 luglio._--Come ti sento, bisogno della mia giovinezza, del mio
ingegno, della mia vita!--Lavoro moltissimo pei poveri: ma sento poco
la compassione, sento un grande odio per la finzione, per l'inganno,
per la umana bestialità! Come gli uomini sono gli autori delle loro
sventure!


_23 luglio._--Lavoro molto pei poveri. A vincere il mio carattere timido
penso sempre:--Essi, i poveri, potrebbero trovarsi al mio posto: io,
al loro: se io avessi bisogno?--E lavoro... È volgare la mia vita?
O Signore, quando leggo la Tua Bibbia, come ancora nel mio avido
scetticismo, ho dei momenti di fede gentile! O Signore, perchè mi
tormentasti e mi tormenti coll'incertezza?

Scriverò a Recoaro per far apparecchiare le camere a mia madre e a
me. Son spaventato: guardando solo l'orario, e leggendo quei nomi di
stazioni venete, mi si stringe la gola... Rivedrò Lidia. È
un'idea fissa.

Ah se potessi condannarti all'oblio! _Ti amai_, Ti amai, versai, nelle
lettere che ti scrissi, l'_anima_ mia, ti dissi il mio tormento,
rinunciai alle prepotenti gioie che mi provocano a' miei anni,
studiai, mi dedicai ai poveri, e al mio paese... E Tu? Come mi
rispondesti? _Tu chi ami_?

Ah fosti crudele! Ed io perchè amo di acuire così il mio dolore?
Vi chiudo nel mobiletto, o pagine tristi, e siate l'ultime che scrivo!

C'ingannano i poveri, c'ingannano i preti, e c'ingannano i dottori....

* * *


_31 settembre._--Non ho mai voluto scriverti per non darti dolore! Ho
fatto le appendici artistiche del _Pungolo_, e ho dovuto condirle
d'arguzie e forse di sconcezze per il pubblico, in quei giorni che la
mamma era ammalata (e mi faceva davvero pensare tristamente di lei) e
in quei giorni in cui volevo tacerti i miei pensieri. A Recoaro, come
ho vissuto bene nella compagnia gentile di una fanciulla, che non mi
credette sciocco e beghino! E perchè ti dico questa simpatia, e
quei no! no! no! che mi dissi e feci capire a lei, pensando a te? È
una fanciulla che mia madre ha visto nascere e che ha sempre
conosciuta e che sarebbe contenta di vedere al mio fianco...

Ti ricorderai di me? Si spezzerà il filo tra noi? Chi primo
obblierà? Vado a Limbiate e visiterò quel cimitero dove io ho
scritto _lagrime e sorrisi_, io che ora sghignazzo facendo il
giornalista lepido. Lidia, perdonami, faccio così per buttarmi nel
mondo, e occupare un posto, e avere una possibilità di farti mia!
Pensa che quella ragazza mi era molto simpatica: ed è forse
l'ultima che incontrerò nella mia vita--nella mia vita stupida e
ritiratissima.


_1.° ottobre._--Stamani, quando la campanella di sotto suonò la
messa, mi sentii tristissimo.... Preghi tu ancora? O perchè penso
tanto a te e con tanto timore? Quante cose si sono cambiate in
campagna. Vicino a quel cancello a Carate, ov'io venivo tutti i
giorni nel 73 a guardare in quel giardino ove tu mi avevi dato un
fiore di vainiglia e una foglia spinosa, vicino a quel cancello, ove
scrivevo le date e mi pareva d'esserti fedele, hanno alzato un muro.
L'ossario di Solaro ov'io passavo quasi tutti i giorni, e guardando
i crani pensavo a te, dicendomi:--che cosa è la vita? e dove io
ho contemplato quella mano rattrappita e secca, quando avevo sul
cuore la lettera che mi avevi scritta e m'immaginavo la tua manina
tonda e morbida, l'ossario l'hanno demolito... E noi abbiamo
cambiato l'aspetto delle camere, del giardino, ma il mio cuore non
muta.

Ho riletto la mia lettera del 15 ottobre 1877. Tutto è finito?...
Coraggio, mi dico, il mio dovere ora è di servire i poveri, è
d'esser umile, e di gettare questa penna insulsa.... Che cosa ho fatto
per esser degno di lei? E che cosa farò?.... Tre anni fa, come mi
sentivo buono e poeta e fiducioso, nella mia disperazione: ora
nell'apatia, come mi sento vecchio! Perchè mi dico coraggio? Che
fare? Che studiare?--Come gli uomini sono tristi! E non so staccarmi
da questa memoria, mi pare così di esserle fedele....


_18 ottobre._--Odoro nel cassetto un profumo che mi ricorda la mia santa
malattia e le mie purissime illusioni....


_20 ottobre._--Questi sono i giorni in cui io ho tanto pensato a Te. A
Limbiate c'è una ragazza bionda, gentile, pallida che di sera
somiglia a Te: son già due anni che solevo annotare questa
circostanza, ma mi pareva d'esserti infedele....

Vittoria avrà avuto qualche po' di simpatia per me? Là a Recoaro
mi ha regalato un pezzo di sasso colle piriti, preso all'orrido della
Spaccata, ed ora lo tengo qui sul mio tavolo, quando scrivo. Come sono
pallidi i miei ricordi di Recoaro!--Quante volte passeggiavamo noi due
soli, alla sera colla mamma lontano a cento passi, e chiacchieravamo e
ci sentivamo giovani. Chi ama ella? Certo amerà. So di un
giovanetto simpaticissimo che l'amerà: e lo vedo alla Patriottica e
mi è caro, e non mi sento geloso.


_21 ottobre._--Volevo dicessero:--Quel giovane si è fatto seriissimo, è
divenuto il servo dei poveri, è dolce, è pio, è rassegnato. Ha un
profondo dolore, ma soave che coll'amore consacra la sua vita... Volevo
mi amassero tutti ed io mi tranquillassi.... No! risusciti tu, mio animo
d'artista e mi scuoti! mi tormenti! Mi fai delirare! Sghignazzo ancora:
ancora sono superbo, ancora odio, ancora voglio morire come il mio Ugo!
Tra questi spaventi sento l'amore a mia madre, a mio padre--l'amore che
mi viene dai ricordi, quando ero piccino, quando Limbiate era un luogo di
pace.

È una virtù questa vigliaccheria dell'obblìo?

O Vergine che un giorno ho pregato, o Madonna, in cui ancora ho un
barlume di fede melanconica, protettrice della mia Lidia, fammi
dimenticare la mia Lidia!

E preghiera questa?

Come sarei felice di morire e di terminare il martirio dell'anima mia!


_22 ottobre._--Faccio forza per non scrivere, ma non posso.

Jeri ho veduto una bellissima rosa nel vecchio e squallido cimitero di
Limbiate, ed ero con un prete: oggi ho incontrata la marchesina B: ed
ero con due preti: stanotte fui tormentato dalla più fiera
esasperazione della libidine che non concedo al mio corpo e col
pensiero mi purificavo... ero con te. Chi le capisce le mie febbri e
le mie speranze e di quando in quando i miei mortali spossamenti e
questi orgasmi quasi suicidi? Come vivo stupido, fra gli stupidi o gli
ignoranti, amoroso fra gli indifferenti, poeta fra questo volgo!


_22 ottobre._--Ieri siamo stati alla Cassina Ferrari a vedere la villa
Torras, un giardino romantico che da vent'anni forse io non avevo
più veduto. Vi è una lapide nel boschetto, una lapide che parla
di ricordi amorosi e di dolci confidenze. Mi ricordo che ad otto o
nove anni fummo là in compagnia e c'erano le giovinette e i
giovinetti che leggevano e si guardavano in volto e si deliziavano pei
viali....

Il triste cielo, la natura mesta ed umida, l'ora mattutina e il canto
dei coscritti avvinazzati mi fanno pensare....

È finito anche questo autunno.... E finora non sono ancora andato
ai luoghi ove pellegrinavo negli anni scorsi pensando a Te.

Ti dirò come mi annoio? Ho passato tre ore con un prete a far
passare le commediole delle marionette ch'egli deve far recitare alle
fanciulle del suo collegio! Sono i libricciuoli nostri, dei nostri
otto e nove anni. Il prete mi parla di farse, di sciocchezze, di
melodrammi che fa lui.... Ed io lo ascolto.... Io che vorrei parlarti
del mio _Giuliano_! E tu mi ascolteresti? E se tu non fremessi alle mie
tempeste, io ti direi che quel _Giuliano_ fu letto ad un'altra donna, da
me a lei, che lasciò ch'io posassi la mia testa sulle sue
ginocchia, e toccandola colle sue manine, mi disse:--Credo che ci sia
dentro un inferno!--La tua memoria era in me santissima e dolce: e la
maliarda libidine mi arroventava e mi strappava le carni. Quando
diceva di non sentirsi bene ella mi lasciava accostare la mia fronte
alla sua, mi lasciava toccarle il polso; e quando diceva ch'era
nervosa voleva ch'io le stringessi forte ambo le braccia alle spalle
in istretta voluttuosa....

Tre ore. anzi quattro ore stupide le ho passate passeggiando
coll'ottimo prete che mi discorreva di panegirici, e di sacro
cuore.... Il mio _Giuliano_ è un panegìrico, il mio cuore è un
sacro cuore!

In questi giorni sì mesti e sì squallidi, al declinare
dell'anno, a sera, come si desidera la sua donna da guardare in
volto!--Mio Dio! Suonano le campane dell'_Ave Maria_, quella sottile
vocina della campanella _di sotto_ mi fa ricordare.... Pregavi tu,
Lidia, quando ti inginocchiavi nella chiesetta della Madonna?


_Domenica, 24 ottobre_.--Splende il sole e dovrei essere lieto, ma sento
il massimo sconforto... M'imagino d'essere in questa casa, ma
spopolata, morti tutti e divenute sacre le memorie, ed io vecchio,
legato a te, ed obliato da te, senza una donna al fianco che sia stata
la gioia di mia madre.

Torno dalla chiesetta di Pinzano.... Perchè su nell'organo
guardando giù la chiesetta innondata di luce e di incenso, mi sono
sentito tanto commosso? Perchè ti ho desiderato con me?

Poveri contadini, che avete lavorato sotto la pioggia, nel letame,
forse colpiti anche dallo sprezzo di noi che passavamo in carrozza,
poveri fratelli che sorgerete a vendetta in un dì non lontano,
beatevi del sole, dell'oro, dell'incenso della vostra chiesetta....
Contribuire a farvi gioire un po', un sol giorno nell'anno, è
affetto, è delicatezza, è forse anche dovere.... Ed io come sono
egoista!


_(Sera)._--Torno da Pinzano dove si è ballato, e sono mesto come
tutte le volte che vedo quel tripudio che a me non fu mai concesso.
Penso che l'educazione che mi diedero i miei parenti fu santa, ma
stupidina. Vedo anche i giovanetti delle famiglie che ricorrono alla
Congregazione di carità, li vedo ballare.

Spettacolo triste! Sento sul volto la polvere che mi gettano i tacchi
delle danzatrici: e sono quasi geloso delle mogli altrui.

In società sono uno sciocco, un collegiale. Che penso?


_(Alba mestissima)._--La natura ha una voce sconfortante per me! Sei tu,
anima di donna, che parli a me da quel cielo melanconicamente roseo,
da quel nero hosco della botanica, da quel piano silente?... Se tu, o
Lidia, in questo momento muori o ti ricordi di me, io prego Dio.


_25 ottobre._--Com'è bella la Natura, quando si ama! Splende il sole:
il cielo è limpidissimo.

Volevo che queste pagine, fossero un libro di preghiera, e invece
diventano una confessione di illusioni, di pazzie e di odii.
Lacererò le pagine più tristi. Mio padre va a letto e dice di
non sentirsi bene.... Sarà un po' di poltronaggine o una malattia!
Dio mio, egli dice che è così triste il diventare vecchi.
L'intimità della famiglia doveva essere il mio sogno: e invece ho
avuto pel capo tanti delirii d'avvenire. Mio padre, quand'io ero
piccino, era buono e mi voleva bene. E perchè sono io diventalo
uomo? Perchè ho tanto sofferto? Poi sei venuta tu, maledetta, nel
mio pensiero e nel mio cuore.

È giornata triste: s'avvicina l'inverno: mio padre deve sentire
anche lui uno sconforto tremendo. O Signore, quand'era ammalato, tanti
anni fa, ho pregato tanto per lui e tanto devotamente! Ti prego
ancora, o Vergine, che sai come è l'anima mia.... perdonatemi
tutti, o mio padre, o mia madre, o Carlo!--Perdonatemi... Lo sento che
non sono cattivo.


_30 ottobre._--Ieri ho fatto una passeggiata. Era tempo piovoso e
melanconico. Abbiamo visto dei cimiteri.... Ma è sì dolce avere
con sè una donna gentile! La mia vergine soavissima dov'è? Ho
amato le sue memorie contemplando le croci di un cimitero! Almeno tu
fossi morta! Almeno fossi morto io! Mi avresti pianto....

Splende il sole e si vedono i lontani monti, e sorride il cielo, e
cadono le foglie.... Un altro autunno che finisce! un altro inverno
che mi aspetta!

Quando ti avrò dimenticata, quando nulla più saprò di te,
quando presenterò a mia madre una donna che possa fare la mia
contentezza e la sua felicità, sarò io onesto? È a prezzo di
tanto dolore ch'io mi dirò finalmente tranquillo? Io mi sono votato
ad esser vergine: oh almeno potessi vivere con mio fratello!... solo
che farei?

Vittoria, m'avevi dato un poco di pace. No! no! no! _Non ti amavo_! No!
ma sentivo com'è bello lo stare con una fanciulla, che mia madre
conosce tanto, che non dà turbamenti ne incertezze, che con una mia
domanda può essere mia moglie, una moglie da poter presentare agli
amici, ai parenti.... E tu chi sei, che col tuo sguardo d'angelo hai
marchiata la mia fronte con una maledizione che quasi tutti qui mi
leggono?... Tu chi sei? Oh dimenticami.


_1.° novembre._--È il giorno di tutti i Santi. Splende il sole e
s'odono i canti mattutini nella _chiesetta di sotto_. Perchè sento
tanta malinconia? E perchè leggo queste memorie?

Il giardino è tutto bianco di brina. Dio, com'è triste sentirsi
nel cuore questi primi geli!

Ci capita addosso un invito in casa S. Come mi fa dispiacere l'esser
così stupido fra la gente. Nulla so, nulla dico: sono impacciato.


_3 novembre._--Ieri _nel dì dei morti_ ebbi dei momenti di grandissima
gioia pensando a te, e al bambino biondo e gentile che avremo....

Ho domandato al figlio del fattore se egli sente la melanconìa
dell'inverno.--No, e perchè?--mi risponde. L'altro ieri, al ritorno
d'una allegra passeggiata, andai in cimitero.... C'era con me una
signora, povera, ma gentile, ma educata, ma pietosa. Ci facemmo
pensosi. Dio santo! Come io la sento la poesia del dolore! Come io ho
bisogno della donna! Come mi trovo bene fra le croci!


_6 novembre._--Dio! perchè anch'io non fui a Mentana? perchè non
son morto? In questi giorni si commemorano i martiri della libertà,
ed io mi sento ancora tanto piccino e poltrone! Era la mia un'anima
repubblicana?


_11 novembre._--Oggi parto. La natura è mestissima, ed io vado
incontro alla noia ed allo scoraggiamento.... Non amo più i poveri:
sono indifferente agli studii. Sento già vergogna delle persone con
cui dovrò parlare per il lavoro sui _Musei privati_ di Milano pel
Vallardi.


_12 novembre._--Sono nel mio studiolo di Milano. Mi sento
scoraggiatissimo. Voglio mettere un po' d'ordine nelle mie carte:
trovo grammatiche greche, esercizi latini, tedeschi e inglesi, e
abbozzi di drammi.

Volevo, per far luogo, mettere queste cose in un fascio sulla
libreria.... Le grammatiche portano le tue cifre, o Lidia, scritte da
me quando volevo attingere un po' di coraggio: e i drammi cominciano
col tuo ricordo T. c. q. f. e. s. c. A. t. _Tout ce qui finit est si
court. Allez toujours_. Come mi faccio sempre melanconico! Volevo far
posto pei nuovi scritti.... E che m'importa dell'arte, del nome,
dell'antiquaria? M'importa nulla! Sento la mia giovinezza passata e le
mie speranze cadute, e il mio cuore inaridito! Credimi, non so
lavorare per amor proprio! Fra le mie carte trovo il libriccino
dell'Aleardi e quello del Leopardi.


_23 novembre._--Ieri a sera, alla Società degli Artisti, ho assistito
allo svestirsi della modella, una ragazza triviale e perduta. Come
parlava brutalmente dell'amore!

Sai, Lidia, è uno spavento per me l'udire l'immoralità dalla
bocca di una donna giovane.

Mio Dio! e che fascino satanico in quella fascetta calda che si tolse,
in quella camiciuola trasparente, in quelle braccia seminude, a quel
profumo della carne! Quando penso a te e al _nulla_ della mia vita come
mi sento sconsolato! Ecco la mia voluttà: _la melanconia del tuo
ricordo_.


_25 novembre._--Angelucci, vecchio ed illustrissimo pedante, viene a
Milano, e presso i pedanti illustri di Brera, critica il mio
opuscoletto sulle armi del museo archeologico. Che m'importa? Ma
credevo quello studio una prima base, per farmi un po' di nome, per
andare avanti, _per rendermi degno di te_. Che m'importa
dell'archeologia? Sono artista e non antiquario: son poeta e non
rigattiere. Ma mi sento sconfortato.

27 novembre.--Ieri mi trovai coll'Angelucci. Il _chiarissimo_ amico non
moverà un dito per aiutarmi: e se gli venisse l'occasione, mi
mozzerebbe anche la strada, parlando dei miei spropositi. Mille
grazie. Per il nuovo lavoro che devo cucire avevo bisogno di un po' di
coraggio. Mongeri mi spaura, Porro è indifferente e Angelucci mi
lasciò freddo. Nessun passo farò: sono ricco, lo dicon tutti e
me lo dicono.... Grazie.--Anche oggi devo aspettare l'Angelucci qui in
casa. Oh questo mio studiolo dovrebbe per me essere un luogo di pace,
di raccoglimento, un santuario di speranze: le mie belle armi, i
mobili, la luce, il sole, il tuo ricordo....

Da un po' di tempo, per queste mie sciocchezze d'archeologia, che non
approdano a nulla, trascuro i poveri e mi faccio indifferente alla
miseria altrui.... Ero sepolto, ero oscuro, ero rassegnato, ero buono,
perchè ridiventai ambizioso e impaziente e credulo in un avvenire
mio? Mi tornano le malattie tremende.--A guarirmi da questi spasimi
vorrei viaggiare: sarei anche partito per l'Egitto, ma perchè
rompere l'ordine posticcio della famiglia? Mio Dio! mio padre
invecchia e mi fa compassione, mia madre, dopo tante sofferenze
incomincia a star un po' benino.... E viaggiando non sentirei il
demonio dell'odio e l'angelo dell'amore in me?


_(Sera)._--Sin dopo il primo dell'anno 1881 non voglio vedere nessuna
ragazza: aspetto il tuo biglietto di visita! E poi?


_28 novembre._--Devo andare in casa Sola-Busca per vedere gli oggetti
d'arte antica. La ricchezza mi spaventò sempre. Vorrei andare a
Limbiate al vecchio cimitero. La morte mi consola sempre. Credo in Dio
e sento la sua pace.


_3 dicembre._--Oggi ho incominciato il lavoro di archeologia: non ho
pensato a te e ho potuto lavorare.--Mio padre è a letto, non si
sente bene. Se di notte mi sveglio, i miei pensieri sono tristissimi.
Che figlio sono io per lui? Che uomo d'onore sono io per te? Li
capisci questi tormenti?

Ieri il Consiglio della Società degli artisti e Patriottica mi
volle proporre a segretario; oggi dal Comitato per l'esposizione del
1881 ricevo la nomina di membro di una commissione per una mostra
d'arte antica. I miei concittadini hanno fiducia in me: io solo non ho
coraggio! Lavorerò, accetto pensando a te.


_11 dicembre (sera)_ .--Oggi prima di pranzo mia madre mi racconta che
Vittoria è fidanzata. Era la fanciulla conosciuta da lei, da lei
amata, da lei forse desiderata.... Non ti nascondo una mia illusione:
avevo avuta molta intimità con lei, là sui monti, in faccia al
cielo.... Sullo scoglio dello Spitz mi aveva dato il braccio....

Che vuoi? Nella mia vita stupida, fredda, senza gioie e senza dolori,
mi era parso _una gloria l'essere vicino ad una vergine: pensando a te,
Lidia, che non mi amavi_! Mi pareva di non essere così brutto, o
così sciocco, o così pedante, come sono!

Perchè sarò incatenato alla tua memoria? perchè morire
scettico e illuso per te? L'essere con una fanciulla, gentile ed
elegante, in una chiesetta di montagna, il toccarle il piedino per
darle la staffa, il ricever sorrisi e la frase:--_Oh credevo che lei
fosse serio serio!_--l'offrirle fiori, confetti, erbe: il mangiare con
lei _coquettement_ sullo stesso vassoino un dolce, vedere un volto
fresco, lieto, aperto, udir una voce giovane, capisci, Lidia, che sono
cose che per me le dico tentazioni? Il tuo ricordo impallidiva.

Dovevo forse lacerare tutte queste carte. Il tuo nome solo, o mia
Lidia, doveva esser scritto su queste pagine. Invece, quante volte ti
dimentico per esprimervi sogni, speranze, illusioni! Ma questa è la
storia dell'anima mia.

Ti avrei scritto anche le orgie, gli abbracci lascivi, le ebbrezze, se
non fossi sempre vissuto così timido!

* * *

Vado a prendere del _bromuro di potassio_. È la cura per i miei
amori.


_13 dicembre._--Oggi fui in casa E. Per vedere le cose antiche sedevo
sul tappeto ai piedi di una scansia: la signorina era vispa e
spensierata, ma io sarei troppo vecchio per lei.


_15 dicembre._--Oggi prima di pranzo la mamma mi dice che Vittoria sposa
un ingegnere e va a Merate, in campagna. Ciò prova che era una
buona ragazza adatta per me. O Lidia!


_25 dicembre_ (Natale).--Sono in pace: ieri a sera ho baciati mia madre
e mio padre. Oggi De Marchi mi manda delle sue novelline pel Natale:
le dedica--_Alla mia Lina, che m'intende_, Chi intende me? Io avevo
tanto bisogno d'amici e di quiete d'animo, e come invece son
sfortunato!--Penso se mi manderà o no a capo d'anno il biglietto di
visita!


_26 dicembre._--Stanotte, morbosamente, le ho sognate tutte le
spaventose voluttà della donna. Stamattina, vedendo il sole, ho
sentito desiderio della mia fanciulla! Che importa a me di
tutto?--Vorrei esser felice.

È squallido l'oblio.


_27 dicembre._--Come sono scoraggiato! Stassera vado da Monsignor
Arcivescovo. Sono invitato come uno dei patrocinatori pel ristauro di
San Vincenzo in Prato. Che m'importa dell'archeologia? Una volta avevo
tanto dolore, ma tanta era la mia speranza! Ora non ho più dolore,
ma non ho più speranze! Apatia!


_28 dicembre._--Gli altri che lavorano hanno un po' d'ambizione ed io mi
sprofondo nel massimo sconforto! Eppure l'anima mia si sente nata per
sprezzare ogni ambizione, ogni fumo, ogni finzione, e per esser
modesto e tranquillo e felice con una donna!--Studiare? Studiare? No,
no, no! s'accresce il mio sconforto sui libri!

Devo scrivere per Treves un articolo sulla Rocchetta del Castello.
Sento il peso che mi sono imposto.

Sono persuaso che i miei sono studii di archeologia seria ed utile?
_No_: rubo dai libri. Sono persuaso che ci vuol grande fatica a studiare
e che mi manca tutto? Sì e _non ho più volontà_ di studiare. E
perchè? perchè, mio Dio, ho la mente tanto torpida? Dicono ch'io
scrivo con facilità: se sapessero il mio tormento!



«_Oh blest be thine unbroken light!_»


_1.° gennaio 1881._--È finito un anno! Un altro
incomincia!--Trepido aspettando il tuo biglietto, o Lidia.--Chi si
ricorda di me? Vittoria pensa alla felicità delle sue nozze: tu
dove sei? Come hai passato Natale? Ti ricordi che ho una famiglia?
Che dovresti averne una anche tu?

Ho lavorato fino alle cinque e mezzo, si fa buio. Presto andrò
d'abbasso pel pranzo. La portinaia mi darà il tuo biglietto?


_2 gennaio._--Jeri, scendendo le scale, mi dissi:--E se mi mandasse col
suo biglietto un altro che fosse di suo marito?--Stamattina ero quasi
libero e gaio: a mezzo giorno, tornando quassù per lavorare,
accendo la stufa. L'odore di pino bruciato mi rammenta Limbiate, e i
fuochi dei poveri focolari in novembre, e il tormento dell'anima
mia.... Non dimenticarmi che ho sofferto tanto! Non dimenticarmi!
Verrà la primavera a darmi i languori e le poesie e i ricordi....
Ed io sarò solo nell'anima mia.--Non dimenticarmi!--Vorrei guardare
il tuo ritratto, ma non oso!


_(Sera)._--Perchè mi hai dimenticato così? Non sai ch'io lavoro
per te? Che m'importa dell'archeologia, della politica, dell'arte?

Mi rompo lo stomaco di giorno nelle biblioteche, e rubo il sonno di
notte, per lavorare per te.... Senza cuore! dimenticami, ma non sarai
dimenticata da me; verrà la primavera, verranno le mie prime viole,
leggerò ancora il mio Byron.... E ti amerò! Ti amerò! _Ti
amerò sempre_!


_3 gennaio._--Oggi sono rimasto fuori di casa tutto il giorno. Tornando
a pranzo, speravo che la portinaia mi desse il tuo biglietto.... Come
due soli anni fa t'avevo santamente e mestamente pregata di mandarmi
un solo biglietto!--Nulla.--Come è squallido l'obblio! Lo sento
ora. Che scopo avrà la mia vita se anche questo sogno è perduto?
Lavoravo, lavoravo, lavoravo, perchè il mio nome giungesse a te
come un nome onorato e stimato.... Ed ora?

Il nome? il nome? Per un matrimonio, che accontenti le ciarle del
mondo, bastano i denari di mio padre! Chi sa ch'io fui casto,
tormentato, poeta e gentile? Chi lo sa? Perchè non mi sono dato
alle femmine?--Mio Dio! tu sei in alto, più in alto di me e di
Lidia e tu vedi e mi premii così! L'obblio! E perchè non la
morte, se mi cadono tutti i sogni di sette od otto anni?


_4 gennaio_.--_L'oubli seul sépare_. Siamo separati e questa volta
per sempre! O mie memorie, miei boschi di Limbiate, mio cimitero, mie
malattie!--Tutto è finito ed io coltivo squisitamente il mio
dolore.


_6 gennaio._--Suonano le campane da morto. È morta anche _l'anima mia_!
Chi conosce il tormento di questa mia solitudine?

Tu non mi ami! hai pensalo a spezzare il filo fra noi, il filo
sottilissimo? Hai provato dolore?

Io non reggo! Mi decido a mandarti il mio biglietto. Capirai perchè
ho tardato?--ho guardato il biglietto che mi hai mandato l'anno
scorso: mi sono sentito commosso.--Tutto il giorno ho studiato, e mi
sento stanco: un giorno il mio lavoro lo dedicavo a Te.

Ho preparato il mio biglietto per Lidia. Per vedere l'indirizzo, ho
voluto rivedere quello suo dell'anno scorso: la busta è povera,
c'è un francobollo meschino da _due_!--Chi è questa fanciulla?--Ti
mando il mio biglietto: tardi: che dirai? Ti annoio?--Se non mi
rispondi col Tuo, siamo davvero separati dall'_oblio_.


_9 gennaio._--Dimmi, quando sarà finito il mio tormento? Aspetto la
tua carta di visita. Se non rispondi, Ti odierò! _Sarà l'odio,
non l'oblio_!


_11 gennaio._--Perchè annoterò anche le debolezze? ho pianto! Or
ora ho incontrata la mia fanciulla....

Non scrivo! non scrivo! E supplico Dio che Tu mi dimentichi, o Lidia!
E perchè?--Chi mi vorrà un po' di bene?--La scienza, la scienza
dei libri è crudele, è crudele e mi schiaccia!--E questo stupido
pettegolezzo della politica come è vuoto! Dio mio!

Mi suona nell'anima un riso argentino di fanciulla che poteva farmi
felice.--E sono qui impotente, iroso ed odio.--Che mi valgono quelle
sciocchezze che ho pubblicato sui giornali e sui libri? Sono ambizioso
io?

Vorrei essere felice: vorrei essere contento: vorrei esser quieto.


_12 gennaio._--Quante cose ho sognato stanotte. Ero felice!


_18 gennaio._--Mi faccio forza: non voglio scrivere.... Siamo separati.
Tu _hai obliato_! Io non posso rimanere qui, in questo studio. C'è il
mobiletto, le tue, le mie lettere, il mio tormento. Come vorrei mutare
studio e incominciare una vita nuova!

Ieri a sera ho veduto il seno opulento di un modello nudo alla scuola
degli artisti: io ho aiutato a vestire quella ragazza. Dio, che
perdizione nelle carni della femmina! Ho ventinove anni e vorrei
impazzire nella voluttà.--Oggi devo accompagnare al cimitero una
mamma. Stamattina ho baciato la mia.--Il tarlo fa un gran buco nel mio
cassettone.--Come vorrei mutare!--Spero ancora.... Il mio biglietto
T'è giunto?

Forse sei partita per la Germania e il mio biglietto non Ti trovò a
Venezia.


_30 gennaio._--Siamo separati. Come hai dimenticato! _Ed io ti ho amato
tanto_!

Perchè rimarrò qui? dove tutto mi fa ricordare di Te? Vorrei
cambiare cielo e abitudini.... Vorrei la mia donna!

Non scrivo di più.--La Tua memoria è santa. Tu fosti il mio
angelo, ho tanto sofferto per Te. Ma non ti odio, no, no! Ti
benedico.--Forse sono l'ultime righe che scrivo. Seppellirò tutte
queste carte, ma la tua memoria sarà sempre in me, e lo sa Dio s'io
ti perdono.


_10 febbraio._--Perchè non posso sognarle le mie
illusioni?--Perchè sono artista?


_19 febbraio._ Anche tu, Lidia, dovevi sposarti in febbraio. Oggi si
marita quella ragazza con cui ho passato più di un'ora gentile,
là sui monti, dove tremavo di vederti.--È finita ogni mia
speranza!


_20 febbraio._--Da vari mesi trascuro i poveri, per darmi a un po' di
studio.... A che studiare? Io non riuscirò. Ho sempre scritto
pensando a qualche anima gentile.... Ed ora? _Che deserto_!

Mio Dio, Ti supplico, ginocchioni, gettato a terra Ti supplico, fammi
morire!

Ho letto le memorie dell'anno scorso.--Mio Dio, fammi morire.
Risparmiami un altro anno di tormenti.

Trovo nel cassetto una memoria che mi diede Vittoria. Oh piango!--E
devo scrivere pei musei e pelle biblioteche.

Ho lavorato cinque ore. Scendo. Trovo i confetti della sposa.


_21 febbraio._--Perchè sono sì sconfortato?--Si muore così bene
a trent'anni.


_25 febbraio._--Ho lavorato tutto il giorno, come un somaro, come uno
scolaretto. A chi dedico ora i miei pensieri?


_26 febbraio._--Ho sentito le campane--solenni--di San Carlo suonare
come in quelle sere in cui dopo la mia malattia nel 74 io passeggiavo
solo nei giardini pubblici... O Lidia, come Ti amo ancora!

Oh suicidio!--È sera: è buio. Dispero.--Lidia, non potei
resistere. Lessi una tua lettera a me: tu fai voti pel mio
avvenire.--Sono scorsi due anni e Tu mi hai dimenticato!


_27 febbraio._--Hanno finito di sorridere per me le fanciulle.... e non
mi hanno mai sorriso.--Come vi voglio bene, o miei ferri vecchi, o
povere armi, che fra tante tempeste mi avete dato occasione a un po'
di svago! Le conosco tutte:--alcune mi rammentano delle date: quando
Lidia mi scrisse: quando scrissi a Lei: quando ero disperato: quando
ero consolato...--Avevo giurato di non aprire più queste memorie,
di perdere la chiave di questo cassetto. Se potessi mutare camera,
idee, abitudini, e pigliare un po' di speranza!


_28 febbraio._--Povero mio cuore!... Sciocco! povera mia carne che nulla
godesti, che avesti l'inferno nelle fibre e che sarai mangiata dai
vermi! Povera giovinezza che sei passata, senza godimenti, senza
voluttà, senza ubbriachezze!--E il mio inno a Dio?


_3 marzo._--È primavera: è giovedì grasso, ho assistito in
cimitero alla cremazione del prof. Goletti. Una donnina elegante e
bella ciarlava. Gli uccelli sentivano l'amore.--_Sono solo!_--Stanotte
ho vegliato penosamente. Mio Dio, darei tutto a' tuoi poveri,
sacrificherei questa mostruosa passione per le cose antiche, mi
rinnegherei, ma Tu dammi--_per un'ora sola_--il conforto sommo di
appoggiare la mia testa sul seno di una donna che mi ami--che io
ami!--Chi mi ha amato? È primavera: mi guardo nello specchio--come
sono brutto io!


_4 marzo._--Perchè questo sconforto? Perchè ti ho amato troppo. E
Tu lo meritavi?--Cominciano i giorni delle indecisioni, dei dubbi,
degli spossamenti.--Dammi l'oblio,--dammi anche l'imbecillita: ch'io
non abbia più memoria.


_5 marzo._---S'io prendessi moglie avrei coraggio di distruggere queste
annotazioni? Avrei coraggio di conservarle?--Non prenderò moglie.


_6 marzo._--Un giornale, la _Lombardia_, parlando delle cose politiche, mi
insulta. Che m'importa?--Ieri a sera ho accompagnato mia madre alla
fiera di Porta Genova, ero felice d'averla con me. Oh sento come
spenderei bene le mie premure con una donna!

La notte veglio penosamente. _Sento un gran vuoto_! Mio fratello ieri
non si sentiva bene: ed io penso come sono cattivo con lui. Gli
darò tutte le mie armi. Che mi resterà per un po' di svago? Le
mie armi mi danno l'unico conforto: mi sento artista!


_7 marzo._--Come sono melanconico, la mattina quando mi desto!--Come mi
spavento pensando che il mio nome è lanciato al pubblico! Chiunque
mascalzone avrà diritto di sindacare i miei atti della vita
privata? Come mi spiacerebbe s'io divenissi ridicolo!--Chi mi
insulterà? E rinuncierò io a quella soavissima e dolce pratica
religiosa della eucarestia? ho sempre pensato a Te, Lidia.

Perchè non lavoro? Perchè l'unica mia gioia è il desiderare
la morte? Qui nel mio studio sono tormentato da tutti i miei ricordi,
da tanti rimorsi, da troppa sfiducia.

--Perchè ricordo quei mesi in cui studiavo il tedesco e l'inglese?
Sono qui ancora i miei libri, Goethe e Byron, e mi fanno la più
grande tristezza.--Disimparo le lingue per dimenticare le mie prime
illusioni. O mio Gesù, lessi per primo libro in inglese e tedesco
il tuo santo vangelo. Come era il mio amore?


_9 marzo._--È una splendida giornata. A questo sole, a questo cielo,
a questa gran vita che si diffonde io grido:--Mio Dio, fammi
morire!--Come è profondo il mio sconforto! Di notte veglio
tormentosamente pensando al mio avvenire. L'ho aspettata con ansia la
primavera, per lavorare quassù al tepido, all'aria dolce, ed oggi
mi sento che il marzo e l'aprile vengono a spossarmi funestamente. Non
ho più la speranza in Te che mi consoli: ho la tua memoria che mi
tormenta.--Ho bevuto stanotte molto bromuro di potassio. E come sono
turbato! Devo fuggire da questo mio studiolo. Quanta tristezza!--Dove
vado? In biblioteca fra i libri vecchi. Fuggo! fuggo da questo
abborrito studiolo!--E quando, vecchio, sempre più disilluso, o
infelicissimo o colpevole o--peggio--_sterile_, quando le cercherò
ancora le memorie della mia giovinezza?


_10 marzo._ (Sera).--Suonano le avemarie. Come sarei felice vicino ad
una donna! Nel buio scomparirebbero le mie bruttezze. Forse parlerebbe
potente--poetessa unica--l'anima mia. Oh miei ricordi!

Credevo d'esser ambizioso e non lo sono!--Sono ammalato.

Era di marzo; ero convalescente, ero innamorato dei fiori e dei
bambini, nel 1874, amavo amavo amavo la mia fanciulla! E mi cadevano i
capegli e mi sentivo buono!--Ed oggi?

Adorai la Madonna nella Pinacoteca. Nel mio studiolo, venne un
giovinetto mio conoscente, profumato, elegante, _distinto_.... Come in
faccia sua mi sentivo piccino e sciocco e originale!


_17 marzo._--Ho qui le bozze delle sciocchezze archeologiche che ho
scritto pel Vallardi. Stamattina ho giocato con qualcuna delle mie
armi antiche di predilezione, ero contento! O perchè ognuna di voi
ha un ricordo per me?

Una sciocchezza. Il mio articolo pel Vallardi fu composto da varie
donne. Vi leggo i nomi scritti in lapis. Perchè è un buon
augurio? Perchè di così poco mi sento contento?


_19 marzo._--È primavera. Stasera dovrò presiedere la Commissione
degli studi alla Patriottica, una commissione di professori e di
_illustri_. Che m'importa della scienza?

Sono nervosissimo.--Queste cose antiche che mi stringono d'attorno
sono polverose. Vorrei avere dei fiori e degli uccellini.--È
primavera!


_25 marzo._--Stamattina dissi a mia madre: ho il _nichilismo nell'anima_;
dovevo dire: _ho l'amore il più potente_! E chi ama me? E così
domandando chi mi ama, che sarà di me, se sarò felice, così,
aspettando, pregando, soffocandomi, bestemmiando, ho lasciato scorrere
otto anni, i più belli della giovinezza.

Sto correggendo le ciarle archeologiche pel Vallardi. Penso a Limbiate
in questo giorno piovoso, e leggo qualche verso di Byron.

Fra sei giorni devo fare il buffone (per beneficenza) alla Patriottica
ed oggi voglio uccidermi in uno dei peggiori accessi di amore e di
odio.


_28 marzo._--Continua il mio parossismo.--O mio avvenire! Oggi voglio
fare una visita in cimitero.

Ma perchè scrivo? È _l'unico mio conforto_.

_(Sera)._--Perchè vengo quassù? Per annotare: anche questo giorno
è passato, un giorno di noia, di sconforto, di tormento, come tutti
gli altri. A _trenta anni_.

Sento un suono di pianoforte. O mio gentile, o mio santo, o mio mesto
ideale della donna!


_(Sera)._--Il parossismo è passato.--Sono spossato!


_1.° aprile_.--La mia giornata incomincia colla noia. Io non posso
più stare in questo odiato bugigattolo del mio studio, dove mi
perseguitano tutte le memorie più tristi.... _Si je vous ai fait
du mal_.... Senza dubbio, mi hai fatto un grandissimo male.

Le mie memorie più dolci sono quelle di Limbiate, dei boschi, delle
solitudini, del cimitero. Ieri ho visitato Mantegazza, De Albertis,
Induno, nei loro studi: come li invidio! Il mio studio l'avrò, e
nel mio studio verrà una donna a sorridermi?... Mi guardo nello
specchio. Non ero poi sì brutto: dopo la malattia ho perduto i
capegli e la giovinezza. Ero venuto quassù per scrivere il verbale
della Associazione Costituzionale.

Perchè gli altri miei amici sono contenti?

Vidi ieri un mio amico--un gentile e bel giovinetto. Come lo sento il
desiderio d'essere gentile e bello.

Torno quassù. Che disamore! che mancanza di fede e di
entusiasmo!--Tutti i giorni l'istessa noia: la biblioteca, la
Congregazione, la Patriottica.

Spossato come sono, morrei calmo e, direbbero i miei parenti, sereno.
Non spero nulla. È finito tutto per me! Non leggo più Byron
nè Goethe nè Dante: disimparo il francese, l'inglese e il
tedesco (oh mie notti invano spese!), e oblio tutto, e se mi faccio
inscrivere alla Società Storica Lombarda è per ironia.

Che importa a me di ciò che è grande e nobile e generoso?

La mia noia mi avvelena tutto.--Andrò in Biblioteca.

Una sola passione mi rimaneva--le mie armi. Un solo odio mi
rode--l'odio contro me stesso che nulla volli o seppi godere nel mondo
inebbriante. Che importa a me di tutti questi sogni? Da otto anni, da
dieci, da dodici anni, io farnetico: c'è da impazzire.--_Ora tutto
è finito_!

_L'oubli seul sépare_.--Ecco l'obblio.

Hai ucciso l'anima mia.


_(Sera)._--S'io prendessi moglie?--Oh suicidio!


_2 aprile._--Proprio nel momento in cui preparo la tromba per la
buffonata di stasera alla Patriottica (che tormento per me!) apro il
mio mobiletto, e leggo questa mia frase a Lidia--_La mia giovinezza non
ha più scopi_.

L'anima mia è ammalata a morte. Mi divertirò stassera? Farò
ridere gli altri? Non volevo scrivere, ma lessi.... Dopo due anni, ho
pensato sempre a te, o Lidia.


_5 aprile._--Come sei triste, o primavera, per me!--Sono disoccupato. Il
mio cervello si ottunde: sento un peso alla testa: non saprei scrivere
due righe. Potessi divenire pazzo!--Vorrei viaggiare, ma ecco un nuovo
tormento: non posso, e potendo non vorrei: il sole mi macchierebbe
orrendamente la faccia: sono già sì brutto!

Ricevo la notizia che il povero Don Angiolo di Limbiate è morto e
già sepolto. Ecco un altro anello al nostro passato che si spezza.
Ricordo i soli delle brughiere, le nostre caccie, i nostri giorni
felici.


_7 aprile._--Ieri ho fatto una visita in casa G. La signorina è
gentilissima con me. Arriverà il giorno in cui io abbrucierò
queste pagine? È un sacrificio necessario pel mio avvenire.--Sono
stanco, impigrito, senza speranza, senza dolore e senza
gioia.--Perch'io possa mutare vita è assolutamente necessario ch'io
non venga più quassù, ch'io non pensi più, ch'io non prenda
più la penna.... A che?--Lidia mi ha fatto gli auguri di un
avvenire felice. Sarò felice? Con chi?--O la mia vita sarà nel
dolore _sempre_ per lei che si è dimenticata di me?--Ti sei fatta
sposa? Dove sei? Dolore! dolore! dolore! Non so scrivere e non so
sperare.

Oggi _per gli altri_ fui impaziente e risoluto: per _me_
sono sempre stato un somaro e uno schiavo.

È primavera. Rinverdiscono gli alberi: tornano le rondini.... Un
poco di pace, un poco di pace!--_cessi l'odio_.

Oggi ho comperato il letto a una povera mamma giovane. Una volta la
carità la facevo in nome Tuo, ispirandomi a Te, o Lidia, ed ero
gentile... Ed ora?--Bisogna ch'io fugga _questo luogo e queste memorie_.


_Domenica 10 aprile_.--È domenica. Io non prego Dio: ma lo maledico:
io impreco, io bestemmio, perchè io _odio_. Tormenti indicibili
d'amore e d'odio, di gelosia, di furore! E c'è il mondo che vede,
che parla, che vuol ciarlare, che ciarlerà: quindi io chino la
testa, e mi _soffoco_: mi vinco, mi uccido, mi sbatto a terra e faccio
l'indifferente!

_L'indifferente_?.... Fuggi! fuggi, lontano lontano, viaggia e
dimentica.--Perdo in salute, peggioro il mio carattere: ma sto
qui...--Ho letto con voluttà mestissima le _mie ultime volontà_ a
mia madre. O gente positiva, come ridereste voi se mi vedeste
piangere! Mi ammalerò ancora? perderò i capegli? diventerò
gentile nell'anima ma schifoso nel corpo?

--Prendi moglie, mi dicono gli amici, e una signorina mi fa tante
gentilezze, una signorina ricca, d'ottima famiglia, e côlta.


_(Sera)._--A te, povero foglio di carta che puoi essere bruciato, a te
consegno le espansioni dell'anima mia--il sangue del mio cuore.

S'avvicina Pasqua e spererò nel perdono di Dio. Dio non può
perdonarmi.... Eppure ti prego ginocchioni:--Fammi morire, prima ch'io
muoia maledetto dagli altri e fa che tutti sappiano ch'io muoio,
augurando la felicità agli altri.

Rilessi le memorie dell'aprile dell'anno scorso. Dove seppellirò
queste pagine?


_14 aprile._--Ho messo in ordine queste mie cose vecchie. Ho cambiato di
posto a' miei manoscritti e a' miei libri letti nella malattia del
1874. Per far luogo.... a che? Spero ancora di scrivere?--Oggi sono
stanchissimo. Sono spossato dall'odio e perdono! Ma che scopo ha la
mia vita?--Due dì fa sono stato a Limbiate: oh primavera! oh
primavera, come io ti sento! Vidi i fiori, i bambini, le rondini, le
farfalle. O fanciulle, se sapeste come io mi tormento!--Giù, là
in fondo, in quel terzo giardinetto tutto il dì siede una mamma
felice e gentile.


_15 aprile (sera)._--Venerdì Santo. Tu risorgerai, o Gesù, ma
l'anima mia è morta.--Sono spossato, Oggi ho pensato delle cose
gentili, pure, con un po' di speranza.


_16 aprile._--Ho accettato di scrivere le appendici artistiche del
_Pungolo_ per l'Esposizione. Avrò coraggio di scrivere? E che
scriverò?... Uscivo dalla Direzione del _Pungolo_: mi sentivo
contento, superbo: con un po' di speranza.... Perchè Ti ho
ricordata? Il mio supplizio deve essere eterno?


_17 aprile._--Un po' di giorni fa sono stato a Limbiate. Come ho
ricordato i miei tormenti! Ho tentato di scrivere un racconto _Tisi ed
isterismo_ per scrivere i tormenti di un giovane e di una giovane: oggi
trascrivo qui queste righe:--«Il corpo sentiva addoppiarsi la vita e
la robustezza, sentiva un veleno diffondersi prepotentemente per tutte
le fibre: v'erano dei momenti in cui tremavo di febbre e sentivo come
in me spezzarsi qualcosa, dei momenti senza mia coscienza in cui mi
gettavo a terra, abbracciando l'immensa madre. Nei campi graffiavo a
smuovere le zolle, cercando la feconda vita degli insetti e dell'erbe,
odorava con voluttà l'odore che usciva da quelle viscere, scaldate
dal sole. Questa terra coprirà un giorno le mie ossa, dicevo, e
precorrendo col pensiero, vivevo una vita superstite nei mille atomi
del mio corpo, che si sarebbe sfatto, per rinascere, per fecondare
l'amore degli insetti e dell'erbe: e gioivo, gioivo, piangendo, e
parevami che le mie mani strette negli steli, i miei capegli mossi dal
vento, il mio occhio fisso in qualche fiore, mi dessero la massima
delle voluttà, che emana dai capegli di una maliarda, dall'abito
infocato, dalle pupille spossate. Terra! terra! Come ti ho amato! E da
quei deliri, da quei contorcimenti mi levavo, fissando lo sguardo nel
cielo....»

Chi capirà il mio tormento?--Vi vidi insieme e contenti! Oh siate
felici!


_(Sera)._ Leggevo una lettera di Lidia a me, la più gentile, la
più confidente.... Ed ecco uno sciocco amico, illuso letterato, mi
chiede denaro.... Vita stupida fra questi giornalisti!--Che scopo ha
la mia vita? L'Arte?--Non credo all'Arte.


_Lunedì 18._--Ieri a sera, vicino ad una Birreria e casa di giuoco,
mentre raccontavo ad un mio amico d'infanzia i miei scoraggiamenti e
le mie amarezze, udii il suono dell'orgia. Voci di donne e canti di
avvinazzati.... Dio! perchè mi fai tanto soffrire?--Oggi visitai un
mio amico che è felice pensando che sposerà la sua _Zozò_: cara
famigliarità! dolci scherzi! tenere confidenze! _My dear Zozò_.

--Sono rimasto qui al tavolo _più di tre ore_. Non mi è uscita
un'idea mediocre dal cervello. Come farò?


_(Sera)._ Dottore, dottore, senti il mio martirio orrendo. Ho amato una
vergine: mi ha dimenticato: e sono legato a lei. Quella vergine non la
vedrò più, ma spero nel perdono di Dio.

Dottore, dottore, come si guarisce da queste malattie? È orrendo il
mio tormento! Che cosa ho fatto per meritarmi tanto castigo? Mio Dio,
la mia fede era tanto gentile e l'anima mia era sì pura!


_Martedì 19._--Io non reggo più. Ho dormito affannosamente con una
smania terribile.

Sono l'ultime righe che scrivo. E come se morissi e ricevessi il pane
dell'amore di Dio, parlo a tutti dal profondo dell'anima
mia.--Perdonatemi tutti: sii felice, tu prima di tutti e di tutte, o
Carlo. Sii felice, Tu, povero Peppino, e ricordati di me che ti ho
amato tanto e ti ho sempre ispirato gentili sensi di affetto e salde
parole di _dovere_: cresci buono e studioso e fidente nella vita.
Perdonami, o R., il mio _Tintoretto_, il mio _Giuliano_!... E Tu, Lidia,
povero cuore, Tu, gentile mia illusione, ricordami, se puoi, ricordami
come si ricorda un fratello. Ma non odiarmi! E perchè? perchè
odiarmi? Dio ti conceda le dolcezze che a me vennero dal tuo ricordo,
quelle sante paci, quelle soavi e purissime religioni. Non ti affligga
Dio coi miei martirii. A te ripeto: _Sii felice! sii felice, sii
felice!_ come quattro anni fa. E ricordo che anche tu mi avevi fatto
questo augurio: _Soyez heureux comme vous méritez de l'être_.--O
Lidia, il mio pensiero era di darti mia madre, di darti il mio cuore,
di farti contenta, ed io avrei lavorato, forse avrei acquistato un
nome, e Tu dovevi essere la mia _pace_. Perdonami e sii felice!--E a Te,
mia mamma, che dico? Quante volte mi sarei ucciso, ma sempre ho
pensato a Te. Eccoli, o mio amore sincero, costante, vigila, eccoti il
mio cuore.--Non spaventarti dei miei martirii e delle mie bestemmie.
Ho avuto dei momenti di fede così gentile, che Dio mi salva.

--Credevo fossero l'ultime righe! Ancora aggiungo:--O mia madre, o
mia Lidia, perdonatemi, ricordatevi di me. Ancora una volta
perdonatemi, perdonatemi.


_5 maggio 1882. Venerdì._--È passato più d'un anno: ed apro il
mio mobiletto: e noto questa data....

Come sono invecchiato! Non ho più fede! Non ho più speranza! Non
ho più coraggio! Ho aperto questo mobiletto per vedere se c'erano
nascoste certe mie annotazioni di cose antiche militari.--Da Lipsia,
Sacher-Masoch mi invita a scrivergli un articolo.... È questa la
gloria sognata? Il mio articolo sarà tradotto in tedesco.

Chiudo ancora il mobiletto: e non l'aprirò più fino a un altro
anno. E poi?

Oh chiudete me sotterra!

Non amo più le mie memorie.



SCHIZZI DAL MARE

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ACQUERELLI.



CARTA SCIUPATA.


                                        Da Milano.

Prima di chiacchierare un pochino e di aprire un foglio solo del mio
gramissimo albo, devo dirvi, o amici miei, che ai tanti di luglio dell'anno
di grazia 187..., in una caldissima ora di mezzogiorno, io mi trovavo in un
vagone di seconda classe: e devo dire che il conduttore aveva spalancato lo
sportello, gridando:--Serravalle!--Viaggiavo da modesto _baccelliere_:
avevo lasciato Milano e correvo inverso Genova. Da Genova, alla ventura,
dovevo partire per qualche paese della riviera.

Ora che ho posto la data di luogo e di tempo, fedele come un notaro,
permettete che io mi presenti a voi con una penna d'oca e una
cartaccia in mano, come siete soliti a vedermi e a canzonarmi. Ma
aspettate!... La penna, a vero dire, l'avevo già stizzosamente
rosicchiata da un mezzo mese e già era caduta in minuzzoli e
sfilacci sulle pagine del mio _Codex repetitæ prælectionis_: la
cartaccia era nelle mie mani e sotto i miei occhi (e c'è ancora nel
mio cassetto): e ve la spiego innanzi, avvertendovi che contiene tutta
roba rubata. Ma per mia scusa dico che niente mi pareva di più
naturale: cioè voler sapere qualcosa e volerlo con minore fatica.
Se desiderate, leggete:

  «Il paese compreso fra il Varo e la Magra, fra l'Alpi, l'Apennino e
  il mare chiamossi anticamente Liguria, e Ligustico il mare interposto
  fra le amene sue rive e la Corsica. Prima delle guerre e delle
  mutazioni di stato avvenute in Italia per effetto della rivoluzione
  francese del 1789, tutta quella contrada, divisa in Riviera di
  Levante, Riviera di Ponente e marchesato di Finale rinchiuso in
  quest'ultima divisione, e denominata la Repubblica di Genova,
  corrispondeva in grandissima parte all'antica Liguria: perciocchè
  la contea di Nizza e la signorìa di Dolceacqua, Oneglia e Loano
  erano in potestà del re di Sardegna; Monaco, Mentone e Roccabruna
  formavano un principato dipendente da una famiglia francese» _et
  cætera_: «E quantunque la repubblica signoreggiasse eziandio un
  tratto nella Lunigiana e una parte delle pendici settentrionali
  dell'Apennino verso la Lombardia, erano nondimeno i monti liguri feudi
  imperiali appartenenti a famiglie genovesi» _et cætera_:
  «Riviera di Ponente, di lunghezza littorale miglia 102: Riviera di
  Levante lunga miglia 60: e paesi al di là dei gioghi, come Novi,
  Carcare, Calizzano ed altri» _et cætera_: «Il clima di tutta
  la Liguria è salubre, temperato, favorevole alle produzioni più
  preziose dell'Italia. Il suolo non è generalmente fertile: in
  qualche luogo è coperto di foreste, o presenta pascoli deliziosi:
  in altri invece non offre se non nude ed aride rocce:» _et
  cætera_: come olii, vini, agrumi, castagne, fichi, mandorle ed
  altri frutti. «Le antichità più notevoli del genovesato sono:
  le rovine di Luni, presso Sarzana: di Libarna alle falde dell'Apennino
  e a settentrione di Genova: d'Alba Docilia (la moderna Albisola
  Superiore) e di Vado, poco discosto da Savona; il ponte romano....»

Vi avverto ancora che queste notizie scritte sulla mia cartaccia sono
tutta roba rubata: io non ne so tanto: vi domando perdono e ve ne
interrompo la lettura; perchè anche a me l'interruppe la voce del
conduttore, che, avendo gridato:--Serravalle! Serravalle!--di tutta
forza sbattè lo sportello del vagone.

Fu proprio a Serravalle ch'io chiusi il dotto foglio, e lo misi nella
sacca da viaggio: poi, quando il treno s'incamminò, sbuffando,
cigolando, sbatacchiando i cuscinetti, avviandosi colla cadenza
misurata degli stantuffi e col pettegolo bollire della caldaia, io,
affacciatomi alla finestrella del vagone a tutto mio agio, giacchè
ero solissimo, incominciai a guardare le valli e i monti e il cielo.

E pensavo, pensavo. Al mio occhio scappavano i pratelli, scappavano i
vigneti, scappavano i colti rapidamente. E qua una chiesicciuola,
là una villa, qua un ponte, là una capanna di paglia mi facevano
nascere cento voglie e mille... Come posso dirle certe bizzarrìe?
La poesia della natura mi stringeva il cuore dolcissimamente.
Desideravo due gradini su un umile sagrato, per sedermi a sera su uno
e per contemplare l'altro deserto: desideravo un'aiuola di rose
fiorite per gettarvi in mezzo le pagine di un libro melanconico:
desideravo un fiume corrente che mi susurrasse:--_Semper_--o un placido
seno d'acque in cui sfiorasse l'ali acute la rondinella e fuggisse
agli azzurri del cielo: desideravo un covone di paglia dorata sul
quale una villanella sedesse, intenta a cucire un grembialino.... Alla
mia immaginazione la chiesicciuola mi schiudeva le porte: vedevo il
battisterio polveroso, giù le lastre delle tombe, le madonne, i
seggioloni, gli stinchi dei poveri morti, la luce che scendeva dalle
vetriere a tramontana: ed io sedevo su un gradino dell'altare; l'altro
gradino non era deserto, ma sparso di petali di fiori.... Che v'era
accaduto? Mi pareva che il ronzìo dell'organo, come un calabrone
s'aggirasse alle volte cercando un'uscita. La villa mi invitava ai
giardini, ai prati, ai sedili, alle aiuole, alle scalee di marmo. E
quanto belle erano le bianche anticamere, le fresche sale, i terrazzi
inondati di luce! E dappertutto mi giungeva una fragranza di rose e di
donna, e un lontano murmure di poesia, triste nella dolcezza, come la
memoria o il presentimento di un sogno. Mi trovavo dunque felice, e
perchè?... Il fiume mi mostrava nel suo fondo le vene rosee e
candide di ghiaia, i tappeti di sabbia, i guanciali di alghe, e sulle
rive i campi, i paesi, i mulini: e su e su, a ritroso della corrente,
io volevo andare alle scaturigini: e là volevo piangere. Mi trovavo
dunque infelice, e perchè? Ma l'acque fragorose dicevano;--Che sono
le tue lagrime per il corso nostro? Noi andiamo al mare.--Il seno, che
il fiume lasciava a uno svolto, aveva le sponde tranquille e le
campanule tremolanti alla superficie: una fanciulla sorridendo si
specchiava nell'acqua, ma le ondine gorgoglianti dicevano:--Che è
l'azzurro de' tuoi occhi per la faccia nostra? Noi riflettiamo il
cielo.--La capanna che desideravo si apriva, e la villana, che sedeva
sul covone, cantava allegra allegra, riacconciando il grembialino del
figlio morto pel figlio che le nascerà...

E così sognavo, sognavo. Al mio occhio scappavano i pratelli,
scappavano i vigneti e i colti e i monti rapidissimamente.

Un treno che passò sul binario vicino, squarciando l'aria come una
negra meteora, mi fece ritirare la zucca dalla mia finestrella.
Dov'ero? Ah! nel vagone. Con buonissima volontà rifrugai nella mia
sacca, presi il foglio della descrizione, roba rubata, e volli cercare
un rifugio alle fantasmagorìe che mi rendevano il capo leggiero,
come una bolla di sapone, vuoto e iridescente: feci forza per leggere,
e lessi.

Due ore dopo, alla mia destra, al di là di un paese coi tetti di
lavagna e le torri delle fucine fumanti come la gola di Vulcano,--io
vidi il mare! Che contemplazione fu la mia! Il mare!

Era di un azzurro intensissimo: si confondeva all'orizzonte con una
zona lucente: finiva alla spiaggia colla catena mutabile delle onde,
che si gonfiavano colle loro crespe spumanti, piene di guizzi, di
luce....

È impossibile ch'io descriva quel primo amore che mi trasse
all'infinito facendomi rigurgitare l'anima in petto, spandendo il mio
desiderio nei liberissimi cieli!

Quando raccolsi la cartaccia da notaro che m'era caduta di mano, e
quando la riposi in fondo alla sacca, proprio in fondo trovai il mio
albo sfogliato, quattro sbiaditi colori d'acquerello, due pennelli
arruffati.

Sulla quale carta, coi quali colori, coi quali peli avevo intenzione
di buttar giù qualche poverissimo _acquerello_.



OMNIBUS.


                                        Sobborgo di Genova.

Filatere interminate di vagoni, ruote scorrenti nel polverio nero,
carichi immani, locomotive tozzotte dal fischio che pare lamento di
fatica, io vi saluto. Luccicate al cielo, rumoreggiate sotto le
gallerie, scuotendo le ossa fossili dei primi uomini, portate
ricchezza, col vostro strido destate il _fiat_ della vita, e col fumo
mandate l'incenso santissimo, l'incenso del lavoro. Passate e passate.

Dove me ne vado io?

L'agenzia degli _omnibus_ da Genova per la riviera mi pare posta innanzi
a una bottega da parrucchiere. È cosa sicura: lì, su un
piazzaletto vi sono e carrozzoni e bestie e mulattieri, un subbisso
d'affaracci. Mi ci incammino. Chi può dire com'io abbia le orecchie
straziate!--_Sciü, sciä ven? Sciü, sciä, ven?_---Chi vuol
condurmi qua, là, lontano, vicino, più oltre, sulla strada, a
pochi passi, alla casa. Ma no, no, no! Voglio andare a Sestri Ponente!

Nella bottega, Balilla, l'impresario _coiffeur_, in maniche di camicia,
ti rade il baffo destro, o marinaio, ed esce a dare la pietanza alle
rozze; ti rade il sinistro e scappa fuori ad ungere le ruote
all'_omnibus_: ti lascia, e sei tutto pelato, coll'unico pizzo genovese,
sotto il labbro inferiore. Oh che figura! E intanto passano sul tuo
volto insaponato ombre di code irrequiete per le mosche, ombre di
camiciotti svolazzanti all'aria della marina, ombre di ruote, e
lustri.... di fanali e di ottoni? Oibò: lustri d'occhi. O
genovesine bellocce, per amore dei vostri occhi desiosissimi, vi prego
d'una cosa: date un buffetto al damo quando vi compare innanzi col
solo pizzo, e dite che i bersaglieri lombardi hanno i baffi audaci
alla Manara.

Il parrucchiere, che li lasciò col baffo dritto raso, uscì col
troguolo della biada.--_A Sestri! a Sestri!_--incominciò a gridare,
col sorrisine genovese, quello che nasce dalla golaccia delle _palanche_
e che si invernicia di un: caro, sono tutto ai vostri comandi, da
umilissimo servitore.

--_A Sestri! Sciü, sciä ven a Sestri?_--così si fece incontro
a me che giravo un po' lontano dalia piazzuola, e davvero aspettavo la
ventura: così mi invitò, ed io andai lì dinnanzi ad una
specie di barcaccia spellata sulle ruote, aggravata su due cavallucci,
che labbreggiavano al di sopra di un truogolo.

--_Sciü, sciä ven a Sestri?_

--Quando partite?

--_Allun! sciä munte chi, che mi vaggu cumme u vapure._

Ed io stetti per porre il piede sul predellone di quell'_omnibus_ che
sembrava già pronto.

Intanto che il parrucchiere rientrò in bottega, o marinaio, e ti
rase anche il baffo sinistro, io di botto mi sentii alle nari un puzzo
così virulento, che mi parve si fosse aperta la vetrina di un
acquavitaio, ed ascoltai nelle orecchie questa vociaccia soffogata che
diceva:--_U Balilla u nu parte mancu in te chì e staseia. Sciü,
sciä munte con mi._--Mi volsi e vidi un camiciotto sbiadito, un
volto d'arrosto, un cappellaccio di paglia: un vetturale che
m'additava un'altra barcaccia sulle ruote, i cui cavalli aspettavano
il turbinìo delle frustate. Tra l'attendere un'ora sotto al sole, e
il mettersi in viaggio tosto, è naturale che si scelga. Detto,
ascoltato, fatto.

Il parrucchiere che uscì per ungere le ruote del suo _omnibus_ e che
tornò a gridare:--_A Sestri! a Sestri!_--vide me che ponevo il piede
sul predellone di un _omnibus_ rivale. Altro che Ballila che gioca il
tiro al tedesco! E il camiciotto nemico peggio! Che furia! Io divenni
quasi smorto, e quasi lasciai cadere parasole e sacca.

--_Pelandrun! galeotto! Ti me vëgni a robâ i posti? Se ti nu
me-a paghi oræ diventa...!_

--_Cöse t'eû che te paghe? T'æ i cavalli guersci e ranghi,
l'omnibus co-e molle rutte, che da ûna parte u l'ha u xembo cumme
tò muggië, e t'eû ancun che te a paghe?_

--_Puscioû che te vêgne mille diai in corpo! T'eû ancun avei
raxun? U sciü u l'ëa xà con mi._

--_Se u l'ëa xa con ti n'ho piaxei: oûa u l'è con mi. L'è
a i bigetti che mì dagga mente. A Sestri! a Sestri! Partimmo
subito!_

--_Pendin da furche!_

--_Ti me caxiæ sotta æ grinte!_

--_Ti me caxiæ sotta æ grinte, e se nu te rumpo quello brûtto
muro lì, ciû tösto me fassu appende!_

--_A Sestri, a Sestri!_

--_A Sestri!_

--_Sciü, sciâ munte con mì!_

--_Sciü, sciâ munte con mì!_

--_Con mì!_

--_Con mì!_

Questo è quello che si può scrivere. Le bestemmie genovesissime
venivano giù come la tempesta maggenga nelle litanie dei santi: e i
due furibondi si tenevano, come su un bastione, Balilla ritto sulla
cassetta dell'_omnibus_, colla frusta alzata; l'altro con un piede sul
predellino davanti e il sinistro sul mozzo della ruota pronto ad
investire.

Grida e bestemmia, bestemmia e raglia, arrivarono i rinforzi: vennero
fuori cioè dalle stalle e dalla barbierìa tanti garzonacci
membruti, che alle litanìe risposero l'_ora oro nobis_ ma con che
indulgenza!

--_Pelandrun!--Pelandrun!--Galeotto!--Galeotto!_

--_U sciü u l'ëa xà con mi!_

--_Oûa u l'é con mi!_

Io mi sentii tirare le falde dell'abito, ed afferrare il parasole e la
sacca, poi spingere innanzi, e poi strappare indietro, e risospingere.
Intorno si urlava come tanti insatanassati: temevo le forche e i rasoi. E
già fuggivano spaventate le colombe ai tetti, scorrazzavano i cagnuoli
arruffati, e dondolavano i piattelli all'insegna del parrucchiere....

Làh! manco male: a dividere il campo di battaglia arrivò in tempo una
lunga fila di muli carichi di sucidissime corbe, tempestanti
maledettamente coll'unghie, colle code a sferza.



LO STABILIMENTO DEI BAGNI.


                                Spiaggia di Sestri Ponente.

Nel descrivere questo stabilimento di mio non ci metto nemmanco una
banderuola, nè una fune: punto primo, perchè non sono azionista
di quella società di marinara e marinai, amici più del vino che
dell'acqua benedetta: punto secondo, per amore del vero.

E faccio conto che vi sono circa a trenta baracche o _cabine_, allineate
verso il mare, coperte di tela, e questa rare volte è comperata e
tagliata apposta, ma spessissimo staccata da un albero da _paranzella_,
perchè già troppo stirata ai quattro venti: fors'anche bucata?
Oh allora.... Zitto, là, linguaccia. Quanto al mettere pezze il
genovese pare fatto espresso, e le bagnanti non dimenticano punto gli
spilletti riparatori, se mai.... Tra l'una e l'altra baracca vi sono
certi vicolucci, certi vicolucci.... Lah! tiriamo dritto, senza
odorare gli acri profumi di certe tolette.... Vi sono dei vicolucci
che lasciano vedere terra terra qualche lembo di lenzuolo cascante,
qualche tacco di stivaletto arrovesciato, qualche legaccio
insidiatore. Scappa, scappa, santo Antonio dalle tentazioni!

Tra la quindicesima e la sedicesima baracca, press'a poco, vi è
tanto spazio da collocare due panche e sette od otto scannelli di
Chiavari, e da fare, spiegando a cielo una tenda a liste bianche e
turchinicce, un'anticamera al mare e un verissimo bagno a vapore ai
poverini, alle poverine, che hanno la sventura di aspettare. Qui è
ritto un palo bianco che porta una bandiera coi tre colori sul campo
giallo dato dalla spruzzaglia del mare, dal sole, dalla pioggia.
Più in là, vicino alla palizzata che chiude il cantiere, sta la
maggiore baracca degli azionisti, cucina, magazzeno, dormitorio,
cantina: n'esce il fumo nauseoso dei _friggæ_, n'escono i rosari
genovesi: là vedi le facciuole paffutelle dei bimbi addormiti, a
guanciale la sabbia: là spii il bariletto tenuto in guardia dal
cagnuolo bruno. Da quella trabacca ai pali del cantiere sono tese
tante corde, e su queste, spettacolo della caducità delle umane
cose! stanno i vestiti marinareschi delle signore, a braccia
penzoloni, slavati, flosci, i neri conci in verdi, i bianchi in
gialli, sbiadite quelle poche filettature rosse da diavoletto, perdute
le crespe e gli sgonfi. Oh davanti a questa parata davvero c'è da
passare a capo chino!

E sulla ghiaia della spiaggia, al cocentissimo sole, sono buttati ad
asciugare i lenzuoli, ai quattro angoli stirati da quattro ciottoloni,
e, più che buttati, scaraventati cappellacci di paglia, zucche
prosastiche per le prime lezioni di nuoto, mutande maschili, scarpe di
corda antipaticissime e disusate, sacche e braconi stillanti, appena
svestiti, i bianchi cerchioni di sughero per salvataggio, gialli
cuffiotti di taffetà, buoni per coprire le zucche secche, non le
vostre care testine, o capricciosette nasconditrici di bellezze; e
pancucce di legno, secchie dipinte in turchino, avanzi di stuoie,
gambe di scannelli: _et cætera, et cætera_, uff!

E ancora sulla ghiaia, passando a dire delle cose animate, vedi
schiene color di rame, schiene bianchissime, schiene tali e quali le
fece Iddio, schiene come appena le permette di spiare il lenzuolo: ma
tutte tutte decorate dalle immense tese dei cappelloni d'oro.

Eh via! Che vi frulla? Ch'io adesso voglia popolarvi lo sfondo di
macchiette? Proprio no. Domani parleremo di marinai e di marinare e di
bagnanti cittadini e cittadine.

Intanto voglio usare l'ultime gocce che m'ho sulla tavolozza, e
dipingo;--di faccia il mare, a tre strisce, una verde oscura, come una
pineta, l'altra paonazziccia, l'altra celeste: l'aria limpidissima: di
qua e di là i monti tutti innondati di sole.



L'ONDA.


                                Scogliera di Cornigliano.

Ti rivedessi! A te venivo, o scogliera, nelle mie ore solitarie.

Ricordo il sentieruzzo attraverso il terriccio delle rupi sfaldate, la
scoscesa salita, il varco tra le due corna estreme, il varco dove
giunge il rugghiare dell'onda e il diguazzarsi delle ondine flottanti.
Dall'alto io contemplo il mare!

Non mi volgo a sinistra, ove il fumo della locomotiva si addensa
candidissimo nell'atmosfera velata che incombe alle nere officine, il
fischio stride insistente tra le fitte case e il suono delle ruote, si
mischia a quello delle industrie frementi. Va e va, lunga fila di
carri: in fondo è il faro di Genova, la gagliarda mercantessa.

Nè mi volgo a destra, ove, al di là del castelluccio di santo
Andrea, in mezzo al vasto fragore dell'opere fabbrili, ecco sul curvo
lido i poderosi carcami dei bastimenti nel cantiere e le bianche
trabacche pei bagni e le macchiette affaccendate intorno alle barche,
cui striscia l'irrequieta frangia del mare. Le case di Sestri
s'addossano alle case, i campanili levano il capo lucente d'ardesie
embricate, le torri degli opifici danno col fumo nuvole conglobate e
fuggenti allo splendidissimo cielo. Le montagne parate a vigne, sparse
di ville, colorite gaiamente da giardini, si stringono a sfondo
voluttuoso intorno a te, voluttuosissima Pegli, l'accarezzata dal
tepido flotto; e le indecise linee degli ultimi promontori sfumano
dietro le nebbie perlacee che fasciano la marina di sopori
innamorati....

A te mi arrampico, o scogliera, nelle mie ore melanconiche. E
contemplo giù il mare!

Rammento il varco tra le due corna estreme, le foglie lacerate degli
aloè, le tenaci erbette grasse col fiorellino giallo, gli
scheggioni di quelle rupi, e giù la scogliera e la spiaggia. Qua
vedo angolosi profili, qua masse tondeggianti, qua pozzetti, a tinte
turchinicce e livide: e qua sul dorso dì certe coste che si
diramano come tante catene di montagne, formando tanti valloncelli
scavati dalla rabbia di corrosione, sul dorso bruciacchiato le
incrostazioni biancastre dell'acqua; là la massa nera si dirupa,
là nelle basse caverne e negli anfratti sonanti sonvi i biechi
colori dell'onda, il bruno funereo e il verde bavoso.--Ecco il mare!
Ecco i capi sporgenti degli scogli arrotondati dal lavoro eterno ed
alterno, l'immenso flusso che investe, il franto riflusso che rota. A
voi vengo, o ultimi capi, all'ondoso rombare; o scogli circonfusi dal
polverio acre dell'acqua: o scogli, a tratto attuffati, a tratto
stillanti come tante teste a ciocche d'argento: o scogli remoti, dove
non mi giunge voce d'uomini, dove mi schiaccia infinita battaglia di
giganti.--Più in là la spiaggia è come un dolcissimo tappeto
di sabbia.

Ti rivedessi: In te mi affisavo nelle ore fantastiche della mia
contemplazione, onda della spiaggia, onda degli scogli.

Rammento i tuoi grigi pennacchi che venivano sulla varia superficie
del mare, venivano incalzandosi e sfioccandosi: rammento il tuo
gonfiare, il tuo colmo trasparente-verdiccio, e il concavo lenissimo:
rammento la furia del voltolarti, la spuma bollente e il fragore del
muggito, il torrente bianco che s'allargava sulla ghiaia, dibattendo
le ondine, sommovendo i ciottoli, e i mille rivoletti che
ridiscendevano con trosce lucenti, rigando la spiaggia a seconda del
vento.

Rammento il torrente bianco che rompeva sui capi degli scogli,
rimbalzando con pioggia sulle punte più alte, e il suo travolgersi,
l'urtarsi, il frangersi, il ritornare tumescente, e le mille ondine,
le cascatalle, le crespe: rammento il rombare dell'onda, poi il
flagellare guazzoso, i mille gorgogli e i mille sospiri gravissimi:
rammento i begli occhi iridei della spuma, che scoppiavano come tanti
occhi di fantasime....

Vanavano come le speranze.



PACE.


                                        Spiaggia di Pegli.

Stando io sulla spiaggia al nascere del giorno, ascoltavo un mattutino
festevole e mosso a rintocchi. Da quale chiesetta mi giungeva? Non so.
Ma dal suono delle campane la s'indovinava; un luogo tutto di pace, a
fiori, a lampadette, a luci miti, con note d'organo amorose, col
bianco battisterio, coi fraticelli lentissimi e salmodianti in
processione. E forse l'aveva la piazzuola dinnanzi, e la piazzuola
colle siepi di rosai guardava il mare: e le belle fanciulle, sfilando
alla sacra portella, si rivolgevano, pregando e sospirando,
all'azzurro scintillante. E forse anche la brutta che aveva vent'anni
e il _pezzotto_ comperato coi propri soldi, la bruttina sorrideva a
un'illusione.... Oh le campane squillavano annunziando:--Nasce il sole
ed è l'amore del creato!

Al mattino, essendo appena imbiancato il tenebrore dallo schiarirsi
dell'oriente, il mare era placidissimo. Nessuna vela, nessun uccello,
alla spiaggia nessun uomo. La vastissima acqua dava tante e tante
crespature curve sorradenti, che si succedevano soavi e venivano a
morire sulla spiaggia; sembravano ciglia e ciglia aperte alla prima
luce da un dormente stanco d'amore. Le crespature morivano in un
gorgoglio, e questo pareva lamentasse:--Lasciatemi la pace della
notte!--Le ondine facevano una spuma lenta e senza luci: le dicevi
l'ultimo sorso sulle labbra di un voluttuosissimo ebbro.

Se io fossi pescatore, mi sceglierei quella casetta tutta bianca che
guarda il mare, vorrei quella barca impeciata che al sole luccica,
come se fosse d'argento, andrei alla spiaggia, cantando la canzone
gaia e spensierata.



MARINAI.

                                        Spiaggia di Sestri.

I marinai sono macchiette, a vero dire macchione, color carnesalata,
con un grande cappellaccio di paglia, slavato e cotto, e coll'uniche
mutande turchine. _Baciccia, Faccin, Balillu, Néto_.... Sicuramente le
contesse e le marchese ne ricordano tanti, come un dì le matrone
ricordavano, invidiando, i gladiatori.

I marinai sono buoni diavolacci che, tutto il giorno, attendono ai
bagnanti. Si pigliano su in collo i bimbi, a due a due, porgono la
manaccia alle signorine, danno una palmata umida sulle spalle dei
giovanotti, adagiano le mamme sulla sabbia. guizzano coi babbi fino a
un miglio dalla spiaggia per mostrare il faro di Genova che sorge
dall'ondoso piano. E cantano ai bimbi strillanti e promettono una
barca d'argento piena di pesci d'oro. Sorridono alle signorine e
dicono:--Brava!--se l'amara spruzzaglia del fiotto non trovò la
spaurata bocchina aperta. Esclamano coi giovanotti, al confronto della
loro mano bruna colla pelle cittadina:--_Mié: u mainâ a l'hà a
pelle neigra cumme u carbun_...--Incoraggiano benevolmente le
mamme:--_Scignue, nu agé puia: tegnive a mi_.--Con buona
dimestichezza dicendo ed additando:--_Là gh'è a Lanterna: nui
atri semo cumme i vapui de Marseggia che arrivan: femo fume_,--per far
fumo concludono in mezzo all'onde:--_Sciü, me o de un sigaro_?--....
Un sigaro? Oh nuova, direte: tu i sigari li cavi dalle tasche delle
mutande da bagno, belli e accesi? Come c'è la bottega pei delfini?
I veri nuotatori o fumatori li cavano dal cocuzzolo del cappellaccio,
e dal cocuzzolo pure il marinaio toglie lo scattolino degli
zolfanelli.

Rare volte _Néto_ era nel gruppo dei marinai, vestiti dei camiciotti
turchini, a sera seduti sulla spiaggia, tra un cerchio di bimbi
cittadini e qualche fanciulla pubescente, i marinai che raccontavano
le istorie delle conchiglie fine e dei coralli della Madonna. Intanto
l'onda faceva l'eterno rumore: e le donne pensavano all'eterno amore.
La costa era sparsa di lumicini giallosi, la ghiaia chiara, la sabbia
persa e su questa i ciottoli lucenti come pezzetti di specchio. Se
c'era la luna! Luna nuova, luna crescente, plenilunio, luna scema:
tenera, falcata, o tonda, sfumava giù il suo lustrore ed
ondoleggiava nell'acqua cheta o scappava su mille creste guizzanti. Se
c'erano le stelle! A sciami, a sciami gloriavano gli ozi del
paradiso.... Tutto azzurreggiava.... O marchese, o contesse, o
borghesine, seni tutti femminei dolcissimi, che vi gonfiavate,
deprimendovi all'unissono coll'onda!... Tutto taceva sospirando....
_Néto_ passeggiava sul lido, e guardava il mare. Qualche volta gli
veniva dietro il cagnuolo bruno, tristo come lui: qualche volta un suo
fanciullo scempio, un poverino che cercava tutto il dì i ghiaiotti
che gli piacessero e non li trovava mai.

_Néto_ taceva.

Il fanciullo scempio sedeva sbadatamente sulla spiaggia e gettava la
sabbia all'onda. Una volta udii che borbottava a sè stesso:--_Guarda
a mè barchetta, a và cumme u vento_,--e accennava un alcione: una
volta vidi che accarezzava il cagnuolo bruno, e questo lo leccava
sulle mani e sul viso. Povero fanciullo! Forse quella era l'unica
illusione, e quegli gli unici baci!... Lì intorno sorridevano tante
mamme e tanti babbi felici.

Volete sapere l'istoria disgraziatissima di _Néto_?



MARINARE.


Incomincio da te, _Barchetta_....

Forse la barchetta dell'amore, che va e va, colla prora inghirlandata
di fiori, a cielo stellato, a gran notte?

No: avvezziamoci alla prosa della vita e scottiamo le carni al sole
del mezzogiorno. _Barchetta_ è una barcona: la barcona è una
donnaccia: la donnaccia è la maggiore azionista delle baracche a
mare, quella che alla spiaggia reca alle bagnanti le lenzuola, sbatte
ai bagnanti le mutande. La _Barchetta_ ha un volto tra l'allegro e il
traditore, con due occhietti usi a spiare il fondo ai fiaschi, un
collo a crespe cicciose, su un seno affagottato da farla dire mamma di
tutti quanti i marinai, una schiena aggraziata come un barile. La
barcona è una furbaccia, amicissima, prima di tutto, di quello che
ha in tasca, poi de' suoi crediti, poi di quello che vorrebbe avere,
poi del suo marebagno. La donnaccia sacramenta coi marinai quando è
mal tempo, e quando è buono storce gli occhietti fra quei quattro
peli di qua, di là, a sommare gli avventori: ha il saluto per chi
viene alla spiaggia a fare il bagno, non per chi, già fattolo, se
ne va: si dà colle mamme a persuadere i bimbi ritrosi che là
sotto l'onda ci sono i pesci d'oro, e i pesci d'oro alla sera portano
ai buoni un bastimento con tanti marinai, tanti cuochi, tanti cannoni;
fugge le nonne austere che non vogliono bagnare la loro autorità:
porge il cappellaccio e le scarpe alla marchesa: fa la sorda alle
chiamate un po' volgari: promette sempre mare tranquillo fino a
settembre: consiglia il bagno breve, ma la cura lunga: solleva dieci
tele e si caccia, nè insidiosa, nè insidiata, nelle baracche,
vede e non vede....

Ah donnaccia, se sei _barchetta_, hai satanasso in prora: troppi e
troppe, peccatori tutti, colla fantasia venendo dietro a te, si
sentono il sangue dare un tuffo e i nervi un pizzicore. _Barchetta_
diavolessa! Ma che cielo stellato, che gran notte, che azzurro! Prosa,
e sole di mezzogiorno: sollione.

E voi altre, brutte marinare? Nemmeno ricordo come abbiate nome. Tu
che, sorridendo, mi auguravi il buon giorno? Tu che rubavi il
bastimentino a' tuoi bruni bimbi per darlo agli inviziatelli
cittadini, che strillavano a solo vedere un marinaio a schiena nuda?
Tu che coprivi pietosamente col lenzuolo il pieduccio torto a quella
signorina distesa su per la sabbia e vergognosa perchè la sua mamma
la vi teneva a forza?

O buonacce, ricordo che non eravate belle.

Ma, tu, Filomena, vienmi innanzi. Ti porrei un _pezzotto_ bianco sulle
treccie disciolte, ti darei un'anfora di terra e tu la recheresti sul
capo, come una siciliana, contemplerei bene il tuo profilo austero ed
italiano, e ti direi:--Va, bella, va cercandoti un cielo più
ardente.

Ma no! Ritorna ancora e dammi da bere. Ho sete.



IDILLIO.


                                        Spiaggia di Pegli.

Tu come avevi nome? Felice. È tu? Felicissima. O amanti pallidi,
che alla mattina venivate al mare sotto un solo ombrellino, facendovi
vento con un solo ventaglio, sorridendo con un solo sorriso
consapevole, ah! era proprio l'onda che colle sue luci guizzanti vi
aveva abbattuti gli occhi e la ghiaia che vi dava l'andatura stanca,
proprio il vento che vi aveva scomposti i capegli e la brezza della
marina che vi scoloriva i labbrucci? Ah?

O felicissimi, alla sera vi stavate alla spiaggia, seduti in disparte,
su una sola panca, anche su un solo scannello, contemplando il mare,
contemplando il cielo.



REQUIEM.


                                        Pegli.

Sulla strada da Sestri a Pegli c'è un piazzaletto con quattro
robine a ombrello, e in fondo un muro grigio, squallido e graffiato,
con un'antaccia chiusa. Sporgono al di sopra del muro, di lontano, le
alberature nude, le vele appuntate, e le banderuole a fiamma delle
barche peschereccie; di lontano s'ode la voce del mare. Vi è il
cimitero; lì non si strascica vecchia che dica rosario.

Il pescatore che è morto aveva in prora alla sua barca la poppatola
della Madonna, in collo la medaglietta di Savona, dava i pesci di
livello al curato, andava alla chiesa, si segnava colla santissima
acqua del mare. Il pescatore è sepolto tra le quattro mura nella
ghiaia: e d'un remo non si fa croce. La Madonna beve ancora l'acqua
salsa che le fiotta incontro nelle placide mattine di pesca: la
medaglia è giù col morto, finchè fra i ciottoli e il carcame
non la rubi il becchino: il curato ha cambiato il nome dell'offerente,
ma ha l'istessa qualità di pesci. La chiesa ebbe funerali e
battesimi: il mare tante volte con una striscia placidissima, lucente,
appena sfiorò la sabbia, baciando i piedini alle fanciulle che
cercavano nicchi e coralli, e i pescatori dissero:--Domani lasceremo
giù tutte le reti.--Tante volte cogli avanzi del naufragio
voltolò l'onda, fino a vomitare bava nel cimitero, e i pescatori
dissero:--Vento galeotto.

E staccarono le reti tese ad asciugare dal murello squallido,
graffiato: e tirarono su le barche urtandone le poppe, le catene,
senza svegliare i poveri morti.



IDILLIO.


O felicissimi, che alla sera contemplavate il mare, contemplavate il
cielo, ho a dirla?... Quando la filatera dei bimbi chiassosi vi
saltellava vicino, voi vi pigliavate il meno restio, il più bello,
l'elegantissimo, tutto vestito di bianco ricamato, colla fascia di
seta azzurra, il cappellino alla marinara, e col fargli scattare sul
nasino la cassa dell'orologio o col chiudergli di botto il ventaglio
profumato sotto il mento, subito l'innamoravate delle vostre
ginocchia, sì da poterlo baciucchiare e lisciare coll'invidia
più carina. Ho a dirla?

(_Egli_, Gigio Augeri, su quell'orologio aveva misurato un paio di mesi
desiosissimi, senza pace, senza voler più un amico, con una
dolcezza e un tormento solo, dopo che _Lei_, Giulia, su quel ventaglio
istesso, all'ultima festa da ballo aveva fatto scrivere per promessa
una _devise_ col certissimo _toujours_. E Gigio un giorno aveva succiato
un bacio sulla manina paffutella di Giulia, e Giulia aveva sentito dal
geloso gorgeretto per la spina della vita correrle un brivido d'amore.
St, st, st. L'ho detto sotto voce e nessuno ha capito una parola,
neanche quelli che hanno mangiato i vostri confetti, birichini). La
storia è breve: aravate anime gentili: vi amaste: e, grazie a babbo
di lui, a mamma di lei, eccovi i più dolci sposini nell'aspettare
la felicità della felicità.

Dunque il bimbo d'altri era sulle vostre ginocchia, un idoletto su un
altare.

E voi, a due voci:--Bello, bellissimo, a chi vuoi bene? A me o a lei?
A tutt'e due istessamente. Bellissimo, chi sa come la mamma gioca con
te! E il babbo? Ti vogliamo tanto bene anche noi. Danne dieci baci per
uno....E come hai nome?

--Guido.

E qui, alla risposta di quel biondino, ecco il bisbiglio tra voi due:

--Sai, sposuccio mio, Guido è un nome gentile di maschietto.... di
maschietto!

--Perchè sorridi, Giulia?

--Sempre daccapo a scherzarmi! Perchè?... Ma vedrai, giusto!... Mi
ci metto, Gigio, di puntiglio!

--Magari....

--Scommettiamo, Gigio? Scommettiamo un cavalluccio con quattro ruote
rosse, il primo balocco?

Il bimbo udendo a parlare di balocco, esclama, allargando le
manine:--Per me?

E Giulia:--Sì, caro, anche per te.... Ma, ora che ci penso, sai,
quelle vernici lustre su tanti cavallucci sono avvelenate. No, no: ci
vuol giudizio, noi _mamme_!

Gigio, con un fare impaziente, come se dicesse: «Giulia, sei cattiva,
lentissima e scompiacente,» Gigio, un po' malizioso, spicca le
parole:--C'è tempo.

--E pazienza! Ma scommettiamo?... Stassera non m'hai ancora domandato
che cosa pensi io.... Io penso che.... _dev'essere_ un maschietto--e la
sposuccia, col mignolo nella bocchina, sorride da inviziatella,
simulando un gran mistero: poi da bambina:--_Mi porteranno_ un
maschietto, se avranno un po' di giudizio.... perchè lo desideri
tu, Gigio, perchè lo desidero io.

--Capisci....

--Capisco benissimo.

--Tutti desiderano così: e poi le cose bisogna pensarle,
perchè.... Adesso siamo qui in faccia al mare, ma poi torneremo in
città, e.... E passeranno gli anni, gli anni, gli anni. Ho già
lo studio avviato, i clienti, il nome, sicuro.

--Gigio e Guido Augeri.

--Adagio, adagio.

--Perchè?

--Ma che cosa si è detto tante volte a tante?

--Che cosa si è detto, Gigio?

--Che _le usanze vanno rispettate_, che al primogenito io voglio....

--Vuoi....

--Al mio primogenito babbo vuole si dia il suo nome.

--Perchè lo dici ancora?... Ma.... Guido è un bel nome, e se
è bello, se piace a me, se deve piacere a te....

--Ma non è quello di babbo,

--Ma....

--Non te l'ho detto anche ieri a notte?

--Cattivo, perchè mi guardi così?--e Giulia fa sporgere dalla
gonna un piedino, poi appoggiando sul tacco altissimo a un ciottolone,
lo move febbrilmente, come una linguetta di serpentello tentatore.

--Eccoti imbroncita--disse Gigio torcendo il collo ad un bottone.

Qui un minuto di silenzio.

Ricomincia lei con voce piagnucolosa e compiacente:--Guido è tanto
bello! A dire «Guido, fammi un bacio. Guido, va a scuola. Guido,
scappa i pericoli....»

--Guido! Guido! Guido! uff!

--Sì, sì.

--Mah!

--O Guido o niente!

--Guido, scappa i pericoli! Sicuro: e il maggiore.... quello di
prender moglie!

--Sicuro: certe testoline!... Ma come corri? Già _un figlio che
prende moglie_? Ma sai che...? Non rispondi? Che cos'hai?... Eccoti
imbroncito: a te: alle solite.... bisticciandomi, perchè?... E la
cosa dovrebb'essere tutto affar mio. Lei come c'entra?... (Non
risponde?...) Oh non risponderò più io, quando mi chiamerà:
ed è lui che mi chiama! Ma voglio dire, sì, si: se suo papà
non vuole il nome di Guido, la mia mamma è più buona, e
desidererebbe che il suo nome di Bice.... _Le usanze vanno
rispettate_.... E chissà che, pensando a lei, sempre a lei, con
tutta intenzione, io possa accontentarla.... e pregando la Madonna:
già la Madonna ascolta noi donnicciole, eh?... (Tace sempre!...)
una bambina mi piacerebbe di più, mi farebbe maggior compagnia, una
massaìna, cucirebbe con me e vorrebbe tutto il suo amore alla
mamma, perchè già degli uomini....

--Già.

--E se mai.... Vorrei conoscerlo a fondo quel giovinetto che le
mettesse in subbuglio il cuoricino!

--Oh come? _Una figlia che prenda marito?_

--Già....

E dopo due minuti di silenzio dispettoso, tu, sposuccia, accomiatando
il biondino, senza un bacio, gli dicevi:--Va, e mandami qui subito
subito quella bellissima fanciullina, quella là che corre: la
vedi?... Com'è cara!... Tu va, e mandami lei, di' che l'aspetto, la
desidero, la voglio!

E il bimbo:--Sissignori....

E Gigio:--Sissignora.

Il bimbo, aspettando i confetti, vuol farsi un merito di più e
aggiunge:--Si chiama....

--Come si chiama?--sospira Giulia.

--Bice.

--Oh che combinazione!--diceva lo sposo, mordendosi i
baffi:--L'educazione, le mamme, i capricci, il mare, questi marmocchi,
il matrimonio: cose serie! Credete di mettervi tranquilli e che tutto
vada secondo i vostri desideri?

Mentre la sposa, come una cingallegra, chiacchierava tra sè:--Ecco
che ci penso! Le vestirei un abitino americano scollato, in _bazin_
bianco, a davanti principessa, rigato a pieghettine.... sì o no?...
poi una larga cintura in _surah_ ciliegia, annodata di dietro a lembi
sciolti.... Oh il cappellino? Capellino a tese rivoltate.... Sei qui,
cara, carissima bimba?

Gigio colla punta del bastone schiacciò lì su un sasso una
povera formica, che, cammina, cammina, cammina era venuta in
quattordici giorni da Pegli sin presso allo strascico profumato e
inamidato e frusciante di Giulia.



FANCIULLE CANTANTI.


                                        Voltri.

Questa via discende e non ha fiori: questo crepuscolo infosca ed è
silente. Passate e cantate: passarono e cantarono le mamme vostre,
precipitarono e tacciono: e le nonne e le bisnonne.

Passate e cantate. Avete fiori nelle treccie? Fiori di cimitero. Avete
gaia nota d'amore sulle labbra? _De profundis_.



IDILLIO.


--Tu che vuoi la massaina, tu prega la Madonna a capo al letto, tu
che eri sì divota in monastero--certo così avrà detto lo
sposo, e sarà rimasto tutta notte al tavolo a scrivere lettere al
babbo, avvertendolo di quel desiderio capriccioso della nuorina. Certo
lei avrà disciolte le treccie, pungendosi colle forcelle, avrà
spento le candele della toletta, trovandosi allo specchio brutta e
cattivaccia, avrà tossito per implorare compassione...! Certissimo
sarà nato quel che sarà nato, perchè al mattino alla spiaggia
i due sposini (o amanti più che pallidi!) venivano ognuno col suo
parasole, ognuno col suo ventaglio, ognuno col suo dispetto sulle
labbra.

E andavano nell'acqua restii e paurosi.... Oh vedi! Lei a un tratto si
lascia andar giù, il collo, il mento, la bocchina, con uno sforzo,
giù! fino alle nari! L'acqua verdissima in giro alla testa sembra
stringerla con cerchi d'argento, scoppiano le bolle d'aria
spumeggiando e le crespe dell'ondina trasparentissima svelano le carni
bianche sommerse, con certi guizzi fuggenti!

Lo sposo, gittandosi rapidamente sulla dispettosa, sommove tanto i
fiotti, sì che questi gli nascondono anche gli occhietti semichiusi
e trepidanti. Poverino! Egli caccia sotto le mani e solleva su la
personcina.

Lei, la bellissima, tosse infantilmente, mostra il seno commosso, e
sorride spaurata, tra il gocciare dei capegli e delle mani tersissime,
giunte in atto di chi ringrazia.

--M'hai dato uno spavento!--disse Gigio.

--Oh niente! Non so com'è stato! È niente sai? Per me, per
te.... Ma se m'avesse veduto il mio Guido, allora sì, povero
Guido.... che non c'è!--dice lei.

--Avrebbe pianto colla sorellina.... che anche lei ci
sarà--aggiunge compiacente lo sposo.

--Guido e Bice?--conclude la sposa:--facciamo la pace.

Uno per uno: non c'è che dire. Ma si accontenteranno quegli
sposini? Amoroso, amorosissimo idillio!



FANCIULLE MESTISSIME.


                                        Spiaggia di Cornigliano.

--Da dove venite?

--Dalla marina.

--Lavaste i pannicelli?

--No.

--Calaste giù nell'acqua fino alle ginocchia, gaie bagnanti?

--No.

--Tuffaste i fratellini nell'onda?

--No.

--Aiutaste i babbi a tirare in secco le barche?

--No.

--Recaste a casa le reti, le vele, i remi?

--No.

--Oh che faceste?

--Aspettiamo.

--Perchè?

--Speriamo.

--Fanciulle mestissime, non invidiate le fanciulle cantanti. Per esse
e per voi questa via discende e non ha fiori: questo crepuscolo
infosca ed è silente.



MATTINA.


Il mare, il cielo, i monti, tutto è d'un azzurriccio-perla.

Una barca peschereccia da prora a poppa è ninnata bel bello, come se in
essa stia assopito un bambino inviziato al petto della nutrice. Non ha
vele, nè remi: la linea di sommersione è quasi fosforescente: dal bordo
filettato di luce vien giù la catena dell'ancora a perdersi nelle smorte
profondità, colle anella pallide, intorno a cui danno del muso i pesci,
s'appiccica qualche floscia medusa, e si gonfia alternamente l'onda. Il
catrame spalmato, il legno stillante di globulini d'acqua, il ferro degli
attrezzi riflettono l'azzurriccio-perla. Fumiga in prora un lampione
spento, con una striscia nerastra e grassa che si sfilaccia su nel freddo
aere...

Dal fondo della barca si è svegliato il pescatore, e sorge anche la
sua donna: serenarono felici; lui, attuffato nel sonno; lei
dormicchiando a gomitello.

O fanciulla, fanciulla, mia bionda fanciulla! Quand'io, melanconico e
sorridente, vorrei dirti:--Vieni al mare! Ti mostrerò il cielo su
cui si smorzano l'ultime stelle, e tu mi dirai le tue poesie d'Iddio e
dell'amore!--in quell'ora in cui il tremolio antelucano dei colori
aperti bacia nell'anima i desideri castissimi, il pescatore grida alla
sua donna:--Su, rappezziamo le reti.--S'ella si stropiccia gli occhi,
egli, scherzando, le tende le manacce: sulle palme luccicano le squame
dei pesci: ecco un cielo stelleggiato: sulle palme contando i soldi,
n'andranno le squame; ecco l'alba....

Nella barca si drizza uno stendardo di reti: le maglie rossastre
dondolano fiaccamente sulle sfondo de' monti, del cielo, del mare,
tutto d'un cangiante celestognolo che ai primi raggi si spolverizza
d'oro da ventiquattro carati....



MEZZOGIORNO.


                                                Vado.

--Bisogna metter giudizio, figliuolo caro, e.... almeno almeno, mi dico
io, visitare i Rr. Pp. Scolopi di Savona.--Sì, sì, quando ci ritornerò:
ora a Savona ho date le spalle, sono ad un'osteriuccia di Vado, dove
aspetto l'_omnibus_ che mi faccia viaggiare verso il formidabile capo di
Noli. Sì, sì.... Oste, o l'oste, dammi un bicchierino!

Sono a Vado: _Vada Sabata_, _Vada Sabatiorum_, o _Sabatium_, _Sabata_,
_Sabatium_. _Sabatium_ era costrutto sulle falde del monte: al basso
appestavano l'aria le tristi paludi. Sia che il mare si discostasse dalla
spiaggia, depositando un guanciale arenoso, sia che Adriano o Antonino o
Augusto quivi dessero mano a lavori suntuosi per continuare la strada
Emilia Ligustica, il fatto è che la città s'accomodò sul lido, prese il
nome di Vado, crebbe, si stemmò poi colla mitria arcivescovile e....

Ho dimenticato qualcosa pel mio professore dagli occhiali d'oro, che
mi tiene la sua santa mano in capo?

No: il latino c'è: Bruto che scrive a Cicerone, parlando dei _Vada
Sabatiorum_: «_Constitit nusquam prius quam ad Vada veniret, quem locum
volo tibi esse notum. Iacet inter Apenninum et Alpes impeditissimus ad
iter faciendum._»

* * *

La costa di Vado mi appare arsiccia. Sotto quest'ora prossima al
meriggio, tra i visacci bruni che popolano l'_omnibus_ (tutti visacci!),
sporgendo il capo da una finestretta, nel polverone, vedo qualche
palma che si allunga e si strataglia sulle nubi focate, sorgendo tra
mezzo a casette calcinate dal sole, e poi nelle lande ferrugigne qua e
là delle grandi fornaci che mi sembrano moschee, dadi stracotti col
cupolone di creta. In fondo, alla spiaggia, i colori più caldi sono
come ruvidamente tagliati fuori dal quadro da una spranga di turchino
buio, azzuolo, più che azzuolo, dal mare che a st'ora addensa un
colorone, quale non è su alcuna tavolozza.

Davanti a questo spettacolo non c'è pace, non c'è ammirazione.

No: l'anima mia s'ammala di desideri, e, ferventissima e
impotentissima, ribolle e si spossa d'inutili sogni. O mare! o cielo!
o sole! E voi, _Aquiloni_ della Grecia, _Marôut_ dell'India, _Keroubim_
della Giudea! O vento del Gulf Stream, vento elettrico del Giappone,
vento dell'equatore, _pampero_ del Chilì, _harmattan_ dei Cafri! Mare,
dove ti perdi? Tu, cielo, quanti dii alberghi, all'insegna del sole,
delle stelle e della luna piena?... Voi, venti, quante preghiere
dissipate nella pazza vastità degli spazi?

Vorrei sedere alla spiaggia.... e vorrei credere.... e volare e
salire....

Oh chi sale l'_omnibus_?

La marinara col guarnellino di telaccia gropposa.

* * *

Vorrei credere?... Credere?... Mi sento in capo il turbante che mi
stringe i polsi.... Chi m'ha fatto mussulmano?

Al mattino saluterei il sole che m'arde le carni: il mezzogiorno
l'udrei bandito da un pinnacolo della moschea: e la sera.... Se alla
sera fossi ancora alla spiaggia, colla fanciulla dai nerissimi
capegli, pregherei il mare che mi strappasse anche il corano e le
speranze! Tuffatevi, Uri, tuffatevi: se m'aspettate oltre tomba,
avvinghiandomi, fareste crecchiare un bel carcame!

* * *

Che aria arroventata! Che colori taglienti! Che scabbia m'ho
indosso!... Dove sono i miei acquerelli? Vorrei stemperarli nel
_rhum_!... Intanto vi racconterò un'istoria, intanto che l'_omnibus_
trotta, trotta, trotta. La racconterò a te, bronzina marinara. E ti
guardo!... Devi sapere che da noi, nelle città fredde, dove si
vestono i velluti e le pellicce, si usa leggere dei libri di poesia
stampata, e si fanno dei versi per una fanciulla. Oh! le fanciulle
sono smorte, clorotiche, pensose, quando escono di collegio. Noi
giovinotti per loro... per loro! diventiamo smorti, poeti e
sospiriamo! C'è un amore, un perpetuo crepuscolo, che dicono....
che dicono.... ah platonico!... Tu non sai, marinara brunetta?... Ti
dirò che una fanciulla bionda, la mia fanciulla che mi cantava le
poesie d'Iddio e dell'amore, m'ha fatto piangere, e m'ha ammalato a
letto. Mi offriva vaniglie, viole del pensiero, versi francesi, e
sorrisi da santa Cecilia l'organista.... O marinara brunotta, sai che
ti guardo e ti guardo!... I miei colori sono sbiaditi per il tuo
ritratto. Dammi i tuoi: il nero de' tuoi capegli, la bragia delle tue
carni, il verde-abisso delle tue pupille... Tu vuoi scendere
dall'_omnibus_? Vengo con te! Andiamo sotto una palma. È troppo
vicina a casa! Andiamo alla spiaggia. Insegna la strada a un povero
forestiero. Andiamo alla spiaggia, o che ti strappo il guarnellino!

Mi pare d'essere alla spiaggia... Sì o no?.... Il mare!... Venite,
o poeti, giullari dell'ignoto: venite, o filosofi, perpetue gocce, che
_non cavant lapidem misterii_: sibille, ossessi, dogmatici, pittori,
idealisti, realisti, ed ubbriachi... No! nessuno di voi venga: di
nessuno ho bisogno per abbuiarmi la mente: è già tutta una cappa
di caligine: le vostre lingue di fuoco, passandovi, v'hanno lasciato
un negro bacio. Facciamo un falò di tutte le bugìe delle scienze
e dell'arti: sarà il faro a chi viaggia sull'immenso mare. Quanta
vanità!

Il mare!... È bello: ma a lui tendo le braccia invano. È
infinito: là, là, sempre là, là, non c'è l'amore, ma la
schiuma e l'amarezza: in fondo? giù? Mostri, schifosi polipi,
ossame e putridume... O marinara brunazza, lasciami giù vedere la
medaglietta che hai in seno. Ami tu le stelle? Nessun poeta ha potuto
infilzarle per farne una collana. Ami tu l'alba? ami le tinte
azzurrine-perla? Non reggono alla lascivia.

Ma guarda che mi vien da piangere!... Stamane l'ho veduta una certa
marina, ma ero solo. Adesso sono con te. Su, su, allegria! E tu
cantami, chè voglio essere assordato, tappami gli occhi, rubami
quel libro di poesie e di sorrisi... Mare turchino buio, azzuolo,
più che azzuolo: tinte ubbriache.... Tace anche l'onda... Tu canti:

    _Lauda, Saona, lauda Dominum.
    Viri Vadi fundaverunt eam
    In tempore dispersionis eorum._

Ma come stridi, marinara, che ti sei fatta mesta? Questo è latino
di chiesa? Canti così? Sei consorella? Non voglio più sorelle!
Cambia tono, e vinci la tinta del mare colla voce.... Musica e
pittura!... Voglio la canzone che canti con tutti i pescatori della
spiaggia! Non sono, ve', geloso per una femmina!?

* * *

--Dove vai?--grido io spaventato:--Mi lasci proprio adesso?--Mi dia
il mio guarnellino--gridi tu.--Dove vai?--È mezzogiorno: vado alla
fornace.--Alla moschea, là?--Sì.--Chi c'è?--Il mio babbo.--Le
Uri non hanno babbi....--E poi pensandoci: e sono tutte bianche, e
vogliono guanciali con piume di cigno e non ghiaia, sigarette
muschiate non pipe, e pascià.... non scolari di Scolopi....

Se alla sera fossi ancora alla spiaggia colla fanciulla nerissima,
pregherei il mare che ci sguazzasse un po'. Che sbuffi da cratere! Che
luna color di rame! Che bruciaticcio di fornace!

Oh poveretto me! non ho abbozzato una macchia: il mare avvalla, la
spiaggia si slontana.... Dove sono? A chi racconto la mia istoria
platonica? A chi comando un altro bicchierino di _rhum_?

Ahi!... ahi!... ahi!... Che altalena è questa?

* * *

Poscritto. X luglio. Vado.--Scrivo colla mano sinistra, perchè la
destra l'ho trovata avvolta in una benda di telaccia gropposa. L'oste
mi dice....

Non capisco quanto tempo è passato: capisco però che è sera.
L'oste mi dice che non ho pagato il mio posto nell'_omnibus_: sono
disceso, cioè, sono cascato, perchè sento anche le due ginocchia
ammaccate e non trovo più l'albo. E mi vedo in conto, qui
all'osteria, _rhum, rhum, rhum_.... Che diamine! Sotto questo sole di
mezzogiorno il bevere così è cosa pazza da far commettere colpe,
altro che acquerelli!

Ho perduto l'alba. Buon per voi: c'erano dei grandi foglietti
platonici.



SERA.


Vi è un'ora in cui la spuma del mare si fa cinerea, pare densissima
e senza luci.

È questa in cui io giaccio alla spiaggia su una lingua di sabbia.

S'io mi adagiassi supino, sentirei il capo profondarsi lenemente, e
forse qualche onda, s'io allungassi le braccia in croce sul dolce
declivo, verrebbe a intepidirmi le mani.

In questa soavissima postura, con voluttà i capogiri mi farebbero
provare quella sensazione unica--come se l'anima fuori uscisse dal
corpo oscillante e anch'essa si dondolasse sull'acque.... È uno
scherzo? un'illusione? Non so. So che realmente c'è un riposo, un
oblìo, una cupidità di pace, un finire stanco dopo tante
battaglie. Se il vento sperdesse l'anima sui colmi dell'onde, se i
minimi rimasugli vanissero all'infinito!... Non è la morte, non
è la distruzione, non è il funerale! Senza cataletto, senza
chiovi e segatura, senza la marmaglia dei parenti, le torce, le
portinaie e i numeri del lotto! Mormora il mare d'intorno: e sopra
l'altissimo cielo fonde gli azzurri...

Pace, pace: nulla sul mare, nulla in cielo: non una barca favolosa che
raccolga l'anima pellegrina per portarla a nuovi lidi, non l'angiolo
sognato che aleggi per me... E perchè mai? Qual fanciulla
piangerebbe?... Nulla sul mare: nulla vi è in cielo. Vorrei
morire....

L'alga, dolcemente sospinta dal fiotto del mare, venne, venne, venne,
e fu portata alla spiaggia. L'alga s'illanguidì e disse:--Nella
solitudine è la pace. M'era stato prescritto un viaggio dal
destino; io non mi affrettai: non avevo vele, nè remi; io sono
giunta.

Il mare finisce con una lista nera di lavagna: l'aere giallo-infaonato
al basso si colora d'un riflesso di luci crocee, all'alto si stinge
nella dispersione dei cieli.... Sulla spiaggia l'onda insurge: il
mostro d'acqua è sudicio, oscuro: solo la cresta arruffata stacca
sull'orizzonte e riceve l'ultimo lume del giorno: le lame si
rincorrono sulla ghiaia, sovrapponendosi coi cumuli di spuma
ribollente, formando quasi i mutabili scaglioni di un'amplissima
scalea....

L'onda culla i miei pensieri: l'onda rotola un cranio.



NOTTE.


                                        Pegli. _Hôtel Gargini._

--Ed ora, signora marchesa, le schizzerò il figurino per la festa
da ballo dell'_Hôtel de la Mediterranée_. Festa di beneficenza,
già s'intende. La duchessina avrà trentamila lire in diamanti:
la baronessa in abito di taffetà brillante verde-luce...

--Nel campo della moda nulla di nuovo. È molto se le signore
stesse pensano all'_avvenire:_ le opinioni di quelle che fanno legge in
materia di toletta sono così _contradditorie!_

--È vero!

--Così _contradditorie_ in questo momento ch'è impossibile di
riassumerle.

--Impossibile!

--Una grande battaglia si combatte fra le gonne lisce e le
tuniche....

--Dunque? Senta, marchesa: una guarnitura in luppolo rosato, con
fogliame verde, ch'è una meraviglia, la pingo sopra un abito di
tulle bianco o bleu pallido...--e via discorrendo, disegno la gonna
lunga davanti, non osando in faccia a lei accennare quella moda
insidiosissima....

--Che ora è?--dice lei.

--Dodici ore.

--Di già? Scusi; sono stanca e mi ritiro.

--Marchesa....

--Felice notte.

--Marchesa! Marchesa! Chi non la vede? Lei è una bellezza fresca,
rosea, inzuccherata.

Dal salone dell'albergo, cui corrisponde la sua camera, sento la sua
gonna frusciare elettricamente, sento il suo uscio richiudersi, sento
per un pezzo i suoi passolini. La cameriera infine reca fuori gli
stivaletti, alti, traditori, tepidi, e li lascia proprio sulla soglia.

La fanciulla del mattino fu un sogno, quella del mezzogiorno un
delirio. A sera ho desiderato di morire: a notte?

La cameriera dalla stanza reca fuori le profumate biancherie, un
nuvolo di trine, pieno di lampi.

--Felice notte!--mi dice anche lei, con un certo sorriso.... E
quand'io mi levo dal tavolo, vuole accendermi il lume.



VIRGO POTENS.


                                        Monti di Sestri.

O chiesina, se in te prega a quest'ora la giovinetta montanara, fa
ch'ella sorrida guardando il bambinello della tua Madonna! O chiesina,
che sei detta di _Virgo Potens!_

Passato per lungo il borgo di Sestri, io mi incammino sulla viottola
montana a tondi ciottoloni, tra i bigi murelli delle vigne sprazzate
d'ombre tremolanti, fra le gioconde trasparenze del fogliame delle
viti e i frastagli pallidi degli ulivi mestissimi: vedo i sentieruzzi
fra le siepi verdeggianti che strisciano giù giù alla valle, o
che cogli scheggioni lucenti s'inerpicano alle case nascoste
ritrosamente fra i macchioni dei querciuoli. Giungo all'acquedotto
colle stillazioni bisbiglianti: ed ecco il mulino. La scabra facciata
ha gli arcucci soffogati, la portella infarinata, e giù in fondo a
questa nella fresca semiluce il tranquillo girare delle ruote
goccianti: ha la finestra bianca coi garofani della molinara, i
mattoni a mezzetinte sudice, il fumaiolo coi due tettucci fuligginati.
O Santa Madonna, che ti stai dipinta sotto la gronda, tu cadi a poco a
poco! Le rondinelle a beccate godono di tue scalcinature: le
rondinelle fanno le nidiate: o santa Madonna, benedici le nidiate e
avrai vespri e mattutini di innamorati... Ti saluto e passo: passo
sulla stradetta che si schiara al sole più gaio che batta di luglio
sui ciottoli bianchicci: nè più vi sono murelli a destra, nè
a sinistra: ma invece là il bosco che va su con dolce pendìo,
qua la valle e il monte opposto: e vedo le casette arrampicate, coi
tetti di lavagna, sfacciatelle ed avvistate, come alle feste i
_pezzotti_ delle tue donne, o riviera genovese; vedo le muriccie
sgrigiate, diritte, a rustica scalea, e sopra, i festoni delle viti;
le brigatelle di palazzine e i romitorî dei vignaiuoli; i prati
coll'ombre sparse dei mandorli e dei ciliegi, i colti allistati, gli
orticelli copiosi, i giardini variopinti; vedo le chiese tra le nebbie
azzurricce del mattino, come tra gli incensi, le cappellette, su,
quali pecore sbandate, sul ciglio della frana squarciata nel monte, a
segnare la via al santuario. O santuario sull'estremo cocuzzolo del
Gazzo, che di giorno vegli la vallea collo sfavillar della tua
crocetta, e che di notte vegli sonnecchiando col lumicino minutissimo,
se in te prega a quest'ora la monachina bianca, fa ch'ella pianga,
guardando il bambinello della tua Madonna!... Io ti saluto dal mio
sentiero e passo: cammino, sorrido, e vengo a te, melanconica chiesina
delle sante litanie. Hai la gradinata su cui la vergine molinara
ascende col libricciuolo nelle mani, col marinaio in cuore: hai la
piazzuola col parapetto a sedile, da dove i giovinotti guardano
innanzi la vita, sperando: hai la salita coi mattoni a spinapesce e i
filari dei cipressi, sulla quale i vecchi la guardano indietro,
invidiando. Andate, andate alla chiesina: voi ci vedete la bara:
costoro che vengono dopo ci vedono il battesimo.... O bella gradinata!
o bella piazzuola! M'affaccio dal parapetto e contemplo.... Il mare!
giù, oltre la valle, come una fascia scintillante tra i vani delle
case Sestrine, tra gli scheletri dei bastimenti su pel lido, tra il
fumo delle incessanti officine. Oh mare d'acqua benedetta! Insidiosa
d'ozi e d'amori, bellissima riviera genovese!

Anch'io ascesi la gradinata, mi fermai sulla piazzuola, anch'io venni
su per la salita alla chiesina del marinaio.... E vidi i voti: chi
v'appese un nastro, chi una corona, chi un rozzo bastimentino, chi una
fune, e un pezzo di vela....

Anch'io pregai: anch'io vi posi un fiore....

* * *

O _Virgo,_ hai le _virgines._ Sei chiesuola tutta bianca, a battenti
spalancati, con note d'organo dolcissime. Siete monachine vestite di
nero, avete nero cappuccione che vi cela il volto, sfilate silenziose
dalla porta segnata di croce alla chiesuola.

O monachine, io entrai sotto l'androne freddo del vostro monistero, e
vidi una finestretta e su quella era scritto _Parlatorio_. Oh con chi
parlate?

Giù alla spiaggia cocente, alla palizzata che chiude il bastimento
in costruzione, vidi una fanciulla bisbigliante ad una fessura. Era la
marinarina: e fuggì e riprese ad empirsi il grembiale di scheggioni
di legno. Su quella fessura non era scritto _Parlatorio_. Oh con chi
parlava?

* * *

Stando io sulla piazzuola e guardando innanzi, vedevo in fondo alla
portella paonazziccia per l'incenso un lumicino, e guardando indietro,
indovinavo nella zona nebulosa, che a sera fonde e mare e cielo, un
altro lumicino.

O monachelle, io penso che, dal chiostro passando alla chiesuola,
nelle stellate notti primaverili, io penso che a tante di voi, tra le
lagrime di consunzione, nella preghiera inavvertita e confusa nel
canto delle compagne, collo strascico delle tarde litanie, il vostro
lumicino dell'altare parve la piccolissima facella accesa dal
pescatore a sera, quando voi, gioconde marinarine di un dì, candide
e furtive nuotatrici dell'ora bruna, avevate la croce al collo e non
sul cuore, croce d'argento e non croce di spini: la facella spiata
nell'attesa soavissima e impaziente!

O pescatori, io penso che il vostro lumicino di prora vi fa pregare ed
è come posto dinnanzi ad un altare, se la barca è drizzata al
paesello, alla casuccia, forse alla finestra di lei, se il tuffo
ninnante dei remi, al sussurro sospiroso del mare spianato,
s'accompagna alla canzone che non suona, ma che blandisce il desiderio
della fantasia.

Se voi, monache, se voi, pescatori, siete vecchi, non va disperso il
mio pensiero. Non l'ho avuto per voi.

* * *

La campanella di _Virgo Potens_ non suona mai da morto! Non dice
mai:--Don, don, don. Vedi: pel funerale lo scaccino moccioso apre
l'armadio rosso di sacristia e contempla le torce, pensando che la
provvidenza dei poverini, mandando una giornata ventosa, farà
stillare giù le grasse goccione di provento. Vedi: suora Brigida e
suora Agnese fanno ronzare i vetri grigi della chiesa, strascinando le
due panche, il seggiolone e i quattro candellieri di ferro. Suora
Lucrezia sbatte la bianca coltre polverosa sull'erba delle quiete
tombe. Suora Maria nell'orticello ha già colto i fiori ch'erano per
l'altare bianco, e suora Margherita sul leggìo dell'organo ha
già aperto la musica del _de profundis._ Vedi: le novizze nel
corritoio si bisbigliano. «Quella nostra povera compagna l'aveva nove
Madonne benedette nel libro della messa, e a capo al letto il san
Giuseppe _della buona morte._ Oh speriamo!» E l'abbadessa, sola, sul
poltronone, s'incomincia a dire. «Eppure l'era una buona figliuola!
Potevo darle la cella meno umida e lasciarla al _Parlatorio_ un po'
più: potevo permetterle che cucisse la vesta d'oro per la nostra
pia protettrice e dirle qualche buona parola!... _Requiem eternam...._»

La campanella non suona mai da morto! Non conta mai quelle istorie
piagnolose e lugubri: ma sempre suona a festa: e, se una monaca è
all'ultima avemaria del rosario di questa vita, suona a doppia festa.

Io vorrei essere lassù tutto l'anno, a quella chiesuola, e vorrei
su quella gradinata, su quella piazzuola, su quella salita, andare
innanzi passolino passolino, facendomi il poeta dei crepuscoli, e
vorrei coll'anima illanguidita della sera, vorrei pregare la Madonna.
La campanella non suona mai da morto! E vorrei....

No, no: campanella, addio! Tu non suoni mai pei battesimi.

Monache e fanciulle, sapete che la Madonna vuole il bambolino.

* * *

Al tramonto, nell'ora in cui la campanella, sotto il tettuccio di
lavagna, suona verso la valle, suona melanconica e credente, come una
novizza in cantoria, se un biondo raggio di sole, entrando per la
portella aperta, giungesse a baciare il sorriso della tua statuina, o
chiesa del marinaio, se un soffio d'aria fremente dalla marina traesse
un lamento da una canna dell'organo soavissimo, se la canzone del
pescatore venisse a morire tra i fiori dell'altare candido, o _Virgo,_
in queil'ora in cui anch'io mi sento buono e confidente, vorrei sedere
su i tuoi gradini e sorridere alla bianca melanconia, e sorridere
coll'ultimo sorriso....

Una monachina mi troverebbe pallido e dolcemente morto, come se in una
visione amorosa io posassi inebbriato in un bagno di profumi, e mi
preparerebbe la verginea bara della sua sacristia, la candela
benedetta, la croce d'argento, il libro del _de profundis,_ la corona
bianca col velo a stelle di talco.... Sarebbe bella o brutta la
monachina?... La monachina forse penserebbe: Egli aveva vent'anni! E
gli facciamo il funerale!

E tu, gioconda, fastosa, pomposissima bagnante, che hai scherzato con
me? Forse tu nemmanco muoveresti un passo a porre un filo d'erba
odorosa sul mio capo agghiacciato dopo tante febbri. Forse tu diresti:
Non so quali sieno i fiori di cimitero.

Sono i più gentili, e non sono per te.



DESERTO.


                                                Mare e cielo.

L'acqua del mare giace bigia e tranquilla, e sembra tratto tratto alzarsi
con una oscillazione sola, vastissima, dispersa. Là dove la nostra fiacca
pupilla dice:--è l'orizzonte--con un dolce movimento tremola una
bianchezza lattea. Ma là non c'è la linea, il confine, la nostra
imbecillità; là regna un deserto di luce, un'amplissima curva che si
perde in un'altra curva, che finisce alla terra.... E il cielo dove
incomincia ad essere azzurro? Dove finisce?... Perchè? perchè? perchè?...
Quanto sperpero d'aria, d'acqua, e di pensiero! È l'infinito: tanto ne sa
il teologo, come il chimico: quello freddamente lambiccante Dio dai
volumi di san Tomaso; questo trionfante sulle sue formole che nulla hanno
creato e nulla creeranno: tanto ne gode il poeta, il quale dall'Arte non
trae che patemi; quanto il marinaio che dal mestiere guadagna il pane....

Mare e cielo! Vorrei correrli tutti! Essere un'onda spinta e
risospinta, per vagare e vagare, per mutarmi in un fiocco di spuma al
collo di un'ondina, e formare una collana di perle: essere un
millimetro cubo di gas, per vagare e vagare, e correre ad accendermi
vicino alle stelle d'Iddio.... Pavoneggiarmi un minuto, esser bello,
adorare il Paganesimo, adorare il nostro Ieova, aver veduto il mare,
il cielo.... ma finire! O Natura, per carità, lasciami finire!

Sull'acqua c'è un fruscìo: se si spazzolasse un drappo serico di
mille miglia ci sarebbe l'istesso effetto sulla ghiaia che sorbe
l'onda. Il cielo si vela biancamente, e, checchè ne dicano i
signori professori, sembra, dove l'occhio nostro lo guarda, scavarsi
in abissi profondi e vibrare con milioni d'atomi azzurri, di contorni
indecisi, di ghirigori trasparenti. S'accende la luna: mezza luna,
scema a destra, sbiadita, oleata.... Per compagna le pende vicino una
stella, la punta di un dardo arroventato, che scocca raggi
all'innanzi....

Chi sono io?... Chi sono!... Tutto tace.... Il mare ha coscienza di
questa sua poesia? e il cielo?...

La massa salsa ed amara è la stupida materia: non insulto la luna,
le stelle e lo spazio inafferrabile dove neppure i palloni sanno
approdare, ma.... Deserto è il mare: deserto è il cielo: deserta
l'anima mia. Il navigante ha la sua mappa in quel deserto: l'astronomo
la sua tavola nera: la donna nell'anima il suo prospetto della dote,
controdote, posto in teatro, e paradiso.

Deserto solo vi è dove vi è la noia della vita.



LONTANO LONTANO.


                                                        Pax.

Vicino alla spiaggia c'è il fondo basso, e l'acqua non ha colore:
è come una vernice che asseconda i guanciali grigi e translucidi di
sabbiolina, qua e là segnati dallo strisciare di qualche guscio
vivente, qua e là avvivati da qualche scheggia di corallo:
nessun'alga. Le fanciulle lavano i ginocchi e le coscie, e ve ne sono
di dodici, di quattordici, di diciott'anni. Andiamo in là dove il
fondo più s'inchina, sparso di ciottoloni: l'acqua è verdiccia:
quando la batte il sole e l'illumina negli strati inferiori, a cerchio
ballonzolano grottescamente le iridi sopra i ciottoloni.... Lontano,
lontano andiamo, dove non ci sia più fondo, e il concavo dell'onda
è turchino come solfato di rame, dove si vegga cielo ed acqua, la
torma dei fiotti che non posa mai, la estensione aerea che non dà
pace mai.... Andiamo innanzi ancora: lo stesso squallore portentoso
dell'infinito.

Un giorno ho sognato la barchetta dell'amore, e, risognandola oggi,
per ritrovarla ho detto:--Andiamo lontano lontano, anima mia.

Eccomi dove sognai! Ma la torma dei fiotti non posa mai, sotto la
estensione aerea che non dà pace. Io voglio pace! chi mi concede
pace? Quando l'avrò? Da chi?

Lontano lontano vedo galleggiare una strana barca di pioppo, una cassa
da morto, vuota, senza coperchio.... È la barchetta?... Mi vi
adagio, apro la bibbia che mi hai dato tu, fanciulla del mio dolore,
perchè la mi serva di vela, e, lettore cullato, cappuccino nel gran
coro sonante, e viaggiatore insolito, mi avvio lontano dove mi porta
l'onda.... Più lontano ancora.... Non ispero incontrarti, o
barchetta dell'amore che sognai un dì, no: sulla mia vela è
scritto:--_A chi molto amò sarà molto perdonato:_--sulla tua, o
spiensierata, o dorata, o tripudiante, le mercantesse e i mercanti
hanno scritto somme e moltipliche col risultato:--_Tutto è
illusione!_

Voi non vi scaldaste al sole dell'anima. Io non avrei il coperchio e
fino all'ultimo minuto di mia vita riposerei lo sguardo su quel cielo
che ho tanto e tanto amato!

_Requiem immensam dona mihi, Mare...._



FIABA.


A volte mi sento piccino, buono, umile, senza più una frasca
d'osteriaccia alla fronte che di me faccia la parodia di un poeta,
senza più i miei vocabolarioni da cui combino le parole per
bruttare la carta, senza più quelle vane vesciche che mi appiccico
per galleggiare. Mi sento piccino: mi basterebbe un gusciolo di
conchiglia, color madreperla, coi bordi occhiuti, per nicchiarmi e
fluttuare.... senza abbattermi nella cassa, e nella tartana
dell'amore.... Va e va e va!... Addio!... Nessuno risponderebbe. Oh
quale felicità! Il nulla, il deserto, l'infecondità.

Se mi cambiassi in una perla! Se venissi a posare sul seno di una
dama, non al collo dell'ondina che non c'è....--Ecco un pensiero
che ci tenta anche moribondi! Poserei pure.... T'amo! T'amo!...
Nessuno risponderebbe. Sentirei i palpiti di quel cuore:--i fiotti del
nulla, del deserto, dell'infecondità.



VERA PACE.


Sii buono,--m'aveva detto la mia povera mamma, quand'io credevo a lei,
e solo a lei.

S'io fossi stato buono, avessi baciato i bimbi, amato i poverelli e i
fiori, e nel mio studiolo conservato il profumo della mia santa,
senz'altro amore, senza ambizione, senza tormento, vedendo la morte
lontana lontana, avrei dischiuso la mia porta alla mamma.... che
veniva a casa, offrendomi una fanciulla che sapeva pregare.... E avrei
vissuto. Ecco la vera pace.

Nella cassa da morto avrei sepolto tutti i libri: e la perla l'avrei
gemmata in un anello che stringesse forte.... Ma non sì forte come
le mie labbra quando baciano.



LA DONNA?


                                        Pegli. _Hôtel Garcini._

Che cosa è la donna?... La donna ideale pel giovinetto è un
_flacon_ d'odore: purissimo cristallo, essenza inebbriante. Chi lo
guarda, lo porge in alto e lo adora sul fondo di cielo sereno.
Contenuto e contenente riflettono l'azzurro immacolato. Il giovinetto
la dice la _donna-angelo,_ e fa delle poesie. La donna reale pel
giovanotto, in società, è lo stesso _flacon:_ parliamone bene. Ma
il cristallo affaccettato è a suo posto, non alto, non basso, su un
vero tavolo da sala, fra una bomboniera, un viglietto di visita, un
romanzo e due guanti di Svezia. Ogni faccetta ti riflette un migliaio
di cose: civetteria, amicizia, amor proprio, sacrificio, pregiudizi,
eleganti convenienze, dispetti, vendettucce... Il contenuto, sempre
essenza inebbriante e limpidissima, non si mostra mai qual'è. Il
giovanotto la dice la _donna-interessante,_ e fa delle pazzìe...



I MORTI?


                                        Monti di Borzoli.

E un dì venni a te, cappelletta sulla montagna.

Avevi la facciata al mare, la scabra facciata su cui il mattino dava
rosari di perle colle gocce di rugiada tremolanti sui fili dei ragni;
su cui la sera stendeva palii di luce freddissima coi raggi della
luna. Io non so chi ti pregava, pallida Madonnina del cimitero; so che
non vidi mai fiore, ne' lumicino, so che il marinaio t'ama, o Vergine,
sulla prora del bastimento, sculta in legno e tutrice di viaggi
lucrosi, so che ti baratterebbe con Venere lasciva se nei porti tu
rechi cinque e quella sei!

E venni a te, cappelletta sulla montagna. Tu vegliavi i morti, i morti
nel povero cimitero, ove il mattino portava sul vento della marina il
fumo delle fervide industrie, ove alla sera le aliuzze stridenti degli
acridi tra l'erbe turbavano il lontano soavissimo bacio dell'onda. Io non
so chi vi pregava, o morti; so che non vidi mai fiore, nè lumicino, nè
croce, so che la requie è squallida tra la vastissima vita, so che il
sospiro di un moribondo corrisponde al gorgoglio della spuma perdentesi
tra la ghiaia, allo sfaldarsi di un sasso, al battere delle zampine di un
insetto, all'aprirsi di una corolla al raggio mattutino. Dico la vita, e
intendo quella della natura tutta, che opera dalla polvere dell'ossa del
primo animale al fremito della fecondazione nell'imminenza di questo
minuto in cui voi coordinate il suono di due lettere; la vita che fu, che
sarà: la stupenda attività delle forze, la strapotenza di quella gittata
di dadi che si chiama il destino.... E se l'uomo doveva esser parte della
famiglia, e la famiglia della tribù, e la tribù del regno, e i
regni....--No: fallata è la via, perchè tolsi i nomi dall'autorità
minuscola, che si misura a giorni, ad anni. Dirò: se l'uomo doveva essere
l'atomo turbinato dal tempo, in questa esistenza complessa della umanità,
sia pure e sia fatalmente: ma la coscienza della vita individuale di ogni
minuto, tormentata dall'ironia di quell'infinito Tutto, che tutto
ingolla, io non so perchè fu data, e a quale ineffabile martirio!

Ero lo stanchissimo viandante; venni a te, cappelletta sulla montagna,
e, arso dal sole, cercai un'ombra.... Riposai all'ombra dei cipressi.



PLATONISMO?


                                        Pegli. Hôtel Garcini.

. . . . . . . . . . . . . . . . . .

--Oh, oh! perdoni, ma questo poi no!

--Marchesa, mi ascolti, e non rida, s'io dico: _un po' di scetticismo!_
Lei si spaventa alla sola parola, ma, in pratica, quante volte Lei fu
più scettica di me, che oggi voglio scherzare. Dunque? dicevamo?

--Lei diceva....

--Dicevamo dell'amor platonico. E lei ci crede?

--Stupenda creazione della poesia! Platone, imaginando la teorìa
sua, unì il cielo alla terra: fece la donna sorella dell'uomo:
levò gl'innamorati alla incorruttibilità degli Dei.

--È vero, mah!... E Platone istesso diede esempio, amando....

--Amando.... Come avrà amato lui!

--Amando una donna di sessant'anni. Oh! ma perchè si sorprende,
marchesa? Sarà stata un'intellettuale bellezza, pari sola
all'ideale altissimo della mente del filosofo. Non crede, marchesa?
Ecco la natura umana! Anche lei! ammira la teoria, mi sfiderebbe
perchè l'appanno d'un dubbio, ma non amerebbe un Platone di
sessant'anni!

--Gli è storica questa circostanza?

--Certo.

--Mi pare....

--La tolgo dall'imbarazzo, marchesa. Platone da quell'amore
metafisico calò alla terra, e amò la giovinetta Agatissa.

--Sarà stata bella?

--Ecco la natura umana!.... Dicevamo? Se mi lascia continuare le
dirò....

--Dica.

--Le dirò che gli antichi non accettarono la sentenza di Platone:
la poesia greca e la latina non sono velate. Sorse il cristianesimo, e
illuminò le anime degne dell'Ideale: la gran folla fu travolta
nelle turbinose vicende dell'evo-medio. L'amore platonico comparve nel
duodecimo secolo, e sorsero i trovatori che inneggiarono la bellezza e
i cavalieri che facevano voto di pugnare contro la forza brutale a
difesa del sesso gentilissimo. Nei romanzi si disse tanto e tanto,
ma.... Una colpa è dei novellieri, i quali crearono tante _mandole_
da far credere che ogni cuore avesse cinque o sei o sette corde
armoniche: mentre invece i cavalieri, che partivano per le guerre o le
crociale o i pellegrinaggi, trattavano la donna come un usciere tratta
un mobile impegnato, coi suggelli e coi _visti._ Natura umana! Venne il
Petrarca:--La bellezza terrena sublima le anime nobili all'amore
perfetto della bellezza celeste--e, così strimpellando, cantò,
cantò, cantò: ma poteva anche lasciare qualche ninnananna
(giacchè ha addormito i lettori) per addormire anche i suoi
figliolini, lui.... che.... Messer canonico, chi ve li cullava i
vostri, la bionda, la nera o la castagna?--Ogni anima gentile, sì,
amando la donna di un altro, o fingendo d'amarla, dalla bertesca dei
poeti ne lodava i rigori, i virtuosi rigori, o le compassionevoli
concessioni: e così la donna-moglie e la famiglia furono lasciate
ai poverini senza garbo, che temevano di avere alle tempia....
l'alloro. Dalla cavalleria platonica l'Italia ebbe l'ordine dei
cavalieri serventi: servivano la dama, acconciavano il marito, che li
eleggeva leali, devoti, a curargli il sacro deposito. Era il tempo
delle calze rosate, delle giarrettiere a ricami, de' nei
capricciosissimamente svelati o nascosti, e il servente doveva
intendersene meglio d'una cameriera; e il marito saliva in Parnaso,
accademico e gingillato, sotto il nome di _cortese_ o di _astemio...._ Ai
nostri dì? Le istituzioni sono varie: non hanno veramente una
_ditta:_ il capriccio svolazza fra mogli e amanti: e i mariti, distrutto
il Parnaso, salgono agli onori o al palcoscenico. Natura, natura
umana! Siamo di creta: gli è il guaio: e se nella nostra creta si
fa uno screpolo, chi vi fa capolino? La testa del serpente che
tentò Eva. Vede, nemmeno si può discorrere a modo, perchè
oggidì la gente va, viene, sta, ride, piange: una confusione!...

--Ride anche lei?

--Dove siamo andati colle ciarle? A dir male dell'amore platonico, di
cui fu detto troppo bene. Comincio a dubitare dell'amore platonico....

--Comincia? Grazie: con quello che ha detto! Finisca.

--Finisco con una cattiveria che ho letto in un libro. Sofia era
un'amante poetica, ideale: e _lui_ un bravo giovinotto che credeva alla
espressione: _amo la sola anima:_ come si vede, di poca esperienza, e
sì che aveva due bellissimi occhi. Ma perchè mo' non si deve
credere alla sola anima? Natura umana! È tempo di dire la vita
com'è, di calare dalle nebbie dell'ideale: sono nebbie che danno le
malattie, e queste lasciano il nervoso, e questo ha bisogno
dell'idropatia. Dunque? _Sofia e Gilberto:_ storia non mia.--Gilberto
dal suo dovere fu chiamato sul campo, combattè, e perdette un
occhio. Sicuro, sicurissimo tornò a Sofia: e lei? Fu donna, fece
una smorfia che le impedì di vedere una medaglia al valore
guerresco.--Ma dunque? non amavate l'anima?--_Se gli occhi sono lo
specchio dell'anima, come contemplerò io debitamente la vostra, or
che ve ne manca uno?_

--Ah che scetticismo!

--Che cattiveria!... Ma chi insegna a noi uomini ad essere così
cattivi? Marchesa, prendo il cappello, per non essere obbligato a
rispondere alla mia domanda.



SUICIDIO?


Oggi il mare ci fa un regalo. Strozzati lì in un canale della
scogliera, si contorcono cinque o sei foglietti di carta. All'ora del
bagno li vedevamo galleggiare, lucidi abbaglianti: stasera ci portano
i numeri del lotto? Peschiamoli e vediamo. È carta scritta. Ma
come? ci trovo delle parole, non so.... Prima che vadano a girare
prosaicamente tra le gambe delle lavatrici di Cornigliano, peschiamoli
e leggiamo, signora marchesa. Sono note? sono frammenti di un libro?
Che diamine?... Senza commenti, proviamo a incominciare.

. . . . . . . . . . . . . . . . . .

Foglietto I. _Nel dì de' morti._ Venne nella casa la coltre del
cataletto? Venne, come è destino, e si partì. Tutto si partì?
Ecco il vuoto: ecco le religioni soccorritrici. Io so che qualcosa si
affaccia agli usci, tiene in rispettoso timore i vivi, guarda le gocce
di cera sul pavimento o i petali sparsi di qualche fiore o la
segatura, fa più triste il silenzio, più desolato il disordine,
occupa nessun posto, e li occupa tutti, sorprende nell'aria nauseosa
pel fumo delle torce l'ultima preghiera morente del corteo che
sfilò, la prima parola di comando che disse l'erede, saluta gli
oggetti che saranno dati ai legatari, s'appiatta dappertutto, sbuca
dalle pieghe del testamento e domanda:--È finito?--È finito: il
morto viaggia al cimitero. All'indomani tutto sarà come prima, come
un mese fa, come un anno fa: ognuno ripiglierà il suo posto: pare
impossibile che possa essere altrimenti.... O Dio! il posto vuoto è
divenuto un altare, e noi aspettiamo _lui_ o _lei_ che aspetta noi! Fede
abbiamo ogni giorno: ma quando sommeremo gli anni agli anni,
tristissima desolazione sarà quella di accorgerci che ricordiamo un
nome ai figli, o ai figli dei figli, che la vicenda della vita fu
varia, che il tempo, il quale raschia le iscrizioni sulle croci di
cimitero, cala e cala le sue nebbie nell'anima nostra! E noi giurammo
eterno dolore!.... Nevicò tanti inverni in camposanto!... E noi? O
giovani, noi saremo su un seggiolone, scongiurando la morte che ne
stia lontana, o giù tra le quattr'assi nell'eterno buio. E voi, o
fanciulle, che leggete sorridendo, avrete fatto portare
l'inginocchiatoio di penitenza nella parrocchia e più vicino ogni
dì al confessionale e all'altare delle sette indulgenze, o basso
giacerete colle mani in croce. Se avremo figli, noi dagli occhi di
quelli, quando ci si stringeranno attorno domandando:--State
bene?--noi attingeremo gli sbiaditi ricordi di pianti e di sorrisi, e
ci interrogheremo sconfortati:--E noi giurammo eterno il dolore?--Se
avremo figli, essi verranno sulla nostra fossa e prometteranno di
venire sempre: ohimè! pongono una croce di legno: è l'immagine
più vera del dolore: essa perde il nome, si tarla, si sfianca,
cade, e serve a cuocere la cena alla famiglia del becchino....
Nevicherà tanti inverni in camposanto!...

O giovinetti, o giovinette, ascoltate quel ch'io vi dico nel dì dei
morti. È silente intorno a me la campagna: solo le squille di una
campana lontana mi giungono attraverso il bosco, come le voci
venerande di chi non è più, versandomi nell'anima i ricordi del
passato: s'agitano i penduli tralci delle viti, quasi facendomi cenno
ch'io mi raccosci sotto i loro padiglioni e pianga: scrosciano sotto
a' miei piedi le foglie secche dei roveri, ed ognuna parmi
dica:--Così passano e sono calpestate le speranze!--: il vento
investe il bosco, e l'ondeggiare delle cime dei pini mi sembra saluto
mestissimo dell'autunno che muore.... Addio!...

--Poesia!--suonarono a me d'intorno i fremiti della gran lira di Dio,
dalle mille e potentissime corde vibranti in ogni atomo delle cose
create. Amore! Dissi sorrisi del cielo alla terra la blanda luce dei
crepuscoli e l'azzurra immensità degli spazi dell'aria e i lieti
colori dell'arcobaleno. Amore abbracciò! Chiamai vincoli di una
unione fecondatrice i raggi solari e le piogge. Amore sorrise! Chiamai
saluto il tremolare delle stelle, contemplazione il prodigio delle
tenebre, assopimento d'estasi amorosa il silenzio notturno e bacio il
riflettersi della luna sulla superficie delle acque. Amore suscitò
le divine armonie della natura! Ascoltai voci di un linguaggio
inesauribile nei venticelli che accarezzano i fiori e danno al mare il
gorgoglio e l'argento della spuma!... Guardai la terra. Amore
abbracciò, sorrise, suscitò le divine armonie della Natura. La
terra si popola d'animali e si veste di piante. Dall'elefante
all'infusorio, dal pardo bellissimo al verme, dall'albero il più
spaventoso per mole alla vegetazione microscopica, dalla rosa ch'è
la regina della primavera, a quella _parmenia_ che fa orrendi i crani
insepolti, passa ed accende e trascina una corrente animatrice. Nozze
perpetue nella Natura, sulla terra, nelle acque, nell'aria, sempre
l'opera di una potenza ineluttabile, maga divina dalle multiformi
trasformazioni. Guardai l'uomo. Amore abbracciò, sorrise,
suscitò le divine armonìe dell'anime innamorate. Canti d'amore
s'innalzano dalle culle, dai tetti virginali, dai talami: sorride il
bambino alla mamma: erra smanioso col pensiero nei labirinti fatati
dell'avvenire chi delira per un volto tra mille carissimo o per una
larva azzurra figlia solo di cupida fantasia: freme al dolcissimo
bacio la sposa e freme il compagno: tra i baci della febbre e la
febbre dell'amore è concepito l'uomo nel ventre della madre.
Nasciamo per l'amore e per l'amore viviamo!--Ama!--è il _fiat_ divino
della conservazione del mondo.

Se il sole dell'amore non ci scalda il cuore negli anni della
giovinezza, l'anima si agghiaccia nel dubbio e bestemmia
delirando:--Chi sono io? e perchè sono?--Addio, addio, tranquille e
sante illusioni di un dì! Nel dubbio voi, fanciulle, consultate e
consultate lo specchio: noi, giovani, apriamo lo scrigno: nell'anima
inaridita nascono i tossici della solitudine, le invidie: e le invidie
per chi? O Dio! per l'amica che sciupò i fiori virginei, gittandoli
nella carrozza di un milionario paralitico pei vizi; per l'amico che
s'inchinò innanzi alla giumenta d'oro. Addio! È sepolta la
giovinezza al suono di due campane:--Odio a noi stessi; odio al nostro
destino: è sepolta desolatamente, e se ad essa si dovrebbe porre
un'iscrizione, questa sarebbe--_Semper pro me._ La trista virilità
viene innanzi con tutta la ipocrisia della posatezza. Addio!... Chi
siete? Siete, o madonne, le arpie in cuffia, e la bibbia vostra è
il libro dell'_avere:_ siete, o messeri, i mestieranti e nel cuore avete
la bottega la più sozza. Andate, andate per la via fatale che vi
è prescritta. Nessuno avrà dolore per voi: e perchè? Ma
quando comprendeste l'amore? E l'amore è fede.

Venite, o tranquille e sante illusioni del futuro! O giovinetti, o
giovinette, amate e fremete. Accogliete nell'anima il raggio che vibra
dalle pupille intensamente fisse in voi: il cuore ribollirà nella
speranza, ed esulterà trionfando:--Sono potente! E sono per
amare!--Nella religione dell'amore troverete a fratelli i brutti, i
sofferenti, i poveri: e farete somma carità con uno sguardo più
che con tutte le limosine ufficiali: benedirete al sole, perchè
è l'amore dell'universo, e scalda il cedro e scalda la muffa.
Venite, o tranquille e sante illusioni del futuro! Baciatevi, o sposi,
e fremete. Tra le due teste giovanili ecco la testolina di un bambino.
Date fiori nei capegli a quel bambino, sulla culla ove dorme, al seno
che lo nutre. Fiori nelle manine di lui che s'alzano al cielo, fiori
tra gli occhi suoi e quelli della fanciulla complice dei primi pianti
soavi e dei primi sorrisi consapevoli, fiori tra la sua mente e
l'azzurro e cadano sulla testina di _lei!..._--Anche tu ami, o
figliuolo? O donna, il figliuolo nostro ama! E chi non ama? E la sua
vergine sorride.--Fiori alle vostre nozze.... Amore! amore!
amore!...--O figliuoli, ho irrigidite le membra fatalmente. Sugli
occhi posatemi un fiore, ed uno sulla pietra.--E si muore! Ma la vita
fu vicenda di fiori e d'amore....--E la donna? Come volarono gli anni!
La mamma, sempre santa, bellissima, felice, sempre porse fiori e
sempre amore. E porge fiori alle tombe...--Andate, andate per la via
fatale che vi è prescritta. Chi ama piangerà per voi. Sempre
comprendeste l'amore. E l'amore è fede.

E se la fede cancella il dolore a poco a poco è dono d'Iddio. Dico
a voi che piangete, a voi che sorridete,

. . . . . . . . . . . . . . . . . .

Foglietto II: _Confessioni_. Foglietto III: _A mia sorella_. Foglietto
IV....

* * *

--Perchè non legge più, marchesa?

--Mio Dio!... perchè.... sa lei?... Sono commossa....

--Ha gli occhi rossi.

--Non so.... Ho paura che ci arrivi una brutta notizia.... È un
presentimento: chi ha scritto queste cose si è gittate in mare....
Temo.... Perchè furono sparsi quei foglietti sull'acque?... Temo un
suicidio.... Chi può avere scritto?

--Si ricorda, marchesa, di quell'artista che a Vado andò in _omnibus_,
chiacchierò tanto e poi perdette l'albo? Il vento l'avrà portato al mare,
quell'albo, l'avrà sfogliato, disseminando le _confessioni_ su per
l'acqua.... Si ricorda di quel poverino?

--Era ubbriaco!



POESIA.


                                                Porto di Genova.

O _Zena_ procace, dall'Aquasola dominatrice del mare e dei colli di
Albaro e degli orti del Bisagno! _Zena_, gemmata di ville da Portofino
ad Arenzano, sullo sfondo degli argentei uliveti o delle montagne
boscose, con tanto azzurro di cielo da darlo a scialacquare a mille
poeti! _Zena_, aperta al libeccio che da Spagna ancora spira l'alito
infocato dell'arabe fanciulle nel sangue de' tuoi figli _Sabazi_,
_internali_, _ingauni_ e _genuati_. _Zena_, consolata dai ponentelli
freschissimi puritani, bruna donna di Lerici, bionda etrusca di
Sarzana, _Janua_ antica, perfino le tue fortificazioni mi sembrano
fascie e corone d'amore alle pendici caldissime!

Quante volte io volli sapere, più che la tua fastosa voluttà, la
tua potenza! E seppi che Filippo Visconti, quando l'ebbe nelle spire
della sua biscia, si credeva già signore d'Italia. Il duca d'Alba
vedeva l'occupazione tua come la base ad una monarchia saldissima. Se
il duca di Zenua ti avesse aunghiato per la Spagna! Il signor Le Noble
scriveva a Luigi XIV: «Genova e Marsiglia unite sotto lo stendardo dei
fiordiligi darebbero legge a Cadice e ai Dardanelli, terrebbero la
Barberia in forzato rispetto e farebbero tremare il sultano nel suo
stesso serraglio di Costantinopoli.»

Ma non so più leggere. Quando il luglio è implacabile coi suoi
trenta gradi, io fuggo le morte biblioteche. Io voglio l'aria, il cielo,
il mare! Io voglio amare!... Amo voi, o marinai di _Zena_, che
storicamente ancora intarsiate nel vostro dialetto tante parole arabe,
spagnuole, greche e francesi; amo voi, o vele, o chiglie, o coste
rivestite di bordature, impernate, calafatate, colle fodere di rame, o
alberature sorelle! Ah! so che colle vostre bestemmiacce, colle tinte
sudice e coi rappezzi grossolani come quelli sulle tonache dei frati,
colle corde bisunte, colla cifra fatta in catrame e la solita [ancora]
GENOA, coll'odore di mare salato, voi fugate la poesia a mille miglia
lontano a rimbellettarsi su qualche paio di _labbra di corallo_, a
incipriarsi su qualche _collo d'alabastro_.... Ho detto la poesia? Ho
sbagliato: dovevo dire la Nonna poesia: quella in cuffia, colla
tabacchiera e il mazzo dei tarocchi lì sul tavolo: è titolata,
sfoggia genealogia e stemmi, e nulla fa di bene se non ha le rose
dell'aurora, le polite pieghe del peplo, le note della lira, il profumo
dell'olimpo: cinguetta coi poeti e i professoroni ufficiali, è
pettegola e si liscia. Via! di codesta donna marchesaccia siamo stufi.
C'è una bella scapigliata, con grand'occhi acuti, senza rimario sotto
le ascelle, senza svolazletti, la penna d'oca e l'elmo di Minerva,
c'è una giovinetta che s'asside anche all'ombra delle vele, viaggia
coi marinai e mangia il pane duro, conta i soldi e canta Dio e il mare.
È la vera poesia. E Natura, diffondendola in ogni atomo delle cose
create, non le disse mai:--Sarai aristocratica: sarai democratica,--ma
le impose:--Non mentirai!

Voglio conoscere la potenza di Genova? Vado a gustare la grandiosa
poesia del suo Porto.

Il molo vecchio costrutto da Marino Boccanegra nei faustissimi giorni del
Comune, il nuovo d'Ansaldo di Masi, la Lanterna su cui si accesero i
primi lumi nel 1316, il robusto emporio del Portofranco, i porti di
sbarco, gli argini, vorrebbero ancora dieci trombe di _cintrago_ che li
proclamasse ai regni dei voli lirici, o meglio dieci portavoci di
capitani che rivelassero a questo bassissimo mondo quante _doble_ hanno
fruttato, e quanti futuri dii frutteranno. Sull'immenso sfondo verdognolo
azzurro nereggiano gli scafi snelli dei mille bastimenti: e sugli scafi
s'inclinano i bompressi, si drizzano i bassi alberi, gli alberi di
gabbia, quelli di pappafico e l'aste: le sartie s'appoggiano alle gabbie,
i pennoni recano il velame arrotolato, e le corde, le puleggie delle
_manovre dormenti_ e delle _correnti_ formano gli apparecchi altissimi
dei lucrosi saltimbanchi del mare. Anch'io userò il vecchio paragone: il
porto è tutto una selva nella quale i venti vogliono i loro giochetti, ed
ecco le vele triangolari, le quadre, quelle che tornarono sbrandellate,
il fumo dei tubi ritorti, e i tubi sbiecati. Come hanno giocato in alto
mare! Lo sanno i marinai che hanno appeso quindici o venti voti al
santuario di Savona, o i marinai che hanno appeso il loro sacco d'ossa ai
corallumi del glauco cimitero. Nel porto si stringe la gran famiglia: le
prore sono, per così dire, i volti, le poppe danno il nome di battesimo,
l'alberatura di tre, di due tronconi, segna la casta e l'anima è giù
nella pancia. Le barchette vanno e vengono, come i domestici, come le
formiche intorno al granaio. Io vorrei dirvi il giuoco dei riflessi del
cielo e del mare, le bolle delle aspergini tranquille, gli scherzi dei
vermi marini sulla costa, le gradazioni. Ma non posso! Però voglio dirvi
come appaiono tumide le vele tese dal vento, come imbizziscono le
banderuole a fiamma e come sembri che i catenoni dell'ancore e le
scalette giù giù tremolino col tremolare degli strati dell'acqua e si
perdano in un serpeggiamento vano.... Ma che? Come mai si può osservare?
Genova è Genova: la folla è turbinosa, l'affaccendarsi incrociantesi....
La locomotiva su un argine ripiglia fiato rapidamente ed urta i vagoni a
specchiarsi in mare. Bestemmiano, inturgidendo i muscoli, i nudi facchini
michelangioleschi: i carrioni con quattro, sei cavalli accodati sembrano
dire:--facciamo tremare la terra, la terra è nostra:--si fischia; si
urla; si inneggia.

La scena, o signori, è unica, e l'entrata _gratis_; vedete:--il mare,
il progresso, e su il guadagno, e su ancora la poesia, e su ancora il
sole che ride di tutto.

--O marinaio poeta, che hai letto nel gran libro dell'utile e nelle
grandi notti sull'estensione dell'Atlantico, dimmi le tue rime.

--Cuoio, acciaio, canape, corna, indaco, cocciniglia, grano, olio,
pepe, pelo di camello, tonno, salsapariglia.

--Ma no, che non sono rime! Noi diciamo _amore_ fa rima con _dolore_. Non
capisci? E sei _homo_, come me, sei _homo sapiens_.

--Che cosa dice?

--_Homo sapiens_ significa uomo sapiente. Ah? tu non intendi il latino,
sicuro.

--Uomo _sapiente_?

--Ebbene? Ci pensi?

--Nulla affatto. Fa rima con _niente_.

A questo punto il sole che rideva, mi parve sghignazzasse: io, furbo!
apro l'ombrellino.



GENOVA.


S'io fossi il _cintrago_, il banditore medioevale di Genova, da ogni
legno che venisse di Sardegna con sale, ne riscoterei mine tre: e mine
tre o mine una di grano da ogni legno che tornasse di Corsica, oppure
_de Maritima et Romania_. E poi _marabottini_ d'oro dalle galee che
andassero in corso al di là della Sardegna o in Ispagna. Adunerei
il popolo a suono di tromba, citerei ai placiti, ordinerei le guardie
della città, pranzerei coll'arcivescovo, e davanti a qualche
palazzo de' Fieschi, de' Grimaldi, dei Doria, degli Spinola, per
privilegio di magna prosapia fasciato di marmi bianchi e neri,
canterei le glorie di Genova mia. Vorrei essere il _cintrago_ e campare
vecchissimo vecchissimo, dal tempo dei consoli ai dogi biennali, e
dire:--N'ho vedute di cose traverso i secoli!-

E canterei così:--Ho squillato la mia tromba pei consoli, pei
podestà, pei capitani della libertà, i Fieschi, i Grimaldi, i
Doria, gli Spinola, per il reggimento dei dodici, dei ventiquattro
coll'abate del popolo, per la signoria d'Arrigo, quella di Roberto di
Napoli e di Giovanni XXII, pei guelfi, pei ghibellini, pei dogi
perpetui della stirpe Guarca, Montalda, Adorna e Fregosa, pei dogi
biennali, i nobili privilegiati, tra l'imperversare delle fazioni di
Portico nuovo e di Portico vecchio, pei commessari francesi della
repubblica ligure.

E narrerei:--Venite al porto. Io ho veduto le venerande galee, i
galioni, le galiazze, le galeotte, le cetee, i taridi, i panfili, le
vacchette, le borbotte, i golabi, le gatte, le cocche, le saettìe,
i portantini, gli uscieri, le flotte di quei genovesi che ghermirono
la Corsica, la Capraia, la Gorgona, Tunisi e Minorca, Almeria,
Tortosa; navigatori e guerrieri, i ghibellini contro Carlo, i guelfi
che preferirono lo esiglio al pane dato dai vincitori, i sostegni del
seggio bizantino, i mercatanti da Ceuta al mar Libico, all'Egizio, al
Sinaco, al Panfilio, al Lido, all'Arcipelago.

E inviterei:--Moviamo al tempio di san Matteo, monumento de' Doria, al
san Donato dalla torre costantinopolitana: a san Tomaso, al san Marco
col Veneto lione, che rugge ancora coll'ultimo lamento di Andrea
Dandolo, il suicida di Curzola memoranda; che freme ancora
all'invisibile sogghigno trionfale di Pagano Doria trascinante dalla
poppa della galea capitana lo stendardo de' Veneziani. Andiamo al
Campo Pisano: ivi i tredicimila prigionieri fatti alla Meloria
cainesca e le larve disperatissime dei tremila uccisi fecero ringhiare
il proverbio tremendo:--_Chi vuol veder Pisa vada a Genova--_: i
catenoni del porto della rivale furono tagliati a pezzi, perchè
potessero essere appesi qua e là per le piazze e le vie della
trionfatrice: inventore di questa vendetta luciferina Niceto Chiarli
re delle incudi: e per lui i fabbri, devoti alle balestre, alle
bombarde, alle pignatte di fuoco lavorato, ascoltavano in Santo Sisto
un'annua messa di suffragio. A San Sepolcro sorgono le memorie de'
crocesignati, dei cavalieri, degli spedalieri, e dei cinque cardinali
affogati nei cinque sacelli da Urbano VI. Alla Casa di San Giorgio
v'è il codice di _Gazaria_, o i cartulari della compera di Caffa,
Scio e Famagosta. Al Borgo di _Prè_ si spartivano le prede nel secolo
duodecimo. Al Duomo, ricordato anche da Fazio degli Uberti per _li
porfidi et marmi orientali_, non vi so dire gli archi acuti, coi fasci
di colonnine, gli ornati a mosaico, le zone, la simbolica cristiana
orfica, le tre navi, le sedici colonne di breccia africana coi
piedestalli di basalto, il coro, il presbiterio, la cupola, la
tribuna.... Avevo già novant'anni, o messeri, e madonne, ed io,
_cintrago_, l'ho veduto l'architettore! Era l'Embriaco, guerriero di
terra e di mare, consolo ed artista. E poi passarono gli anni! Un
giorno sotto queste vôlte, che accolsero le reliquie conquistate a
Mirrea e il sacro catino a Cesarea, sdegnosamente si ricusò il
giuro di fedeltà a Federigo imperatore!... E un altro giorno si
confermò Simone Boccanegra! Quante glorie di dogi! E in un tempo
funesto cinquanta fanciulle vestite di bianco, recando l'ulivo,
imploravano pace da Luigi XII!

E dirò ancora:--Andrea Doria fu insigne sul mare: Ambrogio Spinola
conquistò le Fiandre: Megallo Lercaro rappresenta la forza dei
traffici e delle colonie di san Giorgio benedetto. Volete leggere di
scienze, lettere e d'arti? Andalo del Negro, il Caffaro, Battista
Vernazza, Giustina Vageria, Bartolomeo Falamonica, Ansaldo Ceba,
Matteo Senarega hanno scritto: Tadisio Doria, i due Vivaldi, Colombo,
Antonio Noli, Usodimare hanno viaggiato: le pagine degli artisti le
vedrete nei palazzi: Via Nuova, a detta del Vasari, è unica al
mondo....

Imbocco la tromba d'oro, squillo tre volte tre, e proclamo a tutti i
venti. Udite, udite, udite:

    _Ditis opes Asiæ et claros orientis honores
      Quantaque ab Euxino traditur ora salo
    Pisanas acies Thuscæ decora inclita pubis,
      Et traxi ad ligures gallica signa manus:
    Subjectis dominans tenui cervicibus Alpes
      Et tremuit nostras Aphrica terra trabes.
    Afflictus toties Venetus, qua fugerat olim
      In patriis novit tela petitus aquis.
    Frustra, Galle, cupis, frustra es frustator, Ibere,
      Frustra sæva, Ferox Insuber, arena capis.
    Vinco ego dum vincor, par est victoria damni,
      Sumque eadem domina servaque facta mea._

* * *

In quel tempo in cui dal faro di Genova pendevano i lampioni fumigati
e le galee a velatura e palamento, dall'alta poppa teatrale, sparando
una straccia di bombarda, si piegavano su un fianco, in quei tempi in
cui una barca metteva fuori tanti remi da sembrare un millepiedi, si
poteva incominciare con quei versi la descrizione di Genova, prendere
l'aire, e gonfiarsi su fino al settimo cielo della poesia. Benedetti
tempi! Perchè non sono io nato allora? Allora non c'era questo
vezzo ribaldo di schizzare degli acquerelli fuggi fatica: così, e
così, quattro pennellate, senza fondo, senza un contorno deciso,
magari spropositati di disegno, su un brandello di carta qualunque,
per far ridere una marinara che non ci capisca un ette, per far
sorridere una marchesa, la quale indovina la sua _silhouette_
elegantissima nei tratti del pennello tinto d'azzurro. Lasciamola
lì. A quei tempi c'era l'incisione scrupolosa che vi dava l'idea
dell'infinito mare con mille o mille dugento righe orizzontali e
digradanti. La città si vedeva chiara e netta, come una mappa:
sulle terrazze dei palagi c'era l'A, B, C, D: nel cartellino poi
appiccato sul mare si leggeva la brava spiegazione dell'A, B, C, D....

--Adesso c'è la fotografia.

--Verissimo. Chi vuole le cose ammodo ricorra alla raccolta di vedute
che il padre Abate Giolfi pittore dedicava a Sua Eccellenza il signor
Giuseppe Boria Duca di Massanova e di Facina.

---Ricorra alle fotografie del Degoix.

Io non posso tracciare giù la pianta della città, nè
m'intendo di cose serie da imbandirvi, come s'usa, i primi cenni, la
scorsa da un capo all'altro, la Genova considerata militarmente, le
vecchie mura, il porto, il portofranco, l'acquidotto, le Belle Arti, i
palazzi, ecc., ecc.

Poh! questa mancherebbe: che voi mi pigliaste sul serio. No! no! Sono
chi sono: un poveraccio faticato dagli studi sui codici, un esule
volontario dalle dotte e morte biblioteche, un antiquario, che,
lavandosi la faccia nell'acqua limpidissima e scacciando la
polveraglia dei morti, incomincia a vederci meglio. Oh poesia
strapotente del cielo e del mare! Oh vita mia! Oh liberi sogni
d'artista! Se poi.... Marchesa, mi presti il suo occhialino
capriccioso: attraverso quelle lenti devo vederne di belle cose, se
già ci è passato il suo raggio visuale! Marchesa, mi favorisca
il suo albo.... Ella insidiosissimamente ha tutto profumato con quel
suo _muguet!_... Viaggiamo insieme verso Genova: in prima classe, già
s'intende.

Mi pare e non mi pare, ma il fischio della locomotiva, che entra
appunto nella stazione, ha come insultato il mio esordio, l'epigramma
dello Scaligero; perciò m'imbizzisco, e dimentico l'altro di
Maurizio Cattaneo, l'eroe delle tre navi, il vincitore della flotta di
Maometto, dimentico il distico di Antonio Asteggiano da Villanove, i
versi di Bettinelli, di Chiabrera, le lodi di Bonamico, di Muratori,
di Giovanni Villuani, del Brusoni, di Sua Maestà l'Imperatore
Cantacuzeno....

* * *

O Genova! o Genova! Chi può mai descrivere i tuoi palazzi di via
Balbi, della Nunziata, della Nuova o della Nuovissima, e le casette a
otto piani nelle strettucce che sembrano scolatoi al mare? Chi ti
dirà il nobile effluvio dei cedri e il plebeo fetore del
baccalà; la splendida pace dei pensili orti e l'arrabattarsi
lucroso nel porto: la vita opulentemente stanca nelle sale d'ozio e la
insaziabile voluttà della marmaglia saettata dal sole: la bianca
melanconia degli atri, degli scaloni, delle corti solitarie e
l'immensa gazzarra delle mille navi? Chi dirà, in qual reggia, in
qual sala dipinta da Guercino, Van Dik e Bubens, cento cavalieri e
quaranta dame furono convitati magnificentissimamente, serviti con
piatti d'argento e d'oro, e i piatti ammucchiati a formare tante
colonne fino alla volta: e chi descriverà la cena del pollivendolo,
il tozzo rosicchiato, sotto l'incarco d'una gabbiona pidocchiosa e
insudiciata?

Ma da che parte si deve incominciare?

--_Venturi non immemor ævi--Sibi et Urbi_--è scritto sui potenti
fastigi: Lodovico XII diceva ai patrizi di San Giorgio: «Voi siete
meglio alloggiati di me:» e lo dicevano Carlo V e Filippo II. Genova
è la città dei palazzi: vi architettarono l'Alessi, il Lurago,
il Vannone, il Bianco: vi pinsero il Calvi, il Semini, il Cambias, il
Tavarone, il Fiasella, i Carloni, l'Ansaldi.

Le facciate sono incrostate di marmi o coperte di freschi mitologici,
storici; le colonne di bianco Carrara o i pilastri di cupe bozze
sorreggono gli architravi stemmati delle porte maestre; le cornici, le
statue, le balaustre, gli scudi, i timpani, le piramidette, i festoni, i
bassorilievi, i loggiati, le inferriate sporgenti, con forte armonia
s'intonano alle linee del quadro, dovuto alla scuola di Michelangiolo e
del Bernino: una intera via, due, tre, quattro.... quattro prospettive
sceniche di sedi olimpiche. Nei vestiboli lastricati di marmi o s'adagia
un larghissimo scalone, coi lioni maestosi, veglianti sui piedestalli,
oppure un velo d'acqua frescamente scende a bagnare le muscose spalle di
due cariatidi reggenti la conchiglia, oppure tra le colonne appaiate
scintilla, come sfondo, l'azzurro mare e il cielo secato dagli apparecchi
aerei delle infinite alberature. Vi sono scalee che danno a cortili, e
nuovamente cortili che danno a scalee, e su ancora.... Arriviamo ai
terrazzi, alle logge, ai giardini sostenuti da baluardi, agli elisi, ove
le rose e gli aranci, la flora ligure venustissima non suade che amori,
coi profumi spossatori dei talami sempre fecondi. E vi sono scalee che
accedono alle straricche anticamere e agli appartamenti: ori, pietre,
stucchi, cristallo, basalto, alabastro, colonne doriche, ioniche,
corinzie, tele, freschi, statue, tutto vedi.... Cioè, non vedi niente:
perchè subisci là dentro un'arte sola strapotentissima, la seduzione. Là
comprendi quella incasta mitologia del decadimento, là fremi
all'incondito atteggiarsi delle Veneri, là capisci che la Medicea
formosissima non è donna, perchè perfetta. Sui terrazzi, ove ghignano i
mascaroni e nelle sale ove stringono l'occhietto le ninfe, una ebrietà di
tripudi ti dà il capogiro.... La dama, di cui si sparge l'olezzo mondano,
la dama che imagini con te, la vorresti coi nèi, colla cipria, colla
sapiente raffinatezza del secolo pettegolo, colla insidia vampirica delle
corti di Francia, nata espresso per esser civetta e dannatrice accorta
d'uomini. Ghigni anche tu, e anche tu stringi l'occhietto.... E quando
pensi che le acute scarpine, la veste _bergère_ a fiorami d'ortensia, il
busto colmo e giù appuntato, gli _accroche-coeurs,_ i nèi.... i meno
svelati.... tutto è finito! La dama giace sotto in qualche chiesa
barocca, sotto la pietra barocca, già dimenticata dalla prece barocca,
già.... Ah i lombrichi appartengono al realismo!... Quando ti trovi solo,
tu piangi d'amarissima voluttà! Guardi, cerchi e fantastichi: vedi il
bruno ritratto di _colei_ che t'avrebbe avvinghiato, lo scrittoio a
specchi ed oro su cui t'avrebbbe scritto il bigliettino galeotto, le
bugie olandesi che t'avrebbe accese....(11) Ti vanno e ti vengono innanzi
gli occhi le manine bianche, colle unghie rosee, coi braccialetti che
segnano nella carnicina grassottina la depressione sotto l'oro massiccio.
Non sono ancora accese le complici bugie per le?... Passi per le stanze
del riposo, coi moschetti di drappo a pennacchi, colle coltri dense, coi
cuscini gonfi, coi tavolini da notte inesplorabili: tutto sa l'odore
della vipera. Passi nella biblioteca, lunga, lunga, lunga.... Un
volumaccio è ancora aperto su un leggìo: ha il labbro rosso, le pagine
gialle e su una gottaccia tabaccosa.... Vegliava il geloso marito nella
biblioteca.... Passi nella galleria dei quadri, delle statue, delle
incisioni, delle conchiglie, in altre sale, in altre.... La semiluce è
triste: è triste la memoria dei morti: è tristissimo l'insaziabile
desiderio per coloro che non sono più. Chi guardi? Chi cerchi? Chi
domandi?--È morta da un un pezzo, eh!

Passando innanzi ai portoni, _la_ vedi sotto il velo d'acqua
freschissima. Adagio: prima di mettere il subbuglio in qualche
cuoricino. _La_ vedi che ha già fatto la doccia e sale lo scalone
mollissimamente. Adagio ancora: prima di compromettermi con qualche
mammina. _La_ vedi che, col parasole stillante, ti ride in faccia... Per
un capriccio la è passata sotto le spalle delle cariatidi a
spruzzarsi un po' giocherellando. Del rimanente sappi che la vestiva
un abito lunghissimo, alto, così e così. È la padrona del
palazzo che tornava dalla messa e ascendeva al sommo terrazzone...

O logge aeree, o grotte verdiccie; ultimi fastigi su cui trionfa lo
stemma, primi gradini col _salve_! O fiori che vedete il mare, marmi che
riflettete il cielo!... Donna, che mi appari, più formidabile del
Doria, appoggiata alla colonna, a cui già concessero le spalle la
mamma, la nonna, la bisnonna, fervidissima stirpe: o donna, sei
padrona del cielo, del mare, dell'infinito, dell'invisibile! Andrea
Doria nel classico suo palazzo fuor di Porta San Tomaso accoglieva
Carlo e Filippo re e la loro corte, e li faceva servire a suono di
fischietto, come se egli fosse sulla sua capitana. Tu accogli me, come
se tu fossi nel tuo regno e comandami col tuo riso... Non sono
imperatore, nè grande, nè poeta! E tu hai il riso del tuo regno,
del cielo, del mare, dell'infinito, dell'invisibile!... Io servirò
te... Andrea fischiava due coronati e ben faceva: tu fischi me colla
gola del serpente. Il tuo regno è il deserto: lo so: la vanità
della tua bellezza non ti concedette che il tormento della tua
bellezza.

O donna, stringi il libro delle preghiere convulsamente.

* * *

Se babbo, invece di darmi tra mano un codice ne' bei giorni della mia
giovinezza, m'avesse lasciato la carissima tavolozza, io avrei
schizzate tante macchiette quante ne abbisognavano per la processione
del _Corpus Domini:_ e potrei sorridere nel mio studiolo ad una ad una
di quelle che passano sotto gli arcucci dei tragetti, e s'affaccendano
nella contrada del mercato: una contrada fonda come un pozzo, dove da
una finestra all'altra delle case è in mostra sulle corde tutta
l'opera fatta dal bucato nella settimana: panni bianchi, panni rossi,
panni azzurri, l'allegra coccarda dei marinai a tre colori bagnati di
sudore. Alle botteghe a destra e a sinistra, qua e là panche e
corbe, e corbe e panche. La dico una contrada quella dove c'è di
tutto, dal mazzolino di fiori per lei, marchesa, al mucchio appetitoso
di lumache testacee chiuse nelle gabbie, come i passerotti: e pel
pittore tocchi di verde smeraldo, di cinabro, di giallolini: oh che
gazzarra! Fogliami spiccati, creste accese di galli, fette avvistate
di zucche, e via! Dove non c'è una cosa sola, quella santa pulizia.
Oh che sciupo di penne di pollastri e di spine di pesci! Che misto di
magro e grasso! Che confusione di venditrici austere e di sguaiate
esibitrici! E odore di baccalà, e grida senesi e filatere di
muletti, e risse sempre pronte...

Ho detto una processione di macchiette: nè più, nè meno. I
montanari sono già calati dalle viottole, quello colle frutta,
quello col pollame, quello col fieno, quello colla farina. Ecco i due
pescatori tozzotti che vengono reggendo l'uno di qua, l'altro di
là, la cesta piena di  _murun_, il re dei pesci; ecco la donnaccia
colla stadera e colla corba dei _funzéti beli_: ecco la fante del
curato colla sporta e il libro della messa: e la massaia che cammina
cogli occhi a terra, a guardare le sue scarpe nuove dal pattume e
dagli scheggioni: ecco una ribaldella....

Che sei, ribaldella? Sei la bellissima dagli occhi neri. Se io fossi
pittore manierista, ti pingerei col pezzotto bianco, colla crocetta
d'oro in collo, colla camicia e le bretelle delle coriste pastorali,
colla gonna azzurra.... Ma tu sei la bellissima dagli occhi neri. Hai
la testa scoperta e i capegli scarmigliati, il guarnellino
procacemente discinto, la veste a strappi: sei tutta polverosa e
spensierata.... Anche tu somigli a quella sdegnosissima patrizia che
appoggiava le spalle alla colonna del terrazzo marmoreo. Chi sei? Che
cosa vendi?

* * *

Marchesa, le restituisco l'albo e il _pince-nez_. Mi scusi, ma.... le
sue lenti mi paiono maliziose, sì da farmi vedere sempre, troppo,
anche quando non voglio.

Mi metterò gli occhialoni d'antiquario e leggerò il catalogo
dell'Armeria genovese, che m'ha dato un reverendo scolopio. Dunque
c'erano:--«un cannone di legno antichissimo: un rostro di nave
probabilmente dei tempi delle zuffe con Magone cartaginese: alcune
corazze con intagli, geroglifici e sigle; la fama le diceva usate
dalle donne genovesi ch'erano andate a combattere in Terrasanta, la
forma del petto le dichiara....»

Se le dichiara! Anche pel dì d'oggi! Date due massime corazze per
la patrizia e per la ribaldella,



FIORELLINI.


                                                Monti di Pegli.

Chi vi coglie? Fiorite ed appassite, e non sapete che sul candidissimo
seno di una dama, sulle braccia tarlate di una crocetta nera, altri
fiori, meno belli di voi, più belli di voi, agitano i petali al
susurro di una parola rovente, al prorotto singhiozzare d'una
preghiera. Fiorite ed appassite, e chi passa vi guarda e dice che le
speranze, i dolori, si sciupano in questa vita, come i vostri petali
ad uno ad uno, quando posate nelle mani della elegante passeggiatrice.
Ella vi sfoglia per sapere l'amore che dura un giorno....

Non sa l'amore e si trova senza speranze e senza dolori.



NOTTE STELLATA.


                                        Sestri Ponente.

Quella notte al lido tacevamo....

Il vasto libro dell'astronomia è aperto sopra il nostro capo.
Leggavi il sapiente e l'idiota, il felice e l'infelice.

Quella notte al lido tacevamo.



STELLE CADENTI.


                                        Sestri Ponente.

Le stelle più poetiche delle notti estive, le stelle inseguentisi
con velocissime curve, le soavi luci cangianti che scorrono al bacio
d'argento del mare! E il mare rispondendo al cielo sussulta, e dove le
crespe sue accarezzano i fiori, fiori della spiaggia, fiori delle
profondità, ogni ondeggiamento porta un gorgoglio--Amore!--ed ogni
gorgoglio una spruzzata di perle....



AL TRAMONTO.


                                        Sestri Ponente.

Al tramonto rilucono le crocette dei campanili, le facciatelle delle
chiese sembrano parate a solennità con drappi d'oro e rosati, le
rupi hanno profili avvistati, le ombre azzurrigne invitano ai bisbigli
d'amore, dalle corna dei monti si stendono le pezze di porpora e si
allargano giù per le chine, scappando ai piani, dalle valli si leva
un vapore paonazziccio, nei paesi ogni casetta ha una gronda lucente e
un comignolo giocondamente fumante....

O anime gentili e mestissime, io contemplo i fiorellini strisciati
dall'ultimo raggio di sole.

E perchè di quei fiorellini io colgo e bacio l'appassito?



BARCANERA.


                                        Sestri Ponente.

Aspetteremo una notte senza luna e senza stelle, a mare cupo, a pace
di cimitero.

Ti metteremo remi neri, vele nere, in prora corona di fiori funerari,
o barca che t'apparecchi al viaggio per là, da dove non si torna.
La notte sarà un immenso tempio parato a lutto, la spuma dell'onda
sarà l'argento della coltre, la pace sarà la desolazione... O
Signore! Nè alla spiaggia venga fanciulla che pianga, nè lungo
il viaggio batta seguace ala d'alcione. Solitudine vastissima!

E coi remi accarezzeremo il mare, e volgeremo le vele al vento, sì
da farle crepitare come se baciate insistentemente, e petalo per
petalo, o poeta della notte, sciuperemo i fiori della corona.

--L'amavi?

--Era la mia vita.

--Come aveva nome?

--Illusione.



L'ANCORA.


--Áncora,--gongolò il mio professore cogli occhiali d'oro--deriva
da =angkyra= e =angkyra= da =agkylos= che significa uncinato. I greci
non conobbero questo istrumento che dopo la guerra di Troia. Plinio ne
fa inventori i Fenici, i Tirreni e Pausania menziona Mida re dei Frigi.

--L'ancora,--mi disse un fabbro nudo fino alla cintura, re d'una
fucina in cui si profondava fino alle caviglie nel polverio nero,
s'arroventava la gola e lagrimavano gli occhi--può pesare da 150 a
4000 chilogrammi,--e alzava un martello da venti, lasciandolo cadere
su un'incudine suonante come un concerto di dieci campane.

--Ha l'anello, o _cicala_, il _fusto_, i bracci, le marre o _patte_, e il
ceppo--mi accontentò un ingegnere navale, aprendo il suo
portafogli, come chi dicesse:--ho i miei affari, non il tempo per
chiacchierare.

--All'ancora maestra si dava il nome di ancora di salute: e c'è
l'ancora di misericordia--mi soggiunse un marinaio segnandosi di
croce.--Ma si calano colle gomene pregando Dio.

--L'ancora--mi suonò nelle orecchie il curato--è l'emblema...

E non volli più ascoltarlo.

E tu, fanciulla, mi domandi?

Ti ho risposto.

Io ti parlerò; parlerò di desolazione.

Alla sera ho sognato che tu eri raggiante come un faro, avevi una
stella in fronte e stringevi un'ancora per me.



O CARO BIMBO.


A lume di luna, che ti rende macchietta mestissima, che fai? Colle
gambe nell'acqua, che ti pone intorno alle ginocchia un anello
oscillante d'argento, che guardi?

Colla camiciuola al basso già inzuppata, che alle mamme cittadine
fa pensare al raffreddore (che non verrà), che cosa spii? Spii il
mare: vuol mettersi al buono.

Dimmi, e perchè? Perchè tornerà. Chi? Il babbo marinaio che è partito con
in collo la santa medaglietta di Savona, che è partito per l'America da
due anni, il giorno della Concezione? Il babbo che più non scrive?
Tornerà il bastimentino: il bastimentino fatto con uno scheggione di
legno...

O _Bacciccin_! Aspetta, aspetta, o caro bimbo: ancora non conosci il
dolore. E se non tornasse il bastimentino? La tua Lena ne farà un
altro.

E se non tornasse il babbo?



CONVOGLI.


E passavano giù nella valle, pel letto asciutto del torrente. I
mulattieri col cappello di paglia, la camicia azzurra, la fascia
rossa, avevano la frusta a chiovetti d'ottone schioccante ad ogni
minuto, e la bocca coi barbigi arsicci ad ogni secondo schioccante di
bestemmie: le bestie poderose colla gran placca sulla fronte, a
protettrice la Madonna, col campanaccio e i pendagli: le carra, a
ruote di cannone, trabalzanti sotto un monte di barili, di sacca, di
legname, di balle, o che altro. E un carro, e due, e tre, e sei, ed
otto... La processione senza croce, ma coi moccoli! Bisogna dirlo, pel
mulo, è regola genovese, un santo tirato giù di paradiso è un
pungolo alla groppa.

Oh come io studiavo le facce! Faccie biscagline, faccie castigliane,
faccie senza battesimo: e tutte alla golaccia avevano il capestro; no,
cioè le cordicelle colla santa medaglietta di Savona.

Perdonate: chi mi bisbigliava è quel curato colla veste colore
abete, e proprio resinosa, col tricorno a cordicelle allentatissime,
colla faccia non da benedizione, il quale curato da questi mulattieri
non si ha altro che qualche gomitata, e non ascolta che litanie non
canoniche. So che costoro hanno la fermata all'osteria e non alla
chiesa, so che anche a notte l'eco dei cimiteri in suono d'ossa
sbatacchiate su per le croci di legno ripete lo scoppiettare dalle
loro fruste, so... E che cosa so? Niente: che passavano e passavano e
passavano, macchiette variopinte, sullo sfondo della vallata, che mi
tiravo da banda al tempestar dell'unghie dei muli, che qualche volta
in cuor mio dicevo:--Buon viaggio!

E se ancora passate, passate, passate, metteteci un po' di garbo ad
avvisare le signorine: e del resto, buonissimo viaggio!



L'OSTERIA.


E l'osteria di solito è posta al canto della via principale e di un
tragetto: quella fornisce i bevitori mulattieri che si assetano sulla
strada da Savona a Genova; questo che fra due murelli d'orti va al
mare, dà i pescatori e i lavoranti del cantiere. L'insegna è
dipinta d'azzurro, e non c'è nome d'oste o di vedova che lì non
s'abbia il suo battesimo popolare. Chi entra deve guardarsi dalla
focaccia gialla-unticcia, che odora su un gran piatto di peltro, e dal
barile sgocciolante, ritto in piedi, coperto di frasche di vite, e
fatto tavolo a sette od otto mezzine di maiolica dipinta. Pareti a
tutte tinte, dalle sudicie alle aerine, come le tavolozze
dell'avvenire; pancone a gambe divaricate: sfondo di sale e sale a
parate grigie di ragnatele. Chi amasse poi lo studio degli accessorii,
vi trova la lampada di ottone coi quattro becchi, la statuina del
Ballila, sul muro gli ultimi numeri estratti al lotto di Genova
scarabocchiati a carbone, ai vetri le sfogliacce a tenda, alla
soffitta negra e rognosa il finestruolo per spiare giù.

Nella strada cresce un remore di sonagli e di zampe e di ruote, cresce
e poi s'arresta.... Ecco entra nell'osteria un mulattiere col
camiciotto sudato, colla frusta in collo, colla destra mano che
suffrega le labbra bruciate. L'oste non c'è. Il mulattiere leva la
voce ed incomincia:--Per Dio Sacrrr....!

Il curato che passa davanti all'osteria guarda la bestiaccia (non dico
il mulattiere), e fa il suo conto:--Un mulo come questo vale una
parrocchia di montagna.



I MONTANARI.


Venivano giù per le stradette colle corbe piene di frutta, colle
ceste del pollame, col fascio di fieno, colla sacca infarinata. E
quello aveva la berretta rossa e lasciava nei passi soleggiati una
fragranza dolce di prugne e di pesche, come maturate nelle stufe: e
quello un pezzotto di vela incatramata e ad ogni brusco sasso eccitava
il canto mattiniero del gallo imprigionato: quello si nascondeva sotto
sotto e scendeva con fruscio fra i murelli e fra le siepi: e quella
berretta bigia veniva giù fra un polverio, come una Dea fra le
nebbie. E c'erano i fanciulli cantacchianti e i cagnuoli a mozze
orecchie e coda ritorta, i cagnuoli d'avanguardia.

Venivano giù dagli orti fecondi, rigati da cannuccie bianche a
sostenere le viti: dalle case fatte di pietra accostate senza calce,
angolose e bige: dai pratelli stesi sul declivio, come tanti rappezzi
sulla vesta arsiccia della montagna, arsiccia e stracciata dalle rupi;
dai molini stillanti, dove le paie delle ruote avevano i bei riflessi
lucenti d'azzurro girando all'insù, dove fuggendo giù si tingono
di verdemare, sommovendo l'acqua.

Amo i vostri orti, e le case, e i pratelli e i molini: non amo i
vostri cimiteri. Invidiate il marinaio: l'ossa sue, rotolate nei fondi
glauchi, hanno posa di quando in quando, cullate dalla voluttuosissima
vegetazione del mare: le vostre si corrodono tra gli scheggioni quelle
non pagano il nolo della requie; le vostre su un bisunto libriccino e
sul cartone dell'_offitium_ hanno fatto notare:--_soldi trenta_.

Ma voi avete, montanari, la bianca chiesuola delle sante litanie e per
me le litanie sono tutte un canto d'amore.



INFELICISSIMO.


Sorridevano gli sposini, sorridevano le fanciulle, sorridevano le
mamme.... Quel povero infelice che aveva deforme la persona,
sospettosamente passava tra gli allegri bagnanti, e cercava la
spiaggia deserta e sedeva di faccia al mare. Era un amore il cielo:
era un amore il mare. E l'infelicissimo sentiva che le stelle
scintillavano nell'anima della notte con palpito di soavità,
sentiva che il fremito delle onde era un sussulto della vita
universale della natura, si sentiva parte dell'infinito Amore.... Non
gli sorrideva la donna.



BUONA VENDEMMIA! BUON RIPOSO!


Vidi al davanzale di una finestra una bottiglia in cui era piantato un
tralcio di vite: questo, rigogliosissimo, aveva tanti e tanti
grappolini verdi.

Il bimbo che mi era insieme:--Qual è il paese, mi disse, dove ci
son gli ometti così piccoli da fare la vendemmia alle pergole come
quelle lì?

O Madonna! che cosa avrei dato per essere come lui, per potergli
rispondere da pari a pari:--Quello dove gli sposini s'addormentano
dentro un bottone di rosa.



LAGRIME E SORRISI

                                A mia sorella nel giorno dei morti,
                                      2 novembre 1873.


Meditai, cercando la solitudine, e scrissi, appoggiandomi al muro di
un cimitero. Guardando il cielo fra i neri boschi e sorridendo
nell'azzurro alle larve della fantasia, io credetti d'aver pensato a
qualcosa: contemplando le croci del tristissimo campo, m'accorsi che i
miei pensieri furono deliri di mente malata. Tutto finisce! E che
resterà di queste pagine?

* * *

Passa la bellezza, come profumo all'aria, e il suo ricordo sarà un
rimpianto. Dura invece la bontà, come l'incenso nel chiuso
tabernacolo, la carità fatta non invecchia mai, ed è sempre
sorella alla carità da farsi.


Ama chi sorride e non chi ride. Ricordati che il sorriso è raggio
d'alba nel crepuscolo della meditazione, che il riso è lume vulgare
in una lucerna di terra; l'alba è foriera del giorno sempre: la
vile lucerna un dì o l'altro si spezza.


La musica è l'arte gentile, la primigenia figlia del cuore umano,
nata col primo amore, col primo dolore.


La speranza fu data al cuore dell'uomo, come ai giardini il fiore. Ma
qual è il fiore che sempre mantenga la sua freschezza e il suo
profumo?


Ama la solitudine. Siccome tra il silenzio dei boschi puoi nel
crepuscolo intendere il suono soavissimo delle campanelle lontane,
così nella pace del cuore potrai sorridere all'armonia dilungantesi
de' tuoi ricordi.


Gli occhi stanchi di pianto sono i più degni di riposarsi nella
contemplazione del cielo.


Se l'anima tua è un tranquillissimo ruscello che scorre dall'alto
tra due rive di fiori, perchè sempre rifletta il colore del cielo,
prega che i fiori non diventino alberi, e gli alberi non facciano
bosco. Parlo di quei fiori che hanno profumi fugaci.


Se l'anima tua è un'onda tempestosa, non disperare che si franga nel buio
per sempre. Prima di rotolare agli scogli drizza la cresta possente, e
più è furiosa, più è illuminata dai lampi dell'uragano.


Se saprai amare, saprai pregare,


La mente cerca senza trovare nei labirinti della filosofia: il cuore
trova senza cercare nel giardino della giovinezza.


Tutto finisce! Anche il dolore: e la pianticella che dedicasti alla
requie di un caro un giorno schiuderà il fiore che offrirai a un
carissimo vivente. Tutto finisce!


Sia costante la tua volontà nell'operare il bene: se ad esso non
puoi spingerti col volo robusto dell'aquila, abbandonati collo slancio
placidissimo della colomba.


Ricordati: medita la vita di fronte alla morte. Vedrai quanti
pregiudizi, quante paure, quante viltà svaniranno in faccia alle
croci: di quell'esosissimo giogo di delitti contro-coscienza complici
sono i vivi, liberatori i morti. Prova l'anima tua, affacciandoti
sull'orlo di una fossa scavata, non curvandoti dinanzi al disprezzo
della società.


E se la vita è una comedia, perchè non a tutti gli attori fu
data la maschera?


E se la vita è un pellegrinaggio di fratelli, perchè la meta a
tutti non è mostrata collo stesso raggio d'intelligenza?


Il filosofo tracciò sul cranio dell'uomo le cifre che segnano nel
cervello le facoltà della vita: il teologo notomizzò l'anima e
credette trovare i peccati capitali e le virtù: il materialista
rise di tutto. Quanto è più potente l'amore! La parola t'amo
è la sintesi imperiosa di tutte le virtu, di tutti i peccati:
l'amore di Beatrice fece immortale il genio, l'amore di Cleopatra fece
immortale la vergogna.


Ama chi piange. Ricordati che le lagrime sono il battesimo della
virtù.


L'arte è la grande arpa a innumeri corde, l'arpa del cuore, cui
corrispondono i suoni del creato: è l'immenso prisma che svela i
colori della luce. Fremano adunque le note al tocco il più santo:
brillino le iridi al raggio di sole il più puro.


Piangere a un'armonia, è sorridere agli angioli.


Se la stella dell'amore brilla sopra un cranio, io credo che anche le
mascelle, che paiono spolpate per ghignare all'uomo col cinismo del
materialista, possono sorridere a Dio col sorriso della fede.


La monachella che a notte balzò esterrefatta dal letto, che si rannicchiò
pudibonda sull'inginocchiatoio, storcendo le braccia, le quali nel
sogno erano aperte ad abbracciare cupidamente, la monachella che
supplico:--_Vade retro_!--al mattino, suonando l'organo ad onore della
Madonna, trovò sì dolci armonie, che le suore dissero:--Pare santa
Cecilia!

Non era santa: era innamorata.


Il piede della donna calpesta le rose, calpesta le vipere.


Venne nella casa la coltre del cataletto? Venne, come è destino, e
si partì. Tutto si partì? Ecco il vuoto: ecco la religione
soccorritrice. Io so che qualcosa s'affaccia agli usci, tiene in
rispettoso timore i vivi, guarda le gocce di cera sul pavimento o i
petali sparsi di qualche fiore o la segatura, fa più triste il
silenzio, più desolato il disordine, occupa nessun posto e li
occupa tutti, sorprende nell'aria nauseosa pel fumo delle torce
l'ultima preghiera morente del corteo che sfilò, la prima parola di
comando che disse l'erede, s'appiatta dappertutto, buca dalle pieghe
del testamento, e domanda:--È finito?--È finito: il morto
viaggia al cimitero. All'indomani tutto sarà come prima, come un
mese fa, come un anno fa: ognuno ripiglierà il suo posto
impossibile che possa essere altrimenti.... O Dio! il posto vuoto è
divenuto un altare, e noi aspettiamo _lui_ o _lei_ che aspetta noi!


Fede abbiamo ogni giorno: ma quando sommeremo gli anni agli anni,
tristissima desolazione sarà quella di accorgerci che ricordiamo un
nome ai figli, o ai figli dei figli, che la vicenda della vita fu
varia, che il tempo, il quale raschia le iscrizioni sulle croci di
cimitero, cala e cala le sue nebbie nell'anima nostra! E noi giurammo
eterno il dolore!... Nevicò tanti inverni in camposanto!... I figli
avranno figli ancora, e avranno nipoti!... Nevicherà tanti inverni
in camposanto!... E noi? O giovani, noi saremo su un seggiolone,
scongiurando la morte che ne stia lontana, o giù tra le quattr'assi
nell'eterno buio. E voi, o fanciulle, che leggete sorridendo, avrete
fatto portare l'inginocchiatoio di penitenza nella parrocchia e più
vicino ogni dì al confessionale e all'altare delle sette
indulgenze, o basso giacerete colle mani in croce. Se avremo figli,
noi dagli occhi di quelli, quando ci si stringeranno attorno,
domandando:--State bène?--noi attingeremo gli sbiaditi ricordi di
pianti e di sorrisi, e ci interrogheremo sconfortati: E noi giurammo
eterno il dolore?--Se avremo figli, essi verranno sulla nostra fossa e
prometteranno di venire sempre: ohimè! pongano una croce di legno:
è l'immagine più vera del dolore: essa perde il nome, si tarla,
si sfianca, cade, e serve a cuocere la cena alla famiglia del
becchino... Nevicherà tanti inverni in camposanto!


Molte cose vedrai, frequentando la società, moltissimo imparerai
nella solitudine della tua meditazione. Ma tutte vedi e apprezza con
una sola unità di misura, col ricordo insistente:--La mia missione
è missione di carità.


Natura crea il nostro corpo: l'arte il nostro spirito.


Se la sera ti concede il bacio della soave melanconia, benedici le tue
lagrime e sorridi alle tue speranze. È il bacio di un angiolo
custode.


La vanità dei sistemi filosofici portò sugli scogli della vita
null'altro che la spuma dell'orgoglio. Il Vangelo irradiò il mondo,
santa luce d'aurora, e fu l'amore universale, come il sole che scalda
il cedro e l'arbuscello.


Amare è sperare: sperare è vivere oltre tomba.


Se tu, ogni sera, annotassi le impressioni avute nella giornata,
avresti un dì un libro di preghiere.


Perchè ti parlo così? Perchè amo la melanconica ora del sole
morente.


Ricordati: i vecchi che già esaurirono cuore e mente scrivono colle
spalle: i giovani hanno l'ingegno nel cuore. Ecco perchè le
biblioteche possono dare ogni anno ai futuri topi buon pasto di
dissertazioni erudite: ecco perchè una fanciulla ad una poesia
può consacrare una lagrima o un sogno.


Io parlerò parole di desolazione, perchè la fede fu data prima a gioia
per essere angoscia dappoi: perchè la speranza è un àncora che ha catena
di dolori: perchè la carità è la livrea ufficiale dell'usura che da
cinque in questa vita e spera cento nell'altra. E questo pei cosidetti
_buoni_. E pei tristi? Tutto è uno sghignazzo che scroscia colle rughe
schifose dell'anima decrepita,


Ho amato la solitudine, in essa solo ho sentito me stesso, e ti ho
detto:---Io ti parlerò parole di conforto, perocchè la fede è
la stella che fulgidissima brilla sull'oscurità degli scogli e
dell'onda, nella notte del terrore: la speranza ha catena di dolori,
ma più questa è lunga, più l'ancora serve nei mari profondi:
la carità è lume amorosissimo d'eguaglianza.


Oh ti supplico! getta quel libro da cui esce il ghigno di Mefistofele:
chiudi quello da cui scoppia il riso tripudiante del mondo: ama quello
tra le cui pagine potresti porre, a segno, il fiore che offristi a tua
madre.


Cercare Dio colla luciferina superbia dei sistemi filosofici è
vedere il sole attraverso le nubi: trovare Dio colla fede e colla
speranza che danno il dolore e l'amore è abbagliare l'anima allo
splendidissimo sole di mezzogiorno.


Ama la carità, e pensa che la minima è quella che si fa a
denaro. Ama la carità, e pensa che più è quello che ricevi,
che quello che dai.


Un pensiero d'amore è il fiore dell'anima. Forse che all'umile
arbuscello in camposanto non fu concesso il fiore?


Sai tu che sia il dolore? Troppe volte è l'ultima parola vuota di
un verso vuotissimo per far rima con amore.


Non invidiare ad alcuno il tristo dono dell'ingegno: tutte le
cognizioni che ci danno i libri sono come i secchi delle Danaidi
portati al cuore. Esulta se in te hai il potentissimo dono di amare.


Sai tu che cosa sia la melanconia? Molte volte il fondersi di due
crepuscoli, quello dell'amore con quello del dolore.


Se un uomo ti stringesse la mano, sì che tu avessi ad arrossirne,
domanda:--Non pensate che vi posso essere sorella?


Che cosa sono i ricordi? Troppe volte la tisi dell'anima.


Ama la croce. L'avesti a capo della tua culla, l'avrai sulla tua
fossa.


Non consultare lo specchio per conoscerti. Consulta i volti di coloro
cui dirigi una parola di carità.


Ama la musica. Credila il preludio di quel giorno eterno di cui il
sole sia l'amore.


Vedesti il mare? Ricordati che se il turbine della passione si scatena
nel tuo cuore può toglierti i placidissimi ricordi di tua madre,
come l'onda che si rovescia sulla spiaggia cancella il nome che
tracciasti nella sabbia.


Vedesti le Alpi? Ricordati che l'aquila pone il nido sulle rocce
eccelse, e s'affisa nel sole, coll'ali proteggendo i suoi figli.


Breve è la vita, ma ferve qualche cosa in noi che coll'intensità
vince la estensione.


Sai tu che voglia dire la parola _per sempre?_ Nella vita vuol dire
promettere ciò che non è in noi: in morte, ciò che speriamo
nell'ultima illusione.


Rivedere i luoghi ove hai gioito, e dove non gioirai mai più, è
come porre una corona di semprevivi sopra una fossa.


Che è la vita senza speranza? Una gittata di dadi fra le tenebre,
fra i deliri.


È silente intorno a me la campagna: solo le squille di una campana
lontana mi giungono attraverso il bosco, come le voci venerande di chi
non è più, versandomi nell'anima i ricordi del passato:
s'agitano i penduti tralci delle viti, quasi facendomi cenno ch'io mi
raccosci sotto i loro padiglioni e pianga: scrosciano sotto a' miei
piedi le foglie secche dei roveri, ed ognuna parmi dica:--Così
passano e sono calpestate le speranze! Il vento investe il bosco, e
l'ondeggiare delle cime dei pini mi sembra saluto mestissimo
dell'autunno che muore.... Addio!


Meditai, cercando la solitudine, e scrissi, appoggiandomi al muro di
un cimitero. Guardando il cielo fra i neri boschi e sorridendo
nell'azzurro alle larve della fantasia, io credetti d'avere pensato a
qualcosa: contemplando le croci del tranquillissimo campo, m'accorsi
che i miei pensieri furono deliri di mente malata. Tutto finisce!... A
pochi passi da me, alla mia sinistra, vidi una nuova croce bianca, e
su quella il nome:--Maria.


Povera Maria! sola avevi un cespo di viole! Ed io non conoscevo la tua
fossa scavata da meno di un anno! Tu avesti la coltre, la corona, la
croce, l'ultime memorie sulla terra, tutte bianche, com'io potevo
averle! Povera morta! natura, tristissima inventrice di martiri,
t'aveva solo concesso l'amore della tua mamma, e tu, pallida, vedesti
svanire ad una ad una le frementi illusioni della giovinezza, e tu,
pallidissima, stringendoti al seggiolone della mamma, ti sentisti
più vecchia di lei.... Ohimè! spezzato lo specchio, sciupati i
fiori sul davanzale della finestra, dispettosamente sturbati i nidi
delle rondini, letta e riletta la _Filotea_, tu aspettavi.... i capegli
grigi! Il dolore potè più che la religione, sterilissima
d'affetti nell'anima inaridita: e vennero i dì in cui ancora ti
specchiasti, in cui volesti i fiori e le rondini, in cui leggesti
l'amore nel gran libro del cielo: ohimè! era l'illusione del
passato illuso, non le speranze dell'avvenire! E da quei dì la
passeggiata dai colli la riducesti al solo giardino, poi al solo
corritoio, poi alla sola stanza della mamma! E quando la testa si
chinò sotto al peso dei capegli, trovasti il raggio di sole venirti
solo a visitare sul letto: forse, vedendo la luna strisciare sulle
coltri colle meste luci della notte, ti presentisti già involta di
bianco e già tranquilla.... Morta senza avere vissuto, stanca di
pace, impotente a delirare, fredda, senza favilla di poesia, come una
lampada accesa dinnanzi una croce obliata, e spenta dal soffio del
becchino.... Eppure l'amavi la tua casetta e in essa, fanciulla,
speravi tanto!... Dimmi: e tua madre? Poverina! la madre volle nel
cimitero la tua croce rivolta verso la vostra collina: a' vespri scese
a te, ti diede un cespo di viole, ma fu l'ultimo. Ella partì da
questi luoghi e per sempre: la tua casetta, miserrimo patrimonio, non
serberà più la tua memoria, perchè gli estrani non sanno che
sia il dolore di un cuore deserto. Ma senti, Maria, avrai fiori da me,
e da me sempre un ricordo. Io non ti conobbi, ma, te morta, amai il
tuo giardinetto melanconico, ed ora amo la tua croce bianca.... S'io
dovessi giacere nel camposanto istesso, fa sì ch'io vi dorma al
più presto: la coltre bianca a vent'anni è la sublimazione
dell'amore: a trent'anni è un lenzuolo di ghiaccio.


L'esule che cammina, che cammina, canta la canzone fanciullesca della
sua terra. A quelle note gli rispondono gli echi della patria:
susurrano i boschi, bisbigliano i laghi, suonano i monti: la
campanella della chiesa ove ebbe il battesimo, il vento che geme tra
le croci del cimitero dei padri, la canzone notturna di una donna che
piange, oh tutto gli dice:--A rivederci!


L'esule che cammina, che cammina, canta la canzone fanciullesca della
sua terra.


Vedesti il mare, o esule? Vedesti il lavoro eterno ed alterno dell'onda
coll'onda? Così è dell'uomo: è perseguito dall'infinito, è sbattuto
all'infinito. Oh fortunato se sopra il suo capo vede brillare una stella!


Carità somma è nella musica. È raggio di sole, è bacio di luna nell'anima
del cieco.


Che cosa è un libro di filosofia? Troppe volte è l'abito di lusso che
copre la povertà del cuore.


La mamma t'insegnò che sempre sei sotto l'ali di un angiolo
custode: la vita t'insegnerà che sarai sempre sotto l'incubo di un
ghigno, il ghigno del dubbio. Oh, se puoi, rammenta sempre la mamma!


Ama la poesia. Essa dà l'ali al cuore.


Ama i cimiteri. Se la fede che hai nel cuore è fioca come il
lumicino a notte acceso sulla tomba, deh! prendine cura, alimentala,
soccorrila coll'amore. Che direbbe l'angiolo bianco custode nel
piissimo luogo, se, passando innanzi la croce, nemmeno potesse
leggerne il nome? Il lume che hai nel cuore sia vivido, così vivido
sarà agli occhi di Dio il nome di chi ami.


Nulla avvi che maggiormente possa agghiacciare l'anima quanto
l'elegante disprezzo che la società collo spirito arguto dei
giovani versa sulle cose più intime e più sacre per affetto.


Ama la solitudine. Se qualcuno sorge fra i tuoi timidi ed occulti
pensieri, tu prima di domandarlo con altro nome, chiamalo con
questo,--fratello!--E se tu arrossirai, la tua solitudine sarà
popolata.


Per chi studia e studia l'uomo scettico? I vermi della terra non fanno
distinzione tra il suo cervello fastoso di nullità filosofiche e
quello del vulgare idiota.


L'arte è la promessa del Sommo Perfetto.


Per chi studia l'uomo fidente? La donna che ne conobbe l'amoroso
ingegno è il lume delle sue veglie.


La mamma ti diede una religione col battesimo dell'acqua: rendila
tutta tua col battesimo delle lagrime.


Che cosa è la vita dell'uomo scettico? È un sentiero deserto che
conduce a un cimitero desertissimo.


Finchè avrai lagrime per la musica, avrai religione pel dolore.


Il poeta solitario è come la lampada che arde innanzi le tombe: si
consuma, gettando i suoi raggi sulle morte memorie. Ma sacra è la
requie,


Una lagrima ad una lagrima. Le due amarezze si fondono in una
ineffabile dolcezza.


Il flusso dei giorni fuggenti ha il riflusso delle memorie.


Sai tu che cosa è lo spirito? Troppe volte è la gola arrabbiata
del serpe in cui la maldicenza ficca la sua saetta per trarnela
avvelenata e scoccarla a tradimento.


Io non so che vita tu avrai. Te l'auguro felicissima: e somma
felicità è poter lasciare un figlio. Ricordati: ch'egli impari
tutto da te: il primo altare è il grembo di una madre, le prime
panche di scuole le sue ginocchia, il primo raggio di poesia il suo
sorriso.


I fiori crescono dappertutto, nei voluttuosi giardini degli harem, nei
deserti cimiteri delle Alpi.


Le gioie intime che ti dà la religione saranno tanto più sante
per te, quanto più cercate nella solitudine. Di esse sii custode
con somma gelosia, nutrendo in te una soave mestizia. Nell'anima tua
la croce del passato, piantata fra i fiori e gli spini, sotto il sole
d'Iddio, protenda sempre l'ombra verso l'avvenire: a quell'ombra
crescerà la viola della cara melanconia e sarà santa e profumata.


Per un fiore appassito nel libro dei ricordi rugiada è una lagrima
di dolore.


Non passasti mai a sera davanti alla chiesa delle monache? Non udisti
il canto delle litanie? Oh! prega requie per le povere morte-vive:
pensa che quella poesia d'amore è più accetta a Lei se esce
dalle bocche che cantano la ninnananna accosto ad una culla.


Se a sera cercherai un luogo solitario e nelle tenebre una stella che
t'irraggi, proverai che l'anima non ha confini, che il campo dei
ricordi si sposa all'azzurro delle speranze.


Quando verrà il giorno in cui troverai insufficente agli sfoghi
dell'anima tua la formula di preghiera che t'insegnò la madre,
t'accorgerai d'avere nel cuore la poesia stupenda che ti avrà
versato l'amore, come torrente di lava.


Una parola di carità sulla bocca di uno scettico è come un fiore
tra le mascelle di un cranio.


Sedesti sulla riva di un melanconico fiume, a sera, solitaria co' tuoi
pensieri? Che ti dissero l'acque che passavano e passavano, l'acque
che passeranno e passeranno?... O Dio! l'infinito è la desolazione!


Se il sole dell'amore non ci scalda il cuore negli anni della
giovinezza, l'anima s'agghiaccia nel dubbio e bestemmia,
delirando.--Chi sono? e perchè sono?--Addio! addio, tranquille e
sante illusioni di un dì! Nel dubbio voi, fanciulle, consultate e
consultate lo specchio, noi, giovani, apriamo lo scrigno: nell'anima
inaridita nascono i tossici della solitudine, le invidie: e le invidie
per chi? O Dio! per l'amica che sciupò i fiori della giovinezza,
gettandoli nella carrozza di un milionario paralitico pei vizi; per
l'amico che s'inchinò innanzi la giumenta d'oro. Addio! È
sepolta la giovinezza al suono di due campane.--Odio a noi stessi,
odio al nostro destino--: è sepolta desolatamente, e se ad essa si
dovesse porre un'iscrizione, questa sarebbe--_Semper pro me_.--La trista
virilità viene innanzi con tutta la ipocrisia della posatezza.
Addio!.... Chi siete? Siete, o madonne, le arpie in cuffia e la bibbia
vostra è il libro dell'_avere_: siete, o messeri, i mestieranti e nel
cuore avete la bottega la più sozza. Andate, andate per la via
fatale che vi è prescritta. Nessuno avrà dolore per voi: e
perchè? Ma quando mai comprendeste l'amore? E l'amore è fede.


Se le squille dell'avemmaria, nel crepuscolo vespertino, ti straziano
il cuore colla santa voluttà delle lagrime, oh piangi, evocando
ricordi e suscitando speranze! Piangi e pensa che il tuo volto
commosso sorride agli angioli, e gli angioli sorridono alla terra. In
quell'ora non vi sono cattivi.


Ama la musica. Essa, come la religione di Gesù, affratella i felici
e gl'infelici, i grandi e i piccoli, i belli o i brutti.


Piangi il partire delle rondini, piangi il cadere delle foglie.
Confida che a primavera le rondinelle e le nuove foglioline ti portino
nuove speranze.


La nausea dei sensi fu data ai bruti: all'uomo l'inestinguibile brama
dell'infinito.


Sul libro della tua vita non hai che pagine candide: sono pochi i
foglietti che hai svolto, incerti quelli che svolgerai. Se l'angiolo
bianco, restituendo un dì il libro all'angiolo nero, trovasse fra
le pagine un fiore, lo recherebbe alle fosse de' tuoi morti,
dicendo:--Dio lo diede, è fiore di carità.


Se saprai tacere, saprai parlare. Il silenzio del savio è un gran
libro chiuso.


Educa bene la mente. Se avrai figli, un giorno non ti chiederanno solo
il pane del corpo.


La tomba è un leggìo sul quale la eguaglianza depone il volume
chiuso d'ogni mortale, co' suoi fogli bianchi e neri: la verità
rompe i suggelli e spalanca ai vivi le pagine un dì più
nascoste.


Ai nostri dì nei sacrari si è introdotta una mitologia
bottegaia, De' successori degli apostoli i più, come gli auguri
romani, non possono guardarsi in faccia senza ridere: i molti
abbassano gli occhi: pochissimi sanno levare la fronte alla croce, e
levarla sorridendo. Ricordati: a te ministro di religione sia il
cuore.


Amare l'arte significa sublimare l'ideale. Le civiltà antiche sono
come i quadranti solari della umanità su cui l'idea radiante del
Sommo Perfetto, segnò gli anni del progresso.


Cerca la solitudine: in essa troverai te stessa, e alla natura leverai
l'immenso inno dell'amore.


Ho letto i libri dei filosofi ed ho riso: ho baciato la madre ed ho
sorriso.


Osserva che il giorno, cioè la vita quotidiana, è luce, è
lavoro, cui succede il crepuscolo, la semiluce, la pace. Siccome
natura provvida ha fatto il giorno lungo pei bisogni della vita, il
crepuscolo breve alla poesia, così la operosità dell'uomo è
duratura, la bellezza della donna è fuggente.


La modestia sia la Vestale attentissima pel fuoco sacro che hai nel
cuore.


L'anima nostra è tale che a volte sia piccina a contenere una
goccia di rugiada, a volte sia troppo vasta per contenere i mari.


Opera la carità col cuore, che è carità indefinita, non colla
mano, che è misurata.


L'anima precorre tempo e spazio, e non è come l'occhio, che crede
cominci il cielo dove comincia l'orizzonte.


Meditai, cercando la solitudine, e scrissi appoggiandomi al muro di un
cimitero. Guardando il cielo fra i neri boschi e sorridendo
nell'azzurro alle larve della fantasia, io credetti d'avere pensato a
qualcosa: contemplando le croci del tristissimo campo, m'accorsi che i
miei pensieri furono deliri di mente malata. Tutto finisce! E che
resterà di queste pagine?



CORRISPONDENZE.



DALL'OROPA.

(LETTERE DI LAURA ALL'AMICA).



I.


                                        Oropa, 11 luglio 1874.

_Amica_,

Credimi, amica mia, accompagnare questa data di tempo, 11 luglio, con
quest'altra cara di luogo è una vera fortuna: io lo so! Ieri notte
a Milano agitavo il ventaglio sì rabbiosamente da lacerarlo, oggi a
sera, guardando sui monti i lumi accesi, indovinavo i focolari, e
senza affatto paura tra la queta famiglia dei boscaioli fingevo un
posticino anche per me ad ascoltare le vecchie istorie delle valli.
Toltami finalmente all'afa di Milano e rinfrescatemi le labbra con
un'acqua purissima, sento bisogno di fare qualcosa o per lo meno di
chiacchierare un pochino. Se mi ascolti, quando ti rivedrò prometto
farti tanti baci di più, e di dirti ancora la mia compiacentissima
amica.

Da Milano a Biella voler descrivere il viaggio sarebbe come
dire:--Leggi l'orario e ti divertirai!--Sì, una monotonia, un
piano, una noia da far piangere, quando si rammentino le vetture dei
nostri nonni. Almeno noi ebbimo l'aiuto del vapore; e la locomotiva,
sbuffando una negra tempesta mischiata alle faville ed alla polvere,
ci tolse in fretta alle immense praterie, alle adacquatrici maestre,
ai campi di granoturco, alle filarate di gelsi, e via via.

A Biella ti s'allarga il cuore: la collina è gaia, la macchia
generale del paese viva e svariata, le montagne a sfondo, se sono
belle pei pittori, sono bellissime certo e buonissime per due poveri
occhi stanchi di tutto, persino dei _pince-nez_ affumicati, per due
meschini polmoni, nati proprio per l'aria dell'Alpi. Ma ahimè!
bisogna prepararci ad uno strazio! scesi appena dal vagone, una turba
di monellacci-vetturini così assedia i viaggiatori, che andarne
illesi con tutto l'abito a posto o senza una trafittura nel cervello,
è cosa da schizzare un quadretto e recarlo votivamente al
Santuario.--Oropa! Oropa! Oropa!--scoppia il grido d'ogni parte, e
schioccano le fruste e imbizzarriscono le bestie. Lah! tiriamo innanzi
colla carrozza. Biella non saprei giudicarla, così di sfuggita: ha
portici, chiese a colonnati classici, vie discrete, ma insomma le
muraglie danno sempre l'idea del caldo; riposiamo dunque lo sguardo
sulla verzura, l'immensa verzura che, assumendo cento toni, si stende
nelle valli, pare si rannicchi nelle gole, s'inazzurra nei lontani
sfondi, trionfa sui monti, e finisce alle cime con qualche ciuffetto
che stacca sul cielo come una pennellata bizzarra. Le strade
abbenchè erte sono bellissime e senza scheggloni, e per lo più
ombreggiate, ma con tante e tante svolte sì che le quattro miglia
da Biella a Oropa fanno un viaggetto di un paio d'ore. A sinistra
s'incontra lo stabilimento idroterapico di Cossilla, un bianco
fabbricato tutto ad archi acuti soprapposti, elegante, tale che
l'immaginazione dentro ci gioca, cercando l'insidia degli sprazzi
d'acqua, e, forse più, degli sprazzi di luce de' begli occhi. Una
signora in veste da camera stancamente si sorreggeva ad una colonnina
di un loggiato, e pareva una figura veneta, nell'attesa della gondola
tizianesca. Poi la strada s'inerpica e lascia giù vedere, oltre
l'insieme grandioso, i dettagli pittorici di certi ponticelli di
legno, certe chiuse fresche, e siepi e casette e cascate e rompimenti,
e certe nicchie erbose da destare la vocazione d'eremita. Oh! cara
mia, non voglio dimenticare le belle macchiette: le donne e gli uomini
attendono ai lavori, non ci alzano il capo incontro, ond'io solamente
ti so dire che recano falcioni da fieno e corbe, o tranquillamente
girano il fuso della conocchia o impagliano scranne: ma i bimbi e le
ragazzine sono creature con una faccia bellamente audace, con un corpo
tondo, sodo, sicurissimo, macchiette da acquerellare sul tuo album.
Non so i nomi dei paeselli: so bensì che in ognuno c'è una
fontana ristoratrice. Lo stabilimento idroterapico che di quando in
quando ci addita il vetturale colla sua frusta, si viene avvicinando
all'occhio, con grande inganno, perchè la strada raddoppia i giri
ed i rigiri. Un po' di pazienza ancora. Infanto ci sono sempre da
ammirare i bei massi quarzosi, i pendii sparsi di fieno falciato, e i
castagni che curvano i loro rami con protezione sui passeggiatori.

Eccoci alio stabilmento Mazzucchetti. È una casa grande, bianca,
con tante finestrine da collegio, un terrazzo, una scalea, i
portichetti, un tutt'insieme che mi rammenta i muraglioni scabri della
riviera genovese e le cellette di Monte San Bernardo. I lenzuoli tesi
ad asciugare, l'aria frizzante, e qualche signora accoccolata su un
panchetto collo scialle, fanno subito pensare, con un moto di
pigrizia:--Io non sono ammalata! Dio sa che bagni freddi!--Poi ci
consoliamo entrando e chiedendo dopo il viaggio il tranquillo
lettuccio. Ancora ci stringiamo nelle spalle, passando per un
corritojo appoggiato ad una roccia stillante e per gli altri ancora
soprapposti, come nella costruzione dei conventi. È inutile che io
ti descriva la mia cameretta; quello che ti voglio dire è che la
sento freschissima, e corro a spalancarne le finestre. Una guarda
giù verso Biella, ove digradano le montagne, e là si stende un
piano azzurro sterminato, una diffusione di vapori che solo ti
rammenta il mare. E come lo rammentai! Pensai a Lucy che in questi
giorni sarà a Pegli, candida nuotatrice delle ore cocenti, mesta,
poeticissima indovina dei dolori altrui, quando la sera sederà alla
spiaggia, interrogando il gran libro del cielo! L'altra mia finestra
guarda su verso il Santuario le montagne paonazzicce e verdi, separate
alle falde dalla striscia sassosa del torrente: vedo certe casette,
che mi rammentano i miei giocattoli di un dì, le bell'ombre
invitanti alla lettura, le bianche cappelle che segnano la via alla
chiesa.--Cara mia, la penna vale niente: colla matita mi sforzerò
di mostrarti qualcosa al mio ritorno.

Per oggi non posso dirti nient'altro, perchè non istetti insieme ai
bagnanti, nè mi ghiacciai coll'acqua salutare. Ma domani
comincerò a far annotazioni.

Da una finestra vedo dei parasoli chiari spargersi sul terrazzo, e
sott'essi degli abiti di foulard crudo; qualche fanciullo cattivello
correre all'impazzata; e quattro uomini sedersi coi giornali in mano.
Dall'altra vedo niente; solo ascolto le gentilissime voci di una
conversazione francese nella quale a vece di punti e virgole ci sono
delle risa: e giù il fragore delle acque cadenti e il sonare dei
campanacci delle mandre su per i pendii.

Ti dirò solo come io so che nello stabilimento c'è ogni sorta di
cure, sala di lettura, sala da ballo, sala da bigliardo, posta,
ufficio telegrafico, _coiffeur_ ecc. Spero di trovarmi bene: un
vantaggio grande che si ha dal bevere a questi zampilli montani si
è quello del'obblio: sì, io ho dimenticato che ieri a Milano
soffocavo!... Ma sopraggiunge la sera colle nebbioline nelle valli e
col suono delle avemmarie: ti vorrei avere vicina, e vorrei che Lucy
colle sue manine ci aprisse il volumetto dell'Aleardi. Che begli
istanti sarebbero! Che amorosissima pace!

Scusami se chiudo l'Aleardi, ma gli è perchè passeggiando sul
terrazzo mi viene incontro una signora. Porta essa una casacca
assettata con baschine ripiegate, in casimiro, riccamente guarnita di
ricamo, imperlata di lustrino. Tu la conosci: è la contessa V. di
Napoli: ed io pure la conobbi ai bagni dell'Ardenza. Dà la colpa a
lei, m'interrompe la lettura e mi conduce a passeggiare.

A rivederci adunque.

                                        LAURA.



II.


                                        Oropa, 23 luglio 1874,

_Amica_,

Scrivere questa lettera è per me un peccatuccio che mi punge la
coscienza. Difatti, lodare i monti, l'aria freschissima, l'acqua
salutare, la vita montana, a chi proprio non vede che i muraglioni
soffocanti di una città, e spalanca le labbra, invano supplicando
al giardino del caffè Cova un alito di vento ossigenato e una tazza
sudata di acqua ristoratrice, lodare, dico, ciò che io gusto e
altri invidia con troppo ardore, non mi pare una bella cosa. Ma dunque
dovrei tacere? No, certo: e tu non vuoi perchè mi stuzzichi con
lettere nelle quali paiono messi giù da te apposta i termini di
paragone fra le mie giornate e le tue. La colpa è a metà: bada
che dico alla mia coscienza di mettersi tranquilla, e intingo la
penna.

Da due settimane sono a Oropa, e per quanto abbia pensato a
riscriverti, davvero non mi ci sono mai decisa, non sapendo come
incominciare le mie descrizioni. Se ti dicessi le giornate tali quali
sono, farei un guazzabuglio da spaventarti: capisco che bisogna
mettere ordine.

Penso e ripenso.... Pure non so raccogliere le idee principali, e a
queste subordinare le secondarie: sai, gli schizzi che ho fatto colla
matita mi guastarono anche la penna.

Come mi sbrigo? Fa conto ch'io abbia tra le mani il tuo albo e
sbizzarrisca di foglietto in foglietto.

* * *

Sappi dunque, amica cara, che al mattino non mi sveglierebbero punto i
canti delle falciatrici di fieno, nè il rumore delle scarpacce dei
pastori, nè il muggito delle acque cadenti. No! ma mi sveglia,
picchiando sull'uscio colla nocca delle dita, la _bagnina_, che ha tanto
coraggio d'augurarmi il _buon giorno!_ Cattivissima e ruvida, a cinque
ore! Sonnolenta, brontolona, freddolosa, raccolgo le poche robe, mi
involgo in uno sciallo, e scendo al bagno. L'acqua è così fredda
che manda il sonno a mille miglia, e, stringendo le gambe e le braccia
come con tante anella d'acciaio tagliente, fa sentire strapotente il
bisogno di un moto il più accelerato. Gli è in quest'ora che pei
corritoi vedi correre gli uomini imbacuccati nelle copertone di lana,
e le signore scendere in giardino al primo raggio di sole.

* * *

Dopo la colazione, ad ore otto, lo Stabilimento a poco a poco si
acquieta: i signori escono a passeggio, e di solito verso il santuario
dì Oropa, le signore si chiudono nelle camere: solo si vede qualche
crocchio di politici, in cui biancheggia la _Gazzetta del Popolo_,
l'_Opinione_, la _Nazione_ e altre carte imbrattate: qualche romantica e
qualche romantico, coll'albo o con un libro, si dilungano giù pei
viali ombreggiati del monte. Buon disegno e buona lettura. Per me li
ammiro e vorrei.... Ma oh! vedi prosaccia, batto i denti, solo
pensando che m'aspettano, a undici ore, la _doccia_ e l'_orizzontale_.
Sai, amica mia, e l'una e l'altra danno tante migliaia di trafitture
di ghiacciuoli spietatissimi, sì che ci sarebbe da gridare,
credendo di essere conci come pelli da crivello!

* * *

Alle dodici e mezza squilla la campanella del pranzo. A tavola ti
presento conti e contesse, marchesi e marchese, e cavalieri e
ufficiali e commendatori: ti mostro abiti elegantissimi, pizzi, gioie
e pettinature; ti faccio ascoltare discorsi in fiorentino aspirato, in
ruvido piemontese, in italiano guasto da labbra milanesi, in rapido
veneziano, in pretto genovese. Mescola tutto assieme: tra la
vanità, la pompa, le chiacchiere, esce una sola risultante, data da
madre natura: una fame impaziente. Ond'è che i medaglioni stemmati
oscillano prosaicamente da un collo bianco su un piatto di zuppa, un
panetto o una dozzina di _grissini_ valgono un pizzo, da cento labbra
fuggono le eleganti vacuità per dare adito alla forchetta. Signor
medico cavaliere, evviva dunque la cara idropatica, che dà buon
sapore alla cucina!

* * *

Dopo pranzo c'è la sfilata all'ufficio della posta. Di loro,
signori uomini, non mi occupo: parlo delle mie consorelle peccatrici
di vanità. Vedo sottane in seta adorne di pieghettati in granadina,
guarniture di ricami bianchi, corsetti a punta davanti e a baschina di
dietro, fisciù in granadina, arricciature in tulle di Bruxelles,
gonne con sbiechi di velluto, tuniche polacche, cappelli a veli
svolazzanti, e via e via. In particolare poi ti cito la contessa B. di
Torino, le due contesse R. e S. di Firenze, la marchesa S. di
Piacenza, la contessa C. di Milano.

* * *

Il terzo bagno non merita di essere nominato: e la cena si assomiglia
al pranzo. Dunque sto zitta: e attendo la sera.

A sera c'è radunata nel salone, si fanno crocchi, si ballano dei
lancieri e delle quadriglie, si chiacchiera....

Vuoi ascoltare? Mi fai un verissimo piacere: perchè così rompo
l'ordine cronologico, e salto con te di palo in frasca.

--Dunque che mi dice, contessa?

--Che vuole, commendatore?

--Innanzi tutto, notizie della sua salute.

--Oh la va per benino. L'aria è fresca, l'acqua frizzante, ma la
cucina.... la cucina!

Sdruccioliamo nella prosa. ti consiglio a cambiar posto.

* * *

--C'è nessuna sociabilità: io non so perchè, Perchè coi
nuovi venuti si è così discortesi? Non dovrebbero gli ospiti
vecchi fare gli onori di casa ai nuovi? Si sa, la noia stizzosa dei
primi giorni fa andar a male la cura.

--Perchè, dice? Perchè l'Italia è fatta, ma non sono fatti
gli italiani.

Qui si dicono belle verità: cambia crocchio o saresti segnata a
dito.

* * *

--Sì, sì, l'ho veduto il corsetto.

--Com'era?

--Era aperto a cuore: aveva un fisciù in granadina nera e malva:
lo stesso ricamo forma attorno delle conchiglie spiegate: una
arricciatura....

Ti diverti? Credo che il _Mode_ tu l'abbia già letto.

* * *

--Questo stabilimento manca di molte cose,

--Ha mille ragioni.

--Manca di sala da lettura, di gabinetti di fiori, di libri, di
musiche.

--E poi, sa, le signore devono inerpicarsi su al santuario per la
messa della domenica! L'erta è difficile.

--A questo si provvederà. Avremo una mezza festicciuola:
s'inaugurerà dal vescovo di Biella un altare nel corridoio, con
lusso di fiori e di festoni.

--Quando?

--Ma non ha letto il programma? No? Oh guardi mo! Domenica avremo la
cerimonia religiosa: poi i giuochi profani, cioè il _tempio di Bacco_
con zampilli di vino, la corsa nel sacco, il ballo popolare, e a dopo
pranzo, ancora il ballo, la lotteria artistica, i fuochi di artifizio,
il falò. Un complesso da far strabiliare i bagnanti d'Andorno e di
Cossilla.

--Ma bene! ma bene!

--Vedremo. Così ci sarà un po' d'allegria: qui la vita è
troppo monotona, e sì che c'è tanta gente!

--Tutti i giorni il direttore deve rifiutare domande.

--Persino gli abbaini sono occupati,

In questo crocchio non c'è male. Peccato che scenda la notte.

* * *

Prima di recarmi nel salone voglio bisbigliare con te:

--Perchè sei così triste?

--Io? no.

--Ma sì!

--Ti sbagli.

--Che cosa aspetti?

--Una tua stretta di mano.

                                                LAURA.



III.


                                        Oropa, 27 agosto 1874.

_Amica_,

Devi sapere ch'io sono venuta ad Oropa coll'Albo da disegno e qualche
libro, di quelli che, scritti in faccia alla natura, vogliono essere
letti sotto l'immenso cielo, con una zolla d'erba a leggìo, con un
fiore a segno, coll'auretta che ne volge le pagine, quasi profumando i
pensieri ad esse consegnati. Cara amica, tra pochi giorni io
partirò da questi monti! Sono certissima che l'albo mi farà
spargere qualche lagrimuccia, quando co' suoi fogli disegnati mi
rammenterà i luoghi cari alla meditazione, quando colle traccie dei
fogli staccati mi ricorderà le manine gentili, che strinsero la mia
in rendimento di grazie. Quei libri, colle righe sottolineate
appassionatamente, letti e riletti nei brani descrittivi, declamati in
quelli affettuosi, poseranno sul mio tavolo da lavoro, in città,
non più aperti nella triste semiluce, a carissimo ricordo, a
dubbiosa promessa:--A tante persone ho detto: _a rivederci_ l'anno
venturo.... Ci rivedremo?

Ho incominciato così la mia lettera per farti capire ch'ella non
è punto una lettera. No, voglio che noi passeggiamo insieme
discorrendo.

* * *

Quando io penso ai mesi di luglio che ho passato per l'addietro, e li
confronto col luglio e l'agosto di quest'anno di grazia, dico la
verità che ho tale stizza con chi mi mandò ad arroventarmi ai
bagni di mare e con me stessa così pigra, come se io avessi le
radici nella mia città, tale stizza ho, che mi mordo la lingua,
piuttostochè fare di peggio. E dico alle eleganti che strascicano
la seta sulle ghiaie di Pegli:--O poverine!--A me poi leggo gli
_spettacoli diversi_ la _cronaca cittadina_ e il _bollettino meteorologico_
di qualche foglio! Ma mi era possibile sopportare l'afa di un teatro,
la noia di un concerto, la perpetua atmosfera di piombo colato? Oh, in
riparazione, ho fatto anch'io un mezzo voto al santuario d'Oropa:
quello, cioè, di accettare nella vita tutto e con pazienza,
tranne.... l'estate in città!

* * *

A mille e ventidue metri sul livello del mare, da un monte su cui
l'arnica coi fiori gialli dieci volte in un dì è circonfusa di
nebbie, per poi brillare come un oro al sole più raggiante, io
figgo giù gli occhi a voi poverini: laggiù, laggiù, indovino
le aguglie della mia città. Tanto io sto bene, che dimentico di
essere stata male, nell'aria bevo a sorsate l'oblìo a me sì
necessario, guardo su le cime del brullo Mucrone, con invidia, poi
giù ancora contemplo il vastissimo piano. Vedi: in quel semicerchio
di monti, a sinistra, il paese d'Andorno, che spicca illuminato su una
frana rossiccia, nel mezzo ecco certi dossi boscosi di un verde
metallico, a sinistra i tetti del Favaro. Al di là, il piano si
stende, con macchiette bianche, con lucidi serpeggiamenti, con ombre
pavonazze di colline, poi si fonde tranquillamente in un tono
azzurriccio, su cui a liste si vedono le ombre proiettate dalle nubi:
il piano si perde, sfuma in un vapore. L'occhio dice--finisce:--ma il
desiderio va oltre, si spande, e trova ancora i piani, i monti, il
mare!

Credi: queste vedute così estese mi fanno meditare.... Che cosa
è il desiderio? Che cosa è la vita? Sugli orizzonti del pensiero
perchè, come su questo, tramonta un altro sole, quello della
speranza?--Non so rispondere io, non sai tu: risponde il canto di una
fanciulla, Ella è contenta, torna alla casetta sua, e della vita
non conosce i misteri nella fortunata ignoranza.

* * *

La fanciulla è una falciatrice di fieno. Vogliamo, o cara, copiarla
sull'albo? Ella porta una gonna di cotone bleu, col busto compagno,
colla camicia bianca stretta al collo con pieghe gelose: un fazzoletto
rosso è allacciato sul capo con una foggia bellissima, sì da
lasciare due lembi svolazzanti sulle orecchie. Non guardo punto a'
suoi lineamenti: tutto è nell'espressione, e questa dice:--Ho la
contentezza del cuore.--E fa tanto piacere discorrere con essa!
Perchè la fanciulla non è ritrosa, perchè dice che ha tante
mucche e tanto fieno falciato, e i fratelli e il babbo lavorano giù
negli opifici del Biellese. La vita le va per benone, e lo sposo,
grazie alla Madonna d'Oropa, sarà un garzonotto, bersagliere
dell'Alpi.

* * *

Le casette che vedi sui monti sono le stalle per le mucche nella
stagione dei pascoli: all'inverno i pastori scendono al piano, e le
lasciano ai venti e alle nevi. Le sono casine murate a sassi
irregolari, coi tetti di pietra lucente, col portichetto a pilastri
azzurrigni, coll'orticello verdeggiante, cinto da un muricciolo di
scheggioni ammucchiati: vicino c'è sempre uno zampillo, e lì
distesi sul declivo i rotoli casalinghi di tela montanara, c'è un
frascato che invita ai discorsi.... Oh che discorsi! Fra il ciondolare
dei campanacci e il mugghiare delle vacche, non si sa che
dire:--Vogliamo assaggiare una ciotola di latte? un po' di burro
fresco?

Detto, fatto: l'assicuro io, che ho visto personcine morbide, che non
si sdraiano se non sul velluto, persone gravi che siedono su
seggioloni d'autorità, magari nel Parlamento e nel Senato, signore
e signori su un pratello o su un panchino di legno s'assettano alla
meglio, e, chiacchierando colla massaia che fila e coi bimbi venditori
di mazzoni d'arnica, si sentono figli anch'essi d'Adamo, e costole di
Adamo, il primo fannullone o il primo contemplatore della natura. Fra
le ciarle si ascoltano i nomi del santuario di Graglia e di quello
d'Oropa.

Discorriamo d'Oropa.

* * *

O meglio ancora, avviamoci. È una delle più belle passeggiate,
per la strada pittoresca, e perchè la meta, celata nel seno del
monte, invoglia a continuare sempre il cammino per iscoprirla. Prima
del 1620 non era il caso di dire--avviamoci. Oh no! bisognava baciare
i cari e la soglia della casa, poi mettersi al pellegrinaggio, per
selve, per frane, per stagni, per ciglioni di precipizi. Che parolacce
le sono queste? Oggidì, grazie all'abate Bertodani, si passeggia su
una strada larga, liscia, ombreggiata, ad ogni tanto facendo sosta al
parapetto per contemplare o una cappella, o giù la vallea col
mugghiante Oropa, o la vetta su del Mucrone, oppure per cogliere una
margheritina e per interrogarla. Purchè si eviti il sabbato, giorno
in cui i valligiani salgono a vere processioni, e l'ora in cui passano
gli omnibus fragorosi. E va, e va: il santuario si scopre solo
all'ultima voltata della strada: apparisce un aggregato immenso e
basso di fabbriche diverse, tutto bigio, con una cancellata a lance
d'oro, sullo sfondo di un monte arsiccio. Tutti quelli che lo
descrissero usarono le cifre, dicendo le misure, la fondazione, gli
ampliamenti, e via: io vorrei adoperare la matita, ma non so proprio
da dove incominciare, nè so metter giù le linee da ingegnere o
da prospettico. Pazienza! chiudo l'albo e m'abbandono alle
impressioni. Il primo cortile ha l'aria animata di un luogo di fiera:
la piazza, da cui vedesi il piano del Vercellese e del Novarese, la
scalea barocca piena di gente oziosa e sdraiata, la fronte
dell'edificio reale colle statue dipinte e gli stemmi d'oro, i
porticati dorici, tutto mi piace e mi ricorda qualche cosa di Genova:
il secondo cortile colla fontana, la chiesa e i pratelli mi dà una
mestizia indefinita. Oh quanta gente! E concorre da tutte le valli! Ti
dirò che ascoltai un canto di litanie, triste, confidente,
soavissimo, che usciva da una finestra della chiesa: e vidi ad
allietar la gronda di quel luogo d'ospitalità un nuvolo di rondini,
aleggianti, coll'ali azzurre. E contemplando gli archi, la fontana, la
chiesa, i pratelli, ebbi un momento di dolcissima mestizia.

* * *

Fuori dell'ospizio abbiamo due bellissime passeggiate: l'una sulla
strada che deve condurre a San Giovanni d'Andorno, l'altra al cimitero
nuovo. La prima fu incominciata nel 1870: taglia la cresta della
montagna, all'alto resa pittoresca da una frana di sassi, immensa,
arida, scheggiosa; al basso allegrata da una selva di faggi, dalle
cascate dell'Oropa, da un ponticello di legno, e mille accidenti che
invero la fanno somigliare al viale di un parco. Peccato che proceda
così a rilento! E fortuna che è così bella! L'altra strada va
su alle chiese, e devia ad uno spiano, ove si è eretto un muro
elittico ad una cappellina gotica così cara da far pensare alle
bianche nozze, non alla pace della buia notte. Continua poi di faccia
alla precedente, e dovrebbe arrivare fino allo Stabilimento idropatico
del cavalier Mazzucchetti: questa è ancor più lieta, più
ariosa, popolata da cascinali, fresca d'acqua, propizia d'ombre e di
riposi.

* * *

Una terza passeggiata è al lago del Mucrone: non te l'ho citata
ora, perchè te l'avrei detta altre volte parlando dei sentieri da
capra, perchè so di una signora che volle su arrampicarsi, ma a
metà discese nella corba e sulle spalle di un montanaro!

Ma ancora quante altre passeggiate! Ami la natura? Sì: orbene puoi
scorrazzare ad un masso gigante, ad un rompimento, ad uno zampillo, ad
una mandra di mucche, ad un cespo di rododendron, ad un sorbo carico
di grappolini rossi. Va e va! Dimentica, se qualche cosa hai che ti
fece soffrire.

Quando sentirai una voce che ti domandi, ascoltala, ridiventa mesta, e
chiama anche tu, chiama l'amica.

                                                LAURA.



IV.


                                        Oropa, 8 settembre 1874.

_Amica_,

Gettando uno sguardo sui bauli già empiuti e chiusi, sola nella mia
camera spogliata, tanto melanconica davvero, sento uno di quegli
stringicori che cento volte fanno dire addio. E in fondo in fondo un
dispettuccio mi punzecchia la coscienza, come un morso di zanzara.
Devo dirtelo? Mi pento di essere stata teco un po' imbronciata; e il
dolore non è per te proprio, giacchè penso che, fra un giorno,
dandoti una stretta di mano, avrò subito ottenuto il tuo sorriso;
il dolore è per me, che mi lamento e mi lamenterò sempre di non
aver saputo tracciare una dozzina di righe nei dì più lieti di
questo soggiorno. Mi sarebbe stata cosa gradita, in città, nei
momenti di noia, aprire un foglietto, nel quale trovare delineati quei
particolari, che, a volerli dappoi richiamare col ricordo, sfumano
dietro un velo della nostra mente, per eccitare il desiderio.
Rispondi, cara: non è così? Alcune volte una sola data scritta
sul tuo portafogli non ti fa dire:--Ah ci sei?--e non t'illudi di
poter arrestare per poco il tempo, farlo retrocedere a tuo agio,
legarlo fisso a quel punto, che è tuo?

È vero che peccato confessato è mezzo perdonato: ma a me non so
punto perdonare, ed ho tanta severità da impormi una riparazione.
Se non avrò un ricordo colla data di tempo, almeno lo voglio con
quella di luogo.

* * *

Scrivo adunque Oropa sull'unico foglietto di carta che mi rimane, e
ancora desidero....

Desidero che cosa? Forse il bagno all'alba, la doccia a spilli, la
sem-immersione ghiacciata?.. E perchè no? Brontolando di
pigrissìma stizza, sia pure, dal letto passavo sul balcone per
avviarmi alla vasca, ma, senti, sul cielo mattutino vedevo i monti
tanto belli e tanto in pace: uscendo dalla buia stanzuccia della
doccia a mezzodì, trovavo vigore in dosso, sì che speravo che la
mia mano non avrebbe per l'avanti solo svolte le pagine di qualche
libro, ma si sarebbe stretta a un _alpenstok_; a vespro, per la reazione
del bagno, sceglievo la più erta passeggiata, e su per gli
scheggioni cantarellando, a tratto facendomi silenziosa, pensavo ai
nomi insigni delle Alpi, con cui fregiare il mio bastone dal corno di
camoscio, e pensavo ai libri che si accorderebbero alla poeticissima
contemplazione della natura. No, signora mia, non fui una pigraccia:
col desiderio ho fatto poi di quei voli da conoscere tutta la rosa dei
venti. Se tu ti fossi seduta sull'estremo masso di quel dosso, detto
_dei tre cantoni_! Come non illudere te stessa! Come non credere d'aver
l'ali, dinnanzi un panorama sterminato, che ha solo per raffronto il
mare?

* * *

I più bei dì del mio soggiorno li trovo qui ricordati da sette
ad otto giornali politici, di quelli che non servirono a involgere
niente, tanto grami sono i disutilacci! Essi me li ricordano col loro
bollettino meteorologico: questo segnava per noi un'atmosfera da
caldaia bollente. Grazie tante: da noi non ho veduto mai termometro, e
lo star bene aveva due sole gradazioni superlative.--Sto benissimo.
Sto arcibenissimo.--Vuoi di più, mia cara?

Voi che facevate? I vostri spettacoli cittadini vi persuadevano a quel
sonno che non concedeva madre natura, spietata infuocatrice, e la
vostra languidezza e i vostri sudori non commuovevano il cielo
inesorabilmente azzurro.--Noi che facevamo? Non credere che fossimo
qui per essere solo i martiri dell'acqua ghiacciata: stammi ad
ascoltare, e tu pure applaudirai.

* * *

Entro in argomento, parlandoti addirittura della nostra festa del 24
luglio. Devi sapere che i preparativi servirono a divertire una settimana
prima eccitando desideri e impiegando facoltà pensatrici, perchè tutto
andasse per bene. Fu aperta una sottoscrizione, fu tenuta un'adunanza, fu
eletta una commissione, col nome di una gentile patronessa in capo:
abbiti le iniziali dei due signori direttori,--conte colonnello F,
commendatore colonnello G.--Un programma venne affisso, e la fama gonfiò
le gote, sonando la tromba su a Oropa, per la valle, e giù ai bagnanti
d'Andorno e di Cossilla: così per l'entrata principale dello stabilimento
sfilarono molte gentili spettatrici, e pel cancello che dà al sentiero
dei monti vennero ritrose le guardatrici di mucche, e pieni di voglia i
robusti garzonotti.--Sullo spiano innanzi lo stabilimento, ponendo delle
panche e dei sedili si determinò uno spazio rettangolare: in giro la
gente si affollò, ai posti d'onore sedendo le dame e i cavalieri, dietro,
le ancelle e i valletti, dietro ancora, il popolo minuto; fu dato il
segno: e nella onorata lizza comparvero i campioni.... Sei o sette
giovanotti, i quali entrarono colle gambe in un sacco, se ne strinsero le
funicelle intorno alla vita; e poi al suono di una musica olimpicamente
eccitatrice di muscoli gagliardi, presero a saltare verso la meta,
balzando innanzi come spiritati, e cadendo arrovesciati, impigliandosi, e
sorgendo da animosi.--T'assicuro che proprio bisognava ridere di buon
cuore, e bisognava applaudire, perchè nella gara non c'era punto
pericolo, ma c'era tutta la gioia e tutto lo spettacolo grottesco: si
rise e si battè le mani a tutti, e se pel vincitore non s'intrecciò una
corona classica, poco male, che per lui splendette nelle mani della
patronessa un dieci lire d'oro, caro come un sole. Dopo di che, la lizza
non fu contrastata colla forza, sibbene colle dolci paroline, e le
coppie, dapprima vergognose, poi audaci per gli applausi e pel vicino
tempio di Bacco, largo dispensiero di vini, le coppie del ballo popolare
slanciaronsi, rispondendo all'invito del programma: bagnini, montanari,
bagnine, cameriere, stancarono le gambe, non le voglie, fino all'ora di
cena. Evvivano gli spassi!

* * *

Dopo cena trovammo sullo spiano e sul terrazzo, dondolanti sui fili
all'aria del vespro, tanti palloncini di carta, lisci o crespi, e d'un
colore o di due o di tre: e vedemmo un aereostato salire maestosamente,
su, su e mostrare alle nostre bocche attonite la sua boccaccia infuocata,
e su, e su.... Non scorgemmo più niente: invidiammo gli immensi campi
della poesia azzurra, ci fecimo augurio d'essere palloncini: ma oh! a
rammentare la nostra natura impotente un altro aerostato compagno non
volle spingersi, dondolò, si fe' ribelle a tutti i voti, e cadde a terra,
con una fiamma fugace, ricordandoci quel detto di Salomone sulla vanità
delle vanità..... S'accesero i palloncini variopinti, e da tutte le
finestre dello stabilimento brillarono due candellieri: illuminazione
fastosa ad onore della Dea Salute, e della sua invidiata sorella
Contentezza. Pel contrasto dei lumi, fatti bui il monte e la vallea, lo
spazio allegro parve più ristretto e più affollato: molti rossori si
confusero ai riflessi dei palloncini vermigli, molte ritrosie furono
vinte dall'onda armoniosa, e la danza regnò, esultò, non diede più
stanchezza. Intanto da una rupe di faccia al teatro della gazzarra,
salivano al cielo, squarciando l'aria e crepitando e scoppiando, cento
razzi a pennacchi di fuoco, a gruppi di stelle, a luci vividissime; le
girandole disegnavano vortici di scintille: il bengala tricolore pingeva,
come nei sogni delle fate, il paesaggio sì da farlo credere trasparente:
e un immenso falò finale annunziava a quei di Cossilla e Andorno il
tripudio dei bagnanti confratelli.

* * *

Dopo il falò lo spiano fu animato da fervidissime danze: e
incominciò la festa, la vera festa distinta, nelle sale. Udimmo un
pezzo a quattro mani, eseguito con sì gentile intendimento d'arte
elettissima da farcene per lungo tempo aver caro il ricordo: udimmo un
motivo della _Linda_, che fu un regalo grazioso. Poi fra le danze e i
complimenti, c'intrattenemmo discorrendo della giornata, e ognuno
facendone la chiusura colle più grate lodi. Non era finita, no! Con
grande sorpresa, a dieci ore, squilla la campanetta degli arrivi, e
s'odono la voce del maggiordomo e i passi di nuovi venuti. Chi
saranno? a quest'ora? che?... Entra nella sala un'elegante _dottore
Dulcamara_, con uno spigliato _moretto_: quello pieno di gentilezza per
le signore, e questo di regali: lo _specifico elisire_ ci venne offerto
con canto briosissimo e con lazzi sollazzevoli da eccitare le risa le
più belle. La sera si passò piacevolmente, e a mezzanotte la
sala era ancora lieta e affollata.

* * *

Il dì dopo a mattina, molte camerine di bagno furono deserte, ma a
capo di molti letti posava il mazzetto di fiori offerto, gentile
testimone alla schietta gioia della sera e del placidissimo riposo
della notte.

E s'io ebbi il mazzetto ti confesserò a voce, e in un orecchio ti
dirò....

                                                    LAURA.



DALL'OROPA.

(LETTERE ALLA _Vita Nuova_.)



I.


                        Dallo Stabilimento Idropatico Mazzucchetti.

All'altezza di mille metri press'a poco sul livello del mare, tra il
flagellare rabbioso della doccia orizzontale, della pioggia, del
soffione, della circolare, e le bastonature della colonna mobile e il
rombare cupo dell'acque che s'avventano nelle vasche dei bagni
_scozzesi_, colla massima convinzione affermo e provo che, fra i sorrisi
delle bocche contente, a questo mondo si deve porre non ultimo quello
dell'uomo, che, uscendo di sotto ai freddi portici di uno stabilimento
idropatico, va alla sala di lettura, e, per aspettare la tarda campanella
del pranzo, piglia un giornale qualunque, e due, e tre.... Un giornale?
Che cos'è? Come si fa? Che affaracci ci sono laggiù nel basso mondo?...
Mah? È gran che se l'uomo capisce qualche cosa delle _sessantamila lire_,
dell'articolo di fondo, dei dispacci turchi e dei serbi. Ma ecco il
bollettino meteorologico:--32, 34, 35 gradi! A Milano si bolle come la
minestra, a Bologna si va in brodo, a Firenze si prepara l'arrosto. Oh
implacabile cielo! Cielo, che ti compiaci dei nostri _foulards_ agitati,
degli incessanti ventagli, dei nobili sudori e dei plebei, delle tolette
svelatrici e de' costumi senza foglia o camicia!--Mi pare di vederla
questa Milano!--dice l'uomo:--Vampeggiano i tetti coi mille fumaiuoli
abbrunati, vampeggiano i selciati lucidissimi, vampeggia il Duomo, come
un gigante calcinato dal sole, e sulla maggiore aguglia la povera
Madonnina dorata saetta dei baleni scottanti. La città è mezzo deserta.
Chi ha fretta s'impaccia sotto le tende sporgenti dalle botteghe e magari
sogna una cabina da bagno in riva al mare: corrono gli _omnibus_ e i
_broughams_ sopraccarichi di bauli, colle bianche faccine di dentro, che
vanno a farsi brune, e i cocchieri sul serpe, colla facciona cioccolatte,
che, rubando la corsa al padrone, andranno all'osteria a farsi _biondi_:
gli scolaretti, che all'esame hanno trovato lo scoglio del greco o
dell'algebra, fanno trottare le sartine, e le sartine, nell'odoroso
percale, sudate, rubiconde, rompono l'aria insidiosamente: gli uomini
d'affari hanno comperato il parasole: le sentinelle personificano la
rassegnazione umana: i preti guardano insù; ma solo le portinaie discinte
escono giù cogli annaffiatoi in mano e i numeri del lotto in cuore: il
cielo è un piombo che non lascia sperare una stilla. Chiuse le persiane
dei primi piani, secchi i fiori degli abbaini, colme le tazzone di birra
per gli uomini, e dallo sciame minuto della poveraglia invocati i
sorbetti della carriuola tintinnante.... Oh che arsura! oh che sollione!
oh che vita! Solo godono un po' di fresco le beghine sdentate, che
all'alba lumacano alle chiese chiamate dalla campana pettegola, e i gatti
unghiati, che in ogni ora del giorno scappano alle cantine muffe senza
buscarsi il raffreddore.... Oh, per carità del buon Dio, venga presto la
sera per lasciarci dire: anche oggi è andato! La sera, dopo una
passeggiatina calma e silenziosa, si va al caffè, su una piazzuola, dove
ci sia un filo di verde e ancora qualche abitino assestato alla persona e
qualche scarpetta bassa. Ah! come ci sediamo volentieri! Bell'invenzione,
sapete, quella delle seggiole di legno piegato a vapore, leggiere come
una galla, col sedere che lascia passar l'aria! Facendoci vento col
panama e col fazzoletto, aggiustandoci più in su dei ginocchi le pieghe
sudate dei pantaloni, torcendo la faccia a una buffata di fumo caldo che
c'invia il vicino, ed occhieggiando:--Il tale?--si domanda.--È andato in
campagna, alle acque, ai monti, al mare.--Sì?--Sì.--Eh! ci andrei
anch'io, se....--Che cosa?--(Non si vuole confessare la verità e si
dice:)--Se non avessi affari!--Si è pigri, sissignori: si temono i bauli,
il viaggio, le novità, l'eleganza, le donnine.... Passano i giorni e i
giorni: si rimane soli. Il tale? Partito. Il tal'altro? Partito. Al caffè
non si trova più una persona, che c'inviti a quattro asciuttissime
chiacchiere: la frutta è cara: il caldo addoppia, lo dice il termometro
della Galleria. E come si dorme? Come si ha appetito? Come si passeggia e
si accudisce agli affari? Eh lo sapete, il lenzuolo è di troppo: il
ghiaccio rovina i denti: i boschetti incominciano a perdere il loro verde
intenso, se non piove! Si dorme allo scrittoio, si appisola negli uffizi,
si russa nelle chiese e nelle caserme.... Mi ricordo che in una di quelle
giornatacce da forno m'era saltato un ghiribizzo strano, caldo caldo: eh!
quistione di nervi, sicuro, e vi dirò che....--così ciarla l'uomo, e
lascia il giornale, si guarda l'unghie, che forse sono ancora livide per
la doccia, dà una stropicciata alle mani, vede dalla finestra passare di
fuori, galoppando, una signora imbacuccata nello scialle: si sente un
brivido all'osso sacro e capisce che non ha fatto bene la sua _reazione_.
Allora sorride.... Uomo contento! esce dalla sala, è innondato di sole, è
avvolto nell'aria frizzante, vede monti e valli e cielo e cielo: giù il
piano sterminato: muoiono le tinte verdi nelle azzurre: spiccano
paesetti, città, serpeggiamenti d'acque: poi si stende come un mare
trasparente e celeste, una vastità fantastica, un regno di vapori....

Quell'uomo è contento. Lo volete contentissimo? Supponete ch'egli
sia un giovanotto, il quale non pensi di correre dietro alla signora
infuriata, nella veste da camera, colle ciabatte senza tacco, col naso
rosso e i capegli impastati sulla fronte (marchesa, mi perdoni!):
supponete che salga gli ottanta gradini della scala, fra la parata dei
lenzuoli, e giunga alla sua cameretta. Questa è piccolina, col bel
letto di ferro, gaia, colle persiane rinfrescate da riflessi verdi
chiarissimi, col calamaio secco e la penna rugginosa.... Bene!
Scriviamo agli amici, poco, pochissimo, quello che si potrà: già
ci sono le circostanze attenuanti.... Che cosa scrivere?... Giuro che
la doccia smorza la fiaccola della fantasia, l'orizzontale cambia il
cuore in un pezzo di ghiaccio, e il semicupio ad acqua corrente ci
condanna a bassa prosaccia. Che cosa scrivere?... Nella camerina, ad
un piuolo pende un cappello biellese che ha un mazzetto di _rododendron_
nella ghiera, un fiocco di _mignin_ morbidissimo, una vaniglia, una
_concordia_ e una violetta del pensiero: poveri fiori appassiti in
quattro giorni! Sul tavolo c'è una Guida, con un itinerario attorno
al Monte Rosa, segnato da grandi chiazze bianche che vogliono dire
ghiacciai, da nomi francesi e tedeschi, da vene lattee di torrenti:
lì in un canto c'è un lungo bastone, che, come quello di santo
Antonio, porta legato all'estremità il conforto dei pellegrini:
eccovi la fiaschetta impagliata del rhum.... Il giovanotto lascia la
penna, e colla matita schizza lo stemma del Club Alpino, lo scudo
colla stella, sormontato dall'aquila coll'ali tese, accompagnato dal
cannocchiale, dalle corde, dal piccone, dalla scure. Il giovinetto
lascia la matita e rimane appensato. Non sono i monotoni ricordi della
città! Non l'acre ridestarsi di quei ghiribizzi strani, che si
guariscono coll'idropatia! No, no, no!... È la sana, la
liberissima, la grande aria dell'Alpi, che, per così dire, irrompe
nella cameretta a dare sfondi, a ricolorire monti e valli e cielo
nella fantasia dell'uomo innamorato!

Ecco come pensa il giovinetto:--Quanti bei luoghi ho veduto! Come
voglio rammentarli ancora! Oh mio caro _rododendron_!... È mattina.
Tutto il mondo a quest'ora, ai nostri occhi ancora sonnolenti, pare
debba essere una valle bassa bassa, e la valle, in fondo a cui
c'incamminiamo noi, la ci sembra la più seppellita; violastra,
fredda, tutta un'ombra senza un'ombra. Non c'è luna: l'ultima
stella della notte sgorga tanta luce che pare avanzi dritta e
velocissima verso la nostra pupilla; è immota, non splende per chi
muore, è solo un gioiello per la misteriosa immobilità dei
cieli. Mugge un invisibile torrente; perdendosi nei faggi opachi,
corre alla notte che noi abbiamo lasciato alle spalle, nel paesetto. A
quest'ora ineffabile l'aria e la luce pare si confondano: il
crepuscolo lo diciamo freddo, il vento oscuro: la risultante una
sola--Pace grandiosa. Taciono i monti. Noi scambiarne le prime parole
colla ragazza che ci serve di guida, pel bisogno di sentire una voce
umana in tanto deserto: lei, col guarnellino, la gerla sulle spalle,
dice che ha accompagnato ieri e l'altr'ieri tanti signori, e hanno
fatto colazione, con tanta allegria.... Davvero a quest'ora ci
rincrescerebbe morire, ai piedi di questi altissimi monti.... Il cielo
s'è schiarito un po': i mille accidenti delle spaccature, delle
gobbe, delle creste, delle valli, prendono rilievo: ma ancora regna
l'intonazione violastra, più netta, più larga, più fredda.
Col piede si schivano i rigagnoletti, danno stringicore i fiori che
dondolano all'ondina piangente, ci fanno abbrividire i pratelli
irrugiadati. Il cielo s'è schiarito ancor più: come? quando? Su
un estremo picco la luce del sole ha dipinto una pezza di
rosso-carminio. È il mattino: con questa parola si dice tutto!
Già canta un fringuello. Camminiamo, su, su! Sotto ai faggi dalle
cortecce lucenti e dalle foglie ovate, sugli scheggioni, di qua, di
là, per le breccie dei macigni e sulle schiene, poi sui pendii
sparsi di massi rotolati e d'altri conficcati, poi sui sentieruzzi
teneri, spolverizzati di squamucce d'argento, tra le selvette fresche
di felci, si cammina e si cammina.... Il sole scappa giù ampio e
gaio: fra poco ci coloriremo a' suoi raggi.... Siamo all'_alp_. È una
cascina di pietre ammucchiate, col tetto di lastre micacee, col
fienile, la stalla, la fontana che trabocca dal tubo di legno: il
sentiero fangoso, puzzolente, trito da cento unghie, accompagna ai
pascoli, alle grotte sotto cui hanno dormito le capre, fra gli enormi
massi vellutati d'efflorescenze verdicce. All'_alp_ si beve il latte
nella _biella_, nella cucina affumicata, sui trespoli, tra le fascine, i
secchi gialli e le macchiette dei vecchi pastori in calze groppose, e
quelle dei bimbi seminudi: le ragazze corrono alla fontana. Una sola
finestra scaccia il fumo e fa entrare la luce: chi non vede un pezzo
di montagna festante al sole, da quella balestriera livida, angolosa,
abbruciata e slavata! Chi non sente sotto, dalle fessure del pavimento
di legno, le vacche agitare i collaracci e magari il latte schizzare
con suono acuto nel vaso di rame della massaia! Chi non ha comperato
un cucchiaio di legno!... Quando ci siamo nuovamente incamminati, la
guida ci si fa un po' più vicina, non ci precede più di venti
passi, ma solo di cinque (la colazione ha messo tra noi un po' di
confidenza), e non risponde più quell'asciutto--_Sissgnor_--ma, cogli
occhi bassi, muove la manina ad accennare qualche fiore, qualche erba:
ecco la genziana aromatica e la _mattutina_ profumata (sassifraga) e i
garofanetti coi petali a ritagli minutissimi. La guida è una bella
ragazza, dritta come un bersagliere, tondina, piccola, bionda: ha dato
i fastidi _a rangé_, canterella sottovoce, e si arrischia anche a
risponderci che si chiama _Main...._ Sul monte non crescono più
arbusti di carpini, nè frassini, nè faggi: solo scheggioni fessi
e macigni e zolle inaridite. Sui pendii s'affollano le felci: qua
calpestate pesantemente da poco mostrano come un sentiero nuovo,
svelando tra il verde gaio dell'insieme il verde freddo delle loro
pagine inferiori: altrove schiantate da un pezzo e disseccate appaiono
come cuprei ricami: su su digradano ondulando. Incomincia una frana
sconvolta, un torrente secco: i cespi del _rododendron ferrugineum_
sbucano da ogni crepaccio ove ci sia una manciata di terra,
ricchissimamente adorni di fiori vermigli: alcuni corimbi staccano
sulle tinte cineree-lucenti delle pietre, altri sul cielo azzurro di
sette azzurri, altri sui guancialetti dell'erica che odora di
miele.... Oh meraviglia! suona un campanaccio grave: dòn dòn,
dodòn, dodòn: una vacca appare, col muso gemmato d'acqua, le
corna sporche di terra, con una bava che fila giù dalle mascelle
spostate dal ruminare: sbarra gli occhioni, colla coda sferza una
mosca, poi sprofonda la gamba nana nei cespi di _rododendron,_
sviluppando l'adipe del tardo corpaccio, strascinando le densissime
mammelle sui fiori gentili. Suona un altro campanaccio, e un altro, e
un altro: è un concerto da festa. Vediamo l'intera mandra: il
pastore su un'eminenza s'appoggia al bastone, come un cavaliere al
lanciotto: le caprette colle gambe lanose e divaricate, sporgendo il
collo, s'arrampicano sui tetti delle stalle o sui grandi basamenti dei
macigni.... E canta il pastore:--_L'America l'è granda_--: muggono le
vacche: e le caprette col tremulo belato fingono le cornamuse
nasali...

È mezzogiorno. Dal colle si domina il portentoso anfiteatro dei
monti: monti rocciosi a destra, a sinistra, giù la _comba_ aperta che
dà origine a una voragine profondissima, il principio di un'altra
valle laterale che si perde Dio sa dove: in fondo, alta, vi è una
cima dentata, dalle abbaglianti pezze di serico bianco che si spiegano
e si stratagliano sui ghiacciai. È impossibile dire le tinte
violastre dell'ombre lontane trasparentissime, su cui si fondono i
larici, e impiccioliscono, e fanno selve bluastre e s'inerpicano sulle
torri di fantastiche ruine. Il sole è grande colorista. Eccoci ai
larici dal fusto eretto, dai rami cadenti, dalle foglie lucide di
mille ispidi aghetti e flessuose ad ogni vento: eccoci ai coni
crocchianti, all'erbe dei camosci, ai radiconi che disegnano informi
spine dorsali di mostri, alle scalee ammucchiate dai giganti, ai
ginepri tenacissimi. Il sole scalda l'acro odore delle cortecce. Qua,
da un'insenatura umida e lucida come acciaio, un torrente sembra con
cento braccia cadere aggrappandosi di picco in picco: là invece
tranquillo, spiegato, maestoso, si abbandona giù come un velo di
limatura d'argento: il rombo è il misterioso _crescendo_ degli
abissi: ogni dove con prorotto singhiozzo nelle tane scavate
gorgogliano acque sotterranee. Certe locuste, saltabeccando da
stordite in ogni direzione, vibrano seccamente colle ali: dall'alto
gridano le marmotte.... Dove siamo? A quale altezza? In una conca
strozzata fra i macigni c'è una bella isoletta di neve. La neve? La
neve ai tanti di agosto! Facciamo subito un _punch frappé_. La neve!
Si tocca, si mangia, si vede scintillare, si getta nella gerla di
_Main_... Il terreno è fracido: s'è fusa la neve il giorno prima,
ed oggi è nato un fiorello azzurro melanconico: più su, come
pennacchietti orientali, tremolano i fiocchi argentei del _mignin,_
odora il gratissimo fiore della _concordia,_ l'amaranto che dà il
responso dalle radici a chi lo vuole interrogare. Più in su ancora
all'_alp_ di nitido larice, la fanciulla nitidissima, che veste di panno
rosso, parla il tedesco dai denti stretti e legge il libricciuolo
della messa stampato a Kemden e col legno imprime sul burro le cifre
col rosone del babbo, nella _coulisse_ piccina della sua finestrella
specchiante, la fanciulla che sorride ha posto un mazzolino di viole
del pensiero, esili, rigide di contorni, pallide, odorose, insieme
alla cara vaniglia dell'Alpi. Più in su ancora si cammina sulla
neve, il piede freddo, l'occhio infastidito dalla vasta bianchezza, la
mano stretta al bastone, il collo saettato dal sole: e su e su: si
sdrucciola e si ride. Ma che! in fondo c'è un precipizio: finisce o
non finisce questo tappeto, che addoppia le tinte abbrustolate delle
cime? Qui vicino ai massi sporgenti e neri il piede rompe una fragile
crosta insudiciata: là la monotona eguaglianza è tolta da
strisce che vi lasciarono le trosce d'acqua: là si avvalla ed è
ondeggiata. La nostra ragazza procede dritta, senza fallare,
equilibrata, colla gerla sulle spalle, e ride alla nostra
domanda:--Finisce o non finisce?--Chi s'arresta, sdrucciola: chi
s'imbizzisce, falla: chi sdrucciola e chi falla arrischia di rifare il
cammino in meno di dieci minuti fino al fondo. E su e su, ci
arrampichiamo poggiando i piedi nell'orme profonde lasciate dalla
guida: crepita la neve e s'ode il nostro anelito frequente.--Ohe, che
gioco lungo!--dico io, e mi sento floscio ed annoiato.... Oh santa
fiaschetta del rhum, ti benedico, ti voglio, ti bacio! A te devo il
passo sicuro, l'occhio indagatore, il petto ristorato: più la
sorsata m'arde la gola, più mi pare di divenire un piccolo re della
natura. Bevi, bevi anche tu, bionda fanciulla: alla cima urleremo a
squarciagola il grido selvaggio dei pastori.... Chi ha detto ch'io
sono stanco? Ch'io casco sulla neve?... Vedremo i laghetti freddi e le
vacche immote sulle rive a specchiarsi e le pecore lanose sdraiate sui
pendii e i corti vitelli dalle gambe lunghe, che labbreggiano cercando
le mamme, e le mandriane brune che addormono in grembo la testa del
mandriano.... Udiste il nostro grido d'allegria?

È sera. Il cielo al suo cobalto mischia il nero: addensa la tinta:
taciono i monti e si aggravano sulle valli: non stride un grillo, non
geme un uccello, ma solo rombano i torrenti. Io guardo le cime e mi
domando:--Se dovessi ancora salire lassù nel tenebrore? Una notte
tra i faggi e le balze? Senza provvisioni?--e cammino tacitamente e
spio il volto della ragazza, che di rubicondo e sanissimo, s'è
fatto freddiccio e violaceo: fiori ed erbe e sassi e ruscelli
sereneranno tranquilli: alle stelle mi sento quasi tentato di dire:--A
che vi affollate in questa zona di cielo? Non vi è pupilla che vi
contempli, non v'è dolore, non v'è amore!--.... Sfilano le
vacche, ciondolando i campanacci e smottando il terreno: le conto,
una, due, quattro, sei.... Non le conto più: ascolto dei sospiri
gravissimi, dei fruscii, delle note sorde: non è il dodòn,
dodòn, no, ma un tardo addio. Si sbandano ancora le caprette, ma
trottando, quasi paurose di slontanarsi dalla torma: ballonzano
pesantemente i montoni, come cose balorde: segue il mandriano con un
fascio di radiconi sul capo.... Si vorrebbe udire un suono di campana
benedetta, vedere un cimiterio, passare innanzi a un'osteria dal
focolare vampeggiente: insomma accorgerci del massimo beneficio degli
uomini stretti in società, l'aiuto, il ricordo, la speranza,
l'oste, il prete.... Si pensa saltando di sasso in sasso:--È questo
il sentiero che deve battere il medico condotto, se è chiamato di
notte da chi non istà bene? Oh che luoghi! E lo speziale? Vorrei
vederla quella bottega, io che mi prendo le medicine inglesi! Oh che
gente! Eppure qui si vive tutto l'anno da migliaia d'anni, qui si
nasce e si muore e si ignora che c'è la città, la nostra
città, che ci sono io che a st'ora mi sento ed ho grandi
bisogni!--Cala sempre più la notte.... Di lontano, dei lumi! Ci
guardiamo di dietro per gustare di più la tetra oscurità senza
compassione, e poi affisarci nei punti rossigni, provvisti, carissimi,
umani.... Aaah! I nomi di Ludwigs Höhe, di Parrospitze, di
Signalkuppe, di Schwarzhorn, e cent'altri, che ci si ficcarono tutto
il giorno nel desiderio ambizioso, diventano strani, crudeli,
ghiacciati: vengono insidiosissimi e saporiti, per così dire, nella
gola quei battesimi ambrosiani delle nostre buone donne di servizio:
se la Peppa ci desse qui un _risottino_ fumante! Se Perpetua allagasse
di _conza_ un piattone di stufato!... Aaah!...

* * *

Arriviamo al paese, all'albergo, ai grandi lumi, caldi e vivissimi: la
guida ci precede: ci viene incontro una cameriera tutta in chiaro.... Che
effetto strano in quell'eleganza! Giacchè l'abbiamo abbandonata, ci
volgiamo indietro all'oscurità, a gettare uno sguardo alle prime luci che
incomincia a nevicare giù la luna: a quest'ora, al termine del
pellegrinaggio, siamo quasi dolenti di non soffrire più privazioni,
d'esser giunti, d'esser sicuri: con stringicore ci sovveniamo di
qualcosa, di qualcuno, di qualcuna: è un lampo di poesia, la chiusa, la
consacrazione della giornata. Il mio amico pensa di sicuro:--Se mia
cugina vedesse dove sono!--ed io sospiro:--La mia povera Tea è in
collegio!--Squilla una campanella per noi. La gente che c'è, donnine
avvolte nelle ciarpe e uomini in _gilé_ bianco, s'affaccia ai nuovi
venuti, lì dallo spiano del terrazzo, qua dalla _lobia_ del _châlet_. Oh
seccature! oh figurini profumati! oh statuette di porcellana! Suona un
pianoforte: e s'odono delle risa inviziatelle, aristocratiche,
maliziose.... Noi, un po' orsi, pesanti, impolverati, goffi, rizziamo il
capo facendo dondolare sul cappello il mazzetto di fiori.--Mi
rincresce,--dice la cameriera:--ma la _table d'hôte_ è finita.--(Meglio!
meglio!)--Mi spiace, ma....--Non importa: arriviamo da....--giù un
nomaccio:--Ceneremo da alpinisti.--A cena, sulla candida tovaglia, fra le
posate e le bottiglie lustranti, fra le boccette della senape e di
cent'altre leccornie obliate da noi, in mezzo a tante meraviglie, apriamo
e riapriamo la Guida: il seguire sulla carta il viaggio e il pronunciare
delle sillabe, _spitze_ ed _höhe_, sul musino bianco e pastosello delle
cameriere è la gioia che fa passare ogni stanchezza: i bei nomoni sono
come il pepe delle vivande che si mangiano. Stamattina, questi nomi erano
muti, _colle, passo, comba, alp, cima, horn_, erano bianco su nero,
parole: a quest'ora sono quel che sono!--Si guarda l'itinerario pel
domani: e quei nuovi nomi, quelle nuove _x_ diventano desideri
ardentissimi. E si ciarla, si ciarla, poi si prendono dalla caminiera del
salon i biglietti litografati dell'_Hôtel et Pension_, si leggono le
_promenades et environs--ascensions principales--voyages--le elevazioni
sul livello del mare delle principali vette dei monti nei dintorni_: si
sa che _on parle allemand, français, italien--on tient des mulets et des
guides pour la commodité des Voyageurs:_ fanno pietà in un angolo i
parasoli delle signore e gli _alpenstock_ bianchissimi col cornetto di
camoscio e i cappellini alla moschettiera colla piuma spavalda: si
scarabocchia il nome sull'albo dei forestieri. Guarda, guarda: c'è il
dottor tale, milanese, peuh! C'è la famiglia tale! Schiva! Tutte
scarpette basse e piedini di butirro!... Vicino s'ode nuovamente il suono
del pianoforte e un calpestìo di danze... La fiamma della candela sembra
ingrossarsi al nostro occhio, vestirsi di nubi vaporose, razzare,
tremolare: la mano stropiccia gli occhi come per cacciarne fuori delle
briciole di pane pungenti, la testa si china sulla Guida, il ghiacciaio
dell'itinerario si allarga come un lenzuolo... un lenzuolo di un ottimo
letto... Chi dà un letto?... Intanto che già si sogna vagamente e
penosamente di camminare per scheggioni, per grotte, per frane,
attraverso ghiacci, la cameriera ci tocca su un braccio. Eravamo
addormentati.

Anche voi, o lettori, dormite a questa mia cicalata? Vi domando mille
perdoni. L'esordio è finito.

E sulle mie labbra c'è il sorriso dell'uomo contento. Voi, amici
miei, avete 32 gradi, voi passeggiate dalla Galleria al forno del
vostro studiolo. Io tolgo adesso gli occhi da' miei fiori, dalla mia
Guida, dalla mia fiaschetta, e fremo agli ultimi brividi freddissimi
che m'ha lasciato la doccia delle 11 ore.

La mia escursione è incominciata da Biella, s'è spinta su al
_Corno del Camoscio_ vicino al Monte Rosa, è calata ad Orla, ha
voluto il riposo allo Stabilimento Idropatico d'Oropa.

Io mi dico:--Come si fa a scriverle, certe cose?--e mi arrovello. Voi
direte:--Come si fa a leggerle?--e....

E chiudete pure il giornale: io apro la Guida.



BIELLA.


«Il Circondario di Biella è limitato al nord, all'ovest e al
sud-ovest dalle linee di separazione delle acque della Sesia e del
Leiss e poscia della Dora, ed è chiuso all'est ed al sud da confini
meno naturali, che tagliano le vallate dei torrenti che hanno origine
dalla costiera settentrionale ed occidentale. Esso ha una superficie
di 960,48 chilometri quadrati, e una popolazione di 126,360 abitanti
(censimento del 1861). Vi sono quindi 131,56 abitanti per chilometro
quadrato, mentre in media nel regno d'Italia non si hanno che 83,54
abitanti per chilometro quadrato. E questo non è poco, ove si
consideri che il 57% del suolo biellese è montuoso. Principali
torrenti sono al nord la Sessera che volge verso l'est ed al sud il
Cervo, cui fanno capo la Viona, l'Elvo, l'Oremo, l'Oropa, la Strona,
la Roasenda, tutti gli altri torrenti insomma che non mettono nella
Sessera.» E basta. Mille grazie al signor Quintino Sella che
pronunciò queste parole nel discorso inaugurale della prima
riunione straordinaria della Società italiana di Scienze naturali
in Biella. Io non lo saccheggierò più: perchè, rubando male,
il _terreno diluviale_, le _alluvioni_, il _diluvium_, il _pliocene_, il
_calcare_, le _roccie feldispatiche e micacee_, l'_anfilobo_ e la
_diorite_, la _formazione sienitica_ e il _melafiro_, e l'altre parolone
mi potrebbero procurare qualche tirata d'orecchi da chi ha sulle corna la
poesia e gli acquerellisti.

Biella (_Bullarella, Buraiella, Buiella, Bucella, Bugella_) è al
confluente dell'Oropa cel Cervo. Che sia città antica (153 ab U.
C.) lo comprovano la iscrizione di Caio Publicio Crescenzio e l'altre
che si conservano nella casa parrocchiale, il sepolcro de' romani
Melii, ora divenuto battisterio, la medaglia fatta per commemorare la
ruina di Gerusalemme. Da Lodovico il Pio e da Lotario fu donata al
conte Bosone nell'826: poi da Carlo, da Ottone, da Corrado, da
Federigo I alla chiesa vercellese: nel secolo XIII si levò ad
animosa controversia per sottrarsi al dominio di Vercelli: nel XIV
provò il furore della peste, segnò di croci rosse i militi
contro Fra Dolcino, si scosse di dosso il vescovo tirannello Giovanni
Fieschi: nel 1379 diede giuramento di fedeltà al conte di Savoia:
nel 1525 gli imperiali vi aguzzarono l'unghie. Trascrivo un
particolare che soddisferà la curiosa domanda di alcuni miei
amici:--«Il maresciallo francese Brissac estese la sua occupazione su
parte del Biellese ed obbligò il comune ad inviare a Parigi dei
legati per il giuramento di fedellà ad Enrico II e per ottenere la
conferma di tutti i privilegi. Si fu in quell'epoca che si
incominciò il commercio delle lane colla Francia e principalmente
con Lione, e ne venne il motto _francese di Biella_, perchè il comune
di Lione accordò con diploma 23 gennaio 1558, il privilegio di
cittadinanza ai Biellesi.» (_Guida per gite ed escursioni nel Biellese,
edita e compilata per cura della Direzione del Club Alpino, sezione di
Biella, 1873_). Poi Biella ebbe ancora la peste, gli Spagnuoli e i
Francesi, peggiori della peste, e di nuovo i Francesi.

Biella è una cittadina simpatica, che si presenta pulita,
sanissima, affaccendata, percorsa da cento omnibus dalla stazione
verso il santuario e verso Andorno. Nella via maestra vi sono dei
portici sotto cui s'impaccia la gente ai giorni di mercati popolosi:
tutto vi si trova, dalle usuali terraglie impastate colle argille di
Ronco e Ternengo agli immensi tesori delle fabbriche grandiose. Nuove
piazze, nuove vie, nuovi edifizi accennano ad intendimenti edilizi di
buon gusto. De' monumenti conosco il Duomo, incominciato nel 1402 e
finito nel 1825: vorrebbe esser gotico nell'insieme, ma stentato
nell'ornamentazione, senza gusto, senza carattere, goffo e
pretenzioso, coll'alto peristilio che mischia persino dei capitelli
semi-egiziani agli archi acuti, alle colonne allampanate, al terrazzo
sopracarico di tabernacoletti, di sfere, di piramidi, in tutto ha
qualcosa del cartone dipinto a gesso e colla: nell'interno si può
perdonare qualcosa, in vista d'una pittura del Lanino e d'un pulpito
in legno scolpito.

Il Battistero è un tempietto ottagono, di mattoni grossi,
incoronato da tanti arcucci venerandi, con una scoltura che porta
effigiati due putti carnosi, bene atteggiati sullo sfondo di un
colonnato a rigidi profili. Una porticina conduce a un sotterraneo,
un'altra al piano terreno. Il pretino che ci accompagnò ci disse
che giù c'erano due tombe di vescovi: dal mazzo di chiavi una sola
scelse e ci aprì il battistero, nudo, gretto, squallido. De' Melii,
delle lapidi romane e delle notizie che gli domandai intorno al
Galliari, al Cogrosso, al Vacca, al Fea, al Gonin, il povero
schiccheratore di fedi di nascite e di morti ne sapeva come le ragazze
che, colla gabassa sulle spalle, comperano gli zoccoli. San Cassiano
si presenta coll'alto peristilio sbiancato: è chiesa di fondazione
antica, di cui le memorie rimontano al 1200. Ma, povera Arte! Ero
insoddisfatto. Per conto mio, ho guardato e riguardato la porta e la
porticina antica dell'albergo d'Europa, con alcuni dettagli di fascie
robuste, tracce di finestroni, la scoltura dei due angioletti che si
baciano, reggendo lo scudo col motto _Ubi Pax ibi Deus_, e i due stemmi
che spiccano sul campo nero d'un riquadro. Il mio pretino,
eruditissima guida, mi perdonerà se taccio del Seminario, del
Palazzo vescovile, della Trinità, dell'Amministrazione dell'Ospizio
d'Oropa, dell'Ospedale, del S. Paolo, del S. Filippo, ecc., mi saranno
invece grati i lettori se dico loro che nella città vi sono 9
fabbriche di drapperia e filati, 12 depositi di lane e rappresentanze
di case estere, 2 fabbriche di maglie, 8 di bordati, 5 di cappelli, 5
concerie, la grandiosa fonderia di ghisa degli Squindo e l'altra dei
Girelli, la nota cartiera Amosso e la birreria di Menabrea. Sella,
Rosazza, Poma, Bozzalla, Garbaccio, Boussu, Trombetta, nell'industria
hanno tanto nome, quanto splendore avevano nei tempi andati i
Ternengo, la casa Lamarmora, i principi di Masserano, i principi della
Cisterna. Benedetto il Cervo e l'Oropa! Sì, il lavoro ferve
animatissimo dappertutto, sia nei vasti fabbricati che hanno 400
finestroni, da dove rombano le macchine più meravigliose del
progresso, sia sotto ai portichetti smattonatì dove le ragazze,
cantando, impagliano scranne o filano colla conocchia della nonna.
Esempio siano: il lanificio Piacenza a Pollone, la fabbrica dei Poma a
Occhieppo superiore, a Miagliano il cotonificio pure Poma, colle case
degli operai costrutte sul modello di quelle di Mulhouse in Alsazia:
esempio presenti la _fia della Nastasia_ al Favaro. Lo dico con
orgoglio: gli stabilimenti industriali di Biella sommateli voi, io
v'ho date le cifre: 190 sono quelli del Circondario (_Guida del Club
Alpino_, ecc.). Si lavora, si lavora, si lavora, ognuno secondo le
proprie forze: i figli della _fia di Nastasia_ un di mangeranno il pane
che sa di sudore onoratissimo e di lucido acciaio strofinato e di
grasso abbruciato, se pure non lo faranno mangiare agli altri: il
lavoro ha sempre avuto un premio.

Per controbilanciare il poco bene che ho detto di Biella, come
accoglitrice di cose d'Arte, devo parlare e col massimo piacere di
Biella-Piazza, o sia di Biella alta, un gruppo della città, su un
poggio, dove difficilmente capita il viaggiatore per Oropa. Al sommo
dell'erta salita si presenta un edificio del rinascimento, di gusto
squisitissimo, con finestre rettangolari, fascie dipinte di azzurro,
linee egregie, i campi illustrati da storie belligere, gli occhi di
bue, e sotto la gronda le tracce elegantissime degli archetti che
sporgevano a sostenere il tetto. Di sotto al sudiciume, alle moderne
manomissioni, all'opera del tempo, esce un profumo d'Arte gentile,
corretta, spigliata. Di chi fu quella casa? Ho domandato invano.
Nell'interno c'è la fabbrica di maglierie dei Guglielminotti:
domina la sbiancatura e l'adattamento. Nell'istessa viuzza, su cui
dà il fianco, s'incontrano delle fascie di terra cotta, due o tre a
frange trilobate, una a targhette, grifoni e flessuoso svolgersi di
foglie. Il palazzo del principe della Cisterna mostra l'architettura
salda e già capricciosa del cinquecento: portone col poggiuolo
marmoreo, finestre col timpano spezzato e i busti, colonne bozzate, e
all'alto un loggiato d'arconcelli coperto. Lo dicono anche _il
Castello_. Nell'interno ho visitato una torricella colla scala a
chiocciola, i solai spaziosi, adorni di una porta acuta a fascia di
terra cotta, lo scalone nudo, a cui è unita la tradizione della
_morte segreta_, un muraglione cioè pieno di coltelli e trabocchetti,
e finalmente i saloni. Il palazzo è ridotto a filatoio. Ma bisogna
ancora vederle quelle travature, quei freschi a chiaroscuro che
ricingono le somme pareti, quel camino eretto sugli orecchioni, colla
cappa scolpita, ornata, dorata, colle statue sedenti e gli stemmi e
gli stucchi e i finestroni! Bisogna immaginare il decoro sontuoso
degli arazzi, dove ora sporgono le cornici di legno spezzate e i
chiodi ritorti: i mobiloni di noce, le seggiole di broccato, i
ritratti degli avi, dove ora s'ammucchiano i telai spezzati!
L'_ambiente_ è austero. Citerò anche la chiesa di Sant'Anna che
doveva esser bella, se non intervenivano a vituperarla pennello e
cazzuola, sì che pare che i santi del Gaudenzio Ferrari e le sante
stecchite fra le colonnine d'oro spirali, pare rimpiangano i buoni
tempi. Attiguo c'è il palazzo Ternengo, con un cospicuo archivio
patrio, si dice. Poi c'è il Palazzo del Comune, la casa Lamarmora,
quella dei principi di Masserano, ora stabilimento idropatico. Dal
Piazzo volevo scendere in Vernato per gustarvi un bel quadro antico, e
poi a San Sebastiano attratto dal _Cristo_ del Ferrari, dall'_Assunzione_
del Luino, dalla _Trinità_ del Moncalvo, e da altri dipinti di scuola
lombarda e vercellese, che avevo già veduto l'anno scorso: ma
l'amico che mi accompagnava si diceva stanco all'aria della città.
È vero, è calda, è noiosa. Vogliamo respirare.

Giacchè ho incominciato la tiritera parlando di monti, finirò
rendendo il mio omaggio alla simpatica Biella e facendo voti pel suo
Club Alpino. Fu istituito dal signor Giuseppe Corona, è presieduto
da Q. Sella, diretto da Corona Giuseppe e Lodovico Garzena, Amosso,
Pozzo, Prario, Vallino, Vercellone. L'illustrano Sella, l'astronomo
padre Denza, il vescovo Losana, l'erborista Zumaglini. Per un pezzo io
ho avuto tra le mani la Guida edita dalla Direzione: da Piedicavallo,
dall'Alp Pianell, dal Colle della Mologna grande, dal Colle di
Loozonèi, dall'Alp Ober-Loo, da Lomatta, da Gressoney, dal Colle
d'Ollen, da Alagna, da tutti i luoghi in cui verificavo l'ore del mio
orologio con quelle notate dalla Direzione su quel libricciuolo
carissimo, mandavo un saluto a quegli egregi che, istituendo la
società del Club Alpino, preparano all'Italia uomini sani,
entusiasti alle bellezze grandiosissime, desiosi di scuole tanto
larghe, quanto l'anfiteatro dei monti. E di nuovo un saluto!



II


Dopo che abbiamo chiacchierato tanto, vi parrebbe tempo, o signori, di
fare una passeggiatina? Vi sono torrenti scroscianti che c'invitano,
freschissimi castagneti, gruppi di frassini, pendii, scese,
scaglioncini da giardino inglese, frane dirotte, ciclami nicchiati
sotto ai massi stillanti, stradoni e stradette mulattiere, ponti
altissimi e _plance_ traballanti, paesotti, manifatture e castella e
storiche memorie: di lontano sempre i sommi deserti delle Alpi. Volete
carrozze? Biella ne ha a centinaia. Volete cavalli? Eccovi bestie
membrute, colle gaie sonagliere. Volete camminare da alpinisti?
Provvedetevi un paio di scarpe dal calzolaio Crosa di Via Maestra.

Dove si va? All'Ospizio di Oropa. In questo ci arresteremo un po' fra
alcuni giorni: scegliamo per ora le scorse. Si va a Cossila, _lunga e
sottil_, sino allo stabilimento idropatico aperto nel 1858 dal dottor
Vinea ed ora tenuto del dottor Emilio Coda con poco prospere sorti: si va
al Favaro dalla _fia di Nastasia_ e si può salire alla vetta della
Burcina: a Pollone, al grandioso lanificio Piacenza: a Sordevolo, paese
sull'Elvo, dove strepitano le industri macchine del Vercellone, del
Sormano, del Maia, dove ancora si rappresenta eroicomicamente il _mistero
della passione e morte_: all'austero convento della Trappa (1058 m.), fra
le cui tetre rovine d'arcate, di sale, di celle, di refettori, si
scalcinano all'eterno oblio i _moniti salutari_ dipinti; dietro la Trappa
in un piccolo abituro c'è la tomba, colla scritta C. W. 1803, dell'ultimo
di quei laboriosissimi monaci agricoltori: si va all'Ospizio di Graglia,
di cui ciarleremo più sotto: ai due Occhieppo: al villaggio di Graglia:
al castello di Gaglianico, donato nel 1152 da Federigo imperatore al
vescovo Uguccione, il fondatore di Biella-Piazzo: al castello di
Moncavallo: alla vetta del Bricco e al castello di Ternengo, a
Pettinengo, a Mosso: ad Andorno, a Sagliano-Micca, all'Ospizio di san
Giovanni, pei quali luoghi prometto tre ciarle: si va alla Colma
d'Andorno, ai tre Turlo, alla Bocchetta della Sessera: a Tolegno; alle
castella di Perrione, di Verrone, di Valdengo, di Perretto, di
Castellengo, di Repolo, di Masino, d'Azeglio... Volete altro? Non finirei
più: e vi dico che queste sono tutte scorse bellissime che soddisfano
tutti i gusti. La signora troverà la strada comoda o la carrozza, o
strillerà capricciosamente sulla sella dei muli: la ragazza avrà i
fiorellini, i maschiotti le noci da rubacchiare e i prati dove
scorrazzare, saltando le rustiche barriere. C'è un poeta nella comitiva?
Canterà le _chiare, fresche, dolci acque_: intanto che il prete
sberretterà cento cappelle colla Madonna negra, l'uomo serio calcolerà i
_cavalli-vapore_ della tale e tal'altra macchina, l'innamorato, che non
manca mai, vedrà la gonna diletta sventolare voluttuosamente alle
frizzanti aure dell'Elvo, dell'Oropa, del Cervo, e il botanico
incomincierà e proseguirà per non finire:--_Cyclamen europæum, rudici
orbiculari, foliis synanthiis cordato orbiculatis obtusiusculis
denticulates subzonalis lacitis corollæ lanceolatis corollæ fauce
integra. C. æstivum Reich, excurs. 407, C. litorale Sadler. C. officinale
Wend. C. retroflexum. Moeneh apud Duby_... etc. Dove lascio me? Io avrò
sempre da sorridere alle lapidi dei morti e alla formica, che, arrampica,
arrampica, arrampica, vuole scalare i dadi di pietra degli antichi
castelli. Poveri morti e povera formica!

Ho promesso due righe per l'Ospizio di Graglia, per Andorno, Sagliano
e San Giovanni: la sosta la faremo all'Oropa.

L'Ospizio di Graglia sorge a 826 m. sul livello del mare, su di un
colle verdeggiante, fra monti verdeggianti, e signoreggia una pianura
verdeggiante che muore nel glauco nebbioso dell'orizzonte, dall'Elvo
fin oltre il Ticino e a Milano. Ed ecco le Alpi Graie, il Monviso, la
catena degli Appennini, Superga, la cupola di san Gaudenzio di Novara,
l'aguglia del nostro Duomo: e sotto sotto i villaggi dall'Elvo alla
Serra. E per la povera penna la descrizione è finita: nel calamaio
ho solo il nero sbiadito dell'inchiostro e l'acido dell'aceto, negli
occhi ho il sole fulgidissimo, coloritore, diffuso, nel cuore ho una
mestizia indefinita: tra gli ampi spettacoloni e la mia povera pupilla
sempre si pone una lente colle iridi più care, una bella lagrima e
ben calda.... Dite quello che volete: ma è così, e così ho
imparato solitariamente ad amare Madre Natura. L'Ospizio ha una
facciata greggia, con un piccolo corpo avanzato nel mezzo, cioè due
loggiati sovrapposti a tre archi, e un terrazzo al sommo: su un fianco
i mattoni addentellati promettono la continuazione dell'edificio:
dall'interno s'alza una cupola di 38 metri, a foggia di un torrione.
Non squilla nessuna campanetta pei nuovi venuti: non s'invoca nessun
santo, nè si scioglie voto: chi arriva a piedi trova che l'ingresso
al santuario è l'ingresso a una trattoria. L'odore delle bistecche
sale su ai tre corridoi dei tre piani, ove s'allineano gli usci delle
camere ospitali. La chiesa è costrutta secondo la forma di una
croce greca, un po' squallida, un po' fredda, colle pitture della
cupola fatte da Fabrizio Calliari e una statua in legno della Madonna.
Il tutto insieme che aspetto ha? Un aspetto tranquillo, polito e,
diciamolo, melanconico. A me ha fatto l'effetto di una solitudine in
una gran solitudine. Il passeggiare nei freschi corritoi mi sembra una
occupazione da fraticelli vecchissimi: fra il toc-toc degli orologi a
torricella, le gerle delle guide che sono andate alla chiesa o a
succiare l'acqua della fontana, fra i busti dei benefattori, le lapidi
degli insigni visitatori, leggiamo l'uffiziolo, quieti, strascicando
le ciabatte larghe, cogli occhi imbrogliati dal sonno della pace,
passandoci la mano grinzosa sulla testa pelata che luccica di riflessi
d'avorio.... Ah che vita!... O fraticelli, non falliamo l'uscio delle
cellette: elegantissime signore vengono all'Ospizio nei mesi d'estate
e d'autunno, e vi rimangono nove giorni, lasciando al decimo sui
mobili la cipria rosea, e nei cassettoni quei profumi nobilissimi,
indizio ch'è passato un serpente: è vero, entrando in una camera
così abbandonata di fresco si è persino rispettosi dinnanzi al
grande disordine sparso da una piccola manina, e si soffre caramente
un ignoto abbandono, e si ama la cipria e l'_opoponax_. Verrà la
lercia fantesca, affagottata come una monaca, a spolverare i mobili
colla scopa, a spargere il suo tanfo di sudore e di sacristia. D'altro
non so dirvi, perchè non ho letto il libro del teologo Marocco:
_Rimembranze di un viaggio da Torino a Graglia_. Dall'interna piazzuola
sotto il giro degli alberi, dopo avere fatto un sonnellino
ristoratore, colla pancia al sole e la testa all'ombrìa verde, ho
dato uno sguardo alle poche cappelle che vanno su su al monte,
abbrustolandosi al meriggio. Le statue in terra cotta del Tabacchetti
non valevano due soli degli svolazzucci dorati che dal collo
lanuginoso della nostra guida, la _Main_, scappavano sotto le trecce
attorte della gentilissima testina. Povera figliuola! Rammento la sua
tinta bruna, gli occhi ingenui se guardavano, pudichi se erano
guardati, il sorriso confidente dei sedici anni, e quel mento e quel
collino da gran dama! Aveva il suo fazzoletto, la pezzuola, il
corsetto, la gonna, il grembiale, tutto a modo, tutto per lei: due
sole cose mi facevano compassione, le scarpacce e la gerla: quelle
parvero dirmi:--Noi costiamo tanto e tanto!--e questa:--Ho portato
delle colazioni, con molta roba di Dio, su alle cime pei gran signori
che mangiano coi guanti: ma la mia povera padroncina all'inverno,
quando mi colma di legna gelate e mi fa ballare giù, giù giù,
fino al Favaro, trova una minestra lunga e bianca bianca....--Ah,
signori miei, non mi commovo alla polenta ruvida, al latte coagulato,
ai formaggi duri, anzi per me le considero come leccornie capricciose
d'un giorno all'anno, ma la minestra che fa scaldare le mani attorno
alle scodelle, che si mangia a cucchiaiate, che fa tanto bene allo
stomaco, l'auguro saporita a tutti, massime alla povera gente! E in
tutti i giorni dell'anno!... Quando la _Main_ fosse stata sposa (e glie
lo desideravo presto), mi pareva che un grande garofano dovesse su
quei capegli spirare l'aperta allegria di un mattino di maggio, e lei,
volgendo la testina all'insù a prendere ingordamente il sodo
bacione di un bersagliere del Favaro, lei dovesse mostrare tutto il
suo collo, candido di sotto, rispettato dal sole. Sì, _Main_, io ho
amato le tue trecce bionde, lo ripeto ancora, attorte dietro la
testina, e la medaglietta d'Oropa che si perdeva giù fra le modeste
pieghe della tua camiciuola. E ti rammento Graglia perchè là eri
lieta, sollazzevole, senza pensiero. Un dì forse racconterò la
brutta istoria delle tue lagrime, io che le ho viste cadere sulle tue
manine, come le prime gocce di un grande uragano. Non avevi mai
pianto, povera capretta dei monti!

Sino da quando io ero alle prime scuole, fra i _doveri morali e civili_,
che imparavo a sillabare, come tipo di un dovere sublime, mi
giganteggiava innanzi la figura nera di un soldato, di cui mi pareva
rammentarne l'uniforme, coi nastri alle bottoniere, la grande tracolla e
la miccia bituminosa e fumante. Pietro Micca era giù nel sotterraneo, fra
i barili di polvere: suonavano i picconi dei nemici sempre più vicino:
crepitava la fiamma della miccia nel buio. Si udì uno di quei sospiri che
fremono come l'aria del liberissimo mare, quando sembra sdegnoso di
confini: la piccola fiamma--sicurissima--avvampò. Poi successe il caos
che tuona, l'inferno che strugge, sbattendo le ruine al cielo, la
tremenda ridda delle mille viscere squarciate e palpitanti, i rivi di
sangue sulla terra abbrustolata e fessa, i cervelli oscenamente incollati
e le ossa scheggiate. Torino è salva! i francesi distrutti! la rocca è
saltata! Io leggevo e rileggevo quel racconto, e con me i piccolini
sillabanti finivano a guardare il vecchio maestruccio che piangeva.
Eravamo nel 1859: a chi è di già agghiacciato a certi entusiasmi valga
qualcosa la data. È giunto il tempo in cui io ho potuto pellegrinare nel
Biellese a visitare la casetta del martire minatore: ma il mio povero
maestruccio ha finito di addentare mozziconi ultimissimi di sigari e
giace sotto fra le quattr'assi: come l'ho ricordato!... Sagliano-Micca è
la continuazione del borgo d'Andorno: un paese di 2300 abitanti, colla
solita via maestra a case belle e brutte, alcuni lanifici, stabilimenti
di filature, 600 operai fabbricatori di cappelli, un collegio-convitto, e
giù il Cervo strepitante che si mesce alla Moreccia. La casa del Micca dà
in un vicoluccio: due muretti e una scala, ecco tutto. Non vi fila la
vecchia discendente dell'animoso, ma una vecchia Madre, la Patria,
sublimemente silenziosa e presente, sembra alla religione invocare la
santa illusione di una seconda vita. Che Pietro Micca ritorni al suo
focolare e vegga! Ch'egli ancora santifichi questo santuario degli
Italiani! Ch'egli viva eterno giacchè è morto colla fede dei primi
cristiani!... Sei lapidi fregiano gli scheggioni storici della casetta:

_Entra e vedrai il marmo--che ti addita l'umile abituro--del gran
minatore Pietro Micca._

_Pietro Micca--il sesto giorno di marzo 1677--trasse in questa casipola
i natali--il ventesimonono di ottobre 1704 impalmò Maria Pasquale
Bonini--da cui venne allietato del figlio Giacomo--e la memoranda
notte del 29 agosto 1706--allo sboccar delle schiere francesi--nella
vegliata rocca di Torino--incendiando animoso le mine--ostia
volontaria s'immolò alla patria--ammirate nel saglianese--un Codro
novello._

_Amedeo Maria di Savoia duca d'Aosta--il quarto giorno di agosto
1864---visitando non ancora quadrilustre--la casipola di Pietro
Micca--mostrò--di nutrire i sensi del generoso--che alla vita
antepone la patria--ridestò negli animi la speranza--di nuove
glorie all'Italia--e fece atto di viva gratitudine--verso il soldato
pel cui eroismo--la corona ducale fu conservata--e la regia posta in
capo--ai principi di Savoia._

_Giuseppe Garibaldi--il diciannovesimo di giugno 1859--pria di avviarsi
alla guerra italica--inspirandosi all'abituro dell'eroe biellese--il
cui magnanimo sacrificio--salvò il Piemonte dal franco invasore--vi
appose in omaggio del generoso--un serto di fiori--arra certissima del
serto d'alloro--che avrebbe incoronata la fronte--all'eroe niceno--le
cui mirabili gesta tanto conferirono--a redimere la Lombardia--dal
teutono oppressore_.

_A Pietro Micca--morto a difesa d'Italia--contro l'invasione
straniera--nel loco ove nacque--alcuni modenesi--crociati per la
indipendenza della patria--pronti all'armi al cessare della
pace--questa memoria--1848._

_Alla memoria di Pietro Micca--morto eroicamente--nel compimento di un
santo dovere--alcune donne--delle diverse provincie d'Italia--come
esempio ai figli--posero questa lapide--il III agosto_ 1876.

_Salve--Pietro Micca--vera gloria d'Italia--di santissimo
eroismo--splendido esempio--Te fra gli itali campioni--la storia
illustra ed eterna--e Sagliano che ti diè culla--sull'abituro reso
grande da te--nel secondo centenario di tua nascita--pone riverente
questo ricordo--addì 27 agosto 1876._

L'esempio del Micca ha valso: un secolo dopo di lui Giacomo Antonio
Pasquale nelle milizie napoleoniche seppe meritarsi il vanto d'esser nato
(1778) in Sagliano: a Ronzon in Aragona nel 1813, minatore e
sott'ufficiale del genio, con 100 soldati combattè fiera guerra
sotterranea contro 3000 spagnuoli, non cedendo il forte che
onorevolissimamente, dopo la caduta di Lerida e di Maquinenza..--St'anno,
non so perchè anticipandolo, s'è celebrato il secondo centenario del
Micca: non ho veduto apparecchi in Sagliano: so che ci furono discorsi e
banchetti, ma principalmente attesto che il maggiore Pasquina del 17°
fanteria, dalla festa ritornato al nostro stabilimento idropatico, fu
salutato con sincerissimi evviva: egli mostrava fregiato il suo petto da
due medaglie al valor militare e dall'altre delle campagne
dell'Indipendenza. Nell'esercito italiano si continuano le tradizioni
memorande del piccolo esercito piemontese.

Andorno è borgo antico: fu donato dal vescovo Liutprando, da Carlo
il Calvo alla chiesa vercellese, riconfermato da Ottone III: nel 1378
dal vescovo Fieschi venduto a Ibleto di Challand: un anno dopo per la
spontanea dedizione si affidava alla mano leale di Amedeo VI di
Savoia. Il castello colla torre fu un'antica commenda dei cavalieri
gerosolimitani: ora guarda giù, rintonacato alla moderna, e vede le
industrie animose, svariate, produttive: esempio massimo il
cotonificio di Miagliano. Lo stabilimento idropatico (600 m.) così
bene diretto dal dott. Carlo Corte, così frequentato dai milanesi,
flagella le sue docce su morbidi corpicciuoli, candidissimi e nervosi,
dove un dì borbottavano incappucciate e insaccate, giallissime e
linfatiche, le monache cistercensi: e dove si chiudeva come in un
castello l'arcigno vescovo Fieschi, sui bei giardini della montagna,
sugli spiani claustrali scorazzano sanguigni giovanotti, inseguendo
farfalle... o fanciulle. La natura intorno vi è mesta: giù prati
con salici, dossi boscosi di castagneti, edifici bianchi e rumorosi
opifici, e folte case e cielo compiacente. Vi paiono luoghi che
conoscete da un pezzo, che avete visti e stravisti, dove avete letto
l'Aleardi e fumata la prima sigaretta, per piacere alla prima _fiamma_
vagabonda sulle rive a cercare il fiorello azzurro _non ti scordar di
me_... Vedete anche il grano turco che vi rammenta le aie e le canzoni
lombarde e le melanconie erotiche alla luna, quando _lei_ colle sue
manine voleva cavarsi il capriccio di scartocciare le pannocchie:
vedete le viti coi grappoli dell'idillio; _lei_ che vivrebbe anche d'un
grano solo al giorno se... Vedete le patate. In altra occasione vi
farò della poesia, per ora no, e vi dico che la natura di Andorno
sta a questa di Oropa precisamente come una fanciulla brianzuola ad
una donna alpigiana.--Ad Andorno è nato nel 1707 e morto nel 1794,
il valente pittore di prospettiva Bernardino Galliari, che
_all'eccellenza dell'ingegno, semplicità di costume, bontà e
religione accoppiando, colle opere sue dentro e fuori d'Italia il suo
nome eternò_. Così l'iscrizione sul suo sepolcro nella chiesa
parrocchiale.

L'Ospizio d'Andorno è detto di San Giovanni ed è assai insù
nella valle del Cervo, ad un'ora e mezza di vettura dal borgo. Il
Cervo colle sue acque battezza una generazione laboriosa, amantissima
del focolare paterno, dalla montanara, che coi calzoncini di panno
(_vireire_ o _virùi_) sui pendii scoscesi delle prealpi, suda alla
raccolta del fieno selvatico (_siùn_), agli imprenditori, ai maestri
di muro, agli opranti, che colla certezza delle braccia robuste e del
cuore gagliardo, corrono l'Europa, vanno in Algeria, si fanno lodare
all'istmo di Suez. La montanara abbella il suo _alp_ con qualche
medaglietta di San Giovanni e d'Oropa: i nuovi arricchiti innalzano
ville sontuose e cooperano all'edilizia pubblica, aprendo stradoni,
costruendo ponti, facendo segare marmi e pietre per cimiteri e chiese.
La valle è magnifica: montagne verdeggianti e dolci, poi rocciose
ed erte, piene di paesetti come nidi selvatici, ricche di borghi alle
comode falde, capricciose e franate nelle insenature, dominatrici
dalle cime, cave squarciate e pascoli e torrenti diroccianti, e in
fondo il Cervo colle lavatrici, le gore, le furie, le lingue secche di
sabbia, i labirinti dei ciottoloni, le corna delle scheggie, le spume,
le pennellate d'oltremare e le velature d'asfalto, i capricci
dell'artista e le calcolate architetture dei ponti. Signori miei,
questa è Svizzera. Fumano le allegre gole degli alti camini e
rumoreggiano gli opifici con gagliarda festa di lavoro: consoliamoci,
questa è Italia!

L'Ospizio è un luogo tranquillissimo, romito, senza sfoggio
d'architetture, poggiato tra il verde; Nessuna severità: ci si
potrebbe arrivare con sei cavalli! Tre casette con portici tozzi, una
quarta a quattro piani, un altro fabbricato, chiudono per tre lati una
piazza colla fontana, un terrazzone da cui la vista signoreggia giù
per la vallea. Ci sono entrato da un sentiero nicchiato sotto ai
faggi, se potessi dirlo, una corritoia di verzura: l'Ospizio mi ha
abbarbagliato gli occhi, cacciandomi dentro mille punture di luce,
mille serpentelli, mille zigzag, colla sferza del suo sollione. Oh che
sollione! Diventano verdi le tonache dei preti, e rosee le guance
delle monachelle. Dell'esterno della chiesa vidi i capitelli di marmo
bianco di Mozzucco, la statua del protettore, la facciata che a
sinistra s'appoggia sul petrone di San Giovanni, e leggendo le
iscrizioni _Vox clamantis in deserto--parate viam Domini_, pensai che
questo Ospizio deve procurare poche _novene_ cenobitiche in onore del
suo santo, finchè avrà l'albergo Peraldo, fatto apposta per
trasgredire il gran precetto del digiuno, punto primo per pulire a
nuovo le coscienze. Nell'interno della chiesa c'è il cattivo gusto
del seicento e del settecento: nel cupolino il pennello di Fabrizio
Galliari vuolsi abbia superato l'opera del cupolino di Graglia. La
Guida del Club Alpino cita, ed è giusto, i due evangelisti e la
nascita del precursore del Bernardino Galliari, cita la cappelletta
scavata nella roccia, e così soddisfa, se non gli amatori
dell'arte, i curiosi e i pellegrini, i quali non capiranno mai la
bellezza di quel lumicino scoppiettante in quell'umido eterno: ma la
Guida tace, e non so perchè, nella seconda o terza cappella di
destra, quella tavola delicata, ingenua, dolce e robusta a un tempo,
che è chiusa nella sua cornice azzurrina ed oro, di stile
elegantissimo rinascimento.--Che effetto m'ha fatto questo Ospizio?
Dico chiaro e tondo: la devozione non m'è apparsa nè a Graglia,
nè qui: là capitai in ora di pranzo, qui pure. Vidi gente che
mangiava a quattro ganasce, gente che fa la sua vacanzetta di nove
giorni coll'alloggio _gratis_, vidi poca poveraglia, preti tozzotti,
fantesche ruvide, pretenziose provincialette, e qualche _alpenstock_ che
ambiva fregiarsi coi nomi della Mologna grande o della _pcita_, o del
Croso, o del Maccagno, giacchè dall'Ospizio vi sono i passaggi per
Gressoney, per Valle Sesia, per Alagna. Buon appetito e buon viaggio.



SUI MONTI.



I.


                                        Da Gressoney (1310 metri).

Ti scrivo dalla più simpatica cameretta che sì possa abitare.
Pareti di larice rosso, un gran lettone, per tappeti delle pelli di
camoscio, nel catino un'acqua ghiacciata, e dalla finestretta qual
vista! Compererei questa cameretta, per non so quante mila lire, a
patto di starci tanti anni, senza un pensiero, senza un rumore
fastidioso, così come sono, innamorata dei silenzi dei boschi e
delle valli,

L'alberghetto châlet, colla gronda sporgente e le grandi _lobie_ di
legno, è posto su un dolce pratello nel fondo della gran valle
della Lys: alle spalle s'ergono i boschi di larici e scroscia una
grande cascata, di fronte ancora boschi e cime; in fondo il campanile
di Gressoney, il ponte, il torrente lattiginoso; in fondo ancora il
Monte Rosa, coi ghiacciai del Lyskamm, e la Vincent-Pyramide, lo
Schwarzhorn, il Ludwigshöhe, il Parrospitze, il Signal Kuppe. La
valle della Lys è dei più bei luoghi dell'Alpi ch'io mi abbia
visto. Questo hôtel-pension Delapierre è una casina lucida,
specchiante, poetica.

Il comune di Gressoney tiene tutta la vallata, da Trina fino ai
ghiacciai. Trina che trovasi a mezz'ora da Gressoney Saint-Jean, offre
un alberguccio modesto, ove chi vien giù da Oropa sarà contento
di trovare buona birra e all'uopo anche un letto. Gressoney
Saint-Jean, quantunque distante un tre ore dai ghiacciai, è molto
conosciuta nel mondo alpinistico. Fu eretto qui il primo buon albergo
delle vallate alpine del versante italiano. Quivi fanno capo i
passaggi della Valdobbia, dell'Ollen, della Pisse, del Lyskamm, della
Betlina, della Betta-Furka, della Ranzola, e altri. La punta di
Zumstein si denomina da un valligiano di quel nome, che tradotto in
francese dicono Delapierre.

Curiosa è questa vallata per la confusione di favelle che vi si
odono, dal francese al tedesco, con tutte le gradazioni intermedie di
dialetti.

Due delle escursioni più belle da Gressoney, sono la salita al
Granhaupt, per la sua vista sul Monte Rosa, e l'escursione al Grand
Plateau sul ghiacciaio della Lys, molto interessante.

Un magnifico viaggetto in due tappe porta a Zermatt in Isvizzera:
prima tappa a Fierg per la Betta-Furka; seconda tappa a Zermatt per le
cime Blanches, Ghiacciaio di Aventina e quelle del Teodolo, facile e
bellissimo.

Rimontando la valle, s'incontra la frazione di Gressoney la
Trinità, indi Orsia, d'onde si dipartono i sentieri per la valle
della Sesia da una parte, per la valle d'Ayas dall'altra. Adesso mo
interroghiamo monsieur Delapierre: egli ci distingue _«les promenades
et environs, les ascensions principales, les voyages»_ soggiungendo che
_«l'ont tient des mulets, des guides pour la comodité des
voyageurs.»_ O amica mia, quali passeggiate! Che bellezze! Alla cascata
de l'Oobach, alla Cours de Lys, alla punta de la Rum, all'Ober e
Montil Alpenz!

Le ascensioni possono spingersi alla Punta dei tre Vescovi, al Corno
Bianco, al Monte Nery, al Colle di Liskamm, al Corno del Camoscio.

E i viaggi? A Pont-Saint-Martin, a Brusson, a Châtillon, ad Alagna,
a Maglia, a Varallo, a Piedicavallo....

Vedi, amica cara, io non mi starei quieta finchè sul mio _alpenstok_
avessi tutti questi nomi, che per te sembrano appena appena nero sul
bianco, per me sono quel che sono!

Che vita si fa, e che società c'è? Qui la cura è quella
_dell'aria_. Ci alziamo presto e apriamo la finestra, poi scendiamo
giù nel piazzaletto avanti l'albergo. Chi s'aspetta? Di che si
ciarla? Una compagnia è partita per una gita: vogliamo vederli al
ritorno. Che fiori ci porteranno? Ci conserveranno una manciata di
neve? ecco tutti i nostri pensieri. S'entra nella sala: chi suona il
pianoforte, chi legge i libri inglesi, chi spoglia gli album dei
passeggeri. A tratto, dèn dèn, s'ode la campanella. Arrivano
degli alpinisti, colla sacca sulle spalle, il lungo bastone, il _plaid_,
i calzaretti a stringhelle. Donde vengono? Dove vanno? Se potessimo
seguirli su ai ghiacciai! Ecco i nostri pensieri. Esce loro incontro
madama Delapierre a dire che le spiace molto, ma se vogliono
alloggiare non ha più posto; però se s'accontentano alle
_dépendances_.... Ride la ragazza che loro serve di guida Ed essi
mostrano sul Rosa, qualche larga pezza di serico bianco. Dormire? Essi
fanno la cura _del moto_. Buon viaggio! Lasciano sull'albo i loro nomi.

Sono da Milano?--Li conosci?--Sì, no.--Chi possono essere?--Io
credo uno d'averlo visto a una festa in casa ***--Sì, sì,--Bel
giovanotto!--Già.--Perchè già?--Eh!... Si ride. E ridono le
mamme. Intanto tornano i giovanotti, portando per regalo, quali il
_mignin_, quali la _concordia_, quali la _vaniglia_ e la viola dell'Alpi.

Si ciarla a colazione, in questo refettorio di gaudenti, si ciarla
tutto il giorno nella sala, sul piazzaletto, sulle _lobie_, si passeggia
e si ciarla prima di pranzo, facciamo toletta; e poi ciarliamo a
pranzo. A pranzo tu vedresti freschissime vesti bianche, pettinature
d'ottimo gusto col fiore alpino, gioielli preziosi, trine delicate, e,
quel che più importa, visini allegri, nobili, capricciosetti. Qui
vi sono molte signore torinesi, una signora milanese, che villeggia a
Broni, la inglesina, la francese e la Y X.

Siamo in fondo a una valle, passano dinnanzi povere contadine vestite di
panno rosso e vecchie insaccate di panno nero, vediamo picchi e
ghiacciai; pure, amica cara, qui a dopo pranzo si risuscitano come cose
attuali le mode, gli spettacoli, i pettegolezzi della città.... Si
spogliano giornali di moda e cronache segrete.... Dove sarà la marchesa
T. di Milano?--A Chamounix.--E la poetessa P. A. R. di Faenza?--Mi dicono
ai bagni di mare.--La marchesa-alpinista D. M. di Genova è
all'Oropa.--Chi sarà alla _salute_ di Cannobbio?--La V. di Milano e la
contessa S. di Bergamo.--Mi dicono che all'Oropa ci siano dei colonnelli
bellissimi e simpatici.--E ad Andorno molti milanesi.

Sfogliamo le cronache segrete:--Perchè l'Y un anno è ammalato di nervi,
un altro di stomaco, un altro di gambe, e va un anno all'Oropa, un altro
anno a Santa Caterina, un altro al mare?--Perchè?--Perchè all'Oropa, a
Santa Caterina, al mare è andata la X.--Indaghiamo questa X.--Veste
sempre all'inglese, ha il parasole-alpenstok, predilige la penna d'aquila
nel cappellino.--Ed è ammalata?...--Di cuore!...

E qui uno scroscio di risa maliziose e contente.

                                                                TEA.



II


                                        Da Alagna (1205 metri).

Ho passato l'imponentissimo Col d'Ollen (2909) ed eccomi alla tanto
rinomata Alagna: un paesetto cacciato giù, nella Valle della Sesia,
ai piedi delle Due Gemelle. Come sono cari questi _châlets!_ Murati
al piano terreno, che serve per stalla e cantina, s'alzano in legno di
larice rosso, ricinti nei due o tre piani da ballatoi assai sporgenti,
e finiscono con un grazioso cuspide, qualche volta frangiato. Ma
bisogna vedere le finestrine, le panche, le balaustrate, le scalucce!
Sembrano costrutte per i pittori o per gli innamorati.

All'ombra dei larici quale tranquillità! Per queste straduzze quale
oblìo! La chiesa spicca col bianco campanile e colle sue mura fra
l'intonazione bruna e violastra della valle. E vicino, anzi intorno
alla chiesa, si stende il cimitero colle cappelline della Passione.

Mi dicono che la prima capanna sia stata costrutta da un Enrico
Staufacher: la piccola colonia crebbe a poco a poco, diventò
paesetto, si spopolò per le emigrazioni degli Alagnesi in
Isvizzera, in Francia, in Germania, in Ispagna, ma gli esuli volontari
tornarono ancora e con danari acquistati coll'arte dell'intagliare
legni e dipinger soffitti; il paese s'arricchì, l'amore al luogo
natìo è spiccatissimo e gentile. Alagna vide sorgere belle
casine e decorarsi la sua chiesa.

Ora ha il villino Grober e lo _châlet_ del cavalier Farinetti,
delizie da mettere nella scatolina colla bambagia.

Immaginati un paesaggio alpestre: picchi, foreste di larici, casette
che sembrano inerpicate, mucche pascenti, gruppi di pecore, cime
scoscese, aspre, abbrustolate, eppure sparse di neve, immaginati il
Monte Rosa che giganteggia dominatore.--E le macchiette? Uomini colle
calze groppose e gli zoccoli di legno, ragazze vestite di scuro, colle
pieghettine sulla schiena, vecchie curve sotto il carico di legna o di
fieno.

Passa anche qualche Fobellina, il cui costume tradizionale è
pittoresco e notissimo. Una specie di grembiale ricamato s'attacca su
quasi fino al collo, la cintura è altissima, di sotto la corta
gonnella sporgono le calze di panno o di maglia, come s'usa nella
Valle del Cervo (le _vireire_ o _virtù_).

Alagna è quartiere di grande concorso per gli alpinisti, essendo il
centro ove convergono molti passaggi: Col d'Olen, Col della Pisse,
Passo del Turbo, Passo della Piana, Col di Mond, Col di Rima, ed altri
meno frequentati. La salita alle vette più importanti del Monte
Rosa non è praticata da qui.

Da Alagna si può stringere l'_alpenstok_ fino a.... a...
interroghiamo il signor Guglielmina, buonissimo albergatore
dell'eccellente _Monte Rosa_: ci risponde che ci sono a fare escursioni,
passeggiate e viaggi.

Il viaggio sarebbe a Varallo per Mollia. Da Alagna a Mollia vi è
una strada mulattiera che segue la Sesia, pittoresca, ora fra prati,
ora su roccie; da Mollia a Varallo ventisei chilometri si percorrono
benissimo in vettura.

Escursioni da metter la scintilla elettrica nel cervello sono quelle
al Corno Bianco pel lago del Tailli, ai ghiacciai della Sesia, alla
punta delle Loccie per vedere Macugnaga, al Colle del Turlo, a Rima, a
Fabello, a Zermate, al Riffel.

Vuoi passeggiate? Si va a Riva-Valdobbia a vedere la grande pittura a
fresco della chiesa di Melchiorre d'Enrico d'Alagna, eseguita nel
1597, a godersi la magnifica vista del Rosa; si va alla cascata
dell'Otro (metri trentatrè), all'Orrido, al Corno di Stoful,
all'Alpe di Bors e di Von Decco, all'Alpe del Campo e di Von Sattel,
alla cima des Kuffers Grod. Ti mostrerà fotografie, ma non c'è
macchina, non c'è carta, non c'è nitrato d'argento che possa
darti una mezza idea di questi luoghi. E poi! questo _patois_ tedesco e
francese ti fa parer d'essere su nella Svizzera famosissima.

L'albergo di Guglielmina ti dice come la gente onesta e laboriosa si
abbia sempre un premio.

Passano e ripassano alpinisti di tutte le provincie; vi si fermano per
un mese o due delle famiglie milanesi e torinesi. L'anno scorso
avevamo insigni e pomposissime signore, decoro dei nostri bastioni, e
molti signori. St'anno ebbimo anche il distinto archeologo A. C. e un
duca inglese con un nome che mi suona aspretto, ma celebre.

L'albergo ha belle camere, eleganti corritoi, lieto salone da pranzo,
simpatica sala da conversazione: vi trovi mescolato il larice alle
pitture, le sbarre di legno alle dorature delle sbarre di di ghisa, il
carattere montanaro al _comfort_ esigentissimo cittadinesco.

Avrei tante cose a dirti: ma sento una certa campanella che mi fa fare
un salto di gioia.... Arriva qualcuno? Chi arriva?

Arriva la zuppa fumante, e chi impugna l'_alpenstok_ sa come si stringa
volentieri anche il cucchiaio.

A rivederci,

                                                                TEA.



DA RECOARO.

(NOTE COL LAPIS.)



I.



                                                5 agosto 1880.

Quando un mio amico, chimico-farmacista d'archiginnasio, mi tirò
fuori da uno scaffale polveroso il librattolo di messer Giovanni
Graziano bergamasco, professore di medicina a Padova, e me lo
spalancò dinanzi, sì ch'io vi lessi _Thermarum Patavinarum
Examen, Patavi MDCCI_, e quando mi citò le disquisizioni
dell'Arduino, del Lorgna, del Mastino, io confesso che non mi vidi
innanzi agli occhi (e come no?) altro che il conte Lelio Piovene da
Vicenza, lo scopritore della fonte che ancora ne conserva il nome, e
Fulgenzio e Domenico Griffani, usurpatori di essa; e il Serenissimo
Principe, e i Provveditori, e i Pregadi, gli ufficiali della sanità
pubblica, tutti riuniti in consiglio, una folla negra di parrucconi
grigi, coi musi nascosti dai ricciolotti tiepoleschi, inferraiuolati,
arcigni, incollarati, misteriosi. Mai, mai, mai non avrei sognato di
vedere, nemmeno fuggitiva come un baleno, la faccia sorridente così
gaia e la strettissima toletta bianco e nera di quella nostra signora
milanese.... Amici miei, neppure le iniziali del nome vi dò: vorrei
solo potervi dire il fascino di quelle linee elegantissime, il gusto
di quella semplicità, l'audacia di quell'abito, che una signora mia
conoscente dichiara il più bello e il più nuovo st'anno sin qui
veduto a Recoaro. Il conte Lelio sullodato quand'ebbe scoperta l'acqua
salutare, deve aver sorriso mestamente, pensando ai cento malanni
della misera umanità, e deve aver sognato solo volti scialbi di
montanari e di pastori, giù scendenti dalle Alpi Retiche, col
melanconico brontolìo del rosario sulle labbra. Ma sì! Se egli
avesse potuto ficcare gli occhi sino a noi! Avrebbe veduto, in groppa
agli asinelli, le più care signore, felici di svelare una scarpina
col tacco all'Efftein, e gli eleganti giovanotti felicissimi di poter
loro tener la staffa; i buoni papà e le mamme che lasciano
volontieri sviarsi tra i crocchi dei caffè e dei piazzali le loro
ragazze sui diciassette, e i bimbi allegri, vestiti alla marinaresca
che già offrono cavaliermente il braccio alle signorine, e i mariti
che domandano: _dov'è mia moglie?_ e le mogli che non domandano:
_dov'è mio marito?_ e i patriarcali piovani che sono sempre pronti e
convinti a dire che tutto succede con permissione del Signore. Che
festa! che gaiezza! che profumo di gioventù e di lusso! E quante
speranze di confetti e quante benedizioni dal cielo! Il patrizio
vicentino avrebbe veduto saloni elegantissimi per caffè e concerti;
stabilimenti idropatici; alberghi d'aspetto svizzero, coi maggiordomi
dalle basette all'inglese, colla tabella piena di titoloni, di
contesse, di marchese, di duchesse.... E la villa Tomello l'avrebbe
veduta quel cittadino d'una serenissima repubblica, la bianca villa
che accolse e ancora deve accogliere la prima e la gentilissima Regina
d'Italia? E avrebbe sognato, tra il basso fragore del torrente Agno,
bisbigli di donna per lo meno in sette lingue e ciarle e riso e
armonie di concerti musicali?

Pace nell'altra vita a quel conte Lelio: e pace in questa ai mariti e
ai babbi che mettono mano alle borse!

* * *

Con questi quattro scarabocchi io non pretendo di cucirvi una
corrispondenza: vi mando delle note a lapis e se potessi vi darei
più volentieri degli acquarelli che ho pennellato sul mio albo. La
via provinciale che da Vicenza conduce per Tavernelle a Recoaro è
lunga 42 chilometri e con due cavalli l'ho percorsa in quattro ore. Le
montagne, i campi di granoturco, i cascinali, i prati, somigliano
affatto a quelli della sponda dell'Adda tra Lecco e Bergamo: solo i
vigneti hanno un aspetto diverso, perchè le viti sono arcadicamente
maritate agli olmi. I binari di un _tramway_ si vedono già collocati,
una macchina sbuffa potentemente e fra pochi giorni sarà aperto al
pubblico un servizio opportunissimo fra Tavernelle e Valdagno. Nel
lungo paese di Montecchio v'è il palazzo Cardelina, un esastilo
grandioso, d'inspirazione Palladiana, con statue, scalee, muraglioni,
cancellate, ma quasi deserto e mestissimo. Su un colle si veda la
fastosa villa del cantore epico dell'_Italia liberata dai Goti_, il
Trissino: e su su due castelli che dai crepacci delle mine sembrano
l'uno ringhiare verso l'altro con astio feroce: la tradizione li dice
i manieri dei Capuleti e dei Montecchi.

Una fermata a Valdagno, scrive l'egregio dottor Schivardi, è di
rigore: e nota che è capoluogo, borgata, con una bella piazza Roma,
il giardino dei conti Valle, le fabbriche di panno del signor
Manzotto.

Io mi compiaccio ad osservare delle poderose facciate di case del
secolo XVI, con balconi in ferro o parapetti a fogliami traforati in
sasso; vedo dei gustosi martelli di porta, e per la prima volta
disegno dei mascheroni o meglio delle testaccie tonde e scipite di
greci e di turchi, sporgenti dagli archivolti, come _serraglie_
bizzarre. Da Valdagno a Recoaro la strada si fa ripida, i monti
giganteggiano, il verde è intenso: tutta la valle si restringe.

Recoaro (da _Recubarium_, luogo di riposo, o da _Rex aquarum_, re delle
acque) fino agli ultimi anni del secolo XVII non era che un paesucolo
composto di gruppi di casolari qua e là sulle pendici delle Alpi
Retiche. Ora è un paesotto; meglio è un solo albergo, un solo
caffè, un solo stallo...

* * *

Chi sono e dove sono i Recoaresi? Tra questa folla in cento abiti,
dalle foggie date dalla nostra Chaillon alle vestaccie affagottate
delle alpigiane tirolesi, tra il sonare di otto o dieci lingue e la
babele di cento dialetti, fra il va e vieni delle carrozze, il
tempestare delle unghie degli asinelli, e gli inviti: _paron! paron!
paron!_ io non so dirvi chi sono e dove sono i Recoaresi. La scena è
pittoresca; il paese lungo, la via erta, le case affatto moderne e
come quelle della riviera ligure, la chiesa piccina e tutta bianca, il
campanile grosso, tozzotto, degno d'un proposto capo pieve, una casa
col tetto a quattro pioventi, un po' acuminato, la gronda a
volticciuole e l'aria di un torracchiotto; in fondo le allee che a
zig-zag vanno alle fonti, il santuario di Santa Giuliana raccosciato
come tra il verde; a sinistra, quasi sempre incoronata di nubi, la
vetta dello Spitz, e giù l'Agno dalle acque saponacee e dal letto
sassoso, e a chiudere la scena, aduste, violastre, cornute, le
formidabili alpi tirolesi.

Dello Stabilimento Giorgietti, del piazzale, dei divertimenti e delle
cure vi parlerò un'altra volta.

Per ora, prima che si muti la folla degli ospiti, mi faccio premura
ricordarvi che c'è qui il simpaticissimo e spiritosissimo Pompiere
del _Fanfulla_, la contessa W. alla villa Tonello, la marchesa P. di
Venezia. E infine dico alle lettrici colla massima gioia che, fra la
tolette di vera eleganza, noto sempre quelle delle nostre gentilissime
concittadine, signora C., signora M., signora S.



II.


                                                11 agosto 1880.

Il buon milanese che, vergognoso, solo, rincantucciato nel fondo di una
vettura, arriva sulla piazza della Fonte Lelia, allo stabilimento del mio
amicone Giorgetti, e guarda l'orologio e vi trova segnate le 6,30 dopo il
mezzogiorno non può a meno di consolarsi, dicendo:--Qui fra i monti si fa
presto sera. Almeno domani la _Sagra_ sarà finita, e tutto sarà in pace
per la mia cura felice. Che festa è quella d'oggi sul calendario?--Sì, le
mie signore lettrici: a 6.30 le campane di Recoaro tampellano giù nella
vallata con un suono maestoso e lieto: sulle allee trottano a torme gli
asinelli bardati, e i mulattieri vociano nel loro festosissimo dialetto;
davanti alle cento trabacche variopinte una folla oziosa brulica con un
ronzio da vincere la voce del Prechel dirocciante nelle tane dell'Agno:
là le grida dei venditori e le risa delle compratici: qui un'ondata di
musica e un acciottolio di tazze da caffè e... È appunto qui che proprio
il nuovo arrivato non s'arrischia a dare un'occhiata: ma è appunto qui
per sua condanna che deve discendere dalla vettura, e sgranchirsi, e
pigliarsi il fascio dei paracqua, dei parasole, dei bastoni, e far calare
le non stemmate valigie, e cavare di tasca il telegramma del Giorgetti
che ieri gli assicurava una camera... ritarda persino il maggiordomo!
Quelle 6,30! benedetta ora per gli stomachi deboli! Proprio sotto la
_verandah_ d'ingresso v'è il crocchio del dopopranzo, le ciarle graziose,
i bisbigli crudeli, i commenti arguti. Qui le scarpine proterve che
batterebbero i tacchi anche sui frantumi di un paradiso, pur di correre
ad un trionfo d'orgoglio: le calze nere e bianche, e carnicine, quanto
pii schiette, tanto più superbe: qui la seta stupenda, i percali
capricciosi, i velluti, i merletti antichi, le foggie studiatissime e le
semplicità insidiose, i colori, i profumi, le linee olimpiche e le
birichine audacie del Watteau: qui le candide manine straricche di
anella, e le braccia nude, dal colore della cardenia, misteriosamente
affogate nelle trine e roseamente tormentate dalla depressione dell'oro
massiccio dei braccialetti... Il nuovo arrivato non ha coraggio di
arrischiare un solo sguardo su quei volti femminili, e maledicendo al suo
stomaco, al suo fegato, alle sue febbri intermittenti, si dice condotto
nel regno della vanità, non nella severa valle d'Igea. Buona notte
all'amico. Siccome è un figliuolo tanto giudizioso, ed ha la guida alle
acque di Recoaro, prima di soffiar sul lume, legga quanti malanni
affliggono l'umanità fisicamente e ricordi quanti altri la percotano
moralmente, e poi si rassegni a pigliare il mondo com'è. Sognando qualche
bionda testina di veneziana, con un garofano di Vicenza alle treccie, una
collana di perle al collo, pensi a sant'Antonio, che solo, nel deserto,
meditabondo ed arcigno, doveva sbadigliare fino a sgangherarsi le
mascelle. E ciò è poca lode di messer Domeneddio, che, creando Recoaro,
lo volle proprio sacro ad Imene ed alla Salute; ei volle che la vita qui
fosse animatissima, come una perpetua sagra, senza santi di calendario:
il giorno rallegrato dalla festa del sole, dalla vista dei monti, dallo
scroscio dei torrenti; il crepuscolo vespertino poetizzato dalle gite sui
somarelli pei viottoli deserti, e la notte dedicata alla musica, alla
tombola, alla danza.

* * *

E si fa sera--la sera solenne dei monti. Le cime aduste e stagliate
mano mano prendono le tinte violastre che fondono in un velo solo le
frane, i torrenti, le insenature, le gobbe, gli ruffii selvatici, gli
scaglioni, i torracchiotti: giù per i pendii vestiti di boscaglie,
una fredda oscurità cancella i contorni dei faggi, dei castagni,
dei pioppi, e versa il solo verde cupo della solitudine; i pratelli
erbosi sembrano aggelati da cento rivoletti che, gorgogliando dalle
chiuse e perdendo il luccicore, per tane e bugigattoli si smarriscono
giù in fili bisbiglianti; i falciatori tornano soli e senza canzoni
su pei viottoli di sassi ammontati e sui sentieruzzi guazzosi,
sciacquano i falcioni alle cascatelle, e si dilungano tra i macchioni
dei castagni, dove s'alza un filo di fumo color cobalto da un
tettuccio di tegole muscose. Il cielo è del più intenso azzurro,
profondo senza un fiocco di nube; e la prima stella sembra aprire e
chiudere, ammiccando, la sua pupilla di luce, quasi mesta fra tanta
pace, fra tanto silenzio, fra tanta solennità di morte. L'uggioso
guaiolare di qualche cane, qualche lontanissimo muggito, il fragore
basso dell'Agno: ecco i saluti di questo deserto che si addorme, che
si sprofonda nell'oscurità, che ha i fremiti degli abissi e i
sussulti del vento.

* * *

E si fa notte--la notte lieta dello stabilimento Giorgetti. Il
mercante turco attraversa il piazzale con un paggio non maomettano che
gli regge religiosamente il _narguilè_ e s'abbatte coll'ambasciatore
russo: una signorina francese che fuma la sigaretta getta uno sbuffo
che va a sfioccarsi fra le tese di un tricorno da piovano bergamasco:
un professore col cappello a tuba cede la destra ad un _musseto_ che
trotta colla sua greppia: due dame che combatterono per la toletta, si
passano vicino e la gonna della trionfatrice fruscia ironicamente
sulla coda della vinta: un giovanotto _incendiato_ ed ardentissimo
s'incontra col _Pompiere_ del _Fanfulla_ e, guardate combinazione! una
signorina accetta il braccio e il bisbiglio di un signorino. Ma chi ve
la dipinge tutta questa folla! Sul piazzale si addoppia la vita alle
prime battute di una quadriglia. Il prezioso filo d'acqua del conte
Lelio Piovene, là sotto un portico del settecento, nella nicchia
umida, ferrugginosa, magnesiaca, con un lumino scoppiettante a lato,
sembra piangere di dover colare giù nelle bottigliette che si
spediscono a Milano, a Venezia, a Verona, lui che la salute la
vorrebbe regalare _in luogo_, accompagnato dall'allegria e dal corteo
degli asinelli. Il ringhioso leone repubblicano, dagli archi bugnati,
guarda giù, come un protettore, e se a vece del messale di San
Marco, stringesse l'altro storico di Recoaro lo dovrebbe aunghiare un
po' meno crudelmente, perchè ci sono pagine di color roseo e
celeste. La folla si versa nel salone del Vicentino; là la tombola,
i lancieri e le ciarle. E l'amico milanese, che non ha osato guardare
le teste femminili, là le vedrebbe innondate di luci e di sorrisi,
contornate da capelli biondi, neri e castagni, tante volte adorne
nobilmente di mazzolini di _edelweiss_, di ciclami, di margherite, di
grappolini di sorbo! E la cura? la cura felice, per cui s'è mosso
l'amico, affrontando sette ore di ferrovia, i pericoli di un tramway
snodato come una biscia, le scosse di una vettura a capponaia? La cura
non ha orario e non ha metodo e non ha noia. Bevete e bevete.

* * *

Uno sguardo all'elenco dei forastieri ed ho quasi finito. Abbiamo
avuto qui tanto corone da far invidia al fondatore dell'archivio
araldico del Vallardi: i nuovi venuti da Milano sono il marchese C., i
conti T., la nobile B.; da Torino, la contessa B. di G. e il
commendatore V.; da Bologna, la contessa A. Volete anche della
politica alle acque? È arrivato quel nostro insigne concittadino,
che è il senatore G., prefetto di Verona, l'onorevole O.,
l'onorevole R., e il nostro marchese V., se pure egli non desidera
d'essere posto fra i filarmonici.

* * *

Proprio l'ultime righe e ho finito. A Vicenza ebbi il piacere di
conoscere quel cesellatore famoso, queir ageminatore, quello
sbalzatore, quell'incisore che è il Coltellazzo. Come a lui,
così a voi non nascondo un mio schietto convincimento: il nostro
Gaggino a Milano è più amoroso dell'antico, è più ingenuo,
è più fino; ed oltre all'arte del fare, conosce gli accorgimenti
sagacissimi dell'irrugginire e dello sdrucire. Il Coltellazzo è
creatore e libero: il Gaggino è archeofilo. Concludo dicendo che
tra questi monti, a Valdagno, ho conosciuto un dotto istoriografo
della vallata, il signor Giovanni Soster, il quale raccoglie
documenti, pubblica monografie, incetta cose antiche, sì che la sua
casa può dirsi un piccolo museo di memorie locali.

DA SCHIO

(NOTE COL LAPIS.)

20 agosto 1880.

Da Recoaro, per Rovegliana e i sentieruzzi montani, l'arrivare a Schio
sul dorso di una somarella orecchiuta, coll'armoniosa compagnia di un
_mussaro_, che, menando botte da orbo sulla groppa paziente della
_barberina_, fa rimbombare anche la nostra carcassa di ventiquattro
costole; e lo sdrucciolare di sella colla disinvoltura di un pievano
che stringa sotto le ascelle il parapioggia di cotone rosso e finisca
di sonnecchiare sull'eterno salmo dell'eterno breviario non deve punto
garbare alle mie gentili signore, che conoscendo già Schio, non
possono soffrire di vedermi tanto goffo e impacciato da non rispettare
i civili costumi di questa città dell'industria, sì moderna e
sì famosa. Accetto il consiglio: _Wer reisen will, tret'an am
frühen Morgen und lasse heim die Sorgen!_ rinuncio agli sproni e
alla nobile gualdrappa, prendo a nolo una prosaica carrozza, mi ci
accomodo poltronescamente, e mi lascio trascinare sulla strada
maestra, che corre ai piedi dei monti, fra colti e vigneti; dolcemente
passa un _colle_, per selvette cedue di castagni e massi lucenti di
micaschisti, e, per valloncelli e distese di campi, attraversando i
paesi di Malo e di San Vito, ci conduce a Schio.

* * *

Malo, con circa 3000 abitanti, presso la sinistra riva del Torlo,
antico feudo dei vescovi di Vicenza, è un paesotto lungo lungo, che
qua e là presenta qualche facciata di casa a linea severa, qualche
finestra coi vetrucci tondi, qualche porta di tipo schietto, insomma
qualche dettaglio che sa meritarsi uno sguardo da noi, avvezzi
all'uniforme e merciaia pezzenteria di tante nostre borgate, a cui la
ferrovia portò la secchia dell'imbianchino e i portenti artistici
del ferro fuso. Se Malo sia proprio stato costrutto nel secolo VI dal
gotico Amali e se la classica chiesa parrocchiale sia fondata sulle
mine di un castello, lo domanderei al gentilissimo signor I. Rossi dei
Club alpino italiano, a lui che mi fece imparare per queste valli
tante belle cose antiche, ed io tutte le perdetti di memoria, quando
sì fieramente e sì potentemente sussultai di gioia e di
meraviglia nell'opificio di Schio. Così pochissimo so dirvi di San
Vito: che sia stato percosso dalla peste del 1630 lo lessi in una
lapide nel muro del cimitero: che conservi nella chiesa parrocchiale
alcune pale del Maganza, lo credo benissimo, giacchè lo trovo in un
libro stampato.

* * *

Schio, con circa 10,000 abitanti, con giurisdizione distrettuale su
quindici comuni, giace lungo il torrente Leogra: a nord ha i monti
Novegno e Summano; ad ovest, il Corneto, il Bufelan, la Cima di Pasta;
a sud-est, la pianura veneta. Il Leogra, unitamente al Gogna, per
mezzo di un canale, detto la Roggia, dà ai terreni una rete
irrigatoria per più di 700 ettari, e agli opifici una forza di
oltre 800 cavalli. L'agricoltura qui non spiega alcun sistema
particolare: anzi, il lombardo che è abituato ad ammirare
meritamente i propri latifondi, come una mappa, sì ordinati,
geometrici, proficui, qui si scontenta nel vedere le viti inacidire i
grappoli, nascondendoli nelle chiome amiche degli olmi, il grano-turco
soffocato nell'ombre, i gelsi lasciati egoistici padroni dell'aria e
della luce, le falde delle montagne improvvidamente disboscate. Ma il
visitatore tace quasi a sè stesso il suo malumore, perchè al
disopra di questo arruffio di verde e sullo sfondo delle montagne
denudate, vede sorgere le immense torri che sbuffano il fumo del
carbon fossile e l'alito possente delle macchine a vapore. È Schio!
Quando si pronuncia il nome di questa città, non pare possibile si
possa dire _Schio antica_ e _Nuova Schio_. Schio antica? mi osserverete
anche voi con fare dispettoso. Ho capito benissimo. Lascio quindi ai
foglietti del mio taccuino le annotazioni su alcuni particolari dello
stile gotico-francescano (secolo XV), sugli stalli di legno (1504) e
sulla Vergine del Verla (1512), che vidi nella chiesa di San
Francesco; certe altre sul San Nicolò, nel 1536 dato ai cappuccini,
sulla Santa Trinità (secolo XV), sull'antica rocca, distrutta nel
1512, e sul tiglio secolare. Ricordo solo il nome del domenicano
Giovanni da Schio, morto verso il 1266, il predicatore alla famosa
pace di Paquara; quello di Gerolamo Bencucci, benemerito a Giulio II,
Leone X, Clemente VII; quello di Giordano Pace, precettore d'Ippolito
Aldobrandini; di Francesco Gualtieri, pittore; dei due valorosi
Manfron: di Bernardino Turinzio, letterato e fondatore dell'Accademia
olimpica di Vicenza; di Francesco Grisellini, che fu nel secolo scorso
segretario della nostra Società patriottica... Chiudo i fogli del
mio taccuino, condannando al vostro oblìo tanti altri nomi
illustri, perchè voi, le mie signore, vi spazientite quando io
piglio la penna d'oca del professore, e, badate! torcete anche la
faccina dal muso riccioluto di messer Nicolo Tron, patrizio veneto,
che, col busto sì impettito, dalla sua nicchia rococò sul
palazzo municipale, guarda giù la Schio nuova, come un nonno la sua
nipotina diletta. Ma io vi condanno a prendervi l'inscrizione latina e
il numero romano. _Nicolao Trono, equiti divi Marci, utilium artium
patrono scientissimo, primi Scledi mercatores m.h.p.p.a. MDCCLXXII_.
Questo magnifico signore, per la Repubblica ambasciatore in varie
contrade d'Europa, dall'Inghilterra, dall'Olanda, dalla Francia,
imparò a conoscere e a derivare macchine, sistemi opranti per
l'arte della lana, che, stabilita in questa vallata nel secolo XIV,
subiva le fortunose vicende della vita politica italiana. Per opera
sua principalissima, nel 1738, sotto la firma Stal e Conig, coi
capitali di vari soci, sorse un opificio con 44 telai, 500 impiegati
nell'arte, su 4000 abitanti di Schio, nel luogo ora occupato da parte
della sezione Rossi del Lanificio, verso il giardino, sulla via
Palestro. Subite varie mutazioni, l'opificio di Schio, nel 1818 pel
prezzo d'it. L. 7800, era arricchito del primo apparato di macchine a
cardare, per opera del benemerito signor Francesco Rossi, il padre
dell'illustre senatore Alessandro, unitosi allora in Società col
signor Eleonoro Pasini, padre del geologo fu senatore Lodovico. Per
parlarvi dell'industria dei pannilani dovrei farvi un grosso libro di
economia e di meccanica industriale: e in mezzo a quei mastri di
Mercurio tra un fragore di Vulcano, coll'entusiasmo mezzo artistico,
mezzo poetico, tutto italiano, di un giovane che si sente trascinato
ad inneggiare alla strapotenza del progresso, come raccapezzare
un'idea? I magazzini sembrano una dogana di città mercantile, le
macchine a vapore con ritmo possente scuotono le gallerie, i telai
danno una completa immagine della celerità, dell'ordine, della
perfezione; gli operai hanno l'aria severa di chi sente la coscienza
del primo dovere dell'uomo, il lavoro. Più di 500 persone, dice il
signor Rossi, sono occupate, nelle due vallate del Leogra e
dell'Astico, per l'arte della lana, e in massima parte dalla
Società del Lanificio, fondata nel 1873, per iniziativa del
senatore Alessandro Rossi, col capitale di 24 milioni di lire. Ed
eccomi coi nomi del Tron e dei Rossi, a parlare della _Schio nuova_. Lo
scopo del fondatore di questa città del progresso fu di rendere
possibile all'artiere di diventare proprietario, a poco a poco, di una
casa sana, comoda, libera, costruendogliela o cedendola al costo.

Così, 16 ettari di terreno sono per più di metà occupati da
costruzioni, o isolate, o unite, od aggruppate, con orti, corti,
giardini; e non c'è quella monotonia che incoglie nella città di
Sir Titus Salt, Saltaire, dalle larghe strade, dalle piazze ornate di
sontuosi edifici pel culto e per l'istruzione, dall'elegante parco.
Monotoni non saranno i quartieri ad Essen, ma ivi, come a Saltaire, le
case, date a pigione dalla ditta industriale, non sono acquistabili.
Oggidì a Schio le case nuove sono presso a 100; gli abitanti 500,
di ogni condizione. L'illuminazione è bastante, copiosa l'acqua; le
vie macadamizzate, e, tranne la principale che è comunale, son
tuttora in manutenzione privata.--Così si espresse il signor
Francesco Rossi nel 1878: come io debba modificare i suoi dati non so
precisamente: certo è che Schio nuovo, sulle cui mura è
scritto--_il lavoro e il risparmio nobilitano l'uomo_--cresce e
crescerà e starà a modello di civile progresso e di vera morale
educativa. Non vi sono taverne col tanfo del vino e dell'acquavite,
nè gazzette colle acri fermentazioni dei romanzi e della falsa
declamazione, nè spassi romorosi che facciano perdere la
tranquilità dell'onesta vita dell'artiere. Ma vi sono le Scuole
elementari, l'asilo, l'ospizio di maternità, la Palestra, il Bagno,
il Lavatoio pubblico, il Panificio, ecc., ecc. Il sentimento che si
prova visitando questi luoghi è tutto di dignità e d'amore.
L'Asilo solo meriterebbe un libro popolare che lo illustri: la
direttrice è la madre dei bimbi, le signorine istitutrici ne sono
altrettante sorelle, la educazione, mirando tutta al cuore, sembra la
più facile, la più persuasiva, la più proficua, per questi
figli d'operai che sino dai tre anni sono avvezzi ad aver sottocchio
il Nazzareno soave che invita a sè i piccini, e che grandicelli,
nell'opificio tergendosi il sudore, leggeranno la scritta della
massima morale, civile e religiosa:--L'operaio e il padrone sono
eguali dinnanzi a Dio.



SANT'ANNA.


                                        (Cannobio) 10 Agosto 1881.

Ecco, sbarco dal piroscafo, attraverso la piazza dell'_imbarcadero_ vedo
sì e no il nostro Conte Gilberto Borromeo, il nostro giovane
letterato, l'E. B. e senza voler interrogare se c'è ancora sotto
questo cielo quella gentilissima signora milanese, la L. C., dalle
trecce nere, e quella bionda figlia di Genova la superba... (Niente!
niente per ora!)... e senza voler sapere, dico, se i bagnanti alla
Salute siano proprio oltre il centinaio,--salgo su pei viottoli del
Cannobio... Al monte! al verde! all'azzurro! E la strada dopo i
colatoi fra casetta e casetta, i portici semibui, le faccende delle
botteghe, l'umida tenebria di un lavatoio e le spavalde accigliature
di un torracchiotto, la strada esce fuori a sgranchirsi tutta al sole
e a distendersi nella valle, qua ombriata da un profluvio di verde,
là sciacquata quasi dai torrentelli colla sabbia argentina....

Passo dinnanzi allo stabilimento, dò un'occhiata alle muriccie su
cui siedono cinque o sei giovanotti, ascolto un nome di un bell'astro,
sbircio un lembo di paradiso fulgido e gaudente in gonnella e un mondo
sciancato, sbillicante, riottoso al moto, e su e su e su... vado a
sciogliere il voto alla mia Sant'Anna di Traffiume.

* * *

Sono solo.

Ecco il paesaggio mi si allarga dinanzi. Monti a destra, monti a
sinistra, monti di fondo. I frassini, i tigli, gli aceri verdeggiano
in sinfonia sul davanti e si fondono cromicamente colle nebbie
azzurriccie della valle Cannobina: alle falde, qualche striscia di
sentierucolo nei colti, qualche bugigattolo nelle vigne, qualche tocco
di rosso in una macchietta all'ombra d'una siepe: su nel folto del
bosco, le linee taglienti delle strade alle valli. E in alto il riso
azzurro di un cielo profondissimo.

Allo svolto di un muretto, dove finiscono gli scheggioni ammucchiati
del viottolo e cominciano le fughe serpeggianti delle scorciatoie sui
pratelli; ecco un suono di campana... O Sant'Anna benedetta!

Nello stesso paesaggio di toni verdi e freschi ecco uno specchio
lucente su un fondo translucido e sabbioso, di qua una parete di rupe
a picco e bruciacchiata dagli uragani, di là un'altra massa
fantastica di torracchiotti, di gobbe, e di arruffaglia, nel mezzo un
anfratto nero, come la portaccia dell'ignoto, e su a cavalcioni
dell'abisso, un ponticello bianco, due ciuffi di verde, e una
chiesuola--la mia chiesuola col suo campanile a berrettaccio di mago e
la sua voce tutta santa, tutta cara, tutt'ingenua, come la preghiera
d'una mandriana.

E su, e su, e su. Dal ponticello si spia giù quell'orrida spelonca
dei primi e mostruosi misteri tellurici: le pareti levigate dalla
rabbia delle alluvioni, gli spacchi angolosi dei terremoti, i morsi
giganteschi delle bufere, le bave isputacchiate dall'acque e le rogne
dei licheni, i rovai dalle foglie sanguigne e la cupa opacità delle
caverne, e il torrente senza colore, senza pace, senza pietà, che
si storce, si gonfia, si avalla, si morde, si flagella e rimugghia con
una sola nota di tinta e di suono--lo spavento.

* * *

Sono solo.

E quando la campanella ha cessato i suoi rintocchi, per raccogliersi
pensierosa come negli echi della vallata, mi pare.... È o non è?... Mi
pare e non mi pare di udire una cantilena che vien giù dal bosco, un
suono basso di accordi e un suono argentino quasi di lamenti... È una
preghiera... Sì, sì... Ed ecco qualche cosa che si fa spiare dall'occhio:
un brulichio lungo, lentissimo, a pochi colori. È una processione. Sì,
sì, una fila, due: c'è qualche lume abbacinato, qualche crocione d'oro,
qualche cotta scialba di pievano, e qualche giubba verde di sindaco o
qualche stendardo rosso...

Sono dugento povere donne montanare, bronzine, robuste, nei loro abiti
scuri e colle scarpaccie di panno: sono altrettanti mariti e padri e
fratelli e figli, abbruciati, tozzotti, colle tonache delle
confraternite a zone rosse e gialle, a zone verdi e nere.

Sono alpigiani di un paesello della Val Vegezzo. Da quasi un mese si
è inaridito il filo d'acqua vicino agli scheggioni delle loro
capanne, e per sè e pei bimbi e per la mandra vengono giù ad
implorare una Madonna del Gaudenzio. Non hanno più schiuma nei
torrenti delle valli native, e per non cadere ancora sfiniti colle
otri sulle spalle pei sentieri calcinati dal sole, arrivano colle
gonne groppose e sudate e colle croci sulle spalle e le croci nel
cuore, a strisciare contro le vostre sete profumate e i nostri
paraseli di pizzo...

Oh che dite le mie signore, che sorridete, il dito mignolo in aria e
l'anulare carico di gioie, frugando con una pagliuola nel fondo di una
tazzona ghiacciata?

* * *

Non son più solo.

Una signora si fa portare una seconda tazzona e fra un sorso e l'altro
mi dice che alla Salute c'è la gentile nostra contessa Dal Verme,
la bellissima Signora P. A., la augusta signora T. M., e ci fu là
brillante nobilissima L. C., e in un crocchio a lodare il mio amico
architetto Giachi per le sue opere edilizie intorno alle doccie, le
signore M. C., F. A., E. B. L'egregio nostro barone Galbiati mi
racconta che lo stabilimento è pieno zeppo e la vita che vi si
conduce è molto quieta di giorno, la cura e i lamenti pel caldo...
e qualcuno dice anche per le bistecche; a sera un po' di musica,
qualche trillo di fanciulla dilettante, qualche commento solitario ad
una romanzetta in _core e amore_, alle 10 1/2 a letto. E tutto è
finito. Vedrem.



IL CONVENTO DI PONTIDA.


Ritorno ancora colla mente all'antico convento: e m'aggiro in que'
luoghi, cercando un posto solitario ove raccogliermi ad ordinare ed
esprimere le mie vive impressioni.

La storia vi lasciò il dignitoso suggello delle memorie: il genio
dell'artista desta gli echi del passato col fremito del presente.
Così è: la polve giace polve, ma la favilla dell'Arte risuscita
le anime e riscrive nel volume della vita dell'oggi le passioni delle
remote età. I grandi avvenimenti sono come grandi colonne, travolte
nel fiume del tempo: le acque passeranno e passeranno, e l'oblìo
cancellerà sempre i languidi profili del passato: ma a chi si
affaccerà a contemplare la immensa massa dell'acqua, fremeranno
sempre, rigurgitando, almeno colla spuma, le onde, sovra i ruderi
sepolti.

L'uomo può dirlo?... Ohimè! egli lo spera! L'uomo è l'atomo
turbinato dal tempo: e la Vita, grande poetessa con una missione, o
inconscio giullare del caso, sembra compiacersi a creare i contrasti.

Il convento di Pontida venne edificato da Alberto di Sogra, in
occasione che si ricostruiva la chiesa del villaggio, che è pare la
presente. Alberto stesso ne fu primo priore, e per consenso dell'abate
di Cluny vi fece osservare la regola cluniacese. Nel 1121 vi morì
prete Liprando, il prete famoso, il quale nei tumulti avvenuti in
Milano per la quistione del celibato ecclesiastico, ebbe mozzi naso e
orecchie: lo stesso che per provare la _simonìa_ dell'Arcivescovo
Grossolano si offerse di passare in mezzo al fuoco,

Nell'anno 1119 il Comune di Milano ampliò notevolmente il convento,
e vuolsi vi aggiungesse un ospedale. Nel 1167 vi fu giurata la santa
lega: io ne vidi le lapidi memorande: sembravano scolpite colle punte
delle spade: _Foederatio longobarda Pontidae.--Monaci posuere_. Nel
1372, divenuto asilo de' guelfi bergamaschi, fu assediato e distrutto
da Barnabò Visconti. Nel 1492 i Benedettini di Santa Giustina di
Venezia subentrarono ai cluniacesi, obbligandosi a pagare annualmente
alle Procuratie 150 ducati aurei. Nel 1798 fu soppresso e fatta la
vendita de' beni.

A' nostri dì, in quel convento, pei corritoi e per gli androni
strillano i bimbi, e dalle porte delle celle vedi le mamme curvate sul
paiuolo bergamasco, impugnando il matterello, lo scettro della
famiglia, e tramestando la polenta d'oro.

Sotto gli archi Sansoviniani del solitario cortile, cantano le allegre
setaiuole, variamente affaccendate: e la fanciulla che tira su la
secchia all'orlo del pozzo de' frati, sorride, contemplandosi in
quello specchio d'acqua oscillante.

Si trova bellina: e il damo de' monti le ha già regalata la collana
di coralli. Ahi! il curato l'ha già vista rossa in volto...

Nelle quattro gallerie, sull'istesso cortile, nelle quali il nome
_Biblioteca_ intagliato su un cappello di porta, richiama alla mente il
vecchio sapere scolastico, senza fremito di vita _«de omnibus rebus et
de quibusdam aliis_,» nelle gallerie regna la sola scienza del
guadagno, e modernamente signoreggia coll'abbondanza di bozzoli
ammucchiati.

--Erano più felici i nostri vecchi? Siamo più felici noi?--Lo
domando al soprastante.

E questi mi risponde.--Colla seta si fanno aspate, faldelle,
trafusole, matasse e matassine, per mettere in commercio.

In uno stanzone vanno e vengono le fanciulle, in un altro squilla
incessante un campanello applicato a quel congegno, per cui si passa
la seta al provino per ben valutarne il tiglio; in un altro fra i
libri mastri, le corbe, i robinetti, le lucerne da filanda, gli
schioppi, i vagoni e le gabbie da caccia, canta tuttodì un merlo
vivace, a piena gola.

Dappertutto è vita: la prosa efficacissima e necessaria si è
sovrapposta co' suoi strati moderni alle lapidi poetiche, illuminate
dalle luci dell'Arte.

Ma dove lascio te, povera chiesetta del convento? È una cosina
graziosa, di stile puro, colla facciata a finissime modanature: la
porta rettangolare, e le due eleganti finestre, dimezzate da un agile
pilastrello a reggere gli arconcelli egregi, rispondono nel cortile
Sansoviniano: due altre finestre, assai semplici fra la semiluce che
accresce il rispetto alle cose antiche, di tratto gettano nell'anima
una corrente di vivissimi pensieri, perchè dai loro bruni telai
lasciano vedere uno spicchio di cielo sereno, smagliantissimo, e
l'allegro fogliame di un orto innondato di sole. Cosicchè peni a
vedere lo sconnesso pavimento, su cui si prostrarono i frati, e sotto
al quale, sopra i loro seggioloni disfatti, immagini gli antichi
scheletri, confusi nelle tetre ironie della tomba: nè puoi godere
il bell'affresco dell'altare, un po' secco, ma sentito; nè la
ricchissima fascia che ricinge di ornati, di figurine, di fantasie, di
colori, le somme pareti della chiesetta.

--Ove saranno tante anime? Quando, proprio qui, dov'io sorrido, elle
supplicavano, si sentivano più forti dell'oblìo e del tempo?...
Ove saranno?... Così a me sempre piace interrogare il mistero.

Rispondono dalle grandi stie allineate lungo i muri i polli chiassosi,
beccandosi acerbamente, perchè l'uno ruba all'altro il posto a
mangiare. Se quei polli mi rappresentano la _folla_, ciascun di essi
è veramente _filosofo_.

Alla bellissima porta si presenta un figuro lungo, un chierico di
sessant'anni, bianco, cogli occhi orlati di rosso, il quale, facendo
dondolare una cotta grigiastra al disopra di un soprabito abbondante,
ci domanda in bergamasco:--Hanno detto che vogliono vedere la chiesa
grande?

--Andiamoci.

Proprio in quel momento dal campanile, che sembra pesare sulla corte,
dal manto del San Giacomo di rame, scoccano gravemente le ore, e il
ronzio si perde sotto gli archi e nel lungo corritoio.

Questo mette capo allo scalone del convento, un convento esso stesso,
amplissimo, solitario, colla sbarra cadente, coi gradini, che, a
volerli popolare di macchiette, esigerebbero una processione da _Corpus
Domini_, a' tempi de' buoni Comuni, nè più, nè meno.

Siamo alla chiesa. Venne fondata nell'anno 861, da Aganone, vescovo di
Bergamo, e ricostrutta verso il 1087. È grave edificio di
architettura gotica, a tre navate, con maestosi piloni, spaziosa, con
un quadro che vuolsi del Palma, ed altri grandissimi. Ma
sgraziatamente fu tocco dalla manìa del nuovo: quindi è discorde
di stili, appesantito nelle volte da poche opportune pitture di
trafori, ripulito dalle memori tracce dell'antichità.

La sacristia risponde alla chiesetta del convento, ed è, com'essa,
bella, elegante, colle linee graziose dell'arte risorta. In un andito
si vede in bassorilievo l'arcigno e potentissimo Lione di San Marco; e
due marmi a rozze figure del disperso sepolcro d'Alberto (1095).

Confesso: in tutti i luoghi percorsi non ho avuto un pensiero che
fosse mio, proprio mio, sempre frastornato da traffici moderni.

Ma c'è nel convento un angolo romito, dal quale l'occhio, posandosi
sul verde de' monti o sul cielo di crepuscolo o sulle abbandonate
aiuole di un orticello, chiama e richiama dall'Ignoto il seducente
bianco fantasma della meditazione: e la Poesia induce nell'anima la
dolcezza dell'assopimento.

C'è un loggiato dove vorrei la mia sosta tranquilla. Un
portichetto, a quattro o cinque colonne, sporge sul melanconico
terrazzo: l'erba cresce sui sentieruzzi, segnati solo da qualche
gentile orma di piede piccino che va ad una siepe di lamponi: un fusto
di colonnina col capitello sorge a vetustissima memoria: una vasca
d'acqua nel bacino immoto e nerastro riflette le foglione di una
zucca: i ragni tessono i loro fili d'argento. Di fronte il Canto, a
monotoni castagni: lì basso biancheggia, con dolcissimo fascino, la
quieta e rolonda cappella per la Pace: di fianco si allarga la valle,
e il bagliore dorato di un tramonto di settembre involge lutto in un
amplissimo velo da fata...

Come lo ricordo!

Vorrei un seggiolone a grandi borchie, colla pelle che s'accartoccia a
lasciar sfuggire l'imbottitura, vorrei un coroncione da frate sul
dossale, e un arazzo a' piedi, e un liuto con una corda spezzata, e
due fiori appassiti. Vorrei stancarmi nel contemplare e nel pensare:
vorrei chiudere gli occhi a poco a poco, e aprire l'anima ai sogni e
sentire una musica che blandisce, ed odorare un profumo. Strana cosa
è il sonno!... Sento una calma, un riposo, una vicina oscurità.
Non è poi strana cosa la morte!... Che è?... La oscurità
incombe. Chi ha spezzato le corde al liuto? Quelle rose non erano
fresche al mattino?... Nessuno risponde.



FONTANELLA.


Fontanella è una chiesa, assai antica, in onore di santo Egidio,
alla falda meridionale del Canto. D'ogni parte circondata da solitarie
selve di castagni e da vigneti, su un ermo piazzaletto fra la più
triste poesia, sorge il rozzo edificio di carattere robusto, colle
finestre che sembrano feritoie di castello, col campanile che è una
vera torre feudale. Il tempo l'ha dipinto colle indefinibili tinte che
sono sulle sue ali. Lungo il fianco sinistro della chiesa, un
portichetto deserto sfonda con melanconiche linee e con un buio
fantastico: qui sotto si allogherebbero tanti seggioloni tarlati, e
qui si aprirebbe un libro da coro, e si indovinerebbero sul pavimento
gli ammuffiti avanzi della stola, delle pianete, delle cocolle, e le
gocce di cera de' funerali, e gli asperges e i secchiolini: su due
mensole al muro posa, polveroso, semiaperto, sconnesso un cofano da
morto... ricordo forse del vicino ossario... Niente di antico qui
sotto; vecchio il loggiato, vecchi i pensieri, cioè coll'uggia
dello squallore. Antichi invece sono gli avanzi di case, sotto un
tappeto d'edera, a destra della chiesa: e antico è l'avello che
giace pesantemente, scaldando al sole il granito, serrando l'ombra e
l'immobilità: non un nome... E la Natura ci irride crescendo
intorno le ortiche dell'oblìo.

--Che cosa è la vita dell'uomo?...

Chi requia qua dentro? Fu felice o infelice? Fu uomo o donna?... Si
acconcia Ella alla idea--_Per sempre?_--In vita si promette ciò che
non è in noi; in morte, ciò che speriamo nell'ultima illusione.

Sul piazzaletto compare il prete del luogo, vestito di verde, come la
speranza... del guadagno... non cerchiamo tanto: egli è felice, colla sua
pipa e le ciabatte e gli incerti; e ci fa invidia. Don... don... don...
(come diamine si chiamerà?) Il messere, insomma, ci condurrà alla chiesa:
cioè alla sua serva, giacchè lui desidera finire quella delizia
anticanonica che ha nella pipa.

Ed è peccato! A Fontanella, mestissima chiesina, avrei voluto
trovare un prete bianco, modesto, tranquillo, e digià arrivato
all'ultima scena della commedia.

Il cortiletto in cui entriamo, seguendo il giro dell'antico colonnato,
ha l'aria tranquilla, rassegnata direi, di un passato che è scorso
in pace, e in pace sopporta l'obblìo; due o tre archi: quattro
finestre; due gelsi; dei rottami; un portico. E qui facciamo una
sosta. C'è una tomba. Il coperchio ha scolpita, giacente
nell'ultimo sonno, una donna di mezza età, coi capegli lunghi, con
una corona in testa da contessa o da marchesa; il manto le è
fermato sul petto levigatissimo da un gioiello; una cintura le
allaccia la sottoveste; e le mani, senz'anello, sono incrociate al
mesto saluto della pace. Il coperchio è quello che di veramente
antico può presentare questa tomba. L'urna male gli si adatta, per
forma, per diversità di pietra, per gli stemmi scolpiti. Giace
sopra un gradino, e sotto un arco, colla data 1419.

Due parole di fretta. Il Pellegrino nella «_Vinea Sacra_» disse questa
tomba esser quella della regina Teutberga, moglie di Lotario, re di
Lotaringia, la quale, ripudiata, avrebbe cercato ricovero fra questi
monti bergamaschi, confortandosi alle parole del beato Alberto di
Sogra. Una scena fra questi e la regina è rappresentata su un
grande quadro della parrocchiale di Pontida. Ma alla tradizione
popolare, e al sasso che serba, sotto un castagno, le certe impronte
dei due, osta la cronologica verità. Teutberga morì verso il 951
e Alberto nel 1095 come dice la iscrizione del suo sepolcro.
Fontanella ebbe un Convento di Cluniacesi, con un abate e dodici
monaci, e un archivio nella torre del castello detta «_la Botta_». Il
Ronchetti ha provato che fondatrice fu una piissima vergine Toperga,
vissuta a tempi di Alberto, ivi sepolta, ed ivi venerata come beata,
in un sepolcro, con otto lampade.

Tutte queste cose, lette, pesate, discusse, per me turbano la pace di
quella tomba. Amo meglio l'indeterminato.

La chiesa è a tre navate, che, colle colonne informi, coi capitelli vari
e tozzi e frammisti, coi grafiti, affermano la impotenza artistica delle
prime costruzioni; il campanile s'alza davanti all'altare maggiore; una
tavola bellissima rappresenta il Rinascimento--Sant'Egidio; gli altri
arredi e la sacrilega imbiancatura suggeriscono alla serva guida la
sapiente esclamazione:--Tutti dicono che è una bella chiesa! Ma sì, se
fosse nuova! se...

Io non sono architetto e studioso per analizzare i particolari; mi
lascio vincere dall'insieme, che è severo, raccolto, pieno di
poesia storica e religiosa. Non domandò la mia fantasia:--Chi
pregò? Come vi pregò?... Il povero uomo passa; il cofano vecchio
e l'avello antico rinchiudono l'enigma della sfinge.

Le rimanenti case di Fontanella io vorrei assomigliarle a certi luoghi
veduti nei sogni, nei quali corre l'occhio e inciampa il piede, e la
luce non è luce, e l'aria vi è morta. Per anditi regolari, per
archi bui, per muraglie a dadi di pietra si giunge a certi bugigattoli
di tragetti e di scale, dove, se al dissopra delle finestrine, se
dalle pareti addentellate, se tra le gronde protese, si vede un po' di
cielo azzurro, sembra un fesso da cui scappa l'anima prigioniera alla
libertà della vita e dell'amore. C'è davvero del bello!... Là
si immagina un trovatore col liuto ad un pertugio di torre per
consolare un dolore, e si ode invece un lungo muggito di mucca e si
vede una fanciulla cho spalanca una stalla. Si sogna forse una donna
melanconica e stanca, e appare un vignaiuolo, barcollante sotto una
corba d'uva, che si sfrega contro le strette pareti della viuzza.

C'è un portico finalmente, dove il sole scalda ogni minima
ragnatela, e ogni fuscello di paglia; c'è una cucina oscura con una
scodella di latte, una facciata di castello, una gran botte, e uno,
due, tre, quattro grappoli d'uva.

E c'è una bionda fanciullina, con due begli occhi e un bocchino,
una cara, tranquilla creatura, che, fra tanta e tanta imponenza
d'antico, accompagnandoci sin presso a una tomba, sorrideva, inconscia
di tutto.

Oh tornerei lassù a baciarla!



MONTI E LAGO.


Sono schietto, schiettissimo e dico la verità: quando la locomotiva
esce fuori fischiando dal grande antro invetriato della nostra
stazione milanese, se in qualche vettura mi trovo fortunatamente
anch'io, io pure fischio colla gola del serpente.... Brutta città,
aria malsana, noie e fastidii, vi derido!

Addio!... Il fumo sbuffa a globi allegramente; suonano gli stantuffi,
luccicano gli ottoni, e la filatera pesante scorre, come su un
pendìo insaponato sulle rotaie che s'inazzurrano a perdita d'occhio
o diritte stupendamente o con quelle curve dolcissime che la scienza
ha segnato col compasso. Va e va, scappano le case affollate, i
traffici, gli altri mille carrozzoni allineati pei viaggi. La strada
è sorretta ad un terrapieno, fra i campi di biada, e le siepi,
colla compagnia dei pali telegrafici e dei cantonieri dalla banderuola
svolazzante.

Respiriamo!... Abbiamo già veduto gore, fossatelli, fiori a
bizzeffe, cascine e macchiette.

Alla prima stazione ascoltiamo qualche parola di dialetto campagnuolo.

E va e va! Sicuro che l'inglese leggerà sempre istessamente la sua
guida rossa e il mio babbo calcolerà che st'anno il frumento
sarà magro magro. Brava gente! Ma noi che viaggiamo perchè
nessun libro ci ha fatto bene, noi che vorremmo turbinarci tra il fumo
del gran tubo, saltabeccando pel cielo, noi abbiamo la testa che gira,
come il fiocchetto della tendina al finestruolo....

Che finestruolo!... Sporgiamo mezza persona, e sfidando il polverone e
i minuzzoli accesi di carbon fossile ci diciamo i re dell'aria!...

Benedetta età la nostra! Cioè la mia: perchè il mio compagno
a differenza di pochi mesi, è già uomo fatto, ha dei clienti e
non so quanti crediti. Ho parlato in plurale perchè ho questo
vizio, come un rettore magnifico dell'Università, quando mi credo
un re dell'aria!

Il nostro orario ha un'orecchietta alla pagina tale:--linea
Milano-Varese.

Da Varese andremo al Lago Maggiore e precisamente? Non abbiamo deciso
nulla: e se volete accompagnarmi, subìte un po' delle mie
indecisioni e de' miei entusiasmi.

Se tra i miei lettori c'è qualche Varesino, mi congratulo con lui
ch'è nato fra quei colli e quei monti avvolti da quell'aria che fa
guadagnare gli ostieri e scapitare l'amor platonico: se c'è qualche
Varesina le dirò che ho veduto dei porticati, dei poggioli antichi,
delle vie pittoresche, de' bei quadri presso il proposto.... Che cosa
importa a lei? Ho ammirato una villa bianca avvistatissima senza una
mosca, e un giardino su un colle, e un sentiero che si curvava fra un
roseto, un pratello in toletta, e montava e montava.... C'era posto
per due, per tre no.

O Varesina, al sommo di quel colle, quando il sentiero t'avrà fatta
arrossire, mi dirai come ti chiami....

Varese ha dei punti bellissimi dove guarda la campagna, il suo gran
campanile sorge su, tutto colorito, distinto, rilevato: filari
d'alberi verdeggiano sulle salite e ai giardini pubblici: la villa
Ponti dall'alto proclama alle otto valli di Laveno, di Cuvio, di
Marchirolo, di Gana, di Arcisate, di Stabio, di Malnate e di Vedano,
sono milionaria!

A dire la verità ho un foglietto dove ho copiato un po' di memorie
storiche di Varese--ad esempio:--È antico; forse risale a duemila
anni avanti Cristo: fu dominato dai Romani, i quali vi eressero un
castello di cui dura la memoria--a Belforte.--Fu saccheggiato dai Goti
e dai Longobardi, fece guerra a Como, ebbe un vicario, sei consoli, e
castella a Induno, Arcisate, Biandronno distrutti dai milanesi.

Solite storie d'ogni comune medioevale. Quello che voglio far notare
è che Varese nel 1768 venne da Maria Teresa dato in signoria a
Francesco III duca di Modena e a Teresa di Castelbarco.--Non dico
altro di cose storiche, cedo la parola all'amico mio, il quale
dichiara che a Varese si mangia male e i cuochi sotto la berretta
hanno una zucca, non una testa da cristiano.... Ripiglio la parola io
perchè non voglio battibecchi tra un'aria così santa e cara e
dico che ho deciso per valle di Cuvio di recarmi a Luino.

Lasciamo da parte la Madonna che su una gobba di monte spiccata,
accompagnata da cappelle e casette, toccata dal sole con color d'oro,
fusa dall'ombra con veli paonazzicci deve di lassù vedere il
formicolìo degli uomini che s'incontrano colle donne, per le strade
di Varese e si vogliono bene: la Madonna deve essere felice quando li
vede venir su, su coi muletti, comperandosi le medaglie, baciandosi
alla sfuggita.... Non ci montai, quindi nulla posso descrivere.

Valcuvio meriterebbe proprio che gli acquarellisti vi si recassero in
carovana. La strada, dapprima erta ed elegante, si strozza nelle
callaie dei paesi, fra le casette angolose, pittoresche, esce e
s'alza, s'abbassa, s'inaridisce su certe coste di macigni ove le tinte
ferrugginose luccicano di pagliette d'argento e d'oro, si storce
rabbiosamente in certe pieghe di montagna ove proprio c'è la
cappelletta, la croce della disgrazia e il mendicante che prega: si fa
stretta e si allarga tra i praticelli spianati, coi filari di salci,
coll'aria tranquilla della pianura.

Non s'incontra dapprima anima nata, tranne quell'accattone. Le capanne
sono celate dietro brune cataste di legna, o tra ammassi scaglionati
di fascine; frequenti sono le boscaglie, lucidissimi gli stagni
d'acqua, sempre gaio il fogliame vicino e aereo, soffice il lontano
fuso coi monti, col cielo, con alcune cime nevicate... I punti più
deserti sono per il pittore melanconico.

Proseguendo verso Luino la valle piana sembra promettere gli agi;
infatti sorgono le case e le casette, già imbiancate, già colle
vernici. Un torrente scorre tra gli argini, e mansueto, serio, prelude
alle ruote di ferro che muoverà: ecco degli stabilimenti a spesse
finestre, col tubo, col brontolìo: ecco comparire dei pali, dei
fili telegrafici su cui panni veder scorrere dispacci d'inglesi.
Presento, vedo i cappelloni col velo bianco e le vesti affagottate, i
_lords_ e le _miss_: qualche venerando pesce grosso si purga i polmoni
aspersi dalla natìa fuliggine coll'aria del lago... In quei luoghi
dove stampano i talloni piatti i _lords_ e le spesse orme le _miss_,
potete esser certi che vedrete qualcosa: infatti viali larghi
fiancheggiati da piante si curvano con dolcissimo meandro. Presentite
la curva che li disegna? È il lago: il lago appare, s'apre, si
sfonda... Luino alla foce del Margorobbia e del Tresa contempla il
bacino, Monti ed acqua!

Scendiamo di carrozza. Non c'è più all'orecchio il rotolare
monotono dei cerchioni di ferro e i sobbalzi delle molle sconnesse:
c'è un fruscio come di raso spazzolato, l'onda che bagna la ghiaia,
la ghiaia che sorbe l'onda: nell'intermittenze come dei sospiri gravi.
Non sembra di camminare, l'uomo, atomo, è sempre fisso innanzi alla
immensa bellezza della natura. C'è per l'occhio un riposo, un piano
liscio, levigato tra due catene di monti tutti in pace, c'è per
l'anima un cielo terso e limpidissimo. In un attimo si ama tutto e
tutto ci parla: la spiaggia ciottolosa, curva, l'arena bagnata, la
frangia d'argento dell'onda, il suolo fatto dagli uomini e le case e
le ville, e le frane spaccate dal caso.

L'aria che viene dai monti, che s'infresca dal lago, che si poetizza
dal cielo, entra in noi, scaccia da noi l'animaccia stanca, scettica,
cittadina e ci dà un po' dell'anima della natura, col bisogno di
salire in alto, coi voli dei desiderii amplissimi, coll'ali della
poesia che non ha metro nè rimario!--Si diventa buoni e si ama, si
ama, si ama!... Io qui non invito quelli che hanno la bottega nel
cuore, nè le donnine che portano sempre lo specchio al servizio
delle uniche loro carni bianchissime: non invito la folla che mangia,
beve, ride, ma sibbene le anime torturate dai desiderii inesplicabili,
affannate dalle spossatezze del deserto, i cuori che hanno amato o che
amano! E vengano i nervosi all'idropatia! Le isteriche stancate
dell'attendere! le vinte del corpo! Qui si ama, si ama!--E il lago
seduce sempre, cantando l'eterna canzone senza esigere la sua gentile
senseria.--Qui si combinano dei matrimoni. Spargete i confetti a
manciate pei bimbi dei pescatori, e da quelle facciole ridenti e negre
traete augurio per i vostri futuri scapatelli!...

Rammentando che Luino fu patria dell'angelico Bernardino, lo stupendo
pittore che effigiò le sante e gli angeli con sorrisi di cielo, andiamo
al molo che serra le acque cupe: il lago flagella i dadi di pietra e il
ripicchio si diguazza come stanco di battaglia. Per la via lunata,
passati sotto un arco che mostra un poderoso leone di pietra, incontriamo
una stradetta montana su un terrapieno: a sinistra il lago, a destra la
montagna. È una stradetta non disagiata, non ricca, un tesoro pittoresco,
a tratti s'inclina e quasi tocca la ghiaia, a tratto si solleva e mostra
giù giù il lago coll'abbagliante luccicare tra i boschetti o col verde
intensissimo lungo le coste profonde, o coll'irrequieto spumeggiare
attorno agli scogli: più in là la massa azzurra si acquieta, e pare, per
così dire, a zone smerigliate dai venti, in là ancora sorgono i castelli
di Cannero solitarii, piangenti il romanticismo e l'oblìo: la sponda
infine è deserta.

Qui dove passeggiamo noi il murello di riparo alla stradetta serpeggia
o lumeggiato o smorto in ombra con toni trasparenti, e la montagna
affolta boschi e boschetti e sprazza luci sulle zolle, e s'infosca
nelle ripiegature delle falde: grotte, acque, fiori, pratelli
stiacciati da cumuli di macigni... Oh i monti!

Il cittadino che li contempli in un attimo vi ha famigliari, e non
c'è pendìo di vallicella ove non sogni d'essere stato già
un'altra volta a piangere un dolore: non richiama una gioia definita,
ma ricorda d'aver sorriso e spera di sorridere dall'alto di quella
cima boscosa, da dove si deve vedere l'altro versante... Di là...
Monti e valli e case e gioie e dolori!... Se ha letto un bel libro,
sente di doverlo rileggere su quel masso, attraverso quel torrentello,
sguazzando sul fondo translucido e sabbioso l'ombrellino... di chi?
È un fatto: nei quadretti, e nelle memorie, e nelle speranze
_compone_ sempre, direbbero i pittori, una figurina di donna, che ne'
suoi occhi sintetizza tutto il linguaggio della natura...

Rincorriamoci, o fanciulla: il lago ci invita al bagno: la montagna ci
prepara la reazione. E che bagno! Vorrei staccarvi per lenzuolo un
lembo azzurro di cielo, ma... E poi corriamo!

Corriamo sui massi spaccati, profilati, da dove pendono i ciuffi
d'erba, nelle tane, nei bugigattoli, sui cigli di quei muraglioni erti
e schistosi, che la grande architettrice ha dipinti coi licheni,
lisciati coll'acqua, graffiati coll'azione dei geli... Corriamo! Dove
corre il desiderio? Le gambe sono umane, umano il ventre. Su dunque
s'incontrano tre o quattro case da pupattola, scheggioni ammucchiati,
coll'uscio aperto e la massaia che prepara la cena... Vogliamo cenare
cantando la canzone dei pescatori e vedendo il lago a strisce di
specchio tra le connessure delle pareti? Vogliamo bisbigliarci nella
semiluce? Vogliamo pescare?

Giungiamo a Maccagno inferiore detto _imperiale_, già feudo dei
Mandelli, con mura, misto imperio, e diritto di zecca.

Una chiesa su una piazza sostenuta da arconi di pietra come un
acquedotto, una largura che muove al lago, ove dondolano sette od otto
barconi, quattro case e l'osteria-stazione, da dove esce il suono
bambinesco di una cornetta. Ecco Maccagno.--Arriverà il piroscafo
da Luino, un punto nero che borbotta. Sediamo su una panca. Il lago si
sperpera innanzi giù fino a Stresa: l'occhio nuota in quelle tinte
perline e su nel cielo focato.

Il tramonto è vicino. Non è l'ora stanca della città: è il
preludio del riposo poetico: è l'ambiente di tutte le trasparenze,
tutti i desiderii, tutti i sogni; col tramonto il cielo bacia l'anima
nostra, e l'anima vola su quelle nubi che fingono delle isolette
scorcianti in un mare più tranquillo del mare della vita, vola...
Il piroscafo sbattendo le pale fracassose nell'acqua canta chiaro e
netto:--L'uomo non ha ali: l'uomo non ha pinne. Prendete il biglietto:
primi o secondi?

Siamo sul _San Gottardo_, coi marinai, coi macchinisti fuligginosi,
colla folla minuta dei contadini, colle valigie stemmate e coi
viaggiatori distinti dal Bedeker. Monti e lago pigliano una tinta
metallica, tutto sembra profondarsi, e su altissima luce brilla la
prima stella della Notte.

Il piroscafo ha fatto la traversata: il timoniere colla mano sui raggi
di una ruota di bronzo specula acutamente il punto da sbarco, il
capitano parla col portavoce agli uomini bruni giù nella pancia.
Sulla spiaggia appaiono case e portici, e portici e case, fuggenti
nell'ombre che si addensano nella gran montagna paonazza cupa.

Un facchino grida:--Chi ha bagagli per Cannobbio?-

L'ora è tarda, a domani. Vi basti sapere che a Cannobbio ci sono
molte cose a vedere: il borgo, la Salute, l'orrido, le appariscenti
valligiane e la signora Antonietta del _Biscione_, che stringe la mano a
chi arriva, porgendo una manina pastosella e capricciosa.



CHIARAVALLE

SCHIZZO A PENNA.



I.


Hai perfettamente ragione, mio amico. Vi sono dei luoghi insigni per
memorie d'arte e di storia o per lo speciale ambiente, nei quali
l'anima del visitatore s'appassiona con gentile virtù, e la
fantasia, correndo a ritroso del tempo, s'ingagliardisce, rivivendo di
fronte ai robusti sembianti degli avi. Nelle giornate di noia stanca,
giova moltissimo il fuggire la folla fastidiosa, l'indispettirsi dei
minuscoli capricci, il cercare la solitudine. Questa è fatale se il
cuore vuole tutta occuparla colle sue malinconie, è sana se in essa
l'anima cerca per punto d'appoggio una calda emozione.

Una passeggiata all'abbazia di Chiaravalle non è gran cosa, che
possa rompere le gambe di un cittadino. Si esce dalla porta Romana, e
si piega per circa tre miglia verso sud-est, camminando in mezzo a una
pianura monotona, la pianura lombarda, che al cielo non sa levare
altro che le capitozze pesanti degli eterni filari, qualche ramicello
pelato, qualche volo di corvi, qualche crasso fumo di stalla. Ma che
cosa merita quel cielo? E poi, signor mio, ogni acqua che scorre,
all'occhio dell'agricoltore, sembra far galleggiare i sacchetti d'oro;
ogni prato ti pare una mappa; ogni casa è segnata a cifre, a
cifrone. Se tu vedessi i fieni ammontati nelle cascine, il latte che
trabocca, spumando, dalle _brente_, e i formaggi che stanno, come in
biblioteca, negli stanzoni a corridoi! Se tu vedessi!

Il paese di Chiaravalle è un povero aggregato di case. Rovagnano
n'era l'antico nome. San Bernardo, capo dell'abbazia di Clairvaux
nella Sciampagna, venuto in Lombardia, e fondato in questo luogo
l'abbazia e il monastero dei cistercensi, l'intitolò Chiaravalle,
per amor di ricordo. Chiaravalle, favorito dalle famiglie milanesi,
illustrato dalla virtù e dal sapere dei monaci, crebbe di fama e di
ricchezza: molti cospicui personaggi venivano a visitarlo: Ottone
Visconti vi morì.

Al giorno d'oggi, camminando sulla strada, che fiancheggiata da due
placide acque, conduce ad una porta austera, il visitatore ha l'occhio
triste e l'anima triste. La campagna intorno è silente e spopolata:
le mura dell'edificio, dove rovinate, dove salde, dove rifatte, sono
come le pagine di un libro di storia. Mute, vi narrano una
verità.--Che cos'è il tempo!

Vi furono giorni in cui il potentissimo abate, collo stendardo della
cicogna, scendeva alle soglie imponenti dell'abbazia, fra la sua corte
fastosa, arbitro delle liti tra popolani e nobili, fra paese e paese,
scendeva a ricevere una comitiva guerresca od ossequente; e i monaci,
sui vasti dominii, sulle settantamila pertiche, si spargevano,
fratelli di preghiera e di lavoro, ad una nuova opera, asciugando i
paduli, guidando le acque, applicandole all'utile, creando il sistema
lombardo delle marcite; e i reggenti di Milano venivano agli altari
recando i diplomi dei frequentissimi privilegi; e i vecchierelli sotto
il saio vegliavano sui libri o cantavano nel coro, o sfilavano al
cimitero. La Guglielmina boema vi dormì poco sonno di morte. La
ricca nobiltà milanese vi restò a tripudio, quando uscì ad
incontrare Beatrice d'Este, che arrivava sposa a Galeazzo Visconti.
Potenza successe a potenza, pietà a pietà, mistero a mistero...
Infine, nel 1795, la più prosaica caria bollata era affissa ai
venerandi battenti colla cera rossa. E oggidì la locomotiva,
tagliando il pratello della pace antica, sbuffa faville ai morti, e
passa fischiando...

L'abbazia sorge vicina al villaggio, e coi ruderi del convento è
chiusa da una cinta. Entrando nella corte per una volta oscura, si ha
dinnanzi la chiesa, ragguardevole edifizio, con una cupola ottagona,
sovrastata da una torre ad archi, a colonnine, a piramide: le linee
sono dignitose, le tinte robuste, e i dettagli qua e là accentati
dai curiosi scherzi del tempo e del caso. L'ignoranza degli uomini
piccoli vuol mostrarsi dove può: eccola chiarissima, pretensiosa,
patentata, nel guasto arrecato alla facciata, Povero secolo decimo
settimo! Dio sa com'hai resa barocca anche la preghiera!

L'interno della chiesa è grande, tetro, umido: un segreto squallore
vi regna: la solitudine co' suoi misteri, la semiluce coi pochi raggi
del giorno, colle ombre freddicce, fanno parer eterni i passi sul
pavimento: e va e va:--e danno all'aria un che di morto, di chiuso,
d'ammuffito, che tronca il respiro, e assopisce il pensiero in una
incertezza di languore.... Fantastichiamo?

Ma in questo stato d'anima, il cuore a un tratto affretta i palpiti,
con un sentimento dolcissimo di speranza o di ricordo: eccoci desti! e
si gode d'esser desti, d'amare, di dover combattere, di voler vivere!
Il cuore si ribella alla morte.

Triste è lo sguardo che danno le sante screpolate degli affreschi;
triste la polvere fredda che s'adagia sugli stalli del coro; triste il
tremolo ardore delle lampadette nella grande solitudine: tristissima
la pace che il tempo ha fatto intorno a noi. Luino, l'angelico, ha
dipinto: l'ottimo Garavaglia ha intagliato: altri molti hanno lavorato
e vi giacciono nell'oblio; san Bernardo un giorno arse di zelo e fu
una fiaccola. Ma oggidì?

È santo quel sorriso che ci fa buoni e mesti: è salutare quella
polvere che noi solleviamo, galoppando audaci, sul nostro cammino;
chiamo luce quella che illumina l'anima, come i lampi. Più e più
nei luoghi austeri l'estro si accende, e si figge all'ideale. La pace?
Prima vogliamo la battaglia.

In fondo al coro vi è una porticella che mette al cimitero: è un
luogo raccolto, circondato da un muricciuolo che lega le une alle
altre tante cappelle mortuarie, ad arco, uniformi, severe, segnate
solo da qualche avanzo di pittura o di epigrafe: qui i nomi di Pagano
e Martino Torriano, dei Novati, dei Piola, degli Archinti. Un'unica
crocetta nel mezzo compendia tanti nomi, tante grandezze, tanto oblio,
in tanta pace, Qui venne con onorevole scorta armata sepolta la
Guglielmina, nel secolo XIII, la famosa fondatrice della setta dei
Guglielmiti, la quale pretendeva d'essere papessa, e più: qui fu
venerata con feste, lampade, devozioni: di qui fu dissepolta e
trasportata a Milano sulla piazza della Vetra, per essere abbruciata e
vituperata co' seguaci suoi. La storia vi è lunga, ma interessante
per gli scrittori milanesi: qualche sera chiacchiereremo, perchè
già adesso tu non hai tempo.

Che cosa t'ho descritto? Non so. E ti ho descritto, o credo? Non so,
davvero. Queste mie righe sono impressioni, Tratti di penna, schizzi:
se tu volessi linee rigide e contorni precisi, sai che ci sono guide,
buone e grame, e fotografie. Dunque non gettarmi in un cantuccio, se
non adopero squadra nè metro.

Però, se vuoi, eccoti le dimensioni. Incominciamo da serii:

Altezza della torre, piedi 57.

Altezza della piramide, piedi 34.

Lunghezza della chiesa...

Capisci! Sei tu che non mi ascolti! Dunque, zitto i zitto! zitto!



II.


Per ordinare le mie idee, bisogna che col pensiero io vada indietro
tre o quattro anni: cinque per l'appunto! Ed ecco mi ricordo una
passeggiata a Chiaravalle, una sosta, una colazioncina in un prato, e
poi un'ascensione chiassosa, quindi una meditazione seria. Come fosse
adesso! Voglio rammentarmi la torre della chiesa e il cimitero.

Prima di tutto, vi confesso ch'io ho un gusto matto per i campanili,
tanto che in un certo paese ho fatto un abbonamento con un sagrestano,
perchè mettesse a mia disposizione tutte le chiavi d'una chiesa.
Quei bugigattoli, quelle scalucce di legno dagli incerti gradini, quel
buio, quegli uscioli, per cui solitamente si deve passare per giungere
alla torre, mi piacciono in modo strano; e poi quelle funi che pendono
giù, o sfilacciate, o giù conducendo l'unto dagli ordigni
dell'orologio!--E tic-toc-toc: dall'alto l'inesorabile tempo ci grava
sul capo. Se poi stridono i falchi, o stormeggiano i passerotti, o un
amico pauroso mi grida:--Manca un gradino... avanti lo stesso.

A Chiaravalle la torre che sovrasta alla cupola ottagona offre tutte
le emozioni che voglio. Ecco, al tetto della chiesa, al primo riposo,
si giunge coll'abito concio dalle ragnatele, col cappello schiacciato
da qualche buio arco che non rispetta le proporzioni della figura
umana, coll'occhio intenebrato e polveroso: travi, tegole e calcinacci
sono amici, amiconi degli archeoflli curiosi. Al tetto c'è un
ballatoio: e da questo una scala a piuoli al primo giro d'archi della
torre; e da una colonnina di questo un'altra scala a un'altra
colonnina del secondo giro, e via e via; ma sui piuoli tarlati il
piede si poggia con precauzione, e gli staggi sono un po' zoppi.
All'ultimo piano di colonnette si leva la piramide, e noi che le
passeggiamo intorno, la vediamo tutta irta coi mattoni a spinapesce,
qua e là resa bizzarra da qualche ciuffo d'erba, bruna rossastra,
sormontata da un globetto con una croce nel mezzo, La vista di
lassù spazia sui piani e sui piani: monotonia, Pure, c'è da
trattenersi su una buona mezz'ora, e anche più; si ritarda la
discesa, pensando un po' a quelle scalucce malsicure che ci terranno
sospesi fra il cielo e i tetti.

Terra! terra! abbiamo toccato il suolo della chiesa: all'ultimo
gradino ci sentiamo piccini, come profondati, giù nel tenebrore:
camminiamo, e il passo ci sembra pesante, lo spazio per il piede
troppo, per l'occhio poco, e giungiamo al cimitero. Con un movimento
spontaneo si dà uno sguardo all'insù; le proporzioni della
muraglia, della torre, si allungano sul cielo, e là, in cima, ci
pare sia restato qualcosa di noi: qui basso siamo vuoti e melanconici:
un che inspiegabile signoreggia tacito intorno a noi, e noi subiamo
una pace per gli occhi, per le orecchie, per la bocca, un'aria morta
ci involve, entra in noi, esce: ci pare di dormire da lungo tempo, o
di svegliarci con altri sensi diversi dai nostri. È una bizzarria
questa? A me succede così. Credo animato un arbusto solitario, un
mucchio di rovine, un silenzio di crepuscolo: qualcosa requia, ma
spiandomi: un che d'ignoto, posandosi lento, incombe e incomberà su
di me. È una stramberia, temo l'oblìo... Sapete? certi sogni
senza senso comune si possono dire in poesia: in prosa bisogna
rendersi conto d'ogni contorno che ha la parola, e toccare liscio se
non si vuole errare e buscarsi, un'orecchiata dai professori!--C'è
la pace, ecco tutto: una pace antica, un silenzio, un'immobilità,
un mistero.

Le cellette mortuarie di stile gotico c'invitano colle loro linee
severe, colle reliquie degli affreschi, coi frammenti delle epigrafi.
Vediamo! Ognuna di esse racchiudeva il monumento di qualche cospicua
famiglia: dove giaceva il pesante avello, a due versanti, coi quattro
orecchioni, o dove si levavano sulla groppa dei lioni le colonnine
torte a reggere l'arche coi tabernacoletti gotici, ai dì nostri
cresce la mal'erba, fra i tritumi e i calcinacci: le muraglie hanno le
tracce dell'ugna del tempo: gli archivolti non portano più le nere
cortine di morte, ma si lasciano addobbare dalle ragnatele. Queste
cellette erano numerosissime: e chi coll'immaginazione sapesse tutte
riedificarle, degradarle in squallida linea, colorirle tristamente, e
fingere dalla porticella del coro la sfilata dei monaci salmodianti,
quegli potrebbe a messer l'abate chiedere l'eterna pace. Si dorme
tanto bene all'ombra dì tramontana, nelle abbazie dei cistercensi,
fra il silenzio degli uomini e della natura!--In una celleita,
Manfredo Archinto supplica Nostra Donna: in un'altra, una lucertola
viva serpeggia sull'ala di una santa morta: in un'altra, san Bernardo,
imprudentissimo, presenta al cielo la Guglielmina boema...

Nel secolo XIII, nella Lombardia, già infestata dalle sètte
degli eretici, comparve la bella Guglielmina. Chi era? La dicevano la
figlia di un re di Boemia. Con chi era? Con un bambino che le morì.
Monaca, fuggita, amante: tantissime se ne dissero. Essa abitò a
Milano, e fu di tale pietà, che i monaci di Chiaravalle e le
Umiliate, e tutto il clero, e tutta la nobiltà pigliarono ad
amarla, compreso un tale Andrea Saramita: e salì, e salì, la
Guglielmina salì fino alla dignità sopranaturale: fu della
quella che salverebbe giudei, saraceni e mali cristiani, fu detta
papessa, santa, divina. Ma umana, morì, lasciando di voler essere
sepolta a Chiaravalle.

Quivi giacque venerata, e ad onore di lei i monaci, in tre
solennità annuali, distribuivano pane e vino. I discepoli rimasti,
una Manfreda, il Saramita, Albertone da Novate, continuarono a
celebrarne i misteri.

Nel giorno di Pasqua del 1299 la Manfreda indossò degli abili
pontificali, e, costituita una gerarchia ecclesiastica femminile,
cantò litanie, predicò, disse messa in casa di certo Jacobo da
Ferno, con epistola letta da Albertone, con vangelo composto dal
Saramita. E vogliono gli storici che queste adunanze finissero con
scandali tali e tali criminosi piaceri, sì che la inquisizione di
Sant'Eustorgio col fuoco volle _purificare i corpi et le anime
inquinate_. Si fece un gran processo, arse la catasta in piazza della
Vetra, e Guglielmina si trovò scacciata dal paradiso e buttata
all'inferno.

Chi parla della Guglielmina finisce sempre così:--È da
domandarsi se era veramente colpevole la Guglielmina, o se solo lo
furono i suoi seguaci. È questo un problema la cui soluzione merita
un attento studio di storico imparziale.

Ma se sapessi dove sono i documenti!



MALINCONIE

DI UN ANTIQUARIO.



NATALE IN FAMIGLIA.

                _Warum ein unerklärter Schmerz
                Dir alle Lebensregung hemmt?_

                                      GÖTHE.


Dinnanzi alla villa barocca, tutta fradicia di pioggia e tutta chiusa,
come un sepolcro, si stende un gran viale allagato, e di fianco le due
siepi di carpini si perdono giù giù, fino a confondersi colle
loro tinte brunastre nei colti uniformi, su cui la triste giornata del
Natale addensa un torpido coltrone di nebbiaccie.

E un povero rampichino tra quei negri viluppi di stecchi, che un dì
erano piante squadrate a piramidi ed a vasi, di ramo in ramo; svolazza
salticchiando, la testolina in basso, il pennacchietto arruffato, le
piume impacciucchiate, e viene e viene, e viene qua ai cancelli
panciuti della corte, alle tortuose scalee dei terrazzi, alle fredde
fenditure delle imposte, da cui il verno scolla le vernici
squammate...

Ecco la facciata della villa. Un Giusepp'Antonio Castelli la ideava
con tutta la tracotanza e il fasto dei Tiepoleschi: un gran parruccone
sporco la approvava col cipiglio arcigno e la penna d'oca alzata, come
un ritratto dell'Ospedale. Ecco le finestre avvolte nei cartocci; le
finestrette tonde con un contorno da maniglia o con davanti ciascuna
un busto di Cesare romano; le mensole sbrodolanti il gesso dalle
arselle; i cornicioni spezzati dalle curve e dalle volute di cento
contrabassi; le inferriate gremite di viticci e di nodi e di
fogliaccio; i pilastretti a gozzi aggrappantisi su alla gronda; le
nicchie sgangherate colle statue delle virtù araldiche che
somigliavano alle buone ciambellane di Filippo V di Borbone; e
l'attico gibboso e tormentato sotto il peso di uno stemma in cui
c'entravano quaranta _maggioranze_ di Castiglia e di Leon.

E il povero rampichino, frugacchiando alle fredde fenditure delle
imposte, si lamenta co' suoi zilli capricciosi che si perdono contro i
vetrucci rotti, i piombi caduti, il vano oscuro della finestra.... È una
formica morta assiderata due mesi fa, quando la strascinava una gran pula
di frumento? È un vermiciattolo ch'era giunto la notte prima dalla
peschiera a musaico alla pozzetta d'acqua fra due mattoni spezzati? Che
cos'è? che cos'è che becca il rampichino?... Becca, si fa sottile, becca,
s'appiatta e s'arruffa, becca, ficca la testa sotto ai bilichi, e trova
un posto ove la soglia è corrosa dalle antiche pedate, ed entra nel buio.

* * *

Oh come i morti s'obliano nello squallore, giù nei saloni del vasto
appartamento! V'è una semiluce che piove solo dalle finestrette ad
occhi di bue, dietro le schiene degli Augusti in pietra arenaria:
v'è il silenzio che là là sembra ingoiarsi con un freddo da
cantina per le porte spalancate: v'è un abbandono che scolora tutto
cogli strati di polvere e di muffa, e che dà a tutto un aspetto di
remoto, di sconfinato, di sepolto, colle tristi simmetrie
dell'immobilità e del sonno. Una sala s'apre nell'altra, l'altra
nell'altra, l'altra nell'altra, via, via... Da questo capo a quello
del palazzo la fuga di quei sepolcri fastosamente rococò è
infinita: tutte le finestre chiuse: scorciano i vani delle porte, come
un lungo corritoio fra i scenari di un palcoscenico deserto, e i
sopraornati confondono i loro fogliami flaccidi, i loro motti
sbiaditi, i loro canestri pastorali, i loro trofei militari, le loro
donnaccie nude, come una fila di grotteschi cartelli d'anniversari nel
magazzeno di una cattedrale.

E il rampichino salticchia verso un'alcova. Nella prima sala vi sono
le pareti bianche, il soppalco colle travi e i contentini dipinti a
sfogli e reticelle a gesso e colla, intorno allo zoccolo di finta
Macchiavecchia quaranta seggiole coperte di una bazzana con una ninfa
in guardinfante, e nell'alcova coi putti di stucco, fra due canterali
a pancia gravida, un lettone sui cavalletti e tutto giallo a passamani
d'argento.

Lì, o uccellino, in mezzo secolo non è mai sonata una parola di
vita. La marchesa vedova, quella che aveva aggiunto all'attico della
villa lo stemma colle quaranta _maggioranze_ di Castiglia e di Leon, vi
giaceva ammalata fradicia da sette anni non parlava più del marito,
se non per consolarsi che, a conto di messe, era già in luogo di
salvazione: facendo chiamare dalla vecchia nutrice i tre figli ogni
sera per benedirli, al primo diceva «marchese Asdrubale,» alla seconda
«donna Ines,» al terzo «don Apollonio.» E, raccogliendosi tutta nei
suoi pensieri, taceva sino alla sera del giorno appresso: a meno che
le arrivasse qualche corriere di Spagna con una lettera di un principe
di Madrid che le annunciava la prossima gravidanza della moglie, o
qualche procaccio da Milano colle benedizioni dell'abbadessa vecchia
di Santa Radegonda o dell'arcivescovo capo-rito di Sant'Ambrogio.
Taceva lei per delle settimane: ma susurrava qualche servo del morto
padrone che quel malore che le rodeva l'ossa era come, che so io, come
uno struggimento per una grande passione ambiziosa insoddisfatta: e
che il marito non aveva voluto un certo dì ch'ella seguisse re
Carlo II (Dio lo riposi) a una caccia presso la Bellingera e che il
futuro marchese, il primogenito Asdrubale, fosse già stato promesso
ad una principessina madrilena che non era nata...

Basta: in una sera di Natale, in quel lettone, quella madre... (madre
la direte?)... quella squallida ammalata, moriva rassegnatissima,
togliendosi dall'anulare un anello coi cinque suggelli dei cinque
feudi della famiglia, e ponendolo sull'indice del suo primogenito: con
una carta piena di ghirigori istituiva il maggiorasco: al marchese
Asdrubale ordinava la seppellissero nel palazzo, e fissava le libbre
milanesi della cera: a donna Ines e a don Apollonio raccomandava, loro
vita natural durante, di pregare per lei... che era morta.

E il rampichino salticchia verso un crocefisso. Nella seconda sala
ancora le pareti bianche, il soppalco colle stesse dipinture, intorno
allo zoccolo di finto Belgiazzo, due tavoli dorati a gambe di capra, e
trentadue seggiole coperte della solita bazzana con una Venere allo
specchio, e nell'alcova con una santa gesuitesca in marmo nero, ai
piedi di un lettone, come il primo, una seggioletta impagliata, e un
inginocchiatoio col grande crocefisso.

Lì, o uccellino, non è mai sonata una parola di speranza. La
triste secondogenita, che nella sera di Natale rammentava quell'altra
notte, quando la madre le moriva, e che contava ancora angosciosamente
i pochi mesi, i mesi tormentosi della sua libertà, prima d'entrare
nel monastero, si contorceva sotto le coltri, si strozzava il pianto,
udiva le campane per la pianura buia, s'immaginava i babbi e i bimbi
che si avviavano alla chiesa, i bimbi! i bimbi!... E il povero
crocefisso fu trovato alla mattina dalla nutrice dischiodato dalla
croce e con alcune chiazze di sangue recente sull'avorio.

Donna Ines è morta abbadessa di Santa Radegonda.

E il rampichino salticchia verso un gran librone. Nella terza sala
torno torno alle pareti quattro macchinose scansie che dalle
graticciate di rame lasciano vedere tutti i volumi giallacci della
teologia seminaristica, la volta, in gloria, dipinta con una Fede
seminuda e cicciosa, un solo tavolotto con carta, penna, calamaio,
spolverino, e un solo seggiolone colle orecchie al dossale: il gran
libro è su un leggìo da coro.

Lì, o uccellino, non è mai sonata una parola di fede. L'infelice
terzogenito, che rammentava quella notte di Natale, quando gli moriva
la madre, e quella mattina, quando avevano veduto il crocefisso della
sorella colle macchie di un sangue caldo, e che aveva sfogliato tutti
i libri più devoti per sapere com'erano orrendi i tormenti
dell'inferno, lì, sul seggiolone, quando tramontava il giorno e gli
pareva di udire i canti delle mamme... sì, sì, una folata di
vento gli portava dagli alti finestroni della chiesa un ronzio di voci
felici, credenti, devotissime a Dio... Quando calava la sera sui campi
e la pace sulle mamme e sulle bambine, egli, di sotto al San Tomaso
in-folio, traeva un pugnale aguzzo e... E il povero librone fu trovato
alla mattina dalla nutrice divelto dalla copertura e con un buco che
lo passava irosamente parte a parte, come una cornata del diavolo.

Don Apollonio è morto cardinale di Santa Prisca.

E il rampichino salticchia verso venti, quaranta, ottanta quadri di
antenati e di battaglie e di assedi, verso un pellicano impagliato,
verso una spada d'argento di Filippo V, verso un trono di feudatario,
verso un tronino di Dio... Tutto l'appartamento ha le porte spalancate
e le finestre chiuse: il silenzio si fa sempre più oblioso e il
verno più sconsolato.

Nella quarta, nella quinta, nella sesta, in tutte le sale continuano
le mura bianche e i soppalchi dipinti o le vôlte stuccate, le
seggiole a gambe di capra e le poltrone a ranocchio, e le alcove
deserte. Ecco qui nella galleria pendono gli antenati di toga, di
spada, di rocchetto, tipi cipigliosi del Tanzo, del Nuvolone, del
Porta, ma tutta gente che si era fatto onore per la famiglia: le
antenate coi guardinfante o colla tonaca, faccie lunghe del Cerano e
del Legnani. ma donne benedette dal Signore nella prole o nelle
visioni. Ecco nella sala delle battaglie, sulle tele crostose di un
Borgognone di terza mano, dinnanzi alle fantastiche bicocche dei
turchi, i guerrieri indiavolati e nel fumo dei cannoni cristiani i
nemici che se la danno a gambe. Ecco nel museo le bestie impagliate
che vissero nel parco: il pellicano ha una scansia di vetro colla
cupola: un Crivellone ha abbozzato, nero e rosso, intorno alle pareti
i cani che leccano il sangue, i cinghiali che ruzzano a salmontone,
gli uomini che muoiono sbudellati. Ecco nell'armeria, fra le labarde
dei servi d'anticamera, una spadina _a zuccotto_, donata nientemeno che
da un re, il quale non sapeva tenere la penna ad Utrecht. Ecco nella
sala delle udienze un gran trono, velluto cremisi ed oro, per
assidersi a dopo pranzo a giudicare, con diritto di vita e di morte, i
vassalli famelici tutto l'anno. Ecco nella cappella un tronino
barocco, offerto al buon Dio a peso d'argento, perchè a un tanto
per oncia rimetta i peccati a tutta la prosapia.

La gloria dell'appartamento incomincia dal santo alcova della vecchia
testatrice e finisce col confessionale pagato dall'unico erede dei
cinque feudi.

In questo regno, o rampichino, non è mai sonata una parola di
gioia.

Eccolo il marchese Asdrubale!... Ebbe ventimila pertiche di terra
grassa, questa villa, un palazzo ionico in Milano; creò cinque
benefizii per cinque oratorii dei morti, sciolse dai livelli due
monasteri, istituì varie messe pei poveri giustiziati a San
Giovanni _alle Case rotte_; ebbe perfino trenta cani bracchi, segugi,
mastini, da leva, da ferma, dodici amici senatori, una moglie
infeconda e che gli visse accanto circa settantotto anni, sette mesi e
qualche giorno. Eccolo il vecchio Feudatario di Filippo V, di Luigi I,
ancora di Filippo V, e poi di Ferdinando VI, e poi di Carlo III!
Largo! fate ala! rendetegli l'omaggio!... Viene dal tronino di Dio, e
passa innanzi al suo trono di feudatario, alla spada d'argento del re
Borbone, al pellicano impagliato, ai venti, ai quaranta, agli ottanta
quadri d'antenati e di battaglie e di assedi.... Largo! fate ala!
rendetegli l'omaggio!... Ma se non si muove alcuno per le sale!... E
lui, da un capo all'altro del palazzo, procede vestito di nero e con
quell'anello in dito.... Non c'è più nessun mascherone dei
Tiepoleschi che, ghignando, racconti altre istorie, dopo quella della
mamma, dell'abbadessa e del cardinale.... Il vecchio si fa innanzi,
barcollando, viene, viene, passa dalla biblioteca, passa dal secondo
alcova, passa dal primo alcova, viene, viene, cercando un primogenito
anche lui.

Il marchese Asdrubale è morto grande di Spagna.

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Si è fatto sera. La vecchia e
i tre figli sono tutti sepolti nello buca gentilizia della cappella,
in quattro cofani di velluto nero, tutti e quattro distesi su quattro
seggioloni disusati, sotto una pietra incisa coi cranii e le clessidre
e gli svolazzi che annodano le tibie.

È la sera di Natale. La madre e i tre figli sono tutti seduti nel
salone della festa al così detto pranzo di famiglia, sulle seggiole
di seta rossa, chinati sulla trapunta tovaglia di Fiandra, sotto la
luce di una gentile lumiera di Murano, e fra i calici arrubinati e le
argenterie scintillanti.

È la notte di Gesù piccino. La vecchia guarda mestissima il
marchese Asdrubale.... È l'ora delle gioie di Natale. E la badessa
donna Maria Ines di Santa Radegonda racconta la sua amorosa gloria di
mamma, quando le era nato quel bambino biondo, come quello del
Signore. E il cardinale Don Apollonio di Santa Prisca racconta la sua
tranquilla felicità di babbo, quando la sua gioconda, la sua bella,
la sua fanciulla sorridente gli porgeva a baciare le due bimbe così
rosee e ricciutelle, come le angioletto sulla capanna di Betlemme.

La vecchia tornava nella buca: e il marchese Asdrubale scagliava via
l'anello.

* * *

O rampichino, o rampichino timido e santo, quand'esci all'alba dal
palazzo e per i rami dei carpini ti avvii giù là in fondo ai
campi e al paesetto, o rampichino, o rampichino modesto e gentile, non
raccontare le istorie delle sale barocche abbandonate, non raccontare
le ciarle del convito di Natale....

* * *

Alla mattina del Santo Stefano, il piovano di ****, che aveva da' suoi
antecessori ereditato l'obbligo di benedire a Natale _li defonti_ del
palazzo, perchè un marchese Asdrubale aveva lasciato, con decima di
miglio, di avena, di frumento, un beneficio alla confraternita della
Buona Morte,--alla mattina un poco tarda, il piovano, aprendo con una
chiave irrugginita la cappella sepolcrale, trovava sulla pietra un
uccelletto morto di freddo, lo spazzava via con una pappuccia, e,
guardando per un corritoio una fuga di saloni e di saloni,
incominciava a dire, stringendosi nelle spalle:--_Requiem æternam
dona eis, Domine...._



NATALE.

(FANTASIE)

                                Whilst thou art fair and I am young.
                                                     BYRON.


Giù, giù, sui campi mestissimi della nostra pianura lombarda,
s'intorbida la pallida alba del Natale.

Ecco i colti, qua aggelati nelle tinte verdi umidiccie del frumento in
germoglio, là a cinquanta passi addormiti nei lividi nebbionacci
del verno e dei concimi: i solchi colatoi bianchi di brina e giù
inzuppati da pozzatelle di pioggia: i gelsi coi tronchi neri e le
capitozze goccianti, in filatere allineate, come i morti a guardia di
un immenso camposanto obliato: i capannotti col tettuccio di sagginali
fradici, l'acciottolato fangoso e il sentieruolo senza più l'aia: i
pagliai col cappuccione ammuffito e sullo stocco la crocetta che si
scorteccia: le strade sepolte nel molliccio, colle rotaie allagate, e
i fossatelli pieni del mosaico giallastro delle foglie flagellatevi
dagli acquazzoni.

Ecco là un paese su uno sfondo tutto cenerugiolo e senza misura: i
muricciuoli di una pallidezza sucida da cenci immollati: gli orti
bruni, senza più una siepicina, tutti a stecchi ed arruffaglie: le
finestre ingozzate di fogliaccie: le casette rattrappite l'una
sull'altra, come chi si stringa nelle spalle: i palazzotti, su alti, a
grandi fioriture nere, coi solai abbandonati: e le chiese, più alte
ancora, coll'aspetto più freddo del nudo mattone e i vani più
bui delle arcature dei tetti: e, più alti ancora, i campanili, nudi
e soli, che sguardano cogli occhioni abbacinati nelle nebbie....

E su tutto, sui campi infiniti e sui paeselli perduti, un umido
intenso, una tristezza plumbea, una distesa persa, che non chiamiamo
cielo, ma chiamiamo oblìo.

E si intorbida sempre più la squallida alba del Natale.

Là, in fondo in fondo si accende un lumicino, una lucciola oleosa,
un occhio giallo e sonnolento, e poi là, dall'alto dall'alto, si
ode uno scricchiolìo: lo strido di un ceppo scheggiato, un rantolo
pesante e brontolone.

Il curato si veste: e il sacrestano incomincia a pigliare la fune
della campana....

* * *

O colombi, che con volo obliquo e soavissimo calate innanzi alle
scalee delle misteriose ville rococò a bere dolcemente nei cavi
della vecchia arenaria le piogge del dicembre infecondo: o passeri,
che, stormeggiando bellicosi, vi affollate sui santi cornicioni delle
chiese smattonate a beccare protervamente le lolle sospintevi dai
venti: o rampichini muraiuoli, che col capo in giù vi aggrappate ai
sagginali che tappano le finestruzze, arruffando lo spavaldo
ciuffetto, per cacciarvi in una stalla piena di marmocchi, di
contadine e di fole: o reatini, reatini minimi, che nei rosai brinati
dei cimiteri sbattete l'ali rapidissime, quasi cercando i nonni ai
radiconi del campo e ai cataletti del beccamorto, i nonni aggelati
che, come voi sono i simboli del verno:--o miei amici, amici della mia
casta infanzia e della mia trepida giovinezza, gentili poeti dei voli
e dei susurri, poveri uccelli che avete sete, che avete fame, che
avete freddo, che avete le nebbie nell'animuccia, venite alla mia
finestra in quest'alba sì mesta, venite ai miei vasi di fiori,
venite alla mia stanzetta.

Voi bevete le lagrime degli infelici? Voi beccate via le pule delle
nostre speranze inaridite? E vi tenete caldi sui nostri cuori e dentro
vi covate ancora le nuove illusioni della vita? E foracchiate ancora
nelle case di chi ha amato, cercando sempre le agugliate di refe della
massaia per i vostri nidi e le briciole dolci dei nostri bambini per i
vostri zuccotti senza piume?

Povera finestra, sempre quella, da cui non entrano più le
tranquille visioni dell'alba, e le placidezze amorose dei plenilunii:
poveri fiori della mia vecchiaia, che vi siete disseccati sulle
radicine delle più soavi viole del pensiero: povera stanzetta della
mia morte, senza una culla, senza un ritratto di donna, senza un
ricordo della mia giovinezza!

Venite voi, amici, che non ci abbandonate nei verni.

* * *

E vi dirò.

Era bello il mio bambino roseo: era santa la mia Madonna bionda: il
presepio tranquillo, la mia casetta, la casetta del povero poeta.

E lui aveva due occhioni a gemma, pieni dei riflessi del più
azzurro cielo; una boccuccia a pozzette che balbettava i nostri nomi
felici in terra; due mani a guancialini che rubavano già i
pesantissimi grappoli dorati della nostra vite sul portichetto. Lei in
quelle pupille specchiava le sue tanto dolci; a quelle labbra si
pendeva, succhiando colle sue, inebbrianti di baci; tra quelle dita
intrecciava le sue, così belle e così carezzose. La casetta,
quella dei babbi e dei bisnonni, piena di fiorelli campestri, di
specchi pallidi, di mezz'ombre pacifere.

Sì, sì, era il mio bambino bello, anche quando su un occhio
aveva una gran toppa di carta turchina odorante di aceto; o quando
gustava la boccuccia impacciucchiata di vinaccioli e di mocci; o
quando colle manine, impudicissimo, si teneva un piedino grasso, come
un tomboletto, sgranandone le dita, come coccole di burro.... Era la
mia Madonna santa, lei che piangeva da medichessa, lei che smoccolava
quel nasino, lei che toglieva il pannicello per vederlo tutto nudo, il
suo ometto peccatore!... E sul mio presepio gli angioli del cielo non
scendevano coll'ali a porre la bindella spiegazzata col _pax hominibus
bonæ voluntatis;_ ma nemmanco i notai della terra erano venuti coi
parrucconi ad aprire i volumacci delle ipoteche: ed era piccino, ed
era disadorno, ed era soffogato dai ciliegi e dai mandorli; ma un
bisnonno l'aveva chiamato _Palazzetto del ritiro_, un nonno vi aveva
messo i mobili del Maggiolino, e il mio babbo aveva piantalo per me
quegli alberi che s'erano fatti grossi pel mio bimbo.

Desideravamo l'autunno, la stagione più cara, più intima, più
dolce per la nostra lunga contemplazione amorosa. Era forse una
foglia, la prima che si staccava dal ramo, che ci diceva quanto noi
potevamo essere felici? Desideravamo i crepuscoli rosei, colla mitica
stella di Lucifero, colla sottile falce della luna, coi cirri
spolverizzati d'oro: e quando voi, o colombi, stendevate il volo su
quel terrazzo fiorito, là dove, infelicissima e peccatrice,
bisbigliava quella dama infeconda con quel cavaliere, più volte
babbo: e voi, passeri pendenti ad un ciuffo di parietaria, dal rosone
della facciata spiavate giù nella chiesa tutta calda di lumi i
poverelli, famelici fra le nidiate dei bimbi che cantavano le lodi
ambrosiane del Signore: e a voi, rampichini muraiuoli, intricati nei
garofani delle finestrette, giungeva il guaiolare degli orfanelli
dell'Ospedale: e a voi, reatini, salticchianti sulle rose innanzi le
croci cadute, taceva sempre impassibile il silenzio di chi nella fossa
dei vermi aveva sognato il bel paradiso d'oro:--noi, piegati su una
culla candidissima, rattenendo il respiro, come l'unica necessità
che accusasse la nostra vita del corpo, noi ci sentivamo
purissimamente degni di compiacerci per gli occhi giù fino in fondo
dell'anima, ove stava il segreto religioso della nostra giovinezza:
noi, affaccendati innanzi ad una seggiolina, versando il latte
butirroso in una scodella, ci dicevamo tanto ricchi e pasciuti che
avremmo dato tutti i nostri pani a tutti i poverelli e le briciole del
nostro bambino a tutti gli uccellini: noi, inginocchiati nel
portichetto dei nonni, udendo le leziose impazienze di quella
boccuccia che, tartagliando i nostri nomi, pareva comandasse al
destino di non dividerli mai, su tutta la terra, credevamo ad un Dio
che apparisse nei sogni agli innocenti e nei sorrisi agli amorosi:
noi, semi-addormentati allo spegnersi dell'ultime luci del giorno,
compiangendo tutti i libri luciferini che indagavano il nulla eterno,
l'avevamo dinnanzi la nostra vita, tanto sicura e tanto in pace!

E l'avremmo vissuta tutta! Desideravamo che l'autunno si avanzasse a
morire nel verno, la stagione carissima, intimissima, dolcissima per la
nostra eterna contemplazione amorosa.... Eterna?... Erano forse le
foglie, le ultime foglie che coprivano la terra, che ci dicevano come noi
dovevamo essere felici?... Desideravamo le serate lunghe....--Com'è di
fuori?--Dai vetri sudati non spiavamo nè tenebrore, nè stelle, nè luna,
nè pigre nuvolaglie. Oh volevamo la nostra stanzetta, piccina, come la
nostra ambizione, calda come un nido, illuminata come un santuario!
Volevamo essere noi, noi soli, coi nostri ricordi, colle nostre ciarle,
col _suo_ balbettìo, col _suo_ respiro, co' _suoi_ starnuti, col nostro
bimbo che ci aveva dato tutta la pace! Ci amavamo! Ci amavamo, perchè
nessuno era venuto a soffiarci il gelo dei sapienti nell'anima! Ci
facevamo indietro indietro nella memoria a trovare le prime paure e i
primi rossori, i mutui sguardi e le feconde religioni dell'amore
ricambiato! Misuravamo giubboncini e camiciuole! O bimbo, quando credevi
di fare il tuo discorsone, pensavi alla mamma? quando tu dormi, ti sogni
di lei? quando starnuti, non ci dici _grazie?_ O piccino! O piccino!
Eravamo tanto egoisti che sobbalzavamo di scatto, scacciando l'idea e la
domanda:--Dove saranno i colombi? e i passeri? e i poveri rampichini? e i
poverissimi reatini?--Eravamo di dentro, con un lettuccio tutto morbido
di coltroncini, colle cucchiaiate fumanti di pappa, con un cosetto
d'avorio pacciucchiato, e, Dio mio! con un libro gualcito al capitolo più
serio e più sociale....--E i villeggianti pieni di galanterie? E i
contadini che hanno fame? E gli orfanelli dell'Ospedale? E i morti?--Oh
eravamo di dentro, colle fila d'oro dei destini in mano, colla gioia di
tre vite tutte felici, colle speranze di tre cuori tutti innamorati!... E
si fantasticava, si fantasticava.... Era un mondo senza oro e senza
pensieri....

Sì, sì, che affrettavamo i minuti e i desideri!

Il nostro bambino sarebbe cresciuto giorno per giorno.... O mia cara,
i suoi piedini battono già risoluti sulle tue ginocchia: ed ecco le
gambette le affagottiamo in due gran calze rosse, e le calcagna le
affondiamo in due scarpine piatte: e, ondeggiando, come un nonnuccio
senza bastoncello, e brancolando, e due, tre volte acculattando d'un
botto (ti sei fatto male?) ecco, eccolo.... ahi!... Piccino, tu corri
troppo! Eccolo da una canestra piena di guancialetti da popattola e di
cuffiette a mezzi gusci d'ova, eccolo a uno scrittoio ingombro di
carte, senza una sola poesia stampata: da te a me.....

Il nostro bambino sarebbe cresciuto giorno per giorno.... Diventiamo
vecchi anche noi? Oh i bei vecchietti!... Mia cara, ecco finalmente
s'imbianca un'alba di dicembre. Pel buio della pianura suonano le
campane gioconde: dicono che in cielo cantino gli angioli, mandando
giù le parole latine a tutti i presepi delle monache e dei
marmocchi: per le viuzze del paese alla chiesa s'avviano i contadini
puzzanti di frustagno: di là, di là, di là, dalle contrade
polverose della storia sacra si mettono in carovana i Re Magi coi
carrioni d'oro e colle barbe d'argento....

È Natale!... Mia carissima, ecco che il grand'omino, cogli occhi
ingarbugliati dal sonno, sarebbe sdrucciolato dal lettuccio, le calze
grinzose, le gambe pienotte, la camiciuola discinta su una spalla
grassoccia, una scarpetta scalcagnata nelle mani.... Una scarpetta pei
doni del bambino!... Ed ecco che s'avvia coll'ondeggiare di un
proposto in piviale, scantona un tavolo, barcolla contro una seggiola,
si rifà, cammina, cammina, e si perde nel vano di una porta: e
là si ascolta un sospirone dal naso tappato per il raffreddore e
dall'anima rigonfia di promesse.... Quanto oro avresti dato per quel
tomaio sì rifrusto che doveva chiudere per lui tutti i doni della
terra? Dentro una dozzina di confetti, e torno torno una carrozzuccia
di latta che odora di vernice e un ginnastico tirolese dinoccolato
nelle sue membra di abete bianco e un agnello lanoso col suo mantice
che soffia il lamento arcadico e felice!

È Natale! è Natale!... O Madonna, o mia Madonna bionda e della
terra, non mi svegliare dal casto sogno, per amore della tua mamma! O
bambino roseo, bambino della mia Madonna bionda e della terra, bambino
del mio presepio, bambino della casetta del povero poeta, vieni e
dammi questo bacio lungo, questo bacio santo, questo bacio di Natale!

* * *

Giù, giù, sui campi mestissimi della nostra pianura lombarda si
fa crassa di un nebbione rossigno la mattina del Natale.

Dormono i campi: si sgranchisce il paesello. Ecco qua un grigio
pesante e un silenzio di morte: là un lume piccino e uno strido di
ceppo scheggiato....

Il curato, si è vestito e il sacristano tira la fune della
campana....

Il primo squillo profondo di un saluto benedetto.

 . . . . . . . . . . . . . . . . . .

 . . . . . . . . . . . . . . . . . .

_(Qui la carta del manoscritto è bruciata)._(12)



LA STELLA DEI RE MAGI.

                                Oh blest be thine unbroken light!
                                                           BYRON.


Luccicava una stella, alta, fulgida, azzurrina. E pareva, come
inestinguibile ricordo, mi ammiccasse lontano lontano sulla casa di
una fanciulla ch'io avevo amato indarno.

E pensavo.....

Infine mi staccai da quella finestra, ripulii quel vetro, e mi posi a
meditare seriamente sul mio avvenire di antiquario patentato.

Avevo dalla parte sinistra del petto una lettera gratulatoria del mio
primo maestro di latino e una credenziale amplissima del mio solito
padre confessore: cose che mi facevano sognare quanto prima un busto
di sasso freddo, cogli occhi senza pupille, col manto sulle spalle,
colla civetta al basamento, sotto il portico classico per lo meno di
una Accademia di provincia. Avevo torno torno a tutte le pareti, in
tanti colombarii, una eccelsa necropoli di libri teologici: spirituale
conforto per cui m'ero chiuso lì, in campagna, a prepararmi pel
regno dei cieli almanco un volumaccio ed una penna di dottore,
giacchè fino alla graticola di san Lorenzo o al sasso di santo
Stefano non avevo coraggio di arrivare colla virtù del desiderio.

E dovevo sgobbare....

--_Primus dicitur fuisse Melchior, qui, senex et canus, barba prolixa
et capillis, aurum obtulit regi Domino. Secundus, nomine Gaspar,
juvenis imberbis, rubicundus, thure, quasi Deo oblatione digna, Deum
honoravit. Tertius fuscus, integre barbatus, Balthasar nomine, per
myrram filium hominis moriturum professus_....(13)--Così avevo
trovato, giust'in punto a mezzanotte, sfogliando, innanzi a tutti i
messali, il Beda. Il Beda! Sapete voi che peso ha il Beda?.... E vi
dico la verità che, avendo dovuto pigliarlo da uno scaffalone alto,
per la paura che mi scappasse furiosamente dalle mani fracassando i
vetri a me e rompendo il sonno del fattore giù al mio pianterreno,
e per quel tanto di moto sui venti piuoli della scaletta traballante,
vi dico che mi ero sgranchito un po' o un pochino mi era parso d'aver
cacciata la pigrizia di Morfeo.

Gli altri libri erano lì, più comodi alla mano, all'occhio.
Nientemeno che il French.... Peuh! anche a lume di candela, quando lo
si sa, si legge correntemente l'inglese: il French.... _Stair of the
Mages_(14). E il Trübel, _De Magis advenientibus, De Stella, De
Critica sacra_(15)... Che polvere fra quei vecchi amici dello zio
canonico!.... E c'era lo Stolberg, _Dissertatio de Magis_(16): il
Rhoden... Che polvere maligna! la si caccia intorno alle pupille e mi
fa sentire come delle briciole pungenti!... Lo Stolberg, l'ho già
veduto, mi pare: il Rhoden, _De primis Salvatoris venerat_...(17)
Scusate se m'interrompo con uno sbadiglio... _veneratoribus_,
debb'essere: ablativo plurale della III... E c'erano lo Spanheim, _Dub.
evang._(18): si capisce benissimo, senz'aprirlo, dal solo cartellino
del dorso... E perchè sempre le abbreviazioni? Le _Thes. Theol.
Phil._?...(19) Quando si ha sonno!

E c'erano, c'erano... Ma il Beda mi aveva soddisfatto. Che più?
Avevo concesso sfogo ad uno, a due, a tre, a quattro sbadigli, avevo
alzato una spalla più dell'altra per sentire accidiosamente il
collo sepolto nel bavero, m'ero avvicinato al tavolino, allontanando
con prudenza un mozzicone acuto di penna d'oca; e, trascinandomi
dietro un seggiolotto, non avevo più sentito la mia zucca che si
perdeva nel sonno....

O santi Magi adorati nella mia infanzia! Per la sera dell'Epifania io
vi sognavo, esploratori affaticatissimi, che passavate colle barozze
dei regali, coi mille moretti, coi settemila cavalli,(20) passavate
innanzi al fesso di tutte le imposte da cui vi spiavano i bimbi
devoti! Avevate le barbaccie bianche, i pallii di porpora e
d'armellino, e l'incesso profetico dei re. V'era apparso su tra i rami
delle immense palme il lumicino fumicoso della cometa che guida a
Betlemme? Udivate sotto le gronde col miagolìo dei mici anche i
nostri sospiri religiosi?

O pallidi miti evocati nelle fredde ore dello studio! Per l'alba dei
morti io vi ho sognato, placidi dormenti, forse ridotti ad una sola
mascella sdentata, a quattro sfilaccie d'oro di tutta la veste
episcopale d'onde vi ammantava il Barbarossa,(21) a un solo mucchietto
di polvere immota! Come vi riposavate sotto i fanatici fiori di marmo
e le pitture oltremarine(22) della gotica cattedrale di Colonia? E
sotto la monastica nudità del macigno e del mattone lombardo(23)
del nostro Santo Eustorgio? E tra i musaici d'oro delle cupole
bizantine(24) di santa Sofia Costantinopolitana?

E proprio mi pare.... Mi pare, in questo crepuscolo della fantasia che
si fonde colle memorie del cuore, in questa tranquilla ora di sonno
per i mortali e per gli immortali, in questo soave oblio dei dolori e
delle religioni, mi pare di vedervi ancora... Non vi chiamo santi Magi
adorati, non vi chiamo pallidi miti dissepolti, ma vi sento placidi
custodi della notte e del silenzio e della pace! Siete sorti dalle
iridi di quella lagrima che mi trovavo sul ciglio, contemplando una
stella? O dalle pagine gialle e allumacate di un vecchio morto che
credeva ai morti? Dite perchè l'astro è su nel cielo? Perchè
il verme roderà il nostro cuore? Perchè si piange? Perchè si
ghigna?

Non rispondete nulla e tacete e camminate; così, sempre così, o
viatori di una notte, che non voleste mai lo scampanio dei cuochi
sacrestani; che non vi arrestate sulle porte alle chiese barocche
delle sette indulgenze: che non avete mai nessun dono eterno per i
cori reboanti di voci fratesche e nessuna visione per i silenti
corritoi delle monache assopite!

Non rispondete nulla e tacete e camminate: così, sempre così, o
viatori di una notte, che passate avanti ai cimiteri, piangendo sui
cumuli piccini ove sono le crocette bianche; che entrate giocondamente
furtivi nelle casuccie innanzi a cui avete veduto le orme degli
zoccolini stampate nella neve, mentre tutto è pace nella campagna;
che vi affacciate timidi ai fessi dei balconi, dove vedete spuntare
una scarpetta, mentre tanto è il peccato nella città!

O vecchi, vecchioni di mille ottocento ottantadue anni! O amici,
amicissimi di tutti i bimbi morti nati, e nascituri! Se vi vedo
proprio! se vi voglio vedere!

E camminate, e camminate.... Eccovi! eccovi!... Come siete belli! Come
siete grandi! come siete dolci! Gathaspar! Melchior! Bitisarch!(25) O
se volete meglio, Magalath! Pangalath! Saracen!(26) O se volete meglio
ancora, Appellius! Amerius! Damascus!(27)

Voi! voi! voi! Chi dice che siete venuti per visitare le vostre tombe
favoleggiate?

La stella vi accenna la culla di Betlemme!

Un'arca acuta(28) giace sontuoso guadagno di uno scaccino e gloria
scetticamente ufficiale di una città ghiacciata; un cenotafio
romano(29) è chiuso col vuoto eterno al tardo garrito degli
antiquari canonici derubati delle vostre ossa, e non del beneficio: e
l'altra tomba.... Dove tripudia di lascivia il Mussulmano vi fu la
vostra tomba? Chi ricorda la vecchia regina Elena?(30)

E la culla invece l'abbiamo in tutte le nostre case, dove un grembo di
donna accoglie un bambino o il desiderio di un bambino.

Betlemme ha irradiato il mondo!

Voi! voi! voi! Chi dice che siete venuti per la vostra gloria da
calendario? La stella vi accenna le nostre gioie!

Voi, ignorantissimi figli dell'Asia, che ascoltavate solo i fatidici
echi di Zoroastro(31) e leggevate solo nel cielo veggente dei deserti,
voi irridete le laudi gotiche del canto e del marmo alemanno! Voi,
alte ed ispirate vedette, sul monte della Vittoria a spiare la luce
immortale della stella Nazzarena(32) non vi ingloriate dei grossi ceri
che vi smoccolano putolentemente i merciai delle confraternite
spagnolesche! Voi, nomi patriarcali delle tre stirpi di Noè(33),
che rendeste a Dio i doni che Abramo diede ai figli di Keturah e che
la regina Saba diede a Salomone(34) non vi fate superbi, udendo
tronfiamente proclamare che alla santa _Sofia_ dell'Islamita(35) rimane
ancora il nome e la gloria della vostra _Sapienza_!

Voi siete venuti per il nostro amore! Vi chiamano i bimbi, vi chiamano
le mamme, vi chiamano i vecchi; e quei vagiti e quei sorrisi e quelle
preghiere sono i nostri affetti. Chi nasce, chi confida, e chi è
vicino a morire!

Betlemme ha irradiato il mondo!

Oh venite! venite! venite anche da me!

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Chi nasce! Sapete com'è bello chi è innocente? Chi ci può far
credere a Dio? Chi è la religione purissima dell'anima nostra? Oh
come chi nasce ha bisogno d'amore!

Chi confida! Vedete come è santa chi ha nel cuore l'amore! Come ci
bacia per farci coraggio! Come sola ci ha data la pace! Oh quanto chi
confida ha bisogno di speranza!

Chi muore!... Ah sento d'aver avuto l'amore e la speranza!...
Perchè mi è dolce l'ultima luce del crepuscolo?... Perchè
è tanto soave l'addio di chi ci ha accompagnato fino ai primi
tenebrori?... Come sei cara, tu! Tu, e tu, e tu, figlia, bambino,
bambini! Come siete cari, voi che, insieme aggruppati al mio
seggiolone, mi dite sorridendo:--Noi continueremo a vivere, ad amarci,
e a ricordarti!--Oh quanto chi muore ha bisogno di fede!

Svegliandomi di botto, ho trovato il Beda capitombolato a' miei piedi,
e il fattore che ascendeva le scale, domandando:

--Che c'è?

Il Beda giaceva colle pagine sfogliate e aperte contro il suolo, come
un uccellaccio della notte caduto sopra una tomba: e il fattore mi
diceva:

--Suo zio canonico di quest'ore non li toccava mai certi libroni.

--Ed è morto solo.

--Solissimo.

Cogli occhi sonnacchiosi io guardavo la stella sempre alta, fulgida,
azzurrina: e la biblioteca mi pareva più triste, più fredda,
più antica.

Oh i Magi non si fermeranno mai a un davanzale tanto deserto!



QUARESIMA.

                                _Devoted in the stormiest hour._
                                                          BYRON.


O da una bruna siepe d'ortaglia verso il bastione rompesse fuori un
canto sonoro di gallo: o da due finestre umidiccie in tutta la
facciata sonnolenta di un collegio di suore venisse trasodando un
barlume di luce giallosa su un corso solitario; o sotto i pilastri di
un _foppone_ suburbano si raccosciasse pigramente la solita povereila
del mattino, il fazzoletto a gronda sugli occhi, la polenta e il
rosario nelle mani, a guardare la folla bianco-nera delle
croci:--v'è chi di voi ha udito la prima voce della Quaresima? Chi
ne ha indovinato gli sguardi? Chi se l'è veduta innanzi nella sua
lercia e sconsolata figura?

* * *

All'alba le vie popolari della città sembravano sfondare giù
giù in un sonno cenerugiolo: chiuse le botteghe, chiuse le porte,
chiuse le finestre: le gronde, le altane, i comignoli perduti in una
nebbia torpidiccia; il selciato sudicissimo: i lampioni dormigliosi:
il cielo d'un colore di gesso annacquato. E va, e va, e va, non c'era
in volta anima nata. In qualche luogo, in certi bugigattoli alti,
sotto i poggiuoli o le scale, si gonfiava a un venticello di scirocco
qualche lurido saccone di _Pierrot_ o dondolava qualche giubba verde di
Beltrame: e su certe portine affumicate girava una cassetta colle
quattro faccie di carta inoliata, e, spento quel po' di moccoluccio,
non vi si leggevano più gli sconci caratteri del cuciniere: davanti
a qualche topaia di cantina fuggiva qualche gattone foderato di
velluto e di mistero.

Nelle vie larghe e aristocratiche le facciate di granito impallidivano
a un certo albore che si spiegava giù dai fastigii delle chiese:
tutto chiuso: su dai tetti allineati torreggiava qualche campanile: il
selciato aridissimo: rade le fiammelle del gas: il cielo con una luce
d'acquario marino. Non una persona viva. I portoni colle maschere
delle lionesse, le finestre coi cappelli del Vignola, qualche
balconata colle vesti doriche delle cariatidi, accennavano
nell'immobilità del sonno e della pietra che anche lì era finito
un grande carnevale, quello dei classici: nessuna cassetta spenta che
dicesse che li s'erano mangiati i tortelli, ma certe piastre lucide di
bronzo a segnare dove si cucinavano bancariamente i milioni: gli
stessi gatti che fuggivano coi topi o che cercavano gli amori.

Erano terminati i veglioni: i vetturali avevano frustato i ronzini:
gli ubbriachi si sorreggevano l'un l'altro per cadere insieme: le
mascherine si erano dileguate....

* * *

O mia lettrice, oggi io vi brontolo nel quarto d'oretta della vostra
insidiosissima e stanchissima noia, quando voi, sotto le coltri e il
baldacchino e magari la protezione di una Madonna su fondo d'oro, vi
provate ad aprire gli occhi per rivedere lì intorno, nella camera
da letto, nel disordine d'una battaglia stizzosa, e sul tappeto e
sulle seggiole e sui tavoli, la vostra gonna affiorata, una nuvola
antica di luci temporalesche, e il vostro busto a cordelle, tutto a
schiume di trine, e un vostro guanto a bracciale, ancora colla
pienezza rotonda delle vostre polpe, e le calze rosate in avvolgimenti
serpentini, e le scarpette Montespan coi tacconi fiaccati dalla danza
perversa.... Vi ricordate tutto? Vi ricordate il dono che avete fatto
a un povero poeta? Vi ricordate come la vostra mano, sguantata, fosse
più flessuosa e confidente e olezzante di muschio?

Siete tornata a casa stamattina alle sette, in una carrozza coi vetri
appannati, con una pelliccia di tigre, sui coltroncini imbottiti, con
una amica che ciarlava e col marito che taceva: avete fatto una
dormitona fino a mezzogiorno, sognando baffi neri e baffi biondi:
avete sonnecchiato sino alle due, decisa pei baffi neri: e sino alle
quattro, convinta invece pei biondi: e covate sotto, obliqua, come una
liopardessa, aspettando caldamente che i botoletti di scuderia abbaino
dietro agli staffieri che faranno dondolare sulle dodici molle,
trascinandolo fuori dalla rimessa, il gran cocchione pel corso di
gala.

* * *

Gli ubbriachi erano stramazzati per la ventesima volta: e le
mascherine si erano messe strillare, dileguandosi agli angoli delle
vie.

Quaresima! quaresima!--sembrava intonasse il primo campanone del Duomo
al di sopra del colpevole silenzio dell'alba; e la sua voce pareva il
rimbrotto cadenzato di un nonno certosino che sta allineando una
processione che si sbranca e non vuol andare verso le tombe: e le
campanelle pettegole di cento campanili sopra i solai deserti si
sbatacchiavano ossesse colle ciarle dottoresche delle matrine
incuffiate che tormentano i bimbi per l'esame di coscienza.

O santo, o santone, che ci hai a dire col tuo fatidico tuono di
bronzo? O prioresse tabaccose, perchè volete guaiolare colle voci
dei gesuiti?

I vecchi canonici, piccini piccini sotto l'immenso Duomo, s'avviavano
al pieno buio del coro. Le beghinelle, ipocrite per aver la sola
età della Madonna o quella di sant'Anna, dondolanti negli androni
delle sacristie, lumacavano verso il focherello del braciere.

Quaresima! Quaresima!--continuava il nostro campanone, e quasi pareva
che la sua voce, come un enorme calabronaccio, ronzasse in ogni casa,
sotto ogni letto di dormiente, nella camera ove un dì era morto
qualcuno.--Quaranta giorni per noi: per noi!--ciancicavano le altre
pinzochere, e sembrava accorressero, acciabattando, dalle guantaie a
strappare le mezze mascherette nere, e nelle sarte a nascondere i
ritagli di trine, e ai capezzali dei felici, fugando le visioni e i
profumi....

Oh i buoni canonici, nonni senza figli, sugli stalli pontificali,
colle armelline del re, si addormentavano, sognando, su le vetriere
dei finestroni, le belle scale di Giacobbe che conducono al Dio del
perdono. Le arpie senz'amore, zie pel testamento, sulle seggiole
impagliate, colle caste mantiglie, si facevano arcigne, immaginando
fremebonde, giù per le lastre dei sepolcri, gli orrendi castighi
che ci precipitano all'inferno.

* * *

--Perchè sei tanto triste?--sembrava dirmi la prima occhiata di
luce che, strisciando fra gli alberi secchi di un giardino, veniva a
sbirciare nei vetri del mio studiolo.... Ed io spensi il lume.

Tornando da un veglione, avevo accompagnato a casa una frotta di amici
strillanti.

E, solissimo, m'ero dilungato fino ad una siepe d'ortaglia verso un
bastione, e poi ad un corso remoto, e poi ai due pilastri di un
ossario suburbano.

M'ero chiuso nel mio studiolo: avevo nel fosco del crepuscolo acceso
il lume, e cercavo la mia chiave per deporre in un cofanetto antico un
lungo guanto a bracciale che odorava di serpente.

Spensi il lume, e, arrovesciatomi sul letto, volli dormire.

Mi volgevo a destra, mi volgevo a sinistra, mi soffocavo contro i
guanciali....

Veniva sempre a ferirmi l'orecchio un canto acuto, sonoro, biblico, il
canto di un gallo. E dal fondo delle mie memorie, di là dalle mie
campagne innocenti, dai primi anni delle mie malattie religiose,
ascoltavo come una voce che diceva;--Sei tu? Ricordi le caste mattine
primaverili, e l'ultima stella della notte, e il tuo primo pensiero? e
la tua prima preghiera?

E mi giungeva all'occhio un chiarore lontano lontano, quasi mistico,
in cui si movevano cento figure bianche di ragazze e di monache, e
stava fisso un crocione con un'àncora, e genuflessa, come in
purissimo tormento, una fanciulla che guardava e che vedeva Iddio.

E mi pareva d'essere in un vasto campo seminato di croci e di fiori,
ed io non cercavo nessuna croce e non avevo nessun fiore. Una vecchia,
una vecchia mendicante, mi diceva:--Pregate pei morti.--Oh morto mi
sentivo io! perchè nell'anima avevo il gran gelo dell'oblìo! E,
volgendomi alla terra, supplicavo:--Ditemi voi! Voi siete ben più
felici di noi, quando siete ricordati!

E allora mi alzavo dalle coltri, e rompevo la serratura di quel
cofanetto antico, per gettarmi sulle mie memorie, per sapere proprio
che un dì avevo pianto anch'io, e avevo sperato e avevo creduto!

Il tarlo su quei foglietti ingialliti aveva già fatto cadere dei
monticelli di polvere di legno....

* * *

O gentile lettrice, ecco che la vostra cameriera entra nella stanza da
letto, e, raccogliendo in una cesta imbottita la vostra gonna, il
vostro busto, e le calze e le scarpine, vi domanda:--O-dov'è
l'altro suo guanto a bracciale?

--Era tanto sucido che devo averlo buttato per via
stamattina,--così rispondete.

Quando la vostra carrozza dava un subito balzo, perchè un ubbriaco
attraversava la strada?

Gli amici mi dicono che non ho toccato vino.

È una grande ubbriachezza il dolore!

     26 febbraio 1882.


FINE.



INDICE


    AMBROGIO BAZZERO                              Pag, I

    ANIMA:

    Parte I                                            3
      « II                                            53
      « III                                           93
      « IV                                           119

    SCHIZZI DAL MARE, ACQUERELLI:

    Carta sciupata                                   143
    Omnibus                                          149
    Lo stabilimento dei bagni                        153
    L'onda                                           156
    Pace                                             159
    Marinai                                          160
    Marinare                                         163
    Idillio                                          165
    Requiem                                          166
    Idillio                                          167
    Fanciulle cantanti                               173
    Idillio                                          ivi
    Fanciulle mestissime                             175
    Mattina                                          176
    Mezzogiorno                                      177
    Sera                                             184
    Notte                                            186
    Virgo Potens                                     187
    Deserto                                          194
    Lontano lontano                                  196
    Fiaba                                            198
    Vera pace                                        199
    La donna?                                        ivi
    I morti?                                         200
    Platonismo?                                      202
    Suicidio?                                        206
    Poesia                                           212
    Genova                                           217
    Fiorellini                                       230
    Notte stellata                                   231
    Stelle cadenti                                   ivi
    Al tramonto                                      232
    Barcanera                                        ivi
    L'ancora                                         233
    O caro bimbo                                     234
    Convogli                                         235
    L'osteria                                        237
    I montanari                                      238
    Infelicissimo                                    239
    Buona vendemmia! Buon riposo!                    240

    LAGRIME E SORRISI                                241

    CORRISPONDENZE:

    Dall'Oropa: (lettere all'amica) I                267
    Dall'Oropa: (lettere all'amica) II               272
    Dall'Oropa: (lettere all'amica) III              279
    Dall'Oropa: (lettere all'amica) IV               287
    Dall'Oropa (lettere alla _Vita Nuova_) I         294
    Dall'Oropa (lettere alla _Vita Nuova_) II        317
    Sui monti: I                                     331
    Sui monti: II                                    336
    Da Recoaro I                                     340
    Da Recoaro II                                    345
    Da Schio                                         351
    Sant'Anna                                        358
    Il convento di Pontida                           363
    Fontanella                                       369
    Monti e lago                                     374
    Chiaravalle I                                    383
    Chiaravalle II                                   388

    MALINCONIE DI UN ANTIQUARIO:

    Natale in famiglia                               395
    Natale                                           405
    La stella dei Re Magi                            415
    Quaresima                                        424



NOTE:

(1)  _Angelica Montanini_, dramma in quattro atti di Ambrogio Bazzero,
     Milano, 1875, presso l'editore C. Barbini. N. 172 della _Galleria
     teatrale_.

(2)  _Tintoretto_, scene veneziane in un prologo e due parti. Milano 1875
     presso l'editore C. Barbini. N. 184 della _Galleria teatrale_.

(3)  Il fidanzato di Maria.

(4)  _Ugo_, scene del secolo X, Milano, tipografia di Lodovico Bortolotti
     e C., 1876.

(5)  Lidia aveva scritto che un'antica promessa la legava a un altro
     uomo. _(N. del R.)_

(6)  Parole d'una lettera di Lidia. _(N. del R.)_

(7)  Parole di Lidia sopra un biglietto d'augurio. _(N. del R.)_

(8)  Parole d'una lettera di Lidia. _(N. d. R.)_

(9)  Il _Tintoretto_, scene veneziane in un prologo e due parti di A.
     Bazzero, Milano, presso l'editore C. Barbini, 1875, N. 184 della
     Galleria Teatrale. _(N. d. R.)_

(10) Parole di una lettera di Lidia. _(N. d. R.)_

(11) Intanto Lei, signor professore dagli occhiali d'oro, vegga il
     mucchio dei volumi chi mi sono rubacchiato, per la storia di
     Genova: Caffaro, Giacomo di Varagine, Giorgio e Giovanni Stella,
     Gotifredo d'Albaro, Bartolomeo Senarega, Agostino Giustiniano,
     Oberto Foglietta, Jacopo Bonfadio, Paolo Interiano, Pietro
     Bizzarro, Filippo Caconi, l'Accinelli....

(12) Intendiamoci. Tra le cose vecchie che per la mia professione di
     antiquario ho acquistato dagli eredi del parroco di Beverate,
     provincia di Milano, pieve di Seveso, in un armadio di noce con
     catenazzo ho trovato n.° 37 filze di confessi per stole nere e
     bianche, e tra esse un breviario con questo foglio manoscritto,
     di suo pugno, che lui conservava. Mi dicono che quelle parole
     inglesi vogliono significare che so io.... una verità, come a
     dire del Vangelo. Il compianto curato si rese defunto proprio
     pochi giorni innanzi al Natale dell'anno corrente: mangiava poco:
     era fiacco e, per dire una sua debolezza, constatata eziandio dal
     medico condotto in luogo, qualche volta piangeva vedendo i
     colombi, i passeri, i rampichini, i reatini, ecc., ecc. Aveva 75
     anni.

(13) Beda, _De Collect_. nello Smith, _Diction. of the Bible_.

(14) Edw. Hayes Plumptre nello Smith, ivi.

(15) Ivi.

(16) Ivi.

(17) Ivi.

(18) Ivi.

(19) Edw. Hayes Plumptre nello Smith, ivi.

(20) Barhæbreus in Hyde, nello Smith, _Diction_. g.c.

(21) Moroni, _Dizion_.

(22) Pfeilschmidt e Zwirner, _Domhaus von Köln_.

(23) Rota, _Sepol. dei Magi_.

(24) Hammer. _Constant_.

(25) Moroni, _Dizion_. g.c.

(26) Spanhein in _Dub, Evang._, nello Smith, _Diction_. g.c.

(27) Spanhein in Dub, Evang., nello Smith, Diction. g.c.

(28) Crombach, _Hist. Sanct. Magor._

(29) Rota, _Sepol. dei Magi_, g.c.

(30) Moroni, _Dizion_ g.c. Hartmann, _Dissert. hist._

(31) Vos autem, o filii mei, ante omnes gentes ortum ejus percepturi
     estis.--Abulpharagius, _Dynast. Lib._ nello Smith, _Diction_. g.c.

(32) Smith, _Diction_. g.c.

(33) Beda, nello Smith, _Diction_, g.c.

(34) Smith, _Diction_. g.c.

(35) Moroni. _Dizion_. g.c.



NOTA DEL TRASCRITTORE: =....= rappresenta caratteri greci; [ancora]
rappresenta un simbolo rappresentante un'ancora





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